014 visarte annual ticino visarte società delle arti visive svizzera gruppo regionale ticinese 014 editoriale Ecco la nuova copia dell’Annual, fresca di stampa, che riassume l’anno 2014 di Visarte Ticino nella sua totalità. Sono 365 giorni che vogliamo poter condividere con entusiasmo con chi ama l’arte e difende la cultura, quella vera! Gli artisti sono come sempre stati attivi e partecipi ai vari eventi proposti. Scoprirete, leggendo e sfogliando queste pagine, che abbiamo avuto svariati momenti espositivi alla galleria “Art...OnPaper – 20 th century art books” di Paradiso, dove i soci hanno potuto dialogare con gli spazi in una personale e totale libertà espressiva. In occasione dell’abituale e sempre apprezzata Weihnachtsausstellung (mostra di fine anno) gli artisti invece hanno potuto incontrarsi attorno al tema dell’identità. L’arte e la cultura sono, infatti, rappresentazioni preziose della nostra identità. Sono parole che si rivelano essere le uniche attuali, vere difese da un mondo che si sta appiattendo, che rischia sempre più di limitare l’espressione individuale a favore di una massa anonima veicolata e veicolante. L’artista ha il dovere di rispondere con la propria arte e la propria libertà d’espressione a queste silenti aggressioni. Chi ama la cultura deve spronare per il dialogo, l’innovazione e per la continua ricerca! “Non riesco a capire perché le persone siano spaventate dalle nuove idee. A me spaventano quelle vecchie.” John Cage Gli artisti devono trovare nuovi percorsi in un ambiente in continuo mutamento, il quale certe volte confonde e porta a pensare di trovarsi in un vicolo cieco... invece, come qualsiasi altro vero cammino, questo si rivela essere cangiante e si rinnova continuamente rivelando nuove vie e inaspettate sorprese. Perciò, lanciamoci in nuove avventure creative senza timore. Ora, come non mai, sappiamo infatti che la cultura è cibo, la cultura è nutrimento per l’anima. Che si possa dunque continuare con altri anni pieni di soddisfazioni e di progetti costruttivi per tutti! Il Comitato visarte società delle arti visive svizzera gruppo regionale ticinese 014 visarte annual 12 18 26 38 maggio–dicembre 2014 visarte da Art...OnPaper – 20th century art books Segretariato via Cantonale 39 6963 Lugano-Pregassona t+f +41 91 940 15 65 [email protected] Un particolare grazie al comitato di Visarte (Jean-Marie Reynier, Michele Balmelli, Aymone Poletti, Gianluigi Susinno, Philipp Vogt), a Carolina Somazzi (segretariato), a John Dupuy per la galleria Art...OnPaper, David Cuciz (per l’aiuto durante l’allestimento), a Francine Mury per l’organizzazione della Weihnachtsausstellung e Mara Folini per il Museo Comunale d’Arte Moderna, Casa Serodine, Ascona. Ringraziamo gli artisti e i fotografi che hanno collaborato fornendo il materiale richiesto. 2 50 60 66 Brigitte Allenbach Christina Kaeuferle Gallo 11 – 20 dicembre François Bonjour Gabi Fluck 27 novembre – 6 dicembre Romeo Manzoni Gianni Poretti 6 – 22 novembre Veronica Branca Masa Raffaella Ferloni 16 ottobre – 1 novembre Sara Pellegrini Stefano Spinelli 4 – 20 settembre Francine Mury Sandra Snozzi 26 giugno – 12 luglio 014 8 25 settembre – 11 ottobre Felicita Bianchi Duyne Hans Kammermann Eftim Eftimovski Sergio Morello sommario 5 – 21 giugno Vincent Gregory Rosita Peverelli 15 – 31 maggio ticino 74 82 Museo Comunale d’Arte Moderna, Casa Serodine, Ascona Identità – Weihnachtsausstellung, mostra di fine anno di Visarte Ticino 21 dicembre 2014 – 18 gennaio 2015 88 Luoghi in cerca di identità Gibellina – Dalle ceneri,… una rinascita e una nuova identità anche in nome dell’arte 92 L’identità di un luogo Beauduc: spazio immaginario tra cielo, mare e sabbia 98 Coming soon Expo Milano – Nutrire il pianeta, energia per la vita Con il sostegno di In copertina: il virus Ebola, che ha allarmato il mondo nel 2014 Coordinamento e stesura testi Aymone Poletti, Gianluigi Susinno Grafica Gianluigi e Marina Susinno Susinno Design SA, 6900 Lugano Stampa Fontana Print, 6963 Lugano-Pregassona © visarte, 2014 www.visarte-ticino.ch visarte società delle arti visive svizzera gruppo regionale ticinese 3 maggio–dicembre 2014 serie di mostre negli spazi della galleria Art...OnPaper – 20th century art books La Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books di John e Daniela Dupuy, attiva dal 1998, diventa il nuovo luogo di incontro per le mostre di Visarte: situata a Paradiso nei pressi dell’omonima libreria attiva dal 1995, si sviluppa su di un unico spazio a base trapezoidale. L’originalità progettuale e la struttura rastremata dell’area espositiva si prestano ad interessanti giochi di prospettive creando linee di fuga dinamiche e asimmetriche a livello delle pareti. Ciò crea un’area non semplice, ma di carattere, a disposizione degli artisti coinvolti. Le due colonne presenti su di un lato pongono delle sfide dal punto di vista visivo che possono tuttavia essere tradotte in una gradevole soluzione di continuità dello spazio. Le esposizioni, dalla breve durata, vengono interamente gestite e organizzate concettualmente dagli artisti stessi in una piena libertà d’espressione, e la particolare conformazione della galleria pone lo spettatore nella condizione di dovere e poter cambiare spesso angolazione per avere una visione comprensiva delle opere in un gioco sottile di dialoghi e di rimandi. “L’architettura è l’arte di sprecar spazio” Philip Johnson P Autosilo Palazzo Mantegazza Paradiso P 4 Autosilo comunale 5 Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books 15 – 31 maggio Vincent Gregory Rosita Peverelli Forze cicliche in dialogo tra migrazioni e volumi silenti Rosita Peverelli presenta sculture in gesso e pietra, Vincent Gregory pittura in tecnica mista su tela. Due artisti, di percorsi e generazioni diverse, una Associazione, la Visarte Ticino, che ospita, e genera intesa. Tra un artista “selvatico” Vincent Gregory sopranominato “il Pinguino” che non appartiene all’associazione e Rosita Peverelli riversa d’avventure in più laboratori, che ne è socia da anni. Moti roteanti in Vincent, tensioni che cercano un centro in Rosita, entrambi eludono l’epicentro, l’origine per ritrovare processi simbolici e collettivi, spunto d’ogni possibile lettura. L’Io, l’individuo, reso nelle porzioni di sfera di Rosita, è in contrappunto nella presenza del numero dei soggetti nelle migrazioni di Gregory, per divenire una realtà che cattura considerazione tra visione e relazione umana. Nella Peverelli ferite alate, slittamenti di piani, geometrie riassunte nella circolarità composita, divengono volumi, dove il pieno e il vuoto uniscono una stessa natura di nesso e unicità. La superficie intesa come tempo e luogo dell’universale. In Rosita intesa come durata del silenzio, in Vincent permanenza tra movimento e ritmo. Un meditare tramite il fare per generare una visione tra tensioni interiori e fasi di migrazione, moti che muovono dall’interno l’inattuabilità delle emozioni per ricondurci al senso tramite i sensi. Visione di volumi quasi puri in Rosita Peverelli, dialogo di geometrie quasi euclidee, ripetizione dei soggetti tra ironia e minime varianti formali, in Vincent Gregory. In un caso un’energia raccolta e nell’altro l’indicativa accettazione di un passaggio, in ambedue arene di difficoltà, riconosciute e traslate, trasformate in principio aperto. Per entrambi un passare tra un essere e l’altro, l’io-tu come appartenenza. Apparizioni, rivelazioni di luce e ombre svelati alla coscienza, come argine e possibilità dell’agire umano. È la necessita d’essere soglia, che ognuno potrebbe vivere, sembrano dirci gli autori, prossimità del continuo operare per ridurre distanza, designare il tempo come memento, considerarlo come luogo d’incontro/unione e non distacco prepotenza e lontananza. Territorio da riqualificare, riconsiderare come sostanza d’ogni agire, habitat, luogo che ospita essenza interiore, spazio del riconoscimento e del rispetto, corpo come stanza del cuore. Rosita Peverelli Volume silente 2014 marmo di Carrara 1/3 6 In alto: Vincent Gregory Spirale 2014 inchiostri e gouache con finale acrilico su tela 80 x 80 cm Rosita Peverelli Volume silente 2014 marmo di Carrara 1/3 presente in mostra in gesso 7 Vincent Gregory Spiagge 2014 inchiostri e gouache con finale acrilico su tela 100 x 100 cm 8 Vincent Gregory Onde 2 2014 inchiostri e gouache con finale acrilico su tela 100 x 100 cm 9 Sorti d’eterne migrazioni creaturali, popolano e scandiscono l’inammissibile consumare dell’oggi. I becchi chiusi di Vincent restituiscono leggibilità all’eroico uccello, mute aggregazioni spinte da impossibilità? un muoversi di massa dettato dal sistema? moti disperati per fame, imposti dall’ingordigia dei più, metafore di periodici avvenimenti? Interrogativi sugellati nel fare di Vincent. Eppure paiono fare da timone i becchi al corpo, in ricerca di nuovo verso? Creature che cercano direzione come ultima speranza? Stare lontani dal proprio luogo spesso è abbaglio eppure è viatico di molti… oggi quasi condizione. Se in Vincent una dimensione si perpetua nella ricerca della coloritura pianificata da velature leggerissime e delicate come respiri, spesso con rapporti tonali avvincenti e sorprendenti. In Rosita un bianco investe di silente luce assorta, ci conduce in una dimensione quasi intimista del intervallo e della sospensione. Come a chiedere comprensione, compresenza. Tele di buon formato per Vincent, dove pennello e colori ad acqua successivamente fissati ad acrilico, scandiscono appartenenze cosmiche, cellule intricate all’inverosimile, porzioni d’in finibile continuità...sostanze che uniscono l’intero creaturale. Sculture come pianeti bianchi, in gesso, di Rosita pur attendendo la realizzazione in pietra, danno indizio d’astri riconcepiti. Sembrano riconfermare orbite e moti occultati del sé come regno, ridimensionamento di sorde lenti, accettate nella loro misteriosa presenza, data l’opacità della chimica del gesso. Scultura levigata e ricercata nella sua bianca essenza, come compresenza d’ogni passaggio, pareti e sagome di strutture aperte, misurate armonie contrapposte. Rosita Peverelli Volume silente 2014 marmo di Carrara 1/3 presente in mostra in gesso 10 A destra: Rosita Peverelli Volume silente 2014 marmo di Carrara 1/3 Vincent Gregory Onde 1 2013 inchiostri e gouache con finale acrilico su tela 100 x 100 cm Rosita Peverelli Volume silente 2014 marmo di Carrara 1/3 presente in mostra in gesso Prendono altra vita nella luce intrinseca della pietra, alcuni esempi in marmo di Carrara in mostra ne danno testimonianza, e saranno futuro nucleo significativo. Un dialogo tra pittura e scultura, dove in entrambi considerata è la dimensione del cerchio, della spirale, dell’arco. Simboli e tensioni, forse testimoni lineari del nostro incedere, da sempre. Sembrano tracce di due aste di compasso, transizioni da un passo all’altro, per non generare caduta. Ed è già dialogo tra presente e passato, soluzione d’equilibrio dove l’uno all’altro sempre fa ritorno, referente il centro per incedere dall’io al tu, dall’altro al diverso, dalla natura alla memoria storica, per riconoscersi umani e persone, natura e cultura. Metafora di un mondo riconsiderato, dove