Il libro
Considerata l’importanza del loro ruolo, le controversie che spesso
nascono intorno ai loro atti e le persone violente con le quali a volte
hanno a che fare, è interessante notare come nella storia di questo
paese siano stati assassinati solo quattro giudici federali.
L’onorevole Raymond Fawcett è appena diventato il numero cinque.
Chi è Malcolm Bannister? E cosa ha a che fare con la morte del
giudice Fawcett?
Quando un lunedì mattina il giudice non si presenta a un processo, i
suoi collaboratori, preoccupati, chiamano l’FBI. Il corpo viene
ritrovato nel seminterrato del suo cottage sul lago insieme a quello
della giovane segretaria. La cassaforte aperta e svuotata. Nessuna
impronta, nessun segno di scasso né di colluttazione, tranne piccole
bruciature sul cadavere della donna.
Solo Malcolm Bannister sa chi è stato e cosa è realmente successo.
Apprezzato avvocato di colore, anzi, ex avvocato radiato dall’albo della
Virginia perché coinvolto in una vicenda di riciclaggio di denaro, è
attualmente detenuto nel Federal Prison Camp, nel Maryland, dove
dispensa consigli legali ai compagni. Ha già scontato metà della
sua condanna, ma vuole a tutti i costi uscire il prima possibile, e ora
sa come fare: la sua libertà in cambio del nome del colpevole. Non
avendo alcuna pista da seguire, l’FBI è interessato ad ascoltare le
sue rivelazioni, anche perché Bannister sembra essere informato su
molte altre cose, per esempio sul contenuto della cassaforte.
Ma tutto ha un prezzo, soprattutto notizie così scottanti come quelle
relative agli eventi che hanno portato alla morte del giudice Fawcett.
Bannister è deciso a giocare le sue carte fino in fondo, e non è certo
nato ieri. Ma niente è come sembra: i ruoli si capovolgono, gli
scenari si alternano, in una sfida in cui ogni mossa è studiata nel
minimo dettaglio.
Come è stato ben definito dal “New York Times”, L’ex avvocato è un
romanzo trascinante, sorprendente e ingegnoso che appassiona il
lettore fino all’ultimo colpo di scena confermando John Grisham
grande scrittore e maestro indiscusso del legal thriller.
L’autore
John Grisham è autore di venticinque romanzi, un saggio, una
raccolta di racconti e tre romanzi per ragazzi. Vive in Virginia e in
Mississippi.
NOTA DELL’AUTORE
Questo romanzo è un’opera di fantasia, ancora più del solito. Quasi nulla
nelle precedenti pagine si basa sulla realtà.
Il lavoro di ricerca, non proprio una mia priorità, si è reso raramente
necessario. La precisione e l’accuratezza non sono state ritenute cruciali.
Si è fatto ampio ricorso all’immaginazione per evitare di verificare dati e
fatti. Non esiste alcun campo federale a Frostburg, non c’è (ancora) un
procedimento giudiziario riguardante l’uranio, non esiste un giudice
defunto che mi abbia ispirato e non ho neppure alcun conoscente in
carcere che sta tramando per uscire, almeno che io sappia.
Inevitabilmente, però, perfino il più pigro degli scrittori ha bisogno di
qualche appoggio per le sue creazioni, e ogni tanto mi sono trovato in
difficoltà. Come sempre, ho fatto affidamento su altri. Grazie a Rick
Middleton e Cal Jaffe del Southern Environmental Law Center. A Montego
Bay sono stato aiutato dall’onorevole George C. Thomas e dal suo staff di
ottimi e giovani avvocati.
Grazie anche a David Zanca, John Zunka, Ben Aiken, Hayward Evans,
Gaines Talbott, Gail Robinson, Ty Grisham e Jack Gernert.
L’ex avvocato
di John Grisham
Copyright © 2012 by Belfry Holdings, Inc.
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale The Racketeer
Ebook ISBN 9788852032707
COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | PROGETTO GRAFICO:
ANDREA FALSETTI | FOTO © PETER GLASS/ARCANGEL IMAGES
«L’AUTORE» || FOTO © BOB KRASNER
John Grisham
L’EX AVVOCATO
Traduzione di Nicoletta Lamberti
Racket s.m. Organizzazione della malavita diretta
all’estorsione intimidatoria e violenta di denaro o di altri
vantaggi...
1
Sono un avvocato, e sono in prigione. È una lunga storia.
Ho quarantatré anni e ho già scontato metà dei dieci che
mi sono stati comminati da un incapace e ipocrita giudice
federale di Washington, DC. Tutti gli appelli hanno fatto il
loro corso e nel mio arsenale legale, ormai esaurito, non
restano altri strumenti, procedure, oscuri cavilli, tecnicismi,
scappatoie o Ave Maria da utilizzare. Non ho più niente.
Dato che conosco la legge, potrei fare quello che fanno
alcuni detenuti, e cioè intasare i tribunali con valanghe di
mozioni, istanze e altre inutili carte, senza che tutto questo
giovi alla mia causa. Niente gioverà alla mia causa. La
realtà è che non ho speranze di uscire da qui per altri
cinque anni, meno forse qualche pidocchiosa settimana
che alla fine potrebbe essermi condonata per buona
condotta. E la mia condotta è sempre stata esemplare.
Non dovrei definirmi un avvocato perché tecnicamente
non lo sono più. L’ordine degli avvocati della Virginia mi è
piombato addosso e mi ha tolto la licenza poco dopo la
sentenza. La regola è chiara, scritta nero su bianco: una
condanna penale equivale alla radiazione dall’albo. Mi
hanno tolto la licenza e le mie traversie disciplinari sono
state debitamente riportate sul “Virginia Lawyer Register”.
Siamo stati radiati in tre quel mese, più o meno la media
standard.
Comunque, nel mio piccolo mondo sono noto come
avvocato da galera e, in quanto tale, passo parecchie ore
al giorno cercando di aiutare i miei compagni a risolvere i
loro problemi legali. Studio appelli e inoltro istanze. Redigo
semplici testamenti e, ogni tanto, un atto di compravendita
immobiliare. Rivedo contratti per qualche colletto bianco.
Ho citato in giudizio il governo in occasione di ricorsi
motivati, però mai per motivi che considero infondati. E poi
tratto un mucchio di divorzi.
Otto mesi e sei giorni dopo l’inizio della mia reclusione,
ho ricevuto una busta voluminosa. I detenuti aspettano con
ansia la posta, ma quello era un plico del quale avrei
volentieri fatto a meno. Proveniva da uno studio legale di
Fairfax, Virginia, che rappresentava mia moglie, la quale –
sorpresa – voleva il divorzio. Nel giro di poche settimane,
da sposa solidale e pronta ad aspettarmi, Dionne si era
trasformata in vittima che voleva disperatamente chiamarsi
fuori. Non potevo crederci. Ho letto i documenti in uno stato
di shock assoluto, con le ginocchia molli e gli occhi colmi di
lacrime, e nell’attimo stesso in cui ho temuto di cominciare
a piangere sono rientrato in fretta nella mia cella. Si piange
molto in prigione, ma sono sempre lacrime nascoste.
Quando ho lasciato la mia casa, Bo aveva sei anni. È il
nostro unico figlio, ma mia moglie e io avevamo in
programma di averne altri. Il conto è facile e io l’ho fatto
migliaia di volte: quando uscirò, Bo avrà sedici anni, sarà
un giovane adulto e io mi sarò perso dieci degli anni più
preziosi che padre e figlio possano condividere. Fino ai
dodici anni circa, i ragazzini adorano il padre e sono
convinti che sia infallibile. Allenavo Bo a T-ball e a calcio, e
lui mi seguiva ovunque come un cagnolino. Andavamo
insieme a pesca e in campeggio, e ogni tanto il sabato
mattina veniva in studio con me, dopo una colazione “solonoi-uomini”. Bo era tutto il mio mondo, e spiegargli che
sarei rimasto lontano da casa per molto tempo ha
spezzato il cuore a entrambi.
Una volta dietro le sbarre, non ho mai permesso che
venisse a trovarmi. Per quanto desideri abbracciarlo, non
sopporto l’idea di un bambino che vede il proprio padre in
galera.
È virtualmente impossibile opporsi a un divorzio, se sei
in prigione e non uscirai tanto presto. Tutti i nostri beni, che
tanto per cominciare non sono mai stati un granché, si
erano esauriti dopo un martellamento durato diciotto mesi
da Teile del governo federale. Avevamo perso tutto, a Teile
nostro figlio e il nostro impegno reciproco. Il figlio è stato
una roccia, l’impegno è finito nella polvere. Dionne mi
aveva fatto qualche bella promessa riguardante il tenere
duro e superare insieme le avversità, ma una volta che
sono finito dentro, la realtà ha avuto il sopravvento. Dionne
si è sentita sola e isolata nella nostra piccola città. “La
gente mi guarda e mormora” mi aveva scritto in una delle
sue prime lettere. “Mi sento così sola” si lamentava in
un’altra. Non è passato molto tempo prima che le lettere
diventassero notevolmente più brevi e più distanziate nel
tempo. Così come le sue visite.
Dionne è cresciuta a Philadelphia e non si è mai
adattata volentieri alla vita in campagna. E quando un suo
zio le ha offerto un lavoro, ha avuto all’improvviso una gran
fretta di tornarsene a casa. Si è risposata due anni fa e Bo,
che adesso ha undici anni, viene allenato da un altro padre.
