1 2 nerofumo L’ALBERO DELLA CASA DI VACANZA 3 4 5 6 PROLOGO Sempre in bilico tra sogno e realtà perché la conoscenza è intuizione e ragionamento, spirito e materia. Il percorso di Franco Bonzi è lungo, faticoso, una salita disseminata di pietre aguzze e dolorose, senza una meta precisa con qualche oasi provvisoria dove riprendere fiato, ma lui, cinquantenne, lo affronta con l’emozione dei vent’anni e non si preoccupa di percorrerlo a piedi scalzi, consapevole com’è che il Sapere è privo di certezze perché il Sapere non ammette certezze. Ha la strafottenza dell’umile, di chi sa di non essere arrivato alla vetta, di chi sa che probabilmente non ci arriverà mai, tuttavia rifiuta di precipitare nel baratro, animato dalla volontà ferrea di raggiungere l’obiettivo anche se l’obiettivo non esiste, o meglio non gli è accessibile. Franco Bonzi è uscito dalla tana, dal consolante tran tran quotidiano: come la prima scimmia che ha impugnato la clava, esce allo scoperto in caccia di non sa ancora cosa ma, egualmente, cerca perché non può farne a meno, perché non è più scimmia ma uomo e lascia tracce umane sulla sabbia. Seguiamole! Budhor 7 8 PARTE PRIMA Era un vecchio albero, un po’ malconcio. Mi era già capitato di notarlo in quella torrida mattinata dell’agosto veneto, solo e quasi timidamente appoggiato di traverso come un vecchio stanco, sulla ringhiera del balcone di quella casa di vacanza in affitto. Ma non gli avevo dato nessuna importanza, visto che così piegato su di un lato, anche se frondoso, non serviva minimamente a fare ombra, non poteva comunque dare più nessun ristoro. Era pressoché inutile. ***** Un anno d’impegni m’ha logorato profondamente nel fisico e nella mente, tanto che ho deciso di andarmi a riposare un po’ al mare e ho prenotato, all’ultimo momento, una casa in affitto in una città balneare della provincia veneta in questo caldo agosto di fine secolo. Volo per le strade del Veneto a bordo della mia scalpitante spider col sole in faccia ed il vento fra i capelli e già inizio a rilassarmi godendomi il preludio di quelle belle giornate. Ad un tratto, un pensiero mi balena nella mente: mi rendo conto che non sto andando a Saint Tropez o a Porto Cervo ma, sto per arrivare in una di quelle solite città di mare, tutte uguali dove nulla succede di diverso da quello che già è stato scritto negli opuscoli delle agenzie turistiche. Questo pensiero non solo m’adombra profondamente, ma mi attira addosso anche una certa iattura, infatti, tutto ad un tratto, uno strano scoppiettio del motore boxer della mia Porsche mi costringe ad accostare sul ciglio della strada. 9 Che diavolo succede? mi domando mentre apro il vano motore per dare non più di un’occhiata superficiale all’interno, visto che m’intendo di motori quanto una vergine si può intendere di sesso, potendo vantare, al massimo, solo un po’ di teoria. Sto fermo e la calura diventa insopportabile; il sole mi martella il cervello. Senza esitazione m’attacco al telefonino, chiamo il numero verde del soccorso stradale e una voce di donna mi rassicura promettendo che, una volta fornito il numero di polizza assicurativa e quello della carta di credito, il carro‐attrezzi sarebbe arrivato di lì a venti minuti al massimo. Le comunico i dati pregandola di far arrivare quanto prima il camion, perché sto cocendo sotto al sole senza un riparo: per chilometri e chilometri ci sono solo campi coltivati, nessun centro abitato. Mi rimetto in auto nell’illusoria speranza di riuscire a farla ripartire. Macché, niente, nemmeno uno scoppiettio impreco mentre continuo ad esasperare la chiave d’accensione a costo di scaricare la batteria. Mentre sono indaffarato ad armeggiare con l’accensione, di fianco, poco distante da me, si ferma un contadino; scendendo dal trattore si avvicina con fare cordiale. “Bella macchina! È una Porsche 356 del ‘57, vero?” “Vero! ‐ rispondo un po’ meravigliato dalla sua inattesa competenza ‐ Bella ma anche dannata! Mi ha lasciato a piedi!” “Beh, ‐ replica lui ‐ queste sono macchine delicate, vanno coccolate come si coccola una bella donna: non bisogna trattarle male, anche se talvolta fanno qualche capriccetto!” Rimango incantato dal savoir faire di quello strano contadino, però quei quarantamila euro incollati all’asfalto, incapaci di 10 dare un minimo segno di vita, mi hanno fatto proprio imbufalire. “Già, ma intanto la bella donna rischia di rovinarmi la giornata facendomi passare un sacco di tempo nel garage di un meccanico al costo di cento euro l’ora!” “Ma no, ma no! Vedrà che si tratta solo dello spinterogeno: è chiaro, si sarà sporcato lo spinterogeno. Basterà una pulitina e via!” Mi fa aprire il vano motore e, staccata la calotta, prende a pulirla con uno straccio imbevuto di gasolio: è questione di due o tre minuti. “Ecco fatto. Metta pure in moto.” Un giro di chiave ed il rombo squillante del motore zittisce il grido di gioia che fuoriesce dalla mia gola, mentre i pistoni svettanti nei cilindri gareggiano in velocità col fremere del labbro inferiore impazzito d’un tratto per l’emozione, facendo così da perfetta cornice alla mia espressione d’estrema soddisfazione. Mi avvicino riconoscente all’omone rustico e cortese, dal volto simpatico e gioviale. “Grazie, lei è un vero angelo. Mi dica: quanto le devo?” “Ma niente, niente si figuri! Le conosco bene, queste birbaccione: ne ho una pure io!” Dopo avermi salutato allegramente ed augurato una piacevole vacanza, sale sul trattore e scompare nella polvere. ***** Mi prende un senso di felicità: forse il pessimismo cittadino che mi stava fastidiosamente incollato addosso è magicamente svanito, lasciando il posto al più roseo ottimismo, alla strana 11 sensazione di chi sta partendo per una nuova, fatata, straordinaria avventura? Seduto in auto col piede pesante ed il motore su di giri, vedo, riflesso nel retrovisore, avvicinarsi il camion del soccorso ACI; pigio forte sull’acceleratore ed in men che non si dica, quel camion diventa un puntino nero in lontananza fino a sparire nel passato. L’ho fatta sporca? ‐ mi domando, ma poi, controllando l’orologio – No, è lui che è arrivato in ritardo... di ben due minuti! La mia coscienza, accondiscendente, si ritiene assolta dalla scusa ridicola, così continuo soddisfatto e felice il mio scorrazzare per le strade deserte dell’entroterra veneto. Arrivo all’imbrunire alla meta, praticamente già abbrustolito dal sole che non mi ha abbandonato per un solo attimo durante tutto il viaggio durato tre ore e cento chilometri più del previsto a furia di girovagare, curioso, in lungo ed in largo, cosa che mi ha riempito il cuore di felicità e gli occhi di stupende immagini di paesaggi campestri, alberi frondosi e raggianti e di un mare luccicante sorvolato da stormi di gabbiani. Anche Thelma, la mia reflex è contenta; anche lei ha fatto il pieno d’immagini e di emozioni. ***** La casa di vacanza somiglia più ad una baita di montagna, o meglio alla baita di Heidi, piuttosto che ad una casa per villeggianti di una cittadina balneare: unica, per questo luogo di mare, differente da tutte le altre, è composta da tre mini appartamenti, situati tutti al piano superiore e fatti a mansarda, al piano sottostante una piccola reception, una minuscola sala con televisione e bar ed un’altrettanto ridotta sala da pranzo 12 sono messe a disposizione a chi, dei condomini, ne vuole fare uso. Davanti alla caratteristica entrata mi accoglie un pergolato fluente e rigoglioso ed un prato accuratamente rasato all’inglese con, ai lati, due aiuole grandi e tonde completamente ricoperte di rose dai colori sgargianti. Tre tavolini in ferro battuto bianco, che sembrano fatti all’uncinetto da una nonnina dagli occhiali tondi, i capelli grigi raccolti sulla nuca e lo scialle delicatamente appoggiato sulle spalle, t’invitano a sedere per sorseggiare in tutta tranquillità una buona tazza di tè. Il mio appartamento è in sintonia con tutta la casa; dal bagno al cucinotto è piccolo, sobrio ma ben organizzato e c’è anche un balconcino bombato che ricorda quello da cui la giovine Giulietta, struggente d’amore per il suo bel Montecchi, declamava i suoi dubbi alla notte. Anche il piccolo balcone, che s’affaccia sul giardino del retro della casa, è pieno di fiori e due alberi di fico colmi di frutti ancora acerbi sembrano fargli da guardiani affettuosi. Proprio da un lato, appoggiato alla ringhiera, un vecchio albero ricurvo, le foglie un poco rattrappite dal tempo, stona leggermente in questo contesto da cartone animato; emana, però, un fascino penetrante, perché odora di tradizione ed ha un intenso sapore di storia che ben si amalgama ad un profondo retrogusto di saggezza. Mi sono sbagliato, anche l’albero un po’ avvizzito ha il suo significato in questo quadro dipinto da chissà quale artista. ***** 13 Trascorro i primi giorni di vacanza nell’ozio più completo, passando le mattinate a passeggiare dove il mare accarezza quasi con sensualità la sabbia e, ogni tanto, m’immergo tra flutti delicati che accarezzano dolcemente e lasciano sul corpo un velo salato di frescura. I pomeriggi, invece, li passo standomene comodamente adagiato su una poltrona all’ombra del pergolato, a leggere un buon libro, sorseggiando dell’ottimo whisky da un grande bicchiere colmo di ghiaccio trasparente. Forse a causa del cambiamento climatico o forse per il troppo stress accumulato durante l’anno, mi sento un po’ indolente, quindi riempio il tempo che mi rimane degustando ricchi piatti di ottimo pesce ed a rinvigorirmi concedendomi lunghe e profonde dormite: stranamente, non mi annoio, anzi! Uno dei miei passatempi preferiti è osservare la gente indaffarata che mi scorre davanti agli occhi a ritmi frenetici, così vedo bagnanti ostinati consumare il solito ripetitivo rituale ricalcando i ritmi quotidiani del lavoro: mattino in spiaggia (timbrare il cartellino) ad arrostirsi al sole prepotente difesi da incredibili creme a protezione zero, pranzo in pensione (timbrare il cartellino) rigorosamente a base di pesce surgelato, seconda prestazione in spiaggia (timbrare il cartellino) finché il sole calante non incupisce il mare, cena in confezione precotta alla pensione (timbrare il cartellino), struscio veloce lungo il corso (timbrare il cartellino) per rintanarsi velocemente a letto (timbrare il cartellino) perché il turno di domani comincia all’alba. Niente traumi: con modica spesa cambiano i panorami ma non le abitudini. 14 Altri, dalle ambizioni più altolocate, si affacciano alla vita solo nel tardo pomeriggio; il resto della giornata è dedicato a preparare la coreografia del teatrino serale, sempre uguale ed inguaribilmente snob, col primo atto da consumarsi nel ristorante alla moda, breve shopping distratto in mezzo ai bric‐ a‐brac del centro, gelato e servizio bar al culmine dello spettacolo della partita a carte, non briscola e tresette ma più blasonato bridge. Questa routine è talora interrotta da rapide incursioni nei frutteti altrui, dove villeggianti furbi ma poco addentro alla materia ortofrutticola saccheggiano gli alberi di fico, salvo poi accorgersi che non è stagione, cosicché le strade sono lastricate di frutti lasciati ad agonizzare tra il via vai svagato della gente. Anche la “civiltà” va in vacanza! 15 16 PARTE SECONDA Non ho alcuna voglia di starmene spaparanzato al sole a macinare parole crociate o sotto il pergolato di casa a leggere sorseggiando il solito whisky, così decido di andarmene in giro per la città in compagnia della fedele Thelma, dalla quale difficilmente mi separo. Attraversando la periferia raggiungo il Porto Vecchio, quartiere ragionevolmente dimesso, conseguentemente sporco ma dal fascino insolito ed irresistibile, tanto che Thelma quasi mi sfugge di mano mentre cerca di scolpire nella sua memoria digitale le case dai colori intensi, una diversa dall’altra, le reti appese ad asciugare sui muri scrostati, le barche tirate a secco sulla sabbia, messe di fianco e mezze verniciate, i gatti sdraiati al sole impegnati a soddisfare la propria pigrizia oppure a caccia di teste di pesce per placare una fame improvvisa. Forme, colori, immagini, stilettate di vita: nulla sfugge a Thelma ed ai suoi scatti veloci. Io, invece, rimango quasi travolto dagli odori, rapito da quelle sensazioni incontrollabili, immediate che non subiscono la mediazione del cervello e si stampano indelebili nella memoria: sudore, fatica, sale, vernice fresca, fame e privazioni mischiate e rese complici dal puzzo intenso, penetrante, tirannico del pesce. Tutto mi riporta al mare. All’improvviso parole ormai quasi dimenticate cominciano a battermi forte nella mente: solidarietà, amore, affetto, amicizia, lealtà… umanità… prendono a lottare con altre ben più note e frequentate: egoismo, denaro, successo, apparenza, arrivismo, prepotenza. Nel quotidiano succedersi degli eventi, una battaglia già persa, ma non qui, nel misero villaggio dei pescatori dove il vivere 17 semplice, seppur faticoso, costruito giorno per giorno, senza pause né allettanti prospettive economiche, mette in discussione il tran tran del conformismo cittadino, quel dorato, accattivante… vuoto… lasciarsi vivere dal consumismo. E Thelma immortala le immagini; con la sua tattica arcigna e metodica riproduce una realtà priva di orpelli, di falsità, di equilibrismi di convenienza. Intanto, io penso a tutte le cose che non ci hanno portato il beneficio che avevamo previsto allontanandoci sempre di più gli uni dagli altri, insinuando in noi un’infondata diffidenza: con quale risultato, poi? Ci ritroviamo ad essere sempre più soli. Mi rendo perfettamente conto di quanto, già da tempo, sapevo, cioè che noi tutti guardiamo con ostentata vanagloria alle cose che abbiamo saputo creare, modificare e sviluppare, quasi mitizzandole, perché abbiamo smarrito la capacità di vedere in noi stessi, quella magnifica dote che ci ha permesso di creare, migliorare e sviluppare le cose che arriviamo ad idolatrare; il denaro, che ci consente di dimostrare a tutti gli altri quanto importanti siamo diventati, quanto siamo stati capaci di realizzarci, non ci procura quella felicità vera, un appagamento totale e definitivo, bensì solo una forma di soddisfazione transitoria, di stordimento superficiale. La vera felicità si può ottenere soltanto vivendo un’emozione intima e profonda. Ma com’è difficile fuggire da una consolante gabbia dorata per rifugiarsi in una foresta nera che appare tanto ostile! 