l’ascolto è accolto perché tesse e leviga esistenza. Dalla psiche all’anima, visibile ed invisibile, sono le azioni interiori qui esposte e concertate dai due artisti in dialogo con le relative espressioni, che generano intesa. Percorsi operativi diversi e autonomi, confermano la necessità di ricerca tra materia e visione, per essere, stare, e fare per generare ancora pensiero. di Loredana Müller Donadini 11 Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books 5– 21 giugno Eftim Eftimovski Sergio Morello In questa mostra, troviamo un senso espositivo che vuole porsi non solo in un dialogo “fra” gli artisti, ma anche “con” il pubblico, per stimolarlo in un discorso che diventa in questo caso di contrapposizione e di bilanciamenti. Nell’esposizione precedente, fra Vincent Gregory e Rosita Peverelli, il pubblico aveva notato una fusione anche di situazioni, fra le diverse opere dei due artisti, … Lo spettatore si muoveva infatti nello spazio, attorniato dalle sculture di Rosita per porsi in seguito di fronte alle tele di Vincent. Ne era nata una reciproca appartenenza. Sergio Morello davanti alle sue opere Qui invece troviamo due dimensioni che si specchiano e che sviluppano un proprio discorso intimo. Troviamo da un lato le tavole policromatiche di Sergio Morello che si espandono attraverso la ricerca della cromatura articolata con rapporti tonali accesi e arditi. Sergio Morello lavora con calibrazione metodica: l’acrilico su tavola riprende il tema della stratificazione e c’è un ricordo delle velature delle icone. Troviamo in alcuni casi 10 strati di velature di bianco e i segni sul supporto sono dovuti al riaffiorare del precedente gesto pittorico. La corda nel suo lavoro affronta il tema della ricucitura e mette in discussione il discorso della manualità e del fare… che si trasforma in gesto simbolico perché nel suo percorso, Sergio Morello ha sempre levato e messo, tagliato e ricucito. Dall’altro lato abbiamo Eftim Eftimovski che approfondisce il suo percorso artistico attraverso un’estrosità della materia tattile dove la ruggine e il vissuto diventano protagonisti paralleli di un proprio argomento personale. L’uomo, per Eftim, rimane personaggio e protagonista, testimone e vero interprete quale centro del discorso di confronto profondo fra artista e spettatore. Eftim Eftimovski lavora sempre con un’incredibile freschezza narrativa, che si sviluppa attraverso mille sfaccettature, che vengono costantemente filtrate per offrire al pubblico immagini a più livelli di interpretazione. L’opera, di conseguenza, si rivela come portatrice di una storia intima, concepita come parte distinta di un “tutto” ampio e articolato. Gli elementi ricorrenti, tratti da scene di vita o da valutazioni personali e aneddotiche sul divenire, si presentano come preziose istantanee di una poetica del vissuto. Le sue sculture/installazioni in ferro si delineano lungo una linea monocromatica in un raffinaA sinistra: Sergio Morello Nudo matissiano 2011 legno e corda 90 x 150 cm 12 In alto: Eftim Eftimovski attorniato dalle sue opere (composizione di tecniche miste) to discorso di contrasto con le opere di Sergio Morello. E qui si ritrovano i due artisti che, usciti dalla costrizione del supporto hanno affrontato nella loro vita diverse tematiche legate al moto, alla geografia, al viaggio, inteso come vero “passaggio”… Sono due mondi opposti, di pieni e di vuoti, che si toccano in un certo qual modo: troviamo infatti un fil rouge che parte dalla tavola di Sergio Morello, graffiata, colorata, spatolata, ritagliata e ricucita, per arrivare al metallo di Eftim Eftimovski, fuso, riusato, lasciato in balia del tempo oppure ai quadri, sempre di Eftim, che diventano rielaborazioni e piccole installazioni cariche di intrinseca poesia dove la cornice, ricordiamolo, è parte integrante dell’opera. Elementi soggettivi e considerazioni intellettuali si mescolano perciò ad altri fattori complessi, in modo da suggerire diverse possibili chiavi di lettura delle opere: partendo, dal “piccolo”, i singoli dettagli si snodano lungo questa trama articolata. per creare un intreccio personale di dialogo e di coinvolgimento, come detto, con il pubblico, mai indifferente a questa varietà di narrazioni d’arte. Trascrizione del discorso di presentazione di Aymone Poletti 13 Eftim Eftimovski Uomo con bicicletta 2014 Ferro Sotto: sculture in ferro A sinistra: Eftim Eftimovski davanti ad una sua scultura In alto, da sinistra a destra, dall’alto al basso: Sergio Morello Orizzonte nuovo 2014 acrilico e corda su tavola 70 x 90 cm Sergio Morello Horizon 5 2012 acrilico su tavola 70 x 90 cm 14 Sergio Morello Orizzonte carminio 2013 acrilico e corda su tavola 70 x 90 cm Sergio Morello Orizzonte nuovo 2014 acrilico e corda su tavola 70 x 90 cm Alle pagine 16-17: Sergio Morello Monte Generoso 2011 acrilico su compensato 90 x 150 cm 15 16 17 Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books 26 giugno – 12 luglio Francine Mury Sandra Snozzi Francine Mury “4344” 2010 olio su tela 200 x 200 cm 18 Nell’esposizione precedente, quella di Sergio Morello e di Eftim Eftimovski gli spettatori avevano potuto confrontarsi con una distinzione evidente tra le parti, ad una cesura e contrapposizione netta tra i due mondi creativi che si presentavano tali a monologhi… in questo caso invece lo spettatore percepisce una fusione anche di situazioni e un discorso di continuità fra le diverse opere delle due artiste, due presenze che si amalgamano e che non si esprimono in una concezione espositiva di contrasto, bensì di combinazione narrativa. Francine e Sandra hanno deciso di presentare un sunto della nozione della vita e della conseguente ciclicità degli elementi vitali. Foto Carla Muttoni In questa mostra, ritroviamo ancora una volta un delinearsi espositivo complesso che vuole porsi in dialogo con il pubblico, per stimolarlo in un confronto che diventa, in questo caso, di bilanciamenti e di esortazioni ad una reazione da parte dello stesso. Ricordo che per queste esposizioni sono gli artisti che decidono quali opere proporre in una piena libertà d’espressione. E questa totale libertà è una ricchezza perché il pubblico può cogliere il senso più intimo del pensiero di chi si mette in mostra diventando parte dell’evento e elemento di interazione ulteriore con le scelte proposte. 19 Francine Mury samsara 2014 stampe digitale 13 x 18 cm Sandra Snozzi Dettaglio installazione Cavallini - Omaggio a Tranquillo 2014 collage con carta, cartone, velina, acquarello, resina, accessori (6 elementi) 100 x 70 cm Foto Carla Muttoni Foto CarlaMuttoni Sandra Snozzi ha come filo conduttore l’animale. I suoi sono animali rafforzati da puntuali valori espressivi e simbolici perché Sandra, nel suo esprimersi, è costantemente stimolata “dal bisogno di scoperta e conoscenza del significato dell’animale nel quale lei identifica l’arcàico vivente”. Francine Mury ha come fil rouge la natura vegetale e la geometria che vi si crea. Per il suo personale discorso, lei lavora con diverse tecniche quali la monotipia, l’incisione, la tempera e l’olio. La sua opera più grande (una tela di 2 metri e venti per 2 metri e venti) paradossalmente descrive il più piccolo 20 e remoto elemento esposto: presenta infatti un microcosmo ancestrale… praticamente quell’attimo particolare in cui tutto vibra prima di prendere una forma. Sandra sviluppa una speciale tecnica di carta macerata e di stratificazioni velate, e parte, nei suoi delicati cavalli, dalla ricerca del significato dell’essere animale, e cioè approfondisce la tematica dell’animalità dell’uomo e dell’umanità dell’animale stesso. Il legame con il nonno veterinario e l’eredità di tutti i suoi strumenti chirurgici riaffiora in questo discorso articolato. L’artista analizza elementi che fanno parte della coscienza collettiva, dell’uomo e dei suoi simboli fra i quali il concetto complesso dell’Uroboro: il serpente che si mangia la coda, che, ricreandosi continuamente, rappresenta la natura ciclica delle cose. Quest’elemento diventa cerchio, e anche feto, stando alla base di tutta la produzione dell’artista, quale rappresentazione dell’eterno ritorno e rinnovamento. sinistra: Sandra Snozzi Dettaglio installazione Cavallini - Omaggio a Tranquillo 2014 scultura in tecnica mista, carta, resine, acquarello, boccale di vetro (4 elementi); 30 x 30 x 20 cm In alto: Sandra Snozzi Dettaglio installazione Cavallini - Omaggio a Tranquillo 2014 scultura in tecnica mista, carta, resine, crine 110 x 40 x 20 cm 21 Sandra Snozzi ritratta da Carla Muttoni 24 Francine Mury “4526” 2012 monoprint 70 x 90 cm Francine Mury “4539” 2012 monoprint 70 x 90 cm La ciclicità delle cose si presenta anche nell’elemento narrativo, vegetale e arboreo di Francine Mury. I suoi sono preziosi paesaggi sospesi tra microcosmo e macrocosmo, tra minerale e biologico, organico e inorganico. Troviamo trame che oscillano, punti di equilibrio che danzano per una sorta di vertigine di rimandi, meditativa e introspettiva. Ecco perciò un discorso arcaico dove il tutto è un simbolo, una metafora, un modo di approcciarsi verso un argomento così vasto e delicato. Delicato come l’elemento strutturale della carta. Carta, appunto, che Francine Mury e Sandra Snozzi riescono a trasformare in ricchi assemblaggi, ed elementi vivi di sovrapposizioni di velature. Lasciamoci dunque guidare da questi discorsi di fusione, tra la meraviglia di scoprire tracce e reperti della nostra condizione umana e la sommessa rievocazione di luoghi interiori, silenziosi e della memoria. Trascrizione del discorso di presentazione di Aymone Poletti Francine Mury Giardino di Livia 2010 acquatinta e tempera 40 x 40 cm Francine Mury Giardino di Livia 2010 acquatinta 40 x 40 cm 25 Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books 4– 20 settembre Felicita Bianchi Duyne Hans Kammermann Non sono un critico d’arte, solo un appassionato di arte. Quindi non elencherò i molti pregi della pittura di Felicita Bianchi Duyne: critici autorevoli hanno già scritto di come le sue opere siano raffinate e colte, come sia sapiente e originale l’uso e l’accostamento di materiali sorprendenti e di colori diversi (spesso nati dalle sue mani nel piccolo atelier di Ponte Capriasca). O come nei suoi quadri si intuiscano fiori e vari reperti di vegetazione, selezionati appiattiti e applicati con delicatezza sulla tela, per poi scomparire (o quasi) sotto sottili strati di colore e di sabbia. Sabbia che l’artista porta 26 con sé da isole, deserti e mondi lontani, e che costituiscono il giardino fertile e poetico delle sue opere. O, infine, di come il confronto con la natura e una personalissima rielaborazione artistica della stessa sia la fonte d’ispirazione principale della sua ricerca, ormai pluridecennale e in continuo approfondimento, lontana da mode e modelli. Io proverò a parlarvi d’altro: di come ho conosciuto, o meglio scoperto la pittura di Felicita nell’affollatissimo mercato di Olgji, una cittadina nell’estremo lembo occidentale della sterminata Mongolia, al confine con Russia Cina e Kazakhistan. È in quella specie di suk di matrice kazaka, un intrigo di viuzze e casine di lamiera che fungono da negozi, che ho visto per la prima