NOTE DIDASCALICHE ALLE COMPOSIZIONI
(ultimo aggiornamento: 14 luglio 2006)
Per Musica sacra
1. Ad regias Agni dapes
[...] La silloge di brani sacri s’innesta nel magistero compositivo realizzato durante gli anni di permanenza a
Loreto, alla guida della Cappella Lauretana. In essa si respira il clima più autentico osannante la musica sacra; il
primo quarto del secolo, vissuto all’ombra della Santa Casa, è denso di fertilità creativa e di sinceri palpiti di
fede. Sbocciano innumerevoli composizioni che coniugano poesia e musica nel perseguimento dell’esaltazione
della parola sacra attraverso l’evento sonoro. […]. (Arturo Sacchetti).
(dalla pubblicazione per la Rassegna Internazionale di Musica Sacra “Virgo Lauretana”, Loreto 2-7 aprile 2002)
7. Intonuit de coelo Dominus
[…] L’offertorio della seconda festa di Pentecoste, Intonuit de coelo Dominus, venne testè musicato dall’egregio
maestro Tebaldini. Questa composizione a tre voci con accompagnamento di organo ha tutto il sapore classico e
di più, senza drammatizzare la frase liturgica, esprime peraltro la grandiosità del sacro testo e la letizia
dell’alleluja, col quale finisce. […]
(da Musica sacra, “La Difesa”, 8-9 aprile 1893, p. 3)
14. Benedico Te Pater
Il brano è estremamente profondo nella sua concezione. A livello di individuazione di effetti armonici è molto
raffinato e anche complesso. Rappresenta un modo nuovo per far parlare l’organo, soprattutto in un’atmosfera di
primo Novecento un po’ contaminata dalla spirale di decadenza liturgica che aveva contagiato diversi organisticompositori. Tebaldini si mantiene completamente al di fuori di questo e mostra una grande nobiltà nel praticare
l’arte musicale. È uno dei rari pezzi da lui scritti per organo; un punto di riferimento fondamentale nella storia
della creatività organistica italiana del suo tempo; una testimonianza significativa, importantissima, perché si
pone nell’ambito della gloriosa tradizione dei maestri di cappella.
(dall’intervista di Luciano Marucci al M° Arturo Sacchetti, “Corriere Adriatico”, 4 giugno 2001)
17. Caecilia famula tua Domine
(vedi n. 2 Ad regias Agni dapes)
18. Caeciliae Nuptiae
È durante l’impero di Alessandro Severo (222-235) che si svolge in Roma il dramma preso a soggetto di
quest’opera. Il giovane imperatore romano, forse per l’amore a lui ispirato dalla madre, ritenuta cristiana, dalla
storia appare per carattere, clemente e giusto; procline a benevolenza verso i cristiani, ma non di meno debole e
facile a lasciarsi dominare dall’influenza dei consiglieri pagani, a lui messi a fianco per vigilarlo e sorvegliarlo.
Nel periodo che abbraccia il pontificato di Urbano, succeduto al martire San Calisto, assente da Roma
l’Imperatore, l’odio verso i cristiani si manifestò con violente repressioni ed il pio Pontefice, dopo essere stato
oggetto di castighi e patimenti, non riuscendogli possibile la dimora nell’interno della città, fu costretto a ritirarsi
fra l’ombre delle sacre cripte della via Appia, presso le tombe dei Martiri. Dal fondo di questo misterioso asilo
dirigeva egli i venticinque Titoli o Chiese che Roma già contava nel suo recinto; mentre a dividere con lui
fatiche e pericoli aveva chiamato parecchi preti ed alcuni diaconi.
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Cecilia vide la luce a Roma dove la famiglia sua godeva dei più alti onori del patriziato.
La stirpe dei Cecili si gloriava di contare per avo Caja Cecilia Tranquilla, moglie di Tarquinio il vecchio, uno dei
nomi più illustri dell’epoca dei Re. Sotto la Repubblica lo splendore di questa famiglia era salito ben alto.
Appartiene a quel tempo Cecilia Metella – moglie di Crasso – la cui tomba si erge sulla via Appia, di rimpetto
alle cripte misteriose presso l’ombra delle quali il corpo della Cecilia cristiana ha riposato per lo spazio di sei
secoli. Anche sotto gli imperatori la famiglia dei Cecili sortì parecchie volte l’onore del Consolato.
Cecilia, l’illustre vergine, fin dall’infanzia veniva segretamente iniziata ai misteri della fede cristiana, ma in pari
tempo i di lei genitori la designavano quale sposa di Valeriano, giovane patrizio di famiglia pagana. Pur, Cecilia,
nel trasporto e nell’estasi a cui si sentì rapita, già a Dio aveva consacrato la sua verginità. È quindi con
trepidanza che ella, apprendendo dai genitori il disegno di fare di lei la sposa di Valeriano, vede avvicinarsi il
giorno delle nozze.
L’azione tracciata nelle tre parti di cui si compone l’Oratorio, s‘inizia a questo punto, e precisamente nel
momento in cui viene celebrata la festa nuziale di Cecilia e Valeriano.
(Prefazione autografa di Giovanni Tebaldini allegata alla partitura di Caeciliae Nuptiae del 1901, conservata presso la
Biblioteca Palatina-Sez. mus. di Parma)
Leggiamo nella Nazione;
Il maestro Tebaldini, l’illustre direttore del Conservatorio di Parma, ha quasi terminato di scrivere un oratorio:
Le nozze di Santa Cecilia.
Nel prossimo novembre cade il centenario della recognizione del corpo di Santa Cecilia, e, in tale occasione,
l’Oratorio sarà eseguito.
Sarà eseguito in una chiesa e gli esecutori saranno tolti alla vista del pubblico, credendo il maestro Tebaldini ciò
debba conferire maggior effetto alla musica di un Oratorio.
Non v’è nel nuovo Oratorio del Tebaldini la parte dello storico: e il coro che narra.
Tutti i cultori della musica conoscono la dottrina del maestro Tebaldini: la sua autorità nella estetica; sanno
quanto valorosamente egli, che fu predecessore del Perosi nella Cappella di Venezia, e la diresse per cinque anni,
abbia combattuto per la riforma della musica sacra.
Vi è quindi molta aspettativa per il nuovo Oratorio. E l’argomento delle nozze di Santa Cecilia con Valeriano, in
cui han parte sì viva il dramma e la leggenda drammatica, ci sembra benissimo scelto.
(da Musica ed Arte - L’oratorio del M. Tebaldini, “Il Cittadino di Brescia”, 13 febbraio 1899)
Nella sala del Conservatorio Benedetto Marcello, gremita in ogni ordine di posti, l’Istituto Magistrale Nicolò
Tommaseo ha festeggiato nel pomeriggio d’ieri Santa Cecilia, protettrice della musica, con un concerto corale,
del quale la prima parte fu dedicata al coro senza accompagnamento, con esecuzioni riguardanti quel periodo
della nostra letteratura musicale in cui le vecchie forme del contrappunto si trasformarono in altre forme più
giovani e più rigogliose. La seconda parte era invece riservata al periodo romantico e moderno con esecuzioni
per coro accompagnato dall’orchestra.
[...] Nel cuore del programma stava il nuovo poemetto gregoriano “Le nozze di Santa Cecilia” del M° Giovanni
Tebaldini, opera che veniva eseguita per la prima volta e per la quale era vivissima l’attesa.
Il poemetto, di schietta e serena ispirazione ed espresso in nobilissima forma, proietta in un clima tutto pervaso
da un soffio di alta e purissima poesia quel tratto della vita di Santa Cecilia, che va dalle nozze al martirio.
La composizione scritta per voce di soprano, coro, piccola orchestra, organo e pianoforte, si nutre quasi
esclusivamente di temi originali gregoriani, che l’autore sviluppa ed elabora con religioso rispetto al loro
carattere liturgico, pur senza rinunciare al giudizioso impiego delle moderne risorse tecniche, specie nel campo
dell’armonia.
Il prologo scritto molti anni sono dal maestro Tebaldini, colpito allora nel suo cuore di padre per la perdita della
più giovane figliola, serba gli accenti di un fondo e sentito dolore che si conforta nella meditazione e si accheta
nei mistici trasporti. Poi la voce del canto esala purissima mentre il tessuto orchestrale raffigura e commenta
l’eroico episodio: la festività delle nozze, la confessione di Cecilia allo sposo, la conversione e il battesimo di
Valeriano, l’annunciarsi della tragedia contenuto dall’apparizione dell’Angelo, la condanna al martirio, la scena
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della morte e il funerale; e l’erompere del coro che trova nell’Inno di gloria mirabili impasti di voci. Il discorso
musicale si snoda con facile eloquenza nell’alternarsi dei vari momenti, che rappresentano altrettanti stati
d’animo dell’autore: ora zone di trasognato fervore nelle quali il disegno dell’antifona sembra svelato da un
raggio di sole nella penombra di una cattedrale, ora un fiotto impetuoso di traboccante dolcezza, ora un
drammatico incalzare d’accenti tra fascie d’ombra e chiazze di luce radiosa. Una mirabile semplicità di mezzi
concede all’autore la piena conquista dei suoi efficacissimi effetti, animando il quadro sempre limpido, arioso e
trasparente, mentre lo strumentale, accorto e gustoso, sa ottenere dalla piccola massa momenti di sonorità
suggestiva, e varietà e morbidezza di tinte fiorite da impasti di timbri quanto mai delicati.
La parte della solista venne sostenuta da quell’eletta cantatrice ch’è Maria Rota: parte di altissimo impegno,
anche per quell’indeterminatezza ritmica avvertibile sempre nella monodia dell’antifona gregoriana, che rende
spesso l’accentuazione della frase sì difficile e sì pericolosa. Maria Rota ha superato ogni ostacolo con
intelligenza e bravura: la sua voce fresca, robusta, di morbido timbro e di facile emissione, è stata anche iersera
docile strumento a un’arte assai raffinata ed ha offerto preziosa sostanza a un canto di tenerissima eloquenza e di
pronta e schietta forza emotiva.
(dall’articolo senza firma, Santa Cecilia all’Istituto Magistrale, testata sconosciuta, 23 novembre 1931)
Venezia, 24 (G. V.)
Per la festa di S. Cecilia si sono celebrate varie cerimonie. […]
Alle 21 è seguito nella sala stessa [Sala dei concerti del Conservatorio “B. Marcello”] il “Concerto annuale in
celebrazione della Santa protettrice della musica”.
Il concerto assumeva l’importanza di avvenimento artistico perché sarebbe stato eseguito il nuovo poema
gregoriano “S. Cecilia” del maestro Giovanni Tebaldini, direttore perpetuo della Cappella di Loreto e già della
“Marciana”, che l’avrebbe diretto di persona. Così nella sala si notava non solo una folla imponente, ma tutte le
principali autorità, molti critici d’arte e giornalisti, nonché numerosi professori e maestri di musica.
La parte prima, composta di musica tutta su trascrizione del Tebaldini: De’ Cavalieri (1550-1602), Sinfonia alla
“Rappresentazione d’Anima e Corpo”, Legrenzi (1625-1691), Sinfonie nell’opera “Totila”, Tinel (1854-1912),
Canto della povertà dal “Franciscus”, Galuppi (1706-1786) Introduzione alla “Cantata per la festa
dell’Ascensione”, venne diretta dal maestro Gabriele Bianchi del Conservatorio, che ottenne dalla massa degli
studenti, cui erano uniti gli ultimi licenziati, una meravigliosa fusione, tale che l’uditorio è stato trascinato ad
applausi vivissimi.
Dopo la prima parte lo stesso professor Bianchi tenne il discorso commemorativo, trattando magistralmente di S.
Cecilia nella tradizione cristiana e nell’arte”.
Seguì poi l’esecuzione dell’oratorio del Tebaldini che si presenta come una composizione gregoriana finissima,
ma nello stesso tempo di grande effetto.
Il maestro Tebaldini venne molto acclamato.
Il poema “S. Cecilia” merita di essere ascoltato da altre folle: c’è da augurarlo vivamente.
Autorità, intenditori, amici e ammiratori vollero congratularsi con il maestro Tebaldini per la sua nuova
composizione.
(da La festa di S. Cecilia a Venezia - Il nuovo poema del maestro G. Tebaldini, quotidiano non identificato del 25 novembre
1931, conservato presso l’Archivio Storico Istituto L. Sturzo, fasc. 456, c. 53)
[…] Atteso con grande interesse è stato poi eseguito il Poemetto Gregoriano del M. Giovanni Tebaldini “Le
Nozze di S. Cecilia” diretto dall’autore con caloroso successo.
Fra due brani corali gli episodi strumentali delle “Nozze”, del “Giudizio”, del “Martirio”, s’integrano col canto
di Cecilia e con quello di una “Voce” per la narrazione storica in una mirabile unità di espressione.
L’esecuzione, dovuta alla soprano Maria Rota che diede alle melodie gregoriane delicate e appropriate
inflessioni, al M. Goffredo Giorda che coadiuvò ottimamente all’organo anche in un brano di Tinel che figurava
in programma, e all’orchestra del Conservatorio che fu sicura e colorita.
Il Maestro Tebaldini e i suoi valorosi collaboratori, e il M. G. Bianchi furono assai applauditi.
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(da Novità musicali per S. Cecilia a Venezia, “Corriere Emiliano”, 26 novembre 1931)
Dedicato alle opere assistenziali del Fascio di Milano, si è svolto ierisera nella maggiore sala del Conservatorio
l’annunziato concerto diretto dal maestro Giovanni Tebaldini.
I consueti limiti della musica da camera, proprii dei trattenimenti della Sezione Musicale del Teatro del Popolo,
sono stati questa volta allargati, per il concorso che alla serata hanno recato il coro e l’orchestra, sia pure in un
contingente ridotto di strumenti.
Al centro del programma figurava, come novità per Milano, un poemetto gregoriano “Le Nozze di Santa
Cecilia” del maestro Tebaldini, il cui testo, tratto dalle Antifone e dagli Atti della Santa, rievoca gli episodi più
importanti della vergine cristiana, dalle nozze con Valeriano al martirio, ed ha l’epilogo di gloria in un Inno di
Prudenzio.
Il Tebaldini ha voluto mantenere alle parole i caratteri di misticismo e di severità propri dell’uso liturgico per il
quale furono destinate, ed ha usato perciò in gran parte le stesse melodie gregoriane, che nell’Antifonario le
rivestono. Il compositore tuttavia ha cercato un soffio di umanità nel concorso di un’armonizzazione, che si
mantiene, per lo più, devota alla fisionomia dell’antico canto, e di una sobria colorazione strumentale. L’insieme
della composizione è apparso circonfuso da un’atmosfera di dolce e severa poesia, ma certamente né vario né
saldo nella linea.
La soprano Ines Maria Ferraris che ha sostenuto i compiti principali del poemetto (e che già si era fatta
applaudire nel “Canto della Povertà” dal Franciscus di Edgar Tinel) ha dato novella prova delle sue elevate
intenzioni di interprete e della sua perfetta padronanza vocale, rinnovando infine il successo conseguito con
l’esecuzione del Salmo 46° di Benedetto Marcello.
La società Corale “S. Cecilia” di Busto Arsizio si è fatta apprezzare per disciplinato impegno sia nel poemetto
del Tebaldini, sia in un Mottetto a tre voci ed organo del secentista Vinaccesi. […]
(da Cronaca musicale - Al Teatro del Popolo, “L’Ambrosiano”, aprile 1932)
La prima esecuzione di questo poemetto ebbe luogo al Liceo Musicale “Benedetto Marcello” di Venezia il 22
novembre u.s., festa di S. Cecilia. È forse la prima volta che un numero considerevole di melodie liturgiche
vengono esposte, all’infuori della liturgia, per ricordare e ricostruire un episodio lirico drammatico.
Le dieci antifone gregoriane, se – pel loro carattere – sembrano rassomigliarsi, nel disegno melodico
diversificano assai. Si dovrebbe dire anzi che l’elemento tematico distingue nettamente l’una dall’altra; mentre è
ovvio ricordare che la costruzione periodale è basata su uno sviluppo ritmico che trae le sue basi dalla stessa
prosodia del testo.
Il compito del compositore, in questo caso, mentre è stato quello di rispettare le melodie secolari, esponendole
nel modo genuino con cui vennero concepite, doveva pur essere quello di collegarle fra di esse in modo da far
sorgere nel tutto una costruzione la quale presentasse carattere organico di logica continuità. A ciò, nel poemetto
del Tebaldini, attende appunto la piccola orchestra la quale sviluppa i temi iniziali o gli incisi di dette melodie, e
pure di altre suggerite simbolicamente dall’azione che si svolge nel piccolo quadro (Asperges me Domine; Credo
in unuum Deum; Patrem omnipotentem) mentre alla voce che narra, o che parla per la voce di Santa Cecilia, è
riservata – come è già stato detto – l’esposizione fedele delle melodie liturgiche nella loro genuinità di quindici
secoli.
Dopo tanti tentativi, di usare cioè dell’elemento gregoriano quale substrato tematico delle più disparate
composizioni profane, può riuscire interessante conoscere in qual modo i pochi gregorianisti della prima ora
intendano la pratica e l’uso di esso nella lirica drammatica moderna.
Il Tebaldini che da quarantasei anni appartiene alla esigua schiera di coloro i quali ebbero fede nella resurrezione
delle melodie gregoriane propugnandone lo studio e la pratica, con questo breve poemetto, ha voluto significare
come egli concepisca la reintegrazione del gregoriano quale elemento estetico dell’anima dell’arte.
Il prologo ed il finale de “Le nozze di Santa Cecilia” in cui non entrano melodie gregoriane, l’autore li ha tratti
da un Oratorio incompiuto che data dal 1898.
(dal programma del Concerto al Teatro del Popolo della Società Umanitaria, Milano, 26 aprile 1932)
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[…] Favorevolmente accolto dall’auditorio è stato infine il poemetto gregoriano Le nozze di Santa Cecilia, per
soprano, coro e piccola orchestra, di Giovanni Tebaldini, già eseguito una prima volta, a Venezia, l’inverno
scorso: composizione sviluppata con garbo intorno a dieci “antifone” di Gregorio, fedelmente esposte dalla voce
della Santa e collegate organicamente tra loro dall’orchestra che riprende e modifica le antiche melodie donando
al poemetto continuità di eloquio e unità stilistica. (f.[ranco] a.[bbiati])
(da Al Teatro del Popolo, “La Sera”, 27 aprile 1932)
Per virtù della diligente Direzione del Teatro del Popolo, abbiamo avuto il piacere di udire un’altra interessante
opera “Le Nozze di Santa Cecilia” per soprano, con piccola orchestra, organo e pianoforte di Giovanni
Tebaldini, nuova per Milano, ma già eseguita a Venezia il 22 u.s. per la festa di Santa Cecilia al Conservatorio
musicale B. Marcello.
Il testo, tratto dalle antifone e dagli atti della Santa, rievoca gli episodi più importanti della vita della Vergine
Cristiana, lo sposalizio della Santa con Valeriano, la conversione di questo alla fede della di lui sposa ed infine il
martirio degli stessi amanti.
Ha poi l’epilogo di gloria in un inno di Prudenzio.
Il poema, di suggestiva bellezza poetica, è stato integrato dal Tebaldini con musica consona alle situazioni
psichiche; musica la quale, oltre che per la novità concettuale, avvince per qualità non comuni di espressività,
semplicità e drammaticità.
Di quali procedimenti rettorici il Tebaldini si serve per questo poema? Semplicissimi. Collegando fra di esse le
antifone gregoriane, trova così il modo di far sorgere nel tutto una composizione la quale presenta carattere
organico di logica continuità. Cosa non semplice, perché oltre al rispettare le melodie secolari esponendole nel
modo genuino come vennero concepite, bisogna pur continuare lo sviluppo per le stesse, con quella entità
emotiva e soprattutto con l’uguale sapore coloristico ed internazionale.
È pure la prima volta che un numero considerevole di melodie liturgiche viene esposto, all’infuori della liturgia,
per ricordare e ricostruire un episodio lirico drammatico.
Una nota viva d’interesse la si deve pure alla piccola orchestra, alla quale il compositore affida gli sviluppi dei
temi iniziali e gli incisi delle sopradette melodie e di altri suggeriti semplicemente dall’azione che si svolge nel
piccolo quadro, “Asperges me, Domine; Credo in unum Deum; Patrem omnipotentem”, mentre alla voce che
narra o che parla per la voce di Santa Cecilia è riservata l’esposizione fedele delle melodie liturgiche nella loro
genuinità di quindici secoli.
Il Tebaldini meravigliosamente riesce a tutto ciò; sviluppa le melodie con genuinità come la loro natura vuole, le
collega con maestria. Né mancano i pregi della scorrevolezza, della diversità ritmica, della spontaneità di
andamenti e della viva vitalità.
Le antifone – pel loro carattere – sembrano rassomigliarsi nel disegno melodico; invece diversificano assai e
l’elemento tematico distingue l’una dall’altra nettamente, mentre la costruzione periodale è basata su uno
sviluppo ritmico, che trae le sue basi dalla stessa prosodia del testo.
Il maestro con questa opera apparisce intieramente il Papà rinnovatore di quella eletta schiera di cui fra i
moderni, è capo-scuola Ildebrando Pizzetti. Egli, senza distruggere le tradizioni nostre d’italianità, se ne serve
invece per raggiungere, senza vie inesplorate, tutti gli intendimenti alati, interiori e superiori, ai quali ogni eletto
artista aspira.
È continuatore-rinnovatore, di quella spiritualità intima e concreta, di quell’arte dalle sublimi recondite bellezze
ideali.
Ogni sua intenzione, attraverso la sua musica, è la dimostrazione del potere all’ispirazione ideale delle forme
incorporee e fantasiose, perciò spirituali per eccellenza.
Ed eccoci allo scoglio! Ma esistono più qualità psichiche di musica? Senza dubbio; ed anche quella solamente di
spiritualità, che non tutti hanno il dono di potere accogliere con animo di dolce soddisfazione e di soave
godimento.
Purtroppo comprendere non è cosa semplice o facile; e non è sufficiente per una tale comprensione la qualità
dell’intelletto, ma maggiormente necessaria quella della sensibilità animica.
Si osserva, e continuamente, che per molti, ed anche … musicisti, Bach annoia, oppure produce il senso del
grottesco; per altri invece fa piangere, oppure eleva a visione sublimi.
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Che dire, se dobbiamo avvicinarci alla candida, pura, soave e santa musica gregoriana, pervasa sola di quella
spiritualità che può denominarsi eletta? Eccoci alla logica conseguenza del soggettivismo estetico in favore di
quella gente, che per lo più si contenta di uno scetticismo comodo ed insensato!
L’istrumentazione della piccola orchestra ha dato, anche nella sua sobrietà, effetti di ottimi impasti ed ha
cooperato agli slanci eroici e alla commozione mistica della quale il poema è pervaso.
La soprano Ines Maria Ferraris in qualità di solista ha sostenuto la sua parte con maestria. La società corale
“Santa Cecilia” di Busto Arsizio si è disimpegnata egregiamente.
Sedeva all’organo l’illustre professor Ulisse Matthey, che ci ha fatto poi gustare, per l’impeccabile sua
interpretazione e grande virtuosismo tecnico il Corale in la maggiore e la Fuga in mi minore di Bach, la
Corrente Siciliana di Siegfried Kowy-Tlerd e Ad nos ad salutarem undam di Franz Liszt.
Tutto il complesso è stato diretto dall’autore.
Il pubblico ha accolto con ripetuti caldi applausi il Poemetto. (Lino Ennio Pelilli)
(da Tebaldini a Milano, “il Giornale dell’Arte”, a. VI, n. 10, Milano, 15 maggio 1932)
19. Canto di Penitenza
Nota esplicativa: (vedi Litanie Lauretane)
[…] mi farò precedere dalla composizione che mi ha richiesto: non è quale Ella desiderava ed io avrei voluto
dettare: mi è venuta giù spontaneamente in mezz’ora, una cosuccia alquanto romantica, ma sentita (a me
sembra). Nel dettarla confesso che piangevo non per la mia musica, ma per l’intima profondità del testo
veramente commovente. Potrebbe mandarmi il seguito? Io le mando la mia musica che andrà eseguita con molto
raccoglimento e con calma passionale. Antitesi? No! Pregando si può essere calmi e passionali… […]
(stralcio della lettera di Tebaldini a Mons. Giuseppe Berardi di Brescia, da Potenza Picena, 15 maggio 1940)
[…] Ecco il promesso autografo. Questo mio Canto di Penitenza mi pare si presti ad essere eseguito con qualche
discreto risultato. Non c’è un proprio e vero ritornello, ma le battute del Coro possono anche essere riguardate
come tali. Lo veda! Va eseguito quasi lentamente, ma con molta espressione. […]
(stralcio della lettera di Tebaldini a Mons. Giuseppe Berardi, da Potenza Picena, 16 maggio 1940)
31/2. Ave maris stella
L’encartage musical que nous donnons pour le présent mois est dû à la plume experte de M. Tebaldini, maître de
chapelle du Santo de Padoue. Ce sont des verset pour l’hymne Ave maris stella, couronnés à l’un de nos derniers
concours. Plusieurs d’entre eux sont écrits dans la modalité grégorienne, d’autres en tonalité moderne,
notamment le cinquème qui est particulièrement heureux et d’un effet charmant.
M. Tebaldini est un musicien érudit et très doué, qui a beaucoup lutté dans son pays pour le triomphe des saines
traditions de la musique sacrée. Élevé à l’école du docteur Haberl, à Ratisbonne, il n’en est pas moins resté un
artiste purement latin; sa parole chaude et convaincante, sa musique et ses belles auditions du Santo ont su forcer
l’attention et vaincre bien del résistances. (C. B.)
(da Notre encartage musical, “La Tribune de Saint Gervais”, a. II, n. 11, Parigi, novembre 1896, p. 175)
52. Hymnum (O Dei Mater)
[…] Le altre quattro pagine sono occupate da un breve Inno, speciale alla diocesi di Ravenna, dal M.° Tebaldini,
e dedicato a S. Emin. il Card. Galeati Arcivescovo della stessa città.
L’Inno che presentiamo ai nostri lettori è nel modo quarto (ipofrigio) e viene alternato colle strofe gregoriane
dell’Inno della B.V. di Lourdes, contenute nel Vesperale di Solesmes. La melodia figurata che vi è aggiunta può
essere adattata a tutti quegli Inni i quali siano composti nella forma dell’ode saffica latina.
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(da La nostra musica, “La Scuola Veneta di Musica Sacra”, a. I, n. 9, Venezia, aprile 1893, p. 71)
54-55. Gradualia festiva
Il primo di questi due fascicoli contiene 12 Graduali per le maggiori feste dell’anno; il secondo raccoglie 9
Graduali, e serve per le ricorrenze dell’Immacolata, della Purificazione, di S. Giuseppe, dell’Annunciata, di S.
Cecilia, del S. Cuore di Gesù, di Tutti i Santi, di S. Anna, di S. Lucia e dell’Assunta.
Se volessimo mettere a confronto il genere di musica che il m° Tebaldini prescelse come tipo di questa sua
collezione con quello usato dal m° Dentella nell’opera qui sopra accennata, dovremmo dire che quest’ultimo va
innanzi al primo per spontaneità e naturalezza di invenzione melodica; e che il primo è da preferirsi al secondo
per ineccepibile correttezza di stile.
Questa raccolta del m° Tebaldini ne ricorda abbastanza davvicino una, anche più copiosa, quella di tutti gli
Offertori dell’anno, pubblicata, or sono parecchi anni dal Pustet di Ratisbona, alla quale concorsero i migliori
autori ceciliani di Germania. Sono due fascicoli di complessive 85 pagine di musica, di immediato vantaggio
pratico per quelle chiese, ove esiste l’uso di cantare in musica anche il Graduale. Essi serviranno però certamente
a tutte le chiese, perché il Graduale può essere eseguito benissimo anche come mottetto.
Predomina una discreta facilità di esecuzione tanto nella parte cantabile, quanto in quella d’accompagnamento.
Le voci sono quelle di tenore e di basso.
(da Bibliografia pratica, “Musica Sacra”, a. XXXVIII, n. 2, Milano, 1914, p. 29)
87. Litanie Lauretane
(vedi n. 1 Ad regias Agni dapes)
94. Missa Brevis in honorem Sancti Ambrosii
Questa Messa ha tutto del liturgico che si possa immaginare, chiara, scorrevole, breve, senza nessuna ripetizione,
e armonizzata con eleganza e varietà.
L’organo vi ha una parte importante, e ciò per supplire alla mancanza delle voci, e ha fatto bene l’autore!
L’organo deve sempre muoversi e riempire. Qua e là però potrebbe essere un po’ più facile. Parte del Credo è in
gregoriano, armonizzato secondo le prescrizioni tonali; solo qualche volta l’autore dà all’organo un canto
diverso dal gregoriano, come all’ante omnia saecula, all’et in Spiritum Sanctum ecc., ecc. Siamo liberissimi, è
vero, di farlo; ma noi crediamo che se si mette mano al Gregoriano, pare sia meglio osservare una regola. – Ci
sono in questa Messa alcuni sbagli di stampa. Non sappiamo se al gratias l’organo abbia proprio il bequadro,
crediamo sia invece il diesis, scala melodica minore ascendente. Al secondo Agnus Dei reputiamo sia da
omettere nell’organo re, re diesis; invece pare si abbia voluto fare nel basso fa diesis fa. La Messa è
raccomandabile sotto ogni riguardo alle cappelle non molto numerose.
(da “Musica Sacra”, a. XXVIII, n. 10, Milano, ottobre 1904, p. 157)
96. Missa Conventualis in honorem Sancti Francisci Assisiensis
[…] il notevole lavoro [Missa conventualis] – che per la serietà dello stile, in prevalenza polifonico, e genialità
di idee e di condotta fa fede dell’ingegno e del sapere del suo autore – verrà eseguito nel prossimo agosto per la
prima volta da un Coro di 100 voci nella Cattedrale di San Gallo (Svizzera) sotto la sapiente direzione del
maestro Stehle il quale ha invitato il Tebaldini stesso ad assistervi.
Una esecuzione d’una Messa d’autore moderno italiano, in condizioni come quelle sopra accennate, non è cosa
che capita ogni giorno, anzi, per essere nel vero non accade quasi mai; […]
(da M.[arco] E.[nrico] B.[ossi], Arte ed Artisti. Una nuova Messa del maestro Tebaldini, “La Lega Lombarda”, 16-17
giugno 1896)
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Nel prossimo agosto nella Cattedrale di S. Gallo in Isvizzera verrà eseguita da 100 parti una nuova Messa a 4
voci con accompagnamento d’organo detta Missa Conventualis del nostro egregio concittadino M. Tebaldini.
Togliamo dalla Lega Lombarda che si tratta d’un notevole lavoro, che per la serietà dello stile, in prevalenza
polifonico, per genialità di idee e di condotta, fa fede dell’ingegno e del sapere del suo valente autore.
(da Una nuova messa del M. Tebaldini, “Il Cittadino di Brescia”, 18 giugno 1896)
Milano, 10 novembre 1896
Caro Collega
Ho ritardato di qualche giorno il mio ritorno in città; da ciò il ritardo di questa mia risposta, la quale è piena di
rallegramenti e di ringraziamenti per la sua Missa Conventualis, di cui ella volle regalarmi un esemplare.
La lessi e la rilessi con una soddisfazione intellettuale sempre crescente.
Quando c’incontreremo, le domanderò degli schiarimenti intorno alla modalità del Credo. Il disegno del canto
gregoriano vi è assai bene fissato (produce un effetto penetrantissimo), ma la sua indole modale non corrisponde
al testo gregoriano, ch’ho sott’occhi. Certo avrà ragione lei, ma non è questione da trattarsi per lettera. Andrebbe
troppo per le lunghe.
La lascio perché devo scrivere al Maestro Pedrell, a cui son debitore d’una cortese risposta.
Saluti cordialissimi dal suo
Arrigo Boito
P. S.: Mio fratello mi dice che Ella verrà presto a Milano; aspetterò allora a restituirle l’interessante volume
(Morales), ch’ella mi prestò e di cui la ringrazio.
(da Lettere di Arrigo Boito - A Giovanni Tebaldini – Padova, raccolte ed annotate da Raffaello de Rensis, Società Ed. di
Novissima, Roma, 1932)
Martedì scorso, festa dell’Immacolata e l’altro ieri ancora, è stata eseguita e ripetuta nella nostra Cattedrale, dal
numeroso Domchor, che dirige il chiaro maestro I. G. Eduard Sthele, la nuova Missa Conventualis del maestro
Tebaldini, direttore della Cappella Antoniana di Padova, pubblicata dall’editore Schwann di Düsseldorf. Il
successo artistico fu notevole; il nuovo lavoro del giovane compositore italiano apparve ricco non solo di
festività e di solennità, ma anche di melodia. Dallo stile, che informa la composizione, si comprende che l’autore
ha ricercato una religiosita modernità, che può essere l’inizio di un genere di musica sacra certamente non
comune. Il terzo Kyrie e le parti figurate del Credo e l’Agnus Dei ne sono prove evidenti. In Germania quelli che
si sono, dirò così, creati un dogma nelle regole ceciliane, trovano a ridire sul lavoro del Tebaldini. Non così però
quelli che amano e coltivano la musica sacra moderna con criteri non assolutamente restrittivi.
Senza dubbio, se le composizioni degli antichi meritano esser preferite, le manifestazioni artistiche che vediamo
sorgere qua e là nel campo della musica sacra, ispirate ad idee serie, sobrie, elevate, ma di sapore moderno, non
crediamo si debbano respingere.
A proposito di questa Messa del Tebaldini, mi permetto riprodurre le parole lusinghiere dell’illustre maestro
Pedrell, pubblicate nel periodico La Musica Religiosa di Madrid: “Così comprendiamo debba intendere il
compositore moderno il liturgismo in musica, e così, soltanto così, si deve comporre la musica moderna, che
accetta e favorisce la Chiesa, perché essa si è bagnata nella pura essenza che la Chiesa moderna chiama sua, cioè
nel canto gregoriano e nelle melodie e nei modi secolari.”
A San Gallo udremo sovente, senza dubbio, la Missa Conventualis del Tebaldini, che ha piaciuto. (MAX).
(da Musica Sacra / San Gallo, 15 Dicembre / Esecuzione della Missa Conventualis del maestro Tebaldini, “Gazzetta
Musicale di Milano”, a. 51, n. 52, 24 dicembre 1896, p. 862)
[…] La composizione a quattro voci del M. Tebaldini è molto lodevole per semplicità ed eletta melodia, sempre
condotta con quella austera sobrietà che è caratteristica della musica sacra. Specialmente il Credo, eseguito poco
meno che a perfezione, fu di efficacissimo effetto. Chi non l’avesse sentito direttamente se ne dovea accorgere
dal raccoglimento dell’affollatissima assistenza, tutta intenta a seguire la sacra parola, resa con soave maestà da
un canto che mai menomamente la vela. Qui sta il carattere proprio della musica sacra, che invece di distrarre
come che sia con allettamenti, fin che si voglia pregevoli ma profani, raccoglie gli animi e li attrae alla parola
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della sacra liturgia. Questo effetto a noi parve di notarlo segnatamente (per non uscire dal Credo) quando, per
esempio, la frase musicale, sempre vereconda e grave, si allargava proporzionatamente nei versetti
dell’Incarnatus, del Resurrexit e dell’Unam sanctam, interpretati musicalmente con grande soavità e grandiosità,
ma senz’ombra di artifiziosa profanità, coll’usata limpidezza concisa. […]
(da Musica sacra, “L’eco di Bergamo”, 29 dicembre 1896; anche in La Missa Conventualis del M° Tebaldini a Bergamo,
“Il Cittadino di Brescia”, 30 dicembre 1896)
[...] La Missa Conventualis è appunto una prova dei buoni studi da lui fatti [a Ratisbona]. La melodia del Kyrie è
nobile ed espressiva, ed il Gloria presenta una costruzione organica di polso; ma il Credo è, a mio avviso, il
pezzo che merita maggior attenzione. In questa composizione il Tebaldini ha preso sino dalle parole “Patrem
omnipotentem” la melodia stessa del canto gregoriano quale si riscontra nell’“editio typica” di Ratisbona e l’ha
abbandonata solo per innestare, in punti esteticamente ben scelti, dei brani polifonici che dovrebbero far vieppiù
risaltare il carattere narrativo ed insieme drammatico del testo. Ho voluto confrontare (mi si permetta questa
breve digressione) la melodia gregoriana dell’edizione di cui si è servito il Tebaldini con la stessa melodia tale e
quale viene riportata nel “Liber Gradualis” del Pothier, ed ho dovuto constatare che la differenza che esiste fra
loro è specialmente tonale, il che non mi pare di poca importanza. Nell’edizione infatti dell’illustre benedettino
la nota dominante “La” ha sempre vicino l’intervallo di 2ª minore (formato da un podatus) invece di quello di 3ª
min. come si può vedere alle parole: Patrem, Filium, ante, ecc.
Ora, lasciando da parte che quella 2ª min. che si è voluto porre nella seconda serie della scala del 4° modo
plagale [...] viene a stabilire pel pentacordo una cattiva relazione di quinta diminuita che fu sempre condannata e
lo è anche tuttora da’ buoni compositori, è pur giocoforza specialmente riconoscere che essa altera sopratutto
completamente il senso tonale della melodia stessa; il che, ripeto, non è di poca importanza e dà pienamente
ragione al Tebaldini di aver preferito l’edizione di Ratisbona più semplice e naturale. (Antonio Cicognani)
(da Bibliografia / (Musica sacra), “La Cronaca Musicale”, a. II, n. 4, Pesaro, 1897, pp. 144-145)
[...] Una buona messa scritta nello stile della riforma, in Italia, pur troppo non è cosa di tutti i giorni. Il nostro
paese, in cui la polifonia vocale raggiunse tanta eccellenza, il nostro paese, di cui la polifonia vocale è anzi la più
bella, più pura e più vera gloria, è stato, in proposito a musica sacra, uno degli ultimi a scuotersi dalla
indifferenza e dalla letargia. E mentre in Germania si coltivava l’eredità di Palestrina e si ascoltavano le musiche
dei nostri grandi dei secoli passati, dei Gabrieli, di Allegri, di Lotti, da noi, sempre artisti per la grazia di Dio, si
eseguiva in chiesa quel che non tolleravano neanche il teatro e la strada, e si provvedeva all’edificazione
religiosa cogli sgambettanti motivi di Coppola e di Mercadante. Io non ho mai sentita così forte l’umiliazione e
la vergogna italiana come nell’ascoltare i mottetti dei nostri grandi maestri alle esecuzioni mirabili, che se ne
hanno nella chiesa di S. Tomaso a Lipsia. Mi sono augurato che anche da noi si cominciasse ad aprir gli occhi
sopra gli errori che, in epoche di cattivo gusto, ci avevan guasta la nostra musica sacra come pur l’altra tutta, ed
ho invocato il lavoro del risveglio e della redenzione. Ora i lavoratori sono venuti e l’opera della restaurazione è
cominciata.
