Anno 2 - N. 11 (#18) Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004 art. 1, c1, DCB Milano - Supplemento al Corriere della Sera del 18 marzo 2012, non può essere distribuito separatamente IL DIBATTITO DELLE IDEE NUOVI LINGUAGGI ARTE INCHIESTE RACCONTI #18 Domenica 18 marzo 2012 Molto meglio emigrare Roberto Innocenti per il Corriere della Sera DOMENICA 18 MARZO 2012 2 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Sommario Il dibattito delle idee RRR corriere.it/lalettura Sono in ribasso i format d’impegno salottiero Bignardi e Dandini non bucano più lo schermo In libreria non sfondano i romanzi tirannicidi E non è solo colpa (o merito) di Mario Monti L’inserto continua online con il «Club della Lettura»: una community esclusiva per condividere idee e opinioni 4 La pena come vendetta di UMBERTO CURI 4 L’incursione Addio Liberiamo la poesia dai piagnistei di VINCENZO OSTUNI 5 L’intervista La Cina vista da Yu Hua di MARCO DEL CORONA Orizzonti 6 Nuovi linguaggi Il futuro dell’informazione di S. DANNA e E. MOROZOV 10 Filosofia I filosofi che si auto-pubblicano di EDOARDO CAMURRI 11 Visual Data Italiani popolo di migranti di MARIO PORQUEDDU 13 I roghi dell’autocensura di IDA BOZZI 16 Saggistica Cogito erba sum di ERRICO BUONANNO 17 Poesia Conosco i tagli, perché conosco i coltelli di ROBERTO GALAVERNI 18 Ragazzi François Place, penna e matita di CRISTINA TAGLIETTI 20 Le classifiche La pagella di ANTONIO D’ORRICO Sguardi 22 La primavera delle artiste di V. TRIONE e A. C. DANTO 25 I personaggi Il musicista Nietzsche, stroncato di MICHEL ONFRAY 27 Il luogo Benvenuti a Metz, la Bilbao francese di STEFANO MONTEFIORI Percorsi 28 Graphic novel Lucilla e l’arcobaleno di PAOLO BACILIERI al radical chic L’estremismo modaiolo è in crisi Forse ha vinto, certo ha stancato di MARIAROSA MANCUSO N on vale più la minaccia di lasciare Milano, dopo il trionfo di bandiere arancioni e il coro di Bella ciao che hanno festeggiato lo scorso maggio il nuovo sindaco Giuliano Pisapia. Vittoria illuminata dalla «luce rosa sulla facciata del Duomo»: così scriveva Roberta De Monticelli che oltre a essere filosofa morale è anche poetessa. Non vale più la minaccia di lasciare l’Italia, dopo il governo tecnico e il sobrio cotechino natalizio del Presidente del Consiglio Mario Monti, «il nonno che dice le cose giuste per il futuro». Contrordine compagni, si resta per applaudire il nuovo corso. Ha vinto l’Italia che piace ai radical chic: non fa figuracce all’estero, se tira tardi la notte è per leggere Kant. Le trasmissioni televisive «contro», sempre a rischio di chiusura e di censura, dovrebbero godersi la vittoria. E invece no: gli spettatori calano, lo share diminuisce (o comunque non decolla). Le liste dei molti motivi per andarsene e dei pochi per restare andrebbero rifatte da cima a fondo, ma nessuno ha davvero voglia di sobbarcarsi l’ingrato compito. Fabio Fazio e Roberto Saviano con prontezza annunciano un cambiamento di rotta: il prossimo format — sempre con titolo rubato alle canzonette, Ma l’amore no — andrà in onda a maggio — al Salone del Libro di Torino. Messo tra parentesi l’antiberlusconismo militante, trovano accogliente riparo nei versi di Eugenio Montale: «Non chiederci la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe». All’ultimo raduno di «Libertà e Giustizia» — il 12 marzo scorso a Milano, in occasione del decennale, presenti Umberto Eco, Lella Costa, Gustavo Zagrebelsky — il nuovo manifesto «Dipende da noi» non ha bucato lo schermo. Erano più trascinanti i tredicenni che salivano sul palco leggendo parole altrui contro il regime. Serena Dandini con The Show Must Go Off e Daria Bignardi con Le invasioni barbariche si ritrovano spiazzate. Gli ospiti della compagnia di giro celentaneggiano e perdono mordente. I radical chic si aggirano smarriti: senza un nemico da combattere rischiano la fine dei panda, e non si capisce quale Wwf li possa salvare dall’estinzione. 30 La data Il compleanno sfortunato di Nereo Rocco di ANTONIO CARIOTI 31 La biografia Costantino, santo tiranno di MARCO RIZZI 32 Fenomeni Tutti pazzi per Proust di ALESSANDRO PIPERNO 34 Controcopertina I nuovi sommelier americani di JAY McINERNEY Tra le vittime del nuovo corso, un paio di romanzi che per spirito del tempo (e un po’ di pubblicità gratuita) puntavano sull’abbattimento del tiranno. Rapito con nome e cognome da un manipolo di vecchietti in La banda degli invisibili di Fabio Bartolomei (e/o), sequestrato e interrogato dalle Nuove Brigate Rosse in L’uomo con il sole in tasca di Cesare De Marchi (Feltrinelli). Entrambi superati dagli eventi, andranno a fare compagnia sugli scaffali a L’intransigente di Maurizio Viroli, che vorrebbe cancellare con un colpo di spugna due realistici resoconti del mondo in cui viviamo: Il legno storto dell’umanità di Isaiah Berlin e La favola delle api di Bernard de Mandeville. Il primo prende spunto da una frase di Kant per mettere in guardia dalle teorie che intendono risanare l’umanità raddrizzandone a forza le storture. Il secondo mostra i pericoli e la miseria di una società totalmente virtuosa. Riciclarsi è difficile, con così breve preavviso. Anche un esperto cacciatore di radical chic come Tom Wolfe — »»» Impegno e tv Cali di gradimento Sopra, dall’alto in basso: la conduttrice televisiva e scrittrice Daria Bignardi, il semiologo e scrittore Umberto Eco, la conduttrice Serena Dandini. Tre volti dell’impegno radical chic che nelle loro ultime uscite non fanno più colpo suo il reportage che nel 1966 coniò la definizione, dopo un party in casa del compositore Leonard Bernstein, ospiti d’onore le Black Panthers — avrebbe qualche difficoltà a reperire i nuovi modelli. «Non leggo i libri in classifica» e «non guardo la tv, neanche ne possiedo una» sono stati per anni due capisaldi del radical chic pensiero. Né l’uno né l’altro sono più praticabili, ora che tra i bestseller ci sono le poesie di Wislawa Szymborska e che i tweet hanno sottratto il Festival di Sanremo alla categoria del nazionalpopolare. Impossibile trovare rifugio nel catalogo Adelphi, che oltre alla poetessa polacca premio Nobel sta mandando in libreria tutto Ian Fleming e il suo agente 007 con licenza di uccidere. Si comincia a maggio con Casino Royale. Lo smarrimento è palese. Giorgio Faletti si presenta alle Invasioni barbariche in veste di scrittore martirizzato dai critici, invitandoli a fare ammenda delle loro colpe «come la Chiesa cattolica ha fatto per la pedofilia». Lo spettatore progressista va in confusione. Da anni ascolta e ripete come un mantra che «la qualità letteraria mal si concilia con le alte tirature», che l’industria editoriale sta scadendo perché insegue successi facili, che i libri si vendono solo se l’autore è un personaggio. D’accordo sul contrordine (siamo dell’idea che i romanzi vadano giudicati alla prova della lettura, vendere molte copie non è un’onta). Meno sull’apparentamento con Totò. Fu negletto in vita e riconosciuto come un genio con colpevole ritardo, ma oltre agli «ingiustamente dimenticati» esiste una nutrita schiera di «giustamente dimenticati». E chi è stato celebrato al suo primo libro come «il più grande scrittore italiano» non può mettersi in prima fila con la manina stesa quando si distribuiranno i risarcimenti. Dai salotti tv ai salotti e basta, mancano eroi da celebrare. Il movimento degli studenti ha prodotto un giovanotto impresentabile: braghe scivolate sui fianchi, cameretta con il poster in casa dei genitori, eloquio imbarazzante, un estintore da gettare sull’incendio come fosse una coperta. Occupy Wall Street ha collezionato le più banali e generiche parole d’ordine mai ascoltate, contro i profitti delle multinazionali. Apple esclusa, naturalmente, perché tutti abbiamo un iPhone in tasca, e certo non rinunciamo al giocattolo dopo aver letto delle condizioni di lavoro in fabbrica. Neppure i «No Tav» fanno al caso. Son serviti più che altro a mostrare la preveggenza di Pier Paolo Pasolini e della sua poesia sugli scontri a Valle Giulia: «Sto con i poliziotti, perché i poliziotti son figli di poveri». Sconfessati perfino da Susanna Camusso, che come feticcio da adorare preferisce l’articolo 18, gli anti-moderni hanno ormai dalla loro soltanto Beppe Grillo. RRR Le frasi «non leggo i libri primi in classifica» e «non guardo la tv, neanche ce l’ho» erano i capisaldi del pensiero militante snob. Ma oggi che poesia e cultura pop hanno vinto, né l’uno né l’altro sono realmente praticabili DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 3 Illustrazione di BEPPE GIACOBBE ✒ il brano Tom Wolfe I domestici bianchi ❜❜ Nell’Era del Radical Chic, poi, quale conflitto si innescò tra l’assoluto bisogno di domestici e il fatto che i domestici fossero il simbolo assoluto di ciò contro cui i movimenti, neri o marroni, stavano combattendo! E allora, quanto assolutamente urgente divenne la ricerca dell’unica via di salvezza: domestici bianchi! i TOM WOLFE Radical Chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto Traduzione di Tiziana Lo Porto CASTELVECCHI Pagine 144, e 9 MASSIMILIANO PARENTE La casta dei radical chic NEWTON COMPTON Pagine 288, e 12,90 «Una gioiosa portatrice di polline socioculturale». Così Jonathan Franzen, in Libertà, inchioda alla sua radicalchiccheria Patty Berglund. Lasciando già intravedere le prime crepe nell’edificio. Polline da diffondere, quando gli anni passano e i figli crescono, ne resta poco, altre sono le urgenze da sbrigare. Qualcuna seria. Per esempio: «Come reagire quando un povero di colore ti accusa di avere distrutto il suo quartiere?». Qualcuna più futile: «I boy scout sono accettabili da un punto di vista politico?», «Il bulgur è davvero indispensabile?». Mai scrittore è stato più crudele nel descrivere gli animalisti che per proteggere gli uccelli pretendono i gatti con la campanella al collo, se proprio devono uscire in giardino. Bastano queste perfidie, per di più concepite da uno che coltiva l’insana passione per il birdwatching, e gli perdoniamo volentieri la retromania di certe recenti dichiarazioni. Del resto, qualche anno prima di scrivere Le correzioni, Franzen aveva annunciato a gran voce la morte dei romanzi che mettono d’accordo pubblico e critica. Il suo stesso trionfo, con un libro uscito in libreria alla vigilia dell’11 settembre, basta per screditarlo come profeta di sventura. L’ultima guerricciola dei radical chic contro la pop culture ha avuto per bersaglio le gag dei Soliti idioti, coppia di comici formata da Fabrizio Biggio e Francesco Mandelli. Concita De Gregorio, in un articolo su «Repubblica», li ha bollati come cretini baciati da incomprensibile successo. Strappandosi le vesti per il pessimo gusto dei giovani d’oggi: irresistibile tormentone con cui ogni generazione, passato il momento suo, certifica la propria superiorità. L’invito alle Invasioni barbariche e poi al Festival di Sanremo, non ha aiutato a far pace. Anzi: finite le polemiche sulle parolacce, è scattato il dibattito: «È lecito fare battute sugli omosessuali?». Il fatto è, però, che I soliti idioti non facevano battute sugli omosessuali. La gag incriminata, assieme a molte altre del loro repertorio, prende di mira i radical chic (per questo il palco di Sanremo non era il luogo adatto). Su chi sente il bisogno di ripetere, anche quando il contesto non lo giustifica, «sono omosessuale». E se l’interlocutore dice «vabbè, ma che c’entra, stiamo parlando Orfani di se stessi Gli irriducibili diventano cheap di FULVIO ABBATE C onfidiamoci un’amara verità: i radical chic di una volta non ci sono più. La crisi economica e l’attenuarsi delle spinte mondane e ideali, hanno influito, tagliando risorse, anche su questo ramo d’impresa. Culturale, antropologica, politica. Impossibile trovare qualcuno in grado di non sfigurare per supponenza accanto, metti, a coloro che al tempo di Gian Maria Volonté, attore militante, trovavi nelle altane di Trastevere o di via dell’Orso a Brera davanti a un bel sartù di riso afro-tirolese a immaginarsi presto nuovi partigiani in Cile. In verità, volati via i pezzi unici adatti al ruolo, come il compianto Lucio Magri, lui che pretendeva che perfino il loden fosse di cashmere, dimmi tu verso chi volgere lo sguardo? Non lo ritrovi uno Schifano che nei giorni di piazza Fontana prestò la Bentley al leader di «Servire il Popolo», Aldo Brandirali, affinché quest’ultimo potesse raggiungere Milano passando indenne dai posti di blocco. Restano, monadi sospese, pochi soggetti obliterati dal nuovo che avanza: però che supplizio essere condannati a misurarsi con l’ordinario Celentano che però ti sovrasta, con Beppe Grillo che ti parla sulla voce, con Fiorello che fa più opinione di Massimo Cacciari, e che dire di Asor Rosa costretto a passare da Adorno a Capossela? I radical chic non hanno più spendibilità sociale, nel migliore dei casi, gli è consentito essere insostenibili modello-base; non vale più la credenziale d’avere un tempo acquistato i Grundrisse di Karl Marx piuttosto che Una donna per amico di Lucio Battisti. Dal radical chic al radical cheap. © RIPRODUZIONE RISERVATA d’altro», ripete il concetto fino allo sfinimento. Quando il destinatario della provocazione perde la pazienza, lo si accusa di discriminazione e omofobia. Bastava guardare lo sketch per capirlo. Quel che è successo dopo i funerali religiosi di Lucio Dalla — dal violentissimo outing di Aldo Busi alle accuse di ipocrisia lanciate da Lucia Annunziata — mostra che I soliti idioti avevano colpito nel segno. Con sufficiente anticipo, e sufficiente precisione, per guadagnarsi un posto tra chi fa satira per davvero, guardandosi attorno senza riciclare antichi sketch con Moana Pozzi (come Sabina Guzzanti, che in Un due tre stella, da giapponese rimasta a combattere nella giungla, non rinuncia né a Berlusconi né al botulino). E a proposito: sembra incredibile che nessun comico di professione abbia colto e rilanciato l’autogol di Pierluigi Bersani: «Mia figlia preferisce la Fornero a Belén Rodriguez», come se la figlia non avesse parole sue per esprimersi su un argomento tanto scottante. Comunque, ne riparleremo quando un maschio, alla domanda «Preferisci fare il calciatore o l’impiegato di banca?» risponderà «voglio andare in banca». Le parole d’ordine dell’élite illuminata vanno in confusione, a distrarsi un attimo si resta spiazzati. Per mesi abbiamo sentito le lodi del burlesque: spogliarsi serviva a riappropriarsi del corpo e della seduzione, perfino l’Arci organizzava appositi corsi. La ricchezza era sospetta e intrinsecamente volgare. Ora bisogna rivestirsi, mentre i miliardi guadagnati si possono tranquillamente esibire. Se uno aveva un libro nel cassetto, lo mandava a un editore. Stamparselo da soli era riconoscere che il manoscritto valeva poco o niente. Ora autopubblicarsi è il massimo dello chic: dimostra che abbiamo capito la teoria della «coda lunga», e non ammettiamo intermediari tra noi, il milione di copie, i cospicui diritti d’autore. Anche i romanzi pubblicati di recente dalla vecchia e cara editoria tradizionale segnalano un declino dei radical chic. Eravamo abituati a scrittori e architetti, perlopiù in crisi di mezza età. Scopriamo parecchi portinai e donne di servizio. Non accade soltanto in Le parole perdute di Amelia Lynd (Feltrinelli), ambientato negli anni 70: la storia di Elvira, custode del palazzo vessata da inquilini pettegoli e litigiosi, e di una misteriosa nuova arrivata che occupa il quinto piano. Gli altri sono domestici e portinai d’oggi, raccontati con realismo. L’unico che un po’ sfugge, e ricorda i gusti sofisticati della concierge di L’eleganza del riccio di Muriel Barbéry — zuppa di cavolo per non dare nell’occhio, una passione segreta per le raffinatezze del Giappone, bastano per l’etichetta «bestseller di qualità» — è il portiere di notte in La generazione di Simone Lenzi (Dalai): ha scelto il mestiere perché ama leggere. Nel romanzo Caino di Paola Capriolo (Bompiani), Milagro è una domestica sudamericana quasi analfabeta. Chiude la serie Anna, che fa le pulizie in Sottosopra di Milena Agus (Nottetempo). E il portinaio Pietro, curioso di appartamenti altrui nel bellissimo romanzo di Marco Missiroli Il senso dell’elefante, appena uscito da Guanda. Il lettore tira un sospiro di sollievo. Forse è finita davvero, i radical chic sono sul punto di sparire. © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 4 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Risate al buio Il dibattito delle idee di Francesco Cevasco { Eccesso di sinonimi Tu mi torni in mente, genio come sei. Scriveva monsignor Ravasi, nel suo illuminante Breviario, che la gioventù dei college americani descritta da Nabokov evoca il «Was ist der Menschen Leben» di Paradossi Cosa si nasconde dietro la continua insistenza a inasprire le sanzioni L’incursione La pena come vendetta RRR di Vincenzo Ostuni Religione e costumi hanno riscritto il significato: così la società è diventata giustizialista di UMBERTO CURI Hölderlin. In mancanza di traduzione autentica, che cosa intende Ravasi con Leben? Esistenza, Essere, Vita, Abitare, Dimorare, Essere in vita, Risiedere; o uno dei, più o meno, venticinque sinonimi? LIBERIAMO LA POESIA, SÌ MA DAI PIAGNISTEI FACILI CHE NEPPURE VENDONO ILLUSTRAZIONE DI PIERLUIGI LONGO L’ O rmai è diventato un riflesso condizionato, diffuso e ricorrente. Attraversa gli schieramenti politici, con una maggiore presenza a destra, ma con un’incidenza non trascurabile a sinistra. Accomuna orientamenti culturali per altri aspetti diversi e lontani. Ogni volta che la cronaca riporta notizie di qualche reato particolarmente odioso o spettacolare, e talora anche quando riferisce della proliferazione dei crimini di strada, si alza imperiosa la richiesta di accrescere le pene per i responsabili: «In galera, e buttare via la chiave» — questa è la battuta che riscuote il maggior successo trasversale. A ciò si aggiunga una peculiarità già presente nel nostro ordinamento giuridico, vale a dire la previsione di una sanzione penale anche per i cosiddetti reati bagatellari, vale a dire per infrazioni della legge oggettivamente molto lievi. Ebbene, a cosa corrisponde, in termini concettuali e non soltanto psicologici, questa richiesta di pene severe? È possibile individuare un fondamento razionale per spiegare questo fenomeno? Si può, insomma, cercare di capire se vi siano motivazioni reali alla base di questa esigenza, o se non si tratti piuttosto di una indistinta istanza di vendetta sociale? In origine, in Omero o anche nei tragici, il termine greco ponos (da cui l’italiano «pena») ha un significato ambivalente. Da un lato indica la mercede, la riparazione; dall’altro, coincide con la punizione, il castigo. Questa originaria duplicità di significati si consoliderà ulteriormente in tempi successivi, nel momento in cui, soprattutto nelle lingue neolatine, la parola assumerà anche il senso di «dolore». L’originaria duplicità di significato del ponos viene in tal modo a specificarsi come compresenza di due «famiglie» di termini, le quali indicano rispettivamente la pena come punizione o castigo, e la pena come sofferenza o dolore. Il legame che unisce questi due significati è l’idea che attraverso il dolore (pena) subìto sia possibile eliminare o riscattare la punizione (pena) inflitta. Le leggi penali tradizionali, il perdono ottenuto con la penitenza, la perfezione conseguita con l’ascetismo, la sofferenza di Cristo ci offrono esempi della stessa problema- RRR Tiromancino La sinistra mollusco In America chiamano Obama il «ruminatore di rucola», perché ostenta gusti snob, dunque europei. In Francia c’è l’espressione «gauche caviar», e non c’è bisogno di spiegarla. In Germania la sinistra con i soldi è definita dalla villeggiatura: «Toscana Fraktion». Che nome daremo ai nostri politici, da Lusi a Emiliano, invaghiti di ostriche, cozze e crostacei, possibilmente gratis? Sinistra mollusco? Antonio Polito tica: la pena è redentrice, il dolore possiede una funzione purificatrice della vita umana. Si coglie qui un punto di grande importanza. L’originaria coincidenza di significati fra sofferenza e punizione ha suggerito la convinzione che ciò implicasse anche la loro indissolubilità, nel senso che non sia possibile applicare adeguatamente una pena, se non a condizione di indurre dolore in colui che ad essa venga assoggettato. A ciò si aggiunga la persuasione della funzione «riparatrice» della pena (punizione e dolore), in quanto mediante l’afflizione provocata dalla punizione si ristabilirebbe un ordine — comunque definito — che resterebbe altrimenti turbato. L’enfasi sulla funzione catartica della pena ha indotto a porre tra parentesi il fatto che essa resta in ogni caso, e in qualunque condizione, anche afflizione, e che dunque può pretendere di «emendare» solo a patto di infliggere sofferenza. Non è dunque la pena uno strumento puramente neutro di ricostituzione dell’ordine, ma in tanto può aspirare a tale obiettivo, in quanto realizzi compiutamente il potenziale di dolore che essa porta con sé. Infliggere una pena non significa, dunque, ristabilire un equilibrio turbato, se non a patto di un ulteriore squilibrio, o se non altro di una «riparazione» che non cancella affatto la preesistente lesione, ma la riproduce altrove. Il contesto nel quale la nozione di «pena» assume la sua forma compiuta è quello della religione. Qui la pena si presenta immediatamente come punizione, e più specificamente come castigo, come «salario del peccato». Storicamente e concettualmente, la stessa nozione giuridica di pena, intesa come «giusta» remunerazione di un reato, si afferma attraverso la traduzione dall’originario ambito religioso all’ambito del diritto positivo. Questa origine spiega non solo la convinzione che l’irrogazione di una pena sia comunque necessaria, allo scopo di retribuire adeguatamente il reato commesso, ma motiva anche l’impossibilità di concepire un reato, al quale non si faccia simmetricamente corrispondere una pena. Scaturisce di qui il conferimento alla pena di un carattere sacrale, l’idea che essa serva anche alla restaurazione di un «buon ordine» cosmico e al riscatto del colpevole. Ma ciò conduce a un primo paradosso. Proprio nella sfera del diritto penale, che è quella nella quale dovrebbe essere più marcato lo sforzo per esercitare il massimo di razionalità, si coglie al lavoro un presupposto di carattere mitologico. Difatti, la relazione di proporzionalità fra colpa e pena si regge soltanto se si accetta che la pena possa funzionare come espiazione, vale a dire a condizione di assumerla come una condotta di annullamento, capace di cancellare il reato, e dunque reintegrare l’ordine. Soltanto a condizione, dunque, che alla pena-espiazione venga attribuita la stessa funzione attribuita alla purificazione in ambito reli- gioso. La conclusione di questo paradosso mette in evidenza l’esistenza di una difficoltà logica insormontabile alla base del diritto penale. Difatti, l’equivalenza posta fra colpa e pena non testimonia affatto — come si potrebbe credere — l’assunzione di un criterio massimamente razionale, di tipo calcolistico-matematico, ma al contrario manifesta la condivisione di un presupposto razionalmente infondato, giustificabile solo in un contesto di carattere religioso o in una prospettiva mitologica. Insomma, per acquisire uno statuto pienamente razionale il diritto penale dovrebbe liberarsi di ogni presupposto di carattere mitologico-religioso, primo fra tutti quello che attribuisce alla pena una funzione purificatrice. Ma, in questo modo, eliminando il mito dell’espiazione, si priverebbe del principio stesso sul quale fonda la propria legittimità, vale a dire la corrispondenza proporzionale fra il reato e la pena. La sacralizzazione della pena giuridica è la conseguenza di un mito teomorfico: il monarca, la patria, lo Stato sono concepiti a «immagine e somiglianza di Dio», e ne condividono gli stessi attributi di onnipotenza, infallibilità e sovranità. Emerge qui un ulteriore paradosso. Come ha dimostrato Paul Ricoeur, interpretando le Lettere di San Paolo, già nel contesto della religione, alla quale pure si fa risalire l’origine della sacralizzazione della pena, è possibile ritrovare il superamento della logica dell’equivalenza, che connette «proporzionalisticamente» colpa e pena. Nell’epistola paolina, la logica della pena viene usata come contrappunto per l’enunciazione di un’altra logica, per certi aspetti opposta. La «giustizia» di Dio fa saltare ogni presunta possibilità di stabilire corrispondenze fra la condotta dell’uomo e la «risposta» di Dio. La grazia è ciò che, per definizione, eccede ogni criterio sedicente razionale di retribuzione della colpa, introducendo uno scarto — la «sovrabbondanza» della misericordia divina — in nessun modo compatibile con ciò che la «legge» vorrebbe imporre. Di tutto ciò dovremmo essere consapevoli, quando invochiamo l’inasprimento delle pene. Della mancanza di ogni sicuro fondamento razionale alla base di questo concetto. Del fatto che esso sopravvive nell’ordinamento giuridico delle democrazie moderne solo come espressione di una persistente esigenza di vendetta sociale. Una conferma, fra le molte, della verità enunciata da Sofocle: «Molte sono le cose terribili, ma la cosa più terribile è l’uomo». © RIPRODUZIONE RISERVATA RRR Ritornello «In galera, e buttare via la chiave» è la battuta che raccoglie il maggiore consenso di fronte a crimini particolarmente efferati «incursione» di Carlo Carabba sulla «Lettura» di domenica scorsa reca nel titolo il motto Liberiamo la poesia, con il quale concordo di slancio. Con il resto, meno. In sintesi: Wislawa Szymborska (un quarto d’ora dedicatole da Saviano il 5 febbraio a Che tempo che fa) è in testa alle classifiche; ergo la poesia — se «si capisce e commuove» — può vendere; ergo (?!?) dàgli a Sanguineti e ai Novissimi, che bandiscono «il significato» e «l’io» e dàgli a Ostuni che nella prefazione ai Poeti degli Anni Zero (appena ripubblicati in volume da Ponte Sisto) aborre «il sentimento come la peste» e propugna una poesia che «non piace a nessuno» (ma che senza distribuzione è in seconda edizione; virgolettati di Carabba non di Ostuni). Liberiamo la poesia, certo! Liberare qualcuno — il lettore vorrà concedermi — implica modificarne la condizione. Qual è la condizione della nostra poesia, se ne prendiamo le principali incarnazioni: la collana «bianca» Einaudi e lo Specchio Mondadori? A parte il bel lavoro sugli stranieri (e su italiani ormai classici: Balestrini, Zanzotto ecc.), nella quasi totalità i nuovi poeti italiani in esse ospitati seguono l’aureo precetto carabbiano, «si capiscono e commuovono»: indicazione legittima che, se elevata a must, dipinge (e crea) un pubblico di ricettori passivi, incapaci d’interpretazione, interessati alla mera catarsi espulsiva delle proprie emozioni. Un capire e un commuoversi innati e immodificabili, dobbiamo RRR I successi meritati Per Szymborska e Tranströmer penso all’opportunità suggerita da Giuliani sui «Novissimi»: si deve poter profittare dei versi come di un incontro un po’ fuori dall’ordinario dedurre: assurdo, se si pensa alla diffusione di tanta «oscura» e «gelida» arte contemporanea. Ecco: sono quelle collane ad arrivare nelle librerie, con Carabba (Mondadori) in testa (e alcune sequenze non memorabili: «Ho lasciato che il dolore mi sperdesse / come il vento la neve sulle ali / di un aereo»; «e ho amato, quanto ho amato, e adesso sono solo»: giù lacrime!) e tuttavia la poesia continua a non vendere. Finché arriva la grande (lei sì) Szymborska, Nobel nel 1996 — o Tranströmer, Nobel 2011, prova provata, nella sua austera borealità, che la poesia può vendere anche senza immediatezza. È solo Saviano? È solo il Nobel? Preferisco pensare che per quei due poeti sia anche valso quel che scrisse Giuliani nella prefazione ai Novissimi: «Si deve poter profittare di una poesia come di un incontro un po’ fuori dall’ordinario». E in modo fuori dall’ordinario trattano esperienza e linguaggio i Poeti degli Anni Zero: sempre con rigore, senza inseguire né l’oscurità né le vendite (è un difetto?) e senza timore di ricevere la «qualità dai tempi», i tempi di oggi: né quelli di Sanguineti né tanto meno quelli di Pascoli, che non meritano la rovina dell’epigonismo. Si chiamano Annovi, Biagini, Bortolotti, Calandrone, Frene, Giovenale, Inglese, Marzaioli, Pugno, Riviello, Sannelli, Ventroni, Zaffarano: leggeteli e sappiatemi dire se «rifiutano l’io» o ne offrono personali reinterpretazioni; se «negano il significato» o hanno l’umiltà di «sedere al tavolo dei linguaggi» contemporanei e non arroccarsi nella tradizione; ditemi se reagirete — io ci scommetto — con meraviglia e vera liberazione o invece con formidabile noia, come quella che si prova, da adulti, scorrendo certe innocue e lamentose filastrocche. © RIPRODUZIONE RISERVATA Vincenzo Ostuni (Roma, 1970) è editor di saggistica e narrativa per Ponte alle Grazie. Ha pubblicato Faldone zero-otto (Oedipus) e curato Poeti degli Anni Zero (Ponte Sisto) è redattore de «Il caffè illustrato» DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 5 Pandemie Il dibattito delle idee di Edoardo Vigna { La rivincita delle passioni «Sono un editorialista del "New York Times"». In America significa essere al centro del dibattito. David Brooks è tra i più letti. Le sue parole rimbalzano dai blog ai social network, c’è chi le «traduce» in video su YouTube. Nel libro L’animale sociale (Codice edizioni) racconta l’animo umano: dove l’emozione prevale sulla ragione e porta al successo. Tempi bui, tempi di passione, insomma. Ma anche di passioni. Vincenti. L’incontro Nel nuovo libro le parole per raccontare la democrazia e la libertà. Che qui spiega «La Cina è pronta per un 35 maggio» dal nostro corrispondente MARCO DEL CORONA PECHINO — Si preoccupano per lui. Ma il suo mestiere non è preoccuparsi. Un ministro tedesco era rimasto stupito dalle pagine fosche di Brothers, dalla bulimia capitalistica di una Cina che Yu Hua racconta con spietatezza grottesca, e temeva che lo scrittore finisse male. Niente. Risposta di Yu: «I politici in Cina sono come ovunque nel mondo. Leggono pochi libri...». Dunque? «Il governo non mi apprezzava, però mi tollerava. E vedendo come vanno le cose, continuerà a tollerarmi. Anche se divento sempre più audace, la società va avanti». Il codice binario non si confà alla Cina. I confini netti, che pure esistono, a volte tracciano scarti improvvisi, e così Yu Hua, che da Torture a Vivere! non si è (o ci ha) negato nulla delle sgradevolezze della sua patria, può spingersi ad agitare tabù e temi sensibili. Ha pubblicato una sorta di vademecum, La Cina in dieci parole. Ma all’estero (in Italia da Feltrinelli, traduzione di Silvia Pozzi) e a Taiwan, non nella Repubblica Popolare. «Popolo» «leader», «rivoluzione» e così via: chi tocca non è che muoia, ma si può scottare. Ancora una volta, Yu non si preoccupa: «Le 10 parole che ho scelto — dice ora — sono collegate alla storia e alla realtà cinesi. Passato e futuro. E se questo libro non può uscire nel mio Paese è perché parlo di Tienanmen», il 4 giugno 1989, una data rimossa al punto che lo scrittore l’ha ribattezzata «35 maggio». «È anche la mia storia. Esperienza indimenticabile. Anche l’anno scorso, quando sono stato al Cairo, ho visto manifestazioni ma con poche persone. Ripensando alle folle del 1989, ero sicuro che Mubarak se la sarebbe cavata. Invece è caduto. Ero confuso: con così poca gente? Da noi c’erano milioni ma il governo era tranquillo... Il fatto è che in Egitto il popolo non poteva più sopportare lo stesso presidente da 40 anni, mentre nell’89 in Cina i conflitti sociali non erano così sentiti: era l’undicesimo anno della riforma di Deng, i contadini ne avevano beneficiato e la chiusura delle fabbriche sarebbe arrivata solo negli anni Novanta. Tempi non maturi per un movimento di rivolta». «Ho cambiato data a Tienanmen. Perciò dico: i tempi sono maturi per una svolta» Lo scrittore Yu Hua pubblica i suoi saggi a Taiwan (e in Italia), ma non a Pechino E adesso? «Adesso sì che i tempi sono maturi. Ma i comunisti non permettono a oltre 70 persone di riunirsi». Perché? «Quando i giovani si laureano, non trovano lavoro, non riescono a comprare casa. Nel 63% delle famiglie sono i vecchi che mantengono i giovani. La Cina ha soltanto due esiti possibili: o più democrazia o una rivoluzione. Ma servono comunque tempi lunghi». Ecco dove il confine tra ciò che si può dire e non si può dire si confonde. Il codice binario impazzisce ad esempio quando Yu parla in un caffè di Pechino, il Bookworm, che ospita un festival letterario frequentato da espatriati ma anche da un’élite intellettuale cinese. Sorride: in America e in Europa i lettori «temono che io possa avere problemi in Cina. Io sono convinto di no. In America mi hanno chiesto se mi avrebbero incarcerato. Ho risposto che se sto in prigione almeno non dovrò più cucinare da solo. E in ogni caso fare lo scrittore è meglio che fare il dentista», professione esercitata da Yu ragazzo, senza addestramento. Ecco la vena RRR irridente che fa ipotizzare, persino agli ammiratori più sconsiderati, che Dieci parole, nato per un’audience non cinese, abbia voluto tener conto di una possibile nicchia di mercato occupata dai quasi-dissidenti, gli intellettuali scomodi alla Ai Weiwei. Ma il dolore resta, e resta anche la politica. «Il mio maggior dolore — ripete Yu, che pure riconosce a Deng Xiaoping "meriti unici" – è Tienanmen. Ne patiamo ancora le conseguenze. Prima di allora la riforma politica e quella economica andavano avanti insieme, ma i vertici hanno scoperto che la riforma politica avrebbe potuto minacciare il loro potere ed è arrivata una crescita economica senza trasparenza politica. Con disparità, corruzione, guasti ambientali. Un’anomalia». Tra i leader qualcuno parla, cauto e generico, di riforme politiche: «In realtà, tanti funzionari e intellettuali hanno capito che erano gli aspetti politici a ostacolare lo sviluppo della Cina, non le questioni economiche. Aver abbandonato le riforme politiche dopo l’89 ci ha portato più problemi che van- RRR Prospettive Proporzioni «Il mio Paese ha due strade «L’anno scorso ero al davanti: o più democrazia o Cairo. Pochi egiziani hanno una rivoluzione. ribaltato un regime. Perché Ma comunque la svolta non non ci siamo riusciti noi è ancora dietro l’angolo» che eravamo milioni?» i Yu Hua, 52 anni, è tra i maggiori scrittori cinesi, tradotto ovunque dopo il bestseller «Vivere!» (Donzelli) dal quale Zhang Yimou ha tratto un film vietato in patria. È autore di numerosi romanzi; tra i più recenti: «Brothers» e «Arricchirsi è glorioso» editi da Feltrinelli come «La Cina in dieci parole» (pagine 230, e 18,50) che, molto più di un vademecum con dieci parole chiave (dalle tradizionali «popolo» e «rivoluzione» a «taroccato» e «intortare») svela i punti nevralgici di una società malata e i segreti del rapido sviluppo cinese. Non è un’invettiva, piuttosto il canto dedicato a un popolo umiliato, articolato in storie e gesta. Nella foto a sinistra: la polizia militare cinese, che ha il compito di mantenere l’ordine, si allena con pistole ad aria compressa sparando contro sagome umane di carta nei pressi di piazza Tienanmen, nel maggio 2001 (Ap) taggi. In realtà, ora è una buona occasione. Ma la priorità è la stabilità. Mao Zedong sosteneva che la gente è come le bacchette. Isolate no, ma in mazzo riescono a rovesciare le autorità. Ora il governo cerca di tenere separate le bacchette. Ma sono pessimista sulla riforma politica». Intanto, un numero sia pur ristretto di attivisti subisce abusi, la legislazione favorisce il controllo autoritario. «Siamo tutti bacchette separate», spiega Yu al «Corriere». «È difficile, anzi quasi impossibile che ci uniamo, soprattutto dopo le norme penali appena approvate. Ma queste voci hanno dimostrato di essere utili per il governo. Ci sono dirigenti che le accolgono. Vorrebbero anche loro riforme e democrazia. Certamente vogliono che le cose vengano fatte per gradi. Non possono parlare liberamente come noi, però, almeno Wen Jiabao si è espresso per le riforme più volte...». Quando gli chiedono dei modelli cui la Cina dovrebbe guardare, la risposta è che «Germania o Usa sono troppo lontani da noi. Possiamo imparare da Taiwan. Quan- RRR Tempi «I comunisti non permettono a più di 70 persone di riunirsi. Qui l’89 è arrivato prima dell’esplosione dei conflitti sociali. Era presto» do hanno abbracciato la democrazia, temevo il caos. Invece a Taiwan ho visto una bella società. Dimostra che i cinesi possono fare bene la democrazia». Tutto si muove, tutto va avanti, come spesso suggeriscono i romanzi di Yu Hua. Anche la leadership muta. «La parola "Leader" si è svalutata. Prima era riservata solo a Mao. Adesso la usiamo dappertutto, anche nell’ascensore. All’epoca soltanto Mao agitava la mano sulla Tienanmen. Gli altri salutavano tenendo i libretti rossi a un’altezza inferiore. Adesso invece i 9 membri del comitato permanente del Politburo agitano tutti la mano, alla stessa altezza. Quindi la Cina ha fatto progressi: magari nel futuro 90 persone agiteranno le mani alla stessa altezza. Mi auguro che in futuro nel Politburo ci siano 9 mila membri». Non ci sono più i leader di una volta. leviedellasia.corriere.it Twitter @marcodelcorona © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 6 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA COMMONS L’innovazione patinata delle Ted conference di BERTRAM MARIA NIESSEN T ed (Technology Entertainment Design) è un format di presentazione che gode di fortuna crescente. Gli invitati — tra gli artisti, scienziati e imprenditori più innovativi in circolazione (nella foto il presidente di Microsoft Bill Gates) — hanno 18 minuti per esporre nel modo più brillante possibile un progetto, una visione, una storia. I video di Ted hanno un grande seguito online, grazie alla capacità di comunicare velocemente quello che di nuovo accade e può accadere. E quindi viva Ted, e viva gli altri format di «public speaking»: da Ignite (20 slide da raccontare in 15 secondi ciascuna) a Pecha Kucha (20 slide per 20 secondi). Eppure, assistendo a eventi di questo tipo, capita di provare un certo disagio. Il «public speaking» diventa spesso un one-man-show assertivo: il monologo deve essere travolgente; RRR Raccontare solo il successo non lascia intravedere le infinite prove e gli errori dietro ogni innovazione reale non c’è tempo per le precisazioni, tantomeno per il dibattito e la polifonia. Resta solo, sul palco, il Genio di turno. Questo modo di raccontare — tutto americano — narra solo storie di successo di menti brillanti che «ce la fanno», dalle cui labbra pende un pubblico adorante. Non lascia intravedere le infinite prove ed errori dietro ogni innovazione reale. Soprattutto, non ci dice mai nulla del processo di innovazione diffusa e collettiva, del lavoro di molti di cui l’oratore sul palco è solo il portavoce. Le idee non sono una verità che aspetta di essere rivelata. Sono tra noi, dappertutto. Basta imparare ad ascoltarle. Twitter @bertramniessen Orizzonti © RIPRODUZIONE RISERVATA { Nuovi linguaggi, scienze, religioni, filosofie Su Twitter i consigli di lettura Sarà Maria Laura Rodotà la #twitterguest della settimana del canale della «Lettura» su Twitter. All’indirizzo @La_Lettura, la giornalista, autrice di «Le regole. La vita quotidiana. Istruzioni per l’uso» (Rizzoli), consiglierà ogni giorno ai follower un libro da leggere. Rodotà, editorialista del «Corriere della Sera», raccoglie il testimone dallo scrittore Donato Carrisi, #twitterguest della scorsa settimana. Prospettive Con il digitale sembra andare in pensione il «prodotto fagotto» — amato da editori e pubblicità — che propone sport, gossip, arte e news. Offrire contenuti unici, aggregarli e curarli al meglio è il modello da seguire L’informazione è un social club di SERENA DANNA C redete ancora alla differenza tra new e old media? Aggiornatevi, è già finita. Per le testate «storiche» contano piuttosto due domande: quando stampare un giornale ci costerà più che confezionarlo? Come ci stiamo preparando a quel giorno? Clay Shirky, docente di digital journalism alla New York University, si occupa di giornalismo e innovazione dai «meravigliosi» anni Novanta, «quando ogni mese in edicola c’erano giornali nuovi — spiega dalla sua casa di New York — e non riuscivi a distinguere un articolo dalla pubblicità, per quanta ce n’era in pagina». Proprio «la crescita continua dal 1950 al 2005 — racconta — ha reso i gruppi editoriali restii a ridurre i costi». Nonostante new economy e creatività, la trasformazione di un elefante in una libellula inizia sempre dal taglio delle spese. «Le strutture digitali sono a basso costo: Amazon, Travelocity, Facebook, sono nati economici e restano economici». I mille giornalisti della redazione del «New York Times» costano 200 milioni l’anno, mentre «Gawker», uno dei siti più popolari e redditizi degli Stati Uniti (giro d’affari: 320 milioni di dollari) può contare su 120 giornalisti che paga «a cottimo»: circa 7 dollari per ogni mille pagine viste generate dai post a loro firma. Non esiste una ricetta universale per la metamorfosi dell’elefante. Basta avere una strategia. «Il "digital first" enunciato dal "Guardian" vale per tutti: solo che loro hanno un piano», puntualizza Shirky. Che consiste nell’investire l’80% delle risorse, economiche e mentali, nello sviluppo della redazione online, chiedendo un contributo attivo ai lettori nella produzione di contenuti (il cosiddetto crowdsourcing). E se il «New York Times» ha scelto l’integrazione totale web-carta, la rivista americana «Forbes» gestisce la redazione online come fosse una start-up, slegata dalle sorti del cartaceo patinato. Nel flusso continuo di news che sanciscono la fine del centauro vecchi e nuovi media (il cofondatore di Facebook Chris Hughes che compra la storica rivista progressista «The New Condivisa, a basso prezzo e per soci: è caduta la divisione tra new e old media --i In alto da sinistra a destra: Clay Shirky, docente di new media alla New York University; Anthony De Rosa, social media editor della Reuters; Chris Hamilton social media editor della Bbc e il reporter freelance— candidato premio Pulitzer — Michael Hastings Republic», Cnn che mette gli occhi sul sito «Mashable», il colosso dei semiconduttori Intel che sta per lanciare una tv), ci sono casi che fanno già bibliografia. L’autorevole quotidiano «Christian Science Monitor», dopo un secolo di stampa, nel 2009 ha interrotto la pubblicazione quotidiana optando per la formula settimanale più sito web. «Facciamo approfondimento sui temi cruciali della nostra testata», ha spiegato il direttore John Jemma. Con il digitale, è finita l’era del formato «fagotto», che offriva al lettore un po’ di tutto: sport, news, gossip. Shirky spiega: «La stampa del XX secolo era guidata da pubblicità ed editori: ai primi interessava avere molti potenziali clienti — e la quantità si raggiungeva mettendo insieme oroscopo e finanza — , ai secondi non faceva differenza se il lettore comprava il giornale per la pagina dei cuori solitari o per un reportage dal Vietnam». Oggi che il web è diventato il regno del «di tutto un po’» e la pubblicità preferisce investire su Facebook e Google piuttosto che sui siti di informazione, urge trovare nuove strade. Per quanto riguarda i contenuti, le parole magiche da aggiungere al dovere della qualità sono «aggregazione» e «cura». «Aggregare — spiega Shirky — significa creare valore filtrando la buona informazione dal web. Curare è lo stesso ma con l’aggiunta di un punto di vista». Usare bene Facebook è un mestiere. Anthony De Rosa, so- cial media editor della Reuters, guida i colleghi nell’utilizzo di Twitter, Pinterest, Tumblr per trovare indizi e nuove fonti. Spiega: «Si tratta di applicare i principi della vecchia scuola di giornalismo ai nuovi strumenti: cercare la verità ed essere sempre scrupoloso nella verifica». Gli «user generated content», i contenuti prodotti dagli Il divorzio Tesoro-Banca d’Italia trent’anni dopo RRR Strade Shirky: «Non esiste una ricetta universale: basta avere una strategia. Il "Guardian" concentra l’80% delle risorse nell’online, la redazione internet di "Forbes" è una start-up» DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA News personalizzate 7 I software intelligenti che trasformano dati in storie sono già una realtà. Il caso di «Narrative Science» Generatore automatico di articoli: il giornalismo diventa post-umano di EVGENY MOROZOV ILLUSTRAZIONE DI FRANCESCA CAPELLINI «F utenti, costituiscono ormai una parte sostanziale dei siti di informazione. Chris Hamilton alla Bbc si occupa di curarli e organizzarli: «Creo valore a partire da video, dati, foto e notizie dei lettori: Twitter non serve a propagandare i contenuti del gruppo, è un laboratorio». Nel marzo del 2011 Bill Keller, ex direttore esecutivo del «New York Times», ha dichiarato: «In Somalia questo sarebbe chiamato pirateria. Nella sfera dei media è un rispettabile modello economico». Sembra un secolo fa. Secondo De Rosa «scrivere un buon articolo significa prendersi cura dell’informazione, è lo stesso principio del social media editing». Hamilton aggiunge: «Nelle emergenze il citizen journalism, se ben veicolato e verificato, si è dimostrato una grande risorsa». Il candidato Pulitzer Michael Hastings — che è stato assunto dal super-blog «Buzzfeed» per seguire le elezioni presidenziali Usa — è più cauto: «Sono mezzi per trovare notizie ma non giornalismo, che, pur non essendo una scienza esatta, richiede competenze come per il fabbro o il calzolaio». «La parola giornalista — spiega Shirky — storicamente significa "persona impiegata da un editore", ma il web oggi offre i mezzi che prima erano possibili solo con un gruppo alle spalle». Ma ecco la rassicurazione per le redazioni: «Ci sarà sempre bisogno di esperti di energia nucleare o di persone che sappiano come trovarli in 5 minuti». Se non si può contare sulla pubblicità, come si guadagna online? Shirky sfata subito il mito del successo dell’informazione economico-finanziaria a pagamento: «Il "Financial Times", come l’"Economist", sono newsletter approfondite: gli addetti ai lavori sono disposti a pagare per averle». L’informazione «generalista» — che non può contare sull’effetto newsletter né sul finanziamento delle Fondazioni non a scopo di lucro (vedi il sito di inchieste «ProPublica») — deve puntare su un pubblico ristretto ma affezionato, da trasformare in finanziatore. Il «New York Times» dopo una fase iniziale (e disastrosa) di contenuti a pagamento (il paywall) ha optato per la sottoscrizione digitale, il «membership model», lasciando quasi tutti i contenuti gratis ma offrendo agli abbonati servizi e prodotti speciali. Shirky spiega: «La logica è: se fai parte di quel 2% di lettori che tengono al Nyt, ti chiederemo di supportarci e in cambio ti offriremo contenuti esclusivi». I gruppi editoriali tradizionali, a differenza delle start- up, possono contare su quello che Shirky chiama «God forbid index», l’indice del «Dio non voglia»: i lettori non riescono a immaginare che il giornale dei loro nonni chiuda, e faranno di tutto per salvarlo. Chi crede tuttavia nell’indice — che secondo Shirky ha fatto la fortuna della «Public National Radio» e dell’italiano «il manifesto» — come garanzia di sopravvivenza nel futuro si sbaglia. Dice: «Solo rischiando di perdere i lettori fedeli all’ "abbiamo sempre fatto così", l’informazione avrà chance di attrarre nuovo pubblico». Siamo pronti? Twitter @serena_danna © RIPRODUZIONE RISERVATA orbes» — una delle istituzioni più venerabili del giornalismo finanziario — oggi impiega una società denominata «Narrative Science» per generare automaticamente articoli sulle prospettive derivanti dai rapporti finanziari delle società. Basta dargli delle statistiche e in pochi secondi il software intelligente produce resoconti di piacevole leggibilità. Secondo «Forbes», utilizzando la sua piattaforma proprietaria di intelligenza artificiale, «"Narrative Science" trasforma dati in storie e approfondimenti». Si noti l’ironia della situazione: piattaforme automatizzate ora «scrivono» resoconti su società che traggono profitti dal trading automatizzato! Questi resoconti vengono poi reintrodotti nel sistema finanziario, aiutando gli algoritmi a individuare transazioni ancora più lucrose. Si tratta in pratica di giornalismo fatto da robot per dei robot. L’unico aspetto positivo è che sono gli esseri umani a incassare i soldi. Società come «Narrative Science» di solito lavorano in settori specifici — immobiliare, sport, finanza — dove le notizie tendono a seguire lo stesso modello e ruotano attorno a statistiche. Fare la cronaca delle campagne elettorali, a quanto pare, non è molto diverso dal farla per una partita di baseball: un servizio lanciato di recente da «Narrative Science» è in grado di produrre articoli sui riflessi nei social media di una campagna elettorale statunitense, su quali sono le questioni e i candidati di cui si parla di più o di meno in un particolare stato o regione, ed è persino in grado di inserire nell’articolo finale citazioni dai tweet più popolari e interessanti. Nessuno segue Twitter meglio dei robot. È facile capire perché i clienti di «Narrative Science» — una trentina — lo trovino utile. Innanzitutto, è molto più economico che pagare giornalisti a tempo pieno che tendono ad ammalarsi, chiedono di essere rispettati e sono vanitosi. Un partner di «Narrative Science» paga solo 10 dollari per avere un articolo di 500 parole, e senza che nessuno lamenti le terribili condizioni di lavoro. Inoltre questo articolo viene scritto in un secondo — un record che nessun essere umano riuscirebbe mai a uguagliare — nemmeno il povero Christopher Hitchens! In secondo luogo, promette di essere più completo — e obiettivo — di qualsiasi giornalista in carne e ossa; pochi di loro hanno infatti il tempo di trovare, elaborare e analizzare milioni di tweet, mentre «Narrative Science» riesce a farlo facilmente e, soprattutto, istantaneamente. E non solo è in grado di presentarci ogni tipo di statistiche, ma vuole anche capire il significato di quei numeri e comunicarlo al lettore. «Science Narrative» avrebbe scoperto il Watergate? Probabilmente no. Ma la maggior parte delle notizie ha assai meno risvolti da controllare. I fondatori sostengono di voler semplicemente aiutare — non eliminare — il giornalismo. Le loro intenzioni potrebbero essere sincere, ma probabilmente i giornalisti non ne sono affatto contenti, mentre alcuni editori — sempre preoccupati dei conti da pagare — di sicuro lo accoglieranno a braccia aperte. Nel lungo periodo, però, l’impatto sociale di queste tecnologie — che sono solo agli albori — può essere più problematico. Se c’è una tendenza inequivocabile nel modo in cui Internet si sta sviluppando, è la spinta verso la personalizzazione dell’esperienza online. Tutto ciò che clicchiamo, leggiamo, cerchiamo e guardiamo su Internet è sempre più il risultato di qualche delicato sforzo di ottimizzazione, dove i nostri click precedenti, le nostre ricerche, i «mi piace», gli acquisti e le interazioni con gli amici online influenzano quello che succede nel nostro browser e nelle nostre applicazioni. RRR I notiziari Il programma confeziona storie per soddisfare gli interessi di un settore. Ma potrebbe farlo per ogni utente: il sogno degli editori Fino a poco tempo fa, molti temevano che questa personalizzazione ci avrebbe condotto in un mondo in cui saremmo stati esposti solo agli articoli che riflettono i nostri interessi, che non ci avrebbe permesso di avventurarci al di fuori dei nostri consueti territori. I social media, con la loro raffica infinita di link e di mini-dibattiti, hanno reso queste preoccupazioni obsolete. Ma l’avvento del «giornalismo automatizzato» presenta una sfida nuova e diversa, che gli eccellenti meccanismi di selezione dei social media non riescono ancora a risolvere: e se cliccando sullo stesso link, che in teoria dovrebbe condurre allo stesso articolo, ciascuno di noi trovasse in realtà testi molto diversi? Immaginiamo che i miei dati online suggeriscano che sono in possesso di una laurea specialistica e che passo un sacco di tempo sui siti web dell’«Economist» o della «New York Review of Books»; dovrei quindi ricevere una versione più sofisticata, stimolante e informativa della stessa notizia rispetto al mio vicino che legge «Usa Today». Se i miei dati mostrano che sono anche interessato a questioni internazionali e di giustizia globale, un articolo scritto da un computer su Angelina Jolie parlerà del suo nuovo film sulla guerra in Bosnia. Il mio vicino, appassionato di divi, riceverebbe invece un articolo con qualche vano pettegolezzo su Brad Pitt. Confezionare storie al momento, che siano personalizzate per soddisfare gli interessi e le abitudini intellettuali di un solo particolare lettore, è esattamente quel che fa il giornalismo automatizzato. Gli inserzionisti e gli editori amano questo genere di personalizzazione — che potrebbe spingere gli utenti a passare più tempo sui loro siti — ma le sue implicazioni sociali sono pericolose. Come minimo Il logo della start-up di Chicago «Narrative Science», la società di scrittura intelligente fondata da Kris Hammond e Larry Birnbaum. A destra: una foto d’epoca dei reporter del «Washington Post» Bob Woodward e Carl Bernstein, gli autori dell’inchiesta sul «Watergate» Rivoluzioni in un click Che fine ha fatto l’attivismo digitale in Italia? di FABIO CHIUSI C he fine ha fatto l’attivismo da click in Italia? C’è stato un tempo, coincidente con la fine del berlusconismo, in cui il pensiero dominante imponeva di concepire Facebook e Twitter come il luogo a cui i cittadini — e, piuttosto morbosamente, i media — avrebbero dovuto rivolgersi per comprendere e, poi, causare il cambiamento sociale e politico. I numeri sembravano confermare l’ipotesi: le piazze si coloravano di viola o arancione. E sui social network si moltiplicavano battute e sfottò, non ultimi quelli sull’inesistente moschea di Sucate che hanno contribuito ad affondare la ricandidatura di Letizia Moratti a Milano. Qualche rigurgito di cyber-utopismo aveva fatto parlare di «Italia migliore», di «democrazia dal basso», facendo credere che Internet potesse sostituire la politica tradizionale. Siamo in guerra. La Rete contro i partiti titola, per Chiarelettere, un recente volume di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Ma se davvero, come sostiene il comico genovese, «siamo in guerra», sembra che chi attaccava abbia perso slancio. E che le armi siano spuntate. A serpeggiare su Facebook è una gran voglia di andarsene, e Twitter fa notizia più per l’ennesimo litigio tra celebrità che per la sua capacità di veicolare iniziative per il cambiamento sociale. È rimasta l’indignazione, certo, ma all’insegna dell’insulto (bersaglio favorito: «la Casta») più che del dialogo o della proposta. Chissà se le prossime amministrative risveglieranno i guerrieri sopiti. Quel che è certo è che banalizzare la realtà aiuta a coagulare il consenso. Ma cambiarla è un’altra cosa. Twitter @fabiochiusi © RIPRODUZIONE RISERVATA c’è il rischio che qualcuno rimanga chiuso in un circolo vizioso, riceva solo notizie spazzatura e non si renda conto che al di fuori c’è anche un mondo diverso e più intelligente. La natura comunitaria dei social media lo rassicurerà sul fatto che non sta perdendo nulla. Pensiamo a cosa succederebbe se grandi società tecnologiche entrassero in questo mercato, soppiantando iniziative di modesta portata come «Narrative Science». Prendiamo ad esempio Amazon. Il suo eReader Kindle permette agli utenti di cercare nel dizionario elettronico le parole che non conoscono e di sottolineare i passi preferiti. Amazon registra e memorizza queste informazioni sui propri server. Questo gli tornerà utile quando deciderà di costruire un notiziario personalizzato e completamente automatizzato: in effetti sa già quali giornali leggo, che tipo di articoli attirano la mia attenzione, quali frasi mi piacciono e di quali parole non conosco il significato. E poi ho già il loro dispositivo, dove posso leggere questo notiziario gratuitamente! In questo contesto, l’idea che una maggiore automazione potrebbe salvare il giornalismo appare miope. Non bisogna, però, prendersela con innovatori come «Narrative Science». La vera minaccia viene dal rifiuto di indagare sulle conseguenze sociali e politiche insite in un mondo in cui la lettura anonima è quasi impossibile. È un mondo nel quale gli inserzionisti — assieme a Google, Facebook e Amazon — non vedono l’ora di trovarsi, ma è anche un mondo in cui il pensiero critico e non convenzionale può diventare più difficile da coltivare e preservare. Twitter @evgenymorozov (Traduzione di Maria Sepa) © RIPRODUZIONE RISERVATA RRR Opportunità Ma queste nuove tecnologie, se ben gestite, permettono di ridurre i costi e consentono ai giornalisti di seguire tracce più interessanti DOMENICA 18 MARZO 2012 8 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Sopra le righe Orizzonti Scienze Neuroscienze di Giuseppe Remuzzi { Didattica teatrale Perfect è uno spettacolo di teatro messo su da studenti di medicina della Queen’s University a Belfast per parlare di bioetica (fertilizzazione in vitro, embrioni, diritti dei bambini e tanto altro). «È un modo di imparare del tutto nuovo Le pene d’amore e il mal di pancia sono collegati agli stessi circuiti cerebrali e svolgono una funzione preziosa: sono come sentinelle che ci avvertono di una minaccia in corso La ricognizione dei dolori di CHIARA LALLI «Q uante lettere son, tanti son chiodi/coi quali Amore il cor gli punge e fiede». Così Ludovico Ariosto descrive lo strazio amoroso di Orlando per Angelica. Una delusione d’amore o un abbandono può spezzarci il cuore, ci siamo passati tutti. Conosciamo anche il dolore dell’umiliazione o della vergogna, che somiglia a un pugno in pieno volto. Quante volte abbiamo detto o ci siamo sentiti dire «hai ferito i miei sentimenti»? Non importa quali siano la nostra cultura e le nostre credenze: il dolore emotivo o sociale è un sentimento universale. Spiegare come sia possibile che una informazione («il mio amore mi ha lasciato») ci faccia provare dolore rimane un rompicapo per la filosofia della mente, tuttavia sembra che la sofferenza emotiva e quella fisica condividano le stesse aree cerebrali e gli stessi meccanismi reattivi. Naomi Eisenberger, del dipartimento di Psicologia della Ucla, l’università californiana di Los Angeles, da molti anni osserva tramite la risonanza magnetica le correlazioni tra la sofferenza fisica e quella sociale. Nella sua ultima pubblicazione su «Current Directions in Psychological Science», Eisenberger si sofferma sulla somiglianza tra un cuore infranto e un braccio rotto, collegati agli stessi circuiti neuronali. Insomma ricorrere alle parole proprie del dolore fisico — hanno scritto gli studenti — siamo liberi di esprimerci e di interagire con gli altri. Le opinioni sono diverse, ma ti rendi conto che anche chi non la pensa come te può avere buoni argomenti». Incanto Cecco Bravo (1601-1661), «Ruggiero libera Angelica» (1660, particolare), Chicago, David and Alfred Smart Museum potrebbe essere non solo una metafora per descrivere e definire i nostri stati d’animo. È negli anni Settanta che l’ipotesi di correlazione emerge per la prima volta: Jaak Panksepp si accorge che i neurotrasmettitori deputati al controllo del dolore sono protagonisti anche nei casi di dolore «immateriale». Sostanze come la morfina e la codeina, antidolorifici per eccellenza, funzionano anche per lenire la sofferenza psichica. L’esperienza di dolore ha due componenti: una sensoriale, che riguarda l’in- tensità e il luogo di provenienza del dolore, e una emotiva. La rimozione della corteccia cingolata anteriore dorsale — ovvero l’area che funziona come meccanismo di allarme e che ci avverte quando qualcosa non funziona — in pazienti con dolore cronico intrattabile provoca un effetto curioso: i pazienti sentono ancora dolore, ma a essere scomparso è il peso emotivo, l’essere oppressi dal dolore. Eisenberger ricostruisce sinteticamente il percorso delle ricerche condotte da quella prima scoperta fino a oggi, per arrivare alle ipotesi più recenti, con il formidabile supporto del neuroimaging. È la stessa Eisenberger a sottolineare che la somiglianza non implica che le esperienze dolorose siano interscambiabili. Quella somiglianza però può offrirci qualche spiraglio per comprendere meglio i meccanismi del dolore e per controllare e ridurre la sofferenza, di qualunque genere sia. Il dolore cronico tormenta 116 milioni di americani, secondo il report dell’Institute of Medicine del giugno del 2011, e costa centinaia di milioni di dollari ogni anno. Un po’ meno tetro il panorama per gli italiani: uno su quattro ne è afflitto, secondo il «Pain in Europe Survey» del 2011. Quel dolore ha perso ormai la funzione di segnalare che qualcosa non va, è un dolore inutile e spesso difficile da trattare. Analogamente al dolore fisico, prosegue Eisenberger, quello emotivo potrebbe avere la funzione di campanello d’allarme: così come provare dolore ci permette di scansarci dalla fonte dolorosa o ci avverte che qualcosa non va, il dolore emotivo potrebbe «avvertirci» e insegnarci a evitare i pericoli del rifiuto sociale. E, d’altra parte, l’assenza di dolore è rischiosa in entrambi i casi. L’insensibilità congenita al dolore con anidrosi è una patologia che impedisce di percepire se ci tagliamo o se abbiamo un attacco di appendicite, con evidenti rischi per la nostra salute e la nostra stessa vita. L’assenza di sensibilità al dolore sociale è correlata a patologie come la paranoia e la schizofrenia. Per quanto sgradevole, la funzione originaria e adattiva del dolore è preziosa, proprio come una sentinella il cui compito è quello di avvertirci di un pericolo, sia che si tratti di un mal d’amore o di un mal di pancia. © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 9 Post it Orizzonti Ideologie Lezioni/Todorov di Stefano Righi Le fondamenta stesse del sistema gli si stanno ritorcendo contro { Cercasi lavoro, disperatamente Ci sono due tipi di disoccupazione, dice il presidente della Confindustria del Veneto, Andrea Tomat. «Da un lato, chi perde il lavoro, che necessita di tutele per salvaguardare la dignità del proprio impegno. Dall’altro, la Lezioni/Lanzmann massa di giovani che non riescono a trovare occupazione e vedono affievolirsi la speranza di una piena realizzazione. Un capitale umano che noi tutti dobbiamo aiutare a formarsi». Non solo in Veneto, naturalmente. Raccolti in Francia testi d’interventi mondani e militanti del regista Popolo e progresso: i nuovi traditori della democrazia L’anima controversa del regista di Shoah: impegnato e frivolo di FREDIANO SESSI di GUIDO VITIELLO O ggi, i pericoli per la democrazia non provengono dai suoi rivali tradizionali — nazismo, fascismo, comunismo, teocrazia, terrorismo — ma da quelli che Tzvetan Todorov, nel suo libro Les ennemis intimes de la démocratie (Robert Laffont, pp. 260, € 22,70) chiama appunto «nemici intimi», sorti al suo interno e che ne minacciano l’esistenza. Il popolo, la libertà e il progresso — scrive il pensatore francese — sono elementi costitutivi della democrazia, ma se accade che uno solo di essi si renda autonomo rispetto agli altri, sfuggendo a ogni tentativo di limitarne il ruolo ed erigendosi a principio unico, eccoci di fronte al pericolo: populismo, ultraliberismo, messianismo. Presso gli antichi greci, gli dei punivano gli uomini che volevano mettersi al loro posto per decidere ogni cosa; nella religione cristiana, l’essere umano è macchiato dal peccato originale, che ne limita in modo severo le aspirazioni. Al contrario, gli abitanti delle democrazie moderne sanno che il freno alle loro azioni è costituito dalla complessità stessa del tessuto democratico; dalle diverse e tante esigenze che cerca di conciliare e dagli interessi divergenti che prova a soddisfare. Proprio il contrario della semplificazione: il primo avversario interno della democrazia, che riduce il plurale all’unico e apre così la strada all’eccesso. Ma quali sono gli ambiti dove questo eccesso si verifica con maggiore frequenza? Prendiamo ad esempio il grande tema della libertà di stampa e d’informazione: «La parola pubblica — scrive Todorov — è un potere come gli altri. In qualità di contropotere, la libertà di espressione è preziosa; come espressione del potere, deve essere limitata». Grazie a Facebook e a Twitter, l’informazione può circolare anche in Cina. Nei Paesi arabi, questa stessa forma di comunicazione, sfuggendo al controllo centralizzato, ha favorito il cambiamento: «Nessun abuso di potere a questo proposito». In altre circostanze, lo stesso strumento può servire al controllo e alla sottomissione degli individui, se si trova nelle mani di una figura dominante. «I difensori della libertà di espressione illimitata — continua Todorov — ignorano questa distinzione elementare tra potenti e sottomessi». Ancora, la democrazia esige che tutti i poteri siano limitati, non solo quelli dello Stato, ma anche quelli del singolo. La tirannia degli individui è certo meno pericolosa e sanguinaria di quella degli Stati, ma rappresenta comunque un grave ostacolo a una vita civile e comune soddisfacente. Il progresso, altro elemento che caratterizza le moderne democrazie, quando è tutto incentrato sullo sviluppo economico, può rischiare di essere una deviazione dal fine principale della società: l’economia infatti non rappresenta il senso ultimo della vita umana. Così come accade per la libertà e il progresso, anche il popolo sovrano, alla base della democra- zia, può rappresentare un pericolo. L’avanzata in Europa dei partiti e dei movimenti populisti ne è un esempio. L’idea populista pretende di risolvere i problemi quotidiani di ciascuno, mentre i drammi degli altri popoli lontani restano nell’oblio. Per questo, il populista gioca sistematicamente sul senso della paura: i suoi seguaci in genere non sono i più poveri, ma coloro che, appartenendo alla classe media, temono di perdere tutto a vantaggio dei reietti. Quanto al nazionalismo esacerbato, che nasce da una comunità che esalta gli individui, padroni assoluti della propria libertà illimitata, esso origina il rifiuto o la demonizzazione del multiculturalismo. In questo rifiuto del vivere gli uni accanto agli altri, pur con diverse culture, molti leader europei sono solidali: dalla Merkel a Sarkozy, a Cameron, ma si potrebbero citare anche esponenti politici italiani di partiti spesso in lotta tra loro. «Noi ci sentiamo legati ai valori cristiani — ha affermato la Merkel —, coloro che non li accettano non trovano posto tra noi». Ora il multiculturalismo non è un progetto politico, ma un dato di fatto: tutte le società sono costituite da più culture. Suggerire che Tzvetan Todorov, nato a chi non rispetta i valoSofia (Bulgaria) nel ri cristiani non può 1939, vive in Francia dal trovare posto, per 1963. Ha scritto molti esempio in Germasaggi di critica letteraria nia, è assai stravagane di filosofia della storia. te oltre che pericolo«Les ennemis intimes de so. Così populismo e la démocratie» è la sua xenofobia si uniscoopera più recente no nel creare crociate verso l’esterno e dividere i cittadini in categorie con o senza diritti. Per migliorare la vita di ciascuno, occorre prendere atto che la democrazia è malata a causa dei suoi eccessi; la libertà può trasformarsi in sopruso o tirannia, il popolo in massa manipolabile, il desiderio di promuovere il progresso (anche fuori dai confini nazionali) in spirito di crociata (spesso per il bene degli altri piovono bombe!). «L’economia, lo Stato e le leggi cessano di essere dei mezzi in vista del benessere di tutti, e ormai partecipano a un processo in atto di disumanizzazione». A volte questo processo deviante sembra irreversibile. Che fare? Già il prenderne atto, suggerisce Todorov, è un passo in avanti per cercare di correggere gli abusi della democrazia e combattere insieme i suoi nemici interni. i © RIPRODUZIONE RISERVATA C laude Lanzmann è Shoah, e Shoah è Claude Lanzmann. Da quando, a metà degli anni Settanta, mise mano al film sullo sterminio degli ebrei che avrebbe visto la luce solo nella primavera del 1985, Lanzmann è avviluppato dal suo capolavoro come da una camicia di Nesso, dolorosa e infuocata, al punto che nella sua autobiografia si possono trovare frasi come questa: «Era un periodo buio della mia esistenza e — è lo stesso — della realizzazione di Shoah». In mille occasioni, per più di vent’anni, si è presentato al mondo come l’apostolo instancabile e tenace del suo film, guadagnandosi un’immagine pubblica un po’ arcigna di censore morale, di arbitro supremo che commisura ogni altra opera al rigore esemplare della propria. Lanzmann che attacca Schindler’s List o inveisce contro Korczak di