Comune di
Cavriago
il Multiplo parlante alla scoperta dei tesori nascosti
Tra gli scaffali prendono vita le pagine di romanzi, poesia, fumetti, biografie con i lettori volontari
Amici del Multiplo e le voci di Monica Morini e Bernardino Bonzani del TeatrO dell’Orsa.
Un tempo per assaggiare il suono dei libri, per condividere memorie e immaginazioni, un percorso
itinerante alla scoperta dei tesori nascosti del Multiplo.
Venerdì 11 ottobre 2013.
Ne IL MULTIPLO PARLANTE le voci dei lettori volontari daranno vita alle pagine dei libri amati,
permettendoci di scoprire piccoli e grandi tesori nascosti tra gli scaffali del Multiplo
Il percorso itinerante a tappe tra le aree tematiche del Multiplo sarà l’opportunità per raccogliere
spunti di lettura e riflessione, ma anche per abbandonarsi al piacere dell’ascolto, lasciandosi cullare
dalla voce e dalla passione dei nostri Amici lettori.
da COME UN ROMANZO
di Daniel Pennac
Questo per quanto riguarda il “libro”.
Passiamo al lettore.
Perché, ancor più istruttivo del nostro modo di trattare i libri, c’è il nostro modo di leggerli.
In fatto di lettura, noi “lettori” ci accordiamo tutti i diritti, a cominciare da quelli negati ai giovani che
affermiamo di voler iniziare alla lettura.
1) il diritto di non leggere.
2) il diritto di saltare le pagine.
3) i1 diritto di non finire un libro.
4) il diritto di rileggere.
5) i1 diritto di leggere qualsiasi cosa.
6) Il diritto al bovarismo.
7) i1 diritto di leggere ovunque.
8) I1 diritto di spizzicare.
9) I1 diritto di leggere a voce alta.
10) Il diritto di tacere.
Mi fermerò arbitrariamente al numero 10, in primo luogo perché fa cifra tonda e poi perché è il
numero sacro dei famosi Comandamenti ed è bello, per una volta, vederlo servire a una lista di
autorizzazioni.
Poiché se vogliamo che mio figlio, mia figlia, i giovani leggano è tempo di concedere loro i diritti che
accordiamo a noi stessi.
LA SIGNORA DEL ROSARIO
di Annamaria Gozzi
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Cavriago
Quell’estate faceva caldo.
L’erba, intorno alla chiesa, era bassa e bruciata e si erano formate certe crepe nella terra, più larghe del
manico di una vanga. Qualche anima sparuta si fermava a bere alla fontana del cortile; ciclisti o passanti
che, con la scusa di una sosta, entravano nella frescura della chiesa per accendere un cero.
Passata la baraonda dei festeggiamenti del 23 giugno, l’oratorio si presentava sempre deserto, la porta
spalancata, il rumore della campagna intorno.
Seduta sulla panca di pietra, all’ombra del muro dell’oratorio, la Noemi con il rosario tra le mani,
bisbigliava preghiere, una dietro l’altra. Il caldo si spargeva producendo lentezza.
…
-Buongiorno. È lei la custode?- le parole dell’uomo zittirono, per un attimo, il canto delle cicale.
-Custode e direttrice- precisò in fretta la Noemi. Il suo sguardo restò attaccato al grano del rosario
trattenuto tra le dita.
Il ciclista gironzolò tra la calura del prato, osservando la struttura della chiesa che tanto assomigliava alla
curva della schiena di quella strana vecchina. Era come se l’oratorio e la vecchia si sorreggessero l’uno
con l’altra.
-Vive sola qui?- chiese accorgendosi che la mano grinzosa riponeva il rosario nella tasca del grembiule.
La Noemi in quell’estate aveva già compiuto 92 anni, era invecchiata sotto il suo fazzoletto incurante del
tempo. Non si sentiva vecchia, come non si era mai sentita giovane.
- Non sono sola. C’è San Giovanni con me -.
Nella testa della Noemi c’erano molte più cose di quelle successe realmente.
LA MIA SVEGLIA ERA IL CANTO
DEL GALLO
di Aldo Fantini
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Cavriago
Le prime feste fecero molto successo, erano sempre affollatissime, la più importante di tutte era quella
svolta al parco Terrachini, nella periferia di Reggio a Pieve Modolena.
La gente si muoveva con la bicicletta, nei depositi del festival c’erano immense distese di biciclette, le
persone venivano dalla città e dai paesi limitrofi.
La maggioranza della gente veniva per cenare, i giovani preferivano portarsi subito dove c’erano le piste
da
ballo, c’erano tante ragazze, la compagnia si trovava sempre.
Ricordo una sera, quando chiesi a una ragazza di fare un ballo. Rimasi in sua compagnia tutta la sera, la
ragazza aveva molte conoscenze era salutata da tante donne e uomini e trovai in lei una persona molto
socievole e di compagnia.
Aveva qualche lentiggine sulla pelle del naso, parlava un dialetto molto marcato con accento reggiano.
Pensavo fosse residente in città, evidenziava dei modi molto raffinati, alla cittadina, invece abitava a
Rivalta.
Così da un discorso all’altro la serata stava per finire e, senza che ce ne accorgessimo, l’orologio segnava
la mezzanotte. Ci congedammo con una promessa reciproca, quella di rivederci presto.
Nello stesso inverno, a Rivalta, si ballava in un salone tutte le domeniche sera. Io con i miei amici, una
domenica, ci andammo.
La signorina trovata al parco Terracchini stava ballando.
Alla prima pausa dell’orchestra, mi avvicinai e le chiesi il ballo. Era la seconda serata che ballavamo
assieme, nei nostri colloqui c’era già confidenza.
Dopo un paio di anni, decidemmo di sposarci: la signorina di Rivalta che parlava il reggiano doc,
mi aveva fregato.
