51 / Alfred North Whitehead (1) Alfred North Whitehead ebbe un ruolo di rilievo nella fervida riflessione logica ed epistemologica che lo affiancò, a Cambridge, nei primi decenni del Novecento, a George Edward Moore e a Bertrand Arthur William Russell. Condivise con quest’ ultimo – che ne era stato allievo – il progetto di una logicizzazione della matematica. Dalla valorizzazione del “logicismo” di Friedrich Ludwig Gottlob Frege – che intendeva ricavare la matematica sino ad allora conosciuta dai concetti fondamentali della logica, in virtù di un rigoroso apparato formale – scaturirono i monumentali “Principia matematica” in tre volumi (1910-1913), scritti in collaborazione dai due. Solitamente, però, chi ripropone le direttrici essenziali dell’ opera appiattisce e risolve le posizioni di Whitehead nella filosofia della matematica di Russell. Ma il contributo specifico sulla geometria e sulla logica delle relazioni di Whitehead ai “Principia”, merita una maggior attenzione. Altrimenti non se ne comprenderebbe lo specifico percorso successivo. Whitehead trasse, infatti, dalla collaborazione ai “Principia”, la sollecitazione a sviluppare una acuta riflessione epistemologica che ridiscutesse quella dominante concezione meccanicistica di mondo e di natura che il pensiero contemporaneo aveva ereditato dalla fisica newtoniana e dalla filosofia moderna. Intraprese, dunque, un cammino la cui traiettoria lo avrebbe portato lontano dall’ atomismo logico dei “Principia” (che intendeva generare le proposizioni “molecolari” da quelle “atomiche”, semplici, aderenti ai fatti), sul quale invece Russell insistette, condizionato da quel “tremendo” suo allievo che era stato Ludwig Wittgenstein. Russell avrebbe riconosciuto che costui, ancor giovane, gli poneva questioni alle quali frequentemente lui stesso non sapeva dare risposta. Eppure il maestro intuiva che l’ allievo possedesse già le risposte ai propri quesiti. Ma – a parte l’ influenza di Wittgenstein su Russell – è bene sottolineare che l’ epistemologia di Whitehead non si fermò all’ analisi critica della conoscenza e del linguaggio (comune) come accadde a George Edward Moore. La cui difesa del senso comune (al quale già nel Settecento aveva conferito dignità gnoseologica Thomas Reid) contro il neoidealismo di Francis Herbert Bradley, fu un vero e proprio “toccasana” per gli stessi Russell e Wittgenstein. “Il tempo non è reale?” si chiedeva Moore. E allora come potremmo aver fatto colazione “prima” di pranzare? E, del resto, mentre io nego l’ esistenza di oggetti materiali, guardo le mie mani … E ne ho una conoscenza intuitiva ed immediata. Il realismo di Moore insegnava a Russell e a Whitehead che il mondo esiste effettivamente. Esso è costituito di fatti e di linguaggi che mirano a descriverli. E proprio mentre Moore pubblicava la sua “Confutazione dell’ idealismo”, Whitehead e Russell davano alle stampe i “Principi di matematica”. Nella cui introduzione lo stesso Russell ammetteva che i caposaldi delle sue concezioni filosofiche provenivano essenzialmente da Moore. “… devo a lui – scriveva – il pluralismo che interpreta il mondo … Prima di apprendere < le sue > teorie > mi sentivo del tutto incapace di costruire una qualsiasi filosofia dell’ aritmetica, mentre accettandole mi trovai immediatamente liberato da un gran numero di difficoltà che ritengo siano altrimenti insuperabili”. Così nella traduzione italiana di Ludovico Geymonat. Whitehead, comunque, come ha ben sottolineato Lluìs Oviedo del Pontificio Ateneo Antonianum di Roma, con altri autori, deve aver “sofferto la crisi legata alla percezione dell’ impossibile autofondazione della matematica”. I prodromi della crisi del logicismo, che sarebbe giunta al suo apice con Kurt Gödel, si eran già manifestati con gli insolubili paradossi che Russell s’ era trovato di fronte. E nell’ ultima fase del suo intenso lavoro, dopo che la matematica, le scienze e l’ epistemologia erano stati i suoi interessi dominanti, Whitehead volle costruire, infatti, sulle fondamenta della scienza contemporanea (la teoria della relatività e la quantistica), una organica cosmologia metafisica realista. Essa mostrava risonanze delle filosofie di Platone, Georg Wilhelm Friedrich Hegel e Gottfried Wilhelm Leibniz. Ed era il frutto del superamento tanto del meccanicismo della fisica moderna quanto del materialismo meccanicistico e del sostanzialismo dualistico della filosofia moderna. Si prefigurarono, così, nell’ intero percorso di Whitehead, ben tre fasi: “una caratterizzata – come ha ben appuntato Ornella Bellini – dalle riflessioni sulla logica e sulla matematica, un’ altra da quelle sulla fisica e sulla filosofia della scienza, una terza indirizzata soprattutto alla costruzione di un sistema metafisico fondato sulla cosmologia”. Le radici di ciascuna fase affondano nella precedente ed il pensiero di Whitehead si sviluppa con armonia e coerenza, senza soluzioni di continuità, e trae costante alimento da una arteria realistica. Nel primo Whitehead predominava l’ interesse logico-matematico, che non sarebbe mai venuto meno in lui, giacchè “La scienza della matematica pura potrebbe rivendicare di essere la creazione più originale dello spirito umano” e “La logica è l’ igiene che il matematico usa per far sì che le sue idee restino sane e robuste”. Il secondo Whitehead meditò attentamente sulla teoria della relatività e approfondì lo studio delle scienze naturali. E, visto che “I progressi fondamentali hanno a che fare con la reinterpretazione delle idee di base”, l’ ultimo Whitehead approdò ad un “realismo organico” (o “filosofia dell’ organismo”) che gli fece opporre un universale panpsichismo – per cui tutto è vivo e tutto sente, e nulla vi è di inorganico nella natura – al moderno meccanicismo di stampo cartesiano e newtoniano. Partendo, in sostanza, dalle acquisizioni più recenti della fisica, costruiva una cosmologia sistematica cui ricondurre unitariamente i processi del mondo organico, della cultura e della società umana, nelle loro continue interrelazioni. Come ha scritto Annalisa Usai nell’ introduzione all’ edizione italiana di “Il concetto di natura” (tradotto da Mauro Leonardi), Whitehead ritenne che “Alle nozioni meccaniciste della sostanza e delle sue particelle materiali inerti < fosse > necessario sostituire i concetti di energia e di processo”. ”L’ universo intero” deve pertanto essere concepito, secondo Whitehead, come “organismo e non macchina. Non accade tuttavia che nella processualità universale la realtà vada perduta, anzi, Whitehead accentua sia l’ aspetto del divenire che l’ aspetto formale e metafisico del reale. Non a caso egli si rifà a Platone e alla sua dottrina del mondo sensibile che, essendo sempre in un processo di generazione, non perviene mai all’ essere, anche se questo si realizza nel suo stesso non-essere”. Se ne trae che “Il processo … non si può capire se non in relazione a forme immutabili, anche se queste non vanno considerate in sé, ma come caratteristiche del processo”. L’ angolazione realistica di Whitehead distingue tra la natura come oggetto della percezione e il pensiero, ma non in modo dualistico. Ornella Bellini ha ricordato come il “meccanicismo organico” o “realismo organico” di Whitehead andasse ponendo le proprie premesse “tra gli ultimi anni londinesi e i primi ad Harvard con le nuove concezioni di natura, esperienza, tempo, spazio, dato sensoriale, evento < che egli andava maturando >”. L’ intenso lavorìo epistemologico produsse, dunque, “Nuove concezioni – precisa la Bellini – che, ancor prima di presentare la “filosofia dell’ organismo” come sistema, si confrontano, criticandola, con l’ immagine della natura della fisica classica newtoniana e con quelle filosofie sostanzialiste, meccaniciste, idealiste (e quindi con Spinoza, Cartesio, Berkeley, Kant) che in vario modo ne subiscono l’ ispirazione”. La critica del meccanismo materialista gli dovette certamente rendere grata la prospettiva di Leibniz. Proprio opponendosi a Cartesio, Leibniz aveva colto nella stessa spiegazione meccanicistica l’ esigenza di attingere ad un piano più profondo, metafisico e finalistico. Leibniz non aborriva i “philosophi novi”. Egli stesso elaborò il calcolo infinitesimale, la cui notazione lo avrebbe fatto preferire ai matematici nel confronto con il metodo delle flussioni di Isaac Newton. Leibniz non condivideva, però, la rimozione della filosofia antica e medioevale che la scienza moderna esigeva. Sostenne che tra la filosofia e la scienza moderna, da una parte, e la metafisica tradizionale, dall’ altra, non vi è contraddizione. Colse la distinzione fra il piano delle cause finali e delle forme sostanziali, e quello delle cause meccaniche. Ma la distinzione non escludeva, tra i due ordini causali, l’ integrazione, la mediazione, la sintesi, in vista di una comprensione e di una spiegazione completa della natura. Certamente non credeva che la fisica moderna avrebbe potuto giovarsi delle forme sostanziali e delle cause finali, pena il ritorno alla sterile fisica aristotelica. Ma contestò il concetto cartesiano di “res extensa”: sostenere che i corpi sono essenzialmente estesi, così come le menti-anime razionali sono essenzialmente sostanze pensanti, era errato. La semplice estensione – che a Cartesio parve ciò che di essenziale vi è in un corpo, al di là delle qualità sensibili – non giustifica l’ inerzia che ogni corpo oppone al moto. Il mutamento di stato di un corpo esigerebbe una forza. Ma la forza non si spiega in termini semplicemente meccanici, come è possibile, invece, per l’ estensione ed il movimento: essa ci proietta immediatamente in una dimensione metafisica. Cartesio credeva che Dio avesse impresso al mondo-macchina una quantità di moto costante, il cui valore sarebbe costituito dal prodotto della massa per la velocità. Leibniz propose, invece, come costante la “forza viva”, il cui valore corrisponderebbe al prodotto della massa per la velocità al quadrato. La “forza viva” era sostanzialmente l’ energia cinetica, ma, al di là dell’ anticipazione, è rilevante notare come la dimensione meccanicistica lo rinviasse, immediatamente, ad un ordine causale metafisico. Il finalismo non subentrava al meccanicismo; ne era, piuttosto, la giustificazione e il fondamento. La correzione dell’ “errore” di Cartesio svelava la natura metafisica dei fondamenti del mondo fisico. Tali fondamenti trascendono lo spazio, il tempo, l’ estensione e il moto. La superficie meccanicistica della natura rinvia ad una sottostante pluralità infinita di “centri di forza” attivi: quelle “monadi” che sono sostanze semplici e spirituali, “atomi metafisici” o punti spirituali. Sulla scia di Leibniz, Whitehead riflettè sulla percezione sensoriale. Egli la definì come “prensione”, ad indicare l’ appropriazione e la presa di coscienza di dati provenienti da una realtà “altra” dal pensiero e che sono eterogenei al pensiero stesso. Essi non sono certo riducibili al soggetto conoscente. Ma non per questo sono passivi. Se ciò di cui acquisiamo coscienza è altro dal pensiero, non ne è però meno attivo. Nel mondo vi sono, dunque, due dimensioni, non meno reale l’ una rispetto all’ altra. “Ogni attualità è bipolare: fisica e mentale”: enunciava Whitehead. La percezione, l’ attività, la vita, sono in tutto, e nulla vi è di inorganico, passivo, inanimato, nel mondo. E un universo vivo non poteva da lui esser rappresentato che alla maniera di Leibniz. Evocando il pluralismo dei “reali” di Johann Friedrich Herbart (1776-1841), Whitehead avrebbe valorizzato la “monadologia” di Leibniz: l’ universo è costituito da una infinita pluralità di monadi. Al concetto di monade, Leibniz era giunto proprio attraverso la sua critica all’ “errore” di Cartesio. La stessa dimensione meccanicistica esige la “forza viva”, il cui principio non può che essere una sostanza originaria e spirituale, una forza primigenia metafisica che egli chiamò “monade”, a significarne l’ assoluta semplicità ed unità, che soltanto una sostanza spirituale, appunto, può avere. La monade non può esser confusa con l’ atomo di Leucippo e Democrito, Epicuro e Lucrezio, riproposto in chiave moderna da Gassendi. L’ atomo è un “corpo primo”. Ma non vi è corpo che possa dirsi assolutamente semplice, giacchè ciò che è corporeo è comunque esteso e quindi composto di parti. La monade è un atomo metafisico e spirituale. Se si vuole, è un punto, purchè non si faccia confusione con il punto – astratto e non reale – dello spazio cartesiano. Ciascuna delle infinite monadi vive dentro di sé la vita di un’ anima. Percepisce e trae dal suo fondo le rappresentazioni, che scaturiscono l’ una dall’ altra. Ciascuna monade rappresenta e percepisce, dentro di sé, il mondo, che altro non è che la rappresentazione svolta da infinite monadi, ognuna delle quali non è che un particolare punto di vista su di esso. Leibniz paragona le infinite monadi ad altrettanti osservatori che si dispongano a cerchio attorno ad una città. Ciascuno di essi ne coglie, dalla propria particolare prospettiva, un aspetto. Mette a fuoco alcune cose, e tutto il resto gli resta confuso. Quel che gli appare indistinto sarà variamente chiaro a tutti gli altri, secondo una gradazione infinita. E viceversa. L’ ultimo Whitehead, da parte sua, sostenne che nell’ universo vi è un processo continuo di “concrescenza”, che è il frutto del progressivo sviluppo delle monadi ed a cui concorrono e partecipano tanto la dimensione fisica quanto quella psichica, entrambe reali. Ogni fase dello sviluppo dell’ universo si mostra nuova rispetto alle precedenti. La sua inesauribile potenzialità, che si esprime in una “evoluzione creatrice ed emergente”, è certamente divina. 