18 Quant’è duro guadagnarsi la vita strappandola ogni giorno alla natura! E, così pensando, continuo il mio cammino verso il Porto Vecchio costeggiando un lungo viale a ridosso dei frangiflutti sui quali una mano ignota d’artista ha raffigurato storie antiche e misteriose scalpellandole nei bassorilievi. Poi, nel momento di massima estasi esistenziale, una bestemmia atroce mi distoglie dal mio profondo meditare: due pescatori stanno litigando di brutto, prendendosi a cazzotti e parolacce mentre le mogli si scambiano, da una finestra all’altra, pesanti epiteti sull’origine delle loro madri e sul lavoro svolto dalle loro sorelle. Mi allontano velocemente, dopo aver eseguito un paio di scatti, preso da un senso d’angoscia, di oppressione e delusione nello stesso tempo. La miseria non crea la Santità. ***** Stregato da una bizzarra musica mi spingo verso una piazza in cui un gruppo d’Indiani d’America, forse sfrattati dalle loro inadeguate riserve, improvvisa un concerto avvolgendo tutti gli ascoltatori, me compreso, di un alone di misticismo. Al termine dell’esibizione, mi ritrovo a comprare una cassetta di musica etnica ed a fotografare i musicisti, messi in posa come antichi guerrieri Sioux. Concluso l’happening, riprendo il peregrinare fisico e mentale fino a raggiungere, inatteso ed improvviso alla mia destra, un cimitero. 19 Io odio i cimiteri, ma questo mi pare diverso, forse perché ai lati del cancello sostenuto da due colonne quadrate non c’è altro che spazio senza tempo: niente muro perimetrale, niente inferiate, niente di niente a separare il mondo dei morti da quello dei vivi. Superato, dopo un lunghissimo istante di timore, il limite immaginario tra reale ed irreale varco il confine per trovarmi a passeggiare in un piccolo prato all’inglese pulitissimo e rasato alla perfezione e di un verde così vivido, solare, mediterraneo da sembrare esploso dal pennello di Matisse. E le tombe? Pochi, non più di una settantina, piccoli tumuli di sassi con, perfettamente al centro, conficcate minuscole croci di legno scuro, tutte uguali, tutte povere nel loro aspetto esteriore, ma tutte animate da una dignità e nobiltà da lasciare senza fiato. Ormai troppo coinvolto continuo a girare lo sguardo intorno, indagando quel mondo sconosciuto che, pian piano, annienta il cinismo e le banalità lasciate all’esterno; sento Thelma fremere tra le dita mentre scatta, scatta, scatta quasi ignorando la mia volontà, fermando momenti unici ed irripetibili. Di fronte al mare, di fianco ad una piccola cappella, un’altra scoperta: un olivo secolare, non grande ma solido e poderoso, eretto come un antico guerriero dal coraggio indomito, sempre allerta, pronto a difendere fino all’ultimo respiro quella piccola oasi di pace. Che sensazione sublime, che incredibile senso di tranquillità, che pazzesco ed involontario abbinamento di pezzi d’emozioni si respira in questo luogo! Ad un tratto, un leggero alito di vento. Cosa mi sta succedendo? 20 Sembra che una cento mille voci mi cantino una soave nenia, invitandomi a sdraiarmi e riposare sul prato in mezzo a loro. Un brivido gelido mi percorre la schiena e subito si materializza nella mia mente l’immagine dell’albero, ricurvo su di un fianco, della casa di vacanza. La sensazione che provo è duplice e contrapposta: da una parte m’invade un dolce languore, un senso di sicurezza, onnipotenza, mentre, dall’altra, un vuoto, una lancinante percezione di precarietà, d’oppressione, forse di paura, colpisce lo stomaco lasciandomi senza fiato. Paura di che? ‐ penso ‐ E’ mezzogiorno, c’è il sole, migliaia di persone passeggiano a pochi metri da me; di che cosa dovrei avere paura? La vera paura è quella del buio dell’ignoranza, di quello che non si sa, il terrore di tutto quello che non sai, che non potrai sapere, almeno in questa vita terrena. E’ forse questo il messaggio che quelle mille e poi mille voci silenziose vogliono trasmettermi? E’ forse questa una sorta d’esortazione a non fermarmi mai nel percorso della conoscenza? Anche quando costa fatica, anche quando ti sembra di non farcela più, anche quando hai l’impressione che sia tutto tempo sprecato? La risposta non arriva ed è giusto così perché la risposta è insita nella domanda: cerca finché non trovi. Faccio un cenno di saluto ai defunti del cimitero, che sicuramente hanno lasciato un segno indelebile in qualche parte del mio animo e via, riprendo il cammino verso il Porto Vecchio, fotografando qua e là scorci di quella bella cittadina marittima. E se non trovassi mai quello che cerco? 21 ***** Eccomi finalmente nel regno dei pescatori, una striscia d’acqua di color smeraldo, stretta e lunga due chilometri che s’inoltra sinuosamente tra i campi coltivati da coloro che, disconoscendo la loro sorte di marittimi, hanno scelto di diventare contadini. I pescherecci sono ormeggiati mollemente lungo la banchina ed intravedo, a bordo, figure d’altri tempi, quasi solenni mentre attendono alle loro occupazioni: i pescatori, arsi dalla furia del sole e dal sale, hanno la pelle dura e rugosa, di color legno e gli occhi azzurri persi nell’infinita immensità del mare Alcuni di loro, a prua, riparano le reti per la pesca notturna, qualcuno, sdraiato sotto il tendalino di poppa, si concede una breve pennichella in attesa della partenza, altri ancora, a torso nudo e unti di olio e grasso, armeggiano con grosse chiavi inglesi nel pozzetto, occupati a rendere sicuro il ritorno della barca. Sarebbe stata altrettanto tranquilla la loro vita di lì a qualche ora? Tira forte pescatore, tira non ti fermare. Poco pesce nelle reti, lunghi giorni in mezzo al mare. Mare che non ti ha mai dato tanto, mare che fa bestemmiare, quando la sua furia diventa grande e la sua onda è un gigante. Io, animale di città imbevuto di tanta gratuita presunzione, non avrei mai potuto sopportare il dispotismo di un Dio così terribile; ma il denaro, il Dio che mi comandava nei miei lidi lontani, era forse più benevolo nel suo assolutismo? 22 ****** Due grosse motonavi sonnecchiano aspettando i turisti: di lì ad un paio d’ore s’imbarcheranno, a branchi, per una suggestiva gita serale verso i lidi veneziani, ma, per il momento, l’atmosfera è calma, pacata perché i villeggianti sono ancora impegnati in spiaggia ad osservare gli ultimi strali stanchi del sole morire sulla sabbia, a calpestare l’arenile, sempre più tiepido, in cerca di chissà quali sensazioni conosciute. Ognuno per sé e Dio per tutti, si lasciano annegare nell’appiattimento egoista del turismo di massa, acritico, senz’anima, figlio di slogan bugiardi ma rassicuranti, impegnato a consolidare, con la scusa delle vacanze e del meritato riposo, simboli di status sociali che non è possibile nemmeno discutere. I pescatori, invece, come altrettanto i contadini, non si lasciano abbindolare da tali effimeri surrogati a scapito dei veri, seppur semplici, valori morali: sanno che nella loro (come nella nostra del resto) vita molteplici sono le situazioni in cui la sopravvivenza stessa o quella delle proprie risorse è legata a filo doppio all’altrui solidarietà. Non c’è prodotto tecnologico né bene materiale che possa sostituire la solidarietà umana, lo spirito di sacrificio, la speranza, la bontà d’animo, l’amicizia, doni che in questa parte di città vengono scambiati tra la gente, l’uno con l’altro, come fossero un bicchiere di vino bevuto insieme, un pezzo di pane diviso con l’amico o una gragnola di cazzotti scaricati a raffica sul muso dell’altro, durante un litigio. Gente dura, questa, abituata a soffrire e sacrificarsi, ma proprio per questo, sempre disponibile ad aiutare chiunque, gente che non si volta mai dall’altra parte di fronte ad una richiesta d’aiuto; ora capisco a chi appartiene quel piccolo cimitero, 23 adesso che ci penso mi pareva anche di aver letto sopra una targa ciondolante la strana dicitura che al momento mi era sembrata irriverente. Il cimitero degli uomini di mare, ma chi ha voglia, ci può sostare. Non era una frase insolente, invece, anzi stava a ribadire la disponibilità che questa gente ha nei confronti degli altri, tutti nessuno escluso, anche nel momento più estremo, nella fase più solitaria del nostro esistere; lo sfarzo millantatore che talvolta accompagna l’ultimo viaggio qui diventa un semplice giaciglio nella morte posto accanto agli altri, un tumulo tra tanti tumuli senza nome. Una vecchia prega allo stesso modo, per gli altri e per te… Una vedova piange allo stesso modo, per suo marito e per te… Una madre si dispera allo stesso modo, per suo figlio e per te… ***** Cammino e fotografo, guardo e penso. Ad un tratto una bimba mi tocca con la manina leggera; rivolgendomi un sorriso innocente mi tira per la maglietta invitandomi a seguirla. “Vieni.” Senza timore mi lascio guidare e la osservo meglio. E’ una bella bambina: il visino bianco esaltato dal rosa appena accennato delle guance, i capelli nero corvino che le scendono a boccoli sulle spalle. E’ minuta ma ben proporzionata, un po’ sporca, ma come può essere sporco un bimbo dopo il gioco ed indossa un vestitino color prugna macchiato qua e là di 24 cioccolata, la stessa dolce sporcizia che orna le sue labbra. Cammina sull’asfalto bollente, a piedi nudi, senza scarpe, senza la minima esitazione, come se per lei fosse normale. Già normale! Ma cosa mai c’è di normale in questa calda giornata d’estate? mi domando in silenzio. Camminiamo a lungo, fianco a fianco, costeggiando la striscia d’acqua del vecchio porto, addentrandoci sempre più fra i rigogliosi campi di frumento che paiono danzare festosi al ritmo del vento. Non faccio in tempo ad assaporare questa suggestiva atmosfera che mi ritrovo, circondato da una moltitudine di galline ed oche starnazzanti, nell’aia di una vecchia fattoria. Un anziano contadino, corpulento, cappello di paglia calato sul volto, mezzo sigaro toscano spento tenuto fra i denti al bordo della bocca, si avvicina con fare che sembra minaccioso e m’interroga con tono brusco. “E’ venuto per la soppressa?” La soppressa veneta! ‐ penso io ‐ Una cosa da far venire l’acquolina in bocca! “No, la bambina…” “Ah, la bambina. Sì, venga, venga… ‐ risponde lui e continua ‐ Mi scusi, l’avevo presa per uno dei soliti turisti, non credevo che fosse proprio Lei!” Non capisco ciò che dice, probabilmente mi ha scambiato per un altro, un cliente che sarebbe dovuto arrivare e non è arrivato; comunque lo seguo tenendo a stento il passo veloce di quel gigante alto quasi due metri ed avvolto in cento chili di muscoli. Attraversiamo tutta l’aia dirigendoci verso il retro della fattoria, giriamo l’angolo ed ecco che, proprio di fronte, come materializzato dal nulla, m’appare apparecchiato il banchetto 25 degli Dei: però non c’è nettare ed ambrosia sul tavolo di cemento, enorme, ma, sulla tovaglia a quadretti bianchi e rossi che odora di pulito, distesa con cura, ceste di frutta dai mille colori ed intensi profumi, taglieri di legno colmi di soppresse, salumi, formaggi d’ogni genere, vassoi fumanti di tranci d’arrosto e stinco di maiale aspettano soltanto che qualcuno onori la loro presenza mangiandoli. Disseminate sulla tavola, brocche d’acqua ghiacciata e bottiglie di vino rosso. La bambina, mi guarda e sorride; ora è pulita, lavata, profumata ed indossa un vestitino simile all’altro, ma rosa. Le guance sembrano appena imporporate da un fard discreto e la boccuccia, che non porta più i segni della cioccolata, disegnata da un rossetto delicato; ma non è così, quelli che paiono i colori di un truccatore sono, invece, le mille sfumature della vita raccontate dal volto della bimba. I boccoli, biondi e vaporosi, scivolano sulle spalle minute e restituiscono al sole i riflessi dorati del tramonto. La bambina aveva i capelli neri! penso, assalito da un improvviso stupore. “Non si allarmi. ‐ dice l’uomo come se avesse letto nei miei pensieri ‐ Questa è Susanna, la gemella di Carlotta, la bambina che l’ha condotta fin qui. Ma ora si accomodi e mangi qualcosa.” Mi siedo, obbediente e un po’ intontito. Come fossi in tranche subisco la suggestione del paesaggio, della fattoria irreale, delle gemelle che irretiscono la mia volontà, del vecchio che decifra i miei pensieri, di questo desco dove sprofondo solitario padrone del cibo. Sto impazzendo… sto sognando… o sto solo raccontandomi una favola? 26 Comunque decido di approfittare di questa pazzia o sogno o favola e, seppur con un ghigno d’imbarazzo, mi getto a capofitto su quelle squisite cibarie, con golosa voracità. Nel frattempo è tornata anche Carlotta: tutti e tre, in piedi, mi guardano sorridendo. “Ma voi non mangiate?” Con scarsa educazione rivolgo la mia domanda a bocca piena, mentre mi abbuffo come un suino ingordo. “Mangi, mangi lei. Tutto quello che vuole! ‐ risponde il vecchio con tono benevolo ‐ E beva, beva questo buon vino!” Passa il tempo necessario a trasformarmi in un otre, uno schifoso sacco di pelle gonfia che tenta di occupare tutto lo spazio circostante; è vero, mi sono dilatato ignobilmente e sono sazio come più non potrei… ma sono felice! “Bene ‐ il vecchio, lasciato il suo sorriso, ora mi si rivolge con fare quasi burbero ‐ E’ ora d’andare!” “Andare… dove?” Nonostante il dubbio e la pancia gonfia, lo seguo in religioso silenzio, mentre lui, a testa bassa e con le spalle un po’ ricurve cammina lentamente con incedere ieratico; le bambine sono rimaste davanti al tavolo e sento il loro sguardo che ci accompagna. Mentre rincorro la sproporzionata figura dell’uomo scorgo alla mia destra, semicoperta da un covone di paglia dal quale sbuca solo il cofano, una Porsche 356 del ‘57 bianca. Caspita, quasi come la mia! Non sarà che questo contadino è l’angelo della strada che mi ha salvato dal carro‐attrezzi? Non ho tempo di dar seguito al pensiero perché, all’improvviso, ci fermiamo in un prato: al centro un albero dal tronco stretto, alto circa due metri, con fronde rigogliose che si agitano nervosamente ad ogni colpo di vento. 