CARMEN ZANTI
UNA BIOGRAFIA AL FEMMINILE
di Paola Nava e Maria Grazia Ruggerini
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Cavriago
“Si era nel settembre del 1943 di questi giorni, (…) Amos’’ il padre me la presentò e disse: Questa sarà la
staffetta che manterrà i contatti fra me e te con il compagno Attilio Gombia. (...). Conobbi così “Paola”
- quello era il nome di battaglia di Carmen Zanti in quei giorni - (...). Mi impressionò benevolmente quando
mi disse: “io faccio quel che è necessario fare senza guardare a nessuno sacrificio. (...). Un giorno,
nel novembre del 1943, andammo a trovare Gombia a S. Rocco di Guastalla. Eravamo in bicicletta
entrambi e sulla strada vedemmo un notevole movimento di truppe tedesche. Tranquilla procedeva veloce,
con quella sua bicicletta molto alta, così alta che nemmeno io ci arrivavo a montarla, noncurante dei lazzi
che alcuni militari le fecero quando la fermarono per scherzare. Ma non la fermarono in quel momento
per altre cose. Io la sentivo rispondere con calma disinvolta”.
“Non è che noi facessimo delle battaglie, come in montagna. Noi andavamo avanti e indietro a portare dei
documenti.., lei viveva con suo padre e suo fratello allora (...). Dopo siamo andate a vivere io e lei verso
S. Maurizio, in una casa, e siamo rimaste lì tre o quattro mesi (...).
Dopo la Liberazione, Carmen diventa prima dirigente dell’U.D.I. e poi parlamentare e continua a svolgere
la sua attività politica.
“Una volta l’U.D.I. aveva fatto una mostra e lei con un carrettino con le sedie sopra le portava per
l’allestimento; qualcuno le aveva fatto osservazione (...) Lei rispose che il padre le diceva che un dirigente
non deve essere presuntuoso e distaccato dalla realtà della vita. Nella vita una persona, anche se occupa
posti di responsabilità, si deve abbassare e essere umile. Queste cose Carmen le ripeteva molto spesso.”
IO GUARDO SPESSO IL CIELO.
DA “FUOCO CENTRALE”
di Mariangela Gualtieri
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Poesia
Io guardo spesso il cielo. Lo guardo di mattino nelle
ore di luce e tutto il cielo s'attacca agli occhi e viene a
bere, e io a lui mi attacco, come un vegetale
che si mangia la luce.
IO VORREI, SUPERATO OGNI TREMORE
di Alda Merini
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Poesia
Io vorrei, superato ogni tremore giungere alla bellezza che mi incalza, dalla rovina del silenzio, fonda,
togliere la misura della voce e cantare all’unisono coi suoni; stamparmi nelle palme ogni vigore in crescita
perenne e modulare un attento confine con le cose ov’io possa con esse colloquiare difesa sempre da
incipienti caos. Vorrei abitare nel segreto cuore centro d’ogni più puro movimento, animare di me gli
spenti aspetti dei fantasmi reali e riplasmare le parabole ardenti ove ogni grazia è tocca dal suo limite.
Variata stupendamente da codesti incontri numererà la plurima mia essenza entro un solo, perenne,
insistere di toni adolescenti. Nell’aperta misura delle ali del più libero uccello, nel vigore degli alberi, nella
chiarezza-musica dei venti, nel frastuono puerile dei colori, nell’aroma del frutto, sarò creatura in unico e
diverso principio, senza origine né segno.
Wislawa Szymborska
Per me l'atto più importante della tragedia è il sesto:
il risorgere dalle battaglie della scena,
l'aggiustare le parrucche, le vesti,
l'estrarre il coltello dal petto,
il togliere il cappio dal collo,
l'allinearsi tra i vivi
con la faccia al pubblico.
Inchini individuali e collettivi:
la mano bianca sulla ferita al cuore,
la riverenza della suicida,
il piegarsi della testa mozzata.
Inchini in coppia:
la rabbia porge il braccio alla mitezza,
la vittima guarda beata gli occhi del carnefice,
il ribelle cammina senza rancore a fianco del tiranno.
Il calpestare l'eternità con la punta della scarpina dorata.
Lo scacciare le morali con le falde del cappello.
L'incorreggibile intento di ricominciare domani da capo.
L'entrare in fila indiana di morti già da un pezzo,
e cioè negli atti terzo, quarto, e tra gli atti.
Il miracoloso ritorno di quelli spariti senza tracce.
Il pensiero che abbiano atteso pazienti dietro le quinte,
senza togliersi il costume,
senza levarsi il trucco,
mi commuove più delle tirate della tragedia.
Ma davvero sublime è il calare del sipario
e quello che si vede ancora nella bassa fessura:
ecco, qui una mano si affretta a prendere un fiore,
là un'altra afferra la spada abbandonata.
Solo allora una terza, invisibile,
fa il suo dovere
e mi stringe alla gola.
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Poesia
BAMBINA MIA
di Mariangela Gualtieri
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Poesia
Per te avrei dato tutti i giardini
del mio regno, se fossi stata regina,
fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.
Tutto il regno per te.
Tocca a te, ora,
a te tocca la lavatura di queste croste
delle cortecce vive.
Ti lascio invece baracche e spine,
polveri pesanti su tutto lo scenario
battiti molto forti
palpebre cucite tutto intorno. Ira
nelle periferie della specie. E al centro
ira.
C’è splendore
in ogni cosa. Io l’ho visto.
Io ora lo vedo di più.
C’è splendore. Non avere paura.
Ma tu non credere a chi dipinge l’umano
come una bestia zoppa e questo mondo
come una palla alla fine.
Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e
di sangue. Lo fa perché è facile farlo.
Ciao faccia bella,
gioia più grande.
Il tuo destino è l’amore.
Sempre. Nient’altro.
Nient’altro. Nient’altro.
Noi siamo solo confusi, credi.
Ma sentiamo. Sentiamo ancora.
Siamo ancora capaci
di amare qualcosa.
Ancora proviamo pietà.
NON ESSENDO CHE UOMINI
di Dylan Thomas
Non essendo che uomini,
camminavamo tra gli alberi
Spauriti, pronunciando sillabe sommesse
Per timore di svegliare le cornacchie,
Per timore di entrare
Senza rumore in un mondo di ali e di stridi.
Se fossimo bambini potremmo arrampicarci,
Catturare nel sonno le cornacchie, senza spezzare un rametto,
E, dopo l’agile ascesa,
Cacciare la testa al disopra dei rami
Per ammirare stupiti le immancabili
stelle.
