1 la Capitanata Rivista semestrale della Biblioteca Provinciale di Foggia Direttore: Franco Mercurio Segretaria di redazione: Doriana Scaramuzzi Redazione e amministrazione: «la Capitanata», viale Michelangelo 1, 71121 Foggia tel. 0881-791621; fax 0881-636881; e-mail: [email protected] «la Capitanata» è distribuita direttamente dalla Biblioteca Provinciale di Foggia. Per informazioni e per iscriversi alla lista delle persone e degli enti interessati rivolgersi a «la Capitanata», viale Michelangelo 1 71121 Foggia, tel. 0881-791621; fax 0881-636881; e-mail: [email protected] “La Magna Capitana” BIBLIOTECA PROVINCIALE DI FOGGIA è un servizio della Provincia di Foggia Presidente: Antonio Pepe Assessore alla cultura: Maria Elvira Consiglio Direttore: Franco Mercurio, [email protected] Authority catalografica e Reference: Gabriella Berardi, [email protected] Authority editoriale: Elena Infantini, [email protected] Authority logistica: Paolo Digianvittorio, [email protected] Consultazione, Emeroteca e ilDock: Enrica Fatigato, [email protected] Divulgazione e Narrativa: Annalisa Scillitani, scillitani @bibliotecaprovinciale.foggia.it Fondi antichi e speciali: Massimo Mazza, [email protected] Immagini e suoni: Franco Corbo, [email protected] Biblioteca dei Ragazzi: Milena Tancredi, [email protected] Erba curvata dal vento (… grano, canneti della costa o delle zone paludose…) e il terso cielo stellato sono elementi simbolicamente connotativi del nostro territorio. La dicitura A.D. 2000, insieme alla scritta ex-libris mutuata da Michele Vocino, rappresentano la volontà di tenere sempre presente il collegamento tra passato, presente e futuro senza soluzione di continuità. Questo ex-libris che d’ora in poi caratterizzerà i documenti posseduti dalla Biblioteca Provinciale, è stato per noi elaborato da “Red Hot - laboratorio di idee e comunicazione d’impresa” e da loro gentilmente donato. Red Hot: Gianluca Fiano, Saverio Mazzone, Andrea Pacilli e Lorenzo Trigiani. Manfredonia, a.d. 2000. _______________ la CAPITANATA RASSEGNA DI VITA E DI STUDI DELLA PROVINCIA DI FOGGIA _______________ 28 _______________ Aprile 2013 4 Indice Saggi p. Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia di Paolo De Caro Gli Statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541-1642) 9 61 di Pasquale di Cicco 113 di Giacomo Cirsone 135 183 I Saraceni medievali delle località minori della Capitanata di Giuseppe Staccioli e Mario Cassar 223 Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865 di Matteo Siena 199 Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità di Michele Orlando Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) di Federica Elisabetta Triggiani 175 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) Una lettera di Sandro Pertini ad Anna Matera di Michele Galante 5 p. 231 Cristanziano Serricchio sessantenne della poesia di Cosma Siani 237 In memoria dei nostri Cristanziano Serricchio, messaggero di poesia di Sergio D’Amaro 239 Cristanziano Serricchio. L’impegno civile e sociale di Nunziata Quitadamo 243La poesia civile e di denuncia in un poemetto di Serricchio di Luigi Paglia Recensioni Luigi Paglia, Il grido e l’ultragrido. Lettura di Ungaretti 251 di Federico Andornino 255 La ricerca linguistica e lo scavo interiore nella poesia di Francesco Granatiero di Grazia Stella Elia 259 Panoramica storico-letteraria su Francesco Giuliani, italianista di San Severo di Leonardo P. Aucello Gli autori 6 Saggi Paolo De Caro Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia di Paolo De Caro 1. La Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia conserva un prezioso esemplare delle Operette morali di Giacomo Leopardi, o, per dir meglio, delle cosiddette Prose, nell’edizione in 16.mo pubblicata a Napoli con la data 1835. Converrà chiarire che durante la seconda metà del 1836, nel tentativo di sfuggire alla censura del Regno, l’editore e libraio napoletano Saverio Starita, pur mantenendo la data dell’anno precedente, sostituì il titolo originale Operette morali /… / volume I con il titolo di comodo Prose. Ma l’accorgimento servì a ben poco: l’edizione non proseguì oltre quell’unico volume. L’esemplare di queste Prose [Operette morali, I] della “Magna Capitana” si presenta legato insieme con una copia dei Canti Starita 1835, formando un solo libro, sul cui dorso è impresso: LEOPARDI / RIME / E / PROSE, con un effetto di leggero disorientamento nel lettore odierno. Ma la preziosità del libro si deve eminentemente al fatto che sulle sue pagine sono riscontrabili numerose correzioni a penna – di mano, indubbiamente, dell’Autore – che avvicinano l’esemplare di Foggia, qui indicato con la sigla ipotetica e funzionale FGc, ad un altro esemplare, di assoluto riferimento storico-filologico: quello conservato a Napoli nelle Carte Leopardiane della Sezione manoscritti della Biblioteca nazionale “Vittorio Emanuele III”. Questa copia delle Operette staritiane, che si presenta priva di coperta e con i semplici fascicoli ricuciti a mala pena sul dorso, contiene correzioni, aggiunte e varianti autografe di Leopardi, e viene indicata nelle edizioni critiche Moroncini (1929) e Besomi (1979) con la sigla Nc. Dei Canti e delle Operette morali di Nc è stata edita una riproduzione in fac-simile dall’editore Marotta di Napoli nel 1967. Per i Canti, dopo l’edizione critica Moroncini del 1927, è ora disponibile quella curata da Emilio Peruzzi, pubblicata da Rizzoli nel 1981 e poi ripubblicata nel 1998 nella BUR, in una nuova edizione riveduta e ampliata. Le Operette morali Starita 1835, per le vicende editoriali cui andò incontro, a cominciare dalle avventurose emissioni del frontespizio, possono classificarsi fra 9 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia le rarità bibliografiche. Attualmente il Sistema Bibliotecario Nazionale registra in complesso (Operette o Prose) una ventina di testimoni, molti dei quali sono stati da noi direttamente consultati o esaminati in riproduzione. Ad eccezione di quattro, che recano il titolo Operette morali (e che qui sotto si segnalano con asterisco [*]), i restanti recano il titolo Prose. La proporzione segnala in generale, nel risultato delle contingenze esterne e della distribuzione geografica, la fortuna dell’edizione nelle due (ma effettivamente tre, come si vedrà) emissioni dell’edizione. L’elenco provvisorio è il seguente: 1) 2) 3) 4) Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino*, Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti-Volpi” di Bari, Biblioteca di Casa Carducci di Bologna, Biblioteca del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università degli studi di Bologna, 5) Biblioteca Comunale “Ruggero Borghi” di Lucera (Foggia), 6) Biblioteca Didattica di Ateneo dell’Università degli Studi di Macerata, 7) Biblioteca Pubblica Statale annessa al Monumento nazionale di Montevergine di Mercogliano (Avellino), 8) Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano*, 9) Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano, 10)Biblioteca delle Facoltà di Giurisprudenza e di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, 11)Biblioteca di Scienze dell’antichità e filologia moderna di Milano, 12)Biblioteca e Archivio del Museo del Risorgimento. Civiche Raccolte Storiche di Milano, 12)Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli*, 14)Biblioteca universitaria Alessandrina di Roma, 15)Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma, 16)Biblioteca dell’Archivio di Stato di Salerno*, 17)Biblioteca “Federico Patetta” del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Torino, 18)Biblioteca storica della Provincia di Torino. Non possiamo escludere, infatti, che altre copie del libro (tralasciando le sedi straniere: per esempio, la Biblioteca di Halle) possano rintracciarsi presso biblioteche, pubbliche e private, non menzionate nel catalogo elettronico nazionale OPAC SBN. Così anche FGc, la copia corretta di Foggia, che reca il titolo Prose, è registrata nel catalogo elettronico della “Magna Capitana”, ma non nel catalogo elettronico nazionale. Oppure, per fare un altro esempio: una copia non registrata, col titolo Operette morali, si trova a Recanati presso la Biblioteca del Centro Nazionale Studi Leopardiani. (Monaldo Leopardi, che era, com’è noto, di radicati convincimenti clericali e legittimisti, letto che ebbe le Operette nell’edizione Piatti 10 Paolo De Caro 1834, suggerì al figlio «correzioni» di contenuto [in una lettera, ora mancante, del 13 ottobre 1835: cfr. Ep.1918], – forse, vogliamo credere, più per proteggerlo dalle rivalse della Curia romana e dal pericolo d’inclusione del libro nell’Indice ecclesiastico, come poi puntualmente avvenne [nel 1850, donec emendantur: «perché improntate in più luoghi di funesto scetticismo, e fatalismo il più desolante»], che per il suo personale dissenso politico-teologico con Giacomo, ormai non più recuperabile.) Accordatosi con l’autore nel maggio, nel giugno del 1835 l’editore Starita aveva annunciato in un suo “manifesto” il piano di pubblicazione delle Opere leopardiane. Esso consisteva «in non meno che sei volumi, il 1° de’ quali avrebbe contenuto le Poesie, corrette ed accresciute meglio che di un terzo [rispetto all’edizione Piatti di Firenze del 1831]; il 2° e 3° le Operette morali, anche corrette e accresciute [rispetto all’edizione Piatti del 1834]; il 4°, il 5° e il 6° e forse un 7° di produzioni inedite, ed alcune ancora, che, quantunque stampate, non era pertanto agevole più di avere». Il 9 luglio il libraio firmava un contratto che stabiliva un compenso al Leopardi di cinque ducati per foglio di stampa (cfr. Giuliano, 237-238). Ma in seguito, come sembra di capire, l’impegno venne eluso, suscitando le ire del poeta. Dei volumi previsti, dunque, Starita, l’«infame negoziante», non riuscì a stamparne che due: – il primo, i Canti, uscì verso la fine del settembre di quell’anno (v. lettera a Karl Bunsen del 26 settembre 1835, Ep., 1914). Era arricchito del ciclo di Aspasia, delle “sepolcrali” e della Palinodia, oltre che dei frammenti, e delle imitazioni e traduzioni; conteneva cioè tutto il libro poetico che leggiamo ora, ad esclusione del Tramonto della luna e della Ginestra che, scritte nell’anno successivo (1836), furono pubblicate postume a cura di Antonio Ranieri nei Canti Le Monnier 1845; – il secondo, le Operette morali, Volume I, fu pubblicato sempre con la data 1835, ma uscì effettivamente dalle stampe verso la metà del gennaio 1836 (cfr. lettera a Louis de Sinner del 25 gennaio 1836, Ep. 1922). In esteso, sul frontespizio, si leggeva: OPERETTE MORALI DI GIACOMO LEOPARDI. TERZA EDIZIONE CORRETTA, ED ACCRESCIUTA DI OPERETTE NON PIÙ STAMPATE. VOLUME I. NAPOLI, PRESSO SAVERIO STARITA Strada Quercia n. 14, e Strada Toledo n. 50. – 1835. Si trattava in realtà del primo tomo, dei due previsti da destinare alle Operette morali, contenente le prime tredici operette, dalla Storia del genere umano fino 11 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia a Il Parini, ovvero della gloria, con un solo cambiamento sostanziale, rispetto alla precedente edizione fiorentina del 1834, dovuto all’espunzione del Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio. Il piano editoriale delle Opere – un evento nella carriera letteraria di Leopardi (cfr. D. De Robertis, p. 336) – era liquidato; ma la censura, bloccando la diffusione delle Operette, non poteva sapere che la mente dell’autore era già oltre quel capolavoro. Leopardi, che comunque si mostrava sensibilissimo alle osservazioni critiche che si facevano sulla sua opera, almeno dall’ultimo, tumultuoso, anno fiorentino (1832), posto termine alle invenzioni delle Operette e alle annotazioni dello Zibaldone, si era adoperato, per l’evoluzione stessa del suo pensiero filosofico, ad affidare a un contenuto socio-politico più articolato e “presente” una materia, soprattutto soggettivo-sentimentale, che rischiava di entrare nel consumo di una maniera “romantica”. Riconosceva nel 1835 a Bunsen: «Voi avete ragione che nelle mie prose la malinconia è forse eccessiva…» (16 settembre, Ep. 1914). Leopardi, tuttavia, si poteva concedere queste ammissioni perché a quel tempo, come Giordani seppe giustamente individuare, dal vecchio autore era già spuntato uno scrittore imprevisto. Era un «nuovo poeta e diverso, non però minore di stesso», nonostante le perplessità che avrebbe suscitato nei suoi lettori, e anche in chi, pur ammirandolo, ma rimanendo prigioniero d’un modello di scrittura e della gerarchia dei generi letterari, si stupiva su «comment cet homme profond avait pu terminer par la satire» (Sinner, ma cfr. Savarese, pp. 60-62). 2. Sull’edizione Starita delle Operette morali, volume I (ma vol. II delle Opere), confermando un giudizio sul loro autore, che si era ormai consolidato nell’opinione sia dei legittimisti sia dei moderati cattolico-liberali italiani, si abbatté la censura borbonica, la quale ostacolò la diffusione dei pubblicati Canti, bloccò la stampa del secondo tomo delle Operette, impedì la vendita e sequestrò le copie del primo. Per quanto il volume dei Canti fosse uscito indenne dall’esame del Regio Revisore, già molti lettori avevano arguito, specialmente nelle nuove poesie, «un non so che di ateismo e peggio ancora, quando, nel supporre una divinità, [Leopardi] la suppone malefica e che gode di tormentar gli uomini» (a scriverlo era il letterato siciliano Tommaso Gargallo, cfr. Giuliano, p. 244). Il giudizio gravò, a maggior ragione, sulle Operette – a partire dalla Storia del genere umano, che le apre, fino alla loro sostanziale conclusione, antiumanistica, «suggello cosmico materialistico» (Blasucci), del Dialogo della Natura e di un Islandese, ambedue comprese nel Volume I – e ne precluse la prosecuzione nella stampa. Questo duro condizionamento, messo in atto dalla polizia del regno ferdinandeo, ma promosso e sostenuto dalla nunziatura pontificia di piazza Carità 12 Paolo De Caro (che Giacomo ben conosceva), doveva (e deve ancor oggi nella riflessione storica) misurarsi sia nei suoi aspetti politici che in quelli filosofico-religiosi e artistici con la gracilità degli ideali politici, la pavidità morale e, in generale, il conformismo culturale unito a un pigro ritardo estetico della società letteraria partenopea del tempo. In una tale situazione la censura si ergeva preventivamente a sanzione critica e indicazione ideologica, senza che la gran parte degli intellettuali della capitale borbonica se ne sentisse davvero coinvolta. Leopardi, non camminava col secolo (cfr. Giordani, p. 204, e v. Palinodia, vv. 235-239), anzi ad esso, disprezzandolo, «increbbe» (come dice il poeta nella Ginestra); cosicché pochi furono disposti a condividere o almeno a comprendere le motivazioni profonde della sua riflessione, ivi incluso quel che pensava della storia e della politica. In un famoso giudizio del Gesuita moderno (1847), Gioberti osservò che in quel «libro terribile» che sono i Paralipomeni della Batracomiomachia, Leopardi derideva «i desideri, i sogni, i tentativi politici degl’Italiani con un’ironia amara, che squarcia il cuore, ma che è giustissima». Ad impedire il consenso dei circoli culturali di Napoli concorrevano altri pregiudizi di contorno. La fama narrava di un Leopardi amico dell’anticlericale e bonapartista Pietro Giordani; oppure del repubblicano prima, murattiano poi, e infine costituzionalista Pietro Colletta; e in ultimo, dall’ottobre del ’33, di un Leopardi sodale con un giovane liberale del giro di Carlo Troya, quell’Antonio Ranieri che, mandato all’estero per i suoi trascorsi antiborbonici, ne era tornato dando ospitalità al poeta. Ranieri apparteneva «allo sparuto manipolo degli storici cosiddetti neoghibellini» (Sansone, p. 357), era autore di una Storia del Regno di Napoli in via di stesura e, negli anni fra il 1835 e il 1837, era scrittore di un romanzo a tinte forti, Ginevra o l’orfana della Nunziata (1836-1839); un romanzo di tendenze realistico-romantiche, da cui gli storici della letteratura fanno derivare l’ipotesi che le sue descrizioni sociologiche (del basso clero, o della plebe napoletana, per dire) abbiano avuto un qualche influsso sull’estrema produzione leopardiana. La rosea raffigurazione degli anni Trenta dell’Ottocento partenopeo, che traspare dagli Aneddoti crociani o dalla Napoli romantica di Cione, dà per scontato che colui che si esponeva in quegli anni al giudizio della pubblica opinione sottostava pur sempre alla regola de deo parum, de principe nihil vigente nei regimi assoluti. Leopardi doveva dunque fare i conti con una Napoli che, nonostante la sua apparente vivacità culturale, il pullulare di riviste gazzette e fogli, i teatri sia colti che popolari, i caffè letterari, i circoli e i salotti culturali, il continuo sciamare di artisti, scrittori e visitatori stranieri, viveva, oltre che nell’impercettibile rimodellamento della sua profonda realtà antropologica (alla cui osservazione il poeta era per giovanile formazione particolarmente attratto), una stagione di disincanto politico e di dispersione ideologica. Era per Leopardi un inquietante elemento di riflessione, adombrato in quegli anni nel XXXV dei suoi Pensieri, dove Napoli è considerata come esempio significativo dei «luoghi tra civili e barbari». 13 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Secondo Damiani, Leopardi aveva ancora in mente la Corinne. Anche lui era arrivato «au milieu de cette immense population qui est si animée et si oisive tout à la fois», dove si scopriva l’«état sauvage… mêlé avec la civilisation», dove «milliers de Lazzaroni… passent leur vie [dans] une grotte sous terre», dove «paresse» e «ignorance», «ferocité» e «passions excitées» si combinavano «avec l’air vulcanique qu’on respire». E tuttavia niente impediva di immaginare che anche qui potesse sorgere un «gouvernement très indipéndent et très actif… si – aggiungeva però la scrittrice – ses institutions politiques et religieuses étaient bonnes» (XI, II). Nei riguardi di quest’ultima ipotesi, il riecheggiante fascino di Madame de Staël, come il perdurante confronto classicistico fra antichi e moderni, natura e ragione ecc., temo si stessero spegnendo per gli effetti dello scenario umano, sociale, politico e storico che, a conferma di un’implacabile visione del mondo, si apriva davanti agli occhi del poeta. La sua poetica si era evoluta, andando ancor oltre le Operette, oltre la metafisica negativa della natura come male, in prosecuzione di un «diagramma ideologico» ormai delineato (Blasucci, p. 222), e s’inverava in un’insopprimibile esigenza al racconto mitico-storico che, in nuce nelle Operette, ora prendeva a distendersi in un canto più maturo e prosastico. Leopardi sta raggiungendo nuovi equilibri narrativi. In uscita dalle argomentazioni del “vero”, forza e protrae la durata dell’ècfrasi; oppure porta alla massima esposizione possibile la prodigiosa memoria orale dell’arcatura sintattica: Leopardi detta! Oppure, negli exempla, realistici o fantastici che siano, ritrae il vano movimento della vita e gli effimeri eventi della storia, messi a confronto con l’imperscrutabile inutilità dell’esistenza, con il trionfo della morte e l’eternità della materia. Tali ci appaiono la Ginestra e il Vesuvio, il Volo di Leccafondi e la Città dei topi estinti. «Non una parodia, ma un’allegoria», come chiosava Giordani (1839, p. 296). Quale distanza con i letterati napoletani! Nella famosa lettera a Fanny Targioni Tozzetti del 5 dicembre 1831 (v. Ep. 1686: «…Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici…»), la dichiarazione antipolitica sostanzia di un asserto filosofico-esperienziale il “passaggio grigio” fra una delusione storica (la sconfitta del movimenti insurrezionali e settari) e una nuova fase di elaborazione politica (sia liberale che democratica), di cui, dopo la repressione dei moti del ’31 (quando, non si dimentichi, Leopardi era stato perfino nominato deputato all’Assemblea delle Province Unite dal Governo provvisorio di Macerata), non s’intravedeva lo sbocco, com’è forse rilevabile dalla reticente chiusa dei Paralipomeni. Tanto più si dica della borghesia rivoluzionaria napoletana, prima giacobina, poi murattiana, infine costituzionalista e carbonara, che si era come ripiegata su sé stessa dopo le sconfitte del ’99, del ’14 e del ‘20, acconciandosi ad un placido 14 Paolo De Caro ottimismo post-Restaurazione, che avrebbe potuto richiamarsi meglio ad un roi des Français che a un Re delle due Sicilie. Quest’ottimismo derivava, oltre che da alcuni atteggiamenti liberaleggianti, dal tentativo di politica economica che il re Ferdinando II aveva promosso, nei primi anni del suo regno, per innescare un processo di innovazione e modernizzazione protoindustriale, pur se limitato sostanzialmente all’area della capitale. Agiva anche, in quest’apertura al futuro, la circolazione degli ideali del nazionalismo italiano e dello storicismo romantico e spiritualista, influenzati dai ripresi studi vichiani, dal kantismo del Galluppi e dal nascente hegelismo. Troppo spesso nell’auspicare l’ineluttabile avanzamento della storia, i gruppi intellettuali o praticavano il silenzio sulle questioni politiche e sugli spietati provvedimenti repressivi o si limitavano, chi più chi meno, ad auspicare un’autoriforma, nelle idee come nelle istituzioni, del Trono e dell’Altare. Perciò la descrizione icastica e bonaria che, della «lieta vita napoletana», come del clima prerisorgimentale liberale e neoguelfo sotto il regno di Ferdinando II, diede il Croce nel suo commento ai Nuovi Credenti (1930), non può che risultare fuorviante. Confinata nella categoria ultronea e nonpoetica dello “sfogo”, la satira viene assimilata al pittoresco folklore dei quadretti di genere (gli asini da soma spinti «a volo» per l’erte vie di San Martino; le tavolate di triglie, alici e ostriche nelle sere di Santa Lucia…), per allontanarla dal travaglio del pensiero leopardiano verso un’etica laica, non immemore per altro della tradizione testamentaria, come verso la serietà dell’agire politico, conforme a un approdo apertamente e radicalmente materialistico. Ed è vero anche, come notò già Allodoli (p. XII), che l’immaginario di Leopardi resuscita nell’umanità napoletana raffigurata il luogo comune europeo del type italien, perdigiorno, passionale e brigantesco. Ma è significativo che, in prosecuzione delle aperture ottocentesche del Gesuita moderno e del Primato di Gioberti, o, in ripresa dal Dialogo dei Saggi critici e dalle Lezioni sulle due “scuole” di De Sanctis, la lunga e varia tradizione leopardiana italiana abbia, nel secondo Novecento, passata la bufera del fascismo e della seconda guerra mondiale, ricollocato il poeta, dopo la parentesi rondista e crociana, nell’intreccio fra letteratura e ideologia. Leopardi è elevato a paradigma etico-politico di un confronto che non investe solo lo studio a latere della specificità letteraria (da Luporini, a Timpanaro, a Carpi, a Biral), ma che, ripartendo da queste premesse, illumina la critica e l’interpretazione del testo letterario (da Russo, a Binni, a Savarese, a Blasucci, a Damiani), sempre spingendosi verso la peculiare innovazione del periodo napoletano. Opportunamente, anche l’esame critico più recente rileva l’urgenza dei motivi e la novità delle forme che agitano l’ultima fase della poetica leopardiana. Sottesa al crescente e sempre più dissonante registro polemico-satirico, agisce la severità di una volontaria riduzione del comico (Panizza) e perfino una ricerca del silenzio che sostituisca la parola (Dolfi: il silenzio, il silenzio mortale, «come figura di un’ultima protesta», p. 31). Un modo di concepire il “mondo” (quel mondosocietà che Leopardi sottopone a critica, dalla Palinodia, ai Pensieri, alla Ginestra, 15 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia ai Paralipomeni), elaborato come risposta alla concezione sociale della letteratura, reclamata dai romantici italiani e napoletani. Una risposta che però contrastava di primo acchito con la chiacchiera e la flânerie degli “insorgenti”, e con l’ottimismo liberale degli ambienti intellettuali partenopei. «Con Manzoni in chiesa – dicevano gl’Italiani, ed aggiungevano – Con Leopardi alla guerra» (Carducci). Alla metà dell’Ottocento, l’intenzione militante trasformò gli scrittori della nostra letteratura in vessilliferi di un’ideologia. Ma sin dal principio del dibattito critico sul poeta, all’abate Gioberti, la credenza religiosa e l’appartenenza politica al neoguelfismo non impedirono di riconoscere in Leopardi un’assoluta grandezza di scrittura, di pensiero e di umanità, né di recriminare quella condizione di esule in patria, in cui il suo amico recanatese fu costretto a vivere. Ed è indubbio che a Napoli, esclusi gli stentati riconoscimenti formali e le poche amicizie, il poeta abbia subito un vero e proprio ostracismo culturale e sociale; così che lui – soggiunge Marti –, in quella città, «rimase sempre un estraneo diffidente, un ospite precario» (I tempi…, p. 104). Come si autodenunciava al padre: un «infelice forestiero». Ciò che ancor oggi sorprende, non è tanto la risposta repressiva delle gerarchie della Chiesa (l’ossessione del Nunzio De Pietro e del cardinal Lambruschini sull’“empietà” di Leopardi) o della polizia borbonica, o di quella imperiale (l’ossessione di Del Carretto e, a Vienna, di Metternich sullo «sciagurato» Leopardi, fautore delle “repubbliche”), quanto la ripulsa dei circoli liberali, più o meno sedicenti cattolici e, più in generale, spiritualisti e idealisti. Alla maggior parte dei letterati napoletani, liberali o “settari” (mazziniani) che fossero, risultava incomprensibile «quel suo umor misantropico che rendealo pressoché inaccessibile», incomprensibili la sua «filosofia desolante», il «miserabile scetticismo che regna nelle sue prose» (i giudizi sono, si fa fatica a crederlo, del letterato e patriota mazziniano Giuseppe Ricciardi, cfr. Giuliano, p. 231). Certo, spesso trascinati da un cieco patriottismo o dal sentimentalismo di moda, non mancavano coloro che fossero romanticamente affascinati dall’autore dei Canti: Michele Baldacchini, la poetessa Giuseppina Guacci, lo stesso Tommaso Gargallo, Antonio Ranieri, naturalmente; ma forse ciò aumentava l’astio di cui era bersaglio nei salotti e sulle riviste il poeta («…accesa/ D’un concorde voler tutta in mio danno/ S’arma Napoli a gara alla difesa/ De’ maccheroni suoi…»). Uno dei pochi amici sinceri di Giacomo, il giovane patriota Alessandro Poerio, sbagliando evidentemente interlocutore, così confidava a Niccolò Tommaseo: Qui [a Napoli], caro Tommaseo, sono alcuni i quali non dicono il vero o quel che lor sembra vero, con altezza di animo, spassionatamente, senza odio né timore, come fate voi; gli [a Leopardi] dànno addosso ferocemente, vilmente, senza nominarlo, mostrandolo a dito, mordendolo sotto manto di religione, accagionandolo di voler capovolgere la Società, toglier via la distinzione fra il vizio e la virtù, empire la terra di sangue. (Sono citazioni di un libretto [c.n.] 16 Paolo De Caro poco fa pubblicato). E voi sapete quanto sieno candidi e mansueti i costumi del Leopardi, com’egli non si curi di far proseliti, quanto aborra dalle risse letterarie, quanto bene sopporti le opinioni altrui, e come sia lontano da ogni ipocrisia… (lettera del 13 luglio 1836, cfr. Ciampini, p. 267) Poerio conosceva minutamente l’ambiente letterario napoletano, era stato amico di gioventù di Antonio Ranieri e frequentava Leopardi; ma a Parigi, nella colonia dei rifugiati italiani formatasi dopo i moti del ’31, era anche divenuto amico di Tommaseo, che invece nutriva per il poeta recanatese una malcelata invidia letteraria congiunta a un’incoercibile avversione ideologica, se non addirittura fisica. Leopardi era «l’uomo che ha il genio del Tasso in fondo alla gobba, come il Tasso l’aveva in fondo al bicchiere» (Giuliano, p. 226, e Panizza, p. 10). «Inducetelo – esortava nella risposta a Poerio – a non più vantare la bestemmia fredda e la sventura noiosa» (Giuliano, p. 236, e cfr. Ciampini, p. 261, e Bellucci, pp. 147-148 e 164). Nei suoi frequenti rapporti con gli ambienti cattolici liberali, con Lambruschini (Raffaello, l’agronomo e pedagogista) e con Capponi, come con Lamennais e con Montalembert, in Italia come in Francia, Tommaseo faceva spesso di Leopardi, in forme d’inconsueta virulenza, un modello da contestare ed abbattere. A Napoli, subiva l’influenza dello scrittore dalmata il cenacolo che si raccoglieva intorno all’ambiziosa rivista fondata da Ricciardi, «Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti». Proprio con una lettera-prefazione di Francesco Puoti tratta dal «Progresso» (VI, fasc. XI, a. II, p. 147-sg) si era pubblicata nel 1835 la seconda edizione «napoletana» degli Inni sacri di Terenzio Mamiani, altro “faro” del liberalismo cattolico e del fuoruscitismo parigino, che si rifaceva al Manzoni tragediografo, poeta, moralista e romanziere e al Génie du Christianisme di Chateaubriand: […] la vita civile incomincia dalla religione; con lei crescono, durano e si fanno venerande le glorie nazionali, i riti, le leggi, i costumi tutti di un popolo: radunansi in lei e partecipano del lume suo le memorie precipue de’ tempi e le auguste speranze dell’avvenire. Sentirono di questo modo e procederono così in ogni cosa quegli Italiani, che nel decimosecondo e decimoterzo secolo rinnovarono le maraviglie del valore latino; beati davvero e gloriosi senza fine nella ricordanza dei posteri, se mai dalla mente non cancellavano essere tutti figliuoli d’una grande patria, e che la prima legge evangelica prescriveva loro di sempre amarsi l’un l’altro come uguali e fratelli, chiamati a condurre ad effetto con savia reciprocanza di virtù e di fatiche le sorti magnifiche e progressive dell’umanità! [c.n.] Con tale intendimento furono dettati questi inni sacri, almeno per quanto concederono i tempi e il luogo gravemente pericolosi. Così mi sforzava di trarre alla comune utilità il ministero della poesia, la quale è in capo a tutte l’arti sociali che intendono per maniera gradevole e tuttavia efficace alla 17 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia formazione dell’anima. Ho pertanto richiamato le muse al più antico loro ufficio di cantare la religione civile; che perciò appunto elle furono stimate deità e gli alunni loro, portentosi e più che uomini. (Inni sacri, p. 4) Insistendo sul rapporto fra letteratura e società, liberali e democratici, manzoniani e mazziniani (per utilizzare lo schema desanctisiano, fallace e ideologico quanto si voglia, ma di immediata praticabilità), non riuscivano a comprendere l’eccezionale novità di Leopardi. Così, sempre sul «Progresso» (II, 1836. Cfr. Giuliano, p. 229), Raffaele Liberatore, un esule del ’20, il compilatore del famoso, all’epoca, Vocabolario Universale Tramater, metteva a confronto i due inni ai Patriarchi, di Leopardi e di Mamiani, e dichiarava Mamiani «più poetico» rispetto al «più filosofico» Leopardi, secondo un giudizio frequente, che feriva la coscienza artistica del poeta. Leopardi trasse le sue vendette, com’è noto, nel canto della Ginestra, prefigurando un “nuovo corso”, azzardando una specie di “salto quantico”, un vero e proprio reinizio della storia. Non riecheggiò solo, in tono sarcastico, le «magnifiche sorti e progressive» del cugino Mamiani, ma soprattutto spostò su un piano eroico-antropologico il concetto di fratellanza umana: una fraternité da intendere come tutta insieme alleata contro la natura «nemica», e sottratta a ogni provvidenzialismo, storico o spiritualista che fosse. Uno dei letterati di punta della rivista era il pugliese-napoletano Saverio Baldacchini (1800-1879) che cercava ecletticamente, al modo di Mamiani, di coniugare classicismo e romanticismo, religione e progresso, conservatorismo e sensibilità sociale («…la religion nostra è il simbolo di una civiltà comune, e l’aiutatrice di futuri progressi dei popoli nelle larghe vie del morale perfezionamento», Del fine immediato…, p. 28). Durante gli anni napoletani di Leopardi (ottobre 1833-giugno 1837), Saverio Baldacchini alluse spesso e negativamente, con aperto risentimento ideologico, al poeta dei Canti. Nel 1835 aveva pubblicato sul «Progresso» il saggio Del fine immediato d’ogni poesia, diffuso in estratto dalla Tipografia Flautina nel 1836. L’autore, descrivendo le figure contemporanee di maggior rilievo, Manzoni ovviamente in testa, così si riferiva, senza citarlo, a Leopardi (forse pensando al Canto notturno, di cui risuonano le domande senza risposta sulla «solitudine immensa» del cielo e sull’«innumerabile famiglia» della terra, due temi ripresi da Leopardi, quasi in confronto polemico con Baldacchini, nella Ginestra [vv. 145-157]): Sociabil cosa è la poesia; imperocché per essa, dopo di esserci levati fino a ricevere in noi la sacra impressione del bello, questo siam mossi ad esprimere e manifestare; né mi sembra che alcuna manifestazione ed espressione possa aver luogo, lo qual non sia come una negazione aperta dello stato di solitudine. Onde grandemente errano coloro, i quali nei loro canti al tutto come abitatori di solitudini ci appaiono, quasiché avessero spezzato quel vincolo di benevolenza e di universal carità, che stringe insieme l’umana famiglia [c.n.]. 18 Paolo De Caro Inferme sono le loro menti, onde troppo strani e astrusi concetti rampollano, i quali non so perché eglino si sforzino di rivestire delle forme dell’arte. Certamente se l’uomo avesse potuto vivere in solitudine, a che i linguaggi? a che i vari trovati delle gentili arti? Fatica adunque gittata è la loro, né so che poeti possano giustamente chiamarsi, stanteché, ad ottenere quel rapimento che è fine della poesia, a comprendere l’idea della bellezza, solo valido mezzo a me sembra poter esser l’amore…[c. n.] (Del fine immediato…, p. 36) Quanto al «libretto», richiamato nella lettera di Poerio, esso è quasi certamente riferito all’opuscolo intitolato Claudio Vannini o l’Artista. Canto. Si tratta di una novella in versi divisa in 37 brevi capitoli, scritta in stile pseudobyroniano (ma di fatto esemplata sui moduli del classicismo preromantico italiano, da Monti, a Foscolo soprattutto, allo stesso Leopardi, con qualche intrusione degl’Inni manzoniani), e «ordinata a combattere il romanticismo, … quel romanticismo male inteso, che si studia di falsare, non d’imitare la natura, e di prendere da quella non il bello e meraviglioso, ma il brutto e il deforme» (Cappelli [v. in seguito], p. 266). La novella s’ispira alla figura immaginaria di un pittore senese del Seicento, un artista “traviato” e senza fede, che, dopo lo stordimento d’un’esperienza «oltremonti», ritornato in patria e mortagli la madre, si pente della sua vita dissoluta. La tradizione critica ha intravisto nel personaggio di Vannini la maschera di un Leopardi romanticizzato e maudit. Nel proemio riassuntivo dell’opera si legge tra l’altro: …Non ancora uscito di puerizia, prese troppo altamente a sentire di sé, mostrandosi poco curante degli ammaestramenti e de’ consigli, di che è tanto bisognosa l’età prima dell’uomo. Giunse ad infastidirsi della famiglia, e della città e dell’Italia, sicché, come prima potette, passò oltremonti… In Francia alcune rappresentazioni troppo fedeli di cose laide e lascive gli acquistarono fama, e in talune brigate dicono ch’ei fosse favorevolmente accolto: le quali soleva egli intrattenere con la recita di certi suoi versi, in cui si studiava di porre in derisione le credenze e le usanze più essenziali al vivere civile… Di lui si mostrano ancora alcune tavole, nelle quali di leggieri si ravvisa l’orma di un potentissimo ingegno, capace di grandi cose, se non fosse uscito di via... (Claudio Vannini, pp. 3-7) È stato notato (Bellucci, p. 151) come, per dare una credibilità romanzesca al personaggio, l’autore della novella ricorra in molti punti alla banalizzazione di una filosofia negativa, riecheggiante, in forme distorte e camuffate, famosi luoghi leopardiani. In realtà, si potrebbe dire che l’autore tributi un inconsapevole omaggio alla fortuna dei Canti, dal Bruto minore ad Aspasia, e addirittura presti nuovi motivi di ispirazione al poeta della Ginestra. Ecco un breve florilegio della novella (i corsivi sono nostri): 19 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia […] Sacre memorie della patria! obblio Di voi me circondava: e fastidia D’uno spontaneo immaginare i lieti Dorati sogni, e le armonie d’Amore Del semplice e del vero imitatrici. Povero, inetto io ‘l fin dicea di quelle Arti gentili che fermar le sedi Su le rive del Tevere e dell’Arno. A che nelle ammirate opre de’ nostri Quella pace diffusa e quel riposo; Mentre una fiera legge, a chi ben dentro Mira, travaglia col dolor le cose Arcanamente? Ov’è una vera gioia, Ove una intensa voluttà, che, quando Duri più d’un fuggevole momento, Non s’estingua nel tedio e nella morte? Dunque correrà l’uom, seguendo eterni Inganni, e mai non avrà cuor che basti A sollevar dell’universo il velo? (IV, 24-42) …a me parea che sempre La virtù, cui più il mondo applaude, è frutto D’una impura semenza, e da men rea Radice surge il vizio abominato; Sicché a strappar dal crin de’ glorïosi Le immeritate civiche corone Fora giustizia, e in quella vece il capo Fregiarne di colui, che sotto il taglio S’incurva già di scellerata scure. (V, chiusa) …erasi in me spenta qualunque Favilla estrema de la fede antica, L’erma rupe lasciai, desideroso Di veder le cittadi un’altra volta, E di svelare all’uom con la parola Del vero e dell’error ministra a un tempo, La tenebrosa mia scïenza… […] poi che una strana Voglia mi travagliava (orrido a dirsi! D’uccider l’alma, la cui pura essenza Sol di virtù […] si nutre. (VII, 2-8 e 12-16) …Ah, pera Chi le dottrine generose e il culto 20 Paolo De Caro D’Amor, che solo di prodigi è fonte, Sovvertir cerca, e a disïar ne invita Sopra i piaceri de lo spirto gli agi, Le morbidezze sibarite!… (XXIII, 26-31) … Onde l’alma, di Dio nobil fattura, Niega l’origin sua, sé stessa niega, Niega la legge del dover, la legge Dell’eterna bellezza, e alla ruina D’ogni armonia dell’universo esulta. Indi un’arte si crea varia, scomposta, Tutta audacia e ad un tempo effeminata, D’un ben, ch’esser non puote, invereconda Promettitrice, ma di mali invece Fecondissima madre… ( XXIV, 7-16) Autore della novella era ancora quel Saverio Baldacchini, che, congedata l’opera nell’agosto 1835, l’aveva fatta pubblicare, sempre a Napoli, dagli editori De Stefano e soci nei primi mesi del ’36: quindi quasi contemporaneamente all’uscita del primo tomo delle Operette Starita. Il giudizio sull’arte di Leopardi, travestito nei panni del pittore Vannini, diventa inappellabile. È un’arte che non educa, non costruisce, non canta i «bisogni del secolo» (cfr. Palinodia), ma che anzi, al di là delle apparenze, è tutta deversata alla corruzione sociale: «varia», «scomposta», «audace», e insieme «effeminata», destinata a non produrre che «mali». Del medesimo «libretto» parla – con velenosi riferimenti a Leopardi – l’abruzzese-napoletano Emidio Cappelli nella recensione al Claudio Vannini, scritta per il «Progresso» (vol. XIII, a. V, q. XXVI, marzo e aprile 1836, pp. 248-268): … E non vogliamo tacere esserci questo libretto [c.n.] venuto ad un bel bisogno. Quando alcuni scrittori d’ingegno e sapere più che mezzano, non sappiam per qual maligno risguardo de’ cieli tra noi surti, si son fatti, e tuttodì si van facendo non men vili che orgogliosi propagatori di certi principi di disperazione, di dubbio, di odio e disprezzo per la vita e per gli uomini, e niente altro c’insegnano a noi rimanere, che il cacciarci un coltello in gola [c. n.]. E forse ancora per alto levando i loro stolti e inverecondi clamori, e mandando ad un fascio la virtù ed il vizio, minacciano di rendere il mondo un’arena di gladiatori ed un vasto campo di ferocie e di orrori. A tanta rovina si oppone questo libretto [c.n.]… («Il Progresso» cit., p. 256; cit. anche in Bellucci, p. 252) Dopo aver citato un largo brano della novella (cfr. qui sopra i vv. IV, 24-42), il Cappelli così continuava: 21 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia E qui, senza che noi gliel diciamo, avrà il lettore per se stesso ravvisato, come quest’opera non della moral filosofia solamente, ma delle arti eziandio è intesa a tutelar la causa. Ché se con dolore gravissimo dell’animo nostro noi veggiamo da alcuni scrittori impudentemente manomesse le scuole della morale sapienza, e vilipesi e profanati gli aditi della virtù, non men grave ci torna il vedere come non pochi addetti al culto delle Muse per sì strana e torta via intendono al loro ministero, che di siffatti sacerdoti non sappiamo se quelle vergini santissime abbiano più a pregiarsi o a vergognarsi. Né creda alcuno che di quei meschini, che pur tanti sono, sia nostro intendimento di ragionare, i quali poveri di mente e di cuore, ed affatto privi di poetici spiriti, ci vengono tuttodì intorno strimpellando sui loro rauchi e scordati colascioni di loro insipide e schifose cantilene [c. n.]. Di costoro non mette il pregio di favella. Solo diciamo che assai bene provvederebbe alla dignità delle Muse quella repubblica, la quale a questi increscevoli trombettieri di Pindo, a questi incomodi del secolo, per decreto interdicesse l’uso di poetare… («Il Progresso» cit., p. 258) «…Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,/ A cui grava il morir; noi femminette [c.n.],/ Cui la morte è un desio, la vita amara.// Voi saggi, voi felici…» (I nuovi credenti, vv. 100-103). L’amarezza di Leopardi per gli attacchi più o meno allusivi di cui era fatto oggetto dai circoli culturali di Napoli (non solo reazionari, dunque, ma anche e soprattutto liberali), acuì il suo isolamento e appesantì le già miserevoli condizioni della sua esistenza fisica; ma provocò anche, dal momento che era disconosciuto di essere poeta e riconosciuto soltanto come filosofo della negazione, l’impellenza di affermare la sua orgogliosa inattualità e di definire nettamente una distanza di pensiero dai suoi detrattori e critici, diretti e indiretti, a partire da quelli a lui più vicini, a Napoli. I segni di questa tensione intellettuale e morale affiorano nella sempre più rada corrispondenza degli ultimi suoi anni, per non dir mesi, di vita. Siamo nel periodo in cui, tra il ’35 e la prima metà del ’37, il poeta, prima di “procombere”, completa i Pensieri e compone (dettando buona parte dei testi a Ranieri), forse, Aspasia e almeno una “sepolcrale” (Sopra il ritratto di una bella donna…), e certo la Palinodia e i Nuovi credenti, il Tramonto della luna e la Ginestra, e sette almeno degli otto canti dei Paralipomeni della Batracomiomachia. Siamo nei pressi di una poesia completamente innovativa nei quadri narrativi e nei registri linguistici, una poesia di esuberante e indocile creatività, di fantasia liberata, dov’è bruciato l’equivoco del “malinconico” romantico e si enfatizza la distanza ironica con gli “altri” («Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito… Malinconico, sconsolato, disperato…»), proprio mentre si ribadisce l’insondabile acronicità dell’essere. Quest’aspra fantasia è disciolta nella complessità del pensiero intorno al rapporto, sempre ritornante, fra gioventù e vecchiaia, fra ciò che è vita e ciò che è morte, fra natura e uomo, fra antropologia e storia, fra non-tempo (infinito) e tempo (finito), e nelle acuzie della disposizione satirica: 22 Paolo De Caro pensiero e stile complessi (come merita la meditazione sulla complessità del vero), a giri lunghi, tutt’altro che «slogati», come pensava Carducci a proposito delle ottave dei Paralipomeni. Sarebbe arduo spiccare gli “esterni”, per gran parte “aerei”, di rappresentazione lirico-descrittiva di queste opere dai duri motivi di contrasto con il legittimismo tramontante e con l’imperante “scuola manzoniana” del liberalismo italiano (e napoletano, in particolare), per un verso; e per l’altro, dal dissidio nato da una grande e solitaria avventura intellettuale scivolata nel sortilegio di una città che ha capovolto il suo sogno russoviano: dallo specchio incantato di Mergellina a un’indecifrabile e insopportabile città morta, una Napoli-Topaia all’aria aperta (ben peggiore della Nubiana-Recanati di Ottonieri-Leopardi), brulicante di popolo minuto, irriducibilmente reattiva agli istinti ed estranea a quel progresso tanto esaltato (cfr. Zib., 1027 ecc.); una città-simbolo, “meridionale” e antica, «immensa»; «un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli», «veramente barbaro», cresciuto dentro un incredibile paesaggio naturale e, in significativo opposto, accanto ai resti, superi e inferi, di Pompei ed Ercolano: nella natura che sta, due manifestazioni della finitudine della storia e della vita mortale dell’uomo: due paesi-fantasma di ombra-e-luce, di morte-e-vita che ritroviamo in un inaspettato immaginario metamorfosati nella Ginestra e nei Paralipomeni. 3. Sin dalla fine del ‘35, prima ancora che le Operette fossero licenziate dallo stampatore (era Vincenzo Puzziello dell’Aquila), Leopardi paventava gli intralci in cui il libro si sarebbe impigliato. Rispondendo al padre ed evitando di toccare argomenti sensibili (la Curia, i Borboni, i liberali), trovava un facile e forse comune capro espiatorio nella denuncia dei costumi napoletani, di cui era esempio vivente il libraio: […] Ella [il padre Monaldo] viva sicuro che le correzioni necessarie alle Operette morali, da Lei amorevolmente suggeritemi, si faranno, se però questa edizione andrà innanzi, cosa della quale dubito molto, perché sono risolutissimo di non dar nulla al libraio non solamente gratis, ma neppure con pagamento anticipato; così consigliandomi tutti gli amici, che bisogni fare in questo paese di ladri; ma d’altra parte questi librai mezzo falliti restano tutti senza parola al solo udire il nome di anticipazione… (lettera del 4 dicembre 1835, Ep. 1918) Il 6 di aprile 1836, a tre mesi dall’uscita del primo tomo delle Operette, in una lettera al Sinner (Ep. 1934), riconfermava il suo dubbio di veder completato il piano editoriale previsto, scaricando mezza responsabilità sulla scaltrezza di Starita: […] perché credo – scriveva – che l’ediz. non andrà innanzi, parte per bontà 23 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia di quelli che hanno allarmata [c.n.t.] la censura sopra tale pubblicazione, parte perché io sono disgustatissimo del pidocchioso libraio, il quale avendo raccolto col suo manifesto un numero di associati maggiore che non credeva, sicuro dello spaccio, ha dato la più infame edizione che ha potuto, di carta, di caratteri e di ogni cosa. Finché, alla fine dell’anno, il 22 dicembre 1836 (Ep. 1951), scrivendo «Di campagna» [dal casino dei Ferrigni, alle falde del Vesuvio, fra Torre del Greco e Torre dell’Annunziata, ora Villa delle Ginestre] al suo amico svizzero a Parigi, era costretto a dichiarare: L’edizione delle mie Opere è sospesa, e più probabilmente abolita, dal secondo volume in qua, il quale ancora non si è potuto vendere a Napoli pubblicamente, non avendo ottenuto il publicetur. La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto. E continuava (lo noto perché utile all’argomento di questo scritto): Se volete ch’io vi spedisca per la posta un altro esemplare del 2.do vol. per completare il numero 5 [i cinque interessati a ricevere a Parigi le Operette, oltre che i Canti, e cioè, lo stesso Louis de Sinner, Vincenzo Gioberti, Friederich Heinrich Bothe, estimatore e traduttore dal tedesco di Leopardi, Louis Pasquier, figlio di Étienne-Denis, presidente della Camera dei Pari, e Charles Lebreton, allievo di Sinner], non avete che a scrivermelo. (ivi) A questo punto, fra autore e editore, nonostante tutti i disguidi del possibile, si è già arrivati a una specie di asimmetrica convergenza di interessi, e per un po’ il dramma si mischia all’avventura e, se così può dirsi, alla farsa. Leopardi, nel pericolo del colera avanzante, mantenendosi per lunghi periodi lontano dalla città, alle falde del Vesuvio, viene preso come da una febbre di attivismo e di fuga. Scrive (al padre) di voler «fuggire da questo paese di Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e b.f. [= baron fottuti] degnissimi di Spagnuoli e di forche » (3 febbraio 1835, v. Ep. 1889). Nel ’34 aveva rinunciato all’ipotesi di trasferirsi a Parigi. Ora cerca inutilmente di trovarsi un lavoro, pensando a un corso semestrale di letteratura italiana, e pensa di trasferirsi almeno per quei mesi a Palermo. E mentre la sua mente viene sollecitata a un molteplice sforzo creativo, dalla meditazione filosofica alla lirica alla satira all’epica, che manifesti il più variamente e nettamente possibile la sua risposta laica in difesa del vero; mentre ribatte colpo su colpo, in privato e in pubblico, agli spiritualisti italiani e napoletani (da Vieusseux a Capponi – il più ingenuo ed onesto: il più «candido», in senso volterriano –; da Tommaseo, a Mamiani, a Baldacchini, a Cappelli, a Liberatore, a 24 Paolo De Caro Ricciardi per citare i piu noti); ecco che, preso atto dell’impossibilità di proseguire nell’edizione delle sue Opere, si fornisce da Starita di un numero di copie (24, dice) da spedire ad amici ed estimatori che gliene avessero fatto richiesta e, afferrato dal demone dello stile, rivede il testo dei due volumi stampati e, grazie ai buoni uffici di Louis de Sinner, pensa di farsi stampare all’estero, dal Baudry o altro editore a Parigi, i lavori che la censura gli vietava di diffondere: Credete che mandando costì [a Parigi] un esemplare delle mie o poesie o prose, con molte correzioni e aggiunte inedite [c. n.], ovvero un libro del tutto inedito [i Pensieri], si troverebbe un libraio (come Baudry o altri) che senza alcun mio compenso pecuniario [c.n.t.] ne desse un’edizione a suo conto? (ivi) Si osservi Leopardi. Fino all’anno prima, secondo Chiarini (p. 424), si era addirittura indebitato per favorire l’uscita delle sue Opere da Starita, in vista di un successo nelle vendite. Ora, fra delusione e ira, si dilegua in lui ogni bisogno di affermare una più che legittima (e vitale!) aspettativa di ritorno finanziario. Forse incalzato dal sentimento di una fine imminente, forse animato da quella vecchia ansia di “gloria” letteraria che non gli aveva dato mai tregua, ora è proteso a difendere la piena legalità della sua visione del mondo, alternativa alla dottrina spiritualista; e perciò è spinto a chiudere testimonialmente le sue opere più rappresentative in un quadro coerente di compiutezza. Troviamo una necessità, un’urgenza incomparabili nella determinazione autoriale degli ultimi due anni leopardiani. Alla fine del 1836, a sei mesi dalla morte, prima di tutto egli: – vuole ri-pubblicare i Canti e/o le Operette «mandando [a Parigi] un esemplare [Starita] delle sue o poesie o prose» fornito di «correzioni e aggiunte inedite». Insomma, scritta la Ginestra, – deve completare il Tramonto della luna, per dare piena configurazione ai suoi Canti riveduti; – deve veder pubblicate le Operette complete, che la censura napoletana ha interrotto, aumentate dei tre pezzi annunciati dalla Notizia del tomo primo 1835 (forse quelli maggiormente responsabili dell’intervento della polizia: D. De Robertis, p. 335), e cioè del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, scritto nel ’25, del Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio, scritti nel ’27, forzatamente esclusi a Firenze [Piatti 1834]; – deve veder pubblicati i completati (o da completare) Pensieri; – deve veder pubblicati i Paralipomeni, ancora in via di composizione e di dettatura a Ranieri. La chiusa del poemetto, come ora la leggiamo, fu compiuta, secondo quanto affermò il suo sodale, a pochi giorni dalla morte. Così improvvisa e compressa, non si spiega che con l’urgenza di immette- 25 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia re un’opera nuova nell’elenco di un piano editoriale in via di definizione, o comunque di un ideale piano di opere für ewig, prima di cedere. Tre mesi ancora dopo quella comunicazione di dicembre, il 2 marzo del 1837, Leopardi, tornato a Napoli dopo un protratto e disagiato soggiorno a villa Ferrigni, scrive una lettera (autografa) a Sinner (Ep. 1956). Per il testo dell’edizione francese propone di prendere a riferimento l’edizione Starita (Canti e Operette morali, volume I), con le correzioni che vi ha apportato a mano, e, per il volume II, l’edizione Piatti delle Operette: Io manderei i due primi volumi in un esemplare correttissimo e chiarissimo [c.n.], ma il terzo, cioè il secondo delle operette morali non posso mandarlo altrimenti, per la parte edita, che nell’edizione di Firenze, tal qual è: perché mi è impossibile di fare i cangiamenti e le correzioni necessarie sopra quell’edizione, che è senza interlinea e senza margini. Nel poscritto (di mano del Ranieri), steso in francese per facilitare la consultazione dell’editore, Leopardi annuncia alcune novità (i due «brani inediti» e i «numerosi miglioramenti» dei Canti, il «volume inedito» dei Pensieri) e indica il piano di una possibile edizione parigina [si ripristina nel testo l’accentazione francese che l’amanuense ha trascurato]: Je ferai à mes Operette morali les additions que je promets dans l’édition de Naples. Elles consistent en trois Opuscules d’une étendue assez considérable. On peut voir leurs titres dans la Notice que j’ai citée. J’ajouterai aussi à mes poésies des morceaux inédits. En Italie j’aurais donné quelque traduction inédite: par exemple, une traduction du Manuel d’Epictète, une traduction de quatre Discours moraux d’Isocrate, etc. tout cela n’est bon à rien en France. Je veux publier un volume inédit de Pensées sur les caractères des hommes et sur leur conduite dans la société; mais je ne veux pas m’obliger de le donner au même libraire qui publiera le reste, si auparavant je n’ai pas vu du moins le premier volume imprimé, afin de pouvoir juger de l’exécution. Au reste je ne tiens en aucune manière à ce que l’édition soit faite sous le titre général d’Œuvres. On peut, et même on devrait publier un volume sous le titre indépendent de Canti, et deux autres sous celui de Operette morali. Je ferai des amélirations nombreuses à tous ces trois volumes. «Io manderei i due primi volumi in un esemplare correttissimo e chiarissimo». «Je ferai des améliorations nombreuses à tous ces volumes». Leopardi, dunque, pone mano a due copie di scarto dell’edizione Starita, e le corregge per Parigi. Sono le copie Nc della Nazionale di Napoli. Ma chi esamina la grafia delle correzioni, si avvede che esse sono scritte currenti calamo, come per copie preparatorie, che non 26 Paolo De Caro possono essere quelle da mandare a Parigi. Soltanto dopo questa specie di minuta, approntata dunque fino al marzo ’37, l’autore, sia per i Canti che per le Operette, penserà a trasferire le correzioni in un «esemplare correttissimo e chiarissimo». FGc, con correzioni incomplete, è una di queste copie che la morte dell’autore (14 giugno 1837) ha impedito di completare? o è una copia non riuscita e messa da parte, che Leopardi non ha ritenuto degna di essere mandata al suo editore parigino? o, forse meno probabilmente, è una copia preparatoria a Nc, poi scartata? Se non il corpus delle Opere, almeno singolarmente le maggiori, che non si sono potute pubblicare in quel di Napoli, si pubblicheranno a Parigi, con un testo rinnovato e compiuto. Sarebbe stata come una voce che giungesse dalla città di quei Lumi rinnegati vigliaccamente dalla sua età. Nel poco che gli rimaneva da vivere, Leopardi non avrebbe visto esauditi i suoi auspici. Ma il destino s’incaricherà di una vendetta postuma: sarà proprio il Baudry a pubblicare sei anni dopo (1842), per l’interessamento di Ranieri e Sinner, l’ «empio manoscritto» dei Paralipomeni che era stato vanamente inseguito dal cardinal Lambruschini e dal principe di Metternich. Dal canto suo, l’infido Starita, bloccato dalla censura, messo sull’avviso dalla polizia, timoroso di perdere la fiducia degli scrittori e dei lettori napoletani, la sua clientela prima, e nel contempo interessato a non perdere il denaro investito (compreso quello anticipato dall’autore) e a non mandare in fumo le attese di guadagno calcolate, cerca di disorientare polizia, preti e nuovi credenti, e di evadere diversamente (illegalmente, clandestinamente, si dovrebbe dir meglio) le copie stampate ma invendibili; e questo con una trovata molto semplice: sostituendo il frontespizio delle Operette. Capisco che un tale escamotage, che si praticava di frequente nell’editoria non autorizzata, in questo caso, per la plateale ingenuità del sotterfugio, possa saper troppo della leggendaria creatività popolare partenopea; ma è ciò che nei fatti avvenne, forse con assenso di Leopardi, forse anche per concessione della polizia; e in buona parte funzionò, come si può dedurre dalla proporzione delle copie, originali e modificate, che sono sopravvissute fino a noi. L’edizione delle Operette morali, volume I, ricevette due altre emissioni modificate nel frontespizio: – la prima, con frontespizio PROSE DI GIACOMO LEOPARDI. EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE. NAPOLI. PRESSO SAVERIO STARITA Strada Quercia n. 14. – 1835. 27 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia ma che si può credibilmente datare dalla seconda metà del 1836 ai primi mesi del 1837. È questa l’emissione utilizzata per le correzioni leopardiane di FGc. L’identificazione dell’opera si restringe e, oltre al titolo cambiato, da OPERETTE MORALI a PROSE, qualcos’altro si sta perdendo. L’indicazione della TERZA EDIZIONE viene soppressa. Viene modificata l’area informativa dell’opera: l’edizione non è più CORRETTA, ED ACCRESCIUTA / DI OPERETTE NON PIÙ STAMPATE, ma, con la messa in oblio della fondamentale indicazione OPERETTE, diventa EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA, / E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE. C’è l’autore con l’editore e il luogo, ma è scomparsa la centralissima, quasi insostituibile via Toledo (un segno che Starita sta lì lì per fallire?), lasciando per indirizzo soltanto la più laterale e oscura strada (ora vicolo) Quercia; – la seconda (di cui si trovano testimoni alla Biblioteca Didattica dell’Università di Macerata, alla Sormani di Milano e all’Alessandrina di Roma), che probabilmente fu stampata in un momento ancora successivo (forse posteriormente al giugno ’37, dopo la morte del poeta), e che reca sul frontespizio: PROSE DI GIACOMO LEOPARDI. EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA, E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE. ITALIA – 1835. dove è scomparso il Volume I, è scomparsa la Terza edizione e, soprattutto, in un’indistinta Italia disurbanizzata, è scomparsa Napoli. Come allora si faceva, l’editore vendeva i fascicoli, l’acquirente curava la legatura. Così è accaduto che un sol volume compatti i Canti con le Prose [Operette morali, volume I], decidendo l’aspetto paratestuale che contraddistingue la doppia “soglia” di FGc. È una soluzione spesso cercata dai lettori leopardiani dell’Ottocento, per aver molto in poco, e senza dare nell’occhio. Un’uguale soluzione ritroviamo nell’elegante esemplare in marocchino blu a rilievo con taglio in oro sui tre lati, che si ammira alla Sormani di Milano. Nell’esemplare della “Magna Capitana”, invece, il piatto di cartone è rivestito da un modesto foglio marmorato; sul dorso, di vile pellame bruno, caratteri e false nervature sono stampigliati in stento color oro, con il cognome dell’autore LEOPARDI e il titolo RIME /E /PROSE; i risguardi sono in carta pesante bianca; il taglio agisce sui tre lati delle pagine, senza aggiunta di tinte o altri ornamenti. Legatura e cucitura, se non possono dirsi raffinate, in compenso esprimono un’idea di timida solidità. 28 Paolo De Caro La ricerca sulla provenienza di FGc è disseminata d’inciampi. Sono perduti, forse mancano da sempre, gli elenchi storici degli introiti. L’interrogativo su come sia capitato qua un volume del «malinconico» (o «sciagurato») Leopardi – in una biblioteca cresciuta ai suoi inizi soprattutto grazie alle acquisizioni da conventi soppressi – è destinato a rimanere insoddisfatto; a meno che, a qualche studioso locale, non venga curiosità di ispezionare nel vecchio patrimonio. Si dovrebbe risalire nella storia delle donazioni private, messe in lista da un vecchio articolo di Oreste De Biase, e cominciare a esplorare, se ne rimane ricordo, nei fondi che vi sono citati (i Varo, i Celentano, gli Staffa, i Parisi, i Tugini…: questi ultimi possedevano, per fornire un indizio, le opere di Giordani). Il catalogo a fogli mobili Staderini (un reperto primonovecentesco della vecchia Biblioteca [cfr. De Biase, p. 280], che andrebbe salvaguardato e restaurato), conserva ancora la scheda dell’opera, perfettamente descritta nella sua natura binaria (Canti + Operette). Ma la consistenza lascia trapelare anche un inatteso mannello leopardiano d’epoca, indizio del vecchio legame che unì in età moderna e fino al primo Novecento Napoli al Tavoliere. Tralasciando il fondo del leopardista Zingarelli, che non è poca cosa, fra i testimoni leopardiani della Biblioteca foggiana si scopre che c’è un esemplare delle Operette morali Piatti 1834, o, ancora, un esemplare dei Paralipomeni nell’editio princeps parigina di Baudry 1842. Quasi certamente, anche i Canti e le Operette Starita facevano parte del patrimonio librario di una famiglia borghese. Tutto sembra riportarci intorno alla metà dell’Ottocento, forse ancor prima dell’edizione delle Opere Le Monnier curate da Antonio Ranieri (1845, qui nella ristampa 1865), da Prospero Viani (1846) e da Pietro Pellegrini e Pietro Giordani (1853): dono alla Comunale di Lorenzo Scillitani (1827-1880), l’illuminato sindaco del capoluogo daunio. Sul frontespizio dei Canti, la storia novecentesca della Biblioteca è ricordata nel triplice marchio che violenta la pagina. Il primo timbro, circolare, della Biblioteca Comunale di Foggia (1833-1924), include due stemmi accostati, del fascio littorio e delle tre fiammelle, denunciando così l’epoca d’immissione nel patrimonio librario della Biblioteca, cioè a cavallo fra gli anni Venti e gli anni Trenta, quando la Comunale era allocata nella ex-chiesa di San Gaetano. Il secondo, più piccolo e semplice timbro circolare sbarrato segnala il passaggio del libro dalla Comunale alla promossa Biblioteca Provinciale di Foggia (1937): quindi l’esemplare non può essere stato inventariato se non dal 1937, quando la vecchia Biblioteca Comunale traslocò al Palazzo della Dogana, sede dell’amministrazione Provinciale. Il terzo timbro, con l’ex libris del cielo stellato e delle messi agitate dal vento della pianura, segnala il passaggio alla rinnovata Provinciale come “Magna Capitana” dell’anno 2000. A metà del libro, la pagina col titolo PROSE reca un solo timbro, quello dell’ex libris della “Magna Capitana”: un segno di avvertenza sulla natura composita del volume. In chiusura, la p. 196 reca il timbro circolare della vecchia Provinciale con un numero d’inventario sbarrato. L’ultima pagina (p. 198), in calce, 29 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia riporta di nuovo i timbri circolari della Comunale e della Provinciale, un timbro lineare della Comunale, oltre a quattro numeri di inventariamento, due a mano e due a timbro. Lasceremo agli specialisti della descrizione bibliografica ulteriori e più pertinenti specificazioni dell’esemplare e dei suoi scioglimenti semiotici. A noi preme avanzare alcune domande elementari: le correzioni sono dell’Autore? a quando si possono datare? perché non proseguirono oltre il richiamo all’Errata? La mano del Leopardi è subito evidente, sia che l’autore corregga in tondo similtipografico che in corsivo, soluzione scrittoria più frequente. La E maiuscola come un 3 girato, la L maiuscola con il taglio inferiore arcuato, la r e la v minuscole tipografiche, la d minuscola con doppio anello a sinistra, la t minuscola col taglio alto deciso e spesso con anellatura a cruna d’ago, le famose “crocette” (segni diacritici per indicare le giunte: cfr. Moroncini, pp. XXVIII-XXIX), la grafia minuta per utilizzare margini e interlinee: tutto ci riporta alla mano del grande scrittore. Le correzioni a penna, con uso di inchiostro scuro, sono vergate da una punta sottile, con cura e a caratteri rimpiccioliti e chiari, e seguono (non completamente: noi ne abbiamo contate 89) le indicazioni delle cento (giusto 100) Correzioni degli errori di stampa raggruppate in coda al volume delle Operette, alle pagine 197-198. A volte l’elenco è richiamato da Leopardi con l’abbreviazione in parentesi tonda «(v. l’errata)» o «(v. Errata)». Il correttore ristabilisce soltanto le lezioni corrette per non far continuo ricorso alle pagine finali, ma non si concede altre aggiunte, o modificazioni, o varianti, come invece avviene in Nc: segno che siamo di fronte o a una copia di preparazione, poi negletta, oppure di trascrizione finale, ma presto interrotta. Il periodo non dovrebbe uscire dall’arco temporale febbraio-maggio, addirittura primi di giugno, 1837; dunque i mesi fra l’ultimo ritorno a Napoli da villa Ferrigni e il suo tentato nuovo trasferimento verso le ginestre del Vesuvio. Poco prima che la morte, all’improvviso, sorprendesse il poeta a vico Pero. Escludendo gl’interventi minimi, non palesemente attribuibili alla mano dell’autore, e riguardanti le semplici interpunzioni, i segni di elisione, i segni verticali di stacco, le sbarrature di lettere o parole, le sottolinature per indicare la scrittura in corsivo (come in «Eureka, eureka.» in attacco al Dialogo di un fisico e di un metafisico) e, quasi sempre, le sovrapposizioni di singole lettere, presentiamo all’attenzione dei lettori, a titolo di esemplificazione identificativa e senza nessuna pretesa filologica, le seguenti correzioni, delle quali elenchiamo una serie numerata da 1 a 18, il numero della pagina p. del testo Starita, il numero della pagina p. e del rigo r. dell’ed. crit. Besomi, il brano interessato] con la correzione] in grassetto: 1 –p. 36, p. 48 r. 96, Dialogo di Ercole e di Atlante: «come quando la Sicilia si schiantò dall’Italia e l’Africa] Affrica] dalla Spagna»; 2 –p. 44, p. 59 r. 120, Dialogo della Moda e della Morte: «questo negozio degli immortali ti] scottava»): 30 Paolo De Caro 3 – p. 50, p. 68 r. 94, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi: «poiché altro mezzo non pare che vi] si trovi»; 4 – p. 51, p. 69 r. 103, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Silligrafi: «quo ferrea primum esinet] desinet] ac toto surget»; 5 –p. 74, p. 107 r. 37, Dialogo della Terra e della Luna: «Delalande] De la Lande]»; 6 –p. 78, p. 111 rr. 114-115, Dialogo della Terra e della Luna: «come crede un fisico moderno? x [crocetta di L.] che sei fatta come affermano alcuni inglesi, di cacio fresco? (v. l’errata) [parentesi di L.] ] che Maometto un giorno…»; 7 –p. 111, p. 153 r. 46, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: «non facendosi meraviglia che gli uomini x [crocetta di L.] sieno uomini (v. Errata) [parentesi di L.]]; cioè a dir creature»; 8 –p. 113, p. 156 r 102, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: «un concetto e non un] sentimento»; 9 – p. 115, p.158 rr. 140-141, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: «ma dunque perchè x [crocetta di L.] viviamo noi, voglio dire, perchè (v. Errata) [parentesi di L.]] consentiamo di vivere?»); 10 –p. 117, p. 160 r. 195, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: «Poche] Più] settimane, come tu sai.»; 11 – p. 125, p. 171 r. 91, Dialogo della Natura e di un Islandese: « ma solo a essi medesimi, quanto] quando] eglino avessero disprezzati»); 12 – p. 127, p. 174 r. 137, Dialogo della Natura e di un Islandese: «come se] la vita umana non fosse bastevolmente misera»; 13 – p. 132, p. 179 r. 228, Dialogo della Natura e di un Islandese: «Mentre stava] stavano] in questi e simili ragionamenti»; 14 –p. 135, p. 186 r. 52, Il Parini, ovvero della gloria, I: «in Argo la statua di Telesilla, poetessa, guerriera, e] e salvatrice della patria»; 15 – p. 147, p. 197 r. 60, Il Parini, ovvero della gloria, III: «dal quale non è facile che egli si muova] si rimuova]»; 16 – p. 150, p. 200 rr. 33-34, Il Parini, ovvero della gloria, IV: «giudici delle opere indirizzate a destar gli affetti e le immagini] a destar affetti ed immagini]»; 17 – p. 158, p. 208 rr. 91-92, Il Parini, ovvero della gloria, V: «o dalle ricchezze, o dagli onori x [crocetta di L.] che le sono renduti, [anche la correzione è scritta in corsivo] ] o dalla stima»; 18 –p. 170, p. 220 r. 87, Il Parini, ovvero della gloria, VIII: «e forse gli sono superiori anche di] al] presente». Sulla indecidibilità cronologica delle correzioni, se preparatorie o successive a Nc, suppongo alla fine che Leopardi, a causa della morte improvvisa, non poté 31 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia completare le correzioni sull’esemplare delle Prose [Operette morali], che i fascicoli sciolti di FGc rimasero da canto e che, per trascuraggine e senza esaminare l’interno, furono venduti in seguito come libro da Ranieri, o dai suoi eredi, o da altri. Quando ricompare la sua traccia nel libro ricomposto e rilegato delle Rime e Prose, ci troviamo già alla Biblioteca Comunale (Sala 6°, Scaffale I, Palchetto 5°, Numero 13), nella recuperata sede di San Gaetano, dove, rinnovati, gli scaffali arrivarono a nove palchetti, le sale arrivarono a undici, e il patrimonio librario raggiunse i quarantamila volumi. Dovremmo attestarci, consideratati anche i caratteri tardo-liberty dell’etichetta sul risguardo, in pieni anni Venti. Il passaggio alla nuova struttura, la Biblioteca Provinciale “G. Postiglione”, intorno al 1937, è documentato dalla scheda Staderini e dalla nuova etichetta della collocazione sul risguardo (XIII C 2415). Il resto è facilmente riscontrabile. Tavole fotografiche Tutte le riproduzioni sono state autorizzate alla pubblicazione dalle direzioni delle Biblioteche di appartenenza. Le tavole I-IV mostrano i frontespizi nell’evoluzione tipografica delle emissioni Starita: dalle Operette morali, vol. I (Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino), alle Prose, Napoli 1835 (nella da noi cosiddetta FGc della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia), alle Prose, Italia 1835 (Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano), fino alle Operette morali corrette da Leopardi (nella Nc della Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli). La tavv. V-VI mostrano, nel dorso e nel piatto anteriore, l’esemplare rilegato di Leopardi, Rime e Prose (Canti + Prose [Operette morali, vol I], Napoli, Starita, 1835), conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia (FGc), di cui le tavv. VII-XIV mostrano le pp. 74 (5), 78 (6), 111 (7), 115 (9), 135 (14), 158 (17) con le correzioni di Leopardi e le pp. 197-198 le Correzioni degli errori di stampa, che l’autore ha consultato per i suoi interventi manoscritti. Le tavv. XV-XVIII derivano dalla collazione delle pagine 74, 78, 135 e 158 in riproduzione da Nc, mentre, ai fini di un confronto con un più esteso autografo coevo alle correzioni di FGc, le tavv. XIX-XXII riproducono le quattro pagine della lettera del 9 marzo 1837 scritta da Giacomo al padre Monaldo (cfr. Ep. 1957, pp. 2094-2096), ora conservata nella Sezione Manoscritti (Carte Leopardi) della Biblioteca Nazionale di Napoli. Se ne trascrive qui il testo: Napoli, 9 marzo 1837 Mio caro Papà Non ho mai ricevuto riscontro a una lunga mia di Decembre passato, nè so con chi dolermi di questo, perchè la nostra posta è ancora in tale stato, che potrebbe benissimo trovarvisi da qualche mese una sua lettera per me, e non essermi stata mai data. Io, grazie a Dio, sono salvo dal cholèra, ma a gran costo. Dopo 32 Paolo De Caro avere passato in campagna più mesi tra incredibili agonie, correndo ciascun giorno sei pericoli di vita ben contati, imminenti, e realizzabili d’ora in ora, e dopo aver sofferto un freddo tale, che mai nessun altro inverno, se non quello di Bologna, io aveva provato il simile; la mia povera macchina, con dieci anni di più che a Bologna, non potè resistere, e fino dal principio di Decembre, quando la peste cominciava a declinare, il ginocchio colla gamba diritta, mi diventò grosso il doppio dell’altro, facendosi d’un colore spaventevole. Nè si potevano consultar medici, perché una visita di medico in quella campagna lontana non poteva costar meno di 15 ducati. Così mi portai questo male fino alla metà di Febbraio, nel qual tempo, per l’eccessivo rigore della stagione, benché [II] non uscissi punto di casa, ammalai di un attacco di petto con febbre, pure senza potere consultare nessuno. Passata la febbre da se, tornai in città, dove subito mi riposi in letto, come convalescente, quale sono, si può dire, ancora, non avendo da quel giorno, a causa dell’orrenda stagione, potuto mai uscire di casa per ricuperare le forze con l’aria e col moto. Nondimeno la bontà e il tepore dell’abitazione mi fanno sempre più riavere, e il ginocchio e la gamba sì per la stessa ragione, sì per il letto, e sì per lo sfogo che l’umore ha avuto da altra parte, sono disenfiate in modo, che me ne trovo quasi guarito. Intanto le comunicazioni col nostro Stato non sono riaperte, e fino a questi ultimi giorni, ho saputo dalla Nunziatura che nessuna possibilità v’era che si riaprissero per ora. Ed è cosa naturale, perchè il cholèra oltre che è attualmente in vigore in più altre parti del regno, non è mai cessato neppure a Napoli, essendovi ogni giorno, o quasi ogni giorno, de’ casi che il governo cerca di nascondere. Anzi in questi ultimi giorni tali casi paiono moltiplicati, e più e più medici predicono il ritorno del contagio in primavera o in estate, ritorno che anche a me pare assai naturale, perché la malattia non ha avuto lo sfogo ordinario, forse a causa della stagione fredda. Questo incomodissimo impedimento paralizza qualunque mia risoluzione, e di [III] più mi mette nella dura ma necessarissima necessità di fermar la casa qui per un anno: necessità della quale chi non è stato a Napoli non si persuaderà facilmente. Qui quartieri ammobiliati a mese non si trovano, come da per tutto, perché non sono d’uso, salvo a prezzi enormi, e in famiglie per lo più di ladri. Io il primo mese dopo arrivati pagai 15 ducati, e il 2.do 22, e a causa della mia cassetta fui assalito di notte nella mia stanza da persone, che certamente non erano quei di casa. Quartieri smobiliati non si trovano a prendere in affitto se non ad anno. L’anno comincia sempre e finisce nel 4 di maggio, ma la disdetta si dà ai 4 di gennaio; e nei 4 mesi che corrono tra queste due epoche, si cercano le case e si fanno i contratti. Ma le case sono qui una merce così estremamente ricercata, che, per lo più, passato gennaio, non si trova un solo quartiere abitabile che sia sfittato. Ne segue che un infelice forestiero deve a gennaio sapere e decidersi fermamente di quello che farà a maggio: e se avendo disdetto il quartiere, ed essendo risoluto di partire, lascia avanzar la stagione senza provvedersi; sopraggiungendo poi o un impedimento estrinseco, come questo delle comunicazioni interrotte, o una malattia impreveduta, cosa tanto possibile a chi abbia una salute come la mia, o qualunque altro ostacolo ad andarsene, può star sicuro di dovere il 4 di maggio o accamparsi col suo letto 33 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia e [IV] co’ suoi mobili in mezzo alla strada, o andare alla locanda, dove la più fetida stanza, senza luce e senz’aria, costa al meno possibile dodici ducati al mese, senza il servizio, che è prestato dalla più infame canaglia del mondo. Io non le racconto queste cose, se non perché Ella mi compatisca un poco dell’essere capitato in un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli, perché veramente barbaro, assai più che non si può mai credere da chi non vi è stato, o da chi vi ha passato 15 giorni o un mese vedendo le rarità. [spazio indirizzo] Al Nobil Uomo | Sig. Conte Monaldo Leopardi | Roma per | Recanati Se questa le giunge, non mi privi, la prego, delle nuove sue, e di quelle della Mamma e dei fratelli, che abbraccio con tutta l’anima, augurando loro ogni maggior consolazione nella prossima Pasqua. Ranieri (una sorella del quale ha avuto il cholèra) la riverisce distintamente. Mi benedica e mi creda infelice ma sempre affettuosissimo suo figlio Giacomo. 