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la Capitanata
Rivista semestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia
Direttore: Franco Mercurio
Segretaria di redazione: Doriana Scaramuzzi
Redazione e amministrazione: «la Capitanata», viale Michelangelo 1, 71121 Foggia
tel. 0881-791621; fax 0881-636881; e-mail: [email protected]
«la Capitanata» è distribuita direttamente dalla Biblioteca Provinciale di Foggia. Per informazioni e per
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“La Magna Capitana”
BIBLIOTECA PROVINCIALE DI FOGGIA
è un servizio della Provincia di Foggia
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Erba curvata dal vento (… grano, canneti della costa o delle zone paludose…) e il terso cielo stellato sono
elementi simbolicamente connotativi del nostro territorio. La dicitura A.D. 2000, insieme alla scritta ex-libris mutuata da Michele Vocino, rappresentano la volontà di tenere sempre presente il collegamento tra passato, presente
e futuro senza soluzione di continuità. Questo ex-libris che d’ora in poi caratterizzerà i documenti posseduti dalla
Biblioteca Provinciale, è stato per noi elaborato da “Red Hot - laboratorio di idee e comunicazione d’impresa” e
da loro gentilmente donato.
Red Hot: Gianluca Fiano, Saverio Mazzone, Andrea Pacilli e Lorenzo Trigiani. Manfredonia, a.d. 2000.
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la CAPITANATA
RASSEGNA
DI VITA E DI STUDI
DELLA PROVINCIA
DI FOGGIA
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Aprile 2013
4
Indice
Saggi
p.
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835
conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
di Paolo De Caro
Gli Statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541-1642)
9
61 di Pasquale di Cicco
113 di Giacomo Cirsone
135 183 I Saraceni medievali delle località minori della Capitanata
di Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
223 Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865
di Matteo Siena
199 Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della
sostenibilità
di Michele Orlando
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
di Federica Elisabetta Triggiani
175 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età
Moderna (III parte)
Una lettera di Sandro Pertini ad Anna Matera
di Michele Galante
5
p.
231
Cristanziano Serricchio sessantenne della poesia
di Cosma Siani
237 In memoria dei nostri
Cristanziano Serricchio, messaggero di poesia
di Sergio D’Amaro
239 Cristanziano Serricchio. L’impegno civile e sociale
di Nunziata Quitadamo
243La poesia civile e di denuncia in un poemetto di Serricchio
di Luigi Paglia
Recensioni
Luigi Paglia, Il grido e l’ultragrido. Lettura di Ungaretti
251 di Federico Andornino
255 La ricerca linguistica e lo scavo interiore nella poesia di Francesco
Granatiero
di Grazia Stella Elia
259 Panoramica storico-letteraria su Francesco Giuliani, italianista di San
Severo
di Leonardo P. Aucello
Gli autori
6
Saggi
Paolo De Caro
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835
conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
di Paolo De Caro
1.
La Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia conserva un prezioso esemplare delle Operette morali di Giacomo Leopardi, o, per dir meglio,
delle cosiddette Prose, nell’edizione in 16.mo pubblicata a Napoli con la data 1835.
Converrà chiarire che durante la seconda metà del 1836, nel tentativo di sfuggire
alla censura del Regno, l’editore e libraio napoletano Saverio Starita, pur mantenendo la data dell’anno precedente, sostituì il titolo originale Operette morali /… /
volume I con il titolo di comodo Prose. Ma l’accorgimento servì a ben poco: l’edizione non proseguì oltre quell’unico volume.
L’esemplare di queste Prose [Operette morali, I] della “Magna Capitana” si
presenta legato insieme con una copia dei Canti Starita 1835, formando un solo
libro, sul cui dorso è impresso: LEOPARDI / RIME / E / PROSE, con un effetto
di leggero disorientamento nel lettore odierno. Ma la preziosità del libro si deve
eminentemente al fatto che sulle sue pagine sono riscontrabili numerose correzioni
a penna – di mano, indubbiamente, dell’Autore – che avvicinano l’esemplare di
Foggia, qui indicato con la sigla ipotetica e funzionale FGc, ad un altro esemplare,
di assoluto riferimento storico-filologico: quello conservato a Napoli nelle Carte
Leopardiane della Sezione manoscritti della Biblioteca nazionale “Vittorio Emanuele III”. Questa copia delle Operette staritiane, che si presenta priva di coperta e
con i semplici fascicoli ricuciti a mala pena sul dorso, contiene correzioni, aggiunte
e varianti autografe di Leopardi, e viene indicata nelle edizioni critiche Moroncini
(1929) e Besomi (1979) con la sigla Nc. Dei Canti e delle Operette morali di Nc è
stata edita una riproduzione in fac-simile dall’editore Marotta di Napoli nel 1967.
Per i Canti, dopo l’edizione critica Moroncini del 1927, è ora disponibile quella curata da Emilio Peruzzi, pubblicata da Rizzoli nel 1981 e poi ripubblicata nel 1998
nella BUR, in una nuova edizione riveduta e ampliata.
Le Operette morali Starita 1835, per le vicende editoriali cui andò incontro,
a cominciare dalle avventurose emissioni del frontespizio, possono classificarsi fra
9
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
le rarità bibliografiche. Attualmente il Sistema Bibliotecario Nazionale registra in
complesso (Operette o Prose) una ventina di testimoni, molti dei quali sono stati da
noi direttamente consultati o esaminati in riproduzione. Ad eccezione di quattro,
che recano il titolo Operette morali (e che qui sotto si segnalano con asterisco [*]),
i restanti recano il titolo Prose. La proporzione segnala in generale, nel risultato
delle contingenze esterne e della distribuzione geografica, la fortuna dell’edizione
nelle due (ma effettivamente tre, come si vedrà) emissioni dell’edizione. L’elenco
provvisorio è il seguente:
1)
2)
3)
4)
Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino*,
Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti-Volpi” di Bari,
Biblioteca di Casa Carducci di Bologna,
Biblioteca del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università degli studi di Bologna,
5) Biblioteca Comunale “Ruggero Borghi” di Lucera (Foggia),
6) Biblioteca Didattica di Ateneo dell’Università degli Studi di Macerata,
7) Biblioteca Pubblica Statale annessa al Monumento nazionale di Montevergine di Mercogliano (Avellino),
8) Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano*,
9) Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano,
10)Biblioteca delle Facoltà di Giurisprudenza e di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano,
11)Biblioteca di Scienze dell’antichità e filologia moderna di Milano,
12)Biblioteca e Archivio del Museo del Risorgimento. Civiche Raccolte
Storiche di Milano,
12)Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli*,
14)Biblioteca universitaria Alessandrina di Roma,
15)Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma,
16)Biblioteca dell’Archivio di Stato di Salerno*,
17)Biblioteca “Federico Patetta” del Dipartimento di Scienze giuridiche
dell’Università degli Studi di Torino,
18)Biblioteca storica della Provincia di Torino.
Non possiamo escludere, infatti, che altre copie del libro (tralasciando le
sedi straniere: per esempio, la Biblioteca di Halle) possano rintracciarsi presso biblioteche, pubbliche e private, non menzionate nel catalogo elettronico nazionale
OPAC SBN. Così anche FGc, la copia corretta di Foggia, che reca il titolo Prose,
è registrata nel catalogo elettronico della “Magna Capitana”, ma non nel catalogo
elettronico nazionale. Oppure, per fare un altro esempio: una copia non registrata, col titolo Operette morali, si trova a Recanati presso la Biblioteca del Centro
Nazionale Studi Leopardiani. (Monaldo Leopardi, che era, com’è noto, di radicati
convincimenti clericali e legittimisti, letto che ebbe le Operette nell’edizione Piatti
10
Paolo De Caro
1834, suggerì al figlio «correzioni» di contenuto [in una lettera, ora mancante, del 13
ottobre 1835: cfr. Ep.1918], – forse, vogliamo credere, più per proteggerlo dalle rivalse della Curia romana e dal pericolo d’inclusione del libro nell’Indice ecclesiastico,
come poi puntualmente avvenne [nel 1850, donec emendantur: «perché improntate
in più luoghi di funesto scetticismo, e fatalismo il più desolante»], che per il suo personale dissenso politico-teologico con Giacomo, ormai non più recuperabile.)
Accordatosi con l’autore nel maggio, nel giugno del 1835 l’editore Starita
aveva annunciato in un suo “manifesto” il piano di pubblicazione delle Opere leopardiane. Esso consisteva «in non meno che sei volumi, il 1° de’ quali avrebbe contenuto le Poesie, corrette ed accresciute meglio che di un terzo [rispetto all’edizione
Piatti di Firenze del 1831]; il 2° e 3° le Operette morali, anche corrette e accresciute
[rispetto all’edizione Piatti del 1834]; il 4°, il 5° e il 6° e forse un 7° di produzioni
inedite, ed alcune ancora, che, quantunque stampate, non era pertanto agevole più
di avere». Il 9 luglio il libraio firmava un contratto che stabiliva un compenso al Leopardi di cinque ducati per foglio di stampa (cfr. Giuliano, 237-238). Ma in seguito,
come sembra di capire, l’impegno venne eluso, suscitando le ire del poeta.
Dei volumi previsti, dunque, Starita, l’«infame negoziante», non riuscì a
stamparne che due:
– il primo, i Canti, uscì verso la fine del settembre di quell’anno (v. lettera a
Karl Bunsen del 26 settembre 1835, Ep., 1914). Era arricchito del ciclo di Aspasia,
delle “sepolcrali” e della Palinodia, oltre che dei frammenti, e delle imitazioni e
traduzioni; conteneva cioè tutto il libro poetico che leggiamo ora, ad esclusione del
Tramonto della luna e della Ginestra che, scritte nell’anno successivo (1836), furono pubblicate postume a cura di Antonio Ranieri nei Canti Le Monnier 1845;
– il secondo, le Operette morali, Volume I, fu pubblicato sempre con la data
1835, ma uscì effettivamente dalle stampe verso la metà del gennaio 1836 (cfr. lettera a
Louis de Sinner del 25 gennaio 1836, Ep. 1922). In esteso, sul frontespizio, si leggeva:
OPERETTE MORALI
DI
GIACOMO LEOPARDI.
TERZA EDIZIONE
CORRETTA, ED ACCRESCIUTA
DI OPERETTE NON PIÙ STAMPATE.
VOLUME I.
NAPOLI,
PRESSO SAVERIO STARITA
Strada Quercia n. 14, e Strada Toledo n. 50.
–
1835.
Si trattava in realtà del primo tomo, dei due previsti da destinare alle Operette morali, contenente le prime tredici operette, dalla Storia del genere umano fino
11
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
a Il Parini, ovvero della gloria, con un solo cambiamento sostanziale, rispetto alla
precedente edizione fiorentina del 1834, dovuto all’espunzione del Dialogo di un
lettore di umanità e di Sallustio.
Il piano editoriale delle Opere – un evento nella carriera letteraria di Leopardi (cfr. D. De Robertis, p. 336) – era liquidato; ma la censura, bloccando la
diffusione delle Operette, non poteva sapere che la mente dell’autore era già oltre
quel capolavoro. Leopardi, che comunque si mostrava sensibilissimo alle osservazioni critiche che si facevano sulla sua opera, almeno dall’ultimo, tumultuoso,
anno fiorentino (1832), posto termine alle invenzioni delle Operette e alle annotazioni dello Zibaldone, si era adoperato, per l’evoluzione stessa del suo pensiero
filosofico, ad affidare a un contenuto socio-politico più articolato e “presente” una
materia, soprattutto soggettivo-sentimentale, che rischiava di entrare nel consumo
di una maniera “romantica”. Riconosceva nel 1835 a Bunsen: «Voi avete ragione
che nelle mie prose la malinconia è forse eccessiva…» (16 settembre, Ep. 1914).
Leopardi, tuttavia, si poteva concedere queste ammissioni perché a quel tempo,
come Giordani seppe giustamente individuare, dal vecchio autore era già spuntato uno scrittore imprevisto. Era un «nuovo poeta e diverso, non però minore di
stesso», nonostante le perplessità che avrebbe suscitato nei suoi lettori, e anche in
chi, pur ammirandolo, ma rimanendo prigioniero d’un modello di scrittura e della
gerarchia dei generi letterari, si stupiva su «comment cet homme profond avait pu
terminer par la satire» (Sinner, ma cfr. Savarese, pp. 60-62).
2.
Sull’edizione Starita delle Operette morali, volume I (ma vol. II delle Opere),
confermando un giudizio sul loro autore, che si era ormai consolidato nell’opinione sia dei legittimisti sia dei moderati cattolico-liberali italiani, si abbatté la censura
borbonica, la quale ostacolò la diffusione dei pubblicati Canti, bloccò la stampa del
secondo tomo delle Operette, impedì la vendita e sequestrò le copie del primo.
Per quanto il volume dei Canti fosse uscito indenne dall’esame del Regio
Revisore, già molti lettori avevano arguito, specialmente nelle nuove poesie, «un
non so che di ateismo e peggio ancora, quando, nel supporre una divinità, [Leopardi] la suppone malefica e che gode di tormentar gli uomini» (a scriverlo era
il letterato siciliano Tommaso Gargallo, cfr. Giuliano, p. 244). Il giudizio gravò,
a maggior ragione, sulle Operette – a partire dalla Storia del genere umano, che
le apre, fino alla loro sostanziale conclusione, antiumanistica, «suggello cosmico
materialistico» (Blasucci), del Dialogo della Natura e di un Islandese, ambedue
comprese nel Volume I – e ne precluse la prosecuzione nella stampa.
Questo duro condizionamento, messo in atto dalla polizia del regno ferdinandeo, ma promosso e sostenuto dalla nunziatura pontificia di piazza Carità
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Paolo De Caro
(che Giacomo ben conosceva), doveva (e deve ancor oggi nella riflessione storica)
misurarsi sia nei suoi aspetti politici che in quelli filosofico-religiosi e artistici con
la gracilità degli ideali politici, la pavidità morale e, in generale, il conformismo
culturale unito a un pigro ritardo estetico della società letteraria partenopea del
tempo. In una tale situazione la censura si ergeva preventivamente a sanzione critica e indicazione ideologica, senza che la gran parte degli intellettuali della capitale
borbonica se ne sentisse davvero coinvolta. Leopardi, non camminava col secolo
(cfr. Giordani, p. 204, e v. Palinodia, vv. 235-239), anzi ad esso, disprezzandolo,
«increbbe» (come dice il poeta nella Ginestra); cosicché pochi furono disposti a
condividere o almeno a comprendere le motivazioni profonde della sua riflessione,
ivi incluso quel che pensava della storia e della politica. In un famoso giudizio del
Gesuita moderno (1847), Gioberti osservò che in quel «libro terribile» che sono
i Paralipomeni della Batracomiomachia, Leopardi derideva «i desideri, i sogni, i
tentativi politici degl’Italiani con un’ironia amara, che squarcia il cuore, ma che è
giustissima».
Ad impedire il consenso dei circoli culturali di Napoli concorrevano altri
pregiudizi di contorno. La fama narrava di un Leopardi amico dell’anticlericale e
bonapartista Pietro Giordani; oppure del repubblicano prima, murattiano poi, e
infine costituzionalista Pietro Colletta; e in ultimo, dall’ottobre del ’33, di un Leopardi sodale con un giovane liberale del giro di Carlo Troya, quell’Antonio Ranieri
che, mandato all’estero per i suoi trascorsi antiborbonici, ne era tornato dando
ospitalità al poeta. Ranieri apparteneva «allo sparuto manipolo degli storici cosiddetti neoghibellini» (Sansone, p. 357), era autore di una Storia del Regno di Napoli
in via di stesura e, negli anni fra il 1835 e il 1837, era scrittore di un romanzo a tinte forti, Ginevra o l’orfana della Nunziata (1836-1839); un romanzo di tendenze
realistico-romantiche, da cui gli storici della letteratura fanno derivare l’ipotesi che
le sue descrizioni sociologiche (del basso clero, o della plebe napoletana, per dire)
abbiano avuto un qualche influsso sull’estrema produzione leopardiana.
La rosea raffigurazione degli anni Trenta dell’Ottocento partenopeo, che
traspare dagli Aneddoti crociani o dalla Napoli romantica di Cione, dà per scontato che colui che si esponeva in quegli anni al giudizio della pubblica opinione
sottostava pur sempre alla regola de deo parum, de principe nihil vigente nei regimi
assoluti. Leopardi doveva dunque fare i conti con una Napoli che, nonostante la
sua apparente vivacità culturale, il pullulare di riviste gazzette e fogli, i teatri sia
colti che popolari, i caffè letterari, i circoli e i salotti culturali, il continuo sciamare
di artisti, scrittori e visitatori stranieri, viveva, oltre che nell’impercettibile rimodellamento della sua profonda realtà antropologica (alla cui osservazione il poeta
era per giovanile formazione particolarmente attratto), una stagione di disincanto
politico e di dispersione ideologica. Era per Leopardi un inquietante elemento di
riflessione, adombrato in quegli anni nel XXXV dei suoi Pensieri, dove Napoli è
considerata come esempio significativo dei «luoghi tra civili e barbari».
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Secondo Damiani, Leopardi aveva ancora in mente la Corinne. Anche lui
era arrivato «au milieu de cette immense population qui est si animée et si oisive
tout à la fois», dove si scopriva l’«état sauvage… mêlé avec la civilisation», dove
«milliers de Lazzaroni… passent leur vie [dans] une grotte sous terre», dove «paresse» e «ignorance», «ferocité» e «passions excitées» si combinavano «avec l’air
vulcanique qu’on respire». E tuttavia niente impediva di immaginare che anche qui
potesse sorgere un «gouvernement très indipéndent et très actif… si – aggiungeva
però la scrittrice – ses institutions politiques et religieuses étaient bonnes» (XI, II).
Nei riguardi di quest’ultima ipotesi, il riecheggiante fascino di Madame de Staël,
come il perdurante confronto classicistico fra antichi e moderni, natura e ragione ecc., temo si stessero spegnendo per gli effetti dello scenario umano, sociale,
politico e storico che, a conferma di un’implacabile visione del mondo, si apriva
davanti agli occhi del poeta. La sua poetica si era evoluta, andando ancor oltre
le Operette, oltre la metafisica negativa della natura come male, in prosecuzione
di un «diagramma ideologico» ormai delineato (Blasucci, p. 222), e s’inverava in
un’insopprimibile esigenza al racconto mitico-storico che, in nuce nelle Operette, ora prendeva a distendersi in un canto più maturo e prosastico. Leopardi sta
raggiungendo nuovi equilibri narrativi. In uscita dalle argomentazioni del “vero”,
forza e protrae la durata dell’ècfrasi; oppure porta alla massima esposizione possibile la prodigiosa memoria orale dell’arcatura sintattica: Leopardi detta! Oppure,
negli exempla, realistici o fantastici che siano, ritrae il vano movimento della vita
e gli effimeri eventi della storia, messi a confronto con l’imperscrutabile inutilità
dell’esistenza, con il trionfo della morte e l’eternità della materia. Tali ci appaiono
la Ginestra e il Vesuvio, il Volo di Leccafondi e la Città dei topi estinti. «Non una
parodia, ma un’allegoria», come chiosava Giordani (1839, p. 296). Quale distanza
con i letterati napoletani!
Nella famosa lettera a Fanny Targioni Tozzetti del 5 dicembre 1831 (v. Ep.
1686: «…Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatti gli
uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello
non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici…»), la dichiarazione antipolitica sostanzia di un asserto filosofico-esperienziale il “passaggio
grigio” fra una delusione storica (la sconfitta del movimenti insurrezionali e settari) e una nuova fase di elaborazione politica (sia liberale che democratica), di
cui, dopo la repressione dei moti del ’31 (quando, non si dimentichi, Leopardi era
stato perfino nominato deputato all’Assemblea delle Province Unite dal Governo
provvisorio di Macerata), non s’intravedeva lo sbocco, com’è forse rilevabile dalla
reticente chiusa dei Paralipomeni.
Tanto più si dica della borghesia rivoluzionaria napoletana, prima giacobina,
poi murattiana, infine costituzionalista e carbonara, che si era come ripiegata su
sé stessa dopo le sconfitte del ’99, del ’14 e del ‘20, acconciandosi ad un placido
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Paolo De Caro
ottimismo post-Restaurazione, che avrebbe potuto richiamarsi meglio ad un roi
des Français che a un Re delle due Sicilie. Quest’ottimismo derivava, oltre che da
alcuni atteggiamenti liberaleggianti, dal tentativo di politica economica che il re
Ferdinando II aveva promosso, nei primi anni del suo regno, per innescare un
processo di innovazione e modernizzazione protoindustriale, pur se limitato sostanzialmente all’area della capitale. Agiva anche, in quest’apertura al futuro, la
circolazione degli ideali del nazionalismo italiano e dello storicismo romantico e
spiritualista, influenzati dai ripresi studi vichiani, dal kantismo del Galluppi e dal
nascente hegelismo. Troppo spesso nell’auspicare l’ineluttabile avanzamento della
storia, i gruppi intellettuali o praticavano il silenzio sulle questioni politiche e sugli
spietati provvedimenti repressivi o si limitavano, chi più chi meno, ad auspicare
un’autoriforma, nelle idee come nelle istituzioni, del Trono e dell’Altare. Perciò la
descrizione icastica e bonaria che, della «lieta vita napoletana», come del clima prerisorgimentale liberale e neoguelfo sotto il regno di Ferdinando II, diede il Croce
nel suo commento ai Nuovi Credenti (1930), non può che risultare fuorviante.
Confinata nella categoria ultronea e nonpoetica dello “sfogo”, la satira viene
assimilata al pittoresco folklore dei quadretti di genere (gli asini da soma spinti «a
volo» per l’erte vie di San Martino; le tavolate di triglie, alici e ostriche nelle sere
di Santa Lucia…), per allontanarla dal travaglio del pensiero leopardiano verso
un’etica laica, non immemore per altro della tradizione testamentaria, come verso
la serietà dell’agire politico, conforme a un approdo apertamente e radicalmente
materialistico. Ed è vero anche, come notò già Allodoli (p. XII), che l’immaginario
di Leopardi resuscita nell’umanità napoletana raffigurata il luogo comune europeo
del type italien, perdigiorno, passionale e brigantesco. Ma è significativo che, in
prosecuzione delle aperture ottocentesche del Gesuita moderno e del Primato di
Gioberti, o, in ripresa dal Dialogo dei Saggi critici e dalle Lezioni sulle due “scuole” di De Sanctis, la lunga e varia tradizione leopardiana italiana abbia, nel secondo
Novecento, passata la bufera del fascismo e della seconda guerra mondiale, ricollocato il poeta, dopo la parentesi rondista e crociana, nell’intreccio fra letteratura e
ideologia. Leopardi è elevato a paradigma etico-politico di un confronto che non
investe solo lo studio a latere della specificità letteraria (da Luporini, a Timpanaro, a Carpi, a Biral), ma che, ripartendo da queste premesse, illumina la critica
e l’interpretazione del testo letterario (da Russo, a Binni, a Savarese, a Blasucci,
a Damiani), sempre spingendosi verso la peculiare innovazione del periodo napoletano. Opportunamente, anche l’esame critico più recente rileva l’urgenza dei
motivi e la novità delle forme che agitano l’ultima fase della poetica leopardiana.
Sottesa al crescente e sempre più dissonante registro polemico-satirico, agisce la
severità di una volontaria riduzione del comico (Panizza) e perfino una ricerca del
silenzio che sostituisca la parola (Dolfi: il silenzio, il silenzio mortale, «come figura
di un’ultima protesta», p. 31). Un modo di concepire il “mondo” (quel mondosocietà che Leopardi sottopone a critica, dalla Palinodia, ai Pensieri, alla Ginestra,
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
ai Paralipomeni), elaborato come risposta alla concezione sociale della letteratura,
reclamata dai romantici italiani e napoletani. Una risposta che però contrastava di
primo acchito con la chiacchiera e la flânerie degli “insorgenti”, e con l’ottimismo
liberale degli ambienti intellettuali partenopei.
«Con Manzoni in chiesa – dicevano gl’Italiani, ed aggiungevano – Con Leopardi alla guerra» (Carducci). Alla metà dell’Ottocento, l’intenzione militante
trasformò gli scrittori della nostra letteratura in vessilliferi di un’ideologia. Ma sin
dal principio del dibattito critico sul poeta, all’abate Gioberti, la credenza religiosa
e l’appartenenza politica al neoguelfismo non impedirono di riconoscere in Leopardi un’assoluta grandezza di scrittura, di pensiero e di umanità, né di recriminare
quella condizione di esule in patria, in cui il suo amico recanatese fu costretto a
vivere. Ed è indubbio che a Napoli, esclusi gli stentati riconoscimenti formali e
le poche amicizie, il poeta abbia subito un vero e proprio ostracismo culturale e
sociale; così che lui – soggiunge Marti –, in quella città, «rimase sempre un estraneo diffidente, un ospite precario» (I tempi…, p. 104). Come si autodenunciava al
padre: un «infelice forestiero».
Ciò che ancor oggi sorprende, non è tanto la risposta repressiva delle gerarchie della Chiesa (l’ossessione del Nunzio De Pietro e del cardinal Lambruschini
sull’“empietà” di Leopardi) o della polizia borbonica, o di quella imperiale (l’ossessione di Del Carretto e, a Vienna, di Metternich sullo «sciagurato» Leopardi,
fautore delle “repubbliche”), quanto la ripulsa dei circoli liberali, più o meno sedicenti cattolici e, più in generale, spiritualisti e idealisti. Alla maggior parte dei
letterati napoletani, liberali o “settari” (mazziniani) che fossero, risultava incomprensibile «quel suo umor misantropico che rendealo pressoché inaccessibile», incomprensibili la sua «filosofia desolante», il «miserabile scetticismo che regna nelle
sue prose» (i giudizi sono, si fa fatica a crederlo, del letterato e patriota mazziniano Giuseppe Ricciardi, cfr. Giuliano, p. 231). Certo, spesso trascinati da un cieco
patriottismo o dal sentimentalismo di moda, non mancavano coloro che fossero
romanticamente affascinati dall’autore dei Canti: Michele Baldacchini, la poetessa
Giuseppina Guacci, lo stesso Tommaso Gargallo, Antonio Ranieri, naturalmente;
ma forse ciò aumentava l’astio di cui era bersaglio nei salotti e sulle riviste il poeta
(«…accesa/ D’un concorde voler tutta in mio danno/ S’arma Napoli a gara alla
difesa/ De’ maccheroni suoi…»).
Uno dei pochi amici sinceri di Giacomo, il giovane patriota Alessandro Poerio, sbagliando evidentemente interlocutore, così confidava a Niccolò Tommaseo:
Qui [a Napoli], caro Tommaseo, sono alcuni i quali non dicono il vero o quel
che lor sembra vero, con altezza di animo, spassionatamente, senza odio né
timore, come fate voi; gli [a Leopardi] dànno addosso ferocemente, vilmente,
senza nominarlo, mostrandolo a dito, mordendolo sotto manto di religione,
accagionandolo di voler capovolgere la Società, toglier via la distinzione fra il
vizio e la virtù, empire la terra di sangue. (Sono citazioni di un libretto [c.n.]
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Paolo De Caro
poco fa pubblicato). E voi sapete quanto sieno candidi e mansueti i costumi
del Leopardi, com’egli non si curi di far proseliti, quanto aborra dalle risse
letterarie, quanto bene sopporti le opinioni altrui, e come sia lontano da ogni
ipocrisia…
(lettera del 13 luglio 1836, cfr. Ciampini, p. 267)
Poerio conosceva minutamente l’ambiente letterario napoletano, era stato
amico di gioventù di Antonio Ranieri e frequentava Leopardi; ma a Parigi, nella
colonia dei rifugiati italiani formatasi dopo i moti del ’31, era anche divenuto amico
di Tommaseo, che invece nutriva per il poeta recanatese una malcelata invidia letteraria congiunta a un’incoercibile avversione ideologica, se non addirittura fisica.
Leopardi era «l’uomo che ha il genio del Tasso in fondo alla gobba, come il Tasso
l’aveva in fondo al bicchiere» (Giuliano, p. 226, e Panizza, p. 10). «Inducetelo –
esortava nella risposta a Poerio – a non più vantare la bestemmia fredda e la sventura noiosa» (Giuliano, p. 236, e cfr. Ciampini, p. 261, e Bellucci, pp. 147-148 e 164).
Nei suoi frequenti rapporti con gli ambienti cattolici liberali, con Lambruschini
(Raffaello, l’agronomo e pedagogista) e con Capponi, come con Lamennais e con
Montalembert, in Italia come in Francia, Tommaseo faceva spesso di Leopardi, in
forme d’inconsueta virulenza, un modello da contestare ed abbattere.
A Napoli, subiva l’influenza dello scrittore dalmata il cenacolo che si raccoglieva intorno all’ambiziosa rivista fondata da Ricciardi, «Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti». Proprio con una lettera-prefazione di Francesco Puoti
tratta dal «Progresso» (VI, fasc. XI, a. II, p. 147-sg) si era pubblicata nel 1835 la
seconda edizione «napoletana» degli Inni sacri di Terenzio Mamiani, altro “faro”
del liberalismo cattolico e del fuoruscitismo parigino, che si rifaceva al Manzoni
tragediografo, poeta, moralista e romanziere e al Génie du Christianisme di Chateaubriand:
[…] la vita civile incomincia dalla religione; con lei crescono, durano e si fanno venerande le glorie nazionali, i riti, le leggi, i costumi tutti di un popolo:
radunansi in lei e partecipano del lume suo le memorie precipue de’ tempi e
le auguste speranze dell’avvenire. Sentirono di questo modo e procederono
così in ogni cosa quegli Italiani, che nel decimosecondo e decimoterzo secolo
rinnovarono le maraviglie del valore latino; beati davvero e gloriosi senza
fine nella ricordanza dei posteri, se mai dalla mente non cancellavano essere
tutti figliuoli d’una grande patria, e che la prima legge evangelica prescriveva
loro di sempre amarsi l’un l’altro come uguali e fratelli, chiamati a condurre
ad effetto con savia reciprocanza di virtù e di fatiche le sorti magnifiche e
progressive dell’umanità! [c.n.]
Con tale intendimento furono dettati questi inni sacri, almeno per quanto
concederono i tempi e il luogo gravemente pericolosi. Così mi sforzava di
trarre alla comune utilità il ministero della poesia, la quale è in capo a tutte l’arti sociali che intendono per maniera gradevole e tuttavia efficace alla
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
formazione dell’anima. Ho pertanto richiamato le muse al più antico loro
ufficio di cantare la religione civile; che perciò appunto elle furono stimate
deità e gli alunni loro, portentosi e più che uomini.
(Inni sacri, p. 4)
Insistendo sul rapporto fra letteratura e società, liberali e democratici, manzoniani e mazziniani (per utilizzare lo schema desanctisiano, fallace e ideologico
quanto si voglia, ma di immediata praticabilità), non riuscivano a comprendere
l’eccezionale novità di Leopardi. Così, sempre sul «Progresso» (II, 1836. Cfr.
Giuliano, p. 229), Raffaele Liberatore, un esule del ’20, il compilatore del famoso,
all’epoca, Vocabolario Universale Tramater, metteva a confronto i due inni ai Patriarchi, di Leopardi e di Mamiani, e dichiarava Mamiani «più poetico» rispetto al
«più filosofico» Leopardi, secondo un giudizio frequente, che feriva la coscienza
artistica del poeta. Leopardi trasse le sue vendette, com’è noto, nel canto della
Ginestra, prefigurando un “nuovo corso”, azzardando una specie di “salto quantico”, un vero e proprio reinizio della storia. Non riecheggiò solo, in tono sarcastico,
le «magnifiche sorti e progressive» del cugino Mamiani, ma soprattutto spostò su
un piano eroico-antropologico il concetto di fratellanza umana: una fraternité da
intendere come tutta insieme alleata contro la natura «nemica», e sottratta a ogni
provvidenzialismo, storico o spiritualista che fosse.
Uno dei letterati di punta della rivista era il pugliese-napoletano Saverio Baldacchini (1800-1879) che cercava ecletticamente, al modo di Mamiani, di coniugare
classicismo e romanticismo, religione e progresso, conservatorismo e sensibilità
sociale («…la religion nostra è il simbolo di una civiltà comune, e l’aiutatrice di
futuri progressi dei popoli nelle larghe vie del morale perfezionamento», Del fine
immediato…, p. 28). Durante gli anni napoletani di Leopardi (ottobre 1833-giugno
1837), Saverio Baldacchini alluse spesso e negativamente, con aperto risentimento
ideologico, al poeta dei Canti. Nel 1835 aveva pubblicato sul «Progresso» il saggio
Del fine immediato d’ogni poesia, diffuso in estratto dalla Tipografia Flautina nel
1836. L’autore, descrivendo le figure contemporanee di maggior rilievo, Manzoni
ovviamente in testa, così si riferiva, senza citarlo, a Leopardi (forse pensando al
Canto notturno, di cui risuonano le domande senza risposta sulla «solitudine immensa» del cielo e sull’«innumerabile famiglia» della terra, due temi ripresi da Leopardi, quasi in confronto polemico con Baldacchini, nella Ginestra [vv. 145-157]):
Sociabil cosa è la poesia; imperocché per essa, dopo di esserci levati fino a
ricevere in noi la sacra impressione del bello, questo siam mossi ad esprimere
e manifestare; né mi sembra che alcuna manifestazione ed espressione possa
aver luogo, lo qual non sia come una negazione aperta dello stato di solitudine. Onde grandemente errano coloro, i quali nei loro canti al tutto come
abitatori di solitudini ci appaiono, quasiché avessero spezzato quel vincolo di
benevolenza e di universal carità, che stringe insieme l’umana famiglia [c.n.].
18
Paolo De Caro
Inferme sono le loro menti, onde troppo strani e astrusi concetti rampollano,
i quali non so perché eglino si sforzino di rivestire delle forme dell’arte. Certamente se l’uomo avesse potuto vivere in solitudine, a che i linguaggi? a che
i vari trovati delle gentili arti? Fatica adunque gittata è la loro, né so che poeti
possano giustamente chiamarsi, stanteché, ad ottenere quel rapimento che è
fine della poesia, a comprendere l’idea della bellezza, solo valido mezzo a me
sembra poter esser l’amore…[c. n.]
(Del fine immediato…, p. 36)
Quanto al «libretto», richiamato nella lettera di Poerio, esso è quasi certamente riferito all’opuscolo intitolato Claudio Vannini o l’Artista. Canto. Si tratta
di una novella in versi divisa in 37 brevi capitoli, scritta in stile pseudobyroniano
(ma di fatto esemplata sui moduli del classicismo preromantico italiano, da Monti, a Foscolo soprattutto, allo stesso Leopardi, con qualche intrusione degl’Inni
manzoniani), e «ordinata a combattere il romanticismo, … quel romanticismo
male inteso, che si studia di falsare, non d’imitare la natura, e di prendere da quella
non il bello e meraviglioso, ma il brutto e il deforme» (Cappelli [v. in seguito], p.
266). La novella s’ispira alla figura immaginaria di un pittore senese del Seicento,
un artista “traviato” e senza fede, che, dopo lo stordimento d’un’esperienza «oltremonti», ritornato in patria e mortagli la madre, si pente della sua vita dissoluta.
La tradizione critica ha intravisto nel personaggio di Vannini la maschera di un
Leopardi romanticizzato e maudit. Nel proemio riassuntivo dell’opera si legge
tra l’altro:
…Non ancora uscito di puerizia, prese troppo altamente a sentire di sé, mostrandosi poco curante degli ammaestramenti e de’ consigli, di che è tanto
bisognosa l’età prima dell’uomo. Giunse ad infastidirsi della famiglia, e della
città e dell’Italia, sicché, come prima potette, passò oltremonti… In Francia
alcune rappresentazioni troppo fedeli di cose laide e lascive gli acquistarono
fama, e in talune brigate dicono ch’ei fosse favorevolmente accolto: le quali
soleva egli intrattenere con la recita di certi suoi versi, in cui si studiava di
porre in derisione le credenze e le usanze più essenziali al vivere civile… Di
lui si mostrano ancora alcune tavole, nelle quali di leggieri si ravvisa l’orma di
un potentissimo ingegno, capace di grandi cose, se non fosse uscito di via...
(Claudio Vannini, pp. 3-7)
È stato notato (Bellucci, p. 151) come, per dare una credibilità romanzesca
al personaggio, l’autore della novella ricorra in molti punti alla banalizzazione di
una filosofia negativa, riecheggiante, in forme distorte e camuffate, famosi luoghi
leopardiani. In realtà, si potrebbe dire che l’autore tributi un inconsapevole omaggio alla fortuna dei Canti, dal Bruto minore ad Aspasia, e addirittura presti nuovi
motivi di ispirazione al poeta della Ginestra. Ecco un breve florilegio della novella
(i corsivi sono nostri):
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
[…]
Sacre memorie della patria! obblio
Di voi me circondava: e fastidia
D’uno spontaneo immaginare i lieti
Dorati sogni, e le armonie d’Amore
Del semplice e del vero imitatrici.
Povero, inetto io ‘l fin dicea di quelle
Arti gentili che fermar le sedi
Su le rive del Tevere e dell’Arno.
A che nelle ammirate opre de’ nostri
Quella pace diffusa e quel riposo;
Mentre una fiera legge, a chi ben dentro
Mira, travaglia col dolor le cose
Arcanamente? Ov’è una vera gioia,
Ove una intensa voluttà, che, quando
Duri più d’un fuggevole momento,
Non s’estingua nel tedio e nella morte?
Dunque correrà l’uom, seguendo eterni
Inganni, e mai non avrà cuor che basti
A sollevar dell’universo il velo?
(IV, 24-42)
…a me parea che sempre
La virtù, cui più il mondo applaude, è frutto
D’una impura semenza, e da men rea
Radice surge il vizio abominato;
Sicché a strappar dal crin de’ glorïosi
Le immeritate civiche corone
Fora giustizia, e in quella vece il capo
Fregiarne di colui, che sotto il taglio
S’incurva già di scellerata scure.
(V, chiusa)
…erasi in me spenta qualunque
Favilla estrema de la fede antica,
L’erma rupe lasciai, desideroso
Di veder le cittadi un’altra volta,
E di svelare all’uom con la parola
Del vero e dell’error ministra a un tempo,
La tenebrosa mia scïenza…
[…] poi che una strana
Voglia mi travagliava (orrido a dirsi!
D’uccider l’alma, la cui pura essenza
Sol di virtù […] si nutre.
(VII, 2-8 e 12-16)
…Ah, pera
Chi le dottrine generose e il culto
20
Paolo De Caro
D’Amor, che solo di prodigi è fonte,
Sovvertir cerca, e a disïar ne invita
Sopra i piaceri de lo spirto gli agi,
Le morbidezze sibarite!…
(XXIII, 26-31)
… Onde l’alma, di Dio nobil fattura,
Niega l’origin sua, sé stessa niega,
Niega la legge del dover, la legge
Dell’eterna bellezza, e alla ruina
D’ogni armonia dell’universo esulta.
Indi un’arte si crea varia, scomposta,
Tutta audacia e ad un tempo effeminata,
D’un ben, ch’esser non puote, invereconda
Promettitrice, ma di mali invece
Fecondissima madre…
( XXIV, 7-16)
Autore della novella era ancora quel Saverio Baldacchini, che, congedata
l’opera nell’agosto 1835, l’aveva fatta pubblicare, sempre a Napoli, dagli editori De Stefano e soci nei primi mesi del ’36: quindi quasi contemporaneamente
all’uscita del primo tomo delle Operette Starita. Il giudizio sull’arte di Leopardi,
travestito nei panni del pittore Vannini, diventa inappellabile. È un’arte che non
educa, non costruisce, non canta i «bisogni del secolo» (cfr. Palinodia), ma che
anzi, al di là delle apparenze, è tutta deversata alla corruzione sociale: «varia»,
«scomposta», «audace», e insieme «effeminata», destinata a non produrre che
«mali».
Del medesimo «libretto» parla – con velenosi riferimenti a Leopardi – l’abruzzese-napoletano Emidio Cappelli nella recensione al Claudio Vannini, scritta per il
«Progresso» (vol. XIII, a. V, q. XXVI, marzo e aprile 1836, pp. 248-268):
… E non vogliamo tacere esserci questo libretto [c.n.] venuto ad un bel bisogno. Quando alcuni scrittori d’ingegno e sapere più che mezzano, non sappiam per qual maligno risguardo de’ cieli tra noi surti, si son fatti, e tuttodì si
van facendo non men vili che orgogliosi propagatori di certi principi di disperazione, di dubbio, di odio e disprezzo per la vita e per gli uomini, e niente
altro c’insegnano a noi rimanere, che il cacciarci un coltello in gola [c. n.]. E
forse ancora per alto levando i loro stolti e inverecondi clamori, e mandando
ad un fascio la virtù ed il vizio, minacciano di rendere il mondo un’arena di
gladiatori ed un vasto campo di ferocie e di orrori. A tanta rovina si oppone
questo libretto [c.n.]…
(«Il Progresso» cit., p. 256; cit. anche in Bellucci, p. 252)
Dopo aver citato un largo brano della novella (cfr. qui sopra i vv. IV, 24-42),
il Cappelli così continuava:
21
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
E qui, senza che noi gliel diciamo, avrà il lettore per se stesso ravvisato, come
quest’opera non della moral filosofia solamente, ma delle arti eziandio è intesa a tutelar la causa. Ché se con dolore gravissimo dell’animo nostro noi veggiamo da alcuni scrittori impudentemente manomesse le scuole della morale
sapienza, e vilipesi e profanati gli aditi della virtù, non men grave ci torna
il vedere come non pochi addetti al culto delle Muse per sì strana e torta via
intendono al loro ministero, che di siffatti sacerdoti non sappiamo se quelle
vergini santissime abbiano più a pregiarsi o a vergognarsi. Né creda alcuno
che di quei meschini, che pur tanti sono, sia nostro intendimento di ragionare,
i quali poveri di mente e di cuore, ed affatto privi di poetici spiriti, ci vengono
tuttodì intorno strimpellando sui loro rauchi e scordati colascioni di loro insipide e schifose cantilene [c. n.]. Di costoro non mette il pregio di favella. Solo
diciamo che assai bene provvederebbe alla dignità delle Muse quella repubblica, la quale a questi increscevoli trombettieri di Pindo, a questi incomodi
del secolo, per decreto interdicesse l’uso di poetare…
(«Il Progresso» cit., p. 258)
«…Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,/ A cui grava il morir; noi femminette
[c.n.],/ Cui la morte è un desio, la vita amara.// Voi saggi, voi felici…» (I nuovi
credenti, vv. 100-103). L’amarezza di Leopardi per gli attacchi più o meno allusivi
di cui era fatto oggetto dai circoli culturali di Napoli (non solo reazionari, dunque,
ma anche e soprattutto liberali), acuì il suo isolamento e appesantì le già miserevoli
condizioni della sua esistenza fisica; ma provocò anche, dal momento che era disconosciuto di essere poeta e riconosciuto soltanto come filosofo della negazione,
l’impellenza di affermare la sua orgogliosa inattualità e di definire nettamente una
distanza di pensiero dai suoi detrattori e critici, diretti e indiretti, a partire da quelli
a lui più vicini, a Napoli. I segni di questa tensione intellettuale e morale affiorano
nella sempre più rada corrispondenza degli ultimi suoi anni, per non dir mesi, di
vita. Siamo nel periodo in cui, tra il ’35 e la prima metà del ’37, il poeta, prima di
“procombere”, completa i Pensieri e compone (dettando buona parte dei testi a
Ranieri), forse, Aspasia e almeno una “sepolcrale” (Sopra il ritratto di una bella
donna…), e certo la Palinodia e i Nuovi credenti, il Tramonto della luna e la Ginestra, e sette almeno degli otto canti dei Paralipomeni della Batracomiomachia.
Siamo nei pressi di una poesia completamente innovativa nei quadri narrativi e
nei registri linguistici, una poesia di esuberante e indocile creatività, di fantasia
liberata, dov’è bruciato l’equivoco del “malinconico” romantico e si enfatizza la
distanza ironica con gli “altri” («Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro
solito… Malinconico, sconsolato, disperato…»), proprio mentre si ribadisce l’insondabile acronicità dell’essere. Quest’aspra fantasia è disciolta nella complessità
del pensiero intorno al rapporto, sempre ritornante, fra gioventù e vecchiaia, fra
ciò che è vita e ciò che è morte, fra natura e uomo, fra antropologia e storia, fra
non-tempo (infinito) e tempo (finito), e nelle acuzie della disposizione satirica:
22
Paolo De Caro
pensiero e stile complessi (come merita la meditazione sulla complessità del vero),
a giri lunghi, tutt’altro che «slogati», come pensava Carducci a proposito delle ottave dei Paralipomeni. Sarebbe arduo spiccare gli “esterni”, per gran parte “aerei”,
di rappresentazione lirico-descrittiva di queste opere dai duri motivi di contrasto
con il legittimismo tramontante e con l’imperante “scuola manzoniana” del liberalismo italiano (e napoletano, in particolare), per un verso; e per l’altro, dal dissidio
nato da una grande e solitaria avventura intellettuale scivolata nel sortilegio di una
città che ha capovolto il suo sogno russoviano: dallo specchio incantato di Mergellina a un’indecifrabile e insopportabile città morta, una Napoli-Topaia all’aria
aperta (ben peggiore della Nubiana-Recanati di Ottonieri-Leopardi), brulicante
di popolo minuto, irriducibilmente reattiva agli istinti ed estranea a quel progresso tanto esaltato (cfr. Zib., 1027 ecc.); una città-simbolo, “meridionale” e antica,
«immensa»; «un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli», «veramente
barbaro», cresciuto dentro un incredibile paesaggio naturale e, in significativo opposto, accanto ai resti, superi e inferi, di Pompei ed Ercolano: nella natura che sta,
due manifestazioni della finitudine della storia e della vita mortale dell’uomo: due
paesi-fantasma di ombra-e-luce, di morte-e-vita che ritroviamo in un inaspettato
immaginario metamorfosati nella Ginestra e nei Paralipomeni.
3.
Sin dalla fine del ‘35, prima ancora che le Operette fossero licenziate dallo
stampatore (era Vincenzo Puzziello dell’Aquila), Leopardi paventava gli intralci
in cui il libro si sarebbe impigliato. Rispondendo al padre ed evitando di toccare
argomenti sensibili (la Curia, i Borboni, i liberali), trovava un facile e forse comune
capro espiatorio nella denuncia dei costumi napoletani, di cui era esempio vivente
il libraio:
[…] Ella [il padre Monaldo] viva sicuro che le correzioni necessarie alle Operette morali, da Lei amorevolmente suggeritemi, si faranno, se però questa
edizione andrà innanzi, cosa della quale dubito molto, perché sono risolutissimo di non dar nulla al libraio non solamente gratis, ma neppure con
pagamento anticipato; così consigliandomi tutti gli amici, che bisogni fare in
questo paese di ladri; ma d’altra parte questi librai mezzo falliti restano tutti
senza parola al solo udire il nome di anticipazione…
(lettera del 4 dicembre 1835, Ep. 1918)
Il 6 di aprile 1836, a tre mesi dall’uscita del primo tomo delle Operette, in una
lettera al Sinner (Ep. 1934), riconfermava il suo dubbio di veder completato il piano
editoriale previsto, scaricando mezza responsabilità sulla scaltrezza di Starita:
[…] perché credo – scriveva – che l’ediz. non andrà innanzi, parte per bontà
23
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
di quelli che hanno allarmata [c.n.t.] la censura sopra tale pubblicazione,
parte perché io sono disgustatissimo del pidocchioso libraio, il quale avendo
raccolto col suo manifesto un numero di associati maggiore che non credeva,
sicuro dello spaccio, ha dato la più infame edizione che ha potuto, di carta,
di caratteri e di ogni cosa.
Finché, alla fine dell’anno, il 22 dicembre 1836 (Ep. 1951), scrivendo «Di
campagna» [dal casino dei Ferrigni, alle falde del Vesuvio, fra Torre del Greco e
Torre dell’Annunziata, ora Villa delle Ginestre] al suo amico svizzero a Parigi, era
costretto a dichiarare:
L’edizione delle mie Opere è sospesa, e più probabilmente abolita, dal secondo volume in qua, il quale ancora non si è potuto vendere a Napoli pubblicamente, non avendo ottenuto il publicetur. La mia filosofia è dispiaciuta
ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro,
possono ancora e potranno eternamente tutto.
E continuava (lo noto perché utile all’argomento di questo scritto):
Se volete ch’io vi spedisca per la posta un altro esemplare del 2.do vol. per
completare il numero 5 [i cinque interessati a ricevere a Parigi le Operette,
oltre che i Canti, e cioè, lo stesso Louis de Sinner, Vincenzo Gioberti, Friederich Heinrich Bothe, estimatore e traduttore dal tedesco di Leopardi, Louis
Pasquier, figlio di Étienne-Denis, presidente della Camera dei Pari, e Charles
Lebreton, allievo di Sinner], non avete che a scrivermelo. (ivi)
A questo punto, fra autore e editore, nonostante tutti i disguidi del possibile,
si è già arrivati a una specie di asimmetrica convergenza di interessi, e per un po’ il
dramma si mischia all’avventura e, se così può dirsi, alla farsa.
Leopardi, nel pericolo del colera avanzante, mantenendosi per lunghi periodi lontano dalla città, alle falde del Vesuvio, viene preso come da una febbre di
attivismo e di fuga. Scrive (al padre) di voler «fuggire da questo paese di Lazzaroni
e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e b.f. [= baron fottuti] degnissimi di Spagnuoli e di forche » (3 febbraio 1835, v. Ep. 1889). Nel ’34 aveva rinunciato all’ipotesi
di trasferirsi a Parigi. Ora cerca inutilmente di trovarsi un lavoro, pensando a un
corso semestrale di letteratura italiana, e pensa di trasferirsi almeno per quei mesi
a Palermo. E mentre la sua mente viene sollecitata a un molteplice sforzo creativo, dalla meditazione filosofica alla lirica alla satira all’epica, che manifesti il più
variamente e nettamente possibile la sua risposta laica in difesa del vero; mentre
ribatte colpo su colpo, in privato e in pubblico, agli spiritualisti italiani e napoletani (da Vieusseux a Capponi – il più ingenuo ed onesto: il più «candido», in senso
volterriano –; da Tommaseo, a Mamiani, a Baldacchini, a Cappelli, a Liberatore, a
24
Paolo De Caro
Ricciardi per citare i piu noti); ecco che, preso atto dell’impossibilità di proseguire
nell’edizione delle sue Opere, si fornisce da Starita di un numero di copie (24, dice)
da spedire ad amici ed estimatori che gliene avessero fatto richiesta e, afferrato dal
demone dello stile, rivede il testo dei due volumi stampati e, grazie ai buoni uffici
di Louis de Sinner, pensa di farsi stampare all’estero, dal Baudry o altro editore a
Parigi, i lavori che la censura gli vietava di diffondere:
Credete che mandando costì [a Parigi] un esemplare delle mie o poesie o
prose, con molte correzioni e aggiunte inedite [c. n.], ovvero un libro del
tutto inedito [i Pensieri], si troverebbe un libraio (come Baudry o altri) che
senza alcun mio compenso pecuniario [c.n.t.] ne desse un’edizione a suo conto? (ivi)
Si osservi Leopardi. Fino all’anno prima, secondo Chiarini (p. 424), si era
addirittura indebitato per favorire l’uscita delle sue Opere da Starita, in vista di un
successo nelle vendite. Ora, fra delusione e ira, si dilegua in lui ogni bisogno di affermare una più che legittima (e vitale!) aspettativa di ritorno finanziario. Forse incalzato dal sentimento di una fine imminente, forse animato da quella vecchia ansia
di “gloria” letteraria che non gli aveva dato mai tregua, ora è proteso a difendere la
piena legalità della sua visione del mondo, alternativa alla dottrina spiritualista; e
perciò è spinto a chiudere testimonialmente le sue opere più rappresentative in un
quadro coerente di compiutezza. Troviamo una necessità, un’urgenza incomparabili nella determinazione autoriale degli ultimi due anni leopardiani. Alla fine del
1836, a sei mesi dalla morte, prima di tutto egli:
– vuole ri-pubblicare i Canti e/o le Operette «mandando [a Parigi] un
esemplare [Starita] delle sue o poesie o prose» fornito di «correzioni e
aggiunte inedite». Insomma, scritta la Ginestra,
– deve completare il Tramonto della luna, per dare piena configurazione ai
suoi Canti riveduti;
– deve veder pubblicate le Operette complete, che la censura napoletana
ha interrotto, aumentate dei tre pezzi annunciati dalla Notizia del tomo
primo 1835 (forse quelli maggiormente responsabili dell’intervento della
polizia: D. De Robertis, p. 335), e cioè del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, scritto nel ’25, del Copernico e del Dialogo di Plotino e
di Porfirio, scritti nel ’27, forzatamente esclusi a Firenze [Piatti 1834];
– deve veder pubblicati i completati (o da completare) Pensieri;
– deve veder pubblicati i Paralipomeni, ancora in via di composizione e di
dettatura a Ranieri. La chiusa del poemetto, come ora la leggiamo, fu compiuta, secondo quanto affermò il suo sodale, a pochi giorni dalla morte.
Così improvvisa e compressa, non si spiega che con l’urgenza di immette-
25
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
re un’opera nuova nell’elenco di un piano editoriale in via di definizione,
o comunque di un ideale piano di opere für ewig, prima di cedere.
Tre mesi ancora dopo quella comunicazione di dicembre, il 2 marzo del
1837, Leopardi, tornato a Napoli dopo un protratto e disagiato soggiorno a villa
Ferrigni, scrive una lettera (autografa) a Sinner (Ep. 1956). Per il testo dell’edizione
francese propone di prendere a riferimento l’edizione Starita (Canti e Operette
morali, volume I), con le correzioni che vi ha apportato a mano, e, per il volume II,
l’edizione Piatti delle Operette:
Io manderei i due primi volumi in un esemplare correttissimo e chiarissimo
[c.n.], ma il terzo, cioè il secondo delle operette morali non posso mandarlo
altrimenti, per la parte edita, che nell’edizione di Firenze, tal qual è: perché mi è impossibile di fare i cangiamenti e le correzioni necessarie sopra
quell’edizione, che è senza interlinea e senza margini.
Nel poscritto (di mano del Ranieri), steso in francese per facilitare la consultazione dell’editore, Leopardi annuncia alcune novità (i due «brani inediti» e i
«numerosi miglioramenti» dei Canti, il «volume inedito» dei Pensieri) e indica il
piano di una possibile edizione parigina [si ripristina nel testo l’accentazione francese che l’amanuense ha trascurato]:
Je ferai à mes Operette morali les additions que je promets dans l’édition de
Naples. Elles consistent en trois Opuscules d’une étendue assez considérable. On peut voir leurs titres dans la Notice que j’ai citée.
J’ajouterai aussi à mes poésies des morceaux inédits.
En Italie j’aurais donné quelque traduction inédite: par exemple, une traduction du Manuel d’Epictète, une traduction de quatre Discours moraux
d’Isocrate, etc. tout cela n’est bon à rien en France.
Je veux publier un volume inédit de Pensées sur les caractères des hommes et
sur leur conduite dans la société; mais je ne veux pas m’obliger de le donner
au même libraire qui publiera le reste, si auparavant je n’ai pas vu du moins le
premier volume imprimé, afin de pouvoir juger de l’exécution.
Au reste je ne tiens en aucune manière à ce que l’édition soit faite sous le titre
général d’Œuvres. On peut, et même on devrait publier un volume sous le
titre indépendent de Canti, et deux autres sous celui de Operette morali. Je
ferai des amélirations nombreuses à tous ces trois volumes.
«Io manderei i due primi volumi in un esemplare correttissimo e chiarissimo».
«Je ferai des améliorations nombreuses à tous ces volumes». Leopardi, dunque,
pone mano a due copie di scarto dell’edizione Starita, e le corregge per Parigi. Sono
le copie Nc della Nazionale di Napoli. Ma chi esamina la grafia delle correzioni, si
avvede che esse sono scritte currenti calamo, come per copie preparatorie, che non
26
Paolo De Caro
possono essere quelle da mandare a Parigi. Soltanto dopo questa specie di minuta,
approntata dunque fino al marzo ’37, l’autore, sia per i Canti che per le Operette,
penserà a trasferire le correzioni in un «esemplare correttissimo e chiarissimo».
FGc, con correzioni incomplete, è una di queste copie che la morte dell’autore (14
giugno 1837) ha impedito di completare? o è una copia non riuscita e messa da parte, che Leopardi non ha ritenuto degna di essere mandata al suo editore parigino?
o, forse meno probabilmente, è una copia preparatoria a Nc, poi scartata?
Se non il corpus delle Opere, almeno singolarmente le maggiori, che non si
sono potute pubblicare in quel di Napoli, si pubblicheranno a Parigi, con un testo
rinnovato e compiuto. Sarebbe stata come una voce che giungesse dalla città di quei
Lumi rinnegati vigliaccamente dalla sua età. Nel poco che gli rimaneva da vivere,
Leopardi non avrebbe visto esauditi i suoi auspici. Ma il destino s’incaricherà di una
vendetta postuma: sarà proprio il Baudry a pubblicare sei anni dopo (1842), per l’interessamento di Ranieri e Sinner, l’ «empio manoscritto» dei Paralipomeni che era
stato vanamente inseguito dal cardinal Lambruschini e dal principe di Metternich.
Dal canto suo, l’infido Starita, bloccato dalla censura, messo sull’avviso dalla
polizia, timoroso di perdere la fiducia degli scrittori e dei lettori napoletani, la sua
clientela prima, e nel contempo interessato a non perdere il denaro investito (compreso quello anticipato dall’autore) e a non mandare in fumo le attese di guadagno
calcolate, cerca di disorientare polizia, preti e nuovi credenti, e di evadere diversamente (illegalmente, clandestinamente, si dovrebbe dir meglio) le copie stampate
ma invendibili; e questo con una trovata molto semplice: sostituendo il frontespizio delle Operette. Capisco che un tale escamotage, che si praticava di frequente
nell’editoria non autorizzata, in questo caso, per la plateale ingenuità del sotterfugio, possa saper troppo della leggendaria creatività popolare partenopea; ma è ciò
che nei fatti avvenne, forse con assenso di Leopardi, forse anche per concessione
della polizia; e in buona parte funzionò, come si può dedurre dalla proporzione
delle copie, originali e modificate, che sono sopravvissute fino a noi.
L’edizione delle Operette morali, volume I, ricevette due altre emissioni modificate nel frontespizio:
– la prima, con frontespizio
PROSE
DI
GIACOMO LEOPARDI.
EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA
E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE.
NAPOLI.
PRESSO SAVERIO STARITA
Strada Quercia n. 14.
–
1835.
27
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
ma che si può credibilmente datare dalla seconda metà del 1836 ai primi mesi del
1837. È questa l’emissione utilizzata per le correzioni leopardiane di FGc. L’identificazione dell’opera si restringe e, oltre al titolo cambiato, da OPERETTE MORALI a PROSE, qualcos’altro si sta perdendo. L’indicazione della TERZA EDIZIONE viene soppressa. Viene modificata l’area informativa dell’opera: l’edizione non è più CORRETTA, ED ACCRESCIUTA / DI OPERETTE NON PIÙ
STAMPATE, ma, con la messa in oblio della fondamentale indicazione OPERETTE, diventa EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA, / E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE. C’è l’autore con l’editore e il luogo, ma è scomparsa
la centralissima, quasi insostituibile via Toledo (un segno che Starita sta lì lì per
fallire?), lasciando per indirizzo soltanto la più laterale e oscura strada (ora vicolo)
Quercia;
– la seconda (di cui si trovano testimoni alla Biblioteca Didattica dell’Università di Macerata, alla Sormani di Milano e all’Alessandrina di Roma), che probabilmente fu stampata in un momento ancora successivo (forse posteriormente al
giugno ’37, dopo la morte del poeta), e che reca sul frontespizio:
PROSE
DI
GIACOMO LEOPARDI.
EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA,
E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE.
ITALIA
–
1835.
dove è scomparso il Volume I, è scomparsa la Terza edizione e, soprattutto, in
un’indistinta Italia disurbanizzata, è scomparsa Napoli.
Come allora si faceva, l’editore vendeva i fascicoli, l’acquirente curava la legatura. Così è accaduto che un sol volume compatti i Canti con le Prose [Operette
morali, volume I], decidendo l’aspetto paratestuale che contraddistingue la doppia
“soglia” di FGc. È una soluzione spesso cercata dai lettori leopardiani dell’Ottocento, per aver molto in poco, e senza dare nell’occhio. Un’uguale soluzione
ritroviamo nell’elegante esemplare in marocchino blu a rilievo con taglio in oro sui
tre lati, che si ammira alla Sormani di Milano. Nell’esemplare della “Magna Capitana”, invece, il piatto di cartone è rivestito da un modesto foglio marmorato; sul
dorso, di vile pellame bruno, caratteri e false nervature sono stampigliati in stento
color oro, con il cognome dell’autore LEOPARDI e il titolo RIME /E /PROSE; i
risguardi sono in carta pesante bianca; il taglio agisce sui tre lati delle pagine, senza
aggiunta di tinte o altri ornamenti. Legatura e cucitura, se non possono dirsi raffinate, in compenso esprimono un’idea di timida solidità.
28
Paolo De Caro
La ricerca sulla provenienza di FGc è disseminata d’inciampi. Sono perduti,
forse mancano da sempre, gli elenchi storici degli introiti. L’interrogativo su come
sia capitato qua un volume del «malinconico» (o «sciagurato») Leopardi – in una
biblioteca cresciuta ai suoi inizi soprattutto grazie alle acquisizioni da conventi
soppressi – è destinato a rimanere insoddisfatto; a meno che, a qualche studioso
locale, non venga curiosità di ispezionare nel vecchio patrimonio. Si dovrebbe risalire nella storia delle donazioni private, messe in lista da un vecchio articolo di
Oreste De Biase, e cominciare a esplorare, se ne rimane ricordo, nei fondi che vi
sono citati (i Varo, i Celentano, gli Staffa, i Parisi, i Tugini…: questi ultimi possedevano, per fornire un indizio, le opere di Giordani). Il catalogo a fogli mobili
Staderini (un reperto primonovecentesco della vecchia Biblioteca [cfr. De Biase, p.
280], che andrebbe salvaguardato e restaurato), conserva ancora la scheda dell’opera, perfettamente descritta nella sua natura binaria (Canti + Operette). Ma la consistenza lascia trapelare anche un inatteso mannello leopardiano d’epoca, indizio
del vecchio legame che unì in età moderna e fino al primo Novecento Napoli al
Tavoliere. Tralasciando il fondo del leopardista Zingarelli, che non è poca cosa, fra i
testimoni leopardiani della Biblioteca foggiana si scopre che c’è un esemplare delle
Operette morali Piatti 1834, o, ancora, un esemplare dei Paralipomeni nell’editio
princeps parigina di Baudry 1842. Quasi certamente, anche i Canti e le Operette
Starita facevano parte del patrimonio librario di una famiglia borghese. Tutto sembra riportarci intorno alla metà dell’Ottocento, forse ancor prima dell’edizione
delle Opere Le Monnier curate da Antonio Ranieri (1845, qui nella ristampa 1865),
da Prospero Viani (1846) e da Pietro Pellegrini e Pietro Giordani (1853): dono alla
Comunale di Lorenzo Scillitani (1827-1880), l’illuminato sindaco del capoluogo
daunio.
Sul frontespizio dei Canti, la storia novecentesca della Biblioteca è ricordata
nel triplice marchio che violenta la pagina. Il primo timbro, circolare, della Biblioteca Comunale di Foggia (1833-1924), include due stemmi accostati, del fascio littorio e delle tre fiammelle, denunciando così l’epoca d’immissione nel patrimonio
librario della Biblioteca, cioè a cavallo fra gli anni Venti e gli anni Trenta, quando
la Comunale era allocata nella ex-chiesa di San Gaetano. Il secondo, più piccolo
e semplice timbro circolare sbarrato segnala il passaggio del libro dalla Comunale alla promossa Biblioteca Provinciale di Foggia (1937): quindi l’esemplare non
può essere stato inventariato se non dal 1937, quando la vecchia Biblioteca Comunale traslocò al Palazzo della Dogana, sede dell’amministrazione Provinciale.
Il terzo timbro, con l’ex libris del cielo stellato e delle messi agitate dal vento della
pianura, segnala il passaggio alla rinnovata Provinciale come “Magna Capitana”
dell’anno 2000. A metà del libro, la pagina col titolo PROSE reca un solo timbro,
quello dell’ex libris della “Magna Capitana”: un segno di avvertenza sulla natura
composita del volume. In chiusura, la p. 196 reca il timbro circolare della vecchia
Provinciale con un numero d’inventario sbarrato. L’ultima pagina (p. 198), in calce,
29
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
riporta di nuovo i timbri circolari della Comunale e della Provinciale, un timbro
lineare della Comunale, oltre a quattro numeri di inventariamento, due a mano e
due a timbro.
Lasceremo agli specialisti della descrizione bibliografica ulteriori e più pertinenti specificazioni dell’esemplare e dei suoi scioglimenti semiotici. A noi preme
avanzare alcune domande elementari: le correzioni sono dell’Autore? a quando si
possono datare? perché non proseguirono oltre il richiamo all’Errata?
La mano del Leopardi è subito evidente, sia che l’autore corregga in tondo
similtipografico che in corsivo, soluzione scrittoria più frequente. La E maiuscola
come un 3 girato, la L maiuscola con il taglio inferiore arcuato, la r e la v minuscole
tipografiche, la d minuscola con doppio anello a sinistra, la t minuscola col taglio
alto deciso e spesso con anellatura a cruna d’ago, le famose “crocette” (segni diacritici per indicare le giunte: cfr. Moroncini, pp. XXVIII-XXIX), la grafia minuta
per utilizzare margini e interlinee: tutto ci riporta alla mano del grande scrittore.
Le correzioni a penna, con uso di inchiostro scuro, sono vergate da una punta
sottile, con cura e a caratteri rimpiccioliti e chiari, e seguono (non completamente:
noi ne abbiamo contate 89) le indicazioni delle cento (giusto 100) Correzioni degli
errori di stampa raggruppate in coda al volume delle Operette, alle pagine 197-198.
A volte l’elenco è richiamato da Leopardi con l’abbreviazione in parentesi tonda
«(v. l’errata)» o «(v. Errata)». Il correttore ristabilisce soltanto le lezioni corrette
per non far continuo ricorso alle pagine finali, ma non si concede altre aggiunte, o
modificazioni, o varianti, come invece avviene in Nc: segno che siamo di fronte o
a una copia di preparazione, poi negletta, oppure di trascrizione finale, ma presto
interrotta. Il periodo non dovrebbe uscire dall’arco temporale febbraio-maggio,
addirittura primi di giugno, 1837; dunque i mesi fra l’ultimo ritorno a Napoli da
villa Ferrigni e il suo tentato nuovo trasferimento verso le ginestre del Vesuvio.
Poco prima che la morte, all’improvviso, sorprendesse il poeta a vico Pero.
Escludendo gl’interventi minimi, non palesemente attribuibili alla mano
dell’autore, e riguardanti le semplici interpunzioni, i segni di elisione, i segni verticali di stacco, le sbarrature di lettere o parole, le sottolinature per indicare la
scrittura in corsivo (come in «Eureka, eureka.» in attacco al Dialogo di un fisico e
di un metafisico) e, quasi sempre, le sovrapposizioni di singole lettere, presentiamo
all’attenzione dei lettori, a titolo di esemplificazione identificativa e senza nessuna
pretesa filologica, le seguenti correzioni, delle quali elenchiamo una serie numerata
da 1 a 18, il numero della pagina p. del testo Starita, il numero della pagina p. e del
rigo r. dell’ed. crit. Besomi, il brano interessato] con la correzione] in grassetto:
1 –p. 36, p. 48 r. 96, Dialogo di Ercole e di Atlante: «come quando la Sicilia
si schiantò dall’Italia e l’Africa] Affrica] dalla Spagna»;
2 –p. 44, p. 59 r. 120, Dialogo della Moda e della Morte: «questo negozio
degli immortali ti] scottava»):
30
Paolo De Caro
3 – p. 50, p. 68 r. 94, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi:
«poiché altro mezzo non pare che vi] si trovi»;
4 – p. 51, p. 69 r. 103, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Silligrafi:
«quo ferrea primum esinet] desinet] ac toto surget»;
5 –p. 74, p. 107 r. 37, Dialogo della Terra e della Luna: «Delalande] De la
Lande]»;
6 –p. 78, p. 111 rr. 114-115, Dialogo della Terra e della Luna: «come crede un fisico moderno? x [crocetta di L.] che sei fatta come affermano alcuni
inglesi, di cacio fresco? (v. l’errata) [parentesi di L.] ] che Maometto un giorno…»;
7 –p. 111, p. 153 r. 46, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare:
«non facendosi meraviglia che gli uomini x [crocetta di L.] sieno uomini (v.
Errata) [parentesi di L.]]; cioè a dir creature»;
8 –p. 113, p. 156 r 102, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare:
«un concetto e non un] sentimento»;
9 – p. 115, p.158 rr. 140-141, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: «ma dunque perchè x [crocetta di L.] viviamo noi, voglio dire, perchè
(v. Errata) [parentesi di L.]] consentiamo di vivere?»);
10 –p. 117, p. 160 r. 195, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare:
«Poche] Più] settimane, come tu sai.»;
11 – p. 125, p. 171 r. 91, Dialogo della Natura e di un Islandese: « ma solo a
essi medesimi, quanto] quando] eglino avessero disprezzati»);
12 – p. 127, p. 174 r. 137, Dialogo della Natura e di un Islandese: «come se]
la vita umana non fosse bastevolmente misera»;
13 – p. 132, p. 179 r. 228, Dialogo della Natura e di un Islandese: «Mentre
stava] stavano] in questi e simili ragionamenti»;
14 –p. 135, p. 186 r. 52, Il Parini, ovvero della gloria, I: «in Argo la statua di
Telesilla, poetessa, guerriera, e] e salvatrice della patria»;
15 – p. 147, p. 197 r. 60, Il Parini, ovvero della gloria, III: «dal quale non è
facile che egli si muova] si rimuova]»;
16 – p. 150, p. 200 rr. 33-34, Il Parini, ovvero della gloria, IV: «giudici delle
opere indirizzate a destar gli affetti e le immagini] a destar affetti ed
immagini]»;
17 – p. 158, p. 208 rr. 91-92, Il Parini, ovvero della gloria, V: «o dalle ricchezze, o dagli onori x [crocetta di L.] che le sono renduti, [anche la correzione è scritta
in corsivo]
] o dalla stima»;
18 –p. 170, p. 220 r. 87, Il Parini, ovvero della gloria, VIII: «e forse gli sono
superiori anche di] al] presente».
Sulla indecidibilità cronologica delle correzioni, se preparatorie o successive
a Nc, suppongo alla fine che Leopardi, a causa della morte improvvisa, non poté
31
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
completare le correzioni sull’esemplare delle Prose [Operette morali], che i fascicoli sciolti di FGc rimasero da canto e che, per trascuraggine e senza esaminare l’interno, furono venduti in seguito come libro da Ranieri, o dai suoi eredi, o da altri.
Quando ricompare la sua traccia nel libro ricomposto e rilegato delle Rime
e Prose, ci troviamo già alla Biblioteca Comunale (Sala 6°, Scaffale I, Palchetto
5°, Numero 13), nella recuperata sede di San Gaetano, dove, rinnovati, gli scaffali
arrivarono a nove palchetti, le sale arrivarono a undici, e il patrimonio librario
raggiunse i quarantamila volumi. Dovremmo attestarci, consideratati anche i caratteri tardo-liberty dell’etichetta sul risguardo, in pieni anni Venti. Il passaggio
alla nuova struttura, la Biblioteca Provinciale “G. Postiglione”, intorno al 1937, è
documentato dalla scheda Staderini e dalla nuova etichetta della collocazione sul
risguardo (XIII C 2415). Il resto è facilmente riscontrabile.
Tavole fotografiche
Tutte le riproduzioni sono state autorizzate alla pubblicazione dalle direzioni delle
Biblioteche di appartenenza.
Le tavole I-IV mostrano i frontespizi nell’evoluzione tipografica delle emissioni Starita: dalle Operette morali, vol. I (Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino), alle Prose, Napoli 1835 (nella da noi cosiddetta FGc della Biblioteca Provinciale “La
Magna Capitana” di Foggia), alle Prose, Italia 1835 (Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo
Sormani di Milano), fino alle Operette morali corrette da Leopardi (nella Nc della Biblioteca
Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
La tavv. V-VI mostrano, nel dorso e nel piatto anteriore, l’esemplare rilegato di Leopardi, Rime e Prose (Canti + Prose [Operette morali, vol I], Napoli, Starita, 1835), conservato
nella Biblioteca Provinciale di Foggia (FGc), di cui le tavv. VII-XIV mostrano le pp. 74 (5), 78
(6), 111 (7), 115 (9), 135 (14), 158 (17) con le correzioni di Leopardi e le pp. 197-198 le Correzioni degli errori di stampa, che l’autore ha consultato per i suoi interventi manoscritti.
Le tavv. XV-XVIII derivano dalla collazione delle pagine 74, 78, 135 e 158 in riproduzione da Nc, mentre, ai fini di un confronto con un più esteso autografo coevo alle correzioni di FGc, le tavv. XIX-XXII riproducono le quattro pagine della lettera del 9 marzo
1837 scritta da Giacomo al padre Monaldo (cfr. Ep. 1957, pp. 2094-2096), ora conservata nella
Sezione Manoscritti (Carte Leopardi) della Biblioteca Nazionale di Napoli. Se ne trascrive
qui il testo:
Napoli, 9 marzo 1837
Mio caro Papà
Non ho mai ricevuto riscontro a una lunga mia di Decembre passato, nè so con
chi dolermi di questo, perchè la nostra posta è ancora in tale stato, che potrebbe benissimo trovarvisi da qualche mese una sua lettera per me, e non essermi
stata mai data. Io, grazie a Dio, sono salvo dal cholèra, ma a gran costo. Dopo
32
Paolo De Caro
avere passato in campagna più mesi tra incredibili agonie, correndo ciascun
giorno sei pericoli di vita ben contati, imminenti, e realizzabili d’ora in ora, e
dopo aver sofferto un freddo tale, che mai nessun altro inverno, se non quello
di Bologna, io aveva provato il simile; la mia povera macchina, con dieci anni di
più che a Bologna, non potè resistere, e fino dal principio di Decembre, quando la peste cominciava a declinare, il ginocchio colla gamba diritta, mi diventò
grosso il doppio dell’altro, facendosi d’un colore spaventevole. Nè si potevano
consultar medici, perché una visita di medico in quella campagna lontana non
poteva costar meno di 15 ducati. Così mi portai questo male fino alla metà di
Febbraio, nel qual tempo, per l’eccessivo rigore della stagione, benché [II] non
uscissi punto di casa, ammalai di un attacco di petto con febbre, pure senza
potere consultare nessuno. Passata la febbre da se, tornai in città, dove subito
mi riposi in letto, come convalescente, quale sono, si può dire, ancora, non
avendo da quel giorno, a causa dell’orrenda stagione, potuto mai uscire di casa
per ricuperare le forze con l’aria e col moto. Nondimeno la bontà e il tepore
dell’abitazione mi fanno sempre più riavere, e il ginocchio e la gamba sì per la
stessa ragione, sì per il letto, e sì per lo sfogo che l’umore ha avuto da altra parte,
sono disenfiate in modo, che me ne trovo quasi guarito.