Dalla confusione, come al solito,
E dallo stupore che l’uomo conosce,
Dal caos verrebbe la beatitudine.
Questa, dunque, è leggiadria, dicevamo,
Bambini che osservano con stupore le stelle,
E’ lo scopo e la conclusione.
Non essendo che uomini, camminavamo tra gli alberi.
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Poesia
IDILLIO CON CAGNOLINO
Alba Donati
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Poesia
Notte di San Lorenzo
Dormite insieme nello stesso letto
con i vostri ottant’anni di differenza,
del mondo non sappiamo più niente:
non ascoltiamo i telegiornali
né tantomeno compriamo un giornale,
abbiamo scelto il silenzio, l’accadere del giorno,
lo spazio intorno alla nostra casa.
Se c’è da andare in farmacia, andiamo
se c’è da andare alla posta, anche
ma per il resto abbiamo deciso
di coprire a grandi passi il selciato
davanti alla porta e di salire e scendere
le scale tante volte per prendere e portare.
Poi quando vengo a dormire vi separo:
ti metto nel letto piccolino e io prendo
il tuo posto nel letto matrimoniale.
Salgono gli spiriti nella stanza
attratti dalla mancanza di rumori,
anche un’aria stellata avvolge le mura
e noi veleggiamo tutta la notte,
tu alla ricerca della Strega Malefica,
io di te, e tua nonna di te, di me, e del suo primo amore.
LA PACE
di Alda Merini
La pace che sgorga dal cuore
e a volte diventa sangue,
il tuo amore
che a volte mi tocca
e poi diventa tragedia
la morte qui sulle mie spalle,
come un bambino pieno di fame
che chiede luce e cammina.
Far camminare un bimbo è cosa semplice,
tremendo è portare gli uomini
verso la pace,
essi accontentano la morte
per ogni dove,
come fosse una bocca da sfamare.
Ma tu maestro che ascolti
i palpiti di tanti soldati,
sai che le bocche della morte
sono di cartapesta,
più sinuosi dei dolci
le labbra intoccabili
della donna che t'ama.
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Poesia
Arthur RIMBAUD 1870,
a 16 anni (1854-1891)
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Poesia
SENSATION
Par les soirs bleus d'été, j'irai dans les sentiers,
Picoté par les blés, fouler l'herbe menue :
Rêveur, j'en sentirai la fraîcheur à mes pieds.
Je laisserai le vent baigner ma tête nue.
Je ne parlerai pas, je ne penserai rien,
Mais l'amour infini me montera dans l'âme ;
Et j'irai loin, bien loin, comme un bohémien,
Par la Nature, heureux- comme avec une femme.
SENSAZIONE
Le sere blu d’estate me ne andrò
per dei sentieri dove punge il grano
calpesterò l’erbetta e sentirò
sognando fresco ai piedi e lascerò
che il vento inondi la mia testa nuda
non parlerò non penserò l’amore
mi prenderà l’anima e vagabondo
lontanissimo per la natura andrò
felice come insieme ad una donna
ULTIMA RIMA. PER I GRANDI. di Bruno Tognolini
da Rime di rabbia
Gli abbiamo detto che la rabbia non è bene
Bisogna vincerla, bisogna fare pace
Ma che essere cattivi poi conviene
Più si grida, più si offende e più si piace
Gli abbiamo detto che bisogna andare a scuola
E che la scuola com’è non serve a niente
Gli abbiamo detto che la legge è una sola
Ma che le scappatoie sono tante
Gli abbiamo detto che tutto è intorno a loro
La vita è adesso, basta allungar la mano
Gli abbiamo detto che non c’è più lavoro
E quella mano la allungheranno invano
Gli abbiamo detto che se hai un capo griffato
Puoi baciare maschi e femmine a piacere
Gli abbiamo detto che se non sei sposato
Ci son diritti di cui non puoi godere
Gli abbiamo detto che l’aria è avvelenata
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Poesia
Perché tutti vanno in macchina al lavoro
Ma che la società sarà salvata
Se compreranno macchine anche loro
Gli abbiamo detto tutto, hanno capito tutto
Che il nostro mondo è splendido
Che il loro mondo è brutto
Bene: non c’è bisogno di indovini
Per sapere che arriverà il futuro
Speriamo che la rabbia dei bambini
Non ci presenti un conto troppo duro
IL TEATRO DEL CUORE
di Hélène Cixous
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Teatro
Ho bisogno di un certo Teatro, il cui nome è Shakespeare, o Verdi, Sofocle o Rossini. Ho bisogno che
questo teatro mi racconti delle storie e che me le racconti come lui solo può raccontarmele: in modo
leggendario e tuttavia dritto negli occhi.
Perché se questo Teatro è necessario, lo è perché ci permette di vivere ciò che nessun «genere» ci
permette: la difficoltà che abbiamo di essere umani.
A dire il vero noi andiamo a teatro altrettanto raramente che al nostro cuore, ed è di andare al cuore il
nostro e quello delle cose, che sentiamo la mancanza.
TEATRO DELL’OBBLIGO
da Tingeltangel
di Karl Valentin
Come mai i teatri sono vuoti? Solo perché il pubblico non ci va. La colpa è tutta dello Stato. Perché non
si istituisce il teatro dell’obbligo? Se ognuno sarà costretto ad andare a teatro, le cose cambieranno
immediatamente. Perché credete che abbiano istituito la scuola dell’obbligo? Nessuno scolaro andrebbe
a scuola se non fosse costretto ad andarci. Per il teatro, anche se non è facile, forse si potrebbe senza
troppe difficoltà fare lo stesso. Con la buona volontà e col senso del dovere si ottiene tutto.
Non è forse vero che anche il teatro è una scuola, punto interrogativo!
Non è davvero la stessa cosa dire: « Ci vado stasera a teatro? » oppure:
« Oggì devo andare a teatro » . Con l’obbligo del teatro ogni singolo cittadino rinuncia spontaneamente
a tutti gli altri stupidi divertimenti serali.
E’ costretto ad andare a teatro trecentosessantacinque volte l’anno, che il teatro gli faccia schifo o no.
