1 Indice Scambi di cortesie tra gli abitanti abitanti di una una Valle rude e operosa ………...…………………………..pag. 3 24 giugno: S. Giovanni Battista ……………. ..…pag. 6 Marmentino e le cime del mistero …………… .…..pag. 8 Esposti a Brera i capolavori gardonese del Moretto ......pag. ......pag. 10 Quando la giovane Maria incontrò la Beata Vergine.. pag. 12 Un “tesoro” nascosto dietro il muro ….…………...pag. 15 L’ospitalità medioevale lungo le strade montane della nostra Valle ………………………………….….pag. 17 “Settant’anni fa ero sull’ “Alvise da Mosto”……….pag. 20 Alla scoperta di Lazzarino Cominazzo ……………pag. 22 Cos’è Volere ……………………………… pag. 28 2 SCAMBI DI CORTESIE TRA GLI ABITANTI DI UNA VALLE RUDE E OPEROSA L a Valtrompia è la meno estesa delle tre Valli che sono comprese nel territorio montano della provincia di Brescia: con i suoi 380 kmq. Di superficie, si incunea tra la Valsabbia, la Valcamonica e il bacino del Sebino. Ne fa parte amministrativa anche una delle testate della camuna Valle della Grigna, affluente di sinistra dell’Oglio, suddivisa tra i comuni di Bovegno e di Collio. E’ la più vicina alla città capoluogo, su cui si apre,s ia dal punto di vista geografico e storico, che da quello economico e culturale. Il passaggio – molto vario – sale dai 225 m s.l.m di Villa Carcina ai 2217 m dei Monti Colombine. La percorre per una quarantina di chilometri il fiume Mella, che attraversa terre caratterizzate già da secoli dall’industriosità siderurgica e meccanica: le armi valtrumpline sono da tempo note in tutto il mondo. Anche in Valtrompia le varie comunità si sono scambiate nel passare dei secoli i soprannomi etnici (scotöm), indici di antichi contrasti, di gelosie locali, basati su aspetti della vita di tutti i giorni, fatti di cronaca spicciola, abitudini morali e materiali, attitudini particolari, caricati di maliziosa attenzione, soprattutto ai risvolti negativi, quando il nome di una località poteva prestarsi a sarcastici equivoci, per l’assonanza con termini irriguardosi. Provenendo da Brescia, a Carcina, si incontrava il confine giuridico della comunità valligiana: vi soggiornavano quindi numerose guardie, con relative carceri. Di qui il soprannome di GIUSTISSIA. Di là dal Mella stavano i MACC (matti) di Cailina, i VILANCH di Villa (accostamento piuttosto ovvio) e i SÜCU’ (zucconi) di Cogozzo: ora tutti aggregati nell’unico comune di Villa Carcina. Poco più a Nord si apre la (un tempo) isolata valle di Lumezzane, la cui tipica parlata ti tipo arcaico non poteva non suggerire accostamenti realisticamente e rusticamente pittoreschi. Ai poveri abitanti della frazione Pieve si rinfacciava di dover ricorrere – se volevano fumare la pipa – ai mozziconi buttati dai fumatori più fortunati (SGARIABAGOI: da sgarià = raschiare + bàgoi = mozziconi di sigaro); oppure di doversi accontentare degli avanzi dei paesi altrui (LÈCAPIACC = leccapiatti). Ai paesani di Gazzolo, in quanto per lo più mandriani (TÈTAACHE = succhia mucche), non si poteva rinfacciare la fame per scarsità di cibo; e così si preferiva rinfacciare la mancata fedeltà alla parola data (CHEI DEI 3 GAZÖL PRIMA I LA DA’ E DOPO I LA ÖL = quelli di Gazzolo prima danno e poi rivogliono). In un’altra parlata mancando la rima, chissà che difetto si sarebbero visti attribuire. La frazione di Valle, caratterizzata dal trovarsi in una zona poco soleggiata, era abitata dagli OMBREACH, da OMBRIA = ombra; ma con facile e malizioso accostamento al termine ÈMBRÉACH = ubriachi; detti anche SÖPELOCC, la cui unica ricchezza si sarebbe limitata ad un paio di SÖPEI = zoccoli. A Piatucco, abitava gente più benestante, che ha costruito molte delle officine di cui Lumezzane va famosa: meritato lo “scotöm” di GAI = galli vanitosi. A Fontana, la cui disponibilità idrica è già nel toponimo, non potevano che abitare i NEDROCC = anitre; a Renzo, situato ai piedi del roccioso monte Ladino, abitavano i CORNAROI = pietrosi; da CORNA = pietra, roccia. A. S. Sebastiano, paese abbastanza prospero, abitavano i SPACU’ = spacconi, a S. Apollonio i DOPE = doppi, falsi; a Mosniga i LUF = lupi, evidentemente per una fame cronica; a Premiano i BREGNOCC, termine spregiativo per indicare i contadini, qualcosa di simile all’italiano bifolchi. Tornati sul fondo della Valle, a Sarezzo troviamo gli ÈMPUSTUR = bugiardi e maliziosi; a Noboli i MARU’, dal nome del tipo di castagna ivi coltivato ed apprezzato in tutto il territorio nazionale. Ad Inzino, troviamo i CAICÌ, noti per l’antica produzione delle “caece”= chiavarde, grossi chiodi lunghi anche un metro, utilizzati in carpenteria. I MAGNÖI, abitanti di Magno sopra Inzino, con scontato gioco di parole, venivano chiamati MALÉGN = maligni, i BABEI di Brozzo e i GOS di Lodrino scontavano probabilmente carenze alimentari e di lai nell’acqua delle loro sorgenti (= Babbei e Gozzi). A Cimmo, zona ricca d’acque, alle falde del Monte Gölem (Il Monte Guglielmo degli acculturati) vivevano i MARSÙ = marci come pochi; a Tavernole, paese noto anche per la produzione ed il commercio del carbone di legna, abbiamo i BRASCHI’ = carbonai. Marmentino non solo doveva sopportare da parte dei dotti un curioso e pedestre riferimento al carcere Marmentino di Roma, ma dai con valligiani veniva gratificato dall’accostamento al termine MARENDE, nel significato di “facile da gabbare”. A Lavone abitavano i PANADINE da “panada”, umile minestra di pane cotto nell’acqua; a Pezzaze i PATATE, detti anche PORSEI per il diffuso allevamento di maiali che pare circolassero liberamente per le strade del paese. (Non c’è Valle che non gratifichi un suo paese con questo soprannome, con una scusa o con un’altra). 