Le ultime venti lettere che ho scritto a mio figlio sono
rimaste senza risposta. Sono sicuro che Bo non le ha mai
lette.
Mi chiedo spesso se lo rivedrò. Penso che farò un
tentativo, anche se sono molto dubbioso. Come affronti un
ragazzino che ami così tanto da starci male, ma che non ti
riconoscerà neppure? Non vivremo mai più il tipico
rapporto padre/figlio. Sarebbe giusto nei confronti di Bo
che suo padre, scomparso tanto tempo prima,
ricomparisse di colpo e insistesse per rientrare nella sua
vita?
Ho fin troppo tempo per riflettere su tutto questo.
Sono il detenuto numero 44861-127 del Federal Prison
Camp nei pressi di Frostburg, Maryland. Un “campo” è un
carcere di bassa sicurezza per quelli di noi che vengono
ritenuti non troppo violenti e devono scontare una
condanna non superiore ai dieci anni. Per ragioni che non
mi sono mai state spiegate, ho trascorso i miei primi
ventidue mesi in una struttura di media sicurezza vicino a
Louisville, Kentucky. Nell’infinita serie di sigle della
burocrazia, quel carcere è classificato come FCI – Federal
Correctional Institution – ed è un posto molto diverso dal
mio campo di Frostburg. Un FCI è riservato a soggetti
violenti con condanne superiori ai dieci anni. La vita là è
molto più dura, anche se io sono riuscito a sopravvivere
senza subire aggressioni fisiche. Il fatto di essere un ex
marine mi è stato di enorme aiuto.
Nel contesto carcerario, un campo è considerato un
luogo di villeggiatura. Non esistono muri di cinta, recinzioni,
filo spinato o torrette di guardia. Ci sono solo alcuni agenti
armati. Frostburg è relativamente nuovo e i suoi edifici
sono più belli della maggior Teile dei licei statali. E perché
no? Negli Stati Uniti spendiamo quarantamila dollari per
mantenere ogni detenuto e ottomila per l’istruzione di ogni
alunno delle elementari. Qui a Frostburg abbiamo
consulenti, dirigenti, assistenti sociali, infermiere,
segretarie, collaboratori di vario tipo e decine di impiegati
amministrativi, e sarebbero tutti in seria difficoltà se
dovessero spiegare come riescono a riempire otto ore al
giorno. Ma, dopo tutto, questo è il governo federale. Il
parcheggio riservato ai dipendenti vicino all’ingresso
principale è pieno di belle auto e costosi pickup.
Siamo circa seicento detenuti qui a Frostburg e, con
poche eccezioni, costituiamo un gruppo tranquillo. Quelli
con un passato violento hanno imparato la lezione e
apprezzano l’ambiente civilizzato. Coloro che hanno
trascorso la vita in galera hanno finalmente trovato una
casa. Molti di questi professionisti del carcere non hanno
alcuna voglia di andarsene. Ormai completamente
istituzionalizzati, non sono in grado di funzionare nel mondo
esterno. Un letto caldo, tre pasti al giorno, cure mediche
gratuite... come potrebbero avere altrettanto là fuori, sulla
strada?
Non sto dicendo che questo sia un posto gradevole. Non
lo è. Ci sono uomini che, come me, non avrebbero mai
immaginato di finire così, un giorno. Uomini con
professioni, carriere, affari; uomini benestanti con una bella
famiglia e la tessera del country club. Della mia Gang
Bianca fanno Teile Carl, un optometrista che ha manipolato
un po’ troppo le sue fatture a Medicare; Kermit, uno
speculatore immobiliare che ha dato in garanzia due o
anche tre volte le stesse proprietà a varie banche; Wesley,
un ex senatore della Pennsylvania che ha accettato una
bustarella, e Mark, un referente prestiti ipotecari di
provincia che ha preso qualche scorciatoia di troppo.
Carl, Kermit, Wesley e Mark. Bianchi, età media
cinquantun anni. Tutti ammettono la loro colpevolezza.
Poi ci sono io. Malcolm Bannister, nero, quarantatré
anni, condannato per un reato che non sapevo di
commettere.
Si dà il caso che in questo momento io sia l’unico nero a
Frostburg che sta scontando una pena per un reato da
colletto bianco. Una bella distinzione.
I requisiti per l’ammissione alla mia Gang Nera non sono
definiti con altrettanta chiarezza. Per la maggior Teile si
tratta di ragazzi provenienti dalle strade di Washington e di
Baltimora, arrestati per reati connessi alla droga. Quando
escono in libertà vigilata, le loro possibilità di evitare
un’altra condanna sono pari al venti per cento. Privi di
istruzione, senza alcuna qualifica professionale e con la
fedina penale sporca, come si suppone che possano
cavarsela?
In realtà non ci sono gang in un campo federale, e non
c’è nemmeno violenza. Se ti azzuffi con qualcuno, o lo
minacci, ti sbattono fuori a calci e ti spediscono in un posto
di gran lunga peggiore. Ci sono moltissimi litigi, soprattutto
a causa della televisione, ma devo ancora veder volare un
pugno. Alcuni dei miei compagni sono stati in carceri di
Stato e le storie che raccontano sono orripilanti. Nessuno
vuole scambiare questo posto con un’altra struttura.
Perciò ci comportiamo tutti bene e contiamo i giorni. Per
i colletti bianchi la punizione è costituita dall’umiliazione e
dalla perdita di status, posizione e stile di vita. Per i neri la
vita nel campo è più sicura di quella da cui vengono e alla
quale torneranno. La loro punizione è costituita da un’altra
tacca nella loro fedina penale, da un altro passo nella
trasformazione in criminale di carriera.
A causa di tutto questo, mi sento più bianco che nero.
Ci sono altri due ex avvocati qui a Frostburg. Ron Napoli
è stato per molti anni un esuberante penalista di
Philadelphia, poi però la cocaina l’ha rovinato. Era
specializzato nella normativa relativa agli stupefacenti e ha
rappresentato parecchi dei massimi spacciatori e
trafficanti degli Stati del medio Atlantico, dal New Jersey
alle Caroline. Gli piaceva farsi pagare sia in contanti che in
coca, e alla fine ha perso tutto. Il fisco l’ha inchiodato per
evasione e Napoli adesso è circa a metà della sua
condanna a nove anni. In questi giorni non se la passa
molto bene. Sembra depresso e non vuole, per nessun
motivo, fare esercizio fisico e cercare di prendersi cura di
sé. Sta diventando sempre più grasso, più indolente, più
irritabile e più malato. Era solito raccontare storie
affascinanti sui suoi clienti e sulle loro avventure nel
narcotraffico, ma adesso si limita a starsene seduto in
cortile, mangiando un sacchetto di Fritos dopo l’altro con
espressione smarrita. C’è qualcuno che gli manda dei
soldi, e lui li spende soprattutto in cibo spazzatura.
Il terzo ex avvocato è uno squalo di Washington che si
chiama Amos Kapp, insider di lungo corso ed equivoco
intrallazzatore che si è costruito una solida carriera
operando ai margini di ogni grosso scandalo politico.
Kapp e io siamo stati processati insieme, giudicati
colpevoli insieme e condannati a dieci anni dallo stesso
giudice. Eravamo otto imputati: sette di Washington più io.
Kapp è sempre stato colpevole di qualcosa, ed era
sicuramente colpevole agli occhi della giuria. Lui però
sapeva allora, e sa anche adesso, che io non ho mai avuto
niente a che fare con la cospirazione, ma era troppo
codardo e troppo delinquente per dichiarare qualcosa in
merito. A Frostburg la violenza è rigorosamente bandita,
ma datemi cinque minuti da solo con Amos Kapp e
quell’uomo si ritroverà con il collo spezzato. Lui ne è
consapevole, e sospetto che l’abbia detto al direttore del
carcere molto tempo fa. Lo tengono nel campus ovest,
quanto più lontano possibile dal mio territorio.
Dei tre avvocati, io sono l’unico disposto ad aiutare gli
altri detenuti per quanto riguarda i loro problemi legali. È un
lavoro che mi piace. Rappresenta una sfida e mi tiene
occupato. Serve anche a mantenere in allenamento le mie
capacità, anche se dubito di avere un grande futuro come
avvocato. Quando uscirò potrò presentare domanda per
essere riammesso all’ordine, ma è una procedura lunga e
difficile. La verità è che non ho mai fatto molti soldi. Ero un
legale di provincia, oltretutto nero, ed erano pochi i clienti
che potevano pagarmi una parcella decente. C’erano
decine di altri avvocati ammassati lungo Braddock Street,
e tutti lottavano per accaparrarsi gli stessi clienti; la
concorrenza era dura. Non so bene cosa farò quando
questa storia avrà fine, ma dubito seriamente di dedicarmi
di nuovo alla carriera legale. A quell’epoca sarò un
quarantottenne single e, spero, in buona salute.
Cinque anni sono un’eternità. Ogni giorno faccio una
lunga passeggiata, da solo, sulla pista da jogging in terra
battuta che sfiora i bordi del campo e ne segue il confine, o
“linea”, come viene comunemente chiamata. Supera la
linea e sei considerato un evaso. Nonostante ospiti una
prigione, questa campagna è molto bella e offre panorami
spettacolari. Ogni volta che cammino e guardo le colline in
lontananza, devo lottare contro l’impulso di proseguire, di
andare oltre quella linea. Non c’è una recinzione che possa
bloccarmi, nessuna guardia che possa strillare il mio
nome. Potrei svanire nella fitta boscaglia e scomparire per
sempre.