Andrzej Wajda, Lanzmann che elogia Le Benevole di Jonathan Littell e accusa di falsificazione storica Il testimone inascoltato di Yannick Haenel, Lanzmann che difende l’uso del termine «Shoah», parola incomprensibile per un evento incomprensibile. Una prima crepa in questa immagine granitica l’aveva aperta tre anni fa proprio l’autobiografia La lepre della Patagonia, spiazzante fin dal titolo, che rivelava un narratore di talento e un insospettabile umorista. Ora Gallimard pubblica un libro dal nome altrettanto oscuro, La tombe du divin plongeur, che riporta alla luce tutto quel che Lanzmann è stato prima di Shoah e a margine di Shoah. Il «divino tuffatore» è quello dipinto sulla lastra di una tomba antica, a Paestum: «Non avrei mai immaginato di essere colpito dritto al cuore, tremante e sconvolto nel profondo, come lo fui il giorno in cui egli mi apparve, arco perfetto, che pare tuffarsi in eterno nello spazio tra la vita e la morte». Per Lanzmann — che ha fatto il primo tuffo a settant’anni, dalle rocce della Costiera Amalfitana — è la metafora della sua vita avventurosa e attratta dagli abissi: «Così come ci sono imitazioni di Cristo, la mia è stata un’imitazione del divino tuffatore di Paestum». Ma non è metafora altrettanto adatta per questo libro fatto non già di tuffi ma di nuotate — ora energiche, ora svagate — sullo specchio d’acque della cronaca. Articoli, reportage, interventi apparsi dalla fine degli anni Cinquanta, per lo più su «Les Temps Modernes» (la rivista di Sartre e de Beauvoir di cui Lanzmann divenne direttore) e su «Elle», dove scriveva sotto lo pseudonimo di Jean-Jacques Delacroix. C’è il Lanzmann cronista giudiziario, che racconta il terribile processo al curato di Uruffe, assassino di una parrocchiana che lui stesso aveva ingravidato, e che poi aveva sventra- to per amministrare i sacramenti al feto, prima di ucciderlo e sfigurarlo. Ma c’è anche il Lanzmann-Delacroix cronista mondano, capace di comporre deliziosi ritratti: l’imperatrice Soraya, ripudiata dallo scià di Persia, in vacanza a Capri nel 1959; Marcel Marceau, misantropo divenuto mimo in odio alla parola e ai parlanti, «come Jean-Jacques Rousseau a Ermenonville, ritirato dal mondo, sospettoso, murato nel suo silenzio»; Charles Aznavour che conquista gli «zibellini» del teatro Parioli a Roma; Jean-Paul Belmondo, eroe stendhaliano che «essendo assolutamente se stesso, è uguale a tutti gli altri»; Serge Gainsbourg ai suoi esordi, pigro, blasé e misogino, che sale quasi controvoglia la scalinata della gloria. La breve sezione dedicata a Shoah, che raccoglie controversie attorno al film (per lo più testi già noti), così come le polemiche sul Kosovo, sulla guerra umanitaria, sull’11 settembre, sul «comparatismo degli orrori» che riconduce tutto alla Shoah, confermano quel che già si sapeva, e cioè che la vita di Lanzmann è diviClaude Lanzmann, sa in due parti, priregista ebreo francese ma e dopo Shoah. Ma forse a questa nato a Parigi nel 1925, ex partigiano, è noto linea divisoria crosoprattutto per il film nologica s’intreccia documentario «Shoah» una fenditura longi(1985). Ha pubblicato tudinale, segno di di recente «La tombe un’anima spaccata du divin plongeur» in due. «Ma allora, l’unità dell’io?» aveva obiettato Frantz Fanon, all’epoca grande portavoce della causa algerina, quando aveva scoperto che Lanzmann predicava l’engagement sartriano ma si guadagnava da vivere con un «giornalismo alimentare». «Non avevo voglia di addentrarmi con lui in spiegazioni sulle nere concatenazioni della mia esistenza, e poi lo capivo: fare il ghost writer o scrivere sulle attrici poteva sembrare frivolo e contrario alla radicalità richiesta dall’impegno. Vivevamo in un’epoca totalitaria, la guerra fredda imperversava, bisognava rispondere di tutto. Mi fu più facile cambiare nome. Tuttavia, Lanzmann e Delacroix erano una cosa sola». Tornano a esserlo, oggi, con questo libro. i © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 10 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Follower Orizzonti Nuovi linguaggi Self-publishing di Chiara Maffioletti { La ragazza che sconfisse gli U2 Si avvicinano a 12 milioni i follower di Taylor Swift, ventunenne reginetta del country, incoronata da «Billboard» come l’artista che ha guadagnato di più negli Usa nel 2011, battendo anche gli U2. E su Twitter la ILLUSTRAZIONE DI CHIARA DATTOLA Dio, le classifiche e l’essere (sessuale) degli animali sono i temi sviluppati da dilettanti allo sbaraglio e professori allo sbadiglio I filosofi che si auto-pubblicano di EDOARDO CAMURRI G sconfitta si ripete: la storica band non ha un profilo molto attivo e si ferma «solo» a 65.700 follower. Viceversa la biondina intrattiene i suoi milioni di fan raccontando anche che cosa mangia per cena. ustave Flaubert! Per degnamente pagare il debito di riconoscenza che abbiamo verso questo autore, vorremmo anche noi incontrare sulla strada qualche degno erede dei suoi immortali Bouvard e Pécuchet, gli amici che mollarono tutto per dedicarsi, con sconsiderata felicità, alla ricerca del sapere. Abbiamo così deciso di esplorare un fenomeno che terrorizza molti: il self-publishing online; sono siti che offrono a chiunque, senza la mediazione di un editore, la possibilità di pubblicare liberamente i propri libri e di venderli a chi è curioso di sapere cosa si agita nella mente di questi irregolari. Esploreremo, essendo il materiale vastissimo, una delle sezioni più promettenti, quella filosofica, nella speranza di trovare pensieri all’altezza delle aspettative. Subito la nostra attenzione viene indirizzata verso il Trattatello filosofico scientifico sulla sessualità umana e animale di Pietro Italo Giovanni Calabrese (d’ora in poi Pigc). Pigc è autore di altri volumi, tutti auto-pubblicati su lulu.com, come Dio l’essere e il tempo e Il quarto wormhole, e l’interesse filosofico verso la sessualità sembra percorrere tutta la sua opera. I filosofi da self-publishing, in genere, sono pronti a tutto, forse anche a finire arrosto come Giordano Bruno, pur di proclamare le loro scoperte. Leggiamo all’inizio del saggio di Pigc: «Vi confesso che quest’impresa mi fa paura; i filoso- i fi scomodi, che toccano argomenti che infrangono tabù secolari, se non millenari, sono da sempre stati perseguitati e, per l’amore delle loro idee e della verità, hanno fatto una vita grama. Per fare il nome di un filosofo conosciuto ai più, che ha subìto questa sorte, basti pensare a Spinoza! So che la pagherò cara, quindi; i miei detrattori chissà cosa si inventeranno sul mio conto». Non saremo noi di certo a inventarci nul- RRR Tiromancino Il comune senso dell’estetica Niccolò Amato, a 40 anni di distanza dall’uscita di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, si pente di averne ordinato il sequestro con l’accusa di «esasperato pansessualismo fine a se stesso». Il concetto di comune senso del pudore si evolve nel tempo e oggi la scena del burro sbiadisce nel patetico e quella sentenza suona ridicola. Però, con il pudore, evolve anche il punto di vista dello spettatore e, di conseguenza, il testo. È un principio epistemologico fondamentale: così, oggi, dal punto di vista puramente estetico, il giudizio di «esasperato pansessualismo fine a se stesso» pare perfetto. Aldo Grasso Michele Proclamato Le vibrazioni dell’angelo ilmiolibro.com Pagine 64, e 11,5 Pietro I. G. Calabrese Trattatello filosofico sulla sessualità umana e animale lulu.com, pagine 242, e 4 la sul conto di Pigc, in primo luogo perché non vogliamo essere suoi detrattori e poi perché è lui stesso a rivelare qualcosa di sé dopo aver spiegato, tramite l’immagine di un asse lungo il quale si dipana tutta la sessualità umana (A e B sono gli estremi, A eterosessualità B omosessualità in mezzo il punto zero), la geometria del suo filosofare: «Ebbene all’estremità A troviamo l’eterosessualità, che da ora in poi chiamerò l’amore per l’infinitamente grande, ossia la macrofilia. Essa consiste nell’amore per l’obesità, per la vecchiezza, per tutto ciò che nel corpo manifesta il passare degli anni. Quindi avremo attrazione per seni grossi e cadenti, con grandi areole; per fianchi pieni di rotoli, per sederi cascanti ecc...? A me piacciono anche le rughe, le smagliature, la cellulite e le varici, purché solo accennate (però dipende da caso a caso). Comunque, nell’eterosessualità il seno è la stella ed il sedere è il pianeta». Anche se può avere qualche interesse il fatto che Pigc veda l’universo sotto forma di lambada o di hula hoop (si provi infatti a far orbitare il sedere-pianeta attorno al seno-stella per simulare la scena), ciò che colpisce nei filosofi da self-publishing è una certa maniacalità classificatoria. Esistono precedenti sorprendenti: viene in mente Amintore Fanfani che nel 1934, pubblicando (però con l’editore Vita e Pensiero) un libro intitolato Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, arrivò a sostenere la tesi secondo la quale nei periodi di crisi economica vanno al potere uomini politici longilinei (alti) mentre in periodi di benessere comandano politici brevilinei (bassi). Oppure il biologo austriaco Paul Kammerer (morto suicida nel 1926) che era solito riempire le pagine del suo diario con le coincidenze che più lo colpivano: seduto su una panchina annotava quante persone gironzolavano raggruppandole secondo il sesso, l’età, l’abbigliamento, eccetera per poi trovare, immaginiamo, una legge del tipo: nei giorni di pioggia la gente porta gli ombrelli. Tutto questo, ricordava giustamente J. Rodolfo Wilcock, «è molto viennese e asburgico», ma i filosofi da self-publishing, per quanto classificatori maniacali, non si fanno catalogare con docilità. Il loro punto di vista tende all’universale. Fabio Volpe vende su lulu.com un suo saggio intitolato La mattanza. Fenomenologia dell’incidente stradale nelle democrazie occidentali (il titolo ci ha fatto venire in mente certi scritti di Cesare Lombroso come Delitti ciclistici e benefici del ciclismo) mentre Michele Proclamato, su ilmiolibro.com, introduce il suo volume Le vibrazioni dell’angelo (un saggio esoterico sulla musica), confessando: «Sinceramente, comunque, mi aspettavo di più dalla parziale comprensione dei meccanismi creativi divini, immaginavo, che so, la nascita dentro di me di un potere creativo capace di trasformare questa mia endemica povertà in ricchezza, o la possibilità, con la pura forza del pensiero, di trasformare la mia caratteristica pancetta in una parete addominale degna dei bronzei ritrovamenti di Riace» (più in avanti, Proclamato rivelerà che Dio l’avrebbe ricompensato, come si è già capito, donandogli la capacità di trovare il marchio divino nel creato). I filosofi da self-publishing vendono i loro libri, almeno nelle versioni ebook, a cifre abbastanza modiche. Quasi nulle, rispetto alle ore di stupore che dispensano. L’importante è non farsi troppe domande. Per esempio: come mai Gianni Ferracuti dell’Università di Trieste autopubblica un volume intitolato Parmenide e la capra e l’unica fotografia che il suo libro riporta è quella di un cane boxer? Quale sarà invece la tesi sostenuta da Giacinto Plescia nel suo libro Ontologia del sublime quando, in circa diciassettemila pagine (ripetiamo: 17 mila pagine), scrive frasi del tipo: «Essere sublime che ci incontra e si eventui, si getta nell’Essere così come nell’Esserci, per abitarvi con la transplendenza del sublime o dell’Essere sublatione sublime, o per abitare poeticamente le insenature sublimi di Kalypso»? Non è il caso di fare i moralisti. L’incomprensibilità di un testo filosofico non è mai stato un problema per il suo successo. E se Heidegger divenne un gigante scrivendo che «il mondo mondeggia», allora un Pigc qualunque può benissimo far ballare la lambada all’universo meritandosi così gli applausi riconoscenti di tutti i devoti di Gustave Flaubert. © RIPRODUZIONE RISERVATA Inquietudini La scrittura è troppo impulsiva, semplificatoria e parifica (male) sfera pubblica e privata La rapidità di Twitter? Emotiva e sopravvalutata di FRANCESCO PICCOLO P er fortuna, le contraddizioni resistono. Sono uno che scrive in favore della modernità senza esitazione, e poi non sono su Facebook e non ho Twitter. Proprio come Jonathan Franzen, con la differenza che non condivido teorie apocalittiche sulle conseguenze del social network. In pratica: anch’io prediligo la comunicazione tecnologica a quella in carne e ossa. Nel senso che provo una enorme eccitazione a starmene a casa mia e intanto comunicare con il mondo. Solo che il mondo per me si limita alle persone che frequento, e la possibilità di eliminare una gran parte degli incontri veri e degli appuntamenti complicati e degli spostamenti sotto il sole perché poi si mette a piovere all’improvviso, mi dà un piacere gigantesco. Inconfessabile, il più delle volte, ma gigantesco. Però, ci sono delle cose del social network, in tutte le sue diramazioni, che mi convincono in generale ma che non riesco a praticare quotidianamente. A dirla tutta, questo ragionamento mi è molto chiaro con Facebook, molto meno con Twitter. Per me Twitter è come il film La talpa: appena incontro qualcuno che l’ha visto, gli dico che mi è piaciuto, cosa che nella sostanza è vera; però poi gli chiedo la cortesia di spiegarmelo, faccio finta di aver capito, ma la verità è che non ho capito niente di quello che è successo nel film. Niente di niente. Finora ho incontrato tre problemi con i quali sto lottando. È chiaro che ho anche constatato una enorme quantità di virtù, però qui voglio elencare solo i tre problemi: la gabbia dei 140 caratteri. Che poi è la sostanza. Non riesco a non pensare che la brevità è un punto di arrivo e non un punto di partenza. Infatti, quando nei quotidiani ci sono articoli di due pagine fitte, fitte, sono contento. Compro le riviste trimestrali. Insomma, se bisogna ragionare intorno a qualcosa, mi piace leggere decine di pagine che argomentano un giudizio, una scelta; fanno digressioni, allontanandosi tantissimo da ciò di cui si parla per poi scoprire che non si erano allontanati tantissimo, ma parlando di altro hanno spiegato meglio. E in definitiva: si può scrivere un racconto di tre righe, ma bisogna pensarci di più che per un racconto di venti pagine. E qui veniamo alla seconda questione: è l’immediatezza la caratteristica che mi inquieta di più del social network. Ha introdotto una specie di parificazione tra un giudizio argomentato e una reazione emotiva. E la brevità rende questi due aspetti opposti ancora più simili. Ho poca simpatia per la reazione emotiva. Nella sostanza, non mi convince che qualcuno esca da un cinema e scriva a persone che conosce e che non conosce: mi è piaciuto. Mi sembra leggermente riduttivo. La terza argomentazione, lo ammetto subito, è da vecchi: faccio differenze tra persone che conosco e persone che non conosco. In pratica, tra vita privata e vita pubblica. Twitter abbatte questa barriera. Io non me la sento (ancora) di abbatterla. Uso un linguaggio diverso con mia madre, con il mio amico, con un collega, con un mio lettore, con un estraneo. Non riesco a dire che sono felice al direttore di un giornale, e ho pudore a mandare un articolo a mia sorella. In più, c’è questo fatto che devi seguire qualcuno; oppure, più inquietante, c’è qualcuno che ti segue. A quel punto, mi sembra davvero di essere La talpa. Con la differenza che lo hanno capito tutti che sono io. © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 11 Sushi style Orizzonti Nuovi linguaggi Visual data di Annachiara Sacchi { Riti di acqua e sapone Corpi che si lavano, si insaponano, si rilassano. Per i giapponesi il bagno, ofuro, è un rito che si celebra in casa, nei ryokan, gli hotel in stile tradizionale, negli onsen, i centri termali. Con la raccolta Visioni del Mondo (Skira Editore), il fotografo Daido Moriyama è riuscito a catturare l’essenza di queste abluzioni. La vita quotidiana nipponica raccontata da un maestro dello scatto in bianco e nero. Over 65, neolaureati, nati all’estero. La nuova emigrazione nostrana ha tante facce ma due costanze: eterogeneità e diaspora. L’Europa resta al primo posto Le altre Italie lontano dall’Italia di MARIO PORQUEDDU Q uattro milioni 208 mila 977 sono gli iscritti all’Aire, Anagrafe degli italiani residenti all’estero. Quattro milioni 968 mila sono gli immigrati in Italia secondo il Dossier Caritas/Migrantes 2011. Una delle parole chiave in questa storia è «anche». Lo ripete da anni il sociologo Enrico Pugliese, autore di L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne (il Mulino): l’Italia, dice, da qualche tempo è (anche) meta d’immigrazione, ma non ha mai smesso di essere un Paese da cui si parte — alla ricerca di impieghi o esistenze più soddisfacenti — soprattutto alla volta dell’Europa, e qualche volta spingendosi più lontano. Per l’Istat a fine 2010 circa 45 mila italiani si erano cancellati dall’anagrafe per recarsi all’estero e 35 mila facevano ritorno. Il saldo è negativo da anni e i database spesso sbagliano per difetto: c’è chi non si iscrive all’Aire e chi partendo non si cancella dall’anagrafe. Il fenomeno è rilevante (come suggerisce la copertina di Roberto Innocenti di questo numero de «la Lettura»). Tanto che la Fondazione Migrantes (stavolta senza Caritas) dal 2006 pubblica un «Rappor- to sugli italiani nel mondo». Tra linee di continuità (si continua a partire di più dal Mezzogiorno, Sicilia in testa) e grandi differenze rispetto al passato, oggi Delfina Licata, caporedattore del dossier, individua due concetti: «Diaspora ed eterogeneità. Perché siamo in ogni parte del mondo e perché l’emigrazione ha molte facce: over 65, neolaureati, nati all’estero. Anche tante donne: la differenza di genere non è più un fattore rilevante nelle partenze». È successo anche in passato. Prima che lo sviluppo delle società industriali portasse masse di operai dal Sud verso i Nord d’Italia e d’Europa, da metà del XIX secolo alla Seconda guerra mondiale schiere di contadine del Nordest hanno lasciato l’Italia per trasformarsi in balie e governanti (badanti ante litteram?), per esempio in Egitto. Oggi il Mediterraneo è attraversato da DensityDesign Lab La visualizzazione dati è a cura del DensityDesign Lab del Politecnico di Milano guidato da Paolo Ciuccarelli. La realizzazione di questa settimana è di Azzurra Pini, Valerio Pellegrini e Anna Bassi Sud a Nord, le badanti nelle nostre città vengono dall’Est, e gli italiani continuano a partire. Migranti 2.0, in cerca di lavoro qualificato, facilitati dai voli low cost, da Skype e dalle webcam che consentono di parlarsi e vedersi da migliaia di chilometri di distanza, e dal sentirsi cittadini d’Europa se non del mondo. Un’esperienza magari meno traumatica di un tempo, ma che conserva un misto di senso delle radici e desiderio del ritorno; rabbia per non aver avuto qui le opportunità trovate altrove e nostalgia dei luoghi d’infanzia, insomma del paese e non del Paese. © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 12 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Non perdere i 10 libri dell’ALBO D’ORO EDIZIONE DA COLLEZIONE prezzo speciale € 8, a partire da 00 DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 13 La corsa L’inedito Un romanzo di cento parole RRR di Marcello Simoni Marcello Simoni è nato a Comacchio nel 1975, fa il bibliotecario. Il suo primo romanzo, Il mercante di libri maledetti (Newton Compton) è selezionato per il Bancarella 2012 L’ affanno della corsa, passo dopo passo, aveva trasformato il suo petto in un otre di cuoio. Anche le gambe erano mutate, strada facendo le aveva viste diventare zampe di cervo, arti scheletrici e ora muscoli biomeccanici. Il fuggitivo non si chiedeva il perché di quelle metamorfosi: nella corsa c’era spazio soltanto Caratteri per il terrore. La paura gli impediva di voltarsi verso il cavaliere che lo inseguiva. E anche se da qualche tempo non udiva più alle sue spalle il pestare degli zoccoli, ma uno stridere di pneumatici, lo riconosceva. Si chiamava Morte e gli andava dietro l’inferno. © RIPRODUZIONE RISERVATA Cambusa di Nicola Saldutti I libri: narrativa, saggistica, ragazzi, classifiche, poesia { L’euro visto da Crotone La Grecia si è (quasi) salvata dai suoi debiti. Può essere interessante allora fare tappa a Crotone. Per almeno un paio di motivi: è la città dove Pitagora di Samo fondò la sua scuola. Ed è il porto dello Jonio dal quale i naviganti partono per veleggiare verso la penisola ellenica. Può capitare che, alla banchina, si ritrovino imbarcazioni da tutta Europa. L'ultimo approdo prima della traversata verso Atene. Come dire: l’euro, visto da qui, è ben saldo. I rinnegati La tentazione di bruciare il propri libri per arroganza o per disperazione I roghi dell’autocensura I dubbi di Virgilio, i timori di Kafka. Mentre un manuale sui videogiochi perseguita Amis di IDA BOZZI C hissà se Martin Amis ricorda quel passo de Il Maestro e Margherita, il capolavoro di Mikhail Bulgakov, in cui Woland restituisce agli amanti riuniti il romanzo del Maestro, creduto bruciato, e lo fa pronunciando poche parole divenute celebri: «I manoscritti non bruciano» (edizione Einaudi, traduzione di Vera Dridso). Proprio Amis, forse, rimpiange che non sia andato perduto tra le fiamme il suo Invasion of the Space Invaders, non un romanzo sull’Inghilterra contemporanea ma un’assai meno letteraria guida ai videogiochi, edita nel 1982 da Hutchinson, prima del celebrato Money (del 1984, edito in Italia nel 1999 da Einaudi) con cui divenne famoso. La guida, un viaggio tra le «meraviglie» del PacMan e di Donkey Kong, come ha scritto di recente il sito The Millions e come ripete la stampa inglese, non solo è stata soppressa dall’autore che l’ha lasciata andare «fuori stampa», ma non compare nemmeno nella biografia uscita l’anno scorso in Gran Bretagna per i tipi di Constable & Robinson, firmata da Richard Bradford. Tuttavia, appunto, i manoscritti non bruciano: così l’autocensurata e ormai rara pubblicazione si può trovare online per cifre tra i 150 e i 450 dollari, e torna di tanto in tanto a tormentare Amis per altre vie: anche il critico del «Guardian» Nicholas Lezard, riferisce il sito, ha infatti domandato notizie ad Amis sul motivo del ritiro dell’opera, ottenendone un’occhiata fulminante, «di pietà più che di disprezzo». Eppure l’interesse giovanile di Amis per i giochi non appare agli inglesi del tutto estraneo alla produzione successiva e, scherzosamente o no, il libro è definito «gemello non finzionale» del romanzo successivo, quasi una preparazione a un personaggio di «perdente» e di vittima come John Self. Con buona pace di Bulgakov, comunque, il fuoco dell’autocensura è sempre pronto ad accendersi, per motivi gravi, futili o insondabili, e con effetti spesso meno felici di quelli suggeriti dal «buon diavolo» Woland. Si dice che lo stesso Bulgakov abbia bruciato il suo Maestro e Margherita, per timore della censura sovietica, per riscriverlo più tardi a memoria: il romanzo uscì, tra l’altro, postumo nel 1967. Sempre per il timore della censura, anche Gao Xingjian, Premio Nobel per la letteratura nel 2000, nella Cina di Mao preferì bruciare molti scritti: è stato lo stesso autore di La montagna dell’anima (edito da Rizzoli nel 2002, traduzione di Mirella Fratamico) a raccontarlo al pubblico italiano, l’anno scorso, ospite al Pisa Book Festival. E in almeno due occasioni la tentazione colse anche Vladimir Nabokov: la prima volta, quando il romanziere tentò di bruciare il manoscritto di Lolita ma fu bloccato dalla moglie Vera; la seconda, quando diede mandato al figlio Dmitri di distruggere le 138 schede dell’incompiuto L’originale di Laura, una volontà che il figlio non ha rispettato (il testo è edito in Italia da Adelphi, 2009). L’insuccesso e l’oblio causarono lo smarrimento di un’opera giovanile di un giurista che sarebbe divenuto celebre, Salvatore Satta: il romanzo La veranda, ora pubblicato da Adelphi, fu messo da parte da Satta dopo un concorso letterario (che non vinse) e venne ritrovato dopo la morte dell’autore tra i fogli di un faldone giudiziario. Mentre si ignora il motivo per cui Don DeLillo abbia preso le distanze dal romanzo pubblicato nell’80 sotto il nome di Cleo Birdwell, Amazons, sull’hockey femminile. Un senso estremo dell’opportunità e della compiutezza entra in gioco con l’insoddisfazione dello scrittore per il proprio lavoro, si tratti di autocensura o vanità: ma è una sensibilità che rischia di distruggere capolavori. È il caso celebre di Franz Kafka, che incaricò il suo amico Max Brod di dare alle fiamme la sua opera. Se Brod avesse obbedito, la letteratura non sarebbe stata la stessa: né America, né Il processo, né Il castello, nessuna delle opere maggiori dell’autore praghese, uscite postume proprio per la cura di Brod, avrebbe visto la luce. Quel che è accaduto, purtroppo, alla seconda parte delle Anime morte di Nikolaj Gogol’, che l’autore, in preda a una crisi religiosa, bruciò nel febbraio 1852, per poi cadere in deliquio e nell’inedia che in pochi giorni lo uccise. Dall’alto: il britannico Martin Amis (1949); il boemo Franz Kafka (1883-1924) e il russo Mikhail Bulgakov (1891-1940). Nella foto grande: un’immagine tratta dal video «Fire Woman» di Bill Viola (il suo sito è www.billviola.com) Il fuoco d’altronde rappresenta per il libro e per il manoscritto la fine più definitiva (nella vita e nei romanzi: si pensi all’incendio della Biblioteca di Alessandria e a quello ne Il nome della rosa di Eco), almeno prima della riproducibilità a stampa o del tasto «delete» nei computer. E ha la solennità di un elemento, il fuoco, fin dalle origini del mondo considerato purificatore e punitivo insieme, dall’incenerimento inflitto da Zeus ai Titani, all’annichilimento in stagnum ignis, il lago di fuoco dell’Apocalisse di Giovanni, al fuoco purificatore di san Paolo e così via. Perciò il gesto di «bruciare il manoscritto» ha anche significati e spinte culturali profonde, inerenti la creazione di un’aura mitica intorno al manoscritto stesso, il sacro, la palingenesi etc. Al primo caso possiamo ascrivere l’esempio di Yamamoto Tsunetomo, il samurai che prima di morire, nel 1719, diede al suo allievo l’ordine di bruciare anni di dialoghi e insegnamenti: sfuggiti al fuoco, i testi divennero poi il libro segreto, quasi misterico, dei samurai, l’Hagakure. È apocalittico e palingenetico (cioè di rinascita) il fuoco vero o metaforico dei molti autori di cui abbiamo detto, compresi i moderni Amis o DeLillo, di chi cioè distrugge perché altro di nuovo è già sorto nella propria carriera, o nel mondo conosciuto. Va citato a questo punto Virgilio, di cui si narra che chiedesse all’amico Vario Rufo di bruciare l’Eneide dopo la sua morte, desiderio che Ottaviano Augusto proibì di esaudire. Lo scrittore Hermann Broch, nel suo romanzo La morte di Virgilio (Feltrinelli), attribuì la decisione del poeta al timore di aver creato un’opera politica e non palingenetica e mistica com’era nei suoi intendimenti. Un fallimento: ma come può intenderlo un creatore sommo, un Virgilio, appunto, o un Kafka, un senso personale della disfatta lontanissimo da qualsiasi altra misura critica. © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 14 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Titoli di coda Caratteri Narrativa italiana Epistolari di Maurizio Porro { Il corvo e le vipere Cinema e letteratura unite nelle indagini. Spesso i libri raccontano la storia del film, Le calligrafie del corvo (Nutrimenti) di Francette Vigneron, con un contributo di Goffredo Fofi, fa di più. Partecipa alle indagini per trovare il misterioso autore delle lettere anonime che rivelò un nascosto groviglio di vipere, caso che nel 1917 sconvolse una tranquilla cittadina francese, Tulle, da cui il grande Clouzot trasse nel '43 il capolavoro noir Il corvo. Ancora la creatività artistica nel romanzo di Giovanni Montanaro che, ispirato un po’ da Scarpa, scrive una storia limpida e compatta Grottesco La «favola» di Enrico Macioci Lettera al caro signor Van Gogh a firma di Teresa che gli rivelò il colore All’ospedale della Sacra Frattura di ERMANNO PACCAGNINI di ALESSANDRO BERETTA C’ L RRR i Tiromancino Il comunismo diverso Sulla «Stampa» del 15 marzo Angelo d’Orsi, infuriato con Franco Lo Piparo, sostiene che è una pura e semplice ovvietà definire «diverso», perché «non autocratico e poliziesco», il comunismo di Gramsci. Ammesso e non concesso che sia così, viene da chiedersi allora, dato l’indubbio carattere liberticida assunto da tutti i regimi d’ispirazione leninista, se quello di Gramsci fosse rimasto autentico comunismo. Lo Piparo pensa di no, d’Orsi preferisce ignorare la questione. (A. Car.) giore ridonandole la parola. Che deposita in questa lunga lettera Al signor Van Gogh quale tentativo di metter ordine nel disordine dei ricordi, pur nel male che fanno: dall’infanzia felice ai contrastanti, incerti suoi sentimenti verso Vincent. Per questo, con Teresa, protagonista è anche il «colore»: col suo ruolo insieme di salvezza e condanna nel dare l’arte a Van Gogh ma coi cupi risvolti; e a Teresa una parola che però porta anche dolore e, alla fine, straniamento, col solo sussulto del suicidio del pittore. E del resto, scrive Teresa: che altro è la storia d’una persona se non l’incrociarsi di «amore, notte, silenzio»; e di «tradimento delle cose belle e desiderabili»? Una storia offerta con scrittura di notevole limpidezza, in un racconto compatto, ricco di pietas, dominato dalle figure dei due protagonisti, ma con ben tratteggiate anche alcune minori come gli amici di Teresa, Icarus e Gaston (a spese ovviamente della famiglia ospitante e dell’incompetente psichiatra Tarascon). a nascita del Principino Poppy Bank può essere una svolta per l’umanità nei territori traumatizzati dalla Grande Scossa. A provarlo, l’attrazione naturale che spinge tutti i personaggi del romanzo La dissoluzione familiare ad avvicinarsi al neonato nel terrificante Ospedale della Sacra Frattura, luogo dalla geografia incerta e dalla crudeltà tentacolare. Ci sono il padre Ham Bank, lo zio Sylvanus, la temibile Lady Tenebra, il metafisico Don Sisma e l’Onni, dittatore televisivo. Sono solo alcuni dei tanti personaggi che Enrico Macioci coinvolge nel Enrico Macioci suo romanzo, La dissoluzione favola grottesca familiare e allegorica INDIANA dietro cui pulsa Pagine 336 il ricordo del € 24,50 terremoto in Abruzzo. L’autore, nato all’Aquila nel 1975, ha già trattato il tema realisticamente nella sua prima raccolta di racconti Terremoto (Terre di mezzo, 2010) e qui vi torna, accompagnato nell’editing da Giulio Mozzi, con taglio surreale e simbolico. Una strada poeticamente inerpicata che affronta in una triplice battaglia: stilistica, tra periodare lungo, ripetizioni, elencazioni, allitterazioni; strutturale, tra capitoli di forme diverse e note che fanno «all’incirca mezzo libro» e, infine, di temi. Ma argomenti come la società anestetizzata dai media, la famiglia da dissolvere e le false promesse di ricostruzione, faticano a coagulare. A picchi brillanti, si alternano momenti paludosi in cui l’originalità spinta dalla scrittura si affossa in eccessi di speculazione. Ne esce un libro frammentario, come frammentario è il piacere di leggerlo, ma coraggioso e fuori dal coro. © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA VINCENT VAN GOGH, «IL SEMINATORE», 1888 (PARTICOLARE), VAN GOGH MUSEUM, AMSTERDAM è continuità e discontinuità rispetto alle precedenti sue opere in Tutti i colori del mondo di Giovanni Montanaro. E se la continuità è rappresentata dalla presenza di figure o momenti attinenti alla creatività artistica: il passaggio dalla monodia alla polifonia in La croce Honninfjord (2007); la ritrattistica del XVI secolo in Le conseguenze (2009); la discontinuità risiede soprattutto nel modulo narrativo: lineare, rispetto al passato, in cui Montanaro operava su tre-quattro piani spazio-temporali (dal IX secolo al 1988 nel primo; dal 1572 al 2008/2009 nel secondo). Modulo che rischiava di imprigionarlo, perdendosi nel secondo la freschezza che sosteneva l’articolazione forse anche più sofisticata del primo, rispetto ai quali segna un passo in avanti Tutti i colori del mondo, titolo che ricalca Tutte le mattine del mondo di Quignard sulla notte della creatività del violista Marin Marais alla ricerca della tecnica perfetta (ma già nella bandella del primo si leggeva «tutta la musica del mondo»). Un cambiamento su cui credo abbia influito Stabat Mater di Tiziano Scarpa (peraltro presentatore di questo e del precedente romanzo), cui lo accomunano un io narrante che qui s’esprime in stile epistolare; una lunga lettera — anche qui scritta di notte, con fogli nascosti, e non spedita — che si scoprirà essere stesa in un reclusorio; e sullo sfondo la figura d’una madre morta nel partorire. Quanto alla storia, Montanaro si muove nel vuoto dell’anno 1880-81 che segna il mistero del passaggio di Van Gogh al colore e da qui recuperando, la protagonista Teresa Senzasogni, il suo quindicennio precedente; per poi soffermarsi sui pochi giorni determinanti per le loro due vite in cui il giovane Van Gogh, stanco del ruolo di predica- GIOVANNI MONTANARO Tutti i colori del mondo FELTRINELLI Pagine 140, e 14 tore, alla ricerca di sé come artista, dato che nessuno vuol saperne dei suoi disegni, giunge a Gheel, «il paese giallo» delle Fiandre situato presso il santuario di Santa Dimfna, venerata per la cura delle malattie mentali, dove i parenti portano i propri ammalati sperando in una guarigione e lasciandoveli in caso contrario, ospiti delle famiglie e liberi di circolare per il paese «in mezzo alla gente»; e dove il padre di Van Gogh pensava d’inviare il figlio. Un Van Gogh «imprigionato in qualcosa» d’incomprensibile che gli impedisce d’esprimersi; e che solo grazie a Teresa, che presagisce in lui il destino di colui che grazie al colore può trasformare quelle sue informi creazioni, riesce a liberarsi alla pittura. Quello stesso colore infine determinante per Teresa stessa, vera protagonista con la sua storia di dolore e sopraffazione, e d’una «diversità» che la presunzione medica elegge a caso (è la sorpresa dell’ultima parte), salvo infine scaricarla nel manicomio di Saint-Rémy, trasformando in vera pazzia quella che sin lì era follia dichiarata tale dai paesani solo per tenerla a Gheel, sottraendola all’orfanotrofio. Un manicomio dove dieci anni dopo (1889) rincontra un Van Gogh assatanato nel dipingere, ma che non la riconosce; ma i cui quadri da lei