IRENE STORNIOLO Δαίμονες INDICE 1. Introduzione: demonologia e δαίμονες: Il concetto di δαίμων Platone e il δαίμων socratico (greco) gli Stoici e Plutarco (greco) Apuleio (latino) Agostino (latino) Blake (inglese) gli Illuminati (storia) Arthur Schopenhauer: la natura "demoniaca" (filosofia) Demoni "sui generis": Callimaco e i Telchini (greco) il diavoletto di Maxwell e l'entropia (fisica) il demone della matematica: Perel'man (matematica) pag. 2 pag. 2 pag. 4 pag. 5 pag. 6 pag. 8 pag. 10 pag. 12 pag. 16 pag. 16 pag. 23 pag. 28 2. Spiritismo e satanismo: Dante Gabriel Rossetti e le sedute spiritiche (storia dell'arte) Chi è Lucifero? (religione) Padre Amorth e gli esorcismi (religione) Il pianeta "luciferino": Venere (scienze) Filostrato II: Apollonio di Tiana e la vampira (greco) lo spiritismo in Pirandello e Svevo (italiano) Edgar Allan Poe, Ligeia (inglese) pag. 9 pag. 32 pag. 33 pag. 35 pag. 40 pag. 44 pag. 46 3. Magia e alchimia: la Gnosi (religione) Hermes Trismegisto (religione-greco) il Corpus Hermeticum (greco) Asclepius (latino) Hitler e il nazismo magico (storia) pag. 48 pag. 53 pag. 55 pag. 58 pag. 60 4. La donna come demone: Fosca, la donna-vampiro (italiano) il mito di Salomè: Franz Von Stuck (storia dell'arte) Aubrey Beardsley (storia dell'arte) Gustav Klimt (storia dell'arte) Oscar Wilde, Salomè (inglese) J.K. Huysmans (italiano) Gustave Moreau (storia dell'arte) D'Annunzio e Lucrezia-Salomè (italiano) pag. 70 pag. 74 pag. 74 pag. 77 pag. 79 pag. 81 pag. 84 pag. 84 pag. 87 5. Il "caso" Dalì: "L'ultima cena" (storia dell'arte) la sezione aurea (matematica) il pentagramma e il teorema della corda (matematica) pag. 91 pag. 93 pag. 105 Bibliografia e sitografia: pag. 108 1 IRENE STORNIOLO Δαίμονες 1. INTRODUZIONE DEMONOLOGIA E δαίμονες IL CONCETTO DI δαίμων Di etimologia incerta, il termine δαίμων è forse legato al verbo δαίομαι, "spartire", "distribuire", e quindi significherebbe "chi assegna o distribuisce il destino"; Platone invece, nel Cratilo (398 b), lo fa derivare da δαήμων, "sapiente", ma l'etimologia è improbabile; la verità è che si tratta di un termine dal significato oscuro e spesso ambiguo. Già in Omero si nota una differenza nell'uso di questo vocabolo; esso infatti nell'Iliade designa al plurale (δαίμονες) l'insieme degli dei olimpici, oppure singole divinità come Afrodite; nell'Odissea, invece, individua talvolta una potenza oscura e malvagia che si impossessa dell'uomo. Più frequentemente e genericamente, esso esprime però un potere divino che, anche se in certi casi viene a coincidere con qualche specifica divinità, non può essere con quella confusa: δαίμων non è intercambiabile con ϑεός, "dio". Forse per la sua stessa genericità e nebulosità semantica, la nozione di δαίμων descrive una potenza anonima che suscita angoscia, invisibile e non rappresentabile plasticamente. La religione orfica, erede di tradizioni antichissime, probabilmente di origine mediorientale, considera il dèmone come l'essenza stessa dell'anima, imprigionata nel corpo per una colpa compiuta e da cui cerca di liberarsi; vedremo come anche Platone sia portavoce di una concezione dell'anima simile a questa (è il famoso concetto di σῶμα-σῆμα, "corpo-tomba", ovvero corpo come carcere dell'anima, espressa soprattutto nel Fedone). A partire da Esiodo i δαίμονες cominciano a configurarsi come potenze intermedie tra gli dei, gli eroi e i mortali, e tale concezione si mantiene pressoché invariata fino a Socrate e a Platone, dove viene però ulteriormente sviluppata: il δαίμων è anche il compagno scelto nell'Ade dall'uomo prima di cominciare la sua esistenza terrena e che, dopo la morte, Phanes, l'Eros orfico, nascente dall'Uovo cosmico guida l'anima sino al luogo in cui deve essere giudicata. Inoltre Socrate parla di un δαίμων o spirito-guida che lo assiste in ogni sua decisione (si veda ad esempio l'Apologia di Socrate platonica). Si discute da tempo sull'esatto significato di questo termine: secondo Paolo De Bernardi (Socrate, il demone e il risveglio, in «Sapienza», vol. 45, editrice Domenicana Italiana, Napoli 1992, pagg. 425-43) esso sembra essere metafora dell'autentica natura dell'anima umana, della sua ritrovata coscienza di sé, mentre per Gregory Vlastos (Socrate il filosofo dell'ironia complessa, Firenze, La Nuova Italia, 1998; ed.originale: Socrates: Ironist, and Moral Philosopher, 1991) il δαίμων ha la funzione di stimolare la ragione di Socrate a fare la scelta più opportuna; Giovanni Reale ritiene che il δαίμων esprima il sommo grado dell'ironia socratica anche nella dimensione religiosa (Socrate, Milano, Rizzoli, 2000). Tutto questo non solo non illumina la figura del dèmone socratico, ma rende, se possibile, ancor più oscura la materia; tanto più che Platone afferma chiaramente che si tratta di una presenza che si fa avvertire non già 2 IRENE STORNIOLO Δαίμονες per indurre Socrate a compiere certe azioni, ma solo per distoglierlo: «C'è dentro di me non so che spirito divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Meleto, scherzandoci sopra, scrisse nell'atto di accusa. Ed è come una voce che io ho dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sempre mi dissuade da qualcosa che sto per compiere, e non mi fa mai proposte» (Apologia di Socrate, 31 d). Per Platone il dèmone più importante è tuttavia Eros, che secondo il mito è figlio di Penìa (= Povertà) e di Pòros (= Espediente): esso infatti è quella forza soprannaturale che innesca nell'uomo il meccanismo dell'anàmnesi (= reminiscenza) e gli consente di elevarsi verso il mondo delle idee e verso l'idea che assomma in sé tutte le altre: quella del Bello, che è anche Bene (in sostanza è Dio). Innamorarsi (spiega Platone sia nel Simposio che nel Fedro) significa né più né meno riconoscere in qualche essere materiale la scintilla divina del Bello; questo porta con sé un risveglio della memoria, il ridestarsi di un sapere già presente nella nostra anima, ma che era stato dimenticato nel momento in cui l'anima era precipitata nella materia (cioè al momento della nascita) ed era perciò inconscio. Per Platone e i neoplatonici, conoscere significa ricordare; e l'unica forza che consenta di ricordare è appunto Eros, "un demone grande", come lo definisce la sacerdotessa Diotima (Simposio 202, d-e). E ribadisce che "tutto ciò che è demonico è intermedio fra Dio e mortale" ed "opera un completamento, in modo che il tutto sia ben collegato con sé medesimo", in questo allineandosi, come si diceva, alla visione del dèmone propria di Esiodo. La concezione platonica dell'eros, attraverso la mediazione del neoplatonismo, sarà alla base di larga parte della cultura occidentale, a partire dalla riscoperta di Platone da parte di Marsilio Ficino e Pico della Mirandola in epoca umanistica. Di essa rimane una potente traccia nel romanzo di Apuleio, le Metamorfosi, in particolare nella favola di Amore e Psiche che ne occupa la parte centrale. Sidney Harold Meteyard, Eros, 1900 Senòcrate, discepolo di Platone, ne approfondisce il pensiero sui dèmoni, che considera intermediari tra gli uomini e gli dèi, più potenti dei primi ma meno dei secondi; inoltre, a differenza di questi ultimi che sono sempre buoni, tra i dèmoni ve ne sono anche di cattivi: quando gli antichi miti narrano di dèi in lotta fra loro coinvolti in passioni umane, questi, per Senocrate, parlano di dèmoni, non di dèi. I dèmoni per Senocrate sono anime umane liberate dai corpi dopo la morte, e poiché permane in loro il conflitto tra bene e male, essi lo trasferiscono dalla Terra al mondo celeste. Nel Medioplatonismo la figura del dèmone viene inserita come terzo aspetto della gerarchia del divino dopo il Dio supremo e gli dèi secondari. Così Plutarco: «Platone, Pitagora, Senocrate, Crisippo, seguaci dei primitivi scrittori di cose sacre, affermano che i dèmoni sono dotati di forza sovrumana, anzi sorpassano di molto per estensione di potenza la nostra natura, ma non posseggono, per altro, l'elemento divino puro e incontaminato, bensì partecipe, a un tempo, di una duplice sorte, in quanto ad una natura spirituale e 3 IRENE STORNIOLO Δαίμονες sensazione corporea, onde accoglie piacere e travaglio; e tale elemento misto è appunto la sorgente del turbamento, maggiore in alcuni, minore in altri. Così è che anche tra i dèmoni, né più né meno che tra gli uomini, sorgono differenze nella gradazione del bene e del male» (Plutarco, De Iside et Osiride, 25). Anche gli Stoici sostengono l'esistenza dei dèmoni, che concepiscono come entità che vigilano sugli uomini condividendone i sentimenti. Così Diogene Laerzio: «Gli stoici dicono, poi, che esistono anche alcuni dèmoni che hanno simpatia per gli uomini, che vigilano sulle cose umane, e anche che esistono eroi, ossia le anime sopravvissute dei virtuosi» (Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi VII, 151). E' interessante approfondire la concezione del demone propria di Plutarco (I secolo d.C.) ed in particolare la sua polemica con gli stoici proprio a questo riguardo: come osserva Roberto Radice nella prefazione a Plutarco e lo stoicismo di Daniel Babut (Vita e Pensiero 2003), sia nel De genio Socratis che nel De defectu oraculorum, nel De Iside et Osiride e nel De facie in orbe lunae (tutti saggi facenti parte dei Moralia), Plutarco si pone in netta contrapposizione con la demonologia degli stoici, rifiutando la loro visione del mondo monistica e proponendone una dualistica, in cui i demoni hanno il ruolo di mediatori tra il mondo e la divinità, la quale però non è affatto immanente, come per gli stoici, ma si situa nella trascendenza. Statua di Plutarco a Delfi Osserva il Babut (pagg. 488-9): "rispetto agli stoici, per Plutarco la demonologia rappresenta nello stesso tempo di più e di meno [...] poiché i demoni sono gli intermediari indispensabili tra cielo e terra, mentre il sistema stoico potrebbe a rigori farne a meno"; tuttavia, dal suo punto di vista, "i demoni non risolvono nessun problema." Per Plutarco, insomma, i demoni non hanno alcun senso se sono "le potenze oscure e capricciose della credenza popolare o le divinità di secondo livello della concezione stoica"; al contrario, essi sono per lui "esseri misti, tutte le manifestazioni dei quali - benigne o maligne - si inscrivono nell'ordine generale di un universo diviso tra due potenze", in un'ottica quindi pienamente dualistica. In questa concezione plutarchea, come si diceva, il divino è totalmente trascendente, mentre spetta proprio ai demoni il compito di fungere da anello di congiunzione tra il divino e il resto del mondo. Inoltre per Plutarco i δαίμονες sono soggetti a mutazione ed inseriti in un ciclo di trasformazioni che, da anime mortali, li promuove infine al rango di divinità. In questo senso Plutarco è chiaramente anticipatore delle posizioni neoplatoniche e gnostiche. Marco Aurelio, pur essendo un esponente di spicco della Terza Stoà, ha una concezione del dèmone che si discosta alquanto da quella stoica: il δαίμων per lui è l'anima intellettiva, che bisogna evitare di turbare con impressioni di origine sensibile: «inoltre rimane la cura di non insozzare il dèmone che ha preso dimora nel nostro petto, la cura di non turbarlo con impressioni confuse e molteplici; di mantenerlo sereno e benigno, tributandogli rituale e onore come a un Dio; e non dire nulla che sia contrario al vero; non far nulla contro giustizia» (Marco Aurelio, A se stesso III, 16). 4 IRENE STORNIOLO Δαίμονες All'incirca nello stesso periodo di Marco Aurelio (II secolo d.C.), sulla scia del De genio Socratis di Plutarco, Apuleio pubblicò nel De deo Socratis la sua teoria sul δαίμων. Egli parte dal presupposto che gli dei della religione ufficiale sono troppo lontani dagli uomini per occuparsi veramente di loro; l'uomo perciò resta solo di fronte all'ignoto e non può portare davanti agli dei le sue preoccupazioni e le sue pene. A questo punto intervengono i δαίμονες, concepiti da lui in modo positivo, come forze benigne, modelli archetipici di quelli che saranno gli angeli nel Cristianesimo: messaggeri, portatori delle preghiere degli uomini, intermediari e ambasciatori tra il cielo e la terra. Ogni individuo ha il suo proprio δαίμων, termine che Apuleio traduce con la parola latina genius: una sorta di anticipazione dell'angelo custode. Nella concezione latina era proprio il genius a rendere genialis, e se una persona riusciva a coltivarlo durante la sua vita, lo stesso, dopo la morte, si evolveva in una forma più nobile chiamata Lare, divinità domestica, benefica e protettrice. In caso contrario, esso diventava una Larva o spirito malvagio. Apuleio Apuleio afferma che certe personalità eccezionali, come Socrate o Esculapio, raffinarono il proprio δαίμων al punto che esso finì per diventare una parte autonoma e visibile di loro stessi, acquistando dopo la loro morte i caratteri di una divinità locale o collettiva. Il neoplatonismo, del quale Apuleio è esponente precoce, si pone sulle sue stesse posizioni, ma non sempre ne deduce le stesse indicazioni di comportamento: Plotino ad esempio (III secolo d.C.) fa coincidere angeli e dèmoni, considerandoli entrambi portatori di rivelazioni, guide delle anime preesistenti nel viaggio verso l’incarnazione sulla terra, partecipi della creazione, ma ritiene il loro culto indegno del filosofo, il cui sguardo dev'essere rivolto a cose spirituali di gran lunga superiori ed il cui scopo fondamentale, la visione mistica, è in totale contraddizione con la volgarità e la grossolanità delle pratiche magiche atte ad evocare i δαίμονες (si veda ad esempio John M. Rist, Eros e Psyche, Vita e Pensiero, Milano 1995). Proprio alla concezione positiva del δαίμων espressa da Apuleio e dai neoplatonici si oppone fermamente Sant'Agostino, che, pur stimando sia Platone che Apuleio, ritiene che essi siano gravemente in errore nella concezione dei demoni. Come abbiamo visto, infatti, i demoni erano ritenuti da Platone e dai neoplatonici intermediari benevoli, ed in una scala di prestigio si trovano sotto Dio ma sopra gli uomini. Agostino, nel De civitate dei (VIII, 14 segg. e IX passim) parte proprio dalla confutazione di questa concezione per arrivare alla sua definizione dei demoni, decisamente negativa: è da questo momento in avanti che i dèmoni diventano demòni, potenze maligne dell'occulto con le quali è possibile, anche a parere di Agostino, mettersi in contatto, ma soltanto per ricavarne del male. Ecco i passi fondamentali in cui Agostino spiega il suo pensiero: 14.1. "Si dà, dicono i platonici, una tripartizione di tutti i viventi che hanno l'anima ragionevole, cioè in dèi, uomini e demoni. Gli dèi occupano la sfera più alta, gli uomini la più bassa, i demoni quella di mezzo. Infatti la sede degli dèi è nel cielo, degli uomini in terra, dei demoni nell'aria. Come hanno una differente dignità della sfera, così anche dell'essere. Perciò gli dèi sono superiori ai demoni e agli uomini, gli uomini sono posti sotto agli dèi e ai demoni tanto nel grado degli elementi come per differenza di perfezioni. Quindi i demoni sono al mezzo, e come sono da considerare inferiori agli dèi perché hanno dimora al di sotto di essi, così sono da considerare superiori agli 5 IRENE STORNIOLO Δαίμονες uomini perché hanno dimora al di sopra. Hanno infatti comune con gli dèi l'immortalità del corpo e con gli uomini le passioni dello spirito. Dunque non c'è da meravigliarsi, dicono, se godono dell'oscenità degli spettacoli e delle favole dei poeti, perché sono soggetti alle inclinazioni umane, mentre gli dèi ne sono ben lontani e immuni in tutti i sensi. Se ne conclude che Platone, riprovando e proibendo le favole poetiche, non privò del piacere degli spettacoli teatrali gli dèi, che sono tutti buoni ed eccelsi, ma i demoni." Ma Agostino corregge Platone, affermando che non è certo l'occupare un posto più alto che rende migliori. Infatti: 17.1. "Rimane dunque che i demoni, come pure gli uomini, sono soggetti alla passione perché sono viventi non felici ma infelici. 17.2. Per quale dissennatezza dunque, o piuttosto forsennatezza, dovremmo renderci schiavi mediante una religione ai demoni, quando mediante la vera religione siamo liberati dall'imperfezione in cui siamo loro simili? I demoni infatti sono mossi all'ira [...]: a noi invece la vera religione comanda di non essere dominati dall'ira, ma piuttosto di resisterle. Mentre i demoni sono blanditi dai doni, a noi la vera religione comanda di non favorire alcuno dietro accettazione di doni. Mentre i demoni sono allettati dagli onori, a noi la vera religione comanda di non lasciarci in alcuna maniera attirare da essi [...]. Benozzo Gozzoli, Agostino che legge San Paolo, 1463 (affresco della chiesa di Sant'Agostino a San Gimignano) Quale motivo c'è dunque, se non una insipienza ed errore miserevole, di renderti schiavo col culto a uno da cui desideri esser diverso nella condotta e di adorare con la religione uno che ti rifiuti d'imitare, quando l'essenza stessa della religione è imitare l'essere che adori?" I demoni secondo Agostino, dunque, devono essere presi per ciò che sono, cioè esseri malvagi che tramano contro l'uomo: 20. "[I demoni] sono spiriti smaniosi di fare il male, completamente alieni dalla giustizia, tronfi di superbia, lividi d'invidia, astuti nell'inganno. Abitano, è vero, nell'aria, ma solo perché, cacciati dalla sublimità del cielo più alto, sono stati condannati a causa di una caduta senza ritorno a questo, per così dire, carcere per loro conveniente. Non per il fatto, poi, che l'aria ha la sfera superiore alla terra e all'acqua essi sono superiori agli uomini in perfezione. Gli uomini anzi li superano di molto, non certo perché hanno un corpo terreno, ma in quanto hanno, scegliendo il vero Dio in aiuto, una coscienza religiosa. Essi però dominano come prigionieri e schiavi molti che non sono degni della partecipazione alla vera religione, e hanno convinto la maggior parte di costoro di esser dèi con fatti meravigliosi e false predizioni. Tuttavia non sono riusciti a persuadere di esser dèi alcuni individui che erano più attenti e perspicaci nell'intuire la loro immoralità; allora hanno dato ad intendere di essere intermediari e intercessori di favori fra gli dèi e gli uomini. Così alcuni individui ritennero di dover loro tributare per lo meno questo onore. Essi non credevano che fossero dèi, perché sapevano che sono malvagi e ritenevano che tutti gli dèi fossero buoni, ma non osarono ritenerli completamente indegni dell'onore divino, soprattutto per non contrariare i cittadini dai quali, come essi osservavano, per inveterata superstizione si offriva il servizio mediante tanti riti sacri e templi." 6 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Agostino non potrebbe esprimere nel più chiaro dei modi il suo disprezzo per queste entità intermedie, le quali, nella sua concezione, sono al di sotto dell'essere umano, nella misura in cui entrambi hanno in comune con Dio una qualità, ma quella che l'uomo possiede è di livello superiore: infatti l'incorporeità che i demoni posseggono è inferiore alla razionalità e alla moralità che possiede l'uomo. L'uomo è dunque più vicino a Dio di quanto lo siano i dèmoni, e da parte sua l'affidarsi ad essi è suprema stoltezza. Agostino tuttavia crede nell'esistenza di potenze intermedie benevole e positive, gli angeli, ma ne chiarisce bene le caratteristiche nel libro X del De civitate Dei, precisando che la loro natura originaria è esattamente la stessa dei dèmoni, perché nella sua visione rigorosamente monistica non esiste che il principio del Bene (Dio), e le differenze determinatesi in seguito sono dovute unicamente alla libera scelta di alcuni di essi di allontanarsi dal Bene. Ecco quanto afferma Agostino a proposito degli angeli: 7.1. "Dunque gli spiriti immortali e felici, stabiliti nelle sedi del cielo, che godono della partecipazione del loro Creatore, perché sono stabili della sua eternità, certi della sua verità, santi nel suo servizio, usano misericordia nell'amare noi mortali e infelici, affinché diveniamo immortali e felici. Giustamente quindi non vogliono che noi sacrifichiamo a loro, ma a colui del quale sanno di essere sacrificio assieme a noi. Assieme a loro infatti siamo un'unica città di Dio. [...] Una sua parte è esule in noi, l'altra ci viene in soccorso con loro. Benozzo Gozzoli, San Gerolamo appare a Sant'Agostino, 1463 (affresco della chiesa di Sant'Agostino a San Gimignano) Dalla città celeste, in cui la volontà di Dio è legge intelligibile e immutabile, da essa che in certo senso è la curia celeste, perché in essa si ha cura di noi, proviene a noi, somministrata mediante gli angeli santi, la Scrittura che dice: Chi sacrifica agli dèi, e non soltanto a Dio, sarà divelto. Grandi prodigi hanno comprovato questo passo della Scrittura, questa legge, simili comandamenti. È manifesto dunque a chi vogliono che noi sacrifichiamo gli spiriti eternamente felici, i quali desiderano per noi il medesimo bene che per se stessi." La differenza tra dèmoni (malvagi) ed angeli (buoni) è dunque facilmente comprensibile: i primi chiedono onore e venerazione per sé, i secondi invece per Dio. 7 IRENE STORNIOLO Δαίμονες La concezione agostiniana ha influenzato tutto il pensiero occidentale, e quello cristiano in particolare, per i secoli a venire. E' opportuno tuttavia precisare che l'idea e la percezione del δαίμων sembra comunque attestata in tutte le culture antiche, riuscendo a incorporarsi (centralmente o perifericamente) nelle grandi religioni tradizionali. Nell'Induismo, per esempio, è noto col nome di Atman, l'aspetto individuale di Brahman, o Sé universale. Uscendo da una prospettiva religiosa, nell'Occidente laico moderno il concetto di δαίμων è giunto attraverso due principali medium: quello scientifico-umanistico e quello artistico. Numerosissimi sono gli artisti che sono stati suggestionati dall'idea dei dèmoni, non solo intesi metaforicamente, come nella concezione della donna-demone o donna-vampiro tipica del Decadentismo (che cito solo di passaggio perché questa prospettiva esula dalle intenzioni della mia ricerca), ma anche considerati come presenze reali, positive o negative a seconda dei casi. William Blake, Il Grande Drago Rosso e la donna vestita di sole (1806-1809) Fra i casi più interessanti cito quello di William Blake, il grande pittore e poeta vissuto tra il XVIII e il XIX secolo, profondamente religioso, ma di una religiosità assolutamente distante da quella ufficiale: egli era infatti convinto che la religione praticata nel mondo fosse in realtà un culto demoniaco. Era convinto che i cristiani, anche a causa del loro rifiuto della gioia terrena, in realtà adorassero Satana; egli concepiva Satana come un errore e come uno stato di morte, per cui riteneva che il modo migliore per adorare Dio fosse quello di accogliere in sé tutta la gioia possibile. Si leggano ad esempio questi versi della poesia The Garden of Love: «And priests in black gowns were walking their rounds, And binding with briars my joys and desires» («e preti in vesti nere vi giravano attorno, e incatenavano con rovi le mie gioie e i miei desideri»). Egli quindi si opponeva ai sofismi teologici che giustificano il dolore, ammettono il male e trovano pretesti per lasciare l'ingiustizia impunita. Blake sostenne di aver avuto visioni per tutta la vita, e di esse lascia traccia evidente nei suoi dipinti. Inoltre Blake affermava di ricevere personalmente istruzioni ed incoraggiamento dagli Arcangeli per creare le sue opere. Di lui William Wordsworth ha scritto: «Non c'è dubbio che questo poveraccio fosse pazzo, ma c'è qualcosa nella sua pazzia che attira il mio interesse più dell'equilibrio di Lord Byron e Walter Scott». Un altro caso ben noto è quello di Edgar Allan Poe, i cui Racconti del terrore mettono in scena visioni inquietanti di non-morti o di strani ectoplasmi, lasciando spesso il lettore in dubbio sulla loro natura (reale o originata dalla fantasia malata del protagonista?), come nel caso di Ligeia, La maschera della morte rossa o Morella. Ma anche scrittori come Pirandello o Svevo hanno ceduto alle suggestioni del mondo demònico, dando spazio nei loro romanzi (Il fu Mattia Pascal e La coscienza di Zeno) a sedute spiritiche, sulle quali ironizzano cautamente, lasciando intendere che potrebbe esserci del vero. 8 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Se spesso gli artisti hanno fatto oggetto della propria arte i dèmoni, ben più inquietante è il caso di coloro che si sono personalmente dedicati ad attività occultistiche, divenendo talvolta adepti di sette sataniche o entrando a far parte di società segrete in vario modo connesse con l'evocazione dei dèmoni. E' il caso ad esempio di Dante Gabriel Rossetti, caposcuola dei Preraffaelliti, che, ossessionato dalla moglie suicidatasi per causa sua, Elizabeth Siddal, tentò ripetutamente di mettersi in contatto con lei attraverso sedute spiritiche e ne fece perfino disseppellire il cadavere, finendo per ridursi in condizioni di quasi totale dissesto psichico; e, in tempi più recenti, di Salvador Dalì, di cui si dice che sia stato l'ultimo "Ormus" (= Grande Maestro) dei Rosacroce, notoriamente dedito a pratiche magiche, soprattutto a causa dell'influsso (qualcuno dice "plagio") esercitato su di lui dalla moglie Gala. Di questa sua attività resta traccia evidente in alcuni suoi dipinti; uno di questi è, a mio parere, particolarmente interessante in tal senso, e ad esso ho dedicato un intero capitolo. Si tratta dell'Ultima Cena conservata alla National Gallery of Art di Washington, del 1955.9 Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, 1864-70 (la modella è la moglie Elizabeth Siddal, morta nel 1862) Il concetto di dèmone è stato immediatamente recepito anche dalla psicoanalisi, dove è stato di volta in volta identificato con i concetti di "anima", "animus", "ombra", "alter-ego", "doppio" o "sé". Una lettura junghiana lo definirebbe come la forma preconscia dell'individualità, intesa come "io" preconscio e "sé" preconscio insieme, 9 IRENE STORNIOLO Δαίμονες ossia come il nocciolo della personalità totale. J. Hillman, ne Il codice dell'anima, rielabora e amplifica la trattazione platonica esistente al riguardo denominandola "teoria della ghianda": la ghianda è l'immagine guida del nostro destino, che l'anima si sceglie prima di nascere affidandola non al nostro "io", ma a un "altro", il δαίμων appunto, che ha il compito di renderla operante, liberandola al momento opportuno e sfruttando allo scopo ogni possibile situazione, buona o cattiva che sia. "L’io non è padrone in casa sua", diceva sgomento Freud; "Je est un autre" (io è un altro), diceva esaltato Rimbaud, in accordo con Verlaine: concetto ripreso da Picasso, che lo riferiva a sé come il suo demone creativo, tormento ed estasi della sua vita (insieme alle donne). E' appena il caso di ricordare, poi, che in tempi recentissimi il tema è stato riportato potentemente in auge da Dan Brown: proprio Angeli e dèmoni è il titolo di un suo celebre best-seller del 2000, dal quale nel 2009 è stato ricavato anche un film di successo; in esso il concetto del δαίμων viene strettamente collegato con le pratiche occulte (e, ovviamente, inconoscibili) della setta degli Illuminati, in origine società segreta bavarese del XVIII secolo, che nella contemporaneità sembra adombrare diverse società massoniche (la cosiddetta "massoneria deviata"). Queste società segrete, secondo l'opinione di molti, sarebbero di una estrema pericolosità, non solo perché dedite a pratiche sataniche (le loro filiazioni sataniche più note sarebbero la Rosa Rossa e la Croce d'Oro, collegate ad alcuni delitti efferati rimasti inspiegati, ad esempio quelli del "mostro di Firenze", di Erba e di Cogne), ma anche e soprattutto perché riunirebbero fra i loro adepti le famiglie economicamente più potenti - e quindi politicamente più influenti - del mondo (in totale, si dice, diciassette: tredici "ufficiali" e quattro "affiliate", fra cui la famiglia Disney); la loro finalità sarebbe il controllo sulle menti della gente (mind control) attraverso svariati strumenti, principalmente i mass media, il cinema per bambini, la musica pop, la moda e la pubblicità, allo scopo di produrre una regressione intellettuale e morale del genere umano ed assicurarsi così il potere assoluto sul mondo, riducendo gli uomini ad una massa di imbecilli plagiati fin da piccoli (si veda Lady Gaga, i cui video sono disseminati di riferimenti fin troppo trasparenti agli Illuminati: è il caso ad esempio di quello di Paparazzi, che contiene fra l'altro un'evidente allusione alla Disney, attraverso il personaggio di Mickey Mouse). E', né più né meno, la realizzazione dello scenario distopico delineato già da Ray Bradbury in Fahrenheit 451 e da George Orwell in 1984. Lady Gaga compie un gesto ricorrente nei suoi video, allusivo alla setta degli Illuminati 10 IRENE STORNIOLO Δαίμονες In anni recenti anche la filosofia, sia pure "debolmente", è sembrata aprirsi all'accoglimento di questo mistero "psicospirituale" con un testo di Massimo Cacciari (il filosofo più noto come politico ed ex-sindaco di Venezia), L'angelo necessario, in cui però l'autore distingue nettamente l'angelo dal δαίμων: quest'ultimo chiama dall'idea alla forma, e per questo è perentorio; l'angelo chiama invece dalla forma all'idea, e per questo è leggiadro. Da buon filosofo, Cacciari vede l'oltre solo nell'angelo, mentre da un punto di vista simbolico-contemplativo sono entrambe figure-ponte tra il visibile e l'invisibile, due aspetti di una medesima realtà dello spirito in rapporto all’anima, sia pure polarizzati in senso opposto. Ma non esiste l'uno senza l'altro, fermo restando che è comunque il δαίμων che spinge all’individuazione (il compimento, secondo Jung, del proprio compito nel mondo). A questo proposito, osserva Baldo Lami, "sarebbe interessante e molto educativo per tutti noi poter rileggere la storia di Gesù come la storia archetipica del soggetto umano in grado di trascendere la sua finitudine grazie alla doppia interlocuzione con l'angelo-δαίμων. Potrebbe sembrare una cosa riservata solo a pochi "eletti", ma l'esperienza del δαίμων è veramente molto più comune di quel che non si creda": basti pensare che Eros, come si è detto, è considerato da Platone un δαίμων, e dell'amore prima o poi facciamo esperienza tutti, solo che, conclude Lami, "viene poi confinato e riferito soltanto a quello specifico vissuto, oltretutto molto episodico, dell'innamoramento, anziché considerarlo un esempio di trascendenza a variabili infinite nello spazio e nel tempo". 