SOMMARIO
3 Mario
Fancello
Maladie
4 Mario
Fancello
Note informative: Angelo Pretolani
6 -----------7 Angelo
16 Mario
17 -----------18 Mario
20 -----------21 Fabrizio
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Profilo biografico di Angelo Pretolani
Pretolani
Trascrizione dell’intervento: Angelo a bordo (a c. di M. Fancello)
Fancello
Sottolineature: Angelo Pretolani
-------------Fancello
-------------Boggiano
Commenti imberbi (a c. di M. Fancello)
Note informative: Fabrizio Boggiano
Profilo biografico di Fabrizio Boggiano
Estratto dell’intervento (a c. di M. Fancello)
26 Mario
Fancello
Sottolineature: Boggiano
27 Gianni
Milano
In attesa che il sogno decolli
32 Marina
Bondì
“Questa pittura stanca di più”
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Puntaspilli (a c. di M. Fancello)
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Farfalle metropolitane (a c. di M. Fancello)
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Scheletri nell’armadio: Giancarlo De Carlo (a c. di M. Fancello)
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Spazzolature (a c. di M. Fancello)
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Sposò la musica con l’elettronica
Cantarena
Anno V – Numero 17
Marzo 2002
Periodicità trimestrale
Direzione e redazione
Mario Fancello
Silvana Masnata
Rosangela Piccardo
Mirella Tornatore
Realizzazione grafica
Mario Canepa
Mauro Grasso
Rosangela Piccardo
Produzione e distribuzione in proprio
Per contatti ed informazioni
Scuola Media Statale V. Centurione
Salita inferiore Cataldi, 5
16154 Genova
Fax 010 / 6011225
Posta elettronica
[email protected]
PIETRO GROSSI,
In copertina:
Attimi di Homeart, 1999.
In quarta di copertina:
2000.
Olio su tela, terra e rami,
104 x 56 x 17 cm.
ANGELO PRETOLANI, Resto,
Le fotografie raffiguranti l’incontro con
A. Pretolani e F. Boggiano sono di M. Fancello
COMUNICATO:
Ringraziamo per la collaborazione
La Federazione Democratici di Sinistra
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MALADIE
In un’epoca solita identificarsi nelle demitizzazioni, nella temporaneità, nell’elogio del dubbio e
nella poetica del frammento non ha forse molto senso dar di mano a riforme faraoniche.
Stando ai miei occhi, la scuola è un tragico pachiderma concepito nella notte dei tempi, affetto da
una sovrabbondanza di patologie e rimpinzato da secoli d’indigeste paccottiglie. Qualsiasi giovane
e promettente équipe medica che elabori (da destra o da sinistra) arditi trapianti e funamboliche
modificazioni di ingegneria genetica avrebbe – al minimo – il dovere etico d’aver sperimentato a
lungo i risultati degli interventi. Dominano invece attorno al capezzale del malato comatoso
tifoserie e baruffe tra indirizzi terapeutici divergenti.
Scuola per il futuro o scuola à la page?
Oggi – tra fischi ed applausi – sfila la griffe Moratti-Berlusconi, ieri si esibiva la maison
Berlinguer-De Mauro; e domani?
Pervenuti a tale stato di cose, giudicherei più lungimirante limare gli spigoli, sfumare le
intromissioni, sperimentare per piccole aree e in modo metodologicamente scientifico senza
millanterie e protagonismi. Gli ispettori – tanto per dirne una – invece di svolgere un ruolo
burocratico e poliziesco dovrebbero raccogliere e coordinare le proposte e le lamentele della base
per permettere agli “esperti” d’oliare i meccanismi e sostituire i pezzi difettosi.
Le ingerenze esterne di tipo spettacolare e le progettazioni effettuate in studio rammentano tanti
interventi urbanistici – anche recentissimi – desertificatori di ambienti; prenderne coscienza
potrebbe essere proficuo per tutti.
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NOTE INFORMATIVE
ANGELO PRETOLANI
Angelo a bordo è il tema della conversazione/performance tenuta sabato 10 marzo 2001 dall’artista
Pretolani nell’aula audiovisivi della Media Centurione (sede).
Angelo mentre sta leggendo agli studenti della Centurione il testo del suo intervento
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L’incontro, rivolto a cinque classi terze (A,B,C,D,G), per ovvie ragioni organizzative, si è articolato
in due turni (10-11.20 // 11.30-12.50).
La trascrizione del testo è stata revisionata dall’Artista, che si è limitato a modificare solo gli errori
di percezione acustica da noi compiuti.
È stata effettuata una videoregistrazione dell’evento ad opera di alcuni studenti della scuola.
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PROFILO BIOGRAFICO
DI ANGELO PRETOLANI
Angelo Pretolani è nato a Genova il 15 agosto 1953.
La sua attività artistica è sempre stata caratterizzata da urgenze performative; le sue prime
performance sono del 1973 (con alcune di queste partecipa alla X Quadriennale, Roma, 1975);
presenta performance a Genova (Teatro della Tosse, 1975; Galleria Unimedia, 1977), a Milano
(Galleria L. Inga-Pin, 1976; Teatro Out Off, 1979), a Torino (Teatro Gobetti, 1977), a Varsavia
(Remont Gallery, 1979), a Belgrado (Studentskog Kulturnog Centra, 1979), a Bologna (Galleria
d’Arte Moderna, 1981), a Linz (Brückner Festival, 1981).
Negli anni Ottanta, le sue performance assumono una dimensione più spettacolare e assieme ai
gruppi emergenti della sperimentazione teatrale (Magazzini Criminali, Gaia Scienza, Falso
Movimento ecc.), è impegnato in rassegne di Nuovo Teatro (Limitrofie, Milano, 1983; Sussurri o
grida, movimenti nel nuovo teatro italiano, Milano, 1984; Ingauni!, Albenga, 1984; XIX Festival di
Santarcangelo di Romagna, 1989).
Espone in mostre personali a Genova (Galleria R. Rotta, 1987, 1991, 1997; Museo di Villa Croce,
1995; Galleria C. Gualco, 1998), a Chiavari (Galleria C. Busi, 1989), a Trieste (Juliet’s Room,
1989), a Bologna (Galleria Spazia, 1995), a Vienna (Galleria G. Lìcandro, 1996).
Nel 1998 partecipa a Just Doing di Allan Kaprow (Genova, Museo di Villa Croce), nel 1999 a The
Beginning, opere sul linguaggio del corpo dal 1962 al 1976, prima ancora che nascesse la Bodyart (Milano, Galleria L. Inga-Pin). Nell’anno 2000 espone nella mostra Il corpo rinato (Genova,
Galleria C. Gualco), e l’anno seguente a 1950-2000, Arte genovese e ligure dalle collezioni del
Museo d’arte contemporanea di Villa Croce (Genova, Museo di Villa Croce).
Risiede a Genova, ma vive altrove.
Per un maggiore approfondimento sul lavoro di performance di Angelo Pretolani si rimanda al
volume Apparizioni aptere, edito in occasione della mostra personale dell’Artista da Caterina
Gualco (novembre 1998).
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TRASCRIZIONE DELL’INTERVENTO:
ANGELO A BORDO
Legenda:
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AP
F
J
BM
SM
DS
ET
AZ
RR
MC
SM
RP
MF
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Angelo Pretolani
Alunno di III F
Alunna di III C
Alunna di III D
Alunna di III D
Alunno di III D
Alunna di III D
Alunno di III D
Alunni della Centurione
Mario Canepa, docente di Educazione Fisica
Silvana Masnata, docente di Lettere
Rosangela Piccardo, docente di Educazione Artistica
Mario Fancello, docente di Educazione Artistica
AP – Anzitutto buongiorno a tutti.
RR – Salve.
AP – [Legge su un foglio che ha preparato per l’intervento].
Tutto mi confonde. Tutto si confonde. Niente mi appartiene … nemmeno questo mio
corpo, che non controllo del tutto.
Formare della saliva in bocca. Inghiottire.
Formare per terra con dei sassolini di mare la parola desiderio.
Cancellare con i piedi le prime sette lettere della parola. Allontanarsi zoppicando.
Zoppicare è simbolo che indica il gesto di terminare per ricominciare.
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Tutte le cose hanno significato, magari più d’uno a volte. Ma non tutti gli eventi hanno
un significato comunicativo … ma è comunque sempre più bello sentire che capire.
L’arte non significa, l’arte è.
Queste cose che vi ho letto sono parti di performance realizzate fra gli anni Settanta e gli anni
Ottanta a Trieste, Altdorf, Schachen e Bregenz; servono come introduzione al nostro incontro e
al video che vedrete successivamente, dopodiché sarò a vostra disposizione per le eventuali
domande.
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Un’altra cosa … ho chiamato questo incontro Angelo a bordo – questo era il titolo di una
mia performance presentata alla Pinacoteca di Volterra il 3 aprile 1996. Ho voluto questo
stesso titolo per il nostro incontro – Angelo perché il mio è un lavoro sull’identità, fra
sociale e naturale – scrivevo in un catalogo che presentava una mia performance alla
Galleria d’arte moderna di Bologna: Io sono Angelo, il mio nome per intero è Angelo
Pretolani. Angelo è il mio nome di battesimo, Pretolani è il nome della mia famiglia. Il
mio lavoro è un intervento sui nomi. La trasgressione è la misura delle mie intenzioni.
Questa definizione, Angelo a bordo, inoltre rimanda agli adesivi che leggiamo ogni
giorno su alcune automobili, Bimbo a bordo (qualcuno infatti sostiene che gli artisti non
crescano mai) – ma a bordo, anche nel senso di … a margine (il lavoro di un artista è
sempre a margine), e, infine, a bordo come se la vostra scuola fosse una nave e ci
accingessimo ad un viaggio e in qualche modo questo nostro incontro è un viaggio, per
me e per voi.
Adesso passiamo alla visione del video.
[Termina qui la lettura].
RR – [Battono le mani].
[Proiezione. Alla fine del video cala il silenzio in aula].
AP – Fate delle domande. Fatele a voce alta. [Rivolgendosi a me a bassa voce] Perché
sentivo che qualcuno “commentava”.
MF – [Rivolgendomi ai ragazzi] Sì, Angelo dice che mentre c’era il video sentiva che
qualcuno parlottava. Abbiamo sentito qualcuno che faceva le sue battute spiritose; anzi,
dico qualcuno ma erano almeno tre o quattro.
RR – Io no.
MF – per cui (sì, infatti, proprio tu no) in questo caso è evidente che sarebbe opportuno
che queste cose dette così anche come battuta fossero riferite a tutta la classe in maniera
chiara, anche perché forse, sgelando l’atmosfera, potrebbero essere l’inizio di un
dibattito vero.
RR – Ah prof c’è Alvaro [alunno di IIID] che vuole fare una domanda.
AZ – [Risponde l’alunno chiamato in causa] Figurati. Ma no prof, non si disturbi.
RR – [Ridono].
MF – Una cosa, ragazzi: togliere tutto quel clima di ufficialità che ci può essere
inevitabilmente in un incontro è sempre positivo, però, nello stesso tempo, non
approfittiamo di queste occasioni (che vengono rivolte a voi per cercare di evitare questo
congelamento) per fare gli stupidi. D’accordo? Un minimo di razionalità sarebbe
necessario in questi incontri. [Silenzio]. Visto che non avete il coraggio, che siete
pusillanimi oppure che non sapete proprio che cosa dire, vuol dire che subite
passivamente tutto. Allora di chi è quella mano? Simona se vieni qua vicino puoi parlare
al microfono.
SM – [Tifo da stadio – urla e battimani – da parte dei compagni] Dove è stato realizzato
il video?
AP – Il video tratta della ripresa di una performance che ho fatto in Toscana, in un paese
che si chiama Montescudaio, all’interno di una rassegna, d’arte ovviamente. Ho montato
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poi questo video con delle immagini che, come avete visto, c’erano a fianco del
televisore che accompagnava la mia performance.
RR – Era lei nel video?
AP – Ero io, sì. Ero un po’ diverso perché sono passati sei anni, ma ero io, sì. Avevo i
capelli un po’ più lunghi, adesso ce li ho più corti.
J – Volevo chiedere come mai, se per fare qualcosa nel video serve la concentrazione,
come mai c’era il televisore.
AP – Allora, se ho capito bene, vuoi sapere perché c’è il televisore a fianco. Il televisore
era un elemento che mandava un video da me realizzato che accompagnava la mia
performance.
DS – Ma perché c’era questo video? Il televisore?
ET – L’ha appena detto.
AP – Non capisco perché vi ha colpito tanto questa cosa qua. Ho appena risposto a
questa domanda come ha detto la vostra compagna. Ma perché? Vi colpisce che c’era un
video a fianco?