4 A Pezzoro (Pédor) troviamo i TOR, per il carattere fiero e rude non meno che per la vicinanza fonetica col toponimo. A Magno di Bovegno i BOSIADER = bugiardi; a Irma i RAANEI = rapanelli; a Bovegno (come a Cimmo) i MARSU’ oppure i BO’ = buoi; a Collio le FURCHE = con sottinteso tutto un programma di vita (Non per nulla su una cascina alla periferia sud di Brescia figurava una piccola lapide con scritto: “Malghesi di Collio / qui non ne voglio”). Bisogna però anche ricordare che una delle più antiche tipografie bresciane ebbe sede a Collio, alla faccia dei maliziosi convalligiani. Gli abitanti di S. Colombano, alla testata della Valle del Mella, per la loro litigiosità , ricorrevano tanto spesso ai tribunali, da acquisire una non comune competenza in campo di codici, da venire chiamati AOCACC = avvocati. Al confine con il territorio del valsabbino comune di Bagolino si trovava una casa chiamata CASA LITE, nome significativo, sempre che non si tratti di una toscanizzazione di un nome con tutt’altro significato. Nel cuore della Valtrompia c’è infine la capita morale, Gardone, la cui produzione di armi è fin troppo nota. I gardonesi venivano chiamati BALU’ = bugiardi, fanfaroni. L’origine di tale “scotöm” è abbastanza chiara, se si pensa che Gardone nel breve volger di secoli, da frazione del ben più antico Inzino, non solo se lo inglobò, ma divenne la “principale terra della Valle”. Farsi ricchi e rinomati induce ad un po’ di euforia, a manifestazioni di spacconeria, tali da provocare invidia e gelosia in chi non partecipa in simile fortuna. Quel soprannome nel corso dei tempi, i gardonesi se lo son dovuto guadagnare e mantenere giorno dopo giorno Pierantonio Bolognini 5 24 GIUGNO : S. GIOVANNI BATTISTA L a liturgia della chiesa latina festeggia in questa data, che cade nei giorni del solstizio d’estate e che segnava nei tempi passati l’inizio della mietitura , la ricorrenza della natività di S. Giovanni Battista. E’ una festa molto antica, già ricordata da Agostino e collegata direttamente al Natale Romano. Come scrive Luca nel suo Vangelo (I,36), infatti, la Vergine Maria andò a visitare Elisabetta, futura madre di Giovanni, che si trovava al sesto mese di gravidanza , fu semplice fissare quindi la data della nascita del messaggero che preparerà la tua via davanti a te sei mesi prima della nascita di Cristo, alle Calende di luglio. Nella tradizione greca i due solstizi erano chiamati “porte” ( porta degli dei quello invernale e porta degli uomini quello estivo) erano quindi simboli di passaggio che fungevano da accesso ad un mondo al di fuori dello spazio e del tempo. Nella tradizione latina custode delle due porte era il misterioso Giano bifronte signore dell’eternità che venne interpretato da Crisitianesimo come l’immagine profetica del Cristo. Giano era festeggiato nei due solstizi che divennero poi coll’avvento della nuova religione le ricorrenze di due Giovanni (Evangelista e Battista). Le usanze legate alla festa del Battista hanno da sempre la funzione di proteggere il Creato, i fuochi tradizionalmente accesi nella notte della vigilia sono simboli del sole solstiziale. Ardono per scacciare demoni, streghe e tutto quanto di maligno popoli la nostra terra per combattere e prevenire le malattie. Nella “magica notte” gruppi di streghe volano verso il loro grande incontro, volano verso il mitico noce di Benevento dove si siederanno a consiglio per stabilire nuovi mali per il mondo. Per combattere questo pericolo ci si affiderà alle acque e alle erbe miracolose, consacrate al Santo. L’acqua (un tempo usata da Giovanni per battezzare) acquista grandissima importanza fino a divenire magica. Si credeva infatti che la rugiada caduta la notte che precede la festa del Santo ( per gli inglesi la “Notte di mezza estate”) avesse poteri eccezionali e che fosse opportuno trascorrere una qualche ora nei campi, all’aperto per poterne acquistare i benefici. La rugiada e l’erba da essa inumidita proteggevano il bestiame. Gli indumenti (specie 6 quelli invernali) e la biancheria la notte di S. Giovanni erano stesi nei prati nella convinzione che sarebbero stati preservati dalle tarme nel corso dell’anno. Nella notte si raccoglievano le noci ed i loro malli per preparare uno squisito nocino. Mentre molte erbe medicinali – negli orti l’aglio e le cipolle potevano essere raccolte solo dopo esser state bagnate dalla rugiada di S. Giovanni. Le erbe di S. Giovanni raccolte in mazzetto si ponevano sotto il guanciale nella convinzione che quel che si sarebbe visto la notte in sogno, si sarebbe verificato durante l’anno. Al profondo significato solstiziale della festa era anche legata l’abitudine di trarre auspici sulla vita e sull’amore e non mancavano particolari ritualità ( non sempre ben accolte dagli antichi predicatori) legate alla fertilità Pierantonio Bolognini 7 MARMENTINO E LE CIME DEL MISTERO F ra le località valtrumpline che hanno interessato i cultori del mistero per le loro antiche tradizioni, un posto di tutto rispetto meritano senza dubbio le due cime che pur trovandosi nel territorio comunale di Marmentino, sovrastano l’antico centro di Tavernole. Si tratta del Castello dell’Asino (1152 m slm) e del Castello della Pena (1130 slm) la cui vetta è sovrastata da una grande croce installata da alcuni amici di Cimmoin ricordo dei caduti della montagna. Per ognuno dei due picchi la tradizione orale riferisce ricordi e leggende che perdono la loro origine nella notte dei tempi, in riti magico-satanici che solo l’aiuto della fantasia riporta alla memoria. Il Castello dell’Asino ( castello nel gergo popolare identifica anche le prominenze rocciose) trae il suo nome da antichissime cerimonie che, presumibilmente, come ricorda lo storiografo gardonese Marco Cominassi nelle sue “Note inedite sulla Valtrompia” i primi cristiani svolgevano nel periodo natalizio. In folti gruppi si riunivano su questa cima dove bardatisi con