11 IRENE STORNIOLO Δαίμονες SCHOPENHAUER: LA NATURA "DEMONIACA" E' noto che la filosofia di Arthur Schopenhauer (1788-1860) prende le mosse dall'opposizione all'identificazione hegeliana tra realtà e razionalità. Schopenhauer riprende, pur con alcune differenze, la concezione kantiana secondo la quale i fenomeni esistono solo in quanto oggetti della percezione, dissentendo però da Kant sul fatto che la "cosa-in-sé" sia un limite irraggiungibile, posto oltre l'esperienza; egli la identifica invece con la volontà (Wille). La volontà non si identifica affatto con l'azione consapevole, come nell'accezione corrente del termine: tutta l'esperienza del sé, comprese le inconsapevoli funzioni fisiologiche, è volontà. La volontà è l'intima natura del proprio corpo, che è "rappresentazione", cioè apparenza fenomenica nel tempo e nello spazio. Schopenhauer concluse che l'essenza del mondo materiale, cioè della natura, è un'unica volontà universale. L'uomo può percepire soltanto i fenomeni nel mondo e non la "cosa in sé", ovvero come il mondo realmente è, a causa del velo di Maya, il velo dell'illusione che ottenebra le pupille dei mortali. Sollevato il velo di Maya dei sensi ingannatori, ciò che si rivela allo sguardo, dietro l'apparenza razionale del fenomeno, cioè del mondo come rappresentazione, è lo spettacolo di una volontà cieca e irrazionale, che non si propone altro scopo che la propria autoaffermazione. La volontà vuole se stessa: è una volontà di vivere cieca e astuta, che sfrutta ogni occasione per affermarsi, senza avere di mira uno scopo razionale. È questo per Schopenhauer il volto vero e demoniaco del mondo, il mondo come volontà. Ludwig Sigismund Ruhl, Ritratto di Schopenhauer, 1815 Per Schopenhauer il tragico dell'esistenza scaturisce dalla caratteristica della volontà di vita di spingere l'individuo al raggiungimento di mete successive senza potersi mai placare, poiché la volontà è infinita. Essa conduce pertanto l'individuo al dolore, alla sofferenza e alla morte e in un ciclo infinito di nascita, morte e rinascita. L'attività della volontà può essere portata alla cessazione mediante un atteggiamento ascetico, nel quale la ragione governa la volontà cercando di placare la lotta. Questo atteggiamento viene definito noluntas, 12 IRENE STORNIOLO Δαίμονες termine che sta ad indicare la condizione della volontà liberata, non più cieca volontà di vivere, ma sua catarsi definitiva, non più propriamente "volontà", ma "non volontà". Il tema della morte in Schopenhauer ci introduce nel più chiaro dei modi a questa visione della natura come concretizzazione del Wille. Questa visione oscilla tra due polarità opposte: la concezione della natura come produttrice di forme di bellezza e la denuncia della sua essenza demoniaca e cannibale. Egli parte dalla considerazi Schopenhauer rifiuta di collegare semplicisticamente noncuranza e terrore come se la prima fosse un modo di reagire e di rimuovere questo terrore sempre incombente, quindi come se vi fosse tra entrambi un nesso puramente psicologico; e nemmeno accetta una spiegazione razionale, come se cioè la noncuranza fosse il risultato di una riflessione e di un ragionamento implicito sull'ineluttabilità della morte. Si tratta piuttosto di scoprire le radici metafisiche di questi sentimenti: esse rimandano all'essenza del reale che è volontà, e nello stesso tempo al superamento del momento empirico-fenomenico. Nel terrore di fronte alla morte parla in realtà la voce stessa della natura, intesa come concretizzazione della volontà, che è essenzialmente volontà di vivere. E proprio questo sentimento attesta che «tutto il nostro essere in se stesso è già volontà di vita, a cui questa deve valere come il sommo bene, per quanto amareggiata, breve ed incerta essa sia» (Supplementi, II, XLI, p. 482). E poiché la volontà non è affatto distribuita e spezzettata fra gli individui, ma è presente nella sua totalità in ciascun individuo, allora si comprende che l'orrore della morte è orrore che il principio metafisico stesso manifesta di fronte all'idea della propria autodistruzione. Caspar David Friedrich, Il naufragio della Speranza, 1823-24 «Nel linguaggio della natura la morte significa annientamento» (ivi, p. 481) - ed è significativo che l'annientamento sia anzitutto annientamento del corpo che è «oggettivazione immediata della volontà». Ma anche la noncuranza è, alle sue radifici, noncuranza della natura: la morte - dice Schopenhauer - «dissipa l'illusione che separa la coscienza individuale da quella universale» (M 324), ricongiungendo la mia vita 13 IRENE STORNIOLO Δαίμονες alla totalità vivente del mondo. Ed allora possiamo veramente essere noncuranti della morte, e in un senso profondo, che può arrivare alla piena consapevolezza dell'intramontabilità del presente che è anche l'intramontabilità della vita. Il presente è allora paragonabile ad un «eterno mezzogiorno al quale non mai succede la sera, o come il vero sole che arde ininterrottamente benché sembri tuffarsi nel seno della notte» (Mondo, 1985, p. 324). Sullo sfondo di ciò vi certamente sempre il pensiero dell'effimero. Ma questo pensiero deve essere pensato attraverso l'idea di una ricongiunzione con la totalità, da cui l'individualità è stata scissa per entrare nel vortice di un mondo che è mera apparenza. In questa totalità la morte è, non meno della nascita, una vicenda interna della vita, essa appartiene alla vita immortale della natura (Mondo, 1985, § 54, p. 317). Un concetto non molto lontano da quello di mors immortalis di Lucrezio. Questa vitalità della natura ha nel ciclo corporeo il proprio modello elementare: in esso vi è acquisizione ed espulsione di materia e tra acquisizione ed espulsione generazione continua di cellule vitali. E così nello sviluppo della pianta la foglie e i fiori caduti a terra rappresenteranno il suo concime. La «fresca esistenza» di ciascuno è «pagata con la vecchiezza e la morte di un defunto, il quale è perito, ma che conteneva il germe indistruttibile dal quale è nato questo nuovo essere: essi sono un essere solo» (Supplementi, 1986, II, XLI, p. 521). one che l'atteggiamento quotidiano dell'uomo nei confronti della morte altalena tra noncuranza e terrore. Di questi stati affettivi Schopenhauer propone una notevole spiegazione psicologico-metafisica. La morte incombe su ciascun individuo come un evento che può intervenire in ogni istante in modo più o meno inatteso, più o meno fortuito. Eppure ciascuno, nella misura del possibile, vive lietamente «come se la morte non ci fosse» (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1985, p. 324). Non appena però ci si trova realmente faccia a faccia con la morte o anche soltanto ci si immagina di esserlo, a questa noncuranza subentra il terrore di essa: l'individuo cerca allora con ogni mezzo di fuggirla. Caratteristica primaria del Wille nella sua immediata concretizzazione naturale è la produzione spontanea di bellezza. «Ogni pezzetto di terra non coltivato ed inselvatichito, - scrive Schopenhauer - cioè abbandonato liberamente a se stesso, per quanto sia piccolo, purché la zampa dell'uomo ne resti lontana, si decora immediatamente nel modo più bello, si veste di piante, di fiori e di cespugli, il cui spontaneo essere, la cui grazia naturale e il vago raggruppamento dimostrano che non sono cresciuti sotto la sferza del grande egoista e che la natura ha potuto liberamente svilupparsi. Ogni pezzo abbandonato diviene immediatamente bello. Su ciò si fonda il principio del giardino inglese, il quale consiste nel nascondere il più possibile l'arte, in modo da fare apparire che qui la natura ha liberamente dominato. Perché solo allora essa è perfettamente bella, cioè mostra nella più grande chiarezza l'obbiettivazione della volontà alla vita ancor priva di conoscenza che qui si dispiega con la più grande ingenuità, perché le forme non sono determinate, come nel mondo animale, da scopi esteriori, ma solo immediatamente dal suolo, dal clima e da un misterioso terzo in grazia del quale tante piante, che sono sorte dallo stesso suolo e nello stesso clima, pure mostrano forme e caratteri così diversi» (Supplementi, 1986, II, XXXIII, p. 418). Ma vi è in ogni caso, al di sotto di questa spontanea manifestazione di bellezza, un aspetto demoniaco della natura, che ha le sue radici proprio nella volontà di vivere come principio metafisico. "Non divina, ma demoniaca merita di essere chiamata la natura" - cita Schopenhauer da Aristotele (Supplementi, I, 1986, p. 362) . E questo demonismo viene fissato da un'immagine terribile: quella di una natura in cui si riversa una fame insaziabile, della vita universale come un pasto immane, in cui tutti divorano tutti, «ogni individuo è preda e nutrimento dell'altro», cosicché infine «la volontà di vivere si nutre della sua propria sostanza e fa di sé in diverse forme il suo nutrimento» (Mondo, 1985, § 27, p. 185). 14 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli, 181923 Simeon Solomon, Dioniso, 1867 La natura, sotto la maschera splendida e sorridente di Dioniso, nasconde le orribili fattezze del Saturno di Goya (1820-1823), immagine perfetta del cannibalismo della Volontà. 15 IRENE STORNIOLO Δαίμονες DEMONI "SUI GENERIS" CALLIMACO E I TELCHINI Callimaco (Cirene, 305 a.C. - Alessandria d'Egitto, 240 a.C.) è il teorizzatore del nuovo modo di intendere la poesia che si affermò nel III secolo a.C.; com'è noto, nei suoi scritti egli diede ampio spazio alle dichiarazioni di poetica. Tra i suoi testi superstiti, quelli da cui ricaviamo i caratteri principali della sua poetica sono i seguenti: Primo prologo degli Àitia: contiene il racconto dell'investitura poetica di Callimaco da parte delle Muse, avvenuta in sogno; rimanda allusivamente al prologo della Teogonia di Esiodo, la cui poesia è implicitamente anteposta all'altisonante epos omerico. Secondo prologo degli Àitia: contiene la celebre invettiva contro i "Telchini", dèmoni maligni che adombrano i suoi detrattori. Essi gli rimproverano di non saper comporre grandi poemi: Callimaco si difende affermando il concetto che "l'arte si misura con l'arte, non con la pertica persiana". Finale dell'Inno II (ad Apollo): Apollo scaccia con una pedata il demone dell'invidia, Φθόνος (Phthònos), il quale sostiene che è bella solo la poesia "grande come il mare", contrapponendola ovviamente alle opere di Callimaco; Apollo, dio della poesia e quindi giudice inappellabile, replica che perfettamente pura è solo l'acqua che sgorga da una piccola sorgente, mentre l'Eufrate trascina con sé detriti di ogni sorta. Di queste parole di ricorderà Orazio (Satire 1, 4, 11) nel criticare il suo predecessore Lucilio, di cui dirà che lutulentus fluebat, "scorreva fangoso". Presunto ritratto di Callimaco Epigramma 43: esprime profonda avversione per il ποίημα τὸ κυκλικόν e per "l'amante che a tutti si dona" (la poesia volgare). Frammento 398 (epigramma): deride la "Lide" di Antìmaco di Colofone definendola "una grossa donna" (avversione verso le opere di grandi dimensioni). Frammento 456 (non identificato): dice testualmente: τὸ μέγα βιβλίον... ἴσον τῷ μεγάλῳ κακῷ (più o meno "grande libro uguale grande schifezza"). Giambo IV (contesa tra l'alloro e l'ulivo): adombra una contesa letteraria di cui ci sfuggono i termini esatti. Nella contesa fra le due piante, che rappresentano modi opposti di concepire la poesia (probabilmente l'epos 16 IRENE STORNIOLO Δαίμονες e la poesia didascalica), ma hanno entrambe una certa dignità, s'intromette un rovo che cerca di dire la sua, ma viene messo seccamente a tacere. Giambo XIII: Callimaco difende la sua Musa dagli attacchi dei detrattori, riallacciandosi alla tradizione di Ipponatte e Mimnermo. Epigramma 21: epitafio per il padre del poeta, in cui Callimaco afferma di avere vinto la βασκανίη (= maligna invidia). ancora per il padre morto. Callimaco afferma di avere composto carmi κρείσσονα Epigramma 525: βασκανίης ("più forti dell'invidia"). Ibis: era tutto (pare) una feroce invettiva contro un avversario ignoto (forse Apollonio Rodio), paragonato, per motivi che non conosciamo ma che si possono facilmente intuire, all'uccello egiziano dalle discutibili abitudini igieniche (lo si riteneva coprofago). Lo imitò Ovidio nell'omonimo componimento. "Contro Prassìfane": opuscolo perduto contro Prassìfane, discepolo di Aristotele, in difesa della propria poetica. Il testo di gran lunga più importante è il cosiddetto "proemio dei Telchini", ovvero il secondo proemio degli Àitia. Esso è ispirato da un'evidente intenzione polemica nei confronti dei suoi detrattori, definiti appunto "Telchini" per motivi che chiarirò in seguito, i quali avevano mal giudicato la prima edizione degli Àitia, in due libri; le accuse vertevano, pare, sulla disorganicità e sulla mancanza di unitarietà dell'opera, composta di elegie staccate e prive di un centro unificatore, eccezion fatta per il tenue fil rouge costituito dalla finzione delle domande poste da Callimaco alle Muse che gli erano apparse in sogno nel proemio "esiodeo": ogni domanda verteva sulle origini o sulle antiche cause di un qualche fenomeno contemporaneo, da cui il titolo di Àitia, "Origini" o "Cause"; a tali domande le Muse rispondevano soddisfacendo la curiosità del poeta. Si trattava dunque di poesia "eziologica" (letteralmente: "che ricerca le cause"). Callimaco risponde da par suo alla stroncatura di questi critici: non solo non fa ammenda delle "colpe" riconosciutegli, ma peggiora la situazione dando alla luce una seconda edizione dell'opera, in quattro libri, nella quale non solo mantiene intatte le caratteristiche della prima edizione, ma addirittura sopprime la finzione del botta-e-risposta con le Muse, eliminando così il già sottilissimo legame tra le varie elegie. E' a questo punto che aggiunge un secondo proemio, senza eliminare il primo: si tratta appunto del "proemio dei Telchini". Gustave Moreau, Esiodo e la Musa, 1891 Questo proemio, in aperta polemica con gli avversari del poeta, espone tutti i principi essenziali della poetica di Callimaco, che sarà fatta propria dall'intero alessandrinismo e più tardi, in Roma, dai poeti preneoterici (il "circolo di Lutazio Catulo", fiorito verso la fine del II secolo a.C.) e dai poëtae novi, chiamati 17 IRENE STORNIOLO Δαίμονες ironicamente da Cicerone neoteroi (comparativo assoluto: "abbastanza nuovi"), attivi in Roma nel I secolo a.C. e per noi rappresentati quasi solo da Catullo; non a caso questi principi sono noti attraverso la sintetica formula latina brevitas atque ars e la terminologia in uso per definirli è latina: levitas, brevitas, novitas, ars (o labor limae), doctrina, varietas. Più in dettaglio si tratta di questo: a. insofferenza per l'impegno ideologico e per la retorica; di conseguenza, ricerca del disimpegno e della leggerezza (levitas, λεπτότης) e concezione della poesia come "gioco" (lusus, παίγνιον); b. avversione per i componimenti "grossi" (cioè estesi: caso tipico il poema epico-ciclico) e ricerca della brevitas; c. disprezzo per il passato poetico della Grecia (dal quale restano esclusi Esiodo, qualche lirico come Ipponatte e, con riserva, Omero), in una ricerca esasperata della novitas; d. svalutazione del contenuto rispetto alla forma (poesia "pura" o "verbale") e produzione di componimenti ricercatissimi sul piano formale, al limite anche astrusi (ars, labor limae); e. ostentazione dell'erudizione, vero e proprio segno di riconoscimento fra intellettuali, teso ad escludere dalla fruizione dell'opera la massa degli zotici, ovvero di tutti coloro che non sono in possesso dei mezzi atti alla decifrazione dell'allusione colta (doctrina); f. dal punto di vista del contenuto, tendenza al realismo (sia pure, spesso, di maniera), al quotidiano, al sentimentalismo, oppure alla ricerca di temi mitologici peregrini o marginali, svuotati di ogni pregnanza ideologica (il mito diventa mitologia, semplice repertorio di favole), nella esasperata rincorsa di una varietas che renda piacevole e mai noiosa la lettura. Riporto di seguito il testo del proemio così come si trova nei papiri, con la traduzione di Giuseppe Rosati a fianco, sottolineando i punti in cui Callimaco espone la sua poetica ed indicando a fianco le lettere che corrispondono ai princìpi di poetica prima elencati: Un buffo giocattolo che rappresenta un Telchino (è evidente la sua natura anfibia) 18 IRENE STORNIOLO Δαίμονες .......] τήκ[ειν] ἧπαρ ἐπιστάμενον, ......].. ρ̣εην̣ [ὀλ]ιγόστιχος· ἀλλὰ καθέλκει ....πολὺ τὴν μακρὴν ὄμπνια Θεσμοφόρο[ς· τοῖν δὲ] δ̣υ̣οῖν Μίμνερμος ὅτι γλυκύς, αἱ κατὰ λεπτόν ......] ἡ μεγάλη δ' οὐκ ἐδίδαξε γυνή. .....]ο̣ν ἐπὶ Θρήϊκας ἀπ' Αἰγύπτοιο [πέτοιτο αἵματ]ι̣ Π̣υ̣γ̣μαίων ἡδο̣μ̣έν ̣ η [γ]έρα[νος, Μασσαγ̣έ̣τ̣αι καὶ μακρὸν ὀϊστεύοιεν ἐπ' ἄνδρα Μῆδον]· ἀ̣[ηδονίδες] δ̣' ὧδε μελιχρ[ό]τεραι. ἔλλετε Βασκανίης ὀλοὸν γένος· αὖθι δὲ τέχνῃ κρίνετε,]μὴ σχοίνῳ Περσίδι τὴν σοφίην· μηδ' ἀπ' ἐμεῦ διφᾶτε μέγα ψοφέουσαν ἀοιδήν τίκτεσθαι· βροντᾶν οὐκ ἐμόν, ἀλλὰ Διός.’ καὶ γὰρ ὅτε πρώτιστον ἐμοῖς ἐπὶ δέλτον ἔθηκα γούνασιν, Ἀ[πό]λλων εἶπεν ὅ μοι Λύκιος· ‘.......]...ἀοιδέ, τὸ μὲν θύος ὅττι πάχιστον θρέψαι, τὴ]ν̣ Μοῦσαν δ' ὠγαθὲ λεπταλέην· πρὸς δέ σε] καὶ τόδ' ἄνωγα, τὰ μὴ πατέουσιν ἅμαξαι τὰ στείβειν, ἑτέρων ἴχνια μὴ καθ' ὁμά δίφρον ἐλ]ᾶ̣ν μηδ' οἷμον ἀνὰ πλατύν, ἀλλὰ κελεύθους ἀτρίπτο]υ̣ς, εἰ καὶ στειν̣οτέρην ἐλάσεις.’ τῷ πιθόμη]ν· ἐνὶ τοῖς γὰρ ἀείδομεν οἳ λιγὺν ἦχον τέττιγος, θ]όρυβον δ' οὐκ ἐφίλησαν ὄνων. θηρὶ μὲν οὐατόεντι πανείκελον ὀγκήσαιτο ἄλλος, ἐγ]ὼ δ' εἴην οὑλ̣[α]χύς, ὁ πτερόεις, ἆ πάντως, ἵνα γῆρας ἵνα δρόσον ἣν μὲν ἀείδω πρώκιον ἐκ δίης ἠέρος εἶδαρ ἔδων, αὖθι τὸ̣ δ̣' ἐκδύοιμι, τό μοι βάρος ὅσσον ἔπεστι τριγλ̣ώ̣χιν̣ ὀλοῷ νῆσος ἐπ' Ἐγκελάδῳ. .......Μοῦσαι γὰρ ὅσους ἴδον ὄθματι παῖδας μὴ λοξῷ, πολιοὺς οὐκ ἀπέθεντο φίλους. non poche sono le decadi. Ora questo io dico ai Telchini: razza spinosa che sa soltanto consumarsi il fegato, certo sì io ero poeta di pochi versi, ma supera di molto la lunga *** la feconda Demetra (1). E delle due opere, che Mimnermo fu un dolce poeta, i carmi brevi, non la grande donna (2) ce l'hanno mostrato. Lungi verso la Tracia dall'Egitto voli del sangue dei Pigmei godendo la gru, e i Massàgeti (3) lungi lancino il dardo contro il Medo; ma più dolci così sono gli usignoli. Alla malora, funesta stirpe della Maldicenza, e in avvenire con l'arte giudicate, non con la pertica persiana, la mia poesia, né da me cercate che un canto molto risonante nasca; tuonare non spetta a me, ma a Zeus. Quando infatti la prima volta la tavoletta posi sulle mie ginocchia, così mi disse Apollo Licio: «La vittima, o diletto cantore, il più possibile grassa bisogna allevarla, ma la Musa, o mio caro, sottile. Inoltre anche questo voglio consigliarti: le vie che non battono i carri devi calcare, né sulle stesse orme di altri spingere il cocchio né per largo cammino, ma per sentieri non calcati, anche se per una via più angusta dovrai guidarlo». A lui porsi ascolto: ché fra quelli cantiamo che l'armonioso canto della cicala amano, non il raglio degli asini. Al modo stesso dell'orecchiuto animale levi il suo raglio un altro, io sia invece l'esile, l'alata (4), ah sì in tutto, perché la vecchiaia perché la rugiada: questa (5) io canti sorbendola, mattutino alimento, dal divino etere, di quella (6) poi mi spogli, che con tanto peso mi sovrasta come la tricuspide isola sullo sventurato Encelado (7). Ma non mi curo: quanti infatti da fanciulli le Muse guardarono con occhio benigno, da vecchi, a lor cari, non li abbandonano. b. b. b. b. b. d. d., b. a. a. a. a., b. c.,e.,f. c.,e.,f. c.,e.,f. b., d. b., d. b., d. b., d. a. a. (1) Probabile allusione alla Demetra di Filita di Cos, poeta elegiaco di poco precedente rispetto a Callimaco e molto stimato dagli Alessandrini; la lacuna conteneva il nome di un'opera non apprezzata da Callimaco, forse la Lide di Antìmaco; (2) forse la Smirneide (o la Nannò) di Mimnermo, opere comunque perdute; (3) la gru e i Massàgeti designano metaforicamente la forma "lunga" della poesia epico-ciclica; (4) la cicala, ovviamente; (5) la rugiada; (6) la vecchiaia; (7) Encèlado era un gigante che, secondo il mito, stava disteso sotto l'Etna. Ma chi erano esattamente i Telchini? La questione ha due aspetti ben distinti: trattandosi infatti di una metafora, ovvero di un tropo, al significato letterale si sovrappone un significato figurato: da una parte occorre perciò comprendere chi siano i Telchini come creature mitiche (significato letterale), dall'altra a chi alluda metaforicamente Callimaco (significato figurato). Stranamente, è più facile dare una risposta a questa seconda domanda, dal momento che un papiro noto come "Scolio fiorentino" ce ne riporta l'elenco. I nemici di Callimaco adombrati come "Telchini" risultano essere i seguenti: 1. I due Dionisii (?); 2. Asclepiade di Samo; 3. Posidippo di Pella; 19 IRENE STORNIOLO Δαίμονες 4. Prassìfane di Mitilene. L'identità dei "due Dionisii" non è nota; ovvia la presenza dell'aristotelico Prassìfane, con cui sappiamo che Callimaco era in polemica; ma abbiamo una doppia sorpresa: la presenza nella lista di Asclepiade e Posidippo, epigrammatisti, che a noi sembrano condividere pienamente i princìpi di poetica di Callimaco, e soprattutto l'assenza di Apollonio Rodio, l'allievo "degenere" di Callimaco. Eppure è lui il primo al quale avremmo pensato, sia perché i Telchini sono originari di Rodi, sia perché sappiamo che Apollonio era entrato in aspro conflitto con il maestro dopo che gli era stata attribuita l'ambìta carica di epistàtes della Biblioteca di Alessandria, carica che ben più sensatamente avrebbe dovuto essere attribuita a Callimaco. Proprio Apollonio, pare, costituiva il bersaglio dell'Ibis. Ma non è questo che importa dal punto di vista della mia ricerca: di gran lunga più interessante è capire chi erano i Telchini secondo il mito. Un Telchino nella fantasia di un cartoonist giapponese In genere la loro figura viene ricostruita così: i Telchini erano dèmoni originari dell’isola di Rodi, protettori dell’arte siderurgica e molto gelosi della loro arte, terribilmente invidiosi di chi era più bravo di loro e capaci di fare del male con il potere dello sguardo. Essi erano messi in rapporto con il dio del mare Posidone, che essi avevano allevato, così come i Cureti (con i quali hanno molti aspetti in comune) avevano allevato Zeus. Una evidente primordialità caratterizza i Telchini, che risultano anfibi, con tratti marini e terrestri, e ambivalenti. Oltre che anfibi erano anche polimorfi, avendo la facoltà di cambiare forma. L'ambivalenza si esprime nel fatto che, pur avendo una potenza malefica nello sguardo (il "malocchio", appunto), erano anche inventori e artisti; e potevano far cadere la pioggia, sia benefica sia distruttiva. I Telchini erano diciassette in tutto: Aktaios (Actaeus), Argyron, Atabyrius, Chalcon, Chryson, Hormenius, Lykos (Lycus ou Lyktos, l'eroe eponimo della Licia), Megalesius, Mylas, Nicon, Simon, Zenob, Skelmis, Damnameneus, Damon (Demonax), Megalesios, Ormenos. Ma ancor più interessante e insolito è ciò che trovo nel libro di un autore albanese, Aristidh Kola, intitolato Gjuha e perëndive: egli infatti fa notare come i Telchini facciano parte della mitologia albanese (!). 20 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Vediamo come e perché, attraverso le parole di un sito internet dedicato a questo insolito argomento. "I Telchini (in albanese Telhinë) sono demoni che vivono sotto la superficie terrestre, ma anche nelle profondità del mare e sulla terraferma. A causa di questa loro molteplice dislocazione, li consideriamo come esseri anfibi che hanno forme strane e illimitate possibilità di trasformazione. Nell’isola di Rodi, che è considerata la loro patria, li chiamavano maghi. Erano proprio loro [i Telchini] che, secondo le leggende, fecero sprofondare sul fondo del mare l’isola di Rodi, facendola poi riemergere in superficie molto più tardi delle altre isole. Il mito dei Telchini è collegato con quello del fuoco. Gli studiosi li considerano una personificazione delle forze vulcaniche marine; nell'antichità erano indicati come la causa principale dei terremoti nelle terre isolane. [...] Erano considerati maestri nella lavorazione dei metalli." A questo punto l'autore avanza un'ipotesi etimologica che fa risalire il nome "Telchini" alla lingua albanese: "Telchino è un nome la cui prima parte deriva dal verbo albanese del (uscire), e la cui seconda dall’altro verbo albanese hin (entrare). In questa maniera un Telchin (Telhin) è colui che entra ed esce (dall’acqua), cioè un essere anfibio; oppure, secondo un’interpretazione ugualmente valida, una figura mitologica in grado di causare lo sprofondamento negli abissi di un’isola oppure il suo riemergere. La parola poi è stata trasformata da delhin (telchin) in telhin." Ma non è finita: c'è un'altra ipotesi: "P. Karolide, nella sua introduzione dell’opera “La storia del popolo greco” di K. Papariguli (prima parte, p.96), collega la parola Telhi alla parola armena del (medicina)." Un'ulteriore curiosità è poi costituita dall'affinità che, secondo l'autore, esiste tra delfino e Telchino: "la parola delfino, in albanese delfin, potrebbe aver avuto origina da del (esce) e fus (entra), rispecchiando il comportamento del delfino che [...] entra ed esce (dall’acqua)." Bassorilievo raffigurante Anfitrite, Posidone e creature marine Altre ipotesi etimologiche vengono avanzate da Robert Graves nel suo libro “La mitologia greca”, a pagina 215: "Telchin (Telhin): i grammatici greci riconducevano questa parola al termine ϕέλγειν (fèlghein), che significa attrarre, stregare. Ma visto che la donna, il cane e il pesce rappresentavano motivi ricorrenti nei dipinti della Scilla Tirrena, così come in quelli di Creta, oppure anche nelle figure delle polene delle navi Tirrene, questa parola può essere intesa come variante della parola “Tirin”, oppure “Tirsin”. Sembra che i Telchi fossero divinità adorate da un antico popolo della Grecia, di Creta, della Lidia e delle varie isole del mar Egeo, nelle quali vigeva un regime matriarcale, e che gli aggressori greci, organizzati viceversa in uno stato patriarcale, li avessero costretti ad emigrare verso nord. L’origine di questo popolo sembra di essere quindi riconducibile 21 IRENE STORNIOLO Δαίμονες all’Africa Orientale." L'interpretazione di Graves viene giudicata assurda dall'autore dell'articolo. Personalmente non saprei per quale di queste ipotesi propendere: mi pare che l'unico dato su cui tutti concordano sia quello della definizione dei Telchini (qualunque sia la loro origine e l'etimologia del loro nome) come dèmoni maligni, legati sia al mare che alla terra, la cui cattiveria si manifesta soprattutto attraverso lo sguardo. Quest'ultimo dettaglio è il più interessante: nella cultura greca è ben raro incontrare il "malocchio", cioè il potere di attirare il male contro una persona odiata usando lo sguardo. E' un concetto molto più tipico della cultura latina, notoriamente superstiziosa (si veda ad esempio Catullo, carme 5): e proprio al potere dello sguardo è etimologicamente collegato il verbo latino invidere (letteralmente "guardare contro"). L'invidia dunque, tanto per i greci quanto per i latini, è una forma di odio e di cattiveria molto pericolosa, perché ha la capacità di danneggiare qualcuno attirando la sfortuna contro di lui, e lo strumento attraverso il quale viene attirata la sfortuna è lo sguardo, da cui etimologicamente "mal-occhio". La metafora è chiara: gli avversari di Callimaco, essendo fabbri, non sono in grado di lavorare i metalli preziosi e compensano la scarsa qualità con la grande quantità (i molti versi che compongono, che però sono vile ferraglia). L'"orefice" Callimaco invece crea gioielli preziosi e raffinati, necessariamente di piccole dimensioni, perché l'oro è un metallo raro e non si trova in abbondanza in natura. I "Telchini" sono malvagi e calunniatori come i loro progenitori mitici e come Φθόνος, il dèmone dell'invidia, che compare nel finale dell'Inno II ad Apollo, sostiene tesi analoghe a quelle dei Telchini e viene allontanato con una pedata dal dio. I "Telchini" quindi, non potendo essi stessi raggiungere le vette della poesia, si comportano come tutti gli invidiosi: ovvero si sforzano di danneggire chi è migliore di loro, nel tentativo di sminuire la sua fortuna e il suo successo e di ridurlo al loro infimo livello. La loro azione non va mai sottovalutata: nell'invidia infatti c'è la volontà del male e l'invidioso fa il male intenzionalmente, godendo del dolore causato ad altri; proprio per questo è un individuo spregevole, ben degno di essere classificato come un dèmone. 