MF – Una cosa che voglio chiederti io, che interessa a me, vorrei sapere (faccio una
distinzione – che forse sarà un po’ pignola – tra quella che è la videoperformance e la
performance in video; cioè – chiarendo la questione – ritengo che un video che venga
realizzato come documentario di una performance pensata senza l’intervento della
telecamera è un discorso che appunto chiamo performance in video; nell’altro caso,
quando la performance viene pensata non solo per un pubblico ma anche per la ripresa
allora la chiamo nell’altro modo) vorrei sapere come la classifichi. A me sembrava – ma
non so – più una performance in video; è così oppure no?
RR – No, no.
AP – Ma entrambe le cose.
MF – Sì, esatto, perché c’erano
AP – Perché quando ho fatto la performance c’era anche il video a fianco e quando ho
montato questo video non ho voluto che fosse soltanto una documentazione visiva della
performance ma ci fossero inframmezzate anche alcune immagini del video che avevano
accompagnato la performance.
MF – Un’altra cosa. Il televisore presente evidentemente funzionava anche come
elemento luminoso, di atmosfera, eccetera? L’attenzione dedicata al video visto
attraverso la televisione era l’attenzione che il pubblico poteva dare al video, nello stesso
tempo era il video dentro la ripresa (cioè il televisore che era dentro alla ripresa) che non
aveva più la funzione – come s’usa dire – ipnotica del televisore, era diventato un altro
oggetto.
AP – Sì, poi sono molto importanti anche questi disturbi che avete visto nel video. Sono
voluti ovviamente. Cioè una maniera di vedere la televisione a cui non siamo abituati
perché la televisione è data dalle onde e qua praticamente venivano evidenziate queste
onde. [Silenzio]. Ci sono delle altre domande? Degli interventi?
RR – [Un’alunna di III F] Che significato aveva quel grano (se era il grano)?
AP – Sì, erano spighe di grano.
RR– e poi quando si era levato la giacca che era bendato
AP – Allora rispondo subito. Quelle che avevo dietro erano delle spighe di grano – come
hai notato giustamente – e quando mi sono levato la camicia ero bendato come se fossi
ferito.
RR – Il cuoricino?
AP – Il cuoricino è un ex voto, come se al posto del cuore ci fosse un ex voto.
RR – Un ?
RP – Ex voto: non sanno che cosa sia.
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AP – Non sanno che cosa sono gli ex voto? Non sono mai stati alla Madonna della
Guardia? Gli ex voto sono dei ringraziamenti che vengono fatti. Non so, per esempio, se
uno cade dal quarto piano e non si fa niente, non so, fa un ringraziamento alla Madonna
oppure a un santo, mette un cuoricino oppure una gamba come ringraziamento.
RP – La scritta finale?
AP – Allora la scritta finale è: con vivo, scritto con dei cubetti di ghiaccio azzurri. C’era
poca luce, comunque la scritta è con vivo.
RR – Col ghiaccio?
AP – Con vivo.
RP – Staccato. Di ghiaccio. Perché l’azzurro?
AP – Il colore del cielo.
RP – Il colore del cielo.
AP – Infatti il titolo della performance è Siamo spiriti azzurri, quindi il riferimento è al
cielo.
RP – Lo spirito che non è materiale, quindi anche l’artista diventa poi materiale perché
… Cominciamo a capire piano piano perché non è facile. Capire?
AP – No, no, però mi devono fare delle domande, devono fare degli interventi.
BM – Perché la parola con vivo?
AP – Perché l’artista di solito convive con tutto quello che lo circonda, quindi queste
immagini che voi avete visto sono prese da film, prese dalla televisione, sono riciclate,
rielaborate. Quindi l’artista convive con questa realtà che gli sta attorno. [Silenzio].
MF – Allora, ragazzi, qualche altra domanda. [Non intervengono]. Quando vi faccio
vedere i video e ovviamente anche quando i colleghi fanno vedere qualche video (di
videoarte) molto spesso domandate che cosa voleva dire il video e io non ve lo so dire
perché – chiaramente – posso dire quello che penso io, non quello che l’artista aveva
intenzione di dire e di fare. Qua avete visto un video e avete per giunta anche l’Artista.
Io sono dell’idea che l’artista possa dire al massimo (nella più ottimistica delle
previsioni) solo il settanta per cento (tanto per dire una cifra) di quello che voleva dire,
perché molto passa involontariamente – a mio parere – sotto le righe di quello che
l’artista crede di dire e vuole dire; però adesso avete visto il video e avete l’Autore. Non
so se abbiate fatto nei pochi minuti in cui sono stato fuori [dall’aula] una domanda di
questo tipo. A me pare che sia il caso di dirlo, no? Se vi interessa, è chiaro. [Silenzio]. Si
attende una vostra domanda.
RR – [Parlano fra di loro].
MF – Ci sono o no delle mani alzate? [Silenzio]. Io voglio solo dire una cosa. Voi avete
fatto questa domanda, ma sul foglietto che ha scritto Angelo c’era scritto nella parte
finale del primo settore: l’arte non significa, l’arte è; comunque a me sembra bello e
provocatorio dire: ma che cosa voleva dire? Cosa significa questo video?
AP – Ma io posso rispondere se ci sono delle domande, ma se non ci sono delle domande
… Ho già fatto vedere. Dirò di più. Questa qua è la documentazione di una performance
inframmezzata – come ho detto prima – al video che c’è nella performance, che
accompagna la mia performance, quindi è abbastanza completo. Posso soltanto
aggiungere che uno degli elementi molto importanti è quella frase che a un certo punto si
vede sul finale del video che dice “lascia che la vita vi passi attraverso”, che secondo me
è molto importante e serve un po’ per capire quello che ho fatto.
MF – A me interessava questa domanda perché (chiaramente in base alla mia
esperienza) vedo che gli alunni sempre chiedono. Il discorso che generalmente si sente
sempre fare dagli autori di qualche cosa è: quello che avevo da dire l’ho detto
direttamente nell’opera, ogni altra cosa aggiunta non ha senso. Per cui un video è il
video e non altro che il video, una composizione musicale è la composizione musicale e
nient’altro che la composizione musicale, e quindi dovremmo (insieme con il fatto di
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chiederci che cosa voglia dire) dovremmo – a mio parere – imparare 1) ad accettare il
dato – che è l’opera – così com’è e poi 2) (io insisto sempre su questo e tu Angelo mi
dirai se ho ragione – a tuo parere – o torto) è chiaro che un’opera di un artista, qualsiasi
opera essa sia, è un qualcosa di personale e in piccola parte – minima – pubblica che nel
momento in cui viene prodotta diventa soprattutto pubblica e in minima parte personale
(dell’autore). Nel momento in cui l’opera è pubblica, il pubblico (ovviamente con una
certa decenza) ha il diritto d’interpretarla e di usarla come meglio preferisce, però
tenendo presente che non è più soltanto l’opera, diventa un qualcosa d’altro, cioè
un’opera è un rapporto, una relazione, tra l’autore e il pubblico attraverso un oggetto (se
è un oggetto, perché tante volte non è nemmeno un oggetto) attraverso un oggetto che
sarebbe l’opera. L’importante è che quest’opera, nel momento in cui diventa pubblica,
possa dire qualcosa di estremamente soggettivo a colui che la vede o la sente o la legge –
a seconda dei casi – e quindi possa in qualche modo maturare, trasformare, sviluppare il
pensiero dello spettatore (del singolo spettatore, di gruppi di spettatori) a seconda delle
capacità di presa dell’opera.
AP – Guarda, a questo proposito, io rileggerei tre righe.
RR – No.
AP – No, perché secondo me è importante. Quando io dico: Tutte le cose hanno
significato, magari più d’uno a volte. Ma non tutti gli eventi hanno un significato
comunicativo … ma è comunque sempre più bello sentire che capire. L’arte non
significa, l’arte è, credo di aver detto tutto.
MF – Ma certo, lo so.
AP – Sottolineo: è più bello sentire che capire, a volte.
MF – Son d’accordo. Allora dalla III D io mi aspetto da questo momento in poi un
atteggiamento (parlo della III D e non ovviamente della III C e non l’altra
RR – G
MF – e non III G perché non essendo l’insegnante di queste classi non ho esperienza nei
confronti di queste classi), quindi dalla III D immagino che non verrà più fuori: ma
professore questa è arte? Che cosa vuol dire? Che cosa non vuol dire? No? D’accordo?
SM – Io vorrei rivolgermi alla III D perché conosco la III D. Sarebbe opportuno adesso
che voi riusciste a dire che cosa avete sentito quando avete visto il video. Qualcosa
dovete aver sentito.
RR – [Quelli della III D negano d’aver sentito qualcosa].
SM – Per forza! Qualcosa! Solo che non ve ne accorgete – a volte – nemmeno perché
non vi ci soffermate. Cercate di pensare un attimo che cosa avete sentito.
RR – [Parlottano indistintamente].
FM – Attendiamo ovviamente il solito eroe che si presenterà qua al microfono. Abbiamo
detto III D, ma è evidente che è anche per la III C e per la III G. D’accordo? Chiunque
voglia dire qualcosa, relativamente a questa sollecitazione, la dica.
RR – [Continuano a parlare tra di loro].
MC – Guardate che ci può essere anche l’idea d’interpretare, di sentire, ascoltare,
percepire, intuire, comprendere. L’idea è di intendere anche il significato stesso del
sentire. Da insegnanti di Educazione Fisica possiamo parlare di afferenze
propriaccettive, il che vuol dire faccio, non so, – una sciocchezza – un servizio di palla a
volo, sento la palla, la percepisco, un male caino, sto male, e vedo l’altro che sembra la
cosa più normale del mondo. Questa palla parte, arriva; il signore, il mio atleta preferito
[indica ironicamente con lo sguardo un allievo]
RR – [Ridono].
MC – non sente il peso della palla, non misura la sua forza, non percepisce lo spazio, il
tempo, il compagno, l’azione di gioco, non sente. Quando io vedo un film (va be’, io
magari ci sono stato forse abituato, o – chissà – ci sono cresciuto) o quando sento un
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brano di musica che mi piace spesso mi viene la pelle d’oca, oppure partecipo, sento, mi
piace, non mi piace. Chi è l’autore? Non lo so. Dico la verità, non m’interessa neanche
tanto, però se mi dà un’emozione va bene. Vedo un film, una performance, un qualcosa,
dico: <<Che disastro! È una scemenza, non mi piace>>, <<Guarda che bello ohu, eh però
m’è piaciuto quel passaggio>> e magari lo … e poi dimentico purtroppo magari anche il
nome dell’artista, dell’opera, o quando l’ho visto o come, ma mi è rimasto dentro; allora
io sento un qualcosa, lo percepisco e diventa mio; allora divento anch’io un piccolo
museo d’arte, forse. Adesso io sproloquio, poi sarò criticabile, però il sentire la vita
attraverso … <<Non l’ho visto, non m’interessano ‘ste cose>>, <<Lascia che la vita ti passi
attraverso>>. Credo che sia un messaggio di un’attualità sconcertante in un mondo
governato dalle immagini fine a se stesse. L’immagine è la tuta da seicentomila lire, no?
Però dentro – ragazzi scusate la franchezza – ci può essere … braghe molle; vestito
benissimo, da immagine, però non c’è niente. Attenzione quindi: che la vita passi
attraverso, deve lasciare un segno, qualunque sensazione, qualunque esperienza. Gli
interventi del professor Fancello, con quei film spesso che scioccano anche i grandi (non
solo voi), e le performance, che lui si dà da fare per organizzare con artisti che
collaborano pazientemente, credo che siano un’opportunità per avere un’altra faccia
della realtà o dell’arte. L’arte non è un quadro bellissimo che capiamo immediatamente.
Se io vedo un’opera, perché qui siamo di fronte a una persona che ha familiarità con
l’arte in senso totale, non arte che può essere poi sfaccettata come si vuole, io posso
anche accettare l’idea, l’artista magari … (ma non ci sono oggetti troppo pesanti) …
<<Ma – guardi – questo film proprio non mi è piaciuto, per disgrazia. Ma come ha fatto a
mettere insieme tante sciocchezze una dietro l’altra?>>: è un’emozione! Non lo so, ho
detto mi dispiace. Di fronte alla professoressa [indica la professoressa Masnata lì
vicino] <<Come spiega la storia la professoressa Masnata! Guarda, una professoressa così
preparata, documentata!>>, poi dietro <<Miii, non se ne può più>>, e allora, attenzione, qui
siamo pronti anche ad aprire un po’ il confessionale di vetro del nostro amico, ma è
anche la possibilità di scambiare anche un’espressione diversa.
RR – [Gran chiacchierare dei ragazzi. Uno di essi domanda] Volevo chiedere che ruolo
aveva la scelta della musica.