52 / Alfred North Whitehead (2) Alfred North Whitehead – “l’ ultimo platonico di Cambridge” – articolò la sua filosofia attraverso tre stadi, come hanno evidenziato Rudolf Metz e Victor Lowe. Nel “first period”, l’ ancor giovane Whitehead sviluppò l’ interesse, del resto mai sopito, per la logica e la matematica. Ma lo studente Whitehead, in effetti, spaziava con versatilità dalla matematica alla storia, dalla filosofia alle scienze, dalle lettere classiche alla poesia. Ormai anziano, nel periodo di Cambridge, avrebbe coltivato, accanto alla dominante cosmologia, la filosofia della storia, l’ etica e l’ estetica. Non gli mancava, del resto, una forte attitudine alla sintesi interdisciplinare. E, per quanto Bertrand Russell si sia mostrato un impietoso allievo quando ha scritto che, almeno sino al 1918, il Maestro era sostanzialmente privo di un preciso orientamento filosofico, non vi è dubbio che Whitehead sia stato un matematico incline alle questioni filosofiche sin dagli esordi. L’ esitazione ad assumere nette e ben definite posizioni filosofiche può esser dovuta – come notava, del resto, lo stesso Russell – ad una circostanziata preoccupazione per il rigore e la puntualità delle premesse, così da evitare conclusioni affrettate e grossolane, cui la fallace razionalità umana facilmente espone. Un’ avvertenza decisamente cartesiana. Il secondo Whitehead, comunque, approfondì la fisica e le scienze naturali in una prospettiva critica ed epistemologica. L’ ultimo Whitehead sarebbe poi approdato ad una concezione cosmologicometafisica che assumeva le conclusioni più recenti della scienza tra Ottocento e Novecento e superava il materialismo, il meccanicismo e il sostanzialismo della fisica e della filosofia moderne. Fra i tre stadi del suo percorso non vi è, però, alcuna soluzione di continuità. Vi è chi ha notato, nell’ evoluzione del pensiero di Whitehead, un movimento che procede per “ampie approssimazioni sintetiche successive” (Massimo Bonfantini). Già il primo Whitehead metteva in discussione, ad esempio, il concetto moderno e newtoniano di “mondo materiale”. Era la premessa del rifiuto successivo di una dottrina gnoseologica consolidata: quella della distinzione tra qualità primarie o oggettive e qualità secondarie o soggettive dei corpi. Una tale dottrina aveva lontane ed antiche origini atomistiche (Leucippo e Democrito), ed era stata riscoperta da Cartesio, Locke e lo stesso Newton. Ma il primo Whitehead preparava anche il rifiuto della “concretezza mal posta” (“fallacy of misplaced concretedness”) che ritiene reali non i concreti oggetti ordinariamente percepiti, bensì le astratte entità fisico-matematiche. Su queste e altre coordinate si sarebbe mosso il secondo Whitehead nel predisporre – con una serrata disamina epistemologica – la sua conclusiva cosmologia metafisica, proprio in alternativa all’ immagine del mondo proposta dalla scienza e dalla filosofia moderne. Alfred North Whitehead nacque a Ramsgate (Kent) nel 1861 e sarebbe morto a Cambridge (Massachusetts) nel 1947. Il padre, dapprima insegnante, sarebbe divenuto pastore della Chiesa anglicana. Dopo gli studi classici a a Sherborne (Dorsetshire) seguì i corsi di matematica pura e applicata al Trinity College di Cambridge, dal 1880 al 1885. Dal 1885 al 1910 sarebbe stato, successivamente, “yellow”, “lecturer” e “senior lecturer”. Trasferitosi nel 1910 a Londra, insegnò all’ University College e all’ Imperial College of Science and Technology di Kensington. Dei suoi incarichi direttivo-educativi restano “I fini dell’ educazione e altri saggi” (1924). Gli anni londinesi videro prevalere in lui, accanto agli irrinunciabili interessi matematici e logici, quelli per la fisica e l’ epistemologia, mentre andava delineandosi la preoccupazione cosmologico-metafisica che avrebbe dominato la sua produzione più matura. Ebbe la cattedra di filosofia all’ Università di Harvard (Cambridge) nel 1924. Proprio negli anni dell’ insegnamento statunitense (protrattosi sino al 1937), elaborò quel realismo organico con cui si proponeva di dar integrazione e sistemazione unitaria alle nuove prospettive delle scienze del suo tempo. La filosofia non doveva esser soltanto epistemologia e non doveva limitarsi a soppesare e ridiscutere criticamente le categorie delle scienze naturali. Il suo compito più impegnativo doveva esser quello di costruire una “aggiornata” cosmologia metafisica. Aveva sviluppato il programma logicista (che voleva dar integrale fondamento logico alla matematica) con Bertrand Russell. I due pubblicarono i “Principia Mathematica” (1910-1913), di cui il “Trattato di algebra universale” (“A treatise of universal algebra”, 1898), “On Mathematical Concepts of the Material World” (1906) e “The Axioms of Projective Geometry” (1907) di Whitehead costituiscono una sorta di lavoro preliminare e, per certi aspetti, una anticipazione, giacchè vi si ritrova l’ ideale leibniziano di una “caratteristica universale” come insieme di tutti i concetti primitivi necessari alla elaborazione-risistemazione di tutta la conoscenza umana. La “characteristica universalis” di Gottfried Wilhelm Leibniz intendeva costituire un ben preciso linguaggio simbolico, privo delle approssimazioni e delle ambiguità dei linguaggi naturali. Esso doveva assumere come paradigma il calcolo matematico, per ridurre i processi inferenziali ad un altrettanto rigoroso calcolo logico. Il “calculus ratiocinator” avrebbe ricondotto le inferenze ad una precisa manipolazione di simboli.Al contrario di molti filosofi del suo tempo, Leibniz non disprezzava la logica formale aristotelica e scolastica. Si stupiva, anzi, che non se ne comprendesse la potenziale utilità per la razionalità e per una rigorosa edificazione della scienza. Ma avvertiva anche l’ esigenza di farne un uso accorto. Ammirava il sillogismo (ad esempio: “Tutti gli uomini sono mortali”; “Socrate è un uomo”; ergo “Socrate è mortale”) e lodava Aristotele per averlo acquisito. Vi scorgeva una sorta di “matematica universale la cui importanza” non era ancora stata rilevata. Vi scopriva “un’ arte di infallibilità” che doveva esser valorizzata e bene impiegata. E intendeva fondare una “logica più sublime”. Come ha sottolineato Luigi Lentini (“Lo statuto della conoscenza scientifica nella epistemologia contemporanea”, Logica e filosofia della scienza, Università Ca’ Foscari di Venezia), “L’ idea fondamentale che sta alla base di questa “logica più sublime” consiste nella generalizzazione della nozione di “calcolo””. Il calcolo, secondo Leibniz, era un’ operazione che si avvale di caratteri e che non deve riguardare soltanto le quantità ma qualsiasi ragionamento. La “mathesis universalis” di Leibniz intendeva costituire una vera e propria aritmetizzazione della logica. E gli originali precorrimenti del filosofo-scienziato di Lipsia (“De arte combinatoria”, 1666; “Opuscoli e frammenti inediti di Leibniz”, pubblicati soltanto ai primi del Novecento) avrebbero mostrato tutto il loro valore, proprio negli sviluppi novecenteschi della filosofia della matematica e della logica matematica. Frequentemente, le introduzioni ai “Principia matematica” riducono l’ apporto di Whitehead alle tesi di Russell. Si sostiene che Russell e, quasi “al traino”, Whitehead tentarono di realizzare in modo compiuto il programma della fondazione logica della matematica, svelando l’ antinomia del quinto postulato del sistema di Friedrich Ludwig Gottlob Frege e risolvendo brillantemente il problema delle antinomie con la “teoria dei tipi”. Si aggiunge, non meno avvedutamente, che, poi, il programma logicista sarebbe incappato nelle stroncature del “Tractatus logico-philosophicus” di Ludwig Wittgenstein, per uscirne distrutto. Di recente, da noi, Luca Gaeta (“Segni del Cosmo. Logica e Geometria in Whitehead”) ha voluto sottolineare la validità intrinseca della “pratica matematica”, della geometria e della logica del primo Whitehead, solitamente sacrificate all’ ultimo Whitehead, filosofo e assertore di una nuova cosmologia. Gaeta invita ad intendere il primo periodo di Whitehead come “il nucleo di tutte le sintesi posteriori che non si succedono però teleologicamente, rappresentando ciascuna un momento compiuto e un centro definito di attenzione all’ interno del quale Whitehead si muove e dal quale muove a nuovi sviluppi”. Ma Gaeta non si è occupato soltanto delle “potenzialità filosofiche” del primo Whitehead; ha voluto valorizzare anche “l’ interesse intrinseco del discorso fondazionale di Whitehead sulla geometria”. “Benché estremamente aggiornato e consapevole sia della obsolescenza di una esclusiva interpretazione quantitativa della matematica, sia della crisi in cui versa la tradizionale fondazione intuitiva, Whitehead – scrive Gaeta – assume la fertilità del metodo ipotetico-deduttivo senza per questo abbandonare l’ idea che gli enunciati matematici vertano, in ultima analisi, su proprietà generali del mondo di esperienza. Le modalità effettive con cui egli dà voce a un orientamento ontologico della matematica si rivelano di grande interesse e originalità. Sin dagli esordi è chiaro che l’ abbandono dell’ interpretazione quantitativa investe direttamente per lui la concezione delle oggettività, tramutandosi in un coerente antimaterialismo. Lo spazio stesso, in quanto tradizionale oggetto di studio della geometria, è indagato matematicamente da Whitehead e risolto nel costrutto relazionale di rinnovate entità fisiche basilari. Lo studio delle proprietà geometriche non guarda più soltanto alla garanzia della loro validità, ma anche alla concettualizzazione della loro scaturigine”. Su una cosa, del resto, Gaeta non ha dubbi: “l’ impostazione filosofica logicista di Russell < sottesa ai “Principia Mathematica” > è troppo eterogenea rispetto alla continuità di atteggiamento che accomuna le altre opere whiteheadiane del “first period””. In sostanza, bastano “On mathematical concepts of the material world” (1906) di Whitehead, “per cogliere il formalismo dei “Principia” e la logica delle relazioni adoperati da Whitehead come strumenti linguistici di una indagine cosmologica, laddove per Russell la logica è indifferente all’ esistenza del mondo”. Dall’ originale contributo dato ai “Principia Mathematica”, Whitehead fu indotto, comunque, ad una riflessione filosofica che gli fece prendere le distanze da Russell. Cominciò a interrogarsi sull’ interpretazione newtoniana del mondo materiale e sviluppò una originale epistemologia le cui risultanze sono contenute ne “L’ organizzazione del pensiero” (1917), nella “Ricerca sui principi della conoscenza naturale” (“An Enquiry Concerning the Principles of Natural Knowledge”, 1919), ne “Il concetto di natura” (“The Concept of Nature”, 1920). “Il principio della relatività” (“The Principle of Relatività with Applications to Physical Science”, 1922) sondava le implicanze filosofiche della teoria della relatività di Einstein. L’ ultimo Whitehead impresse una svolta decisamente metafisica alla sua produzione, che si distingue però, nettamente, dalla metafisica classica e, in particolare, da quella razionalistica di stampo cartesiano. “La scienza e il mondo moderno” (“The Science and the Modern World”, 1925), “Il divenire della religione” (“Religion in the Making”, 1926), “Simbolismo” (“Symbolism, Its Meaning and Effect”, 1927), “Processo e realtà” (“Process and Reality”, 1929), “Avventure di idee” (“Adventures of Ideas”, 1933), “Modi del pensiero” (“Modes of Thought”, 1938), “Scienza e filosofia” (“Science and Philosophy”, 1947) sono saggi che attestano la fecondità del suo radicale ripensamento di alcuni caposaldi della gnoseologia tradizionale e contemporanea. 53 / Alfred North Whitehead (3) Fra il 1919 e il 1922 il “secondo” Alfred North Whitehead sviluppò una riflessione epistemologica fondata sulla ferma convinzione che i postulati della scienza sono metafisici. L’ empirismo classico, le sue riformulazioni contemporanee, la posizione empiristica e naturalistica secondo la quale non vi è altra realtà che quella sensibile, scaturiscono, comunque, da un’ intuizione metafisica riguardo all’ essere, al mondo, all’ uomo. Docente di matematica al Trinity College di Cambridge e poi all’ University College londinese e all’ Imperial College of Science and Technology di Kensington, in questi anni Whitehead condivise con la moglie il dolore per la perdita del figlio Eric, pilota dell’ aeronautica inglese morto in guerra nel 1917. Non sono mancati coloro che hanno visto nella perdita del figlio uno dei fattori che determinarono la transizione dal “secondo” al “terzo Whitehead”, che dalla filosofia della scienza traeva una esigenza metafisica. L’ istanza metafisica-cosmologica sembra però esser, più che biografica, internamente costitutiva dell’ intera riflessione di Whitehead. Come ha ben notato Annalisa Usai introducendo l’ edizione italiana di “The Concept of Nature” (1920, “Il concetto di natura”, traduzione di Mauro Leonardi, 1974), “come lo studio della matematica e della logica aveva condotto Whitehead a occuparsi del valore della scienza e delle sue astrazioni, cioè dell’ epistemologia, ora proprio la stessa epistemologia conduce Whitehead ad allargare l’ orizzonte delle sue speculazioni e ad abbracciare una problematica schiettamente filosofica”. L’ ultimo Whitehead si sarebbe volto, infatti, ad una concezione organica della realtà, aprendosi ad una “teologia filosofica” o “filosofia della religione” che, da una concezione organica della realtà (filosofia dell’ organismo), vuol risalire a Dio, integrando le acquisizioni scientifiche, religiose, morali ed estetiche . Già mentre stava lavorando con Bertrand Russell ai “Principia Mathematica”, il “primo Whitehead” si mostrava scettico sulla nozione classica e newtoniana di un mondo materiale le cui coordinate sono i punti dello spazio, gli istanti del tempo e i corpuscoli di materia. Da quell’ atteggiamento critico prese le mosse l’ indagine epistemologica che avrebbe caratterizzato il “secondo Whitehead”. Di fronte a lui, problematicamente, stava la relazione tra la dimensione dei puri concetti logicoscientifici e il piano della concreta percezione. Ed era certo che una filosofia della scienza dovesse acquisire la consapevolezza che quello dell’ esperienza attuale, da cui si muove la scienza, è un mondo “radicalmente disordinato e disorganico”. La scienza fatica a rendersene conto poiché il suo “linguaggio modellato”, formale, ordinato, composto, immette nelle nostre menti “concetti esatti come se essi rappresentassero i dati immediati dell’ esperienza”. Cadiamo nella fallace illusione di “avere esperienza immediata di un mondo di oggetti perfettamente definiti, i quali, come li conosciamo attraverso i dati dell’ esperienza sensibile, accadono in esatti istanti di tempo, in uno spazio formato da punti esatti, senza parti e senza grandezza: il puro, esatto, preciso mondo che è la meta del pensiero scientifico”. L’ epistemologia di Whitehead si scontrava con la “duplicazione della natura in due sistemi di realtà”. Egli era costretto a rilevare la contrapposizione di due mondi, l’ uno logico, ordinato, esatto, e l’ altro percepito, confuso, disordinato. Ma solo quest’ ultimo è reale. E questo nonostante la scienza classica e la metafisica tradizionale sostenessero il contrario. Il sapere che veniva dal passato era carico di dualismi, il primo dei quali opponeva la natura, così come l’ aveva costruita la fisica classica, alla natura trasmessa dalla percezione. La convergenza della scienza classica e del sostanzialismo ribaltava la reale funzione che “mondo della scienza” e “mondo della percezione” hanno nella conoscenza. Il mondo esperito e percepito è stato ridotto a fenomeno della coscienza, alla dimensione delle qualità soggettive e secondarie, prive di un’ oggettiva realtà. Viceversa, il mondo delle leggi logiche, matematiche e scientifiche, è divenuto un mondo vero, oggettivo, primario: una sorta di celata cosa in sé da cui scaturiscono le percezioni. L’ epistemologo Whitehead rifiutava la contrapposizione tra le qualità primarie (oggettive) e le qualità secondarie (soggettive) dei corpi, sostenuta da molti filosofi (dapprima Leucippo e Democrito, gli antichi atomisti, poi Cartesio e Locke tra i moderni). E non accettava la contrapposizione tra l’ esperienza “scientifica” e quella “soggettiva”-individuale comune. Riteneva inadeguata l’ idea di sostanza costruita dal moderno naturalismomeccanicismo. Si chiedeva, insomma, perché non si riconoscessero come reali gli oggetti percepiti e si attribuisse, invece, erroneamente, concretezza agli enti (astratti) fisici, matematici, scientifici. Come possiamo trascendere gli enti che la percezione ci mostra? Non dobbiamo andar oltre! Questo non vuol dire che si debba rinunciare ai costrutti e alle operazioni della scienza. E’ però necessario non ribaltare l’ ordine della realtà ed evitare la “concretezza mal posta”. La concretezza viene dalla percezione. Le categorie concettuali con le quali descriviamo il mondo della percezione sono, invece, astratte. E non viceversa. Whitehead era certo che la razionalità filosofica e scientifica non possa avere, all’ orizzonte del suo luminoso e lineare percorso, “idee di chiarezza e generalità”. La filosofia non muove, come vorrebbe Cartesio, da postulati chiari, distinti, evidenti. Sua unica ambizione non può esser che quella di una generalizzazione teorica della complessità e della multiformità dei processi della vita, nelle sue numerose forme ed espressioni. Le teorie scientifiche non possono pretendere la veridicità: esse non sono altro che generalizzazioni e semplificazioni destinate ad una continua revisione e adeguazione a ciò che tentano – inadeguatamente – di esplicare. La filosofia e la scienza gli apparivano – ricordando uno dei suoi titoli - nient’ altro che “avventure di idee”. Tali debbono essere, se poste di fronte alla complessità della realtà. Una cosmologia autenticamente realista non riduce – come faceva la metafisica tradizionale – la realtà alle relazioni tra la sostanza e le sue qualità. Oltre l’ illusorio dualismo di soggetto e oggetto, la realtà dev’ essere colta nella sua complessa processualità. Essa è un processo nel quale non si danno sostanze separate, ma “eventi”, strutture e forme in reciproca connessione, che si possono definire tanto soggettivi quanto oggettivi. Le premesse dell’ ultimo Whitehead, quello di una cosmologia metafisica che si può definire come “filosofia dell’ organismo” o “meccanicismo organico”, risiedono dunque in un approccio critico al meccanicismo materialista. Ornella Bellini (“Alfred North Whitehead”) ha rilevato come già nel giovane Whitehead allignasse un atteggiamento critico tanto nei confronti dei “reali oggettivi”, vale a dire dei punti dello spazio e dei corpuscoli materiali primi, quanto delle particelle di materia e degli istanti di tempo affermatisi con Isaac Newton. L’ essere umano conosce il mondo percependolo come oggetto della propria sensazione. La conoscenza umana viene dalle sensazioni. Conosco una mela in quanto la gusto, la odoro, la tocco e la vedo. Avverto il mio mal di denti in modo diverso da altri, anche se poi il dente e la sua patologia costituiscono un identico oggetto di scienza per tutti. Non c’ è conoscenza degli “eventi” del mondo che possa prescindere dalla datità fisica della cosa reale e che possa prescindere dalla sensibilità. “Le cose che troviamo nello spazio – scriveva Whitehead ne “Il concetto di natura” – sono il rosso della rosa, il profumo del gelsomino ed il rombo del cannone. Noi tutti abbiamo detto ai nostri dentisti dove è il nostro mal di denti. Così lo spazio non è una relazione tra sostanze, ma tra attributi”. L’ errore della teoria della materia sta nella sua premessa: “l’ accettazione dogmatica dello spazio e del tempo come condizioni esterne per l’ esistenza della natura”. Ma è un pregiudizio la convinzione che spazio e tempo siano ciò al cui interno è collocata la natura. “… la filosofia – sosteneva – ha trasformato illegittimamente la pura entità, che è semplicemente un’ astrazione necessaria al processo del pensiero, nel sostrato metafisico di quei fattori della natura che in diversi sensi sono riferiti alle entità come loro attributi”. Filosofi e scienziati hanno “presupposto questo sostrato in quanto sostrato degli attributi, situato nello spazio e nel tempo”. Ma “L’ intero essere della sostanza consiste nell’ essere un sostrato degli attributi”. Il sostanzialismo moderno ha ritenuto che “la materia fosse … sostanza della natura” e che “la sostanza fosse nello spazio”. Non la sostanza, bensì gli attributi sono nello spazio. “Lo spazio non ha nulla a che fare con le sostanze, ma solamente con i loro attributi” e “… se la materia viene concepita come una sostanza nello spazio, lo spazio nel quale essa si trova non ha nulla a che fare con lo spazio della nostra esperienza”. Dal “Timeo” di Platone in poi, attraverso Aristotele, la filosofia della natura ha imboccato una strada sbagliata. Da allora in poi si è considerata “la materia come elemento fondamentale per la formazione dello spazio”. Whitehead propone un esempio: “ … in un museo, un esemplare è chiuso in una vetrina. Esso sta lì per anni. Ma è sempre lo stesso esemplare; gli stessi elementi chimici e le stesse quantità di tali elementi sono presenti dopo come erano presenti prima. Così l’ ingegnere e l’ astronomo si occupano di movimenti di cose che permangono effettivamente nella natura. Ogni teoria della natura che perdesse di vista per un solo momemtjo questi fatti basilari dell’ esperienza sarebbe semplicemente ridicola”. Senonchè, “ … il significato scientifico di questi fatti è finito soffocato in un groviglio metafisico di dubbio valore”. Occorre perciò eliminare la metafisica e riprendere da “ … uno spregiudicato esame della natura … < per > gettare nuova luce su molti concetti fondamentali che dominano la scienza e guidano il progresso della ricerca”. A Whitehead appare chiaro – come nota Ornella Bellini – che le scienze matematiche e le scienze fisico-matematiche “stabiliscono relazioni tra cose che non sono evidenti e possiedono un livello di astrazione tale che la loro validità prescinde dall’ evidenza acquisita con la percezione guidata dai sensi (quindi dai casi particolari e dalle entità particolari). Così i numeri 3 o 5 sono tali non perché derivati da o riferiti a 3 o 5 entità materiali particolari (sassi, grani ecc: ). Analogamente la descrizione scientifica del corso degli eventi si è identificata in quella tendenza vittoriosa “deduttivoquantitativa” che, insistendo sulla quantificazione della materia come unico mezzo per una comprensione oggettiva, ha finito per astrarre sia dal soggetto percipiente che dal tipo di percezione conseguita e ha incoraggiato a considerare soltanto quelle entità (molecole, atomi, protoni, neutroni ecc.) che si muovono nello spazio e che s’ influenzano reciprocamente”. Per cui, concludeva Whitehead nell’ “Introduzione alla matematica”, quella mela che io assaporo, odoro, tocco, viene descritta “in termini di posizione e moto di molecole, una descrizione che … ignora … la vista, il tatto, il gusto e l’ odorato”. Da qui l’ esigenza di colmare il solco scavato tra l’ oggettività scientifica e la concreta e comune esperienza percettiva, ridiscutendo le categorie e il metodo della fisica classica newtoniana e delle metafisiche moderne, sostanzialistiche, meccanicistiche e idealistiche. La soluzione sarebbe consistita in una cosmologia (“meccanicismo organico”) che avrebbe ripensato in modo originale tanto l’ esperienza quanto la scienza. 54 / Alfred North Whitehead (4) Alfred North Whitehead articolò la sua filosofia attraverso tre fasi, che non debbono esser considerate come altrettanti compartimenti stagni. Ciascuna di esse, infatti, prelude alla successiva. La quale ne costituisce la naturale evoluzione e ne scaturisce con coerenza dialettica. Il giovane Whitehead, dominato dall’ attenzione per la logica e la matematica, aveva scritto con Bertrand Russell, i “Principia Mathematica”. Già nel primo Whitehead, quello del periodo londinese, cresceva però un’ attitudine epistemologica, fortemente critica nei confronti della filosofia moderna e della fisica newtoniana, nelle loro pretese meccanicistiche, sostanzialistiche, idealistiche. E il secondo Whitehead, del resto, predisponeva la terza fase di una riflessione che sarebbe sfociata in una cosmologia metafisica che si può definire meccanicismo organico o filosofia dell’ organismo. Ne “Il concetto di natura”, l’ epistemologia di Whitehead criticava l’ avvento di una inaccettabile teoria nella filosofia della scienza moderna: quella della “duplicazione della natura in due sistemi di realtà, reali ambedue ma in senso diverso”. Secondo la scienza e la filosofia moderne “Una < delle due > realtà sarebbe costituita da enti del tipo degli elettroni, materia di studio per la fisica speculativa”. “Questa – aggiungeva – sarebbe la realtà a disposizione della conoscenza; sebbene secondo questa concezione essa non venga mai conosciuta, poiché ciò che si conosce è l’ altra specie di realtà, l’ azione sussidiaria dello spirito. Così vi sarebbero due nature: la prima delle quali sarebbe un’ ipotesi e la seconda un sogno”. La teoria della duplicazione “consiste nel duplicare la natura in due sezioni, ossia nella natura appresa nella sensazione e nella natura che è causa della sensazione. La natura che costituisce il fatto della sensazione contiene in sé il verde degli alberi, il canto degli uccelli, il calore del sole, la durezza della sedia, l’ impressione del velluto. L’ altra natura invece, che è la causa della sensazione, viene immaginata come un sistema di molecole e di elettroni che agiscono sullo spirito in modo da provocare la sensazione della natura apparente. Il punto d’ incontro delle due nature sarebbe lo spirito, su cui la natura causale eserciterebbe il suo influsso e di cui la natura apparente sarebbe l’ influsso …”. Una tale deformazione della comprensione della natura era nata, secondo lui, dalla “teoria degli accrescimenti psichici < che > vorrebbe trattare la qualità del verde come un’ aggiunta psichica fornita dallo spirito percipiente; e vorrebbe lasciare alla natura soltanto le molecole e l’ energia raggiante che influenza lo spirito attraverso la percezione”. All’ origine della duplicazione della natura sta il modo in cui la materia è stata concepita in età moderna: essa sarebbe una sostanza della quale noi dovremmo percepire gli attributi. Ma proprio nel Seicento la “semplicità idillica” della tesi che “le cose di cui percepiamo gli attributi ci appaiono come frammenti di materia”, entrò in crisi di fronte alle teorie della luce e del suono. La teoria della sostanza e dei suoi attributi fu incrinata dalle “teorie consideranti la luce e il suono come qualcosa di proveniente dai corpi emittenti; e in particolare Newton stabilì chiaramente la connessione della luce coi colori”. La semplicistica teoria percettiva di “sostanza e attributo” fu destituita di fondamento: “Quanto vediamo dipende dalla luce che penetra nell’ occhio. Inoltre non percepiamo neppure ciò che penetra nell’ occhio. Le cose trasmesse sono onde o – come pensava Newton – particelle; mentre le cose viste sono colori”. Era una incongruenza che John Locke, empirista classico, affrontò distinguendo tra qualità primarie e qualità secondarie dei corpi. Qualità secondarie come i colori, dice Whitehead, ricordando la tesi di Locke, “non < sarebbero > attributi < propri e originari > della materia, sebbene vengano percepite come se lo fossero”. Ma per quale motivo dovremmo percepire qualità secondarie, se esse sono del tutto soggettive? Sostenere che si percepiscano “una quantità di cose che non esistono”, diceva Whitehead, è proprio una “trovata infelice”. E aggiungeva che “Per noi i bagliori rossi del tramonto fan parte della natura quanto le molecole e le onde elettriche, con cui gli uomini di scienza pretendono spiegare il fenomeno”. Conosciamo una mela in quanto la odoriamo, la gustiamo, la tocchiamo. Ciascuno percepisce il suo mal di denti diversamente da ogni altro. Eppure le scienze fisicomatematiche intendono la mela come moto di molecole e considerano identici i denti di tutti. Ma come si può prescindere dall’ oggetto o dal fatto reale quando si voglia conoscere il mondo? Vi sono proprio soltanto molecole e atomi che si muovono nello spazio, e nient’ altro? L’ asimmetria esistente tra la conoscenza scientifica, oggettiva e distaccata, e quella sensoriale, vissuta e concreta, esige un ripensamento dell’ esperienza e della stessa scienza. Whitehead, da un lato, mette in discussione le categorie della fisica classica. Dall’ altro elabora una cosmologia. In “The Organisation of Trought Educational and Scientific” (1917, “La scienza moderna”, nella traduzione italiana di Antonio Banfi, 1959) Whitehead intende la scienza come “organizzazione mentale dell’ esperienza”. Ove l’ esperienza non è che “quel flusso di percezioni, sensazioni ed emozioni che formano la nostra esperienza di vita”, delle quali la scienza ricerca relazioni, dando ordine a quel che sarebbe caotico e disorganico. In sostanza, la scienza riposa, realisticamente, sulla concretezza dell’ “effettuale e vissuto reale percepito”, come ha scritto Ornella Bellini. La scienza non può confondere, come ha fatto sinora, concetti esatti e dati immediati dell’ esperienza, in nome dell’ oggettività. Non può astrarre dalla concretezza della particolarità per inseguire relazioni tra idee. L’ epistemologia deve comprendere il rapporto fra concreti dati percettivi e costruzione scientifica del mondo. La scienza non può rinunciare all’ esperienza e alla percezione. E’ errato distinguere tra la sostanza, che avrebbe il carattere della permanenza, e l’ accidentalità degli attributi della sostanza stessa. E non è meno ingannevole credere che la scienza debba occuparsi solo di presunte qualità primarie dei corpi, oggettive ed essenziali, ignorando quelle secondarie, in quanto meramente soggettive. “Concretizzazione mal posta” definisce Whitehead un tale errore. Le astrazioni logiche son diventate sostrati metafisici degli attributi degli enti: attributi intesi come fatti naturali. Le intrusioni della metafisica razionalistica nella scienza hanno prodotto una visione dell’ universo nella quale i nostri contenuti mentali vengono scambiati per effettive e concrete realtà. Dello stesso errore – la sostituzione del concreto con le mere astrazioni – s’ è resa responsabile la scienza newtoniana. La “teoria della localizzazione semplice”, sostiene Whitehead, è scaturita dal postulato newtoniano che il tempo e lo spazio sono assoluti. Essi costituirebbero lo “sfondo” sul quale si verificano gli “eventi” fisici, ed avrebbero una realtà oggettiva indipendente da quegli stessi eventi. La “localizzazione semplice” degli atomi o corpuscoli materiali vuole che i corpi o le sostanze si situino semplicemente nello spazio-tempo. Non vi sarebbe altra collocazione, per gli atomi di materia, che il “qui” nello spazio-tempo. Il tempo scorre e la materia persiste nella propria indifferenza ad esso. Il tempo, nel suo scorrere uniforme come le lancette di un orologio, è, a sua volta, indifferente alla materia-sostrato. Ma il tempo non è una semplice successione, come credeva David Hume, e lo spazio non è la semplice localizzazione della materia-sostanza. In effetti, scrive Whitehead in “The Science and the Modern World” (1925, “La scienza e il mondo moderno”, 1959, nella traduzione di Antonio Banfi), “l’ entità … che è il risultato finale del nostro atto di percezione … è l’ oggetto sensibile”. E per oggetto sensibile, egli intende, ad esempio, “il verde di una data sfumatura … un suono di qualità e tono definito … un determinato odore … una qualità definita di sensazione tattile”. E aggiunge che “I rapporti tra una simile entità e lo spazio, durante un certo periodo di tempo, sono complessi … l’ oggetto sensibile è l’ oggetto di un’ inserzione nello spazio-tempo”. Lo spazio non è l’ astratto “luogo della materia”. Esso è, concretamente, il “volume”. E il volume non è una molteplicità di punti, i quali non hanno volume. Realisticamente, il “volume” prende corpo in una stanza. E una stanza non è che un insieme di parti, ciascuna delle quali ha realtà solo se ricondotta alle altre. Per capire la sua concezione dello spazio, Whitehead invita a considerare un semplice esempio: “Non c’ è che da guardare in uno specchio e vedere l’ immagine riflessa di qualche foglia verde dietro la vostra schiena. Per voi in A ci sarà del verde, ma non solamente in quel A dove vi trovate. Il verde in A sarà un verde localizzato nell’ immagine della foglia dentro allo specchio. Ora volgetevi e guardate la foglia stessa. Voi percepite ora il verde nello stesso modo di prima, salvo che è posto nella vera foglia. Io non faccio che descrivere ciò che percepiamo; noi abbiamo coscienza del verde quale elemento nell’ unificazione prensiva di oggetti sensibili; ogni oggetto sensibile, tra gli altri il verde, ha il suo proprio modo, che può esprimersi come posto altrove”. I volumi costituiscono delle “entità all’ interno della totalità; non si possono astrarre da ciò che li circonda senza distruggere la loro stessa natura”. E il tempo? Contro la concezione di David Hume del tempo come di una pura successione, Whitehead sostiene in “Symbolism, Its Meaning and Effect” (1927, “Il simbolismo, suo significato e sue conseguenze, traduzione italiana di F. Cafaro, 1963), che “Il tempo … come successione dei nostri atti di esperienza … non è pura successione … ma derivazione da stato a stato, dello stato posteriore che mostra conformità con il precedente; e la pura successione è un’ astrazione dell’ irreversibile relazionalità del passato concluso con il presente che ne deriva”. Come ha scritto Ornella Bellini, il “tempo in concreto” di Whitehead, “il solo di cui il soggetto ha esperienza e può parlare, è sempre un tempo vissuto; non è il tempo dell’ orologio, una “pura successione” di dati senza nesso causale tra il precedente e il successivo … è anzitutto “durata”, “conformazione” del presente al passato e del presente con il futuro”. E, aggiunge la Bellini, “Il principio di “conformazione” come criterio di lettura del tempo … e degli eventi che in esso si succedono, non suggerisce un’ estrinseca e mera conformazione dei dati esteriori degli eventi, ma sottende che il divenire è divenire dal passato al presente e anticipa il futuro; sottende un accadere come concrescere degli eventi, come concorrenza reciproca tra il prima e il dopo … gli eventi sono inseriti in un processo relazionale al cui interno è iscritta la loro storia, il loro “curriculum vitae”, la loro “memoria””. 