22 IRENE STORNIOLO Δαίμονες IL DIAVOLETTO DI MAXWELL E L'ENTROPIA «Se concepiamo un essere con una vista così acuta da poter seguire ogni molecola nel suo movimento, pur avendo le medesime nostre limitazioni per quanto riguarda altri attributi, questi potrebbe fare ciò che a noi oggi è impossibile» (James Clerk Maxwell) Il diavoletto di Maxwell, detto anche demone di Maxwell, è una minuscola creatura immaginaria che può controllare una botola in un gas per separare gli atomi caldi da quelli freddi. Maxwell propose questo esperimento intellettuale circa 150 anni fa come una sorta di sfida, per verificare se il secondo principio della termidinamica sia veramente un principio, e come tale inviolabile. L'esperimento infatti sembrava offrire un modo piuttosto semplice di violarlo, producendo una variazione di temperatura tra due corpi senza alcuna spesa di energia e riducendo così l'entropia1 in un sistema isolato2. Esistono molte formulazioni equivalenti del secondo principio della termodinamica; quelle storicamente più importanti sono le seguenti: 1) È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo più freddo a uno più caldo (formulazione di Clausius). 2) È impossibile realizzare una trasformazione ciclica il cui unico risultato sia la trasformazione in lavoro di tutto il calore assorbito da una sorgente omogenea (formulazione di Kelvin-Planck). 3) Non è possibile - nemmeno in linea di principio - realizzare una macchina termica il cui rendimento sia pari al 100%. 4) In un sistema isolato l'entropia è una funzione non decrescente nel tempo. Nella fisica moderna la formulazione più ampiamente usata è quest'ultima. (1) L'entropia è una grandezza che viene interpretata come una misura del caos in un sistema fisico o più in generale nell'universo; descrive il fenomeno per il quale le trasformazioni fisiche avvengono invariabilmente in una direzione sola, ovvero quella verso il maggior disordine. (2) Un sistema si dice isolato se non permette un flusso né di energia né di massa con l'ambiente esterno. 23 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Un passo essenziale per arrivare alla formulazione del secondo principio della termodinamica fu il teorema di Carnot. Esso afferma che non è possibile realizzare una macchina termica operante tra due sorgenti che abbia un rendimento maggiore di quello della macchina di Carnot operante tra le stesse sorgenti. L'efficienza termica (rendimento) del motore è la percentuale di energia che viene trasformata in lavoro durante una trasformazione di energia termica in energia meccanica. L'efficienza termica è definita come: dove: • Lout è il lavoro in uscita dal sistema (lavoro prodotto), • Qin è il calore assorbito dal sistema (calore richiesto). Carnot dimostrò che la massima efficienza possibile di un qualsiasi motore ha un limite definito da η: dove: • ΔL è il lavoro fornito dal sistema (energia esistente nel sistema sotto forma di lavoro), • ΔQ1 è il calore in ingresso nel sistema (energia termica entrante nel sistema), • T2 è la temperatura assoluta del serbatoio più freddo, e • T1 è la temperatura del serbatoio più caldo. Il teorema di Carnot impone quindi una limitazione essenziale nella resa di un motore termico ciclico: il motore può trasformare solo una parte del calore in energia meccanica e il rendimento non è mai del 100%. Naturalmente nulla va perduto: lo vieta il primo principio della termodinamica, detto della conservazione di energia, il quale afferma che la quantità totale di energia di un sistema isolato è costante, cioè che il suo valore si mantiene immutato nel tempo. Tuttavia una parte dell'energia assume la forma di calore degradato, che si disperde nell'atmosfera e non può più essere riutilizzato. In sintesi: nessuna trasformazione di energia da una forma in un’altra presenta un rendimento del 100%; una certa quantità va sempre perduta in una forma inutilizzabile, rappresentata dal calore che viene disperso nell’atmosfera. L'energia complessiva di un sistema, quindi, per il primo principio della termodinamica, si conserva indefinitamente, ma si trasforma da energia nobile a energia termica sempre più degradata, fino a non poter più essere utilizzata per ottenere lavoro. La misura della non disponibilità di un sistema a compiere lavoro si chiama entropia; essa può essere interpretata come una misura del disordine: quanto maggiore è l'entropia di un sistema, tanto più grande è il suo disordine. In definitiva, nel caso di sistemi isolati, chiamata S l'entropia, B il sistema nello stato finale della trasformazione e A il sistema nello stato iniziale, si ottiene: per qualunque trasformazione termodinamica nel sistema. Quest'ultima espressione è precisamente l'espressione del secondo principio in termini di entropia: nei sistemi isolati l'entropia è una funzione non decrescente, ovvero può solo aumentare o rimanere inalterata. Questo fatto viene talvolta indicato in meccanica statistica come morte termodinamica dei sistemi isolati: infatti, per tempi lunghi, l'entropia tende a raggiungere un valore massimo, che corrisponde a una temperatura uniforme ovunque nel sistema. In questo caso, il sistema non è più in grado di compiere alcun lavoro. 24 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Le implicazioni del secondo principio sono di importanza cruciale per comprendere le sorti dell'universo, in quanto, considerando l'universo come un sistema chiuso1, si ha che l'entropia dell'universo aumenta nel tempo, mentre l'energia disponibile diminuisce. Questo conduce inevitabilmente al caos e al disordine, ed alla fine alla morte. Un'immagine della "morte termodinamica" dell'universo Alla fine di tutte le trasformazioni energetiche possibili, il calore si distribuirà in modo uniforme, non consentendo il funzionamento di alcuna macchina, e non esisterà nemmeno la vita. This is the way the world ends This is the way the world ends This is the way the world ends Not with a bang but a whimper Così finisce il mondo Così finisce il mondo Così finisce il mondo Non con fragore ma con un gemito scrive il poeta e drammaturgo statunitense naturalizzato inglese Thomas Stearns Eliot (1888-1965) nella poesia The Hollow Men ("Gli uomini vuoti") del 1925; i versi fanno riferimento alla teoria del Big Bang, lo scoppio fragoroso da cui avrebbe avuto origine l'universo, ed ipotizzano che tutto si concluda con il gemito silenzioso prodotto dal massimo di entropia irreversibile. (1) Un sistema si dice chiuso se consente un flusso di energia ma non di massa con l'ambiente esterno, attraverso il suo confine (tramite calore e/o lavoro e/o altra forma di energia); ne è un esempio una bombola tenuta chiusa da una valvola, che può scaldarsi o raffreddarsi ma non perde massa. Ma torniamo al diavoletto. La sfida lanciata da Maxwell era basata sul fatto che il secondo principio, a differenza del primo, ha carattere statistico. 25 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Se si descrive un gas (o in generale un corpo macroscopico) come un insieme di particelle, si può reinterpretare lo stato di equilibrio termodinamico di un sistema chiuso come quello più probabile, e quindi quello più di frequente realizzato dalle particelle, quello al quale le particelle tendono. Nulla però vieta, in linea di principio, l'esistenza di fluttuazioni termodinamiche che possono portare il sistema in uno stato diverso da quello di equilibrio: esse sono escluse solo sulla base della loro improbabilità, non per ragioni fisiche codificate dalle leggi della meccanica. E dunque nulla vieta che il diavoletto possa agire nel rispetto di tali leggi. Può farcela? In apparenza sì, e in modo assai semplice. Si immaginino infatti due contenitori A e B, riempiti con un gas identico e alle stesse temperature, posti uno a fianco dell'altro, separati solamente da una piccola botola che ne permette la comunicazione. Il piccolo diavoletto sta a guardia della botola, mantenendola chiusa e osservando le molecole nei due diversi contenitori. Quando una molecola più veloce delle altre si dirige verso la botola, il diavoletto la apre e lascia che la molecola passi dal contenitore A al contenitore B. La velocità media delle molecole in B quindi è aumentata, mentre quella delle molecole in A è diminuita. Ora, all'aumento della velocità media delle molecole corrisponde un aumento della temperatura: la temperatura in A è infatti diminuita, mentre la temperatura in B è aumentata, e questo senza dispendio di energia: ed ecco la smentita del secondo principio della termodinamica. Semplice, no? Peccato che, quando dalla teoria si passa alla pratica, le cose cambino completamente aspetto. Fin dai tempi di Maxwell sono state proposte numerose versioni del diavoletto termodinamico, la più semplice delle quali prevede di produrre una differenza di pressione consentendo a tutte le molecole, indipendentemente dalla loro velocità, di passare da B ad A, ma impedendone il passaggio nel verso opposto. Dopo un breve intervallo di tempo, la maggior parte delle molecole si sarà concentrata in A, mentre 26 IRENE STORNIOLO Δαίμονες in B si produrrà un vuoto parziale. Ad un aumento di pressione corrisponde un aumento di temperatura, ed ecco che il diavoletto avrebbe ottenuto il suo scopo. Questo diavoletto appare molto più verosimile della creatura originale di Maxwell, dato che non è necessario che sia in grado di vedere e di pensare. Non vi è motivo immediatamente evidente che impedisca di realizzarlo, ad esempio con una valvola a flusso unidirezionale per le molecole, utilizzando dispositivi inanimati, come un minuscolo battente a molla. Come il diavoletto di Maxwell, questo dispositivo a pressione potrebbe costituire una sorgente illimitata di energia per molte macchine. Non appena si scende nel concreto, però, cercando di produrre un modello reale del diavoletto, ci si scontra con una serie di problemi che rendono evidente la natura fondamentale del secondo principio, che quindi non è violabile con trucchetti di questo genere. Uno di questi problemi è legato al fatto che è necessario individuare le particelle (determinare ad esempio se provengono da un lato o dall'altro) tramite qualche meccanismo, che a sua volta richiede energia (ad esempio l'invio di un fotone) e che è necessario implementare una struttura decisionale che consenta al diavoletto di agire in modo diverso a seconda del verso di provenienza della molecola: il diavoletto va quindi modellizzato come un computer, che necessita a sua volta di energia per poter funzionare. Inoltre il demone, così come è stato concepito da Maxwell, dovrebbe aprire e chiudere la botola ad istanti ben precisi; per fare ciò egli dovrebbe essere in grado di conoscere posizione e velocità di ogni atomo in ogni momento, in evidente contrasto con il principio di indeterminazione di Heisenberg, secondo il quale a livello subatomico la velocità e la posizione di una particella in movimento sono sempre del tutto indeterminate, cioè rimangono sempre indefinite: quanto maggiore è l'accuratezza nella misurazione della posizione di una particella subatomica, tanto minore è la precisione inerente alla misurazione della velocità e viceversa. Il diavoletto di Maxwell, dunque, non sembra avere alcuna chance. 27 IRENE STORNIOLO Δαίμονες IL DEMONE DELLA MATEMATICA: PEREL'MAN "Il demone della matematica è un mostro esigente, totalitario, capace di consumare": così esordisce un articolo di Massimo Bencivenga dedicato a Grigorij Jakovlevič Perel'man, uno dei massimi matematici contemporanei ed una delle personalità più schive e lontane dalla popolarità che sia dato immaginare. La sua figura è legata alla "congettura di Poincaré", che recita: Ogni 3-varietà semplicemente connessa chiusa (ossia compatta e senza bordi) è omeomorfa a una sfera tridimensionale. "Qualsiasi cosa significhi," commenta ancora Bencivenga "tale problema matematico è stato inserito, intorno al 2000, in una ristretta lista, detta «i misteri del terzo millennio», di problemi matematici da risolvere promettendo una ricompensa di un milione di dollari a chiunque ne avesse risolto almeno uno. Sembrava improbabile che qualcuno avrebbe bussato alla porta del Clay Mathematics Institute di Cambridge, Massachusetts, per incassare il premio, o perlomeno non dopo appena sei anni, ma più verosimilmente il problema è stato risolto nel 2004 da un controverso matematico russo, un ragazzo che ha sempre respirato equazioni e problemi. Un uomo con la testa in un’altra dimensione, un uomo come Talete che cadde in un pozzo perché perso nei suoi pensieri o come Cantor che impazzì intorno ai concetti di infinito e infinitesimo o come Godel e Goldbach o Nash e De Giorgi". Quest'uomo è Perel'man, che per questo si è visto assegnare anche la prestigiosa Medaglia Field, il Nobel dei matematici, nel 2006. Grigorij Jakovlevič Perel'man La dimostrazione della congettura ha svelato anche la struttura del Paradiso dantesco, classificandola come ipersfera. E se questo è molto poetico ma decisamente poco spendibile ai fini pratici, esistono anche applicazioni più concrete di questa scoperta. "In futuro" spiega Bencivenga "si potrebbero costruire modelli più realistici dell´universo, per fare soltanto un esempio. E in un futuro molto lontano, combinando la soluzione di Poincaré con quella della Teoria delle stringhe, che unisce la teoria gravitazionale di Einstein con la matematica quantistica, si potrebbe arrivare a una possibile formulazione finale della teoria dell'universo." Sennonché Grigorij Jakovlevič Perel'man non ha mai ritirato il milione di dollari, né ha mai ritirato la Medaglia Field, così come non ritirò il premio dell'European Mathematical Society. La verità è che Perel'man non ha mai ritirato nessun premio. 28 IRENE STORNIOLO Δαίμονες La medaglia Fields destinata a Perel'man e da lui non ritirata Ma chi è questo genio anomalo e introverso? Perel'man è il maggiore di due figli di una coppia ebrea di Leningrado. Il padre era un ingegnere elettrico e la madre un'insegnante di matematica. Come la sorella Elena (diventata anche lei una valente matematica), venne iscritto alla Scuola Pubblica n° 239 (un istituto fondato negli anni '50 per bambini particolarmente dotati) e successivamente ammesso all'Università Statale di Leningrado, dove si specializzò nei programmi di matematica avanzata e di fisica. Mentre era ancora studente di scuola superiore, nel 1982, vinse una medaglia d'oro alle Olimpiadi internazionali di matematica tenutesi a Budapest. Perel'man si è poi laureato alla facoltà di Matematica e meccanica dell'Università Statale di Leningrado ed ha iniziato a lavorare nel dipartimento di San Pietroburgo dell'Istituto Steklov di Matematica. I suoi tutor presso l'Istituto Steklov sono stati Aleksandr Danilovič Aleksandrov e Jurij Dmitrievič Burago. Alla fine degli anni ottanta e nei primi anni novanta, Perel'man ha lavorato presso varie università degli Stati Uniti, tra cui il Massachusetts Institute of Technology. Ritornato in Russia nel 1995 o 1996, da allora ha lavorato senza far parlare di sé all'Istituto Steklov. Fino all'autunno del 2002, Perel'man era noto più che altro per i suoi lavori nella geometria comparativa, ove aveva ottenuto risultati notevoli, tra cui la congettura di Soul, uno dei teoremi classici della geometria di Riemann. Nel novembre 2002 ha pubblicato sul sito Web arXiv il primo di una serie di saggi con i quali intendeva dimostrare la Congettura di geometrizzazione di Thurston, risultato che comprende come caso particolare la Congettura di Poincaré. Quest'ultima, proposta dal matematico francese Henri Poincaré nel 1904, è uno dei più famosi problemi di topologia. Poincaré stava lavorando ai fondamenti di quella che poi sarebbe stata chiamata topologia algebrica. Egli in particolare studiava le proprietà e caratteristiche topologiche della sfera. Poincaré aveva sviluppato uno strumento matematico chiamato omologia, che distingueva e permetteva quindi di classificare topologicamente tutte le varietà di dimensione 2. Egli congetturò inizialmente un fenomeno analogo in dimensione 3, ovvero che l'omologia distinguesse almeno la sfera tridimensionale dalle altre varietà. Si accorse molto presto di essere in errore, dato che riuscì a costruire una 3-varietà, chiamata successivamente sfera di Poincaré, con la stessa omologia della 3-sfera ma non omeomorfa ad essa. Spazi di questo tipo (ve ne sono in verità infiniti) vengono ora chiamati sfere di omologia. 29 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Una tazza ed una ciambella sono omeomorfi dal momento che possono trasformarsi l'una nell'altra con una "deformazione senza strappi" Egli allora sviluppò un nuovo strumento, in un certo senso più raffinato, chiamato gruppo fondamentale. Si domandò quindi se questo strumento fosse sufficiente a distinguere la 3-sfera dalle altre varietà tridimensionali. Poincaré non ha mai dichiarato esplicitamente di credere all'affermazione riportata in apertura, però questa è passata alla storia come la congettura di Poincaré. La ripeto: Ogni 3-varietà semplicemente connessa chiusa (ossia compatta e senza bordi) è omeomorfa a una sfera tridimensionale. Detto con termini diversi, la congettura dice che la 3-sfera è l'unica varietà tridimensionale "senza buchi", cioè dove qualsiasi cammino chiuso può essere contratto fino a diventare un punto. Molti matematici hanno tentato una sua dimostrazione, ma senza successo, e proprio per questo il Clay Mathematics Institute ha messo in palio l'enorme ricompensa di un milione di dollari. La strategia di attacco di Perel'man consistette nel modificare il programma di geometrizzazione di Richard Hamilton attraverso il flusso di Ricci. Tale approccio sembrava particolarmente promettente al momento, rispetto ai programmi più diretti di stampo topologico (in particolare gli approcci diversi di W.P. Thurston, J.W. Cannon e D. Gabai). Nel dicembre 2005 il lavoro di Perel'man finì sotto l'esame della comunità matematica, dopo una serie di conferenze tenute dal matematico russo nei maggiori atenei per fornire spiegazioni su parti della dimostrazione che erano state pubblicate su arXiv. Nell'agosto del 2006 i numerosi matematici che hanno seguito il suo lavoro hanno completato una documentazione di oltre 1000 pagine in cui è spiegata passo per passo la dimostrazione completa della congettura di Poincaré. Dopo alcune polemiche sorte in seno al mondo dei matematici circa l'attribuzione del prestigioso riconoscimento, l'Istituto Clay ha ufficialmente annunciato che Perel'man ha vinto il premio relativo alla congettura di Poincaré, ma Perel'man non si è presentato a ritirare il premio a Parigi, dove il Clay Institute ha tenuto la premiazione, ed ha successivamente annunciato di averlo rifiutato. Nel 2006 si è anche dimesso dal suo posto all'Istituto Steklov di San Pietroburgo e vive quindi con la madre in una casa popolare, lontano da università e interviste, con la sua pensione come unica fonte di sostentamento. In un'intervista ha spiegato la sua scelta così: "Non voglio essere uno scienziato da vetrina e troppi soldi in Russia generano solo violenza". Oltre a ciò, Perel'man non ha mostrato alcun interesse per la pubblicazione della dimostrazione in una rivista matematica peer-reviewed, come richiesto dalle attuali regole del premio Clay. D'altra parte, l'esame riservato ad una pubblicazione on-line permette spesso di raggiungere un livello di attendibilità ben superiore a quello che caratterizza le pre-pubblicazioni nello stato iniziale della revisione; lo stesso Clay Mathematics Institute ha esplicitamente affermato che il suo consiglio direttivo potrà cambiare questo requisito. Intanto Perel'man è scomparso dalla scena pubblica: si dice che ora viva come un barbone. Nel giugno del 2007 è stato fotografato da un blogger russo. Perel'man è stato "intercettato" in metropolitana, a Pietroburgo, da Dmitri Sergieevic Butoga. Dmitri ha riconosciuto immediatamente il tizio alto, dallo sguardo 30 IRENE STORNIOLO Δαίμονες allucinato e dalla fronte sterminata che sembra Rasputin, la barba lunga ed incolta come la corona dei capelli parecchi centimetri, scarpacce da basket che hanno conosciuto anni migliori. Uno scatto del blogger che ha sorpreso Perel'man in metropolitana Senza farsi notare, Dmitri ha armeggiato con il microbiettivo del suo telefonino. Tre, quattro scatti. Lo scienziato non si è accorto di nulla. Pareva assorto nel suo mondo di numeri, teoremi e calcoli tridimensionali. Scribacchiava qualcosa su un foglietto, perso nei suoi ragionamenti. A San Pietroburgo da allora circolano t-shirt nere con il ritratto di Perel'man. Sotto, una scritta: "Respect" in inglese. Sulle spalle, in russo, si legge: "Non tutto si compra". Il demone della matematica non ammette compromessi con la vile materia. 31 IRENE STORNIOLO Δαίμονες 2. SPIRITISMO E SATANISMO CHI È LUCIFERO? E' noto che Dante pone Lucifero, il Principe di tutti i dèmoni (o per meglio dire, cristianamente, demònii), al centro della terra; il suo ombelico corrisponde al centro dell'universo dantesco, che come sappiamo è tolemaico. Nel XXXIV canto dell'Inferno il poeta, giunto con Virgilio al termine della prima parte del suo viaggio, si trova al cospetto di Satana, raffigurato come un mostro con tre volti e sei ali (com'è tipico dei Serafini) che, immobile al centro della ghiaccia di Cocìto, mastica pensosamente Giuda, Bruto e Cassio e non sembra accorgersi della presenza dei due viandanti, con i quali non interagisce minimamente. Appigliandosi al busto villoso di Lucifero, e risalendo lungo le sue cosce, Dante e Virgilio si ritrovano nell'emisfero australe, all'interno di una grotta naturale (la "natural burella") attraverso la quale potranno uscire "a riveder le stelle" fra 21 ore (il viaggio nell'Inferno è infatti durato 24 ore dal tramonto nella selva oscura e ne occorreranno altre 21 per risalire verso la superficie terrestre, dal mattino alla notte successiva, con l'arrivo poco prima dell'alba al monte del Purgatorio). Gustave Doré, Lucifero al centro della terra, illustrazione per la Divina Commedia (1861-68) Mentre i due riprendono il cammino Dante chiede a Virgilio di dirimergli qualche dubbio, cosa che Virgilio farà puntualmente (vv. 100-126): che fine abbia fatto il ghiaccio, perché Satana sia conficcato sottosopra e come mai in poco tempo il sole abbia fatto il tragitto dalla sera alla mattina di circa dodici ore. Virgilio inizia la sua spiegazione dicendo a Dante che essi sono nel nuovo emisfero, poiché essi hanno oltrepassato il punto al quale tendono tutti i pesi, ovvero il centro della terra. Il ghiaccio è sparito perché essi ora camminano su una piccola sfera che copre l'altra faccia della Giudecca, dell'ultima zona del lago 32 IRENE STORNIOLO Δαίμονες ghiacciato; riguardo alla terza domanda spiega che quando di là è notte di qua è mattino (man); e che Lucifero, infine, sta esattamente come stava prima. Spiega quindi perché Lucifero si trovi laggiù: egli, quale angelo ribelle, quando cadde dal cielo sprofondò da questo emisfero a testa all'ingiù, e la terra, per non toccarlo, si nascose sotto al mare, sporgendo tutta dall'altro emisfero e creando la montagna del Purgatorio; il Diavolo rimase conficcato al centro della terra e ciò che gli stava intorno, per fuggire ulteriormente, si spostò fuggendo verso l'emisfero australe, facendo il vuoto attorno a Lucifero. Ma chi è Lucifero? La domanda è tutt'altro che banale e presenta risvolti a dir poco inquietanti. Notoriamente la tradizione cattolica, alla quale Dante si allinea, lo identifica con Satana e vede in lui il principio stesso del Male; secondo molti interpreti biblici tuttavia si tratta di due entità diverse, di cui Satana è più potente ed è malvagio fin dal principio, mentre Lucifero (la cui natura è peraltro superiore a quella di Satana) no. Essi corrisponderebbero a due angeli diversi: Sataniel e Helel. Anche il più celebre esorcista del mondo, padre Amorth, sostiene la stessa cosa: i diavoli che egli scaccia dagli indemoniati, a suo dire, appartengono a due schiere diverse, quella di Satana e quella di Lucifero, e si distinguono anche solo per il fatto che le persone invasate dall'uno hanno il globo oculare ruotato verso l'alto, mentre quelli infestati dall'altro lo hanno verso il basso. Guillaume Geefs (1805-1883), statua di Lucifero nella cattedrale di Saint-Paul di Liegi (Belgio) Ma la sorpresa più sconcertante si ha quando si scopre che nessun testo biblico parla della caduta degli angeli ribelli! Si tratta, a quanto pare, di erronee interpretazioni di due passi biblici (Isaia ed Enoch), portate avanti esclusivamente dai Padri della Chiesa. Se cerchiamo di far luce (è proprio il caso di dirlo) sulla questione, rischiamo di confonderci ulteriormente le idee; e tuttavia voglio provarci. Nella mitologia romana, Lucifer è una divinità corrispondente alla divinità greca Eosforo (o "Torcia dell'Aurora"), nome dato alla "Stella del mattino". Era figlio di Eos (l'Aurora) e di Astreo e fu padre di Ceice 33 IRENE STORNIOLO Δαίμονες (Ceyx), re di Tessaglia, e di Dedalione. Infatti il termine Lucifer in latino significa semplicemente "Portatore di Luce", ed era anche il nome che gli antichi diedero al pianeta Venere, perché era la prima luce che anticipava il sole. Abbiamo quindi appurato che il termine "Lucifero" esisteva molto prima della cristianizzazione; ma c'è di peggio. Accanto alla tradizione teologica e letteraria "classica" riguardo a Lucifero si sviluppò, già nei primi tempi di fioritura e di espansione delle dottrine cristiane, una corrente gnostica che tentò la reinterpretazione della figura luciferina in chiave salvifica e liberatrice per l'uomo dalla tirannia del Dio Creatore, identificato dagli Gnostici con il malvagio Demiurgo: secondo tale dottrina, che ha radici tanto nel Marcionismo quanto nel Manicheismo, il serpente/Lucifero descritto nella Genesi sarebbe colui che ha indotto l'uomo alla conoscenza, la scientia boni et mali, e dunque ha consentito l'elevazione dell'uomo a divinità, pur contro la volontà del Dio supremo, che avrebbe voluto invece mantenere l'uomo quale suo suddito e schiavo, cioè quale essere inferiore. In tale dottrina il nome Satana scompare quasi del tutto in favore di Lucifero, che viene interpretato alla lettera come "Portatore di luce" e viene perciò eletto quale salvatore dell'uomo. Tutto ciò è in evidente antitesi con la concezione classica del Cristianesimo, secondo la quale invece l'aspetto luminoso di Satana è solo un mascheramento e uno strumento di seduzione. San Paolo per primo afferma infatti che "anche Satana si traveste da angelo di luce. Non è dunque cosa eccezionale se anche i suoi servitori si travestono da servitori di giustizia; la loro fine sarà secondo le loro opere» (2 Corinzi 11,14-15). Non resta quindi che sospendere il giudizio. Interessante è comunque l'identificazione pagana di Lucifer con il pianeta Venere, al quale ho accennato anche a proposito della "sezione aurea" o phi, perché questo pianeta traccia ogni otto anni sulla sua eclittica un Pentacolo perfetto: Non è certamente un caso che il pentacolo, figura sacra ai Pitagorici, sia diventato uno degli emblemi luciferini per eccellenza (soprattutto nella sua variante "rovesciata"). Vorrei quindi dedicare un'attenzione più approfondita, e soprattutto più scientifica, a questo pianeta. 