Se si considera che cosa si cantava sol pochi anni fa nelle nostre chiese principali e che cosa si spacciava per
sublime, bisogna convenire che, in alcuni luoghi, un notevole passo si è fatto verso un deciso miglioramento dei
canti sacri. Tra i cooperatori di questa necessaria riforma, il Tebaldini, nel campo della teoria e in quello della
pratica, lo abbiam visto dei più attivi e zelanti. Se le sue parole avevano svegliata la nostra fiducia, i fatti ci
hanno persuaso che questa fiducia aveva ragion d’essere.
Eccoci adunque ad uno di questi fatti: la N
Messa conventuale di S. Francesco d’Assisi.
Nel lavoro del Tebaldini noi non possiam propriamente parlare di parte inventiva. Egli non è di una specie così
fatta da prestarsi ad una simile ricerca. Resta la struttura, resta lo stile, e, in questo caso, l’autore merita seria ed
ampia lode. Io voglio dire che, se in questa messa, in fatto di idee musicali, c’è poca originalità e forse ella se ne
sta affatto assente per il volere stesso del compositore, c’è, in compenso, molto di finito nello stile. Il Tebaldini
ci ricorda onorevolmente, ad ogni pagina, che egli ha lavorato bene e secondo buoni modelli, e questo, nella
musica sacra, è un guadagno sensibile. Di primo tratto sembrerebbe che il suo periodo polifonico fosse, in
generale, breve; una maggiore continuità ed un maggiore sviluppo dell’idea musicale parrebbe desiderabili,
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poiché i temi suoi han fiato corto, cercan presto di risolvere in una cadenza o semicadenza o cadenza sospesa,
per far luogo all’entrata di un altro tema; sembra che ciò, anzi, generi una certa influenza che su questa condotta
hanno avuto le parole del testo liturgico, ed in ispecie considerando il tutto, c’è in questa composizione un senso
di misura che non bisogna disconoscere. La decadenza di questo genere d’arte dipese per l’appunto e sempre
dalla perdita del senso della misura: si eccedette nell’uso della materia tecnica, facendola prevalere sullo spirito.
Perfino le ultime opere di Palestrina non vanno totalmente immuni da questo difetto. La semplicità e la chiarezza
si smarriscono facilmente da chi, giunto a maturità e reso padrone di tutti i mezzi della tecnica, ne usa a
profusione. È questa una verità triste nella storia dell’arte, ma è una verità.
Mi ha dunque fatto molto piacere il vedere come, nella Messa del Tebaldini, lo spirito prevalga sulla tecnica e
questa non cada mai in esagerazioni. Con tutto ciò, se una maggior ricchezza di contrappunto, dato il sistema, era
cosa da evitarsi, una maggiore originalità non avrebbe fatto male. Il moto delle parti è naturale, scorrevole,
efficace. L’armonizzazione è semplice, bella, diligente e, salvo un paio di luoghi, essa è anche corretta. Le sue
formule, come progressioni, ritardi, cadenze ecc., sono alquanto comuni e qualcuna spesseggia un po’ troppo;
anche in questo caso una maggiore aspirazione verso la novità sarebbe stata desiderabile e, mi pare, ottenibile,
pur rimanendo nello stile.
Queste prime messe in forma così semplice ci vogliono, per provare che a comporre della buona musica sacra
non è necessario introdurvi fughe, canoni, imitazioni e tutto il corredo di formule che offre il ricettario del
contrappunto. L’autore, dunque, si è messo sopra una buona via, una via che, in questo genere, guida
all’eccellenza.
Venendo a discorrere brevemente delle parti di cotesta Messa, dirò che il Gloria, secondo me, è il pezzo migliore
come fattura, che il Credo però gli è superiore come carattere. Nel Gloria ammiro, tra altri brani, il Qui tollis ma
non il Cum sancto: la progressione sulle parole gloria dei patris è vieta ed esce dallo stile della musica sacra. È
un breve dettaglio ed è un’eccezione in questa messa. Nel Credo, una certa insistenza simpatica sulla 5a del tono
di mi b, armonizzata coll’accordo di tonica, è interessante e caratteristica. Il tema del Kyrie è uno dei migliori.
L’autore lo ha trattato con molto buon gusto ed eleganza, soprattutto alla ripresa del Kyrie, quando il detto tema
è esposto in forma di canone all’ottava. L’Agnus è un po’ arido: più melodici sono il Sanctus e il Benedictus.
Il Tebaldini s’è imposto dei limiti alle volte anche più stretti di quelli consentiti dai grandi modelli della musica
sacra. È suo onore se in questi limiti egli ha lavorato una forma piacevole. Egli riuscirà più originale e geniale
accordandosi quella maggior libertà che viene dalla lunga pratica. Nella musica sacra noi dovremo accogliere
con molto tatto le acquisizioni fatte nel campo dell’armonia, ma le dovremo accogliere. Rinunziarvi
completamente non credo convenga a nessuna specie di componimento musicale; ma impiegarle secondo modo
e misura è degno del libero e geniale artista. E Tebaldini ho fede che ce lo proverà. (L.[uigi] T.[orchi])
(da “Rivista Musicale Italiana”, vol. IV, 1897, pp. 180-182)
La messé [Missa Conventualis] de M. G. Tebaldini, à quatre voix et avec orgue, tout étant conccue dans le style
des messes de F. Witt, et d’après les mêmes principes, qui sont d’unir les formes anciennes aux ressources
modernes, manifeste, soit dans le rôle assignè à l’orgue, soit dans la disposition même de voix, une varieté
nouvelle, augmentée d’emprunts aux thèmes grégoriens et due à l’heureuse alternance des éléments divers qu’il
met en oeuvre. Bien que les soli individuels soient évités, les motifs exposés à l’unisson sur un accompagnement
d’orgue donnent à la composition une clarté que ne contrarie jamais la marche simultanée des parties, reliées et
soutenues par les dessins polyphoniques de l’orgue, qui les reproduit en les enrichissant.
(da Bibliographie, “La Tribune de Saint Gervais”, a. IV, n. 4, avril 1898, p. 32)
97. Missa pro defunctis
Tutti i giornali di Roma confermano il giudizio telegrafatoci ieri dal corrispondente romano, sulla Messa funebre
di Bossi e Tebaldini in memoria di Vittorio Emanuele II. Tutti ripetono che si tratta di forte e serio lavoro
ispirato alle più pure fonti dello stile mistico, con un soffio di modernità gagliarda e geniale. È noto che questa
Messa fu scelta per concorso, che il Tebaldini è maestro della Schola Cantorum di Venezia e che il Bossi è
insegnante nel nostro R. Conservatorio. [...]
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(da La Messa al Pantheon, “Il Mattino, 21-22 gennaio 1893, p. 2)
Di un lavoro artistico, qual è la Messa per i funebri di Vittorio Emanuele, della quale questa mattina fu
l’esecuzione al Pantheon, è prezzo dell’opera il parlarne con entusiasmo; specialmente se si pensa quanto di rado
ci sia data l’occasione di sentire simili esecuzioni.
Questa Messa, come è noto, è opera degli insigni maestri Enrico Bossi e Giovanni Tebaldini; il primo professore
d’organo al Conservatorio di Napoli, il secondo maestro della Schola Cantorum di Venezia; giovanissimi
entrambi per il posto che occupano e per l’opera che scrissero.
Può sembrare strano che due maestri abbiano cooperato in un solo lavoro, ma il tempo assai ristretto, però che
non abbiano posto mano a quest’opera che quindici giorni prima che si chiudesse il concorso, li indusse a
dividersi la fatica.
La Messa adunque è a quattro voci dispari, in istile alla Palestrina nel più stretto senso della parola. Stile breve,
sobrio, espressivo, di una naturalezza così squisita che sembra parto piuttosto della natura che dell’arte; là dove è
il prodotto dell’arte più raffinata.
La melodia, ispirata sempre alla gregoriana, è tolta talvolta di sana pianta da quelle, seguono sempre i sacri
concetti, e la riunione delle parti non offusca menomamente la loro chiarezza.
Tutte le parti hanno una uguale importanza, e le parole riescono intelligenti sempre; pregio questo che nessuno
sa ammirare abbastanza, quanto chi frequenta in genere la chiesa di Roma.
Lo stile dei due chiarissimi A. si assimila assai bene; se togli forse che il Tebaldini si attiene ad un genere più
strettamente classico, come in ispecial modo nel Requiem e nel Kyrie, nei quali pezzi le melodie sono melodie
gregoriane, armonizzate esclusivamente nella tonalità antica, e che il Bossi, pur seguendo sempre il Palestrina,
foggia piuttosto i suoi temi sul canto fermo, prediligendo uno scrivere un pochino più cromatico che risente
vagamente l’influenza della tonalità moderna. Eccellenti composizioni di quest’ultimo maestro, del quale così in
questa come in altre opere si riflette l’impronta del suo genio, riuscirono il Graduale o più ancora l’Agnus Dei.
Un pezzo del Tebaldini grandioso e di elettissima composizione è il Dies Irae; che pur essendo lungo, perché
lunga è la sequenza, non riesce punto stucchevole, per la finissima arte con cui è fatto, e per la varietà dei singoli
versetti.
Questo adunque è il vero genere di musica sacra, cui la riforma vorrebbe dovunque attuare; e se grandi difficoltà
dovrà ancora superare prima di conseguire questo ideale, quia stultorum infinitus est numerus, non poco anche
qui in Roma le avrà avvantaggiato l’opera dei due maestri sullodati.
L’esecuzione in complesso fu buona; di meglio in Roma non si poteva aspettare, dove manca una buona scuola
specialmente per le voci bianche.
(da Walther, La “Messa da Requiem” al Pantheon, “Giornale di Udine”, 23 gennaio 1893, p. 1)
Stamane ha avuto luogo la funzione funebre ufficiale che ciascun gennaio il Governo dispone in memoria del Re
Galantuomo nel Mausoleo d’Agrippa, più conosciuto sotto il nome di Pantheon, dove riposa la salma del gran
Padre della Patria. E la solennità di quest’anno ha avuto importanza dal lato artistico, essendosi per l’occasione
studiata ed eseguita, sotto la direzione degli autori, la Messa dei maestri Tebaldini e Bossi, scelta nel concorso,
come vi scrissi a suo tempo.
Questa Messa è un lavoro degno di studio speciale, serio, severo, condotto con amore, con diligenza, con perizia,
con quella profonda conoscenza del genere che non si acquista se non con studi speciali e che non si esplica
senza particolari attitudini.
Lo stile ne è prettamente polifonico, di quella polifonia contrappuntistica vocale della quale Palestrina è stato
l’eccelso luminare, e che non ha nulla da che fare colla polifonia venuta di poi collo sviluppo della fuga. I temi
vi sono subordinati alle parole, il senso non è barbaramente tradito dalle esigenze del pezzo. Anzi, la scrupolosità
specialmente del Tebaldini è tale che esso ha assunto per base del Requiem, del Kyrie, del Dies irae, temi del
canto gregoriano. L’effetto del Requiem in do maggiore è di una tranquillità e magnificenza veramente
splendide: la frase della Messa da Requiem ordinaria gregoriana è svolta con mirabile sobrietà; nel Kyrie sono
tre i temi sviluppati e poi riuniti, e questi sono tratti dalla Messa delle domeniche d’Avvento. Altra volta come
canto fermo è conservata l’intera frase gregoriana e sopra e sotto di esso si erige l’edificio contrappuntistico, che
è poi sviluppato nel versetto successivo. Tonalità e ritmo sono quelli più in uso nei modelli del buon tempo: gli
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accenti delle parole sono gli unici determinanti del ritmo, né v’è pericolo che nelle modulazioni o negli intervalli
il Tebaldini s’allontani dalle sane tradizioni della scuola. (Valetta)
(da Corrispondenze – La Messa funebre di Tebaldini e Bossi, “Gazzetta Musicale di Milano”, a. XLVIII, n. 5, 29 gennaio
1893, p. 73)
Della Messa a voci sole di stile palestriniano, eseguita al Pantheon per i solenni funerali anniversari di re Vittorio
Emanuele, la stampa si occupò assai meno di quel che meritasse l’importanza del lavoro e, dirò così,
l’eccezionalità del genere nelle condizioni presenti dell’arte musicale.
Quell’avvenimento musicale non è però così lontano che non si possa ancora segnalare al pubblico dei musicofili
il valore dei due autori [Bossi e Tebaldini] della Messa. Ambedue sono, fuor d’ogni dubbio, due forti musicisti; e
rade volte la collaborazione, che in massima non può approvarsi in alcun genere d’arte, ha dato un tutto così
omogeneo, così compatto, senza disuguaglianze di stile e di fattura.
[…] Oggi il Tebaldini si è provato come compositore: sono caratteri del suo stile una certa eguaglianza e
pacatezza, una struttura pienamente conforme al modello palestriniano non disgiunta da robustezza e colore,
senza mai perdere di quell’alta serenità che è principale carattere della musica religiosa. Si vede nel Tebaldini lo
studioso indefesso, l’artista che si è formato sui grandi modelli, che si è fatto un alto concetto del genere da lui
prescelto e che conosce profondamente.
[…] Per tutte queste ragioni non posso che far plauso alla R. Accademia Filarmonica romana di aver lasciato
adito alla musica polifonica, nell’ultimo concorso, e di aver prescelto per l’esecuzione la Messa dei maestri
Tebaldini e Bossi; e ai due egregi autori di aver affrontato coraggiosamente un genere tanto difficile e di esservi
pienamente riusciti, presentando un lavoro ricco di pregi non comuni.[…] (Alberto Salvagnini)
(da Musica sacra, “Fanfulla della domenica”, Roma, 15 febbraio 1893, p. 2)
[…] Alla collaborazione di questi due eletti ingegni [Bossi e Tebaldini] è dovuta la Messa funebre che stamane
ha prodotto così profonda sensazione sotto la volta monumentale del Mausoleo d’Agrippa [Pantheon], eccittando
pel suo reale carattere religioso, per la severità dello stile, per l’ampiezza della concezione, l’ammirazione anche
di coloro che non udirono che di rado il testo liturgico scompagnato dal sussidio dello strumentale.
[…] Lo stile a cui è informata la Messa è prettamente polifonico. La polifonia contrappuntistica vocale delle
classiche scuole italiane non ha nulla di comune colla polifonia venuta di poi, in cui la forma fugata, o meglio lo
sviluppo assoluto della fuga, sacrificò la concezione nel suo assieme col testo.
[…] Libera quindi dalle pastoie della scolastica, come sono liberi i classici autori del XVI secolo, questa
composizione, legata solo parzialmente al canto fermo per quanto riguarda gli intervalli, lascia nella sua severità
campo alla fantasia, non alla volgare, s’intende, ma a quella che si giova delle risorse armoniche per assorgere a
grande altezza.
Ben compresero il genere Tebaldini e Bossi, i quali cercarono di posare tornando all’antico con voler dar prova
di sapere inopportuno svolgendo fughe o canoni, per dimostrare la loro capacità di contrappuntisti, ma si
servirono da un punto di vista elevato degli elementi che la scienza armonica metteva a loro portata. Anzi
Tebaldini e Bossi fecero di più: seguirono il sistema più difficile praticamente, ma più consono alla serietà della
sacra funzione, in molti punti assumendo a base del loro lavoro, i temi dello stesso Canto gregoriano.
Sotto questo rapporto il più esatto si deve dire Tebaldini, che nel tema iniziale del Requiem svolge la frase della
pro defunctis gregoriana, nel Kyrie sviluppa e poscia riunisce i tre temi della messa delle domeniche d’Avvento.
In altri punti (come nel Quaerens me del Dies Irae) con elegante connubio l’intera frase gregoriana è conservata
come canto fermo ai tenori, e sopra e sotto di essa viene eretto un edificio contrappuntistico che si sviluppa
poscia nella nuova frase del versetto susseguente, dando mirabile, intima connessione all’intero componimento.
Del pari, quanto alla tonalità, il Tebaldini ha seguito scrupolosamente le tradizioni e l’esempio dell’epoca ed il
ritmo da esso cercato e voluto è quello libero che prende norma dagli accenti delle parole, né c’è caso che egli
ammetta modulazioni arrischiate od intervalli difficili e ricercati.
Bossi, che ha scritto della Messa il Tractus prima del Dies Irae, l’Offertorio e tutto il resto, compresa
l’Assoluzione, è relativamente più libero, tende ad emanciparsi sotto un certo punto di vista dalla rigorosità di
forma e di stile alla quale si è informato il Tebaldini. L’esempio dei classici è da lui seguito con coscienza nella
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costruzione polifonica della composizione e nel ritmo, ma in complesso c’è a notare in lui la tendenza ad un
genere maggiormente personale.
I temi sono tutti creati da lui ed in essi si sente maggiore libertà di modulazione e ricchezza più copiosa
d’armonia. Tebaldini è più ortodosso, Bossi più ideale.
L’ortodossia del Tebaldini si manifesta in tutta la sua forza nella chiusa del Kyrie, nella quale tornano e si
fondono i temi gregoriani uditi precedentemente, come pure negli ultimi versetti del Dies Irae.
[…] Mi è parso che di fronte a quello che tutti possono giungere a saper fare, fosse da rilevare l’idealità ed il
senso intimo e profondo che non è dato a tutti di raggiungere, e che i due valenti ci hanno provato in questo
lavoro veramente pregevolissimo.
[…] Conchiudo facendo voti perché l’esempio dei maestri Tebaldini e Bossi dia buoni frutti, animi i cultori
dell’arte sacra a serii e severi studii, ed ecciti lo zelo dei cooperatori. (Ippolito Valetta)
(da La “Messa” al Pantheon di G. Tebaldini ed E. Bossi, Musica Sacra, a. XVII, n. 2, Milano, febbraio 1893)
99. Missa Solemnis in honorem Sancti Antonii Patavini
Caro Maestro Tebaldini.
Milano, Giugno 1895
Mi affretto a restituirle la Messa perché lei, senza dubbio, ne avrà bisogno urgente. L’ho letta tutta ed ammirata
in parecchie sue parti e specialmente dal Credo in avanti sino alla fine.
È questa Messa, se non m’inganno, un componimento che più procede e più s’innalza, e il secondo Agnus Dei,
colla chiarezza delle sue linee puramente vocali e coll’intreccio delle sue scale palestriniane, incorona
nobilmente il bel lavoro.
E di ciò mi rallegro con lei salutandola amichevolmente e stringendole la mano.
Questa Messa solenne in onore di S. Antonio di Padova meritò poscia il primo premio dalla “Schola Cantorum”
di Parigi, e fu pubblicata da Ricordi.
(da Lettere di Arrigo Boito, raccolte ed annotate da Raffaello de Rensis, Società Ed. di Novissima, Roma, 1932)
Egregio Maestro Tebaldini,
Mi scuso se le rispondo con ritardo; ma non ho voluto scriverle senza prima aver esaminato, in tutti i suoi
particolari, la sua ultima Messa. Ora, l’ho fatto con vivo interesse, e posso assicurarle che ne sono rimasto
ammiratissimo. Per essere breve e non abbondare in elogi, dai quali lei sa che rifuggo, tralascio di citarle tutte le
bellissime pagine che mi hanno maggiormente colpito, e mi limito a rallegrarmi di tutto cuore per il lavoro
veramente eccellente che ha dato all’arte, sperando di vederlo presto poubblicato, nell’interesse del
miglioramento della musica Sacra moderna. Le stringo la mano con sincera stima. Suo dev: G. Martucci
(lettera dei primi di giugno 1895, pubblicata in Giuseppe Martucci, vol. terzo, a cura di Folco Perrino, Centro Studi
Martucciani, Novara, 2002, p. 368)
Se da un lato per noi è gradevole il dover registrare un successo meritato, d’altra arte è in queste occasioni che
rimpiangiamo l’imperizia nostra nell’arte musicale, che no ci permette di entrare come si dovrebbe in una analisi
tecnica dei lavori di cui parliamo e ci obbliga solo ad una empirica narrazione della impressione che suscita in
noi un’opera d’arte.
i lettori hanno già compreso che oggi il sottoscritto si trova appunto in uno di questi casi e non nasconde il suo
serio imbarazzo. Come infatti potrebbe l’ultimo dei gregari parlare degnamente di chi nell’arte sacra occupa un
posto onorevole tra gli onorevoli ed è solito ottenere – come ebbe in questa occasione – gli elogi non facili dei
competentissimi, bastino per non dire d’altri Arrigo Boito e Giuseppe Martucci? Tuttavia non è giusto che un
sentimento d’egoismo ci distolga dal compiere il dovere nostro; e perciò alla meglio per quanto ci consentono le
deboli nostre forze ci accingeremo a parlare della Messa di S. Antonio che il Tebaldini ha composto per ordine
della Presidenza dell’Arca e che oggi per La prima volta veniva eseguita in Padova.
Il Maestro Tebaldini crediamo per la prima volta presenta al pubblico una sua Messa: non è quindi a
meravigliare che fosse assai grande l’aspettativa nei cultori di Musica Sacra specialmente desiderosi di
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conoscere come e fino a qual punto il Tebaldini avrebbe applicato quelle teorie di cui era sempre stato convinto
sostenitore.
Era come la prova del fatto, l’esempio che si attendeva ad illustrare le brillanti polemiche e le vivaci letture con
cui il Tebaldini aveva fatto conoscere le sue idee.
Diciamo subito che il Tebaldini già da questa prima prova ha dimostrato chiaramente quale sia il suo ideale e che
questo ideale ci parve così degnamente nobile da far augurare che di simili lavori il Tebaldini deva farcene
gustar frequentemente e che non sempre come in questo caso ne sia impedita la stampa e la diffusione.
Poiché se il Tebaldini potrà essere lieto che la Presidenza della Ven. Arca abbia acquistato il suo lavoro,
altrettanto non lo possiamo essere noi che per tale circostanza vediamo la quasi impossibilità di riudire
quest’interessantissima Messa.
Il lavoro di Tebaldini è tutto inspirato a una nobiltà di idee, di concetti che denota in lui l’artista consumato nel
lungo studio dell’antico ed esperto dei segreti più reconditi della sua arte; alla venustà e alla severità dell’idea
Tebaldini aggiunge assai spesso una potenza di espressione e una sicurezza dell’effetto – nel senso buono della
parola – tutt’altro che trascurabili quando si consideri quale deva essere lo scopo della musica da chiesa.
[Omesso stralcio della lettera di Arrigo Boito]
È infatti giudizio unanime anche degli intervenuti a Padova, l’annoverare tra i pezzi meglio riusciti l’Agnus Dei,
il Sanctus e il Benedictus in cui il Tebaldini ha profusa tutta l’idealità che le parole del testo e il mistero
soavissimo che si celebra sull’altare hanno potuto ispirargli.
Sono tinte di una finezza e di una purezza veramente classica che il compositore ha invocato in queste
importantissime parti della Messa e la semplicità e la severità di quei canti che s’intrecciano e si seguono
osannando al mistero d’amore, rapisce gli animi ed elevandoli a mistiche contemplazioni ci commuove e ci
trascina idealmente in un mondo più perfetto e più puro.
Nelle altre parti della Messa abbiamo notato sempre l’abilità con cui il compositore sa trarre partito dalle risorse
che offrono le voci per interpretare il testo.[...]
Non abbiamo quindi che a presentare al maestro Tebaldini le più sincere congratulazioni nostre pel successo che
egli,strenuo difensore della restaurazione dell’arte sacra, ha oggi ottenuto anche nella pratica dell’arte e ci
auguriamo – e con noi se lo augurano certo tutti coloro che amano la gloria dell’arte musicale italiana – che
spesso il Tebaldini ci chiami a gustare di questi suoi lavori, certi che non avremo in ogni caso che a registrare un
plauso altrettanto convinto e altrettanto meritato.
(da al.[Albertini Cesare], Le Feste Antoniane. La Musica Sacra. La Messa del maestro Tebaldini, “La Lega Lombarda”,
Milano, 19-20 agosto 1895, pp. 1-2)
[…] Al terzo giorno, dedicato ai moderni, vi era la grande attrattiva della nuova Messa, credo la prima, del
Maestro G. Tebaldini, il quale doveva mostrare con questa composizione di grande mole che nella difficile
posizione di critico in cui si trovava, come tutti lo sanno, critico severissimo ed alle volte austero, sapeva alla
prova del fatto sciorinare, coi suoni ciò che prima sosteneva coi detti. L’esperienza che l’egregio maestro potrà
fare con la sua Cappella, in seguito gli additerà molte altre risorse, e gli arrecherà quei reconditi vantaggi che da
principio si cercano né si possono avere, ma l’esperienza non gli sarà più necessaria poi, per il vero stile
ecclesiastico che esso già ora ha perfettamente in possesso.
Frasi larghe, nobili, scelte, ben condotte, ben lavorate, interpretano seriamente il sacro testo e l’arte severa
abilmente velata interessa, lasciando di quando in quando scoprire delle nuove bellezze. Dominano gli accenti
gregoriani, qua e là qualche periodo all’unissono o raddoppiato, l’arminizzazione è logica, diatonica, antica;
l’organo sostiene le voci e unisce le frasi, non eccede né in forza né in figurazione; ogni pezzo, senza essere
simmetrico, sta nella cornice, e pur è vago come le sue frasi; non è il Gloria migliore del Credo, né questo del
Kyrie, ma ognuno ha ciò che gli si deve; solo il Sanctus e Benedictus hanno più degli altri un lavoro superiore.
Insomma quando il maestro Tebaldini conoscerà un po’ più la chiesa nel suo ambiente e porrà più nel centro le
voci, né si preoccuperà troppo degli effetti per tema di riuscire monotono, né interpreterà con l’organo le frasi,
darà certo all’arte un’opera perfetta, e la Veneranda Arca potrà segnare nei suoi registri il Tebaldini come degno
seguace dei suoi molti rinomati maestri. […]
(da Musica sacra, “La Perseveranza”, 24 agosto 1895)
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Dalla Gazzetta Musicale di Milano [a. 50, n. 38, 22 settembre 1895, pp. 636-637] riportiamo il seguente articolo
nel quale si parla della Messa solenne di S. Antonio dell’egregio nostro concittadino ed amico cav. Tebaldini, che
tanto onore fa alla nostra città col suo ingegno e col suo infaticabile apostolato per la riforma della musica
religiosa:
«Quando, or non è molto, S. E. il Cardinale Sarto, Patriarca di Venezia, in una splendida Lettera Pastorale,
riferentesi alla dottrina tradizionale dei Padri della Chiesa, ai canoni dei Concili, alle Bolle dei Papi ed ai decreti
disciplinari della S. C. dei Riti inculcava per la musica sacra le tre qualità che ad essa si richiedono: la santità, la
bontà dell’arte e l’universalità, il chiarissimo maestro Tebaldini nella Gazzetta scriveva così: “È con grande
compiacimento che da queste colonne dove, dieci anni addietro, con parole franche portavo un modesto, ma
sincero ed ardente contributo alla causa della riforma della musica sacra, è con grande soddisfazione, ripeto che
constatando l’immenso cammino percorso da allora ad oggi, mi è d’uopo rilevare la straordinaria importanza di
un documento autorevole che sancisce pel Patriarcato di Venezia, inoppugnabilmente, la legalità religiosa ed
artistica dei principii sin qui professati e propugnati da quelli i quali si dedicarono alla riforma”.
In tal modo il maestro Tebaldini dava libero sfogo ad una compiacenza del suo cuore d’artista, legittima tanto
per quanto meritata. Difatti ormai è noto a tutti lo zelo con cui egli esercita la solenne ed efficace missione
d’apostolo; e tutti pur sanno che se il grande risveglio artistico nei sacri canti a’ dì d’oggi si avvera e si accentua
sempre più nettamente siccome più ampiamente si propaga, è in gran parte per di lui merito indiscutibile. Ma
l’appello alla riforma predicando le dottrine, evocando le gloriose tradizioni secolari ed esortando allo studio dei
grandi maestri, riuscirebbe pressocché infruttuoso se non venisse corroborato dall’esempio. – “Dal dire al fare
c’è di mezzo il mare” – dice l’adagio, e in generale perché l’ammaestramento torni utile, conviene che la via non
solamente si segni, ma la si segua! Così fa il maestro Tebaldini; ed ecco perché ho chiamato efficace, oltre che
solenne il suo fervido apostolato. La Messa di lui, testé eseguita a Padova in occasione delle feste centenarie del
Santo, è senza dubbio un’opera d’arte di molto pregio, ed è altresì uno splendido esempio ed una degna
illustrazione di quelle teorie delle quali il maestro Tebaldini s’è fatto apostolo, e che sono il migliore e più
doveroso atto di gratitudine di rispetto ed anche di giustizia, verso questa arte nobile e divina, che, scesa dal
cielo, ritorna dopo aver beneficato l’umanità e che rappresenta della patria nostra la gloria maggiore. Poiché se il
primato musicale può forse essere discusso presentemente all’Italia, è indiscutibile che a lei spetta il primato
storico. Non senza un perché il famoso Tornate all’antico di Verdi è il migliore consiglio che da tutti gli artisti e
dai giovani in ispecie deve essere scrupolosamente e devotamente seguito. E il maestro Tebaldini ha seguito il
consiglio studiando ed oprando!
La sua Messa solenne di S. Antonio a 4 voci ed organo è un modello rarissimo oggidì, di quella musica severa e
castigata che alla preghiera dispone non divagando con sentimenti profani l’anima devota, ed informandosi a
quel principio tradizionale che comanda sia una la norma del canto come una è la forma della preghiera ed una
la legge del credere. Al canto gregoriano egli maggiormente si è ispirato, come a quello che, ancor più della
classica polifonia vocale del XVI secolo, è la più perfetta estrinsecazione del criterio liturgico nella musica sacra.
Così i temi del 1° Kyrie e del Christe sono stati tolti dal canto gregoriano e sviluppati con una chiarezza vocale
davvero ammirevole; ottimo l’effetto nella ripresa del 2° Kyrie in cui i temi si riuniscono fra il contralto ed il
soprano, mentre le altre due voci mantengono l’equilibrio, legando, o movendosi per gradi congiunti: e l’organo
accompagna sommesso innestando talvolta dei contrappunti che sono ricami d’una finezza claustrale, oppure
entrando ad accordi gravi e poderosi come se fosser l’eco della gran prece umana ripercuotendosi nelle celesti
sfere, o l’immenso abbraccio d’eterno amore, che ravvicina, come avvolta in un fascio di luce la creatura orante
al clemente Creatore, nell’ampia cadenza aprentesi solennemente sino a che la sottodominante passando alla
dominante, sulla tonica s’arresta e sta.
Il Gloria è festoso, d’una sonorità pasquale; pare che in questa musica ci sia il sole, ma sole d’agosto e in pieno
meriggio: le voci cantano insieme ben nutrite e compatte. Al Laudamus te s’inizia l’imitazione con un tema
proposto dai tenori, e benedicimus te, adoramus te mormorano poscia sommessamente le voci; mentre l’organo,
come di lontano, ripete, con un suono che è sospiro, la timida orazione. Col Glorificamus te ritorna l’imitazione
che va poi ripercuotendosi in forme diverse nella varietà dei ritmi e dei movimenti.
Qui tollis peccata mundi miserere nobis, è una frase commovente che sembra scaturire da un silenzio lungo ed
angoscioso; è una frase gonfia di tenerezza, ma solitaria e dolente, allungantesi con una dolcezza stanca di
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rassegnazione; e pare che man mano essa si accosti, cresca e prorompa in uno scoppio poderoso di pianto:
“suscipe deprecationem nostram!” Non c’è lo sconforto, ma la fervente preghiera; non ci si sente l’anima
sfiduciata, ma l’anima che fermamente crede nella grazia divina! Tale è l’effetto musicale in questo bellissimo
episodio del Gloria, a cui degnamente tengono dietro il Quoniam dal ricercato movimento a crome nell’organo,
ed il Cum Sancto Spiritu, un fugato conciso efficacissimo nella stretta con quelle serrate imitazioni a quartine
ascendenti fra le parti. La nobile cadenza, dalla intonazione classicamente plagale, chiude degnamente il pezzo.
Il Credo caratteristico per gli unisoni tolti dal cosiddetto Credo Cardinale, in primo tono dorico, è d’una
austerità convinta. Il giro armonico è tessuto sull’accordo perfetto in ambi i modi e nei relativi rivolti; d’onde
l’austerità ed anche la convinzione; la deficienza delle dissonanze toglierà, se volete, varietà e brio alla
composizione; ma in questo caso è necessario che sia così poiché lo stile lo richiede e la varietà sarebbe difetto,
come l’instabilità e l’irrequietezza tonale sarebbe peccato. Così fino al Deum de Deo; quindi l’euritmia si fa più
viva, la dissonanza torna ad alternarsi alla consonanza ed il contrappunto diviene fiorito. Nel Qui propter le due
terzine di semiminime ascendenti infondono maggior vita ed aggiungono grazia al disegno delle parti.
Nell’Incarnatus est il mistero è reso con efficacia straordinaria da una musica che diviene quasi trasparente nelle
due parti candide dei soprani e contralti che mormorano l’et homo factus est.
È questo un momento veramente sublime!
Il Crocifixus toglie agli occhi il velo del precedente mistero; il miracolo è compiuto, e la musica anch’essa si fa
umana; vi sembra quasi di seguire Cristo lungo la dolorosa ascensione del Calvario con quelle note larghe che
ascendono a metà scala nel melanconico modo minore. Notevole nell’organo il pedale di re per varie battute
quando le voci intonano con forza, et unam, sanctam, catholicam et apostolicam ecclesiam; e di molto effetto la
fuga finale in cui la brevità è pregio. Bisogna riconoscere che in questo Credo c’è davvero la fede, poiché in esso
il maestro Tebaldini ha trasfuso la sua fede in Dio e nell’arte, in quell’arte vera e grande che è l’ideale dei buoni
ed il supremo ed unico conforto in terra; in quell’arte che molce le amarezze ed il pianto asciuga perché è di Dio
stesso il sorriso ed il bacio.
Il Sanctus è pure costrutto nella melodia gregoriana, e la polifonia vocale è architettata sulle ampie scale
ascendenti e discendenti per moto contrario, le quali s’intrecciano e si rincorrono come carole d’angeli osannanti
attorno al trono di Dio nell’immenso ed eterno tripudio del cielo.
Ma dove la polifonia è scrupolosamente ricercata, trovata ed indovinata, è nel soave Benedictus a tre parti e
nell’Angelus Dei a cinque che, sinceramente, preferisco al primo Agnus Dei a quattro, perché più sacro e di una
preziosità artistica eccezionale: una pagina che seduce ed affascina; una musica che è tutta un’eco serafica di
concenti che implorano e benedicono ed empiono il cuore e la mente della tenerezza di una patria invisibile.
Ecco la Messa solenne del maestro Tebaldini; ecco l’opera artistica di cui l’Archivio della veneranda Arca di S.
Antonio in Padova s’abbella e di cui l’Italia, madre dell’arte va giustamente orgogliosa.
Ed io su questo giornale istesso, che fu il primo ad aprire le sue colonne al Tebaldini per difendere e propagare la
causa santa della riforma liturgica, sono assai onorato di rendere pubblicamente l’omaggio e il plauso al
chiarissimo maestro e collega, e mi piace anzi completare il modesto mio cenno analitico con questa splendida
sintesi dell’illustre Arrigo Boito:
“È questa Messa un componimento che più procede più si innalza, e il secondo Agnus Dei colla chiarezza delle
sue linee puramente vocali e coll’intreccio delle sue scale palestriniane incorona nobilmente il bel lavoro”.
(G.[iovanni] Anfossi)
(da Musica sacra, “Il Cittadino di Brescia”, 26 ottobre 1895)
[...] Conoscemos la Misa de Tebaldini, composicion verdaderamente soberbia, que honra a su autor. El crìtico de
arte religioso musical mas puntilloso no encontrarà en ella nada que contravenga à las disposiciones de la liturgia
referentes à la musica sagrada. Reina en la composición absoluta intimidad entre la liturgia y la mùsica: la
adopcion de elementos de la obra artistica viene de la propiedad difusiva del arte polifónico clàsico y de las
modalidades gregorianas que fueron el origin de este género de mùsica: desarrólase la composición de la obra
con anco criterio técnico y estético à la vez, y pro esto mismo no atentan à la unidad de la misma las conquistas
del arte moderno que marchan à la par y en grato consorcio con el diatonismo de la mas escrupolosa polifonia
vocal contrapuntistica: la influencia ineludible y estrechamente ritual no se deja sentr en esta composiciòn exenta
del formalismo que es de criticar en muchas composiciones similares, y esta circunstantia acusa los hondos y
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pertinces estudios que el autor ha hecho de las obras colosales de los grandes é insuperables creadores del arte
clàsico religioso. [...]
(F.[elipe] P.[edrell], Juan Tebaldini, “Ilustraciòn Musical Hispano-Americana”, a. IX, n. 201, Barcelona, 30 mayo 1896, pp.
73-5)
A Milano per la festa di S. Carlo venne eseguita nella Cattedrale una Messa [Missa Solemnis in honorem Sancti
Antonii Patavini] del nostro concittadino M. Tebaldini.
Ecco che ne dice la Lega Lombarda:
Il lavoro del Tebaldini dal lato liturgico è inappuntabile; interpretando il pensiero del testo in modo corretto
senza danno per la varietà necessaria togliendo il senso della monotonia.
Quali punti salienti del Gloria accenneremo il laudamus, il qui tollis, l’indovinatissimi qui sedes in tono
maggiore, nonché il fugato finale.
Peccato che del Kyrie, uno fra i pezzi migliori della messa (e col Santus premiato a Parigi) non ci sia stato dato
di gustare che l’ultima parte, nella quale sono riuniti i due temi principali.
Nel Credo abbiam trovato bellissimo l’Incarnatus, il Crucifixus e il brano Et resurrexit: come pure felice
l’interpretazione del gregoriano Et expecto, ecc.
In genere nel Credo, si rileva un lungo studio, forse non facilmente afferrabile… [articolo da completare]
(da Musica sacra, “Il Cittadino di Brescia”, 7 novembre 1899)
Conoscevamo questa Messa fin dall’epoca del Centenario di S. Antonio di Padova, quando venne eseguita per la
prima volta in quest’ultima città. Oggi che ne abbiamo riveduto con ponderazione lo spartito a stampa, il nostro
giudizio non è mutato da quello d’allora. È un lavoro di un uomo che sa molto, ma al quale le forze dell’estro,
sembra a noi, non reggono per una composizione alquanto lunga. Eseguita questa Messa in parecchi luoghi in
occasioni d’importanza ha dato luogo ai più disparati apprezzamenti. Noi non terremo conto né degli uni né degli
altri; neppure faremo cenno della critica acerba che le ha mosso contro il dottor Haberl nella Musica Sacra di
Ratisbona, sebbene le sue osservazioni non in tutto si possano dire improntate ad esagerazione. A noi pare molto
buono il Kyrie, sebbene inopportuna sia la modulazione di chiusura; buono il Gloria, sebbene poco corretto il
Quoniam, ove comincia a far capolino un po’ di tendenza ad un accompagnamento che sa d’orchestrale; meno
buono il Credo, salvo il brano del Et resurrexit all’Et in Spiritum; buoni similmente il Sanctus ed i due Agnus
Dei.