ritrovati in lavanderia la sottraggono al gri- Stile Stile Storia Storia Copertina Copertina Esordi Tra spy story e intrigo romantico, Vitaliano riesce dove la sua passione affabulatoria trova racconti Sorniona e indifferente: è la Milano di Tangentopoli di MATTEO GIANCOTTI S e Fausto Vitaliano non fosse anche un abile caricaturista di generi, si avrebbe tutto il diritto di spazientirsi per certi dialoghi lunghi e troppo «morali» o troppo sentimentali del suo romanzo d’esordio, Era solo una promessa (Laurana). Ma in molte pagine c’è un’alterazione umoristica che fa capire come questo libro non si possa ridurre a una detective-story (un giornalista alle prese coi segreti di una ricca famiglia di industriali ricorda pur sempre Stieg Larsson) e all’intrigo romantico venato di occulto (il giornalista si innamora della bella figlia del ricco industriale e finisce per stabilirsi in un luogo vagamente irreale e popolato da fantasmi) sullo sfondo di Tangentopoli. Il tavolo sul quale Vitaliano, cinquantenne sceneggiatore di Disney, gioca la partita è un altro: il suo libro si sostiene per oltre quattrocento pagine sulla caccia alle storie raccontate e da raccontare. C’è una specie di spirito di frontiera nella sua passione affabulatoria: la fame di storie è anche fame di esperienza, e non è un caso se le pagine migliori sono quelle in cui i pensieri e le parole di Alessandro, protagonista e narratore, trovano un equilibrio tra il tono ricercato e il turpiloquio, a metà strada tra Salinger e Lansdale. Pigro di indole, benestante e libero di non lavorare, il fotografo Alex, che vive una vita d’inerzia dopo aver perso la sua famiglia in un incidente ferroviario, viene fortuitamente calamitato fuori dalla sua Milano, in uno sperduto luogo di provincia intorno al quale ruotano da generazioni le vicende e le ambizioni della famiglia Neyroz, che vuole redimere e trasformare in Fausto Vitaliano Era solo una promessa LAURANA Pagine 426, e 18 nuovo Eldorado un piccolo paese. Sul fotoservizio di Alex riguardante la villa dei Neyroz convergono a poco a poco, da vie diverse, gli interessi o piuttosto i secondi fini dei protagonisti del romanzo. Nel frattempo Milano, scopertasi Tangentopoli, è scossa da un’aria di rinnovamento. Alex avverte in questo «terremoto» le caratteristiche effimere di tutte le rivoluzioni italiane, mentre il rampollo dei Neyroz ci vede l’occasione della propria definitiva ascesa: il gigantismo delle sue ambizioni rischia di trascinare nell’abisso l’intera sua famiglia, compresa la sorella Silvia, amata da Alex. Pur con qualche scompenso nel ritmo, Vitaliano ha costruito un intreccio ingegnoso, affascinante anche per la dialettica tra i luoghi dell’ambientazione: da un lato lo strano paese fuori dal tempo il cui destino coincide con la parabola dei Neyroz; dall’altro una Milano della quale si dà in questo libro un bellissimo ritratto comportamentale: apparentemente sconvolta dai mutamenti della storia, in realtà sorniona e indifferente a tutto, meno che agli affari. © RIPRODUZIONE RISERVATA Stile Storia Copertina DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 15 Inchiostro di Cina Caratteri Narrativa straniera Riscoperte di Marco Del Corona { Io speriamo che i miei genitori tornano Bimbi invisibili un po’ meno invisibili. Un maestro elementare, Yang Yuansong, ha raccolto 220 quaderni, 21 disegni e 12 lettere di ragazzini di un’arretrata contea del Guizhou lasciati a casa dai genitori emigrati per lavorare. Il libro (Diari dei bimbi cinesi rimasti indietro) fa sì che le loro storie si impongano con la forza dei dettagli. Mentre aspettano padri e madri, i piccoli sono accuditi — si direbbe — dai lettori. Torna in libreria «Il fiume» di Rumer Godden, da cui Renoir trasse il suo grande film Racconta il difficile passaggio all’età adulta nell’impero coloniale britannico al tramonto L’India è un cobra bello e seducente di FRANCO CORDELLI I libri non sono un miracolo: se non li hai, li ha qualcun altro: amici, bancarelle, biblioteche, siti. Se ne vuoi leggere uno, lo leggi. Per i film è (era) diverso: da quando ci sono i dvd puoi sempre sperare. La pubblicazione di un dvd è un miracolo, la speranza divenuta realtà. Così fu quando Vieri Razzini, che è un crociato della causa, pubblicò Il fiume di Jean Renoir, e poi un cofanetto con tre film dei magici Michael Powell ed Emeric Pressburger. Nel cofanetto c’erano Duello a Berlino (integro come mai era apparso), Scarpette rosse e, supremamente atteso, Narciso nero. Perché supremamente atteso? Nella biblioteca paterna giacevano quattro romanzi di Rumer Godden, da me sempre snobbati: Fuga nel tempo, A colazione dai Nikolides, Il fiume e, appunto, Narciso nero. Tranne Il fiume, edito a Napoli da Richter nel 1952, gli altri erano pubblicati da Mondadori tra il ’47 e il ’51. Questi titoli e quell’autrice non mi dicevano niente. Poi scoprii che erano all’origine di due capolavori, di due film: ma (e torniamo al principio) chi li poteva vedere? Per merito, lo ripeto, di Razzini, a tanto riuscii. Dopo, non potevo non leggere quei romanzi di Rumer Godden che, bene o male, li avevano generati. Nata nel 1907, morta a novantun’anni, e nonostante sia stata un’autrice prolifica, Godden non è affatto «una specie di Delly», come la definì un biografo di Renoir. Tendo semmai a pensare che nella sua vita di scrittrice ci sia stato un momento creativo in special modo intenso, tra il 1939, l’anno di Narciso nero, e il 1946, l’anno de Il fiume. Rispetto a questi, Fuga nel tempo, che è del 1945, mi sembra un non riuscito esperimento sulla falsariga di Virginia Woolf de La signora Dalloway. Ma gli altri tre, nella loro consuetudine narrativa, tipicamente inglese, sono piuttosto belli e costituiscono un corpo organico. Hanno in comune due temi, il rapporto tra Inghilterra e India, per la precisione quella parte a nordest dell’India che è il Bengala, oggi Bangladesh; e, più ancora, il nodo del passaggio tra l’infanzia e l’adolescenza, se non un acutissimo, iper percettivo sentimento della fine dell’infanzia. Cito da Il fiume una frase che si riferisce a una delle sorelline (della famiglia oggetto di un racconto in parte autobiografico) e la sua bambinaia india- Gialli d’autore Genio o artigiano? È il solito Simenon di ANTONIO DEBENEDETTI © RIPRODUZIONE RISERVATA I l seme della suspense è sepolto nelle prime pagine. Siamo in provincia, un pomeriggio d’inverno. Il grigiore del paesaggio fa da specchio al grigiore delle anime. Da una limousine, con autista, scende Eugéne Malou, discusso personaggio locale. Si dirige verso un caffè, ordina un armagnac e fa una telefonata. Raggiunge quindi l’elegante dimora d’un conte e al termine d’una breve visita si fa saltare le cervella. Alain, il figlio del suicida, vuol vederci chiaro. Scoprirà così, grazie anche alle rivelazioni d’una sorella procace e corrotta, che suo padre era un sessuomane, un imbroglione non solo da condannare però. Il destino dei Malou, che Adelphi pubblica nella traduzione di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio (pagine 200, € 18), è stato scritto da Simenon nel febbraio 1947. Appartiene dunque agli anni del soggiorno americano come Lettera al mio giudice e La neve era sporca. Alain è un personaggio studiato a tavolino, all’ombra di Dostoevskij, la sua vicenda non è esente da compiacimenti letterari. Eppure il romanzo si fa leggere col fiato in gola e il lettore ammirato torna a porsi la solita domanda. Simenon autentico genio letterario o «solo» formidabile professionista? i A sinistra, «Eyes» di Ami Vitale, celebre e pluripremiata fotoreporter (lavora per «National Geographic», «Newsweek» e altre note riviste), nonché autrice di documentari. Per conoscere meglio la sua opera, il sito web da cui è tratta questa foto è: www.amivitale.com RUMER GODDEN Il fiume Traduzione e cura di Valeria Parrella BOMPIANI Pagine 142, e 16 na: «Oltre che per gli occhi, Nan e Victoria erano simili in questo: in quel momento erano entrambe perfette. Victoria aveva raggiunto il culmine dell’infanzia; specialmente le bambine indugiano in questo stadio per tre o quattro mesi, e durante questo tempo sono quasi perfette. Victoria non aveva dispiaceri, non ne creava a nessuno, e allo stesso modo Nan. Nan aveva raggiunto il culmine della maturità e aveva imparato a lasciar per- dere i suoi dispiaceri. Aveva riconquistato, attraverso la vita e il servizio, ciò che Victoria non aveva ancora perso». Qui ci sono parole chiave del tema (o dei temi) di Godden. La parola «servizio» investe da cima a fondo Narciso nero: una storia di religiose che si isolano in un convento a 2700 metri di altitudine, loro compito è pregare e assistere i malati del villaggio che c’è lassù, tra i monti dell’Himalaya. Alcune han- no un passato ancora bruciante. Tra l’una e l’altra nascono dissidi: non è inevitabile dimenticare i propri doveri materiali e spirituali in spazi così «fragranti», vasti, sconosciuti? Ma come negare, di fronte all’urgenza della malattia, o alla tradizione laboriosa e pragmatica da cui molte religiose provengono (Inghilterra, Irlanda), la superiorità della meditazione, la necessità della preghiera? Le ricorrenze tra A colazione dai Nikolides e Il fiume sono evidenti. Nel romanzo del ’42, la parte di famiglia allo scoppio della guerra rimasta in Inghilterra, madre e due bambine, raggiunge il padre che lavora in India. Tra marito e moglie il rapporto, benché civile, non è troppo buono. La protagonista Emily, la bambina più grande, subisce un trauma: suo padre ha chiamato un veterinario perché uccida il cane idrofobo da lei tanto amato. Emily non sa, teme, soffre. Sospetta che fu mandata a colazione da quei greci, i Nikolides, perché fosse perpetrato il misfatto. Alla morte del suo cane non vuole credere, ma con il passare del tempo si va convincendo che la sua infanzia è finita in quelle ore, in quel momento. Alla vicenda di Emily se ne intreccia un’altra, più romanzesca, che riguarda tutto l’ambiente con le sue credenze e il giovane Anil. Costui non accetta che sia soppressa neppure la vita di un cane: «Perché interferire? Se il destino vuole così, lascia agire il destino. Non hai alcun bisogno d’intralciarlo. Nel destino c’è poesia. Amo molto il destino: è crudele, ma il mondo non avrebbe equilibrio se esso non esistesse. L’appoggio di tutto cuore». Sarà proprio questa incondizionata fede a fare di Anil un capro espiatorio del piccolo turbine portato in quel luogo remoto, vicino al delta del Gange, dagli stranieri e dai loro personali dolori. Lo stesso dolore di Emily coglie alla sprovvista Harriet ne Il fiume. Anche qui tutto comincia con la morte di un porcellino d’India. E anche qui c’è un capro espiatorio: il fratellino Bogey sarà colpito da un cobra «bello e seducente», come l’India. Vi è, nel romanzo, uno scialo di sapori, di odori («l’odore dell’India» di Pasolini per Godden è «l’odore di miele che veniva dai fiori pelosi e ronzanti degli alberi spinosi sotto il sole, e l’odore delle fogne a cielo aperto, delle urine, dell’olio di cocco sui capelli delle donne»), di colori: gigli amarillys, plumbago, stelle di Natale, crisantemi, giacinti d’acqua, tuberose, viole del pensiero. Renoir di tutto ciò fece un caposaldo: Il fiume è il suo primo film a colori. Ma Il fiume di Godden più che un romanzo è un’elegia in prosa, un testo senza tempo, sospeso nell’irrevocabile, nell’ebbrezza dello smarrimento: il fiume e il tempo — proprio come un titolo di Thomas Wolfe di quegli anni, un grande libro non meno dimenticato di quello della scrittrice inglese. © RIPRODUZIONE RISERVATA Stile Storia Copertina DOMENICA 18 MARZO 2012 16 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Va pensiero Caratteri Saggistica Provocazioni di Armando Torno { Il questionario gnostico Chi era il «Dio minore»? Ci fu una rivolta degli angeli? È connessa alla caduta dell’uomo? L’anima è prigioniera? E la reincarnazione? Sono domande corse tra gli gnostici circa due millenni fa; restano teologicamente attuali. Per meglio comprenderle ritorna aggiornato l’importante saggio di Aldo Magris La logica del pensiero gnostico (Morcelliana, pp. 544, e 35; prima edizione 1997). Un libro dotto e intelligente nella depressa editoria italiana. Perché il filosofo si trasferì dalla Francia ai Paesi Bassi? La risposta di Frédéric Pagès è anche un modo per attaccare il proibizionismo La nostra storia Cogito erba sum. E il fumo d’Olanda aiutò Cartesio a trovare il metodo di Dino Messina SE SUL MARE RITORNANO I FILIBUSTIERI di ERRICO BUONANNO Bene. Che cosa esattamente importassero le Province Unite dalle Indie lontane non può stupirci più di tanto: petum, tabacco, ovverosia l’erba turbatrice dell’animo, secondo il parere dei calvinisti rigorosi; vietata, osteggiata in tutta Europa e di cui intanto, sottobanco, si stava estendendo già ampiamente il consumo. Il re Giacomo I, in Inghilterra, puniva di regola i fumatori col carcere; in Russia lo zar optava piuttosto per la decapitazione; in Francia nel 1629 veniva proibita ufficialmente l’accensione di pipe in luoghi pubblici. Solo l’Olanda, si direbbe, legalizzava quest’erba del diavolo, prosperava vendendola, creandone nuove qualità, ed ospitava e dava voce a medici esperti, «alternativi», che ne esaltavano le virtù analgesiche: dolori di parto, mal di denti… E non si trattava di fumate innocenti, se i NILS FORSBERG, CARTESIO ALLA CORTE DI CRISTINA DI SVEZIA, 1884, COPIA DA DUMESNIL I l libricino del filosofo Frédéric Pagès Cartesio e la cannabis, da poco uscito per le edizioni de il melangolo, è un’altalena dondolante tra la ricerca rigorosa e lo scherzo. Ipotesi seria, che si traveste da gioco e, quando siamo pronti a ridere, ci spegne di nuovo il sorriso sul volto. Perché la questione, per Pagès, è nazionale, tocca sul vivo la coscienza d’Oltralpe, e osa discutere l’orgoglio con cui i francesi si sono sempre definiti «popolo cartesiano», logico, acuto, o hanno affermato, con Thorez: «Il mondo ama la Francia, perché nella Francia ritrova Cartesio e i suoi epigoni». Da guastafeste, perciò, porsi una domanda essenziale, che dovrebbe essere scontata: perché Cartesio, a dirla tutta, fuggì dalla Francia, passando metà della sua vita in Olanda? Problema scabroso, va da sé; dalla scabrosa soluzione: «Ovvio. Cartesio ha fatto quello che fanno tutti i francesi ad Amsterdam: è venuto a fumare». È un’insolenza davvero intrigante, che vale la pena di indagare col Metodo celebre dello stesso René Descartes: puntando sui fatti, l’evidenza. Badando ad esempio a quelle carte in cui il filosofo tracciò il resoconto felice, nostalgico, dei ventuno anni da lui trascorsi nei Paesi Bassi, luogo stracolmo — scriveva in una lettera del 5 maggio del 1631 a Guez de Balzac — di «tutte le comodità e le curiosità che desideriamo», come «i vascelli pieni di tutto ciò che le Indie producono». i FRÉDÉRIC PAGÈS Cartesio e la cannabis Traduzione di Emanuela Schiano di Pepe IL MELANGOLO Pagine 58, e 6 proprietari delle fumerie, i «tabagia», avevano già la malizia o l’acume di impreziosire le misture con allucinogeni d’antan: semi di giusquiamo nero, la belladonna, la datura. Fumava, Cartesio? I testi ci dicono che era un bon vivant. Secondo Pagès, proprio all’interno di una fumeria incontrò un giorno la sua Hélène, compagna olandese da cui ebbe una figlia. Ma soprattutto, c’è il suo stupor, quello stato di trance, di sonnolenza visionaria, nel quale, a suo dire, avrebbe afferrato verità essenziali. «Magnifici viaggi», raccontava di nuovo a de Balzac, che intraprendeva tra il sogno e la veglia. Fantasie strambe, terribili, eccelse. Perciò, in quale stato di realtà, in quale stato di coscienza pensava Descartes, ed ergo esisteva, quando affermava, nel Discorso, di avere raggiunto l’intuizione durante una sera di allucinazioni varie, causate, giurava, dall’aria pesante di una camera riscaldata da una stufa? Scintille impazzite che invadevano la stanza, immagini libere, convulsioni e trance. E quindi la folgorazione: «Esisto!». Nel 1692, in un’apocrifa e scherzosa autobiografia di Cartesio, il vescovo di Avranches, Daniel Huet, dava di questa stessa scena una versione alternativa: «Mi successe durante la notte seguente alla giornata di San Martino, dopo avere fumato più del solito e con il cervello infuocato, di sentirmi colto nel sonno da una specie di entusiasmo». Dunque, una mente obnubilata, un fumatore abituale, che aveva ecceduto nel suo vizio. Ma forse qui abbiamo abbandonato il Metodo, ed i binari rigorosi dei fatti. La provocazione di Pagès vuole parlarci di ben altro. Vuole parlarci di una Francia del Seicento in cui l’Inquisizione e la Controriforma ancora accendevano roghi di libri e di eretici, di uomini. Una Francia che, a un anno dall’uscita del Discorso sul metodo, Luigi XIII consacrava alla Vergine, e in cui il cardinale Richelieu organizzava reti di spie e di delatori e irreggimentava gli scrittori creando apposite accademie. Pagès ci parla della Francia del 1628, l’anno in cui un uomo scelse — così come si diceva allora — la «libertà belga» davanti alla bigotteria di una nazione che cercò poi di accaparrarsene i meriti. E parla allo stesso tempo di un’Europa attuale, che attacca i fumi della libertà, accecata dall’oppio della sua idea di grandezza. © RIPRODUZIONE RISERVATA Stile Rigore «D al 1991 al 2003 si sono verificati nel mondo 1265 attacchi di pirati... Nel 2004 si registrò un calo del 30 per cento», ma un’indagine mise in luce che «il dato non era attendibile, poiché non poche compagnie armatoriali avevano deciso di pagare i riscatti richiesti dai nuovi predoni del mare, anziché il salato rincaro dei premi imposto dalle società di assicurazione». Prendiamo queste citazioni da uno dei capitoli iniziali del bel libro di Giorgio Giorgerini Il mio spazio è il mondo. Storia della guerra corsara dalle origini all’ultimo conflitto mondiale (Mondadori, pagine 274, e 18,50, disponibile anche in versione ebook). Non un saggio sulla pirateria, dunque, ma sui corsari, quegli avventurieri che in età moderna solcarono gli oceani (e il Mediterraneo) con speciali patenti statali che li autorizzavano ad attaccare e depredare le navi mercantili nemiche. La linea di confine tra pirateria e guerra da corsa è stata sempre labile, sicché lo studio di Giorgerini ci aiuta a capire un fenomeno molto attuale. Anche perché negli attacchi che nell’ultimo ventennio hanno colpito la Marina mercantile, accanto alle azioni dei pirati veri e propri si sono registrati non pochi assalti corsari. Uno di questi ebbe come obiettivo nell’estate del 1987 la portacontainer italiana «Jolly Rubino», assaltata nel Golfo Persico da pasdaran iraniani. Il quadro internazionale contemporaneo è certamente diverso da quello che nell’epoca d’oro della guerra da corsa vide come protagonisti i leggendari Walter Raleigh, amico personale di Elisabetta I, John Hawkins, Francis Drake e Henry Morgan. Giorgerini ne racconta le imprese (e i misfatti) in un affresco che arriva sino alla Seconda guerra mondiale e alle gesta sinistre del corsaro nazista Günther Gumprich, che al comando della nave «Michel» affondò tre bastimenti norvegesi: i naufraghi salvati dalle onde vennero passati per le armi. È trascorso oltre un secolo e mezzo dalla Conferenza di Parigi del 1856 che decretò la fine della guerra da corsa. Ma in questi anni pirati, corsari (e terroristi dei mari) sono tornati tra noi. Conoscere i loro antenati aiuta a orientarci. lanostrastoria.corriere.it Copertina © RIPRODUZIONE RISERVATA Proprietà Un saggio di Agamben suggerisce una via di fuga dall’imperio del diritto La sfida della povertà non francescana Bisogna pensare l’uso delle cose libero dal possesso. Anche in termini positivi di GIUSEPPE CANTARANO S embra che non vi sia più nessun momento della nostra vita — individuale e sociale — sottratto alla regolamentazione giuridica. Eppure, nella storia dell’Occidente, c’è stata un’esperienza in cui si è tentato di pensare la vita senza inscriverla necessariamente all’interno delle categorie giuridiche. Un’esperienza fallimentare, evidentemente. Per una serie di ragioni. Non solo storiche e politiche, ma anche teoriche. Un’esperienza, tuttavia, che andrebbe riconsiderata. E non tanto — e non solo — per immaginare una società senza diritto. Ma per cercare di limitare l’invadenza del diritto nella nostra vita. O quantomeno, in alcune sue significative sfere. Che forse non necessitano di una regolamentazione giuridica. È stata l’esperienza dei movimenti spirituali — tra il XII e XIII secolo — culminata nel francescanesimo, a pensare la vita umana completamente sottratta alla presa del diritto. Sono stati i monaci — ci dice Giorgio Agamben in Altissima povertà — a sperimentare per primi l’abdicatio iuris. Destituendo il presupposto teorico dello stesso diritto. Quello che Cesare Beccaria, alcuni secoli dopo, definirà il «terribile» diritto. Forse — puntualizzerà — «non necessario». Si tratta, insomma, del diritto di proprietà. Al quale viene contrapposta una teoria e una pratica dell’uso comune dei beni e dei corpi nella povertà. Giorgio Agamben Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita NERI POZZA Pagine 190, e 15 Siamo dunque di fronte ad una svolta teologico-giuridica molto interessante. Poiché nella povertà vissuta nel cenobio, i monaci rinunciano completamente al possesso delle cose terrene. Che considerano soltanto per il loro «fattuale» valore d’uso. Esterno ad ogni disciplinamento giuridico. La povertà non sarebbe — come aveva teorizzato Tommaso — uno strumento ascetico di perfezione, ma è essa stessa la perfezione. Vivere sine proprio — come dice Francesco — vuol dire immaginare un mondo svincolato da ogni appropriazione. Ma questa proposta di vita alternativa fallisce. La possibilità di una vita sottratta al diritto è rimasta circoscritta ai monasteri. E questo è avvenuto — secondo Agamben — perché «il carattere fattuale dell’uso non è in sé sufficiente a garantire un’esteriorità rispetto al diritto, perché ogni fatto può trasformarsi in diritto, così come ogni diritto può implicare un aspetto fattuale». È stato questo il limite del francescanesimo: pensare l’uso delle cose in termini negativi rispetto al diritto di proprietà. Si tratterebbe di immaginare, invece, un uso delle cose in termini positivi. È questa la sfida che la modernità ancora non riesce a raccogliere. O non può? © RIPRODUZIONE RISERVATA Stile Rigore Copertina DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 17 Il clandestino Caratteri Poesia Fuori dal coro di Paolo Di Stefano { Pulsioni siderali Nessuna contemplazione sbigottita dell’universo stellare. Edoardo Sanguineti, a differenza di Leopardi e di Pascoli, usa solo impoetici tecnicismi in un sonetto, inedito, sulla volta celeste. L’incipit è già un manifesto: «pulsano pulsar con forti pulsioni». Nel rapido commento, Gian Luigi Beccaria (Sanguineti astrale, Giappichelli, pp. 23, e 4) disegna un ritratto del poeta meno sentimentale che si conosca. Dove c’è anche Franco Battiato. Spiazzante come sempre, nella nuova raccolta Jolanda Insana conferma l’energia della sua lingua, che dibatte tra sé e sé, muovendosi in uno spazio tutto mentale Conosco i tagli, perché conosco i coltelli di ROBERTO GALAVERNI O i Basilio Rodríguez Cañada La vita è un mestiere da gladiatori © RIPRODUZIONE RISERVATA U na parola poetica che spesso s’incendia di sensualità, galleggiando tra elegia, voluttà del desiderio, visioni, accenti bucolici, sensibilità, crudo realismo. Quasi in un’aperta confessione, tutto il peso dei sentimenti e dell’esperienza di un essere umano si offrono al lettore nel volume Antologia poetica (1983-2007) di Basilio Rodríguez Cañada (Sentieri Meridiani, pp. 220, e 14). L’intensa traduzione è del noto ispanista Emilio Coco. Nato vicino a Badajoz, nell’Estremadura, l’autore ha pubblicato nove sillogi, oggi è presidente del Pen Club di Spagna, espone come artista fotografo: nei versi e negli scatti Rodríguez Cañada ha abilmente fermato le proprie impressioni d’instancabile viaggiatore da Sintra a Malabo, a Nefta, al Laos, e soprattutto al Marocco coi suoi paesaggi straordinari. Commovente la lirica Conversazioni con il nuovo figlio, in cui si legge: «La vita è sacrificio, sofferenza / e lotta, mestiere di gladiatori». Mentre in un quarto di secolo di scrittura il poeta evidenzia un legame estremo con la natura e la terra natia. Franco Manzoni Punti di vista Un particolare della installazione «Life is beautiful» (2009) dell’artista persiano Farhad Moshiri (1963): 1.242 coltelli piantati nella parete per scrivere (appunto) «Life is beautiful» gattolo buio / le parole si scontrano / e fanno caràmbola // si spuntano e non la spuntano...». La piccola grande scena della sibilla (o maga, o incantatrice), la sua celeberrima soffitta-antro si è via via assottigliata e interiorizzata. Il rapporto col mondo presente si è allentato al punto da assomigliare piuttosto a un ricordo. Come ha notato Maria Antonietta Grignani nella quarta di copertina, la situazione-base di questa poesia è sempre quella della sciarra, ovvero del battibecco, dell’alterco, che però si costruisce qui come contrasto tra sé e sé; o meglio, del sé contro sé, ora come sdoppiamento dell’io in due voci o fantasmi di voce (l’una al contempo più e meno reale dell’altra), ora invece come personificazione in un soggetto altro a cui ci si rivolge in terza persona. In ogni caso, si tratta della versione aperta, schizofrenica e polimorfica di un rimuginio paranoico, in cui rancore, indignazione, sarcasmo, ira, recriminazioni, meschinità, narcisismo e autolesionismo raggiungono una sorta di temperatura di fusione. Siamo agli antipodi dei buoni sentimenti celebrati da tanta nostra poesia. Nell’Insana è infatti sempre sottinteso il senso di un’offesa originaria delle cose. A livello metafisico, ma anche delle pulsioni individuali. «Riconosco i tagli / perché conosco i coltelli», confessa. E non si può più dire se si riferisca a un torto fatto o a un torto subito. Del resto, bene e male risultano già presenti nella costituzione stessa della materia, nella vergogna e, dirò meglio, nell’oscenità del suo deperimento (viceversa l’Insana non mostra ritrosia alcuna nel fronteggiare le situazioni corporee anche più repellenti). E questo determina la particolare natura di un discorso poetico ch’è sì cerebrale, fantasmatico, eppure estremamente concreto, viscerale. «Non c’era nessuno dietro la porta / l’alloggio era disabitato e l’ho abitato / ma non c’era e non c’ero / era il mio doppio disagiato / ora lo so e sloggio / traslocando altrove le valige cianfrinate / le sue masserizie / le sue tristizie», scrive ormai al termine di Turbativa d’incanto. Ma a questo punto chi sta parlando qui? L’io della poetessa oppure il suo spettro, che durante il bisticcio mentale le si è da ultimo sostituito? © RIPRODUZIONE RISERVATA Stile Ispirazione Bonnie & Clyde Il colpo grosso dell’assistente sceriffo A ll’urgenza dell’ispirazione il poeta risponde come può. Bonnie Parker, che con Clyde Barrow formò una delle coppie criminali più famose di tutti i tempi, nel 1932 trascorse due mesi nel carcere della contea di Kaufman (Texas). Colta da furia creativa, volle raccontare in versi vite spericolate, audaci sfide al destino e ansie d’amore. Le scrisse su quel che aveva sottomano: un libretto di risparmio della First National Bank, forse rimediato durante una rapina. La detenzione fu breve, e l’opera poetica anche: dieci testi, alcuni originali, altri semplici trascrizioni di ballate popolari. Consapevole del suo destino, Bonnie intitolò la raccolta Poesia dall’altro lato della vita e, nel gergo dei gangster, oltre a storie maledette scrisse: «Come le stelle nel cielo / si lanciano verso la luna / starò con te per sempre / che tu sia nel giusto o no». Quando fu rilasciata, regalò la raccolta a J.W. Tidwell, assistente dello sceriffo. Molti decenni dopo, gli eredi di Tidwell la vendettero all’asta per 36.000 dollari. Bel colpo. Angela Urbano © RIPRODUZIONE RISERVATA gni lingua poetica possiede inevitabilmente un proprio criterio d’organizzazione formale e una propria retorica. Ma è vero che esistono modalità di scrittura più o meno riconducibili a criteri espressivi noti e consolidati. Da questo punto di vista la poesia di Jolanda Insana fin dai suoi inizi ha fatto come parte a sé. Non si è legata a nessuno dei vari gerghi tardo-novecenteschi che testimoniano quanto sia ardua la condizione di chi è venuto dopo (le diverse discendenze di Montale, Penna, Sereni, Giudici, Pasolini e via dicendo), non ha imboccato la scorciatoia frequentatissima della poesia del corpo e del dolore a tutti i costi (una specie di congiunzione tra la Rosselli e Celan, l’una e l’altro ugualmente fraintesi), non si appoggia nemmeno a un riferimento metrico definito e riconoscibile. Nessuna aria di famiglia, dunque, con quel misto di rassicurazione e di già visto che ne deriva. Ci si trova invece spiazzati e piuttosto a disagio al cospetto di una voce assolutamente non conciliante, ostica, se non addirittura ostile, che non si appoggia a nulla di esterno per legittimare se stessa. Turbativa d’incanto è l’ultima raccolta di poesie dell’Insana, che ha derivato il titolo dalla dicitura involontariamente poetica di un articolo del codice penale (Turbata libertà degli incanti). Si tratta del suo libro più crudo e diretto, perché alcuni caratteri della sua fisionomia poetica originaria — l’inventività linguistica, il barocchismo (e più indietro il retaggio antropologico siciliano), la vocazione teatrale — vengono qui ridotti a una misura di grande essenzialità, sia espressiva, sia delle coordinate esistenziali e psicologiche. Se commisurato al punto di partenza, che era di un’estrema esuberanza stiJOLANDA INSANA listica, il dettato poetico Turbativa non sembra risarcito da d’incanto nessuna autonoma gratifiGARZANTI cazione verbale. Come Pagine 144, e 16,60 sempre, a prevalere non è il singolo testo compiutamente rappresentativo, quanto l’energia della lingua, la spinta progressiva della voce che non può che comunque parlare, parlare e straparlare. E non mancano certo neologismi, forzature, equivoci, alchimie, anzitutto lessicali. Tuttavia, molto più di quanto prima non accadesse, appaiono meno libere, meno legate allo stato fluido del significante, e più vincolate invece alla semantica del discorso, alla definizione esatta della situazione di riferimento. L’orecchio e il gusto basico del semplice pronunciare le parole non vengono meno. Piuttosto, si trovano adesso in un legame più stretto coi movimenti, ma poi subito con gli strappi, le lacune e le contraddizioni del pensiero. Del resto, con Turbativa d’incanto ci si trova in uno spazio ormai tutto mentale. «Nel bugi- DOMENICA 18 MARZO 2012 18 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Caratteri Ragazzi Haiku per tutti Una pecora, un pastore, un lupo Finisce male L’orco cattivo adora i bambini conditi bene... Scrittore e illustratore, è tra i vincitori del Bologna Ragazzi Award «Studio l’antropologia, amo Calvino, Moebius e Pinocchio» Il geografo della fantasia François Place, penna e matita: tra le righe vedo nuovi mondi di CRISTINA TAGLIETTI iI La quarantanovesima Fiera del libro per ragazzi si svolge a Bologna dal 19 al 22 marzo. In città, fuori dagli spazi fieristici la kermesse dà vita, in collaborazione con Librerie Feltrinelli e con il patrocinio dell’Aie (Associazione Italiana Editori), a Bolibrì, un ricchissimo bookstore allestito in un grande tendone di 400 metri quadri a un passo da piazza Maggiore, aperto dal 17 al 25 marzo dalle 10 alle 21. I ragazzi potranno scoprire migliaia di novità editoriali da tutto il mondo, incontrarne gli autori e gli illustratori. La Fiera omaggia anche Charles Dickens con la mostra «Two Centuries After» curata dalla cooperativa culturale Giannino Stoppani che ha trasformato le stanze di Casa Saraceni in un luogo dove sfogliare un fumetto, leggere una parete, ascoltare una voce, adocchiare un fantasma. Il Portogallo è l’ospite d’onore della Mostra degli Illustratori, con le opere di 25 artisti affermati o emergenti (titolo dell’esposizone: «Como as cerejas») suoi libri sono continui viaggi nel tempo attraverso la porta che collega la Storia e l’immaginazione. Dal 1992, quando ha pubblicato il pluripremiato Gli ultimi giganti (edito in Italia da L’ippocampo), François Place, francese, classe 1957, è diventato uno degli autori più rappresentativi del genere. Non è un caso che la giuria del Bologna Ragazzi Award, presieduta da Antonio Faeti, abbia attribuito il premio per la fiction al suo «Le secret d’Orbae», raffinato cofanetto che combina storie e tavole. Un’opera — spiega l’autore al «Corriere» — «nata dal desiderio di raccontare due storie parallele che si incontrano. Un giovane mercante, Ortelius, parte alla ricerca di una montagna blu da cui proviene una misteriosa tela e possiamo immaginarlo come un avatar di Marco Polo nel suo viaggio in Oriente sulla via della seta. Una giovane navigatrice, Ziyara, grande ammiraglio della flotta della sua città, Candaâ, viene bandita al ritorno di uno dei suoi viaggi e comincia una lunga erranza sui mari. L’ho immaginata come una sorta di Ulisse al femminile. I due si incontrano, si innamorano e insieme intraprendono un grande viaggio verso un’isola-continente dall’altra parte del mondo, Orbae. Ci sono due strade: una terrestre, l’altra marittima; due personaggi: un uomo e una donna; due modi di viaggiare: uno seguendo un obiettivo, l’altro di slancio; due voci. Dunque, due libri. Più un portfolio di diciotto immagini per mostrare i paesaggi attraversati: montagne, deserti, vulcani. Ho immaginato una sorta di lettura musicale, in stereofonia». La giuria del Bologna Ragazzi Award ha sottolineato la «colta abilità di un sapiente cartografo» e la «delicata finezza di un narratore che in sé unisce gioia del racconto e felicità del visivo». Un’opera con cui François Place si colloca dentro una grande genealogia nella quale rivivono «l’ardimento, la speranza, la visione del mondo che appartenevano ai grandi viaggiatori». La Mostra va in città Un premio anche per il digitale François Place (nella foto di Eric Garault) ha vinto il Bologna Ragazzi Award 2012 nella sezione fiction con «Le secret d’Orbae», (accanto, un’illustrazione). Promossa dalla Fiera Internazionale del Libro per Ragazzi, l’iniziativa premia i libri migliori dal punto di vista del progetto grafico-editoriale. Da quest’anno è nata anche una nuova categoria dedicata all’editoria digitale. Il vincitore