27 E’ un giovane albero. “Ecco, ‐ esclama il contadino girandosi verso di me ‐ questo è il figlio lontano dell’albero della casa di vacanza.” Rimango esterrefatto, mi si annebbia la vista: forse quel vino folle, che fa cantare anche l’uomo più saggio, ha catturato anche me. Mi domando se ho capito bene; come fa quest’uomo a sapere dell’albero della casa di vacanza? Io non ne ho di certo parlato e poi cos’è questa storia del figlio lontano in mezzo a questo prato dove non c’è altro che erba? Mi giro per chiedere spiegazioni ma non c’è più niente: non c’è la fattoria né il contadino, non ci sono Susanna e Carlotta, c’è solo un immenso campo di frumento attraversato dalla verde striscia d’acqua del Porto Vecchio e quella piccola radura erbosa col giovane albero frondoso che diviene sempre più irriverente ad ogni nuovo colpo di vento. Sono secoli che non mi faccio una canna, talvolta esagero col whisky, questo è vero, ma non lo frequento da ieri sera e non può essere il vino, assunto per di più pasteggiando, a darmi le visioni. Sconcertato e pieno d’interrogativi irrisolti m’incammino lentamente verso la città; penso e ripenso a quanto mi è appena capitato e non riesco a capire se tutto ciò è veramente accaduto o è solo il frutto della mia immaginazione. Chissà se Thelma, nella sua strafottente indipendenza, saprà darmi qualche risposta. Camminando non posso fare a meno di notare come, nella luce dell’imbrunire, l’acqua del vecchio porto si sia colorata di un rosso così intenso da sembrare sangue, che, però, non spaventa, anzi regala un piacevole stato d’animo, infondendo un’assoluta sensazione di armonia con la natura circostante. 28 Il vento si è placato lasciando il campo ad una leggera brezza di mare e gli steli del frumento sono quasi immobili, come immortalati in un quadro dipinto direttamente nell’aria da Van Gogh. Tutto mi appare surreale anche se la percezione della realtà è molto forte; già sento in lontananza i rumori dell’altra faccia della città, della civiltà che cerca d’imporre la sua supremazia. Inconsciamente soggiaccio a quel richiamo d’appartenenza e mi accorgo che quasi corro pur di arrivare in fretta “dall’altra parte”; voglio scappare da questo posto che inizia a darmi un senso di profonda inquietudine, con la sua pacata continuità quasi eterna, tutto ciò inizia quasi ad infastidirmi, mi fa sentire solo, fuori dal branco, e la solitudine è una brutta bestia, difficile da sopportare per chi è abituato a convivere con i rumori, gli odori, il grigio e la routine della città. Frastornato come sono da tutto ciò che mi è accaduto filo via veloce come un centometrista che aspira a vincere la medaglia d’oro e, finalmente, arrivo in una piazza gremita di turisti che consultano i prezzi dei menù esposti sui cavalletti di legno, intenti nella scelta del ristorante giusto. La passeggiata lungo il corso, il servizio bar, i gelati, il bridge, i pettegolezzi da mercato nobilitati dall’ambiente snob: i tasselli sono incastrati al loro posto e posso infine placare l’angoscia. Anche il mio ventre è ridiventato piatto. “Thelma, siamo tornati a casa!” ***** Sono spossato per la corsa, interamente avvolto, anche lì dove non si può dire, da un velo di sudore come una prugna all’alba 29 lo è d’umida brina, con la faccia devastata dalla fatica e la mente ancora stravolta dall’esperienza magica appena consumata, ma sono contento di essere tornato tra quei villeggianti che stamattina irridevo e, all’opposto, adesso mi rassicurano coprendomi con la loro consolante mediocrità. Tutti, passando, mi guardano ed i volti non mentono mostrando lo stupore. Una ragazzina sui quindici anni mi osserva di sfuggita, quasi imbarazzata, e non riesce a trattenere un timido sorriso, mentre il suo ragazzo la rimbrotta con lo sguardo; il signore attempato, serioso in giacca e cravatta nonostante il luogo e la stagione, mi lancia uno strale carico di disprezzo, invece la sua consorte, matura matrona ingioiellata, truccata oltre l’immaginabile, stuccata da quintali di fondotinta e labbra di un ettaro coperte di rossetto, manifesta, non riesco a capire perché, una certa libidine nei miei confronti. Cosa sta succedendo? Qualcosa, in me, non va? Distrattamente mi guardo i piedi e mi accorgo che sono senza scarpe. Salgo con gli occhi e non trovo i pantaloni. Mi tocco il torace grondante di sudore e non ho la camicia. Indosso soltanto un costume da bagno un po’ risicato (ecco cosa ammirava, o meglio immaginava, la vecchiaccia!). Sono una spugna bagnata in mutande! Un ghigno appena accennato m’increspa le labbra, presto si trasforma in sorriso, poi in una risata irrefrenabile, sguaiata e mostro a tutti, senza vergogna, le mie carie e le tonsille. Ma il vigile, protetto dalla divisa bianca, candida, immacolata come la verginità tanto per ribadire che la Legge è pura, comincia a interessarsi a me forse vedendo configurarsi il reato 30 di oltraggio al pudore anche se, più in là vicino alla fontana, una splendida mulatta, ballando una lambada, nelle sue piroette sensuali mette in mostra un perizoma delle dimensioni di un francobollo. Però, lo ammetto, il tutore dell’ordine, per una volta, nell’applicazione strettamente legale delle norme, ha ragione: arrestare una schifezza umana in mutande come me in questo momento è atto doveroso non verso la Legge ma verso l’Estetica, mentre ipotizzare la stessa colpa per quel miracolo della natura che sta danzando intorno alla fontana sarebbe un peccato mortale, un’offesa alla Bellezza che neanche si dovrebbe lontanamente pensare. Comunque non voglio correre rischi e scantono dietro l’angolo più vicino, dirigendomi verso la spiaggia. ***** Crollo in ginocchio sulla battigia, non mi sento bene, mi viene da vomitare, sono ancora frastornato dalle esperienze appena vissute e non so che fare; non riesco ad allontanarmi da questo simbolico confine e penso alla città divisa in due parti, adesso confuse l’una nell’altra in un turbinio di suoni, colori e varia umanità. Vorrei andare lontano, anzi, vorrei addirittura tornare nella mia cittadina della provincia lombarda dove succedono sempre le stesse cose, dove tutto è scontato, dove le parole dette si possono tranquillamente scrivere su di un foglio di carta… il giorno prima. Rimugino senza sosta finché un pensiero angosciante mi scuote violentemente. Thelma!!! 31 Ho dimenticato Thelma sul tavolo della fattoria! Ad un tratto rammento e ricomincio a sudare… freddo, questa volta. E’ assurdo! Non è possibile! Ma come ho potuto? Io che non posso fare a meno di lei! Thelma fa parte del mio modo di vivere, di ascoltare la gente, di parlare con me stesso. Anche se è una vecchia macchina digitale, Thelma conosce ogni mio più intimo pensiero, ogni mia più profonda emozione e, ad ogni scatto, lei immortala non quello che vedo ma quello che io provo nel guardare alla vita. Sono disperato: come potrò cavarmela senza di lei? E’ finito… è tutto finito! E’ tutto finito! Guardo la nera distesa d’acqua con gli occhi colmi di lacrime; la marea è ormai salita e le correnti fredde hanno preso il posto dei raggi caldi del sole che hanno ripudiato il confine fra cielo e mare evaporando verso il firmamento. Sulla spiaggia solo ombrelloni avvolti in se stessi e lettini allineati, muti come fossero tanti soldatini nel momento solenne della parata funebre. Mi avvicino lentamente all’acqua con lo sguardo fisso, puntato verso quella zona chiara, là in fondo, dove la linea dell’orizzonte si confonde con quella del cielo. Immergo i piedi nel liquido, gelido come fosse inverno (ma forse è solo un’impressione, perché l’inverno io l’ho nel cuore) e 32 le lacrime che sgorgano si confondono con l’acqua salata che già mi arriva alla gola. Un bagliore improvviso illumina il terreno alle mie spalle: un vociferare di giovani spensierati che danno inizio alla loro festa notturna, trasgressiva, colma di suggestioni. Distolto dal mio gesto estremo, mi giro, incazzato come una iena, per imprecare contro la loro maledetta performance notturna, come a volerli cacciare per punirli d’avermi salvato dal mio ultimo, gravoso impegno; ma, mentre sto per sparare la mia sequela d’insulti, un bagliore del falò illumina una delle tante sdraie perfettamente allineate. Thelma! Thelma, la mia reflex, mollemente adagiata sul lettino mi sta fissando col suo obiettivo da duecento millimetri ricoperto di umidità; mi par di vedere una goccia scendere dalla lente, quasi fosse una minuscola lacrima di commozione. Tremo senza sapere se sia colpa dell’acqua ghiacciata o dell’emozione che sto provando per aver ritrovato ciò che pensavo perduto per sempre: la mia fedele compagnia di ricordi, di illusioni, di trepidazioni e fantasie, forse l’unico occhio che mi è rimasto per vedere il mondo a colori, perché ormai gli altri due vedono solamente sfumature di grigio. La prendo fra le mani, l’abbraccio, la bacio ed inizio a ridere felice come un bambino che ha appena ritrovato il suo orsacchiotto; mentre danzo con lei, mi accorgo del gruppo di ragazzi, che, a poca distanza, mi stanno guardando sbigottiti e forse anche un po’ impauriti da un individuo che sembra in preda ad uno strano delirio. “Non preoccupatevi, ragazzi, non sono pazzo! ‐ grido loro allegramente ‐ Una bella foto gratis per tutti in cambio di una salsiccia per me che ho una fame da lupo!” 33 I ragazzi mi squadrano dall’alto in basso e poi scoppiando in una fragorosa risata. “Affare fatto! ‐ ordina il capo del branco ‐ Coraggio, diamo da mangiare al morto!” E giù tutti a sghignazzare. “Ma prima, ‐ esclamo ‐ facciamo la foto!” Si mettono tutti in posa, accatastati gli uni sugli altri in quello strano e scomposto equilibrio che solo i giovani riescono ad avere. “Siete pronti? Sorridete!” Flash! Flash!! Flash!!! Ecco, le foto sono fatte! Tre, per non sbagliare. Non lo faccio mai, ma, visto che sono ancora turbato, meglio mettere in sicurezza questo ricordo e fare qualche scatto in più; certamente, in un’altra situazione, ne sarebbe bastata una sola. “Domani qui, a mezzogiorno. Ce n’è una gratis per ognuno di voi! ‐ il triplice hurrà dei ragazzi mi rimette in qualche modo in pace col mondo ‐ Beh? Che fate lì impalati? Ho fame! Forza con quelle salsicce!” 34 PARTE TERZA I primi bagliori dell’alba mi destano nel tepore umido del mattino. Sono sdraiato accanto ad una giovane fanciulla nuda ancora assopita, altri sette otto corpi, maschi e femmine aggrovigliati gli uni agli altri alla mia destra, sognano chissà quali sogni tra le braccia di Morfeo mentre, poco distante, due ragazze sonnecchianti si scambiano languide tenerezze. La griglia ancora fumante del falò mi narra quanto si sia tirato tardi questa notte. Thelma, tranquillamente adagiata sul lettino al mio fianco, ha smesso di piangere, è lucida di rugiada ma pronta per nuove avventure, per nuove intense emozioni da condividere assieme, sembra quasi che mi sorrida, sembra quasi che sia felice. Anch’io sono felice e la prendo fra le mani, l’accendo muovendo il solito interruttore e giro la ghiera che visualizza sul display le foto eseguite. I gatti alla caccia delle teste di pesce! ! Belli, ma quello che m’interessa ora, sono le foto dei ragazzi. Eccole, sono queste. Controllo soddisfatto. La prima è magnifica, i ragazzi sono venuti proprio bene, naturali e la foto esprime la loro giocosità, la loro voglia di vivere. La seconda è ugualmente bella: anche se la promiscuità dei corpi suggerisce una maliziosa interpretazione di una sessualità 35 collettiva, in fondo, nell’intimo degli sguardi resta stampata una trasgressione che non sa d’insulto ma di ricerca di libertà, un’emancipazione dai vecchi valori non più condivisibili perché non più validi, obsoleti come monete fuori corso. Vogliono crescere, questi ragazzi, e nel loro spregiudicato erotismo cercano di crearsi nuove regole, differenti da quelle che hanno dovuto ereditare, pagando, alle volte, molto salata la loro tassa di successione. Dimentico per un attimo i miei compagni di nottata e giro ancora la ghiera. Non è possibile!! Mi coglie, improvviso, un attacco violento di tachicardia che si annulla nella più totale immobilità come se il cuore avesse smesso di battere travolto dall’emozione. Guardo e riguardo la terza foto per un’infinità di volte: non c’è dubbio, è così nitida, così vera, così angosciante nel mostrarmi Carlotta e Susanna in posa, sorridenti nella notte davanti all’albero della casa di vacanza. Che diavoleria è mai questa? La mia mente è in apnea, devo fermarmi, devo pensare, devo trovare una spiegazione. E’ pazzesco credere che Carlotta e Susanna esistano veramente, ma lo è ancora di più trovarle davanti all’albero della casa di vacanze! Devo fermarmi… pensare… trovare una spiegazione. 