AP – La musica è un riferimento molto importante. Praticamente sono musiche prese da
un film – a me molto caro – di Antonioni, Blow up, un film del ’66, che io ho visto però
purtroppo un anno dopo – nel ’67 – perché a quel tempo era vietato ai minori di
quattordici anni e io – dopo – quando ho compiuto quattordici anni ho visto questo film.
E questo film mi è rimasto molto impresso e io dico sempre che fa parte della mia
formazione artistica e della mia formazione anche come uomo, come individuo; e questa
musica molto importante è una musica degli Yardbirds, non so se li conoscete.
RR – No, no.
AP – È un complesso che viene addirittura prima dei Beatles, che forse conoscete.
Quindi la musica è molto importante; queste musiche sono abbastanza attuali anche se
hanno parecchi anni, più di trent’anni.
MF – Una cosa sulla quale vorrei ritornare è quella del fatto che sembra che se uno
debba riferire quello che pensa si trovi in difficoltà; se poi debba riferire ciò che sente
pare che sia addirittura impossibile. Non lo so, dovrebbe essere più facile – no? –
riuscire … Quando vedete un video, quando vedete qualsiasi cosa, riuscire oltre che a
vivere, percepire anche quello che si sta provando, sentendo. Un dubbio (probabilmente
sono vere tutte e due le ipotesi): o non registrate quello che percepite oppure lo registrate
benissimo ma vi vergognate molto di più di dire quello che sentite che non quello che
pensate.
RR – [Silenzio].
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BM – [Costretta a forza da insegnanti e compagni a intervenire per dire quello che
pensa] Allora
RR – [Ridono]
BM – sono Barbara della III D e voglio dire che questo video non mi è piaciuto per
niente.
RR – Neanche a me.
AP – Ma dimmi perché, dimmi perché.
BM – Perché?
AP – Ma perché.
BM – Perché secondo me non aveva tanto significato.
AP – E ritorniamo al significato e al sentire.
BM – Io ho sentito che non mi è piaciuto.
SM – Tu hai sentito che non ti è piaciuto.
AP – Ma perché. Azzarda una frase.
SM – Ma perché ti ha fatto provare sentimenti spiacevoli?
BM – Sì.
SM – Quali?
RR – [Battimani e intensa approvazione da parte del pubblico degli allievi].
RR – [Alunno di III G] Non ho capito le mani [il pubblico fa rumore e non si sente
altro].
AP – Credo che il problema sia quello; questo qui è anche l’intervento che rivolgo ai
vostri insegnanti, che evidentemente si preoccupano più di farvi capire e meno di farvi
sentire le cose, quindi le domande vanno prese in questa direzione qua. È un po’ la
nostra cultura occidentale che porta a questo. In Oriente le cose vanno diversamente;
sono abituati diversamente sin da subito, sin da piccolissimi e quindi sono abituati a
razionalizzare di meno, forse.
MC – Un’esperienza a proposito dell’identità culturale anche sull’Est, sull’Oriente: io ho
delle esperienze un po’ stravaganti e va be’, però mi diceva un mio fratello (il giramondo
che è stato per tanti anni a Hong Kong e poi ha girato per la Cina eccetera), è uno poco
propenso ai sogni e anche accetta l’arte, soprattutto quella moderna, è un ingegnere
elettronico quindi con i piedi ben piantati in terra, quello che si può scrivere e calcolare
va bene, tutto il resto è fantasia, … Ha preso un po’ d’influenza, grande mal di testa e
‘ste cose qui, è andato da un illustre medico cinese, e lui si è presentato come ci si
presenta (come facciamo noi normalmente) al medico, quindi gli spieghiamo un po’ cosa
ci sentiamo, come stiamo, <<Sono tutto rotto, mi fa male la testa>> e il medico lo ha
zittito subito, <<No no, voi occidentali parlate troppo; si spogli e cammini; adesso si
sieda; si distenda>>. Aveva detto che il dottore gli girava intorno guardandolo [mima
ironicamente e maliziosamente la scena]
RR – [Ridono]
MC – <<Gli piaccio>>. Il dottore diceva a mio fratello ché l’aveva visto perplesso:
<<Guardate che i miei colleghi occidentali sono bravissimi, ma sono tutti a caselle.
Allora, io sono il dottore, lei è il paziente, allora io devo sapere dov’è il suo male e dove
sta male, allora prima guardo, poi facciamo dei test, facciamo delle visite ufficiali>>. Gli
ha infilato tre quattro aghi qua e là, gli ha dato un sacchetto (là usano altri sistemi) un
sacchetto di nylon con una decina di pillole bianche di un sapore – ha detto – infernale .
Due tre giorni, gli è passato tutto. Ha risolto il problema immediatamente. È l’idea
diversa di proporre il corpo. Anche nelle esperienze che possiamo fare in palestra è
difficilissimo. Quando abbiamo giocato un poco alla respirazione viene da fare
immediatamente il ruttino, da grattarsi la pancia. È difficile sentirsi perché debbo capire
come funziona il diaframma, com’è la tensione dei muscoli addominali, dov’è la
colonna. Mi manca l’idea del sentire. Sull’esperienza sott’acqua, lo stesso in piscina;
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cioè voglia di fare gli sciocchini; e in apnea bisogna sentire perché sott’acqua si respira
con la testa, passatemi questo termine, no? Quando vedo una bella giornata, a me capita
al mattino, mi alzo che è ancora buio pesto, se sento gli uccelli fuori sugli alberi intorno
a casa mia o esco con le stelle mi sembra già di essere di buon umore. <<Che
stravagante!>>. E va be’, mi piace – così – vivere anche di sensazioni. Cioè alla mia età
non mi rimane neanche …, ma …, comunque … Provate a superare l’idea del capire nel
senso di incasellare le informazioni, perché siete ragazzi in gamba; perché in palestra
quando siamo a tu per tu, con questo rapporto strano, vengono fuori delle osservazioni
interessanti proprio anche (parlo del mio lato) dal punto di vista fisico e di percezione. E
coraggio!
F – Che rapporto ha lei con il mondo esterno? Dico che rapporto ha lei con la tecnologia
che sta avanzando?
AP – Buono.
RR – [Ridono].
F – Dato che usa […] solo performance […].
AP – Allora questa è una bella domanda.
MF – Puoi ripetere la domanda?
AP – Allora, niente, quel ragazzo mi ha domandato che rapporto ho con la tecnologia e
io ho un buonissimo rapporto con la tecnologia e sono molto curioso e interessato a tutto
quello che la realtà esterna mi offre, a tutte le possibilità che mi offre e – secondo me –
l’artista deve essere sempre aggiornato e sfruttare tutti i mezzi possibili, perché così si
esprime meglio. Io faccio performance e soprattutto performance. Voglio dire anche se
io lancio questa penna [biro] per aria perlopiù dico che mezzo ho usato? È difficile dirlo;
cioè performance vuol dire tutto questo.
RR – [Un alunno fa presente] Non ho capito il discorso della penna.
AP – La penna era un esempio; per assurdo anche, se vuoi. Cioè, lui mi ha chiesto: se io
uso altri mezzi oltre a quello della performance, del video, eccetera. Io uso qualsiasi
mezzo mi venga in mente. D’accordo? Non uso i mezzi, se voi pensate ai mezzi
tradizionali dell’arte, non uso ovviamente i mezzi tradizionali dell’arte. Non sono il
primo. Ormai è più d’un secolo che non si usano i mezzi tradizionali o comunque non
soltanto i mezzi tradizionali. Però questi qui sono discorsi molto più difficili e rientrano
nella sfera del capire. Io insisto sul sentire perché siete molto giovani, non siete ragazzi
dell’Università che hanno studiato tutto quello che è successo – per esempio – nel
Novecento e quindi avete più possibilità sul sentire che sul capire. Sul capire magari
successivamente; adesso è più facile sul sentire.
MF – Ritornando sull’ultima domanda, porgendotela sotto un altro aspetto (hai già
risposto, comunque voglio insistere): Che rapporto hai con la tela del quadro?
AP – La tela è uno dei mezzi possibili. La tela è uno dei mezzi, il pennello è un altro,
questo registratore è un altro, il mio corpo è un altro. Qualsiasi cosa è possibile. Ho
risposto?
MF – Sì, hai risposto, ma c’è un discorso dietro. Cercherò d’essere il più veloce
possibile. Siccome ho visto (prima di conoscere l’Autore qui, Angelo) alcune sue opere a
una mostra, (mi erano piaciute tantissimo) avevano l’apparenza di quadri tradizionali,
poi in realtà ho saputo come li aveva realizzati (me l’ha detto brevemente lui stesso e lo
ha anche scritto), usava la tela, però la usava in maniera diversa dal solito. Questo è il
discorso. Non volevo fare riferimento a questo, volevo provocarlo. [Dal pubblico mi
vengono chieste spiegazioni ulteriori]. Cioè, diciamo questo velocemente, usava la tela
ottenendo delle forme (dalla parte dello spettatore) biologiche, cioè irregolari, ma con
delle curve sporgenti dalla tela (che poi erano dipinte in maniera uniforme) che otteneva
inserendo dei rametti d’albero dietro alla tela. Non so come, però l’effetto era
interessante. Però – ripeto – la domanda che volevo porre era questa: quali sono le sue
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-
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[celiando gli do del lei] impressioni sul pubblico che ha avuto in questo momento e sul
tipo di incontro?
AP – Secondo me è un bell’incontro. Mi lascia delle belle sensazioni. Io sono molto
contento anche dell’intervento che ha fatto quella ragazza a cui non è piaciuto questo
video. È stata un’ora molto bella.
MF – Siccome voi non lo potete fare, a nome vostro, penso di poter ringraziare Angelo
per la disponibilità che ha avuto nel presentarsi qua a scuola e nell’intrattenere dei
ragazzi sul lavoro che lui svolge, che è rivolto a tutto il pubblico, ma più che altro al
pubblico adulto. Quindi non è facile riuscire a comunicare. Un’ultima cosa: se qualcuno
di voi avesse letto fuori della scuola i foglietti stampati al computer dove riferiamo un
po’ della vita, molto brevemente, di Pretolani, avrà visto che è un insegnante di scuola
superiore, al Liceo Artistico Statale Klee, per cui se qualcuno di voi l’anno prossimo
volesse scegliere l’artistico e decidesse d’iscriversi al Klee sappia che tra gli insegnanti
che potrà avere ci potrà essere questo, il quale si vendicherà violentemente contro di voi
per le cose che avete detto. Allora vi salutiamo e arrivederci.
RR – [Battono le mani e fanno gran chiasso come al solito].
[Termina qui la registrazione del primo turno].
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SOTTOLINEATURE:
ANGELO PRETOLANI
1. Blow up di Antonioni è un film che mi è rimasto molto impresso e fa parte della mia
formazione artistica e umana.
2. Ho un buonissimo rapporto con la tecnologia e sono molto curioso e interessato a tutto
quello che la realtà esterna mi offre.
3. Uso qualsiasi mezzo mi venga in mente, ma non quelli tradizionali dell’arte. Ormai è più
d’un secolo che non si usano più soltanto gli strumenti tramandatici dalla storia.
4. L’artista deve essere sempre aggiornato e deve sfruttare tutti i mezzi possibili, perché così
può esprimersi meglio.
5. Faccio performance e soprattutto performance.
6. I vostri insegnanti si preoccupano più di farvi capire e meno di farvi sentire le cose. È la
cultura occidentale che porta a questo. In Oriente si è abituati sin da piccolissimi a
razionalizzare di meno.
7. Siete ragazzi molto giovani e, non avendo ancora studiato tutto quello che è successo nel
Novecento, avete più possibilità sul sentire che sul capire.
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COMMENTI IMBERBI
Scodelliamo nello spazio sottostante alcuni frammenti di giudizio espressi, poco dopo l’incontro, dai nostri allievi.
1.
[…]
Un’altra cosa che mi è rimasta particolarmente impressa è stato il fatto che alla domanda: <<che cosa egli
avesse voluto comunicare>> lui ha risposto con un’altra domanda cioè: <<A voi che cosa ha comunicato?>>
anche se è insolito rispondere a una domanda con un’altra domanda in questo caso l’ho trovato molto
appropriato infatti così ci ha fatto capire che la risposta alla prima domanda era già dentro di noi dovevamo
soltanto cercarla ed interpretarla.
Avrei solo voluto poter parlare ancora un po’ con l’artista, cosa che però non è stato concesso dall’orario
scolastico, e magari poter guardare una seconda volta il video credo che questo ci avrebbe aiutato a capirne
meglio il significato.
Silvia C. Classe 3a A 22-03-2001
2.
