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Indice
Scambi di cortesie tra gli abitanti
abitanti di una
una Valle rude e
operosa ………...…………………………..pag. 3
24 giugno: S. Giovanni Battista ……………. ..…pag. 6
Marmentino e le cime del mistero …………… .…..pag. 8
Esposti a Brera i capolavori gardonese del Moretto ......pag.
......pag. 10
Quando la giovane Maria incontrò la Beata Vergine.. pag. 12
Un “tesoro” nascosto dietro il muro ….…………...pag. 15
L’ospitalità medioevale lungo le strade montane della nostra
Valle ………………………………….….pag. 17
“Settant’anni fa ero sull’ “Alvise da Mosto”……….pag. 20
Alla scoperta di Lazzarino Cominazzo ……………pag. 22
Cos’è Volere ……………………………… pag. 28
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SCAMBI DI CORTESIE TRA GLI ABITANTI DI
UNA VALLE RUDE E OPEROSA
L
a Valtrompia è la meno estesa delle tre Valli che sono comprese nel
territorio montano della provincia di Brescia: con i suoi 380 kmq.
Di superficie, si incunea tra la Valsabbia, la Valcamonica e il bacino
del Sebino. Ne fa parte amministrativa anche una delle testate della camuna
Valle della Grigna, affluente di sinistra dell’Oglio, suddivisa tra i comuni di
Bovegno e di Collio. E’ la più vicina alla città capoluogo, su cui si apre,s ia dal
punto di vista geografico e storico, che da quello economico e culturale.
Il passaggio – molto vario – sale dai 225 m s.l.m di Villa Carcina ai 2217 m
dei Monti Colombine. La percorre per una quarantina di chilometri il fiume
Mella, che attraversa terre caratterizzate già da secoli dall’industriosità
siderurgica e meccanica: le armi valtrumpline sono da tempo note in tutto il
mondo.
Anche in Valtrompia le varie comunità si sono scambiate nel passare dei
secoli i soprannomi etnici (scotöm), indici di antichi contrasti, di gelosie
locali, basati su aspetti della vita di tutti i giorni, fatti di cronaca spicciola,
abitudini morali e materiali, attitudini particolari, caricati di maliziosa
attenzione, soprattutto ai risvolti negativi, quando il nome di una località
poteva prestarsi a sarcastici equivoci, per l’assonanza con termini irriguardosi.
Provenendo da Brescia, a Carcina, si incontrava il confine giuridico della
comunità valligiana: vi soggiornavano quindi numerose guardie, con relative
carceri. Di qui il soprannome di GIUSTISSIA. Di là dal Mella stavano i
MACC (matti) di Cailina, i VILANCH di Villa (accostamento piuttosto
ovvio) e i SÜCU’ (zucconi) di Cogozzo: ora tutti aggregati nell’unico comune
di Villa Carcina. Poco più a Nord si apre la (un tempo) isolata valle di
Lumezzane, la cui tipica parlata ti tipo arcaico non poteva non suggerire
accostamenti realisticamente e rusticamente pittoreschi.
Ai poveri abitanti della frazione Pieve si rinfacciava di dover ricorrere – se
volevano fumare la pipa – ai mozziconi buttati dai fumatori più fortunati
(SGARIABAGOI: da sgarià = raschiare + bàgoi = mozziconi di sigaro);
oppure di doversi accontentare degli avanzi dei paesi altrui (LÈCAPIACC =
leccapiatti).
Ai paesani di Gazzolo, in quanto per lo più mandriani (TÈTAACHE =
succhia mucche), non si poteva rinfacciare la fame per scarsità di cibo; e così
si preferiva rinfacciare la mancata fedeltà alla parola data (CHEI DEI
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GAZÖL PRIMA I LA DA’ E DOPO I LA ÖL = quelli di Gazzolo prima
danno e poi rivogliono).
In un’altra parlata mancando la rima, chissà che difetto si sarebbero visti
attribuire.
La frazione di Valle, caratterizzata dal trovarsi in una zona poco soleggiata,
era abitata dagli OMBREACH, da OMBRIA = ombra; ma con facile e
malizioso accostamento al termine ÈMBRÉACH = ubriachi; detti anche
SÖPELOCC, la cui unica ricchezza si sarebbe limitata ad un paio di SÖPEI
= zoccoli.
A Piatucco, abitava gente più benestante, che ha costruito molte delle officine
di cui Lumezzane va famosa: meritato lo “scotöm” di GAI = galli vanitosi. A
Fontana, la cui disponibilità idrica è già nel toponimo, non potevano che
abitare i NEDROCC = anitre; a Renzo, situato ai piedi del roccioso monte
Ladino, abitavano i CORNAROI = pietrosi; da CORNA = pietra, roccia.
A. S. Sebastiano, paese abbastanza prospero, abitavano i SPACU’ = spacconi,
a S. Apollonio i DOPE = doppi, falsi; a Mosniga i LUF = lupi,
evidentemente per una fame cronica; a Premiano i BREGNOCC, termine
spregiativo per indicare i contadini, qualcosa di simile all’italiano bifolchi.
Tornati sul fondo della Valle, a Sarezzo troviamo gli ÈMPUSTUR = bugiardi
e maliziosi; a Noboli i MARU’, dal nome del tipo di castagna ivi coltivato ed
apprezzato in tutto il territorio nazionale.
Ad Inzino, troviamo i CAICÌ, noti per l’antica produzione delle “caece”=
chiavarde, grossi chiodi lunghi anche un metro, utilizzati in carpenteria. I
MAGNÖI, abitanti di Magno sopra Inzino, con scontato gioco di parole,
venivano chiamati MALÉGN = maligni, i BABEI di Brozzo e i GOS di
Lodrino scontavano probabilmente carenze alimentari e di lai nell’acqua delle
loro sorgenti (= Babbei e Gozzi). A Cimmo, zona ricca d’acque, alle falde del
Monte Gölem (Il Monte Guglielmo degli acculturati) vivevano i MARSÙ =
marci come pochi; a Tavernole, paese noto anche per la produzione ed il
commercio del carbone di legna, abbiamo i BRASCHI’ = carbonai.
Marmentino non solo doveva sopportare da parte dei dotti un curioso e
pedestre riferimento al carcere Marmentino di Roma, ma dai con valligiani
veniva gratificato dall’accostamento al termine MARENDE, nel significato di
“facile da gabbare”.