Intanto le comunicazioni col nostro Stato non sono riaperte, e fino a questi
ultimi giorni, ho saputo dalla Nunziatura che nessuna possibilità v’era che
si riaprissero per ora. Ed è cosa naturale, perchè il cholèra oltre che è attualmente in vigore in più altre parti del regno, non è mai cessato neppure a
Napoli, essendovi ogni giorno, o quasi ogni giorno, de’ casi che il governo
cerca di nascondere. Anzi in questi ultimi giorni tali casi paiono moltiplicati,
e più e più medici predicono il ritorno del contagio in primavera o in estate,
ritorno che anche a me pare assai naturale, perché la malattia non ha avuto lo
sfogo ordinario, forse a causa della stagione fredda. Questo incomodissimo
impedimento paralizza qualunque mia risoluzione, e di [III] più mi mette
nella dura ma necessarissima necessità di fermar la casa qui per un anno: necessità della quale chi non è stato a Napoli non si persuaderà facilmente. Qui
quartieri ammobiliati a mese non si trovano, come da per tutto, perché non
sono d’uso, salvo a prezzi enormi, e in famiglie per lo più di ladri. Io il primo
mese dopo arrivati pagai 15 ducati, e il 2.do 22, e a causa della mia cassetta
fui assalito di notte nella mia stanza da persone, che certamente non erano
quei di casa. Quartieri smobiliati non si trovano a prendere in affitto se non
ad anno. L’anno comincia sempre e finisce nel 4 di maggio, ma la disdetta si
dà ai 4 di gennaio; e nei 4 mesi che corrono tra queste due epoche, si cercano
le case e si fanno i contratti. Ma le case sono qui una merce così estremamente ricercata, che, per lo più, passato gennaio, non si trova un solo quartiere
abitabile che sia sfittato. Ne segue che un infelice forestiero deve a gennaio
sapere e decidersi fermamente di quello che farà a maggio: e se avendo disdetto il quartiere, ed essendo risoluto di partire, lascia avanzar la stagione
senza provvedersi; sopraggiungendo poi o un impedimento estrinseco, come
questo delle comunicazioni interrotte, o una malattia impreveduta, cosa tanto
possibile a chi abbia una salute come la mia, o qualunque altro ostacolo ad
andarsene, può star sicuro di dovere il 4 di maggio o accamparsi col suo letto
33
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
e [IV] co’ suoi mobili in mezzo alla strada, o andare alla locanda, dove la più
fetida stanza, senza luce e senz’aria, costa al meno possibile dodici ducati al
mese, senza il servizio, che è prestato dalla più infame canaglia del mondo.
Io non le racconto queste cose, se non perché Ella mi compatisca un poco
dell’essere capitato in un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli,
perché veramente barbaro, assai più che non si può mai credere da chi non vi
è stato, o da chi vi ha passato 15 giorni o un mese vedendo le rarità.
[spazio indirizzo] Al Nobil Uomo | Sig. Conte Monaldo Leopardi | Roma per
| Recanati
Se questa le giunge, non mi privi, la prego, delle nuove sue, e di quelle della
Mamma e dei fratelli, che abbraccio con tutta l’anima, augurando loro ogni
maggior consolazione nella prossima Pasqua. Ranieri (una sorella del quale ha
avuto il cholèra) la riverisce distintamente. Mi benedica e mi creda infelice ma
sempre affettuosissimo suo figlio
Giacomo.
34
Paolo De Caro
Tav. I. Operette morali, vol. I, Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino).
35
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. II. Prose [ = Operette morali, vol. I], Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
36
Paolo De Caro
Tav. III. Prose [ = Operette morali, vol. I], Italia, 1835 (Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano).
37
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. IV. Operette morali, vol I [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
38
Paolo De Caro
Tav. V. Rime e Prose (ma titolo della legatura = Canti + Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli,
Starita, 1835, dorso (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
39
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. VI. Rime e Prose (ma titolo della legatura = Canti + Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli,
Starita, 1835, piatto anteriore (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
40
Paolo De Caro
Tav. VII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 74, con particolare. (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
41
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. VIII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 78, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
42
Paolo De Caro
Tav. IX. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 111, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
43
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. X. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 115, con particolare (Biblioteca
Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
44
Paolo De Caro
Tav. XI. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli Starita, 1835, p. 135, con particolare (Biblioteca
Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
45
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. XII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 158, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
46
Paolo De Caro
Tav. XIII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p.197 (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
Tav. XIV. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p.198 (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
47
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. XV. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita,
1835, p. 74 (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
48
Paolo De Caro
Tav. XVI. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita,
1835, p. 78 (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
49
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. XVII. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita,
1835, p. 135 (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
50
Paolo De Caro
Tav. XVIII. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita,
1835, p. 158 (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
51
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. XIX. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, I (Biblioteca Nazionale.
“Vittorio Emanuele III” di Napoli).
52
Paolo De Caro
Tav. XX. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, II (Biblioteca Nazionale.
“Vittorio Emanuele III” di Napoli).
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. XXI. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, III (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
54
Paolo De Caro
Tav. XXII. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, IV (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Riferimenti bibliografici
Per le opere di Giacomo Leopardi:
Poesie e prose, volume primo, Poesie, a cura di Mario Andrea Rigoni, con un saggio di
Cesare Galimberti, Milano, Mondadori, 2005;
Poesie e prose, volume secondo, Prose, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori, 2003;
Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di Rolando Damiani, tomi 3, Milano, Mondadori, 1997.
Per le lettere e il carteggio:
Epistolario, a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, voll. 2, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
Per le edizioni critiche e in riproduzione:
Operette morali, Edizione critica ad opera di Francesco Moroncini, Discorso, corredo
critico di materia in gran parte inedita, con riproduzioni d’autografi, voll. 2, Bologna,
Licinio Cappelli, 1929;
Operette morali, Edizione critica a cura di Ottavio Besomi, Milano, Fondazione e
Alberto Mondadori, 1979.
Canti e Operette morali, Riproduzione in fac-simile dell’edizione Starita 1835 con
correzioni e aggiunte autografe dell’Autore, Napoli, Alberto Marotta Editore, 1967;
Canti, volume primo, Edizione critica di Emilio Peruzzi, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli e Recanati, Centro Nazionale Studi Leopardiani, seconda edizione riveduta e ampliata, 1998;
Canti, volume secondo, Edizione fotografica degli autografi, a cura di Emilio Peruzzi,
Milano, Biblioteca Universale Rizzoli e Recanati, Centro Nazionale Studi Leopardiani, seconda edizione riveduta e ampliata, 1998.
Per la biografia, l’ambiente napoletano e l’iconografia:
Giacomo Leopardi: la vita i luoghi le opere. Catalogo della mostra, Napoli, Macchiaroli, 1990;
Album Leopardi, con un saggio biografico e il commento alle immagini di Rolando Damiani. Ricerca iconografica di Eileen Romano, Milano, Meridani Mondadori,
1993;
Ministero dei Beni Culturali, Ufficio Centrale per i Beni Librari, le Istituzioni Culturali e l’Editoria, e Biblioteca Nazionale di Napoli [a c. di], Giacomo Leopardi da
Recanati a Napoli, Catalogo della Mostra, 16 gennaio - 15 marzo 1999, Napoli, Macchiaroli, 1998;
Chiarini, Giuseppe, La vita di Giacomo Leopardi, Firenze, Barbera, 1921 (ed. stereotipa: Manziana, Vecchiarelli, 1988);
Damiani, Rolando, All’apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi, Milano, Mondadori, 1998
Damiani, Rolando, Leopardi e Napoli, 1833-1837. Sodalizio con una città. Tra nuovi
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Marti, Mario, I tempi dell’ultimo Leopardi (con una “Giunta” su Leopardi e Virgilio),
Galatina, Congedo Editore, 1988;
Ranieri, Antonio, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Napoli, Berisio,
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Sansone, Mario, La letteratura a Napoli dal 18oo al 1860, in Storia di Napoli, a c. di
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Staël [Madame de], Corinne ou l’Italie, Édition présentée, établie et annotée par Simone Balayé, Paris, Gallimard, 1985;
Timpanaro, Sebastiano, Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi, in Classicismo
e illumnismo nell’Ottocento italiano, Seconda edizione accresciuta, Pisa, Nistri-Lischi
editori, 1969, pp. 133-182.
Per la storia della Biblioteca Provinciale di Foggia:
De Biase, Oreste, La Biblioteca Comunale di Foggia, in «Accademie e Biblioteche
d’Italia», Roma, Libreria del Littorio, anno V (1931), pp. 279-282;
Urbano, Maria Rachele, Un fondo di Settecentine della Biblioteca Provinciale di
Foggia. Catalogo e cenni storici della Biblioteca. Tesi di laurea in Biblioteconomia e
Bibliografia. Relatore Prof.ssa Maria Gioia Tavoni. Università degli Studi di Bologna,
Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lettere moderne, Anno Accademico
1995-1996, Sessione estiva.
Ringraziamenti e dedica
Desidero ringraziare per la loro cortese disponibilità e gentilezza la Dott.ssa Marisa
Anzalone, Direttrice della Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avel58
Paolo De Caro
lino, la dottssa Marina Boni della Biblioteca Didattica d’Ateneo dell’Università degli
Studi di Macerata, la dott.ssa Chiara Fagiolo della Biblioteca Comunale Centrale di
Palazzo Sormani di Milano, le dott.sse Maria Rosaria Grizzuti, Emilia Ambra, Gabriella Mansi e il dott. Vincenzo Boni della Sezione Manoscitti (Carte Leopardi) della
Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli. Un ringraziamento speciale
va al Direttore, dott. Franco Mercurio, e al personale, molto rinnovato in questi ultimi anni, della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia, e in particolare
alle dott.sse Gabriella Berardi e Maria Musci, alla sig.na Doriana Scaramuzzi e al sig.
Alessandro Ursitti.
Dedico questo lavoro alla memoria del dottor Mario Giorgio, già direttore di questa
Biblioteca. Era un uomo onesto e un burbero benefico, amantissimo della famiglia
e della natia “poetica” Rocchetta. L’avevo conosciuto ai tempi degli oscuri ipogei di
Palazzo Dogana. Ma ci frequentammo soprattutto dai primi anni Novanta, quand’ero
sulle tracce di Irma Brandeis, l’ispiratrice americana di Montale. Eccezionalmente, un
sabato mattina, decidemmo, lui, Walter Celentano ed io, di andare a mangiare al “Cafone” di Melfi. Era una bella giornata di autunno: ci presero per tre allegri pensionati
in vacanza. Se gli chiedevi un consiglio bibliografico, cominciava a ruminare fra sé
e si chiudeva in un imbarazzante silenzio. Poi d’un botto s’alzava e ti diceva di seguirlo. Rosso di capelli com’era, scompariva tra gli scaffali con la circospezione e la
misteriosità di un riccio nella forra. E ti scovava il libro. Penso che gli avrebbe fatto
piacere sapere di questa mia notizia leopardiana, venuta fuori dai vecchi libri della sua
Provinciale.
59
Pasquale di Cicco
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara
(1541- 1642)*
di Pasquale di Cicco
A Mario Giorgio
Volturara Appula è un piccolo centro che sorge sul Sub-Appennino dauno,
è prossimo al Molise ed alla Campania, conta poco più di 500 abitanti, vive di
agricoltura.
«La cattedrale, nel cuore del paese, splendida nella sua pur spoglia facciata
e nel suo campanile tozzo, obbliga ogni nuovo venuto a sostare un po’. I ricchi
portali antichi, i numerosi stemmi, un trono episcopale, stanno a ricordare che
questo minuscolo paese d’oggi, per molti secoli e fino al 1818 è stato importante
Sede Vescovile ed ha avuto nella sua giurisdizione diversi paesi ora appartenenti
alla Diocesi di Lucera. Senza dire che c’è poi un noto Santuario – quello della
Madonna della Sanità – che richiama a sé tutto il Sub-Appennino».
Così, circa una sessantina di anni fa, veniva scritto di Volturara, «raggruppata
su una collina alle falde del monte Sambuco, bella per i suoi faggi e le sue querce,
per le sue ‘rimpe’ e le sue fonti».1
*
Nei lontani anni Sessanta del secolo scorso un mio conoscente mi portò in visione un fascicolo manoscritto
piuttosto malridotto, riguardante Volturara Appula, informandomi di averlo scovato in un mucchio di vecchie
carte giacenti in un angolo di un locale di quel comune, e che si riprometteva di colà riportarlo, una volta che
ne avessi valutato l’eventuale interesse e provveduto a ridarglielo.
La restituzione avvenne di lì a poco, preceduta da una microfilmatura e da una stampa su carta del fascicolo, e dopo di allora il documento volturarese cadde quasi nel dimenticatoio.
Recentemente però due cose lo hanno rimesso in evidenza: la prima, la notizia che la manovra economica
progettata dal governo in agosto ’11 prevedeva, fra l’altro, la fine dell’autonomia dei piccoli comuni, con una
popolazione inferiore ai 1000 abitanti (e sarebbe stato anche il caso di Volturara); la seconda, l’informazione,
ricevuta da sicura fonte, con la quale si veniva a sapere che esso non era presente nell’archivio di spettanza.
Ciò è stato di impulso per la divulgazione dell’importante documento posseduto in copia, diventato probabilmente un unicum, e potendosi così in qualche misura rimediare al danno della mancata restituzione da
parte del detentore, ormai da gran tempo deceduto.
La copia fotografica, già in mio possesso ed ora conservata nell’Archivio di Stato di Foggia, informa che il
fascicolo aveva la dimensione di mm. 140x212 ed era formato, indice a parte, di carte 74 numerate + 4 non
numerate. Evidenzia inoltre il suo cattivo stato in qualche parte, per macchie di umidità, pezzi mancanti,
margini deteriorati.
1
Annibale Facchiano, Il Sub-Appennino Settentrionale, in Collana di “Quaderni Turistici” a cura
dell’E.P.T. di Foggia, VII, Arti Grafiche Pescatore, Foggia, s.d., p. 25.
61
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
In effetti attestano che l’odierno modesto paese può vantare una storia molto
antica non solo la cattedrale romanica del XIII secolo, il santuario della Madonna
della Sanità risalente al XVI secolo, il palazzo ducale Caracciolo, anch’esso
cinquecentesco, o il palazzo Pignatelli, già sede della curia vescovile,2 ma anche
alcuni importanti documenti, tra editi ed inediti.
In altre epoche la stessa popolazione volturarese era ben più numerosa di
adesso, ma già nel 1479 «propter guerrarum turbines et alias calamitates que in hoc
regno notorie fuerunt Civitas ipsa Vulturariensis fuit et est distructa et disolata et
effecta est quasi inabitabilis et nullus in ea habitat nisi quidam Sclavones seu Albanenses in quibus nulla est spes firma circa eorum habitationem pro ut notorium
est»,3 come si legge nell’atto con cui Giacomo, vescovo di Volturara, cedeva in
enfiteusi e per un modestissimo canone metà della città a Giovannella di Molise.
Da costei e da Alberico I Carafa di Napoli, conte di Marigliano, nasce Giovan Francesco che, subentrato alla madre nel feudo pressoché deserto e volendolo
rendere redditizio, vi adduce nel 1517 una colonia di Provenzali, chiamati probabilmente tramite i compatrioti di Monteleone, altro feudo dei Carafa,4 attirandoli
con vantaggiose condizioni.
Dieci anni più tardi gli succede il figlio Alberico II, duca di Ariano, che sposa
Beatrice Carafa, ma, avendo parteggiato per i Francesi al tempo della spedizione
del Lautrech, subisce la confisca dei beni ed è costretto ad andare esule in Francia.
Beneficiario dei beni confiscati è Ferrante Gonzaga, uno dei capitani dell’esercito spagnolo, e la loro concessione viene confermata da Carlo V nel 1532.
Lo stesso anno, però, una sentenza riconosce Beatrice Carafa quale signora
del feudo di Volturara, nonché di Cercemaggiore nel Molise, essendo gli stessi
gravati di ipoteca per la sua dote, ed il 23 maggio la utilis domina concede molti
capitoli «a li provenzani che habitano et habitaranno in la … città di Volturara»,
il primo dei quali riconosce loro il diritto di poter vivere «secondo lloro usu et
2
La diocesi vescovile di Volturara, nata nel 969 con bolla di papa Giovanni XIII, ebbe fine a seguito del
Concordato del 21 marzo 1818 fra la Chiesa e il regno di Napoli. Per l’elenco dei suoi vescovi, cfr. Cronotassi
iconografia e araldica dell’episcopato pugliese, a cura dell’Unione Regionale dei Centri di ricerche storiche artistiche archeologiche e speleologiche di Puglia, Bari, Assessorato regionale alla Cultura, 1984, pp. 317-318.
3
Cfr. Nicola Checchia, I feudatari e i vassalli di Volturara, in Iapigia, anno XIV (1945), p. 27, per la citazione riportata da F.M. Zara, Per la Real Cattedrale, ed Università della città di Volturara, contro il vescovo
di quella Diocesi. Nella Suprema Giunta Ecclesiastica, Napoli 1798.
Nel suo pregevole studio questo autore esamina scrupolosamente i molti fattori ipotizzabili quali cause
determinanti della desolazione di Volturara (scorrerie dei saraceni stanziati a Lucera, terremoto del dicembre
1456, guerre, vescovi che abbandonano la città per risiedere a San Bartolomeo in Galdo, malaria), ma è costretto
a concludere che «il progressivo spopolamento di Volturara… rimane, ad onta delle molte, e tutte valide, ragioni addotte per spiegarlo, un fenomeno che sfugge ai nostri mezzi d’indagine. Anche perché allo stato attuale
delle nostre conoscenze noi non possediamo dei documenti probativi, anche se di semplice cronaca paesana, che
valgano ad assegnare al fenomeno, per tanti aspetti interessante, una causa bene accertata…» (p. 35).
4
A questa ipotesi si contrappone l’altra, fatta dall’Amabile, secondo la quale gli emigrati a Volturara non
erano in realtà dei Provenzali, ma Piemontesi della valle di Frassiniere e di altre valli alpine, al di là di Pinerolo, rifugio dell’eresia valdesiana (Checchia, cit., pp. 48-49).
62
Pasquale di Cicco
consuetudine et… maritare lloro figliole ad loro posta», mentre il capitolo 28
riconosce il diritto di emigrare altrove.5
Ma, volendo illustrare lo statuto dei Provenzali di Volturara concesso dalla
duchessa di Ariano, è sufficiente riportare testualmente il preciso compendio
fattone dal Ceci, in cui trovano sintesi i capitoli più importanti.
«Nei quali sono da notare soprattutto le disposizioni sulle libere proprietà
che si costituivano colle case, le vigne, gli orti e i giardini donati dal barone ai
Provenzali senza obbligo di alcuna prestazione e coi terreni dati per seminare
vincolati dalla sola prestazione della dodicesima parte dei prodotti. Accanto a queste
proprietà private si stendeva il demanio, sul quale tutti i coloni avevano il dritto di
legnare e di far pascolare da ogni specie di animali; la difesa dell’Università che era
riserbata ai buoi da lavoro; e la difesa baronale sulla quale sono pure riconosciuti
parecchi dritti dei coloni.
Questa non poteva ampliarsi mentre la difesa dell’Università sarebbe stata
allargata qualora il bisogno dell’industria agricola avesse ciò richiesto; e difese
temporanee potevano crearsi nel tenimento ad uso dei massari. Si aggiungevano,
sempre in vantaggio dell’agricoltura, l’anticipo della semenza pel primo anno
di coltivazione, minute prescrizioni di polizia rurale, la limitazione dei servizi
personali, la libertà di vendere il grano senza aspettare, come era prescritto in
altre città feudali, che il barone avesse venduto prima il suo, la libertà di uscire di
notte dalla città secondo richiedevano i lavori campestri, e l’obbligo dell’erario di
riscuotere sulle aie la dodicesima e di non molestare i coloni dopo che avessero
conservato il grano, e il divieto al feudatario di dar in pascolo ai maiali le spighe
rimaste nel campo dopo la mietitura essendo esse riserbate ai poveri. Riserbati
al feudatario erano la molitura (un ventesimo), il fornatico (un venticinquesimo),
ma non il jus tabernae, e libera era la caccia collo schioppo e le balestre, essendo
soltanto sottoposte a un piccolo contributo quelle coi lacci, le tagliole e i fossi.
Un solo articolo è dedicato al governo municipale, ma parecchi regolano
l’amministrazione della giustizia e la bagliva dalle quali si cerca di eliminare ogni abuso.
I Provenzali, nelle vicendevoli relazioni, si riserbavano di regolarsi secondo
le loro antiche consuetudini e ottenere la piena libertà nei matrimoni e quella di
emigrare: il feudatario, infine, prometteva di ottenere a loro l’esenzione dai pesi
fiscali per un decennio.
Nel complesso le condizioni fatte ai Provenzali appaiono migliori di quelle
che in quei tempi ottenevano i vassalli di altri comuni rurali.»6
5
Questi capitoli, rinvenuti nell’Archivio di Stato di Napoli, sono stati pubblicati nel 1917 da Giuseppe
Ceci con il titolo Lo Statuto dei Provenzali di Volturara (editore Vecchi di Trani, opuscolo fuori commercio).
Secondo lo studioso, la duchessa di Ariano Beatrice Carafa, più che concedere nuovi capitoli alla colonia
provenzale, in effetti confermava gli accordi che certamente erano stati presi anni prima, nel 1517, al tempo
dell’emigrazione. Lo statuto dei Provenzali consta di 82 capitoli che ebbero la conferma della duchessa il 24
maggio 1534 e l’approvazione sovrana il penultimo di febbraio 1536.
6
Ceci, cit., pp. 6-7.
63
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
***
Con i capitoli successivi a quelli della duchessa di Montecalvo che i vari
feudatari concessero alla città di Volturara nel Cinquecento e nel Seicento, rimasti
sinora inediti, il fascicolo manoscritto contiene anche:
- capitoli della portolania decretati dalla Regia Camera della Sommaria (18
novembre 1557):
- delibera consiliare relativa al mastro portulano (11 ottobre 1638,
lacunosa);
- notamento di tutte le vie, «tanto quelle che vanno per lo territorio, quanto
quelle che vanno alle vigne»;
- provvisioni della Camera della Sommaria sulla giurisdizione del portolano
(28 maggio 1639);7
- promesse di vari governatori di rispettare i capitoli dell’università (1722
ed anni successivi; originale);
- delibera consiliare riguardante la difesa dell’università (20 marzo 1729;
copia per notaio Paolo Tomaselli di Lucera);
- obblighi assunti dal dr. Baldassarre Guerra di Torrecuso, governatore
della città (4 marzo 1730; copia c. s.).
- obblighi assunti dai governatori Eustachio Trabuscia di Toro (20 febbraio
1758), Saverio Carapelle di Pietra Montecorvino (9 gennaio 1760),
Innocenzio Lombardi di Morrone (3 aprile 1762); originali;
- due provvisioni della Camera della Sommaria (3 marzo 1721 e 14 maggio
1739), dai testi lacunosi e parzialmente illeggibili (la seconda è copia
estratta dal notaio Tomaselli).
***
Nel 1538 il reggente della Vicaria Francesco Antonio Villano concentra nelle
sue mani il dominio diretto e quello utile del feudo di Volturara, avendo acquisito
il primo da Ferrante Gonzaga «con suo castello seu fortellezza e omnimoda
giurisdizione civile, criminale e mista, mero e misto imperio», ed il secondo per
cessione fattagli da Beatrice Carafa.
I capitoli che ora si pubblicano e gli atti del fascicolo sin qui elencati formano la copia di un originale che
il sindaco di Volturara Gabriele Campolattano presentò al notaio concittadino Antonio de Rosa e da questi
fu collazionata ed autenticata in tre momenti diversi, non si sa quando, ma dopo il 1693, come può dedursi
dalla carta 48r. del fascicolo stesso.
La trascrizione, dovuta ad un’unica mano e non priva di errori, specie nelle parti in latino, occupa le carte 1r.64r. del fascicolo, lasciando bianche le carte 40v.- 43v., 48v., 57v., 58r.e v.; mancano le carte 57v.-59r. Dalla carta
54 in poi le macchie presenti nella parte superiore diventano sempre più ampie, pregiudicando la leggibilità dei
testi. L’indice anteposto al tutto è alquanto disordinato verso la fine e mostra qualche aggiunta di altra mano.
Alla sinistra dei singoli capitoli si leggono “occhi marginali” che vengono omessi nell’edizione, ma sono
stati utilizzati per integrare la “Tavola delli capitoli”, qua e là manchevole.
7
64
Pasquale di Cicco
Il nuovo signore, spendendo 162 ducati, compra nel 1540 dalla Regia Corte
la giurisdizione delle seconde cause civili, criminali e miste e qualche tempo dopo
chiama altre famiglie di Provenzali a ripopolare maggiormente il suo feudo e fa
loro firmare altri capitoli che prevedono nuovi diritti feudali.8
I capitoli del Villano sono inizialmente 102, cui poi se ne aggiungerà un altro,
e tutti vengono presentati a Napoli l’8 gennaio 1541. Il 9 ed il 10 maggio successivo
ne vengono concessi altri due. Alla loro stipula provvede il notaio Antonio de
Trusianis di S. Bartolomeo in Galdo.
Essi confermano molti dei capitoli dati a suo tempo dalla duchessa Carafa tutti quelli più importanti - presentandoli addirittura nello stesso ordine già loro
proprio, ma molti sono innovativi e frutto di altri accordi dell’università con il
nuovo signore.
Sono tali quelli relativi alla vecita nel mulino della Corte, “da osservare
inviolabilmente” eccetto in due casi; ai doveri del camberlingo o alle spettanze del
capitano; al congruo esercitabile entro sei mesi dalla vendita del bene; all’utilizzo
e custodia dell’algaria; alla possibilità per i governanti cittadini di fare nuove
norme contri i danneggiatori di vigne ed altri fondi e di aumentare le pene già
previste; alla facoltà del figlio di famiglia o della moglie di muovere accuse, ma
solo se esse sono confermate dal padre o dal marito; al diritto dei cittadini di
poter macinare nei centimoli per uso proprio e per la vendita, senza nulla dovere
alla Corte, quando il mulino di questa è insufficiente a soddisfare l’università;
alla proprietà dei frutti degli alberi che cadono nei fondi altrui; all’eredità delle
persone che muoiono senza testamento e senza figli; all’obbligo degli ufficiali del
barone di tenere copia dei capitoli dell’università, esonerando questa dal doverli
presentare nella Corte, quando necessario; ai servizi che il giurato è tenuto a
prestare; alla possibilità di rimboscare quella parte del bosco demaniale messo a
coltura da alcuni privati, e dando a questi un’equivalente porzione di terreno in
altro luogo, ed altri ancora.
Questi capitoli vennero tutti confermati il 16 luglio 1548 da Vincenzo Carafa
dei duchi di Ariano, fratello del ribelle Alberico II, che aveva acquistato il feudo
di Volturara per il prezzo di 16500 ducati, ed ottenuto il regio assenso da parte del
viceré Pietro di Toledo.9
Nei tempi successivi il tentativo del nuovo barone di spogliare i cittadini
dei loro diritti sul bosco demaniale sfociò in una causa innanzi al Sacro Regio
Consiglio, cui pose termine una convenzione stipulata in Napoli il 20 novembre
1557 tra il Carafa e il procuratore dell’università Antonio Miotto.
Questa convenzione dava origine ad altri nove capitoli, stesi dal notaio
napoletano Aniello Mazza il 20 novembre 1557, e riguardanti i primi tre il bosco
8
9
Checchia, cit., p. 36.
Ibid., p. 37.
65
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
demaniale, e gli altri il pagamento annuo ed in tre rate della somma di ducati 60
che l’università avrebbe dato al feudatario in cambio delle due giornate di lavoro
dovute dai vassalli, la remunerazione di servizi personali prestati alla Corte, la
raccolta libera e gratuita delle ghiande nei luoghi da seminare, lo “sfreddo seu
mancamento” del vino e il “crescimonio” del grano della Corte.
Nel 1569 Bartolomeo Caracciolo acquista il feudo per ducati 29200 «con suoi
uomini e vassalli; intrade, ragioni, iurisdizioni, mero etc., cognizione di prime e
seconde cause, mercato solito a farsi e con annui ducati 81 de’ suoi pagamenti fiscali
etc.». Lo stesso anno, l’8 maggio, conferma ai volturaresi le concessioni del Villano
e del Carafa, concede un’ampia amnistia, e decide inoltre circa il vino della Corte e
suo smaltimento da parte del camberlingo e gli emolumenti della mastrodattia, con
quattro capitoli firmati in Volturara, cui ne seguirà un altro in data 16 ottobre.
Con diploma del 1589 Filippo II insignisce Bartolomeo Caracciolo del titolo
di marchese di Volturara, che di lì a poco passerà al figlio Giovanni Battista, a
favore del quale egli ha rinunciato al feudo.10
Il nuovo signore concede due nuovi capitoli il 9 maggio e l’1 novembre
1600, con il primo dei quali, aderendo ad una richiesta dell’università, ordina al
capitano ed al mastrodatti di rispettare la vigente pandetta dei diritti e le altre
disposizioni di legge, cessando ogni abuso, e con il secondo si occupa della Corte
del mastromercato, attiva durante la fiera di S. Luca, e delle contumacie che presso
di essa possono cancellarsi entro le 24 ore.
Giovanni Battista Caracciolo muore l’8 agosto 1623, lasciando erede il figlio
Francesco, che qualche anno dopo ottiene il passaggio del titolo marchionale
sull’altro suo feudo di Cervinara e vende nel 1628 Volturara a Fabrizio Montalto,
figlio del duca di Fragnito, per il prezzo di ducati 51188.11
Il Montalto stipula con l’università una nuova convenzione, formulata per
mezzo di 18 capitoli12 ai quali un pubblico parlamento, riunitosi a Volturara il
9 febbraio 1642, darà approvazione, essendo sindaco Michele Aglialdo, ed eletti
Gabriele Barone, Filippo Lantare, Laurenzo Briante e Pietro Giarrusso.
Questi capitoli sono gli ultimi concessi ai volturaresi dai loro feudatari.
Dopo i Montalto, infatti, gli ultimi signori di Volturara, dal 1696 alla fine del
feudalesimo - Pompeo Pignatelli duca di Montecalvo e i suoi eredi e successori non stabiliranno altre intese con l’università, ma intesseranno con essa un rapporto
teso e spesso litigioso.13
Ibid., p. 38.
Ibid., pp. 39-40.
12
Questi esibiscono stranamente una erronea numerazione; inoltre alcuni di essi ripetono nella sostanza,
con qualche variante e precisazione, quanto gia detto in altri precedenti (così, ad es. il cap. 128 rispetto al 122,
il cap. 129 rispetto al 123, ecc).
13
Checchia, cit., pp. 43-44.
10
11
66
Pasquale di Cicco
Tavola delli capitoli
Libertà di vivere a loro uso
Case, vigne, et horti franchi
Terraggi d’ogni dodeci uno
Libertà di vendere case, et altre
Concessione di defesa
Al molino vecita d’ogni venti uno
Al molino preferito il padrone
Furno e furnatico
Grano inpronto
Libertà di tagliare al domanio
Tagliare et affrondare
Pena alla defesa dell’università
Accrescere detta defesa
Non si faccia difesa per l’università
Farsi casali
Forno alli casali e furnatico
Libertà di eligere il (governo)
( Mutar il capitanio e stare al sindacato)
Erario riceve li terraggi
Camerlingo conserva le vittovaglie della Corte
Il camerlingo e sindico franchi
Il camerlingo franco de casata
Il camerlingo non deve far pane
Come si comandano dal barone i cittadini
Forastieri non possono pascolare alla spica
Fare osteria
Ricogliere glianda
Entrare alla difesa a fida
Civili non si tengono priggione
Carcerati non extrahantur
Stornare l‘accuse fra tre dì
Quello si deve al capitanio
Le cause minime del camerlingo
Del reggere Corte
Lunedì franco
Macellare il sabato
(Carne) mortacina a pezzate
(Pondere) delli catapani
(Quanto si paga) di scannagio
(Dannificanti)
67
c. 1
c. 2
c. 3
c. 4
c. 5
c. 6
c. 7
c. 8
c. 9
c. 10
c. 11
c. 12
c. 13
(c. 14
(c. 15
(c. 16
(c. 17
(c. 18
c. 19
c. 20
c. 21
c. 22
c. 23
c. 24
c. 25
c. 26
c. 27
c. 28
c. 29
c. 30
c. 31
c. 32
c. 33
c. 34
c. 35
c. 36
c. 37
c. 38
c. 39
c. 40
f. 1
f. 1
f. 1
f. 1
f. 1
f. 1
f. 2
f. 2
f. 2
f. 2
f. 2
f. 3, e …
f. 3
f. 3)
f. 3)
f. 3)
f. 3)
f. 4)
f. 4
f. 4
f. 4
f. 4
f. 4
f. 4
f. 5
f. 5
f. 5
f. 5
f. 5
f. 6
f. 6
f. 6
f. 6
f. 6
f. 6
f. 6
f. 6
f. 6
f. 7
f. 7
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
(Pesi e misure)
(Libertà di vendere)
Pena de lemiti
Bestie a far danno a vigne piene
A vigne vendemiate
Porci a far danno da poi vendemiate
Danno all’aire et acchii
Bestie impastorate
Chi passa per lavore seminato
Chi va per le vigne et orti
Porci vicino alle fontane
Bestiame menute a far danno
Pena de porci a padule
Animali minuti a lavori dove non v’è
danno non si paga pena
Che ogni cittadino possa andare o legnare
al bosco di S. Antonio ogni sorte d’arbori
tanto fruttiferi quanto infruttiferi senza
licenza doversi […] la causa
perché può fare detto taglio senza licenza
Lo palo dal baglivo
Coglieri quanto paghino
Frutti, sale, e legume durante (venti)quattro
hore non si possono comprare
Doppia pena alla vigna della Corte
Pena di rompere fratte
Pena alle mete
Rompere fratte, e mete
Li catapani pongono li frutti
Libertà di vendere, e dishabitare
Libertà di vendere vittovaglie
Il cittadino leva la roba al forastiero comprata
Pena alla difesa della Corte de bestiame
A detta difesa pena de bestie minute
Pena de ingiurie
Pena de giochi
Pena de tumulto
Caccia
Casalini
Congruo
Succedano l’heredi
Tutti servono
68
c. 41
(c. 42
c. 43
c. 44
c. 45
c. 46
c. 47
c. 48
c. 49
c. 50
c. 51
c. 52
c. 53
f. 7
f. 7)
f. 7
f. 7
f. 8
f. 8
f. 8
f. 8
f. 8
f. 8
f. 8
f. 8
f. 9
c. 54
f. 9
c. 123
c. 55
c. 56
f. 31
f. 9
f. 9
c. 57
c. 58
c. 59
c. 60
c. 61
c. 62
c. 63
c. 64
c. 65
c. 66
c. 67
c. 68
c. 69
c. 70
c. 71
c. 72
c. 73
c. 74
c. 75
f. 9
f. 9
f. 9
f. 10
f. 10
f. 10
f. 10
f. 10
f. 11
f. 11
f. 11
f. 11
f. 11
f. 11
f. 11
f. 11
f. 12
f. 12
f. 12
Pasquale di Cicco
Franchi dall’università
Quanto si può entrare alla difesa di Corte
L’algaria
Libertà dell’algaria
Libertà d’andare senza fuoco per la terra
Demanio
Libertà di fare statuti
Libertà de cogliere, et (abbattere) frutti nelli
campi e possessioni
Fontane per le spese fatte per publico beneficio
Fare consegli
Libertà de macinare a centemoli
Quanto si paga al centimmolo
Contribuire a fare l’inforzi
Figlio fameglia, e moglie non possono accusare
Gl’ albori si stendono nelle possessioni d’altri
Contusione con effusione di sangue
Manco de quindeci anni facendo sangue
Chi taglierà herba a paduli
Libertà d’andare ad habitare
Libertà ut supra, e tenere le robbe alla Volturara
Li più propinqui hereditano
La Corte carrea la parte sua dall’aire
Pena de bestia grossa a paduli
Aggiuto ad impetrare il reggio assenzo
Non siano tenuti mostrare ogni volta li capitoli
Franchi di scannagio
Scannagio di vitella e vitello
Il giurato non sia tenuto al capitanio a servitii privati
Pena stabilita alla difesa dell’università, alla Corte,
et università
Che se lasa il cacciato nel destretto del demanio
Libertà de bosco di demanio per la mità della banna
de lavorie de Viani
Libertà all’altra banda di detto bosco eccetto pascere,
e gliandare da Santo Angelo di settembre per li 15
di febraro
Pena nella detta mità
Accordio per le due giornate prestande se pagano
ducati sessanta l’anno
Che per li servitii la Corte in territorio segui il solito
69
c. 76
c. 77
c. 78
c. 79
c. 80
c. 81
c. 82
c. 83
c. 84
c. 85
c. 86
c. 127
c. 87
c. 88
c. 89
c. 90
c. 91
c. 92
c. 93
c. 94
c. 95
c. 96
c. 97
c. 98
c. 99
c. 100
c. 101
c. 102
c. 103
f. 12
f. 12
f. 13
f. 13
f. 13
f. 13
f. 13
f. 13
f. 14
f. 4
f. 14
e c. 131
f. 14
f. 14
f. 14
f. 15
f. 15
f. 15
f. 15
f. 15
f. 15
f. 16
f. 16
f. 16
f. 16
f. 16
f. 16
f. 17
f. 17
c. 104
c. 105
f. 18
f. 18
c. 106
f. 21
c. 107
c. 108
f. 21
f. 21
c. 109
f. 22
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
darsi da cittadini e fuora territorio quello comanda la
regia pramatica
c. 110
f. 22
Toccolare gliande dove si semina
c. 111
f. 22
Fare buono il sfreddo del vino
c. 112
f. 23
Restino firmati tutti i capitoli
c.113, e 114 f. 23
Confirmatione de capitoli
c. 115
f. 26
Indulti
c. 116
f. 26
Che il camberlingo non habia carico del vino
c. 117
f. 26
Che la pandetta non s’habbia da partire tra
capitano e mastrodatti
c. 118
f. 26
Accordio di fare il camberlingo che haverà peso
di ricevere e smaltire le vittovaglie e per il dare
paglia, e legna al capitanio sono date le taverne
c. 119
f. 27
Che si osserva la panneta nelle cause minime
c. 120
f. 28
Che alla feria di Santo Luca se osserva la pannetta
c. 121
f. 29
Per le contumatie nella fiera di San Luca come
all’altre ferie
c. 122
f. 29
Pandetta da osservarsi dalli mastrodatti presenti e
futuri colla pena del doppio et altro riserbato ad arbitrio
et questo s’intende anco nella fiera di S. Luca nel mastro
mercato confirmato nella Pietra Monte corvino sotto la
data dalli 8 di marzo nell’anno 1642 con la firma della B.
et del sig. Duca di Fragnito nell’ultimo foglio
f. 44
Il giurato per li servitii privati
c. 103
f. 17
Li cittadini possano andare a legnare nella difenza di
Santo Antonio
c. 123
f. 31
Non si possano commandare li cittadini delli
commandamenti personali
c. 124
f. 31
Condottura di macine del molino aspetta al padrone c. 125
f. 31
Dove il padrone promette fare osservare la pannetta
dalli capitani e mastrodatti e capitoli
c. 126
f. 31
Il territorio doppo sette anni non coltivato il padrone
possa dispenzare
c. 127
f. 32
Li cittadini possano fare ogni sorte d’animali
c. 127
f. 32
Quelli che sono soliti alli commandamenti
c. 128
f. 33
Concessione della defenza assoluto della università
c. 122
f. 30
Condotture di macine a sue spese
c. 109
…
Osservatione de capitoli
c. 130
f. 34
Il territorio doppo sette anni non coltivato
c. 132
f. 35
Ieffare erba
c. 133
f. 36
Tenere animali
c. 134
f. 36
Per li memoriali spedite di gratia
c. 136
f. 36
70
Pasquale di Cicco
Causa per cui si pagano ogni anno alla Camera
Ducale li docati 83.45.0
c. 131
f. 34 tergo
Iesus Maria Ioseph
Capitoli, patti, conventioni, gratie, statuti legge, leggi municipali della città
della Volturara, col nome d’Iddio se adimandano all’eccellente signore Francesco
Saverio Villano de Napoli utile signore di detta città per il camberlingo, sindico,
eletti, università et huomini detti vulgarmente Provenzani quali habitano nella città
della Volturara e nelli casali quali se edificassero nel territorio de detta città di V. E.
e sono l’infrascritti.
1
In primis supplicano Vostra Eccellente che se degni gratiosamente e benignamente concedere alli detti università et huomini di detta città tanto presenti che
habitano, quanto quelli che in futurum ce habitaranno possino vivere liberamente
secondo lor uso, consuetudine, stili e riti sincome sin al presente hanno vissuto et
signanter che possino maritare et insorare loro figli e figliole ad arbitrio e volontà
delli padri, fratelli et altri a chi spetterà maritare et insorare loro figli, et altri. Placet.
2
Item supplicano Vostra Signoria Eccellente voglia concedere a quelli che
sono venuti e che in futurum veneranno ad habitare in detta città a detti Provenzani
case, vigne, horti e giardini franchi e liberi e senza alcun pagamento et altro peso
de qualsivoglia modo. Placet concedere Provenzanis qui in posterum venient ad
habitandum in dicta civitate tantum terrae quod sufficiat pro domibus, vineis,
iardenis et hortis, et cum hoc tamen pacto quod teneantur infra competens tempus
statuendum aedificare domos et plantare vineas et similiter providere illis qui iam
de novo venerunt et eis huc usque non fuit provisum.
3
Item supplicano V. S. Ecc.te si degni concedere a detti Provenzani presenti e
futuri tanti territorii da seminare grani, orzi et ogni altra vittovaglia che vorranno
che sia per lor basto, et alla ricolta faranno de dette vittovaglie non siano tenuti
respondere né dare a V.S. Ecc.te salvo de ogni dodeci uno, sincome è solito e
consueto, e così a suoi heredi e successori. Placet prefatis civibus presentibus et
futuris, quibus non fuit sufficienter provisum, providere et concedere tantum terrae
quod eis sufficiat designandum per officiales seu alios deputandos ad id per nos,
pro quibus teneantur respondere de singolis duodecim tumulis tumulum unum
Curiae.
71
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
4
Item supplicano V. S. Ecc.te si degni concedere a detti Provenzani presenti
et futuri habitatori che possino liberamente e senza impedimento alcuno vendere,
alienare, dare in dote, lasciare in testamento l’uno all’altro dette case, vigne, territorii,
riservando sempre le ragioni della Corte cioè il terraggio de ogni dodeci tommola uno,
come è detto. Placet inter cives tantum, salvo tamen dominio Baronalis Curie, ac salvo
iure exigendi de fruttibus dicti territorii de singulis duodecim partibus unum, ut supra.
5
Item supplicano V. S. Ecc.te si degni farli continuare nella pacifica possessione
et quatenus opus est di nuovo concedere della difesa della Ripa delli Corvi per loro
bovi, et altre bestie domite, e che sia ampliata, et allargata sincome era nel tempo
del sig. duca Alborico iovene per fin dove si dice la via di Castelvetere e che in detta
difesa non ci possono né debbiano pascolare bestie forastiere, sincome è costumato
per il passato. Placet confirmare dictam defenziam dicte universitati tenendam per
eam et homines ipsius, pro ut attenus extitit consuetum; quo vero ad ampliationem
dictae defentiae, viso loco, oportune providebitur.
6
Item supplicano V. S. Ecc.te non li faccia pagare de molitura nel molino
della Corte più che d’ogni vinti uno come è lor solito, che in quello non possino
macinare forastieri quando ci sarà grano delli cittadini, ecetto con volontà e licenza
del cittadino al quale tocca la vecita del macinare per causa della penuria sull’acqua
e che nesuno di detta città habbia la vecita se non il capitanio, e che la Corte sia
tenuta tener molinaro a sue spese. Placet quod servetur vicenna seu vecita inter
omnes, quo vero ad solutionem attento quia universitas tenetur asportare molas suis
sumptibus in dicto molendino, et aptare aquae ductum, placet quod non exigatur
nisi de singolis viginti partibus unam tantum.
7
Item supplicano V. S. Ecc.te se degni concedere che fra li cittadini et habitatori
della detta città della Volturara s’habia da osservare inviolabilmente la vecita nel
molino della Corte talmente, che l’uno non possa levare la vecita all’altro, ancorchè
fosse clerico seu qualsivoglia privileggiata persona, eccetto quando bisognasse
macinare per bisogno de V.S. Ecc.te e sua famiglia e capitanio. Placet.
8
Item supplicano V. S. Ecc.te se degni habiano da pagare al fornaro della […]
della Corte per la cocitura del pane se non de ogni venticinque uno per lo furnatico,
sincome è solito e consueto, e che la Corte sia tenuta tenere la fornara a sua spese.
Placet attento quod quilibet coquere volens panem in dicto furno teneatur asportare
ligna necessaria.
72
Pasquale di Cicco
9
Item supplicano V. S. Ecc.te si degni far improntare grani et altre vittovaglie
alli Provenzani che in futurum venessere ad habitare in detta città per lo primo
anno, attale possono havere alcuno principio de guadagnare per poter vivere per
habitare. Placet.
10
Item supplicano che possano tagliare per tutto il demanio di detta città legna
per le loro case e massarie, e quando non se trovassero legnami nel demanio sia
lecito a detta università et huomini posserno liberamente e senxa impedimento
alcuno tagliare per detto loro uso alla difesa della Corte. Placet quo ad domanium,
quo vero ad defentiam quando casus occurret cum nostra (licentia) vel nostri
officialis.
11
Item supplicano V. S. Ecc.te si degni restar contenta che al domanio di
detta città li cittadini possono tagliare liberamente per ogni lor uso e necessità de
industrie et uso proprio de case, massarie, per fuoco, e per chiudere possessioni
qualsivoglia sorte de albori, ma per affrondare bovi non si habbia da tagliare cerri
né cerque dal piederone ma solo li rami. Placet pro usu tantum hominum dicte
civitatis.
12
Item supplicano che, ritrovandosi bestie forastiere nella difesa dell’università,
sia tenuto il padrone di dette bestiami pagare grana cinque per bestia grossa, e
per bestia minuta grano uno, e detta pena s’habbia d’esiggere per il capitanio, et
esatta habbia da entrare in darsi in potere dell’università da convertire nella fabrica
e beneficio di detta università. Placet quod exigatur pena solita et consueta quae
applicatur Curie Baronali.
13
Item supplicano V. S. Ecc.te che se degni promettere che, venendo in
augumento detta città così de habitatori come de animali, di modo che non bastasse
per loro bovi la difesa, che detta università tiene al presente, la vogli ampliare et
allargare, tanto che sia in bastanza per uso delli bovi di detta università. Aucta
unversitate providebitur.
14
Item supplicano V. S. Ecc.te che per l’avenire non facesse altra difesa che
quella che tiene al presente, né tampoco farla fare ad alcun altra particolare persona.
Placet.
73
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
15
Item supplicano V. S. Ecc.te che per il tempo da venire gl’homini di detta
città, o altri Provenzani che di nuovo venissero e volessero far casali nel territorio
di detta città, et in quelli habitare per loro meglio comodità possino e li sia lecito
e senza contradittione potere habitare in detti casali e stare alli capitoli, statuti
e consuetudine che staranno quelli che habitano dentro detta città. Placet quod
casalia edificanda edificentur in loco congruo et concedenti designando per Baronem
et utilem Dominum dicte civitatis.
16
Item supplicano V. S. Ecc.te che per il tempo da venire si facessero alcuni
casali nuovi nelli detti tenimenti di detta città, e non volendo la Corte farce forni,
sia lecito a quelli che habitaranno in detti casali farseli essi, o alcuno di essi furno a
loro volontà per cocere loro pane senza impedimento né pagamento alcuno, però
volendo farli la Corte habiano da pagare per lor pane quale ci cuoceranno di ogni
cinquanta uno. Placet, et si non construet seu construi faciet furnum in casalibus
in posterum aedificandis, non possit alibi coqui panis servatur intus civitatem, et
similiter solvatur pro ut solvitur in furno civitatis itaquae utrobiquae aequaliter, et
eodem modo exigatur.
17
Item supplicano V. S. Ecc.te che possino eliggire ogni anno in capo del
tempo, che alli otto di settembre tre huomini da bene per il reggimento di detta
città delli quali la Corte ne possa eliggere uno per camberlingo, e l’altri due restino
per sindeci e dopoi detto camberlingo e detti sindeci possono eliggere gli altri, che
bisognano al governo di detta città. Placet quod officiales pro reggimine civitatis
libere eligantur per universitatem iusta forma Regiae Pramaticae, convocata
universitate ut moris est.
18
Item supplicano V. S. Ecc.te se degni far mutare ogn’ anno il capitanio, che
manderà in detta città e fenito l’anno habbia da stare a sindicato, e che le composte
se faranno s’habbiano tutte da notare nel libro seu nell’atti per lo mastro d’atta, et
anco nel libro dell’erario e s’habbiano d’esiggere per l’erario, e quando s’esiggono
se n’habbia a far polisa de recepto per l’erario se saprà scrivere, e se non per il
mastrodatta della Corte senza pagamento alcuno. Placet.
19
Item supplicano V. S. Ecc.te che l’erario sia tenuto ricevere li grani, orzi et
altri vittovaglie appartinentino alla Corte nel tempo dell’aire, e restando da esse
esigere dalli massari di detta città possino detti massari lasciarli a suo risico et
74
Pasquale di Cicco
interesse in dette, e che non li possa sfossare né fare sfossare dalle fosse de detti
massari. Placet, requisito tamen erario tempore congruo, et abili.
20
Item supplicano V. S. Ecc.te che detti grani et altre vittovaglie, che
specteranno a V. S. Ecc.te e sua Corte, dett’erario l’habia da conservare e tenere
in suo potere, fortuna et risico, di maniera che il camberlingo non li sia tenuto
a darne conto alcuno, né tenerne carico o altro peso per esserne occupato et
impedito all’ufficio suo e servitio della terra. Placet quod conserventur per
camerarium iusta solitum.
21
Item supplicano V. S. Ecc.te che nullo de detti cittadini et habitanti sia esente
o franco dalli commandamenti e servitii che si devono alla Corte et alla terra,
eccetto il camberlingo e sindeci secondo ab antiquo e, quando occorre il bisogno,
ciascuno s’habbia a comandare pro rata e pro rata sia tenuto fare il debito servitio.
Placet.
22
Item supplicano V. S. Ecc.te che, per li molti affanni have il camberlingo
per servitio della Corte e dell’università, sia franca tutta sua casata d’ogni e
qualsivoglia sorte de comandamenti, tanto per servitii della Corte, come della terra
per quell’anno sarà all’officio di camberlingo. Placet.
23
Item supplicano V. S. Ecc.te si degna concedere che, accascando fare pane
per servitio della Corte, non sia stretto il camberlingo a far fare detto pane ma
solum consignare il grano all’erario, attento che il camberlingo è occupato ad altri
negotii e serve senza salario. Placet.
24
Item supplicano che non possino né debbiano esser comandati, né astretti a
nulla sorte de comandamenti, né de servitii angarii e perangarii, eccetto delle due
giornate et il luoco dove possino ritornare ogni sera alle loro case, e delle dette
due giornate non possino esser comandati con buovi, e non pigliando la Corte
dette due gionate l’anno seguente non le possa dimandare. Placet, immodo recipere
dictas duas dietas quolibet anno a quolibet vaxallo sine salario et sumptibus, et ultra
dictas duas dietas non possint compelli ad praestandum servitia nisi mediante iuxto
et convenienti salario, videlicet in territorio dictae civitatis Vulturariae solvatur
servientibus id quod ab aliis solvitur et solvi consuevit per alios cives dicte civitatis,
in reliquis servetur forma Regiae Pramaticae.
75
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
25
Item supplicano V. S. Ecc.te che la Corte non possa fidar porci a loro
laboranzi ciovè alla spica ma detta spica habbia da essere dell’università, attale li
poveri la possono ricogliere per loro sustentatione. Placet quod servetur id quod
solitum fuit tempore olim Ducis Areani.
26
Item supplicano che possino vendere pane, vino, et ogni altra cosa, et fare
taverna, hostaria senza pagamento, né altro impedimento. Placet.
27
Item supplicano V. S. Ecc.te che possino pascolare, gliandare, e ricogliere
glianda per tutto il tenimento della Volturara con ogni natura de bestiame per tutti
i tempi dell’anno salvo alla difesa della Corte. Placet quod dicti vassalli possint
pascolare totum territorium Vulturariae exceptis difentia Curiae, et nemoribus
tempore […], in quo non liceat pascolari ultra numerum porcorum quinque pro
quolibet vaxallo retinente proprium foculare, et quod in dicto nemore possint
colligere glandes pro eorum usu, iusta solitum et consuetum.
28
Item supplicano che se alcuno rompesse gliande et erbaggi della difesa della
Corte, che li cittadini quando se romperà li possino entrare con quella sorte de
bestiami, che entrarono li compratori e fidatori pagando le due parti de quello
pagarando detti compratori o fidatori, e questo s’intende tanto se se rompa a
compra, o a fida. Placet quod universitas et homines dictae civitatis concordent
se cum em(p)toribus dicte difentiae quando emptores dicte difentiae immictunt
propria animalia in ea, quando vero affidare vellent dicti emptores animalia aliena
in ditta difentia interponit partes suas ut potius animalia civium, quas exterorum
per emptores dicte difentiae affidentur in ea.
29
Item supplicano V. S. Ecc. che per qualsivoglia causa civile gli officiali di V.
S. Ecc.te non possino detinere nesuno carcerato offerendo sufficiente preggiaria de
stando iuri, et civile s’habbia da intendere tutte cause pecuniarie, e non s’habbiano
da reservare se non dove se meritasse patere de persone. Placet, exceptis poena
et debito debitis vigore obligationum, et praesentationum instrumentorum
liquidorum, et in obedientia officialium qui pro tempore erunt in dicta civitate, pro
aliis autem poenis pecuniariis Curie applicandis. Placet quod nemo ante sententiam
seu decretum carceretur si voluerit prestare idoneam cautionem pro ut iuris erit.
30
Item supplicano se alcuna persona facesse errore o questione, come accade
76
Pasquale di Cicco
uno con l’altro, gl’officiali di V. S. Ecc.te non li possino mandare priggione in altre
priggionie, che dentro la Volturara per qualsivoglia causa, etiam criminale. Placet.
31
Item supplicano V. S. Ecc.te che quando alcuno o alcuna di detta città
accuserà un altro di qualsivoglia questione o differentia habbia tempo tre dì a
pentirse e ritornare detta accusa e che il capitano, baglivo, o altro officiale non
possa procedere all’esatione della pena né a fare atto nullo durante li tre dì preditti,
e questo si debia intendere che se possa pentire, e stornare ogni causa pecuniaria,
et solum resta a non poterse stornare dove meritasse patere de persona. Placet ubi
veni(t) imponenda poena pecuniaria.
32
Item supplicano V. S. Ecc.te non siano tenuti a dare altre subventioni alli
officiali di V. S. Ecc.te che al capitanio trentatre libre di paglia il giorno e ducento
sussanta passi de legne l’anno, e detta paglia siano tenuti darla dì per dì per il
presente, ma havendo l’officiale stantia dove possa riponere detta paglia ce la
debbiano portare nel tempo dell’aira tutta. Placet.
33
Item supplicano V. S. Ecc.te se degni restare contenta che, de qualsivoglia
differenzia civile che haveranno uno cittadino con l’altro, la prima causa si debbia
da vedere avanti al camberlingo e quando non si potessero accordare avanti detto
camberlingo sia poi in libertà avanti il capitano, e detto camberlingo sia tenuto
reggere corte ogni lunedì quando sarà ricercato, e chi non anderà al camberlingo de
simile cose preditte avanti che al capitanio sia in pena de uno tarì alla Corte. Placet
quod in damnis datis procedatur coram camerario, et in minimis videlicet infra
augustalem possit camerarius adiri pro conservatione iuxtitiae.
34
Item supplicano V. S. Ec.te se degni restar contenta che il capitanio non
debbia né possa regere corte se non un dì della settimana, cioè il sabato. Placet
quod regatur curia semel in hebdomada in die sabati in causis civilibus.
35
Item supplicano che il lunedì sia franco de qualsivoglia mercantia, e chi
comprerà il lunedì possa cacciare detta mercantia franca. Placet quod observetur
solitum et consuetum.
36
Item supplicano V. S. Ecc.te se degni concedere che ogn’uno possa macellare
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Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
il sabato lor carne franca per vendere e l’altri dì solum per uso de loro case. Placet
quod observetur solitum et consuetum.
37
Item supplicano le carne mortacine non se possano vendere se non a pezzate
tanto de cittadini, come de forastieri, e che sorte di carne se sia e chi farà il contrario
paga un carlino al baglivo di pena per volta. Placet.
38
Item che ogni carne che se ammazzerà alla bucceria per vendere s’habbia da
pondere per li catapani, e chi facesse il contrario sia in pena de uno tarì per volta,
eccetto se fosse data stabilita per gl’homini di detta città. Placet.
39
Item supplicano che non habiano da pagare del scannagio del bestiame se
ammazzerà per vendere la carne alla bucceria de altri dì che lo sabbato, se non
all’infrascritto modo videlicet de bovi a bacca grana cinque, e di quelle infra annum
la mità, e per porco grana tre, e per bestia pecorina o caprina tre tornesi per besta.
Placet quod observetur solitum et consuetum.
40
Item supplicano V. S. Ecc.te che ritrovandosi bestie et hu(o)mini de
qualsivoglia conditione se siano a fare danno in vigne, horti, campi, o in altro luoco,
che sia lecito alli padroni de posser pigliare e porta(re) in potere del baglivo, e dallà
non s’habbiano da partire fin che non siano soddisfatti del danno patito, se saranno
forastieri, e se sonno cittadini che s’habbia da pagare al tempo solito. Placet exceptis
affidatis et emptoribus nemorum et defentiae dictae civitatis qui trattentur ut cives
in hoc tantum praestita tamen idonia cautione per praedictos affidatos et emptores
de solvendo damnum.
41
Item supplicano che ogni persona di detta città possa tenere pesi e misure
iuste et honeste, e detti pesi se le possono imprestare l’uno all’altro tra essi cittadini,
et ancora a forastieri, che pratticassero in detta città, e detti pesi e misure s’habbiano
dal baglivo senza pagamento alcuno et attale non siano defraudati per malitia dalli
baglivi l’originale de detti pesi e misure habbia di stare impotere del sindico o altro
de baglivi. Placet.
42
Item supplicano che ogni cittadino possa vendere qualsivoglia sorte di suoi
beni, mercantie, animali et ogni altra cosa, e così comprare dentro e fuora de detta
città a loro arbitrio, facendolo però intendere la venditione che si facesse de fuora al
78
Pasquale di Cicco
baglivo attale che non sia de fraude la venditione che si farà da fuora, et se perdesse
detta gabbella sia tenuto il venditore pagare esso detta piazza seu gabella al detto
baglivo. Placet et in casu fraudis exigatur pena pro ut iuris.
43
Item supplicano che alcuno rompesse limiti de possessioni overo levasse
termini, sia in pena de quindeci carlini alla Corte. Placet.
44
Item quando si trovassero bestie grosse a far danno alle vigne, dal primo
d’aprile fino a che saranno vendemmiate, s’habbia da pagare il danno al padrone, e
grana cinque de pena per bestia, però se saranno accusate. Placet observari solitum
et consuetum.
45
Item supplicano V. S. Ecc.te che se saranno trovate bestie grosse nelle vigne,
doppo che saranno vendemmiate fino al primo d’aprile, siano in pena de due grana
e mezzo se saranno accusate per il padrone e bandite le possessioni, e sempre il
danno al padrone. Placet.
46
Item supplicano se saranno trovati porci a far danno in dette vigne, dopoi
che saranno vendemmiate per fino al primo d’aprile, et essendono accusati per il
padrone pagarà per porco grana uno, e se saranno pecore o capre in detto tempo
pagano uno tornese per bestia, et il danno al padrone. Placet.
47
Item quando se trovassero bestie grosse cavalline o baccine a far danno
all’aire et acchii al tempo de ricogliere, essendono accusate per il padrone, non
possino pagare più de grana cinque per bestia et il danno al padrone, e se saranno
porci similmente grana cinque per porco all’aire, e se saranno pecore o capre uno
tornese per bestia. Placet.
48
Item supplicano se saranno trovate bestie impastorate a far danno nelle
possessioni iuxta l’argaria o in strade publiche non siano tenute a pena nesuna, ma
solum il danno. Placet.
49
Item supplicano se alcuno passasse per alcuno lavoro seminato, e passasse
con bestie, o rompesse fratte sia in pena alla Corte, essendo accusato, de grana
cinque per bestia grossa, et il danno al padrone. Placet.
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Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
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Item se alcuno sarà trovato per alcuna vigna dal primo d’agosto durante
l’uve, et essendo accusato per il padrone, sia in pena da quindici carlini, e della
frusta andandoce di notte, e similmente all’ orti, e de giorno carlini cinque, salvo
tamen che se habbia consideratione alla qualità della persona. Placet.
51
Item se saranno trovati porci vicino alle fontane ventiquattro canne, dopoi
mese maggio per fino a mezzo settembre, sia in pena alla Corte di tre carlini per
morra. Placet.
52
Item se pecore o capre saranno trovate far danno per li campi e paduli,
essendo accusate per il padrone, siano tenuti pagare alla Corte di pena un tornese
per bestia, ma se vanno in paduli, della mità de febraro fino non siano falciati, siano
in pena de uno grano per bestia, però se saranno guardate a posta sempre il danno
al padrone. Placet.
53
Item se saranno trovati porci nelli paduli, come detto, dalla mità de febraro
perfino che siano falciati, essendono accusati per il padrone pagano uno grano
per porco, e l’emenda del danno al padrone, e detti paduli, non essendo falciti,
s’habbiano da guardare perfino a Santo Pietro de metere. Placet.
54
Item se alcuno de detti animali minuti saranno trovati a far danno alli lavori,
essendono accusati per il padrone, non siano tenuti di pena se non de grana uno per
bestia (et) il danno al padrone, et in ogni accusa tanto del presente capitolo, quanto
delli sopra detti s’intenda che sempre s’habbia da apprezzare il danno, e dove non
si trova danno non siano a pena alcuna tenuti. Placet.
55
Item supplicano V. S. Ecc.te si degni ordinare che il baglivo ogn’anno habbia da
ponere il palo dove sarà deputato per l’eletti di detta città in ciascheduna porte dove
s’haverà da portare la immonditia, e chi non portasse detta immonditia a detti pali,
essendo trovati per il baglivo buttarla in altro luoco che al palo, siano in pena de un grano
per volta, e chi volerà portarlo a sue possessioni le sia lecito senza pena alcuna. Placet.
56
Item venendo coglieri in detta città a vendere loro robbe, come sono setazzari,
soffranari, chiavettieri et altri coglieri, non habbiano da pagare cosa alcuna. Placet
ad nostrum beneplacitum.
80
Pasquale di Cicco
57
Item supplicano V. S. se degni concedere che, venendono forastieri a vendere
in detta città frutti, sale, legume, agrume e qualsivoglia sorte di robbe, nesuno possa
comprarla a fine di rivenderle per fino siano passate ventiquattro hore, et accattandoli
dopoi che haverà comprato a venderle, sia tenuto venderne a chi ne volesse per quel
medesimo prezzo che l’haverà comprata per hore ventiquattro. Placet.
58
Item supplicano V. S. Ecc.te se degni restare contenta che, entrando alla vigna
della Corte huomo o donna, o qualsivoglia sorte di bestiame, non siano tenuti
ad altro che alla doppia pena de quello se pagava all’altre vigne delli cittadini, e
l’emenda del danno. Placet.
59
Item supplicano V. S. Ecc.te che se alcuno scassasse sepale de possessioni et
entrasse dentro detta possessione al tempo che sono pieni con bestiame a dannificare
dette possessioni, sia in pena de cinque carlini per volta, e tornare accongiare dette
sepale e l’emenda del danno fatto, intendendose a vigne et orti.Placet.
60
Item supplicano V. S. Ecc.te che se alcuno facesse mete di fieno per il
territorio, o in qualsivoglia luoco, le debbia chiudere, e trovandose bestie a dette
mete se saranno chiuse siano dette bestiame in pena de grana cinque per bestia
grossa, e minuta grana uno per bestia, però se se conoscerà che siano poste a studio,
e se non fossero chiuse dette mete siano tenute dette bestiame solo al danno, e non
alla pena. Placet.
61
Item se alcuno homo rompesse dette fratte di dette mete per ponere il bestiame
dentro a dannificare dette mete, sia in pena di cinque carlini per la fratta seu sepale
e cinque grana per bestia baccina, et uno grano per bestia minuta. Placet.
62
Item che di quasivoglia sorte de frutti che venessero de forastieri a vendere
non si possano vendere se prima non sono posti per li catapani, e se alcuno
forastiero vendesse alcune sorte de frutti che non fossero posti per detti catapani,
overo che vendesse più di quello che fosse stato posto, sia in pena a detti catapani
de perdere detti frutti. Placet, sed poena applicetur baronis Curiae et tertia pars
poenae applicetur capitanis.
63
Item supplicano che se alcun huomo o donna volesse andare ad habitare in
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Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
qualsivoglia al(tra) città o terra, che possa liberamente vendere tutte le cose sue stabili
e mobili che havesse, pagando alla Corte la raggione delli quindeci carlini per la
scasatura, e volendo habitare in altra terra e tener sue case e vigne o altre possessioni
o qualsivogia altra cosa, e stare alla gravezza e carichi di detta città le sia lecito, e non
pagare li quindeci carlini della scasatura per fino intanto che non scasasse in tutto,
ciové che finirà di vendere tutte le sue possessioni e beni, e che la Corte non possa
proibite nessuno che voglia comprare qualsivoglia de suoi beni. Placet quod possint
vendere domos et vineas, quo vero ad colturas et territoria solvantur eis labores
ipsorum dummodo alienationes fiant civibus dictae civitatis, vel habitatores in ea.
64
Item supplicano che havendo grano V. S. Ecc.te in detta città, e volendo
vendere li cittadini di detta città, non possono essere proibiti per modo alcuno
vendere loro vittovaglie, in qualsivoglia tempo possono liberamente vendere
tutte loro vittovaglie et estrahere senza impedimento alcuno. Placet praeterquam
tempore carestiae et necessitatis.
65
Item supplicano che se alcuno forastiero de qualsivoglia conditione sia che
venesse a comprare in detta città o suo(i) territorii qualsivoglia sorte de bestiame, o
altra mercantia, volendola alcuno cittadino per sè la possa avere per quel medemo
prezzo che l’havesse comprata il forastiero, restituendo li denari al compratore, e
la Corte sia tenuta interponere le parti sue, essendo detto compratore retinente.
Placet interponere partes suas ut emptores contententur.
66
Item supplicano che quando nella defesa della Corte se trovassere bestie
grosse baccine o cavalline, non possono pagare più de grana cinque per bestia, però
probandose saltim per uno testimonio fide digno. Placet quod observatur solitum
et consuetum tempore illustris olim Ducis Ariani de domo Carrafae.
67
Item quando in detta defesa se trovassero bestie minute, come sono pecore
o capre, non siano in pena più d’uno tornese per bestia, e se saranno porcine uno
grano per porco. Placet pro ut solitum et consuetum est.
68
Item se huomo o donna ingiuriasse altra persona de parole ingiuriose,
essendo accusato dall’ingiuriato, non sia tenuto a più d’un tarì de pena, e così
ancora da qualsivoglia atto ingiurioso, come sono de fare le fiche etc., et quello
s’intenda a persone da quindici anni in su e non da fangiulli. Placet praeterquam in
iniuriis atrocibus.
82
Pasquale di Cicco
69
Item se alcuno giocasse con carte, dadi o altri giochi proibiti, dove corrono
denari, siano in pena de uno tarì per uno. Placet.
70
Item se alcuno movesse rissa, e ce venesse alle mani, sia in pena de uno tarì
quello per colpa del quale nascerà detta rissa, non essendoce ferite per le quali debbia
patere de persona. Placet praeterquam in atrocibus iniuriis, et habita consideratione
ad qualitatem personarum.
71
Item supplicano V. S. Ecc.te li voglia concedere all’huomini di detta città la
caccia de strina ciovè con balestra, scoppette e cani per tutti li territorii di detta città,
e de quelli non siano tenuti dar niente alla Corte, e de lacci e tagliole sia in libertà
de V. S. Ecc.te dare licenza. Placet cum canibus, cum reliquis vero instrumentis cum
nostra, vel nostri officiali(s) venia, et non aliter.
72
Item supplicano se degni non fare casalini fuora dell’inforzi seu mura
pringipiate di detta città per doverne habitare se non per lo bestiame, atteso che
il concinto di detta città è molto grande e vacuo, salvo se la Corte fosse ricercata
dall’huomini del governo di detta città. Placet.
73
Item supplicano V. S. Ecc.te li voglia concedere la ragione del congruo d’ogni
possessione e case quale se vendessero, et habbiano tempo sei mesi dopoi sarà
venduta una possessione a poterla havere per quel prezzo, che sia stata venduta ad
un altro, e se il detto congruo non l‘havesse, inteso detta venditione, intendendose
che habbia tempo sei mesi dopoi saputa detta vendita. Placet.
74
Item supplicano se degni concedere che. venendo a morire alcuno de detti
cittadini tanto mascolo, come femina, quale possedesse terreni, vigne, case delli
quali rimanessero heredi, né sua Corte né qualsivoglia altra persona non possa né
debbia ad essi levare dette loro possessioni, ma quelle restino libere ad essi heredi.
Placet quod colturae transeant ad heredes salvis iuribus Curiae.
75
Item supplicano V. S. Ecc.te che nessuno cittadino o commorante in detta
città sia franco et immune delli pagamenti, gravezze e pesi di detta città, ma tutti
siano tenuti egualmente e costretti con ogni modo ad ogni general pagamento e
peso di detta, reale e personale, salvo che se l’università non volesse lasciare alcun
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Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
franco, che fosse povera persona, orfano, vidova che non potesse pagare. Placet.
76
Item supplicano V. S. Ecc.te che, atteso che sempre ne sono de misirabili
persone, come sono vidue, orfani et altri poveri, che quelli che l’università
lascierà franchi de colte la Corte li voglia etiam lasciare franchi de suoi servitii e
commandamenti. Placet.
77
Item supplicano V. S. Ecc.te se degni permettere che dove confina la difesa
dell’università con quella della Corte il bestiame quale se troverà fidato così
nell’una, come nell’altra di dette difense possa entrare per canne venticinque
dentro una dell’altra detto bestiame, e non sia tenuto né a pena né ad altro danno,
e questo atteso per mezzo una e l’altra defesa passa l’acqua dove detto bestiame se
abevera. Placet quod possint ingredi usque ad viam qua ad presens itur ad terram
Campibassi, et in totidem territorio defentiae universitatis possint ingredi animalia
fidatorum per Curiam.
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Item supplicano V. S. Ecc.te che resti contenta che l’algaria determinata non
se habbia più d’astringere né diminuire come se trova al presente, et in quella non
habbiano da pascolare bestiame forastiero, et incappandoce bestie forastiere siano
in pena all’università de grana cinque per bestia grossa, et uno grano delle minute.
Placet, sed poena applicetur Curie Baronali, exceptis animalibus venientibus in
mercato seu dohana.
79
Item supplicano che come detta algaria è stata per il passato in libertà
dell’università guardarla e farla guardare et andarce a pascolare quella sorte d’animali
che ha parso, e de proibire quelli animali pure che ha parso a detta università, così
debbia essere per tutti li tempi da venire in libertà di detta università. Placet.
80
Item supplicano V. S. Ecc.te si degni restar contenta che, atteso gl’homini di
detta città sono tutti quasi forastieri la meglia parte, e l’occorre quasi del continuo
andare la notte per loro facende e negotii, possino andare per loro occorrenzie e
servitii ad ogn’hora senza lume, né altra subiettione come sono stati et hanno per il
passato, atteso sono huomini pacifici e quieti. Placet dum tamen sine armis.
81
Item supplicano V. S. Ecc.te che se alcuno cittadino di detta città havesse
tagliato fino al presente in qualsivoglia luoco delli boschi della Volturara qualsivoglia
sorte d’albori per qualsivoglia causa e modo, V. S. Ecc.te li faccia grata non siano
84
Pasquale di Cicco
tenuti a pena nessuna fino al dì presente. Placet exceptis hiis qui inciderunt post
bannum emanatum ordinatione capitanei nostri quod nemo incidisset lignamina in
nemoribus Curiae.
82
Item supplicano V. S. Ecc.te se contenta che gli huomini del governo pro
temporibus esistente al governo e regimento di detta città possino a loro volontà
e senz’altra licenza della Corte per la conservatione de lor vigne, paludi, algaria,
lavori e defesa et altre possessioni fare annali, statuti et ordeni contra li dannificanti
in crescere et aumentare le pene solite, affinché li dannificanti evitano dannificare
dette loro vigne, paludi, algaria et altre possessioni, e questo secondo che ad essi
governatori parerà espediente, e statuto et ordinato che sarà li medesimi governatori
o altri successori possino contrario imperio revocare e redurre ad pristinum ita
che non sarà perpetuo, ma annale e mensale, revocabile e reiterabile, che essendo
revocato dopoi se possa reiterare, e dopoi iterum revocare, et deinceps se possa
reiterare e revocare usque ad infinitum. Quando acciderit casus providebitur.
83
Item supplicano V. S. Ecc.te si contenta che gl’huomini di detta città, quelli
che hanno et haveranno campi e possessioni aratorie concesse e che se concederanno
da V. S. Ecc.te e da alcuni utili signori di detta città, possino liberamente l’albori
fruttiferi esistenti in detti campi e possessioni tenere, havere e governare, e li frutti
per essi percepere qualitercumque et quomodocumque. Placet dummodo non
impediatur usus fidator(um) prout attenus solitum fuit, sed tantum detti fidati non
possino abbattere li detti frutti e ghiande.
84
Item supplicano V. S. Ecc.te che, per le spese fatte e che faranno, detta
università et huomini di detta città al fornimento di detta città per il publico uso e
bene possino tassare e fare pagare et esiggere dalli nuovi habitatori che veneranno
in detta città per dette spese trovandosi fatte et a loro beneficio tanto quanto
parerà giusto et honesto alli governatori di quel tempo, e tutto quello s’esigerà
dalli predetti s’habbia da convertirse in beneficio et augumento e bene publico di
detta città, perché in tal modo si viene ad aumentare il beneficio di detta università.
Quod venientes in posterum ad habitandum contribuant futuris expensis.
85
Item supplicano V. S. Ecc.te si contenta che detta università (e) hu(o)mini,
secondo e quando s’accade per lor governo e regimento possino a lor arbitrio
e volontà, e senz’altro impedimento, dirette vel indirette, fare coadunatione e
consegli leciti, ma con intervento del camberlingo. Placet cum interventu capitanei,
et non aliter, sive de eius licentia.
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Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
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Item supplicano V. S. Ecc.te che, quando il molino non basterà a servire
l’università di detta città, possino macinare a centimoli senza pagare nulla cosa alla
Corte per lor bisogno et uso proprio, et etiam per possere far pane per vendere.
Placet quando molendini Curiae vel centimula forte per Curiam construenda non
sufficerent pro usu dictae civitatis.
87
Item che li padroni delli centimoli macinando ad altri con loro bestie
non possino levare de macinatura più che a ragione de grana otto per
tumolo, e sia in libertà di quelli che fanno macinar de darle grano o denaro,
e donandoli grano lo debbiano pigliare al prezzo che valerà in quel tempo, e
chi facesse il contrario sia in pena de uno tarì alla Corte per volta. Placet in
casu supradicto.
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Item supplicano quello li piacerà agiutare a far l’inforzi di detta città dove
bisognerà murare, pagare li mastri e manipoli, et essi cittadini siano tenuti portare
la calce, arena e pietre a pede delli sopra detti inforzi seu mura. Placet contribuire
ad eius arbitrium.
89
Item supplicano V. S. Ecc.te che il figlio, stando con il padre, non possa fare
accusa alcuna senza licenza del padre, e così la mogli senza licenza del marito, e
facendola non vagli niente se non è confirmata dal padre e dal marito. Placet.