[…]
Credo che non sia l’unica a non avere interpretato il video ma ho avuto l’impressione che neppure Angelo
sapesse veramente il significato del video.
Marina G. IIIA 28/3/01
3.
[…]
L’artista secondo il mio punto di vista voleva raffigurare la nostra vita quotidiana che passa mentre guardiamo
le immagini televisive, che sono molto poco poetiche, mentre il nostro essere ha bisogno non solo del cibo per
vivere ma anche e soprattutto delle parole per l’anima cioè della poesia.
[…]
Erika L.
4.
A mio vedere Angelo Pretolani non è un artista imprevedibile e astratto come molti ma bensì uno che cerca la
contraddizione nella sua arte (la contraddizione del mondo consumista di oggi), purtroppo il video a noi
mostrato era difficile da intuire e penso che se lui non fosse stato presente non avrei capito niente. Il suo modo
di pensare è un modo inventato da lui che io non riesco neanche a definire, lo vedo come un uomo che ama
l’arte ma a modo suo, forse è così che deve vivere un artista, io non so disegnare, pitturare o scolpire ma per
questo verso mi sento artista, perché vivo a modo mio.
C.
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NOTE INFORMATIVE
FABRIZIO BOGGIANO
Nell’auditorium della S.M.S. Centurione (Salita Inferiore Cataldi, 5) martedì 27 marzo 2001 il
collezionista d’arte Fabrizio Boggiano ha esposto ai nostri studenti i principali risultati della sua
occupazione prediletta durante il tempo libero.
Un mezzo busto del collezionista d’arte Fabrizio Boggiano.
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Hanno beneficiato dell’incontro cinque classi terze raggruppate in due turni. Al primo (dalle 10 alle
11.10) sono state ammesse la IIIC, IIID e III G; al secondo (11.20 – 11.50) la III A e la III B.
La sbobinatura del colloquio è stata revisionata dall’Interessato e si avvale perciò del relativo
consenso.
Diversi allievi hanno, su nostra richiesta, videoregistrato l’evento didattico.
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PROFILO BIOGRAFICO
DI FABRIZIO BOGGIANO
Il mio nome è Fabrizio Boggiano. Sono nato a Genova nel 1955 e qui ho sempre vissuto anche se la
mia passione mi ha portato spesso in giro per il mondo.
Il mio lavoro è quello dell'agente immobiliare e quasi tutto il tempo libero a disposizione lo dedico
alla mia grande passione: l'arte contemporanea. Da alcuni anni organizzo mostre collettive e
personali di artisti di differenti età.
Collaboro inoltre con il Museo di Villa Croce attraverso un'Associazione specifica della quale sono
co-fondatore e presidente. Il mio desiderio principale è quello di divulgare, nel miglior modo
possibile, l'arte contemporanea in modo da far capire quanto essa sia importante per la vita e la
cultura di noi tutti.
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ESTRATTO DELL’INTERVENTO
FABRIZIO
B O GG I A N O
LA SANA FOLLIA DI UN COLLEZIONISTA
Legenda
- FB
- RR
- R
- DM
- SM
- MF
-
- Fabrizio Boggiano
- Alunni delle classi IIIª A, B, C, D, G
- Alunno non ben identificato
- Alunno di IIIª G
- Alunna di IIIª D
- Mario Fancello
FB - Grazie per l'ospitalità, innanzitutto. Possiamo dire che la mia sia una professione
particolare in quanto, non come lavoro, da quasi trent'anni mi occupo d'arte; da quando, cioè, è
nata questa follia che, come ho sempre affermato, si presenta sotto forma di virus dell'arte. Ne
fui colpito più o meno alla vostra età, forse qualche anno dopo, all'inizio del liceo. Il tutto fu
scatenato dal nostro professore di Storia dell'Arte che riuscì a spiegarci le magie di questo
mondo. Le visite alla città e le spiegazioni su tutto quello che l'arte rappresentava
appassionarono un ristretto gruppo di ragazzi che continuarono autonomamente a occuparsi
d'arte iniziando anche a studiarla, passo necessario per ogni approfondimento. Con il trascorrere
del tempo la mia passione si concentrò quasi esclusivamente sull'arte contemporanea, l'unica
che presenta uno slancio verso il futuro, che appare particolarmente difficile da comprendere in
quanto si muove su differenti piani, alcuni dei quali quasi sconosciuti.
Del resto è sufficiente pensare a quante modificazioni e quanti fatti siano accaduti negli ultimi
cento anni per rendersi conto di quanto sia stato vasto il panorama artistico con diramazioni in
ambito sociale, politico, sentimentale, ecc. Ecco perché affrontare queste tematiche nell'ambito
artistico diventa complicato e di difficile comprensione. E' tipico, infatti, che molte persone,
chiedendomi delucidazioni su questa mia passione, mi guardino, ad un certo punto, come se
fossi fuggito dalla gabbia di qualche zoo.
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Altra difficoltà è quella legata all'assenza di aiuti e d'interesse da parte delle istituzioni, sempre
più disposte a sostenere l'arte antica e moderna in quanto "pagano" in maggior misura di quella
contemporanea.
Ma parliamo piuttosto di collezionismo. Credo sia facile pensare che non si nasca collezionisti
ma, piuttosto, raccoglitori fin da bambini: dalle antiche figurine dei calciatori fino ai più attuali
pokémon, dalle automobiline per i maschi alle bambole per le ragazzine. Desiderare qualcosa di
più di quello che è realmente necessario non ritengo sia cupidigia ma poter vedere una cosa
sotto molteplici aspetti, differenti in quanto di diversa fattura o provenienza.
Per alcune persone tutto questo è importante, nasce dall'interno e ne sentono la necessità.
Questo istinto di raccolta può durare tutta la vita o esaurirsi dopo un certo periodo di tempo ma,
comunque, appaga il nostro desiderio di conoscenza. Il discorso cambia quando si affronta il
campo del collezionismo vero e proprio. Qui entra in gioco un'attenzione più profonda, la
conoscenza richiesta è maggiore e, probabilmente, si studia tutta la vita. Entra in gioco in modo
più rilevante ma, soprattutto, è il gusto della ricerca, della comprensione che diventa più forte.
Come molto spesso accade interviene sempre maggiore anche il senso del possesso. Avere
qualcosa che si può "studiare" ma dal quale si può trarre godimento avendolo quotidianamente a
disposizione. Capite, a questo punto, che è poco importante ciò che si colleziona quanto,
piuttosto, il doverlo fare. Dalle papere ai quadri, dalle monete alle farfalle per passare ai dischi,
alle auto e, ancora, a migliaia di altre cose.
Un altro aspetto estremamente importante di questo fenomeno è che, collezionando, si salvano
dalla distruzione innumerevoli oggetti che dal passato, transitando nel nostro presente, giungono
nel futuro con il compito di ricordi e di testimonianze.
Due aspetti negativi possono essere quelli relativi alla poca disponibilità di alcuni collezionisti
che "murano" ciò che possiedono non permettendone la fruizione ad altri. Tengono tutto
nascosto rendendo inaccessibile ciò che posseggono.
Altro aspetto è quello della compravendita, della speculazione, ma qui, a mio modo di vedere,
non si può più parlare di collezionismo.
Nel mio caso la passione, iniziata in gioventù, è stata subito per le opere d'arte contemporanea.
Iniziai da giovanissimo ad occuparmene e cominciai ad acquistare alcuni lavori di giovani artisti
con i pochi soldi a disposizione. Qualche cinema e qualche pizza in meno e, ogni tanto, qualche
pezzo in più. Appagamento di desideri, scelte compiute con passione, coscienza e incoscienza;
l'importante è crederci come in tutto quello che facciamo nella vita.
Del resto, in modo particolare, anche voi siete già dei collezionisti; studiando, collezionate idee
e se riuscirete a mantenerle nella vostra testa, come qualcun altro tiene i quadri in casa o i dischi
nella libreria, un domani sarete certamente più ricchi di spirito e di conoscenza.
Tornando a me, la collezione, della quale vi ho accennato la partenza, è cresciuta negli anni e,
ad essa, ne ho affiancato un'altra simile. Infatti, è nata una sera nella quale ero a cena con amici
tra i quali un gallerista ed un artista; il discorso è caduto, casualmente, sulla mia passione
(ereditata dal padre) per le cravatte. Sostenevo, infatti, che fosse l'unico accessorio maschile che
permettesse all'uomo di cambiare restando se stesso. Scherzando legai la mia passione per l'arte
con quella per le cravatte e, provocatoriamente, sfidai l'artista presente a mettere insieme le due
cose. Dopo un paio di mesi, l'amico gallerista mi chiamò invitandomi a passare in galleria. Lì
trovai, inaspettatamente, la mia prima cravatta d'artista. Incredibilmente il lavoro di un artista
aveva preso la forma di una cravatta, di un oggetto quotidiano. Decisi di lasciarla in galleria e
questa idea fu di buon auspicio; infatti, altri artisti, passando per quel luogo e vedendola,
iniziarono spontaneamente a crearne una anche loro. Il numero di opere aumentò in poco tempo
e decisi, allora, di cominciare a chiederne altre coinvolgendo gli artisti che conoscevo. Così,
dopo circa cinque anni, ora posseggo quasi centottanta cravatte prodotte da altrettanti artisti e
che spesso espongo in mostra in gallerie italiane.
Ma, fondamentalmente, il bello di questa collezione cos'è? Penso sia il poter vedere molti artisti
differenti che si cimentano tutti sulla stessa forma e sulla stessa idea di oggetto. Le loro idee e i
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materiali differenti che usano per la loro arte ha portato alla creazione di "cravatte"
diversissime: dalle più semplici alle più elaborate, da quelle dipinte a quelle fotografiche, per
non parlare di quelle scultoree per le quali sono stati usati i materiali più inusuali (legno, ferro,
foglie, plastica, pasta alimentare, ecc.) giocando anche sulla somiglianza della cravatta con
animali particolari. Sono così arrivate opere che sembrano serpenti, pesci, lucertole e altro
ancora.
Il motivo per cui decisi di esporle è fondamentalmente quello di usare questa strana collezione
per avvicinare le persone all'arte e alle gallerie. Infatti mi resi conto che in Italia non c'è ancora
l'abitudine di usare la galleria d'arte come se fosse un museo o un giardino pubblico. Entrare
crea soggezione come se si fosse obbligati a comprare o a capire. Niente di tutto questo; si
dovrebbe frequentare la galleria con estrema naturalezza per vedere cosa accade intorno a noi,
liberi di esprimere giudizi, allargando così la nostra conoscenza.
Ritenni, quindi, che questa collezione, rifacendosi a un oggetto di uso comune, fosse più
funzionale per far superare questo blocco verso le gallerie d'arte. E così fu. Le persone
entravano a visitare la mostra in numero altissimo e, anche se talvolta alcune forme e materiali
sconvolgevano qualcuno, lo stupore e l'ammirazione era notevole. Persino gruppi di famiglie
intere visitavano la mostra e ricordo padri che spiegavano ai figli piccoli perché quelle cravatte
fossero differenti da quelle che erano a casa, magari perché, semplicemente, gli artisti le
avevano fatte di marmo o ricavate da una foglia di agave lunga due metri. Notai che partendo
con la consapevolezza che qualcosa avevamo già compreso - la forma era indiscutibilmente
quella di una cravatta - le persone si avvicinavano con minor timore alla lettura propriamente
artistica dei lavori e delle motivazioni degli stessi. Una chiave di lettura differente aveva quasi
una funzione didattica e rendeva l'arte contemporanea meno "spaventosa", più umana.
Queste sono le motivazioni principali della mia collezione e vorrei che da queste parole voi
possiate trarre il senso profondo del discorso. Io mi auguro non tanto che voi possiate diventare
collezionisti (a qualcuno accadrà, ma non è importante) quanto che cerchiate di mettere l'arte fra
i vostri interessi perché, attraverso essa, riuscirete a godere il bello delle cose e la vostra
maturazione intellettuale risulterà più ampia e profonda. Non è importante diventare studiosi di
questo mondo né, tantomeno, voler sapere tutto, ma è indispensabile imparare a guardare, tenere
la testa alta per ammirare, anche con senso critico, tutto ciò che ci circonda. Soprattutto in una
città come la nostra rallentare il passo e guardare può essere di grandissimo aiuto. Io ho vissuto
l'arte in questo modo e non su questi cataloghi, ma su quello di una mostra che ho organizzato
l'anno scorso, [rivolgendosi a me] quella sul corpo, ricordi?
MF - Sì.
FB - C'è proprio il mio ringraziamento a quel professore, quello del quale vi parlavo all'inizio,
per avermi insegnato a capire cosa è la bellezza che poi, alla fine, risulta essere il "trucco" per
vivere meglio. Non il bello di una ragazza, di un ragazzo o di un vestito, ma, piuttosto, il bello
che dobbiamo avere dentro, che dobbiamo cercare dentro di noi.