34 IRENE STORNIOLO Δαίμονες IL PIANETA"LUCIFERINO": VENERE Venere è il secondo pianeta del Sistema Solare in ordine di distanza dal Sole, con un'orbita della durata di 224,7 giorni terrestri. Il suo simbolo astronomico è la rappresentazione stilizzata della mano della dea Venere che sorregge uno specchio ( ). È l'oggetto naturale più luminoso nel cielo notturno, con l'eccezione della Luna, raggiungendo una magnitudine apparente di -4.6. Venere raggiunge la sua massima brillantezza poco prima dell'alba o poco dopo il tramonto, e per questa ragione è spesso chiamata impropriamente la "Stella del Mattino" o la "Stella della Sera". E' a volte è definito il "pianeta gemello" della Terra, poiché i due mondi sono molto simili per quanto riguarda criteri quali dimensioni e massa. Tutto il resto però è drammaticamente differente, per cui Venere risulterebbe per noi un pianeta assolutamente invivibile. Confronto delle dimensioni dei quattro pianeti terrestri: da sinistra, Mercurio, Venere, la Terra e Marte. Venere è uno dei quattro pianeti terrestri del sistema solare, il che significa che, come la Terra, è un corpo roccioso. In dimensioni e massa, come dicevo sopra, è molto simile alla Terra, ed inoltre sta subendo la stessa evoluzione che ha avuto la Terra nella sua formazione. Il diametro di Venere è inferiore a quello terrestre di soli 650 km, e la sua massa è l'81,5% di quella terrestre. A causa di questa differenza di massa, sulla superficie di Venere l'accelerazione di gravità è mediamente pari a 0,88 volte quella terrestre. A titolo di esempio, si potrebbe affermare che un uomo dalla massa di 70 kg che misurasse il proprio peso su Venere, facendo uso di una bilancia tarata sull'accelerazione di gravità terrestre, registrerebbe un valore pari a circa 61,6 kg. Tuttavia, a dispetto di queste somiglianze, le condizioni sulla superficie venusiana sono molto differenti da quelle terrestri, a causa della sua atmosfera, molto spessa e composta essenzialmente di biossido di carbonio o anidride carbonica. La massa dell'atmosfera di Venere, infatti, è costituita per il 96,5% da biossido di carbonio, mentre il restante 3,5% è composto soprattutto da azoto. Venere ha l'atmosfera più densa tra tutti i pianeti terrestri; la notevole percentuale di biossido di carbonio è dovuta al fatto che Venere non ha un ciclo del carbonio per incorporare nuovamente questo elemento nelle rocce e nelle strutture di superficie, né una vita organica che lo possa assorbire in biomassa. È proprio il biossido di carbonio ad aver generato un potentissimo effetto serra, a causa del quale il pianeta è divenuto così caldo che si ritiene che gli antichi oceani di Venere siano evaporati, lasciando una asciutta superficie desertica con molte formazioni rocciose. Il vapor acqueo si è poi dissociato a causa dell'alta temperatura e l'idrogeno è stato diffuso nello spazio interplanetario dal vento solare. L'effetto serra ha fatto aumentare la temperatura alla superficie fino a 400 K (127° C), con punte di 740 K (467° C, abbastanza per fondere il piombo). Questo ci toglie ogni speranza di poter rendere "vivibile" Venere, almeno in un prossimo futuro. Paradossalmente, quindi, la superficie di Venere è dunque più calda di quella di Mercurio, sebbene sia quasi due volte più distante dal Sole. 35 IRENE STORNIOLO Δαίμονες La pressione atmosferica sulla superficie del pianeta è altissima, pari a 92 volte quella della Terra, ed è data, appunto, per la maggior parte dal biossido di carbonio e da altri gas serra. Il pianeta è inoltre ricoperto da un opaco strato di nuvole composte da acido solforico, altamente riflettenti, che, insieme alle nubi dello strato inferiore, impediscono alla sua superficie di essere visibile dallo spazio; l'apparenza del pianeta è infatti molto ingannevole, tanto da dare l'impressione di un pianeta gassoso: L'impenetrabilità delle nubi che circondano il pianeta ha originato molteplici discussioni, perdurate fino a quando i segreti del suolo di Venere furono rivelati dalla planetologia nel ventesimo secolo. Ecco la superficie di Venere quale essa è in realtà: La superficie di Venere è stata mappata nel dettaglio solo nel corso degli ultimi venti anni; il progetto Magellano ha elencato circa un migliaio di crateri di meteoriti: un numero sorprendentemente basso se confrontato a quello della Terra. Si è quindi scoperto che circa l'80% della superficie di Venere è formata da lisce pianure vulcaniche. Il resto è costituito da due altipiani definiti continenti, uno nell'emisfero nord del pianeta e l'altro appena a sud 36 IRENE STORNIOLO Δαίμονες dell'equatore. Il continente più a nord è chiamato Ishtar Terra, da Ishtar, la dea babilonese dell'amore, e ha circa le dimensioni dell'Australia. I Monti Maxwell, il più alto massiccio montuoso su Venere, si trovano su Ishtar Terra. Nel punto più alto i monti raggiungono gli 11 km al di sopra dell'altezza media della superficie del pianeta. Il continente a sud è chiamato Aphrodite Terra, dalla dea Greca dell'amore, e ha circa le dimensioni del Sud America. La maggior parte di questo continente è ricoperta da un intrico di fratture e di faglie. Mappa topografica di Venere Oltre a crateri da impatto, montagne e valli, comuni ai pianeti rocciosi, Venere è caratterizzata da alcune strutture di superficie assolutamente peculiari. Fra queste vi sono: strutture vulcaniche chiamate farra, larghe da 20 a 50 km e alte da 100 a 1000 m; fratture radiali, a forma di stella chiamate novae; strutture con fratture sia radiali sia concentriche chiamate aracnoidi per la loro somiglianza con le tele di ragno; e infine le coronae, anelli circolari di fratture a volte circondate da una depressione. Tutte queste strutture hanno un'origine vulcanica. In effetti, la superficie di Venere appare geologicamente molto giovane, i fenomeni vulcanici sono molto estesi, e lo zolfo nell'atmosfera dimostrerebbe, secondo alcuni esperti, l'esistenza di fenomeni vulcanici attivi ancora oggi. Tuttavia, questo solleva un enigma: l'assenza di tracce del passaggio di lava che accompagni una caldera tra quelle visibili. 37 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Anche se vi sono poche informazioni dirette sulla sua struttura interna, si ritiene che Venere avere una struttura interna simile a quella della Terra: un nucleo, un mantello e una crosta. Le dimensioni leggermente inferiori di Venere suggeriscono che le pressioni siano più basse nella parte interna rispetto a quelle terrestri. Il nucleo interno di Venere si pensa sia ferroso, appunto perché il pianeta è molto simile alla Terra sia in struttura che dimensioni, e sia allo stato fuso perché ne viene data conferma da un pur debole campo magnetico, a parte quello indotto dall'effetto del vento solare. Si ritiene che il nucleo abbia uno spessore di circa 3000 km ed il mantello di circa 2900 km, mentre la crosta dovrebbe essere di poco inferiore a quella terrestre, cioè circa 60 km. Le analisi compiute dalle sonde sovietiche indicano che la struttura della crosta e della superficie è simile al granito ed al basalto. A causa della convezione del mantello sulla superficie si producono alcune anomalie (corrugamenti, rigonfiamenti, spaccature ecc.) che sono però concentrate in piccole zone e non al limite delle zolle tettoniche. Il decadimento radioattivo all'interno del pianeta genera calore che arriva all'esterno tramite forme di vulcanismo e zone dove la crosta è sottile generando caratteristiche formazioni dette duomi. Venere non ha satelliti naturali, sebbene l'asteroide 2002 VE68 attualmente mantenga una relazione quasi orbitale col pianeta e una ricerca del 2006 di Alex Alemi e David Stevenson del California Institute of Technology, sui modelli del Sistema Solare primordiale, faccia ipotizzare che Venere avesse inizialmente almeno una luna, creata da un gigantesco evento da impatto, come similmente si ipotizza per la formazione della luna terrestre. Questo satellite si sarebbe inizialmente allontanato per via delle interazioni mareali, allo stesso modo della Luna, ma un secondo gigantesco impatto avrebbe rallentato, se non invertito la rotazione di Venere, portando la luna venusiana a riavvicinarsi e infine collidere col pianeta. Una spiegazione alternativa alla mancanza di satelliti è costituita dai forti effetti mareali del Sole, che potrebbe destabilizzare grossi satelliti che orbitino attorno i pianeti terrestri interni. 38 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Venere in transito rispetto al Sole L'orbita di Venere è quasi circolare e le variazioni della sua elongazione massima (cioè l'angolo formato tra il Sole e il pianeta, visto dalla Terra) sono dovute più alla variazione della distanza tra Terra e Sole che alla forma dell'orbita di Venere. Queste misurano sempre un angolo compreso tra 45º e 47º, dando al pianeta una visibilità più prolungata prima del sorgere del Sole o dopo il tramonto. Quando l'elongazione è massima, Venere può restare visibile per diverse ore. La rotazione di Venere è retrograda e molto lenta: un giorno dura circa 243 giorni terrestri. Alcune ipotesi sostengono che la causa sia da ricercarsi nell'impatto con un asteroide di dimensioni ragguardevoli. A causa della rotazione retrograda, il moto apparente del Sole è opposto a quello terrestre; quindi, chi si trovasse su Venere, vedrebbe l'alba a ovest e il tramonto a est. Siccome il pianeta impiega 225 giorni terresti per compiere un'intera rivoluzione attorno al Sole, su Venere il giorno è più lungo dell'anno. Tuttavia, tra un'alba e l'altra trascorrono soltanto 117 giorni terrestri, perché, mentre il pianeta ruota su se stesso in senso retrogrado, esso si sposta anche lungo la propria orbita, compiendo il moto di rivoluzione, che procede in senso opposto rispetto a quello di rotazione; ne deriva che lo stesso punto della superficie si viene a trovare nella stessa posizione rispetto al Sole ogni 117 giorni terrestri. 39 IRENE STORNIOLO Δαίμονες APOLLONIO DI TIANA E LA VAMPIRA Fra i contatti "paranormali" dell'antichità classica i più noti sono senz'altro l'incontro ravvicinato del filosofo Atenodoro con un fantasma, narrato da Plinio il Giovane in una sua lettera (VII, 27, 5-11) e la storia del lupo mannaro raccontata da uno dei commensali della Cena di Trimalcione nel Satyricon di Petronio (61-62). Meno nota, ma non meno interessante, è la storia della vampira narrata da Filostrato II, uno dei principali rappresentanti della Seconda Sofistica, nella biografia elogiativa del celebre santone e taumaturgo Apollonio di Tiana, esponente del neopitagorismo. Questi, vissuto nel I secolo d.C., ebbe fama di uomo straordinariamente buono e giusto, in grado di compiere veri e propri miracoli, alcuni dei quali analoghi a quelli di Gesù Cristo: si dice ad esempio che abbia risuscitato una ragazza morta a Roma. Nel quarto capitolo della Vita di Apollonio di Tiana Filostrato narra la storia incredibile di un tal Menippo di Licia, un bellissimo venticinquenne che fu concupito da un dèmone di sesso femminile, una vampira, tecnicamente una Làmia. Le Làmie, nel mito greco, erano figure in parte umane e in parte animalesche, rapitrici di bambini; fantasmi seduttori che adescavano giovani uomini per poi nutrirsi del loro sangue e della loro carne. Lamia era la bellissima regina della Libia, figlia di Belo, amata da Zeus, dal quale ebbe il dono di levarsi gli occhi dalle orbite e rimetterli a proprio piacere. Era si vendicò del tradimento uccidendo quasi tutti i figli che suo marito ebbe da Lamia. Questa, lacerata dal dolore, iniziò a divorare i bambini delle altre madri, dei quali succhiava il sangue. Così facendo si trasformò in un essere di orribile aspetto, capace però di mutare forma e apparire attraente per sedurre gli uomini, allo scopo di berne il sangue. Per questo motivo la lamia viene considerata una sorta di vampiro ante litteram. Herbert James Draper, Lamia, 1909 Le Làmie venivano spesso chiamate anche Empuse, sebbene queste ultime, figlie o serve di Ecate, fossero alquanto differenti: erano infatti mostri soprannaturali femminili, che terrorizzavano i viaggiatori divorando coloro che percorrevano i sentieri o le strade da esse frequentati. Le Empuse potevano assumere qualsiasi forma: le più ricorrenti erano quelle di cagna o di vacca e, per attirare le proprie vittime, potevano mutare l'aspetto in quello di donne deboli o seducenti; in quest'ultimo caso si potevano intrufolare nei letti dei giovani. L'aspetto più inquietante del mito è il fatto che, se le si osservava attentamente, le Empuse 40 IRENE STORNIOLO Δαίμονες rivelavano ancora caratteri mostruosi o bizzarri, come una gamba di sterco d'asina e una di bronzo, oppure il retro d'asina e sandali di bronzo. Il giovane di cui Filostrato narra la storia, perdutamente innamorato della sua demoniessa, fu salvato in extremis da Apollonio, che avvertì intorno a lui un'aura negativa e subodorò immediatamente la presenza di una creatura diabolica. Leggiamo la stranissima vicenda: [Ἐν τοῖς Δημητρίου μαθηταῖς] καὶ Μένιππος ἦν ὁ Λύκιος ἔτη μὲν γεγονὼς πέντε καὶ εἴκοσι, γνώμης δὲ ἱκανῶς ἔχων καὶ τὸ σῶμα εὖ κατεσκευασμένος, ἐῴκει γοῦν ἀθλητῇ καλῷ καὶ ἐλευθερίῳ τὸ εἶδος. ἐρᾶσθαι δὲ τὸν Μένιππον οἱ πολλοὶ ᾤοντο ὑπὸ γυναίου ξένου, τὸ δὲ γύναιον καλή τε ἐφαίνετο καὶ ἱκανῶς ἁβρὰ καὶ πλουτεῖν ἔφασκεν, οὐδὲν δὲ τούτων ἄρα ἀτεχνῶς ἦν, ἀλλὰ ἐδόκει πάντα. κατὰ γὰρ τὴν ὁδὸν τὴν ἐπὶ Κεγχρεὰς βαδίζοντι αὐτῷ μόνῳ φάσμα ἐντυχὸν γυνή τε ἐγένετο καὶ χεῖρα ξυνῆψεν ἐρᾶν αὐτοῦ πάλαι φάσκουσα, Φοίνισσα δὲ εἶναι καὶ οἰκεῖν ἐν προαστείῳ τῆς Κορίνθου, τὸ δεῖνα εἰποῦσα προάστειον, ἐς ὃ ἑσπέρας” ἔφη ἀφικομένῳ σοι ᾠδή τε ὑπάρξει ἐμοῦ ᾀδούσης καὶ οἶνος, οἷον οὔπω ἔπιες, καὶ οὐδὲ ἀντεραστὴς ἐνοχλήσει σε, βιώσομαι δὲ καλὴ ξὺν καλῷ.” τούτοις ὑπαχθεὶς ὁ νεανίας, τὴν μὲν γὰρ ἄλλην φιλοσοφίαν ἔρρωτο, τῶν δὲ ἐρωτικῶν ἥττητο, ἐφοίτησε περὶ ἑσπέραν αὐτῇ καὶ τὸν λοιπὸν χρόνον ἐθάμιζεν, ὥσπερ παιδικοῖς, οὔπω ξυνεὶς τοῦ φάσματος. ὁ δὲ Ἀπολλώνιος ἀνδριαντοποιοῦ δίκην ἐς τὸν Μένιππον βλέπων ἐζωγράφει τὸν νεανίαν καὶ ἐθεώρει, καταγνοὺς δὲ αὐτὸν σὺ μέντοι” εἶπεν ὁ καλός τε καὶ ὑπὸ τῶν καλῶν γυναικῶν θηρευόμενος ὄφιν θάλπεις καὶ σὲ ὄφις.” θαυμάσαντος δὲ τοῦ Μενίππου ὅτι γυνή σοι” ἔφη ἐστὶν οὐ γαμετή. τί δέ; ἡγῇ ὑπ' αὐτῆς ἐρᾶσθαι; νὴ Δί',” εἶπεν ἐπειδὴ διάκειται πρός με ὡς ἐρῶσα.” καὶ γήμαις δ' ἂν αὐτήν;” ἔφη. χαρίεν γὰρ ἂν εἴη τὸ ἀγαπῶσαν γῆμαι.” ἤρετο οὖν πηνίκα οἱ γάμοι;” θερμοὶ” ἔφη καὶ ἴσως αὔριον.” ἐπιφυλάξας οὖν τὸν τοῦ συμποσίου καιρὸν ὁ Ἀπολλώνιος καὶ ἐπιστὰς τοῖς δαιτυμόσιν ἄρτι ἥκουσι ποῦ” ἔφη ἡ ἁβρά, δι' ἣν ἥκετε;” ἐνταῦθα” εἶπεν ὁ Μένιππος καὶ ἅμα ὑπανίστατο ἐρυθριῶν. ὁ δὲ ἄργυρος καὶ ὁ χρυσὸς καὶ τὰ λοιπά, οἷς ὁ ἀνδρὼν κεκόσμηται, ποτέρου ὑμῶν;” τῆς γυναικός,” ἔφη τἀμὰ γὰρ τοσαῦτα” δείξας τὸν ἑαυτοῦ τρίβωνα. ὁ δὲ Ἀπολλώνιος τοὺς Ταντάλου κήπους” ἔφη εἴδετε, ὡς ὄντες οὐκ εἰσί;” παρ' Ὁμήρῳ γε,” ἔφασαν οὐ γὰρ ἐς Αἵδου γε καταβάντες.” τοῦτ'” ἔφη καὶ τουτονὶ τὸν κόσμον ἡγεῖσθε, οὐ γὰρ ὕλη ἐστίν, ἀλλὰ ὕλης δόξα. ὡς δὲ γιγνώσκοιτε, ὃ λέγω, ἡ χρηστὴ νύμφη μία τῶν ἐμπουσῶν ἐστιν, ἃς λαμίας τε καὶ μορμολυκίας οἱ πολλοὶ ἡγοῦνται. ἐρῶσι δ' αὗται καὶ ἀφροδισίων μέν, σαρκῶν δὲ μάλιστα ἀνθρωπείων ἐρῶσι καὶ παλεύουσι τοῖς ἀφροδισίοις, οὓς ἂν ἐθέλωσι δαίσασθαι.” ἡ δὲ εὐφήμει” ἔλεγε καὶ ἄπαγε” καὶ μυσάττεσθαι ἐδόκει, ἃ ἤκουε, καί που καὶ ἀπέσκωπτε τοὺς φιλοσόφους, ὡς ἀεὶ ληροῦντας. ἐπεὶ μέντοι τὰ ἐκπώματα τὰ χρυσᾶ καὶ ὁ δοκῶν ἄργυρος ἀνεμιαῖα ἠλέγχθη καὶ διέπτη τῶν ὀφθαλμῶν ἅπαντα οἰνοχόοι τε καὶ ὀψοποιοὶ καὶ ἡ τοιαύτη θεραπεία πᾶσα ἠφανίσθησαν ἐλεγχόμενοι ὑπὸ τοῦ Ἀπολλωνίου, δακρύοντι ἐῴκει τὸ φάσμα καὶ ἐδεῖτο μὴ βασανίζειν αὐτό, μηδὲ ἀναγκάζειν ὁμολογεῖν, ὅ τι εἴη, ἐπικειμένου δὲ καὶ μὴ ἀνιέντος ἔμπουσά τε εἶναι ἔφη καὶ πιαίνειν ἡδοναῖς τὸν Μένιππον ἐς βρῶσιν τοῦ σώματος, τὰ γὰρ καλὰ τῶν σωμάτων καὶ νέα σιτεῖσθαι ἐνόμιζεν, ἐπειδὴ ἀκραιφνὲς αὐτοῖς τὸ αἷμα. "Tra i discepoli di Demetrio di Corinto v'era Menippo di Licia, giovine di venticinque anni, eletto di spirito e bellissimo di forme, simile a un atleta per bellezza e portamento. Si credeva che Menippo fosse amato da una donna straniera,e questa donna era detta bellissima e stravagante, oltre che molto ricca: ma non era nessuna di queste cose, se non pura apparenza. "Un giorno che Menippo camminava da solo lungo la strada che reca a Cenchrae, un fantasma d'aspetto femminile gli era apparso, gli aveva stretto la mano e gli aveva detto d'amarlo da molto tempo. Aveva aggiunto d'essere fenicia, e di vivere in un sobborgo di Corinto. 41 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Dicendogli il nome del sobborgo, aveva aggiunto: Vieni a trovarmi questo pomeriggio e mi ascolterai cantare.Ti offrirò da bere un vino quale non hai mai gustato. Non avrai rivali sulla tua strada, e vivremo insieme felici: io che sono bella, e tu che lo sei quanto me. Il giovane si lasciò lusingare da queste parole perchè, pur avendo abbracciato la filosofia, purtuttavia era dominato da Eros. John William Waterhouse, La Lamia e il soldato, 1905 "Andò quel pomeriggio alla casa indicata, e per molto tempo frequentò la donna come amante, senza mai dubitare che non donna fosse, ma uno spirito immondo. Un giorno, Apollonio prese a scrutare Menippo misurandolo con lo sguardo come fa uno scultore, e dopo averlo studiato a lungo, gli disse:Sai tu, che sei bello e desiderato dalle donne più belle, che abbracci una serpe, ed è una serpe che ti abbraccia? Menippo rimase attonito, e Apollonio seguitò: "Tu hai una donna che non è tua moglie: ma pensi forse che lei ti ami? "Certamente!, rispose il giovine. Lei si comporta con me come fa una donna che ama. "Intendi sposarla? "Sì: è fonte di gioia sposare una donna che ama. "Apollonio replicò: Quando celebrerai le nozze? "Presto, rispose il giovane, forse domani stesso. "Apollonio attese il giorno della festa nuziale e, quando i convitati furono giuinti, entrò anch'egli nella sala. "Dov'è la bella per la quale siamo venuti?, chiese. "Qui, disse Menippo alzandosi e arrossendo in volto. "E di chi sono l'oro, l'argento e tutti gli ornamenti di questa sala? "Di mia moglie, rispose il giovane, io non possiedo che questo, e mostrò il suo mantello. "Apollonio, rivolgendosi allora a tutti, chiese: Conoscete il giardino di Tantalo, che a un tempo esiste e non esiste? "Sì, risposero gli ospiti, lo abbiamo letto in Omero, perché non siamo mai scesi nell'Ade. 42 IRENE STORNIOLO Δαίμονες "Lasciatemi dire, allora, proseguì Apollonio, che queste decorazioni sono simili a esso:sono soltanto l'apparenza insostanziale di una sostanza.Perché possiate comprendere meglio, sappiate che la seducente fidanzata è un Vampiro, una di quelle Empuse che il popolo chiama Lamie o Mormolyce. Anche i Vampiri sono attratti dal sesso: ma ancor più amano il sangue e la carne umana, e usano il sesso per intrappolare coloro che vogliono divorare. "La donna allora gridò: Taci e vattene via!, e si mostrò indignata per quelle insinuazioni, scagliandosi contro il filosofo e chiamandolo insensato. Ma, all'improvviso, le coppe che sembravano d'oro e i vasi che sembravano d'argento svanirono tutti; scomparvero anche, dopo il discorso di Apollonio, tutti i coppieri, i cuochi e i servi. "Allora lo spirito immondo finse di piangere, supplicando di far cessare i tormenti che l'avrebbero costretto a rivelare la sua vera natura. Ma Apollonio insistè finchè quello non confessò di essere un Vampiro che aveva invischiato Menippo coi piaceri del sesso per poterne poi divorare il corpo. Infatti, per nutrirsi, lei sceglieva sempre i giovani belli e forti, perché hanno il sangue assai fresco. 43 IRENE STORNIOLO Δαίμονες LO SPIRITISMO IN PIRANDELLO E SVEVO Sia Pirandello sia Svevo descrivono una seduta spiritica; in entrambi i casi i loro protagonisti approfittano dell'occasione per fini sentimentali, ma gli autori lasciano emergere chiaramente la loro opinione sullo spiritismo. Ne “Il fu Mattia Pascal” Adriano Meis (alias Mattia Pascal) riesce a baciare nell’oscurità la sua amata Adriana: “Quasi involontariamente io mi recai allora la mano di Adriana alla bocca, poi, non contento mi chinai a cercar la bocca di lei, e così il primo bacio, bacio lungo e muto, fu scambiato tra noi”. Disegno raffigurante Luigi Pirandello Il personaggio di Pirandello, nonostante si renda conto che la seduta sia stata organizzata da Papiano per loschi fini (egli infatti durante la seduta deruba Mattia di ben 12.000 lire), alla fine è colpito e turbato, pieno di dubbi: "Se, come sosteneva il Paleari, la forza misteriosa che aveva agito in quel momento, alla luce, sotto gli occhi miei, proveniva da uno spirito invisibile, evidentemente, questo spirito non era quello di Max: bastava guardar Papiano e la signorina Caporale per convincersene. Quel Max, lo avevano inventato loro. Chi dunque aveva agito? Chi aveva avventato sul tavolino quel pugno formidabile?". L'interessamento per fatti inspiegabili alla luce della ragione e della scienza, come lo spiritismo, delinea in Pirandello la crisi del razionalismo positivista, che sottrae all'uomo ogni rassicurante certezza. Il tono di Svevo è molto diverso: durante la seduta spiritica in casa Malfenti, che vede come medium il suo rivale in amore Guido, Zeno mantiene un atteggiamento cinico e distaccato: “io non ho alcun’avversione per i tentativi di qualunque genere di spiare il mondo di là”, pensa, e conclude: “ero anzi seccato di non avere introdotto io in casa di Giovanni quel tavolino giacché vi otteneva tale successo”. Come per Mattia-Adriano, il suo interesse non è rivolto alla seduta spiritica, ma alla conquista dell'amata 44 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Ada; sennonché si verifica un grottesco equivoco: infatti Zeno approfitta del buio per farle la sua dichiarazione: “Io vi amo Ada! - dissi a bassa voce e avvicinando la mia faccia alla sua per farmi sentire meglio”, ma ecco la sorpresa: “La fanciulla non rispose subito. Poi con un soffio di voce, però quella di Augusta, mi disse: perché non veniste per tanto tempo?”. Italo Svevo in una caricatura Zeno manifesta per le pratiche esoteriche un assoluto scetticismo, pienamente condiviso da Svevo; egli manipola continuamente la seduta per ridicolizzare Guido, suo rivale in amore, fino alla brutale rivelazione del trucco: “Dovete scusarmi, signor Guido, mi sono permesso uno scherzo di cattivo genere. Sono stato io che ho fatto dichiarare al tavolino di essere mosso da uno spirito portante il vostro stesso nome”. Lo scetticismo è del resto tipico di Zeno, perennemente in dubbio su tutto, ma sempre autoironico. Zeno, proprio grazie al disagio che vive, al suo sentirsi "inetto", è distaccato da tutto, "estraneo a se stesso", come dichiara il suo stesso nome, che deriva da ξένος, "straniero". 45 IRENE STORNIOLO Δαίμονες EDGAR ALLAN POE, LIGEIA "Ligeia" is an early short story by American writer Edgar Allan Poe, first published in 1838. The unnamed narrator describes the qualities of Ligeia, a beautiful, passionate and intellectual woman, raven-haired and dark-eyed, that he thinks he remembers meeting "in some large, old decaying city near the Rhine." He is unable to recall anything about the history of Ligeia, including her family's name, but remembers her beautiful appearance. Her beauty, however, is not conventional. He describes her as emaciated, with some "strangeness". He describes her face in detail, from her "faultless" forehead to the "divine orbs" of her eyes. They marry, and Ligeia impresses her husband with her immense knowledge of physical and mathematical science, and her proficiency in classical languages. She begins to show her husband her knowledge of metaphysical and "forbidden" wisdom. Ligeia by Harry Clarke,1919 After an unspecified length of time, Ligeia becomes ill, struggles internally with human mortality, and ultimately dies. The narrator, grief-stricken, buys and refurbishes an abbey in England. He soon enters into a loveless marriage with "the fair-haired and blue-eyed Lady Rowena Trevanion, of Tremaine." 46 IRENE STORNIOLO Δαίμονες In the second month of the marriage, Rowena begins to suffer from worsening fever and anxiety. One night, when she is about to faint, the narrator pours her a goblet of wine. Drugged with opium, he sees (or thinks he sees) drops of "a brilliant and ruby colored fluid" fall into the goblet. Her condition rapidly worsens, and a few days later she dies and her body is wrapped for burial. As the narrator keeps vigil overnight, he notices a brief return of color to Rowena's cheeks. She repeatedly shows signs of reviving, before relapsing into apparent death. As he attempts resuscitation, the revivals become progressively stronger, but the relapses more final. As dawn breaks, and the narrator is sitting emotionally exhausted from the night's struggle, the shrouded body revives once more, stands and walks into the middle of the room. When he touches the figure, its head bandages fall away to reveal masses of raven hair and dark eyes: Rowena has transformed into Ligeia. The story is supposed to be the narrator's opium-induced hallucination and there is debate whether it was a satire or not. After the story's first publication in The American Museum, it was heavily revised and reprinted throughout Poe's life. 47 IRENE STORNIOLO Δαίμονες 3. MAGIA E ALCHIMIA LA GNOSI Il termine "gnosticismo" deriva dal greco γνῶσις, ossia "conoscenza"; esso designa un gruppo di correnti filosofico-religiose dell'antichità, che hanno avuto la loro massima diffusione nei secoli II e III d.C. nei maggiori centri culturali dell'area mediterranea, come Roma e Alessandria d'Egitto. In certi casi si tratta di scuole fondate da personaggi noti, come Basilide, Marcione o Valentino tutti vissuti nel secolo II d.C. -, in altri casi di gruppi di cui non si conoscono i fondatori e la cui denominazione deriva da elementi dottrinali (per esempio, gli ofiti erano così detti perché attribuivano un ruolo importante al serpente, in greco ofis, i cainiti si richiamavano a Caino, e così via). La scoperta dei Vangeli detti “gnostici” o di Nag Hammadi, avvenuta nel 1945, ci ha restituito alcuni testi databili al I o II secolo d.C., di fondamentale importanza per la ricostruzione del pensiero gnostico: infatti la scarsa conoscenza che in precedenza si aveva di tale corrente di pensiero non ci permetteva nemmeno di risolvere un problema di fondo: se cioè lo gnosticismo fosse un movimento eretico staccatosi dal cristianesimo, o un indirizzo filosofico-religioso indipendente dal cristianesimo. Dopo lo studio dei testi di Nag Hammadi è opinione pressoché concorde dei critici che lo gnosticismo non abbia avuto origine da una degenerazione del cristianesimo, ma rinvii ad elementi derivati da varie Simon Mago religioni misteriche, dalle correnti magico-astrologiche dell'Oriente, dall'ermetismo, alla qabbalah ebraica e dal giudaismo alessandrino (Aristobulo, Filone), e perfino dalle filosofie ellenistiche. Questo insieme dottrinario appare tutt'altro che coerente e compatto, ed è poi approdato nel cristianesimo, andando a definire una corrente di pensiero che trovò oppositori fin dal II secolo d.C. (si veda Ireneo, vescovo di Lione e la sua Denuncia e confutazione della pseudo-gnosi) e fu ben presto dichiarata eretica. Si suole inoltre distinguere una gnosi volgare (Cerinto, Carpocrate, Simon Mago, Menandro), divisa anche in numerosissime sette (che, non richiamandosi ad alcun caposcuola, vengono dette in generale degli ofiti per il comune culto del serpente, ma anche dei barbelioti, perati, cainiti ecc.), in cui prevalgono le pratiche magiche e gli elementi dell'astrologia iranico-babilonese; e una gnosi dotta, che ha il suo centro principale ad Alessandria ed è rappresentata da figure in cui è notevole l'impegno speculativo: Basilide, Valentino e Marcione. Il cristianesimo "ortodosso" nei primi secoli fu attaccato dallo gnosticismo tanto dall'esterno, cioè da movimenti che si ponevano dichiaratamente in posizione alternativa a esso, quanto dall'interno, da gruppi che si rifacevano appunto ai vangeli apocrifi. 48 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Elemento fondamentale dello gnosticismo è la conoscenza, la gnosi, appunto, come unico mezzo di salvezza. Ci si salva, dunque, solo attraverso un percorso conoscitivo assolutamente e strettamente individuale, e non con le opere o la fede: in questo senso le istituzioni religiose "ufficiali" non rivestono alcun ruolo e non hanno alcun potere (di qui l'ovvia opposizione della Chiesa). La conoscenza inoltre non è razionale ma intuitiva: rivelazione, illuminazione. Per conquistarla non basta la ragione e non serve la fede: l'uomo si deve impegnare con tutte le sue forze in un percorso di affinamento delle sue facoltà percettive, ponendosi per così dire "in ascolto" della Voce divina, che gli parlerà soltanto se e quando sarà pronto per ricevere la Rivelazione, la Saggezza suprema, che in alcuni sistemi gnostici (come quello di Valentino) assume il nome di Sophìa. Immagine che simboleggia la conoscenza Quello della Sophìa è tuttavia un principio ambiguo, come gnostica dimostra il suo stesso mito. Ma, si obietterà, la conoscenza di cosa? In estrema sintesi, della negatività del mondo. Gli gnostici ritengono che il cosmo sia formato da una gerarchia di 30 coppie di entità incorporee (gli «eoni», da aiòn = "eternità, durata", l’unione dei quali è in grado di formare il concetto di Dio completo, detto Pleròma = "pienezza") emanate da Dio e sempre meno perfette mano a mano che si allontanano da Lui, come una luce che progressivamente si attenua distanziandosi dalla sua fonte. L’ultimo eone è l’anima umana: essa, venuta a contatto con la materia, è stata sopraffatta da essa, è caduta nelle tenebre ed è così divenuta schiava del male, del dolore, della morte. Si tratta di una situazione piuttosto simile a quella già descritta da Platone nel Fedro (mito della biga alata), ma le analogie con la dottrina platonica e neoplatonica sono deboli e fallaci, come ho sintetizzato in questo capitolo. La situazione umana, per gli gnostici, è quindi conseguenza di oblio e di ignoranza della propria origine divina, e la gnosi è appunto, un po' come l'anàmnesi platonica, il riprendere conoscenza di essa e aspirare al ritorno ad essa, cioè alla perfezione di Dio, del Pleroma, momento di origine. Che Dio ami l'uomo è evidente dal fatto che gli concede la possibilità del proprio riscatto: proprio per dargli questa possibilità Egli manda al mondo il modello perfetto dell’uomo spirituale, l’Anthropos celeste: questi, con l’esempio di se stesso e con la rivelazione delle verità dimenticate dall’uomo, rende l’uomo partecipe della gnosi, cioè della conoscenza che, sola, può salvarlo. Ciò che più disturba la Chiesa, come si accennava, è il fatto che questa conoscenza non può essere ottenuta tramite la mediazione di qualcuno, come, per esempio, un sacerdote, ma deve essere un’esperienza personale, che comporta una sorta di lungo e faticoso viaggio verso la conoscenza; quel percorso di cui, con ogni probabilità, resta una traccia potentissima nella Divina Commedia di Dante: il celebre distico "fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza" (Inferno XXVI 119-120), posto in bocca ad Ulisse, sembra un eloquente indizio in tal senso. Ma c'è di più e di peggio nello gnosticismo: ed è il rifiuto dell’idea del Dio creatore. Infatti per gli gnostici il vero Dio è invisibile, perfetto, incomprensibile e innominabile, mentre colui che noi consideriamo Creatore è un essere malvagio che vorrebbe imporre il dominio della materia sull'uomo: un essere "materiale" come il mondo da lui creato, "ignorante" (si oppone a Dio non per coscienza del proprio nemico, ma per istinto, in quanto è troppo lontano dall'origine divina per ricordarsene), e "blasfemo", in quanto si è proclamato Dio unico (vedi Mosé e le Tavole). Si tratta del Demiurgo (altro termine desunto da Platone). 