90
Item, che se alcuno havesse albori fruttanti nelle confine delle sue possessioni,
che li rami de detti arbori stendessero sopra le possessioni d’altri, che li frutti
caderanno sopra la possessione d’altri siano delli padroni di quella possessione che
caderanno detti frutti per il danno fatto (da) dett’albori. Placet.
91
Item supplicano V. S. Ecc.te che se alcuno de detti cittadini, facendono
questione l’uno con l’altro, overo con alcuno forastiero, et essendoce effusione
di sangue et alcune ferite, la Corte non li possa levare de pena più d’un ongia,
venendo accusato per il ferito, e non essendo accusato trenta carlini. Serventur
constitutiones regni.
92
Item supplicano che se alcuno figlio manco de quindeci anni, facendose
sangue e non essendoce morte, non siano tenuti a pena nesuna, se non solo a
86
Pasquale di Cicco
sodisfare l’interesse per tale ferita si patesse. Quando casus occurreret considerata
qualitate facti providebitur.
93
Item, che ogni cittadino possa difenzare paduli per bisogno de suoi animali, e
se alcuno se troverà a tagliar herba in detti paduli, essendo accusato per il padrone,
sia in pena alla Corte de dieci grana per volta, e detto padrone sia creso havendolo
visto, e parendo il danno, et oltre sia tenuto sodisfare il padrone del danno fatto.
Placet quod quilibet pater familias et caput domus possit defenzare modium unum
cum dimidio paduli, et pro quolibet pari bovum quilibet possit defenzare modia
duo cum dimidio pro padula, et quod custodiantur a mediatate mensis februarii
usque quo serantur segetes, et non ultra.
94
Item supplicano V. S. Ecc.te che se qualsivoglia persona di detta città di
Volturara volesse andare ad habitare in qualsivoglia altro luoco, tanto in regno
come estra regno, possa liberamente andare senza impedimento alcuno della
persona, né alli beni suoi pagando però al scasare quindeci carlini de scasatura per
casa. Placet.
95
Item supplicano V. S. Ecc.te che, volendo habitare persona di detta città di
Volturara in qualsivoglia altra terra, e volendo tenere qualsivoglia sorte de suoi
beni in detta città, le sia lecito posserli tenere, però habbia da stare alle gravezze e
carichi di detta città, e non sia astretto dalla Corte a pagare li quindeci carlini della
scasatura fino che tenerà li suoi beni in detta città. Placet quod solvantur carolenis
quindecim pro scasatura quando vaxalli decederint a civitate, et alibi domicilium
transferant non expectata bonorum venditione.
96
Item supplicano V. S. Ecc.te se degni concedere che, venendo a morire alcuna
persona intestata, che non havesse figliolo e figliole, che li più propinqui parenti suoi
che fossero tanto in detta città come in qualsivoglia altro luoco possino hereditare
i loro beni. Placet dummodo sin(t) in gradu successibili quod succedant in omnibus
bonis morientis si habitent vel venient ad habitandum in civitate Vulturarie, si vero
non habitent succedant in bonis omnibus praeterquam in territoriis laboratoriis.
97
Item supplicano V. S. Ecc.te che nel tempo dell’aire, doppoi che il partitore
havrà spartite in dett’ayre le vittovaglie, la Corte sia tenuta far carreare la sua parte
alla terra a sue spese come è stato solito per il passato. Placet.
87
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
98
Item se alcuno animale grosso, come sono bovi, bacche, cavalline, mulegne
e somarrine, saranno trovati nelli paduli della metà di febraro fino siano falciati,
siano in pena de grana cinque per bestia grossa, et emendare il danno al padrone,
imperò essendono accusate per il padrone o date per accusate, seu bandite. Placet.
99
Item supplicano V. S. Ecc.te che, firmati saranno li presenti capitoli, ce
facci gratia interponere le sue parti et agiuto e favore e sua buona volontà che
detta università et huomini a loro spese possino et habiano ad impetrare il reggio
beneplacito et assenso per validità de tutte le presenti, e supplicaturi capituli,
statuti, legge municipali di essa città e gratie concesse da V. S. Ecc.te, quale reggio
assenzo se riserba espressamente nella detta capitolatione da impetrarse con la
buona volontà e gratia di V. S. Ecc.te. Placet.
100
Item supplicano V. S. Ecc.te che li presenti capitoli e tavola della mastrodattia
gl’ufficiali di V. S. Ecc.te se n’habbiano da tenere copia, e che, quan(do) occorrerà
il bisogno, essi cittadini non siano tenuti mostrare loro capitoli ogni volta che
occorre il bisogno in Corte, e quando occorresse mostrarli non siano tenuti di essi
capitoli, né della tavola della mastrodattia pagare presentata, et essi officiali siano
tenuti sempre restituirli ad essi presentanti. Placet.
101
Item a declaratione del capitolo 36 se supplica che tutte le bestie che se
ammazzassero il sabato de qualsivoglia sorte siano franchi di scannaggio, e se
possino vendere franche ut supra, tanto per tutto il dì del sabato, come per tutto il
dì seguente della domenica, e similmente se supplica che, se delle bestie grosse le
quali se ammazzaranno il sabato restasse a vendere alcuno residuo della carne nel
detto dì del sabato perché sia manco della mità dell’animal grosso, il detto residuo
che restasse a vendere quello se possa vendere franco il dì seguente poi il sabato.
Placet.
102
Item se supplicano, attento che è consueto pagare per scannaggio de
qualsivoglia animale baccino, tanto de bestia grossa come de vitelli, grana sette per
ciascheduno animale, e trovarse decretato nel capitolo 39 che circa il pagamento del
scannaggio servetur solitum et consuetum, talché veneria a pagarse una medesima
summa per l’animale grosso e per il vitello, e perché il vitello è de molto manco
prezzo e peso delle bacche e bovi grossi, per tanto se supplica facci gratia a detta
università che per il vitello seu vitella s’habbia solo a pagare la mità de quello si
paga per bestia grossa, ciovè grana tre e mezzo. Placet.
88
Pasquale di Cicco
Suprascritte supplicationes seu capitula fuerunt mihi Francisco Antonio
Villano utili domino civitatis Vulturarie oblata per universitatem et homines dictae
civitatis, et per me fuerunt eidem civitati et hominibus concessa pro ut in calce
uniuscumque capituli decretatum apparet, et in fidem propria manu me subscripsi,
et meo solito signo signavi.
Franciscus Antonius Villanus qui supra manu propria.
Extat sigillum.
In capitolo 33, in virgulo penultimo et in particola concurrente voluntate
actoris et rei, et in capitolo 59, in virgolo secundo et in virgolo ultimo, et in
capitolo 60, in quinto virgulo in particola baccina, in quibus capitolis cancellatum
apparet, nemini dubium occurrat quia fuit factum per me notarium Antonium
(de Trusianis) die stipulationis instrumenti dictorum capitulorum de voluntate
praefati excellentis Francisci Antoni et universitatis civitatis praedicte, et in fidem
subscripsi manu propria.
***
103
Item supplicano V. S. Ecc.te le voglia concedere che il giurato non sia tenuto
a prestare servitii privati per la casa del capitanio, ma solum li servitii della Corte e
della terra e li servitii soliti e consueti occorrentino alla casa della Baronal Corte di
detta città della Volturara. Placet.
Franciscus Antonius Villanus
Praesentata Neapoli die octavo ianuarii MDXXXXI per excellentem
dominum Franciscum Antonium Villanum utilem dominum dictae civitatis.
Extat sigillum.
***
104
Item l’università et huomini della citta della Volturara supplicano a S. V. Ecc.
te le conceda, atteso se pate grandissimo fastidio a mandare ogni volta ad apprezzare
il danno si fa nella defesa quale S. V. Ecc.te ha concessa ad essa università, che lo
più delle volte non se ne conseguisce l’emenda del danno per causa non se manda
ad apprezzare, che remanga stabilito che, essendono ritrovate bestie de forastieri
de qualsivoglia sorte nella difesa predetta della terra, da mo avanti per l’emenda
del danno siano tenuti pagare a detta università, oltre la pena quale pagaranno alla
89
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
Corte, per ciascheduna bestia grossa per ciascuna volta seranno trovate carlino
uno, e per ciascheduno porco a tempo de glianda grana quattro ed ogn’altro tempo
grana due e per ciascheduna pecora o capra in detto tempo de glianne grana due, et
in ogn’altro tempo grana uno. Placet.
Franciscus Antonius Villanus
Provisum in civitate Vulturarie per excellentem dominum Franciscum
Antonium Villanum utilem dominum et baronem dictae civitatis die 9 maii 1541.
Extat sigillum.
***
105
Ecc.te Signore. L’università et huomini della citta della Volturara schiavi et
vassalli di V. S. Ecc.te a quella fanno intendere come nel destritto del territorio e
bosco del demanio, che V. S. Ecc.te havea concesso ad essa università, e fatto gratia
se riserbasse per bosco per legna per uso comune di detta università e pubblica
comodità, ce sono alcuni particolari di detta città quali ce havevano redutta una
certa poco parte di detto territorio a coltura, e, non contenti servirnosi de quello
era ridotto, vanno continuamente allargandose, e se diminuisci per questo detto
bosco, e se ne causa commune danno de tutta l’università e signanter delli poveri;
per tanto supplicano V. S. Ecc.te se degni per beneficio universale, acciò non resti
causa de disminuirse detto bosco, provedere che detti particolari non habbiano
da coltivare detti terreni, ma quelli lasciare ad uso di detta università, attale se
tornino ad imboscare, che detta università offere dare a detti particolari altre tanto
terreno equivalente a quello, e quando alcuna cosa mancasse, offere pagare tutto
quello sarà conveniente a giuditio d’esperti, et oltre che V. S. Ecc.te, come benigno
signore, farà quello suole obliga questa università a maggior debito, ut Deus etc.
Dato prius equivalenti excambio pro ut in memoriali offert praedictis qui in dicta
parte nemoris culturas retinent, fiat pro ut supplicatur.
Franciscus Antonius Villanus
Provisum per excellentem dominum Franciscum Antonium Villanum de
Neapoli utilem dominum et baronem civitatis Vulturariae in eadem civitate die 10
maii XIV inditionis etc.
***
Die XVI mensis iulii 1548 VI inditionis in civitate Vulturariae. Retroscriptae
supplicationes et capitula dictae civitatis et hominum ipsius fuerunt oblata et
90
Pasquale di Cicco
praesentata mihi Vincentio Carrafae utili domino dictae civitatis per universitatem,
sindicos, electos et homines ipsius, quae si et pro ut concessa ac confirmata fuerunt
per excellentem dominum Franciscum Antonium Villanum olim dominum dictae
civitatis, et scripta stipulata per manus egregii notarii de Trusianis terre Sancti
Bartolomei mihi ipsi placuit concedere et confirmare dictae universitati et hominibus
ipsius, pro ut in calce cuiusvis capitulorum et supplicationum retroscriptarum
continentur, et decretatum apparet, et in fidem praesentem scribi fecimus per
manus terre Sancti Bartolomei Ingaldo subscriptamque nostrae propriae manus,
et sigillatam nostro sigillo solito et consueto. Datum in civitate predicta nostra
Vulturarie, die et inditionis ut supra.
Vincenzo Carrafa mano propria.
Locus sigilli.
Excellens dominus Vincentius Carrafa mandavit mihi notaro Hieronimo
Longo.
***
Die vigesimo mensis novembris primae inditionis 1557 Neapoli. In nostra
presentia constitutis illustre domino Vincentio Carrafa de Neapoli contra
illustrissimi domini Ducis Ariani utili domino civitatis Vulturariae provintiae
Capitanate agente ad infrascripta omnia pro se eiusque heredibus et successoribus
quibuscumque in perpetuum in dicta civitate Vulturariae ex una parte, et Antonio
Miotto dictae civitatis Vulturariae procuratore ad infrascripta insolitum cum
Iuvenale Aglialdo civitatis predictae pro ut de eius et dicti Iuvenalis procuratione
et potestate nobis plena constitit et constat, ac ipse Antonius plenariam fidem fecit
quodam publicum instrumentum in pergameno scriptum fieri rogatum sub die
13 praesentis mensis novembris 1557 in dicta civitate Vulturariae manu egregii
notarii Ioannis Bertini civitatis praedictae agente similiter ad infrascripta omnia
procuratorio nomine et pro parte dictae universitatis et hominum praedictae
civitatis Volturariae et pro eadem universitate et omnibus et singulis hominibus
ipsius, eorumque posteris et successoribus quibuscummque in eadem ex utili et
expedienti cause universitatis predicte ut dixit ex parte altera praefatae vero partes
quibus supra hominibus, et quaelibet ipsarum sponte asseruerunt pariter coram
nobis inter easdem partertes (partes) dictis hominibus vertere litem in Sacro Regio
Consilio super quam pluribus gravaminibus quae dicta universitas et homines
praetendunt eis fuisse illata et facta a dicto domino Vincentio et eius officialibus, et
contrarium praetensum fuerit, et praetenditur per dictum dominum Vincentium,
et in dicta causa fuisse processum ad nonnullos actus pro ut ex processu et actis
de super in dicto Sacro Regio Consilio frabricato et actitatis in banca ego (egregii)
Joannis Petri de Iubeno dicti Sacri Consilii actorum magistri, interveniente in eisdem
91
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
pro commissario et relatore primo loco magnifico quondam U. I. D. Hettorre
Jesualdo regio consiliario, et pro eius obitum magnifico U. I. D. domino Joanne
Battista Manso similiter regio consiliario dixerunt apparere quibus pro vera facti
narratione relatio habiatur, et dictae partes in omnibus et per omnia se referunt,
et rebus sic stantibus nolentes partes ipse quibus supra nominibus de praedictis
amplius litigare, nec per amphractus iudiciarios pertransire cum dubius foret litis
eventus, et ambigua sin facta causarum ad evitandum lites et litium expensas,
rancores et odia quae ex huiusmodi litigiis et litigantibus oriri solent, communium
amicorum interveniente tractatu, ad infrascriptam transactionem, conventionem,
pactum et concordiam asserunt dictae partes quibus supra nominibus devenisse,
pro ut sponte et voluntarie coram nobis devenerunt cum regio decreto et assensu ad
maiorem cautelam quatinus opus sit de super obtinendis et impetrandis semperque
salvis et reservatis, et non aliter, nec alio modo qui sponte pependit coram nobis non
vi, dolo etc. et omni meliori via etc. cesserunt prius liti et causae praedictis in dicto
Sacro Consilio ut supra vertentibus, et eorum instantiae, ac omni iuri, quatinus
dicta lis et causa se extendit, sequae ipse partes dictis nominibus convenerunt,
transiggerunt et concordaverunt modo et forma infrascriptis, et infrascriptam
capitolationem in vulgare sermone descriptam tenoris et continentie subsequentis
videlicet.
Capitoli sopra l’accordio fatto tra l’illustre Vicenzo Carrafa d’Ariano utile
signore della citta della Vulturara ex una, et Antonio Miotto come procuratore
dell’università et huomini di detta città.
106
In primis è stato convenuto tra detto illustre signore Vicenzo et il sopra
detto procuratore, nomine quo supra, che l’università et huomini della città
predetta della Volturara da mo avanti et inperpetuum possino liberamente, senza
impedimento e pagamento alcuno, con tutti li loro animali de qualsivoglia sorte
pascolare, gliandare e ricogliere gliande per uso loro tantum d’ogni tempo dell’anno
nella mità di detto domanio di detta città dalla banda verso le lavorie delli Viani
designanda et confinanda detta mità de bosco per detto signor Vicenzo.
107
Item che all’altra mità del detto bosco del demanio gl’huomini di detta città
durante il tempo delle gliande tantum cioè dal dì di Sant’Angelo di settembre per
tutto li 15 del mese di febraro de qualsivoglia anno non possino andare a pascere
con nulla sorte de bestiame, né ricogliere ghiande, ma solum possino senza
contraditione e pagamento alcuno tagliare, legnare per uso de gl’huomini di detta
città tantum iusta la forma della decretatione fatta all’undecimo capitolo della
capitolatione concessa per il signor Francesco Antonio Villano, et confirmato per
il detto signor Vicenzo alla detta università, e dalli 15 di febraro in sino al detto
92
Pasquale di Cicco
dì di Sant’Angelo di settembre de qualsivoglia anno detta università et huomini
possino in detta mità del bosco ut supra riservata liberamente e senza pagamento
alcuno con loro animali d’ogni sorte pascolare et tagliare ut supra come ponno fare
nel restante territorio di detta città, etcettuata la defesa della Corte nominata la
defesa di Sant’Antonio.
108
Item, che quando alla detta mità di bosco del domanio ut supra riserbata al
detto signor Vicenzo incapparrando bestiame delli cittadini di detta città dal detto
dì di Sant’Angelo di settembre in sino al detto dì 15 di febbraro de qualsivoglia
anno, in tal caso li padroni di detto bestiame siano tenuti pagare alla Baronal Corte
di detta città di Volturara quella medesima pena che sono tenuti pagare quando
incapparonno alla sopra detta difesa di Sant’Antonio iusta la forma della sopra
detta capitolatione alla detta università concessa per il detto signor Francesco
Antonio, e confirmata per il detto signor Vicenzo.
109
Item, perché ogni vassallo de detta città è obligato di fare e presentare due
giornate ogn’anno in perpetuum alla Baronal Corte di detta città gratis e senza
pagamento e spese, per questo si sono convenuti, che in cambio delle dette due
giornate ut supra costando ogn’anno per ogni uno delli detti vassalli, la detta
università et huomini della predetta città della Vulturara siano tenuti così come
il detto procuratore quo supra nomine promette, pagare alla Baronale Corte
della città predetta ducati sissanta ogn’anno in perpetuum in tre terze paghe de
qualsivoglia anno, videlicet ducati venti nella terza della natività di Nostro Signore
Giesù Christo, altri ducati venti nella terza di Pasca di Resurretione di detto Nostro
Signore, e li restanti docati venti per la terza d’agosto, et incomingiare e fare il
pagamento della prima terza nella terza di Pasca di Resurretione prima ventura del
seguente anno 1558 in pace, e senza replica e contraditione alcuna, e che per causa
del detto pagamento ut supra faranno delli detti annui docati ut supra promessi
li sopra detti vassalli et huomini di detta città non siano tenuti da mo avanti fare
et prestare le dette due giornate per uno l’anno ut supra, ma s’intendeno e siano
liberati et assolti dal peso et angaria predetta.
110
Item, che li cittadini et huomini della detta città della Volturara non possono
essere astretti a prestare servitii personali alla Corte Baronale di detta città, eccetto il
mediante, giusto e consueto pagamento, seu salario, videlicet a quelli che serviranno
nel territorio di detta città si debbia pagare il salario nel modo che se paga e se suole
pagare li servitii predetti dalli cittadini della città predetta, et a quelli che serviranno
extra territorium della medesima città si debbia pagare iusta la forma della regia
prammatica con tal pagamento siano tenuti servire.
93
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
111
Item è convenuto che gl’huomini di detta città possono toccolare e ricogliere
le gliande quale saranno nell’arbori che saranno dentro li luochi nella quale
haveranno da seminare quell’anno senza impedimento, né pagamento alcuno per
uso loro tantum.
112
Item che il detto signor Vicenzo e suoi heredi e successori in detta città siano
tenuti, sincome esso signore Vicenzo promette fare buono al camberlingo qui pro
tempore sarrà in detta città il sfreddo seu mancamento del vino della Baronal Corte
della predetta città, che riceverà tanto musto, come a grosso e poi smaltirà a minuto
per quella quantità che sarà giudicato per esperti, e quando il vino se li consegnerà
chiarificato non si debbia fare sfreddo se non della misura alla detta ragione, che
sarà giudicato per esperti.
113
Item, che il camberlingo qui pro tempore sarà in detta città sia tenuto dare
al detto signor Vicenzo e suoi heredi e successori in detta città, per lo crescimonio
del grano della Baronal Corte che se troverà in suo potere da poi le feste di Natale,
tommola cinque per cento e non più, e del grano che si troverà havere consegnato
avanti Natale sia tenuto dare de crescimonio pro rata temporis.
114
Item che li sopradetti altri capitoli concessi alla detta università et huomini
per il detto signor Francesco Antonio e confirmati per il detto signor Vicenzo
quanto all’altre cose che in essi si contenino debbiano rimanere firmi, et in eorum
robore et firmitate.
Et promictunt et promiserunt ambae partes ipse, quibus supra nominibus,
et quaelibet ipsarum sollenni stipulatione etc. una pars videlicet alt(e)ra, et altera
alteri dictis nominibus presentibus per eadem universitatem, transactionem,
conventionem, concordiam, litis cessionem et capitulationem praedictam semper
habere ratas ac rata et contra non facere aliqua ratione nec etiam ratione vis,
metus, doli, erroris seu laesionis cuiuscumque enormis, seu enormissime, aut
alterius causae maioris expressis, cui cum iuramento tactis scripturis expresse
renunciaverunt, et renunciant nec etiam ex capite in integrum restitutionis, vel
doli ex proposito, aut re ipsa vel aliter quomodocumquae et qualitercumquae
literas impetrare aut patere nec peti facere absolvendum a iuramento, et in
super praedictus dominus Vincentius ad maiorem cautelam et securitatem
dictae universitatis et hominum dictae civitatis Vulturariae promisit ad omnem
requisitionem ipsorum vel alterius eorum parte post quam fuerit obtentus et
impetratus regius assensus super praesenti transactione et contractu, et non
94
Pasquale di Cicco
al(i)ter nec alio modo illam et illud ratificare etc. ac equae principaliter iterum
et denuo facere litis cessionem, transactionem, conventionem et concordiam
praedicto modo et forma quibus supra per instrumentum publicum etc. et
nihilominus tam praedicto Antonio, procuratorio nomine quo supra, etiam
proprio privato principali et particolari nomine, et insolidum quia illic presens
supradictus egregius notarius Iovannes Bertinus de eadem civitate Vulturariae,
similiter suo proprio privato principali et particolari nomine quo supra, et in
solidum ad maiorem cautelam et securitatem dicti domini Vincentii, promictente
dicto domino Vincentio praesenti etc. infra mensem unum a praesenti die in antea
numerandum propriis sumptibus, laboribus et expensis dictorum universitatis
et hominum dictae civitatis Vulturariae obtinere et impetrare regium decretum
supra dicta transactione, conventione etiam […] ut supra facta vigore praesentis
contractus, et super eodem presenti contractu ac supradicta capitulatione facienda
[…] per dictam universitatem, homines, et quatinus opus est nova transactione,
conventione, concordia et capitulatione nec non predicti notarius Jovannes
et Antonius nominibus quibus supra, et insolidum ad maiorem cautelam et
securitatem dicti domini Vincentii etc. promiserunt curare et facere realiter modis
omnibus et cum effectu exequutione reali etc. quod dicti universitas et homines
praedictae civitatis Vulturariae congregati et coadunati in unum, ut moris est,
universitatis nomine infra dictum mensem unum, obtempto prius et impetrato
dicto regio decreto ut supra, et non ante praesentem contractum cum inserta
forma ipsius ratificabunt etc. et aequae principaliter iterum et de novo facient litis
cessionem, transactionem, conventionem et concordiam, etiam […] presentem
modo et forma quibus supra sequae ipsis eorumque heredes successores, et bona
omnia obligabunt ad observantiam omnium et singulorum praedictorum in
dictis praeinsertis capitolis, et quolibet ipsorum contentorum quatinus ad dictam
universitatem et homines spectat modo et forma in eisdem capitolis contentis ut
supra per instrumentum publicum etc. stipulandum per notarium non vaxallum
dicti domini Vincentii dictumque instrumentum in formam publicam absumptum,
testatum et roboratum ut decet, et copiam sopradicti regii decreti ut supra
interponendi in bombice sumptam autenticam et fidem faciendam sumptibus
dicte universitati infra dictum mensem consignare etc. praedicto domino Vincentii
etc. in pace etc. alias adveniente dicto termino mensis unius, et alapso et dicto
regio decreto forsan non interposito, et ratificatione et, quatinus opus est, nova
transactione, conventione, concordia, etiam […] praedicta forte non facta per
dictam universitatem et homines, et instrumento ratificationis et copia praedicta
dicti decreti forte non consegnari dicto domino Vincentio ut supra, in tali casu
firmari manente promissione supradicta facta per dictum Antonium et notarium
Iovannem, quibus supra nominibus et in solidum, decretum et ratificari faciendo
dictum contractum a dicta universitate et consegnandi copiam dicti decreti,
et dictum instrumentum ratificationis,ut supra, et non aliter nec alio modo sit
in electione etc. dicti domini Vincentii etc. vel stare presenti contractui, vel ab
95
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
eo recedere ipsumque rescindere, cassare et annullare, et casu quo praedictus
dominus Vincentius eligerit rescindere praesentem contractum, in tali casu iura
ambarum partium predictarum remaneant eis salva, intacta et inlesa, ac si presens
contractus factus non esset quia sic etc. Pro quibus omnibus observandis etc.
ambae partes ipsae quibus supra nominibus, et contraentes, et quaelibet ipsarum
prout ad unamquamque ipsarum spectat et pertinet sponte […] se ipsas partes et
contrahentes dictis nominibus, dictamque universitatem, et homines praedictae
civitatis Vulturariae, et qualibet ipsarum partium et contraentium, nominibus
ante dictis, earumque cuiuslibet ipsarum et dictae civitatis Vulturariae heredes,
successores et bona omnia mobilia et stabilia, burgensatica, feudalia, demanialia,
particolaria, praesentia et futura regio beneplacito et assensu pro feudalibus de
super obtinendo, et inpediendo semperque salvo et riservato una pars videlicet
alteri, et altera alteri dictusque notarius Ioannes dicto domino Vincentio presenti
etc. sub poena et ad poenam […] etc. medietate etc. cum potestate capiendi etc.
custitutione praecarii etc. et renunciant etc. et signanter praefati notarius Ioannes et
Antonius eorum propriis privatis, et presentibus nominibus ad maiorem cautelam
quatinus opus sit super hiis omnibus Aut. presenti C. de fid. etc. et iuraverunt etc.
Presentibus oportunis etc.
Extracta extitit praesens copia ab alia copia actis et protocollo notarii Thomae
Amelli nobilis notarii Ferdinandi Mazzae civitatis etc.
***
115
Molto eccellente signore
La università della città della Vulturara, e gl’homini di quella, poiché Iddio
l’ha fatto gratia dare per signore V. S. Ecc.te, ricorrono da quella, et humilmente la
supplicano li faccia gratia riceverli per humili e fedeli vassalli e servitori, et in segno
di quello li capitoli, immunità et altre franchitie che godano e le sono state concesse
dall’antipassati signori accettarli, et quatenus opus est de nuovo concederli et
confirmarli acciò che con quelli possino vivere quietamente con la Corte (di) V.
S. Ecc.te che lo riputaranno a gratia singularissima. Placet concedere supradicta
capitula iuxta decretationes in eis factas per excellentem dominum Franciscum
Antonium et Vincentium Carrafa.
116
La supplicano ancora facci gratia a detta università et a contemplatione di
essa perdonare et gratiosamente ammettere a tutti li cittadini di detta città eccessi
e delitti havessero commessi dove habbiano la parte poiché potrà essere informata
che nessuno non è inquisito de furto, né de homicidii, né assassinii, né sono
96
Pasquale di Cicco
contumaci, né di detta Corte né d’altro tribunale. Placet dummodo non veniat pro
delictis naturalis, civilis, aut membri rescissione pro ut tantum.
117
E perché la detta città have capitolo tra l’altri che il camberlingo ha da
conservare li grani, orzi et altre vittovaglie spettantino iusta solitum et consuetum
e contra la forma e mente del capitolo solito il detto camberlingo è stato aggravato
con farlo ancora conservare li vini della Corte, et smaltirli, per questo la supplica
faccia gratia alla detta università che il camberlingo, che pro tempore sempre sarà
in detta città non habbia d’havere carico del vino, ma solo dell’ufficio suo circa
il governo della terra e de conservare le vittovaglie, così com’era il detto solito al
tempo che fu fatto il detto capitolo, e del vino darne carico all’erario d’altro che
parerà a S. V. Ecc.te. Placet quod observentur pro nunc sicut in tempore domini
Vincentii Carafae fuit observatum.
118
1.Supplica ancora V. S. Ecc.te, atteso che il capitanio e mastrodatti da alcun
anni in qua si sogliano spartire gli emolumenti et atti della mastro d’attia contro
la forma della tavola e di quello che se osserva nell’altri tribunali maxime reggi,
del che si causa danno assai alli vassalli, che per questo il capitanio tutte le cause,
ancorché siano summarie e di poca importanza e che summariamente le potria
determinare, le fa ordinarie, la supplica faccia gratia che detti molumenti non
l’habbiano da spartire tra detti capitanio e mastro d’atti, ma che ogn’uno d’essi
habbia quello li compete, secondo il rito dell’altri tribunali massime reggi, che il
tutto detta università haverà a gratia singularissima da V. S. Ecc.te, la quale Nostro
Signore Iddio esalta, e mantenga secondo desia. Placet.
Bartolomeus Caracciolus
In civitate Vulturariae die 8 mai MDLXVIIII per excellentem dominum
Bartolomeum Caracciolum utilem dominum dictae civitatis.
***
119
Molto illustre signore
L’università et huomini della città della Vulturara vassalli e servitori di V.
S. Ill.e li fanno intendere come la detta università per capitolo deve fare ogn’anno
un huomo per camberlingo a V. S. Ill.e e sua Corte, il quale ha peso di ricevere,
conservare e poi smaltire le vittovaglie et vini della Corte et ancora per capitolo
deve dare al capitanio della detta città ducento sissanta passi di legne l’anno, e
97
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
trenta tre libre de paglia il dì, e perché questi pesi sono de poco utiltà a V. S. Ill.e
e sua Corte, e di gran danno e disturbo alla detta università et huomini di quella,
per esimersi dunque da quelli senza il danno e preiuditio di V. S. Ill.e e sua Corte,
desiderano che V. S. Ill.e le faccia gratia liberarli da detti pesi, et in ricompenza de
quelli accettare che, così come gl’homini di detta ponno tutti per capitolo far taverna
et hosterie et alloggiare forastieri, che non possino per l’avenire più alloggiare
forastieri de notte, né far taverna, ma solamente vendere pane e vino et altre robbe
da mangiare a cittadini et a forastieri in loro case, o cellari come hanno possuto fare
sino al presente, e così alloggiare loro amici e parenti senza pagamento, con riserva
ancora che V. S. Ill.e non possa dare li predetti pesi, che doveva fare il camberlingo,
all’erario o altro cittadino di detta città con pagamento, né senza, se non con buona
volontà di chi volesse farlo, e che al detto camberlingo solamente resta il peso de
tenere Corte il lunnedì iusta la forma del capitolo e di tenere priggione le donne,
quando accascherà secondo il solito, che tutto riceveranno a gratia singularissime
da V. S. Ill.e, ut Deus.
Bartolomeus Caracciolus utilis dominus civitatis Vulturariae
Contentamur omnia predicta supplicata concedi dictae civitati, et omnibus
(hominibus) ipsius dummodo fiant debitae cautelae pro securitate, et cautele
ambarum partium, regio assenzu impetrando super praedictis semper salvo.
Bartolomeo Caracciolo
Extat sigillum.
Provisum per praedictum illustrem dominum Bartolomeum Caracciolum in
palatio Curie civitatis Vulturariae sub die XVI mensis ottobris 1569.
***
120
Al signor marchese della Vulturara
L’università della città della Vulturara e per esse li sindici et eletti del presente
anno, vassalli e servi di V. S. humilmente li fanno intendere come il mastro d’atta
e capitanio di detta città nelle cause di trenta carlini inbascio procedono tra li
particolari d’essa città in scriptis fandono atti, e quello ch’è peggio in numero
tale che detti ascendono et absorbeno la dimanda principale delle parti, contro
la forma del dovere e della pandetta di detta città firmata dalla buona memoria
del quondam signor Bartolomeo Caracciolo suo padre, per il che li cittadini
di essa venghino a patere non poco interesse del detto proceder perché detti
ufficiali vogliano sinistramente cum riverentia interpretare la pannetta, atteso che
delle dette quantità fanno chiamare le parti debitrici, et loro contumacie fanno
l’esequutorio in scriptis, et in virtù di detto esequutorio poi procedono ad atto
di venditione con li decreti de vendendo et accensi de candele, et altro che non si
98
Pasquale di Cicco
deve contra la forma della detta pannetta, perciò ricorrino da V. S. supplicandola
se degni provedere di modo che sa essere conveniente, acciò detta pannetta habbia
luoco per l’avenire, e per il passato se restituisca il debito esatto che l’haveranno
a gratia da V. S., quam Deus.
Capitanio nostro e mastrod’atti di Vulturara ve ordinamo che osserviate la
solita pannetta, et in quelli casi dove non è pannetta, provederete conforme alle
disposizioni delle leggi e non altrimente.
Il marchese della Vulturara
Provisto per Giovanni Battista Caracciolo marchese della Vulturara a 9 di
maggio 1600.
***
121
Illustrissimo signore
L’università della città della Vulturara e suoi del reggimento, schiavi e vassalli
de V. S. Ill.ma la supplicano se degni nella fiera di Santo Luca farli osservare dal
mastro mercato e mastro d’atti la pannetta di detta Corte, che l’atti e decreti se
paghino in detta fiera servata la forma di detta pannetta, et il tutto lo riceveranno
a gratia, ut Deus. De più la supplicano se degni ordinare che in detta Corte de
mastromercato ogni persona che sarà fatta contumace civile habbia tempo
ventiquattr’hore a cassare detta contumacia, iusta lo stile della Corte del magnifico
capitanio di detta città, et il tutto etc.
Ci contentiamo che tanto nel primo quanto nel secondo capo se osservi la
pannetta insino a nostro nuovo ordine acciò ce possiamo informare come è stato
l’antico solito, e nel terzo capo ordinaremo che se osservi come se osserva nell’altre
fiere generalmente.
Il marchese della V\ulturara
Provisto per il signor marchese della Vulturara in Santo Bartolomeo a primo
di novembre 1600.
Extratta est praesens copia capitolorum et immunitatum universitatis
civitatis Vulturariae per me notarium Jovannem Petrum Andretta ab Angria civem
Alberonae et cancellarium dicte civitatis a suo proprio originali libro mihi exhibito
per sindicum et electos eiusdem universitatis videlicet Guglielmum Bernardum et
alios, et eisdem restituto, cum quo facta collatione etc. concordat meliori etc. et in
fidem etc. me subscripsi et ex solito signo signavi.
Locus sigilli.
99
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
***
Illustrissimo signore
L’università della città della Vulturara e cittadini di quella humilmente la
supplicano resti servita come a benigno loro signore e come fedeli vassalli di V.
S. Ill.ma di nuovo confirmarli li capitoli, immunità, antica pannetta, e tutt’altre
franchitie che godevano et hanno godute, le quali le furono concesse da tutti
antipassati signori e padroni di detta città, et signanter dall’ill.mo signor Giovanni
Battista Caracciolo bonae memoriae, e che sia in cielo, marchese a quel tempo in
detta città, acciò quelli concessi e confirmati possano quietamente vivere, e così far
osservare dalla Corte di V. S. Ill.ma e l’haveranno a gratia, ut Deus.
Capitolationi e patti da firmarsi dall’ill.mo signor Fabritio Montalto al
presente duca di Fragnito, utile signore e padrone di questa città della Vulturara
sopra la transattione seu accordio da farsi fra esso signore ill.mo e li cittadini e
vassalli di essa città mediante regio assenso da impetrarsi da detto signore ill.mo a
sue proprie spese.
122
In primis detto ill.mo signor resterà servita contentarse cedere a beneficio di
detti cittadini e vassalli la difenza del dumato chiamata la defenza della Ripa delli
Corvi franca e libera, senza che detto signore e suoi successori possino pretendere
pascolarci con nulla sorte d’animali, legnarvi, acquarvi, gliandarvi, né esigere
pena alcuna tanto contro cittadini quanto contro forastieri, che pro tempore se
ritrovasseto a dannificare in detta defenza, né come padrone, né come primo
cittadino, ma che habbia da essere in tutta e per tutta di detta università e suoi
cittadini, alla quale sia lecita detta difenza venderla, alienarla, affittarla, e disponerse
in ogn’altra maniera che li parerà senza che detto signore, né suoi posteri possino
pretendere cosa alcuna, con potestà che detta università possa ponerce uno o più
guardiani a suo arbitrio in guardia di detta defensa, li quali possino andare armati
d’ogni sorte d’arme non proibite però dalli regii banni, con licenza però della Corte
di detto signore, la quale non possa dinegarla, né farle pagare cosa alcuna, et ogni
volta che succedesse che detta università per qualche sua necessità, il che Iddio non
voglia, volesse vendere detta difesa ad estinguere la possa vendere, ma con farlo
prima intendere a detto signore e suoi eredi e successori se farà per loro.
123
Item resterà servita detto signore ill.mo concedere a tutti cittadini di detta
città et habitanti in essa che possino andare a legnare, e fare scandole, travi, travicelli,
spole, et ogn’ altra marrame per servitio de loro case assolutamente, et anco pali
per le vigne a legname morto e vivo alla defenza del bosco di Sant’Antonio senza
100
Pasquale di Cicco
impedimento, né pagamento alcuno, e questo s’intenda per loro servitio tantum.
Placet.
124
Item resterà servita V. S. Ill.ma, suoi heredi e successori levare da detti citadini
vassalli et habitatori in essa città tutte sorte de commandamenti tanto personali
come d’animali, ita et taliter che, volendo detto signore corrieri, operarii, animali
di soma, cavalcatore, bovi, et ogn’altra sorte d’animali o persone di qualsivoglia
maniera per suo servitio, l’habbia a pagare conforme se potrà convenire con essi.
Placet. S’intende detta conventione con li soliti corrieri e vetture, e non ad altri non
usi in quello. Placet.
125
Item resterà servita detto signore ill.mo fare condurre a sue proprie spese
le macine del molino o centemmoli baronale e quelle farle medesimamente a sue
proprie spese, senza che detta università e suoi cittadini vassalli et habitanti in essa
ce siano interessati a cosa alcuna per dette macine e quelle potrà farle ogni volta che
sarà necessario a sue proprie spese, come di sopra. Placet.
126
Item resterà servita detto signore ill.mo, suoi eredi e successori firmare
et fare osservare tutti li capitoli de suoi prede(ce)ssori padroni, et signanter fare
osservare dalli capitanei o loro locotenenti e mastro d’atti passati, presenti e futuri,
che pro tempore saranno in questa città, la pannetta tanto per l’atti civili, quanto
criminali puntualmente, senza che se possa innovare cosa alcuna, né reformarsi,
né aggiungersi, né mancarse, ma s’abbia da osservare nel modo e forma che se
ritrovino in potere di essa università. Placet.
127
Item resterà servita detto signore ill.mo, suoi heredi e successori osservare la
conventione ultimamente fatta per essa città e suoi cittadini con il quondam signor
Giovanni Battista Caracciolo tunc temporis e padrone di questa città circa il fare
delli centemmola, et il macinare nel molino baronale, cioè che ogni cittadino et
habitante in essa, tanto presente quanto futuro, sia lecito tenere centimmoli in loro
case senza nessun peso, e che possino andare a macinare dounque li parerà a loro
arbitrio, quando però il molino baronale non macinasse di state. E di più che non
possa detto signore levare territorii, e darli a coltura ad altri se il possessore de quelli
non sarà stato anni sette a non coltivarli. Di più che possino detti cittadin fare ogni
sorte d’animali tanto per industria quanto per uso proprio senza che n’habbiano
da portare nessun peso di fida, e che possino parare e far herbe per uso de detti
loro animali a loro arbitrio senza proibitione alcuna, e detti cittadini presenti e
futuri promettono così come prima li signori e patroni, che pro tempore sono
101
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
stati, terraggiavano d’ogni dodeci tomola uno d’ogni sorta di vittovaglie, legume,
cannavo e lino, al presente se contentino che se possa terraggiare d’ogni diece
tommola uno, e pagare per macinatura al molino baronale ogni sedeci stoppelli
uno, così come ne sono stati in possesso l’una e l’altra parte da che fu conclusa
detta conventione con detto signor marchese, e se ritrovino al presente. Placet.
128
E come che vi è la defesa del domato chiamata la difesa della Ripa dell Corvi
alla quale V. S. Ill.ma ce have il ius, come primo cittadino, in pascolare, acquare,
gliandare, di modo che pochissimo utile renda a V. S. Ill.ma, però la supplicano
restar servita concederla a detta università e suoi cittadini in detta città, cederle
tutte raggioni, attioni e dominio che V. S. Ill.ma e suoi successori ce hanno come
primo cittadino, ma che da mo per sempre et in perpetuum sia in tutto e per
tutto di essa università e cittadini detto ius, come cittadino, con non andarce né
a pascolare, né legnare, né gliandare, né acquare con nessuna sorte d’animali, né
in quella pretenderci pena alcuna de forastieri che pro tempore se ritrovassero a
dannificare in detta difesa, né come padrone, né come primo cittadino ut supra,
ma che habbia da essere detta difesa in tutta e per tutta di essa università e suoi
cittadini presenti e futuri et in perpetuum, alla quale sia lecito detta difesa venderla,
alienarla, affittarla e disponerse in ogn’altra maniera che parerà ad essa università
e suoi cittadini, senza che V. S. Ill.ma e suoi successori possino pretenderci cosa
alcuna ut supra, con potestà che essa università possa metterce uno o più guardiani
a suo arbitrio in guardia di detta difesa e che la pena sia tutta a beneficio di essa
università quando succedesse, e che li guardiani che essa università ponerà possono
andare armati d’ogni sorte d’armi non proibite dalli regii banni senza impedimento
alcuno, et ogni volta che detta università per qualsivoglia sua necessità, il che Iddio
non voglia, volesse vendere detta difesa la possono vendere a suo arbitrio, senza
pretenderci V. S. Ill.ma cosa alcuna. Placet.
129
Item si fa intendere a V. S. Ill.ma come essa università e suoi cittadini
possedevono per domanio li boschi di Montauro, San Gregorio e Puzzilli, nelli quali
ogni cittadino andava a loro arbitrio a farce travi, tavole, travicelli, spole, scandole,
pali et altre sorte di marrame per loro uso tantum di case quanto de massarie, e
perché dall’ill.mo b.m.signor padre furono sboscati, e dati a coltura detti boschi, e
promese darne altretanto ad essi cittadini al bosco di V. S. Ill.ma dove se dice a Santo
Antonio con la medesima attione di posser lignare ut supra, per tanto se supplica
restar servita confirmarli detta concessione di possere andare in detto bosco di Santo
Antonio a fare ogni sorte d’albore fruttifero quanto infruttifero, e per lignare al
morto tantum e dell’albori vivi che tagliaranno per marrame se li possino affruttare
per legna senza richiesta di nessuno. Placet pro reparatione eorum domus tantum, et
arbores infructiferi et crognali remanent ad eorum usum et arbitrium.
102
Pasquale di Cicco
128 B
Item resterà servita V. S. Ill.ma e suoi heredi e successori levarli detti cittadini
vassalli et habitatori in detta città tutte sorte de commandamenti personali, animali di
soma, e cavalcatore di selle, bovi, et ogn’altra sorte d’animali e persone, ma volendone
quando l’occorrerà habbia da fare commandare quelli che sono soliti a tale esercitio,
e che l’habbia da pagare conforme pagano li cittadini habitanti e commorant in detta
città, tanto li corrieri, bestie di some, cavalcatore, bovi, et ogn’altra sorte d’animali e
gente, intendesi ancora la condottura de grani in Napoli per vitto di V. S. Ill.ma che
detti cittadini non possino essere astretti per condurli. Placet.
129
Item resterà servita V. S. Ill.ma far condurre a sue spese le macine delli molini
e centimmoli baronali senza che essa città possa essere commandata et astretta ne
suoi cittadini e vassalli et animali per detta condottura de macine, atteso prima
erano obligati condurle tantum, e da oggi avanti non siano obligati a condurle, et a
nesuna sorte di spese. Placet.
130
Item resterà servita V. S. Ill.ma, suoi heredi e successori firmare e fare osservare
tutti li capitoli, immunità, e franchitie de suoi predecessori padroni, tanto dalli
capitanei, loro locotenenti, mastro d’atti presenti e futuri che pro tempore saranno
in questa città la pannetta tanto per gli atti civili, quanto criminali, et ogn’altro
capitolo che facessero in beneficio di essa città et università, senza che se possa più
innovare cosa alcuna, né reformarsi, né aggiungersi, né mancarsi, ma s’habbia da
osservare nel modo e forma che detti capitoli e pannetta se ritrovino. Placet.
131 B
E perché in pubblico parlamento si è concluso che per ricompenza delli
favori fattoci da V. S. Ill.ma in confirmarci e concederci li sopra detti capitoli,
cioè la difesa del domato, tutte loro raggioni et attioni, che V. S. Ill.ma là teneva,
concessione del taglio a Santo Antonio, commandamenti personali et animali,
condottura de macine, confirmatione de capitoli, e pandetta e condottura di grano
in Napoli, per tanto essa città e suoi cittadini promettono pagare ogn’anno et in
perpetuum a V. S. Ill.ma, suoi eredi e successori docati ottanta tre, tarì due e grana
cinque per le sudette concessioni e gratie fattoci, con patto però che per ogni volta
da V. S. Ill.ma, suoi heredi e successori non se osservassero, e farse buoni li predetti
capitoli, pannetta, e capi ut supra, e quelli farli osservare dalla sua Corte, erarii e
ministri conforme stanno notati sia lecito ad essa università e suoi cittadini non
pagare detti docati 83.2.5, ma quelli, autoritate propria, se le possino ritenere, e
non esserno astretti quelli a pagarli, e che sopra detti capi, capitoli e pandetta Sua
Signoria Ill.m sia tenuta farsi spedire il regio beneplacito per indennità dell’una
parte e l’altra, atteso così semo convenuti con V. S. Ill.ma. Placet.
103
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
Item resterà servita V. S. Ill.ma, suoi heredi e successori osservarci la
conventione ultimamente fatta per essa città e suoi cittadini con l’ ill.mo signor
Giovanni Battista Caracciolo b. m. in quel tempo marchese e padrone di questa
città, e sono li sotto scritti capi videlicet.
131 D
In primis che sia lecito ad ogni cittadino habitante e commorante in essa
città farsi il centimmolo in sua casa, senza pagarne cosa nessuna, et in quello
macinare ogn’uno che ce anderà a macinare, quando però non macinerà di stestesa
(state) il molino dell’acqua di V. S. Ill.ma e che non possino essere astretti andare
al centimmolo baronale, restando l’arbitrio alli cittadini dove vogliano andare o in
detti centimmoli baronali o de cittadini o vero fuora. Placet.
132
Item resterà servita V. S. Illma, suoi heredi e successori non ammovere, né
levare territorii a nessuno cittadino habitante in essa città, quali sono stati concessi
dall’anticessori di V. S. Ill.ma, se non saranno stati sette anni a non coltivarsi, et
elassi li detti sette anni V. S. Ill.ma le possi concedere a chi li parerà, riservati però
li paduli che non si seminano, atteso servino per fieno, e che da V. S. Ill.ma da oggi
avanti si concedono ad essi cittadini. Placet.
133
Item resterà servita V. S. Ill.ma sia lecito ad ogni cittadino ieffare seu parare
per herba per far fieno tutto quello territorio li parerà atto, acciò possino far fieno
per loro animali. Placet.
134
Item sia lecito ad ogni cittadino posser fare tenere in questo territorio di
questa città ogni sorte d’animali tanto per uso, quanto per industria, e quelli possino
pascolare per tutto il territorio atto senza pagarne peso, né fida nessuna, riservato
però il bosco di Sant’Antonio, siccome è stato antico solito. Placet.
135
Et in ricompenza delli sopradetti capi ut supra, cioè il far delle centemmola,
libertà d’andare a macinare fuora, de non posser levare territori, possere ieffare
per fieno, e far annemali per uso et industria, in ricompenza di ciò detti cittadini
presenti e futuri promettono, così come prima li signori illustrissimi padroni
antecessori terraggiavano d’ogni dodeci tomola uno d’ogni sorte de vittovaglie,
legume, cannavi e lino, si contentano si potesse terraggiare d’ogni diece tommola
uno, così anco si contentano che d’ogni dieci uno V. S. Ill.ma al presente terraggia,
suoi heredi e successori, e così come al molino si pagava ogni venti tomola, al
presente si contentino, si come all’hora si contentorno, esigghi V. S. Ill.ma d’ogni
104
Pasquale di Cicco
sedeci tommola uno, si come si sta e sono stati in possessione tanto V. S. Ill.ma
quanto detti cittadini, da che fu conclusa detta conventione con detto illustrissimo
signor marchese e così se ritrova al presente, resta solo impetrarne a quel tempo
il regio assenzo del quale ne supplicamo V. S. Ill.ma restar servita impetrare detto
regio assenso al presente. Placet.
136
Item supplicano V. S. Ill.ma restar servita che nelli memoriali spediti di gratia
da V. S. Ill.ma ad essi cittadini per le cose civili e criminali, che li capitanei e mastro
d’atti pro tempore saranno non habbiano da pigliarse eccetto che carlino uno, e per
li memoriali et ordeni per le collette non paghino cosa nessuna, havendono da V.S.
Ill.ma il tutto a gratia, ur Deus. Placet.
Item supplicano V. S. Ill.ma restar servita ordinare che per li decreti
interlocutorii nelle cause ordinarie e per l’esecutorii che passino la summa di
trenta carlini non si paga più d’uno carlino per ciascheduna di detta espeditione al
capitanio, e per li decreti diffinitivi non si paga più di carlini due al detto capitanio
nelle cause civili, per qualsivoglia summa che sia, e così anco al mastro d’atti.
Die nono mensis februarii 1642 habi(t)a licentia a reverendo domino
archipresbitero et coram magnifico capitanio.
Per Michele Aglialdo al presente sindico una con li suoi eletti si propone a voi
sotto scritti cittadini congregati nella chiesa maggiore di questa città della Volturara
come dall’illustrissimo signor duca di Fragnito nostro padrone ci vole concedere
e farci gratia bonificarci li retro scritti capi che a voi si leggeranno. In ricompenza
di dette gratie e concessioni, che ci vuol fare, havemo proposto darle ogn’anno
ducati ottantatre e carlini quattro e mezzo, mediante regio assenso impetrando;
pertanto si fa intendere a voi predetti acciò ogn’uno dichi il suo parere, in questo
et in ogn’altro meglior modo.
E per li sotto scritti cittadini, inteso il proposto fattoli dal governo, e parendoli la
proposta giusta e beneficio universale, concludesso che si diano all’illustrissimo signor
duca padrone li sopradetti ducati ottantatre e carlini quattro e mezzo l’anno perché
detto signor illustrissimo ce firma li nostri capitoli nuovi che son fatti con spedirce il
regio assenso, e così si è concluso dall’infrascritti cittadini et governi di detta città della
Volturara rappresentando la maggiore di quelli quali sono li sottoscritti videlicet.
Michele Aglialdo sindico dice che bene a farlo, e si contenta che si paga la
sudetta summa perché s’osserva.
Gabriele Barone eletto ut supra. Filippo Lantare eletto u. s.
Laurenzo Briante u. s. eletto Pietro Giarrusso eletto u. s.
Giovanni Cairella u. s.
Michele Arasso conferma u. s.
Pietro Bailo conferma u. s.
Giacomo Aglialdo conferma u. s.
105
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
Lorenzo Rancetto u. s.
Francesco Ricciardone confirma u. s.
Antonio Mendone u. s.
Antonio Ricciardone u. s.
Giovinale Aglialdo u. s.
Francesco Giovanni Russo u. s.
Pietro della Corte u. s.
Jacovo Bosa u. s.
Filippo Bosco u. s.
M. Donitio Inglese u. s.
Michele Mainiero u. s.
Mastro Antrea Fiorillo u. s.
Giovanni Salvagiotto u. s.
Giovanni Battista Lombardo u. s.
Lorenzo Riviale u. s.
Oratio Lombardo u. s.
Oratio di Chele u. s.
Giulio di Cicco u. s.
Jacovo Canale u.s.
Berardino Simone u. s.
Antonio Bertino u. s.
Giovanni della Corte u. s.
Antonio Campolattano u. s.
Bartolomeo Pirrotto u. s
Albentio Lantare u. s.
Berardino Lizzatro u. s.
Matteo Violino u. s.
Giovanni Albanese u. s.
Pietro Rangetto u. s.
Francesco Catalano u. s.
Antonio Bonello u. s.
Daniele Nattone u. s.
Libro Ferro u. s.
Carlo Giovanni Grosso u. s.
Angelo Briante u. s.
Pietro Briante u. s.
Giuseppe Spagnolo u. s.
Marco Antonio Marchisciano u. s.
Michele Guarniero u. s.
Michele d’Antonio Aglialdo u. s
Mastro Antrea Ferro u. s.
Pietro Caggiano u. s.
Paolo di Santo u. s.
Filippo Nattone u. s
Matteo Pirchio u. s.
Berardino Bilangia u. s.
Pietro di Statio u. s.
Omnia retroscripta capitola et iura municipalia a nobis et nostris predecessoribus concessa universitati nostrae civitatis Vulturariae hominibus et personis habitantibus et commorantibus in ea ad presens et in futurum cautelae et scripturae
necessariae pro severitate et indemnitate ambarum partium, salvo regio assenso impetrando, in praedictis et vice predicta, et mandamus ita observari a nostris erario,
capitanio, eiusque locumtenente presentibus et futuris sub poena privationis eorum
officii, et alia nostro arbitrio riservata, in quorum etc.
Il duca di Fragnito
Provisum per ill.mum dominum Fabritium Montaltum ducem Fragniti sub
die 7 mensis maii 1642.
Licet aliena manu extracta est praesens copia a suo proprio originali
mihi infrascripto exhibito per magnificum Gabrielem Campolattano sindicum
eidemque restituto, et facta collatione concordat meliori etc. et in fidem ego
Antonius de Rosa civitatis Vulturariae provinciae Capitanatae regia atque
apostholica aucthoritate notarius praesentem feci, meoque quo utor signo signavi
requisitus. Laus Deo.
(Segue il segno del tabellionato).
106
Pasquale di Cicco
***
Tavola delli pagamenti da farsi da questo dì avanti alli mastrod’atti quali
da mo avanti saranno nella città della Volturara per li cittadini et habitanti in essa
ordinata e moderata per l’eccellente signore Francesco Antonio Villano de Napoli
utile signore di detta città a supplicatione di detta città nella quale si distingu(e)
ranno li pagamenti da farsi nelle cause summarie dalle ordinarie, declarandosi
la cause summarie esserno da tre docati in bascio, e da tre docati in su esserno
l’ordinarie, e confermata poi dall’illustrissimo signor Fabritio Montaldo duca di
Fragnito in quest’anno 1642.
Per le quale cause summarie s’habbia da procedere nel modo infrascritto
videlicet quando il creditore pretende alcuna cosa dal debitore e lo fa chiamare
avanti al capitano debbia cum iuramento interrogare lo chiamato sopra lo che se
li dimanda, et accettandosi per esso quello se li dimanda se le faccia il precetto seu
mandato in scriptis de solvendo per il quale s’habbia da pagare grana uno.
Però quando lo chiamato negasse, o pretendesse cosa alcuna per lo che
bisognasse annotarsi la petitione, esaminarsi testimoni, fare decreti, e procedersi
ad sequutione, s’habbia da pagare nel infrascritto modo videlicet.
Per annotatione del petitorio grana uno.
Per l’esamina di ciasched’uno testimonio grana due.
Per decreto di condannatione o assolutione grana cinque.
Per l’esequutorio grana cinque.
Per decreto sopra li pegni, seu venditione di essi grana due.
Declarandosi nelle cause predette summarie esaminato che sarà se dona la
facoltà de percontare l’atti, per il qual’atto se paga grana uno, e dipoi se all’altra
delatione se spediscono conforme al dovere alla giustitia.
Li pagamenti nelle cause ordinarie videlicet da tre docati in su.
Per la presentata della prima petitione sive libello grana cinque.
Per la citatione fatta in scriptis in virtù del predetto libello cum inserta forma
ipsius sive a tergo grana quattro.
Per qualsivoglia altro mandato cum clausola iustitiae grana quatttro.
Per la prima contumacia grana uno.
Per l’ultima contumacia grana due.
Per lo costituire de procuratore grana quattro.
Per citatione de testimonii grana quattro.
Per presentata d’articoli grana cinque.
Per l’esamina de testimonii in cause civili, cinque in basso, grana tre.
Item d’articoli cinque in su grana cinque.
Item in cause criminali grana dieci per testimonio.
Per la citatione ad publicandum grana quattro.
Per la copia del processo iusta la forma della regia prammatica diece carte a tarì.
107
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
Per la citatione ad concludendum grana quattro.
Per la presentatione de ciascuna petitione, e risposta grana cinque.
Per qualsivoglia replica, che se farà inpronto oretenus dalla quale sarà
requesto il mastrod’atti dalla parte, che la scriva, se paga solum un grano.
Per qualsivoglia pretesto dal quale sarà requesto lo mastrod’atti che la scriva
ad instantia della parte se paga grana quattro.
Per decreto super inudenti grana cinque. Eccettuadone però quelli decreti
per li quali si provede qui ad primam compareant pro termino, vel detur copia delli
quali non se paga cosa nessuna.
Per decreto e sententia diffinitiva da docati tre per fino alla summa di venti,
tarì uno.
E da ducati venti per fino in cinquanta, tarì due.
E da cinquanta in su carlini cinque.
Per l’esequutorio grana dieci. Per il mandato ad reluendum grana quattro.
Per lo mandato quod vendantur bona exequuta grana diece.
Per ogni compromisso che se farà tanto voluntario come necessario per
ciascuna parte grana quattro.
E quando se procederà avanti gl’arbitri in scriptis se pagarà al mastrod’atta
nel sopra detto modo videlicet.
Per ciascuna preggiaria de causa civile grana cinque.
Per ciascuna preggiaria di causa criminale grana cinque.
Per ciascuna rimissione che si farà per la qual parte si daranno per colpabbili
e fallite grana quattro et etiam pagare i mastrd’atta delle testimonii esaminati ad
informationem Curiae grana quattro.
Per ciascuna cassatura de querela di quelle cause nelle quale havi luoco la
penitenza grana due.
E per ciascuna cassatura di querela di quelle cause alle quali venit imponenda
poena corporis afflittiva grana sette, e pagarà etiam li testimonii ut supra.
Per la copia delli banni, che se publicaranno per ordine del capitanio, quando
nel banno se conteneranno più capitoli se paga in questo modo, da cinque capitoli
in bascio grana cinque, e da cinque capitoli in su grana diece.
Quae praesens tabula facta fuit in civitate Neapoli die 4 mensis ianuarii
1539.
Franciscus Antonius Villanus
Item per ciascuna obliganza presentata ad instantia delle parti da trenta
carlini in basso se pagarà grana due.
E da trenta carlini in su grana cinque.
Franciscus Antonius Villanus
Praesens tabula et contenta in ea placuit idem mihi Vincentio Carrafae
observari per omnes si et pro ut solitum fuit observari tempore predicto dicti
excellentis domini Francisci Antonii Villani et in fidem me subscripsi manu propria.
Datum in dicta civitate Vulturarae die XVI mensis iulii 1548 VI inditionis.
108
Pasquale di Cicco
Vincentius Carrafa
Idem excellens dominus Vincentius Carrafa mandavit mihi notario
Hieronimo.
Apparet locus sigilli.
Die 26 mensis novembris 1604 Franciscus Poliarcus capitaneus iuravit
observare omnia in retroscriptis capitolis monicipialibus contenta praesentibus
domno Camillo Silvestro et Antonio Bonanno, et in fidem.
Cesar Bertinus pro cancellario
Pandetta emolumentorum spectantium ad actuarios presentes et futuros
nostraae civitatis Vulturariae insertam et praecalendatam in presentibus capitulis et
iuribus municipalibus dicte civitatis mandamus observari per dictos actuarios tam
in Curiae quam in Curia nundinarum Sancti Lucae de verbo ad verbum ut iacet
dummodo aliter fuerit per nos provisum pro pandetta Curie nundinarum Sancti
Lucae tantum sub poena restitutionis dupli et alia riservata nostrum arbitrium.
Datum Petre Montis Corbini 8 mensis martii 1642.
Il Duca di Fragnito
Io Tarquinio Derosato procuratore dell’illustrissimo signor don Frangesco
Brancaccio prometto di osservare e fare osservare dal detto mio principale li sudetti
capitoli iusta la loro forma, continentia et tenore, et in fede.
Io Tarquinio Derosato confirmo ut supra
Io Giovanni Domenico Nocchi procuratore dell’eccellentissimo signor
don Antonio d’Aquino prengipe di Caramanico prometto fare osservare dal mio
prencipale li su detti capitol iusta la loro forma, continenzia e tenore prout solitum.
Io Giovanni Domenico Nocchi procuratore ut supra
Io Bernardo Donatelli procuratore dell’eccellentissima signora donna
Isabella Milano duchessa di Montecalvo prometto fare osservare li presenti capitoli
municipali dalla detta mia pringipale iusta la loro serie, continentia e tenore secondo
il solito. Volturara 10 settembre 1693.
Io Bernardo Donatelli procuratore confirmo ut supra
Licet aliena manu extracta est presens copia a suo proprio originali mihi
infrascripto exhibito per magnificum Gabrielem Campolattano sindicum,
eidemque restituto, et facta collatione concordat etc. meliori etc. et in fidem
ego Antonius de Rosa civitatis Vulturariae provinciae Capitanatae regius atque
apostolica authoritate notarius praesentem feci, meoque quo utor signo signavi
requisitus. Laus Deo.
(Segue il segno del tabellionato)
109
Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)
Sigillo della città di Volturara nel 1734 (Archivio di Stato di Napoli, Sezione amministrativa,
Conti comunali, b. 290, fol. 101t.)
110
Pasquale di Cicco
Volturara in un disegno della metà del Cinquecento (Archivio di Stato di Foggia, Dogana
delle pecore di Puglia, s. I, vol. 18)
111
Giacomo Cirsone
La basilica della SS. Trinità di Venosa
dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
di Giacomo Cirsone
La fase rinascimentale, coincidente con l’arrivo degli Aragonesi nell’Italia
Meridionale, dove rimasero dal 1435 al 1503, quando ha inizio il dominio spagnolo,
non vede grossi interventi sulla SS. Trinità; i Cavalieri di San Giovanni provvidero
a continuare il programma decorativo all’interno della chiesa e frazionarono le
navate laterali creandovi delle cappelle1 [Fig 1].
I corpi di fabbrica individuati davanti alla facciata della chiesa ed attribuiti
in questa sede al periodo normanno sono ormai in rovina, sepolti sotto uno
strato d’interro depositatosi a seguito dell’innalzamento del livello del piano di
campagna.
Alla metà del ‘400 viene edificato il monumento funebre della famiglia
Acciaiuoli, originaria di Firenze, che tenne la signoria di Melfi; due membri della
famiglia, Raffaele (morto nel 1458) ed Emilio (morto nel 1470), furono sepolti
nella SS. Trinità; il monumento è simile nell’impostazione a quelli degli Altavilla
e di Alberada, presentando un arcosolio in pietra, con terminazione a timpano;
collocato originariamente sotto i pilastri paleocristiani, si trova oggi addossato al
muro perimetrale della navata sinistra2 [Fig. 2].
È possibile datare a questo momento due affreschi di pregevole fattura,
un’Annuciazione ed una Madonna con Bambino, entrambi di pieno XV secolo;
l’affresco dell’Annunciazione si trova sul primo pilastro destro della navata
centrale, e rappresenta la Vergine in trono, con un libro aperto sulle gambe e con
indosso una lunga veste di colore azzurro; sulla sinistra si vede l’angelo Gabriele
di dimensioni ridotte rispetto alla Madonna, raffigurato quasi come un fanciullo,
1
Le cappelle furono smantellate a seguito dei restauri degli anni ’80, ma erano ancora visibili negli anni ’30
del XX secolo, momento in cui furono viste e rilevate da Riccardo Bordenache che le riporta in pianta (cfr.
Riccardo Bordenache, La SS. Trinità di Venosa. Scambi ed influssi architettonici ai tempi dei Normanni in
Italia, in «Ephemeris Dacoromana», a. VII, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1937, p. 22, fig. 7).
2
Il sarcofago è stato trasferito a Roma negli anni ’50 del XX secolo da un discendente della famiglia (cfr.
Geremia Dario Mezzina, Radiografia di un monumento: la chiesa della SS. Trinità in Venosa, Bari, Simone,
1977, p. 95).
113
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
Figura 1. SS. Trinità. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture
della SS. Trinità: in verde le strutture della fase longobarda (VII - X secolo); in giallo sono
indicati gli interventi della fase svevo-angioina, databili tra la fine del XII e la metà del XIV
secolo; in viola scuro sono segnati i setti murari con i quali furono create delle cappelle nelle
navate laterali (seconda metà XV-XVI secolo); tutte le strutture qui segnate sono sovrapposte
al disegno ricostruttivo della chiesa, indicato in viola chiaro (elaborazione Cad G. Cirsone).
Figura 2. Chiesa Vecchia. Navata sinistra: sepolcro della famiglia Acciaiuoli (foto G. Cirsone).
114
Giacomo Cirsone
Figura 3. SS. Trinità. Affreschi dell’Annunciazione e della Madonna con Bambino, databili al
pieno XV secolo (foto G. Cirsone).
con una veste dorata e le ali di colore rosso fuoco; dietro Maria, un drappo di
colore verde, bordato di rosso, fa da sfondo, facendo risaltare il capo nimbato della
Vergine, dai tratti delicati e dall’incarnato roseo. Lo sfondo azzurro che accoglie
le due figure, è delimitato da una cornice geometrica con motivi di derivazione
cosmatesca.3
La Madonna con Bambino è dipinta invece sul primo pilastro di sinistra della
navata centrale; la Madonna indossa un manto scuro sopra una veste dello stesso
colore, bordati di giallo chiaro; il Bambino, nudo, Le siede sul braccio sinistro,
rivolgendoLe lo sguardo, e con la manina Le stringe un dito della mano destra.
Le figure, su un fondo azzurro scuro, sono racchiuse entro una cornice a fasce di
colore giallo, bianco e rosso4 [Fig. 3].
I lavori principali si concentrano nella navata S dove viene posta mano al
sepolcro degli Altavilla, collocato anch’esso originariamente negli interassi dei
pilastri paleocristiani; la sistemazione delle spoglie dei primi duchi normanni in un
unico monumento sepolcrale si deve, in base alle cronache del tempo, all’attività
del balivo Agostino Gorizio Barba da Novara, sepolto nella SS. Trinità intorno
3
Cfr. Basilicata. Potenza, Matera, il Pollino, la Magna Grecia, il Vulture, le coste tirrenica e jonica (Guide
d’Italia del Touring Club Italiano), Milano, Touring Club Italiano, 2004, p. 88.
4
Cfr. Mezzina 1977, pp. 83-84.
115
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
Figura 4. Chiesa vecchia. Navata sinistra: a sinistra la tomba di Alberada di Buonalbergo,
prima moglie del Guiscardo, e a destra il sepolcro degli Altavilla nella sistemazione del XVI
secolo (foto G. Cirsone).
al 1560, secondo quanto riportato nelle epigrafi apposte sulla sua lastra tombale5
[Fig. 4].
Di questo priore esiste il ritratto, fatto eseguire dal figlio Gerolamo, nel 1566,
ad opera del pittore Giovanni Todisco, affrescando la superficie del quarto pilastro
di destra della navata centrale; la figura del cavaliere è vestita con il mantello nero
che contraddistingue l’Ordine di Malta6 e la spada al fianco, inginocchiato davanti
ad una Madonna con Bambino che emerge da una nuvoletta; lo sguardo è assorto in
preghiera con il viso rivolto verso il breviario aperto sull’inginocchiatoio 7 [Fig. 5].
Dall’iscrizione della lastra tombale del balivo Giuseppe Caccia da Novara,
5
Cfr. Bordenache 1937, pp. 17-18, fig. 5; Mezzina 1977, p. 47; Mariarosaria Salvatore, Trinità: il complesso paleocristiano, in Mariarosaria Salvatore (a cura di), Venosa: un parco archeologico e un museo. Come e
perché, Taranto, Scorpione, 1984, p. 78; Hubert Houben, Una grande abbazia nel Mezzogiorno medioevale:
la SS. Trinità di Venosa, in «Bollettino Storico della Basilicata», II, 1986, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1986, p. 42; Mariarosaria Salvatore, Il restauro architettonico e l’archeologia: Venosa, SS. Trinità,
in Luigi Bubbico, Francesco Caputo, Attilio Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in
Basilicata, Matera, La Tipografica, 1996, I, pp. 39-52; Rosa Villani, Età angioina. XIV secolo. La chiesa della
SS. Trinità a Venosa, in Pittura murale in Basilicata. Dal Tardo Antico alla prima metà del ‘500, Potenza,
Consiglio Regionale della Basilicata, 1999, p. 50.
6
Dopo la caduta di Acri nel 1291, l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme si insediò nel
XIV secolo a Rodi, prendendo il nome di Ordine dei Cavalieri di Rodi; dall’isola dell’Egeo, i cavalieri furono
cacciati nel 1550 dai Turchi, e finirono con lo stabilirsi nell’isola di Malta, formalmente come vassalli del
Regno di Napoli, dove costituirono uno Stato indipendente fino all’arrivo di Napoleone nel 1801; attualmente l’Ordine, col nome di Sovrano Militare Ordine di Malta (S.M.O.M), ha sede a Roma in vari edifici che
godono del diritto di extraterritorialità.
7
Cfr. Mezzina 1977, p. 88. Mezzina riporta la notizia della costruzione di un altare tardorinascimentale,
dedicato alla Madonna delle Grazie, sulla parete di fondo del transetto a destra dell’abside, commissionato
dalla famiglia Barba (cfr. Mezzina 1977, pp. 107-108).
116
Giacomo Cirsone
datata al 1568, sappiamo del
restauro effettuato su una cappella,
ma non è possibile dire di quale
si tratti, dato che nel rilievo di
Bordenache, su cui si basa la pianta
riportata nella Fig. 1, ne sono
indicate almeno quattro8 [vedi
Fig. 1]. Anche di questo cavaliere
è stato realizzato il ritratto,
affrescando il terzo pilastro di
destra della navata centrale; il
priore è raffigurato inginocchiato,
con indosso il mantello nero su
cui campeggia la croce di Malta,
il rosario nella mano destra e la
spada nella sinistra; l’iscrizione
sottostante ne ricorda i meriti e la
data di morte9 [Fig. 6].
All’anno 1569 si data la posa
in opera di uno stemma recante
l’arme del balivo Antonio Peletta,
Figura 5. SS. Trinità. Particolare della navata centrale
con un leone rampante e la croce di da N, nella quale è visibile il ritratto del balivo AgoRodi, collocato sulla destra dell’at- stino Gorizio Barba da Novara (foto G. Cirsone).
tuale ingresso della chiesa;10 la presenza di questo elemento ha indotto erroneamente gli studiosi a datare la parte anteriore della chiesa, comprendente
l’avancorpo e la scalinata che porta alla Foresteria, al XVI secolo11. Anche questo
priore fu sepolto nella SS. Trinità, come testimonierebbe una lastra tombale recante
il medesimo stemma, conservata nel Lapidarium della Foresteria12.
Il Mezzina riporta anche una notizia relativa al 1570, anno in cui il balivo
Giuseppe Cambiano, avrebbe dotato proprio questo ingresso ad arco, fino ad allora
aperto, di due robusti battenti in legno, al fine di evitare che di notte potessero
Cfr. Bordenache 1937, pp. 18, 22, fig. 7.
Cfr. Bordenache 1937, p. 18; Mezzina 1977, p. 88, il quale riporta la notizia secondo la quale, come per
il sepolcro degli Acciaiuoli, anche quello del balivo Giuseppe Caccia fu trasferito a seguito di un’istanza dei
discendenti nel XVIII secolo all’epoca di Ferdinando IV di Borbone (1759-1799).
10
Cfr. Mezzina 1977, pp. 61-62; Mariarosaria Salvatore (a cura di), Venosa: un parco archeologico e un
museo. Come e perché, Taranto 1984, p. 78, con Salvatore 1984, p. 78; Salvatore 1996b, p. 50. Mariarosaria
Salvatore, Venosa, SS. Trinità-Incompiuta, in Itinerari del Sacro in Terra Lucana, «Basilicata Regione Notizie», Anno 1999 (n. 2), XXIV, 92, Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata, 1999, p. 135.
11
Cfr. Salvatore 1984, p. 79.
12
Cfr. Mezzina 1977, p. 108.
8
9
117
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
introdursi fanatici superstiziosi,
venuti per raschiare polvere
di marmo dal portale interno
del
Magister
Palmerius,
ritenendo che potesse avere
effetti taumaturgici contro la
malaria13.
Tornando alla pianta
della Fig. 1, si possono notare
i setti murari realizzati per
frazionare la parte occidentale
della navata sinistra in tre vani;
di questi, il più occidentale,
prossimo alla porta della
navata, ha una forma quadrata
ed è dato dall’occlusione del
primo arco paleocristiano,
che ne segna il lato S, e da un
muro perpendicolare a quello
perimetrale della chiesa (il quale
a sua volta occlude parzialmente
lo spazio tra il muro perimetrale
Figura 6. SS. Trinità. Particolare della navata cened un’altra muratura che
trale da N, nella quale è visibile il ritratto del balivo
tampona il secondo arco
Giuseppe Caccia da Novara (foto G. Cirsone).
paleocristiano, lasciando solo
un piccolo varco nella parte
meridionale, a ridosso del secondo pilastro paleocristiano) [vedi Fig. 1].
Procedendo verso il transetto, tra il vano appena descritto ed il successivo, si
interpone un piccolo ambiente di forma rettangolare, quasi una stretta intercapedine,
i cui lati sono costituiti dal muro perpendicolare precedentemente descritto sul lato W,
dal muro di tamponamento del secondo arco sul lato S, e da quella che sembrerebbe
essere la parete di un altare sul lato E; tra quest’ultima, che si appoggia ai piedritti
dell’arco di controspinta d’età svevo-angioina, ed il pilastro paleocristiano, si apre un
altro piccolo varco, analogo a quello precedente [vedi Fig. 1].
Il terzo vano, quello più orientale, ha una forma quadrangolare e presenta
dimensioni maggiori rispetto ai precedenti; è interessante in particolare il lato
S, costituito dai monumenti funerari della famiglia Acciaiuoli e di Alberada,
che all’epoca erano ancora collocati negli interassi del terzo e del quarto arco
paleocristiano; il lato E è dato invece da una muratura continua, al centro della
13
Cfr. Mezzina 1977, p. 61; Basilicata 2004, p. 87.
118
Giacomo Cirsone
quale si apre una porta, che
si appoggia alle strutture del
secondo arco di controspinta
svevo-angioino [vedi Fig. 1].
Nella navata destra si
osserva l’occlusione del primo
arco di controspinta svevoangioino con una muratura
continua priva di aperture; nel
prolungamento delle navate
centrale e destra vengono
tamponati i due archi creati
in età normanna ponendo in
opera un nuovo pilastro in
asse ed in continuità con quelli
paleocristiani; questo settore
della navata destra risulta
essere quasi isolato dal resto
della chiesa, dando luogo al
costituirsi di un unico vano
rettangolare aperto solo sul
lato N grazie ai primi due archi
Figura 7. SS. Trinità. Affresco raffigurante Papa
paleocristiani [vedi Fig. 1].
Niccolò II, onorato quale fondatore dell’abbazia nel
Oltre ai ritratti dei balivi,
1059 (foto G. Cirsone).
viene continuato il programma
decorativo della chiesa, con la
stesura di nuovi affreschi, tra i quali si segnala quello di Papa Niccolò II, effigiato
sullo stesso pilastro su cui si trova il ritratto del balivo Giuseppe Caccia da Novara;
la scelta non è casuale; essa voleva onorare il pontefice che aveva istituito l’Abbazia
della SS. Trinità, trasformando la chiesa da cattedrale ad abbaziale, nell’ormai
lontano 1059 [Fig. 7].