Penso che possa essere sufficiente quanto ho detto. Se avete delle domande. Se volete passarvi
un attimo (non ho pensato di farlo prima9 i cataloghi in modo che li possiate sfogliare per
rendervi conto quello che…
[Si sentono a una certa distanza, in modo indistinto, i dialoghi fra compagni mentre guardano i
cataloghi].
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MF - Allora, ragazzi, il Collezionista ha sollecitato qualcuno di voi, se la sente; si tratta di
rompere solamente il ghiaccio, di porre qualche domanda, di esprimere qualche vostra
sensazione per ritornare anche al discorso che faceva l'altro artista, Pretolani; quando diceva
appunto che non è solo questione di capire, è anche questione di sentire.
FB - Scusate un attimo, adesso ho sentito che è venuto Angelo Pretolani; be' la prima cravatta è
stata proprio la sua; l'artista da me provocato durante quella cena era proprio Angelo Pretolani.
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MF - E quindi, ripetendo, questo Angelo Pretolani è l'ultimo artista che abbiamo visto d'accordo? - che avete sentito, quello del video. Bene, direi che qualcuno potrebbe dire
qualcosa; dagli occhi e dai vostri comportamenti notavo che delle cose vi passavano per la testa,
esattamente che cosa non posso dirlo, però più o meno, in linea di massima, sì; c'era chi
[interrompo la frase perché vedo che un alunno intende intervenire]. Vieni, vuoi passare qui
[vicino al microfono]? Così si sente un po’ meglio.
RR - [I compagni danno subito la stura agli sfottò].
DM - Tutti suoi pezzi li tiene a casa sua o in galleria? E poi offre anche delle mostre in casa
sua?
FB - Sì, io tengo una parte dei lavori a casa, ma la maggior parte sono imballati; anche perché,
capite da soli, che centottanta cravatte in casa sarebbe un vero e proprio delirio. Inoltre, in casa
vi sono altri lavori di artisti e… quattro gatti. Cerco di appenderle a rotazione e non ho mai fatto
esposizioni in casa proprio per questi motivi. Di solito a casa ci si incontra con artisti, galleristi
e amici per stare in compagnia e parlare d'arte. Per quanto riguarda le cravatte preferisco,
quindi, esporle tutte insieme e possibilmente in spazi pubblici che possano ospitarle.
[Silenzio].
MF - Se c'è qualcuno che voglia fare una domanda: bene,…
RR - [Boato prodotto dai ragazzi perché un loro compagno vuole intervenire].
R - Lei che è un collezionista di cravatte allora perché non porta la cravatta?
RR - [Risate].
FB - Hai ragione, me lo chiedono spessissimo. Io ho portato la cravatta dalla prima liceo fino ad
una quindicina d'anni fa; poi mi sono veramente stancato perché diventava una cosa quasi
obbligatoria. Ho trasferito la passione per le cravatte nella collezione; no, in realtà ogni tanto la
metto, ma essendo sempre di corsa spesso… proprio me la dimentico alla mattina prima di
uscire; la tiro fuori e poi la poso lì e non la metto più. Mi hanno accusato in molti di avere una
collezione di cravatte e di vedermi raramente con la cravatta; be', è un po' una provocazione: la
metto al collo agli altri e non la metto più al mio collo. No, in realtà la metto molto meno di una
volta, è una questione così, di comodità, tutto qui.
MF - Se non ci sono altre domande, una cosa che mi piacerebbe chiedere e sapere, una volta che
sei diventato collezionista, Fabrizio, hai tenuto contatti con altri collezionisti? Esistono delle reti
nelle quali potersi muovere? Con libertà intendiamoci, perché è giusto che ogni collezionista
segua il proprio percorso, però per confrontarsi, dibattere e cose di questo genere.
FB - Ma i contatti vi sono senza dubbio se non altro per una questione di frequentazione perché
ci si vede alle mostre d'arte; bene o male si viaggia un po' nello stesso ambiente, quindi ci si
incontra con una certa facilità. Non ho una grossa frequentazione con gli altri collezionisti
perché li trovo terribilmente noiosi. Io trovo che molte persone intendono la collezione d'arte
come una cosa di proprietà da tenere nascosta, da non far sapere; vogliono sapere quello che tu
hai ma non ti dicono quello che comprano; quindi è un rapporto impuro, per conto mio, e allora
mi trovo decisamente meglio con gli artisti che con i collezionisti, sinceramente.
MF - Un'ultima domanda che probabilmente ti ripeterò nel secondo turno dell'incontro. Era
apparso sui giornali che recentemente, almeno, parlo di uno o due mesi fa al massimo, che Gian
Piero Reverberi avrebbe tolto la sua collezione di arte informale dai locali dell'ex Ritz perché
non ha trovato a Genova un interesse per questa sua attività. Volevo un tuo commento.
FB - Non potevi farmi una domanda peggiore perché dovrei diventare pesantissimo. Il discorso
è cosiffatto: io, nell'ambito del collezionismo, insieme ad altri amici ho creato un'associazione
che si chiama Amici del Museo di Villa Croce e Villa Croce, vi ricordo, è il museo d'arte
contemporanea che abbiamo a Genova. Ahimè, mi hanno fatto presidente, quindi non vi dico
quanto lavoro comporti questo, proprio per cercare di sensibilizzare le istituzioni, perché questo
è un problema che si riaggancia a quello che dicevo prima sul fatto che l'arte
contemporanea non paga, non paga in termini di ritorno di immagine. La questione della
collezione Reverberi è legata a una miopia assoluta e totale della nostra amministrazione che per
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tutto quello che riguarda l'arte contemporanea è totalmente assente. Non voglio entrare nel
merito di quello che fanno e di quello che potrebbero fare perché non è la sede e non mi piace
nemmeno. Preferirei che facessero un po' più di tutto e non solo alcune cose dimenticandone
totalmente altre.
MF - [Fabrizio] ha fatto cenno al Museo di Villa Croce. Stamattina sul Decimonono c'è un
articolo e credo che la III D l'abbia letto con la professoressa di Lettere.
FB - Io non l'ho nemmeno letto ancora, non so di che cosa parli.
SM - Volevo sapere quanto veniva la più cara cravatta e se oltre a un valore affettivo ha anche
un valore di soldi.
FB - Ma indubbiamente sì, hanno un valore in denaro. Io ho comprato delle cravatte a centomila
lire, a duecentomila lire, adesso valgono qualcosa di più; vi sono artisti che me l'hanno regalata
e se io dovessi venderle sicuramente potrei realizzare dei soldi. La cravatta che costa di più: be',
non lo so con certezza perché non le ho mai messe in vendita. Mi è stato detto da un gallerista
che una cravatta (che poi è un'installazione; più che una cravatta è un insieme, e non so se
l'avete vista sul catalogo; c'è un tavolino, un portabiti con delle cravatte sopra, ci sono delle
fotografie messe contro il muro; è una cosiddetta installazione, cioè una cosa che interagisce col
pubblico perché chi viene a visitare la mostra può fotografarsi e poi attaccare questa sua
fotografia fatta in qualsiasi modo in questo pannello; quindi è una collezione nella collezione;
diciamo che il lavoro di questo artista è proprio nella provocazione che lui opera nei confronti
della gente in modo che l'opera viva nel tempo), be' mi è stato detto che se io vendessi
quest'opera potrei tranquillamente ricavare una trentina di milioni; mi auguro che sia così, io
l'ho pagata infinitamente meno anche perché è molto tempo che questo artista americano, non
dico che me l'ha regalata, ma quasi; gli ho pagato le spese di quello che erano gli oggetti che lui
ha comprato, e via, tutto qui. Per quanto riguarda l'altra domanda: se io me ne potessi privare;
direi proprio di no, non potrei mai vendere una cravatta della collezione per due motivi: primo
perché mi mancherebbe, secondo perché sarebbe una mancanza di rispetto nei confronti
dell'artista che l'ha fatta. Potrebbe capitare di vendere tutta la collezione o di donarla. Questa è
una cosa che può darsi nel futuro in qualche modo accada. Il venderla non penso perché dovrei
ricevere un'offerta di quelle che poi diventa difficile rifiutare, ma sarebbe un gran dolore; però
penso di no perché mi diverte continuare a portarla avanti; il donarla be' è un discorso di un
futuro, non si sa; se si trovasse, ma qui rientriamo nel discorso di Reverberi, se si trovasse una
situazione che la potesse accogliere e renderla visibile, perché se è per donarla e buttarla in un
magazzino allora piuttosto... potrei trovare altre soluzioni; se fosse possibile renderla visibile
alle persone anche in futuro potrebbe essere una cosa da valutare; è prematuro a meno che a un
certo punto diventando così tante non mi soffochino completamente e quindi sia obbligato a
disfarmene per una questione di spazio; è abbastanza improbabile.
MF - Purtroppo il tempo a nostra disposizione è da lungo tempo concluso perché abbiamo
cominciato in ritardo e abbiamo un po' debordato, abbiamo rubato a voi come a quelli del
secondo gruppo. Io dico che possiamo ringraziare il Collezionista di essere venuto qui a parlare
di questi problemi a voi, spero che qualche traccia vi abbia lasciato e la lasci e inviterei quindi a
ringraziarlo attraverso di me, perché se lo fate voi viene fuori un caos che non termina più e
quindi dovete andar via perché devono arrivare quelli del secondo turno. Quindi lo salutiamo e
lo ringraziamo.
RR - [Battono le mani] Ciao.
FB - Grazie a voi.
[Tra i soliti schiamazzi dovuti allo sfollamento emergono un po' qui e un po' là altri saluti e
ringraziamenti].
[Termina qui la registrazione del primo turno].
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SOTTOLINEATURE:
FABRIZIO BOGGIANO
1. La passione per l’arte e per il collezionismo è nata in me quando avevo pochi anni più di voi
e frequentavo le prime classi del liceo.
2. Questa passione è scaturita grazie a un professore di storia dell’arte che ci accompagnava a
vedere le opere e ce le interpretava.
3. L’arte contemporanea è sconosciuta ai più, è di difficile lettura e comprensione perché si
allarga su tematiche estremamente varie.
4. Le istituzioni non aiutano il contemporaneo perché paga molto meno dell’antico.
5. Il collezionismo permette di consegnare alle generazioni future cose che altrimenti
andrebbero perse irrimediabilmente.
6. Difficilmente il collezionista si separa dai propri pezzi per ragioni di investimenti
economici.
7. Uno dei desideri del collezionista è quello di rendere godibile a un vasto pubblico la propria
raccolta.
8. Quando ho comprato la prima opera della mia collezione avevo diciannove anni.
9. Compravo cose di giovani artisti perché non avevo grandi disponibilità finanziarie, magari
saltando due pizze per la ragazza.
10. La raccolta più interessante è quella delle idee, cioè lo studio.
11. A un certo punto ho iniziato a collezionare anche cravatte d’artista e dopo cinque anni ne
possiedo centottanta pezzi.
12. La cravatta d’artista riduce la distanza tra il pubblico e l’opera e stuzzica l’attenzione dei
visitatori.
13. A differenza di quanto accade all’estero, in Italia le persone hanno paura di entrare nelle
gallerie d’arte, temono di dover acquistare per forza, non sanno usare le gallerie come se
fossero dei musei o dei giardini pubblici, non ardiscono dire “mi piace”, “non mi piace”.
Visitare le gallerie permette di vedere cose diverse, aiuta a crescere interiormente.
Sarebbe bello se cercaste di mettere l’arte fra le cose di vostro interesse perché amplia la
panoramica
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IN ATTESA CHE IL SOGNO DECOLLI
“Ho fatto un sogno, che pareva un mandala tibetano e si visualizzava a poco a poco…”, scrivevo
nel 1975, in attesa che nascesse mia figlia Alice. Sperimentavo, in quel momento, emozioni strane,
quasi di estraniazione, di perdita di realtà. La mamma di Alice andava fiera della sua pancia,
vivendo una gravidanza solare e serena. Mi diceva, a volte: “Sento che dà i calci…”, ed io arrivavo
sempre tardi per percepire il movimento. Sopportavo, in realtà, una sorta di gravidanza isterica al
contrario. Tanto la mamma si riempiva e gonfiava, tanto io dimagrivo e mi sentivo svuotato. Cercai
di reagire scrivendo. Pensai di realizzare per Stampa Alternativa un libretto ‘dalla parte del padre’,
cercando di sottolineare i piaceri e i doveri dell’essere papà. La frase sopra citata era l’inizio del
testo che non fu compiutamente realizzato, ma solo abbozzato, perché gli impegni di genitore,
sommati a quelli di insegnante e scrittore, fecero scivolare in secondo piano il desiderio di
contribuire alla nascita dei ‘papà contenti’. I fogli dattiloscritti rimasero tra le mie carte e, dopo
molte vicissitudini non liete, riapparvero 25 anni dopo assieme alle testimonianze di esperienze
underground vissute in quegli anni.