49 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Ma più ancora dei princìpi, a dare da pensare è la contraddittorietà delle conseguenze etiche di questa concezione religiosa: tali conseguenze sono infatti radicalmente diverse a seconda dell'interpretazione che si dà di essa, e non possono non risultare sconcertanti da qualsiasi punto di vista (anche non religioso): com'è possibile, infatti, dedurre stili di vita opposti da un'identica dottrina di base? E quando pure questo sia possibile, come si può ammettere che il comportamento degli eletti sia "uno qualsiasi", irrilevante ai fini della salvezza, anche se immorale? Il sovvertimento dei valori tradizionali significava infatti per alcuni la rinuncia alla vita di relazione, l’ascesi, la più rigorosa castità, la meditazione, come nel caso dei "parfaits", i sacerdoti dei Càtari, che furono probabilmente la migliore espressione storica dello gnosticismo; per altri invece la consapevole e volontaria infrazione di ogni legge morale, che viene a perdere qualsiasi valore, significava l'adozione di uno stile di vita sfrenato e gaudente, soprattutto dal punto di vista sessuale (accusa rivolta ad esempio all'eretico Dolcino di cui si parla nel Nome della rosa di Umberto Eco). Insomma, una sorta di nichilismo nietzscheano ante litteram, che ben spiega la diffidenza di diversi pensatori (non necessariamente cattolici) nei confronti dello gnosticismo. Il Demiurgo di Blake (1794) Possiamo a questo punto tentare di riassumere così gli elementi caratteristici del pensiero gnostico: QUADRO RIASSUNTIVO DELLA GNOSI 1) DUALISMO: al DIO BUONO si contrappone un DIO CATTIVO (ontologicamente distinti); 2) IL MALE: fa parte di Dio: male e sofferenza sono conseguenza della creazione, e non del peccato originale. Inoltre il male bisogna conoscerlo, cioè praticarlo, per vincerlo; 3) UNITA' di Dio e dell'uomo; 4) CONOSCENZA: la salvezza avviene attraverso la conoscenza (GNOSI). La conoscenza non è razionale ma intuitiva: rivelazione, illuminazione. La conoscenza di sé è la conoscenza del divino: l'io e il divino sono la stessa cosa; 5) GESU' CRISTO: è venuto a portare la conoscenza contenuta nel vangelo a tutti, ma ha riservato conoscenze misteriose agli iniziati. Il sacrificio della croce non serve per la salvezza; 6) ELETTI: solo gli eletti hanno conoscenze iniziatiche, che li distinguono dalla gente comune; 7) ETICA: gli Eletti sono esseri spirituali, e pertanto non sono soggetti a nessuna norma etica; 8) DIO-PADRE, DIO-MADRE: il divino ha elementi maschili e femminili in una entità androgina (secondo alcuni in entità separate); 9) MENTE: grande è la fiducia degli gnostici nelle forze dei propri mezzi intellettuali: le conoscenze possono sempre essere migliorate; 10) CHIESA: serve solo a dare una prima conoscenza; poi non ha altra funzione, non ha nessun potere salvifico e quindi non ha alcuna autorità; 11) IL MITO: la creazione é spiegata in termini mitologici; 12) UTOPIA: c'è un elemento utopico nella gnosi: ad esempio la convinzione di poter realizzare sulla terra un mondo di giusti (Paradiso Terrestre). E' chiaro, a questo punto, che un pensiero del genere non può che risultare del tutto inaccettabile per la Chiesa cattolica: proclamare che il Dio che si era manifestato ai patriarchi ebrei altro non era che il suo nemico, rinnegare tutta la verità sulla caduta di Satana dal cielo per eccesso di orgoglio, rinnegare la creazione dal fango di Adamo ed affermare, al contrario, l’origine divina al pari degli angeli dell’uomo, 50 IRENE STORNIOLO Δαίμονες vedere la Parola di Gesù come un invito a rinnegare questo mondo materiale, corrotto e corruttore, anziché come l’annuncio di una nuova alleanza con Dio, considerare inutile l’intercessione compiuta tra Dio ed il fedele, ossia precisamente il “lavoro” della Chiesa cattolica, sono motivi più che sufficienti per considerare lo gnosticismo una corrente eretica, anzi la più pericolosa corrente eretica, da condannare duramente (come fecero già i primi patristi latini) e da reprimere se necessario con la violenza, come nel caso della famigerata "crociata contro gli Albigesi" (cioè i Càtari, così detti dalla città di Albi in Provenza) promossa da papa Innocenzo III nel 1209 e conclusasi con lo sterminio dei Càtari, e della strage dei Templari ordinata da Filippo il Bello re di Francia e dal papa Clemente V il 13 ottobre del 1307. E tuttavia le conseguenze del pensiero gnostico per gli sviluppi della civiltà occidentale sono di enorme portata. C'è chi afferma che, dopo lo gnosticismo, nel mondo delle eresie non vi sia più nulla che non sia già stato detto. Inoltre - ed è ben più importante - non solo nell'ambito religioso ma, nella filosofia, nelle ideologie, nei movimenti politici si possono ravvisare elementi, atteggiamenti presi a prestito dalla Gnosi. Elenchiamo, senza alcuna pretesa di completezza, alcuni fatti, eventi, ideologie, sette che in tutto o in parte vengono collegati alla dottrina gnostica: BUDDISMO: si ritiene che fautori di questa religione siano venuti a contatto nei primi secoli del cristianesimo con il mondo greco in Alessandria d'Egitto. L'idea di Illuminazione, la valutazione negativa ed il rifiuto del mondo, la nascita come condanna sono gli stessi della dottrina gnostica. ISLAM: Maometto conobbe il cristianesimo attraverso i Vangeli apocrifi (Gnostici) e da essi giunse alla definizione di morte apparente di Gesù. LUTERANESIMO: come per gli gnostici, anche per Lutero vi è un rapporto diretto con Dio; egli sostiene la dottrina del rifiuto della Chiesa di Roma che non salva, è a favore di una Chiesa invisibile. CALVINISMO: il principio della predestinazione è di derivazione gnostica. ILLUMINISMO: propugna l'idea della fiducia illimitata nella ragione come esperienza personale, il rifiuto delle conoscenze tradizionali e della religione. Nega leggi e valori assoluti. MASSONERIA: sorta di religione laica nata ufficialmente in Inghilterra nel 1717. Organizzata in logge segrete, ha fra i suoi elementi portanti l'iniziazione degli aderenti, il carattere elitario Il Martin Lutero di Lucas Cranach (1529) (gli aderenti hanno diversi gradi di conoscenze), l'esoterismo. Per i Massoni Dio è il Grande Architetto, non certo identificabile col Dio della Bibbia. MODERNISMO: movimento sorto nel XIX secolo con l'intento di rinnovare la Chiesa Cattolica. Si riduce ad essere premessa del secolarismo. Valorizza l'esperienza personale in contrapposizione alla chiesa che non è considerata istituzione divina: i dogmi sono solo dei simboli da reinterpretare. SECOLARISMO: secondo la visione laicista, la religione deve essere una esperienza privata. Si vuole una società priva di valori etici assoluti. Nel linguaggio religioso si intende che l'uomo è "diventato adulto" quando si svincola dalla dipendenza religiosa (Bonhoeffer - Teologia della morte di Dio). TESTIMONI DI GEOVA: i Testimoni di Geova vedono il mondo e lesue istituzioni come preda del Maligno. Vi è una distinzione tra eletti e le altre "pecore". Gesù non è Dio ma, come per gli gnostici, un'entità inferiore. La resurrezione di Gesù è un fatto simbolico. Lo studio della Bibbia è inteso come conoscenza. La Bibbia è modificata e reinterpretata. A questi taluni aggiungono, un po' discutibilmente, le "grandi utopie" (marxismo, ecologismo, pacifismo, movimento Hippy, il Sessantotto etc.) che hanno come denominatore comune la fiducia nella possibilità di creare sulla terra una sorta di Paradiso terrestre in cui ogni problema ha una sua soluzione. 51 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Ma i due movimenti che ci paiono più strettamente collegati con la Gnosi sono, come abbiamo accennato, i CATARI e i TEMPLARI, che dei Càtari furono per molti aspetti eredi (cfr. il Santo Graal). Si può dire in conclusione che forse nessuna corrente di pensiero abbia agito (sia pur sotterraneamente) sugli sviluppi di quella che chiamiamo "civiltà occidentale" in modo più decisivo della Gnosi. 52 IRENE STORNIOLO Δαίμονες HERMES TRISMEGISTO Con il termine ermetismo, come chiarisce il sito dell'Università di Siena (sezione Hermes latinus), si usa denotare una forma di pensiero filosofico e tecnico-operativo caratterizzato da una spiccata sensibilità religiosa, che affonda le sue origini nell'antico Egitto e che, a contatto con la civiltà greca classica, apre la strada ad una riflessione che darà origine ad una vasta produzione di carattere filosofico e teologico, che investirà anche l’astrologia, la magia e soprattutto l'alchimia. Alla figura di Hermes Trismegisto, e ad altri personaggi mitici con cui egli viene talvolta identificato, come Germa Babiloniensis, Enoch, o ancora a suoi discepoli, come Aristoteles, Belenus, Flaccus Africus, Harpocration, Thoz Graecus, Thabit, vengono attribuiti diversi scritti, che saranno poi classificati nel Corpus Hermeticum. Hermes Trismegisto non sarebbe altri che il dio egizio Thoth o Theuth "tre volte grandissimo" ("trismegisto" in greco significa appunto questo), lo stesso di cui parla Platone nel Fedro attribuendogli l'invenzione di tutto ciò che porta all'evoluzione della civiltà umana, dal gioco degli scacchi alla scrittura. La sua identificazione con il dio greco Hermes si spiega alla luce del sincretismo religioso determinatosi in seguito alla conquista dell'Oriente da parte di Alessandro Magno ed alla fondazione di Alessandria d'Egitto, vero e proprio crogiolo di culture diverse e principale polo culturale della prima età ellenistica. Hermes Trismegisto in un mosaico del Duomo di Siena L’idea fondamentale dei testi ermetici è quella dell’unità del tutto, sulla quale si fondava una visione olistica della realtà, espressa nella dottrina cosiddetta della sympàtheia universale, presente anche nella dottrina dello stoico Posidonio di Apamea e ripresa nella Tabula Smaragdina, testo fondamentale dell’alchimia. Gli autori dei testi ermetici si definiscono filosofi, ma conferiscono al termine filosofia un significato più ampio rispetto a quello di comprensione razionale della realtà. Come abbiamo visto, infatti, la filosofia ermetica presenta i tratti di un’antica tradizione sapienziale, in cui il sapere è trasmesso come una rivelazione dal maestro al discepolo (spesso gli scritti hanno la forma di dialoghi) o per illuminazione immediata dal dio Ermete, per poi tradursi in una operatività che mira alla trasformazione della realtà. Nel Medioevo tuttavia, come si accennava, questo articolato insieme di saperi, che conoscerà ampia fortuna nel Rinascimento, non fu trasmesso, e buona parte delle informazioni che circolarono su Hermes furono 53 IRENE STORNIOLO Δαίμονες ricavate da autori cristiani tardoantichi, che assunsero atteggiamenti diversi nei confronti dell’ermetismo: Agostino attaccò duramente questa forma di religione pagana, mentre positivi furono i giudizi di Lattanzio e Quodvultdeus, discepolo di Agostino e autore di un trattatello Adversus quinque haereses, che fecero di Ermete un precursore della rivelazione cristiana. Il Corpus Hermeticum rappresentò invece la fonte di ispirazione di tutto il pensiero ermetico e neoplatonico rinascimentale a partire dalla sua riscoperta, dovuta a Cosimo de' Medici ed alla traduzione da lui commissionata nel 1460 a Marsilio Ficino, ed ha continuato ad influenzare la cultura occidentale anche nei secoli successivi, attraverso la trasmissione occulta avvenuta in seno a numerose sette esoteriche. Ricostruzione della "porta ermetica" del Marchese Palombara a Roma 54 IRENE STORNIOLO Δαίμονες IL CORPUS HERMETICUM Il Corpus hermeticum, così come era noto agli studiosi in età medievale, era composto da 17 trattati, numerati da 1 a 14 e da 16 a 18 (il quindicesimo trattato, inserito nel corpus nel 1554 dal filologo Adriano Turnebus, era in realtà un insieme di tre estratti dell'antologia di Stobeo). Si tratta di una serie di testi raggruppati ed ordinati in età bizantina, scelti probabilmente per la loro ispirazione filosofica e l’assonanza delle dottrine ivi presentate con gli elementi della cultura cristiana. Da questa collezione risultano infatti eliminati, o comunque sensibilmente ridotti, quegli aspetti legati alle pratiche occulte (magia, astrologia, alchimia) che spiccavano invece nei titoli delle più antiche testimonianze greche attribuite ad Hermes che ci sono pervenute. Alla scomparsa (o meglio, all'occultamento) della letteratura ermetica contribuì in modo decisivo l'attacco sferrato contro di essa da molti filosofi e dai Padri della Chiesa, tanto che il Cristianesimo definì l'ermetismo una dottrina eretica, mettendo al bando definitivamente ogni tipo di trattato di matrice ermetica. Hermes Trismegisto Passò quindi molto tempo prima che si sentisse ancora parlare di ermetismo, tanto più essendo sparito tutto il corpus dei trattati. Gli scritti di magia, medicina magica ed astrologica, alchimia che in età medievale circolarono sotto l’attribuzione ad Hermes, furono in gran parte tradotti dall’arabo, sebbene originariamente costituiti da materiali risalenti all’età ellenistica. Fu Michele Psello, uno studioso bizantino vissuto a cavallo del XI secolo, a dare nuova vita alla dottrina ermetica e al Corpus Hermeticum, che però rimase ignoto in Occidente. L'esistenza del testo venne probabilmente resa nota in occasione del concilio tenutosi a Firenze sotto Cosimo de' Medici nel 1438 nel tentativo di sanare lo scisma d'Oriente. La data del 1438 è veramente epocale, perché in quell'occasione l'imperatore Giovanni VIII di Bisanzio e il patriarca di Costantinopoli Gennadio II arrivarono in Italia con un seguito di ben 650 studiosi, eruditi ed ecclesiastici. Fra i testi resi noti in quell'anno c'è anche il Timeo di Platone, fino ad allora sconosciuto. Nel 1460 Cosimo riuscì a procurarsi la copia originale appartenuta a Michele Psello ed ordinò a Marsilio Ficino di tradurre immediatamente il Corpus. Ficino completò il suo lavoro nell'arco di tre anni (in realtà tradusse solo i primi 14 trattati) ed ebbe come premio una villa. La raccolta dei 17 trattati (logoi) che formano il Corpus Hermeticum rimase intatta fino al momento in cui alcuni editori del XVI secolo decisero di metterci mano; il primo, nel 1554, fu Turnèbe, che pensò bene di aggiungere alla fine del XIV logos altri tre brani ermetici (in realtà si trattava solo di frammenti) scritti da Stobeo. Vent'anni dopo fu la volta di Flussas, che aggiunse a sua volta un brano tratto dalla "Suda"; per staccare questi ultimi quattro logoi del corpus originale, ne fece un logos a parte, ordinando il Corpus Hermeticum in 18 trattati - da a I a XVIII - dei quali l'aggiunta costituiva il XIV. In seguito i logoi tornarono a essere 17, ma senza che fosse rimaneggiato il contenuto: fu semplicemente deciso di escludere dalle successive pubblicazioni il XIV, così da passare direttamente dal XIII al XV. Esistono tuttavia molti altri trattati ermetici che non fanno parte del Corpus: col passare del tempo, infatti, prese corpo una raccolta di testi e riferimenti a opere note agli eruditi, scritti in varie epoche. Si venne così a delineare una vera e propria raccolta secondaria di trattati ermetici, la cui origine affondava perfino negli scritti dell'imperatore Giuliano "L'Apostata" e di Sant'Agostino. 55 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Tra le opere ermetiche di Giovanni Stobeo vanno ricordate "La Vergine del Mondo" e il Florilegium (un'antologia dove Stobeo aveva inserito ben 27 brani ermetici raccolti negli anni). Un'immagine del dio Thoth L'Asclepius - tra tutti - è considerato quello di maggiore rilevanza dopo il Corpus Hermeticum, tanto da venire considerato una sua appendice. Aggiunto alla raccolta di scritti di Lucio Apuleio - il cosiddetto "Corpus Apuleianum" - l'Asclepius veniva considerato una parte fondamentale della tradizione ermetica e si riteneva che Apuleio ne fosse stato il traduttore o addirittura l'autore. Sparito in Occidente dopo la morte di Sant'Agostino, l'Asclepius riapparve solo verso il XII secolo; ma durante questo lungo periodo la sua esistenza è fuori discussione, essendo documentata da tutti gli autori che ne parlano nei loro trattati ed alimentando la corrente ermetica durante tutto il Medioevo. All'epoca del Ficino il Corpus era attribuito all'antichità egizia ed era ritenuto addirittura precedente a Mosè: lo si riteneva opera di Hermes Trismegisto ed era spesso interpretato come preannuncio del Cristianesimo. In seguito però Isaac Casaubon, nel De rebus sacris et ecclesiasticis (1614), datò la composizione del Corpus all'epoca tardo-ellenistica e mise in dubbio la reale esistenza storica del suo autore. In effetti, come si diceva prima, il nome stesso di Hermes Trismegisto sembra risalire ad un'epoca non antecedente a quella alessandrina e non si spiega se non con il sincretismo religioso e culturale tipico dell'età ellenistica; ma il problema della cronologia del nome e della formazione del Corpus non necessariamente è legato con quello della datazione dei contenuti. Oggi infatti la tesi di Casaubon è generalmente accettata per la composizione del Corpus hermeticum, che dunque è di età ellenistica, mentre rimane tuttora irrisolto il problema della cronologia dei contenuti, che potrebbero essere di gran lunga precedenti alla sua redazione; lo studioso Martin Bernal, ad esempio, ha contestato i risultati di Casaubon e riaffermato con forza l'origine egiziana del Corpus hermeticum. E' da notare infine che alcuni dei testi appartenenti al Corpus sono stati rinvenuti anche tra i Codici di Nag Hammâdi, scoperti nel 1945; essi risalgono al IV secolo d.C. circa. 56 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Il testo a noi noto è probabilmente frutto di un rimaneggiamento compiuto da Michele Psello verso il 1050; è plausibile che egli abbia eliminato elementi magici e alchemici per rendere il Corpus più accettabile per la Chiesa ortodossa. Ancora l'ingegnoso dio Thoth Il Corpus viene generalmente diviso in due parti: Pimander o Poimandres: è la parte tradotta nel 1463 da Marsilio Ficino, consta di quattordici trattati e riguarda la creazione. Asclepius: già circolante in epoca medievale, come si diceva, nella versione latina attribuita ad Apuleio, è un trattato di magia nel quale si espongono le pratiche dei sacerdoti egizi volte all'animazione di statue, tramite il coinvolgimento di forze sovrannaturali (δαίμονες). Dal mio punto di vista è di particolare interesse questa parte del corpus; tuttavia è opportuno dedicare attenzione anche alla parte restante. Poimandres, ovvero Pimandro, significa "uomo pastore", o forse, più appropriatamente, "pastore di uomini", e questo potrebbe forse spiegare il motivo per cui i primi custodi di questa antica tradizione esoterica amavano raffigurarsi come pastori (cfr. Poussin e il mito dell'Arcadia). Il Poimandres è una sorta di cammino iniziatico attraverso il quale il fedele viene condotto alla comprensione del nous ed alla rinascita in Dio, mediante l'insegnamento del suo messaggero Hermes Trismegisto. Tutto ciò in ossequio ad uno dei principi cardine della dottrina ermetica: l'uomo deve compiere un viaggio per liberare dai vincoli terreni la sua parte divina (l'intelletto) e giungere così alla salvezza, rappresentata dal lògos, la verità del Poimandres. Non tutti però saranno in grado di compiere questo percorso, riservato a pochi eletti. Al Poimandres e all'Asclepius si è aggiunto, in epoca recente, il cosiddetto Kybalion, vero e proprio compendio della sapienza ermetica e - ammesso ovviamente che sia da considerare autentico - complemento del Corpus Hermeticum, in particolare della parte di esso chiamata Tabula Smaragdina. 57 IRENE STORNIOLO Δαίμονες L'ASCLEPIUS L’unica opera filosofica attribuita ad Hermes Trismegisto che fu letta e commentata nel Medioevo è l’Asclepius, traduzione di un originale greco che ci è pervenuto in modo frammentario attraverso l’opera del cristiano Lattanzio, dal titolo Logos teleios (= "Discorso perfetto"), datato solitamente intorno al III secolo. Inserito nel "Corpus Apuleianum", l'Asclepius veniva ricondotto ad Apuleio di Madaura: si diceva che ne fosse stato il traduttore o addirittura l'autore. Scopo dichiarato di quest'opera è l’insegnamento, ottenuto mediante rivelazione, di un mysterium che permetterà l'accesso del discepolo alla gnosi. Il testo ha uno stile oscuro e solenne, che solo gli iniziati possono comprendere, e un carattere asistematico che crea agli interpreti non poche difficoltà di comprensione. Il messaggio che si riesce a cogliere è che il concetto di gnosi è strettamente correlato ad una visione complessiva di Dio, del mondo e dell’uomo, che viene esposta al discepolo. Dio è l’essere privo di nomi che allo stesso tempo li possiede tutti, è padre ma è maschio e femmina; è onnipotente (primipotens, ‘potente tra i primi’) e buono, ma non è il Sommo Bene dei platonici; è conoscibile per l’essere umano solo attraverso l’intelletto ed esprime la sua potenza nella creazione del mondo, che poi governa mediante la provvidenza. L’Asclepius afferma l’unità di creatore e creatura in questi termini: “Non ho detto infatti che tutto è uno e uno è tutto, cosicché nel creatore c’erano tutte le cose prima che tutte le creasse? Non è detto male affermare che egli è tutto, poiché le sue membra sono tutte le cose”. In una visione cosmologica piena di punti oscuri, il primo Dio è presentato come il signore dell’eternità; secondo è il cosmo, terzo viene l’uomo. František Kupka, La via ermetica, 1903 Tra Dio e il mondo è istituito un complesso rapporto di mediazione, rappresentato da una gerarchia di dèi minori e di dèmoni: la fede nell'esistenza dei dèmoni conduce alla teurgia (magia rituale): addirittura si afferma che gli uomini possano introdurre nelle statue da loro fabbricate il principio divino, per dar loro il dono della profezia. Proprio questo è il motivo per cui Sant'Agostino esprime un giudizio negativo su Hermes Trismegisto, che considera un profeta ispirato dai dèmoni e portatore di un culto pagano idolatrico. L’antropologia dell’Asclepius è profondamente ottimistica: pur ribadendo il dualismo tra anima e corpo, e la 58 IRENE STORNIOLO Δαίμονες superiorità della prima, che ha una natura divina, sul secondo, considera positiva questa doppia natura dell'essere umano: grazie ad essa, infatti, questi, come un microcosmo, contiene in sé tutti gli aspetti della realtà, e di conseguenza ha la capacità di governare il mondo, che gli esseri puramente spirituali non hanno. 59 IRENE STORNIOLO Δαίμονες HITLER E IL "NAZISMO MAGICO" Il cosiddetto "hitlerismo esoterico" o "nazismo magico", il cui principale rappresentante fu Heinrich Himmler ed il cui esito più noto fu la costituzione, nel 1935, della cosiddetta Ahnenerbe ("Società di ricerca ed insegnamento dell'eredità ancestrale"), affonda le sue radici in alcuni movimenti neotemplari e neocatari formatisi a partire dall'inizio del Novecento. Ripercorriamo le fasi essenziali del fenomeno. 1. Jörg Lanz Von Liebenfels. Nel 1907 Jörg Lanz Von Liebenfels, un monaco cistercense espulso in seguito dall’Ordine, fondò, in una fortezza sul Danubio, l'Ordine dei Nuovi Templari; al nuovo Ordine affiancò una rivista, Ostara, organo ufficiale per la diffusione di una nuova dottrina, l'Ariofilosofia, che predicava, tra l'altro, la superiorità della razza germanica. Il tutto derivava da una personale interpretazione dei testi biblici in base alla quale il termine Angelo veniva letto Euroariano ed i popoli dei fiumi mesopotamici venivano fatti discendere direttamente da una razza subumana chiamata Pagutu. Jörg Lanz Von Liebenfels L’idea di Von Liebenfels diede lo sprone alla nascita di nuovi gruppi, tutti dai nomi vagamente marziali quali Armen Order, Ordo Novi Templi, Germanen Order e la famigerata Società Thule. Il primo a riconoscere in questi eventi una materializzazione oscura fu Carl Gustav Jung, il quale ribattezzò il proliferare di questi movimenti come "l’Archetipo Wotan", mettendo tutti in guardia contro i pericoli che ne sarebbero potuti derivare. 2. La Thule Gesellschaft, i Superiori Sconosciuti e la Terra cava. I "Nuovi Templari" non erano l'unica società esoterica della Germania prenazista. Tra il 1900 e il 1930, come sempre accade nei periodi di crisi e di confusione ideologica, molti tedeschi cercavano nel soprannaturale quelle certezze e quell'identità venute a mancare nel mondo reale. Sulla scia delle dottrine predicate dall'americana "Società Teosofica Internazionale" (fondata a New York il 60 IRENE STORNIOLO Δαίμονες 17 Novembre 1875 da Helena Petrovna Blavatsky, nobildonna russa nonché celebre medium e occultista, e dal colonnello americano H.S. Olcott) e dall'inglese "Golden Dawn" (fondata nel 1887 e diretta in questo periodo dal sinistro Aleister Crowley), e, forse, ispirati anche da una cattiva interpretazione della filosofia del "Superuomo" di Nietzsche, videro la luce molti "ordini" caratterizzati dall'idea ossessiva della necessità della rifondazione di una Razza Superiore originata millenni addietro dai "Superiori (o Maestri) Sconosciuti". Questi ultimi erano concepiti come semidei che controllavano i destini del mondo standosene nascosti - a seconda dei casi - nelle viscere della terra, in profonde gallerie scavate nell'Himalaya o in altri luoghi inaccessibili. Madame Blavatsky Nel 1910 fu fondata la "Società di Thule" (Thule Gesellschaft), la quale identificava l'origine della razza ariana nell'antica Thule di cui parla il geografo greco Pytheas (IV sec. a.C.), forse l'attuale Islanda; questa razza era costituita da giganti con i capelli biondi, gli occhi azzurri e la pelle chiara, che un tempo dominavano il mondo, successivamente perso per aver consumato relazioni sessuali con membri di altre razze, inferiori, subumane e in parte animali. In effetti, nel mito thuleano di una terra abitata da una razza umana sotto certi aspetti "superiore", identificata sovente con il popolo degli Iperbòrei, organizzata in una società pressoché perfetta, si possono facilmente ritrovare alcune della basi del mito - accolto e divulgato dal nazismo - della razza ariana, superiore a qualsiasi altra e dunque inevitabilmente dominante sul mondo. La "Società di Thule" attinse a piene mani dalle teorie di Von Liebenfels e di Madame Blavatsky, la quale sosteneva di essere in contatto telepatico con gli antichi "Superiori sconosciuti". Essi, che a suo dire erano i sopravvissuti di una razza eletta vissuta tra Tibet e Nepal, si sarebbero rifugiati in seguito a una spaventosa catastrofe nelle viscere della terra, dove avrebbero fondato una straordinaria civiltà sotterranea, la mitica Agarthi. I superstiti rimasti sulla superficie terrestre si sarebbero trasferiti parte in Tibet, parte nel nord Europa, dando origine alla razza ariana (la riprova sarebbe l'analogia tra il nome del regno degli Dei nordici, Asgard, e Agarthi, nome del mitico centro spirituale nascosto in Tibet). Anche per la "Società del Vril" (il Vril è l'enorme quantità di energia che possediamo e di cui non utilizziamo che una piccolissima parte nella vita quotidiana, il nucleo della nostra potenziale divinità) i Superiori Sconosciuti si trovavano nelle viscere della terra, ed era possibile diventare simili a loro soltanto purificando la razza. 