volta, dal vivo, i suoi racconti pittorici. Lamiere percorse dal tempo, corrose da sole, vento e pioggia, arrugginite o sbiadite, che si propongono quali autentiche opere d’arte informali. Glielo dissi quando la conobbi, qualche anno fa, e Felicita mi confidò di averla visitata anche lei, quella cittadina ai confini del mondo, e di essersi immersa e persa con piacere in quel dedalo inconsapevolmente artistico. Ora, di fronte a questi suoi quadri recenti, ritrovo quel mondo lontano, e soprattutto la capacità dell’artista di reinventare la natura e gli effetti che essa ha sui materiali più umili e semplici che ci circondano, quelli vivi e quelli privi di vita, dei quali spesso nemmeno ci accorgiamo. Poi, certo, nelle sue tele riconosco tracce di alcuni pittori che anch’io amo molto: da Rothko, e da alcuni suoi colleghi dell’espressionismo astratto americano, ad Antoni Tapies, da Alberto Burri a Cy Twombly, da Franz Kline a Pierre Soulages. Ma queste presenze non sono mai influenze, né tanto meno rivisitazioni: sono comprensione e elaborazione colta di emozioni e percorsi pittorici di straordinaria qualità, di cui l’artista ha saputo fare tesoro. In una delle tele esposte, la numero cinque, mi pare ci sia tutto il mondo artistico di Felicita, e la riprova del suo talento: un dipinto che ci riporta e illustra un fiore, un elemento naturale tra i più belli e delicati, che la pittrice rielabora ed arricchisce da un punto di vista squisitamente pittorico. Poi, con un gesto audace ma consapevole, rischioso ma sapiente, immediato e senza via di ritorno, forti e larghe pennellate nere aggrediscono la tela e la trasformano in un riuscitissimo microcosmo in cui grazia e forza, equilibrio e coraggio si fondono e si confondono. Pittura allo stato puro. In altre tele l’artista non ha paura di sfigurare l’eleganza del suo dipinto con l’incursione violenta di chiodi che ne 27 Felicita Bianchi Duyne, da sinistra a destra, dall’alto al basso: Gigli in ombra 2014 91 x 91 cm 28 Nudo femminile 2012 51 x 51 cm Papavero 2014 51 x 51 cm Giglio Tra giglio e papavero 2014 2014 51 x 51 cm 51 x 51 cm Traccia di bocciolo 2014 51 x 51 cm Iris 2014 91 x 64 cm Tutte le opere sono realizzate con tecniche miste a base di calce e pigmenti naturali su tavole di OSB o MDF inquadrate dall’artista 29 Felicita Bianchi Duyne Frammenti di magnolia 2012 41 x 121 cm Felicita Bianchi Duyne Mediterraneo 2014 91 x 64 cm 30 graffiano e ne sfregiano la superficie, in realtà arricchendone il racconto. Altre due tele, recentissime, aprono poi una finestra sulla vita stessa della pittrice, che da qualche anno trascorre parecchio del suo tempo in Calabria: e così il cielo e il mare mediterranei si insinuano nelle sue tele e un blu dirompente, quasi rothkiano, si affaccia nella sua pittura, luminoso e benvenuto. A me sembra che una delle componenti più significative dell’arte alta e nobile sia proprio la capacità di osare e di rischiare, di rimettere tutto in discussione, a partire dalle proprie convinzioni e dalle proprie capacità. Solo così l’artista regala a se stesso la libertà e allo spettatore il piacere e il privilegio di viaggiare, grazie alle sue opere, nel tempo e nello spazio. La pittura dovrebbe permetterci di vedere per capire, rappresentare la ricerca della novità, della diversità, del cambiamento quale fonte di progresso e di civiltà. Essa è la forma d’arte più indicata per superare l’occasionalità, l’insignificanza, l’inconsistenza di gesti frettolosi e inconcludenti, il disprezzo delle forme, l’inesistenza dei contenuti. Per resistere alla dilagante “civiltà mediatica”, nella quale sembra che tutto debba essere virtuale, digitale, immediatamente e banalmente fruibile. Le opere di Felicita Bianchi non hanno fretta, quindi dureranno nel tempo: sono una preziosissima finestra incantata sul mondo e, soprattutto, sulle nostre anime. Dai suoi quadri traspaiono armonia e serenità: essi sono l’annuncio di un mondo possibile nel quale natura e cultura si fondono. Qualche giorno fa Felicita mi ha ricordato una frase di Henri-Frédéric Amiel, filosofo e poeta svizzero del diciannovesimo secolo, una frase che ama molto: “Un paysage est un état d’âme”. Di fronte alle sue opere, a me sembra di poter dire che uno stato d’animo è un paesaggio. Se ne sappiamo cogliere la visione, la verità interiore e la poesia che essa contiene, rimarrà in noi e contribuirà a fare di noi esseri umani migliori. di Matteo Bellinelli 31 Hans Kammermann sine loco #13# 1998 27 x 18 cm Hans Kammermann Presenza in giardino velato tecnica mista 2014 50 x 50 cm 32 Opera aperta La figura diventa il tema costante di una “opera aperta” di grande potere evocativo, che esprime l’emozione nel suo divenire. La sua pittura si allontana dall’espressionismo astratto; mantiene una sottile gestualità per avvicinarsi a un mondo che lo affascina, che è quello dell’espressione popolare, nel quale si ritrovano scritte murali, riferimenti mitologici, evocazioni che si combinano edificando una sorta di universo senza tempo, in cui il passato e il presente si ritrovano sulla tela. L’obiettivo di questo ampio e lungo viaggio consiste nel riuscire ad entrare nell’animo, ossia nella dimensione interiore della figura e quindi dell’uomo di oggi. Capire il suo psicodramma nell’avvertire che mentre la natura è umiliata anche l’uomo viene banalizzato, non considerato come gli compete. Con il risultato che, sull’altare della cosiddetta funzionalità, viene degradato il versante umanistico della vita, ossia il suo valore. Hans Kammermann sine loco #84# 2014 30 x 25 cm “Questo è il mio lavoro di oggi. Nel quadro mi interessa il dialogo tra le figure, come si raccontassero delle storie. Perché il quadro è come uno specchio dove ognuno collaborando con il pittore, ritrova le sue storie. Il quadro è aperto e muove la fantasia di chi guarda”. E il sud, perché questa continua fuga e poi questa scelta definitiva del sud? “Per fuggire dalla rigidità del nord. Mi piace la malinconia del paesaggio ma ancora di più la socialità, la gente che parla, che comunica, che coinvolge e non costruisce muri. In Italia e Ticino ho trovato apprezzamento, apertura, accoglienza, guardano cosa fai e non come vivi”. Tratto da “I Giardini Incantati” di Dalmazio Ambrosioni 33 Dall’alto al basso: Hans Kammermann Sine loco #8# 25,5 x 35,5 cm Sine loco #22# 1998 24,5 x 35,5 cm Hans Kammermann Sine loco #80# 2014 36 x 49,5 cm 34 Sine loco #71# 2014 28,5 x 40 cm 35 36 37 Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books 25 settembre – 11 ottobre Sara Pellegrini Stefano Spinelli La particolare tipologia espositiva pone lo spettatore in una situazione percettiva di fusione di situazioni. Troviamo elementi distribuiti un po’ ovunque nello spazio che non si esprimono in una concezione espositiva di contrasto bensì di combinazione e amalgama. In un teatro di apparenze e di scene artefatte dal leggero gusto spiazzante, il pubblico diventa, come lo è spesso, parte dell’opera stessa e si muove nello spazio e riempie i vuoti animandoli in un gioco di nuovi equilibri contestualizzanti. Gli artisti lavorano contrapponendo il supporto al loro concetto d’arte: un’operazione di aggiunta rispetto all’intensità del segno stesso. Un segno del tempo, un segno filtrato da una lente, per Stefano Spinelli... un segno o una scritta su un oggetto o su un vetro, per Sara Pellegrini. Il filo conduttore è l’ambiente, decorticato e quasi radiografato per diventare elemento di percorso sia mentale sia visivo/tattile. Un paesaggio sospeso dall’incantesimo della narrazione tra estensioni, degrado ed elementi di disturbo. Stefano Spinelli porta immagini di dettaglio, nello specifico frazioni e particolari di quello che fu l’Ostello della Casa del Sole di Neggio. La sua serie fotografica realizzata con il contributo di Giorgia Franchini prende il titolo “Sulle tracce del dubbio”. Si tratta di affrontare la tematica della decadenza attraverso ingrandimenti fotografici abbinati a testi di libri gialli o noir, applicando un lavoro di indagine. Un fine strumento d’indagine della realtà (come lo è l’oggetto della fotografia) e l’arte del narrare un enigma, un mistero, s’incontrano, dunque, per dar vita a questa serie d’immagini in A sinistra: Sara Pellegrini Dalla C (culla) alla B (bara) (c’est le ton qui fait la musique) filo di ferro, filo di cotone, ricamo con capelli su tela 30 x 30 cm Al centro: Sara Pellegrini Cuore tipp-ex bianco su sasso Ø ca 5-6 cm Sopra: Sara Pellegrini Foto ritratti stampa su tela, pittura acrilica tiratura unica 16 x 18 cm In alto: Sara Pellegrini Amori amari filo di cotone su tela 30 x 30 cm A sinistra: Le gouffre (l’abisso) 2014 bende di gesso, cono di legno, specchio 38 39 Sara Pellegrini Dalla serie La Casa Gabinetto 2011 bende di gesso, specchio 40 cui paradossalmente è l’ombra dell’incertezza che predomina. Testo e figura vengono qui posti in una relazione arbitraria per far sì che dall’impatto tra queste due energie per lo più silenti a causa dello spazio stesso, nello spettatore si possano aprire nuove risonanze, inconsuete e interpellanti. Questa fusione svela, o semplicemente indica, diverse possibili soluzioni interpretative, diversi percorsi oltre a quello che la realtà ci propone nella sua totale e disarmante evidenza. Quasi come fossero tavole analitiche, ritroviamo la sommessa rievocazione dei paesaggi interiori della memoria e del ricordo. “Ricordo” e “indagine” che diventano elementi ricorrenti anche nel lavoro di Sara Pellegrini. L’istallazione di Sara si lega infatti ad un concetto di domesticità e presenta alcuni tra i mobili dell’opera “La Casa“ unitamente ad una serie di quadri e di oggetti che ci rimanda alla nostra vita quotidiana. Il tema ruota sempre attorno alla stessa ricerca: il tentativo di conoscenza del nostro “IO” più intimo identificato bene dal corpo fisico e dagli oggetti di cui noi ci attorniamo. L’indagine si rivolge al nostro concetto personale di familiarità. La casa e i suoi “mobili” diventano così una proiezione dei nostri pensieri più profondi, il più delle volte nascosti anche a noi stessi. Ci sono rimandi provocatori, ci sono rimandi ludici e altri di personale interrogazione… Il linguaggio scritto, ricamato talora addirittura con i capelli, aiuta a decifrare più facilmente o direttamente l’opera. In altri casi, alcuni dei materiali usati sono per esempio delle bende di gesso con cui si avviluppano gli oggetti per farli assomigliare ad una tela dipinta: questo permette un estraniamento dal loro uso primario e induce a meditare sul loro lato simbolico. Il tutto è sempre da prendere come un simbolo infatti, come una metafora. Lo sguardo spazia così come la mano, impregnandosi d’una tattilità nitida e persistente dove la ricerca interiore è sempre la vera protagonista. Trascrizione del discorso di presentazione di Aymone Poletti 41 Sara Pellegrini Telefonini 2011 bende di gesso, e corda bianca per arrosto, testo 42 43 Stefano Spinelli Dalla serie Sulle tracce del dubbio fotografia digitale, stampe a getto d’inchiostro 2014 44 Sara Pellegrini Dalla serie La Casa Tavolo Le gouffre (l’abisso) 2014 bende di gesso, cono di legno, specchio 45 Stefano Spinelli Dalla serie Sulle tracce del dubbio