maschere a sembianza d’asino, celebravano la nascita del Salvatore ricordando il paziente animale che lo aveva riscaldato nella mangiatoia. Il secondo toponimo si rifà, sempre secondo questa tradizione , ad una discutibilissima etimologia secondo la quale Marmentino avrebbe preso nome da un carcere Mamertino, omonimo del più famoso che, al tempo dei romani, si sarebbe trovato nella zona. I più irrequieti fra i “mitici” condannati al lavoro nelle miniere dell’alta Valle, come estrema punizione, sarebbero stati portati in una grotta esistente nei pressi della cima dove, legati a grossi anelli di ferro, avrebbero atteso la morte per inedia. Retaggio di tradizioni medievali, queste cime vengono presentate come dimora abituale di streghe e stregoni. Sul Castello della Pena , conosciuto dai marmentinesi anche come Corna della Stria vivevano le streghe che nelle loro uscite danneggiavano con terribili sortilegi quanti non mostravano il dovuto rispetto mentre favorivano coloro che si mostravano devoti ai poteri maligni. Queste figure potevano presentarsi ai poveri pastori del tempo in sembianze diverse : o come povere e brutte vecchie mendicanti oppure come bellissime fanciulle 8 che cercavano però di non mostrare i loro piedi di capra. Le streghe si radunavano per i loro “sabba” periodicamente al Gaver ( località valsabbina) e risolvevano i problemi di spostamento non con le abituali “scope volanti”, ma con dei balzi giganteschi che permettevano loro di superare intere vallate. L’ultima di queste streghe , raccontano, fu cacciata per mezzo di una solenne processione alla quale partecipò l’intera popolazione marmentinese. All’avvicinarsi dei sacri inni, la strega spiccò un vertiginoso volo che la portò fino al Monte Baldo e di lei non restarono che le impronte incise nella roccia della caverna. Forse in queste storie non vi sarà molto di vero ( e probabilmente ve ne sarà molto poco), ma sicuramente, come sostiene don Amatore Guerini in un suo scritto su Tavernole, queste leggende sono e restano l’espressione dell’animo popolare che, in queste vicende tramandate a voce, di generazione in generazione, ha conservato tradizioni e insegnamenti morali a cui ognuno ha aggiunto qualcosa di suo. Pierantonio Bolognini 9 ESPOSTI A BRERA I CAPOLAVORI GARDONESI DEL MORETTO Si tratta di quattro dipinti su tavola e di una grande pala centinata, eseguiti dal Bonvicino per la Basilica di Santa Maria degli Angeli D opo un attento lavoro di restauro sono state, tempo fa, riaperte al pubblico tre sale “napoleoniche” della celebre pinacoteca milanese di Brera. Si tratta della XIII-XIV-XV nelle quali sono nuovamente visibili alcune tra le più nobili opere che il Bramantino, il Luini, il Ferrari, il Lotto , il Moroni, il Savoldo, il Romanino – si citano questi nomi nell’ordine nell’ordine suggerito dalla memoria – eseguono per contrassegnare con illuminanti esempi della loro migliore maniera il Rinascimento pittorico lombardo. Ma soprattutto su 4 tavole e una grande pala centinata , completate dal Moretto per la Basilica minore di S. Maria degli Angeli in Gardone si soffermano le presenti annotazioni. Le quattro tavolette sono compiute ad opera di Alessandro Bonvicino intorno al 1529-1530 e fanno parte di un polittico , concepito a sei dipinti , ordinati in due trittici e disposti nei comparti superiori ed inferiori di una cornice finemente decorata, tuttora presente in forma tipologicamente quasi inalterata , nella basilica gardonese. Agli inizi dell’Ottocento, al tempo delle soppressioni napoleoniche – che spesso si configurano come veri e propri atti di sacrilega rapina - vengono sottratte al patrimonio artistico della chiesa conventuale gardonese tutte le tavole del polittico e quattro fra queste sono destinate a Brera. Nella sala XIV della pinacoteca milanese, si ripropongono ora all’attenzione del visitatore, nella loro esatta successione, le tre tavole dell’ordine superiore: a sinistra, i santi Marco e Girolamo; al centro e su tavola di dimensioni maggiori, la Vergine Assunta ; a destra, le sante Chiara d’Assisi e Caterina d’Alessandria. Fuori posto, nella collocazione presentata a Brera , è la quarta tavola , raffigurante S. Francesco che, nel polittico originale, occupa il comparto centrale del trittico inferiore. In pinacoteca, invece, il dipinto del Serafico d’Assisi è sistemato sopra - si starebbe per scrivere sulla testa – della 10 Vergine. Poiché lo spazio lo consentiva, si sarebbe fatta la stessa fatica collocando, più opportunamente, la tavoletta ai piedi dell’Assunta. Sarebbe stata così meglio richiamata la volontà della committenza - i Minoriti gardonese vollero infatti il loro Fondatore esattamente sotto l’Assunta affiancato a sinistra da Antonio da Padova e Bonaventura, a destra a Bernardino da Siena e Lodovico da Tolosa, tutti santi francescani – e se è lecito così esprimersi, si sarebbe anche rispettata la gerarchia celeste che, secondo i bene informati è piuttosto rigorosa anche in Cielo. Quanto alle due tavolette mancanti a completare l’accennato trittico inferiore, esse sono ancora oggi custodite dal Museo parigino del Louvre. Il celebre polittico gardonese si completava poi con due volute di raccordo tra la tavola dell’Assunta e le due laterali dell’ordine superiore. In questi “gattoni” rimasti fortunatamente a Gardone, il Moretto dipinge due stupendi angeli in volo . Chi entri nella sala di Brera, osserva accanto alle quattro nominate tavolette, una gran pala centinata , di mano del Bonvicino , raffigurante in alto la Madonna con il Bambino e nell’ordine inferiore, da sinistra, i santi Girolamo Francesco e Antonio Abate. Committenti il dipinto sono probabilmente gli Avogadro che lo vogliono collocato nella cappella di famiglia della basilica gardonese. Allo stato