A Lavone abitavano i PANADINE da “panada”, umile minestra di pane
cotto nell’acqua; a Pezzaze i PATATE, detti anche PORSEI per il diffuso
allevamento di maiali che pare circolassero liberamente per le strade del
paese. (Non c’è Valle che non gratifichi un suo paese con questo
soprannome, con una scusa o con un’altra).
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A Pezzoro (Pédor) troviamo i TOR, per il carattere fiero e rude non meno
che per la vicinanza fonetica col toponimo. A Magno di Bovegno i
BOSIADER = bugiardi; a Irma i RAANEI = rapanelli; a Bovegno (come a
Cimmo) i MARSU’ oppure i BO’ = buoi; a Collio le FURCHE = con
sottinteso tutto un programma di vita (Non per nulla su una cascina alla
periferia sud di Brescia figurava una piccola lapide con scritto: “Malghesi di
Collio / qui non ne voglio”).
Bisogna però anche ricordare che una delle più antiche tipografie bresciane
ebbe sede a Collio, alla faccia dei maliziosi convalligiani.
Gli abitanti di S. Colombano, alla testata della Valle del Mella, per la loro
litigiosità , ricorrevano tanto spesso ai tribunali, da acquisire una non comune
competenza in campo di codici, da venire chiamati AOCACC = avvocati. Al
confine con il territorio del valsabbino comune di Bagolino si trovava una
casa chiamata CASA LITE, nome significativo, sempre che non si tratti di
una toscanizzazione di un nome con tutt’altro significato.
Nel cuore della Valtrompia c’è infine la capita morale, Gardone, la cui
produzione di armi è fin troppo nota.
I gardonesi venivano chiamati BALU’ = bugiardi, fanfaroni. L’origine di tale
“scotöm” è abbastanza chiara, se si pensa che Gardone nel breve volger di
secoli, da frazione del ben più antico Inzino, non solo se lo inglobò, ma
divenne la “principale terra della Valle”. Farsi ricchi e rinomati induce ad un
po’ di euforia, a manifestazioni di spacconeria, tali da provocare invidia e
gelosia in chi non partecipa in simile fortuna.
Quel soprannome nel corso dei tempi, i gardonesi se lo son dovuto
guadagnare e mantenere giorno dopo giorno
Pierantonio Bolognini
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24 GIUGNO : S. GIOVANNI BATTISTA
L
a liturgia della chiesa latina festeggia in questa data, che cade nei
giorni del solstizio d’estate e che segnava nei tempi passati l’inizio della
mietitura , la ricorrenza della natività di S. Giovanni Battista. E’ una festa
molto antica, già ricordata da Agostino e collegata direttamente al Natale
Romano. Come scrive Luca nel suo Vangelo (I,36), infatti, la Vergine Maria
andò a visitare Elisabetta, futura madre di Giovanni, che si trovava al sesto
mese di gravidanza , fu semplice fissare quindi la data della nascita del
messaggero che preparerà la tua via davanti a te sei mesi prima della nascita
di Cristo, alle Calende di luglio.
Nella tradizione greca i due solstizi erano chiamati “porte” ( porta degli dei
quello invernale e porta degli uomini quello estivo) erano quindi simboli di
passaggio che fungevano da accesso ad un mondo al di fuori dello spazio e
del tempo. Nella tradizione latina custode delle due porte era il misterioso
Giano bifronte signore dell’eternità che venne interpretato da Crisitianesimo
come l’immagine profetica del Cristo. Giano era festeggiato nei due solstizi
che divennero poi coll’avvento della nuova religione le ricorrenze di due
Giovanni (Evangelista e Battista).
Le usanze legate alla festa del Battista hanno da sempre la funzione di
proteggere il Creato, i fuochi tradizionalmente accesi nella notte della vigilia
sono simboli del sole solstiziale. Ardono per scacciare demoni, streghe e
tutto quanto di maligno popoli la nostra terra per combattere e prevenire le
malattie.
Nella “magica notte” gruppi di streghe volano verso il loro grande incontro,
volano verso il mitico noce di Benevento dove si siederanno a consiglio per
stabilire nuovi mali per il mondo. Per combattere questo pericolo ci si
affiderà alle acque e alle erbe miracolose, consacrate al Santo.
L’acqua (un tempo usata da Giovanni per battezzare) acquista grandissima
importanza fino a divenire magica. Si credeva infatti che la rugiada caduta la
notte che precede la festa del Santo ( per gli inglesi la “Notte di mezza
estate”) avesse poteri eccezionali e che fosse opportuno trascorrere una
qualche ora nei campi, all’aperto per poterne acquistare i benefici. La rugiada
e l’erba da essa inumidita proteggevano il bestiame. Gli indumenti (specie
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quelli invernali) e la biancheria la notte di S. Giovanni erano stesi nei prati
nella convinzione che sarebbero stati preservati dalle tarme nel corso
dell’anno.
Nella notte si raccoglievano le noci ed i loro malli per preparare uno squisito
nocino. Mentre molte erbe medicinali – negli orti l’aglio e le cipolle potevano essere raccolte solo dopo esser state bagnate dalla rugiada di S.
Giovanni. Le erbe di S. Giovanni raccolte in mazzetto si ponevano sotto il
guanciale nella convinzione che quel che si sarebbe visto la notte in sogno, si
sarebbe verificato durante l’anno.
Al profondo significato solstiziale della festa era anche legata l’abitudine di
trarre auspici sulla vita e sull’amore e non mancavano particolari ritualità (
non sempre ben accolte dagli antichi predicatori) legate alla fertilità
Pierantonio Bolognini
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MARMENTINO E LE CIME DEL MISTERO
F
ra le località valtrumpline che hanno interessato i cultori del
mistero per le loro antiche tradizioni, un posto di tutto rispetto meritano
senza dubbio le due cime che pur trovandosi nel territorio comunale di
Marmentino, sovrastano l’antico centro di Tavernole.
Si tratta del Castello dell’Asino (1152 m slm) e del Castello della Pena (1130
slm) la cui vetta è sovrastata da una grande croce installata da alcuni amici di
Cimmoin ricordo dei caduti della montagna.
Per ognuno dei due picchi la tradizione orale riferisce ricordi e leggende che
perdono la loro origine nella notte dei tempi, in riti magico-satanici che solo
l’aiuto della fantasia riporta alla memoria.