Vorrei che ci fosse una barriera, un muro di solidi
mattoni alto tre metri sormontato da spirali di luccicante e
tagliente filo spinato, un muro che mi impedisca di
guardare le colline e di sognare la libertà. Questa è una
prigione, maledizione! Non è permesso andarsene. Tirate
su un muro e smettetela di solleticarci.
La tentazione è sempre presente e, per quanto io la
combatta, giuro che giorno dopo giorno diventa sempre
più forte.
2
Frostburg si trova qualche chilometro a ovest di
Cumberland, Maryland, al centro di una fetta di territorio
schiacciata dalla Pennsylvania a nord e dal West Virginia a
ovest e a sud. Se si osserva una carta geografica, salta
subito all’occhio che questa esiliata Teile dello Stato è la
risultanza di un pessimo rilievo topografico e non dovrebbe
affatto apTeilenere al Maryland, anche se non è chiaro a
chi dovrebbe spettare. Io lavoro in biblioteca e sulla parete
sopra la mia piccola scrivania c’è una grande carta
dell’America. Passo fin troppo tempo a studiarla,
sognando a occhi aperti e chiedendomi come ho fatto a
diventare un detenuto federale in una zona remota
dell’estremo ovest del Maryland.
Circa novanta chilometri a sud di Frostburg c’è
Winchester, Virginia, cittadina di venticinquemila abitanti e
mio luogo di nascita, infanzia, scuole, carriera e, alla fine,
Caduta. Mi dicono che è cambiato ben poco da quando
me ne sono andato. Lo studio legale Copeland & Reed
continua la sua attività negli stessi locali con vetrina sulla
strada dove un tempo ho lavorato anch’io. Si trova in
Braddock Street, nella città vecchia, di fianco a una tavola
calda. Il nome, dipinto a caratteri neri sulla vetrata, una
volta era Copeland, Reed & Bannister, ed era l’unico
studio legale totalmente nero nel raggio di centocinquanta
chilometri. Pare che Mr Copeland e Mr Reed se la stiano
cavando bene, di certo non prosperano né stanno
diventando ricchi, ma hanno abbastanza lavoro per poter
pagare le due segretarie e l’affitto. È più o meno quello che
facevamo quando ero socio anch’io: riuscivamo a tirare
avanti. All’epoca della Caduta avevo già seri ripensamenti
sulle mie possibilità di sopravvivenza in una cittadina così
piccola.
Ho saputo anche che Mr Copeland e Mr Reed si rifiutano
di parlare di me e dei miei guai. Hanno evitato per un soffio
di essere incriminati anche loro e di vedere la loro
reputazione macchiata. Il procuratore federale che mi ha
inchiodato sparava cannonate contro chiunque fosse
anche solo lontanamente collegato alla sua grandiosa
cospirazione e ha quasi spazzato via l’intero studio legale.
Il mio crimine è stato accettare il cliente sbagliato. I miei
due ex soci non hanno mai commesso alcun reato. Ciò che
è successo mi dispiace per molti motivi, ma la macchia sul
loro buon nome continua a tenermi sveglio la notte. Sono
entrambi prossimi ai settant’anni e all’inizio della
professione hanno dovuto vedersela non solo con la sfida
di tenere a galla uno studio legale generico in una piccola
città, ma hanno anche dovuto combattere alcune delle
ultime battaglie ai tempi delle leggi Jim Crow. In aula a
volte i giudici li ignoravano e deliberavano contro di loro
senza alcun valido motivo legale. I colleghi erano spesso
scortesi e poco professionali. L’associazione degli
avvocati della contea non sollecitava la loro iscrizione. Ogni
tanto gli impiegati del tribunale smarrivano le loro pratiche.
Le giurie bianche non credevano a quello che dicevano. E,
ancora peggio, nessuno li assumeva. Parlo di clienti neri.
Nessun bianco si sarebbe mai rivolto a un legale di colore
negli anni Settanta, non nel Sud almeno, e le cose da allora
non sono cambiate molto. Ma lo studio Copeland & Reed
ha rischiato di soccombere ancora in fasce perché gli
stessi neri pensavano che gli avvocati bianchi fossero
migliori. In seguito il duro lavoro, la dedizione e la
professionalità hanno incrinato questo convincimento, ma
con grande lentezza.
Winchester non è stata la mia prima scelta come luogo
in cui costruirmi una carriera. Ho frequentato la scuola di
legge alla George Mason, a Manassas. L’estate dopo il
mio secondo anno, ebbi la fortuna di venire assunto come
stagista presso un gigantesco studio in Pennsylvania
Avenue, vicino a Capitol Hill. Era uno di quegli studi con
migliaia di avvocati, uffici in tutto il mondo, nomi di ex
senatori sulla carta intestata, società miliardarie come
clienti e un ritmo frenetico che a me piaceva moltissimo. Il
mio momento più alto fu svolgere le funzioni di fattorino
durante il procedimento contro un ex membro del
Congresso (il nostro cliente) accusato con il fratello di
associazione a delinquere per avere accettato bustarelle
da un fornitore della Difesa. Il processo era un vero e
proprio circo, e io ero eccitato per il solo fatto di trovarmi
così vicino alla pista centrale.
Undici anni dopo sono entrato in quella stessa aula di
tribunale intitolata a E. Barrett Prettyman, nel centro di
Washington, e ho subito un processo tutto mio.
Ero uno dei diciassette impiegati di quell’estate. Gli altri
sedici, tutti provenienti dalle dieci migliori scuole di legge
del paese, ricevettero un’offerta di lavoro. Dato che avevo
messo tutte le mie uova in un unico paniere, passai il mio
terzo anno di università scarpinando in giro per
Washington e bussando a tutte le porte, senza mai trovarne
una che si aprisse. In qualsiasi momento devono esserci
parecchie migliaia di avvocati disoccupati che battono i
marciapiedi della capitale, ed è facile lasciarsi prendere
dalla disperazione. Dopo un po’ passai alla periferia, dove
gli studi sono molto più piccoli e le possibilità di lavoro
ancora più scarse.
Alla fine tornai a casa, sconfitto. I miei sogni di gloria
erano andati in pezzi. Mr Copeland e Mr Reed non
avevano abbastanza lavoro e di certo non potevano
permettersi un nuovo associato, ma ebbero pietà di me e
mi sgombrarono un vecchio ripostiglio al piano di sopra.
Lavorai il più possibile, anche se spesso era difficile
dedicare ore extra al lavoro, visto che i clienti erano così
pochi. Andavamo d’accordo, e dopo cinque anni Mr
Copeland e Mr Reed aggiunsero generosamente il mio
nome al loro in qualità di socio. Il mio reddito aumentò in
misura impercettibile.
Nel corso del processo a mio carico è stato doloroso
veder trascinare nel fango il loro buon nome. Ed era tutto
così insensato. Quando ero ormai alle corde, il capo degli
agenti dell’FBI mi aveva detto che anche i miei soci
sarebbero stati rinviati a giudizio, se non mi fossi
dichiarato colpevole e non avessi collaborato con il
procuratore federale. Ho pensato che fosse un bluff, ma
non avevo modo di saperlo con certezza. Gli ho risposto di
andarsene all’inferno.
Fortunatamente, era un bluff.
Ho scritto lunghe, lacrimose lettere di scuse a Mr
Copeland e a Mr Reed, ma loro non mi hanno mai risposto.
Li ho pregati di venirmi a trovare in modo da poter parlare
faccia a faccia, ma non c’è stata reazione. Nonostante la
mia città natale disti appena una novantina di chilometri, ho
un solo visitatore abituale.
Mio padre è stato uno dei primi poliziotti neri assunti dal
Commonwealth of Virginia. Henry Bannister ha pattugliato
le strade e le autostrade di Winchester e dintorni per
trent’anni, e ne ha amato ogni minuto. Amava il senso di
autorità e di solennità del suo lavoro, il potere di far
rispettare la legge e la possibilità di aiutare chi si trovava in
difficoltà. Amava l’uniforme, l’auto di pattuglia, tutto tranne
la pistola che portava appesa al cinturone. Due o tre volte
si è trovato obbligato a estrarla, ma non ha mai sparato un
colpo. Si aspettava che i bianchi provassero risentimento
nei suoi confronti e che i neri da lui esigessero indulgenza,
ma era deciso a dare prova di assoluta equità. Era un
poliziotto tosto che non vedeva zone grigie nella legge: se
una certa azione non era legale, allora era sicuramente
illegale, senza spazio per le discussioni né pazienza per i
tecnicismi.
Nel momento stesso in cui sono stato accusato
formalmente, mio padre mi ha creduto colpevole, di
qualcosa. Niente presunzione di innocenza. Inutili i miei
sfoghi sul fatto di essere estraneo a qualsiasi
responsabilità. Da orgoglioso poliziotto di carriera, mio
padre era completamente condizionato dal lavaggio del
cervello di una vita passata a dare la caccia a chi aveva
infranto la legge, e se i federali, con tutte le loro risorse e la
loro grande saggezza, mi avevano ritenuto degno di un
rinvio a giudizio di cento pagine, allora loro avevano
ragione e io torto. Sono sicuro che gli dispiaceva per me e
sono sicuro che ha pregato perché in qualche modo
riuscissi a cavarmi dai pasticci, ma ha avuto difficoltà a
comunicarmi questi sentimenti. Si è sentito umiliato e me
lo ha fatto capire. Come aveva potuto suo figlio avvocato
mischiarsi con un tale branco di viscidi delinquenti?