viene proclamato domenica durante il convegno Toc (Tools of Change for Publishing). La tradizionale Mostra degli illustratori in questa edizione per la prima volta esce dalla Fiera e si presenta in contemporanea alla città attraverso la riproduzione delle tavole dei 72 artisti selezionati. Sotto, una tavola di Daniela Tieni, illustratrice romana nata nel 1982. Esploratore della fantasia, geografo di mondi mitici (nei tre volumi dell’«Atlas des geographes d’Orbae», ha tracciato il piano minuzioso di 26 territori immaginari), con i suoi mezzi toni Place ha dato vita al mondo di Tobia, il fortunato personaggio creato da Timothée de Fombelle (edito in Italia da San Paolo). Ma è anche un valido narratore. La dogana volante (Rizzoli) è il suo primo romanzo per ragazzi dove la matita tace, ma lo spirito è lo stesso. «Qui ci sono due fonti — spiega —, da una parte le credenze e le superstizioni ancora vive in Bretagna all’inizio del XX secolo, come si può leggere nel libro di Anatole Le Braz, Magie di RRR Strumenti Uso inchiostro, acquerelli, carta. Ma sto cercando di addomesticare il computer e la tavolozza grafica Bretagna, dall’altra la pittura olandese del XVII secolo: il mare, i canali, la vita quotidiana colta a fior d’acqua, sotto grandi nubi. Così il mio protagonista, Gwen, parte da una Bretagna stregata per arrivare in un’Olanda immaginaria». L’incontro tra sogno e realtà, costante del lavoro di Place, ha radici profonde. «Mi piace il modo in cui la realtà può torcersi in ogni momento e lasciare aperte le porte dell’immaginazione. Ma credo che questo sia ciò che cerca di fare ogni scrittore: aprire queste porte in cui ci si imbatte all’interno di un racconto banale e che lasciano intravedere qualcosa di misterioso, di poetico, di straordinario. Ho una passione per l’antropologia e i racconti di viaggio, mi interessano le altre culture. Mi piacerebbe far dialogare Italo Calvino e Piero Camporesi, il narratore e lo storico su questi temi, per esempio. Nei libri dello storico ci sono brani estremamente barocchi: per esempio quando racconta di quei pastori che incorporavano cervelli di donnola nel formaggio per tenere lontano i roditori. Mentre seguiamo una Dagli 8 anni «Raccontare ciò che si sa»: Kästner e la poetica del realismo I piccoli detective del realismo di PAOLA CAPRIOLO E sponente di spicco della «Nuova oggettività» negli ultimi, travagliati anni della Repubblica di Weimar, Erich Kästner ha applicato il suo credo realistico anche a una fortunata serie di romanzi per ragazzi, il primo dei quali, Emil e i detective, apparso nel 1929, è pubblicato ora in Italia nell’efficace traduzione di Roberta Magnaghi. È la storia di un ragazzino che, recandosi a Berlino in visita a una zia, viene derubato sul treno da uno Erich Kästner Emil e i detective PIEMME Pagine 214, e 13 sconosciuto e si unisce a una banda di coetanei per compiere un’avventurosa caccia al ladro. Muovendosi con candida disinvoltura nell’intricato scenario della metropoli, la squadra dei detective in erba si dimostra più abile della polizia nella cattura di un criminale ricercato: idea che un anno dopo sarà ripresa da Fritz Lang nel film «M». Ma la parte più interessante del libro è il lungo capitolo introduttivo intitolato «La vera storia deve ancora cominciare», dove Kästner riesce nell’impresa apparentemente disperata di esporre ai suoi piccoli lettori, in modo semplice e divertente, una vera e propria poetica: la poetica, appunto, di un sobrio realismo che cerca l’avventura nel quotidiano e preferisce parlare del mondo familiare anziché escogitare improbabili ambientazioni esotiche, come quella del «romanzo dei Mari del Sud», con tanto di cannibali, balene e foreste vergini, che l’autore finge di aver progettato prima di esserne distolto dal sano scetticismo di un cameriere di ristorante. «La cosa migliore», dice il cameriere, «è che lei scriva di cose che conosce. Metrò, hotel e roba del genere. E di bambini, come quelli che le passano sotto il naso tutti i giorni, e di come eravamo noi un tempo». In altre parole, la storia di Emil; mentre i primi capitoli dell’incompiuto romanzo esotico trovano il loro «giusto utilizzo» sotto la gamba di un tavolo traballante. © RIPRODUZIONE RISERVATA Storia Illustrazioni Copertina Tre porcellini, tre casette nel bosco, soffia il vento CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 19 DOMENICA 18 MARZO 2012 Cade dal cielo il pupazzo di neve, fiocco a fiocco Un maiale magro non è mai allegro. Però resta vivo Un gatto nero in candeggina finì. Un gatto bianco Pubblichiamo alcuni haiku dal libro di Pino Pace «Un gatto nero in candeggina finì...» (Il notes edizioni, pp. 40, e 10 ). Illustrazioni di Tai Pera La tendenza Nuove collane sui doveri civici Spiegano Serra, Ichino, Onida Magistrati e poliziotti salgono in cattedra per i baby cittadini di SEVERINO COLOMBO P iccoli cittadini crescono. Giustizia, legalità, economia, senso dello Stato, lavoro: la baby citizenship education diventa materia da libreria (oltre che da scuola e famiglia). L’obiettivo comune, pur non dichiarato, è evidente: trasmettere — oggi — valori alle nuove generazioni per avere — domani — un’Italia migliore. Il tono è child friendly, misurato, informativo, talvolta giocoso, sempre amichevole. Perché il primo passo è l’approccio: in copertina ci sono parole, anzi «paroloni», che rischiano di allontanare i lettori, di suonare complicati o impopolari. L’assenza della voce «Politica» ritaglia il ruolo di poliziotto buono rievocando episodi della sua lunga carriera al servizio del Bene. Il manuale sfrutta al meglio — anche dal punto di vista grafico — l’appeal di argomenti vicini a un pubblico giovane che sa, dalla tv, cos’è il Luminol Test e come muoversi sulla scena del crimine senza inquinare le prove. Un certo protagonismo dell’autore è, forse, inevitabile laddove la difesa della legalità significa un coinvolgimento diretto e personale nei fatti raccontati. Il libro ha il merito di affrontare senza sconti né titubanze temi di forte attualità come riciclaggio, pizzo, corruzione e lotta alla mafia. Sulla criminalità organizzata vista Immagini dal libro di Achille Serra e da «Io e le istituzioni» (Emme edizioni) storia del latte, eccoci precipitati nel bel mezzo del pensiero magico. La fluttuazione delle identità, invece, così cara a Calvino, può investire ogni momento quotidiano». Il disegno è stato per Place la prima forma di espressione: «Sono figlio di un pittore e di un’istitutrice, ho sempre avuto in mano carta e matite. Mi sento a mio agio nei panni dell’illustratore di libri per ragazzi perché trovo energia in emozioni che risalgono alla mia infanzia». I suoi strumenti di lavoro sono perlopiù quelli tradizionali: inchiostro, acquerelli, carta, anche se, dice, «sto imparando ad addomesticare il computer e la tavolozza grafica. Come molti, mi trovo in questo strano momento di transizione in cui il testo e l’immagine sono sconvolti dal digitale. È un sentimento indefinibile. Sono affascinato dalla Babele che si indovina sotto la pagina modificabile all’infinito di uno schermo, pur restando innamorato degli scaffali in cui dormono, fianco a fianco, libri che aspettano la mano che li Musica maestro Quiz e spartiti di Don Giovanni G enitori nonni bisnonni che amano l’opera darebbero chissà cosa per passare la staffetta della passione a figli e nipoti. Varie case editrici, da anni, (penso ai primissimi Fabbri) danno loro una mano con accattivanti edizioni per l’infanzia. Esce ora di Cecilia Gobbi (figlia del grande Tito) il Don Giovanni di Mozart (Curci, € 14,90) con trama, libretto, spartiti e divertenti quiz. Nella seconda parte del cd uno strepitoso karaoke lirico (con Leporello i bambini si divertono un mondo). Gli insegnanti ne facciano uso per stregare i loro studentelli. Già usciti Barbiere di Siviglia, Carmen e Traviata. Vivian Lamarque © RIPRODUZIONE RISERVATA aprirà». Tra i grandi autori amati per Place merita un posto speciale Jean Giraud, ossia Moebius, scomparso il 10 marzo scorso: «La sua morte mi ha veramente toccato, mi ha fatto rivivere l’impazienza con cui, da ragazzo, aspettavo l’uscita della rivista "Pilote" per leggere il seguito delle sue storie. Ma amo molto anche altri autori, come Sempé, Sendak, Ungerer, Mattotti». Place non pensa che l’illustrazione sia semplicemente un mestiere, una pratica: «Se fosse solo l’applicazione di una tecnica appresa in una scuola, basterebbe avere un diploma per esercitarlo. Per me vuol dire lavoro, curiosità, piacere, rimettere sempre tutto in discussione, il che non è troppo lontano da una condizione artistica. L’Italia è il Paese della grande pittura, dell’artista con la A maiuscola, io sono ben lontano dall’esserlo. Ma il vostro è anche il Paese di Arlecchino e di Pinocchio, figure che parlano della giovinezza, dell’infanzia, delle maschere ed è a quel mondo che mi piacerebbe appartenere». © RIPRODUZIONE RISERVATA si commenta da sola. La nuova collana «Io e gli altri» di Emme Edizioni (dai 6 anni), che debutta alla fiera di Bologna, punta su un format easy — i testi chiari e ammiccanti di Mario Corte e le allegre illustrazioni di Francesca Carabelli — e sull’abbinata con volumi su temi più facili (regole di bon ton) e di moda (ambiente). Fin dal titolo, l’invito è a sentirsi coinvolti: «Io e le istituzioni» parte dalla polis greca per arrivare alla Repubblica Italiana mentre «Io e la giustizia» spiega a cosa servono le leggi, chi sono i magistrati e perché i cattivi finiscono in carcere. Un’altra strada per far presa sui lettori bambini è affidarsi a figure di alto profilo. Ha iniziato Salani, con Gherardo Colombo che in Sei Stato tu? (da 9 anni) risponde a domande e curiosità costituzionali dei piccoli. Ha proseguito, di recente, Francesco Brioschi Editore chiamando Valerio Onida, a spiegare la Costituzione, e Pippo Ranci, a parlare di economia (da 12 anni). Lo fa ora Giunti Junior con Achille Serra nella novità bolognese La legalità raccontata ai ragazzi (da 10 anni). Già dirigente della Mobile a Milano, ex prefetto (Roma, Firenze) e ex questore (Milano), oggi politico, Serra si dai bambini vale proporre un confronto diretto tra coetanei: in A’ voce d’ ’e creature (Mondadori) il maestro Marcello D’Orta ha raccolto i temi degli scolari napoletani sulla camorra. Tra i primi a parlare ai piccoli di mafia e di chi l’ha combattuta, Luigi Garlando con la storia di Giovanni Falcone, uscito nel 2004 (Per questo mi chiamo Giovanni, da 8 anni, Rizzoli). Tanto utile quanto introvabile sull’argomento è il libro-gioco L’alfabeto del cittadino, della collana Contromafia di Fatatrac. Un altro libro-gioco può, invece, aiutare a far prendere confidenza con un altro tema da grandi: la finanza. Il quaderno di Byt (da 7 anni), realizzato da De Agostini per il Gruppo Montepaschi, è un plus riservato ai piccoli risparmiatori della banca che meriterebbe una diffusione allargata. Infine, vengono presentati alla fiera bolognese i nuovi titoli della collana over teen «Spiegata ai ragazzi» di Mondadori: si comincia parlando di guerre (tra Israele e Palestina, in Afghanistan) con Toni Capuozzo, a settembre si parlerà di lavoro (cos’è e come è cambiato) con il giuslavorista Pietro Ichino. © RIPRODUZIONE RISERVATA Young adult Erin Morgenstern inanella una serie di personaggi curiosi sotto un tendone vittoriano Numeri da circo per sognatori e innamorati di BARBARA DI GREGORIO N on sorprende che Il Circo della notte, esordio della statunitense Erin Morgenstern, pubblicato in Italia da Rizzoli, sia stato proposto sul mercato editoriale al target degli orfani di Harry Potter e Twilight. C’è la storia d’amore, c’è il duello tra maghi; il fatto che gli innamorati siano gli stessi maghi, costretti a sfidarsi da cause di forza maggiore, rende il tutto ancor più succulento o se vogliamo squisitamente banale. Il circo del titolo, in quest’ottica, rappresenterebbe solo la variazione sul tema utile a vendere come novità la minestra riscaldata di ieri. Sbagliato: perché è il Cirque des rêves il vero cuore pulsante del libro, e il resto, probabilmente, l’astuta concessione al mercato di un’autrice che in qualche modo Erin Morgenstern Il circo della notte RIZZOLI Pagine 460, e 18,50 dovrà pure mangiare. Laureata in discipline teatrali, appassionata di contaminazioni tra palcoscenico e arti performative, Erin Morgenstern inventa il suo circo come un labirinto di magie in cui ci si può solo perdere: è infatti lo smarrimento il tema dominante del suo romanzo, a partire da una struttura che saltella avanti e indietro nel tempo tra due filoni narrativi e un’infinità di personaggi curiosi. Siamo in epoca vittoriana: da una parte abbiamo la storia del Cirque des rêves, appositamente progettato per ospitare lo scontro tra i maghi, eppure allo stesso tempo organismo vivente molto più forte di entrambi; dall’altra i rêveurs, uomini e donne che ne seguono gli spostamenti città per città: l’incessante meraviglia che provano, nell’esplorarne le tende ogni volta da capo, è lo specchio di quella che dalle recensioni sui blog sembra unire nell’ammirazione del libro lettori di tutte le età. Ciascuna delle tende di cui si compone il Cirque des rêves racchiude all’interno una diversa attrazione: equilibristi, giocolieri, pagliacci; ma anche prodigi come il giardino di ghiaccio o l’albero dei desideri, che contraddicono infinite leggi della fisica, sprofondando i visitatori nello stupore gioioso del bambino che non osa fare domande. Sono gli incanti di Celia e di Marco, i maghi protagonisti, che si sfidando a colpi di nuovi tendoni finché ogni nuova meraviglia diventa una lettera d’amore per l’altro; l’attaccamento quasi morboso, che il circo suscita nei rêveurs, è appunto il riflesso di una passione impossibile che si nutre della sfida cui sono condannati da sempre. Una sfida che avrà termine soltanto con la morte di uno di loro. Non anticipiamo nulla del finale del romanzo, per quanto, come si è suggerito, la sua forza non sia nel plot quanto nell’atmosfera fatata in cui immerge il lettore. Basti dire che fondere insieme nel sogno, diventare parte integrante del circo, e parte integrante l’uno dell’altra, si rivelerà per Celia e per Marco l’unico equilibrio possibile tra l’amore e la morte. Per chi la cerca c’è una morale: la pace sta nell’abbandonarsi a quanto rende felici fino a dissolversi e dimenticare sé stessi. Dimenticare le proprie vite, come fanno i rêveurs, per consacrare il proprio tempo all’inseguimento di un circo; dimenticare, perché no, di avere un’età non proprio consona al genere, e lasciarsi andare alle ingenuità sfavillanti di un libro scovato nello scaffale «young adult». © RIPRODUZIONE RISERVATA Stile Storia Copertina DOMENICA 18 MARZO 2012 20 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Legenda Caratteri Le classifiche dei libri { (2) posizione precedente 1 in salita 5 in discesa S R N stabile rientro novità 100 titolo più venduto (gli altri in proporzione) Gramellini vola, entra l’esordiente Paola Soriga, torna Giordano Verdone, Guccini, Insinna: la Top Ten è uno spettacolo La pagella di Antonio D’Orrico Carlo Verdone La casa sopra i portici Bompiani Top 10 di Alessia Rastelli voto 5,5 1 Il fine sentimento della «melancholia» Massimo Gramellini Fai bei sogni (3) 1 100 2 «Q uesto Re dei pagliacci che la gente crede sia di buonumore, nel suo cuor ha un dolore che soltanto chi non l’ama guarirà! Il suo pubblico non vede quest’uomo triste quando è solo, quando piange e si dispera». Niente meglio della vecchia canzone (hit parade 1963) di Neil Sedaka rende il senso recondito delle memorie di Carlo Verdone già schizzate in una settimana ai vertici della classifica. Perché è ovviamente un libro che fa ridere. Con sketch come quello dello zio epilettico che si tuffa sulla tavola imbandita al matrimonio dei genitori di Verdone e manda all’aria l’allestimento nuziale. O quello della giovane cameriera che si lascia rimirare in cima alla scala, stile la Laura Antonelli di Malizia, dal tredicenne Carlo e poi gli regala anche i suoi slip. Un cimelio insperato e scottante che Verdone nasconde nel posto che gli sembra più sicuro e insospettabile, un vecchio vocabolario di latino CampaniniCarboni. La madre li troverà quasi subito. Ma non è solo un libro Carlo Verdone, nato che fa ridere. È anche il libro di una vita. Una a Roma nel 1950 vita narrata (filtrata) attraverso la bella casa dei genitori di Verdone su Lungotevere dei Vallati dove tutto ebbe inizio e dalla quale, ormai vuota e disabitata, Verdone si congeda in apertura di racconto. Come nella canzone di Neil Sedaka («Il suo pubblico non vede quest’uomo triste quando è solo, quando piange e si dispera»), Verdone ci mostra anche l’altra faccia del comico. Quella che intuì il professor Vacchini, il quale al bambino Carlo, pericolosamente irrequieto e inquieto, cultore di Ursus e di Maciste, diagnosticò una classica forma di «Melancholia obscura». Per il fine sentimento che lo ispira, il libro avrebbe meritato maggior rispetto redazionale. Sa ancora, sciattamente, di sbobinatura. Perciò gli do due punti in meno in pagella. Cosa che a me, verdoniano da sempre, so già che mi costerà un attacco di «Melancholia obscura». S 19 3 Bompiani, e 18 Carlos Ruiz Zafón Il prigioniero del cielo (1) 5 19 4 S 13 10 Clara Sánchez La voce invisibile del vento Garzanti, e 17,60 5 (6) 1 Mondadori, e 21 Francesco Guccini Dizionario delle cose perdute Mondadori, e 10 (4) 6 Andrea Vitali Galeotto fu il collier (9) 1 10 7 N 8 7 Amy Bratley Amore, zucchero e cannella Newton Compton, e 9,90 8 (8) S 9 (-) R Garzanti, e 17,60 Flavio Insinna Neanche con un morso all’orecchio Mondadori, e 16 (-) 7 10 Corrado Augias Il disagio della libertà Rizzoli, e 15 Pierre Dukan La dieta Dukan (-) R Longanesi, e 14,90 Carlo Verdone La casa sopra i portici (2) 7 Sperling & Kupfer, e 16 © RIPRODUZIONE RISERVATA La recensione dei lettori Paola Pinamonte Verona, 47 anni, avvocato ha letto «Dieci donne» di Marcela Serrano (Feltrinelli) Voci femminili diverse per un’unica storia D ebook ieci donne è l’ultimo romanzo della cilena Marcela Serrano. La psicoterapeuta Natasha riunisce nove delle sua pazienti, mai incontratesi prima, e le invita a raccontare di se stesse e dei motivi che le hanno portate in terapia. Un racconto a più voci, spesso di dolore, di rabbia, di indifferenza, di violenza, di enorme solitudine. Da Luisa, moglie di un desaparecido, che aspetta invano il ritorno del suo uomo da trent’anni a Guadalupe, diciannovenne lesbica. Da Andrea, giornalista televisiva oppressa dal suo stesso successo ad Ana Rosa, abusata dal nonno come la madre prima di lei. Il lettore viene toccato dall’umanità sofferente scrutata dalla Serrano con scrittura sincera e appassionata, ma non ne esce con la sensazione che sia un’umanità vinta per sempre. Chiosa Natasha all’ultima pagina: «Alla fine tutte noi, in un modo o nell’altro, abbiamo la stessa storia da raccontare». Ed è una storia femminile insieme di accettazione e di desiderio di riscatto, di tensione a cogliere comunque il meglio che la vita può dare. Invia la tua recensione www.corriere.it/lettura La recensione deve riguardare un libro uscito negli ultimi mesi. Scrivete un indirizzo mail corretto per contattarvi in caso di selezione e pubblicazione Il successo dipende dalla sinergia I segreti di Don Verzé al secondo posto, il repertorio e la vita di Lucio Dalla al quarto. Due instant book editi dal «Corriere della Sera» sono tra i libri digitali più venduti su LibreriaRizzoli.it, negozio online di Rcs Mediagroup. «Lo store lavora in sinergia con i quotidiani del gruppo e spesso offre in esclusiva o in promozione i volumi delle firme del "Corriere" e della "Gazzetta dello Sport"», spiega la responsabile Sviluppo Paola Taveggia. «Gli ebook, inoltre, sono molto apprezzati quando riescono a intercettare l’attualità — aggiunge — specie dai nostri clienti, particolarmente sintonizzati sulla cronaca». Ulteriori prove: don Giussani al quinto posto poco dopo l’anniversario della morte e l’avvio del processo di beatificazione, così come l’ottava posizione di Mani Pulite, edito per il ventennale delle indagini sempre dal «Corriere». Conferma inoltre l’interazione tra libreria e quotidiano il primo posto de La costituzione degli ateniesi di Aristotele, pubblicata nella collana I classici del pensiero libero. Greci e latini e disponibile con il giornale in versione cartacea, su LibreriaRizzoli.it come ebook. Per le prossime settimane, infine, lo store annuncia un’App per iPad che faciliterà la lettura degli ebook protetti dal Drm di Adobe. ehibook.corriere.it La classifica Aristotele 1 100 La costituzione degli ateniesi Corriere della Sera, e 1 Pdf con Social DRM 2 75 3 60 M. Gerevini, S. Ravizza I segreti di Don Verzé Corriere della Sera, e 1 ePub con Social DRM Massimo Gramellini Fai bei sogni Longanesi, e 9,99 ePub, Adobe DRM 4 52 Mario Luzzatto Fegiz Lucio Dalla. Primo tempo Corriere della Sera, e 5,90 Pdf con Social DRM Luigi Giussani 5 50 All’origine della pretesa cristiana Rizzoli, e 8,99 ePub con Adobe DRM (5-11 marzo 2012) Narrativa italiana 1 (1) S 100 Massimo Gramellini Fai bei sogni Longanesi, e 14,90 Intenso e leggero, è il romanzo autobiografico di Gramellini che, già in vetta agli Italiani, conquista ora il primo posto in Top Ten. Il deejay Volo è super presente: «suo» un quarto della classifica. La novità è l’esordiente 33enne Paola Soriga. Rientro eccellente per Giordano con il romanzo del 2008 che ha venduto oltre due milioni e mezzo di copie. (2) S 13 2 Francesco Guccini Dizionario delle cose perdute Mondadori, e 10 (3) S 10 3 Andrea Vitali Galeotto fu il collier Garzanti, e 17,60 Narrativa straniera 1 (1) S 19 Carlos Ruiz Zafón Il prigioniero del cielo Mondadori, e 21 Al comando Zafón con il terzo atto della quadrilogia del «Cimitero dei libri dimenticati»; il nuovo titolo trascina in classifica anche i precedenti. Continua il successo delle poesie di Wislawa Szymborska, che risalgono fino ai piedi del podio. New entry nel segno del thriller con Deaver (indagine a ritmo di jazz) e Grangé (vuoti di memoria con omicidi). (2) S 10 2 Clara Sánchez La voce invisibile del vento Garzanti, e 17,60 (4)17 3 Amy Bratley Amore, zucchero e cannella Newton Compton, e 9,90 Saggistica 1 (1) S 19 Carlo Verdone La casa sopra i portici Bompiani, e 18 Un cast di attori, presentatori e cantanti ai vertici della classifica. Primo è Verdone in chiave amarcord; secondo Insinna: la sua vita approda anche in Top Ten. Quinta una brillante Veronica Pivetti, che scherza sulle disavventure per riacquistare la salute; nono il manuale di bon ton di Valeri e Littizzetto; dodicesima la popstar Tiziano Ferro. (7)18 2 Flavio Insinna Neanche con un morso all’orecchio Mondadori, e 16 (2)57 3 Corrado Augias Il disagio della libertà Rizzoli, e 15 Varia 1 (2)17 Pierre Dukan La dieta Dukan Sperling&Kupfer, e 16 (3)16 2 Pierre Dukan La dieta Dukan illustrata Sperling&Kupfer, e 19,90 Ragazzi 1 (1) S 6 Jeff Kinney Diario di una Schiappa. La dura verità Il Castoro, e 12 (2) S 3 2 Antoine de Saint-Exupéry Il piccolo principe Bompiani, e 7,90 Stati Uniti 1 Jodi Picoult 2 3 Jonathan Kellerman Vince Flynn Lone wolf Victims Kill shot Emily Bestler/Atria, $ 28 Ballantine, $ 28 Emily Bestler/Atria, $ 27,99 DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 21 Il podio del critico di Goffredo Fofi Il numero di Giuliano Vigini 3000 Goffredo Fofi (Gubbio, 1937) è critico letterario e cinematografico. Ha fondato le riviste «Linea d’ombra» e «Lo Straniero», di quest’ultima è attualmente direttore. Collabora a iniziative sociali e culturali. Di Fofi, Donzelli ha ripubblicato Strana gente. Un diario tra Sud e Nord nell’Italia del 1960. Idea teoricamente interessante quella di aprire librerie dedicate solo ai piccoli editori, ma (di fatto) poco praticabile. Se togliamo dal numero delle sigle editoriali quelle che hanno più di 500 titoli in catalogo (307), ne restano sulla carta quasi 11.000. Depenniamo pure da (18)52 20 Marcello Simoni L’amore quando c’era Il giorno in più È una vita che ti aspetto Un posto nel mondo Il mercante di libri maledetti Mondadori, e 10 Mondadori, e 13 Mondadori, e 12 Mondadori, e 13 Newton Compton, e 9,90 13 (8)52 (-) N 2 15 Paola Soriga (-) R 2 17 Paolo Giordano (-) R 2 19 Fabio Volo Dove finisce Roma La solitudine dei numeri primi Esco a fare due passi Einaudi, e 15,50 Mondadori, e 13 Mondadori, e 12 TEA, e 11 Mondadori, e 19 Bompiani, e 16 Bianca come il latte, rossa come il sangue Mondadori, e 13 7 (11)13 9 11 (-) R 3 Alessandro D’Avenia Giorgio Faletti (5)16 © RIPRODUZIONE RISERVATA (-) R 2 18 Fabio Volo Le nostre vite senza ieri 4 sostenere, nella zona centrale di una città (altrimenti, il tempo che si perde per arrivarci rende molto più comodo l’acquisto via Internet), una libreria così, dove si abbia una certa probabilità di trovare quello che si cerca? (14)52 16 Fabio Volo Le prime luci del mattino Mondadori, e 10 Autoritratto di un fotografo Bruno Mondadori, e 19 (17)12 14 Fabio Volo L’ultima riga delle favole Il diavolo, certamente Dove va la cultura europea? Quodlibet, e 9 (Elaborazione a cura di Nielsen Bookscan. Dati relativi alla settimana dal 5 marzo all’11 marzo 2012) (10) S 3 12 (9)52 10 Alessandro D’Avenia Chiara Gamberale (6)54 Miseria della Cabilia Aragno, e 10 questa cifra altre 8.000 case editrici con un catalogo «meno adatto» per una normale libreria, resterebbero 3.000 case editrici da prendere in considerazione. Moltiplicando per 20 titoli a testa (tra catalogo e novità), si fa già una grande libreria di 60.000 titoli. Chi può (7)53 8 Edoardo Nesi Marco Malvaldi La carta più alta 3 2 Gianfranco Contini Ferdinando Scianna Librerie (quasi impossibili) per piccoli editori (12)16 (4)54 4 6 Massimo Gramellini Fabio Volo (5) S 5 5 Andrea Camilleri 1 Albert Camus Alessandro Piperno Inseparabili. Il fuoco amico dei ricordi Mondadori, e 20 Cose che nessuno sa Tre atti e due tempi Sellerio, e 13 Mondadori, e 19 Einaudi, e 12 6 (-) N 4 8 C. M. Palov (13)13 (14)14 10 12 Carlos Ruiz Zafón Vanessa (7)53 14 Clive Cussler (15)53 16 Clara Sánchez (-) R 3 18 Carlo Ruiz Zafón (12)52 20 Leah Fleming La città perduta dei Templari L’ombra del vento Recuperate il Titanic! Il profumo delle foglie di limone Il gioco dell’angelo La strada in fondo al mare Newton Compton, e 9,90 Mondadori, e 13 Longanesi, e 9,90 Garzanti, e 18,60 Mondadori, e 13 Newton Compton, e 9,90 9 (9)53 (11) S 3 11 13 Georges Simenon Marek Halter (10)53 15 Kathryn Stockett 17 (-) N 3 (-) N 2 19 George Orwell Il destino dei Malou Il cabalista di Praga The help Jean-Christophe Grangé Amnesia (6) S 5 Wislawa Szymborska La gioia di scrivere Adelphi, e 19 Kaui H. Hemmings Paradiso amaro (3)56 5 Peter Cameron (-) N 5 7 Jeffery Deaver Un giorno questo dolore ti sarà utile Adelphi, e 10 La consulente Niamh Greene Ti amo ti odio mi manchi Rizzoli, e 19,50 Newton Compton, e 9,90 Adelphi, e 18 Newton Compton, e 9,90 Mondadori, e 18 Garzanti, e 19,60 6 (9)12 8 Philippe Pozzo (11)12 10 David King (10)52 12 Tiziano Ferro (-) N 2 14 AA.VV. (15)52 (-) R 2 20 (-) R 2 16 18 Massimiliano Verga Concita De Gregorio Walter Isaacson di Borgo Il diavolo custode (Quasi amici) Ponte alle Grazie, e 13,90 Il lupo L’amore è una cosa semplice La Bibbia Piemme, e 9,90 Kowalski, e 12,90 San Paolo, e 7,90 Zigulì. La mia vita dolceamara con un figlio disabile Mondadori, e 16,50 Così è la vita. Imparare a dirsi addio Einaudi, e 14,50 (6)14 4 Michela Marzano Volevo essere una farfalla Mondadori, e 17,50 5 (3)54 Veronica Pivetti Ho smesso di piangere Mondadori, e 17 Newton Compton, e 9,90 (4)54 D. Avey, R. Broomby Auschwitz. Ero il numero 220543 Newton Compton, e 9,90 (8)54 Diffenbaugh Il linguaggio segreto dei fiori Garzanti, e 18,60 1984 Mondadori, e 9,50 (8)13 7 9 (16)12 11 (5)52 G. Amorth, P. Rodari L. Littizzetto, F. Valeri Giulio Tremonti (12)52 (17)12 15 13 Dominique Lapierre Vittorino Andreoli (18)12 17 Philippe Daverio (14)52 19 G. Barbacetto L’ultimo esorcista. La mia battaglia contro Satana Piemme, e 16,50 L’educazione delle fanciulle Uscita di sicurezza Gli ultimi saranno i primi L’uomo di superficie Il museo immaginato Einaudi, e 10 Rizzoli, e 12 Rizzoli, e 16,50 Rizzoli, e 17,50 Rizzoli, e 35 P. Gomez, M. Travaglio Mani pulite. La vera storia, 20 anni dopo Chiarelettere, e 19,60 (8)12 7 Sherry Argov (10)12 8 Rhonda Byrne (-) R 2 9 Allen Carr (-) N 2 10 Umberto Veronesi The secret Longevità Macro, e 18,60 È facile smettere di fumare se sai come farlo EWI, e 10 (1)56 (7)12 (5)13 (6)12 3 4 5 6 S. Agnello Hornby G. Scilla, A. Pelonzi Benedetta Parodi Pierre Dukan M. Lazzati La cucina del buon gusto Feltrinelli, e 16 10 regole per fare innamorare I menù di Benedetta Le ricette della dieta Dukan Kowalski, e 12 Rizzoli, e 15,90 Sperling & Kupfer , e 16 La magnifica stronza. Perché gli uomini lasciano le brave ragazze Piemme, e 15 3 (-) N 2 4 Aprilynne Pike (5) S 1 5 Jeff Kinney (-) R 1 6 Silvia D’Achille (4)51 7 Geronimo Stilton (-) R 1 8 Jeff Kinney (-) R 1 9 Jeff Kinney (-) N 1 10 Jeff Kinney Illusions Diario di una Schiappa Sperling & Kupfer, e 17,90 Il Castoro, e 12 Gioca con Peppa Pig! Hip hip urrà per Peppa! Con stickers Giunti Kids, e 4,90 Ma che vacanza... a Rocca Taccagna! Con carte Piemme, e 9,20 Diario di una Schiappa. La legge dei più grandi Il Castoro, e 12 Diario di una Schiappa. Vita da cani Il Castoro, e 12 Diario di una Schiappa. Ora basta! Il Castoro, e 12 (3) S 2 Brian Selznick La straordinaria invenzione di Hugo Cabret Mondadori, e 16 Steve Jobs Mondadori, e 20 Bollati Boringhieri, e 8 (Elaborazione a cura del «Corriere della Sera») Inghilterra 1 2 James Patterson 11th Hour Jeffrey Archer The Sins of the Father Cornerstone, £ 18,99 Pan Macmillan, £ 18,99 Francia Germania 3 Danielle Steel 1 René Dosière 2 Marie Deroubaix 3 Harlan Coben 1 Jonas Jonasson 2 3 Jussi Adler-Olsen Daniel Glattauer Betrayal L’argent de l’Etat Six mois à vivre Faute de preuves Der Hundertjährige... Das Alphabetaus Ewig Dein Transworld Publisher, £ 18,99 Seuil, e 19,50 La Cherche-Midi, e 15 Pocket, e 8,10 Carl’s books, e 19,99 DTV, e 15,90 Deuticke Franz, e 17,90 DOMENICA 18 MARZO 2012 22 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA SEGNALI Un database con i 37 mila cataloghi di Zeri di GIOVANNA POLETTI S ono 37.000. Sono i cataloghi d’asta raccolti da Federico Zeri e oggi conservati dall’omonima Fondazione diretta da Anna Ottani Cavina. Dopo il legato del 1998, con cui Zeri donava all’Università di Bologna la storica villa di Mentana con tutto il suo prezioso contenuto (a sinistra: una Madonna trecentesca), la Fondazione ha promosso e perseguito dal 2002 la digitalizzazione dell’immensa fototeca (290.000 fotografie) e la catalogazione dei 46.000 volumi della biblioteca RRR I volumi, presto consultabili online, consentiranno di ricostruire una storia delle aste di Ottocento e Novecento Sguardi d’arte. Solo oggi, grazie a un contributo della Regione Emilia-Romagna, sta procedendo alla fondamentale catalogazione dei primi 12.000 cataloghi d’asta. Si tratta di pubblicazioni italiane, inglesi e francesi, ma anche di case d’asta minori europee, americane e persino sudamericane, edite tra il 1879 e il 1998. Il progetto prevede un unico database, in seguito consultabile online. L’impegnativo lavoro, che include vendite che smembrarono celebri Passo falso di Paolo Fallai Arte, fotografia, architettura, design, mercato { raccolte private tra ’800 e il primo ’900, aiuterà non solo a scoprire le sorti del patrimonio italiano disperso, ma consentirà di tracciare la storia del collezionismo moderno. Infine, poiché il lavoro della Fondazione (www.fondazionezeri.unibo.it) è improntato su standard internazionali, potrà essere utilizzato come linea guida per analoghe catalogazioni e consentirà di interagire con istituzioni straniere, come il Getty di Los Angeles. © RIPRODUZIONE RISERVATA Abusivismo archeologico Da alcuni decenni la stampa romana combatte una sfiancante battaglia contro il ciarpame che circonda il Colosseo: sporcizia, camion bar, centurioni acchiappaturisti, false guide. Studiosi e persone di buon senso non si stancano di chiedere il loro allontanamento. Inutilmente. Ma stanno lì ormai da così tanto tempo che la Soprintendenza archeologica, invece di combatterli, finirà che dovrà tutelarli. Tendenze Al Pac di Milano, al Maxxi di Roma, al Mart di Rovereto: mostre e musei scoprono un nuovo «centro di gravità» La primavera delle artiste di VINCENZO TRIONE P roviamo a fare un gioco. Come cambierebbe il nostro giudizio se Guernica fosse stata dipinta non da Picasso ma da Natalia Goncharova o da Sonia Delaunay; se il primo acquerello astratto fosse stato composto non da Kandinskij ma da Gabriele Münter; o se le Marilyn fossero state serigrafate non da Warhol ma da Coosje van Bruggen? Quanto conta la presenza dell’autore nelle nostre interpretazioni? E, ancora: lo stile ha un sesso? Muoviamo da alcune recenti mostre «al femminile». La personale di Marlene Dumas, al Palazzo delle Stelline di Milano (a cura di Giorgio Verzotti, fino al 17 giugno). L’omaggio a Marina Abramovic, al Pac di Milano (a cura di Diego Sileo e Eugenio Viola, da mercoledì al 10 giugno). L’antologica di Gina Pane al Mart di Rovereto (a cura di Sophie Duplaix, fino all’8 luglio). E l’installazione site specific di Doris Salcedo al Maxxi di Roma (a cura di Monia Trombetta, fino al 24 giugno). Di generazioni diverse e di orientamenti linguistici distanti (la Dumas è una pittrice, la Salcedo una scultrice, l’Abramovic e la Pane sono performer), queste personalità sono tra le protagoniste di una radicale svolta maturata negli ultimi anni: le artiste sono passate da una condizione di marginalità a un’inattesa centralità, fino a costituire quasi un movimento trasversale. In principio — dall’inizio del Novecento — ci sono state clandestinità, sudditanza e subalternità, come ha raccontato Lea Vergine in un libro del 1980, L’altra metà dell’avanguardia (riedito da Il Saggiatore nel 2005). Un appassionante viaggio attraverso voci a lungo dimenticate. L’obiettivo: portarsi al di là delle sterili rivendicazioni femministe, per squarciare il velo di silenzio che per decenni ha avvolto ricerche ostinate e solitarie. Perlustrare territori colpevolmente caduti nell’oblio, trasgredire censure e reticenze. Insomma, «togliere le orchidee dall’obitorio», per far emergere non un lazzaretto di ragazze afflitte, di ancelle o di eroine vicarie, ma Abramovic, Dumas, Pane, Salcedo: il femminile non è più marginale i In Italia