attuale delle ricerche , non esistono riferimenti documentali che permettano di datare con precisione quest’opera , ma recentemente Sandro Guerrini si è indotto a scrivere che il grande olio su tela possa collocarsi tra il 1557 ed il 1559. Il dipinto è comunque già in sede nel 1545 poiché Giovan Battista Moroni , allievo del Moretto accompagnando in Valle Trompia il Maestro che deve consegnare la pala maggiore della parrocchiale di Sarezzo, lo vede e ne trae i due fedelissimi disegni di Girolamo ed Antonio Abate che sono di mano così sicura e precisa da essere stati a lungo attribuiti allo stesso Moretto. Nel 1808 anche questa pala prende la via del forzato esilio milanese. Francesco Trovati 11 QUANDO LA GIOVANE MARIA INCONTRO’ LA BEATA VERGINE … L a liturgia cattolica dedica il mese di maggio al culto della Beata Vergine Maria. In Valtrompia però il culto della Madonna si accende ancor di più , in questo periodo, per il ricordo di un grande evento che ha segnato la storia religiosa della nostra Valle. Il 22 maggio è stato celebrato infatti il 484° anniversario dell’apparizione della Madonna nell’aprica località sita tra Bovegno e Pezzaze, ove ora sorge il Santuario della Beata Vergine della Misericordia. Don Omobono Piotti in un suo scritto pubblicato a Brescia nel 1913 appoggiandosi alle cronache di Graziadio da Collio rigorosa nella sua semplicità ed elencando una serie di notizie provenienti dalle fonti storiche locali del tempo, ci ricorda la miracolosa apparizione. Nel corso della storia, le apparizioni della Vergine hanno sempre segnato periodi tormentati e quegli anni in Valle non erano sicuramente da meno . Il diffondersi dell’eresia luterana importata dalle maestranze tedesche impegnate nei lavori minerari ed in special modo nell’eliminazione dell’acqua che si accumulava sul fondo delle gallerie, si accompagnava nel territorio bresciano alla invasione dei Lanzichenecchi del Frundesbrg ed agli effetti di una spaventosa siccità che aveva colpito l’anno precedente le nostre terre causando carestie che affamavano popolazioni ed eserciti. In questa drammatica cornice , il 14 maggio del 1527 una giovane di Predondo di Bovegno, Maria Amadini , appartenente ad una famiglia di miserevoli condizioni ,iniziò la sua meravigliosa avventura. Spinta dalla fame, sua e dei familiari, Maria si era recata nel bosco per raccogliere un fascio di legna da scambiare con qualche genere alimentare. Tagliano, lumgo la strada che porta a Lavone , i rami più bassi di una pianta, dal “terreno saltò fuori a guisa di una fonte che ivi scaturisse grande quantità di monete d’argento”. La giovane riempì il grembiule con questo tesoro e corse in paese. Questo che ai popolani apparve un miracolo, non fu però che il prologo a fatti ben più miracolosi. Otto giorni dopo, il 22 maggio, mentre Maria si trovava sul luogo del ritrovamento raccolta in preghiera udì una voce chiamarla per nome. Alzati gli occhi si trovò dinanzi una matrona 12 vestita con un grande manto monacale e circonfusa da tanto splendore che la giovane, quando racconterà ad altri l’apparizione , sbiancando nel volto, resterà quasi muta al ricordo. Molte cose la Madonna disse all’esterefatta giovinetta invitandola, a conclusione, ad impegnare tutti i bovegnesi nella costruzione , in quel luogo, di un santuario testimonianza di fede e remissione dei tanti peccati dal cui castigo la Madonna aveva salvato i trumplini. Il desiderio della Vergine venne subito esaudito: in pochi giorni fu decisa la costruzione del tempio su progetto di Agostino Castelli, famoso architetto bresciano del tempo. Al suo finanziamento pensarono la Amadini, con quanto ricavato dal tesoro, e le frotte di pellegrini che venivano anche da paesi lontani ad invocare la Madonna le cui risposte furono grazie straordinarie. L’8 luglio 1527 Mattia Ugoni, per il vescovo Paolo Zane concedette licenza d’usare un “altare portatile” fino a che si avanzasse la fabbrica e che fosse a compimento ridotta. Questo privilegio, che potrebbe parere marginale, prova invece che l’autorità ecclesiastica s’era fatta la più seria convinzione sulla realtà del fatto prodigioso. Il santuario venne costruito a tempo di primato e continui furono gli ampliamenti ed abbellimenti successivi: nel 1573 13 venne edificato il campanile, nel 1583 veniva posta la cancellata di ferro e nel 1682 la chiesa era decorata con nuove opere pittoriche per iniziativa dell’arciprete Domenico Filippini. Un tempio maestoso, gli affreschi del Trainini, opere d’intarsio ligneo di raro effetto e dipinti d’autori di larga famaa sono ancor oggi a testimonianza della meravigliosa avventura di una giovinetta bovegnese che una mattina mentre tagliava alcuni rami …. Pierantonio Bolognini 14 UN “TESORO” NASCOSTO DIETRO IL MURO Scoperto casualmente a Bovegno il più antico testo in dialetto bresciano: è del 1355 Nel corso del rifacimento di un vecchio edificio, alcuni anni fa, a Bovegno venne ritrovato fra un muro ed un pilastro di legno, un libretto in pergamena di piccole dimensioni unitamente ad un piccolo foglio membranaceo che in dieci righe conserva una procura redatta dal notaio Bertolino Bevolchini ( la cui attività professionale è documentata in quel di Bovegno tra il 1347 ed il 1358) in data 10 maggio 1355. Di grande interesse il libretto presentato all’attenzione dei cittadini gardonese da Ornello Valetti, direttore dell’archivio storico di Brescia, in una serata dedicata alla tradizioni popolari trumpline. Lo scritto di sette secoli fa è fortunatamente giunto nelle mani di Luisa Bezzi Martini, dell’Archivio di Stato di Brescia. L’esperta curando la trascrizione della scrittura gotica posata delle ventidue paginette e la pubblicazione delle stesse nel volume Miscellanea di Studi in onore di Ugo Vaglia edito