Anche a uno scolaro fa schifo andare a scuola, ma ci va volentieri perché è suo dovere. - Obbligo! Solo con la costrizione oggi si può costringere il pubblico ad andare a teatro.
Soltanto con simili grandiosi strumenti di potere è possibile rimettere in piedi i locali vuoti, non certo
coi biglietti gratuiti, no; l’unico sistema è l’obbligo, e il potere di obbligare il cittadino ce l’ha solo lo
Stato.
IL VANGELO SECONDO BIFF
di Christopher Moore
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Narrativa
Voi pensate di sapere come va a finire questa storia, ma sbagliate. Fidatevi, io c’ero. E lo so.
La prima volta che vidi l’uomo che avrebbe salvato il mondo, lui era seduto vicino al pozzo centrale
di Nazaret con una lucertola che gli penzolava dalla bocca. Si vedevano solo l’estremità della coda e
le zampe posteriori; l’altra metà l’aveva già inghiottita. Aveva sei anni come me e non gli era ancora
spuntata la barba, quindi non somigliava molto alle immagini deve è raffigurato. Gli occhi erano color
miele scuro e mi sorridevano da sotto una zazzera di riccioli nero-blu che gli incorniciavano il viso.
In quegli occhi c’era una luce più vecchia di Mosè.
“Immondo, immondo!” gridai indicandolo, così che mia madre potesse capire che conoscevo la
Legge; ma lei ignorò, così come tutte le altre madri che stavano riempiendo le giare al pozzo.
Il ragazzino si tolse la lucertola di bocca e la passò al fratello più piccolo, seduto accanto a lui sulla
sabbia. Questi giocò con la bestiola per un po’, stuzzicandola fino a farle alzare la testolina quasi
volesse morderlo; poi prese un sasso e gliela sfracellò. Perplesso, spinse la lucertola morta in mezzo
alla sabbia; assicuratosi che non sarebbe andata da nessuna parte, la prese e la restituì al fratello
maggiore.
Lui se la infilò in bocca e, prima che avessi il tempo di maledirlo di nuovo, la bestiolina uscì
contorcendosi, viva e vegeta e pronta a mordere ancora una volta. La diede di nuovo al fratellino,
che la colpì violentemente con il sasso, ricominciando e completando l’intero processo.
Guardai la lucertola morire altre volte, e poi dissi:
“Voglio farlo anch’io”.
Il Salvatore se la tolse di bocca e mi chiese :”Quale parte?”
A proposito, lui si chiamava Gesù. Jesus è la traduzione greca dall’ebraico
Yeshua, Gesù. Cristo non è un cognome. E’ il corrispondente greco di messiah, un termine ebraico
che significa unto. Non ho idea del significato
dell S in Gesù S. Cristo. E’ una delle cose che avrei dovuto chiedergli.
E io? Io sono Levi detto Biff. Niente secondo nome.
E Gesù era il mio migliore amico.
LA LEGGENDA DEL MORTO CONTENTO lo trovi nell’area
Narrativa
di Andrea Vitali
Correva ottobre ormai, denso di colori. Un lago che sembrava da mangiare. Un cielo terso,
montagne gialle e marroni, voci di uccelli migratori in aria e un profumo denso di bosco, muschi e
alghe macerate. C’era chi a quell’aria si inebriava, inalandola come una medicina, un balsamo, un
lenimento contro l’inverno prossimo venturo.
Ma era gente che aveva la testa tra le nuvole e tempo da perdere, lazzaroni, sfaccendati: solo chi
apparteneva a queste razze poteva prestare occhi orecchie e naso a cieli tersi, alghe, muschi e tutte
quelle balle lì.
Un carceriere no, non lo poteva fare.
ALMOST BLUE
di Carlo Lucarelli
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Gialli
Il suono del disco che cade sul piatto è un sospiro veloce, che sa appena un po' di polvere. Quella
del braccio che si stacca dalla forcella è un singhiozzo trattenuto, come uno schioccare di lingua, ma
non umido, secco. Una lingua di plastica. La puntina, strisciando nel solco, sibila pianissimo e
scricchiola, una o due volte. Poi arriva il piano e sembrano le gocce di un rubinetto chiuso male e il
contrabbasso, come il ronzio di un moscone contro il vetro chiuso di una finestra, e dopo la voce
velata di Chet Baker, che inizia a cantare Almost Blue. A starci attenti, molto attenti, si può
sentire anche quando prende fiato e stacca le labbra sulla prima a di almost, così chiusa e modulata
da sembrare una lunga o. Al-most-blue... con due pause in mezzo, due respiri sospesi da cui si
capisce, si sente che sta tenendo gli occhi chiusi. Per questo mi piace Almost Blue. Perché è una
canzone che si canta a occhi chiusi. Io, con gli occhi chiusi, ci sto sempre, anche se non canto. Sono
cieco, dalla nascita. Non ho mai visto una luce, un colore o un movimento.
Ascolto. Scandaglio il silenzio che mi circonda, come uno scanner, uno di quegli apparecchi
elettronici che spazzano l'etere a caccia di suoni e di voci e si sintonizzano automaticamente sulle
frequenze occupate. So usarli benissimo, gli scanner, quello che ho dentro la testa da venticinque
anni, fin da quando sono nato e quello che tengo in camera mia, accanto al giradischi. Se avessi degli
amici, se ne avessi, di sicuro mi chiamerebbero Scanner. Mi piacerebbe.
Io di amici non ne ho. Per colpa mia. Perché non li capisco. Parlano di cose che non mi riguardano.
Dicono lucido, opaco, luminoso, invisibile. Come in quella favola che mi raccontavano da
bambino per farmi dormire, in cui c'era una principessa così bella e con una pelle così fine che
sembrava trasparente. Ci ho messo tanto, tante notti sveglio a pensare, prima di capire che
trasparente voleva dire che ci si poteva guardare dentro. Per me significava che le dita ci passavano
attaverso.