61 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Thule (qui indicata come Tile) in una carta di Olao Magno del 1539 Un "ingegnere" autodidatta, Hans Hörbiger, formulò nel 1925 una teoria sul "mondo di ghiaccio", secondo la quale l'universo sarebbe nato dalla collisione di blocchi di "ghiaccio cosmico" dotati di movimento a spirale con enormi masse di fuoco. Dal ghiaccio, che tempra corpi e spirito, sarebbero nati sulla terra i Superiori Sconosciuti, dispersi in vari cataclismi tra cui quello di Atlantide, ma destinati a riorganizzarsi in una nazione germanica. Queste società fecero entusiasticamente propria la "teoria della Terra cava" dell'americano Symmes: quale miglior nascondiglio dell'interno della Terra, per una civiltà superiore di origine ariana? Non mancò chi, come Bender, fondatore del gruppo della "Hohl Welt Lehre", sostenne che l'umanità vivrebbe addirittura all'interno di una sfera di cui il Sole costituisce il centro. Sappiamo che Hitler fu un convinto sostenitore delle teorie di Hörbiger e di Bender. Una straordinaria "mappa della terra cava" realizzata per un gioco 62 IRENE STORNIOLO Δαίμονες da Exile Game Studio nel 2005 3. La personalità di Hitler fra mistico e maniaco. Alfredo Castelli, creatore di Martin Mystère, racconta in un suo sito che secondo August Kubizek, uno dei pochi amici di Hitler durante la sua giovinezza a Linz, in Austria, le ossessioni magico-politico-razziali del futuro Führer si rivelarono d'improvviso attorno al 1904, quando Hitler aveva quindici anni. Dopo aver assistito a Rienzi, un'opera di Wagner impregnata d'esoterismo dedicata al tribuno Cola di Rienzo, il giovane Hitler cominciò a parlare di "una missione che il destino gli aveva riservato" e che "avrebbe affrancato la sua razza dalla servitù". Sempre secondo Kubizek, in quell'occasione Hitler parlò per la prima volta con quella voce frammentata e caratterizzata da violenti toni d'ira che sarebbe divenuta tristemente famosa grazie ai suoi discorsi, e che però - fatto singolare, noto solo agli intimi - non era la voce "normale" con cui si esprimeva quotidianamente. "Pareva lui stesso stupito" scrisse Kubizek - "come se sentisse le parole di un altro uscire dalla propria bocca". C'è chi vede in questo i primi sintomi di una forma di schizofrenia che l'avrebbe accompagnato per tutta la vita, chi invece azzarda l'ipotesi di una vera e propria possessione demoniaca. Adolf Hitler Sta di fatto che da quel momento Hitler cominciò a occuparsi, quasi a tempo pieno, di misticismo orientale, di astrologia, di ipnosi, di mitologia germanica, di occultismo. Era morbosamente affascinato dalle tematiche esoteriche delle opere di Wagner, di cui presto scoprì la fonte di ispirazione: la poesia medioevale di Wolfram Von Eschenbach, autore di un Parsifal dalla complessa simbologia ermetica. Un personaggio del poema lo colpì in modo particolare. Si trattava di un certo Klingsor che, secondo Hitler, era la trasposizione letteraria di una persona realmente esistita, il tiranno Landolfo II di Capua, scomunicato nell'875 per aver praticato la magia nera con l'intento di acquisire il potere assoluto. Con ogni probabilità Hitler si identificò con lui, anche perché soffriva della stessa anomalia fisica: erano entrambi monorchidi, ovvero dotati di un solo testicolo (si sa infatti che gli Alleati cantavano una marcetta, "Hitler has only got one ball", su un'aria simile a quella di Colonel Bogey, forse inventata dallo stesso Servizio Segreto Inglese a scopo denigratorio). 63 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Hermann Rauschning descrive così le stranezze del comportamento di Hitler: «Una persona di quelle della sua intimità mi disse che egli si sveglia la notte lanciando grida convulse. Chiama aiuto. Seduto sull’orlo del letto, si trova come paralizzato. E’ preso da un panico che lo fa tremare al punto che il letto si scuote. Proferisce vociferazioni confuse e incomprensibili. Si affanna come se fosse sul punto di soffocare. La stessa persona mi raccontò di una di queste crisi con particolari che io mi rifiuterei di credere se la fonte non fosse così sicura. Hitler era in piedi in camera sua, barcollando e guardando intorno a sè con un’aria allucinata. "E’ lui! E’ lui! Lo vedo qui!" egli borbottava. Le sue labbra erano azzurre. Il sudore scorreva in grosse gocce. Repentinamente pronunciò delle cifre senza senso alcuno, poi parole, pezzi di frase. Era orribile. Egli impiegava termini bizzarramente allineati, completamente estranei. Dopo tornò nuovamente silenzioso continuando però a muovere le labbra. Gli si fecero frizioni, gli si diede da bere una bevanda. Poi, improvvisamente, egli ruggì: "Lì, lì! Nell’angolo. Cosa c'è lì?" Batteva il piede sul pavimento di legno e urlava. Gli assicurarono che non succedeva niente di straordinario e allora egli, a poco, a poco, si calmò» (Hermann Rauschning, "Hitler m’a dit", in "Hitler et la Tradition Cathare", Parigi 1939). Una celebre fotografia di Adolf Hitler "Seguo il cammino che la provvidenza mi indica con la sicurezza di un sonnambulo", diceva Hitler: il che conferma la sua convinzione di disporre di poteri paranormali. Ma da dove avrebbe egli ricevuto tali poteri? Dalla Società Thule che lo aveva iniziato all’esoterismo orientale? Dal misterioso "monaco dai guanti verdi" inviato dai saggi del Tibet? O da una rivelazione più antica? Fra l’altro, per quanto possa sembrare paradossale, Hitler odiava i cacciatori: credeva nella reincarnazione delle anime in corpi di animali, proprio come i buddisti e i catari. Un giorno dichiarò: «Chi si suicida ritorna fatalmente alla natura-corpo, anima e spirito» (Hitler Adolf, "Libres Prepos", Flammarion, Paris, in "Hitler et la Tradition Cathare"); dichiarazione in totale contrasto con la scelta del suicidio che attuò nel 1945. 64 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Sapendo tutto questo, non c'è da stupirsi che già nel lontano 1909, a vent'anni, Hitler abbia preso contatto con Von Liebenfels, e che 1919 sia stato iniziato alla Società Thule da Dietrich Eckart, che in quel periodo ne era il leader, rimanendo profondamente e durevolmente influenzato da tutte le teorie sopra descritte. 4. Hitler e l'esoterismo. Difficile comprendere se sia stata l'ossessione di Hitler per queste teorie esoterico-razziali a fargli intraprendere la sua carriera politica, in modo da poterle mettere in pratica, oppure le abbia adottate "a posteriori" come base filosofica della sua politica; con ogni probabilità le due ossessioni interagirono. Sta di fatto che Adolf Hitler fece sua questa accozzaglia di dottrine. Che ci credesse sul serio o, come si suol dire, "ci marciasse" (ma la prima ipotesi è la più attendibile), Hitler si circondò di legioni di maghi, astrologi, occultisti, ricercatori psichici, alchimisti. Non a caso, nel 1920, scelse un simbolo magico, la svastica, come marchio del partito nazionalsocialista. Gliel'aveva suggerito Friedrich Krohn, un occultista del gruppo "Germanenorder", ma Hitler aveva preteso una modifica: la direzione delle braccia della svastica fu invertita, trasformando questo antico simbolo solare e positivo in un simbolo notturno e negativo. Uno stupefacente disegno di Boris Artzybasheff apparso su Life, raffigurante gli incubi di Hitler (tutti a forma di svastica!) Paradossalmente, l'occultista più seguito da parte di Hitler era un ebreo, tal Erik Jan Hanussen, che non solo gl'impartì lezioni di oratoria, ma anche curò la teatralità dei gesti del futuro dittatore. A far data dal 1932 (sebbene altri futuri alti gerarchi nazisti abbiano fatto ricorso al medium già a partire dal 1924) Hitler ricorse più volte alle "cure" di Hanussen ogni qual volta doveva prendere decisioni importanti o si sentiva deluso dai risultati elettorali, tanto che nel 1932 l'esoterista, a quel tempo secondo solo ad Harry Houdini per fama, gli preannunciò la conquista del potere per l'anno seguente, il che effettivamente si verificò nella data prestabilita, in quanto "questo hanno deciso le potenze celesti e nulla potrà mutare tale verdetto se scritto nel destino". Nel corso di un'intervista, Hanussen ebbe modo di affermare circa Hitler ed il nazismo: "Hitler? Sì, un ottimo direttore d'orchestra! Però, lo spartito... - rammentate bene - ebbene quello l'ho scritto io!". Hanussen morì un anno esatto dopo aver predetto la vittoria hitleriana, nella primavera del 1933, ma sembra ormai accertato che Hitler non fosse coinvolto nel suo omicidio; lo erano piuttosto, pare, Himmler e Gōring. Hanussen infatti aveva predetto a Göring la caduta del Terzo Reich, e questa fu una delle probabili cause della sua morte. Il giorno prima di morire Hanussen scrisse con l'inchiostro simpatico una lettera all'ex segretario Juhn: "Tu non credi nell'occulto, ma il nuovo padrone della Germania ci crede eccome! Leggi quanto profetizza il mio 65 IRENE STORNIOLO Δαίμονες collega, il profeta Daniele nel capitolo 8 ("13. Udii parlare un santo e un altro santo dire a quello che parlava: «Fino a quando durerà questa visione: il sacrificio quotidiano abolito, la trasgressione devastante, il santuario e la milizia calpestati?». 14. Gli rispose: «Fino a duemilatrecento sere e mattine: poi al santuario sarà resa giustizia»"). Calcola bene gli anni e saprai quando cadrà l'uomo malvagio che cerca di sottomettere il mondo con la forza bruta. Calcola gli anni da quando cento sinagoghe saranno distrutte in un'unica sera ("Notte dei cristalli", 1938) e saprai quando cesserà il suo barbaro sogno". Il giorno dopo Hanussen morì in circostanze oscure. Hanussen a parte, molti episodi del nazismo rimangono non del tutto chiariti. Ad esempio l'operazione che passò alla storia col nome de "La Notte dei Lunghi Coltelli" (1934), voluta da Hitler, dal ministro degli Interni Göring e dal leader delle SS, Himmler, potrebbe essere, secondo alcuni, un regolamento di conti a sfondo non solo politico, ma anche esoterico. 5. Himmler e il neo-paganesimo. Nel 1933, con il beneplacito di Hitler, il Reichsführer e fondatore delle SS (Schutz Staffel, "Forza Protettiva"), Heinrich Himmler, noto per la sua devozione maniacale alle arti magiche, mise insieme una vera e propria religione neo-pagana. Tutte le organizzazioni occulte furono obbligate a sospendere le loro pratiche per ordine di Himmler, il quale si riteneva unico depositario dell’ermetismo nazista; rimase in vita solo il famigerato Ordine Nero da lui fondato, un movimento occulto nato con l’unico scopo di contrastare gli alleati servendosi di pratiche magiche. Contemporaneamente Hitler fece eliminare tutti gli astrologi, i sensitivi e i parapsicologi tedeschi, esclusi quelli che lavoravano alle sue strettissime dipendenze, iniziò a divulgare nuove teorie ed ordinò l’insegnamento delle prime nozioni misteriosofiche ad una speciale sezione delle S.S. dedita esclusivamente all'esoterismo. Come centri di culto furono scelti Exernsteine, considerata la Stonehenge tedesca, e, soprattutto, Wewelsburg, dove venne edificata una vera e propria cattedrale esoterica, con una Tavola Rotonda per tredici commensali (Himmler e i suoi "dodici apostoli") attorno alla quale venivano progettati i genocidi delle "razze inferiori" e degli omosessuali. Qui le giovani SS (la cui genealogia era stata controllata fino al 1750, per appurare che in loro non scorresse sangue ebreo) subivano un rito di iniziazione, dopo il quale potevano indossare la divisa nera con il teschio d'argento. La sala di Wewelsburg, con il "sole nero" sul pavimento Himmler si occupava anche di cerimonie scaramantiche contro simboli o monumenti che riteneva di cattivo auspicio; durante la guerra fu ossessionato dall'idea di sabotare le campane di Oxford, presso Londra, che 66 IRENE STORNIOLO Δαίμονες secondo lui portavano sfortuna alla Luftwaffe, l'aviazione tedesca, impedendole di colpire a fondo sul territorio inglese. Nel 1938, in occasione dell'Anschluss, ovvero l'annessione forzata dell'Austria, Hitler si affrettò a impadronirsi dell'Heilige Lanze, la "Lancia Sacra" con cui, secondo la leggenda, il pretoriano Longino aveva trafitto il costato di Cristo crocifisso, custodita nel palazzo Hofburg di Vienna. Hitler la riteneva un potentissimo talismano e la fece portare a Norimberga, il centro principale del Partito Nazista. Qui essa venne provvisoriamente collocata nella chiesa di Santa Caterina, dove venne allestito un vero e proprio santuario mistico-esoterico, e presentata come simbolo della sacralità della missione germanica, ricollegandovi nuovamente un mito di invincibilità. In seguito Hitler la fece murare in un bunker segreto. La "Lancia Sacra", oggi conservata a Vienna Sempre agli anni immediatamente antecedenti al conflitto risalirebbero alcune esplorazioni in Tibet, allo scopo di identificare la mitica Agarthi, e la ricerca del Santo Graal. A quest'ultima vicenda è legata la misteriosa morte dell'archeologo Otto Rahn. Rahn, colonnello delle SS, e il filosofo Alfred Rosenberg, amico di Hitler, furono incaricati di cercare il Graal. Indagarono a Montségur e in altre fortezze catare. Subito dopo le ricerche, di cui mai si seppe alcun risultato, il 13 Marzo del 1939 il corpo di Rahn venne ritrovato in fondo ad una scarpata tra le montagne dell'Austria, a Kitzbühel. L'episodio non fu mai ben chiarito: le tesi ufficiali parlano di suicidio, ma si è ipotizzato che si trattasse di un'esecuzione. Otto Rahn Ne "Il Mattino dei Maghi" Jacques Bergier sostiene che le spedizioni continuarono fino al 1943, ma la loro realtà non è storicamente accertata. Si sa però che nel giugno del 1944 la II divisione delle S.S. "Das Reich" mise a ferro e fuoco il paese di Oradour-sur-Gland, massacrandone gran parte della popolazione, rea di aver occultato, a suo dire, la reliquia che Hitler aveva cercato disperatamente per mezza Europa. E' confermato anche il fatto che, dopo la caduta di Berlino, i sovietici rinvennero i cadaveri di molti tibetani in uniforme tedesca. Chi erano, e cosa facevano nella capitale del Reich? Nel frattempo Hitler continuava la sua frequentazione di veggenti: nel 1942 si recò in Bulgaria a consultare 67 IRENE STORNIOLO Δαίμονες la celebre Vangelia Pandeva ("Baba Vanga"), che viveva nella città di Petrich. Probabilmente l'incontro non fu dei più felici, giacché Hitler fu visto uscire scuro in volto. Si faceva anche commentare da un sedicente esoterista, tal Ludwig Birzer, i passi di Nostradamus, della Monaca di Dresda, di San Malachia, Mother Shipton e dell'anonimo monaco tedesco noto con lo pseudonimo de "Il Ragno Nero" (in tedesco "der Schwarze Spinne"). 6. Ipotesi e interrogativi. Questi i fatti accertati. Ma secondo alcuni studiosi Hitler non era soltanto un paranoico ossessionato dalla magia, bensì un iniziato "di mano sinistra", un lucido e potentissimo "mago nero" che aveva stretto un patto con oscure potenze, a cui offriva sacrifici rituali in cambio del potere assoluto, come il suo ideale predecessore Landolfo II di Capua. Quest'alleanza spiegherebbe la sua fulminea carriera e l'inspiegabile carisma che il Führer, pur essendo fisicamente insignificante, riusciva ad esercitare a livello quasi ipnotico su sterminate moltitudini di concittadini. Ancor più inquietante l'ipotesi che lo stregone non fosse Hitler, ma qualcun altro che teneva nascostamente le fila e lo usava come fantoccio. Ma ci fu davvero qualcuno al disopra di Hitler? E se sì, chi era e che fine ha fatto? Nel volume "La Guerra Segreta", lo storico e narratore inglese Dennis Wheatley afferma che tra il '40 e il '45 potenti maghi "bianchi" di tutte le nazionalità si sarebbero coalizzati contro Hitler e i suoi stregoni, attaccandoli sul piano psichico. In Inghilterra le attività dei "maghi bianchi" sarebbero state coordinate da un'apposita sezione del Servizio Segreto, sorta con il beneplacito di Winston Churchill; tra i più potenti "oppositori psichici" di Hitler in Italia c'era - si dice - lo stesso Padre Pio di Pietralcina. Un giovanissimo Padre Pio In Germania (e questa notizia è storicamente sicura) il pranoterapista personale di Himmler, Felix Kernsten, un potente sensitivo di cui il Reichsführer delle SS era letteralmente dipendente, riuscì a "influenzarlo mentalmente" salvando la vita a centinaia di ebrei (Kernsten venne di seguito decorato dagli Alleati per aver reso "servigi così preziosi da non poter essere comparati con nessun precedente"). Sintomatico il fatto che, come si è detto, una volta preso il potere, Hitler si sia subito premurato di far sterminare tutti gli astrologi, i sensitivi e i parapsicologi tedeschi, esclusi quelli che lavoravano alle sue strettissime dipendenze. Ma, evidentemente, questa precauzione non bastava: Hitler non riuscì a sfuggire al destino che, come nel 68 IRENE STORNIOLO Δαίμονες mito di Faust, attende chi stringe un'alleanza con il Maligno. Chiuso in un bunker sotto una Berlino rasa al suolo dalle bombe e devastata dagli incendi, il Führer attese il 30 aprile 1945 prima di suicidarsi: era il giorno che si conclude con la notte di Valpurga, la notte in cui i poteri delle tenebre celebrano la loro festa trionfale. 69 IRENE STORNIOLO Δαίμονες 4. LA DONNA COME DEMONE FOSCA, LA DONNA-VAMPIRO Vorrei essere un’iena, addentrarmi nei sepolcri e pascermi delle ossa dei morti. A questo mondo io non vedo che teschi e stinchi. Se una donna mi bacia, io non sento che freddo; se mi sorride, vedo i suoi denti muoversi senza gengive, minacciando di uscire di bocca; se mi abbraccia, non ho che la sensazione di un corpo stringente e pesante come la creta. (Iginio Ugo Tarchetti, da Pensiero) Iginio Ugo Tarchetti nacque a San Salvatore Monferrato, vicino ad Alessandria, nel 1839. Studiò a Casale e a Valenza, e si arruolò giovane nell'esercito. Le cronache del suo tempo ci descrivono Tarchetti come un giovane alto all'incirca un metro e ottantaquattro, con volto ovale, il naso diritto, gli occhi azzurri. Un bell'uomo, capace di provare e scatenare grandi passioni. Ugo Iginio Tarchetti Un aspetto di re merovingio avea […] un chiomato romanziere, al quale Clara Maffei inviava, spesso, in segno di ammirazione, qual saluto mattutino, de’ fiori. Egli, al pari del Tommaseo, sorgeva a difensore della donna: qualche critico oggi lo chiamerebbe un “féministe”. Era il romantico Iginio Ugo Tarchetti, d’Alessandria, nato nel 1841; il quale proclamava al pari d’un altro sconfinato ingegno, Carlo Bini: “La virtù del sacrificio e dell’amore non ha limiti nel cuore della donna” non pensando quante donne, specialmente le mal maritate, sono la rovina di giovani onesti e d’oneste famiglie: ma quante altre sventurate (è vero) sono spinte al male da noi! (Raffaello Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Treves) Era alto, di complessione forte e gentile, aveva faccia di Nazareno, talvolta sdegnosa, per lo più mite; guardava superbamente gli uomini ignoti per paura che gli fossero avversari, ma con gli amici il suo sorriso buono si apriva alla confidenza, e sempre, sempre, io lo vidi ricercare il cielo mormorando versi di Heine, o di Shakespeare, o di Byron. Le donne egli le amava soltanto; troppo le amava, e perciò non poteva trovarsi bene nella compagnia di molte insieme. Una 70 IRENE STORNIOLO Δαίμονες gli bastava, e a quell’una imprestava per un’ora, per un giorno o per un anno, tutta la sua tenerezza, tutta la sua idealità d’artista. (Salvatore Farina, Care ombre, La mia giornata, S.T.E.N.) Verso il mese di novembre dell'anno 1865 Tarchetti si trovava a Parma, ove aveva incarichi militari. Nella città emiliana Tarchetti conobbe una donna, una certa Carolina (o Angiolina, sul nome c'è incertezza), parente di un suo superiore. Essa era malata di epilessia e prossima alla morte. Pur non essendo bella, ella suscitò subito un'attrazione da parte dello scrittore, forse per i grandissimi occhi neri e le trecce color ebano. Tarchetti stesso ci descrive la donna: "Quell’infelice mi ama perdutamente… il medico mi disse che morrà fra sei o sette mesi, ciò mi lacera l'anima, vorrei consolarla e non ho il coraggio, vorrei abbellire d'una misera e fuggevole felicità i suoi ultimi giorni e v'ha la natura che mi respinge da lei". La relazione fra i due fu uno scandalo, ma la donna fu l'ispirazione più diretta di Tarchetti per la creazione del personaggio di Fosca. Nel 1865 Tarchetti abbandonò la vita militare, adducendo la ragione a motivi di salute, e si trasferì a Milano, dove entrò in contatto con gli ambienti della Scapigliatura. Nel capoluogo lombardo trascorse i suoi ultimi anni conducendo una frenetica attività letteraria, scrivendo articoli, romanzi, racconti e poesie. Malfermo di salute, morì di tifo nel 1869, a soli trent’anni. La sua morte precedette quella della malata Carolina, la quale sopravvisse a Tarchetti e onorò la scomparsa del poeta mandando fiori alla sua lapide il novembre di ogni anno. Iginio Ugo Tarchetti è oggi sepolto nel Cimitero Monumentale di Milano. Fosca è considerato la prova migliore di Tarchetti, che lavorò a questo romanzo fino alla morte. Non riuscì però a completarlo: stese i due capitoli conclusivi, ma la parte mancante, la notte d’amore di Giorgio e Fosca, venne scritta dall’amico Salvatore Farina per permettere la pubblicazione dell’opera, che uscì a puntate sul «Pungolo», quello stesso anno. La vicenda, nella finzione narrativa, trae origine da un manoscritto (espediente manzoniano) in cui Giorgio, un giovane ufficiale, racconta in prima persona le due passioni amorose, risalenti a cinque anni prima, che hanno profondamente segnato la sua vita. Egli, ritiratosi dalla vita militare a causa di una malattia al cuore, si reca a Milano, dove incontra Clara, il cui "nome parlante" allude alla natura chiara e solare di questa donna giovane e bella, sposata, con la quale vive una intensa relazione d’amore. Dopo appena due mesi di inebriante felicità, Giorgio, risanato nel corpo e nello spirito, viene richiamato in attività e destinato a una monotona cittadina di provincia circondata da una landa desolata. Qui avviene l’incontro con Fosca, la cugina del suo colonnello; anche in questo caso il "nome parlante" ha una diretta corrispondenza con l'aspetto fisico e la personalità di questa donna, non bella, di orribile magrezza, consunta da una non meglio identificata malattia psicofisica. Da questo momento, mentre l’immagine di Clara diviene via via più remota, Fosca entra sempre più prepotentemente nella vita e nella mente di Giorgio, fino a contagiarlo con il suo morbo. Il tema dell’amore è presente nel romanzo secondo due modelli contrapposti: da una parte quello romantico, con l’adulterio che assume il valore di conflitto con le regole sociali, dall’altra il modello, tipico della Scapigliatura, dell’amore visto nei suoi risvolti morbosi, patologici, associato alla malattia e alla morte. È così, infatti, che Tarchetti-Giorgio descrive il rapporto con Fosca: «Più che l’analisi di un affetto, che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito». Ed è di questo amore che il protagonista vuole scrivere: le parti che fanno capo a Clara, infatti, sono soltanto brevemente evocate, come ricordi sereni ma statici, chiusi, di un tempo felice. Il contrasto fra le due donne, che attiene non solo al loro aspetto fisico, ma altresì alla realtà che le circonda, è messo in evidenza già nel modo in cui ci vengono presentate. 71 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Clara, giovane, serena, d’una bellezza florida e sana, sembra permeare di sé tutti gli elementi che interagiscono con lei. Il rapporto Giorgio-Clara è raffigurato sulla pagina come una sorta di cammeo, dove tutto è perfetto e in sé compiuto: il tempo è quello della primavera, gli spazi sono quelli aperti di prati in fiore attraversati da limpidi ruscelli, oppure quelli chiusi di una capanna disabitata, “il loro tabernacolo”, custode della loro intimità. Clara rappresenta la luce e la vita, è colei che con la sua forza e insieme la sua dolcezza risana e rigenera: emblematica è a questo proposito l’assimilazione tra la bellezza di lei e quella che doveva aver avuto la madre di Giorgio quand'egli nacque. Edvard Munch, Vampiro, 1893-94 L’entrata in scena di Fosca, invece, è preceduta da un alone di inquietante mistero che induce nel lettore una crescente suspense: ci viene presentata attraverso le parole del cugino, del medico, ma intanto è lì, in absentia, il suo posto a tavola, sempre accanto a quello di Giorgio, contrassegnato da un fiore. Prima ancora di “vederla”, poi, assistiamo improvvisamente alla parossistica manifestazione della sua terribile malattia: urla acute, strazianti e prolungate echeggiano nella sala e richiamano alla mente di Giorgio, per la prima volta, l’idea della morte. Infine Fosca appare, straordinariamente orribile e insieme intensamente attraente: la descrizione del volto, con gli zigomi e le ossa delle tempie spaventosamente sporgenti, rimanda all’immagine di un teschio; il pallore del volto contrasta con i capelli d’ebano, folti e lucentissimi, e con gli occhi grandi, nerissimi e vividi; la sua persona, alta e scheletrica, prodotto del dolore fisico e delle malattie, ha però una grazia e un’eleganza sorprendenti. Fosca incarna la malattia, che contagia l’altro e ne assorbe le forze vitali, dietro alla quale si cela la morte, evocata attraverso immagini di sapore espressionistico, violentemente contrapposte: l’orrore che quel corpo già incadaverito suscita nel protagonista mentre lo avvinghia come se volesse trascinarlo con sé nella tomba, e il fascino che, nelle scene notturne, promana da quel volto come trasfigurato. Si avverte potentemente, in queste immagini, l'influsso di Edgar Allan Poe, autore molto amato da Tarchetti, e specialmente quello del racconto Ligeia (leggibile in traduzione italiana qui), del 1838: in esso infatti Poe contrappone due donne dalle caratteristiche fisiche assai simili a quelle di Fosca e Clara: Lady Ligeia, 72 IRENE STORNIOLO Δαίμονες l'amatissima prima moglie del narratore, dai capelli corvini e dai meravigliosi occhi neri, donna di grandissimo fascino e di straordinaria cultura, con spiccati interessi esoterici, che ricambia l'amore del marito con una "devozione piu' che appassionata" che "sfiora l'idolatria", ma dalla salute malferma che la conduce presto alla morte; e Lady Rowena, la seconda moglie, una fanciulla dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, giudicata insignificante e banale dal marito, che non riuscirà mai ad amarla. Valeria D'Obici interpreta Fosca nel film "Passione d'amore" del 1981, tratto dal romanzo di Tarchetti Dopo appena un mese di matrimonio Lady Rowena si ammala a sua volta, e quando il marito le somministra un vino medicamentoso ha la visione di alcune gocce di una sostanza misteriosa che cadono nel bicchiere. La donna beve il vino, peggiora ed in breve muore. Durante la veglia funebre il marito ha più volte l'impressione di notare segni di vita nel corpo della defunta. Alla fine il cadavere, avvolto nel sudario, si alza, si pone al centro della stanza, e, di fronte all'uomo sconvolto, si toglie le bende dalla testa: ed ecco apparire le chiome corvine di Ligeia, ecco aprirsi i suoi occhi nerissimi. Ligeia è tornata dalla morte per amore del marito, impadronendosi del corpo di Lady Rowena. Le analogie fra le due vicende sono evidenti: anche Fosca, come Ligeia, è una creatura malata e inquietante, intimamente connessa con l'idea della morte, una creatura quasi demoniaca che incute terrore ed orrore; ed anche lei è disposta a tutto per amore del suo uomo. In entrambi i casi la rivale non ha la benché minima chance: sia Clara che Lady Rowena sono troppo "normali", troppo graziose e femminilmente rassicuranti, per poter fare breccia nell'animo dei due protagonisti, profondamente attratti dal macabro e dal fascino malsano della morte. Ciò che rende Fosca attuale per il lettore moderno è, in ultima analisi, l’inquietudine che l’attraversa, il dubbio, le dicotomie fra le opposte realtà della vita e dell’io, espresse non solo nello sdoppiamento ClaraFosca, ma anche nella duplicità che caratterizza Fosca in se stessa: l'oscillazione continua fra logica e desiderio, razionale e irrazionale, luce e ombra. 73 IRENE STORNIOLO Δαίμονες IL MITO DI SALOMÈ Masolino D’Amico, nel saggio che accompagna una recente edizione della Salomè di Oscar Wilde (ES 2010), definisce Salomè "il personaggio femminile più emblematico per la sensibilità della cosiddetta decadenza. Salomè è infatti l’ultima incarnazione del mito romantico della donna fatale, corrotta e innocente al tempo stesso, irresistibile e distruttrice; un mito che si incarna di volta in volta nella Belle Dame Sans Merci di Keats, nella Carmen di Merimée, nella Monna Lisa di Leonardo descritta da Walter Pater. In Salomè questa femme fatale assume i connotati estremi nel segno della decadenza: estrema è la crudeltà (e allo stesso tempo, l’innocenza); estrema è la giovinezza (già nel Medioevo Salomè viene rappresentata come poco più di una bambina); estrema è la carica sacrilega del mito, ed estrema è la componente erotica (la danza discinta, il sangue)». Franz Von Stuck, Salomè e la danza dei sette veli, 1906 Artisti e letterati di ogni epoca hanno subito il fascino di questo archetipo femminile, ma senza dubbio la corrente letteraria che ne risentì maggiormente fu il Decadentismo, come testimonia bene l'arte figurativa: il solo Gustave Moreau dedicò a Salomè numerosi dipinti, due dei quali celebrati con toni entusiastici da Huysmans in À Rebours. Salomè è dunque la femme fatale per definizione, personificazione stessa della donna dèmone o donna vampiro che così irresistibilmente attrae gli uomini alla ricerca di sensazioni forti, la perfetta sintesi di eros e thanatos di cui la sensibilità malata dell'esteta decadente ha bisogno per vincere la noia che lo attanaglia e gli fa sembrare vuote e prevedibili le donne "normali". 