34 Paolo De Caro Tav. I. Operette morali, vol. I, Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino). 35 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. II. Prose [ = Operette morali, vol. I], Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 36 Paolo De Caro Tav. III. Prose [ = Operette morali, vol. I], Italia, 1835 (Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano). 37 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. IV. Operette morali, vol I [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 38 Paolo De Caro Tav. V. Rime e Prose (ma titolo della legatura = Canti + Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, dorso (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 39 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. VI. Rime e Prose (ma titolo della legatura = Canti + Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, piatto anteriore (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 40 Paolo De Caro Tav. VII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 74, con particolare. (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 41 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. VIII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 78, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 42 Paolo De Caro Tav. IX. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 111, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 43 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. X. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 115, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 44 Paolo De Caro Tav. XI. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli Starita, 1835, p. 135, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 45 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. XII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 158, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 46 Paolo De Caro Tav. XIII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p.197 (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). Tav. XIV. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p.198 (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 47 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. XV. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, p. 74 (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 48 Paolo De Caro Tav. XVI. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, p. 78 (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 49 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. XVII. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, p. 135 (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 50 Paolo De Caro Tav. XVIII. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, p. 158 (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 51 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. XIX. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, I (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 52 Paolo De Caro Tav. XX. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, II (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 53 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. XXI. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, III (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 54 Paolo De Caro Tav. XXII. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, IV (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 55 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Riferimenti bibliografici Per le opere di Giacomo Leopardi: Poesie e prose, volume primo, Poesie, a cura di Mario Andrea Rigoni, con un saggio di Cesare Galimberti, Milano, Mondadori, 2005; Poesie e prose, volume secondo, Prose, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori, 2003; Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di Rolando Damiani, tomi 3, Milano, Mondadori, 1997. Per le lettere e il carteggio: Epistolario, a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, voll. 2, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Per le edizioni critiche e in riproduzione: Operette morali, Edizione critica ad opera di Francesco Moroncini, Discorso, corredo critico di materia in gran parte inedita, con riproduzioni d’autografi, voll. 2, Bologna, Licinio Cappelli, 1929; Operette morali, Edizione critica a cura di Ottavio Besomi, Milano, Fondazione e Alberto Mondadori, 1979. Canti e Operette morali, Riproduzione in fac-simile dell’edizione Starita 1835 con correzioni e aggiunte autografe dell’Autore, Napoli, Alberto Marotta Editore, 1967; Canti, volume primo, Edizione critica di Emilio Peruzzi, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli e Recanati, Centro Nazionale Studi Leopardiani, seconda edizione riveduta e ampliata, 1998; Canti, volume secondo, Edizione fotografica degli autografi, a cura di Emilio Peruzzi, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli e Recanati, Centro Nazionale Studi Leopardiani, seconda edizione riveduta e ampliata, 1998. Per la biografia, l’ambiente napoletano e l’iconografia: Giacomo Leopardi: la vita i luoghi le opere. Catalogo della mostra, Napoli, Macchiaroli, 1990; Album Leopardi, con un saggio biografico e il commento alle immagini di Rolando Damiani. Ricerca iconografica di Eileen Romano, Milano, Meridani Mondadori, 1993; Ministero dei Beni Culturali, Ufficio Centrale per i Beni Librari, le Istituzioni Culturali e l’Editoria, e Biblioteca Nazionale di Napoli [a c. di], Giacomo Leopardi da Recanati a Napoli, Catalogo della Mostra, 16 gennaio - 15 marzo 1999, Napoli, Macchiaroli, 1998; Chiarini, Giuseppe, La vita di Giacomo Leopardi, Firenze, Barbera, 1921 (ed. stereotipa: Manziana, Vecchiarelli, 1988); Damiani, Rolando, All’apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi, Milano, Mondadori, 1998 Damiani, Rolando, Leopardi e Napoli, 1833-1837. Sodalizio con una città. Tra nuovi credenti e maccheroni. Documenti e testimonianze, Napoli, Generoso Procaccini, 1998. 56 Paolo De Caro Levi, Giulio Augusto, Giacomo Leopardi, Messina, Principato, 1931; Marti, Mario, Leopardi e Napoli, in Le città di Giacomo Leopardi, Atti del VII Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 16-19 novembre 1987), Firenze, Olschki, 1991, pp. 159-196; Marti, Mario, I tempi dell’ultimo Leopardi (con una “Giunta” su Leopardi e Virgilio), Galatina, Congedo Editore, 1988; Ranieri, Antonio, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Napoli, Berisio, 1965; Zumbini, Buonaventura, Il Leopardi a Napoli. Discorso commemorativo letto il giorno XXVII giugno MDCCCXCVIII nella Società Reale di Napoli, Napoli, Stabilimento tipografico della Regia Università, 1898. Altri riferimenti nel testo: Allodoli, Ettore, Introduzione, in Giacomo Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia e altre poesie ironiche e satiriche, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1927 Baldacchini, Saverio, Del fine immediato d’ogni poesia (1835), in Purismo e Romanticismo, a cura di Edmondo Cione, Bari, Laterza, 1936, pp. 1-57; Baldacchini, Saverio, Claudio Vannini o l’artista. Canto, Napoli, da R. De Stefano e socii, 1836; Baldacci, Luigi, Il male nell’ordine. Scritti leopardiani, Milano, Rizzoli, 1998; Bellucci, Novella, Giacomo Leopardi e i contemporanei. Testimonianze dall’Italia e dall’Europa in vita e in morte del poeta, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996; Binni, Walter, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni, 1947 (19622); Binni, Walter, La protesta di Leopardi, Firenze, Sansoni, 1973; Blasucci, Luigi, La posizione ideologica delle “Operette morali”, in Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985, Napoli, Liguori, 1978, pp. 165-226; Borsellino, Nino, Il socialismo della “Ginestra”. Poesie e poetiche leopardiane, Poggibonsi, Lalli, 1988; Cappelli, Emidio, Claudio Vannini o l’artista. Canto, in «Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, vol. XIII, a. V, q. XXVI, marzo e aprile 1836, pp. 248-268; Carducci, Giosue, Giacomo Leopardi deputato, in Opere di Giosue Carducci, vol. X, Studi saggi e disscorsi, Bologna, Zanichelli, 1923, pp. 393-412; Carpi, Umberto, Arimane e liberali: il problema della politica nell’ultimo Leopardi, in Il poeta e la politica. 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Croce, volume I, Bari, Laterza, 1926 De Sanctis, Francesco, La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli, a cura di Carlo Muscetta e Giorgio Candeloro, Torino, Einaudi, 1953 De Sanctis, Francesco, Mazzini e la scuola democratica, a cura di Carlo Muscetta e Giorgio Candeloro, Torino, Einaudi, 1961; 57 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia De Robertis, Domenico, L’edizione Starita, in Leopardi. La poesia, Bologna, Clueb, 1998, pp. 333-354; Dolfi, Anna, Sul principio di non contraddizione. Qualche nota aggiunta su una dialettica improgressiva, in « Italies», 2003, n.7, pp. 23-32; Galasso, Guseppe, Il Regno di Napoli. 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Seconda edizione napoletana più corretta, con una lettera dell’egregio Francesco Puoti, Napoli, Marotta e Formoso, Strada Toledo n. 399, sotto il Banco dello Spirito Santo, 1835; Panizza, Giorgio, Dopo Eleandro: le “Operette morali” a Firenze, «Archivi del nuovo», 2000, n.6-7, pp. 5-15; Rigoni, Mario Andrea, Introduzione, in Giacomo Leopardi, La strage delle illusioni, Milano, Adelphi, 2004 (19921); Rigoni, Mario Andrea, Il pensiero di Leopardi, Milano, Bompiani, 1997; Sansone, Mario, La letteratura a Napoli dal 18oo al 1860, in Storia di Napoli, a c. di Luigi Labruna, vol. IX, Napoli, ESI, 1978; Savarese, Gennaro, L’eremita osservatore. Saggio sui “Paralipomeni” e altri studi su Leopardi, Roma, Bulzoni,1995; Staël [Madame de], Corinne ou l’Italie, Édition présentée, établie et annotée par Simone Balayé, Paris, Gallimard, 1985; Timpanaro, Sebastiano, Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi, in Classicismo e illumnismo nell’Ottocento italiano, Seconda edizione accresciuta, Pisa, Nistri-Lischi editori, 1969, pp. 133-182. Per la storia della Biblioteca Provinciale di Foggia: De Biase, Oreste, La Biblioteca Comunale di Foggia, in «Accademie e Biblioteche d’Italia», Roma, Libreria del Littorio, anno V (1931), pp. 279-282; Urbano, Maria Rachele, Un fondo di Settecentine della Biblioteca Provinciale di Foggia. Catalogo e cenni storici della Biblioteca. Tesi di laurea in Biblioteconomia e Bibliografia. Relatore Prof.ssa Maria Gioia Tavoni. Università degli Studi di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lettere moderne, Anno Accademico 1995-1996, Sessione estiva. Ringraziamenti e dedica Desidero ringraziare per la loro cortese disponibilità e gentilezza la Dott.ssa Marisa Anzalone, Direttrice della Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avel58 Paolo De Caro lino, la dottssa Marina Boni della Biblioteca Didattica d’Ateneo dell’Università degli Studi di Macerata, la dott.ssa Chiara Fagiolo della Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano, le dott.sse Maria Rosaria Grizzuti, Emilia Ambra, Gabriella Mansi e il dott. Vincenzo Boni della Sezione Manoscitti (Carte Leopardi) della Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli. Un ringraziamento speciale va al Direttore, dott. Franco Mercurio, e al personale, molto rinnovato in questi ultimi anni, della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia, e in particolare alle dott.sse Gabriella Berardi e Maria Musci, alla sig.na Doriana Scaramuzzi e al sig. Alessandro Ursitti. Dedico questo lavoro alla memoria del dottor Mario Giorgio, già direttore di questa Biblioteca. Era un uomo onesto e un burbero benefico, amantissimo della famiglia e della natia “poetica” Rocchetta. L’avevo conosciuto ai tempi degli oscuri ipogei di Palazzo Dogana. Ma ci frequentammo soprattutto dai primi anni Novanta, quand’ero sulle tracce di Irma Brandeis, l’ispiratrice americana di Montale. Eccezionalmente, un sabato mattina, decidemmo, lui, Walter Celentano ed io, di andare a mangiare al “Cafone” di Melfi. Era una bella giornata di autunno: ci presero per tre allegri pensionati in vacanza. Se gli chiedevi un consiglio bibliografico, cominciava a ruminare fra sé e si chiudeva in un imbarazzante silenzio. Poi d’un botto s’alzava e ti diceva di seguirlo. Rosso di capelli com’era, scompariva tra gli scaffali con la circospezione e la misteriosità di un riccio nella forra. E ti scovava il libro. Penso che gli avrebbe fatto piacere sapere di questa mia notizia leopardiana, venuta fuori dai vecchi libri della sua Provinciale. 59 Pasquale di Cicco Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642)* di Pasquale di Cicco A Mario Giorgio Volturara Appula è un piccolo centro che sorge sul Sub-Appennino dauno, è prossimo al Molise ed alla Campania, conta poco più di 500 abitanti, vive di agricoltura. «La cattedrale, nel cuore del paese, splendida nella sua pur spoglia facciata e nel suo campanile tozzo, obbliga ogni nuovo venuto a sostare un po’. I ricchi portali antichi, i numerosi stemmi, un trono episcopale, stanno a ricordare che questo minuscolo paese d’oggi, per molti secoli e fino al 1818 è stato importante Sede Vescovile ed ha avuto nella sua giurisdizione diversi paesi ora appartenenti alla Diocesi di Lucera. Senza dire che c’è poi un noto Santuario – quello della Madonna della Sanità – che richiama a sé tutto il Sub-Appennino». Così, circa una sessantina di anni fa, veniva scritto di Volturara, «raggruppata su una collina alle falde del monte Sambuco, bella per i suoi faggi e le sue querce, per le sue ‘rimpe’ e le sue fonti».1 * Nei lontani anni Sessanta del secolo scorso un mio conoscente mi portò in visione un fascicolo manoscritto piuttosto malridotto, riguardante Volturara Appula, informandomi di averlo scovato in un mucchio di vecchie carte giacenti in un angolo di un locale di quel comune, e che si riprometteva di colà riportarlo, una volta che ne avessi valutato l’eventuale interesse e provveduto a ridarglielo. La restituzione avvenne di lì a poco, preceduta da una microfilmatura e da una stampa su carta del fascicolo, e dopo di allora il documento volturarese cadde quasi nel dimenticatoio. Recentemente però due cose lo hanno rimesso in evidenza: la prima, la notizia che la manovra economica progettata dal governo in agosto ’11 prevedeva, fra l’altro, la fine dell’autonomia dei piccoli comuni, con una popolazione inferiore ai 1000 abitanti (e sarebbe stato anche il caso di Volturara); la seconda, l’informazione, ricevuta da sicura fonte, con la quale si veniva a sapere che esso non era presente nell’archivio di spettanza. Ciò è stato di impulso per la divulgazione dell’importante documento posseduto in copia, diventato probabilmente un unicum, e potendosi così in qualche misura rimediare al danno della mancata restituzione da parte del detentore, ormai da gran tempo deceduto. La copia fotografica, già in mio possesso ed ora conservata nell’Archivio di Stato di Foggia, informa che il fascicolo aveva la dimensione di mm. 140x212 ed era formato, indice a parte, di carte 74 numerate + 4 non numerate. Evidenzia inoltre il suo cattivo stato in qualche parte, per macchie di umidità, pezzi mancanti, margini deteriorati. 1 Annibale Facchiano, Il Sub-Appennino Settentrionale, in Collana di “Quaderni Turistici” a cura dell’E.P.T. di Foggia, VII, Arti Grafiche Pescatore, Foggia, s.d., p. 25. 61 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) In effetti attestano che l’odierno modesto paese può vantare una storia molto antica non solo la cattedrale romanica del XIII secolo, il santuario della Madonna della Sanità risalente al XVI secolo, il palazzo ducale Caracciolo, anch’esso cinquecentesco, o il palazzo Pignatelli, già sede della curia vescovile,2 ma anche alcuni importanti documenti, tra editi ed inediti. In altre epoche la stessa popolazione volturarese era ben più numerosa di adesso, ma già nel 1479 «propter guerrarum turbines et alias calamitates que in hoc regno notorie fuerunt Civitas ipsa Vulturariensis fuit et est distructa et disolata et effecta est quasi inabitabilis et nullus in ea habitat nisi quidam Sclavones seu Albanenses in quibus nulla est spes firma circa eorum habitationem pro ut notorium est»,3 come si legge nell’atto con cui Giacomo, vescovo di Volturara, cedeva in enfiteusi e per un modestissimo canone metà della città a Giovannella di Molise. Da costei e da Alberico I Carafa di Napoli, conte di Marigliano, nasce Giovan Francesco che, subentrato alla madre nel feudo pressoché deserto e volendolo rendere redditizio, vi adduce nel 1517 una colonia di Provenzali, chiamati probabilmente tramite i compatrioti di Monteleone, altro feudo dei Carafa,4 attirandoli con vantaggiose condizioni. Dieci anni più tardi gli succede il figlio Alberico II, duca di Ariano, che sposa Beatrice Carafa, ma, avendo parteggiato per i Francesi al tempo della spedizione del Lautrech, subisce la confisca dei beni ed è costretto ad andare esule in Francia. Beneficiario dei beni confiscati è Ferrante Gonzaga, uno dei capitani dell’esercito spagnolo, e la loro concessione viene confermata da Carlo V nel 1532. Lo stesso anno, però, una sentenza riconosce Beatrice Carafa quale signora del feudo di Volturara, nonché di Cercemaggiore nel Molise, essendo gli stessi gravati di ipoteca per la sua dote, ed il 23 maggio la utilis domina concede molti capitoli «a li provenzani che habitano et habitaranno in la … città di Volturara», il primo dei quali riconosce loro il diritto di poter vivere «secondo lloro usu et 2 La diocesi vescovile di Volturara, nata nel 969 con bolla di papa Giovanni XIII, ebbe fine a seguito del Concordato del 21 marzo 1818 fra la Chiesa e il regno di Napoli. Per l’elenco dei suoi vescovi, cfr. Cronotassi iconografia e araldica dell’episcopato pugliese, a cura dell’Unione Regionale dei Centri di ricerche storiche artistiche archeologiche e speleologiche di Puglia, Bari, Assessorato regionale alla Cultura, 1984, pp. 317-318. 3 Cfr. Nicola Checchia, I feudatari e i vassalli di Volturara, in Iapigia, anno XIV (1945), p. 27, per la citazione riportata da F.M. Zara, Per la Real Cattedrale, ed Università della città di Volturara, contro il vescovo di quella Diocesi. Nella Suprema Giunta Ecclesiastica, Napoli 1798. Nel suo pregevole studio questo autore esamina scrupolosamente i molti fattori ipotizzabili quali cause determinanti della desolazione di Volturara (scorrerie dei saraceni stanziati a Lucera, terremoto del dicembre 1456, guerre, vescovi che abbandonano la città per risiedere a San Bartolomeo in Galdo, malaria), ma è costretto a concludere che «il progressivo spopolamento di Volturara… rimane, ad onta delle molte, e tutte valide, ragioni addotte per spiegarlo, un fenomeno che sfugge ai nostri mezzi d’indagine. Anche perché allo stato attuale delle nostre conoscenze noi non possediamo dei documenti probativi, anche se di semplice cronaca paesana, che valgano ad assegnare al fenomeno, per tanti aspetti interessante, una causa bene accertata…» (p. 35). 4 A questa ipotesi si contrappone l’altra, fatta dall’Amabile, secondo la quale gli emigrati a Volturara non erano in realtà dei Provenzali, ma Piemontesi della valle di Frassiniere e di altre valli alpine, al di là di Pinerolo, rifugio dell’eresia valdesiana (Checchia, cit., pp. 48-49). 62 Pasquale di Cicco consuetudine et… maritare lloro figliole ad loro posta», mentre il capitolo 28 riconosce il diritto di emigrare altrove.5 Ma, volendo illustrare lo statuto dei Provenzali di Volturara concesso dalla duchessa di Ariano, è sufficiente riportare testualmente il preciso compendio fattone dal Ceci, in cui trovano sintesi i capitoli più importanti. «Nei quali sono da notare soprattutto le disposizioni sulle libere proprietà che si costituivano colle case, le vigne, gli orti e i giardini donati dal barone ai Provenzali senza obbligo di alcuna prestazione e coi terreni dati per seminare vincolati dalla sola prestazione della dodicesima parte dei prodotti. Accanto a queste proprietà private si stendeva il demanio, sul quale tutti i coloni avevano il dritto di legnare e di far pascolare da ogni specie di animali; la difesa dell’Università che era riserbata ai buoi da lavoro; e la difesa baronale sulla quale sono pure riconosciuti parecchi dritti dei coloni. Questa non poteva ampliarsi mentre la difesa dell’Università sarebbe stata allargata qualora il bisogno dell’industria agricola avesse ciò richiesto; e difese temporanee potevano crearsi nel tenimento ad uso dei massari. Si aggiungevano, sempre in vantaggio dell’agricoltura, l’anticipo della semenza pel primo anno di coltivazione, minute prescrizioni di polizia rurale, la limitazione dei servizi personali, la libertà di vendere il grano senza aspettare, come era prescritto in altre città feudali, che il barone avesse venduto prima il suo, la libertà di uscire di notte dalla città secondo richiedevano i lavori campestri, e l’obbligo dell’erario di riscuotere sulle aie la dodicesima e di non molestare i coloni dopo che avessero conservato il grano, e il divieto al feudatario di dar in pascolo ai maiali le spighe rimaste nel campo dopo la mietitura essendo esse riserbate ai poveri. Riserbati al feudatario erano la molitura (un ventesimo), il fornatico (un venticinquesimo), ma non il jus tabernae, e libera era la caccia collo schioppo e le balestre, essendo soltanto sottoposte a un piccolo contributo quelle coi lacci, le tagliole e i fossi. Un solo articolo è dedicato al governo municipale, ma parecchi regolano l’amministrazione della giustizia e la bagliva dalle quali si cerca di eliminare ogni abuso. I Provenzali, nelle vicendevoli relazioni, si riserbavano di regolarsi secondo le loro antiche consuetudini e ottenere la piena libertà nei matrimoni e quella di emigrare: il feudatario, infine, prometteva di ottenere a loro l’esenzione dai pesi fiscali per un decennio. Nel complesso le condizioni fatte ai Provenzali appaiono migliori di quelle che in quei tempi ottenevano i vassalli di altri comuni rurali.»6 5 Questi capitoli, rinvenuti nell’Archivio di Stato di Napoli, sono stati pubblicati nel 1917 da Giuseppe Ceci con il titolo Lo Statuto dei Provenzali di Volturara (editore Vecchi di Trani, opuscolo fuori commercio). Secondo lo studioso, la duchessa di Ariano Beatrice Carafa, più che concedere nuovi capitoli alla colonia provenzale, in effetti confermava gli accordi che certamente erano stati presi anni prima, nel 1517, al tempo dell’emigrazione. Lo statuto dei Provenzali consta di 82 capitoli che ebbero la conferma della duchessa il 24 maggio 1534 e l’approvazione sovrana il penultimo di febbraio 1536. 6 Ceci, cit., pp. 6-7. 63 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) *** Con i capitoli successivi a quelli della duchessa di Montecalvo che i vari feudatari concessero alla città di Volturara nel Cinquecento e nel Seicento, rimasti sinora inediti, il fascicolo manoscritto contiene anche: - capitoli della portolania decretati dalla Regia Camera della Sommaria (18 novembre 1557): - delibera consiliare relativa al mastro portulano (11 ottobre 1638, lacunosa); - notamento di tutte le vie, «tanto quelle che vanno per lo territorio, quanto quelle che vanno alle vigne»; - provvisioni della Camera della Sommaria sulla giurisdizione del portolano (28 maggio 1639);7 - promesse di vari governatori di rispettare i capitoli dell’università (1722 ed anni successivi; originale); - delibera consiliare riguardante la difesa dell’università (20 marzo 1729; copia per notaio Paolo Tomaselli di Lucera); - obblighi assunti dal dr. Baldassarre Guerra di Torrecuso, governatore della città (4 marzo 1730; copia c. s.). - obblighi assunti dai governatori Eustachio Trabuscia di Toro (20 febbraio 1758), Saverio Carapelle di Pietra Montecorvino (9 gennaio 1760), Innocenzio Lombardi di Morrone (3 aprile 1762); originali; - due provvisioni della Camera della Sommaria (3 marzo 1721 e 14 maggio 1739), dai testi lacunosi e parzialmente illeggibili (la seconda è copia estratta dal notaio Tomaselli). *** Nel 1538 il reggente della Vicaria Francesco Antonio Villano concentra nelle sue mani il dominio diretto e quello utile del feudo di Volturara, avendo acquisito il primo da Ferrante Gonzaga «con suo castello seu fortellezza e omnimoda giurisdizione civile, criminale e mista, mero e misto imperio», ed il secondo per cessione fattagli da Beatrice Carafa. I capitoli che ora si pubblicano e gli atti del fascicolo sin qui elencati formano la copia di un originale che il sindaco di Volturara Gabriele Campolattano presentò al notaio concittadino Antonio de Rosa e da questi fu collazionata ed autenticata in tre momenti diversi, non si sa quando, ma dopo il 1693, come può dedursi dalla carta 48r. del fascicolo stesso. La trascrizione, dovuta ad un’unica mano e non priva di errori, specie nelle parti in latino, occupa le carte 1r.64r. del fascicolo, lasciando bianche le carte 40v.- 43v., 48v., 57v., 58r.e v.; mancano le carte 57v.-59r. Dalla carta 54 in poi le macchie presenti nella parte superiore diventano sempre più ampie, pregiudicando la leggibilità dei testi. L’indice anteposto al tutto è alquanto disordinato verso la fine e mostra qualche aggiunta di altra mano. Alla sinistra dei singoli capitoli si leggono “occhi marginali” che vengono omessi nell’edizione, ma sono stati utilizzati per integrare la “Tavola delli capitoli”, qua e là manchevole. 7 64 Pasquale di Cicco Il nuovo signore, spendendo 162 ducati, compra nel 1540 dalla Regia Corte la giurisdizione delle seconde cause civili, criminali e miste e qualche tempo dopo chiama altre famiglie di Provenzali a ripopolare maggiormente il suo feudo e fa loro firmare altri capitoli che prevedono nuovi diritti feudali.8 I capitoli del Villano sono inizialmente 102, cui poi se ne aggiungerà un altro, e tutti vengono presentati a Napoli l’8 gennaio 1541. Il 9 ed il 10 maggio successivo ne vengono concessi altri due. Alla loro stipula provvede il notaio Antonio de Trusianis di S. Bartolomeo in Galdo. Essi confermano molti dei capitoli dati a suo tempo dalla duchessa Carafa tutti quelli più importanti - presentandoli addirittura nello stesso ordine già loro proprio, ma molti sono innovativi e frutto di altri accordi dell’università con il nuovo signore. Sono tali quelli relativi alla vecita nel mulino della Corte, “da osservare inviolabilmente” eccetto in due casi; ai doveri del camberlingo o alle spettanze del capitano; al congruo esercitabile entro sei mesi dalla vendita del bene; all’utilizzo e custodia dell’algaria; alla possibilità per i governanti cittadini di fare nuove norme contri i danneggiatori di vigne ed altri fondi e di aumentare le pene già previste; alla facoltà del figlio di famiglia o della moglie di muovere accuse, ma solo se esse sono confermate dal padre o dal marito; al diritto dei cittadini di poter macinare nei centimoli per uso proprio e per la vendita, senza nulla dovere alla Corte, quando il mulino di questa è insufficiente a soddisfare l’università; alla proprietà dei frutti degli alberi che cadono nei fondi altrui; all’eredità delle persone che muoiono senza testamento e senza figli; all’obbligo degli ufficiali del barone di tenere copia dei capitoli dell’università, esonerando questa dal doverli presentare nella Corte, quando necessario; ai servizi che il giurato è tenuto a prestare; alla possibilità di rimboscare quella parte del bosco demaniale messo a coltura da alcuni privati, e dando a questi un’equivalente porzione di terreno in altro luogo, ed altri ancora. Questi capitoli vennero tutti confermati il 16 luglio 1548 da Vincenzo Carafa dei duchi di Ariano, fratello del ribelle Alberico II, che aveva acquistato il feudo di Volturara per il prezzo di 16500 ducati, ed ottenuto il regio assenso da parte del viceré Pietro di Toledo.9 Nei tempi successivi il tentativo del nuovo barone di spogliare i cittadini dei loro diritti sul bosco demaniale sfociò in una causa innanzi al Sacro Regio Consiglio, cui pose termine una convenzione stipulata in Napoli il 20 novembre 1557 tra il Carafa e il procuratore dell’università Antonio Miotto. Questa convenzione dava origine ad altri nove capitoli, stesi dal notaio napoletano Aniello Mazza il 20 novembre 1557, e riguardanti i primi tre il bosco 8 9 Checchia, cit., p. 36. Ibid., p. 37. 65 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) demaniale, e gli altri il pagamento annuo ed in tre rate della somma di ducati 60 che l’università avrebbe dato al feudatario in cambio delle due giornate di lavoro dovute dai vassalli, la remunerazione di servizi personali prestati alla Corte, la raccolta libera e gratuita delle ghiande nei luoghi da seminare, lo “sfreddo seu mancamento” del vino e il “crescimonio” del grano della Corte. Nel 1569 Bartolomeo Caracciolo acquista il feudo per ducati 29200 «con suoi uomini e vassalli; intrade, ragioni, iurisdizioni, mero etc., cognizione di prime e seconde cause, mercato solito a farsi e con annui ducati 81 de’ suoi pagamenti fiscali etc.». Lo stesso anno, l’8 maggio, conferma ai volturaresi le concessioni del Villano e del Carafa, concede un’ampia amnistia, e decide inoltre circa il vino della Corte e suo smaltimento da parte del camberlingo e gli emolumenti della mastrodattia, con quattro capitoli firmati in Volturara, cui ne seguirà un altro in data 16 ottobre. Con diploma del 1589 Filippo II insignisce Bartolomeo Caracciolo del titolo di marchese di Volturara, che di lì a poco passerà al figlio Giovanni Battista, a favore del quale egli ha rinunciato al feudo.10 Il nuovo signore concede due nuovi capitoli il 9 maggio e l’1 novembre 1600, con il primo dei quali, aderendo ad una richiesta dell’università, ordina al capitano ed al mastrodatti di rispettare la vigente pandetta dei diritti e le altre disposizioni di legge, cessando ogni abuso, e con il secondo si occupa della Corte del mastromercato, attiva durante la fiera di S. Luca, e delle contumacie che presso di essa possono cancellarsi entro le 24 ore. Giovanni Battista Caracciolo muore l’8 agosto 1623, lasciando erede il figlio Francesco, che qualche anno dopo ottiene il passaggio del titolo marchionale sull’altro suo feudo di Cervinara e vende nel 1628 Volturara a Fabrizio Montalto, figlio del duca di Fragnito, per il prezzo di ducati 51188.11 Il Montalto stipula con l’università una nuova convenzione, formulata per mezzo di 18 capitoli12 ai quali un pubblico parlamento, riunitosi a Volturara il 9 febbraio 1642, darà approvazione, essendo sindaco Michele Aglialdo, ed eletti Gabriele Barone, Filippo Lantare, Laurenzo Briante e Pietro Giarrusso. Questi capitoli sono gli ultimi concessi ai volturaresi dai loro feudatari. Dopo i Montalto, infatti, gli ultimi signori di Volturara, dal 1696 alla fine del feudalesimo - Pompeo Pignatelli duca di Montecalvo e i suoi eredi e successori non stabiliranno altre intese con l’università, ma intesseranno con essa un rapporto teso e spesso litigioso.13 Ibid., p. 38. Ibid., pp. 39-40. 12 Questi esibiscono stranamente una erronea numerazione; inoltre alcuni di essi ripetono nella sostanza, con qualche variante e precisazione, quanto gia detto in altri precedenti (così, ad es. il cap. 128 rispetto al 122, il cap. 129 rispetto al 123, ecc). 13 Checchia, cit., pp. 43-44. 10 11 66 Pasquale di Cicco Tavola delli capitoli Libertà di vivere a loro uso Case, vigne, et horti franchi Terraggi d’ogni dodeci uno Libertà di vendere case, et altre Concessione di defesa Al molino vecita d’ogni venti uno Al molino preferito il padrone Furno e furnatico Grano inpronto Libertà di tagliare al domanio Tagliare et affrondare Pena alla defesa dell’università Accrescere detta defesa Non si faccia difesa per l’università Farsi casali Forno alli casali e furnatico Libertà di eligere il (governo) ( Mutar il capitanio e stare al sindacato) Erario riceve li terraggi Camerlingo conserva le vittovaglie della Corte Il camerlingo e sindico franchi Il camerlingo franco de casata Il camerlingo non deve far pane Come si comandano dal barone i cittadini Forastieri non possono pascolare alla spica Fare osteria Ricogliere glianda Entrare alla difesa a fida Civili non si tengono priggione Carcerati non extrahantur Stornare l‘accuse fra tre dì Quello si deve al capitanio Le cause minime del camerlingo Del reggere Corte Lunedì franco Macellare il sabato (Carne) mortacina a pezzate (Pondere) delli catapani (Quanto si paga) di scannagio (Dannificanti) 67 c. 1 c. 2 c. 3 c. 4 c. 5 c. 6 c. 7 c. 8 c. 9 c. 10 c. 11 c. 12 c. 13 (c. 14 (c. 15 (c. 16 (c. 17 (c. 18 c. 19 c. 20 c. 21 c. 22 c. 23 c. 24 c. 25 c. 26 c. 27 c. 28 c. 29 c. 30 c. 31 c. 32 c. 33 c. 34 c. 35 c. 36 c. 37 c. 38 c. 39 c. 40 f. 1 f. 1 f. 1 f. 1 f. 1 f. 1 f. 2 f. 2 f. 2 f. 2 f. 2 f. 3, e … f. 3 f. 3) f. 3) f. 3) f. 3) f. 4) f. 4 f. 4 f. 4 f. 4 f. 4 f. 4 f. 5 f. 5 f. 5 f. 5 f. 5 f. 6 f. 6 f. 6 f. 6 f. 6 f. 6 f. 6 f. 6 f. 6 f. 7 f. 7 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) (Pesi e misure) (Libertà di vendere) Pena de lemiti Bestie a far danno a vigne piene A vigne vendemiate Porci a far danno da poi vendemiate Danno all’aire et acchii Bestie impastorate Chi passa per lavore seminato Chi va per le vigne et orti Porci vicino alle fontane Bestiame menute a far danno Pena de porci a padule Animali minuti a lavori dove non v’è danno non si paga pena Che ogni cittadino possa andare o legnare al bosco di S. Antonio ogni sorte d’arbori tanto fruttiferi quanto infruttiferi senza licenza doversi […] la causa perché può fare detto taglio senza licenza Lo palo dal baglivo Coglieri quanto paghino Frutti, sale, e legume durante (venti)quattro hore non si possono comprare Doppia pena alla vigna della Corte Pena di rompere fratte Pena alle mete Rompere fratte, e mete Li catapani pongono li frutti Libertà di vendere, e dishabitare Libertà di vendere vittovaglie Il cittadino leva la roba al forastiero comprata Pena alla difesa della Corte de bestiame A detta difesa pena de bestie minute Pena de ingiurie Pena de giochi Pena de tumulto Caccia Casalini Congruo Succedano l’heredi Tutti servono 68 c. 41 (c. 42 c. 43 c. 44 c. 45 c. 46 c. 47 c. 48 c. 49 c. 50 c. 51 c. 52 c. 53 f. 7 f. 7) f. 7 f. 7 f. 8 f. 8 f. 8 f. 8 f. 8 f. 8 f. 8 f. 8 f. 9 c. 54 f. 9 c. 123 c. 55 c. 56 f. 31 f. 9 f. 9 c. 57 c. 58 c. 59 c. 60 c. 61 c. 62 c. 63 c. 64 c. 65 c. 66 c. 67 c. 68 c. 69 c. 70 c. 71 c. 72 c. 73 c. 74 c. 75 f. 9 f. 9 f. 9 f. 10 f. 10 f. 10 f. 10 f. 10 f. 11 f. 11 f. 11 f. 11 f. 11 f. 11 f. 11 f. 11 f. 12 f. 12 f. 12 Pasquale di Cicco Franchi dall’università Quanto si può entrare alla difesa di Corte L’algaria Libertà dell’algaria Libertà d’andare senza fuoco per la terra Demanio Libertà di fare statuti Libertà de cogliere, et (abbattere) frutti nelli campi e possessioni Fontane per le spese fatte per publico beneficio Fare consegli Libertà de macinare a centemoli Quanto si paga al centimmolo Contribuire a fare l’inforzi Figlio fameglia, e moglie non possono accusare Gl’ albori si stendono nelle possessioni d’altri Contusione con effusione di sangue Manco de quindeci anni facendo sangue Chi taglierà herba a paduli Libertà d’andare ad habitare Libertà ut supra, e tenere le robbe alla Volturara Li più propinqui hereditano La Corte carrea la parte sua dall’aire Pena de bestia grossa a paduli Aggiuto ad impetrare il reggio assenzo Non siano tenuti mostrare ogni volta li capitoli Franchi di scannagio Scannagio di vitella e vitello Il giurato non sia tenuto al capitanio a servitii privati Pena stabilita alla difesa dell’università, alla Corte, et università Che se lasa il cacciato nel destretto del demanio Libertà de bosco di demanio per la mità della banna de lavorie de Viani Libertà all’altra banda di detto bosco eccetto pascere, e gliandare da Santo Angelo di settembre per li 15 di febraro Pena nella detta mità Accordio per le due giornate prestande se pagano ducati sessanta l’anno Che per li servitii la Corte in territorio segui il solito 69 c. 76 c. 77 c. 78 c. 79 c. 80 c. 81 c. 82 c. 83 c. 84 c. 85 c. 86 c. 127 c. 87 c. 88 c. 89 c. 90 c. 91 c. 92 c. 93 c. 94 c. 95 c. 96 c. 97 c. 98 c. 99 c. 100 c. 101 c. 102 c. 103 f. 12 f. 12 f. 13 f. 13 f. 13 f. 13 f. 13 f. 13 f. 14 f. 4 f. 14 e c. 131 f. 14 f. 14 f. 14 f. 15 f. 15 f. 15 f. 15 f. 15 f. 15 f. 16 f. 16 f. 16 f. 16 f. 16 f. 16 f. 17 f. 17 c. 104 c. 105 f. 18 f. 18 c. 106 f. 21 c. 107 c. 108 f. 21 f. 21 c. 109 f. 22 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) darsi da cittadini e fuora territorio quello comanda la regia pramatica c. 110 f. 22 Toccolare gliande dove si semina c. 111 f. 22 Fare buono il sfreddo del vino c. 112 f. 23 Restino firmati tutti i capitoli c.113, e 114 f. 23 Confirmatione de capitoli c. 115 f. 26 Indulti c. 116 f. 26 Che il camberlingo non habia carico del vino c. 117 f. 26 Che la pandetta non s’habbia da partire tra capitano e mastrodatti c. 118 f. 26 Accordio di fare il camberlingo che haverà peso di ricevere e smaltire le vittovaglie e per il dare paglia, e legna al capitanio sono date le taverne c. 119 f. 27 Che si osserva la panneta nelle cause minime c. 120 f. 28 Che alla feria di Santo Luca se osserva la pannetta c. 121 f. 29 Per le contumatie nella fiera di San Luca come all’altre ferie c. 122 f. 29 Pandetta da osservarsi dalli mastrodatti presenti e futuri colla pena del doppio et altro riserbato ad arbitrio et questo s’intende anco nella fiera di S. Luca nel mastro mercato confirmato nella Pietra Monte corvino sotto la data dalli 8 di marzo nell’anno 1642 con la firma della B. et del sig. Duca di Fragnito nell’ultimo foglio f. 44 Il giurato per li servitii privati c. 103 f. 17 Li cittadini possano andare a legnare nella difenza di Santo Antonio c. 123 f. 31 Non si possano commandare li cittadini delli commandamenti personali c. 124 f. 31 Condottura di macine del molino aspetta al padrone c. 125 f. 31 Dove il padrone promette fare osservare la pannetta dalli capitani e mastrodatti e capitoli c. 126 f. 31 Il territorio doppo sette anni non coltivato il padrone possa dispenzare c. 127 f. 32 Li cittadini possano fare ogni sorte d’animali c. 127 f. 32 Quelli che sono soliti alli commandamenti c. 128 f. 33 Concessione della defenza assoluto della università c. 122 f. 30 Condotture di macine a sue spese c. 109 … Osservatione de capitoli c. 130 f. 34 Il territorio doppo sette anni non coltivato c. 132 f. 35 Ieffare erba c. 133 f. 36 Tenere animali c. 134 f. 36 Per li memoriali spedite di gratia c. 136 f. 36 70 Pasquale di Cicco Causa per cui si pagano ogni anno alla Camera Ducale li docati 83.45.0 c. 131 f. 34 tergo Iesus Maria Ioseph Capitoli, patti, conventioni, gratie, statuti legge, leggi municipali della città della Volturara, col nome d’Iddio se adimandano all’eccellente signore Francesco Saverio Villano de Napoli utile signore di detta città per il camberlingo, sindico, eletti, università et huomini detti vulgarmente Provenzani quali habitano nella città della Volturara e nelli casali quali se edificassero nel territorio de detta città di V. E. e sono l’infrascritti. 1 In primis supplicano Vostra Eccellente che se degni gratiosamente e benignamente concedere alli detti università et huomini di detta città tanto presenti che habitano, quanto quelli che in futurum ce habitaranno possino vivere liberamente secondo lor uso, consuetudine, stili e riti sincome sin al presente hanno vissuto et signanter che possino maritare et insorare loro figli e figliole ad arbitrio e volontà delli padri, fratelli et altri a chi spetterà maritare et insorare loro figli, et altri. Placet. 2 Item supplicano Vostra Signoria Eccellente voglia concedere a quelli che sono venuti e che in futurum veneranno ad habitare in detta città a detti Provenzani case, vigne, horti e giardini franchi e liberi e senza alcun pagamento et altro peso de qualsivoglia modo. Placet concedere Provenzanis qui in posterum venient ad habitandum in dicta civitate tantum terrae quod sufficiat pro domibus, vineis, iardenis et hortis, et cum hoc tamen pacto quod teneantur infra competens tempus statuendum aedificare domos et plantare vineas et similiter providere illis qui iam de novo venerunt et eis huc usque non fuit provisum. 3 Item supplicano V. S. Ecc.te si degni concedere a detti Provenzani presenti e futuri tanti territorii da seminare grani, orzi et ogni altra vittovaglia che vorranno che sia per lor basto, et alla ricolta faranno de dette vittovaglie non siano tenuti respondere né dare a V.S. Ecc.te salvo de ogni dodeci uno, sincome è solito e consueto, e così a suoi heredi e successori. Placet prefatis civibus presentibus et futuris, quibus non fuit sufficienter provisum, providere et concedere tantum terrae quod eis sufficiat designandum per officiales seu alios deputandos ad id per nos, pro quibus teneantur respondere de singolis duodecim tumulis tumulum unum Curiae. 71 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) 4 Item supplicano V. S. Ecc.te si degni concedere a detti Provenzani presenti et futuri habitatori che possino liberamente e senza impedimento alcuno vendere, alienare, dare in dote, lasciare in testamento l’uno all’altro dette case, vigne, territorii, riservando sempre le ragioni della Corte cioè il terraggio de ogni dodeci tommola uno, come è detto. Placet inter cives tantum, salvo tamen dominio Baronalis Curie, ac salvo iure exigendi de fruttibus dicti territorii de singulis duodecim partibus unum, ut supra. 5 Item supplicano V. S. Ecc.te si degni farli continuare nella pacifica possessione et quatenus opus est di nuovo concedere della difesa della Ripa delli Corvi per loro bovi, et altre bestie domite, e che sia ampliata, et allargata sincome era nel tempo del sig. duca Alborico iovene per fin dove si dice la via di Castelvetere e che in detta difesa non ci possono né debbiano pascolare bestie forastiere, sincome è costumato per il passato. Placet confirmare dictam defenziam dicte universitati tenendam per eam et homines ipsius, pro ut attenus extitit consuetum; quo vero ad ampliationem dictae defentiae, viso loco, oportune providebitur. 6 Item supplicano V. S. Ecc.te non li faccia pagare de molitura nel molino della Corte più che d’ogni vinti uno come è lor solito, che in quello non possino macinare forastieri quando ci sarà grano delli cittadini, ecetto con volontà e licenza del cittadino al quale tocca la vecita del macinare per causa della penuria sull’acqua e che nesuno di detta città habbia la vecita se non il capitanio, e che la Corte sia tenuta tener molinaro a sue spese. Placet quod servetur vicenna seu vecita inter omnes, quo vero ad solutionem attento quia universitas tenetur asportare molas suis sumptibus in dicto molendino, et aptare aquae ductum, placet quod non exigatur nisi de singolis viginti partibus unam tantum. 7 Item supplicano V. S. Ecc.te se degni concedere che fra li cittadini et habitatori della detta città della Volturara s’habia da osservare inviolabilmente la vecita nel molino della Corte talmente, che l’uno non possa levare la vecita all’altro, ancorchè fosse clerico seu qualsivoglia privileggiata persona, eccetto quando bisognasse macinare per bisogno de V.S. Ecc.te e sua famiglia e capitanio. Placet. 8 Item supplicano V. S. Ecc.te se degni habiano da pagare al fornaro della […] della Corte per la cocitura del pane se non de ogni venticinque uno per lo furnatico, sincome è solito e consueto, e che la Corte sia tenuta tenere la fornara a sua spese. Placet attento quod quilibet coquere volens panem in dicto furno teneatur asportare ligna necessaria. 72 Pasquale di Cicco 9 Item supplicano V. S. Ecc.te si degni far improntare grani et altre vittovaglie alli Provenzani che in futurum venessere ad habitare in detta città per lo primo anno, attale possono havere alcuno principio de guadagnare per poter vivere per habitare. Placet. 10 Item supplicano che possano tagliare per tutto il demanio di detta città legna per le loro case e massarie, e quando non se trovassero legnami nel demanio sia lecito a detta università et huomini posserno liberamente e senxa impedimento alcuno tagliare per detto loro uso alla difesa della Corte. Placet quo ad domanium, quo vero ad defentiam quando casus occurret cum nostra (licentia) vel nostri officialis. 11 Item supplicano V. S. Ecc.te si degni restar contenta che al domanio di detta città li cittadini possono tagliare liberamente per ogni lor uso e necessità de industrie et uso proprio de case, massarie, per fuoco, e per chiudere possessioni qualsivoglia sorte de albori, ma per affrondare bovi non si habbia da tagliare cerri né cerque dal piederone ma solo li rami. Placet pro usu tantum hominum dicte civitatis. 12 Item supplicano che, ritrovandosi bestie forastiere nella difesa dell’università, sia tenuto il padrone di dette bestiami pagare grana cinque per bestia grossa, e per bestia minuta grano uno, e detta pena s’habbia d’esiggere per il capitanio, et esatta habbia da entrare in darsi in potere dell’università da convertire nella fabrica e beneficio di detta università. Placet quod exigatur pena solita et consueta quae applicatur Curie Baronali. 13 Item supplicano V. S. Ecc.te che se degni promettere che, venendo in augumento detta città così de habitatori come de animali, di modo che non bastasse per loro bovi la difesa, che detta università tiene al presente, la vogli ampliare et allargare, tanto che sia in bastanza per uso delli bovi di detta università. Aucta unversitate providebitur. 14 Item supplicano V. S. Ecc.te che per l’avenire non facesse altra difesa che quella che tiene al presente, né tampoco farla fare ad alcun altra particolare persona. Placet. 73 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) 15 Item supplicano V. S. Ecc.te che per il tempo da venire gl’homini di detta città, o altri Provenzani che di nuovo venissero e volessero far casali nel territorio di detta città, et in quelli habitare per loro meglio comodità possino e li sia lecito e senza contradittione potere habitare in detti casali e stare alli capitoli, statuti e consuetudine che staranno quelli che habitano dentro detta città. Placet quod casalia edificanda edificentur in loco congruo et concedenti designando per Baronem et utilem Dominum dicte civitatis. 16 Item supplicano V. S. Ecc.te che per il tempo da venire si facessero alcuni casali nuovi nelli detti tenimenti di detta città, e non volendo la Corte farce forni, sia lecito a quelli che habitaranno in detti casali farseli essi, o alcuno di essi furno a loro volontà per cocere loro pane senza impedimento né pagamento alcuno, però volendo farli la Corte habiano da pagare per lor pane quale ci cuoceranno di ogni cinquanta uno. Placet, et si non construet seu construi faciet furnum in casalibus in posterum aedificandis, non possit alibi coqui panis servatur intus civitatem, et similiter solvatur pro ut solvitur in furno civitatis itaquae utrobiquae aequaliter, et eodem modo exigatur. 17 Item supplicano V. S. Ecc.te che possino eliggire ogni anno in capo del tempo, che alli otto di settembre tre huomini da bene per il reggimento di detta città delli quali la Corte ne possa eliggere uno per camberlingo, e l’altri due restino per sindeci e dopoi detto camberlingo e detti sindeci possono eliggere gli altri, che bisognano al governo di detta città. Placet quod officiales pro reggimine civitatis libere eligantur per universitatem iusta forma Regiae Pramaticae, convocata universitate ut moris est. 18 Item supplicano V. S. Ecc.te se degni far mutare ogn’ anno il capitanio, che manderà in detta città e fenito l’anno habbia da stare a sindicato, e che le composte se faranno s’habbiano tutte da notare nel libro seu nell’atti per lo mastro d’atta, et anco nel libro dell’erario e s’habbiano d’esiggere per l’erario, e quando s’esiggono se n’habbia a far polisa de recepto per l’erario se saprà scrivere, e se non per il mastrodatta della Corte senza pagamento alcuno. Placet. 19 Item supplicano V. S. Ecc.te che l’erario sia tenuto ricevere li grani, orzi et altri vittovaglie appartinentino alla Corte nel tempo dell’aire, e restando da esse esigere dalli massari di detta città possino detti massari lasciarli a suo risico et 74 Pasquale di Cicco interesse in dette, e che non li possa sfossare né fare sfossare dalle fosse de detti massari. Placet, requisito tamen erario tempore congruo, et abili. 20 Item supplicano V. S. Ecc.te che detti grani et altre vittovaglie, che specteranno a V. S. Ecc.te e sua Corte, dett’erario l’habia da conservare e tenere in suo potere, fortuna et risico, di maniera che il camberlingo non li sia tenuto a darne conto alcuno, né tenerne carico o altro peso per esserne occupato et impedito all’ufficio suo e servitio della terra. Placet quod conserventur per camerarium iusta solitum. 21 Item supplicano V. S. Ecc.te che nullo de detti cittadini et habitanti sia esente o franco dalli commandamenti e servitii che si devono alla Corte et alla terra, eccetto il camberlingo e sindeci secondo ab antiquo e, quando occorre il bisogno, ciascuno s’habbia a comandare pro rata e pro rata sia tenuto fare il debito servitio. Placet. 22 Item supplicano V. S. Ecc.te che, per li molti affanni have il camberlingo per servitio della Corte e dell’università, sia franca tutta sua casata d’ogni e qualsivoglia sorte de comandamenti, tanto per servitii della Corte, come della terra per quell’anno sarà all’officio di camberlingo. Placet. 23 Item supplicano V. S. Ecc.te si degna concedere che, accascando fare pane per servitio della Corte, non sia stretto il camberlingo a far fare detto pane ma solum consignare il grano all’erario, attento che il camberlingo è occupato ad altri negotii e serve senza salario. Placet. 24 Item supplicano che non possino né debbiano esser comandati, né astretti a nulla sorte de comandamenti, né de servitii angarii e perangarii, eccetto delle due giornate et il luoco dove possino ritornare ogni sera alle loro case, e delle dette due giornate non possino esser comandati con buovi, e non pigliando la Corte dette due gionate l’anno seguente non le possa dimandare. Placet, immodo recipere dictas duas dietas quolibet anno a quolibet vaxallo sine salario et sumptibus, et ultra dictas duas dietas non possint compelli ad praestandum servitia nisi mediante iuxto et convenienti salario, videlicet in territorio dictae civitatis Vulturariae solvatur servientibus id quod ab aliis solvitur et solvi consuevit per alios cives dicte civitatis, in reliquis servetur forma Regiae Pramaticae. 75 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) 25 Item supplicano V. S. Ecc.te che la Corte non possa fidar porci a loro laboranzi ciovè alla spica ma detta spica habbia da essere dell’università, attale li poveri la possono ricogliere per loro sustentatione. Placet quod servetur id quod solitum fuit tempore olim Ducis Areani. 26 Item supplicano che possino vendere pane, vino, et ogni altra cosa, et fare taverna, hostaria senza pagamento, né altro impedimento. Placet. 27 Item supplicano V. S. Ecc.te che possino pascolare, gliandare, e ricogliere glianda per tutto il tenimento della Volturara con ogni natura de bestiame per tutti i tempi dell’anno salvo alla difesa della Corte. Placet quod dicti vassalli possint pascolare totum territorium Vulturariae exceptis difentia Curiae, et nemoribus tempore […], in quo non liceat pascolari ultra numerum porcorum quinque pro quolibet vaxallo retinente proprium foculare, et quod in dicto nemore possint colligere glandes pro eorum usu, iusta solitum et consuetum. 28 Item supplicano che se alcuno rompesse gliande et erbaggi della difesa della Corte, che li cittadini quando se romperà li possino entrare con quella sorte de bestiami, che entrarono li compratori e fidatori pagando le due parti de quello pagarando detti compratori o fidatori, e questo s’intende tanto se se rompa a compra, o a fida. Placet quod universitas et homines dictae civitatis concordent se cum em(p)toribus dicte difentiae quando emptores dicte difentiae immictunt propria animalia in ea, quando vero affidare vellent dicti emptores animalia aliena in ditta difentia interponit partes suas ut potius animalia civium, quas exterorum per emptores dicte difentiae affidentur in ea. 29 Item supplicano V. S. Ecc. che per qualsivoglia causa civile gli officiali di V. S. Ecc.te non possino detinere nesuno carcerato offerendo sufficiente preggiaria de stando iuri, et civile s’habbia da intendere tutte cause pecuniarie, e non s’habbiano da reservare se non dove se meritasse patere de persone. Placet, exceptis poena et debito debitis vigore obligationum, et praesentationum instrumentorum liquidorum, et in obedientia officialium qui pro tempore erunt in dicta civitate, pro aliis autem poenis pecuniariis Curie applicandis. Placet quod nemo ante sententiam seu decretum carceretur si voluerit prestare idoneam cautionem pro ut iuris erit. 30 Item supplicano se alcuna persona facesse errore o questione, come accade 76 Pasquale di Cicco uno con l’altro, gl’officiali di V. S. Ecc.te non li possino mandare priggione in altre priggionie, che dentro la Volturara per qualsivoglia causa, etiam criminale. Placet. 31 Item supplicano V. S. Ecc.te che quando alcuno o alcuna di detta città accuserà un altro di qualsivoglia questione o differentia habbia tempo tre dì a pentirse e ritornare detta accusa e che il capitano, baglivo, o altro officiale non possa procedere all’esatione della pena né a fare atto nullo durante li tre dì preditti, e questo si debia intendere che se possa pentire, e stornare ogni causa pecuniaria, et solum resta a non poterse stornare dove meritasse patere de persona. Placet ubi veni(t) imponenda poena pecuniaria. 32 Item supplicano V. S. Ecc.te non siano tenuti a dare altre subventioni alli officiali di V. S. Ecc.te che al capitanio trentatre libre di paglia il giorno e ducento sussanta passi de legne l’anno, e detta paglia siano tenuti darla dì per dì per il presente, ma havendo l’officiale stantia dove possa riponere detta paglia ce la debbiano portare nel tempo dell’aira tutta. Placet. 33 Item supplicano V. S. Ecc.te se degni restare contenta che, de qualsivoglia differenzia civile che haveranno uno cittadino con l’altro, la prima causa si debbia da vedere avanti al camberlingo e quando non si potessero accordare avanti detto camberlingo sia poi in libertà avanti il capitano, e detto camberlingo sia tenuto reggere corte ogni lunedì quando sarà ricercato, e chi non anderà al camberlingo de simile cose preditte avanti che al capitanio sia in pena de uno tarì alla Corte. Placet quod in damnis datis procedatur coram camerario, et in minimis videlicet infra augustalem possit camerarius adiri pro conservatione iuxtitiae. 34 Item supplicano V. S. Ec.te se degni restar contenta che il capitanio non debbia né possa regere corte se non un dì della settimana, cioè il sabato. Placet quod regatur curia semel in hebdomada in die sabati in causis civilibus. 35 Item supplicano che il lunedì sia franco de qualsivoglia mercantia, e chi comprerà il lunedì possa cacciare detta mercantia franca. Placet quod observetur solitum et consuetum. 36 Item supplicano V. S. Ecc.te se degni concedere che ogn’uno possa macellare 77 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) il sabato lor carne franca per vendere e l’altri dì solum per uso de loro case. Placet quod observetur solitum et consuetum. 37 Item supplicano le carne mortacine non se possano vendere se non a pezzate tanto de cittadini, come de forastieri, e che sorte di carne se sia e chi farà il contrario paga un carlino al baglivo di pena per volta. Placet. 38 Item che ogni carne che se ammazzerà alla bucceria per vendere s’habbia da pondere per li catapani, e chi facesse il contrario sia in pena de uno tarì per volta, eccetto se fosse data stabilita per gl’homini di detta città. Placet. 39 Item supplicano che non habiano da pagare del scannagio del bestiame se ammazzerà per vendere la carne alla bucceria de altri dì che lo sabbato, se non all’infrascritto modo videlicet de bovi a bacca grana cinque, e di quelle infra annum la mità, e per porco grana tre, e per bestia pecorina o caprina tre tornesi per besta. Placet quod observetur solitum et consuetum. 40 Item supplicano V. S. Ecc.te che ritrovandosi bestie et hu(o)mini de qualsivoglia conditione se siano a fare danno in vigne, horti, campi, o in altro luoco, che sia lecito alli padroni de posser pigliare e porta(re) in potere del baglivo, e dallà non s’habbiano da partire fin che non siano soddisfatti del danno patito, se saranno forastieri, e se sonno cittadini che s’habbia da pagare al tempo solito. Placet exceptis affidatis et emptoribus nemorum et defentiae dictae civitatis qui trattentur ut cives in hoc tantum praestita tamen idonia cautione per praedictos affidatos et emptores de solvendo damnum. 41 Item supplicano che ogni persona di detta città possa tenere pesi e misure iuste et honeste, e detti pesi se le possono imprestare l’uno all’altro tra essi cittadini, et ancora a forastieri, che pratticassero in detta città, e detti pesi e misure s’habbiano dal baglivo senza pagamento alcuno et attale non siano defraudati per malitia dalli baglivi l’originale de detti pesi e misure habbia di stare impotere del sindico o altro de baglivi. Placet. 42 Item supplicano che ogni cittadino possa vendere qualsivoglia sorte di suoi beni, mercantie, animali et ogni altra cosa, e così comprare dentro e fuora de detta città a loro arbitrio, facendolo però intendere la venditione che si facesse de fuora al 78 Pasquale di Cicco baglivo attale che non sia de fraude la venditione che si farà da fuora, et se perdesse detta gabbella sia tenuto il venditore pagare esso detta piazza seu gabella al detto baglivo. Placet et in casu fraudis exigatur pena pro ut iuris. 43 Item supplicano che alcuno rompesse limiti de possessioni overo levasse termini, sia in pena de quindeci carlini alla Corte. Placet. 44 Item quando si trovassero bestie grosse a far danno alle vigne, dal primo d’aprile fino a che saranno vendemmiate, s’habbia da pagare il danno al padrone, e grana cinque de pena per bestia, però se saranno accusate. Placet observari solitum et consuetum. 45 Item supplicano V. S. Ecc.te che se saranno trovate bestie grosse nelle vigne, doppo che saranno vendemmiate fino al primo d’aprile, siano in pena de due grana e mezzo se saranno accusate per il padrone e bandite le possessioni, e sempre il danno al padrone. Placet. 46 Item supplicano se saranno trovati porci a far danno in dette vigne, dopoi che saranno vendemmiate per fino al primo d’aprile, et essendono accusati per il padrone pagarà per porco grana uno, e se saranno pecore o capre in detto tempo pagano uno tornese per bestia, et il danno al padrone. Placet. 47 Item quando se trovassero bestie grosse cavalline o baccine a far danno all’aire et acchii al tempo de ricogliere, essendono accusate per il padrone, non possino pagare più de grana cinque per bestia et il danno al padrone, e se saranno porci similmente grana cinque per porco all’aire, e se saranno pecore o capre uno tornese per bestia. Placet. 48 Item supplicano se saranno trovate bestie impastorate a far danno nelle possessioni iuxta l’argaria o in strade publiche non siano tenute a pena nesuna, ma solum il danno. Placet. 49 Item supplicano se alcuno passasse per alcuno lavoro seminato, e passasse con bestie, o rompesse fratte sia in pena alla Corte, essendo accusato, de grana cinque per bestia grossa, et il danno al padrone. Placet. 79 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) 50 Item se alcuno sarà trovato per alcuna vigna dal primo d’agosto durante l’uve, et essendo accusato per il padrone, sia in pena da quindici carlini, e della frusta andandoce di notte, e similmente all’ orti, e de giorno carlini cinque, salvo tamen che se habbia consideratione alla qualità della persona. Placet. 51 Item se saranno trovati porci vicino alle fontane ventiquattro canne, dopoi mese maggio per fino a mezzo settembre, sia in pena alla Corte di tre carlini per morra. Placet. 52 Item se pecore o capre saranno trovate far danno per li campi e paduli, essendo accusate per il padrone, siano tenuti pagare alla Corte di pena un tornese per bestia, ma se vanno in paduli, della mità de febraro fino non siano falciati, siano in pena de uno grano per bestia, però se saranno guardate a posta sempre il danno al padrone. Placet. 53 Item se saranno trovati porci nelli paduli, come detto, dalla mità de febraro perfino che siano falciati, essendono accusati per il padrone pagano uno grano per porco, e l’emenda del danno al padrone, e detti paduli, non essendo falciti, s’habbiano da guardare perfino a Santo Pietro de metere. Placet. 54 Item se alcuno de detti animali minuti saranno trovati a far danno alli lavori, essendono accusati per il padrone, non siano tenuti di pena se non de grana uno per bestia (et) il danno al padrone, et in ogni accusa tanto del presente capitolo, quanto delli sopra detti s’intenda che sempre s’habbia da apprezzare il danno, e dove non si trova danno non siano a pena alcuna tenuti. Placet. 55 Item supplicano V. S. Ecc.te si degni ordinare che il baglivo ogn’anno habbia da ponere il palo dove sarà deputato per l’eletti di detta città in ciascheduna porte dove s’haverà da portare la immonditia, e chi non portasse detta immonditia a detti pali, essendo trovati per il baglivo buttarla in altro luoco che al palo, siano in pena de un grano per volta, e chi volerà portarlo a sue possessioni le sia lecito senza pena alcuna. Placet. 56 Item venendo coglieri in detta città a vendere loro robbe, come sono setazzari, soffranari, chiavettieri et altri coglieri, non habbiano da pagare cosa alcuna. Placet ad nostrum beneplacitum. 80 Pasquale di Cicco 57 Item supplicano V. S. se degni concedere che, venendono forastieri a vendere in detta città frutti, sale, legume, agrume e qualsivoglia sorte di robbe, nesuno possa comprarla a fine di rivenderle per fino siano passate ventiquattro hore, et accattandoli dopoi che haverà comprato a venderle, sia tenuto venderne a chi ne volesse per quel medesimo prezzo che l’haverà comprata per hore ventiquattro. Placet. 58 Item supplicano V. S. Ecc.te se degni restare contenta che, entrando alla vigna della Corte huomo o donna, o qualsivoglia sorte di bestiame, non siano tenuti ad altro che alla doppia pena de quello se pagava all’altre vigne delli cittadini, e l’emenda del danno. Placet. 59 Item supplicano V. S. Ecc.te che se alcuno scassasse sepale de possessioni et entrasse dentro detta possessione al tempo che sono pieni con bestiame a dannificare dette possessioni, sia in pena de cinque carlini per volta, e tornare accongiare dette sepale e l’emenda del danno fatto, intendendose a vigne et orti.Placet. 60 Item supplicano V. S. Ecc.te che se alcuno facesse mete di fieno per il territorio, o in qualsivoglia luoco, le debbia chiudere, e trovandose bestie a dette mete se saranno chiuse siano dette bestiame in pena de grana cinque per bestia grossa, e minuta grana uno per bestia, però se se conoscerà che siano poste a studio, e se non fossero chiuse dette mete siano tenute dette bestiame solo al danno, e non alla pena. Placet. 61 Item se alcuno homo rompesse dette fratte di dette mete per ponere il bestiame dentro a dannificare dette mete, sia in pena di cinque carlini per la fratta seu sepale e cinque grana per bestia baccina, et uno grano per bestia minuta. Placet. 62 Item che di quasivoglia sorte de frutti che venessero de forastieri a vendere non si possano vendere se prima non sono posti per li catapani, e se alcuno forastiero vendesse alcune sorte de frutti che non fossero posti per detti catapani, overo che vendesse più di quello che fosse stato posto, sia in pena a detti catapani de perdere detti frutti. Placet, sed poena applicetur baronis Curiae et tertia pars poenae applicetur capitanis. 63 Item supplicano che se alcun huomo o donna volesse andare ad habitare in 81 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) qualsivoglia al(tra) città o terra, che possa liberamente vendere tutte le cose sue stabili e mobili che havesse, pagando alla Corte la raggione delli quindeci carlini per la scasatura, e volendo habitare in altra terra e tener sue case e vigne o altre possessioni o qualsivogia altra cosa, e stare alla gravezza e carichi di detta città le sia lecito, e non pagare li quindeci carlini della scasatura per fino intanto che non scasasse in tutto, ciové che finirà di vendere tutte le sue possessioni e beni, e che la Corte non possa proibite nessuno che voglia comprare qualsivoglia de suoi beni. Placet quod possint vendere domos et vineas, quo vero ad colturas et territoria solvantur eis labores ipsorum dummodo alienationes fiant civibus dictae civitatis, vel habitatores in ea. 64 Item supplicano che havendo grano V. S. Ecc.te in detta città, e volendo vendere li cittadini di detta città, non possono essere proibiti per modo alcuno vendere loro vittovaglie, in qualsivoglia tempo possono liberamente vendere tutte loro vittovaglie et estrahere senza impedimento alcuno. Placet praeterquam tempore carestiae et necessitatis. 65 Item supplicano che se alcuno forastiero de qualsivoglia conditione sia che venesse a comprare in detta città o suo(i) territorii qualsivoglia sorte de bestiame, o altra mercantia, volendola alcuno cittadino per sè la possa avere per quel medemo prezzo che l’havesse comprata il forastiero, restituendo li denari al compratore, e la Corte sia tenuta interponere le parti sue, essendo detto compratore retinente. Placet interponere partes suas ut emptores contententur. 66 Item supplicano che quando nella defesa della Corte se trovassere bestie grosse baccine o cavalline, non possono pagare più de grana cinque per bestia, però probandose saltim per uno testimonio fide digno. Placet quod observatur solitum et consuetum tempore illustris olim Ducis Ariani de domo Carrafae. 67 Item quando in detta defesa se trovassero bestie minute, come sono pecore o capre, non siano in pena più d’uno tornese per bestia, e se saranno porcine uno grano per porco. Placet pro ut solitum et consuetum est. 68 Item se huomo o donna ingiuriasse altra persona de parole ingiuriose, essendo accusato dall’ingiuriato, non sia tenuto a più d’un tarì de pena, e così ancora da qualsivoglia atto ingiurioso, come sono de fare le fiche etc., et quello s’intenda a persone da quindici anni in su e non da fangiulli. Placet praeterquam in iniuriis atrocibus. 82 Pasquale di Cicco 69 Item se alcuno giocasse con carte, dadi o altri giochi proibiti, dove corrono denari, siano in pena de uno tarì per uno. Placet. 70 Item se alcuno movesse rissa, e ce venesse alle mani, sia in pena de uno tarì quello per colpa del quale nascerà detta rissa, non essendoce ferite per le quali debbia patere de persona. Placet praeterquam in atrocibus iniuriis, et habita consideratione ad qualitatem personarum. 71 Item supplicano V. S. Ecc.te li voglia concedere all’huomini di detta città la caccia de strina ciovè con balestra, scoppette e cani per tutti li territorii di detta città, e de quelli non siano tenuti dar niente alla Corte, e de lacci e tagliole sia in libertà de V. S. Ecc.te dare licenza. Placet cum canibus, cum reliquis vero instrumentis cum nostra, vel nostri officiali(s) venia, et non aliter. 72 Item supplicano se degni non fare casalini fuora dell’inforzi seu mura pringipiate di detta città per doverne habitare se non per lo bestiame, atteso che il concinto di detta città è molto grande e vacuo, salvo se la Corte fosse ricercata dall’huomini del governo di detta città. Placet. 73 Item supplicano V. S. Ecc.te li voglia concedere la ragione del congruo d’ogni possessione e case quale se vendessero, et habbiano tempo sei mesi dopoi sarà venduta una possessione a poterla havere per quel prezzo, che sia stata venduta ad un altro, e se il detto congruo non l‘havesse, inteso detta venditione, intendendose che habbia tempo sei mesi dopoi saputa detta vendita. Placet. 74 Item supplicano se degni concedere che. venendo a morire alcuno de detti cittadini tanto mascolo, come femina, quale possedesse terreni, vigne, case delli quali rimanessero heredi, né sua Corte né qualsivoglia altra persona non possa né debbia ad essi levare dette loro possessioni, ma quelle restino libere ad essi heredi. Placet quod colturae transeant ad heredes salvis iuribus Curiae. 75 Item supplicano V. S. Ecc.te che nessuno cittadino o commorante in detta città sia franco et immune delli pagamenti, gravezze e pesi di detta città, ma tutti siano tenuti egualmente e costretti con ogni modo ad ogni general pagamento e peso di detta, reale e personale, salvo che se l’università non volesse lasciare alcun 83 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) franco, che fosse povera persona, orfano, vidova che non potesse pagare. Placet. 76 Item supplicano V. S. Ecc.te che, atteso che sempre ne sono de misirabili persone, come sono vidue, orfani et altri poveri, che quelli che l’università lascierà franchi de colte la Corte li voglia etiam lasciare franchi de suoi servitii e commandamenti. Placet. 77 Item supplicano V. S. Ecc.te se degni permettere che dove confina la difesa dell’università con quella della Corte il bestiame quale se troverà fidato così nell’una, come nell’altra di dette difense possa entrare per canne venticinque dentro una dell’altra detto bestiame, e non sia tenuto né a pena né ad altro danno, e questo atteso per mezzo una e l’altra defesa passa l’acqua dove detto bestiame se abevera. Placet quod possint ingredi usque ad viam qua ad presens itur ad terram Campibassi, et in totidem territorio defentiae universitatis possint ingredi animalia fidatorum per Curiam. 78 Item supplicano V. S. Ecc.te che resti contenta che l’algaria determinata non se habbia più d’astringere né diminuire come se trova al presente, et in quella non habbiano da pascolare bestiame forastiero, et incappandoce bestie forastiere siano in pena all’università de grana cinque per bestia grossa, et uno grano delle minute. Placet, sed poena applicetur Curie Baronali, exceptis animalibus venientibus in mercato seu dohana. 79 Item supplicano che come detta algaria è stata per il passato in libertà dell’università guardarla e farla guardare et andarce a pascolare quella sorte d’animali che ha parso, e de proibire quelli animali pure che ha parso a detta università, così debbia essere per tutti li tempi da venire in libertà di detta università. Placet. 80 Item supplicano V. S. Ecc.te si degni restar contenta che, atteso gl’homini di detta città sono tutti quasi forastieri la meglia parte, e l’occorre quasi del continuo andare la notte per loro facende e negotii, possino andare per loro occorrenzie e servitii ad ogn’hora senza lume, né altra subiettione come sono stati et hanno per il passato, atteso sono huomini pacifici e quieti. Placet dum tamen sine armis. 