Non si può tacere che si tratta di un lavoro d’impegno, il quale non può essere eseguito con successo se non dalle
capelle che son avvezze alla polifonia quadrivocale. (dan.[don Angelo Nasoni])
(da Bibliografia pratica, “Musica Sacra”, a. XXIII, n. 10, Milano, ottobre 1899, pp. 146-147)
Il Credo è fra le parti meglio riuscite di questa bella Messa [Missa Solemnis in honorem Sancti Antonii
Patavini]. La melodia gregoriana del Credo Cardinalis armonizzata con fine arte di geniale armonista, e nella
quale si svolge tutto il pezzo, conferisce al medesimo una vigorosa unità insieme ad una tal quale grandiosità
liturgica perché in perfetta armonia col testo del simbolo che è professione di fede e non narrazione.
Il Sanctus spirante una celeste serenità, i Kyrie nel loro calmo svolgersi di supplica trattenuta che alle ultime
invocazioni si svolgono con incisiva insistenza, l’Agnus Dei efficacissimo nella sua rigorosa condotta,
giustificano pienamente il Primo Premio col quale vennero distinti ad unanimità nei concorsi della Tribune di St.
Gervais.
Alquanto affrettato e meno organicamente pensato ed elaborato apparisce il Gloria nel quale una certa
diseguaglianza di stile, qualche reminiscenza Bachiana (qui tollis) e la poca correttezza di certi passaggi […]
potrebbero offrire facile appiglio alla critica arcigna. (S.)
(da Musica, “Rivista Musicale Italiana”, a. VI, Torino 1899, pp. 661-662)
Nell’odierno risveglio dello stile musicale severo, ogni nuova produzione si impronta di interesse particolare,
perché la battaglia quotidiana costituisce il miglior indice del punto cui gli studi sono pervenuti. Quando poi i
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nuovi saggi siano offerti, come nel caso presente, da uno dei più caldi propugnatori della riforma liturgica, allora
l’interesse in doppio s’accresce e torna in colpa il trascurarne lo studio.
Ecco perché addito in modo speciale ai lettori l’esecuzione della “Messa solenne a quattro voci miste con organo
obbligato”, eseguita questa mattina nell’Oratorio Salesiano di Maria Ausiliatrice [a Torino].
Il maestro Tebaldini, chiaro direttore del Conservatorio di Parma, ormai non ha bisogno di presentazione. Il
Metodo per organo, recante la sua firma unita a quella dell’illustre Enrico Bossi, ne ha reso riverito il nome
nell’insegnamento e le dotte monografie su argomenti storico-didattici lo vanno collocando in alto, per sana
cultura, tra gli insegnanti italiani.
Ora, la bella luce cui egli ha saputo assurgere si riflette incontaminata nella nuova opera sua.
Nel naturale andamento delle parti, nell’euritmia architettonica delle proporzioni si rivela il conoscitore esperto
dei modelli migliori; ed un sano profumo di arcaismo talora dal tutto s’innalza, simile a quel “venerabile odor di
muffa” che Anton Maria Salvini invidiava ai puri classici delle lettere nostre.
L’equilibrio, soprattutto, la varietà simpatica inquadrata in una sola cornice, anche al profumo s’impone; né la
severità dello stile raramente cromatico, sembra recare pesantezza nelle stesse pagine di maggiore svolgimento.
Valga d’esempio il “Credo”, svolto sulla bella melodia del tema originale gregoriano, e con rara chiarezza
guidato attraverso agli episodi resi necessari dalla varietà dei concetti esposti nel testo latino.
Altrove, esorbitando l’esame tecnico dalle esigenze di un foglio quotidiano, tenterò la critica particolareggiata
del lavoro. Qui ne noto l’esecuzione e l’ottimo risultato […]. (l. a. v.)
(da Una Messa di Giovanni Tebaldini, “La Stampa”, Torino, 24 maggio 1900)
In risposta alle ipercritiche da me apprese intorno al programma di musica polifonica eseguita con quella
magistrale competenza a tutti nota, dalla cappella musicale lauretana nella festa della Natività, mi sia permesso
dire una parola.
Prima di parlare della Messa che è la Messa solenne di S. Antonio di Padova a 4 voci del m° Tebaldini (Ed.
Ricordi), dirò delle parti varianti della medesima. Furono assai gustati l’Introito, l’Offertorio, ed il Communio.
Del Graduale poi del m° Tebaldini ecco cosa ne dice il periodico “Musica sacra” di Milano – n.° 10 Anno XXI,
“Il Benedicta et venerabilis es è un vero fiore musicale, non solamente studiato nella forma, ma ricco di
ispirazione geniale, e finemente descrittivo dei delicatissimi sentimenti espressi dal testo liturgico. L’abbiamo
udito all’Accademia ambrosiana del passato maggio e rileggendolo ne abbiamo gustato tutta le tenera bellezza”.
Questa fu composta ed eseguita per la prima volta in occasione delle feste centenarie del Santo di Padova,
celebrate nel 1895 nella sontuosa Basilica Patavina. Il Sanctus, Benedictus e Agnus Dei di questa messa
ottennero all’unanimità il 1° premio al concorso indetto nel 1896 dall’Ècole de musique religieuse di Saint
Gervais a Parigi.
Dopo l’esecuzione di Padova essa veniva successivamente eseguita alla “Stiftsckirche” di Lucerna, alla
“Steccata“ di Parma, alla “Cattedrale di S. Lorenzo” in Genova, al Duomo di Milano ed alla Cattedrale di
Cremona, alla Chiesa di Maria Ausiliatrice in Torino, al Duomo di Novara, alla Chiesa di Santa Trinità in
Firenze, a S. Paolo del Brasile, al Collegio latino-americano in Roma, e recentemente alla Chiesa di S. Gerolamo
a Fiume.
Qui pure io riporto il giudizio di chi non può essere accusato di parzialità o di favoritismo. Il Dott. Alberto
Villanis, oggi professore di Storia ed Estetica della Musica nel Liceo Rossini di Pesaro così scriveva nella
Stampa di Torino nel 1900 dopo l’esecuzione della Messa del Tebaldini avvenuta a Maria Ausialiatrice. “Il
lettore che svolge le pagine dell’edizione dovuta al Ricordi intravede ad ogni tratto nel Tebaldini la nobile
preoccupazione dell’aristocrazia abborrente dalle forme volgari, e la varietà sapientemente profusa nella
trattazione complessiva l’incanta. Dal Kyrie al Gloria, dal Credo al Sanctus, è tutto un succedersi di pagine
efficaci, quadrate nella forma e consistenti nell’invenzione suggestiva. Né ultimo coefficiente della religiosità
che dalla loro compagine emana sono gli spunti, tratto tratto presi ad imprestito dalle grandiose formule
gregoriane attingendo dal passato quella profondità e quel misticismo che spesso sulle pagine d’altri è lettera
morta.
Quando poi si ha riguardo alla semplicità armonica abborrente da mondano cromatismo, quando si giunge al
finire dell’opera e malgrado la pochezza dei mezzi si trova d’innanzi a un edificio vasto, solenne, esteticamente
efficace, allora nella giusta luce si apprezza la messa del Tebaldini e cede la critica per lasciar luogo
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all’ammirazione sincera”. L’Anfossi, maestro e critico reputato, così, sullo stesso argomento, aveva già scritto
nel 1895 nella Gazzetta musicale di Milano.
“Dove nella Messa del Tebaldini la Polifonia è ricercata, trovata ed indovinata è nel soave Benedictus a 3 parti e
nell’Agnus Dei a 5 una pagina, che seduce ed affascina; una musica che è tutta un’eco serafica di concenti, che
implorano e benedicono ed empiono il cuore e la mente della tenerezza di una patria invisibile”.
A sua volta Arrigo Boito, l’illustre poeta musicista, così sintetizza il suo giudizio. “È questa messa un
componimento, che più procede più s’innalza e il secondo Agnus Dei colla chiarezza delle sue linee puramente
vocali e coll’intreccio delle sue scale palestriniane incorona nobilmente il bel lavoro”. […] (Sac. E. Bartolucci)
(da Musica sacra, “La Patria”, 23 settembre 1906)
A proposito della Messa Solenne di T.[ebaldini] il critico de “Il momento” di Torino scriveva: “… il giusto
equilibrio delle voci, la classicità delle forme e delle movenze, l’elevatezza dell’ispirazione, la nobiltà della frase
musicale intimamente legata al testo liturgico, l’artistica funzione affidata all’Organo, sono tutte qualità che
emergono all’audizione della Messa dell’Illustre Compositore”. (Alessandro De Bonis)
(da La produzione musicale sacra in Italia dal Motu proprio ad oggi, “Bollettino Ceciliano”, a. I, serie II, Roma, marzoaprile 1955, pp. 66-67)
100. Missa solemnis pro defunctis
Roma, 14 marzo. – Oggi si seguì al Pantheon la messa da requiem composta dal maestro Tebaldini pei solenni
funerali in memoria dei defunti Sovrani d’Italia alla presenza della LL.MM. La messa era scritta a voci sole,
secondo l’incarico dato al maestro dalla R. Accademia Filarmonica Romana, che ha provvisto assai
decorosamente anche quest’anno alla parte musicale della solenne funzione.
Dal lato stilistico in questa messa si possono scorgere due indirizzi diversi, tanto da poter far supporre due autori
differenti a chi non sapesse che è tutta musica d’un solo. Alcuni pezzi sono d’intonazione liturgico-scolastica,
altri presentano procedimenti e carattere generale marcatamente moderni. Il fatto si spiega facilmente: il maestro
ha fatto eseguire varie sue vecchie composizioni, assieme ad altre composte adesso. La diversità è dunque
giustificata rispetto al progresso evolutivo dell’autore, se non rispetto ai termini dell’incarico, almeno nella
forma in cui era stato reso noto al pubblico.
Per la forma dei vari pezzi il maestro ha reso sempre sensibile la costruzione dei testi liturgici, facendo
corrispondere una chiara divisione musicale ad ogni fine di versetto nel testo. Questo modo di regolarsi è
certamente giustificato da una pratica secolare illustrata da nomi insigni, ma, date le intenzioni moderne
dell’autore ci sarebbe sembrato preferibile far tesoro sì della forma del testo nelle disposizioni delle sue frasi, de’
suoi periodi, nella ripetizione di alcune sue parti, ecc., ma piuttosto costruire delle grandi linee musicali
raggruppando i versetti di testi affini, mentre quelli contrastanti per il carattere delle parole avrebbero
determinato gli elementi musicalmente contrastanti. Così il ritorno d’una parte di testo nell’Introito, nel Kyrie,
nell’Offertorio, nel Sanctus-Benedictus, nel Communio, nel Responsorio all’Assoluzione avrebbero determinato
tante chiare ed efficaci forme musicali senza implicare delle vere separazioni, degli arresti nel movimento,
insomma senza tagli troppo sensibili nel complesso delle composizioni. Confessiamo sinceramente che, p. es., se
ci par bella ed esteticamente efficace la maniera di trattare il Dies Irae a versetti quando siano alternati quelli a
più voci con la melodia tradizionale, o con una, magari scritta dall’autore della musica (modo di fare che oppone
ad ogni piccola forma di versetto un elemento fortemente contrastante), altrettanto inopportuna ci pare la
divisione in versetti quando si trattano tutti polifonicamente. L’alternativa della ricca polifonia con andamenti
omofoni armonici, la varietà delle combinazioni di voci, degl’impasti di timbri non arriva a neutralizzare il senso
di stanchezza prodotto dalle frequenti fermate. D’altra parte l’autore si preclude la via a degli sviluppi che
potrebbero dargli campo di espandere tutta la larghezza della sua mano di compositore, mentre appunto
l’ampiezza di sviluppo costituisce una delle vere e preziose conquiste dell’arte moderna, conciliabile con
qualunque intonazione stilistica, con qualunque situazione spirituale.
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Riguardo al modo di trattar le voci, specie nei pezzi più recenti, il maestro Tebaldini ha certamente confidato nei
buoni mezzi vocali del coro che avrebbe messo a sua disposizione l’Accademia Filarmonica Romana, e
l’esecuzione deve aver risposto, crediamo, ai desideri dell’autore.
Il m° Tebaldini è stato, in questa circostanza, nominato ufficiale della Corona d’Italia, dietro proposta del
ministro Rava. (Enne.)
(da Nostre corrispondenze, “Musica Sacra”, a. XXXII, n. 3, Milano, marzo 1908, pp. 45-46)
104. Offerta agli Eroi (Gloriam grati paremus)
[...] Per mio conto ti farò sentire dell’altra roba: un Inno a’ nostri Eroi per solo Coro e Orchestra pel quale mi son
servito di idee e di temi tolti alla liturgia sviluppati modernamente. Forse mi conoscerai sotto un aspetto
abbastanza nuovo. Rodolfo Ferrari a Bologna rimase commosso di ciò che ho fatto. Ora il Prof. Albini che tu
certo conoscerai sta rifacendomi i versi latini dell’Inno di Prudenzio: Salvete flores martyrum! [...]
(dalla lettera di Giovanni Tebaldini a Luigi Illica, Loreto, 23.VI.916, conservata presso la Biblioteca Comunale “Passerini
Landi” di Piacenza)
Giovanni Tebaldini, l’illustre maestro di Cappella della Cattedrale di Loreto, ha quasi terminato di musicare un
Inno dovuto alla penna dell’insigne latinista prof. Giuseppe Albini, inteso a celebrare le eroiche gesta dei nostri
martiri e dei nostri soldati trionfatori.
I principali temi di quest’inno – per soli coro e orchestra – sono stati tratti dalle melodie gregoriane che cantano
ed esaltano gli eroismi e le virtù dei primi martiri cristiani e, data la profonda dottrina del Tebaldini in materia di
musica sacra e la sua ispirazione veramente italiana, è facile prevedere come questa sua nuova composizione sia
destinata ad attrarre l’attenzione del mondo musicale.
(da Un Inno agli Eroi, “La Tribuna”, 23 novembre 1918, p. 3)
111. Padre, se mai questa preghiera giunga al tuo silenzio
[...] Nelle vacanze di Natale mi incontrerò di nuovo con la signora [Scalfi, figlia di Ada Negri], e con una
cantante [Cecilia Bezzi], mia conoscente, ch’è pure buona musicista; istruita e accompagnata da me farò sentire
alla sig. Scalfi la Sua lirica, che a me sembra una bella pagina. È un canto pensato e pensoso, che tocca corde
molto intime. Riuscitissimo è il senso d’elevazione spirante dal largo-solenne: è un superamento della realtà, non
certamente confortevole, per guardare con occhi pieni di speranza a un domani migliore.
Questa, Maestro, sempre essere la parola detta dall’arte; l’arte è sogno, ma sogno di cose migliori, non peggiori
di quelle della vita. Complimenti, caro Maestro, anche per l’esempio ch’Ella offre di vigoria e di fede irriducibile
nei Suoi ideali; è un insegnamento, è un esempio da imitare (e anche un po’ da invidiare!). [...]
(da una lettera di Federico Mompellio a Giovanni Tebaldini, Milano 7 dic. ’50)
[…] Ma ormai anche gli alti pensieri della non lontana fine assalivano l’austero Vegliardo uso ad addolcire la
mesta certezza dell’umano trapasso con le parole della Fede e la malia del canto: invidiabile serenità dell’onesto
credente. Ed ecco che, sprofondato in tali pensieri, allora, egli ferma lo sguardo su una fervorosa Preghiera di
Ada Negri, anch’ella già anima tormentata e battagliera ed ora alfine placata nella fiducia del Credente: leggere e
musicare quei suoi versi fu tutt’uno: Era il ricordevole giorno di San Marco del 1947, allorché rivestì di belle
note quei partecipi versi: Padre, se mai questa preghiera giunga al tuo silenzio.
Quella bellissima lirica fu, rammentiamolo, per l’Autore, motivo di particolare soddisfazione per l’atto gentile di
persona amica. Accadde, infatti, che il Maestro Antonio Certani (distintissimo e fine musicista romagnolo,
autore di Floriana ed amicissimo del Tebaldini), soggiornando in San Benedetto del Tronto al pari dell’amico,
volle fare una simpatica sorpresa al collega in arte.
Avuta la musica della anzidetta Preghiera della Negri, si adoperò, in Bologna, perché fosse incisa in disco
affidandone l’interpretazione all’esimia artista bolognese Grazia Franchi Ciancabilla per farne, quindi, gentile
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omaggio all’Autore della musica, tanto più che egli stesso aveva avuto modo di conoscere ed apprezzare le
egregie doti artistiche della eletta Interprete e, perciò, di sua piena soddisfazione. […] (Enrico Liburdi)
(da La lunga giornata di un artista: Giovanni Tebaldini, Centro Stampa Piceno, Ascoli Piceno, 1978, p. 43)
Giovanni Tebaldini - giunto all’età di 83 anni, sofferente per le precarie condizioni di salute e l’inazione dopo
una vita consacrata all’arte musicale e, in particolare, alla musica sacra - legge la lirica di Ada Negri e avverte
l’urgenza di musicarla. La composizione esprime un sincero sentimento religioso che si compenetra con quello
umano. Ne risulta una “Preghiera” di grande intensità nella varietà dei timbri e dei ritmi. La struttura del lavoro
è semplice e spontanea, ma anche sapiente e raffinata. Ogni nota concorre all’elevazione spirituale.
Di questa sua ultima opera musicale l’Autore ha scritto:
“...l’ho musicata quasi alla cieca. Bene non l’ho sentita [perché colpito da sordità] né forse la sentirò mai...,
come non sentirò l’Epicedio [...]. E questo sarà il mio straziante dolore [...]. Spererei di riuscire a portarla a
Loreto [...]”. (Luciano Marucci)
(dalla brochure per la Rassegna Internazionale di Musica Sacra “Virgo Lauretana”, Loreto 2-7 aprile 2002)
“[...] Nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario dalla morte il suo desiderio si avvera, riconoscenza
postuma nei confronti di un grande testimone della rinascita della musica sacra in Italia nel primo Novecento.
[…]”. (Arturo Sacchetti).
(dalla brochure per la Rassegna Internazionale di Musica Sacra “Virgo Lauretana”, Loreto 2-7 aprile 2002)
116. Quare fremeurunt gentes
Rev.do Padre
[...] La prevengo però che il mio è un componimento affatto lirico, di indole assolutamente moderna, per quanto
sia una modernità che forse altri avanzerà – specialmente il Bossi. Credo tuttavia possa risultare di qualche buon
effetto. L’organo è trattato un po’ orchestralmente perché la Cantata è destinata ad essere istrumentata. [...]
(dalla lettera di Giovanni Tebaldini a Padre Angelo De Santi, Venezia, 22 feb. 93)
Rev.do Signor Padre
[...] Domani sera spedirò a Lipsia ed a Lei gli esemplari della Cantata. La quale è composta sulle parole da lei
mandatemi per cartolina, con i brani del Salmo 2°. È una composizione in istile liberissimo e certamente non
elevata come immagino quella del Bossi; ma forse chissà non possa riuscire di qualche effetto. [...]
(dalla lettera di Giovanni Tebaldini a Padre Angelo De Santi, Venezia, 27.2.93)
Roma, 21 maggio 1893
Egregio e caro maestro [Tebaldini]
[…] In ispecie alla “Difesa” sarà mandata una speciale corrispondenza per riguardo al suo “Quare”, che fece
veramente ottimo effetto e mise davvero alla prova la abilità dei miei cantori a cagione delle spezzature e
soprattutto nell’intonazione dei pezzi scoperti che si conservò perfettamente senza la più piccola oscillazione.
Non di meno s’aspetti delle critiche, specialmente riguardo l’unità di stile, giacché dicono che comincia con
Marcel, prosegue con Gounod e finisce con Wagner. Qui / quid sid a me piace assai il verso “qui habitat” e la
chiusa “beati omnes”: la prima parte manifesta qualche stento ed è forse troppo prolungata, ma fece, come dico,
ottimo effetto. […]
P. Angelo De Santi
(dalla tesi di laurea di Edoardo Negri, L’Opera di Giovanni Tebaldini nel Movimento di Riforma della Musica Sacra,
discussa al Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra, Milano, a.a. 1967-’68, p. 476)
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Di questa Accademia, tenuta in Roma nel Seminario Vaticano, in cui l’arte musicale concorre ampiamente e
magistralmente a solennizzare il Giubileo episcopale di Leone XIII, ci è fatto largo cenno in una lettera da
Roma. Da essa leviamo il passo seguente che si riferisce alla composizione del nostro maestro G. Tebaldini.
Dopo d’aver numerato i pregi di ciascuna composizione, così prosegue il nostro particolare corrispondente:
“[…] Una delle migliori composizioni per elaborata fattura e per effetto fonico, è certamente la cantata nelle
parole del Salmo 2° di G. Tebaldini.
Informata al gusto moderno con processi armonici wagneriani, questa composizione è spontanea, ispirata ed
italianamente melodica. Il preludio per organo, bellissimo, abbraccia i principali temi con un crescendo e
diminuendo di molto effetto. Succede, quindi, l’esposizione del tema principale, Quare fremuerunt, per tenori in
forma di fugato tonale; migliore e più artistico è l’intreccio delle quattro parti, quando il tema vien ripigliato alla
4.a. Idealissimo è l’assolo de’ Bassi, con un bell’accompagnamento d’organo. Semplice, ma ispirata melodia
ritmica sulle parole Ego autem constitutus sum Rex ab eo. Soave è il coro Beati omnes,che segna un crescendo.
L’organo interpolatamente fa sentire il robusto tema Quare fremuerunt e la cantata termina con un fortissimo,
facendo sentire il tema de’ Bassi. Graziosi gli episodi per Organo, e gli altri dettati…, ecc.”.
Il resto omettiamo per ragioni di spazio, non senza congratularci col valente maestro, che sempre più va
meritandosi fama ed onore.
(da L’Accademia in onore di Leone XIII al Seminario Vaticano, “La Difesa”, a.XXVII, n.116, Venezia, giugno 1893)
117. Quatre Motets
M. G. Tebaldini, maitre de chapelle à la Basilique de Sant-Antoine, à Padoue, poursuit en Italie un but parallèle
au nôtre, et c’est avec grand plaisir que nous lui adressons toutes nos félicitations pour sa récente nomination au
poste de diresteur du Conservatoire de Parme.
Ses quatre motets, construits dans une forme analogue à celle des maîtres anciens, offrent, en outre, toutes les
ressources de l’harmonie moderne. Leur variété de rythme les rend assez difficiles, notamment le Tantum ergo.
Le motet à la très sainte Vierge: Benedicta et venerabilis es, est d’un délicieus sentiment avec ses alléluias, dont
le contour mélodique rappelle vaguement la fraîcheur de certains airs populaires. Le Pie Jesu est aussi excellent;
commençant sur de très larges tenues, il s’anime pour chanter: Miseremini mihi, en des phases d’espoir et de
confiance, et retombe enfin sur les luordés tenues du début. Voici de la bonne et saine musique religieuse;
félicitons grandement M. Janin d’en avoir estrepris la publication et la divulgation.
(da Bibliographie - Quatre Motets à quatre voix mixtes, par G. Tebaldini, “La Tribune de Saint Gervais, a. III, n. 2, Parigi,
fevrier 1897, p. 96)
[…] Accanto a lui, in questa istessa circostanza, egualmente ammirati ed applauditi sono stati il Tebaldini e il
Terrabugio.
Nella chiesa di S. Carlo, all’Accademia letterario-musicale, vennero eseguiti il Benedicta et venerabilis es
(Mottetto a quattro voci miste) di G. Tebaldini, e Liberabit pauperem a potente (Introito a quattro voci dispari)
di G. Terrabugio.
Il Mottetto del Tebaldini è una pagina severa di canto liturgico magistralmente condotta, che trova nell’Alleluia
un felice, delizioso effetto di polifonia vocale.
[…] Al migliaio di persone che hanno ammiratore ed applaudito questi valorosi artisti, mi unisco sinceramente
ammirando e plaudendo. (G. Anfossi)
(da Musica Sacra – L’Accademia nella chiesa di S. Carlo, “Gazzetta Musicale di Milano”, a. 25, n. 21, 27 maggio 1897, p.
307)
Siamo gratissimi all’editore Ianin, che ha voluto favorirci copia di questi Quattro Mottetti, sia perché sono
d’autore italiano, e di tale che non ha pochi meriti nella ristorazione della musica sacra; sia anche perché queste
composizioni sono scritte rigorosamente giusta i principi della riforma musicale, ond’è che sono stati commessi
per la pubblicazione dalla Schola Cantorum di S. Gervais di Parigi.
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I Quattro Mottetti sono: Benedicta et Venerabilis es – Tantum ergo – Ego sum panis vivus – Pie Iesu, dona eis
requiem. Sono a quattro voci miste, a stile omofonico intramezzato da qualche vivace imitazione.
Noi raccomandiamo specialmente il Tantum ergo, tanto più che esso, secondo il modo, che diremo così italiano,
è musicato diversamente nel Genitori. Ma raccomandiamo molto più il Benedicta et venerabilis es, un vero fiore
musicale, non solamente studiato nella forma, ma ricco di ispirazione geniale, e finalmente descrittivo dei
delicatissimi sentimenti espressi dal testo liturgico. L’abbiamo udito all’Accademia Ambrosiana del passato
maggio, e rileggendolo ne abbiamo rigustata tutta la tenera bellezza. È un mottetto questo che può essere cantato
in qualunque Festa della Madonna, ed anche durante il periodo delle Feste Natalizie.
Ringraziamo gli editori del dono fattoci e ci congratuliamo col m° Tebaldini, autore di queste composizioni.
(da “Musica sacra”, a. 21, n. 10, Milano, 15 ottobre 1897, pp. 127-128)
Quatre Motets (couronnés par la Schola cantorum de Paris) à quatre voix mixtes. Op. 17. – Lyon. F. Janin et ses
fils.
Nel primo di questi componimenti [ ] sono alcune mende di stile, espressioni poco castigate, né si possono
approvare le troppe frequenti modificazioni del tempo e le corone. Negli altri l’uso del contrappunto e
dell’armonia è pensatamente riuscito, dal punto di vista chiesastico, e rivela uno studio diligente. Ma se questo
materiale non vivifica l’alito della modernità, l’idea fervida e nuova, anche la composizione rimane fredda. Il
Tebaldini cerchi questa fusione, che deve rendere alla musica sacra la sua impronta solenne, il suo carattere, la
sua bellezza d’arte.
(da “Rivista Musicale Italiana”, vol. IV, 1897, p. 784)
120. Quintetto pel Natale
Il “Quintetto” di Giovanni Tebaldini si ambienta nell’atmosfera gregoriana di canti liturgici che si riferiscono ad
alcuni passi della vita di Cristo.
[...] Egli [Tebaldini], fin da giovanissimo, intuì che il gregoriano poteva assumere nella musica moderna una
grande importanza; questo sano principio formò una delle basi della sua scuola: valga fra tutti l’opera di
Ildebrando Pizzetti. [...] Nelle sue composizioni il valoroso Maestro e compositore bresciano cominciò ad usare
simile elemento modale, ritmico e tematico. [...]
Nel primo tempo del Quintetto di Natale i temi gregoriani svolti e ampiamente sviluppati sono due, entrambi
tolti dall’Introito della Messa gregoriana del giorno di Natale nel settimo tono missolidio: “Puer natus est nobis”
- presentato per intiero - e “Cantate Domino canticum novum”.
Nell’Adagio il primo tema è originale; il secondo [al suo inizio proposto dal violoncello] è stato tratto dal
graduale ratisbonese della Domenica in Albis In die resurrectionis meae.
Il Finale, invece, si svolge sul tema in ottavo modo su di cui, nella notte di Natale al mattutino, viene cantato il
Salmo Misericordias Domini in aeternum cantabo [presentato dai quattro strumenti ad arco all’unisono];
concezione sintetica, questa, che denota e manifesta il sentimento cristiano di cui si è sentito animato il
Tebaldini nel dettare il suo Quintetto. Questo Finale comprende anche un fugato il cui soggetto serve a sviluppi
ed a variazioni tematiche che giungono alla chiusa con una animazione ed uno sviluppo capaci di fondere in
uno, sia nella forma che nella sostanza, le esigenze della tecnica moderna ed il sano rispetto per la tradizione.
Il Tebaldini, che di preferenza ha svolto la sua attività di compositore nel campo della musica sacra corale,
soltanto ora si è dato alla composizione strumentale da camera e sinfonica, spronato a ciò dal profondo senso di
spiritualità - pur se liricamente ed umanamente inteso - che lo guida nel suo diuturno e tuttora fecondissimo
lavoro. (m.[ario] rin.[inaldi]).
(dal programma dell’esecuzione del Quintetto presso la Reale Accademia Filarmonica Romana, Roma, 30 dicembre 1935)
“[...] Il concerto comprendeva, in ultimo una novità di Giovanni Tebaldini dal titolo Quintetto gregoriano del
Natale al quale l’uditorio fu generoso di applausi dopo ogni tempo e alla fine tributò agli interpreti valorosi e
all’illustre autore, già evocato dopo il Largo sulla pedana, una prolungata ovazione. A base costruttiva del
Quintetto è il gregoriano su alcuni temi del quale il Maestro Tebaldini si abbandona, con commossa emozione,
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alla sua fantasia, traendo motivo dalla sua inventiva fresca e agile di dar forma a una musicalità di schietta
ispirazione. Il Quintetto indica come l’estro del compositore sia sempre desto e come la sua dottrina, senza
essere asservita al vieto scolasticismo, sia profonda e come, infine, la sua arte non tradisca quello che fu ed è il
suo credo, per cui la sua vita artistica è da mezzo secolo ora apostolato; vale a dire la italianità intesa e [parola
incomprensibile dal microfilm] lotta con spirito di bene intesa modernità”. (m.[ario] r.[inaldi])
(da Un Quintetto di Tebaldini alla Filarmonica Romana, “Il Messaggero”, 31 dicembre 1935, pag. 3)
[…] “Il Quintetto di Roma”, a sua volta, unitamente al pianista Caporali, ha offerto una interessante novità: “Il
Quintetto gregoriano del Natale” di Tebaldini.
È un lavoro vasto, di nobile ispirazione in cui l’A. si avvale, come spunto, di materiali tematici d’indole
religiosa, ma con uno svolgimento variato e con completa libertà di atteggiamenti ritmici, armonici, ecc.
(da “Musica d’oggi”, n. 1, gennaio 1936, p. 22)
[…] A parte il numero di Dvorak, gli altri due del programma – quelli di Tebaldini e di Pratella – davano un
senso di benessere fisico e spirituale; come quelli che esprimevano musiche di coscienze tranquille; erano
discorsi condotti secondo un ordine logico e secondo le buone regole del disegno lineare, dell’ornato del galateo
estetico d’uso fra i musicisti per bene. Voglio dire, niente di stravagante. Nulla di “fuori legge”, non tentativi di
fare gli originali ad oltranza, gli spiritosi, i filistei del nuovo a dispetto di tutto e di tutti. No. Ma musiche serie,
decorose, battezzate e cresimate; e di una onestà estetica a tutta prova. Di Dvorak ho parlato, dirò così
inequivocabilmente, giorni orsono. Oggi salto. Passo agli altri due. Il “quintetto” di Tebaldini è una
composizione fissata sulla tematica gregoriana. Come dire, a rime obbligate. L’autore qui appare un chiaro e
interessante conversatore musicale. Egli pone sempre le sue premesse, ti disegna, descrive, sviluppa e dipinge
coscienziosamente i suoi pensieri accompagnandoli sempre con corrette ed efficaci aggettivazioni e
avverbiazioni che spiegano efficacemente e qua e là aggiungono qualche luce colorata che illumina
accortamente; e tutto questo, con ordine proporzione senso della misura e con quella dignità cortese e quei modi
signorili che hanno i musicisti i quali ricordano il rispetto che debbono all’arte a se stessi e al pubblico. […]
Il “Quintetto di Ferrara” è un complesso che merita la considerazione della critica: complesso ben organizzato
sia per la misura della tecnica individuale sia per l’evidentemente notevole grado di preparazione della tecnica
d’insieme; complesso che ha dimostrato di saper suonare con l’equilibrio della fusione del calore e con
puntualità di effetti.
Il concerto ha avuto pieno successo. Il Quintetto è stato festeggiatissimo. (ga.[ianus])
(da Il “Quintetto di Ferrara”, “Il Resto del Carlino”, 5 febbraio 1941)
[…] Nonostante il tempo uggiosamente piovoso, ed altre manifestazioni musicali, la bella sala ospitava quanto di
meglio vanta Faenza in fatto di amatori di musica, tanto più che erano in programma due novità assolute per
Faenza e cioè il “Quintetto Gregoriano di Natale” di Tebaldini e la “Sonata III” /op. 55) del nostro musicista
romagnolo, Balilla Francesco Pratella.
I due brani hanno vivamente interessato e commosso. […]
(da Il caloroso successo del “Quintetto di Ferrara” in un concerto all’Auditorium, “Corriere Padano”, (d.m.), aprile 1942)
[…] Il concerto ha assunto particolare importanza e simpatica atmosfera per la presenza degli autori delle nuove
composizioni presentate per la prima volta al pubblico ravennate: il maestro Tebaldini e il nostro Pratella.
Il “Quintetto del Natale” di Tebaldini è una cosa ben riuscita, di sostanza e di sapiente fattura. Imperniata su temi
gregoriani, che imprimono a tutta la composizione un tono caldo e colorito di sapore orientale, si sviluppa
arditamente in una costruzione ben architettata, di giuste proporzioni e di bell’effetto. E non nuoce la vana lirica
che piacevolmente si dilata tra un tema e l’altro quasi a commento.
Il pubblico ha accolto la composizione con applausi vivissimi e ha festeggiato il maestro Tebaldini con una
calorosa ovazione.
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(da Il quintetto Ferrara al Casino Alighieri, “Corriere Padano”, 28 aprile 1942)
[…] Il Quintetto gregoriano del Natale di Giovanni Tebaldini tutto soffuso di pensosa lirica, fervido di schietto
entusiasmo nel primo tempo, solenne e quasi ieratico nell’Adagio, vivo e schietto nel finale è riuscito una gradita
sorpresa. […] (Vice)
(da Il VI Concerto della Camerata Istrumentale Genova, “Il Secolo XIX”, d.m., 1942)
[...] Nei giorni scorsi fui a Ravenna invitato e pregato di voler assistere alla esecuzione del mio Quintetto del
Natale da parte del Quintetto Ferrarese che prima lo eseguì a Bologna e poscia a Faenza. [...]
A Ravenna mi sono trovato in lizza con Pratella il quale ha presentato lui pure un lavoro per quintetto assai
considerevole. Ma quanto lontano dai campi e dai prati novecentisti. Il Pratella arrivò persino – e lo credo
sincero – a trovare parole di encomio per la mia costruzione quasi ottocentesca. [...]
(da una lettera di G. Tebaldini a Pina Agostini Bitelli datata San Benedetto del Tronto – Ascoli Piceno, 12 maggio 1942)
[...] Non ci sono dubbi che il cimento compositivo ‘puro’ attirasse i creatori di razza, seppur estremamente
variegati nella loro personalità. Testimonia ciò la silloge proposta nella quale si ritrovano a gomito, venuti alla
luce nell’arco di una ventina d’anni, un critico e maestro di cappella (Tebaldini), un organista (Bossi), un
operista verista (Mascagni), uno scrittore critico-musicologo ‘rivoluzionario’ (Pratella) ed un sacerdote
musicista (Perosi). Tutti uniti nella febbrile eccitazione provocata dalla libertà compositiva organologica,
temerari nello sperimentare, magari con ingenuità, nuove soluzioni; coraggiosi nel liberarsi da delicati influssi
d’oltralpe. Il Quintetto pel Natale di Giovanni Tebaldini, definito anche ‘Poemetto gregoriano’ e ‘Quintetto
gregoriano’, appare al gennaio all’agosto 1933, a Genova, Loreto, Cingoli e Napoli; la fresca spontaneità che lo
pervade si alimenta delle incontaminate melodie gregoriane appartenenti alla liturgia del Natale, impreziosite da
un contorno armonico elegante e raffinato. Si percepisce discorsivamente lo spirito contrappuntistico esaltato da
un dialogo teso, espresso dal pianoforte e dal quartetto d’archi, che, vicendevolmente, inanellano imitazioni,
dialoghi e sviluppi. […]. (Arturo Sacchetti).
(dalla brochure per la Rassegna Internazionale di Musica Sacra “Virgo Lauretana”, Loreto, 2-7 aprile 2002)
121. Rapsodia di Pasqua
a) Alleluja (allegro festoso); b) Vespere autem sabbati (larghetto); c) Victimae paschali laudes (adagio); d)
Mors ed vita duello (fugato); e) Lauda Syon Salvatorem (sequenza corale).
(Prima esecuzione)
[…] La Rapsodia di Pasqua è composizione sinfonica di data recente (1935) e viene eseguita questa sera per la
prima volta.
Creata prevalentemente su temi gregoriani, se all’inizio – dopo il primo Alleluja d’introduzione – pel tema della
sognata Aspirazione all’Ideale, appare romantica, per converso, negli sviluppi successivi e nella chiusa, è tutta
accesa di fervore religioso anche quando i tempi già ascoltati ritornano trasformati o per frammmenti.
Alleluja… alleluja (Allegro festoso: primo tema gregoriano).
L’anima esultante rinasce in noi e per noi alla primavera della vita. L’aspirazione all’Ideale che innalza e
purifica, penetra ne’ cuori commossi e fidenti, sospinti verso la meta radiosa ove regnano Fede ed Amore
(Andante cantabile: secondo tema).
Ma la menzogna, l’inganno e la frode guatano nella simulata gioia apparente e bugiarda (terzo tema). Eppure
Fede ed Amore, purificati dal sacrificio e dalla rinunzia, rinascono ed ancora rinverdiscono nei nostri cuori.
Narrano i Vangeli: “Vespere autem sabbati, quae luscécit in prima sabbati, venit Maria Magdalene et altera
Maria, vidére sepulcrum”.
Passato il sabato, Maria di Magdala e Maria Madre di Giacomo e Sàlome, arrivano al sepolcro di Gesù al levar
del sole. Esse vedono rimossa la pietra sepolcrale ed entrate nella tomba sorgono un Angelo che dice loro: “Voi
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cercate Gesù di Nazareth crocefisso? Egli non è qui perché è resuscitato! Andate e dite a’ suoi discepoli che
Gesù vi precede in Galilea”. (Larghetto: quarto tema gregoriano).
Ed i discepoli, commossi alla grande rivelazione, nell’avviarsi verso la Galilea intonano il canto di Redenzione:
“Victimae paschali laudes immolent Cristiani: Agnus redèmit oves: Christus innocens Patri reconciliavit
peccatòrs”. (Adagio: quinto tema gregoriano).
Ma al canto sequenziale fa seguito la eco della triste lotta indomita fra Morte e Vita: Mors et Vita duello
conflixère mirando. Lotta che ovunque e tutti ne insegue e dilania. (Fugato: sesto tema gregoriano). Eppure Dio
vive e regna, e per Lui e per l’Amore fra gli uomini di buona volontà, la Notte tenebrosa è stata rischiarata dalla
più vivida ineffabile Luce. Ed i cuori, nell’ora della Redenzione, si allietano di Gioia cantando con trasporto
l’Inno solenne della Consacrazione e della Esaltazione. “ Lauda Syon Salvatorem, Lauda ducem et pastorem, in
hymmis et canticis: alleluja”. (Settimo tema liturgico: Sequenza-Corale di S. Tommaso d’Aquino).