Nel 1992 rientrai a Torino, dopo 18 anni trascorsi tra valli di Lanzo e Canavese.
Ero solo, ancora sotto l’effetto del colpo di coda di una depressione che per 5
anni mi aveva bloccato affettivamente. Mia figlia Alice frequentava un Liceo a
Torino, aveva amici nuovi e tra questi Marco Bailone, importante illustratore e
pittore della scena magica e psichedelica di questi anni, attualmente residente
con Giovanna in terra occitana. Marco ed amici, giovanissimi, mi proposero di
produrre assieme trasmissioni a Radio Black Out, emittente indipendente
cittadina. Pensai, sulla scorta di una triennale mia collaborazione con Radio
Torino Alternativa, prima privata in città, di realizzare una trasmissione che si
presentasse come una sorta di ‘immetti nell’etere e fuggi’ da parte di un gruppo
clandestino, reduce da passate battaglie metropolitane in difesa dei bambini. A
guida del gruppo era un personaggio, guerrigliero dell’educazione, a cui affibbiai il nome di Capitan
27
Nuvola. Attorno a lui gravitavano una segretaria tuttofare, ex-femminista, dura e pura, un bidello
che avrebbe dovuto comunicare le magagne dell’istituzione scolastica, un eterno precario
professore, con le toppe sul culo. Il quartetto avrebbe trasmesso, al mondo, soprattutto giovanile,
notizie e informazioni sulle violenze culturali ed affettive che si esercitavano nei riguardi di
bambini e ragazzini, e, nel contempo, avrebbe cercato di insegnare ai più grandi la gioiosa
possibilità d’essere protagonisti, responsabili attivi nella formazione di uno stile di vita fuori dal
profitto, dalla volgarità e dalla sopraffazione.
L’idea era buona, Marco aveva disegnato l’identikit grafico dei personaggi,
gli attori della serie di interventi radiofonici c’erano tutti ed erano giovani
ventenni. Si sarebbe potuto decollare, ma cambiamenti nella gestione della
Radio impedirono che voci libertarie avessero possibilità di espressione.
Rimase Capitan Nuvola. Qualche anno dopo ritrovai tra le mie carte le veline
dattiloscritte del 1975. Fusi Capitan Nuvola con il progetto dei ‘papà contenti’
e nacque
“HO FATTO UN SOGNO”, alcuni stralci del quale sono
pubblicati nel volumetto edito da Stampa Alternativa , dal titolo, appunto di
CAPITAN NUVOLA. In tempi più vicini ai nostri, incontrati Dimitri Coppola
e Monserrat Fumanya, pittori, scultori, restauratori, che divennero nuovi figli
affettivi, nonché Luigi Nero, giovane regista cinematografico con ambizioni
grandi, si pensò di produrre un cortometraggio nel quale si rappresentasse il
rito sioux della pipa, con immagini psichedeliche e con ‘HO FATTO UN SOGNO’ come colonna
sonora. Nel frattempo Monserrat mi aveva dato un nipotino affettivo di nome Martino. Il rito si
celebrò a Falcemagna, frazione di case in pietra nei boschi, a 900 metri, dove ho il mio buon ritiro,
accanto ad uno ‘stupa’ naturale. La località si trova tra due ‘orridi’ in Val di Susa e risale all’alto
medioevo.
CAPITAN NUVOLA divenne il titolo del cortometraggio ed anche del rituale della pipa,
purificatore. Qualche tempo dopo incontrai Luigi Bairo, in Ciriè, località all’inizio delle valli di
Lanzo, nella quale insegnai per circa 25 anni, tra alterne vicende. Lui conosceva me, aveva
pubblicato alcune cose riguardanti i viaggi sulla bicicletta per Stampa Alternativa, e mi propose di
scrivere un libro che riepilogasse le esperienze che avevo portato avanti negli anni passati.
Ovviamente il titolo che proposi, accettando la proposta, fu CAPITAN NUVOLA. Il libro subì
diverse modifiche, dettate da problemi editoriali, ma il titolo rimase. Fu sacrificato il messaggio
che, primiero, aveva tracciato le linee di queste ultime riflessioni. HO FATTO UN SOGNO
apparve come stralcio, fuori dal contesto originale che, invece, lo vedeva parte integrante del mio
abecedario.
Per questo lo ripropongo. Ha percorso una lunga strada, ha coinvolto molte persone diverse, per età,
esperienza, lavoro. Ora tocca a Mario Fancello avere a che fare con lo spirito sciamano del
Capitano. Chi condividerà la visione diverrà, anch’egli, Capitan Nuvola, perché il sogno e la
speranza non sono proprietà private.
HO FATTO UN SOGNO
ad Alice Milano e Martino Coppola
Ho visto sorgere dal nulla, come raggi di luce all’alba, come rumori d’acqua nel bosco, cuccioli
d’umanità, impastati di energia e dramma, triangolarmente puntati verso l’alto, in espansione
costante.
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Multicolori e innumerevoli creature che coprivano, correndo, praterie e montagne, riempiendo di
grida il cielo, come rondini in arrivo, come rondini in partenza.
Ho visto i bambini formarsi, trasformarsi rapidamente, come passaggi di nuvole. Venivano dalle
rughe, dalle pieghe più profonde del mistero, dall’acqua originale,
incapaci di postura eretta, con orecchie attente ai rumori interni rossi
e neri e profondi, avvolti dalla grande sciarpa dell’aria e dall’attesa
dei non più bambini, in una sorta di staffetta circolare, spinti dalla
vita a portare vita. Li ho visti svilupparsi, sciogliersi dagli impacci,
allentare le rughe, distendere i muscoli, articolare parole, elaborare
fantasie. Li ho visti protagonisti di tribù grandi, pacifiche, che
s’intendevano naturalmente; in sintonìa con gli elementi, rannicchiati
nella loro storia, cardatori di invenzioni e di ricordi, sotto i cieli più
diversi, con le notti le più strane, circondati da forme infinitamente
cangianti. Li ho visti. E li ho visti catturati dai bracconieri sociali, da
coloro il cui sogno è morto da un pezzo e fatìcano a convivere con la
morte della loro speranza. Questi cacciatori di frodo li ho visti tentare
di ingabbiare le nuove ed antiche energìe in regole artificiali, in apprendimenti chiusi, in
conformismi mortali. Li ho visti ammantarsi di miraggi velenosi per confondere la vita, elaborare
dottrine che escludono la scoperta, lo stupore, l’incontro. Li ho visti, questi maestri di cartapesta,
accendere roghi, emarginare bambini, violentare giochi, costruire linde celle per rinchiudervi la
fantasia, la gioia, l’eros, e chiamare queste costrizioni con nomi importanti come scuola, ospedale,
ufficio, caserma, prigione… Scarabocchi che una piena cancella, che un terremoto annulla, che una
guerra esalta come memoria di morte. E piano piano le tribù infantili scompaiono. E le rughe dei
neonati non si stendono più. I bambini nascono vecchi intossicati, la vita diviene una malattia dalla
quale proteggersi ed anche le rondini scompaiono…
Intoniamo una nuova musica e sottraiamo i bambini alla logica dei mercanti. Ricomponiamo il
cerchio tribale nel quale le generazioni trovano posto, da un punto all’altro, senza interruzione,
gravidi gli uni degli altri. Di modo che si trapassi da un momento all’altro, da un momento a fianco
dell’altro, sempre diversi e sempre uno.
Capitan Nuvola
Ho fatto un sogno, e subito m’è scivolato nei capezzoli e poi nella pancia e mi ha
riempito di sé, in modo strano, catturandomi, sottraendomi agli altri e, nello stesso
tempo, collegandomi a tutti: a quelli che fanno e a quelli che prendono, affannati,
rotolanti testimoni di vita, con l’imperativo forte di produrre vita, fecondare,
gonfiare, svuotarsi, riempire l’universo di nuovi vagiti. Io, certo, madre, come una
capra, come una cavalla, come un uccellino, come un seme nella terra, come una
reazione chimica nelle rocce. Io, a cui è stata regalata la possibilità di partecipare al
coro, di essere veramente dentro ai dialoghi continui tra tutte le forme di vita che
appaiono e non appaiono. Io, forno alchemico di trasformazione! Quale stupore!
Tutto e tutti si sono dati da are perché la creatura si formasse: l’aria, il cibo,
l’amore, gli incontri, le parole, i silenzi, le notti, le visioni… E questo figlio tutto
ha misteriosamente succhiato, lui, figlio del profondo, che s’è mascherato con le fattezze della
madre e del padre, per giocare quasi, perché altrimenti noi non saremmo più in grado di
comunicare. E la mia goffaggine mi ha resa più lenta, più attenta, più in contatto con il mondo, con
la Terra, di cui ho sentito essere parte come una figlia, alla quale Terra ho risposto con questo figlio
che ho coltivato con cura, che si è formato come un fagiolo, che ha assorbito dentro di sé gli
insegnamenti fondamentali del pianeta, lui primitivo e nuovo con occhi spalancati sulle cose e la
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voglia nelle mani di tutto afferrare, come altri bambini prima di lui, come me bambina, come suo
padre bambino, come i bambini non riusciti, come i bambini che noi abbiamo chiamato alla vita e
noi abbiamo ucciso, come i bambini che non furono mai veramente bambini.
Adesso c’è nella mia pancia un bambino di problemi e di emozioni ed anche la sensazione che una
parte del debito mio è stato saldato, che ora debbo realizzarmi nel crescere con chi cresce,
nell’apprendere da capo l’alfabeto della relazione, nello scoprire ciò che il mio essere adulto ha
nascosto alla vista perché i miei occhi stanno nella mia testa e la mia testa è troppo in alto rispetto
alle piccole cose che mio figlio vede. Questo bambino dovrà, tra poco, raggiungere gli altri della
sua tribù infantile, dovrà uscire da sotto l’ombrello protettivo delle mie cure e allungandosi la sua
ombra immagino che si allungherà pure la mia pena, si porterà dietro una parte della mia immagine,
una parte di quel segno che anch’io presi in prestito alla nascita dai miei genitori, che a loro volta…
Dove sarà la coppia di antenati che diede il via a questa corsa? Chi sarà stato il primo a dare il giro
alla ruota? Per quanto tempo e come il mio sogno per lui sarà pure il suo sogno? Quando interverrà
un qualche cosa che gli farà dire Io sono l’interprete d’una mia storia, un trucco della vita per
continuare, la santa e crudele vita, l’affamata vita?
la madre
Ho fatto un sogno che pareva un mandala tibetano e si visualizzava a poco a poco con luci ora
intense ed ora smorte. Tra le infinite agglomerazioni di vita, pari a contorte radici che sostengono la
montagna, nel microcosmo su cui posavo i piedi e a cui rivolgevo lo sguardo, cercavo di indovinare
le forme, i tratti, ed altro non so, di quella realtà da sempre sospesa e in attesa che doveva diventare
mio figlio. Per far scattare l’impulso alla nascita occorre essere disposti a dare, occorre vedere la
propria strada perdersi oltre il colle, nel verde di pascoli immaginati, in storie giacenti sotto le pietre
come formiche, come larve, come speranze di fiori che sbocceranno a tempo. Occorre sapersi
vedere morire nella trasformazione, perdersi nella grande varietà e tutto questo m’era difficile da
attuare perché la mia linfa attendeva ancora di manifestarsi in fiori sui miei rami. Scrutavo con gli
occhi della mente, elaboravo identikit con i rottami della memoria, forse addirittura con le pelli
cadute della mia nascita, per riuscire a dare un volto alla fecondazione, per trasformare in parole di
un discorso comprensibile i cifrati del DNA. Non era facile ma nemmeno impossibile.
Il piccolo Golem etereo per attimi minuti si palesava ma poi una nuvola scura, un pensiero,
un’emozione, un turbamento cancellavano il frutto della mia meditazione. E tutto questo era ancora
niente! Arduo era sentire la vita, sua, scorrere nell’immagine; arduo era sentire la sua autonomia, le
sue vene, le sue arterie, i suoi nervi, i suoi ricettacoli di visioni e di memorie sue, la sua anima
insomma. Arduo era familiarizzarsi con una creatura non ancora attualizzata, la quale, nel momento
del suo Eureka!, si preparava non solo a lasciarti ma a gravare sulle tue spalle, sulla tua coscienza,
in modo opportunistico e totale, occupando spazi tuoi, deprivando di valore i tuoi percorsi, a meno
che non siano funzionali alla sua crescita, alla sua affermazione, al suo Eureka.