55/ Alfred North Whitehead (5) Alfred North Whitehead ha concluso il suo fecondo percorso epistemologico approdando ad una “filosofia dell’ organismo”, un “meccanicismo organico”, che intendeva essere una sistematica cosmologia metafisica. La “filosofia dell’ organismo” era il frutto di un lungo travaglio che era iniziato con il giovane Whitehead, logico e filosofo della matematica, il quale aveva scritto, con Bertrand Russell, i “Principia Mathematica”. L’ epistemologia del secondo Whitehead avrebbe poi inferto fieri colpi al “concetto di natura” elaborato dalla fisica classica e dalla filosofia moderna. Attaccando a fondo il materialismo meccanicista e il sostanzialismo razionalista, che avevano dominato nel Seicento e nel Settecento, sino a buona parte dell’ Ottocento, Whitehead ridiscuteva le categorie della fisica newtoniana e proponeva una cosmologia metafisica fondata su di un modo nuovo di pensare la concreta esperienza sensoriale e percettiva. Whitehead migrò negli Stati Uniti nel 1924, quando ebbe una cattedra di filosofia alla Harvard University. Allora emerse quel vero Whitehead i cui presupposti eran già latenti nelle giovanili indagini logico-matematiche. E mostrò un afflato che comprendeva le prospettive, apparentemente eterogenee, della scienza, della morale, dell’ estetica e della religione. Lluìs Oviedo (Pontificio Ateneo Antonianum, Roma) ha scritto che il suo “tentativo di “ordinare” o di stendere una mappa del reale, dove la scienza e gli altri saperi – la morale, l’ estetica e la religione – possano trovare il loro posto”, potrebbe esser definito come una “teoria unificata della realtà”, “se questa espressione non possedesse oggi delle connotazioni più fisico-cosmologiche che non filosofiche”. Whitehead intese – come sostenne lui stesso in “Process and Reality. An Essay in Cosmology” (1929, “Processo e realtà”, traduzione italiana di N. Bosco, 1975) – proporre il “tentativo di formulare un sistema coerente, logico e necessario di idee generali nei termini in cui ogni elemento della nostra esperienza possa essere interpretato”. Era un progetto che si apriva alla fisica dei “quanta”, alla teoria della relatività, alla biologia evoluzionistica e alle acquisizioni più recenti della scienza. Whitehead diede udienza, come ha sottolineato Ornella Bellini, alla “forza disgregatrice di quelle idee-guida delle scienze che compromettono seriamente il primato della scienza meccanica”. Tra quelle idee-guida sono da enumerare “l’ evoluzionismo in biologia”; la grande ascesa delle scienze biologiche che, facendo dell’ organismo il loro oggetto, spostano l’ attenzione dalla materia inorganica alla materia organizzata e agli organismi; la nuova concezione di “atomicità” della materia formulata dalla fisica dei “quanta”; quella di un campo fisico di forze che invade lo spazio, compreso il vuoto apparente, e che sconfessa l’ immagine del mondo come pieno e vuoto e difende “l’ idea della continuità””. Nel progetto di Whitehead emergeva anche la circolarità dialettica tra due dimensioni della realtà che, ambiguamente, la filosofia e la scienza moderne avevano voluto rigidamente contrapporre: quella oggettiva e quella soggettiva. Whitehead, ha scritto Oviedo, era consapevole che “nella nuova fisica i fenomeni reali non possono essere del tutto separati dai processi di osservazione che vogliono oggettivarli” e affrontò, quindi, “le sottigliezze della percezione e della conoscenza … < il > difficile rapporto che si stabilisce tra il soggetto che conosce e la realtà conosciuta, un rapporto che nelle nuove formulazioni, di cui Whitehead è interprete, ne sovverte la distinzione classica”. Il perno dell’ ultimo Whitehead fu la “togetherness”, l’ idea di una complessa struttura di interdipendenze e di correlazioni, fuori della quale non vi è esistenza. Isolare un fatto od una idea dalla struttura cui appartengono significa stroncare la comprensione del sistema nel quale hanno senso. Non si intende l’ esperienza opponendo, semplicisticamente, l’ oggetto al soggetto, l’ effetto alla causa, l’ istante susseguente all’ istante precedente. Occorrono categorie come quelle della sincronicità, dell’ isotopia e dell’ analogia per comprendere il dinamismo di una realtà che non è statica e che non può esser costituita da corpuscoli stabili o da forze costanti e determinabili. La realtà è processuale. Quel che in essa appare stabile non è che una attualizzazione, del tutto transitoria e passeggera, di un qualche momento del processo continuo che sfugge ad ogni tentativo di stabilizzarne ed immobilizzarne le singole frazioni. Whitehead propone, alla luce delle nuove acquisizioni scientifiche, l’ universale e incessante fluire delle cose che già aveva sollecitato Eraclito e che avrebbe interrogato numerosi filosofi moderni e contemporanei, ponendo l’ accento sulla relazionalità anziché sulla singolarità, sulla struttura anziché sull’ elemento, sulla comunicazione sociale anziché sulle singole unità sociali … In “Processo e realtà” Whitehead ha esposto con una intelligibilità che non sempre caratterizza i suoi scritti (la cui complessità è peraltro dovuta alla novità delle tematiche esposte), le “nozioni primarie” della sua “filosofia dell’ organismo”: “entità reale”, “prensione”, “nesso”, “principio ontologico”. Ne emerge la totalità dell’ universo come un incessante e inarrestabile processo nel quale si verificano eventi, l’ un l’ altro correlati. Si tratta di “eventi connessi nelle loro relazioni spazio-temporali”. Non sostanze ma eventi, non materia inerte e assolutezza di spazio e tempo ma vivente organicità: tale è il cosmo di Whitehead. Gli eventi sono connessi tra di loro in un processo relazionale e organico tra parti e intero. La materia è, essa stessa, processo e rientra in un sistema organico (un organismo) che è coinvolto nella reciproca relazione delle parti e dell’ intero. L’ universo non può più esser pensato come una macchina (così come voleva il meccanicismo moderno) bensì come un organismo che “concresce”. L’ “evento” di Whitehead non è che l’ essere nella sua processualità continua, còlto in un istante unico e irripetibile, determinato nello spazio e nel tempo. La sussistenza di ciascun evento dev’ essere ricondotta alla connessione che lo lega agli altri eventi. Nel divenire complessivo della natura, vi è un condizionamento continuo e reciproco tra gli eventi: ciascuno rinvia agli altri. La natura è vita, processo organizzativo. L’ universo dinamico e vivo si esplica come un processo di crescita continuo, nel quale convergono una molteplicità di fattori. Esso è, appunto, “concrescenza” da un modo di essere all’ altro. E’ un processo teleologicamente orientato nella direzione di “essenze” che gli sono immanenti. Il passato non scompare ed è anzi presente nella “creazione” di sintesi sempre nuove che hanno in se stesse le “essenze”. Whitehead pensa, riguardo a quest’ ultime, alle “forme” eterne di Platone. Gli “oggetti eterni” sono potenzialità che si realizzano nel processo della realtà. E, secondo Whitehead, come scrive Ornella Bellini, “Il primo che “intuì il problema dell’ organicismo … fu < proprio > Platone; per lui le cose del mondo materiale e temporale partecipano delle “forme” del mondo eterno”. La “forma” platonica diventa, con Whitehead, “oggetto eterno”. E la Bellini precisa che “Un “oggetto eterno” esprime una “potenzialità di entità reali” sebbene in sé e prescindendo dall’ estrinsecazione della propria potenzialità non sia affatto reale”. Eppoi, l’ oggetto eterno “manifesta un carattere “neutro” quanto al suo “accesso fisico” in una qualsiasi entità reale del mondo temporale, giacchè sono le entità che trascelgono (“decidono”) di attuarsi e di divenire attraverso un “sentimento complesso che implica un legame completamente determinato con ogni elemento dell’ universo, dove il legame è una prensione o positiva o negativa””. Del resto “Il sentimento di prensione … sottolinea l’ attingimento dell’ entità reale all’ oggetto eterno, la “concrescenza” di ogni entità reale e il suo nesso indistruggibile con la totalità della realtà. Ogni entità reale è processo e concrescenza di prensione, partecipa dei caratteri dell’ entità da cui prende …, ma né essa esaurisce la potenzialità autocreativa dell’ universo espressa dagli oggetti eterni, né la forma soggettiva dell’ entità reale … s’ identifica con i dati da cui è determinata”. La Bellini conclude che “In questo senso, allora, il passaggio dalla potenzialità degli oggetti eterni alla realtà attuale non è mai un processo definitivo e compiuto, ma attesta un’ inesauribile circolarità tra la totalità dei primi e l’ effettualità della seconda”. E Whitehead scrive che “Ogni fatto è più che le sue forme, e ogni forma “partecipa” a tutto quanto il mondo dei fatti. La definitezza del fatto è dovuta alle sue forme, ma il fatto individuale è una creatura, e la creatività è il fatto ultimo al di là di tutte le forme, inspiegabile attraverso le forme, e condizionato dalle sue creature …” (“Processo e realtà”). Emergere e permanere sono le caratteristiche di quel processo che è l’ universo. Il processo della realtà seleziona ed attua gli “oggetti eterni”, le “essenze”. “Il confronto con le altre visioni dinamiche dell’ epoca moderna – ha scritto Lluìs Oviedo – rappresenta una buona chiave di lettura dell’ opera di Whitehead. Il processo, così come viene concepito, non è per nulla caotico, come invece avviene nel caso del modello evolutivo dominante. Pensare Dio, afferma il nostro Autore, implica pensare l’ impossibilità del “puro chaos””. E Whitehead concepisce Dio come la totalità degli “oggetti eterni”. Nell’ idea che del processo ha Whitehead, continua Oviedo, “c’ è meno spazio per la contingenza, per la cieca legge delle variazioni spontanee e delle selezioni fortuite. Ma non c’ è neanche spazio per concepire una “finalità della storia”, né di stampo hegeliano né secondo altre versioni che cercano di descrivere un punto di arrivo dell’ umanità, come le escatologie secolarizzate dei tempi moderni. Il processo è ordinato e conosce una sua teleologia, che esprime l’ idea di Dio …”. Conclude Oviedo sostenendo che “Dopo Whitehead, il tentativo di codificare in modo dinamico la realtà e la nostra esperienza verrà riproposto anche in altri ambiti del pensiero … si potrebbe pensare a un certo capovolgimento dell’ ontologia classica operato dalla fenomenologia che ha sottolineato in modo radicale la relazionalità; non più le sostanze, ma le relazioni avrebbero la priorità; non il soggetto, ma il rapporto di dipendenza verso l’ altro dovrebbe considerarsi come istanza fondativa”. L’ universo dinamico di Whitehead consiste di un processo di continua e ininterrotta crescita: concrescenza da un modo d’ esistere ad un altro, processo orientato finalisticamente all’ attuazione di essenzeforme che gli sono immanenti e che divengono reali solo quanto siano collocate nel divenire spazio-temporale. Tra gli enti possibili alcuni addivengono a costituire l’ universo realmente esistente. “La natura è un edificio di processi che si sviluppano – scrive Whitehead in “La scienza e il mondo moderno” - . La realtà è il processo … Un avvenimento ha dei fatti contemporanei. Ciò vuol dire che un avvenimento riflette in se stesso i modi di questi suoi contemporanei, come uno spettacolo di realizzazioni immediate. Un avvenimento ha un passato. Ciò vuol dire che riflette in sé i modi dei suoi predecessori: in quanto ricordi fusi nel suo proprio contenuto. Un avvenimento ha un avvenire. Ciò vuol dire che un avvenimento riflette in se stesso gli aspetti che l’ avvenire proietta sul presente, o, in altri termini, gli aspetti che contengono il presente e che riguardano l’ avvenire. Così un avvenimento porta in sé un’ anticipazione del futuro”. 56 / Enrico Morselli Enrico Morselli ebbe risonanza internazionale per la scuola antropologica e psichiatrica da lui fondata. Lo psichiatra italiano mostrò versatili interessi, riconducibili comunque unitariamente alla centralità della condizione umana, che egli indagò con analitico e sperimentale sguardo positivista-evoluzionista. L’ antropologia era, secondo lui, “la storia naturale del genere umano” ed egli la concepiva come quella scienza che indaga l’ essere umano con lo stesso rigore, nel metodo e nell’ osservazione, con cui la scienza fisica studia i fatti naturali. Quella di Morselli fu un’ antropologia che si dispiegò secondo un’ ampia ed organica pluralità di prospettive, muovendosi tra l’ indagine sociologica, quella psicopatologica e quella delle discipline carcerarie. Di originaria formazione psichiatrica, si mosse tra la psicologia sperimentale, la neuropatologia, la psichiatria forense, la medicina legale e la terapia delle “malattie mentali”. Pur non incrinando il custodialismo (una questione che in Italia sarebbe stata affrontata soltanto nella seconda metà del Novecento da Franco Basaglia) si impegnò per un rinnovamento dell’ ospedale psichiatrico. Articolò una approfondita riflessione epistemologica nella filosofia delle scienze criminali e introdusse innovative tecniche nell’ assistenza ai cosiddetti malati mentali. Mario Portigliatti Barbos, nel ricostruire la storia della psichiatria in Piemonte ed un secolo di insegnamento psichiatrico universitario a Torino, definisce Enrico Morselli come “il più “evoluzionista” degli alienisti italiani e insieme il più “filosofo” tra i positivisti”, ma, soprattutto, evidenzia le resistenze e le opposizioni che egli incontrò in seguito alla sua decisione di abolire “i vecchi mezzi di coercizione (catene del peso anche di 5-6 kg) ancora usati < nell’ Ospedale psichiatrico di Torino > e per aver installato un laboratorio di psicologia sperimentale”. I contributi di Morselli nella ricerca psicopatologica vertono sulla genesi corticale dell’ epilessia e sulle nevrosi traumatiche. Alla specificità delle ricerche unì un forte interesse teorico, fermamente convinto com’ era della bontà e della validità del metodo positivo. Fu l’ animatore e il direttore di quella “Rivista di filosofia scientifica” che uscì a Torino dal 1881 al 1891 e che svolse una feconda “opera di divulgazione … delle idee del positivismo”, come ricorda Eugenio Garin nella sua “Storia della filosofia italiana” (1966). Nonostante vi collaborassero “anche uomini d’ origine e d’ ispirazione diversa … predominante – scrive Garin – rimase il tono positivistico, che non di rado anzi venne precisandosi in manifestazioni di naturalismo o di materialismo”. L’ obiettivo della Rivista era quello di far trionfare il metodo sperimentale e di congiungere definitivamente filosofia e scienza “anche in Italia”. L’ esigenza di diffondere una mentalità positiva e di promuovere un dibattito ed un rinnovamento nelle scienze umane, lo spinse a fondare, del resto, numerose riviste d’ argomento psichiatrico. Sono da ricordare la “Rivista sperimentale di Freniatria” (1875), la “Gazzetta del manicomio” (1881), la “Rivista di Patologia Nervosa e Mentale” (1897), “Psiche” (1911), e i “Quaderni di Psichiatria” fondati nel 1914, anno in cui assunse la direzione della Società Freniatrica Italiana. Morselli fu tra coloro che si nutrirono con maggior vigore delle sollecitazioni della “scuola positiva” italiana, dirigendo la propria concreta ricerca nelle coordinate che essa aveva tracciato. La “scuola positiva” aveva in Roberto Ardigò la sua maggior espressione