Il Castello dell’Asino ( castello nel gergo popolare identifica anche le
prominenze rocciose) trae il suo nome da antichissime cerimonie che,
presumibilmente, come ricorda lo storiografo gardonese Marco Cominassi
nelle sue “Note inedite sulla Valtrompia” i primi cristiani svolgevano nel
periodo natalizio. In folti gruppi si riunivano su questa cima dove bardatisi
con maschere a sembianza d’asino, celebravano la nascita del Salvatore
ricordando il paziente animale che lo aveva riscaldato nella mangiatoia. Il
secondo toponimo si rifà, sempre secondo questa tradizione , ad una
discutibilissima etimologia secondo la quale Marmentino avrebbe preso
nome da un carcere Mamertino, omonimo del più famoso che, al tempo dei
romani, si sarebbe trovato nella zona. I più irrequieti fra i “mitici”
condannati al lavoro nelle miniere dell’alta Valle, come estrema punizione,
sarebbero stati portati in una grotta esistente nei pressi della cima dove, legati
a grossi anelli di ferro, avrebbero atteso la morte per inedia.
Retaggio di tradizioni medievali, queste cime vengono presentate come
dimora abituale di streghe e stregoni.
Sul Castello della Pena , conosciuto dai marmentinesi anche come Corna
della Stria vivevano le streghe che nelle loro uscite danneggiavano con
terribili sortilegi quanti non mostravano il dovuto rispetto mentre
favorivano coloro che si mostravano devoti ai poteri maligni. Queste figure
potevano presentarsi ai poveri pastori del tempo in sembianze diverse : o
come povere e brutte vecchie mendicanti oppure come bellissime fanciulle
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che cercavano però di non mostrare i loro piedi di capra. Le streghe si
radunavano per i loro “sabba” periodicamente al Gaver ( località valsabbina)
e risolvevano i problemi di spostamento non con le abituali “scope volanti”,
ma con dei balzi giganteschi che permettevano loro di superare intere vallate.
L’ultima di queste streghe , raccontano, fu cacciata per mezzo di una solenne
processione alla quale partecipò l’intera popolazione marmentinese.
All’avvicinarsi dei sacri inni, la strega spiccò un vertiginoso volo che la portò
fino al Monte Baldo e di lei non restarono che le impronte incise nella roccia
della caverna.
Forse in queste storie non vi sarà molto di vero ( e probabilmente ve ne sarà
molto poco), ma sicuramente, come sostiene don Amatore Guerini in un
suo scritto su Tavernole, queste leggende sono e restano l’espressione
dell’animo popolare che, in queste vicende tramandate a voce, di generazione
in generazione, ha conservato tradizioni e insegnamenti morali a cui ognuno
ha aggiunto qualcosa di suo.
Pierantonio Bolognini
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ESPOSTI A BRERA I CAPOLAVORI
GARDONESI DEL MORETTO
Si tratta di quattro dipinti su tavola e di una grande pala
centinata, eseguiti dal Bonvicino per la Basilica di Santa
Maria degli Angeli
D
opo un attento lavoro di restauro sono state, tempo fa, riaperte
al pubblico tre sale “napoleoniche” della celebre pinacoteca milanese di
Brera. Si tratta della XIII-XIV-XV nelle quali sono nuovamente visibili
alcune tra le più nobili opere che il Bramantino, il Luini, il Ferrari, il Lotto ,
il Moroni, il Savoldo, il Romanino – si citano questi nomi nell’ordine
nell’ordine suggerito dalla memoria – eseguono per contrassegnare con
illuminanti esempi della loro migliore maniera il Rinascimento pittorico
lombardo. Ma soprattutto su 4 tavole e una grande pala centinata , completate
dal Moretto per la Basilica minore di S. Maria degli Angeli in Gardone si
soffermano le presenti annotazioni. Le quattro tavolette sono compiute ad
opera di Alessandro Bonvicino intorno al 1529-1530 e fanno parte di un
polittico , concepito a sei dipinti , ordinati in due trittici e disposti nei
comparti superiori ed inferiori di una cornice finemente decorata, tuttora
presente in forma tipologicamente quasi inalterata , nella basilica gardonese.
Agli inizi dell’Ottocento, al tempo delle soppressioni napoleoniche – che
spesso si configurano come veri e propri atti di sacrilega rapina - vengono
sottratte al patrimonio artistico della chiesa conventuale gardonese tutte le
tavole del polittico e quattro fra queste sono destinate a Brera. Nella sala
XIV della pinacoteca milanese, si ripropongono ora all’attenzione del
visitatore, nella loro esatta successione, le tre tavole dell’ordine superiore: a
sinistra, i santi Marco e Girolamo; al centro e su tavola di dimensioni
maggiori, la Vergine Assunta ; a destra, le sante Chiara d’Assisi e Caterina
d’Alessandria. Fuori posto, nella collocazione presentata a Brera , è la quarta
tavola , raffigurante S. Francesco che, nel polittico originale, occupa il
comparto centrale del trittico inferiore. In pinacoteca, invece, il dipinto del
Serafico d’Assisi è sistemato sopra - si starebbe per scrivere sulla testa – della
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Vergine. Poiché lo spazio lo consentiva, si sarebbe fatta la stessa fatica
collocando, più opportunamente, la tavoletta ai piedi dell’Assunta.
Sarebbe stata così meglio richiamata la volontà della committenza - i
Minoriti gardonese vollero infatti il loro Fondatore esattamente sotto
l’Assunta affiancato a sinistra da Antonio da Padova e Bonaventura, a
destra a Bernardino da Siena e Lodovico da Tolosa, tutti santi francescani –
e se è lecito così esprimersi, si sarebbe anche rispettata la gerarchia celeste
che, secondo i bene informati è piuttosto rigorosa anche in Cielo. Quanto
alle due tavolette mancanti a completare l’accennato trittico inferiore, esse
sono ancora oggi custodite dal Museo parigino del Louvre.
Il celebre polittico gardonese si completava poi con due volute di raccordo
tra la tavola dell’Assunta e le due laterali dell’ordine superiore. In questi
“gattoni” rimasti fortunatamente a Gardone, il Moretto dipinge due stupendi
angeli in volo .
Chi entri nella sala di Brera, osserva accanto alle quattro nominate tavolette,
una gran pala centinata , di mano del Bonvicino , raffigurante in alto la
Madonna con il Bambino e nell’ordine inferiore, da sinistra, i santi Girolamo
Francesco e Antonio Abate. Committenti il dipinto sono probabilmente gli
Avogadro che lo vogliono collocato nella cappella di famiglia della basilica
gardonese.
