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12 SETTEMBRE 2014 - 11 GENNAIO 2015
Percorso della mostra
di Enrico Maria Dal Pozzolo
mostra
VILLA SORANZO
UNA STORIA
DIMENTICATA
itinerario
IL TRIONFO
DELLA
DECORAZIONE
IN VILLA:
DALLA
SORANZA
A MASER
Castelfranco Veneto
Museo Casa Giorgione
La prima sala si apre con il Ritratto di Jacopo Soranzo eseguito da Jacopo
Tintoretto attorno al 1551 per la Procuratoria di San Marco e proveniente dalle
Gallerie dell’Accademia di Venezia.
JacopoSoranzo, morto nel 1551, fu uno dei pochi committenti accertati di
Giorgione, che per lui affrescò la facciata esterna del suo palazzo in Campo San
Polo a Venezia. Fin dalla fine del Quattrocento sappiamo che possedeva una
residenza in Borgo Pieve a Castelfranco, oltre chevarie proprietà a Resana,
Sant’Andrea e Treville: è quindi naturale immaginare che possa aver avuto un
qualche ruolo nel trasferimento di Giorgione in laguna.
Comunque il dipinto serve a rimarcare il nesso tra il contesto castellano e una
delle famiglie più potenti e prestigiose della Serenissima, in grado di importare
dalla capitale aggiornate istanze culturali e personalità insigni. Il committente
della villa in cui venne ad operare Veronese fu però un parente di Jacopo, Pietro
Soranzo, che in un estimo del 1549 è indicato come il proprietario di una casa
da statio, con stalle, orti e campi a Sant’Andrea oltre il Muson.
Anche a causa della precoce morte di Pietro e di suo figlio Giovanni (1554,
1558), il corpo centrale non venne però mai completato e fu edificata solo una
delle due canoniche barchesse.
A progettare il palazzo – il più bello e più comodo, che insino allora fusse stato fatto in
quelle parti – fu Michele Sanmicheli che, come riportato da Giorgio Vasari,
sarebbe stato pure il responsabile della convocazione di Veronese e Zelotti, che
gl’amava come figliuoli; lo stesso Vasari informa che nella villa avrebbe lavorato
anche Anselmo Canera. I lavori pittorici qui realizzati sono stati generalmente
riferiti al “1551” iscritto in un frammento di affresco conservato nella
Pinacoteca del Seminario Patriarcale di Venezia: una data sicuramente
plausibile, ma sulla quale vanno mantenute delle riserve, se non altro perchè
non riportata in una dettagliata copia seicentesca che si conserva al Castello
Sforzesco di Milano e anche perchè nel lacerto sopravvissuto compariva una
sospetta ‘firma’ Paulus in posizione del tutto improbabile. Una descrizione
antica della decorazione è fornita da Carlo Ridolfi nelle Maraviglie dell’Arte del
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veronese NELLE TERRE DI GIORGIONE
1648, il quale la assegna integralmente a Paolo, riportando la voce secondo cui
qui ancor vogliono, che vi operasse il Zelotti e omettendo del tutto la presenza di
Canera.
Nel XVII secolo il palazzo passò dai Soranzo ai Morosini e come si presentasse
esternamente all’epoca è evidenziato dalla mappa eseguita dal perito Iseppo
Cuman nel 1675, e ancora in una mappa napoleonica del 1812. L’edificio venne
smantellato e distrutto tra la fine del 1816 e l’inizio del 1817 – nella Mappa
censuaria di S. Andrea oltre il Musone del 1829-1838 si evidenzia la lacuna– dal
conte Filippo Balbi (?, 1775 - notizie sino al 1819), che donò alcuni affreschi al
duomo di Castelfranco, venendo per questo pubblicamente ringraziato anche
attraverso un opuscolo dedicatogli nel 1819. Da quel momento in poi ci si
dedicò a una serie di ricostruzioni “virtuali” del complesso: qui si propongono
l’acquerello di Gian Battista Berti proveniente dalla Biblioteca Civica di Verona,
un plastico moderno e il video predisposto per la mostra a Verona. L’ultimo
pezzo esposto nella prima sala è Minerva tra la Geometria e la Matematica
recentemente acquisito sul mercato antiquario dalla Regione del Veneto. Sulla
paternità dell’opera la critica si è dimostrata discorde: tradizionalmente (e
ancora dalla Spiazzi, 2003) riferito al pennello di Paolo, sarebbe di Zelotti per
Crosato Larcher (1977) e di Canera per Gisolfi Pechukas (1987 e 2014).