fotografia digitale, stampe a getto d’inchiostro 2014 dimensioni variabili 46 47 Sulle tracce del dubbio Serie fotografica realizzata da Stefano Spinelli, con il fattivo contributo di Giorgia Franchini (2014) 48 “L’ambito del possibile è quasi infinito, quello del reale è molto limitato, perché di tutte le possibilità è sempre una soltanto quella che si può trasformare in realtà. Il reale è solo un caso particolare del possibile, e per questo è anche concepibile in modo diverso. Ne consegue che, per poterci addentrare nel possibile, dobbiamo trasformare il concetto del reale”. Friedrich Dürrenmatt, Giustizia Le immagini sono state scattate all’interno di una pensione in abbandono. Si tratta perlopiù di dettagli del luogo, di indizi - come in una vicenda d’investigazione - atti a ricostruire, o evocare, un contesto più generale, legato allo spazio ritratto, ma anche a quanto in esso vi è accaduto o potuto accadere. Indizi che ricalcano il reale - lo citano -, ma che pure lo trasfigurano, e che nell’assumere una propria individuale esistenza rientrano ambiguamente, ma a parte intera, nel gioco della realtà. Un fine strumento d’indagine della realtà come la fotografia e l’arte del narrare l’enigma s’incontrano per dar vita a questa serie d’immagini in cui paradossalmente è l’ombra dell’incertezza che predomina. Testo e figura vengono qui posti in una relazione arbitraria per far sì che dall’impatto tra queste due energie, dall’avvolgersi tra loro, nello spettatore si possano aprire nuove risonanze, inconsuete, interpellanti. Per così svelare, o semplicemente indicarci - come più sopra Dürrenmatt ci suggerisce - altre possibili soluzioni, diversi percorsi oltre a quello che nella sua evidenza la realtà ci propone. I testi utilizzati sono stati tratti dai seguenti romanzi d’investigazione: P. Boileau e T. Narcejac, La donna che visse due volte G. Carofiglio, Una mutevole verità R. Chandler, Addio mia amata e Il lungo addio F. Dürrenmatt, Giustizia U. Eco, Il nome della rosa F. Glauser, Il tè delle tre vecchie signore E. A. Poe, I delitti della via Morgue L. Sciascia, Todo Modo e Il contesto - una parodia 49 Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books 16 ottobre – 1 novembre Veronica Branca Masa Raffaella Ferloni In quest’esposizione appare un dialogo fra due mondi opposti, che, come si sa, alla fine possono attrarsi. Il variopinto rumore urbano da un lato e il gesto silente e lineare dall’altro. Raffaella Ferloni dispone le opere sulle pareti con una costruzione su vari livelli, in cui i dipinti sono talora accostati, talora giustapposti negli angoli, o addirittura si trovano per terra. L’artista presenta questa totalità come un vero e proprio allestimento unico, che va a riprendere la composizione delle grafic novel. Raffaella Ferloni si nutre delle immagini di massa trasposte, di tele riciclate e rielaborate (per esempio del suo periodo berlinese) dove il filo conduttore è un discorso che troviamo anche nella street art, un porsi in relazione con l’ambiente urbano, decorticato e quasi radiografato per diventare elemento di percorso sia mentale sia analitico. Raffaella presenta un palpabile flusso di immagini dal 2001 a 50 oggi, Si parte dalla montagna e si finisce con le centrali nucleari, passando da ricreazioni di “stop frame” video su tela e altre autodefinite icone moderne prese liberamente da internet, da scene vissute o da riviste. Un paesaggio sospeso tra decadenza e aneddoti spiazzanti. La pittrice diventa il commentatore esterno e imparziale del quotidiano, e, come è stato scritto, la sua è l’elegia del nostro mondo trans/post-urbano, un mondo determinato dalla precarietà e dalle solitudini scarne della marginalità urbana. Troviamo un “mobìle” per terra, ludico e metaforico, inteso come il gioco “memory”. È intitolato “carpe diem”… quasi a narrare la nostra condizione in un mondo che spesso non ci appartiene più. È un linguaggio di massa, ma proprio per questo è universale anche se fatto di sola apparenza. Visioni di fittizia quotidianità sono il risultato di una costruzione, dove la naturalezza è solo posa, pura finzione, e dove ogni dettaglio, anche il più banale, è artifizio. Ecco, la massa, il colorato, l’aggressivo il decadente sono in contrapposizione con la purezza dell’elemento, lineare ed essenziale. Il silenzio della forma, dunque, razionale e nitida. Veronica Branca Masa si astrae con le sue sculture, portando un linguaggio contrastato di purezza rigorosa. Perché Veronica Branca Masa predilige l’isolamento creativo alla massa, al mucchio, alla collettività. Bisogna in questo caso considerare il percorso creativo dell’artista che, a partire dal 1987, ha deciso di spostarsi da Ranzo a Carrara, dove ha aperto il suo atelier ai piedi delle cave di marmo bianco, materiale da lei privilegiato nella sua costante ricerca. La sua, dunque, diventa un’esigenza fondamentale: infatti nell’atelier, in questo luogo di totale isolamento, Veronica Branca-Masa può staccarsi completamente dal mondo e rimanere sola con il suo lavoro. Si istaura così un contatto diretto, fisico, con la materia. È un rapporto privilegiato reso possibile dal taglio e dalla lavorazione personale della pietra, senza alcun intervento di terzi. La spazialità e il tempo hanno A sinistra: Raffaella Ferloni She’s 2001 tecnica mista su carta riciclata 105 x 110 cm A destra: Raffaella Ferloni I’ve kissed 2006 tecnica mista su foglio di legno 60 x 110 cm A sinistra: Veronica Branca Masa Luogo abitato dal vento 01 2014 marmo 30 x 27 x 36,5 cm Sopra: Veronica Branca Masa Luogo abitato dal vento 03 2014 marmo 57 x 18 x 32 cm 51 Raffaella Ferloni Carpe diem 2006 Memory (installazione). Riproduzione digitale, 72 pezzi 20 x 20 cm 52 53 Veronica Branca Masa Pagine bianche scritte dal tempo 9/10 2008 marmo 44 x 30 x 20 cm 54 55 Sotto: Raffaella Ferloni Inner room, Minotauro 2013 tecnica mista su tela 50 x 70 cm A destra: Raffaella Ferloni Nina mermaid 2014 tecnica mista su tela 50 x 70 cm A destra: Raffaella Ferloni What’s love? 2012 tecnica mista su cartone telato 30 x 30 cm Raffaella Ferloni Fantasma, Minotauro 2014 tecnica mista su cartone telato 40 x 30 cm 56 un ruolo importante nella ricerca di Veronica, e quest’anno soprattutto, è lo “spazio abitato dal vento” che diventa argomento fondamentale. In questa esposizione si crea un percorso sensibile, anche grazie alla presentazione di alcune sue tecniche miste e stampe a secco, atte a valorizzare un preciso discorso d’insieme. Si tratta di trovare la giusta interconnessione e calibrazione, tra i vari piani compositivi, di questi elementi attrattori e ordinatori dotati di una forte valenza armonica. Nelle sculture, si parte dunque dal mettere in risalto quell’ evidente compresenza di parti lavorate secondo le tradizionali tecniche di levigatura e lucidatura, con parti lasciate completamente grezze, così come erano presenti nel blocco al momento del suo prelevamento. Veronica Branca-Masa mette infatti in luce uno “stato primor- diale”, evidenziato dall’inclusione di queste parti “naturali” della pietra, non trasformate dalla mano dell’artista. Si giunge così alla complessa esemplificazione dell’entità del “vuoto” che diventa co-protagonista dell’elemento scultoreo. Nelle carte questa caratteristica prende forma con la calibrazione di colori e punti luce in un discorso di tratti e di segni,… segni che danzano così come lo fanno alcune piccole sculture che non rimangono statiche bensì vibrano sospese ed eteree. Nella ressa urbana, le sue diventano quindi architetture rigorose, mosse da un silente dialogo spaziale. Trascrizione del discorso di presentazione di Aymone Poletti 57 In alto, da sinistra a destra: Raffaella Ferloni Featured content 2008 tecnica mista su tela 145 x 120 cm Wearing kilt 2004 tecnica mista su tela 70 x 60 cm Young Serbian Couple 2008 tecnica mista su tela 50 x 40 cm A sinistra: Collant 2004 tecnica mista su tela 60 x 70 cm 58 Veronica Branca Masa Ciclo sul tema della danza 03 2006 marmo 50 x 102 x 60 cm 59 Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books 6– 22 novembre Romeo Manzoni Gianni Poretti Romeo Manzoni, intraprende il suo percorso partendo dalla fotocomposizione e dispone le opere sulle pareti con una costruzione su vari livelli di interpretazione, in cui i soggetti sono talora accostati o sovrapposti. L’artista riprende la composizione dei manifesti di contestazione e affronta argomenti delicati e controversi, per lo più di disturbo, attraverso diversi campi di lettura. Romeo Manzoni, nelle sue tele e nelle sue sculture, si nutre delle immagini di massa trasposte, dove il filo conduttore è un discorso metropolitano dove esiste un porsi in relazione con l’ambiente urbano, e con gli oggetti. Il recupero del materiale di scarto che si trasforma in protagonista nelle sue sculture in legno, gli permette di farsi commentatore esterno del quotidiano della marginalità urbana. Gianni Poretti propone invece, per questa mostra, numerose opere nate preva - lentemente tra il 2013 e il 2014. Oltre alla natura del vetro, il metallo è sempre stato presente nelle realizzazioni dell’artista, ma l’elemento aggiuntivo della rete, che genera e che forma, è un principio nuovo nel percorso creativo di Poretti. Le figure che ritroviamo in questi ultimi anni vanno ad arricchire un suo cammino di indagine nel vetro che era stato ed è prevalentemente astratto… la figura però viene intesa come una specie di ritorno alle origini, di quando infatti in principio Poretti si esprimeva attraverso la pittura (a partire dagli anni ‘60). Abbiamo quindi un prezioso discorso di continuità nella sua produzione e nella sua personale analisi artistica. Egli esamina nelle opere il processo della trasformazione della materia, e partendo da lì e fondendo il vetro con ossidi e metalli, Poretti lavora raffigurando simbolicamente i processi fisicochimici della formazione del cosmo. La formazione del cosmo è vita e la vita è coppia. Da qui abbiamo dunque il passaggio dall’astratto alla rappresentazione di individui,… un passaggio profondo che è praticamente costituito da discorsi graduali ed ininterrotti. E questa caratteristica porta ad una ricercata calibrazione in un discorso di materia cangiante, dove domina la regola dell’essenzialità. Sopra: Fresco d’alba 2010 digital art (fotopittura) 36 x 36 cm A destra: Enigma 2010 digital art (fotopittura) 40 x 38 cm Sotto: opere di Gianni Poretti In alto: Gianni Poretti Lamina, 3p. III 2014 fusione vetro metallo A sinistra, un momento della mostra 60 61 Romeo Manzoni Sublime 2014 digital art (fotopittura) 68 x 58 cm Sopra: Romeo Manzoni Il dominatore 2013 fotopittura su carta 43 x 54 cm Romeo Manzoni Disgregazione dei valori 2014 acrilico su tavola di legno 90 x 81 cm 62 Le “facce di pietra” di guerrieri antichi, che ricordano vagamente l’arte precolombiana scolpita nella dura pietra, simboleggiano i politici di oggi incapaci di dialogare arroccati nelle loro ideologie e che non accettano il volere del popolo… parlano, parlano e parlano senza dire niente. L’inquietante predatore, non odia mai la sua vittima, mentre l’uomo è l’unico essere vivente sulla terra che sa odiare i suoi simili. “Disparità di valori” è un’opera che