Mi sono posto la stessa domanda mille volte. Non c’è
una risposta valida.
Concluso faticosamente il liceo, e dopo qualche
modesto inciampo con la legge, a diciannove anni Henry
Bannister si era arruolato nel corpo dei marine. In breve
tempo la vita militare l’aveva trasformato in un uomo, in un
soldato che amava la disciplina, e lui era orgogliosissimo
della sua uniforme. Ha fatto tre turni di servizio in Vietnam,
dove è riuscito a farsi sparare, ustionare e, per un breve
periodo, imprigionare dal nemico. Le sue medaglie sono
appese alla parete dello studio nella piccola casa dove
sono cresciuto. Adesso ci abita da solo. Mia madre è stata
uccisa da un automobilista ubriaco due anni prima che io
venissi accusato.
Una volta al mese Henry viene a Frostburg per una visita
di un’ora. È in pensione, non ha molto da fare e potrebbe
venirmi a trovare anche tutte le settimane, se volesse. Ma
non vuole.
Sono molti gli aspetti crudeli connessi a una lunga pena
detentiva. Uno di questi è la sensazione di essere
lentamente dimenticati dal mondo e da coloro che ami e
dei quali hai bisogno. La posta, che nei primi mesi ti arriva
a pacchi, a poco a poco si riduce a una o due lettere alla
settimana. Amici e parenti che un tempo sembravano
ansiosi di venire a farti visita non si vedono più da un
sacco di tempo. Mio fratello maggiore, Marcus, fa un salto
due volte all’anno per un’oretta di aggiornamenti sui suoi
ultimi problemi. Ha tre figli adolescenti, tutti a diversi stadi
di delinquenza, più una moglie che è pazza. Forse io di
problemi non ne ho, dopo tutto. In ogni caso gli incontri con
mio fratello, nonostante la sua vita caotica, mi fanno
piacere. Marcus è da sempre un imitatore di Richard Pryor
e ogni parola che dice è divertente. Di solito ridiamo per
tutta l’ora della visita mentre inveisce contro i suoi figli. Mia
sorella minore, Ruby, vive sulla costa occidentale e la vedo
solo una volta all’anno. Mi scrive doverosamente una
lettera alla settimana, che per me ha grande valore. Ho un
lontano cugino che si è fatto sette anni per rapina a mano
armata – io ero il suo avvocato – e viene qui due volte
all’anno perché quando al fresco c’era lui io andavo a
trovarlo.
Dopo tre anni qui a Frostburg, spesso passano mesi
senza che nessuno venga a farmi visita, a Teile mio padre.
Il diTeilimento Amministrazione penitenziaria cerca di
sistemare i detenuti in un raggio di ottocento chilometri
dalle loro case. Io sono fortunato perché Winchester è
vicinissima, ma potrebbe comunque trovarsi a migliaia di
chilometri di distanza. Ho parecchi amici d’infanzia che non
si sono mai presi il disturbo del breve viaggio in auto e ne
ho qualche altro che non si fa più sentire da un paio d’anni.
La maggior Teile dei miei ex colleghi avvocati è troppo
occupata. Il mio compagno di corse dei tempi
dell’università mi scrive ogni due mesi, ma proprio non
riesce a trovare il tempo per una capatina. Vive a
Washington, duecentoquaranta chilometri a est, dove
sostiene di lavorare sette giorni la settimana in un grande
studio legale. Il mio migliore amico dell’epoca dei marine
abita a Pittsburgh, a due ore da qui, ed è venuto a
Frostburg esattamente una volta.
Immagino di dover essere grato del fatto che mio padre
faccia lo sforzo.
Come sempre, siede da solo nella piccola sala visite.
C’è un sacchetto di carta marrone sul tavolo davanti a lui.
Sono biscotti o dolcetti fatti da zia Racine, sua sorella. Ci
stringiamo la mano, ma non ci abbracciamo: Henry
Bannister non ha mai abbracciato un altro uomo in vita sua.
Mi osserva attentamente per assicurarsi che non sia
ingrassato e, come al solito, mi chiede della mia routine
quotidiana. Lui non è aumentato di un chilo in quarant’anni
e potrebbe ancora indossare la sua uniforme dei marine. È
convinto che mangiare meno significhi vivere più a lungo.
Henry ha paura di morire giovane. Suo padre e suo nonno
sono morti all’improvviso quando non avevano ancora
sessant’anni. Lui cammina otto chilometri al giorno e
ritiene che io dovrei fare lo stesso. Ormai ho accettato il
fatto che non smetterà mai di dirmi come devo vivere la
mia vita, che mi trovi in carcere o fuori.
Picchietta con un dito il sacchetto marrone e mi dice:
«Questi te li manda Racine».
«Per favore, ringraziala tanto da Teile mia.» Se Henry è
così preoccupato del mio girovita, perché continua a
portarmi dolci ogni volta che viene a trovarmi? Ne mangerò
solo due o tre e il resto lo regalerò in giro.
«Hai parlato con Marcus, di recente?» domanda mio
padre.
«No, non questo mese. Perché?»
«Un grosso guaio. Delmon ha messo incinta una
ragazza. Lui ha quindici anni, lei quattordici.» Scuote la
testa e aggrotta la fronte. Delmon era un fuorilegge già a
dieci anni, e da lui la famiglia si è sempre aspettata una
vita da criminale.
«Il tuo primo pronipote» dico, cercando di essere
divertente.
«Ah, sono proprio orgoglioso. Una quattordicenne
bianca ingravidata da un quindicenne idiota che si dà il
caso di cognome faccia Bannister.»
Entrambi ci riflettiamo su per qualche istante. Spesso i
nostri incontri sono definiti non tanto da ciò che viene detto,
ma da quello che viene tenuto dentro. Mio padre ha
sessantanove anni e, invece di godersi i suoi anni dorati,
passa la maggior Teile del tempo a leccarsi le ferite e a
piangersi addosso. Non che io lo biasimi. Quella che per
decenni era stata la sua amatissima moglie gli è stata
portata via in una frazione di secondo e, mentre era ancora
perso nel suo dolore, abbiamo scoperto che l’FBI si
interessava a me. Nel giro di poco tempo l’indagine è
diventata sempre più grossa, assumendo le proporzioni di
una valanga. Il mio processo è durato tre settimane e mio
padre è stato presente in aula ogni giorno. Vedermi in
piedi davanti a un giudice che mi condannava a dieci anni
di carcere gli ha spezzato il cuore. Poi Bo è stato portato
via, a tutti e due. E adesso i figli di Marcus sono
abbastanza grandi da provocare dispiaceri seri ai loro
genitori e a tutta la famiglia.
Alla nostra famiglia spetterebbe un po’ di fortuna, ma la
cosa non sembra probabile.
«Ieri sera ho parlato con Ruby» riprende mio padre.
«Tua sorella sta bene, ti saluta e dice che la tua ultima
lettera era molto divertente.»
«Per favore, falle sapere che le sue lettere significano
molto per me. Non ha saltato una settimana in cinque
anni.» Ruby è il punto fermo e luminoso della nostra
famiglia disastrata. È consulente matrimoniale e suo
marito è pediatra. Ha tre figli perfetti, che vengono tenuti
ben lontano dall’infame zio Mal.
Dopo una lunga pausa, aggiungo: «Grazie per
l’assegno, come sempre».
Henry si stringe nelle spalle. «Mi fa piacere dare una
mano.»
Ogni mese mio padre mi manda cento dollari, cosa che
apprezzo molto. Il denaro finisce sul mio conto e mi
consente di comprare generi come penne, blocchi per
appunti, libri in edizione economica e cibo decente. Quasi
tutti i componenti della mia Gang Bianca ricevono assegni
da casa e, virtualmente, nessuno della mia Gang Nera
riceve un centesimo. In prigione sai sempre chi ha soldi.
«Ormai sei quasi a metà» dice mio padre.
«Ancora due settimane e saranno cinque anni esatti.»
«Il tempo vola.»
«Magari là fuori. Ti assicuro che l’orologio si muove
molto più lentamente da questo lato del muro.»
«Comunque, è difficile credere che sei qui dentro già da
cinque anni.»
Lo è davvero. Come si tira avanti in prigione? Non pensi
agli anni, ai mesi o alle settimane. Pensi all’oggi: come
arrivare a sera, come sopravvivere. E quando domani ti
sveglierai, avrai un altro giorno dietro di te. I giorni si
sommano, le settimane si accumulano, i mesi diventano
anni. Ti rendi conto di quanto sei tosto, di come sei in
grado di resistere e sopravvivere perché non hai scelta.
«Hai qualche idea su cosa farai?» chiede mio padre.
Sento questa domanda almeno una volta al mese, come
se il mio rilascio fosse appena dietro l’angolo. Pazienza,
mi dico. È mio padre. Ed è qui! Questo conta molto.
«Non proprio. Manca ancora tanto tempo.»
«Io comincerei a pensarci, se fossi in te.» Henry è sicuro
che, se fosse al mio posto, saprebbe esattamente cosa
fare.