Al 1590 si data invece la lastra tombale di un altro balivo della SS. Trinità,
il priore Giovanni De Gratiis, morto nello stesso anno; la lastra conservata nel
Lapidarium, è decorata con volute a fiori.14
Nel corso del XVI secolo i Cavalieri di Malta intervennero anche
sull’Incompiuta, costruendovi sul fianco destro il grande campanile a vela15 [Fig. 8].
Sul lato rivolto verso l’interno dell’Incompiuta, poco al di sotto del livello
Cfr. Mezzina 1977, p. 108.
Cfr. Mezzina 1977, p. 47; Salvatore 1996b, p. 52; Salvatore 1999b, p. 136; Basilicata e Calabria (Collana “La Biblioteca di Repubblica”), Milano, Gruppo Editoriale La Repubblica, 2005, pp. 235-236.
14
15
119
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
delle campane, si individua un
camminamento aggettante in
pietra, sostenuto da una serie di
archetti pensili su mensoline lapidee
incassate nella muratura [Fig. 9].
La fase barocca (XVII fine XVIII secolo) vede una serie
d’interventi di restauro sulla chiesa,
principalmente nella zona del
presbiterio16 [Fig. 10].
Nel 1603 il balivo Girolamo
Alliata effettua dei lavori di
Figura 8. Venosa. Parco Archeologico: nella foto
demolizione dell’antico altare,
è visibile il grande campanile a vela del XVI secolo, impostato sul fianco destro dell’Incompiuta
per collocarvi il coro; durante la
(foto Raffaele Fanelli).
demolizione furono rinvenute delle
reliquie attribuite ai SS. Senatore,
17
Viatore, Cassiodoro e Dominata. Il ‘600 è proprio il secolo delle inventiones di
reliquie; in tre occasioni infatti, nel 1603, nel 168818 e nel 1694,19 vengono scoperte
o riscoperte le reliquie dei martiri Senatore, Viatore, Cassiodoro e Dominata,
rinvenute all’interno della fossa-reliquiario nell’abside paleocristiana, conservate
insieme a quelle di S. Atanasio, abate di Norcia, nell’altare barocco ad essi dedicato,
Cfr. infra.
Cfr. Giuseppe Crudo, La SS. Trinità di Venosa: memorie storiche, diplomatiche, archeologiche, Trani,
Vincenzo Vecchi editore, 1899, pp. 379-380, che attribuisce la scoperta delle reliquie ad un certo Cavaliere
Valladio, il quale avrebbe poi ricollocato le stesse al di sotto dell’altare maggiore “sotto grandi lapidi alla profondità di dodici, o, […] quattordici palmi”; l’autore fa riferimento alla cronaca di Jacopo Cenna, della quale
viene riportato il passo: “Nell’anno 1603 il Cavaliere Valladio della Religione di Malta volse accomodare il
choro di detta chiesa e ponerlo alla moderna dietro l’altare maggiore. Ritrovò detti Corpi Santi dentro l’altare
maggiore insieme al Corpo del Beato Attanasio Abbate della Città di Norta, et havendo voluto questi movere
fu tanto la pioggia i terremoti e toni, che pareva volesse abissare il mondo. Alla fine pose quelli dentro detto
altare quattordici palmi sotto terra con pietre grossissime” (cfr. Crudo 1899, p. 380, nota 1); Salvatore 1984b,
p. 75; Mariarosaria Salvatore, Note introduttive alla conoscenza della Cattedrale paleocristiana di Venosa,
in «Puglia paleocristiana e altomedievale», IV, 1984, pp. 362-363, nota 16.
18
L’inventio del 1688 ebbe grande risonanza tanto da avviare pratiche di pellegrinaggio e di devozione
popolare; Crudo riporta la notizia del ritrovamento delle reliquie dei quattro martiri Senatore, Viatore, Cassiodoro e Dominata, pressoché dimenticate dall’inizio del secolo, ad opera del balivo Fabio Gori Panellino;
le reliquie furono traslate dal luogo in cui si trovavano sotto l’altare maggiore (cfr. supra nota precedente); nel
medesimo tempo furono rinvenute entro un vaso in terracotta le reliquie di S. Attanasio, riconosciute grazie
all’iscrizione graffita sul contenitore: Hic requiescit corpus S. Athanasii Gloriosissimi Confessoris Christi (cfr.
Crudo 1899, p. 389, nota 5). Crudo riporta anche il testo del decreto di approvazione del culto emanato nel
1689 dal vescovo Giovanni Francesco De Laurentiis; su disposizione dello stesso presule, le reliquie furono
depositate tutte in una cassa lapidea, insieme con una copia degli atti curiali, e successivamente poste entro un
altare fatto erigere dalla devozione dei pellegrini di Abruzzo e Calabria (cfr. Crudo 1899, pp. 390).
19
Riguardo l’inventio del 1694 non si rinvengono notizie nell’opera del Crudo.
16
17
120
Giacomo Cirsone
costruito nell’ala destra del transetto20
[Fig. 11].
Non sembra casuale il rinvenimento
di reliquie nella SS. Trinità, dato che a
Roma, nello stesso periodo, la ricerca di
reliquie e “corpi santi” nelle catacombe
costituiva il campo di studio di Antonio
Bosio, non a caso anch’egli facente parte
dell’Ordine di Malta21.
Nel XVII secolo viene anche
costruita la sacrestia, la quale insiste
sul tratto iniziale della navata sinistra
dell’Incompiuta, appoggiandosi al muro
di fondo paleocristiano della Chiesa
Vecchia, che ne costituisce il lato W,
al fianco sinistro dell’Incompiuta, ed
all’abside paleocristiana; in particolare si Figura 9. Incompiuta. Nella foto è visibile il
rileva che una delle aperture dell’abside, lato interno del campanile a vela del XVI segià parzialmente tamponate in età colo, con il camminamento in pietra sostenuto
longobarda, fu riaperta e riutilizzata come dagli archetti pensili (foto Raffaele Fanelli).
ingresso per la sacrestia22 [Fig. 12].
Nel 1713 viene costruita la scala di accesso al campanile, la quale viene
restaurata appena dieci anni dopo nel 1723, dal balivo Giovanni Borgherino.23
20
Cfr. Mezzina 1977, pp. 100-105; cfr. anche Hubert Houben, Il “libro del capitolo” del monastero della SS. Trinità
di Venosa (Cod. Casin. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, Galatina, Congedo, 1984, p. 63.
21
Sull’attività di Antonio Bosio, cfr. Pasquale Testini, Archeologia Cristiana, Bari 19802, pp. 66-67; più recentemente cfr. Vincenzo Fiocchi Nicolai, Presentazione, in Roma Sotterranea, Roma, Quasar, 1998 (vedi),
pp. 11-13, nella Presentazione della ristampa anastatica della Roma Sotterranea del Bosio (Antonio Bosio,
Roma Sotterranea, Roma, Quasar, 1998 [ristampa anastatica dell’edizione originale del 1632]).
22
Mezzina ipotizza che la sacrestia seicentesca sia l’antica cappella di S. Atanasio, ponendo una datazione
al XIII secolo; non esistono però prove a sostegno di questa ipotesi, se non l’affermazione del Mezzina
stesso, secondo cui le reliquie del santo, sarebbero state conservate fino al 1555 nella cappella a lui dedicata,
posta a sinistra dell’abside, e da qui rimosse per essere poste accanto a quelle dei martiri Senatore, Viatore,
Cassiodoro e Dominata (cfr. Bordenache 1937, p. 33; Mezzina 1977, pp. 105-106; Mariarosaria Salvatore, I
mosaici nell’area del complesso episcopale della SS. Trinità a Venosa, in Atti del IV Colloquio dell’Associazione
Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico [Palermo, 9-13 dicembre 1996], Ravenna, Edizioni del
Girasole, 1997, p. 478; sulle reliquie di S. Atanasio, cfr. Houben 1984, pp. 66-67). Per quanto riguarda il riuso
dell’apertura dell’abside paleocristiana, si potrebbe ipotizzare che la porta attuale della sacrestia, coincidente
con la porta d’accesso al deambulatorio paleocristiano, non fosse in uso nel XVII secolo, forse perché tamponata già in antico, ragionevolmente in epoca longobarda con la dismissione del deambulatorio; sull’apertura
dell’abside riutilizzata, cfr. Bordenache 1937, p. 27; Mezzina 1977, p. 106.
23
Cfr. Mezzina 1977, p. 47; Corrado Bozzoni, Saggi di architettura medievale. La Trinità di Venosa. Il
Duomo di Atri, Roma, Istituto di Fondamenti dell’Architettura, 1979, p. 63, nota 164 a p. 99. Attualmente,
la scala, che correva lungo il giro esterno dell’abside paleocristiana, non esiste più, essendo stata rimossa
durante i lavori di restauro degli anni ’80 del XX secolo.
121
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
Figura 10. SS. Trinità. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture
della SS. Trinità: in verde le strutture della fase longobarda (VII - X secolo); in arancio scuro
sono indicati gli interventi della fase svevo-angioina, databili tra la fine del XII e la metà
del XIV secolo; in viola scuro le strutture create nella fase rinascimentale (seconda metà XV
- XVI secolo); in azzurro le strutture della fase barocca (XVII - fine XVIII secolo); tutte le
strutture qui segnate sono sovrapposte al disegno ricostruttivo della chiesa, indicato in viola
chiaro (elaborazione Cad G. Cirsone).
Gli ultimi lavori di restauro sulla chiesa effettuati dai Cavalieri di Malta,
risalgono al 1791, per iniziativa del balivo Erberto Mirelli, il quale continua l’opera
di sistemazione dell’area del presbiterio in forme barocche, aprendo una grande
finestra ovale nel catino absidale ed erigendo un nuovo altare nell’abside; secondo
il Mezzina, è a questo priore che si deve la sistemazione definitiva delle reliquie
rinvenute nel secolo precedente, riunite in un unico reliquiario;24 è probabile che
questo rifacimento in forme barocche non sia mai stato portato a compimento, a
causa forse della morte del priore [Fig. 13].
24
Cfr. Mezzina 1977, p. 100; cfr. anche Bozzoni 1979, pp. 63-64, nota 165 alle pp. 99-100, il quale, sulla
base di un’iscrizione menzionante il priore Erberto Mirelli, in cui si fa riferimento alla sistemazione delle
reliquie in un “ipogeo” sotto l’altare maggiore, ancora leggibile all’epoca del Crudo (cfr. Crudo 1899, p. 406,
dove se ne riporta il testo in cui si legge substructo sub ara maxima hipogaeo), ritiene che si possa parlare di un
ultimo rimaneggiamento della cripta, già inaccessibile da alcuni secoli, o forse della sua definitiva abolizione
o trasformazione in camera sepolcrale; cfr. Salvatore 1984b, p. 78; Salvatore 1996b, p. 50; Salvatore 1999b,
p. 135; Villani 1999, p. 50. Alla luce di quanto detto sinora, è plausibile che i lavori del Mirelli abbiano semplicemente intercettato la fossa-reliquiario d’età paleocristiana, come farebbe pensare il testo dell’iscrizione
ed in particolare l’espressione sub ara maxima, da riferire necessariamente all’altare maggiore.
122
Giacomo Cirsone
Con l’arrivo di
Napoleone Bonaparte
e l’incameramento dei
Beni Ecclesiastici da
parte dello Stato nel
1801, e la conseguente
soppressione degli Ordini
Religiosi nel Regno di
Napoli, i Cavalieri di
Malta abbandonano nel
1808 la chiesa della SS.
Trinità, in loro possesso
sin dal 1297.25
L’evento
più
traumatico del XIX
secolo, fu il terremoto Figura 11. SS. Trinità. Ala destra del transetto. Altare barocco
del 1851, che colpì gran con colonnine tortili in legno dorato, nel quale sono conserparte della Basilicata, vate le reliquie dei martiri Senatore, Viatore, Cassiodoro e
Dominata, e di S. Atanasio (foto G. Cirsone).
durante il regno di
Ferdinando II di Borbone
(1830-1859); a seguito del
sisma, l’anno successivo,
furono commissionati dei
lavori di consolidamento
statico che andarono ad
interessare il lato sinistro
della Chiesa Vecchia, con
la posa in opera di una serie
di quattro contrafforti in
muratura, con la funzione
di sostenere e rinforzare
questo lato dell’edificio26
Figura 12. SS. Trinità. In rosso sono indicate le strutture
[Figg. 14-15].
della sacrestia, edificata nel XVII secolo (da Salvatore
1984b; elaborazione grafica G. Cirsone).
I restauri del 1852 in-
25
Cfr. supra; Bordenache 1937, p. 33; Paulus Fridolinus Kehr, Samnium, Apulia, Lucania, in Italia Pontificia (= Paulus Fridolinus Kehr, Italia Pontificia, sive, Repertorium privilegiorum et litterarum a Romanis pontificibus ante annum MCLXXXXVIII Italiae ecclesiis monasteriis civitatibus singulisque personis concessorum,
Berolini, apud Weidmannos, 1906-1975), IX, Berolini, apud Weidmannos, 1962, p. 491, dove si legge […] qui ibi
baliatum instituerunt tempore Napoleonis I suppressum; Mezzina 1977, p. 47; Bozzoni 1979, p. 64.
26
Cfr. Bordenache 1937, p. 19; Mezzina 1977, pp. 47, 48, 74; Bozzoni 1979, p. 64, nota 166 a p. 100; Salvatore 1984b, p. 78; Salvatore 1996b, p. 50; Salvatore 1999b, p. 135; Villani 1999, p. 50.
123
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
teressarono probabilmente
anche l’interno, con il rifacimento di alcuni degli archi a
sesto acuto della navata centrale, e di alcuni setti murari
nelle navate laterali.27
Nel 1860, gravemente
danneggiata e con il tetto
fatiscente, la SS. Trinità fu
praticamente chiusa al culto,
rimanendo ad officiarla solo
un cappellano, non sempre
presente.28
Figura 13. SS. Trinità. Zona del presbiterio durante i lavoLo stato di degrado
ri di scavo e restauro degli anni ’80 del XX secolo: si notadell’edificio portò ad un
no gli otto fornici paleocristiani che si aprono nell’abside,
e la finestra tamponata di forma ovale d’età barocca nel nuovo restauro nel 1898,
sotto la direzione di Adolfo
catino absidale (da Salvatore 1996b).
Avena, il quale però si
concentrò sullo sterro e sul
consolidamento statico delle murature dell’Incompiuta.29
L’inizio del XX secolo vede nuovi interventi di manutenzione sulla
chiesa, e sull’Incompiuta in particolare, a partire dal 1902, ad opera della Regia
Sovrintendenza alle Belle Arti di Reggio Calabria, e con il concorso economico del
Comune di Venosa.30
Per registrare dei restauri sulla Chiesa Vecchia è necessario attendere il 1932,
con gli interventi diretti da Edoardo Galli sulla Foresteria e sugli archi a sesto acuto
del transetto; questi interventi hanno avuto il merito di salvaguardare la Foresteria,
gravemente danneggiata dal sisma del 1930, ripristinandone le volte crollate e la
cupola della cappella romanica del primo piano.31
Nuovi lavori di restauro, volti a riaprire al culto l’edificio, si hanno nel 1961,
anno in cui la SS. Trinità passa sotto la custodia dei Padri Trinitari, che tuttora ne
Cfr. Bordenache 1937, pp. 19, 21; Mezzina 1977, p. 73; Bozzoni 1979, p. 64, nota 166 a p. 100.
Cfr. Mezzina 1977, p. 47; Bozzoni 1979, p. 66.
29
Cfr. Bozzoni 1979, p. 66.
30
Cfr. Bordenache 1937, p. 3.
31
Cfr. supra ed anche Riccardo Bordenache, Due monumenti dell’Italia meridionale. I. L’avanzo di una
chiesetta a croce greca in Castro. II. La cappella romanica della Foresteria nell’Abbazia di Venosa, in Bollettino d’Arte del Ministero dell’Educazione Nazionale, XXVII, Roma, Libreria dello Stato, 1933, pp. 178-184;
Edoardo Galli, Danni e restauri a monumenti della zona del Vulture, in Bollettino d’Arte del Ministero
dell’Educazione Nazionale, XXVI, 1933, Roma, Libreria dello Stato, 1933, pp. 333-338; Bordenache 1937,
pp. 21, 72-76; Mezzina 1977, p. 48; Bozzoni 1979, p. 66; Salvatore 1984b, p. 78; Salvatore 1996b, p. 48;
Basilicata e Calabria 2005, p. 235.
27
28
124
Giacomo Cirsone
Figura 14. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture della SS. Trinità: in verde le strutture della fase longobarda (VII - X secolo); in arancio scuro sono indicati
gli interventi della fase svevo-angioina, databili tra la fine del XII e la metà del XIV secolo;
in viola scuro le strutture create nella fase rinascimentale (seconda metà XV - XVI secolo); in
azzurro le strutture della fase barocca (XVII - fine XVIII secolo); in verde scuro i contrafforti
aggiunti sul lato N nel XIX secolo; tutte le strutture qui segnate sono sovrapposte al disegno
ricostruttivo della chiesa, indicato in viola chiaro (elaborazione Cad G. Cirsone).
assicurano l’apertura al pubblico e
la manutenzione, in accordo con
le Sovrintendenze competenti32
[Fig. 16].
Figura 15. SS. Trinità. Nelle foto sono
visibili i quattro contrafforti in muratura di pietre e malta, realizzati per
sostenere il lato N della chiesa, nel
1852, a seguito del sisma dell’anno
precedente (foto G. Cirsone).
32
Cfr. Mezzina 1977, pp. 47-48.
125
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
Figura 16. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture della chiesa
della SS. Trinità, così come si presentano oggi (elaborazione Cad G. Cirsone).
Gli ultimi decenni hanno segnato un veloce progresso negli studi sulla chiesa,
accompagnato da una serie di interventi di scavo e restauro, compiuti tra gli anni
’60 e gli anni ’90 del XX secolo: negli anni ’70, si scavò l’interno dell’Incompiuta,
e nel decennio successivo, anche a seguito del sisma dell’Irpinia del 1980, venne
avviato un organico programma di scavi archeologici e di restauri all’interno della
SS. Trinità, ed in misura minore anche nell’Incompiuta. Con gli anni ’90 si registra
una sostanziale frenata dell’attività di scavo; gli interventi delle Sovrintendenze
competenti sono volti essenzialmente al consolidamento delle strutture in
elevato dell’Incompiuta, mentre per la Chiesa Vecchia si registrano i soli lavori di
sistemazione del piazzale antistante l’edificio33 [Fig. 16].
Note conclusive sulla SS. Trinità
Alla luce di quanto rilevato nelle pagine precedenti, si comprende come la SS.
Trinità di Venosa abbia rappresentato e rappresenti ancora oggi un monumentopalinsesto, frutto delle numerose stratificazioni intervenute sull’edificio nel corso
dei secoli.34
Prescindendo dal fatto che la chiesa abbia ricoperto o meno il ruolo
di cattedrale cittadina, ipotesi sostenuta dagli studiosi, a cominciare da M.
33
34
Per la bibliografia riguardante questi interventi, si rimanda alle note delle pagine precedenti.
Cfr. supra.
126
Giacomo Cirsone
Salvatore, sulla quale in questa sede si sono avanzati dei dubbi, la basilica
rappresenta l’esempio più tardo noto di applicazione della pianta cosiddetta
circiforme, secondo l’espressione coniata da R. Krautheimer, per la quale si
sono evidenziate le linee di diffusione nelle provinciae occidentali dell’Impero
Romano, con un duplice influsso per l’edificio venosino, da N attraverso la Via
Appia direttamente da Roma (dove il modello fu concepito in età costantiniana),
e da S dall’Africa, dove si trovano le applicazioni più grandiose e complesse del
modello.35
La Trinità di Venosa è un edificio organicamente concepito, con tutti gli
elementi canonici del modello circiforme; la presenza sia del deambulatorio
absidale che della coppia “cripta a corridoio-loculus per reliquie”, quest’ultima
data dallo sdoppiamento del dispositivo della crypte d’autel studiato dal Sodini36,
assolve perfettamente alla funzione martiriale della chiesa37, da cui si sviluppano
in certa misura la dimensione funeraria e la pratica dei pellegrinaggi; quest’ultima
in particolare era favorita dalla particolare posizione della basilica, posta lungo il
tracciato della Via Appia, in prossimità del circuito murario romano, e dall’arredo
liturgico dell’interno dell’edificio che si prestava allo svolgimento di processioni
per la venerazione delle reliquie conservate nel loculus sotto l’altare, e visibili dalle
aperture dell’abside oltre che probabilmente dalla porta (fenestella confessionis)
aperta nella cripta a corridoio.38
Se il deambulatorio scompare abbastanza presto, essendo un elemento
legato ad un determinato contesto storico, sopravvive invece la coppia criptaloculus, determinante sia per la funzione martiriale39 (che origina il fenomeno del
pellegrinaggio), che per quella funeraria.
Il ricordo della presenza di reliquie venerate è uno degli elementi che
permettono alla chiesa di sopravvivere attraverso i secoli, grazie anche ai pellegrini
che non dovettero mai venir meno, neanche nei periodi in cui la piena funzionalità
della chiesa era compromessa dalla realizzazione di strutture pertinenti allo
stabilirsi di una comunità monastica all’interno dell’edificio, e dalla realizzazione
di attività artigianali (cantiere per campana) nella parte W della navata centrale; la
funzione di luogo di pellegrinaggio fu rinverdita e potenziata dai Normanni, che
inserirono la SS. Trinità in un contesto di respiro europeo, dotandola dei corpi di
Per l’Africa sono particolarmente pregnanti i confronti con Bir Ftouha e Siagu, entrambi nell’attuale
Tunisia.
36
Cfr. Jean-Pierre Sodini, Les Cryptes d’autel paléochretiennes: essai de classification, in «Travaux et Mémoires. Hommage à M. Paul Lemerle», 8, 1981, Paris, Editions E. de Broccard, 1981, pp. 437-458.
37
Si ricorda la presenza del piccolo sepolcreto impiantato nelle strutture d’età romana e tardoantica subito
prima dei lavori di costruzione della basilica paleocristiana, ed oggetto di venerazione quale che fosse la
natura dei defunti ivi sepolti.
38
Cfr. supra.
39
Quale che sia la natura delle reliquie conservate nel loculus sotto l’altare della chiesa.
35
127
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
fabbrica funzionali all’accoglienza di pellegrini, al pari degli altri santuari medievali
europei,40 e concependo l’ambizioso progetto dell’Incompiuta.41
La cripta, ereditata dalla fase paleocristiana e rimaneggiata nel tempo, resta
l’elemento cardine delle pratiche devozionali, e continua ad essere in uso fino alla
sua dismissione nel XVI secolo; dopo questa data è solo la memoria delle reliquie
presenti nella chiesa e rinvenute nel corso del ‘600 a determinare pratiche di
pellegrinaggio su scala regionale, protrattesi a livello di tradizione popolare sino
ad età recente.42
Sono quindi la memoria delle reliquie e la loro venerazione i due elementi
che hanno permesso all’edificio tardoantico di giungere pressoché intatto,
attraverso tutte le successive stratificazioni fino ad oggi, con la possibilità di essere
in qualche modo reinventato e rifunzionalizzato di volta in volta, dopo il venir
meno della ragion d’essere che aveva dato luogo alla costruzione di un edificio a
pianta circiforme.
40
Si tratta della cappella, dell’atrio, della sacrestia, della torre NW e delle strutture del portico individuate
sul piazzale antistante la chiesa. Tra gli interventi normanni va inserito anche il prolungamento delle navate
centrale e destra.
41
Cfr. supra.
42
Testimonianza della presenza di pellegrini è la fiera della SS. Trinità, che aveva luogo nell’Ottava di Pentecoste, attestata almeno dall’età angioina, e che si teneva davanti alla chiesa (cfr. supra); Mezzina riporta la
notizia secondo cui i pellegrini e i visitatori si accampavano all’interno dell’Incompiuta e nei dintorni della
chiesa con le loro masserizie.
128
Giacomo Cirsone
Tavole riassuntive
Tabella 1. Prospetto cronologico delle chiese a pianta circiforme divise
per aree geografiche (elaborazione G. Cirsone).
Luogo
Datazione
IV secolo
V secolo
Roma
FriuliVeneziaGiulia,
Trentino-Alto
Adige, Slovenia
S. Sebastiano
(Basilica
Aquileia,
Apostolorum),
Beligna
(metà
Anonima della
IV
s.)
Prenestina, SS.
Marcellino e
Pietro, Papa
Marco, S. Lorenzo,
Sabiona (fine
S. Agnese (età
IV-inizi
V s.),
costantiniana)
S. Lorenzo
di Sebato
(400 circa),
S. Pietro di
Castelvecchio
(inizi V s.)
Celeia (metà
V s.)
VI secolo
Piemonte,
Val d’Aosta,
Svizzera
Tunisia
Toscana
Francia
Basilicata
S. Étienne
di Aosta (V
secolo)
S. Vittore
di Sizzano
(seconda metà
V s.)
Oum-elS. Lorenzo di
Abouad
Gozzano (fine (V-VI s.),
Andernos
V-inizi VI s.), Damous(fine
Sion, SousV-inizi
el-Karita
les-Scex (fine
VI s.)
(V-VI s.)
V-inizi VI s.),
S.
S. Maria di
Pietro
Morgex (fase
di VI secolo Siagu (post di Pava
533), Bir (VI s.)
SS.
Ftouha
Trinità
di
(post 540)
Venosa
(578
circa)
129
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
Tabella 2. Distribuzione statistica delle chiese a pianta circiforme
divise per aree geografiche (elaborazione G. Cirsone)
Località/area geografica
N.
Roma
6
Arco alpino orientale (Friuli-Venezia Giulia,
Trentino-Alto Adige, Slovenia)
5
Arco alpino occidentale (Piemonte, Val d’Aosta,
Svizzera)
5
Tunisia
4
Toscana
1
Francia
1
Basilicata
1
Totale
23
Tabella 3. Diagramma crono-geografico della diffusione del modello
circiforme (elaborazione G. Cirsone)
130
Giacomo Cirsone
Tabella 4. Prospetto riassuntivo delle chiese a pianta circiforme con
l’indicazione del patrocinio, della datazione, delle indicazioni topografiche
fondamentali, degli elementi architettonici più salienti e del rango dell’edificio,
in ordine cronologico (elaborazione G. Cirsone)
Patrocinio
Datazione
Collocazione
Basilica
Apostolorum
o di S.
Sebastiano
Età
costantiniana
Roma, Via
Appia
Basilica
anonima
della
Prenestina
Età
costantiniana
SS. Pietro e
Marcellino
Localizzazione
Sistemazione
zona absidale
Tipo
di
presbiterio
Fulcro
devozionale
Rango
/
Catacomba di
S. Sebastiano;
cripta
di S.
Sebastiano
Chiesa
funeraria
Absidedeambulatorio
/
?
Chiesa
funeraria
Suburbana
Absidedeambulatorio
/
Cripta dei
SS. Pietro e
Marcellino
Chiesa
funeraria
Suburbana
Absidedeambulatorio
/
Tomba di Papa
Marco
Chiesa
funeraria
Suburbana
Absidedeambulatorio
/
Tomba di
Agnese nella
catacomba
omonima
Chiesa
funeraria
Roma, Via
Tiburtina
Suburbana
Absidedeambulatorio
/
Tomba di
Lorenzo nella
catacomba
omonima
Chiesa
funeraria.
Aquileia,
Beligna
Fondo
Tullio (TR)
Extraurbana
Absidedeambulatorio
Esteso
(solea)
Cella per
reliquie nel
deambulatorio
Chiesa
funeraria e
martiriale
Suburbana
Absidedeambulatorio
Roma, Via
Praenestina
Suburbana
Età
costantiniana
Roma, Via
Labicana
Basilica di
Papa Marco
Età
costantiniana
Roma, Via
Ardeatina
S. Agnese
Età
costantiniana
Roma, Via
Nomentana
S. Lorenzo
Età
costantiniana
/
Metà IV
secolo
131
Pianta
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
Sistemazione
Tipo
Fulcro
Patrocinio
Datazione
Collocazione
Localizzazione
S. Lorenzo
400 circa
Sebato (BZ)
Extraurbana
Banco
presbiterialedeambulatorio
Esteso
(banco,
bema, solea)
?
Chiesa
funeraria
/
Inizio V
secolo
Sabiona
(BZ)
Extraurbana
Banco
presbiterialedeambulatorio
Esteso
(banco,
bema, solea)
Loculus nel
bema; loculus
secondario
nell’abside
Chiesa
funeraria e
memoriale
S. Pietro
Inizio V
secolo
Castelvecchio
(BZ)
Chiesa inserita
in un castrum
Banco
presbiterialedeambulatorio
Esteso
(banco,
bema, solea)
/
Chiesa di
pellegrinaggio?
S. Étienne
V secolo
Aosta (AO)
Suburbana
Absidedeambulatorio
/
/
Chiesa
funeraria
Fossa per
reliquie nel
deambulatorio
evidenziata
da una lastra
marmorea
Chiesa
martiriale
zona absidale
di
presbiterio
devozionale
Rango
/
Metà V
secolo
Celeia - Celje
(Slovenia)
Extraurbana
Absidedeambulatorio
Ridotto
(recinto
presbiteriale)
S. Vittore
Seconda metà
V secolo
Sizzano
(NO)
Rurale
Banco
presbiterialedeambulatorio
Ridotto
(recinto
presbiteriale)
/
Chiesa
battesimale
S. Lorenzo
Fine V-inizi
VI secolo
Gozzano
(NO)
Rurale
Banco
presbiterialeabside
Ridotto
(recinto
presbiteriale)
Tomba del
diacono
Giuliano nel
deambulatorio
Chiesa
funeraria
132
Pianta
Giacomo Cirsone
Patrocinio
Datazione
Collocazione
/
Fine V-inizi
VI secolo
Sion,
Sousle-Scex
(Svizzera)
/
Fine V-inizi
VI secolo
Localizzazione
Sistemazione
zona absidale
Tipo
di
presbiterio
Fulcro
devozionale
Rango
Extraurbana
Absidedeambulatorio
(indipendenti
dal resto della
chiesa)
/
Reliquie
nell’abside?
Ecclesia ad
sanctos?
Andernosles-Bains,
Gironda
(Francia)
Extraurbana?
Absidedeambulatorio
/
/
Chiesa
funeraria
V-VI secolo
Oum el
Abouad,
Suburbium
di Cartagine
(Tunisia)
Extraurbana
Absidedeambulatorio
/
/
Chiesa
funeraria?
/
V-VI secolo
Seressi,
Damous
el Karita
(Tunisia)
Extraurbana
Absidedeambulatorio
/
/
Chiesa
funeraria
S. Maria
Fase di VI
secolo
Morgex
(AO)
?
Absidedeambulatorio
Esteso
(recinto
presbiteriale,
solea)
deambulatorio
Chiesa
funeraria
Post 533
Siagu,
Dintorni di
Hammamet
(Tunisia)
Absidedeambulatorio
Ridotto
(recinto
presbiteriale)
Tomba
privilegiata
nel recinto
presbiteriale
e loculus
nell’abside
Chiesa
cattedrale?
/
/
Urbana?
133
Pianta
La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte)
Sistemazione
Tipo
Fulcro
Patrocinio
Datazione
Collocazione
Localizzazione
/
Post 540
Bir Ftouha,
Suburbium
di Cartagine
(Tunisia)
Suburbana
Absidedeambulatorio
Esteso
Tombe
Chiesa di
(recinto
privilegiate nel
pellegrinaggio?
presbiteriale,
presbiterio
solea)
S. Pietro
VI secolo
Pava (SI)
Rurale
Abside-banco
presbiteriale
Ridotto
(recinto
presbiteriale)
Reliquie
nell’abside W
Absidedeambulatorio
Esteso
(recinto
presbiteriale,
schola
cantorum)
Deambulatorio,
Chiesa
cripta a
commemocorridoio,
rativocamera per
martiriale
reliquie sotto
l’altare
SS. Trinità
578 circa
Venosa (PZ)
Urbana
zona absidale
134
di
presbiterio
devozionale
Rango
Chiesa
pievana
Pianta
Federica Elisabetta Triggiani
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
di Federica Elisabetta Triggiani
Capitolo III
3.1. Le leggi suntuarie
I costumi possono essere annoverati tra i ‘documenti’ di un popolo. Attraverso
una meticolosa analisi di essi si può, infatti, risalire alle condizioni economiche e
sociali di un determinato territorio in una determinata epoca, desumere il tenore di
vita dei suoi abitanti e arrivare persino a scoprire attività artigianali, artistiche ed,
eventualmente, industriali di quel luogo. Infatti per realizzare i capi d’abbigliamento
occorre passare dal reperimento delle materie prime alla loro lavorazione, fino a
giungere alla realizzazione del modello: in tale processo vengono coinvolti luoghi,
persone e capitali finanziari.
Risulta fondamentale, quindi, soffermarsi sul valore simbolico dell’abbigliamento, in quanto «vestirsi è […] una pratica piuttosto costosa e un guardaroba fornito è segno indiscutibile di disponibilità economiche e garanzia di visibilità sociale».1
Nel Medioevo si cercò di porre un limite alla diffusione del lusso attraverso
l’emanazione di leggi suntuarie. In Italia i primi regolamenti risalgono al Duecento
e andranno scomparendo alla fine del Settecento; queste leggi, nate inizialmente con
l’intento di limitare gli sprechi causati dal lusso e regolare l’omogeneità delle classi
sociali, finirono per essere «[…] viziate dalla vanità dei privilegi, che approfittando
della loro potenza se ne servivano per inibire, anche a chi ne avesse avuti i mezzi,
di uguagliarli nello sfoggio di indumenti ricchi e vistosi».2
Queste prammatiche variavano a seconda dei luoghi. Ad esempio nella Roma
del ‘600, pur essendo in vigore la Riforma del vestire emanata nel 1586, «in realtà
la legislazione romana in materia di lusso non è molto restrittiva»,3 come afferma
la Ago a proposito di questo argomento.
1
Alessandra Tessari, Trasferimenti patrimoniali e cultura materiale nella Puglia del primo Settecento.
(Monopoli 1721-1740), Bari, Cacucci Editore, 2007, p. 187.
2
Levi Rosita Pisetzky, Moda e costume, in Storia d’Italia. I documenti, vol. V, Torino, Einaudi, 1973, p. 942.
3
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 102.
135
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
In generale, le norme contro l’eccessivo sfoggio avevano lo scopo di
proteggere il mercato artigianale locale da quello forestiero, evitare fenomeni di
indigenza che avrebbero gravato sul bilancio statale e diffondere un forte senso
morale tra la popolazione. Il reale rispetto di queste leggi venne disatteso nella
maggior parte dei casi, in quanto esse si prestavano a diverse interpretazioni oppure
venivano di fatto ignorate perché ritenute obsolete. Una moda, quindi, riusciva lo
stesso ad imporsi, sebbene in ritardo.
Come risulta dagli inventari, anche Foggia non sembrava essere sottoposta a
dure restrizioni, sia per quanto riguarda l’abbigliamento, che per quanto concerne
utensili, ninnoli e gioielli.
3.2. La biancheria
La nostra analisi prende le mosse dalla biancheria personale e della casa,
fondamentale nella vita quotidiana di ogni famiglia, ma particolarmente curata
nelle case foggiane dell’epoca, come risulta dai documenti consultati.
La tabella riportata a seguito mostra, infatti, una gran quantità di biancheria per
la casa, che comprende sia i tessuti utilizzati per le rifiniture di letti e finestre (come le
cortine e i portieri, già ampiamente descritti nel secondo capitolo), sia le stoffe usate
per realizzare capi per la pulizia personale e per il rivestimento di cuscini e materassi.
Tabella 6 - Capi di biancheria
Capi di biancheria
Coperte
Cortinaggi
Facce di cuscino
Lenzuola
Mensali
Portieri
Salviette
Tornaletto
Tovaglie
Zinevre
Quantità
79
17
181
157
63
60
302
4
131
7
Ad esclusione degli inventari di Giuseppe Mastrogiacomo e di Pasquale
Cognetti, che non riportano alcun capo d’abbigliamento e nessuno di biancheria,
tovaglie e lenzuola sono largamente presenti in tutte le abitazioni: anche in questo
caso, però, si evidenzia una notevole differenza economica. La biancheria di Angelo
Ramundi4 consiste in sei lenzuola di tela di casa, tre coperte d’obletto, quattro
4
Sugli usi e costumi dei contadini si veda P. Malanima, Il lusso dei contadini. Consumi e industrie nelle
campagne toscane del Sei e Settecento, Bologna, Il Mulino, 1990.
136
Federica Elisabetta Triggiani
facce di cuscini d’orlettone, quattro tovaglie di tela di casa e tre tovaglie di seta. Di
altri accessori non è indicata la qualità dei tessuti, quindi si presume non si tratti di
stoffe preziose.
La biancheria delle famiglie nobili, o con maggiori disponibilità economiche,
risulta preziosa nei tessuti e nell’ aggiunta di merletti (pezzilli), frange di seta e
ricami particolari come «quattro tovaglie ad occhio di gallina»5 e «undici salvietti a
pipirello»,6 ossia un ricamo a rilievo.
Non bisogna, però, dimenticare che si tratta di inventari post mortem, i
quali, a differenza di quelli dotali, registrano la presenza di un elevato numero di
biancheria definita usata o vecchia. I documenti analizzati, come già accennato,
non ci permettono di conoscere nel dettaglio l’iter di questi indumenti, ossia se essi
fossero stati prestati o dati in pegno per un certo periodo: gli inventari «si limitano
a fotografare la situazione in un momento determinato e tacciono invece sulla sua
evoluzione nel tempo».7 Gli aggettivi utilizzati per la loro descrizione sono dunque
fondamentali per capire il loro stato di conservazione.
Risultano rare le descrizioni di biancheria intima come le mutande, elencate
solo nell’inventario del dottor Tortorelli, in cui si annota la presenza di questo
capo nel baule di ogni componente della famiglia.
Le calzette sono possedute soprattutto dagli uomini. Esse svolgevano una
funzione importante in quanto visibili fino a metà polpaccio, da dove poi partiva
il calzonetto. Il tessuto utilizzato era la lana, il bombace, il filo e, nei casi più
aristocratici, la seta, poiché «cura settecentesca dei particolari è quella di avere
calzette speciali per ogni abito».8
La biancheria dei bambini non è molto numerosa, anche perché sono poche
le famiglie esaminate con figli piccoli. Essa consiste in bavettini (Barone), fasce per
fasciar bambini, tovaglie con merletti per battesimo (Mazza), e Nicola Andrea di
Peppo pensa anche ad ornare la culla dei figli con «una tovaglia di tela di fiume a
due fasce».9
Gli inventari rivelano, inoltre, la presenza, e quindi l’uso, di alcuni oggetti
da toilette, come bacili di stagno, conche di rame e barbiere che, insieme all’elevato
numero di tovaglie da faccia, testimoniano un largo utilizzo di acqua in casa per
l’igiene e la pulizia personale.
Il capitano Tortorelli, possiede, per esempio, un «lavamano con piccola
conca di rame»,10 mentre il fratello Nicola «una barbiera di faenza con due tovaglie
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3722, ff. 102-104.
Ivi,Greci, prot. 2608, ff. 190-193.
7
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 94.
8
Levi Rosita Pisetzky, Storia del costume in Italia, vol. IV, Milano, Istituto editoriale italiano, 1967, p. 96.
9
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474.
10
Ivi, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262.
5
6
137
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
per far la barba».11 Tra l’argenteria di Don Ignazio Conte vi è la descrizione di «un
bacile e per uso di barba […]; una giarra d’argento per l’acqua».12
3.3. Gli abiti maschili e femminili
Se nell’ età contemporanea l’abbigliamento è segno del proprio status sociale,
sia per gli uomini che per le donne, si può ben comprendere come anche nei tempi
passati vestirsi diventava un problema economico e sociale.
Infatti se l’abbigliamento è dimostrazione di ricchezza, senso del gusto e di
eleganza, in ogni occasione pubblica legata a matrimoni, nascite, funerali o altri
eventi mondani bisognava indossare vestiti non solo sfarzosi, ma anche all’ultima
moda.
Il termine moda, come ci informa Pisetzky, proviene dal francese e fa il suo
ingresso in Italia verso la metà del XVII secolo. Esso indica la foggia del costume
corrente, ma, in quegli anni, come vedremo, assume anche un significato più
profondo.
Il Settecento è il secolo che maggiormente risente dell’influenza francese
nel campo dell’abbigliamento. Lo stile adottato si differenzia nettamente dagli
abiti utilizzati agli inizi del Seicento: le donne, infatti, abbandonati i vestiti rigidi
che bloccavano e nascondevano i movimenti del corpo, si appropriano di una
nuova linea morbida e più sensuale, rivolgendo «un’attenzione più accentuata
rivolta a quei modi dell’apparire per cui Parigi è un prodigioso laboratorio di
sperimentazione».13
I primi a determinare la moda del momento erano gli aristocratici, i quali
modificavano rapidamente fogge e modelli, mentre le classi popolari, «per spirito
di imitazione e desiderio di emergere»14 tentavano di adeguarsi a loro.
Non avendo reperito negli anni presi in considerazione alcun inventario
femminile, possiamo avvalerci degli abiti da donna ritrovati negli inventari
maschili per poter esaminare le differenze esistenti tra gli ‘usi e costumi’ dei due
sessi. È doveroso tener presente, però quello che Daniel Roche ha giustamente
sottolineato e cioè che «[…] le lacune rendono difficile, su certi punti,
l’interpretazione: c’è il rischio che facciano sottovalutare in consistenza e valore
il peso del guardaroba».15
Prima di elencare le proprietà dei singoli capi è opportuno notare i dati
riportati nella seguente tabella.
Ivi, prot. 2610, ff. 119t-123.
Ivi, prot. 2608, ff. 190-193.
13
Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 223.
14
Pisetzky, Moda e costume, cit., p. 950.
15
Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 219.
11
12
138
Federica Elisabetta Triggiani
Tabella 7 - Indumenti ritrovati negli inventari
Abito
Quantità
Andriè
Busto
Calzette
Calzoni
Camicie
Cantuscia
Cappotto
Corpetti
Ferraiolo
Giamberga
Giamberghini
Gonnella
Grembiule (sinale)
Livree
Mantella
Sottana
17
18
70
60
126
20
12
23
8
33
56
11
20
9
7
22
Alcuni di questi indumenti sono utilizzati sia da uomini che da donne, ma la
maggior parte di essi è facilmente attribuibile al sesso di appartenenza. Le camicie,
considerate più che altro capi di biancheria personale, spiccano come numero e
risultano essere il capo più importante perché presente in quasi tutti gli inventari.
Ciò che caratterizza l’appartenenza della camicia ad un ceto o all’altro sono il tessuto
ed eventuali ricami o accorgimenti. All’epoca era ritenuto un capo fondamentale
per l’igiene, in quanto separava la pelle dalle vesti e, probabilmente per evitare che
si logorasse con l’eccessivo lavaggio, era fornita di maniche che venivano staccate e
sostituite da altre di ricambio. I manichetti, ossia polsini applicati per impreziosire
il capo, in realtà servivano anche per allungare la manica.
L’abbigliamento femminile del XVIII secolo risultava essere composto
dall’andriè (o andrienne), «[…] vestito per eccellenza che si afferma come novità
elegante subito dopo i due primi decenni».16
Nella Roma del Seicento, infatti, essa non compare tra gli inventari né
maschili né femminili studiati dalla Ago, la quale riferisce che era utilizzata spesso
«l’espressione sommaria “abito” o “vestito”»17 che non chiariva se si trattasse
ancora di moda spagnola o se quella francese avesse già preso il sopravvento.
Inizialmente l’andriè fu fonte di scandalo in quanto assumeva forme più
libere rispetto a quelle tradizionali: «scende addirittura fino a terra, aderisce al
16
17
Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 52.
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 99.
139
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
busto lasciando ampiamente in vista la profonda scollatura, ma dietro ha una falda
a pieghe che scende fluttuante dalle spalle senza aderire in vita, per allargarsi infine
mollemente in un amplissimo strascico».18 È l’unico capo femminile che appare in
soli quattro inventari, cioè quelli degli uomini più facoltosi. Le sorelle di Nicola
Tortorelli possiedono almeno due andriè ciascuno, uno da lutto e uno per le
passeggiate; Marianna Grano, moglie di Leonardo Mazza, indossa «un andriè di
drappo di Francia con fiori d’argento e di seta dal fondo scuro».19
La cantuscia, ovvero il cantusciu, è una variante palermitana dell’andriè con
le maniche strette, ugualmente considerata una veste di lusso.
Fatta eccezione per i due inventari che non menzionano abiti e per quello di
Antonio Belli che elenca esclusivamente abiti maschili, tutti i rimanenti documenti,
da me esaminati, contengono la descrizione di capi di vestiario femminile. Da
esse si evince che il guardaroba di una donna era così composto: dalla veste, a
volte chiamata andriè o cantuscia, dal busto,20 dalla sottana, da una gonnella, ed è
arricchita da eventuali mantelli (mantò o mantellette) e grembiuli (detti senalini o
vantesini). La pettorina, che troviamo sotto il nome di pettiglia, serviva a coprire in
parte il seno ed era solitamente di tessuto d’argento e guarnito con trine.
Tutte le rispettive mogli o figlie possiedono almeno due cambi di abiti,
accessori e varie guarnizioni.
Il guardaroba maschile risulta essere molto più statico di quello femminile,
in quanto tutti gli uomini, di qualunque ceto, possiedono gli stessi indumenti,
anche se di tessuti diversi.
Il tipico vestito intero era composto da tre pezzi: giamberga, giamberghino
e calzone. Con il termine giamberga, utilizzato solo da Napoli in giù, si indicava
il vestito di gala, o comunque di ceti medio-alti, caratterizzato da «maniche molto
lunghe, un po’ svasate in basso, niente colletto, petto sporgente e vita stretta».21
Il giamberghino era il nome utilizzato per definire il panciotto, spesso in
coordinato con il calzone, il quale terminava sotto il ginocchio e da lì si potevano
notare le calze tese ben in vista. Pur essendo definito l’abito dei nobili, tutti gli
inventari contenenti abiti maschili riportano almeno un esemplare ciascuno,
mentre le famiglie più facoltose potevano permettersi di cambiare un vestito per
ogni diversa occasione. Ma esaminiamo alcuni esempi concreti.
Angelo Ramundi possiede solo un vestito intero, «un giamberghino usato»22 e
nessuna giamberga; mastro Mucella lascia invece nel suo inventario «due giamberghe
Ivi, p. 53.
S.A.S.L., atti dei notai, serie I, prot. n°3714, ff. 170-180.
20
Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 61: «Tradizionale capo di vestiario è invece il busto, di ricche stoffe assortite al sottanino, che ora approfondisce la secentesca scollatura ovale in una audace apertura
ampiamente quadra o rotonda. La sua linea aderentissima stringe spietatamente la vita nella morsa di fitte e
robuste stecche di balena o di asticelle di ferro, inserite nel doppio strato della forte fodera di tela. In questo
modo il seno è spinto in alto assumendo un risalto procace».
21
Ivi, p. 166.
22
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2635, ff. 310-311.
18
19
140
Federica Elisabetta Triggiani
di panno, una color pignolo con giamberghino di scarlato […] e un giamberghino
d’amuerro torchino con due paja di calzoni a colori»,23 mentre Francesco del Prete
solo «una giamberga di panno fine color pigna, un giamberghino e un calzone
simile, intero vestito».24
Molto diversa è la situazione a casa di personaggi come Leonardo Mazza,
i fratelli Tortorelli o don Ignazio Conte, i quali possiedono in media sei o sette
giamberghe con rispettivi giamberghini e calzoni.
Un segno dell’evoluzione dell’abbigliamento nel XVIII secolo ci viene
fornito dalla studiosa Ago quando, descrivendo il contenuto dei guardaroba
romani del secolo precedente, afferma che «non sono pochi tuttavia gli uomini che
[…] possiedono anche una zimarra, cioè una lunga palandrana abbottonata davanti
che scende a coprire gran parte delle gambe, o arriva fino a terra. […] Dopo il 1650
tende a passare di moda e anche gli inventari ne risentono».25 In effetti di questo
capo non c’è traccia negli inventari foggiani, probabilmente perché sostituito ormai
dai mantelli, mentre, per quanto riguarda gli accessori, si nota una netta differenza
con i dati di quegli inventari romani.
La seguente tabella mostra ciò che sia uomini che donne amavano utilizzare
per variare i modelli dei loro abiti standard:
Tabella 8 - Accessori maschili e femminili
Accessorio
Cappelli
Codette
Cravatte
Cuffie
Fasce
Fazzoletti
Golette
Guanti
Maccaturi
Manichetti
Manicotti
Pettiglia
Prigioniero
Scarpe
Sciarpette
Scollino
Quantità
Ivi, Pacileo, prot. n°3722, ff. 102-104.
Ivi, Greci, prot. n°2608, ff. 190-193.
25
Ago, Il gusto delle cose, cit., pp. 99-100.
23
24
141
34
5
13
21
5
21
4
12
19
20
22
5
4
26
10
4
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
Come si può notare questo è il secolo in cui «si consolidano nuove abitudini
di consumo […] soprattutto nella sfera dell’accessorio e del superfluo».26
La presenza di cappelli, dei manicotti e dei fazzoletti è molto frequente così
come i manichetti e le scarpe. I fazzoletti di solito erano molto grandi ed ornati con
ricami e merletti. Se a Roma nel secolo precedente «collari, polsini sono […] rari e
i cappelli praticamente inesistenti»,27 a Foggia, un secolo più tardi, risultano essere,
invece, molto ‘alla moda’.
I cappelli risultano presenti in dieci inventari, sia tra gli accessori maschili
che femminili, distinguendosi tra coppole, pagliette e semplici cappelli28. Ad
esempio Leonardo Mazza possiede «una coppola vecchia negra di amuerre con
fodera d’armesino rosso; una coppola di velluto negro da donna; quattro coppole
di bombace bianca».29 Le donne, per coprirsi il capo, preferivano utilizzare
anche la scuffia «che da due secoli era quasi scomparsa, come segno non d’uso
ma di eleganza».30 Essa è presente in sei inventari e risulta più volte associata a
manicotti, guanti, sciarpette e grembiuli come parte integrante di un completo
elegante per le uscite in città, mentre in altri casi si trova descritta come «cuffia
di comodo».31
Le settanta paia di calzette presuppongono la presenza di un elevato numero
di scarpe per poter essere indossate. Esse invece risultano solo ventisei in tutto,
tra uomini e donne, e nel caso di Francesco Barone, si parla di più paia di scarpe
senza enumerarle con precisione. Se si considera che dodici paia appartengono
alla famiglia di Peppo e tre paia si ritrovano in ognuno dei due inventari dei
fratelli Tortorelli, nei rimanenti elenchi si ha una media di un paio ciascuno tra
scarpe, stivaletti e pianelli; c’è poi anche da chiedersi come mai alcune famiglie,
come quella di Filippo Totta e Michele Mucella, sembrano non possedere alcuna
calzatura. È forse giusto pensare che «[…] portano con sé nella tomba quell’unico
paio di cui sono in possesso, per non presentarsi scalzi davanti al loro Creatore».32
Diversi libri, enciclopedie e ritratti hanno fornito indicazioni precise sui modelli
delle scarpe dell’epoca, sebbene negli atti notarili vengano descritte principalmente
le stoffe e le guarnizioni che le caratterizzano. Non si parla infatti di tacchi, ma di
«un paio di scarpe con fibie di brilli falsi»,33 «un paro di vitellino bianco usato»34 e
«un paio di stivaletti di panno con suoi bottoni nuovi».35
Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 223.
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 100.
28
Spesso sono descritti con o senza bordi d’argento o dorati.
29
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 26t-27.
30
Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 87.
31
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474.
32
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 101
33
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
34
Ivi, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474.
35
Ivi, prot. 2641, ff. 199t-205.
26
27
142
Federica Elisabetta Triggiani
Bottoni, fibbie, galloni e merletti erano considerati dettagli fondamentali
per impreziosire ogni capo: «una giamberga e calzone di castoro con bottoni
d’argento color rosa; un giamberghino d’amuerre rosa con gallone d’argento»;36
Angelo Ramundi nel suo inventario ci mostra «una camisola di scarlato da donna
con bordo d’argento e bottoni d’argento massiccio».37
Alcune famiglie disponevano di servitori e famigli e dagli inventari si deduce
che esse si occupavano anche del loro abbigliamento.
Nella tabella, infatti, le livree risultano essere undici. Questo capo era
indossato dal personale domestico ed era costituito da una giacca da sera, pantaloni
sotto il ginocchio e calze. I notai non si soffermano nella descrizione dettagliata ma
si limitano a constatare se esse siano nuove o usate. La sua funzione consisteva nel
segnalare all’esterno che la persona che le indossava era un domestico, mentre la
qualità dei tessuti ed i colori servivano a chiarire di che tipo di famiglia padronale
si trattasse, in quanto era un bene del padrone «rigidamente riservato ai ricchi
signori e ai borghesi gentiluomini».38 In effetti la livrea si ritrova esclusivamente
in case di un certo ceto: due appartengono ad Ignazio Conte, quattro a Felice
Tortorelli, tre a Nicola Tortorelli e due a Francesco Barone. Oltre al vestito, i
‘padroni’ offrivano ai loro servitori anche altri accessori come un cappello39 ed
anche un cappotto.40
Attraverso l’analisi di questi atti notarili siamo in grado di conoscere anche
com’erano costituiti alcuni abiti ‘speciali’.
Il fratello di Nicola Tortorelli, Pietro, per esempio, aveva intrapreso la
carriera ecclesiastica e nell’inventario c’è la descrizione del suo abito da cerimonia:
«un rocchetto e una mantelletta da spumiglione nero»;41 Leonardo Mazza possiede,
invece, «un camice cincolo, cappuccio e coppitella a uso dei Confratelli della
Congregazione del Santissimo di doblettone usato […] e il tutto si restituisce alla
congregazione come costumanza».42
3.4. Al passo con la moda
Dall’analisi effettuata sui capi d’abbigliamento e sugli accessori dell’epoca,
risulta evidente che l’eleganza maschile non è inferiore a quella femminile.
Abbandonato il periodo barocco caratterizzato da colori cupi, forme
esuberanti ed accostamenti a volte troppo eccentrici dei tessuti, l’Italia ed altre
nazioni cominciano ad assorbire l’atmosfera che si respirava alla corte francese,
Ivi, Pacileo, prot. 3722, ff. 126t-130.
Ivi, Ricca, prot. 2635, ff. 310-311.
38
Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 227.
39
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
40
Ivi, prot. 2608, ff. 349-352.
41
Ivi, prot. 2610, ff. 119t-123.
42
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
36
37
143
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
stando al passo con le continue variazioni di stile: «il barocco urla, esclama, declama,
il rococò occhieggia, sorride, conversa a mezza voce».43
I primi a cogliere le nuove tendenze furono gli appartenenti alle classi più
agiate, i quali vennero fortemente attratti dalle mode straniere, recando così un
danno economico e d’immagine alla propria nazione.
Si utilizzava la locuzione alla moda non solo per i mobili, ma anche per
vestiti, gioielli ed argenterie. Non a caso nell’inventario di Mazza sono presenti
«due guarnizioni di seta ritorta e ricamata a fiori sovrapposti all’antica per vesti
intere da donna affatto fuori moda».44
Seguire le tendenze del momento, tuttavia, significava non solo adeguarsi ai
modelli correnti, ma appropriarsi dei tessuti d’avanguardia. Ed in questo uomini e
donne spesso si differenziavano.
La seguente tabella mostra i tessuti più ricorrenti nel vestiario dei due sessi:
Tabella 9 - Tessuti degli abiti da uomo e da donna
Tessuto
Amuerra
Armosino
Bombace
Cammellotto
Castoro
Criscetto
Damasco
Drappo
Dobletto
Orletto
Panno
Raso
Rattino
Stammino
Saia
Seta
Taffettà
Tela di casa
Velluto
43
44
Donne
25
19
12
3
0
5
4
28
18
3
0
3
4
6
2
5
1
10
7
Pisetzky, Moda e costume, cit., p. 955.
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
144
Uomini
13
2
13
7
7
7
0
8
27
7
37
0
7
2
7
1
0
19
5
Federica Elisabetta Triggiani
La lavorazione dei tessuti e la confezione di abiti costituivano per le società
un importante settore economico, in quanto non esistevano vestiti già confezionati,
ma la creazione di essi era affidata esclusivamente alla sartoria domestica ed
artigianale.
Si legga cosa si pensava a quei tempi: «che quanto porta addosso una persona
agiata, tutto o quasi tutto è mercanzia straniera, nell’atto stesso che abbondiamo di
ogni materia da vestire decentemente un galantuomo. […] Questo commercio di
lusso e di voluttà nuoce all’industria nazionale».45
I tessuti più utilizzati risultano essere il cotone, la lana e la seta, non solo
allo stato semplice, ma soprattutto combinati tra loro e lavorati spesso in modo
particolareggiato.
Il cotone, soprattutto nei suoi derivati di bombace, orletto, dobletto, è presente
in quasi tutti i bauli e i cantarani delle famiglie, utilizzato per il confezionamento
degli abiti e della biancheria più disparata. In effetti nel Settecento «le consuetudini
vestimentarie delle classi ricche, al pari di quelle umili, facevano registrare un nuovo
favore per i tessuti di cotone»,46 benché ancora per molto tempo la supremazia
nella penisola resterà quella della lana e della seta.
Il bombace è ottenuto «dal cotone di scarto»47 e, come risulta dalla tabella,
è utilizzato principalmente per le coperte, le tovaglie ed accessori come calzette,
scarpe e cappelli. Il dobletto è una tela massiccia, proveniente dalla Francia, fatta
di due fibre, lino e bambagia, e si ritrova usata sia per lenzuola che per camicie;
l’orletto, «originario d’Orléans, è un tessuto leggero, lucido […]».48
La Puglia, da sempre produttrice di ottima lana, vantava allevamenti non
solo nel Tavoliere, ma anche nelle zone tra Bari e Taranto, classificandosi come
uno dei centri di «importazione di lana ultramarina e insieme di produzione di
lane locali».49
La fiera di Foggia divenne il più importante mercato laniero del Regno:
«[…] i disordini causati dalla guerra di successione spagnola resero irregolare la
produzione della lana dal 1703 al 1713, con una caduta delle vendite a Foggia su
una media di 63.000 rubbi annui. Il veloce ritorno agli 80.000 rubbi e oltre nella
fiera del 1714 e poi per tutto il corso del XVIII secolo confermò però la ripresa di
lungo periodo dell’economia pastorale».50 I commercianti di tutta Italia, soprattutto
milanesi e veneziani, «accorrevano ad accaparrarsi, richiamati dalle esenzioni fiscali
45
241.
Francesco Di Battista (a cura di), Il Mezzogiorno alla fine del Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1992, p.
46
Gianpiero Fumi, Il cotone, in C. M. Belfanti e F. Giusberti (a cura di), Storia d’Italia. Annali 19. La moda,
Torino, Einaudi, 2003, p. 401.
47
Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 194.
48
Ivi, p. 195.
49
Giovanni Luigi Fontana, La lana, in Storia d’Italia, cit., p. 339.
50
John A. Marino, La fiera di Foggia e la crisi del XVII secolo, in Saverio Russo (a cura di), Storia di Foggia
in età moderna, Bari, Edipuglia, 1992, p. 73.
145
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
e da altri privilegi consentiti dall’apposita fiera funzionante da maggio a tutto
agosto».51 Essi infatti si appropriavano delle lane più pregiate, mentre quelle di
media qualità restavano nella regione per essere vendute localmente ai ceti mediobassi.
I dati raccolti nella tabella testimoniano un vasto utilizzo di lana soprattutto
nella biancheria da casa e personale, mentre per gli abiti venivano utilizzati suoi
derivati quali il panno e la saia.
Il panno si presentava come un tessuto pesante, «follato e pressato oppure
garzato e lucidato»,52 utilizzato, come si può constatare, esclusivamente per gli
abiti maschili, in quanto si prestava ad essere un tessuto impermeabile ed un ottimo
isolante termico. Francesco Barone possiede «una giamberga ed un giamberghino di
panno sanseverino usato»,53 mentre Nicola di Peppo «una giamberga e giamberghino
di panno d’Inghilterra color caffè con due calzoni foderati di saja».54
La saia costituisce l’armatura più utilizzata nella produzione dei tessuti di
lana, in quanto, grazie alla sua struttura ad intreccio, è una delle più resistenti. È
utilizzata sia per la biancheria che per abiti maschili e qualche cantuscia.
La stoffa più pregiata e ricercata risulta essere la seta, la quale si adattava
alla perfezione al gusto e alla moda del tempo. Il fulcro della produzione di questi
nuovi modelli, caratterizzati soprattutto dalla preziosità del disegno e da motivi
leggiadri, era Lione.
L’Italia, pur avendo diversi centri produttivi, non riusciva ancora ad
eguagliare i motivi e i colori del mondo d’oltralpe.
All’interno degli inventari si nota che nessuno rinunciava a possedere
almeno un abito di drappo, velluto o amuerre. Michele Mucella possiede «due
corpettini, uno d’amuerro e l’altro di drappo; tre senali, due di mossolino e uno
di seta negra»;55 Felice Tortorelli invece dispone di «un andriè di velluto nero; una
gonnella di drappo vari colori; due giamberghini ricamati con fondo latte uno di
amuerro e l’altro di criscetto».56 Anche Giuseppe de Benedictis, tra i pochi abiti
registrati, risulta possessore di «un busto ed un corsè di damasco torchino».57
Se inizialmente la seta era sinonimo di potere e privilegio, con il tempo «non
era più la fibra che segnava la differenza fra le diverse classi sociali, ma piuttosto
l’uso di seta operata, molto più costosa di quella unita, e il tipo di disegno che
presentava, le tecniche e i materiali con cui era tracciato».58
Ivi, pp. 339-340.
Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 196.
53
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2608, ff. 349-352.
54
Ivi, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474.
55
Ivi, Pacileo, prot. 3722, ff. 102-104.
56
Ivi, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262.
57
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 26t-27.
58
Roberta Orsi Landini, La seta, in Storia d’Italia. Annali 19. La moda, cit., p. 390.
51
52
146
Federica Elisabetta Triggiani
L’uso di tessuti non locali è testimoniato dalle descrizioni dettagliate che i
notai effettuavano sui singoli capi d’abbigliamento presenti nell’inventario, ma è
possibile conoscere la domanda dei tessuti attraverso gli inventari di botteghe e
fondaci.
Il 10 gennaio 1756 viene eseguito l’inventario del fondaco di Leonardo
Mazza e questo documento ci fornisce dati importanti sui tessuti in commercio in
quegli anni: si vendevano panni d’Inghilterra, di Germania, di Padova, cammellotti
di Sassonia e d’Inghilterra, di Bristol, saia imperiale, saia della regina, saia di Milano
e tele indiane ordinarie. Quindi il mercato variava dai prodotti di qualità media a
quelli più raffinati e ricercati. Alcuni tessuti elencati nel fondaco di negozio non
sono presenti in alcun inventario.
Quest’analisi sulle stoffe è fondamentale se si vuole approfondire il rapporto
tra l’abito e lo status: in alcuni casi, infatti, è utile fare un paragone «tra la sontuosità
degli arredi e la ricchezza e la varietà dei guardaroba».59
Se si considerano gli inventari di Nicola Tortorelli, Leonardo Mazza, Andrea
di Peppo e Felice Tortorelli si riscontra un’evidente equivalenza tra il numero e la
qualità di mobili, soprammobili e vestiti. Il dottor Tortorelli, fino alla sua morte,
nel 1752, era proprietario di circa tredici boffette, cinquantacinque sedie, divani,
cantarani, oltre ad un ricchissimo guardaroba sia maschile che femminile, in cui
sono presenti non solo ogni tipo di capo, dalla biancheria personale ai vestiti più
eleganti, ma si ritrovano ogni tipo di merletti e rifiniture preziose. È l’unico, inoltre,
a possedere «tre pirucche».60
Un esempio diverso è quello offertoci dal patrimonio di Giuseppe de
Benedictis che, pur disponendo solo di una lettiera, una boffetta d’abete e varie
casse di noce, ritenne forse più opportuno conservare gioielli, argenti e diversi abiti
come «due giamberghe, cioè una torchina e l’altra biancaccia; tre giamberghini
di panno e l’altro di cammellotto; sei calzoni di panno e altro di cammellotto»,61
insieme ad altre camicie e capi da donna.
Allo stesso modo incuriosisce l’inventario di Angelo Ramundi, perché,
dopo averlo decifrato, si nota come esso sia povero di mobili (possiede solo una
lettiera, una boffetta e dieci sedie), ma ricco di biancheria ed abiti sia maschili che
femminili, affatto scadenti: risulta, infatti, essere l’unico possessore di «un senale
di taffettà».
Gli inventari di Pasquale Cognetti e Giuseppe Mastrogiacomo, privi di vestiario,
suggeriscono, al contrario, un altro tipo di significato attribuito all’indumento:
probabilmente gli indumenti possedevano un valore economico e per questo sono
stati venduti.
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 107.
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
61
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 26t-27.
59
60
147
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
3.5. I colori
Nel corso del Settecento i tessuti, come abbiamo avuto modo di constatare, si
fanno più leggeri ed ariosi, non soltanto nelle fogge, ma anche nel colore che assume
un ruolo importante nel cambiamento che sta influenzando tutta l’Europa.
Studi relativi al popolo parigino nel XVIII secolo hanno portato ad affermare
che «i colori scuri perdono la loro supremazia: i neri, i grigi, i bruni compongono
ancora i due terzi del totale, ma le tinte calde e squillanti guadagnano terreno: i blu,
i gialli, i verdi, i rosa non sono più eccezioni».62
Un’ulteriore conferma a questa affermazione ci viene offerta da Renata Ago,
la quale nella Roma seicentesca nota che ancora «il nero è assolutamente prevalente
per gli indumenti maschili […] mentre quelli delle donne sono molto più vivaci
[…], con una forte presenza del rosso, seguito dal fulvo e dall’azzurro».63
La seguente tabella mostra qual era la propensione foggiana verso l’uso del
colore nei capi in cui esso è specificato:
Tabella 10 - I colori degli indumenti (tranne gli accessori)
Colori
Biancaccio
Blu
Caffè
Celeste
Fiorato
Giallo
Grigio (piombino)
Latte
Nero
Rosa
Rosso (e varie tonalità)
Turchino
Verde
Viola
Donne
13
1
1
3
7
9
9
9
25
7
18
7
8
1
Uomini
12
4
5
1
1
0
7
4
18
3
12
8
4
0
Il nero predomina ancora nettamente sia nel gusto femminile che in quello
maschile, così come il rosso è presente in entrambi i guardaroba e con diverse
tonalità e sfaccettature: «un busto d’amuerro color ceraso guarnito con gallone e
62
63
Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 232.
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 105.
148
Federica Elisabetta Triggiani
zaina d’argento usata»,64 «un busto di color amiranto ricamato d’argento»,65 «due
sandali di damasco cremisi».66
Il nero, oltre ad essere considerato un colore elegante, era il colore dell’abito
da lutto, il quale «ha seguito, inevitabilmente, modelli di variabilità analoghi
a quelli della moda più in generale, degli abiti e dell’etichetta, e, […] la pratica
funeraria è sempre stata considerata mezzo d’espressione competitiva dello status
e delle aspirazioni di status».67 Questa usanza fu, nel corso del tempo, modificata
a seconda delle regioni e delle varie leggi suntuarie che intervenivano per limitare
ulteriori inutili spese, e si diresse ora nei confronti dei ricchi, ora ai ceti inferiori.
Nella realtà foggiana di quegli anni la pratica funeraria era appannaggio delle
classi più elevate. Tra i quindici inventari esaminati, solo quello del dottor Tortorelli
risulta ricco di completi descritti come «un andriè, merletti, scuffia, priggioniero,
senalino e guanti di seta e manichetto di lutto» e «una giamberga da lutto».68 Tutti
gli altri documenti ne risultano privi.
Meno numerosi, ma altrettanto frequenti, risultano i colori chiari come il
giallo (il quale non compare tra gli abiti maschili), il bianco, il turchino, il verde ed
il rosa.
L’uomo del tempo, al pari della donna, non rinunciava, quindi, a sfoggiare
tutta una serie di sfumature che mettessero in risalto i propri capi, trasmettendo
così un atteggiamento meno cupo. La stoffa fiorata, però, era utilizzata solo dalle
donne: «una sciarpetta con fiori di seta sovrapposti; un senale di seta fiorata velata
nuova ordinaria».69
3.6. Tessere in casa
La testimonianza di lavori svolti in casa dalle donne o dalla servitù risulta
quasi inesistente nella documentazione esaminata.
Non vi è traccia di attrezzi per il bucato o per pulire la casa, mentre qualche
strumento per l’arte del cucito è possibile riscontrarlo in almeno sette inventari.
L’arte del confezionare i vestiti era affidata ad artigiani e sarti professionisti,
i quali producevano abiti su commissione. Di certo questo servizio aveva un costo
che non tutti erano in grado di pagare e perciò le donne di casa imparavano a cucire
e tessere in casa.
Indizi relativi a questa pratica casalinga provengono direttamente dagli atti
notarili: ciò che se ne deduce è che in realtà si tratta di un’attività svolta non soltanto
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474.
Ivi, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
66
Ivi, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23.
67
Maria Canella, Abiti per matrimoni e funerali, XVIII-XX secolo, in Storia d’Italia. Annali 19. La
moda, cit., p. 267.
68
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
69
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
64
65
149
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
dai ceti meno abbienti, in quanto si sono ritrovati oggetti che fanno pensare ad
un’attività sartoriale anche all’interno di famiglie che «vivono nobilmente».70
Trovare enumerati, negli atti notarili esaminati, diversi pezzi di tela,
rocchettini e gomitoli, non lascia dubbi sull’esistenza di lavoro di cucitura e
ricamo prettamente casalingo. Questo tipo di inventario, purtroppo, non fornisce
informazioni sull’uso che si faceva poi di questi abiti confezionati, cioè non è
specificato se fossero destinati al commercio o restavano ai membri della famiglia.
La tabella 9 presenta la voce tela di casa, la quale risulta essere abbastanza comune
nell’abbigliamento di uomini e donne. Di questa tela non è specificato né il tessuto né la
manifattura, ma si intuisce che si tratti di un tessuto di produzione domestica.
Tra i beni ereditari del commerciante Mazza, sono stati annotati «trentanove
grossi glomeri di filato in stoppa ordinarissimo; due rocchettini bianchi usati dalla
vedova di doblettino rigato e due simili per la ragazza; un taglio di doblettino
di Germania di quattordici palmi, un pezzo di tela grezza di venti canne; otto
rotoli di lana»,71 mentre nei cassetti di un canterano nuovo vi sono «due rotoli
di lino pettinato; quattro matasse di filo»72 e all’interno di un «mezzo burò», vi
sono «quattro glomeri di filo per cucire; parte davanti di giamberghino blu con
asole d’oro ricamato per figliolo col resto da finire di cucire; due cartocci di seta
di vari colori» e tanti altri pezzi di stoffa e guarnimenti. Ma raro e prezioso è ciò
che si trova descritto all’interno di una camera: «un telaretto per far zagarelle73
di seta; un manticetto di cui si serve la vedova per lavorare gli aghi». La filatura
e il confezionamento di abiti in casa Mazza risulta essere, quindi, di pertinenza
della moglie Marianna, la quale lavora per sistemare i vestiti dei suoi cari, e non
sappiamo se in qualche modo la sua attività sia legata anche al lavoro del marito.
Dopo quello ricco e dettagliato del commerciante Mazza, gli inventari che
forniscono oggetti specifici del ricamo risultano essere quelli dei fratelli Tortorelli:
Nicola possiede infatti «un cuscino ricamato per cusire con acarolo dentro d’argento;
una scatola di fettuccie»,74 mentre Felice «una forbice con fodera d’argento e ditale».75
Il lavoro di questi ultimi due esempi risulta evidentemente diverso da quello di
tessitura vero e proprio di casa Mazza: la presenza di ditali e forbici fa pensare ad un
lavoro di cucitura e rifinitura più che di confezionamento vero e proprio.
Se in alcuni casi la produzione casalinga si preferiva in quanto procurava un netto
risparmio, in altri casi la motivazione poteva essere diversa: «l’industria, non stimolata
da una domanda adeguata, offre prodotti troppo cari e troppo poco variati».76
A.S.Na., Catasti onciari, Foggia, 1741, Vol. 7040, f.171, n.1360.
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
72
Ivi.
73
Zagarelle: nastri di seta colorati per adornare i costumi.
74
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
75
Ivi, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262.
76
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 113.
70
71
150
Federica Elisabetta Triggiani
Capitolo IV
Gli oggetti di valore e il collezionismo
4.1. Oggetti inalienabili
Fino a questo momento si è cercato di conoscere, attraverso gli inventari,
quale fosse lo stile di vita condotto da famiglie, o singole persone, più o meno
agiate che vivevano nella città di Foggia negli anni centrali del XVIII secolo.
La descrizione di mobili, vestiario ed utensili da cucina ci ha permesso di
immaginare il rapporto che ogni membro delle famiglie intesseva con i propri
oggetti, specialmente con quelli di uso quotidiano. Proprio per il frequente utilizzo,
essi sono spesso descritti come usurati, laceri o addirittura inservibili.
Se da una parte gli inventari riescono a caratterizzare alcuni aspetti della
vita di ogni singola famiglia, lasciando intravedere le loro possibilità economiche,
dall’altra il gusto nella scelta delle stoffe e del mobilio e la cura con cui venivano
maneggiate le suppellettili, ci svelano qualcosa di ancora più intimo.
Renata Ago ha diviso i beni materiali in due categorie diverse, facendo
rientrare quelli appena elencati tra i «beni del corpo»,77 ossia beni che hanno il
compito di fornire al proprietario utilità ed agio, quindi fondamentali per la vita di
ogni giorno; mentre con «beni dello spirito»,78 invece, si riferisce a tutto ciò che ha
a che fare con l’estetica e il desiderio di prestigio sociale.
Di questo secondo gruppo fanno parte tutti quegli oggetti non facilmente
reperibili in tutti gli inventari, soprattutto in quelli di persone con scarse possibilità
economiche che preferiscono, quindi, investire in oggetti che siano più di utilità
che di semplice decoro.
Lo studio degli inventari ha messo in luce, però, alcune eccezioni che dimostrano
quanto sia importante la cautela nel dare giudizi scontati e come invece sia complesso
riuscire ad entrare nel meccanismo del rapporto uomo-cultura materiale.
I paragrafi che seguono saranno tutti dedicati ad oggetti ritenuti ancora oggi
‘di lusso’, come i gioielli e l’argenteria; in particolare saranno analizzati tutti quei
beni che si sottraggono alla funzione dell’utile caricandosi di significato, in quanto «è
il trattamento di una cosa allo scopo di farne un’immagine, esponendola allo sguardo
e impedendo che venga usata, a trasformarla in semioforo».79 Tra questi oggetti, che
solitamente diventavano inalienabili, per un lungo periodo, ci sono le collezioni di
quadri, le biblioteche private, ninnoli devoti e tutta una serie di oggetti di cui si andava
alla ricerca per essere messa in mostra nei luoghi più frequentati della casa. Infatti una
collezione non viene creata per essere nascosta o contemplata dal solo proprietario,
ma al contrario «lo sguardo dei visitatori ammirati è essenziale alla collezione […] e
rappresenta un tassello fondamentale nella costruzione stessa dell’opera».80
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 55.
Ibidem.
79
Pomian, Che cos’è la storia, cit., p. 113.
80
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 135.