Anche i colori per me hanno un altro significato. Hanno una voce, i colori, un suono, come tutte le
cose. Un rumore che li distingue e che posso riconoscere. E capire. L'azzurro, per esempio, con
quella zeta in mezzo è il colore dello zucchero, delle zebre e delle zanzare. I vasi, i viali e le volpi
sono viola e giallo è il colore acuto di uno strillo. E il nero, io non riesco a immaginarlo ma so che
è il colore del nulla, del niente, del vuoto. Però non è solo una questione di assonanza. Ci sono
colori che per me significano qualcosa per l'idea che contengono. Per il rumore dell'idea che
contengono. Il verde, per esempio, con quella erre raschiante, che gratta in mezzo e prude e
scortica la pelle, è il colore di una cosa che brucia, come il sole. Tutti i colori che iniziano con la b,
invece, sono belli. Come il bianco o il biondo. O il blu, che è bellissimo. Ecco, ad esempio, per me
una bella ragazza, per essere davvero bella, dovrebbe avere la pelle bianca e i capelli biondi. Ma se
fosse veramente bella, allora avrebbe i capelli blu.
( stop)
Ci sono anche colori che hanno una forma. Una cosa rotonda e grossa è sicuramente rossa. Ma le
forme non mi interessano. Non le conosco. Per conoscerle bisogna toccarle e a me toccare non
piace, non mi piace toccare la gente. E poi con le dita sento solo le cose che ho attorno, mentre
con le orecchie, con quelle che ho dentro la testa, posso arrivare lontano. Preferisco i rumori.
Per questo uso lo scanner. Tutte le sere, salgo in camera mia e metto sul piatto un disco di Chet
Baker. Sempre lo stesso, perché mi piace il suono della sua tromba, tutte quelle p, piccole e
profonde, che mi girano attorno e mi piace la sua voce che canta piano, come se venisse da dietro
la gola e facesse fatica a uscire e per farlo si dovesse soffiare con tanto impegno da dover chiudere
gli occhi. Soprattutto quel pezzo, Almost Blue, che io punto per primo, anche se è l'ultimo. Così
tutte le sere e tutte le notti aspetto che Almost Blue mi scivoli lentamente in fondo alle orecchie,
che la tromba, il contrabbasso, il pianoforte e la voce diventino la stessa cosa e riempiano il vuoto
che ho dentro la testa. Allora, accendo lo scanner e ascolto le voci della città. Io, Bologna, non l'ho
mai vista. Ma la conosco bene, anche se probabilmente è una città tutta mia. È una città grande:
almeno tre ore. L'ho sentito una volta che mi sono sintonizzato sul CB di un camion e l'ho seguito
per tutto il tempo che è rimasto nel raggio del mio scanner. Da quando è entrato finché non l'ho
sentito sparire all'improvviso, il camionista ha sempre parlato con qualcuno, guidato e parlato,
guidato e parlato, per tutta la mia città.
A VEDERLA NON SI DIREBBE
di Silvana D’Angelo
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Narrativa
Tutto è cominciato coi fumetti.
I miei genitori ci avevano abbonato a “Topolino”, che arrivava puntuale nella nostra casella ogni mercoledì, avvolto in una bellissima plastica azzurra trasparente.
Io e la Manuela lo aspettavamo con trepidazione, e per essere le prime ad averlo in mano,
naturalmente, si litigava.
Per qualche anno ha vinto lei, visto che già conosceva l’alfabeto. Io mi limitavo a guardare le figure, e
dovevo chiedere a qualcuno di leggermi i fumetti a voce alta. Non ricordo chi si prestasse a questo
compito. Di sicuro non mia sorella, direi piuttosto Assunta, una cugina più grande che ha vissuto con
noi diversi anni, e un paio di volte deve aver trovato il tempo anche mia madre. Mi risuona ancora
nelle orecchie la sua interpretazione pesantemente lombarda di espressioni come Bang! e Squack!,
con effetti che adesso troverei comici.
Quello che certamente non dimenticherò mai, è la sensazione di indipendenza, orgoglio ed euforia che
ho provato quando sono riuscita a leggere da sola le misteriose nuvolette. È stato l’inizio di un viaggio
che non è ancora terminato.
A casa mia i libri non mancavano: mia nonna era stata la maestra del suo paesino, sul lago d’Iseo, e
forse venivano da lei le prime pubblicazioni per bambini che abbiamo conosciuto, con le loro storie
lacrimevoli di orse che si lasciavano morire di fame pur di non togliere la vita a lepri e cerbiatti, e di
bambini cattivi che non si lavavano mai, fino a soccombere con ignominia alla loro stessa sporcizia.
Avevamo anche quattro bellissimi volumi illustrati di fiabe, di cui io e mia sorella, manco a dirlo, ci
litigavamo la proprietà, e una grande raccolta di fiabe sonore, con disco a 45 giri allegato, di cui
ricordo ancora il coretto delle sigle, e qualche canzoncina sparsa. Le ascoltavamo infilandole in un
mangiadischi color arancio dal pulsantone nero.
Dopo le favole, sono arrivati i romanzi, il richiamo della foresta è il primo che ho affrontato, e la sua
frase iniziale, “Buck non leggeva i giornali”, è rimasta incisa nella mia memoria, nero su bianco.
Leggevo di tutto, gli opuscoli delle vite dei santi distribuiti a catechismo, i libri di cucina di mia madre,
con i loro ingredienti misteriosi da pozione magica; cremor tartaro, zenzero? che saranno mai? e dove
li venderanno?
Ogni occasione era buona, per perdermi tra le pagine di un libro.
Leggevo a scuola, quando i miei compagni si scatenavano tra i banchi, o nei momenti morti, mentre
sgobbavano su un problema di matematica. Leggevo in cortile, naturalmente, invece di stare con gli
altri bambini. Mi è capitato di non riuscire a chiudere un libro appassionante durante una visita a certi
lontani parenti, e mio padre, per insegnarmi l’educazione, mi ha mollato una solennissima sberla.
Ma senz’ombra di dubbio, il posto più meraviglioso del mondo per leggere era il mio letto, a casa mia.
Non so quanto tempo avrò passato sul materasso, durante l’infanzia, però tra sonno e lettura, se
faccio il conto, di certo sono stata una bambina molto più orizzontale che verticale.