«Ho appena concluso il terzo corso di spagnolo» lo
informo con un certo orgoglio. Nella mia Gang Nera c’è un
buon amico, Marco, che è un ottimo insegnante di
spagnolo. È dentro per droga.
«Sembra proprio che tra un po’ parleremo tutti spagnolo.
Ormai quella gente sta prendendo il sopravvento.»
Henry ha poca pazienza nei confronti degli immigrati, di
chiunque parli con un accento Teilicolare, di chi proviene
da New York e dal New Jersey, di chiunque viva grazie
all’assistenza sociale e dei disoccupati; ritiene inoltre che i
senzatetto andrebbero rastrellati e riuniti in campi che
dovrebbero essere, nella sua visione, addirittura peggiori
di Guantánamo.
Qualche anno fa tra noi c’è stato uno scambio duro e lui
ha minacciato di interrompere le visite. Litigare è una
perdita di tempo. Non intendo cambiare mio padre. E se è
così gentile da venire a trovarmi, il meno che io possa fare
è comportarmi come si deve. Sono io il delinquente che è
stato condannato, non lui. Henry è il vincitore, io sono il
perdente. Questo a lui sembra importante, anche se non
capisco il motivo. Forse è perché io ho frequentato il
college e la scuola di legge, cose che lui non ha mai
neppure sognato.
«Probabilmente me ne andrò all’estero» dico. «Da
qualche Teile dove possa sfruttare la conoscenza dello
spagnolo, tipo Panamá o Costa Rica. Bel clima, spiagge,
gente con la pelle scura. Là a nessuno importa niente di
fedine penali o se sei stato dentro.»
«L’erba del vicino è sempre più verde, eh?»
«Sì, papà. Se sei in prigione, qualsiasi altro posto ha
l’erba più verde. Cosa dovrei fare? Tornare a casa, magari
diventare un paralegale senza licenza che fa ricerche per
un minuscolo studio che non può permettersi il mio
stipendio? Diventare un garante per le cauzioni? Perché
non un detective privato? Non ci sono molte opzioni.»
Mentre parlo, mio padre annuisce. Abbiamo avuto
questa conversazione almeno una decina di volte. «Inoltre
detesti il governo.»
«Oh, sì. Odio il governo federale, l’FBI, i procuratori, i
giudici, i pazzi che dirigono le prigioni. Ci sono così tante
cose che odio. Me ne sto chiuso qui a scontare dieci anni
per un non-crimine perché un pallone gonfiato di
procuratore aveva bisogno di aumentare la sua quota di
condanne. E se il governo può inchiodarmi per dieci anni
senza alcuna prova, pensa a quali sono le mie prospettive,
adesso che ho la parola “pregiudicato” tatuata sulla fronte.
Me ne andrò da questo paese appena potrò, papà.»
Henry annuisce e sorride. Certo, Mal.
3
Considerata l’importanza del loro ruolo, le controversie che
spesso nascono intorno ai loro atti e le persone violente
con cui a volte hanno a che fare, è interessante notare
come nella storia di questo paese siano stati assassinati
solo quattro giudici federali.
L’onorevole Raymond Fawcett è appena diventato il
numero cinque.
Il suo cadavere venne trovato nel piccolo seminterrato
del cottage in riva al lago che lui stesso si era costruito e
dove era solito trascorrere il weekend. Il lunedì mattina
Fawcett non si era presentato a un processo e i suoi
collaboratori, presi dal panico, si erano rivolti all’FBI. Nei
tempi dovuti gli agenti avevano individuato la scena del
delitto. Il cottage si trovava in un’area boscosa della
Virginia sudoccidentale, sul fianco di una montagna e in
riva a un piccolo, incontaminato bacino lacustre localmente
noto come lago Higgins. Il lago non è indicato sulla
maggior Teile delle carte stradali.
Non sembravano esserci segni di scasso o di lotta.
Niente, a Teile due cadaveri con fori di proiettile in testa e
una cassaforte vuota nel seminterrato. Il giudice Fawcett
venne trovato accanto alla cassaforte con due colpi alla
nuca – chiaramente un’esecuzione – e una larga chiazza di
sangue secco sul pavimento intorno a lui. Il primo esperto
arrivato sulla scena ipotizzò che fosse morto da almeno
due giorni. Fawcett, secondo un suo collaboratore, aveva
lasciato l’ufficio intorno alle tre di venerdì pomeriggio e
aveva in programma di andare direttamente al cottage,
dove avrebbe trascorso il fine settimana lavorando sodo.
Il secondo cadavere era quello di Naomi Clary, una
divorziata trentaquattrenne madre di due figlie che Fawcett
aveva assunto da poco come segretaria. Il giudice, che
aveva sessantasei anni e cinque figli adulti, non era
divorziato. Lui e Mrs Fawcett abitavano in case diverse già
da parecchio tempo, anche se a Roanoke si facevano
ancora vedere insieme quando l’occasione lo richiedeva. Il
fatto che fossero separati era di dominio pubblico e, dato
che il giudice era una persona in vista, il loro stile di vita
era motivo di pettegolezzi. I Fawcett avevano confidato ai
figli e agli amici che semplicemente non se la sentivano di
divorziare. Mrs Fawcett aveva i soldi. Il giudice Fawcett
aveva lo status. Entrambi sembravano relativamente
soddisfatti e si erano promessi di non intrattenere relazioni
clandestine. L’accordo amichevole prevedeva che
avrebbero divorziato solo se e quando uno dei due avesse
trovato un’altra persona.
Evidentemente il giudice aveva trovato un’altra persona.
Pochissimo tempo dopo l’iscrizione di Ms Clary a libro
paga, in tribunale si erano diffuse voci secondo le quali il
giudice si stava dando da fare, di nuovo. Alcuni del suo
staff sapevano che non era mai riuscito a tenere i pantaloni
abbottonati.
Il corpo di Naomi venne trovato sopra un divano, vicino al
punto in cui era stato assassinato il giudice. La donna era
nuda e supina, con le caviglie legate strette con nastro
adesivo argentato e i polsi uniti dietro la schiena. Qualcuno
le aveva sparato due colpi in fronte. Sul corpo c’erano
piccoli segni di bruciature. Dopo qualche ora di discussioni
e analisi, gli investigatori conclusero che molto
probabilmente Naomi era stata torturata per costringere
Fawcett ad aprire la cassaforte. A quanto pareva, la cosa
aveva funzionato: lo sportello era spalancato e la
cassaforte completamente vuota. Il ladro l’aveva ripulita e
poi aveva giustiziato le sue vittime.
Il padre del giudice era un carpentiere, e fin da bambino
Fawcett lo aveva seguito spesso al lavoro, sempre con un
martello in mano. In seguito non aveva mai smesso di
costruire cose: una veranda sul retro di casa, una terrazza
di legno, un capanno per gli attrezzi. All’epoca in cui i figli
erano ancora piccoli e il suo matrimonio era ancora felice,
aveva sventrato e rifatto completamente una vecchia e
imponente residenza nel centro di Roanoke, operando
come capocantiere e passando ogni weekend in cima a
una scala. Anni dopo aveva ristrutturato un loft che era
diventato prima il suo nido d’amore, poi la sua abitazione.
Per Fawcett martellare, segare e sudare era una terapia,
una fuga mentale e fisica da un lavoro stressante. Aveva
progettato personalmente il cottage a forma di A in riva al
lago e, nel corso di quattro anni, lo aveva tirato su quasi
tutto da solo. Nel seminterrato dove era stato ucciso c’era
un’intera parete occupata da begli scaffali di legno di
cedro, tutti carichi di grossi tomi legali. Al centro, però,
c’era uno sportello nascosto. Una serie di ripiani era
apribile e dietro, perfettamente nascosta, c’era la
cassaforte. Sulla scena del delitto, era stata estratta dalla
parete per circa novanta centimetri e poi svuotata.
La cassaforte, di metallo e piombo, era montata su
quattro rotelle. Era stata costruita dalla Vulcan Safe
Company di Kenosha, Wisconsin, e acquistata online da
Fawcett. Secondo la scheda tecnica del fabbricante, era
alta centodiciassette centimetri, larga novantuno e
profonda cento, aveva una capacità di duecentocinquanta
litri, pesava duecentotrenta chili e costava duemilacento
dollari. Se chiusa correttamente, era ignifuga, a tenuta
stagna e, teoricamente, a prova di scasso. La tastiera sullo
sportello prevedeva un codice a sei cifre per l’apertura.
Perché
mai
un giudice
che
guadagnava
centosettantaquattromila dollari l’anno avesse bisogno di
un contenitore così robusto e nascosto per i suoi valori
rappresentò un immediato mistero per l’FBI. Al momento
della morte, il giudice Fawcett disponeva di quindicimila
dollari sul suo conto corrente personale, di sessantamila
dollari in un certificato di deposito che fruttava meno
dell’uno per cento all’anno, di trentunmila dollari in buoni del
Tesoro e di altri quarantasettemila in un fondo comune che
da quasi un decennio aveva un andamento peggiore della
media generale del mercato. Aveva anche un fondo
pensione 401(k) e godeva di tutta la serie di benefit
riservati ai funzionari federali di alto livello. Praticamente
senza debiti, il saldo del giudice non destava comunque
impressione. La sua vera sicurezza finanziaria stava nel
lavoro. Dato che la costituzione gli consentiva di
proseguire vita natural durante, lo stipendio non si sarebbe
mai interrotto.