74 IRENE STORNIOLO Δαίμονες La vicenda biblica I personaggi implicati nell’episodio della decollazione di Giovanni Battista sono quattro: - Erode Antipa (figlio di Erode il Grande e fratello di Erode Filippo); - Erodiade (nipote di Erode il Grande, moglie di Erode Filippo e madre di Salomè); - Salomè, nata dal matrimonio fra Erodiade e Erode Filippo ma figlia adottiva di Erode Antipa in seguito al secondo matrimonio della madre; - Giovanni Battista, il profeta che annuncia la venuta di Cristo. Erodiade, contravvenendo alla legge ebraica, sposò in seconde nozze Erode Antipa: ella infatti, già moglie di Erode Filippo, aveva abbandonato assieme alla figlia la corte romana, preferendo a questa quella giudaica. La legge ebraica permetteva di sposare in seconde nozze il fratello del proprio marito solo in caso di avvenuta morte di questi o di sterilità dello stesso; proprio la contravvenzione alla suddetta legge fu motivo di conflitto fra il profeta Giovanni Battista e la regina Erodiade. In occasione dei festeggiamenti del genetliaco di Erode Antipa, la diabolica regina organizzò un piano di vendetta: fece in modo che l'affascinante figlia, figliastra del festeggiato, si esibisse in una seducente danza d’intrattenimento (la "danza dei sette veli"); deliziato ed eccitato dall'esibizione della giovane, Erode promise all’abile danzatrice qualsiasi dono, finanche “metà del proprio regno”. L’ingenua fanciulla, istigata dalla madre, chiese la testa del Battista su un piatto d’argento. Suo malgrado il tetrarca, vincolato alla promessa fatta, acconsentì alla richiesta. Il racconto biblico si conclude con l’allontanamento dalla reggia degli adepti del profeta che trasportano fuori il corpo del martire decollato. Léon Herbo, Salome, 1889 Le testimonianze bibliche Presento qui di seguito i passi biblici in cui compare Salomè (Vangelo secondo Matteo 14,1-12 e Vangelo secondo Marco 6,14-29), chiamata, come si vede, non col proprio nome, bensì con l’appellativo “figlia di Erodiade”. E’ solo con lo storico Giuseppe Flavio (Antichità giudaiche XVIII 136-139) che si viene a conoscenza del nome della “figlia di Erodiade”, Salomè. Matteo 14, 1-12 75 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Ἐν ἐκείνῳ τῷ καιρῷ ἤκουσεν Ἡρῴδης ὁ τετραάρχης τὴν ἀκοὴν Ἰησοῦ, καὶ εἶπεν τοῖς παισὶν αὐτοῦ, Οὗτός ἐστιν Ἰωάννης ὁ βαπτιστής· αὐτὸς ἠγέρθη ἀπὸ τῶν νεκρῶν, καὶ διὰ τοῦτο αἱ δυνάμεις ἐνεργοῦσιν ἐν αὐτῷ. Ὁ γὰρ Ἡρῴδης κρατήσας τὸν Ἰωάννην ἔδησεν [αὐτὸν] καὶ ἐν φυλακῇ ἀπέθετο διὰ Ἡρῳδιάδα τὴν γυναῖκα Φιλίππου τοῦ ἀδελφοῦ αὐτοῦ· ἔλεγεν γὰρ ὁ Ἰωάννης αὐτῷ, Οὐκ ἔξεστίν σοι ἔχειν αὐτήν. καὶ θέλων αὐτὸν ἀποκτεῖναι ἐφοβήθη τὸν ὄχλον, ὅτι ὡς προφήτην αὐτὸν εἶχον. γενεσίοις δὲ γενομένοις τοῦ Ἡρῴδου ὠρχήσατο ἡ θυγάτηρ τῆς Ἡρῳδιάδος ἐν τῷ μέσῳ καὶ ἤρεσεν τῷ Ἡρῴδῃ, ὅθεν μεθ' ὅρκου ὡμολόγησεν αὐτῇ δοῦναι ὃ ἐὰν αἰτήσηται. ἡ δὲ προβιβασθεῖσα ὑπὸ τῆς μητρὸς αὐτῆς, Δός μοι, φησίν, ὧδε ἐπὶ πίνακι τὴν κεφαλὴν Ἰωάννου τοῦ βαπτιστοῦ. καὶ λυπηθεὶς ὁ βασιλεὺς διὰ τοὺς ὅρκους καὶ τοὺς συνανακειμένους ἐκέλευσεν δοθῆναι, καὶ πέμψας ἀπεκεφάλισεν [τὸν] Ἰωάννην ἐν τῇ φυλακῇ· καὶ ἠνέχθη ἡ κεφαλὴ αὐτοῦ ἐπὶ πίνακι καὶ ἐδόθη τῷ κορασίῳ, καὶ ἤνεγκεν τῇ μητρὶ αὐτῆς. καὶ προσελθόντες οἱ μαθηταὶ αὐτοῦ ἦραν τὸ πτῶμα καὶ ἔθαψαν αὐτό[ν], καὶ ἐλθόντες ἀπήγγειλαν τῷ Ἰησοῦ. «In quel tempo il tetrarca Erode ebbe notizia della fama di Gesù. Egli disse ai suoi cortigiani: "Costui è Giovanni il Battista risuscitato dai morti; per ciò la potenza dei miracoli opera in lui". Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione per causa di Erodìade, moglie di Filippo suo fratello. Giovanni infatti gli diceva: "Non ti è lecito tenerla!". Benché Erode volesse farlo morire, temeva il popolo perché lo considerava un profeta. Venuto il compleanno di Erode, la figlia di Erodìade danzò in pubblico e piacque tanto a Erode che egli le promise con giuramento di darle tutto quello che avesse domandato. Ed essa, istigata dalla madre, disse: "Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista". Il re ne fu contristato, ma a causa del giuramento e dei commensali ordinò che le fosse data e mandò a decapitare Giovanni nel carcere. La sua testa venne portata su un vassoio e fu data alla fanciulla, ed ella la portò a sua madre. I suoi discepoli andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne Gesù». Marco 6, 14-29 Καὶ ἤκουσεν ὁ βασιλεὺς Ἡρῴδης, φανερὸν γὰρ ἐγένετο τὸ ὄνομα αὐτοῦ, καὶ ἔλεγον ὅτι Ἰωάννης ὁ βαπτίζων ἐγήγερται ἐκ νεκρῶν, καὶ διὰ τοῦτο ἐνεργοῦσιν αἱ δυνάμεις ἐν αὐτῷ. ἄλλοι δὲ ἔλεγον ὅτι Ἠλίας ἐστίν· ἄλλοι δὲ ἔλεγον ὅτι προφήτης ὡς εἷς τῶν προφητῶν. ἀκούσας δὲ ὁ Ἡρῴδης ἔλεγεν, Ὃν ἐγὼ ἀπεκεφάλισα Ἰωάννην, οὗτος ἠγέρθη. Αὐτὸς γὰρ ὁ Ἡρῴδης ἀποστείλας ἐκράτησεν τὸν Ἰωάννην καὶ ἔδησεν αὐτὸν ἐν φυλακῇ διὰ Ἡρῳδιάδα τὴν γυναῖκα Φιλίππου τοῦ ἀδελφοῦ αὐτοῦ, ὅτι αὐτὴν ἐγάμησεν· ἔλεγεν γὰρ ὁ Ἰωάννης τῷ Ἡρῴδῃ ὅτι Οὐκ ἔξεστίν σοι ἔχειν τὴν γυναῖκα τοῦ ἀδελφοῦ σου. ἡ δὲ Ἡρῳδιὰς ἐνεῖχεν αὐτῷ καὶ ἤθελεν αὐτὸν ἀποκτεῖναι, καὶ οὐκ ἠδύνατο· ὁ γὰρ Ἡρῴδης ἐφοβεῖτο τὸν Ἰωάννην, εἰδὼς αὐτὸν ἄνδρα δίκαιον καὶ ἅγιον, καὶ συνετήρει αὐτόν, καὶ ἀκούσας αὐτοῦ πολλὰ ἠπόρει, καὶ ἡδέως αὐτοῦ ἤκουεν. Καὶ γενομένης ἡμέρας εὐκαίρου ὅτε Ἡρῴδης τοῖς γενεσίοις αὐτοῦ δεῖπνον ἐποίησεν τοῖς μεγιστᾶσιν αὐτοῦ καὶ τοῖς χιλιάρχοις καὶ τοῖς πρώτοις τῆς Γαλιλαίας, καὶ εἰσελθούσης τῆς θυγατρὸς αὐτοῦ Ἡρῳδιάδος καὶ ὀρχησαμένης, ἤρεσεν τῷ Ἡρῴδῃ καὶ τοῖς συνανακειμένοις. εἶπεν ὁ βασιλεὺς τῷ κορασίῳ, Αἴτησόν με ὃ ἐὰν θέλῃς, καὶ δώσω σοι· καὶ ὤμοσεν αὐτῇ [πολλά], Ὅ τι ἐάν με αἰτήσῃς δώσω σοι ἕως ἡμίσους τῆς βασιλείας μου. καὶ ἐξελθοῦσα εἶπεν τῇ μητρὶ αὐτῆς, Τί αἰτήσωμαι; ἡ δὲ εἶπεν, Τὴν κεφαλὴν Ἰωάννου τοῦ βαπτίζοντος. καὶ εἰσελθοῦσα εὐθὺς μετὰ σπουδῆς πρὸς τὸν βασιλέα ᾐτήσατο λέγουσα, Θέλω ἵνα ἐξαυτῆς δῷς μοι ἐπὶ πίνακι τὴν κεφαλὴν Ἰωάννου τοῦ βαπτιστοῦ. καὶ περίλυπος γενόμενος ὁ βασιλεὺς διὰ τοὺς ὅρκους καὶ τοὺς ἀνακειμένους οὐκ ἠθέλησεν ἀθετῆσαι αὐτήν· καὶ εὐθὺς ἀποστείλας ὁ βασιλεὺς σπεκουλάτορα ἐπέταξεν ἐνέγκαι τὴν κεφαλὴν αὐτοῦ. καὶ ἀπελθὼν ἀπεκεφάλισεν αὐτὸν ἐν τῇ φυλακῇ καὶ ἤνεγκεν τὴν κεφαλὴν αὐτοῦ ἐπὶ πίνακι καὶ ἔδωκεν αὐτὴν τῷ κορασίῳ, καὶ τὸ κοράσιον ἔδωκεν αὐτὴν τῇ μητρὶ αὐτῆς. καὶ ἀκούσαντες οἱ μαθηταὶ αὐτοῦ ἦλθον καὶ ἦραν τὸ πτῶμα αὐτοῦ καὶ ἔθηκαν αὐτὸ ἐν μνημείῳ. «Il re Erode sentì parlare di Gesù, poiché intanto il suo nome era diventato famoso. Si diceva: "Giovanni il Battista è risuscitato dai morti e per questo il potere dei miracoli opera in lui". Altri invece dicevano: "E` Elia"; altri dicevano ancora: "E` un profeta, come uno dei profeti". Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: "Quel 76 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Giovanni che io ho fatto decapitare è risuscitato!". Erode infatti aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva messo in prigione a causa di Erodìade, moglie di suo fratello Filippo, che egli aveva sposata. Giovanni diceva a Erode: "Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello". Per questo Erodìade gli portava rancore e avrebbe voluto farlo uccidere, ma non poteva, perché Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell`ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri. Venne però il giorno propizio, quando Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodìade, danzò e piacque a Erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: "Chiedimi quello che vuoi e io te lo darò". E le fece questo giuramento: "Qualsiasi cosa mi chiederai, te la darò, fosse anche la metà del mio regno". La ragazza uscì e disse alla madre: "Che cosa devo chiedere?". Quella rispose: "La testa di Giovanni il Battista". Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: "Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista". Il re ne fu rattristato; tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto. E subito il re mandò una guardia con l`ordine che gli fosse portata la testa. La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su un vassoio, la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre. I discepoli di Giovanni, saputa la cosa, vennero, ne presero il cadavere e lo posero in un sepolcro». Salomè nella letteratura e nell'arte E' Charles Baudelaire a dare il La all'interesse del Decadentismo per la figura di Salomè, ispirando le liriche 27 e 28 della sezione 'Spleen et Idéal', contenuta ne Les Fleurs du Mal del 1857, alle figure di Erodiade e della figlia, ma concentrando la propria attenzione soprattutto su quest'ultima. Più labile è il nesso con il personaggio nel poema incompiuto Hérodiade di Stéphane Mallarmé del 1866, incentrato particolarmente sulla figura della madre. Nel 1876 viene esposto al Salon International il dipinto Salomè danza davanti ad Erode di Gustave Moreau (tempera alla quale seguirà a breve il dipinto a olio L’Apparition). L'interpretazione che Moreau dà della figura di Salomè è del tutto particolare: la ragazza è vista non come una creatura carnale e sensuale, ma al contrario come un essere quasi androgino, la cui apparenza pura ed innocente fa un sinistro contrasto con il suo ruolo perverso, i cui gesti composti e ieratici la ritraggono come una inconsapevole sacerdotessa del Male, un simbolo dell'ineluttabilità del destino che piomba inesorabile sull'uomo: una sorta di angelo caduto, insomma un vero e proprio dèmone. Questa "lettura" così nuova del personaggio farà scalpore e desterà un'eco profonda soprattutto nella sensibilità di Joris Karl Huysmans, che nel suo À rebours del 1884, vera e propria "Bibbia" del Decadentismo, dedica a questi dipinti una lunga digressione, che ho riportato qui. Ma già l'anno successivo, nel 1877, Flaubert compone l’Hérodias, con ogni probabilità ispirato proprio dai dipinti di Moreau. Nel racconto flaubertiano Erodiade viene descritta come una donna dominante, mentre Erode è dipinto come un esteta inesperto ma raffinato. La figlia Salomè appare come uno strumento usato astutamente dalla madre per raggiungere i propri fini. Il passo successivo è compiuto da Oscar Wilde, che nel 1891, nella sua Salome composta in francese ed arricchita dalle celebri illustrazioni di Audrey Beardsley, attribuisce a Salomè, e non più ad Erodiade, la volontà della decapitazione di Giovanni Battista: la principessa infatti si è innamorata perdutamente del profeta, ma non è corrisposta; la decapitazione è quindi la sua vendetta, e nel contempo la soddisfazione della sua perversa libidine (alla fine Salomè bacia la bocca del decapitato). All'opera di Wilde ho dedicato un capitolo a parte. 77 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Aubrey Beardsley, The stomach dance, 1893 La variante proposta da Wilde per la verità non è nuova: ha radici nel poema Atta Troll scritto nel 1843 dal poeta tedesco Heine. Nel componimento heiniano l’autore racconta di avere assistito in sogno ad una parata di personaggi illustri in forma di "caccia all'orso", nella quale si staglia la figura della regina Erodiade accompagnata da Diana, dea della caccia, e dalla fata Abunde. La descrizione dell’episodio onirico si conclude con l’immagine di Erodiade tornata fanciulla (rappresentata come Salomè) mentre si diletta di baciare la testa del profeta martire e di giocare con essa. Anche nella letteratura italiana di quel periodo è presente il mito della femme fatale; notoriamente, chi ne enfatizza maggiormente i tratti demonici è Gabriele D’Annunzio. Basti ricordare il romanzo Il Piacere, in cui Elena Muti, una delle protagoniste femminili del testo, induce il protagonista Andrea Sperelli ad un completo asservimento. Ma il personaggio di Salomè vive nella fantasia dello scrittore abruzzese anche in senso proprio, e non metaforico, attraverso l'enorme suggestione esercitata su di lui da Lucrezia Buti, una suora (!) che aveva "posato" come modella per la Salomè di Filippo Lippi, e della quale D'Annunzio asserisce di essersi perdutamente innamorato: la singolare vicenda è descritta in questa sezione. Oltre a Gustave Moreau, molti altri pittori di questo periodo dipinsero la figura di Salomè, per lo più però fornendone un'interpretazione "tradizionale", cioè raffigurandola come una donna lasciva, sensuale e perversa, anche un po' volgare. Ho riportato in apertura, come esempio, la Salomè di Franz Von Stuck del 1906, che si dice fosse particolarmente apprezzata da Hitler, ma molti altri artisti si cimentarono su questo soggetto. 78 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Fra questi merita senz'altro di essere ricordato Henri Régnault, che nel 1870 dipinse la Salomè orientaleggiante riprodotta qui sotto, che destò notevole ammirazione: Gustav Klimt ritorna invece a dare di questo mito un'interpretazione raffinata ed elegante, fondendo il mito di Salomè con quello di Giuditta e rappresentandola non più come ragazza, ma come una donna matura, in linea con le preferenze degli esteti decadenti, che prediligono la donna esperta nella perversione e nella seduzione. I dipinti da lui dedicati a questo mito sono due, uno del 1901 e l'altro del 1909. Per quanto riguarda il teatro, dal dramma di Wilde fu tratto il libretto dell'opera omonima, musicata da Richard Strauss nel 1905. Anche il poeta portoghese Eugenio de Castro scrisse nel 1896 una Salomè. In seguito il mito di Salomè declina inesorabilmente: sono poche le eccezioni, e due delle più significative sono proprio italiane. 79 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Gustav Klimt, Giuditta Salomè 1909 Gustav Klimt, Salomè (Giuditta e Oloferne) 1901 Tra gli anni sessanta e settanta del Novecento, infatti, il grande Carmelo Bene riportò in scena il mito di Salomè, dandone un'interpretazione triviale che richiama da vicino le atmosfere del Satyricon di Petronio. Poco o nulla invece aggiunge al panorama complessivo la recente prova operistica allestita da Giorgio Albertazzi nel gennaio 2007, che tanto scalpore ha suscitato a livello mediatico, più per le nudità portate in scena dalle protagoniste che per intrinseci pregi artistici (il testo di partenza era ancora una volta quello di Wilde). 80 IRENE STORNIOLO Δαίμονες OSCAR WILDE, SALOMÈ La Salomè di Oscar Wilde è un dramma in atto unico dedicato a Pierre Louÿs e scritto in lingua francese appositamente per l'attrice Sarah Bernhardt, la quale però non interpretò mai il personaggio sulla scena. Fu pubblicato nel 1893 con le celebri illustrazioni liberty di Aubrey Beardsley: la traduzione in lingua inglese venne affidata all'amante di Oscar Wilde, Lord Alfred Douglas (detto Bosie o Bosey), ma il ragazzo non si rivelò all'altezza del compito. Benché la sua traduzione sia stata sostituita con una di autore ignoto, nella prima edizione Wilde cavallerescamente volle che la dedica fosse comunque "A Lord Alfred Douglas, traduttore della mia commedia". La trama del dramma è la seguente: Erode Antipa, che convive con la ex moglie del fratello Filippo, Erodiade, ed è invaghito della figlia di lei, la bellissima Salomè, ha organizzato un banchetto invitandovi ospiti giudei, romani, egiziani. L'opera si apre sulla terrazza del palazzo, dove due soldati discutono sulla bellezza della luna e della principessa Salomè. Il tetrarca Erode ha fatto rinchiudere Iokanaan (= Giovanni Battista) in una grande cisterna al centro del salone, spaventato dalle sue profezie sull'avvento del Messia e dalle sue accuse contro la corruzione che regna a corte. Oscar Wilde in un celebre ritratto Salomè, infastidita dalle attenzioni di Erode e attratta da Iokanaan, chiede alle guardie di potergli parlare. Iokanaan esce dalla cisterna proferendo parole di sdegno contro Erode ed Erodiade, ma Salomè rimane affascinata dall'uomo, tanto che gli rivela il suo desiderio di baciarlo: «Bacerò la tua bocca, Iokanaan; bacerò la tua bocca». Iokanaan è del tutto indifferente alle profferte erotiche della ragazza, mentre il capitano delle guardie, segretamente innamorato di Salomè, addirittura si uccide dopo avere sentito queste parole. 81 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Giungono sulla terrazza Erode ed Erodiade; Erode continua ad infastidire Salomè, mentre Iokanaan denuncia la dissolutezza di Erodiade, la quale, sdegnata, si rende conto che Erode è troppo preso dalla bellezza di Salomè per pensare a difenderla. Erode le chiede di danzare per lui, offrendosi di esaudire qualsiasi suo desiderio. Salomè accetta, si prepara per l'esibizione ed esegue la danza dei sette veli sul sangue del capo delle guardie morto per amor suo. Finita l'esecuzione, esprime il suo desiderio: «Dammi la testa di Iokanaan». Erode non vorrebbe uccidere il profeta, ma non può venir meno alla sua promessa: Iokanaan viene decapitato e la sua testa viene portata, in un bacile d'argento, a Salomè, che finalmente può coronare il suo macabro sogno: baciare le labbra di Iokanaan. Erodiade, vedendo il suo accusatore morto, esulta, ma Erode, improvvisamente tornato in sé ed inorridito dalla ragazza, ne ordina l'uccisione da parte dei soldati. Questi obbediscono e schiacciano sotto i loro scudi Salomè, uccidendola come uno scarafaggio. Al singolare dramma decadente di Wilde è stata spesso rimproverata la debolezza dell'impianto drammaturgico e più in generale quel non so che di sovraccarico che lo caratterizza. Lord Alfred Douglas, detto Bosie Una curiosità: nel 1988 il regista Ken Russell portò sul grande schermo la Salomè wildiana in uno strano film intitolato Salome's Last Dance, a sua volta molto criticato, che dà l'impressione di essere una sorta di grottesca parodia dell'originale, a cominciare dal fatto di essere ambientato in un bordello e di avere per protagonista Wilde stesso, mentre nei panni di Giovanni Battista c'è l'amato Bosie. Ecco la recensione del film (tutt'altro che positiva) di Tullio Kezich (Il filmnovanta: cinque anni al cinema: 1986-1990, Mondadori, Milano, 1990): "La sera del 5 novembre 1892 Oscar Wilde va con il suo protetto Alfred Douglas, detto Bosie, nel bordello gestito da un certo Taylor, che lo fa assistere alla prima della Salomè, opera vietata nei teatri pubblici dal Lord Ciambellano. La sorpresa è la presenza in scena di Bosie nella parte di Giovanni Battista. Sicché la scena in cui Salomè bacia la testa mozza del profeta spinge l'autore all'identificazione commuovendolo fino alle lacrime. Poi arriva la polizia, con accuse di atti osceni aggravati, e schiaffa dentro tutti; e c'è di peggio: in una confusione 82 IRENE STORNIOLO Δαίμονες pirandelliana fra Vita e Forma, la protagonista è stata realmente sacrificata alla lancia di un pretoriano. Tranne la prima e l'ultima scena, tutto il film è rinserrato nel salone del bordello dove si svolge lo spettacolo. Un calapranzi serve da ascensore per il pozzo del Battista, gli armigeri sono due scaricatori pronti a ripassarsi Erodiade fra le quinte, il settimino degli ebrei è ridotto a tre nani sessualmente prevaricati dalla sbirraglia femminile della reggia e l'inviato di Roma è il maggiordomo che si scatena in rutti e scorregge. In un simile contesto non solo latita il buon gusto, ma non c'è neppure gran traccia dell'estro pirico dell'autore de I diavoli: tanto che si sarebbe tentati di attribuire la flebile operina a qualche suo imitatore. L'unica invenzione è Imogen Millais-Scott, una Salomè miniaturizzata che recita come nei disegni animati: una vivente ironizzazione, a tratti corrosiva, dell'erotismo in stile Lolita." 83 IRENE STORNIOLO Δαίμονες JORIS KARL HUYSMANS: SALOMÈ J. K. Huysmans, in À rebours, così descrive la passione del protagonista Des Esseintes per la pittura di Moreau e la figura di Salomè: "Via via che diveniva più acuto il suo desiderio di sottrarsi a un’odiosa epoca di tangheri indegni, diveniva per lui dispotico il bisogno di non più vedere quadri che rappresentassero l’umana effigie almanaccante entro quattro mura del centro di Parigi e sguinzagliata per le strade in cerca di denaro. Dopo essersi disinteressato dell’esistenza contemporanea, aveva deciso di non introdurre nella sua cellula larve di ripugnanze o di rimpianti; aveva dunque voluto una pittura sottile e squisita che attingesse in un antico sogno, in una corruzione vetusta, lungi dai nostri costumi e dai nostri giorni. Aveva voluto, per diletto del suo spirito e la gioia dei suoi occhi, alcune opere suggestive che lo gettassero in un mondo sconosciuto, gli rivelassero le tracce di nuove congetture, gli scuotessero il sistema nervoso con eruditi isterismi, con complicati incubi, con visioni indifferentemente atroci. Fra tutti, v’era un’artista il cui talento lo rapiva in lunghe estasi: Gustave Moreau. Gustave Moreau, Salomè danza davanti ad Erode, 1874-6 Aveva acquistato i suoi due capolavori e, per notti intere, sognava davanti a uno di essi, il quadro di Salomé così concepito: sorgeva un trono simile all’altare maggiore d’una cattedrale, sotto innumerevoli volte sprizzanti da colonne tarchiate come pilastri romanici, smaltate di mattonelle policrome, incrostate di mosaici, incastonate di lapislazzuli e di sardoniche, in un palazzo simile a una basilica, di un'architettura a un tempo musulmana e bizantina. Al centro del tabernacolo che sormontava l’altare preceduto da gradini a semicerchio, era seduto il tetrarca Erode, con una tiara in testa, le gambe riunite, le mani sulle ginocchia. Il 84 IRENE STORNIOLO Δαίμονες volto era giallo, incartapecorito, pieno di rughe, devastato dall’età, la sua lunga barba fluttuava come una nuvola bianca sulle stelle di pietre preziose che costellavano la stoffa ricamata d’oro sul suo petto. Intorno a questa statua, immobile, fissata in una posa ieratica da divinità indù, bruciavano profumi levando nubi di vapori, forati, come da occhi fosforescenti di felini, dal fuoco delle gemme incastonate nelle pareti del trono. Poi il vapore saliva e si stendeva sotto le arcate, dove il fumo bianco si frammischiava alla polvere d’oro dei grandi fasci di luce che cadevano dalle cupole. Nell’odore perverso dei profumi, nell’atmosfera surriscaldata di quella chiesa, Salomé, col braccio sinistro teso in un gesto di comando, il braccio destro piegato, tenendo all’altezza del volto un grande loto, si avanza lentamente sulle punte, agli accordi di una chitarra di cui una donna rannicchiata pizzica le corde. Col volto raccolto, solenne, quasi augusto, ella comincia la lubrica danza che deve risvegliare i sensi assopiti del vecchio Erode; i seni le ondeggiano e, al contatto delle collane agitate, le loro punte si ergono; sul madore della pelle, i diamanti aderenti scintillano; i braccialetti, le cinture, gli anelli sprizzano faville; sulla veste trionfale, intessuta di perle, ricamata d’argento, laminata d’oro, la corazza delle oreficerie di cui ogni maglia è una gemma, entra in combustione, intreccia serpenti di fuoco, fa formicolare sulla carne opaca, sulla pelle rosa tea, quasi degli splendidi insetti dalle elitre sfolgoranti, venate di carminio, punteggiate di giallo aurora, screziate di azzurra acciaio, tigrate di verde pavone. Concentrata con gli occhi fissi, simile a una sonnambula, ella non vede né il tetrarca che freme, né sua madre, la feroce Erodiade, che la sorveglia, né l’ermafrodito o l’eunuco che sta, con la sciabola in pugno, ai piedi del trono, una terribile figura velata fino alle gote, la cui mammella di castrato pende con una fiasca sulla tunica variegata di arancione. Il personaggio di Salomé, così ossessivo per gli artisti e per i poeti, tormentava da anni Des Esseintes. Quante volte aveva letto nella vecchia Bibbia di Pietro Variquet, tradotta dai dottori di teologia dell’Università di Lovanio, il Vangelo di San Matteo che racconta in ingenue e brevi frasi la decollazione del Precursore; quante volte aveva sognato su queste righe: Il giorno della festa della nascita di Erode, la figlia di Erodiade danzò nel mezzo della stanza e piacque a Erode. Per questo le promise, con giuramento, di darle tutto quello che le avrebbe domandato. Ella dunque, indotta da sua madre, disse: – dammi su un piatto la testa di Giovanni Battista. E il re fu turbato, ma a causa del giuramento e di quelli che erano seduti a tavola con lui, comandò che le fosse consegnata. E mandò a decapitare Giovanni nella prigione. E la testa di lui fu portata in un piatto e data alla figlia; ed ella la presentò a sua madre. Ma né San Matteo, né San Marco, né San Luca, né gli altri Evangelisti indugiavano sul delirante fascino, sulle attive depravazioni della danzatrice. Essa restava cancellata, si perdeva, in misterioso deliquio, nella lontana nebbia dei secoli, inafferrabile per gli spiriti precisi e terra terra, accessibile solo ai cervelli scossi, aguzzati, resi quasi visionari dalla nevrosi; ribelle ai pittori della carne, a Rubens, che la trasformò in una macellaia fiamminga, incomprensibile per tutti gli scrittori che non hanno mai potuto rendere l’inquietante esaltazione della danzatrice, la raffinata grandezza dell’assassina. Nell’opera di Gustave Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del Testamento, Des Esseintes vedeva finalmente realizzata questa Salomé sovrumana e strana che aveva sognato. Non era più la ballerina che strappa a un vecchio, con una corrotta torsione delle reni, un grido di desiderio e di gioia; che spezza l’energia, fiacca la volontà di un re con un agitar di seni, un guizzar del ventre, un brivido della coscia; diveniva in qualche modo la divinità simbolica dell’indistruttibile Lussuria, la dea dell’immortale Isteria, la Bellezza maledetta, scelta fra tutte dalla Catalessia che le irrigidiva le carni e le induriva i muscoli; la Bestia mostruosa, indifferente, irresponsabile, insensibile, che avvelenava, come Elena greca, tutto ciò che avvicinava, tutto ciò che vedeva, tutto ciò che toccava. [...] 85 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Eppure l'acquarello intitolato “L'Apparizione” era forse anche più inquietante. [..] Qui Salomé era femmina veramente; obbediva al suo temperamento di donna ardente e crudele; era viva d'una vita più raffinata e selvaggia, più esecrabile e più squisita; più imperiosamente ridestava i sensi in letargo dell'uomo; ne stregava, ne domava meglio la volontà col suo fascino di grande fiore venereo, nato in amplessi sacrileghi, allevato in empie serre." (À rebours, capitolo V) Gustave Moreau, L'apparizione, 1874-6 86 IRENE STORNIOLO Δαίμονες D'ANNUNZIO E LUCREZIA-SALOMÈ Il mito di Salomè influenzò anche D'annunzio: non solo si coglie una sorta di allusione antifrastica ad esso nella Francesca da Rimini, ma alla figura di Salomè sono indirettamente ispirate alcune indimenticabili figure di femme fatale come la Elena Muti de Il piacere. Questo personaggio biblico esercitò poi il suo fascino su D'Annunzio anche attraverso la mediazione di una donna la cui storia colpì profondamente il poeta: Lucrezia Buti (si noti come il cognome delle due donne sia simile). S'intitola proprio Il secondo amante di Lucrezia Buti la sezione più ampia della raccolta Le faville del maglio del 1924, frutto di un raptus creativo che D'Annunzio descrive così: «Sono, nel tempo medesimo, beato e disperato. M'è impossibile di arrestare la vena» (lettera del 4 giugno all'editore). Il "secondo amante" cui fa riferimento il titolo è D'Annunzio stesso, il quale aveva avuto, per così dire, un colpo di fulmine per la modella di un dipinto di fra Filippo Lippi (il primo - e unico - amante reale di Lucrezia) dopo averla vista ritratta appunto nelle sembianze di Salomè. Gabriele D'Annunzio La storia di Lucrezia e Filippo, che ai suoi tempi aveva fatto molto scalpore, ci è nota attraverso il Vasari: frate Filippo Lippi conobbe Lucrezia, monaca nel monastero di Santa Caterina di Prato, nel 1456, quando stava lavorando alla tavola della e ne rimase subito folgorato. Pretese ed ottenne dalle monache di averla come modella per il dMadonna che dà la Cintola a san Tommaso, ipinto, in cui probabilmente Lucrezia prestò il suo volto alla santa Margherita che si vede a sinistra. Filippo, del tutto incurante della loro condizione di religiosi, la rapì in occasione della processione della Sacra Cintola, come ricorda il Vasari: "E con questa occasione (del dipinto) innamoratosi maggiormente, fece poi tanto per via di mezzi e di pratiche, che egli sviò la Lucrezia dalle monache, e la menò via il giorno appunto ch'ella andava a veder mostrare la cintola di Nostra Donna, onorata reliquia di quel castello" (Vita di fra' Filippo Lippi). 