81 Item supplicano V. S. Ecc.te che se alcuno cittadino di detta città havesse tagliato fino al presente in qualsivoglia luoco delli boschi della Volturara qualsivoglia sorte d’albori per qualsivoglia causa e modo, V. S. Ecc.te li faccia grata non siano 84 Pasquale di Cicco tenuti a pena nessuna fino al dì presente. Placet exceptis hiis qui inciderunt post bannum emanatum ordinatione capitanei nostri quod nemo incidisset lignamina in nemoribus Curiae. 82 Item supplicano V. S. Ecc.te se contenta che gli huomini del governo pro temporibus esistente al governo e regimento di detta città possino a loro volontà e senz’altra licenza della Corte per la conservatione de lor vigne, paludi, algaria, lavori e defesa et altre possessioni fare annali, statuti et ordeni contra li dannificanti in crescere et aumentare le pene solite, affinché li dannificanti evitano dannificare dette loro vigne, paludi, algaria et altre possessioni, e questo secondo che ad essi governatori parerà espediente, e statuto et ordinato che sarà li medesimi governatori o altri successori possino contrario imperio revocare e redurre ad pristinum ita che non sarà perpetuo, ma annale e mensale, revocabile e reiterabile, che essendo revocato dopoi se possa reiterare, e dopoi iterum revocare, et deinceps se possa reiterare e revocare usque ad infinitum. Quando acciderit casus providebitur. 83 Item supplicano V. S. Ecc.te si contenta che gl’huomini di detta città, quelli che hanno et haveranno campi e possessioni aratorie concesse e che se concederanno da V. S. Ecc.te e da alcuni utili signori di detta città, possino liberamente l’albori fruttiferi esistenti in detti campi e possessioni tenere, havere e governare, e li frutti per essi percepere qualitercumque et quomodocumque. Placet dummodo non impediatur usus fidator(um) prout attenus solitum fuit, sed tantum detti fidati non possino abbattere li detti frutti e ghiande. 84 Item supplicano V. S. Ecc.te che, per le spese fatte e che faranno, detta università et huomini di detta città al fornimento di detta città per il publico uso e bene possino tassare e fare pagare et esiggere dalli nuovi habitatori che veneranno in detta città per dette spese trovandosi fatte et a loro beneficio tanto quanto parerà giusto et honesto alli governatori di quel tempo, e tutto quello s’esigerà dalli predetti s’habbia da convertirse in beneficio et augumento e bene publico di detta città, perché in tal modo si viene ad aumentare il beneficio di detta università. Quod venientes in posterum ad habitandum contribuant futuris expensis. 85 Item supplicano V. S. Ecc.te si contenta che detta università (e) hu(o)mini, secondo e quando s’accade per lor governo e regimento possino a lor arbitrio e volontà, e senz’altro impedimento, dirette vel indirette, fare coadunatione e consegli leciti, ma con intervento del camberlingo. Placet cum interventu capitanei, et non aliter, sive de eius licentia. 85 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) 86 Item supplicano V. S. Ecc.te che, quando il molino non basterà a servire l’università di detta città, possino macinare a centimoli senza pagare nulla cosa alla Corte per lor bisogno et uso proprio, et etiam per possere far pane per vendere. Placet quando molendini Curiae vel centimula forte per Curiam construenda non sufficerent pro usu dictae civitatis. 87 Item che li padroni delli centimoli macinando ad altri con loro bestie non possino levare de macinatura più che a ragione de grana otto per tumolo, e sia in libertà di quelli che fanno macinar de darle grano o denaro, e donandoli grano lo debbiano pigliare al prezzo che valerà in quel tempo, e chi facesse il contrario sia in pena de uno tarì alla Corte per volta. Placet in casu supradicto. 88 Item supplicano quello li piacerà agiutare a far l’inforzi di detta città dove bisognerà murare, pagare li mastri e manipoli, et essi cittadini siano tenuti portare la calce, arena e pietre a pede delli sopra detti inforzi seu mura. Placet contribuire ad eius arbitrium. 89 Item supplicano V. S. Ecc.te che il figlio, stando con il padre, non possa fare accusa alcuna senza licenza del padre, e così la mogli senza licenza del marito, e facendola non vagli niente se non è confirmata dal padre e dal marito. Placet. 90 Item, che se alcuno havesse albori fruttanti nelle confine delle sue possessioni, che li rami de detti arbori stendessero sopra le possessioni d’altri, che li frutti caderanno sopra la possessione d’altri siano delli padroni di quella possessione che caderanno detti frutti per il danno fatto (da) dett’albori. Placet. 91 Item supplicano V. S. Ecc.te che se alcuno de detti cittadini, facendono questione l’uno con l’altro, overo con alcuno forastiero, et essendoce effusione di sangue et alcune ferite, la Corte non li possa levare de pena più d’un ongia, venendo accusato per il ferito, e non essendo accusato trenta carlini. Serventur constitutiones regni. 92 Item supplicano che se alcuno figlio manco de quindeci anni, facendose sangue e non essendoce morte, non siano tenuti a pena nesuna, se non solo a 86 Pasquale di Cicco sodisfare l’interesse per tale ferita si patesse. Quando casus occurreret considerata qualitate facti providebitur. 93 Item, che ogni cittadino possa difenzare paduli per bisogno de suoi animali, e se alcuno se troverà a tagliar herba in detti paduli, essendo accusato per il padrone, sia in pena alla Corte de dieci grana per volta, e detto padrone sia creso havendolo visto, e parendo il danno, et oltre sia tenuto sodisfare il padrone del danno fatto. Placet quod quilibet pater familias et caput domus possit defenzare modium unum cum dimidio paduli, et pro quolibet pari bovum quilibet possit defenzare modia duo cum dimidio pro padula, et quod custodiantur a mediatate mensis februarii usque quo serantur segetes, et non ultra. 94 Item supplicano V. S. Ecc.te che se qualsivoglia persona di detta città di Volturara volesse andare ad habitare in qualsivoglia altro luoco, tanto in regno come estra regno, possa liberamente andare senza impedimento alcuno della persona, né alli beni suoi pagando però al scasare quindeci carlini de scasatura per casa. Placet. 95 Item supplicano V. S. Ecc.te che, volendo habitare persona di detta città di Volturara in qualsivoglia altra terra, e volendo tenere qualsivoglia sorte de suoi beni in detta città, le sia lecito posserli tenere, però habbia da stare alle gravezze e carichi di detta città, e non sia astretto dalla Corte a pagare li quindeci carlini della scasatura fino che tenerà li suoi beni in detta città. Placet quod solvantur carolenis quindecim pro scasatura quando vaxalli decederint a civitate, et alibi domicilium transferant non expectata bonorum venditione. 96 Item supplicano V. S. Ecc.te se degni concedere che, venendo a morire alcuna persona intestata, che non havesse figliolo e figliole, che li più propinqui parenti suoi che fossero tanto in detta città come in qualsivoglia altro luoco possino hereditare i loro beni. Placet dummodo sin(t) in gradu successibili quod succedant in omnibus bonis morientis si habitent vel venient ad habitandum in civitate Vulturarie, si vero non habitent succedant in bonis omnibus praeterquam in territoriis laboratoriis. 97 Item supplicano V. S. Ecc.te che nel tempo dell’aire, doppoi che il partitore havrà spartite in dett’ayre le vittovaglie, la Corte sia tenuta far carreare la sua parte alla terra a sue spese come è stato solito per il passato. Placet. 87 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) 98 Item se alcuno animale grosso, come sono bovi, bacche, cavalline, mulegne e somarrine, saranno trovati nelli paduli della metà di febraro fino siano falciati, siano in pena de grana cinque per bestia grossa, et emendare il danno al padrone, imperò essendono accusate per il padrone o date per accusate, seu bandite. Placet. 99 Item supplicano V. S. Ecc.te che, firmati saranno li presenti capitoli, ce facci gratia interponere le sue parti et agiuto e favore e sua buona volontà che detta università et huomini a loro spese possino et habiano ad impetrare il reggio beneplacito et assenso per validità de tutte le presenti, e supplicaturi capituli, statuti, legge municipali di essa città e gratie concesse da V. S. Ecc.te, quale reggio assenzo se riserba espressamente nella detta capitolatione da impetrarse con la buona volontà e gratia di V. S. Ecc.te. Placet. 100 Item supplicano V. S. Ecc.te che li presenti capitoli e tavola della mastrodattia gl’ufficiali di V. S. Ecc.te se n’habbiano da tenere copia, e che, quan(do) occorrerà il bisogno, essi cittadini non siano tenuti mostrare loro capitoli ogni volta che occorre il bisogno in Corte, e quando occorresse mostrarli non siano tenuti di essi capitoli, né della tavola della mastrodattia pagare presentata, et essi officiali siano tenuti sempre restituirli ad essi presentanti. Placet. 101 Item a declaratione del capitolo 36 se supplica che tutte le bestie che se ammazzassero il sabato de qualsivoglia sorte siano franchi di scannaggio, e se possino vendere franche ut supra, tanto per tutto il dì del sabato, come per tutto il dì seguente della domenica, e similmente se supplica che, se delle bestie grosse le quali se ammazzaranno il sabato restasse a vendere alcuno residuo della carne nel detto dì del sabato perché sia manco della mità dell’animal grosso, il detto residuo che restasse a vendere quello se possa vendere franco il dì seguente poi il sabato. Placet. 102 Item se supplicano, attento che è consueto pagare per scannaggio de qualsivoglia animale baccino, tanto de bestia grossa come de vitelli, grana sette per ciascheduno animale, e trovarse decretato nel capitolo 39 che circa il pagamento del scannaggio servetur solitum et consuetum, talché veneria a pagarse una medesima summa per l’animale grosso e per il vitello, e perché il vitello è de molto manco prezzo e peso delle bacche e bovi grossi, per tanto se supplica facci gratia a detta università che per il vitello seu vitella s’habbia solo a pagare la mità de quello si paga per bestia grossa, ciovè grana tre e mezzo. Placet. 88 Pasquale di Cicco Suprascritte supplicationes seu capitula fuerunt mihi Francisco Antonio Villano utili domino civitatis Vulturarie oblata per universitatem et homines dictae civitatis, et per me fuerunt eidem civitati et hominibus concessa pro ut in calce uniuscumque capituli decretatum apparet, et in fidem propria manu me subscripsi, et meo solito signo signavi. Franciscus Antonius Villanus qui supra manu propria. Extat sigillum. In capitolo 33, in virgulo penultimo et in particola concurrente voluntate actoris et rei, et in capitolo 59, in virgolo secundo et in virgolo ultimo, et in capitolo 60, in quinto virgulo in particola baccina, in quibus capitolis cancellatum apparet, nemini dubium occurrat quia fuit factum per me notarium Antonium (de Trusianis) die stipulationis instrumenti dictorum capitulorum de voluntate praefati excellentis Francisci Antoni et universitatis civitatis praedicte, et in fidem subscripsi manu propria. *** 103 Item supplicano V. S. Ecc.te le voglia concedere che il giurato non sia tenuto a prestare servitii privati per la casa del capitanio, ma solum li servitii della Corte e della terra e li servitii soliti e consueti occorrentino alla casa della Baronal Corte di detta città della Volturara. Placet. Franciscus Antonius Villanus Praesentata Neapoli die octavo ianuarii MDXXXXI per excellentem dominum Franciscum Antonium Villanum utilem dominum dictae civitatis. Extat sigillum. *** 104 Item l’università et huomini della citta della Volturara supplicano a S. V. Ecc. te le conceda, atteso se pate grandissimo fastidio a mandare ogni volta ad apprezzare il danno si fa nella defesa quale S. V. Ecc.te ha concessa ad essa università, che lo più delle volte non se ne conseguisce l’emenda del danno per causa non se manda ad apprezzare, che remanga stabilito che, essendono ritrovate bestie de forastieri de qualsivoglia sorte nella difesa predetta della terra, da mo avanti per l’emenda del danno siano tenuti pagare a detta università, oltre la pena quale pagaranno alla 89 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) Corte, per ciascheduna bestia grossa per ciascuna volta seranno trovate carlino uno, e per ciascheduno porco a tempo de glianda grana quattro ed ogn’altro tempo grana due e per ciascheduna pecora o capra in detto tempo de glianne grana due, et in ogn’altro tempo grana uno. Placet. Franciscus Antonius Villanus Provisum in civitate Vulturarie per excellentem dominum Franciscum Antonium Villanum utilem dominum et baronem dictae civitatis die 9 maii 1541. Extat sigillum. *** 105 Ecc.te Signore. L’università et huomini della citta della Volturara schiavi et vassalli di V. S. Ecc.te a quella fanno intendere come nel destritto del territorio e bosco del demanio, che V. S. Ecc.te havea concesso ad essa università, e fatto gratia se riserbasse per bosco per legna per uso comune di detta università e pubblica comodità, ce sono alcuni particolari di detta città quali ce havevano redutta una certa poco parte di detto territorio a coltura, e, non contenti servirnosi de quello era ridotto, vanno continuamente allargandose, e se diminuisci per questo detto bosco, e se ne causa commune danno de tutta l’università e signanter delli poveri; per tanto supplicano V. S. Ecc.te se degni per beneficio universale, acciò non resti causa de disminuirse detto bosco, provedere che detti particolari non habbiano da coltivare detti terreni, ma quelli lasciare ad uso di detta università, attale se tornino ad imboscare, che detta università offere dare a detti particolari altre tanto terreno equivalente a quello, e quando alcuna cosa mancasse, offere pagare tutto quello sarà conveniente a giuditio d’esperti, et oltre che V. S. Ecc.te, come benigno signore, farà quello suole obliga questa università a maggior debito, ut Deus etc. Dato prius equivalenti excambio pro ut in memoriali offert praedictis qui in dicta parte nemoris culturas retinent, fiat pro ut supplicatur. Franciscus Antonius Villanus Provisum per excellentem dominum Franciscum Antonium Villanum de Neapoli utilem dominum et baronem civitatis Vulturariae in eadem civitate die 10 maii XIV inditionis etc. *** Die XVI mensis iulii 1548 VI inditionis in civitate Vulturariae. Retroscriptae supplicationes et capitula dictae civitatis et hominum ipsius fuerunt oblata et 90 Pasquale di Cicco praesentata mihi Vincentio Carrafae utili domino dictae civitatis per universitatem, sindicos, electos et homines ipsius, quae si et pro ut concessa ac confirmata fuerunt per excellentem dominum Franciscum Antonium Villanum olim dominum dictae civitatis, et scripta stipulata per manus egregii notarii de Trusianis terre Sancti Bartolomei mihi ipsi placuit concedere et confirmare dictae universitati et hominibus ipsius, pro ut in calce cuiusvis capitulorum et supplicationum retroscriptarum continentur, et decretatum apparet, et in fidem praesentem scribi fecimus per manus terre Sancti Bartolomei Ingaldo subscriptamque nostrae propriae manus, et sigillatam nostro sigillo solito et consueto. Datum in civitate predicta nostra Vulturarie, die et inditionis ut supra. Vincenzo Carrafa mano propria. Locus sigilli. Excellens dominus Vincentius Carrafa mandavit mihi notaro Hieronimo Longo. *** Die vigesimo mensis novembris primae inditionis 1557 Neapoli. In nostra presentia constitutis illustre domino Vincentio Carrafa de Neapoli contra illustrissimi domini Ducis Ariani utili domino civitatis Vulturariae provintiae Capitanate agente ad infrascripta omnia pro se eiusque heredibus et successoribus quibuscumque in perpetuum in dicta civitate Vulturariae ex una parte, et Antonio Miotto dictae civitatis Vulturariae procuratore ad infrascripta insolitum cum Iuvenale Aglialdo civitatis predictae pro ut de eius et dicti Iuvenalis procuratione et potestate nobis plena constitit et constat, ac ipse Antonius plenariam fidem fecit quodam publicum instrumentum in pergameno scriptum fieri rogatum sub die 13 praesentis mensis novembris 1557 in dicta civitate Vulturariae manu egregii notarii Ioannis Bertini civitatis praedictae agente similiter ad infrascripta omnia procuratorio nomine et pro parte dictae universitatis et hominum praedictae civitatis Volturariae et pro eadem universitate et omnibus et singulis hominibus ipsius, eorumque posteris et successoribus quibuscummque in eadem ex utili et expedienti cause universitatis predicte ut dixit ex parte altera praefatae vero partes quibus supra hominibus, et quaelibet ipsarum sponte asseruerunt pariter coram nobis inter easdem partertes (partes) dictis hominibus vertere litem in Sacro Regio Consilio super quam pluribus gravaminibus quae dicta universitas et homines praetendunt eis fuisse illata et facta a dicto domino Vincentio et eius officialibus, et contrarium praetensum fuerit, et praetenditur per dictum dominum Vincentium, et in dicta causa fuisse processum ad nonnullos actus pro ut ex processu et actis de super in dicto Sacro Regio Consilio frabricato et actitatis in banca ego (egregii) Joannis Petri de Iubeno dicti Sacri Consilii actorum magistri, interveniente in eisdem 91 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) pro commissario et relatore primo loco magnifico quondam U. I. D. Hettorre Jesualdo regio consiliario, et pro eius obitum magnifico U. I. D. domino Joanne Battista Manso similiter regio consiliario dixerunt apparere quibus pro vera facti narratione relatio habiatur, et dictae partes in omnibus et per omnia se referunt, et rebus sic stantibus nolentes partes ipse quibus supra nominibus de praedictis amplius litigare, nec per amphractus iudiciarios pertransire cum dubius foret litis eventus, et ambigua sin facta causarum ad evitandum lites et litium expensas, rancores et odia quae ex huiusmodi litigiis et litigantibus oriri solent, communium amicorum interveniente tractatu, ad infrascriptam transactionem, conventionem, pactum et concordiam asserunt dictae partes quibus supra nominibus devenisse, pro ut sponte et voluntarie coram nobis devenerunt cum regio decreto et assensu ad maiorem cautelam quatinus opus sit de super obtinendis et impetrandis semperque salvis et reservatis, et non aliter, nec alio modo qui sponte pependit coram nobis non vi, dolo etc. et omni meliori via etc. cesserunt prius liti et causae praedictis in dicto Sacro Consilio ut supra vertentibus, et eorum instantiae, ac omni iuri, quatinus dicta lis et causa se extendit, sequae ipse partes dictis nominibus convenerunt, transiggerunt et concordaverunt modo et forma infrascriptis, et infrascriptam capitolationem in vulgare sermone descriptam tenoris et continentie subsequentis videlicet. Capitoli sopra l’accordio fatto tra l’illustre Vicenzo Carrafa d’Ariano utile signore della citta della Vulturara ex una, et Antonio Miotto come procuratore dell’università et huomini di detta città. 106 In primis è stato convenuto tra detto illustre signore Vicenzo et il sopra detto procuratore, nomine quo supra, che l’università et huomini della città predetta della Volturara da mo avanti et inperpetuum possino liberamente, senza impedimento e pagamento alcuno, con tutti li loro animali de qualsivoglia sorte pascolare, gliandare e ricogliere gliande per uso loro tantum d’ogni tempo dell’anno nella mità di detto domanio di detta città dalla banda verso le lavorie delli Viani designanda et confinanda detta mità de bosco per detto signor Vicenzo. 107 Item che all’altra mità del detto bosco del demanio gl’huomini di detta città durante il tempo delle gliande tantum cioè dal dì di Sant’Angelo di settembre per tutto li 15 del mese di febraro de qualsivoglia anno non possino andare a pascere con nulla sorte de bestiame, né ricogliere ghiande, ma solum possino senza contraditione e pagamento alcuno tagliare, legnare per uso de gl’huomini di detta città tantum iusta la forma della decretatione fatta all’undecimo capitolo della capitolatione concessa per il signor Francesco Antonio Villano, et confirmato per il detto signor Vicenzo alla detta università, e dalli 15 di febraro in sino al detto 92 Pasquale di Cicco dì di Sant’Angelo di settembre de qualsivoglia anno detta università et huomini possino in detta mità del bosco ut supra riservata liberamente e senza pagamento alcuno con loro animali d’ogni sorte pascolare et tagliare ut supra come ponno fare nel restante territorio di detta città, etcettuata la defesa della Corte nominata la defesa di Sant’Antonio. 108 Item, che quando alla detta mità di bosco del domanio ut supra riserbata al detto signor Vicenzo incapparrando bestiame delli cittadini di detta città dal detto dì di Sant’Angelo di settembre in sino al detto dì 15 di febbraro de qualsivoglia anno, in tal caso li padroni di detto bestiame siano tenuti pagare alla Baronal Corte di detta città di Volturara quella medesima pena che sono tenuti pagare quando incapparonno alla sopra detta difesa di Sant’Antonio iusta la forma della sopra detta capitolatione alla detta università concessa per il detto signor Francesco Antonio, e confirmata per il detto signor Vicenzo. 109 Item, perché ogni vassallo de detta città è obligato di fare e presentare due giornate ogn’anno in perpetuum alla Baronal Corte di detta città gratis e senza pagamento e spese, per questo si sono convenuti, che in cambio delle dette due giornate ut supra costando ogn’anno per ogni uno delli detti vassalli, la detta università et huomini della predetta città della Vulturara siano tenuti così come il detto procuratore quo supra nomine promette, pagare alla Baronale Corte della città predetta ducati sissanta ogn’anno in perpetuum in tre terze paghe de qualsivoglia anno, videlicet ducati venti nella terza della natività di Nostro Signore Giesù Christo, altri ducati venti nella terza di Pasca di Resurretione di detto Nostro Signore, e li restanti docati venti per la terza d’agosto, et incomingiare e fare il pagamento della prima terza nella terza di Pasca di Resurretione prima ventura del seguente anno 1558 in pace, e senza replica e contraditione alcuna, e che per causa del detto pagamento ut supra faranno delli detti annui docati ut supra promessi li sopra detti vassalli et huomini di detta città non siano tenuti da mo avanti fare et prestare le dette due giornate per uno l’anno ut supra, ma s’intendeno e siano liberati et assolti dal peso et angaria predetta. 110 Item, che li cittadini et huomini della detta città della Volturara non possono essere astretti a prestare servitii personali alla Corte Baronale di detta città, eccetto il mediante, giusto e consueto pagamento, seu salario, videlicet a quelli che serviranno nel territorio di detta città si debbia pagare il salario nel modo che se paga e se suole pagare li servitii predetti dalli cittadini della città predetta, et a quelli che serviranno extra territorium della medesima città si debbia pagare iusta la forma della regia prammatica con tal pagamento siano tenuti servire. 93 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) 111 Item è convenuto che gl’huomini di detta città possono toccolare e ricogliere le gliande quale saranno nell’arbori che saranno dentro li luochi nella quale haveranno da seminare quell’anno senza impedimento, né pagamento alcuno per uso loro tantum. 112 Item che il detto signor Vicenzo e suoi heredi e successori in detta città siano tenuti, sincome esso signore Vicenzo promette fare buono al camberlingo qui pro tempore sarrà in detta città il sfreddo seu mancamento del vino della Baronal Corte della predetta città, che riceverà tanto musto, come a grosso e poi smaltirà a minuto per quella quantità che sarà giudicato per esperti, e quando il vino se li consegnerà chiarificato non si debbia fare sfreddo se non della misura alla detta ragione, che sarà giudicato per esperti. 113 Item, che il camberlingo qui pro tempore sarà in detta città sia tenuto dare al detto signor Vicenzo e suoi heredi e successori in detta città, per lo crescimonio del grano della Baronal Corte che se troverà in suo potere da poi le feste di Natale, tommola cinque per cento e non più, e del grano che si troverà havere consegnato avanti Natale sia tenuto dare de crescimonio pro rata temporis. 114 Item che li sopradetti altri capitoli concessi alla detta università et huomini per il detto signor Francesco Antonio e confirmati per il detto signor Vicenzo quanto all’altre cose che in essi si contenino debbiano rimanere firmi, et in eorum robore et firmitate. Et promictunt et promiserunt ambae partes ipse, quibus supra nominibus, et quaelibet ipsarum sollenni stipulatione etc. una pars videlicet alt(e)ra, et altera alteri dictis nominibus presentibus per eadem universitatem, transactionem, conventionem, concordiam, litis cessionem et capitulationem praedictam semper habere ratas ac rata et contra non facere aliqua ratione nec etiam ratione vis, metus, doli, erroris seu laesionis cuiuscumque enormis, seu enormissime, aut alterius causae maioris expressis, cui cum iuramento tactis scripturis expresse renunciaverunt, et renunciant nec etiam ex capite in integrum restitutionis, vel doli ex proposito, aut re ipsa vel aliter quomodocumquae et qualitercumquae literas impetrare aut patere nec peti facere absolvendum a iuramento, et in super praedictus dominus Vincentius ad maiorem cautelam et securitatem dictae universitatis et hominum dictae civitatis Vulturariae promisit ad omnem requisitionem ipsorum vel alterius eorum parte post quam fuerit obtentus et impetratus regius assensus super praesenti transactione et contractu, et non 94 Pasquale di Cicco al(i)ter nec alio modo illam et illud ratificare etc. ac equae principaliter iterum et denuo facere litis cessionem, transactionem, conventionem et concordiam praedicto modo et forma quibus supra per instrumentum publicum etc. et nihilominus tam praedicto Antonio, procuratorio nomine quo supra, etiam proprio privato principali et particolari nomine, et insolidum quia illic presens supradictus egregius notarius Iovannes Bertinus de eadem civitate Vulturariae, similiter suo proprio privato principali et particolari nomine quo supra, et in solidum ad maiorem cautelam et securitatem dicti domini Vincentii, promictente dicto domino Vincentio praesenti etc. infra mensem unum a praesenti die in antea numerandum propriis sumptibus, laboribus et expensis dictorum universitatis et hominum dictae civitatis Vulturariae obtinere et impetrare regium decretum supra dicta transactione, conventione etiam […] ut supra facta vigore praesentis contractus, et super eodem presenti contractu ac supradicta capitulatione facienda […] per dictam universitatem, homines, et quatinus opus est nova transactione, conventione, concordia et capitulatione nec non predicti notarius Jovannes et Antonius nominibus quibus supra, et insolidum ad maiorem cautelam et securitatem dicti domini Vincentii etc. promiserunt curare et facere realiter modis omnibus et cum effectu exequutione reali etc. quod dicti universitas et homines praedictae civitatis Vulturariae congregati et coadunati in unum, ut moris est, universitatis nomine infra dictum mensem unum, obtempto prius et impetrato dicto regio decreto ut supra, et non ante praesentem contractum cum inserta forma ipsius ratificabunt etc. et aequae principaliter iterum et de novo facient litis cessionem, transactionem, conventionem et concordiam, etiam […] presentem modo et forma quibus supra sequae ipsis eorumque heredes successores, et bona omnia obligabunt ad observantiam omnium et singulorum praedictorum in dictis praeinsertis capitolis, et quolibet ipsorum contentorum quatinus ad dictam universitatem et homines spectat modo et forma in eisdem capitolis contentis ut supra per instrumentum publicum etc. stipulandum per notarium non vaxallum dicti domini Vincentii dictumque instrumentum in formam publicam absumptum, testatum et roboratum ut decet, et copiam sopradicti regii decreti ut supra interponendi in bombice sumptam autenticam et fidem faciendam sumptibus dicte universitati infra dictum mensem consignare etc. praedicto domino Vincentii etc. in pace etc. alias adveniente dicto termino mensis unius, et alapso et dicto regio decreto forsan non interposito, et ratificatione et, quatinus opus est, nova transactione, conventione, concordia, etiam […] praedicta forte non facta per dictam universitatem et homines, et instrumento ratificationis et copia praedicta dicti decreti forte non consegnari dicto domino Vincentio ut supra, in tali casu firmari manente promissione supradicta facta per dictum Antonium et notarium Iovannem, quibus supra nominibus et in solidum, decretum et ratificari faciendo dictum contractum a dicta universitate et consegnandi copiam dicti decreti, et dictum instrumentum ratificationis,ut supra, et non aliter nec alio modo sit in electione etc. dicti domini Vincentii etc. vel stare presenti contractui, vel ab 95 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) eo recedere ipsumque rescindere, cassare et annullare, et casu quo praedictus dominus Vincentius eligerit rescindere praesentem contractum, in tali casu iura ambarum partium predictarum remaneant eis salva, intacta et inlesa, ac si presens contractus factus non esset quia sic etc. Pro quibus omnibus observandis etc. ambae partes ipsae quibus supra nominibus, et contraentes, et quaelibet ipsarum prout ad unamquamque ipsarum spectat et pertinet sponte […] se ipsas partes et contrahentes dictis nominibus, dictamque universitatem, et homines praedictae civitatis Vulturariae, et qualibet ipsarum partium et contraentium, nominibus ante dictis, earumque cuiuslibet ipsarum et dictae civitatis Vulturariae heredes, successores et bona omnia mobilia et stabilia, burgensatica, feudalia, demanialia, particolaria, praesentia et futura regio beneplacito et assensu pro feudalibus de super obtinendo, et inpediendo semperque salvo et riservato una pars videlicet alteri, et altera alteri dictusque notarius Ioannes dicto domino Vincentio presenti etc. sub poena et ad poenam […] etc. medietate etc. cum potestate capiendi etc. custitutione praecarii etc. et renunciant etc. et signanter praefati notarius Ioannes et Antonius eorum propriis privatis, et presentibus nominibus ad maiorem cautelam quatinus opus sit super hiis omnibus Aut. presenti C. de fid. etc. et iuraverunt etc. Presentibus oportunis etc. Extracta extitit praesens copia ab alia copia actis et protocollo notarii Thomae Amelli nobilis notarii Ferdinandi Mazzae civitatis etc. *** 115 Molto eccellente signore La università della città della Vulturara, e gl’homini di quella, poiché Iddio l’ha fatto gratia dare per signore V. S. Ecc.te, ricorrono da quella, et humilmente la supplicano li faccia gratia riceverli per humili e fedeli vassalli e servitori, et in segno di quello li capitoli, immunità et altre franchitie che godano e le sono state concesse dall’antipassati signori accettarli, et quatenus opus est de nuovo concederli et confirmarli acciò che con quelli possino vivere quietamente con la Corte (di) V. S. Ecc.te che lo riputaranno a gratia singularissima. Placet concedere supradicta capitula iuxta decretationes in eis factas per excellentem dominum Franciscum Antonium et Vincentium Carrafa. 116 La supplicano ancora facci gratia a detta università et a contemplatione di essa perdonare et gratiosamente ammettere a tutti li cittadini di detta città eccessi e delitti havessero commessi dove habbiano la parte poiché potrà essere informata che nessuno non è inquisito de furto, né de homicidii, né assassinii, né sono 96 Pasquale di Cicco contumaci, né di detta Corte né d’altro tribunale. Placet dummodo non veniat pro delictis naturalis, civilis, aut membri rescissione pro ut tantum. 117 E perché la detta città have capitolo tra l’altri che il camberlingo ha da conservare li grani, orzi et altre vittovaglie spettantino iusta solitum et consuetum e contra la forma e mente del capitolo solito il detto camberlingo è stato aggravato con farlo ancora conservare li vini della Corte, et smaltirli, per questo la supplica faccia gratia alla detta università che il camberlingo, che pro tempore sempre sarà in detta città non habbia d’havere carico del vino, ma solo dell’ufficio suo circa il governo della terra e de conservare le vittovaglie, così com’era il detto solito al tempo che fu fatto il detto capitolo, e del vino darne carico all’erario d’altro che parerà a S. V. Ecc.te. Placet quod observentur pro nunc sicut in tempore domini Vincentii Carafae fuit observatum. 118 1.Supplica ancora V. S. Ecc.te, atteso che il capitanio e mastrodatti da alcun anni in qua si sogliano spartire gli emolumenti et atti della mastro d’attia contro la forma della tavola e di quello che se osserva nell’altri tribunali maxime reggi, del che si causa danno assai alli vassalli, che per questo il capitanio tutte le cause, ancorché siano summarie e di poca importanza e che summariamente le potria determinare, le fa ordinarie, la supplica faccia gratia che detti molumenti non l’habbiano da spartire tra detti capitanio e mastro d’atti, ma che ogn’uno d’essi habbia quello li compete, secondo il rito dell’altri tribunali massime reggi, che il tutto detta università haverà a gratia singularissima da V. S. Ecc.te, la quale Nostro Signore Iddio esalta, e mantenga secondo desia. Placet. Bartolomeus Caracciolus In civitate Vulturariae die 8 mai MDLXVIIII per excellentem dominum Bartolomeum Caracciolum utilem dominum dictae civitatis. *** 119 Molto illustre signore L’università et huomini della città della Vulturara vassalli e servitori di V. S. Ill.e li fanno intendere come la detta università per capitolo deve fare ogn’anno un huomo per camberlingo a V. S. Ill.e e sua Corte, il quale ha peso di ricevere, conservare e poi smaltire le vittovaglie et vini della Corte et ancora per capitolo deve dare al capitanio della detta città ducento sissanta passi di legne l’anno, e 97 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) trenta tre libre de paglia il dì, e perché questi pesi sono de poco utiltà a V. S. Ill.e e sua Corte, e di gran danno e disturbo alla detta università et huomini di quella, per esimersi dunque da quelli senza il danno e preiuditio di V. S. Ill.e e sua Corte, desiderano che V. S. Ill.e le faccia gratia liberarli da detti pesi, et in ricompenza de quelli accettare che, così come gl’homini di detta ponno tutti per capitolo far taverna et hosterie et alloggiare forastieri, che non possino per l’avenire più alloggiare forastieri de notte, né far taverna, ma solamente vendere pane e vino et altre robbe da mangiare a cittadini et a forastieri in loro case, o cellari come hanno possuto fare sino al presente, e così alloggiare loro amici e parenti senza pagamento, con riserva ancora che V. S. Ill.e non possa dare li predetti pesi, che doveva fare il camberlingo, all’erario o altro cittadino di detta città con pagamento, né senza, se non con buona volontà di chi volesse farlo, e che al detto camberlingo solamente resta il peso de tenere Corte il lunnedì iusta la forma del capitolo e di tenere priggione le donne, quando accascherà secondo il solito, che tutto riceveranno a gratia singularissime da V. S. Ill.e, ut Deus. Bartolomeus Caracciolus utilis dominus civitatis Vulturariae Contentamur omnia predicta supplicata concedi dictae civitati, et omnibus (hominibus) ipsius dummodo fiant debitae cautelae pro securitate, et cautele ambarum partium, regio assenzu impetrando super praedictis semper salvo. Bartolomeo Caracciolo Extat sigillum. Provisum per praedictum illustrem dominum Bartolomeum Caracciolum in palatio Curie civitatis Vulturariae sub die XVI mensis ottobris 1569. *** 120 Al signor marchese della Vulturara L’università della città della Vulturara e per esse li sindici et eletti del presente anno, vassalli e servi di V. S. humilmente li fanno intendere come il mastro d’atta e capitanio di detta città nelle cause di trenta carlini inbascio procedono tra li particolari d’essa città in scriptis fandono atti, e quello ch’è peggio in numero tale che detti ascendono et absorbeno la dimanda principale delle parti, contro la forma del dovere e della pandetta di detta città firmata dalla buona memoria del quondam signor Bartolomeo Caracciolo suo padre, per il che li cittadini di essa venghino a patere non poco interesse del detto proceder perché detti ufficiali vogliano sinistramente cum riverentia interpretare la pannetta, atteso che delle dette quantità fanno chiamare le parti debitrici, et loro contumacie fanno l’esequutorio in scriptis, et in virtù di detto esequutorio poi procedono ad atto di venditione con li decreti de vendendo et accensi de candele, et altro che non si 98 Pasquale di Cicco deve contra la forma della detta pannetta, perciò ricorrino da V. S. supplicandola se degni provedere di modo che sa essere conveniente, acciò detta pannetta habbia luoco per l’avenire, e per il passato se restituisca il debito esatto che l’haveranno a gratia da V. S., quam Deus. Capitanio nostro e mastrod’atti di Vulturara ve ordinamo che osserviate la solita pannetta, et in quelli casi dove non è pannetta, provederete conforme alle disposizioni delle leggi e non altrimente. Il marchese della Vulturara Provisto per Giovanni Battista Caracciolo marchese della Vulturara a 9 di maggio 1600. *** 121 Illustrissimo signore L’università della città della Vulturara e suoi del reggimento, schiavi e vassalli de V. S. Ill.ma la supplicano se degni nella fiera di Santo Luca farli osservare dal mastro mercato e mastro d’atti la pannetta di detta Corte, che l’atti e decreti se paghino in detta fiera servata la forma di detta pannetta, et il tutto lo riceveranno a gratia, ut Deus. De più la supplicano se degni ordinare che in detta Corte de mastromercato ogni persona che sarà fatta contumace civile habbia tempo ventiquattr’hore a cassare detta contumacia, iusta lo stile della Corte del magnifico capitanio di detta città, et il tutto etc. Ci contentiamo che tanto nel primo quanto nel secondo capo se osservi la pannetta insino a nostro nuovo ordine acciò ce possiamo informare come è stato l’antico solito, e nel terzo capo ordinaremo che se osservi come se osserva nell’altre fiere generalmente. Il marchese della V\ulturara Provisto per il signor marchese della Vulturara in Santo Bartolomeo a primo di novembre 1600. Extratta est praesens copia capitolorum et immunitatum universitatis civitatis Vulturariae per me notarium Jovannem Petrum Andretta ab Angria civem Alberonae et cancellarium dicte civitatis a suo proprio originali libro mihi exhibito per sindicum et electos eiusdem universitatis videlicet Guglielmum Bernardum et alios, et eisdem restituto, cum quo facta collatione etc. concordat meliori etc. et in fidem etc. me subscripsi et ex solito signo signavi. Locus sigilli. 99 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) *** Illustrissimo signore L’università della città della Vulturara e cittadini di quella humilmente la supplicano resti servita come a benigno loro signore e come fedeli vassalli di V. S. Ill.ma di nuovo confirmarli li capitoli, immunità, antica pannetta, e tutt’altre franchitie che godevano et hanno godute, le quali le furono concesse da tutti antipassati signori e padroni di detta città, et signanter dall’ill.mo signor Giovanni Battista Caracciolo bonae memoriae, e che sia in cielo, marchese a quel tempo in detta città, acciò quelli concessi e confirmati possano quietamente vivere, e così far osservare dalla Corte di V. S. Ill.ma e l’haveranno a gratia, ut Deus. Capitolationi e patti da firmarsi dall’ill.mo signor Fabritio Montalto al presente duca di Fragnito, utile signore e padrone di questa città della Vulturara sopra la transattione seu accordio da farsi fra esso signore ill.mo e li cittadini e vassalli di essa città mediante regio assenso da impetrarsi da detto signore ill.mo a sue proprie spese. 122 In primis detto ill.mo signor resterà servita contentarse cedere a beneficio di detti cittadini e vassalli la difenza del dumato chiamata la defenza della Ripa delli Corvi franca e libera, senza che detto signore e suoi successori possino pretendere pascolarci con nulla sorte d’animali, legnarvi, acquarvi, gliandarvi, né esigere pena alcuna tanto contro cittadini quanto contro forastieri, che pro tempore se ritrovasseto a dannificare in detta defenza, né come padrone, né come primo cittadino, ma che habbia da essere in tutta e per tutta di detta università e suoi cittadini, alla quale sia lecita detta difenza venderla, alienarla, affittarla, e disponerse in ogn’altra maniera che li parerà senza che detto signore, né suoi posteri possino pretendere cosa alcuna, con potestà che detta università possa ponerce uno o più guardiani a suo arbitrio in guardia di detta defensa, li quali possino andare armati d’ogni sorte d’arme non proibite però dalli regii banni, con licenza però della Corte di detto signore, la quale non possa dinegarla, né farle pagare cosa alcuna, et ogni volta che succedesse che detta università per qualche sua necessità, il che Iddio non voglia, volesse vendere detta difesa ad estinguere la possa vendere, ma con farlo prima intendere a detto signore e suoi eredi e successori se farà per loro. 123 Item resterà servita detto signore ill.mo concedere a tutti cittadini di detta città et habitanti in essa che possino andare a legnare, e fare scandole, travi, travicelli, spole, et ogn’ altra marrame per servitio de loro case assolutamente, et anco pali per le vigne a legname morto e vivo alla defenza del bosco di Sant’Antonio senza 100 Pasquale di Cicco impedimento, né pagamento alcuno, e questo s’intenda per loro servitio tantum. Placet. 124 Item resterà servita V. S. Ill.ma, suoi heredi e successori levare da detti citadini vassalli et habitatori in essa città tutte sorte de commandamenti tanto personali come d’animali, ita et taliter che, volendo detto signore corrieri, operarii, animali di soma, cavalcatore, bovi, et ogn’altra sorte d’animali o persone di qualsivoglia maniera per suo servitio, l’habbia a pagare conforme se potrà convenire con essi. Placet. S’intende detta conventione con li soliti corrieri e vetture, e non ad altri non usi in quello. Placet. 125 Item resterà servita detto signore ill.mo fare condurre a sue proprie spese le macine del molino o centemmoli baronale e quelle farle medesimamente a sue proprie spese, senza che detta università e suoi cittadini vassalli et habitanti in essa ce siano interessati a cosa alcuna per dette macine e quelle potrà farle ogni volta che sarà necessario a sue proprie spese, come di sopra. Placet. 126 Item resterà servita detto signore ill.mo, suoi eredi e successori firmare et fare osservare tutti li capitoli de suoi prede(ce)ssori padroni, et signanter fare osservare dalli capitanei o loro locotenenti e mastro d’atti passati, presenti e futuri, che pro tempore saranno in questa città, la pannetta tanto per l’atti civili, quanto criminali puntualmente, senza che se possa innovare cosa alcuna, né reformarsi, né aggiungersi, né mancarse, ma s’abbia da osservare nel modo e forma che se ritrovino in potere di essa università. Placet. 127 Item resterà servita detto signore ill.mo, suoi heredi e successori osservare la conventione ultimamente fatta per essa città e suoi cittadini con il quondam signor Giovanni Battista Caracciolo tunc temporis e padrone di questa città circa il fare delli centemmola, et il macinare nel molino baronale, cioè che ogni cittadino et habitante in essa, tanto presente quanto futuro, sia lecito tenere centimmoli in loro case senza nessun peso, e che possino andare a macinare dounque li parerà a loro arbitrio, quando però il molino baronale non macinasse di state. E di più che non possa detto signore levare territorii, e darli a coltura ad altri se il possessore de quelli non sarà stato anni sette a non coltivarli. Di più che possino detti cittadin fare ogni sorte d’animali tanto per industria quanto per uso proprio senza che n’habbiano da portare nessun peso di fida, e che possino parare e far herbe per uso de detti loro animali a loro arbitrio senza proibitione alcuna, e detti cittadini presenti e futuri promettono così come prima li signori e patroni, che pro tempore sono 101 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) stati, terraggiavano d’ogni dodeci tomola uno d’ogni sorta di vittovaglie, legume, cannavo e lino, al presente se contentino che se possa terraggiare d’ogni diece tommola uno, e pagare per macinatura al molino baronale ogni sedeci stoppelli uno, così come ne sono stati in possesso l’una e l’altra parte da che fu conclusa detta conventione con detto signor marchese, e se ritrovino al presente. Placet. 128 E come che vi è la defesa del domato chiamata la difesa della Ripa dell Corvi alla quale V. S. Ill.ma ce have il ius, come primo cittadino, in pascolare, acquare, gliandare, di modo che pochissimo utile renda a V. S. Ill.ma, però la supplicano restar servita concederla a detta università e suoi cittadini in detta città, cederle tutte raggioni, attioni e dominio che V. S. Ill.ma e suoi successori ce hanno come primo cittadino, ma che da mo per sempre et in perpetuum sia in tutto e per tutto di essa università e cittadini detto ius, come cittadino, con non andarce né a pascolare, né legnare, né gliandare, né acquare con nessuna sorte d’animali, né in quella pretenderci pena alcuna de forastieri che pro tempore se ritrovassero a dannificare in detta difesa, né come padrone, né come primo cittadino ut supra, ma che habbia da essere detta difesa in tutta e per tutta di essa università e suoi cittadini presenti e futuri et in perpetuum, alla quale sia lecito detta difesa venderla, alienarla, affittarla e disponerse in ogn’altra maniera che parerà ad essa università e suoi cittadini, senza che V. S. Ill.ma e suoi successori possino pretenderci cosa alcuna ut supra, con potestà che essa università possa metterce uno o più guardiani a suo arbitrio in guardia di detta difesa e che la pena sia tutta a beneficio di essa università quando succedesse, e che li guardiani che essa università ponerà possono andare armati d’ogni sorte d’armi non proibite dalli regii banni senza impedimento alcuno, et ogni volta che detta università per qualsivoglia sua necessità, il che Iddio non voglia, volesse vendere detta difesa la possono vendere a suo arbitrio, senza pretenderci V. S. Ill.ma cosa alcuna. Placet. 129 Item si fa intendere a V. S. Ill.ma come essa università e suoi cittadini possedevono per domanio li boschi di Montauro, San Gregorio e Puzzilli, nelli quali ogni cittadino andava a loro arbitrio a farce travi, tavole, travicelli, spole, scandole, pali et altre sorte di marrame per loro uso tantum di case quanto de massarie, e perché dall’ill.mo b.m.signor padre furono sboscati, e dati a coltura detti boschi, e promese darne altretanto ad essi cittadini al bosco di V. S. Ill.ma dove se dice a Santo Antonio con la medesima attione di posser lignare ut supra, per tanto se supplica restar servita confirmarli detta concessione di possere andare in detto bosco di Santo Antonio a fare ogni sorte d’albore fruttifero quanto infruttifero, e per lignare al morto tantum e dell’albori vivi che tagliaranno per marrame se li possino affruttare per legna senza richiesta di nessuno. Placet pro reparatione eorum domus tantum, et arbores infructiferi et crognali remanent ad eorum usum et arbitrium. 102 Pasquale di Cicco 128 B Item resterà servita V. S. Ill.ma e suoi heredi e successori levarli detti cittadini vassalli et habitatori in detta città tutte sorte de commandamenti personali, animali di soma, e cavalcatore di selle, bovi, et ogn’altra sorte d’animali e persone, ma volendone quando l’occorrerà habbia da fare commandare quelli che sono soliti a tale esercitio, e che l’habbia da pagare conforme pagano li cittadini habitanti e commorant in detta città, tanto li corrieri, bestie di some, cavalcatore, bovi, et ogn’altra sorte d’animali e gente, intendesi ancora la condottura de grani in Napoli per vitto di V. S. Ill.ma che detti cittadini non possino essere astretti per condurli. Placet. 129 Item resterà servita V. S. Ill.ma far condurre a sue spese le macine delli molini e centimmoli baronali senza che essa città possa essere commandata et astretta ne suoi cittadini e vassalli et animali per detta condottura de macine, atteso prima erano obligati condurle tantum, e da oggi avanti non siano obligati a condurle, et a nesuna sorte di spese. Placet. 130 Item resterà servita V. S. Ill.ma, suoi heredi e successori firmare e fare osservare tutti li capitoli, immunità, e franchitie de suoi predecessori padroni, tanto dalli capitanei, loro locotenenti, mastro d’atti presenti e futuri che pro tempore saranno in questa città la pannetta tanto per gli atti civili, quanto criminali, et ogn’altro capitolo che facessero in beneficio di essa città et università, senza che se possa più innovare cosa alcuna, né reformarsi, né aggiungersi, né mancarsi, ma s’habbia da osservare nel modo e forma che detti capitoli e pannetta se ritrovino. Placet. 131 B E perché in pubblico parlamento si è concluso che per ricompenza delli favori fattoci da V. S. Ill.ma in confirmarci e concederci li sopra detti capitoli, cioè la difesa del domato, tutte loro raggioni et attioni, che V. S. Ill.ma là teneva, concessione del taglio a Santo Antonio, commandamenti personali et animali, condottura de macine, confirmatione de capitoli, e pandetta e condottura di grano in Napoli, per tanto essa città e suoi cittadini promettono pagare ogn’anno et in perpetuum a V. S. Ill.ma, suoi eredi e successori docati ottanta tre, tarì due e grana cinque per le sudette concessioni e gratie fattoci, con patto però che per ogni volta da V. S. Ill.ma, suoi heredi e successori non se osservassero, e farse buoni li predetti capitoli, pannetta, e capi ut supra, e quelli farli osservare dalla sua Corte, erarii e ministri conforme stanno notati sia lecito ad essa università e suoi cittadini non pagare detti docati 83.2.5, ma quelli, autoritate propria, se le possino ritenere, e non esserno astretti quelli a pagarli, e che sopra detti capi, capitoli e pandetta Sua Signoria Ill.m sia tenuta farsi spedire il regio beneplacito per indennità dell’una parte e l’altra, atteso così semo convenuti con V. S. Ill.ma. Placet. 103 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) Item resterà servita V. S. Ill.ma, suoi heredi e successori osservarci la conventione ultimamente fatta per essa città e suoi cittadini con l’ ill.mo signor Giovanni Battista Caracciolo b. m. in quel tempo marchese e padrone di questa città, e sono li sotto scritti capi videlicet. 131 D In primis che sia lecito ad ogni cittadino habitante e commorante in essa città farsi il centimmolo in sua casa, senza pagarne cosa nessuna, et in quello macinare ogn’uno che ce anderà a macinare, quando però non macinerà di stestesa (state) il molino dell’acqua di V. S. Ill.ma e che non possino essere astretti andare al centimmolo baronale, restando l’arbitrio alli cittadini dove vogliano andare o in detti centimmoli baronali o de cittadini o vero fuora. Placet. 132 Item resterà servita V. S. Illma, suoi heredi e successori non ammovere, né levare territorii a nessuno cittadino habitante in essa città, quali sono stati concessi dall’anticessori di V. S. Ill.ma, se non saranno stati sette anni a non coltivarsi, et elassi li detti sette anni V. S. Ill.ma le possi concedere a chi li parerà, riservati però li paduli che non si seminano, atteso servino per fieno, e che da V. S. Ill.ma da oggi avanti si concedono ad essi cittadini. Placet. 133 Item resterà servita V. S. Ill.ma sia lecito ad ogni cittadino ieffare seu parare per herba per far fieno tutto quello territorio li parerà atto, acciò possino far fieno per loro animali. Placet. 134 Item sia lecito ad ogni cittadino posser fare tenere in questo territorio di questa città ogni sorte d’animali tanto per uso, quanto per industria, e quelli possino pascolare per tutto il territorio atto senza pagarne peso, né fida nessuna, riservato però il bosco di Sant’Antonio, siccome è stato antico solito. Placet. 135 Et in ricompenza delli sopradetti capi ut supra, cioè il far delle centemmola, libertà d’andare a macinare fuora, de non posser levare territori, possere ieffare per fieno, e far annemali per uso et industria, in ricompenza di ciò detti cittadini presenti e futuri promettono, così come prima li signori illustrissimi padroni antecessori terraggiavano d’ogni dodeci tomola uno d’ogni sorte de vittovaglie, legume, cannavi e lino, si contentano si potesse terraggiare d’ogni diece tommola uno, così anco si contentano che d’ogni dieci uno V. S. Ill.ma al presente terraggia, suoi heredi e successori, e così come al molino si pagava ogni venti tomola, al presente si contentino, si come all’hora si contentorno, esigghi V. S. Ill.ma d’ogni 104 Pasquale di Cicco sedeci tommola uno, si come si sta e sono stati in possessione tanto V. S. Ill.ma quanto detti cittadini, da che fu conclusa detta conventione con detto illustrissimo signor marchese e così se ritrova al presente, resta solo impetrarne a quel tempo il regio assenzo del quale ne supplicamo V. S. Ill.ma restar servita impetrare detto regio assenso al presente. Placet. 136 Item supplicano V. S. Ill.ma restar servita che nelli memoriali spediti di gratia da V. S. Ill.ma ad essi cittadini per le cose civili e criminali, che li capitanei e mastro d’atti pro tempore saranno non habbiano da pigliarse eccetto che carlino uno, e per li memoriali et ordeni per le collette non paghino cosa nessuna, havendono da V.S. Ill.ma il tutto a gratia, ur Deus. Placet. Item supplicano V. S. Ill.ma restar servita ordinare che per li decreti interlocutorii nelle cause ordinarie e per l’esecutorii che passino la summa di trenta carlini non si paga più d’uno carlino per ciascheduna di detta espeditione al capitanio, e per li decreti diffinitivi non si paga più di carlini due al detto capitanio nelle cause civili, per qualsivoglia summa che sia, e così anco al mastro d’atti. Die nono mensis februarii 1642 habi(t)a licentia a reverendo domino archipresbitero et coram magnifico capitanio. Per Michele Aglialdo al presente sindico una con li suoi eletti si propone a voi sotto scritti cittadini congregati nella chiesa maggiore di questa città della Volturara come dall’illustrissimo signor duca di Fragnito nostro padrone ci vole concedere e farci gratia bonificarci li retro scritti capi che a voi si leggeranno. In ricompenza di dette gratie e concessioni, che ci vuol fare, havemo proposto darle ogn’anno ducati ottantatre e carlini quattro e mezzo, mediante regio assenso impetrando; pertanto si fa intendere a voi predetti acciò ogn’uno dichi il suo parere, in questo et in ogn’altro meglior modo. E per li sotto scritti cittadini, inteso il proposto fattoli dal governo, e parendoli la proposta giusta e beneficio universale, concludesso che si diano all’illustrissimo signor duca padrone li sopradetti ducati ottantatre e carlini quattro e mezzo l’anno perché detto signor illustrissimo ce firma li nostri capitoli nuovi che son fatti con spedirce il regio assenso, e così si è concluso dall’infrascritti cittadini et governi di detta città della Volturara rappresentando la maggiore di quelli quali sono li sottoscritti videlicet. Michele Aglialdo sindico dice che bene a farlo, e si contenta che si paga la sudetta summa perché s’osserva. Gabriele Barone eletto ut supra. Filippo Lantare eletto u. s. Laurenzo Briante u. s. eletto Pietro Giarrusso eletto u. s. Giovanni Cairella u. s. Michele Arasso conferma u. s. Pietro Bailo conferma u. s. Giacomo Aglialdo conferma u. s. 105 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) Lorenzo Rancetto u. s. Francesco Ricciardone confirma u. s. Antonio Mendone u. s. Antonio Ricciardone u. s. Giovinale Aglialdo u. s. Francesco Giovanni Russo u. s. Pietro della Corte u. s. Jacovo Bosa u. s. Filippo Bosco u. s. M. Donitio Inglese u. s. Michele Mainiero u. s. Mastro Antrea Fiorillo u. s. Giovanni Salvagiotto u. s. Giovanni Battista Lombardo u. s. Lorenzo Riviale u. s. Oratio Lombardo u. s. Oratio di Chele u. s. Giulio di Cicco u. s. Jacovo Canale u.s. Berardino Simone u. s. Antonio Bertino u. s. Giovanni della Corte u. s. Antonio Campolattano u. s. Bartolomeo Pirrotto u. s Albentio Lantare u. s. Berardino Lizzatro u. s. Matteo Violino u. s. Giovanni Albanese u. s. Pietro Rangetto u. s. Francesco Catalano u. s. Antonio Bonello u. s. Daniele Nattone u. s. Libro Ferro u. s. Carlo Giovanni Grosso u. s. Angelo Briante u. s. Pietro Briante u. s. Giuseppe Spagnolo u. s. Marco Antonio Marchisciano u. s. Michele Guarniero u. s. Michele d’Antonio Aglialdo u. s Mastro Antrea Ferro u. s. Pietro Caggiano u. s. Paolo di Santo u. s. Filippo Nattone u. s Matteo Pirchio u. s. Berardino Bilangia u. s. Pietro di Statio u. s. Omnia retroscripta capitola et iura municipalia a nobis et nostris predecessoribus concessa universitati nostrae civitatis Vulturariae hominibus et personis habitantibus et commorantibus in ea ad presens et in futurum cautelae et scripturae necessariae pro severitate et indemnitate ambarum partium, salvo regio assenso impetrando, in praedictis et vice predicta, et mandamus ita observari a nostris erario, capitanio, eiusque locumtenente presentibus et futuris sub poena privationis eorum officii, et alia nostro arbitrio riservata, in quorum etc. Il duca di Fragnito Provisum per ill.mum dominum Fabritium Montaltum ducem Fragniti sub die 7 mensis maii 1642. Licet aliena manu extracta est praesens copia a suo proprio originali mihi infrascripto exhibito per magnificum Gabrielem Campolattano sindicum eidemque restituto, et facta collatione concordat meliori etc. et in fidem ego Antonius de Rosa civitatis Vulturariae provinciae Capitanatae regia atque apostholica aucthoritate notarius praesentem feci, meoque quo utor signo signavi requisitus. Laus Deo. (Segue il segno del tabellionato). 106 Pasquale di Cicco *** Tavola delli pagamenti da farsi da questo dì avanti alli mastrod’atti quali da mo avanti saranno nella città della Volturara per li cittadini et habitanti in essa ordinata e moderata per l’eccellente signore Francesco Antonio Villano de Napoli utile signore di detta città a supplicatione di detta città nella quale si distingu(e) ranno li pagamenti da farsi nelle cause summarie dalle ordinarie, declarandosi la cause summarie esserno da tre docati in bascio, e da tre docati in su esserno l’ordinarie, e confermata poi dall’illustrissimo signor Fabritio Montaldo duca di Fragnito in quest’anno 1642. Per le quale cause summarie s’habbia da procedere nel modo infrascritto videlicet quando il creditore pretende alcuna cosa dal debitore e lo fa chiamare avanti al capitano debbia cum iuramento interrogare lo chiamato sopra lo che se li dimanda, et accettandosi per esso quello se li dimanda se le faccia il precetto seu mandato in scriptis de solvendo per il quale s’habbia da pagare grana uno. Però quando lo chiamato negasse, o pretendesse cosa alcuna per lo che bisognasse annotarsi la petitione, esaminarsi testimoni, fare decreti, e procedersi ad sequutione, s’habbia da pagare nel infrascritto modo videlicet. Per annotatione del petitorio grana uno. Per l’esamina di ciasched’uno testimonio grana due. Per decreto di condannatione o assolutione grana cinque. Per l’esequutorio grana cinque. Per decreto sopra li pegni, seu venditione di essi grana due. Declarandosi nelle cause predette summarie esaminato che sarà se dona la facoltà de percontare l’atti, per il qual’atto se paga grana uno, e dipoi se all’altra delatione se spediscono conforme al dovere alla giustitia. Li pagamenti nelle cause ordinarie videlicet da tre docati in su. Per la presentata della prima petitione sive libello grana cinque. Per la citatione fatta in scriptis in virtù del predetto libello cum inserta forma ipsius sive a tergo grana quattro. Per qualsivoglia altro mandato cum clausola iustitiae grana quatttro. Per la prima contumacia grana uno. Per l’ultima contumacia grana due. Per lo costituire de procuratore grana quattro. Per citatione de testimonii grana quattro. Per presentata d’articoli grana cinque. Per l’esamina de testimonii in cause civili, cinque in basso, grana tre. Item d’articoli cinque in su grana cinque. Item in cause criminali grana dieci per testimonio. Per la citatione ad publicandum grana quattro. Per la copia del processo iusta la forma della regia prammatica diece carte a tarì. 107 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) Per la citatione ad concludendum grana quattro. Per la presentatione de ciascuna petitione, e risposta grana cinque. Per qualsivoglia replica, che se farà inpronto oretenus dalla quale sarà requesto il mastrod’atti dalla parte, che la scriva, se paga solum un grano. Per qualsivoglia pretesto dal quale sarà requesto lo mastrod’atti che la scriva ad instantia della parte se paga grana quattro. Per decreto super inudenti grana cinque. Eccettuadone però quelli decreti per li quali si provede qui ad primam compareant pro termino, vel detur copia delli quali non se paga cosa nessuna. Per decreto e sententia diffinitiva da docati tre per fino alla summa di venti, tarì uno. E da ducati venti per fino in cinquanta, tarì due. E da cinquanta in su carlini cinque. Per l’esequutorio grana dieci. Per il mandato ad reluendum grana quattro. Per lo mandato quod vendantur bona exequuta grana diece. Per ogni compromisso che se farà tanto voluntario come necessario per ciascuna parte grana quattro. E quando se procederà avanti gl’arbitri in scriptis se pagarà al mastrod’atta nel sopra detto modo videlicet. Per ciascuna preggiaria de causa civile grana cinque. Per ciascuna preggiaria di causa criminale grana cinque. Per ciascuna rimissione che si farà per la qual parte si daranno per colpabbili e fallite grana quattro et etiam pagare i mastrd’atta delle testimonii esaminati ad informationem Curiae grana quattro. Per ciascuna cassatura de querela di quelle cause nelle quale havi luoco la penitenza grana due. E per ciascuna cassatura di querela di quelle cause alle quali venit imponenda poena corporis afflittiva grana sette, e pagarà etiam li testimonii ut supra. Per la copia delli banni, che se publicaranno per ordine del capitanio, quando nel banno se conteneranno più capitoli se paga in questo modo, da cinque capitoli in bascio grana cinque, e da cinque capitoli in su grana diece. Quae praesens tabula facta fuit in civitate Neapoli die 4 mensis ianuarii 1539. Franciscus Antonius Villanus Item per ciascuna obliganza presentata ad instantia delle parti da trenta carlini in basso se pagarà grana due. E da trenta carlini in su grana cinque. Franciscus Antonius Villanus Praesens tabula et contenta in ea placuit idem mihi Vincentio Carrafae observari per omnes si et pro ut solitum fuit observari tempore predicto dicti excellentis domini Francisci Antonii Villani et in fidem me subscripsi manu propria. Datum in dicta civitate Vulturarae die XVI mensis iulii 1548 VI inditionis. 108 Pasquale di Cicco Vincentius Carrafa Idem excellens dominus Vincentius Carrafa mandavit mihi notario Hieronimo. Apparet locus sigilli. Die 26 mensis novembris 1604 Franciscus Poliarcus capitaneus iuravit observare omnia in retroscriptis capitolis monicipialibus contenta praesentibus domno Camillo Silvestro et Antonio Bonanno, et in fidem. Cesar Bertinus pro cancellario Pandetta emolumentorum spectantium ad actuarios presentes et futuros nostraae civitatis Vulturariae insertam et praecalendatam in presentibus capitulis et iuribus municipalibus dicte civitatis mandamus observari per dictos actuarios tam in Curiae quam in Curia nundinarum Sancti Lucae de verbo ad verbum ut iacet dummodo aliter fuerit per nos provisum pro pandetta Curie nundinarum Sancti Lucae tantum sub poena restitutionis dupli et alia riservata nostrum arbitrium. Datum Petre Montis Corbini 8 mensis martii 1642. Il Duca di Fragnito Io Tarquinio Derosato procuratore dell’illustrissimo signor don Frangesco Brancaccio prometto di osservare e fare osservare dal detto mio principale li sudetti capitoli iusta la loro forma, continentia et tenore, et in fede. Io Tarquinio Derosato confirmo ut supra Io Giovanni Domenico Nocchi procuratore dell’eccellentissimo signor don Antonio d’Aquino prengipe di Caramanico prometto fare osservare dal mio prencipale li su detti capitol iusta la loro forma, continenzia e tenore prout solitum. Io Giovanni Domenico Nocchi procuratore ut supra Io Bernardo Donatelli procuratore dell’eccellentissima signora donna Isabella Milano duchessa di Montecalvo prometto fare osservare li presenti capitoli municipali dalla detta mia pringipale iusta la loro serie, continentia e tenore secondo il solito. Volturara 10 settembre 1693. Io Bernardo Donatelli procuratore confirmo ut supra Licet aliena manu extracta est presens copia a suo proprio originali mihi infrascripto exhibito per magnificum Gabrielem Campolattano sindicum, eidemque restituto, et facta collatione concordat etc. meliori etc. et in fidem ego Antonius de Rosa civitatis Vulturariae provinciae Capitanatae regius atque apostolica authoritate notarius praesentem feci, meoque quo utor signo signavi requisitus. Laus Deo. (Segue il segno del tabellionato) 109 Gli statuti inediti dei Provenzali di Volturara (1541- 1642) Sigillo della città di Volturara nel 1734 (Archivio di Stato di Napoli, Sezione amministrativa, Conti comunali, b. 290, fol. 101t.) 110 Pasquale di Cicco Volturara in un disegno della metà del Cinquecento (Archivio di Stato di Foggia, Dogana delle pecore di Puglia, s. I, vol. 18) 111 Giacomo Cirsone La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) di Giacomo Cirsone La fase rinascimentale, coincidente con l’arrivo degli Aragonesi nell’Italia Meridionale, dove rimasero dal 1435 al 1503, quando ha inizio il dominio spagnolo, non vede grossi interventi sulla SS. Trinità; i Cavalieri di San Giovanni provvidero a continuare il programma decorativo all’interno della chiesa e frazionarono le navate laterali creandovi delle cappelle1 [Fig 1]. I corpi di fabbrica individuati davanti alla facciata della chiesa ed attribuiti in questa sede al periodo normanno sono ormai in rovina, sepolti sotto uno strato d’interro depositatosi a seguito dell’innalzamento del livello del piano di campagna. Alla metà del ‘400 viene edificato il monumento funebre della famiglia Acciaiuoli, originaria di Firenze, che tenne la signoria di Melfi; due membri della famiglia, Raffaele (morto nel 1458) ed Emilio (morto nel 1470), furono sepolti nella SS. Trinità; il monumento è simile nell’impostazione a quelli degli Altavilla e di Alberada, presentando un arcosolio in pietra, con terminazione a timpano; collocato originariamente sotto i pilastri paleocristiani, si trova oggi addossato al muro perimetrale della navata sinistra2 [Fig. 2]. È possibile datare a questo momento due affreschi di pregevole fattura, un’Annuciazione ed una Madonna con Bambino, entrambi di pieno XV secolo; l’affresco dell’Annunciazione si trova sul primo pilastro destro della navata centrale, e rappresenta la Vergine in trono, con un libro aperto sulle gambe e con indosso una lunga veste di colore azzurro; sulla sinistra si vede l’angelo Gabriele di dimensioni ridotte rispetto alla Madonna, raffigurato quasi come un fanciullo, 1 Le cappelle furono smantellate a seguito dei restauri degli anni ’80, ma erano ancora visibili negli anni ’30 del XX secolo, momento in cui furono viste e rilevate da Riccardo Bordenache che le riporta in pianta (cfr. Riccardo Bordenache, La SS. Trinità di Venosa. Scambi ed influssi architettonici ai tempi dei Normanni in Italia, in «Ephemeris Dacoromana», a. VII, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1937, p. 22, fig. 7). 2 Il sarcofago è stato trasferito a Roma negli anni ’50 del XX secolo da un discendente della famiglia (cfr. Geremia Dario Mezzina, Radiografia di un monumento: la chiesa della SS. Trinità in Venosa, Bari, Simone, 1977, p. 95). 113 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) Figura 1. SS. Trinità. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture della SS. Trinità: in verde le strutture della fase longobarda (VII - X secolo); in giallo sono indicati gli interventi della fase svevo-angioina, databili tra la fine del XII e la metà del XIV secolo; in viola scuro sono segnati i setti murari con i quali furono create delle cappelle nelle navate laterali (seconda metà XV-XVI secolo); tutte le strutture qui segnate sono sovrapposte al disegno ricostruttivo della chiesa, indicato in viola chiaro (elaborazione Cad G. Cirsone). Figura 2. Chiesa Vecchia. Navata sinistra: sepolcro della famiglia Acciaiuoli (foto G. Cirsone). 114 Giacomo Cirsone Figura 3. SS. Trinità. Affreschi dell’Annunciazione e della Madonna con Bambino, databili al pieno XV secolo (foto G. Cirsone). con una veste dorata e le ali di colore rosso fuoco; dietro Maria, un drappo di colore verde, bordato di rosso, fa da sfondo, facendo risaltare il capo nimbato della Vergine, dai tratti delicati e dall’incarnato roseo. Lo sfondo azzurro che accoglie le due figure, è delimitato da una cornice geometrica con motivi di derivazione cosmatesca.3 La Madonna con Bambino è dipinta invece sul primo pilastro di sinistra della navata centrale; la Madonna indossa un manto scuro sopra una veste dello stesso colore, bordati di giallo chiaro; il Bambino, nudo, Le siede sul braccio sinistro, rivolgendoLe lo sguardo, e con la manina Le stringe un dito della mano destra. Le figure, su un fondo azzurro scuro, sono racchiuse entro una cornice a fasce di colore giallo, bianco e rosso4 [Fig. 3]. I lavori principali si concentrano nella navata S dove viene posta mano al sepolcro degli Altavilla, collocato anch’esso originariamente negli interassi dei pilastri paleocristiani; la sistemazione delle spoglie dei primi duchi normanni in un unico monumento sepolcrale si deve, in base alle cronache del tempo, all’attività del balivo Agostino Gorizio Barba da Novara, sepolto nella SS. Trinità intorno 3 Cfr. Basilicata. Potenza, Matera, il Pollino, la Magna Grecia, il Vulture, le coste tirrenica e jonica (Guide d’Italia del Touring Club Italiano), Milano, Touring Club Italiano, 2004, p. 88. 4 Cfr. Mezzina 1977, pp. 83-84. 115 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) Figura 4. Chiesa vecchia. Navata sinistra: a sinistra la tomba di Alberada di Buonalbergo, prima moglie del Guiscardo, e a destra il sepolcro degli Altavilla nella sistemazione del XVI secolo (foto G. Cirsone). al 1560, secondo quanto riportato nelle epigrafi apposte sulla sua lastra tombale5 [Fig. 4]. Di questo priore esiste il ritratto, fatto eseguire dal figlio Gerolamo, nel 1566, ad opera del pittore Giovanni Todisco, affrescando la superficie del quarto pilastro di destra della navata centrale; la figura del cavaliere è vestita con il mantello nero che contraddistingue l’Ordine di Malta6 e la spada al fianco, inginocchiato davanti ad una Madonna con Bambino che emerge da una nuvoletta; lo sguardo è assorto in preghiera con il viso rivolto verso il breviario aperto sull’inginocchiatoio 7 [Fig. 5]. Dall’iscrizione della lastra tombale del balivo Giuseppe Caccia da Novara, 5 Cfr. Bordenache 1937, pp. 17-18, fig. 5; Mezzina 1977, p. 47; Mariarosaria Salvatore, Trinità: il complesso paleocristiano, in Mariarosaria Salvatore (a cura di), Venosa: un parco archeologico e un museo. Come e perché, Taranto, Scorpione, 1984, p. 78; Hubert Houben, Una grande abbazia nel Mezzogiorno medioevale: la SS. Trinità di Venosa, in «Bollettino Storico della Basilicata», II, 1986, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1986, p. 42; Mariarosaria Salvatore, Il restauro architettonico e l’archeologia: Venosa, SS. Trinità, in Luigi Bubbico, Francesco Caputo, Attilio Maurano (a cura di), Monasteri italogreci e benedettini in Basilicata, Matera, La Tipografica, 1996, I, pp. 39-52; Rosa Villani, Età angioina. XIV secolo. La chiesa della SS. Trinità a Venosa, in Pittura murale in Basilicata. Dal Tardo Antico alla prima metà del ‘500, Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata, 1999, p. 50. 6 Dopo la caduta di Acri nel 1291, l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Gerusalemme si insediò nel XIV secolo a Rodi, prendendo il nome di Ordine dei Cavalieri di Rodi; dall’isola dell’Egeo, i cavalieri furono cacciati nel 1550 dai Turchi, e finirono con lo stabilirsi nell’isola di Malta, formalmente come vassalli del Regno di Napoli, dove costituirono uno Stato indipendente fino all’arrivo di Napoleone nel 1801; attualmente l’Ordine, col nome di Sovrano Militare Ordine di Malta (S.M.O.M), ha sede a Roma in vari edifici che godono del diritto di extraterritorialità. 7 Cfr. Mezzina 1977, p. 88. Mezzina riporta la notizia della costruzione di un altare tardorinascimentale, dedicato alla Madonna delle Grazie, sulla parete di fondo del transetto a destra dell’abside, commissionato dalla famiglia Barba (cfr. Mezzina 1977, pp. 107-108). 