La famiglia di Mrs Fawcett possedeva vagonate di
azioni bancarie, alle quali però il giudice non era mai
riuscito neppure ad avvicinarsi. Adesso, dopo la
separazione, il gruzzolo era ancora più off-limits.
Conclusione: Fawcett era benestante ma ben lontano
dall’essere ricco, quindi non avrebbe dovuto avere bisogno
di una cassaforte nascosta per custodire i suoi valori.
Cosa c’era all’interno di quella cassaforte? O, più
brutalmente, che cosa aveva ucciso il giudice? Successivi
colloqui con amici e familiari avrebbero rivelato che
Fawcett non aveva abitudini costose, non collezionava
monete d’oro, diamanti rari o qualsiasi altra cosa che
potesse richiedere una tale protezione. A Teile una
notevole raccolta di figurine del baseball che risaliva alla
sua gioventù, non c’erano indizi che suggerissero un
interesse del giudice in una qualsiasi forma di
collezionismo.
Il cottage era rannicchiato così in profondità tra le colline
da essere quasi impossibile da trovare. Circondato da una
veranda, da qualsiasi punto di osservazione non si
vedevano persone, veicoli, case, capanne o barche.
Isolamento totale. Fawcett teneva un kayak e una canoa nel
seminterrato ed era risaputo che passava ore sul lago,
pescando, pensando e fumando sigari. Era un uomo
tranquillo, non solitario né timido, ma serio e pensoso.
Per l’FBI era dolorosamente evidente che non ci
sarebbero stati testimoni perché non c’erano altri esseri
umani nel raggio di chilometri. Il cottage era il posto
perfetto per uccidere qualcuno e poi allontanarsi prima che
il crimine venisse scoperto. Nel momento stesso del loro
arrivo, gli investigatori capirono di essere in grave ritardo.
E le cose per loro sarebbero addirittura peggiorate. Non
c’era una sola impronta digitale o di scarpa, un frammento
di fibra, un capello o una traccia di pneumatico utile alle
indagini. Il cottage non era dotato di sistema d’allarme e di
certo non aveva telecamere di sorveglianza. Perché
prendersi il disturbo? Il poliziotto più vicino era a mezz’ora
di distanza e, anche presumendo che riuscisse a trovare la
casa, cosa avrebbe potuto fare una volta arrivato? Anche il
più idiota dei ladri se ne sarebbe già andato da un pezzo.
Per tre giorni gli investigatori ispezionarono ogni
centimetro del cottage e dei quasi due ettari che lo
circondavano. Non trovarono niente. Il fatto che l’assassino
fosse stato così attento e meticoloso non contribuì a
sollevare l’umore della squadra. Avevano a che fare con un
autentico talento, un killer furbo ed esperto che non aveva
lasciato tracce. Da dove si poteva cominciare?
C’erano già pressioni da Teile del diTeilimento di
Giustizia a Washington. Il direttore dell’ FBI stava
organizzando una task force, una sorta di unità speciale
che sarebbe calata su Roanoke per risolvere il caso.
Com’era prevedibile, i brutali omicidi di un giudice adultero
e della sua giovane amica costituirono uno splendido
regalo per i media e i tabloid. Quando Naomi Clary venne
sepolta, due giorni dopo la scoperta del suo cadavere, la
polizia di Roanoke dovette piazzare delle transenne per
tenere giornalisti e curiosi lontano dal cimitero. E quando il
giorno dopo si tenne il servizio funebre di Raymond
Fawcett, in un’affollatissima chiesa episcopale, un
elicottero si posizionò sopra l’edificio, soffocando la
musica con il suo rumore. Il capo della polizia, un vecchio
amico del giudice, fu costretto a far alzare in volo il suo
elicottero perché scacciasse l’altro.
Mrs Fawcett sedeva rigida nel primo banco tra i suoi figli
e i nipoti, rifiutandosi di versare una lacrima o di guardare
la bara del marito. Vennero pronunciate molte belle parole
a proposito del giudice, ma alcune persone, soprattutto gli
uomini, si chiedevano: “Come avrà fatto quel vecchio a
trovarsi un’amica così giovane?”.
Una volta sepolte entrambe le vittime, l’attenzione si
spostò di nuovo sulle indagini. L’ FBI non faceva
dichiarazioni pubbliche, soprattutto perché non aveva
niente da dire. Una settimana dopo la scoperta dei
cadaveri, l’unico dato certo era il risultato dell’esame
balistico. Quattro pallottole a punta cava esplose da una
pistola calibro .38, una del milione presente sulle strade e
adesso probabilmente in fondo a un lago, da qualche Teile
tra le montagne del West Virginia.
Vennero presi in esame i moventi di altri casi. Nel 1979
il giudice John Wood era stato ucciso a colpi d’arma da
fuoco davanti alla sua casa a San Antonio. L’omicida era
un killer a pagamento, assunto da un potente spacciatore
in attesa di sentenza da Teile del giudice Wood, il quale
odiava il traffico di stupefacenti e tutti coloro che ci
lavoravano. Considerando il soprannome del giudice,
Maximum John, il movente era abbastanza chiaro. A
Roanoke, le squadre dell’FBI esaminarono tutti i casi, penali
e civili, assegnati al giudice Fawcett e ne ricavarono una
breve lista di potenziali sospettati, virtualmente tutti
coinvolti nel traffico di droga.
Nel 1988 il giudice Richard Daronco era stato ucciso
mentre lavorava nel giardino di casa sua a Pelham, New
York. L’assassino era risultato essere il padre infuriato di
una donna che aveva appena perso una causa nell’aula del
giudice. L’uomo aveva sparato a Daronco e poi si era
suicidato. A Roanoke, la squadra dell’ FBI passò al setaccio
le pratiche di Fawcett e interrogò i suoi impiegati. In corte
federale c’è sempre qualche pazzo che deposita istanze
spazzatura e presenta richieste irricevibili; a poco a poco,
venne stilato un elenco. Nomi, ma nessun vero sospettato.
Nel 1989 il giudice Robert Smith Vance era rimasto
ucciso nella sua casa di Mountain Brook, Alabama, dopo
avere aperto un pacco che conteneva una bomba.
L’assassino era stato individuato e spedito nel braccio
della morte, ma del movente non si era mai venuti a capo.
L’accusa aveva ipotizzato che l’omicida si fosse
imbestialito per una recente decisione del giudice Vance.
A Roanoke, l’ FBI interrogò centinaia di avvocati con cause
di competenza del giudice Fawcett, attuali o del recente
passato. Ogni legale ha clienti pazzi o abbastanza violenti
da cercare vendetta, e alcuni soggetti del genere erano
passati anche nell’aula del giudice Fawcett. Vennero
rintracciati, interrogati e scartati come possibili
responsabili.
Nel gennaio 2011, un mese prima dell’assassinio di
Fawcett, il giudice John Roll era stato ucciso vicino a
Tucson nel corso dello stesso omicidio di massa in cui era
rimasta ferita Gabrielle Giffords, la rappresentante al
Congresso. Il giudice Roll si era trovato nel posto sbagliato
al momento sbagliato. La sua morte non fu di alcun aiuto
all’FBI a Roanoke.
A ogni giorno che passava, la pista diventava più fredda.
Senza testimoni, senza prove materiali, senza alcun errore
da Teile del killer e disponendo solo di una manciata di
vaghe ipotesi e di pochissimi sospettati desunti dalle
cause del giudice Fawcett, l’indagine si trovava
praticamente in un vicolo cieco.
Il grande annuncio di una ricompensa di centomila dollari
per chi avesse notizie utili fece ben poco per innescare una
qualche attività nei numeri verdi dell’FBI.
4
Dato che a Frostburg le misure di sicurezza sono
abbastanza blande, noi qui abbiamo più contatti con il
mondo esterno di quanti ne abbia la maggior Teile dei
detenuti di altre prigioni. La nostra posta può essere
aperta e letta, ma questo capita di rado. Abbiamo
accesso, limitato, a e-mail e Internet. Ci sono decine di
telefoni e un mucchio di norme che ne regolano l’utilizzo,
ma in genere possiamo fare tutte le chiamate a carico del
destinatario che vogliamo. I cellulari sono severamente
proibiti. Ci è permesso abbonarci a qualsiasi rivista tra le
decine che figurano in un elenco approvato. Numerosi
quotidiani vengono puntualmente consegnati ogni mattina
e sono sempre disponibili in un angolo della mensa, nota
anche come “sala caffè”.
È lì che una mattina presto noto il titolo del “Washington
P o s t”: Giudice federale assassinato nei dintorni di
Roanoke.
Non riesco a nascondere un sorriso. Il momento è
arrivato.
Sono tre anni che Raymond Fawcett mi ossessiona. Non
l’ho mai visto, non sono mai entrato nella sua aula, non ho
mai depositato un atto di citazione nel suo dominio, il
Distretto Sud della Virginia. Quasi tutta la mia attività
professionale si è svolta nei tribunali di Stato. Mi sono
avventurato raramente nell’arena federale e, quando l’ho
fatto, è stato sempre nel Distretto Nord, che comprende
tutto il territorio da Richmond in su. Il Distretto Sud
comprende Roanoke, Lynchburg e l’enorme distesa
dell’area metropolitana Virginia Beach-Norfolk. Prima del
decesso di Fawcett, erano dodici i giudici federali nel
Distretto Sud e tredici in quello Nord. Qui a Frostburg ho
conosciuto parecchi detenuti condannati da Fawcett e,
senza sembrare troppo curioso, li ho interrogati su di lui.