Nella conclusione del poema sinfonico il tema della Consacrazione (Settimo tema) riesposto e rielaborato, ed il
tema dell’Aspirazione all’Ideale (Secondo tema) apparso sin dall’inizio della Rapsodia, si alternano, riunendosi
poscia nella solennità e nella serenità della Pace riconquistata per la Vita immortale attraverso la Redenzione e la
Resurrezione delle nostre anime: attraverso la suprema ineffabile gioia che per l’Eternità ne largiscono Fede ed
Amore.
(dal Programma del Diciottesimo Concerto Sinfonico, Teatro E.I.A.R. di Torino, 4 marzo 1938 / Direttore Ildebrando
Pizzetti; Pianista Nino Rossi)
Iersera, in un concerto al Teatro d’Arte di Torino – nel quale, come è noto, l’ ”Eiar” tiene i suoi concerti
sinfonici di superiore importanza – sotto la direzione del maestro Ildebrando Pizzetti è stata eseguita la
nuovissima Rapsodia di Pasqua di Giovanni Tebaldini. Si tratta di un poema sinfonico per orchestra, intessuto
su temi gregoriani, fra i quali un Alleluja! che inizia la partitura, oltre ai motivi del Victimae Paschali laudes,
Mors et vita e Lauda Sion Salvatorem. Lavoro di bella dottrina, ma anche di nobile e fervida ispirazione, perché
il Tebaldini ha saputo animare con un soffio di modernità gli antichi motivi, sì da ravvicinarli garbatamente alla
nostra odierna sensibilità. Il poema sinfonico termina con un solenne coro sul Lauda Sion. Le ultime battute
hanno intonazione soave e si estinguono con pieno effetto.
La pensosa composizione, interpretata con accuratezza e finezza di gusto dal direttore d’orchestra, ha riscosso
larga mèsse di applausi.
Il programma comprendeva anche la Sinfonia in mi bemolle di Mozart e il pittoresco trittico sinfonico Notte nei
giardini di Spagna di Manuel de Falla con la ottima collaborazione pianistica del maestro Nino Rossi. Pizzetti
era rappresentato dal preludio della Fedra e dall’introduzione orchestrale e corale dell’Agamennone che ha avuto
un esito assai brillante.
(da Un concerto diretto dal maestro Pizzetti all’Eiar, “La Tribuna”, 6 marzo 1938)
Un particolare rilievo è dovuto al concerto strumentale trasmesso venerdì sera dall’Eiar (Teatro di Torino):
concerto che, diretto da Ildebrando Pizzetti, può ritenersi una tra le più interessanti manifestazioni musicali della
corrente stagione radiofonica.
Improntato ad un sano eclettismo artistico, il programma collocava, in prima esecuzione, una ancor recente
(1935) Rapsodia di Pasqua di Giovanni Tebaldini accanto a musiche di Mozart, di De Falla e del Pizzetti. […]
Ed eccoci al poema sinfonico, la Rapsodia di Pasqua del Tebaldini: l’insigne ex cattedratico del Conservatorio
di Napoli, già direttore della Cappella Marciana e che, dopo esser stato apprezzato per circa otto anni alla testa
della nostra Cappella Antoniana, era passato a quella di Loreto. La severa dottrina musicale, l’aperta genialità,
l’ispirazione austera che arricchiscono il vasto patrimonio musicale liturgico del maestro bresciano, si rinnovano,
con tutto il loro intatto prestigio, in questo nobile poema sinfonico che figura quale un’esegesi compiuta e
definita della divina parola dei Vangeli pasquali, sviluppando attraverso un’elaborata successione di alcuni temi
gregoriani, il contrasto tra gli elementi antagonistici – il Bene e il Male – che si contendono l’animo umano:
contrasto risolto dalla vittoria dell’amore tra gli uomini, esaltata dall’inno solenne della Consacrazione.La
geniale composizione tebaldiniana esposta dal Pizzetti – come del resto, gli altri numeri in programma – con
nitida espressività, e con un sostenuto fervore che s’appoggiavano alla redditiva collaborazione dell’ottima
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orchestra torinese, non poteva confermare in miglior modo, con le sue romantiche notazioni iniziali, con
l’infiammata religiosità che poi tutta l’investe, l’ancor prestante vigore dell’ingegno di Giovanni Tebaldini e la
controllata sicurezza della sua molta dottrina musicale. (r.)
(da La “Rapsodia di Pasqua” di G. Tebaldini trasmessa dall’E.I.A.R., “Il Veneto”, 9 marzo 1938)
In un recente concerto sinfonico diretto da Ildebrando Pizzetti e radiotrasmesso dal teatro di Torino, è stato
eseguito per la prima volta un nuovo lavoro di Giovanni Tebaldini, il poema gregoriano “Rapsodia di Pasqua”.
Or non è molto, s’è parlato su queste colonne del caso Pizzetti-Tebaldini, che tanto interessa la città nostra,
legato com’è alla vita musicale di Parma e del suo Conservatorio. Molti anni ormai ne dividono dal tempo in cui
avvenne, ma di quando in quando qualche nuovo fatto lo ricorda. Ultima per ora, l’esecuzione del Poema
gregoriano del Tebaldini, simpatico gesto che inverte i termini del binomio e suggerisce di parlare, oggi, d’un
caso Tebaldini-Pizzetti. La “Rapsodia di Pasqua”, sin da questa prima esecuzione, s’è rivelata un’ampia
architettura musicale ricca di vita, d’una vita che si manifesta attraverso stati d’animo così freschi, così giovanili,
da far comprendere come l’idea che l’ha ispirata sia, per l’autore, la ragione stessa dell’esistenza. Il poema
doveva essere, nella concezione del musicista, l’affermazione di una profonda fede in un ideale trascendente cui
l’anima umana aspira, pur attraverso insidie e deviazioni: e tale è riuscito. Mirabili temi gregoriani, scelti dal
Tebaldini a costituire una gran parte del materiale tematico, esprimono la fede e l’amore e la gioia con
commosso entusiasmo. Il loro magico potere espressivo s’ammanta della ricca veste che l’artista ha tessuto con
armonie e con timbri, e ne risulta accresciuto. La parte lirica e gli episodi drammatici si valgono anche di temi
creati dal musicista, liberamente, oppure come parafrasi di spunti gregoriani; di essi il più notevole è senza
dubbio il tema dell’aspirazione all’Ideale, interamente dovuto alla fantasia del Tebaldini, tema che nasce da una
sola cellula, e che ha in sé tanto trepido desiderio, tanta esultante aspettazione, da costituire il nucleo centrale del
poema non soltanto per quello che vuol significare, ma per intimo potere espressivo. Anche a chi sia
sprovveduto del commento che illustra le intenzioni dell’autore, esso si presenta subito come la causa e la mèta
del Poema, operando sull’animo dell’ascoltatore come un benefico raggio di luce che illumini insperati tesori
dello spirito.
Lavoro intimamente giovanile, ho detto. Ed anche esteriormente, poiché il Tebaldini ha ammodernato la sua
tecnica, e, pur rilevando affinità di sentire col romantico misticismo di Franck, ottiene effetti d’una attualità
sentita, personale, convincente.
Tra i più sorprendenti, il luminoso attacco finale delle voci: è un corale largo, solenne, avvolto in un tripudio di
suoni. Il canto si svolge con gioiosa serenità ed è il simbolo della meta raggiunta, di quella meta che il tema
dell’aspirazione all’Ideale aveva fatto balenare agli uomini desiderosi d’un mondo ultraterreno ove tutto sia
pace, armonia, amore.
Poema d’un credente, poema d’un musicista, questo, che il Tebaldini ha offerto, per ora, soltanto ai
radioascoltatori. (Federico Mompellio)
(da La “Rapsodia di Pasqua” di Giovanni Tebaldini, “Corriere Emiliano”, Parma, 18 marzo 1938)
La Rapsodia di Pasqua di Giovanni Tebaldini è composizione sinfonica di data recente (1935) e viene eseguita
per la prima volta.
Creata prevalentemente su temi gregoriani, se all’inizio – dopo il primo Alleluia d’introduzione – pel tema della
sognata Aspirazione all’Ideale, appare romantica, per converso, negli sviluppi successivi e nella chiusa, è tutta
accesa di fervore religioso anche quando i temi già ascoltati ritornano trasformati o per frammenti.
Umana, dapprima, per le parole di rinascita che l’hanno ispirata - Parole di Fede e di Amore pronunziate
estaticamente, all’orecchio dell’anima del musicista compositore, da una lontana Voce - ascende di poi verso
un’atmosfera arcana di Gioia ineffabile e di Pace serena.
***
Alleluia… alleluia (Allegro festoso: 1° tema gregoriano).
L’anima esultante rinasce in noi e per noi alla primavera della vita. L’aspirazione all’Idea che innalza e purifica,
penetra ne’ cuori commossi, e fidenti, sospinti verso la meta radiosa ove regnano Fede ed Amore. (Andante
cantabile 2° tema).
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Ma l’ipocrisia, la menzogna e l’inganno guatano nella simulata gioia apparente e bugiarda. Ché l’insidia tenta
sempre di compiere la sua azione devastatrice (3° tema).
Eppure Fede ed Amore – purificati dal sacrificio e dalla rinunzia – rinascono e rinverdiscono ne’ nostri cuori.
Narrano i Vangeli: “Vespere autem sabbati, quae lucéscit in prima sabbati, venit Maria Magdalene et altera
Maria, vidère sepulcrum”.
Passato il sabato, Maria di Magdale e Maria Madre di Giacomo e Sàlome, arrivano al sepolcro di Gesù al levar
del sole. Esse vedono rimossa la pietra sepolcrale ed entrate nella tomba scorgono un Angelo che dice loro: “Voi
cercate Gesù di Nazareth crocefisso? Egli non è qui perché è resuscitato! Andate e dite a’ suoi discepoli che
Gesù vi precede in Galilea”. (Larghetto: 4° tema gregoriano).
Ed i discepoli, commossi alla grande rivelazione, nell’avviarsi verso la Galilea intonano il canto di Redenzione:
“Victimae paschali laudes immolent Cristiani: Agnus redèmit oves: Christus innocens Patri reconciliavit
peccatόrs”. (Adagio 5° tema gregoriano).
Ma al canto sequenziale fa seguito la eco della triste lotta indomita fra Morte e Vita: Mors et Vita duello
conflixère mirando. Lotta che ovunque e tutti ne insegue e dilania. (Fugato 6° tema gregoriano).
Ma Dio vive e regna, e per Lui e per l’Amore fra gli uomini di buona volontà, la Notte tenebrosa è stata
rischiarata dalla più vivida ineffabile Luce. Ed i cuori, nell’ora della Redenzione, si allietano di Gioia cantando
con trasporto l’Inno solenne della Consacrazione e della Esaltazione. “Lauda Syon Salvatorem, Lauda ducem et
pastorem, in hymnis et canticis: alleluia”. (7° tema liturgico: Sequenza – Corale di S. Tommaso d’Aquino).
Nella conclusione del poema sinfonico il tema della Consacrazione (7° tema) riesposto e rielaborato, ed il tema
dell’Aspirazione all’Ideale (2° tema) apparso sin dall’inizio della Rapsodia, si alternano riunendosi poscia nella
solennità e nella serenità della Pace riconquistata per la Vita immortale attraverso la Redenzione e la
Resurrezione delle nostre Anime: attraverso la suprema ineffabile Gioia che per l’Eternità ne largiscono Fede ed
Amore. (M.[ario]R.[inaldi])
(dal Programma del Concerto al Teatro di Torino - Stagione Sinfonica dell’Eiar, 4 marzo 1938)
Torino. Benissimo è riuscito il concerto Pizzetti, il quale oltre il preludio della Fedra e l’Introduzione
all’Agamennone, ha diretto la nuovissima Rapsodia di Pasqua di Tebaldini, un poema sinfonico intessuto di temi
gregoriani, di nobile e fervida ispirazione, con un finale di sicuro effetto.
(da “Musica d’oggi”, a. XX, n. 3, Milano, marzo 1938)
127. Sonata (O amato mio Gesù)
Come già annunciammo, domenica è fissato l’ultimo concerto d’organo al Carmine Maggiore che, per
l’importanza del programma e la qualità e quantità degli esecutori, costituisce un avvenimento di Arte di
primissimo ordine […].
Di Giovanni Tebaldini l’illustre maestro il di cui ricordo è ancora così vivo fra noi, si eseguirà una Sonata in
quattro tempi per organo e coro inedita.
Il lavoro a forma ciclica è impostato o svolto sul tema di uno dei più espressivi corali della Passione secondo S.
Matteo di Bach. Fu scritta dal Tebaldini nel 1901 e dedicata ad Emanuele Gianturco in occasione delle sue nozze
d’argento.
(dal “Mezzogiorno” del 18 maggio 1923)
L’atteso concerto di chiusura dell’organista F. M. Napolitano è per domenica prossima alla Basilica del Carmine
Maggiore con un vasto e poderoso programma […]
Dell’illustre Direttore della Cappella lauretana M° Giovanni Tebaldini udiremo una “Sonata” sul tema di corale
di G. S. Bach per organo e coro: combinazione nuova e mai tentata di fondere in una Sonata dalla tradizionale
forma classica le voci corali. Queste sono impostate nel 1° tempo e mentre l’organo svolge nel 2° e 3° tempo il
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tema del corale, riappaiono polifonicamente nell’ultimo tempo. Questo importante lavoro fu scritto nel 1901 per
l’occasione delle nozze d’argento dell’onor. Emanuele Gianturco a cui fu dedicato e offerto.
(dal “Giorno” del 18 maggio 1923)
[…] La Sonata con cori di Giovanni Tebaldini – opera dedicata ad Emanuele Gianturco – apparve composizione
poderosa di un musicista dotto ed esperto nel primo ed ultimo tempo: soave ed intimamente soffusa di mistica
poesia nei temi centrali. La fusione con le voci produsse un grande effetto. Forse il senso di sorpresa eccedette
sulla pura sensazione artistica.
F. M. Napolitano eseguì la possente composizione con quella dovizia di coloriti e quell’equilibrio che fanno di
lui uno squisito organista “registratore”, sapiente, fantasioso e soprattutto aristocratico. (Tony Procida)
(dal “Mattino” del 21 maggio 1923)
Il Concerto del Carmine ebbe inizio con una Sonata di Giovanni Tebaldini, l’illustre propagandista della musica
classica sacra e profana che venne a compiere a Napoli una vera iniziazione ai primi tempi della “Scarlatti”.
Questa Sonata è composta sul tema corale “Amato mio Gesù” della Passione secondo San Matteo di G. S. Bach,
una delle più celebri. La composizione è una poderosa Sinfonia dell’organo con la novità della partecipazione
del coro in pieno tessuto classico. Sul fondamento del tema del corale sono elaborati i quattro tempi della Sonata
e infine il tema si fonde col “fugato” che è l’ultimo tempo della composizione affidata all’organo. (Giovanni
Bellezza)
(dal “Giorno” del 22 maggio 1923)
[…] Ammirammo la Sonata di Tebaldini – l’erudito direttore lauretano – nella bella esposizione dell’”Allegro”
nel fluido canto dell’ “Adagio” nel grazioso “Intermezzo” e nell’impetuoso e sostenuto corale del “Fugato” di
chiusa. Ammirevole l’impasto tra voci e organo e il severo sviluppo dato al tema bachiano della Passione di San
Matteo. (Saverio Procida)
(dal “Mezzogiorno” del 22-23 maggio 1923)
Napoli - […] Col consueto favore sono stati accolti alla Chiesa del Carmine, i concerti di F. M. Napolitano,
organista eletto.
In programma: Prière à notre Dame di Bochman; una Sonata di Tebaldini, la Sonata in mi minore, per violino e
organo, di Veracini, ecc. La Sonata di Tebaldini commosse per la profondità del dolore in essa espresso.
(da “Musica d’oggi”, n. 6, 1923, p. 197)
(vedi anche, Sonata per Organo con Coro, Presentazione all’Edizione critica di Dino Rizzo, in “Pubblicazioni
attuali”)
133. Tria Motetta
Il testo del mottetto [Super flumina Babylonis] è tratto da uno dei salmi di Davide: ricorda la captività degli
Ebrei in Babilonia, i quali piangono con parole angosciose la perduta Sionne.
(dal programma dei Concerti, a cura della Società del Risveglio, Bologna, 23 e 26 dicembre 1917)
Giovanni Tebaldini – Tria Motetta – Düsseldorf, L. Schwann.
Questi tre lavori rivelano ancora una volta le serie doti di compositore sacro dell’illustre direttore della Cappella
Lauretana. La conoscenza profonda della tecnica vocale, la chiarezza melodica delle idee insieme a certe
arditezze armoniche del tutto moderne fanno di questi mottetti (dei quali il migliore forse è l’Justus ut palma) tre
composizioni veramente notevoli. (Guido Gasperini)
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(da Recensioni, “La Rinascita Musicale”, Rassegna della Associazione dei Musicologi Italiani, a. I, n. 1, Parma, 1909)
[…] composizioni, la seconda specialmente, di indiscutibile valore per ciò che riguarda l’uso delle voci e
l’espressione del sentimento immune da ogni carattere profano.
(da Omaggi alla “Cronaca”, “La Cronaca Musicale”, a. XIII, n. 3, Pesaro, marzo 1909, p. 103)
La musica sacra anzitutto dev’essere musica; e questi tre mottetti sono veramente musica e di quella buona,
scritta con squisita diligenza, per dare la maggiore efficacia ed espressione al testo liturgico. Perciò essa deve
piacere anche al popolo, perché è chiara e assai melodica. Qualunque modesto coro può con essa ottenere senza
fatica un eccellente effetto.
Il primo mottetto, a voci sole, polifonico, insiste nella tonalità di si b minore, e rende così assai bene, con frase
energica ed espressiva, la tristezza del popolo Ebreo schiavo di Babilonia.
Il secondo, pure a voci sole, quasi sempre corale, dalle nobili movenze, è scritto per la processione del Sabato
Santo, ed è perciò facilissimo.
Il terzo, con accompagnamento d’organo, assai facile, è melodicamente il più grazioso, anche per la varia
disposizione delle voci. Attaccano prima i soli tenori e bassi, e infine le quattro voci conchiudono con la frase
maschia e gloriosa dell’Alleluja.
Tre geniali mottetti, insomma, adatti alle grandi come alle piccole Cappelle. (D. G. Pagella)
(da Musica vocale, “Santa Cecilia”, n. 10, Torino, 1909, p. 96)
[…] Giovanni Tebaldini, di otto anni più anziano di Perosi, divise, spesso involontariamente, la strada terrena
della sua esistenza. Nel 1888 lo precedette a Ratisbona, discepolo dei professori Haberl e Haller alla
Kirchenmusikschule, nel 1889 alla Cappella di San Marco a Venezia, nel 1903 lo affiancò, su desiderio del
cardinale patriarca Giuseppe Sarto, futuro papa Pio X, nella commissione incaricata della riforma della musica
sacra. Lungo l’ampio magistero espletato presso la Cappella musicale della Basilica di Loreto, dal 1903 al 1924,
attuando “un programma di radicali riforme sulla base della restaurazione della vera musica liturgica”, concepì,
dedicandoli all’amico, “Magistro Capellae Pontificiae, i “Tria Motetta” a 4 voci ineguali ed organo editi da L.
Schwann nel 1908 (lo stesso editore che tenne a battesimo le prime composizioni di Perosi), splendidi esempi di
perizia compositiva, di classicità contrappuntistica, di illuminata sapienza liturgico-musicale. Già al tempo, nel
1909, una nota apparsa su “La Rinascita musicale” (rassegna delle Associazioni dei Musicologi Italiani, anno I,
n.1, Parma) evidenzia: “Questi tre lavori rivelano ancora una volta le serie doti di compositore sacro dell’illustre
direttore della Cappella Lauretana. La conoscenza profonda della tecnica vocale, la chiarezza melodica delle idee
insieme a certe arditezze armoniche fanno di questi mottetti tre composizioni veramente notevoli.
(da Rassegna Internazionale di Musica Sacra “Virgo Lauretana” 2003, Loreto, marzo 2003, p.25)
Per Sicut cervus da “Tria Motetta” vedi anche la relazione di G. Tamburrini sulla composizione nella sezione di
questo sito “Pubblicazioni attuali” / Atti del convegno “L’opera di Giovanni Tebaldini nel Piceno”.
134. Trois Pièces d’Orgue
Ces trois pièces, dont l’une a été couronnée dans nos concours (marche grave), répondent absolument à notre
programme en fait de musique d’orgue. Nous ne saurions trop en recommander la lecture.
(da X, Notes Bibliographiques, “La Tribune de Saint-Gervais”, a. III, n. 4, Parigi, aprile 1897, p. 80)
[...] Tre pezzi di valore, e con cui il Tebaldini si mette in prima linea fra i moderni compositori di musica per
organo, sono quelli raccolti nell’opera 16, e portanti il titolo “Trois Piéces d’Orgue”.
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Migliori però il primo e il terzo: Il primo, “Prélude choral” svolge con molta naturalezza il tema del Kyrie della
Messa degli Angeli; il terzo, “Marche grave”, pezzo extra-liturgico, è, invece, una bella parafrasi del grandioso
inno della croce (gregoriano): Vexilla Regis prodeunt.
Per le melodie di cui si è servito per la composizione di questi pezzi il Tebaldini ha creduto di ricorrere alle
edizioni di Solesmes piuttosto che a quelle tipiche o ufficiali; ma non mi pare inutile osservare che questo fatto
ha, per più ragioni, un valore molto relativo; tanto vero che i capolavori per organo di Frescobaldi non hanno
perduto nulla della loro bellezza, neppure dopo che le melodie gregoriane su cui egli ha tessuto tante gemme
preziose non andavano più d’accordo con quelle rivelateci da’ miracoli della Paleografia. (Antonio Cicognani)
(da Bibliografia / (Musica sacra), “La Cronaca Musicale”, a. II, n. 4, Pesaro, 1897, p. 145)
[…] Di un apostolo fervente della restaurazione, un vero benemerito di questa causa santa ed artista valoroso e
coscienzioso, il chiaro maestro G. Tebaldini, ci manda tre composizioni per organo d’editore J. RieterBiedermann di Lipsia: Trois Pièces d’orgue, op. 16: N 1. Prélude choral; N. 2. Intermezzo; N. 3. Marche Grave.
Il Prélude choral s’impernia sopra il tema gregoriano, Kyrie, della Messa degli Angeli. Lo stile è puramente
tematico, spontanei ed eleganti i contrappunti, snella la forma. Di ottimo effetto è nell’un po’ più mosso subito
dopo il punto coronato sulla tonica, l’attacco della seconda frazione del tema gregoriano, eleison, che, per la
caratteristica sua figurazione si presta allo svolgimento e prepara assai felicemente la percussione del tema intero
ed il sonoro e grandioso finale.
L’Intermezzo è romantico: d’una soavità seducente che sembra vi trasporti “su le ali del canto” nel mondo dei
sogni e vi accarezza con la tenera espressione della sua melodia, mentre vi culla con l’elegante movenza del
vaghissimo suo ritmo.
La Marche Grave, sul tema gregoriano Vexilla Regis prodeunt, è grandiosamente svolta e di effetto solenne ed
imponente. È questo un lavoro che, se è stato degno del primo premio al concorso “de la Tribune de St. Gervais”
a Parigi lo scorso anno, è e sarà sempre, come gli altri due precedenti, Prélude e Intermezzo, pur degno
dell’ammirazione sincera da parte di coloro, che hanno amore per l’Arte e culto per il Bello. […] (G. Anfossi)
(da Bibliografia musicale, “Gazzetta Musicale di Milano”, a. 52, n. 45, 11 novembre 1897, p. 653)
[…] Di Giovanni Tebaldini il quale, come altri della “Scarlatti”, negli anni trascorsi, dirige oggi questo concerto,
nulla è il caso di dire essendo egli ben noto al pubblico napoletano. Soltanto merita conto ricordare che la
Marche grave appartiene ad un gruppo di composizioni corali ed organistiche distinte tutte con premier prix nei
diversi concorsi indetti dalla Schola cantorum di Parigi nel 1896.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, Napoli, 15 maggio 1924)
I Trois Pièces d’Orgue di Giovanni Tebaldini del 1896-’97 riflettono il desiderio dell’Autore di testimoniare,
con le dediche, la dedicazione per la creatività organistica: Francis Planté, F. J. Breintenbach e Marco Enrico
Bossi sono i destinatari del cimento compositivo che si innesta, al tempo, in una dimensione, almeno sul fronte
italiano, enigmatica. Nella nobile scrittura esposta, è evidente l’intento di contribuire alla risurrezione del
linguaggio organistico italiano asservito, per gran parte dell’Ottocento, all’influsso teatrale ed orchestrale. […].
(Arturo Sacchetti).
(dalla brochure per la Rassegna Internazionale di Musica Sacra “Virgo Lauretana”, Loreto, 2-7 aprile 2002)
Per Musica profana
142. Amore e morte
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Composizione assai lunga, nella quale il Tebaldini dà molto spazio alla melodia. Ogni nuova immagine poetica
del testo leopardiano, invero piuttosto lungo da essere musicato, genera nuovi episodi, per cui l’insieme risulta
frammentario.
La scrittura musicale risente molto dell’organo e degli archi, aspetto che fa ricordare M. E. Bossi, col quale il
Tebaldini ha collaborato per alcuni lavori pregevoli intorno alla didattica e alla musica religiosa.
“Amore e morte”, fin dal Larghetto iniziale, in la minore, si muove in modo alquanto libero con un recitativo
vocale accompagnato da una scarna linea melodica del pianoforte; con l’Andantino successivo la melodia si fa
più espressiva e mossa, accompagnata dagli arpeggi del pianoforte. Sulle parole “A sé la terra” l’intensità
aumenta per poi calmarsi; su “Ma per cagion di lei” c’è un nuovo lungo episodio di progressiva agitazione
sottolineato dal ritmo incalzante del pianoforte, fino ad un altro momento espressivo in corrispondenza delle
parole “Morte, sei tu dall’affannoso amante!”, che rimane intenso e vocalmente vibrante fino a “l’amara luce”.
Ora, in battute alternate di 5/4 e 4/4, il pianoforte imita il triste rintocco delle campane (“E spesso al suon della
funebre squilla”): il clima qui è come sospeso; poi nell’Andante mesto si fa più espressivo, con la citazione,
proposta dal pianoforte a commento delle parole “Bella Morte, pietosa”, del “Tema della Morte” che si udrà
ancora alla fine del pezzo. Un momento di “grande espressione ed accento drammatico” conduce a un Lento
“melodicamente parlato”, un recitativo intonato su “Chiudi alla luce omai”, accompagnato da delicati arpeggi del
pianoforte. Il mesto richiamo delle campane eseguito nuovamente dal pianoforte prelude agli ultimi acuti del
canto, espressione di una dignità umana che non teme la morte, anzi l’invoca. (È interessante notare i versi non
musicati dal Tebaldini, forse ritenuti troppo forti ed inaccettabili per uno spirito cattolico?). La chiusa del canto,
dolce e serena, è seguita da una appassionata coda strumentale, che conclude solennemente il brano combinando
in modo sapiente il Tema dell’Amore e quello della Morte in un connubio indissolubile.
In generale l’impegno vocale risulta esasperato da una tessitura vocale impervia, specialmente nella parte finale.
Impervia perché il cantante non riesce ad esprimere una composizione morbido-religiosa su note insistenti sugli
acuti e sopracuti: è una contraddizione.
Tutto questo nulla toglie alla musica del nobile compositore. (Renato Toffoli)
(per conto dell’Associazione Lirica “Pier Adolfo Tirindelli”, su richiesta della laureanda Fulvia Pelizzari di Brescia,
Conegliano Veneto, 2006)
143. Apothéose
[...] Ho molto ammirato Apothéose, che può benissimo servire, nonostante si tratti soltanto di musica orfeonica,
a darti ragione di quanto Lei abbia intuito sulla formazione di quel linguaggio vocale, e polifonico in ispecie, che
è il maggior patrimonio dell’arte pizzettiana. [...]
(stralcio di lettera di Mario Pilati riportato in una lettera di Tebaldini a Cilèa da Loreto, 13.III.928, conservata presso il
Museo “F. Cilèa” di Palmi)
144. A se stesso
Questa lirica vocale, insieme con “L’Infinito” e “Amore e morte”, fa parte del cosiddetto “trittico leopardiano”
di Tebaldini.
«È un piccolo capolavoro del compositore più maturo, in cui la dolente e ‘petrosa’ poesia leopardiana trova
simbiotica espressione musicale. Il testo, scarno e denso di cesure, dètta il divenire della melodia: spezzata,
declamata, severa. Essa s’innesta in un contesto sonoro essenziale e privo di retorica. La scrittura pianistica, più
che mai tappeto armonico alla voce, parte da statici accordi arpeggiati per dipanarsi in un gioco veloce di
sestine cromatiche che lasciano il posto, nella conclusione, all’andamento iniziale. Il costante ricorso alle quinte
vuote e pure al basso, conferisce al discorso musicale un senso di fatale tristezza». (Paola Ciarlantini)
(dalla prolusione al Concerto di musiche profane nell’ambito della manifestazione per il il cinquantenario della morte di G.
Tebaldini, Loreto, 1 aprile 2002)
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Una brevissima introduzione pianistica in arpeggiato per cromatismi discendenti crea l’ambiente sonoro più
congeniale all’apparizione dell’incipit poetico “Or poserai per sempre stanco mio cor”. Il discorso musicale
prosegue aderendo a quei versi scarni, con frequenti cesure e una totale assenza di immagini inclini
all’abbandono musicale e al sogno. Ne consegue una scrittura musicale severa che contrappunta i versi con frasi
melodiche spezzate, accenni di declamato, uso del registro vocale centrale con repentini slanci verso l’acuto per
meglio esaltare i contenuti e l’espressività del testo. L’accompagnamento pianistico, subalterno alla voce,
tramuta la staticità armonica iniziale in uno spiccato dinamismo grazie all’impiego di sestine cromatiche le quali,
una volta dismessa la loro funzione semantica, fungono da elemento ritmico caratteristico del brano. La
conclusione riecheggia la scrittura introduttiva, stavolta dilatata da “colori” arcaici, ottenute con le quinte vuote,
che, dopo essersi incastonati nella struttura armonica, andranno a dissolversi, in eco, al basso: eroica, dolente e
drammatica espressione in musica dell’ultimo Leopardi. (Pierpaolo Salvucci)
(dalla prolusione al Concerto di musiche profane nell’ambito della manifestazione per il il cinquantenario della morte di G.
Tebaldini, San Benedetto del Tronto, 3 maggio 2002)
146. Ebbrezze de l’anima (o Dolori ed ebbrezze)
Ugo Ojetti definì l’Autore “Il musicista di Fogazzaro”.
Nei suoi “Ricordi Verdiani” (“Rassegna Dorica”, Roma, gennaio-giugno 1940) Tebaldini scrisse:
«Tornato a Padova, dopo l’ultimo biglietto di Verdi incoraggiante e lusinghiero, decido fargli omaggio di alcune
mie composizioni per organo premiate dalla “Schola Cantorum” di Parigi [Six Versets d’Orgue], e di alcune
liriche appena edite, dettate sui versi del Mistero del Poeta di Fogazzaro [Ebbrezze de l’anima], ed accompagno
quelle piccole cose con le mie scuse per l’ardire che mi prendo di inviargliele, ben sapendo come Egli rifugga dal
pronunciarsi intorno alla musica degli altri.
Mi risponde da Genova il 3 maggio 1897 con la seguente lettera che afferma un criterio critico della più alta
importanza:
Egr. Maestro Tebaldini
È vero: io manifesto difficilmente la mia opinione sui lavori altrui, perché diffido del giudizio mio, come diffido
del giudizio degli altri. [...]
Malgrado ciò, io senza dar giudizii ho potuto apprezzare le sue composizioni; ben fatte le une, e le altre.
Preferisco le liriche specialmente la prima [In sogno]. La declamazione è giusta ed il pensiero distinto e
semplice. L’armonia ne è un po’ tormentata, ma l’epoca nostra vuole così. [...]
Qualche giorno prima [30 aprile 1897] anche Arrigo Boito da Milano gli manifestava la sua stima:
Una prova del forte valore delle sue Liriche è questo che, essendomi già piaciute all’audizione, alla lettura mi
piacquero anche più. Nessuno dei nobili requisiti necessari a codesto genere di composizione vi fa difetto e
commentano tutte magistralmente il testo e del testo sono tutte degnissime. Bravo Maestro!
Preziosa nella sua fattura, questa Lirica si apre sul finire sincopato del pianoforte arricchito da venature
dissonanti. Il fraseggio melodico appare in linea con la nobile tradizione ottocentesca della romanza italiana da
salotto. Nella prima parte del brano la melodia si presenta in primo piano con sullo sfondo l’accompagnamento
pianistico che, a partire dalla sezione centrale, riscatta il proprio ruolo avocando a sé l’importante funzione di
tenero cantore, mentre la voce si placa in un ‘parlato’. La ripresa dell’iniziale accompagnamento lascia di nuovo
spazio alla melodia vocale, seppur variata nei suoi tratti caratteristici. La breve coda, infine, affida al pianoforte il
compito di dissolvere nel sofferto silenzio dei ricordi il canto e, con esso, le emozioni. (Pierpaolo Salvucci)
(dalla prolusione al Concerto di musiche profane nell’ambito della manifestazione per il il cinquantenario della morte di G.
Tebaldini, San Benedetto del Tronto, 3 maggio 2002)
Questa melodia [Io ti baciavo in sogno] ha un carattere di romanza da salotto di tipo melodrammatico. Qui anche
la qualità e la quantità dell’elemento voce può essere determinante per la buona riuscita del brano, soprattutto
all’inizio, dove il pianoforte viene impiegato solo per accompagnare con ritmo sincopato, tranne una parte
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centrale più assorta sulle parole “Pensa Iddio”. Un episodio strumentale introduce un nuovo momento più vario
che parte piano e si anima in modo drammatico fino a sfociare, dopo un passaggio ascendente del pianoforte, in
un’ampia ed espressiva melodia strumentale sulla quale si innesta il canto; la ripresa dell’atmosfera iniziale,
prima con accompagnamento sincopato, poi più assorta, conclude la prima parte, con la melodia strumentale che
si estingue dolcemente. La seconda parte, alle parole “Io guardo il cielo”, riprende con un lieve arpeggiato del
pianoforte, ma il clima si scalda ben presto e aumenta la tensione nel canto e nel pianoforte. Da “Forse per me” il
tempo è Più mosso e il ritmo a note ribattute dell’accompagnamento si fa sempre più incalzante: il canto è
avvolto da una scrittura strumentale di tipo orchestrale. La tensione si allenta di nuovo e riprende l’arpeggiato
del pianoforte sulla melodia ampia e nobile del canto (“O vana stella”). Un crescendo vigoroso porta ad un
momento di sospensione, ad una tensione che si scarica nell’apoteosi del Largo conclusivo, energico e solenne:
sull’ampia melodia strumentale già udita in precedenza si leva il canto, eroico e pieno di impavida dignità che
conclude una lirica dal carattere quasi operistico.
Questa romanza ci fa pensare a un Tebaldini sconosciuto, inedito. (Renato Toffoli)
(per conto dell’Associazione Lirica “Pier Adolfo Tirindelli”, su richiesta della laureanda Fulvia Pelizzari di Brescia,
Conegliano Veneto, 2006)
147. Ella tremando venne alfine
Racconto?… Monologo?…
In questa lirica il Tebaldini dimostra d’aver le idee chiare. Dall’inizio alla fine si assiste ad un continuo sgranare
di note che fa da sfondo al racconto.
Tutto il brano è complesso e ben elaborato. Dopo un’introduzione armoniosa e palpitante, il canto si dipana al di
sopra dello stesso incessante movimento strumentale iniziale, alternando frasi melodiose a incisi più brevi e
sinuosi, come in un assorto monologo. Sulle parole “Parevano i roseti” ha inizio un momento più calmo, appena
increspato da una lieve agitazione, al quale segue la ripresa dell’atmosfera iniziale in un ampio episodio
strumentale che si slancia verso l’acuto per poi tranquillizzarsi. Il canto riprende la sua rapida narrazione e
l’accompagnamento, col solito incessante movimento, commenta ed avvolge gli slanci appassionati dettati dal
testo d’annunziano. Sulle parole “Ben or se l’aurolose labbra” ritorna l’armoniosa e più pacata atmosfera
iniziale, che prosegue, con la lunga conclusione strumentale, attraverso un progressivo crescendo e termina in
modo energico e “con violenza”.
Bene ha fatto il Tebaldini a scrivere questa lirica per voce ed orchestra, la quale permette molteplici sonorità e
timbri che non può invece offrire il solo pianoforte. (Renato )
(per conto dell’Associazione Lirica “Pier Adolfo Tirindelli”, su richiesta della laureanda Fulvia Pelizzari di Brescia,
Conegliano Veneto, 2006)
149. Epicedio
Il 29 luglio 1944, esattamente un mese dopo l’eccidio di Paolo e Bruno Brancondi, ripresosi dallo choc,
Tebaldini, assistendo alla messa funebre, concepì una composizione in memoria dell’eroico sacrificio dei due
fratelli loretani. Fissò “fin da quel giorno i principali temi, spronato dal desiderio, anzi dal bisogno, di
rispondere cristianamente, corde et animo, ai torti subìti dall’umanità” per mano dei violenti “nuovi barbari”. Ne
uscì così un lavoro per orchestra sul quale Pizzetti il 18.VII.’44 espresse a Tebaldini il seguente giudizio: “[...]
Ho letto e riletto le Sue composizioni. Commossa e toccante la melodia del Canto di Penitenza, suggestivo la
Cantata della Pentecoste; superiore a queste due opere, sì per la copia e varietà delle invenzioni melodiche e
armonistiche e ritmiche, e sì per la potenza di espressione drammatica e lirica, l’Epicedio”.
Si tratta in realtà di una composizione che supera la pur toccante e commossa melodia del Canto di Penitenza e
il suggestivo Preludio alla Cantata di Pentecoste dello stesso Tebaldini, per essere strutturata su temi semplici,
ma adatti a esprimere i sentimenti di dolore provati dal compositore e il cordoglio universale.
Il brano è composto da tre movimenti: un Andante mesto, un Andante sostenuto e un Lento grave. Il primo
evidenzia in qualche modo la dolorosa attesa, con il tema discendente in Mi minore, giocato poi sul primo e sul
secondo grado della scala tonale, arricchito da elementi descrittivi introdotti dall’arpa; il secondo si basa su un
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procedimento armonico che rimanda alla Scuola Romana di Ildebrando Pizzetti, con accordi molto densi di
decima e di undicesima, seguiti da arpeggi e da sestine dei violini là dove la gente si interroga sui timori della
probabile esecrabile condanna; il terzo movimento è una sorta di “marcia funebre” basata su un ritmo di quattro
note portato avanti ostinatamente dai tromboni per cinque misure. Il tema proposto dalle trombe, dai clarinetti e
dagli archi è caratterizzato invece da una melodia di tre note molto ben contrastanti con la persistenza del basso
e con un incomparabile effetto di mestizia.