116 Giacomo Cirsone datata al 1568, sappiamo del restauro effettuato su una cappella, ma non è possibile dire di quale si tratti, dato che nel rilievo di Bordenache, su cui si basa la pianta riportata nella Fig. 1, ne sono indicate almeno quattro8 [vedi Fig. 1]. Anche di questo cavaliere è stato realizzato il ritratto, affrescando il terzo pilastro di destra della navata centrale; il priore è raffigurato inginocchiato, con indosso il mantello nero su cui campeggia la croce di Malta, il rosario nella mano destra e la spada nella sinistra; l’iscrizione sottostante ne ricorda i meriti e la data di morte9 [Fig. 6]. All’anno 1569 si data la posa in opera di uno stemma recante l’arme del balivo Antonio Peletta, Figura 5. SS. Trinità. Particolare della navata centrale con un leone rampante e la croce di da N, nella quale è visibile il ritratto del balivo AgoRodi, collocato sulla destra dell’at- stino Gorizio Barba da Novara (foto G. Cirsone). tuale ingresso della chiesa;10 la presenza di questo elemento ha indotto erroneamente gli studiosi a datare la parte anteriore della chiesa, comprendente l’avancorpo e la scalinata che porta alla Foresteria, al XVI secolo11. Anche questo priore fu sepolto nella SS. Trinità, come testimonierebbe una lastra tombale recante il medesimo stemma, conservata nel Lapidarium della Foresteria12. Il Mezzina riporta anche una notizia relativa al 1570, anno in cui il balivo Giuseppe Cambiano, avrebbe dotato proprio questo ingresso ad arco, fino ad allora aperto, di due robusti battenti in legno, al fine di evitare che di notte potessero Cfr. Bordenache 1937, pp. 18, 22, fig. 7. Cfr. Bordenache 1937, p. 18; Mezzina 1977, p. 88, il quale riporta la notizia secondo la quale, come per il sepolcro degli Acciaiuoli, anche quello del balivo Giuseppe Caccia fu trasferito a seguito di un’istanza dei discendenti nel XVIII secolo all’epoca di Ferdinando IV di Borbone (1759-1799). 10 Cfr. Mezzina 1977, pp. 61-62; Mariarosaria Salvatore (a cura di), Venosa: un parco archeologico e un museo. Come e perché, Taranto 1984, p. 78, con Salvatore 1984, p. 78; Salvatore 1996b, p. 50. Mariarosaria Salvatore, Venosa, SS. Trinità-Incompiuta, in Itinerari del Sacro in Terra Lucana, «Basilicata Regione Notizie», Anno 1999 (n. 2), XXIV, 92, Potenza, Consiglio Regionale della Basilicata, 1999, p. 135. 11 Cfr. Salvatore 1984, p. 79. 12 Cfr. Mezzina 1977, p. 108. 8 9 117 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) introdursi fanatici superstiziosi, venuti per raschiare polvere di marmo dal portale interno del Magister Palmerius, ritenendo che potesse avere effetti taumaturgici contro la malaria13. Tornando alla pianta della Fig. 1, si possono notare i setti murari realizzati per frazionare la parte occidentale della navata sinistra in tre vani; di questi, il più occidentale, prossimo alla porta della navata, ha una forma quadrata ed è dato dall’occlusione del primo arco paleocristiano, che ne segna il lato S, e da un muro perpendicolare a quello perimetrale della chiesa (il quale a sua volta occlude parzialmente lo spazio tra il muro perimetrale Figura 6. SS. Trinità. Particolare della navata cened un’altra muratura che trale da N, nella quale è visibile il ritratto del balivo tampona il secondo arco Giuseppe Caccia da Novara (foto G. Cirsone). paleocristiano, lasciando solo un piccolo varco nella parte meridionale, a ridosso del secondo pilastro paleocristiano) [vedi Fig. 1]. Procedendo verso il transetto, tra il vano appena descritto ed il successivo, si interpone un piccolo ambiente di forma rettangolare, quasi una stretta intercapedine, i cui lati sono costituiti dal muro perpendicolare precedentemente descritto sul lato W, dal muro di tamponamento del secondo arco sul lato S, e da quella che sembrerebbe essere la parete di un altare sul lato E; tra quest’ultima, che si appoggia ai piedritti dell’arco di controspinta d’età svevo-angioina, ed il pilastro paleocristiano, si apre un altro piccolo varco, analogo a quello precedente [vedi Fig. 1]. Il terzo vano, quello più orientale, ha una forma quadrangolare e presenta dimensioni maggiori rispetto ai precedenti; è interessante in particolare il lato S, costituito dai monumenti funerari della famiglia Acciaiuoli e di Alberada, che all’epoca erano ancora collocati negli interassi del terzo e del quarto arco paleocristiano; il lato E è dato invece da una muratura continua, al centro della 13 Cfr. Mezzina 1977, p. 61; Basilicata 2004, p. 87. 118 Giacomo Cirsone quale si apre una porta, che si appoggia alle strutture del secondo arco di controspinta svevo-angioino [vedi Fig. 1]. Nella navata destra si osserva l’occlusione del primo arco di controspinta svevoangioino con una muratura continua priva di aperture; nel prolungamento delle navate centrale e destra vengono tamponati i due archi creati in età normanna ponendo in opera un nuovo pilastro in asse ed in continuità con quelli paleocristiani; questo settore della navata destra risulta essere quasi isolato dal resto della chiesa, dando luogo al costituirsi di un unico vano rettangolare aperto solo sul lato N grazie ai primi due archi Figura 7. SS. Trinità. Affresco raffigurante Papa paleocristiani [vedi Fig. 1]. Niccolò II, onorato quale fondatore dell’abbazia nel Oltre ai ritratti dei balivi, 1059 (foto G. Cirsone). viene continuato il programma decorativo della chiesa, con la stesura di nuovi affreschi, tra i quali si segnala quello di Papa Niccolò II, effigiato sullo stesso pilastro su cui si trova il ritratto del balivo Giuseppe Caccia da Novara; la scelta non è casuale; essa voleva onorare il pontefice che aveva istituito l’Abbazia della SS. Trinità, trasformando la chiesa da cattedrale ad abbaziale, nell’ormai lontano 1059 [Fig. 7]. Al 1590 si data invece la lastra tombale di un altro balivo della SS. Trinità, il priore Giovanni De Gratiis, morto nello stesso anno; la lastra conservata nel Lapidarium, è decorata con volute a fiori.14 Nel corso del XVI secolo i Cavalieri di Malta intervennero anche sull’Incompiuta, costruendovi sul fianco destro il grande campanile a vela15 [Fig. 8]. Sul lato rivolto verso l’interno dell’Incompiuta, poco al di sotto del livello Cfr. Mezzina 1977, p. 108. Cfr. Mezzina 1977, p. 47; Salvatore 1996b, p. 52; Salvatore 1999b, p. 136; Basilicata e Calabria (Collana “La Biblioteca di Repubblica”), Milano, Gruppo Editoriale La Repubblica, 2005, pp. 235-236. 14 15 119 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) delle campane, si individua un camminamento aggettante in pietra, sostenuto da una serie di archetti pensili su mensoline lapidee incassate nella muratura [Fig. 9]. La fase barocca (XVII fine XVIII secolo) vede una serie d’interventi di restauro sulla chiesa, principalmente nella zona del presbiterio16 [Fig. 10]. Nel 1603 il balivo Girolamo Alliata effettua dei lavori di Figura 8. Venosa. Parco Archeologico: nella foto demolizione dell’antico altare, è visibile il grande campanile a vela del XVI secolo, impostato sul fianco destro dell’Incompiuta per collocarvi il coro; durante la (foto Raffaele Fanelli). demolizione furono rinvenute delle reliquie attribuite ai SS. Senatore, 17 Viatore, Cassiodoro e Dominata. Il ‘600 è proprio il secolo delle inventiones di reliquie; in tre occasioni infatti, nel 1603, nel 168818 e nel 1694,19 vengono scoperte o riscoperte le reliquie dei martiri Senatore, Viatore, Cassiodoro e Dominata, rinvenute all’interno della fossa-reliquiario nell’abside paleocristiana, conservate insieme a quelle di S. Atanasio, abate di Norcia, nell’altare barocco ad essi dedicato, Cfr. infra. Cfr. Giuseppe Crudo, La SS. Trinità di Venosa: memorie storiche, diplomatiche, archeologiche, Trani, Vincenzo Vecchi editore, 1899, pp. 379-380, che attribuisce la scoperta delle reliquie ad un certo Cavaliere Valladio, il quale avrebbe poi ricollocato le stesse al di sotto dell’altare maggiore “sotto grandi lapidi alla profondità di dodici, o, […] quattordici palmi”; l’autore fa riferimento alla cronaca di Jacopo Cenna, della quale viene riportato il passo: “Nell’anno 1603 il Cavaliere Valladio della Religione di Malta volse accomodare il choro di detta chiesa e ponerlo alla moderna dietro l’altare maggiore. Ritrovò detti Corpi Santi dentro l’altare maggiore insieme al Corpo del Beato Attanasio Abbate della Città di Norta, et havendo voluto questi movere fu tanto la pioggia i terremoti e toni, che pareva volesse abissare il mondo. Alla fine pose quelli dentro detto altare quattordici palmi sotto terra con pietre grossissime” (cfr. Crudo 1899, p. 380, nota 1); Salvatore 1984b, p. 75; Mariarosaria Salvatore, Note introduttive alla conoscenza della Cattedrale paleocristiana di Venosa, in «Puglia paleocristiana e altomedievale», IV, 1984, pp. 362-363, nota 16. 18 L’inventio del 1688 ebbe grande risonanza tanto da avviare pratiche di pellegrinaggio e di devozione popolare; Crudo riporta la notizia del ritrovamento delle reliquie dei quattro martiri Senatore, Viatore, Cassiodoro e Dominata, pressoché dimenticate dall’inizio del secolo, ad opera del balivo Fabio Gori Panellino; le reliquie furono traslate dal luogo in cui si trovavano sotto l’altare maggiore (cfr. supra nota precedente); nel medesimo tempo furono rinvenute entro un vaso in terracotta le reliquie di S. Attanasio, riconosciute grazie all’iscrizione graffita sul contenitore: Hic requiescit corpus S. Athanasii Gloriosissimi Confessoris Christi (cfr. Crudo 1899, p. 389, nota 5). Crudo riporta anche il testo del decreto di approvazione del culto emanato nel 1689 dal vescovo Giovanni Francesco De Laurentiis; su disposizione dello stesso presule, le reliquie furono depositate tutte in una cassa lapidea, insieme con una copia degli atti curiali, e successivamente poste entro un altare fatto erigere dalla devozione dei pellegrini di Abruzzo e Calabria (cfr. Crudo 1899, pp. 390). 19 Riguardo l’inventio del 1694 non si rinvengono notizie nell’opera del Crudo. 16 17 120 Giacomo Cirsone costruito nell’ala destra del transetto20 [Fig. 11]. Non sembra casuale il rinvenimento di reliquie nella SS. Trinità, dato che a Roma, nello stesso periodo, la ricerca di reliquie e “corpi santi” nelle catacombe costituiva il campo di studio di Antonio Bosio, non a caso anch’egli facente parte dell’Ordine di Malta21. Nel XVII secolo viene anche costruita la sacrestia, la quale insiste sul tratto iniziale della navata sinistra dell’Incompiuta, appoggiandosi al muro di fondo paleocristiano della Chiesa Vecchia, che ne costituisce il lato W, al fianco sinistro dell’Incompiuta, ed all’abside paleocristiana; in particolare si Figura 9. Incompiuta. Nella foto è visibile il rileva che una delle aperture dell’abside, lato interno del campanile a vela del XVI segià parzialmente tamponate in età colo, con il camminamento in pietra sostenuto longobarda, fu riaperta e riutilizzata come dagli archetti pensili (foto Raffaele Fanelli). ingresso per la sacrestia22 [Fig. 12]. Nel 1713 viene costruita la scala di accesso al campanile, la quale viene restaurata appena dieci anni dopo nel 1723, dal balivo Giovanni Borgherino.23 20 Cfr. Mezzina 1977, pp. 100-105; cfr. anche Hubert Houben, Il “libro del capitolo” del monastero della SS. Trinità di Venosa (Cod. Casin. 334): una testimonianza del Mezzogiorno normanno, Galatina, Congedo, 1984, p. 63. 21 Sull’attività di Antonio Bosio, cfr. Pasquale Testini, Archeologia Cristiana, Bari 19802, pp. 66-67; più recentemente cfr. Vincenzo Fiocchi Nicolai, Presentazione, in Roma Sotterranea, Roma, Quasar, 1998 (vedi), pp. 11-13, nella Presentazione della ristampa anastatica della Roma Sotterranea del Bosio (Antonio Bosio, Roma Sotterranea, Roma, Quasar, 1998 [ristampa anastatica dell’edizione originale del 1632]). 22 Mezzina ipotizza che la sacrestia seicentesca sia l’antica cappella di S. Atanasio, ponendo una datazione al XIII secolo; non esistono però prove a sostegno di questa ipotesi, se non l’affermazione del Mezzina stesso, secondo cui le reliquie del santo, sarebbero state conservate fino al 1555 nella cappella a lui dedicata, posta a sinistra dell’abside, e da qui rimosse per essere poste accanto a quelle dei martiri Senatore, Viatore, Cassiodoro e Dominata (cfr. Bordenache 1937, p. 33; Mezzina 1977, pp. 105-106; Mariarosaria Salvatore, I mosaici nell’area del complesso episcopale della SS. Trinità a Venosa, in Atti del IV Colloquio dell’Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico [Palermo, 9-13 dicembre 1996], Ravenna, Edizioni del Girasole, 1997, p. 478; sulle reliquie di S. Atanasio, cfr. Houben 1984, pp. 66-67). Per quanto riguarda il riuso dell’apertura dell’abside paleocristiana, si potrebbe ipotizzare che la porta attuale della sacrestia, coincidente con la porta d’accesso al deambulatorio paleocristiano, non fosse in uso nel XVII secolo, forse perché tamponata già in antico, ragionevolmente in epoca longobarda con la dismissione del deambulatorio; sull’apertura dell’abside riutilizzata, cfr. Bordenache 1937, p. 27; Mezzina 1977, p. 106. 23 Cfr. Mezzina 1977, p. 47; Corrado Bozzoni, Saggi di architettura medievale. La Trinità di Venosa. Il Duomo di Atri, Roma, Istituto di Fondamenti dell’Architettura, 1979, p. 63, nota 164 a p. 99. Attualmente, la scala, che correva lungo il giro esterno dell’abside paleocristiana, non esiste più, essendo stata rimossa durante i lavori di restauro degli anni ’80 del XX secolo. 121 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) Figura 10. SS. Trinità. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture della SS. Trinità: in verde le strutture della fase longobarda (VII - X secolo); in arancio scuro sono indicati gli interventi della fase svevo-angioina, databili tra la fine del XII e la metà del XIV secolo; in viola scuro le strutture create nella fase rinascimentale (seconda metà XV - XVI secolo); in azzurro le strutture della fase barocca (XVII - fine XVIII secolo); tutte le strutture qui segnate sono sovrapposte al disegno ricostruttivo della chiesa, indicato in viola chiaro (elaborazione Cad G. Cirsone). Gli ultimi lavori di restauro sulla chiesa effettuati dai Cavalieri di Malta, risalgono al 1791, per iniziativa del balivo Erberto Mirelli, il quale continua l’opera di sistemazione dell’area del presbiterio in forme barocche, aprendo una grande finestra ovale nel catino absidale ed erigendo un nuovo altare nell’abside; secondo il Mezzina, è a questo priore che si deve la sistemazione definitiva delle reliquie rinvenute nel secolo precedente, riunite in un unico reliquiario;24 è probabile che questo rifacimento in forme barocche non sia mai stato portato a compimento, a causa forse della morte del priore [Fig. 13]. 24 Cfr. Mezzina 1977, p. 100; cfr. anche Bozzoni 1979, pp. 63-64, nota 165 alle pp. 99-100, il quale, sulla base di un’iscrizione menzionante il priore Erberto Mirelli, in cui si fa riferimento alla sistemazione delle reliquie in un “ipogeo” sotto l’altare maggiore, ancora leggibile all’epoca del Crudo (cfr. Crudo 1899, p. 406, dove se ne riporta il testo in cui si legge substructo sub ara maxima hipogaeo), ritiene che si possa parlare di un ultimo rimaneggiamento della cripta, già inaccessibile da alcuni secoli, o forse della sua definitiva abolizione o trasformazione in camera sepolcrale; cfr. Salvatore 1984b, p. 78; Salvatore 1996b, p. 50; Salvatore 1999b, p. 135; Villani 1999, p. 50. Alla luce di quanto detto sinora, è plausibile che i lavori del Mirelli abbiano semplicemente intercettato la fossa-reliquiario d’età paleocristiana, come farebbe pensare il testo dell’iscrizione ed in particolare l’espressione sub ara maxima, da riferire necessariamente all’altare maggiore. 122 Giacomo Cirsone Con l’arrivo di Napoleone Bonaparte e l’incameramento dei Beni Ecclesiastici da parte dello Stato nel 1801, e la conseguente soppressione degli Ordini Religiosi nel Regno di Napoli, i Cavalieri di Malta abbandonano nel 1808 la chiesa della SS. Trinità, in loro possesso sin dal 1297.25 L’evento più traumatico del XIX secolo, fu il terremoto Figura 11. SS. Trinità. Ala destra del transetto. Altare barocco del 1851, che colpì gran con colonnine tortili in legno dorato, nel quale sono conserparte della Basilicata, vate le reliquie dei martiri Senatore, Viatore, Cassiodoro e Dominata, e di S. Atanasio (foto G. Cirsone). durante il regno di Ferdinando II di Borbone (1830-1859); a seguito del sisma, l’anno successivo, furono commissionati dei lavori di consolidamento statico che andarono ad interessare il lato sinistro della Chiesa Vecchia, con la posa in opera di una serie di quattro contrafforti in muratura, con la funzione di sostenere e rinforzare questo lato dell’edificio26 Figura 12. SS. Trinità. In rosso sono indicate le strutture [Figg. 14-15]. della sacrestia, edificata nel XVII secolo (da Salvatore 1984b; elaborazione grafica G. Cirsone). I restauri del 1852 in- 25 Cfr. supra; Bordenache 1937, p. 33; Paulus Fridolinus Kehr, Samnium, Apulia, Lucania, in Italia Pontificia (= Paulus Fridolinus Kehr, Italia Pontificia, sive, Repertorium privilegiorum et litterarum a Romanis pontificibus ante annum MCLXXXXVIII Italiae ecclesiis monasteriis civitatibus singulisque personis concessorum, Berolini, apud Weidmannos, 1906-1975), IX, Berolini, apud Weidmannos, 1962, p. 491, dove si legge […] qui ibi baliatum instituerunt tempore Napoleonis I suppressum; Mezzina 1977, p. 47; Bozzoni 1979, p. 64. 26 Cfr. Bordenache 1937, p. 19; Mezzina 1977, pp. 47, 48, 74; Bozzoni 1979, p. 64, nota 166 a p. 100; Salvatore 1984b, p. 78; Salvatore 1996b, p. 50; Salvatore 1999b, p. 135; Villani 1999, p. 50. 123 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) teressarono probabilmente anche l’interno, con il rifacimento di alcuni degli archi a sesto acuto della navata centrale, e di alcuni setti murari nelle navate laterali.27 Nel 1860, gravemente danneggiata e con il tetto fatiscente, la SS. Trinità fu praticamente chiusa al culto, rimanendo ad officiarla solo un cappellano, non sempre presente.28 Figura 13. SS. Trinità. Zona del presbiterio durante i lavoLo stato di degrado ri di scavo e restauro degli anni ’80 del XX secolo: si notadell’edificio portò ad un no gli otto fornici paleocristiani che si aprono nell’abside, e la finestra tamponata di forma ovale d’età barocca nel nuovo restauro nel 1898, sotto la direzione di Adolfo catino absidale (da Salvatore 1996b). Avena, il quale però si concentrò sullo sterro e sul consolidamento statico delle murature dell’Incompiuta.29 L’inizio del XX secolo vede nuovi interventi di manutenzione sulla chiesa, e sull’Incompiuta in particolare, a partire dal 1902, ad opera della Regia Sovrintendenza alle Belle Arti di Reggio Calabria, e con il concorso economico del Comune di Venosa.30 Per registrare dei restauri sulla Chiesa Vecchia è necessario attendere il 1932, con gli interventi diretti da Edoardo Galli sulla Foresteria e sugli archi a sesto acuto del transetto; questi interventi hanno avuto il merito di salvaguardare la Foresteria, gravemente danneggiata dal sisma del 1930, ripristinandone le volte crollate e la cupola della cappella romanica del primo piano.31 Nuovi lavori di restauro, volti a riaprire al culto l’edificio, si hanno nel 1961, anno in cui la SS. Trinità passa sotto la custodia dei Padri Trinitari, che tuttora ne Cfr. Bordenache 1937, pp. 19, 21; Mezzina 1977, p. 73; Bozzoni 1979, p. 64, nota 166 a p. 100. Cfr. Mezzina 1977, p. 47; Bozzoni 1979, p. 66. 29 Cfr. Bozzoni 1979, p. 66. 30 Cfr. Bordenache 1937, p. 3. 31 Cfr. supra ed anche Riccardo Bordenache, Due monumenti dell’Italia meridionale. I. L’avanzo di una chiesetta a croce greca in Castro. II. La cappella romanica della Foresteria nell’Abbazia di Venosa, in Bollettino d’Arte del Ministero dell’Educazione Nazionale, XXVII, Roma, Libreria dello Stato, 1933, pp. 178-184; Edoardo Galli, Danni e restauri a monumenti della zona del Vulture, in Bollettino d’Arte del Ministero dell’Educazione Nazionale, XXVI, 1933, Roma, Libreria dello Stato, 1933, pp. 333-338; Bordenache 1937, pp. 21, 72-76; Mezzina 1977, p. 48; Bozzoni 1979, p. 66; Salvatore 1984b, p. 78; Salvatore 1996b, p. 48; Basilicata e Calabria 2005, p. 235. 27 28 124 Giacomo Cirsone Figura 14. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture della SS. Trinità: in verde le strutture della fase longobarda (VII - X secolo); in arancio scuro sono indicati gli interventi della fase svevo-angioina, databili tra la fine del XII e la metà del XIV secolo; in viola scuro le strutture create nella fase rinascimentale (seconda metà XV - XVI secolo); in azzurro le strutture della fase barocca (XVII - fine XVIII secolo); in verde scuro i contrafforti aggiunti sul lato N nel XIX secolo; tutte le strutture qui segnate sono sovrapposte al disegno ricostruttivo della chiesa, indicato in viola chiaro (elaborazione Cad G. Cirsone). assicurano l’apertura al pubblico e la manutenzione, in accordo con le Sovrintendenze competenti32 [Fig. 16]. Figura 15. SS. Trinità. Nelle foto sono visibili i quattro contrafforti in muratura di pietre e malta, realizzati per sostenere il lato N della chiesa, nel 1852, a seguito del sisma dell’anno precedente (foto G. Cirsone). 32 Cfr. Mezzina 1977, pp. 47-48. 125 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) Figura 16. Elaborazione eseguita con il programma Autocad 2007 delle strutture della chiesa della SS. Trinità, così come si presentano oggi (elaborazione Cad G. Cirsone). Gli ultimi decenni hanno segnato un veloce progresso negli studi sulla chiesa, accompagnato da una serie di interventi di scavo e restauro, compiuti tra gli anni ’60 e gli anni ’90 del XX secolo: negli anni ’70, si scavò l’interno dell’Incompiuta, e nel decennio successivo, anche a seguito del sisma dell’Irpinia del 1980, venne avviato un organico programma di scavi archeologici e di restauri all’interno della SS. Trinità, ed in misura minore anche nell’Incompiuta. Con gli anni ’90 si registra una sostanziale frenata dell’attività di scavo; gli interventi delle Sovrintendenze competenti sono volti essenzialmente al consolidamento delle strutture in elevato dell’Incompiuta, mentre per la Chiesa Vecchia si registrano i soli lavori di sistemazione del piazzale antistante l’edificio33 [Fig. 16]. Note conclusive sulla SS. Trinità Alla luce di quanto rilevato nelle pagine precedenti, si comprende come la SS. Trinità di Venosa abbia rappresentato e rappresenti ancora oggi un monumentopalinsesto, frutto delle numerose stratificazioni intervenute sull’edificio nel corso dei secoli.34 Prescindendo dal fatto che la chiesa abbia ricoperto o meno il ruolo di cattedrale cittadina, ipotesi sostenuta dagli studiosi, a cominciare da M. 33 34 Per la bibliografia riguardante questi interventi, si rimanda alle note delle pagine precedenti. Cfr. supra. 126 Giacomo Cirsone Salvatore, sulla quale in questa sede si sono avanzati dei dubbi, la basilica rappresenta l’esempio più tardo noto di applicazione della pianta cosiddetta circiforme, secondo l’espressione coniata da R. Krautheimer, per la quale si sono evidenziate le linee di diffusione nelle provinciae occidentali dell’Impero Romano, con un duplice influsso per l’edificio venosino, da N attraverso la Via Appia direttamente da Roma (dove il modello fu concepito in età costantiniana), e da S dall’Africa, dove si trovano le applicazioni più grandiose e complesse del modello.35 La Trinità di Venosa è un edificio organicamente concepito, con tutti gli elementi canonici del modello circiforme; la presenza sia del deambulatorio absidale che della coppia “cripta a corridoio-loculus per reliquie”, quest’ultima data dallo sdoppiamento del dispositivo della crypte d’autel studiato dal Sodini36, assolve perfettamente alla funzione martiriale della chiesa37, da cui si sviluppano in certa misura la dimensione funeraria e la pratica dei pellegrinaggi; quest’ultima in particolare era favorita dalla particolare posizione della basilica, posta lungo il tracciato della Via Appia, in prossimità del circuito murario romano, e dall’arredo liturgico dell’interno dell’edificio che si prestava allo svolgimento di processioni per la venerazione delle reliquie conservate nel loculus sotto l’altare, e visibili dalle aperture dell’abside oltre che probabilmente dalla porta (fenestella confessionis) aperta nella cripta a corridoio.38 Se il deambulatorio scompare abbastanza presto, essendo un elemento legato ad un determinato contesto storico, sopravvive invece la coppia criptaloculus, determinante sia per la funzione martiriale39 (che origina il fenomeno del pellegrinaggio), che per quella funeraria. Il ricordo della presenza di reliquie venerate è uno degli elementi che permettono alla chiesa di sopravvivere attraverso i secoli, grazie anche ai pellegrini che non dovettero mai venir meno, neanche nei periodi in cui la piena funzionalità della chiesa era compromessa dalla realizzazione di strutture pertinenti allo stabilirsi di una comunità monastica all’interno dell’edificio, e dalla realizzazione di attività artigianali (cantiere per campana) nella parte W della navata centrale; la funzione di luogo di pellegrinaggio fu rinverdita e potenziata dai Normanni, che inserirono la SS. Trinità in un contesto di respiro europeo, dotandola dei corpi di Per l’Africa sono particolarmente pregnanti i confronti con Bir Ftouha e Siagu, entrambi nell’attuale Tunisia. 36 Cfr. Jean-Pierre Sodini, Les Cryptes d’autel paléochretiennes: essai de classification, in «Travaux et Mémoires. Hommage à M. Paul Lemerle», 8, 1981, Paris, Editions E. de Broccard, 1981, pp. 437-458. 37 Si ricorda la presenza del piccolo sepolcreto impiantato nelle strutture d’età romana e tardoantica subito prima dei lavori di costruzione della basilica paleocristiana, ed oggetto di venerazione quale che fosse la natura dei defunti ivi sepolti. 38 Cfr. supra. 39 Quale che sia la natura delle reliquie conservate nel loculus sotto l’altare della chiesa. 35 127 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) fabbrica funzionali all’accoglienza di pellegrini, al pari degli altri santuari medievali europei,40 e concependo l’ambizioso progetto dell’Incompiuta.41 La cripta, ereditata dalla fase paleocristiana e rimaneggiata nel tempo, resta l’elemento cardine delle pratiche devozionali, e continua ad essere in uso fino alla sua dismissione nel XVI secolo; dopo questa data è solo la memoria delle reliquie presenti nella chiesa e rinvenute nel corso del ‘600 a determinare pratiche di pellegrinaggio su scala regionale, protrattesi a livello di tradizione popolare sino ad età recente.42 Sono quindi la memoria delle reliquie e la loro venerazione i due elementi che hanno permesso all’edificio tardoantico di giungere pressoché intatto, attraverso tutte le successive stratificazioni fino ad oggi, con la possibilità di essere in qualche modo reinventato e rifunzionalizzato di volta in volta, dopo il venir meno della ragion d’essere che aveva dato luogo alla costruzione di un edificio a pianta circiforme. 40 Si tratta della cappella, dell’atrio, della sacrestia, della torre NW e delle strutture del portico individuate sul piazzale antistante la chiesa. Tra gli interventi normanni va inserito anche il prolungamento delle navate centrale e destra. 41 Cfr. supra. 42 Testimonianza della presenza di pellegrini è la fiera della SS. Trinità, che aveva luogo nell’Ottava di Pentecoste, attestata almeno dall’età angioina, e che si teneva davanti alla chiesa (cfr. supra); Mezzina riporta la notizia secondo cui i pellegrini e i visitatori si accampavano all’interno dell’Incompiuta e nei dintorni della chiesa con le loro masserizie. 128 Giacomo Cirsone Tavole riassuntive Tabella 1. Prospetto cronologico delle chiese a pianta circiforme divise per aree geografiche (elaborazione G. Cirsone). Luogo Datazione IV secolo V secolo Roma FriuliVeneziaGiulia, Trentino-Alto Adige, Slovenia S. Sebastiano (Basilica Aquileia, Apostolorum), Beligna (metà Anonima della IV s.) Prenestina, SS. Marcellino e Pietro, Papa Marco, S. Lorenzo, Sabiona (fine S. Agnese (età IV-inizi V s.), costantiniana) S. Lorenzo di Sebato (400 circa), S. Pietro di Castelvecchio (inizi V s.) Celeia (metà V s.) VI secolo Piemonte, Val d’Aosta, Svizzera Tunisia Toscana Francia Basilicata S. Étienne di Aosta (V secolo) S. Vittore di Sizzano (seconda metà V s.) Oum-elS. Lorenzo di Abouad Gozzano (fine (V-VI s.), Andernos V-inizi VI s.), Damous(fine Sion, SousV-inizi el-Karita les-Scex (fine VI s.) (V-VI s.) V-inizi VI s.), S. S. Maria di Pietro Morgex (fase di VI secolo Siagu (post di Pava 533), Bir (VI s.) SS. Ftouha Trinità di (post 540) Venosa (578 circa) 129 La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) Tabella 2. Distribuzione statistica delle chiese a pianta circiforme divise per aree geografiche (elaborazione G. Cirsone) Località/area geografica N. Roma 6 Arco alpino orientale (Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Slovenia) 5 Arco alpino occidentale (Piemonte, Val d’Aosta, Svizzera) 5 Tunisia 4 Toscana 1 Francia 1 Basilicata 1 Totale 23 Tabella 3. Diagramma crono-geografico della diffusione del modello circiforme (elaborazione G. Cirsone) 130 Giacomo Cirsone Tabella 4. Prospetto riassuntivo delle chiese a pianta circiforme con l’indicazione del patrocinio, della datazione, delle indicazioni topografiche fondamentali, degli elementi architettonici più salienti e del rango dell’edificio, in ordine cronologico (elaborazione G. Cirsone) Patrocinio Datazione Collocazione Basilica Apostolorum o di S. Sebastiano Età costantiniana Roma, Via Appia Basilica anonima della Prenestina Età costantiniana SS. Pietro e Marcellino Localizzazione Sistemazione zona absidale Tipo di presbiterio Fulcro devozionale Rango / Catacomba di S. Sebastiano; cripta di S. Sebastiano Chiesa funeraria Absidedeambulatorio / ? Chiesa funeraria Suburbana Absidedeambulatorio / Cripta dei SS. Pietro e Marcellino Chiesa funeraria Suburbana Absidedeambulatorio / Tomba di Papa Marco Chiesa funeraria Suburbana Absidedeambulatorio / Tomba di Agnese nella catacomba omonima Chiesa funeraria Roma, Via Tiburtina Suburbana Absidedeambulatorio / Tomba di Lorenzo nella catacomba omonima Chiesa funeraria. Aquileia, Beligna Fondo Tullio (TR) Extraurbana Absidedeambulatorio Esteso (solea) Cella per reliquie nel deambulatorio Chiesa funeraria e martiriale Suburbana Absidedeambulatorio Roma, Via Praenestina Suburbana Età costantiniana Roma, Via Labicana Basilica di Papa Marco Età costantiniana Roma, Via Ardeatina S. Agnese Età costantiniana Roma, Via Nomentana S. Lorenzo Età costantiniana / Metà IV secolo 131 Pianta La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) Sistemazione Tipo Fulcro Patrocinio Datazione Collocazione Localizzazione S. Lorenzo 400 circa Sebato (BZ) Extraurbana Banco presbiterialedeambulatorio Esteso (banco, bema, solea) ? Chiesa funeraria / Inizio V secolo Sabiona (BZ) Extraurbana Banco presbiterialedeambulatorio Esteso (banco, bema, solea) Loculus nel bema; loculus secondario nell’abside Chiesa funeraria e memoriale S. Pietro Inizio V secolo Castelvecchio (BZ) Chiesa inserita in un castrum Banco presbiterialedeambulatorio Esteso (banco, bema, solea) / Chiesa di pellegrinaggio? S. Étienne V secolo Aosta (AO) Suburbana Absidedeambulatorio / / Chiesa funeraria Fossa per reliquie nel deambulatorio evidenziata da una lastra marmorea Chiesa martiriale zona absidale di presbiterio devozionale Rango / Metà V secolo Celeia - Celje (Slovenia) Extraurbana Absidedeambulatorio Ridotto (recinto presbiteriale) S. Vittore Seconda metà V secolo Sizzano (NO) Rurale Banco presbiterialedeambulatorio Ridotto (recinto presbiteriale) / Chiesa battesimale S. Lorenzo Fine V-inizi VI secolo Gozzano (NO) Rurale Banco presbiterialeabside Ridotto (recinto presbiteriale) Tomba del diacono Giuliano nel deambulatorio Chiesa funeraria 132 Pianta Giacomo Cirsone Patrocinio Datazione Collocazione / Fine V-inizi VI secolo Sion, Sousle-Scex (Svizzera) / Fine V-inizi VI secolo Localizzazione Sistemazione zona absidale Tipo di presbiterio Fulcro devozionale Rango Extraurbana Absidedeambulatorio (indipendenti dal resto della chiesa) / Reliquie nell’abside? Ecclesia ad sanctos? Andernosles-Bains, Gironda (Francia) Extraurbana? Absidedeambulatorio / / Chiesa funeraria V-VI secolo Oum el Abouad, Suburbium di Cartagine (Tunisia) Extraurbana Absidedeambulatorio / / Chiesa funeraria? / V-VI secolo Seressi, Damous el Karita (Tunisia) Extraurbana Absidedeambulatorio / / Chiesa funeraria S. Maria Fase di VI secolo Morgex (AO) ? Absidedeambulatorio Esteso (recinto presbiteriale, solea) deambulatorio Chiesa funeraria Post 533 Siagu, Dintorni di Hammamet (Tunisia) Absidedeambulatorio Ridotto (recinto presbiteriale) Tomba privilegiata nel recinto presbiteriale e loculus nell’abside Chiesa cattedrale? / / Urbana? 133 Pianta La basilica della SS. Trinità di Venosa dalla Tarda Antichità all’Età Moderna (III parte) Sistemazione Tipo Fulcro Patrocinio Datazione Collocazione Localizzazione / Post 540 Bir Ftouha, Suburbium di Cartagine (Tunisia) Suburbana Absidedeambulatorio Esteso Tombe Chiesa di (recinto privilegiate nel pellegrinaggio? presbiteriale, presbiterio solea) S. Pietro VI secolo Pava (SI) Rurale Abside-banco presbiteriale Ridotto (recinto presbiteriale) Reliquie nell’abside W Absidedeambulatorio Esteso (recinto presbiteriale, schola cantorum) Deambulatorio, Chiesa cripta a commemocorridoio, rativocamera per martiriale reliquie sotto l’altare SS. Trinità 578 circa Venosa (PZ) Urbana zona absidale 134 di presbiterio devozionale Rango Chiesa pievana Pianta Federica Elisabetta Triggiani Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) di Federica Elisabetta Triggiani Capitolo III 3.1. Le leggi suntuarie I costumi possono essere annoverati tra i ‘documenti’ di un popolo. Attraverso una meticolosa analisi di essi si può, infatti, risalire alle condizioni economiche e sociali di un determinato territorio in una determinata epoca, desumere il tenore di vita dei suoi abitanti e arrivare persino a scoprire attività artigianali, artistiche ed, eventualmente, industriali di quel luogo. Infatti per realizzare i capi d’abbigliamento occorre passare dal reperimento delle materie prime alla loro lavorazione, fino a giungere alla realizzazione del modello: in tale processo vengono coinvolti luoghi, persone e capitali finanziari. Risulta fondamentale, quindi, soffermarsi sul valore simbolico dell’abbigliamento, in quanto «vestirsi è […] una pratica piuttosto costosa e un guardaroba fornito è segno indiscutibile di disponibilità economiche e garanzia di visibilità sociale».1 Nel Medioevo si cercò di porre un limite alla diffusione del lusso attraverso l’emanazione di leggi suntuarie. In Italia i primi regolamenti risalgono al Duecento e andranno scomparendo alla fine del Settecento; queste leggi, nate inizialmente con l’intento di limitare gli sprechi causati dal lusso e regolare l’omogeneità delle classi sociali, finirono per essere «[…] viziate dalla vanità dei privilegi, che approfittando della loro potenza se ne servivano per inibire, anche a chi ne avesse avuti i mezzi, di uguagliarli nello sfoggio di indumenti ricchi e vistosi».2 Queste prammatiche variavano a seconda dei luoghi. Ad esempio nella Roma del ‘600, pur essendo in vigore la Riforma del vestire emanata nel 1586, «in realtà la legislazione romana in materia di lusso non è molto restrittiva»,3 come afferma la Ago a proposito di questo argomento. 1 Alessandra Tessari, Trasferimenti patrimoniali e cultura materiale nella Puglia del primo Settecento. (Monopoli 1721-1740), Bari, Cacucci Editore, 2007, p. 187. 2 Levi Rosita Pisetzky, Moda e costume, in Storia d’Italia. I documenti, vol. V, Torino, Einaudi, 1973, p. 942. 3 Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 102. 135 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) In generale, le norme contro l’eccessivo sfoggio avevano lo scopo di proteggere il mercato artigianale locale da quello forestiero, evitare fenomeni di indigenza che avrebbero gravato sul bilancio statale e diffondere un forte senso morale tra la popolazione. Il reale rispetto di queste leggi venne disatteso nella maggior parte dei casi, in quanto esse si prestavano a diverse interpretazioni oppure venivano di fatto ignorate perché ritenute obsolete. Una moda, quindi, riusciva lo stesso ad imporsi, sebbene in ritardo. Come risulta dagli inventari, anche Foggia non sembrava essere sottoposta a dure restrizioni, sia per quanto riguarda l’abbigliamento, che per quanto concerne utensili, ninnoli e gioielli. 3.2. La biancheria La nostra analisi prende le mosse dalla biancheria personale e della casa, fondamentale nella vita quotidiana di ogni famiglia, ma particolarmente curata nelle case foggiane dell’epoca, come risulta dai documenti consultati. La tabella riportata a seguito mostra, infatti, una gran quantità di biancheria per la casa, che comprende sia i tessuti utilizzati per le rifiniture di letti e finestre (come le cortine e i portieri, già ampiamente descritti nel secondo capitolo), sia le stoffe usate per realizzare capi per la pulizia personale e per il rivestimento di cuscini e materassi. Tabella 6 - Capi di biancheria Capi di biancheria Coperte Cortinaggi Facce di cuscino Lenzuola Mensali Portieri Salviette Tornaletto Tovaglie Zinevre Quantità 79 17 181 157 63 60 302 4 131 7 Ad esclusione degli inventari di Giuseppe Mastrogiacomo e di Pasquale Cognetti, che non riportano alcun capo d’abbigliamento e nessuno di biancheria, tovaglie e lenzuola sono largamente presenti in tutte le abitazioni: anche in questo caso, però, si evidenzia una notevole differenza economica. La biancheria di Angelo Ramundi4 consiste in sei lenzuola di tela di casa, tre coperte d’obletto, quattro 4 Sugli usi e costumi dei contadini si veda P. Malanima, Il lusso dei contadini. Consumi e industrie nelle campagne toscane del Sei e Settecento, Bologna, Il Mulino, 1990. 136 Federica Elisabetta Triggiani facce di cuscini d’orlettone, quattro tovaglie di tela di casa e tre tovaglie di seta. Di altri accessori non è indicata la qualità dei tessuti, quindi si presume non si tratti di stoffe preziose. La biancheria delle famiglie nobili, o con maggiori disponibilità economiche, risulta preziosa nei tessuti e nell’ aggiunta di merletti (pezzilli), frange di seta e ricami particolari come «quattro tovaglie ad occhio di gallina»5 e «undici salvietti a pipirello»,6 ossia un ricamo a rilievo. Non bisogna, però, dimenticare che si tratta di inventari post mortem, i quali, a differenza di quelli dotali, registrano la presenza di un elevato numero di biancheria definita usata o vecchia. I documenti analizzati, come già accennato, non ci permettono di conoscere nel dettaglio l’iter di questi indumenti, ossia se essi fossero stati prestati o dati in pegno per un certo periodo: gli inventari «si limitano a fotografare la situazione in un momento determinato e tacciono invece sulla sua evoluzione nel tempo».7 Gli aggettivi utilizzati per la loro descrizione sono dunque fondamentali per capire il loro stato di conservazione. Risultano rare le descrizioni di biancheria intima come le mutande, elencate solo nell’inventario del dottor Tortorelli, in cui si annota la presenza di questo capo nel baule di ogni componente della famiglia. Le calzette sono possedute soprattutto dagli uomini. Esse svolgevano una funzione importante in quanto visibili fino a metà polpaccio, da dove poi partiva il calzonetto. Il tessuto utilizzato era la lana, il bombace, il filo e, nei casi più aristocratici, la seta, poiché «cura settecentesca dei particolari è quella di avere calzette speciali per ogni abito».8 La biancheria dei bambini non è molto numerosa, anche perché sono poche le famiglie esaminate con figli piccoli. Essa consiste in bavettini (Barone), fasce per fasciar bambini, tovaglie con merletti per battesimo (Mazza), e Nicola Andrea di Peppo pensa anche ad ornare la culla dei figli con «una tovaglia di tela di fiume a due fasce».9 Gli inventari rivelano, inoltre, la presenza, e quindi l’uso, di alcuni oggetti da toilette, come bacili di stagno, conche di rame e barbiere che, insieme all’elevato numero di tovaglie da faccia, testimoniano un largo utilizzo di acqua in casa per l’igiene e la pulizia personale. Il capitano Tortorelli, possiede, per esempio, un «lavamano con piccola conca di rame»,10 mentre il fratello Nicola «una barbiera di faenza con due tovaglie S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3722, ff. 102-104. Ivi,Greci, prot. 2608, ff. 190-193. 7 Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 94. 8 Levi Rosita Pisetzky, Storia del costume in Italia, vol. IV, Milano, Istituto editoriale italiano, 1967, p. 96. 9 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474. 10 Ivi, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262. 5 6 137 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) per far la barba».11 Tra l’argenteria di Don Ignazio Conte vi è la descrizione di «un bacile e per uso di barba […]; una giarra d’argento per l’acqua».12 3.3. Gli abiti maschili e femminili Se nell’ età contemporanea l’abbigliamento è segno del proprio status sociale, sia per gli uomini che per le donne, si può ben comprendere come anche nei tempi passati vestirsi diventava un problema economico e sociale. Infatti se l’abbigliamento è dimostrazione di ricchezza, senso del gusto e di eleganza, in ogni occasione pubblica legata a matrimoni, nascite, funerali o altri eventi mondani bisognava indossare vestiti non solo sfarzosi, ma anche all’ultima moda. Il termine moda, come ci informa Pisetzky, proviene dal francese e fa il suo ingresso in Italia verso la metà del XVII secolo. Esso indica la foggia del costume corrente, ma, in quegli anni, come vedremo, assume anche un significato più profondo. Il Settecento è il secolo che maggiormente risente dell’influenza francese nel campo dell’abbigliamento. Lo stile adottato si differenzia nettamente dagli abiti utilizzati agli inizi del Seicento: le donne, infatti, abbandonati i vestiti rigidi che bloccavano e nascondevano i movimenti del corpo, si appropriano di una nuova linea morbida e più sensuale, rivolgendo «un’attenzione più accentuata rivolta a quei modi dell’apparire per cui Parigi è un prodigioso laboratorio di sperimentazione».13 I primi a determinare la moda del momento erano gli aristocratici, i quali modificavano rapidamente fogge e modelli, mentre le classi popolari, «per spirito di imitazione e desiderio di emergere»14 tentavano di adeguarsi a loro. Non avendo reperito negli anni presi in considerazione alcun inventario femminile, possiamo avvalerci degli abiti da donna ritrovati negli inventari maschili per poter esaminare le differenze esistenti tra gli ‘usi e costumi’ dei due sessi. È doveroso tener presente, però quello che Daniel Roche ha giustamente sottolineato e cioè che «[…] le lacune rendono difficile, su certi punti, l’interpretazione: c’è il rischio che facciano sottovalutare in consistenza e valore il peso del guardaroba».15 Prima di elencare le proprietà dei singoli capi è opportuno notare i dati riportati nella seguente tabella. Ivi, prot. 2610, ff. 119t-123. Ivi, prot. 2608, ff. 190-193. 13 Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 223. 14 Pisetzky, Moda e costume, cit., p. 950. 15 Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 219. 11 12 138 Federica Elisabetta Triggiani Tabella 7 - Indumenti ritrovati negli inventari Abito Quantità Andriè Busto Calzette Calzoni Camicie Cantuscia Cappotto Corpetti Ferraiolo Giamberga Giamberghini Gonnella Grembiule (sinale) Livree Mantella Sottana 17 18 70 60 126 20 12 23 8 33 56 11 20 9 7 22 Alcuni di questi indumenti sono utilizzati sia da uomini che da donne, ma la maggior parte di essi è facilmente attribuibile al sesso di appartenenza. Le camicie, considerate più che altro capi di biancheria personale, spiccano come numero e risultano essere il capo più importante perché presente in quasi tutti gli inventari. Ciò che caratterizza l’appartenenza della camicia ad un ceto o all’altro sono il tessuto ed eventuali ricami o accorgimenti. All’epoca era ritenuto un capo fondamentale per l’igiene, in quanto separava la pelle dalle vesti e, probabilmente per evitare che si logorasse con l’eccessivo lavaggio, era fornita di maniche che venivano staccate e sostituite da altre di ricambio. I manichetti, ossia polsini applicati per impreziosire il capo, in realtà servivano anche per allungare la manica. L’abbigliamento femminile del XVIII secolo risultava essere composto dall’andriè (o andrienne), «[…] vestito per eccellenza che si afferma come novità elegante subito dopo i due primi decenni».16 Nella Roma del Seicento, infatti, essa non compare tra gli inventari né maschili né femminili studiati dalla Ago, la quale riferisce che era utilizzata spesso «l’espressione sommaria “abito” o “vestito”»17 che non chiariva se si trattasse ancora di moda spagnola o se quella francese avesse già preso il sopravvento. Inizialmente l’andriè fu fonte di scandalo in quanto assumeva forme più libere rispetto a quelle tradizionali: «scende addirittura fino a terra, aderisce al 16 17 Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 52. Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 99. 139 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) busto lasciando ampiamente in vista la profonda scollatura, ma dietro ha una falda a pieghe che scende fluttuante dalle spalle senza aderire in vita, per allargarsi infine mollemente in un amplissimo strascico».18 È l’unico capo femminile che appare in soli quattro inventari, cioè quelli degli uomini più facoltosi. Le sorelle di Nicola Tortorelli possiedono almeno due andriè ciascuno, uno da lutto e uno per le passeggiate; Marianna Grano, moglie di Leonardo Mazza, indossa «un andriè di drappo di Francia con fiori d’argento e di seta dal fondo scuro».19 La cantuscia, ovvero il cantusciu, è una variante palermitana dell’andriè con le maniche strette, ugualmente considerata una veste di lusso. Fatta eccezione per i due inventari che non menzionano abiti e per quello di Antonio Belli che elenca esclusivamente abiti maschili, tutti i rimanenti documenti, da me esaminati, contengono la descrizione di capi di vestiario femminile. Da esse si evince che il guardaroba di una donna era così composto: dalla veste, a volte chiamata andriè o cantuscia, dal busto,20 dalla sottana, da una gonnella, ed è arricchita da eventuali mantelli (mantò o mantellette) e grembiuli (detti senalini o vantesini). La pettorina, che troviamo sotto il nome di pettiglia, serviva a coprire in parte il seno ed era solitamente di tessuto d’argento e guarnito con trine. Tutte le rispettive mogli o figlie possiedono almeno due cambi di abiti, accessori e varie guarnizioni. Il guardaroba maschile risulta essere molto più statico di quello femminile, in quanto tutti gli uomini, di qualunque ceto, possiedono gli stessi indumenti, anche se di tessuti diversi. Il tipico vestito intero era composto da tre pezzi: giamberga, giamberghino e calzone. Con il termine giamberga, utilizzato solo da Napoli in giù, si indicava il vestito di gala, o comunque di ceti medio-alti, caratterizzato da «maniche molto lunghe, un po’ svasate in basso, niente colletto, petto sporgente e vita stretta».21 Il giamberghino era il nome utilizzato per definire il panciotto, spesso in coordinato con il calzone, il quale terminava sotto il ginocchio e da lì si potevano notare le calze tese ben in vista. Pur essendo definito l’abito dei nobili, tutti gli inventari contenenti abiti maschili riportano almeno un esemplare ciascuno, mentre le famiglie più facoltose potevano permettersi di cambiare un vestito per ogni diversa occasione. Ma esaminiamo alcuni esempi concreti. Angelo Ramundi possiede solo un vestito intero, «un giamberghino usato»22 e nessuna giamberga; mastro Mucella lascia invece nel suo inventario «due giamberghe Ivi, p. 53. S.A.S.L., atti dei notai, serie I, prot. n°3714, ff. 170-180. 20 Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 61: «Tradizionale capo di vestiario è invece il busto, di ricche stoffe assortite al sottanino, che ora approfondisce la secentesca scollatura ovale in una audace apertura ampiamente quadra o rotonda. La sua linea aderentissima stringe spietatamente la vita nella morsa di fitte e robuste stecche di balena o di asticelle di ferro, inserite nel doppio strato della forte fodera di tela. In questo modo il seno è spinto in alto assumendo un risalto procace». 21 Ivi, p. 166. 22 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2635, ff. 310-311. 18 19 140 Federica Elisabetta Triggiani di panno, una color pignolo con giamberghino di scarlato […] e un giamberghino d’amuerro torchino con due paja di calzoni a colori»,23 mentre Francesco del Prete solo «una giamberga di panno fine color pigna, un giamberghino e un calzone simile, intero vestito».24 Molto diversa è la situazione a casa di personaggi come Leonardo Mazza, i fratelli Tortorelli o don Ignazio Conte, i quali possiedono in media sei o sette giamberghe con rispettivi giamberghini e calzoni. Un segno dell’evoluzione dell’abbigliamento nel XVIII secolo ci viene fornito dalla studiosa Ago quando, descrivendo il contenuto dei guardaroba romani del secolo precedente, afferma che «non sono pochi tuttavia gli uomini che […] possiedono anche una zimarra, cioè una lunga palandrana abbottonata davanti che scende a coprire gran parte delle gambe, o arriva fino a terra. […] Dopo il 1650 tende a passare di moda e anche gli inventari ne risentono».25 In effetti di questo capo non c’è traccia negli inventari foggiani, probabilmente perché sostituito ormai dai mantelli, mentre, per quanto riguarda gli accessori, si nota una netta differenza con i dati di quegli inventari romani. La seguente tabella mostra ciò che sia uomini che donne amavano utilizzare per variare i modelli dei loro abiti standard: Tabella 8 - Accessori maschili e femminili Accessorio Cappelli Codette Cravatte Cuffie Fasce Fazzoletti Golette Guanti Maccaturi Manichetti Manicotti Pettiglia Prigioniero Scarpe Sciarpette Scollino Quantità Ivi, Pacileo, prot. n°3722, ff. 102-104. Ivi, Greci, prot. n°2608, ff. 190-193. 25 Ago, Il gusto delle cose, cit., pp. 99-100. 23 24 141 34 5 13 21 5 21 4 12 19 20 22 5 4 26 10 4 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) Come si può notare questo è il secolo in cui «si consolidano nuove abitudini di consumo […] soprattutto nella sfera dell’accessorio e del superfluo».26 La presenza di cappelli, dei manicotti e dei fazzoletti è molto frequente così come i manichetti e le scarpe. I fazzoletti di solito erano molto grandi ed ornati con ricami e merletti. Se a Roma nel secolo precedente «collari, polsini sono […] rari e i cappelli praticamente inesistenti»,27 a Foggia, un secolo più tardi, risultano essere, invece, molto ‘alla moda’. I cappelli risultano presenti in dieci inventari, sia tra gli accessori maschili che femminili, distinguendosi tra coppole, pagliette e semplici cappelli28. Ad esempio Leonardo Mazza possiede «una coppola vecchia negra di amuerre con fodera d’armesino rosso; una coppola di velluto negro da donna; quattro coppole di bombace bianca».29 Le donne, per coprirsi il capo, preferivano utilizzare anche la scuffia «che da due secoli era quasi scomparsa, come segno non d’uso ma di eleganza».30 Essa è presente in sei inventari e risulta più volte associata a manicotti, guanti, sciarpette e grembiuli come parte integrante di un completo elegante per le uscite in città, mentre in altri casi si trova descritta come «cuffia di comodo».31 Le settanta paia di calzette presuppongono la presenza di un elevato numero di scarpe per poter essere indossate. Esse invece risultano solo ventisei in tutto, tra uomini e donne, e nel caso di Francesco Barone, si parla di più paia di scarpe senza enumerarle con precisione. Se si considera che dodici paia appartengono alla famiglia di Peppo e tre paia si ritrovano in ognuno dei due inventari dei fratelli Tortorelli, nei rimanenti elenchi si ha una media di un paio ciascuno tra scarpe, stivaletti e pianelli; c’è poi anche da chiedersi come mai alcune famiglie, come quella di Filippo Totta e Michele Mucella, sembrano non possedere alcuna calzatura. È forse giusto pensare che «[…] portano con sé nella tomba quell’unico paio di cui sono in possesso, per non presentarsi scalzi davanti al loro Creatore».32 Diversi libri, enciclopedie e ritratti hanno fornito indicazioni precise sui modelli delle scarpe dell’epoca, sebbene negli atti notarili vengano descritte principalmente le stoffe e le guarnizioni che le caratterizzano. Non si parla infatti di tacchi, ma di «un paio di scarpe con fibie di brilli falsi»,33 «un paro di vitellino bianco usato»34 e «un paio di stivaletti di panno con suoi bottoni nuovi».35 Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 223. Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 100. 28 Spesso sono descritti con o senza bordi d’argento o dorati. 29 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 26t-27. 30 Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 87. 31 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474. 32 Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 101 33 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 34 Ivi, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474. 35 Ivi, prot. 2641, ff. 199t-205. 26 27 142 Federica Elisabetta Triggiani Bottoni, fibbie, galloni e merletti erano considerati dettagli fondamentali per impreziosire ogni capo: «una giamberga e calzone di castoro con bottoni d’argento color rosa; un giamberghino d’amuerre rosa con gallone d’argento»;36 Angelo Ramundi nel suo inventario ci mostra «una camisola di scarlato da donna con bordo d’argento e bottoni d’argento massiccio».37 Alcune famiglie disponevano di servitori e famigli e dagli inventari si deduce che esse si occupavano anche del loro abbigliamento. Nella tabella, infatti, le livree risultano essere undici. Questo capo era indossato dal personale domestico ed era costituito da una giacca da sera, pantaloni sotto il ginocchio e calze. I notai non si soffermano nella descrizione dettagliata ma si limitano a constatare se esse siano nuove o usate. La sua funzione consisteva nel segnalare all’esterno che la persona che le indossava era un domestico, mentre la qualità dei tessuti ed i colori servivano a chiarire di che tipo di famiglia padronale si trattasse, in quanto era un bene del padrone «rigidamente riservato ai ricchi signori e ai borghesi gentiluomini».38 In effetti la livrea si ritrova esclusivamente in case di un certo ceto: due appartengono ad Ignazio Conte, quattro a Felice Tortorelli, tre a Nicola Tortorelli e due a Francesco Barone. Oltre al vestito, i ‘padroni’ offrivano ai loro servitori anche altri accessori come un cappello39 ed anche un cappotto.40 Attraverso l’analisi di questi atti notarili siamo in grado di conoscere anche com’erano costituiti alcuni abiti ‘speciali’. Il fratello di Nicola Tortorelli, Pietro, per esempio, aveva intrapreso la carriera ecclesiastica e nell’inventario c’è la descrizione del suo abito da cerimonia: «un rocchetto e una mantelletta da spumiglione nero»;41 Leonardo Mazza possiede, invece, «un camice cincolo, cappuccio e coppitella a uso dei Confratelli della Congregazione del Santissimo di doblettone usato […] e il tutto si restituisce alla congregazione come costumanza».42 3.4. Al passo con la moda Dall’analisi effettuata sui capi d’abbigliamento e sugli accessori dell’epoca, risulta evidente che l’eleganza maschile non è inferiore a quella femminile. Abbandonato il periodo barocco caratterizzato da colori cupi, forme esuberanti ed accostamenti a volte troppo eccentrici dei tessuti, l’Italia ed altre nazioni cominciano ad assorbire l’atmosfera che si respirava alla corte francese, Ivi, Pacileo, prot. 3722, ff. 126t-130. Ivi, Ricca, prot. 2635, ff. 310-311. 38 Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 227. 39 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 40 Ivi, prot. 2608, ff. 349-352. 41 Ivi, prot. 2610, ff. 119t-123. 42 Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 36 37 143 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) stando al passo con le continue variazioni di stile: «il barocco urla, esclama, declama, il rococò occhieggia, sorride, conversa a mezza voce».43 I primi a cogliere le nuove tendenze furono gli appartenenti alle classi più agiate, i quali vennero fortemente attratti dalle mode straniere, recando così un danno economico e d’immagine alla propria nazione. Si utilizzava la locuzione alla moda non solo per i mobili, ma anche per vestiti, gioielli ed argenterie. Non a caso nell’inventario di Mazza sono presenti «due guarnizioni di seta ritorta e ricamata a fiori sovrapposti all’antica per vesti intere da donna affatto fuori moda».44 Seguire le tendenze del momento, tuttavia, significava non solo adeguarsi ai modelli correnti, ma appropriarsi dei tessuti d’avanguardia. Ed in questo uomini e donne spesso si differenziavano. La seguente tabella mostra i tessuti più ricorrenti nel vestiario dei due sessi: Tabella 9 - Tessuti degli abiti da uomo e da donna Tessuto Amuerra Armosino Bombace Cammellotto Castoro Criscetto Damasco Drappo Dobletto Orletto Panno Raso Rattino Stammino Saia Seta Taffettà Tela di casa Velluto 43 44 Donne 25 19 12 3 0 5 4 28 18 3 0 3 4 6 2 5 1 10 7 Pisetzky, Moda e costume, cit., p. 955. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 144 Uomini 13 2 13 7 7 7 0 8 27 7 37 0 7 2 7 1 0 19 5 Federica Elisabetta Triggiani La lavorazione dei tessuti e la confezione di abiti costituivano per le società un importante settore economico, in quanto non esistevano vestiti già confezionati, ma la creazione di essi era affidata esclusivamente alla sartoria domestica ed artigianale. Si legga cosa si pensava a quei tempi: «che quanto porta addosso una persona agiata, tutto o quasi tutto è mercanzia straniera, nell’atto stesso che abbondiamo di ogni materia da vestire decentemente un galantuomo. […] Questo commercio di lusso e di voluttà nuoce all’industria nazionale».45 I tessuti più utilizzati risultano essere il cotone, la lana e la seta, non solo allo stato semplice, ma soprattutto combinati tra loro e lavorati spesso in modo particolareggiato. Il cotone, soprattutto nei suoi derivati di bombace, orletto, dobletto, è presente in quasi tutti i bauli e i cantarani delle famiglie, utilizzato per il confezionamento degli abiti e della biancheria più disparata. In effetti nel Settecento «le consuetudini vestimentarie delle classi ricche, al pari di quelle umili, facevano registrare un nuovo favore per i tessuti di cotone»,46 benché ancora per molto tempo la supremazia nella penisola resterà quella della lana e della seta. Il bombace è ottenuto «dal cotone di scarto»47 e, come risulta dalla tabella, è utilizzato principalmente per le coperte, le tovaglie ed accessori come calzette, scarpe e cappelli. Il dobletto è una tela massiccia, proveniente dalla Francia, fatta di due fibre, lino e bambagia, e si ritrova usata sia per lenzuola che per camicie; l’orletto, «originario d’Orléans, è un tessuto leggero, lucido […]».48 La Puglia, da sempre produttrice di ottima lana, vantava allevamenti non solo nel Tavoliere, ma anche nelle zone tra Bari e Taranto, classificandosi come uno dei centri di «importazione di lana ultramarina e insieme di produzione di lane locali».49 La fiera di Foggia divenne il più importante mercato laniero del Regno: «[…] i disordini causati dalla guerra di successione spagnola resero irregolare la produzione della lana dal 1703 al 1713, con una caduta delle vendite a Foggia su una media di 63.000 rubbi annui. Il veloce ritorno agli 80.000 rubbi e oltre nella fiera del 1714 e poi per tutto il corso del XVIII secolo confermò però la ripresa di lungo periodo dell’economia pastorale».50 I commercianti di tutta Italia, soprattutto milanesi e veneziani, «accorrevano ad accaparrarsi, richiamati dalle esenzioni fiscali 45 241. Francesco Di Battista (a cura di), Il Mezzogiorno alla fine del Settecento, Roma-Bari, Laterza, 1992, p. 46 Gianpiero Fumi, Il cotone, in C. M. Belfanti e F. Giusberti (a cura di), Storia d’Italia. Annali 19. La moda, Torino, Einaudi, 2003, p. 401. 47 Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 194. 48 Ivi, p. 195. 49 Giovanni Luigi Fontana, La lana, in Storia d’Italia, cit., p. 339. 50 John A. Marino, La fiera di Foggia e la crisi del XVII secolo, in Saverio Russo (a cura di), Storia di Foggia in età moderna, Bari, Edipuglia, 1992, p. 73. 145 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) e da altri privilegi consentiti dall’apposita fiera funzionante da maggio a tutto agosto».51 Essi infatti si appropriavano delle lane più pregiate, mentre quelle di media qualità restavano nella regione per essere vendute localmente ai ceti mediobassi. I dati raccolti nella tabella testimoniano un vasto utilizzo di lana soprattutto nella biancheria da casa e personale, mentre per gli abiti venivano utilizzati suoi derivati quali il panno e la saia. Il panno si presentava come un tessuto pesante, «follato e pressato oppure garzato e lucidato»,52 utilizzato, come si può constatare, esclusivamente per gli abiti maschili, in quanto si prestava ad essere un tessuto impermeabile ed un ottimo isolante termico. Francesco Barone possiede «una giamberga ed un giamberghino di panno sanseverino usato»,53 mentre Nicola di Peppo «una giamberga e giamberghino di panno d’Inghilterra color caffè con due calzoni foderati di saja».54 La saia costituisce l’armatura più utilizzata nella produzione dei tessuti di lana, in quanto, grazie alla sua struttura ad intreccio, è una delle più resistenti. È utilizzata sia per la biancheria che per abiti maschili e qualche cantuscia. La stoffa più pregiata e ricercata risulta essere la seta, la quale si adattava alla perfezione al gusto e alla moda del tempo. Il fulcro della produzione di questi nuovi modelli, caratterizzati soprattutto dalla preziosità del disegno e da motivi leggiadri, era Lione. L’Italia, pur avendo diversi centri produttivi, non riusciva ancora ad eguagliare i motivi e i colori del mondo d’oltralpe. All’interno degli inventari si nota che nessuno rinunciava a possedere almeno un abito di drappo, velluto o amuerre. Michele Mucella possiede «due corpettini, uno d’amuerro e l’altro di drappo; tre senali, due di mossolino e uno di seta negra»;55 Felice Tortorelli invece dispone di «un andriè di velluto nero; una gonnella di drappo vari colori; due giamberghini ricamati con fondo latte uno di amuerro e l’altro di criscetto».56 Anche Giuseppe de Benedictis, tra i pochi abiti registrati, risulta possessore di «un busto ed un corsè di damasco torchino».57 Se inizialmente la seta era sinonimo di potere e privilegio, con il tempo «non era più la fibra che segnava la differenza fra le diverse classi sociali, ma piuttosto l’uso di seta operata, molto più costosa di quella unita, e il tipo di disegno che presentava, le tecniche e i materiali con cui era tracciato».58 Ivi, pp. 339-340. Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 196. 53 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2608, ff. 349-352. 54 Ivi, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474. 55 Ivi, Pacileo, prot. 3722, ff. 102-104. 56 Ivi, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262. 57 Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 26t-27. 58 Roberta Orsi Landini, La seta, in Storia d’Italia. Annali 19. La moda, cit., p. 390. 51 52 146 Federica Elisabetta Triggiani L’uso di tessuti non locali è testimoniato dalle descrizioni dettagliate che i notai effettuavano sui singoli capi d’abbigliamento presenti nell’inventario, ma è possibile conoscere la domanda dei tessuti attraverso gli inventari di botteghe e fondaci. Il 10 gennaio 1756 viene eseguito l’inventario del fondaco di Leonardo Mazza e questo documento ci fornisce dati importanti sui tessuti in commercio in quegli anni: si vendevano panni d’Inghilterra, di Germania, di Padova, cammellotti di Sassonia e d’Inghilterra, di Bristol, saia imperiale, saia della regina, saia di Milano e tele indiane ordinarie. Quindi il mercato variava dai prodotti di qualità media a quelli più raffinati e ricercati. Alcuni tessuti elencati nel fondaco di negozio non sono presenti in alcun inventario. Quest’analisi sulle stoffe è fondamentale se si vuole approfondire il rapporto tra l’abito e lo status: in alcuni casi, infatti, è utile fare un paragone «tra la sontuosità degli arredi e la ricchezza e la varietà dei guardaroba».59 Se si considerano gli inventari di Nicola Tortorelli, Leonardo Mazza, Andrea di Peppo e Felice Tortorelli si riscontra un’evidente equivalenza tra il numero e la qualità di mobili, soprammobili e vestiti. Il dottor Tortorelli, fino alla sua morte, nel 1752, era proprietario di circa tredici boffette, cinquantacinque sedie, divani, cantarani, oltre ad un ricchissimo guardaroba sia maschile che femminile, in cui sono presenti non solo ogni tipo di capo, dalla biancheria personale ai vestiti più eleganti, ma si ritrovano ogni tipo di merletti e rifiniture preziose. È l’unico, inoltre, a possedere «tre pirucche».60 Un esempio diverso è quello offertoci dal patrimonio di Giuseppe de Benedictis che, pur disponendo solo di una lettiera, una boffetta d’abete e varie casse di noce, ritenne forse più opportuno conservare gioielli, argenti e diversi abiti come «due giamberghe, cioè una torchina e l’altra biancaccia; tre giamberghini di panno e l’altro di cammellotto; sei calzoni di panno e altro di cammellotto»,61 insieme ad altre camicie e capi da donna. Allo stesso modo incuriosisce l’inventario di Angelo Ramundi, perché, dopo averlo decifrato, si nota come esso sia povero di mobili (possiede solo una lettiera, una boffetta e dieci sedie), ma ricco di biancheria ed abiti sia maschili che femminili, affatto scadenti: risulta, infatti, essere l’unico possessore di «un senale di taffettà». Gli inventari di Pasquale Cognetti e Giuseppe Mastrogiacomo, privi di vestiario, suggeriscono, al contrario, un altro tipo di significato attribuito all’indumento: probabilmente gli indumenti possedevano un valore economico e per questo sono stati venduti. Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 107. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 61 Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 26t-27. 59 60 147 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) 3.5. I colori Nel corso del Settecento i tessuti, come abbiamo avuto modo di constatare, si fanno più leggeri ed ariosi, non soltanto nelle fogge, ma anche nel colore che assume un ruolo importante nel cambiamento che sta influenzando tutta l’Europa. Studi relativi al popolo parigino nel XVIII secolo hanno portato ad affermare che «i colori scuri perdono la loro supremazia: i neri, i grigi, i bruni compongono ancora i due terzi del totale, ma le tinte calde e squillanti guadagnano terreno: i blu, i gialli, i verdi, i rosa non sono più eccezioni».62 Un’ulteriore conferma a questa affermazione ci viene offerta da Renata Ago, la quale nella Roma seicentesca nota che ancora «il nero è assolutamente prevalente per gli indumenti maschili […] mentre quelli delle donne sono molto più vivaci […], con una forte presenza del rosso, seguito dal fulvo e dall’azzurro».63 La seguente tabella mostra qual era la propensione foggiana verso l’uso del colore nei capi in cui esso è specificato: Tabella 10 - I colori degli indumenti (tranne gli accessori) Colori Biancaccio Blu Caffè Celeste Fiorato Giallo Grigio (piombino) Latte Nero Rosa Rosso (e varie tonalità) Turchino Verde Viola Donne 13 1 1 3 7 9 9 9 25 7 18 7 8 1 Uomini 12 4 5 1 1 0 7 4 18 3 12 8 4 0 Il nero predomina ancora nettamente sia nel gusto femminile che in quello maschile, così come il rosso è presente in entrambi i guardaroba e con diverse tonalità e sfaccettature: «un busto d’amuerro color ceraso guarnito con gallone e 62 63 Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 232. Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 105. 148 Federica Elisabetta Triggiani zaina d’argento usata»,64 «un busto di color amiranto ricamato d’argento»,65 «due sandali di damasco cremisi».66 Il nero, oltre ad essere considerato un colore elegante, era il colore dell’abito da lutto, il quale «ha seguito, inevitabilmente, modelli di variabilità analoghi a quelli della moda più in generale, degli abiti e dell’etichetta, e, […] la pratica funeraria è sempre stata considerata mezzo d’espressione competitiva dello status e delle aspirazioni di status».67 Questa usanza fu, nel corso del tempo, modificata a seconda delle regioni e delle varie leggi suntuarie che intervenivano per limitare ulteriori inutili spese, e si diresse ora nei confronti dei ricchi, ora ai ceti inferiori. Nella realtà foggiana di quegli anni la pratica funeraria era appannaggio delle classi più elevate. Tra i quindici inventari esaminati, solo quello del dottor Tortorelli risulta ricco di completi descritti come «un andriè, merletti, scuffia, priggioniero, senalino e guanti di seta e manichetto di lutto» e «una giamberga da lutto».68 Tutti gli altri documenti ne risultano privi. Meno numerosi, ma altrettanto frequenti, risultano i colori chiari come il giallo (il quale non compare tra gli abiti maschili), il bianco, il turchino, il verde ed il rosa. L’uomo del tempo, al pari della donna, non rinunciava, quindi, a sfoggiare tutta una serie di sfumature che mettessero in risalto i propri capi, trasmettendo così un atteggiamento meno cupo. La stoffa fiorata, però, era utilizzata solo dalle donne: «una sciarpetta con fiori di seta sovrapposti; un senale di seta fiorata velata nuova ordinaria».69 3.6. Tessere in casa La testimonianza di lavori svolti in casa dalle donne o dalla servitù risulta quasi inesistente nella documentazione esaminata. Non vi è traccia di attrezzi per il bucato o per pulire la casa, mentre qualche strumento per l’arte del cucito è possibile riscontrarlo in almeno sette inventari. L’arte del confezionare i vestiti era affidata ad artigiani e sarti professionisti, i quali producevano abiti su commissione. Di certo questo servizio aveva un costo che non tutti erano in grado di pagare e perciò le donne di casa imparavano a cucire e tessere in casa. Indizi relativi a questa pratica casalinga provengono direttamente dagli atti notarili: ciò che se ne deduce è che in realtà si tratta di un’attività svolta non soltanto S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474. Ivi, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 66 Ivi, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23. 67 Maria Canella, Abiti per matrimoni e funerali, XVIII-XX secolo, in Storia d’Italia. Annali 19. La moda, cit., p. 267. 68 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 69 Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 64 65 149 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) dai ceti meno abbienti, in quanto si sono ritrovati oggetti che fanno pensare ad un’attività sartoriale anche all’interno di famiglie che «vivono nobilmente».70 Trovare enumerati, negli atti notarili esaminati, diversi pezzi di tela, rocchettini e gomitoli, non lascia dubbi sull’esistenza di lavoro di cucitura e ricamo prettamente casalingo. Questo tipo di inventario, purtroppo, non fornisce informazioni sull’uso che si faceva poi di questi abiti confezionati, cioè non è specificato se fossero destinati al commercio o restavano ai membri della famiglia. La tabella 9 presenta la voce tela di casa, la quale risulta essere abbastanza comune nell’abbigliamento di uomini e donne. Di questa tela non è specificato né il tessuto né la manifattura, ma si intuisce che si tratti di un tessuto di produzione domestica. Tra i beni ereditari del commerciante Mazza, sono stati annotati «trentanove grossi glomeri di filato in stoppa ordinarissimo; due rocchettini bianchi usati dalla vedova di doblettino rigato e due simili per la ragazza; un taglio di doblettino di Germania di quattordici palmi, un pezzo di tela grezza di venti canne; otto rotoli di lana»,71 mentre nei cassetti di un canterano nuovo vi sono «due rotoli di lino pettinato; quattro matasse di filo»72 e all’interno di un «mezzo burò», vi sono «quattro glomeri di filo per cucire; parte davanti di giamberghino blu con asole d’oro ricamato per figliolo col resto da finire di cucire; due cartocci di seta di vari colori» e tanti altri pezzi di stoffa e guarnimenti. Ma raro e prezioso è ciò che si trova descritto all’interno di una camera: «un telaretto per far zagarelle73 di seta; un manticetto di cui si serve la vedova per lavorare gli aghi». La filatura e il confezionamento di abiti in casa Mazza risulta essere, quindi, di pertinenza della moglie Marianna, la quale lavora per sistemare i vestiti dei suoi cari, e non sappiamo se in qualche modo la sua attività sia legata anche al lavoro del marito. Dopo quello ricco e dettagliato del commerciante Mazza, gli inventari che forniscono oggetti specifici del ricamo risultano essere quelli dei fratelli Tortorelli: Nicola possiede infatti «un cuscino ricamato per cusire con acarolo dentro d’argento; una scatola di fettuccie»,74 mentre Felice «una forbice con fodera d’argento e ditale».75 Il lavoro di questi ultimi due esempi risulta evidentemente diverso da quello di tessitura vero e proprio di casa Mazza: la presenza di ditali e forbici fa pensare ad un lavoro di cucitura e rifinitura più che di confezionamento vero e proprio. Se in alcuni casi la produzione casalinga si preferiva in quanto procurava un netto risparmio, in altri casi la motivazione poteva essere diversa: «l’industria, non stimolata da una domanda adeguata, offre prodotti troppo cari e troppo poco variati».76 A.S.Na., Catasti onciari, Foggia, 1741, Vol. 7040, f.171, n.1360. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 72 Ivi. 73 Zagarelle: nastri di seta colorati per adornare i costumi. 