Allo stato attuale delle ricerche , non esistono riferimenti documentali che
permettano di datare con precisione quest’opera , ma recentemente Sandro
Guerrini si è indotto a scrivere che il grande olio su tela possa collocarsi tra il
1557 ed il 1559. Il dipinto è comunque già in sede nel 1545 poiché Giovan
Battista Moroni , allievo del Moretto accompagnando in Valle Trompia il
Maestro che deve consegnare la pala maggiore della parrocchiale di Sarezzo,
lo vede e ne trae i due fedelissimi disegni di Girolamo ed Antonio Abate
che sono di mano così sicura e precisa da essere stati a lungo attribuiti allo
stesso Moretto.
Nel 1808 anche questa pala prende la via del forzato esilio milanese.
Francesco Trovati
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QUANDO LA GIOVANE MARIA INCONTRO’ LA
BEATA VERGINE …
L
a liturgia cattolica dedica il mese di maggio al culto della Beata
Vergine Maria. In Valtrompia però il culto della Madonna si accende ancor
di più , in questo periodo, per il ricordo di un grande evento che ha segnato la
storia religiosa della nostra Valle. Il 22 maggio è stato celebrato infatti il 484°
anniversario dell’apparizione della Madonna nell’aprica località sita tra
Bovegno e Pezzaze, ove ora sorge il Santuario della Beata Vergine della
Misericordia. Don Omobono Piotti in un suo scritto pubblicato a Brescia
nel 1913 appoggiandosi alle cronache di Graziadio da Collio rigorosa nella
sua semplicità ed elencando una serie di notizie provenienti dalle fonti
storiche locali del tempo, ci ricorda la miracolosa apparizione.
Nel corso della storia, le apparizioni della Vergine hanno sempre segnato
periodi tormentati e quegli anni in Valle non erano sicuramente da meno . Il
diffondersi dell’eresia luterana
importata dalle maestranze tedesche
impegnate nei lavori minerari ed in special modo nell’eliminazione dell’acqua
che si accumulava sul fondo delle gallerie, si accompagnava nel territorio
bresciano alla invasione dei Lanzichenecchi del Frundesbrg ed agli effetti di
una spaventosa siccità che aveva colpito l’anno precedente le nostre terre
causando carestie che affamavano popolazioni ed eserciti. In questa
drammatica cornice , il 14 maggio del 1527 una giovane di Predondo di
Bovegno, Maria Amadini , appartenente ad una famiglia di miserevoli
condizioni ,iniziò la sua meravigliosa avventura.
Spinta dalla fame, sua e dei familiari, Maria si era recata nel bosco per
raccogliere un fascio di legna da scambiare con qualche genere alimentare.
Tagliano, lumgo la strada che porta a Lavone , i rami più bassi di una pianta,
dal “terreno saltò fuori a guisa di una fonte che ivi scaturisse grande
quantità di monete d’argento”. La giovane riempì il grembiule con questo
tesoro e corse in paese. Questo che ai popolani apparve un miracolo, non fu
però che il prologo a fatti ben più miracolosi. Otto giorni dopo, il 22 maggio,
mentre Maria si trovava sul luogo del ritrovamento raccolta in preghiera udì
una voce chiamarla per nome. Alzati gli occhi si trovò dinanzi una matrona
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vestita con un grande manto monacale e circonfusa da tanto splendore che la
giovane, quando racconterà ad altri l’apparizione , sbiancando nel volto,
resterà quasi muta al ricordo.
Molte cose la Madonna disse all’esterefatta giovinetta invitandola, a
conclusione, ad impegnare tutti i bovegnesi nella costruzione , in quel luogo,
di un santuario testimonianza di fede e remissione dei tanti peccati dal cui
castigo la Madonna aveva salvato i trumplini. Il desiderio della Vergine venne
subito esaudito: in pochi giorni fu decisa la costruzione del tempio su
progetto di Agostino Castelli, famoso architetto bresciano del tempo. Al suo
finanziamento pensarono la Amadini, con quanto ricavato dal tesoro, e le
frotte di pellegrini che
venivano anche da
paesi
lontani
ad
invocare la Madonna le
cui risposte furono
grazie straordinarie. L’8
luglio 1527
Mattia
Ugoni, per il vescovo
Paolo Zane concedette
licenza d’usare un
“altare portatile” fino
a che si avanzasse la
fabbrica e che fosse a
compimento ridotta.
Questo privilegio, che
potrebbe
parere
marginale,
prova
invece che l’autorità
ecclesiastica s’era fatta
la più seria convinzione
sulla realtà del fatto
prodigioso.
Il santuario venne
costruito a tempo di
primato e continui
furono gli ampliamenti
ed
abbellimenti
successivi: nel 1573
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venne edificato il campanile, nel 1583 veniva posta la cancellata di ferro e nel
1682 la chiesa era decorata con nuove opere pittoriche per iniziativa
dell’arciprete Domenico Filippini.
Un tempio maestoso, gli affreschi del Trainini, opere d’intarsio ligneo di raro
effetto e dipinti d’autori di larga famaa sono ancor oggi a testimonianza della
meravigliosa avventura di una giovinetta bovegnese che una mattina mentre
tagliava alcuni rami ….
Pierantonio
Bolognini
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UN “TESORO” NASCOSTO DIETRO IL MURO
Scoperto casualmente a Bovegno il più antico testo in
dialetto bresciano: è del 1355
Nel corso del rifacimento
di un vecchio edificio,
alcuni anni fa, a Bovegno
venne ritrovato fra un
muro ed un pilastro di
legno, un libretto in
pergamena di piccole
dimensioni unitamente ad
un
piccolo
foglio
membranaceo che in dieci
righe conserva una procura
redatta
dal
notaio
Bertolino Bevolchini ( la
cui attività professionale è
documentata in quel di
Bovegno tra il 1347 ed il
1358) in data 10 maggio
1355.
Di grande interesse il
libretto
presentato
all’attenzione dei cittadini
gardonese da Ornello
Valetti,
direttore
dell’archivio storico di
Brescia, in una serata dedicata alla tradizioni popolari trumpline.