La pesantezza degli accordi finali, posti su tessiture molto distanti tra loro, e il degradare dal forte al mezzo
forte, sino al piano e pianissimo dell’ultima nota, se rappresentano un grido lancinante di dolore per la fine
ingiusta e straziante dei due martiri, indicano anche la speranza di chi crede nell’aldilà e trova conforto in Dio
più che negli uomini.
L’orchestrazione è molto ben curata e tende a mettere in risalto i sentimenti dell’Autore attraverso i timbri degli
strumenti che, non solo si esibiscono per “famiglie”, ma fondono le loro voci in modo da creare una gamma
infinita di colori che mutano come la luce del sole nell’arco di una giornata. Molto interessante è l’accostamento
dell’arpa con i violini, i quali, rispondendo agli arpeggi con quintine di sedicesimi, evitano all’arpa di
stemperarsi in un troppo abusato descrittivismo musicale.
Tutta la composizione si ispira ai Sepolcri di Ugo Foscolo che Tebaldini, da buon bresciano, non dimentica di
evocare. Sulle prime due misure della partitura per pianoforte si legge infatti: “All’ombra de’ cipressi e presso
l’urne confortate di pianto”; mentre nella chiusa del brano, “Ed onore di pianti ognor avrete / Ove già santo e
lagrimato il sangue / Per la patria versato, e finché il sole / Risplenderà su le sciagure umane!”.
L’Epicedio è dunque intriso di sentimenti foscoliani, ora “crudamente realistici, ora familiari, ora nobilmente
eletti”, che Tebaldini sintetizza “con sicurezza di disegno compositivo in riflessioni e passioni che si intrecciano
a teneri ricordi, a pietà familiare, a meditazioni etiche, nonché a quella fitta trama di sentimenti che pone la fede
tra i valori più sacri e imperituri dell’uomo” (Lanfranco Caretti). Ma se la “fede” per Foscolo è quella nella
“patria” derelitta dell’Ortis, per Tebaldini è quella in Dio, quel “Dio che atterra e suscita, che affanna e che
consola” e che non può turbare “la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”.
(Luigi Inzaghi)
(da Per un Epicedio, Grafiche D’Auria, Ascoli Piceno, 2001)
151. Fantasia araba
[...] Zuelli mi scrive che farà un gran concerto con musica di Bossi, Sgambati, Tebaldini, Busi, Platania,
Gallignani, Zuelli. Gli scrivo proponendo per te la Fantasia Araba, va bene? Te lo ripeto ancora, la composizione
e l’istrumentale soprattutto sono bellissimi; gli effetti sicuri. [...]
(da una lettera di Marco Enrico Bossi a Tebaldini, Venezia, 19/12 – 96)
[…] L’orchestra, diretta dal maestro Tebaldini, eseguì l’Ouverture all’opera Ifigenia in Aulide di Gluck, che
venne fatta replicare; un Allegro della Serenata di Wolff-Ferrari, una Burlesca di Scarlatti, ridotta per orchestra
da C. De Nardis ed infine un riuscitissimo pezzo del maestro Tebaldini, Adagio della Suite sinfonica: Alla fonte
d’Henscir (op. 11), che piacque molto e fu calorosamente applaudito.
La Gazzetta di Parma così ne scrisse in proposito il dì appresso:
L’Adagio della Suite sinfonica: Alla fonte d’Henscir, “Fantasia araba” del maestro Tebaldini, è degno di un colto
musicista e fa vivamente desiderare l’audizione delle altri parti del lavoro. Un soffio di calda italianità e morbida
dolcezza avviva questo brano di musica. Il tema principale proposto dal flauto (prof. Cristoforetti) viene ripetuto
con maggiore ampiezza di svolgimento dall’intera orchestra con prevalenza assoluta degli archi; la fusione
felicissima degli effetti fonici, sapientemente combinati, si spiega in una frase di grande efficacia tutta vita e
calore, conferendo a questo brano un color locale pienamente riuscito. Il pubblico ha ascoltato con attenzione
grande e con compiacimento il lavoro del Tebaldini e ne ha accolto la fine con applausi che non avrebbero
potuto essere più sinceri e più calorosi. (Emme – Effe)
(da “Gazzetta Musicale di Milano”, 22 dicembre 1898)
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[…] L’ultimo numero del programma constava di due pezzi, l’Adagio della Suite sinfonica “Fantasia araba” op.
11 del M. Tebaldini, e la Burlesca di D. Scarlatti.
L’Adagio del Tebaldini ha lasciato in tutti vivissimo il desiderio di udire anche gli altri due tempi che
completano questa Suite, desiderio questo che dà la giusta misura del successo ottenuto.
Scritto nel 1888 a ventiquattro anni, appena sortito dalla scuola, quando la musica Ponchielliana, in un barbaglio
di luce vivissima, era vertiginosamente salita alle più alte vette del trionfo, risente un poco dell’enfasi dell’epoca.
Ma quale e quanta sincerità d’espressione, di sentimento!
È un mormorio lieve, tenue, dolce, come carezza sussurrante tra lo stormire delle fronde. Il tema principale
proposto dal flauto; delicato nell’espressione, elegantissimo nello svolgimento; viene ripreso nella
magniloquentemente vibrante sonorità degli archi e dei legni, che in un assieme mirabile, fondendosi in
riuscitissimo accordo fonico, si svolge con un effetto felicemente indovinato.
Qual maggiore risalto avrebbe avuto questo brano, se eseguito in altro ambiente dove gli effetti acustici
rispondessero nella loro giusta proporzionalità, e non limitato al piccol numero d’istrumenti ad arco dei quali
può disporre il Conservatorio!
Ma, spero però che presto potremo riudire nella sua integrità questa Suite, e che il giudizio del pubblico, che ben
di rado s’inganna, sarà conforme alla mia debole opinione. […]
Il maestro Verdi al quale era stato inviato il programma del concerto, mandò al direttore M° Tebaldini il
seguente biglietto:
Maestro Tebaldini,
Milano 18 dicembre
Grazie! Mi rallegro che in una esercitazione musicale di un conservatorio italiano si sia eseguito musica italiana.
È una meraviglia! Saluti
Devotissimo
G. Verdi
(da Società dei Concerti – 5. Concerto dell’Annata 1897-98, “Gazzetta Industriale”, 24 dicembre 1898)
156. il fior de l’agave
[...] È breve anche Il fior de l’agave... ma su di esso conto assai. [...]
(da una lettera di G. Tebaldini a Pina Agostini Bitelli, da Loreto, 14.XI.939)
Brano dal carattere melanconico, ma al tempo stesso luminoso.
Le note introduttive del pianoforte, che picchiano come gocce a campana, disegnano un’atmosfera di rara
bellezza come in poche altre sue composizioni del genere. Il canto inizia solenne aprendosi gradualmente verso
l’acuto. Un progressivo aumento di tensione e velocità (a partire dalle parole “Ebbra di fuoco”), sottolineato da
rapidi arpeggi ascendenti del pianoforte, porta al cambio di tonalità, espressione di uno slancio verso l’alto che,
in tre riprese, porta all’acuto finale. La ‘vibrante’ conclusione del pianoforte, ricca di arpeggi e trilli, espande e
dissolve l’atmosfera iniziale.
Testo e musica agiscono in sintonia e parallelismo. Da questo brano credo si possa capire la vera natura umana e
artistica del Tebaldini.
Anche il canto è trattato in modo elegante, leggero, aereo. (Renato Toffoli)
(per conto dell’Associazione Lirica “Pier Adolfo Tirindelli”, su richiesta della laureanda Fulvia Pelizzari di Brescia,
Conegliano Veneto, 2006)
159. Inno
[…] La scelta del maestro che sollevasse le strofe sulle ali di note armonicamente vigorose e le avvolgesse nella
veste flessuosa del canto non poteva essere più felice, perché è caduta su quella illustre gloria musicale bresciana
e italiana che è il Comm. Giovanni Tebaldini. Legato all’opera nostra con i vincoli di una sincera amicizia e
simpatia; legato al Venerato Fondatore da parentela e da amicizia fino alla fanciullezza, egli che ha sempre
partecipato alla vita nostra, che non lasciò occasione per dimostrarci il suo appoggio e per prestarci la sua
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preziosa opera, come nel progetto e nell’inaugurazione dell’organo (1912); anche questa volta di buon grado
accondiscese al nostro invito compiendo l’opera che ci renderà più caro il suo illustre nome.
Reduce dalla Rassegna Nazionale di Musica che egli diresse, in qualità di Concertatore e Direttore, sullo scorcio
del novembre nella gentile città di Lodi, si intrattenne in mezzo a noi alcuni giorni, ospite graditissimo,
compiendo la composizione armoniosa dell’inno. […]
Inutile aggiungere che la composizione musicale dell’inno è riuscita più che mai suggestiva: infatti pur avendo
tutti i caratteri della popolarità facile e piana, quale dev’essere un’aria ritenuta e cantata da giovani operai,
racchiude meravigliose risorse di armoniche bellezze. La perizia del maestro del nostro corpo bandistico Luigi
Castelvedere ne ha istrumentata la musica per la banda e le prime prove del canto robusto accompagnato da
quelle note squillanti hanno dato un effetto sorprendente, a tutti gradito.
(da Il nuovo inno dell’Istituto, “La Famiglia di Padre Piamarta”, dicembre 1928, p. 5)
160. Inno
Nella ricorrenza di questo Cinquantenario di fondazione, insieme al monumento, un’altra novità è venuta a
suscitare note di vivo entusiasmo tra i nostri giovani.
Il Maestro Comm. Giovanni Tebaldini appassionato e distintissimo cultore della musica polifonica, legato a P.
Piamarta da vincoli di parentela e dalla più intima amicizia fin dalla fanciullezza, ha voluto gentilmente
comporre su parole di Padre Piacentini un nuovo Inno a P. Piamarta per Coro a quattro voci dispari. L’ottimo
Maestro in due brevi motivi ma pieni di passione e di slancio vi ha fatto rivivere tutto il suo entusiasmo sempre
giovane anche nel declinare degli anni.
L’inno si apre con un allegro moderato ma gioioso e festante di cuori giovanili intorno alla figura del Padre che
rivive, si adagia in un armonioso e delicato succedersi e intrecciarsi di voci che benedicono alla sua memoria
sempre scolpita nel cuore dei figli, si allarga e ingigantisce in note scultoree, vibrate e squillanti di augurio, che è
previsione di grandezze future, si chiude con un maestoso assieme trionfale di benedizione che vuol essere
omaggio di cuori riconoscenti.
Un grazie di cuore all’illustre Maestro che ha voluto così onorarci di una sua composizione e rinsaldare i vincoli
di sincero affetto che sempre lo mantennero pieno di devota ammirazione per la memoria e per le Opere di Padre
Piamarta.
(da Primo cinquantennio dell’opera di Padre Piamarta 1886-1936. Un nuovo inno a Padre Piamarta, “La Famiglia di
Padre Piamarta”, Brescia, 1936)
164. La Boyra (La Nuvola)
Illustre e Gentile Signora Agostini
[...] Poi avrei un Coro a 5 voci composto nel 1910 (la Boyra, la Nuvola) per l’Orfeó Catalá di Barcellona,
richiestomi allora da Pedrell e dal direttore Millet.
Ma è su testo di Verdaguer, in catalano... dolcissimo e chiarissimo. L’eseguirlo nel testo originale non sarebbe
cosa difficile: anzi presenterebbe delle caratteristiche non poche, che forse interesserebbero pure il pubblico.
Anche la Boyra l’ho composta per due terzi durante la malattia mortale della mia povera Marie diciottenne.
Quando venne a mancare interruppi il lavoro che ripresi più tardi quando a Napoli ebbi occasione di farlo
conoscere a personalità spagnole...e quando il Millet insistette onde terminassi il mio lavoro. È a 5 voci con due
tenori... difficiluccio alquanto: di circa 120 battute. [...]
(dalla lettera di Giovanni Tebaldini – San Benedetto del Tronto, 25. X. 947 – alla soprano, direttrice di coro e scrittrice Pina
Bitelli Agostini di Cento - Ferrara)
[...] Fin da quando, nella mia prima lettera (in risposta alla sua gentile richiesta), Le dissi che tenevo nel cassetto
delle mie più dolorose memorie questo lavoro di trentasette anni di età... sentii, però anche che mettendomi in
gara coi più giovani, giuocavo – come si dice – un[a] carta.
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Volli rivedermi nello specchio e, come avviene per le caratteristiche esteriori..., guardarmi in faccia. Mi pare di
poter sostenere la mia parte, di attempato sì..., ma non decrepito. [...]
Rileggendo La Boyra compresi di non poter pretendere d’essere messo in gara coi più giovani. Io ho vissuto alla
fine del secolo XIX ed alla soglia del XX. Mi concedo però il lusso di considerarmi figlio non degenere del mio
tempo e come tale di poter ambire all’onore di essere giudicato anche da un pubblico del 1948.
A Roma per quarant’anni et ultra ho lavorato parecchio. Da dieci anni non ci metto piede, ma credo ancora di
non essere stato dimenticato del tutto. Se qualcuno, udendo La Boyra, dirà “sepolcro imbiancato”, s’accomodi
pure..., ma sepolcro di un povero guitto dell’Arte il quale, tuttavia, ha saputo infondere in parecchie anime...,
amore, fede, entusiasmo. E questo è già qualche cosa [...]
Rendo grazie fin da ora ai Cantori ed alle Cantatrici veronesi d’avere – mercè la di Lei amichevole presentazione
– compreso il mio stato d’animo di allora quando mi accinsi a dettare La Boyra che mi ero impegnato di inviare
all’Orfeó Catalá di Barcellona. Col cuore in sussulto lavoravo nel mio studio al tavolo ed al pianoforte, ma nella
stanza vicina sentivo gemere sul suo letto la povera malata... diciottenne. Correvo a lei..., l’abbracciavo
piangendo ed essa dirmi: “Va là papà... tu devi lavorare..., hai preso impegno; vai... io sopporto. Ma ad un certo
momento dovetti proprio sospendere tutto: ...e proprio lì dove i versi di Verdaguer cantano l’Inno alla vita...
Straziante ironia! [...]
(dalla lettera di G. T. – San Benedetto del Tronto, 12. XI. 947 – a Pina Bitelli Agostini)
[...] La mia composizione? Conta trentasette anni di vita, come già Le ho detto. L’ho riveduta; la rivedo, me la
rileggo; me la passo anche al pianoforte e concludo facendo dell’autocritica. “Sì, può andare ancora... senza
paura di apparire... invecchiata”. È alquanto difficile, ma Lei dotata di tanta penetrazione e di tanta intuizione
saprà comprenderLa ed animarla, Metterò tutti i segni di espressione, i colori ecc. Poi – magari più tardi – Le
invierò una specie di esegesi su di cui Ella possa fondare i suoi risultati estetico spirituali. Perché nella mia
vecchia composizione dettata col dolore straziante nell’anima c’è un po’ di spiritualità. [...]
(dalla lettera di G. T. – San Benedetto del Tronto, 20. XII. 947 – a Pina Bitelli Agostini)
[...] La 37enne Boyra era rimasta nascosta e per quanto ripetutamente sollecitato dal Millet di Barcellona a
mantenere la promessa fattagli, non son più stato capace di accingermi al ultimare la mia composizione che oggi
comprende 121 battute... non di più.
Ora Lei la veda, la esamini, e se può andare la metta sotto la sua protezione. Qualora la trovi passabile e
presentabile al pubblico di Roma, tale da meritare conto di essere studiata, Le manderò degli appunti didascalici
di guisa Ella possa – passo per passo – conoscere le mie intenzioni. La lirica prettamente polifonica non è facile
certamente; esigerà da Lei e da’ suoi interpreti un po’ di fatica e di sacrificio. Merita conto da parte di loro
siffatta dedizione? Non mi pronuncio, lasciando a Lei di decidere in merito, riconoscente ad ogni modo d’avermi
offerta occasione di portare a termine il mio lavoruccio... che nasconde una tragedia. Purtroppo! E Lei sa quale.
[...]
(dalla lettera di Pina Bitelli Agostini – Verona, 5 Gennaio 1948 – a G. T.)
[...]
Sono lieta, tanto lieta di avere contribuito “di averle dato la spinta” per terminare il suo bellissimo, alato,
interessantissimo coro. [...]
(dalla lettera di Pina Bitelli Agostini – Verona, 9 Gennaio 1948 – a G. T.)
[...] eccomi a darLe qualche spiegazione in merito.
Premetto: conta 37 anni et ultra; qualcheduno dei moderni epigoni, qua e là, lo troverà invecchiato; io anche; ma
nell’assieme polifonico, all’entrata; al... Corri, corri (batt. 52 e seguenti) ed alla chiusa (da battuta 91 in poi) mi
sembra possa reggere ancora con discreto onore.
Erro? A’ miei giudici la sentenza! Ad ogni modo – anche per le condizioni d’animo in cui mi sono trovato
componendolo – ci tengo a dimostrare che esso è... sentito. E se Lei ed i suoi Cantori – comprese le canterine
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Signore e Signorine - mi useranno la generosità della loro attenzione in senso spirituale, credo si potrà arrivare a
buoni risultati anche d’innanzi al pubblico... sia pure romano.
Come da suo desiderio, Le accompagno una traduzione letterale – o quasi – del testo del poeta Verdaguer. È in
catalano, che differenzia alquanto dallo spagnuolo castigliano. Ma è lingua dolce e piana, specie per noi italo
veneti. Credo che un’esecuzione del genere – musica a parte - desterebbe molto interesse, specie a Roma ove
credo che la colonia ispano catalana sembra sia ben rappresentata. E poi c’è il testo poetico, nel suo contenuto
pieno di umanità su di cui si può fare assegnamento. Non Le sembra?
Alle battute 17-18; 80-111-112 ho fatto qualche variante che troverà precisata nel mezzo foglio che Le mando.
Secondo questi appunti favorisca correggere la partitura che detiene e le parti staccate che Le ho mandate,
facendo praticare il tutto su le parti che dovrà far copiare.
E per mio conto dirò... alea jacta est!1 [...]
1. A questo punto, nella minuta della lettera conservata presso il Centro Studi e Ricerche “G. T.”, datata 16 Gennajo 1948, c’è il seguente
brano:
“Pensi, Signora Pina, alla chiusa: “per il bacio che i due si son dati (madre e figlio) torna la vita! Io, invece, mentre componevo e
musicavo (o meglio tentavo di musicare) quelle parole, correvo ad abbracciare mia figlia che poche ore appresso… spirava!
Gli schiarimenti che riguardano la mia composizione:
- Per le battute 17-18 le troverà nel mezzo foglio a parte
- Secondo i miei appunti favorisca correggere la partitura e le parti che Le ho mandato, facendo praticare il tutto sulle parti staccate che
dovrà far copiare.
Il testo del Coro (come Lei stessa può facilmente rilevare) si suddivide in tre distinte stanze.
La prima è generosa e si rivolge alla Boyra. Nella seconda, dalla battuta 19 alla battuta 51, è la Boyra stessa che risponde. Da battuta 52
fino alla chiusa torna a prevalere l’anima dell’interrogante… “corre, corre boyra d’or”.
Da 91 in poi la voce che canta, e che deve prevalere è quella dei 1i tenori cui, alla battuta 100, con slancio … [parola incomprensibile], si
uniscono in ottava i soprani”.
(dalla lettera di G. T. – San Benedetto del Tronto, 18-1-‘948 – a Pina Bitelli Agostini)
165. Lacrime e Sorrisi
[...] Lacrime e Sorrisi (Giudici e Strada, Torino) è una canzone che senza che la bella e larga melodia ne soffra,
ha qualche cosa d’esotico nella maniera che a momenti ricorda lo stile legato e l’organo, e che nel medesimo
tempo nella sana artificiosità della forma rafforza l’idea poetica espressa dal canto. [...] (Eusebio)
(da Bibliografia Musicale – Primavera di canzoni, “Gazzetta Musicale di Milano”, a. XLIV, n. 30, Milano, luglio, 1889, p.
491)
La prima sensazione è quella di una musica dal carattere quieto, tranquillo, spassionato, da cui traspare una
costante luce biancastra, incolore, che poco si addice ad un “rispetto”, genere di ispirazione popolaresca, tanto
meno se cantata da un tenore. Una voce più scura, di baritono o basso, potrebbe togliere un po’ di colore
asessuato. Ma questo è Tebaldini, che spesso pone su un testo maschile una musica al femminile.
Il periodo musicale mantiene uno stilema ben commisurato e non privo di ispirazione. L’introduzione, mossa, in
3/4, del pianoforte ha un carattere ingenuo; l’ingresso del canto, in tempo più lento (Assai meno) su
accompagnamento arpeggiato, è di bell’effetto; sulle parole “Si copre il cielo” la musica passa in modo minore,
per esprimere intensità e mestizia, ma presto ritorna il tema sereno e giocoso dell’introduzione al pianoforte che
accompagna le parole “Ma se torna ai begli occhi”; interessante è il passaggio stringente successivo dove il
tempo passa in 2/4 e il ritorno al ¾, dove l’accompagnamento sincopato sostiene una melodia molto espressiva.
Vivace e di effetto è la parte finale, sorridente e giuliva, quasi da ragazzini in festa, cui fa eco il motivo iniziale
al pianoforte.
Colore a parte, in questo brano, il Tebaldini dimostra di saper combinare parole e musica. Anche i vari
andamenti hanno sempre un loro significato espressivo. (Renato Toffoli)
(per conto dell’Associazione Lirica “Pier Adolfo Tirindelli”, su richiesta della laureanda Fulvia Pelizzari di Brescia,
Conegliano Veneto, 2006)
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168. L’Infinito
«Composizione che procede senza incertezze dall’inizio alla fine.
La composizione è formata da piccoli quadri per esigenze del verso e del suo contenuto che, una volta incastrati
a mosaico, formano un tutt’uno che corrisponde all’ordine dell’universo.
L’introduzione del pianoforte ha del misterioso, dell’impressionistico. La prima parte vede le quattro voci
entrare in successione, secondo uno stile imitativo madrigalesco (stile musicale contrappuntistico a più voci del
‘500). Il tessuto musicale si svolge tranquillo fino alle parole “il guardo esclude”, dove il canto e
l’accompagnamento farebbero pensare a una chiusura, invece, non è che un attimo d’incantesimo, per riprendere
subito al Poco meno sulle parole “Ma sedendo”, con un carattere musicale semplice, quasi spensierato, in cui le
voci maschili rispondono a quelle femminili. Sulle parole “e profondissima quiete” l’atmosfera si fa sospesa, le
voci rimangono per un attimo senza il sostegno del pianoforte, che risponde subito come a commentare lo
smarrimento del poeta; il gioco tra le voci e il pianoforte che ne riverbera l’emozione poetica si ripete variamente
fino a che le voci sole, stavolta più decise, esprimono il ricordo del passato e la coscienza del presente come
frammenti d’eternità. Il pianoforte, perentorio, sottolinea questa presa di coscienza con un intermezzo dal
carattere drammatico che conduce, rilassandosi, alla ripresa del motivo musicale iniziale sulle parole “Così tra
questa immensità”, con la stessa successione di entrate nelle voci e con uguale serenità nella conclusione (“e il
naufragar m’è dolce”); il pianoforte chiude il pezzo con lo stesso mistero col quale lo aveva iniziato.
Non a caso l’autore ha impiegato le voci tradizionali di soprano, contralto, tenore, basso e non una sola voce. Io
lo interpreto nel seguente modo: le voci rappresentano i fianchi col loro ordine; la parte strumentale, che esprime
con fine armoniosità il significato di ogni verso, rappresenta gli interminati spazi: l’infinito. Infatti, l’inizio e la
fine vengono affidati al pianoforte.
In questa lirica il Tebaldini, dovendo anche coordinare ben quattro voci, le tratta in modo più sobrio che nelle
liriche per voce sola.
Nel suo insieme questo brano si potrebbe definire una “piccola cantata”. Le quattro voci devono concentrarsi
sulla parola per coinvolgere l’ascoltatore in un’atmosfera nella quale si dovrebbe impegnare più
l’immaginazione che l’udito. (Renato Toffoli)
(per conto dell’Associazione Lirica “Pier Adolfo Tirindelli”, su richiesta della laureanda Fulvia Pelizzari di Brescia,
Conegliano Veneto, 2006)
170. Lux in tenebris
171. Miranda
Vicenza, 18 sera.
Il G.U.F. di Vicenza, chiudendo il suo ciclo di attività culturali, ha fatto svolgere questa sera nella sala
dell’istituto musicale Canneti una manifestazione dedicata ad Antonio Fogazzaro nel centenario della nascita,
alla presenza di autorità, di un foltissimo gruppo di invitati, oltre che dei congiunti del poeta.
La manifestazione si è iniziata con la vivida rievocazione del Fogazzaro fatta dal poeta Giuseppe Villaroel. Egli
ha lumeggiato i valori artistici e spirituali che si riscontrano nelle opere del grande scomparso facendo rivivere in
efficaci tratti tutto il mondo di sogno, di poesia e di arte dello scrittore vicentino. Con fine senso interpretativo, il
prof. Giovanni Orsini ha detto alcune tra le più belle liriche del Fogazzaro e lo squisito poemetto “Samarith di
Gaulan”.
Tre riuscitissime liriche del “Libro di Miranda” musicate dal maestro Giovanni Tebaldini, sono state eseguite
magnificamente dal soprano Magda Piccarolo che ha rivelato preclare doti di cantante.
La composizione musicale delle prime due liriche di “Miranda” risale a circa trent’anni fa, mentre la terza
costituisce uno dei più recenti lavori del Tebaldini. Trent’anni non potevano certo passare invano per un ingegno
duttile e fervido come quello del maestro, e quindi, mentre nelle prime due liriche l’atmosfera è piuttosto accesa
ed intensamente drammatica tanto da superare in qualche passo quei limiti tradizionalmente connaturati al
genere, la terza si placa invece in armonie meno tormentate ed in accenti più rassegnati e profondamente umani.
Il notevole valore musicale delle tre brevi composizioni è stato apprezzato nella sua giusta misura dall’eletto
pubblico. […]
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(da La commemorazione di Fogazzaro a Vicenza, quotidiano non identificato, 19 (?) giugno 1942)
Alla solenne celebrazione del centenario di Antonio Fogazzaro a Vicenza ha partecipato il maestro Giovanni
Tebaldini, del quale furono eseguite e applaudite quattro sue composizioni su liriche del libro “Miranda”. La
prime tre risalgono a circa trent’anni fa, la quarta fu composta recentissimamente e “trent’anni – scrive,
esaminandole un critico d’arte – non potevano certo passare invano per un ingegno duttile e fervido come quello
del Maestro, e, quindi, mentre nelle prime liriche l’atmosfera è piuttosto accesa e intensamente drammatica,
l’ultima si placa invece in armonie meno tormentate ed in accenti più rassegnati e profondamente umani”.
Questi riconoscimenti al maestro Tebaldini che tanta genialità e fervore combattivo ha profuso nella sua opera
creatrice e nella lotta per i suoi severi ideali d’arte, sia come compositore che come musicologo, durante la
carriera di direttore del Conservatorio di Parma, della Cappella di S. Marco a Venezia, di S. Antonio a Padova e
di Loreto, sono giusti. Anche recentemente furono eseguite a Ravenna, a Bologna, a Genova musiche sue che
ebbero, oltre al plauso del pubblico, quello del suo più celebre allievo e ammiratore: Ildebrando Pizzetti.
Con orgoglio e affetto di concittadini si augura al maestro un proseguimento della nobile attività artistica con
quello spirito di giovinezza che in lui è mirabile perché fatto di un amore e di una fede spirituale che gli anni non
toccano.
(da Il maestro Giovanni Tebaldini alla celebrazione di Fogazzaro, “Il popolo di Brescia”, 28 giugno 1942)
171. Miranda: VIII Da te, da te, solo da te!
[...] Trent’anni non potevano certo passare invano per un ingegno duttile e fervido come quello del maestro, e
quindi, mentre nelle prime liriche [quelle del 1912] l’atmosfera è piuttosto accesa ed intensamente drammatica
tanto da superare in qualche passo quei limiti tradizionalmente connaturati al genere, l’ultima [Da te, da te, solo
da te!] si placa invece in armonie meno tormentate ed in accenti più rassegnati e profondamente umani. Il
notevole valore musicale delle brevi composizioni è stato apprezzato nella sua giusta misura dall’eletto pubblico.
(da un quotidiano del 1942; testata e data non individuati)
È una pagina che sprigiona una gamma di sfumature sonore improntate ad un gusto armonico tradizionale da cui
emergono: il canto, nel suo attento procedere in rapporto ai versi, e la funzione icastica, affidata alla ‘tavolozza’
pianistica. Più che una mera funzione d’accompagnamento, infatti, al pianoforte viene affidato un ruolo
strategico nell’economia del brano: mettere in relazione la musica con il tempo e la memoria. Ciò avviene
attraverso una scrittura che si raccorda con il fraseggio vocale, fatto di episodi melodici di tipo sillabico, che solo
in taluni casi lasciano spazio ad accorati slanci. I repentini cambi di tempo e di tonalità, nonché la variegata
scrittura ritmica, la minuziosità nelle indicazioni agogiche e interpretative mostrano la volontà del compositore di
calare l’interprete, e con esso il pubblico, nei sentimenti espressi dal testo con un atteggiamento introspettivo.
(Pierpaolo Salvucci)
(dalla prolusione al Concerto di musiche profane nell’ambito della manifestazione per il il cinquantenario della morte di G.
Tebaldini, San Benedetto del Tronto, 3 maggio 2002)
175. Ore d’ozio
176. Non dimandar
Non fa d’uopo che io vi presenti il maestro Tebaldini; egli è già da qualche tempo una vostra cara conoscenza, o
cortesi lettori. Chissà quante volte avrete chiesto oblio dei vostri dolori a quella pagina di poesia intima che è il
Tema di Valzer – Ore d’ozio – che adornò l’anno scorso il N° 9 del Paganini, o avrete cercato sollievo al vostro
spirito affaticato nella dolcissima Berceuse pubblicata sulla Strenna! E certamente trovaste sempre in quella
musica suoni che non si arrestavano all’orecchio, ma cercavano dentro di voi il vostro pensiero, per intrattenerlo
in misteriosi colloqui.
Vi è l’arte borghese che solo ci parla ai sensi e nulla domanda al nostro io; vi è l’arte aristocratica che vuole il
possesso dell’animo nostro e ne scruta i sentimenti più nascosti. Il Tebaldini è artista eminentemente
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aristocratico: schivo di qualunque effetto, che possa, anche alla lontana, parer volgare, non modella mai il suo
stile su forme altrui ed estrinseca le sue idee con parsimonia di linee e con estrema finezza di colorito; procede
quasi sempre a sfumature e raramente usa dei passaggi repentini: ma quando lo fa, sono allora pennellate da vero
maestro.
Gli ultimi suoi lavori pubblicati sono: Non dimandar – romanza per tenore, Tutto ritorna – dialogo per soprano e
basso, e Fede, Dubbio, Speranza – tre romanze per tenore riunite in un album dal titolo: Voci del cuore. In
queste composizioni la figurazione della melodia è scrupolosamente schiava dell’accento delle parole, e lo
sviluppo delle idee musicali subordinato alle poetiche senza inutili ritorni, ripetizioni o riempitivi; sembra che
l’autore abbia tratto la sua ispirazione dalla declamazione della poesia. Né crediate che difetti l’onda melodica;
essa abbonda fluida e ritmica: ora piena di fuoco ed ora dolcemente tranquilla, sempre sorretta da un
accompagnamento elegante, vario, originale: ad esempio la bella frase in ¾ nella romanza Non dimandar è
accompagnata con tanta leggiadria e varietà, che la parte del pianoforte intrecciandosi col canto ambedue le
volte, con differente disegno, ne aumenta d’assai l’interesse. E quando l’andamento delle linee non muta, cambia
però la disposizione degli accordi, da cui risultano percezioni diverse di effetti: veggasi, la parte in re maggiore
nel duetto Tutto ritorna, il quale duetto, è pure commendevolissimo per la esatta interpretazione della poesia.
Le tre romanze Fede, Dubbio, Speranza sono, direi, la illustrazione di questi sentimenti che vicendevolmente
accompagnano l’amore. In esse la tinta, ottenuta con eletti procedimenti armonici non potrebbe essere di più
indovinata, specialmente nella seconda (Dubbio), di cui al motivo in fa diesis maggiore danno molta efficacia i
ritardi degli accordi maestrevolmente disposti. La terza poi (Speranza), soavissima nella prima parte e riboccante
di affetto nella seconda, è tutta un profumo di grazia e di bellezza. […] (M.)
(da Sopra alcune composizioni di Giovanni Tebaldini, “Paganini”, a. II, n. 1, Genova, 15 gennaio 1888, pp. 3-4
[…] Come il maestro Giovanni Tebaldini sia dotato di squisito sentire e di una mente eletta voi l’avrete
compreso, o lettori, dalle quattro pagine di musica delicatissima che vi offre il presente numero del Paganini. Il
tema di Valzer è uno di quei pezzi dai quali le bellezze nascoste escono ad una ad una formose e provocanti, e
v’invitano a ritornarvi sempre con vivo desiderio. Qui non sono effetti volgari, quivi non inutili pleonasmi, non
prolissità, ma in tutte le parti regna una elegante parsimonia che accusa forti studi e gusto finissimo. […]
Ha fatto stampare testé dallo stabilimento tachigrafico di Padova due bellissime romanze: Tutto ritorna e Non
dimandar di cui ci occuperemo un’altra volta.
Presto parleremo pure di altre sue romanze Voci del cuore e di un album per piano solo intitolato Pagine sparse
di prossima pubblicazione.
Attualmente sta lavorando intorno ad un dramma in un atto di L. Illica dal titolo Fantasia Araba per l’esito del
quale gli facciamo i più caldi e sinceri auguri.
(da La nostra musica, “Paganini”, a. 1, n. 10, Genova, ottobre 1887, p. 66)
178. Prima e dopo
I severi studi non impediscono al maestro Giovanni Tebaldini di seguire, di quando in quando, la più facile musa
della “Canzonetta”. Ed è appunto una graziosa Canzonetta veneziana del Sarfatti, che oggi diamo ai nostri
lettori, rivestita colle graziose note del Tebaldini.
(da Prima e dopo – Canzonetta veneziana, “Gazzetta Musicale di Milano”, a. 51, n. 2, 9 gennaio 1896, p. 17)
185. Um Mitternacht
[...] Una piccola trovata mi sembra il Notturno [...]. In esso non è tanto l’originalità della melodia, quanto quella
della parte del pianoforte e della concezione del pezzo in genere che attrae. C’è qualche cosa dello scintillare
delle stelle, della quiete profonda delle notti d’estate in questa linea. Quello che poi in genere nelle composizioni
di Tebaldini non saprei abbastanza lodare è il trattamento del pianoforte, che dà prova di eccellenti studi e di un
giusto criterio della linea musicale intima. Quanti potrebbero apprendere da questo novellino! (Eusebio)
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(da “Gazzetta Musicale di Milano”, a. XLIV, n. 30, luglio 1889)
La romanza è stata scritta in età giovanile. Rientra nel genere del “notturno”, in voga per tutto il secolo, ma
denota anche caratteristiche stilistiche innovative che troveranno compiuta espressione nella successiva
produzione del Maestro. Ci si riferisce, in particolare, al trattamento della scrittura pianistica, che viene
concepita come autonoma rispetto alla linea vocale e alle originali soluzioni armoniche. Molto intenso ed
evocativo il ritornello sui versi “Ella dorme! La mia signora dorme! Dorme! (Paola Ciarlantini)
(dalla prolusione al Concerto di musiche profane nell’ambito della manifestazione per il il cinquantenario della morte di G.
Tebaldini, Loreto, 1 aprile 2002)
Romanza in linea con la tradizione musicale del “Notturno”, si presenta in forma tripartita con la sezione centrale
improntata ad una personale cantabilità, mentre le altre due appaiono suggestive evocazioni di atmosfere e
“immagini” vocali che, nitide, si stagliano sulla scrittura pianistica. La romanza presenta alcune soluzioni
stilistiche che l’allora venticinquenne Tebaldini aveva già fatto proprie: la distinzione dei ruoli fra la voce e il
pianoforte – non più subordinato alla prima, bensì autonomo nell’ambientare, descrivere e commentare il testo
poetico – il ricorso a orditi armonici non certo tradizionali unitamente ad una innovativa scrittura che propone di
volta in volta scenari timbrici diversi. Ciò rientra in un uso composito del materiale musicale, come emerge dalle
quattro soluzioni adottate sul ritorno dei versi “Ella dorme! La mia signora dorme! Dorme!”. La scrittura
pianistica e la voce, infatti, vengono concepite per esaltare nei ritornelli musicali la vis evocativa del brano.
(Pierpaolo Salvucci)
(dalla prolusione al Concerto di musiche profane nell’ambito della manifestazione per il il cinquantenario della morte di G.
Tebaldini, San Benedetto del Tronto, 3 maggio 2002)
186. Voci del Cuore
In queste composizioni la figurazione della melodia è scrupolosamente schiava dell’accento delle parole e lo
sviluppo delle idee musicali subordinato alle poetiche senza inutili ritorni, ripetizioni o riempitivi: sembra che
l’autore abbia tratto la sua ispirazione dalla declamazione della poesia. Né crediate che difetti l’onda melodica;
essa abbandona fluida e ritmica: ora piena di fuoco ed ora dolcemente tranquilla, sempre sorretta da un
accompagnamento elegante, vario, originale. [...]
Le tre romanze sono, direi, la illustrazione di questi sentimenti che vicendevolmente accompagnano l’amore. In
esse la tinta ottenuta con eletti procedimenti armonici non potrebbe essere di più indovinata, specialmente nella
seconda (Dubbio) di cui al motivo in fa diesis maggiore danno molta efficacia i ritardi degli accordi
maestrevolmente disposti. La terza poi (Speranza), soavissima nella prima parte e riboccante di affetto nella
seconda, è tutta un profumo di grazia e di bellezza. (M.)
(da “Paganini”, a. II, n. 1, 15 gennaio 1888)
[...] Il Signor Giovanni Tebaldini m’era noto dai suoi brillanti articoli come strenuo campione della vera musica
da chiesa, e per fama come valente organista. Ora che vidi di lui cinque nuove romanze, godo saperlo anche
eccellente compositore di musica da camera. Le tre romanze Voci del cuore [...] hanno trovato eco nell’animo
sensibile del musicista, e sono riunite, belle, sentite e spontanee, senza quel fare patetico e malsanamente
sentimentale tanto in voga. Se si volesse fare il pedante, si potrebbe forse dire che il postludio della prima
canzone doveva essere in la maggiore invece che nel minore, come lo richiedeva la poesia, che esprime alla fine
un sentimento di speranza. La seconda e la terza mi sembrano ancor meglio riuscite della prima per la verità
dell’espressione e per l’aristocratica fattura. (Eusebio)
(da “Gazzetta Musicale di Milano”, a. XLIV, n. 30, luglio 1889)
Da una lettera di Tebaldini a Lesca, conservata con altra corrispondenza presso la Biblioteca “Trivulziana” di
Milano:
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Venezia, 30 - 9mbre [novembre] 1891
Carissimo Peppino,
Ti partecipo che le mie nozze avverranno nella seconda metà di febbraio. Finalmente pare ci debba arrivare!