Alle donne sono dedicate la personale di Marlene Dumas (Milano, Palazzo delle Stelline, fino al 17 giugno); l’omaggio a Marina Abramovic (Milano, Pac, dal 21 marzo al 10 giugno); l’antologica di Gina Pane (Rovereto, Mart, fino all’8 luglio); l’installazione site specific di Doris Salcedo (Roma, Maxxi, fino al 24 giugno) A New York Cindy Sherman è al centro della retrospettiva al Moma (fino all’11 giugno). Al Guggenheim (fino al 13 giugno), è in corso la mostra su Francesca Woodman (1958-1981) Le opere In alto da sinistra: Gina Pane (1939-1990), «Table de lecture» (1969); un particolare di «Angeli in uniforme» (2001) di Marlene Dumas; «Senza titolo» (2008) di Cindy Sherman un continente di Euridici senza Orfei, segnato dalle «stigmate dell’alterità». Una «provincia» di infaticabili sperimentatrici. Alcuni nomi: la Delaunay e la Goncharova, Suzanne Duchamp e Leonora Carrington, Tamara de Lempicka e Giorgia O’Keefe, Frida Kahlo e Carol Rama. Almeno fino a dieci anni fa le moderne «Euridici» non hanno trovato adeguata collocazione nei musei. Si rifletta sul contesto newyorkese. Fino al 2006, solo il 5% delle opere conservate dal Moma era stato realizzato da donne; tra il 2000 e il 2006, solo il 14% delle personali ospitate dal Guggenheim era dedicato ad artiste. Questa situazione potrebbe essere attribuita al fatto che il sistema dell’arte è auto-replicante: «Vede che le opere che si espongono e si vendono sono per lo più fatte da uomini e si regola di conseguenza», ha spiegato Jerry Saltz. Il metodo di Marina «The Abramovic Method» sarà il primo (attesissimo) lavoro di Marina Abramovic dopo la grande retrospettiva che le aveva dedicato il Moma nel 2010 (sopra l’artista in un momento della performance). Sarà il pubblico («guidato e motivato dall’artista») a sperimentare direttamente una serie di «installazioni interattive», che potrà scegliere di volta in volta di vivere «in piedi, seduto oppure sdraiato». Accanto a questa nuova creazione, una rassegna di alcuni storici happening della Abramovic (www.abramovicmethod.it) Da qualche tempo, lo scenario è rapidamente cambiato. L'arte al femminile sta assumendo un’importanza crescente. Altro che quote rosa... Le donne sono ovunque: dalla direzione dei musei a quella di prestigiose rassegne (come la Biennale di Venezia e la Documenta di Kassel). Per arrivare alle tante «presenze» che si possono ritrovare nelle fiere e negli eventi organizzati in tutto il mondo. Eppure, al di là di questi dati, occorre interrogarsi sull’esistenza o meno di una specificità linguistica dell’«altra metà dell’avanguardia». Pur con accenti diversi, le artiste sembrano pensare le loro opere sempre come espressione di un’urgenza testimoniale. Evitano ogni pietas, esprimendo tormenti, tensioni. Sfidano le rappresentazioni «tranquille», senza temere pazzie e devianze. Tratti distintivi: l’autoironia, il sarcasmo, il coraggio, la capacità di non sfuggire al dolore, il ricorso alla memoria, concepita come filtro per preservare e tramandare, per esorcizzare la morte, per salvare DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 23 Dedica Doppio omaggio di New York a due testimoni straordinarie del XX secolo Epoche Pregiudizi, rivalità e mascheramenti: l’impegno politico oltre le proprie intenzioni È una foto troppo bella per essere di una donna Gli autoritratti di Sherman e Woodman in un universo tutto (o quasi) maschile di ARTHUR C. DANTO P emozioni passate. Artificio ricorrente: la deformazione, che permette di elaborare audaci figurazioni. Tema centrale: la corporeità, che si dà come significato fluttuante; luogo dove si smascherano finzioni immaginarie e speculazioni; spazio abitato dal perturbante, inteso freudianamente come dimensione dello spavento, «un qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che è affiorato». Innanzitutto, il corpo come sudario. Nei suoi quadri, la Dumas, sulle orme della pittura religiosa tardorinascimentale, dipinge personaggi minori. Vitali, eppure spettrali. Soli, alteri, fantasmatici. Hanno una fisicità ingombrante, ma sembrano evanescenti. A volte, sono orfane che indossano vestiti ingenui e hanno maschere di morte. Altre volte, nudità scarne, abbandonate sulla croce. Ad affermarsi è una cupezza tragica, che accoglie anche improvvisi barlumi di luce. Poi, il corpo come geografia del dolore. Nelle loro performances, l’Abramovic e la Pane, impegnate a scatenare i conflitti tra desiderio e difesa, tra licenza e divieto, tra pulsioni distruttive e catartiche, trattano se stesse come materie da incidere con ferite anche permanenti. Sfregiano la loro pelle con lamette e coltelli. Ascete impudiche, mostrano se stesse come Cristo sul Golgota, «in dialogo» con fatica e sopportazione. Propongono azioni repellenti, che celano intenzioni sacrali. Sublimano la sofferenza, aderendo a quell’estetica della crudeltà di cui ha parlato Gillo Dorfles: un’estetica specchio di un'epoca caratterizzata dal «disprezzo per la persona umana». Infine, il corpo come metafora inquieta. Nelle sue installazioni, la Salcedo rinvia spesso al concetto di ferita. In tal senso, illuminante il monumentale cretto esposto alla Tate di Londra (nel 2007): una distesa bianca solcata da scosse. A Roma, la Salcedo allestisce un’installazione costruita su un sistema modulare: cento coppie di tavoli sovrapposti, dai quali escono fili d’erba. Un modo per alludere alle tombe. Ed evocare le vittime delle stragi avvenute per mano dell’esercito in Colombia. Come una preghiera muta, che trasmette dolore e speranza. Dinanzi a noi, strade che divergono, per poi convergere in imprevisti approdi mistici. Allora, lo stile ha un sesso? Ma siamo sicuri che sia così? Certo, quadri, sculture o performance spesso nascono da ragioni intime e private. Ma quelle ragioni sono solo echi lontani e spesso impercettibili, che devono dissolversi nell’opera finita, come il calco a cera persa di una fusione. Anche a questo rinviava Roland Barthes in un articolo sulla morte dell’autore, dove, riferendosi alla letteratura, sosteneva che gli scrittori non esistono. Esiste solo la pagina scritta, ovvero «il bianco e nero che pian piano perde la sua identità, a cominciare da quella stessa del corpo che scrive». © RIPRODUZIONE RISERVATA er una felice coincidenza, due dei principali musei di New York hanno in programma due mostre di artiste attive alla fine degli anni Settanta: il Museum of Modern Art una retrospettiva di Cindy Sherman, il Guggenheim una mostra di Francesca Woodman. Entrambe si sono dedicate alla fotografia, ed entrambe hanno fotografato se stesse, anche se sarebbe sbagliato considerare quelle immagini degli autoritratti. Sono piuttosto interpretazioni di un personaggio: varie eroine di film di serie B nel caso di Sherman, mentre Woodman si colloca in una sorta di mondo onirico in cui è la protagonista. Dato che gli esponenti di quella che Robert Motherwell ha chiamato la New York School tendevano ad assumere un atteggiamento maschilista, la pittura non era considerata un’arte per donne. Hans Hoffman, maestro di Lee Krasner, le fece i complimenti per un suo quadro dicendole: «È così bello che non si direbbe dipinto da una donna». Krasner, che fu la moglie di Jackson Pollock, si sarebbe sicuramente offesa se le avessero detto che «dipingeva come una donna», ma non è mai stata giudicata alla stregua degli esponenti maschili del movimento, anche se mi ricordo di aver pensato che alcuni dei suoi dipinti, fotografati nella casa in cui lei e Pollock vivevano a Springs, sulla North Fork di Long Island, sembravano più belli tra le piante da appartamento di come apparivano sulle nude pareti, inflessibilmente bianche, del Moma. In ogni caso, la critica femminista sosteneva che se non c’erano grandi pittori di sesso femminile era perché le donne probabilmente si esprimevano meglio con altri mezzi artistici. Lo scultore Joel Shapiro scrisse una volta di essere contento di non essere un pittore. L’arte americana ha visto enormi cambiamenti negli anni Sessanta e Settanta. Innanzitutto le fotografie che Sherman scattava a se stessa mettevano in mostra quel che le ragazze di solito fanno e i ragazzi no: travestirsi in modo da sembrare un’attrice che interpreta un ruolo. Il trucco era quindi una componente indispensabile. Nel fotografarsi non voleva affatto essere se stessa, ma apparire proprio come l’attrice di un film. Le ragazze, crescendo, imparavano a cambiarsi d’abito e a truccarsi, ma solo dei genitori molto comprensivi avrebbero concesso le stesse cose a un ragazzo. Normalmente, se un ragazzino indossava i vestiti della sorella o usava il suo trucco, gli si diceva che si stava comportando da femminuccia, e molto probabilmente lo si portava da un medico. Le opere di Sherman mostrano l’interprete intenta in una qualche attività: leggere una lettera d’amore, tirare giù un libro da una libreria, sognare a occhi aperti seduta su un davanzale o con in capo un cappello di paglia nuovo e divertente, oppure in procinto di intraprendere un nuovo lavoro. Le foto sono spesso ironiche, cosa che non si attaglia all’eroina di Woodman, di solito interpretata da lei stessa, quasi sempre nuda, del tutto o in parte, o con indumenti intimi in una stanza poco arredata. Sherman non si mostra mai nuda, ma a volte si applica parti del corpo posticce, «tette finte», come dice lei. La sua serie più famosa è Untitled film stills («Foto di scena senza titolo»), com- RRR Ruoli Negli anni Sessanta e Settanta la stessa critica militante ha finito per penalizzare pittrici, scultrici e fotografe che cercavano nuove vie posta da 69 immagini 8 per 10 pollici, quasi tutte di una donna diversa in un ruolo diverso. Avrebbe potuto facilmente posare anche in un ruolo maschile, ma la scelta di non farlo indica che la serie voleva mostrare quali fossero le prospettive delle ragazze americane di allora. Sherman venne adottata dalle femministe, che la credevano portatrice di qualche arcana idea nella metafisica dei generi. Non si potrebbe quasi mai pensare lo stesso delle foto di Woodman, belle e poetiche, in parte perché legate alla sua tragedia (Woodman si suicidò buttandosi giù da un loft di Manhattan nel 1981). La sua morte precoce diffonde un’aura drammatica sulle sue piccole foto color seppia, molto simili alle Untitled stills di Sherman per dimensioni e toni. Nella vita americana, più che nell’arte, c’è un’altra coincidenza degna di nota. Per chi non lo sapesse, in America ci sono due grandi partiti, Democratico e Repubblicano. Barack Obama è un democratico, e il suo primo atto legislativo da presidente è stato abolire le differenze salariali tra uomini e donne che fanno lo stesso lavoro. Senza dubbio voleva attrarre i voti delle donne. I quattro candidati che aspirano alla nomination repubblicana, per poi cercare di batterlo, si presentano agli elettori con posizioni assai più conservatrici di Obama, unico democratico in lizza. L’ideologia conservatrice solleva soprattutto questioni che riguardano la sfera Scatti Una delle fotografie di Francesca Woodman ora in mostra al Guggenheim NY. L’immagine fa parte della serie «Polka Deb» (1976) Al Maxxi di Roma Le stragi colombiane che ispirano Doris Oltre centoventi coppie di tavoli in legno sovrapposti, separati da pochissima terra, da cui nascono esili fili d’erba: questo è «Plegaria Muda», l’ultimo progetto di Doris Salcedo che riempie l’intera Galleria 2 del Maxxi (sopra). L’artista ha dichiarato di essersi ispirata alle vittime delle stragi avvenute per mano dell’esercito in Colombia ma anche alle morti violente nei sobborghi di Los Angeles. sessuale, in particolare quella femminile, puntando l’attenzione su due argomenti: l’aborto e il controllo delle nascite. Il controllo delle nascite è diventato un grosso problema politico. Obama è riuscito a ottenere una forma di assicurazione sanitaria per tutti, che è stata fortemente contestata anche perché il controllo delle nascite, avendo a che fare con la salute della donna, sarebbe anch’esso coperto da questa assicurazione. I conservatori sostengono che è una violazione all’emendamento della Costituzione americana che garantisce la libertà di culto religioso. Una giovane donna che ha portato la sua testimonianza sull’argomento dinanzi al Congresso è stata profondamente umiliata da un noto commentatore televisivo, Rush Limbaugh, che l’ha definita una prostituta che voleva essere pagata per fare sesso. Le ha perfino chiesto di produrre dei video sulla sua attività sessuale. Questo ha provocato un’indignazione generale, e molti degli sponsor hanno ritirato il loro sostegno alla trasmissione, anche se Rush si è scusato con la ragazza (cosa per lui inusitata). Le opere di Cindy Sherman o di Francesca Woodman, a dire il vero, non hanno esplicite intenzioni politiche. Ma un anno dopo l’11 settembre il direttore della mia rivista, «The Nation», mi ha chiesto se gli artisti si sarebbero occupati dell’attacco alle Torri gemelle. Ho interpellato alcuni di loro, tra cui Cindy Sherman, per scoprirlo. Cindy mi disse allora che voleva trovare un modo di introdurre quella tragedia nelle sue opere, ma che non sapeva ancora come. La questione riemerse quando la intervistai in occasione della sua mostra al Jeu de Paume di Parigi. Mi rispose con queste parole: «Alcuni miei amici dicevano che quello era il momento migliore per fare arte, perché così potevamo sottrarci al senso di tristezza che ci invadeva. Oppure che il mondo aveva bisogno di vedere cose belle e rassicuranti e dovevamo quindi impegnarci a produrle. Ho cominciato a fare alcuni ritratti seri, tristi, ma non mi sono piaciuti affatto. Poi ho pensato di fare cose rasserenanti, che affermassero la vita, delle icone della donna media. Una, ad esempio, è una contadina e l’altra è quella che chiamo la svampita, le ho ritratte come se fossero su un piedistallo, come eroine. Ma ho finito per fotografare solo quelle due». Le chiesi in un’altra occasione di parlarmi dei clown, che stava esponendo nella sua galleria, Metro Pictures. La sua risposta fu sorprendente: «Ci sono voluti anni per trovare qualcosa che mi desse la possibilità di esprimere tutta la gamma di emozioni contrastanti che volevo comunicare, che provavo. Ho pensato che i clown avrebbero rappresentato questo vocabolario illimitato, e anche una sfida, per le diverse emozioni che suscitano. Non solo ironia e humor, ma anche tragedia e intensità, e la possibilità che dietro uno di loro ci sia un criminale o un pedofilo... Ci sono tante cose che si possono collegare a quell’immagine». Nel 2005 ho curato una mostra di quel che ho chiamato «arte dell’11 settembre», e ho chiesto a Cindy una delle sue opere. Mi ha mandato un clown, che sorride, ma che nell’intimo è triste. Nessuno ha chiesto cosa ci facesse un clown in quella mostra. Era in realtà un paradigma dell’arte dedicata all’11 settembre, un’immagine di dolore. Ed era peraltro un autoritratto. Anche se ora le donne in politica hanno più potere, nella retrospettiva del Moma ci sono almeno tre clown. (Traduzione di Maria Sepa) © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 24 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Classicamente Sguardi Le mostre di Nuccio Ordine { Vite da vivere «Ci sono di quelli che non vivono la vita presente, ma si preparano con molto zelo come se dovessero vivere non il presente ma una qualche altra vita; e intanto il tempo si perde e fugge via. Ma non ci è concesso ricollocare la vita come una pedina»: Antifonte sofista, già nel V secolo avanti Cristo, ricordava ai contemporanei che era insensato non vivere la vita presente per prepararsi a vivere una probabile vita futura... Visioni Alla National Gallery di Londra i due artisti a confronto Turner, illuminato da Lorrain Maestri del paesaggio con la medesima ossessione per la luce dell’Italia: dalle «antiche» vedute romane alle marine inglesi che anticipano gli impressionisti di SEBASTIANO GRASSO S e dovessimo prendere le cattive abitudini dei francesi per i quali Picasso e Modigliani sono parigini, potremmo dire che Claude Lorrain (Claudio Lorenese) è romano. Nato a Champagne (in Lorena) nel 1600, a 16 anni viene nella città papalina, dove si forma; quindi, a 25, rientra in Francia e l’anno dopo si stabilisce definitivamente a Roma, per dedicarsi alla pittura di paesaggio. Quando muore, nel 1682, il Lorenese viene sepolto — come da suo desiderio — nella chiesa di Trinità dei Monti. Nel 1840, il suo corpo viene spostato in quella di San Luigi dei Francesi. Allievo del Cavalier d’Arpino, guarda ad Annibale Carracci e al Domenichino e, con Nicolas Poussin, è certo uno dei maestri del paesaggio. Sulla sua tomba, la scritta: «Rappresentò in modo meraviglioso i raggi del sole all’alba e al tramonto sulla campagna». E che Claude sia stato uno straordinario paesaggista deve averlo pensato anche l’inglese Joseph Mallord William Turner (1775-1851), il quale, nato circa un secolo dopo, lo ha saccheggiato a piene mani. Beh, forse il termine «saccheggiato» è un po’ esagerato; diciamo allora che — i Eventi La mostra «Turner inspired: in the light of Claude» rimarrà aperta alla National Gallery di Londra (nella Sainsbury Wing) fino al 5 giugno (www.national gallery.org.uk; Tel + 44. 20 77 47 28 85). Catalogo National Gallery Company (pp. 144, e 25) In mostra Sopra: un particolare del quadro di Turner («Keelmen Heaving in Coals by Night», 1835) che compare anche sul manifesto della mostra. A destra, dall’alto: Claude Lorrain, «Porto con l’imbarco della regina di Saba» (1648) e «Didone costruisce la città di Cartagine» di Turner (1815) A Maastricht la 25esima edizione di Tefaf: oltre 250 espositori, soltanto 14 gli italiani Moore da 600 kg e 27 milioni, un Picasso da 5: la fiera delle fiere anticipando Picasso, occhio e pennello veloce — Turner ha fatto man bassa di temi e tecniche dell’artista franco-romano. Operazione, questa — oggi normalmente definita «dialogo» — estesa anche a Rembrandt, Poussin, Van der Velde, Canaletto, Rubens, Piranesi, Salvator Rosa, Tiziano, Tintoretto, Veronese, Gainsborough, Watteau ed altri. Tant’è che qualche anno addietro la Tate Britain ha fatto una mostra sulle influenze di questi artisti su Turner. Che, poi, era pure uno simpatico, dotato di estro e fantasia. Si divertiva a rubare, rileggere, fare accostamenti, mistificare. Gli piaceva una località? Spostava lì il suo luogo di nascita. Negli ultimi anni della sua vita, addirittura, si spacciava per un am- RRR La leggenda Si racconta che William, proprio in questa stessa galleria, fosse rimasto così turbato da un quadro di Claude da piangere miraglio in pensione. Ciò non toglie che Turner sia stato uno straordinario artista e un grande innovatore, verso il quale gli impressionisti, e anche alcuni pittori contemporanei di casa nostra — il siciliano Piero Guccione, per esempio — hanno un debito enorme; maggiore, forse, di quello che lo stesso Turner ha con Claude Lorrain. Ad entrambi, Londra dedica un’interessante rassegna, a cura di Ian Warrell, Alan Crookham, Philippa Simpson e Nicola Moorby intitolata Turner ispirato. Nella luce di Claude. A confronto circa sessanta lavori (una quindicina di dipinti del Lorenese e oltre quaranta fra olii, guazzi e acquerelli dell’artista inglese), in cui si evidenzia come la lezione di Lorrain abbia rivoluzionato la pittura di Turner. Esposti, fra l’altro, capolavori come Il mulino (1648), Paesaggio con lo sbarco di Enea nel Lazio (1675), Le Havre: tramonto al porto (1832), Trasportatori di carbone su chiatte che scaricano di notte (1835). Due i punti focali: luce e suggestioni. Tutto è cominciato alla National Gallery di Londra. Si racconta che Turner, durante una visita al museo, davanti al Porto con l’imbarco della regina di Saba, del 1648, sia rimasto talmente turbato, da mettersi a piangere. Da qui, lo scandaglio quasi ossessivo della tavolozza del maestro secentesco, che dipingeva la luce «pura come l’aria italiana». Turner è così preso da Claude da riuscire, quasi senza accorgersene, ad «importare» le vedute romane e a farle diventare londinesi. Certo, la maggior parte dei dipinti di Claude sono dedicati all’Italia; mentre quelli di Turner guardano per lo più all’Inghilterra. Non manca, però, qualche puntata su Venezia, meta di tre soggiorni brevi ma intensi. Centinaia di disegni («appunti») gli servivano per sviluppare le immagini al momento di trasporle sulla tela. Turner era affascinato da come Lorrain riusciva a rendere tutto ciò che riguardava il mare: bastimenti con le vele gonfie di vento, barche, porti, coste, luci, fuochi, barili vuoti che galleggiano. E la registrazione di fenomeni naturali (i temporali, per esempio) e la proiezione e il riflesso della luce sull’acqua. Turner sposta in Inghilterra i paesaggi italiani di Lorrain? E Glasgow si ammanta dell’atmosfera di Tivoli. L’operazione si ripete con Venezia. Per un frequentatore di teatri come Turner, la città dei dogi rappresentava uno spettacolo nello spettacolo: scenari uguali, ma sempre diversi. L’artista inglese ha visto il dissolversi di grandi imperi; il disfacimento e il declino di Venezia hanno un’incidenza non indifferente. Creano in lui sentimenti contrastanti, parallelismi con Londra. Ad un amante di Shakespeare e delle belle donne, Venezia appariva il non plus ultra di un qualcosa atteso per tutta la vita, esistito sino ad allora solo nella fantasia e che, adesso, diventava tangibile. «Studiava la città, ma anche gli occhi neri, sopracciglia arcuate e le dolci espressioni delle veneziane», ricorderà lord Byron. Da qui una serie di interpretazioni visionarie e romantiche. Nascono così molte sue vedute dove il colore riesce ad annullare confini e distanze fra soggetti terrestri ed atmosferici: sullo sfondo il paesaggio si annulla inghiottito da un sogno che diventa sempre più evanescente. È come se Turner volesse applicare la nebbia londinese al paesaggio italiano. Il paesaggio così com’è lo interessa sino ad un certo punto. Preferisce comporlo e scomporlo a suo piacimento. E perdersi nelle nebbie italiane portate da casa. «Il mio stile — soleva dire — è l’atmosfera!». © RIPRODUZIONE RISERVATA Allestimento Rigore scientifico Catalogo di PAOLO MANAZZA S e qualcuno non crede alla sindrome di Stendhal deve venire qui, al Tefaf di Maastricht. The European Fine Art Fair è la fiera di tutte le fiere dell’arte. Numero uno al mondo. Farà sorridere ma è così. Con un po’ di fortuna potreste persino assistere in diretta a qualcuno che sviene. Colpito dalla mitica sindrome, detta anche di Firenze, «che induce tachicardia, capogiro e vertigini in soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza». Anni fa una giovane signora francese cadde, si dice, come un sacco vuoto in mezzo allo stand Landau Fine Art (una celeberrima galleria canadese che sul proprio sito spiega: «Solo capolavori»). Tutti andammo a vedere. Della signora nemmeno l’ombra ma intorno c’erano venti tele di Picasso dipinte tra il 1910 e il 1960. Il Tefaf è così. Memorabile la lezione del 2009. In piena tempesta finanziaria questo circo dell’arte riuscì a stupire tutti. Esponendo, al posto delle firme fashion style vendute a cifre milionarie sino all’anno prima, la vecchia e vera qualità. Quel marzo i collezionisti yuppies, nel migliore dei casi, erano ri- masti a piangere davanti agli schermi dei computer con gli indici in picchiata. Nel peggiore, stavano in galera. Così il ritorno alla grande pittura e alle opere colte fu un successo inaspettato. Oggi il Tefaf compie venticinque anni. DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 25 Cotture brevi Sguardi La musica di Marisa Fumagalli { All’insegna dell’insipido Pillole di saggezza culinaria: «Il sale spesso viene scambiato per il gusto delle cose; invece, una carota appena raccolta non ha bisogno di nient'altro per essere buona. Una zucca cotta gentilmente in padella e condita con poco sesamo è perfetta così». Lo scrive Pietro Leeman, guru della ristorazione vegetariana, per l'allievo Simone Salvini: a giorni, in libreria con Cucina vegana (Mondadori), il lato estremo del menu «senza prodotti animali». Personaggi Gli spartiti del grande filosofo vennero accolti all’epoca con parole gelide o brutali di MICHEL ONFRAY D HENRI FANTIN-LATOUR, «AL PIANO» (1885), MUSÉE D’ORSAY opo un concerto dedicato alle opere di Nietzsche, il mio amico pianista Vahan Mardirossian mi spiegò un giorno, con lo spartito in mano, che Nietzsche aveva idee musicali magnifiche, ma che non ne portava a buon fine nessuna. Per quale ragione? Probabilmente perché, oltre che dalla madre, dovette subire la sua castrazione da Wagner, da Hans von Bülow e da Brahms, il che, bisogna riconoscere, non è cosa da poco per una virilità da artista… Figlio e nipote di pastori protestanti, Nietzsche voleva essere compositore. La madre gli intimò di diventare ministro del culto protestante, ritenendo che la formazione musicale legata a questo genere di professione, pur in mancanza di vocazione, Il musicista Nietzsche, stroncato sarebbe bastata a placare la sua sete di musica… Nietzsche rinunciò alla carriera musicale, si impegnò negli studi di teologia, prima di rinunciarvi in favore della filologia, e poi della filosofia, materia in cui fu geniale autodidatta. La sua iniziazione filosofica avviene con Schopenhauer. L’autore del Mondo come volontà e rappresentazione è, con Pitagora e Platone, il filosofo che ha pensato meglio la musica alla quale lascia un posto architettonico nella propria opera: essa non è riflesso del mondo, ma mondo; non ha bisogno del mondo per essere; non è riproduzione di una Idea, ma forma stessa del Volere; è quindi un mondo senza il mondo, fuori del mondo. La musica dà senso a questo mondo poiché, essendo il mondo solo un’immensa valle di lacrime (oscilliamo continuamente fra la noia, che ha la sua rappresentazione sociale la domenica, e la sofferenza, che satura il resto della settimana…), essa arresta il movimento di bilanciere fra noia e sofferenza. Fra la morale della pietà e la negazione del voler-vivere, la musica è una consolazione, perché consente la contemplazione estetica che ci protegge dalla tirannia del Volere. Quando la Germania vince la guerra del 1870, Nietzsche ritiene che l’abbia persa poiché, per conseguire una vittoria, bisogna rinunciare all’umanità… Propone di riconquistare lo spirito e fa della musica il cavallo di Troia di questa guerra della cultura: la Germania deve creare un mito come la Grecia Apertosi al pubblico venerdì scorso, prosegue sino a domenica prossima. Oltre duecentocinquanta tra i migliori mercanti d’arte e antiquariato al mondo offrono alla vista un parterre ineguagliabile. Per vedere e trattare opere di tutte le tipologie. Dall’archeologia Wagner, von Bülow e Brahms ne scoraggiarono i tentativi ma nella sua prosa sentiamo cantare un soffio rivoluzionario i Michel Onfray parteciperà al seminario «Nietzsche filosofo musicista» (sopra: Nietzsche in un ritratto di Munch del 1906), che l’Università popolare della musica di Como, diretta da Bruno Dal Bon, organizza il 22 marzo (ore 17) alla Biblioteca comunale di Como. Partecipa Jean-Yves Clément. Il libro di Onfray più recente uscito in Italia è «Estetica del Polo Nord» (Ponte alle Grazie) Sopra e a sinistra: due scorci della Tefaf di Maastricht (www. tefaf. com). A destra dall’alto: «Figura inclinata» (1977) di Henry Moore e un gioiello di Dalì (Ansa) creò un mito con la tragedia, al fine di cristallizzare l’anima di un popolo e creare un’Europa dell’intelligenza e della pace. Tale mito sarà l’opera, il dramma musicale wagneriano. A 24 anni, Nietzsche incontra Wagner e si pone intellettualmente al suo servizio: nella Nascita della tragedia, del 1872, teorizza la salvezza della Germania attraverso la musica wagneriana. Questa teoria sfocia in una pratica: il teatro di Bayreuth pensato come tempio post cristiano della rinascita tedesca, quindi europea. Ahimè! L’edificio costruito con capitali di ricchi borghesi, banchieri, industriali, federa questa mafia danarosa, ma terribilmente stupida. Lì regna l’antisemitismo: Wagner è antisemita, Nietzsche vomita l’antisemitismo. Nel braciere in cui fa precipitare Wagner, Nietzsche getta anche Schopenhauer. Si dedica a Epicuro e all’epicureismo, poi si libererà dalle nebbie intellettuali e musicali del Nord con il Mediterraneo e… con Georges Bizet, trasformato in anti-Wagner emblematico: Carmen come antidoto a Parsifal! Bizet è il rimedio al veleno. Così come aveva fatto abbondante uso del filtro tossico wagneriano, ora Nietzsche consuma un Bizet intellettualmente supervitaminizzato grazie alle proprie cure: lo ascolta più di venti volte al concerto, dice che l’audizione di questa opera trasforma chi l’ascolta in opera d’arte. Carmen è una musica perfetta, leggera, duttile, rifinita, cattiva, raffinata, popolare, fatalista, gaia e per dirla tutta… africana! Fra wagnerismo e bizetismo, Nietzsche è stato castrato dal trio Wagner/von Bülow/Brahms — che Wagner detestava… Nel 1869, invia a Wagner, per la sua festa, la prima versione dello spartito del suo Inno all’amicizia. Lavoro che non piace al Maestro, che lo fa sapere a chi sa intendere… Così, dopo il Natale del 1874, il Maestro scrive a Nietzsche rimasto a Basilea: «Sposatevi o componete un’opera: due soluzioni che sono ugualmente pessime. Tuttavia, riten- RRR Il giudizio di Wagner «Sposatevi o componete un’opera: due soluzioni che sono ugualmente pessime. Tuttavia, ritengo che la prima sia migliore» ai pittori primitivi fondo oro sino agli ultimi contemporanei di grido newyorchesi. Il Tefaf è l’unica mostra-mercato al mondo che copre seimila anni di eccellenza nelle arti applicate e figurative. Solo quattordici le gallerie italiane presenti. La selezione per entrare è terribile. Mediamente le richieste di partecipazione superano il triplo di quelle accettate. Ma il vero e grande punto di forza del Tefaf sta nel Vetting (il comitato di esperti che passa al vaglio ogni opera prima di dare l’assenso per appenderla negli stand). Ventinove commissioni internazionali, formate da centosettantadue esperti in tutti i campi dell’arte rappresentati in fiera, verificano qualità, autenticità e condizioni di ciascun oggetto. Il pubblico, di collezionisti privati ma anche direttori e conservatori dei musei più importanti al mondo, questo dettaglio lo conosce bene. E compra. Nel 2007 le vendite ufficiali avevano sfiorato gli 800 milioni di euro. Nelle edizioni successive, e probabilmente anche in quella attuale, gli acquisti sono stati sempre considerevoli. Ma la maggior parte degli affari arriva dopo la fiera. Durante il Tefaf vengono siglati go che la prima sia migliore della seconda». C’era modo migliore di dire al filosofo che non era fatto per la composizione musicale? Nel 1872, il 20 luglio, Nietzsche manda la sua Manfred-Meditazione a Hans von Bülow. In un progetto di lettera a lui destinato, Nietzsche scrive: «Della mia musica so soltanto che mi permette di dominare una disposizione affettiva che, se insoddisfatta, produrrebbe forse maggiori danni» (29 ottobre 1872). Il direttore d’orchestra risponde con rara brutalità; Nietzsche reagisce a questa violenza con uno sbalorditivo «Venerato signore». Bülow reputa che la sua sia una «non-musica» e che debba smettere urgentemente di comporre. Nietzsche acconsente, ringrazia, si scusa. E dopo aver composto Manfred, per sei anni, non scrive una sola nota… Nel 1887, in rotta con Wagner, Nietzsche invia lo stesso spartito a Brahms, nemico del compositore di Bayreuth… Risposta dell’interessato su una cartolina: «Johannes Brahms si permette di esprimerle i ringraziamenti più fervidi per l’invio che considera come un onore di cui le è debitore. In omaggio di grande stima…». Nietzsche aveva mandato lo stesso spartito a varie persone. Brahms fu l’unico ad accusare ricevuta in questo modo gelido e formale. L’occhio nero della madre, la perfidia di Wagner, la brutalità di Bülow, il sussiego di Brahms privano Nietzsche dell’audacia, che a questo punto viene diretta verso la prosa. L’incompiutezza, la mancanza di risultati della sua opera musicale sono il segno di queste castrazioni. Ma nel tempo stesso in cui sentiamo cantare la prosa filosofica, scopriamo, sotto lo spartito nicciano, un leggero soffio che sarà percepito dai rivoluzionari della musica nel XX secolo. L’ultimo Skrjabin, il primo Arnold Schönberg sembrano partire dal canto delicato emanato dalla musica di Nietzsche. Se il cosmo ha deciso che uno dei suoi ospiti effimeri sarà rivoluzionario, qui o altrove, questi lo diventa. Amor fati… Post scriptum: l’Università popolare della musica creata a Como dal mio amico direttore d’orchestra Bruno Dal Bon funziona come un anti-Bayreuth, almeno nel senso che la bella idea del festival tedesco è diventata una brutta realtà: cioè la riunione mondana della élite aristocratica, finanziaria, borghese, industriale col pretesto di musica, belle arti e opera. In compenso Como è una riattivazione dello spirito di Nietzsche che inaugurò il progetto di Bayreuth negli anni Settanta del XIX secolo: un’occasione di rivoluzionare la politica attraverso l’estetica, con la musica che diventa un’attività capace di creare le condizioni di un’autentica repubblica, nel senso etimologico, una cosa pubblica. In maniera immanente, questa Università popolare della musica italiana formula una micropolitica concreta in grado di opporre una microresistenza ai microfascismi che proliferano nel corpo sociale europeo. Una goccia d’acqua, certo. Ma che ognuno porti la propria. Gli oceani impetuosi non sono che un insieme di gocce. (Traduzione di Daniela Maggioni) © RIPRODUZIONE RISERVATA accordi di massima, mentre transazioni e consegne slittano a dopo. Il più delle volte si concludono nei Paesi con maggiori agevolazioni fiscali per gli scambi di opere d’arte come la Svizzera, il Canada o gli Usa. Secondo alcune recenti ricerche molti dei galleristi presenti a Maastricht raccolgono tra il 40 e il 70 per cento del loro fatturato annuo negli undici giorni della fiera. Nata come una piccola mostra di provincia, dedicata alla pittura antica fiamminga e olandese, il Tefaf ha saputo imporsi sino a diventare una star. Oggi è un appuntamento imperdibile. Anche per i collezionisti italiani. Nello stand Dickinson campeggia un Picasso del 1967 (5 milioni di euro) e un corposo olio di Degas del 1885 (6,3 milioni). Da Colnaghi una Crocefissione di Rubens è offerta a 3,5 milioni. Landau propone per 27 milioni di euro una Figura inclinata di Henry Moore (peso massimo da 600 chili, finora mai apparso sul