Lo scritto di sette secoli fa è fortunatamente giunto nelle mani di Luisa Bezzi
Martini, dell’Archivio di Stato di Brescia. L’esperta curando la trascrizione
della scrittura gotica posata delle ventidue paginette e la pubblicazione delle
stesse nel volume Miscellanea di Studi in onore di Ugo Vaglia edito
dall’Ateneo di Brescia, ha consentito agli studiosi, esperti di antichi dialetti e
di letteratura religiosa, di giungere ad una piena identificazione e
comprensione del testo. Il dotto contributo pubblicato nel 1989 nella “
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Rivista italiana di dialettologia” dalla Tomasoni dell’Università di Pavia,
studiosa di letterature dialettali, ci ha consentito d’apprendere che le pagine
bovegnesi sono una traduzione in dialetto bresciano del poemetto di
Bonvesin della Riva, frate laico dell’ordine degli Umiliati, vissuto a Milano fra
il 1240 ed il 1313.
Il poemetto redatto con finalità edificanti, faceva parte d’una trilogia in
volgare milanese intitolata Libro delle tre scritture e composta dalla “Scrittura
Nera” (le pene dell’inferno), dalla “Scrittura Rossa” (Passione di Gesù) e dalla
“Scrittura Dorata” (delizie del Paradiso). L’opera è uno dei tanti poemi nel
cui ambito sarebbe poi maturata la Divina Commedia dell’Alighieri
caratterizzata da una successione schematica diversa e nella quale la “Scrittura
Rossa” cantica dedicata alla “Passione di Cristo” è sostituita dalla cantica
dedicata al “Purgatorio” la cui dottrina fu riconosciuta dal Concilio di Lione
del 1274.
Nella sua presentazione il dottor Valetti ha ricordato come nel ‘300 i testi
devozionali trovassero una larga diffusione nel popolo soprattutto quando la
loro struttura era di tipo drammatico recitabile come un testo teatrale (laudi
drammatiche e sacre rappresentazioni). Queste composizioni si prefiggevano
la divulgazione, fra i fedeli, dei testi evangelici o liturgici che ben difficilmente
sarebbero stati accessibili a popolazioni in gran parte analfabete.
La “Scrittura Rossa” giunse in quei lontani anni anche a Bovegno dove si
provvide probabilmente a tradurla in lingua accessibile ai fedeli del luogo,
oppure in terra trumplina giunse già tradotta in un’altra area bresciana.
La forma dialettale e la scrittura del trecento sono ovviamente molto diverse
dalle attuali, ma se lette correttamente sono comprensibili ai veri conoscitori
del dialetto locale ( sempre in minor numero soprattutto fra quelli che si
ritengono esperti).
Le osservazioni della Tomasoni ci inducono a credere che il testo bovegnese
venne redatto in loco nella prima metà del trecentoe poiché osserva ancora
Valetti, il più antico documento scritto in dialetto bresciano la Passio Christi
riscoperta da Giuseppe Monelli in un codice di Disciplinati, risale alla fine del
‘300- inizi del ‘400, la trascrizione valtrumplina della “Scrittura Rossa” può
essere ritenuta la testimonianza più antica che oggi si conosca del dialetto
bresciano.
Un onore che Bovegno “patria” ed ultima dimora di Angelo Canossi merita
sicuramente.
Pierantonio Bolognini
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L’OSPITALITA’
L’OSPITALITA’ MEDIEVALE LUNGO LE
STRADE MONTANE DELLA NOSTRA VALLE
La rilettura di un raro e vecchio opuscolo “La chiesa di San Zenone”
pubblicato a Brescia nel 1905 dal Pio Istituto Pavoni ed opera dello storico
trumplino don Omobono Piotti, è stata l’occasione per alcune riflessioni
sugli ospizi e l’ospitalità medievale della Valle del Mella.
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Geograficamente la Valtrompia si chiude al Maniva e non poteva quindi
essere che una strada di comunicazioni indiretta con le due valli che la
fiancheggiano. Sono ben noti i due valichi occidentali della Valle: S. Maria
del Giogo, che consente la comunicazione dalla Val Trompia all’alta riviera
del Sebino e San Zeno di Pezzaze che mette in comunicazione la nostra Valle
con la Val Camonica innestandosi a Fraine sulla vecchia mulattiera che
scendeva ad Artogne e proseguiva lungo l’antica Valeriana. Lungo i ripidi
pendii del Maniva si transitava naturalmente per raggiungere Vagolino che
faceva parte della Pieve trentina di Condino nelle Giudicarie. I prodotti delle
industrie siderurgiche e casearie, il legname ed il bestiame bagolinese,
attraverso la Valtrompia, venivano inviati a Brescia: testimonianza del fatto è
la lapide al “Genio del Pagi Livii” ritrovata a Bovegno ed offerta un tempo
da un anonimo viaggiatore.
Sul fianco orientale della nostra Valle si aprono invece tre vallette
comunicanti con la Val Sabbia : quella di Lodrino attraverso la Coca del
Savallese, quella di Marmentino attraverso il Passo Termine, e la Valle di
Lumezzane che un tempo si chiudeva in se stessa mentre oggi trova sfogo
attraverso il Passo del Cavallo.
Nel Medioevo la Valtrompia comprendeva tre Pievi : Lumezzane, Inzino e
Bovegno ( la Pieve di Concesio non faceva parte della giurisdizione
valtrumplina che iniziava a Carcina).
Queste pievi ebbero sicuramente le loro case di ospitalità fraterna dato che l’
“hospitium” era un elemento fondamentale della istituzione plebanale.
L’ospedale plebanale di S. Giovanni di Bovegno è l’unica testimonianza
pervenuta sino ai nostri giorni , mentre quelli di Inzino e Lumezzane sono
scomparsi ancor prima del sec. XV senza lasciare memoria. Gli ospizi
medievali sulle strade della Valle possono essere rintracciati oggi o attraverso
la scarsa documentazione o attraverso i nomi del Santi che ne erano un
tempo titolari rimasti nella memoria.
Il primo lo ritroviamo a S. Maria del Giogo, da numerose testimonianze
documentali sappiamo che era gestito dai monaci del convento cittadino di S.
Eufemia che oltre ad abitarlo come casa di vacanze qui assistevano i viandanti
in transito lungo questo importante nodo alpino sulla strada per Brescia Sale Marasino- Zone. E’accertato che Teofilo Folengo, il famoso letterato, fu
rettore dell’ospizio nel 1538 e tra l’altro il culto di S. Mauro nella romita
chiesetta è ricordo liturgico della vasta opera di carità praticata dai monaci.
Il culto di S. Bartolomeo a Magno d’Inzino e quello di S. Giacomo Apostolo
a Cesovo indicano con certezza la presenza di due ospizi medievali di cui
trassero origine poi le parrocchie.