Chiamami pretenzioso… quello che vuoi, ma io ti prego di essere presente in quella circostanza ad una cerimonia
che per me vuol dire più che un successo artistico. Che vuoi! Aldisopra dei miei ideali, ho sempre visto essa.. In
ogni mio pensiero; in ogni impresa; in ogni lavoro. E l’amor mio è nato colla musica delle tue tre poesie. […]
Lesca nel febbraio 1892 scrisse per le nozze dell’amico con Angioletta Corda la poesia “Sogni” che fu riportata
nella partecipazione con le seguenti parole di accompagnamento:
Amico mio carissimo, i versi che ti offro nel giorno, credo, per te più bello, cantano di una vita dolce e serena,
quale può essere soltanto immaginata dai cuori gentili e quale io auguro a Te ed alla Buona, in cui è tutto il tuo
amore.
Accettali come simbolo modesto dei voti più belli e d’un profondo senso di affetto, per cui con effusione di cuore
fraterno sono e sarò sempre il tuo G. Lesca.
Cinquant’anni dopo da Tebaldini:
Loreto 20. X. 942
[…] Ad indurmi a musicare Voci del Cuore fu il nostro poeta dialettale Canossi il quale avendo letto in un
periodico senese i tuoi versi, me li passò allo scopo cui accenno. Vuoi che io narri qualche cosa del quando e del
come ci conoscemmo e rinsaldammo la nostra amicizia? Ben volentieri! Dammi soltanto un’idea precisa di
quello che sarà la pubblicazione della quale mi parli.
Si tratta di tre momenti poetico-musicali riferiti ad alcuni stati d’animo sentiti e vissuti in rapporto all’amore:
Fede, Dubbio, Speranza.
Fede: Elegante nel suo divenire, il malinconico profilo melodico rafforza, rinvigorendolo, l’impianto poetico. I
dubbi insiti nei versi diventano sinceri, accorate esternazioni da affidare al canto. L’uso di armonie tradizionali
arricchite al loro interno da lievi tensioni, così come dall’alternanza di tempi ternari e binari, esplicitano gli
umani dubbi circa l’amore, che trovano il loro epilogo in uno scenario armonico-poetico sui versi “Per lei forse
vivrò dopo la morte”
Dubbio: L’impianto sonoro scuro, quasi sfuocato, traboccante di sfuggente malinconia: così appare la prima
parte della romanza piegata ad un soliloquio vocale che proietta la ‘situazione’, evocata da uno stanco presente,
alla viva memoria di un amore sofferto. Il tutto trova soluzione in un fluido procedimento armonico improntato,
nella prima parte, alla tonalità di fa diesis minore per poi aprirsi all’omologa tonalità maggiore sul verso “Sorge
il dubbio, nell’anima tenace”. Tale espediente conferisce al brano un ampio respiro che riecheggia, per contrasto,
nella breve coda pianistica scritta riutilizzando il materiale musicale introduttivo. Interessante esempio di un
fraseggio vocale ben curato e di un raffinato gioco armonico piegati ai dubbi e alle speranze dell’amore.
Speranza: Un dolce e sospeso disegno pianistico in arpeggiato apre e poi sorregge un canto intimamente
connesso ai versi “Eppur m’han detto che fra la ricchezza…”. Il cambio della scrittura vocale e pianistica esalta
un fraseggio accorato che fonde in un unicum raffinato la musica e la poesia, sempre accorte a ricercare nelle
sonorità, nelle ritmiche e nei fraseggi le più intime sfumature del sentimento amoroso». (Pierpaolo Salvucci)
(dalla prolusione al Concerto di musiche profane nell’ambito della manifestazione per il il cinquantenario della morte di G.
Tebaldini, San Benedetto del Tronto, 3 maggio 2002)
Per Trascrizioni e riduzioni
194. Aria
[…] Il Carissimi appartiene alla scuola romana. Artista grandissimo e squisito, ne’ suoi Oratorii e nelle sue
Cantate raggiunge una espressione così profonda, così umana che difficilmente si trova l’eguale. Con lui il canto
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monodico espressivo si eleva ai più alti gradi di possanza e squisitezza d’espressione. Quello che è Monteverdi
per la scuola veneziana, è Carissimi per la scuola romana. In lui rivive, nei mezzi nuovi d’espressione, l’anima di
Palestrina.
Circa quindici Oratorii si conservano del Carissimi, quasi tutti inediti, in biblioteche straniere: Inoltre egli
compose molte Cantate ed Arie. Assai celebrati fra gli altri sono i due Oratorii o Historiæ, di Ezechia e della
Figlia di Jepthe.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, Napoli, 14 aprile 1919)
216. Dextera Domini
[…] In esso è il genio radioso che facendo vibrare dell’anima le più intime corde, parla della grandezza divina.
La storia dell’arte non crediamo offra altro esempio di manifestazioni sì pure, possenti ed ideali quali sono quelle
che emanano dalla narrazione palestriniana in cui è detto che la mano del Signore fecit virtutem et exaltavit me!
La composizione si divide in due parti principali e la seconda si inizia precisamente alle parole non moriar sed
vivam. A sua volta ogni parte si forma di più temi. Dextera Domini fecit virtutem (1° tema). Ritorna poi il primo
membro del tema; alle parole exaltavit me appare la variante al tema medesimo con cui si chiude la prima parte.
Non moriar sed vivam (1° tema della seconda parte), variato alle parole sed vivam et narrabo opera Domini (2°
tema). Su questo secondo tema della seconda parte si forma la grandiosa cadenza finale, degna veramente di
narrare la grandezza dell’opera divina.
A nostro parere chi volesse eseguire con efficacia la superba composizione palestriniana, dovrebbe innanzi tutto
far risaltare e distinguere i diversi membri che la compongono specialmente rallentando ad ogni cadenza
intermedia e ravvivando invece il tempo ed il colorito là dove si inizia un nuovo tema. Per tutto il resto diremo
che soltanto l’intuizione può venire in aiuto. Ma qui ci limitiamo ad una considerazione e cioè, che se alla lettura
di questa superba composizione qualche preteso musicista – sia pure creduto illustre – si ostinasse a giudicare
Palestrina uno scolastico e nulla più, quegli sarebbe degno della più grande compassione. Tale la nostra modesta,
ma immutabile opinione.
(da Giovanni Tebaldini, La nostra musica, “La Scuola Veneta di Musica Sacra”, a. II, n. 7-8, Venezia, luglio-agosto 1894,
p. 53)
226. Due Laudi Spirituali
Laude spirituale, a due voci: soprano e tenore.
Anche l’Anerio appartiene alla stessa epoca Palestriniana, ed è una delle figure più fulgide di quest’epoca. Forse
fratello di Felice Anerio, al pari di lui, squisito e puro nelle sue varie composizioni, madrigali, dialoghi,
pastorali, messe, ecc.
(dal programma dei Concerti, a cura della Società del Risveglio, Bologna, 23 e 26 dicembre 1917)
230. Euridice
Giovanni Tebalbini prosegue nella coraggiosa impresa della diffusione in Italia dei capolavori musicali del
passato nostro: ad un anno di distanza dalla pubblicazione per i tipi della “Sten” della trascrizione per orchestra
della Rappresentazione di anima e di corpo di Emilio de’ Cavalieri, ecco che la Società dei concerti sinfonici di
Milano ci presenta in due concerti (13 e 14 maggio) l’Euridice di Jacopo Peri, oltre a frammenti ed a minori
composizioni di altri musicisti italiani del Seicento.
Non è chi non veda l’opportunità – ancor più netta considerando l’attuale risveglio di fervore nazionale – di
simili esecuzioni, presentate sotto degne vesti per interpreti e per concertazioni, quali erano quelle di Milano;
L’Euridice poi racchiude in sé maggiore interesse, perché mai nota alla maggioranza, anche dei colti,
rappresenta il perno attorno a cui gravitano tutti i discorsi e le discussioni sul melodramma del rinascimento
musicale fiorentino. Interesse dunque immenso per lo studioso dell’evoluzione del dramma musicale; ed
interesse non minore per il musicista che sa qual parte di quella rivoluzione musicale sia entrata come fattore di
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necessità in rivolgimenti posteriori di secoli e secoli; parlo del recitativo espressivo, che raggiunge in queste
forme di melodramma (del resto non qui per la prima volta) una tal bellezza e una tal forza di espressione da
nulla perdere di valore accanto ai più perfetti recitativi del dramma wagneriano e dell’opera lirica belliniana.
Il resuscitare quasi a vita novella queste luminose espressioni del genio italiano, che segnano tappe miliari nel
cammino millenario della musica, è opera dunque non tanto patriottica quanto degna dell’ammirazione e
dell’incoraggiamento universale. Ma l’opera non è perciò delle più facili; ché vi s’accompagnano difficoltà non
poche e non trascurabili. Infatti, la ricostruzione e la trascrizione devono essere fatti con intenti al tempo stesso
di grande bellezza e fedeltà storica. Ed il trascrittore deve essere dotato oltre che di un felice temperamento
d’artista e di una sicura conoscenza dell’epoca storica, di serenità affinché la sua mano non si lasci trarre dalla
voluttà di una frase, per sostenerla con una base orchestrale sia pure di per sé stessa bella, ma non corrispondente
per stile al capitello d’una semplicità dorica.
Queste le difficoltà d’ordine estetico, oltre quelle, assai minori, tecniche di realizzazione del continuo, cui
s’imbatte il ricostruttore moderno di queste musiche del rinascimento musicale; l’Euridice queste difficoltà
presentava al massimo grado, poiché essa stessa nata da una reazione contro l’architettura polifonica dei
madrigalisti, creata con l’intento di porre in valore essenzialmente la parola, sì da ridurre la parte musicale a
mezzo, non a fine. Qui, come non mai, la orchestrazione doveva mantenersi nei limiti della più casta nudità e
riempire le pause della parola non come elemento di sfondo; lasciando alle sfumature, alle vibrazioni, agli echi
della parola, campo di espandersi e di porsi nella più luminosa evidenza.
Riuscì il Tebaldini a darci la trascrizione orchestrale più adatta allo stile delle musiche di Jacopo Peri? […]
Premettiamo innanzitutto che qualunque possa essere il nostro giudizio sul lavoro di trascrizione di Giovanni
Tebaldini, la sua opera di diffusione dei nostri monumenti musicali lo addita all’ammirazione degli studiosi e
degli amatori; e questo merito gli va dato innanzi tutto riconoscendo in pari tempo la nobiltà del suo lavoro di
musicista e di interprete, di esegeta delle musiche antiche; nobiltà già affermata dai precedenti lavori del genere
e, prima fra tutti, dalle Rappresentazioni di Emilio del Cavaliere. […] (Guido M. Gatti)
(da La rievocazione del genio italico nelle ore storiche della guerra. Musiche italiane del Seicento in esecuzioni recenti a
Milano ed a Torino, “Orfeo”, a. VII, n. 10, Roma, 25 giugno 1916, p. 3)
Le prime rappresentazioni in musica, che ebbero luogo a Firenze, all’inizio del secolo XVII, al ciclo delle quali
appartiene la Euridice di Jacopo Peri, la più antica che si ricordi, dopo la Dafne andata perduta per noi, segnano
l’affermarsi del nuovo stile monodico che dai musicisti di quel tempo fu ritenuto atto “a esprimere ogni sorta di
affetti”. Questo nuovo modo di cantare, a voce sola, era venuto determinandosi attraverso la lenta trasformazione
dello stile madrigalesco, quando, nella seconda metà del Secolo XVI, il madrigale cominciò ad essere
accompagnato da strumenti e la rigorosa polifonia vocale si ridusse in modo da dare agio alla voce di mettere in
rilievo una parte sola, a preferenza delle altre. Tra i fatti determinanti il nuovo stile e la formazione della tonalità
moderna va compresa la composizione dei Concerti ecclesiastici di Ludovico Viadana e, fenomeno più generico
e diffuso in un laborioso svolgimento, il cromatismo: atteggiamento tonale che si era venuto delineando e
nell’arte madrigalesca e nella diffusissima musica per liuto. Le conclusioni estetiche della Camerata dei Bardi
rientrano nell’orbita complessa dei fatti musicali prodotti dalla lunga e lenta evoluzione della musica vocale e
strumentale del Secolo XVI.
Il gruppo fiorentino, che non poteva avere una coscienza storico-critica di quanto avveniva e di cui esso stesso
era parte integrante, si compiacque di rappresentare la nuova arte nel mondo che allora meglio si confaceva agli
spiriti umanistici del rinascimento: come la riproduzione di una forma dell’antica arte greca. Jacopo Peri, nella
dedicatoria dell’Euridice, così si esprimeva: …” veduto che si trattava di poesia drammatica, e che però si
doveva imitare col canto chi parla (e senza dubbio non si parlò mai cantando), stimai che gli antichi Greci e
Romani (i quali secondo l’opinione di molti cantavano su le scene le tragedie intere) usassero un’armonia, che
avanzando quella del parlare ordinario, scendesse tanto dalla melodia del cantare che pigliasse forma di cosa
mezzana”. Egli formò le proprie convinzioni estetiche anche studiando il modo di parlare nel discorso comune e
conobbe alcune voci intonarsi in guisa che vi si può formare armonia, e nel corso della favella passarsi per altre
molte che s’intuonano finché si ritorni ad altra capace di movimento di nuova consonanza”. Si pensi che la
tradizione musicale dei secoli XV e XVI era stata essenzialmente polifonica e che il canto a voce sola, il recitar
cantando costituì, per le abitudini del tempo, un mutamento radicale. […] Per bene intendere i rapporti tra le
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edizioni originali e la elaborazione fatta dal maestro Giovanni Tebaldini per l’esecuzione moderna, bisogna
volgere l’attenzione al fatto che in quel tempo la notazione era molto abbreviata, limitandosi alle sole parti di
canto e al rigo del basso. La risoluzione delle armonie si poteva intendere per mezzo di indicazioni numeriche,
ma i riempimenti armonici e le singole parti strumentali venivano improvvisate dagli esecutori: gli autori
confidavano pienamente “nel giudizio e nell’arte di chi suona”(Caccini). E si noti che in quel tempo era molto
sviluppata l’arte della “improvvisazione e delle diminuzioni”, per cui, è certo, gli esecutori portavano un
contributo personale alla composizione dell’insieme. L’orchestra apprestata per l’esecuzione della Euridice si
può ritenere dovesse essere numerosa. Se Emilio del Cavaliere, per la rappresentazione dell’Oratorio della
Vallicella aveva sentito il bisogno di raccomandare che in alcuni punti si usassero “più strumenti che possibile”,
a maggior ragione è da ritenersi che a Palazzo Pitti, tra gli sfarzi e le sontuosità delle feste celebrate in onore
della Cristianissima Regina, i mezzi apprestati per l’esecuzione strumentale non siano stati così esigui come da
alcuni si è voluto dedurre dalle parole di ringraziamento rivolte da Jacopo Peri ai gentiluomini dell’orchestra. Il
maestro Tebaldini, per tal ragione, ha creduto di potersi concedere qualche licenza nel colorire, occorrendo, le
tinte dello strumentale: il che, del resto, sarebbe stato, in ogni caso indispensabile ai fini dell’attuazione pratica
d’una rappresentazione per i nostri giorni.
L’introduzione del 2° atto è tratto da un coro delle “Deità d’inferno” del Caccini che il Tebaldini ha adattato per
orchestra: un brano strumentale che, anche ritmicamente, si connette al cantato di Jacopo Peri.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, R. Politeama Giacosa, Napoli, 28 gennaio
1920)
[…] Ripetendosi oggi in questo ampio Politeama l’Euridice di Peri e Caccini – da me compulsata nella sua
forma primitiva, e tradotta in partitura moderna – innanzi ad un pubblico formato in maggioranza di giovani, per
doveroso senso di rispetto ho desiderato io stesso di chiarire al cospetto vostro quei criteri che da anni molti,
oramai, mi accompagnano, mi sorreggono e mi incitano a percorrere la strada, modesta sia pure, ma solatia e
sicura, sino ad oggi battuta.
[…] Per rendersi conto dell’importanza di un’opera d’arte pari all’Euridice di Peri e di Caccini (la quale alle sue
origini appare manifestazione incipiente di un sentire vago ed incerto che però scaturiva inconsciamente dalla
stessa polifonia palestriniana, dagli autori del melodramma invano disdegnata e oppugnata) occorre riportarsi
all’epoca fastosa, fatta tutta di meravigliosa ricchezza estetica e di fecondità, quasi, dirò, travolgente, che ebbe
ad illuminare di luce vivida la nostra Italia sulla fine del secolo XVI° ed al principio del XVII°.
Il secolo d’oro stava per finire; il nuovo secolo raccoglieva quindi l’eredità e della rinascenza quattrocentesca e
del fastigio cinquecentesco. Le forme d’arte che, nella musica, sorsero attorno a Pierluigi da Palestrina, e pure
dopo di lui, anche se lontane, in apparenza, da quelle che il genio suo aveva saputo vivificare ed elevare nelle
regioni più alte della pura bellezza e del più sapiente tecnicismo, non furono che una derivazione del maestoso
edificio che si incarna nella stessa polifonia vocale.
La mia affermazione potrà sembrare azzardata, ma essa è frutto di amorosa disamina e di lunga esperienza
pratica nell’esecuzione delle composizioni dovute ai maestri insigni della polifonia e della monodia, ed io non
saprei mutarla certamente.
Ma singolare si è che quanto asserisco non apparve nella sua realtà neppure agli stessi seguaci dell’ars nova,
sorta, come ho detto, in contrapposto alla grande scuola della polifonia palestriniana.
[…] in Euridice, all’infuori dei brani corali, tutto è scheletrico: il ritmo, l’accompagnamento e – maggiormente –
ciò che deve essere istrumentale. Nella realizzazione pratica di questi elementi concorreva senza dubbio il
criterio degli interpreti e degli esecutori a seconda del loro numero e della loro capacità. Ragione per la quale,
scrutando pazientemente nelle pagine di Peri e Caccini e rintracciando in esse il palpito ininterrotto di un’anima
occulta, ma accesa e vivida, ho creduto di poter tradurre in atto quelle che a me apparvero austera e nobile
declamazione, sentita ed ideale ispirazione.
Certamente, o signori, quello di sentire ed ascoltare i battiti pulsanti del cuore; i sospiri e gli aneliti dell’anima in
un essere abbandonato come morto per secoli, è arduo compito.
[…] Nell’Euridice che noi vi presentiamo, o Signori, molte pagine, malgrado il rivestimento armonico e
strumentale da me elaborato, possono riguardarsi come fedeli all’originale. Questo dicasi per quel che canta la
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tragedia che fa il prologo – come si esprime il poeta Rinuccini nelle brevi didascalie – del pari che per le scene
successive del Pastore, delle Ninfe e di Euridice tutte dovute a Jacopo Peri.
Poiché nella prima esecuzione fiorentina del 6 ottobre 1600 il Peri fece posto ad alcuni brani composti dal suo
amico Giulio Caccini, in questa nostra edizione – come allora – venne incluso il bellissimo Coro a 5 voci “Al
canto al ballo”, il quale si alterna con due brani il cui testo si atteggia ad una visione di sapore pagano e di una
classicità ellenica, veramente suggestiva.
Canta una Ninfa:
Bella madre d’amor, da l’alto coro
Scendi a’ nostri diletti
E co’ bei pargoletti
Fendi le nubi e ‘l ciel, con l’ali d’oro.
E più innanzi:
Corrin di puro latte e rivi e fiumi
Di mel distilli e manna
Ogni selvaggia canna
Versan [?], ambrosia a Voi, celesti Numi.
Con l’entrata di Orfeo si ritorna alla musica di Peri. Il nobile cantore anela di ritrovarsi con Euridice, e le sue
parole, i suoi accenti, fatti di ansia e di desiderio, tradiscono l’interno affanno. Rompe l’indugio la scena
pastorale di Tirsi, il quale viene in iscena suonando un triflauto. Ma segue la narrazione tragica della morte di
Euridice fatta da Dafne.
Orfeo, le Ninfe e il Coro, colpiti dagli accenti dolorosi della Nunzia, cantano piangenti con melodia inspirata
Sospirate aure celesti
Lacrimate o selve o campi.
La scena dell’atto II, rappresentar dovrebbe l’Inferno. Una introduzione istrumentale da me costruita sul Coro
della Deità d’Inferno di Caccini serve a preparare l’ambiente.
Orfeo scende nell’antro di Stige. Egli implora da Plutone pietà pel suo stato disperato, per Euridice diletta.
Plutone – come il Wotan wagneriano – risponde con esitanza. Il modo di declamare e di cadenzare proprio al
Dio d’Inferno messo in iscena da Ottavio Rinuccini ne richiama senza dubbio a qualche accento proprio al
personaggio della Tetralogia. Ben altre assonanze coglierete in seguito fra altre pagine wagneriane ed il nostro
divino Palestrina.
Ma la melodia scorre fluente, ininterrotta nel giubilo amoroso di Orfeo.
Gioite al canto mio
Selve frondose
Gioite amati colli!
Essa che nel suo ritmo ternario ne appare precisa e ben delineata anche nella antica edizione a stampa del 1600,
sembra faccia presentire Bellini, Donizetti, e persino il Verdi del Rigoletto.
L’ultimo racconto di Orfeo è improntato ad una declamazione essa pure di sapore wagneriano. Lo si indovina in
ogni mossa ritmica e tonale.
Ed eccoci finalmente alla chiusa, affidata al Coro a 5 voci. Essa ne appare quale una pagina di polifonia
luminosa; non forse fedelmente palestriniana, ma certo assai ricca di colore e di vivacità ritmica. È tutto un inno
di gaudio che si sprigiona alternandosi a brevi intermezzi strumentali che a loro volta fanno presentire lo spunto
dello scherzo d’una classica sinfonia. […] (Giovanni Tebaldini)
(da Prolusione alla II esecuzione di “Euridice”, Napoli, R. Politeama Giacosa, 2 febbraio 1920; testo autografo inedito
della conferenza, conservato presso l’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Brescia)
Napoli - […] “L’Euridice” del Rinuccini, con musica del Peri e del Caccini, fu eseguita alla “Scarlatti” il 27
gennaio. Come è noto l’autore della ricostruzione strumentale di questi brani è del maestro Tebaldini, che fu
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anche il concertatore e direttore, applauditissimo insieme ai varî esecutori. Organizzatrice dell’interessante
esecuzione, ed istruttrice del coro fu la signorina Gubitosi.
(da “Musica d’oggi”, n. 2, 1920, p. 45)
231. Fuga in sol minore
[Gerolamo Frescobaldi] Allievo di Luzzasco Luzzaschi si recò ancor giovanissimo nelle Fiandre al seguito del
Card. Aldobrandini. Nel 1608 il Capitolo di San Pietro in Vaticano lo invitò a succedere al rinomato Ercole
Pasquini.
Fra la molta musica da lui pubblicata sono da ricordare le Fantasie e le Toccate; i Ricercari, le Canzoni francesi,
i Capricci, le Arie musicali, le Fughe ecc.
Le opere del Frescobaldi fino ad ora pubblicate dall’Haberl, dal Torchi, dal Boghen, valgono a dimostrare la
fondatezza dell’asserzione che il maestro ferrarese può riguardarsi come il precursore di G.S. Bach; anche
perché egli insegnò a quel Fröberger che a sua volta fu maestro al grande organista di San Tommaso in Lipsia.
Anche l’Ambros nella “Storia della musica” afferma che “col nome del Frescobaldi principia la grande epoca
classica del suono dell’organo”, mentre il Tebaldini ripeteva che “ben facilmente nelle meravigliose concezioni
del Frescobaldi si può scorgere un’arte già formata che tanta parte di sé ha offerto al genio di G. S. Bach”.
La Fuga in sol minore nella presente trascrizione per orchestra venne eseguita per la prima volta all’Augusteo di
Roma sotto la direzione di B. Molinari nel febbraio del 1914.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, Napoli, 8 aprile 1919)
237. Introduzione alla Cantata dell’ “Ascenzione”
Baldassare Galuppi fu maestro per lunghi anni della Cappella di S. Marco in Venezia. Compositore fecondo
sopravvive e va sempre più ingrandendo con la sua figura, nella storia, non tanto per la musica sacra da lui
composta, quanto per le sue Sonate cembalistiche.
La Cantata dell’Ascenzione venne composta ed eseguita a Venezia nel 1780 in occasione della celebre festa
popolare che allora, dalla Piazza S. Marco alla Riva degli Schiavoni, si usava celebrare annualmente con
magnifica pompa.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, Napoli, 12 aprile 1920)
240. Jephte
[…] Dell’opera artistica del Carissimi non occorre dire: ognun sa che fra la rigogliosa produzione del secolo, che
fu suo, i suoi scritti sono vessillo di espressività melodica, forse insuperata ed ai suoi tempi novissima.
All’Oratoria, forma ancora incerta fra la rappresentazione sacra ed il madrigale, aprì un’epoca di rinnovamento,
tracciando linee sicure di progresso e imprimendo alla nuova espressione musicale profonde orme di genialità.
Né meno valente fu quale insegnante poiché, fra gli altri della sua scuola uscirono Cesti, Scarlatti, Bononcini,
Bassani, vale a dire i più famosi del tempo.
Pregi generali di Jefte, come di tutta la produzione del Carissimi, sono una efficace verità e spontaneità della
declamazione musicale.
Il Coro misto è a sei parti e interviene piuttosto come attore, che come commentatore.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, Napoli, 12 aprile 1920)
(vedi anche n. 192 Aria di Carissimi)
251. Laude spirituale (Lodate Dio)
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L’Animuccia è il vero precursore del Palestrina. Al pari di questi egli si studiò di ottenere la chiarezza delle
successioni armoniche, pur facendo uso di tutti i segreti del contrappunto. Ciò nonostante il suo nome è più
spesso legato ad altri fatti storici e così alla creazione dell’Oratorio.
Le Laudi spirituali che egli compose per l’oratorio di San Filippo Neri non hanno pressoché nulla di comune con
questa forma musicale, ma sono piuttosto dei semplici canti di lode, quasi diremo degli inni.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, Napoli, 8 aprile 1919)
254. L’Incoronazione di Poppea
[...] Della Incoronazione di Poppea, ultimo lavoro di Claudio Monteverdi, furono eseguiti alcuni frammenti del
primo e terzo atto. Qui l’arte della musica scenica si presenta ne’ suoi giganteschi progressi e nella
strumentazione e nel trattamento delle voci. L’aria signor sempre mi vedi di Poppea è un brano di straordinaria
potenza drammatica, e la passacaglia di Nerone s’allegra di uno slancio lirico irresistibile e, verso la chiusa,
assume una grandiosità orchestrale che sarebbe ancor oggi desiderabile e che riesce a trionfare in più strenui
spiriti de la modernità. Bisogna pur dire che la interpretazione e la esecuzione molto contribuirono a l’ottimo
esito del concerto, per merito precipuo del maestro Tebaldini e de’ valenti artisti. [...]
(da Otello Andolfi, Il gran concerto storico a S. Cecilia e all’Augusteo, “Musica”, a. IV, n. 16, Roma, 21 aprile 1912)
270. Missa defunctorum
Nella cerimonia funebre che avrà luogo quest’anno, al solito, il 14 corrente al Pantheon in memoria di Umberto I
verrà eseguita una messa di un antico maestro pesarese, Vincenzo Pellegrini, che fu direttore verso la fine del
cinquecento della Cappella del Duomo di Milano.
L’esecuzione sarà diretta dall’illustre maestro Giovanni Tebaldini che di tale messa, avendone intravisto il non
comune valore, ha curato la trascrizione in partitura, con la competenza e il gusto artistico che gli sono
universalmente riconosciuti.
Il Pellegrini fu tra i seguaci del Palestrina uno dei più rimarchevoli e compose con purezza di stile e vigore di
ispirazione madrigali, canzoni e musica sacra.
In Italia della nostra bella musica del passato si conosce pochissimo, e si ripete sempre quello. Ottima è stata
dunque l’idea del maestro Tebaldini di arricchire il repertorio di un nuovo lavoro da lui credutone degno.
(da La messa al Pantheon per Umberto I, “Musica”, a. VI, n. 10, Roma, marzo 1912)
294. Rappresentazione di Anima e di Corpo
Un mese fa, o poco più, la Società degli Amici della Musica di Milano faceva annunziare sui giornali che per sua
iniziativa si stava preparando una esecuzione della famosa e bellissima opera del precursore romano, e che essa
aveva incaricato l’egregio maestro Giacomo Orefice di allestire il testo musicale per la esecuzione medesima.
L’idea, ottima e lodevolissima, non era però nuova. Già nel programma della non mai abbastanza dimenticata
Esposizione musicale del Cinquantenario era stata compresa una esecuzione della famosa opera secentesca, e il
lavoro di selezione dei pezzi componenti la stessa, e il lavoro di realizzazione del basso e di strumentazione eran
stati affidati a Giovanni Tebaldini, l’illustre direttore della Cappella di Loreto.
Ognun sa come e perché l’Esposizione Musicale fu un naufragio di ogni bel progetto, e non vale tornarci sopra.
Fortunatamente però qualcosa di quel che doveva esser fatto si farà. E si comincerà molto bene con lo eseguire
appunto la Rappresentazione di Anima e Corpo che sarà diretta dal Tebaldini, il 27 e il 30 aprile, nella Sala di
Concerti del Liceo di Santa Cecilia.
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Sul lavoro dell’insigne maestro si parlerà ampiamente a suo tempo. Ma io che ho avuto la ventura di esaminarlo
proprio in questi giorni, non posso a meno di dire fin d’ora per esso la mia ammirazione. Credo che il Tebaldini
stia per offrire, con questo ultimo suo lavoro, un ammirevole saggio ed esempio di cultura storica, di sapienza
stilistica, e di squisito senso d’arte. (Ildebrando Pizzetti)
(da Un nuovo lavoro del m. Tebaldini - La “Rappresentazione di Anima e Corpo” di Emilio del Cavaliere, “Orfeo”, a. III,
n. 1, Roma, 6 gennaio 1912, p. 3)
Si temeva da molti che la replica all’Augusteo del concerto storico tenuto venerdì scorso nella sala
dell’Accademia di Santa Cecilia fosse un errore. Pareva infatti che la musica di Emilio del’ Cavaliere, di Claudio
Monteverdi e degli altri autori del secolo XVII, così semplice e, talvolta, anche esile nella sua struttura, dovesse
perdere gran parte del suo fascino, trasportata in un ambiente di proporzioni vaste come l’Augusteo. Invece le
giuste preoccupazioni dei più appassionati cultori della nostra meravigliosa antica musica, si sono rivelate
eccessive, per non dire prive di fondamento. La Rappresentazione di Anima e Corpo e l’Incoronazione di
Poppea, iersera eseguite nel grandioso anfiteatro dinanzi ad un pubblico discretamente affollato e vibrante di
entusiasmo, hanno rivelato in pieno i loro pregi sommi di ispirazione e di stile, ottenendo un consenso unanime
di ammirazione.
Non sarebbe opportuno enumerare di nuovo le singolari bellezze dei due famosi melodrammi seicenteschi. La
musica di Emilio de’ Cavalieri si impone per la nobile austerità dei recitativi perfetti e la freschezza dei
melodiosi episodii orchestrali: l’Incoronazione, del grande Monteverdi, se bene, pur troppo, eseguita a
frammenti, mostra una linea musicale superba ed una profonda facoltà d’invenzione.
L’esecuzione dei due indimenticabili lavori fu ieri sera eccellente. La signorina Raisa Burstein, così nella
Rappresentazione di Anima e Corpo come nell’Incoronazione di Poppea, fu giudicata dotata di una voce
splendida per volume timbro e intonazione; il Kaschmann fu ancora una volta il grande interprete che da tanti
anni conosciamo ed ammiriamo con intenso fervore.
L’insigne maestro Giovanni Tebaldini che, sormontando difficoltà veramente colossali, è riuscito ad allestire
degnamente questi Concerti storici importantissimi, diresse con la massima efficacia, ottenendo dalla massa
corale e dall’orchestra una esecuzione altamente encomiabile per colore e fusione.
Al Tebaldini furono rivolte, a più riprese, acclamazioni ed ovazioni solenni: gli venne anche offerta una grande
corona di alloro. Così al successo della musica andò compagno il successo, non meno schietto ed entusiastico,
del suo sapiente e vigoroso interprete.
Alla Rappresentazione ed all’Incoronazione seguirono tre composizioni non eseguite nel precedente concerto a
S. Cecilia, cioè la Scena degli incantesimi e l’Aria di Medea nel Giasone di Francesco Cavalli (1649), l’aria di
Belisario nel Totila di Giovanni Legrenzi (1667) e il Madrigale di Antonio Lotti: Inganni dell’umanità.
La Scena degli incantesimi con l’Aria di Medea è una delle più impressionanti pagine della produzione
operistica italiana del seicento. La dignità del discorso musicale, la forza espressiva del declamato e la geniale
novità dell’insieme (che ci fa pensare alla scena infernale dell’Orfeo di Gluck) valgono a dimostrare l’enorme
importanza che l’ispirato e fecondo Cavalli ha avuto nell’evoluzione del nostro melodramma primitivo. La
signorina Burstein interpretò magistralmente questo potente brano di musica e si meritò applausi lunghi e assai
calorosi.
Con vero interesse fu ascoltata l’aria di Totila di Legrenzi, un pezzo di eccellente fattura e di stile eroico che il
tenore Zonghi seppe rendere con bella efficacia e ottimo stile, facendosi grandemente apprezzare dall’uditorio.
La fortunata audizione si chiuse con un madrigale di Antonio Lotti che ebbe, per virtù del coro e dell’orchestra,
il maggior rilievo e parve… quello che è: un capolavoro. La strumentazione di questo madrigale, abilissima,
piena di colore e di buon gusto, è del giovane maestro Sallustio e gli fa grande onore.
Tirate le somme un concerto riuscito egregiamente, che l’uditorio dell’Augusteo ha ascoltato con interesse
continuo e applaudito con straordinario calore. Il maestro Tebaldini, così affettuosamente festeggiato, iersera,
merita tutta le nostra riconoscenza per essere riuscito, con l’opera sua indefessa di studioso e di artista, a recare a
conoscenza del gran pubblico alcune monumentali antiche composizioni, che formano il più prezioso patrimonio
dell’arte nostra d’un tempo, così pura, nobile e gloriosa.
***
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A proposito della Rappresentazione di Anima e Corpo, ci è grato l’annunziare agli studiosi una nuova
pubblicazione importantissima. Il maestro Francesco Mantica ha curato con somma diligenza la ristampa della
prima ed unica edizione romana del 1600 di questo melodramma e il volume – cui aggiunge pregio una bella
introduzione di Domenico Alaleona – per la sua suprema eleganza e l’esattezza delle riproduzioni, è un vero
gioiello di arte tipografica.
Così, d’ora innanzi, sarà facile ai fervidi cultori della musica italiana secentesca, di procurarsi il testo esatto
della Rappresentazione, le cui grazie incomparabili ci sono state rivelate per mezzo di questi Concerti storici.
Ci auguriamo che alla pubblicazione in parola seguano molte altre dello stesso tipo, a onore del nostro paese, ed
a maggior fortuna della nuova Casa editrice musicale che s’intitola al nome immortale di Claudio Monteverdi.
(Alberto Gasco)
(da Augusteum – Il concerto di musica italiana antica, “La Tribuna, 18 aprile 1912)
La replica del Concerto di antica musica italiana, che ha avuto luogo iersera all’Augusteo, ha dato ragione a
coloro che ritenevano doversi presentare al giudizio del gran pubblico in ambiente vasto l’esecuzione. Così
ebbero torto o s’illusero coloro che, relegandola nel salone di Santa Cecilia, contarono sull’intervento degli
abbonati di Patronato dell’Augusteo, i quali brillarono anche iersera per la loro assenza.
Viceversa accorse volenteroso e numeroso il pubblico dell’anfiteatro e delle gallerie, coltissimo pubblico del
resto, cui si rivelavano nella loro bellezza, bellezza impressionante per le menti affinate all’arte, di quei
capolavori arcaici, che sono fondamentali, pur nella loro forma primitiva, per la storia del melodramma italiano.
E nella lor forma primitiva interessano ancora, come si è visto iersera, il gran pubblico che ritrova in essi
elementi d’arte esulati o degenerati poi nello sviluppo, storico sì, ma non sempre logico e naturale, del
melodramma.
Ma sconfiniamo, con tali considerazioni, dal compito di questa cronaca breve e fugace. Iersera l’esecuzione fu
anche più matura che a Santa Cecilia, e il maestro Tebaldini, che tanto amore di artista e di erudito ha consacrato
a questo resurrezione di testi classici, poté raccogliere, nel plauso continuo dell’uditorio, più largamente il frutto
delle sue fatiche.
Alla replica della Rappresentazione di Anima e Corpo di Emilio de’ Cavalieri e della Incoronazione di Poppea
del Monteverdi, seguirono, nel programma di iersera la Scena degl’Incantesimi e l’Aria di Medea nell’opera
Giasone di Francesco Cavalli, l’allievo e il continuatore del Monteverdi. Melodia, ritmo, declamazione cantata
hanno nel Cavalli un’intensità espressiva e un vigore assai pronunziati e che preannunziano il sentimento
moderno.
Affermò splendidamente i suoi mezzi e il suo temperamento, nell’Aria di Medea, la signorina Raisa Burstein, la
degna allieva di Barbara Marchisio che ci si rivelò nella precedente esecuzione a Santa Cecilia in compagnia di
Giuseppe Kaschmann, l’eminente artista che fu anche iersera più volte acclamato.
Il tenore Zonghi, che aveva detto con intelligenza chiara del testo tutta la parte di Nerone, che è
nell’Incoronazione di Poppea del Monteverdi, fece poi udire iersera efficacemente l’Aria di Belisario nell’opera
Totila del Legrenzi – aria che il Tebaldini trascrisse da codici inediti della Biblioteca di S. Marco.
Infine l’esecuzione si chiuse con un bel pezzo di musica vocale polifonica a tre voci – Inganni dell’umanità. – È
un madrigale del Lotti, di cui ha assai bene realizzato il basso e strumentato il maestro Giacinto Sallustio, un
giovane musicista pugliese di singolare valore e che meritò in questo compito la fiducia del Tebaldini.
Il Tebaldini, è superfluo aggiungere, fu alla fine del concerto calorosamente, meritatamente festeggiato. […]
(da Augusteum – La replica del Concerto storico all’Augusteo, “Il Giornale d’Italia, 18 aprile 1912)
Una esecuzione di musica antica, e da camera, acquista in Roma una seconda importanza: quella della rarità.
Importanza s’intende per quei dodici apostoli de la fede musicale che ne conoscono il vangelo, non per le turbe,
le quali preferiscono sempre un’accademia vocale strumentale di beneficenza, con biglietto d’invito.