dall’Ateneo di Brescia, ha consentito agli studiosi, esperti di antichi dialetti e di letteratura religiosa, di giungere ad una piena identificazione e comprensione del testo. Il dotto contributo pubblicato nel 1989 nella “ 15 Rivista italiana di dialettologia” dalla Tomasoni dell’Università di Pavia, studiosa di letterature dialettali, ci ha consentito d’apprendere che le pagine bovegnesi sono una traduzione in dialetto bresciano del poemetto di Bonvesin della Riva, frate laico dell’ordine degli Umiliati, vissuto a Milano fra il 1240 ed il 1313. Il poemetto redatto con finalità edificanti, faceva parte d’una trilogia in volgare milanese intitolata Libro delle tre scritture e composta dalla “Scrittura Nera” (le pene dell’inferno), dalla “Scrittura Rossa” (Passione di Gesù) e dalla “Scrittura Dorata” (delizie del Paradiso). L’opera è uno dei tanti poemi nel cui ambito sarebbe poi maturata la Divina Commedia dell’Alighieri caratterizzata da una successione schematica diversa e nella quale la “Scrittura Rossa” cantica dedicata alla “Passione di Cristo” è sostituita dalla cantica dedicata al “Purgatorio” la cui dottrina fu riconosciuta dal Concilio di Lione del 1274. Nella sua presentazione il dottor Valetti ha ricordato come nel ‘300 i testi devozionali trovassero una larga diffusione nel popolo soprattutto quando la loro struttura era di tipo drammatico recitabile come un testo teatrale (laudi drammatiche e sacre rappresentazioni). Queste composizioni si prefiggevano la divulgazione, fra i fedeli, dei testi evangelici o liturgici che ben difficilmente sarebbero stati accessibili a popolazioni in gran parte analfabete. La “Scrittura Rossa” giunse in quei lontani anni anche a Bovegno dove si provvide probabilmente a tradurla in lingua accessibile ai fedeli del luogo, oppure in terra trumplina giunse già tradotta in un’altra area bresciana. La forma dialettale e la scrittura del trecento sono ovviamente molto diverse dalle attuali, ma se lette correttamente sono comprensibili ai veri conoscitori del dialetto locale ( sempre in minor numero soprattutto fra quelli che si ritengono esperti). Le osservazioni della Tomasoni ci inducono a credere che il testo bovegnese venne redatto in loco nella prima metà del trecentoe poiché osserva ancora Valetti, il più antico documento scritto in dialetto bresciano la Passio Christi riscoperta da Giuseppe Monelli in un codice di Disciplinati, risale alla fine del ‘300- inizi del ‘400, la trascrizione valtrumplina della “Scrittura Rossa” può essere ritenuta la testimonianza più antica che oggi si conosca del dialetto bresciano. Un onore che Bovegno “patria” ed ultima dimora di Angelo Canossi merita sicuramente. Pierantonio Bolognini 16 L’OSPITALITA’ L’OSPITALITA’ MEDIEVALE LUNGO LE STRADE MONTANE DELLA NOSTRA VALLE La rilettura di un raro e vecchio opuscolo “La chiesa di San Zenone” pubblicato a Brescia nel 1905 dal Pio Istituto Pavoni ed opera dello storico trumplino don Omobono Piotti, è stata l’occasione per alcune riflessioni sugli ospizi e l’ospitalità medievale della Valle del Mella. \Ä VÉÄÄx w| ftÇ mxÇÉ ä|áàÉ wtÄÄËtÇà|vt áàÜtwt w| cxéétéx 17 Geograficamente la Valtrompia si chiude al Maniva e non poteva quindi essere che una strada di comunicazioni indiretta con le due valli che la fiancheggiano. Sono ben noti i due valichi occidentali della Valle: S. Maria del Giogo, che consente la comunicazione dalla Val Trompia all’alta riviera del Sebino e San Zeno di Pezzaze che mette in comunicazione la nostra Valle con la Val Camonica innestandosi a Fraine sulla vecchia mulattiera che scendeva ad Artogne e proseguiva lungo l’antica Valeriana. Lungo i ripidi pendii del Maniva si transitava naturalmente per raggiungere Vagolino che faceva parte della Pieve trentina di Condino nelle Giudicarie. I prodotti delle industrie siderurgiche e casearie, il legname ed il bestiame bagolinese, attraverso la Valtrompia, venivano inviati a Brescia: testimonianza del fatto è la lapide al “Genio del Pagi Livii” ritrovata a Bovegno ed offerta un tempo da un anonimo viaggiatore. Sul fianco orientale della nostra Valle si aprono invece tre vallette comunicanti con la Val Sabbia : quella di Lodrino attraverso la Coca del Savallese, quella di Marmentino attraverso il Passo Termine, e la Valle di Lumezzane che un tempo si chiudeva in se stessa mentre oggi trova sfogo attraverso il Passo del Cavallo. Nel Medioevo la Valtrompia comprendeva tre Pievi : Lumezzane, Inzino e Bovegno ( la Pieve di Concesio non faceva parte della giurisdizione valtrumplina che iniziava a Carcina). Queste pievi ebbero sicuramente le loro case di ospitalità fraterna dato che l’ “hospitium” era un elemento fondamentale della istituzione plebanale. L’ospedale plebanale di S. Giovanni di Bovegno è l’unica testimonianza pervenuta sino ai nostri giorni , mentre quelli di Inzino e Lumezzane sono scomparsi ancor prima del sec. XV senza lasciare memoria. Gli ospizi medievali sulle strade della Valle possono essere rintracciati oggi o attraverso la scarsa documentazione o attraverso i nomi del Santi che ne erano un tempo titolari rimasti nella memoria. Il primo lo ritroviamo a S. Maria del Giogo, da numerose testimonianze documentali sappiamo che era gestito dai monaci del convento cittadino di S. Eufemia che oltre ad abitarlo come casa di vacanze qui assistevano i viandanti in transito lungo questo importante nodo alpino sulla strada per Brescia Sale Marasino- Zone. E’accertato che Teofilo Folengo, il famoso letterato, fu rettore dell’ospizio nel 1538 e tra l’altro il culto di S. Mauro nella romita chiesetta è ricordo liturgico della vasta opera di carità praticata dai monaci. Il culto di S. Bartolomeo a Magno d’Inzino e quello di S. Giacomo Apostolo a Cesovo indicano con certezza la presenza di due ospizi medievali di cui trassero origine poi le parrocchie. 