36 Ricorro ad assurde soluzioni per poter emergere dalla pazzia. Quelle non sono Carlotta e Susanna ma le due ragazze che stanno limonando tra loro accanto al falò; non me lo ricordo ma forse le ho fotografate ieri sera. Davanti all’albero della casa di vacanza? Devo aver pigiato sbadatamente il bottone per le esposizioni multiple e poi, senza accorgermene, ho fotografato le ragazze e le due foto sovrapponendosi, hanno creato questa strana immagine irreale. Tutta colpa dell’alcol o della follia? Sì, forse ero ubriaco o fuori di senno, ma Thelma no: lei è sempre sobria, lucida e poi è una digitale, lavora su card non su pellicola, non è possibile, neanche inavvertitamente, sovrapporre due immagini in una. Sono alle corde e voglio fuggire. Saluto i ragazzi che stanno svegliandosi e fisso un appuntamento con loro per consegnare il regalo promesso, le foto scattate nella notte e mi avvio, avvolto nei miei pensieri sempre più confusi, verso casa. Ho indosso solo il costume da bagno ancora un po’ umido e pieno di sabbia, perciò decido di rientrare percorrendo l’arenile, però il cielo stamane è scontroso e, tutto ad un tratto, si copre di nuvole nere trasportate velocemente da un forte vento d’alta quota; in un batter d’occhio anche il mare, che fino ad un istante prima era di un colore blu cupo, assume tonalità di verde petrolio e si riempie di onde sempre più lunghe e spumeggianti 37 che s’infrangono rumorosamente sulla spiaggia con fare minaccioso. Il vento aumenta a dismisura tanto da sembrare un uragano, inizio a tremare dal freddo ma devo fare ancora parecchi chilometri prima di arrivare a casa; così chino la testa verso il basso per evitare la sabbia che già mi ha quasi completamente ricoperto gli occhi e continuo la via crucis che, spero, mi porterà alla redenzione. Sto camminando quando vedo, sulla riva, una freccia fatta di conchiglie: la punta è rivolta verso il centro della spiaggia. Probabilmente ciò che resta di un gioco di bambini, penso ed istintivamente mi dirigo verso la rotta indicata che mi conduce ad un ombrellone ripiegato nella sua custodia; un giubbotto jeans, un paio di pantaloni e, legati dal loro cordoncino che si è avviluppato lungo il paletto, un paio di occhiali, penzolano al vento come se attendessero qualcuno. Mi avvicino furtivo: ho freddo e non c’è nessuno in giro. Ottavo: non rubare. Vaghe reminiscenze religiose bloccano la mia mano protesa verso i vestiti. Sesto: non uccidere. … neanche te stesso! Qual è il comandamento giusto in questo caso? E’ un peccatore chi ruba pane perché ha fame? E chi si appropria di abiti altrui per non congelare, finirà al cospetto di Satana? 38 Elucubrazioni superflue: ho freddo e, in queste condizioni, l’ipotesi di riscaldarmi al fuoco dell’inferno non mi turba più di tanto, quindi mi assolvo dal delitto con una capriola semantica ricordando a me stesso che un prestito non equivale ad un furto anche se, convenientemente, sorvolo sul fatto che il prestito prevede una richiesta al legittimo proprietario del bene e proprietari, al momento, in giro non se ne vedono. Ho un freddo boia! La carne, debole, urla ma la coscienza è intenzionata a resistere: debbo trovare un compromesso, magari un peccato veniale, prima di scivolare in ipotermia. Appropriazione indebita? Perfetto! Addirittura con l’attenuante della restituzione del maltolto: domani riporterò i vestiti al bagnino, accompagnati da scuse e cospicua mancia. Ottimo escamotage per la mia coscienza ed anche il bagnino, alla fine sarà soddisfatto. M’infilo, sentendomi assolto, i calzoni ed il giubbetto stranamente a mio agio nella nuova divisa e comincio a districare la cordicella degli occhiali dal paletto dell’ombrellone: sono dei 2030 flex, prodotto per palati raffinati ed esigenti come me che, difatti, ne possiedo un paio, li avevo su ieri. Ora che ci penso anche questo Dark Worn è uguale al mio; comincio a pensare di non aver rubato niente. D’accordo, Rēvo e Levi’s sfornano migliaia di occhiali e tonnellate di giubbetti, ma di calzoni di sartoria, per di più in 39 lino bianco, non ce ne sono due uguali e se ci fossero le mie iniziali ricamate sul bordo della tasca, quali altre domande dovrei mai pormi? Ci sono: i calzoni sono miei al di là di ogni ragionevole dubbio. Rifiutandosi di mentire, i pantaloni mi pongono davanti ad un’altra bizzarra situazione, un altro apparente mistero, o forse è solo lo strascico della giornata di ieri, una giornata strana, di cui ne ricordo chiaramente alcuni aspetti e confusamente altri. Probabilmente avrò appeso i vestiti all’ombrellone per tuffarmi in acqua e li avrò dimenticati lì quando mi sono incamminato sulla spiaggia verso il Porto Vecchio. E’ andata sicuramente così! Ho bisogno di certezze e mi accontento. ***** All’improvviso, un lampo squarcia il cielo mentre un boato rimbomba nel giorno sovrapponendosi all’urlo del mare; grosse gocce d’acqua cadono fitte sferzandomi il viso come fossero frustate inflitte dal vento per punirmi di una qualche mancanza o di qualche errore da me commesso. Trovo riparo sotto il gazebo di un bar sulla spiaggia anche se non ho molta fiducia che possa reggere alla turbinosa tempesta di acqua e di aria. Mi guardo intorno: in mare una piccola imbarcazione, un centinaio di metri al largo, sta lottando, motori al massimo, contro la violenza delle onde, per poter arrivare in porto. E’ pericoloso tentare di raggiungere il molo sfidando una burrasca così maligna! ‐ penso io ‐ Non sarebbe meglio mettere la prua a riva e 40 rifugiarsi sulla spiaggia, visto non che c’è il rischio di naufragare sugli scogli? Cosa spinge un uomo a tentare la sorte contro un mostro a lui così superiore? E’ lo spirito di libertà, la necessità, la lotta eroica ed impari contro il più forte oppure la voglia di “arrivare prima”, malattia tanto sciagurata quanto attuale, a spingere quello sprovveduto marinaio verso flutti che non è in grado di controllare? Domande destinate a restare senza risposta. Il sibilo del vento s’insinua nei piccoli spazi tra assicelle di legno che formano le cabine e mi distoglie dai pensieri lasciando il mio sguardo libero di vagare su tutta la spiaggia. E’ vuota! Nessuna presenza umana dipinge la sabbia con passi dubbiosi… forse qualche fantasma, ma io non lo vedo. Senza volontà apparente abbandono il mio rifugio e consento alla pioggia prepotente di flagellarmi senza sosta, ma vado incontro a quel magnifico e terrificante mostro che gonfia le onde di furia liquida e scura; seguendo l’odore salmastro cammino verso il cupo colore del mare, attratto laggiù, lontano, dove acqua e cielo si fondono e quel che è, è quel che appare e quel che appare, è quel che è. Affronto la funesta ira della natura, sempre che di rabbia si tratti, senza rammarico ed avanzo verso ciò che, ieri, mi avrebbe annichilito; non voglio “arrivare prima”, ma voglio “arrivare”. Sì, ma dov’è che voglio arrivare? Ancora non lo so, ma continuerò a cercare. 41 Cercare… trovare… stupirsi… regnare… riposarsi… Lontano, ad oriente, intravedo due aquiloni volare alti e leggeri, sfidando le leggi della fisica ed i mille dardi che il vento e la pioggia gli scagliano contro; sembrano due cavalli indomiti e nevrili che galoppano nel cielo, guidati da redini sicure. Vaghe reminiscenza classiche mi fanno tornare alla mente Etone e Lampo legati al carro di Ettore, l’Eroe che seppe sfidare il volere degli Dei fronteggiando un destino che già lo aveva condannato a morte. Rimango affascinato a guardare gli aquiloni, le evoluzioni, l’incredibile armonia con cui si muovono, il sincronismo che li fa sembrare guidati da un’unica mano divina. Calamitato da non so quale magia, incapace di distogliere gli occhi dal miracolo, mi avvio verso la sua origine; cammino lungo la battigia incurante dei marosi e, stranamente, le onde rispettano la mia presenza, si aprono attorno a me sfiorandomi soltanto, senza toccarmi, come il Mar Rosso si squarciò davanti ai piedi di Mosè. Rapidamente raggiungo il luogo dove i due abili nocchieri governano con perizia i loro carri volanti: uno spiazzo in cui la sabbia è completamente asciutta, nemmeno lambita da una goccia di pioggia che, invece, cade insistente tutto intorno. Rinuncio a chiedermi se sia un miracolo o un sortilegio oppure un gioco di Eolo che si trastulla con i suoi venti e mi avvicino ai due ragazzi che mi danno le spalle. Più o meno sedicenni, alti, slanciati, di corporatura androgina, la pelle molto chiara e i lunghi capelli che scendono, morbidi, quasi a boccoli, nero intenso per uno e color del grano per l’altro; indossano canottiere sopra ai costumi da bagno, rosa per uno e prugna per l’altro. 42 “Ehi, ragazzi!” ‐ grido ‐ Come va? Vorrei congratularmi con voi! Siete molto bravi!” Si girano e, sorridendomi, mi lasciano di sasso. “Carlotta… Susanna!!?” “Guarda il mare! ‐ urlano ‐ Guarda il mare!” Poi, ridendo, si allontanano velocemente, quasi a volermi sfuggire. Cosa avranno voluto dire? mi chiedo sempre più interdetto. Ho voglia di piangere ma sono talmente bagnato dalla pioggia che non me n’accorgerei. Intanto il temporale si è impossessata di questo fazzoletto di terra e la bufera d’acqua non accenna a placarsi, ma, anche se mancano poche centinaia di metri alla mia casa di vacanza e vorrei farmi una bella doccia bollente e bermi un buon whisky, l’angoscia è tale che rimango lì, di fronte al mare, ad inzupparmi e pensare in attesa di una risposta che non arriverà mai. ***** Dopo circa mezz’ora il vento è calato, la pioggia si placa e dalle nuvole, ormai diradate, fanno capolino i raggi di sole, pallidi e timidi ma con una promessa nel colore, come sempre dopo un temporale. Il mare è mosso, ma non più aggressivo, ricoperto da miriadi di minuscole onde spumeggianti; con questa luce particolare, non paiono argentee bensì dorate, e sembrano spighe di grano che fluttuano su di un immenso campo. Là in fondo, all’orizzonte, distinguo chiaramente una macchia verde, quasi una radura, e un piccolo arcobaleno che, sopra quella chiazza scura, somiglia al profilo di un albero che si agita nervosamente scosso dal 43 vento. Un déjà vu: il figlio dell’albero della casa di vacanza, al centro della la sua radura verde incastonata nel mare giallo di frumento, un altro miraggio, una suggestione incontrollata, altrimenti sto impazzendo. Dopo la quiete viene sempre la tempesta. Adagio popolare, valido, per fortuna, anche all’inverso e quindi cerco salvezza nella considerazione che quando sei stanco, avvilito, impaurito come un pulcino bagnato, devi fermarti e guardarti intorno e, cercando a fondo, avrai modo di trovare una nuova luce, una nuova forza interiore, una diversa prospettiva con cui affrontare i temporali della vita in modo più costruttivo, così da riuscire a superarli con minor paura. Coraggio, Thelma: un paio di scatti all’orizzonte in contro luce e poi si ritorna a casa. ***** Dopo il conforto di una doccia bollente mi verso una dose maxi di whisky riempiendo un bicchiere da cucina e vado sul balcone a godermi finalmente la calma dell’imbrunire. Davanti a me l’albero della casa di vacanza; in quest’aria stantia è immobile, con le sue fronde consumate dal tempo e il suo modo di stare buffamente ricurvo. Lo guardo, intensamente. Non ha nulla da dirmi, è un albero e basta, altro che fantasie, altro che pensieri profondi al limite della realtà: tutte stupidate, solo un albero, niente di più. Così lo sfido. 44 Parlami! gli ordino tutto ad un tratto. Macché, niente! Come un qualsiasi albero di una qualsiasi città balneare, di una qualsiasi casa di vacanza, propone la sua statica essenza vegetale: un albero, cos’altro? Finisco il mio whisky: sono stanco, cancello i pensieri e vado in cerca del letto. 45 46 PARTE QUARTA Mentre sto galleggiando nel languido torpore che anticipa e prepara il sonno, la mente, di sua iniziativa, senza chiedere il permesso, innesta una veloce marcia indietro che percorre tutta la mia vita all’inverso con la cadenza accelerata e ridicola delle comiche; per chissà quale motivo si blocca a più di trent’anni fa e la pellicola comincia a scorrere nel verso giusto ed a velocità normale. Ultimo o penultimo anno di liceo, non so dare una dimensione precisa al tempo, ma mi rimbalza in testa una vacanza‐studio… Storia dell’Arte… Andrea di Pietro della Gondola e le Ville Venete… Pilli… Pilli… Sì, adesso ricordo, adesso focalizzo perfettamente. Pilli, la miss indiscussa della scuola, un volto acerbo di bimba sul corpo peccaminoso di una donna matura ed esperta, una di quelle infantili etere che allietavano la decadente corte francese di Luigi XV: l’Odalisca di Boucher non era Louise O’Murphy ma Pilli! Visitammo molte ville del Palladio ed io vedevo le cosce tornite di Pilli nelle candide colonne, il suo seno generoso e le sue forme morbide nelle volute degli archi, gli occhi maliziosi nella luminosità delle finestre e gli ampi portali accoglienti mi lasciavano sognare il profondo del suo ventre. Quando scorsi “la Malcontenta” appena offuscata dagli alberi e dalla bruma che sale di mattina presto dal Brenta, immaginai Pilli danzare al banchetto di Antipa protetta soltanto dai leggendari sette veli. 47 Fu una breve vacanza‐studio interamente dedicata all’Arte: già, perché Pilli era Arte almeno quanto erano Arte le ville del Palladio. Però l’Arte, purtroppo, si può guardare ma non toccare; solo l’Artista, assistito dalla sua genialità, può pretendere di sfiorarla col suo pennello e Pilli non l’avevo dipinta io. ***** Il ricordo dolce di Pilli prima di addormentarmi mi ha regalato qualche ora di riposo tranquillo, senza immagini né situazioni, quasi l’anticamera del sonno eterno. Goethe diceva che la morte è la prima notte di quiete perché finalmente si dorme senza sogni ed allora stanotte ho conosciuto la grande consolatrice e non mi è parsa poi così cattiva. Riemergo da una morte apparente e sconfitta dopo un sonno privo d’incubi, mi sveglio prestissimo con in testa l’idea di visitare le Ville Venete, sperando di incontrarci una Pilli ancora diciottenne per poter rivivere un sogno ormai perduto. Sono le cinque, l’alba, un orario impensabile per uno che di solito a quest’ora va a letto: comunque sono perfettamente lucido, saltellante come un grillo e quindi mi faccio la doccia, la barba, mi lavo tutti i denti, m’infilo jeans e maglietta, preparo lo zainetto con la dose giornaliera di fumo (Marlboro, tanto per non equivocare) e di alcol, indosso il Dark Worn, inforco i Rēvo e scendo silenziosamente in cucina a prepararmi un triplo caffè nero corretto al whisky. Ho deciso di dedicarmi l’intera giornata, lontano dai misteri, dalle angosce, dai turbamenti senili che hanno occupato i miei giorni precedenti: ventiquattrore da single, da quasi single 48 perché anche Thelma è già pronta, arzilla come una vecchietta in cerca d’emozioni. Esco di soppiatto per non svegliare i vicini che invece se la dormono alla grande: sembro un evaso che fugge verso la libertà o un ladro, e scivolo furtivo lungo i muri dopo aver rubato chissà quale tesoro. La frescura mattutina mi stuzzica il viso, mi rende euforico; respiro la rugiada, mastico l’alba di questo nuovo giorno che nasce già indimenticabile. Mentre mi allontano sento un bisbiglio di fronde provenire da dietro la casa di vacanze. Ha detto che ballerà con te se le porti rose rosse. Chi ballerà con me? Non c’è nemmeno una rosa rossa nel tuo giardino? Mi volto di scatto per capire chi è che sussurra parole incomprensibili di prima mattina. Da che misere cose dipende la felicità! Hai letto tutto quello che i saggi hanno scritto… possiedi ogni segreto della Filosofia… ma ora ti manca una rosa rossa e la tua vita è rovinata. Cos’è questo ritmo da filastrocca, una fiaba? Sì, è una favola! Scavando nella memoria fino all’adolescenza riaffiora anche il seguito. 