74 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 75 Ivi, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262. 76 Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 113. 70 71 150 Federica Elisabetta Triggiani Capitolo IV Gli oggetti di valore e il collezionismo 4.1. Oggetti inalienabili Fino a questo momento si è cercato di conoscere, attraverso gli inventari, quale fosse lo stile di vita condotto da famiglie, o singole persone, più o meno agiate che vivevano nella città di Foggia negli anni centrali del XVIII secolo. La descrizione di mobili, vestiario ed utensili da cucina ci ha permesso di immaginare il rapporto che ogni membro delle famiglie intesseva con i propri oggetti, specialmente con quelli di uso quotidiano. Proprio per il frequente utilizzo, essi sono spesso descritti come usurati, laceri o addirittura inservibili. Se da una parte gli inventari riescono a caratterizzare alcuni aspetti della vita di ogni singola famiglia, lasciando intravedere le loro possibilità economiche, dall’altra il gusto nella scelta delle stoffe e del mobilio e la cura con cui venivano maneggiate le suppellettili, ci svelano qualcosa di ancora più intimo. Renata Ago ha diviso i beni materiali in due categorie diverse, facendo rientrare quelli appena elencati tra i «beni del corpo»,77 ossia beni che hanno il compito di fornire al proprietario utilità ed agio, quindi fondamentali per la vita di ogni giorno; mentre con «beni dello spirito»,78 invece, si riferisce a tutto ciò che ha a che fare con l’estetica e il desiderio di prestigio sociale. Di questo secondo gruppo fanno parte tutti quegli oggetti non facilmente reperibili in tutti gli inventari, soprattutto in quelli di persone con scarse possibilità economiche che preferiscono, quindi, investire in oggetti che siano più di utilità che di semplice decoro. Lo studio degli inventari ha messo in luce, però, alcune eccezioni che dimostrano quanto sia importante la cautela nel dare giudizi scontati e come invece sia complesso riuscire ad entrare nel meccanismo del rapporto uomo-cultura materiale. I paragrafi che seguono saranno tutti dedicati ad oggetti ritenuti ancora oggi ‘di lusso’, come i gioielli e l’argenteria; in particolare saranno analizzati tutti quei beni che si sottraggono alla funzione dell’utile caricandosi di significato, in quanto «è il trattamento di una cosa allo scopo di farne un’immagine, esponendola allo sguardo e impedendo che venga usata, a trasformarla in semioforo».79 Tra questi oggetti, che solitamente diventavano inalienabili, per un lungo periodo, ci sono le collezioni di quadri, le biblioteche private, ninnoli devoti e tutta una serie di oggetti di cui si andava alla ricerca per essere messa in mostra nei luoghi più frequentati della casa. Infatti una collezione non viene creata per essere nascosta o contemplata dal solo proprietario, ma al contrario «lo sguardo dei visitatori ammirati è essenziale alla collezione […] e rappresenta un tassello fondamentale nella costruzione stessa dell’opera».80 Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 55. Ibidem. 79 Pomian, Che cos’è la storia, cit., p. 113. 80 Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 135. 77 78 151 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) 4.2. I gioielli Il gioiello ha da sempre costituito un accessorio per il corpo che l’uomo ha utilizzato forse anche prima del vestiario. Già all’epoca degli uomini preistorici ornarsi con oggetti particolari e rari era ritenuto un segno di prestigio e di differenziazione dagli altri membri della comunità. Nell’età moderna e soprattutto a partire dal Rinascimento, i gioielli sono strettamente legati all’abbigliamento, in quanto si cerca di abbinarli ad esso, seguendo di pari passo le nuove mode e i nuovi gusti: ciò comporta un continuo rinnovamento, tanto che all’inizio del Settecento essi si presentano «preziosi, senza pesantezza, in armonia con lo stile del tempo».81 Le descrizioni di gioielli negli inventari «si rivelano utili per conoscere i gusti e le abitudini dei diversi ceti sociali, in relazione, naturalmente, alle varie possibilità di spesa».82 In effetti non è difficile immaginare che negli elenchi di beni appartenenti a famiglie più rilevanti siano maggiormente presenti gioielli, sia maschili che femminili, impreziositi con le pietre più diverse. In alcuni casi, però, reperire gioielli in inventari in cui mancano oggetti di primaria importanza dà adito a riflessioni sui motivi di questa sproporzione. Tab. 11 Gioielli censiti negli inventari Tipo di gioiello Orecchini Bracciali Anelli Croci e crocifissi Medaglie Pioggia Bottoni Concerti Paranza Corone Schiavette Girogola e laccetti Cupido Disciplina 81 82 Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 195. Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 211. 152 Quantità 31 2 61 13 7 4 29 4 7 12 7 12 1 1 Federica Elisabetta Triggiani Purtroppo anche per quanto riguarda i gioielli, i documenti non forniscono dati sull’effettivo valore monetario, anche se possiamo desumerne il loro pregio dalla descrizione, a volte accurata, effettuata dai notai. La presenza di gioielli, in quasi tutti gli inventari,83 dimostra come «i mariti, che li hanno comprati, sono e restano i proprietari dei più ricchi ornamenti delle loro mogli».84 Possedere un pezzo d’oro sembra fosse quasi fondamentale, un segnale di benessere ed eleganza a cui nessuno vuole rinunciare. Se si osserva, per esempio, l’elenco dei beni di Pasquale Cognetti si riscontrano diverse anomalie: non risultano indumenti, c’è pochissima biancheria, i mobili si limitano a due boffette, e c’è solo qualche utensile da cucina; però spiccano «due paranze d’oro a cavaccia cioè una con pietre di rubini e l’altra di smiraldi; otto anelli d’oro cioè due con diamanti e sei con pietre di rubbini; un incanacchino d’oro con due pietre di smiraldi».85 Probabilmente gli altri beni sono stati impegnati, venduti o prestati, ma i gioielli sono rimasti nell’inventario per garantire ai successori beni di valore. Allo stesso modo desta sorpresa la presenza di «un paio di schiavette d’oro a quattro perle e una crocetta mezzana d’argento»,86 descritte tra i beni ritrovati nella casa di Foggia di Giuseppe Mastrogiacomo, in quanto il notaio Ricca aveva inventariato quasi solo attrezzi da giardinaggio, botti e tavolieri per fare il pane. Unici beni di un certo valore risultano quindi i due gioielli. Negli inventari degli altri appartenenti al ceto medio si riscontrano una diversa quantità di gioielli, sia maschili che femminili, impreziositi da pietre più o meno di valore. Tab. 12 Numero di gioielli che contengono le seguenti pietre Pietra Brillanti Smeraldi Perle Coralli Diamanti Corniola Granati Pietre varie File di perle Rubini Quantità 29 27 31 3 36 38 7 18 21 37 Risulta privo di gioielli l’inventario del barone Potito Saggese, e non possiamo conoscerne i motivi. Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 178. 85 S.A.S.L., atti dei notai, serie I, Ciccone, prot. n° 4039, ff. 16-20. 86 Ivi, Ricca, prot. n° 2633, ff. 791-793. 83 84 153 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) Il gioiello più utilizzato è l’anello d’oro, solitamente ornato con diamanti e rubini, ma non mancano quelli con la corniola e l’ametista. I modelli più di moda sono costituiti da «un anello con tre diamanti, uno in mezzo grosso e due piccoli al centro»,87 oppure con diamante centrale e due rubini laterali, mentre la moglie di Nicola Andrea di Peppo indossava «un anello d’oro a staffa con quindici smiraldi, uno detto con sette pietre turchine e uno detto con sette pietre di smiraldo».88 All’interno di un cassettino per gioielli, Ignazio Conte conservava sei anelli, tra cui una fede di diamanti e rubini e, unico caso ritrovato, «due anelle piccole con pietre falze».89 Le perle sono molto utilizzate soprattutto per orecchini e lacci per il collo e sono sinonimo di un patrimonio più consistente: «un paro di orecchini di perle a tre pigne grandi; una cavaccia d’oro con perle e suoi orecchini mezzani di perle alla moda»,90 «un concerto di perle consistente in una croce con sua nocca, orecchini e otto fili di perle minute per la cannacca e altro filo per il rosario»,91 «una disciplina di perle con rubini in mezzo e diamanti con due piccole rosette».92 Sempre restando in Puglia, nella Monopoli del Settecento la situazione sembra essere la stessa: gli inventari mostrano la diffusione di pietre turchine, rosse e verdi che «non sono pietre preziose […] ma denotano una disponibilità economica superiore e, soprattutto, vista la loro diffusione un certo orientamento di gusto».93 Gli elenchi di gioielli trovati negli inventari sono innumerevoli, ma bastano questi esempi a sottolineare l’importanza che a tali ornamenti si conferiva all’epoca, così come oggi. Nell’inventario di de Peppo, inoltre, si ritrova la locuzione «alla moda», quindi si tratta sicuramente di gioielli comprati da poco, in linea con le nuove tendenze. È documentato che l’uomo era attratto da questo tipo di vezzo e «il gioiello maschile per eccellenza è l’anello che porta di solito una sola grossa pietra preziosa».94 L’uomo aveva l’abitudine di adornare i propri abiti con alcuni bottoni di brillanti legati sopra argento oppure ottone. Uomini e donne non sono gli unici a voler mostrare vezzi e ricchezze: nel cassettino di ‘gioie’ del commerciante Mazza, oltre alla lunga lista di gioielli da donna, c’è spazio anche per «una piccola fila di corallo con perle pendenti da creatura e piccola mezzaluna d’oro».95 Le famiglie foggiane, come avremo modo di constatare nei paragrafi seguenti, dimostrano inoltre di essere molto devote ed infatti quasi tutte possiedono i rosari, che Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. Ivi, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474. 89 Ivi, Greci, prot. 2608, ff. 190-193. 90 Ibidem. 91 Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 92 Ivi, Greci, prot. 2608, ff. 349-352. 93 Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 212. 94 Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 195. 95 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 87 88 154 Federica Elisabetta Triggiani possono essere annoverati tra i gioielli poiché sono solitamente formati da granati e coralli con segnacoli d’oro, così come è testimoniato a Roma nel secolo precedente.96 Nonostante i gioielli fossero considerati, così come lo sono ancora oggi, un’importante riserva di valore, non risultano casi di scambi di pegni o di prestiti. Probabilmente essi avevano un valore economico ma soprattutto affettivo: si trattava dei ‘gioielli’ di famiglia, che dovevano essere custoditi e conservati il più a lungo possibile. 4.3. L’argenteria in tavola Gli oggetti di valore a cui non si rinunciava, non erano solo quelli personali perché risulta che anche in casa veniva ostentato un certo lusso. Nel capitolo precedente si è già accennato ad un’anomalia all’interno degli inventari: la scarsa presenza di stoviglie da cucina. Questo è vero solo in parte, in quanto sono invece molto numerosi gli elenchi di stoviglie e utensili in argento. Come è stato verificato per i gioielli, così quasi tutti i soggetti studiati possiedono almeno un pezzo d’argento utilizzato per servire cibo e bevande:97 è come se vi fosse «una sorta di linguaggio dell’argento che – a scale molto diverse – viene adoperato un po’ da tutti, nobili, ceti medi, borghesie minime».98 Tab. 13 Argenteria da tavola Stoviglie e utensili Cucchiai Forchette Coltelli Cucchiaioni Forchettoni Coltelloni Cucchiaini da caffè Cucchiaini da sorbetto Sottocoppe Saliere Chicchere (da caffè, thè, cioccolato) Piattini Candelieri Bacili Boccali e brocche Giare Quantità 68 75 90 22 8 6 15 34 12 5 108 69 28 6 32 30 96 Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 179: «evidentemente la loro produzione non è ancora tale da farne degli effettivi concorrenti rispetto alle pietre più preziose: un vero gioiello richiede ben altro». 97 Ne risultano sprovvisti Angelo Ramundi e Giuseppe Mastrogiacomo. 98 Macry, Ottocento, cit., p. 116. 155 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) Gli oggetti più comuni sono le posate, presenti anche se spaiate o in numero limitato, mentre i bicchieri sono inesistenti, fatta eccezione per un bicchiere da vino con piedino appartenuto a don Ignazio Conte. Le saliere e le sottocoppe sono più rare, ma ciò che stupisce è l’elevata presenza di tazze, piattini e cucchiaini specificatamente per uso di cioccolata, thè e sorbetto. L’arrivo in Italia di queste nuove bevande, infatti, influì sulla fabbricazione di apposite stoviglie correlate da diversi accessori. Sappiamo che il cacao arrivò in Italia (precisamente in Toscana) nel Seicento, importato dalla Spagna, e che veniva servito principalmente come bevanda. Successivamente alcune città come Torino e Venezia si specializzarono nella produzione, aprendo anche delle ‘botteghe del cioccolato’. Esso era considerato benefico e coloro i quali possedevano gli strumenti per prepararlo facevano parte di una cerchia ristretta. Il consumo di questa nuova bevanda nelle case foggiane è testimoniato anche dalla presenza di cento libbre di cioccolata all’interno di una cassa del presidente Belli, mentre don Ignazio Conte conserva nel «burò e propriamente nel tiratore segreto diverse cose di dolci e cioccolata»99. Esistevano misure di tazze differenti, come si evince dall’inventario relativo al capitano Tortorelli: «dodici piattini e chicchere della Cina metà per cioccolato e metà per caffè»;100 il presidente Belli possedeva invece «ventiquattro chicchere soprafine da cioccolata con loro piattini».101 Il caffè, comparso a Venezia già nella seconda metà del Seicento, veniva invece consumato in apposite ‘botteghe del caffè’, ma negli anni successivi si diffuse anche nelle case, portando all’acquisto sempre più frequente di caffettiere, tazze e cucchiaini specifici. Il thé risulta una bevanda ormai di largo consumo tanto da incentivare l’acquisto di stoviglie appropriate; ma una nuova bevanda fredda, la cui la presenza già si è attestata a Roma intorno al 1650,102 è entrata nelle case foggiane: il sorbetto. Esso si può considerare l’antesignano del gelato, inventato dagli Arabi e poi perfezionato in Sicilia: preparato con acqua, frutta e zucchero, era gradito da famiglie di un certo rango, in quanto si trattava di un dessert ‘alla moda’ e continuerà ad esserlo almeno fino alla metà del Settecento. Infatti, non a caso, Francesco Barone tra la sua argenteria non si fa mancare «tre giarre di sorbetto con le loro cocchiarine d’argento»,103 come pure ne posseggono alcune don Ignazio Conte, Antonio Belli, il barone Potito Saggese e il commerciante Leonardo Mazza. L’argenteria costituiva dunque un segno di eleganza e di prestigio. Purtroppo S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2608, ff. 190-193. Ivi, prot. 2609, ff. 258t-262. 101 Ivi, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23. 102 Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 165: «Vittoria Patrizi e Bernardino Spada, per esempio, annotano regolarmente acquisti di limonate e sorbetti, insieme a quantità esorbitanti di zucchero […]». 103 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2608, ff. 349-352. 99 100 156 Federica Elisabetta Triggiani non è possibile conoscere il valore dei vari pezzi, anche se in un caso è stato fornito il peso di alcuni di questi oggetti.104 4.4. I quadri Collezionare oggetti significa in un certo senso dare valore alle cose: conservare oggetti antichi vuol dire aspettare che un giorno essi acquistino valore. Ma circondarsi di oggetti privi di utilità può avere più significati. Da una lato infatti le collezioni sono qualcosa di tangibile, di visibile, poiché contribuiscono ad arredare un ambiente rendendolo ‘specchio’ dell’identità che il collezionista cerca di crearsi. Qualcuno colleziona oggetti a fine di lucro, ma altri lo fanno solo per piacere personale, per brama di possesso o desiderio di trascendere il tempo, legando passato, presente e futuro insieme: da ciò traspare l’intenzione di tendere all’immortalità, tramandando le proprie collezioni attraverso lasciti, testamenti o donazioni. La notevole presenza di quadri all’interno di ogni inventario, più o meno ricco di oggetti, testimonia il ruolo primario che questo accessorio d’arredamento assumeva nelle case settecentesche. I quadri non sono ovviamente tutti uguali: essi differiscono nei soggetti, nella grandezza, nel tipo di supporto e nella cornice. Alcuni notai mostrano grande precisione nelle descrizioni di questi parametri, mentre altri rimangono più sul vago, limitandosi a citare il soggetto del quadro. Tab. 14 Soggetti dei quadri Soggetto Quantità Animali Caccia Campagnole Carte geografiche Figure alla veneziana Figure cinesi Frutti e fiori Paesaggi Ritratti Soggetti religiosi Soggetto sconosciuto Storie profane 6 2 41 13 6 18 52 8 20 173 227 22 104 Ivi, Ricca, prot. 2642, ff.22t-23, cit.: «forchette n.18, cocchiare n. 18 nuovi e grandi al peso otto libre ed onze due; maniche di coltelli n. 18 colle loro lami di peso libre sette meno un’onza; in un cassettino più piccolo cocchiare n. 12, forchette n. 12 a tre denti di peso libre tre ed onze dieci». 157 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) Tab. 15 Soggetti religiosi più diffusi Soggetto Agnus Dei Apostoli Concezione Cristo Maddalena Madonna S. Francesco da Paola S. Gennaro S. Giuseppe S. Nicola di Bari Altri Santi Quantità 4 26 8 3 9 21 7 4 5 5 35 Le due tabelle sono chiarificatrici dei gusti predominanti in quegli anni nelle abitazioni foggiane. Purtroppo in molti casi non sappiamo nulla dei soggetti dipinti, ma le cifre raccolte dimostrano come il quadro più richiesto in quegli anni fosse di tema sacro. Nello stesso periodo, anche a Monopoli «la maggior parte raffigura soggetti religiosi, soprattutto storie tratte dall’Antico Testamento, ma vi sono anche diversi ritratti, nature morte e le cosiddette campagnole, dove sono riprodotte scene di vita campestre».105 Mancano le indicazioni sul valore monetario e sull’autore dei quadri, quindi risulta difficile supporre se si tratti di stampe, opere in serie o dipinti di pregio. Comunque, l’inventario del commerciante Mazza, proprietario di una vasta tipologia di quadri, è in grado di fornirci alcuni elementi interessanti: nella sua camera da letto vengono annotati «due quadri di indegno autore, copie di qualche buon autore»,106 mentre in una stanza che precede la cucina «quattro quadri di nessun valore affumicati e maltenuti».107 Il modo per acquistare dipinti variava a seconda delle disponibilità monetarie e del fine dell’acquisto: «i grandi collezionisti sono soprattutto dei committenti, in rapporto diretto con gli artisti, ai quali commissionano opere originali che rispondano alle loro esigenze e al loro gusto. I piccoli amatori si rivolgono invece al mercato delle opere pronte […]».108 Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 183. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 107 Ibidem. 108 Ago, Il gusto delle cose, cit., pp. 137-138. 105 106 158 Federica Elisabetta Triggiani In alcuni inventari in cui i quadri sono di numero limitato, non viene fornita né la descrizione del soggetto, né quella della composizione delle cornici: probabilmente non si ritenevano abbastanza di pregio da meritare un’analisi minuziosa. I dati raccolti dimostrano che, dopo i quadri a sfondo religioso, i soggetti più richiesti fossero quelli naturali, ossia frutti e fiori. Anche se l’opinione corrente era che questo tipo di pittura fosse adatta ad adornare le pareti del ‘popolo’, in realtà «nelle case e nelle ville della nobiltà o dell’alta borghesia napoletana del Seicento le nature morte rappresentavano la principale espressione di un arredo non ‘ideologico’, come era invece la grande pittura di historia epica e mitologica, ma piuttosto di […] raffinata mondanità».109 Ogni dipinto assumeva per il proprietario un significato particolare, anche se alcune convenzioni, locali e non, dimostrano come essi, appartenenti alla categoria dei semiofori, venissero localizzati a seconda del soggetto in stanze prestabilite. Tab. 16 Soggetti nelle diverse stanze Soggetto Ambienti Soggetto profano Anticamera Camera da letto Galleria Sala Studio 29 30 10 24 22 sacro 13 80 12 0 0 Le camere da letto erano gli ambienti destinati alle immagini sacre: esse infatti non compaiono in alcuna stanza di rappresentanza come studi o sale. Lo stesso costume si ritrova a Roma un secolo prima, dove i padroni di casa preferiscono «affidare a immagini religiose l’intimità della stanza in cui dormono ed esporre in sala i quadri a soggetto profano».110 La società foggiana si rivela dunque molto religiosa ed ogni famiglia predilige alcuni santi rispetto ad altri a cui affidare la protezione della casa. Leonardo Mazza, ad esempio, risulta essere devoto a S. Gennaro, S. Agata e S. Francesco da Paola; di Peppo possiede diversi quadri raffiguranti S. Francesco da Paola, S. Francesco Saverio e S. Giuseppe (i cui nomi appartengono ai suoi figli). Le immagini dunque mettono in contatto l’uomo con un mondo invisibile, un mondo fatto solo di ‘passato’ e «costituiscono un’esplicita manifestazione 109 110 Francesco Abbate, Storia dell’arte nell’Italia meridionale, Roma, Donzelli, 2002, p. 94. Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 145. 159 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) del desiderio di porsi in comunicazione con la sfera del trascendente».111 Un significato particolare è quello che alcune famiglie attribuiscono ai ritratti: averne qualcuno in casa dava lustro al proprietario e all’intero casato e per questo essi venivano esposti di solito nei salotti o negli studi. Felice Tortorelli ne possiede uno del fratello Nicola, il quale a sua volta ne ha in casa uno di se stesso; Leonardo Mazza ha sulla parete di un camerino i due ritratti, sprovvisti di cornice, della moglie e della figlia Maria; don Ignazio Conte, tra i beni rimasti nella città di Napoli, conservava invece alcuni ritratti di casa Conte. Il valore di queste immagini era di certo prettamente affettivo: sarebbero rimasti in famiglia per generazioni e con il passare del tempo quei visi avrebbero assunto un valore quasi mistico. Anche ai personaggi illustri o di rilievo politico era poi riservato un ruolo e una posizione all’interno delle abitazioni: Nicola Tortorelli in una camera da letto espone «due ritrattino di Masanello e la moglie; un ritratto di monsignor Cavalieri».112 Negli ambienti predisposti ad incontri sociali era consuetudine esporre quadri di natura profana: si trattava essenzialmente di paesaggi, storie tratte dalla letteratura,113 scene di caccia e immagini di cani e pecore, che nulla avevano a che fare con il ‘mondo’ casto racchiuso nelle camere da letto. Oltre alle informazioni sui soggetti rappresentati nei quadri, a volte i notai offrono ulteriori dettagli sulle loro caratteristiche, che riassumiamo nella seguente tabella: Tab. 17 Caratteristiche quadri Tipo di quadro Definiti “grandi” Definiti “piccoli” Definiti “tondi” Definiti “bislunghi” Definiti “mezzani” Definiti “ovali” Misure menzionate in palmi Dipinti su seta Ricamati Con cornici Sopraporte Quantità 108 160 93 18 24 17 103 4 5 252 7 Ivi, p. 141. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 199t-123. 113 Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180: Mazza nell’anticamera possedeva «quattro quadri bislunghi di palmi 4 e 8 di storie di Tasso e altre favole». 111 112 160 Federica Elisabetta Triggiani Non conoscendo le stime di questi complementi d’arredo, possiamo osare alcune osservazioni sul loro valore artistico basandoci sul tipo di supporto e sul materiale delle cornici. Lo stile delle cornici rispecchia quello diffuso anche a Monopoli negli stessi anni, in quanto «quelle più diffuse sono “indorate”, di chiara influenza barocca, e presentano diverse lavorazioni».114 Don Ignazio Conte risulta uno dei maggiori possessori di quadri, descritti tutti nei minimi dettagli: «sette quadri di palmi tre e due e mezzo con cornice d’oro misturata con cimase con imagine de Santi; dieci quadretti con cornice negra e stragalli d’oro di palmi uno e mezzo e uno di diverse effigie di santi di seta sopra carta alla Leccese con vetro avanti».115 Una descrizione così minuziosa lascia pensare che si tratti di quadri di un certo valore, anche perché questo inventario parla esplicitamente di quadri di «pittura», mentre gli altri esaminati si limitano all’accezione «effigie». Il diffuso acquisto di quadri porta a supporre che essi non dovessero avere prezzi proibitivi: sicuramente le stampe o le serie avevano costi molto più bassi dei dipinti veri e propri, e «spesso la cornice vale di più del dipinto stesso».116 Alcune immagini avevano come supporto il vetro, altre erano sulla seta, alcuni erano proprietari di quadretti ricamati, ma molte effigi erano prive di cornice. Il valore dei quadri non deve però essere sottovalutato: essi appartengono a quel gruppo di oggetti a cui era affidato un compito importante. Dagli inventari risulta, infatti, che essi venivano utilizzati come pegni in cambio di prestiti. Il commerciante Mazza doveva amare molto i quadri, se tra i documenti leggiamo che diversi pegni sono costituiti da quadri dotati di cornici: «questi ultimi sei quadri sono di Gianbattista Marena dati in pegno per ventotto ducati; sono questi quadri tutti pegni della casa dei figli del quondam Leonardo Miani».117 Le pareti delle abitazioni appaiono dunque ricoperte di quadri di ogni forma e misura, quasi a non voler lasciare neanche uno spiraglio di vuoto. Le serie pittoriche, ossia gruppi di quadri raffiguranti stessi soggetti e caratterizzati dalle stesse dimensioni e forma, sembrano essere molto comuni ed esse quasi ‘soffocavano’ le pareti in quanto erano di moda a Napoli. A rafforzare questa sensazione contribuiscono i numerosi specchi censiti, anch’essi dotati di cornici in stile barocco sovraccaricate di elementi decorativi, che alcune testimonianze dichiarano prettamente di abbellimento in quanto venivano posti talmente in alto che era impossibile potervisi specchiare. 4.5. I libri Consultare documenti che attestino la presenza di libri all’interno delle case Tessari, Trasferimenti patrimoniali, cit., p. 184. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2608, ff. 190-193. 116 Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 138. 117 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 114 115 161 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) foggiane nel XVIII secolo, permette di ricostruire la cultura letteraria dell’epoca. Il libro è da sempre simbolo dell’istruzione e del sapere: una bella raccolta «si può trovare anche nelle case di appartenenti ai ceti medi delle arti liberali (medici, giuristi, artisti…), in quelle di mercanti e perfino in quelle di semplici artigiani».118 Conoscere i libri che fanno parte di una biblioteca privata ci aiuta a conoscere la personalità del collezionista, ed essendo essi degli importanti indicatori delle differenze sociali, svelano gli interessi di coloro che li acquistano: «una bella collezione di libri appare quindi come il necessario complemento degli arredi di una dimora di gente onorata e in questo i libri non si differenziano granché dai quadri».119 Tra gli inventari analizzati risultano possessori di biblioteche cinque uomini: il commerciante Leonardo Mazza, il dottor Francesco Barone, il presidente Antonio Belli, il dottor Nicola Tortorelli e il dottor Filippo Totta. L’assenza di libri nei restanti documenti notarili può essere determinata da «[…] una serie di fattori in cui rientrano la consistenza patrimoniale, il mestiere, la situazione sociale, le abitudini culturali delle famiglie, benché rimanga attendibile anche l’esistenza di ipotesi diverse».120 Le stampe costituiscono gli oggetti semiofori per eccellenza e, secondo Daniel Roche, il gesto dell’uomo raffinato, che compra il libro per collocarlo nella propria biblioteca e quello dell’uomo comune che lo sistema nella sua piccolissima collezione, rivelano interessi intellettuali, convergenze sociali e motivazioni che trasformano il significato del libro: coscienza della storia, segno di potere, strumento di conquista del mondo o oggetto di divertimento, compagno dell’intimità e strumento di lotta contro le avversità, segno di promozione sociale e culturale, formulario a portata di mano121. Gli elenchi di queste collezioni ritrovate negli atti notarili sembrano essere completi, anche se non sempre è stato facile decifrare il titolo dei volumi o il loro autore. Se a Roma «agli inizi del XVII secolo nessun gentiluomo romano, che aspirasse a distinguersi per la raffinatezza del suo stile di vita, avrebbe potuto esimersi dal possedere una bella biblioteca»,122 in Francia un secolo dopo «la biblioteca nobiliare media nelle province occidentali come nella capitale è costituita da cento a trecento volumi».123 Gli inventari analizzati dimostrano che anche a Foggia si leggeva e alcune biblioteche private erano formate da un ragguardevole numero di volumi e manoscritti. 118 Renata Ago, Biblioteche e lettori nella Roma del Seicento, in «Quaderni storici», 115, XXXIX (2004), n. 1, p. 119. 119 Ead., Il gusto delle cose, cit., p. 187. 120 Roche, Il popolo di Parigi, cit., p. 286. 121 Id., La cultura dei lumi. Letterati, libri, biblioteche nel XVIII secolo, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 35. 122 Ago, Biblioteche e lettori, cit., p. 119. 123 Roche, La cultura dei lumi, cit., p. 114. 162 Federica Elisabetta Triggiani Tab. 18 Libri posseduti e loro collocazione Proprietari Nicola Tortorelli Leonardo Mazza Antonio Belli Francesco Barone Filippo Totta StanzaQuantità Studio Stanza contigua alla cucina Camera da letto Non specificato Studio 648 13 236 35 55 Leonardo Mazza conserva la sua modesta raccolta in una scanzia e i volumi predominanti sono essenzialmente di carattere giuridico, ma possiede anche «un tomo sui viaggi dell’Africa; descrizione dei Franchi in tre tomi; sei libretti di filosofia e altri nove ad uso di studenti; Caprasio poesie».124 Nella camera da letto, nel cassetto di un canterano, sono stati ritrovati dieci libri di novelle arabe e persiane, e ciò dimostra che «per i libri comuni, soprattutto quando si tratta di poche opere, non esiste un luogo predisposto ad accoglierli: il libro si smarrisce in cucina, tra le pile di stoviglie, si annida in fondo alla biancheria negli armadi o si nasconde laddove il suo lettore sa di poterlo rintracciare».125 Pochi libri, ma grande varietà tematica. A differenza delle grandi collezioni appartenenti ai suoi concittadini, i testi del commerciante non specificano il formato, ma soltanto il numero dei tomi. Francesco Barone, medico, conferma la sua professione anche nella scelta delle letture: oltre all’Enciclopedia chirurgica nazionale di J. Dolaei, possiede altri libri di medicina, tra cui un tomo del famoso clinico italiano del Rinascimento noto come Hercule Saxonia. Sono elencati inoltre cinque manoscritti, un testo sulla vita dei santi, il De officiis di Cicerone, un’ opera del giurista Ignazio Gastone e poesie di Biagio Cusano. Il dottor Filippo Totta, di cui non abbiamo notizie riguardo la professione, raccoglie una collezione di cinquantacinque testi in una libreria di legno composta da dieci scaffali. Tra i suoi gusti letterari figurano molte opere classiche tra cui le Istituzioni di Giustiniano, le Orazioni di Cicerone, l’Arcadia del Sannazzaro e quattro tomi di opere del Metastasio; possiede anche alcuni libri in francese tra cui una Grammatica, dei libri di filosofia, geografia, religione (una Storia del vecchio Testamento) e due testi attribuiti al defunto Nicola Tortorelli: si tratta de Il parto della Vergine (probabilmente una traduzione dell’opera del Sannazzaro) e il libro Sugli antichi Giureconsulti romani. Anche Totta conserva alcuni manoscritti di Istituzioni, ma della sua biblioteca non è fornita alcuna descrizione del formato dei volumi. 124 125 S.A.S.L, Atti dei notai, serie I, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. Roche, La cultura dei lumi, cit., p. 116. 163 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) La quantità notevole di manoscritti registrati dagli inventari di beni ereditari, testimoniano che «la produzione e la circolazione del manoscritto è continuata sino a tutto il Settecento, e a volte anche oltre […]».126 A seconda della funzione che esso svolgeva, si presentava con caratteristiche più o meno lussuose: nel caso, per esempio, riportasse «opere di cui era vietata la diffusione e perciò anche la stampa e il commercio»,127 si presentava privo di abbellimenti. Il presidente della Dogana Antonio Belli, come annotato nella tabella, riserva alla sua collezione di libri un posto speciale nella sua camera da letto: il 60% dei testi in suo possesso fanno parte, infatti, del repertorio giuridico del tempo su cui non serve soffermarsi, mentre appaiono più interessanti altri titoli rinvenuti. Tra i testi classici egli conservava il De Filosofia di Cicerone e il Decamerone del Boccaccio, mentre una buona parte era dedicata ovviamente a trattati economici, tra cui «Elementi di commercio, tomi due;128 Commercio d’Espagna, un Trattato colla Repubblica d’Olanda; Sopra il commercio dell’oglio, tomo uno; trattato sul commercio del Re di Svezia»129 e tutta una serie di trattati riguardanti re di vari stati. Anche in questa libreria sono annoverati testi in francese, un dizionario e libri di storia. La situazione presentata da Roche in Francia negli stessi anni appare un po’ diversa: «[…] la letteratura e lo svago occupano il primo posto con circa la metà dei titoli, gli storici mantengono le proprie posizioni, i teologi e le letture di devozione perdono parte della loro importanza, il diritto arretra e le scienze sono stabili. […] La cosa originale è innegabilmente il posto assegnato alla storia».130 Anche nelle collezioni appena elencate la storia assume una grande importanza: soprattutto si acquistavano testi sulla storia romana e grande interesse era rivolto anche alla storia di altri popoli, così come erano quasi sempre presenti opere geografiche e corografiche. Un discorso a parte merita la collezione del dottor Nicola Tortorelli: essa si dimostra la più vasta in quanto composta da ben 648 volumi ed è oltresì la più dettagliata perché di ogni libro è fornita l’indicazione sul formato. Il dottor Tortorelli, letterato e giureconsulto, colleziona un numero vastissimo di testi giuridici: l’elenco dei libri disposti nel suo studio inizia proprio con cinque tomi del Testo Civile. Il suo interesse si rivolge inoltre a testi sulla storia romana come il De Republica Romana di Candelio in un tomo in ottavo e il De ritibus romanorum di Neuport sempre in ottavo. Ma egli è anche uomo colto che dimostra di non rinunciare a possedere alcuni libri classici: infatti, «ci sono anche dei libri che bisogna aver letto o almeno conoscere.[…] È questo che classifica o squalifica e, tra altri indicatori, rivela le contrapposizioni sociali».131 Lucien Febvre, Henri J. Martin, La nascita del libro, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. XXXVII. Ibidem. 128 François Véron de Forbonnais, Éléments du commerce, 2 vol., 1754. 129 S.A.S.L, Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2642, ff. 22t-23. 130 Roche, La cultura dei lumi, cit., p. 118. 131 Ivi, p. 35. 126 127 164 Federica Elisabetta Triggiani Numerosi testi sono di natura religiosa, come vite di santi, due Bibbie sacre di cui una consistente in un tomo in folio e un’altra in due tomi in quarto; una Storia della Bibbia in folio; due opere di S. Agostino tra cui La Città di Dio in folio e il De civitate Dei sempre in folio; un volume di Lattanzio in ottavo. Alcuni esempi del suo interesse per la filosofia provengono dai libri di Platone, dal De officiis di Cicerone, e da una Vita di Plutarco in quarto. Interessante è la lista di testi di letteratura che affollano questa libreria: la Commedia di Dante in un tomo in sedicesimi, le Epistole di Ovidio in un tomo in sedicesimi, il De remediis utriusque fortunae in un tomo in sedicesimi, le Fabulae di Esopo in due tomi in sedicesimo, una Epistola del Bruni sempre in dodicesimo. Tortorelli mostra di essere appassionato anche di viaggi e di geografia: conserva, infatti, i Viaggi del Valla in quattro tomi in dodicesimo, i Viaggi del Cavalier Patini in un tomo in dodicesimo, alcune guide geografiche e descrizioni di popolazioni diverse. Anche un vocabolario di spagnolo in due tomi in sedicesimo ed alcuni testi in francese dimostrano la poliedricità delle sue letture e delle sue conoscenze. Numerose sono anche le biografie di uomini illustri, orazioni ed alcune curiosità come un Prontuario delle medaglie in un tomo in quarto ed un Trattato del ballo nobile in ottavo. La storia romana è di sicuro uno dei temi privilegiati in questa collezione: molti volumi portano il titolo De Republica romana; un De comitiis romanorum di Gruchii in ottavo e tra gli ultimi libri vengono censiti i «Dell’antiqui iuris consulti stampati dal fu D. Nicola, di più altri quinterni quarantanove del medesimo libro e diecinove quinterni del Parto della Vergine fatto in stampare dal fu D. Nicola»,132 due libri che erano posseduti, come abbiamo già visto, anche dal dottor Filippo Totta. L’amore per la storia di Tortorelli è giustificato poichè egli stesso ha composto un’opera che è stata definita da Ferdinando Villani «un libro in cui prevalgono molti pregi […] un’opera distesa pari a quella che scrisse Cornelio Nepote intorno ai famosi Capitani di Grecia. […] Né vi ha chi non veda la difficoltà dell’impresa, e non calcoli quante fatiche dovette il nostro concittadino sostenere all’uopo, ricercando fonti antichissime per questa specie di storici lavori […]».133 Dai diversi formati possiamo desumere in che modo si leggeva. Infatti «con la stampa e con il moltiplicarsi dei testi, il libro non è più un oggetto prezioso da consultare in biblioteca; sempre più si aspira ad averlo con sé e a trasportarlo facilmente per consultarlo o leggerlo ovunque e in ogni momento».134 Dall’elenco dei testi appartenuti a Tortorelli si evince quello che già R. Ago aveva notato nelle biblioteche romane: gran parte dei testi giuridici e soprattutto decisiones e consilia si presentano in folio mentre «le opere pubblicate di solito in S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. Ferdinando Villani, Per Niccolò Tortorelli. Lettera al sindaco di Foggia, Salerno, stabilimento tipografico Migliaccio, 1874, pp. 4-5. 134 Febvre, Martin, La nascita del libro, cit., p. 98. 132 133 165 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) quarto e soprattutto in ottavo, romanzi, opere letterarie, trattati di divulgazione scientifica, libri di controversie, edizioni di classici latini e greci, rappresentano la maggior parte della produzione stampata».135 Questi formati minori, come anche l’in dodicesimo, si diffondono in quanto leggerezza e praticità erano preferibili per quei libri che venivano consultati con maggiore frequenza, anche se questo tipo di edizioni finiva per incidere sul valore delle opere. Un ultimo aspetto di questa collezione così vasta e completa giunge da un elenco che porta come intestazione «libri proibiti che si devono dare al vescovo».136 La lista è composta da sette volumi che è interessante riportare: «l’Istoria della Chiesa di Selvaggio Cantorani, tomi quattro; l’Istoria Profana di Selvaggio Cantorani, tomi sei; due Biblie proibite in ottavo: Luciani opera omnia, tomi due in ottavo; Iulii pace, tomo uno in ottavo; Satire di Salvatore Rosa, tomo uno in ventiquattro; Laurentii Valla, de donatione Custantini, tomo uno in sedici».137 Come poteva Nicola Tortorelli essere in possesso di testi inclusi nell’ Index librorum prohibitorum? Alcune ipotesi possiamo formularle seguendo l’esempio di una parte delle biblioteche private romane: un secolo prima, infatti, tra i documenti analizzati, R. Ago nota come siano solo due avvocati e un figlio di giudice o avvocato a possedere opere proibite, probabilmente perché essi potevano beneficiare di questo privilegio. Così come accadeva per le leggi suntuarie, anche «[…] l’Indice dei libri proibiti e altre forme di censura possono essere considerate alla stregua di un qualsiasi regolatore del mercato del libro ‘raro’ che […] si costituisce in segmento specifico tra Sei e Settecento».138 Comunque anche in questo campo risultava spesso difficile controllare l’introduzione di libri clandestini nelle varie città, spesso provenienti da paesi come Olanda e Svizzera. Un’ulteriore peculiarità della biblioteca del dottor Tortorelli si ritrova in un documento allegato all’inventario. Si tratta di una scrittura olografa in cui un libraio di Napoli, tale Baldassarre Sardella, su richiesta fattagli dagli eredi, dichiara di aver valutato la biblioteca del dottor Tortorelli per una cifra di trecento ducati. È questa l’unica stima che ci permette di immaginare il valore librario di quegli anni. Dunque una collezione di libri ha sicuramente un valore affettivo se essa è presente tra i lasciti ai propri eredi, ma quando si tratta di un numero così imponente di testi, essa assume anche un importante valore commerciale. Quanto i libri siano realmente utili al bibliofilo o essi vengano collezionati solo per gusto estetico e per ostentare la propria superiorità intellettuale, è difficile capirlo. Le edizioni maneggevoli e l’acquisto di enciclopedie in formati ridotti, Ivi, p. 100. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 137 Ibidem. 138 Maria Pia Donato, Il vizio virtuoso. Collezionismo e mercato a Roma nella prima metà del Settecento, in «Quaderni storici», 115, a. XXXIX (2004), n. 1, cit., p. 145. 135 136 166 Federica Elisabetta Triggiani compendi ed exempla fanno pensare che questi uomini volessero «poter dominare ogni sorta di conoscenza o di sapere, di poter trovare la risposta a ogni genere di interrogativo o di problema»139. Molti libri di certo non saranno stati letti, ma «resta il fatto dell’acquisto e del lascito, e l’importanza data alla proprietà del catalogo si rafforza in virtù della sua legittimazione notarile».140 4.6. Cose preziose Per terminare questo lungo excursus di oggetti che ‘animavano’ le abitazioni e racchiudevano in sé parte del carattere e dell’anima dei rispettivi proprietari, è opportuno esaminare tutte quelle cose rare che alcuni inventari nominano spesso accanto ad altre più comuni. Tab. 19 Oggetti vari Oggetto Campane Cembali Oggetti sacri Scatole Statuette Tabacchiere Candelabri Orologi Spade e armi varie Quantità Oggetto 5 3 24 12 4 25 24 5 8 Calamai Vasi antichi Microscopio Sfera armillare Ventagli Idoli Bastoni Gabbie Mappamondi Quantità 1 27 1 1 2 3 3 3 2 Le tabacchiere sono presenti in sei inventari, ma molti ne possedevano più di una in quanto era «eleganza avere due tabacchiere per separare le qualità diverse per forza e per aroma».141 Esse solitamente erano d’argento, ma ad esempio Nicola Tortorelli ne possiede sette di cui una d’avorio, una di tartaruga, una di radica, una di foglia d’ottone, una di legno nero e una di ferro con cerniera e coperchio di madreperla. La tabacchiera spesso costituiva un dono prezioso, ma è difficile capire se la sua assenza in alcune case dipenda esclusivamente dalla mancata diffusione dell’uso, così come è strano che le pipe non siano citate in alcun inventario. Come è già stato notato per i quadri e per i rosari, anche nei manufatti da esporre su cassettiere e scrivanie la popolazione foggiana si mostrava molto devota. Tutti gli inventari risultano infatti ricchi di crocifissi, reliquiari, urne, acquasantiere Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 209. Roche, La cultura dei lumi, cit., p. 34. 141 Pisetzky, Storia del costume in Italia, cit., p. 205. 139 140 167 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) e statuette di santi. Il dottor Tortorelli possiede inoltre «sei manne di Nicola di Bari e due corone; un’urna con la manna di S. Nicola;142 un braccio d’argento con esequia di S. Donato».143 Leonardo Mazza è l’unico che possiede «cinque campane di vetro chiaro con piedistalli di legno misturati per conservare dalla polvere figure in cera, una contiene S. Giuseppe, altra nostro signore flagellato, frutti e due vuoti».144 Alcune figure di santi in cera si dilettava a comporle la stessa signora Mazza: risulta infatti che la donna adoperasse candele e forbici speciali per decorare mobili con frutti e comporre statuette. Oggetti scientifici e musicali sono meno comuni e si trovano in possesso di coloro i quali disponevano di uno studio e di librerie, quindi principalmente intellettuali: Nicola Tortorelli doveva interessarsi alla scienza, in quanto, oltre a libri geografici, egli possedeva una sfera armillare piccola di ottone,145 due mappamondi e un microscopio. Egli è inoltre l’unico che possa vantare strumenti da scrittura perché in camera da letto è citato un calamaio con piattino d’ottone e, nello studio, una «cartera di noce».146 Nella tabella 19 si riscontrano otto armi, tra spade e diversi tipi di fucile. La spada d’argento, «simbolo per eccellenza dello status cavalleresco»,147 era posseduta non soltanto dalla milizia, anche se il capitano Tortorelli ne conservava diverse: «due spade d’argento, grande e piccola, una spada d’acciaio con manici di filograno; una spada lancia; uno spadino d’argento».148 Un esemplare è posseduto anche da altri uomini, ma notiamo come essi siano appartenenti a classi sociali di un certo livello: si tratta del dottor Filippo Totta, don Ignazio Conte e Nicola Andrea di Peppo. Altre armi erano possedute soprattutto da coloro i quali mostrano di avere la passione per la caccia: tre scoppette ed una carabina venivano utilizzate dal capitano Tortorelli insieme ad alcune panettere,149 mentre Nicola Andrea di Peppo utilizzava «due schioppi per uso di caccia; una panettiera con i suoi stigli da caccia».150 Da ciò si desume che queste due diverse tipologie di armi potevano essere possedute indifferentemente. I candelabri erano naturalmente molto comuni: quelli più semplici erano in ottone mentre quelli in argento di solito venivano correlati da smiccia candele. Collezionare oggetti ricercati sembra essere prerogativa di un solo uomo tra Manna di S. Nicola: è un olio sacro, un liquido trasparente che si raccoglie nella cripta del Santo nella Basilica di Bari. Considerata benefica per guarire le malattie e allontanare i pericoli. 143 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 144 Ivi, Pacileo, prot. 3714, ff. 170-180. 145 Sfera armillare: strumento astronomico per rappresentare i moti dei pianeti. 146 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2610, ff. 119t-123. 147 Ago, Il gusto delle cose, cit., p. 171. 148 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Greci, prot. 2609, ff. 258t-262. 149 Panettere: tascapane. 150 S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, prot. 2645, ff. 471t-474. 142 168 Federica Elisabetta Triggiani quelli esaminati: si tratta ancora del dottor Nicola Tortorelli. Egli tende a distinguersi dagli altri anche grazie ad una scansia di oggetti antichi collocata nel suo studio. La sua passione per la numismatica, che si poteva già intuire grazie al volume Prontuario delle medaglie, è confermata da una «frutteruola di cristallo in cui vi sono 43 monete antiche, grandi, mezzane e picciole; in una particella vi sono quattro monete; dentro una borsa vi sono monete antiche numero 59».151 Oltre ad una serie di vasi antichi di creta e di bronzo, egli dimostra interesse verso curiosità naturali: «un basilisco, un’idra con tre teste, una viperetta impietrita; un pezzo d’ugna della gran Bestia».152 Quest’ultimo oggetto curioso era presente anche nell’inventario del pittore Raspantini redatto a Roma circa un secolo prima: la Ago ci informa che la ‘gran bestia’ dovrebbe essere l’alce. Nelle piccole cose c’è la grande differenza di gusto e di cultura che appartiene ad alcune famiglie e che si manifesta nella scelta di oggetti che le circondano: «statuette di animali, teste di cervo impagliate, corna di bufala. Oppure sono i cimeli orgogliosi della famiglia […] o la tipica mescolanza di armi bianche e armi da fuoco […]».153 Conclusioni Entrare come un’intrusa in casa d’altri per esaminare oggetti e indumenti di uso anche privato, appartenuti a persone sconosciute: è stata questa la sensazione che ho provato quando ho cominciato il mio lavoro di ricerca negli archivi per consultare atti notarili relativi agli inventari di patrimonio. Ma poi, man mano che prendevo dimestichezza con quelle bizzarre grafie e con i termini arcaici usati nel ‘700, mi sono resa conto dell’importanza e del valore culturale di questi documenti. Essi, con semplicità e precisione, hanno registrato nei minimi particolari arredi, corredi e masserizie, permettendoci di riassumere l’immagine di un’epoca e di un luogo. Attraverso lo studio e l’analisi dettagliata di una campionatura di inventari riguardanti diverse classi sociali, conto di essere riuscita ad assolvere ciò che mi sono prefissa nella premessa: far sì che essi, rivisitati da un punto di vista inconsueto, potessero diventare specchio fedele di vita domestica, evidenziando gli stili, i gusti e le abitudini di consumo della società foggiana nel Settecento. Differenze di stile di vita tra i vari strati sociali si evincono a cominciare dalla dimora in cui si viveva e dalla divisione degli ambienti di casa: abitazioni formate da due vani, prive di cucina, e case palazzate che arrivavano fino a dieci Ivi, prot. 2610, ff. 119t-123. Ibidem. 153 Macry, Ottocento, cit., p. 115. 151 152 169 Inventari familiari foggiani del Settecento (II parte) stanze. Non sempre però questa differenza strutturale basta per poter giudicare i proprietari. Sono le cose che affollano quelle stanze a parlarci di loro. L’analisi dell’arredo ha permesso di constatare la differenza tra persone che si accontentavano di mobili per un uso strettamente necessario e quotidiano e famiglie che potevano permettersi di ornare le proprie camere con inginocchiatoi e divani. Molti sono stati i paragoni con epoche e stati diversi: nella Roma del Seicento e nella Parigi pre-rivoluzionaria, ad esempio, lo stile di vita e le esigenze delle persone erano molto diversi. Vestire alla moda o cercare per lo meno di adeguarsi ai cambiamenti stilistici comportava non pochi sacrifici: il tempo del consumismo ci appare davvero lontano. Nessuno desiderava rinunciare a mostrare all’esterno dignità e decoro, e l’abbigliamento apparve il mezzo ideale: i vestiti usati, nuovi o logori, venivano spesso cuciti in casa, rimodernizzati e spesso ceduti come pegni. I bambini non usufruivano di un vestiario specifico, perché essi indossavano vestiti che erano copie di quelli degli adulti. Chi godeva di minori possibilità economiche cercava di stare al passo, imitando ciò che poteva. Il commercio di tessuti influiva positivamente sull’economia locale, ma spesso il richiamo della moda francese portava a richiedere l’importazione di tessuti pregiati stranieri. Perciò gli oggetti più lussuosi erano appannaggio delle classi più elevate, ma tutti dimostrano di non voler rinunciare a possedere almeno una posata d’argento o un gioiello: oggetti semiofori che allo stesso tempo potevano assumere valore sentimentale e valore economico laddove ce ne fosse stata la necessità. Lo scambio monetario e i prestiti erano all’ordine del giorno e con gli oggetti si cercava di fornire delle garanzie di riscatto. Si impegnavano soprattutto abiti, tende, coperte ricamate, ma anche quadri e gioielli. La sfera del collezionismo metteva inevitabilmente in ombra alcune classi sociali. Soltanto i più eruditi e i benestanti possiedono nelle proprie abitazioni librerie ricche di volumi giuridici, di letteratura, di storia, nelle edizioni più disparate e in formati che si adeguassero alle proprie esigenze di consultazione. Non è un caso se gli stessi possessori di testi avevano negli studi anche strumenti scientifici, disposti in modo da attirare l’attenzione di chiunque entrasse nella stanza: si tratta di oggetti inalienabili, il cui compito è quello di trasferire l’immagine di eleganza ed elevato status sociale. Collezionare oggetti antichi e rari significava voler arricchire un ‘tesoro di famiglia’ che sarebbe poi stato destinato agli eredi. L’esistenza stessa di minuziosi inventari dimostra quanto siano importanti i beni materiali per l’uomo. In quegli atti c’è tutta la vita di una persona che, magari con sacrificio, ha accumulato per anni oggetti ed arredi per sé e la sua famiglia. Ma c’è qualcos’altro che la cultura materiale lascia trasparire: paradossalmente sono proprio gli oggetti a dare una fisionomia ed una personalità a chi li ha scelti, così come a volte un oggetto sembra capace di regalare l’immortalità a colui che lo ha posseduto. 170 Federica Elisabetta Triggiani Bibliografia Fonti documentarie ARCHIVIO DI STATO DI FOGGIA. SEZIONE DI LUCERA S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, protocollo 2633, 1752. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, protocollo 2635, 1754. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, protocollo 2637, 1756. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, protocollo 2641, 1760. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, protocollo 2642, 1761. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ricca, protocollo 2645, 1764. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, protocollo 3714, 1756. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Pacileo, protocollo 3722, 1764. S.A.S.L., Atti dei notai, serie I, Ciccone, protocollo 4039, 1763. 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La dimensione territoriale della sostenibilità di Michele Orlando Quando nel marzo 2008, nella città di Vieste1, splendida città in un tempo mitico cara a Diomede, si pensava di esplorare tematiche delicate e dibattute, specie in questo torno d’anni, come quello della dimensione territoriale della sostenibilità e del rapporto profondo fra energie rinnovabili e ambienti urbani, si voleva dar vita ad un vivace confronto, perché si riteneva necessario, in un’area regionale particolarmente delicata come quella del Gargano, dare risposte concrete alle nuove istanze del cittadino in materia di ecosistema e spazi urbani2. Ad ulteriore conferma dell’opportunità e dell’intensa praticabilità di questa scelta tematica stanno le quotidiane richieste, inchieste, articoli, interviste, ecc. dei media, come pure i numerosi convegni provinciali e regionali sulle tematiche della dimensione territoriale della sostenibilità, come quello che si teneva in concomitanza a Bari sul tema Le energie rinnovabili in Puglia. Strategie, competenze, progetti. 1 Il convegno, dal titolo “Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità”, si è tenuto a Vieste (Fg) il 17 marzo 2008, rendendosi indispensabile caratterizzarlo piuttosto come occasione di informazione ed educazione sulle fonti energetiche rinnovabili, sul risparmio e sull’efficienza energetici: un incontro con professionisti e docenti universitari dedicato al sole, grande risorsa della nostra terra, e alle energie rinnovabili (in modo particolare al fotovoltaico e al solare termico). La tavola rotonda è stata promossa da: Assessorato all’Ambiente del Comune di Vieste, Assessorato all’Ambiente e Tutela del Territorio della Provincia di Foggia, Assessorato all’Ecologia della Regione Puglia, Facoltà di Economia dell’Università di Foggia, Ente Parco Nazionale del Gargano, Enea, Enel Progetto “Energia in gioco”, Ordine degli Architetti della Provincia di Foggia, Legambiente, Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale - Puglia, Scuola Media Statale Unica “Dante Alighieri” di Vieste, Fortore Energia S.p.a. di Lucera, Arkingegno - Studio Tecnico Associato di Ingegneria e Architettura di Vieste e Globalenergia di Cerignola. Il programma della serata si è articolato secondo il seguente programma: Prolusioni - Michele Orlando (Scuola Media “Dante Alighieri”, Vieste), Esortazione per una generazione energetica, Pio Pagliaro (Presidente di Globalenergia, Cerignola), La dimensione territoriale della sostenibilità in Italia: alcune considerazioni; Relazioni - Giuseppe Martino Nicoletti (Professore Ordinario, Facoltà di Economia, Università degli Studi di Foggia), Questione ambientale e ambienti cittadini, Vincenzo Ragno (Ingegnere, Arkingegno - Studio Tecnico Associato di Ingegneria e Architettura, Vieste), La questione ambientale tra obblighi e mercato, Gianpaolo Bottinelli (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale, Bari), Energie rinnovabili e qualità ambientale negli scenari urbani, Antonio Salandra (Presidente del C.d.A. di Fortore Energia S.p.A., Lucera), Realtà locali e sviluppo di un sistema energetico sostenibile, Giuseppe Schembri Volpe (Banco di Napoli S.p.A., Gruppo Intesa-Sanpaolo, Vieste), La finanziabilità degli impianti fotovoltaici. 2 Illuminante è la rilettura della prospettiva territoriale e delle determinanti della sua sostenibilità apparsa nel recente volume di Zacharoula S. Andreopoulou, Gian Paolo Cesaretti, Rosa Misso, Sostenibilità dello sviluppo e dimensione territoriale. Il ruolo dei sistemi regionali a vocazione rurale, FrancoAngeli, Milano 2012. 175 Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità Presentando la tavola rotonda, si chiarivano bene le ragioni dell’evento, dal momento che non lo giustificavano né un anniversario, né una circostanza locale o territoriale. La cultura della modernità e l’organizzazione della nostra società sono presiedute da un paradigma globalizzante di crescita, che malgrado tutto si scontra più o meno ogni giorno con i suoi margini rilevanti ecologici, sociali, politici, economici3. Gli indicatori sono consistenti ed erosivi e vanno dall’esaurimento delle risorse alla drastica riduzione della biodiversità, dalle minacciose alterazioni climatiche all’aumento delle sempre più profonde disuguaglianze tra ricchi e poveri, dall’emergere delle nuove guerre della globalizzazione alla crescita del disagio, della precarietà4. La gente a poco a poco comincia a prendere coscienza del passaggio epocale e della necessità di fare delle scelte, spesso dolorose, ma non sa da che parte dirigersi. La partita si gioca anche, o forse soprattutto, su un piano simbolico. Le stagioni dell’umanità sono stabilmente coinvolte da un momento di crescita e da una situazione che è possibile definire di dopo sviluppo, ma che in realtà altro non è che una fine dello sviluppo, un punto d’approdo, che è anche un punto d’arresto, visibile in modo particolare nelle dinamiche culturali che il dogma o, piuttosto, la persuasione nella natura salvifica della crescita economica e nel modello di essere umano e di società a cui faceva riferimento metteva in azione. Si tratta, in fondo, di un cambiamento di paradigma che alcuni hanno cercato di riconsiderare con l’idea di “decrescita”5. Occorre, quindi, tornare a interrogare noi stessi – i nostri modelli di pensiero, i nostri desideri, le nostre aspirazioni – per cominciare a intravvedere una ri-generazione possibile. Ovvero una opportunità per un futuro dopo lo sviluppo. Perché si vuole credere che anche lo sviluppo non sempre si muova nel senso di una crescita, di un progresso e di un sostanziale rinnovamento. Non c’è telegiornale o altro mezzo di comunicazione che non parli dell’innalzamento dei livelli di agenti inquinanti, ma anche dell’aumento della percentuale di energie rinnovabili e degli ardui tentativi di riduzione del consumo di energie non rinnovabili. Dopo che l’Europa sembra prendere davvero sul serio il problema abbracciando obiettivi impegnativi, potrebbe altresì resistere il dubbio sul catastrofismo già conosciuto nel XIX secolo6. Esagerazioni o attendibilità? L’Unione Europea nel 3 Cfr. Giuliano Battiston (intervista di), Zygmunt Bauman. Modernità e globalizzazione, Edizioni dell’Asino, Roma 2009; Lucio Laureti, Economia dello sviluppo e dell’integrazione euromediterranea, FrancoAngeli, Milano 2008; Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione che funziona, trad. di Daria Cavallini, Einaudi, Torino 2006; Carlo Mongardini, Capitalismo e politica nell’era della globalizzazione, FrancoAngeli Editore, Milano, 2007. 4 Vd. Pompeo Della Posta, Anna Maria Rossi, Effetti, Potenzialità e limiti della globalizzazione: una visione multidisciplinare, Springer, Milano 2007; Enrico Del Colle, Disuguaglianze socioeconomiche e livelli di povertà, FrancoAngeli, Milano, 2009. 5 Segnalo qui l’importante volume miscellaneo, Disfare lo sviluppo per rifare il mondo, Jaca Book, Milano, 2005, di studiosi di diversa nazionalità e formazione, un tentativo di affrontare il tema del dopo-sviluppo e i concetti di sviluppo, povertà, bisogni, globalizzazione a partire dal concetto di de-crescita. 6 Cfr. Stefano Casertano, La guerra del clima. Geopolitica delle energie rinnovabili, Francesco Brioschi Editore, Milano, 2011. 176 Michele Orlando frattempo accelera i tempi, sollevando i limiti di riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 20% entro il 2020 rispetto al 1990, oltre ad altre considerevoli misure, che intensificano le energie rinnovabili del 20% e l’efficienza energetica, diventate fondamentali nel disegno delle politiche di sviluppo in Europa, in linea con gli obiettivi focalizzati dal Consiglio Europeo per il 2020. Malgrado ciò c’è chi sostiene che prescrizioni come quelle rivolte alla riduzione del CO2, che sembrano opportune, non soddisfino poi così rigorosamente il loro obiettivo, inquadrate nell’ottica di una politica integrata del clima e della distribuzione delle risorse7. Pensando invece all’Italia nel nostro tempo, non si può non reputare necessaria la propensione a tutte le fonti energetiche rinnovabili, evitando di screditarne alcune per farne emergere altre8. È pur vero che da più parti (giornali, politica, istituzioni) si fanno strada taluni atteggiamenti lobbistici mirati a marginalizzare il ruolo delle rinnovabili. In Italia e nel mondo le energie pulite e un nuovo sistema energetico più sostenibile si trovano oggi in una sorta di situazione stagnante: si dice tanto e di tutto, ma poco si fa per uscire da questa inerzia culturale, per la quale non è più il tempo di usare il fioretto, ma servono coscienziosità, partecipazione responsabile e fruttuosa alla vita pratica dell’amministrazione culturale degli ambienti urbani, posizioni forti e scelte rilevanti. Non possiamo pensare un futuro energetico basato ancora su carbone, su altre fonti fossili e persino sul nucleare9, ultima spiaggia per i detrattori delle rinnovabili. I cambiamenti climatici sono in accelerazione e si rischia sul serio di entrare in un punto di non ritorno. Per fermarsi alla condizione dell’Italia, paziente malato, va ricordato che la precarietà della nostra situazione energetica – bolletta energetica nazionale sempre più elevata, crescente dipendenza dall’estero, obblighi di Kyoto che ormai paiono allontanarsi – impone scelte perentorie, che sostengano tutte le tecnologie solari e le altre rinnovabili (in particolare, eolico e bioenergia), unitamente all’efficienza energetica negli usi finali10. Anche certe strategie transitorie, nell’attesa che le energie pulite siano finalmente predisposte, possono essere pericolose, perché mettono in cantiere pesanti infrastrutture tipiche del vecchio sistema energetico centralizzato, ritardando il passaggio alla generazione distribuita e sottraendo tanto denaro privato e pubblico alle rinnovabili. Solo per rimanere nel campo della produzione di elettricità, fotovoltaico ed eolico restano tecnologie già pronte e possono, anzi devono, ricoprire quote crescenti negli scenari energetici negli anni immediatamente prossimi. Il fotovoltaico, ad esempio, ha tutte le carte in regola per dare un contributo 7 Cfr. Barbara Pozzo, Le politiche energetiche comunitarie. Un’analisi degli incentivi allo sviluppo delle fonti rinnovabili, Giuffrè Editore, Milano 2009; Ermete Realacci, Green Italy. Perché ce la possiamo fare, Chiarelettere, Milano 2012. 8 Per una complessiva ed analitica lettura della disciplina ambientale cfr. Alberto Pierobon, Nuovo manuale di diritto e gestione dell’ambiente. Analisi giuridica, economica, tecnica e organizzativa, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 2012. 9 Cfr. Davide Urso, Nucleare. Siamo bravi, furbi o folli?, FrancoAngeli, Milano 2012. 10 Sugli obblighi di Kyoto vd. Gian Luigi Rota (a cura di), Ambiente, UTET Scienze Tecniche, Torino 2012. 177 Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità significativo nel medio-lungo periodo al bilancio energetico italiano11. L’accusa da taluni versanti di scarso peso del fotovoltaico è smentita dalla sua crescita a livello internazionale. Non esiste nessuna tecnologia altrettanto rapida nel raggiungimento di simili obiettivi, senza creare tra l’altro problemi di accettazione da parte delle comunità locali. Per questo è necessario accettare la sfida. L’iniziativa di Vieste nel 2007 metteva in rilievo il senso politico, pubblico, civile della circostanza, senza rinunciare al suo valore esclusivamente culturale, che non consente, soprattutto in questo settore, chiusure cittadine e provinciali. L’Assessorato all’Ambiente e Tutela del Territorio della Provincia di Foggia e l’Assessorato all’Ambiente del Comune di Vieste ci aveva dato ragione della opportunità di un’azione divulgativa ad ampio raggio, in una realtà regionale delicata proprio nei suoi tratti di ricettività culturale, iniziativa orientata ad avvicinare la gente comune alle tematiche della sostenibilità ambientale attraverso atti concreti e praticabili, per far sì che la sfida di Kyoto permeasse – migliorandole – le nostre vite e le nostre scelte. Quando si pensava a Vieste come sede di tale iniziativa, non si dimenticava il recente dramma dell’estate 2007, che aveva ferito fatalmente l’ambiente naturale, ricchezza primaria per il Gargano. Ma non ci si dimenticava nemmeno che Vieste avrebbe potuto accogliere positivamente questo tipo di scommessa, che è d’altronde un investimento, anche se ancor oggi in misura un po’ troppo occasionale. Informati regolamenti edilizi, certificazione energetica degli edifici, costruzione di una rete di sportelli informativi e adozione di contratti di garanzia dei risultati potrebbero invece facilitarne gli approcci. Sarebbe altresì opportuno presentare bandi per i singoli proprietari di case e per i condomini, per i numerosi hotel e camping, snellire le procedure per ottenere prestiti agevolati anche per ristrutturare le proprie case e ridurre i consumi energetici12. Esistono anche cofinanziamenti della Comunità Europea, che danno particolare attenzione al tema della sostenibilità ambientale, elemento che caratterizza sempre più la qualità degli interventi edilizi. La crescente sensibilità nei confronti della difesa dell’ambiente quale ricchezza primaria per l’uomo ed i correlati mutamenti nelle attese e nelle richieste dei consumatori hanno profondamente influito sui criteri dell’offerta in tutti i settori dell’industria e del commercio, in modo rilevante nel settore del turismo, che, anche in considerazione del costante incremento del bacino dell’utenza e della conseguente necessità di destagionalizzarne i flussi, ha individuato negli ultimi anni nuove forme di offerta sempre più diversificate, qualificate dal rispetto dei canoni della sostenibilità ambientale. L’impatto del turismo su aree di intervento seppur indirettamente coinvolte (beni artistici e culturali, tradizioni locali, artigianato etc.) ne ha accresciuto il peso 11 Cfr. Enrico Cancila, Fabio Iraldo, Strategie per il clima: dalle regioni alle città. Linee guida per lo sviluppo di politiche e azioni di riduzione dei gas serra nel governo del territorio, FrancoAngeli, Milano 2012. 12 Cfr. Elena Marchigiani, Sonia Prestamburgo, Energie rinnovabili e paesaggi. Strategie e progetti per la valorizzazione delle risorse territoriali, FrancoAngeli, Milano 2011; Vittorio Ruggiero, Luigi Scrofani, Turismo e competitività urbana, FrancoAngeli, Milano 2011. 178 Michele Orlando quale fattore di sviluppo con parallelo effetto di trascinamento delle risorse comunitarie13. Nell’ambito dell’Unione Europea, la presa di coscienza degli Stati in materia di emergenza ambientale si è tradotta nell’adozione di una politica ambientale comune e nelle conseguenti direttive che hanno avuto immediati riflessi sulle legislazioni nazionali, avendo compreso una buona volta che l’obiettivo fondamentale di garantire un adeguato livello di sviluppo economico in tutti gli Stati membri non poteva essere disgiunto da altre esigenze sociali, come la tutela dei livelli occupazionali, la promozione di una crescita sostenibile e non inflazionistica, il rispetto dell’ambiente. Non si tratta, di fatto, di punire semplicemente determinati comportamenti nocivi per l’ambiente, ma di puntare ad una maggiore responsabilizzazione degli operatori economici interessati e dei gruppi sociali organizzati attraverso lo sviluppo dell’informazione sulle problematiche ambientali, prevedendo altresì azioni rimuneranti per coloro che rispettano determinati standard ambientali. Tra i settori specifici da osservare con particolare cura ci sono l’industria, l’energia, i trasporti, l’agricoltura e il turismo; settori inquadrati per il particolare impatto che hanno sull’ambiente nonché per il ruolo determinante che possono svolgere in vista del raggiungimento di uno sviluppo sostenibile. Tra questi ci preme soffermarci sul turismo: i programmi comunitari, già nel lontano trattato di Amsterdam del 1997, presentavano alcune nodali linee d’azione, come la diversificazione delle attività turistiche, che consente sia di gestire meglio il turismo di massa sia di incoraggiare forme alternative di turismo; il miglioramento della qualità dei servizi offerti, in particolare per quel che riguarda l’informazione e la sensibilizzazione, la gestione e le infrastrutture di accoglienza; l’azione sul comportamento dei singoli turisti, tramite campagne a mezzo stampa, codici di comportamento e scelta dei mezzi di trasporto. Il programma d’azione della Comunità Europea è certo a favore dell’ambiente, fondato sui principi dello sviluppo sostenibile e di un’azione preventiva e precauzionale. E su questa lunghezza d’onda bisogna far coincidere il ruolo decisivo delle realtà locali nell’attuare le politiche di sviluppo sostenibile, secondo gli intenti e gli obiettivi programmatici su ambiente, economia e società da tempo oggetto del documento di Agenda 21 sottoscritto da più di 170 Paesi nel giugno 1992 nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite tenutasi a Rio de Janeiro. In particolare, per riferirci velocemente alla realtà di Vieste e del Gargano, lo sviluppo sostenibile del turismo pone alla base della propria crescita un piano mirato a garantire la redditività del territorio di una località turistica in una prospettiva di lungo periodo con obiettivi di compatibilità ecologica, socio-culturale ed economica. Spesso noi non diamo pensiero al fatto che la sostenibilità abbia anche un valore di immediato interesse economico: le località turistiche, infatti, devono la 13 Vd. Filippo Angelucci (a cura di), La costruzione del paesaggio energetico, FrancoAngeli, Milano 2011; Manuela De Carlo, Raffaella Caso, Turismo e sostenibilità: principi, strumenti, esperienze, FrancoAngeli, Milano 2007. 179 Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità loro notorietà all’integrità delle bellezze naturali e non tanto o non solo ai servizi che mettono a disposizione all’interno delle singole strutture; se questa integrità si degrada oltre una certa soglia, i flussi turistici sono destinati al declino. Anche nel mondo alberghiero e, più in generale, in quello delle strutture ricettive, le scelte dei turisti, ma anche dei viaggiatori d’affari, prendono sempre più in considerazione il fattore della qualità ambientale. Per questo è fondamentale investire in ambiente, atto che non equivale però all’adozione di politiche e strategie eco-compatibili per dare unicamente la risposta ad una crescente richiesta di un nuovo mercato emergente, come spesso rischia di diventare anche quello delle rinnovabili14. Non si tratta di sbarcare il lunario. La capacità di controllare e ridurre gli impatti ambientali legati all’attività alberghiera è, infatti, un requisito sempre più importante per garantire il mantenimento dell’attività in quelle zone in cui il turismo è fortemente legato ad aspetti paesaggistici o naturalistici; dal punto di vista dell’offerta alberghiera, inoltre, una corretta gestione ambientale permette di ottimizzare alcuni costi, ottenendo risparmi significativi legati alla riduzione dei consumi di energia, acqua e altre risorse e alla minor produzione e smaltimento dei rifiuti. In sostanza, un efficace sistema di gestione ambientale, garantito da continui controlli in materia di rifiuti, di energia, emissioni e consumi, applicato a un’impresa alberghiera (così come a un residence, un villaggio turistico o a un camping), permette di rafforzare la propria posizione di mercato, migliorando la propria immagine agli occhi dell’utenza sempre più attenta all’ambiente. Una corretta gestione ambientale permette infine di gestire correttamente il rischio, accedendo più facilmente a nuove linee di credito. In mancanza di una strategia unica le amministrazioni locali, per migliorare la propria immagine turistica, dovrebbero fare sempre più frequentemente ricorso ai processi di Agenda 21 locale, secondo le indicazioni della fondamentale “Carta di Rimini” redatta in occasione della “Conferenza Internazionale per il turismo sostenibile” svoltasi nel giugno 2001, ai sistemi di gestione ambientale e ai marchi di qualità. Tracciare una fotografia della vivibilità ambientale attraverso un esame ponderato di alcuni parametri fondamentali, dall’inquinamento atmosferico alla mobilità, al traffico, dalla raccolta differenziata al verde urbano, dalla capacità di depurazione all’utilizzo e diffusione delle energie rinnovabili, è un’operazione che riscuote non sempre un immediato consenso, specialmente quando un gamma di parametri considerati minimi per un adeguato livello di sostenibilità ambientale e un modo per poterli raggiungere o almeno per poter far sì che divengano visibili e un po’ più concreti, non viene sistematicamente e coerentemente declinato nel senso di uno sviluppo urbano equilibrato e di un miglioramento complessivo della qualità 14 Sul complesso equilibrio tra redditività economica e sostenibilità ambientale delle attività turistiche rinvio al denso lavoro di Carmen Bizzarri, Giulio Querini, Economia del turismo sostenibile. Analisi teorica e casi studio, FrancoAngeli, Milano 2006. 