mercato, una delle opere di maggiori dimensioni dell’artista inglese). Ma la fiera è stracolma anche di opere deliziose a prezzi abbordabili, a partire da qualche decina di migliaia di euro. © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 26 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA La stessa porta Sguardi Il laboratorio di Emanuele Buzzi { Un marinaio in America Corto Maltese sbarca di nuovo negli Stati Uniti. E prova a dare filo da torcere agli eroi made in America. Dopo oltre vent’anni, a inizio marzo è stata ripubblicata La ballata del mare salato (da Rizzoli Usa). Ad aiutare il personaggio di Hugo Pratt nell’impresa, c’è un traduttore prestato dalla tv: Hall Powell, sceneggiatore (del serial Law and Order), ma anche fotografo e pittore. Solo l’inizio di una nuova avventura. Imprenditoria Nel capannone di Trezzano sul Naviglio L’arte di conservare l’arte La «Gioconda» al Louvre, la Corona d’Inghilterra, i manoscritti di Qumran Goppion, l’azienda milanese che custodisce (e protegge) i gioielli dell’umanità di ALBERTO MELLONI C onosciamo tutti quel double pas che ha tanto intrigato la filosofia estetica e che ciascuno ha provato davanti a un vero capolavoro. Un verso di Solomos, un divano di Magistretti, una bifora di Borgogna, un Giotto, una foto di Doisneau — ma anche il comò di un falegname senza nome del Settecento, il paesaggio che certe strade provinciali custodiscono come un segreto... Tutte agitano due distinti movimenti. Da un lato quello che ci porta ad entrare per capire di più, conoscere di più, a guardare di più, più da vicino, usando il tatto come un’estensione della vista. E dall’altro il senso di dover abbassare lo sguardo, una specie di pudore che ci prende quando fra la nostra anima cartavetrata dalla tecnologia e la realtà non c’è più il piatto mediatore di uno schermo, ma il trovarsi di colpo innanzi alla vertiginosa fragilità della condizione umana. L’uno e l’altro sono ciò che ci fa tenere in casa un libro, che ci mette in coda per una mostra. O che può scatenare in qualcuno una reazione distruttiva: il furore di chi martella le statue, sfregia i dipinti o assedia un teatro non per ignoranza, ma proprio perché capisce che quella lingua talmente personale da diventare universale e viceversa, non può che essere insopportabile a chi si inimica l’umano. Attorno a questo doppio passo la modernità ha costruito una industria speciale, che è quella della cultura. Vediamo senza sentirci in colpa pale d’altare strappate ai loro contesti: e spesso è solo per questo che anziché rimpiangerne la distruzione le possiamo vedere. Vediamo migliaia di comparse recitare alla perfezione la parte che lo stereotipo assegna loro (italiani al Moma, giapponesi a Venezia, russi agli Uffizi) con numeri resi tollerabili da uno strato invisibile e corposo di tecnologia. Perché milioni di visitatori possono essere per un quadro anche peggio delle intemperie: non sono soltanto i milioni di mutande «artistiche» che con gli attributi del David fanno ricchi i bancarellai di mezz’Italia, ma anche i milioni di sguardi curiosi, pudichi, violenti che qualcuno vorrebbe evitare al nostro patrimonio culturale facendone il tesoro privato di un ristretto numero di aristocratici del gusto, che parlano, sparlano, sbagliano come una corte decaduta. A impedire sia il sequestro sia la distruzione dell’opera come atto parlante servono una scienza e un’arte: la scienza di conservare l’arte, l’arte di conservare l’arte. Perché per mettere un vetro davanti a un quadro, basta un vetraio; per farlo parlare da dietro quel vetro, per incoraggiare chiun- i Storia Nel 1956 il Museo degli Strumenti Musicali di Milano commissiona alla Goppion, piccola officina vetraria di Trezzano sul Naviglio, la realizzazione delle vetrine. Dopo essersi dedicata alla produzione di teche destinate all’attività commerciale, negli anni 80, Alessandro Goppion (figlio di Nino, il fondatore), riconverte l’azienda alla vetrinistica museale Simboli Nel 2005 la Goppion ha realizzato le teche per la «Gioconda» al Louvre. Tra le sue realizzazioni: le vetrine che accolgono i gioielli della corona a Londra, quelle che proteggono il Compianto del Mantegna a Brera. Inoltre: le vetrine per il Newsmuseum di Washington, il Museum of fine arts di Boston, lo Shananxi History Museum di Xi’an, l’Opera del Duomo di Firenze Donazioni Al termine dell’ostensione nel Battistero di Firenze delle icone di Rublëv, Dionisij e di Pskov (provenienti dal Tretyakov di Mosca), la Goppion ha deciso di donare al cardinale Giuseppe Betori le tre teche che hanno ospitato i capolavori. Oggi, domenica 18 marzo, una cerimonia interreligiosa alle 18 conclude l’evento Appuntamenti Lunedì 26 marzo a Parigi si terrà il vernissage della mostra che il Louvre dedica alla «Sant’Anna», l’ultimo capolavoro di Leonardo (dal 29 marzo al 22 giugno). Le vetrine sono state realizzate da Goppion que a farsi tentare da quel double pas che dicevo all’inizio serve un’audacia in più. In cui l’Italia — non quella piagnona, l’altra — ha storie bellissime da raccontare: come quella dell’ingegner Nino Goppion, la cui insegna «Vetrine, arredamenti e affini» nel 1952 non doveva lasciar presagire cosa sarebbe accaduto all’impresa che di questo signore porta il nome. Uno che l’aulica prosopopea erudita del Dizionario biografico degli italiani non poté censire (grazie a Dio, il Dbi online può rimediare tali errori) ma che nella Milano del 1956 fece le teche del Civico Museo degli antichi strumenti musicali. Un primo esempio di quella arte di conservare l’arte nella quale la sua azienda, una generazione dopo, sarebbe diventata leader mondiale senza clamore e senza incentivi, in un rapporto insolito con il mondo della cultura in senso lato e con un Paese che prima di decidere di battersi per far entrare la cultura — almeno nella formula del «cultural heritage» — nel programma Horizon2020 ha dovuto lottare con le sue inerzie, le sue piccole avidità, le pigrizie politiche dalle quali non si guarisce dicendosi «tecnici», ma rimboccandosi (tecnicamente) le maniche. Perché che una azienda che fa museotecnica d’avanguardia, controlla i microclimi, La teca della Gioconda e, in alto, un angolo della fabbrica Goppion. A destra: l’interno del Museo della Scienza e della Tecnica di Firenze brevetta cerniere e viti troppo grandi o troppo piccole per la fantasia di un ingegnere normale — ebbene che questa azienda collabori col Politecnico di Milano, dove la ricerca sul bene culturale è una punta avanzata, è normale. Ma che Paola Barocchi, quella che riuscì ad imporre il Vasari perfino alla Rai degli sceneggiati, sia stata uno dei grandi interlocutori di questa impresa è un segnale. O che Carlo Pincin — sì, quello di Marsilio e Machiavelli — possa essere citato come uno degli ispiratori del lavoro di questa bottega dell’arte fuori tangenziale ovest è la cifra di una attenzione all’umanesimo che spiega i successi di Goppion (e tanti insuccessi di chi con quell’eredità non si misura). Allora è bene sapere, e ripetere, che la protezione e la stabilità della Gioconda al Louvre, la sicurezza dei gioielli della corona d’Inghilterra, i manoscritti di Qumran, il Compianto del Mantegna alla Pinacoteca di Brera, le sale di Santa Maria Novella, del Getty Research Institute, gli impressionisti del Musée d’Orsay, la Jameel Gallery del Victoria and Albert Museum di Londra, il Newseum di Washington, l’atrio della Convenzione al quartier generale della Croce Rossa a Ginevra, l’Ambrosiana, il Museum of Fine Arts di Boston, il Shaanxi History Museum di Xi’an, l’Opera del Duomo di Firenze — ebbene sapere e ripetere che tutti questi hanno in comune la bravura nata in questo capannone di Trezzano sul Naviglio che assomiglia a una grande bottega, con i tavoli dei designer che affacciano sui tavoli e i muletti dei costruttori. Un successo celebrato poche settimana fa all’ambasciata d’Italia a Parigi con la realizzazione delle teche che proteggeranno l’ala di arte islamica del Louvre, nuovo capolavoro dell’intelligenza italiana all’estero. Una risposta la si può forse azzardare: a differenza di ben più banali prodotti e imprese, Goppion non fa istintivamente parte del vanto italiano proprio perché non nasce in una nicchia deserta del mercato o nella discrezionalità della spesa pubblica, ma è entrata in un mercato globale con le sue gambe e con un legame forte con quella cultura della «unità del sapere» che Galasso ha descritto da par suo su «L’Acropoli». Questa cultura è (sarebbe) la grande chiave con cui parlare al balbettante costituzionalismo arabo, alla sanità cinese, al bisogno di filologia di mezzo mondo: ma bisogna saperla vedere, saperla leggere. Calendario © RIPRODUZIONE RISERVATA a cura di STEFANO BUCCI VENEZIA BOLOGNA FIRENZE PALERMO DRESDA NEW YORK L’eredità di Diana È stata una delle donne più potenti della moda del Novecento. A Diana Vreeland (1903-1989) è dedicata una retrospettiva che non è solo una sfilata di abiti d’autore (da Saint Laurent a Givenchy) ma anche un percorso ideale (documenti, riviste, cataloghi, libri, oggetti personali) nel gusto di un’epoca. Quella di Jackie e Veruschka. Palazzo Fortuny Fino al 25 luglio Tel 848.7082.000 Erotico è l’abbandono Un’installazione di tre giorni (23, 24 e 25 marzo), realizzata dalla regista, scrittrice e performer Valeria Paniccia. Un lavoro che ci fa entrare nei cimiteri con uno sguardo lontano dai tabù. E che (attraverso questo universo di figure femminili) ci racconta in qualche modo anche l’erotismo nella scultura monumentale italiana tra Otto e Novecento. Palazzo di Re Enzo 23, 24 e 25 marzo Tel 051.22.45.00 Cercando il sogno americano Da Nick Cave a Thomas Doyle, da Mandy Greer a Patrick Jacobs: undici artisti contemporanei si misurano con l’incertezza dell’oggi. Fantasia, immaginazione e sogno per costruire un’alternativa ad una realtà sempre più complessa e difficile. Cercando di costruire (per una volta ancora) il mito dell’American way of life. Palazzo Strozzi / Strozzina Fino al 15 luglio Tel 055.39.17.137 Artiste di Sicilia Dal 1850 al secondo Dopoguerra, dagli ultimi splendori dei Gattopardi all’Unità. Trentatrè sono le artiste (da Elisa Maria Boglino a Carla Accardi) che hanno fatto della Sicilia il proprio laboratorio eccellente. La mostra è concepita (tra l’altro) come una serie di piccole «personali», per meglio scoprire e comprendere l’identità di ognuna. Reale Albergo delle Povere Fino al 25 aprile Tel 091.42.23.14 Divisi ma uniti Il destino della Germania (un destino diviso ma unito) è al centro dell’esposizione che mette insieme opere comprese tra il 1945 e il 1998. Una raccolta di stili pittorici (ma ci sono anche fotografie e video) ma anche di sensazioni: dal bombardamento di Dresda del drammatico quadro di Lachmit al silenzioso gruppo di amici dipinti da Koethe nel 1988. Staatliche Kunstsammlungen Fino al 27 gennaio 2013 Tel + 49.351.49.14.20.00 Nella testa di David Nato a Ancona nel 1966, poi studi d’arte a Londra e (nel 2009) la consacrazione internazionale con la nomination al Turner Prize, Enrico David propone qui una serie di nuovi lavori (acrilici, disegni su carta, ritratti ma anche «paraventi») inseriti nel progetto «Head Gas». Opere concepite, spiega David, come «un atto di volontà contro l’alienazione». New Museum Fino al 22 aprie Tel 001.212.21.91.222 DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 27 Viva Liala! Sguardi Il museo di Roberta Scorranese { L’arte di accontentarsi (in amore) Nell’Inghilterra vittoriana Lily Wilson, figlia di una vedova di provincia, diventa cameriera della poetessa Elizabeth Barrett. Ne vive le ansie, i fremiti e l’amore per il poeta Robert Browning. Quasi annullando la sua vita in quella di Liz. Nel romanzo di Margaret Forster Lo sguardo di Lily (Dalai, pp. 576, e 22), la storia di un amore per interposta persona. Non erano pochi in passato, quando le donne facevano dell’accontentarsi un’arte raffinata. Fenomeni Come un milione e duecentomila visitatori hanno trasformato la città Benvenuti a Metz, la Bilbao francese dal nostro inviato STEFANO MONTEFIORI METZ — Si arriva a Metz da Parigi, dopo neanche un’ora e mezza di Tgv, in una stazione ferroviaria di solido stile teutonico: siamo nel capoluogo della Lorena, che assieme all’Alsazia diventò nel 1871 — e tale rimase per quasi cinquant’anni — terra dell’Impero tedesco. Tra le tante ragioni che all’inizio degli anni Duemila suggerirono di costruire qui la prima sede regionale di un grande museo, ci fu la volontà di marcare l’interesse e l’amore della Francia per un territorio un tempo caduto in mano straniera (ci vollero una Guerra mondiale e alcuni milioni di morti per recuperarlo). Dal 2010 Metz non vanta più solo la cattedrale medievale, una storia molto pesante, gli altiforni chiusi e gli alberi di mirabelles (le susine gialle): a due minuti a piedi dalla stazione, lo spettacolare Centre Pompidou-Metz, inaugurato dal presidente Nicolas Sarkozy il 12 maggio di due anni fa, ha ricevuto finora oltre un milione e 200 mila visitatori. Nel primo anno ne attendeva 250 mila, ne arrivarono oltre il triplo. «Vengono da Parigi, dalla vicina Germania e dal Lussemburgo, e molti olandesi che scendono verso il Mediterraneo ormai hanno preso l’abitudine di fare una sosta qui», dice Emmanuel Martinez, uno dei dirigenti del museo. L’economia della città comincia a cambiare, ristoranti e caffè sono pieni e ne nascono di nuovi. Da quando il museo ha aperto le visite alla cattedrale sono aumentate del 50 per cento, l’ufficio del turismo lavora il doppio e i commercianti stimano che almeno il 40 per cento di chi compra il biglietto del museo poi vada anche a acquistare qualcosa nei negozi del centro. Le opere d’arte contemporanea scelte tra le 65 mila del Centre Pompidou di Parigi (impossibile esporle tutte nella casa madre) stanno diventando l’occasione per la crescita e la trasformazione della zona. «Vogliamo approfittare della frequentazione aumentata e della nuova immagine della città», dice il sindaco Dominique Gros. Socialista, difensore di un progetto varato dal suo predecessore centrista Jean-Marie Rausch, Gros parla di effetto Bilbao, citando uno dei casi di scuola della politica culturale degli ultimi vent’anni: una città di medie dimensioni e importanza regionale, dall’immagine appannata per varie ragioni, emerge dall’oblio grazie a un grande gesto culturale. In Spagna fu, nel 1997, il Guggenheim dell’archistar americana Frank Gehry a scuotere l’economia stagnante della città basca. I 132 milioni di euro investiti nel progetto vennero interamente ammortizzati già dal primo anno di entrata in esercizio, perché le spese complessive dei visitatori fecero aumentare i ricavi di Bilbao di 144 milioni di euro. Dieci anni dopo l’apertura, il Guggenheim portava alla città basca circa 210 milioni di euro l’anno. «E a Bilbao dopo la nascita del Guggenheim i congressi sono passati da 90 a 900 in dieci anni — continua il sindaco Gros —. Ecco perché anche noi stiamo costruendo una nuova struttura per le conferenze. L’obiettivo è cercare di trattenere i visitatori il più a lungo possibile, usando l’attrattiva del centro d’ar- Due anni fa ha aperto il nuovo Centre Pompidou: oggi la cultura ha animato e rilanciato l’economia Dall’alto: la città di Metz vista dalla Galleria 3 del Centre Pompidou; una mappa della regione (Metz, capoluogo della regione della Lorena e del dipartimento della Mosella, si trova nel nord-est della Francia, alla confluenza del fiume Mosella con la Seine); l’esterno dell’edificio; uno scorcio della mostra dedicata ai fratelli Bouroullec te». Musei appariscenti nascono nell’Ohio (il nuovo Akron Art della Coop Himmelb(l)au), a Graz (la Kunsthaus di Peter Cook e Colin Fournier), a Milwaukee (l’Art Museum di Santiago Calatrava) o a Mentone (il Cocteau di Ricciotti). La cultura come motore dell’economia è una possibilità studiata in Sudafrica, dove le speranze di risanamento della Johannesburg degradata e in preda all’apartheid di classe vengono riposte su Newtown, il nuovo quartiere culturale dei teatri e delle gallerie d’arte. In Francia l’idea di creare nuovi poli di interesse nasce anche dall’esigenza di decentralizzare la cultura: coerentemente con la storia e la struttura stessa dello Stato, quasi tutto è concentrato a Parigi, e i piccoli musei nel resto della Francia finora non hanno mai potuto affiancare in popolarità le grandi istituzioni culturali della capitale. Ecco come è nata l’iniziativa di esportare prima il marchio «Pompidou», a Metz, e poi quello «Louvre» a Lens, nel depresso dipartimento settentrionale del Pas-de-Calais (aprirà il 4 dicembre 2012). Il Louvre Abu Dabi, che sarà inaugurato l’anno prossimo negli Emirati Arabi Uniti, porta invece alle estreme conseguenze la volontà di valorizzare — in termini di influenza internazionale — il patrimonio culturale francese. Il «Centre Pompidou-Metz» è costato 70 milioni di euro, pagati dalle istituzioni locali e nazionali e dall’Europa (un contributo non decisivo, solo 2 milioni). Come a Bilbao, è essenziale che siano di alto livello non solo le opere esposte, ma l’edificio che le contiene: la gara per la costruzione del museo venne vinta nel 2003 dall’architetto giapponese Shigeru Ban associato al francese Jean de Gastines. Ne è nato un immenso vascello dalla struttura in legno, con un’asta alta esattamente 77 metri (riferimento al 1977, anno di apertura del Centro Pompidou realizzato a Parigi da Renzo Piano e Richard Rogers). Il contenitore entra in concorrenza con il contenuto: per fare parlare di sè bisogna colpire l’attenzione con edifici audaci e degni essi stessi di una visita. Il progetto che ha vinto per il Louvre-Lens, degli archi- i La storia Il Centre Pompidou di Metz è stato inaugurato dal presidente Sarkozy il 12 maggio 2010 (i lavori erano iniziati nel novembre 2006). Laurent Le Bon (nella foto sopra) ne è l’attuale direttore. Il progetto architettonico è firmato da Shigeru Ban e Jean de Gastines. L’edificio ospita opere scelte tra le 65 mila della collezione del Centre Pompidou Le mostre Attualmente sono in corso (tra l’altro) un’esposizione dedicata ai designer bretoni Bouroullec (fino al 30 luglio) e una sull’americano Sol Lewitt, in particolare sui suoi disegni realizzati tra il 1968 e il 2007 (fino al 27 luglio) Info: www.centre pompidou-metz.fr) tetti giapponesi Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa, è più minimalista del Pompidou-Metz ma ha anch’esso l’ambizione di essere un’opera d’arte autonoma. Françoise Benhamou, autrice del testo di riferimento L’économie de la culture (La Découverte), docente all’Università di Paris XIII, tiene a ridimensionare il carico di responsabilità che negli ultimi anni si tende ad addossare a queste opere. «Metz ha in comune con Bilbao la natura di città de-industrializzata che grazie al museo sta riuscendo a costruirsi una nuova identità — dice —. Questo è indubbiamente un dato positivo, ma bisogna essere prudenti. Un edificio culturale può essere uno dei tanti elementi di un dispositivo più complesso. Serve anche altro, le infrastrutture per esempio». Da questo punto di vista il Pompidou-Metz è avvantaggiato: forse l’unica grande istituzione al mondo a trovarsi direttamente all’uscita di una linea di alta velocità ferroviaria, è sfiorato dalle autostrade che tagliano l’Europa da Nord a Sud e da Est a Ovest. «Certo che il Pompidou è utile all’economia di Metz — continua la Benhamou —. Contesto però la tendenza, anche dei politici, di lasciare credere che se un giorno non avremo più petrolio sarà la cultura a salvarci. Il Louvre di Lens ubbidisce alla stessa logica. È un’ottima idea, importante solo se sarà capace di attirare altre strutture». A Metz, città di 120 mila abitanti all’interno di un agglomerato di 400 mila, i benefici si vedono già ma un primo vero bilancio verrà tracciato nell’arco di cinque anni. Nella Francia della de-industrializzazione, delle fabbriche che si trasferiscono all’estero (dalla siderurgia alle automobili), l’ottima partenza del Pompidou-Metz è la tentazione del rifugio nell’economia immateriale. La prossima grande esposizione, intitolata 1917, si aprirà il 26 maggio e presenterà centinaia di opere realizzate esclusivamente in uno degli anni più drammatici del XX secolo. Metz tornerà a guardare alla sua storia, attraverso la fibra di vetro e teflon del suo avveniristico centro d’arte. Twitter @Stef_Montefiori © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 28 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Percorsi Storie, date, reportage, racconti, patrimonio Graphic novel di Paolo Bacilieri ( L’autore Paolo Bacilieri (Verona, 1965), diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, debutta nel fumetto nel 1982, lavorando con Milo Manara. Sono appena usciti in libreria i suoi due ultimi lavori: «Sweet Salgari» (Coconino press - Fandango, pp. 160, e 17,50), biografia a fumetti del grande narratore d’avventura; e «Adiós Muchachos», realizzato a quattro mani con Matz (Rizzoli Lizard, pp. 128, e 17), un «noir tropicale» tratto da un romanzo di Daniel Chavarría. Lucilla e l’arcobaleno DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 29 RRR Un pomeriggio come tanti nel centro di Milano. La protagonista, cinquantenne troppo impegnata e sempre grintosa, si divide tra il lavoro in una casa editrice, lo spuntino al parco e un saluto alla nonna. Poi la sorpresa: un piccolo miracolo primaverile in mezzo al traffico DOMENICA 18 MARZO 2012 30 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Luci a Mezzogiorno Percorsi La data 20.05.1912-20.05.1973 Il pessimo compleanno di Nereo Rocco a Verona di Giovanni Russo { Ritratti di un tempo che fu I racconti di Giovanni Picardo, Pietre del Sud (Stamperia del Valentino) fondono passato e presente: le memorie dell’ultimo brigante e il fuoco intellettuale di Giordano Bruno; i minatori italiani soffocati dallo scoppio in una miniera in West Virginia; i ritratti di Annarella, la generosa prostituta del Vomero, e di «Lupo di strada» o «Cocco», personaggi di paesini solitari. Storie che tengono viva la memoria di una realtà che altrimenti andrebbe perduta. Ricorre a maggio il centenario del grande allenatore del Milan, che lo stesso giorno — 61 anni dopo — perse all’ultima giornata la stella del decimo scudetto. Fu accusato di fare catenaccio, ma schierava tre punte più Rivera e fu il primo italiano a conquistare la Coppa dei Campioni VITA E MIRACOLI DEL PARÒN D’EUROPA di ANTONIO CARIOTI «M e ’mbriago perché no go squadra». Era la primavera del 1973. E l’allarmata confidenza di Nereo Rocco all’amico Gianni Brera, durante una cena annaffiata più del solito dal buon vino, suonava esagerata. Il Milan accusava un calo rispetto a qualche mese prima, ma restava primo in classifica ed era in finale di Coppa delle Coppe. A dispetto di quanto si diceva sul difensivismo di Rocco, i rossoneri si apprestavano a stabilire il record di reti per il campionato a sedici squadre (alla fine sarebbero state 65) e avevano disputato quella che è tuttora la partita con il maggior numero di gol nella storia della Serie A (Milan-Atalanta 9-3, 15 ottobre 1972). Rocco tuttavia si vantava di conoscere i suoi ragazzi meglio dei loro padri: li aveva forgiati o rigenerati (era specialista nel recuperare giocatori ritenuti in disarmo) uno per uno, con i metodi bruschi e paterni che, assieme all’origine triestina, gli avevano procurato il soprannome di Paròn (padrone). Dopo un’annata al vertice, la spia della benzina segnava rosso fuoco. La finale europea di Salonicco, contro i poderosi inglesi del Leeds, fu una battaglia disperata, in mezzo al fango, e anche un mezzo furto: il Milan segnò al terzo minuto con un calcio da fermo di Luciano Chiarugi e si chiuse a riccio per il resto del match, portando a casa il trofeo grazie alle parate di Villiam Vecchi e a un arbitraggio piuttosto generoso. Quattro giorni dopo, sul campo di Verona, fu una catastrofe: la squadra rossonera, esausta, subì cinque gol dai gialloblù e perse lo scudetto — sarebbe stato il decimo, quello della stella — all’ultima giornata, scavalcata dalla Juventus. Era il 20 maggio 1973: per una carognata del destino, il giorno del sessantunesimo compleanno di Rocco. Era nato nel 1912, figlio di un macellaio e suddito dell’impero asburgico. Il nonno si chiamava Ludwig Rock, viennese trapiantato in riva all’Adriatico, poi il cognome era stato cambiato sotto il fascismo. Pochi come lui rappresentano Trieste, che gli ha intitolato lo stadio inaugurato nel 1992 e quest’anno dedica varie iniziative RRR La provincia e la metropoli Con la Triestina inventò il ruolo del libero e nel 1947-48 arrivò secondo in Serie A. Poi vinse tutto a livello internazionale con un Milan che non aveva certo le risorse di Berlusconi al suo centenario: Rocco simboleggia l’anima più popolare e schietta della città, ma anche la sua vocazione internazionale, dato che è stato il primo (e per lungo tempo il solo) allenatore italiano di club a vincere in Europa. Il secondo, prima della rivoluzione di Arrigo Sacchi, è stato il suo fedele allievo Giovanni Trapattoni. Espansivo, corpulento (qualcuno lo paragonava all’omino dei pneumatici Michelin), allo stadio teneva il cappello sempre calcato in testa. Di lui nella memoria collettiva sono rimasti soprattutto gli aneddoti curiosi, l’ironia istintiva, l’umanità travolgente. Dice tutto il nomignolo Paròn, ormai proverbiale per i veneti burberi, ma dal cuore grande: così veniva chiamato ad esempio Giulio Nascimbeni, tifoso rossonero e storico capo della redazione cultura del «Corriere». Il bel libro Nereo Rocco di Gigi Garanzini (Mondadori) è una miniera infinita di testimonianze sugli scherzi, le abbondanti libagioni, le battute salaci (a volte fin troppo) sempre rigorosamente in dialetto triestino. La più celebre resta la risposta a un cronista che, alla vigilia di Padova-Juventus, gli disse: «Vinca il migliore». «Ciò, sperem de no», replicò il Paròn, che allenava i veneti. Ma Rocco non è solo colore, niente affatto. È anzi doveroso sottolineare il suo valore come tecnico, perché realizzò alcuni piccoli miracoli calcistici. Arrivò secondo al debutto da allenatore in Serie A nel 1947-48 con la Triestina, inventando il ruolo del libero; fece del Padova un piccolo protagonista degli anni Cinquanta, terzo in classifica nel 1957-58; vinse con il Milan nel 1963 la prima Coppa dei Campioni mai conquistata da una squadra italiana. Ma il capolavoro fu il ritorno in rossonero nel 1967, dopo una parentesi al Torino. La società di via Turati non aveva allora le enormi risorse poi investite da Silvio Berlusconi e neppure più quelle, notevoli, che in precedenza aveva elargito Andrea Rizzoli. Il presidente era un giovanissimo Franco Carraro, subentrato al padre Luigi morto da poco. E la campagna acquisti fu modesta, addirittura si concluse con un saldo attivo di 500 milioni. Arrivarono due atleti ritenuti bolliti, Saul Malatrasi e Kurt Hamrin, più il portiere Fabio Cudicini, che la Roma aveva ceduto al Brescia. Si aggiunse a torneo iniziato il ventenne Pierino Prati, che vinse la classifica dei cannonieri alla sua prima vera stagione in Serie A, 1967-68, mentre il Milan conquistava scudetto e Coppa delle Coppe. Seguirono i Dal 15 maggio al 31 luglio si tiene a Trieste la mostra multimediale «Nereo Rocco. La leggenda del Paròn», dedicata al grande tecnico, nel centenario della nascita. È un itinerario interattivo, ricco di oggetti personali, testimonianze, appunti, foto e filmati. La rassegna, realizzata dall’associazione Regola d’arte su impulso del Comune di Trieste e della Regione Friuli Venezia Giulia, sarà allestita al Magazzino 26 Porto Vecchio di Trieste. Il percorso è affidato alle cure di Gigi Garanzini, che ha dedicato al Paròn una biografia uscita nel 1999 da Baldini e Castoldi e riproposta in versione aggiornata da Mondadori nel 2009. Per informazioni: www.mostranereorocco.it Nella foto: Rocco con i suoi allievi Rivera e Trapattoni nel 1969 la Coppa dei Campioni e l’Intercontinentale. Tutto (o quasi) merito di Rocco: fu impareggiabile nel motivare i giovani e rilanciare i veterani, dando la priorità alle doti caratteriali. Prima che ai calciatori, guardava agli uomini, Si è molto parlato di «catenaccio» del Paròn, di una filosofia all’insegna del «primo non prenderle». E di certo i giovanottoni del suo Padova (i famosi «manzi») marcavano a uomo, senza complimenti. Anche nel Milan aveva predisposto quella che chiamava «linea Maginot», peraltro ben più solida dell’originale. Tuttavia il Diavolo di Rocco dominò l’Europa schierando sempre tre attaccanti — Hamrin, Prati e Angelo Sormani — anche in casa del leggendario Manchester United. In più c’era il talento cristallino, ma non certo dedito alla copertura, del pupillo prediletto di Rocco: Gianni Rivera. Per lui stravedeva, era disposto persino ad accapigliarsi con Brera. Nella godibilissima conversazione tra i due (ora in parte disponibile su YouTube) filmata da Gianni Minà a casa di Rocco, naturalmente davanti a parecchie bottiglie di quello buono, il Paròn difende Rivera con toni quasi estasiati. In italiano sembra non trovare i termini adatti, che certo gli sarebbero venuti ben più facilmente in triestino. Parla di «fantasia», poi di «arte», alla fine, un po’ esitante, arriva a dire «genio». Fu anche per affetto verso Rivera che Rocco accettò di tornare nel 1977 a prendere in mano un Milan allo sbando per disastri societari ed errori tecnici. Lo salvò dalla retrocessione e per giunta si aggiudicò la Coppa Italia, particolarmente gradita ai tifosi perché vinta in una finale tutta milanese a San Siro contro l’Inter. Poi rimase in rossonero dietro le quinte, ma venne tradito dall’amore per il vino. Una brutta broncopolmonite si sommò agli effetti di un’incipiente cirrosi ed ebbe il sopravvento su di lui il 20 febbraio 1979, tre mesi prima del suo sessantasettesimo compleanno. La sorte, ancora una volta maligna, gli tolse così la soddisfazione di festeggiarlo assieme alla stella del decimo scudetto, quella che gli era sfuggita nel fatale pomeriggio di Verona, conquistata dal Milan il 6 maggio 1979. Nessuno l’aveva meritata più di lui. © RIPRODUZIONE RISERVATA RRR La battuta più famosa Alla vigilia della partita tra Padova e Juventus, un cronista lo salutò dicendo: «Vinca il migliore». E lui, che allenava la squadra veneta, rispose: «Ciò, sperem de no» DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 31 Due parole in croce Percorsi La biografia L’imperatore di Roma che diventò cristiano di Luigi Accattoli { Con Renzo Arbore in Vaticano Giuliano Ferrara vagheggia le dimissioni di Benedetto XVI, opinando che il gesto «sovrano e papocentrico» della rinuncia comporterebbe un «raddoppio» della forza del suo magistero. La materia è ardua, ma Vinse a Ponte Milvio, 17 secoli fa, innalzando (forse) l’insegna del Messia. L’anno dopo, con l’editto di Milano, legittimò il nuovo culto, fino allora perseguitato. Fece uccidere la moglie e un figlio, ignorava la teologia e si battezzò solo in punto di morte, ma è tuttora venerato dalla Chiesa ortodossa Il sovrano a metà strada tra Gesù e Apollo Costantino, santo tiranno di MARCO RIZZI U Gli appuntamenti S’intitola «Costantino il Grande alle radici dell’Europa» il convegno internazionale organizzato a Roma nei giorni 18-21 aprile prossimi dal Pontificio comitato di scienze storiche per il 1700˚anniversario della battaglia di Ponte Milvio. Per l’anniversario dell’editto di tolleranza si terrà a Milano un altro convegno costantiniano dall’8 all’11 maggio 2013. Sempre nel 2013 si svolgerà a giugno una conferenza internazionale su Costantino in Serbia, a Niš (Nissa), città natale dell’imperatore, mentre in marzo è prevista l’uscita dell’opera «Flavius Tiberius Constantinus», un’enciclopedia in tre volumi frutto della collaborazione fra la Treccani e la Fondazione per le scienze religiose di Bologna basta quel «papocentrico» inedito nei secoli a svelarne i rischi: se lavori sull’etimo, ti avvedi che esso ti porta più al Pap'occhio di Renzo Arbore (1980) che al Dominus Papa della tradizione romana. n giorno d’autunno di millesettecento anni fa, un generale stupì i suoi soldati (e ancor più i nemici) guidandoli in combattimento sotto una nuova bandiera, che gli era apparsa in visione e gli avrebbe garantito la vittoria. La nuova insegna riportava il nome di un’altrettanto nuova divinità, Cristo. O almeno questo è quanto verrà accreditato dagli scrittori cristiani, che a partire dagli anni immediatamente successivi intorno alla figura di quel generale, Costantino, e alla sua conversione, costruiranno un vero e proprio mito destinato a durare per secoli e a ispirare artisti del calibro di Piero della Francesca e Raffaello. A partire dal XIX secolo, la storiografia moderna ha iniziato a interrogarsi sulla veridicità dell’episodio e — soprattutto — sulla sincerità del sentimento religioso di colui che è passato alla storia come il fondatore dell’impero cristiano. In particolare, si è mostrato come un panegirico pagano riporti un episodio affine, nel quale ad apparire a Costantino sarebbe stato Apollo, manifestazione di quella divinità solare che aveva assunto un ruolo dominante nel pantheon tardoantico e cui sembrava rivolgere le sue preghiere, sino a quel momento, anche il futuro imperatore. La battaglia di Ponte Milvio, presso Roma, segnò comunque una svolta nell’ascesa al potere di Costantino, allora quarantenne. Era figlio di Elena, donna di umili origini, e di Costanzo Cloro, un brillante generale, associato verso la fine del III secolo al sommo potere da Diocleziano, che aveva appena suddiviso l’impero tra due Augusti e due Cesari. Il complicato sistema istituzionale mirava a controllare meglio un territorio sconfinato e a impedire, grazie al bilanciamento dei poteri, le ricorrenti rivolte degli eserciti e le usurpazioni del trono. Cresciuto alla sua corte, dopo l’abdicazione di Diocleziano Costantino si recò dal padre in Inghilterra e qui, alla morte di Costanzo Cloro nel 306, fu puntualmente acclamato imperatore dalle legioni. L’equilibrio tetrarchico sembrò reggere ancora per qualche tempo, grazie al matrimonio di Costantino con Fausta, figlia di Massimiano, Augusto d’Occidente. Nel 310, Costantino ruppe con il suocero e lo sconfisse a Marsiglia; nel 312 passò in Italia e, dopo la vittoria di Ponte Milvio di cui si è detto, si La battaglia In alto: «La battaglia di Ponte Milvio», affresco di Giulio Romano. A fianco: la statua di Costantino sulla facciata della