49 Se le porterò una rosa rossa, la potrò tenere tra le mie braccia e lei appoggerà il suo capo sulla mia spalla e la sua mano stringerà la mia; ma non cʹè nemmeno una rosa rossa nel mio giardino, cosicché io siederò da solo e lei mi passerà vicino. Chi ballerà con me? ***** Il pullman parte alle sette ed io arrivo al terminal un’ora prima: troppo presto perché l’autobus sia già lì ad aspettarmi, troppo tardi per tornare indietro. Mi siedo sulla panchina, paziente, non voglio che un’ora d’attesa rovini la mia giornata. Soprappensiero mi accendo una Marlboro. “Scusa, hai una sigaretta?” Voce di donna, roca quanto basta per iscriverla al grande club dei fumatori. Per solidarietà di vizio, senza nemmeno alzare lo sguardo, le porgo il pacchetto. “Grazie, ‐ sussurra ‐ hai anche d’accendere?” Certo che ho da accendere: sono un tabagista serio, io! Le porgo lo Zippo senza girarmi e torno a pensare ai fatti miei. Una stilla di benzina sprigiona la piccola lingua di fuoco e s’infiamma anche quella parte di me che non s’accontenta più dell’apparenza, del rito formale dell’accoppiamento, di donne conosciute appena, di meravigliose passanti di cui non restano che cenere e ricordi. Chi ballerà con me? 50 Attirato nel vortice mi volto e la vedo: un volto acerbo di bimba sul corpo peccaminoso di una donna matura ed esperta, inguainata in jeans aderentissimi e maglietta attillata color prugna istoriata da nuance rosa. Ho davanti una villa del Palladio: vedo le cosce tornite nelle candide colonne, il seno generoso e le forme morbide nelle volute degli archi, gli occhi maliziosi nella luminosità delle finestre e gli ampi portali accoglienti mi lasciano sognare il profondo del ventre. Barcollo al cospetto della Bellezza e dell’Arte. Forse stanotte “la Malcontenta” ballerà con me regalandomi i suoi sette veli! “Che fai qui? ‐ domando speranzoso ‐ Vai anche tu a visitare le Ville Venete?” “No, sono venuta per portarti al Luna Park.” Forse è matta o magari drogata, anche se non ne ha l’aspetto. “Come!!?” “Lo so che hai organizzato per le Ville, ma il Luna Park è molto meglio!” “Il Luna Park? Saranno almeno quarant’anni che non ci vado!” “Pensa… ciambelle fritte… zucchero filato… pesciolini rossi!” Ricordi dell’infanzia riaffiorano come una cantilena e la contemplo sotto una luce diversa, più lieve, come un bimbo può guardare il seno della mamma quando ha fame o quando ha voglia di amare o di essere amato. “Ma io ti… vi conosco! Voi due siete…” “Scusa, non mi sono presentata. ‐ m’interrompe subito come per zittirmi ‐ Sono Carlotta, ma gli amici mi chiamano Susanna.” 51 Cos’è? Sogno, ossessione, droga, alcol, psicofarmaci, delirio senile… una maledizione? “Andiamo?” “Andiamo dove?” “Al Luna Park, naturalmente!” “A fare cosa?” “A sognare la Felicità!” Infila la sua mano delicatamente fra le dita della mia e, alzandosi, mi porta via. ***** Sono un cinquantenne brizzolato, abbastanza ben tenuto se non fosse per quell’ignobile pancia che inquina la silhouette, e me ne vado in giro per il paese con un pezzo di gnocca diciottenne alta come la Tour Eiffel; meno male che in giro non c’è tanta gente sebbene il parroco, incrociandoci, si sia segnato ed abbia ben scandito un va de retro satana. Adesso comincio a preoccuparmi! Il vigile illibato dell’altra sera mi scruta e valuta, inquieto, la mia escalation: da “oltraggio al pudore” a “pedofilia”, sto scalando rapidamente l’hit parade del porno. La ragazzina sui quindici anni ci osserva stranita forse pensando al futuro mentre il suo ragazzo esamina di sottecchi Susanna, frustrato, sbavando come un maniaco; il signore attempato, serioso in giacca e cravatta nonostante il luogo e la stagione, comincia a rivalutare il Viagra, invece la sua consorte, sempre truccata oltre l’immaginabile, manifesta una certa delusione per aver mancato una preda. 52 La mulatta, che sta ancora ballando la lambada intorno alla fontana, ci sorride, complice. ***** Stiamo percorrendo un viale alberato e noto che ci sono pochissimi lampioni; immagino che la sera sarà molto buio, il regno dell’ambiguità, della perversione, illuminato forse dalle mille lucciole che lì abitano la notte. Adesso è pieno di gente che trasloca sulla sabbia il solito tran tran quotidiano mentre io cammino, mano nella mano, con un miracolo che ha stravolto la mia giornata con un sorriso, portandomi dove non sapevo nemmeno di voler andare, facendomi fare cose che non sapevo di voler fare, senza capire se volerò in paradiso o sprofonderò all’inferno. Non lo so e non voglio saperlo, anzi neppure me lo chiedo; non sto lì a farmi domande sul perché la gente non ci guarda più o se ci guarda e noi non la vediamo, se esiste o non esiste la pietosa mediocrità che ci circonda, se ne facciamo parte o la neghiamo, se questo è amore o disperazione, Non lo so e non voglio saperlo. Cammino, mano nella mano, con un miracolo che ha stravolto la mia giornata… e vivo. ***** Cosa vuol dire sognare la Felicità, in un Luna Park poi? Mi lascio comunque coinvolgere e seguo il suo lieve incedere, inebriato dal profumo intenso di gioventù, di donna, di vita. Chi è costei che risplende come la luna? 53 Un angelo o un demone? Eva o Lilith? Maria o Astarte? Carlotta… Susanna… Pilli… Salpammo per cercarla nelle lontane regioni che probabilmente la ospitavano. Quella che più d’ogni altra cosa desideravamo conoscere. La sorella del miraggio e dell’eco. Senza averne cognizione mi ritrovo sulla grande ruota del Luna Park; immobile, sospeso nel nulla guardo i coscritti irreggimentati dall’abitudine muoversi come formiche ai lati della lunga esse formata dall’acqua del vecchio porto e gli abitanti della Città Vecchia, i pescatori, le barche, i gatti a caccia di teste di pesce, la fattoria, la radura e il guerriero indomito, figlio lontano dell’albero della casa di vacanza. Non so più chi sono: voglio riconoscermi, voglio vedermi. “Andiamo alla Casa degli Specchi! ‐ preso da una strana paura, urlo a Carlotta con accento perentorio, ma mi pento subito della mia aggressività ‐ Per favore.” “Tutto quello che vuoi!” ***** La ruota, come per volontà propria, esce dalla sua immobilità e, lentamente, ci riconduce a terra, al punto di partenza. Altro giro, altra corsa. Visitate il cielo sulla ruota della felicità. Avanti, accomodatevi, urla l’addetto alla biglietteria mentre noi già voliamo verso nuove frontiere. Non c’è nessuno ad esigere dazio per entrare nella Casa degli Specchi e varchiamo la soglia come fosse quella di casa nostra. 54 Appena dentro un turbinio di riflessi intensi, di colori rutilanti, d’immagini distorte ci sommerge in un gorgo dispotico che non permette la fuga ed una musica ossessiva martella i timpani con la possanza di un fabbro. Mi avvicino ad uno specchio e sono altissimo e magro, un filamento di vita virato al rosso. Thelma, senza che io glielo abbia chiesto, scatta un flash. Da un altro specchio mi scruta un nano cento chili, più largo che alto, ed ha la mia faccia. Flash! Mi volto ed il mio naso si allunga quasi a voler entrare nello specchio di fronte a me. Flash! Sto perdendo la mia identità in questo putiferio di colori e suoni deformati. Sento la mano calda di Susanna avvilupparsi alla mia come una gatta sorniona si avvolge su se stessa; la guardo e mi sorride divertita tirandomi fuori dal vortice. Corriamo a perdifiato in un labirinto di specchi verso non so quale meta purché sia lontana dal frastuono, da quelle immagini di mancata verità. Spossati ci fermiamo. Flash! Susanna mi conduce davanti ad uno specchio piano che pare restituirmi a me stesso. Flash! “Finalmente mi sono ritrovato!” “Dici?” “Certo, non vedi che sono io?” “Sei sicuro? Alza la mano destra.” Flash! 55 “Ecco, e allora?” “Quella è la mano destra dell’immagine?” E’ la sinistra! Flash! Ebbene? La solita storia dell’immagine speculare; di che mi preoccupo? “Quella è la tua faccia?” “Certo, non lo vedi?” Flash! “E a te, chi lo ha detto? Hai mai visto la tua faccia?” “Tutte le mattine, facendomi la barba.” “Quella è l’immagine riflessa della tua faccia! Tu la tua faccia non la conosci, non l’hai mai vista davvero. E la tua anima, l’hai mai vista o te l’ha raccontata uno specchio?” Ma che dice? Vuol farmi impazzire? Comincio a guardarmi le mani, i piedi, l’addome, ma la faccia no; la faccia la debbo cercare nello specchio. E l’anima dove la cercherò? “Negli occhi di un altro.” Flash! Mi giro per cercarla nei suoi occhi, ma Susanna non c’è più: svanita nell’immensità del nulla, evaporata davanti all’incapacità dei miei sensi, rinata nei segreti del suo mondo. Thelma, puoi rendermi Susanna? Flash! ***** Sono solo! 56 Neanche Thelma può colmare questo senso di vuoto interiore. Lei è uno scriba fedele che incide nei pixel i momenti della mia vita per ricordarli non per valutarli; lei mette da parte, è Sapiente ed accumula il sapere, ma non possiede la Saggezza e non sa far fruttare la sua opera. Questo sarebbe compito mio, ma non ne sono capace o forse ho dimenticato come si fa e così resto facile preda della solitudine, questa bestia orrenda che tutto deforma, che morde lo stomaco come un’ulcera dolorosa, stringe la gola lentamente come una garrota, sfiora il cuore con dita gelide di morte. Cosa voglio? Cosa sto cercando in questa stanza? Uno specchio che non menta, ecco cosa voglio, cosa sto cercando in questa stanza che non vuol darmi sollievo. Cercare… Mi fermo attratto da un insolito specchio ovale, fumè, l’unico, a quel che ho potuto vedere, della Casa; riflette, nelle mille sfaccettature del grigio, un bambino che gira solitario nel parco accompagnato dal cane che abbaia, scodinzola, salta intorno a lui nel tentativo di togliere la vena di malinconia che ricopre gli occhi del suo padroncino. E’ inverno, la neve ricopre ogni cosa ed i rami dei pini si piegano verso terra per sfuggire al candido peso che minaccia di spezzarli e, di tanto in tanto, lasciano scivolare giù una valanga bianca che scarica a terra tutta la sua silenziosa furia. Il bambino osserva da sotto cadere la neve dai rami, aspetta l’impatto fino all’ultimo istante, si scosta veloce, sente il tonfo 57 appena percettibile e guarda il manto immacolato sdraiato sul prato sbuffare sotto il peso della sorella precipitata dall’albero. E’ un gioco sciocco e pericoloso, il bambino lo sa, ma forse in questa sfida trova sollievo alla sua solitudine perché sente che la morte, in fondo, è l’unica compagna per la vita. Trovare… Non sempre la morte avverte del suo arrivo concedendo una serena vecchiaia; spesso falcia con la velocità del lampo che incenerisce, con la crudeltà di un proiettile in guerra, con la lunga e penosa parabola di una malattia inattesa e prematura… talvolta si traveste da ramo spezzato e ti prende quello che, in realtà, non è mai stato tuo. Stupirsi… Il bimbo, colpito in pieno dalla fronda assassina, cade stramazzando al suolo, completamente ricoperto da una massa di neve che non è riuscito ad evitare. Sotto quella coltre che conduce al nulla il cuore accelera, il suo ritmo diventa parossistico, il respiro è affannato: ha sfidato la morte cercando un perché e adesso morirà senza averlo trovato. Papà… papà… ‐ urla senza voce, la bocca piena di neve ‐ Aiutami, ti prego! Come, figlio mio? ‐ risponde un’eco assente ‐ Hai trovato soltanto quel che avevi cercato, ora non stupirti di averlo trovato. Scivola, piano piano, nel deliquio, verso la prima notte di quiete in cui finalmente si dorme senza sogni, senza desideri, senza aspettative. 58 Regnare… Aria! Respiro! ‐ pensa il bambino ‐ Sono vivo o sono rinato? Respira perché il cane, l’amico fedele che tutto dà e nulla chiede, scavando nel cumulo di neve che lo seppellisce, gli ha restituito il soffio vitale affinché il cuore batta ancora, la mente continui a galoppare, la vita non cessi di scorrere nelle vene: un atto di solidarietà disinteressa ed il bambino capisce. Dovevo imparare dagli altri… questo dovevo fare… dovevo vivere! La mente s’accheta: non è morte, è sonno rigeneratore. Riposarsi… Voci soffuse, luci soffuse, atmosfera soffusa, tutto è ovattato nella stanza della clinica: il tempo è fermo, opaco, lento e placido, non dà affanni, scorre senza chiedere perché, colando lungo il tubicino della flebo che porta torpore ma allevia quello spasimo al petto che punge forte come una spilla acuminata. “Due costole incrinate con leggero trauma alla settima vertebra toracica ed un inizio di congelamento, ormai superato; per quel che riguarda bronchi e polmoni nulla che non si possa risolvere con del cortisone. Insomma non c’è alcun pericolo di lesioni permanenti e il riposo, al momento à la miglior cura; certo suo figlio è stato fortunato, poteva andargli molto peggio.” Tutta colpa di quel gigantesco albero; ‐ pensa il padre ‐ sembrava proteggerci con la maestosità delle sue fronde, con la rassicurante imponenza del suo tronco, un guerriero indomito a guardia della famiglia, invece ci ha tradito alla prima occasione. Lo farò abbattere! “No, papà! ‐ bisbiglia il bambino con un soffio di voce ‐ Lascialo vivere: io ho chiesto e lui, a suo modo, ha risposto.” 