È vergognoso che quando l’iniziativa inconsueta del massimo istituto musicale romano impegni l’abilità di un
Giovanni Tebaldini, dotto musicologo e valentissimo direttore, e chiami a concorso celebri e valorosi esecutori
per la riesumazione di capolavori d’arte antica, il nostro pubblico che nella gran sala dell’Augusteo s’affolla ed
applaude con ostentazione, volendo di far credere di capire tutto e d’intendersi di tutto, non riesca ad afferrare il
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valore di una simile impresa o non sappia resistere all’infinita noia di ascoltare le musiche di quegli ignoranti che
furono Animuccia, Palestrina, Emilio de’ Cavalieri, Monteverdi... E non ci si venga più a sostenere il progresso
della coscienza artistica di Roma musicale, almeno ne’ riguardi de l’uditorio.
Ma non vorremmo suscitare polemiche su questo argomento; passiamo quindi al concerto di venerdì 12 corr. a S.
Cecilia, per dire subito ch’esso riuscì ottimamente e aumentò ne’ musicisti e ne’ buongustai il desiderio d’udire
più spesso le antiche opere del periodo aureo de l’arte italiana. La Rappresentazione di Anima e di Corpo di
Emilio del Cavaliere apparve, nella accuratissima riproduzione preparata e diretta dal Tebaldini, ricca
d’invenzione e , sopra tutto, di commozione, piena di effetti e di coloriti nella sobrietà stessa de’ procedimenti
armonici e nell’austerità della linea melodica. La parte di Anima è qua e là di una delicatezza squisita, provvista
di accenti passionali degni di concezione moderna, con dettagli lumeggiati con tocco maestro; quella di Corpo
assume, nel recitativo in special modo, una gravità meravigliosa, rivelatrice d’intuito superiore e di mezzi tecnici
ormai sviluppati ed efficaci. L’ “a due” finale come cervo assetato è d’inspirazione freschissima e si chiude con
una mirabile cadenza. Segue la festa del coro, che non è veramente la migliore parte dell’opera.
[...] Martedì sera all’Augusteo, dinanzi a un discreto uditorio il concerto fu ripetuto [...]. Fu un vero trionfo per la
musica italiana, per il maestro Tebaldini, per i suoi coadiutori tutti. Quella del 16 corr. è rimasta quindi la data
più memorabile dell’ultima stagione all’Augusteo [...] per l’affermazione solenne di quegli allori del
melodramma italiano, dai quali soltanto poterono aver luce ed origine gli astri maggiori nostri e d’oltr’alpe. [...]
(da Otello Andolfi, Il gran concerto storico a S. Cecilia e all’Augusteo, “Musica”, a. IV n. 16, Roma, 21 aprile 1912)
[…] Per tale rinnovamento e rinverdimento di ideali italiani, cui i concerti dell’orchestra municipale avevano già
contribuito, anche quelli dell’Augusteo portano qualche elemento: e principalmente per la tenacia di Giovanni
Tebaldini, e sotto la sua direzione, si organizzarono due grandi concerti di musica italiana dei secoli XVI e XVII,
il primo nella sala accademica, il secondo all’Augusteo, che segnarono una data memorabile nella vita musicale
romana, e che Bernardino Molinari ha rievocato nel concerto commemorativo del primo ventennio dalla
istituzione dei concerti dell’Accademia di Santa Cecilia. Giovanni Animuccia, il Palestrina, Emilio de’ Cavalieri,
Marco da Gagliano, il Monteverdi, il Cavalli, il Legrenzi, il Lotti, erano i significativi rappresentanti dei
momenti più belli e importanti della maggior fioritura della nostra arte musicale: iniziative feconde, affermazioni
gloriose.
[…] la Rappresentazione di anima e di corpo pertanto non solo ci interessa dal lato storico, ma ci riesce gradita
come opera d’arte produttrice di godimento estetico. Il Tebaldini ha voluto darci il modo di comprendere e sentir
bene il doppio valore di questa originale e suggestiva opera: ha scelto le pagine più espressive e più abbondanti
di fresche idee melodiche, di accenti drammatici incisivi e vigorosi, di austerità e di abbandono: e tali pagine ha
tra loro collegate, senza alterazioni, in guisa da far loro assumere carattere organico, quasi un riassunto del
dramma, il quale nelle sue linee generali raffigura il contrasto tra i vani piaceri del mondo e le pure gioie celesti,
che si contrastano il dominio dell’uomo: l’anima tende all’alto, il corpo è tratto in basso, finché il bene vince il
male, e un inno solenne si leva glorificante la divina bontà.
Nel procedere alla scelta e soprattutto all’ordinamento dei diversi brani, il Tebaldini ha potuto far tesoro di uno
degli importanti avvertimenti preposti da Emilio de’ Cavalieri all’opera sua; avvertimenti che, con la nota
preliminare “Ai lettori”, formano un eletto, prezioso trattatello di estetica: “Nel principio, avanti il calar la tela,
sarà bene far una musica piena con voci doppie, e quantità assai di stromenti; puotrà servir benissimo il
madrigale n. 86, che dice, O Signor santo et vero, il qual è a sei voci”. E quel coro preceduto da una sinfonia (è il
finale strumentale del primo atto) inizia appunto il riassunto del Tebaldini: come nella Sinfonia l’uso discreto
degli strumenti (due oboi, violini, clavicembalo, organo, violoncello, contrabbasso) e l’intelligente
completamento armonistico e contrappuntistico, così il rispetto scrupoloso del testo poetico e musicale nel coro
permettono di avere precisa e sicura conoscenza della consistenza, del significato dell’arte del De’ Cavalieri.
[…]
Ed ecco il Dramma: il Tempo (atto I, scena I) medita sulla propria instancabile fuga, in cui le umane vite
velocemente si distruggono: la morte minacciosa incombe, e il suo fantasma sia monito ai mortali; è una specie
di amplissimo recitativo, tutto spezzature, a seconda dell’alternarsi delle espressioni e delle immagini, con larga
accentazione avvivata da qualche rapido tratto cromatico quando la parola sembra voglia sollevare i morti dalle
tombe per l’ultimo giudizio o accenna al rapido volo simboleggiante la vita labile. Seguono subito, a commento
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della evocazione del Tempo, alcune strofe del coro (atto II, scena VII) esortanti l’uomo a vita virtuosa, fuggendo
le lusinghe del mondo: un ritornello strumentale, semplice e ingenuo, divide le strofe, varie di ritmo a seconda
del variar del pensiero, con snodatezza e spontaneità somma.
Tra il Corpo e l’Anima (atto I, scena IV) si determina il dissidio: lagnasi l’Anima, che non trova pace, mentre il
Corpo le consiglia attenersi alle gioie mondane; ma le esortazioni dell’Anima che aspira al cielo, vincono il
Corpo, che si dispone a cercare “con amore – il Ciel, la vita eterna e il suo Signore”. Qui il contrasto lumeggiato
nella introduzione sinfonica e delineato nel soliloquio del Tempo si accentua maggiormente: il dialogo tra
Anima e Corpo si svolge in periodi musicali di stupenda varietà: brani recitativi, frammenti fortemente
drammatici, episodi lirici appassionati ed eloquenti si alternano con plastica efficacia con l’alternarsi delle idee e
delle aspirazioni delle due simboliche persone.
Qui il Tebaldini introduce quello che deve considerarsi l’episodio centrale del gran dramma: l’intervento diretto
del Piacere, con due compagni (atto II, scena IV), che tentano sedurre e avvincere il Corpo: un ritornello nel
ritmo voluttuoso e molle della Siciliana separa le strofe, armoniose, eleganti; sempre, a seconda del pensiero, il
ritmo cangia con gustose alternazioni, da cui il complesso acquista vivezza grandissima; si differenzia così la
lode delle bellezze dei prati e dei boschi, delle seduzioni naturali, da quella per le umane attrattive delle vesti
ornate, delle gaie feste. Il contrasto assume una ampiezza di linee sempre maggiore; dopo il soliloquio avemmo
il dialogo; ora sono due gruppi che si alternano con diffuse visioni racchiuse in veri quadri ben collegati tra loro,
e le diverse canzoni intonate dal Piacere coi due compagni, tutte impregnate di una gaiezza spensierata,
acquistano anche maggior rilievo dalle austere repliche dell’Anima che talvolta (come nella strofe “Non vi
cred’io”) assurgono ad un bel lirismo animato da nobile esultanza. […]
La Rappresentazione termina col gran coro a cinque voci, “Chiostri altissimi e stellati”, con cui si cominciava il
ballo “in riverenza e continenza: e poi seguino altri passi gravi con trecciate, et passate da tutte le coppie con
gravità”: vera festa, come la intitola l’autore, largamente svolta e organica nella sua varietà, pomposa nei
ritornelli strumentali nei quali voleva l’autore si facesse “da quattro, che ballino esquisitamente un ballo saltato
con capriole, et senza cantare”, variando il ballo ad ogni stanza, eseguendo “una volta gagliarda, un’altra
Canario, et un’altra la Corrente, che ne’ Ritornelli vi vengono benissimo”. Per chiusa, il Tebaldini si è valso
della sinfonia strumentale con cui finisce il secondo atto, la quale, per il suo carattere, si presta ad una
elaborazione strumentale più ricca e vigorosa, così da terminare con solenne grandiosità e sonorità il sacro
dramma.
Qualche rigido archeologo musicale potrebbe forse criticare il Tebaldini per avere alterato l’ordine in cui i pezzi
da lui scelti si trovano nell’originale, di aver limitato a pochi numeri, tra i molti compresi nell’originale, la
materia della sua pubblicazione. Ma, in coscienza, trovo che l’egregio Tebaldini ha ragione; tutti gli episodi della
Rappresentazione hanno un solo scopo, un solo significato: descrivere la lotta tra la terrena voluttà e la pura
gioia celestiale, la vittoria dell’anima sul corpo, della fede sul senso. Scelti i momenti in cui le seduzioni
sensuali, gli eccitamenti alla virtù, le tergiversazioni e la elevazione finale siano meglio definiti, con le
espressioni più ricche di valore estetico, non è gran danno modificarne l’ordine (vista anche il consiglio, già
riferito, dell’autore), sopra tutto quando qualche insignificante trasposizione consente una bella e suggestiva
gradazione negli affetti e negli effetti. I vari frammenti, contenenti sviluppi sempre più larghi e significativi dei
due elementi contrapposti, collegati in guisa tale da conferire all’insieme un carattere organico, e, per la misura e
il gusto nella cernita, da evitare ogni monotonia generatrice di temibile stanchezza, sono disposti in guisa da
offrire un saggio simpatico ed eloquente dell’arte nobilissima di un grande artista precursore, dimostrante con
evidenza innegabile la vera e grande importanza di Emilio de’ Cavalieri nella storia dell’arte musicale italiana in
una delle sue forme più caratteristiche e bene accette.
***
Del resto il bel saggio del Tebaldini non potrà non destare in molti studiosi e artisti il desiderio di conoscere
nella sua integrità il testo della Rappresentazione di anima e di corpo: e l’opera di Emilio de’ Cavalieri, finora
estremamente rara […]
Domenico Alaleona ha scritto una succosa prefazione al volume allestito dal Tebaldini. […] (Giorgio Barini)
(stralci da Rassegna musicale - Venti anni di concerti, “Nuova Antologia”, vol. CLXXVI, 1 aprile 1915, pp. 452-58)
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De’ Cavalieri è – con Peri, Caccini, Monteverdi – uno dei più squisiti rappresentanti di quella monodia
espressiva, di quel “recitar cantando” – per dirlo con una felicissima espressione – che segna le origini di tutta la
musica vocale espressiva moderna. […]
Le parti che oggi si eseguiscono sono tolte dalla trascrizione che di questa opera compì Giovanni Tebaldini, per
le esecuzioni che egli stesso diresse all’Augusteo di Roma nell’aprile del 1912.
La parte dell’orchestra è stata realizzata sul basso numerato, al quale si limitava la scrittura istrumentale ai tempi
del De’ Cavalieri. Su tale basso i suonatori abili improvvisavano.
Il lavoro del Tebaldini (di cui fu pubblicata la riduzione per canto e piano a Torino dalla S.T.E.N.) intende dare
un sunto dell’opera che “pure rimanendo nei limiti di lunghezza “adatti ad un pubblico moderno”, stesse a
renderne per intero il significato morale e spirituale ed il valore musicale ed artistico.
Sul preludio e sul “michelangiolesco” Monologo del Tempo si intrattiene lungamente Domenico Alaleona nella
prefazione allo spartito pubblicato dalla Sten.
(dal programma dei Concerti, a cura della Società del Risveglio, Bologna, 23 e 26 dicembre 1917)
Nella bella chiesa di S. Gaetano (ignota – ahimè – alla maggioranza dei napoletani!) hanno avuto luogo le
attesissime esecuzioni corali dirette dal maestro Giovanni Tebaldini. Attesissime esecuzioni ed apprezzatissime
da tutti coloro che amano la grande arte e che con animo devoto si accostano alle opere insigni che segnano
l’alba della musica qual è modernamente intesa.
Tra queste opere insigni occupa uno dei primi posti il Mistero di Emilio del Cavalieri: Rappresentazione di
Anima e Corpo. E l’esecuzione, allestita dal maestro Tebaldini sulla base corale preparata con fervido zelo dalla
signorina Emilia Gubitosi, è stata veramente efficace perché se ne potesse intendere l’importanza e la bellezza.
Del che siamo tutti riconoscentissimi all’illustre direttore della Cappella lauretana, la cui competenza in materia
di cultura è ormai indiscussa. Egli ci ha dato altre pagine arcaiche, sì corali che monodiche, e ci ha fatto sentire
in orchestra la celebre fuga in sol min. del Frescobaldi, da lui stesso abilmente strumentata.
(da Symphonia – Associazione Scarlatti, “L’Arte Pianistica”, a. VI, n. 4, Napoli, 20 maggio 1919, p. 5)
La sera del 20 Settembre p.p. al teatro Verdi di Ferrara da una massa corale imponente e da tre buoni interpreti
preparati e valorosamente guidati dal M° Vettore Veneziani, si ripeteva quella Rappresentazione d’Anima e
Corpo di Emilio de’ Cavalieri che dopo le esecuzioni di Roma dell’Aprile 1912 e del Febbrajo 1915 era stata
eseguita con successo dal Coro del teatro Regio – pure sotto la direzione del Maestro Veneziani – al Liceo Verdi
di Torino.
L’entusiasmo suscitato nel pubblico – anzi dirò meglio – nella folla accorsa ad ascoltare l’antico melodramma
italiano, fu davvero significativo e commovente. L’attenzione posta da esso nell’ascoltare le semplici primitive
monodie del De’ Cavalieri: quei declamati spogli di ogni lenocinio, ma retti da una purezza adamantina di
concezione; quei cori ora mesti, ora solenni nella loro vaghezza omofonica: quei piccoli ritornelli orchestrali in
cui si racchiude il germe di tutta l’arte venuta poi: quelle sinfonia e quel finale già tracciati con mano sicura e nei
quali la forma appare chiaramente delineata, è stata sempre viva ed intensa. L’opera del De’ Cavalieri, nella sua
struttura, ha potuto vincere di ogni altra deficienza da nessuno del pubblico – al certo – rilevata. Chi si è accorto
infatti dell’unica tonalità su di cui – ad eccezione del monologo del Tempo – si incardina e si svolge tutta la
Rappresentazione di Anima e Corpo? Chi ha rilevato mai l’uniformità delle cadenze se tutte scendono
nell’anima dell’ascoltatore come gocce di rugiada argentea su virgulti rosei ed olezzanti? Chi ha badato alla
insistenza con la quale le parole del testo tornano successivamente – parafrasando testi ecclesiastici – a cantar le
laudi dell’Eterno, alla Vita futura, alla luce immortale della Fede cristiana?
***
Uscito da teatro dopo la memorabile esecuzione cui ebbi ad assistere, raccolto ne’ miei pensieri andavo
ripetendo istintivamente alcune fra le più belle frasi del De’Cavalieri: quelle che il pubblico aveva sottolineato –
fra un silenzio religioso – con mormorii a stento repressi. Mi pareva così di risentire… D’un tratto da sotto la
via giunge al mio orecchio una voce che ripete con accento vibrante:
Amar il bene eterno!
E l’eco rispondere – come nel melodramma del De’ Cavalieri - eterno:
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la voce notturna continuare:
Salir al Cielo superno!
E l’eco soggiungere: superno!
Fuggir del mondo i mali
ammoniva il viandante, e l’eco ripeteva: i mali!!
Ma più lontano altri canti si diffondevano ancora. Era l’Aria di Orfeo nell’Euridice di Peri che cantata in quella
sera istessa da tutto il coro al Teatro Verdi, veniva ripetuta entusiasticamente per le vie della vetusta Ferrara:
Gioite al canto mio selve frondose
Gioite amati colli!
De’ Cavalieri e Peri ad oltre tre secoli di distanza evocati dalla voce popolare, là ove il fastigio dell’arte italiana
nelle sue più svariate estrinsecazioni ha lasciato tracce così nobili, impresse orme si profonde, parvemi – fra
tante volgarità incombenti, sul teatro in ispecie – fatto così significativo da sollevare l’animo alle più liete
speranze per l’avvenire dell’arte italiana.
(da un autografo di Giovanni Tebaldini, scritto dopo il 20 settembre 1916, conservato presso l’Ateneo di Scienze Lettere ed
Arti-Archivio di Stato di Brescia e, in fotocopia, nel Centro Studi e Ricerche “Giovanni Tebaldini”)
La eterna lotta fra lo Spirito e la Materia, fra il Pensiero e il Senso, fra Anima e Corpo, lotta immanente, è di
tutte le epoche. Il dramma del De’ Cavalieri, che vi si è inspirato vagheggiandosi evidentemente, più che un
Oratorio Sacro, una vera Rappresentazione Drammatica, nelle sue idee da lui esposte su questo suo soggetto
quasi nel presagio che un giorno il suo dramma avrebbe potuto vivere rappresentativamente e teatralmente,
spiegando concetti scenici oltre che col suo “recitar cantando” rivelando un suo concetto d’Arte teatrale,
concetto che oggi è quasi un’unica legge riconosciuta di dramma musicato, il Dramma del De’ Cavalieri concede
per la sua messa in iscena una libertà e una indiscutibile ricchezza di interpretazione scenica e drammatica.
Il dramma abbraccia tutte le epoche, così come abbraccia nella sua concezione le grandi antitesi della esistenza
umana mirabilmente fondendole insieme nell’eterno dualismo del Reale e dell’Ideale, il Vero ed il Fantastico
della Vita.
La scena dunque – coi nuovi mezzi che può dare il Teatro – offre al dramma del De’ Cavalieri il modo di una
interpretazione scenografica teatralmente, veramente eccezionale. – I protagonisti suoi si riassumono in Corpo
ed Anima: scenograficamente vi sono rispecchiati dalla Terra e dal Cielo. I diversi coloriti scenici animano la
Terra, le luci il Cielo.
Così si abbinano le due azioni, quella scenografica e quella del dramma: quella scenografica di grandissimo
ajuto al dramma il quale, essenzialmente filosofico, ha caratteri di pensiero piuttosto che di azione, ma ricco non
per questo di effetti che sono effetti di teatro da non fargli invidiare i soliti effetti del dramma passionale.
Abbiamo dunque per la scena a nostra disposizione tutti i coloriti, tutte le luci e, per i personaggi – a dire i
figurini – tutte le epoche anche potendo fondervene insieme le caratteristiche.
In iscena il Dramma del De Cavalieri può benissimo essere non solo moderno ma persino contemporaneo e può
per la sua Idea di soggetto giovarsi dell’antico: mitologia, leggenda e di tutto quanto la poesia umana ha creato,
ha fantasticato.
***
La scena dunque rappresenta la Terra e il Cielo. Dalla terra il [!] scenografo deve potersi riassumere tutte le
caratteristiche pittoriche: monti e piani, declivi di vallate, corpi vividi di fiumi e torrenti, distesa ampia di mare,
chiome agili di alberi, verdi fronde di erba e fioriti campi, e, della esistenza umana, capanne e casolari sparsi; e
del Cielo tutte le vite sue di luci, tramonto e aurora, la luna e il sole, stelle, meteore, nebulose, nuvole e cirri,
lampi e tuoni che il sistema della scena panoramica rende possibili.
Naturalmente la disposizione scenografica della parte Terra, a dire il palcoscenico deve essere praticamente
disposta dallo scenografo quale la esigenza dell’azione dei personaggi richiede.
Il personaggio Corpo naturalmente è visibile; non così quello dell’Anima, ma, poi che Corpo ed Anima sono
sempre uniti, la scena nel suo macchinismo deve essere preparata in modo che mai per quanto il Corpo, persona
viva, si muova per la scena, debba essere abbandonato dalla voce dell’Anima che è personaggio invisibile, da
questo forse gli effetti che faranno del Dramma di De’Cavalieri non una creazione di secoli fa, ma quasi una
audace trovata modernissima, fors’anche - avrebbero detto i wagneriani - avveniristica. (L.[uigi] I.[llica])
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(Testo della visione scenica di Luigi Illica per l’esecuzione della trascrizione di Rappresentazione d’Anima e Corpo di
Giovanni Tebaldini)
Uno studio ampio e diffuso intorno alla presente versione dell’opera di Emilio de’ Cavalieri ha dedicato nella
Revue des deux mondes del 15 novembre 1913 l’illustre critico Camille Bellaigue, il fervido assertore, in terra di
Francia, della più pura ed autentica arte italiana d’ogni età e di ogni scuola.
Il medesimo studio – del quale vien qui riprodotto qualche brano – è contenuto anche nel volume Notes Brèves
(Paris, Librairie Delagrave, 1914) dello stesso autore.
Nous avions espéré, le printemps dernier – così il M° Bellaigue – entendre à Paris une œuvre romaine, une
œuvre ancienne et nouvelle à la fois: par où nous voulons dire qu’elle eût paru nouvelle à cause même de son
ancienneté. Certaines difficultés, matérielles, nous ont privé de ce plaisir. Cette musique devait nous être
présentée par un excellent musicien d’Italie, M. Giovanni Tebaldini, aujourd’hui maître de chappelle de la
cathédrale de Lorette. […]
“L’œuvre que le musicien d’Italie devait nous apporter n’est pas sienne, ou du moins elle ne l’est que par
l’admiration et l’amour qu’il lui a voué, par le soin qu’il a déjà pris, en leur pays commun, de la produire et de la
glorifier. Religieuse, mystique même, connue, si ce n’est célèbre, de nom, mais de nom seulement, cette œuvre
s’appelle la Rappresentazione di Anima e di Corpo.
E qui l’eminente critico francese, dopo aver ricordati i tentativi fatti in precedenza alla Rappresentazione di
Anima e Corpo, sia a Roma che a Firenze, per dar vita all’opera scenica di soggetto religioso o profano: dopo
aver detto dei vari compositori che fiorirono in quell’epoca di meravigliosa fecondità artistica, in cui le due
tendenze – la scuola della classica polifonia vocale, arrivata al suo più alto grado di sviluppo e di espressione con
Palestrina, e la incipiente scuola della monodia, che fra i principali campioni ebbe appunto Emilio de’ Cavalieri
– sembravano disputarsi il dominio dell’arte: dopo di avere passo passo – e con l’aiuto di altri elementi, letterari
in ispecie tolti alla tradizione locale, all’ambiente di Roma, ecc. – illustrata la nuova partitura dovuta al M°
Tebaldini, finisce con questa superba, alata immagine che il lettore può vedere come raffigurata in un grandioso
quadro degno veramente di un classico maestro della critica.
Qui nous vins d’Italie et qui lui vint des cieux, a dit Alfred de Musset de la musique, ou plutôt à la musique.
Si la célèbre apostrophe ne renferme pas la vérité tout entière, elle en contient au moins une part. Il est digne et il
est juste, il est équitable et salutaire, de rappeler quelquefois les titres immortels de l’Italie, surtout de la vieille
Italie, à l’admiration et à la piété des musiciens. L’hiver dernier, dans un petit théâtre parisien qui ne porte pas
mal un grand nom, le “Théâtre des Arts”, celui-là même dont le directeur, M. Rouché, vient d’être appelé à de
plus hautes fonctions, les représentations du Couronnement de Poppée, de Monteverde, ont montré quel maître
fut, il y a trois siècle, un des maîtres de l’opéra naissant.
Dans l’ordre du drame religieux, sous les auspices et par les soins de l’éminent maître de chapelle de Lorette,
l’esécution d’Anima e Corpo nous promettait, plus austère seulement, un témoignage pareil, une aussi profitable
leçon. Il est dommage qu’elle ne nous ait pas été donnée: Rome l’a, par deux fois, entendue et applaudie.
Quelque jeune pensionnaire de la villa Médicis y assistait peut-être, et peut-être en aura profité. Il aura compris
que Rome a quelque chose à apprendre aux musiciens eux-mêmes trop souvent étonnés qu’on fasse d’eux ses
hôtes et ses disciples. S’ils savent l’écouter, par la voix de ses sanctuaires et de ses paysages, elle leur parlera.
Nous leur disions naguère, à ces jeunes gens, et sans doute il nous permettront de leur redire: “Franchissez, un
soir de printemps, la grille de l’une des plus exquises parmi les villas romaines: celle qu’on appelle Mattei, ou,
d’un nom plus mélodieux encore, Cœlimontana. Allez jusqu’au banc de pierre aù se lit cette inscription: “ C’est
ici que Sant Philippe aimait à s’entreténir avec ses disciples des, choses de Dieu”.
Assis à la place même aù se reposa tant de fois le créateur de l’oratorio, vous songerez que le Cœlius, où vous
êtes, vit naître Saint Grégoire, le grand pape musicien, et porte son église encore. A gauche, en vous penchant un
peu, vous pourrez entrevoir les montagnes de la Sabine: elles furent la patrie de Palestrina. Devant vous
s’élèvent doucement les collines albaines, d’où Carissimi devait descendre à son tour. Puis, redescendez vousmêmes dand la ville. En passant devant l’église de la Vallicella (ou des Filippini), souvenez-vous encore de Saint
Philippe, et de Cavalieri, dont le drame sacré fut représenté dans cet oratoire. Alors vous trouverez peut-être que
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c’est assez de grandes mémoires pour la rêverie d’un musicien et pour son étude, pour qu’il reconnaisse et qu’il
honore, dans Rome et autour de Rome, quelques origines et quelques sommets de son art.
(da Un giudizio di Camille Bellaigue da Emilio de’ Cavalieri “Rappresentazione di Anima e di Corpo”, traduzione in
partitura moderna di Giovanni Tebaldini, Edizione Marcello Capra, Roma, 1929)
Tocca a lei di fare la prefazione alla mia edizione della Rappresentazione d’Anima e Corpo di Emilio de’
Cavalieri – così mi diceva Giovanni Tebaldini, adducendo a motivo che io fossi colui che del De’ Cavalieri ne’
miei scritti mi fossi più largamente occupato e avessi contribuito, più che ogni altro, con la mia parola a mettere
la figura dello squisito compositore romano nella sua vera luce, e a preparare il terreno alla odierna
consacrazione – anche con esecuzioni e ristampe delle sue opere – dell’alto suo valore.
Ed io mi sento lieto ed onorato di accettare il lusinghiero invito, per due ragioni: prima, perché in esso vedo un
riconoscimento della modesta opera mia e un segno di successo della mia propaganda cui i fatti han dato
pienamente ragione; seconda, perché posso così rendere un omaggio ad un artista come Giovanni Tebaldini che
in questa opera e propaganda di italianità musicale e di elevamento e affinamento spirituale dei nostri musicisti è
stato a noi giovani – da tempi in cui tale apostolato costava anche più amarezze che oggi – maestro.
Premesso questo, dirò subito che quella contenuta in questa ristampa non è l’intera opera del De’ Cavalieri, ma
la trascrizione e riduzione che Giovanni Tebaldini ne fece per due memorabili concerti che ebbero luogo nella
Sala dell’Accademia di Santa Cecilia ed all’Augusteo in Roma il 12 e il 16 aprile 1912, concerti che furono un
trionfo di italianità musicale e in cui la bella musica del nostro ammirabile e purissimo seicento, rievocata dal
maestro Tebaldini, fu accolta dal pubblico con un senso di commozione e di ritrovamento di cose care perdute.
In detti concerti furono eseguiti anche frammenti della Incoronazione di Poppea del Monteverdi, e composizioni
di Palestrina, Cavalli, Legrenzi, Lotti.
Con la sua trascrizione e riduzione della Rappresentazione d’Anima e Corpo di Emilio de’ Cavalieri, Giovanni
Tebaldini ha inteso dare un sunto organico del lavoro, tale cioè, che pure rimanendo nei limiti di lunghezza adatti
a un pubblico moderno stesse a rendere adeguatamente il significato morale e spirituale e il valore musicale e
artistico. E in ciò egli è perfettamente riuscito. Chi volesse conoscere il lavoro nella sua integrità, dirò poi dove
debba rivolgersi.
Il maestro Tebaldini indica in capo alla sua riduzione per pianoforte gli strumenti di cui ha fatto uso per rendere
l’accompagnamento della rappresentazione; accompagnamento che, come è noto, nelle prime produzioni
melodrammatiche era scritto col semplice basso numerato, sul quale i sonatori abili improvvisavano. La
trascrizione del Tebaldini si mantiene lodevolmente in quella linea di semplicità che è inerente all’uso del tempo
e al carattere di queste composizioni, e che il Dei Cavalieri stesso raccomandava: del che troppo spesso non
tengon conto i revocatori di queste musiche. “Gli strumenti sonino secondando chi canta, e senza diminuzioni e
pieno” è detto nella prefazione alla edizione originale della Rappresentazione d’Anima e Corpo. E, ricordo, nella
esecuzione di Roma l’accompagnamento del Tebaldini sottolineava efficacemente, e senza mai trascendere e
rimanendo sempre al suo ufficio di sfondo e di sostegno, il canto di Giuseppe Kashmann e di Raisa Burstein che
del lavoro furono i principali interpreti. Il che, io penso, non sarebbe male accadesse anche nel melodramma
italiano di oggi. […]
Emilio de’ Cavalieri nacque a Roma verso il 1550, di famiglia nobile e che aveva nel sangue l’amore per la
musica (tra coloro che si occuparono delle musiche quaresimali nell’Oratorio del Crocifisso in San Marcello,
s’incontra il nome di un Mario de’ Cavalieri, forse padre di Emilio). Fin dalla prima giovinezza si dedicò all’arte
musicale, non per professione, ché le sue condizioni non comportavano, ma per passione: nelle memorie del
tempo non gli è mai dato il titolo di “maestro” o “maestro di cappella” comune agli altri musicisti. Dal 1578 al
1584 egli fu il principale organizzatore delle musiche quaresimali nell’Oratorio della Arciconfraternita del
Crocifisso in San Marcello, ambiente musicale questo che fu la culla dell’oratorio in latino e in cui trovò modo,
più tardi, di esplicarsi e fiorire il genio di Giacomo Carissimi. Nulla si sa delle musiche che Emilio de’ Cavalieri
avrà coltivato in questo oratorio; ma è ragionevole supporre che egli vi facesse già i primi tentativi del nuovo
stile e vi temprasse a maturità la sua fibra di artista.
Qualche anno dopo il 1584 il De’ Cavalieri si trasferì a Firenze, attratto dal noto lavorio di rinnovamento
musicale che colà ferveva. A questo movimento egli partecipò con grande attività; e possiamo anzi ormai
affermare che Emilio de’ Cavalieri, tra gli iniziatori del canto monodico espressivo e del melodramma
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(nonostante una tradizione di origine unilaterale che non sa ripetere in proposito altro che i nomi di Peri e
Caccini), occupa uno dei primissimi posti.
Nel 1589 fu tra coloro che scrissero la musica degli intermedi per la commedia rappresentata in occasione delle
nozze di Ferdinando de’ Medici e Cristina di Lorena. Nel 1590 fece rappresentare alla Corte l’Aminta del Tasso,
e il Satiro e la Disperazione di Fileno, piccole pastorali di Laura Guidiccioni Lucchesini, che fu fedele amica e
collaboratrice, per la parte poetica, del De’ Cavalieri; nel 1595 il Giuoco della Cieca, su poesia della stessa
Guidiccioni.
Nel 1597 ce lo segnala nuovamente in Roma una nota dell’Archivio del Crocifisso; e in questa città dovette
tornare ancora fra il 1599 e il 1600. Nell’ottobre 1600 lo troviamo nuovamente in Firenze dove pose in musica il
Dialogo di Giunone e Minerva del Guarini; e prese parte, pare, alla esecuzione dell’Euridice di Peri. Subito dopo
tornò in Roma dove morì l’11 marzo 1602.
La Rappresentazione di Anima et di Corpo fu eseguita, scenicamente, in un teatrino presso i Filippini della
Vallicella, nel febbraio 1600, con applauso e concorso grande di popolo. Fu tale il successo che il lavoro fu
dovuto replicare, e, come dice una memoria del tempo, “molti per tenerezza lagrimarono ed altri dissero che non
si potrà dir meglio né rappresentar meglio di quel che si facesse in quella azione”.
La poesia della Rappresentazione di Anima e Corpo è, come io assodai, del Padre Agostino Manni di Cantiano,
uno dei primi discepoli di San Filippo Neri. Ed è interessante notare che la scena quarta dell’atto primo, fino alle
parole: “Et amendue riposeremci in Dio”, non è che la riproduzione testuale di una laude che era stata stampata
dai Padri della Vallicella fino dal 1577 e ristampata nel 1583; fatto questo importante per mostrare il rapporto fra
i diversi gradi e le diverse forme delle produzioni oratoriane. […]
Il De’ Cavalieri fu vero artista in quanto che considerò la musica come linguaggio espressivo dei sentimenti
umani, e all’espressione di questi sentimenti con l’uso appropriato dei vecchi mezzi, e con la continua ardita
ricerca di mezzi nuovi, costantemente mirò. E, se non sempre la materia ancor rude e indocile si piegò alle sue
intenzioni, molte sue cose ci appaiono squisitamente e potentemente espressive; e la sua arte, per molti aspetti e
più di quella di altri suoi contemporanei fa presentire l’arte di Monteverdi e di Carissimi.
Del che ognuno può convincersi attraverso questa riduzione che della Rappresentazione d’Anima e Corpo ci
presenta Giovanni Tebaldini. Occorre che io richiami l’attenzione sul michelangiolesco (la parola parrà
esagerata, ma mi balza spontanea dal cervello riudendo nella mia fantasia gli accenti del Kaschmann che tale
monologo eseguì all’Augusteo di Roma, e la scrivo poiché, se ci abbandoniamo con tanta facilità ad iperbolici
inni per le cose straniere, non so perché si dovrebbe stroncare la vivace parola d’ammirazione che ci viene sul
labbro, quando si tratta di cose nostre) monologo del Tempo? O sul toccante dialogo fra Corpo e Anima, chiuso
da quella bellissima meditazione, alle parole La carne mia mi tenta, L’eterno mi spaventa? O sulla delicatissima
e dolcissima laude finale Ogni lingua ogni core, Dia laude al mio Signore?
Il preludio della Rappresentazione d’Anima e Corpo è stato eseguito altre volte all’Augusteo medesimo, dopo i
concerti del Tebaldini, e sempre con vivo successo. Difatti è una pagina di musicalità squisita. Si noti come in
esso si alternino due momenti in contrasto: un momento angoscioso, tragico, austero, e un momento etereo,
volante, paradisiaco; e più interessante ancora è che questi due momenti musicali tornano poi durante il corso
della rappresentazione al sopraggiungere di momenti drammatici e lirici a cui paiono corrispondere. Sinfonismo?
Ma che sinfonismo! Melodia e sinfonia non stan legati al monopolio di nessun autore e di nessun critico, e non si
impartiscono per decreto-legge: ma non sono che l’espressione, sotto due diversi inseparabili aspetti, dello stesso
senso animatore del discorso musicale; della logica, della naturali, dell’intima vitalità stessa della musica. Tutte
le musiche vere e vive sono, per necessità inerente alla loro natura, melodico-sinfoniche: dai canti popolari alle
opere riuscite e ispirate di Palestrina, di De’ Cavalieri, di Monteverdi, di Carissimi, di Gluck, di Haydn, di
Mozart, di Beethoven, di Wagner, di Rossini, di Verdi, di Riccardo Strauss. Come non c’è organismo vivo in cui
non circoli il sangue nelle vene e in cui non palpitino nervi e muscoli. Chi avrebbe immaginato un Emilio Dei
Cavalieri (questo primitivo, questo ingenuo, questo, in apparenza, fanciullesco allineatore di poche note)
sinfonista! Ciò dimostra la fatuità di certe sentenze e di certe distinzioni.
E dimostra anche quanto sia necessario al critico e all’artista (per acquistare il primo illuminatezza e serietà di
giudizio, il secondo retta e sicura norma di operare) il senso pieno dell’intero svolgimento e dell’intima natura
dell’arte sua. E, soprattutto, la conoscenza profonda dell’arte del suo paese onde afferrare, immedesimandosi con
essi, i lineamenti artistici della sua stirpe, del suo popolo. E dimostra quanto siano benemeriti coloro che si
adoperano a far rivivere le cose belle della nostra musica passata.
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Le arti figurative e l’architettura hanno i monumenti, e i quadri e le statue raccolte nei musei, che vivono di vita
ininterrotta dinanzi alle generazioni e conferiscono automaticamente all’arte di un popolo quella unità e
continuità che ne sono l’orgoglio e la possanza. Nella musica niente di tutto questo: l’opera d’arte musicale
muore e dispare completamente se non viene tenuta in vita con continue esecuzioni. E pensare che in Italia si
eseguiscono oggi appena opere di autori viventi o che risalgono tutt’al più a un secolo fa!
Da qui si vede quale importanza abbiano le rievocazioni, come questa che oggi ha compiuto il maestro
Tebaldini, quando naturalmente, come nel caso attuale, si tratta di vere opere d’arte; e non di anticaglie
qualunque, poiché allora cessa l’ambito di noi artisti e subentra quello affatto diverso degli eruditi e degli
archeologi. Giovanni Tebaldini, dopo aver fatto rivivere la Rappresentazione di Anima e Corpo di Emilio de’
Cavalieri in una esecuzione di cui tutti quanti vi assistemmo serbiamo un caro indelebile ricordo, completa oggi
e amplifica la sua opera di propaganda pubblicando la sua trascrizione. Di questa iniziativa favorita dal
Ministero della P. I. – che viene ad aggiungersi come nuovo titolo di benemerenza ai molti che egli ha verso la
nostra bell’arte passata – tutti quanti sono amanti della musica italiana e la vedrebbero volentieri rimettersi in
una via di purezza e di schiettezza, gli devono essere grati e tributagli vivo plauso. (Domenico Alaleona)
[Nella nota relativa ad uno dei brani omessi è detto ”Il maestro Tebaldini avverte che egli compì la sua riduzione e
strumentazione servendosi di una copia manoscritta, tradotta in notazione moderna, fornitagli dal dott. Francesco Vatielli
ora Bibliotecario del Liceo musicale di Bologna, copia eseguita appunto sull’esemplare di Urbino. Faccio volentieri questa
doverosa citazione in quanto si tratta di un valoroso giovane, uno dei pochi musicisti italiani che coraggiosamente e
genialmente si sono dedicati con felici risultati a questi studi e a queste rievocazioni”].