filosofica, e nei discepoli di costui, da Marchesini a Tarozzi, una robusta ed originale prosecuzione che si sarebbe protratta ben oltre l’ Ottocento, pur scivolando talvolta nell’ arrendevolezza all’ idealismo. E, al riguardo, non pare però ormai condivisibile il giudizio negativo di Garin su Giuseppe Tarozzi, il quale avrebbe condiviso la “distruzione della ragione” emersa a fine secolo, collocandosi “sulla linea del Mach, del Boutroux e specialmente del Bergson”. In effetti, erano le stesse nuove acquisizioni e teorie scientifiche che esigevano un ripensamento dello scientismo classico ottocentesco. E il positivismo fu indotto ad una critica “interna” alla filosofia della scienza ed alla stessa scienza, che, all’ epoca, si volle confondere con l’ irrazionalismo decadentista e misticheggiante. In ogni caso, a parte la “crisi del positivismo”, vera o presunta, seguita, all’ alba del nuovo secolo, alla ripresa idealistica, la “scuola positiva” italiana non può esser ridotta ad una semplice reazione alla filosofia idealistica che era stata rappresentata da Terenzio Mamiani. La propensione ad emancipare il pensiero scientifico dal dominante spiritualismo tradizionale e le forti sollecitazioni laiche e illuministiche dell’ età risorgimentale, avevano conferito interna e solida coesione interna alla comunità scientifica. La “scuola positiva” operò nella direzione di una sprovincializzazione della cultura italiana e mirò a sottrarla al ghetto della metafisica, restituendola alle direttrici continentali, prime il materialismo e l’ evoluzionismo. Ne venne una feconda cultura positiva, un efficace paradigma dal quale scaturì un intenso lavoro multidisciplinare, che trovava la sua unità nell’ idea originaria di Herbert Spencer e August Comte della filosofia come sintesi metodologica e unitaria del sapere scientifico. Essa propose, soprattutto, un solido metodo d’ indagine a chi indagava nella società e nelle relazioni umane. La sua carica antimetafisica indusse la storiografia come la sociologia, la pedagogia come la psicologia, alla ricerca sperimentale, all’ attenzione per i dati dell’ esperienza, all’ aderenza ai fatti. “Il metodo positivo – ha scritto acutamente Garin – fu erudizione nel campo delle scienze storiche, e soverchia erudizione talora, ma utile e salutare esempio di ricerca severa, e preziosa disciplina d’ indagine; fu nel campo della filosofia richiamo alla concretezza dell’ esperienza, al limite fisico che accompagna ogni atto spirituale; fu esigenza di studi e di problemi umani, appello alla corposità del mondo degli uomini, ove l’ idea è vuota parola se non s’ incarna nel veicolo terreno”. Della cultura positiva di Enrico Morselli, articolata fra concreta indagine antropologica ed epistemologia teorica, non disancorata dai problemi dell’ essere umano, ha scritto diffusamente M. Di Giandomenico (“S, Tommasi medico e filosofo”, 1965). Morselli era nato a Modena nel 1852 e sarebbe morto a Genova nel 1929. Conseguì la laurea in medicina nel 1874 e nello stesso anno entrò a far pratica, con Augusto Tamburini, nell’ ospedale psichiatrico di San Lazzaro (Reggio Emilia), sotto la guida di Carlo Livi. Conseguì la libera docenza in psichiatria nel 1877. Nel 1880, ebbe la docenza straordinaria della Clinica psichiatrica a Torino e poi, nel 1886, essendovi sostituito da Cesare Lombroso, docente di malattie nervose e mentali a Genova (ove successe a Dario Maragliano), insediandosi anche nella cattedra di psicologia sperimentale. A Genova promosse ed avviò corsi di antropologia generale e criminale, neuropatologia ed elettroterapia. Diresse, dal 1877 al 1899, gli Ospedali psichiatrici di Macerata e di Torino, ove incontrò la collaborazione di Gabriele Buccola ed Eugenio Tanzi. La sua opera di maggior rilievo secondo la prospettiva della filosofia della scienza, (quella nella quale si saldano l’ attitudine clinica, l’ abilità a formulare nuove prospettive e ipotesi per la ricerca, e la critica epistemologica), fu il “Manuale di semeiotica delle malattie mentali” (1885). Fra le sue opere di filosofia scientifica sono da ricordare “L’ anima funzione biologica del corpo” (1886) e “Le ultime fasi dell’ evoluzionismo in Italia” (1889). La “Critica e Riforma del metodo in Antropologia” (1880) e l’ “Antropologia sperimentale” (18881891) sono palesemente ispirate all’ evoluzionismo di Herbert Spencer. Morselli rifiuta il tradizionale antropocentrismo. L’ essere umano si colloca in una più ampia vicenda evolutiva, nella quale si succedono fasi come quella cosmica, biologica, psicologica, sociologica. Senza voler riconoscere all’ uomo una collocazione privilegiata e centrale nell’ universo, Morselli ritiene che costui non sia altro che “un’ animale della famiglia dei Primari, del sottordine dei Eopiteci, dell’ ordine dei Primati”: non si tratta che di un organismo il cui sviluppo è l’ “effetto naturale o … logico dell’ evoluzione cosmica”. L’ “Antropologia generale”, che ribadisce una comprensione dell’ uomo secondo la teoria dell’ evoluzione, è del 1911. “Biografia di un bandito”, l’ analisi psichiatrica e sociologica di Giuseppe Musolino, è del 1903. “La nevrastenia degli adolescenti” è del 1911. “Le neurosi traumatiche”, prese in considerazione soprattutto nelle forme suscettibili di risarcimento, furono date alle stampe nel 1913. Al 1879 risale la relazione medico-legale e processuale de “L’ uccisore dei bambini Carlino Grandi”; del 1899 è la relazione “Sullo stato mentale del conte Cesare Mattei”, una esemplare indagine clinico-biografica. Rilievi critici sui fenomeni medianici si ritrovano in “Psicologia e spiritismo” del 1908. “Il magnetismo animale e l’ ipnotismo” risale al 1886. “L’ uccisione pietosa” è del 1925. Era inevitabile che Morselli, da psichiatra e psicopatologo, si misurasse con la psicoanalisi di Sigmund Freud. Pubblicò un ampio saggio in due volumi su “La psicoanalisi”, nel 1926, esprimendo, in modo emblematico, l’ atteggiamento mentale tipico della cultura positivista e della psichiatria italiana nei confronti della psicologia del profondo. Le principali categorie della metapsicologia freudiana furono da lui drasticamente rifiutate. Ne recuperava alcune in chiave evoluzionistica, riconducendole al tradizionale quadro della psichiatria organicistica. Giancarlo Gramaglia ha trattato la cosa nelle “Notes sur la psychanalyse italienne entre les deux guerres (1915-1945)” («Revue internazionale d’ histoire de la psychanalyse”, 1992) e nella voce “Enrico Morselli” del “Dictionnaire international de la psychanalyse, notions biographies, oeuvres, événements, institutions” (2002). La diffusione della psicoanalisi avrebbe comunque incontrato, in Italia, tenaci e molteplici barriere. Ostile le fu, tra l’ altro, la stessa psicologia sperimentale torinese (Friedrich Kiesow). Cesare Lombroso la ignorò in modo sprezzante, pur conoscendola. Meritevole sarà, pertanto, l’ impegno di Cesare Luigi Musatti (1897-1989), fondatore, nel 1955, della “Rivista di psicoanalisi”, che riprendeva l’ impegno della “Rivista italiana di psicoanalisi” voluta da Edoardo Weiss (1889-1970) e costretta a cessare le pubblicazioni nel 1936. Di Musatti resta, tra l’ altro, il poderoso ed organico “Trattato di psicoanalisi” (1949). Formatosi in matematica e in filosofia nell’ Università di Padova, Musatti fu poi assistente dello psicologo triestino Vittorio Benussi, succedendogli nel 1927 alla guida dell’ Istituto di psicologia. A Milano ebbe la cattedra di psicologia dal 1945 al 1967. Era approdato alla psicoanalisi muovendo dalle ricerche sulla suggestione ipnotica che aveva avviato con lo stesso Benussi. 57/ Pasquale Villari (1) Pasquale Villari introdusse il metodo positivo nelle scienze storiche e l’ Ottocento italiano lo vide propugnatore di quella storiografia positivistica che intendeva liberarsi da ogni ingerenza metafisica senza rinunciare alla considerazione delle idee e degli ideali che guidano gli uomini nel loro concreto operare. In tal modo, se la storiografia di Villari si liberava dalle astrattezze della filosofia della storia, evitava di ridurre la comprensione del mondo storico ad una dimensione naturalistica e materialistica. Uno scadimento cui non s’ erano sottratti alcuni seguaci francesi di Auguste Comte. Ludovico Geymonat (“Immagini dell’ uomo. Filosofia, scienza e scienze umane nella civiltà occidentale”, 1989) ha scritto, impietosamente, a proposito della diffusione della cultura positivista in Italia, che “il positivismo dei filosofi non scaturì da una seria riflessione sulle nuove scoperte scientifiche e sui metodi in esse applicati – come accadde, per esempio, per Comte e per Mach – onde i positivisti italiani non seppero far sentire né agli scienziati né ai filosofi l’ interesse dei problemi filosofici emersi dalla scienza moderna. Così, in molti casi, invece di combattere la metafisica per sostituirle uno spirito filosofico concreto, si limitarono a opporre alla metafisica spiritualistica una “filosofia della natura” altrettanto dogmatica”. Non è il caso di Villari che, con Giustino Fortunato (1848-1932), Leopoldo Franchetti (1847-1917), Enrico Ferri (1856-1929) e altri, avviò concrete e attente indagini sulle condizioni sociali ed economiche del Paese, denunciando alla classe politica liberale le arretratezze, le incongruenze, le povertà di un’ Italia da poco unita. Pasquale Villari era nato da una facoltosa famiglia borghese a Napoli nel 1827 e sarebbe morto a Firenze nel 1917. Rimase orfano, ancor adolescente, del padre, avvocato. La formazione purista che ricevette da Puoti non gli impedì di vivere con trasporto i moti napoletani del Quarantotto. Esule a Firenze, nonostante le materiali difficoltà, approfondì la biografia di Fra’ Savonarola. Gli interessi storici gli fruttarono la cattedra di Filosofia della storia nell’ Università di Pisa sino al 1861, quando divenne docente di storia all’ Istituto fiorentino di Studi superiori. Il lavoro storico che lo vedeva aggirarsi fra la storia medioevale e quella moderna, non gli precluse un concreto impegno civile (al quale non fu certo estraneo l’ incitamento del maestro Francesco De Sanctis), che lo vide banditore di un proclama contro la monarchia borbonica nel Napoletano e poi segretario dell’ ambasciata garibaldina presso i Savoia. Decisivo per la sua carriera politica nell’ Italia unita, sarebbe stato il libello politico nel quale si interrogava sulle responsabilità della duplice sconfitta che l’ Italia aveva subito, a Lissa e a Custoza, contro gli austriaci. Non se la prese con qualche sfortunato ammiraglio, come fece l’ opinione pubblica borghese, ma si interrogò sulla fragilità burocratica e amministrativa dello Stato unitario e sulla precarietà dell’ identità e della coscienza nazionale. Divenne deputato nel 1873 e fu senatore del Regno nel 1897 sino al 1904. Fu Ministro della pubblica istruzione con il marchese di Rudinì nel biennio 1891-1892. Negli anni dell’ esperienza parlamentare si occupava della Questione meridionale, ma la passione civica non era in lui disgiunta dall’ indagine storica, attenta con acribia ed erudizione ma anche con spirito fortemente positivistico, alla cultura politica italiana. Fra i suoi contributi storiografici sono certamente da ricordare, “L’ Italia, la civiltà latina e la civiltà germanica” (1861), “Le invasioni barbariche in Italia” (1901, 1905), “Lettere meridionali ed altri scritti sulla questione sociale in Italia” (1878, 1885), “La questione sociale in Italia” (1902), “La storia di Gerolamo Savonarola e de’ suoi tempi narrata con l’ aiuto di nuovi documenti” (1859-1861, 1887), “Niccolò Machiavelli e i suoi tempi illustrati con nuovi documenti” (1877-1882, 1895-1897), “I primi due secoli della storia di Firenze” (1893-1894, 1905), “Scelta di prediche e scritti di fra’ Gerolamo Savonarola con nuovi documenti intorno alla sua vita” (1898), “Le invasioni barbariche in Italia” (1900) e “L’ Italia da Carlo Magno alla morte di Arrigo VII” (1910). Di Pasquale Villari hanno scritto F. Baldasseroni (“Pasquale Villari. Profilo biografico e bibliografia degli scritti”, 1907), l’ allievo Gaetano Salvemini (“Pasquale Villari” negli “Scritti vari”, 1900-1957) e, recentemente, Mauro Moretti (“Pasquale Villari storico e politico”, 2005). Eugenio Garin assegna a Pasquale Villari un ruolo di rilievo nel generale rinnovamento prodotto dal positivismo italiano, pur fra varie contraddizioni e suggestioni contrastanti, nella cultura nazionale. E’ certo che, come scrive lo stesso Geymonat, i positivisti italiani “compresero che lo svecchiamento dell’ Italia era legato al diffondersi della mentalità positivistica, anche in relazione al fatto che l’ unificazione politica dell’ Italia poteva diventare effettiva se si fossero trasformate a fondo le strutture della società”. Le classi dirigenti non furono molto sollecite nell’ accogliere le indicazioni dei positivisti, ma, grazie alla generale visione del mondo positivista che si diffondeva negli ambienti scientifici, la comunità scientifica nazionale si consolidava e si integrava. Mentre nel pensiero scientifico urgeva l’ esigenza di una emancipazione da categorie tradizionali vetuste che già la cultura laica ed illuminista aveva scosso, con la storiografia positiva crescevano una nuova sensibilità antropologica ed un nuovo metodo di indagine sociale. E se non se ne può certo ignorare una certa miopia sociale ed una scarsa attenzione per le miserie del “Paese reale” escluso dal “Paese legale” dei notabili liberali e del blocco borghese agrario conservatore, rappresentato in Parlamento dai Governi della Destra storica, della storiografia positiva resta il valore innovativo nell’ indagine. Francesco Barbagallo (“Questione meridionale: i meridionalisti”, in “Storia d’ Italia”, a cura di Fabio Levi, Umberto Levra e Nicola Tranfaglia) accomuna Villari a Sidney Sonnino, Leopoldo Franchetti e Giustino Fortunato in un “riformismo conservatore” che esprime il “primo meridionalismo”. Proprio le “Lettere meridionali” (1878) di Villari avrebbero avviato la “riflessione critica sulla condizione del mezzogiorno all’ interno dello stato italiano”. Non vi è dubbio, come scrive Barbagallo che “La disperata situazione delle masse contadine, oscillanti tra la più dura miseria e la più violenta rivolta, < rendesse > precario nel Sud l’ equilibrio sociale e debole la base del consenso allo stato. Ciò era apparso con evidenza già negli anni del “grande brigantaggio”, che i governi della Destra avevano ritenuto sufficiente stroncare con la repressione militare”. Ora, secondo Barbagallo, le indagini e le attenzioni dei “primi meridionalisti” scaturivano dai timori che i fatti della Comune parigina e il ritorno di fiamma del socialismo suscitavano nelle classi dominanti, per cui “i più consapevoli esponenti della borghesia < si misero a cercare > soluzioni più durature per la “questione sociale””. Indubbiamente la classe dirigente maturò, pur fra varie incertezze, un diverso atteggiamento. Nella Sinistra liberale si consolidava la consapevolezza che “L’ autorità dello stato non poteva sempre fondarsi sulla repressione ma doveva allargare le basi del consenso nella società, operando le necessarie riforme, secondo il modello dei governi conservatori inglesi o anche dell’ autoritario stato tedesco”. Le preoccupazioni per le sorti dello Stato liberale avrebbero spinto “alcuni acuti intellettuali” tra i quali Pasquale Villari, ad avviare una importante attività di ricerca e di analisi della realtà meridionale che, pur nei diversi settori d’ indagine, si caratterizzò in modo uniforme per una comune aspirazione ad un’ approfondita conoscenza della situazione reale, indagata coraggiosamente, senza timore di rivelare le gravi responsabilità della politica governativa e i pesanti arbitrii delle classi dominanti”. Barbagallo lo riconosce senza esitazioni e sottolinea che “la precisa denuncia del Villari si svolgeva soprattutto sul piano delle istituzioni, a livello