180 Michele Orlando della vita15. Il risparmio energetico, le rinnovabili, il clima e l’ambiente sono ormai da anni tra gli argomenti centrali della politica globale. E lo dimostrano anche recenti avvenimenti di cronaca. Clima, ambiente, uomo e inquinamento sono sempre più strettamente connessi e sempre più incidono sui modelli di sviluppo16. Modelli che devono, ormai, per forza di cose, fare i conti con gli effetti che precipitano sull’ecosistema planetario. Durante lo svolgimento dell’incontro di Vieste, fiore all’occhiello del Parco Nazionale del Gargano, ci si interrogava se le nostre realtà cittadine avessero presto potuto essere esempio di buone pratiche per ottenere prestazioni ambientali nei singoli settori. In realtà sono le città a determinare, attraverso i modelli di politiche territoriali che propongono, questa o quella buona riuscita. Occorrono dunque volontà e capacità di governo molto più determinate di quelle vigenti, una chiara definizione dei ruoli dei diversi ministeri competenti e dei rapporti tra stato e regioni, tra regioni e realtà urbane, che non sono la periferia dello Stato, ma ne costituiscono il cuore, la macchina motrice. E bisogna altresì cambiare il modo di operare e impostare piuttosto una politica e un quadro normativo nazionale seri, coerenti e di lungo periodo, che stimolino gli investimenti delle imprese e che, al tempo stesso, incoraggino ed accompagnino concretamente la domanda dal basso di queste tecnologie, una domanda che cresce anno dopo anno. All’Italia viene in particolar modo contestato il mancato e tardivo rispetto della legislazione comunitaria sullo sviluppo dell’elettricità rinnovabile e il mancato rapporto sui progressi compiuti nel settore delle energie pulite. Quali sono stati o sono al giorno d’oggi i nostri sforzi, i nostri, vale a dire quelli dei singoli cittadini, asserragliati spesso nelle maldestre abitudini della quotidianità, che non sempre, o quasi mai, mettono l’ambiente e i cambiamenti climatici al centro del proprio agire, proponendo invece con coraggio modelli di sostenibilità e vivibilità integrati con lo sviluppo. Sviluppo che deve divenire quindi, secondo questi modelli, sempre più teso alla sostenibilità e alla tutela delle risorse della nostra terra. Ebbene, capire oggi i processi in corso nei comuni, approfondire le “vocazioni” dei diversi paesaggi, le potenzialità rispetto alle diverse fonti rinnovabili è cruciale per costruire politiche capaci di sviluppare appieno nel territorio questo tipo di impianti. Solare, eolico, biomasse, idroelettrico, geotermia sono, infatti, risorse importanti del territorio italiano ma distribuite in maniera differenziata nelle diverse regioni. Le rinnovabili rappresentano la migliore opportunità per una generazione energetica distribuita, che permetta di rispondere ai fabbisogni dei cittadini. Molti si chiederanno dov’è la strada, quali sono gli obiettivi, quali le vie d’uscita. Rispondiamo: non c’è il cammino, il cammino lo si fa procedendo, ma con intelligenza. Volendo altresì ridefinire il problema della sostenibilità economica ed Cfr. Guido Alfani, Matteo Di Tullio, Luca Mocarelli, Storia economica e ambiente italiano (ca. 14001850), FrancoAngeli, Milano 2012. 16 Sui principali indicatori, indici e modelli per la valutazione della sostenibilità a livello territoriale e di singola organizzazione vd. Paolo Tenuta, Indici e Modelli di Sostenibilità, FrancoAngeli, Milano 2009. 15 181 Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità ambientale secondo una prospettiva diversa e semmai più vicina a noi, possiamo dire che è necessario partire dal basso, dalla promozione, solo per fare un esempio, della qualità dell’abitare17. La promozione della qualità della casa secondo le declinazioni di qualità architettonica, ambientale e tecnica, qualità del servizio, comporta affrontare il tema del risparmio energetico degli edifici, che ci piacerebbe trattare più approfonditamente in altra occasione. Sicuramente occorre fare riferimento ad una serie di princìpi-guida che riguardano il contesto dell’abitare, il manufatto edilizio e più propriamente il suo utilizzo, specialmente in ambito urbano. Tener conto, quindi, di una serie di azioni per la diffusione dei princìpi e dei criteri di una nuova e diversa cultura del progetto edilizio. Inoltre, occorre orientarsi verso norme tecniche armonizzate, rispondenti al sistema esigenziale-prestazionale (così come peraltro già suggerito nella proposta di direttiva europea sul rendimento energetico negli edifici); è necessaria una guida del processo edilizio secondo un approccio sistemico per requisiti prestazionali; urgono garanzie di sostenibilità del manufatto edilizio, quali certificazioni dei materiali che lo compongono, del processo di realizzazione e di gestione del prodotto edilizio; si mostra conveniente un abbattimento dei costi di manutenzione e, soprattutto, di gestione dell’alloggio (costi per il riscaldamento, costi per l’illuminazione, costi della gestione corrente di impianti) a garanzia di una efficace sostenibilità dell’alloggio bioedile18. Detto altrimenti, per poter dare attuazione alla strategia della qualità edilizia occorre promuovere iniziative di ricerca di edilizia sperimentale e, conseguentemente, diffondere i casi di eccellenza per la diffusione di buone prassi, favorire l’applicazione di nuove tecnologie negli interventi di edilizia residenziale pubblica. Il miglioramento della sostenibilità edilizia, riferita ai parametri del risparmio energetico (costi e risorse naturali), deve assicurare una riduzione del consumo di energie non rinnovabili e delle fonti inquinanti; un abbattimento dei costi della gestione corrente degli impianti; garantire la salubrità, il benessere e la fruibilità dell’alloggio; migliorare la qualità dell’alloggio attraverso risparmio energetico; qualità dell’aria indoor; protezione dal rumore e da agenti tossici inquinanti; miglioramento delle prestazioni energetiche dell’edificio; corretto utilizzo delle risorse idriche. Tutto questo potrà essere raggiunto attraverso la promozione di qualità del processo; attenzione alla gestione e manutenzione dell’edificio; riconoscimento economico di accorgimenti materiali e tecnologici volti al miglioramento delle prestazioni dell’alloggio (riscaldamento, ventilazione, uso dell’acqua), con sistemi di certificazioni idonei ad attestare oggettivamente i livelli di qualità raggiunti. Piccoli passi costruiscono il futuro, ma solo con precise scelte sostenibili nella promozione della qualità dell’ambiente urbano19. Cfr. Giuseppe De Micheli, La qualità dell’abitare, Aracne, Roma 2005. Cfr. Camilla Perrone, Per una pianificazione a misura di territorio regole insediative, beni comuni e pratiche interattive, Firenze University Press, Firenze 2012. 19 Rinvio al volume Architettura produttiva. Principi di progettazione ecologica, a cura di M. L. Palumbo, Maggioli Editore, Santarcangelo di Romagna 2012. 17 18 182 Matteo Siena Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865 di Matteo Siena Dopo il plebiscito del 21 e 22 ottobre 1860 che sancì l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno Sabaudo e al riconoscimento dell’Unità d’Italia, seguirono disposizioni legislative promulgate dal governo provvisorio del 31 ottobre circa le elezioni dei deputati in rappresentanza dell’Italia Meridionale nel nuovo Parlamento. Successivamente queste vennero esplicitate con il Decreto del 17 dicembre 1860 che oltre alle modalità introdusse il sistema uninominale maggioritario a due turni (il secondo turno da attuarsi solo con il ballottaggio in caso di parità di voti o di una non ben determinata maggioranza), la suddivisione dei Collegi Elettorali e fissò, inoltre, la data delle elezioni al 27 gennaio e 3 di febbraio dell’anno successivo. Questo sistema di votazione assicurava a ciascuno dei Collegi un suo rappresentante e considerava votanti solo coloro che sapevano leggere e scrivere e che erano titolari di un buon reddito, escludendo così, come avvenne per il Plebiscito, la partecipazione delle donne, degli analfabeti e dei nullatenenti. Quindi questa norma si rivolgeva esclusivamente ad una determinata cerchia di persone e, pertanto, il numero dei votanti era molto ristretto. La ripartizione, poi, dei collegi nelle varie Provincie dell’ex Regno delle Due Sicilie, non seguiva una determinata linea di demarcazione territoriale, bensì il raggruppamento di un certo numero di Comuni con un’equa distribuzione dei votanti. La Capitanata, in base a questo Decreto, venne ripartita in sette Collegi Elettorali e precisamente: 1 – Foggia con i Comuni di Foggia, Troia e S. Marco in Lamis; 2 – Lucera, con Lucera, S. Bartolomeo, Volturara, Volturino, Celenza, Biccari, Roseto e Motta; 3 – S. Severo, con S. Severo, Torremaggiore, Serracapriola e Castelnuovo; 4 – Bovino, con Bovino, Deliceto, S. Agata, Castelfranco, Accadia e Orsara: 5 – Cerignola, con Cerignola, Casaltrinità, S. Ferdinando, Orta, Ascoli e Candela; 6 – San Nicandro, con S. Nicandro, Vico, Apricena, Vieste e Cagnano: 183 Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865 7 – Manfredonia, con Manfredonia, Montesantangelo, S. Giovannoi Rotondo, Rodi, e Zapponeta. A partecipare a questa votazione vi fu, pertanto, solo una minoranza degli aventi diritto e gli eletti di ciascun Collegio furono rispettivamente: Giuseppe Ricciardi (voti 486), Gaetano De Peppo (528), Luigi Zuppetta (463), marchese Rodolfo D’Afflitto (326), marchese Camillo Caracciolo di Bella (474), Carlo Fraccacreta (223) e Ruggero Bonghi (298)1. Negli anni successivi il Parlamento italiano apportò modifiche alle Leggi elettorali e, infatti, a partire dal 1870 aumentò il numero dei Collegi e quello degli elettori ma, successivamente con la riforma elettorale del 24 settembre 1882, il Collegio elettorale divenne plurinominale e vi introdusse la lista degli elettori.. Di conseguenza la provincia di Foggia fu divisa in due collegi. Vieste venne inclusa in quella di Foggia II. Nel 1892 si ritornò al sistema maggioritario uninominale e venne soppresso solo il Collegio di Bovino. Per il Senato non vi erano elezioni, perché i componenti venivano nominati direttamente dal Re. La prima convocazione di questi primi neodeputati avvenne a Torino il 18 febbraio 1861 e in quell’occasione Vittorio Emanuele II si fregiò del titolo di ‘Re d’Italia per grazia di Dio e volontà della nazione’ e venne riconosciuto all’unanimità da tutti i deputati. I primi contrasti fra Nord e Sud avvennero con l’imposizione da parte dei piemontesi del riconoscimento di questa prima seduta come l’VIII legislatura, e non come la Prima del Regno d’Italia: tutto questo perché il Regno di Napoli era ritenuto annesso a quello di Sardegna, mentre i meridionali sostenevano che l’Unità d’Italia, come nuovo Stato, si ebbe col plebiscito, rispondendo alla richiesta «Il popolo vuole l’Italia una indivisibile sotto lo scettro del re costituzionale Vittorio Emanuele e i suoi legittimi discendenti?» e che non vi era alcun accenno al Regno di Sardegna. Questa prima battaglia, purtroppo, non dette un felice risultato e certamente i nostri deputati restarono con la bocca amara, quando videro i loro colleghi dei vari Stati annessi dell’Italia settentrionale associarsi ai Piemontesi. In quel primo Parlamento, a rappresentare il Gargano, vi erano Ruggiero Bonghi, per il Collegio di Manfredonia e Carlo Fraccacreta per quello di S. Nicandro.2 Intanto le mire principali del nuovo Regno erano quelle di occupare Roma per farne la capitale d’Italia. Con l’Unità, ormai, diventava necessario e impellente Melillo Savino, Foggia un’antica capitale, Foggia, Bastogi 2002, p. 147-150; cfr Vocino Michele, Parlamentari Garganici, quaderno n. 2 de «IL GARGANO», Foggia, tip. Cappetta 1953. 2 Il Fraccacreta si dimise e venne sostituito dal principe Michele San Severo di Sangro, che lasciò il Parlamento subito dopo. 1 184 Matteo Siena trasferire la capitale da Torino nella parte centrale della penisola onde poter meglio sorvegliare le sorti del nuovo Stato ed equiparare, anche per senso di giustizia, le distanze fra Nord e Sud. Sulla Questione Romana il Parlamento era diviso: la destra cercava la via diplomatica di intesa con la Francia e quella insurrezionale sostenuta dalla sinistra in collusione con le forze garibaldine, che al grido o Roma o Morte mirava ad occupare Roma con la forza, fermò l’azione militare di Garibaldi in Aspromonte, diretta alla conquista di Roma. Questo per evitare un conflitto con la Francia, con la quale era stata stipulata il 15 settembre del 1864 la Convenzione fra Napoleone III e Cavour di non attaccare lo Stato Pontificio durante il presidio militare francese in Roma. Questo impegno sarebbe durato due anni per dar tempo al governo pontificio di costituire un proprio esercito. Inoltre Napoleone III volle a garanzia che il governo italiano rinunciasse ad occupare Roma con la forza delle armi, e suggerì di trasferire la capitale d’Italia in altra città del centro della penisola. La scelta della sede cadde su Firenze. Ad esultarne furono tutti i membri dei ministeri non piemontesi, mentre scoppiarono proteste e rivolte in tutto il Piemonte e in particolare fra la popolazione di Torino, dove la ribellione venne repressa nel sangue. La capitale a Firenze creò diversi problemi: infatti la città non era preparato ad accogliere la sede del Regno e dovette, quindi espandere il tessuto cittadino per poter ospitare tutta una nuova popolazione, per allestire la sede per il Re, le sedi del Parlamento e del Senato, gli uffici e dare dignitosa accoglienza in nuovi edifici agli impiegati dei vari ministeri e ai deputati. Firenze divenne per un intero anno un grande cantiere, perché il trasferimento vero e proprio della capitale avvenne il 22 ottobre del 1865. Intanto Vittorio Emanuele aveva firmato l’8 settembre il decreto che scioglieva la Camera e contemporaneamente indiceva le nuove elezioni da svolgersi il 22 ottobre e quelle del ballottaggio il 29 successivo. Tutti i collegi elettorali dell’Italia unita si attivarono per preparare subito le liste dei deputati da eleggere per la IX Legislatura. Nel Gargano, per il collegio di S. Nicandro, non si ripresentarono né il Fraccacreta, che si era già dimesso nella precedente Legislatura, né il suo sostituto, il principe Michele Sansevero di Sangro, venne eletto quasi all’unanimità, il presidente della Corte d’Appello, Vincenzo Caccioppo, che alla Camera, pur facendo parte dell’opposizione, diede un valido contributo agli argomenti giuridici. Nel collegio di Manfredonia, invece, vi furono lotte incandescenti fra l’illustre letterato napoletano, Ruggiero Bonghi, deputato uscente, Francesco Prudenzano,3 3 Francesco Prudenzano era nativo di Manduria, ma risiedeva a Napoli dove esercitava la sua professione di bibliotecario e di letterato. 185 Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865 altro napoletano, entrambi filogovernativi, e Pasquale Petrone4 di Vieste sostenuto dalla sinistra. Ognuno cercò di accaparrarsi, in tutti i modi, almeno la maggioranza dei 473 voti disponibili.5 I risultati non soddisfecero nessuno, sia per i 33 voti nulli e sia per i risultati riportati da ciascuno, infatti Bonghi ne ebbe appena 75 voti, il Petrone 122 e Prudenzano 106. Non avendo nessuno conseguita la maggioranza assoluta, i due più votati vennero ammessi al ballottaggio del 29 ottobre. Anche se l’afflusso degli elettori non fu molto significativo, il viestano conseguì la vittoria con lo scarto di 14 voti. Senz’altro questa discrepanza è da attribuirsi principalmente alla poca partecipazione degli elettori, e alla cattiva conduzione della politica fiscale con l’esagerato aumento sulle imposte voluta dai cavourriani, che aveva suscitato, specie nell’Italia Meridionale, un vasto malcontento. E fu questo un trionfo della sinistra che indusse successivamente il nuovo governo a rivedere il problema generale dell’economia. Da canto suo Ruggero Bonghi6 non accettò di buon grado la sconfitta e insinuò allora negli amici del Parlamento che vi erano stati brogli elettorali e, più di tutto, sollecitò quelli di Rodi e di S. Giovanni Rotondo a presentare ricorso, perché sperava nell’annullamento della elezione e di poter poi concorrere ancora. Per due volte l’Ufficio V del Parlamento, preposto a dirimere i ricorsi sulla eleggibilità, convalidò l’elezione, ma nella tornata del 2 marzo 1866, la Camera dei Deputati, dopo un’ampia discussione, sul ricorso presentato da Prudenzano circa una paventata minaccia contro la sua persona e con la costrizione a rinunciare al ballottaggio, dispose la prosecuzione dell’inchiesta, lasciando sospesa l’elezione. Appena, furono acquisite le presunte prove dei brogli, la Camera, il 2 marzo 1866, decretò l’annullamento.7 Rifatta l’elezione con l’intervento di 293 elettori su 473 si ebbe il seguente risultato: Pasquale Petrone con voti 186 e Saverio Baldacchini (che sostituì il Prudenzano) con 86, mentre i voti dispersi furono appena 20 e uno nullo. Avendo il Petrone conseguito al primo scrutinio la maggioranza richiesta, fu proclamato Pasquale Petrone non era il nipote all’arcidiacono Mantuano di Manfredonia come sostiene Antonio Ciuffreda nel suo libro Uomini e fatti della montagna dell’Angelo, Centro Studi Garganici, Foggia, 1989, ma dell’arcidiacono Matteo Nobile di Vieste, filo borbonico, accusato di aver favorito l’ingresso dei briganti a Vieste il 27 luglio 1861. 5 Gli elettori del collegio erano così suddivisi: Manfredonia-Zapponeta voti 154; Monte S. Angelo 112, S. Giovanni Rotondo 76 e Rodi Garganico e Ischitella 131. 4 Ruggero Bonghi, candidato come nel 1861, nei collegi di Lucera, S. Nicandro e Manfredonia, venne clamorosamente battuto in tutti e tre i collegi dai candidati della sinistra. In Appendice sono riportate tre sue lettere accusando in particolare il Petrone. 6 7 In Appendice è riportato anche parte della relazione sull’annullamento della elezione, tratta dall’Archivio Camera dei Deputati - Rendiconti del Parlamento Italiani., sessione del 1865-66, nella tornata del 2 Marzo 1866, pagg. 1160-1164, vol. II. Firenze,1866, pp.1158-1164. 186 Matteo Siena deputato. Il tempo trascorso fra sospensione e nuova elezione, non gli permise di dedicarsi molto all’attività parlamentare. Rieletto ancora a pieni voti il 22 marzo 1867 per la X Legislatura, aderì al gruppo liberale di sinistra di Francesco Crispi e ai sostenitori dell’Eroe dei Due Mondi, come il garibaldino Luigi Miceli e il foggiano Giuseppe Ricciardi. Giuseppe Garibaldi era legato da grande amicizia a Pasquale Petrone, tanto che gli tenne a cresima anche il figlio Nicola.8 Circa la sua attività parlamentare, dagli Atti della Camera, si apprende che il 9 febbraio 1868 prese parte alla discussione del disegno di legge per lavori marittimi, chiedendo la costruzione di un porto a Manfredonia. Il Petrone ebbe a sottolineare il bisogno di tutelare e garantire la sicurezza e la navigazione nell’Adriatico, poiché sul tratto di costa da Manfredonia ad Ancona, non vi era alcun rifugio: «Come voi ben sapete, la dinastia passata (il governo borbonico) deluse sempre le speranze e i voti che si facevano per quest’opera di necessità…Ora però i tempi son cambiati… e io credo che la Camera debba per assoluta necessità provvedere a questo grande bisogno». E in altra tornata ha insistito ancora su questo argomento, chiedendo che venisse almeno Manfredonia inserito fra i porti di IV classe.9 Nel Luglio successivo, nella discussione del progetto di legge per la costruzione obbligatoria delle strade comunali, riportando le lamentele dei comuni di Monte S. Angelo, S. Giovanni Rotondo, Rodi, Rignano, Ischitella, Vieste, Carpino, Cagnano e S. Nicandro, denunciò la cattiva esecuzione con cui venivano costruite le strade consorziali del Gargano e lo scarso controllo della Commissione provinciale.10 Fece parte della Commissione per le Petizioni e in quest’ambito perorò la causa degli agricoltori di Manfredonia, i cui terreni coltivati a cereali furono distrutti dalle cavallette e chiese la sospensione delle tasse sia di ricchezza mobile che quelle di fondiaria per almeno un triennio.11 Il Petrone si distinse in modo particolare nella discussione dello schema di legge per la tassa sulla macinazione dei cereali, voluta dal ministro delle Finanze, il toscano Guglielmo Cambray-Digny, ma già progettata e proposta tempo addietro da Quintino Sella e Francesco Ferrara. Il nostro deputato definì questa legge, come quella «della miseria, diretta a colpire il povero, impopolare, inopportuna, dannosa 8 Dall’amico Pasquale Petrone, parente del deputato, apprendo che Garibaldi donò al suo figlioccio Nicola uno spadino d’oro, che prima di morire l’aveva lasciato alla nipote Giuseppina Medina. Nicola capitano di cavalleria, celibe, morì nel Montenegro (Albania) il 26/06/1910. 9 ARCH. CAM. DEPUT. RENDICONTI DEL PARLAMENTO– SESIONE DEL 1867-68, vol. IV, Tornata del 20 Febbraio 1868, pp.4485-4487. 10 Ibidem. - RENDICONTI DEL PARLAMENTO– SESIONE DEL 1867-68, vol. VII, Tornata del 18 luglio 1868, p. 7401 11 Ibidem - RENDICONTI DEL PARLAMENTO– SESIONE DEL 1869-70, vol. I, Edizione II, Tornata del 14 Dicembre 1869, pp.280-281. 187 Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865 ed infeconda....Questa legge, egli ebbe a sostenere, non potrà che essere sostrato di gravi perturbamenti, e segnare un’epoca deplorevole ai destini del nostro Paese». Dopo aver richiamato i balzelli sulla frutta voluta dal governo vicereale di Napoli e alla reazione della popolazione capeggiata da Masaniello fece constatare che negli otto anni di unità nazionale, le popolazioni meridionali furono gravate sempre da imposte, che con enormi sacrifici ebbero sempre a pagare e soggiunse: «Un ministro di finanza, il quale non si curasse dei bisogni materiali di un popolo, e si ispirasse ai soli principii astratti della scienza, che non si preoccupasse di sapere gli effetti economici, politici e sociali di un balzello, questo ministro riuscirebbe non ben gradevole allo Stato, meriterebbe solo biasimo». E parlando ancora al ministro sottolineò «Le sue previsioni sono un po’ lontano dal vero, sia pei mancati raccolti granarii, sia per la libera estrazione, sia pel cresciuto peso fondiario, sia per la cresciuta mano d’opera per la coltura dei fondi, sia pur anco per l’emigrazione che si fa maggiore di giorno in giorno» e, rivolgendosi poi a tutti i deputati concluse: «Signori, facciamo per poco tacere i risentimenti dei partiti; lo dico a tutti; raccogliamoci sotto la gloriosa bandiera della nostra libertà, salviamo il paese»12 Le sue previsioni sull’applicazione della legge furono esatte, scoppiarono violente manifestazioni specialmente nell’Italia centro-meridionale. Nel mese di giugno del 1870 si ammalò e chiese un mese di congedo, ma non si allontanò da Firenze. La malattia fece anche rallentare la sua partecipazione alla vita parlamentare, tanto che fu costretto a rinunciare al suo intervento sulla legge dell’armamento posta all’ordine del giorno del 20 agosto. Non sappiamo se dopo quella data ebbe modo di ritornare a sedere nella Camera o se la malattia glielo impedì per sempre, perché cessò di vivere il 19 ottobre, senza poter rientrare al suo paese. L’atto di morte venne registrato a Vieste diciotto giorni dopo, il 6 novembre, con la seguente trascrizione pervenuta dall’Ufficio di Stato Civile di Firenze: ‘Provincia di Firenze. Comunità di Firenze. Ufficio di Stato Civile. Estratto dal Registro Atti di Morte dell’anno 1870, numero 2560, Volume A. Petrone Pasquale. L’anno 1870 e questo dì 20 ottobre alle ore 11 e ¾ antimeridiane nel Palazzo Comunale di Firenze, avanti a me Commendatore Brandimarte Saletti, Segretario Generale del Municipio, Ufficiale di Stato Civile delegato con atto del 31 dicembre 1865, debitamente approvato, sono comparsi i signori Dottor Cavalier Luigi Battista, di anni 29, possidente, e Mariani Bardari di anni 33, Ufficiale nella Intendenza Militare, qui residenti, ed hanno dichiarato che alle ore sette e mezzo pomeridiane del dì 19 ottobre corrente nella Casa posta ne Lung’Arno Acciaiuoli al numero 14, morì il signor Cavaliere Pasquale Petrone di anni 4413, Deputato 12 Ibidem - RENDICONTI DEL PARLAMENTO– SESIONE DEL 1867-68, vol. V, Tornata del 21 Marzo 1868, pp.5119-5121. 13 Il Petrone figlio di Gaetano e di Maria Michela Nobile, nacque a Vieste il 30 Novembre 1826 nella casa posta in strada Ripa Petrone (oggi via Gaetano Patrone) e gli furono dati i nomi Pasquale, Domenico, Andrea, Gaetano, Giuseppe. 188 Matteo Siena al Parlamento Nazionale, nato e domiciliato nel Comune di Vieste, provincia di Capitanata, degente in Firenze, figlio del fu Gaetano Petrone e della Signora Maria Michela Nobile, di anni sessantacinque possidente, coniugi già insieme conviventi e domiciliati a Vieste sudetto. Coniugato con la Signora Cherubina Cannone di anni 37, possidente. La morte fu accertata dal Necroscopo Municipale. L’atto presente previa lettura è stato da’ dichiaranti e da me firmato. La presente copia che è conforme all’originale, con cui collazionata concorda, si spedisce al Signor Uffiziale di Stato Civile del Comune di Vieste in ordine a quanto dispone l’art. 1997 del Codice. Dall’Ufficio Comunale di Firenze lì 27 ottobre 1870. L’Ufficiale dello Stato Civile (segue la firma). In una lettera del Sindaco di Firenze al Prefetto di Foggia datata 5 aprile del 1871 si legge: ‘Nel 19 Ottobre 1870 moriva a Firenze il Deputato Pasquale Petrone, al quale furono resi gli onori funebri che gli competevano, ed il cadavere chiuso in doppia cassa di piombo l’interno di legno incatramato l’esterno come a richiesta di alcuni Deputati ed in nome della famiglia tenuto in deposito provvisorio in una cappella attigua alla Parrocchia dei SS. Apostoli in questa città in attesa del decreto Prefettizio di seppellimento in Patria. Decorsi ormai cinque mesi senza che da alcuno sia stato reclamato il cadavere suddetto, il sottoscritto prega la V.a Ill.ma a volere interpellare in proposito i membri della famiglia Petrone affinché venga data conveniente sepoltura alla Salma del loro congiunto. Lo scrivente attende di conoscere con la maggior sollecitudine la deliberazione che farà per esser presa a riguardo, dichiarando che ove fosse di troppo ritardata una replica alla presente, questo Municipio provvederà alla tumulazione del cadavere suddetto nel Cimitero comunale. Il Sindaco f.to Illegibile’. Circa le decisioni da prendere, se trasportare la salma a Vieste o farla tumulare a Firenze, fra un tiro e molla e una fitta corrispondenza fra il Sindaco di Firenze e il Prefetto di Foggia, fra questo e il Sindaco di Vieste e con la famiglia trascorse un anno e mezzo. L’ultima lettera indirizzata al Prefetto del 14 febbraio 1872, inclusa nel Fascio 216/7584 dell’Archivio di Foggia, rammentava alla famiglia Petrone di saldare le spese occorse per il trasporto e la custodia della tumulazione del cadavere e il rimborso al Parroco della chiesa dei SS. Apostoli della somma di L. 141 e concludeva ‘In ogni caso la pregherei a volermi rimettere la replica che dalla prefata famiglia le pervenga, all’effetto di farne quell’uso che apparirà più conveniente per raggiungere l’intento’. Questo faceva prevedere che la storia del defunto deputato non finiva li, ma che doveva esserci ancora qualche altro lungo appendice.14 14 A.S.F., PREFETTUTA DI CAPITANATA, Serie 2, Cat. Unica, Trasporto del cadavere Petrone da Firenze al cimitero di Vieste, Fascio 216/7584. 189 Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865 APPENDICI I 3 LETTERE DI RUGGIERO BONGHI (Estratte da DE GRAZA M., Appunti storici sul Gargano Vol..II, p. 46-47, tip.Caputo Torremaggiore 1930) I Gentilissimo Signor de Grazia – Vi ringrazio delle notizie che mi avete fornito sui voti del collegio. Come negli altri posti i voti per me sono stati molto minori, pare che io non sia entrato nel ballottaggio. Se è così, vi prego di non far uscire il Petrone che ha scritto un programma così ridicolo, da rendere ridicolo il collegio che lo elegesse. Il che se fosse, si dorrebbe, poiché si prese la dignità d’un collegio che ho rappresentato per cinque anni. L’altro almeno non si sa chi sia, e come si troverà solo o quasi solo in Parlamento non potrà farci danno. Ringrazio tutti i miei amici di Rodi. M’adopererò in tutto quello che potrò per voi e per loro come se fossi sempre deputato del vostro collegio. Credetemi. Vostro amico. Ruggiero Bonghi – Belgirate 26 ottobre 1865. II Gentilissimo signor Gaetano de Grazia, - Quest’oggi si è stato scritto da Firenze che l’ufficio, a cui è stato commesso l’esame delle elezioni di Manfredonia, ne propone l’annullamento. Mi par molto probabile che la Camera si conformi al parere dell’ufficio. Ora bisogna che voi tastiate bene il terreno. Se io devo uscire deputato di Manfredonia devo avere una gran maggioranza a Rodi e ad Ischitella, che sono le migliori parti del collegio. Bisogna che vi accertiate quanti elettori potranno questa volta votare per me. Ad ogni modo ciò che dovete proporre non è tanto che riesca io, quanto che abbiate per rappresentante un galantuomo, perché un deputato come quello che vi era toccato, era una vergogna, poteva farvi danno. Ora dovete tentare, se sul mio nome potete raccogliere molti voti, nel caso che non potete, dovete mettervi d’accordo con gli amici di Manfredonia, di S. Giovanni Rotondo e di Montesantangelo, e cercare un altro candidato. In questo caso potete scrivermi liberamente, ed io vi proporrò qualche nome che vi faccia onore e bene. – Parlate di ciò col Saia, col Fiore, col Mascis, col Montanaro e Giordano di Ischitella, col Veneziano ed il De Cata, e con tutti gli amici, e fatemi sapere una risposta. – Non ho più notizie di Valente. Mi sapresti dire dove sia? Amate il vostro Ruggiero Bonghi. – Belgirate 22 novembre 1865. 190 Matteo Siena III Belgirate 30 novembre 1865 – Gentilissimo Signor De Grazia – Ho ricevuto la vostra lettera del 30 ottobre e vi ringrazio soprattutto per l’affetto che mi mostrate. Voglio sperare che sia vero quello che voi mi scrivete, che molti elettori sono pentiti del voto dato il 22 ottobre. Certo di più vergognoso non ne potevano dare, e l’effetto è stato già pessimo per il collegio, giacché potete aver visto che non un solo giornale approva la scelta che esso ha fatto. I miei amici della Camera procureranno l’annullamento dell’elezione, se l’irregolarità, contro la quale si è vigorosamente protestato così in Rosi come in S. Giovanni Rotondo, saranno sufficienti a provare che l’elezione non è stata valida. Quantunque però sia il risultato, la mia gratitudine e la mia stima per voi sarà sempre grandissima. – Salutatemi il Sindaco e tutti gli amici e credetemi Vostro. – Ruggiero Bonghi. II ANNULLAMENTO DELL’ELEZIONE DEL COLLEGIO DI MANFREDONIA (Estratto da RENDICONTI DEL PARLAMENTO ITALIANO Sessione del 1865-66, vol. II Firenze 866) (Omissis) PRESIDENTE Mari. Ha facoltà di parlare l’onorevole relatore. GREC0·CASSIA, relatore. Come la Camera ha rilevato da quest’incidente, trattasi dell’elezione che ebbe luogo nel collegio di Manfredonia, per la quale fu ordinata un’inchiesta. E appunto sui risultati di quest’ inchiesta che io debbo oggi per mandato del I ufficio riferire. Nel collegio di Manfredonia, non avendo alcuno dei candidati ottenute nel primo scrutinio il numero dei voti prescritto dalla legge per la elezione del deputato, fu aperte il ballottaggio fra i due che riportarono il maggior numero di voti, cioè fra il signor Prudenzano Francesco, ed il signor Petrone Pasquale. Seguito il ballottaggio, fu proclamato deputato il signor Petrone, a cui furono dati voti 148, cioè 14 voti più del sue competitore, a cui ne furon dati 134. Portata all’esame della Camera la elezione, vari reclami furono dall’ufficio esaminati. Taluni di essi riguardavano, direi piuttosto, la forma anziché la sostanza. Si osservava essere stati ammessi a votare degli analfabeti mentrechè avrebbero dovuto essere respinti dall’urna elettorale; e che nell’ufficio di una delle sezioni era stato adibito per segretario un individuo non elettore. 191 Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865 Questi appunti non furono reputati tali da invalidare la elezione; di modo che tanto l’ufficio V provvisorio, che allora esaminò questa elezione, quanto la Camera, di essi non tennero alcuna ragione. Però due furono i motivi gravi per i quali fu ordinata la inchiesta. Il primo riguardò un telegramma diretto al vicario di Manfredonia, nel quale fu raccomandata la candidatura del signor Petrone. Avverso questo telegramma fu nientedimeno che lanciata l’accusa di falsità. Il secondo motivo riferissi ad una lettera nella quale il signor Prudenzano, saputo l’esito della prima votazione, rinunziava alla sua qualità di deputato, e pregava gli elettori a dare il loro voto a favore dell’altro candidato signor Petrone. Questa lettera nel reclamo presentato alla Camera dallo stesso Prudenzano venne denunciata non come effetto di una libera e spontanea volontà, ma come l’effetto del dolo, delle minaccie e della violenza. Perciò oggi la Camera dovendo pronunciare il suo verdetto, giusta i resultati che dalla inchiesta si sono ottenuti, tutto lo esame in altro non consiste, se non nel doversi determinare quale grado di fiducia e veridicità possano per avventura quel telegramma e quella lettera meritare. In quanto al telegramma non può mettersi in dubbio che dalla telegrafia di Napoli fu spiccato un dispaccio portante la firma di un certo signor Silvestri, segretario dell’arcivescovo Taglialatela, diretto a Polidoro Ceri, vicario di Manfredonia, nei seguenti termini concepito: Al signor Polidori vicario Ceri. Nostro amico non può andare. Raccomandiamo nipote arcidiacono Nobili. Parlate canonico Zuppetti. Domenico Silvestri. Notisi che dagli atti consta che il nipote dell’arcidiacono Nobili è il siguor Pasquale Petrone. Chiamato monsignor Taglialatela a deporre se mai avesse dato al suo segretario signor Silvestri il mandato di spiccare il telegramma sopra enunciato, dichiarò di non aver dato alcun mandato. Interrogato pure il signor Silvestri, non solo negò decisamente di avere diretto quel telegramma; ma pure, quando fu a lui esibito l’originale esistente nell’ufficio telegrafico di Napoli, soggiunse: ‘Questo non è mio carattere; la firma di Silvestri non é la mia’. Dietro cosi formali e recise dichiarazioni non poteva rimanere alcun dubbio sulla falsità del telegramma; perciò come falso é stato dall’ufficio ritenuto. RICCIARDI. Domando la parola. GRECO-CASSIA, relatore, Relativamente alla lettera con la quale il signor Prudenzano rinunciava alla sua candidatura, è innegabile che il giorno 25 ottobre, vale a dire dopo che si era conosciuto in Napoli l’esito della prima votazione, una. lettera di carattere del signor Prudenzano fu diretta al signor Michele Ungaro, cosi concepita: Gentilissimo signor Ungaro, leggo con mia meraviglia trovarmi in ballottaggio col signor Pasquale Pe192 Matteo Siena trone, del fu Gaetano, in codesto collegio elettorale. Io suppongo che voi, il signor Mozzillo di Manfredonia ed altri amici vostri, che tutti diffondeste con tanta cortesia il mio romanzo storico Viscardo da Manfredonia, avrete scelta e sostenuta la mia candidatura, non conoscendo io altra persona in codesti luoghi. Di tanto onore io ringrazio altamente la vostra bontà e quella dei miei onorevoli elettori, ma io trovandomi impiegato governativo non potrei rispondere all’onorevole appello, ed invece vi pregherei di aggiungere i miei voti a quelli dati al prelodato signor Petrone, uomo onestissimo e provato liberale, il quale, essendo vostro concittadino, conosce i bisogni locali e sosterrà con interesse i vostri diritti. Dopo che avete ascoltato il tenore della lettera sopra riferita, malgrado che mi sia prefissa la maggior possibile brevità, non posso fare a meno di cennarvi le seguenti altre rilevanti circostanze, cioè: Che il signor Petrone prima che quella lettera fosse stata inviata al signor Ungaro, ne ebbe piena conoscenza, sino al punto di averne di suo carattere trasmessa una copia nello stesso foglietto di una lettera da lui scritta ad un suo amico, nella quale gli raccomandava di rendere ostensibile a tutti gli elettori la rinuncia alla candidatura fatta dal signor Prudenzano. Che prima, e durante il ballottaggio, molte copie in stampa di quella stessa lettera circolarono pel collegio elettorale, e che persone apposte all’ingresso del palazzo municipale distribuivano agli elettori quella copia prima che fossero entrati nelle sala per votare; E che il risultato della votazione dovette subire una serie perturbazione per avere molti elettori in tutta buona fede creduto che il signor Prudeuzano non solo avesse rinunciato all’aspirazione di essere eletto deputato, ma che pure avesse data preghiera ai suoi elettori di rivolgere i loro voti a favore del signor Petrone. I sostenitori della elezione non potendo negare l’effetto prodotto dall’asserta rinuncia del signor Prudenzano per tutto il collegio divulgata, vollero fare osservare, che non essendo egli eleggibile per lo impiego da lui occupate, l’essersi, a lui chiesto di rinunciare, per mezzo di una lettera, alla sua candidatura non può costituire un fatto illecito, od indelicato, da dar luogo a censura alcuna. Se l’ufficio si fosse serenamente convinto che la lettera di rinuncia fosse stata ottenuta senza alcun genere di pressione, nulla avrebbe trovato di censurabile. Ma l’ufficio al contrario ha ritenuto che la lettera scritta dal Prudenzano non sia stato l’effetto d’una libera e spontanea volontà. Esso è andato in questa sentenza, perché, tanto dal reclamo presentato alla Camera dal signor Prudenzano, quanto dalle prove, raccolte dall’inchiesta, risultano i fatti seguenti, cioè: che saputosi l’esito della prima votazione, nell’annunziarsi da alcuni giornali il ballottaggio tra il signor Petrone ed il signor Prudenzano, fu costui designato come un candidato del partito clericale. Che la sera del 24 ottobre il signor Battista recossi in casa del Prudenzano 193 Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865 all’oggetto di fargli riflettere che egli non avrebbe potuto assolutamente essere eletto, e quindi indurlo a scrivere ai suoi elettori, acciocché avessero dato il loro voto al signor Petrone; Che la dimane del giorno susseguente, cioè la mattina del 25 il signor Prudenzano fu indotto ad andare in casa del signor Battista, ove difatti essendo andato, trovò varie persone, la presenza delle quali gli fece concepire un certo timore; per lo che egli senza ulteriori osservazioni divenne a scrivere la lettera contenente la sua rinuncia. Che ad impedire che quella lettera avesse prodotto l’effetto di fargli diminuire il numero dei voti in suo favore nel giorno 28 dello stesso ottobre fu da lui diretto un telegramma ad un suo amico del tenore seguente: Al signor capitano Rebecchi, Monte Sant’Angelo - Compatibilità, impiego Prudenzano con nomina deputato. Sostenersi candidatura dello stesso. Francesco Prudenzano; Che conosciutosi l’esito del ballottaggio, il Prudenzano dolentissimo, in data del primo novembre cosi scriveva al suo amico signor Lorenzo Monzillo: Carissimo amico, Sabato mi giunse la vostra grata lettera, e dalla stessa appresi le male arti diaboliche che sonosi costì fatte contro di me per non farmi risultare vostro deputato. Pazienza! A tempi migliori e più sereni questa scelta; ed io ho la coscienza di far bene gl’interessi di codesti carissimi paesi, e di cooperare con tutte le mie forze alla grandezza ed all’unità d’ Italia. Nella vostra lettera voi mi faceste cenno che si faceva costi girare da’miei avversari una mia lettera o rinunzia a tale onorevole mandato. Che lettera? che rinunzia? lo ignoro tutto, ciò, né certo sarei stato cosi villano di rivolgermi con tale rinunzia ai miei elettori che si mostrarono tanto cortesi ed amorevoli con me. Ad ogni modo quando vi capiterà. questa, carta che mi accennate, speditemela per la posta ed io mi varrò della legge per fare annullare l’elezione. E che lo stesso Prudenzano sempre dolente per la toccatagli sconfitta, un giorno dopo che aveva scritto al suo amico Monzillo, un’altra lettera indirizzò a quello stesso Ungaro, a cui fu diretta la lettera di rinunzia del 25 ottobre. Abbiate la pazienza di ascoltare in quali termini è concepita quest’ultima lettera, e poi sarò presto al termine della mia relazione: Pregiatissimo amico, Mi affretto a riscontrare la grata vostra lettera. È impossibile, descrivervi le mille vie che han praticato i fautori del Petroni per riuscire nel loro intento. Io non era più padrone di stare in casa, perché a ogni momento seccato da loro importune visite, pregandomi a rinunciare a favore del Petroni perché atteso il mio ufficio di bibliotecario, non avrei potuto accettare il mandato di deputato. Io adduceva loro le mie buone ragioni, e me ne disbrigava al più presto possibile. La mattina del 25 ottobre mi trovai in casa di un di costoro, perché trattovi con parole melate, per trattare della faccenda, e, come essi diceano, per darmi una preghiera. 194 Matteo Siena Quivi, venni quasi costretto a scrivervi la nota lettera; ma uscito di colà, ve ne scrissi un’altra, colla quale vi pregava a non dar retta a quanto poco prima vi avea detto nella cennata lettera. E dal silenzio che voi mi usate di questa seconda lettera, mi accorgo che non siavi mai pervenuta, perché forse sottratta nella posta di Napoli, o in quella di costà. Ora sento che detta mia lettera siasi fatta anche stampare e dispensare nelle piazze di codesti vostri paesi del collegio. Di ciò sono dolentissimo, e protesto altamente di questo abuso commesso. Io non pensava a cotanto onore: è stata la bontà di tutti voi altri, che mi avete conosciuto pel mio Viscardo, che me l’avete spontaneamente concesso; ma una volta che mi conferivate tal sacro mandato, io non sarei stato cosi villano ed ingrato da rifiutarlo. Vi dico sinceramente che avrei saputo rappresentar bene e coscienziosamente codesti carissimi paesi, ed avrei ad ogni costo procurato il loro bene. Intanto, pregovi rimettermi a rigor di posta quella mia lettera strappatami, ed inviatavi, con la busta, bollata dalla posta, come trovasi, ond’io dassi que’ passi che l’onor mio e la mia morale mi consigliano. Essi hanno abusato della mia bontà; ora è tempo di sostenere il mio decoro. Voi altri, miei buoni amici, fate dal canto vostro quel che vi detta il vostro decoro e la vostra prudenza, per garantire i vostri diritti: io non vi do consigli all’uopo, perché voi siete saggi più di me. Dirò solo che essendo la giustizia e la verità causa comune, tutti abbiamo il dovere di tutelarla. Colla stessa posta riceverete due copie della mia Storia Letteraria, una delle quali io dono a voi, e l’altra all’onorevole signor capitano Rebecchi, che ossequio distintamente. Vi abbraccio, e sono con tutto l’animo, in attenzione di vostro grato e pronto riscontro. Napoli, 2 novembre 1865 Affezionatissimo vostro amico Francesco Prudenzano Voi avete, o signori, colla massima attenzione udito la lettura dei principali documenti, e la esposizione sommaria delle induzioni, per le quali l’ufficio che ho l’onore di rappresentare si è determinato a ritenere che la lettera di rinuncia del 25 ottobre non fu liberamente e spontaneamente scritta. Coloro ai quali hanno sostenuto la elezione del signor Petrone credevano trovare un valido argomento di difesa in talune ritrattazioni che si trovano nei due interrogatorii dal signor Prudenzano subiti, Dico due interrogatorii, perché, uno il signor Prudenzano lo ha subito quando ha dovuto rispondere al magistrato che ha eseguito l’inchiesta ordinata dalla Camera, e l’altro, quando ha dovuto comparire innanzi l’istruttore incaricato d’istruire su di una querela di calunnia e diffamazione contro di lui dal Battista lanciata, per i fatti esposti nel di lui reclamo presentato alla Camera. 195 Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865 Tanto nell’uno, quanto nell’altro interrogatorio il signor Prudenzano ha detto che egli divenne alla lettera scritta in casa del signor Battista, onde sottrarsi dalle voci sinistre, che anche per mezzo della stampa correvano ingiustamente contro di lui; quali voci erano state da lui ritenute come una pressione che volevasi esercitare su di lui. Che le persone da lui trovate in casa Battista furono da lui credute espressamente colà convenute ad oggetto di fargli violenza. E che posteriormente ha conosciuto che quelle persone erano educate; per lo che ha dovuto convincersi che la violenza da lui in quel momento temuta fu l’effetto della sua alterata fantasia. L’ufficio avendo anche voluto aggiustar fede a queste ultime dichiarazioni del Prudenzano, e ritenerle non sospette d’alcun altro genere di pressioni, non ha potuto fare a meno di considerare che esse sono sufficienti tutto al più a togliere qualunque sospetto di colpabilità a carico del signor Battista e de’suoi amici che furono presenti alla scrittura della lettera, ma non mai a far ritenere che il signor Prudenzano, nel momento in cui la scriveva, non avesse per effetto della sua alterata fantasia concepito alcun timore che a lui si avesse voluto usar violenza. Conchiudendo adunque, tanto per la provata falsità del telegramma, quanto per l’alterazione mentale in cui trovavasi il signor Prudenzano quando scrisse la I lettera di rinunzia alla sua candidatura, il I ufficio ad unanimità mi ha dato il mandato di proporre alla Camera l’annullamento, di quest’elezione. Però prima che io lasci la parola debbo dichiarare che io, nel solo scopo di non rendermi prolisso e noioso, ho per sommi capi accennato i fatti, ed i documenti più culminanti dell’inchiesta, ma che sono pronto a dare tutti quegli schiarimenti che mi saranno richiesti dai miei onorevoli colleghi, e specialmente dall’onorevole Marolda-Petilli, il quale è stato colui che ha voluto fare la istanza perché tutte le carte di questa elezione fossero state depositate nella Segreteria della Camera, onde prenderne lettura quei deputati che avessero desiderato maggiori dilucidazioni, ed avessero avuto quella pazienza che ho dovuto avere io, a cui toccò la gran fortuna di aver dovuto digerire i quattro volumi (ilarità) che per la eseguita inchiesta sono stati redatti. PRESIDENTE. Il deputato Ricciardi ha facoltà di parlare. RICCIARDI. Rammenterà la Camera che, quando fu riferita la prima volta quest’elezione, io fui caldo propugnatore della sua convalidazione. Ora, avendo attentamente esaminato nel I uffizio le carte tutte relative all’ inchiesta, ho dovuto mutare opinione, e però io stesso, che avevo, ripeto, proposto la convalidazione dell’elezione, sono stato 196 Matteo Siena costretto a proporne l’ annullamento. Debbo quindi alla Camera ed a me stesso il dichiarare i motivi del mio mutar d’opinione. Signori, io ho avuto, non so se l’onore o la disgrazia, di presiedere in Napoli un comitato elettorale centrale. Scopo di questo comitato indipendente, democratico, ma sempre nei termini del Plebiscito, era quello di sostituire alla maggioranza della passata Camera una maggioranza del nostro colore. La Camera capirà ciò benissimo, e non troverà quindi strano che si mirasse da noi a decapitare la maggioranza passata. (Oh! oh! a destra) Per conseguenza facemmo guerra, anzi tutto, ma guerra onesta, ai capitani, fra i quali certamente annoveravasi il Bonghi. A scavalcare il quale in Capitanata, da me e da alcuni miei amici politici venne proposto il deputato Del Giudice, molto popolare in quella provincia, per esserne stato una volta governatore, sotto Garibaldi, ed un’altra prefetto, durante il Ministero Rattazzi. Sfortunatamente l’onorevole Del Giudice, contro il mio avviso, declinò questa sua candidatura in favore del signor Pasquale Petrone; e questa nuova candidatura attecchì subito nel collegio elettorale di Manfredonia, anzi attecchì cosi bene, da rendere impossibile qualunque altra candidatura indipendente. Il nostro principale scopo essendo, siccome ho detto, quello di scavalcare l’ex-onorevole Bonghi, il comitato mandò la sua parola d’ordine a tutti i comitati filiali, affinché appoggiassero energicamente il Petrone contro il Bonghi. In questo frattempo sorse una terza candidatura, quella del Prudenzano. Io credo che questa candidatura fosse stata messa innanzi dai partigiani del Bonghi per dividere i voti, e far si almeno che il ballottaggio potesse aver luogo fra Bonghi e Prudenzano con esclusione:di Pasquale Petrone. Il fatto però fu tutt’altro, poiché, nel primo scrutinio fu escluso il Bonghi, e rimasero in lotta il Prudenzano e il Petrone. Allora naturalmente il comitato di Napoli fece ogni opera affinché fra il Prudenzano e il Petrone vincesse quest’ultimo, ma, ben s’intende, con mezzi aperti e leali coi mezzi che porge la persuasione, e non già con quelli che possono fornire la corruzione e la frode. Quanto alla lettera, di cui si è menato tanto scalpore, lettera che si dice essere stata scritta dal Prudenzano dietro pressione violenta, io non le do importanza di sorta alcuna, giacché, per la personale conoscenza che ho del Prudenzano, debbo dire alla Camera che è un uomo eccellente, ma di una tal debolezza, che sarebbe capace di scrivere nei sette giorni della settimana sette lettere diverse tutte l’una dall’altra (si ride), cedendo facilissimamente, non dirò alla violenza, ma alla semplice pressione morale di Tizio o Caio. 197 Pasquale Petrone. Deputato al Parlamento Italiano nel 1865 Per conseguenza, qualunque siano state le lettere scritte dal Prudenzano, io non me ne preoccupo punto; mi fa invece una profonda impressione l’affare del telegramma. Signori, l’inchiesta giudiziaria ha provato il telegramma essere falso. Ora da qual parte veniva una tal falsità? Abbiamo l’aforisma giuridico: Is fecit cui prodest. Io non voglio accusare nessuno, non sospettare neppure il Petrone; ma qualche suo amico troppo zelante avrà potuto credere opportuno l’adoperar questo mezzo. Certo è che questo telegramma essendo partito da Napoli il 28 ottobre, vale a dire nella vigilia dell’elezione, ed essendo arrivato a Manfredonia alle due dello stesso giorno, dovette grandemente influire sul risultato del ballottaggio del dì 29, poiché nel telegramma dicevasi, in gergo bensì, ma con abbastanza chiarezza: è inutile votare per Prudenzano, perché è ineleggibile; votate, e fate votar per Petrone. Questo sol fatto, o signori, è bastante, secondo me, a viziare radicalmente l’elezione di Manfredonia; quindi, il ripeto, io stesso, che in altra seduta ne chiesi la convalidazione, ora ne chiedo l’annullamento. Finirò, o signori, col prendere innanzi alla Camera ed al paese un impegno solenne, cioè quello di non presiedere mai più verun comitato elettorale. (Bravo! Benissimo!). Ché anzi, ove mai la presente Camera, fosse sciolta, io direi agli elettori: volete una norma sicura ad avere ottimi deputati? Non cedete alle istanze di coloro, i quali saranno per brigare i vostri suffragi, ma andate a cercare gli uomini veramente meritevoli a casa loro, e non eleggete se non coloro, che non vi domanderanno d’essere deputati! (Bravo! Bravo! Benissimo!) (L’elezione è annullata.) 198 Giuseppe Staccioli e Mario Cassar I saraceni medievali delle località minori della Capitanata di Giuseppe Staccioli e Mario Cassar Quando viene trattata la vicenda dei musulmani di Sicilia trasferiti dall’imperatore Federico II, negli anni 1220 e nei decenni successivi, nella Puglia settentrionale, a quel tempo Capitanata, ci si riferisce quasi esclusivamente ai saraceni che abitarono la città di Lucera. Questa fu interamente a loro disposizione fino al 1300 quando il re angioino Carlo II la prese con le armi, privò i saraceni della loro libertà e li vendette come schiavi.1 Anche i pochi documenti della storiografia araba che ricordano lo spostamento dei musulmani siciliani parlano solo della città di Lucera. Riportano inoltre che, sotto il regno di Manfredi, nella stessa città vi era una corte composta quasi per intero da saraceni devoti e fedeli, anche dal punto di vista della religione islamica.2 Tuttavia dai documenti angioini la situazione risulta più complessa perché una consistente frazione dei musulmani abitò altre cittadine della Capitanata. Queste non sono tutte facilmente individuabili, ma senza dubbio i saraceni le condivisero con le popolazioni cristiane che si vi trovavano in maggioranza. Non presentano problemi di identificazione le località di Stornara e Castelluccio dei Sauri, mentre di altre località più piccole non è rimasta traccia. Si può parlare di presenza saracena in queste ultime solo indirettamente per le notizie riportate nel Documentum de Reparatione Castrorum3 che dettava le servitù e le prestazioni lavorative richieste alle popolazioni cristiane e saracene, sia della località dove si trovava il castello (oppure la domus) da riparare, sia dei paesi nelle vicinanze all’edificio bisognoso di restauro. Quando nell’agosto del 1300 la città di Lucera fu occupata dall’esercito di Carlo II d’Angiò e gli abitanti venduti come schiavi, la stessa sorte toccò anche ai saraceni residenti negli altri centri della Capitanata. Diversamente dalla città di 1 Pietro Egidi, La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, 1912; Julie Taylor, Muslims in Medieval Italy. The Colony at Lucera, Lanham, Lexington, 2003; Giuseppe Staccioli & Mario Cassar, L’ultima città musulmana: Lucera, Bari, Caratterimobili, 2012. 2 Francesco Gabrieli, Storici delle Crociate, Torino, Einaudi, 1987, p. 273. “C’era una città a nome Lucera, i cui abitanti sono tutti musulmani di Sicilia; lì si tiene la pubblica preghiera del venerdì e si professa apertamente il culto musulmano”. 3 Eduard Sthamer, L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia sotto Federico 2° e Carlo 1° d’Angiò. Bari, M. Adda, 1995. 199 I saraceni medievali delle località minori della Capitanata Lucera, dove i saraceni erano la stragrande maggioranza, nei centri minori essi vivevano gomito a gomito con i cristiani creando un ambiente favorevole alla formazione di scambi linguistici con il passaggio di voci, prevalentemente di uso comune, da una lingua all’altra. In questi centri non risulta sia avvenuta una separazione fisica delle due comunità come nella località di Tertiveri (Biccari), dove ad ‘Abd al-‘azīz fu permesso di tenere separati gli abitanti saraceni dai cristiani, in questo piccolo e effimero ‘feudo’ concessogli dalle autorità angioine.4 Questa situazione tuttavia fu alla base di molte contestazioni con i vicini cristiani, e in special modo con i Templari di Alberona, per la cui soluzione dovette intervenire la corte angioina.5 A queste comunità, fondate quasi contemporaneamente alla colonia di Lucera, devono essere aggiunte altre successive alla dispersione della colonia. Queste ultime furono create dopo il 1300 ed erano formate da musulmani che ebbero l’autorizzazione a vivere da cittadini liberi, perciò in condizioni ben diverse da quelle degli abitanti di Lucera, anche se non è chiaro per quali meriti avessero ottenuto questo privilegio. I documenti angioini ne registrano due e cioè il gruppo di ‘Abd al-‘azīz a Foggia e i 200 focularia a Civitate. Queste due località erano già abitate da gruppi di saraceni prima della dispersione della colonia di Lucera, perché, pur non essendo menzionate nel Documentum de Reparatione Castrorum, erano soggette alla baiulatio (complesso delle imposizioni fiscali) della loro popolazione saracena, come risulta nel Documento VIII del 20 Settembre 1284, riportato da P. Egidi nel suo Codice Diplomatico dei Saraceni di Lucera.6 Nel 1935 Riccardo Bevere pubblicò un interessante articolo sulla creazione della comunità saracena di Civitate evidenziando la contraddizione tra questa concessione e la distruzione della precedente colonia di Lucera.7 Fornisce brevi ma importanti informazioni sulla vita e l’integrazione della piccola colonia ma, sfortunatamente, quasi un decennio dopo, i documenti originali nell’Archivio di Stato di Napoli da lui consultati andarono distrutti nel 1943, durante il 2° conflitto mondiale. In mancanza di documenti ufficiali più ricchi di notizie sui ‘saraceni minori’ di Capitanata la ricerca della loro presenza va indirizzata alle influenze linguistiche esercitate sugli abitanti del territorio che siano arrivate fino ai giorni nostri. Queste sopravvivenze si possono individuare specialmente in tre settori e cioè: (1) Voci arabe nei dialetti pugliesi, in particolare quelli dell’ex giustizierato di Capitanata. 4 Pietro Egidi, Codice Diplomatico dei Saraceni di Lucera, Napoli, Pierro e Figlio,1917, Doc. no. 206 p. 78. “non habitent in ipso aliqui cristiani [...]”. 5 Egidi 1917, op. cit. Doc. no. 211 p. 80. “certam quantitatem porcorum dicte domus et hominum Alberone [...] mandasti tuo voluntatis arbitrio arrestari [...]”. 6 Egidi 1917, op. cit. p. 423. 7 Riccardo Bevere, Ancora sulla causa della distruzione della colonia saracena di Lucera, «Archivio storico per le province napoletane», 60, 1935, pp. 222-28. 200 Giuseppe Staccioli e Mario Cassar (2) Cognomi arabi negli elenchi telefonici della Capitanata e dei territori limitrofi. (3) Toponimi di struttura araba o contenenti nomi arabi della Capitanata. 1. Studio delle voci arabe in alcuni dialetti della Capitanata Da un punto di vista generale, per la sua particolare posizione geografica e la sua storia, le voci arabe nei dialetti della Puglia non presentano una origine unica. La maggioranza delle voci provengono dal dialetto siciliano e perciò dall’emirato di Palermo. Seguono quelle attribuibili ai rapporti diretti della regione con le nazioni del Medio Oriente, compreso l’Impero ottomano; quelle derivate dalla trasformazione dialettale delle voci arabe dell’italiano e infine quelle che, per la loro distribuzione geografica particolare, potrebbero essere attribuite o ai saraceni della città di Lucera oppure ai saraceni dei centri minori della Capitanata. Una conseguenza della varietà delle fonti sul lessico pugliese è che i prestiti arabi hanno una età diversa. Quelli più antichi sono quelli siciliani quando sotto i Normanni e gli Svevi la Puglia faceva parte del Regno di Sicilia, mentre sotto gli Angioini, con la separazione della Sicilia dal Regno angioino di Napoli, tale flusso si ridusse. I prestiti più recenti, al contrario, sono quelli mutuati dall’Impero ottomano e dalle voci arabe dell’italiano. In tabella 1 vengono riportate le voci ricavate dalle raccolte lessicali di alcuni dialetti della Capitanata come quelli di Foggia, Lucera, Cerignola e inoltre di altre città legate nel passato alla colonia saracena di Lucera come Napoli e Bari. Sono stati esaminati in particolare, i vocabolari, dizionari e lessici dei dialetti di Foggia a cura di Felice Stella,8 di Lucera a cura di Pasquale Zolla,9 di Cerignola a cura di Luciano Antonellis,10 di Bari a cura di Vito Barracano e di Giuseppe Romito11 e di Napoli a cura di Amato Bruno e Anna Pardo12. Il lessico di queste raccolte non sempre è completato da una etimologia o da una ipotesi per cui alcune voci ‘sospette’, che hanno una assonanza araba, sono state raccolte e corredate con alcune ipotesi interpretative. Riguardo alla tipologia delle voci arabe accolte dai dialetti esaminati esse possono essere raggruppate in gruppi che comprendono rispettivamente le voci caratteristiche di una società musulmana, le novità portate dai musulmani nel settore agricolo e le eccellenze nel campo tessile. Felice Stella, U grusse dizionarje d’a lingua fuggeane, Foggia, Grafiche, 2000. Pasquale Zolla, Parle come t’ha fatto mammete, Lucera, Catapano Grafiche, 2005. 10 Luciano Antonellis, Dizionario dialettale cerignolano. Cerignola, CRSEC, 1994. 11 Vito Barracano, Vocabolario dialettale barese, Bari, Italgrafica Sud, 1981; Giuseppe Romito, Dizionario della lingua barese, Bari, Levante, 1985. 12 Bruno Amato, Anna Pardo, Dizionario napoletano italiano-napoletano, napoletano-italiano, Milano, Vallardi, 1997. 8 9 201 I saraceni medievali delle località minori della Capitanata Al primo gruppo appartengono i nomi delle cariche ufficiali come emiro da amīr, visir da wazīr, facchino da faqīh; di mestieri come magaluffe da ma lūf, zanzane da simsār, zaraffe da arrāf, oppure le forme di saluto come salām ‘alayk o ‘alayk salām. Del gruppo delle voci dell’agricoltura fanno parte arange e marange da nāranğ, mulagnane da bādingān, etc. mentre a quello dei tessuti e oggetti ornamentali appartengono giubba da ğubba, albagio da albāz, ormesine da ormuz, cannacche, da annāka, etc. Prendendo in considerazione l’origine delle voci arabe nei dialetti della Capitanata un primo gruppo di voci è in comune con il dialetto siciliano, che può essere considerato alla base delle voci pugliesi. Tra quelle del foggiano si trova addantà ‘pelle di daino’ che, secondo Caracausi (1994), si presenta anche nel reggino addanti, dante, ‘pelle di daino o cervo conciato in olio’ dall’ar. lam (ah) ‘specie di antilope’. Il verbo arrassà del foggiano e di altri dialetti, è riportato dal Caracausi tra le voci medievali del siciliano provenendo dall’ar. ‘ara a ‘allontanare’ o ‘allontanarsi’. Le voci candusce, candosce richiamano il siciliano cantuscio, presente non solo sull’isola principale ma anche nelle isole minori come Pantelleria, con variazioni di significato da vestito elegante a vestito di tutti i giorni, tutte dall’ar. qa ūš ‘vestito a maniche corte’. Milingiana, forma siciliana di bādinğān, è passata con lievi modifiche sia nell’italiano che nei dialetti pugliesi, come ad es. mulagnane nel foggiano. Esiste tuttavia una forma più vicina alla voce araba cioè ‘petonciano’, entrata attraverso gli scambi commerciali di Pisa e Genova, probabilmente attraverso il turco patlyngan.13 Anche tavute, presente in molti dialetti pugliesi, deriva dal sic. tabutu e, a sua volta, dall’ar. tābūt ‘cassa di legno’. Altri dialetti presentano la forma con epentesi di ‘m’ (tambuto) come il calabrese, il lucano e perfino il pisano medievale. La forma varde per sella è una voce molto diffusa e deriva dal sic. barda, a sua volta dall’ar. barda‘a. Un secondo gruppo, pur avendo voci che somigliano a quelle siciliane, si differenziano perché o derivano da una variante araba oppure sono passate attraverso la lingua turca. Il nome del dolce copeta deriva dall’arabo nel quale si presenta con le due varianti qubbay (a) e qubba (a). La prima che ha il dittongo ‘ay’ o ‘ai’ è alla base della voce siciliana, come risulta nei registri notarili di De Citella ‘cubaydario’, venditore di ‘cubbaita’14. La seconda forma, che ha semplificato il gruppo ‘ay’ in ‘a’, è alla base dell’italiano cupata e delle forme caratteristiche di quasi tutti i dialetti meridionali. Un gruppo di voci indicavano nell’arabo professioni o mestieri importanti o comuni che poi sono stati declassati a indicare attività di rango inferiore e perfino disdicevoli o illegali. Questo è avvenuto in 13 Giovanni Battista Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine, con speciale riguardo all’Italia. Brescia, Paidea, 1972. 14 Sebastiano Rizza http://digilander.libero.it/cultura.popolare/pignola/parole/cupeta.html (pagina di dissertazioni etimologiche in rete): Un atto notarile palermitano del 1287 ci tramanda un ‘cubaydario’, un venditore di ‘cubbaita’, di nome Federico. Pro Frederico cubaydario (not. De Citella I 127, 360). 202 Giuseppe Staccioli e Mario Cassar Puglia e Campania per il faqīh, persona esperta nel diritto islamico e chiamato a dirimere le controversie che, con la dissoluzione della comunità islamica, si è ridotto a fakkine. Un mestiere comune nelle società islamiche era il portatore di acqua o saqqā’ che è stato reso con saccaro in Sicilia. In Puglia il nome è stato sottoposto oltre al degrado del significato (cafone, persona trascurata) anche a variazioni dovute all’etimologia popolare: ‘zaqquare, zacquare’ che richiamano la voce italiana acqua, evidentemente per l’influsso dell’attività esercitata. Anche l’attività di venditore di datteri, tammār, è stata modificata in zambre a indicare un forestiero. Forse il cambiamento legato più ai vizi e ai difetti di chi lo esercitava è zaraffe ‘cambiavalute’ bollato come un truffatore. Un esempio della peculiarità pugliese si ritrova nel trattamento della voce araba nāranğ ‘arancia’. Questa voce già nella penisola iberica aveva generato nelle lingue della penisola la forma regolare narangia e inoltre la forma larangia. In Sicilia la forma araba era stata semplificata per aferesi in arancia che poi si è diffusa in tutta l’Europa. In Puglia si è prodotta una ulteriore forma marangia, marange nella città di Taranto, indicando con ciò che la pronuncia araba era poco chiara già in bocca ai musulmani. La malattia provocata dai grandi sforzi fisici, cioè l’ernia, nel Meridione d’Italia viene indicata con una voce araba che nell’arabo popolare ha la forma wadara che ha dato waddara in Sicilia e nel Salento, mentre si è semplificata in gualla nel napoletano. Da quest’ultima forma derivano la maggior parte delle voci pugliesi, come ualla, gualle, giale, etc. Se si prende in considerazione zurebette potrebbe derivare direttamente dal turco serbet, a sua volta dall’ar. šarrāb ‘bevuta’ ma potrebbe essere una dialettizzazione della voce italiana sorbetto, anch’esso derivato dalla lingua turca. Un terzo gruppo è mediato dall’italiano. Il foggiano albage deriva sicuramente dall’it. albagio (panno grossolano, cfr. orbace), dal lat. albasius, a sua volta dall’ar. al-bazz ‘stoffa di lino o cotone o seta’. Zwawa è l’adattamento arabo del nome berbero delle tribù della Grande Cabilia (Algeria). Durante le guerre barbaresche queste tribù fornivano soldati alle milizie ottomane ma con l’intervento della Francia in Algeria, nel 1830, costituirono un corpo all’interno dell’esercito francese e alcuni di essi arrivarono perfino nell’esercito pontificio. Da questa loro presenza in milizie europee e per il loro abbigliamento caratteristico (ad es. la foggia dei pantaloni) è nato il prestito nell’italiano e nei dialetti. Il foggiano magaluffe mostra una indiscutibile forma araba.15 Secondo Pellegrini era, con ogni probabilità, l’ufficiale della vendita all’incanto il cui nome deriva o da ma lūf ‘giurato’ oppure da ma lūf ‘sostituto’, nome passato poi a indicare la mancia che veniva data al banditore. La voce foggiana deriva senz’altro dalla voce italiana magalufo, che è dovuta, a sua volta, ai rapporti commerciali delle repubbliche marinare italiane con i mercati musulmani del Mediterraneo. Anche katramme è stata mediata dall’italiano in quanto più vicina a questo che al siciliano e all’ar. qa rān. Lo stesso si può dire per le voci bizzeffe, caraffe, talke e altre ancora. 15 Confronta anche il nome di un villano riportato da Cusa 1868-1882: alturūš alma lūf, p. 587b (a. 1145). 203 I saraceni medievali delle località minori della Capitanata Un quarto gruppo comprende voci caratteristiche del regno angioino di Napoli e più specificatamente della Capitanata, che potrebbero essere collegate ai saraceni di Lucera o, in generale, della Capitanata. Tipici della Capitanata e delle zone della dispersione dei saraceni di Lucera sono: mafisce, aggegge, alliccasalemme, aliffe, recone e, forse, baluffe e canzire. Come indica Antonellis per il cerignolano, la voce ‘mafisce’ deriva dall’arabo (popolare) mafīš che etimologicamente significa ‘non qui (è)’, con una costruzione negativa sconosciuta all’arabo coranico. Questa espressione non è riportata da Zolla ma sembra conosciuta da alcuni anziani lucerini, mentre è assente nei dizionari dei due dialetti più importanti prossimi alla Capitanata, il napoletano e il barese. Si trova invece nei dizionari di località piuttosto distanti dalla Capitanata come S. Benedetto dei Marsi (AQ), la regione del Pollino (CS) e anche nel dialetto turrese (Torre del Greco, NA). Nel primo caso si possono fare due ipotesi sulla sua presenza in questa zona interna dell’Abruzzo e cioè che vi sia stata portata dai pastori abruzzesi che, durante l’inverno, migravano nella Capitanata con le loro greggi. La seconda ipotesi prevede che essa sia in qualche modo legata ai Celanesi che per molto tempo resistettero a Federico II e furono perciò inviati per punizione in Sicilia e a Malta, ancora parzialmente musulmane, e in seguito fu loro permesso di ritornare a Celano (AQ). Per quanto riguarda il Pollino, durante la guerra del Vespro, ci furono molte occasioni nelle quali i saraceni, inquadrati nell’esercito angioino, combatterono nella Calabria settentrionale. Nel 1284 si trovavano all’assedio di Scalea soldati e arcieri a cavallo costituiti da saraceni, condotti dai tre cavalieri, sempre saraceni, Musa, Sulayman e Salem.16 Per quanto riguarda il dialetto di Torre del Greco è probabile che la voce derivi dai rapporti commerciali dei marinai e dei commercianti della cittadina napoletana con il mondo arabo. Nonostante che i vocabolari del napoletano non riportino la voce mafisce, nel 1918 a Napoli è stato pubblicato il libro di Emilio Scaglione Mafisce e bizzeffe. L’apparente contraddizione si spiega con il fatto che il libro contiene note e osservazioni formulate dall’autore quando era soldato in Libia, durante la conquista della ‘colonia’. Rappresenta perciò una relazione geografico-storicolinguistica di una società araba e non della società napoletana. Forse dalla lettura di questo libro o dalla esperienza diretta di altri soldati italiani o di italiani vissuti in Libia fino alla loro espulsione di alcuni decenni fa, derivano alcune espressioni presenti in rete che fanno uso del termine ‘mafisce’. Recone è un’altra voce di origine araba, da rukn ‘angolo’ che secondo Reho si ritrova in molti dialetti pugliesi oltre che in Basilicata e in Calabria. In Puglia è presente nei dialetti della Capitanata e nelle città che vanno da Trani a Bari fino a Polignano a Mare (BA). Gli arabisti riportano anche varie forme con l’epentesi di una nasale, come in Spagna (rincon), in Sardegna (arrinnconi) e a Pantelleria 16 Registri Cancelleria Angioina, vol. 27, pt. 1, reg. 119, 355, no. 690. 204 Giuseppe Staccioli e Mario Cassar (rrunkuni) mentre una forma simile, napoletana, potrebbe essere di origine latina. Per quanto riguarda l’Abruzzo e il Molise non si hanno tracce della voce araba. Nel dialetto foggiano si trova la voce aggagge con il senso di amico che potrebbe essere fatto risalire ad un nome proprio arabo che si trovava tra i saraceni di Lucera, cfr. la voce barese mustafà dall’omonimo nome arabo per indicare un ‘volto triste’.17 I documenti della Cancelleria angioina ricordano un Agegius in arabo ağğāğ, dal titolo che un musulmano poteva utilizzare se avesse fatto più pellegrinaggi alla Mecca. A Lucera si trattava semplicemente di un nome proprio perché è quasi sicuro che i saraceni lucerini non potessero adempiere a questo obbligo religioso. Risulta inoltre dai documenti che la famiglia di Agegius, costituita da circa 100 persone, abbia avuto l’autorizzazione a vivere a Foggia non come schiavi o servi ma in libertà e forse da questo gruppo potrebbe derivare questa voce prettamente foggiana. La voce alliccasalemme deriva dalla seconda parte, ‘alayk salām, del tradizionale saluto arabo la cui prima parte recita, salām ‘alayk, nel caso in cui ci si rivolge a una sola persona. È evidente inoltre una reinterpretazione popolare, poiché è stato contaminato dalla voce verbale licca ‘leccare’. Si presenta specialmente nel dialetto lucerino e nel foggiano. La voce aliffe (all’inizio, zero), spiegata da Antonellis con la voce araba alif, prima lettera dell’alfabeto arabo, potrebbe essere una ipotesi plausibile anche perché non esistono alternative credibili. Per esempio il cognome Aliffi, di derivazione araba, significa secondo Caracausi ‘amico’ oppure ‘ingrassato’ e mostra le concentrazioni maggiori in Sicilia, mentre è praticamente assente in Puglia e in Campania. Un’altra voce registrata da Antonellis e da Romito è l’espressione a baluffe ‘assai’, di difficile interpretazione. La sua struttura potrebbe richiamare quella arabo-berbera ‘a bizzeffe’ e potrebbe essere interpretata come un composto della preposizione be +ulūf, quest’ultimo plurale di alf ‘mille’, con il senso complessivo di ‘a migliaia’. Vi potrebbe essere una spiegazione francese: secondo Jean Tosti c’è una voce ‘baluffa’ del francese dialettale che indica il covone di grano o di avena oppure la lettiera della stalla.18 Questa può essere giustificata dalla presenza degli angioini nel regno di Napoli e perciò dei francesi e dei provenzali in Capitanata. La voce canzire si presenta in molti dialetti meridionali e ricorda l’ar. anzīr ‘maiale’: tuttavia il significato non è quello dell’animale impuro per l’islam ma nel foggiano indica l’usuraio. Nel napoletano canzirro presenta altri significati quali Barracano, op. cit., p. 101. Dictionnaire des noms de famille de France et d’ailleurs in: http://www.jeantosti.com/indexnoms.htm. A. Horning 1897, Lat. Faluppa und seine romanischen Vertreter «Zeitschrift fuer Romanische Filologie» 1897, p. 192: Neuprov. balofo, baloho 1 (s. Mistral v. boulofo), lyonn. balouffa, ‘balle du ble’ ist aus der Kreuzung von balle und palouffa entstanden, Ital. luffo (vielleicht aus paluffö verkürzt), Gewirr hat schon Diez mit viluppo in Verbindung gebracht. Zu erinnern ist endlich noch an ital, loppa, ‘Hülse des Kornes’ bei Diez 11% comasc. Iop, ‘pula di miglio, di orzo’. 