L’ho fatto fingendo di conoscerlo e di avere dibattuto cause
nella sua aula. Senza eccezioni, tutti lo odiavano e
ritenevano che avesse esagerato con le condanne.
Fawcett, a quanto pare, amava Teilicolarmente tenere
sagge conferenze ai colletti bianchi quando pronunciava la
sentenza e li mandava in galera. Le udienze delle
condanne in genere richiamavano un numero maggiore di
giornalisti, e Fawcett aveva un ego smisurato.
Laureato alla Duke, si era specializzato alla scuola di
legge della Columbia University e poi, per qualche anno,
aveva lavorato in una società di Wall Street. Sua moglie e il
relativo denaro erano originari di Roanoke e fu lì che la
coppia si stabilì quando Fawcett aveva poco più di
trent’anni. Entrò nel più importate studio legale della città e
si arrampicò rapidamente fino al vertice. Suo suocero
foraggiava il Teilito democratico da molto tempo, e nel
1993 il presidente Clinton assegnò a Fawcett un incarico a
vita nel tribunale federale del Distretto Sud della Virginia.
Nel sistema legislativo americano questa nomina
assicura un enorme prestigio, ma non molto denaro.
All’epoca lo stipendio di Fawcett ammontava a
centoventicinquemila dollari l’anno, vale a dire circa
trecentomila dollari in meno di ciò che guadagnava come
attivissimo socio di un florido studio legale. A quarantotto
anni era diventato uno dei giudici federali più giovani del
paese e, con cinque figli, uno dei più poveri. Ben presto il
suocero cominciò a integrare le sue entrate e la pressione
si allentò.
Il giudice Fawcett aveva descritto i suoi primi anni sullo
scranno in una lunga intervista rilasciata a uno di quei
periodici legali che ben pochi leggono. Ho trovato per caso
la rivista nella biblioteca del carcere, in una pila di giornali
che stavano per essere buttati. Non sono molti i libri e le
riviste che sfuggono ai miei occhi curiosi. Mi capita spesso
di leggere anche per cinque o sei ore al giorno.
Qui i computer sono desktop, tecnologicamente indietro
di qualche anno, e a causa del massiccio utilizzo sono
anche piuttosto malconci. In ogni caso, dato che il
bibliotecario sono io e i computer rientrano sotto il mio
controllo, godo di parecchie opportunità. Siamo abbonati a
due siti di ricerche legali, che ho consultato per leggere
ogni sentenza e relativa motivazione del defunto onorevole
Raymond Fawcett.
Deve essergli successo qualcosa al cambio di secolo,
nel 2000. Nei suoi primi sette anni da giudice, Fawcett era
stato un simpatizzante di sinistra, un paladino dei diritti
individuali, compassionevole nei confronti dei poveri e dei
deboli, pronto a rimproverare le forze dell’ordine, diffidente
nei riguardi delle grandi corporation e all’apparenza
ansioso di punire l’eventuale Teile contendente indocile o
scorretta con un tratto di penna molto appuntita. Nel giro di
un anno, però, qualcosa cambiò. Le sue motivazioni
diventarono più brevi, meno articolate, a volte addirittura
perfide. Fawcett si stava chiaramente spostando a destra.
Nel 2000 venne segnalato dal presidente Clinton per la
posizione che si era liberata alla Corte d’Appello del
Quarto circuito a Richmond. Tale avanzamento
rappresenta la logica promozione di un giudice distrettuale
di talento, o di un giudice che ha le giuste conoscenze. Nel
Quarto circuito, Fawcett sarebbe stato uno dei quindici
magistrati che si occupano esclusivamente di cause in
appello. L’unico scalino più alto sarebbe stato la Corte
Suprema degli Stati Uniti, e non è chiaro se Fawcett
avesse quell’ambizione. La maggior Teile dei giudici
federali ce l’ha, prima o poi. Tuttavia Bill Clinton stava per
concludere il suo mandato, e sotto una nube scura. Le sue
segnalazioni si impantanarono in Senato e, con l’elezione
di George W. Bush, il futuro di Fawcett rimase confinato a
Roanoke.
Aveva cinquantacinque anni. I suoi figli erano già adulti o
se ne stavano comunque andando da casa. Forse cedette
a una specie di crisi della mezz’età. Forse il suo
matrimonio stava naufragando. Il suocero, che intanto era
morto, l’aveva escluso dal testamento. I suoi ex soci
diventavano sempre più ricchi mentre lui sgobbava per una
paga da fame, relativamente parlando. Quale che fosse la
ragione, in aula Fawcett diventò un uomo diverso. Nei casi
penali le sue sentenze si fecero imprevedibili e molto meno
clementi. Nelle cause civili dimostrava una comprensione
molto minore nei confronti del piccolo uomo della strada e
si schierava sempre più frequentemente a favore dei
grandi interessi. Capita spesso che nel tempo i giudici
cambino, ma pochi subiscono una trasformazione così
radicale come quella di Raymond Fawcett.
Il caso più importante della sua carriera fu quello relativo
a una guerra per l’estrazione dell’uranio, iniziata nel 2003.
Allora ero ancora avvocato e conoscevo la materia del
contendere e i dettagli di base. Non lo si poteva evitare: i
giornali pubblicavano un articolo sull’argomento
praticamente ogni giorno.
C’è una ricca vena di uranio che si snoda attraverso la
Virginia centrale e meridionale. Dato che l’estrazione
dell’uranio è un incubo ambientale, lo Stato aveva emanato
una legge che la proibiva. Naturalmente era da tempo che i
proprietari dei terreni, gli affittuari e le società minerarie
che controllavano i giacimenti volevano cominciare a
scavare e avevano speso milioni di dollari in attività di
lobby perché i legislatori annullassero il bando. Ma
l’Assemblea generale della Virginia resisteva. Nel 2003
una società canadese, l’Armanna Mines, depositò un atto
di citazione presso il Distretto Sud attaccando il bando
come incostituzionale. Era un attacco frontale senza
esclusione di colpi, massicciamente finanziato e condotto
da alcuni dei più costosi talenti legali che il denaro potesse
comprare.
Come si venne presto a sapere, l’Armanna Mines era un
consorzio di società minerarie statunitensi, australiane,
russe e anche canadesi. Una stima del potenziale valore
dei giacimenti nella sola Virginia andava dai quindici ai
venti miliardi di dollari.
In base al procedimento di selezione casuale in vigore
all’epoca, la causa venne assegnata a un certo giudice
McKay di Lynchburg, che aveva ottantaquattro anni e
soffriva di demenza senile. Adducendo motivi di salute,
McKay rinunciò. Il secondo magistrato in lista era Raymond
Fawcett, che non aveva alcuna ragione valida per
declinare. Il convenuto era il Commonwealth of Virginia, ma
ben presto se ne aggiunsero altri, tra cui città, paesi e
contee che si trovavano sopra i giacimenti, oltre ad alcuni
proprietari che non volevano avere niente a che fare con la
devastazione del territorio. La causa diventò un enorme
pasticcio legale, sempre più esteso, che vedeva coinvolti
oltre cento avvocati. Il giudice Fawcett respinse le iniziali
istanze di archiviazione e ordinò un esteso scambio di
documenti fra le Teili. Non passò molto tempo prima che
dedicasse il novanta per cento del suo tempo a questa
causa.
Nel 2004 l’FBI entrò nella mia vita e io persi interesse nel
caso uranio. All’improvviso avevo altre e più pressanti
questioni di cui occuparmi. Il procedimento a mio carico
cominciò nell’ottobre del 2005 a Washington. Per allora, il
processo Armanna Mines era in corso già da un mese in
un’affollata aula di Roanoke. A quel punto dell’uranio non
avrebbe potuto importarmi di meno.
Dopo un processo di tre settimane venni giudicato
colpevole e condannato a dieci anni. Dopo un processo di
dieci settimane il giudice Fawcett deliberò a favore
dell’Armanna Mines. Non esisteva alcuna relazione
possibile tra i due procedimenti, o almeno così pensavo
quando entrai in carcere.
Poco tempo dopo, però, incontrai l’uomo che avrebbe
ucciso il giudice Fawcett. Io conosco l’identità
dell’assassino, e so anche qual è stato il movente.
Il movente è origine di frustrazione per l’FBI. Nelle settimane
che seguono l’omicidio, la task force si concentra sulla
causa Armanna Mines e interroga decine di persone
collegate alla controversia legale. Ai suoi margini erano
comparsi e avevano operato due o tre gruppi ambientalisti
radicali, che all’epoca erano stati attentamente monitorati
dall’FBI. Fawcett aveva ricevuto minacce di morte e durante
il processo era andato in giro con la scorta. Sulle minacce
si era indagato a fondo e alla fine erano state giudicate
inattendibili, ma le guardie del corpo erano rimaste.
L’intimidazione è un movente improbabile. Fawcett
aveva già emesso la sua sentenza e, anche se il suo nome
è veleno per gli ambientalisti, il danno l’aveva già fatto. La
sua sentenza è stata confermata dal Quarto circuito nel
2009 e la causa adesso viaggia verso la Corte Suprema
degli Stati Uniti. In attesa degli appelli, l’uranio non è
ancora stato toccato.