77
78
151
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
4.2. I gioielli
Il gioiello ha da sempre costituito un accessorio per il corpo che l’uomo ha
utilizzato forse anche prima del vestiario. Già all’epoca degli uomini preistorici
ornarsi con oggetti particolari e rari era ritenuto un segno di prestigio e di
differenziazione dagli altri membri della comunità.
Nell’età moderna e soprattutto a partire dal Rinascimento, i gioielli sono
strettamente legati all’abbigliamento, in quanto si cerca di abbinarli ad esso,
seguendo di pari passo le nuove mode e i nuovi gusti: ciò comporta un continuo
rinnovamento, tanto che all’inizio del Settecento essi si presentano «preziosi, senza
pesantezza, in armonia con lo stile del tempo».81
Le descrizioni di gioielli negli inventari «si rivelano utili per conoscere i
gusti e le abitudini dei diversi ceti sociali, in relazione, naturalmente, alle varie
possibilità di spesa».82 In effetti non è difficile immaginare che negli elenchi di
beni appartenenti a famiglie più rilevanti siano maggiormente presenti gioielli, sia
maschili che femminili, impreziositi con le pietre più diverse.
In alcuni casi, però, reperire gioielli in inventari in cui mancano oggetti di
primaria importanza dà adito a riflessioni sui motivi di questa sproporzione.
Tab. 11 Gioielli censiti negli inventari
Tipo di gioiello
Orecchini
Bracciali
Anelli
Croci e crocifissi
Medaglie
Pioggia
Bottoni
Concerti
Paranza
Corone
Schiavette
Girogola e laccetti
Cupido
Disciplina
81
82
Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 195.
Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 211.
152
Quantità
31
2
61
13
7
4
29
4
7
12
7
12
1
1
Federica Elisabetta Triggiani
Purtroppo anche per quanto riguarda i gioielli, i documenti non forniscono
dati sull’effettivo valore monetario, anche se possiamo desumerne il loro pregio
dalla descrizione, a volte accurata, effettuata dai notai.
La presenza di gioielli, in quasi tutti gli inventari,83 dimostra come «i mariti,
che li hanno comprati, sono e restano i proprietari dei più ricchi ornamenti delle
loro mogli».84 Possedere un pezzo d’oro sembra fosse quasi fondamentale, un
segnale di benessere ed eleganza a cui nessuno vuole rinunciare.
Se si osserva, per esempio, l’elenco dei beni di Pasquale Cognetti si riscontrano
diverse anomalie: non risultano indumenti, c’è pochissima biancheria, i mobili si
limitano a due boffette, e c’è solo qualche utensile da cucina; però spiccano «due
paranze d’oro a cavaccia cioè una con pietre di rubini e l’altra di smiraldi; otto anelli
d’oro cioè due con diamanti e sei con pietre di rubbini; un incanacchino d’oro con
due pietre di smiraldi».85 Probabilmente gli altri beni sono stati impegnati, venduti o
prestati, ma i gioielli sono rimasti nell’inventario per garantire ai successori beni di
valore. Allo stesso modo desta sorpresa la presenza di «un paio di schiavette d’oro
a quattro perle e una crocetta mezzana d’argento»,86 descritte tra i beni ritrovati
nella casa di Foggia di Giuseppe Mastrogiacomo, in quanto il notaio Ricca aveva
inventariato quasi solo attrezzi da giardinaggio, botti e tavolieri per fare il pane.
Unici beni di un certo valore risultano quindi i due gioielli.
Negli inventari degli altri appartenenti al ceto medio si riscontrano una
diversa quantità di gioielli, sia maschili che femminili, impreziositi da pietre più o
meno di valore.
Tab. 12 Numero di gioielli che contengono le seguenti pietre
Pietra
Brillanti
Smeraldi
Perle
Coralli
Diamanti
Corniola
Granati
Pietre varie
File di perle
Rubini
Quantità
29
27
31
3
36
38
7
18
21
37
Risulta privo di gioielli l’inventario del barone Potito Saggese, e non possiamo conoscerne i motivi.
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 178.
85
S.A.S.L., atti dei notai, serie I, Ciccone, prot. n° 4039, ff. 16-20.
86
Ivi, Ricca, prot. n° 2633, ff. 791-793.
83
84
153
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
Il gioiello più utilizzato è l’anello d’oro, solitamente ornato con diamanti e
rubini, ma non mancano quelli con la corniola e l’ametista. I modelli più di moda
sono costituiti da «un anello con tre diamanti, uno in mezzo grosso e due piccoli
al centro»,87 oppure con diamante centrale e due rubini laterali, mentre la moglie di
Nicola Andrea di Peppo indossava «un anello d’oro a staffa con quindici smiraldi, uno
detto con sette pietre turchine e uno detto con sette pietre di smiraldo».88 All’interno
di un cassettino per gioielli, Ignazio Conte conservava sei anelli, tra cui una fede di
diamanti e rubini e, unico caso ritrovato, «due anelle piccole con pietre falze».89
Le perle sono molto utilizzate soprattutto per orecchini e lacci per il collo e
sono sinonimo di un patrimonio più consistente: «un paro di orecchini di perle a
tre pigne grandi; una cavaccia d’oro con perle e suoi orecchini mezzani di perle alla
moda»,90 «un concerto di perle consistente in una croce con sua nocca, orecchini e
otto fili di perle minute per la cannacca e altro filo per il rosario»,91 «una disciplina
di perle con rubini in mezzo e diamanti con due piccole rosette».92
Sempre restando in Puglia, nella Monopoli del Settecento la situazione
sembra essere la stessa: gli inventari mostrano la diffusione di pietre turchine, rosse
e verdi che «non sono pietre preziose […] ma denotano una disponibilità economica
superiore e, soprattutto, vista la loro diffusione un certo orientamento di gusto».93
Gli elenchi di gioielli trovati negli inventari sono innumerevoli, ma bastano questi
esempi a sottolineare l’importanza che a tali ornamenti si conferiva all’epoca, così come
oggi. Nell’inventario di de Peppo, inoltre, si ritrova la locuzione «alla moda», quindi si
tratta sicuramente di gioielli comprati da poco, in linea con le nuove tendenze.
È documentato che l’uomo era attratto da questo tipo di vezzo e «il
gioiello maschile per eccellenza è l’anello che porta di solito una sola grossa pietra
preziosa».94 L’uomo aveva l’abitudine di adornare i propri abiti con alcuni bottoni
di brillanti legati sopra argento oppure ottone.
Uomini e donne non sono gli unici a voler mostrare vezzi e ricchezze: nel
cassettino di ‘gioie’ del commerciante Mazza, oltre alla lunga lista di gioielli da
donna, c’è spazio anche per «una piccola fila di corallo con perle pendenti da
creatura e piccola mezzaluna d’oro».95
Le famiglie foggiane, come avremo modo di constatare nei paragrafi seguenti,
dimostrano inoltre di essere molto devote ed infatti quasi tutte possiedono i rosari, che
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
Ivi, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474.
89
Ivi, Greci, prot. 2608, ff. 190-193.
90
Ibidem.
91
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
92
Ivi, Greci, prot. 2608, ff. 349-352.
93
Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 212.
94
Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 195.
95
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
87
88
154
Federica Elisabetta Triggiani
possono essere annoverati tra i gioielli poiché sono solitamente formati da granati e
coralli con segnacoli d’oro, così come è testimoniato a Roma nel secolo precedente.96
Nonostante i gioielli fossero considerati, così come lo sono ancora oggi,
un’importante riserva di valore, non risultano casi di scambi di pegni o di prestiti.
Probabilmente essi avevano un valore economico ma soprattutto affettivo: si trattava dei
‘gioielli’ di famiglia, che dovevano essere custoditi e conservati il più a lungo possibile.
4.3. L’argenteria in tavola
Gli oggetti di valore a cui non si rinunciava, non erano solo quelli personali
perché risulta che anche in casa veniva ostentato un certo lusso.
Nel capitolo precedente si è già accennato ad un’anomalia all’interno degli
inventari: la scarsa presenza di stoviglie da cucina. Questo è vero solo in parte, in
quanto sono invece molto numerosi gli elenchi di stoviglie e utensili in argento.
Come è stato verificato per i gioielli, così quasi tutti i soggetti studiati
possiedono almeno un pezzo d’argento utilizzato per servire cibo e bevande:97 è
come se vi fosse «una sorta di linguaggio dell’argento che – a scale molto diverse –
viene adoperato un po’ da tutti, nobili, ceti medi, borghesie minime».98
Tab. 13 Argenteria da tavola
Stoviglie e utensili
Cucchiai
Forchette
Coltelli
Cucchiaioni
Forchettoni
Coltelloni
Cucchiaini da caffè
Cucchiaini da sorbetto
Sottocoppe
Saliere
Chicchere (da caffè, thè, cioccolato)
Piattini
Candelieri
Bacili
Boccali e brocche
Giare
Quantità
68
75
90
22
8
6
15
34
12
5
108
69
28
6
32
30
96
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 179: «evidentemente la loro produzione non è ancora tale da farne degli
effettivi concorrenti rispetto alle pietre più preziose: un vero gioiello richiede ben altro».
97
Ne risultano sprovvisti Angelo Ramundi e Giuseppe Mastrogiacomo.
98
Macry, Ottocento, cit., p. 116.
155
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
Gli oggetti più comuni sono le posate, presenti anche se spaiate o in numero
limitato, mentre i bicchieri sono inesistenti, fatta eccezione per un bicchiere da
vino con piedino appartenuto a don Ignazio Conte. Le saliere e le sottocoppe
sono più rare, ma ciò che stupisce è l’elevata presenza di tazze, piattini e cucchiaini
specificatamente per uso di cioccolata, thè e sorbetto. L’arrivo in Italia di queste
nuove bevande, infatti, influì sulla fabbricazione di apposite stoviglie correlate da
diversi accessori.
Sappiamo che il cacao arrivò in Italia (precisamente in Toscana) nel Seicento,
importato dalla Spagna, e che veniva servito principalmente come bevanda.
Successivamente alcune città come Torino e Venezia si specializzarono nella
produzione, aprendo anche delle ‘botteghe del cioccolato’. Esso era considerato
benefico e coloro i quali possedevano gli strumenti per prepararlo facevano parte
di una cerchia ristretta. Il consumo di questa nuova bevanda nelle case foggiane
è testimoniato anche dalla presenza di cento libbre di cioccolata all’interno di
una cassa del presidente Belli, mentre don Ignazio Conte conserva nel «burò e
propriamente nel tiratore segreto diverse cose di dolci e cioccolata»99. Esistevano
misure di tazze differenti, come si evince dall’inventario relativo al capitano
Tortorelli: «dodici piattini e chicchere della Cina metà per cioccolato e metà per
caffè»;100 il presidente Belli possedeva invece «ventiquattro chicchere soprafine da
cioccolata con loro piattini».101
Il caffè, comparso a Venezia già nella seconda metà del Seicento, veniva
invece consumato in apposite ‘botteghe del caffè’, ma negli anni successivi si diffuse
anche nelle case, portando all’acquisto sempre più frequente di caffettiere, tazze e
cucchiaini specifici. Il thé risulta una bevanda ormai di largo consumo tanto da
incentivare l’acquisto di stoviglie appropriate; ma una nuova bevanda fredda, la cui
la presenza già si è attestata a Roma intorno al 1650,102 è entrata nelle case foggiane:
il sorbetto.
Esso si può considerare l’antesignano del gelato, inventato dagli Arabi e poi
perfezionato in Sicilia: preparato con acqua, frutta e zucchero, era gradito da famiglie
di un certo rango, in quanto si trattava di un dessert ‘alla moda’ e continuerà ad
esserlo almeno fino alla metà del Settecento. Infatti, non a caso, Francesco Barone
tra la sua argenteria non si fa mancare «tre giarre di sorbetto con le loro cocchiarine
d’argento»,103 come pure ne posseggono alcune don Ignazio Conte, Antonio Belli,
il barone Potito Saggese e il commerciante Leonardo Mazza.
L’argenteria costituiva dunque un segno di eleganza e di prestigio. Purtroppo
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2608, ff. 190-193.
Ivi, prot. 2609, ff. 258t-262.
101
Ivi, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23.
102
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 165: «Vittoria Patrizi e Bernardino Spada, per esempio, annotano regolarmente acquisti di limonate e sorbetti, insieme a quantità esorbitanti di zucchero […]».
103
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2608, ff. 349-352.
99
100
156
Federica Elisabetta Triggiani
non è possibile conoscere il valore dei vari pezzi, anche se in un caso è stato fornito
il peso di alcuni di questi oggetti.104
4.4. I quadri
Collezionare oggetti significa in un certo senso dare valore alle cose:
conservare oggetti antichi vuol dire aspettare che un giorno essi acquistino valore.
Ma circondarsi di oggetti privi di utilità può avere più significati. Da una lato infatti
le collezioni sono qualcosa di tangibile, di visibile, poiché contribuiscono ad arredare
un ambiente rendendolo ‘specchio’ dell’identità che il collezionista cerca di crearsi.
Qualcuno colleziona oggetti a fine di lucro, ma altri lo fanno solo per
piacere personale, per brama di possesso o desiderio di trascendere il tempo,
legando passato, presente e futuro insieme: da ciò traspare l’intenzione di tendere
all’immortalità, tramandando le proprie collezioni attraverso lasciti, testamenti o
donazioni.
La notevole presenza di quadri all’interno di ogni inventario, più o meno
ricco di oggetti, testimonia il ruolo primario che questo accessorio d’arredamento
assumeva nelle case settecentesche. I quadri non sono ovviamente tutti uguali: essi
differiscono nei soggetti, nella grandezza, nel tipo di supporto e nella cornice.
Alcuni notai mostrano grande precisione nelle descrizioni di questi parametri,
mentre altri rimangono più sul vago, limitandosi a citare il soggetto del quadro.
Tab. 14 Soggetti dei quadri
Soggetto
Quantità
Animali
Caccia
Campagnole
Carte geografiche
Figure alla veneziana
Figure cinesi
Frutti e fiori
Paesaggi
Ritratti
Soggetti religiosi
Soggetto sconosciuto
Storie profane
6
2
41
13
6
18
52
8
20
173
227
22
104
Ivi, Ricca, prot. 2642, ff.22t-23, cit.: «forchette n.18, cocchiare n. 18 nuovi e grandi al peso otto libre
ed onze due; maniche di coltelli n. 18 colle loro lami di peso libre sette meno un’onza; in un cassettino più
piccolo cocchiare n. 12, forchette n. 12 a tre denti di peso libre tre ed onze dieci».
157
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
Tab. 15 Soggetti religiosi più diffusi
Soggetto
Agnus Dei
Apostoli
Concezione
Cristo
Maddalena
Madonna
S. Francesco da Paola
S. Gennaro
S. Giuseppe
S. Nicola di Bari
Altri Santi
Quantità
4
26
8
3
9
21
7
4
5
5
35
Le due tabelle sono chiarificatrici dei gusti predominanti in quegli anni
nelle abitazioni foggiane. Purtroppo in molti casi non sappiamo nulla dei soggetti
dipinti, ma le cifre raccolte dimostrano come il quadro più richiesto in quegli anni
fosse di tema sacro. Nello stesso periodo, anche a Monopoli «la maggior parte
raffigura soggetti religiosi, soprattutto storie tratte dall’Antico Testamento, ma vi
sono anche diversi ritratti, nature morte e le cosiddette campagnole, dove sono
riprodotte scene di vita campestre».105
Mancano le indicazioni sul valore monetario e sull’autore dei quadri, quindi
risulta difficile supporre se si tratti di stampe, opere in serie o dipinti di pregio.
Comunque, l’inventario del commerciante Mazza, proprietario di una vasta
tipologia di quadri, è in grado di fornirci alcuni elementi interessanti: nella sua
camera da letto vengono annotati «due quadri di indegno autore, copie di qualche
buon autore»,106 mentre in una stanza che precede la cucina «quattro quadri di
nessun valore affumicati e maltenuti».107
Il modo per acquistare dipinti variava a seconda delle disponibilità monetarie
e del fine dell’acquisto: «i grandi collezionisti sono soprattutto dei committenti,
in rapporto diretto con gli artisti, ai quali commissionano opere originali che
rispondano alle loro esigenze e al loro gusto. I piccoli amatori si rivolgono invece
al mercato delle opere pronte […]».108
Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 183.
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
107
Ibidem.
108
Ago, Il gusto delle cose, cit., pp. 137-138.
105
106
158
Federica Elisabetta Triggiani
In alcuni inventari in cui i quadri sono di numero limitato, non viene
fornita né la descrizione del soggetto, né quella della composizione delle cornici:
probabilmente non si ritenevano abbastanza di pregio da meritare un’analisi
minuziosa.
I dati raccolti dimostrano che, dopo i quadri a sfondo religioso, i soggetti
più richiesti fossero quelli naturali, ossia frutti e fiori. Anche se l’opinione corrente
era che questo tipo di pittura fosse adatta ad adornare le pareti del ‘popolo’, in
realtà «nelle case e nelle ville della nobiltà o dell’alta borghesia napoletana del
Seicento le nature morte rappresentavano la principale espressione di un arredo
non ‘ideologico’, come era invece la grande pittura di historia epica e mitologica,
ma piuttosto di […] raffinata mondanità».109
Ogni dipinto assumeva per il proprietario un significato particolare, anche se
alcune convenzioni, locali e non, dimostrano come essi, appartenenti alla categoria
dei semiofori, venissero localizzati a seconda del soggetto in stanze prestabilite.
Tab. 16 Soggetti nelle diverse stanze
Soggetto
Ambienti
Soggetto
profano
Anticamera
Camera da letto
Galleria
Sala
Studio
29
30
10
24
22
sacro
13
80
12
0
0
Le camere da letto erano gli ambienti destinati alle immagini sacre: esse
infatti non compaiono in alcuna stanza di rappresentanza come studi o sale.
Lo stesso costume si ritrova a Roma un secolo prima, dove i padroni di casa
preferiscono «affidare a immagini religiose l’intimità della stanza in cui dormono
ed esporre in sala i quadri a soggetto profano».110
La società foggiana si rivela dunque molto religiosa ed ogni famiglia predilige
alcuni santi rispetto ad altri a cui affidare la protezione della casa.
Leonardo Mazza, ad esempio, risulta essere devoto a S. Gennaro, S. Agata e
S. Francesco da Paola; di Peppo possiede diversi quadri raffiguranti S. Francesco da
Paola, S. Francesco Saverio e S. Giuseppe (i cui nomi appartengono ai suoi figli).
Le immagini dunque mettono in contatto l’uomo con un mondo invisibile,
un mondo fatto solo di ‘passato’ e «costituiscono un’esplicita manifestazione
109
110
Francesco Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale, Roma, Donzelli, 2002, p. 94.
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 145.
159
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
del desiderio di porsi in comunicazione con la sfera del trascendente».111
Un significato particolare è quello che alcune famiglie attribuiscono ai
ritratti: averne qualcuno in casa dava lustro al proprietario e all’intero casato e per
questo essi venivano esposti di solito nei salotti o negli studi.
Felice Tortorelli ne possiede uno del fratello Nicola, il quale a sua volta ne
ha in casa uno di se stesso; Leonardo Mazza ha sulla parete di un camerino i due
ritratti, sprovvisti di cornice, della moglie e della figlia Maria; don Ignazio Conte,
tra i beni rimasti nella città di Napoli, conservava invece alcuni ritratti di casa
Conte. Il valore di queste immagini era di certo prettamente affettivo: sarebbero
rimasti in famiglia per generazioni e con il passare del tempo quei visi avrebbero
assunto un valore quasi mistico.
Anche ai personaggi illustri o di rilievo politico era poi riservato un ruolo e una
posizione all’interno delle abitazioni: Nicola Tortorelli in una camera da letto espone
«due ritrattino di Masanello e la moglie; un ritratto di monsignor Cavalieri».112
Negli ambienti predisposti ad incontri sociali era consuetudine esporre
quadri di natura profana: si trattava essenzialmente di paesaggi, storie tratte dalla
letteratura,113 scene di caccia e immagini di cani e pecore, che nulla avevano a che
fare con il ‘mondo’ casto racchiuso nelle camere da letto.
Oltre alle informazioni sui soggetti rappresentati nei quadri, a volte i notai
offrono ulteriori dettagli sulle loro caratteristiche, che riassumiamo nella seguente
tabella:
Tab. 17 Caratteristiche quadri
Tipo di quadro
Definiti “grandi”
Definiti “piccoli”
Definiti “tondi”
Definiti “bislunghi”
Definiti “mezzani”
Definiti “ovali”
Misure menzionate in palmi
Dipinti su seta
Ricamati
Con cornici
Sopraporte
Quantità
108
160
93
18
24
17
103
4
5
252
7
Ivi, p. 141.
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 199t-123.
113
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180: Mazza nell’anticamera possedeva «quattro quadri bislunghi di palmi
4 e 8 di storie di Tasso e altre favole».
111
112
160
Federica Elisabetta Triggiani
Non conoscendo le stime di questi complementi d’arredo, possiamo osare
alcune osservazioni sul loro valore artistico basandoci sul tipo di supporto e sul
materiale delle cornici.
Lo stile delle cornici rispecchia quello diffuso anche a Monopoli negli stessi
anni, in quanto «quelle più diffuse sono “indorate”, di chiara influenza barocca,
e presentano diverse lavorazioni».114 Don Ignazio Conte risulta uno dei maggiori
possessori di quadri, descritti tutti nei minimi dettagli: «sette quadri di palmi tre
e due e mezzo con cornice d’oro misturata con cimase con imagine de Santi; dieci
quadretti con cornice negra e stragalli d’oro di palmi uno e mezzo e uno di diverse
effigie di santi di seta sopra carta alla Leccese con vetro avanti».115
Una descrizione così minuziosa lascia pensare che si tratti di quadri di un
certo valore, anche perché questo inventario parla esplicitamente di quadri di
«pittura», mentre gli altri esaminati si limitano all’accezione «effigie».
Il diffuso acquisto di quadri porta a supporre che essi non dovessero avere
prezzi proibitivi: sicuramente le stampe o le serie avevano costi molto più bassi dei
dipinti veri e propri, e «spesso la cornice vale di più del dipinto stesso».116
Alcune immagini avevano come supporto il vetro, altre erano sulla seta, alcuni
erano proprietari di quadretti ricamati, ma molte effigi erano prive di cornice.
Il valore dei quadri non deve però essere sottovalutato: essi appartengono a
quel gruppo di oggetti a cui era affidato un compito importante. Dagli inventari
risulta, infatti, che essi venivano utilizzati come pegni in cambio di prestiti. Il
commerciante Mazza doveva amare molto i quadri, se tra i documenti leggiamo che
diversi pegni sono costituiti da quadri dotati di cornici: «questi ultimi sei quadri
sono di Gianbattista Marena dati in pegno per ventotto ducati; sono questi quadri
tutti pegni della casa dei figli del quondam Leonardo Miani».117
Le pareti delle abitazioni appaiono dunque ricoperte di quadri di ogni
forma e misura, quasi a non voler lasciare neanche uno spiraglio di vuoto. Le
serie pittoriche, ossia gruppi di quadri raffiguranti stessi soggetti e caratterizzati
dalle stesse dimensioni e forma, sembrano essere molto comuni ed esse quasi
‘soffocavano’ le pareti in quanto erano di moda a Napoli.
A rafforzare questa sensazione contribuiscono i numerosi specchi censiti,
anch’essi dotati di cornici in stile barocco sovraccaricate di elementi decorativi, che
alcune testimonianze dichiarano prettamente di abbellimento in quanto venivano
posti talmente in alto che era impossibile potervisi specchiare.
4.5. I libri
Consultare documenti che attestino la presenza di libri all’interno delle case
Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 184.
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2608, ff. 190-193.
116
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 138.
117
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
114
115
161
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
foggiane nel XVIII secolo, permette di ricostruire la cultura letteraria dell’epoca.
Il libro è da sempre simbolo dell’istruzione e del sapere: una bella raccolta «si
può trovare anche nelle case di appartenenti ai ceti medi delle arti liberali (medici,
giuristi, artisti…), in quelle di mercanti e perfino in quelle di semplici artigiani».118
Conoscere i libri che fanno parte di una biblioteca privata ci aiuta a conoscere
la personalità del collezionista, ed essendo essi degli importanti indicatori delle
differenze sociali, svelano gli interessi di coloro che li acquistano: «una bella collezione
di libri appare quindi come il necessario complemento degli arredi di una dimora di
gente onorata e in questo i libri non si differenziano granché dai quadri».119
Tra gli inventari analizzati risultano possessori di biblioteche cinque uomini:
il commerciante Leonardo Mazza, il dottor Francesco Barone, il presidente
Antonio Belli, il dottor Nicola Tortorelli e il dottor Filippo Totta.
L’assenza di libri nei restanti documenti notarili può essere determinata da
«[…] una serie di fattori in cui rientrano la consistenza patrimoniale, il mestiere, la
situazione sociale, le abitudini culturali delle famiglie, benché rimanga attendibile
anche l’esistenza di ipotesi diverse».120
Le stampe costituiscono gli oggetti semiofori per eccellenza e, secondo
Daniel Roche, il gesto dell’uomo raffinato, che compra il libro per collocarlo nella
propria biblioteca e quello dell’uomo comune che lo sistema nella sua piccolissima
collezione, rivelano interessi intellettuali, convergenze sociali e motivazioni che
trasformano il significato del libro: coscienza della storia, segno di potere, strumento
di conquista del mondo o oggetto di divertimento, compagno dell’intimità e
strumento di lotta contro le avversità, segno di promozione sociale e culturale,
formulario a portata di mano121.
Gli elenchi di queste collezioni ritrovate negli atti notarili sembrano essere completi,
anche se non sempre è stato facile decifrare il titolo dei volumi o il loro autore.
Se a Roma «agli inizi del XVII secolo nessun gentiluomo romano, che
aspirasse a distinguersi per la raffinatezza del suo stile di vita, avrebbe potuto
esimersi dal possedere una bella biblioteca»,122 in Francia un secolo dopo «la
biblioteca nobiliare media nelle province occidentali come nella capitale è costituita
da cento a trecento volumi».123
Gli inventari analizzati dimostrano che anche a Foggia si leggeva e alcune
biblioteche private erano formate da un ragguardevole numero di volumi e
manoscritti.
118
Renata Ago, Biblioteche e lettori nella Roma del Seicento, in «Quaderni storici», 115, XXXIX (2004),
n. 1, p. 119.
119
Ead., Il gusto delle cose, cit., p. 187.
120
Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 286.
121
Id., La cultura dei lumi. Letterati, libri, biblioteche nel XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 35.
122
Ago, Biblioteche e lettori, cit., p. 119.
123
Roche, La cultura dei lumi, cit., p. 114.
162
Federica Elisabetta Triggiani
Tab. 18 Libri posseduti e loro collocazione
Proprietari
Nicola Tortorelli
Leonardo Mazza
Antonio Belli
Francesco Barone
Filippo Totta
StanzaQuantità
Studio
Stanza contigua alla cucina
Camera da letto
Non specificato
Studio
648
13
236
35
55
Leonardo Mazza conserva la sua modesta raccolta in una scanzia e i volumi
predominanti sono essenzialmente di carattere giuridico, ma possiede anche «un
tomo sui viaggi dell’Africa; descrizione dei Franchi in tre tomi; sei libretti di
filosofia e altri nove ad uso di studenti; Caprasio poesie».124
Nella camera da letto, nel cassetto di un canterano, sono stati ritrovati dieci
libri di novelle arabe e persiane, e ciò dimostra che «per i libri comuni, soprattutto
quando si tratta di poche opere, non esiste un luogo predisposto ad accoglierli: il
libro si smarrisce in cucina, tra le pile di stoviglie, si annida in fondo alla biancheria
negli armadi o si nasconde laddove il suo lettore sa di poterlo rintracciare».125
Pochi libri, ma grande varietà tematica. A differenza delle grandi collezioni
appartenenti ai suoi concittadini, i testi del commerciante non specificano il
formato, ma soltanto il numero dei tomi.
Francesco Barone, medico, conferma la sua professione anche nella scelta
delle letture: oltre all’Enciclopedia chirurgica nazionale di J. Dolaei, possiede altri
libri di medicina, tra cui un tomo del famoso clinico italiano del Rinascimento noto
come Hercule Saxonia. Sono elencati inoltre cinque manoscritti, un testo sulla vita
dei santi, il De officiis di Cicerone, un’ opera del giurista Ignazio Gastone e poesie
di Biagio Cusano.
Il dottor Filippo Totta, di cui non abbiamo notizie riguardo la professione,
raccoglie una collezione di cinquantacinque testi in una libreria di legno composta
da dieci scaffali. Tra i suoi gusti letterari figurano molte opere classiche tra cui le
Istituzioni di Giustiniano, le Orazioni di Cicerone, l’Arcadia del Sannazzaro e
quattro tomi di opere del Metastasio; possiede anche alcuni libri in francese tra cui
una Grammatica, dei libri di filosofia, geografia, religione (una Storia del vecchio
Testamento) e due testi attribuiti al defunto Nicola Tortorelli: si tratta de Il parto della
Vergine (probabilmente una traduzione dell’opera del Sannazzaro) e il libro Sugli
antichi Giureconsulti romani. Anche Totta conserva alcuni manoscritti di Istituzioni,
ma della sua biblioteca non è fornita alcuna descrizione del formato dei volumi.
124
125
S.A.S.L, Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
Roche, La cultura dei lumi, cit., p. 116.
163
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
La quantità notevole di manoscritti registrati dagli inventari di beni ereditari,
testimoniano che «la produzione e la circolazione del manoscritto è continuata
sino a tutto il Settecento, e a volte anche oltre […]».126 A seconda della funzione
che esso svolgeva, si presentava con caratteristiche più o meno lussuose: nel caso,
per esempio, riportasse «opere di cui era vietata la diffusione e perciò anche la
stampa e il commercio»,127 si presentava privo di abbellimenti.
Il presidente della Dogana Antonio Belli, come annotato nella tabella, riserva
alla sua collezione di libri un posto speciale nella sua camera da letto: il 60% dei
testi in suo possesso fanno parte, infatti, del repertorio giuridico del tempo su cui
non serve soffermarsi, mentre appaiono più interessanti altri titoli rinvenuti.
Tra i testi classici egli conservava il De Filosofia di Cicerone e il Decamerone
del Boccaccio, mentre una buona parte era dedicata ovviamente a trattati economici,
tra cui «Elementi di commercio, tomi due;128 Commercio d’Espagna, un Trattato colla
Repubblica d’Olanda; Sopra il commercio dell’oglio, tomo uno; trattato sul commercio
del Re di Svezia»129 e tutta una serie di trattati riguardanti re di vari stati. Anche in
questa libreria sono annoverati testi in francese, un dizionario e libri di storia.
La situazione presentata da Roche in Francia negli stessi anni appare un po’
diversa: «[…] la letteratura e lo svago occupano il primo posto con circa la metà dei
titoli, gli storici mantengono le proprie posizioni, i teologi e le letture di devozione
perdono parte della loro importanza, il diritto arretra e le scienze sono stabili. […]
La cosa originale è innegabilmente il posto assegnato alla storia».130
Anche nelle collezioni appena elencate la storia assume una grande
importanza: soprattutto si acquistavano testi sulla storia romana e grande interesse
era rivolto anche alla storia di altri popoli, così come erano quasi sempre presenti
opere geografiche e corografiche.
Un discorso a parte merita la collezione del dottor Nicola Tortorelli: essa
si dimostra la più vasta in quanto composta da ben 648 volumi ed è oltresì la più
dettagliata perché di ogni libro è fornita l’indicazione sul formato.
Il dottor Tortorelli, letterato e giureconsulto, colleziona un numero
vastissimo di testi giuridici: l’elenco dei libri disposti nel suo studio inizia proprio
con cinque tomi del Testo Civile. Il suo interesse si rivolge inoltre a testi sulla storia
romana come il De Republica Romana di Candelio in un tomo in ottavo e il De
ritibus romanorum di Neuport sempre in ottavo. Ma egli è anche uomo colto che
dimostra di non rinunciare a possedere alcuni libri classici: infatti, «ci sono anche
dei libri che bisogna aver letto o almeno conoscere.[…] È questo che classifica o
squalifica e, tra altri indicatori, rivela le contrapposizioni sociali».131
Lucien Febvre, Henri J. Martin, La nascita del libro, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. XXXVII.
Ibidem.
128
François Véron de Forbonnais, Éléments du commerce, 2 vol., 1754.
129
S.A.S.L, Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23.
130
Roche, La cultura dei lumi, cit., p. 118.
131
Ivi, p. 35.
126
127
164
Federica Elisabetta Triggiani
Numerosi testi sono di natura religiosa, come vite di santi, due Bibbie sacre
di cui una consistente in un tomo in folio e un’altra in due tomi in quarto; una
Storia della Bibbia in folio; due opere di S. Agostino tra cui La Città di Dio in
folio e il De civitate Dei sempre in folio; un volume di Lattanzio in ottavo. Alcuni
esempi del suo interesse per la filosofia provengono dai libri di Platone, dal De
officiis di Cicerone, e da una Vita di Plutarco in quarto.
Interessante è la lista di testi di letteratura che affollano questa libreria: la
Commedia di Dante in un tomo in sedicesimi, le Epistole di Ovidio in un tomo in
sedicesimi, il De remediis utriusque fortunae in un tomo in sedicesimi, le Fabulae
di Esopo in due tomi in sedicesimo, una Epistola del Bruni sempre in dodicesimo.
Tortorelli mostra di essere appassionato anche di viaggi e di geografia: conserva,
infatti, i Viaggi del Valla in quattro tomi in dodicesimo, i Viaggi del Cavalier Patini
in un tomo in dodicesimo, alcune guide geografiche e descrizioni di popolazioni
diverse. Anche un vocabolario di spagnolo in due tomi in sedicesimo ed alcuni testi
in francese dimostrano la poliedricità delle sue letture e delle sue conoscenze.
Numerose sono anche le biografie di uomini illustri, orazioni ed alcune
curiosità come un Prontuario delle medaglie in un tomo in quarto ed un Trattato
del ballo nobile in ottavo.
La storia romana è di sicuro uno dei temi privilegiati in questa collezione:
molti volumi portano il titolo De Republica romana; un De comitiis romanorum di
Gruchii in ottavo e tra gli ultimi libri vengono censiti i «Dell’antiqui iuris consulti
stampati dal fu D. Nicola, di più altri quinterni quarantanove del medesimo libro e
diecinove quinterni del Parto della Vergine fatto in stampare dal fu D. Nicola»,132 due
libri che erano posseduti, come abbiamo già visto, anche dal dottor Filippo Totta.
L’amore per la storia di Tortorelli è giustificato poichè egli stesso ha composto
un’opera che è stata definita da Ferdinando Villani «un libro in cui prevalgono
molti pregi […] un’opera distesa pari a quella che scrisse Cornelio Nepote intorno
ai famosi Capitani di Grecia. […] Né vi ha chi non veda la difficoltà dell’impresa,
e non calcoli quante fatiche dovette il nostro concittadino sostenere all’uopo,
ricercando fonti antichissime per questa specie di storici lavori […]».133
Dai diversi formati possiamo desumere in che modo si leggeva. Infatti «con
la stampa e con il moltiplicarsi dei testi, il libro non è più un oggetto prezioso
da consultare in biblioteca; sempre più si aspira ad averlo con sé e a trasportarlo
facilmente per consultarlo o leggerlo ovunque e in ogni momento».134
Dall’elenco dei testi appartenuti a Tortorelli si evince quello che già R. Ago
aveva notato nelle biblioteche romane: gran parte dei testi giuridici e soprattutto
decisiones e consilia si presentano in folio mentre «le opere pubblicate di solito in
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
Ferdinando Villani, Per Niccolò Tortorelli. Lettera al sindaco di Foggia, Salerno, stabilimento tipografico Migliaccio, 1874, pp. 4-5.
134
Febvre, Martin, La nascita del libro, cit., p. 98.
132
133
165
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
quarto e soprattutto in ottavo, romanzi, opere letterarie, trattati di divulgazione
scientifica, libri di controversie, edizioni di classici latini e greci, rappresentano la
maggior parte della produzione stampata».135
Questi formati minori, come anche l’in dodicesimo, si diffondono in quanto
leggerezza e praticità erano preferibili per quei libri che venivano consultati con
maggiore frequenza, anche se questo tipo di edizioni finiva per incidere sul valore
delle opere.
Un ultimo aspetto di questa collezione così vasta e completa giunge da un
elenco che porta come intestazione «libri proibiti che si devono dare al vescovo».136
La lista è composta da sette volumi che è interessante riportare: «l’Istoria della
Chiesa di Selvaggio Cantorani, tomi quattro; l’Istoria Profana di Selvaggio
Cantorani, tomi sei; due Biblie proibite in ottavo: Luciani opera omnia, tomi due
in ottavo; Iulii pace, tomo uno in ottavo; Satire di Salvatore Rosa, tomo uno in
ventiquattro; Laurentii Valla, de donatione Custantini, tomo uno in sedici».137
Come poteva Nicola Tortorelli essere in possesso di testi inclusi nell’ Index
librorum prohibitorum? Alcune ipotesi possiamo formularle seguendo l’esempio di
una parte delle biblioteche private romane: un secolo prima, infatti, tra i documenti
analizzati, R. Ago nota come siano solo due avvocati e un figlio di giudice o avvocato
a possedere opere proibite, probabilmente perché essi potevano beneficiare di
questo privilegio. Così come accadeva per le leggi suntuarie, anche «[…] l’Indice
dei libri proibiti e altre forme di censura possono essere considerate alla stregua
di un qualsiasi regolatore del mercato del libro ‘raro’ che […] si costituisce in
segmento specifico tra Sei e Settecento».138 Comunque anche in questo campo
risultava spesso difficile controllare l’introduzione di libri clandestini nelle varie
città, spesso provenienti da paesi come Olanda e Svizzera.
Un’ulteriore peculiarità della biblioteca del dottor Tortorelli si ritrova in un
documento allegato all’inventario. Si tratta di una scrittura olografa in cui un libraio
di Napoli, tale Baldassarre Sardella, su richiesta fattagli dagli eredi, dichiara di aver
valutato la biblioteca del dottor Tortorelli per una cifra di trecento ducati. È questa
l’unica stima che ci permette di immaginare il valore librario di quegli anni.
Dunque una collezione di libri ha sicuramente un valore affettivo se essa è
presente tra i lasciti ai propri eredi, ma quando si tratta di un numero così imponente
di testi, essa assume anche un importante valore commerciale.
Quanto i libri siano realmente utili al bibliofilo o essi vengano collezionati
solo per gusto estetico e per ostentare la propria superiorità intellettuale, è difficile
capirlo. Le edizioni maneggevoli e l’acquisto di enciclopedie in formati ridotti,
Ivi, p. 100.
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
137
Ibidem.
138
Maria Pia Donato, Il vizio virtuoso. Collezionismo e mercato a Roma nella prima metà del Settecento,
in «Quaderni storici», 115, a. XXXIX (2004), n. 1, cit., p. 145.
135
136
166
Federica Elisabetta Triggiani
compendi ed exempla fanno pensare che questi uomini volessero «poter dominare
ogni sorta di conoscenza o di sapere, di poter trovare la risposta a ogni genere di
interrogativo o di problema»139. Molti libri di certo non saranno stati letti, ma «resta
il fatto dell’acquisto e del lascito, e l’importanza data alla proprietà del catalogo si
rafforza in virtù della sua legittimazione notarile».140
4.6. Cose preziose
Per terminare questo lungo excursus di oggetti che ‘animavano’ le abitazioni
e racchiudevano in sé parte del carattere e dell’anima dei rispettivi proprietari, è
opportuno esaminare tutte quelle cose rare che alcuni inventari nominano spesso
accanto ad altre più comuni.
Tab. 19 Oggetti vari
Oggetto
Campane
Cembali
Oggetti sacri
Scatole
Statuette
Tabacchiere
Candelabri
Orologi
Spade e armi varie
Quantità
Oggetto
5
3
24
12
4
25
24
5
8
Calamai
Vasi antichi
Microscopio
Sfera armillare
Ventagli
Idoli
Bastoni
Gabbie
Mappamondi
Quantità
1
27
1
1
2
3
3
3
2
Le tabacchiere sono presenti in sei inventari, ma molti ne possedevano più di una
in quanto era «eleganza avere due tabacchiere per separare le qualità diverse per forza
e per aroma».141 Esse solitamente erano d’argento, ma ad esempio Nicola Tortorelli ne
possiede sette di cui una d’avorio, una di tartaruga, una di radica, una di foglia d’ottone,
una di legno nero e una di ferro con cerniera e coperchio di madreperla.
La tabacchiera spesso costituiva un dono prezioso, ma è difficile capire
se la sua assenza in alcune case dipenda esclusivamente dalla mancata diffusione
dell’uso, così come è strano che le pipe non siano citate in alcun inventario.
Come è già stato notato per i quadri e per i rosari, anche nei manufatti da
esporre su cassettiere e scrivanie la popolazione foggiana si mostrava molto devota.
Tutti gli inventari risultano infatti ricchi di crocifissi, reliquiari, urne, acquasantiere
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 209.
Roche, La cultura dei lumi, cit., p. 34.
141
Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 205.
139
140
167
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
e statuette di santi. Il dottor Tortorelli possiede inoltre «sei manne di Nicola di
Bari e due corone; un’urna con la manna di S. Nicola;142 un braccio d’argento con
esequia di S. Donato».143
Leonardo Mazza è l’unico che possiede «cinque campane di vetro chiaro
con piedistalli di legno misturati per conservare dalla polvere figure in cera, una
contiene S. Giuseppe, altra nostro signore flagellato, frutti e due vuoti».144 Alcune
figure di santi in cera si dilettava a comporle la stessa signora Mazza: risulta infatti
che la donna adoperasse candele e forbici speciali per decorare mobili con frutti e
comporre statuette.
Oggetti scientifici e musicali sono meno comuni e si trovano in possesso
di coloro i quali disponevano di uno studio e di librerie, quindi principalmente
intellettuali: Nicola Tortorelli doveva interessarsi alla scienza, in quanto, oltre a libri
geografici, egli possedeva una sfera armillare piccola di ottone,145 due mappamondi
e un microscopio. Egli è inoltre l’unico che possa vantare strumenti da scrittura
perché in camera da letto è citato un calamaio con piattino d’ottone e, nello studio,
una «cartera di noce».146
Nella tabella 19 si riscontrano otto armi, tra spade e diversi tipi di fucile.
La spada d’argento, «simbolo per eccellenza dello status cavalleresco»,147 era
posseduta non soltanto dalla milizia, anche se il capitano Tortorelli ne conservava diverse:
«due spade d’argento, grande e piccola, una spada d’acciaio con manici di filograno;
una spada lancia; uno spadino d’argento».148 Un esemplare è posseduto anche da altri
uomini, ma notiamo come essi siano appartenenti a classi sociali di un certo livello: si
tratta del dottor Filippo Totta, don Ignazio Conte e Nicola Andrea di Peppo.
Altre armi erano possedute soprattutto da coloro i quali mostrano di avere la
passione per la caccia: tre scoppette ed una carabina venivano utilizzate dal capitano
Tortorelli insieme ad alcune panettere,149 mentre Nicola Andrea di Peppo utilizzava
«due schioppi per uso di caccia; una panettiera con i suoi stigli da caccia».150 Da
ciò si desume che queste due diverse tipologie di armi potevano essere possedute
indifferentemente.
I candelabri erano naturalmente molto comuni: quelli più semplici erano in
ottone mentre quelli in argento di solito venivano correlati da smiccia candele.
Collezionare oggetti ricercati sembra essere prerogativa di un solo uomo tra
Manna di S. Nicola: è un olio sacro, un liquido trasparente che si raccoglie nella cripta del Santo nella
Basilica di Bari. Considerata benefica per guarire le malattie e allontanare i pericoli.
143
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
144
Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180.
145
Sfera armillare: strumento astronomico per rappresentare i moti dei pianeti.
146
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123.
147
Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 171.
148
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262.
149
Panettere: tascapane.
150
S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474.
142
168
Federica Elisabetta Triggiani
quelli esaminati: si tratta ancora del dottor Nicola Tortorelli. Egli tende a distinguersi
dagli altri anche grazie ad una scansia di oggetti antichi collocata nel suo studio.
La sua passione per la numismatica, che si poteva già intuire grazie al volume
Prontuario delle medaglie, è confermata da una «frutteruola di cristallo in cui vi
sono 43 monete antiche, grandi, mezzane e picciole; in una particella vi sono quattro
monete; dentro una borsa vi sono monete antiche numero 59».151 Oltre ad una serie
di vasi antichi di creta e di bronzo, egli dimostra interesse verso curiosità naturali:
«un basilisco, un’idra con tre teste, una viperetta impietrita; un pezzo d’ugna della
gran Bestia».152 Quest’ultimo oggetto curioso era presente anche nell’inventario
del pittore Raspantini redatto a Roma circa un secolo prima: la Ago ci informa che
la ‘gran bestia’ dovrebbe essere l’alce.
Nelle piccole cose c’è la grande differenza di gusto e di cultura che appartiene
ad alcune famiglie e che si manifesta nella scelta di oggetti che le circondano:
«statuette di animali, teste di cervo impagliate, corna di bufala. Oppure sono i
cimeli orgogliosi della famiglia […] o la tipica mescolanza di armi bianche e armi
da fuoco […]».153
Conclusioni
Entrare come un’intrusa in casa d’altri per esaminare oggetti e indumenti di
uso anche privato, appartenuti a persone sconosciute: è stata questa la sensazione
che ho provato quando ho cominciato il mio lavoro di ricerca negli archivi per
consultare atti notarili relativi agli inventari di patrimonio.
Ma poi, man mano che prendevo dimestichezza con quelle bizzarre grafie e
con i termini arcaici usati nel ‘700, mi sono resa conto dell’importanza e del valore
culturale di questi documenti.
Essi, con semplicità e precisione, hanno registrato nei minimi particolari
arredi, corredi e masserizie, permettendoci di riassumere l’immagine di un’epoca
e di un luogo.
Attraverso lo studio e l’analisi dettagliata di una campionatura di inventari
riguardanti diverse classi sociali, conto di essere riuscita ad assolvere ciò che mi sono
prefissa nella premessa: far sì che essi, rivisitati da un punto di vista inconsueto,
potessero diventare specchio fedele di vita domestica, evidenziando gli stili, i gusti
e le abitudini di consumo della società foggiana nel Settecento.
Differenze di stile di vita tra i vari strati sociali si evincono a cominciare
dalla dimora in cui si viveva e dalla divisione degli ambienti di casa: abitazioni
formate da due vani, prive di cucina, e case palazzate che arrivavano fino a dieci
Ivi, prot. 2610, ff. 119t-123.
Ibidem.
153
Macry, Ottocento, cit., p. 115.
151
152
169
Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte)
stanze. Non sempre però questa differenza strutturale basta per poter giudicare i
proprietari. Sono le cose che affollano quelle stanze a parlarci di loro.
L’analisi dell’arredo ha permesso di constatare la differenza tra persone che si
accontentavano di mobili per un uso strettamente necessario e quotidiano e famiglie
che potevano permettersi di ornare le proprie camere con inginocchiatoi e divani.
Molti sono stati i paragoni con epoche e stati diversi: nella Roma del Seicento
e nella Parigi pre-rivoluzionaria, ad esempio, lo stile di vita e le esigenze delle
persone erano molto diversi.
Vestire alla moda o cercare per lo meno di adeguarsi ai cambiamenti stilistici
comportava non pochi sacrifici: il tempo del consumismo ci appare davvero
lontano. Nessuno desiderava rinunciare a mostrare all’esterno dignità e decoro,
e l’abbigliamento apparve il mezzo ideale: i vestiti usati, nuovi o logori, venivano
spesso cuciti in casa, rimodernizzati e spesso ceduti come pegni. I bambini non
usufruivano di un vestiario specifico, perché essi indossavano vestiti che erano
copie di quelli degli adulti.
Chi godeva di minori possibilità economiche cercava di stare al passo, imitando
ciò che poteva. Il commercio di tessuti influiva positivamente sull’economia locale,
ma spesso il richiamo della moda francese portava a richiedere l’importazione di
tessuti pregiati stranieri.
Perciò gli oggetti più lussuosi erano appannaggio delle classi più elevate, ma
tutti dimostrano di non voler rinunciare a possedere almeno una posata d’argento
o un gioiello: oggetti semiofori che allo stesso tempo potevano assumere valore
sentimentale e valore economico laddove ce ne fosse stata la necessità.
Lo scambio monetario e i prestiti erano all’ordine del giorno e con gli oggetti
si cercava di fornire delle garanzie di riscatto. Si impegnavano soprattutto abiti,
tende, coperte ricamate, ma anche quadri e gioielli.
La sfera del collezionismo metteva inevitabilmente in ombra alcune classi
sociali. Soltanto i più eruditi e i benestanti possiedono nelle proprie abitazioni
librerie ricche di volumi giuridici, di letteratura, di storia, nelle edizioni più disparate
e in formati che si adeguassero alle proprie esigenze di consultazione. Non è un
caso se gli stessi possessori di testi avevano negli studi anche strumenti scientifici,
disposti in modo da attirare l’attenzione di chiunque entrasse nella stanza: si tratta
di oggetti inalienabili, il cui compito è quello di trasferire l’immagine di eleganza
ed elevato status sociale.
Collezionare oggetti antichi e rari significava voler arricchire un ‘tesoro di
famiglia’ che sarebbe poi stato destinato agli eredi.
L’esistenza stessa di minuziosi inventari dimostra quanto siano importanti i
beni materiali per l’uomo. In quegli atti c’è tutta la vita di una persona che, magari
con sacrificio, ha accumulato per anni oggetti ed arredi per sé e la sua famiglia.
Ma c’è qualcos’altro che la cultura materiale lascia trasparire: paradossalmente
sono proprio gli oggetti a dare una fisionomia ed una personalità a chi li ha scelti,
così come a volte un oggetto sembra capace di regalare l’immortalità a colui che lo
ha posseduto.
170
Federica Elisabetta Triggiani
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173
Michele Orlando
Energie rinnovabili e ambienti urbani.
La dimensione territoriale della sostenibilità
di Michele Orlando
Quando nel marzo 2008, nella città di Vieste1, splendida città in un tempo
mitico cara a Diomede, si pensava di esplorare tematiche delicate e dibattute, specie
in questo torno d’anni, come quello della dimensione territoriale della sostenibilità
e del rapporto profondo fra energie rinnovabili e ambienti urbani, si voleva dar
vita ad un vivace confronto, perché si riteneva necessario, in un’area regionale
particolarmente delicata come quella del Gargano, dare risposte concrete alle
nuove istanze del cittadino in materia di ecosistema e spazi urbani2. Ad ulteriore
conferma dell’opportunità e dell’intensa praticabilità di questa scelta tematica
stanno le quotidiane richieste, inchieste, articoli, interviste, ecc. dei media, come
pure i numerosi convegni provinciali e regionali sulle tematiche della dimensione
territoriale della sostenibilità, come quello che si teneva in concomitanza a Bari sul
tema Le energie rinnovabili in Puglia. Strategie, competenze, progetti.
1
Il convegno, dal titolo “Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità”, si è tenuto a Vieste (Fg) il 17 marzo 2008, rendendosi indispensabile caratterizzarlo piuttosto come
occasione di informazione ed educazione sulle fonti energetiche rinnovabili, sul risparmio e sull’efficienza
energetici: un incontro con professionisti e docenti universitari dedicato al sole, grande risorsa della nostra
terra, e alle energie rinnovabili (in modo particolare al fotovoltaico e al solare termico). La tavola rotonda
è stata promossa da: Assessorato all’Ambiente del Comune di Vieste, Assessorato all’Ambiente e Tutela
del Territorio della Provincia di Foggia, Assessorato all’Ecologia della Regione Puglia, Facoltà di Economia dell’Università di Foggia, Ente Parco Nazionale del Gargano, Enea, Enel Progetto “Energia in gioco”,
Ordine degli Architetti della Provincia di Foggia, Legambiente, Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale - Puglia, Scuola Media Statale Unica “Dante Alighieri” di Vieste, Fortore Energia S.p.a. di Lucera,
Arkingegno - Studio Tecnico Associato di Ingegneria e Architettura di Vieste e Globalenergia di Cerignola. Il
programma della serata si è articolato secondo il seguente programma: Prolusioni - Michele Orlando (Scuola Media “Dante Alighieri”, Vieste), Esortazione per una generazione energetica, Pio Pagliaro (Presidente
di Globalenergia, Cerignola), La dimensione territoriale della sostenibilità in Italia: alcune considerazioni;
Relazioni - Giuseppe Martino Nicoletti (Professore Ordinario, Facoltà di Economia, Università degli Studi
di Foggia), Questione ambientale e ambienti cittadini, Vincenzo Ragno (Ingegnere, Arkingegno - Studio
Tecnico Associato di Ingegneria e Architettura, Vieste), La questione ambientale tra obblighi e mercato,
Gianpaolo Bottinelli (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale, Bari), Energie rinnovabili e qualità
ambientale negli scenari urbani, Antonio Salandra (Presidente del C.d.A. di Fortore Energia S.p.A., Lucera),
Realtà locali e sviluppo di un sistema energetico sostenibile, Giuseppe Schembri Volpe (Banco di Napoli
S.p.A., Gruppo Intesa-Sanpaolo, Vieste), La finanziabilità degli impianti fotovoltaici.
2
Illuminante è la rilettura della prospettiva territoriale e delle determinanti della sua sostenibilità apparsa
nel recente volume di Zacharoula S. Andreopoulou, Gian Paolo Cesaretti, Rosa Misso, Sostenibilità dello sviluppo e dimensione territoriale. Il ruolo dei sistemi regionali a vocazione rurale, FrancoAngeli, Milano 2012.
175
Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità
Presentando la tavola rotonda, si chiarivano bene le ragioni dell’evento, dal
momento che non lo giustificavano né un anniversario, né una circostanza locale o
territoriale.
La cultura della modernità e l’organizzazione della nostra società sono
presiedute da un paradigma globalizzante di crescita, che malgrado tutto si scontra
più o meno ogni giorno con i suoi margini rilevanti ecologici, sociali, politici,
economici3. Gli indicatori sono consistenti ed erosivi e vanno dall’esaurimento
delle risorse alla drastica riduzione della biodiversità, dalle minacciose alterazioni
climatiche all’aumento delle sempre più profonde disuguaglianze tra ricchi e poveri,
dall’emergere delle nuove guerre della globalizzazione alla crescita del disagio, della
precarietà4. La gente a poco a poco comincia a prendere coscienza del passaggio
epocale e della necessità di fare delle scelte, spesso dolorose, ma non sa da che parte
dirigersi. La partita si gioca anche, o forse soprattutto, su un piano simbolico. Le
stagioni dell’umanità sono stabilmente coinvolte da un momento di crescita e da
una situazione che è possibile definire di dopo sviluppo, ma che in realtà altro non
è che una fine dello sviluppo, un punto d’approdo, che è anche un punto d’arresto,
visibile in modo particolare nelle dinamiche culturali che il dogma o, piuttosto, la
persuasione nella natura salvifica della crescita economica e nel modello di essere
umano e di società a cui faceva riferimento metteva in azione. Si tratta, in fondo, di
un cambiamento di paradigma che alcuni hanno cercato di riconsiderare con l’idea
di “decrescita”5. Occorre, quindi, tornare a interrogare noi stessi – i nostri modelli di
pensiero, i nostri desideri, le nostre aspirazioni – per cominciare a intravvedere una
ri-generazione possibile. Ovvero una opportunità per un futuro dopo lo sviluppo.
Perché si vuole credere che anche lo sviluppo non sempre si muova nel senso di una
crescita, di un progresso e di un sostanziale rinnovamento.
Non c’è telegiornale o altro mezzo di comunicazione che non parli
dell’innalzamento dei livelli di agenti inquinanti, ma anche dell’aumento della
percentuale di energie rinnovabili e degli ardui tentativi di riduzione del consumo di
energie non rinnovabili.
Dopo che l’Europa sembra prendere davvero sul serio il problema abbracciando
obiettivi impegnativi, potrebbe altresì resistere il dubbio sul catastrofismo già
conosciuto nel XIX secolo6. Esagerazioni o attendibilità? L’Unione Europea nel
3
Cfr. Giuliano Battiston (intervista di), Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione, Edizioni dell’Asino,
Roma 2009; Lucio Laureti, Economia dello sviluppo e dell’integrazione euromediterranea, FrancoAngeli, Milano 2008; Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, trad. di Daria Cavallini, Einaudi, Torino 2006;
Carlo Mongardini, Capitalismo e politica nell’era della globalizzazione, FrancoAngeli Editore, Milano, 2007.
4
Vd. Pompeo Della Posta, Anna Maria Rossi, Effetti, Potenzialità e limiti della globalizzazione: una visione multidisciplinare, Springer, Milano 2007; Enrico Del Colle, Disuguaglianze socioeconomiche e livelli di
povertà, FrancoAngeli, Milano, 2009.
5
Segnalo qui l’importante volume miscellaneo, Disfare lo sviluppo per rifare il mondo, Jaca Book, Milano,
2005, di studiosi di diversa nazionalità e formazione, un tentativo di affrontare il tema del dopo-sviluppo e i
concetti di sviluppo, povertà, bisogni, globalizzazione a partire dal concetto di de-crescita.
6
Cfr. Stefano Casertano, La guerra del clima. Geopolitica delle energie rinnovabili, Francesco Brioschi
Editore, Milano, 2011.
176
Michele Orlando
frattempo accelera i tempi, sollevando i limiti di riduzione delle emissioni di anidride
carbonica del 20% entro il 2020 rispetto al 1990, oltre ad altre considerevoli misure,
che intensificano le energie rinnovabili del 20% e l’efficienza energetica, diventate
fondamentali nel disegno delle politiche di sviluppo in Europa, in linea con gli
obiettivi focalizzati dal Consiglio Europeo per il 2020. Malgrado ciò c’è chi sostiene
che prescrizioni come quelle rivolte alla riduzione del CO2, che sembrano opportune,
non soddisfino poi così rigorosamente il loro obiettivo, inquadrate nell’ottica di una
politica integrata del clima e della distribuzione delle risorse7.
Pensando invece all’Italia nel nostro tempo, non si può non reputare necessaria
la propensione a tutte le fonti energetiche rinnovabili, evitando di screditarne alcune
per farne emergere altre8. È pur vero che da più parti (giornali, politica, istituzioni)
si fanno strada taluni atteggiamenti lobbistici mirati a marginalizzare il ruolo delle
rinnovabili. In Italia e nel mondo le energie pulite e un nuovo sistema energetico
più sostenibile si trovano oggi in una sorta di situazione stagnante: si dice tanto e
di tutto, ma poco si fa per uscire da questa inerzia culturale, per la quale non è più
il tempo di usare il fioretto, ma servono coscienziosità, partecipazione responsabile
e fruttuosa alla vita pratica dell’amministrazione culturale degli ambienti urbani,
posizioni forti e scelte rilevanti. Non possiamo pensare un futuro energetico basato
ancora su carbone, su altre fonti fossili e persino sul nucleare9, ultima spiaggia per i
detrattori delle rinnovabili. I cambiamenti climatici sono in accelerazione e si rischia
sul serio di entrare in un punto di non ritorno.
Per fermarsi alla condizione dell’Italia, paziente malato, va ricordato che la
precarietà della nostra situazione energetica – bolletta energetica nazionale sempre
più elevata, crescente dipendenza dall’estero, obblighi di Kyoto che ormai paiono
allontanarsi – impone scelte perentorie, che sostengano tutte le tecnologie solari
e le altre rinnovabili (in particolare, eolico e bioenergia), unitamente all’efficienza
energetica negli usi finali10. Anche certe strategie transitorie, nell’attesa che le energie
pulite siano finalmente predisposte, possono essere pericolose, perché mettono in
cantiere pesanti infrastrutture tipiche del vecchio sistema energetico centralizzato,
ritardando il passaggio alla generazione distribuita e sottraendo tanto denaro
privato e pubblico alle rinnovabili. Solo per rimanere nel campo della produzione
di elettricità, fotovoltaico ed eolico restano tecnologie già pronte e possono, anzi
devono, ricoprire quote crescenti negli scenari energetici negli anni immediatamente
prossimi. Il fotovoltaico, ad esempio, ha tutte le carte in regola per dare un contributo
7
Cfr. Barbara Pozzo, Le politiche energetiche comunitarie. Un’analisi degli incentivi allo sviluppo delle
fonti rinnovabili, Giuffrè Editore, Milano 2009; Ermete Realacci, Green Italy. Perché ce la possiamo fare,
Chiarelettere, Milano 2012.
8
Per una complessiva ed analitica lettura della disciplina ambientale cfr. Alberto Pierobon, Nuovo manuale di diritto e gestione dell’ambiente. Analisi giuridica, economica, tecnica e organizzativa, Maggioli Editore,
Santarcangelo di Romagna 2012.
9
Cfr. Davide Urso, Nucleare. Siamo bravi, furbi o folli?, FrancoAngeli, Milano 2012.
10
Sugli obblighi di Kyoto vd. Gian Luigi Rota (a cura di), Ambiente, UTET Scienze Tecniche, Torino 2012.
177
Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità
significativo nel medio-lungo periodo al bilancio energetico italiano11. L’accusa da
taluni versanti di scarso peso del fotovoltaico è smentita dalla sua crescita a livello
internazionale. Non esiste nessuna tecnologia altrettanto rapida nel raggiungimento
di simili obiettivi, senza creare tra l’altro problemi di accettazione da parte delle
comunità locali. Per questo è necessario accettare la sfida.
L’iniziativa di Vieste nel 2007 metteva in rilievo il senso politico, pubblico, civile della circostanza, senza rinunciare al suo valore esclusivamente culturale, che non
consente, soprattutto in questo settore, chiusure cittadine e provinciali. L’Assessorato
all’Ambiente e Tutela del Territorio della Provincia di Foggia e l’Assessorato all’Ambiente del Comune di Vieste ci aveva dato ragione della opportunità di un’azione
divulgativa ad ampio raggio, in una realtà regionale delicata proprio nei suoi tratti di
ricettività culturale, iniziativa orientata ad avvicinare la gente comune alle tematiche
della sostenibilità ambientale attraverso atti concreti e praticabili, per far sì che la sfida
di Kyoto permeasse – migliorandole – le nostre vite e le nostre scelte.
Quando si pensava a Vieste come sede di tale iniziativa, non si dimenticava
il recente dramma dell’estate 2007, che aveva ferito fatalmente l’ambiente naturale,
ricchezza primaria per il Gargano. Ma non ci si dimenticava nemmeno che Vieste
avrebbe potuto accogliere positivamente questo tipo di scommessa, che è d’altronde
un investimento, anche se ancor oggi in misura un po’ troppo occasionale. Informati
regolamenti edilizi, certificazione energetica degli edifici, costruzione di una rete
di sportelli informativi e adozione di contratti di garanzia dei risultati potrebbero
invece facilitarne gli approcci. Sarebbe altresì opportuno presentare bandi per i
singoli proprietari di case e per i condomini, per i numerosi hotel e camping, snellire
le procedure per ottenere prestiti agevolati anche per ristrutturare le proprie case e
ridurre i consumi energetici12.
Esistono anche cofinanziamenti della Comunità Europea, che danno particolare attenzione al tema della sostenibilità ambientale, elemento che caratterizza sempre più la qualità degli interventi edilizi. La crescente sensibilità nei confronti della
difesa dell’ambiente quale ricchezza primaria per l’uomo ed i correlati mutamenti
nelle attese e nelle richieste dei consumatori hanno profondamente influito sui criteri dell’offerta in tutti i settori dell’industria e del commercio, in modo rilevante nel
settore del turismo, che, anche in considerazione del costante incremento del bacino
dell’utenza e della conseguente necessità di destagionalizzarne i flussi, ha individuato negli ultimi anni nuove forme di offerta sempre più diversificate, qualificate dal
rispetto dei canoni della sostenibilità ambientale.
L’impatto del turismo su aree di intervento seppur indirettamente coinvolte
(beni artistici e culturali, tradizioni locali, artigianato etc.) ne ha accresciuto il peso
11
Cfr. Enrico Cancila, Fabio Iraldo, Strategie per il clima: dalle regioni alle città. Linee guida per lo sviluppo di politiche e azioni di riduzione dei gas serra nel governo del territorio, FrancoAngeli, Milano 2012.
12
Cfr. Elena Marchigiani, Sonia Prestamburgo, Energie rinnovabili e paesaggi. Strategie e progetti per
la valorizzazione delle risorse territoriali, FrancoAngeli, Milano 2011; Vittorio Ruggiero, Luigi Scrofani,
Turismo e competitività urbana, FrancoAngeli, Milano 2011.
178
Michele Orlando
quale fattore di sviluppo con parallelo effetto di trascinamento delle risorse comunitarie13. Nell’ambito dell’Unione Europea, la presa di coscienza degli Stati in materia
di emergenza ambientale si è tradotta nell’adozione di una politica ambientale comune e nelle conseguenti direttive che hanno avuto immediati riflessi sulle legislazioni
nazionali, avendo compreso una buona volta che l’obiettivo fondamentale di garantire un adeguato livello di sviluppo economico in tutti gli Stati membri non poteva
essere disgiunto da altre esigenze sociali, come la tutela dei livelli occupazionali, la
promozione di una crescita sostenibile e non inflazionistica, il rispetto dell’ambiente.
Non si tratta, di fatto, di punire semplicemente determinati comportamenti nocivi
per l’ambiente, ma di puntare ad una maggiore responsabilizzazione degli operatori
economici interessati e dei gruppi sociali organizzati attraverso lo sviluppo dell’informazione sulle problematiche ambientali, prevedendo altresì azioni rimuneranti
per coloro che rispettano determinati standard ambientali. Tra i settori specifici da
osservare con particolare cura ci sono l’industria, l’energia, i trasporti, l’agricoltura
e il turismo; settori inquadrati per il particolare impatto che hanno sull’ambiente
nonché per il ruolo determinante che possono svolgere in vista del raggiungimento
di uno sviluppo sostenibile.
Tra questi ci preme soffermarci sul turismo: i programmi comunitari, già nel
lontano trattato di Amsterdam del 1997, presentavano alcune nodali linee d’azione,
come la diversificazione delle attività turistiche, che consente sia di gestire meglio il
turismo di massa sia di incoraggiare forme alternative di turismo; il miglioramento
della qualità dei servizi offerti, in particolare per quel che riguarda l’informazione
e la sensibilizzazione, la gestione e le infrastrutture di accoglienza; l’azione sul
comportamento dei singoli turisti, tramite campagne a mezzo stampa, codici di
comportamento e scelta dei mezzi di trasporto.
Il programma d’azione della Comunità Europea è certo a favore dell’ambiente, fondato sui principi dello sviluppo sostenibile e di un’azione preventiva e precauzionale. E su questa lunghezza d’onda bisogna far coincidere il ruolo decisivo
delle realtà locali nell’attuare le politiche di sviluppo sostenibile, secondo gli intenti
e gli obiettivi programmatici su ambiente, economia e società da tempo oggetto del
documento di Agenda 21 sottoscritto da più di 170 Paesi nel giugno 1992 nel corso
della Conferenza delle Nazioni Unite tenutasi a Rio de Janeiro. In particolare, per
riferirci velocemente alla realtà di Vieste e del Gargano, lo sviluppo sostenibile del
turismo pone alla base della propria crescita un piano mirato a garantire la redditività
del territorio di una località turistica in una prospettiva di lungo periodo con obiettivi di compatibilità ecologica, socio-culturale ed economica.
Spesso noi non diamo pensiero al fatto che la sostenibilità abbia anche un
valore di immediato interesse economico: le località turistiche, infatti, devono la
13
Vd. Filippo Angelucci (a cura di), La costruzione del paesaggio energetico, FrancoAngeli, Milano 2011;
Manuela De Carlo, Raffaella Caso, Turismo e sostenibilità: principi, strumenti, esperienze, FrancoAngeli,
Milano 2007.
179
Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità
loro notorietà all’integrità delle bellezze naturali e non tanto o non solo ai servizi
che mettono a disposizione all’interno delle singole strutture; se questa integrità si
degrada oltre una certa soglia, i flussi turistici sono destinati al declino. Anche nel
mondo alberghiero e, più in generale, in quello delle strutture ricettive, le scelte dei
turisti, ma anche dei viaggiatori d’affari, prendono sempre più in considerazione il
fattore della qualità ambientale. Per questo è fondamentale investire in ambiente, atto
che non equivale però all’adozione di politiche e strategie eco-compatibili per dare
unicamente la risposta ad una crescente richiesta di un nuovo mercato emergente,
come spesso rischia di diventare anche quello delle rinnovabili14. Non si tratta di
sbarcare il lunario.
La capacità di controllare e ridurre gli impatti ambientali legati all’attività
alberghiera è, infatti, un requisito sempre più importante per garantire il
mantenimento dell’attività in quelle zone in cui il turismo è fortemente legato ad
aspetti paesaggistici o naturalistici; dal punto di vista dell’offerta alberghiera, inoltre,
una corretta gestione ambientale permette di ottimizzare alcuni costi, ottenendo
risparmi significativi legati alla riduzione dei consumi di energia, acqua e altre risorse
e alla minor produzione e smaltimento dei rifiuti.
In sostanza, un efficace sistema di gestione ambientale, garantito da continui
controlli in materia di rifiuti, di energia, emissioni e consumi, applicato a un’impresa
alberghiera (così come a un residence, un villaggio turistico o a un camping), permette
di rafforzare la propria posizione di mercato, migliorando la propria immagine agli
occhi dell’utenza sempre più attenta all’ambiente.
Una corretta gestione ambientale permette infine di gestire correttamente
il rischio, accedendo più facilmente a nuove linee di credito. In mancanza di una
strategia unica le amministrazioni locali, per migliorare la propria immagine turistica,
dovrebbero fare sempre più frequentemente ricorso ai processi di Agenda 21 locale,
secondo le indicazioni della fondamentale “Carta di Rimini” redatta in occasione
della “Conferenza Internazionale per il turismo sostenibile” svoltasi nel giugno
2001, ai sistemi di gestione ambientale e ai marchi di qualità.
Tracciare una fotografia della vivibilità ambientale attraverso un esame
ponderato di alcuni parametri fondamentali, dall’inquinamento atmosferico alla
mobilità, al traffico, dalla raccolta differenziata al verde urbano, dalla capacità di
depurazione all’utilizzo e diffusione delle energie rinnovabili, è un’operazione che
riscuote non sempre un immediato consenso, specialmente quando un gamma di
parametri considerati minimi per un adeguato livello di sostenibilità ambientale e
un modo per poterli raggiungere o almeno per poter far sì che divengano visibili e
un po’ più concreti, non viene sistematicamente e coerentemente declinato nel senso
di uno sviluppo urbano equilibrato e di un miglioramento complessivo della qualità
14
Sul complesso equilibrio tra redditività economica e sostenibilità ambientale delle attività turistiche
rinvio al denso lavoro di Carmen Bizzarri, Giulio Querini, Economia del turismo sostenibile. Analisi teorica
e casi studio, FrancoAngeli, Milano 2006.
180
Michele Orlando
della vita15. Il risparmio energetico, le rinnovabili, il clima e l’ambiente sono ormai
da anni tra gli argomenti centrali della politica globale. E lo dimostrano anche recenti
avvenimenti di cronaca.
Clima, ambiente, uomo e inquinamento sono sempre più strettamente connessi
e sempre più incidono sui modelli di sviluppo16. Modelli che devono, ormai, per forza
di cose, fare i conti con gli effetti che precipitano sull’ecosistema planetario. Durante
lo svolgimento dell’incontro di Vieste, fiore all’occhiello del Parco Nazionale del
Gargano, ci si interrogava se le nostre realtà cittadine avessero presto potuto essere
esempio di buone pratiche per ottenere prestazioni ambientali nei singoli settori.
In realtà sono le città a determinare, attraverso i modelli di politiche territoriali che
propongono, questa o quella buona riuscita. Occorrono dunque volontà e capacità di
governo molto più determinate di quelle vigenti, una chiara definizione dei ruoli dei
diversi ministeri competenti e dei rapporti tra stato e regioni, tra regioni e realtà urbane,
che non sono la periferia dello Stato, ma ne costituiscono il cuore, la macchina motrice.
E bisogna altresì cambiare il modo di operare e impostare piuttosto una politica e
un quadro normativo nazionale seri, coerenti e di lungo periodo, che stimolino gli
investimenti delle imprese e che, al tempo stesso, incoraggino ed accompagnino
concretamente la domanda dal basso di queste tecnologie, una domanda che cresce
anno dopo anno. All’Italia viene in particolar modo contestato il mancato e tardivo
rispetto della legislazione comunitaria sullo sviluppo dell’elettricità rinnovabile e il
mancato rapporto sui progressi compiuti nel settore delle energie pulite.
Quali sono stati o sono al giorno d’oggi i nostri sforzi, i nostri, vale a dire quelli
dei singoli cittadini, asserragliati spesso nelle maldestre abitudini della quotidianità,
che non sempre, o quasi mai, mettono l’ambiente e i cambiamenti climatici al centro
del proprio agire, proponendo invece con coraggio modelli di sostenibilità e vivibilità
integrati con lo sviluppo. Sviluppo che deve divenire quindi, secondo questi modelli,
sempre più teso alla sostenibilità e alla tutela delle risorse della nostra terra.
Ebbene, capire oggi i processi in corso nei comuni, approfondire le “vocazioni” dei diversi paesaggi, le potenzialità rispetto alle diverse fonti rinnovabili è
cruciale per costruire politiche capaci di sviluppare appieno nel territorio questo tipo
di impianti. Solare, eolico, biomasse, idroelettrico, geotermia sono, infatti, risorse
importanti del territorio italiano ma distribuite in maniera differenziata nelle diverse
regioni. Le rinnovabili rappresentano la migliore opportunità per una generazione
energetica distribuita, che permetta di rispondere ai fabbisogni dei cittadini.
Molti si chiederanno dov’è la strada, quali sono gli obiettivi, quali le vie
d’uscita. Rispondiamo: non c’è il cammino, il cammino lo si fa procedendo, ma con
intelligenza. Volendo altresì ridefinire il problema della sostenibilità economica ed
Cfr. Guido Alfani, Matteo Di Tullio, Luca Mocarelli, Storia economica e ambiente italiano (ca. 14001850), FrancoAngeli, Milano 2012.
16
Sui principali indicatori, indici e modelli per la valutazione della sostenibilità a livello territoriale e di
singola organizzazione vd. Paolo Tenuta, Indici e Modelli di Sostenibilità, FrancoAngeli, Milano 2009.
15
181
Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità
ambientale secondo una prospettiva diversa e semmai più vicina a noi, possiamo
dire che è necessario partire dal basso, dalla promozione, solo per fare un esempio,
della qualità dell’abitare17. La promozione della qualità della casa secondo le declinazioni di qualità architettonica, ambientale e tecnica, qualità del servizio, comporta
affrontare il tema del risparmio energetico degli edifici, che ci piacerebbe trattare
più approfonditamente in altra occasione. Sicuramente occorre fare riferimento ad
una serie di princìpi-guida che riguardano il contesto dell’abitare, il manufatto edilizio e più propriamente il suo utilizzo, specialmente in ambito urbano. Tener conto,
quindi, di una serie di azioni per la diffusione dei princìpi e dei criteri di una nuova
e diversa cultura del progetto edilizio. Inoltre, occorre orientarsi verso norme tecniche armonizzate, rispondenti al sistema esigenziale-prestazionale (così come peraltro già suggerito nella proposta di direttiva europea sul rendimento energetico negli
edifici); è necessaria una guida del processo edilizio secondo un approccio sistemico
per requisiti prestazionali; urgono garanzie di sostenibilità del manufatto edilizio,
quali certificazioni dei materiali che lo compongono, del processo di realizzazione
e di gestione del prodotto edilizio; si mostra conveniente un abbattimento dei costi
di manutenzione e, soprattutto, di gestione dell’alloggio (costi per il riscaldamento,
costi per l’illuminazione, costi della gestione corrente di impianti) a garanzia di una
efficace sostenibilità dell’alloggio bioedile18.