87 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Dalla loro unione nacque Filippino Lippi nel 1457 e nel 1465 la figlia Alessandra Lippi. La coppia scandalosa, grazie all'interessamento di Cosimo il Vecchio de' Medici, ottenne una dispensa dai voti da Pio II per potersi sposare, ma, come riporta Vasari, i due continuarono a convivere more uxorio, aumentando lo scandalo. Filippo Lippi, Madonna che dà la Cintola a san Tommaso, 1456 L'eco di questa storia fu così vasta che se ne trova traccia non solo nella novella LVIII della raccolta del Bandello, ma anche nel poemetto Fra' Lippo Lippi del poeta romantico Robert Browning e in almeno due opere di Gabriele D'Annunzio. La bellissima Lucrezia, ritratta nella celebre Lippina degli Uffizi e probabilmente, come si diceva sopra, nella Salomè affrescata da Lippi nell'abside centrale della Cattedrale di S. Stefano a Prato, produsse un'impressione così profonda sulla sensibilità esasperata del poeta, che egli espresse il desiderio di essere il secondo amante della splendida monaca e ne cantò il fascino anche nell'Elettra. "Quanto mi piacevano le mie ore mattutine di duomo! Forse quanto a fra' Filippo Lippi non nel mentre dipingeva a fresco le Esequie di S. Stefano ma nel mentre lavorava il Convito di Erode inebriandosi di Lucrezia Buti. (...) Io volgevo il capo indietro per pascermi di Salomè, per saziarmi di Erodiana, per discogliere anche una volta nella mia avidità il miele e la cera insieme. E anche una volta mi deliziavo nel tormento della scelta. "Chi delle due sei tu, Lucrezia Buti? Suor Lucrezia agostina, sei tu quella che danza, simile a un fior numeroso dalla cintola in giù, simile a un fior voluttuoso fatto di pieghe in vece di petali, ora chiuso ora socchiuso ora dischiuso? O sei quella che seduta alla mensa fa il gesto pacato e spietato verso la testa mozza, o sei quella 88 IRENE STORNIOLO Δαίμονες dalla chioma a grappoli, coronata dell'uva d'engaddi come una baccante giudea che su la mezzanotte attenda l'evoè convertito in osanna? O veramente tu sei più vera nel palagio comunale, nella tavola di fra' Filippo, non la Vergine della Cintola ma quella dolce Santa che pone la mano sul capo d'una suora inginocchiata che certo è Bartolomea de' Bovacchiesi, la tua badessa del tempo di tuo peccato? Non una sei ma tre pel mio amore, Lucrezia Buti". O Lucrezia, Lucrezia, dimmi che Filippino non è il tuo figliuolo, dimmi che non sei madre, dimmi che sei Salomè, non Erodiana! Mi par d'averla sottratta io medesimo al tamburo degli Ufficiali de' Monasteri, con la mano tremante, col cuore balzante. Tu non sei madre, tu non sei la madre di Filippino, tu che tanto lieve danzi e con tanto doloso candore nel convito del Tetrarca. (...) Filippino del Tabernacolo in sul canto a Mercatale non può esser figliuolo se non della Primavera, o Lucrezia Buti; che, quando passo, ogni volta m'è nova maraviglia la sua freschezza in campo di splendore. (...) Gli parlavo dell'agostina fuggiasca con tanta abbondanza e con tanto ardore ch'egli esclamò: "Ma tu m'hai tutta l'aria del secondo amante di Lucrezia Buti!" Erodiana e Salomè discendevano dal muro per il confronto e per il giudizio. Aveva il frescante ritratto Lucrezia in Erodiana o in Salomè? Rideva graziosamente impazientito il buon maestro, con il mano la pennellessa intrisa nella cera liquefatta. "Agnolo benedetto, in tutt'e due, non soltanto, ma in tutte le donne del convito, come nella Madonna della Cintola tutte le persone divine, tranne i Vescovi e la badessa de' Bovacchiesi, hanno l'aria di Lucrezia, sono del sangue di Lucrezia Buti. Guardale bene." Afflitto mi lamentavo: "E' vero! E' vero!" (...) Ora tutte le immagini balenavano, e si dissolvevano per ribalenare. Anche la mia fiamma si divideva in tante lingue vermiglie come d'un'avventurosa Pentecosta. Tutte le pennellate rosse del Lippi assumevano una maligna forza dominante, nelle pareti del Coro, e sanguinavano e risanguinavano. Tutto il Duomo, dal battistero al presbiterio, dalla cappella della Cintola al Tabernacolo dell'Olivo, dal cancello di Bruno Mazzei all'arca di Simon Bardi, per tutta la crociera, per tutte le tre navate, culminava negli ardimenti del Pisano; si sveltiva e s'areava dalle arcate minori all'arco massimo; s'appuntava nel sesto acuto verso l'azzurro meridiano conteso dalle volte, e col serpentino delle sue colonne e de' suoi pilastri si profondava a rifarsi terrestre nelle cave del Monferrato." (Gabriele D'Annunzio, Il secondo amante di Lucrezia Buti) 89 IRENE STORNIOLO Δαίμονες O Prato, o Prato, ombra dei dì perduti, chiusa città, forte nella memoria, ove al fanciul compiacquero la Gloria e la figliuola di Francesco Buti! (...) La figlia di Erodiade, apparita al Tetrarca, in sua frode e in sua melode magica ondeggia: entro il bacino s'ode bollire il sangue della gran ferita. Frate Filippo, agli occhi tuoi la Vita danza come colei davanti a Erode, voluttuosa; e il tuo desio si gode d'ogni piacer quand'ella ti convita. Ma il Dolore guardar sai fisamente e la Morte, e le lacrime, e lo strazio delle bocche e l'orror de' volti muti. Io ti vedea sopra la sabbia ardente schiavo in catene; e ti vedea poi sazio dormir sul seno di Lucrezia Buti. (...) Particolare del Banchetto di Erode affrescato da Filippo Lippi nel 1452 Filippino, in sul canto a Mercatale quante volte intravidi pe' razzanti vetri del Tabernacolo i tuoi Santi come i fiori d'un orto angelicale! Fiori tu dèsti alla città natale: freschi petali i volti, aiuole i manti. E intorno alla Maria le tue spiranti grazie non ebber mai si lievi l'ale. Vedevi, oprando, la materna porta ove l'antica suora in atti umili pregava pel figliuol del suo peccato. Demoniaco segno, il seggio porta al piede, come l'ara dei Gentili, testa bicorne di capron barbato. Autoritratto di Filippino Lippi figlio di Filippo Lippi e Lucrezia Buti (Gabriele D'Annunzio, Elettra) 90 IRENE STORNIOLO Δαίμονες 5. IL "CASO" DALÌ "L'ULTIMA CENA" L'Ultima Cena, olio su tela di 167 × 268 cm realizzato nel 1955 e conservato alla National Gallery of Art di Washington, è un chiaro esempio del modo di affrontare il sacro di Salvador Dalì: la sua pittura oscilla fra il mistico e il blasfemo, sconvolge l'iconografia tradizionale ed utilizza simboli esoterici di difficile interpretazione. Questo approccio dissacratorio, particolarmente evidente in relazione ad un tema topico dell'arte sacra, che richiama immediatamente alla mente il notissimo affresco di Leonardo e quelli di altri celebri artisti, risulta sconcertante per tutti, credenti e non. Una così intima familiarità con la simbologia religiosa, infatti, è tipica degli ambienti occultistici, in cui i dogmi e i riti della religione vengono imitati e stravolti; si pensi ad esempio alle "messe nere" o alle accuse di blasfemia che già venivano mosse ai Templari (accusati per esempio di sputare sul crocifisso e di calpestare l'ostia). Le pratiche sataniche utilizzano i simboli cristiani capovolgendo il significato dei simboli, attribuendo loro una valenza negativa, distorta. Che sia questa l'intenzione di Dalì, notoriamente dedito all'occultismo? Proviamo ad analizzare il dipinto. La prima provocazione consiste nell'aver dato a Gesù sembianze androgine, attribuendogli per di più i lineamenti di Gala, la donna di Dalì, nota ninfomane. Questo fu considerato blasfemo e suscitò un comprensibile scandalo all'esposizone dell'opera. Osservando il dipinto si nota che la figura del Cristo è quasi trasparente e si sta letteralmente dissolvendo sul paesaggio alle sue spalle, che rappresenta la baia a Port Lligat, vicino alla casa di Dalì. Egli è solo apparentemente seduto a tavola con i discepoli: in realtà è immerso nell'acqua, con una barca di fronte, ed indica Dio in alto, lasciando intendere di essere in partenza per il Cielo. Gesù dunque sta lasciando gli apostoli ben prima della crocifissione. 91 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Sembra di capire che Dalì aderisca a quella corrente di pensiero legata con i Rosacroce o il fantomatico Priorato di Sion, il cui Gran Priore risulta essere in quegli anni Jean Cocteau, secondo la quale Cristo non fu mai crocifisso, ma si mise in salvo (pare in Francia) ed al suo posto fu crocifisso un altro. Inoltre egli sta compiendo un gesto di cui non è facile comprendere il significato: con la mano sinistra accenna a se stesso, mentre con la destra sembra indicare Dio sopra di lui ("Io sono Dio?"); ma osservando meglio il gesto della mano destra si nota che Cristo sembra piuttosto stare contando: due dita sono sollevate, il dito medio si sta sollevando. Gesù sta contando fino a tre ("Io sono tre", con allusione alla Trinità)? Oppure intende contare fino a cinque (e in tal caso il significato, come vedremo, cambia totalmente)? Il Cristo androgino de L'ultima cena il cui viso è simile a quello di Gala I dodici apostoli sono disposti in modo perfettamente simmetrico attorno al Maestro ed i loro volti sono invisibili perché essi sono genuflessi in preghiera; questo rende impossibile comprendere chi di essi sia Giuda. Essi inoltre, con il loro atteggiamento e le loro vesti candide, più che di apostoli hanno l'aspetto di iniziati di qualche setta mistica. La tavola è completamente spoglia: su di essa c'è solo un pane spezzato ed un comune bicchiere (non un calice) di vino. Alle spalle del Cristo si vede il torso nudo di una figura umana che simboleggia Dio, ma la testa è invisibile, proprio come nel murale di Jean Cocteau nella chiesa di Notre Dame de France a Londra (un dipinto chiaramente ispirato alle dottrine rosacrociane di cui, come s'è detto, Cocteau era seguace), in cui di Cristo in croce si vedono solo le gambe; inoltre la posizione della figura ricorda quella dell'uomo vitruviano di Leonardo. Ma l'elemento più surreale è costituito dall'ambientazione: Cristo e gli apostoli si trovano infatti all’interno di un dodecaedro. 92 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Non era la prima volta che Dalì accostava la figura del Cristo a figure geometriche: l'anno precedente, ad esempio, aveva realizzato il celebre dipinto Crocifissione (corpo ipercubico); ma questa volta l'effetto è particolarmente surreale; Dalì stesso commentò il quadro dicendo che si trattava di una «cosmologia aritmetica e filosofica basata sulla sublime paranoia del numero dodici», rendendo se possibile ancor più oscura l'interpretazione del dipinto. Tuttavia la scelta del dodecaedro riconduce alle filosofie platonica e pitagorica, che quasi certamente Dalì aveva in mente nel realizzare il dipinto. Infatti, com'è noto, il dodecaedro è uno dei cinque solidi platonici (disegnati fra l'altro proprio da Leonardo per il De divina proportione di Luca Pacioli), e non uno qualunque: se infatti gli altri quattro poliedri (tetraedro, esaedro, ottaedro, icosaedro) sono associati agli elementi base del cosmo (fuoco, terra, aria, acqua), il dodecaedro è per Platone l'emblema della perfezione stessa dell'universo. E' ovvio poi che la scelta del numero dodici è in relazione con il numero degli apostoli. Dodecaedro disegnato da Leonardo da Vinci per il De divina proportione di Luca Pacioli E' presente nella tela anche un vistoso riferimento al numero ф (1,6180339887), il “rapporto aureo” che i Greci consideravano espressione della proporzione ideale. Il numero ф ricorre più volte nelle proprietà metriche del dodecaedro, le cui facce sono pentagoni regolari, tanto che Pacioli afferma che esso dipende interamente da ф per la sua costruzione. Inoltre, se dividiamo la lunghezza della tela dipinta da Dalì per la sua altezza, otteniamo un numero molto vicino a ф: 1,6047941916. 93 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Seguendo poi l'esempio di Leonardo, Dalì colloca il piano del tavolo esattamente in corrispondenza della sezione aurea del lato minore del rettangolo; inoltre pone i due apostoli seduti accanto a Gesù in corrispondenza della sezione aurea del lato maggiore (nella figura ne ho indicato solo uno). Anche la tovaglia distesa sulla tavola è suddivisa in rettangoli, molti dei quali sono esattamente rettangoli aurei. Ma la provocazione più pesante potrebbe essere un'altra. Se si osserva attentamente il dipinto, si nota che la figura di Gesù è inscritta in un pentagono regolare, tre lati del quale sono ben visibili, mentre gli altri due sono solo suggeriti dalle diagonali dei mantelli dei due apostoli di spalle. Com'è noto fin dai tempi di Pitagora, se si tracciano tutte le diagonali all'interno di un pentagono regolare, si ottiene la tipica stella a cinque punte nota come pentagramma, detta anche pentacolo, simbolo della scuola pitagorica. 94 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Gesù è inserito al centro di un pentagono regolare Ma se osserviamo il pentagono disegnato da Dalì, vediamo che il vertice del triangolo aureo è rivolto verso il basso, e non verso l'alto, come nel pentagono pitagorico. Quindi la stella contenuta all'interno di esso ha anch'essa la punta rivolta verso il basso. Se così fosse, la figura all'interno della quale Gesù viene inserito da Dalì non sarebbe un pentagramma pitagorico, ma il più tipico simbolo satanico: il pentacolo rovesciato! Infatti, come vedremo, dei cinque vertici del pentagramma, quattro simboleggiano gli elementi naturali (acqua, aria, terra e fuoco), mentre il vertice rivolto verso l'alto simboleggia lo spirito: quindi, capovolgere il pentagramma significa affermare il predominio della materia sullo spirito, com'è tipico del satanismo. Dalì avrebbe dunque attribuito al suo Gesù connotazioni demoniache? A me non sembra affatto così: anzi, il dipinto mi sembra suggerire un'interpretazione diametralmente opposta. Osserviamo nuovamente il pentagono con il pentagramma inscritto al suo interno, che per praticità ho colorato. Il pentagono che contiene il pentagramma (quello azzurro) ha il vertice del triangolo aureo rivolto verso l'alto, ma il pentagono contenuto all'interno del pentagramma (quello giallo) presenta il vertice rivolto verso il basso. 95 IRENE STORNIOLO Δαίμονες A mio parere è all'interno del pentagono giallo, e cioè all'interno del pentacolo, che si trova inserito Gesù, in modo quindi del tutto "normale" e per nulla satanico. Questa interpretazione mi sembra molto più logica anche perché in questo modo Dio si trova al di sopra di Gesù e costituisce il vertice invisibile del pentagramma, senza contare che la stessa posizione delle braccia di Dio, aperte e distese, suggerisce proprio l'inclinazione dei due lati superiori del pentagono maggiore. Insomma, lo schema compositivo dovrebbe essere questo: Personalmente ritengo quindi che l'interpretazione del pentagramma data da Dalì sia quella "benefica" tipica dei Pitagorici, e non certo quella perversa dei satanisti. Leggiamo sul Portale del Neopaganesimo quali caratteristiche vengono attribuite dalle religioni neopagane al pentacolo. Scopriamo anzitutto che esso è legato al pianeta Venere, perché quest'ultimo traccia ogni otto 96 IRENE STORNIOLO Δαίμονες anni sulla sua eclittica un Pentacolo perfetto. Per questo motivo questa figura geometrica è diventata simbolo di perfezione. Inoltre "il pentacolo è una rappresentazione del microcosmo e del macrocosmo, combina cioè in un unico segno tutta la mistica della creazione, ovvero tutto l'insieme di processi su cui si basa il cosmo. Le cinque punte del pentagramma interno simboleggiano i cinque elementi metafisici dell'acqua, dell'aria, del fuoco, della terra e dello spirito. [...] L'ultimo elemento, lo spirito, non è altro che l'energia mistica emanata da Dio; questa energia si elabora e si manifesta condensandosi e andando a costituire le particelle subatomiche della materia. È l'energia che compone tutto l'universo, e della quale l'uomo non sa spiegare l'origine, la Fonte. Il rapporto tra i vari elementi rappresentati all'interno del pentacolo è (...) una riproduzione in miniatura dei processi su cui si basa il cosmo. Questo processo inizia dall'elemento dello spirito, il quale si manifesta dando origine a tutto ciò che esiste. La creazione si verifica partendo dalla Divinità e scendendo verso la punta in basso a destra, simboleggiante l'acqua, ovvero la fonte primaria e sostentatrice della vita sulla Terra. Dall'acqua ebbero origine le primissime forme elementari di vita (...)." 97 IRENE STORNIOLO Δαίμονες In effetti nel dipinto la figura di Gesù non solo è immersa nell'acqua, ma per così dire ne fa parte: il suo corpo è trasparente, lascia intravedere il mare e le barche alle sue spalle. Il vino ed il pane spezzato sulla tavola davanti a Gesù sembrerebbero fare riferimento rispettivamente all'elemento liquido e a quello solido. L'ombra del bicchiere è particolarmente lunga e si spinge fino a raggiungere il punto in cui si trova il pane: questo potrebbe significare che l'elemento liquido è quello da cui deriva l'elemento solido. Gli elementi sono disposti in modo speculare rispetto a ciò che si vede alle spalle di Gesù, come in un chiasmo o in una proporzione del tipo rocce : mare = vino : pane, cioè a : b = b' : a'. Ma proseguiamo con la lettura delle caratteristiche del pentacolo: "Dall'acqua il processo creativo risale verso l'aria, la quale rappresenta le forme di vita sufficientemente evolute da potersi organizzare da sole, prendendo coscienza del proprio sé. Questi esseri, dalla loro innocenza originaria, si evolvono e si organizzano moralmente e tecnologicamente, procedendo lungo la linea orizzontale verso la terra a destra. La terra simboleggia il massimo grado di evoluzione che un'epoca può sopportare (...). [Poi] l'essere si allontana dallo spirito, degradando verso il basso, il fuoco, simboleggiante l'apice della degenerazione." A dire il vero c'è molta discordanza nelle fonti esoteriche sulla corrispondenza tra gli apici del pentacolo e gli elementi, che vengono assegnati in modo contraddittorio e fantasioso, con una sola costante: la presenza dello Spirito in alto e del fuoco in basso. 98 IRENE STORNIOLO Δαίμονες La corrispondenza che ricorre più comunemente è quella riprodotta nella figura sottostante (figura A), a mio parere non molto razionale, perché dallo Spirito si passa direttamente alla Terra o al Fuoco, per poi passare all'Aria e/o all'Acqua senza alcun nesso logico apparente: Figura A Quella descritta dal portale del Neo-paganesimo corrisponde alla figura B, con l'acqua e il fuoco in basso (come è logico che sia, perché sono rispettivamente l'elemento generatore e quello distruttore), mentre quella alla quale fa riferimento Dalì sembra essere la medesima, ma con l'acqua in basso a sinistra (figura C): Figura B Figura C La figura B si percorre in senso orario, la figura C in senso antioriario. Il percorso descritto nella figura C è perciò: Spirito - Acqua - Terra - Aria - Fuoco. Rivediamo ancora l'immagine di Cristo alla luce del legame fra il pentacolo ed i cinque elementi, disposti come sembra suggerire il dipinto. Se è così, Gesù sta forse contando fino a cinque (con la mano destra) e lasciando intendere (con la sinistra) di essere lui stesso l'origine di tutto? E nel contempo indica Dio in alto, di cui Egli non è che un'emanazione? In tal caso il suo gesto potrebbe essere tradotto così: "Io sono i cinque elementi e sono lo Spirito, che è l'origine di tutto". 99 IRENE STORNIOLO Δαίμονες C'è però un problema: gli elementi del pentacolo sono tutti chiaramente rappresentati nel dipinto di Dalì, tanne uno: ci sono l'acqua (in basso), l'aria e la terra (più in alto) e lo Spirito (il vertice invisibile, la testa della figura di Dio); il fuoco, invece, sembra mancare. Se però si osserva attentamente la figura del Cristo, si nota che essa sembra riassumere in sé i quattro elementi (oltre, ovviamente, allo Spirito): il suo corpo è immerso nell'acqua, il suo torso è per metà nudo (allusione alla materia di cui è composto, cioè alla terra) e per metà coperto da un manto azzurro (allusione all'aria); i suoi capelli hanno qualcosa di innaturale, dalla metà in giù sembrano cambiare consistenza ed arricciarsi, assumendo l'aspetto di lingue di fuoco e proiettando una luce molto intensa sulle dita della mano destra, senza contare che sulla fronte di Gesù c'è un ciuffo più chiaro simile ad una fiammella. 100 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Inoltre due degli apostoli, anziché essere vestiti di bianco, indossano una veste rispettivamente azzurra (il discepolo alla nostra sinistra) e giallo oro (quello alla nostra destra), che forma sul loro collo chino una strana punta e i cui lembi sembrano facce triangolari. Ebbene, triangolari sono pure le facce dell'icosaedro e del tetraedro che, fra i solidi platonici, rappresentano appunto l'acqua e il fuoco. Ora, sarà forse un caso che i due discepoli dalla veste colorata siano raffigurati esattamente in corrispondenza delle punte inferiori del pentacolo, quelle corrispondenti appunto all'acqua e al fuoco? E il discepolo vestito di giallo, corrispondente al fuoco, cioè all'apice della degenerazione, potrebbe forse essere Giuda? Tuttavia la degenerazione non significa la fine di tutto: infatti "in seguito alla depressione avviene però sempre una ripresa, un ritorno alle origini, in questo caso allo spirito (...). Letto in senso escatologico, questo processo potrebbe anche simboleggiare il ciclo delle reincarnazione, assimilato da parecchie tradizioni neopagane: lo spirito, in quanto fonte di ogni cosa, è fonte anche dell'uomo, quest'ultimo (e con esso qualsiasi essere animato o inanimato) completato il suo ciclo esistenziale, torna ad essere parte dell'Uno cosmico, si unisce a Dio. In seguito a questa unione la sua anima potrà iniziare una nuova esistenza. 101 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Il pentacolo è dunque una riproduzione in miniatura del processo creativo e immanente che regge l'universo." Che sia proprio questa la chiave di lettura del misterioso dipinto? Gesù, concluso il suo ciclo esistenziale, torna a far parte dell'Uno cosmico dal quale proviene e che è pronto ad accoglierlo. C'è però un altro elemento di cui bisogna tener conto: il suo aspetto androgino, certamente non casuale, da collegare anch'esso con il pentacolo in quanto simbolo femminile per eccellenza (come si è detto, ha a che fare con il pianeta Venere e di conseguenza con Afrodite). Si potrebbe pensare che la corrente neo-pagana alla quale si ispira Dalì sia la Wicca. Vediamo perché. Il principio fondante della Wicca è l'opposizione-fusione tra i due principi cosmici rappresentati dal Dio e dalla Dea, il principio maschile e quello femminile. Ed in effetti il Gesù di Dalì è nel contempo maschio e femmina. 102 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Come leggiamo sul portale del Neo-paganesimo, per la teologia wiccan "il Dio e la Dea sono le forze che permettono la costituzione armonica e l'equilibrio del mondo. Ogni cosa è costituita dall'eterno incontro e rapporto di complementarità che sussiste tra le due Divinità. (...) Importante nella teologia wiccan è anche il concetto della Dea triplice e del dualismo monistico. (...) Ogni cosa attraversa una vita circolare, e la triplicità della Dea è per questo abbinata anche alle tre fasi principali della vita umana: la nascita, la crescita e la morte. Tutti attraversano questi tre eventi fondamentali, ed è in questa circostanza che si innesta la visione escatologica della Wicca. La reincarnazione è una conseguenza della ciclicità del mondo; dopo la morte avrà inizio una nuova vita." E' forse a questa rinascita dopo la sua morte che allude Gesù con il suo gesto misterioso (in tal caso contando fino a tre)? Inoltre "fondamentale nella visione cosmologica della Wicca è l'idea dei cinque elementi. Secondo gli wiccan i cinque elementi sono le regole fondamentali del mondo fisico, attraverso le quali si può giungere al contatto mistico con le due Divinità o con l'Uno. Quattro di questi elementi sono l'acqua, l'aria, il fuoco e la terra. Oltre a questi vi è lo spirito, chiamato anche etere (aether). Lo spirito è considerato come la regola organizzatrice dell'equilibrio del mondo, il teorema base dal quale si dipanano tutti i teoremi minori su cui si regge l'evoluzione ciclica delle cose. Gli elementi sono abbinati alle cinque punte del pentagramma e del simbolo del pentacolo, essendo quest'ultimo una rappresentazione simbolica del cosmo." Il simbolo della Wicca è infatti il pentacolo riprodotto nella figura a fianco, dove il cerchio nel quale è inscritto il pentagramma simboleggia l'infinito e l'eternità. Non so se questo sia abbastanza per fare di Dalì un adepto della Wicca, ma certo i punti di contatto sono impressionanti. Il simbolo della Wicca Come si vede, il dipinto di Dalì è destinato a conservare ancora il suo mistero, dal quale dipende in buona parte il suo fascino. Tuttavia, comunque lo si legga, esso sembra alludere alla rigenerazione dopo la morte (interpretazione molto sui generis della resurrezione cristiana), cioè in sostanza all'immortalità dell'anima ed alla reincarnazione: questo è perfettamente in linea con le teorie di Pitagora e di Platone, che credevano entrambi nella metempsicosi, e spiega le innumerevoli allusioni alle dottrine pitagorico-platoniche (inclusa la ricorrenza del numero ф) presenti nel dipinto. 103 IRENE STORNIOLO Δαίμονες IL PENTAGRAMMA E IL TEOREMA DELLA CORDA Il pentagramma (dal greco pente, "cinque" e gramma, "linea") è una stella a cinque punte. Geometricamente lo si definisce la figura intrecciata che ha come lati le diagonali di un pentagono regolare. Un pentagramma infatti può essere formato da un pentagono regolare capovolto o estendendo i suoi lati, o disegnando le sue diagonali, e la figura risultante contiene varie lunghezze correlate dalla proporzione aurea. Proprio per questo fu molto caro ai pitagorici. Pentagramma Pentagramma inscritto in un pentagono Si tratta del più semplice tipo di poligono stellato. Un poligono stellato è una linea spezzata chiusa che delimita un insieme stellato del piano. A differenza degli ordinari poligoni, la linea spezzata può autointersecarsi: coppie di spigoli distinti possono cioè intersecarsi in un punto interno. Un poligono stellato regolare ha spigoli tutti di eguale lunghezza, e angoli ai vertici di eguale ampiezza. In particolare, se è il lato del poligono regolare stellato e stesso, vale la relazione: la distanza tra due vertici adiacenti dello dove n è il numero di vertici del poligono e k la distanza modulare tra due vertici connessi dal lato del poligono stellato. Dimostriamolo. 104 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Inscrivendo il poligono stellato in una circonferenza di raggio R, si osserva che il segmento che congiunge due vertici adiacenti è una corda, la cui lunghezza è, per il teorema della corda, con θ angolo alla circonferenza, di ampiezza π / n. Il lato del poligono stellato è un'altra corda, lunga ove k esprime la distanza modulare dei vertici del poligono. Rapportando le lunghezze, si ottiene come volevasi dimostrare. 105 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Teorema della corda In una circonferenza, la misura di una corda è uguale al prodotto della misura del diametro per il seno di uno degli angoli alla circonferenza che insistono su uno degli archi sottesi dalla corda. Immaginiamo di muovere il punto C sulla circonferenza; cosa osserviamo? L'angolo γ cambia solo se il punto C passa da un arco ad un altro. Lungo lo stesso arco l'ampiezza dell'angolo resta costante. Immaginiamo ora di muovere uno degli estremi del segmento AB; cosa osserviamo sull'angolo γ? Questa volta l'ampiezza dell'angolo cambia, proprio perché dipende dalla lunghezza della corda (o, equivalentemente, dalla lunghezza dell'arco che essa sottende). Cerchiamo di fare in modo che la corda AC sia un diametro della circonferenza; cosa osserviamo sull'angolo β? In questo caso l'angolo β è retto, perché sottende una semicirconferenza. 106 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Ricordando che nei triangoli rettangoli la misura di un cateto è pari all'ipotenusa per il seno dell'angolo opposto al cateto, ed osservando che nella figura l'angolo con vertice in C è uguale all'angolo con vertice in D perché sottendono la stessa corda, si può subito dedurre il seguente Teorema della corda: Detto γ l'angolo che sottende una corda AB in una circonferenza di raggio r, vale la seguente uguaglianza: AB = 2r sin γ 107 IRENE STORNIOLO Δαίμονες BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA: Il concetto di δαίμων: Baldo Lami, Breve storia del dàimon, in Letture Contemplative (Rivista di analisi e sintesi psicospirituale) N. 7, Milano 2000; Roberto Renzetti, Superstizione: angeli, demoni, diavoli e santi; http://it.wikipedia.org/wiki/Demone Schopenhauer: la Natura "demoniaca": http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/imago/schopim/schopim.htm http://skuola.tiscali.it/filosofia-moderna/schopenhauer.html Callimaco e i Telchini: http://classicamente-dora.blogspot.com/2011_02_03_archive.html http://www.sapere.it/enciclopedia/Telchini.html http://it.wikipedia.org/wiki/Telchini http://eltonvarfi.blogspot.com/2010/04/i-telchini.html Il diavoletto di Maxwell e l'entropia: http://www.cosediscienza.it/fisica/12_entropia.htm http://it.wikipedia.org/wiki/Diavoletto_di_Maxwell Il demone della matematica: Perel'man: http://it.wikipedia.org/wiki/Congettura_di_Poincaré http://it.wikipedia.org/wiki/Grigorij_Jakovlevic_Perel'man http://www.sullanotizia.com/articoli/arte_e_cultura/il_demone_della_matematica.asp http://www.repubblica.it/2007/06/sezioni/esteri/perelman/perelman/perelman.html Chi è Lucifero? http://it.wikipedia.org/wiki/Inferno_-_Canto_trentaquattresimo http://esorcismi.altervista.org/diavolo-satana.html http://it.wikipedia.org/wiki/Lucifero Il pianeta Venere: http://www.astrofilitrentini.it/tnp/venus.html http://it.wikipedia.org/wiki/Venere Apollonio di Tiana e la vampira: Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana 4. 25, in Storie di vampiri a cura di Gianni Pilo e Sebastiano Fusco, Roma, Newton & Compton, 2003, pp. 971-72 http://it.wikipedia.org/wiki/Lamia http://www.chupacabramania.com/articoli/utenti/apollonio_di_tiana.htm Lo spiritismo in Pirandello e Svevo: http://www.uniurb.it/Filosofia/bibliografie/pirandellospiritismo/index.htm Edgar Allan Poe, Ligeia: http://en.wikipedia.org/wiki/Ligeia 108 IRENE STORNIOLO Δαίμονες Fosca, la donna-vampiro: http://it.wikipedia.org/wiki/Iginio_Ugo_Tarchetti http://www.italialibri.net/opere/fosca.html Il mito di Salomè: http://ilmitodisalom.blogspot.com/ Il pentagramma e il teorema della corda: http://it.wikipedia.org/wiki/Poligono_stellato http://www.cnuto.it/lezioni/scienze/matematica/trigo_primoes/il_teorema_della_corda.html http://areeweb.polito.it/didattica/polymath/htmlS/argoment/ParoleMate/Dic_08/teorema_corda.htm 109