17 18 205 I saraceni medievali delle località minori della Capitanata ‘bardotto’/ ‘asino’ e, per estensione, ‘bestia da soma/testardo’, ma esistono altri significati come ‘cardellino’ a Grumo Appula (BA). Oltre all’ipotesi araba è stata proposta una derivazione dal lat. chanterius, cavallo castrato-bastardo, di animali come il mulo, nato dall’incrocio di un cavallo con un’asina. 2. Studio dell’onomastica personale Un secondo campo di indagine riguarda l’onomastica di origine araba alla base di cognomi italiani della Capitanata. Una ricerca simile, condotta per i saraceni della città di Lucera, partendo dai loro nomi arabi latinizzati che si trovano nei documenti della Cancelleria angioina, si è rivelata molto fruttuosa. Nel caso dei saraceni ‘minori’, residenti in località della Capitanata differenti da Lucera, vi sono diversi problemi da considerare per non incrociare i cognomi derivati dai saraceni lucerini, presenti nella comunità di Lucera in poche unità, e dispersi anch’essi in tutto il regno angioino. La caratteristica distintiva dei cognomi dei saraceni minori dovrebbe essere la loro permanenza nelle località da essi abitate cioè avere il centro di diffusione (CdD) coincidente con le località o nelle loro immediate vicinanze, avere inoltre una consistenza numerica bassissima, e per la mancanza di un nome latino intermedio, presentare un alto grado di deformazione per l’adattamento all’italiano. È da tenere in considerazione una ulteriore difficoltà che è stato l’arrivo di popolazioni della sponda orientale dell’Adriatico in particolare albanesi e slavi. Pur con questi limiti è possibile ipotizzare che cognomi difficilmente interpretabili con l’italiano, con il dialetto o con le lingue dei popoli transitati sul territorio come greci, tedeschi, francesi, etc, possano avere come base di partenza un nome arabo. I cognomi considerati sono stati confrontati e analizzati con quelli riportati da Caracausi 1994 e da Pellegrini 1972 come anche con le liste dei Diplomi di Cusa 1868-1882. È imputabile al gruppo di saraceni stanziato a Civitate, ma assorbito con l’arrivo di slavi e albanesi, il cognome Catabbo. Si trova in minime tracce a S. Martino in Pensilis e Ururi, attualmente nella provincia di Campobasso, ma nella Capitanata fino al 1860. Il cognome sembra collegato alla radice araba k.t.b. indicante l’idea di scrivere per es. kātib ‘scrivano’, ‘segretario’.19 Con ogni probabilità il cognome deriva da questa voce con cambiamento della seconda vocale, che già in arabo mostra un suono indistinto, nella vocale ‘a’ e con raddoppiamento della consonante finale, come è avvenuto anche per le voci Maometto, magaluffo e salemme. Secondo Ahmed potrebbe derivare anche da a īb ‘incaricato della u ba’ o sermone durante la preghiera del venerdì nella moschea.20 Questo tuttavia sembra Secondo Jeremy Johns, Arabic Administration in Norman Sicily. The Royal Dīwān, Cambridge, New York, University Press, 2002, p. 26, questa carica era presente in Sicilia, luogo di partenza dei saraceni di Lucera. 20 Salahuddin Ahmed, A Dictionary of Muslim Names, London, Hurst & Company, 2009, p. 99. 19 206 Giuseppe Staccioli e Mario Cassar un po’ difficile per le restrizioni imposte fin dall’inizio all’uso della moschea nella comunità. Non molto distante dalle località precedenti, a Campomarino (CB), si trova il cognome Chimisso, di chiara origine araba da amīs ‘giovedì’, cognome presente nel Magreb, in particolare negli elenchi telefonici della Tunisia. Il suo CdD è Campomarino ma, pur presente in Sicilia, vi si trova in tracce. Appena a est del vecchio centro saraceno di Civitate, a Lesina, si trovano diversi cognomi che possono essere spiegati con la lingua araba. D’Apote potrebbe derivare dall’ar.‘abbūd ‘adoratore’ con cambiamenti di vocali e consonanti compatibili con l’arabo medievale, escluso il cambiamento della labiale che però si verifica nei dialetti pugliesi come ad es. sciarappa da sciarabba, Perlingieri da Berlingieri, Apruzzese da Abruzzese, etc. Il cognome può essere spiegato anche con il greco a-potos ‘astemio’; il cognome tuttavia non si trova nella zona pugliese più vocata per i cognomi greci cioè il Salento. Il cognome Buttagnano potrebbe derivare dall’ar. bū ta ān ‘padre del mugnaio’ e, data l’importanza del mestiere, in Sicilia si trovano altre varianti, sia come toponimo, sia come cognome, per es. il cognome Tacamo. Quest’ultimo però non ha la forma di kunia, cioè non si presenta preceduto dalla voce Abū oppure Bū, ‘padre’. Tra i toponimi Caracausi cita Buttagano Nuovo e Buttagana, il secondo dei quali rappresenta una contrada di Marsala (TP). Il cognome Naracci dovrebbe essere la forma assimilata di un precedente *Naranci e perciò la forma più vicina all’arabo nāranğ, mentre la forma tarantina marangia rappresenta un ulteriore esito di nāranğ. Ancora più a sud, a S. Severo, si trova il cognome Arace che si presenta disperso anche nel Sannio (AV). Deriva con ogni probabilità da ā‘rağ ‘zoppo’ che ha dato anche la forma Aragi che si trova in tracce a Bari.21 Il cognome Rummo (dall. ar. rūm ‘romano’, ‘bizantino’), pur con importanti presenze in Capitanata, mostra due CdD più consistenti a Napoli e ad Benevento. Spostandosi a sud di Lucera, nella zona delle piccole località abitate anche dai saraceni, a Carapelle si trova il cognome Ramenno che potrebbe derivare dall’ar. ra mān ‘misericordioso’, in genere inserito nell’ism ‘abd al-ra mān, probabilmente semplificato col passare del tempo, con la perdita della prima parte.22 Lo stesso fenomeno è avvenuto per ‘abd al-salām, nome alquanto diffuso tra quelli registrati da Cusa, che è alla base dei tanti cognomi Salemme nel Regno angioino di Napoli. A Castelluccio dei Sauri si trova il cognome Abazia che, nonostante la vicinanza con la voce italiana abbazia, potrebbe essere connesso con l’ar. abbāz ‘fornaio’. Lo stesso cognome si trova anche a Stornara, altro centro minore abitato dai saraceni, ciò che rafforza l’ipotesi della derivazione araba. 21 22 Confronta Cusa 1868-1882, p. 565 (a. 1145): Yusūf ibn ā‘rağ, villano della Chiesa di Catania. Jeremy Johns, op. cit., p. 316: Abderahmen filius Ali elcurasy. 207 I saraceni medievali delle località minori della Capitanata A Corato (BA), non lontanissimo dalla Capitanata, si trova il cognome Iaferia che potrebbe essere spiegato con il nome di persona Ğafar che, pur presente nei documenti medievali siciliani, non sembra presente come cognome in Sicilia. Eventuali cognomi nell’Alta valle del Fortore, che fino al 1860 faceva parte della Capitanata, posti perciò ad ovest di Lucera e non lontano dalla stessa, potrebbero essere attribuiti sia ai saraceni di Lucera che a quelli di località minori, per esempio di Casal Montesaraceno (FG). Interessante è Vadurro che potrebbe derivare da budūr plurale di badr ‘luna piena’ e che ha subìto inoltre il fenomeno del betacismo. Questo nome è riportato dall’Ahmed, anche se tra quelli femminili. Si presenta in tracce oltre che a Bartolomeo in Galdo (BN) anche a Lucera e a Manfredonia.23 Poco lontano da S. Bartolomeo in Galdo, a Foiano di Val Fortore, si trova con ogni probabilità una variante di Facchino cioè il cognome Facchiano. Anche questa forma può essere spiegata con l’ar. faqīh che ricorda la figura araba esperto del diritto che poteva dirimere controversie giuridiche. In Campania, nella provincia di Napoli, si trova anche il cognome Pacchiano la cui struttura richiama molto da vicino Facchiano. Tuttavia è alquanto difficile che Pacchiano sia alla base di Facchiano, per la mancanza di significativi esempi di passaggio dalla ‘p’ alla ‘f’ e perchè il cognome Facchiano si trova in ammontare maggiore di Pacchiano; se Facchiano si fosse formato invece per un errore anagrafico è alquanto strano che si trovi in zone vicine alla Capitanata e che un suo centro di diffusione si trovi in Val Fortore, nella ex Capitanata. A Ginestra degli Schiavoni, a sud di S. Bartolomeo in Galdo si trova il cognome Manserra che potrebbe derivare dal nome mansūr ‘vincitore’ ma entrato nell’orbita del verbo it. serrare. Ancora più ad ovest, a Pontelandolfo, si trova il cognome Alcorace da al-qurašī cioè il corescita o della tribù di Maometto, che ricorda i nomi di molti musulmani siciliani presenti nei Diplomi di Cusa e, analogamente di altri musulmani, trasferiti nella Capitanata da Federico II. Nella provincia di Avellino, a Calitri, località quasi al confine con la Capitanata, si trova in tracce il cognome Cioffari, dove mostra il suo centro di diffusione. Deriva con ogni probabilità dall’ar. ğa‘far ‘sorgente’, cfr. Ahmed, p. 87. Anche oltre il confine nord della ex Capitanata, ormai all’interno dell’Abruzzo, si trovano cognomi che ricordano i saraceni. Particolarmente interessante è la cittadina di Fara S. Martino (CH) che presenta il cognome Aruffo, probabilmente collegato alla radice ‘. r. f. col significato di ‘conoscere’. In Sicilia sono numerosi i toponimi e i cognomi riconducibili a questa radice mentre nella lingua italiana si può citare tra le altre la voce ‘tariffa’. Pur non potendo escludere che sia una variante di Ruffo si può considerare una variante di Ariffi, col significato di ‘esperto’, ‘maestro’, oppure, secondo l’Oxford Dictionary of Family Names, ‘costante’, ‘perseverante’. Nella cittadina di Atessa si trova il cognome Tumini, variante plurale di Tumino, misura di capacità dall’ar. tumn ‘un ottavo’. Non molto distante, a Casal- 23 Per la presenza del nome badr tra villani siciliani cfr. Johns: MED, p. 248. 208 asan ibn Badr, p. 57. Per budur cfr. AH- Giuseppe Staccioli e Mario Cassar bordino, si trovano ambedue i cognomi prima citati. Un cognome di struttura araba, Moscufo, forse da musqūf ‘tettoia’ si trova nel Molise orientale a Montefalcone nel Sannio e a Castelmauro, ma potrebbe essere collegato con le popolazioni slave, albanesi, probabilmente attraverso il turco. Nella tabella 2 sono riportati altri cognomi dei quali alcuni potrebbero essere il frutto di una assonanza e altri potrebbero essere varianti di forme più conosciute. Tra i primi si può citare Armile a Spinazzola (BA) che ricorda l’ar. armal ‘vedovo’, ma potrebbe derivare dal lat. armilla ‘braccialetto’. Tra i secondi si trova Cafara a Carife (AV) che potrebbe essere una variante di Cafaro ‘infedele’ come anche una variante di Canfora, come forma più vicina all’originale arabo kāfūr ‘canfora’. Le stesse ipotesi e spiegazioni si possono fare per il cognome Cafora, presente sia a S. Severo (FG) che a Napoli. 3. Studio della toponomastica Il terzo campo di indagine cioè quello dei toponimi arabi in Capitanata non si è rivelato molto ricco e soffre della impossibilità di trovare un criterio che distingua i toponimi dei saraceni di Lucera da quelli degli altri saraceni. È logico aspettarsi che i primi possano aver generato un maggior numero di toponimi rispetto ai secondi per il fatto che da un punto di vista numerico i saraceni di Lucera erano in numero molto maggiore dei saraceni ‘minori’. I toponimi costituiscono quasi sempre nomi di masserie o di altre proprietà derivate con ogni probabilità, dalla consuetudine delle Curie sveva e angioina di ricompensare con beni materiali, anche se suscettibili di essere ripresi dalla stessa Curia, i meriti militari e anche civili dimostrati dai saraceni di Lucera. Nelle vicinanze della vecchia città di Civitate si trovano: Masseria Saracini, Masseria Zezza e Zezza (probabilmente da Zizza, a sua volta dall’ar. ‘azīza’ ‘preziosa’, a Campomarino (CB) e Masseria Saraceno e inoltre la Masseria Saracini a S. Martino in Pensilis, sempre nella provincia di Campobasso. Nella località S. Croce di Magliano, secondo Masciotta si trova il feudo La Cantara che potrebbe derivare il nome dall’ar. qan arah ‘ponte’.24 Per quanto riguarda le cittadine a Sud di Foggia secondo Antonellis si trovano un toponimo Cafijre e due masserie Cafre, evidentemente da Cafiero e Cafaro, ambedue col significato di ‘infedele’ e una masseria Zezze. Nell’alta Val di Fortore si trova Mossuto dall’ar. mas‘ūd ‘felice’, ‘fortunato’, anche nome di persona. 24 Giambattista Masciotta, Il Molise dalle origini ai nostri giorni, Cava dei Tirreni 1952, IV, p. 427. 209 I saraceni medievali delle località minori della Capitanata Discussione Dall’esame dei tre tipi di onomastica si ricava che quella più interessante è quella delle voci arabe entrate nei vari dialetti pugliesi in quanto il prestito arabo viene confermato non solo dalla sua struttura, ma anche dal significato. La presenza delle voci arabe nel territorio storico della Capitanata, prima della sua soppressione e del suo smembramento nel 1860, risulta più alta nelle località minori abitate dai saraceni che nella stessa città di Lucera. Questa contraddizione è dovuta allo spostamento dei musulmani venduti e alla damnatio memoriae condotta in maniera sistematica su quanto li ricordasse nella loro città. Tra le voci più frequenti riferibili alle relazioni sociali abbiamo alliccasalemme piuttosto che salamelecche, dimostrando una conoscenza approfondita dei rapporti sociali quotidiani dovuti a una frequentazione integrale. Ma la voce più specifica è mafisce che richiama una vita a stretto contatto e una conoscenza dell’espressione volta a levare ogni dubbio durante una discussione con un musulmano. Reho, studioso del dialetto di Monopoli, ma in pratica anche degli altri dialetti pugliesi, non riporta tale espressione, sia per i dialetti a Sud di Bari, che per quelli a Nord della stessa città. Le presenze al di fuori della Capitanata, in Abruzzo e nella Calabria settentrionale, sono compatibili con i rapporti della Capitanata prima e dopo la dispersione dei saraceni di Lucera. Con questa voce si nota un fatto insolito: nonostante sia assente dai lessici di molti dialetti, per es. a Napoli, il popolo in alcune occasioni sembra conoscerla. Per esempio in una Spotlive Community il giorno 28.01.2011 si trova la seguente espressione: ‘ricorisce per la romisce. Ed è subitisce mafisce’. Secondo Giuseppe Tuccio, nel suo Dizionario siciliano in rete, ‘mafisci’ è presente anche in Sicilia e mostra, senza dubbio, la stessa origine e lo stesso significato di mafisce. Non dovrebbe avere fondamento quanto viene talvolta riportato in rete per la voce barese masci e cioè che derivi dall’ar. mašī ‘andare’ in quanto essa potrebbe essere ricondotta al verbo latino ire o gire che, a Bari e nei dialetti a nord di Bari si trasforma in scire, come per esempio a Molfetta, dove sciarra deriva da giarra ‘grande coppa per l’olio’ e scenucchie da ginocchio. 25 La voce recone secondo Reho mostra una grande diffusione ma in Capitanata ha una sfumatura che ricorda l’attività economica più importante dei saraceni, cioè l’agricoltura. Essa designa infatti un particolare terreno coltivabile che si forma nel letto di un fiume in seguito a piogge torrenziali. La voce canzirro, originariamente ‘maiale’, mostra un significato traslato come se col nome dell’animale impuro dei musulmani si volesse esprimere un giudizio di disapprovazione e anche un giudizio morale sul comportamento delle persone e degli animali. Per quanto riguarda l’onomastica personale, Bevere nel suo articolo sulla nascita della comunità dei saraceni liberi di Civitate riporta anche qualche accenno sui 25 Rosaria Scardigno, Nuovo lessico molfettese-italiano, Molfetta, Mezzina, 1963, pp. 449–456. 210 Giuseppe Staccioli e Mario Cassar fuochi del 1638 e del 1642 a S. Paolo Civitate.26 Dopo più di 300 anni dalla costituzione della consistente comunità saracena, alcuni nomi in italiano alludono ad alcune caratteristiche fisiche e razziali della popolazione perchè nel 1638 si ricordano una Calia Saracina, una Laura e una Argentina Negre come pure, nel 1642, di una Albenzia Negra. È interessante notare che il cognome Saracina si trova ancora, anche se in tracce, in questa zona della provincia di Foggia e precisamente a S. Marco in Lamis. L’elenco dei cognomi di probabile origine araba raccolti nella ex Capitanata e riportati in tabella 2, non si presta a classificazioni né con le regole onomastiche italiane né con quelle dell’onomastica araba. Essi si presentano in maniera casuale in conseguenza del differente criterio di raccolta utilizzato per i saraceni ‘minori’, per la mancanza dei nomi base latinizzati della cancelleria angioina. Per i saraceni di Lucera, al contrario, hanno giocato un ruolo fondamentale i nomi caratteristici presenti nei documenti angioini. La stessa Cancelleria, almeno in un caso, fa riferimento ai saraceni ‘minori’, quando parla di un certo Amir Sturnara, con ogni probabilità portato alla Fortezza di Lucera insieme ai suoi compagni di Stornara, nell’Agosto del 1300 e in vendita a Ruvo (BA) nel febbraio del 130127. La ricerca di un eventuale cognome dovuto al nome del saraceno non è risultata positiva né per Sturnara e neppure per Stornara, mentre al nome Amir potrebbe corrispondere il cognome Amiri, presente in Sicilia, in Alta Italia e nella provincia di Latina. Mentre gli Amiri siciliani sono più logicamente da attribuire ai musulmani di Sicilia e quelli dell’Alta Italia alle migrazioni interne, quelli al confine tra la Campania e il Lazio potrebbero aver avuto origine anche dai saraceni minori della Capitanata. Volendo ciò nonostante tentare una classificazione di carattere generale si può cogliere una maggiore libertà nella scelta dei nomi, che risultano un po’ innovativi rispetto a quelli standard riportati da Cusa e dall’Egidi. È interessante l’uso dei diminutivi, anche se essi esistevano, pur pochi, nella nomenclatura precedente; nuove forme, come ad esempio il plurale budūr invece di badr ‘luna’, quest’ultimo cristallizzato in ism del tipo Badr ad-dīn ‘luna della religione’; le forme popolari come Ramen invece di Ra man e forme come Chimisso (di Campomarino CB) che schiudono nuove interpretazioni perfino per alcuni nomi di saraceni di Lucera quali Camis e Hamissi. Per quanto riguarda la toponomastica essa non presenta elementi che permettano una differenziazione dei due gruppi di saraceni della Capitanata. Come era prevedibile il numero dei ‘ricordi’ attribuibili ai saraceni ‘minori’ non sono stati così numerosi come quelli dei saraceni di Lucera, essenzialmente per il numero ridotto dei saraceni ‘minori’ rispetto al numero di quelli lucerini. Dai dati raccolti da Bevere si può ipotizzare che i saraceni di Civitate fossero non molto al di sotto di 1000 unità e perciò che il totale dei saraceni non lucerini corrispondesse a circa 1000 persone. Dagli studi di Egidi sui saraceni lucerini si ricava che il numero dei saraceni venduti come schiavi fosse circa 10.000 individui. 26 27 Bevere, op. cit., pp. 222–28. Egidi 1917, op. cit., doc n. 455, p.216: [...] Amir Sturnara, Gunia cognata eius, [...] sunt infirmi. 211 I saraceni medievali delle località minori della Capitanata Da questi dati deriva che il rapporto è circa un decimo e che la sopravvivenza dei saraceni minori sia stata perciò più difficoltosa e l’individuazione dei loro ricordi sia di conseguenza più difficile. Da un punto di vista generale si osserva che alcune voci arabe sono entrare nei dialetti adiacenti alla Capitanata mentre la dispersione dei cognomi di struttura araba, più legata allo spostamento fisico delle persone, sembra fermarsi al confine della Capitanata, con l’esclusione delle zone di vendita dei saraceni di Lucera sia nel centro e nel sud della Puglia, come in alcune zone della Basilicata e inoltre a Napoli e la sua costa tirrenica. Per quanto riguarda il territorio campano compreso tra Capitanata e la provincia di Napoli si rintracciano di conseguenza pochi cognomi arabi o addirittura nessuno, mentre si fanno più frequenti quelli di origine francese o provenzale e perfino turca (probabilmente per mediazione albanese) come ad esempio il cognome Ucar a Ariano Irpino (AV). Conclusione La ricerca dei saraceni ‘minori’, cioè dei saraceni sparsi in Capitanata in località meno famose della città di Lucera, condotta per mezzo dell’onomastica utilizzando sia i prestiti arabi nei dialetti, sia l’onomastica personale, sia la toponomastica, ha permesso di individuare voci, cognomi, e toponimi attribuibili proprio ad essi. Le influenze linguistiche sono più frequenti nelle zone indicate come loro sedi dai documenti angioini mentre tendono ad diminuire fino ad annullarsi più ci si allontana dal territorio della Capitanata storica. I dati evidenziano una concentrazione importante dei ricordi saraceni nella zona nord-est della ex Capitanata, il che conferma che il gruppo più numeroso è stato quello di Civitate, disperso dalle vicende storiche o inglobato nelle popolazioni albanesi e slave arrivate in Italia. A queste loro vicissitudini vanno aggiunti fenomeni naturali sfavorevoli come terremoti e allagamenti che hanno costretto ad abbandonare la sede di Civitate, come anche le scorrerie turche e barbaresche sul litorale adriatico. La Capitanata del Nord risulta più ricca di cognomi di origine araba mentre in quella meridionale si sono conservate le voci più comuni riconducibili alle relazioni sociali in una società musulmana. La Puglia ha sperimentato il passaggio o l’arrivo di altri popoli in particolare delle sponde orientali dell’Adriatico ma di essi è sopravvissuto molto di più perché sono stati ben accolti dalle autorità centrali del Regno di Napoli e dai vari feudatari allo scopo di ripopolare paesi spopolati o per creare nuovi insediamenti. Prendendo in esame gli Albanesi, sono numerosi le vestigia e i segni ancora vitali ai nostri giorni e lo stesso si può dire per i provenzali venuti in Capitanata ancora prima della soppressione della città di Lucera. La consistenza relativamente ridotta delle comunità musulmane, le differenze e perfino la contrapposizione dei due tipi di civiltà non hanno favorito una loro pacifica convivenza, anche da un punto di vista ideologico 212 Giuseppe Staccioli e Mario Cassar e religioso. Ciò nonostante, nella zona di Civitate, dopo 300 anni dall’insediamento loro accordato, essi erano ancora fisicamente e culturalmente riconoscibili. Sommario I saraceni di Sicilia spostati da Federico II in Puglia nei decenni 1220–1240 costituirono la maggioranza degli abitanti a Lucera mentre si trovarono in minoranza nelle altre località della Capitanata loro assegnate come, ad esempio, a Stornara, Castelluccio dei Sauri, Civitate, etc. In questo studio sono state ricercate le tracce lasciate dai saraceni delle piccole località della Capitanata attraverso l’onomastica, in particolare le voci arabe presenti nei dialetti, l’onomastica personale e i toponimi. È stato possibile individuare dei marker o indicatori della presenza saracena specifici della Capitanata. Rivestono un ruolo importante le espressioni mafisce e alliccasalemme e le voci aggegge e canzirro che richiedono una stretta contiguità tra le popolazioni arabe e quelle cristiane con inevitabili passaggi di parole da una lingua all’altra. Nel campo dell’onomastica personale sono interessanti i cognomi Chimisso, Apote, Buttagna, Ramenno, Facchiani, più o meno modificati rispetto all’originale arabo. Per quanto riguarda i toponimi essi derivano dall’onomastica personale e sono localizzati con maggiore frequenza nella zona della dispersione della comunità musulmana di Civitate. Abstract Medieval Saracens in the Minor Localities of Capitanata The deportation of Muslim Arabs from Sicily and Malta to Apulia at the time of Frederick II led to the creation of the colony of Lucera, which lasted from ca. 1224 until 1300, the year of its dramatic suppression by Angevin forces. These Muslim immigrants, however, inhabited other minor localities in the Capitanata region. Whereas the colony of Lucera has been the subject of several studies, the presence of Saracens in other places has been largely ignored. In the absence of historical documents, relevant research can be carried out through the scrutiny of Arabic loanwords still present in the dialects of Capitanata, the surnames of Arabic origin, as well as the toponyms of Arabic structure in the same region. The Arabic loanword mafisce ‘nothing’, is particularly enticing, whereas the surnames Catabbo and Rameno, located in places other than Lucera and the places where Muslim Arabs were sold into slavery in 1300, have significant importance. Arabic records are more frequent in North Capitanata, in agreement with Angevin documents which confirm that Civitate was the most important centre of Muslim activity among the minor ones. 213 I saraceni medievali delle località minori della Capitanata BIBLIOGRAFIA Ahmed, Salahuddin. A Dictionary of Muslim Names, London, Hurst & Company, 2009. Antonellis, Luciano. Dizionario dialettale cerignolano, Cerignola, CRSEC, 1996. Barracano, Vito. Vocabolario dialettale barese, Bari, Italgrafica Sud, 1981. Bevere, Riccardo. Ancora sulla causa della distruzione della colonia saracena di Lucera, «Archivio storico per le province napoletane», 60, 1935. Caracausi, Girolamo. Dizionario onomastico della Sicilia, Palermo, L’Epos, 1994. Cusa, Salvatore. I diplomi greci ed arabi di Sicilia, I. Palermo, Lao, 1868–1882. Egidi, Pietro. La colonia saracena di Lucera e la sua distruzione, Napoli, 1912. Egidi, Pietro. Codice Diplomatico dei Saraceni di Lucera, Napoli, Pierro e Figlio,1917. 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Tosti < fr. ‘baluffa’, balla o lettiera BARESE baluffe (da Romito Giuseppe) ARABO alūf ‘migliaia’ plurale di alf ‘mille’ addantà ‘pelle di daino’ lam a ‘daino’ aggagge ‘amico’ ağğāğ ‘chi ha fatto due o più pellegrinaggi alla Mecca’ albage ‘panno, tessuto di lana’ al-bazz ‘tessuto’ aliffe ‘all’inizio, ‘zero’ Secondo Antonellis da alif 1a lettera dell’arabo alleffà ‘lisciarsi’ laffa ‘avvolgere’ alleffà al-amīr ‘emiro’ > gr. amiràs arrassà arzanà ‘arsenale’ arzenale albagio, orbace alif 1a lettera dell’alfabeto arabo almerande ‘ammirante’ arrassà darrasse ITALIANO arrasse rassusia ‘arasa ‘separarsi’ dār sina‘a ‘casa della costruzione’ arsenoile emiro, ammiraglio darsena, arsenale attone lā ūn < tartaro ottone ‘oro’, ‘rame’ auzzine al-wazīr ‘visir,’ ‘consigliere’ azzezzà/*azze zzate ‘azīz ‘elegante’ bbaldrakke Bagdad, città irachena baldracca bardağ ‘schiavo’ bardascia bbardasce bardasce 215 visir, aguzzino I saraceni medievali delle località minori della Capitanata FOGGIANO LUCERINO CERIGNOLANO BARESE bi zāff ‘in abbondanza’ bezzeffe bbuzzarrà buzzarà ‘ingannare’ buzzarà cafè camuccà ‘tessuto’ candusce kandussce candusce canduscia cangiarre scanzarra canacche ‘bargiglio’ cannacchia canzire canzirre caraffe, garafe karafone carraffe ciofeche ciufeke cefoiche farfarille kupete cupaite cupeta ‘perla qawah ‘caffè’ (mediato dal turco) caffè kam a’ ğ ‘broccato’ camocato qa ūš ‘veste femminile’ ğ anğār ‘coltello’ annāka ğ‘collana’ šafaq ‘vile’, ‘scadente’, ciofeca qin ār ‘peso di 100 rotoli’ quintale, cantaro qubbay a ‘confettura secca’ cupeta faqīh facchino ‘giureconsulto’ farfarille fraffalille farfār ‘leggero, incostante’ farfarello firiyūl < lat. palliolum ferraiuolo (mantello) fus ān ‘gonna’ fustagno fondaco frustane, frustagne gabbelle bizzeffe fakkine ferraijule fundeche busra falsa’ ITALIANO anzīr ‘maiale’ ğ ġarāffa ‘recipiente per caraffa l’acqua’ cundale, candale kundale cupete ARABO funeke funneche funduq ‘albergo’ gabbane gabboine qabāh ‘tunica gabbana da uomo’ qabāla ‘tributo’ gabbelle 216 gabella Giuseppe Staccioli e Mario Cassar FOGGIANO LUCERINO CERIGNOLANO gamurre veste garbe gattemajmone mamone ggiarre gileppe, giulebbà giubbe liccasalemme ARABO ITALIANO imār, umūr ğ‘mantello da donna’ gamerra qalīb ‘forma’ (per le scarpe) garbo maimone maymūn, ‘felice’ oppure maimone ‘scimmia’ gazzarre ġazār, ‘abbondare’, ‘fare rumore’ gazzarra zanātī ‘tribù berbera famosa per la cavalleria’ ginnetto giarre ğarra‘vaso’, ‘brocca’ giarra geleppe ğullāb ‘sciroppo’ (dal giulebbe persiano) giannetta giarre BARESE giubba ğubba ‘sottoveste cotone’ giubba katramme qa rān ‘pece’ catrame kettone qu un cotone kuffele quffa coffa lambicchio al-anbīq alambicco ‘apparecchio degli alchimisti’ lazzaroun az-zu‘rūrah ‘pianta’ lemoune līmūn ar. pers. limone ‘limone’ lazzarolo ‘alayk salām ‘a te salute’ allikkasalemme macramè mafisce ‘cesta’ mafisce ma rama ‘fazzoletto’ asciugatoio mafīš ‘non c’è’ Torre del Greco (NA) màfisc ma lūf ‘giurato’ oppure ma lūf magaluffo ‘sostituto’ ğ magaluffe 217 I saraceni medievali delle località minori della Capitanata FOGGIANO LUCERINO CERIGNOLANO BARESE ARABO ITALIANO mammalucche mamlūk ‘schiavo’ mammalucco marabutte murābi marbū ‘eremita’ marabutto, morabito mautabān ‘scatola’ o ma šabān ğ ‘cassetta’ (per il dolce) marzapane matarazze range mulagnane, accelane mulagnane matarazze marange, merenge marange mulagnaine ma ra ‘materassa’ materasso nāranğ ‘arancia’ arancia bādinğān ‘melanzana’ melanzana mussulmane muslim < islām ‘sottomesso ad musulmano Allāh’ nakkere naqqārah ‘timpano’ nacchera mescerudde miskīn ‘povero’ meschino muarre mu ayyira, ğ ‘scelta’ mohair ndarsiè ra a‘ ‘incrostare’ ermesoine urmuz località tra l’Arabia e l’Iran hormuz ottomoine ottomano < ‘Utman ottomano ġāzīya ‘incursione’ razzia ricamo omeseijine, armesine ‘seta’ razzia recamà arrakamà recamè raqama (< raqm ‘disegno’) recone rekone recoune arrecoune rukūn < rukn ‘angolo’ ruote 218 ra l ‘misura di peso’ rotolo Giuseppe Staccioli e Mario Cassar FOGGIANO LUCERINO CERIGNOLANO BARESE salamelecco ikbāğ ‘pesce marinato’ scapece scarcioffele aršūf ğ‘carciofo’ carciofo sceruppe sciarappe sceruppe šarāb ‘bevanda’ sciroppo sciabbekke sciabbeche šabak ‘rete’ ‘trambusto’ sciabacca šarīf ‘nobile’ sceriffo scapece skarciofele sceriffe sciarrà taffettà ITALIANO salām ‘alayk ‘salute a te’ salamelekke scarcioffele ARABO sciarre asciarre sciarrè šarra ‘ostilità’ sciarra tafanare tafanarie tafr ‘buco’ taffettà taffettà ar.< pers. tafta taffettà ‘stoffa’ alaq talke ‘pietra’ talco tamurre tammurre tamurre anbūr ‘timpano’ tavute tavute tavoute tābūt ‘cassa, bara’ tazze tazze ās trabacca, ‘spalliera’ trabacche tazza abaqa ‘tetto’ trabacca tarb ‘grasso’ trippa tumminu tumn (1/8) tummulo trippe tumele ‘tazza’ tamburo tumule tum(m)ele ualla, ualle, giale, gualle ‘ernia’ ualle < gualle(re)? ualle guallera *wadara <adara ‘ernia’ varde varde varde varda barda’a ‘basto’ zacagghije ‘laccetto’ zagagghje zagagghije zaġāya ‘lancia’ zagaglia zacqare ‘cafone’ *zacquale zaqquare (zakkuale, ‘persona zakkuare) trascurata’ saqqā’ ‘portatore d’acqua’ zaffarane zafrān ‘zafferano’ 219 zafferano I saraceni medievali delle località minori della Capitanata FOGGIANO zambre ‘forestiero’ LUCERINO CERIGNOLANO zammeine zinbīl ‘bisaccia’ zimbile zanzoine simsār ‘mediatore’ sensale zammine zanzane, sanzane zanzane zaraffe ‘venditore ambulante’ zaraffe zenefre ‘tende per finestre’ zire, zifre *zzenefre zire ITALIANO tammaro zambre *zeccà ARABO tammār ‘venditore di datteri’ zambre zeccà ‘riscuotere’ BARESE temarre zaraf ‘truffatore’ arrāf ‘cambiavalute’ sikkah ‘zecca’ zecca zecche zenevre zinefra zoire zire ‘orcio’ anifa ‘orlo’ ifr ‘vuoto’ cifra, zero zīr ‘grosso orcio’ ziro Zawawa zuavo ‘tribù berbera’ zuarre zukkere zucchere zucchere sukkar ‘zucchero’ tr. serbet < ar. sorbetto šarāb ‘bevanda’ zurubette Tabella 2. Cognomi di probabile origine araba nella ex Capitanata e zone limitrofe Apricena zucchero Anzano Apote <‘Abbūd, Buttagno <bū ta ān, hNaracci <narānğ ğğ Addesa (< disa ‘giunco’), Frano < farrān? ‘fornaio’ Bovino Carrabs Carapelle Ramenno < (ra mān) Carlantino Cafano, Innaimo Castelluccio dei Sauri Abbazia, Carrabs, Carracino arāğ o pesce? Carpino D’Apote <‘Abbūd Cagnano Varano Zimotti? Cerignola Algamage? Lesina Bubici (slavo?), Busetta, Marroffino, Naracci, Manfredonia Vadurro budūr ‘lune’ 220 Giuseppe Staccioli e Mario Cassar Orsara Cibelli (NA + Capitanata), Calatrava, Malfesi, Solomita, Varraso (Barraso) S. Marco in Lamis Addone, Apote S. Severo Arace < ‘ārağ ‘zoppo’, Ar, Calafa, Fallucca, Ladisa, Rummo,Vezzano Stornara Abazia, Scopece, Solomita Foggia Baudille, Boccascino, Bubici, Buduo, Elifani, Filasi forse da fulūs denari, Ottena < watan? ‘idolo’ S. Agata di Puglia Cardascio (?), Farano < farrān? ‘fornaio’ Margherita di Savoia Cadura Torremaggiore Cardascia, Samale Ururi, S. Martino Pensilis (CB) Catabbo < kātib ‘scrivano’ Campomarino (CB) Rotello (CB) Chimisso < amīs ‘giovedì’ ğ Scivetta < Scibetta? Pietrelcina (BN) Lagozino, variante di Algozino < al-wasīr ‘visir’ Molinara (BN) Chiafari < Cafari < kāfir ‘infedele’ S. Bartolomeo (BN) Ginestra (BN) degli in Galdo Schiavoni Vadurro < budūr ‘lune’ Manserra < mansūr ‘vincitore’ Montefalcone di Val Fortore Giambitto, variante di Zammitto < ar. zammīt ‘serio’, ‘taciturno’ (BN) Pontelandolfo (BN) Alcorace < alquraši ‘tribù di Maometto’ Baselice (BN) Facchiano variante di Facchino < faqīh ‘esperto di diritto ‘ Greci (AV) Sorro surrah ‘fianco’ Calitri (AV) Cioffari < Ğa῾far ‘sorgente’ Carife (AV) Cafara Taurasi (AV) Camarro < ammār? ‘oste’ oppure imār ‘asino’ o ‘babbeo’ ğ Mirabella Eclano (AV) Camarro Lavello (PZ) Catano, Mossucca, Sciammaro Corato (BA) Iaferia < Ğa῾far? Spinazzola (BA) Armila < armal ‘vedovo’ Fara S. Martino (CH) Aruffo < ‘arūf ‘arīf ‘conoscitore’ Atessa (CH) Tumini Casalbordino (CH) Aruffo, Tumini S. Salvo (CH) Moscufo < musqūf ‘tettoia’, Mammetti? < Mu ammad 221 I saraceni medievali delle località minori della Capitanata Figura 1. L’attuale provincia di Foggia, parte della Capitanata storica, che comprendeva a Nord il Molise orientale e a Ovest l’Alta Valle del Fortore, attualmente nella provincia di Benevento. Tabella 3. Toponimi di forma e struttura araba nella ex Capitanata e zone limitrofe Apricena (Fg) C. Rumo, C. Saracino. Cerignola (Fg) Masseria Zezza, Cafiero, Cafro. Campomarino (Cb) Masseria Saracini, M. Zezza, Zezza. S. Martino in Pensilis (Cb) Mass. Saraceno, Mass. Saracini Bisaccia (Av) Cafasso, Solimene, Solimine,? Tanga < tanğa (toponimo del Marocco) [Tangi a Celle (FG)] Trivico (Av) Solimene, Zamarra Flumeri (Av) Bardaro, Cammisa 222 Michele Galante Una lettera di Sandro Pertini ad Anna Matera di Michele Galante Il 6 febbraio 1957 si apriva a Venezia il 32° congresso nazionale del Partito socialista italiano, che era stato convocato per discutere le grandi novità in corso sulla scena interna e internazionale. Sul piano nazionale diventava sempre più evidente la crisi del centrismo, la formula politica con cui era stata governata l’Italia dopo la fine dei governi di unità nazionale, incarnata dalla leadership di Alcide De Gasperi e fondata sull’alleanza tra Democrazia cristiana, liberali, repubblicani e socialdemocratici. Una formula politica che aveva ricevuto il primo scossone dalla bocciatura della legge maggioritaria del 1953, che assegnava il 65% dei seggi a quelle forze tra loro apparentate che avessero superato il 50% +1 dei voti e che ora si stava rivelando inadeguata rispetto al ‘miracolo economico’ in atto. Sconfitto politicamente, il centrismo sopravviveva a se stesso con governi di basso profilo, tutti imperniati sulla Dc, in attesa che maturassero condizioni per dare vita a nuovi processi politici capaci di allargare la base di sostegno dei futuri governi. Gli avvenimenti internazionali, invece, erano stati contraddistinti dalle furiose polemiche successive al rapporto Kruscev letto al XX congresso del Pcus tenutosi a Mosca dal 22 al 25 febbraio 1956 che svelava e condannava i crimini staliniani. Secondo il segretario socialista Pietro Nenni il rapporto ‘metteva in discussione non solo Stalin, ma l’intero sistema sovietico e in esso lo Stato, il partito in sé e per sé, la Terza Internazionale’; insomma poneva in discussione lo stesso Lenin. La tempesta della destalinizzazione spingeva lo stesso Nenni a rompere il patto di unità d’azione con il Pci e a riaprire il dialogo con il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat quasi dieci anni dopo la scissione consumatasi nel gennaio 1947 a Palazzo Barberini con l’obiettivo di riunificare le forze socialiste. Una prospettiva incoraggiata anche dall’Internazionale socialista.1 Iniziò così una fase politica nuova per il Psi. Nell’agosto del 1956 ci fu a Pralognan, una cittadina francese della Savoia, l’incontro tra Nenni e Saragat, nel quale i due leader attestarono il riavvicinamento tra le posizioni ideali e politiche dei due partiti. Fu il precedente ufficiale della 1 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica: partiti, movimenti e istituzioni, 1943-2006. Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 62. 223 Una lettera di Sandro Pertini ad Anna Matera riunificazione socialista che si avrà soltanto dieci anni dopo. Nenni e Saragat gettarono le basi della riunificazione e, soprattutto, si posero il problema di come modificare gli equilibri politici fondati sul centrismo. Su questa ‘svolta’ non tardarono le reazioni all’interno delle file socialiste, in cui non solo la sinistra, ma anche i rappresentanti della maggioranza che si rifacevano alle posizioni di Rodolfo Morandi, che nel frattempo era deceduto, mostrarono le loro riserve. Una forte divaricazione si registrò anche nel giudizio sulla rivolta ungherese e sulla successiva repressione dell’esercito sovietico che occupò l’Ungheria. Il conflitto tra quelle che ormai erano due anime antitetiche del socialismo esplose: mentre i ‘nenniani’ (cioè, oltre il segretario del partito, Lombardi, Mazzali, De Martino, Mancini, Cattani ed altri) condannarono duramente l’invasione sovietica, la ‘sinistra’ (Vecchietti, Valori, Lizzadri, Gatto) ne prese le difese. Da allora, questa corrente verrà chiamata ‘carrista’, appunto perché in quella occasione appoggiò i carri armati che entrarono a Budapest. La destalinizzazione e i gravissimi avvenimenti che esplosero nell’Est europeo (prima la rivolta operaia polacca del mese di giugno a Poznan e successivamente l’intervento sovietico in Ungheria nel mese di ottobre –novembre) ebbero conseguenze non secondarie sulla politica italiana. I rapporti tra socialisti e comunisti diventarono più difficili e conflittuali, segnando una divaricazione sempre più marcata. Il 1° novembre la Direzione socialista condannò senza riserve la scelta dell’Urss definendola “incompatibile con il diritto dei popoli all’indipendenza” e affermò l’inscindibilità tra democrazia e socialismo. La nuova situazione politica italiana impose ai maggiori partiti un ripensamento delle loro strategie. Il 14 ottobre, al VI congresso della Dc, Amintore Fanfani fu rieletto segretario con l’astensione delle correnti di Base, di Forze Nuove e della nuova corrente della destra andreottiana su una proposta politica che faceva intravedere una cauta ‘apertura a sinistra’, che aveva avuto una prima manifestazione nel 1955 in occasione dell’elezione del dc Giovanni Gronchi a presidente della Repubblica. Il Pci di Togliatti convocò l’VIII congresso nel corso del quale il leader comunista affermò che la destalinizzazione aveva posto in luce gravi difetti nel funzionamento del sistema sovietico, ma che questi difetti non erano tali da mettere in discussione il fatto che quel sistema era più democratico di quelli a democrazia borghese.2 Pur ribadendo il legame col Pcus e col ‘campo dei paesi socialisti’, non si pose sulla difensiva, ma compì uno sforzo di rinnovamento politico e organizzativo ripensando la strategia dell’avanzata al socialismo. Il segretario comunista delineò un progetto di innovazione volto ad accrescere l’autonomia del Pci all’interno di un vincolo col campo socialista e fondato sul riconoscimento della fine del partito-guida e sul policentrismo delle posizioni politiche. Per l’avanzata verso il 2 M. L. Salvadori, La Sinistra nella storia italiana, Roma - Bari, Laterza, 1999, p. 132. 224 Michele Galante socialismo non vi era più un’unica via, ma tante vie nazionali. Sul piano interno con la Dichiarazione programmatica rilanciò la proposta delle riforme di struttura da realizzarsi ‘nel quadro dei diritti democratici e del libero formarsi delle maggioranze indicato dalla Costituzione… Di notevole importanza fu anche il superamento della concezione del sindacato come cinghia di trasmissione e l’affermazione della necessaria autonomia delle organizzazioni di massa.’3 Questa nuova prospettiva strategica consentì al Pci, che si trovava in totale isolamento politico, di affrontare senza gravissimi danni la crisi del 1956 con una forte capacità di ricompattamento e di far registrare una sostanziale tenuta del proprio consenso alle elezioni politiche del maggio 1958, nonostante la fuoriuscita di un nutrito gruppo di intellettuali e il mancato rinnovo della tessera di quasi 200 mila iscritti. I socialisti fecero i loro conti al 32° congresso nazionale di Venezia, che fu certamente un congresso di portata storica. Esso fu accolto dal saluto del cardinale Giovanni Roncalli, allora titolare della diocesi di Venezia, che di lì a pochi mesi (il 28 ottobre 1958) sarebbe divenuto papa Giovanni XXIII. Il patriarca di Venezia fece affiggere in città un manifesto di saluto al congresso socialista nel quale scriveva: ‘Io apprezzo l’importanza eccezionale dell’avvenimento che appare di grande rilievo per l’immediato indirizzo del nostro paese’. Questo manifesto beneaugurante, che coglieva il segno dei tempi, fece scalpore fuori e dentro le gerarchie ecclesiastiche. L’assise seguita con attenzione da tutto il mondo politico nazionale e da molti settori internazionali, a cominciare da quelli del socialismo europeo, rappresentati a Venezia dal leader laburista Aneurin Bevan, si svolse in un clima di grande tensione politica, dominata dalla personalità di Nenni, che vi tenne un discorso che commosse il pubblico dei delegati e degli invitati. Nenni rievocò la notte buia dello stalinismo, ricordando come ‘a Varsavia, tutti sapevano e nessuno parlava’. Affondò la sua critica storica e politica al comunismo, ribadendo quanto già scritto su Mondo operaio, che bisognava ‘risalire dagli errori di Stalin alla natura del sistema’; rivendicò la natura democratica del socialismo in contrapposizione a quella totalitaria del comunismo sovietico. La relazione di Nenni sancì il crollo del mito sovietico e l’abbandono del filosovietismo, collocando il Psi nell’ambito del socialismo occidentale. Sul piano interno il segretario socialista, dopo aver dichiarato esaurito il patto di unità d’azione con i comunisti, definì i tratti salienti dell’autonomia socialista e dell’iniziativa del Psi, volta a creare un’alternativa democratica al centrismo, proponendo la riunificazione con il Psdi e una intesa con la Dc con lo scopo di procedere a riforme capaci di correggere i vistosi squilibri economici e sociali, che stavano accompagnando il boom economico italiano. Questa impostazione fu formalmente accettata da tutte le componenti interne, che votarono all’unanimità un documento conclusivo, che si prestava, però, a dif- 3 A. Agosti, Storia del PCI, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 82. 225 Una lettera di Sandro Pertini ad Anna Matera ferenti letture e interpretazioni. Dentro la maggioranza, però, convivevano diverse anime, che si manifestarono nelle votazioni a scrutinio segreto per l’elezione del Comitato centrale con manovre tese ad annacquare la proposta politica nenniana. La linea autonomista ebbe la maggioranza, ma restò minoritaria nel Comitato centrale. Non essendoci una personalità alternativa che per prestigio fosse capace di assumere la guida del partito, Pietro Nenni fu confermato segretario nazionale. A lui furono affiancati ben quattro vicesegretari: due della ‘sinistra’, Basso e Vecchietti, e due ‘autonomisti’, Mazzali e De Martino. Nel corso del dibattito congressuale intervenne con un ampio e articolato discorso anche Anna De Lauro Matera,4 più conosciuta come Anna Matera, napoletana di nascita ma foggiana di adozione, che pronunciò un intervento molto applaudito dai congressisti. L’esponente socialista, che già si era segnalata all’attenzione pubblica fin dal 1945 come delegata ai problemi della scuola nell’Amministrazione comunale di Foggia diretta dall’avvocato Luigi Sbano e successivamente come assessore nella giunta di Giuseppe Imperiale, era stata eletta deputata alle elezioni politiche del 1953. Prima donna socialista della Puglia ad entrare in parlamento, era anche l’unica parlamentare donna socialista di tutto il Centro Sud. Matera, che era stata eletta nel Comitato centrale del Psi al congresso di Torino del 1955, era stata investita dell’incarico di responsabile nazionale delle donne socialiste che aveva assolto con grande entusiasmo e con una ricca elaborazione teorica. La Matera, che nel dibattito congressuale faceva riferimento all’area di sinistra guidata da Lelio Basso, si soffermò prima sui temi della condizione delle donne, denunciando le grandi barriere economiche, sociali e culturali che ne frenavano il processo di emancipazione e anche i ritardi teorici del Psi, mentre nella seconda parte affrontò più direttamente le questioni legate all’attualità politica, esprimendo riserve sulla linea di Nenni, e in modo particolare sul rapporto con i comunisti, che per la stessa rimaneva un elemento da privilegiare. Tuttavia la Matera non risparmiò critiche alle posizioni assunte dal Pci, sfoderando una inusitata verve polemica ed evidenziando la contraddizione tra l’affermazione della ‘via italiana al socialismo’ e la persistenza del legame con il regime sovietico, con l’intento di sollecitare una evoluzione del maggiore partito della sinistra italiana. Quanto al problema dell’unificazione socialista, rimarcò il fatto che questo processo non dovesse essere un accordo di vertice e neppure la resa di uno dei due partiti all’altro, ma la confluenza di programmi e di azioni politiche5. L’assise congressuale di Venezia consacrò il ruolo di dirigente nazionale della parlamentare foggiana, che fu eletta nel Comitato centrale con un largo consenso, risultando settima con 437.708 voti congressuali dopo Vittorio Foa, Pietro 4 Per un approccio all’itinerario della Matera mi permetto di rinviare al mio saggio La vicenda politica e umana di Anna Matera, in «Sudest», n. 46, febbraio 2011, pp. 16-34. 5 Il resoconto sintetico dell’intervento di Anna Matera si trova sull’Avanti! dell’8 febbraio 1957 e in Partito socialista italiano, 32° congresso nazionale (Venezia, 6-10 febbraio 1957), Avanti!, Milano - Roma, 1957, pp. 182-183. 226 Michele Galante Nenni, Fernando Santi, Silvano Armaroli, Francesco De Martino e Sandro Pertini, precedendo personalità della statura politica di Lelio Basso, Dario Valori, Tullio Vecchietti, Riccardo Lombardi e Giovanni Pieraccini. La stessa Matera fu l’unica donna ad entrare nella Direzione nazionale, composta all’epoca da appena 21 membri. Inoltre ottenne la riconferma dell’incarico di responsabile nazionale della Commissione femminile, coadiuvata da Marisa Passigli. Per effetto di questa funzione rivestita entrò a far parte anche della Presidenza nazionale dell’Unione Donne Italiane (Udi), insieme a Nilde Iotti, Giglia Tedesco, Luciana Viviani, Nora Federici, e altre donne. Era questo il giusto riconoscimento del suo impegno, della sua passione civile, nonché delle sue capacità politiche, di cui aveva dato prova nei diversi incarichi fino ad allora rivestiti. Alla dirigente socialista foggiana qualche giorno dopo, pervenne una lettera dell’on. Sandro Pertini, datata 16 febbraio 1957, che qui si riproduce integralmente:6 Anna carissima, eccoti giunta al posto, che il mio cuore di fratello maggiore da tempo ti aveva assegnato. Ne sei degna per la tua fede e per la tua intelligenza. Per l’amore che sento per il nostro Partito - e non da oggi, Anna cara – e per l’affetto fraterno che ti ho sempre dimostrato, ti esorto a legarti soltanto al Partito; a pensare solo al suo interesse; ad impedire che sia allontanato dalla classe operaia e che cooperi a spezzarne l’unità. Questo mi spinge a dirti l’animo mio colmo di amarezza e di molte preoccupazioni. E non dimenticare mai che in Sandro troverai sempre – nella buona e soprattutto nella cattiva ventura - l’amico sincero e il compagno devoto. Buon lavoro, Anna cara. Un fraterno abbraccio. Tuo Sandro. I due esponenti socialisti potevano vantare una antica amicizia e una lunga frequentazione politica, che risalivano al 1946 quando Pertini arrivò a Foggia per tenere un comizio per la campagna per l’elezione dell’Assemblea costituente e per il referendum istituzionale. In quella occasione conobbe la professoressa foggiana già molto attiva e impegnata sia sul piano amministrativo che politico. Questa amicizia si consolidò dopo le elezioni 1953, allorché entrambi sedevano in parlamento, facendo parte anche del Direttivo del gruppo parlamentare socialista, di cui Pertini era, tra l’altro, vicepresidente. Anni durante i quali le doti di Anna Matera emersero con grande forza e nitidezza, trovando l’apprezzamento dell’intero gruppo dirigente nazionale, a cominciare dal segretario Nenni. La lettera che il combattivo e sanguigno dirigente socialista, che qualche anno dopo sarà eletto presidente della Camera dei deputati e successivamente presidente 6 La lettera fa parte del fondo di Anna Di Lauro Matera, che si trova depositato presso la Fondazione Foa di Foggia, alla quale è stato donato dalla famiglia Matera. 227 Una lettera di Sandro Pertini ad Anna Matera della Repubblica, scrivendo con la sua condotta politica e morale pagine memorabili della storia repubblicana, non era un semplice messaggio di congratulazioni, ma anche l’espressione di un affetto fraterno, di un legame profondo, di una stima e di un’amicizia sincera che nutriva nei confronti della Matera per la proficua attività che veniva svolgendo, per l’intelligenza che esprimeva, per la sensibilità sociale e la dirittura morale che incarnava. Nello stesso tempo Pertini esprimeva una preoccupazione per il futuro del partito dilaniato da lotte intestine per cui, come sempre è stato nel corso della sua vita politica, poneva fortemente l’accento sulla necessità di tenere presente la bussola dell’interesse generale e dell’unità del partito, uscendo dalla logica dei gruppi contrapposti e delle fazioni in lotta. Una logica, a tratti belluina, che aveva lacerato i gruppi dirigenti, di cui lo stesso avvocato e partigiano savonese rimase vittima proprio in questa occasione congressuale con l’esclusione dalla Direzione. Una decisione che gli aveva procurato una grande amarezza, temperata soltanto da una lettera indirizzata ai componenti del Comitato centrale con la quale chiedeva di rimanere fuori dall’organismo direttivo per favorire una ricomposizione unitaria dei contrasti emersi al congresso.7 Pur con questi esiti interni certamente poco edificanti, i socialisti uscirono dal congresso con una proposta politica che, seppure risultava per alcuni aspetti ancora ambigua e indefinita, appariva innovativa e capace di aprire una fase politica nuova del Paese. Non a caso nelle successive elezioni politiche il Psi venne premiato dagli elettori, passando dal 12,7 al 14,3 per cento, con 4.200.000 voti. Soltanto la Democrazia cristiana segnò una crescita più consistente, ottenuta essenzialmente a spese della destra monarchica, passando dal 40,3 al 42,3 per cento. In questo turno elettorale Anna Matera venne riproposta come candidata del Psi alla Camera dei deputati per la circoscrizione Bari-Foggia, risultando la più suffragata degli eletti socialisti con circa 26.000 voti di preferenza, precedendo personalità forti come i due parlamentari in carica Peppino Papalia e Stefano Lenoci, e Vito Scarongella, che in questa occasione fece il suo ingresso a Montecitorio. In questo modo non erano soltanto i dirigenti del suo partito a tributare ad Anna Matera il giusto riconoscimento, ma anche il corpo elettorale. Un riconoscimento e una fiducia che la parlamentare foggiana seppe ricambiare ancora una volta con un lavoro certosino e approfondito nelle aule parlamentari e con un legame intenso e caldo con i cittadini pugliesi. Qualche anno più tardi, nel 1964, allorché la sinistra socialista uscì dal partito socialista dando vita al Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup) in conseguenza di un insanabile dissenso sulla scelta di dare vita ad un governo di centrosinistra, Anna Matera, che era un elemento di punta della sinistra, rifiutò lo sbocco scissionista rimanendo nelle file del Psi. Una scelta che certamente risentiva anche di quel richiamo all’unità che Sandro Pertini aveva con tanta forza rimarcato8. 7 8 La lettera di Pertini fu pubblicata su «l’Avanti!» del 14 febbraio 1957. Il messaggio unitario contenuto nella lettera di Pertini non rimase però inascoltato. 228 In memoria dei nostri Cosma Siani Cristanziano Serricchio sessantenne della poesia di Cosma Siani Vent’anni fa uscì un volume di fattura preziosa, stampato su carta Fabriano in 119 esemplari ulteriormente impreziositi da un’acquaforte d’autore. Si chiamava La dolce stagione; e ancor oggi io sento il fascino di quella titolatura, prima di tutto perché rimandava a un sereno verso del primo canto dell’Inferno, il quarantatreesimo: “l’ora del tempo e la dolce stagione”; poi perché, così rimandando, richiamava anche un titolo di Cristanziano Serricchio, L’ora del tempo (1956); e infine perché tanto abilmente coglieva e condensava un’atmosfera essenziale alla poesia di Serricchio. Il volume conteneva una collezione di testimonianze appositamente stilate da alcuni amici di Cristanziano “in occasione dei quarant’anni di poesia”.1 Ed è triste doverne celebrare ora i sessant’anni di poesia in una col necrologio. Perché Cristanziano ci ha lasciato il 1 settembre 2012, a novant’anni. Ma più che a novant’anni, vogliamo dire e ribadire a sessant’anni di poesia, da quelle sue prime terse raccoltine che già ne fissavano alcune movenze poetiche essenziali, via via precisate, accentuate, definite, in versi italiani e poi anche dialettali, che gli hanno assicurato una collocazione nel quadro nazionale (“vigore lirico che da sempre accompagna il processo di affinamento della sua voce”, dice Spagnoletti nella propria Storia della letteratura italiana del Novecento2). Infatti, se dovessi fare una selezione minima, mia e personalissima, di Serricchio come lo percepisco e preferisco, comincerei all’origine, e darei risalto a certi atteggiamenti che sono suoi fin dall’inizio. Intanto, la contemplazione assorta e pensosa, registro di fondo: Ora il giorno è rapido crollo d’ombre. Vano il profilo, nitido, dei tetti 1 La dolce stagione. A Cristanziano Serricchio in occasione dei quarant’anni di poesia, Testimonianze di Coco, D’Amaro, Macrì, Motta, Siani, Soccio, Incisione all’acquaforte di Franco Troiano, a cura di Saverio Ceddia e Antonio Motta, Manduria-Bari-Roma, Lacaita Editore, 1991. 2 Giacinto Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, Roma, Newton Compton, 1994, p. 563. 231 Cristanziano Serricchio sessantenne della poesia dove il tocco del sole era qualcosa e non era [...] (L’ora del tempo, 1956); in aggiunta, la proiezione mitica, in un tempo lontano nel passato o nel futuro: Lungo gli arroventati viali delle galassie forse nasceranno le foglie per altri nidi. Forse, nelle grandi Nubi, dalle panchine pensili d’Andromeda, vedremo, inattingibile ancora, la scala di Giacobbe. (L’occhio di Noè, 1961); e la tensione metafisica: Dove la spessa calce delle tombe ha i riverberi miti dell’autunno e il tempo sosta al plenilunio tra gli esili cipressi senza vita, sgranano nuvole antiche sulle soglie i nostri morti e tendono le mani d’erba alla speranza [...] (L’estate degli ulivi, 1973); l’interrogazione esistenziale, che è il suo modo di reagire alla realtà: Che resterà di te, di me, di quest’ora che non cede al tramonto? Non vagheremo più per giorni chiari e rive di leggenda [...] (Stele daunie, 1978); l’osservazione minuta e amorosa degli angoli, dei gesti, del minimo quotidiano: Perdonami se dalla finestra nel chiuso cortiletto medievale carpisco il diario della tua vecchiaia [...] (Arco Boccolicchio, 1982); e l’ansia allo scorrere perenne della vita: 232 Cosma Siani Ora tu sai la stretta che mi prende per l’eco del tempo che si perde nel greto smemorante di questo inquieto autunno... (Topografia dei giorni, 1988),3 accentuatasi nel tempo, e culminata nelle poesie di Villa Delia (2002) per la scomparsa della compagna di vita. Ma predomina, io direi, la nitidezza di immagini chiare e leggere legate a sensazioni eteree. Ne possiamo cogliere esempi ad apertura di pagina in un librosilloge come Una terra una vita: “il remoto inizio d’una strada”, “Il tempo è solo quell’alberello / erto laggiù”, “il mondo è appena un tenero chiarore”, “fontanina / che manda un fil di luce”, “Limpidi stupori in cima al colle”, “il silenzio delle foglie in attesa”, e in dialetto: “L’addóre dlu timpe éie/come lu vinte ca te mbrògghie li capidde” (“l’odore del tempo è / come il vento che ti spettina i capelli”).4 Non si può non rilevare aria di familiarità con la prosa d’arte della prima metà del Novecento – periodo di formazione di Serricchio – nella quale la provincia di Foggia ha avuto un altro autore di spicco in Pasquale Soccio. Basti tutto questo a dimostrare su quale versante della lirica novecentesca si colloca la voce di Serricchio (così come basta – ne sono sempre stato convinto – una silloge ristretta come Fiori sulle pietre, 1957: sei poesie riunite in plaquette e poi diluite in altre raccolte, a stabilirne fin da principio, e con notevole evidenza, il timbro fondamentale con cui egli si sarebbe inoltrato nella seconda metà del secolo). È il versante segnato da quella stagione-cardine della poesia italiana che fu l’ermetismo. Non poteva non essere così, a quanto pare. Lo ha detto bene Donato Valli, quando definì Serricchio un rappresentante di quella “generazione di mezzo” che si trovò nella condizione, quando non riuscì a inserirsi nel nuovo clima neorealistico e sperimentale, di dover recuperare forme e valori guardati con sospetto o ritenuti sorpassati. Credo che la scoperta della propria terra, del proprio paese, dei più umili affetti, oltre che un’esigenza di rivalutazione della provincia e della famiglia rispetto al grande mito della nazione e dello Stato definitivamente crollato, rappresenti per Serricchio la necessità d’un rifugio e d’una ricostruzione.5 I brani sono tratti, rispettivamente, dalle poesie: “Scendeva sui miei giochi”, “L’ora zero”, “Dove la spessa calce delle tombe” (leggibili anche in Stele daunie), “Canto di Diomede 3”, “Arco Boccolicchio III”, “Sotto il tuo sguardo severo”. 4 Una terra una vita, pref. Sergio D’Amaro, postf. Emerico Giachery, risvolto Daniele M. Pegorari, Sentieri Meridiani Edizioni, Foggia 2008, rispettivamente pp. 18, 19, 22, 25, 27, 32, 94. 5 Cfr. Donato Valli, in L’albero, N. 51, 1974, leggibile anche in Poeti danni contemporanei, a cura di Cristanziano Serricchio, Antonio Motta e Cosma Siani, pref. Mario Sansone, Foggia, Apulia, 1977, p. 193. 3 233 Cristanziano Serricchio sessantenne della poesia In effetti Serricchio non fa mistero della sua radice ungarettiana, se addirittura apre una poesia di quattro versi dettando: “Si sta come d’autunno” (in L’estate degli ulivi), che com’è noto sono i primi due versi di “Soldati”, da L’Allegria di Ungaretti. Ma non si tratta solo di tale matrice; non credo si possa definire Serricchio poeta ermetico, e sarebbe disagevole anche applicargli un’etichetta così comprensiva come “post-ermetico”. Lo scavo della parola si direbbe in lui sostituito dal verso suadente e perfino melodioso; da Quasimodo sembra derivare la tendenza alla rarefazione dell’immagine; il suo descrittivismo fa pensare più a un Diego Valeri. Ma sono modelli ovvi questi, per lui di formazione primo-novecentesca, così come altri che sono stati richiamati, quali Montale, Cardarelli, Saba; e poi, forse più a ragion veduta, Rebora e Betocchi; e ancor più opportunamente, i suoi corregionali Comi e Fallacara. E a me certo suo afflato siderale richiama versi alati come la quartina “Il fiume della creazione” di Tommaseo. Del resto, i caratteri tipici di questa poesia sono stati variamente messi a fuoco dai non pochi che ne hanno scritto; e fin da principio, quando Alfredo Petrucci, nell’introdurre l’ancora incerta raccolta Nubilo et sereno (1950), scriveva: “Ripensavamo, nel leggere i versi di Cristanziano Serricchio, a quei pittori cinesi i quali, volendo figurare un paesaggio, invece di porsi al suo cospetto e ritrarlo direttamente, lo chiudevano nello scrigno della loro memoria e ve lo tenevano in serbo”. Già nel 1958 Giorgio Caproni parlava di “Parole ferme e severe, certo lontane da ogni vacuo esibizionismo ritardatario cui la buona educazione classica non toglie bensì aggiunge verità, così come accade sempre nel discorso composto e quasi austero di C. S.”. In seguito, così si esprimeva Bortolo Pento: “al canto [...] tendono in definitiva queste poesie, pur modellate e modulate su un linguaggio lirico che non si propone con punte di originalità, che non ambisce in nessun modo a soluzioni perentoriamente personali, ma che si rifà a un diffuso e qualificato paradigma novecentesco...”. Ed era ancora Valli a parlare di radice ungarettiana “integrata con un sentimento tutto meridionale e mediterraneo, la cui componente prima è l’aspro paesaggio garganico addolcito dalla levità d’un cielo invitante e dalla profondità d’un mare misterioso”. E Michele Dell’Aquila: “...una poesia in cui la disposizione mitica tende più ad appuntarsi sul perenne della vita che non sul contingente ed effìmero (per quanto vistoso)”. Mentre Maria Luisa Spaziani coglie uno degli sbocchi preferiti del meditare di Serricchio: “la memoria talvolta riesce a non essere soltanto sentimentale e privata, e nemmeno storica, ma si fa cosmica, risale oltre un misurabile tempo...”. Caratteri tutti che sostanziano la sensibilità di Serricchio, tanto da ritornare nella sua stessa prosa, come ha rilevato Guglielmo Petroni, che, introducendo la collezione di racconti Le radici dell’arcobaleno (1984), parla di “un’aura che ricorda cose perdute”, di “una nitidezza particolare”, di “maestria nel portare 234 Cosma Siani ogni sua conoscenza all’interno di ciò che descrive”, di “apparente ovvietà di certe sue movenze che, in realtà, risultano accorgimenti di poeta, risultati di analisi colta”, e aggiunge: “non mancano addirittura moti che hanno sapore e intenzione surrealistici”.6 Da Nubilo alle raccolte tarde, Una terra, una vita (2007) e oltre, il percorso di Serricchio è lineare. Talora si accentuano forse alcuni tratti. Per esempio, una ricerca della parola o della forma insolita. Nei suoi versi dialettali troviamo il termine zuneme, adattamento di tsunami, in cui pare si voglia mettere alla prova la lingua di fronte a un evento che in dialetto va inventato fin nel vocabolo;7 e soffermandoci su Topografia dei giorni, ci imbattiamo in “per noi umilicristi”, “ragazze in gins, “algosi relitti”, “vicende verdissime”; o nel desiderio di venire a più stretti patti con i mutamenti degli ultimi decenni (“la TV / sgretolante dell’inquilino vicino”; “Per interminati ingorghi / d’autostrade, aterosclerotiche / arterie”); che non sono mai quelle “punte di originalità”, quelle “soluzioni perentoriamente personali” alle quali – come dice Pento – Serricchio non aspira, neppure di fronte allo sconcerto per alcuni aspetti della realtà contemporanea. Allo sconcerto, egli oppone i propri interrogativi (“Dove andremo, fratelli, in questa / scheggia di sole che ci resta?”; “Cosa faremo domani con le campane / e i cuori alla deriva...”), giusta appunto la sua inclinazione meditativa. Forse nel negli anni si accentua anche una complessiva positura malinconica alla constatazione del tempo che muore. Ma si tratta, appunto, di accentuazioni. Non cambia il profilo essenziale, la voce di questo poeta pugliese d’alto profilo. Dunque, teso a un verso suadente, intimamente musicale più che metrico, alieno dal disincanto, non lusingato dall’esperimento, Serricchio restò fedele alla sua formazione di primo Novecento, e la prolungò nella seconda parte del secolo, pur in mezzo a climi poetici mutati e mutevoli, accompagnandola a con un forte senso della terra, della provincia, della storia dei luoghi dove è sempre vissuto, il Gargano e la città di Manfredonia. Sappiamo bene dei suoi saggi storici e archeologici, e della sua narrativa, nella quale spicca il romanzo storico L’Islam e la Croce (2002), sul sacco turco della sua città. Devo ora aggiungere un codicillo per il poeta dialettale. Serricchio pubblicò poesia in dialetto solo tardi; e credo di poter testimoniare, se non l’inizio, la svolta della sua vocazione vernacolare. Quando, oltre quindici anni fa, cercavo chi erano e che cosa avevano scritto i poeti in dialetto di un’area fino ad allora inesplorata, 6 Cfr. rispettivamente Giorgio Caproni, in La fiera letteraria, 23 marzo 1958; Bortolo Pento, in Annali della Pubblica Istruzione, nov.-dic. 1969; Donato Valli, cit. (tutti leggibili anche in Poeti dauni contemporanei, cit., pp. 182-183,186 e 194 rispettivamente); Michele Dell’Aquila, Parnaso di Puglia nel ‘900, Bari, Adda, 1983, p. 255; Maria Luisa Spaziani, prefazione a Topografia dei giorni, Manduria, Lacaita, 1988, p. 5; Guglielmo Petroni, prefazione a Le radici dell’arcobaleno, Foggia, Bastogi, 1984, pp. 9-10. 7 Nella sez dialettale della raccolta La prigione del sole, Genova-Milano, Marietti 1820, 2009, p. 63. 235 Cristanziano Serricchio sessantenne della poesia il Gargano, per una antologia minima che fu poi pubblicata a Roma,8 mi rivolsi fra gli altri all’amico di vecchia data Cristanziano, che mi diede indicazioni senza parlarmi di sé come dialettale. Poco tempo dopo mi arrivò un fascicoletto di sue composizioni nel vernacolo garganico di Monte Sant’Angelo. Non passò molto che il fascicoletto era divenuto una raccolta a stampa per l’editore Campanotto, Lu curle, “La trottola” (1997). Di sicuro una vocazione non si improvvisa né si forza. E quindi è da credere che anche prima di allora Serricchio avesse provato la mano nell’espressione poetica in dialetto, tanto più che conosceva i vernacolari della sua zona: a dire solo qualche nome, i manfredoniani Pasquale Ognissanti e Salvatore De Padova (aveva scritto una prefazione per i versi di quest’ultimo); Francesco Paolo Borazio e Joseph Tusiani di San Marco in Lamis; Michele Capuano e Giovanni Scarale di San Giovanni Rotondo. Ma mi piace pensare (e penso proprio) che sia stata quella mia richiesta a far concretizzare il suo esercizio scritto in forma pubblicata. Pubblicata e a distanza di un decennio sancita dall’inclusione nel volume Nuovi poeti italiani 5, a cura di Franco Loi (Einaudi 2004), che comprende Serricchio in una selezione di dialettali (gli altri sono Baldassari, Bressan, De Vita, Dorato, Finiguerra, Giacomini, Giannoni, Serrao, Trombetta, Vallerugo), con dodici brani quasi tutti dalla suddetta raccolta della Campanotto. Nella sua introduzione all’autore, Loi parla di “devozione religiosa” senza atteggiamenti moralistici o edificanti, perché “Serricchio non esorcizza il male e l’angoscia, se non nell’atto stesso dello scrivere”. Loi sottolinea “una rara finezza musicale e un’estrema attenzione alla sinuosità vocalica” nel dialetto di Serricchio, e nota “la strana calma che promana da queste poesie”. Vero. E sono caratteristiche tutte non specifiche del Serricchio dialettale ma anche della sua poesia in lingua, a riprova che non c’è soluzione di continuità fra chi usa la lingua e il dialetto, o usava la lingua ed è passato al dialetto; ovvero che il dialetto rappresenta sempre meno una scelta opposta alla lingua, e sempre più un’estensione dei mezzi espressivi. Dopo l’era pasoliniana del vernacolo come forma di autoreclusione antiegemonica, è questo il taglio nuovo, postpasoliniano, dell’odierna rinascenza dialettale. Resto convinto che Serricchio abbia messo mano al dialetto mosso da tale consapevolezza – estensione dei mezzi espressivi, appunto, e pari dignità creativa – per portare nel suo altro idioma le positure cattivanti, addirittura seducenti, della propria vocazione lirica. 8 Poesia dialettale del Gargano. Antologia minima, a cura di Cosma Siani, Roma, Edizioni Cofine, 1996. 236 Sergio D’Amaro Cristanziano Serricchio, messaggero di poesia di Sergio D’Amaro Ora che l’infaticabile officina di Cristanziano Serricchio si è fermata, sembra impossibile ricapitolarne tutte le intense stagioni. La sua produzione copre oltre sessanta lunghi anni, quelli che hanno accompagnato l’Italia nel suo farsi paese moderno, pieno di ‘miracoli’ e di arretratezze, di slanci e di smemoratezze. Nel gran fiume di questi decenni c’è la generazione di Serricchio (nata negli anni ’20 ed estremamente produttiva e rappresentativa) e ci sono le generazioni successive, compresa quella che era bambina o appena nata quando il Nostro cominciò a pubblicare. Scorrendo le età si giunge al 1978, a quelle Stele daunie che segnano per l’autore la piena maturità. È qui, nei tardi anni ’70, che i percorsi di vecchie e nuove generazioni decidono di incrociarsi, riconoscendosi in una loro continuità, pur nel rispetto dei diversi segnali che mandano e dei diversi linguaggi che usano. Con quel libro, pubblicato nella collana ‘I testi’ diretta da Leonardo Mancino per l’editore Lacaita (una collana mai più uguagliata nell’editoria del Sud per l’importanza degli scrittori ospitati), Serricchio riassume tutta la pregnanza del suo messaggio poetico e la qualità definitiva del suo stile. Una lingua, la sua, assorta, intensa, dotata di naturale fluidità musicale, volta attentamente alla storia e alle sorti future dell’uomo, radicata nella natura originaria e avvinta religiosamente alla sua terra. Un messaggio e uno stile che consentono alla critica anche più autorevole (da Macrì a Spagnoletti) di collocare Serricchio in un posto ben definito della poesia italiana contemporanea. (Pochi ricordano che in quello stesso torno di tempo Serricchio, insieme a Cosma Siani e Antonio Motta, aveva curato nel 1977 per l’editore foggiano Apulia l’antologia Poeti dauni contemporanei. Era un sintomo di come Serricchio sapesse interagire con i più giovani e sapesse rintracciare insieme ad essi una linea che dai carducciani portava, anche in Capitanata, agli sperimentali e agli iconoclasti. Serricchio non era d’accordo, per sua formazione e per carattere, con posizioni così spinte, riservandosi sull’argomento qualche sottolineatura tra l’ironico e l’infastidito. Più volte l’ho constatato io stesso quando si toccava questo tasto, non riuscendo egli a concepire una poesia che non fosse misura e meditazione, indicazione del limite e aspirazione all’illimitatezza). Per tornare, però, subito al discorso avviato, basti dire che in un momento 237 Cristanziano Serricchio, messaggero di poesia storico così esagitato come la fine dei Settanta, forieri della frattura traumatica tra ‘900 e secolo successivo, cosa mai poteva significare quella riflessione sulla storia più remota di un popolo perso nelle volute del mito? Perché quel monito e quell’invito così accorato di Serricchio? Insieme al sentimento di stupore di fronte ad una scoperta archeologica (quella delle stele daunie di Silvio Ferri), quei versi riappuntavano lo sguardo sul destino eterno dell’uomo, sulla sua natura che si ripete straordinariamente a distanza di secoli, sulla necessità di preservare il senso più profondo di un’umanità intesa in senso universale. Insomma, era un messaggio poetico denso di significati, giusto alla vigilia di grandi trasformazioni epocali. Visto così, assunto in quel suo gesto di ‘insegnante’, Serricchio mi apparve come un affidabile e sapiente compagno di strada. Storia, Mezzogiorno, scelte espressive, filoni letterari da approfondire, tutto avrebbe potuto essere un vicino parametro da tener presente, per poi proiettarsi nelle proprie esperienze. Uno degli “argini” era Serricchio, lì a pochi chilometri dal Gargano, a Manfredonia, e sapevamo, io e altri della generazione più giovane, che avremmo potuto confrontarci con lui con una cordialità non disgiunta da simpatiche e liberatorie battute ironiche. Così è successo che in questi trent’anni ci siamo visti e sentiti innumerevoli volte, ad una presentazione, ad un convegno, ad una fugace o casuale riunione di amici. Ed è successo, anche, che ci sorprendessimo a conoscere Serricchio come abile narratore, pubblicato da un importante editore nazionale come Marsilio. Era più o meno l’inizio del nuovo millennio e il nostro Nino (ormai avevo imparato a chiamarlo così) pubblicava un impegnativo romanzo storico intitolato L’Islam e la Croce. Sorpresa, ma subito conferma di una pari capacità di tenuta narrativa, il cui contenuto risultava di stringente attualità, addossato com’era ai fatti dell’11 settembre 2001. Il libro, egregiamente scritto, meritò parecchie presentazioni e recensioni, allargando ulteriormente la fama del nostro autore e confermando che le precedenti prove narrative non erano un fatto episodico. Negli ultimi anni Serricchio non si è mai fermato, tanto che pubblicando un libro dopo l’altro ad un’età ormai veneranda riusciva a mettere in difficoltà critici vecchi e nuovi, costringendoli ad aggiornarsi continuamente. Ho avuto il piacere di seguire più da vicino il libro Una terra, una vita (uscito nel 2007 per i tipi dei foggiani Sentieri Meridiani di Michele Vigilante), che ho introdotto con una prefazione. Nel libro erano riunite tutte le poesie dedicate alla terra che aveva visto svolgersi la sua lunga esperienza. Nella prefazione, tra l’altro, scrivevo: ”Siamo sicuri che nel 2022, ai suoi cent’anni (come indica l’autore nell’ultimo messaggio di questo suo libro), Serricchio non troverà solo occhi curiosi di un nome, ma ancora orecchie complici ad ascoltare le sue parole cresciute nel Gargano e nel Tavoliere della poesia”. Ora che Serricchio è scomparso, mi sembra ancora più urgente ribadire la sua identificazione con il Gargano e Manfredonia. Ci sono destini umani difficilmente svincolabili dalle loro geografie. Perciò ancora m’immagino il messaggero della poesia che fu Serricchio affacciato al mare che amava, ad inseguire eterei aquiloni di storie e di miti che subito diventano parole. 