Detto altrimenti, per poter dare attuazione alla strategia della qualità edilizia
occorre promuovere iniziative di ricerca di edilizia sperimentale e, conseguentemente, diffondere i casi di eccellenza per la diffusione di buone prassi, favorire l’applicazione di nuove tecnologie negli interventi di edilizia residenziale pubblica.
Il miglioramento della sostenibilità edilizia, riferita ai parametri del risparmio
energetico (costi e risorse naturali), deve assicurare una riduzione del consumo di
energie non rinnovabili e delle fonti inquinanti; un abbattimento dei costi della gestione
corrente degli impianti; garantire la salubrità, il benessere e la fruibilità dell’alloggio;
migliorare la qualità dell’alloggio attraverso risparmio energetico; qualità dell’aria
indoor; protezione dal rumore e da agenti tossici inquinanti; miglioramento delle
prestazioni energetiche dell’edificio; corretto utilizzo delle risorse idriche.
Tutto questo potrà essere raggiunto attraverso la promozione di qualità del
processo; attenzione alla gestione e manutenzione dell’edificio; riconoscimento
economico di accorgimenti materiali e tecnologici volti al miglioramento delle
prestazioni dell’alloggio (riscaldamento, ventilazione, uso dell’acqua), con sistemi di
certificazioni idonei ad attestare oggettivamente i livelli di qualità raggiunti.
Piccoli passi costruiscono il futuro, ma solo con precise scelte sostenibili nella
promozione della qualità dell’ambiente urbano19.
Cfr. Giuseppe De Micheli, La qualità dell’abitare, Aracne, Roma 2005.
Cfr. Camilla Perrone, Per una pianificazione a misura di territorio regole insediative, beni comuni e
pratiche interattive, Firenze University Press, Firenze 2012.
19
Rinvio al volume Architettura produttiva. Principi di progettazione ecologica, a cura di M. L. Palumbo,
Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 2012.
17
18
182
Matteo Siena
Pasquale Petrone.
Deputato al Parlamento Italiano nel 1865
di Matteo Siena
Dopo il plebiscito del 21 e 22 ottobre 1860 che sancì l’annessione del
Regno delle Due Sicilie al Regno Sabaudo e al riconoscimento dell’Unità d’Italia,
seguirono disposizioni legislative promulgate dal governo provvisorio del 31
ottobre circa le elezioni dei deputati in rappresentanza dell’Italia Meridionale nel
nuovo Parlamento. Successivamente queste vennero esplicitate con il Decreto
del 17 dicembre 1860 che oltre alle modalità introdusse il sistema uninominale
maggioritario a due turni (il secondo turno da attuarsi solo con il ballottaggio in
caso di parità di voti o di una non ben determinata maggioranza), la suddivisione
dei Collegi Elettorali e fissò, inoltre, la data delle elezioni al 27 gennaio e 3 di
febbraio dell’anno successivo.
Questo sistema di votazione assicurava a ciascuno dei Collegi un suo
rappresentante e considerava votanti solo coloro che sapevano leggere e scrivere
e che erano titolari di un buon reddito, escludendo così, come avvenne per il
Plebiscito, la partecipazione delle donne, degli analfabeti e dei nullatenenti.
Quindi questa norma si rivolgeva esclusivamente ad una determinata cerchia
di persone e, pertanto, il numero dei votanti era molto ristretto. La ripartizione,
poi, dei collegi nelle varie Provincie dell’ex Regno delle Due Sicilie, non seguiva
una determinata linea di demarcazione territoriale, bensì il raggruppamento di un
certo numero di Comuni con un’equa distribuzione dei votanti. La Capitanata, in
base a questo Decreto, venne ripartita in sette Collegi Elettorali e precisamente:
1 – Foggia con i Comuni di Foggia, Troia e S. Marco in Lamis;
2 – Lucera, con Lucera, S. Bartolomeo, Volturara, Volturino, Celenza,
Biccari, Roseto e Motta;
3 – S. Severo, con S. Severo, Torremaggiore, Serracapriola e Castelnuovo;
4 – Bovino, con Bovino, Deliceto, S. Agata, Castelfranco, Accadia e
Orsara:
5 – Cerignola, con Cerignola, Casaltrinità, S. Ferdinando, Orta, Ascoli e
Candela;
6 – San Nicandro, con S. Nicandro, Vico, Apricena, Vieste e Cagnano:
183
Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865
7 – Manfredonia, con Manfredonia, Montesantangelo, S. Giovannoi
Rotondo, Rodi, e Zapponeta.
A partecipare a questa votazione vi fu, pertanto, solo una minoranza degli
aventi diritto e gli eletti di ciascun Collegio furono rispettivamente: Giuseppe
Ricciardi (voti 486), Gaetano De Peppo (528), Luigi Zuppetta (463), marchese
Rodolfo D’Afflitto (326), marchese Camillo Caracciolo di Bella (474), Carlo
Fraccacreta (223) e Ruggero Bonghi (298)1.
Negli anni successivi il Parlamento italiano apportò modifiche alle Leggi
elettorali e, infatti, a partire dal 1870 aumentò il numero dei Collegi e quello degli
elettori ma, successivamente con la riforma elettorale del 24 settembre 1882, il
Collegio elettorale divenne plurinominale e vi introdusse la lista degli elettori.. Di
conseguenza la provincia di Foggia fu divisa in due collegi. Vieste venne inclusa
in quella di Foggia II. Nel 1892 si ritornò al sistema maggioritario uninominale e
venne soppresso solo il Collegio di Bovino.
Per il Senato non vi erano elezioni, perché i componenti venivano nominati
direttamente dal Re.
La prima convocazione di questi primi neodeputati avvenne a Torino il 18
febbraio 1861 e in quell’occasione Vittorio Emanuele II si fregiò del titolo di ‘Re
d’Italia per grazia di Dio e volontà della nazione’ e venne riconosciuto all’unanimità
da tutti i deputati.
I primi contrasti fra Nord e Sud avvennero con l’imposizione da parte dei
piemontesi del riconoscimento di questa prima seduta come l’VIII legislatura, e
non come la Prima del Regno d’Italia: tutto questo perché il Regno di Napoli era
ritenuto annesso a quello di Sardegna, mentre i meridionali sostenevano che l’Unità
d’Italia, come nuovo Stato, si ebbe col plebiscito, rispondendo alla richiesta «Il
popolo vuole l’Italia una indivisibile sotto lo scettro del re costituzionale Vittorio
Emanuele e i suoi legittimi discendenti?» e che non vi era alcun accenno al Regno
di Sardegna.
Questa prima battaglia, purtroppo, non dette un felice risultato e certamente
i nostri deputati restarono con la bocca amara, quando videro i loro colleghi dei
vari Stati annessi dell’Italia settentrionale associarsi ai Piemontesi.
In quel primo Parlamento, a rappresentare il Gargano, vi erano Ruggiero
Bonghi, per il Collegio di Manfredonia e Carlo Fraccacreta per quello di S.
Nicandro.2
Intanto le mire principali del nuovo Regno erano quelle di occupare Roma
per farne la capitale d’Italia. Con l’Unità, ormai, diventava necessario e impellente
Melillo Savino, Foggia un’antica capitale, Foggia, Bastogi 2002, p. 147-150; cfr Vocino Michele, Parlamentari Garganici, quaderno n. 2 de «IL GARGANO», Foggia, tip. Cappetta 1953.
2
Il Fraccacreta si dimise e venne sostituito dal principe Michele San Severo di Sangro, che lasciò il Parlamento subito dopo.
1
184
Matteo Siena
trasferire la capitale da Torino nella parte centrale della penisola onde poter meglio
sorvegliare le sorti del nuovo Stato ed equiparare, anche per senso di giustizia, le
distanze fra Nord e Sud.
Sulla Questione Romana il Parlamento era diviso: la destra cercava la via
diplomatica di intesa con la Francia e quella insurrezionale sostenuta dalla sinistra
in collusione con le forze garibaldine, che al grido o Roma o Morte mirava ad
occupare Roma con la forza, fermò l’azione militare di Garibaldi in Aspromonte,
diretta alla conquista di Roma. Questo per evitare un conflitto con la Francia, con
la quale era stata stipulata il 15 settembre del 1864 la Convenzione fra Napoleone
III e Cavour di non attaccare lo Stato Pontificio durante il presidio militare francese
in Roma.
Questo impegno sarebbe durato due anni per dar tempo al governo pontificio
di costituire un proprio esercito. Inoltre Napoleone III volle a garanzia che il
governo italiano rinunciasse ad occupare Roma con la forza delle armi, e suggerì di
trasferire la capitale d’Italia in altra città del centro della penisola.
La scelta della sede cadde su Firenze. Ad esultarne furono tutti i membri
dei ministeri non piemontesi, mentre scoppiarono proteste e rivolte in tutto il
Piemonte e in particolare fra la popolazione di Torino, dove la ribellione venne
repressa nel sangue.
La capitale a Firenze creò diversi problemi: infatti la città non era preparato
ad accogliere la sede del Regno e dovette, quindi espandere il tessuto cittadino per
poter ospitare tutta una nuova popolazione, per allestire la sede per il Re, le sedi
del Parlamento e del Senato, gli uffici e dare dignitosa accoglienza in nuovi edifici
agli impiegati dei vari ministeri e ai deputati. Firenze divenne per un intero anno
un grande cantiere, perché il trasferimento vero e proprio della capitale avvenne
il 22 ottobre del 1865. Intanto Vittorio Emanuele aveva firmato l’8 settembre il
decreto che scioglieva la Camera e contemporaneamente indiceva le nuove elezioni
da svolgersi il 22 ottobre e quelle del ballottaggio il 29 successivo.
Tutti i collegi elettorali dell’Italia unita si attivarono per preparare subito le
liste dei deputati da eleggere per la IX Legislatura.
Nel Gargano, per il collegio di S. Nicandro, non si ripresentarono né il
Fraccacreta, che si era già dimesso nella precedente Legislatura, né il suo sostituto,
il principe Michele Sansevero di Sangro, venne eletto quasi all’unanimità, il
presidente della Corte d’Appello, Vincenzo Caccioppo, che alla Camera, pur
facendo parte dell’opposizione, diede un valido contributo agli argomenti giuridici.
Nel collegio di Manfredonia, invece, vi furono lotte incandescenti fra l’illustre
letterato napoletano, Ruggiero Bonghi, deputato uscente, Francesco Prudenzano,3
3
Francesco Prudenzano era nativo di Manduria, ma risiedeva a Napoli dove esercitava la sua professione
di bibliotecario e di letterato.
185
Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865
altro napoletano, entrambi filogovernativi, e Pasquale Petrone4 di Vieste sostenuto
dalla sinistra. Ognuno cercò di accaparrarsi, in tutti i modi, almeno la maggioranza
dei 473 voti disponibili.5 I risultati non soddisfecero nessuno, sia per i 33 voti nulli
e sia per i risultati riportati da ciascuno, infatti Bonghi ne ebbe appena 75 voti, il
Petrone 122 e Prudenzano 106. Non avendo nessuno conseguita la maggioranza
assoluta, i due più votati vennero ammessi al ballottaggio del 29 ottobre. Anche se
l’afflusso degli elettori non fu molto significativo, il viestano conseguì la vittoria
con lo scarto di 14 voti.
Senz’altro questa discrepanza è da attribuirsi principalmente alla poca
partecipazione degli elettori, e alla cattiva conduzione della politica fiscale con
l’esagerato aumento sulle imposte voluta dai cavourriani, che aveva suscitato,
specie nell’Italia Meridionale, un vasto malcontento. E fu questo un trionfo della
sinistra che indusse successivamente il nuovo governo a rivedere il problema
generale dell’economia.
Da canto suo Ruggero Bonghi6 non accettò di buon grado la sconfitta
e insinuò allora negli amici del Parlamento che vi erano stati brogli elettorali
e, più di tutto, sollecitò quelli di Rodi e di S. Giovanni Rotondo a presentare
ricorso, perché sperava nell’annullamento della elezione e di poter poi concorrere
ancora.
Per due volte l’Ufficio V del Parlamento, preposto a dirimere i ricorsi sulla
eleggibilità, convalidò l’elezione, ma nella tornata del 2 marzo 1866, la Camera dei
Deputati, dopo un’ampia discussione, sul ricorso presentato da Prudenzano circa
una paventata minaccia contro la sua persona e con la costrizione a rinunciare al
ballottaggio, dispose la prosecuzione dell’inchiesta, lasciando sospesa l’elezione.
Appena, furono acquisite le presunte prove dei brogli, la Camera, il 2 marzo 1866,
decretò l’annullamento.7
Rifatta l’elezione con l’intervento di 293 elettori su 473 si ebbe il seguente
risultato: Pasquale Petrone con voti 186 e Saverio Baldacchini (che sostituì il
Prudenzano) con 86, mentre i voti dispersi furono appena 20 e uno nullo. Avendo
il Petrone conseguito al primo scrutinio la maggioranza richiesta, fu proclamato
Pasquale Petrone non era il nipote all’arcidiacono Mantuano di Manfredonia come sostiene Antonio
Ciuffreda nel suo libro Uomini e fatti della montagna dell’Angelo, Centro Studi Garganici, Foggia, 1989, ma
dell’arcidiacono Matteo Nobile di Vieste, filo borbonico, accusato di aver favorito l’ingresso dei briganti a
Vieste il 27 luglio 1861.
5
Gli elettori del collegio erano così suddivisi: Manfredonia-Zapponeta voti 154; Monte S. Angelo 112, S.
Giovanni Rotondo 76 e Rodi Garganico e Ischitella 131.
4
Ruggero Bonghi, candidato come nel 1861, nei collegi di Lucera, S. Nicandro e Manfredonia, venne clamorosamente battuto in tutti e tre i collegi dai candidati della sinistra. In Appendice sono riportate tre sue lettere accusando
in particolare il Petrone.
6
7
In Appendice è riportato anche parte della relazione sull’annullamento della elezione, tratta dall’Archivio
Camera dei Deputati - Rendiconti del Parlamento Italiani., sessione del 1865-66, nella tornata del 2 Marzo
1866, pagg. 1160-1164, vol. II. Firenze,1866, pp.1158-1164.
186
Matteo Siena
deputato. Il tempo trascorso fra sospensione e nuova elezione, non gli permise di
dedicarsi molto all’attività parlamentare.
Rieletto ancora a pieni voti il 22 marzo 1867 per la X Legislatura, aderì al
gruppo liberale di sinistra di Francesco Crispi e ai sostenitori dell’Eroe dei Due
Mondi, come il garibaldino Luigi Miceli e il foggiano Giuseppe Ricciardi. Giuseppe
Garibaldi era legato da grande amicizia a Pasquale Petrone, tanto che gli tenne a
cresima anche il figlio Nicola.8
Circa la sua attività parlamentare, dagli Atti della Camera, si apprende che il 9
febbraio 1868 prese parte alla discussione del disegno di legge per lavori marittimi,
chiedendo la costruzione di un porto a Manfredonia. Il Petrone ebbe a sottolineare
il bisogno di tutelare e garantire la sicurezza e la navigazione nell’Adriatico, poiché
sul tratto di costa da Manfredonia ad Ancona, non vi era alcun rifugio: «Come voi
ben sapete, la dinastia passata (il governo borbonico) deluse sempre le speranze e i
voti che si facevano per quest’opera di necessità…Ora però i tempi son cambiati…
e io credo che la Camera debba per assoluta necessità provvedere a questo grande
bisogno». E in altra tornata ha insistito ancora su questo argomento, chiedendo
che venisse almeno Manfredonia inserito fra i porti di IV classe.9
Nel Luglio successivo, nella discussione del progetto di legge per la
costruzione obbligatoria delle strade comunali, riportando le lamentele dei comuni
di Monte S. Angelo, S. Giovanni Rotondo, Rodi, Rignano, Ischitella, Vieste,
Carpino, Cagnano e S. Nicandro, denunciò la cattiva esecuzione con cui venivano
costruite le strade consorziali del Gargano e lo scarso controllo della Commissione
provinciale.10
Fece parte della Commissione per le Petizioni e in quest’ambito perorò
la causa degli agricoltori di Manfredonia, i cui terreni coltivati a cereali furono
distrutti dalle cavallette e chiese la sospensione delle tasse sia di ricchezza mobile
che quelle di fondiaria per almeno un triennio.11
Il Petrone si distinse in modo particolare nella discussione dello schema di
legge per la tassa sulla macinazione dei cereali, voluta dal ministro delle Finanze, il
toscano Guglielmo Cambray-Digny, ma già progettata e proposta tempo addietro
da Quintino Sella e Francesco Ferrara. Il nostro deputato definì questa legge, come
quella «della miseria, diretta a colpire il povero, impopolare, inopportuna, dannosa
8
Dall’amico Pasquale Petrone, parente del deputato, apprendo che Garibaldi donò al suo figlioccio Nicola
uno spadino d’oro, che prima di morire l’aveva lasciato alla nipote Giuseppina Medina. Nicola capitano di
cavalleria, celibe, morì nel Montenegro (Albania) il 26/06/1910.
9
ARCH. CAM. DEPUT. RENDICONTI DEL PARLAMENTO– SESIONE DEL 1867-68, vol. IV,
Tornata del 20 Febbraio 1868, pp.4485-4487.
10
Ibidem. - RENDICONTI DEL PARLAMENTO– SESIONE DEL 1867-68, vol. VII, Tornata del 18
luglio 1868, p. 7401
11
Ibidem - RENDICONTI DEL PARLAMENTO– SESIONE DEL 1869-70, vol. I, Edizione II, Tornata del 14 Dicembre 1869, pp.280-281.
187
Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865
ed infeconda....Questa legge, egli ebbe a sostenere, non potrà che essere sostrato di
gravi perturbamenti, e segnare un’epoca deplorevole ai destini del nostro Paese».
Dopo aver richiamato i balzelli sulla frutta voluta dal governo vicereale di Napoli
e alla reazione della popolazione capeggiata da Masaniello fece constatare che negli
otto anni di unità nazionale, le popolazioni meridionali furono gravate sempre
da imposte, che con enormi sacrifici ebbero sempre a pagare e soggiunse: «Un
ministro di finanza, il quale non si curasse dei bisogni materiali di un popolo, e si
ispirasse ai soli principii astratti della scienza, che non si preoccupasse di sapere gli
effetti economici, politici e sociali di un balzello, questo ministro riuscirebbe non
ben gradevole allo Stato, meriterebbe solo biasimo». E parlando ancora al ministro
sottolineò «Le sue previsioni sono un po’ lontano dal vero, sia pei mancati raccolti
granarii, sia per la libera estrazione, sia pel cresciuto peso fondiario, sia per la
cresciuta mano d’opera per la coltura dei fondi, sia pur anco per l’emigrazione che
si fa maggiore di giorno in giorno» e, rivolgendosi poi a tutti i deputati concluse:
«Signori, facciamo per poco tacere i risentimenti dei partiti; lo dico a tutti;
raccogliamoci sotto la gloriosa bandiera della nostra libertà, salviamo il paese»12
Le sue previsioni sull’applicazione della legge furono esatte, scoppiarono
violente manifestazioni specialmente nell’Italia centro-meridionale.
Nel mese di giugno del 1870 si ammalò e chiese un mese di congedo, ma non
si allontanò da Firenze. La malattia fece anche rallentare la sua partecipazione alla
vita parlamentare, tanto che fu costretto a rinunciare al suo intervento sulla legge
dell’armamento posta all’ordine del giorno del 20 agosto. Non sappiamo se dopo
quella data ebbe modo di ritornare a sedere nella Camera o se la malattia glielo impedì
per sempre, perché cessò di vivere il 19 ottobre, senza poter rientrare al suo paese.
L’atto di morte venne registrato a Vieste diciotto giorni dopo, il 6 novembre,
con la seguente trascrizione pervenuta dall’Ufficio di Stato Civile di Firenze:
‘Provincia di Firenze. Comunità di Firenze. Ufficio di Stato Civile. Estratto
dal Registro Atti di Morte dell’anno 1870, numero 2560, Volume A. Petrone
Pasquale. L’anno 1870 e questo dì 20 ottobre alle ore 11 e ¾ antimeridiane nel
Palazzo Comunale di Firenze, avanti a me Commendatore Brandimarte Saletti,
Segretario Generale del Municipio, Ufficiale di Stato Civile delegato con atto del
31 dicembre 1865, debitamente approvato, sono comparsi i signori Dottor Cavalier
Luigi Battista, di anni 29, possidente, e Mariani Bardari di anni 33, Ufficiale nella
Intendenza Militare, qui residenti, ed hanno dichiarato che alle ore sette e mezzo
pomeridiane del dì 19 ottobre corrente nella Casa posta ne Lung’Arno Acciaiuoli
al numero 14, morì il signor Cavaliere Pasquale Petrone di anni 4413, Deputato
12
Ibidem - RENDICONTI DEL PARLAMENTO– SESIONE DEL 1867-68, vol. V, Tornata del 21
Marzo 1868, pp.5119-5121.
13
Il Petrone figlio di Gaetano e di Maria Michela Nobile, nacque a Vieste il 30 Novembre 1826 nella casa
posta in strada Ripa Petrone (oggi via Gaetano Patrone) e gli furono dati i nomi Pasquale, Domenico, Andrea, Gaetano, Giuseppe.
188
Matteo Siena
al Parlamento Nazionale, nato e domiciliato nel Comune di Vieste, provincia di
Capitanata, degente in Firenze, figlio del fu Gaetano Petrone e della Signora Maria
Michela Nobile, di anni sessantacinque possidente, coniugi già insieme conviventi
e domiciliati a Vieste sudetto. Coniugato con la Signora Cherubina Cannone di
anni 37, possidente. La morte fu accertata dal Necroscopo Municipale. L’atto
presente previa lettura è stato da’ dichiaranti e da me firmato. La presente copia
che è conforme all’originale, con cui collazionata concorda, si spedisce al Signor
Uffiziale di Stato Civile del Comune di Vieste in ordine a quanto dispone l’art.
1997 del Codice. Dall’Ufficio Comunale di Firenze lì 27 ottobre 1870. L’Ufficiale
dello Stato Civile (segue la firma).
In una lettera del Sindaco di Firenze al Prefetto di Foggia datata 5 aprile del
1871 si legge: ‘Nel 19 Ottobre 1870 moriva a Firenze il Deputato Pasquale Petrone,
al quale furono resi gli onori funebri che gli competevano, ed il cadavere chiuso in
doppia cassa di piombo l’interno di legno incatramato l’esterno come a richiesta
di alcuni Deputati ed in nome della famiglia tenuto in deposito provvisorio in una
cappella attigua alla Parrocchia dei SS. Apostoli in questa città in attesa del decreto
Prefettizio di seppellimento in Patria.
Decorsi ormai cinque mesi senza che da alcuno sia stato reclamato il cadavere
suddetto, il sottoscritto prega la V.a Ill.ma a volere interpellare in proposito i membri
della famiglia Petrone affinché venga data conveniente sepoltura alla Salma del
loro congiunto. Lo scrivente attende di conoscere con la maggior sollecitudine la
deliberazione che farà per esser presa a riguardo, dichiarando che ove fosse di troppo
ritardata una replica alla presente, questo Municipio provvederà alla tumulazione
del cadavere suddetto nel Cimitero comunale. Il Sindaco f.to Illegibile’.
Circa le decisioni da prendere, se trasportare la salma a Vieste o farla tumulare
a Firenze, fra un tiro e molla e una fitta corrispondenza fra il Sindaco di Firenze e
il Prefetto di Foggia, fra questo e il Sindaco di Vieste e con la famiglia trascorse un
anno e mezzo. L’ultima lettera indirizzata al Prefetto del 14 febbraio 1872, inclusa
nel Fascio 216/7584 dell’Archivio di Foggia, rammentava alla famiglia Petrone di
saldare le spese occorse per il trasporto e la custodia della tumulazione del cadavere
e il rimborso al Parroco della chiesa dei SS. Apostoli della somma di L. 141 e
concludeva ‘In ogni caso la pregherei a volermi rimettere la replica che dalla prefata
famiglia le pervenga, all’effetto di farne quell’uso che apparirà più conveniente per
raggiungere l’intento’. Questo faceva prevedere che la storia del defunto deputato
non finiva li, ma che doveva esserci ancora qualche altro lungo appendice.14
14
A.S.F., PREFETTUTA DI CAPITANATA, Serie 2, Cat. Unica, Trasporto del cadavere Petrone da
Firenze al cimitero di Vieste, Fascio 216/7584.
189
Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865
APPENDICI
I
3 LETTERE DI RUGGIERO BONGHI
(Estratte da DE GRAZA M., Appunti storici sul Gargano
Vol..II, p. 46-47, tip.Caputo Torremaggiore 1930)
I
Gentilissimo Signor de Grazia – Vi ringrazio delle notizie che mi avete fornito sui voti del collegio. Come negli altri posti i voti per me sono stati molto
minori, pare che io non sia entrato nel ballottaggio. Se è così, vi prego di non
far uscire il Petrone che ha scritto un programma così ridicolo, da rendere
ridicolo il collegio che lo elegesse. Il che se fosse, si dorrebbe, poiché si prese
la dignità d’un collegio che ho rappresentato per cinque anni. L’altro almeno
non si sa chi sia, e come si troverà solo o quasi solo in Parlamento non potrà
farci danno.
Ringrazio tutti i miei amici di Rodi. M’adopererò in tutto quello che potrò
per voi e per loro come se fossi sempre deputato del vostro collegio. Credetemi. Vostro amico. Ruggiero Bonghi – Belgirate 26 ottobre 1865.
II
Gentilissimo signor Gaetano de Grazia, - Quest’oggi si è stato scritto da
Firenze che l’ufficio, a cui è stato commesso l’esame delle elezioni di Manfredonia, ne propone l’annullamento.
Mi par molto probabile che la Camera si conformi al parere dell’ufficio. Ora
bisogna che voi tastiate bene il terreno. Se io devo uscire deputato di Manfredonia devo avere una gran maggioranza a Rodi e ad Ischitella, che sono le
migliori parti del collegio. Bisogna che vi accertiate quanti elettori potranno
questa volta votare per me. Ad ogni modo ciò che dovete proporre non è
tanto che riesca io, quanto che abbiate per rappresentante un galantuomo,
perché un deputato come quello che vi era toccato, era una vergogna, poteva
farvi danno. Ora dovete tentare, se sul mio nome potete raccogliere molti
voti, nel caso che non potete, dovete mettervi d’accordo con gli amici di
Manfredonia, di S. Giovanni Rotondo e di Montesantangelo, e cercare un altro candidato. In questo caso potete scrivermi liberamente, ed io vi proporrò
qualche nome che vi faccia onore e bene. – Parlate di ciò col Saia, col Fiore,
col Mascis, col Montanaro e Giordano di Ischitella, col Veneziano ed il De
Cata, e con tutti gli amici, e fatemi sapere una risposta. – Non ho più notizie
di Valente. Mi sapresti dire dove sia? Amate il vostro Ruggiero Bonghi. –
Belgirate 22 novembre 1865.
190
Matteo Siena
III
Belgirate 30 novembre 1865 – Gentilissimo Signor De Grazia – Ho ricevuto
la vostra lettera del 30 ottobre e vi ringrazio soprattutto per l’affetto che mi
mostrate. Voglio sperare che sia vero quello che voi mi scrivete, che molti
elettori sono pentiti del voto dato il 22 ottobre.
Certo di più vergognoso non ne potevano dare, e l’effetto è stato già pessimo
per il collegio, giacché potete aver visto che non un solo giornale approva la
scelta che esso ha fatto.
I miei amici della Camera procureranno l’annullamento dell’elezione, se l’irregolarità, contro la quale si è vigorosamente protestato così in Rosi come in
S. Giovanni Rotondo, saranno sufficienti a provare che l’elezione non è stata
valida. Quantunque però sia il risultato, la mia gratitudine e la mia stima per
voi sarà sempre grandissima. – Salutatemi il Sindaco e tutti gli amici e credetemi Vostro. – Ruggiero Bonghi.
II
ANNULLAMENTO DELL’ELEZIONE
DEL COLLEGIO DI MANFREDONIA
(Estratto da RENDICONTI DEL PARLAMENTO ITALIANO
Sessione del 1865-66, vol. II Firenze 866)
(Omissis)
PRESIDENTE Mari. Ha facoltà di parlare l’onorevole relatore.
GREC0·CASSIA, relatore. Come la Camera ha rilevato da quest’incidente,
trattasi dell’elezione che ebbe luogo nel collegio di Manfredonia, per la quale
fu ordinata un’inchiesta.
E appunto sui risultati di quest’ inchiesta che io debbo oggi per mandato del
I ufficio riferire.
Nel collegio di Manfredonia, non avendo alcuno dei candidati ottenute nel
primo scrutinio il numero dei voti prescritto dalla legge per la elezione del
deputato, fu aperte il ballottaggio fra i due che riportarono il maggior numero di voti, cioè fra il signor Prudenzano Francesco, ed il signor Petrone
Pasquale.
Seguito il ballottaggio, fu proclamato deputato il signor Petrone, a cui furono
dati voti 148, cioè 14 voti più del sue competitore, a cui ne furon dati 134.
Portata all’esame della Camera la elezione, vari reclami furono dall’ufficio
esaminati.
Taluni di essi riguardavano, direi piuttosto, la forma anziché la sostanza.
Si osservava essere stati ammessi a votare degli analfabeti mentrechè avrebbero dovuto essere respinti dall’urna elettorale; e che nell’ufficio di una delle
sezioni era stato adibito per segretario un individuo non elettore.
191
Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865
Questi appunti non furono reputati tali da invalidare la elezione; di modo
che tanto l’ufficio V provvisorio, che allora esaminò questa elezione, quanto
la Camera, di essi non tennero alcuna ragione.
Però due furono i motivi gravi per i quali fu ordinata la inchiesta.
Il primo riguardò un telegramma diretto al vicario di Manfredonia, nel quale
fu raccomandata la candidatura del signor Petrone.
Avverso questo telegramma fu nientedimeno che lanciata l’accusa di falsità.
Il secondo motivo riferissi ad una lettera nella quale il signor Prudenzano,
saputo l’esito della prima votazione, rinunziava alla sua qualità di deputato,
e pregava gli elettori a dare il loro voto a favore dell’altro candidato signor
Petrone.
Questa lettera nel reclamo presentato alla Camera dallo stesso Prudenzano
venne denunciata non come effetto di una libera e spontanea volontà, ma
come l’effetto del dolo, delle minaccie e della violenza.
Perciò oggi la Camera dovendo pronunciare il suo verdetto, giusta i resultati
che dalla inchiesta si sono ottenuti, tutto lo esame in altro non consiste, se
non nel doversi determinare quale grado di fiducia e veridicità possano per
avventura quel telegramma e quella lettera meritare.
In quanto al telegramma non può mettersi in dubbio che dalla telegrafia di
Napoli fu spiccato un dispaccio portante la firma di un certo signor Silvestri,
segretario dell’arcivescovo Taglialatela, diretto a Polidoro Ceri, vicario di
Manfredonia, nei seguenti termini concepito:
Al signor Polidori vicario Ceri.
Nostro amico non può andare.
Raccomandiamo nipote arcidiacono Nobili. Parlate canonico Zuppetti.
Domenico Silvestri.
Notisi che dagli atti consta che il nipote dell’arcidiacono Nobili è il siguor
Pasquale Petrone.
Chiamato monsignor Taglialatela a deporre se mai avesse dato al suo segretario signor Silvestri il mandato di spiccare il telegramma sopra enunciato,
dichiarò di non aver dato alcun mandato.
Interrogato pure il signor Silvestri, non solo negò decisamente di avere diretto quel telegramma; ma pure, quando fu a lui esibito l’originale esistente
nell’ufficio telegrafico di Napoli, soggiunse: ‘Questo non è mio carattere; la
firma di Silvestri non é la mia’.
Dietro cosi formali e recise dichiarazioni non poteva rimanere alcun dubbio
sulla falsità del telegramma; perciò come falso é stato dall’ufficio ritenuto.
RICCIARDI. Domando la parola.
GRECO-CASSIA, relatore, Relativamente alla lettera con la quale il signor
Prudenzano rinunciava alla sua candidatura, è innegabile che il giorno 25
ottobre, vale a dire dopo che si era conosciuto in Napoli l’esito della prima
votazione, una. lettera di carattere del signor Prudenzano fu diretta al signor
Michele Ungaro, cosi concepita:
Gentilissimo signor Ungaro,
leggo con mia meraviglia trovarmi in ballottaggio col signor Pasquale Pe192
Matteo Siena
trone, del fu Gaetano, in codesto collegio elettorale. Io suppongo che voi,
il signor Mozzillo di Manfredonia ed altri amici vostri, che tutti diffondeste
con tanta cortesia il mio romanzo storico Viscardo da Manfredonia, avrete
scelta e sostenuta la mia candidatura, non conoscendo io altra persona in
codesti luoghi. Di tanto onore io ringrazio altamente la vostra bontà e quella
dei miei onorevoli elettori, ma io trovandomi impiegato governativo non
potrei rispondere all’onorevole appello, ed invece vi pregherei di aggiungere
i miei voti a quelli dati al prelodato signor Petrone, uomo onestissimo e provato liberale, il quale, essendo vostro concittadino, conosce i bisogni locali e
sosterrà con interesse i vostri diritti.
Dopo che avete ascoltato il tenore della lettera sopra riferita, malgrado che
mi sia prefissa la maggior possibile brevità, non posso fare a meno di cennarvi le seguenti altre rilevanti circostanze, cioè:
Che il signor Petrone prima che quella lettera fosse stata inviata al signor
Ungaro, ne ebbe piena conoscenza, sino al punto di averne di suo carattere
trasmessa una copia nello stesso foglietto di una lettera da lui scritta ad un
suo amico, nella quale gli raccomandava di rendere ostensibile a tutti gli elettori la rinuncia alla candidatura fatta dal signor Prudenzano.
Che prima, e durante il ballottaggio, molte copie in stampa di quella stessa
lettera circolarono pel collegio elettorale, e che persone apposte all’ingresso
del palazzo municipale distribuivano agli elettori quella copia prima che fossero entrati nelle sala per votare;
E che il risultato della votazione dovette subire una serie perturbazione per
avere molti elettori in tutta buona fede creduto che il signor Prudeuzano
non solo avesse rinunciato all’aspirazione di essere eletto deputato, ma che
pure avesse data preghiera ai suoi elettori di rivolgere i loro voti a favore del
signor Petrone.
I sostenitori della elezione non potendo negare l’effetto prodotto dall’asserta
rinuncia del signor Prudenzano per tutto il collegio divulgata, vollero fare
osservare, che non essendo egli eleggibile per lo impiego da lui occupate,
l’essersi, a lui chiesto di rinunciare, per mezzo di una lettera, alla sua candidatura non può costituire un fatto illecito, od indelicato, da dar luogo a
censura alcuna.
Se l’ufficio si fosse serenamente convinto che la lettera di rinuncia fosse stata
ottenuta senza alcun genere di pressione, nulla avrebbe trovato di censurabile.
Ma l’ufficio al contrario ha ritenuto che la lettera scritta dal Prudenzano non
sia stato l’effetto d’una libera e spontanea volontà. Esso è andato in questa
sentenza, perché, tanto dal reclamo presentato alla Camera dal signor Prudenzano, quanto dalle prove, raccolte dall’inchiesta, risultano i fatti seguenti,
cioè:
che saputosi l’esito della prima votazione, nell’annunziarsi da alcuni giornali
il ballottaggio tra il signor Petrone ed il signor Prudenzano, fu costui designato come un candidato del partito clericale.
Che la sera del 24 ottobre il signor Battista recossi in casa del Prudenzano
193
Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865
all’oggetto di fargli riflettere che egli non avrebbe potuto assolutamente essere eletto, e quindi indurlo a scrivere ai suoi elettori, acciocché avessero dato
il loro voto al signor Petrone;
Che la dimane del giorno susseguente, cioè la mattina del 25 il signor Prudenzano fu indotto ad andare in casa del signor Battista, ove difatti essendo
andato, trovò varie persone, la presenza delle quali gli fece concepire un certo
timore; per lo che egli senza ulteriori osservazioni divenne a scrivere la lettera contenente la sua rinuncia.
Che ad impedire che quella lettera avesse prodotto l’effetto di fargli diminuire il numero dei voti in suo favore nel giorno 28 dello stesso ottobre fu da lui
diretto un telegramma ad un suo amico del tenore seguente:
Al signor capitano Rebecchi, Monte Sant’Angelo - Compatibilità, impiego
Prudenzano con nomina deputato. Sostenersi candidatura dello stesso. Francesco Prudenzano;
Che conosciutosi l’esito del ballottaggio, il Prudenzano dolentissimo, in data
del primo novembre cosi scriveva al suo amico signor Lorenzo Monzillo:
Carissimo amico,
Sabato mi giunse la vostra grata lettera, e dalla stessa appresi le male arti
diaboliche che sonosi costì fatte contro di me per non farmi risultare vostro
deputato. Pazienza! A tempi migliori e più sereni questa scelta; ed io ho la
coscienza di far bene gl’interessi di codesti carissimi paesi, e di cooperare con
tutte le mie forze alla grandezza ed all’unità d’ Italia.
Nella vostra lettera voi mi faceste cenno che si faceva costi girare da’miei
avversari una mia lettera o rinunzia a tale onorevole mandato.
Che lettera? che rinunzia? lo ignoro tutto, ciò, né certo sarei stato cosi villano di rivolgermi con tale rinunzia ai miei elettori che si mostrarono tanto
cortesi ed amorevoli con me. Ad ogni modo quando vi capiterà. questa, carta
che mi accennate, speditemela per la posta ed io mi varrò della legge per fare
annullare l’elezione.
E che lo stesso Prudenzano sempre dolente per la toccatagli sconfitta, un giorno dopo che aveva scritto al suo amico Monzillo, un’altra lettera indirizzò a
quello stesso Ungaro, a cui fu diretta la lettera di rinunzia del 25 ottobre.
Abbiate la pazienza di ascoltare in quali termini è concepita quest’ultima
lettera, e poi sarò presto al termine della mia relazione:
Pregiatissimo amico,
Mi affretto a riscontrare la grata vostra lettera.
È impossibile, descrivervi le mille vie che han praticato i fautori del Petroni
per riuscire nel loro intento. Io non era più padrone di stare in casa, perché
a ogni momento seccato da loro importune visite, pregandomi a rinunciare a
favore del Petroni perché atteso il mio ufficio di bibliotecario, non avrei potuto accettare il mandato di deputato. Io adduceva loro le mie buone ragioni,
e me ne disbrigava al più presto possibile.
La mattina del 25 ottobre mi trovai in casa di un di costoro, perché trattovi
con parole melate, per trattare della faccenda, e, come essi diceano, per darmi
una preghiera.
194
Matteo Siena
Quivi, venni quasi costretto a scrivervi la nota lettera; ma uscito di colà, ve
ne scrissi un’altra, colla quale vi pregava a non dar retta a quanto poco prima
vi avea detto nella cennata lettera. E dal silenzio che voi mi usate di questa
seconda lettera, mi accorgo che non siavi mai pervenuta, perché forse sottratta nella posta di Napoli, o in quella di costà. Ora sento che detta mia lettera
siasi fatta anche stampare e dispensare nelle piazze di codesti vostri paesi
del collegio. Di ciò sono dolentissimo, e protesto altamente di questo abuso
commesso. Io non pensava a cotanto onore: è stata la bontà di tutti voi altri,
che mi avete conosciuto pel mio Viscardo, che me l’avete spontaneamente
concesso; ma una volta che mi conferivate tal sacro mandato, io non sarei
stato cosi villano ed ingrato da rifiutarlo. Vi dico sinceramente che avrei saputo rappresentar bene e coscienziosamente codesti carissimi paesi, ed avrei
ad ogni costo procurato il loro bene. Intanto, pregovi rimettermi a rigor di
posta quella mia lettera strappatami, ed inviatavi, con la busta, bollata dalla
posta, come trovasi, ond’io dassi que’ passi che l’onor mio e la mia morale mi
consigliano. Essi hanno abusato della mia bontà; ora è tempo di sostenere il
mio decoro. Voi altri, miei buoni amici, fate dal canto vostro quel che vi detta
il vostro decoro e la vostra prudenza, per garantire i vostri diritti: io non vi
do consigli all’uopo, perché voi siete saggi più di me. Dirò solo che essendo
la giustizia e la verità causa comune, tutti abbiamo il dovere di tutelarla.
Colla stessa posta riceverete due copie della mia Storia Letteraria, una
delle quali io dono a voi, e l’altra all’onorevole signor capitano Rebecchi, che ossequio distintamente.
Vi abbraccio, e sono con tutto l’animo, in attenzione di vostro grato
e pronto riscontro.
Napoli, 2 novembre 1865
Affezionatissimo vostro amico
Francesco Prudenzano
Voi avete, o signori, colla massima attenzione udito la lettura dei principali documenti, e la esposizione sommaria delle induzioni, per le
quali l’ufficio che ho l’onore di rappresentare si è determinato a ritenere che la lettera di rinuncia del 25 ottobre non fu liberamente e
spontaneamente scritta.
Coloro ai quali hanno sostenuto la elezione del signor Petrone credevano trovare un valido argomento di difesa in talune ritrattazioni che
si trovano nei due interrogatorii dal signor Prudenzano subiti,
Dico due interrogatorii, perché, uno il signor Prudenzano lo ha subito
quando ha dovuto rispondere al magistrato che ha eseguito l’inchiesta
ordinata dalla Camera, e l’altro, quando ha dovuto comparire innanzi
l’istruttore incaricato d’istruire su di una querela di calunnia e diffamazione contro di lui dal Battista lanciata, per i fatti esposti nel di lui
reclamo presentato alla Camera.
195
Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865
Tanto nell’uno, quanto nell’altro interrogatorio il signor Prudenzano
ha detto che egli divenne alla lettera scritta in casa del signor Battista,
onde sottrarsi dalle voci sinistre, che anche per mezzo della stampa
correvano ingiustamente contro di lui; quali voci erano state da lui
ritenute come una pressione che volevasi esercitare su di lui.
Che le persone da lui trovate in casa Battista furono da lui credute
espressamente colà convenute ad oggetto di fargli violenza.
E che posteriormente ha conosciuto che quelle persone erano educate;
per lo che ha dovuto convincersi che la violenza da lui in quel momento temuta fu l’effetto della sua alterata fantasia.
L’ufficio avendo anche voluto aggiustar fede a queste ultime dichiarazioni del Prudenzano, e ritenerle non sospette d’alcun altro genere
di pressioni, non ha potuto fare a meno di considerare che esse sono
sufficienti tutto al più a togliere qualunque sospetto di colpabilità a
carico del signor Battista e de’suoi amici che furono presenti alla scrittura della lettera, ma non mai a far ritenere che il signor Prudenzano,
nel momento in cui la scriveva, non avesse per effetto della sua alterata
fantasia concepito alcun timore che a lui si avesse voluto usar violenza.
Conchiudendo adunque, tanto per la provata falsità del telegramma,
quanto per l’alterazione mentale in cui trovavasi il signor Prudenzano
quando scrisse la I lettera di rinunzia alla sua candidatura, il I ufficio
ad unanimità mi ha dato il mandato di proporre alla Camera l’annullamento, di quest’elezione.
Però prima che io lasci la parola debbo dichiarare che io, nel solo scopo di non rendermi prolisso e noioso, ho per sommi capi accennato i
fatti, ed i documenti più culminanti dell’inchiesta, ma che sono pronto
a dare tutti quegli schiarimenti che mi saranno richiesti dai miei onorevoli colleghi, e specialmente dall’onorevole Marolda-Petilli, il quale
è stato colui che ha voluto fare la istanza perché tutte le carte di questa
elezione fossero state depositate nella Segreteria della Camera, onde
prenderne lettura quei deputati che avessero desiderato maggiori dilucidazioni, ed avessero avuto quella pazienza che ho dovuto avere io,
a cui toccò la gran fortuna di aver dovuto digerire i quattro volumi
(ilarità) che per la eseguita inchiesta sono stati redatti.
PRESIDENTE. Il deputato Ricciardi ha facoltà di parlare.
RICCIARDI. Rammenterà la Camera che, quando fu riferita la prima
volta quest’elezione, io fui caldo propugnatore della sua convalidazione. Ora, avendo attentamente esaminato nel I uffizio le carte tutte
relative all’ inchiesta, ho dovuto mutare opinione, e però io stesso,
che avevo, ripeto, proposto la convalidazione dell’elezione, sono stato
196
Matteo Siena
costretto a proporne l’ annullamento. Debbo quindi alla Camera ed a
me stesso il dichiarare i motivi del mio mutar d’opinione.
Signori, io ho avuto, non so se l’onore o la disgrazia, di presiedere
in Napoli un comitato elettorale centrale. Scopo di questo comitato
indipendente, democratico, ma sempre nei termini del Plebiscito, era
quello di sostituire alla maggioranza della passata Camera una maggioranza del nostro colore.
La Camera capirà ciò benissimo, e non troverà quindi strano che si mirasse da noi a decapitare la maggioranza passata. (Oh! oh! a destra)
Per conseguenza facemmo guerra, anzi tutto, ma guerra onesta, ai capitani, fra i quali certamente annoveravasi il Bonghi. A scavalcare il
quale in Capitanata, da me e da alcuni miei amici politici venne proposto il deputato Del Giudice, molto popolare in quella provincia, per
esserne stato una volta governatore, sotto Garibaldi, ed un’altra prefetto, durante il Ministero Rattazzi. Sfortunatamente l’onorevole Del
Giudice, contro il mio avviso, declinò questa sua candidatura in favore del signor Pasquale Petrone; e questa nuova candidatura attecchì
subito nel collegio elettorale di Manfredonia, anzi attecchì cosi bene,
da rendere impossibile qualunque altra candidatura indipendente.
Il nostro principale scopo essendo, siccome ho detto, quello di scavalcare l’ex-onorevole Bonghi, il comitato mandò la sua parola d’ordine
a tutti i comitati filiali, affinché appoggiassero energicamente il Petrone contro il Bonghi. In questo frattempo sorse una terza candidatura,
quella del Prudenzano. Io credo che questa candidatura fosse stata
messa innanzi dai partigiani del Bonghi per dividere i voti, e far si almeno che il ballottaggio potesse aver luogo fra Bonghi e Prudenzano
con esclusione:di Pasquale Petrone. Il fatto però fu tutt’altro, poiché,
nel primo scrutinio fu escluso il Bonghi, e rimasero in lotta il Prudenzano e il Petrone. Allora naturalmente il comitato di Napoli fece ogni
opera affinché fra il Prudenzano e il Petrone vincesse quest’ultimo,
ma, ben s’intende, con mezzi aperti e leali coi mezzi che porge la persuasione, e non già con quelli che possono fornire la corruzione e la
frode.
Quanto alla lettera, di cui si è menato tanto scalpore, lettera che si
dice essere stata scritta dal Prudenzano dietro pressione violenta, io
non le do importanza di sorta alcuna, giacché, per la personale conoscenza che ho del Prudenzano, debbo dire alla Camera che è un uomo
eccellente, ma di una tal debolezza, che sarebbe capace di scrivere nei
sette giorni della settimana sette lettere diverse tutte l’una dall’altra (si
ride), cedendo facilissimamente, non dirò alla violenza, ma alla semplice pressione morale di Tizio o Caio.
197
Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865
Per conseguenza, qualunque siano state le lettere scritte dal Prudenzano, io non me ne preoccupo punto; mi fa invece una profonda impressione l’affare del telegramma.
Signori, l’inchiesta giudiziaria ha provato il telegramma essere falso.
Ora da qual parte veniva una tal falsità?
Abbiamo l’aforisma giuridico: Is fecit cui prodest. Io non voglio accusare nessuno, non sospettare neppure il Petrone; ma qualche suo amico troppo zelante avrà potuto credere opportuno l’adoperar questo
mezzo. Certo è che questo telegramma essendo partito da Napoli il
28 ottobre, vale a dire nella vigilia dell’elezione, ed essendo arrivato a
Manfredonia alle due dello stesso giorno, dovette grandemente influire sul risultato del ballottaggio del dì 29, poiché nel telegramma dicevasi, in gergo bensì, ma con abbastanza chiarezza: è inutile votare per
Prudenzano, perché è ineleggibile; votate, e fate votar per Petrone.
Questo sol fatto, o signori, è bastante, secondo me, a viziare radicalmente l’elezione di Manfredonia; quindi, il ripeto, io stesso, che in altra seduta ne chiesi la convalidazione, ora ne chiedo l’annullamento.
Finirò, o signori, col prendere innanzi alla Camera ed al paese un impegno solenne, cioè quello di non presiedere mai più verun comitato
elettorale. (Bravo! Benissimo!).
Ché anzi, ove mai la presente Camera, fosse sciolta, io direi agli elettori: volete una norma sicura ad avere ottimi deputati? Non cedete
alle istanze di coloro, i quali saranno per brigare i vostri suffragi, ma
andate a cercare gli uomini veramente meritevoli a casa loro, e non
eleggete se non coloro, che non vi domanderanno d’essere deputati!
(Bravo! Bravo! Benissimo!)
(L’elezione è annullata.)
198
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
I saraceni medievali delle località minori
della Capitanata
di Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
Quando viene trattata la vicenda dei musulmani di Sicilia trasferiti
dall’imperatore Federico II, negli anni 1220 e nei decenni successivi, nella Puglia
settentrionale, a quel tempo Capitanata, ci si riferisce quasi esclusivamente ai
saraceni che abitarono la città di Lucera. Questa fu interamente a loro disposizione
fino al 1300 quando il re angioino Carlo II la prese con le armi, privò i saraceni della
loro libertà e li vendette come schiavi.1 Anche i pochi documenti della storiografia
araba che ricordano lo spostamento dei musulmani siciliani parlano solo della città
di Lucera. Riportano inoltre che, sotto il regno di Manfredi, nella stessa città vi era
una corte composta quasi per intero da saraceni devoti e fedeli, anche dal punto di
vista della religione islamica.2 Tuttavia dai documenti angioini la situazione risulta
più complessa perché una consistente frazione dei musulmani abitò altre cittadine
della Capitanata. Queste non sono tutte facilmente individuabili, ma senza
dubbio i saraceni le condivisero con le popolazioni cristiane che si vi trovavano in
maggioranza. Non presentano problemi di identificazione le località di Stornara e
Castelluccio dei Sauri, mentre di altre località più piccole non è rimasta traccia. Si
può parlare di presenza saracena in queste ultime solo indirettamente per le notizie
riportate nel Documentum de Reparatione Castrorum3 che dettava le servitù e
le prestazioni lavorative richieste alle popolazioni cristiane e saracene, sia della
località dove si trovava il castello (oppure la domus) da riparare, sia dei paesi nelle
vicinanze all’edificio bisognoso di restauro.
Quando nell’agosto del 1300 la città di Lucera fu occupata dall’esercito di
Carlo II d’Angiò e gli abitanti venduti come schiavi, la stessa sorte toccò anche
ai saraceni residenti negli altri centri della Capitanata. Diversamente dalla città di
1
Pietro Egidi, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, 1912; Julie Taylor, Muslims
in Medieval Italy. The Colony at Lucera, Lanham, Lexington, 2003; Giuseppe Staccioli & Mario Cassar,
L’ultima città musulmana: Lucera, Bari, Caratterimobili, 2012.
2
Francesco Gabrieli, Storici delle Crociate, Torino, Einaudi, 1987, p. 273. “C’era una città a nome Lucera,
i cui abitanti sono tutti musulmani di Sicilia; lì si tiene la pubblica preghiera del venerdì e si professa apertamente il culto musulmano”.
3
Eduard Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia sotto Federico 2° e Carlo 1° d’Angiò.
Bari, M. Adda, 1995.
199
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
Lucera, dove i saraceni erano la stragrande maggioranza, nei centri minori essi vivevano
gomito a gomito con i cristiani creando un ambiente favorevole alla formazione
di scambi linguistici con il passaggio di voci, prevalentemente di uso comune, da
una lingua all’altra. In questi centri non risulta sia avvenuta una separazione fisica
delle due comunità come nella località di Tertiveri (Biccari), dove ad ‘Abd al-‘azīz
fu permesso di tenere separati gli abitanti saraceni dai cristiani, in questo piccolo e
effimero ‘feudo’ concessogli dalle autorità angioine.4 Questa situazione tuttavia fu
alla base di molte contestazioni con i vicini cristiani, e in special modo con i Templari
di Alberona, per la cui soluzione dovette intervenire la corte angioina.5
A queste comunità, fondate quasi contemporaneamente alla colonia di
Lucera, devono essere aggiunte altre successive alla dispersione della colonia.
Queste ultime furono create dopo il 1300 ed erano formate da musulmani che
ebbero l’autorizzazione a vivere da cittadini liberi, perciò in condizioni ben diverse
da quelle degli abitanti di Lucera, anche se non è chiaro per quali meriti avessero
ottenuto questo privilegio. I documenti angioini ne registrano due e cioè il gruppo
di ‘Abd al-‘azīz a Foggia e i 200 focularia a Civitate. Queste due località erano già
abitate da gruppi di saraceni prima della dispersione della colonia di Lucera, perché,
pur non essendo menzionate nel Documentum de Reparatione Castrorum, erano
soggette alla baiulatio (complesso delle imposizioni fiscali) della loro popolazione
saracena, come risulta nel Documento VIII del 20 Settembre 1284, riportato da P.
Egidi nel suo Codice Diplomatico dei Saraceni di Lucera.6
Nel 1935 Riccardo Bevere pubblicò un interessante articolo sulla creazione della
comunità saracena di Civitate evidenziando la contraddizione tra questa concessione
e la distruzione della precedente colonia di Lucera.7 Fornisce brevi ma importanti
informazioni sulla vita e l’integrazione della piccola colonia ma, sfortunatamente,
quasi un decennio dopo, i documenti originali nell’Archivio di Stato di Napoli da lui
consultati andarono distrutti nel 1943, durante il 2° conflitto mondiale.
In mancanza di documenti ufficiali più ricchi di notizie sui ‘saraceni minori’
di Capitanata la ricerca della loro presenza va indirizzata alle influenze linguistiche
esercitate sugli abitanti del territorio che siano arrivate fino ai giorni nostri. Queste
sopravvivenze si possono individuare specialmente in tre settori e cioè:
(1) Voci arabe nei dialetti pugliesi, in particolare quelli dell’ex giustizierato
di Capitanata.
4
Pietro Egidi, Codice Diplomatico dei Saraceni di Lucera, Napoli, Pierro e Figlio,1917, Doc. no. 206 p. 78.
“non habitent in ipso aliqui cristiani [...]”.
5
Egidi 1917, op. cit. Doc. no. 211 p. 80. “certam quantitatem porcorum dicte domus et hominum Alberone
[...] mandasti tuo voluntatis arbitrio arrestari [...]”.
6
Egidi 1917, op. cit. p. 423.
7
Riccardo Bevere, Ancora sulla causa della distruzione della colonia saracena di Lucera, «Archivio storico
per le province napoletane», 60, 1935, pp. 222-28.
200
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
(2) Cognomi arabi negli elenchi telefonici della Capitanata e dei territori
limitrofi.
(3) Toponimi di struttura araba o contenenti nomi arabi della Capitanata.
1. Studio delle voci arabe in alcuni dialetti della Capitanata
Da un punto di vista generale, per la sua particolare posizione geografica e la
sua storia, le voci arabe nei dialetti della Puglia non presentano una origine unica.
La maggioranza delle voci provengono dal dialetto siciliano e perciò dall’emirato
di Palermo. Seguono quelle attribuibili ai rapporti diretti della regione con le
nazioni del Medio Oriente, compreso l’Impero ottomano; quelle derivate dalla
trasformazione dialettale delle voci arabe dell’italiano e infine quelle che, per la
loro distribuzione geografica particolare, potrebbero essere attribuite o ai saraceni
della città di Lucera oppure ai saraceni dei centri minori della Capitanata.
Una conseguenza della varietà delle fonti sul lessico pugliese è che i prestiti
arabi hanno una età diversa. Quelli più antichi sono quelli siciliani quando sotto
i Normanni e gli Svevi la Puglia faceva parte del Regno di Sicilia, mentre sotto
gli Angioini, con la separazione della Sicilia dal Regno angioino di Napoli, tale
flusso si ridusse. I prestiti più recenti, al contrario, sono quelli mutuati dall’Impero
ottomano e dalle voci arabe dell’italiano.
In tabella 1 vengono riportate le voci ricavate dalle raccolte lessicali di alcuni
dialetti della Capitanata come quelli di Foggia, Lucera, Cerignola e inoltre di altre
città legate nel passato alla colonia saracena di Lucera come Napoli e Bari. Sono
stati esaminati in particolare, i vocabolari, dizionari e lessici dei dialetti di Foggia
a cura di Felice Stella,8 di Lucera a cura di Pasquale Zolla,9 di Cerignola a cura di
Luciano Antonellis,10 di Bari a cura di Vito Barracano e di Giuseppe Romito11
e di Napoli a cura di Amato Bruno e Anna Pardo12. Il lessico di queste raccolte
non sempre è completato da una etimologia o da una ipotesi per cui alcune voci
‘sospette’, che hanno una assonanza araba, sono state raccolte e corredate con
alcune ipotesi interpretative.
Riguardo alla tipologia delle voci arabe accolte dai dialetti esaminati esse
possono essere raggruppate in gruppi che comprendono rispettivamente le voci
caratteristiche di una società musulmana, le novità portate dai musulmani nel
settore agricolo e le eccellenze nel campo tessile.
Felice Stella, U grusse dizionarje d’a lingua fuggeane, Foggia, Grafiche, 2000.
Pasquale Zolla, Parle come t’ha fatto mammete, Lucera, Catapano Grafiche, 2005.
10
Luciano Antonellis, Dizionario dialettale cerignolano. Cerignola, CRSEC, 1994.
11
Vito Barracano, Vocabolario dialettale barese, Bari, Italgrafica Sud, 1981; Giuseppe Romito, Dizionario della lingua barese, Bari, Levante, 1985.
12
Bruno Amato, Anna Pardo, Dizionario napoletano italiano-napoletano, napoletano-italiano, Milano,
Vallardi, 1997.
8
9
201
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
Al primo gruppo appartengono i nomi delle cariche ufficiali come emiro da
amīr, visir da wazīr, facchino da faqīh; di mestieri come magaluffe da ma lūf, zanzane
da simsār, zaraffe da arrāf, oppure le forme di saluto come salām ‘alayk o ‘alayk
salām. Del gruppo delle voci dell’agricoltura fanno parte arange e marange da
nāranğ, mulagnane da bādingān, etc. mentre a quello dei tessuti e oggetti ornamentali
appartengono giubba da ğubba, albagio da albāz, ormesine da ormuz, cannacche,
da annāka, etc.
Prendendo in considerazione l’origine delle voci arabe nei dialetti della
Capitanata un primo gruppo di voci è in comune con il dialetto siciliano, che può
essere considerato alla base delle voci pugliesi. Tra quelle del foggiano si trova addantà
‘pelle di daino’ che, secondo Caracausi (1994), si presenta anche nel reggino addanti,
dante, ‘pelle di daino o cervo conciato in olio’ dall’ar. lam (ah) ‘specie di antilope’.
Il verbo arrassà del foggiano e di altri dialetti, è riportato dal Caracausi tra le voci
medievali del siciliano provenendo dall’ar. ‘ara a ‘allontanare’ o ‘allontanarsi’.
Le voci candusce, candosce richiamano il siciliano cantuscio, presente
non solo sull’isola principale ma anche nelle isole minori come Pantelleria, con
variazioni di significato da vestito elegante a vestito di tutti i giorni, tutte dall’ar.
qa ūš ‘vestito a maniche corte’. Milingiana, forma siciliana di bādinğān, è passata
con lievi modifiche sia nell’italiano che nei dialetti pugliesi, come ad es. mulagnane
nel foggiano. Esiste tuttavia una forma più vicina alla voce araba cioè ‘petonciano’,
entrata attraverso gli scambi commerciali di Pisa e Genova, probabilmente
attraverso il turco patlyngan.13
Anche tavute, presente in molti dialetti pugliesi, deriva dal sic. tabutu e, a sua
volta, dall’ar. tābūt ‘cassa di legno’. Altri dialetti presentano la forma con epentesi di
‘m’ (tambuto) come il calabrese, il lucano e perfino il pisano medievale. La forma varde
per sella è una voce molto diffusa e deriva dal sic. barda, a sua volta dall’ar. barda‘a.
Un secondo gruppo, pur avendo voci che somigliano a quelle siciliane,
si differenziano perché o derivano da una variante araba oppure sono passate
attraverso la lingua turca. Il nome del dolce copeta deriva dall’arabo nel quale si
presenta con le due varianti qubbay (a) e qubba (a). La prima che ha il dittongo ‘ay’
o ‘ai’ è alla base della voce siciliana, come risulta nei registri notarili di De Citella
‘cubaydario’, venditore di ‘cubbaita’14. La seconda forma, che ha semplificato
il gruppo ‘ay’ in ‘a’, è alla base dell’italiano cupata e delle forme caratteristiche
di quasi tutti i dialetti meridionali. Un gruppo di voci indicavano nell’arabo
professioni o mestieri importanti o comuni che poi sono stati declassati a indicare
attività di rango inferiore e perfino disdicevoli o illegali. Questo è avvenuto in
13
Giovanni Battista Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine, con speciale riguardo all’Italia. Brescia, Paidea, 1972.
14
Sebastiano Rizza http://digilander.libero.it/cultura.popolare/pignola/parole/cupeta.html (pagina di dissertazioni etimologiche in rete): Un atto notarile palermitano del 1287 ci tramanda un ‘cubaydario’, un venditore
di ‘cubbaita’, di nome Federico. Pro Frederico cubaydario (not. De Citella I 127, 360).
202
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
Puglia e Campania per il faqīh, persona esperta nel diritto islamico e chiamato
a dirimere le controversie che, con la dissoluzione della comunità islamica, si è
ridotto a fakkine. Un mestiere comune nelle società islamiche era il portatore di
acqua o saqqā’ che è stato reso con saccaro in Sicilia. In Puglia il nome è stato
sottoposto oltre al degrado del significato (cafone, persona trascurata) anche a
variazioni dovute all’etimologia popolare: ‘zaqquare, zacquare’ che richiamano
la voce italiana acqua, evidentemente per l’influsso dell’attività esercitata. Anche
l’attività di venditore di datteri, tammār, è stata modificata in zambre a indicare un
forestiero. Forse il cambiamento legato più ai vizi e ai difetti di chi lo esercitava è
zaraffe ‘cambiavalute’ bollato come un truffatore.
Un esempio della peculiarità pugliese si ritrova nel trattamento della voce araba
nāranğ ‘arancia’. Questa voce già nella penisola iberica aveva generato nelle lingue
della penisola la forma regolare narangia e inoltre la forma larangia. In Sicilia la forma
araba era stata semplificata per aferesi in arancia che poi si è diffusa in tutta l’Europa.
In Puglia si è prodotta una ulteriore forma marangia, marange nella città di Taranto,
indicando con ciò che la pronuncia araba era poco chiara già in bocca ai musulmani.
La malattia provocata dai grandi sforzi fisici, cioè l’ernia, nel Meridione d’Italia viene
indicata con una voce araba che nell’arabo popolare ha la forma wadara che ha dato
waddara in Sicilia e nel Salento, mentre si è semplificata in gualla nel napoletano. Da
quest’ultima forma derivano la maggior parte delle voci pugliesi, come ualla, gualle,
giale, etc. Se si prende in considerazione zurebette potrebbe derivare direttamente dal
turco serbet, a sua volta dall’ar. šarrāb ‘bevuta’ ma potrebbe essere una dialettizzazione
della voce italiana sorbetto, anch’esso derivato dalla lingua turca.
Un terzo gruppo è mediato dall’italiano. Il foggiano albage deriva sicuramente
dall’it. albagio (panno grossolano, cfr. orbace), dal lat. albasius, a sua volta dall’ar.
al-bazz ‘stoffa di lino o cotone o seta’. Zwawa è l’adattamento arabo del nome
berbero delle tribù della Grande Cabilia (Algeria). Durante le guerre barbaresche
queste tribù fornivano soldati alle milizie ottomane ma con l’intervento della
Francia in Algeria, nel 1830, costituirono un corpo all’interno dell’esercito francese
e alcuni di essi arrivarono perfino nell’esercito pontificio. Da questa loro presenza
in milizie europee e per il loro abbigliamento caratteristico (ad es. la foggia dei
pantaloni) è nato il prestito nell’italiano e nei dialetti. Il foggiano magaluffe mostra
una indiscutibile forma araba.15 Secondo Pellegrini era, con ogni probabilità,
l’ufficiale della vendita all’incanto il cui nome deriva o da ma lūf ‘giurato’ oppure
da ma lūf ‘sostituto’, nome passato poi a indicare la mancia che veniva data al
banditore. La voce foggiana deriva senz’altro dalla voce italiana magalufo, che è
dovuta, a sua volta, ai rapporti commerciali delle repubbliche marinare italiane
con i mercati musulmani del Mediterraneo. Anche katramme è stata mediata
dall’italiano in quanto più vicina a questo che al siciliano e all’ar. qa rān. Lo stesso
si può dire per le voci bizzeffe, caraffe, talke e altre ancora.
15
Confronta anche il nome di un villano riportato da Cusa 1868-1882: alturūš alma lūf, p. 587b (a. 1145).
203
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
Un quarto gruppo comprende voci caratteristiche del regno angioino di
Napoli e più specificatamente della Capitanata, che potrebbero essere collegate ai
saraceni di Lucera o, in generale, della Capitanata. Tipici della Capitanata e delle
zone della dispersione dei saraceni di Lucera sono: mafisce, aggegge, alliccasalemme,
aliffe, recone e, forse, baluffe e canzire.
Come indica Antonellis per il cerignolano, la voce ‘mafisce’ deriva dall’arabo
(popolare) mafīš che etimologicamente significa ‘non qui (è)’, con una costruzione
negativa sconosciuta all’arabo coranico. Questa espressione non è riportata
da Zolla ma sembra conosciuta da alcuni anziani lucerini, mentre è assente nei
dizionari dei due dialetti più importanti prossimi alla Capitanata, il napoletano e
il barese. Si trova invece nei dizionari di località piuttosto distanti dalla Capitanata
come S. Benedetto dei Marsi (AQ), la regione del Pollino (CS) e anche nel dialetto
turrese (Torre del Greco, NA). Nel primo caso si possono fare due ipotesi sulla
sua presenza in questa zona interna dell’Abruzzo e cioè che vi sia stata portata
dai pastori abruzzesi che, durante l’inverno, migravano nella Capitanata con le
loro greggi. La seconda ipotesi prevede che essa sia in qualche modo legata ai
Celanesi che per molto tempo resistettero a Federico II e furono perciò inviati
per punizione in Sicilia e a Malta, ancora parzialmente musulmane, e in seguito fu
loro permesso di ritornare a Celano (AQ). Per quanto riguarda il Pollino, durante
la guerra del Vespro, ci furono molte occasioni nelle quali i saraceni, inquadrati
nell’esercito angioino, combatterono nella Calabria settentrionale. Nel 1284 si
trovavano all’assedio di Scalea soldati e arcieri a cavallo costituiti da saraceni,
condotti dai tre cavalieri, sempre saraceni, Musa, Sulayman e Salem.16 Per quanto
riguarda il dialetto di Torre del Greco è probabile che la voce derivi dai rapporti
commerciali dei marinai e dei commercianti della cittadina napoletana con il
mondo arabo. Nonostante che i vocabolari del napoletano non riportino la voce
mafisce, nel 1918 a Napoli è stato pubblicato il libro di Emilio Scaglione Mafisce
e bizzeffe. L’apparente contraddizione si spiega con il fatto che il libro contiene
note e osservazioni formulate dall’autore quando era soldato in Libia, durante la
conquista della ‘colonia’. Rappresenta perciò una relazione geografico-storicolinguistica di una società araba e non della società napoletana. Forse dalla lettura
di questo libro o dalla esperienza diretta di altri soldati italiani o di italiani vissuti
in Libia fino alla loro espulsione di alcuni decenni fa, derivano alcune espressioni
presenti in rete che fanno uso del termine ‘mafisce’.
Recone è un’altra voce di origine araba, da rukn ‘angolo’ che secondo Reho
si ritrova in molti dialetti pugliesi oltre che in Basilicata e in Calabria. In Puglia è
presente nei dialetti della Capitanata e nelle città che vanno da Trani a Bari fino
a Polignano a Mare (BA). Gli arabisti riportano anche varie forme con l’epentesi
di una nasale, come in Spagna (rincon), in Sardegna (arrinnconi) e a Pantelleria
16
Registri Cancelleria Angioina, vol. 27, pt. 1, reg. 119, 355, no. 690.
204
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
(rrunkuni) mentre una forma simile, napoletana, potrebbe essere di origine latina.
Per quanto riguarda l’Abruzzo e il Molise non si hanno tracce della voce araba.
Nel dialetto foggiano si trova la voce aggagge con il senso di amico che
potrebbe essere fatto risalire ad un nome proprio arabo che si trovava tra i saraceni
di Lucera, cfr. la voce barese mustafà dall’omonimo nome arabo per indicare un
‘volto triste’.17 I documenti della Cancelleria angioina ricordano un Agegius in
arabo ağğāğ, dal titolo che un musulmano poteva utilizzare se avesse fatto più
pellegrinaggi alla Mecca. A Lucera si trattava semplicemente di un nome proprio
perché è quasi sicuro che i saraceni lucerini non potessero adempiere a questo
obbligo religioso. Risulta inoltre dai documenti che la famiglia di Agegius, costituita
da circa 100 persone, abbia avuto l’autorizzazione a vivere a Foggia non come
schiavi o servi ma in libertà e forse da questo gruppo potrebbe derivare questa voce
prettamente foggiana.
La voce alliccasalemme deriva dalla seconda parte, ‘alayk salām, del
tradizionale saluto arabo la cui prima parte recita, salām ‘alayk, nel caso in cui ci si
rivolge a una sola persona. È evidente inoltre una reinterpretazione popolare, poiché
è stato contaminato dalla voce verbale licca ‘leccare’. Si presenta specialmente nel
dialetto lucerino e nel foggiano.
La voce aliffe (all’inizio, zero), spiegata da Antonellis con la voce araba
alif, prima lettera dell’alfabeto arabo, potrebbe essere una ipotesi plausibile
anche perché non esistono alternative credibili. Per esempio il cognome Aliffi, di
derivazione araba, significa secondo Caracausi ‘amico’ oppure ‘ingrassato’ e mostra
le concentrazioni maggiori in Sicilia, mentre è praticamente assente in Puglia e in
Campania.
Un’altra voce registrata da Antonellis e da Romito è l’espressione a baluffe
‘assai’, di difficile interpretazione. La sua struttura potrebbe richiamare quella
arabo-berbera ‘a bizzeffe’ e potrebbe essere interpretata come un composto della
preposizione be +ulūf, quest’ultimo plurale di alf ‘mille’, con il senso complessivo
di ‘a migliaia’. Vi potrebbe essere una spiegazione francese: secondo Jean Tosti c’è
una voce ‘baluffa’ del francese dialettale che indica il covone di grano o di avena
oppure la lettiera della stalla.18 Questa può essere giustificata dalla presenza degli
angioini nel regno di Napoli e perciò dei francesi e dei provenzali in Capitanata.
La voce canzire si presenta in molti dialetti meridionali e ricorda l’ar. anzīr
‘maiale’: tuttavia il significato non è quello dell’animale impuro per l’islam ma nel
foggiano indica l’usuraio. Nel napoletano canzirro presenta altri significati quali
Barracano, op. cit., p. 101.
Dictionnaire des noms de famille de France et d’ailleurs in: http://www.jeantosti.com/indexnoms.htm.
A. Horning 1897, Lat. Faluppa und seine romanischen Vertreter «Zeitschrift fuer Romanische Filologie»
1897, p. 192: Neuprov. balofo, baloho 1 (s. Mistral v. boulofo), lyonn. balouffa, ‘balle du ble’ ist aus der
Kreuzung von balle und palouffa entstanden, Ital. luffo (vielleicht aus paluffö verkürzt), Gewirr hat schon
Diez mit viluppo in Verbindung gebracht. Zu erinnern ist endlich noch an ital, loppa, ‘Hülse des Kornes’ bei
Diez 11% comasc. Iop, ‘pula di miglio, di orzo’.
17
18
205
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
‘bardotto’/ ‘asino’ e, per estensione, ‘bestia da soma/testardo’, ma esistono altri
significati come ‘cardellino’ a Grumo Appula (BA). Oltre all’ipotesi araba è stata
proposta una derivazione dal lat. chanterius, cavallo castrato-bastardo, di animali
come il mulo, nato dall’incrocio di un cavallo con un’asina.
2. Studio dell’onomastica personale
Un secondo campo di indagine riguarda l’onomastica di origine araba alla
base di cognomi italiani della Capitanata. Una ricerca simile, condotta per i saraceni
della città di Lucera, partendo dai loro nomi arabi latinizzati che si trovano nei
documenti della Cancelleria angioina, si è rivelata molto fruttuosa. Nel caso dei
saraceni ‘minori’, residenti in località della Capitanata differenti da Lucera, vi sono
diversi problemi da considerare per non incrociare i cognomi derivati dai saraceni
lucerini, presenti nella comunità di Lucera in poche unità, e dispersi anch’essi in
tutto il regno angioino. La caratteristica distintiva dei cognomi dei saraceni minori
dovrebbe essere la loro permanenza nelle località da essi abitate cioè avere il centro
di diffusione (CdD) coincidente con le località o nelle loro immediate vicinanze,
avere inoltre una consistenza numerica bassissima, e per la mancanza di un nome
latino intermedio, presentare un alto grado di deformazione per l’adattamento
all’italiano. È da tenere in considerazione una ulteriore difficoltà che è stato l’arrivo
di popolazioni della sponda orientale dell’Adriatico in particolare albanesi e slavi.
Pur con questi limiti è possibile ipotizzare che cognomi difficilmente interpretabili
con l’italiano, con il dialetto o con le lingue dei popoli transitati sul territorio come
greci, tedeschi, francesi, etc, possano avere come base di partenza un nome arabo.
I cognomi considerati sono stati confrontati e analizzati con quelli riportati da
Caracausi 1994 e da Pellegrini 1972 come anche con le liste dei Diplomi di Cusa
1868-1882.
È imputabile al gruppo di saraceni stanziato a Civitate, ma assorbito con
l’arrivo di slavi e albanesi, il cognome Catabbo. Si trova in minime tracce a S.
Martino in Pensilis e Ururi, attualmente nella provincia di Campobasso, ma nella
Capitanata fino al 1860. Il cognome sembra collegato alla radice araba k.t.b. indicante
l’idea di scrivere per es. kātib ‘scrivano’, ‘segretario’.19 Con ogni probabilità il
cognome deriva da questa voce con cambiamento della seconda vocale, che già
in arabo mostra un suono indistinto, nella vocale ‘a’ e con raddoppiamento della
consonante finale, come è avvenuto anche per le voci Maometto, magaluffo e
salemme. Secondo Ahmed potrebbe derivare anche da a īb ‘incaricato della u ba’
o sermone durante la preghiera del venerdì nella moschea.20 Questo tuttavia sembra
Secondo Jeremy Johns, Arabic Administration in Norman Sicily. The Royal Dīwān, Cambridge, New
York, University Press, 2002, p. 26, questa carica era presente in Sicilia, luogo di partenza dei saraceni di
Lucera.
20
Salahuddin Ahmed, A Dictionary of Muslim Names, London, Hurst & Company, 2009, p. 99.
19
206
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
un po’ difficile per le restrizioni imposte fin dall’inizio all’uso della moschea nella
comunità.
Non molto distante dalle località precedenti, a Campomarino (CB), si trova
il cognome Chimisso, di chiara origine araba da amīs ‘giovedì’, cognome presente
nel Magreb, in particolare negli elenchi telefonici della Tunisia. Il suo CdD è
Campomarino ma, pur presente in Sicilia, vi si trova in tracce.