59 “Cosa dici, figlio mio? ‐ il padre avvicina l’orecchio alla bocca del bimbo per percepirne i sussulti ‐ Non capisco.” “Lascialo vivere…” Ed affonda la testa tra le braccia di Morfeo che lo culla con tenerezza materna, mentre la figura del pino secolare si confonde con quella del padre in uno strano sovrapporsi che forse gli anni riusciranno a risolvere. ***** “Allora, che fai lì imbambolato? ‐ Carlotta! Il mio angelo custode è tornato! ‐ Su vieni, ci sono altri specchi dove poterti riflettere.” Dolcemente mi riprende la mano e mi trascina verso un altro specchio nascosto in un angolo: è piccolo, poco più di un biglietto da visita, con lo sfondo nero e la cornice bianca, dentro ballano figure grigie, sfocate, quasi indecifrabili. “Perché è così appartato e minuscolo? E’ difficile guardarci dentro.” “Perché pochi vogliono interrogarlo. ‐ gli occhi di Susanna si sono fatti tristi ‐ E tu, vuoi farlo?” “E’ pericoloso?” “Può essere doloroso.” La curiosità, l’incanto della situazione sovrasta le mie fobie, perciò decido di affrontare il cammino, affascinato dal mistero di questo strano gioco al massacro. Aguzzo lo sguardo per mettere a fuoco quel che il microscopico specchio vuole raccontarmi e vedo una Porsche 356 del ‘57 schiantarsi contro un pino secolare; un albero gigantesco, massiccio nella sua granitica solennità, un guerriero solitario messo a guardia di chissà quale confine. 60 Flash! No, Thelma, questo no, imploro, ma è troppo tardi. L’immagine sfuma nel nero dello sfondo; un luminoso occhio di bue illumina un nuovo proscenio ed un nuovo protagonista. Sotto il pino secolare si leva il candore di una tomba; sforzo la vista per leggere il nome sulla lapide. E’ il mio. Flash! “Questo è il mio futuro, Carlotta?” “Uno dei tanti futuri possibili. Guarda meglio.” Spremo le pupille fino a farle schizzare dalle orbite e vedo scritta sul marmo la data di nascita ma non quella di morte. “Che significa?” “Che non tutto è già scritto.” Sparisce nuovamente; dopo avermi indicato un domani non proprio roseo, ora ha la spudoratezza di negarmi la possibilità d’oppormi alle sue decisioni, lasciandomi in balia di me stesso, dei miei scabrosi percorsi mentali. Sono di nuovo solo, aggredito da mille fantasmi, da paure che credevo svanite, incapace di distinguere l’oggi dal domani, il domani da ieri. Sono di nuovo solo. No, c’è Thelma con me e guarda la mia faccia. Flash! ***** Non riesco ancora a capacitarmi: la Porsche schiantata, la tomba, non mi danno requie e mi consumo pensando a quell’albero sempre presente, sempre partecipe della mia vita 61 che m’insegna a percorrere le strade del mondo con una severità quasi crudele. Soprappensiero arrivo in una stanza vuota, tento di entrare ma urto con violenza contro qualcosa che non vedo; tocco con la mano il niente e mi accorgo che il niente è materia, materia talmente trasparente da essere invisibile. E’ vetro! Flash! Uno scatto buttato, mia cara Thelma! Procedo a tentoni protendendo le braccia, potendomi fidare solamente del tatto; giro un angolo, poi un altro, un altro ancora e mi rendo conto che non sto scegliendo il percorso ma è il percorso che definisce la mia strada. Sono cieco pur venendoci benissimo! Non è divertente e me ne voglio andare, però non trovo più la via d’uscita. “Una volta cominciato il gioco, non si può più tornare indietro.” Susanna! “Anche tu giochi a questo rompicapo?” “Tutti lo fanno!” “Io non vedo nessun altro.” “Certo! È proprio questo il gioco, cercare di vedere!” “Ok, ‐ penso, accettando spavaldo la sfida ‐ allora giochiamo!” “Quando ti abituerai, se ti abituerai, alle luci di questa stanza, ai riflessi particolari delle pareti, dei corridoi di vetro, quando la tua vista saprà vedere attraverso il nulla, allora riuscirai a capire il perché, chi in un modo chi in un altro, sta percorrendo il tuo stesso percorso, sta giocando il tuo stesso gioco. Qualcuno di loro è più vicino, qualcun altro più lontano 62 dall’uscita, ma tutti la stanno cercando. C’è chi l’ha già trovata, altri la troveranno, molti rimarranno per sempre a girovagare tra questi labirinti di cristallo, altri ancora si fermeranno piangendo, urlando che non vogliono più giocare, che qualcuno deve andare ad aiutarli e forse qualcuno lo farà, forse qualcuno riuscirà a farli rialzare per continuare il gioco, ma certamente non potrà condurli fuori della stanza. Non fa parte delle Regole, nessuno può essere aiutato più di tanto, nessuno può indicare agli altri la via certa, perché quelli che stanno dentro non la conoscono e quelli che l’hanno trovata, sono ormai fuori.” “Io la troverò mai?” “Chi lo sa? Certo, se non provi…” E sparisce! Thelma l’hai fotografata? Mi guarda con l’unico occhio triste, come per dire no. ***** Sono un’altra volta solo ed ancora non riesco a convincermi che questa è la mia condizione naturale: solo e tormentato dai dubbi. C’è Thelma con me e porta in dote il suo bagaglio di ricordi che non sa mettere a frutto: non è Susanna, che sa indicarmi la via. Invece sì! Si volta e non scatta, ma proietta una diapositiva sul vetro. Ero un bambino, cioè uno di quei mostri che gli adulti fabbricano con i loro rimpianti. 63 Vedo bambini che tirano palline colorate sforzandosi di centrare le anguste bocche dei vasi dove nuotano minuscoli pesci rossi ignari e spauriti mentre i genitori fanno un tifo da stadio per i loro eredi. Eredi di che? Del censo? Della voglia di vincere a tutti i costi? Eredi nel forzare la sorte laddove i padri non sono riusciti, portando a casa un trofeo da esibire, un giocattolo in più su cui aver potere di vita e di morte? Un bambino mostra orgoglioso la preda conquistata ed i genitori applaudono la prodezza del figlio; nel sacchetto di plastica il pesciolino rosso nuota tremante e sembra implorare, con quella sua faccia smarrita resa ridicola dall’effetto lente, una spiegazione sul perché non debba arrivare a domani per soddisfare le smanie degli adulti che riversano le loro frustrazioni nei futili trionfi dei figli accompagnandoli lungo l’agevole strada che conduce dall’innocenza all’indifferenza. In disparte un altro bimbo, il “perdente”, non ha il suo sacchetto di plastica con dentro la vittima sacrificale della presunzione, non ucciderà nessun pesciolino rosso per appagare la sua frenesia e quella dei suoi genitori; guarda il mancato olocausto e sorride, nel fondo dell’animo contento. Turbato allungo la mano per allontanare l’immagine; il vetro si rompe e tutto svanisce. Thelma proietta un’altra diapositiva su un altro vetro. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori. E’ quasi l’alba e la donna con la gonna cortissima, maglietta attillata e pelliccia sintetica, parrucca bionda, truccata in modo 64 troppo appariscente per essere scambiata con un’educanda, caracolla sui tacchi a spillo; passa davanti alla chiesa sprangata ‐ tanto, di notte, girano solo peccatori ‐ si fa il segno della croce e tira diritto. Entra in casa silenziosa come un angelo, si libera del vestito di scena e si accosta al letto; il suo uomo dorme, beato e indifferente, il sonno di chi si crede giusto. Lo guarda, gli accarezza il viso e si prepara a regalare l’ultima fetta d’amore a chi non la mangerà. Alzo il braccio; il vetro si spacca. Thelma proietta un’altra diapositiva su un altro vetro. Sangue, sudore e lacrime. Un altro giorno passato ammollo fino alle ginocchia nel fiume a rincorrere l’illusione dorata di una pepita gialla grande come una noce di cocco; un altro giorno trascorso tra sogni e fatica mentre quelle pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche che mitigano la furia della corrente, stanno lì a ricordare che loro non conoscono il tempo, c’erano da migliaia di secoli prima dell’arrivo dell’uomo, ci saranno ancora quando l’oro sarà sparito ed i cercatori dispersi tra le pieghe dell’eternità. Nel saloon ‐ altra fabbrica di sogni ‐ giocatori professionisti vestiti elegantemente, sparato e polsini candidi, abito nero da becchino, pronti a garantire le loro onestà con le Colt, aspettano. Anche le puttane, rumorose e grasse, veneri da tempo scadute, maschere di femminilità in vendita a basso costo, aspettano: aspettano prede stanche, sporche e lacere appena venate dal giallo pallido raccolto nel fiume, pronte a bruciare il frutto della loro fatica, della tristezza delle mogli, del pianto dei figli 65 abbandonati alla tetra solitudine delle tende, sull’altare profano di una felicità che sa di disperazione. Non c’è peccato, né redenzione in tutto ciò: solo lo scorrere ineluttabile del tempo. Davanti all’Ufficio Registrazioni Giacimenti Auriferi un vecchio di trent’anni, spezzato da una vita di stenti, che non si è lasciato turlupinare dai bari né abbindolare dalle prostitute, stringe tra le mani un foglio di carta: l’atto di proprietà della miniera. Oggi la sua vita cambierà. E’ vero, cambierà e, come si dice, sarà migliore. I Quattro Cavalieri dell’Apocalisse, ‐ una piccola apocalisse, un’apocalisse da morti di fame, con una sola vittima e il pianto di una sola donna e di un solo bambino ‐ col volto coperto dal fazzoletto e le pistole ancora in pugno, si allontanano al galoppo sventolando il vessillo strappato al nemico: l’atto di proprietà della miniera. Il giovane‐vecchio cercatore d’oro giace nella polvere, scarlatta di sangue: effettivamente è passato a miglior vita. Come in un film muto, la storia scorre a strappi sul vetro. L’albero, per l’occasione guardiano di Giustizia, osserva la corda passare sul suo ramo, i cappi, i quattro colli incravattati nei nodi scorsoi ed i corpi penzolare a futura memoria, lugubre monito per gli aspiranti fuorilegge. Un uomo raccoglie il foglio di carta, lo legge, se lo infila nel panciotto e raggiunge l’Ufficio Registrazioni Giacimenti Auriferi. “Salve, Sceriffo. ‐ lo accoglie, mellifluo, il funzionario ‐ Cosa posso fare per lei?” “Deve modificare questo atto: la miniera cambia proprietario.” Decisamente lo Sceriffo è nato sotto una buona stella! Il vetro si spacca. 66 Thelma proietta un’altra diapositiva. Quando i fiori piangono è meglio pensare sia rugiada. Dall’altoparlante una voce informale annuncia che un bambino si è perso. La mamma, derelitta, piange: il marito la bastonerà per la sua inguaribile distrazione. Piange e si lamenta di quel discolo incosciente che sparisce ad ogni pie’ sospinto. La zingarella con i calzoni prugna e la maglietta rosa ha incontrato un bambino, singhiozzava perché si era perso; lei aveva un soldo, un soldo soltanto, ed ora il bambino non si lamenta più, gira felice sulla giostra dei grandi cavalli bianchi. Finito il divertimento, la zingarella non lo abbandona, lo prende per mano e lo porta a spasso per il Luna Park mostrandogli tutti i giochi anche se non ha più il soldo per farglieli provare; senza parlare lo rincuora con la sola presenza di sorellina che accudisce al fratello più piccolo. La mamma li vede, corre a riabbracciare il figlio e, nell’irruenza, travolge la zingarella che finisce in terra; prende in braccio il bambino, lo accarezza, lo porta al banco delle leccornie e lo riempie di zucchero filato, caramelle, croccanti e qualsiasi cosa lei crede desideri ed il bambino, che come tutti i bambini viziati dimentica presto chi, anche solo per un attimo, gli ha voluto bene senza chiedere nulla, si lascia travolgere volentieri da quei doni insperati e s’ingozza di dolciumi senza più pensare all’amica sconosciuta che lo ha salvato dallo sconforto. La zingarella si è alzata da sola, nemmeno una mano ha allungato le dita per sollevarla; si allontana, ogni tanto si volta, si ferma sul prato a guardare i fiori, una lacrima scende lungo le gote, finisce proprio su una margherita che si unisce al pianto di quel piccolo essere diseredato, colpevole solo di non uccidere 67 pesci rossi, di non disporre di croccanti e caramelle, di non essere “erede”. Vorrei darle il mio fazzoletto ma il vetro va in mille pezzi e non la vedo più. La porta di fuoco. Un lungo tunnel di fuoco mi scruta come fosse l’occhio di Satana; è infuriato, avvolto da rabbiose lingue di vampa, da gocce di cristallo che cadono fiammeggianti al suolo formando stalagmiti incandescenti o lunghe bave di lava di un vulcano infernale. In fondo all’iride infuocata intravedo Carlotta. Susanna, aiutami! grido ma mi accorgo di essere muto; lei mi guarda perplessa, come se sapesse cosa dirmi ma non avesse il coraggio di parlarmi. Alla fine, però, le parole escono dalla sua bocca che, un istante prima, sembrava sigillata. “Non posso aiutarti! Spetta a te l’ardua sentenza: tu devi decidere se attraversare il tunnel oppure no.” Ho paura! Guarda quelle lingue di cristallo infuocato che cadono fitte come la grandine! Non ce la farò mai! “Allora torna indietro, ‐ la voce di Susanna si fa dura, come se non volesse concedere appello ‐ e continua a giocare!” Se torno indietro non smetterò mai di giocare! “Lo so.” Cosa devo fare Susanna? Ho paura! “Salta!” Guardo le sbarre ardenti di quella terrificante prigione; devo superarle per raggiungere Carlotta, per raggiungere me stesso. 68 Raccolgo tutta l’aria che posso fino a far scoppiare i polmoni, corro verso quella flebile promessa, non so di chi non so di che, e salto! Il fuoco, il buio, il baratro… paure ancestrali, eterne compagne dell’uomo timoroso e timorato di Dio. Eppure il fuoco riscalda, il buio consente il sonno ed il baratro mostra panorami meravigliosi. E’ difficile, però, imparare ad amarli. ***** Sono le sei e dieci, il pullman non è ancora arrivato ed io me ne sto seduto sulla panchina con una Marlboro diventata cenere tra le labbra. Oggi non visiterò le Ville Venete, non incontrerò una Pilli ancora diciottenne, non rivivrò un sogno ormai perduto; tornerò alla casa di vacanza a dormire. Raccolgo lo Zippo, in terra ad un passo da me, e m’incammino. 