238 Nunziata Quitadamo Cristanziano Serricchio. L’impegno civile e sociale di Nunziata Quitadamo Cristanziano Serricchio, proposto senatore a vita da Raffaele Nigro, candidato al premio Nobel, sin da giovane si è distinto nelle molteplici attività da lui svolte con impegno e passione. Inizia la carriera scolastica nelle scuole superiori con l’incarico di docente. È subito apprezzato per l’elevato spessore culturale che nell’insegnamento gli consente di argomentare con facilità e per le competenze pedagogiche sempre all’avanguardia. Gli piaceva insegnare e stare con i giovani. Ha svolto numerose lezioni di letteratura italiana nei corsi di formazione indetti dall’Accademia Internazionale “Padre Pio”. Ultimamente mi diceva che gli sarebbe piaciuto andare nelle scuole per incontrare i giovani e leggere loro la Divina Commedia. Di essi in una poesia inedita a me dedicata in occasione del mio pensionamento scrive: “Nel distacco è racchiuso un altissimo senso/ all’incanto magico della scienza/ e della vita, e l’impotente tristezza/ di vederli soli fra gli iridati sogni del volo/ e gli impervi sentieri d’ombra e di fuoco/ fra i picchi dell’amore e del dolore”. Ha l’incarico di preside dell’Istituto Magistrale Statale di Manfredonia nel 1954. È il preside più giovane d’Italia. Supera il concorso e nel 1965 diviene preside titolare del suddetto Istituto, al quale per sua iniziativa è dato il nome “A.G. Roncalli” In tale Istituto svolge la sua intensa attività educativa e culturale fino al 30 settembre 1970 quando viene collocato a riposo. Nel frattempo ottiene la costruzione del nuovo edificio dove l’Istituto trova la sua definitiva sistemazione. Crea la biblioteca dotandola di circa dodicimila volumi, il laboratorio di fisica e di scienze, l’aula per gli audiovisivi, l’aula di disegno e la palestra. Fa intitolare dal Comune il vasto piazzale antistante l’Istituto “Piazza Europa”. Promuove la partecipazione delle scolaresche ai giochi della gioventù e a gare sportive. Organizza, con la collaborazione dei docenti, mostre di pitture e di disegno, spettacoli teatrali, concorsi per la Giornata Europea della Scuola, favorisce la partecipazione di alunni con sfilate di carri allegorici al Carnevale Dauno. È chiamato dal Centro Didattico Nazionale per i Licei per l’aggiornamento dei presidi e dei docenti. Dirige corsi di abilitazione per docenti. 239 Cristanziano Serricchio. L’impegno civile e sociale È eletto per tre volte, dal 1978 al 1987, Presidente del Distretto Scolastico di Manfredonia, col quale organizza un’intensa e proficua attività culturale, didattica ed educativa: l’attuazione del diritto allo studio, la medicina scolastica, l’aggiornamento, il piano di edilizia scolastica e le nuove istituzioni, le attività parascolastiche fra cui mostre, concerti, concorsi riservati agli alunni, il servizio di orientamento, gli studi e ricerche utili alla migliore conoscenza della realtà locale, dei beni culturali e ambientali del territorio comprendente Manfredonia, Monte Sant’Angelo, Mattinata, Zapponeta, Isole Tremiti. Dal 1962 al 1968 ha ricoperto l’incarico di Assessore alla P.I. e Cultura del Comune di Manfredonia. D’intesa con l’archeologo Silvio Ferri, scopritore delle Stele Daunie, ha promosso la cessione allo Stato del Castello svevo-angioino di Manfredonia per la creazione del Museo Nazionale e del Parco archeologico di Siponto. Ha fondato la Società di Cultura “M. Bellucci”, la sezione dell’AEDE (Associazione Europea degli Insegnanti), la sezione della Società di Storia Patria per la Puglia di cui è stato presidente. Ha organizzato sette convegni di studio su “Siponto e Manfredonia nella Daunia” pubblicando i relativi atti. Nel 1964 è nominato dal Ministero della P.I Ispettore Onorario per i Beni ambientali, architettonici, artistici, storici e archeologici di Manfredonia. Serricchio, persona versatile, oltre ad essere autore di testi poetici in lingua e in dialetto, di romanzi, di drammi, è anche storico e archeologo appassionato. La crescita di un territorio è legata alla cultura e Serriccho è veramente un modello straordinario, un punto di riferimento per avere riportato alla luce meravigliosi misteri storici ed artistici della sua Daunia. Il poeta Serricchio è sensibilissimo alle cose che scompaiono. Il recupero di ogni indizio diventa motivo di approfondimento e di partecipazione al passato che si lega al presente. Nell’intervista rilasciata a Daniele Giancane dice: “Nei miei saggi storici e archeologici è avvertibile il bisogno di penetrare nel cuore delle cose, degli avvenimenti delle persone, nonché l’amore per il Gargano, la Daunia, la Puglia, il Mezzogiorno, lembo estremo di Italia e d’Europa legato alle Origini della civiltà”. Nel testo “Siponto-Manfredonia” scrive: “È motivo di gratitudine la speranza, che è anche convinzione, di avere offerto, specie alle scuole, un utile strumento di studio e di riferimento per la conoscenza del territorio e della sua storia, nonché un valido incentivo per ulteriori approfondimenti e ricerche che gli interessati potranno e vorranno effettuare”. Ricercatore appassionato della verità storica non rinunzia alla fatica di un viaggio per portare alla luce qualche vicenda umana. Si reca a Malta al Centro Studi Malitensi alla ricerca di documenti inediti sulle tracce dell’erede al trono di Costantinopoli Fra Domenico Ottomano e della sultana d’Oriente Giocometta Beccarini la bimba rapita dai Turchi nel sacco del 1620 a Manfredonia. Da Malta porta la bellissima stampa che rappresenta la figura della sultana Zafira “la vera effigie” della sultana, ossia di Giacometta Beccarini. 240 Nunziata Quitadamo Interessato allo studio della vita e della traslazione delle reliquie dell’apostolo Tommaso da Ortona all’isola greca e viceversa si reca a Chios. Segue con dovizia di particolari il suo itinerario mostrando il suo scrupolo di storico e di attento studioso. Si è sempre mostrato disponibile all’impegno culturale. Ha partecipato a convegni di studi, ha collaborato a varie riviste e giornali, ha scritto la prefazione, la postfazione e le recensioni a libri degni di attenzione. Dei suoi libri, già inclusi in numerose antologie e oggetto di tesi di laurea in vari atenei italiani, si continuerà a parlare ancora a lungo. Di lui hanno parlato tanti nomi illustri. Credo che Serricchio, uomo d’ingegno poliedrico e geniale sia davvero modello straordinario da tenere sempre presente. Molte le testimonianze di riconoscimento tra le quali voglio ricordare: Il Presidente della Repubblica Pertini il 2 giugno 1979 gli ha conferito il diploma di prima classe con medaglia d’oro quale benemerito della scuola, della cultura e dell’arte. L’amministrazione comunale di Manfredonia il 7 febbraio 2012 gli ha conferito il primo “Laurentino d’oro”, riconoscimento che segnala alla pubblica stima “cittadini che hanno onorato la città nel campo delle scienze, della ricerca, delle lettere e delle arti, dell’impegno nella vita pubblica”. Nell’intervista rilasciata a Daniele Giancane, alla domanda: Come vorresti essere ricordato un giorno dai tuoi concittadini? “Mi piacerebbe essere ricordato non solo come poeta, ma uno che ha amato la sua città e dato ad essa il massimo impegno civile e culturale. In che modo spetterà ad altri stabilirlo”. A me, che ho collaborato con lui alle diverse attività sin dal 1968, arco di tempo abbastanza lungo, rimane il ricordo di un uomo sensibile, socievole, “schietto, sincero, dolcemente e affabilmente ironico”, come dice Ettore Catalano. 241 Luigi Paglia La poesia civile e di denuncia in un poemetto di Serricchio di Luigi Paglia Il silenzio dell’ulivo di Cristanziano Serricchio Non hanno più colore i capelli di Aushwitz. Fermo al non ritorno il treno dai finestrini sbarrati. Capelli crespi, lisci, inanellati d’oro e d’ebano un tempo nella luce dei giorni e delle stagioni, canuti o grigi alle carezze tenere delle case e di paesi lontani, alla dolcezza dell’ora e del pianto dietro orizzonti di filo spinato. Occhi sbarrati, cuori e infinite mani, tenere mani di bimbi strappati alle madri, uomini e donne spenti nell’immondo furore di gesti e di parole slabbrate nei vasti campi di sterminio. Nuvole di chiome senza più volti, montagne di pettini senza più mani, occhiali privi di sguardi e di riflessi, valige con nomi stinti, vesti e bavette, biberon e tazze, appena abbandonati. Interminato strepitio di richiami, labirinto di idiomi e di vicende, reliquie di un mondo incenerito. Solo, bianco su montagne di scarpe, consunto uno zoccolo di legno, e nel silenzio il passo fuggente di ragazza fiamminga. Ma tu, Signore, ascolta e sorgi nel tuo sdegno. 243 La poesia civile e di denuncia in un poemetto di Serricchio Fino a quando tollererai, Signore, i fragili errori dei superbi della terra e il dolore vasto del mondo, attento al grido degli umili nei flutti della morte? Smarriti udiamo per le strade scoppi di mitra e schiocchi di fionde a sud e a nord d’ogni parallelo. Un bimbo colpito s’accasciò alle spalle del padre piegato in ginocchio. E accanto era la stella del Messia, il calvario glabro della Croce. Le tre anime della Città gridavano da sempre le stesse voci che gridano in noi. Ma ovunque incursioni e bombe, pietre e carri armati, imboscate e kamikaze invadono le rovine. Laggiù, ai piedi delle torri crollate, spento nelle lacrime il grande fuoco, a stento bambini con le madri tornano a scuola. La paura l’odio stringono i cuori e le labbra al silenzio dell’ulivo, da Hebron a Gerusalemme, dai dorsi scoscesi del Kòssovo ai deserti irrigiditi dell’Iraq. Minato è il cuore dell’uomo. Tra plumbee rupi e cime di neve, rossa di sangue la Via della seta. Fioriranno le rose del deserto lungo tutti i fiumi e i mari, i monti e i piani della terra, uniti mano nella mano gli uomini e le città, i villaggi e le capanne al nascere del sole? Un ponte rinasce a Mostar, pietra su pietra antica, e l’arco di luce tra le sponde è il suono dell’acqua lustrale, l’ansia amica del fiume, la voce dei bimbi che corrono ai giochi. Ai volti bruciati, alle donne trafitte, ai cuori delle speranze deluse, ridona, Signore, l’acqua dolce della quiete, e, nella vena più viva, la vita agli unti del terrore, e l’amore ai farisei impigliati in ragnatele di falsità e rovine. Come al biondo re di Sion non offrirmi la fionda, ma l’umile cetra delle parole, il canto dell’arpa, il frullo d’ali nell’aria del mare e delle foglie. 244 Luigi Paglia Il silenzio dell’ulivo presenta i tratti di un’abbastanza marcata discontinuità rispetto alla precedente produzione poetica di Cristanziano Serricchio, che è quasi sempre di registro lirico (anche se con qualche episodica diversione nel campo sociale e politico e con lo straordinario salto nel mito e nella protostoria delle Stele Daunie1) e di sviluppo compositivo generalmente più limitato, di fronte all’intensa poesia civile e di denuncia, e alle misure ampie ed avvolgenti del poemetto. La discontinuità, originata dall’enormità delle situazioni e degli eventi denotati, si realizza a livello delle strutture formali (pur nella permanenza di alcune modalità stilistiche) sulla cui incisività e novità influiscono fortemente proprio il panorama tematico e la violenza dell’emozione suscitata dallo spettacolo tremendo dei campi di sterminio, barbara espressione della ferocia nazista, e delle guerre e dei genocidi che insanguinano il mondo attuale (per cui, come scriveva Ungaretti in Mio fiume anche tu, una composizione anch’essa suscitata dalla violenta esecrazione delle deportazioni e delle nefandezze naziste nella seconda guerra mondiale, «con fantasia ritorta/ E mani spudorate/ Delle fattezze umane l’uomo lacera/ L’immagine divina/ E pietà in grido si contrae di pietra»). La discontinuità è evidente a livello iconico, strofico e metrico in quanto si individuano due modalità, che sembrerebbero contrastanti, riguardanti da una parte le misure minime delle strofe (di uno, due, tre versi) e, dall’altra, l’ipermetria di quasi tutti versi, anche di diciotto, diciassette, sedici sillabe, con l’inserimento di pochissimi endecasillabi. In realtà, le due procedure sono in interconnessione, in quanto la risultanza a livello iconico della prima modalità rivela la segmentazione, la parcellizzazione relative al mondo umano, dimidiato e frantumato, sia nelle componenti anatomiche sia nelle espressioni sociali e politiche, dagli stermini e dalle guerre; mentre la seconda dà alla composizione una dimensione iconica dispiegata in larghezza, quasi per riempire tutto lo spazio delle pagine, per non lasciare nulla di vuoto (di non detto), per rimarcare tutta l’espansione dell’accorata, ma a volte anche violenta, poesia di denuncia (che ricorda quella pasoliniana riportata, però, su un registro profondamente cristiano), ma è anche segnale di estensione, di globalizzazione –come si direbbe con parola di moda- del mondo unificato, nello spazio e nel tempo, dalla ferocia e dalla insensatezza dei «piccoli uomini feroci», in «quest’atomo opaco del male», come accusavano Pirandello e Pascoli. La raffigurazione del mondo “capovolto” nelle sue coordinate di valori umani è correlativamente evidente anche a livello di intertestualità estesa, in quanto sono sintomatici la collisione, il rovesciamento, lo stravolgimento delle citazioni inserite in un contesto estremamente diverso: dall’universo naturale, libero, aperto, spalancato proposto dalle “fonti” letterarie al mondo ristretto, prigioniero, ritagliato e, comunque, negativo nel testo di Serricchio. Si va dai «capei d’oro all’aura sparsi» (Petrarca) ai «Capelli […] d’oro e d’ebano un tempo nella luce», dalle «Nuvole […] 1 Cfr. Cristanziano Serricchio, Le Stele Daunie, con un saggio introduttivo di Oreste Macrì, Manduria Lacaita, 1978, poi in Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Giacinto Spagnoletti, Roma, Editori e Associati, 1993. 245 La poesia civile e di denuncia in un poemetto di Serricchio rosee di peschi, bianche di susini» (Pascoli) alle «Nuvole di chiome senza più volti», dagli «interminati spazi» (Leopardi) all’ «Interminato strepitio», dagli «schiocchi di merli» e dallo «scoppio delle tue risate (Montale) agli «schiocchi di fionde» e agli «scoppi di mitra» dagli «orizzonti di oceani» (Ungaretti) e dagli «orizzonti della campagna» (Pasolini) agli «orizzonti di filo spinato». Sul piano figurativo, la sintassi del negativo (della sottrazione, della divisione, della sparizione) viene esperita con la serie nutritissima delle sineddochi o (con più pertinente linguaggio cinematografico, perché relativo alla rappresentazione visiva) di primi piani e dettagli, sia di segmenti anatomici (capelli, occhi, cuori, mani, chiome), sia di oggetti pertinenti al mondo umano (pettini, occhiali, valige, vesti, bavette, biberon, tazze, scarpe, zoccolo). La persistenza degli oggetti e la scomposizione di parti anatomiche, scorporate dall’unità della persona umana, mettono in evidenza, per contrasto, il connotato dell’assenza, della sparizione dell’umano. Nel quadro generale delle figure di limitazione e di elisione, anche riferite alla retrocessione temporale («Non hanno più colore i capelli di Aushwitz», «Fermo al non ritorno il treno dai finestrini sbarrati», «Capelli crespi, lisci, inanellati d’oro e d’ebano/ un tempo nella luce dei giorni e delle stagioni», «Occhi sbarrati, cuori e infinite mani, tenere mani/ di bimbi strappati alle madri […]», «uomini/ e donne spenti nell’immondo furore dei gesti» «valige con nomi stinti […]», «biberon e tazze, appena abbandonati», «reliquie di un mondo incenerito»), che richiamano l’allontanamento, la scomparsa, la cancellazione, è da segnalare un meccanismo stilistico del tutto particolare. Infatti, il panorama tragico della sparizione viene elevato alla terza potenza dalla figurazione straordinaria fondata su una doppia sineddoche, ulteriormente collegata da monemi di sottrazione o privazione, rappresentati dalla serie di negazioni e di disgiunzioni morfologiche e lessicali: «Nuvole di chiome senza più volti», «montagne di pettini senza più mani», «occhiali privi di sguardi e di riflessi». Facendo ancora ricorso al linguaggio cinematografico, si può parlare di una struttura articolata su due dettagli, uno in praesentia («chiome - pettini – occhiali»), l’altro in absentia («volti - mani – sguardi»), raccordati, appunto dalle locuzioni di esclusione («senza - senza - privi»). Continuando nell’accostamento dell’universo semiologico del poemetto al piano della visione filmica, è da notare la serie di sequenze marcate da dissolvenze e l’alternanza dei predetti primi piani o dettagli (relativi all’estesissimo catalogo di oggetti e di parti anatomiche) e di campi lunghissimi o totali (le torri crollate, Hebron e Gerusalemme, i dorsi scoscesi del Kòssovo, i deserti irrigiditi dell’Iraq, i fiumi e i mari, i monti e i piani della terra, il ponte di Mostar). La prevalenza delle stratificazioni delle sineddochi sulle metafore (che, comunque, presentano un discreto numero di occorrenze), dichiara - secondo la formulazione di Jakobson2 - il tenore realistico (e tragico), rispetto a quello fantastico 2 Cfr. R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Milano Feltrinelli,1972, pp. 39-45 246 Luigi Paglia o simbolico rappresentato dalla dichiarazione metaforica. Inoltre, anche le metafore sono, in qualche modo, attratte nella dimensione metonimica, realizzando una visione espressionistica che si somma allo stravolgimento delle citazioni di cui ho parlato precedentemente. La violenta carica espressionistica delle metafore si riferisce alternativamente sia al veicolo3 («Labirinto di idiomi», «reliquie di un mondo incenerito», «parole slabbrate») sia al tenore («flutti della morte», «unti del terrore»), sia ai due elementi collegati («ragnatele di falsità», «spento il fuoco nelle lacrime», «deserti irrigiditi»). Anche sul piano macrostrutturale, è evidente la semantica del negativo. L’individuazione degli elementi logico-semantici del poemetto squaderna l’universo tematico della composizione, il quale si proietta nel sistema archetipico (ossia le «strutture psichiche quasi universali, innate o ereditarie, una specie di coscienza collettiva e si esprimono attraverso simboli particolari, carichi di una grande potenza energetica»4) e si realizza figurativamente - come già s’è visto - nella serie metonimica e metaforica. L’articolazione logico-semantica, secondo la formulazione del quadrato semiologico prospettata da Greimas5, presenta l’asse semico basilare costituito dall’antitesi guerra vs pace (relazione di contrarietà). Gli stermini e le guerre sono la tematica ossessiva, e del massimo impatto emotivo, del poemetto la quale ha il virtuale polo di contrasto, spesso implicito, nell’aspirazione alla pace e all’amore nel mondo. L’altro asse semico fondamentale è quello orientato sul dissidio mortevita (relazione di subcontrarietà), complementare e consequenziale rispetto alla relazione guerra-pace. Come ho già notato, il tema della morte e della sparizione acquista nel poemetto la massima espansione, mentre quello della vita è presente sottotraccia, come aspirazione all’implicita conquista della realizzazione umana. È vero che al destino dell’uomo appartiene, secondo la formulazione di Heidegger6, «l’essere per la morte», ma come tappa terminale di un percorso esistenziale, non come brusca interruzione, tragica negazione dello spirito vitale. I quattro termini del quadrato fondamentale, inoltre, realizzano, in posizione chiasmatica, anche delle relazioni di contraddizione: la prima mette in luce l’irriducibilità della guerra alla dimensione della vita, mentre la seconda oppone, simmetricamente, la morte alla pace. I rapporti di contrarietà istituiscono tra loro una relazione di contraddizione. Il superamento del contrasto sterminio-guerra vs pace può ravvisarsi nei due Cfr. I. A. Richards, La filosofia della retorica, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 92. Cfr. J. Chevalier, Introduzione, in J. Chevalier e A. Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Milano, Rizzoli, 1986, p.XIV. 5 Per il quadrato semiologico greimasiano, cfr. A. J. Greimas, Del senso 2, Milano, Bompiani, 1985, pp. 45-63 e 131–149. 6 M. Heidegger, Sein und Zeit, Tubingen, Max Niemeyer Verlag, 1927, trad. italiana, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1970, a c. di P. Chiodi. 3 4 247 La poesia civile e di denuncia in un poemetto di Serricchio elementi che entrano tra loro in ulteriore rapporto di contraddizione: nello sdegno, in cui si proietta quello del poeta («Ma tu, Signore, ascolta e sorgi nel tuo sdegno»), e nell’amore universale («ridona, Signore,/ l’acqua dolce della quiete […] e l’amore»), che sono ambivalenti espressioni del divino7, mentre la sublimazione dell’antitesi tra la vita e la morte è affidata alla discesa nella profondità delle fonti della vita da parte dell’umanità («ridona […] nella vena più viva, la vita agli unti del terrore). Inoltre, le due relazioni di complementarità (sterminio e guerra – morte, e pace - vita stabiliscono tra loro un ulteriore rapporto di contrarietà tra il ricorso alla violenza e invece la liberazione nella poesia («non offrirmi la fionda,ma l’umile cetra delle parole, il canto dell’arpa,/ il frullo d’ali nell’aria del mare e delle foglie»). L’articolazione logico-semantica prospettata dal quadrato semiologico trova una perfetta coincidenza (o sovrapposizione) nel sistema simbolico il quale è organizzato in modo binario sui piani superiore ed inferiore ed è polarizzato sui versanti negativo e positivo. Infatti, l’archetipo appartenente alla sfera superiore (fuoco distruttivo) e, in rapporto di complementarità ed interdipendenza, quelli della sfera inferiore (pietre, rupi, rovine, deserto) sono orientati sulla polarità negativa dell’infecondità e della distruttività. Mentre gli altri archetipi del sole e della luce, relativi al piano superiore, collegati a quelli del livello inferiore dell’acqua, dei fiumi, della vegetazione, rivelano la polarità positiva della creatività e della vitalità. Come si è cercato di puntualizzare, tutte le coordinate del significato e del significante del poemetto costituiscono un organismo compatto, interconnesso nei suoi molteplici elementi, ed hanno la logica conclusione e l’espansione nella prospettiva del tempo e dello spazio che presenta un’articolazione straordinaria, in quanto l’ampiezza dell’arco temporale e spaziale (che si estende dalla seconda guerra mondiale fino ai giorni nostri, e che si riferisce ai campi di sterminio in Germania, alle guerre recenti nei Balcani, alla distruzione delle Torri gemelle di New York dell’ 11 settembre 2001, all’invasione dell’Iraq del 2003, al conflitto israeliano - palestinese, alla ricostruzione del ponte di Mostar del 2004) viene realizzata con la sovrapposizione dei luoghi geografici e degli eventi, con l’identificazione delle stragi e delle morti, determinate da un’unica, perdurante vis disumana e distruttiva, e con la designazione quasi di un presente dilatato o sospeso. Infatti, la discontinuità dei luoghi e dei tempi è riportata alla persistenza o, meglio, alla coincidenza dall’uniformità tragica, ossia dall’evocazione della stessa tragedia in situazioni così distanti, dalla sovrapposizione di orrori su orrori nell’orizzonte temporale ricondotto al presente continuo, nella fissazione del tempo. 7 Viene presentato il doppio aspetto della divinità: il Dio veterotestamentario e il Dio dei Vangeli nelle annotazioni appunto, da una parte, della giustizia e dello sdegno, e, dall’altra, dell’amore, proclamato dal Cristo. Ritorna alla memoria una poesia di Ungaretti tematicamente orientata sulla doppia dimensione del divino: Senza più peso. 248 Recensioni Federico Andornino Luigi Paglia, Il grido e l’ultragrido. Lettura di Ungaretti (dal Sentimento del Tempo al Taccuino del Vecchio), Le Monnier Università, Firenze, 2010. di Federico Andornino Il volume nasce come naturale sviluppo del filone di ricerca espresso dall’autore nei due precedenti lavori, L’urlo e lo stupore. Lettura di Ungaretti. L’Allegria e Il viaggio ungarettiano nel tempo e nello spazio, che costituiscono il punto di partenza e il termine di paragone privilegiato per il proseguimento della riflessione sull’opera di Giuseppe Ungaretti. Come viene ricordato fin dal principio, infatti, il sistema logico-semantico e l’universo archetipico-simbolico dell’Allegria ritornano con insistenza nelle raccolte successive, sia che si tratti di un proseguimento fedele di tali schemi, sia che tale organizzazione venga sottoposta a un graduale processo di variazione: a mano a mano che si scorre la produzione poetica ungarettiana si avverte uno slittamento da un panorama ristretto ai rapporti interpersonali a un sistema di riferimento superumano, mitico o relativo al mistero metafisico. Da qui la scelta del titolo del volume: «Come nell’endiadi urlo-stupore sono sintetizzati l’orizzonte tematico e la figurazione metaforica dell’Allegria, fluttuanti tra lo strazio della guerra e lo sconfinato inebriamento cosmico, così col binomio grido-ultragrido è proposto il diagramma emotivo e stilistico delle altre opere poetiche ungarettiane, oscillanti dialetticamente tra il dolore della vita e il suo superamento nell’ultragrido metafisico». Tale equilibrio tra continuità e innovazione costituisce il cuore dell’organizzazione del libro. I primi quattro capitoli si concentrano su una singola opera (rispettivamente Sentimento del Tempo, Il Dolore, La Terra Promessa, Un grido e paesaggi), mentre quello finale racchiude le ultime raccolte del poeta (Il Taccuino del Vecchio, Apocalissi, Proverbi, Dialogo, Nuove, Croazia segreta). L’analisi di ogni opera è preceduta da un’introduzione di carattere generale che esamina, con leggere variazioni da capitolo a capitolo, la genesi e le caratteristiche della raccolta, il sistema logico-semantico, l’organismo simbolico-archetipico e le modalità stilistiche; segue una lettura stratigrafica di tutte le poesie (di cui però non viene riprodotto il testo, decisione «determinata dall’esclusivo sfruttamento economico delle opere intellettuali», pratica tristemente di moda oggi in Italia). 251 Luigi Paglia, Il grido e l’ultragrido. Lettura di Ungaretti Quasi metà del volume è occupata dal primo capitolo, relativo all’analisi di Sentimento del Tempo, la cui struttura verrà qui esposta come modello per lo schema interpretativo generale del volume. Un primo paragrafo ricostruisce la genesi e le caratteristiche della raccolta poetica, rintracciando, con notevole perizia, le prime pubblicazioni dei singoli testi e l’evoluzione della loro disposizione all’interno dell’insieme generale. Si tratta di un lavoro filologico essenziale non solo per aiutare il lettore a seguire attentamente la successione di riscritture che ha permesso la riunione di singole poesie in un insieme organico, ma anche perché restituisce uno spaccato della trasmissione culturale italiana e europea nel primo ’900 di notevole interesse. Tale percorso iniziale introduce, peraltro, le pagine dedicate alle caratteristiche principali dell’opera. Particolarmente fruttuoso risulta l’accostamento con l’Allegria, base di partenza privilegiata per individuare punti di contatto e innovazioni e per osservare da vicino l’evoluzione dell’essere poeta di Ungaretti; scrive Paglia: «Dopo l’Allegria, dopo la massima concentrazione verbale affidata alla parola, all’elemento atomico dell’enunciato, e dopo l’espansione e la semantizzazione degli spazi bianchi (che, tuttavia, perdureranno spesso nel Sentimento, però spostate dalla verticalità all’orizzontalità nello stacco tra i versi-strofe) non v’era altra via da percorrere per Ungaretti se non quella del silenzio totale, della rinuncia alla parola poetica, o il rovesciamento sull’orlo del vuoto (come un trapezista «acrobata» per non uscire dalla tangente) nel senso della progressiva (tendenziale o dialettica) riaggregazione della articolazioni metriche, sintattiche, letterarie». Poche righe che permettono però di collocare immediatamente e con una certa precisione il Sentimento del Tempo all’interno del più ampio flusso creativo ungarettiano, consentendo all’autore di allargare il proprio studio al di là delle coordinate esplicitamente dichiarate nel titolo. Ciò che viene descritto è il tentativo di cercare nuove strade, in equilibrio tra tradizione e innovazione, che siano in grado di allontanare il pericolo di un inaridimento della creazione poetica; tale esperimento viene analizzato attraverso lo studio delle soluzioni metriche, sintattiche, lessicali («rispetto alla parola “scavata” e folgorante dell’Allegria, ed alla sua costante rivoluzionaria quotidianità, si realizza il ripristino, o la reviviscenza, di un lessico sontuoso, di grande spessore storico e letterario»), del rapporto con la tradizione e dell’effetto di slittamento dalla soggettivazione dell’Allegria all’oggettivazione del Sentimento che questi cambiamenti producono. Un secondo momento della ricerca prende in considerazione il sistema logico-semantico della raccolta, ancora una volta partendo dai presupposti tematici dell’Allegria. In questo caso Paglia mette in atto una forma di visualizzazione delle tensioni semantiche interne all’opera che mi sembra particolarmente efficace: l’accostamento di elementi complementari o dialettici è reso facilmente comprensibile attraverso la rappresentazione di una serie di assi orizzontale e verticali che permette un chiaro inquadramento iniziale del Sentimento. Partendo 252 Federico Andornino da queste coordinate l’autore procede, in un secondo tempo, a ricostruire con precisione una mappa dettagliata del testo, riconoscendo due fasi principali, un momento caratterizzato da un chiaro ritorno al mito, e un secondo edenico o preistorico. È nella distanza che separa queste due porzioni che il lettore può riconoscere con maggiore facilità il significato del titolo della raccolta: l’elemento del tempo costituisce il cuore della narrazione poetica e il suo progresso da circolare a lineare fornisce all’opera un proprio sviluppo drammatico (dal tempo dell’innocenza, al peccato originale, alla caduta, alla morte, fino al riconoscimento dell’«incommensurabile distanza tra l’umano e il divino»). Strettamente legato a questa analisi è anche lo studio dell’organismo simbolico-archetipico che occupa il terzo paragrafo del primo capitolo: ancora una volta al centro dell’attenzione è il rapporto con l’Allegria e il tentativo di individuare la strada scelta da Ungaretti tra fedeltà alla propria produzione precedente e desiderio di innovazione. Indicativo, in questo senso, il potenziamento di uno degli elementi già ricorrenti nelle poesie precedenti, quello del sole distruttivo ricollegato alle manifestazioni dell’Estate, che va a rinvigorire la coppia negativa fuoco/aridità (opposta a quella positiva cielo-aria-luce/acqua-terra-ombra). L’ultima parte dello studio delle caratteristiche generali del Sentimento del Tempo è dedicata alle modalità stilistiche, con particolare riferimento alla «costellazione ossimorica ed antitetica» che rientra perfettamente nella costruzione dialettica che caratterizza l’intera raccolta e che si riallaccia, ampliandone tuttavia la portata, all’uso tipico dell’Allegria. Ampio spazio è dedicato anche alla sintassi, elemento fondamentale per lo studio della poesia di Ungaretti. Concluso questo ampio lavoro introduttivo, Paglia dà l’avvio all’analisi di ogni singolo componimento compreso nella raccolta. Si tratta di uno studio attento, rigoroso e completo che contribuisce in maniera decisiva a rendere questo volume uno strumento indispensabile non solo per gli studenti alle prese con uno dei maggiori poeti italiani del ’900, ma anche per chi si avvicini a Ungaretti in maniera più critica. Lo schema esegetico ripercorso poco sopra per l’introduzione generale viene riproposto in piccolo per ogni poesia, andando a formare una costellazione di analisi testuali puntuali e approfondite che fanno dei rimandi interni e alle opere precedenti uno dei loro principali punti di forza; in questo senso è interessante notare come alcuni testi vengano compattati in un unico movimento interpretativo, soluzione che permette di dare maggior risalto alle caratteristiche della poetica ungarettiana. La struttura che abbiamo fin qui evidenziato viene successivamente riutilizzata per le altre pubblicazioni del poeta, che occupano grossomodo la seconda porzione del libro. Nonostante l’apparente schematicità di un simile approccio, lungo tutto il corso dello studio è forte la sensazione di essere davanti a un flusso unitario di creazione letteraria: i vari capitoli mantengono separate le singole opere, ma i continui rimandi al resto dell’universo poetico ungarettiano che 253 Luigi Paglia, Il grido e l’ultragrido. Lettura di Ungaretti Paglia dissemina all’interno della sua analisi consentono al lettore di aver sempre presenti alcuni punti di riferimento essenziali, a loro volta stabilmente inseriti in un contesto cronologico preciso. Si raggiunge così un felice equilibrio tra la volontà di scandaglio rigoroso di ogni poesia e il tentativo di restituire al lettore un quadro generale ben definito; ciò che ne deriva è uno strumento imprescindibile per l’esame della produzione di Giuseppe Ungaretti e, risultato forse ancora più pregevole, un modello di organizzazione testuale convincente per chi voglia intraprendere lo studio di un autore attraverso l’analisi della sua produzione poetica. 254 Grazia Stella Elia La ricerca linguistica e lo scavo interiore nella poesia di Francesco Granatiero di Grazia Stella Elia Il lettore di Francesco Granatiero è avvezzo, ormai, alla profondità della sua poesia; sa che, leggendo i suoi versi, incontrerà un poeta serio, autentico, che attinge sempre alla fonte inesauribile della sua interiorità. È certo che gli anni della sua fanciullezza – adolescenza di vita contadina vissuta con suo padre tra radure ed anfratti del Gargano hanno inciso moltissimo sulla sua formazione umana e poetica. Non vi è opera sua che non riporti a quel periodo, che non richiami i luoghi, le persone, i suoni di quel tempo che indelebilmente doveva segnarlo, dotandolo della inesauribile ricchezza della parola in dialetto, spesso insostituibile per forza e pregnanza. La prima pubblicazione di poesie in vernacolo (All’acchitte) risale al 1976; seguono U iréne (1983), La préte de Bbacùcche (1986), Enece (1994), Iréve (1995), L’endice la grava (1997), Scùerzele (2002), Bbommine (2006), Passéte (2008); ed eccoci a La chiéve de l’urte, il libro da poco venuto alla luce con Interlinea Edizioni di Novara. Emblematico ed allusivo il titolo La chiéve de l’urte: metaforica la chiave e metaforico l’orto (hortus conclusus dei latini?). Ancora una volta l’impostazione è piuttosto dialogica, visto che Francesco, da sempre, fa il poeta parlando con suo padre o con altre persone scomparse o più di rado viventi. Dalla terra garganica, da quella terra aspra, eppure resa feconda dalla caparbia fatica dell’uomo, da quella terra ricca di voragini e di profumi, lontana ma viva nell’anima, giungono al poeta suoni e voci; ed ecco fiorire settenari perfetti, con una musicalità terragna che avvince e coinvolge. Una vera singolarità che si riscontra in Granatiero è questa: dall’incontro – scontro di alcune consonanti, seguite da una o due vocali, scoppia il fuoco pirotecnico dei suoni, lo sfolgorio delle parole; ed è questo uno dei tanti motivi per i quali i testi vanno letti nella scrittura originaria, prima di passare alla traduzione, che pure è attenta, precisa, volta in una lingua italiana sempre ligia alle sue regole. Ma veniamo ai contenuti di questo importante libro, che rappresenta un 255 La ricerca linguistica e lo scavo interiore nella poesia di Francesco Granatiero nuovo ammirevole tassello nel variegato mosaico della produzione letteraria di Granatiero. I temi sono molteplici, vari, tutti ricollegabili a quell’universo montano e contadino divenuto la fonte di ispirazione del poeta. Può bastare il balenio, nella mente, dei vigliacci, delle masserizie, delle coccinelle, di un pulcino solitario, di un orcio, oppure il ricordo di una paura, di un incubo, perché la composizione poetica si delinei, per poi, con la perizia del poeta, perfezionarsi. Capita di imbattersi in vere e proprie chicche, con versi di chiusura lapidari ed ossimorici. Ritengo opportuno riportare qui, quale esempio, Paròule di pagina 62: Morte e nne mmòrte, bbone sckitte s’allangalèdde nòmene angòre a qquédde che vè ‘ ppèrde, ca ndròne pe nn’addòure murtèdde nd’u uuacànde òue resòne patàcche e ppe nna quédde tréme nde lu strascjòune che nzacce cume tòrne, sémbe mbra végghie e ssùnne, ròpele mborme curle e aggire runne runne fine che ne nge addòrme nd’u ccitte de lu vurle. Parola – Morta e non morta, buona / soltanto se precaria / nomina ancora ciò / che va a morire, che rintrona // con un odore di mirto / nel vuoto in cui risuona / patacca e per un non so che / trema nella bella stagione // che non so come ritorni, / sempre tra veglia e sonno, / rotola come trottola // e gira intorno intorno / fino a che non dorme / nel silenzio dell’urlo. Versi forti, pregnanti, incisivi, in cui ogni parola rimanda a concetti, a pensieri, ad una filosofia di vita complessa e tormentata; e mi sembra eloquente, a questo proposito, la poesia della pagina seguente: Ruscegnùle (Usignolo), i cui versi conclusivi recitano: Chi la vite lu sénghe cande quedde che sconde e u cande assènza lenghe. 256 Grazia Stella Elia (Chi dalla vita è segnato / canta quello che sconta / e lo canta senza lingua.) Il mistero del mondo e del vivere induce il poeta a porsi domande, per concludere che la sua convinzione è questa: “Noi abbiamo una sporta / che dobbiamo riempire di domandi”. Nel tramestio della vita, tra amarezze e burrasche, la speranza non muore perché “l’acqua del mio bene / se non piove in cielo sta; / […] // E speranzoso aspetto / sempre che un’acqua giovi / spegnendo la mia sete: // Al cuore quanto è buono, / un sorso di pioggia / e sia tra lampi e tuoni”. Ci sarà la luce di settembre ad entrare “dolce in casa”; lo esorterà a “godere / questa carezza lunga, / ché nulla abbiamo in cambio; // per i giorni a venire / riempirmi il vassoio / della luce che varia”. Alla resa dei conti, ecco l’insegnamento, l’esortazione vera e saggia: “Dobbiamo cercarla qua, / noi, la chiave dell’orto”. Si esce dalla lettura di questo libro sorpresi ed ammirati dalla forza che dai versi emana: una forza quasi magnetica che è poi una delle principali peculiarità della terra garganica, terra di sole, di luce, di poesia. 257 Leonardo P. Aucello Panoramica storico-letteraria su Francesco Giuliani, italianista di San Severo di Leonardo P. Aucello L’autore che mi pregio di presentare, Francesco Giuliani, nativo di San Severo, dove risiede, ha un duplice primato professionale e intellettuale tanto che mi pare quasi d’obbligo definirlo un enfant prodige. Infatti se si osserva la sua scheda di studente prima e di docente poi saltano agli occhi encomiabili risultati: maturato con il massimo dei voti nel 1980 al liceo classico di San Severo e laureato anche con il massimo dei voti in Lettere all’Università di Bari nel 1985; e, infine, spostando l’attenzione sulla carriera di docente di Italiano e Latino nei Licei, risulta primo assoluto nella graduatoria di merito della provincia di Foggia nel concorso a cattedre ordinario nel 1992; oltre, naturalmente, ad alcune idoneità a pubblici concorsi come ricercatore nell’Università di Bari, e come contrattista presso le Università di Pescara e di Foggia nelle rispettive Facoltà di Lingue e di Lettere. Insomma una carriera a tutto tondo! Ma un primato, nell’ambito intellettuale-letterario in Capitanata, Francesco Giuliani, a mio avviso, lo detiene, rapportandolo all’età, anche per quanto riguarda la produzione di opere e di saggi editi. Se pensate che intorno ai quarant’anni aveva già all’attivo più di venti pubblicazioni tra analisi letteraria, linguistica, critica testuale e ricerca storica sul territorio, in prevalenza sulla città di San Severo: un bel salvacondotto per onori e risultati sempre più ambìti. Attraverso l’analisi di questo Saggio, voglio raggiungere un duplice scopo: innanzitutto far conoscere a un pubblico più vasto (anche se, grosso modo, non ce ne sarebbe bisogno) questo autore con un così ampio ventaglio di conoscenze e di studi di un certo rilievo; ma anche, cogliere a volo il momento di una sua ricerca intitolata Occasioni letterarie pugliesi, Edizioni del Rosone, Foggia 2004, inclusa nella Collana Testimonianze, diretta da Benito Mundi, anch’egli di San Severo, deceduto nel 2011, già Direttore della civica biblioteca del suo paese, e, consigliere della Fondazione di Cultura Angelo e Pasquale Soccio, ubicata nei locali della biblioteca comunale di San Marco in Lamis, per rievocare indirettamente, attraverso l’analisi di alcuni saggi compresi nella raccolta, un passato glorioso della cittadina sammarchese che affiora in più parti in quest’opera di Giuliani. 259 Panoramica storico-letteraria su Francesco Giuliani, italianista di San Severo L’autore affronta un tipo particolare di studio che è una via di mezzo tra il saggio letterario e la testimonianza storico-biografica di alcuni scrittori famosi che, nel corso della loro esistenza, si sono imbattuti in situazioni ed esperienze ricollegabili, appunto, a uomini, tradizioni e paesaggi del territorio ricordato. E sembra che un filo sottile di memorie rivisitate in una retrospettiva di immagini ed afflato poetico con l’ambiente circostante, dia luogo a un caleidoscopio di figure e descrizioni di un certo rilievo, tali da permettere al lettore di ritrovarsi in un cammino a ritroso a ricercare fatti e gente di un passato non tanto lontano incontrati di nuovo attraverso il racconto o la prosa colta ed elevata che concede forza e vigore alla storia collettiva, o soltanto personale, di luoghi e ambienti del Novecento culturale pugliese e oltre. Nel volume appaiono autori come Edmondo De Amicis con la celebre novella Fortezza, ossia Castelpagano, collocata ai margini del Promontorio garganico, quale vedetta della piana sottostante. Di questo racconto già ne aveva parlato Pasquale Soccio in una sua opera, costituendo tale “Fortezza” il simbolo di un periodo di transizione, quale è stato, appunto, quello postunitario, alle prese con la guerra di brigantaggio filoborbonico, in cui si svolge la trama con il suo epilogo amoroso tra una brigantessa carceraria e un soldato piemontese. Ma il testo di Giuliani è ricco anche di altre vicende intellettuali, come l’amicizia tra l’avvocato di Torremaggiore Giuseppe Leccisotti e il grande poeta romagnolo Giovanni Pascoli. Quest’ultimo ha avuto sempre a cuore poeti e studiosi pugliesi: basti ricordare, tra l’altro, seppure si tratti di un fatto poco noto al pubblico, la stima e l’affetto che ebbe nei confronti di un giovane studente di Lettere, di cui parleremo subito dopo, suo allievo, il professor Giustiniano Serrilli, di San Marco in Lamis, futuro Preside della Provincia di Foggia durante il Fascismo. Inoltre va preso come punto di riferimento l’analisi che Giuliani compie riguardo ai felici volumi Gargano segreto e Incontri memorabili del già ricordato Pasquale Soccio; per continuare con il saggio su Riccardo Bacchelli e il Gargano. Basti pensare che l’autore del celebre romanzo Il mulino del Po giunse in Capitanata in veste di inviato nel 1929 del quotidiano “La Stampa” per una serie di servizi sul Gargano: la prima nel 1929 e la seconda nel dopoguerra, ospite a Rodi Garganico della signora donna Giuseppina Russo, vedova del professor Serrilli. Mentre nel ’29 aveva alloggiato nella casa signorile di San Marco in Lamis dei coniugi Serrilli, di cui il marito, il professor Giustiniano, era stato suo compagno di studi alla Facoltà di Lettere nell’Ateneo di Bologna. In quel viaggio Bacchelli, insieme allo studioso sammarchese, visitò il Santo delle Stimmate, Padre Pio, a San Giovanni Rotondo, la Grotta di San Michele a Monte Sant’Angelo; ma, soprattutto, la riviera settentrionale garganica nella zona compresa tra Rodi e San Menaio, ospite con il genero dei suoceri del Serrilli. Tutto questo costituisce motivo di vanto poiché è possibile per i sammarchesi rimarcare un passato storico-culturale più glorioso e meno grigio e dolente di 260 Leonardo P. Aucello quello di oggi, per quanto si dica, non so se in maniera adeguata o forzata, che la suddetta cittadina resta un punto di snodo importante di cultura nell’intero territorio di Capitanata. Ma l’autore accenna pure a scrittori più propriamente pugliesi, a partire da Franco Cassano, che visse lungamente a Bari, studioso di problematiche sia politiche che sociali. Ma tornando alla produzione complessiva dell’intera opera vorrei per sommi capi citare per argomenti i vari titoli: Francesco Giuliani è un autore versatile, nel senso pieno della parola, in quanto affronta, pur rimanendo nell’ambito strettamente linguistico-letterario e storico, svariati temi, la maggior parte dei quali ha delle forti ripercussioni nell’ambito della Puglia in genere e della Capitanata in specie. Basti ricordare i suoi lavori sugli intellettuali più in vista di San Severo nel Novecento: dai due scritti su Umberto Fraccacreta, L’eterno e il transitorio e i Poemetti scelti, a Nino Casiglio, La lezione sbagliata, al poeta futurista Mario Carli. Ma la sua indagine scopre orizzonti più vasti incontrando autori classici della letteratura italiana poiché egli riesce a offrirci dei saggi anche sugli Idilli alpini di Giosuè Carducci, oltre all’opera su D’Annunzio a Fiume, alle Presenze animali nei “Canti” di Leopardi, agli studi su alcune novelle di Giovanni Verga. Francesco Giuliani è iscritto dal 1989 all’Albo dei Giornalisti Pubblicisti di Bari e collabora a varie testate, tra cui, anni addietro appariva spesso sulla pagina culturale del quotidiano, “Il Secolo d’Italia”, Organo di stampa un tempo di Alleanza Nazionale. Ha recensito qualche centinaia di testi di rilevanza territoriale e nazionale. È socio dal 1998, per l’importanza dei suoi studi, della Società di Storia Patria per la Puglia: infatti vanno ricordati i suoi approfondimenti sulla storia e la biografia di alcuni personaggi di San Severo: Angelo Fraccacreta, il dolore di una vita; Il teatro a San Severo, dal Real Borboni al Verdi; Appunti cronologici sulla città di San Severo; San Severo nel Novecento. Mi vorrei soffermare su qualche aspetto importante di alcune opere di Giuliani, soprattutto quelle concernenti le indagini sull’ambiente sanseverese. Egli rimane, fino a questo momento, il biografo ufficiale di un bravo scrittore, suo conterraneo, Nino Casiglio. Personalmente ho letto la maggior parte dei romanzi e sono convinto, come penso lo sia chi lo ha frequentato direttamente o solo attraverso i libri, della grande cultura che egli possedeva e che, come i veri scrittori di razza, la sanno trasferire nelle loro opere; per questo credo che non vada dimenticato e che venga continuamente, se è possibile, rivalutato, con la ripubblicazione di qualche suo romanzo o con altri lavori critici, tali da permettere una continuazione e un impegno in senso rafforzativo del corpus letterario di Casiglio, soprattutto in un’epoca, come la nostra, in cui i temi culturali soccombono, o addirittura scompaiono di fronte al dio denaro e al relativo mito del consumismo; pertanto, eccetto i nomi gloriosi della storia letteraria che trovano sempre spazio in ogni collana e in ogni edizione, per gli altri pare non ci sia mai spazio: e certamente anche Casiglio rientra in questa casistica, seppure in maniera immeritata. 261 Panoramica storico-letteraria su Francesco Giuliani, italianista di San Severo Giuliani, dicevo, resta finora l’unico studioso che abbia affrontato seriamente un’analisi, attingendo alle fonti dirette e primigenie dei suoi romanzi, tutti pubblicati da Case editrici nazionali, a partire da Il conservatore, ad Acqua e sale, La strada Francesca e, l’ultimo, La dama forestiera del 1983. Casiglio era uno scrittore, secondo Giuliani, che si chiedeva del perché delle cose andando fino in fondo ai caratteri dei suoi personaggi e agli ambienti descritti restando sempre attento a ricercare uomini veri, seppure apparentemente sconfitti dai fatti e dalla storia, la quale non sempre conduce al bene e alla vittoria di una società più equa ed umana. Per questo nell’ambito meridionale la sua è una voce isolata e questo Giuliani lo conferma attraverso una attenta disamina del pensiero e della produzione letteraria da cui si ricavano le note qualità artistiche della sua eredità di uomo e di scrittore. Precedente alla raccolta di saggi che voglio riportare, Giuliani, sempre nella stessa Collana diretta da Benito Mundi per conto delle Edizioni del Rosone di Foggia, ha pubblicato un altro volumi di studi intitolato Viaggi letterari nella pianura La pubblicazione dei Viaggi letterari precede di due anni quella delle Occasioni letterarie: la prima del 2002 e la seconda del 2004. Ma c’è un unico filo conduttore in entrambe le opere: gli intellettuali pugliesi e il loro rapporto con la letteratura e gli scrittori nazionali. La pianura, naturalmente, è il Tavoliere delle Puglie con le sue sfaccettature antropologiche e geografiche, non solo come ricchezza dei terreni, ma anche come carrefour di romei e di pastori di un tempo e oggi di industria alimentare e di turismo. E per tutto il Novecento essa ha costituito un punto di incontro tra le diverse componenti sociali, ma soprattutto culturali: si badi che il centro dello storicismo politico-filosofico era situato nella nostra Regione, cioè a Bari, presso l’Editore Laterza dove Benedetto Croce aveva la sua fucina di pensiero, oltre che la sua Collana editoriale di Filosofia. La Puglia, quindi, nella prima metà del secolo, è un crocevia di sapere e di saperi. Ma insieme a Croce anche intellettuali di prim’ordine incontrano sulla loro strada la vita intellettuale di provincia, ma protesa verso grandi ideali culturali e ideologici; ci riferiamo a Francesco De Sanctis, autore della magnifica Storia della Letteratura italiana, che incrocia le terre del Tavoliere, San Severo compresa, essendo deputato di quel Collegio dal 1866 al 1875. Questo viaggio culturale di Giuliani ha una lunghezza storica di più di un secolo, in quanto altri intellettuali appaiono nel panorama delle terre di Capitanata, a partire da Umberto Fraccacreta prima, per proseguire con il noto poeta futurista Mario Carli; per terminare il cammino nella seconda metà del Novecento con altre figure di rilievo, ossia Vittorio Marchesi prima ed Emanuele Italia dopo. Di quest’ultimo, oriundo delle Marche, ma trasferito per motivi di lavoro a San Severo, Giuliani riesce a trovare degli addentellati tra i luoghi di origine del poeta e scrittore e il paese di elezione, cioè San Severo. Riguardo invece al volume di Occasioni letterarie, vorrei soffermarmi, seppur 262 Leonardo P. Aucello brevemente, sui due saggi su Pasquale Soccio, di cui il sottoscritto ha avuto l’onore di essere stato, immeritatamente, uno degli ultimi allievi a cui il professor Soccio ha prestato la sua intelligenza, la sua cultura, il suo affetto paterno. Giuliani analizza in maniera precisa e completa due volume di Pasquale Soccio: Gargano segreto nelle sue varie edizioni, a partire dalla prima del 1965 che gli è valsa la vittoria al Premio “Gargano” di quell’anno, fino all’edizione di lusso del 2000 voluta dalla Comunità montana del Gargano e Incontri memorabili, l’opera postuma curata da Benito Mundi, che narra in prima persona gli incontri e le amicizie con i grandi artisti e intellettuali di fama nazionale e internazionale, e che hanno fatto di Soccio una figura nitida ed emblematica dell’intero panorama culturale pugliese, ma anche, oserei dire, meridionale. Per ciò che concerne Gargano segreto Giuliani riesce a offrire un’indagine completa dei motivi ispiratori del testo socciano; con l’aggiunta di nuovi capitoli (di cui il sottoscritto è stato colui al quale lo scrittore ha dettato interi paragrafi), frutto di una visione moderna e diversa della natura contaminata di larga parte del Promontorio. Giuliani dà una visione completa di questo libro con le sue sfumature di stile rondista e di approccio verso i luoghi, l’ambiente e le tradizioni intorno ai quali si muove l’ispirazione di Soccio. L’autore, quindi, sa dare compattezza alla materia analizzata attraverso le molteplici sfaccettature che la caratterizzano, con lo sguardo sempre di chi ha un segreto intendimento: quello di riuscire a creare un vero e proprio connubio tra arte, critica stilistica e ispirazione, a cui il libro di Soccio non si sottrae; ma sempre con l’intento di trovare dei punti di riferimento con il territorio descritto. Quel che voglio aggiungere riguardo allo stile sobrio e dettagliato, adottato da Giuliani nelle opere summenzionate, posso dire che egli, attraverso lo scavo di notizie e informazioni, le più pertinenti, come avviene in alcune pagine, sonda l’animo degli scrittori con un linguaggio esso stesso poetico in cui non si scorge più l’indagine critica ma il delinearsi di una vera e propria narrazione nella narrazione. E l’autore di questi aspetti è in grado di scandire le movenze dell’animo e dei sentimenti più reconditi. Non so se Giuliani conosca la raccolta di Saggi del giornalista-scrittore del Corriere della Sera, Giovanni Russo, Baroni e contadini, pubblicata la prima volta nel 1955 presso l’Editore Laterza di Bari. Ebbene, uno dei capitoli di quel libro porta il titolo Le bandiere di San Severo e racconta di una sua visita agli inizi degli anni ‘50 nella città pugliese, che già allora, come riferisce l’autore, contava ben cinquantamila abitanti. Giovanni Russo arriva a San Severo in estate, in uno di quei giorni torridi, verso mezzogiorno inoltrato, nei roventi minuti di “un meriggiare pallido e assorto”, per dirla con Montale, e scopre una città placida e assolata dalla contr’ora, come sogliono dire i sanseveresi, con i braccianti raccolti a capannello davanti alla camera del lavoro, dove è ubicata tuttora, verso l’exmercato rionale della frutta, i quali si godono la calura estiva a chiacchierare sulla vita politica locale 263 Panoramica storico-letteraria su Francesco Giuliani, italianista di San Severo e i guadagni dei frutti della terra produttiva circostante. Russo incontra anche alcuni notabili ed amministratori locali e da questa descrizione viene fuori un vero spaccato socio-antropologico di prima mano a cui gli studiosi di oggi dovrebbero, in un certo qual modo, attingere. Per esempio, nell’antologia curata da Davide Grittani, Verso Sud, per conto dell’Amministrazione provinciale di Foggia, presso Grenzi Editore, non compare questo bel saggio di Giovanni Russo, e né l’altro sugli Ebrei di Sannicandro Garganico, mentre è riportata una pagina dal sapore amaro di Andrea Pazienza, oriundo di San Severo, geniale disegnatore, che ha rivoluzionato il fumetto italiano, personaggio singolare su cui è stato girato un film. Viene allora da chiedersi, per concludere il mio discorso, seppure da persona esterna, qual è la differenza tra i due aspetti storici dalla San Severo di allora a quella di adesso? Certamente, a mio modesto avviso, c’è un gran salto in avanti dagli anni cinquanta ad oggi. San Severo, attualmente, continua ad essere una città viva culturalmente, socialmente ed economicamente. Ha avuto per alcuni anni, fino alla Riforma universitaria del ministro Gelmini, la sede staccata della Facoltà di Agraria di Foggia, oltre a un bel teatro con una stagione lirica apprezzabile. Conserva dei musei storici e preistorici molto forniti come reperti; una ricca produzione di olio e vino, di quest’ultimo è famoso, per restare nell’ambito enologico, “il bianco” di San Severo. Anche dal punto di vista culturale ci sono tuttora dei fermenti, a partire dalla Società di Storia Patria alla sezione dell’Archeo Club d’Italia che da anni si fa promotrice di convegni preistorici, protostorici e storici della Daunia; oltre a ben due quotidiani che riguardano solo la cronaca e le notizie di San Severo e una emittente televisiva locale. Ma San Severo si porta dietro anche tutte le magagne della società odierna, soprattutto del Sud, con una criminalità delle più organizzate del territorio di Capitanata, soprattutto nello spaccio di droga, essendo la città, a motivo dello scalo ferroviario e del transito della statale 16 e dell’autostrada 14, un punto di traffico dal Nord al Sud di corrieri della droga; oltre al racket della prostituzione e delle tangenti. Tutto questo sembra far diminuire l’importanza di questo centro agricolo preminente. Ma San Severo resta sempre e comunque un vivo, attivo e sano ambiente produttivo, civile e culturale. E la presentazione del profilo analitico del critico letterario Francesco Giuliani ne è la prova indiscussa di tutto quanto abbiamo constatato e riferito. 264 Gli autori Gli autori Federico Andornino si è laureato in Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Siena con una tesi sulla caratterizzazione linguistica dei personaggi dell’Inferno dantesco e la Lagersprache utilizzata nelle opere di Primo Levi. Ha conseguito la Laurea Magistrale in Lingua e Letteratura Italiana presso l’Università di Pisa con una tesi dal titolo Realtà e finzione nella Commedia (relatore il prof. Marco Santagata) ed è diplomato presso la Scuola Normale Superiore di Pisa. Nel 2011 ha ricevuto un Master of Arts with Distinction in Editoria dall’University College of London. Ha collaborato con la rivista di Letteratura italiana “Per leggere”, da cui è tratto lo scritto pubblicato. Lavora come Junior Editor per la narrativa straniera presso la casa editrice Rizzoli. Leonardo P. Aucello è nato e vive a San Marco in Lamis, sul Gargano. Insegna Lettere nelle scuole superiori. Coltiva da anni la passione per la poesia dialettale con la pubblicazione di alcune raccolte di poesie in vernacolo garganico, tra cui L’occhie mariole (Levante Editori, Bari, 2005). Ha pubblicato, inoltre, alcuni volumi sulla cultura e la tradizione popolare del Gargano, come Il Palio delle messi (Levante Editori, Bari, 1998); Il bracciante e il latifondista (Levante Editori, Bari, 2002). Alcuni suoi Saggi sono apparsi su alcune riviste specializzate. Di recente ha dato alle stampe il volume La donna dei piccioni – Racconti, incontri pubblici, testimonianze, articoli, recensioni e ricordi 2004-2007 (Edizioni Starale 3, San Marco in Lamis, 2008). È iscritto da oltre venti anni all’Ordine dei Giornalisti-Pubblicisti con un ampio ventaglio di articoli di varia natura su riviste e giornali locali e regionali. Mario Cassar, nato a Malta nel 1962. È un docente al Junior College dell’Università di Malta. Ha pubblicato diversi saggi e studi sulla lingua, letteratura e onomastica maltese. Il suoi libri più importanti fino ad oggi sono The Surnames of the Maltese Islands: An Etymological Dictionary [I cognomi delle isole maltesi: un dizionario etimologico] (Malta, 2003) e L’ultima città musulmana: Lucera (co-autore con Giuseppe Staccioli, Bari, 2012). Recentemente ha conseguito il Ph.D. con la tesi dottorale dal titolo ‘Maltese Surnames: The Italian and Sicilian Connections’ [‘Cognomi maltesi: le connessioni italiane e siciliane’]. È membro dell’Accademia Maltese e dell’ ICOS (International Council of Onomastic Sciences). Giacomo Cirsone, nato a Cerignola (FG) nel 1982. Consegue la Laurea Specialistica di II Livello in Archeologia presso l’Università degli Studi di Roma 267 Gli autori “Tor Vergata”. Attualmente frequenta i corsi della Scuola di Specializzazione in Beni Archeologici, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Tra il 2002 ed il 2005, ha preso parte a numerose campagne di scavo e ricognizioni sul territorio con l’Università di Foggia; ha seguito inoltre numerosi cantieri archeologici d’emergenza nell’ambito dell’area urbana di Roma, ed in Basilicata ha diretto tra il 2008 ed il 2009 il cantiere di scavo tardomedievale nella Chiesa Madre “S. Maria Assunta” a Laurenzana (Pz). Ha pubblicato: Indagini archeologiche nella Chiesa Madre “S. Maria Assunta in Laurenzana (PZ). Relazione di Scavo, 2010; Addendum. Intervento 2009, 2010 (on line sul sito www.archeologiamedievale.it). Sergio D’Amaro collabora a varie riviste e al quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Ha scritto saggi storico-letterari, libri di poesia, inchieste e racconti ispirati ai “vinti” del Sud. Suoi testi sono inseriti in antologie anche all’estero. È autore, con Gigliola De Donato, della biografia di Carlo Levi Un torinese del Sud (Baldini Castoldi Dalai 20052). Tra i suoi titoli: Il ponte di Heidelberg (1990), Beatles (2004), Terra dei passati destini (2005), Fotografie e altre istantanee (2008), 20th Century Vox (2009), Romanzo meridionale (2010). È promotore e corresponsabile di due centri studio sulla storia e la letteratura delle migrazioni, per i quali dirige la rivista “Frontiere”. Paolo De Caro «Ludere pro eludere: alcune agnizioni e qualche ipotesi a rischio per il cosiddetto «Diario postumo» di Eugenio Montale, «Annuario della Fondazione Schlesinger», Lugano, [novembre] 1994, pp. 91-221; «Journey to Irma. Una approssimazione all’ispiratrice americana di Eugenio Montale. Parte prima: Irma, un “romanzo”, Foggia, De Meo, 1996 (Premio “Ossi di seppia”, Monterosso al mare, 1997). Nuova edizione accresciuta: Foggia, De Meo, 1999; “Irma politica: l’ispiratrice di Eugenio Montale dall’americanismo all’antifascismo”, Foggia, Renzulli, 2001; “Invenzioni di ricordi. Vite in poesia di tre ispiratrici montaliane”, Foggia, Centro Grafico Francescano, 2007 (Premio Parchi letterari, Fondazione “Ippolito e Stanislao Nievo”, Monterosso al mare, 2008). Quel giorno «troppo folto» di Montale. Una lettura di “Eastbourne”, Foggia, Koine Comunicazione, 2011. Pasquale di Cicco (Maddaloni, 1930) ha diretto l’Archivio di Stato di Foggia e la sezione di Archivio di Stato di Lucera dal 1959 al 1994. È autore di molte pubblicazioni. Tra i suoi ultimi lavori: Il Molise e la transumanza; La Reale Società Economica di Capitanata (con Isabella di Cicco); I Consigli provinciali e distrettuali di Capitanata (con Tiziana di Cicco); Il Giornale Patrio Villani (1801-1860); Il Libro Rosso di Foggia; La lettera di cambio nel sistema creditizio molisano (secc. XVIII-XIX). Grazia Stella Elia è nata a Trinitapoli (Foggia). Ha insegnato per molti anni, 268 Gli autori trasmettendo ai suoi alunni l’amore per la poesia e il teatro. Si è impegnata, sin da giovanissima, nello studio del suo dialetto (“casalino”). Ha operato nel campo della cultura, organizzando convegni ed incontri. Nel 1995 ha rappresentato l’Italia partecipando al XXXII International Meeting of Writers di Belgrado con la relazione sul tema Una preghiera per il XXI secolo. Ha diretto i Corsi dell’Università della terza età (UNITRE). È presente, con versi sia in lingua che in dialetto, in varie antologie. Suoi componimenti sono stati tradotti in lingua serbo – croata. Collabora con saggi, articoli e recensioni a vari giornali e riviste. Michele Galante, nato a San Marco in Lamis, vive attualmente a Foggia. Ha svolto per molti anni una intensa attività politica come dirigente provinciale e regionale del Pci, Pds e Ds, ricoprendo diversi incarichi pubblici: consigliere comunale, consigliere provinciale, sindaco di San Marco in Lamis e deputato al Parlamento nella X Legislatura. È autore di diversi pubblicazioni tra le quali: Criminalità e illegalità in capitanata (1992), Parco nazionale del Gargano. Il difficile avvio (1996), L’eccidio ignorato. San marco in Lamis: 8 marzo 1905 (2000), Le belle bandiere (2002), Bibliografia degli iscritti di/su Pasquale Soccio (2004), Il filo rosso di Puglia. Ritratti di Capitanata (2007), Dalla Repubblica all’assassinio Moro. Storia elettorale di capitanata (2009). Insieme con la sorella Grazia ha pubblicato il Dizionario del dialetto di San Marco in Lamis (2006). Ha inoltre al suo attivo numerosi saggi sulla storia dei partiti politici in Capitanata e sul brigantaggio. Michele Orlando dedica i suoi studi alla civiltà e alle tradizioni letterarie dell’umanesimo e del rinascimento, con particolare attenzione alla storiografi a meridionale. Dottore di ricerca in Italianistica, insegna attualmente materie letterarie in una scuola media secondaria di primo grado. È autore di diversi saggi. Insieme a Pio Pagliaro (presidente della Globalenergia di Cerignola) ha ideato e realizzato una tavola rotonda sul tema “Energie rinnovabili e ambienti urbani. La dimensione territoriale della sostenibilità”, tenutosi a Vieste a marzo 2008, con il proposito di indagare il campo delle energie rinnovabili e del risparmio energetico e affrontare con una prospettiva politica, cioè nel senso di una prospettiva propriamente civile e urbana, la questione ambientale legata agli ambienti cittadini, il delicato rapporto tra energia e ricchezza. Luigi Paglia ha insegnato Letteratura italiana contemporanea, Teoria e prassi dell’intertestualità, Laboratorio di Scrittura e Informatica per la Letteratura nella Facoltà di Lettere dell’Università di Foggia. Ha pubblicato in volume: Invito alla lettura di Marinetti (Mursia, 1977); Poeti in Puglia, in Inchiesta sulla poesia (Bastogi, 1979); Luzi, in Poesia italiana del Novecento (Editori Riuniti, 1993); Ungaretti, in Letteratura italiana ed utopia (Editori Riuniti, 1995); L’urlo e lo stupore. Lettura di Ungaretti. L’Allegria (Le Monnier, 2003); Il viaggio ungarettiano nel tempo e 269 Gli autori nello spazio (Grenzi, 2005); Il grido e l’ultragrido. Lettura di Ungaretti (Mondadori, 2009); La scrittura e l’immagine (FBM, 2012) e la voce Marinetti, nel Dizionario biografico della Treccani (2008), oltre a numerosi “libri d’artista”. Suoi saggi sono apparsi in riviste italiane e straniere («Strumenti critici», «Lingua e Stile», «Annali dell’Università di Roma La Sapienza», «Critica letteraria», «Otto/Novecento», «Rivista della Letteratura Italiana”, «Nuova Antologia», “Rapporti», di cui è stato membro della direzione, «Paragone», «Giornale storico della letteratura italiana», «La nuova ricerca», «Misure critiche», «Forum italicum», «Italica») su Dante, T.S. Eliot, Grass, Ungaretti, Luzi, Pirandello, Betti, le metodologie critiche. Ha, inoltre, curato il volume Novecento per la Società Dante Alighieri (2003). Nunziata Quitadamo si è laureata in Lettere Classiche presso l’Università degli Studi di Bari, è stata titolare di materie letterarie e latino negli Istituti superiori di secondo grado. Presidente del Distretto Scolastico di Manfredonia dal 1994 in poi, ha pubblicato diversi articoli di ispirazione sociale. Dal 2003 in poi ha insegnato presso l’Accademia “P.Pio” materie di studio riguardanti la Storia della Sociologia e Psicologia anche in relazione ai disabili. Si è resa promotrice della pubblicazione dei seguenti libri: Guida Universitaria (29 Distretto Scolastico di Manfredonia, 1995 e 1996), Siponto e Manfredonia nella Daunia (Atti del V Convegno di Studi in Collaborazione col Comune e la Società di Soria Patria per la Puglia), Luci del sud (Festa della poesia, 1999), Atti ed esperienze del Consiglio Scolastico Distrettuale dal 1985 al 2002, Ditte e scritte (Sentieri Meridiani Edizioni, Foggia, 2009) con prefazione di Ugo Vignuzzi e postazione di Cristanziano Serricchio, è in corso di pubblicazione un libro di racconti Acqua passéte. Attualmente commissario regionale per la demologia e dialettologia e Socio ordinario della Società di Storia Patria per la Puglia. Cosma Siani insegna Lingua inglese all’università di Roma Tor Vergata. Ha pubblicato testi per l’insegnamento dell’inglese con Zanichelli e La Nuova Italia. È autore di volumi di interesse letterario italiano, italoamericano, e sulla poesia dialettale, fra i quali la raccolta di recensioni Libri all’Indice e altri (2001), Le lingue dell’altrove. Storia testi e bibliografia di Joseph Tusiani (2004), Jim Longhi. Un italoamericano fra Woody Guthrie e Arthur Miller (2012), Un luogo in cui vivere. Letture e scritture italoamericane (2012), I poeti della provincia di Roma. Panorama e antologia (2012). Ha dedicato varie pubblicazioni alla cultura pugliese. Fra queste, Microletteratura. Scrittura e scrittori a San Marco in Lamis nel Gargano (1994), Poesia dialettale del Gargano. Antologia minima (1996), Dialetto e poesia nel Gargano. Panorama storico-bibliografico (2002), e i saggi Pasquale Soccio (2006), Gli autori pugliesi all’estero (2009). Collabora all’Indice dei libri del mese, Poesia, La Gazzetta del Mezzogiorno, e fa parte della redazione del Journal of Italian Translation di New York. 270 Gli autori Matteo Siena, nato a S. Giovanni Rotondo il 31 maggio 1928, vive a Vieste dal 1955, dove ha svolto l’attività di insegnante elementare. Impegnato sempre in attività culturale, è stato Vice presidente della Pro Loco dal 1970 al 1976, fondatore e primo Presidente del Centro di Cultura “Niccolò Cimaglia”; ha fatto parte del C.N.R. per un quadriennio (1963-1966), quale ricercatore di storia locale; ha collaborato con l’equipe del pedagogista prof Guido Giugni dell’Università degli Studi di Perugia nei Seminari di Studi organizzati a Siponto per i docenti di Lingua Italiana di Capodistria (Jugoslavia) sia per la conoscenza dei metodi di insegnamento nelle scuole elementari che per la conoscenza storica della Puglia. Tuttora è socio della Società di Storia Patria per la Puglia e ne ha ricoperto nel quadriennio 1998-2002 la carica di Presidente della Sezione di Vieste. Collabora con il settimanale «Il Faro» di Vieste, e con i periodici «Shalom», «Il Pirgiano», «Il Gargano Nuovo». Ha scritto diversi saggi storici e ha conseguito anche premi e menzioni in vari concorsi di poesia dialettale. Giuseppe Staccioli è nato a Scandicci (Firenze) nel 1940 e ha seguito gli studi fino all’Università laureandosi in Chimica. Come ricercatore al Consiglio Nazionale delle Ricerche si è occupato della materia prima “legno” approfondendone le proprietà chimiche. Ha pubblicato diversi articoli sulle maggiori riviste del settore quali «Holzforschung», «Holz als Roh-und Werkstoff», «Wood Science and Technology». Dopo la pensione ha iniziato a dedicarsi alla linguistica, interesse rimasto in ombra, specializzandosi nell’arabistica. L’incontro con il maltese Mario Cassar ha permesso di applicare il metodo onomastico allo studio dei Saraceni di Lucera. In collaborazione è stato pubblicato nel 2006, sulla rivista «Symposia Melitensia», The Muslim Colony of Luceria Sarracenorum (Lucera): Life and Dispersion as Outlined by Onomastic Evidence. Nell’anno 2012, sempre in collaborazione con Mario Cassar, è stato pubblicato dall’editore Caratterimobili (BA) il volume L’ultima città musulmana: Lucera. È pressoché terminato un Dizionario dei cognomi italiani di diretta origine araba o connessi con l’arabo. Federica Elisabetta Triggiani, nata a Foggia nel 1982, ha conseguito la laurea magistrale in Filologia moderna presso l’Università degli Studi di Foggia. La sua tesi di Laurea è stata argomento di una Conversazione sugli inventari di patrimonio di alcune famiglie foggiane del Settecento, organizzata dall’associazione Soroptimist International di Foggia. Ha frequentato un corso di “Operatore di sostegno per alunni disabili”, imparando la Lingua Internazionale dei Segni (LIS) e l’alfabeto Braille. Ha inoltre conseguito un Master in “Didattica & Formazione: metodologie, strategie e tecniche per la ricerca, l’insegnamento curriculare e di sostegno” presso La Luspio, sede di Foggia, nel 2011. A marzo 2012 è stata convocata a Roma per un corso professionalizzante come “Addetto Risorse Umane e amministrazione” presso la Rebis srl. 271 Finito di stampare nel mese di dicembre 2012 presso il Centro Grafico S.r.l. 1a trav. Via Manfredonia - 71121 Foggia tel. 0881/728177 • fax 0881/722719 www.centrograficofoggia.it L’energia utilizzata nel processo di lavorazione per la stampa di questo libro proviene direttamente dal sole grazie all’impianto fotovoltaico installato sul tetto dello stabilimento