cattedrale di Notre Dame, a Parigi Il Concilio Qui sotto: a sinistra, un’icona che raffigura il Concilio di Nicea (il sovrano è al centro); a destra: l’affresco «Il battesimo di Costantino» in Vaticano incontrò a Milano con Licinio, che aveva assunto il controllo dell’Oriente. I due, rimasti i soli detentori del potere, dichiararono la libertà per ogni culto, incluso quello cristiano, con il cosiddetto editto di Milano del 313. Anche in questo caso, l’equilibrio non durò a lungo e, dopo un decennio di conflitti, Licinio fu costretto ad abdicare nel 324. Una volta consolidato il suo potere con i metodi alquanto spicci dell’epoca (fece uccidere Licinio, Fausta e il proprio figlio primogenito Crispo, nato da un’altra relazione), il rude soldato si rivelò un notevole riformatore: Costantino accentrò la burocrazia civile e la distinse da quella militare, assegnò funzioni precise al consiglio di gabinetto, ristrutturò l’esercito, privilegiando una strategia di movimento rispetto allo stanziamento di truppe ai confini dell’impero, riformò la moneta per contenerne la svalutazione e cercò di vincolare ai loro obblighi economici e civili tanto i contadini e gli artigiani, quanto i maggiorenti delle città, che tendevano a sottrarsi ai gravosi e dispendiosi incarichi amministrativi. In questo quadro si colloca la svolta nel rapporto tra l’impero e il cristianesimo; già in precedenza, esso aveva goduto di lunghi periodi di tranquillità, se non di grande vicinanza al potere, come con Alessandro Severo all’inizio del II secolo o con Filippo l’Arabo, verso la metà. In questo modo, i cristiani avevano potuto consolidare la propria presenza nella società antica, sviluppando una fitta rete organizzativa e di reciproca assistenza, accompagnata da una notevole attività intellettuale che sfidava, e al tempo stesso affascinava, le élite tradizionali. I cristiani erano giunti a costituire all’incirca un decimo della popolazione, concentrandosi nelle città e stabilendo solidi contatti tra le Chiese delle diverse regioni dell’impero. Soprattutto, avevano costruito un peculiare assetto istituzionale, incentrato sulla figura del vescovo, scelto dall’assemblea dei fedeli o da una cerchia più ristretta di anziani, i presbiteri, secondo il modello delle sinagoghe ebraiche. Il vescovo cristiano, però, assommava in sé non solo funzioni di tipo religioso-sacerdotale, bensì anche di gestione e di controllo delle risorse della comunità, su cui esercitava un controllo di tipo disciplinare. RRR Strategia politica Più che la Chiesa in quanto tale, il monarca appoggiò la vasta rete dei vescovi, allo scopo di allargare il consenso e radicarlo in profondità nei gangli vitali dell’impero, le città Nel progressivo venir meno del senso civico delle tradizionali élite locali, l’emergere della nuova figura del vescovo quale leader legato alla comunità, dotato di risorse economiche e simboliche, dovette costituire agli occhi di Costantino una straordinaria opportunità per accompagnare al disegno di riforma e accentramento del potere politico-militare un movimento di segno opposto, che potesse radicare il suo nome e la sua azione nei gangli vitali dell’impero, le città. Ricevendo sontuosamente i vescovi provenienti da tutte le province per il Concilio di Nicea del 325, Costantino non esitò a chiamarli «amici», un termine chiave del lessico politico antico, e li accolse come suoi pari a banchetto nel palazzo, proclamandosi enigmaticamente «vescovo di quelli che sono fuori». Da qui deriva il sistematico appoggio non astrattamente alla Chiesa, bensì assai concretamente ai suoi vescovi, per mezzo di dotazioni economiche, concessione di privilegi, assegnazione di funzioni pubbliche quali la possibilità di emettere sentenze con valore civile in varie materie, sottraendole ai magistrati ordinari, spesso corrotti. Soprattutto, Costantino promosse una campagna di edificazione di chiese, che ebbe il suo culmine nella costruzione del complesso basilicale del Santo Sepolcro, a Gerusalemme, dove si era recata in pellegrinaggio la madre Elena che, secondo la leggenda, avrebbe ritrovato sul Golgota il legno e i chiodi della croce di Cristo. In cambio di tutto ciò, Costantino avrebbe voluto che i vescovi conservassero tra loro la massima concordia, al di là dei conflitti dottrinali che endemicamente percorrevano la Chiesa; un desiderio, però, destinato a restare frustrato. L’impresa che ne riassume la grandezza e le contraddizioni è l’edificazione della città che porta il suo nome, Costantinopoli: pensata per soppiantare l’antica, la «nuova Roma» fu consacrata nel 330, sette anni prima della sua morte, con un curioso sincretismo di cerimonie tradizionali e di riti cristiani. Del resto, Costantino non aveva mai del tutto rinunciato a titoli e funzioni proprie del passato pagano; e prudentemente si fece battezzare solo sul letto di morte, probabilmente senza capire appieno a quale partito teologico appartenesse il vescovo che gli impartiva il sacramento (in ogni caso, non era in linea con la posizione ortodossa, che si sarebbe definitivamente affermata solo nei decenni successivi). Fu sepolto accanto a dodici tombe vuote che rappresentavano quelle degli apostoli, e ancora oggi la Chiesa ortodossa lo venera come santo. © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 32 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Percorsi Antitesi Un decalogo per spiegare perché il club pseudo esclusivo dei fanatici della «Recherche» cresca ad ogni generazione Ovvero, un percorso a tappe tra leggende, trabocchetti, paradossi e sberleffi al principio di non contraddizione per di ALESSANDRO PIPERNO P Tutti pazzi Proust erché in tempi di romanzetti smilzi — lessico corrivo, sintassi elementare, contenuti demenziali — Marcel Proust, ovvero il più prolisso scrittore di ogni tempo, continua a spopolare? Perché la pachidermica Recherche pare godere di miglior salute di altri sfavillanti capolavori modernisti (Ulisse, L’uomo senza qualità, I sonnambuli...)? Questo articolo è un maldestro tentativo di rispondere a tali difficili quesiti. Vorrei togliermi subito dai piedi le risposte ciniche. È evidente che non tutti gli acquirenti della Recherche riescono a superare le colonne d’Ercole del primo centinaio di pagine. Così come è ovvio che in circolazione ci saranno un sacco di millantatori pronti a giurare di averla letta e riletta una dozzina di volte. A proposito di risposte ciniche, la più spassosa me l’ha data giorni fa Raffaele Manica. Da me interrogato sulla questione, mi ha detto: «Forse, in tempi di crisi, quei volumoni ti illudono di aver fatto un ottimo investimento immobiliare». Ma i lettori che qui mi interessano sono di altra stoffa: quelli che, entrati a fatica nel Paese delle Meraviglie della Recherche, scoprono di non potersi più liberare dall’incantesimo. Quelli che trovano insipida qualsiasi altra lettura. I tarantolati della Recherche. I massoni della Madeleine in bocca! Il seguente decalogo dovrebbe spiegare per sommi capi perché gli adepti di questo club pseudo-esclusivo crescano generazione dopo generazione: 1) Vita-arte-mito La cosa buffa è che Proust ce l’ha messa tutta a mettere in chiaro che tra la sua vita e le avventure vissute dal suo eroe non esisteva alcuna relazione. Improvvisamente, ultratrentenne, dopo averle tentate tutte, Proust si deve essere reso conto che il solo argomento di cui poteva scrivere era quello per cui provava maggiore vergogna: la sua vita. Alla fine si arrese, non senza aver diffidato qualsiasi lettore dal leggere la Recherche come un’autobiografia, e non senza aver insultato preventivamente i ficcanaso in procinto di violare la sua privacy. Ebbene, a costo di incappare nella sua ira postuma, trovo che dire che la Recherche sia l’autobiografia di Marcel Proust non sia meno idiota di af- i Siamo passati dalla crescita alla decrescita, si sa, ma l’«Economist» ha trovato un modo originale per dirlo: nell’ultimo numero usa Proust. Con tanto di grafici, fa il calcolo del «tempo perduto» (di proustiana memoria appunto) nazione per nazione, valutandone i passi del gambero rispetto a prima della crisi. Del resto, tirare in ballo Proust non è mai passato di moda, si pensi al questionario detto di Proust, perché pare fosse in auge nei salotti di fine Ottocento frequentati dallo scrittore. La leggenda vuole che Antoniette Faure, amica di Proust, gli abbia posto una serie di domande sul suo carattere e la sua personalità. E Proust rispose fermare (come facevano Barthes, Nabokov e tanti altri) che l’autobiografia proustiana non contribuisca in modo determinante alla fruizione estetica della Recherche. Sfido qualsiasi lettore a provare a immaginare il Narratore senza baffi e con un’abbronzatura da velista. Ma su, la verità è che nessuno più di Proust ha saputo giocare, più o meno intenzionalmente, con il proprio mito. La forza della Recherche sta proprio nella promiscuità tra vita, mito e invenzione artistica. La leggenda — tanto suggestiva per i suoi contemporanei quanto lo è per noi — del dilettante mondano che, dopo una giovinezza debosciata, si chiude in casa per portare a termine un’opera capitale, a costo del sacrificio della propria vita, è, per l’appunto, una leggenda. Ovvero una pacchiana trasfigurazione della verità. Ma è indubbio che tale leggenda continui a lavorare per la longevità della Recherche. La gente ama i martiri. Ancora oggi i lettori adorano chi si sacrifica per la propria opera. Ebbene, nessuno ha dato l’impressione di averlo fatto più e meglio di Marcel Proust. 2) Happy end Questo ci introduce naturalmente al secondo punto. Sebbene la Recherche sia un libro spaventosamente nichilista, sebbene la visione del mondo proustiana abbia più di un punto in comune con quella leopardiana (uno scetticismo apocalittico che liquida la vita — non tanto come un’esperienza demoralizzante — ma come un’avventura insensata, macabra e beffarda), resta nel lettore la sensazione che questo libro terribile finisca bene. Il Narratore ritrova il Tempo, scopre di essere artista, si mette a scrivere, riscatta la sua vita e vissero tutti felici e contenti... Già nel 1931 il giovane Samuel Beckett fustigava i lettori proustiani che si bevevano la favola secondo cui alla fine dell’opera il Narratore ritrova il Tempo perduto. Il Tempo non può essere ritrovato, ci ammonisce Beckett, tutt’al più può essere cancellato per qualche istante; e Proust, aggiungerei io, era il primo a saperlo. Non a caso lo spettacolo che ci offre nel «ballo in maschera» nelle ultime pagine del Tempo ritrovato, non ha niente di confortante. Anzi, la furia con cui il Tempo si abbatte sui luoghi e sui personaggi proustiani ha una brutalità dantesca. Ciò non di meno il lettore esce dalla Recherche con la tonificante impressione che per una volta il Bene abbia trionfato. 3) Felicità e delusione E tuttavia, a costo di smentire ciò che ho appena scritto, la Recherche non è un’opera cupa. Ci sono grandi scrittori — Flaubert, Dostoevskij, Céline, Kafka — per lo più incapaci, per temperamento o per ideologia, di raccontare la felicità. Ottusamente convinti che essa non trovi albergo nella nostra vita. Proust appartiene alla famiglia opposta. Lui sa cos’è la felicità, non meno di quanto lo sapessero Stendhal, Tolstoj e Fitzgerald. E proprio perché la conosce, sa bene quanto essa sia pericolosa per chi le dà credito. D’altro canto solo chi sa cosa significa aspirare alla felicità può raccontare il senso di scacco che essa ti lascia dentro quando tradisce le tue aspettative. Solo chi ha scommesso sulla felicità può raccontare la delusione come Proust l’ha raccontata. Converrete con me che ogni grande romanzo potrebbe intitolarsi, a seconda, Grandi speranze o Illusioni perdute. Ecco, la Recherche potrebbe intitolarsi tranquillamente: Le illusioni perdute di chi ha coltivato grandi speranze. 4) Incantesimo stilistico e traducibilità Al liceo (il famoso Condorcet) il giovane Marcel non prendeva buoni voti negli elaborati di francese. In un ambiente culturale forgiato dal rigore cartesiano la prolissità del ragazzo, la sua passione per l’ipotassi, la vocazione a divagare, non dovevano essere ben viste. Quasi un secolo dopo ci sono ancora un sacco di lettori — il nutrito esercito dei fan della «scorrevolezza» — che trovano lo stile della Recherche indigeribile. Che lo vivono come un ostacolo. Che lo trovano tedioso in un modo sconcertante. La verità è che lo stile di Proust (così inconfondibile e, per altro, così facile da imitare) non è un ostacolo al successo della Recherche, ma semmai uno dei suoi segreti. La prosa proustiana non è poi così raffinata come si dice. Flaubert e d’Annunzio erano decisamente più attenti di Proust alle sfumature della frase e alla precisione lessicale. Nelle prime tre righe della Recherche, Proust ripete ben tre volte la parola «tempo». Oggigiorno qualsiasi redattore di casa editrice glielo segnerebbe come errore. Il vocabolario DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 33 che questa estenuante dilatazione nasconde un risvolto positivo. In tal modo Proust rende ancor più spesso e drammatico il diaframma che divide il Tempo perduto dal Tempo ritrovato, regalando al lettore un’emozione del tutto inedita. Quando, infatti, arrivi alle ultime pagine, sfiancato e commosso, hai davvero l’impressione di aver partecipato a un’esperienza lunga e difficile come la vita umana. Quando finisci la Recherche ti senti più vecchio di dieci anni. E quando ti capita di ripensarci sei triste come di fronte alla tomba di un amico. 8) Iniziazione A proposito, visto che per finire la Recherche ci vogliono circa quattro mesi (questo è un mio calcolo che lascia il tempo che trova), è evidente che un simile tempo di lettura comporti uno sforzo di intelligenza e di immaginazione fuori dal comune. Questo colma il cuore del lettore della tipica fierezza dell’iniziato. Lui non sta leggendo un libro, lui sta prendendo i voti. Qualcosa di analogo avviene ai wagneriani incalliti. E bisognerà pure comprenderli. Per qualsiasi individuo sensibile non deve essere facile, dopo quattro ore e mezzo di Parsifal, concepire l’idea di poter ascoltare qualsiasi altra musica. Almeno per un po’. 9) Il cuore umano proustiano è ripetitivo e non sempre appropriato alle circostanze. Lui non gioca con la lingua come Joyce o Gadda. E questo lo pone nella schiera fortunata degli scrittori traducibili in moltissime lingue. E di certo tale traducibilità giova alla sua fortuna internazionale. Il «tono Proust» (così lo chiamava Giacomo Debenedetti) è totalmente affidato alla sintassi. È l’intrico sintattico a conferire all’incedere proustiano quel tono suadente, melanconico e solenne. Esso funziona come un sortilegio. Ti avvolge pian piano, ti carezza, ti ipnotizza. Al principio resisti, ma quando ci entri dentro ti vizia fatalmente, come certi alimenti che scatenato dipendenza. Il che offre un vantaggio straordinario al lettore seriale. Egli può afferrare dalla libreria un volume qualsiasi della Recherche, aprirlo a caso e cominciare a leggere. Basteranno pochi istanti per ritrovarsi ancora una volta immerso in un mondo fiabesco. Non mi stupirei se qualche amante della statistica rivelasse un giorno che la Recherche è il romanzo più «riletto» del mondo. Illustrazione di ANTONELLO SILVERINI 6) Soap opera Così come sapeva bene che, per accalappiarlo, occorreva regalare al lettore un po’ di sana inverosimiglianza romanzesca. E non si tirò certo indietro. La Recherche è piena di furbe incongruenze. Per non dire delle coincidenze e dei colpi di scena che non perdoneremmo a una soap opera. Guarda caso il Narratore è sempre al posto giusto al momento giusto. Pronto a spiare da una finestra i giochetti omoerotici della figlia di Venteuil e quelli sadomaso del Barone di Charlus. D’altro canto è improbabile (anche se così beffardamente toccante) che alla fine del libro sia proprio Madame Verdurin a diventare Principessa di Guermantes. E potrei continuare all’infinito... 5) Misteri enigmistici Proust doveva essere terrorizzato dall’idea che il suo libro diventasse un classico. Cioè una di quelle opere ingessate e noiose, ormai affidate alle cure degli accademici. Per uno come lui che temeva così tanto il potere annichilente del Tempo, e che aveva vanagloriosamente scommesso sulla propria perpetuità, l’idea che un giorno la sua grande opera potesse giacere su qualche polveroso scaffale dimenticato doveva essere una specie di incubo. Che non sia stato questo a spingerlo a concepire un’opera così aperta, piena di trabocchetti, inganni, sentieri misteriosi e passaggi segreti. Anni fa due grandi studiosi italiani — Alberto Beretta Anguissola e Daria Galateria — hanno provato, con un lavoro monumentale, a illuminare tutti gli ango- li oscuri nella Recherche. Un’impresa ultradecennale i cui frutti oggi corredano meravigliosamente l’edizione dei Meridiani Mondadori. Basta mettere il naso in quel mostruoso apparato di note per capire quale bottino infinito sia la Recherche. D’altronde finché offrirà ancora qualcosa da scoprire, la Recherche resterà giovane come una fanciulla. Questo Proust lo sapeva bene. Ma al di là delle innumerevoli considerazioni, più o meno sensate, più o meno sentenziose, con cui ho ingolfato questo articolo, resta il fatto che la cosa più grande che Proust abbia saputo fare per i suoi lettori è realizzare compiutamente il grande sogno baudelairiano: denudare il cuore umano fino allo strazio. L’asprezza, la ferocia, il cinismo, ma anche la comprensione con cui lui ha saputo esplorare quel sobbalzante tremebondo muscoletto, non ha uguali. Amore, invidia, gelosia, risentimento, snobismo... Non c’è sentimento intimo né comportamento sociale su cui Proust non abbia detto la parola definitiva. E forse questo spiega anche perché dopo di lui la narrativa francese sia implosa sempre più, fino a diventare così internazionalmente irrilevante. 7) Il tempo romanzesco L’autore Alessandro Piperno, firma del «Corriere della Sera», è in libreria con Inseparabili. Romanzo che con Persecuzione compone il dittico Il fuoco amico dei ricordi. Volumi editi da Mondadori. Nabokov, nelle sue lezioni di letteratura russa, sostiene una cosa davvero interessante sui romanzi di Tolstoj. Il tempo in Anna Karenina, spiega Nabokov, scorre alla stessa velocità del tempo della nostra vita. Questo, secondo Nabokov, contribuisce a donare alla narrativa tolstoiana quel senso di stupefacente naturalezza che tutti conosciamo. Nella Recherche le cose funzionano in modo tutt’affatto diverso. Il tempo in Proust è decisamente rallentato. Una festa può durare anche trecento pagine, un’emozione espandersi all’infinito. Il che, ne convengo, può provare i nervi anche del lettore più benintenzionato. E tuttavia an- 10) Il più grande romanzo francese di sempre La letteratura francese, appunto: c’è qualcosa che la distingue da tutte le altre. Il fatto di non avere un grande iniziatore, una sorta di padre fondatore. Gli inglesi hanno Shakespeare. Noi abbiamo Dante. Gli spagnoli Cervantes. Gli americani Melville. E i francesi? Com’è possibile che la Francia, il paese della letteratura, il paese che celebra i suoi scrittori come condottieri, il paese delle querelles e delle accademie, sia sprovvisto di questo genio-faro, questo immaginifico capostipite, che inventa una lingua e raccoglie in sé l’essenza dell’intera tradizione che da lui trarrà ispirazione? È una cosa su cui gli storici della letteratura si sono sempre interrogati. La mia modestissima impressione è che i francesi quello scrittore ce l’abbiano e come. Solamente che lui non ha avuto l’onore di aprire una tradizione, ma il torto scellerato di chiuderla. Proust è quello scrittore. Nessuno potrà negare che nella Recherche convivano splendidamente le anime di Montaigne, di Saint-Simon, dei moralisti classici, di Diderot, di Flaubert, di Balzac, di Baudelaire e di tanti altri ancora. Ed è toccante per me pensare a quanto sarebbe stata fiera sua madre, la serafica Madame Proust, di quel figlioletto su cui nessuno avrebbe scommesso un franco. © RIPRODUZIONE RISERVATA DOMENICA 18 MARZO 2012 34 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA Fondazione Corriere della Sera Percorsi Controcopertina 02 87387707 [email protected] { Cacciari e il «Simposio» Lunedì 19 marzo, Piccolo Teatro Grassi, ore 20.30 (via Rovello 2), per il ciclo «Convivio. A tavola tra cibo e sapere», Massimo Cacciari parlerà del «Simposio». Ingresso libero previa prenotazione. Il cantore di New York al ristorante Un viaggio alla scoperta delle ultime leve del bicchiere: passioni, pregiudizi e ossessioni che hanno cambiato il ruolo dell’assaggiatore I capitani del vino La fortuna dei nuovi sommelier americani: firmano calici e libri, influenzano gusti e tv di JAY McINERNEY U na trentina d’anni fa, un avvocato di Baltimora, che pubblicava un opuscolo di informazione sul vino dalla sua casa di periferia in Maryland, divenne il personaggio più temuto e potente dell’universo enologico. Ispirandosi a Ralph Nader, lo storico difensore dei consumatori americani, Robert Parker intendeva rendere accessibile al pubblico il mondo fino ad allora misterioso e inesplorato del vino francese. Il suo sistema di valutazione, basato su cento punti, sembrò svelare gli arcani dell’enologia ai comuni mortali, e le sue particolari preferenze per i rossi audaci e corposi un po’ alla volta finirono col condizionare i metodi di vinificazione in giro per il mondo. (Il palato di Robert Parker conosce molte più sfumature di quanto non siano disposti ad ammettere i suoi detrattori, ma questa è un’altra storia). Il «Wine Spectator», concorrente di Parker, contribuì anch’esso a diffondere una visione molto simile dell’universo enologico: grandi vini, punteggio elevato. Ma tutte le grandi rivoluzioni contengono già i semi della reazione, e sebbene non sia ancora emerso un personaggio capace di sfidare la supremazia di Robert Parker, l’ascesa del sommelier nell’ultimo decennio rappresenta un contrappeso assai rilevante alla sua influenza. I sommelier sono diventati le nuove celebrità della ristorazione, e nel loro insieme stanno influenzando il modo di pensare e di consumare il vino. Chi avrebbe mai previsto questo stato di cose nei lontani anni Settanta, quando la parola «sommelier» evocava un figuro arcigno, in giacca nera e con un forte accento francese, una catena al collo con appeso un posacenere d’argento, la cui unica ragione di esistere sembrava quella di farvi pagare una bottiglia di vino francese a peso d’oro, e allo stesso tempo facendovi sentire un perfetto idiota? Negli anni Ottanta, quando gli americani hanno cominciato a prestare maggiore attenzione ai vini, alcuni pionieri si sono dedicati a educare i gusti del pubblico. A New York, Kevin Zraly, del «Windows on the World», il ristorante sulla Torre Nord delle Torri Gemelle, e Daniel Johnnes, del «Montrachet», nello svolgimento della loro funzione hanno saputo portare egregiamente il vino alla ribalta, mentre uno studente fuori corso, di nome Larry Stone, che lavorava come sommelier a Seattle, ha addirittura sconfitto i francesi nella loro stessa specialità, vincendo a Parigi il premio di miglior sommelier di vini francesi. Da allora Zraly è diventato un educatore e autore molto influente, grazie ai corsi sui vini che tiene presso il ristorante. Johnnes, spesso chiamato il decano dei sommelier americani, ha allargato il suo campo d’azione come importatore di vini, gestisce la cantina del gruppo di ristoranti di Daniel Boulud, e ha fondato inoltre «La Paulée de New York», un festival di grande successo, equivalente a una celebrazione baccanale dei vini di Borgogna, che si è svolta l’ultima settimana di febbraio a San Francisco. Se è difficile tutta- via incontrarla tra i tavoli di un ristorante, questa prima generazione di sommelier americani ha saputo ispirare legioni di giovani seguaci. Oggi i sommelier si trovano dappertutto, come le celebrità dei reality show, troppo giovani per ricordarsi che cosa stavano facendo quando Kennedy è stato assassinato, ma entusiasti nel proporvi un Pinot Noir della Tasmania, a produzione limitata e a prezzo abbordabile. La nuova generazione di sommelier sa parlare di aromi floreali e di sottofondo minerale se necessario, ma potrebbe anche accennare a qualche espressione meno forbita — «roba da sbornia» — quando si lascia trascinare dall’entusiasmo. Carla Rzeszewski, del «Breslin Bar & Di- RRR Tutto iniziò trent’anni fa, quando un avvocato di Baltimora divenne il personaggio più temuto del mondo enologico ning Room» a New York, sarebbe capace di demolire da sola tutti i pregiudizi residui sull’arroganza dei sommelier. Il colore dei suoi capelli cambia con l’umore, dal blu al biondo al viola, e gli stivali da motociclista hanno sostituito le ballerine. Carla è approdata nella Grande Mela per diventare attrice, ma dopo la laurea all’università di New York si è ritrovata a fare la barista al «Blue Water Grill». Con l’avvicinarsi del trentesimo compleanno, ha cominciato a sospettare che le sue ambizioni teatrali non l’avrebbero portata lontano. Passando in rassegna le sue passioni, ha capito che le piaceva viaggiare, mangiare e bere e ha deciso così di concentrarsi sul vino. Ha manifestato il suo interesse a Laura Maniec, direttrice del settore bevande per i ristoranti del gruppo «BR Guest», proprietari del «Blue Water Grill». «È stata lei a indirizzarmi verso i corsi da seguire», dice Carla. «Per un anno e mezzo sono rimasta a casa, a studiare. Poi ho cominciato a frequentare le degustazioni». Successivamente ha lavorato a «Hearth», sotto la guida di Paul Grieco, il canadese col pizzetto, diventato celebre nella comunità dei sommelier per i saggi eruditi e originali che ama disseminare nella carta dei vini e per la passione per il Riesling, che rasenta il fanatismo. Grieco l’ha aiutata ad affinare il DOMENICA 18 MARZO 2012 CORRIERE DELLA SERA LA LETTURA 35 Le età digitali Esperimenti controllati Martedì 20 marzo, Sala Buzzati (v. Balzan 3), ore 18, «Le nuove età della vita - Le età digitali», con Paolo Ferri, Massimo Marchiori, Beppe Severgnini. Coordina Serena Danna. Ingresso libero previa prenotazione. Venerdì 23, Sala Buzzati, dalle 10 alle 18: «Esperimenti controllati nei settori educazione, lavoro e servizi sociali. Metodo pragmatico per disegnare politiche pubbliche più efficaci». Info www.fondazionecariplo.it Un’immagine di Irving Penn: «Uomo che accende la sigaretta a una ragazza» (New York, 1949) RRR Una copertina un artista La fiaba di Innocenti nostra tavola ogni giorno (con l’eccezione inevitabile della bistecca). «Il sommelier potrebbe privilegiare le doti di equilibrio e freschezza di un vino, anziché la forza e la concentrazione, perché il nostro compito principale è quello di lavorare in sintonia con lo chef e la cucina», nelle parole di Aldo Sohm, capo sommelier di «Le Bernardin», che si è aggiudicato il premio di miglior sommelier nella competizione mondiale nel 2008 e ha lanciato la sua collezione di calici da vino, oltre a firmare un cavatappi Laguiole. I sommelier sono quasi tutti grandi appassionati di acidità, preferendo i vini ad elevato tenore di acidità perché questa esalta e fa da complemento al gusto della quasi totalità delle pietanze — è la ragione per cui spremiamo la nostra fettina di limone sulla sogliola o su un piatto di asparagi. È questo uno dei motivi per cui i sommelier adorano il Riesling, e anche il Pinot Noir, purché non sia troppo maturo e stanco. Robert Parker talvolta ricorre al termine «bassa acidità» in senso positivo, ma nel pianeta dei sommelier l’acidità regna sovrana. «L’acidità è la scintilla elettrica che accende il vino», sostiene Rajat Parr, sommelier di origine indiana del «Michael Mina» di San Francisco, che come secondo lavoro fa il viticoltore a Santa Barbara, in California. Coautore dei Secrets of the Sommeliers, Parr è un ardente sostenitore di certi principi che condivide con gran parte dei suoi colleghi. Il suo ideale è l’«equilibrio», adora i grandi vini di Borgogna (il cosiddetto «paradiso dei geek») e le regioni a clima fresco, mentre condanna i vini super maturi e ad alto tasso alcolico. «Abbiamo bisogno della critica», dice Rajat, benché il suo palato sia molto diverso da quello degli arbitri del gusto che hanno dominato la scena enologica negli ultimi vent’anni. Nel pianeta dei sommelier, l’equilibrio la spunta sulla forza, un grande vino non è necessariamente un complimento e il Bordeaux è più ammirato che amato. palato e le ha regalato persino uno dei suoi famosi tatuaggi adesivi del Riesling. Nel 2009, dopo un periodo trascorso al bar del «Breslin», il nuovo ristorante di April Bloomfield, Ken Friedman — co-proprietario del locale — l’ha presa in disparte per chiederle: «Ti piacerebbe occuparti della lista dei vini?». «Era l’occasione che avevo aspettato tanto — confessa Carla — ma ero terrorizzata». Due anni e mezzo dopo, si è fatta un nome come sommelier e ha messo insieme una carta dei vini altamente originale e avventurosa, che ben si sposa ai potenti aromi della cucina della signora Bloomfield. «In questo momento — racconta Carla — sono innamorata dei vini di Corsica e Liguria, ma anche dello sherry». Se non tutti i sommelier hanno lo stesso palato, la giovane generazione mostra peraltro di condividere alcuni principi di base sul vino. Primo tra tutti, oggi i sommelier vedono il vino in rapporto al cibo, perché questa è l’area più rilevante del loro lavoro. A differenza del critico, che di solito degusta i vini senza mangiare, o al massimo sgranocchiando un paio di cracker, i sommelier non giudicano il vino come entità isolata. Grandi vini corposi, maturi e potenti che sembrano quasi un pasto a sé non si abbinano necessariamente con le pietanze che arrivano sulla Carriera luminosa La lunga marcia dello scrittore innamorato della classe dirigente T rent’anni dopo Le mille luci di New York Jay McInerney è arrivato a quella che pare la destinazione finale di una lunga marcia verso un salotto buono: se non delle lettere americane, almeno dell’alta società. In una parabola che sarebbe piaciuta al suo omonimo Jay (Gatsby) protagonista del suo libro-feticcio, McInerney dopo le prime tre mogli (la modella e la studentessa delle «Mille luci», e la ricca signora del Tennessee che gli ha dato due figli e ispirato L’ultimo dei Savage) è ora sposato con Anne Randolph Hearst nipote del magnate di Quarto Potere. Vive tra Manhattan e gli Hamptons, scrive di vini pregiati, appare come imborghesita caricatura in Lunar Park dell’amico Ellis, indirizza bon mots verso Twitter. Conservando un salutare (seppur poco premiante con i critici Usa) interesse verso la classe dirigente: della quale dopo la scomparsa di Louis Auchincloss due anni fa nessuno scrittore americano a parte Tom Wolfe sembra voler interessarsi. Matteo Persivale © RIPRODUZIONE RISERVATA I nuovi sommelier prediligono anche i vini nuovi o sconosciuti, talvolta in maniera persino esagerata. «I sommelier sono pieni di pregiudizi — si lamenta Jordan Lari, il trentaduenne sommelier del "Lambs Club" di Geoffrey Zakarian — talvolta fondati, talvolta campati per aria», e cita come esempio di questi ultimi la preferenza accordata automaticamente ai vini del Vecchio Continente. I sommelier inoltre hanno un debole per i vini del Jura e per i varietali più oscuri e ricercati. «Se scommetti tutto soltanto sui vini sconosciuti, sei fuori strada», commenta Parr, riconoscendo questa tendenza. «La nostra parola d’ordine è innanzitutto ospitalità e servizio, ma è anche importante che il cliente abbia una qualche familiarità con alcune delle voci elencate nella carta dei vini». A tutt’oggi, al ristorante, non ho visto ancora nessuno chiedere l’autografo al sommelier, ma penso che accadrà presto. Aldo Sohm ha già firmato il suo cavatappi e sono quasi sicuro di aver avvistato una maglietta di Daniel Johnnes l’ultima volta che sono capitato in Borgogna. Indubbiamente l’influenza dei sommelier si rafforzerà di pari passo con la crescita della professione e con il contributo che sempre più spesso essi offrono alla produzione vinicola, alla critica e all’insegnamento. Nel frattempo, non sorprendetevi se un documentario intitolato Somm, che segue diversi candidati mentre si preparano all’esame per accedere alla Corte dei maestri sommelier, comparirà presto sui vostri schermi. (Traduzione di Rita Baldassarre) © RIPRODUZIONE RISERVATA In coincidenza con la Fiera del libro per ragazzi di Bologna, abbiamo chiesto di realizzare la nostra copertina a uno dei maestri dell’illustrazione per l’infanzia. Roberto Innocenti (Bagno a Ripoli, 1940) è un vero caposcuola: al suo attivo ha un’infinità di premi e numerosi libri, molti dei quali pubblicati all’estero, tanto da renderlo uno degli autori più affermati sugli scenari internazionali. Da Cenerentola a Pinocchio, da Canto di Natale a Schiaccianoci, Innocenti interpreta con i suoi raffinatissimi acquerelli le favole della memoria restituendo un’atmosfera poetica di rarefatta eleganza. Il suo è un segno dettagliatissimo, quasi maniacale nell’esplorare un universo magico nel quale crea, anche grazie a colori delicati e a una potente densità di figure, una visione realistica e al tempo stesso quasi metafisica. Nei suoi disegni, che sono dei veri racconti nel racconto, ci si immerge come di fronte a un’opera di Bruegel. Nella copertina de «la Lettura», Innocenti ci parla della violenza della modernità che distrugge la natura e con essa il sogno e la fiaba. E allora, ai nostri amici Cappuccetto rosso, sette nani, Hansel e Gretel, lupo cattivo compreso, non resta che andarsene, con un malinconico: «Molto meglio emigrare». (gianluigi colin) Supplemento della testata Corriere della Sera del 18 marzo 2012 - Anno 2 - N. 11 ( #18 ) Direttore responsabile Condirettore Vicedirettori Supplemento a cura della Redazione cultura Art director Ferruccio de Bortoli Luciano Fontana Antonio Macaluso Daniele Manca Giangiacomo Schiavi Barbara Stefanelli Antonio Troiano Pierenrico Ratto Paolo Beltramin Stefano Bucci Antonio Carioti Serena Danna Dario Fertilio Cinzia Fiori Luca Mastrantonio Pierluigi Panza Cristina Taglietti Gianluigi Colin 5 2012 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Quotidiani Sede legale: via A. Rizzoli, 8 - Milano Registrazione Tribunale di Milano n. 505 del 13 ottobre 2011 REDAZIONE e TIPOGRAFIA: Via Solferino, 28 - 20121 Milano - Tel. 02-62821 RCS MediaGroup S.p.A. Divisione Pubblicità Via A. 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