fa una domanda: vale di più la vita umana, o quella di un pesciolino rosso? Quando troveremo il vaccino contro l’indifferenza e l’intolleranza avremo la risposta, ma al momento questa è utopia. “Nicchia di sopravvivenza”, sono figure che si innalzano verso la luce alla disperata ricerca della propria nicchia, ma nascono tutte dallo stesso ceppo dallo stesso Humus e si sentono tristemente soli. “Le pecore bianche”, opera dal chiaro riferimento simbolico, è la logica continuazione dell’opera “facce di pietra”, l’estrema conseguenza. Gli oggetti che da inutili (trovati nei rifiuti ingom- branti) riacquistano un nuovo significato e danno l’esatta idea del neosimbolismo intrinseco ad esse. Ad esempio, ogni tre secondi, nel mondo viene venduta una Biro, ma non è dato di sapere quante invece ne vengono gettate o distrutte. Questo dimostra che quello che costruisce l’uomo è sempre effimero. Bocca di rosa, come la canzone di Fabrizio De Andrè che porta all’estremo la ragione dell’individualismo, cioè una mediazione di una visione del mondo a quel momento attuale fondamentamente irrazionalista soggettivista e moralista, quì rivolto al significato più intenso del testo così come altri cantautori, Lucio Dalla, Vasco Rossi e altri ancora. Il “dominatore” qui rappresentato da uno spaventapasseri spiega che la natura deve essere fruibile da tutti, naturalmente con intelligenza. L’uomo non può cambiare a piacimento le leggi naturali ed ergersi da dominatore assoluto di tutti e di tutto. di Romeo Manzoni 63 Sopra: Gianni Poretti Lamina 1p. I 2013 fusione vetro metallo Gianni Poretti Lamina, 2p. I 2014 fusione vetro metallo 64 A sinistra: Gianni Poretti Bloc 2p. I 2013 fusione vetro metallo 65 Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books 27 novembre – 6 dicembre François Bonjour Gabi Fluck Gabi Fluck, artista nata in Germania e residente a Sigirino, ex grafica di professione e attiva per anni anche come illustratrice, in questa mostra, che per quello che la concerne, ha intitolato “ChiaroScuro”, espone così come li vedete da sinistra a destra, tre generi di lavori: temi astratti, disegni, e piccole sculture. Secondo Gabi i suoi quadri dal tema astratto vengono concepiti come una sintesi nella quale confluiscono vari elementi simbolici e in cui prevale la gioia per la ricerca della forma e del colore e in cui emerge l’aspetto ludico del suo fare arte. Queste opere si caratterizzano per l’utilizzo di varie tipologie di materiale, tra cui: pigmenti, fili di ferro e altro ancora, spesso ritrovati casualmente, come del vecchio e malconcio cartone, recuperato in cantina, sotto i pneumatici per la neve, e da lei definito “splendidamente ammuffito”. Vi sono poi i disegni in bianco e nero, dove prevale invece la linea e l’immediatezza del gesto. Qui l’artista lavora rapidamente, con gessetti, carboncini, matite litografiche, e pastelli; spesso Gabi utilizza direttamente i propri polpastrelli, generando così quello che viene da lei definito il “felice sguazzare, tra neri, grigi e altre infinite sfumature”. In questi disegni vengono a galla soprattutto i lati oscuri e nascosti dell’uomo; l’umanità viene infatti vista come una “scheggia impazzita” - titolo di una delle opere - dove troviamo delle anime erranti, perennemente alla ricerca di un qualcosa. Opere, queste, popolate da presenze oscure, demoni inquietanti, talvolta sornioni. Troviamo però anche ritratti di donne, altro tema prediletto dall’artista: in genere figure ironiche, in grado di sorridere di sé stesse e di prendersi in giro bonariamente. Soggetti in cui ritroviamo una certa dualità, perché, come dice l’artista, la vita è un “barcamenarsi tra gioia e dolore, spensieratezza e riflessione, tra luce e buio”. Infine, troviamo le piccole sculture, da lei definite come “silenziosi giardini immaginari”, o “disegni nello spazio”. Queste ultime opere sono concepite come delle piccole presenze fragili, che traggono ispirazione dalla natura (piante e altri vegetali ancora), dallo stupore e dalla gioia per tutto ciò che silenziosamente si forma dal nulla e che cresce rapidamente. Anche in questo caso vengono utilizzati materiali semplici, resti effimeri che, ancora una volta, sono però in grado di generare qualcosa di nuovo e inusuale ai nostri occhi. Un breve cenno finale sui titoli che Gabi da ai propri lavori. Racconta che ogni titolo infatti si modifica sempre nel corso dell’opera: quello che ad esempio all’inizio era nato come “una casa rosa nella palude marina” alla fine diventa “una galleggiante città spensierata”. Secondo l’artista è vero che il titolo ricopre una certa importanza, in quanto offre la possibilità di orientare lo spettatore ma non deve però privarlo del tutto della sua innata capacità di fantasticare. Ognuno quindi osservando queste opere può trovare il proprio “altrove”, può cioè conoscere (o ri-conoscere) qualcosa della propria anima... e forse attribuirgli un proprio titolo. Gabi Fluck Silenziosa crescita Chiodo arrugginito, fili di rame, argento e filo di ferro rosso, vegetali, spugna di mare su legno pitturato 2013 28 x 18 cm 66 In alto: François Bonjour Taglio 1 2014 tecnica mista su tela 50 x 50 cm In alto: Gabi Fluck Trittico di donnine Lei suona il tamburo / Felice con il cono gelato e la frutta / Con il ventaglio 2014 collage, pastello e carboncino su carta 43 x 20 cm Sopra: Il mondo, una scheggia impazzita 2014 carboncino su carta 27 x 22 cm 67 François Bonjour, originario del canton Neuchâtel, vive a Dino ed è un artista con un percorso espositivo che varca ormai i nostri confini. Da anni, indaga con il suo fare, l’universo della scrittura e dei segni. Accanto alla componente materica si aggiunge la presenza marcata e costante della scrittura, con messaggi che avvolgono le immagini e invadono spesso anche la superficie del vetro e del plexiglas creando segni e ombre che possono essere interpretati liberamente. La materia polverosa delle cataste di lettere cadute prende corpo anche nel volume plastico costituito da materiali come la carta, il cartone o il legno e da immagini strappate ai giornali e incollate come manifesti abbandonati. Bonjour con le sue opere ci suggerisce che i libri, è importante e bello non solo leggerli, ma anche toccarli, annusarli, smembrarli, tagliarne alcune pagine per poi ricucirli secondo un nuovo disegno, un nuovo spazio, dandogli insomma una possibilità alternativa di vita. Opere che come fogli da volumi ritrovati di una biblioteca immaginaria, tenuti insieme da legature che ne ricompongono il significato originale, eleggono il suo autore ad essere considerato una sorta di archeologo del contemporaneo. Potremmo dire custode silente e specialista di un luogo non molto lontano ma bruciato in fretta dalla tecnologia e dal paradiso virtuale di chi legge i libri stampati nell’etere, e che tende a dimenticarsi l’odore della carta e degli inchiostri. In bilico fra la logica un po’ dadaista dell’object trouvé e un ricordo della poesia visiva degli anni Sessanta, le sue opere ci restituiscono reperti, strumenti che nel salvarsi 68 si salvano dall’oblio, ma anche dalla costrizione delle idee e del pensiero. pagine che diventano pezzi rari e, allo stesso tempo, elementi di un nuovo racconto dove la realtà si mescola alla rappresentazione e la vita all’immagine. Bonjour preleva la vita e la innesta nei libri... le sue pagine salvate dal silenzio sono testimonianza di un profondo percorso di ricerca artistica in continua evoluzione e diventano a loro volta supporto di una pittura delicata che traccia storie su storie, parole su parole mettendo loro le ali e donandoci una diversa prospettiva, libero di pensare il nuovo, libero di ridipingere il destino in un viaggio iniziatico che recide, redime e libera il pensiero. Liberamente tratto da un testo di Chiara Gatti In alto da sinistra: Nella pagina accanto, dall’alto: François Bonjour Allevamento e soffio 2014 tecnica mista su tela 100 x 100 cm François Bonjour Permutazioni in movimento 2014 tecnica mista su tela 100 x 100 cm Interstizio del pensiero 2014 tecnica mista su tela 100 x 100 cm Statement. Fuga 2014 tecnica mista su tela 100 x 300 cm 69 Gabi Fluck Sogno draghi collage, pastello, carboncino e china su carta 2014 15 x 15 cm 70 Dall’alto al basso: Dall’alto al basso: Gabi Fluck Giochi infantili 2014 collage di carte con pigmenti, matita e pigmenti su carta d’acquarello 32 x 25 cm Gabi Fluck Il demone della casa 2014 collage di carta con pigmenti, acquarello, matita e china rosso su carta d’ acquarello 15 x 15 cm Gioia arancione 2014 collage con carta con pigmenti, filo di rame, corteccia bianca su carta d’acquarello 15 x 15 cm Le vie della vita 2014 collage di carta con pigmenti, filo di rame, corteccia bianca, buchi su carta d’acquarello, 20 x 20 cm 71 Nella pagina accanto: François Bonjour Messaggi senza titolo 2014 25 x 25 cm 72 François Bonjour Senza titolo 2013 tecnica mista su carta 78 x 58 cm 73 Galleria Art...OnPaper – 20 th century art books 11 – 20 dicembre Brigitte Allenbach Christina Kaeuferle Gallo Christina Käuferle Gallo nasce a Dessau (D), (città nota per aver ospitato la sede del Bauhaus, scuola d’arte e di architettura), cresce in Germania a Erfurt (Turingia), vive in Svizzera dal 1964 e lavora fra la Svizzera e il Piemonte. Uno dei più importanti pittori svizzeri del 20° secolo, Ferdinand Gehr, morto nel 1996, all’età di più di 100 anni, negli anni 80, in occasione di una visita di Christina Käuferle nel suo atelier ad Allstätten (SG), le disse di essere sempre più convinto che “l’essenziale è qualcosa di molto semplice”. Si riferiva alla possibilità di trasformare importanti contenuti spirituali e filosofici in forma creativa. Quelle parole la colpirono e influenzarono molto la sua visione dell’arte e il suo lavoro futuro. In quest’ottica il direttore del Museo Cantonale di Olten, Peter Killer sostenne in seguito che non gli era del tutto chiaro quanto della saggezza e vitalità di Gehr sia stata trasferita nell’arte di Cristina Kauferle, ma a suo parere, i dipinti e le installazioni di Christina, rispecchiavano la volontà dell’artista di opporsi con chiarezza e decisione ad un mondo dove i contrasti convivono, dove il colore svanisce e la mancanza di cultura diviene abitudine. Da un lato la struttura deliberatamente progettata e pensata ritmicamente, dall’altro la misteriosa formulazione che viene dalla natura, affascinano Christina nella stessa misura. Logica e caso coesistono nel suo lavoro senza problemi. Quello che ha visto ed ha creato nel deserto, quello che percepisce e scopre durante le passeggiate quotidiane, sono parti indispensabili e costanti del suo fare arte. 74 Nel conciliare le contraddizioni, è attiva in divese discipline: disegno, pittura e installazioni coesistono in egual misura. La rigida e ascetica convinzione di Ferdinand Gehr è messa in rilievo nei disegni che lei esegue in prevalenza a carboncino. “Tutto ciò che in un quadro è superfluo, lo rovina”, dichiarava Matisse oppure “l’arte vera è l’arte del tralasciare” diceva Oskar Kokoschka, ed in connessione alla ricerca della riduzione o semplificazione che collochiamo i disegni di Christina. Gli effetti dell’arte sono dunque maggiori se i mezzi usati