18
Probabilmente poi l’esistenza di un ospizio sulla strada per Lodrino tra
Brozzo e la Coca nel centro montano svolgerà poi la sua opera la parrocchia
di San Vigilio.
Testimonianza grandiosa dell’operosità benedettina in Valle è l’antica chiesa
di San Filastrio di Tavernole sorta nel sec. XIII. Il tempio fu senza dubbio
casa centrale dell’ospitalità cristiana per l’alta Valletrompia e per lo storico
mercato tavernolese. Progressivamente nel tempo questa ospitalità
caritatevole venne sostituita da osterie e ricoveri provati, le famose
“tabernulae” che diedero il nome al paese.
Perfetta era l’organizzazione assistenziale della Pieve di Bovegno con il già
citato ospitale di San Giovanni e le tre diaconie di Cimmo (S. Lorenzo), Irma
( S. Cosma ) e Marmentino. Un altro importante ospizio doveva trovarsi sul
Colle di San Zeno ; i resti della chiesa di San Zenone sul valico montano
erano ben visibili, secondo il Piotti, fino ai primi anni del ‘900 e, registrati
negli archivi parrocchiali restano documenti che ne testimoniano il beneficio
ed il culto. A Memmo di Collio (S. Faustino) a Collio (S. Nazaro) e, a detta
di mons. Paolo Guerrini a S. Colombano, gestito dai frati di Bobbio,
esistevano centri d’assistenza e cura a favore dei viaggiatori che salivano al
Maniva o che proseguivano il loro cammino per Bagolino e la regione
trentina.
Alcuni degli edifici ricordati resistono, romiti, dove un tempo erano al centro
di traffici e comunità, altri sono per sempre scomparsi e non ne restano che
incerti ricordi. Rimane però la memoria di un’opera di assistenza e carità che
ha favorito lo sviluppo spirituale, economico e sociale delle nostre valli.
Pierantonio Bolognini
19
“ SETTANT’ANNI FA ERO SULL’ “ALVISE DA
MOSTO”
Un superstite ricorda il sacrificio della silurante
Il 1° dicembre 1941, esattamente settant’anni fa, come recita il bollettino di
guerra n. 550 In Mediterraneo, una formazione aereo-navale britannica ha
attaccato una nostra silurante che è affondata dopo aver sostenuto uno
strenuo combattimento. La storia di questo affondamento, tanto arida nella
sua dizione burocratica, ci viene invece raccontata con altre parole ed altro
sentimento dal gardonese Alfonso Rinaldini, allora sottocapo cannoniere,
uno dei quattro bresciani (due soli tornati) che facevano parte dell’equipaggio
dell’ “Alvise Da Mosto” il cacciatorpediniere da 1917 tonnellate di stazza
costruito nei cantieri di Fiume nel 1931 che trovò la sua gloria in quella
giornata d’eroismo, di combattimento e di morte.
“Il cacciatorpediniere – racconta Rinaldini – procedeva al comando del
capitano di fregata Francesco Dell’Anno ( che sarà poi insignito di medaglia
d’oro al valor militare) nel Mediterraneo centrale di scorta ad una nave
trasporto, quando venne segnalato l’arrivo di aerei nemici.
Fu
immediatamente aperto il fuoco e due dei tre aerei attaccanti dovettero
desistere dalla loro azione mentre il terzo, purtroppo, riusciva a colpire il
trasporto che restò immobilizzato. Il “Da Mosto” tentò quindi di avvicinarsi
al vascello colpito per rimorchiarlo, ma giunsero parecchi aerei nemici che
benché ostacolati dalla caccia aerea italiana, prontamente intervenuta, e
dall’intenso fuoco di sbarramento della nostra nave, riuscirono a colpire la
nave trasporto con potenti cariche prima di allontanarsi. Mentre si era intenti
al recupero dei naufraghi le vedette segnalarono all’orizzonte i profili di due
incrociatori ed un cacciatorpediniere nemici. Il comandante del “Da Mosto”
avrebbe potuto approfittando della distanza, allontanarsi indisturbato, ma
nonostante la sproporzione di forze, non esitò ad attaccare la formazione
nemica.
Giunti a breve distanza del convoglio nemico venne effettuato un primo
lancio di silurica una salva di proiettili da 152 colpiva però la poppa della
nostra unità – è ancora Rinaldini che parla - facendo esplodere il deposito
delle munizioni e rendendo inutilizzabili i pezzi d’artiglieria qui collocati”
20
Solo quando la nave iniziò rapidamente ad inabissarsi e nessun pezzo di
artiglieria era ormai funzionante, il comandante diede l’ordine
di
abbandonare la nave. Furono calati dei grossi salvagenti sui quali riuscimmo
a caricare molti dei feriti ed ai quali ci ancorammo. Fortunatamente giunse
inaspettato un altro cacciatorpediniere il “Prestinari” il cui comandante
disobbedendo ad un ordine del Comado Marina di Tripoli di immediato
rientro, iniziò l’opera di recupero di noi naufraghi. In quelle ore molti furono
gli atti di solidarietà umana se non d’eroismo, che resteranno indelebili nella
mia memoria e molti furono i commilitoni feriti o stremati che poterono
essere posti in salvo”
Una pagina di storia raccontata da un novantenne gardonese che ci ha
riportato a tempi bui, alle azioni eroiche che hanno accompagnato tante
imprese ed eventi in cui nostri concittadini nati sui monti, furono coinvolti e
dei quali furono attori nelle acque di mari lontani.
Pierantonio Bolognini
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ALLA SCOPERTA DI LAZZARINO
COMINAZZO
Nella voluminosa monografia dedicata alla famiglia Beretta e pubblicata nel
1980 pe cura di Marco Morin e Robert Held , si fa rapido cenno all’antefatto
ed alle circostanze che determinano l’assassinio di Lazzarino Cominazzi,
nome ben noto agli studiosi ed ai collezionisti di armi antiche, come quello di
colui che è il riconosciuto artefice delle pregevoli canne dette “lazzarine”.
Marco Morin e Robert Held, autori del poderoso studio ora richiamato,
riferiscono che la sera del 22 luglio 1641, al termine di una delle ricorrenti
sparatorie che segnano con marchio di sangue la storia delle burrascose
relazioni tra le principali fazioni che dividono le famiglie di Gardone V.T., si
contano, ne centro del paese, numerosi feriti e ben 4 morti, tra i quali una
donna.