Leggere a letto va bene, finché è didatticamente utile. Superato un certo limite, però, l’occupazione
comincia a farsi nociva e sospetta.
Ricordo che un giorno mia mamma è entrata nella nostra stanza, ci ha guardato per un minuto,
perplessa, e poi ha detto: «Certo che se da grandi dovessero mettervi in prigione, a voi non è che
dispiacerebbe tanto. Magari anche all’ergastolo.
Oppure se vi venisse una malattia che vi costringe a stare tutto il giorno a letto, in ospedale.
Magari sareste anche contente...»
UN MONDO PERDUTO
di Walter Bonatti
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Tempo Libero
Quando si è molto giovani capita di non sapere bene chi si è e che cosa si vuole dalla vita.
Indubbiamente però noi tutti disponiamo di un misterioso filo conduttore che prima o poi finirà per
farci scegliere ciò che per indole è già latente in noi, e servirà a costruire la nostra personalità.
Ero ragazzo e dalla Pianura Padana dove per qualche anno ho vissuto in tempo di guerra, guardavo
sull’orizzonte la linea azzurrina dei monti lontani: le Prealpi; e sognavo. Per me quelle cime
rappresentavano l’«insormontabile», e tuttavia erano di modesta altezza. In egual misura amavo molto
starmene per ore intere a fantasticare sulle rive del Po.
…
Da ragazzo ho sempre divorato libri d’avventura, trasponendone poi il contenuto ai luoghi a me
familiari. E’ così che il Po raffigurava per me il Mississippi o il Rio delle Amazzoni. Stevenson, Conan
Doyle, Conrad, Jack London, Melville e tanti altri come loro sono stati i miei vangeli.
Autori erano questi che sapevano vedere il mondo come anch’io avrei voluto vederlo. Ed è ciò che
avvenne.
…
L’avventura per me è una spinta personale.
Per sentirsi un po’ di spazio intorno, un po’ di quiete, a pensarci bene non è necessario andare nell’Antartide o nell’Amazzonia, perché il vero spazio costruttivo, secondo me, è quello della mente. E lì
che bisogna crearselo!
Il bello dell’avventura è sognarla, dare aria all’immaginazione, poi si potrà anche tentare di dare
materia ai propri sogni. Per questo la fantasia deve accompagnarci sempre. Noi dunque facciamo dei
sogni e la nostra immaginazione ci dà delle idee, si tratta di sapere se riusciremo a realizzarle oppure
no.
L’ARTE DI CORRERE di Murakami Haruki
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Narrativa
Quando avevo forse sedici anni, ho aspettato che i miei non fossero in casa, poi mi sono messo nudo
davanti allo specchio e mi sono esaminato dalla testa ai piedi. Dopodiché ho fatto la lista di tutte le
parti del mio corpo che erano — o mi parevano — esteticamente al di sotto della media. Per
esempio... non so, avevo le sopracciglia troppo spesse, o delle brutte unghie. Ricordo che la lista è
arrivata a ventisette voci. Dopo averne contate ventisette, mi sono stufato e ho smesso. E mi sono
detto: «Se già nella parte visibile di me stesso ho trovato tante carenze, inoltrandomi in altri territori
- il carattere, il cervello, l’attitudine allo sport... - non finirà più».
I sedici anni, si sa, sono un’età difficile.
Poi con il passare degli anni, attraverso tentativi ed errori si raccoglie ciò che va raccolto e si butta ciò
che va buttato, e si riconosce che se ai difetti e alle carenze non c’è limite, forse si possiedono anche
delle qualità. E bisogna arrangiarsi con quelle.
Oggi ho quarant’anni, scrivo e corro.
La maratona è stata dura, a un certo punto stavo quasi per perdermi d’animo. Ma in questo sport la
fatica è data per scontata.
Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica riusciamo a provare, almeno per un
istante, la sensazione autentica di vivere. Raggiungiamo la consapevolezza che la qualità del vivere non
si trova in valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell’azione stessa, vi scorre dentro.
Come vengano giudicati il tempo che ottengo in gara e il mio posto in graduatoria, come venga
considerato il mio stile, è di secondaria importanza. Ciò che conta per me, per il corridore che sono,
è tagliare un traguardo dopo l’altro, con le mie gambe. Usare tutte le forze che sono necessarie,
sopportare tutto ciò che devo, e alla fine essere contento di me.
GIARDINO & ORTO TERAPIA
di Pia Pera
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Casa
Da bambina non volevo le bambole, e nemmeno i pantaloni. Volevo un giardino.
Non sapevo bene perché, ma desideravo, intensamente, quattro metri quadrati di terra recintata tutta
per me, dove potere crescere, e far crescere, indisturbata. Un recinto e un piccolo pezzo di terra per
proteggere e nutrire soprattutto la mia libertà. Un’avventura infinitamente più ricca di quella offerta
dai giocattoli che mi venivano regalati ma non da me richiesti. I giocattoli, si capisce, sono la cosa
normale da regalare a un bambino, ma la terra?
…
Sarà poi vero che l’orto fa bene? Vediamo.
Una giornata di irrequietezza, sono nervosa e distratta, non riesco a concentrarmi su nulla. Nemmeno
so cosa voglio. Mi sento scontenta. Quasi non so cosa ci faccio, al mondo.
Prendo la via dell’orto.
Questo vuol dire: legarsi alla cintola il fodero con le cesoie, attraversare il giardino, strada facendo
tagliare un rametto secco, già che ci sono passare dal frutteto a vedere se le more di gelso sono
mature. Sì, le prime: belle nere, così sugose che quando le stacco per mettermele in bocca mi tingono
le dita. Già solo a mangiare le more mi sono scordata del mio malumore. Quando arrivo nell’orto non
so più nemmeno perché ci sono venuta. Mi guardo intorno. Uh, i pomodori sono cresciuti, vanno
legati alla canna sennò col vento si spezzano, e poi diventano tutti un intrico. Le zucchine hanno sete.
Il basilico va cimato, magari ci faccio un pesto.
Traffico tra le piante e loro mi dicono perché sono qui. Hai noi da accudire. Prenditi cura di noi,
ricambieremo con un invito a pranzo. Ti daremo il meglio di noi.