Appena a est del vecchio centro saraceno di Civitate, a Lesina, si trovano
diversi cognomi che possono essere spiegati con la lingua araba. D’Apote potrebbe
derivare dall’ar.‘abbūd ‘adoratore’ con cambiamenti di vocali e consonanti
compatibili con l’arabo medievale, escluso il cambiamento della labiale che però
si verifica nei dialetti pugliesi come ad es. sciarappa da sciarabba, Perlingieri da
Berlingieri, Apruzzese da Abruzzese, etc. Il cognome può essere spiegato anche
con il greco a-potos ‘astemio’; il cognome tuttavia non si trova nella zona pugliese
più vocata per i cognomi greci cioè il Salento.
Il cognome Buttagnano potrebbe derivare dall’ar. bū ta ān ‘padre del
mugnaio’ e, data l’importanza del mestiere, in Sicilia si trovano altre varianti, sia
come toponimo, sia come cognome, per es. il cognome Tacamo. Quest’ultimo però
non ha la forma di kunia, cioè non si presenta preceduto dalla voce Abū oppure Bū,
‘padre’. Tra i toponimi Caracausi cita Buttagano Nuovo e Buttagana, il secondo
dei quali rappresenta una contrada di Marsala (TP).
Il cognome Naracci dovrebbe essere la forma assimilata di un precedente
*Naranci e perciò la forma più vicina all’arabo nāranğ, mentre la forma tarantina
marangia rappresenta un ulteriore esito di nāranğ. Ancora più a sud, a S. Severo, si
trova il cognome Arace che si presenta disperso anche nel Sannio (AV). Deriva con
ogni probabilità da ā‘rağ ‘zoppo’ che ha dato anche la forma Aragi che si trova in
tracce a Bari.21
Il cognome Rummo (dall. ar. rūm ‘romano’, ‘bizantino’), pur con importanti presenze in Capitanata, mostra due CdD più consistenti a Napoli e ad Benevento. Spostandosi a sud di Lucera, nella zona delle piccole località abitate anche dai saraceni, a Carapelle si trova il cognome Ramenno che potrebbe derivare
dall’ar. ra mān ‘misericordioso’, in genere inserito nell’ism ‘abd al-ra mān, probabilmente semplificato col passare del tempo, con la perdita della prima parte.22
Lo stesso fenomeno è avvenuto per ‘abd al-salām, nome alquanto diffuso tra quelli
registrati da Cusa, che è alla base dei tanti cognomi Salemme nel Regno angioino
di Napoli.
A Castelluccio dei Sauri si trova il cognome Abazia che, nonostante la
vicinanza con la voce italiana abbazia, potrebbe essere connesso con l’ar. abbāz
‘fornaio’. Lo stesso cognome si trova anche a Stornara, altro centro minore abitato
dai saraceni, ciò che rafforza l’ipotesi della derivazione araba.
21
22
Confronta Cusa 1868-1882, p. 565 (a. 1145): Yusūf ibn ā‘rağ, villano della Chiesa di Catania.
Jeremy Johns, op. cit., p. 316: Abderahmen filius Ali elcurasy.
207
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
A Corato (BA), non lontanissimo dalla Capitanata, si trova il cognome Iaferia
che potrebbe essere spiegato con il nome di persona Ğafar che, pur presente nei
documenti medievali siciliani, non sembra presente come cognome in Sicilia.
Eventuali cognomi nell’Alta valle del Fortore, che fino al 1860 faceva
parte della Capitanata, posti perciò ad ovest di Lucera e non lontano dalla stessa,
potrebbero essere attribuiti sia ai saraceni di Lucera che a quelli di località minori,
per esempio di Casal Montesaraceno (FG). Interessante è Vadurro che potrebbe
derivare da budūr plurale di badr ‘luna piena’ e che ha subìto inoltre il fenomeno
del betacismo. Questo nome è riportato dall’Ahmed, anche se tra quelli femminili.
Si presenta in tracce oltre che a Bartolomeo in Galdo (BN) anche a Lucera e a
Manfredonia.23 Poco lontano da S. Bartolomeo in Galdo, a Foiano di Val Fortore,
si trova con ogni probabilità una variante di Facchino cioè il cognome Facchiano.
Anche questa forma può essere spiegata con l’ar. faqīh che ricorda la figura araba
esperto del diritto che poteva dirimere controversie giuridiche. In Campania, nella
provincia di Napoli, si trova anche il cognome Pacchiano la cui struttura richiama
molto da vicino Facchiano. Tuttavia è alquanto difficile che Pacchiano sia alla base
di Facchiano, per la mancanza di significativi esempi di passaggio dalla ‘p’ alla ‘f’
e perchè il cognome Facchiano si trova in ammontare maggiore di Pacchiano; se
Facchiano si fosse formato invece per un errore anagrafico è alquanto strano che si
trovi in zone vicine alla Capitanata e che un suo centro di diffusione si trovi in Val
Fortore, nella ex Capitanata. A Ginestra degli Schiavoni, a sud di S. Bartolomeo
in Galdo si trova il cognome Manserra che potrebbe derivare dal nome mansūr
‘vincitore’ ma entrato nell’orbita del verbo it. serrare. Ancora più ad ovest, a
Pontelandolfo, si trova il cognome Alcorace da al-qurašī cioè il corescita o della
tribù di Maometto, che ricorda i nomi di molti musulmani siciliani presenti nei
Diplomi di Cusa e, analogamente di altri musulmani, trasferiti nella Capitanata
da Federico II. Nella provincia di Avellino, a Calitri, località quasi al confine con
la Capitanata, si trova in tracce il cognome Cioffari, dove mostra il suo centro di
diffusione. Deriva con ogni probabilità dall’ar. ğa‘far ‘sorgente’, cfr. Ahmed, p. 87.
Anche oltre il confine nord della ex Capitanata, ormai all’interno dell’Abruzzo, si trovano cognomi che ricordano i saraceni. Particolarmente interessante è la
cittadina di Fara S. Martino (CH) che presenta il cognome Aruffo, probabilmente
collegato alla radice ‘. r. f. col significato di ‘conoscere’. In Sicilia sono numerosi i
toponimi e i cognomi riconducibili a questa radice mentre nella lingua italiana si
può citare tra le altre la voce ‘tariffa’. Pur non potendo escludere che sia una variante di Ruffo si può considerare una variante di Ariffi, col significato di ‘esperto’,
‘maestro’, oppure, secondo l’Oxford Dictionary of Family Names, ‘costante’, ‘perseverante’. Nella cittadina di Atessa si trova il cognome Tumini, variante plurale di
Tumino, misura di capacità dall’ar. tumn ‘un ottavo’. Non molto distante, a Casal-
23
Per la presenza del nome badr tra villani siciliani cfr. Johns:
MED, p. 248.
208
asan ibn Badr, p. 57. Per budur cfr. AH-
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
bordino, si trovano ambedue i cognomi prima citati. Un cognome di struttura araba, Moscufo, forse da musqūf ‘tettoia’ si trova nel Molise orientale a Montefalcone
nel Sannio e a Castelmauro, ma potrebbe essere collegato con le popolazioni slave,
albanesi, probabilmente attraverso il turco.
Nella tabella 2 sono riportati altri cognomi dei quali alcuni potrebbero essere
il frutto di una assonanza e altri potrebbero essere varianti di forme più conosciute.
Tra i primi si può citare Armile a Spinazzola (BA) che ricorda l’ar. armal ‘vedovo’,
ma potrebbe derivare dal lat. armilla ‘braccialetto’. Tra i secondi si trova Cafara a
Carife (AV) che potrebbe essere una variante di Cafaro ‘infedele’ come anche una
variante di Canfora, come forma più vicina all’originale arabo kāfūr ‘canfora’. Le
stesse ipotesi e spiegazioni si possono fare per il cognome Cafora, presente sia a S.
Severo (FG) che a Napoli.
3. Studio della toponomastica
Il terzo campo di indagine cioè quello dei toponimi arabi in Capitanata non si
è rivelato molto ricco e soffre della impossibilità di trovare un criterio che distingua
i toponimi dei saraceni di Lucera da quelli degli altri saraceni. È logico aspettarsi
che i primi possano aver generato un maggior numero di toponimi rispetto ai
secondi per il fatto che da un punto di vista numerico i saraceni di Lucera erano in
numero molto maggiore dei saraceni ‘minori’.
I toponimi costituiscono quasi sempre nomi di masserie o di altre proprietà
derivate con ogni probabilità, dalla consuetudine delle Curie sveva e angioina di
ricompensare con beni materiali, anche se suscettibili di essere ripresi dalla stessa
Curia, i meriti militari e anche civili dimostrati dai saraceni di Lucera. Nelle
vicinanze della vecchia città di Civitate si trovano: Masseria Saracini, Masseria
Zezza e Zezza (probabilmente da Zizza, a sua volta dall’ar. ‘azīza’ ‘preziosa’, a
Campomarino (CB) e Masseria Saraceno e inoltre la Masseria Saracini a S. Martino
in Pensilis, sempre nella provincia di Campobasso. Nella località S. Croce di
Magliano, secondo Masciotta si trova il feudo La Cantara che potrebbe derivare
il nome dall’ar. qan arah ‘ponte’.24 Per quanto riguarda le cittadine a Sud di
Foggia secondo Antonellis si trovano un toponimo Cafijre e due masserie Cafre,
evidentemente da Cafiero e Cafaro, ambedue col significato di ‘infedele’ e una
masseria Zezze. Nell’alta Val di Fortore si trova Mossuto dall’ar. mas‘ūd ‘felice’,
‘fortunato’, anche nome di persona.
24
Giambattista Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, Cava dei Tirreni 1952, IV, p. 427.
209
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
Discussione
Dall’esame dei tre tipi di onomastica si ricava che quella più interessante
è quella delle voci arabe entrate nei vari dialetti pugliesi in quanto il prestito
arabo viene confermato non solo dalla sua struttura, ma anche dal significato. La
presenza delle voci arabe nel territorio storico della Capitanata, prima della sua
soppressione e del suo smembramento nel 1860, risulta più alta nelle località minori
abitate dai saraceni che nella stessa città di Lucera. Questa contraddizione è dovuta
allo spostamento dei musulmani venduti e alla damnatio memoriae condotta in
maniera sistematica su quanto li ricordasse nella loro città.
Tra le voci più frequenti riferibili alle relazioni sociali abbiamo alliccasalemme
piuttosto che salamelecche, dimostrando una conoscenza approfondita dei rapporti
sociali quotidiani dovuti a una frequentazione integrale. Ma la voce più specifica è
mafisce che richiama una vita a stretto contatto e una conoscenza dell’espressione volta
a levare ogni dubbio durante una discussione con un musulmano. Reho, studioso del
dialetto di Monopoli, ma in pratica anche degli altri dialetti pugliesi, non riporta tale
espressione, sia per i dialetti a Sud di Bari, che per quelli a Nord della stessa città. Le
presenze al di fuori della Capitanata, in Abruzzo e nella Calabria settentrionale, sono
compatibili con i rapporti della Capitanata prima e dopo la dispersione dei saraceni
di Lucera. Con questa voce si nota un fatto insolito: nonostante sia assente dai lessici
di molti dialetti, per es. a Napoli, il popolo in alcune occasioni sembra conoscerla.
Per esempio in una Spotlive Community il giorno 28.01.2011 si trova la seguente
espressione: ‘ricorisce per la romisce. Ed è subitisce mafisce’.
Secondo Giuseppe Tuccio, nel suo Dizionario siciliano in rete, ‘mafisci’
è presente anche in Sicilia e mostra, senza dubbio, la stessa origine e lo stesso
significato di mafisce.
Non dovrebbe avere fondamento quanto viene talvolta riportato in rete per
la voce barese masci e cioè che derivi dall’ar. mašī ‘andare’ in quanto essa potrebbe
essere ricondotta al verbo latino ire o gire che, a Bari e nei dialetti a nord di Bari
si trasforma in scire, come per esempio a Molfetta, dove sciarra deriva da giarra
‘grande coppa per l’olio’ e scenucchie da ginocchio. 25
La voce recone secondo Reho mostra una grande diffusione ma in Capitanata
ha una sfumatura che ricorda l’attività economica più importante dei saraceni, cioè
l’agricoltura. Essa designa infatti un particolare terreno coltivabile che si forma nel
letto di un fiume in seguito a piogge torrenziali.
La voce canzirro, originariamente ‘maiale’, mostra un significato traslato
come se col nome dell’animale impuro dei musulmani si volesse esprimere un
giudizio di disapprovazione e anche un giudizio morale sul comportamento delle
persone e degli animali.
Per quanto riguarda l’onomastica personale, Bevere nel suo articolo sulla
nascita della comunità dei saraceni liberi di Civitate riporta anche qualche accenno sui
25
Rosaria Scardigno, Nuovo lessico molfettese-italiano, Molfetta, Mezzina, 1963, pp. 449–456.
210
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
fuochi del 1638 e del 1642 a S. Paolo Civitate.26 Dopo più di 300 anni dalla costituzione
della consistente comunità saracena, alcuni nomi in italiano alludono ad alcune
caratteristiche fisiche e razziali della popolazione perchè nel 1638 si ricordano una
Calia Saracina, una Laura e una Argentina Negre come pure, nel 1642, di una Albenzia
Negra. È interessante notare che il cognome Saracina si trova ancora, anche se in tracce,
in questa zona della provincia di Foggia e precisamente a S. Marco in Lamis.
L’elenco dei cognomi di probabile origine araba raccolti nella ex Capitanata
e riportati in tabella 2, non si presta a classificazioni né con le regole onomastiche
italiane né con quelle dell’onomastica araba. Essi si presentano in maniera casuale
in conseguenza del differente criterio di raccolta utilizzato per i saraceni ‘minori’,
per la mancanza dei nomi base latinizzati della cancelleria angioina. Per i saraceni
di Lucera, al contrario, hanno giocato un ruolo fondamentale i nomi caratteristici
presenti nei documenti angioini. La stessa Cancelleria, almeno in un caso, fa
riferimento ai saraceni ‘minori’, quando parla di un certo Amir Sturnara, con ogni
probabilità portato alla Fortezza di Lucera insieme ai suoi compagni di Stornara,
nell’Agosto del 1300 e in vendita a Ruvo (BA) nel febbraio del 130127. La ricerca di
un eventuale cognome dovuto al nome del saraceno non è risultata positiva né per
Sturnara e neppure per Stornara, mentre al nome Amir potrebbe corrispondere il
cognome Amiri, presente in Sicilia, in Alta Italia e nella provincia di Latina. Mentre
gli Amiri siciliani sono più logicamente da attribuire ai musulmani di Sicilia e
quelli dell’Alta Italia alle migrazioni interne, quelli al confine tra la Campania e il
Lazio potrebbero aver avuto origine anche dai saraceni minori della Capitanata.
Volendo ciò nonostante tentare una classificazione di carattere generale si può
cogliere una maggiore libertà nella scelta dei nomi, che risultano un po’ innovativi
rispetto a quelli standard riportati da Cusa e dall’Egidi. È interessante l’uso dei
diminutivi, anche se essi esistevano, pur pochi, nella nomenclatura precedente;
nuove forme, come ad esempio il plurale budūr invece di badr ‘luna’, quest’ultimo
cristallizzato in ism del tipo Badr ad-dīn ‘luna della religione’; le forme popolari
come Ramen invece di Ra man e forme come Chimisso (di Campomarino CB)
che schiudono nuove interpretazioni perfino per alcuni nomi di saraceni di Lucera
quali Camis e Hamissi.
Per quanto riguarda la toponomastica essa non presenta elementi che
permettano una differenziazione dei due gruppi di saraceni della Capitanata.
Come era prevedibile il numero dei ‘ricordi’ attribuibili ai saraceni ‘minori’
non sono stati così numerosi come quelli dei saraceni di Lucera, essenzialmente
per il numero ridotto dei saraceni ‘minori’ rispetto al numero di quelli lucerini.
Dai dati raccolti da Bevere si può ipotizzare che i saraceni di Civitate fossero
non molto al di sotto di 1000 unità e perciò che il totale dei saraceni non lucerini
corrispondesse a circa 1000 persone. Dagli studi di Egidi sui saraceni lucerini si
ricava che il numero dei saraceni venduti come schiavi fosse circa 10.000 individui.
26
27
Bevere, op. cit., pp. 222–28.
Egidi 1917, op. cit., doc n. 455, p.216: [...] Amir Sturnara, Gunia cognata eius, [...] sunt infirmi.
211
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
Da questi dati deriva che il rapporto è circa un decimo e che la sopravvivenza dei
saraceni minori sia stata perciò più difficoltosa e l’individuazione dei loro ricordi
sia di conseguenza più difficile.
Da un punto di vista generale si osserva che alcune voci arabe sono entrare
nei dialetti adiacenti alla Capitanata mentre la dispersione dei cognomi di struttura
araba, più legata allo spostamento fisico delle persone, sembra fermarsi al confine
della Capitanata, con l’esclusione delle zone di vendita dei saraceni di Lucera sia nel
centro e nel sud della Puglia, come in alcune zone della Basilicata e inoltre a Napoli
e la sua costa tirrenica. Per quanto riguarda il territorio campano compreso tra
Capitanata e la provincia di Napoli si rintracciano di conseguenza pochi cognomi
arabi o addirittura nessuno, mentre si fanno più frequenti quelli di origine francese
o provenzale e perfino turca (probabilmente per mediazione albanese) come ad
esempio il cognome Ucar a Ariano Irpino (AV).
Conclusione
La ricerca dei saraceni ‘minori’, cioè dei saraceni sparsi in Capitanata in
località meno famose della città di Lucera, condotta per mezzo dell’onomastica
utilizzando sia i prestiti arabi nei dialetti, sia l’onomastica personale, sia la
toponomastica, ha permesso di individuare voci, cognomi, e toponimi attribuibili
proprio ad essi. Le influenze linguistiche sono più frequenti nelle zone indicate
come loro sedi dai documenti angioini mentre tendono ad diminuire fino ad
annullarsi più ci si allontana dal territorio della Capitanata storica. I dati evidenziano
una concentrazione importante dei ricordi saraceni nella zona nord-est della ex
Capitanata, il che conferma che il gruppo più numeroso è stato quello di Civitate,
disperso dalle vicende storiche o inglobato nelle popolazioni albanesi e slave arrivate
in Italia. A queste loro vicissitudini vanno aggiunti fenomeni naturali sfavorevoli
come terremoti e allagamenti che hanno costretto ad abbandonare la sede di
Civitate, come anche le scorrerie turche e barbaresche sul litorale adriatico.
La Capitanata del Nord risulta più ricca di cognomi di origine araba mentre
in quella meridionale si sono conservate le voci più comuni riconducibili alle
relazioni sociali in una società musulmana.
La Puglia ha sperimentato il passaggio o l’arrivo di altri popoli in particolare
delle sponde orientali dell’Adriatico ma di essi è sopravvissuto molto di più perché
sono stati ben accolti dalle autorità centrali del Regno di Napoli e dai vari feudatari
allo scopo di ripopolare paesi spopolati o per creare nuovi insediamenti. Prendendo
in esame gli Albanesi, sono numerosi le vestigia e i segni ancora vitali ai nostri giorni
e lo stesso si può dire per i provenzali venuti in Capitanata ancora prima della
soppressione della città di Lucera. La consistenza relativamente ridotta delle comunità
musulmane, le differenze e perfino la contrapposizione dei due tipi di civiltà non
hanno favorito una loro pacifica convivenza, anche da un punto di vista ideologico
212
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
e religioso. Ciò nonostante, nella zona di Civitate, dopo 300 anni dall’insediamento
loro accordato, essi erano ancora fisicamente e culturalmente riconoscibili.
Sommario
I saraceni di Sicilia spostati da Federico II in Puglia nei decenni 1220–1240
costituirono la maggioranza degli abitanti a Lucera mentre si trovarono in minoranza
nelle altre località della Capitanata loro assegnate come, ad esempio, a Stornara,
Castelluccio dei Sauri, Civitate, etc. In questo studio sono state ricercate le tracce
lasciate dai saraceni delle piccole località della Capitanata attraverso l’onomastica,
in particolare le voci arabe presenti nei dialetti, l’onomastica personale e i toponimi.
È stato possibile individuare dei marker o indicatori della presenza saracena
specifici della Capitanata. Rivestono un ruolo importante le espressioni mafisce e
alliccasalemme e le voci aggegge e canzirro che richiedono una stretta contiguità
tra le popolazioni arabe e quelle cristiane con inevitabili passaggi di parole da una
lingua all’altra. Nel campo dell’onomastica personale sono interessanti i cognomi
Chimisso, Apote, Buttagna, Ramenno, Facchiani, più o meno modificati rispetto
all’originale arabo. Per quanto riguarda i toponimi essi derivano dall’onomastica
personale e sono localizzati con maggiore frequenza nella zona della dispersione
della comunità musulmana di Civitate.
Abstract
Medieval Saracens in the Minor Localities of Capitanata
The deportation of Muslim Arabs from Sicily and Malta to Apulia at the
time of Frederick II led to the creation of the colony of Lucera, which lasted from
ca. 1224 until 1300, the year of its dramatic suppression by Angevin forces. These
Muslim immigrants, however, inhabited other minor localities in the Capitanata
region. Whereas the colony of Lucera has been the subject of several studies, the
presence of Saracens in other places has been largely ignored. In the absence of
historical documents, relevant research can be carried out through the scrutiny of
Arabic loanwords still present in the dialects of Capitanata, the surnames of Arabic
origin, as well as the toponyms of Arabic structure in the same region. The Arabic
loanword mafisce ‘nothing’, is particularly enticing, whereas the surnames Catabbo
and Rameno, located in places other than Lucera and the places where Muslim
Arabs were sold into slavery in 1300, have significant importance. Arabic records
are more frequent in North Capitanata, in agreement with Angevin documents
which confirm that Civitate was the most important centre of Muslim activity
among the minor ones.
213
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
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214
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
Tabella 1. Voci arabe in alcuni dialetti pugliesi con particolare
riguardo alla ex Capitanata e zone limitrofe
FOGGIANO
LUCERINO
CERIGNOLANO
a baluffe ‘assai’
sec. Tosti < fr.
‘baluffa’, balla o
lettiera
BARESE
baluffe
(da Romito
Giuseppe)
ARABO
alūf ‘migliaia’
plurale di alf
‘mille’
addantà ‘pelle di
daino’
lam a ‘daino’
aggagge ‘amico’
ağğāğ ‘chi ha
fatto due o più
pellegrinaggi
alla Mecca’
albage ‘panno,
tessuto di lana’
al-bazz
‘tessuto’
aliffe ‘all’inizio,
‘zero’ Secondo
Antonellis da
alif 1a lettera
dell’arabo
alleffà ‘lisciarsi’
laffa
‘avvolgere’
alleffà
al-amīr
‘emiro’
> gr. amiràs
arrassà
arzanà ‘arsenale’ arzenale
albagio, orbace
alif 1a lettera
dell’alfabeto
arabo
almerande
‘ammirante’
arrassà
darrasse
ITALIANO
arrasse
rassusia
‘arasa
‘separarsi’
dār sina‘a
‘casa della
costruzione’
arsenoile
emiro,
ammiraglio
darsena, arsenale
attone
lā ūn < tartaro
ottone
‘oro’, ‘rame’
auzzine
al-wazīr
‘visir,’
‘consigliere’
azzezzà/*azze
zzate
‘azīz
‘elegante’
bbaldrakke
Bagdad, città
irachena
baldracca
bardağ
‘schiavo’
bardascia
bbardasce
bardasce
215
visir, aguzzino
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
FOGGIANO
LUCERINO
CERIGNOLANO
BARESE
bi zāff ‘in
abbondanza’
bezzeffe
bbuzzarrà
buzzarà
‘ingannare’
buzzarà
cafè
camuccà
‘tessuto’
candusce
kandussce
candusce
canduscia
cangiarre
scanzarra
canacche
‘bargiglio’
cannacchia
canzire
canzirre
caraffe, garafe
karafone
carraffe
ciofeche
ciufeke
cefoiche
farfarille
kupete
cupaite
cupeta
‘perla
qawah ‘caffè’
(mediato dal
turco)
caffè
kam a’
ğ
‘broccato’
camocato
qa ūš ‘veste
femminile’
ğ
anğār ‘coltello’
annāka
ğ‘collana’
šafaq ‘vile’,
‘scadente’,
ciofeca
qin ār ‘peso di
100 rotoli’
quintale, cantaro
qubbay a
‘confettura
secca’
cupeta
faqīh
facchino
‘giureconsulto’
farfarille
fraffalille
farfār
‘leggero,
incostante’
farfarello
firiyūl < lat.
palliolum
ferraiuolo
(mantello)
fus ān ‘gonna’
fustagno
fondaco
frustane,
frustagne
gabbelle
bizzeffe
fakkine
ferraijule
fundeche
busra
falsa’
ITALIANO
anzīr ‘maiale’
ğ
ġarāffa
‘recipiente per caraffa
l’acqua’
cundale, candale kundale
cupete
ARABO
funeke
funneche
funduq
‘albergo’
gabbane
gabboine
qabāh ‘tunica
gabbana
da uomo’
qabāla
‘tributo’
gabbelle
216
gabella
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
FOGGIANO
LUCERINO
CERIGNOLANO
gamurre veste
garbe
gattemajmone
mamone
ggiarre
gileppe,
giulebbà
giubbe
liccasalemme
ARABO
ITALIANO
imār, umūr
ğ‘mantello da
donna’
gamerra
qalīb ‘forma’
(per le scarpe)
garbo
maimone
maymūn,
‘felice’ oppure maimone
‘scimmia’
gazzarre
ġazār,
‘abbondare’,
‘fare rumore’
gazzarra
zanātī ‘tribù
berbera
famosa per la
cavalleria’
ginnetto
giarre
ğarra‘vaso’,
‘brocca’
giarra
geleppe
ğullāb
‘sciroppo’ (dal giulebbe
persiano)
giannetta
giarre
BARESE
giubba
ğubba
‘sottoveste
cotone’
giubba
katramme
qa rān ‘pece’
catrame
kettone
qu un
cotone
kuffele
quffa
coffa
lambicchio
al-anbīq
alambicco
‘apparecchio
degli alchimisti’
lazzaroun
az-zu‘rūrah
‘pianta’
lemoune
līmūn ar. pers.
limone
‘limone’
lazzarolo
‘alayk salām
‘a te salute’
allikkasalemme
macramè
mafisce
‘cesta’
mafisce
ma rama
‘fazzoletto’
asciugatoio
mafīš ‘non c’è’
Torre del Greco
(NA) màfisc
ma lūf ‘giurato’
oppure ma lūf magaluffo
‘sostituto’ ğ
magaluffe
217
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
FOGGIANO
LUCERINO
CERIGNOLANO
BARESE
ARABO
ITALIANO
mammalucche
mamlūk
‘schiavo’
mammalucco
marabutte
murābi
marbū
‘eremita’
marabutto,
morabito
mautabān
‘scatola’ o
ma šabān
ğ
‘cassetta’ (per
il dolce)
marzapane
matarazze
range
mulagnane,
accelane
mulagnane
matarazze
marange,
merenge
marange
mulagnaine
ma ra
‘materassa’
materasso
nāranğ
‘arancia’
arancia
bādinğān
‘melanzana’
melanzana
mussulmane
muslim < islām
‘sottomesso ad musulmano
Allāh’
nakkere
naqqārah
‘timpano’
nacchera
mescerudde
miskīn
‘povero’
meschino
muarre
mu ayyira,
ğ
‘scelta’
mohair
ndarsiè
ra a‘
‘incrostare’
ermesoine
urmuz
località tra
l’Arabia e
l’Iran
hormuz
ottomoine
ottomano <
‘Utman
ottomano
ġāzīya
‘incursione’
razzia
ricamo
omeseijine,
armesine ‘seta’
razzia
recamà
arrakamà
recamè
raqama
(< raqm
‘disegno’)
recone
rekone
recoune
arrecoune
rukūn < rukn
‘angolo’
ruote
218
ra l ‘misura di
peso’
rotolo
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
FOGGIANO
LUCERINO
CERIGNOLANO
BARESE
salamelecco
ikbāğ ‘pesce
marinato’
scapece
scarcioffele
aršūf
ğ‘carciofo’
carciofo
sceruppe
sciarappe
sceruppe
šarāb
‘bevanda’
sciroppo
sciabbekke
sciabbeche
šabak ‘rete’
‘trambusto’
sciabacca
šarīf ‘nobile’
sceriffo
scapece
skarciofele
sceriffe
sciarrà
taffettà
ITALIANO
salām ‘alayk
‘salute a te’
salamelekke
scarcioffele
ARABO
sciarre asciarre
sciarrè
šarra ‘ostilità’ sciarra
tafanare
tafanarie
tafr ‘buco’
taffettà
taffettà
ar.< pers. tafta
taffettà
‘stoffa’
alaq
talke
‘pietra’ talco
tamurre
tammurre
tamurre
anbūr
‘timpano’
tavute
tavute
tavoute
tābūt ‘cassa,
bara’
tazze
tazze
ās
trabacca,
‘spalliera’
trabacche
tazza
abaqa ‘tetto’ trabacca
tarb ‘grasso’
trippa
tumminu
tumn (1/8)
tummulo
trippe
tumele
‘tazza’
tamburo
tumule
tum(m)ele
ualla, ualle,
giale,
gualle ‘ernia’
ualle < gualle(re)? ualle
guallera
*wadara
<adara
‘ernia’
varde
varde
varde
varda
barda’a ‘basto’
zacagghije
‘laccetto’
zagagghje
zagagghije
zaġāya ‘lancia’ zagaglia
zacqare ‘cafone’
*zacquale
zaqquare
(zakkuale,
‘persona
zakkuare)
trascurata’
saqqā’
‘portatore
d’acqua’
zaffarane
zafrān
‘zafferano’
219
zafferano
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
FOGGIANO
zambre
‘forestiero’
LUCERINO
CERIGNOLANO
zammeine
zinbīl
‘bisaccia’
zimbile
zanzoine
simsār
‘mediatore’
sensale
zammine
zanzane,
sanzane
zanzane
zaraffe
‘venditore
ambulante’
zaraffe
zenefre ‘tende
per finestre’
zire, zifre
*zzenefre
zire
ITALIANO
tammaro
zambre
*zeccà
ARABO
tammār
‘venditore di
datteri’
zambre
zeccà
‘riscuotere’
BARESE
temarre
zaraf
‘truffatore’
arrāf
‘cambiavalute’
sikkah ‘zecca’ zecca
zecche
zenevre
zinefra
zoire
zire ‘orcio’
anifa ‘orlo’
ifr ‘vuoto’
cifra, zero
zīr ‘grosso
orcio’
ziro
Zawawa
zuavo
‘tribù berbera’
zuarre
zukkere
zucchere
zucchere
sukkar
‘zucchero’
tr. serbet < ar.
sorbetto
šarāb ‘bevanda’
zurubette
Tabella 2. Cognomi di probabile origine araba
nella ex Capitanata e zone limitrofe
Apricena
zucchero
Anzano
Apote <‘Abbūd, Buttagno <bū ta ān, hNaracci <narānğ
ğğ
Addesa (< disa ‘giunco’), Frano < farrān? ‘fornaio’
Bovino
Carrabs
Carapelle
Ramenno < (ra mān)
Carlantino
Cafano, Innaimo
Castelluccio dei Sauri
Abbazia, Carrabs, Carracino arāğ o pesce?
Carpino
D’Apote <‘Abbūd
Cagnano Varano
Zimotti?
Cerignola
Algamage?
Lesina
Bubici (slavo?), Busetta, Marroffino, Naracci,
Manfredonia
Vadurro budūr ‘lune’
220
Giuseppe Staccioli e Mario Cassar
Orsara
Cibelli (NA + Capitanata), Calatrava, Malfesi, Solomita, Varraso (Barraso)
S. Marco in Lamis
Addone, Apote
S. Severo
Arace < ‘ārağ ‘zoppo’, Ar, Calafa, Fallucca, Ladisa, Rummo,Vezzano
Stornara
Abazia, Scopece, Solomita
Foggia
Baudille, Boccascino, Bubici, Buduo, Elifani, Filasi forse da fulūs denari,
Ottena < watan? ‘idolo’
S. Agata di Puglia
Cardascio (?), Farano < farrān? ‘fornaio’
Margherita di Savoia
Cadura
Torremaggiore
Cardascia, Samale
Ururi,
S. Martino Pensilis (CB)
Catabbo < kātib ‘scrivano’
Campomarino (CB)
Rotello (CB)
Chimisso < amīs ‘giovedì’
ğ
Scivetta < Scibetta?
Pietrelcina (BN)
Lagozino, variante di Algozino < al-wasīr ‘visir’
Molinara (BN)
Chiafari < Cafari < kāfir ‘infedele’
S. Bartolomeo
(BN)
Ginestra
(BN)
degli
in
Galdo
Schiavoni
Vadurro < budūr ‘lune’
Manserra < mansūr ‘vincitore’
Montefalcone di Val Fortore
Giambitto, variante di Zammitto < ar. zammīt ‘serio’, ‘taciturno’
(BN)
Pontelandolfo (BN)
Alcorace < alquraši ‘tribù di Maometto’
Baselice (BN)
Facchiano variante di Facchino < faqīh ‘esperto di diritto ‘
Greci (AV)
Sorro surrah ‘fianco’
Calitri (AV)
Cioffari < Ğa῾far ‘sorgente’
Carife (AV)
Cafara
Taurasi (AV)
Camarro < ammār? ‘oste’ oppure imār ‘asino’ o ‘babbeo’
ğ
Mirabella Eclano (AV)
Camarro
Lavello (PZ)
Catano, Mossucca, Sciammaro
Corato (BA)
Iaferia < Ğa῾far?
Spinazzola (BA)
Armila < armal ‘vedovo’
Fara S. Martino (CH)
Aruffo < ‘arūf ‘arīf ‘conoscitore’
Atessa (CH)
Tumini
Casalbordino (CH)
Aruffo, Tumini
S. Salvo (CH)
Moscufo < musqūf ‘tettoia’, Mammetti? < Mu ammad
221
I saraceni medievali delle località minori della Capitanata
Figura 1. L’attuale provincia di Foggia, parte della Capitanata storica, che comprendeva a Nord
il Molise orientale e a Ovest l’Alta Valle del Fortore, attualmente nella provincia di Benevento.
Tabella 3. Toponimi di forma e struttura araba
nella ex Capitanata e zone limitrofe
Apricena (Fg)
C. Rumo, C. Saracino.
Cerignola (Fg)
Masseria Zezza, Cafiero, Cafro.
Campomarino (Cb)
Masseria Saracini, M. Zezza, Zezza.
S. Martino in Pensilis (Cb)
Mass. Saraceno, Mass. Saracini
Bisaccia (Av)
Cafasso, Solimene, Solimine,? Tanga < tanğa (toponimo del Marocco) [Tangi
a Celle (FG)]
Trivico (Av)
Solimene, Zamarra
Flumeri (Av)
Bardaro, Cammisa
222
Michele Galante
Una lettera di Sandro Pertini ad Anna Matera
di Michele Galante
Il 6 febbraio 1957 si apriva a Venezia il 32° congresso nazionale del Partito
socialista italiano, che era stato convocato per discutere le grandi novità in corso
sulla scena interna e internazionale. Sul piano nazionale diventava sempre più
evidente la crisi del centrismo, la formula politica con cui era stata governata l’Italia
dopo la fine dei governi di unità nazionale, incarnata dalla leadership di Alcide
De Gasperi e fondata sull’alleanza tra Democrazia cristiana, liberali, repubblicani
e socialdemocratici. Una formula politica che aveva ricevuto il primo scossone
dalla bocciatura della legge maggioritaria del 1953, che assegnava il 65% dei seggi
a quelle forze tra loro apparentate che avessero superato il 50% +1 dei voti e che
ora si stava rivelando inadeguata rispetto al ‘miracolo economico’ in atto. Sconfitto
politicamente, il centrismo sopravviveva a se stesso con governi di basso profilo,
tutti imperniati sulla Dc, in attesa che maturassero condizioni per dare vita a nuovi
processi politici capaci di allargare la base di sostegno dei futuri governi.
Gli avvenimenti internazionali, invece, erano stati contraddistinti dalle furiose
polemiche successive al rapporto Kruscev letto al XX congresso del Pcus tenutosi
a Mosca dal 22 al 25 febbraio 1956 che svelava e condannava i crimini staliniani.
Secondo il segretario socialista Pietro Nenni il rapporto ‘metteva in discussione
non solo Stalin, ma l’intero sistema sovietico e in esso lo Stato, il partito in sé e
per sé, la Terza Internazionale’; insomma poneva in discussione lo stesso Lenin.
La tempesta della destalinizzazione spingeva lo stesso Nenni a rompere il patto
di unità d’azione con il Pci e a riaprire il dialogo con il leader socialdemocratico
Giuseppe Saragat quasi dieci anni dopo la scissione consumatasi nel gennaio 1947 a
Palazzo Barberini con l’obiettivo di riunificare le forze socialiste. Una prospettiva
incoraggiata anche dall’Internazionale socialista.1 Iniziò così una fase politica
nuova per il Psi.
Nell’agosto del 1956 ci fu a Pralognan, una cittadina francese della Savoia,
l’incontro tra Nenni e Saragat, nel quale i due leader attestarono il riavvicinamento
tra le posizioni ideali e politiche dei due partiti. Fu il precedente ufficiale della
1
S. Colarizi, Storia politica della Repubblica: partiti, movimenti e istituzioni, 1943-2006. Roma-Bari,
Laterza, 2010, p. 62.
223
Una lettera di Sandro Pertini ad Anna Matera
riunificazione socialista che si avrà soltanto dieci anni dopo. Nenni e Saragat
gettarono le basi della riunificazione e, soprattutto, si posero il problema di come
modificare gli equilibri politici fondati sul centrismo. Su questa ‘svolta’ non
tardarono le reazioni all’interno delle file socialiste, in cui non solo la sinistra,
ma anche i rappresentanti della maggioranza che si rifacevano alle posizioni di
Rodolfo Morandi, che nel frattempo era deceduto, mostrarono le loro riserve. Una
forte divaricazione si registrò anche nel giudizio sulla rivolta ungherese e sulla
successiva repressione dell’esercito sovietico che occupò l’Ungheria. Il conflitto
tra quelle che ormai erano due anime antitetiche del socialismo esplose: mentre
i ‘nenniani’ (cioè, oltre il segretario del partito, Lombardi, Mazzali, De Martino,
Mancini, Cattani ed altri) condannarono duramente l’invasione sovietica, la
‘sinistra’ (Vecchietti, Valori, Lizzadri, Gatto) ne prese le difese. Da allora, questa
corrente verrà chiamata ‘carrista’, appunto perché in quella occasione appoggiò i
carri armati che entrarono a Budapest.
La destalinizzazione e i gravissimi avvenimenti che esplosero nell’Est europeo (prima la rivolta operaia polacca del mese di giugno a Poznan e successivamente l’intervento sovietico in Ungheria nel mese di ottobre –novembre) ebbero
conseguenze non secondarie sulla politica italiana. I rapporti tra socialisti e comunisti diventarono più difficili e conflittuali, segnando una divaricazione sempre più
marcata. Il 1° novembre la Direzione socialista condannò senza riserve la scelta
dell’Urss definendola “incompatibile con il diritto dei popoli all’indipendenza” e
affermò l’inscindibilità tra democrazia e socialismo.
La nuova situazione politica italiana impose ai maggiori partiti un ripensamento delle loro strategie.
Il 14 ottobre, al VI congresso della Dc, Amintore Fanfani fu rieletto segretario con l’astensione delle correnti di Base, di Forze Nuove e della nuova corrente
della destra andreottiana su una proposta politica che faceva intravedere una cauta
‘apertura a sinistra’, che aveva avuto una prima manifestazione nel 1955 in occasione dell’elezione del dc Giovanni Gronchi a presidente della Repubblica.
Il Pci di Togliatti convocò l’VIII congresso nel corso del quale il leader
comunista affermò che la destalinizzazione aveva posto in luce gravi difetti nel
funzionamento del sistema sovietico, ma che questi difetti non erano tali da mettere
in discussione il fatto che quel sistema era più democratico di quelli a democrazia
borghese.2 Pur ribadendo il legame col Pcus e col ‘campo dei paesi socialisti’, non si
pose sulla difensiva, ma compì uno sforzo di rinnovamento politico e organizzativo
ripensando la strategia dell’avanzata al socialismo. Il segretario comunista delineò
un progetto di innovazione volto ad accrescere l’autonomia del Pci all’interno
di un vincolo col campo socialista e fondato sul riconoscimento della fine del
partito-guida e sul policentrismo delle posizioni politiche. Per l’avanzata verso il
2
M. L. Salvadori, La Sinistra nella storia italiana, Roma - Bari, Laterza, 1999, p. 132.
224
Michele Galante
socialismo non vi era più un’unica via, ma tante vie nazionali. Sul piano interno con
la Dichiarazione programmatica rilanciò la proposta delle riforme di struttura da
realizzarsi ‘nel quadro dei diritti democratici e del libero formarsi delle maggioranze
indicato dalla Costituzione… Di notevole importanza fu anche il superamento
della concezione del sindacato come cinghia di trasmissione e l’affermazione della
necessaria autonomia delle organizzazioni di massa.’3 Questa nuova prospettiva
strategica consentì al Pci, che si trovava in totale isolamento politico, di affrontare
senza gravissimi danni la crisi del 1956 con una forte capacità di ricompattamento
e di far registrare una sostanziale tenuta del proprio consenso alle elezioni politiche
del maggio 1958, nonostante la fuoriuscita di un nutrito gruppo di intellettuali e il
mancato rinnovo della tessera di quasi 200 mila iscritti.
I socialisti fecero i loro conti al 32° congresso nazionale di Venezia, che fu
certamente un congresso di portata storica. Esso fu accolto dal saluto del cardinale
Giovanni Roncalli, allora titolare della diocesi di Venezia, che di lì a pochi mesi (il
28 ottobre 1958) sarebbe divenuto papa Giovanni XXIII. Il patriarca di Venezia fece
affiggere in città un manifesto di saluto al congresso socialista nel quale scriveva: ‘Io
apprezzo l’importanza eccezionale dell’avvenimento che appare di grande rilievo
per l’immediato indirizzo del nostro paese’. Questo manifesto beneaugurante, che
coglieva il segno dei tempi, fece scalpore fuori e dentro le gerarchie ecclesiastiche.
L’assise seguita con attenzione da tutto il mondo politico nazionale e da
molti settori internazionali, a cominciare da quelli del socialismo europeo,
rappresentati a Venezia dal leader laburista Aneurin Bevan, si svolse in un clima
di grande tensione politica, dominata dalla personalità di Nenni, che vi tenne un
discorso che commosse il pubblico dei delegati e degli invitati. Nenni rievocò la
notte buia dello stalinismo, ricordando come ‘a Varsavia, tutti sapevano e nessuno
parlava’. Affondò la sua critica storica e politica al comunismo, ribadendo quanto
già scritto su Mondo operaio, che bisognava ‘risalire dagli errori di Stalin alla natura
del sistema’; rivendicò la natura democratica del socialismo in contrapposizione a
quella totalitaria del comunismo sovietico.
La relazione di Nenni sancì il crollo del mito sovietico e l’abbandono del
filosovietismo, collocando il Psi nell’ambito del socialismo occidentale. Sul piano interno il segretario socialista, dopo aver dichiarato esaurito il patto di unità
d’azione con i comunisti, definì i tratti salienti dell’autonomia socialista e dell’iniziativa del Psi, volta a creare un’alternativa democratica al centrismo, proponendo
la riunificazione con il Psdi e una intesa con la Dc con lo scopo di procedere a
riforme capaci di correggere i vistosi squilibri economici e sociali, che stavano accompagnando il boom economico italiano.
Questa impostazione fu formalmente accettata da tutte le componenti interne,
che votarono all’unanimità un documento conclusivo, che si prestava, però, a dif-
3
A. Agosti, Storia del PCI, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 82.
225
Una lettera di Sandro Pertini ad Anna Matera
ferenti letture e interpretazioni. Dentro la maggioranza, però, convivevano diverse
anime, che si manifestarono nelle votazioni a scrutinio segreto per l’elezione del
Comitato centrale con manovre tese ad annacquare la proposta politica nenniana. La
linea autonomista ebbe la maggioranza, ma restò minoritaria nel Comitato centrale.
Non essendoci una personalità alternativa che per prestigio fosse capace di
assumere la guida del partito, Pietro Nenni fu confermato segretario nazionale.
A lui furono affiancati ben quattro vicesegretari: due della ‘sinistra’, Basso e
Vecchietti, e due ‘autonomisti’, Mazzali e De Martino.
Nel corso del dibattito congressuale intervenne con un ampio e articolato discorso anche Anna De Lauro Matera,4 più conosciuta come Anna Matera, napoletana di nascita ma foggiana di adozione, che pronunciò un intervento molto applaudito dai congressisti. L’esponente socialista, che già si era segnalata all’attenzione
pubblica fin dal 1945 come delegata ai problemi della scuola nell’Amministrazione comunale di Foggia diretta dall’avvocato Luigi Sbano e successivamente come
assessore nella giunta di Giuseppe Imperiale, era stata eletta deputata alle elezioni
politiche del 1953. Prima donna socialista della Puglia ad entrare in parlamento, era
anche l’unica parlamentare donna socialista di tutto il Centro Sud. Matera, che era
stata eletta nel Comitato centrale del Psi al congresso di Torino del 1955, era stata
investita dell’incarico di responsabile nazionale delle donne socialiste che aveva assolto con grande entusiasmo e con una ricca elaborazione teorica. La Matera, che nel
dibattito congressuale faceva riferimento all’area di sinistra guidata da Lelio Basso,
si soffermò prima sui temi della condizione delle donne, denunciando le grandi barriere economiche, sociali e culturali che ne frenavano il processo di emancipazione
e anche i ritardi teorici del Psi, mentre nella seconda parte affrontò più direttamente
le questioni legate all’attualità politica, esprimendo riserve sulla linea di Nenni, e in
modo particolare sul rapporto con i comunisti, che per la stessa rimaneva un elemento da privilegiare. Tuttavia la Matera non risparmiò critiche alle posizioni assunte dal
Pci, sfoderando una inusitata verve polemica ed evidenziando la contraddizione tra
l’affermazione della ‘via italiana al socialismo’ e la persistenza del legame con il regime sovietico, con l’intento di sollecitare una evoluzione del maggiore partito della
sinistra italiana. Quanto al problema dell’unificazione socialista, rimarcò il fatto che
questo processo non dovesse essere un accordo di vertice e neppure la resa di uno dei
due partiti all’altro, ma la confluenza di programmi e di azioni politiche5.
L’assise congressuale di Venezia consacrò il ruolo di dirigente nazionale della parlamentare foggiana, che fu eletta nel Comitato centrale con un largo consenso, risultando settima con 437.708 voti congressuali dopo Vittorio Foa, Pietro
4
Per un approccio all’itinerario della Matera mi permetto di rinviare al mio saggio La vicenda politica e
umana di Anna Matera, in «Sudest», n. 46, febbraio 2011, pp. 16-34.
5
Il resoconto sintetico dell’intervento di Anna Matera si trova sull’Avanti! dell’8 febbraio 1957 e in Partito
socialista italiano, 32° congresso nazionale (Venezia, 6-10 febbraio 1957), Avanti!, Milano - Roma, 1957, pp.
182-183.
226
Michele Galante
Nenni, Fernando Santi, Silvano Armaroli, Francesco De Martino e Sandro Pertini,
precedendo personalità della statura politica di Lelio Basso, Dario Valori, Tullio
Vecchietti, Riccardo Lombardi e Giovanni Pieraccini.
La stessa Matera fu l’unica donna ad entrare nella Direzione nazionale, composta all’epoca da appena 21 membri. Inoltre ottenne la riconferma dell’incarico di
responsabile nazionale della Commissione femminile, coadiuvata da Marisa Passigli. Per effetto di questa funzione rivestita entrò a far parte anche della Presidenza
nazionale dell’Unione Donne Italiane (Udi), insieme a Nilde Iotti, Giglia Tedesco,
Luciana Viviani, Nora Federici, e altre donne. Era questo il giusto riconoscimento
del suo impegno, della sua passione civile, nonché delle sue capacità politiche, di
cui aveva dato prova nei diversi incarichi fino ad allora rivestiti.
Alla dirigente socialista foggiana qualche giorno dopo, pervenne una
lettera dell’on. Sandro Pertini, datata 16 febbraio 1957, che qui si riproduce
integralmente:6
Anna carissima,
eccoti giunta al posto, che il mio cuore di fratello maggiore da tempo ti aveva
assegnato. Ne sei degna per la tua fede e per la tua intelligenza. Per l’amore che sento
per il nostro Partito - e non da oggi, Anna cara – e per l’affetto fraterno che ti ho
sempre dimostrato, ti esorto a legarti soltanto al Partito; a pensare solo al suo interesse;
ad impedire che sia allontanato dalla classe operaia e che cooperi a spezzarne l’unità.
Questo mi spinge a dirti l’animo mio colmo di amarezza e di molte
preoccupazioni. E non dimenticare mai che in Sandro troverai sempre – nella buona
e soprattutto nella cattiva ventura - l’amico sincero e il compagno devoto.
Buon lavoro, Anna cara. Un fraterno abbraccio.
Tuo Sandro.
I due esponenti socialisti potevano vantare una antica amicizia e una lunga
frequentazione politica, che risalivano al 1946 quando Pertini arrivò a Foggia per
tenere un comizio per la campagna per l’elezione dell’Assemblea costituente e per
il referendum istituzionale. In quella occasione conobbe la professoressa foggiana
già molto attiva e impegnata sia sul piano amministrativo che politico. Questa amicizia si consolidò dopo le elezioni 1953, allorché entrambi sedevano in parlamento,
facendo parte anche del Direttivo del gruppo parlamentare socialista, di cui Pertini
era, tra l’altro, vicepresidente. Anni durante i quali le doti di Anna Matera emersero con grande forza e nitidezza, trovando l’apprezzamento dell’intero gruppo
dirigente nazionale, a cominciare dal segretario Nenni.
La lettera che il combattivo e sanguigno dirigente socialista, che qualche anno
dopo sarà eletto presidente della Camera dei deputati e successivamente presidente
6
La lettera fa parte del fondo di Anna Di Lauro Matera, che si trova depositato presso la Fondazione Foa
di Foggia, alla quale è stato donato dalla famiglia Matera.
227
Una lettera di Sandro Pertini ad Anna Matera
della Repubblica, scrivendo con la sua condotta politica e morale pagine memorabili
della storia repubblicana, non era un semplice messaggio di congratulazioni, ma
anche l’espressione di un affetto fraterno, di un legame profondo, di una stima e di
un’amicizia sincera che nutriva nei confronti della Matera per la proficua attività
che veniva svolgendo, per l’intelligenza che esprimeva, per la sensibilità sociale
e la dirittura morale che incarnava. Nello stesso tempo Pertini esprimeva una
preoccupazione per il futuro del partito dilaniato da lotte intestine per cui, come
sempre è stato nel corso della sua vita politica, poneva fortemente l’accento sulla
necessità di tenere presente la bussola dell’interesse generale e dell’unità del partito,
uscendo dalla logica dei gruppi contrapposti e delle fazioni in lotta. Una logica,
a tratti belluina, che aveva lacerato i gruppi dirigenti, di cui lo stesso avvocato
e partigiano savonese rimase vittima proprio in questa occasione congressuale
con l’esclusione dalla Direzione. Una decisione che gli aveva procurato una
grande amarezza, temperata soltanto da una lettera indirizzata ai componenti del
Comitato centrale con la quale chiedeva di rimanere fuori dall’organismo direttivo
per favorire una ricomposizione unitaria dei contrasti emersi al congresso.7
Pur con questi esiti interni certamente poco edificanti, i socialisti uscirono
dal congresso con una proposta politica che, seppure risultava per alcuni aspetti
ancora ambigua e indefinita, appariva innovativa e capace di aprire una fase politica
nuova del Paese. Non a caso nelle successive elezioni politiche il Psi venne premiato
dagli elettori, passando dal 12,7 al 14,3 per cento, con 4.200.000 voti. Soltanto la
Democrazia cristiana segnò una crescita più consistente, ottenuta essenzialmente a
spese della destra monarchica, passando dal 40,3 al 42,3 per cento.
In questo turno elettorale Anna Matera venne riproposta come candidata
del Psi alla Camera dei deputati per la circoscrizione Bari-Foggia, risultando la
più suffragata degli eletti socialisti con circa 26.000 voti di preferenza, precedendo
personalità forti come i due parlamentari in carica Peppino Papalia e Stefano Lenoci,
e Vito Scarongella, che in questa occasione fece il suo ingresso a Montecitorio. In
questo modo non erano soltanto i dirigenti del suo partito a tributare ad Anna
Matera il giusto riconoscimento, ma anche il corpo elettorale. Un riconoscimento
e una fiducia che la parlamentare foggiana seppe ricambiare ancora una volta con
un lavoro certosino e approfondito nelle aule parlamentari e con un legame intenso
e caldo con i cittadini pugliesi.
Qualche anno più tardi, nel 1964, allorché la sinistra socialista uscì dal partito
socialista dando vita al Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup) in
conseguenza di un insanabile dissenso sulla scelta di dare vita ad un governo di centrosinistra, Anna Matera, che era un elemento di punta della sinistra, rifiutò lo sbocco
scissionista rimanendo nelle file del Psi. Una scelta che certamente risentiva anche di
quel richiamo all’unità che Sandro Pertini aveva con tanta forza rimarcato8.
7
8
La lettera di Pertini fu pubblicata su «l’Avanti!» del 14 febbraio 1957.
Il messaggio unitario contenuto nella lettera di Pertini non rimase però inascoltato.
228
In memoria dei nostri
Cosma Siani
Cristanziano Serricchio sessantenne della poesia
di Cosma Siani
Vent’anni fa uscì un volume di fattura preziosa, stampato su carta Fabriano
in 119 esemplari ulteriormente impreziositi da un’acquaforte d’autore. Si chiamava
La dolce stagione; e ancor oggi io sento il fascino di quella titolatura, prima di tutto
perché rimandava a un sereno verso del primo canto dell’Inferno, il quarantatreesimo: “l’ora del tempo e la dolce stagione”; poi perché, così rimandando, richiamava anche un titolo di Cristanziano Serricchio, L’ora del tempo (1956); e infine
perché tanto abilmente coglieva e condensava un’atmosfera essenziale alla poesia
di Serricchio.
Il volume conteneva una collezione di testimonianze appositamente stilate
da alcuni amici di Cristanziano “in occasione dei quarant’anni di poesia”.1 Ed è
triste doverne celebrare ora i sessant’anni di poesia in una col necrologio. Perché
Cristanziano ci ha lasciato il 1 settembre 2012, a novant’anni. Ma più che a
novant’anni, vogliamo dire e ribadire a sessant’anni di poesia, da quelle sue prime
terse raccoltine che già ne fissavano alcune movenze poetiche essenziali, via via
precisate, accentuate, definite, in versi italiani e poi anche dialettali, che gli hanno
assicurato una collocazione nel quadro nazionale (“vigore lirico che da sempre
accompagna il processo di affinamento della sua voce”, dice Spagnoletti nella
propria Storia della letteratura italiana del Novecento2).
Infatti, se dovessi fare una selezione minima, mia e personalissima, di
Serricchio come lo percepisco e preferisco, comincerei all’origine, e darei risalto a
certi atteggiamenti che sono suoi fin dall’inizio. Intanto, la contemplazione assorta
e pensosa, registro di fondo:
Ora il giorno è rapido crollo d’ombre.
Vano il profilo, nitido, dei tetti
1
La dolce stagione. A Cristanziano Serricchio in occasione dei quarant’anni di poesia, Testimonianze di
Coco, D’Amaro, Macrì, Motta, Siani, Soccio, Incisione all’acquaforte di Franco Troiano, a cura di Saverio
Ceddia e Antonio Motta, Manduria-Bari-Roma, Lacaita Editore, 1991.
2
Giacinto Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, Roma, Newton Compton, 1994, p.
563.
231
Cristanziano Serricchio sessantenne della poesia
dove il tocco del sole era qualcosa
e non era [...]
(L’ora del tempo, 1956);
in aggiunta, la proiezione mitica, in un tempo lontano nel passato o nel
futuro:
Lungo gli arroventati viali
delle galassie forse nasceranno
le foglie per altri nidi.
Forse, nelle grandi Nubi,
dalle panchine pensili d’Andromeda,
vedremo, inattingibile ancora,
la scala di Giacobbe.
(L’occhio di Noè, 1961);
e la tensione metafisica:
Dove la spessa calce delle tombe
ha i riverberi miti dell’autunno
e il tempo sosta al plenilunio
tra gli esili cipressi senza vita,
sgranano nuvole antiche sulle soglie
i nostri morti e tendono le mani
d’erba alla speranza [...]
(L’estate degli ulivi, 1973);
l’interrogazione esistenziale, che è il suo modo di reagire alla realtà:
Che resterà di te, di me, di quest’ora
che non cede al tramonto?
Non vagheremo più per giorni chiari
e rive di leggenda [...]
(Stele daunie, 1978);
l’osservazione minuta e amorosa degli angoli, dei gesti, del minimo
quotidiano:
Perdonami se dalla finestra
nel chiuso cortiletto medievale
carpisco il diario della tua vecchiaia [...]
(Arco Boccolicchio, 1982);
e l’ansia allo scorrere perenne della vita:
232
Cosma Siani
Ora tu sai la stretta
che mi prende per l’eco
del tempo che si perde
nel greto smemorante
di questo inquieto autunno...
(Topografia dei giorni, 1988),3
accentuatasi nel tempo, e culminata nelle poesie di Villa Delia (2002) per la
scomparsa della compagna di vita.
Ma predomina, io direi, la nitidezza di immagini chiare e leggere legate a
sensazioni eteree. Ne possiamo cogliere esempi ad apertura di pagina in un librosilloge come Una terra una vita: “il remoto inizio d’una strada”, “Il tempo è solo
quell’alberello / erto laggiù”, “il mondo è appena un tenero chiarore”, “fontanina /
che manda un fil di luce”, “Limpidi stupori in cima al colle”, “il silenzio delle foglie
in attesa”, e in dialetto: “L’addóre dlu timpe éie/come lu vinte ca te mbrògghie li
capidde” (“l’odore del tempo è / come il vento che ti spettina i capelli”).4 Non si può
non rilevare aria di familiarità con la prosa d’arte della prima metà del Novecento
– periodo di formazione di Serricchio – nella quale la provincia di Foggia ha avuto
un altro autore di spicco in Pasquale Soccio.
Basti tutto questo a dimostrare su quale versante della lirica novecentesca
si colloca la voce di Serricchio (così come basta – ne sono sempre stato convinto
– una silloge ristretta come Fiori sulle pietre, 1957: sei poesie riunite in plaquette e
poi diluite in altre raccolte, a stabilirne fin da principio, e con notevole evidenza,
il timbro fondamentale con cui egli si sarebbe inoltrato nella seconda metà del
secolo). È il versante segnato da quella stagione-cardine della poesia italiana che
fu l’ermetismo. Non poteva non essere così, a quanto pare. Lo ha detto bene
Donato Valli, quando definì Serricchio un rappresentante di quella “generazione
di mezzo” che si trovò nella condizione, quando non riuscì a inserirsi nel nuovo
clima neorealistico e sperimentale, di dover recuperare forme e valori guardati
con sospetto o ritenuti sorpassati. Credo che la scoperta della propria terra, del
proprio paese, dei più umili affetti, oltre che un’esigenza di rivalutazione della
provincia e della famiglia rispetto al grande mito della nazione e dello Stato
definitivamente crollato, rappresenti per Serricchio la necessità d’un rifugio e
d’una ricostruzione.5
I brani sono tratti, rispettivamente, dalle poesie: “Scendeva sui miei giochi”, “L’ora zero”, “Dove la spessa
calce delle tombe” (leggibili anche in Stele daunie), “Canto di Diomede 3”, “Arco Boccolicchio III”, “Sotto
il tuo sguardo severo”.
4
Una terra una vita, pref. Sergio D’Amaro, postf. Emerico Giachery, risvolto Daniele M. Pegorari, Sentieri Meridiani Edizioni, Foggia 2008, rispettivamente pp. 18, 19, 22, 25, 27, 32, 94.
5
Cfr. Donato Valli, in L’albero, N. 51, 1974, leggibile anche in Poeti danni contemporanei, a cura di Cristanziano Serricchio, Antonio Motta e Cosma Siani, pref. Mario Sansone, Foggia, Apulia, 1977, p. 193.
3
233
Cristanziano Serricchio sessantenne della poesia
In effetti Serricchio non fa mistero della sua radice ungarettiana, se addirittura
apre una poesia di quattro versi dettando: “Si sta come d’autunno” (in L’estate degli
ulivi), che com’è noto sono i primi due versi di “Soldati”, da L’Allegria di Ungaretti.
Ma non si tratta solo di tale matrice; non credo si possa definire Serricchio poeta
ermetico, e sarebbe disagevole anche applicargli un’etichetta così comprensiva
come “post-ermetico”. Lo scavo della parola si direbbe in lui sostituito dal verso
suadente e perfino melodioso; da Quasimodo sembra derivare la tendenza alla
rarefazione dell’immagine; il suo descrittivismo fa pensare più a un Diego Valeri.
Ma sono modelli ovvi questi, per lui di formazione primo-novecentesca, così come
altri che sono stati richiamati, quali Montale, Cardarelli, Saba; e poi, forse più a
ragion veduta, Rebora e Betocchi; e ancor più opportunamente, i suoi corregionali
Comi e Fallacara. E a me certo suo afflato siderale richiama versi alati come la
quartina “Il fiume della creazione” di Tommaseo.
Del resto, i caratteri tipici di questa poesia sono stati variamente messi a
fuoco dai non pochi che ne hanno scritto; e fin da principio, quando Alfredo
Petrucci, nell’introdurre l’ancora incerta raccolta Nubilo et sereno (1950), scriveva:
“Ripensavamo, nel leggere i versi di Cristanziano Serricchio, a quei pittori cinesi
i quali, volendo figurare un paesaggio, invece di porsi al suo cospetto e ritrarlo
direttamente, lo chiudevano nello scrigno della loro memoria e ve lo tenevano in
serbo”.
Già nel 1958 Giorgio Caproni parlava di “Parole ferme e severe, certo
lontane da ogni vacuo esibizionismo ritardatario cui la buona educazione classica
non toglie bensì aggiunge verità, così come accade sempre nel discorso composto
e quasi austero di C. S.”. In seguito, così si esprimeva Bortolo Pento: “al canto [...]
tendono in definitiva queste poesie, pur modellate e modulate su un linguaggio
lirico che non si propone con punte di originalità, che non ambisce in nessun modo
a soluzioni perentoriamente personali, ma che si rifà a un diffuso e qualificato
paradigma novecentesco...”.
Ed era ancora Valli a parlare di radice ungarettiana “integrata con un
sentimento tutto meridionale e mediterraneo, la cui componente prima è l’aspro
paesaggio garganico addolcito dalla levità d’un cielo invitante e dalla profondità
d’un mare misterioso”. E Michele Dell’Aquila: “...una poesia in cui la disposizione
mitica tende più ad appuntarsi sul perenne della vita che non sul contingente ed
effìmero (per quanto vistoso)”. Mentre Maria Luisa Spaziani coglie uno degli
sbocchi preferiti del meditare di Serricchio: “la memoria talvolta riesce a non essere
soltanto sentimentale e privata, e nemmeno storica, ma si fa cosmica, risale oltre un
misurabile tempo...”.
Caratteri tutti che sostanziano la sensibilità di Serricchio, tanto da ritornare
nella sua stessa prosa, come ha rilevato Guglielmo Petroni, che, introducendo
la collezione di racconti Le radici dell’arcobaleno (1984), parla di “un’aura che
ricorda cose perdute”, di “una nitidezza particolare”, di “maestria nel portare
234
Cosma Siani
ogni sua conoscenza all’interno di ciò che descrive”, di “apparente ovvietà di certe
sue movenze che, in realtà, risultano accorgimenti di poeta, risultati di analisi
colta”, e aggiunge: “non mancano addirittura moti che hanno sapore e intenzione
surrealistici”.6
Da Nubilo alle raccolte tarde, Una terra, una vita (2007) e oltre, il percorso
di Serricchio è lineare. Talora si accentuano forse alcuni tratti. Per esempio, una
ricerca della parola o della forma insolita. Nei suoi versi dialettali troviamo il termine
zuneme, adattamento di tsunami, in cui pare si voglia mettere alla prova la lingua di
fronte a un evento che in dialetto va inventato fin nel vocabolo;7 e soffermandoci
su Topografia dei giorni, ci imbattiamo in “per noi umilicristi”, “ragazze in gins,
“algosi relitti”, “vicende verdissime”; o nel desiderio di venire a più stretti patti
con i mutamenti degli ultimi decenni (“la TV / sgretolante dell’inquilino vicino”;
“Per interminati ingorghi / d’autostrade, aterosclerotiche / arterie”); che non sono
mai quelle “punte di originalità”, quelle “soluzioni perentoriamente personali” alle
quali – come dice Pento – Serricchio non aspira, neppure di fronte allo sconcerto
per alcuni aspetti della realtà contemporanea. Allo sconcerto, egli oppone i propri
interrogativi (“Dove andremo, fratelli, in questa / scheggia di sole che ci resta?”;
“Cosa faremo domani con le campane / e i cuori alla deriva...”), giusta appunto la
sua inclinazione meditativa.
Forse nel negli anni si accentua anche una complessiva positura malinconica
alla constatazione del tempo che muore. Ma si tratta, appunto, di accentuazioni.
Non cambia il profilo essenziale, la voce di questo poeta pugliese d’alto profilo.
Dunque, teso a un verso suadente, intimamente musicale più che metrico,
alieno dal disincanto, non lusingato dall’esperimento, Serricchio restò fedele
alla sua formazione di primo Novecento, e la prolungò nella seconda parte del
secolo, pur in mezzo a climi poetici mutati e mutevoli, accompagnandola a con
un forte senso della terra, della provincia, della storia dei luoghi dove è sempre
vissuto, il Gargano e la città di Manfredonia. Sappiamo bene dei suoi saggi storici
e archeologici, e della sua narrativa, nella quale spicca il romanzo storico L’Islam e
la Croce (2002), sul sacco turco della sua città.
Devo ora aggiungere un codicillo per il poeta dialettale. Serricchio pubblicò
poesia in dialetto solo tardi; e credo di poter testimoniare, se non l’inizio, la svolta
della sua vocazione vernacolare. Quando, oltre quindici anni fa, cercavo chi erano
e che cosa avevano scritto i poeti in dialetto di un’area fino ad allora inesplorata,
6
Cfr. rispettivamente Giorgio Caproni, in La fiera letteraria, 23 marzo 1958; Bortolo Pento, in Annali
della Pubblica Istruzione, nov.-dic. 1969; Donato Valli, cit. (tutti leggibili anche in Poeti dauni contemporanei, cit., pp. 182-183,186 e 194 rispettivamente); Michele Dell’Aquila, Parnaso di Puglia nel ‘900, Bari, Adda,
1983, p. 255; Maria Luisa Spaziani, prefazione a Topografia dei giorni, Manduria, Lacaita, 1988, p. 5; Guglielmo Petroni, prefazione a Le radici dell’arcobaleno, Foggia, Bastogi, 1984, pp. 9-10.
7
Nella sez dialettale della raccolta La prigione del sole, Genova-Milano, Marietti 1820, 2009, p. 63.
235
Cristanziano Serricchio sessantenne della poesia
il Gargano, per una antologia minima che fu poi pubblicata a Roma,8 mi rivolsi
fra gli altri all’amico di vecchia data Cristanziano, che mi diede indicazioni senza
parlarmi di sé come dialettale. Poco tempo dopo mi arrivò un fascicoletto di sue
composizioni nel vernacolo garganico di Monte Sant’Angelo. Non passò molto
che il fascicoletto era divenuto una raccolta a stampa per l’editore Campanotto, Lu
curle, “La trottola” (1997).
Di sicuro una vocazione non si improvvisa né si forza. E quindi è da credere
che anche prima di allora Serricchio avesse provato la mano nell’espressione
poetica in dialetto, tanto più che conosceva i vernacolari della sua zona: a dire
solo qualche nome, i manfredoniani Pasquale Ognissanti e Salvatore De Padova
(aveva scritto una prefazione per i versi di quest’ultimo); Francesco Paolo Borazio
e Joseph Tusiani di San Marco in Lamis; Michele Capuano e Giovanni Scarale
di San Giovanni Rotondo. Ma mi piace pensare (e penso proprio) che sia stata
quella mia richiesta a far concretizzare il suo esercizio scritto in forma pubblicata.
Pubblicata e a distanza di un decennio sancita dall’inclusione nel volume Nuovi
poeti italiani 5, a cura di Franco Loi (Einaudi 2004), che comprende Serricchio
in una selezione di dialettali (gli altri sono Baldassari, Bressan, De Vita, Dorato,
Finiguerra, Giacomini, Giannoni, Serrao, Trombetta, Vallerugo), con dodici brani
quasi tutti dalla suddetta raccolta della Campanotto.
Nella sua introduzione all’autore, Loi parla di “devozione religiosa” senza
atteggiamenti moralistici o edificanti, perché “Serricchio non esorcizza il male e
l’angoscia, se non nell’atto stesso dello scrivere”. Loi sottolinea “una rara finezza
musicale e un’estrema attenzione alla sinuosità vocalica” nel dialetto di Serricchio,
e nota “la strana calma che promana da queste poesie”. Vero. E sono caratteristiche
tutte non specifiche del Serricchio dialettale ma anche della sua poesia in lingua, a
riprova che non c’è soluzione di continuità fra chi usa la lingua e il dialetto, o usava
la lingua ed è passato al dialetto; ovvero che il dialetto rappresenta sempre meno
una scelta opposta alla lingua, e sempre più un’estensione dei mezzi espressivi.
Dopo l’era pasoliniana del vernacolo come forma di autoreclusione antiegemonica,
è questo il taglio nuovo, postpasoliniano, dell’odierna rinascenza dialettale.
Resto convinto che Serricchio abbia messo mano al dialetto mosso da tale
consapevolezza – estensione dei mezzi espressivi, appunto, e pari dignità creativa
– per portare nel suo altro idioma le positure cattivanti, addirittura seducenti, della
propria vocazione lirica.
8
Poesia dialettale del Gargano. Antologia minima, a cura di Cosma Siani, Roma, Edizioni Cofine, 1996.
236
Sergio D’Amaro
Cristanziano Serricchio, messaggero di poesia
di Sergio D’Amaro
Ora che l’infaticabile officina di Cristanziano Serricchio si è fermata, sembra
impossibile ricapitolarne tutte le intense stagioni. La sua produzione copre oltre
sessanta lunghi anni, quelli che hanno accompagnato l’Italia nel suo farsi paese
moderno, pieno di ‘miracoli’ e di arretratezze, di slanci e di smemoratezze. Nel
gran fiume di questi decenni c’è la generazione di Serricchio (nata negli anni ’20
ed estremamente produttiva e rappresentativa) e ci sono le generazioni successive,
compresa quella che era bambina o appena nata quando il Nostro cominciò a
pubblicare.
Scorrendo le età si giunge al 1978, a quelle Stele daunie che segnano per
l’autore la piena maturità. È qui, nei tardi anni ’70, che i percorsi di vecchie e nuove
generazioni decidono di incrociarsi, riconoscendosi in una loro continuità, pur nel
rispetto dei diversi segnali che mandano e dei diversi linguaggi che usano. Con quel
libro, pubblicato nella collana ‘I testi’ diretta da Leonardo Mancino per l’editore
Lacaita (una collana mai più uguagliata nell’editoria del Sud per l’importanza
degli scrittori ospitati), Serricchio riassume tutta la pregnanza del suo messaggio
poetico e la qualità definitiva del suo stile. Una lingua, la sua, assorta, intensa,
dotata di naturale fluidità musicale, volta attentamente alla storia e alle sorti future
dell’uomo, radicata nella natura originaria e avvinta religiosamente alla sua terra.
Un messaggio e uno stile che consentono alla critica anche più autorevole (da Macrì
a Spagnoletti) di collocare Serricchio in un posto ben definito della poesia italiana
contemporanea.
(Pochi ricordano che in quello stesso torno di tempo Serricchio, insieme a
Cosma Siani e Antonio Motta, aveva curato nel 1977 per l’editore foggiano Apulia
l’antologia Poeti dauni contemporanei. Era un sintomo di come Serricchio sapesse
interagire con i più giovani e sapesse rintracciare insieme ad essi una linea che
dai carducciani portava, anche in Capitanata, agli sperimentali e agli iconoclasti.
Serricchio non era d’accordo, per sua formazione e per carattere, con posizioni
così spinte, riservandosi sull’argomento qualche sottolineatura tra l’ironico e
l’infastidito. Più volte l’ho constatato io stesso quando si toccava questo tasto,
non riuscendo egli a concepire una poesia che non fosse misura e meditazione,
indicazione del limite e aspirazione all’illimitatezza).
Per tornare, però, subito al discorso avviato, basti dire che in un momento
237
Cristanziano Serricchio, messaggero di poesia
storico così esagitato come la fine dei Settanta, forieri della frattura traumatica
tra ‘900 e secolo successivo, cosa mai poteva significare quella riflessione sulla
storia più remota di un popolo perso nelle volute del mito? Perché quel monito e
quell’invito così accorato di Serricchio? Insieme al sentimento di stupore di fronte
ad una scoperta archeologica (quella delle stele daunie di Silvio Ferri), quei versi
riappuntavano lo sguardo sul destino eterno dell’uomo, sulla sua natura che si
ripete straordinariamente a distanza di secoli, sulla necessità di preservare il senso
più profondo di un’umanità intesa in senso universale. Insomma, era un messaggio
poetico denso di significati, giusto alla vigilia di grandi trasformazioni epocali.
Visto così, assunto in quel suo gesto di ‘insegnante’, Serricchio mi apparve
come un affidabile e sapiente compagno di strada. Storia, Mezzogiorno, scelte
espressive, filoni letterari da approfondire, tutto avrebbe potuto essere un vicino
parametro da tener presente, per poi proiettarsi nelle proprie esperienze. Uno
degli “argini” era Serricchio, lì a pochi chilometri dal Gargano, a Manfredonia, e
sapevamo, io e altri della generazione più giovane, che avremmo potuto confrontarci
con lui con una cordialità non disgiunta da simpatiche e liberatorie battute ironiche.
Così è successo che in questi trent’anni ci siamo visti e sentiti innumerevoli volte,
ad una presentazione, ad un convegno, ad una fugace o casuale riunione di amici.
Ed è successo, anche, che ci sorprendessimo a conoscere Serricchio come abile
narratore, pubblicato da un importante editore nazionale come Marsilio. Era più
o meno l’inizio del nuovo millennio e il nostro Nino (ormai avevo imparato a
chiamarlo così) pubblicava un impegnativo romanzo storico intitolato L’Islam e
la Croce. Sorpresa, ma subito conferma di una pari capacità di tenuta narrativa,
il cui contenuto risultava di stringente attualità, addossato com’era ai fatti dell’11
settembre 2001. Il libro, egregiamente scritto, meritò parecchie presentazioni e
recensioni, allargando ulteriormente la fama del nostro autore e confermando che
le precedenti prove narrative non erano un fatto episodico.
Negli ultimi anni Serricchio non si è mai fermato, tanto che pubblicando un
libro dopo l’altro ad un’età ormai veneranda riusciva a mettere in difficoltà critici
vecchi e nuovi, costringendoli ad aggiornarsi continuamente. Ho avuto il piacere di
seguire più da vicino il libro Una terra, una vita (uscito nel 2007 per i tipi dei foggiani
Sentieri Meridiani di Michele Vigilante), che ho introdotto con una prefazione. Nel
libro erano riunite tutte le poesie dedicate alla terra che aveva visto svolgersi la sua
lunga esperienza. Nella prefazione, tra l’altro, scrivevo: ”Siamo sicuri che nel 2022,
ai suoi cent’anni (come indica l’autore nell’ultimo messaggio di questo suo libro),
Serricchio non troverà solo occhi curiosi di un nome, ma ancora orecchie complici
ad ascoltare le sue parole cresciute nel Gargano e nel Tavoliere della poesia”.