politico, amministrativo, culturale”. Ed è certo che “il soggetto attivo, responsabile della direzione di questa nuova politica di trasformazione sociale ed economica era indicato < non nel governo e nello stato > ma nella borghesia terriera meridionale, finalmente convinta della necessità, ben nota ai conservatori inglesi, di “riformare per conservare””. Un’ interpretazione condivisibile, quella di Barbagallo, soprattutto laddove conclude che Villari e gli altri ignoravano il “carattere specifico del fondamento, economico e sociale, del potere … esercitato dagli agrari nel Sud … e … del ruolo complessivamente secondario che si andava preparando per l’ agricoltura meridionale nell’ ambito dell’ unitario meccanismo di sviluppo capitalistico”. L’ impraticabilità politica delle conclusioni che derivavano dall’ indagine meridionalista di Villari non può, comunque, far trascurare le sue novità metodiche e il suo nuovo atteggiamento nella ricerca. Ne “La filosofia positiva e il metodo storico” (1865), egli dichiarava che “La filosofia positiva … studia solo fatti e leggi sociali e morali, riscontrando pazientemente le induzioni della psicologia con la storia e ritrovando nelle leggi storiche le leggi dello spirito umano”. La filosofia positiva non si occupa di “un uomo astratto, fuori dello spazio e del tempo, composto solo di categorie e vuote forme”. Il suo oggetto è “un uomo vivente e reale, mutabile per mille guise, agitato da mille passioni, limitato per ogni dove …”. In un tale programma vi era il rifiuto dell’ impossibile “conoscenza assoluta dell’ uomo” e il rigetto della pretesa metafisica di cogliere “la prima ed eterna ragione di tutto”. Una più adeguata conoscenza dell’ uomo passa attraverso lo “studio del contingente e del mutabile”, muovendo dalla consapevolezza che l’ essere umano “muta continuamente”. L’ uomo è “forma transitoria nell’ eterno circolo della natura … molecola nell’ immensità del mondo”. E perciò l’ uomo, come ha notato Eugenio Garin (“Storia della filosofia italiana”, 1966) “rinuncia all’ assoluto, a uno spirito infinito di cui sia collaboratore efficace. Alla certezza di una collaborazione divina, si sostituisce la malinconica serietà di una carriera terrestre”. Proprio per questo è importante conoscere i moventi interni, gli ideali e le convinzioni che lo spingono ad agire ed a superare “senza sosta la realtà naturale”. Certamente non si può “costruire la scienza “a priori” … < è necessaria > una ricerca a posteriori”, sosteneva il maggior positivista italiano, Roberto Ardigò, ne “Sull’ origine e sul progresso della filosofia della storia” (1854), come ricorda Garin. E criticando le aprioristiche e triadiche leggi storiche di Giambattista Vico (le età degli dei, degli eroi e degli uomini), di August Comte (gli stadi teologico o fittizio, metafisico o astratto, scientifico o positivo) o di Wilhelm Hegel (la dialettica), Ardigò citava Villari come proprio precursore. Poi, alla storia come scienza e alla storiografia positiva di Pasquale Villari, Benedetto Croce avrebbe opposto la storia come arte; all’ universale e all’ astratto, il concreto e l’ individuale. Giacchè la storia non sarebbe che narrazione di quel che è accaduto. Così ne “La storia ridotta sotto il concetto generale dell’ arte” (1893). Ma la storia della storiografia doveva ancora rivelarsi molto feconda e si sarebbe prolungata nell’ intero Novecento, ridiscutendo il proprio statuto epistemologico-metodologico e la propria scientificità. Paolo Corsini, ad esempio, (“Storiografia. Saggio critico, testimonianze, documenti”, 1978) ha ricostruito il multivoco dibattito che ha accompagnato il lavoro degli storici nel corso dell’ intero Novecento, mostrandone la complessità e la molteplicità nelle prospettive. 58 / Pasquale Villari (2) Pasquale Villari non ha certamente avuto un ruolo secondario nella vita culturale e politica dell’ Italia liberale fra Otto e Novecento. Storico di solida impronta positivistica, si occupò di Machiavelli e Savonarola, oltre che della Firenze medioevale. Unì al lavoro storiografico l’ impegno politico e civile. Proprio per la concezione positivistica di una storiografia che è attenta all’ “effettuale”, e, dunque, alla condizione sociale ed economica dell’ Italia appena unificata. Delio Cantimori (“Storici e storia. Metodo, caratteristiche e significato del lavoro storiografico”, 1971) ricordava come l’ idea di “vita pubblica”, di “vita italiana” venisse a Villari dal maestro Francesco De Sanctis, “creatore e suscitatore di energie”. La “Storia della letteratura italiana” di De Sanctis si concludeva con l’ esigenza imperativa di ritrovare la “vita italiana”, liberandola “da ogni velo e da ogni involucro” e “guardando alla cosa effettuale con lo spirito di Galileo, di Machiavelli”. Villari fu deputato e senatore del Regno, sino a guidare il Ministero della pubblica istruzione. Tra l’ altro, nel 1869, fu lui ad ottenere dal Ministro Bargoni l’ istituzione della cattedra di antropologia nella Facoltà fiorentina di filosofia e lettere, che Paolo Mantegazza avrebbe ricoperta per primo. La motivazione di Villari sulla nuova disciplina era in piena sintonia con le sue convinzioni: “l’ antropologia è la prima pagina della storia”. Villari fu particolarmente attento alla “questione sociale” ed alla “questione meridionale” che andavano emergendo drammaticamente nelle vicende dell’ Italia unita. Non fu certo indifferente alla crescente emigrazione delle masse contadine italiane. Guardava con preoccupazione all’ involuzione “morale” e civile della vita politica italiana, tra scandali finanziari e durissima risposta repressiva da parte del Governo crispino ai diffusi moti popolari contro il caro-vita. Nel 1893 Villari interveniva alla Camera: “Dove andiamo?” chiedeva alla classe politica liberale. E la invitava a riflettere sul fatto che “presso di noi le moltitudini, massime quelle delle campagne, parteciparono assai poco alla rivoluzione < il Risorgimento >, e punto alla vita politica. Tutto fu opera della borghesia, che divenne quindi padrona d’ ogni cosa. E la storia di altri popoli c’ insegna quali sono i pericoli, cui si va incontro ogni volta che la società intera è abbandonata in balìa di un solo ordine sociale, massime se questo è la borghesia”. E ricordando il regime orlèanista sottolineava che, in Francia, dopo il 1830, la borghesia e l’ affarismo la fecero da padroni: “il Governo < francese > prese allora il carattere e la forma di una compagnia industriale, nella quale gli affari si fanno solo in vista dei vantaggi che i soci possono cavarne”. Villari sferzava la Destra storica per non aver saputo attuare un’ efficace politica di alfabetizzazione popolare: “L’ Italia, si disse, è un paese democratico e civile, deve avere la istruzione obbligatoria. Ma per ciò fare occorrevano nuovi edifizi scolastici, maestri, scuole in gran numero, il che voleva dire parecchi nuovi milioni, che i Comuni non avevano, e non li aveva il Governo. Pure si voleva la legge. Ma quando il Ministero la presentava, e si vedeva la spesa, la legge veniva respinta, senza perciò smettere di chiederla. Finalmente ne fu presentata una, che rendeva obbligatoria la istruzione elementare, riducendola quasi a due anni, il che era in fondo una illusione, per non dire una derisione. Non occorrevano però i molti milioni, e la legge fu votata. Avemmo così la legge, non la istruzione. Chi avevamo voluto ingannare? Un giorno che io m’ affaticavo a dimostrare tutto ciò ad uno di coloro che l’ avevano chiesta e l’ avevano votata, egli esclamò impazientito: E chiudetele queste vostre scuole, le quali fanno più male che bene!”. Di fronte ad un apparato burocratico dello Stato che cresceva e che costava, Villari auspicava “quelle riforme organiche, veramente serie, che pur sono tanto necessarie … Né si vuol capire che l’ avere istituzioni più modeste e più vitali, sarebbe un’ economia d’ altra natura, ma non meno efficace. Non avremmo un così grande sciupìo di forze, di uomini e di danaro”. Villari chiedeva alla classe politica liberale una nuova politica e sosteneva che “Se la nostra classe governante, che è in sostanza la borghesia, avesse fin dal principio voluto riconoscere le condizioni infelici delle nostre plebi, e migliorarle, facendo volontariamente i sacrifici necessari, essa le avrebbe avvicinate a sé, rialzandole moralmente ed economicamente, ne avrebbe fatto una forza nuova di progresso industriale e morale, le avrebbe condotte a partecipare più largamente alla civiltà, alla vita nazionale, ed avrebbe in un medesimo tempo aumentato il suo ascendente sopra di esse, migliorato, nobilitato il proprio carattere morale. Ma pur troppo, in un tempo nel quale tutti i popoli civili hanno promosso una serie di grandi riforme sociali, le quali grandemente migliorarono le condizioni dei lavoratori nelle città e nelle campagne, noi non abbiamo fatto nulla addirittura, salvo a gettar qualche volta polvere negli occhi. La prova ne è che … va sempre crescendo la emigrazione di coloro che la fame caccia dal proprio paese, in cerca di pane e di lavoro, spesso invece ricevendo insulti … I coltivatori della terra, che son pure in Italia quelli che producono la ricchezza nazionale, in molte delle nostre province, dopo una giornata di lavoro più lunga o più dura assai di quella d’ ogni altro operaio nel mondo civile, non hanno ancora tanto da sfamarsi”. Passione civica nazionale, impegno civile, attenzione alle questioni della storia contemporanea emergono dalle riflessioni di Villari. Dovette esser certamente una lezione valida ed uno sprone per intellettuali come Gaetano Salvemini. Dopo aver pubblicato “La psicologia come scienza positiva”, nel 1870, Roberto Ardigò aveva notato il contesto asfittico nel quale faticosamente si muoveva il positivismo italiano: “… del positivismo in Italia non si può dire che ci sia se non qualche piccolo ed isolato e affatto recente tentativo, che si può dire principiare da un articolo del Villari”. E in una lettera del 1873 (“Lettere edite e inedite, 1850-1894”, a cura di Wilhelm Büttemeyer, 1990) Ardigò citava alcuni altri isolati propugnatori del positivismo nella Penisola: i pedagogisti Angiulli e Gabelli … Ma aveva ragione Benedetto Croce quando definiva il positivismo italiano una “negazione della filosofia”, un deteriore tentativo di sostituire al momento speculativo-filosofico-idealistico, una “filosofia naturalistica e agnostica” e il momento “estraneo < alla filosofia > della fisica e delle scienze naturali” ??? Nella sua “Storia della filosofia italiana” (1966) Eugenio Garin si oppose alla stroncatura di Croce, e sostenne che, in Italia, “il metodo positivo fu erudizione nel campo delle scienze storiche … utile e salutare esempio di ricerca severa, e preziosa disciplina d’ indagine, < generale > richiamo alla concretezza dell’ esperienza … esigenza di studi e di problemi umani, appello alla corposità del mondo degli uomini, ove l’ idea è vuota parola se non s’ incarna nel veicolo terrestre”. Ardigò coglieva l’ isolamento di chi, come lui, voleva diffondere in Italia una psicologia positiva che espungesse le tradizionali dottrine metafisiche dell’ anima e desse priorità al metodo scientifico, senza per questo cadere nel materialismo (dal quale aveva preso le distanze). Non aveva un’ ampia letteratura italiana dalla quale ripartire: soltanto “La filosofia e la ricerca positiva, quistioni di filosofia contemporanea” (1868) di Andrea Angiulli, e “La filosofia positiva e il metodo storico” (1866) di Pasquale Villari. Non molto, per la verità, ma è certo che la “frattura” antitradizionalista di Ardigò risvegliava latenti istanze innovatrici. Eugenio Garin ricordava “il motivo positivistico che venne imponendosi ai più seri fra i neokantiani e gli hegeliani < in Italia >, da Fiorentino a Spaventa, per non insistere poi su tipici rappresentanti di una “sinistra” italiana, quali il Tommasi o, su altro piano, il Labriola”. Garin ricorda proprio la parabola evolutiva che condusse Salvatore Tommasi da un finalismo teistico a “Le dottrine mediche e la clinica”, un saggio del 1865 in cui rivendicava “per le scienze “obbiettive e naturali” una piena indipendenza da qualunque speculazione metafisica, da qualunque presupposto che non sia integralmente spiegabile con l’ esperienza”. E rimarca che “All’ affermazione del Tommasi fatta nel campo medico corrisponde quella del Villari … nel campo degli studi storici”. Della predominante esigenza metodica in costoro s’ è detto certo anche Alfredo Saloni (“Il positivismo e Roberto Ardigò”, 1969). Saloni ha sostenuto, senza mezzi termini, che “… per il Gabelli, come anche per il Villari, altro positivista di nessuna scuola, il positivismo è un metodo piuttosto che una dottrina, un metodo di interpretazione, che serve a liberarci dai sogni della metafisica e ad orientarci nella realtà della vita”. Ed ha aggiunto che “Il sistema sarebbe stato per il Gabelli nient’ altro che un impaccio alla sua aspirazione a guardare nella loro varietà e molteplicità i processi dell’ educazione, a conferir loro un senso veramente concreto, ad utilizzarli in conformità dei suoi piani di politico e di educatore, ché tale era veramente il Gabelli, non filosofo, a interpretarli e svilupparli in armonia con le più urgenti, pratiche necessità”. E quel che vale per Gabelli nella pedagogia, è da trasporre per Villari nella storiografia: vi è in costoro, direbbe Saloni, “… tutto il positivismo essenziale, il richiamo dall’ astrattezza alla realtà, dalla semplice teoria ai fatti che soli possono determinarla, il rifiuto di ogni dogmatismo, la fede nell’ esperienza, nell’ esercizio della ragione da questa non disgiunto …”. Il rifiuto di una rigida sistematicità, non impedì, peraltro, una riflessione squisitamente filosofica a Villari, come emerge dagli scritti di “Arte, storia e filosofia” (1884) e dagli “Scritti vari” (1894). Una meditazione mai, comunque, disgiunta dalla consapevolezza delle problematiche contemporanee. Nelle “Lettere meridionali”, criticando implicitamente la Destra storica, sosteneva che “… la vita di una nazione non può restringersi tutta ai soli computi del pareggio. Noi potremmo essere uniti, liberi, indipendenti, colle finanze in equilibrio, e pure formare una nazione senza significato … Occorre che un nuovo spirito ci animi, che un nuovo ideale baleni dinanzi a noi. E questo ideale è la giustizia sociale, che dobbiamo compiere prima che ci sia domandata. E’ necessario ridestare in noi quella vita morale, senza cui una nazione non ha scopo, non esiste. Ed è necessario al nostro bene materiale e morale. Senza liberare gli oppressi, non aumenterà fra noi il lavoro, non crescerà la produzione, non avremo la forza e la ricchezza necessarie ad una grande nazione. L’ uomo che vive in mezzo agli schiavi, accanto agli oppressi e corrotti, senza resistere, senza reagire, senza combattere, è un uomo immorale che ogni giorno decade”. 