Nella seconda sala si allineano otto lacerti d’affresco provenienti dalla Soranza:
due figure allegoriche e quattro Putti conservati nel duomo di Castelfranco.
assieme ad altri due Putti provenienti dai Musei Civici di Vicenza e da una
collezione privata già a Bassano del Grappa e ora a Padova. Dalla descrizione
fornita da Ridolfi nel 1648 si evince che i Putti si trovavano tutti nella loggia
esterna, dove lo storiografo registra la presenza di colonne, paesi, le stagioni, e
fanciulli con frutti diversi in mano. In mezze lune, Marte, e Venere; Giove, e Giunone,
Mercurio, e Palade, con altre Deità, e nella volta fanciulli in partimenti, e ne’ capi sopra
balaustri pose due a sedere, un di questi con giubbone, e beretta all’antica in cui dicono,
che Paolo si ritraesse in atto di leggere, e vi fece due naturalissimi cani.
Le due figure allegoriche stavano invece probabilmente in una stanza nell’ala
sinistra della villa con la funzione di sovraporte (Ridolfi: Nella seconda [stanza]
si veggono come nell’altra Virtù colorite sopra le porte): è il motivo per cui entrambe
guardano verso il basso.
Se per la Giustizia non esiste alcun problema di riconoscimento iconografico
(per la spada e la bilancia rette dalla donna), l’altra personificazione è più
problematica; tuttavia, esistendo all’Art Institute di Chicago un disegno che
copia una Fortezza certamente appartenuta al ciclo della Soranza, si è supposto
che si sia innanzi a una Temperanza o a una Prudenza: quest’ultima ipotesi è
preferibile intendendo l’oggetto sostenuto con la sinistra come uno specchio
(in cui si riflette lo stemma dei Soranzo), alla cui sommità è descritta una donna
di spalle (iconografia tipica della Prudenza).
Come si comprende dalla copia di Chicago e da altre due, relative ai due strappi
ora in mostra – conservate a Berlino (Staatliche Museen, Kupferstichkabinett)
e attribuibili a un anonimo veneto attivo verso la metà del Seicento –, tali Virtù
Cardinali erano inserite entro nicchie architettoniche sormontate da fregi
istoriati all’antica e fiancheggiate da cariatidi a monocromo di cui sussistono
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veronese NELLE TERRE DI GIORGIONE
aree delle porzioni inferiori nei due esemplari sopravvissuti Della decorazione
faceva parte anche il soffitto raffigurante Il Tempo e la Fama attualmente
montato nel soffitto della sacrestia del duomo di Castelfranco, che non si è
ritenuto di portare in mostra per non esporlo a rischi conservativi durante lo
smontaggio.
Oltre alla sopra menzionata “Storia” del Seminario di Venezia, altri frammenti
provenienti dalla Soranza sono stati identificati allo Szémüvészeti Múzeum di
Budapest (la porzione centrale della Fortezza) e nel Musée de la Ville di
Narbonne (un Putto con pera). Di attuale ubicazione ignota sono invece le
cosiddette Retorica e Dialettica e l’Astronomia con l’Architettura e la Scultura apparse
a un’asta parigina nel 1997, nonché due figure allegoriche fem-minili già presso
la Slade School of Fine Arts di Londra.
Alla decorazione della Soranza sono stati ascritti pure alcuni fogli dalla critica
riferiti a Veronese e, soprattutto, a Zelotti.
In uno di essi – presentato alla mostra di Verona (Lo studio per un’allegoria e una
cornice architettonica al Kupferstichkabinett della Kunsthalle di Amburgo) – si
registrano i primi tentativi compositivi
di Veronese per la figura della Fama entro il soffitto oggi in duomo. Importante
per la conoscenza dell’insieme è, inoltre, un gruppo di disegni conservati al
Castello Sforzesco di Milano che vennero eseguiti da un pittore anonimo verso
la metà del XVII secolo. Ben più illustre la copia del brano raffigurante
l’Astronomia con l’Architettura e la Scultura che si trova all’interno del taccuino di
Anthony Van Dyck ora al British Museum di Londra, realizzato in occasione del
suo soggiorno italiano a partire dal 1621: non è chiaro, tuttavia, se tali copie
siano state compiute dal vero o da altre redazioni (fogli o tele) a noi non note.
La scomparsa della maggior parte dei brani d’affresco ricavati dal Balbi, la
mancanza di notizie storiche e archivistiche relative all’esecuzione e alla
disposizione delle scene, nonchè l’oggettivo problema costituito da dislocazioni
e stati di conservazione disomogenei motivano le difficoltà che la critica
moderna ha manifestato nella ricostruzione “virtuale” della decorazione
originaria della Soranza, per la quale troppe tessere del mosaico sono mancanti.