Ora che Serricchio è scomparso, mi sembra ancora più urgente ribadire la sua
identificazione con il Gargano e Manfredonia. Ci sono destini umani difficilmente
svincolabili dalle loro geografie. Perciò ancora m’immagino il messaggero della
poesia che fu Serricchio affacciato al mare che amava, ad inseguire eterei aquiloni
di storie e di miti che subito diventano parole.
238
Nunziata Quitadamo
Cristanziano Serricchio. L’impegno civile e sociale
di Nunziata Quitadamo
Cristanziano Serricchio, proposto senatore a vita da Raffaele Nigro,
candidato al premio Nobel, sin da giovane si è distinto nelle molteplici attività da
lui svolte con impegno e passione.
Inizia la carriera scolastica nelle scuole superiori con l’incarico di docente.
È subito apprezzato per l’elevato spessore culturale che nell’insegnamento
gli consente di argomentare con facilità e per le competenze pedagogiche sempre
all’avanguardia.
Gli piaceva insegnare e stare con i giovani. Ha svolto numerose lezioni di
letteratura italiana nei corsi di formazione indetti dall’Accademia Internazionale
“Padre Pio”.
Ultimamente mi diceva che gli sarebbe piaciuto andare nelle scuole per
incontrare i giovani e leggere loro la Divina Commedia. Di essi in una poesia
inedita a me dedicata in occasione del mio pensionamento scrive: “Nel distacco
è racchiuso un altissimo senso/ all’incanto magico della scienza/ e della vita, e
l’impotente tristezza/ di vederli soli fra gli iridati sogni del volo/ e gli impervi
sentieri d’ombra e di fuoco/ fra i picchi dell’amore e del dolore”.
Ha l’incarico di preside dell’Istituto Magistrale Statale di Manfredonia
nel 1954. È il preside più giovane d’Italia. Supera il concorso e nel 1965 diviene
preside titolare del suddetto Istituto, al quale per sua iniziativa è dato il nome
“A.G. Roncalli” In tale Istituto svolge la sua intensa attività educativa e culturale
fino al 30 settembre 1970 quando viene collocato a riposo. Nel frattempo ottiene la
costruzione del nuovo edificio dove l’Istituto trova la sua definitiva sistemazione.
Crea la biblioteca dotandola di circa dodicimila volumi, il laboratorio di fisica e
di scienze, l’aula per gli audiovisivi, l’aula di disegno e la palestra. Fa intitolare
dal Comune il vasto piazzale antistante l’Istituto “Piazza Europa”. Promuove la
partecipazione delle scolaresche ai giochi della gioventù e a gare sportive. Organizza,
con la collaborazione dei docenti, mostre di pitture e di disegno, spettacoli teatrali,
concorsi per la Giornata Europea della Scuola, favorisce la partecipazione di alunni
con sfilate di carri allegorici al Carnevale Dauno. È chiamato dal Centro Didattico
Nazionale per i Licei per l’aggiornamento dei presidi e dei docenti. Dirige corsi di
abilitazione per docenti.
239
Cristanziano Serricchio. L’impegno civile e sociale
È eletto per tre volte, dal 1978 al 1987, Presidente del Distretto Scolastico di
Manfredonia, col quale organizza un’intensa e proficua attività culturale, didattica
ed educativa: l’attuazione del diritto allo studio, la medicina scolastica, l’aggiornamento, il piano di edilizia scolastica e le nuove istituzioni, le attività parascolastiche
fra cui mostre, concerti, concorsi riservati agli alunni, il servizio di orientamento,
gli studi e ricerche utili alla migliore conoscenza della realtà locale, dei beni culturali e ambientali del territorio comprendente Manfredonia, Monte Sant’Angelo,
Mattinata, Zapponeta, Isole Tremiti.
Dal 1962 al 1968 ha ricoperto l’incarico di Assessore alla P.I. e Cultura del Comune di Manfredonia. D’intesa con l’archeologo Silvio Ferri, scopritore delle Stele
Daunie, ha promosso la cessione allo Stato del Castello svevo-angioino di Manfredonia per la creazione del Museo Nazionale e del Parco archeologico di Siponto.
Ha fondato la Società di Cultura “M. Bellucci”, la sezione dell’AEDE (Associazione Europea degli Insegnanti), la sezione della Società di Storia Patria per la
Puglia di cui è stato presidente. Ha organizzato sette convegni di studio su “Siponto e Manfredonia nella Daunia” pubblicando i relativi atti.
Nel 1964 è nominato dal Ministero della P.I Ispettore Onorario per i Beni
ambientali, architettonici, artistici, storici e archeologici di Manfredonia.
Serricchio, persona versatile, oltre ad essere autore di testi poetici in lingua e
in dialetto, di romanzi, di drammi, è anche storico e archeologo appassionato.
La crescita di un territorio è legata alla cultura e Serriccho è veramente un
modello straordinario, un punto di riferimento per avere riportato alla luce meravigliosi misteri storici ed artistici della sua Daunia. Il poeta Serricchio è sensibilissimo alle cose che scompaiono. Il recupero di ogni indizio diventa motivo di
approfondimento e di partecipazione al passato che si lega al presente. Nell’intervista rilasciata a Daniele Giancane dice: “Nei miei saggi storici e archeologici è
avvertibile il bisogno di penetrare nel cuore delle cose, degli avvenimenti delle persone, nonché l’amore per il Gargano, la Daunia, la Puglia, il Mezzogiorno, lembo
estremo di Italia e d’Europa legato alle Origini della civiltà”.
Nel testo “Siponto-Manfredonia” scrive: “È motivo di gratitudine la speranza, che è anche convinzione, di avere offerto, specie alle scuole, un utile strumento
di studio e di riferimento per la conoscenza del territorio e della sua storia, nonché
un valido incentivo per ulteriori approfondimenti e ricerche che gli interessati potranno e vorranno effettuare”.
Ricercatore appassionato della verità storica non rinunzia alla fatica di un
viaggio per portare alla luce qualche vicenda umana. Si reca a Malta al Centro
Studi Malitensi alla ricerca di documenti inediti sulle tracce dell’erede al trono di
Costantinopoli Fra Domenico Ottomano e della sultana d’Oriente Giocometta
Beccarini la bimba rapita dai Turchi nel sacco del 1620 a Manfredonia. Da Malta
porta la bellissima stampa che rappresenta la figura della sultana Zafira “la vera
effigie” della sultana, ossia di Giacometta Beccarini.
240
Nunziata Quitadamo
Interessato allo studio della vita e della traslazione delle reliquie dell’apostolo
Tommaso da Ortona all’isola greca e viceversa si reca a Chios. Segue con dovizia
di particolari il suo itinerario mostrando il suo scrupolo di storico e di attento
studioso.
Si è sempre mostrato disponibile all’impegno culturale. Ha partecipato a
convegni di studi, ha collaborato a varie riviste e giornali, ha scritto la prefazione,
la postfazione e le recensioni a libri degni di attenzione.
Dei suoi libri, già inclusi in numerose antologie e oggetto di tesi di laurea
in vari atenei italiani, si continuerà a parlare ancora a lungo. Di lui hanno parlato
tanti nomi illustri. Credo che Serricchio, uomo d’ingegno poliedrico e geniale sia
davvero modello straordinario da tenere sempre presente.
Molte le testimonianze di riconoscimento tra le quali voglio ricordare:
Il Presidente della Repubblica Pertini il 2 giugno 1979 gli ha conferito il
diploma di prima classe con medaglia d’oro quale benemerito della scuola, della
cultura e dell’arte.
L’amministrazione comunale di Manfredonia il 7 febbraio 2012 gli ha
conferito il primo “Laurentino d’oro”, riconoscimento che segnala alla pubblica
stima “cittadini che hanno onorato la città nel campo delle scienze, della ricerca,
delle lettere e delle arti, dell’impegno nella vita pubblica”.
Nell’intervista rilasciata a Daniele Giancane, alla domanda: Come vorresti
essere ricordato un giorno dai tuoi concittadini? “Mi piacerebbe essere ricordato
non solo come poeta, ma uno che ha amato la sua città e dato ad essa il massimo
impegno civile e culturale. In che modo spetterà ad altri stabilirlo”.
A me, che ho collaborato con lui alle diverse attività sin dal 1968, arco di tempo
abbastanza lungo, rimane il ricordo di un uomo sensibile, socievole, “schietto,
sincero, dolcemente e affabilmente ironico”, come dice Ettore Catalano.
241
Luigi Paglia
La poesia civile e di denuncia in un poemetto di Serricchio
di Luigi Paglia
Il silenzio dell’ulivo di Cristanziano Serricchio
Non hanno più colore i capelli di Aushwitz.
Fermo al non ritorno il treno dai finestrini sbarrati.
Capelli crespi, lisci, inanellati d’oro e d’ebano
un tempo nella luce dei giorni e delle stagioni,
canuti o grigi alle carezze tenere delle case
e di paesi lontani, alla dolcezza dell’ora
e del pianto dietro orizzonti di filo spinato.
Occhi sbarrati, cuori e infinite mani, tenere
mani di bimbi strappati alle madri, uomini
e donne spenti nell’immondo furore di gesti
e di parole slabbrate nei vasti campi di sterminio.
Nuvole di chiome senza più volti,
montagne di pettini senza più mani,
occhiali privi di sguardi e di riflessi,
valige con nomi stinti, vesti e bavette,
biberon e tazze, appena abbandonati.
Interminato strepitio di richiami,
labirinto di idiomi e di vicende,
reliquie di un mondo incenerito.
Solo, bianco su montagne di scarpe,
consunto uno zoccolo di legno, e nel silenzio
il passo fuggente di ragazza fiamminga.
Ma tu, Signore, ascolta e sorgi nel tuo sdegno.
243
La poesia civile e di denuncia in un poemetto di Serricchio
Fino a quando tollererai, Signore, i fragili errori
dei superbi della terra e il dolore vasto del mondo,
attento al grido degli umili nei flutti della morte?
Smarriti udiamo per le strade scoppi di mitra
e schiocchi di fionde a sud e a nord d’ogni parallelo.
Un bimbo colpito s’accasciò alle spalle del padre
piegato in ginocchio. E accanto era la stella
del Messia, il calvario glabro della Croce.
Le tre anime della Città gridavano da sempre
le stesse voci che gridano in noi. Ma ovunque
incursioni e bombe, pietre e carri armati,
imboscate e kamikaze invadono le rovine.
Laggiù, ai piedi delle torri crollate, spento nelle lacrime
il grande fuoco, a stento bambini con le madri
tornano a scuola. La paura l’odio stringono
i cuori e le labbra al silenzio dell’ulivo,
da Hebron a Gerusalemme, dai dorsi scoscesi
del Kòssovo ai deserti irrigiditi dell’Iraq.
Minato è il cuore dell’uomo. Tra plumbee rupi
e cime di neve, rossa di sangue la Via della seta.
Fioriranno le rose del deserto lungo tutti
i fiumi e i mari, i monti e i piani della terra,
uniti mano nella mano gli uomini e le città,
i villaggi e le capanne al nascere del sole?
Un ponte rinasce a Mostar, pietra su pietra antica,
e l’arco di luce tra le sponde è il suono
dell’acqua lustrale, l’ansia amica del fiume,
la voce dei bimbi che corrono ai giochi.
Ai volti bruciati, alle donne trafitte, ai cuori
delle speranze deluse, ridona, Signore,
l’acqua dolce della quiete, e, nella vena più viva,
la vita agli unti del terrore, e l’amore ai farisei
impigliati in ragnatele di falsità e rovine.
Come al biondo re di Sion non offrirmi la fionda,
ma l’umile cetra delle parole, il canto dell’arpa,
il frullo d’ali nell’aria del mare e delle foglie.
244
Luigi Paglia
Il silenzio dell’ulivo presenta i tratti di un’abbastanza marcata discontinuità
rispetto alla precedente produzione poetica di Cristanziano Serricchio, che è quasi
sempre di registro lirico (anche se con qualche episodica diversione nel campo
sociale e politico e con lo straordinario salto nel mito e nella protostoria delle Stele
Daunie1) e di sviluppo compositivo generalmente più limitato, di fronte all’intensa
poesia civile e di denuncia, e alle misure ampie ed avvolgenti del poemetto.
La discontinuità, originata dall’enormità delle situazioni e degli eventi denotati, si realizza a livello delle strutture formali (pur nella permanenza di alcune
modalità stilistiche) sulla cui incisività e novità influiscono fortemente proprio il
panorama tematico e la violenza dell’emozione suscitata dallo spettacolo tremendo
dei campi di sterminio, barbara espressione della ferocia nazista, e delle guerre e
dei genocidi che insanguinano il mondo attuale (per cui, come scriveva Ungaretti
in Mio fiume anche tu, una composizione anch’essa suscitata dalla violenta esecrazione delle deportazioni e delle nefandezze naziste nella seconda guerra mondiale,
«con fantasia ritorta/ E mani spudorate/ Delle fattezze umane l’uomo lacera/ L’immagine divina/ E pietà in grido si contrae di pietra»).
La discontinuità è evidente a livello iconico, strofico e metrico in quanto
si individuano due modalità, che sembrerebbero contrastanti, riguardanti da una
parte le misure minime delle strofe (di uno, due, tre versi) e, dall’altra, l’ipermetria
di quasi tutti versi, anche di diciotto, diciassette, sedici sillabe, con l’inserimento di
pochissimi endecasillabi. In realtà, le due procedure sono in interconnessione, in
quanto la risultanza a livello iconico della prima modalità rivela la segmentazione,
la parcellizzazione relative al mondo umano, dimidiato e frantumato, sia nelle
componenti anatomiche sia nelle espressioni sociali e politiche, dagli stermini e dalle
guerre; mentre la seconda dà alla composizione una dimensione iconica dispiegata
in larghezza, quasi per riempire tutto lo spazio delle pagine, per non lasciare nulla
di vuoto (di non detto), per rimarcare tutta l’espansione dell’accorata, ma a volte
anche violenta, poesia di denuncia (che ricorda quella pasoliniana riportata, però,
su un registro profondamente cristiano), ma è anche segnale di estensione, di
globalizzazione –come si direbbe con parola di moda- del mondo unificato, nello
spazio e nel tempo, dalla ferocia e dalla insensatezza dei «piccoli uomini feroci», in
«quest’atomo opaco del male», come accusavano Pirandello e Pascoli.
La raffigurazione del mondo “capovolto” nelle sue coordinate di valori
umani è correlativamente evidente anche a livello di intertestualità estesa, in quanto
sono sintomatici la collisione, il rovesciamento, lo stravolgimento delle citazioni
inserite in un contesto estremamente diverso: dall’universo naturale, libero, aperto,
spalancato proposto dalle “fonti” letterarie al mondo ristretto, prigioniero, ritagliato
e, comunque, negativo nel testo di Serricchio. Si va dai «capei d’oro all’aura sparsi»
(Petrarca) ai «Capelli […] d’oro e d’ebano un tempo nella luce», dalle «Nuvole […]
1
Cfr. Cristanziano Serricchio, Le Stele Daunie, con un saggio introduttivo di Oreste Macrì, Manduria Lacaita,
1978, poi in Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Giacinto Spagnoletti, Roma, Editori e Associati, 1993.
245
La poesia civile e di denuncia in un poemetto di Serricchio
rosee di peschi, bianche di susini» (Pascoli) alle «Nuvole di chiome senza più volti»,
dagli «interminati spazi» (Leopardi) all’ «Interminato strepitio», dagli «schiocchi
di merli» e dallo «scoppio delle tue risate (Montale) agli «schiocchi di fionde» e agli
«scoppi di mitra» dagli «orizzonti di oceani» (Ungaretti) e dagli «orizzonti della
campagna» (Pasolini) agli «orizzonti di filo spinato».
Sul piano figurativo, la sintassi del negativo (della sottrazione, della divisione,
della sparizione) viene esperita con la serie nutritissima delle sineddochi o (con
più pertinente linguaggio cinematografico, perché relativo alla rappresentazione
visiva) di primi piani e dettagli, sia di segmenti anatomici (capelli, occhi, cuori,
mani, chiome), sia di oggetti pertinenti al mondo umano (pettini, occhiali, valige,
vesti, bavette, biberon, tazze, scarpe, zoccolo).
La persistenza degli oggetti e la scomposizione di parti anatomiche, scorporate dall’unità della persona umana, mettono in evidenza, per contrasto, il connotato dell’assenza, della sparizione dell’umano.
Nel quadro generale delle figure di limitazione e di elisione, anche riferite alla
retrocessione temporale («Non hanno più colore i capelli di Aushwitz», «Fermo al
non ritorno il treno dai finestrini sbarrati», «Capelli crespi, lisci, inanellati d’oro e
d’ebano/ un tempo nella luce dei giorni e delle stagioni», «Occhi sbarrati, cuori e
infinite mani, tenere mani/ di bimbi strappati alle madri […]», «uomini/ e donne
spenti nell’immondo furore dei gesti» «valige con nomi stinti […]», «biberon e tazze, appena abbandonati», «reliquie di un mondo incenerito»), che richiamano l’allontanamento, la scomparsa, la cancellazione, è da segnalare un meccanismo stilistico del tutto particolare. Infatti, il panorama tragico della sparizione viene elevato
alla terza potenza dalla figurazione straordinaria fondata su una doppia sineddoche,
ulteriormente collegata da monemi di sottrazione o privazione, rappresentati dalla
serie di negazioni e di disgiunzioni morfologiche e lessicali: «Nuvole di chiome
senza più volti», «montagne di pettini senza più mani», «occhiali privi di sguardi
e di riflessi». Facendo ancora ricorso al linguaggio cinematografico, si può parlare
di una struttura articolata su due dettagli, uno in praesentia («chiome - pettini –
occhiali»), l’altro in absentia («volti - mani – sguardi»), raccordati, appunto dalle
locuzioni di esclusione («senza - senza - privi»).
Continuando nell’accostamento dell’universo semiologico del poemetto al
piano della visione filmica, è da notare la serie di sequenze marcate da dissolvenze
e l’alternanza dei predetti primi piani o dettagli (relativi all’estesissimo catalogo
di oggetti e di parti anatomiche) e di campi lunghissimi o totali (le torri crollate,
Hebron e Gerusalemme, i dorsi scoscesi del Kòssovo, i deserti irrigiditi dell’Iraq, i
fiumi e i mari, i monti e i piani della terra, il ponte di Mostar).
La prevalenza delle stratificazioni delle sineddochi sulle metafore (che, comunque, presentano un discreto numero di occorrenze), dichiara - secondo la formulazione di Jakobson2 - il tenore realistico (e tragico), rispetto a quello fantastico
2
Cfr. R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano Feltrinelli,1972, pp. 39-45
246
Luigi Paglia
o simbolico rappresentato dalla dichiarazione metaforica. Inoltre, anche le metafore sono, in qualche modo, attratte nella dimensione metonimica, realizzando
una visione espressionistica che si somma allo stravolgimento delle citazioni di
cui ho parlato precedentemente. La violenta carica espressionistica delle metafore
si riferisce alternativamente sia al veicolo3 («Labirinto di idiomi», «reliquie di un
mondo incenerito», «parole slabbrate») sia al tenore («flutti della morte», «unti del
terrore»), sia ai due elementi collegati («ragnatele di falsità», «spento il fuoco nelle
lacrime», «deserti irrigiditi»).
Anche sul piano macrostrutturale, è evidente la semantica del negativo. L’individuazione degli elementi logico-semantici del poemetto squaderna l’universo
tematico della composizione, il quale si proietta nel sistema archetipico (ossia le
«strutture psichiche quasi universali, innate o ereditarie, una specie di coscienza
collettiva e si esprimono attraverso simboli particolari, carichi di una grande potenza energetica»4) e si realizza figurativamente - come già s’è visto - nella serie
metonimica e metaforica.
L’articolazione logico-semantica, secondo la formulazione del quadrato semiologico prospettata da Greimas5, presenta l’asse semico basilare costituito dall’antitesi guerra vs pace (relazione di contrarietà). Gli stermini e le guerre sono la tematica
ossessiva, e del massimo impatto emotivo, del poemetto la quale ha il virtuale polo di
contrasto, spesso implicito, nell’aspirazione alla pace e all’amore nel mondo.
L’altro asse semico fondamentale è quello orientato sul dissidio mortevita (relazione di subcontrarietà), complementare e consequenziale rispetto alla
relazione guerra-pace. Come ho già notato, il tema della morte e della sparizione
acquista nel poemetto la massima espansione, mentre quello della vita è presente
sottotraccia, come aspirazione all’implicita conquista della realizzazione umana. È
vero che al destino dell’uomo appartiene, secondo la formulazione di Heidegger6,
«l’essere per la morte», ma come tappa terminale di un percorso esistenziale, non
come brusca interruzione, tragica negazione dello spirito vitale.
I quattro termini del quadrato fondamentale, inoltre, realizzano, in posizione
chiasmatica, anche delle relazioni di contraddizione: la prima mette in luce
l’irriducibilità della guerra alla dimensione della vita, mentre la seconda oppone,
simmetricamente, la morte alla pace.
I rapporti di contrarietà istituiscono tra loro una relazione di contraddizione.
Il superamento del contrasto sterminio-guerra vs pace può ravvisarsi nei due
Cfr. I. A. Richards, La filosofia della retorica, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 92.
Cfr. J. Chevalier, Introduzione, in J. Chevalier e A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Milano, Rizzoli,
1986, p.XIV.
5
Per il quadrato semiologico greimasiano, cfr. A. J. Greimas, Del senso 2, Milano, Bompiani, 1985, pp.
45-63 e 131–149.
6
M. Heidegger, Sein und Zeit, Tubingen, Max Niemeyer Verlag, 1927, trad. italiana, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1970, a c. di P. Chiodi.
3
4
247
La poesia civile e di denuncia in un poemetto di Serricchio
elementi che entrano tra loro in ulteriore rapporto di contraddizione: nello
sdegno, in cui si proietta quello del poeta («Ma tu, Signore, ascolta e sorgi nel tuo
sdegno»), e nell’amore universale («ridona, Signore,/ l’acqua dolce della quiete […]
e l’amore»), che sono ambivalenti espressioni del divino7, mentre la sublimazione
dell’antitesi tra la vita e la morte è affidata alla discesa nella profondità delle fonti
della vita da parte dell’umanità («ridona […] nella vena più viva, la vita agli unti
del terrore).
Inoltre, le due relazioni di complementarità (sterminio e guerra – morte, e
pace - vita stabiliscono tra loro un ulteriore rapporto di contrarietà tra il ricorso alla
violenza e invece la liberazione nella poesia («non offrirmi la fionda,ma l’umile cetra
delle parole, il canto dell’arpa,/ il frullo d’ali nell’aria del mare e delle foglie»).
L’articolazione logico-semantica prospettata dal quadrato semiologico
trova una perfetta coincidenza (o sovrapposizione) nel sistema simbolico il quale
è organizzato in modo binario sui piani superiore ed inferiore ed è polarizzato sui
versanti negativo e positivo. Infatti, l’archetipo appartenente alla sfera superiore
(fuoco distruttivo) e, in rapporto di complementarità ed interdipendenza, quelli
della sfera inferiore (pietre, rupi, rovine, deserto) sono orientati sulla polarità
negativa dell’infecondità e della distruttività. Mentre gli altri archetipi del sole
e della luce, relativi al piano superiore, collegati a quelli del livello inferiore
dell’acqua, dei fiumi, della vegetazione, rivelano la polarità positiva della creatività
e della vitalità.
Come si è cercato di puntualizzare, tutte le coordinate del significato e del
significante del poemetto costituiscono un organismo compatto, interconnesso
nei suoi molteplici elementi, ed hanno la logica conclusione e l’espansione nella
prospettiva del tempo e dello spazio che presenta un’articolazione straordinaria,
in quanto l’ampiezza dell’arco temporale e spaziale (che si estende dalla seconda
guerra mondiale fino ai giorni nostri, e che si riferisce ai campi di sterminio in Germania, alle guerre recenti nei Balcani, alla distruzione delle Torri gemelle di New
York dell’ 11 settembre 2001, all’invasione dell’Iraq del 2003, al conflitto israeliano
- palestinese, alla ricostruzione del ponte di Mostar del 2004) viene realizzata con
la sovrapposizione dei luoghi geografici e degli eventi, con l’identificazione delle
stragi e delle morti, determinate da un’unica, perdurante vis disumana e distruttiva,
e con la designazione quasi di un presente dilatato o sospeso. Infatti, la discontinuità dei luoghi e dei tempi è riportata alla persistenza o, meglio, alla coincidenza
dall’uniformità tragica, ossia dall’evocazione della stessa tragedia in situazioni così
distanti, dalla sovrapposizione di orrori su orrori nell’orizzonte temporale ricondotto al presente continuo, nella fissazione del tempo.
7
Viene presentato il doppio aspetto della divinità: il Dio veterotestamentario e il Dio dei Vangeli nelle
annotazioni appunto, da una parte, della giustizia e dello sdegno, e, dall’altra, dell’amore, proclamato dal
Cristo. Ritorna alla memoria una poesia di Ungaretti tematicamente orientata sulla doppia dimensione del
divino: Senza più peso.
248
Recensioni
Federico Andornino
Luigi Paglia, Il grido e l’ultragrido. Lettura di Ungaretti
(dal Sentimento del Tempo al Taccuino del Vecchio),
Le Monnier Università, Firenze, 2010.
di Federico Andornino
Il volume nasce come naturale sviluppo del filone di ricerca espresso
dall’autore nei due precedenti lavori, L’urlo e lo stupore. Lettura di Ungaretti.
L’Allegria e Il viaggio ungarettiano nel tempo e nello spazio, che costituiscono il
punto di partenza e il termine di paragone privilegiato per il proseguimento della
riflessione sull’opera di Giuseppe Ungaretti.
Come viene ricordato fin dal principio, infatti, il sistema logico-semantico e
l’universo archetipico-simbolico dell’Allegria ritornano con insistenza nelle raccolte
successive, sia che si tratti di un proseguimento fedele di tali schemi, sia che tale
organizzazione venga sottoposta a un graduale processo di variazione: a mano a
mano che si scorre la produzione poetica ungarettiana si avverte uno slittamento
da un panorama ristretto ai rapporti interpersonali a un sistema di riferimento
superumano, mitico o relativo al mistero metafisico. Da qui la scelta del titolo del
volume: «Come nell’endiadi urlo-stupore sono sintetizzati l’orizzonte tematico e la
figurazione metaforica dell’Allegria, fluttuanti tra lo strazio della guerra e lo sconfinato
inebriamento cosmico, così col binomio grido-ultragrido è proposto il diagramma
emotivo e stilistico delle altre opere poetiche ungarettiane, oscillanti dialetticamente
tra il dolore della vita e il suo superamento nell’ultragrido metafisico».
Tale equilibrio tra continuità e innovazione costituisce il cuore dell’organizzazione del libro. I primi quattro capitoli si concentrano su una singola opera
(rispettivamente Sentimento del Tempo, Il Dolore, La Terra Promessa, Un grido e
paesaggi), mentre quello finale racchiude le ultime raccolte del poeta (Il Taccuino
del Vecchio, Apocalissi, Proverbi, Dialogo, Nuove, Croazia segreta). L’analisi di
ogni opera è preceduta da un’introduzione di carattere generale che esamina, con
leggere variazioni da capitolo a capitolo, la genesi e le caratteristiche della raccolta, il sistema logico-semantico, l’organismo simbolico-archetipico e le modalità
stilistiche; segue una lettura stratigrafica di tutte le poesie (di cui però non viene
riprodotto il testo, decisione «determinata dall’esclusivo sfruttamento economico
delle opere intellettuali», pratica tristemente di moda oggi in Italia).
251
Luigi Paglia, Il grido e l’ultragrido. Lettura di Ungaretti
Quasi metà del volume è occupata dal primo capitolo, relativo all’analisi
di Sentimento del Tempo, la cui struttura verrà qui esposta come modello per lo
schema interpretativo generale del volume. Un primo paragrafo ricostruisce la
genesi e le caratteristiche della raccolta poetica, rintracciando, con notevole perizia,
le prime pubblicazioni dei singoli testi e l’evoluzione della loro disposizione
all’interno dell’insieme generale. Si tratta di un lavoro filologico essenziale non
solo per aiutare il lettore a seguire attentamente la successione di riscritture che ha
permesso la riunione di singole poesie in un insieme organico, ma anche perché
restituisce uno spaccato della trasmissione culturale italiana e europea nel primo
’900 di notevole interesse. Tale percorso iniziale introduce, peraltro, le pagine
dedicate alle caratteristiche principali dell’opera.
Particolarmente fruttuoso risulta l’accostamento con l’Allegria, base di
partenza privilegiata per individuare punti di contatto e innovazioni e per osservare
da vicino l’evoluzione dell’essere poeta di Ungaretti; scrive Paglia: «Dopo l’Allegria,
dopo la massima concentrazione verbale affidata alla parola, all’elemento atomico
dell’enunciato, e dopo l’espansione e la semantizzazione degli spazi bianchi (che,
tuttavia, perdureranno spesso nel Sentimento, però spostate dalla verticalità
all’orizzontalità nello stacco tra i versi-strofe) non v’era altra via da percorrere per
Ungaretti se non quella del silenzio totale, della rinuncia alla parola poetica, o il
rovesciamento sull’orlo del vuoto (come un trapezista «acrobata» per non uscire
dalla tangente) nel senso della progressiva (tendenziale o dialettica) riaggregazione
della articolazioni metriche, sintattiche, letterarie». Poche righe che permettono
però di collocare immediatamente e con una certa precisione il Sentimento del
Tempo all’interno del più ampio flusso creativo ungarettiano, consentendo
all’autore di allargare il proprio studio al di là delle coordinate esplicitamente
dichiarate nel titolo. Ciò che viene descritto è il tentativo di cercare nuove strade, in
equilibrio tra tradizione e innovazione, che siano in grado di allontanare il pericolo
di un inaridimento della creazione poetica; tale esperimento viene analizzato
attraverso lo studio delle soluzioni metriche, sintattiche, lessicali («rispetto alla
parola “scavata” e folgorante dell’Allegria, ed alla sua costante rivoluzionaria
quotidianità, si realizza il ripristino, o la reviviscenza, di un lessico sontuoso, di
grande spessore storico e letterario»), del rapporto con la tradizione e dell’effetto
di slittamento dalla soggettivazione dell’Allegria all’oggettivazione del Sentimento
che questi cambiamenti producono.
Un secondo momento della ricerca prende in considerazione il sistema
logico-semantico della raccolta, ancora una volta partendo dai presupposti tematici
dell’Allegria. In questo caso Paglia mette in atto una forma di visualizzazione
delle tensioni semantiche interne all’opera che mi sembra particolarmente
efficace: l’accostamento di elementi complementari o dialettici è reso facilmente
comprensibile attraverso la rappresentazione di una serie di assi orizzontale e
verticali che permette un chiaro inquadramento iniziale del Sentimento. Partendo
252
Federico Andornino
da queste coordinate l’autore procede, in un secondo tempo, a ricostruire con
precisione una mappa dettagliata del testo, riconoscendo due fasi principali,
un momento caratterizzato da un chiaro ritorno al mito, e un secondo edenico
o preistorico. È nella distanza che separa queste due porzioni che il lettore può
riconoscere con maggiore facilità il significato del titolo della raccolta: l’elemento
del tempo costituisce il cuore della narrazione poetica e il suo progresso da
circolare a lineare fornisce all’opera un proprio sviluppo drammatico (dal tempo
dell’innocenza, al peccato originale, alla caduta, alla morte, fino al riconoscimento
dell’«incommensurabile distanza tra l’umano e il divino»). Strettamente legato a
questa analisi è anche lo studio dell’organismo simbolico-archetipico che occupa
il terzo paragrafo del primo capitolo: ancora una volta al centro dell’attenzione è il
rapporto con l’Allegria e il tentativo di individuare la strada scelta da Ungaretti tra
fedeltà alla propria produzione precedente e desiderio di innovazione. Indicativo,
in questo senso, il potenziamento di uno degli elementi già ricorrenti nelle poesie
precedenti, quello del sole distruttivo ricollegato alle manifestazioni dell’Estate,
che va a rinvigorire la coppia negativa fuoco/aridità (opposta a quella positiva
cielo-aria-luce/acqua-terra-ombra).
L’ultima parte dello studio delle caratteristiche generali del Sentimento
del Tempo è dedicata alle modalità stilistiche, con particolare riferimento alla
«costellazione ossimorica ed antitetica» che rientra perfettamente nella costruzione
dialettica che caratterizza l’intera raccolta e che si riallaccia, ampliandone tuttavia
la portata, all’uso tipico dell’Allegria. Ampio spazio è dedicato anche alla sintassi,
elemento fondamentale per lo studio della poesia di Ungaretti.
Concluso questo ampio lavoro introduttivo, Paglia dà l’avvio all’analisi di
ogni singolo componimento compreso nella raccolta. Si tratta di uno studio attento,
rigoroso e completo che contribuisce in maniera decisiva a rendere questo volume
uno strumento indispensabile non solo per gli studenti alle prese con uno dei
maggiori poeti italiani del ’900, ma anche per chi si avvicini a Ungaretti in maniera
più critica. Lo schema esegetico ripercorso poco sopra per l’introduzione generale
viene riproposto in piccolo per ogni poesia, andando a formare una costellazione
di analisi testuali puntuali e approfondite che fanno dei rimandi interni e alle opere
precedenti uno dei loro principali punti di forza; in questo senso è interessante
notare come alcuni testi vengano compattati in un unico movimento interpretativo,
soluzione che permette di dare maggior risalto alle caratteristiche della poetica
ungarettiana.
La struttura che abbiamo fin qui evidenziato viene successivamente
riutilizzata per le altre pubblicazioni del poeta, che occupano grossomodo la
seconda porzione del libro. Nonostante l’apparente schematicità di un simile
approccio, lungo tutto il corso dello studio è forte la sensazione di essere davanti
a un flusso unitario di creazione letteraria: i vari capitoli mantengono separate le
singole opere, ma i continui rimandi al resto dell’universo poetico ungarettiano che
253
Luigi Paglia, Il grido e l’ultragrido. Lettura di Ungaretti
Paglia dissemina all’interno della sua analisi consentono al lettore di aver sempre
presenti alcuni punti di riferimento essenziali, a loro volta stabilmente inseriti in un
contesto cronologico preciso. Si raggiunge così un felice equilibrio tra la volontà
di scandaglio rigoroso di ogni poesia e il tentativo di restituire al lettore un quadro
generale ben definito; ciò che ne deriva è uno strumento imprescindibile per l’esame
della produzione di Giuseppe Ungaretti e, risultato forse ancora più pregevole,
un modello di organizzazione testuale convincente per chi voglia intraprendere lo
studio di un autore attraverso l’analisi della sua produzione poetica.
254
Grazia Stella Elia
La ricerca linguistica e lo scavo interiore
nella poesia di Francesco Granatiero
di Grazia Stella Elia
Il lettore di Francesco Granatiero è avvezzo, ormai, alla profondità della
sua poesia; sa che, leggendo i suoi versi, incontrerà un poeta serio, autentico, che
attinge sempre alla fonte inesauribile della sua interiorità.
È certo che gli anni della sua fanciullezza – adolescenza di vita contadina
vissuta con suo padre tra radure ed anfratti del Gargano hanno inciso moltissimo
sulla sua formazione umana e poetica. Non vi è opera sua che non riporti a
quel periodo, che non richiami i luoghi, le persone, i suoni di quel tempo che
indelebilmente doveva segnarlo, dotandolo della inesauribile ricchezza della parola
in dialetto, spesso insostituibile per forza e pregnanza.
La prima pubblicazione di poesie in vernacolo (All’acchitte) risale al 1976;
seguono U iréne (1983), La préte de Bbacùcche (1986), Enece (1994), Iréve (1995),
L’endice la grava (1997), Scùerzele (2002), Bbommine (2006), Passéte (2008); ed
eccoci a La chiéve de l’urte, il libro da poco venuto alla luce con Interlinea Edizioni
di Novara.
Emblematico ed allusivo il titolo La chiéve de l’urte: metaforica la chiave e
metaforico l’orto (hortus conclusus dei latini?).
Ancora una volta l’impostazione è piuttosto dialogica, visto che Francesco,
da sempre, fa il poeta parlando con suo padre o con altre persone scomparse o più
di rado viventi.
Dalla terra garganica, da quella terra aspra, eppure resa feconda dalla caparbia
fatica dell’uomo, da quella terra ricca di voragini e di profumi, lontana ma viva
nell’anima, giungono al poeta suoni e voci; ed ecco fiorire settenari perfetti, con
una musicalità terragna che avvince e coinvolge.
Una vera singolarità che si riscontra in Granatiero è questa: dall’incontro
– scontro di alcune consonanti, seguite da una o due vocali, scoppia il fuoco
pirotecnico dei suoni, lo sfolgorio delle parole; ed è questo uno dei tanti motivi per
i quali i testi vanno letti nella scrittura originaria, prima di passare alla traduzione,
che pure è attenta, precisa, volta in una lingua italiana sempre ligia alle sue regole.
Ma veniamo ai contenuti di questo importante libro, che rappresenta un
255
La ricerca linguistica e lo scavo interiore nella poesia di Francesco Granatiero
nuovo ammirevole tassello nel variegato mosaico della produzione letteraria di
Granatiero.
I temi sono molteplici, vari, tutti ricollegabili a quell’universo montano e
contadino divenuto la fonte di ispirazione del poeta.
Può bastare il balenio, nella mente, dei vigliacci, delle masserizie, delle
coccinelle, di un pulcino solitario, di un orcio, oppure il ricordo di una paura, di
un incubo, perché la composizione poetica si delinei, per poi, con la perizia del
poeta, perfezionarsi.
Capita di imbattersi in vere e proprie chicche, con versi di chiusura lapidari ed
ossimorici. Ritengo opportuno riportare qui, quale esempio, Paròule di pagina 62:
Morte e nne mmòrte, bbone
sckitte s’allangalèdde
nòmene angòre a qquédde
che vè ‘ ppèrde, ca ndròne
pe nn’addòure murtèdde
nd’u uuacànde òue resòne
patàcche e ppe nna quédde
tréme nde lu strascjòune
che nzacce cume tòrne,
sémbe mbra végghie e ssùnne,
ròpele mborme curle
e aggire runne runne
fine che ne nge addòrme
nd’u ccitte de lu vurle.
Parola – Morta e non morta, buona / soltanto se precaria / nomina ancora
ciò / che va a morire, che rintrona // con un odore di mirto / nel vuoto in cui
risuona / patacca e per un non so che / trema nella bella stagione // che non so
come ritorni, / sempre tra veglia e sonno, / rotola come trottola // e gira intorno
intorno / fino a che non dorme / nel silenzio dell’urlo.
Versi forti, pregnanti, incisivi, in cui ogni parola rimanda a concetti, a
pensieri, ad una filosofia di vita complessa e tormentata; e mi sembra eloquente,
a questo proposito, la poesia della pagina seguente: Ruscegnùle (Usignolo), i cui
versi conclusivi recitano:
Chi la vite lu sénghe
cande quedde che sconde
e u cande assènza lenghe.
256
Grazia Stella Elia
(Chi dalla vita è segnato / canta quello che sconta / e lo canta senza lingua.)
Il mistero del mondo e del vivere induce il poeta a porsi domande, per
concludere che la sua convinzione è questa: “Noi abbiamo una sporta / che
dobbiamo riempire di domandi”.
Nel tramestio della vita, tra amarezze e burrasche, la speranza non muore
perché “l’acqua del mio bene / se non piove in cielo sta; / […] // E speranzoso
aspetto / sempre che un’acqua giovi / spegnendo la mia sete: // Al cuore quanto è
buono, / un sorso di pioggia / e sia tra lampi e tuoni”.
Ci sarà la luce di settembre ad entrare “dolce in casa”; lo esorterà a “godere
/ questa carezza lunga, / ché nulla abbiamo in cambio; // per i giorni a venire /
riempirmi il vassoio / della luce che varia”.
Alla resa dei conti, ecco l’insegnamento, l’esortazione vera e saggia:
“Dobbiamo cercarla qua, / noi, la chiave dell’orto”.
Si esce dalla lettura di questo libro sorpresi ed ammirati dalla forza che dai
versi emana: una forza quasi magnetica che è poi una delle principali peculiarità
della terra garganica, terra di sole, di luce, di poesia.
257
Leonardo P. Aucello
Panoramica storico-letteraria su Francesco Giuliani,
italianista di San Severo
di Leonardo P. Aucello
L’autore che mi pregio di presentare, Francesco Giuliani, nativo di San
Severo, dove risiede, ha un duplice primato professionale e intellettuale tanto che
mi pare quasi d’obbligo definirlo un enfant prodige. Infatti se si osserva la sua
scheda di studente prima e di docente poi saltano agli occhi encomiabili risultati:
maturato con il massimo dei voti nel 1980 al liceo classico di San Severo e laureato
anche con il massimo dei voti in Lettere all’Università di Bari nel 1985; e, infine,
spostando l’attenzione sulla carriera di docente di Italiano e Latino nei Licei, risulta
primo assoluto nella graduatoria di merito della provincia di Foggia nel concorso
a cattedre ordinario nel 1992; oltre, naturalmente, ad alcune idoneità a pubblici
concorsi come ricercatore nell’Università di Bari, e come contrattista presso le
Università di Pescara e di Foggia nelle rispettive Facoltà di Lingue e di Lettere.
Insomma una carriera a tutto tondo!
Ma un primato, nell’ambito intellettuale-letterario in Capitanata, Francesco
Giuliani, a mio avviso, lo detiene, rapportandolo all’età, anche per quanto riguarda
la produzione di opere e di saggi editi. Se pensate che intorno ai quarant’anni aveva
già all’attivo più di venti pubblicazioni tra analisi letteraria, linguistica, critica
testuale e ricerca storica sul territorio, in prevalenza sulla città di San Severo: un
bel salvacondotto per onori e risultati sempre più ambìti.
Attraverso l’analisi di questo Saggio, voglio raggiungere un duplice scopo:
innanzitutto far conoscere a un pubblico più vasto (anche se, grosso modo, non
ce ne sarebbe bisogno) questo autore con un così ampio ventaglio di conoscenze
e di studi di un certo rilievo; ma anche, cogliere a volo il momento di una sua
ricerca intitolata Occasioni letterarie pugliesi, Edizioni del Rosone, Foggia 2004,
inclusa nella Collana Testimonianze, diretta da Benito Mundi, anch’egli di San
Severo, deceduto nel 2011, già Direttore della civica biblioteca del suo paese, e,
consigliere della Fondazione di Cultura Angelo e Pasquale Soccio, ubicata nei locali
della biblioteca comunale di San Marco in Lamis, per rievocare indirettamente,
attraverso l’analisi di alcuni saggi compresi nella raccolta, un passato glorioso della
cittadina sammarchese che affiora in più parti in quest’opera di Giuliani.
259
Panoramica storico-letteraria su Francesco Giuliani, italianista di San Severo
L’autore affronta un tipo particolare di studio che è una via di mezzo tra
il saggio letterario e la testimonianza storico-biografica di alcuni scrittori famosi
che, nel corso della loro esistenza, si sono imbattuti in situazioni ed esperienze
ricollegabili, appunto, a uomini, tradizioni e paesaggi del territorio ricordato. E
sembra che un filo sottile di memorie rivisitate in una retrospettiva di immagini
ed afflato poetico con l’ambiente circostante, dia luogo a un caleidoscopio di
figure e descrizioni di un certo rilievo, tali da permettere al lettore di ritrovarsi
in un cammino a ritroso a ricercare fatti e gente di un passato non tanto lontano
incontrati di nuovo attraverso il racconto o la prosa colta ed elevata che concede
forza e vigore alla storia collettiva, o soltanto personale, di luoghi e ambienti del
Novecento culturale pugliese e oltre.
Nel volume appaiono autori come Edmondo De Amicis con la celebre
novella Fortezza, ossia Castelpagano, collocata ai margini del Promontorio
garganico, quale vedetta della piana sottostante. Di questo racconto già ne aveva
parlato Pasquale Soccio in una sua opera, costituendo tale “Fortezza” il simbolo
di un periodo di transizione, quale è stato, appunto, quello postunitario, alle prese
con la guerra di brigantaggio filoborbonico, in cui si svolge la trama con il suo
epilogo amoroso tra una brigantessa carceraria e un soldato piemontese.
Ma il testo di Giuliani è ricco anche di altre vicende intellettuali, come
l’amicizia tra l’avvocato di Torremaggiore Giuseppe Leccisotti e il grande poeta
romagnolo Giovanni Pascoli. Quest’ultimo ha avuto sempre a cuore poeti e studiosi
pugliesi: basti ricordare, tra l’altro, seppure si tratti di un fatto poco noto al pubblico,
la stima e l’affetto che ebbe nei confronti di un giovane studente di Lettere, di cui
parleremo subito dopo, suo allievo, il professor Giustiniano Serrilli, di San Marco
in Lamis, futuro Preside della Provincia di Foggia durante il Fascismo.
Inoltre va preso come punto di riferimento l’analisi che Giuliani compie
riguardo ai felici volumi Gargano segreto e Incontri memorabili del già ricordato
Pasquale Soccio; per continuare con il saggio su Riccardo Bacchelli e il Gargano.
Basti pensare che l’autore del celebre romanzo Il mulino del Po giunse in Capitanata
in veste di inviato nel 1929 del quotidiano “La Stampa” per una serie di servizi sul
Gargano: la prima nel 1929 e la seconda nel dopoguerra, ospite a Rodi Garganico
della signora donna Giuseppina Russo, vedova del professor Serrilli. Mentre nel
’29 aveva alloggiato nella casa signorile di San Marco in Lamis dei coniugi Serrilli,
di cui il marito, il professor Giustiniano, era stato suo compagno di studi alla
Facoltà di Lettere nell’Ateneo di Bologna. In quel viaggio Bacchelli, insieme allo
studioso sammarchese, visitò il Santo delle Stimmate, Padre Pio, a San Giovanni
Rotondo, la Grotta di San Michele a Monte Sant’Angelo; ma, soprattutto, la riviera
settentrionale garganica nella zona compresa tra Rodi e San Menaio, ospite con il
genero dei suoceri del Serrilli.
Tutto questo costituisce motivo di vanto poiché è possibile per i sammarchesi
rimarcare un passato storico-culturale più glorioso e meno grigio e dolente di
260
Leonardo P. Aucello
quello di oggi, per quanto si dica, non so se in maniera adeguata o forzata, che
la suddetta cittadina resta un punto di snodo importante di cultura nell’intero
territorio di Capitanata. Ma l’autore accenna pure a scrittori più propriamente
pugliesi, a partire da Franco Cassano, che visse lungamente a Bari, studioso di
problematiche sia politiche che sociali.
Ma tornando alla produzione complessiva dell’intera opera vorrei per sommi
capi citare per argomenti i vari titoli: Francesco Giuliani è un autore versatile,
nel senso pieno della parola, in quanto affronta, pur rimanendo nell’ambito
strettamente linguistico-letterario e storico, svariati temi, la maggior parte dei quali
ha delle forti ripercussioni nell’ambito della Puglia in genere e della Capitanata
in specie. Basti ricordare i suoi lavori sugli intellettuali più in vista di San Severo
nel Novecento: dai due scritti su Umberto Fraccacreta, L’eterno e il transitorio e
i Poemetti scelti, a Nino Casiglio, La lezione sbagliata, al poeta futurista Mario
Carli. Ma la sua indagine scopre orizzonti più vasti incontrando autori classici
della letteratura italiana poiché egli riesce a offrirci dei saggi anche sugli Idilli alpini
di Giosuè Carducci, oltre all’opera su D’Annunzio a Fiume, alle Presenze animali
nei “Canti” di Leopardi, agli studi su alcune novelle di Giovanni Verga.
Francesco Giuliani è iscritto dal 1989 all’Albo dei Giornalisti Pubblicisti di
Bari e collabora a varie testate, tra cui, anni addietro appariva spesso sulla pagina
culturale del quotidiano, “Il Secolo d’Italia”, Organo di stampa un tempo di
Alleanza Nazionale. Ha recensito qualche centinaia di testi di rilevanza territoriale
e nazionale. È socio dal 1998, per l’importanza dei suoi studi, della Società di Storia
Patria per la Puglia: infatti vanno ricordati i suoi approfondimenti sulla storia e la
biografia di alcuni personaggi di San Severo: Angelo Fraccacreta, il dolore di una
vita; Il teatro a San Severo, dal Real Borboni al Verdi; Appunti cronologici sulla
città di San Severo; San Severo nel Novecento.
Mi vorrei soffermare su qualche aspetto importante di alcune opere di
Giuliani, soprattutto quelle concernenti le indagini sull’ambiente sanseverese.
Egli rimane, fino a questo momento, il biografo ufficiale di un bravo scrittore, suo
conterraneo, Nino Casiglio. Personalmente ho letto la maggior parte dei romanzi e
sono convinto, come penso lo sia chi lo ha frequentato direttamente o solo attraverso
i libri, della grande cultura che egli possedeva e che, come i veri scrittori di razza,
la sanno trasferire nelle loro opere; per questo credo che non vada dimenticato
e che venga continuamente, se è possibile, rivalutato, con la ripubblicazione di
qualche suo romanzo o con altri lavori critici, tali da permettere una continuazione
e un impegno in senso rafforzativo del corpus letterario di Casiglio, soprattutto
in un’epoca, come la nostra, in cui i temi culturali soccombono, o addirittura
scompaiono di fronte al dio denaro e al relativo mito del consumismo; pertanto,
eccetto i nomi gloriosi della storia letteraria che trovano sempre spazio in ogni
collana e in ogni edizione, per gli altri pare non ci sia mai spazio: e certamente
anche Casiglio rientra in questa casistica, seppure in maniera immeritata.
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Panoramica storico-letteraria su Francesco Giuliani, italianista di San Severo
Giuliani, dicevo, resta finora l’unico studioso che abbia affrontato seriamente
un’analisi, attingendo alle fonti dirette e primigenie dei suoi romanzi, tutti pubblicati
da Case editrici nazionali, a partire da Il conservatore, ad Acqua e sale, La strada
Francesca e, l’ultimo, La dama forestiera del 1983.
Casiglio era uno scrittore, secondo Giuliani, che si chiedeva del perché delle
cose andando fino in fondo ai caratteri dei suoi personaggi e agli ambienti descritti
restando sempre attento a ricercare uomini veri, seppure apparentemente sconfitti
dai fatti e dalla storia, la quale non sempre conduce al bene e alla vittoria di una
società più equa ed umana. Per questo nell’ambito meridionale la sua è una voce
isolata e questo Giuliani lo conferma attraverso una attenta disamina del pensiero
e della produzione letteraria da cui si ricavano le note qualità artistiche della sua
eredità di uomo e di scrittore.
Precedente alla raccolta di saggi che voglio riportare, Giuliani, sempre nella
stessa Collana diretta da Benito Mundi per conto delle Edizioni del Rosone di
Foggia, ha pubblicato un altro volumi di studi intitolato Viaggi letterari nella
pianura La pubblicazione dei Viaggi letterari precede di due anni quella delle
Occasioni letterarie: la prima del 2002 e la seconda del 2004. Ma c’è un unico
filo conduttore in entrambe le opere: gli intellettuali pugliesi e il loro rapporto
con la letteratura e gli scrittori nazionali. La pianura, naturalmente, è il Tavoliere
delle Puglie con le sue sfaccettature antropologiche e geografiche, non solo come
ricchezza dei terreni, ma anche come carrefour di romei e di pastori di un tempo e
oggi di industria alimentare e di turismo. E per tutto il Novecento essa ha costituito
un punto di incontro tra le diverse componenti sociali, ma soprattutto culturali:
si badi che il centro dello storicismo politico-filosofico era situato nella nostra
Regione, cioè a Bari, presso l’Editore Laterza dove Benedetto Croce aveva la sua
fucina di pensiero, oltre che la sua Collana editoriale di Filosofia. La Puglia, quindi,
nella prima metà del secolo, è un crocevia di sapere e di saperi.
Ma insieme a Croce anche intellettuali di prim’ordine incontrano sulla loro
strada la vita intellettuale di provincia, ma protesa verso grandi ideali culturali e
ideologici; ci riferiamo a Francesco De Sanctis, autore della magnifica Storia della Letteratura italiana, che incrocia le terre del Tavoliere, San Severo compresa,
essendo deputato di quel Collegio dal 1866 al 1875. Questo viaggio culturale di
Giuliani ha una lunghezza storica di più di un secolo, in quanto altri intellettuali
appaiono nel panorama delle terre di Capitanata, a partire da Umberto Fraccacreta
prima, per proseguire con il noto poeta futurista Mario Carli; per terminare il cammino nella seconda metà del Novecento con altre figure di rilievo, ossia Vittorio
Marchesi prima ed Emanuele Italia dopo. Di quest’ultimo, oriundo delle Marche,
ma trasferito per motivi di lavoro a San Severo, Giuliani riesce a trovare degli addentellati tra i luoghi di origine del poeta e scrittore e il paese di elezione, cioè San
Severo.
Riguardo invece al volume di Occasioni letterarie, vorrei soffermarmi, seppur
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Leonardo P. Aucello
brevemente, sui due saggi su Pasquale Soccio, di cui il sottoscritto ha avuto l’onore
di essere stato, immeritatamente, uno degli ultimi allievi a cui il professor Soccio ha
prestato la sua intelligenza, la sua cultura, il suo affetto paterno. Giuliani analizza in
maniera precisa e completa due volume di Pasquale Soccio: Gargano segreto nelle
sue varie edizioni, a partire dalla prima del 1965 che gli è valsa la vittoria al Premio
“Gargano” di quell’anno, fino all’edizione di lusso del 2000 voluta dalla Comunità
montana del Gargano e Incontri memorabili, l’opera postuma curata da Benito
Mundi, che narra in prima persona gli incontri e le amicizie con i grandi artisti e
intellettuali di fama nazionale e internazionale, e che hanno fatto di Soccio una
figura nitida ed emblematica dell’intero panorama culturale pugliese, ma anche,
oserei dire, meridionale.
Per ciò che concerne Gargano segreto Giuliani riesce a offrire un’indagine
completa dei motivi ispiratori del testo socciano; con l’aggiunta di nuovi capitoli
(di cui il sottoscritto è stato colui al quale lo scrittore ha dettato interi paragrafi),
frutto di una visione moderna e diversa della natura contaminata di larga parte del
Promontorio. Giuliani dà una visione completa di questo libro con le sue sfumature
di stile rondista e di approccio verso i luoghi, l’ambiente e le tradizioni intorno ai
quali si muove l’ispirazione di Soccio. L’autore, quindi, sa dare compattezza alla
materia analizzata attraverso le molteplici sfaccettature che la caratterizzano, con
lo sguardo sempre di chi ha un segreto intendimento: quello di riuscire a creare
un vero e proprio connubio tra arte, critica stilistica e ispirazione, a cui il libro di
Soccio non si sottrae; ma sempre con l’intento di trovare dei punti di riferimento
con il territorio descritto.
Quel che voglio aggiungere riguardo allo stile sobrio e dettagliato, adottato
da Giuliani nelle opere summenzionate, posso dire che egli, attraverso lo scavo
di notizie e informazioni, le più pertinenti, come avviene in alcune pagine, sonda
l’animo degli scrittori con un linguaggio esso stesso poetico in cui non si scorge più
l’indagine critica ma il delinearsi di una vera e propria narrazione nella narrazione.
E l’autore di questi aspetti è in grado di scandire le movenze dell’animo e dei sentimenti più reconditi.
Non so se Giuliani conosca la raccolta di Saggi del giornalista-scrittore del
Corriere della Sera, Giovanni Russo, Baroni e contadini, pubblicata la prima volta
nel 1955 presso l’Editore Laterza di Bari. Ebbene, uno dei capitoli di quel libro
porta il titolo Le bandiere di San Severo e racconta di una sua visita agli inizi degli
anni ‘50 nella città pugliese, che già allora, come riferisce l’autore, contava ben
cinquantamila abitanti. Giovanni Russo arriva a San Severo in estate, in uno di quei
giorni torridi, verso mezzogiorno inoltrato, nei roventi minuti di “un meriggiare
pallido e assorto”, per dirla con Montale, e scopre una città placida e assolata dalla
contr’ora, come sogliono dire i sanseveresi, con i braccianti raccolti a capannello
davanti alla camera del lavoro, dove è ubicata tuttora, verso l’exmercato rionale
della frutta, i quali si godono la calura estiva a chiacchierare sulla vita politica locale
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Panoramica storico-letteraria su Francesco Giuliani, italianista di San Severo
e i guadagni dei frutti della terra produttiva circostante. Russo incontra anche
alcuni notabili ed amministratori locali e da questa descrizione viene fuori un vero
spaccato socio-antropologico di prima mano a cui gli studiosi di oggi dovrebbero,
in un certo qual modo, attingere. Per esempio, nell’antologia curata da Davide
Grittani, Verso Sud, per conto dell’Amministrazione provinciale di Foggia, presso
Grenzi Editore, non compare questo bel saggio di Giovanni Russo, e né l’altro sugli
Ebrei di Sannicandro Garganico, mentre è riportata una pagina dal sapore amaro di
Andrea Pazienza, oriundo di San Severo, geniale disegnatore, che ha rivoluzionato
il fumetto italiano, personaggio singolare su cui è stato girato un film.
Viene allora da chiedersi, per concludere il mio discorso, seppure da persona
esterna, qual è la differenza tra i due aspetti storici dalla San Severo di allora a quella
di adesso? Certamente, a mio modesto avviso, c’è un gran salto in avanti dagli
anni cinquanta ad oggi. San Severo, attualmente, continua ad essere una città viva
culturalmente, socialmente ed economicamente. Ha avuto per alcuni anni, fino alla
Riforma universitaria del ministro Gelmini, la sede staccata della Facoltà di Agraria
di Foggia, oltre a un bel teatro con una stagione lirica apprezzabile. Conserva dei
musei storici e preistorici molto forniti come reperti; una ricca produzione di olio
e vino, di quest’ultimo è famoso, per restare nell’ambito enologico, “il bianco” di
San Severo.
Anche dal punto di vista culturale ci sono tuttora dei fermenti, a partire
dalla Società di Storia Patria alla sezione dell’Archeo Club d’Italia che da anni si
fa promotrice di convegni preistorici, protostorici e storici della Daunia; oltre a
ben due quotidiani che riguardano solo la cronaca e le notizie di San Severo e una
emittente televisiva locale.
Ma San Severo si porta dietro anche tutte le magagne della società odierna,
soprattutto del Sud, con una criminalità delle più organizzate del territorio di
Capitanata, soprattutto nello spaccio di droga, essendo la città, a motivo dello
scalo ferroviario e del transito della statale 16 e dell’autostrada 14, un punto di
traffico dal Nord al Sud di corrieri della droga; oltre al racket della prostituzione
e delle tangenti. Tutto questo sembra far diminuire l’importanza di questo centro
agricolo preminente. Ma San Severo resta sempre e comunque un vivo, attivo e
sano ambiente produttivo, civile e culturale. E la presentazione del profilo analitico
del critico letterario Francesco Giuliani ne è la prova indiscussa di tutto quanto
abbiamo constatato e riferito.
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Gli autori
Gli autori
Federico Andornino si è laureato in Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Siena con una tesi sulla caratterizzazione linguistica dei personaggi
dell’Inferno dantesco e la Lagersprache utilizzata nelle opere di Primo Levi. Ha
conseguito la Laurea Magistrale in Lingua e Letteratura Italiana presso l’Università di Pisa con una tesi dal titolo Realtà e finzione nella Commedia (relatore il prof.
Marco Santagata) ed è diplomato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Nel
2011 ha ricevuto un Master of Arts with Distinction in Editoria dall’University
College of London. Ha collaborato con la rivista di Letteratura italiana “Per leggere”, da cui è tratto lo scritto pubblicato. Lavora come Junior Editor per la narrativa
straniera presso la casa editrice Rizzoli. Leonardo P. Aucello è nato e vive a San Marco in Lamis, sul Gargano. Insegna
Lettere nelle scuole superiori. Coltiva da anni la passione per la poesia dialettale
con la pubblicazione di alcune raccolte di poesie in vernacolo garganico, tra cui
L’occhie mariole (Levante Editori, Bari, 2005). Ha pubblicato, inoltre, alcuni volumi sulla cultura e la tradizione popolare del Gargano, come Il Palio delle messi
(Levante Editori, Bari, 1998); Il bracciante e il latifondista (Levante Editori, Bari,
2002). Alcuni suoi Saggi sono apparsi su alcune riviste specializzate. Di recente ha
dato alle stampe il volume La donna dei piccioni – Racconti, incontri pubblici, testimonianze, articoli, recensioni e ricordi 2004-2007 (Edizioni Starale 3, San Marco
in Lamis, 2008). È iscritto da oltre venti anni all’Ordine dei Giornalisti-Pubblicisti
con un ampio ventaglio di articoli di varia natura su riviste e giornali locali e regionali.
Mario Cassar, nato a Malta nel 1962. È un docente al Junior College dell’Università di Malta. Ha pubblicato diversi saggi e studi sulla lingua, letteratura e onomastica maltese. Il suoi libri più importanti fino ad oggi sono The Surnames of the
Maltese Islands: An Etymological Dictionary [I cognomi delle isole maltesi: un dizionario etimologico] (Malta, 2003) e L’ultima città musulmana: Lucera (co-autore
con Giuseppe Staccioli, Bari, 2012). Recentemente ha conseguito il Ph.D. con la
tesi dottorale dal titolo ‘Maltese Surnames: The Italian and Sicilian Connections’
[‘Cognomi maltesi: le connessioni italiane e siciliane’]. È membro dell’Accademia
Maltese e dell’ ICOS (International Council of Onomastic Sciences).
Giacomo Cirsone, nato a Cerignola (FG) nel 1982. Consegue la Laurea
Specialistica di II Livello in Archeologia presso l’Università degli Studi di Roma
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Gli autori
“Tor Vergata”. Attualmente frequenta i corsi della Scuola di Specializzazione in
Beni Archeologici, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Tra
il 2002 ed il 2005, ha preso parte a numerose campagne di scavo e ricognizioni
sul territorio con l’Università di Foggia; ha seguito inoltre numerosi cantieri
archeologici d’emergenza nell’ambito dell’area urbana di Roma, ed in Basilicata
ha diretto tra il 2008 ed il 2009 il cantiere di scavo tardomedievale nella Chiesa
Madre “S. Maria Assunta” a Laurenzana (Pz). Ha pubblicato: Indagini
archeologiche nella Chiesa Madre “S. Maria Assunta in Laurenzana (PZ).
Relazione di Scavo, 2010; Addendum. Intervento 2009, 2010 (on line sul sito
www.archeologiamedievale.it).
Sergio D’Amaro collabora a varie riviste e al quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ha scritto saggi storico-letterari, libri di poesia, inchieste e racconti
ispirati ai “vinti” del Sud. Suoi testi sono inseriti in antologie anche all’estero. È
autore, con Gigliola De Donato, della biografia di Carlo Levi Un torinese del Sud
(Baldini Castoldi Dalai 20052). Tra i suoi titoli: Il ponte di Heidelberg (1990), Beatles (2004), Terra dei passati destini (2005), Fotografie e altre istantanee (2008), 20th
Century Vox (2009), Romanzo meridionale (2010). È promotore e corresponsabile
di due centri studio sulla storia e la letteratura delle migrazioni, per i quali dirige
la rivista “Frontiere”.
Paolo De Caro «Ludere pro eludere: alcune agnizioni e qualche ipotesi a rischio
per il cosiddetto «Diario postumo» di Eugenio Montale, «Annuario della Fondazione Schlesinger», Lugano, [novembre] 1994, pp. 91-221; «Journey to Irma. Una approssimazione all’ispiratrice americana di Eugenio Montale. Parte prima: Irma, un
“romanzo”, Foggia, De Meo, 1996 (Premio “Ossi di seppia”, Monterosso al mare,
1997). Nuova edizione accresciuta: Foggia, De Meo, 1999; “Irma politica: l’ispiratrice di Eugenio Montale dall’americanismo all’antifascismo”, Foggia, Renzulli,
2001; “Invenzioni di ricordi. Vite in poesia di tre ispiratrici montaliane”, Foggia,
Centro Grafico Francescano, 2007 (Premio Parchi letterari, Fondazione “Ippolito
e Stanislao Nievo”, Monterosso al mare, 2008). Quel giorno «troppo folto» di Montale. Una lettura di “Eastbourne”, Foggia, Koine Comunicazione, 2011.
Pasquale di Cicco (Maddaloni, 1930) ha diretto l’Archivio di Stato di Foggia e la
sezione di Archivio di Stato di Lucera dal 1959 al 1994.
È autore di molte pubblicazioni. Tra i suoi ultimi lavori: Il Molise e la transumanza;
La Reale Società Economica di Capitanata (con Isabella di Cicco); I Consigli
provinciali e distrettuali di Capitanata (con Tiziana di Cicco); Il Giornale Patrio
Villani (1801-1860); Il Libro Rosso di Foggia; La lettera di cambio nel sistema
creditizio molisano (secc. XVIII-XIX).
Grazia Stella Elia è nata a Trinitapoli (Foggia). Ha insegnato per molti anni,
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Gli autori
trasmettendo ai suoi alunni l’amore per la poesia e il teatro. Si è impegnata, sin
da giovanissima, nello studio del suo dialetto (“casalino”). Ha operato nel campo della cultura, organizzando convegni ed incontri. Nel 1995 ha rappresentato
l’Italia partecipando al XXXII International Meeting of Writers di Belgrado con
la relazione sul tema Una preghiera per il XXI secolo. Ha diretto i Corsi dell’Università della terza età (UNITRE). È presente, con versi sia in lingua che in dialetto,
in varie antologie. Suoi componimenti sono stati tradotti in lingua serbo – croata.
Collabora con saggi, articoli e recensioni a vari giornali e riviste.
Michele Galante, nato a San Marco in Lamis, vive attualmente a Foggia. Ha
svolto per molti anni una intensa attività politica come dirigente provinciale e
regionale del Pci, Pds e Ds, ricoprendo diversi incarichi pubblici: consigliere
comunale, consigliere provinciale, sindaco di San Marco in Lamis e deputato al
Parlamento nella X Legislatura. È autore di diversi pubblicazioni tra le quali:
Criminalità e illegalità in capitanata (1992), Parco nazionale del Gargano. Il difficile avvio (1996), L’eccidio ignorato. San marco in Lamis: 8 marzo 1905 (2000),
Le belle bandiere (2002), Bibliografia degli iscritti di/su Pasquale Soccio (2004),
Il filo rosso di Puglia. Ritratti di Capitanata (2007), Dalla Repubblica all’assassinio Moro. Storia elettorale di capitanata (2009). Insieme con la sorella Grazia ha
pubblicato il Dizionario del dialetto di San Marco in Lamis (2006).
Ha inoltre al suo attivo numerosi saggi sulla storia dei partiti politici in Capitanata e sul brigantaggio.
Michele Orlando dedica i suoi studi alla civiltà e alle tradizioni letterarie dell’umanesimo e del rinascimento, con particolare attenzione alla storiografi a meridionale. Dottore di ricerca in Italianistica, insegna attualmente materie letterarie in una
scuola media secondaria di primo grado. È autore di diversi saggi. Insieme a Pio
Pagliaro (presidente della Globalenergia di Cerignola) ha ideato e realizzato una
tavola rotonda sul tema “Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione
territoriale della sostenibilità”, tenutosi a Vieste a marzo 2008, con il proposito di
indagare il campo delle energie rinnovabili e del risparmio energetico e affrontare
con una prospettiva politica, cioè nel senso di una prospettiva propriamente civile
e urbana, la questione ambientale legata agli ambienti cittadini, il delicato rapporto
tra energia e ricchezza.
Luigi Paglia ha insegnato Letteratura italiana contemporanea, Teoria e prassi
dell’intertestualità, Laboratorio di Scrittura e Informatica per la Letteratura nella
Facoltà di Lettere dell’Università di Foggia. Ha pubblicato in volume: Invito alla
lettura di Marinetti (Mursia, 1977); Poeti in Puglia, in Inchiesta sulla poesia (Bastogi, 1979); Luzi, in Poesia italiana del Novecento (Editori Riuniti, 1993); Ungaretti,
in Letteratura italiana ed utopia (Editori Riuniti, 1995); L’urlo e lo stupore. Lettura
di Ungaretti. L’Allegria (Le Monnier, 2003); Il viaggio ungarettiano nel tempo e
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Gli autori
nello spazio (Grenzi, 2005); Il grido e l’ultragrido. Lettura di Ungaretti (Mondadori, 2009); La scrittura e l’immagine (FBM, 2012) e la voce Marinetti, nel Dizionario
biografico della Treccani (2008), oltre a numerosi “libri d’artista”. Suoi saggi sono
apparsi in riviste italiane e straniere («Strumenti critici», «Lingua e Stile», «Annali dell’Università di Roma La Sapienza», «Critica letteraria», «Otto/Novecento»,
«Rivista della Letteratura Italiana”, «Nuova Antologia», “Rapporti», di cui è stato
membro della direzione, «Paragone», «Giornale storico della letteratura italiana»,
«La nuova ricerca», «Misure critiche», «Forum italicum», «Italica») su Dante, T.S.
Eliot, Grass, Ungaretti, Luzi, Pirandello, Betti, le metodologie critiche. Ha, inoltre, curato il volume Novecento per la Società Dante Alighieri (2003).
Nunziata Quitadamo si è laureata in Lettere Classiche presso l’Università degli
Studi di Bari, è stata titolare di materie letterarie e latino negli Istituti superiori di
secondo grado. Presidente del Distretto Scolastico di Manfredonia dal 1994 in poi,
ha pubblicato diversi articoli di ispirazione sociale. Dal 2003 in poi ha insegnato
presso l’Accademia “P.Pio” materie di studio riguardanti la Storia della Sociologia
e Psicologia anche in relazione ai disabili. Si è resa promotrice della pubblicazione
dei seguenti libri: Guida Universitaria (29 Distretto Scolastico di Manfredonia,
1995 e 1996), Siponto e Manfredonia nella Daunia (Atti del V Convegno di Studi
in Collaborazione col Comune e la Società di Soria Patria per la Puglia), Luci del
sud (Festa della poesia, 1999), Atti ed esperienze del Consiglio Scolastico Distrettuale dal 1985 al 2002, Ditte e scritte (Sentieri Meridiani Edizioni, Foggia, 2009)
con prefazione di Ugo Vignuzzi e postazione di Cristanziano Serricchio, è in corso di pubblicazione un libro di racconti Acqua passéte. Attualmente commissario
regionale per la demologia e dialettologia e Socio ordinario della Società di Storia
Patria per la Puglia.
Cosma Siani insegna Lingua inglese all’università di Roma Tor Vergata. Ha
pubblicato testi per l’insegnamento dell’inglese con Zanichelli e La Nuova Italia.
È autore di volumi di interesse letterario italiano, italoamericano, e sulla poesia
dialettale, fra i quali la raccolta di recensioni Libri all’Indice e altri (2001), Le
lingue dell’altrove. Storia testi e bibliografia di Joseph Tusiani (2004), Jim Longhi.
Un italoamericano fra Woody Guthrie e Arthur Miller (2012), Un luogo in cui
vivere. Letture e scritture italoamericane (2012), I poeti della provincia di Roma.
Panorama e antologia (2012).
Ha dedicato varie pubblicazioni alla cultura pugliese. Fra queste, Microletteratura.
Scrittura e scrittori a San Marco in Lamis nel Gargano (1994), Poesia dialettale
del Gargano. Antologia minima (1996), Dialetto e poesia nel Gargano. Panorama
storico-bibliografico (2002), e i saggi Pasquale Soccio (2006), Gli autori pugliesi
all’estero (2009).
Collabora all’Indice dei libri del mese, Poesia, La Gazzetta del Mezzogiorno, e fa
parte della redazione del Journal of Italian Translation di New York.
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Gli autori
Matteo Siena, nato a S. Giovanni Rotondo il 31 maggio 1928, vive a Vieste dal
1955, dove ha svolto l’attività di insegnante elementare. Impegnato sempre in attività culturale, è stato Vice presidente della Pro Loco dal 1970 al 1976, fondatore
e primo Presidente del Centro di Cultura “Niccolò Cimaglia”; ha fatto parte del
C.N.R. per un quadriennio (1963-1966), quale ricercatore di storia locale; ha collaborato con l’equipe del pedagogista prof Guido Giugni dell’Università degli Studi
di Perugia nei Seminari di Studi organizzati a Siponto per i docenti di Lingua Italiana di Capodistria (Jugoslavia) sia per la conoscenza dei metodi di insegnamento
nelle scuole elementari che per la conoscenza storica della Puglia.
Tuttora è socio della Società di Storia Patria per la Puglia e ne ha ricoperto nel
quadriennio 1998-2002 la carica di Presidente della Sezione di Vieste. Collabora
con il settimanale «Il Faro» di Vieste, e con i periodici «Shalom», «Il Pirgiano», «Il
Gargano Nuovo». Ha scritto diversi saggi storici e ha conseguito anche premi e
menzioni in vari concorsi di poesia dialettale.
Giuseppe Staccioli è nato a Scandicci (Firenze) nel 1940 e ha seguito gli studi
fino all’Università laureandosi in Chimica. Come ricercatore al Consiglio Nazionale delle Ricerche si è occupato della materia prima “legno” approfondendone le
proprietà chimiche. Ha pubblicato diversi articoli sulle maggiori riviste del settore
quali «Holzforschung», «Holz als Roh-und Werkstoff», «Wood Science and Technology». Dopo la pensione ha iniziato a dedicarsi alla linguistica, interesse rimasto
in ombra, specializzandosi nell’arabistica. L’incontro con il maltese Mario Cassar
ha permesso di applicare il metodo onomastico allo studio dei Saraceni di Lucera.
In collaborazione è stato pubblicato nel 2006, sulla rivista «Symposia Melitensia», The Muslim Colony of Luceria Sarracenorum (Lucera): Life and Dispersion as
Outlined by Onomastic Evidence. Nell’anno 2012, sempre in collaborazione con
Mario Cassar, è stato pubblicato dall’editore Caratterimobili (BA) il volume L’ultima città musulmana: Lucera. È pressoché terminato un Dizionario dei cognomi
italiani di diretta origine araba o connessi con l’arabo.
Federica Elisabetta Triggiani, nata a Foggia nel 1982, ha conseguito la laurea
magistrale in Filologia moderna presso l’Università degli Studi di Foggia. La sua tesi
di Laurea è stata argomento di una Conversazione sugli inventari di patrimonio di
alcune famiglie foggiane del Settecento, organizzata dall’associazione Soroptimist
International di Foggia. Ha frequentato un corso di “Operatore di sostegno per
alunni disabili”, imparando la Lingua Internazionale dei Segni (LIS) e l’alfabeto
Braille. Ha inoltre conseguito un Master in “Didattica & Formazione: metodologie,
strategie e tecniche per la ricerca, l’insegnamento curriculare e di sostegno” presso
La Luspio, sede di Foggia, nel 2011. A marzo 2012 è stata convocata a Roma per
un corso professionalizzante come “Addetto Risorse Umane e amministrazione”
presso la Rebis srl.
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Finito di stampare nel mese di dicembre 2012
presso il Centro Grafico S.r.l.
1a trav. Via Manfredonia - 71121 Foggia
tel. 0881/728177 • fax 0881/722719
www.centrograficofoggia.it
L’energia utilizzata nel processo di lavorazione per la stampa di questo libro
proviene direttamente dal sole grazie all’impianto fotovoltaico installato sul tetto dello stabilimento
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