E questa storia cresceva nella placenta della mia testa in modo grandioso, come un fungo cinese.
Faceva saltare tutte le comunicazioni, mandava in corto circuito i sistemi alti, ne innescava altri che
attraversavano sostanze organiche, flussi continui di vita e di morte con codici che abbiamo perso
nella crescita, complessi e drammatici come un pianto senza apparente ragione. Ma se in
quell’attimo una premonizione, un démone furioso bussa alla porta della creatura in delicata
formazione? Basta un nulla perché i veleni prendano il sopravvento e tutta la mia forza di adulto
maschio non servirà a nulla. Le pareti elastiche che circondano il bambino, dentro o fuori è difficile
visualizzare, mi respingeranno con indifferenza. Io sarò visto come un anticorpo e la creatura
veleggerà verso altre terre servendosi di alfabeti che ignoro e di ragioni che non accetto. E se il
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bambino non nascesse? E se l’ombra lasciasse la sua impronta su di lui? E se la malora inseminasse
dentro di lui le sue storie balorde?
Il mandala tibetano si pòpola di forme drammatiche, fuori dalla retorica del lattemiele, che si
insediano nel corpo del piccolo e lo sostengono, quasi che Martinocheverrà fosse una casa, un
reliquiario, per i nomadi dell’aria, dell’acqua, della terra, del fuoco.
La mia testa gràvida, nel sogno, si modifica, emettendo protuberanze, elasticamente. So che un
giorno uno di questi fiori di carne si aprirà. Martino sguinzaglierà i suoi giorni.
Il padre
Gianni Milano
(L’autore dei disegni, eseguiti nel ’92,
è
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Marco Bailone)
“QUESTA PITTURA STANCA DI PIÙ”
Questa mia riflessione trae spunto da un’affermazione fatta da un alunno della classe II L durante la
visita alla mostra Kandinsky Vrubel Jawlensky e gli artisti russi a Genova e nelle Riviere –
Passaggio in Liguria, a Palazzo Ducale a Genova, visita avvenuta il 15 dicembre 2001.
Dopo aver passato in rassegna le prime sale, dedicate a S. Pietroburgo e ad alcuni dipinti realisti di
pittori russi dell’Ottocento, siamo finalmente entrati in quelle che ospitavano i quadri di Vrubel e
poi Jawlensky e Kandinsky. Ho notato subito che i ragazzi osservavano i dipinti con più curiosità,
in alcuni casi con stupore e, mentre ascoltavano, seduti per terra, le appassionate spiegazioni della
loro insegnante di educazione artistica sentivo che lì, in quelle sale, avevano bisogno di risposte a
domande che certamente frullavano nella loro mente. Erano le tele ora a guardarci e gli alunni
sembravano a disagio. Quei quadri erano per loro meno comprensibili, forse più belli, più attraenti
ma evidentemente più problematici.
All’inizio della mostra, quando si tuffarono a guardare le belle stampe raffiguranti i prospetti delle
regge, delle chiese, dei palazzi nobiliari di S. Pietroburgo (un disegno piuttosto ridondante di
retorica e sfarzo e prolisso nei particolari) nessuno degli alunni mi pareva porsi delle domande. E
neppure di fronte al ritratto della zarina Maria Aleksandrovna i nostri sguardi erano interrogativi.
Davanti al volto, al prezioso abito e gli occhi azzurro-ghiaccio dell’Imperatrice, non abbiamo potuto
far altro che rilevare la precisione fotografica con cui l’autore aveva ritratto quella donna, altera e
dolce. Un alunno, anzi, mi fece notare che lo sguardo della zarina sembrava seguirci nella sala. Il
pittore era stato bravo perché capace di riprodurre perfettamente la realtà. Nulla di difficile dunque
in quelle sale, nessuna difficoltà di comprensione. L’esigenza umana di figuratività e il rapporto di
natura e arte erano, in quei disegni, perfettamente rispettati.
Solo quando abbiamo affrontato i tre grandi artisti dell’avanguardia russa, fruire dei loro dipinti si è
rivelato per tutti più difficile. I demoni di Vrubel, i volti stilizzati e sofferenti di Jawlensky, le
composizioni di Kandinsky: qual era il contenuto in quella strana forma? ma era forma? e la figura
umana, i paesaggi reali, dov’erano? e i colori, come mai così accesi, così poco veri? e il senso,
dov’era il senso in quei quadri? Mentre procedevamo, chiedevo qua e là agli alunni se la mostra
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piacesse. Alcuni ragazzi mi risposero che preferivano le prime sale. Un alunno, poi, un tipo estroso,
mi disse: <<Sono un po’ stanco. Questa pittura (riferendosi alle ultime sale) stanca di più>>. Ecco,
volevo arrivare qui. La pittura del Novecento, anzi tutta l’arte del Novecento, può stancarci di più,
perché ci richiede, in maniera perentoria, lo sforzo d’essere co-autori del prodotto artistico. Se
riteniamo di poterci sottrarre a tale compito, per rifugiarci in quello più sicuro ed usuale di
spettatori, non solo la cultura del Novecento (ed ancor più quella del Duemila) ci sfuggirà nella sua
essenza, ma soprattutto correremo il rischio, piuttosto facile, di fraintenderla e bistrattarla, come
spesso accade. Quando parlo di “sforzo d’essere coautori” intendo che, dalle avanguardie del primo
Novecento in poi, i grandi artisti, svincolando l’arte dai suoi tradizionali legami con la realtà,
rinunciano per scelta alla rappresentazione, alla “mimesi”, screditano, sempre per scelta, l’oggetto,
non interessandogli più l’oggetto in sé ma come il soggetto sente l’oggetto. È avvenuta nell’arte,
quella rivoluzione copernicana che, in filosofia, ha realizzato Kant. Il quadro non è più immagine,
figura, ornato,ζωον, ma forma, colore, composizione, improvvisazione, indicazione, cifra. Porsi di
fronte a Kandinsky, ma anche a Mondrian, ma anche a Magritte, e chiedere ai loro dipinti il
contenuto, e quindi il significato, di ciò che lì mi trovo davanti, è non solo imbarazzante, se non
deludente, ma addirittura metodicamente scorretto. Significa infatti applicare categorie
d’interpretazione che all’arte contemporanea non s’attagliano. L’arte di oggi è, per postulato, non
rappresentativa. In essa la realtà è semplice parvenza o è la grande assente o è soltanto uno
strumento. Quel che viene risolutamente affermato è l’autonomia significante delle forme.
È ovvio dunque che il mio alunno, intelligente e curioso, di fronte a Vrubel, Jawlensky e Kandinsky
si sentisse più stanco. Davanti alle loro opere infatti è stato chiamato a leggere un alfabeto artistico
nuovo, dove linee colori macchie punti pennellate forme più che “figurare” la realtà la
“trasfiguravano”. Contemplare l’opera del Novecento, dunque, non può essere più un fatto neutrale.
Chi guarda non può più permettersi l’ignoranza e l’incompetenza dello spirito perché è parte
dell’opera stessa. Il significato della forma si è affrancato dal pesante legame con la realtà per
riprendersi la libertà di vivere nelle libere interpretazioni di chi è disposto a mettersi in gioco, e
partecipare alla figura di senso che, dall’opera, gli si fa incontro.
Ritengo sia oggi impossibile rapportarsi a qualsiasi opera d’arte contemporanea al di fuori di questo
essenziale vincolo dialogico che unisce artista e fruitore.
L’arte, ormai stanca, è sfuggita da tempo all’ovvietà, alla fissità, alla datità e ha scelto la libertà, la
ricchezza di senso, la polifonia. Guardare è oggi ascoltare e leggere è per forza interpretare e
ascoltare è immaginare. Un orizzonte ermeneutico lega di fatto l’artista e chi non lo è; aspettative e
ascolto si incontrano finalmente e l’intenzione di senso dell’uno si esaurisce e si trova nell’altro.
Essa è non più solo dell’artista ma anche di chi ha scelto d’essere coinvolto nella sua arte.
Oggi chi ama l’arte a sé contemporanea è persona che sa dialogare con un quadro fattosi muto, con
un testo che balbetta, con un’opera insomma che, méndica un interlocutore, come la sala degli
specchi al Rivoli di Torino.
Non saprei dire se in tal modo l’arte sia diventata più democratica o più aristocratica. Senz’altro è
per palati fini.
15/1/2002
Marina Bondì
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PUNTASPILLI
1. Così lo psichiatra Paolo Crepet conclude la sua risposta a due lettrici insegnanti che
esprimevano i loro pareri sui mali (<<malesseri>>) della scuola:
Credo che una buona scuola sia, in ultima analisi, il luogo dove la maggioranza dei nostri
figli non veda l’ora di andare appena si sveglia. Eppure la valutazione del progetto (ma si
vuole davvero progettare?) educativo sembra voler solo riguardare insegnanti, sindacati di
categoria e ministero. È così difficile chiedere ai ragazzi e alle ragazze di indicarci quale
scuola vorrebbero? Perché su di loro – non sui docenti, sui presidi, sui funzionari
ministeriali – si basa l’ultima speranza che qualcosa cambi davvero.
PAOLO CREPET, La scuola che vogliamo, in Specchio, 15 dicembre 2001, n° 305, p. 24.
2. Un ispettore scolastico (Luigi Stefano Clavarino, dirigente tecnico per i servizi ispettivi del
ministero dell’istruzione) esprime in un quotidiano alcuni giudizi sulla scuola; ne
proponiamo alcuni.
Un otto tondo alle elementari, un sei stiracchiato alle medie. Non classificato alle superiori:
ci sono istituti ottimi e altri insufficienti.
[…]
Io la promuoverei [Si riferisce alla scuola italiana se fosse sottoposta ad un esame di
validità] per molti aspetti: la collegialità del giudizio, la capacità di costruire cultura
generale, la nuova legge sull’autonomia e poi per un servizio che tutto il mondo ci invidia,
ossia l’integrazione dei portatori di Handicap.
[…]
non esiste in Italia un sistema di formazione iniziale dei docenti, che invece c’è in tutto il
resto d’Europa. Io credo che non ci debba essere differenza gerarchica o economica fra chi
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insegna nei vari gradi scolastici. Ma tutti devono essere laureati e formati prima di poter
salire in cattedra.
ALESSANDRO CASSINIS, <<
2001, p. 2.
Per l’inglese boccio, alle medie do un 6>> in Il Secolo XIX, venerdì 21 dicembre
3. Sempre più spesso, sia in letteratura sia in cinema sia in teatro, si parla dell’ieri e non ci si
dedica a una rappresentazione dell’oggi. Io la trovo una tendenza pessima. L’arte dovrebbe
soprattutto raccontare il tempo che stiamo vivendo, mentre, soprattutto in teatro, si sfugge
troppo spesso a quest’esigenza che trovo fondamentale.
MAURIZIO CAVAGNARO,
2001, p. 10.
La lezione di Cerami: parlare del presente, in Il Secolo XIX, sabato 22 dicembre
4. Mio figlio va a scuola, e mi preoccupa il fatto di non capire se la scuola lo sa indirizzare e lo
difende dal pericolo della droga o se, piuttosto, lo favorisce.
Renata Deberardi, Bologna
[Risponde Umberto Veronesi]:
Cara amica capisco la sua preoccupazione, perché nella realtà di oggi la scuola e i compagni
di scuola sono diventati quasi l’unico ambiente sociale del ragazzo.
[…]
Ora invece la scomparsa dei clan parentali proietta il ragazzo direttamente nel mondo
esterno, ed è la scuola ad essere il punto di aggregazione con i coetanei. Quindi la scuola
diventa fondamentale non solo per la formazione culturale del ragazzo ma per il suo progetto
di persona. Il pericolo della droga è certamente emergente, ma non è il solo. A questo punto,
ancor prima di chiederci se la scuola protegge o no dal pericolo-droga, dobbiamo capire che
tipo di scuola vogliamo. La scuola potrebbe essere importantissima nel trattenere i ragazzi
da situazioni che possono deviare nella droga, però occorre una scuola che non sia solo un
dispensario di nozioni e una fabbrica di diplomi. Dovrebbe essere una scuola di vita, capace
di attrarre i giovani anche con attività che possano dare gioia e soddisfazione. Quindi attività
sportive, attività musicali, attività teatrali. Per fare della scuola un punto di riferimento
importante. Dove imparare, secondo il proverbio latino, <<non per la scuola ma per la vita>>.
UMBERTO VERONESI,
p. 15.