E’ proprio il figlio di questa signora, Angelo Chinelli, convinto che il fatale
colpo che ha rapito ai vivi la madre sia partito dall’archibugio di Lazzarino
Cominazzi, mediata rapida, tremenda vendetta. Spiate con la dovuta prudenza
le mosse della sua vittima designata, la sera del 21 agosto – dunque a meno di
un mese di distanza dal cruento episodio – mentre il famoso maestro di
canne se ne sta tranquillamente affacciato al balcone della sua casa a godersi
la fresca brezza del vespro inoltrato – dalla finestra di una abitazione che
fronteggia la dimora del Cominazzi – lascia partire, fulminea, la micidiale
archibugiata che spedisce per via direttissima davanti al Creatore l’ignaro,
illustre Lazzarino.
Fin qui i due studiosi, che han potuto pubblicare una breve cronaca del
luttuoso evento – con prosa più sobria e spoglia rispetto alla precedente
versione – sul fondamento di un dispaccio inviato dai Rettori veneti in
Brescia al Consiglio dei Dieci.
Recentissime ricerche condotte all’archivio parrocchiale di Gardone VT non
solo confermano i fatti, nella data e nelle circostanze già note, ma consentono
innanzitutto di conoscere i nomi di quanti perdono la vita nello scontro
armato quel 22 luglio 1641, sinistro preludio alla morte del Cominazzi.
Le vittime della tragica sparatoria sono elencate nel registro dei morti nel
seguente ordine:
Maestro Louis Cominazzi
Maeatro Giovan Pietro Ossoli (Ussoli)
Maestro Francesco Chinelli
Donna Marta moglie di Maestro Ercule Chinelli
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E’quest’ultima, indubitabilmente, la madre di Angelo Chinelli. Lo conferma il
raffronto tra i vari registri anagrafici che consente, anzi, di ricostruire, senza
troppe lacune, sia le ascendenze e gli altri legami familiari più prossimi e
diretti del giustiziere di Lazzarino sia i rapporti di parentela e le aderenze che
si stabiliscono tra quel ramo dei Chinelli ed altre casate gardonesi.
Donna Marta è figlia di Alberto Vivianelli, un maestro di canne dimorante a
Gardone, al quale il duro lavoro nell’officina, le alterne fortune nella
professione e i ricorrenti disordini che agitano la vita sociale del paese non
impediscono di guardare con ottimismo al futuro. E’ infatti padre di
numerosa prole avuta vuoi dalla prima vuoi – dopo un breve periodo di
vedovanza – dalla seconda moglie. Tra i figli di primo letto, generati a lui da
una certa Pasqua – la documentazione superstite non ne trasmette il cognome
– gli unici dei quali sia possibile leggere l’atto di battesimo sono Giovanni
Antonio, portato al sacro fonte il giorno 8 dicembre 1576 e Girolamo,
rigenerato dal sacramento dell’iniziazione cristiana il 2 febbraio 1579. Non è
invece possibile sapere quando siano nati la stessa Marta e il fratello
23
Giuseppe. Ma la loro assenza sul registro parrocchiale dei battesimi – che
comincia il giorno 1 gennaio 1573 – dovrebbe dimostrare che essi precedono
in età i due figli di Alberto sopra ricordati e che, conseguentemente, siano
nati dal suo primo matrimonio, Margherita, seconda moglie del Vivianelli,
porta alla luce nell’ordine Angelica, Ludovica, Camilla, Elisabetta e Flaminia
che sono battezzate tra il 2 aprile 1581 e il 5 settembre 1589 e hanno quali
loro padrini, di volta in volta, Giuseppe Mutti, Antonio Chinelli e,
ripetutamente Guerero Piccinardi. Questa dunque lunga serie degli zii di
Angelo Chinelli, secondo il ramo materno. Quanto alle ascendenze paterne,
allo stato delle ricerche, le fonti superstiti dicono che il nonno, del quale egli
stesso riprende il nome, ha sposato una certa Angelica. Da lei ha avuto, oltre
ad Ercole Lazzarino, padre del Nostro, battezzato il 16 settembre 1576, anche
Gian Battista, presentato alla Chiesa il 19 giugno 1580.
Il registro parrocchiale dei matrimoni segnala inoltre Giuseppe che il 30
agosto 1595, porta all’altare Maddalena fu Giuseppe Franzini e Giacomo che
il giorno 11 luglio 1601 prende in moglie Giulia, figlia di Angelo Pagnoni.
Dopo la morte del padre – intervenuta tra il 1595 e gli inizi del 1598 e qui
non documentabile nella sua data esatta perché il registro archivistico dei
defunti comincia solo dal 1622 – Ercole Lazzarino Chinelli, giovane
ventiduenne, decide che è tempo di convolare a giuste nozze con la
nominata Marta di Alberto Vivianelli. Il 24 settembre 1598 gli sposi si danno
appuntamento nella chiesa parrocchiale di San Marco e, alla presenza del
rettore Giuseppe Serafini e dei testimoni Andrea Daffini, Antonio Chinelli e
Santo Pagnoni, contraggono il matrimonio “fatte le debite pubblicazioni
secondo il Sacro Concilio Tridentino”.
L’unione è feconda: il 29 ottobre 1600 nasce Angelica Domenica che tuttavia
è destinata a vita brevissima. Lo lascia intendere il secondo battesimo voluto
dalla coppia per un’altra Angelica Domenica che chiede il dono della fede il
26 marzo 1602 per la voce del padrino Cristoforo Rampinelli. Il 16 marzo
1604 viene al mondo Gian Battista, seguito il 13 febbraio 1606, da Maddalena
Angelica. Il futuro vendicatore della madre, Angelo Rocco riceve il nome
cristiano il 17 agosto 1611, avendo quali suoi padrini Giuseppe, figlio di G.
Maria Chinelli e madonna Lavinia Franzini.