…
Lavorando in giardino, si rafforza in modo molto rasserenante la connessione tra azione e risultato.
Questo è assai gratificante, credo sia l’esatto contrario della depressione, quel misero stato in cui si ha
l’impressione che nessuna nostra iniziativa approderà mai a qualcosa di bello e piacevole.
Tra le piante, si prova la sensazione di avere trovato con estrema facilità il nostro posto al mondo.
Di trovarci esattamente dove dovremmo essere.
SENZA TV
di Guillaume Guéraud
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Narrativa
Treni come lombrichi
Il film preferito in assoluto dallo zio è C’era una volta il West di Sergio Leone …
Lo hanno già fatto alla televisione, C’era una volta il West, e tutti i miei compagni lo conoscono.
Mi hanno parlato di quel tipo con l’armonica e del treno e del Cheyenne e di Frank-l’assassino-innero. Solo che non hanno visto niente. Vado a vedere il film al cinema con lo zio e mi rendo conto
che i miei compagni non hanno visto niente. Per colpa della televisione. Per colpa del formato della
televisione. Mi hanno raccontato qualche scena. Ma capisco che alcune cose enormi non le hanno
viste. Perché la televisione è troppo piccola. Fa sembrare i treni dei lombrichi. Invece lo schermo
del cinema fa diventare i cappelli dei cowboy grandi come tendoni da circo.
Forse hanno visto Frank-l’assassino-in-nero che sputa per terra. Ma io lo vedo fare dei getti di saliva
colossali che inondano la sala. Forse hanno visto la sua pistola. Io vedo la bocca della canna del
revolver che invade lo schermo come un tunnel dove tutti gli spettatori insieme potrebbero
entrare. Non fa lo stesso effetto.
Vado alle medie, adesso, in una grande scuola con novecento allievi. E sono ancora l’unico che non
ha la televisione a casa.
Mi considerano qualcosa di più che un caso strano. Nel migliore dei casi, un enigma. Nel peggiore,
una merda di anomalia.
Però grazie a C’era una volta il West posso difendermi.
«In tv i deserti sono vaschette di sabbia e il vapore delle locomotive sembra il fumo delle
sigarette!».
«Con la tv però abbiamo visto C’era una volta il West prima di te!» si vantano i più furbi.
«Voi non avete visto C’era una volta il West!» rispondo senza esitare. «Quello che avete visto, si
chiamerà C’era una volta in soggiorno, e, nella vostra tv, l’uomo con l’armonica sarà stato grande al
massimo come il vostro pisello!»
MI RICORDO, SI’, IO MI RICORDO
di Marcello Mastroianni
IL LUNGO VIAGGIO CON FELLINI
L ‘accomodante bugiardo
Era una maniera diversa di fare il cinema, era veramente il cinematografo: quando si dice «Che
confusione! che Casino! Sembra un cinematografo!» E Fellini diceva: «Mentre tutti fanno casino, io
posso pensare. Se stanno tutti lì ad aspettare che io dica il verbo... Questo mi rende la giornata più
complicata». Vedeva sempre per paradossi.
Fellini è stato accusato di essere bugiardo: ma sì, certo che lo era. (« Bugiardo» è anche misura di
fantasia) Ma non erano mai bugie gravi; erano bugie per accomodare, per far stare tutti meglio, più
contenti.
Una delle sue stregonerie. Quando dirigeva, Fellini riusciva a mettere assieme questa quantità di
personaggi, dai più grandi ai più piccoli, stabilendo fra noi attori e anche tra le comparse un
rapporto come di amici che stanno facendo una grande festa.
L’abilità per esempio di ricordarsi i nomi di tutti, anche dell’ultima comparsa laggiù in fondo: «Maria?
Vai un po’ più a destra! » Capirai, una comparsa che si sente chiamare per nome si getta nel fuoco,
per il suo regista. E questa era una delle sue stregonerie.
« Fallo bello, falla bella »
Fellini aveva ragione quando diceva al suo operatore: « Fallo bello; falla bella »: perché l’attore è
trait d’union fra autore e pubblico. Se il pubblico non è affascinato da un viso, da un fisico, non
segue la storia con lo stesso interesse.
Life di Keith Richards
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Musica
E dato che suonavi tutti i giorni, arrivando a fare 2-3 concerti al giorno, le idee abbondavano. Da cosa
nasce cosa. Anche quando ti facevi una nuotata o scopavi la tua bella, sotto sotto ripensavi a una
sequenza di accordi, a un dettaglio legato a una canzone. Quel che ti circondava non aveva importanza.
Potevano anche spararti, e tu dicevi: “Ah, ecco il bridge!” Non potevi farci nulla; non te ne accorgevi
neppure. Era qualcosa di totalmente subconscio, inconscio o come diavolo si dice. Il radar era acceso,
che tu lo sapessi o meno. Non potevi disattivarlo. Afferravi uno scampolo di conversazione dall’altro
lato lato della sala: “Non ti sopporto più”, ed ecco una canzone. Tutto era collegato. E quando capivi
di essere un autore di brani, per provvedere alle munizioni diventavi un osservatore, ti tenevi a
distanza. Eri continuamente in allerta. Osservare le persone e il loro modo di interagire era una facoltà
da affinare con il tempo. In un certo senso, ti rendeva stranamente
distaccato. Non era una bella cosa. Scrivere canzoni era un po’ come fare il guardone. Sbirciavi in qua
e in là, e ogni cosa era un buon soggetto per una canzone. La frase banale, quella che faceva tornare
tutti i conti. E ti dicevi: non riesco a credere che nessuno l’abbia ancora usata. Per fortuna, le frasi
possibili erano più degli autori… anche se di poco.
LA MIA STORIA CON MOZART
di Eric-Emmanuel Schmitt
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Narrativa
L’autista del taxi, un africano dalla voce fruttata il cui immenso busto piramidale faceva sembrare
microscopico l’abitacolo di lamiera, mi ha chiesto il permesso di mettere un po’ di musica.
«Dipende cosa» ho risposto aspettandomi jazz o reggae.
«Un disco che mi ha lasciato un cliente».
«Boh, faccia come vuole».