sono più semplici? Certamente dice Christina, perché questo è il più alto obiettivo dell’arte: esprimere l’essenziale. “Più i mezzi sono semplici, più è garantito l’effetto finale... nell’arte è giunto il momento di esprimere l’essenziale, tutto ciò che non è essenziale non appartiene all’arte” diceva lo scultore Auguste Rodin. I suoi dipinti sono invece “spazi colorati” in cui l’osservatrice o l’osservatore possono immergersi. Sculture in carta pesta di Brigitte Allenbach A sinistra: Saltelli sereni 2014 In primo piano: Grosshans 2013 Sopra: Cristina Käuferle Gallo Tracce di polvere acrilico e carboncino su tela In alto a destra: Volo 2014 75 Cristina Käuferle Gallo Serie Spazio grigio 2000/2001 acrilico su tela 90 x 90 cm Cristina Käuferle Gallo Serie Spazio giallo 2000/2001 acrilico su tela senza telaio 150 x 120 cm 76 La lineare razionalità del mondo tedesco si manifesta nei disegni, l’amore per il Sud invece traspira nei suoi acquerelli e nella sensualità della sua pittura. Cristina dice: “I dipinti nascono spesso dopo l’interpretazione di allestimenti. Si potrebbe pensare ad una necessità di liberarmi ed essere pronta a nuove avventure. Le installazioni o gli allestimenti hanno invece il preciso scopo di far riflettere su questioni critiche del nostro tempo e sull’ambiente”. Osservando le sue realizzazioni si possono trovare concetti per spazi chiusi ed aperti che meravigliano per la loro semplicità per i quali lei sceglie consapevolmente materiali elementari e semplici, applicandoli con parsimonia, lasciando sperimentare all’osservatore una nuova sensazione e una nuova dimensione dello spazio. La costante ricerca del suo lavoro è dunque riassunta nelle parole “Perché l’essenziale è qualcosa di molto semplice”. Liberamente tratto da “Perché l’essenziale è qualcosa di molto semplice” di Peter Killer, direttore del Museo d’Arte di Olten 77 Brigitte Allenbach Crescita 2009 alabastro Anni fa, parlando del lavoro fisico molto impegnativo sulla pietra, ho detto scherzando che in età avanzata avrei cambiato materiale e sarei andata avanti lavorando in cartapesta. Nel 2013 in un corso da Vaklav Elias ho conosciuto meglio questa tecnica, che mi era sempre piaciuta e ne ho preso gusto. La cartapesta viene usata nel teatro e nelle decorazioni, perciò ha un tocco effimero e invita alla creazione di opere comiche o meno serie. Le mie opere in pietra crescono molto lentamente su progetti ben pensati e studiati. Non si intraprende un tale lavoro senza avere prima una meta rilevante. Con la cartapesta, invece, ho trovato un mezzo per lavorare in grande e con più velocità. Ne escono delle opere meno serie, allegre e spontanee. Finché mi sarà possibile, la pietra continuerà ad occuparmi e ad affascinarmi, ma ammetto che ho cominciato a divertirmi molto con questi materiali di scarto: la vecchia carta di giornale con le sue foto colorate. di Brigitte Allenbach-Stettbacher Christina Kaeuferle Gallo Backzeit 2014 tecnica mista su carta 40 x 50 cm 78 Brigitte Allenbach Il successore 2013 marmo e alabastro 79 Cristina Käuferle Gallo Serie Spazio terra e Spazio notte 2014 acrilico e carboncino su tela 70 x 70 cm 80 Nella pagina accanto, in primo piano le sculture di Brigitte Allenbach e sulle pareti le opere di Cristina Käuferle Gallo 81 Identità visarte società delle arti visi gruppo regionale ve svizzera ticinese visarte-t icino.ch i d en t i tà Weihnachtsausstellung mostra di fine anno di Visarte Ticino m – 18 ge bre 2014 nnaio Casa Se 2015 rodine Ascona Orari d’ap ertura Ve – Sa – 14:0 0 – Do 17:0 0 “(...) Perciò la posizione dell’emigrante non è più unicamente quella di una categoria di persone strappate al loro ambiente d’origine, ma ha acquisito valore esemplare. È lui la prima vittima della concezione “tribale” dell’identità. Se c’è una sola appartenenza che conti, se bisogna assolutamente scegliere, allora l’emigrante si trova scisso, combattuto, condannato a tradire la sua patria d’adozione, tradimento che vivrà inevitabilmente con amarezza e con rabbia. Prima di diventare un immigrato, si è un emigrato; prima di arrivare in un paese, si è dovuto abbandonarne un altro, e i sentimenti di una persona verso la terra che ha abbandonato non sono mai semplici. Se si è partiti, vuol dire che si sono rifiutate delle cose: la repressione, l’insicurezza, la povertà, la mancanza di orizzonti. Ma è frequente che tale rifiuto sia accompagnato da un senso di colpa (...)” “L’identità non è data una volta per tutte, si costruisce e si trasforma durante tutta l’esistenza. Da “L’identità” di Amin Maalouf In collaboraz ione con sign.com 21 dicembre 2014 – 18 gennaio 2015 Museo Comunale d’Arte Moderna Casa Serodine, Ascona identità Weihna chtsauss tellung 21 dice susinnode no emio Visarte Tici Novità 2014 - Pr o di master di un ar tista or emiazione del lav L’identità, dal latino Identitas, è ciò che rende le persone o le cose riconoscibili in maniera definitiva. Si tratta di caratteristiche che ci rendono “quello che siamo” e che definiscono in maniera inequivocabile la nostra natura, la nostra unicità e originalità. Nel mondo contemporaneo l’identità assume un significato sempre più importante nel momento in cui siamo confrontati con l’era della comunicazio- 82 Pr ne universale e delle frontiea uola d’ar te svizzer ticinese di una sc re aperte: si discute allora di furti di identità, di identificazione delle persone, di identità cultu- Dove le realtà globalizzate premono per rale e nazionale, di perdita del senso l’omogeneizzazione e all’abbattimento di identità individuale. La reazione può delle differenze in favore di standard riessere una “fuga in avanti” verso un’i- conosciuti, la tecnologia paradossalmendentificazione con realtà percepite co- te esalta l’unicità dell’individuo portato me più forti o una difesa ad oltranza ad esprimere il proprio essere diverso del proprio essere contro ogni spinta mediante la creazione di “contenuti” da condividere tramite social network. È il all’assimilazione o alla diluizione. ritorno, quindi, a ciò che nel bene e/o nel male ci rende unici, espresso e reso pubblico a reclamare un’eccezionalità controcorrente in un mondo tendente all’appiattimento culturale. Quando ci affacciamo alla tematica dell’identità, percepiamo quanto questa riguardi l’individuo, la sua storia ed il suo passato. Affrontiamo la questione della sfera intima, impalpabile quanto presente, e delicata. Il tutto sottilmente si riflette nella collettività e in tutta una serie di avvenimenti che si riflettono e ci riflettono, proiettandoci in un quotidiano già futuro, che consegneremo alle nuove generazioni. L’identità è la nostra coscienza personale e collettiva, attraversa la vita di ognuno di noi, a livello familiare, culturale e sociale. L’identità è un fattore contaminante, legato al nostro corpo, alla nostra storia, alla nostra memoria. Quello che viviamo noi, con il nostro personale e particolarissimo filtro che crea risposte alle relazioni e alle esperienze, pur nella sua unicità, in una continua trasformazione condivisa, è sempre più intrecciato in una rete di relazioni che andiamo ad alimentare continuamente. L’identità è l’amalgama complesso di lingue, di culture, di ricordi e di esperienze, di conflitti, di scambi di idee e visioni di sé e del mondo. È una ricchezza ed è una dimensione a cui si accede intuitivamente, attraverso la sensibilità estetica, con un lavoro di attento ascolto di sé e della propria storia. La società contemporanea si muove verso una stilizzazione degli usi e costumi e spesso sono presenti disturbi identitari: identità “liquide”, mal definite, identità alienate, frutto della definizione di altri, identità rigide, difensive, che imprigionano la vita. Bisogna avere il coraggio di appropriarsi della propria identità costituita da punti in comune e da differenze con chi ci circonda. Per definirci e distinguerci è fondamentale lo sguardo dell’altro, che ci definisce come entità permettendoci di vederci riflessi nei suoi occhi. Vedere nell’occhio dell’altro sé stessi, il proprio sentire, le proprie emozioni, le proprie visioni di mondo, e non una chiusura o paura. La curiosità, l’ascolto o la condivisione sono impossibili senza l’apertura alla differenza, cioè alla dimensione dell’oltre, quella dimensione che ci pone in contatto con una realtà che ci pervade e ci completa. Pierluigi Alberti Leonardo Pecoraro Brigitte Allenbach Stettbacher Sara Pellegrini Judit Aszalos Regula Perfetti Marco Balossi Margaret Perucconi Felicita Bianchi Duyne Sergio Piccaluga François Bonjour Gianni Poretti Jean-Marc Bühler Marco Prati Dario Cairoli Fabiola Quezada Daniele Cleis Regine Ramseier Raffaella Ferloni Jacqueline Real Butler Gabi Fluck Sandra Snozzi Laura Fumagalli Gianluigi Susinno Aurora Ghielmini Antonio Tabet Anna Kammermann Hanspeter Wespi Hans Kammermann Flavia Zanetti Christina Käuferle Gallo Christine Lifart Antonio Lüönd Romeo Manzoni Tazio Marti Gabriela Maria Müller Bubi Willy Nussbaum 83 84 85 86 87 Luoghi in cerca di identità Gibellina Dalle ceneri,… una rinascita e una nuova identità anche in nome dell’arte Gibellina è un comune italiano di poco meno di 4300 abitanti della provincia di Trapani, in Sicilia. Il centro abitato attuale, noto anche come “Gibellina Nuova” è sorto dopo il terribile terremoto del Belice del 1968 in un sito che in linea d’aria dista circa 11 km dal precedente. Il vecchio centro, distrutto dal sisma, è stato abbandonato ed è oggi noto come “Gibellina Vecchia”. Per la ricostruzione della cittadina, il Sindaco della città, Ludovico Corrao ebbe all’epoca l’illuminata idea di “umanizzare” il territorio, chiamando a Gibellina numerosi artisti di fama mondiale come Pietro Consagra e Alberto Burri per contribuire, con le loro opere, a dare uno stimolo diverso e utopico alla rinascita del paese e della regione. Alberto Burri si rifiutò di inserire una sua opera nel nuovo contesto urbano che si stava costruendo e realizzò invece un “Grande Cretto” nella vecchia Gibellina, a memoria del sisma che la distrusse. Un’opera monumentale che divenne il simbolo della cittadina stessa. All’appello del Sindaco risposero, altresì Mario Schifano, Andrea Cascella, Arnaldo Pomodoro, Carla Accardi, Mimmo Paladino, Franco Angeli, Leonardo Sciascia. La città divenne subito un immenso laboratorio di sperimentazione e pianificazione d’arte, in cui artisti e opere 88 di valore rinnovarono lo spazio urbano secondo una nuova prospettiva originale e innovativa, grazie, inoltre, ad una ricostruzione che portava la firma di architetti quali Francesco Venezia, Giuseppe Samonà, Vittorio Gregotti, Alessandro Mendini, Ludovico Quaroni. Ghibellina è stata ricostruita in uno slancio utopico che però a distanza di anni ha mostrato i suoi limiti, le sue debolezze e le sue difficoltà di realizzazione. Oltretutto, ogni idea utopica ha naturalmente un suo costo. E spesso ci si dimentica che la cultura genera ben oltre la mera entrata “monetaria”. La cultura e l’arte devono formare e sensibilizzare le generazioni. Ma certe arti riescono ancora tutt’ora ad avvicinarsi al pubblico rendendolo veramente partecipe? Il Museo d’Arte Contemporanea a Gibellina, da sempre attento alle nuove tendenze, si è