69 70 PARTE QUINTA Ho dormito fino al tardo pomeriggio. Un sonno agitato, popolato da strani sogni senza senso o forse da sogni dei quali non ho capito il senso, da fantasmi fastidiosi che fanno tremare ogni più solida certezza ed ora ho bisogno di un rassicurante bagno nella normalità, un’immersione totale nel mondo di tutti i giorni, il “mio” mondo. Tolettatura completa ed accurata: doccia, barba, lavaggio denti, persino un’aggiustatina alle sopraciglia e poi niente jeans e giubbetto ma completo di lino bianco, camicia azzurra, madras fresche, comode, eleganti. La divisa da gentleman mi tranquillizza ed esco per strada quasi sfilando in passerella. Ben deciso ad evitare la Città Vecchia m’incammino verso le vie sicure della Città Nuova; passeggio attraversando piazze e vicoli, mi fermo a guardare i negozi, sorrido cortese a chi mi sorride, mastico il quotidiano gustando il sapore conosciuto dell’ozio mentale. Incontro il vigile che mi saluta sfiorando con le dita il berretto d’ordinanza ed io rispondo con un cenno di complice comprensione, incrocio il parroco che mi benedice, la mulatta che sta ballando la lambada vicino alla fontana invece mi ignora. Arrivo al bar Casablanca, il ritrovo più blasonato della regione dove approdano banchieri, industriali, dive e divi del cinema e della televisione, scrittori e giornalisti affermati, calciatori e veline, figli e figlie della opulenta borghesia veneta. In effetti è molto chic, quasi sontuoso e si nota la ricerca accurata del particolare raffinato: vasi fioriti e quadri d’autore la fanno da padroni tra i tavolini, mentre la posateria d’argento, i bicchieri di cristallo, le stoviglie di porcellana, ballonzolano sui 71 ripiani incuranti del pericolo e, ultimo tocco d’artista, l’immancabile, discreta ma affascinante rosa rossa spicca sulla tovaglietta purpurea col logo ricamato a mano. Il Denaro abita qui. Trovo un posto appartato, mi accomodo ed ordino un Negroni: nel tradizionale trumbler medio guarnito con mezza fetta d’arancia, come raccomandava il conte Camillo al suo barman prediletto, il mitico Scarselli del bar Casoni a Firenze, il cocktail più famoso del mondo arriva sul mio tavolino. Comincio a praticare lo sport assai diffuso in provincia, ovvero farsi i fatti altrui osservando la gente che parla, sfoglia il giornale, lecca il gelato pensando a cosa dicono, cosa leggono e l’impegno nell’indagare è notevole perché non si può vivere senza sapere se quel verde nella coppetta è pistacchio oppure menta. Mi sembra di essere ospite sulla copertina patinata di una rivista gossip, ma, come in tutte le foto di gruppo dove ognuno si mette in posa nell’attesa dello scatto, questo gioco dei ruoli mi appare superficiale, persino falso ed anche il pianista, che sta cantando As Time Goes Bye dislocato sul terrazzino interno del locale, è una copia sbiadita di Dooley Wilson: la sua voce non ha nulla del roco, animalesco, sensuale timbro di Sam. Ma va bene così: anche un fittizio paradiso di carta può bastare a risollevare lo spirito provato dalle esperienze di questi giorni. ***** Al centro del teatrino del perbenismo pascola il branco. Se non fosse per l’abbigliamento un po’ più griffato, il potersi permettere senza problemi un aperitivo al costosissimo Casablanca, non è poi così diverso da un branco stanziale di 72 Quarto Oggiaro: egualmente rumorosi, superficiali, ignoranti, questi rampolli della nuova aristocrazia finanziaria del nord‐ ovest hanno gli stessi gusti, gli stessi argomenti di conversazione, gli stessi miti dei proletari suburbani. Mi chiedo se tale livellamento in basso della cultura sia sintomo di democrazia o di decadenza, ma subito penso che non è il momento di porsi simili domande e mi dedico, invece, ad osservare le gerarchie del branco, mentre continuo a sorseggiare il mio Negroni. Il leader maschio non è il più macho, il più acuto, il miglior partito del gruppo come la leader femmina non è la più avvenente, la più intelligente o la principessa ereditaria: la leadership del branco ha origini misteriose sebbene si possa considerare leader chi riscuote consensi e sa suscitare il plauso, l’ovazione unanime degli adepti, senza dimenticare che il termine “ovazione” deriva dal latino “ovis” cioè “pecora”. In effetti, ‐ e questo è un problema non solo dei ragazzi ma anche degli adulti ‐ il gregge sente il bisogno imprescindibile di un pastore e, a quel che è dato vedere, per essere consacrato leader la prima condizione è avere l’opportunità di diventarlo, secondariamente possedere una presunzione tanto forte da ritenersi adatto al compito; il resto, l’onestà, l’intelligenza, l’umanità sono optional graditi ma non indispensabili. Mentre sto lì a meditare sulle mie riflessioni un po’ schematiche e superficiali, ‐ il tasso alcolico è ancora troppo basso e non mi permette pensieri più profondi ‐ come dal nulla appare l’elemento che turba gli equilibri di facciata tanto faticosamente conquistati dal convivio, di cui provvisoriamente faccio parte, che bazzica il bar Casablanca. Una donna in bikini sdraiata sulla sabbia non suscita scandalo, ma la stessa donna, egualmente abbigliata, seduta sulle panche 73 nella navata di una chiesa sarebbe scomunicata; eppure è la stessa donna con indosso lo stesso indumento. I partecipanti ad una rissa sulla pubblica via vengono fermati, identificati, denunciati, addirittura arrestati, mentre i litigiosi protagonisti di un talk‐show sono pagati in proporzione all’audience ottenuto con i loro volgari schiamazzi. Come funziona? ‐ m’interrogo ‐ Il peccato è peccato nella sostanza oppure dipende da dove viene consumato? Non faccio in tempo a rispondere alla domanda perché il cameriere che mi ha servito il Negroni prende per un orecchio la zingarella con i calzoni prugna e la maglietta rosa che sta chiedendo l’elemosina agli avventori e la scorta fuori del locale; il suo peccato di esistere sarebbe perdonato in un campo‐ nomadi, magari tollerato ad un semaforo ma per lei e le sue colpe, il Casablanca è off‐limits. Mi alzo stizzito, pago il conto senza lasciare mancia e rincorro la zingarella per la strada: al primo angolo l’ho già perduta. ***** Inesorabilmente attratto da non so quale calamita mi ritrovo a girovagare nella Città Vecchia rivisitando memorie confuse di case dai colori intensi, una diversa dall’altra, di reti appese ad asciugare sui muri scrostati, di barche tirate a secco sulla sabbia, messe di fianco e mezze verniciate, di gatti sdraiati, impegnati a soddisfare la propria pigrizia, oppure a caccia di teste di pesce per placare una fame improvvisa. Thelma non scatta: non le è mai piaciuto fotografare cose già viste. Cammino a lungo, inebriato dal profumo del mare che sale con la brezza della sera. 74 Mi accorgo di avere fame e, immediatamente, si materializza sul muro una scritta dipinta con i colori dell’alba: Osteria dei Pescatori, sotto una freccia indica la via. Scantono e, percorsi cento metri, di fronte alla spiaggia tavoli di marmo sembrano messi lì ad aspettarmi; mi siedo con l’appetito che già va a mille. Si presenta subito l’ostessa, una donna senza tempo, né giovane né vecchia, più larga che alta, vestita di nero con i capelli raccolti a crocchia, alla moda delle donne di paese; ha un fare burbero ma il sorriso appena accennato dice che mente. “Buonasera, signora! Cosa c’è per cena?” “Pesce fritto.” “Bene! E di primo?” “Pesce fritto.” Si gira e sparisce in cucina per ricomparire un istante dopo con un bicchiere ed una brocca di vino bianco: non è cristallo ma vetro e non c’è la tovaglietta scarlatta col logo ricamato a mano, anzi non c’è proprio tovaglietta, solo marmo; però il vino è fresco, non gelato, secco al punto giusto, gradevole, va giù che è un piacere e ti porta lontano. Mentre sto lì a pensare a questa strana vacanza lasciandomi trasportare dall’ebbrezza e dal suono della risacca, la zingarella bistrattata al Casablanca si materializza davanti a me; la guardo e cerco di sorridere come volessi scusarmi per la malcreanza dei miei simili, mi metto una mano in tasca e le porgo dei soldi. “Da te non cerco elemosina.” “Cosa, allora?” “Fammi mangiare con te.” Stupito la faccio accomodare. Non so chi l’abbia avvertita, ma l’ostessa arriva con un altro bicchiere e due porzioni di pesce fritto; niente piatti di 75 porcellana o posate d’argento, un foglio di carta oleata e si mangia con le mani. Rapidamente mi adeguo, alla faccia di monsignor Della Casa che starà rivoltandosi nella tomba. M’ingozzo senza ritegno tracannando vino a velocità inaudita persino per un alcolista come me, mentre la zingarella mangia con un garbo che non mi sarei mai aspettato: forse la sua pancia è meno capiente della mia, forse il suo colesterolo ancora non è nato invece il mio è già adulto e, come un adulto affamato, va nutrito senza risparmio. Non lo so, ma spazzolo il foglio di carta oleata e svuoto la brocca con una rapidità incredibile. “Io faccio il bis! E tu?” “Per me basta, grazie.” “Davvero non vuoi più niente? Che so, una fetta di torta?” “Qui si mangia solo pesce fritto. E poi, davvero, non mi va più nulla.” “Come preferisci.” “Senti, volevo ringraziarti per avermi permesso di mangiare al tuo tavolo.” “Ci mancherebbe! E’ stato un piacere.” “Ne sei sicuro? In ogni caso, grazie.” Senza aspettare risposta la zingarella si alza, volta le spalle e si allontana con l’incedere volitivo della gioventù. Nonostante gli stenti diventerà una bella ragazza. ‐ penso tra me e me ‐ Comunque sì, è stato un piacere, ne sono sicuro! Qui non è il bar Casablanca, ma un altro mondo, in cui a tutti è concessa eguale dignità. ***** Altro giro, altra corsa! Altra brocca di vino, altra porzione di pesce fritto. 76 Stavolta non è la fame a spingermi, stavolta è ingordigia! Lo ammetto: uno dei miei tanti vizi è la gola. Fatto sta che ripulisco il tavolo, prosciugo il vino e riesco pure a trattenere un poderoso rutto, sintomo di gradimento nei paesi arabi ma gesto di notevole maleducazione qui da noi. Ho superato la tenuta idrica e devo andare in bagno ma non so dov’è; abbastanza brillo e su di giri chiedo informazioni all’ostessa. “Potrei sapere dove si trova la toilette, madame?” “Nel cortile dietro la casa, seconda porta a destra, monsieur!” Barcollando seguo le indicazioni, raggiungo il luogo di decenza e resto basito. Non è un cesso di osteria, è il bagno di casa con tanto di doccia dove una venere alta come la Torre Eiffel, girata di spalle, sta sciacquandosi il sapone di dosso con la tendina spalancata. Sono sbronzo per il vino ma non intontito al punto di non notare le cosce lunghe, perfette, e le natiche sode, piene senza un filo di cellulite; i capelli neri attaccati al corpo dall’acqua suscitano un erotismo che nemmeno Dahmane saprebbe immortalare. Thelma, comunque, ci prova. Flash! Venere si volta ed ho un colpo al cuore. “Susanna!!? ‐ sono talmente esterrefatto che dico la prima scempiaggine che mi viene in mente ‐ Perché non chiudi la tenda quando ti fai la doccia?” “Sapevo che stavi arrivando.” E’ bellissima, irresistibilmente meravigliosa! Il seno meriterebbe un museo per quanto è compatto, armonico, con i capezzoli dritti, induriti dall’acqua fredda, puntuti quasi 77 volessero raggiungermi e quel dolce gocciolare dai peli pubici mi fa pensare ad un orgasmo appena consumato. In situazione di normalità questo provocare mi sarebbe sembrato un invito che avrei accettato senza stare a rifletterci sopra, ma costei non è Pilli, è Carlotta e adesso… adesso vorrei essere soltanto acqua per poterla sfiorare. “Invece di stare lì a farmi l’occhio di triglia, perché non mi passi l’accappatoio?” Obbedisco: cos’altro potrei fare? “Ora devo andare. Stammi bene, se ci riesci!” Passandomi davanti mi bacia sulla bocca, poi, com’è suo costume, svanisce nel nulla. ***** Ho pisciato, non ho pisciato? Non me lo ricordo, però sono sicuro: la mia immaginazione, quando è stimolata dall’alcol, non conosce limiti e tutto quello che ho visto non l’ho vissuto davvero ma solamente sognato. Forte di questa convinzione tranquillizzante, torno all’aperto e raggiungo il tavolo. Però sono turbato e voglio starmene da solo in riva al mare a riflettere. “Signora, mi porti il conto, per favore.” “Già fatto!” “Come sarebbe a dire?” “Ha pagato tutto Susanna, la figlia del fattore.” Sempre più stordito lascio una cospicua mancia e mi allontano verso il mare: magari lui saprà darmi consiglio. ***** 78 Il ricordo non muore mai, magari si nasconde tra le pieghe della memoria; difeso da una coltre d’oblio nutrendosi di loto se ne sta lì, appartato, ad aspettare il momento giusto per uscire allo scoperto, sfiorarti con le sue dita glaciali, raggelarti come un fulmine di ghiaccio. Talvolta, quando arriva con la furia di un fiume in piena, cerchiamo di sfuggirne la foga riparandoci dietro un masso, cercando scampo su un albero, tentiamo di limitare i danni cambiando le carte in tavola dicendoci non è andata così, la memoria mi tradisce, ma non c’è nulla da fare, il ricordo è stampato nella memoria e qualche volta è gioia, talaltra malinconia, spesso rimpianto. Il ricordo non muore mai. ***** Mentre mi allontano dall’osteria noto due pescatori; li riconosco dalla pelle riarsa dal sole, raggrinzita dal sale, dall’odore di mare, di pesce, di sudore, di fatica che si percepisce anche a dieci metri di distanza. Stanno giocando a carte, si accalorano, urlano bestemmie, tentano di barare con infantile incompetenza lanciandosi improperi e minacce, battendo pugni pesanti come magli sul tavolo si accaniscono con cattiveria insolita; forse c’è in palio una brocca di buon vino e nessuno dei due vuole pagarla o forse anche loro subiscono il fascino irresistibile della vittoria, nutrono nascostamente l’ambizione di essere il migliore. Il destino mescola le carte e noi giochiamo. Mio padre ripeteva spesso questa frase. 79 Mi ammoniva dicendomi che la vita è un misto di fortuna e capacità, che quando la Dea Bendata ti guarda non devi voltare la testa ma fissarla diritto negli occhi e cogliere l’attimo senza pensare a chi ti sta vicino perché Lei ha baciato te, non altri. Aveva una fede maniacale nel considerare la buona sorte veicolo di auto‐affermazione e reputava assai sciocco non approfittare dell’opportunità che il caso concedeva. Per allenarmi a questa religione giocavamo intere serate a carte: nei giochi di carte c’è il giusto equilibrio tra bravura e fortuna, sosteneva, e non gradiva la mia passione per gli scacchi perché sulla scacchiera la fortuna non ha cittadinanza. Mentre cammino verso la battigia mi torna alla mente un episodio della gioventù, un ricordo venato di amarezza, non ancora risolto dallo scorrere degli anni. Doveva essere più o meno l’inizio degli anni ’70 e, come tutte le estati, passavamo le ferie a Grado, l’Isola del Sole, per permettere alla mamma di curarsi l’artrite interrandosi nella sabbia bollente; la sera andavamo a mangiare nei villaggi dei pescatori, in qualche bettola dimenticata da Dio dove mio padre si sentiva stranamente a suo agio e non era infrequente che, a fine serata, sfidassimo qualche avventore a tre sette. Una volta toccò a due pescatori locali, due omoni giganteschi, puzzolenti di pesce, alti ed austeri come pilastri, che ancora non si erano arresi alla furia del mare. Smazzò mio padre e mi servì due “accusi” su un piatto d’argento, napoletana a coppe e quattro tre: un cappotto facile facile, ma sbagliai una giocata e gli avversari fecero due punti. Il babbo mi guardò con severità, ma non disse niente. Vincemmo lo stesso, ciò nonostante mio padre non mi rivolse la parola fino al giorno dopo e quando lo fece fu soltanto per tenere un sermone. 