Dopo di lui nascono Angelica Gisella, che riceve l’acqua battesimale tra le
braccia di Martino Rizzini da Inzino, il giorno 27 gennaio 1614; Margherita
Giulia, segnalata dal registro dei battesimi il 2 aprile 1617 con Andrea
Pedersoli da Lodrino quale suo spirituale tutore; Giulia Caterina, rigenerata
dal sacramento l’8 dicembre 1619, tra le braccia di Giacomino Mutti e Lucia
Moretti. Escludendo la primogenita, prematuramente scomparsa, alla coppia
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Ercole Chinelli – Marta Vivianelli rimangono dunque, oltre ad Angelo, altri 6
figli, una discendenza sufficiente a rafforzare antichi vincoli e a creare nuove
parentele e aderenze. Ulteriori approfondimenti potrebbero esser in questo
senso molto interessanti. Ma quanto già emerge dal presente studio basta a far
bene comprendere quali siano tra le famiglie gardonesi più legate almeno a
questo ramo dei Chinelli. Si può aggiungere in proposito e rapidamente che
altri raffronti archivistici segnalano rapporti stretti della famiglia con gli
Aiardi, gli Acquisti, i Belli, i Moretti con gli stessi Cominazzi. Non è possibile
chiarire qui e ora, con la dovuta minuzia, le precise relazioni che intercorrono
tra la stirpe del celebre Lazzarino e quella del suo assassino. Si può comunque
tranquillamente osservare – senza bisogno del conforto di inediti documenti
– che nella turbolenta Gardone della prima metà del Seicento, un vincolo di
parentela non costituisce e sempre e assolutamente garanzia inviolabile di
incolumità per lo sventurato che si trovi coinvolto, per qualsiasi ragione, nelle
frequenti, furibonde zuffe che vedono fieramente insorgere, l’una contro
l’altra armate, le opposte fazioni del paese. In questo contesto si colloca la
morte di Marta Vivianelli e la pronta vendetta del figlio Angelo Rocco
Chinelli. Il giovane abbraccia la stessa professione del padre: i registri
archivistici lo qualificano infatti, di volta, in volta, maestro di canne e signore,
termine quest’ultimo che generalmente indica una persona che appartenga ad
una famiglia con qualche titolo di distinzione o che comunque sia riuscita a
raggiungere una certa tranquillità economica, impresa non troppo facile in un
paese nel quale la maggioranza degli abitanti naviga in acque piuttosto basse
quando non debba affrontare tristissimi periodi di vera e propria siccità
finanziaria. All’età di circa 25 anni, don Angelo Rocco Chinelli porta all’altare
certa Cecilia Maddalena. Di lei i registri locali ignorano il casato. Anzi, il suo
matrimonio non compare nemmeno nell’anagrafe parrocchiale di Gardone e
ciò dovrebbe significare che gli sposi hanno celebrato le nozze in un’altra
parrocchia, forse quella stessa di nascita o di residenza della donna. La
primogenita della coppia, Margherita Maria, è battezzata il 17 settembre 1637,
avendo quali suoi padrini don Pietro Moretti e donna Dorotea Acquisti. Un
altro corredo rosa si prepara per Francesca che riceve l’acqua del sacro fonte
tra le braccia di G. Battista Zambonardi e Maria Bertoglio, il 7 aprile 1641. A
questo secondo lieto evento segue, per Angelo Chinelli, il grave lutto del 22
luglio, del quale egli stesso si fa vendicatore il 21 agosto, nei modi sopra
descritti. Si può qui aggiungere che il delitto da lui meditato, ordito e
compiuto è origine di altre turbinose violenze. Alla irrefrenabile ira dei diretti
consanguinei di Lazzarino Cominazzi si sommano infatti diffusi e mal sopiti
rancori e il 23 agosto, due giorni soltanto dopo l’assassinio del famoso
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artefice,
si
scatenano
in
Gardone
tumulti,
tafferugli e risse
di armate che
finiscono
per
coinvolgere
l’intero paese. Si
scambiano
pugni e botte da
capogiro,
si
brandiscono
lucenti lame, si
puntano a destra e a sinistra i pregevoli archibugi. Alla fine degli scontri, due
feriti gemono sul terreno della grande lotta mentre un terzo – certo Giovanni
Maria, figlio di Cosimo Raffenoni, colpito da un’archibugiata in maniera letale
– deve, suo malgrado, rassegnarsi a morire. Dei gravissimi fatti giunge
puntuale eco a Brescia e a Venezia ma non risulta, al presente, che essi
abbiano avuto qualche seguito in sede giudiziaria. Né la circostanza può
stupire poiché altri precedenti episodi di natura criminale verificatisi a
Gardone si erano affrontati con misure rivelatesi inefficaci o erano rimasti
impuniti. Angelo Chinelli continua dunque la sua attività a capo d’una
famiglia che il 2 luglio 1643 è finalmente allietata dalla nascita dell’erede
maschio. Il bambino, al quale si impone il nome del nonno Ercole, è
presentato alla Chiesa del padrino Lorenzo Daffini. Il primo ottobre 1646 è
segnalata la nascita di Paola Girolama, portata al battesimo da G. Battista
Gardoncini da Inzino e da Angelica Moretti. Il 10 giugno 1649 la famiglia si
accresce ancora con G. Battista, cui segue, il 29 ottobre 1651, G. Pietro che
ha come compadre Antonio Rizzini da Inzino; il 4 dicembre 1653 è la volta di
Giuseppe Alberto portato al fonte da Apollonio Chinelli e, infine, il 23
ottobre 1659 vede la luce Domenico Paolo che riceve il battesimo, tra le
braccia di Antonio Gardoncini, il 29 ottobre seguente. Le indagini
archivistiche svolte in occasione del presente studio consentono ancora di
affermare che questa copiosa e mista discendenza, attraverso altri intrecci
matrimoniali, stringe ulteriori legami diretti con i Cominazzi, i Franzini, gli
Zambonardi. Non sembra tuttavia opportuni in questa sede seguire oltre una
vicenda familiare che, se qui venisse approfondita, allontanerebbe alquanto il
discorso dal tema assunto. E, d’altra parte, nemmeno Angelo Rocco Chinelli
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vive tanto da poter vedere ammogliati i figli e maritare le figlie poiché il 28
luglio 1661 muore. Pochi mesi appresso lo segue la moglie Cecilia. Entrambi
sono sepolti nella chiesa parrocchiale.
Francesco Trovati
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Cos’è Volere …
Cos’è volere
Se non una parola
Che racchiude in sé
La chiave della felicità.
Cos’è possedere
Se non una parola
Che racchiude in sé
La chiave della passione.
Cos’è potere
Se non una parola
Che racchiude in sé
La chiave della speranza.
Cos’è rischiare
Se non una parola
Che racchiude in sé
La chiave del coraggio
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Cos’è agire
Se non una parola
Che racchiude in sé
La chiave della brama d’avere, del desiderio
Cosa sono la felicità, la passione, la speranza
Il coraggio, il desiderio
Se non un sogno che cerca di volare tra le braccia della realtà?
S. Z.
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Settant`anni fa ero sull`Alvise Da Mosto