18 Probabilmente poi l’esistenza di un ospizio sulla strada per Lodrino tra Brozzo e la Coca nel centro montano svolgerà poi la sua opera la parrocchia di San Vigilio. Testimonianza grandiosa dell’operosità benedettina in Valle è l’antica chiesa di San Filastrio di Tavernole sorta nel sec. XIII. Il tempio fu senza dubbio casa centrale dell’ospitalità cristiana per l’alta Valletrompia e per lo storico mercato tavernolese. Progressivamente nel tempo questa ospitalità caritatevole venne sostituita da osterie e ricoveri provati, le famose “tabernulae” che diedero il nome al paese. Perfetta era l’organizzazione assistenziale della Pieve di Bovegno con il già citato ospitale di San Giovanni e le tre diaconie di Cimmo (S. Lorenzo), Irma ( S. Cosma ) e Marmentino. Un altro importante ospizio doveva trovarsi sul Colle di San Zeno ; i resti della chiesa di San Zenone sul valico montano erano ben visibili, secondo il Piotti, fino ai primi anni del ‘900 e, registrati negli archivi parrocchiali restano documenti che ne testimoniano il beneficio ed il culto. A Memmo di Collio (S. Faustino) a Collio (S. Nazaro) e, a detta di mons. Paolo Guerrini a S. Colombano, gestito dai frati di Bobbio, esistevano centri d’assistenza e cura a favore dei viaggiatori che salivano al Maniva o che proseguivano il loro cammino per Bagolino e la regione trentina. Alcuni degli edifici ricordati resistono, romiti, dove un tempo erano al centro di traffici e comunità, altri sono per sempre scomparsi e non ne restano che incerti ricordi. Rimane però la memoria di un’opera di assistenza e carità che ha favorito lo sviluppo spirituale, economico e sociale delle nostre valli. Pierantonio Bolognini 19 “ SETTANT’ANNI FA ERO SULL’ “ALVISE DA MOSTO” Un superstite ricorda il sacrificio della silurante Il 1° dicembre 1941, esattamente settant’anni fa, come recita il bollettino di guerra n. 550 In Mediterraneo, una formazione aereo-navale britannica ha attaccato una nostra silurante che è affondata dopo aver sostenuto uno strenuo combattimento. La storia di questo affondamento, tanto arida nella sua dizione burocratica, ci viene invece raccontata con altre parole ed altro sentimento dal gardonese Alfonso Rinaldini, allora sottocapo cannoniere, uno dei quattro bresciani (due soli tornati) che facevano parte dell’equipaggio dell’ “Alvise Da Mosto” il cacciatorpediniere da 1917 tonnellate di stazza costruito nei cantieri di Fiume nel 1931 che trovò la sua gloria in quella giornata d’eroismo, di combattimento e di morte. “Il cacciatorpediniere – racconta Rinaldini – procedeva al comando del capitano di fregata Francesco Dell’Anno ( che sarà poi insignito di medaglia d’oro al valor militare) nel Mediterraneo centrale di scorta ad una nave trasporto, quando venne segnalato l’arrivo di aerei nemici. Fu immediatamente aperto il fuoco e due dei tre aerei attaccanti dovettero desistere dalla loro azione mentre il terzo, purtroppo, riusciva a colpire il trasporto che restò immobilizzato. Il “Da Mosto” tentò quindi di avvicinarsi al vascello colpito per rimorchiarlo, ma giunsero parecchi aerei nemici che benché ostacolati dalla caccia aerea italiana, prontamente intervenuta, e dall’intenso fuoco di sbarramento della nostra nave, riuscirono a colpire la nave trasporto con potenti cariche prima di allontanarsi. Mentre si era intenti al recupero dei naufraghi le vedette segnalarono all’orizzonte i profili di due incrociatori ed un cacciatorpediniere nemici. Il comandante del “Da Mosto” avrebbe potuto approfittando della distanza, allontanarsi indisturbato, ma nonostante la sproporzione di forze, non esitò ad attaccare la formazione nemica. Giunti a breve distanza del convoglio nemico venne effettuato un primo lancio di silurica una salva di proiettili da 152 colpiva però la poppa della nostra unità – è ancora Rinaldini che parla - facendo esplodere il deposito delle munizioni e rendendo inutilizzabili i pezzi d’artiglieria qui collocati” 20 Solo quando la nave iniziò rapidamente ad inabissarsi e nessun pezzo di artiglieria era ormai funzionante, il comandante diede l’ordine di abbandonare la nave. Furono calati dei grossi salvagenti sui quali riuscimmo a caricare molti dei feriti ed ai quali ci ancorammo. Fortunatamente giunse inaspettato un altro cacciatorpediniere il “Prestinari” il cui comandante disobbedendo ad un ordine del Comado Marina di Tripoli di immediato rientro, iniziò l’opera di recupero di noi naufraghi. In quelle ore molti furono gli atti di solidarietà umana se non d’eroismo, che resteranno indelebili nella mia memoria e molti furono i commilitoni feriti o stremati che poterono essere posti in salvo” Una pagina di storia raccontata da un novantenne gardonese che ci ha riportato a tempi bui, alle azioni eroiche che hanno accompagnato tante imprese ed eventi in cui nostri concittadini nati sui monti, furono coinvolti e dei quali furono attori nelle acque di mari lontani. Pierantonio Bolognini _ËTÄä|áx _ËTÄä|áx wt `ÉáàÉ `ÉáàÉ |Ç Çtä|zté|ÉÇx 21 ALLA SCOPERTA DI LAZZARINO COMINAZZO Nella voluminosa monografia dedicata alla famiglia Beretta e pubblicata nel 1980 pe cura di Marco Morin e Robert Held , si fa rapido cenno all’antefatto ed alle circostanze che determinano l’assassinio di Lazzarino Cominazzi, nome ben noto agli studiosi ed ai collezionisti di armi antiche, come quello di colui che è il riconosciuto artefice delle pregevoli canne dette “lazzarine”. Marco Morin e Robert Held, autori del poderoso studio ora richiamato, riferiscono che la sera del 22 luglio 1641, al termine di una delle ricorrenti sparatorie che segnano con marchio di sangue la storia delle burrascose relazioni tra le principali fazioni che dividono le famiglie di Gardone V.T., si