(stralci dalla Prefazione a Rappresentazione di Anima e di Corpo di Emilio de’ Cavalieri, traduzione in partitura moderna di
Giovanni Tebaldini, Ed. M. Capra, Torino, 1929)
A Monaco di Baviera, è stato eseguito per la prima volta scenicamente il melodramma La Rappresentazione di
Anima e Corpo del De’ Cavalieri, su libretto di P. Agostino Manni, nella trascrizione corale sinfonica del
maestro Giovanni Tebaldini.
Il famoso lavoro, che può considerarsi come la prima opera teatrale del nostro 1600, è stato concertato e diretto
dal maestro Hermann Scherchen. Il successo è stato vivissimo.
(da “Musica d’oggi”, a. XIII, n. 6, Milano, giugno 1931)
Fu gradita sorpresa per me quando Hermann Scherchen, nel passato mese di marzo, ebbe ad informarmi che
durante la Festwoche Neuer Musik di Monaco si sarebbe ripetuta, scenicamente, la
Rappresentazione d’Anima e Corpo di Emilio de’ Cavalieri in quella che è la mia versione e realizzazione quale
venne presentata per la prima volta all’Augusteo di Roma nell’aprile del 1912 e quale lo stesso Scherchen
eseguiva a Francoforte nel maggio del 1926. Successivamente il Signor Büchtger, organizzatore del Festwoche,
mi sollecitava per un articolo intorno all’opera del de’ Cavalieri ed ai principi da me seguiti nella ricostruzione di
essa, da inserire, a mo’ di illustrazione, nel programma generale della stessa Festwoche.
Un’impreveduta circostanza mi ha impedito di far giungere in tempo il mio scritto per la desiderata
pubblicazione. Credo quindi opportuno valermi della cortese ospitalità che mi accorda La Nuova Italia Musicale
per far noto quali furono i criteri d’onde fui guidato, venti anni fa, nel ricostruire e ripresentare – a tre secoli di
distanza dalle sue prime apparizioni alla Vallicella di Roma – la Rappresentazione di Anima e di Corpo.
***
I miei criteri furono compresi e dimostrati dall’illustre critico francese Camille Bellaigue allorché, per una
progettata riproduzione dell’opera del De’ Cavalieri a Parigi, ebbe ad occuparsene egli ampiamente nella Revue
des deux mondes dell’ottobre [leggi novembre] 1913.
La chiara, lucida e scintillante prosa dell’illustre e compianto critico francese, riportata poscia integralmente nel
volume Notes Breves dell’anno successivo (Paris, Librairie Ch. Delagrave, 1914) col titolo Vieille musique
romaime, avrebbe potuto servire di traccia – ripeto – alla mia illustrazione, cominciando dal ricordo che il
Bellaigue ha voluto fare d’una celebre frase di Alfredo de Musset: “ Qui nous vins d’Italie et qui lui vient des
cieux” poiché tale apparve al medesimo Bellaigue il ritorno della Rappresentazione d’Anima e Corpo.
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Le prefazioni del de’ Cavalieri e dell’editore Guidotti all’edizione a stampa dell’opera insigne formano un vero
programma ideale, specie di simbolo drammatico musicale di cui i riformatori venuti poi – Marcello, Gluck e
Wagner – non fecero che “reprendre l’esprit et quelque fois la lettre elle-même”. Mi affido quindi ad esse.
Osservava il Bellaigue aver io semplificata la struttura dell’opera scenica del de’ Cavalieri pur adducendo le mie
giustificazioni che erano e sono le seguenti: la prolissità e la superficialità di alcune scene; l’uniformità tonale,
ritmica ed estetica, talché – ad eccezione del monologo del Tempo – il tono di sol è l’unico tono di tutto il
melodramma; taluni passaggi armonici e cadenzali ripetuti con soverchia frequenza, in uno all’ingenuità di
alcuni tratti del testo che avrebbero contrastato con l’efficacia dell’orditura generale.
Queste le riflessioni che mi condussero alla mia revisione. “Pour garder au poème son caractère avant tout
moral, edifiant – così il Bellaigue – il a suffi d’en respecter l’idée essentielle: la lutte entre l’esprit et les sens,
entre la continence et le plaisir, entre l’âme et le corps”.
Quanto allo strumentale, realizzato sul basso numerato o sulle quattro o cinque distinte – come per le sinfonie e
pei ritornelli – qualcuno ha potuto rimaner sorpreso nel vedere introdotti oboi, corni arpa, violoncelli e
contrabbassi divisi.
Gli zelanti dell’ortodossia che amano fantasticare intorno ad una cervellotica tradizione di maniera, avrebbero
voluto che io mi fossi limitato a sostituire tutt’al più il liuto , la tiorba e la lira doppia, che più non si usano, col
quartetto d’archi in uno al cembalo ed all’organo regale; e questo per mantenere fedeltà... allo spirito del tempo.
Santa ed ammirevole scrupolosità di coloro i quali non si sono mai provati ad interrogare direttamente, per virtù
propria, l’anima di un’opera attraverso, non una retorica, ma una reale interpretazione intesa alla ricerca della
oggettività, precisamente per l’ausilio della soggettività.
E veniamo a ragioni positive.
Al principio del secolo XVII, cui appartiene la Rappresentazione d’Anima e di Corpo, violini divisi, cornetti e
tromboni in un assieme sonoramente grandioso, erano già stati usati su larga misura da compositori
celebratissimi quali, ad esempio, Giovanni Gabrieli. Come non ammettere che il de’ Cavalieri abbia mirato egli
pure a questi risultati?
Nella sua partitura non v’è cenno di ciò.
Perché nel piccolo ambiente dell’Oratorio della Vallicella gli mancavano i mezzi e la possibilità di allargare il
suo quadro colorendolo di più intensa vita.
Sentiamo un poco lo stesso autore della Rappresentazione d’Anima e Corpo negli avvertimenti premessi
all’edizione Guidotti datata appunto dal 1600.
“Nel principio avanti il calar della tela, sarà bene far’ una musica piena con voci doppie e quantità assai di
strumenti.
Le Sinfonie et Ritornelli si potranno sonare con gran quantità di strumenti et un Violino che suoni il soprano per
l’appunto farà buonissimo effetto.
Le stanze del ballo siano cantate da tutti dentro, et di fuori, et tutti gli stromenti, che si può, si mettino ne’
Ritornelli”.
Il che sta a dimostrare che intendimento costante di Emilio de’ cavalieri era quello di riuscire ad imprimere alla
sua partitura una densità sonora che se era nelle sue vaghe aspirazioni non gli era però dato in quel momento –
per le circostanze contingenti – di ottenere.
Ed allora, diciamo pure che egli dettò i suoi avvertimenti appunto per noi suoi tardi nepoti ed interpreti,
innamorati della bellezza semplice ed arcana – piena di significato, di espressione e di poesia – della di lui opera
d’arte.
A questo proposito ha detto bene Domenico Alaleona nella prefazione alla ristampa della Rappresentazione
d’Anima e Corpo: “E bisogna pensare ancora che l’arte è quanto di meno statico e di più dinamico esista, e che
per arrivare all’intero possesso bisogna abbracciarne e vivere tutto uno svolgimento”.
Precisamente perché la fedeltà allo spirito del tempo non consiste nella riesumazione pura e semplice delle
forme esteriori e contingenti d’un’opera d’arte, bensì in quello più grande ed ineffabile che permette e concede la
gioia ed il tormento di poter scrutare nell’anima secolare di essa facendola vibrare e vivere di vita novella
attraverso tutte le età, attraverso tutte le anime.
Ildebrando Pizzetti nello scritto: Interpretare la musica (Pegaso, giugno 1929) ha affermato giustamente e
profondamente: “C’è chi dice, e c’è chi l’ha scritto, che l’interprete di un’opera d’arte deve porsi nell’identico
stato d’animo in cui si trovò l’autore dell’opera quando essa fu creata. Un’affermazione questa, che è indizio di
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presunzione superbissima e di straordinaria semplicità di mente. Ma se neppure uno stesso uomo può sentirsi
identico a sé stesso in due momenti successivi della sua esistenza! (Qui, gli storici e gli archeologi della musica,
i critici e gli ortodossi della musicologia; i sacerdoti, tutori dello spirito del tempo, protesteranno, con ogni
probabilità, contro le affermazioni sacrosantamente vere del Pizzetti. g. t.)... E continua l’autore di Debora e
Jaele:
Né meno erronea presunzione mi sembra quella di quegli interpreti, esecutori o critici, i quali pensano non
potersi arrivare alla giusta interpretazione di un’opera musicale del passato se non attuandola secondo criteri
rigorosamente storici, considerazioni storiche, pratica storica. No!... La nostra interpretazione sarà sempre
un’interpretazione nostra, di uomini cioè, che traducendo in linguaggio vivo e manifesto un’espressione d’arte
lontana, già storica, creeranno con l’espressione anche la sua lontananza, la sua storicità, senza arrivare per
questo a crearne la vera e propria storica realtà”.
Qui è l’artista che parla. Laus Deo!
Della storica realtà, dello spirito del tempo considerato ed osservato nelle sue estrinsecazioni esteriori, non v’è
affatto bisogno per far rivivere un’antica opera d’arte. Basta – ed è questo il più importante attributo – saper
mantenere la spiritualità essenziale dell’opera che si intende rievocare.
***
Guidato da identici criteri e con la speranza di poter riuscire, dopo le prime fortunate esecuzioni di Roma, ad una
rappresentazione scenica dell’opera del de’ Cavalieri; lusingato dalla sensibilità e dall’esperienza di un uomo di
teatro quale fu Luigi Illica che nella Rappresentazione di Anima e Corpo intravide appunto... l’opera di teatro, in
di lui compagnia mi accinsi a studiare una vera e propria traduzione scenica del melodramma del de’ Cavalieri
secondo le esigenze del teatro moderno. Né soltanto: ché rifacendo di sana pianta la partitura d’orchestra, vi
aggiunsi altre scene fra quelle da prima abbandonate.
Speravamo così, Illica ed io, di poter arrivare alla rappresentazione. Vana lusinga! Battemmo a diverse porte, a
lui, più che a me, facili a dischiudersi. Invano!
[“] Il teatro, il melodramma, il dramma lirico, oggi sono tutt’altra cosa. Di più voi avete falsato il carattere
dell’opera come è stata concepita e resa al suo apparire; il pubblico né sente altrimenti come tre secoli addietro,
né accetterebbe la vostra rievocazione [”].
Concludemmo rassegnati: Roma locuta est... non però causa finita est!
Luigi Illica è andato a riposare per sempre sul bel colle piacentino di Castellarquato mentre la mia seconda
partitura sonnecchia negli scaffali della Biblioteca del R. Conservatorio di Parma cui, per memore omaggio,
quale ex- direttore dell’Istituto, l’ho offerta io stesso in autografo.
Oggi – dopo le più recenti esecuzioni di Napoli, di Francoforte, di Bologna e di Firenze – quasi di sorpresa e ad
opera di un insigne direttore tedesco – accanto ai modernissimi; accanto alla Komëdie des Todes di Malipiero
che pel soggetto potrebbe quasi inquadrarsi esteticamente con Rappr. d’A. e C.; accanto a Die Mutter (opera in
vierteltonsystem) di Haba; all’Antigone di Honegger trova posto, scenicamente riprodotta, l’opera di Emilio de’
Cavalieri ed alla presentazione di essa dal palcoscenico del Residenztheater di Monaco, oltre l’illustre direttore
Hermann Scherchen; oltre i regisseurs Herr Jessuer e Fran Günther del Teatro di città di Koenigsberg, hanno
parte cantanti di bella fama e persino... la Münchenertanzbühne.
Cosa diranno mai i cosiddetti musicologi ortodossi di questa prevaricazione istorica?
Intanto per mio conto faccio qualche altro rilievo.
La Rappresentazione d’Anima e Corpo innanzi arrivare a Monaco è stata eseguita in dieci diverse città –
comprese Francoforte e Liegi – qualche volta con risultati assai favorevoli anche per le accoglienze fattale dal
pubblico. Basterebbe ricordare quelle di Roma e di Napoli ove, nel nome di Emilio de’ Cavalieri sorgeva nel
1919 l’Associazione “Alessandro Scarlatti”. La stampa italiana in genere, ed eminenti critici d’oltr’alpe, se ne
interessarono vivamente. Valga per tutti quel che ne scrisse Camille Bellaigue nella Revue des deux mondes.
Malgrado questo, malgrado la nuova edizione fatta nel 1914 a cura del Ministero della P. I. dell’opera del
compositore romano, in quest’ultima circostanza monacense, da taluni autorevoli, si è parlato come di una prima
esumazione, e ciò persino là dove la Rappresentazione d’Anima e Corpo era stata già eseguita con successo.
Come si spiega questo? Si spiega benissimo quando si rifletta che pur recentissimi Manuali di storia della
musica i quali corrono per le mani di tutti, mostrano di ignorare quel che da un ventennio si è fatto per la
rivalutazione dell’opera del de’ Cavalieri, perfino sottacendo quel che su di essa ebbe a dettare il compianto
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Domenico Alaleona il quale, con documenti precisi e inconfutabili, dimostrava appunto che Rappr. d’Anima e
Corpo non è un Oratorio bensì un vero melodramma, anzi il primo vero melodramma; che autore del testo fu P.
Agostino Manni non già la Laura Guidiccioni.
Cose che accaggiono, soleva dire il filosofo napoletano Igino Petrone. Proprio così: cose che accaggiono!
Intanto prepariamoci a qualche altra sorpresa.
Può darsi che un giorno o l’altro qualche zelante assiduo e dotto musicologo ricercatore delle nostre glorie, abbia
a scoprire, ad esumare ed a ricostruire per la rivelazione al pubblico la Rappresentazione d’Anima e Corpo di
Emilio de’ Cavalieri.
Non si sa mai! Cose che accaggiono e che possono accadere!
(da Giovanni Tebaldini, Rappresentazione di Anima e di Corpo di Emilio de’ Cavalieri al Residenztheater di Monaco di
Baviera, “La Nuova Italia Musicale”, a. IV n. 6, Roma- Napoli, giugno 1931, pp. 3-5)
La stagione artistica del “Collegium Musicum” si è chiusa sabato sera con un concerto che fu il degno
coronamento dell’attività culturale svolta dall’istituzione concittadina nel secondo anno di vita: fu eseguita, nella
trascrizione di Giovanni Tebaldini, la rappresentazione di “Anima et di Corpo” del De’ Cavalieri. Opera che sta
alle origini del linguaggio nella sua priorità nei confronti dell’”Euridice” del Peri, se inquadrata nel suo tempo,
assume agli occhi dei musicofili una importanza essenziale, oltre che per la storia del melodramma, per la
comparsa nello stile del “recitar-cantando” di una sensibilità armonica che nettamente si distacca dalla
contrappuntistica musica cinquecentesca e pone le basi dell’armonistica classica.
L’opera del De’ Cavalieri è basata essenzialmente su un coro misto cui si alternano voci soliste, e la musica ha
una funzione eminentemente descrittiva. Serve a creare un’atmosfera, illustra il testo: è insomma melodramma.
Così i vari personaggi: l’Anima, il Tempo, il Corpo, il Piacere, sono introdotti ciascuno da un atteggiamento
musicale ora dolce, ora solenne, ora allegro, che perfettamente aderisce al testo. E in questo ci pare che l’opera
del De’ Cavalieri abbia, a parte l’importanza storica, un valore: nell’essere riuscito l’autore, umanista e letterato
oltre che musicista, a creare una forma d’arte in cui testo e musica si integrano formando un tutto inscindibile.
L’esecuzione di sabato fu l’opera apprezzatissima, per lo stile e la perfetta realizzazione, del coro concertato da
Bettina Lupo e dell’orchestra del “Collegium”, sotto la direzione di Massimo Bruni che accanto ai solisti
soprano Lupi e Sacchi, tenori Cugnone e Pace, basso Pautasso, riscosse il caloroso applauso del pubblico.
(da La rappresentazione di “Anima et di Corpo” di Emilio de’ Cavalieri, “L’Italia”, 22 giugno 1948)
Dell’importanza della Rappresentazione di Anima e di Corpo del De’ Cavalieri già dicemmo. Malgrado i
soverchi tagli, che il Tebaldini operò nel vario tessuto scenico, e la strumentazione, che dovrebb’esser riveduta,
non mancò al folto pubblico la percezione di un’opera d’arte piena di poesia e di pregi. Alla difficile
realizzazione d’una musicabilità tanto lontana concorsero volenterosi gli elementi del Collegium musicum, e
quasi sempre la precisione dell’esecuzione s’accompagnò alla stilistica. Gustate le commosse espressioni
solistiche e corali, fra le quali l’effetto dell’eco raggiunse un’aerea lievità, gli ascoltatori applaudirono con
gratitudine il direttore Massimo Bruni, Bettina Lupo, che aveva concertato il coro, e i loro collaboratori vocali e
strumentali. (a.[ndrea] d.[ella] C.[orte])
(da Al Conservatorio, “Stampa sera”, 21-22 giugno 1948)
Milano, 26-28 aprile. Nella Chiesa di S. Angelo si sono svolti due Concerti spirituali a scopo di beneficienza,
con intenzione – non sempre raggiunta – di rievocazione dantesca. Il maestro Tebaldini, nella sua ideazione, ci
condusse attraverso l’Inferno, il Purgatorio ed il Paradiso di Dante, alternando, con notevole abilità, musica del
Palestrina con frammenti di canto gregoriano.
Gli esecutori Boni-Capalti, Morelli, Zuccarelli, gli organisti Bossi e Chiesa e i cori, diretti dai maestri Andreoni,
Boccazzi, Censi e Censi-Ferrario, si disimpegnarono con zelo, ottenendo – col maestro Tebaldini – calorosi
applausi.
(da “Musica d’oggi”, a.IV, n. 5, Milano, maggio 1922)
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Bonaventura Somma ha diretto il terzo concerto della serie dedicata a musiche italiane del cinque, sei e
settecento. Un concerto di un interesse e di un valore fuori del comune [...] se ci ha offerto una viva esecuzione
della “Rappresentazione d’Anima e di Corpo” di Emilio de’ Cavalieri, operra questa che ha un valore e un
interesse essenziali per La storia del “recitar cantando” e la cui traduzione in partitura moderna si deve al
Maestro Giovanni Tebaldini, il primo che ha acceso la fiamma della ricerca delle gemme musicali di quel secolo
e le cui prime indimenticabili, ma pare oggi dimenticate “rivelazioni” veneziane in questo campo, furono la
scintilla prima di quel fervore che oggi tanto appassiona e musicologi e musicisti. [...] Oggi con l’orchestra e il
coro dell’Accademia di Santa Cecilia [...] quest’opera di grande valore musicale e storico è apparsa, senza la
rappresentazione in una edizione curata con sapienza ed amore dal Maestro Bonaventura Somma e degna di ogni
lode. Il pubblico molto numeroso ha seguito con passione tutto il bel concerto ed ha tributato agli esecutori e al
Direttore un caloroso successo. (l. f.[erdinando] l.[unghi])
(da Teatri – Cinema – Varietà / A Santa Cecilia, “Il Giornale d’Italia”, 6 febbraio 1949)
295. Regina coeli, laetare alleluja
Il celebre compositore veneziano [Antonio Lotti] il quale nella polifonia vocale del secolo XVIII riportò il soffio
vivificatore della grande arte palestriniana di due secoli innanzi fu, dapprima organista, poscia maestro della
Cappella di S. Marco in Venezia. Competitore, per non dire rivale, di Benedetto Marcello, divenne celebre pe’
suoi Mottetti e Madrigali improntati a severità spirituale. L’Antifona pel tempo pasquale: Regina coeli laetare
alleluia: quia quem meruisti portàre alleluja: Rexurrexit sicut dixit alleluja, ora pro nobis Deus alleluja; ne
riconduce al cospetto delle luminosità delle volte tiepolesche de’ maggiori Templi settecenteschi di Venezia;
fors’anche innanzi al grande quadro dell’Assunta di Tiziano, riportato di recente sull’altare grandioso di S. Maria
Gloriosa dei Frati. Il maestro Tebaldini la restituì in S. Marco sino all’agosto 1890, volendo che essa echeggiasse
un’altra volta sotto le magiche arcate della Basilica aurata.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, Napoli, 12 aprile 1920)
[…] sin dal suo inizio è tutto un coro di esultanza pieno di maestosa giocondità. Lode al maestro che non esuma,
ma fa rifiorire la bella musica del passato, tanto conveniente al Tempio santo di Dio.
(da Venezia. A San Marco, “La Difesa”, 22-23 maggio 1893, p. 3)
298. Salmo XLII (Judica me Deus)
Benedetto Marcello – Dal Salmo XLII “Judica me Deus” per bassi, archi ed organo.
Il Marcello è uno dei nomi più rappresentativi dell’arte musicale veneziana. Due furono i momenti di fiore per
l’arte musicale a Venezia: l’uno nel cinquecento con la scuola polifonica vocale che va da Willaert ai Gabrieli:
l’altro nel seicento nel melodramma con Claudio Monteverde, Marcello e Lotti che furono gli ultimi esponenti,
in ordine di tempo, di quel movimento che appunto a Monteverdi fa capo, senza d’altra parte staccarsi dalla
tradizione della scuola cinquecentesca: movimento cui appartennero (nel periodo che si interpone fra il
Monteverdi, Marcello e Lotti) Cavalli, Cesti e Legrenzi.
Marcello, nobile veneziano, fu oltre che musicista, poeta e scultore di vaglia. La sua fama è legata specialmente
ai suoi Cinquanta salmi, composti su una parafrasi poetica italiana del testo biblico di Girolamo Ascanio
Giustiniani: opera monumentale ricca di dignità e di grandiosità di espressione.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, Napoli, 12 aprile 1920)
306. Sonata
Ferrarese fu organista della Basilica di San Petronio in Bologna. Violinista e cembalista esimio fu maestro ad
Arcangelo Corelli e lasciò parecchie opere per cembalo ed organo, Duetti e Trii per archi e musica sacra vocale.
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La Sonata [di Giovanni Battista Bassani] inclusa in questo programma venne pubblicata dapprima per cembalo e
per organo mentre le fioriture e gli abbellimenti sembrerebbero richiamare la musica per violino, l’istrumento
preferito dal Bassani. Il Tebaldini la ridusse appunto per violino e cembalo (Venezia 1891) e poscia, per
l’Augusteo di Roma, febbraio 1914, come ora si eseguisce.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, Napoli, 14 aprile 1919)
308. Surrexit Christus
[…] Io provvidi alla esumazione ed esecuzione di essa il giorno nel quale a Napoli – nel 1919 – fui chiamato ad
inaugurare la benemerita Associazione musicale che prende nome da “Alessandro Scarlatti”.
[…] vasta composizione. Vasta soprattutto per l’ampiezza delle linee e la ricchezza dei colori.
[…] composizione vocale e strumentale basata su voci e strumenti a fiato e ad arco, piena di arditezza e di
audacie che oggi ancora potrebbero, non dico sorprendere, ma addirittura meravigliare. Il testo è semplice, ma
quanto mai poetico ed immaginoso:
Surrexit Christus; surrexit!
Et Dominus de coelo intonuit: Alleluja
Et altissimus dedit vocem suam: Alleluja
In dies solemnitatis vestrae inducam vos
In terram fluentem lac et mel: Alleluja.
Il tema d’entrata attacca quasi con irruenza per le volute melismatiche dei Cornetti e dei Tromboni: Questo
medesimo tema ritorna poscia nell’alternative degli alleluja corali e dei periodi propri ad ogni singola voce. […]
(dalla conferenza La scuola Veneta e i Gabrieli, tenuta da Giovanni Tebaldini presso il Conservatorio S. Cecilia di Roma il
9 febbraio 1933. Autografo conservato presso l’Ateneo di Scienze Lettere ed Arti di Brescia)
312. Totila
Ho letto l’Aria del Totila di Legrenzi e la sua bella lirica A se stesso. Questo attesta che quando scorre una larga
cultura e uno spirito aperto, anche una ben misurata modernità di pensiero e di forma può essere accolta pur
dopo tante e varie esperienze tecniche del passato.
Bravo Maestro! Io la invidio che trova ed ha il tempo per raccogliersi in se stesso e per fissare sulla carta questi
momenti… divini. Ed io ne godo con lei.
Ne parlerò a suo tempo in Musica d’oggi dove devo fare recensioni.
(da una lettera del critico e storiografo Adelmo Damerici a Giovanni Tebaldini, 6 VII 1937)
313. Trilogia Sacra
La Divina Commedia nel suo significato fondamentale – religioso e morale – rappresenta in Dante l’uomo
peccatore che dalla miseria spirituale cerca di raggiungere la suprema felicità: Dio. E perciò, nella
considerazione dei tre stati di pena eterna (Inferno), di espiazione (Purgatorio), di gloria eterna (Paradiso), egli
si converte e si pente de’ suoi errori e vizi, si purifica ed emenda, si eleva alla Virtù, a Dio.
Il viaggio allegorico del divino Poeta vuole esprimere e rendere questi alti significati; ed è appunto sullo sfondo
dell’Ultimo Fine di ogni cosa – Dio – e della vita futura, che Egli contempla tutta la vita presente e l’universo.
Nell’epistola a Can Grande della Scala, l’Alighieri ha scritto: “Il fine del tutto (il Poema) e della parte (ciascuna
Cantica) è il rimuovere dallo stato di miseria quelli che vivono nella presente vita,
e condurli allo stato di felicità che consiste nel vedere e possedere il Sommo Bene: Dio; onde in esso Dio si
termina il Trattato (il Poema) in Lui che è benedetto nel secolo de’ secoli”.
Con la guida aurea e fondamentale di questi concetti, si è proceduto alla creazione del quadro musicale che qui si
viene esponendo ed illustrando.
Esso trae vita e consistenza da due distinti elementi: il canto gregoriano e la polifonia palestriniana.
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Del primo Dante conobbe indubbiamente le intime e profonde bellezze, poiché quale venne a noi tramandato, e
dai codici e dalla tradizione, risuonò al di Lui orecchio, si ripercosse nella sua anima tanto da ricordarlo, con
spirituale trasporto, in molti tratti del Purgatorio e del Paradiso.
La seconda trae dalle melodie gregoriane la sua essenza ideale, mentre nella stessa ideazione architettonica e
nella costruzione tecnica – per la molteplicità delle immagini ora plasticamente disegnate, tal altra appena
adombrate – si svolge – a nostro avviso – e si sviluppa in assoluta concordanza estetica, mirabile e suggestiva,
con gli stessi versi del divino Poeta.
È risaputo che, sebbene abbia vissuto in pieno secolo XVI, il grande Pierluigi non fu seguace dell’umanesimo e
della rinascenza; per lo contrario che egli appare quale ultimo e più grande degli spiriti eletti medievali che in
sintesi vigorosa, fra un orizzonte sconfinato, con genio poderoso, con anima fervida, con intelletto vivido e mano
possente, riuscì a creare un’Opera ciclica che quattro secoli di vita hanno sempre più ravvivato attraverso la
storia, e consacrato all’immortalità.
Il Palestrina non ha rivestito di note musicali alcun verso del Divino Poema se non in quanto la Divina
Commedia si riallaccia ai testi liturgici, questo è vero; né, dettando le proprie mirabili polifonie vocali, parve
ispirarsi direttamente alle visioni dantesche. Nondimeno l’opera sua , ricca, vasta e complessa (nei Mottetti
specialmente e negli Offertori in cui l’elemento liturgico si fonde grandiosamente con l’elemento lirico ed
umano) ne fornisce prove sicure atte a rintracciare la palese corrispondenza ideale che corre con le stesse sublimi
visioni del Divino Poeta. Tale elementi, che il Palestrina ha tratto dalla Sacra Scrittura e dalla Liturgia Cattolica
per esprimere con canto sovrano la preghiera e l’elevazione dell’animo credente in Dio, ed i terrori, le speranze e
le glorie della vita futura sono animati dal medesimo spirito, ed esprimono gli stessi sentimenti che il Divino
Poeta ha trasfusi nelle sue cantiche immortali.
Nell’accostare il canto gregoriano e la polifonia di Pierluigi ai versi immortali di Dante, intendesi pertanto di
illustrare con la musica l’idea inspiratrice ed animatrice – l’alma mater – della Divina Commedia, e l’idea
allegorica morale cristiana che guida e compenetra tutto il grandioso Poema.
Per tal modo sono stati raccolti i brani polifonici palestriniani in tre quadri sintetici, i quali corrispondono alle tre
cantiche, per commentare – sia pure rapidamente – i sensi profondamente cristiani che spirano entro all’Inferno,
al Purgatorio, al Paradiso. Dove il Poeta intreccia le sue visioni a canti e frasi della Liturgia, o immaginati su
brani scritturali, si è potuto seguirlo più dappresso, sempre però secondo le esigenze del quadro che si doveva
comporre. Dove invece il Palestrina non poteva offrire elementi atti a completare il quadro medesimo si è
creduto opportuno ricorrere – come si è detto – all’antico tesoro musicale della Chiesa cattolica, al canto
liturgico, chiamato canto gregoriano, mirabile per austera bellezza e vaghezza melodica, sorretto qua e là dal
suono dell’organo, lo strumento liturgico per eccellenza, più atto ad assecondare l’elevazione spirituale e ad
avvolgere in un’aureola vaga ed indefinita i mistici canti.
In tal modo la musica più volte secolare, la più bella e la più suggestiva, farà rifulgere – come ne è degno – il
Genio degli ignorati più antichi melodisti italiani, ed il Genio di Palestrina, accanto al Genio di Dante,
rievocando, come nessun altra, agli spiriti pensosi raccolti nella celebrazione religiosa del Centenario Dantesco,
le divine visioni che arrisero alla fantasia e commossero il cuore del massimo Poeta cristiano.
(da Giovanni Tebaldini, La Divina Commedia nel commento gregoriano e palestriniano, prefazione a “Trilogia Sacra”, Ed.
Simboli, Recanati, settembre 1921, pp. 3-4)
Il 18, 19, 21 giugno, a Jesi, sotto la direzione del maestro Tebaldini, si sono dati tre Concerti spirituali a
celebrazione del 6° centenario dantesco. Ciascun programma comprendeva una parte dedicata a illustrazioni
musicali di luoghi notevoli delle tre Cantiche della “Divina Commedia”.
Le tre audizioni hanno avuto un esito magnifico, ed il maestro Tebaldini è stato vivamente encomiato con i
valenti esecutori, tra i quali ricordiamo Kaschmann e la sua distinta figliola.
(da “Musica d’oggi”, a. III, n. 7, Milano, luglio 1921)
Le due esecuzioni della “Trilogia sacra” concepita dal maestro Tebaldini e da lui diretta hanno destato fremiti
nuovi di pura sensibilità.
Quando si ascolta Palestrina eseguito bene con un gran complesso vocale come quello di questi giorni e nel
magnifico tempio di S. Apollinare, si resta rapiti dinanzi a quel continuo ondeggiare ed inseguirsi di voci e canti
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così che forma un insieme luminosamente fantastico di cielo, in tutto somigliante alle concezioni di Dante nella
Divina Commedia. Ed il pubblico nella maggior parte nuovo ed impreparato a simile audizione applaudì
egualmente e con grande entusiasmo i brani più salienti della grande lirica come i più semplici dal grande
sentimento. Quindi insistenze di bis, e bissato l’ “Exaltabo te Domine” che chiude il commento della prima
cantica.
Pervasi di pura dolcezza i brani di canto gregoriano “Salve Regina” cantato da due signorine della Scarlatti su un
lieve sfondo di organo, e l’ “Ave Maria” eseguita dal soprano di bella voce Amalia Corsi, commossero
vivamente l’uditorio. Il crescendo della entusiastica ammirazione avvolse il pubblico per la bellezza di tutti gli
altri brani del Purgatorio e Paradiso. Per questa ultima parte il m.o Tebaldini aveva preparato interludi di organo
di grande risalto e l’organo pur accompagnava con imponente solennità il “Sanctus” e gli “Hosanna” con cui
chiudesi la Trilogia.
Al valentissimo m.o Tebaldini che superò vittoriosamente sotto molti aspetti difficoltà non pensate e seppe
imporsi con tenacia di volontà e superiorità di ingegno, a lui primo in Italia nel far conoscere le nostre pure
musiche, vadano tanti e tanti elogi incondizionati. Collaboratori suoi per il magnifico esito dei concerti
memorabili furono la maestra Emilia Gubitosi di Napoli, il m.o Padre Pacifico, Direttore della Schola Cantorum
di S. Salvatore in Lauro di Roma ed il nostro valente m.o Giuseppe Calamosca, Direttore di Cappella nella
Metropolitana, che eseguì la parte importante affidata all’organo con grande e lodevole abilità.
(da La trilogia sacra del Maestro Tebaldini, “Corriere di Romagna”, 21 settembre 1921)
[…] In occasione delle feste dantesche a Ravenna, nella restaurata Chiesa di S. Francesco, il maestro Giovanni
Tebaldini ha diretto molteplici cori palestriniani e gregoriani illustranti con la musica, l’idea animatrice ed
ispiratrice della Divina Commedia e l’idea allegorica morale cristiana che guida e compenetra il poema dantesco.
L’esecuzione era affidata ad un coro di ottanta voci formato da elementi della “Scarlatti” di Napoli, della
“Schola Cantorum” di S. Salvatore di Roma e della Cappella di Loreto. Siedeva all’organo il maestro
Calamosca.
(da “Musica d’oggi”, a. III, n. 10, ottobre 1921, p. 292)
[…] A compiere la cronaca delle commemorazioni centenarie di queste settimane si devono aggiungere due feste
musicali, una in Ravenna per il centenario dantesco e l’altra in Bologna per il domenicano. A Ravenna nei giorni
17 e 18 fu eseguita la Trilogia Sacra, con la quale il maestro Tebaldini volle comporre quasi un commento alle
tre cantiche della Divina Commedia con melodie gregoriane e con inni e motetti palestriniani. Tra le melodie
gregoriane, per esempio, la Salve Regina, cantata da un coro di signorine: l’Ave Maria, eseguita prima da un
soprano, poi ripresa da un coro femminile; l’inno Ave mundi spes, intonato da un baritono poi ripetuto dai tenori,
ecc. Tra i motetti alcuni rarissimi come il Peccantem me quotidie non mai eseguito, il Domine quis habitabit a
dodici voci divise in tre cori, l’O gloriosa et beata Trinitas, l’Exaltabo te Domine che fu bissato, ecc. Il
collegamento fra i diversi elementi, che poteva presentare molte difficoltà, fu curato con somma perizia
dall’insigne maestro che seppe dare al lavoro quell’unità e quell’espressione che ne formò una vera opera d’arte.
L’esecuzione fu ammirata per fusione, precisione, e colorito: fu ripetuta tre giorni con sempre crescente plauso:
benché molti lamentassero che la molteplicità delle feste e delle riunioni di quei giorni disperdesse
inopportunamente il pubblico degli ascoltatori. […]
(stralcio da “Sesto Centenario Dantesco – Trilogia Sacra”, “La Civiltà Cattolica”, vol 4, quad. 1712, 8 ottobre 1921, p.
174)
“Invece che con esposizioni di libri, il Comitato Cattolico Ravennate, oltreché con la restaurazione del tempio di
San Francesco, e con la lodata pubblicazione del Bollettino del VI Centenario, volle esaltare con musica il genio
dell’Alighieri, prima eseguendo il poema sinfonico del valoroso maestro Refice, poscia la Trilogia sacra di brani
polifonici palestriniani dell’erudito e sapiente maestro Tebaldini distribuiti in tre quadri sintetici a commento di
versi caratteristici delle tre Cantiche”.
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(da Rivista della Stampa – Alcuni opuscoli, conferenze, e commemorazioni del Secentenario dantesco, “La Civiltà
Cattolica”, vol. 3, quad. 1733, Roma, 26 agosto 1922, pp. 442-443)
[…] È risaputo che sebbene abbia vissuto in pieno secolo XVI, il grande PIERLUIGI DA PALESTRINA non fu
seguace dell’umanesimo e della rinascenza; per lo contrario che egli appare quale ultimo e più grande degli eletti
spiriti medioevali che in sintesi vigorosa, fra un orizzonte sconfinato, con genio poderoso, con anima fervida,
con intelletto vivido e mano possente, riuscì a creare un’opera ciclica che quattro secoli di vita hanno sempre più
ravvivato attraverso la storia, e consacrato all’immortalità.
Il Palestrina non ha rivestito di note musicali alcun verso del Divino Poema se non in quanto la Divina
Commedia si riallaccia ai testi liturgici, questo è vero: né dettando le proprie mirabili polifonie vocali parve egli
ispirarsi direttamente alle visioni dantesche. Nondimeno l’opera sua, ricca, vasta e complessa (nei Mottetti
specialmente e degli Offertorî in cui l’elemento liturgico si fonde grandiosamente con l’elemento lirico ed
umano) ne fornisce prove sicure atte a rintracciare la palese corrispondenza ideale che corre con le stesse sublimi
visioni del Divin Poeta. Tali elementi, che il Palestrina ha tratto dalla Sacra Scrittura e dalla liturgia cattolica per
esprimere con canto sovrano la preghiera e l’elevazione dell’anima credente in Dio, ed i terrori, le speranze e le
glorie della vita futura, sono animati dal medesimo spirito, ed esprimono gli stessi sentimenti che il Divin Poeta
ha trasfusi nelle sue cantiche immortali.
Nell’accostare il canto gregoriano e la polifonia di Pierluigi ai versi di Dante, intendesi pertanto di illustrare con
la musica l’idea inspiratrice ed animatrice – l’alma mater – della Divina Commedia, e l’idea allegorica morale
cristiana che guida e compenetra tutto il grandioso Poema.
(dal programma del Concerto, a cura dell’Associazione “Alessandro Scarlatti”, Napoli, 15 maggio 1924)
[…] Una delle più indovinate manifestazioni d’arte che arricchirono, in Ravenna, le Onoranze tributate a Dante
all’epoca del VI Centenario della morte del Poeta (1921), fu sicuramente l’esecuzione musicale della Trilogia
Sacra, nobile Poema sinfonico scritto dal Tebaldini su un tessuto di melodie gregoriane, mottetti ed inni
palestriniani, alto commento musicale della Cantica dantesca eseguita nell’austera e mistica penombra del
trecentesco tempio francescano contiguo al sepolcro del Divino Poeta. La suggestiva messa in scena
(chiamiamola così) di quell’interpretazione musicale del testo dantesco, era stata immaginata e realizzata, come
sapeva fare lui, dall’insigne artista marchigiano Adolfo De Carolis. […] (Enrico Liburdi)
(da La lunga giornata di un artista: Giovanni Tebaldini, Centro Stampa Piceno, Ascoli Piceno, 1978, p. 40)
(Su Trilogia Sacra vedi anche articolo di Francesco Balilla Pratella in “Antologia critica”)
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rappresentazione di anima e di corpo