«Se non le piace lo levo».
Ha premuto un bottone con una zampa gigante che faceva apparire i comandi del veicolo una versione
in miniatura per bambini, e di colpo sei entrato in macchina, caro Mozart, per continuare il tragitto con
noi.
Il clarinetto, cullato dagli archi, sussurrava una melodia tenera dai
movimenti discendenti che emanava una sorta di serena tristezza.
Da principio ho pensato che mi mandassi questo adagio per solidarietà, giusto per provarmi che anche
tu avevi conosciuto lo sconforto.
Poi il pezzo ha continuato e mi sono accorto che mi stavi dicendo un’altra cosa. Sebbene dolce e
delicato, il clarinetto rifiutava di piegarsi, di cedere alla depressione; risaliva, cantava, sbocciava,
accedeva a un livello distinto. Il dolore era trasfigurato. Di ciò che provavi facevi un’opera d’arte.
La tristezza s’era mutata in bellezza.
Mi sono appoggiato al sedile di pelle, ho rovesciato indietro la testa e ho dato libero sfogo alle lacrime.
Piangevo, finalmente.
…
Grazie a te accettavo. Sì, credo proprio che accettavo.
Ma cosa accettavo?
Ho voluto riascoltare più volte il tuo Concerto per clarinetto con l’intento di capire meglio.
Accettare l’inevitabile tristezza. Consentire l’aspetto tragico dell’esistenza. Non irrigidirsi nei confronti
della vita negandola. Smettere di sognarla diversa da com’è. Abbracciare la realtà, quale che sia.
Stasera mi sono perdonato.
Perdonato di non avere il potere di cambiare l’universo. Perdonato di non saper competere con la
natura quando ci distrugge. Perdonato di avere come unica arma la mia compassione.
Stasera mi sono perdonato di essere un uomo.
Grazie.
LA MANOMISSIONE DELLE PAROLE
di Gianrico Carofiglio
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Saggi
Gustavo Zagrebelsky ha detto: “Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale
al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee,
poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione
politica e, con essa, la vita democratica”.
Nel suo ideale decalogo dell’etica democratica egli ha incluso la fede in qualcosa, la cura delle
personalità individuali, lo spirito del dialogo, il senso dell’uguaglianza, l’apertura verso la diversità, la
diffidenza verso le decisioni irrevocabili, l’atteggiamento sperimentale, la responsabilità dell’essere
maggioranza e minoranza, l’atteggiamento altruistico; e, a concludere il decalogo, la cura delle parole.
In nessun altro sistema di governo le parole sono importanti come in democrazia: la democrazia è discussione, è ragionamento comune, si fonda sulla circolazione delle opinioni e delle convinzioni.
E - osserva Zagrebelsky - lo strumento privilegiato di questa circolazione sono le parole.
L’INFINITO VIAGGIARE
di Claudio Magris
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Narrativa
Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere
stranieri fra stranieri è forse l’unico modo di essere veramente fratelli. Per questo la meta del viaggio
sono gli uomini; non si va in Spagna o in Germania, ma fra gli spagnoli o fra i tedeschi.
…
Ci sono luoghi che affascinano perché sembrano radicalmente diversi e altri che incantano perché, già
la prima volta, risultano familiari, quasi un luogo natio. Conoscere è spesso, platonicamente,
riconoscere, è l’emergere di qualcosa magari ignorato sino a quell’attimo ma accolto come proprio.
Per vedere un luogo occorre rivederlo. Il noto e il familiare, continuamente riscoperti e arricchiti,
sono la premessa dell’incontro, della seduzione e dell’avventura; la ventesima o centesima volta in cui
si parla con un amico o si fa all’amore con una persona amata sono infinitamente più intense della
prima. Ciò vale pure per i luoghi; il viaggio più affascinante è un ritorno, un’odissea, e i luoghi del
percorso consueto, i microcosmi quotidiani attraversati da tanti anni, sono una sfida ulissiaca. “Perché
cavalcate per queste terre?” chiede nella famosa ballata di Rilke l’alfiere al marchese che procede al
suo fianco. “Per ritornare” risponde l’altro.
VIAGGIO IN PORTOGALLO
di Josè Saramago
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Viaggi
Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in
ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "Non c'è
altro da vedere", sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo
quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è
visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra
che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per
tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito.
LE CITTA’ INVISIBILI
di Italo Calvino
Marco Polo a Kublai Kan:
— L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che
abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile
a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto
di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige
attenzione e apprendimento continui: cercare e saper
riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno,
e farlo durare, e dargli spazio.
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Narrativa
BALLATA DELLA LETTURA
Si legge per passione
per evadere dalla realtà
per capire la realtà
per andare lontano
per allargare la memoria
per incontrare qualcuno, la sua voce
per trovare le parole che abbiamo e non sappiamo dire
si legge per rompere il ghiaccio
per rallentare il tempo
per incantarsi
per ricordare e dimenticare
per riconoscerti
per non sentirsi soli
si legge per piacere
per vivere di più
per sperimentare al tre possibilità
per capire le persone
per star bene
ci sono troppi motivi per leggere
leggere è come essere in un giardino segreto
a cura di Monica Morini con i lettori Amici del Multiplo
Maria Gabriella Giudici, Venera Di Stefano, Marina Cavecchi, Maurizio Galloni,
Patrizia Tedeschi, Barbara Scalabrini, Nadia Cirlini, Ada Zanni, Lisa Dallari,
Giorgia Fieni, Leonarda Spaggiari, Domenico Campanile, Nivesse Bonato,
Elena Lodi, Marco Bonini, Fausto Stigliani
I lettori Amici del Multiplo sono:
MARIA GABRIELLA GIUDICI
VENERA DI STEFANO
MARINA CAVECCHI
MAURIZIO GALLONI
PATRIZIA TEDESCHI
BARBARA SCALABRINI
NADIA CIRLINI
ADA ZANNI
LISA DALLARI
GIORGIA FIENI
LEONARDA SPAGGIARI
DOMENICO CAMPANILE
NIVESSE BONATO
ELENA LODI
MARCO BONINI
FAUSTO STIGLIANI
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