59 / Giuseppe e Sergio Sergi Sergio Sergi è stato un “antropologo fisico”, erede e continuatore del padre Giuseppe il quale, in Italia, dell’ antropologia fisica, oltre che della psicologia, fu vero e proprio precursore. Il figlio ha saputo essere un autorevole protagonista di quell’ “epoca antropometrica” che ha dato notevoli contributi alla storia dell’ antropologia, tra i quali l’ indagine sui reperti fossili di ominidi che via via venivano acquisiti. Sergio Sergi dev’ essere situato nell’ alveo fecondo della paleoantropologia che nacque a metà dell’ Ottocento con J. C. Fuhlrott. Costui avviò l’ indagine scientifica sui fossili, scoprendo la calotta dell’ “uomo di Neanderthal” presso Düsseldorf. Poi, alla disciplina avrebbero dato sistematicità il francese Marcellin Boule (1861-1942), il tedesco Gustav Schwalbe (1844-1916) e altri. Una buona introduzione, sintetica, organica ed efficace, alla disciplina, si trova nelle voci dedicate all’ antropologia e all’ etnologia, da Alessandro Lupo, Claudio Cavatrunci, Egidio Cossa, Alba Rosa Leone, nell’ “Enciclopedia Italiana” fondata da Giovanni Treccani (nell’ edizione del 1995). L’ antropologia viene, definita, nella “Treccani”, come “il ramo delle scienze biologiche che studia l’ umanità dal punto di vista naturalistico, cioè in quanto costituente un particolare gruppo zoologico, sulla scorta di caratteri morfologici, fisiologici e psicologici”. Per un approfondimento delle questioni dell’ antropologia fisica, sono pur sempre validi gli studi dello stesso Sergio Sergi come “Antropologia dell’ Italia” (“Terra e Nazioni, L’ Italia, caratteri generali”, 1936), “Terminologia e divisione delle scienze dell’ uomo. I risultati di un’ inchiesta internazionale”, in “Rivista di antropologia”, 1947) e “Gli uomini nel Pleistocene, Epoche glaciali”, 1950). Il termine “antropologia” è, comunque, polivoco e, pur rinviando alla centralità dell’ essere umano come oggetto di indagine ed alla sua comprensione nella molteplicità delle sue manifestazioni, ha prodotto saperi e ambiti disciplinari diversi. Nel Novecento, con “Il posto dell’ uomo nel cosmo” (1927) di Max Scheler, è nata l’ antropologia filosofica. Una vera e propria “dottrina dell’ uomo”, che aveva antecedenti nell’ “Antropologia pragmatica” (1798) di Immanuel Kant e ne “L’ essenza del cristianesimo” (1841) di Ludwig Feuerbach. Con Scheler la filosofia si riappropriava di un problema, quello dell’ essere umano, che era sempre stato suo. E che s’ era visto sfuggire di mano, con l’ avvento, nella seconda metà dell’ Ottocento, dell’ antropologia fisica, cresciuta nell’ alveo dell’ etnologia e della zoologia. L’ antropologia filosofica ha voluto ritrovare, tra l’ altro, un ruolo di organizzazione e di sintesi dei dati acquisiti dalle scienze positive nell’ Ottocento. L’ antropologia fisica si affermò, infatti, come scienza fisico-organica dell’ uomo, dei gruppi e dei tipi umani. Essa acquisì la sua autonomia separandosi dall’ etnologia, che continuò ad occuparsi soprattutto delle società primitive. Nel frattempo andava consolidandosi anche l’ antropologia culturale, che si sarebbe occupata, appunto, delle culture umane e che avrebbe prodotto un’ ampia messe di studi, scuole e indirizzi. Per la verità, nell’ area anglosassone, l’ antropologia fisica s’ è riferita alla storia naturale degli ominidi, mentre l’ etnologia e l’ etnografia si sono occupate della dimensione sociale e della storia delle civiltà. Gerhard Heberer, curatore, con Gottfried Kurth e Ilse Schwidetzy, di “Antropologie” (1959, “Antropologia” nella traduzione italiana di Libero Sosio, 1966), ha richiamato l’ esigenza di una antropobiologia (E. Fischer) e di una biologia umana generale (E. Eickstedt) di cui l’ antropologia fisica non sarebbe che una importante branca. D’ altra parte, Heberer è convinto che l’ antropologia, nella misura in cui è “scienza dell’ uomo”, non possa ridursi all’ esclusivo ambito biologico, e che debba riversarsi in una “scienza generale dell’ uomo”, ove anche le “discipline umanistiche” abbiano la loro giusta collocazione. Una cosa, per lui, è certa: ribadendo la convinzione di Eugen Fischer (1952), egli sottolinea che l’ antropologia (fisica) “non … pretende né di comprendere l’ uomo intero, ossia anche il suo aspetto spirituale non indagabile con i metodi delle scienze naturali, né di negare quest’ ultimo”. Per quanto riguarda l’ antropologia come scienza naturale e disciplina biologica, Heberer è convinto che “Le nostre conoscenze sono spesso ipotetiche, provvisorie, prive di basi sicure”, anche se è certo che, per l’ antropologia come per ogni altra scienza, “l’ ipotesi è il “primum movens””. La sua preoccupazione è, comunque, quella di distinguere l’ “elemento puramente ipotetico” dal “complesso di teorie e di dati di fatto sicuramente stabiliti” e acquisiti. E non ha dubbi che vi sia “un saldo patrimonio di conoscenze su cui si può costruire e che … costituirà in futuro la base per un ulteriore sviluppo” dell’ antropologia fisica. Eugen Fischer, da parte sua, ha tracciato le diramazioni ed i settori di indagine in cui si articola l’ antropologia; tra i più rilevanti vi sono: la morfologia umana, che si occupa del corpo e degli organi degli ominidi; la paleoantropologia o morfologia degli ominidi fossili; l’ antropogenetica o scienza dell’ ereditarietà dell’ essere umano; e la antropologia sociale o sociologia dei gruppi umani. La nascita dell’ antropologia come scienza ”naturale”, nel secondo Ottocento, era stata accompagnata da un lungo travaglio. Laceranti controversie opposero, ad esempio, i sostenitori del monogenismo e quelli del poligenismo. I criteri per la classificazione dei gruppi umani e la questione delle indagini sui reperti osteologico-craniometrici, divisero a lungo gli antropologi fisici. Le polemiche non impoverirono ed anzi promossero le ricerche e gli studi antropologici. Il fisiologo, medico ed etnologo William Frédéric Edwards – membro della Royal Society di Londra – aveva fondato, nel 1839, la “Società di etnologia” a Parigi, e, nel 1855, De Quadrefages ricoperse la prima cattedra di antropologia, che venne istituita nel 1832, presso il “Museum d’ Histoire naturelle” parigino. Società antropologiche sorsero nelle maggiori città europee: a Parigi, per iniziativa di Paul Broca, nel 1859, la “Société d’ Antropologie”; a Londra, nel 1863, l’ “Anthropological Society”; a Berlino, nel 1869, la “Berliner Gesellschaft für Antropologie, Etnologie und Urgeschichte”; a Vienna, nel 1870, l’ “Anthropologische Gesellschaft in Wien”. La “Società fiorentina di antropologia” fu fondata da Paolo Mantegazza nel 1868. Un anno dopo, nel 1869, nasceva la “Società italiana di antropologia, etnologia e psicologia comparata”. Già attorno alla metà del secolo, Charles Darwin poneva le basi di quella teoria dell’ evoluzione che, con la teoria genetica di Gregor Mendel, avrebbe tracciato la linea direttrice dell’ antropologia in senso biologico. Oggi le cattedre di antropologia, dalla primatologia (lo studio delle grandi scimmie) alla genetica delle popolazioni nella prospettiva evoluzionistica, alla paleoantropologia o paleontologia umana e così via, sono numerose e qualificate anche nelle Università italiane. E un indubbio merito spetta a precursori come i Sergi padre e figlio. Il padre, Giuseppe, era nato a Messina nel 1841 e sarebbe morto a Roma nel 1836. Versatile ed eclettico negli interessi (aveva studiato con grande precocità, da autodidatta, il greco e il sanscrito, per poi dedicarsi alla filologia comparata), ebbe a Milano la cattedra universitaria di filosofia. Fu poi docente di antropologia nell’ Università di Bologna dal 1880 al 1884 e poi a Roma dal 1884 sino al 1916. Avrebbe acquisito notorietà nell’ ambito degli studi di psicologia. I “Principi di psicologia sulla base delle scienze sperimentali” sono del 1873-74. “Gli elementi di Psicologia” risalgono al 1879: furono subito tradotti in francese, suscitando un interesse internazionale. I suoi saggi di antropologia e psicologia sperimentale sarebbero stati prolifici e numerosi. Ne pubblicò a centinaia. Attento visitatore delle Case dei bambini di Maria Montessori, ne diede una valutazione ampiamente positiva. Giuseppe Sergi è stato, tra l’ altro, il fondatore del Museo romano di antropologia e del Laboratorio di psicologia sperimentale della cattedra di antropologia dell’ Università di Roma. Giuseppe Montesano, direttore della Scuola ortofrenica di Roma, ove lavorò con la Montessori, avrebbe sottolineato il peso della psicologia fisiologica e biologica di Giuseppe Sergi nello sviluppo della psicopatologia e dell’ ortofrenia. Su di lui si può vedere: “Giuseppe Sergi nella storia della psicologia e dell’ antropologia in Italia” (1987), un volume a più voci curato da V. Lazzeroni. Continuò il lavoro di Giuseppe Sergi il figlio Sergio, che nacque a Messina nel 1878 e sarebbe morto a Roma nel 1972. Ricoprì la cattedra di antropologia all’ università di Roma, dopo il padre. Lì diresse la “Rivista di antropologia” dal 1926. Tra i suoi numerosi contributi scientifici sono da ricordare almeno “Craniografia e craniometria del primo paleantropo di Saccopastore” (1944) e “Il cranio del secondo paleantropo di Saccopastore” (1948). I due crani neanderthaliani sono tuttora esposti nel Museo di antropologia dedicato al fondatore Giuseppe Sergi, e che è collegato al Dipartimento di Biologia Animale e dell’ Uomo dell’ Università di Roma “La Sapienza”. Il primo dei due crani fu riportato alla luce nel 1929. Il secondo fu rinvenuto sei anni dopo, anch’ esso in una cava di ghiaia presso la via Nomentana di Roma. Oggetto di studio da parte di Giuseppe Sergi, che aveva elaborato un originale metodo di craniometria (la scienza che si occupa delle forme del cranio attraverso la misurazione e il calcolo matematico dei punti craniometrici), i due crani fanno parte di una collezione di oltre seimila reperti scheletrici umani. Emiliano Bruner, ricercatore presso il Dipartimento, ha illustrato (“Modelli per l’ evoluzione”, in “Sapere”, 2003) le più recenti acquisizioni tecnologiche e metodologiche della ricerca nell’ ambito paleoantropologico. Le indagini sull’ anatomia e sulla morfologia del cranio dei primati umani e non umani, esistenti ma anche estinti, l’ attenzione per il popolamento del Continente europeo e del Nord Africa, oltre che per le forme neanderthaliane, gli studi sulla variabilità endocranica e dello scheletro facciale delle popolazioni attuali, hanno – tra l’ altro – costituito, a partire dalla seconda metà del Novecento, ambiti privilegiati dell’ antropologia. E si pongono in feconda continuità con il lavoro dei precursori come Giuseppe e Sergio Sergi. 60/ Giuseppe Sergi Giuseppe Sergi rientra certamente nella schiera di quei precursori che contribuirono, in Italia, a cavallo di Otto e Novecento, all’ autonomia della scienza psicologica ed al suo progressivo distacco dalla filosofia tradizionale. Guido Cimino (“Origine e sviluppi della psicologia italiana”) ha collocato la nascita della psicologia italiana come scienza, tra gli ultimi decenni dell’ Ottocento e la seconda Guerra mondiale, in un contesto fortemente positivistico-evoluzionistico. I tratti salienti che ne emergono sono la radicale antimetafisica, lo scientismo, il riduzionismo materialistico e naturalistico. Una tale connotazione, scrive Cimino, restituisce quella “immagine del mondo … sorta in concomitanza con lo straordinario sviluppo delle scienze … con la cieca fiducia nel progresso e con la radicata convinzione che la ricerca scientifica avrebbe potuto risolvere tutti i problemi dell’ umanità”. In un rinnovato e ancor più solido clima “illuministico”, che rivalutava con maggiori certezze le aspettative settecentesche nel progresso e nell’ efficacia della scienza, la psicologia costruiva la sua nicchia tra le “scienze umane”. Nonostante il positivista August Comte, nella sua classificazione delle scienze, la smembrasse tra la biologia e la sociologia, numerosi altri, da Darwin a Spencer a Haeckel, contribuirono a rifondarla come scienza empirica e naturalistica. Fu certamente tale il contesto culturale positivista che sollecitò psichiatria, fisiologia e biologia a conferire un taglio solidamente scientifico alla psicologia. Il fecondo e intenso lavorìo sarebbe proseguito per tutto l’ Ottocento, innescando, alla fine del secolo, produttive sperimentazioni e attività di laboratorio. Alle quali, d’ altra parte, fornirono un robusto sostegno teorico le teorie dell’ evoluzione e dell’ ereditarietà. Cimino ha colto nel segno quando ha rilevato il contributo decisivo dell’ evoluzionismo al superamento dell’ insanabile dualismo tra anima e corpo, “res cogitans” e “res extensa”, con cui Renato Cartesio aveva inaugurato la filosofia moderna. “Nel considerare l’ attività psichica come l’ ultimo stadio di un processo evolutivo – scrive Cimino - … la teoria darwiniana aveva finito per sanare la frattura …. fra i fenomeni psichici studiati dai filosofi e gli eventi fisicochimici indagati dagli scienziati, e per integrare l’ uomo nella natura in maniera molto più radicale di quanto non avesse fatto la rivoluzione scientifica del Seicento”. Del resto, i Lumi settecenteschi erano gli eredi della scienza galileiano-newtoniana, portatrice di rosee aspettative per il destino dell’ umanità. E i positivisti ottocenteschi non avevan fatto altro che introdurre le scienze umane nella classificazione delle scienze, attribuendo loro lo stesso rigore metodologico di quelle naturali. Essi erano al di qua di quel dibattito sulla specificità di metodo ed oggetto che le scienze storico sociali posseggono rispetto alle scienze della natura, che avrebbe caratterizzato lo storicismo tedesco contemporaneo, da Wilhelm Windelband a Max Weber. L’ intenso impegno che contraddistinse la crescita di una psicologia scientifica italiana sul finire dell’ Ottocento, vide distinguersi, accanto ad antropologi come Giuseppe Sergi e Paolo Mantegazza, psichiatri come Gabriele Buccola, Enrico Morselli e Augusto Tamburini, oltre a neurofisiologi come Mario Panizza e Luigi Luciani. Secondo la tesi di S. Marhaba (“Lineamenti della psicologia italiana: 1870-1845”, 1981), gli psicologi scienziati come Kiesov, De Sanctis, Ferrari, Benussi e Gemelli, andavano nettamente distinguendosi dagli psicologi filosofi. G. P. Lombardo e R. Foschi (“La psicologia italiana e i principali orientamenti filosofici e scientifici nell’ Italia della prima metà del Novecento”, introduzione a “La psicologia italiana e il Novecento”, 1997) affiancano Sergi a Gabriele Buccola e Roberto Ardigò in quello che giudicano l’ esordio della psicologia positivistica italiana. Ne distinguono, perciò, una seconda fase – che si distingue per l’ abbandono delle basi positiviste e il ricorso ad altri impianti filosofici, come il pragmatismo americano di Peirce e la fenomenologia di Brentano – ed una terza fase, conclusiva, che vede crescere la psicotecnica. Giuseppe Sergi, con Gabriele Buccola e Roberto Ardigò, nel porre le basi di una psicologia scientifica in Italia, risentì fortemente del positivismo evoluzionistico. E non vi è dubbio che i “Principi di psicologia” (1873-1874) di Sergi, con “La psicologia come scienza positiva” (1870) di Ardigò, abbiano segnato l’ inizio di un’ epoca nuova. Sergi, in effetti, si muoveva lungo la coordinata del positivismo con rigorosa ortodossia e intendeva ridurre la filosofia ad antropologia, in vista di una piena comprensione scientifica dell’ essere umano, sotto il profilo etnologico-pedagogico-sociale e psicologico. In una simile prospettiva interdisciplinare, l’ antropologia avrebbe assunto una funzione coordinatrice nei confronti delle altre scienze. E Sergi assumeva una prospettiva decisamente materialistica quando intendeva ridurre i fatti psicologici alla dimensione meramente fisiologica, studiandoli da antropologo fisico e da fisiologo. Ma il suo materialismo assumeva anche una connotazione decisamente evoluzionistica quando collocava i fenomeni psichici in un progressivo adattamento filogenetico all’ ambiente. Egli evocava la legge biogenetica fondamentale di Ernst Heinrich Haeckel, cara ai positivisti. Secondo il biologo tedesco, la teoria dell’ evoluzione di Darwin, di cui fu fervente sostenitore, doveva essere integrata con la corrispondenza della filogenesi e dell’ ontogenesi, per cui l’ evoluzione di un singolo organismo non è che la ricapitolazione dell’ intera evoluzione della specie. L’ evoluzione individuale (ontogenesi) ripercorrerebbe, sia pur sinteticamente, l’ evoluzione dell’ intera specie (filogenesi). In sintonia con Ardigò, Sergi credeva fermamente in una nuova scienza psicologica, anche se nessuno dei due ne tracciò le precise coordinate epistemologico-metodologiche ed evitò concrete indagini sperimentali. L’ afflato positivistico spingeva comunque Sergi a intravvedere nella nuova scienza psicologica uno strumento di “civilizzazione”. L’ elevazione morale di cui si sarebbe fatta portatrice, avrebbe giovato