80 “Cosa ti è saltato in mente ieri sera? Regalare due punti agli avversari è come sputare in faccia alla Fortuna!” “Abbiamo vinto, mi pare.” “Non basta vincere quando puoi stravincere! Se la sorte ti offre un’opportunità, la devi sfruttare fino in fondo, altrimenti Lei ti considererà un perdente e non concederà altre occasioni; la Fortuna è un’amica se la tratti da amica, un’estranea se non metti a frutto i suoi doni.” Rimasi turbato, non tanto per il rimprovero quanto per la durezza delle parole; non erano rivolte a me, lo sapevo bene, ma a tutti quelli che rifiutano di dare sempre il massimo e credo che mio padre temesse di vedermi irreggimentato nel grande esercito dei cosiddetti perdenti. Di certo non volevo scontentarlo, ma neanche vivere in un modo che mi appariva eccessivamente schematico, perciò decisi di rimandare ogni decisione al tempo in cui sarei stato in grado di stabilire autonomamente se la Fortuna sia poi così determinante nella vita di un uomo. ***** Eccomi di nuovo solo, a camminare fra ricordi e nostalgie, talmente soprappensiero da non accorgermi che sono entrato in acqua con tutte le scarpe; le madras staranno lamentandosi e pure i calzoni, inzuppati fino alle ginocchia. Non importa, sono troppo preso a scrutare il mare. Dentro di me, nel mio mare, è burrasca di memorie, rimpianti, malinconie, mentre fuori il gioco della luna sulle onde, ora solo increspate ma domani chissà, quel meraviglioso saettare di luce che par cullare la potenza inespressa dell’acqua, mi rapisce ma non mi placa e la mia mente non trova pace. 81 “A cosa stai pensando?” La voce alle mie spalle mi distoglie dai pensieri rendendomi al presente; la zingarella appare nuda nella sua immatura fisicità. Alta come una pertica, le cosce robuste, l’addome pronunciato come può essere pronunciato quello di una bimba, il seno appena accennato, le braccia ancora po’ tozze ed il viso, invece, quel viso da adulta che già conosce i peccati della vita, gli occhi stretti scintillanti di una gatta, i capelli di fuoco rossi come fiamme dell’inferno legati alla nuca e cadenti in boccoli lunghissimi sulle spalle ancora strette, mi rivelano l’infantile, acerba Venere di Cranach, insensibile agli strali di Cupido che quasi irride indicandolo col dito. “Perché mi hai seguito?” “Mi manda Susanna: sono qui per aiutarti.” “Aiutarmi a far cosa?” “A camminare sulle acque per arrivare dall’altra parte del mondo e conoscerne i segreti.” “A camminare sulle acque? Non sono mica Cristo! Né voglio diventarlo!” “A camminare sulle tue acque, per arrivare dall’altra parte del tuo mondo e conoscere i tuoi segreti.” Questa ragazzina diseredata mi sconcerta; sembra avere la saggezza di una vecchia e l’acume di un filosofo racchiusi nel corpo di un’infante. “Tu conosci le mie acque, il mio mondo, i miei segreti?” “Certo!” “E chi te li ha raccontati?” “Nessuno: li so e basta.” “Già, è ovvio, sei la reincarnazione di Nostradamus!” “No, sono una donna e come tale sono… tua madre!” E’ il teatro dell’assurdo! 82 Lei è pazza, ma io che le do retta non sono da meno. “Mia madre non è padrona della mia memoria… e neanche tu!” “Tu credi? Ricordi il Natale dell’82, quando tu e tuo padre giocavate a scacchi davanti al caminetto ed io vi ho portato quel buon cognac d’annata che vi piaceva tanto?” Devo concentrarmi un po’, venticinque anni non sono pochi. “Sì, lo ricordo: era la prima volta che giocavo a scacchi con mio padre.” “E quella è stata la prima volta che, vedendovi giocare a scacchi anziché a carte, ho pensato ora sono veramente padre e figlio.” E’ vero! Mio padre, in quel periodo, cominciò a giocare a scacchi, a scrivere poesie, a considerare che non tutti i doni elargiti dalla Fortuna hanno lo stesso valore, che il successo nel lavoro non vale l’affetto di una moglie, di un figlio, degli amici e si rese conto, io credo, che le cose importanti della vita non si possono comprare ma vanno cercate, capite e conquistate dando in cambio identica moneta. Sì, da quel momento fummo veramente padre e figlio. ***** La zingarella mi prende la mano, mi trascina fuori dell’acqua e s’incammina verso la città; la seguo senza opporre resistenza come l’allievo segue il suo mentore. Attraversiamo la piazza e lei è nuda al mio fianco; però il vigile non mi arresta, il parroco non fa una grinza, la ragazzina sui quindici anni ed il suo ragazzo m’ignorano, il signore attempato, serioso in giacca e cravatta nonostante il luogo e la stagione, accenna un saluto e, negli occhi della sua consorte, 83 sempre truccata oltre l’immaginabile, si riaccende la scintilla della speranza, la mulatta, che sta ancora ballando la lambada intorno alla fontana, mi sorride, complice. Sembra che nessuno veda la zingarella. E’ possibile? E’ impossibile? Non me lo chiedo neanche più e continuo a seguirla fin sotto la casa di vacanza. “Entra e affacciati al balcone.” “Perché?” “Entra e affacciati al balcone.” Il tono è stranamente perentorio, ma non avrei la forza di reagire neanche se fosse un bisbiglio. “Ti rivedrò ancora?” “Non con gli occhi.” “Allora questo un addio?” Mi avvicino per suggellare il distacco con un bacio casto sulla guancia, ma lei mi tiene distanza con la mano, gira le spalle e si avvia in silenzio verso i suoi segreti, senza avermi completamente svelato i miei; la guardo allontanarsi, non so perché, ma le mie ciglia sono umide. ***** Salgo gli scalini con gambe di marmo, ogni passo una fitta, uno sforzo indicibile, terrorizzato come se andassi al patibolo. Forse non ho espiato le mie colpe e mi accingo a pagarne il fio. Finalmente arrivo sul balcone. La brezza del mare scuote le fronde dell’albero della casa di vacanza e il sibilo leggero tra le foglie sembra un gemito, il sussurro di un uomo che detta il suo testamento. 84 Debbo sapere, perciò sfido, per la seconda volta, l’albero. “Se hai qualcosa da dirmi, fallo adesso!” ……… “Parla più forte, non capisco.” “C’era una volta un re potente, prepotente, che comandava i suoi sudditi con mano di ferro e, creando degli schiavi, non si rendeva conto di essere, a sua volta, schiavo della sua presunzione.” “Cosa significa? Non è più tempo di favole.” “Forse, ma non è più tempo neanche di presunzione.” “Che c’entra adesso la presunzione?” “Qualcuno te l’ha insegnata e, poi, se n’è amaramente pentito perché non ti ha dato i mezzi per sfuggirla e per comprendere gli altri.” “E’ proprio così necessario comprendere gli altri?” “Il re che visse nel suo egoismo perì senza lasciare un segno e, per la sua vanagloria, il regno andò in pezzi mentre lo schiavo, che era molto più libero di lui, ne costruì un altro destinato all’eternità.” “Come fece lo schiavo a costruire un regno eterno?” “Scrisse degli altri parlando di sé.” Sono interdetto ma comincio a capire. “Scrisse una… poesia?” “Quello schiavo scrisse una poesia per suo figlio, il figlio dello schiavo scrisse un racconto per gli altri: tu scrivi un racconto per gli altri.” Adesso è tutto chiaro! “Tu sei…” Non finisco la frase; una raffica più forte di vento piega l’albero verso di me ed una fronda sfiora la mia guancia come la carezza di un vecchio. “Vorrei giocare, un’ultima volta, a scacchi con te.” 85 86 EPILOGO E’ stato un anno duro, di lavoro intenso, senza pause e mi sento stressato, vuoto, privo d’energie; sento la necessità di staccare la spina, di tornare, almeno per un mese, a vivere. “Allora, quando parti?” “Nel primo pomeriggio.” “Dove te ne vai?” “A Caorle.” “A Caorle? Che ci vai a fare?” “No, è che ci andavo da piccolo e vorrei rivederla.” “Vai solo?” “Con Thelma.” “Pensavo andassi con Louise.” Che ne sai tu di Louise? Lei non ama i viaggi, non le piace indagare, passa la vita all’interno di una stanza, a carpire dita, mani, facce, a mettere tutti in posa senza chiedersi cosa provano. “No, a Louise piacciono soltanto le vacanze pianificate, non apprezza l’avventura.” “Strano, sembravate fatti l’una per l’altro… almeno nel chiuso di un’alcova!” “Leggende metropolitane.” “Lei non la racconta così.” “Può raccontarla come vuole, ma io sono stanco di passare da una stanza d’ufficio ad una camera da letto; magari solo un mese, ma voglio respirare aria nuova.” “Una vacanza on the road da erede della beat generation? Non ti ci vedo a farti uno spinello sulla spiaggia mentre aspetti il sorgere del sole!” “Non era questa l’idea.” 87 “Allora, cosa ci vai a fare a Caorle?” “La verità?” “Non menare il can per l’aia e rispondi.” “Non lo so.” ***** La Serenissima non è imponente come una higway americana ed il mio on the road è in scala ridotta, però il vento che mi frusta la faccia scavalcando il parabrezza della Porsche mi dà un’ebbrezza particolare; a cinquant’anni corro senza meta verso l’avventura, come un ragazzino in cerca di tutto e di niente. E’ una bella sensazione! Non che mi aspetti chissà che: comunque qualcosa mi aspetto, magari un rigurgito di gioventù. Mezzo secolo è una brutta età: cominci a rivolgere lo sguardo con insistenza indietro perché davanti la strada ti pare breve e quel che hai fatto ed ottenuto in passato assume un valore molto relativo rispetto al poco che farai ed otterrai in futuro. Voglio ritagliarmi un pezzo di futuro fuori del tempo che mi aiuti a sopportare il tempo che mi resta. ***** Corro sulla provinciale, vado spedito verso la casa di vacanza nella speranza di trovare lì quello che cerco. Dietro di me una macchina suona con insistenza il clacson: è una Porsche 356 del ’57, identica alla mia. Mi supera, veloce. A Milano l’istinto di primeggiare non mi avrebbe permesso di tollerare l’affronto: avrei scalato marcia ed iniziato un 88 inseguimento a perdifiato, ma non sono qui per questo, anzi sono qui contro tutto questo e continuo tranquillo il mio cammino. Non c’è nessuno per strada, oltre alla Porsche non ho incontrato altre macchine: curva dopo curva percorro il serpente d’asfalto avvicinandomi alla meta. Prima dell’ennesima svolta vedo una macchina della Stradale parcheggiata sul ciglio della provinciale e l’agente che fa ampi segni di rallentare ed accostare; obbedisco, preoccupato da uno strano, inspiegabile presentimento. “Faccia attenzione, c’è una macchia d’olio sull’asfalto; una vettura ha perso il controllo ed è volata fuori strada.” “D’accordo, farò attenzione. La ringrazio.” Mi sono salvato per un pelo! ‐ penso ‐ Se avessi inseguito quella Porsche chissà che fine avrei fatto. Percorro pochi metri superando la curva ed il presentimento diventa crudele realtà: la Porsche 356 bianca è accartocciata alla base di un gigantesco albero secolare. Blocco la macchina senza pensare, forse posso ancora soccorrere il mancato compagno di strada. No, non posso! Forte la mano stingeva il volante forte il motore cantava, non lo sapevi che c’era la morte quel giorno che ti aspettava. Lamiere accartocciate, vetri infranti e tanto, tanto sangue! Mi avvicino e sbircio nell’abitacolo distrutto: due ragazze così simili da far pensare a due gemelle, una bionda e l’altra mora, una con la maglietta prugna, l’altra rosa. 89 Cosa avranno pensato nell’attimo fatale quando la macchina è uscita di lato, quando lo schianto le ha uccise? Non finisco il pensiero che un conato mi assale e vomito l’anima davanti a quello spettacolo osceno. Non riesco a sopportare l’idea che due ragazze siano morte al posto mio, non riesco a sopportare che Dio lasci vivere un vecchio peccatore come me prendendosi due anime innocenti, non riesco a sopportare… Risalgo in macchina piangendo di rabbia e di compassione, metto in moto, faccio una conversione e riprendo la strada per Milano: questa non è la mia vacanza. La dolce estate era già cominciata… ***** Sono rinchiuso da giorni nello studio, non mangio, non mi lavo, non dormo, annego nel whisky le mie frustrazioni, non ho più rispetto di me stesso; sto lasciandomi morire. Thelma cerca di attirare la mia attenzione, vuole distogliermi dal baratro, portarmi a fare i conti con me stesso. La prendo dolcemente tra le mani, lei sa quanto le voglio bene, e, quasi per obbedirle, travaso la card sul computer: tanto è vuota, ‐ penso ‐ non ho fatto alcuna foto. Invece le immagini cominciano a scorrere: sul desktop appare l’incidente, la casa di vacanza, il vigile, il parroco, la mulatta, la coppia attempata, i ragazzi della spiaggia, il villaggio dei pescatori, i gatti, la fermata dell’autobus, lo Zippo, Carlotta e il Luna Park, il bar Casablanca, la zingarella, l’ostessa, Susanna nella doccia e, ultima, la fronda dell’albero che mi accarezza. 90 … tu scrivi un racconto per gli altri. Grazie Thelma: forse adesso ho capito! Apro un nuovo documento e comincio a battere sui tasti il prologo dedicato a mio padre. Voglio però ricordarti com’eri, pensare che ancora vivi; voglio pensarti che ancora mi ascolti e come allora sorridi… … e come allora sorridi… 91 92 INDICE Prologo Parte Prima Parte Seconda Parte Terza Parte Quarta Parte Quinta Epilogo 7 9 17 35 47 71 87 93 94 Editore: Edizioni Fabula srl Via Ernesto Lugaro 15/a - 00168 - Roma Tel. 06 45444885 - 06 45444886 Fax 06 45444887 Web site: www.edizionifabula.it E-mail: [email protected] Copyright: Franco Bonzi Copertina: Immagine di Federica Lauria Stampa: G.R. Grafica srl – Roma Tel. 06 6635284 E-mail: [email protected] Finito di stampare: Gennaio 2007 95 96