Per sconfiggere la droga la Svizzera ci indica una via, in Oggi, 19 dicembre 2001, n° 51,
5. Margherita Hack inizia in questo modo un suo articolo – fortemente critico – sul progetto
morattiano di riforma scolastica:
Recenti inchieste sullo stato della scuola in Europa ci informano che i nostri studenti sono
fra i meno preparati sia nelle materie letterarie, ma ancora peggio in quelle scientifiche.
MARGHERITA HACK, La scienza non è un’opinione, in l’Unità, lunedì 17 dicembre 2001, pp.1,28.
6. Citiamo due passaggi di un intervento di Dino Cofrancesco apparso sul Decimonono:
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[…] la scuola italiana, così com’è, non serve a nulla, neppure a produrre quei gentiluomini
di campagna che, usciti dai licei classici, costituivano un tempo, la base di reclutamento
della vecchia classe dirigente liberale e notabiliare; […]
[…] una società in trasformazione trova nelle istituzioni scolastiche la sua più fedele
autorappresentazione e la sua più importante risorsa culturale. […]
DINO COFRANCESCO, Un’utile
occasione, in Il Scolo XIX, giovedì 20 dicembre 2001, pp. 1,4.
7. Riteniamo opportuno porre nell’occasionale vetrinetta di Puntaspilli questo passo di
Giovanni Bogliolo:
[…] È vero che in una società della comunicazione com’è quella in cui viviamo la scuola
non può più essere considerata il luogo esclusivo della formazione e dell’istruzione, ma
continua a costituire l’insostituibile attore: ed è difficile pensare che bastino le conoscenze
molteplici ma occasionali, frammentarie, scoordinate che si acquisiscono fuori a compensare
quelle che la scuola, per porsi sempre più alla portata di tutti, rinuncia a fornire.
GIOVANNI BOGLIOLO, Scuola, come conciliare quantità e qualità, in Il Secolo XIX, mercoledì 5 dicembre
2001, pp. 1,8.
8. Proponiamo un piccolissimo stralcio tratto da un articolo di Chiara Saraceno dedicato al
progetto di riforma scolastico avanzato dalla Moratti:
[…] è disperante constatare come nel nostro paese tutti a parole concordino sul fatto che
occorre riformare la scuola, anche perché la sua efficacia, in termini di sviluppo delle
capacità degli allievi, sembra ampiamente al di sotto della media dei paesi sviluppati; ma poi
qualsiasi proposta, in qualsiasi direzione vada, trova resistenze fortissime in tutti i soggetti
coinvolti – politici, insegnanti, studenti, genitori. Del resto, che cosa ci si può aspettare di
diverso in un paese in cui (secondo l’indagine Istat sulla scuola commissionata dal ministero
dell’Istruzione) la maggioranza sia degli insegnanti sia degli studenti dichiara che i rapporti
umani sono l’aspetto di gran lunga più positivo dell’esperienza scolastica?
CHIARA SARACENO,
Eppur si deve muovere, in La Stampa, lunedì 14 gennaio 2002, p. 24.
9. Ermanno Olmi, componente della giuria del premio Nonino, nell’esporre alcune
considerazioni sul razzismo, ha modo di fare riferimento anche alla scuola:
Ci sono forme di razzismo e totalitarismo che oggi il cittadino del mondo ha il dovere di
conoscere e di contrastare e sono razzismi e totalitarismi non appariscenti. Per esempio è
totalitarismo un programma scolastico che non tenga conto del valore dell’identità che il
bambino ha come dono di vita. Per questo, in un momento in cui i totalitarismi
convenzionali si stanno allontanando dalla nostra memoria, non dobbiamo tanto sforzarci di
richiamarli per evocare il passato, ma dobbiamo invece interrogarci sul presente.
G. Mi.,
Premi Nonino contro ogni totalitarismo, in Il Secolo XIX, domenica 27 gennaio 2002, p.14.
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10. Sabino Acquaviva su Oggi risponde ad una lettrice che lo interroga circa i numerosi episodi
di violenza commessi da ragazzini e sulle possibili ripercussioni in ambito scolastico; ne
stralciamo alcuni passi.
[…]
Come dimenticare che già alcuni anni or sono il 41 per cento dei bambini italiani dichiarava
di essere vittima di prepotenze a scuola, anche se la percentuale scendeva al 26 nelle medie?
[…]
Sappiamo tutti che a scuola è possibile venga favorito piuttosto che combattuto lo sviluppo
di personalità depresse, aggressive, timide, disadattate, asociali. Ma la situazione va
indubbiamente peggiorando, anzitutto perché stiamo assistendo allo scollamento dei rapporti
sociali.
[…]
In conclusione, visto che esiste la psicologia dell’età evolutiva, che le famiglie e i docenti
non sono in grado di seguire in maniera adeguata bambini e ragazzi, che questa società
produce isolamento, disadattamento, infelicità, depressione, suicidi, omicidi, è tempo di
introdurre lo psicologo nella scuola, cercando anche così di salvarla da un pericoloso
degrado.
[…]
Ma, ripeto, a scuola il bambino o ragazzo può essere solo, indifeso, talvolta seviziato
psicologicamente da compagni, maestri e professori, aggressivo, omicida, può essere
bocciato anche quando la bocciatura lo porterebbe al suicidio.
[…]
SABINO ACQUAVIVA,
p.11.
Nella nuova scuola deve salire in cattedra lo psicologo, in Oggi, 6 febbraio 2002, n° 6,
11. Il pubblicitario Frédéric Beigbeder, intervistato dalla giornalista Pizzagalli, rispondendo
alle domande postegli, fa questa affermazione:
Personalmente, ho avuto la vita trasformata più da un romanzo come “Sulla strada” di
Kerouac che da tutti i testi scolastici.
DANIELA PIZZAGALLI, Addio
pubblicità, sorella crudele, in Il Secolo XIX, sabato 1 dicembre 2001, p.27.
12. Il cantante Gianluca Grignani, intervistato dal giornalista Renato Tortarolo, espone alcune
idee sul rapporto tra la TV e la scuola. (Legenda: RT Renato Tortarolo; GG Gianluca
Grignani).
RT – In “Lacrime della luna” lei dice che la sua canzone nasce davanti alla tv. Ma non la
criticano tutti?
GG – Non m’importa, io davanti alla televisione ci vivo. La insegnerei a scuola, due ore al
giorno. Ma non quella che si vede, intendo quella che si fa dietro le telecamere, il mistero
dietro il tubo catodico. Solo guardando dietro un velo, si capisce la verità. E ci si può
difendere dalla massificazione.
RENATO TORTAROLO, Grignani, l’ultimo sex symbol scopre col G8 l’impegno politico, in Il Secolo XIX,
mercoledì 27 febbraio 2002, p.15.
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FARFALLE METROPOLITANE
1.
Genova. Giovedì 27 dicembre 2001. Sulla porta che conduce al wc, in un bar di Salita Santa Caterina, è
affisso con nastro adesivo un cartello che esortativamente si rivolge ai “fruitori” pressappoco così:
Prima di uscire spegnere la luce.
(Siamo genovesi).
2. Le pareti della Galleria C. Colombo a Genova durante e dopo il G8 sono state “corredate” di scritte di grandi
dimensioni relative ai fatti in oggetto. Desideriamo citarne una (tracciata a caratteri cubitali con la vernice
bianca).
G8: CHI DIMENTICA È COMPLICE
3.
Nei pressi del salvagente situato dinanzi alla Stazione Brignole di Genova (dove hanno avuto inizio i lavori di
sistemazione del nuovo piano viario della zona) un cartello invita i passanti a seguire il percorso indicato; a
fianco una mano ironica ha voluto buttarla sul politico.
4.
Martedì 19 marzo 2002, ore 19.30, linea 47, da De Ferrari a Largo Merlo: un signore molto anziano sale poche
fermate prima del capolinea e subito inizia (o prosegue?) a parlare da solo ininterrottamente in genovese e – di
tanto in tanto – in italiano. Dal mare di frasi ne estraggo una:
Finché c’è morte
c’è speranza.
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5.
L’artista Mauro Ghiglione ci ha segnalato, attraverso fotocopie, alcuni strani consigli (<<scherzosi ma non
troppo>>) elargiti agli insegnanti dai Lions Club Genova Alta. L’iniziativa pedagogica gode del patrocinio del
Comune di Genova e della collaborazione del Provveditore agli Studi della stessa città. Svolazzando di fiore in
fiore proviamo ad offrirvene il nettare. Valutate voi:
<<In
effetti c’è un nesso profondo tra educazione e libertà ma la storia ha dimostrato che la
libertà di essere contestatori e maleducati porta solo a un regresso della civiltà>>.
Regole d’oro per ragazzi in carriera (a cura dei Lions Club Genova Alta), 2002, p.5.
<<È buona regola salutare le persone per le scale o in ascensore (a meno che siano accattoni
o ladri in attività di servizio …)>>.
Op. cit., p. 17.
<<È
da teppisti scrivere sui muri con le bombolette e istoriare l’ascensore col temperino
(lasciatelo almeno fare agli studenti del liceo artistico)>>.
Op. cit., p. 17.
Frontespizio dell’opuscolo.
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SCHELETRI NELL’ARMADIO
GIANCARLO DE CARLO
Parlando della Scuola di Architettura di Venezia Giancarlo De Carlo afferma:
[…] Tuttavia la Scuola è diventata una grossa impresa organizzata che si autoconserva e quindi
taglia fuori ogni spunto creativo nel timore che diventi sovversivo. Di questo si dà tutta la colpa agli
studenti – considerati troppi, pigri, immotivati, ecc. ecc. – ma non è così. Il vero problema della
Scuola sono i docenti che, in grande maggioranza, pensano come burocrati e agiscono come
funzionari.
FRANCO BUNČUGA, Conversazioni con Giancarlo De Carlo, Milano, Elèuthera, 2000, p. 90.
[…] [La comunità accademica] non mi è mai piaciuta perché è pigra, conservatrice, autoritaria e
tendenzialmente mafiosa.
Op. cit. p. 91.
[…] È capitato anche a me, come a molti, di frequentare una caserma o un ospedale o una scuola. In
genere sono luoghi odiosi e opprimenti, dove gli individui non riescono a manifestarsi, dove i
deboli vengono schiacciati e le personalità omologate.
Op. cit. p.123.
[…] nell’università italiana i problemi non vengono dagli studenti (inclini a imparare per
definizione) ma dai professori (spesso piuttosto ignoranti e quindi arroganti).
Op. cit. p.127.
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[…]. [Carlo Bo] Sapeva, in altre parole, che se non si trasforma lo spazio fisico i cambiamenti
introdotti nella didattica e nella ricerca non assumono evidenza e che questa evidenza è necessaria
perché il cambiamento possa espandersi e aprire nuove prospettive.
Op. cit. p.128.
[…] [Il] principio panottico […] ordina le caserme e i carceri di sicurezza, gli alberghi, le scuole,
ecc., dove tutto è chiaro e tutto si vede da un punto di osservazione privilegiato.
Op. cit. p. 133.
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SPAZZOLATURE
1. […]
In conclusione ritengo che una classe dirigente che non capisce quanto sia importante la
cultura e la ricerca scientifica è una classe miope, che non vede altro che il successo
economico immediato, che non capisce che la ricerca richiede tempi lunghi, che non si sa
mai quali sbocchi potrà avere una ricerca, apparentemente lontana da fini pratici.
Io credo che se l’uomo si fosse sempre chiesto a cosa serve una ricerca, non avrebbe
scoperto nemmeno il fuoco. È la curiosità disinteressata della conoscenza che ha portato la
specie umana dall’età della pietra a quella dell’informatica e delle biotecnologie.
Una classe dirigente che non si rende conto di tutto ciò, condanna il proprio paese ad una
dipendenza da brevetti e industrie straniere, condanna i propri migliori ricercatori a emigrare
e vedrà fatalmente diminuire le proprie risorse economiche.
[…]
MARGHERITA HACK, La scienza non è un’opinione, in l’Unità, lunedì 17 dicembre 2001, pp.1,28.
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Il maestro Pietro Grossi durante una pausa dell’incontro alla Scuola
Media Centurione di Genova.
Riportiamo, nella colonna di sinistra,
l’articoletto che Il Secolo XIX, sabato 23
febbraio 2002 a p. 20, ha dedicato alla notizia
della scomparsa del maestro Pietro Grossi.
Il musicista aveva raccolto con cortesia ed
alta professionalità l’invito, rivoltogli dalla
Media Centurione, a tenere un incontro con
gli studenti.
La lezione (intitolata Occorrono idee fresche)
fu tenuta martedì 4 maggio ’99 e ne rimane
una parziale traccia nel numero 11 di
Cantarena.
Per quel che ci riguarda cercheremo di
mantenere sempre vivo in noi lo spirito del
suo insegnamento.
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g8: chi dimentica è complice