posto come elemento di aggregazione e di stimolo in un ambiente che ha come rischio più grosso la parcellizzazione delle iniziative e l’isolamento culturale. Fin dal suo esordio, avvenuto nel 1980, grazie alla donazione Nino Soldano, il museo di Gibellina ha ospitato una ricca collezione che contiene ad oggi più di 1800 opere fra dipinti originali, grafiche, sculture. Le opere sono collocate all’interno della sede del museo e lungo le vie cittadine: questo percorso esterno fa da legante con il piano urbanistico stesso trasformando il tutto in una mostra “en plein air”. Ghibellina è un museo a cielo aperto che negli ultimi anni ha meritato, per i suoi progetti educativi, il premio dell’Inter- 89 Gibellina – dalle ceneri,… una rinascita e una nuova identità anche in nome dell’arte national Council of Museums nel 2011 e un premio dall’Associazione Nazionale Critici per il teatro nel 2012. Gibellina poi è tornata tristemente sulle pagine di cronaca dei giornali nell’estate del 2011, a causa dell’uccisione del Senatore Corrao. E ci è tornata anche nel 2013 per via dell’annunciata chiusura del museo e della biblioteca della Fondazione Orestiadi, fondata dallo stesso Corrao nel 1992. Negli ultimi anni il contributo della regione Sicilia, che serviva a pagare il museo e il Festival delle Orestiadi (le mostre, le residenze, la didattica, la sede distaccata di Tunisi, il funzionamento delle strutture, la manutenzione delle opere, gli stipendi ai dipendenti) si è più che dimezzato 90 creando un vuoto e rendendo evidente un malessere intrinseco all’identità del luogo stesso. Nasce dunque spontanea la domanda: Gibellina è veramente vivibile? Le critiche spesso piovono da più parti… si pensi che già nel 2008 lo scenario proposto da Stefano Boeri, architetto e direttore di «Abitare», era volutamente provocatorio e inquietante: «Gibellina, con le sue piazze e i suoi porticati grandiosi, è la dimostrazione concreta del fallimento e della presunzione di cui può essere capace l’architettura italiana. Tranne il Cretto di Alberto Burri tutto il resto è invivibile, vuoto, decadente». Ci sarà pure un modo per salvarla se non privatizzando gli spazi pubblici? In poche parole si tratta di rivedere il concetto di questa “piccola Brasilia in miniatura” che ha gli stessi problemi della città creata sull’altopiano del Planalto Central, tra il 1956 e il 1960, da Oscar Niemeyer visto che è diventata un insediamento urbano fin troppo pianificato per poter essere davvero vissuto dalla popolazione. Ma anche quello che è vivibile soffre della mancanza di fondi. Da anni si continua ad assistere alla soppressione di sussidi: le istituzioni chiudono, si fermano, tagliano, muoiono, poi magari rinascono, in un altro modo e con un altro nome, finché non si fermano di nuovo. Impedendo così al pubblico di abituarsi alla loro presenza e alla loro frequentazione, di comprenderne l’importanza e di crescere insieme al proprio patrimonio. Vivere Ghibellina è un’esperienza particolare. Come scrisse Dominique Fernandez in un suo articolo del 1987 “L’insieme lascia un’impressione di pulizia un po’ insolita, come se il paese non fosse veramente abitato. Pochissimi negozi, ma, di tanto in tanto, un’opera d’arte di cemento o di metallo. Una sfera tutta bianca segnala la chiesa; una freccia di cemento munita di pinne multicolori rappresenta una torre; qui c’è il monumento ai morti, porta a due battenti, sormontata da una mezzaluna e aperta sul nulla; là un edificio a forma di chiocciola, metà bar, metà casa del popolo; più lontano si stagliano, con la loro bizzarra silhouette, delle forme astratte senza finalità pratica: una spirale spaccata, delle stele nere, una “tavola dell’alleanza”, isolata e misteriosa. È bello? È brutto? Porsi questo tipo di domanda significherebbe condannarsi a non capire niente di ciò che è l’originalità di Gibellina. Finita l’epoca del Liberty, l’arte moderna non era, per così dire, all’epoca ancora penetrata in Sicilia.” E ancora “Gli abitanti di Gibellina Nuova dicono “Abito vicino alla scultura di Pomodoro. Ci vediamo alla stella...”. Infatti, se è vero che i direttori dei lavori sono venuti dal continente, è anche vero che la popolazione, dimostratasi tutt’altro che passiva, ha collaborato all’impresa di ricostruzione. Poiché tutti a Gibellina si sentivano coinvolti nell’avventura, è sorto un artigianato d’arte, proprio com’era avvenuto all’epoca del Rinascimento italiano. È stata una felice interazione: una società rurale ha dimostrato che poteva interessarsi a valori diversi da quelli proposti dai giornali e dalla televisione e, viceversa, l’avanguardia dell’architettura, della scultura e del design, rinunciando ai giochi di stile gratuiti, ha contribuito a segnare questo paese e a ridargli un’identità. Achille Bonito Oliva, uno dei più importanti critici d’arte italiani, ha definito Gibellina “una delle realtà più importanti della Sicilia”. Alessandra Mottola Molfino, museologa e storica dell’arte, già direttore centrale della Cultura e Musei del comune di Milano e presidente di Italia Nostra, ha detto che la fondazione Orestiadi “è un centro di contatti artistici contemporanei ormai conosciuto nel mondo” e che “l’allestimento, le collezioni e il percorso del museo sono davvero unici ed estremamente originali: è una proposta continua di riflessioni e di provocazioni sulla nostra identità mediterranea che mai privilegia l’aspetto cronologico, geografico o tipologico”. Dunque, nonostante la crisi, Ghibellina resiste nel nome della sua nuova identità: resiste alle intemperie burocratiche, alle burrasche organizzative e al deserto della ricerca di fondi,… resiste come lo ha sempre fatto e come lo farà sempre la terra fiera dalla quale nasce. 91 L’identità di un luogo Beauduc: spazio immaginario tra cielo, mare e sabbia Ho scoperto Beauduc durante la preparazione di un viaggio in Camargue, dove avevo intenzione di recarmi a fotografare l’area di confine del parco naturale, costituito di realtà industriali legate alle attività portuali. Da Salin de Giraud con l’aiuto di una cartina 1:150.000 abbiamo percorso i 14 km di strada sterrata che portano a Beauduc. Ci troviamo nella parte occidentale del delta del Rodano, nel cuore del parco naturale Regionale della Camargue. 92 I 14 km di strada rimangono indimenticabili, non solo per la dura prova di guida alla quale si è sottoposti per salvare auto e schiena, ma soprattutto per il paesaggio attraversato, un paesaggio dallo spazio infinito, uno spazio senza tempo, metafisico, immerso nel suono del vento che in questa tavola trova poco ad impedirne la sua corsa verso il mare. Una sottile linea scura, che sembra disegnata dalla punta di una matita, separa il cielo dalla terra e dal mare. Difficile da documentare è l’odore che si percepisce, un odore che impari a riconoscere da lontano quando ritorni e che è l’insieme di acque stagnanti e salsedine. Un aroma che viene memorizzato e che resta indelebile in quella parte del cervello adibito a questo scopo. Dopo aver fatto il pieno di questo inebriante spazio e dei suoi aromi, si arriva ad una spiaggia selvaggia, dove lasciamo l’auto in quello che sembra un parcheggio naturale di sabbia compatta e cerchiamo di orientarci alla ricerca di quello che dovrebbe essere un villaggio. Le dune fanno da cornice a grandi distese di sabbia umida, dove è evidente il continuo mutamento dettato dalle acque del mare – dal quale la terra emerge appena - e dal capriccio del vento. Constatato che le distanze sono difficili da stabilire e quello che appare a poche centinaia di metri sembra di fatto irraggiungibile, riprendiamo l’auto, e imitando gli altri, percorriamo quelle che sembrano strade, vie improvvisate a seconda della presenza o meno di acqua, di cui restano aloni di acquitrini che preferiamo aggirare. Le prime costruzioni che incontriamo fanno parte di Beauduc Nord, un nucleo nato negli anni ‘70 attorno a due ristoranti gestiti da ex pescatori che hanno reso celebre il posto, forse un po’ troppo dato che a metà degli anni ‘90 era possibile imbattersi in personalità del calibro di Jack Nicholson portato qui da Roman Polanski. Non cercate Chez Juju e Chez Marc et Mireille - questi i nomi dei due ristoranti - che sono stati distrutti nel 2004 dalle autorità, intervenute per “ridimensionare” il fenomeno Beauduc. Beauduc ci appare come uno strano villaggio, costituito di abitazioni precarie, senza fondamenta, improvvisate, fatte di roulotte demodé affiancate da costruzioni formate da materiali riciclati, teloni, assi di legno inchiodate tra loro grossolanamente. Sembrano più capanne costruite da bambini che case. A qualche casa/capanna vengono aggiunti abbellimenti, 93 Beauduc: spazio immaginario tra cielo mare e sabbia bandiere, targhe con un nome bizzarro e suggestivo, conchiglie o altro materiale trovato lungo la spiaggia, e che comunque rispecchia il gusto e la personalità dei proprietari. Davanti ad una capanna, sopra ad un pavimento fatto di assi, un divano ad angolo in finta pelle posto all’esterno direttamente sotto il cielo. Davanti ad un’altra casa, un pianoforte – in pessimo stato - anch’esso lasciato sotto le intemperie. In effetti camminando per Beauduc è un po’ come trovarsi in un set felliniano, con la differenza che qui non si tratta di un set costruito ad-hoc. Può anche succedere di imbattersi tra le dune con un ragazzo che con un cappello in testa suona indisturbato un sax. Si contano circa 500 capanne, ma sono solo una decina le famiglie che vengono qui durante tutto l’arco dell’anno. La storia di Beauduc ha inizio nel secondo dopo guerra, negli anni ‘50, quando le vecchie capanne di giunchi costruite dai pescatori, già a partire dal secolo precedente, vengono gradualmente trasformate al fine di renderle accoglienti per 94 un soggiorno della durata di un fine settimana o per una vacanza, a costi contenuti, in un paradiso a pochi passi dal mare. Il processo di trasformazione continua negli anni attirando sempre più persone, per lo più lavoratori delle vicine saline e pensionati. Tutti si conoscono, si aiutano reciprocamente, i bambini sono liberi di correre, si organizzano attività comuni, giochi di società ai quali tutti partecipano. Incurante della legge, senza permessi di costruzione né nessuna autorizzazione, Beauduc vive in autarchia senza elettricità né acqua potabile. Sole, mare, natura e libertà, come scrive Laurence Nicolas, antropologa originaria di queste parti: “... Nasce allora la sensazione del ritorno alla vita selvaggia, l’idea di un mitico paradiso perduto, o ancora la nostalgia delle origini in cui la cultura si concilia con la natura e fa a meno della mediazione tecnica...” Beauduc è organizzato in tre aree sviluppatisi nel corso del tempo. Le Sablons rappresenta un po’ il cuore, la parte storica e in un certo senso più importante. Creato tra il 1950 95 Beauduc: spazio immaginario tra cielo mare e sabbia e il 1979 le costruzioni che lo costituiscono sono più solide e “sicure”. Immaginando di vederlo dall’alto appare come un’isola, sulle cui sponde si sviluppano le abitazioni che lasciano alle proprie spalle uno spiazzo dove si svolgono le attività che coinvolgono i cabaniere. In effetti se le strade