contano, ne centro del paese, numerosi feriti e ben 4 morti, tra i quali una donna. E’ proprio il figlio di questa signora, Angelo Chinelli, convinto che il fatale colpo che ha rapito ai vivi la madre sia partito dall’archibugio di Lazzarino Cominazzi, mediata rapida, tremenda vendetta. Spiate con la dovuta prudenza le mosse della sua vittima designata, la sera del 21 agosto – dunque a meno di un mese di distanza dal cruento episodio – mentre il famoso maestro di canne se ne sta tranquillamente affacciato al balcone della sua casa a godersi la fresca brezza del vespro inoltrato – dalla finestra di una abitazione che fronteggia la dimora del Cominazzi – lascia partire, fulminea, la micidiale archibugiata che spedisce per via direttissima davanti al Creatore l’ignaro, illustre Lazzarino. Fin qui i due studiosi, che han potuto pubblicare una breve cronaca del luttuoso evento – con prosa più sobria e spoglia rispetto alla precedente versione – sul fondamento di un dispaccio inviato dai Rettori veneti in Brescia al Consiglio dei Dieci. Recentissime ricerche condotte all’archivio parrocchiale di Gardone VT non solo confermano i fatti, nella data e nelle circostanze già note, ma consentono innanzitutto di conoscere i nomi di quanti perdono la vita nello scontro armato quel 22 luglio 1641, sinistro preludio alla morte del Cominazzi. Le vittime della tragica sparatoria sono elencate nel registro dei morti nel seguente ordine: Maestro Louis Cominazzi Maeatro Giovan Pietro Ossoli (Ussoli) Maestro Francesco Chinelli Donna Marta moglie di Maestro Ercule Chinelli 22 E’quest’ultima, indubitabilmente, la madre di Angelo Chinelli. Lo conferma il raffronto tra i vari registri anagrafici che consente, anzi, di ricostruire, senza troppe lacune, sia le ascendenze e gli altri legami familiari più prossimi e diretti del giustiziere di Lazzarino sia i rapporti di parentela e le aderenze che si stabiliscono tra quel ramo dei Chinelli ed altre casate gardonesi. Donna Marta è figlia di Alberto Vivianelli, un maestro di canne dimorante a Gardone, al quale il duro lavoro nell’officina, le alterne fortune nella professione e i ricorrenti disordini che agitano la vita sociale del paese non impediscono di guardare con ottimismo al futuro. E’ infatti padre di numerosa prole avuta vuoi dalla prima vuoi – dopo un breve periodo di vedovanza – dalla seconda moglie. Tra i figli di primo letto, generati a lui da una certa Pasqua – la documentazione superstite non ne trasmette il cognome – gli unici dei quali sia possibile leggere l’atto di battesimo sono Giovanni Antonio, portato al sacro fonte il giorno 8 dicembre 1576 e Girolamo, rigenerato dal sacramento dell’iniziazione cristiana il 2 febbraio 1579. Non è invece possibile sapere quando siano nati la stessa Marta e il fratello 23 Giuseppe. Ma la loro assenza sul registro parrocchiale dei battesimi – che comincia il giorno 1 gennaio 1573 – dovrebbe dimostrare che essi precedono in età i due figli di Alberto sopra ricordati e che, conseguentemente, siano nati dal suo primo matrimonio, Margherita, seconda moglie del Vivianelli, porta alla luce nell’ordine Angelica, Ludovica, Camilla, Elisabetta e Flaminia che sono battezzate tra il 2 aprile 1581 e il 5 settembre 1589 e hanno quali loro padrini, di volta in volta, Giuseppe Mutti, Antonio Chinelli e, ripetutamente Guerero Piccinardi. Questa dunque lunga serie degli zii di Angelo Chinelli, secondo il ramo materno. Quanto alle ascendenze paterne, allo stato delle ricerche, le fonti superstiti dicono che il nonno, del quale egli stesso riprende il nome, ha sposato una certa Angelica. Da lei ha avuto, oltre ad Ercole Lazzarino, padre del Nostro, battezzato il 16 settembre 1576, anche Gian Battista, presentato alla Chiesa il 19 giugno 1580. Il registro parrocchiale dei matrimoni segnala inoltre Giuseppe che il 30 agosto 1595, porta all’altare Maddalena fu Giuseppe Franzini e Giacomo che il giorno 11 luglio 1601 prende in moglie Giulia, figlia di Angelo Pagnoni. Dopo la morte del padre – intervenuta tra il 1595 e gli inizi del 1598 e qui non documentabile nella sua data esatta perché il registro archivistico dei defunti comincia solo dal 1622 – Ercole Lazzarino Chinelli, giovane ventiduenne, decide che è tempo di convolare a giuste nozze con la nominata Marta di Alberto Vivianelli. Il 24 settembre 1598 gli sposi si danno appuntamento nella chiesa parrocchiale di San Marco e, alla presenza del rettore Giuseppe Serafini e dei testimoni Andrea Daffini, Antonio Chinelli e Santo Pagnoni, contraggono il matrimonio “fatte le debite pubblicazioni secondo il Sacro Concilio Tridentino”. L’unione è feconda: il 29 ottobre 1600 nasce Angelica Domenica che tuttavia è destinata a vita brevissima. Lo lascia intendere il secondo battesimo voluto dalla coppia per un’altra Angelica Domenica che chiede il dono della fede il 26 marzo 1602 per la voce del padrino Cristoforo Rampinelli. Il 16 marzo 1604 viene al mondo Gian Battista, seguito il 13 febbraio 1606, da Maddalena Angelica. Il futuro vendicatore della madre, Angelo Rocco riceve il nome cristiano il 17 agosto 1611, avendo quali suoi padrini Giuseppe, figlio di G. Maria Chinelli e madonna Lavinia Franzini. Dopo di lui nascono Angelica Gisella, che riceve l’acqua battesimale tra le braccia di Martino Rizzini da Inzino, il giorno 27 gennaio 1614; Margherita Giulia, segnalata dal registro dei battesimi il 2 aprile 1617 con Andrea Pedersoli da Lodrino quale suo spirituale tutore; Giulia Caterina, rigenerata dal sacramento l’8 dicembre 1619, tra le braccia di Giacomino Mutti e Lucia Moretti. Escludendo la primogenita, prematuramente scomparsa, alla coppia 24 Ercole Chinelli – Marta Vivianelli rimangono dunque, oltre ad Angelo, altri 6 figli, una discendenza sufficiente a