tanto all’ educazione delle nuove generazioni quanto al recupero dei “devianti”, criminali o ebefrenici che fossero. Egli si inseriva in quel rinnovamento pedagogico della scuola di base italiana che aveva, tra i maggiori fautori, Andrea Angiulli, Saverio De Dominicis, Aristide Gabelli, Francesco Orestano, Luigi Credano e Roberto Ardigò. Francesco Bettini (“I programmi di studio per le scuole elementari dal 1860 al 1945”, 1961) ha evidenziato l’ apporto della “corrente positivistica” all’ innovazione della scuola italiana, soprattutto nei gradi inferiori, rivolti al popolo. Ad una “scuola vecchia”, dominata dall’ Arcadia e dalla retorica, per dirla con Francesco de Sanctis, i positivisti opponevano, scriveva Bettini, “il reale … Il positivismo nell’ ordine intellettuale è … il ridestarsi dello spirito critico, è il senso del reale che riprende il sopravvento. E il positivismo pedagogico … dominerà la scuola italiana per circa mezzo secolo”. In particolare, nelle istruzioni date ai maestri da Aristide Gabelli e firmate dal ministro liberale Boselli, spiccava il primato del metodo. “L’ istruzione intellettuale – avvertiva Gabelli - < dev’ essere > sviluppata con cura perché le cognizioni sono indispensabili; però più di loro importa l’ abitudine che il pensiero acquista dal modo con cui esse vengono somministrate: modo di pensare, che dura tutta la vita e che deve essere ben radicato, chiaro, proficuo, per potersi poi alimentare di per se stesso. Quindi, non idee generali, che sono sintesi premature, estranee al pensiero dei fanciulli ed imposte dogmaticamente, e che, non essendo comprese, riescono fatte di sole parole; ma osservazioni, e cioè istruzione data dai sensi, e, perché data con metodo più chiara, compiuta, consapevole, coerente di quella che per mezzo dei sensi stessi si riceve prima di metter piede nella scuola. Cose, non parole; curiosità ben desta e attenzione; contatto continuo col mondo reale o dei fatti naturali e sociali …”. Proprio nel contesto di una pedagogia scientifica e sperimentale – che rientra nel più ampio quadro dell’ attivismo – crebbe ed acquisì originalità il metodo di Maria Montessori. Alessandro Leonarduzzi (“Maria Montessori. Il pensiero e l’ opera”, 1967) collocava la ‘dottoressa’ “fra quegli autori i quali, muovendosi dalle ricerche e dai risultati propri della scienza da loro coltivata, si proposero di trarne illazioni o applicazioni d’ ordine pedagogico”. Leonarduzzi non ha dubbi nel sottolineare che, proprio nel caso della Montessori, “l’ antropologia, la biologia, la neurologia infantile sarebbero, appunto, le scienze costituenti la stazione di partenza per il successivo cammino nel territorio dell’ educazione, per quanto vada segnalato che ella insisterà … sul valore della psicologia, pretendendo anzi di porsi sulla linea della ‘pedagogia sperimentale’, ricavando … per via induttiva e rigorosamente scientifica, nell’ ambito della scuola o dell’ istituzione educativa, i principi e le regole del suo < nuovo > metodo”. Giuseppe Sergi contribuì, dunque, in maniera rilevante, a precostituire quel sostrato dal quale Maria Montessori sarebbe cresciuta con le sue innovative proposte pedagogiche per l’ infanzia. Le opere di Giuseppe Sergi (per le quali si può leggere il “Volume Giubilare” in suo onore, nella “Rivista di Antropologia”, 1915-16 e 1937, in cui è contenuto anche il saggio di Erminio Troilo, “Dalla scienza dell’ essenza alla scienza dell’ uomo”) attestano la sua aderenza all’ elementarismo e all’ evoluzionismo e la sua particolare attenzione alle questioni educative (“Per l’ educazione del carattere”, 1893; “Educazione ed istruzione”, 1892). Fu, tra l’ altro, l’ autore del primo testo di psicologia fondato sulle ricerche sperimentali da poco avviate: i “Principi di psicologia sulla base delle scienze sperimentali ad uso delle scuole” (1873). Lo stretto legame tra intelligenza ed affettività e l’ esigenza di una partecipazione attiva e democratica alla vita sociale e civile, lo inducevano, poi, a privilegiare, nell’ educazione, “attitudini che servano ai bisogni della vita reale”, il rafforzamento della volontà e il controllo dei sentimenti. Di fronte al froebelismo, che si era tradotto, anche in Italia, nei “Giardini d’ infanzia”, Giuseppe Sergi riteneva che l’ educatore dovesse incoraggiare le manifestazioni spontanee del bambino. L’ adulto, d’ altra parte, deve guardarsi dai pericoli del misticismo e del simbolismo, che rischiano di deviare la mente infantile da un normale sviluppo, come certe incongruenze del sistema di Fröbel lasciano temere. Una pedagogia psicoantropologica esigeva l’ attenzione alla concretezza psico-fisica del bambino evitando di indurre automatismi nelle sue manifestazioni psico-motorie. Recentemente, Giacomo Cives (“L’ antropologo Giuseppe Sergi e il suo giudizio sulla Montessori”) ha ribadito l’ attenzione favorevole e l’ apprezzamento positivo di Giuseppe Sergi per il metodo delle Case dei Bambini, a conferma della continuità e della sintonia della sperimentazione di una pedagogista, la Montessori, cresciuta proprio nel contesto positivista italiano. 61 / Gabriele Buccola Gabriele Buccola è certamente uno dei più significativi precursori della psicologia sperimentale delle sensazioni e dei processi mnemonici in Italia. Il primo tra gli italiani ad essere veramente psicologo,anche a livello internazionale (S. Marhaba). “L’ attività psichica – scrisse – è una proprietà generale la quale s’ inizia nei protozoi e poco a poco e lentamente attinge il più alto grado di sviluppo nei corpuscoli dei centri cerebrali dell’ uomo che si possono dire vere cellule intellettive”. Il suo nome è associato a F. Donders negli studi pionieristici della cronometria mentale, la scienza che misura i tempi (di reazione) delle operazioni mentali con adeguati test. Vi è chi ha proposto il cronoscopio di Hipp, illustrato nel Catalogo di Zimmermann, come strumento simbolico ed emblematico delle ricerche di cui Buccola fornì relazioni in vari suoi articoli, tra cui “Sulle modificazioni sperimentali della sensibilità e sulle teorie relative. Nota preventiva” (1880, in collaborazione con G. Seppilli), “Sulla relazione del tempo fisiologico col senso locale cutaneo” (1881), “Sulla misura del tempo negli atti psichici elementari. Studi ed esperienze” (1881), “La durata del discernimento e della determinazione volitiva” (1881-82), “Sul tempo di reazione in un caso di demenza paralitica” (1881), “La durata delle percezioni complesse” (1882, in collaborazione con E. Morselli), “La riproduzione delle percezioni di movimento nello spazio visivo. Ricerche sperimentali” (1881), “La riproduzione delle percezioni di movimento nello spazio tattile. Ricerche sperimentali” (1881-82), “Le recenti esperienze sul tempo delle sensazioni olfattive” (1883), “La legge del tempo nei fenomeni del pensiero. Saggio di psicologia sperimentale” (1883-84), “Il tempo del processo psichico nella estesiometria tattile. Nuove ricerche sul senso locale cutaneo” (1883) e “Sul tempo di percezione dei colori. Ricerche sperimentali” (1883-84, in collaborazione con G. Bordoni-Uffreduzzi). L’ impiego del cronoscopio di Hipp per misurare la durata del processo di discriminazione nella percezione di suoni e colori, costituì un contributo di tutto rispetto nella fisiologia dell’ attenzione nell’ uomo sano o alienato. Nella “Rivista sperimentale di freniatria e di medicina legale in relazione con l’ antropologia e le scienze giuridiche e sociali” (fondata da Carlo Livi nel 1875 e diretta da Augusto Tamburini dal 1877), a rappresentare per varii decenni la psichiatria italiana anche all’ estero, apparvero proprio gli studi di Buccola sulla psicometria, accanto a quelli, non meno rilevanti, di Golgi sull’ istologia del sistema nervoso e di Luciani sulle funzioni del cervello. Dell’ importanza dell’ apporto di Buccola hanno trattato G. Sprini, C. Inguglia e S. Untorella ne “Il contributo di Gabriele Buccola alla nascita della psicologia scientifica in Italia” (“Gabriele Buccola’s contribution in the rise of scientific psychology in Italy, 2003, nella Rivista “Teorie & Modelli”). Già Riccardo Luccio e Caterina Primi si erano occupati del “Positivismo ed evoluzionismo nel pensiero di Gabriele Buccola e Francesco De Sarlo”, nel volume dedicato a “La psicologia in Italia: una storia in corso” (1999). La “biografia intellettuale” di Buccola è proposta da Riccardo Luccio in un saggio a più voci su “La Psicologia in Italia. I protagonisti e i problemi scientifici, filosofici e istituzionali (1870-1945)” a cura di Guido Cimino e Nino Dazzi (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), ove proprio le vicende della psicologia italiana, dalle origini, marcate dal positivismo evoluzionistico, alla “querelle” tra psicologiscienziati e psicologi-filosofi, sino al clima asfittico del neo-idealismo, vengono ricostruite attraverso le “biografie intellettuali”, i percorsi personali, le sfide problematiche dei Sergi, Vignoli, Sighele, Ferrari, De Sanctis, Colucci, Kiesow, De Sarlo, Aliotta, Bonaventura … e dei numerosi altri protagonisti della storia della psicologia scientifica in Italia. Gabriele Buccola era nato a Mezzojuso (Palermo) nel 1854, e sarebbe morto a Torino nel 1885, un anno dopo che, in Italia, era stato tradotto il “Trattato di psichiatria di Emil Kraepelin”, con una introduzione di Augusto Tamburini, ed Enrico Morselli stava diffondendo il “Manuale di semiotica delle malattie mentali”. Laureatosi in Medicina a Palermo, nel 1879, Buccola approfondì la sua formazione psichiatrica con lo stesso Tamburini, nell’ Istituto freniatrico di Reggio Emilia. Le ricerche da lui avviate nella psicologia sperimentale sarebbero confluite nel saggio “La legge del tempo nei fenomeni del pensiero”, pubblicata nel 1883 a Torino. Lì, si sottolineava l’ autonomia metodologica della psicologia. L’ anno prima aveva dato alle stampe “La dottrina dell’ eredità e i fenomeni psicologici” (1882). Nel 1881 era divenuto assistente di Enrico Morselli nell’ Università di Torino. Ottenne, poi, la libera docenza e decise di trasferirsi a Monaco, ma la morte lo colse improvvisamente e prematuramente. Nel 1880 (proprio mentre Cesare Lombroso fondava l’ “Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale per servire allo studio dell’ uomo alienato e delinquente”) Buccola aveva prodotto il saggio “Sulle idee fisse e sulle loro condizioni fisiopatologiche”, nel quale adottava la dottrina herbartiana del conflitto tra le idee per imporsi nella coscienza. Herbart, ai primi dell’ Ottocento, aveva elaborato il concetto di “quantità di appercezione”, per intendere il complesso delle impressioni passate che contribuiscono all’ elaborazione della nuova esperienza. Herbart fu tra coloro – come Locke, Hartley, Hume, Priestley, i due Mill, Brown, Ebbinghaus, Müller, Ziehen – che delinearono una sistematica psicologia dell’ associazione. In essa avrebbero trovato le loro radici la psicologia dell’ apprendimento e della memoria. D’ altra parte, proprio Herbart, analizzando quantitativamente le condizioni in cui si dà la totale rimozione di una rappresentazione – alla quale subentrerebbe, perciò, uno “stato affettivo” autonomo aveva tracciato la pista della psicologia del profondo. E se formulò, per primo, con Locke, la dottrina dell’ autocoscienza – ovvero dell’ attitudine del singolo a considerarsi, comunque e sempre, uno e identico nei confronti delle proprie molteplici condizioni - non ignorò che parti del “se stesso” possano essere, anche temporaneamente, escluse dalla memoria cosciente, e perciò “rimosse”. Con Leibniz, aveva, per primo, concepito quella “soglia assoluta” al di sotto della quale l’ organismo non reagisce a stimoli di minima intensità. Costruendo una teoria della personalità secondo la quale nel formare l’ individuo concorrono tanto l’ ereditarietà quanto la memoria come acquisizione progressiva di nozioni e criteri di valutazione, Wellek, Heiss, Thomae e altri, avrebbero pensato proprio alla “massa d’ appercezione” coniata da Herbart. Costui, aveva elaborato, tra Sette e Ottocento, un realismo pluralistico secondo il quale – al di là dell’ esperienza – vi è una molteplicità di “reali”, ciascuno semplice e immutabile nella propria essenza. Nell’ “Introduzione alla filosofia” (1813) scriveva che “gli enti < i reali > conservano se stessi, ognuno nel suo proprio interno, e secondo la loro propria qualità contro il perturbamento che avverrebbe quando si potesse superare l’ opposizione dei più”. I “reali herbartiani” permangono identici a se stessi e sono affatto privi di determinazioni. Invece non sono privi di attività o passività nei confronti degli altri, al contrario delle monadi di Leibniz. Lo esige la realtà quotidianamente esperita dagli organi di senso: essa mostra continui mutamenti e molteplici stati. Ogni reale è, dunque, in relazione con gli altri. Purtuttavia non subisce alcuna modificazione essenziale. Anche l’ anima è un reale ed è soggetta all’ azione di altri reali. La sua risposta consiste in atti di autoconservazione: tale è la natura e l’ origine delle percezioni-rappresentazioni. Queste ultime si eliminano o si rafforzano reciprocamente, a seconda che si oppongano o si unifichino. Ne nascono gli stati emotivi, gli atti volitivi e le altre facoltà mentali. E le facoltà non sono innate. Esse derivano, invece, dal meccanico gioco delle rappresentazioni. Un gioco che può esser espresso secondo leggi matematiche. Le rappresentazioni si organizzano secondo “masse”. Se le “masse” sono coese, ne scaturiscono intelletto e ragione. Il dominio di una massa rappresentativa sulle altre, è all’ origine del carattere di ciascuno. E l’ io non è altro che una “appercezione” nella quale una “massa” di rappresentazioni attrae quelle affini. Guido Cimino (nel recente saggio su “Origine e sviluppi della psicologia italiana”) d’ intesa con G. P. Lombardo e R. Foschi (“La psicologia italiana e i principali orientamenti filosofici e scientifici nell’ Italia della prima metà del Novecento”, 1997) restituisce Buccola alla prima fase della psicologia italiana, cui sarebbe seguita una seconda, contraddistinta dal superamento del positivismo ortodosso. R. Luccio (“Gabriele Buccola e il positivismo evoluzionista in Italia”) ha ricondotto a Mantegazza, Haeckel e Spencer, la consapevolezza di Buccola che i fatti psichici sono il risultato di una complessa evoluzione materiale dall’ omogeneo all’ eterogeneo. Scrive Cimino che, in lui, “La convinzione “ontologica” di una riduzione dello psichico al biologico e la teoria dell’ ereditarietà delle caratteristiche psichiche (dall’ istinto all’ intelligenza) si accompagnano, sul piano “metodologico” al tema positivistico del primato del “fatto”, della sacralità del “fenomeno”. L’ esperienza ci pone di fronte i fenomeni, siano essi fisici o psichici, e, al di là del loro statuto ontologico, compito dello scienziato è quello di osservare e sperimentare per arrivare a scoprire tramite induzione le regolarità o leggi che li governano”. E a conferma di tali affermazioni, Cimino ricorda quanto sostiene Buccola ne “La legge del tempo nei fenomeni del pensiero”: “La vecchia metafisica va in traccia di “noumeni” senz’ avvedersi che l’ universo è una pura fenomenalità che il pensiero non può sorvolare sulle apparenze concrete se non col rischio di cadere nell’ astratto, che i limiti infine della conoscenza sono i limiti della induzione, e questa non può darci nulla al di là della vita fenomenica … Ciò che costituisce un dato sicuro di cognizione, con diritto scientifico indipendente da qualunque principio o idea, è il fenomeno. Il fenomeno, che sembra qualcosa di fluttuante nella realtà, può fornirci delle nozioni e delle leggi stabilmente fisse: anzi, come osserva un eminente pensatore {Ardigò}, non si dà altra natura di dati conoscitivi, altra stabilità di princìpi scientifici, fuori dell’ empiria … La scienza non si dimezza … riducendola al mero fatto”.