fossero asfaltate, parrebbe di camminare per un normalissimo villaggio fatto di casette ad un piano, dalle quali spiccano pannelli solari e parabole per la ricezione TV. Un’altro nucleo, che abbiamo già incontrato, è Beauduc Nord situato all’ingresso di tutto il sito ed è infatti il primo in cui ci si imbatte arrivando dalla strada. Infine Beauduc Plages costituito in gran parte da roulotte raccolte attorno a “la Cabane de l’indien” - che svetta al centro come un campanile - costruita negli anni 70 da un ragazzo del Madagascar. Si tratta della parte più recente e anche la più problematica trovandosi a ridosso del mare. Le cabanes qui sono praticamente nell’acqua in un contesto anarchico, legato ad un’occupazione prevalentemente estiva e temporanea. Beauduc non è riconosciuto dalle autorità e a partire dalla fine degli anni 60 (il parco viene istituito nel 1970) si sono svolti processi e ricorsi all’interno delle aule dei tribunali. Il 1997 vede le associazioni dei cabaniere perdere nei confronti delle autorità statali che sanciscono l’abbattimento delle cabanes. Ad Arles nello stesso anno viene organizzata una grande manifestazione a difesa di Beauduc. Il ministro della Cultura proclama in modo estremamente inatteso il carattere patrimoniale e legittimo della pratica dei cabaniere a Beauduc. Questo porta ad un blocco temporaneo della situazione. In effetti non si può ignorare l’aspetto abusivo di Beauduc, costruito sul demanio marittimo e per di più all’interno di un parco naturale dove non è possibile edificare. Eppure, allo stesso tempo, non si può non restare colpiti dalla sua essenza di laboratorio sociale di un vivere alternativo, basato su principi diversi e che mettono tutti sullo stesso piano. È questo l’aspetto che più di altri emerge nella ricerca della storia di Beauduc (per approfondimenti Paul Minvielle “La gestion d’un grand site camarguais: les cabanes de Beauduc”). Quello che vede una piccola comunità che da oltre 40 anni caparbiamente difende la propria storia, e che trova l’appoggio da tutta la popolazione locale, dalle guardie del parco, da uomini politici e artisti. Diverse sono le attività svolte dall’ASPB (Association de Sauvegarde du Patrimoine de Beauduc), una delle associazioni più attive di cabaniere nata già alla fine degli anni 60. Distribuzione di opuscoli e installazione di pannelli informativi che invitano i visitatori ad attenersi a regole di buon uso del luogo; eliminazione dei relitti, istituzione di un pronto soccorso, aiuto ai turisti in difficoltà, installazione di una cisterna per prevenire incendi, operazioni di rimboschimento, raccolta dei rifiuti, piccoli lavori di manutenzione alla viabilità. Il tessuto associativo è la garanzia principale della gestione del sito da parte dei suoi occupanti. Durante il periodo estivo, Beauduc è meta di kitesurfer - grazie al vento che non manca mai - che arrivano da tutta Europa e che riempiono il cielo di vele colorate. Insieme ai cabaniere condividono lo spirito di libertà del posto, alloggiando con tende e piccoli caravan lungo la spiaggia. 96 Il lavoro fotografico La mia attenzione fotografica è stata attratta per lo più dai nuclei più recenti, Beauduc Nord e Beauduc Plages, che presentano maggiori contraddizioni e problematiche, nonché una strana aura misteriosa, alimentata dall’assenza di persone. A tratti sembra di camminare attraverso un luogo dove fino a poche ore prima c’erano persone, che a seguito di un evento sconosciuto sono fuggite lasciando in sospeso il tempo. Sospesa come la storia che sembra in attesa di nuovi eventi che chiariscano il futuro di Beauduc. di Domenico Scarano 97 coming soon “Mangiare è uno dei quattro scopi della vita. Quali siano gli altri tre nessuno lo ha mai saputo.” Proverbio cinese Nutrimenti culturali Nutrire il pianeta, energia per la vita Expo Milano 2015 è l’Esposizione Universale che l’Italia ospiterà dal primo maggio al 31 ottobre 2015 e sarà il più grande evento mai realizzato sull’alimentazione e la nutrizione. Per sei mesi Milano diventerà una vetrina mondiale in cui i Paesi mostreranno il meglio delle proprie tecnologie per dare una risposta concreta a un’esigenza vitale: riuscire a garantire cibo sano, sicuro e sufficiente per tutti i popoli, nel rispetto del Pianeta e dei suoi equilibri. Un’area espositiva di 1,1 milioni di metri quadri, più di 140 Paesi e Organizzazioni internazionali coinvolti, oltre 20 milioni di visitatori attesi. Sono questi i numeri dell’evento internazionale più importante che si terrà a Milano. Expo Milano 2015 sarà la piattaforma di un confronto di idee e soluzioni condivise sul tema dell’alimentazione, stimolerà la creatività dei Paesi e promuoverà le innovazioni per un futuro sostenibile. Ma non solo. Expo Milano 2015 offrirà a tutti la possibilità di conoscere e assaggiare i migliori piatti del mondo e scoprire le eccellenze della tradizione agroalimentare e gastronomica di ogni Paese. Per la durata della manifestazione, la città di Milano e il Sito Espositivo saranno animati da eventi artistici e musicali, convegni, spettacoli, laboratori creativi e mostre. Scrivere di alimentazione, alla vigilia di expo 2015, è un’impresa complessa che non si può ridurre a poche righe di testo. Si possono però accennare ad alcune considerazioni che andranno in seguito sviluppate personalmente da chi si armerà di curiosità e pazienza… Il linguaggio del cibo è un codice complesso che coinvolge etica, simbologia, ritualità e si figura come espressione di un’identità a volte personale, ma soprattutto di gruppo. Ne deriva come conseguenza che il processo conoscitivo, operato sulle abitudini alimentari di un popolo, può rivelarsi in realtà molto coinvolgente, gettando luce su altri aspetti legati alla sua storia, alle sue credenze religiose, alla sua cultura e, naturalmente alla sua arte. Al di là del fatto che la cucina in generale ed il mangiare accomunano tutti, il rito del nutrirsi costituisce parte dell’essenza di una civiltà. Dalla tavola, dal modo di mangiare, dalla maniera di preparare gli alimenti, il cibo, le spezie, le bevande, le usanze... l’alimentazione è un fondamentale elemento costitutivo del nostro patrimonio culturale. Mangiare e bere insieme vuol dire celebrare la vita e le ricette tramandate ne sono la testimonianza. Parlare di cibo significa fare riferimento ad una cultura, a delle abitudini, ad uno stile di vita. Ogni paese ha il suo modo di alimentarsi, di usare certi prodotti piuttosto che altri. Così, attraverso il cibo noi possiamo scoprire la storia di un paese, di diverse tradizioni e di identità alle quali le persone fanno riferimento. La gastronomia si presenta come un’area del sapere dove possono coesistere discipline differenti. Il tema dell’alimentazione implica una pluralità di esperienze nell’ambito storico, antropologico, sociologico, letterario, artistico, a cui oggi gli studiosi stanno riservando crescenti attenzioni, incrociando le proprie competenze con quelle di economisti, tecnici della produzione, dietologi, cuochi e gastronomi. Il rapporto tra cibo e uomo non è mai stato esclusivamente funzionale ad una pura esigenza fisiologica, né il consumo alimentare è stato dettato esclusivamente da motivi economici. Si è sempre arricchito di valori e di comportamenti celebrativi, rituali, spettacolari. La marcia della civiltà dell’uomo è parallela alla civiltà della tavola. Quello che caratterizza una terra ed un popolo è anche la sua tradizione culinaria e le sue abitudini alimentari. Il cibo è condivisione e simbolo e ogni volta che affrontiamo un alimento ricordiamo che non è solo frutto dell’agricoltura o dell’industria ma anche dell’elaborazione di secoli di storia. Il cibo può anche facilmente andare oltre al suo significato più profondo: diventa in questo caso merce di scambio e valore. Ed il cibo crea un valore anche perché instaura delle atmosfere, delle relazioni fra le persone e crea fra di loro una comunicazione. Un pranzo non sarà mai un semplice atto durante il quale ci si alimenta: sarà sempre molto di più… un linguaggio... un’arte! Il tema del convivio, del vivere insieme, è un’occasione per penetrare nel vivo delle culture. Si può parlare sia di nutrimento ”fisico” sia di nutrimento intellettuale: Roland Barthes ha definito il comportamento alimentare, come “un sistema di comunicazione in cui la circostanza assume maggiore peso della sostanza e la funzione sociale dell’alimento è più forte del suo valore nutritivo.” I cibi, non sono, infatti, solo sostanze: sono anche “istituzione” e come tali implicano, fatalmente, immagini, sogni, tabù, scelte e valori intellettuali. Annibale Carracci, Il mangiafagioli, 1584-1585, olio su tela, 57 × 68 cm Diventano elemento di disparità sociale, con piatti preconfezionati e malnutrienti, geneticamente modificati, dall’alto consumo di energia grigia, in contrapposizione ai più raffinati prodotti di nicchia, rari, costosi e a volte, solo a volte, a chilometro 0. Gli alimenti sono, inoltre, lo specchio dei nostri tempi: contro uno sfruttamento indiscriminato di pesticidi e di risorse, le possibili risposte sono manifestazioni artistiche (e non) di critica sociale, dove il cibo (e soprattutto le sue componenti) si rivela essere un “nostro sconosciuto”. Riflettiamo dunque bene a questo analfabetismo dilagante che subiamo sempre più nel nostro modo di nutrirci perché, come asseriva già il filosofo Feuerbach... “Noi siamo quello che mangiamo”. “Il segreto per vivere a lungo è: mangiare la metà, camminare il doppio, ridere il triplo e amare senza misura” Proverbio cinese 98 99 fragilità Cosa nasconde la scatola contenente l’omaggio d’artista 2014? In ogni scatola si trova un piccolo elemento intitolato FRAGILITÀ, variante del progetto FRAGILE dell’artista Aymone Poletti. Si tratta di piccoli pezzi di gusci di uova che sono stati “lavorati” e modificati da agenti esterni, quali acidi, sali e inchiostri giapponesi. Il guscio si traduce in metafora: così sottile e leggero, ci rappresenta e si riflette nel significato della fragilità umana, della nostra società, dei nostri valori, delle nostre sicurezze e del nostro corpo. Varie aggressioni esterne, quali l’arroganza, la violenza, la povertà, la malattia, si accaniscono su corpi già deboli, continuamente sollecitati... Ma da queste aggressioni può nascere una nuova forza interiore, capace di reagire. E come questi piccoli pezzi di gusci così fragili (che vengono costantemente assaliti da fattori esterni per diversi giorni, per poi subire trasformazioni e diventare nuovi elementi più forti e luminosi), anche le persone possono e devono rispondere alle avversità reagendovi, superandole e riuscendo pure a trarne forza e bellezza. Il tempo, elemento fondamentale d’azione legato alla formazione dei rilievi della terra, modifica, anche in questo caso, la natura dei gusci, creando nuove prominenze e, di conseguenza, nuovi rilievi e profili inattesi, brillanti ed imprevisti. “Tutti gli uomini si nutrono, ma pochi sanno distinguere i sapori” Confucio www.visarte-ticino.ch Finito di stampare nel mese di marzo 2015 dalla tipografia Fontana Print SA, 6963 Lugano-Pregassona 100 Artista è soltanto chi sa fare della soluzione un enigma. Karl Kraus