In mostra si è pertanto ritenuto di presentare i frammenti per lo più in termini
attributivi “aperti”, considerando l’esposizione preziosa anche al fine di un
tentativo di distinzione delle diverse mani, giovandosi del fatto che cinque dei
sei Putti sono stati restaurati per l’occasione.
Nella terza sala si raccolgono tre opere di artisti che collaborarono con Paolo
Veronese: Giambattista Zelotti, il fratello Benedetto Caliari e il figlio Carletto.
Si tratta di dipinti provenienti da tre collezioni private, finora mai esposti al
pubblico e che servono a documentare, tra l’altro, le diverse potenzialità
espressive della tela rispetto all’affresco. Di Zelotti è un’importante Allegoria
con le divinità dell’Olimpo, riconosciutagli da Katia Brugnolo e cortesemente
segnalataci da Paola Marini, che sembra la trasposizione su tela di una delle
tante tipiche scene realizzate dall’artista per le ville da lui affrescate. Di
Benedetto è una raffinata Madonna col Bambino e san Giovannino che rimedita su
una composizione del fratello Paolo agli Uffizi (la Sacra Famiglia con santa Caterina
d’Alessandria e Giovanni Battista che bacia il piede a Gesù dormiente). Del figlio
(secondogenito) Carletto è, infine, un’Allegoria della Vanità che mostra una
gentildonna entro una stanza sontuosamente arredata, nell’atto di acconciarsi i
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veronese NELLE TERRE DI GIORGIONE
capelli allo specchio, mentre una figura femminile alle sue spalle, mostrandole
un teschio, la richiama alla riflessione sulla transitorietà dell’esperienza umana
(probabilmente si tratta dell’episodio di Maria Maddalena con la sorella Marta).
È da ricordare che Benedetto e Carletto, assieme a Gabriele Caliari (il
primogenito di Paolo), proseguirono l’attività della bottega anche dopo la
morte del maestro, in molti casi firmandosi congiuntamente – ed
emblematicamente – Haeredes Pauli, ossia “gli eredi di Paolo”.
La quarta e la quinta sala completano il percorso della mostra con una sorta
di introduzione al contesto territoriale in cui sorse la cosiddetta “civiltà delle
ville venete”. In una teletta proveniente dall’Accademia Carrara di Bergamo,
solitamente riferita al pennello di Benedetto Caliari, si descrive in primo piano
una dama che sta salendo in una barca e poco dietro – sotto un padiglione
all’antica con un pergolato – un servitore che sta allestendo un “rinfresco”
all’aperto: sul fondale si riconosce un giardino all’italiana con al centro una
loggia che richiama le tipologie architettoniche di Andrea Palladio. È una scena
apparentemente senza soggetto, che serve a sottolineare da un lato il fatto che
gli otia della vita in villa potevano essere già degni di una legittimazione
iconografica a sé stante e dall’altro – in termini di cultura materiale –
l’importanza dei raccordi fluviali nella rete che collegava Venezia all’entroterra.
Alle pareti delle due salette si possono vedere alcune decorazioni adaffresco
realizzate alla fine del secolo da un anonimo pittore veneto di cultura
veronesiana.
Usciti da Casa Giorgione, si propone di integrare la visita entrando
nell’adiacente duomo dove, oltre alla celeberrima pala eseguita da Giorgione
allo scoccare del Cinquecento, in sacrestia sarà possibile ammirare al soffitto
la porzione più grande e importante di tutti i lacerti d’affresco della Soranza
giunti fino a noi: Il Tempo e la Fama, dalla critica concordemente ascritta al
pennello di Veronese .
Prima di uscire, però, ci si può soffermare sulla pala dell’altar maggiore,
eseguita nel 1551 da un pittore di Castelfranco che di lì a pochissimo ebbe
modo di collaborare con Veronese e Zelotti a palazzo Ducale a Venezia: si tratta
dell’Allegoria con discesa di Cristo al limbo e la liberazione delle anime del Purgatorio di
Giambattista Ponchino, un tema rarissimo, per una pala d’altare, proposto da
un artista proveniente da Roma (sono evidenti nella tela le citazioni
michelangiolesche) e in stretti rapporti con il patriziato lagunare, in particolare
con le famiglie dei Cornaro e dei Barbaro.
Curiosamente, un documento attesta la presenza di tale pittore nel 1548 –
dunque prima dell’intervento di Palladio e di Paolo – proprio in casa Barbaro a
Maser, dove a questo punto si è invitati ad andare, per contemplare ciò che
forse lui non vide mai.
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