rafforzare antichi vincoli e a creare nuove parentele e aderenze. Ulteriori approfondimenti potrebbero esser in questo senso molto interessanti. Ma quanto già emerge dal presente studio basta a far bene comprendere quali siano tra le famiglie gardonesi più legate almeno a questo ramo dei Chinelli. Si può aggiungere in proposito e rapidamente che altri raffronti archivistici segnalano rapporti stretti della famiglia con gli Aiardi, gli Acquisti, i Belli, i Moretti con gli stessi Cominazzi. Non è possibile chiarire qui e ora, con la dovuta minuzia, le precise relazioni che intercorrono tra la stirpe del celebre Lazzarino e quella del suo assassino. Si può comunque tranquillamente osservare – senza bisogno del conforto di inediti documenti – che nella turbolenta Gardone della prima metà del Seicento, un vincolo di parentela non costituisce e sempre e assolutamente garanzia inviolabile di incolumità per lo sventurato che si trovi coinvolto, per qualsiasi ragione, nelle frequenti, furibonde zuffe che vedono fieramente insorgere, l’una contro l’altra armate, le opposte fazioni del paese. In questo contesto si colloca la morte di Marta Vivianelli e la pronta vendetta del figlio Angelo Rocco Chinelli. Il giovane abbraccia la stessa professione del padre: i registri archivistici lo qualificano infatti, di volta, in volta, maestro di canne e signore, termine quest’ultimo che generalmente indica una persona che appartenga ad una famiglia con qualche titolo di distinzione o che comunque sia riuscita a raggiungere una certa tranquillità economica, impresa non troppo facile in un paese nel quale la maggioranza degli abitanti naviga in acque piuttosto basse quando non debba affrontare tristissimi periodi di vera e propria siccità finanziaria. All’età di circa 25 anni, don Angelo Rocco Chinelli porta all’altare certa Cecilia Maddalena. Di lei i registri locali ignorano il casato. Anzi, il suo matrimonio non compare nemmeno nell’anagrafe parrocchiale di Gardone e ciò dovrebbe significare che gli sposi hanno celebrato le nozze in un’altra parrocchia, forse quella stessa di nascita o di residenza della donna. La primogenita della coppia, Margherita Maria, è battezzata il 17 settembre 1637, avendo quali suoi padrini don Pietro Moretti e donna Dorotea Acquisti. Un altro corredo rosa si prepara per Francesca che riceve l’acqua del sacro fonte tra le braccia di G. Battista Zambonardi e Maria Bertoglio, il 7 aprile 1641. A questo secondo lieto evento segue, per Angelo Chinelli, il grave lutto del 22 luglio, del quale egli stesso si fa vendicatore il 21 agosto, nei modi sopra descritti. Si può qui aggiungere che il delitto da lui meditato, ordito e compiuto è origine di altre turbinose violenze. Alla irrefrenabile ira dei diretti consanguinei di Lazzarino Cominazzi si sommano infatti diffusi e mal sopiti rancori e il 23 agosto, due giorni soltanto dopo l’assassinio del famoso 25 artefice, si scatenano in Gardone tumulti, tafferugli e risse di armate che finiscono per coinvolgere l’intero paese. Si scambiano pugni e botte da capogiro, si brandiscono lucenti lame, si puntano a destra e a sinistra i pregevoli archibugi. Alla fine degli scontri, due feriti gemono sul terreno della grande lotta mentre un terzo – certo Giovanni Maria, figlio di Cosimo Raffenoni, colpito da un’archibugiata in maniera letale – deve, suo malgrado, rassegnarsi a morire. Dei gravissimi fatti giunge puntuale eco a Brescia e a Venezia ma non risulta, al presente, che essi abbiano avuto qualche seguito in sede giudiziaria. Né la circostanza può stupire poiché altri precedenti episodi di natura criminale verificatisi a Gardone si erano affrontati con misure rivelatesi inefficaci o erano rimasti impuniti. Angelo Chinelli continua dunque la sua attività a capo d’una famiglia che il 2 luglio 1643 è finalmente allietata dalla nascita dell’erede maschio. Il bambino, al quale si impone il nome del nonno Ercole, è presentato alla Chiesa del padrino Lorenzo Daffini. Il primo ottobre 1646 è segnalata la nascita di Paola Girolama, portata al battesimo da G. Battista Gardoncini da Inzino e da Angelica Moretti. Il 10 giugno 1649 la famiglia si accresce ancora con G. Battista, cui segue, il 29 ottobre 1651, G. Pietro che ha come compadre Antonio Rizzini da Inzino; il 4 dicembre 1653 è la volta di Giuseppe Alberto portato al fonte da Apollonio Chinelli e, infine, il 23 ottobre 1659 vede la luce Domenico Paolo che riceve il battesimo, tra le braccia di Antonio Gardoncini, il 29 ottobre seguente. Le indagini archivistiche svolte in occasione del presente studio consentono ancora di affermare che questa copiosa e mista discendenza, attraverso altri intrecci matrimoniali, stringe ulteriori legami diretti con i Cominazzi, i Franzini, gli Zambonardi. Non sembra tuttavia opportuni in questa sede seguire oltre una vicenda familiare che, se qui venisse approfondita, allontanerebbe alquanto il discorso dal tema assunto. E, d’altra parte, nemmeno Angelo Rocco Chinelli 26 vive tanto da poter vedere ammogliati i figli e maritare le figlie poiché il 28 luglio 1661 muore. Pochi mesi appresso lo segue la moglie Cecilia. Entrambi sono sepolti nella chiesa parrocchiale. Francesco Trovati 27 Cos’è Volere … Cos’è volere Se non una parola Che racchiude in sé La chiave della felicità. Cos’è possedere Se non una parola Che racchiude in sé La chiave della passione. Cos’è potere Se non una parola Che racchiude in sé La chiave della speranza. Cos’è rischiare Se non una parola Che racchiude in sé La chiave del coraggio 28 Cos’è agire Se non una parola Che racchiude in sé La chiave della brama d’avere, del desiderio Cosa sono la felicità, la passione, la speranza Il coraggio, il desiderio Se non un sogno che cerca di volare tra le braccia della realtà? S. Z. 29 30