La vendetta può essere un movente, anche se l’FBI non
ne parla. Le parole “killer a pagamento” vengono usate da
alcuni giornalisti, che però non hanno nulla su cui basare la
loro ipotesi se non la professionalità dei due omicidi.
Considerate la scena del delitto e la cassaforte nascosta
con tanta cura, il movente più probabile sembra essere la
rapina.
Io ho un piano, un piano che sto mettendo a punto da
anni. È la mia unica via d’uscita.
5
Ogni detenuto federale fisicamente abile è tenuto a
svolgere
un
lavoro,
ed
è
il
diTeilimento
dell’amministrazione penitenziaria che controlla la scala
salariale. Da due anni faccio il bibliotecario e per le mie
fatiche vengo retribuito con trenta centesimi all’ora. Circa
metà di questo denaro, unitamente agli assegni di mio
padre, è soggetto al Programma di responsabilità
finanziaria del detenuto. L’amministrazione penitenziaria si
prende i soldi e li impiega per il pagamento di spese
giudiziarie, multe e risarcimenti. Oltre ai dieci anni di
carcere, sono stato condannato al pagamento di circa
centoventimila dollari per varie pene pecuniarie. A trenta
centesimi l’ora, mi ci vorrà il resto di questo secolo, più
qualche altro anno.
Altri lavori qui a Frostburg sono quelli di cuoco, lavapiatti,
pulitore di tavoli, lavapavimenti, idraulico, elettricista,
falegname, inserviente in infermeria, addetto alla
lavanderia, imbianchino, giardiniere e insegnante. Mi
considero fortunato: il mio è uno dei lavori migliori e non mi
costringe a pulire la sporcizia degli altri. Ogni tanto tengo
un corso di storia per i detenuti che vogliono ottenere
l’equivalente del diploma di scuola superiore. Insegnare
rende trentacinque centesimi l’ora, ma non è il salario più
alto a tentarmi. Anzi, trovo questa attività molto deprimente
a causa del basso livello di istruzione della popolazione
carceraria. Neri, bianchi, scuri... non ha importanza. Molta
di questa gente è a malapena in grado di leggere e
scrivere. Viene da chiedersi cosa stia succedendo alle
nostre scuole.
In ogni caso, non ho certo l’obiettivo di raddrizzare il
sistema scolastico, e nemmeno quello legale, giudiziario o
carcerario. Il mio obiettivo è sopravvivere un giorno alla
volta, mantenendo quanto più possibile la dignità e il
rispetto di me stesso. Noi siamo feccia, nullità, criminali
comuni rinchiusi e tenuti a distanza dalla società civile, e i
promemoria di questa situazione non sono mai troppo
distanti. In carcere la guardia è definita agente
penitenziario, o più semplicemente AP. Mai rivolgerti a uno
di loro chiamandolo guardia. Nossignore. Essere un
agente penitenziario è qualcosa di gran lunga superiore, fa
più titolo. Quasi tutti sono ex poliziotti, ex vicesceriffi o
comunque ex militari di qualche tipo che non se la sono
cavata troppo bene nei precedenti lavori, e adesso
operano nelle prigioni. Alcuni sono tipi a posto, ma
perlopiù sono dei perdenti troppo stupidi per rendersi
conto di essere perdenti. Ma chi siamo noi per dirglielo?
Loro sono troppo sopra di noi, nonostante la stupidità, e
amano ricordarcelo a ogni passo.
Gli agenti penitenziari vengono fatti ruotare per impedire
che si creino rapporti troppo stretti con i detenuti.
Immagino che questo possa accadere, ma una delle
regole cardinali per la sopravvivenza in carcere è evitare il
t u o AP quanto più possibile. Trattalo con rispetto, fa’
esattamente quello che ti dice e non provocargli guai. Ma,
soprattutto, cerca di evitarlo.
Il mio attuale agente penitenziario non è tra i migliori. Si
chiama Darrel Marvin, un bianco di non più di trent’anni dal
torace ampio e la pancia prominente che cerca di darsi
un’aria spavalda, ma ha troppa ciccia sui fianchi. Darrel è
un razzista ignorante al quale non sto simpatico perché
sono nero e ho due lauree, cioè due più di lui. Ogni volta
che sono costretto a leccare i piedi a questo idiota dentro
di me infuria una dura battaglia, ma non ho scelta. In questo
momento ho bisogno di lui.
«Buongiorno, agente Marvin» lo saluto con un sorriso
falso, fermandolo fuori dalla mensa.
«Cosa c’è, Bannister?» grugnisce.
Gli tendo un foglio, un modulo di richiesta ufficiale.
Marvin lo prende e prova a leggerlo. Sono tentato di
aiutarlo con le parole più lunghe, ma mi mordo la lingua.
«Avrei bisogno di parlare con il direttore» spiego
educatamente.
«Perché vuoi parlare con il direttore?» mi chiede,
continuando a cercare di leggere la mia richiesta piuttosto
semplice.
I miei affari con il direttore non riguardano l’AP, né nessun
altro, ma ricordare questo fatto a Darrel significherebbe
soltanto guai. «Mia nonna sta morendo e io vorrei andare
al suo funerale. È a soli novanta chilometri da qui.»
«Quando pensi che possa morire?» mi domanda questo
pozzo di scienza.
«Presto. Per favore, agente Marvin. Non vedo mia nonna
da anni.»
«Al direttore non piacciono queste stronzate, Bannister.
Ormai dovresti saperlo.»
«Lo so, ma il direttore mi deve un favore. Qualche mese
fa gli ho dato un parere legale. Per favore, gli può passare
la mia richiesta?»
Marvin piega il foglio e se lo mette in tasca. «Va bene,
ma è una perdita di tempo.»
«La ringrazio.»
Le mie nonne sono morte entrambe anni fa.
Niente in carcere è pensato per favorire il detenuto. La
decisione di accogliere o respingere una semplice
richiesta dovrebbe richiedere poche ore, ma così sarebbe
troppo facile. Passano quattro giorni prima che Darrel mi
dia istruzione di presentarmi nell’ufficio del direttore alle
dieci di domani, 18 febbraio. Un altro sorriso falso e dico:
«Grazie mille».
Il direttore è il re di questo piccolo impero, con l’ego che
ci si può aspettare da chi governa per editti, o ritiene che
così dovrebbe essere. I direttori vanno e vengono ed è
impossibile capire lo scopo di tutti questi trasferimenti. Di
nuovo, non è compito mio riformare il sistema carcerario,
per cui non mi preoccupo troppo di quello che succede
negli edifici amministrativi.
L’attuale direttore è Mr Robert Earl Wade, tutta una
carriera nell’apparato penitenziario, un uomo che non
scherza. Ha appena divorziato per la seconda volta, e in
effetti io gli ho davvero spiegato alcuni punti chiave delle
disposizioni riguardanti gli alimenti in vigore nel Maryland.
Entro nel suo ufficio. Wade non si alza in piedi, non mi
tende la mano né fa alcun gesto che possa indicare
rispetto. Mi dice soltanto: «Salve, Bannister» e agita una
mano in direzione di una sedia.
«Buongiorno, direttore Wade. Come sta?» Mi metto a
sedere.
«Sono un uomo libero. La numero due è diventata storia
e io non mi risposerò mai più.»
«Mi fa piacere sentirlo e sono lieto di esserle stato
utile.»
Esaurita rapidamente la fase di riscaldamento, il
direttore afferra un blocco per appunti e mi dice: «Non
posso lasciarvi andare a casa per ogni funerale, Bannister.
Lo capisci anche tu».
«Non si tratta di un funerale. Non c’è nessuna nonna.»
«Cosa diavolo...?»
«Lei segue le indagini sull’assassinio del giudice
Fawcett, a Roanoke?» Il direttore aggrotta la fronte e
solleva di scatto la testa, come se fosse stato insultato.
Sono entrato nel suo ufficio con un pretesto, e da qualche
Teile, sepolto in profondità in uno degli innumerevoli
manuali federali, deve esserci senz’altro qualcosa che
qualifica il mio comportamento come un’infrazione. Mentre
tenta di replicare, scuote la testa e ripete tra sé: “Cosa
diavolo...?”.
«L’omicidio del giudice federale. È su tutti i giornali.» È
difficile credere che la cosa gli sia sfuggita, ma è possibile.
Solo perché io leggo parecchi quotidiani ogni giorno, non
significa che tutti facciano la stessa cosa.
«Il giudice federale?» dice.
«Proprio lui. L’hanno trovato con la sua ragazza in un
cottage in riva al lago, nel Southwest Virginia. Avevano
sparato a tutti e due e...»
«Certo, certo. Ho visto i giornali. Ma questo cos’ha a che
fare con te?» È irritato perché gli ho mentito e sta
riflettendo sulla punizione più adeguata. Un essere
supremo e potente come il direttore di un carcere non può
lasciarsi raggirare da un detenuto. Il suo sguardo spazia
nell’ufficio mentre lui cerca di decidere come reagire al mio
inganno.
Devo ottenere l’effetto più drammatico possibile perché
quando risponderò alla sua domanda, Wade
probabilmente scoppierà a ridere. I detenuti hanno fin
troppo tempo libero a disposizione per elaborare
complicate dichiarazioni di innocenza, per ideare teorie
cospiratorie riguardo a delitti irrisolti o carpire segreti da
usare come merce di scambio per un’immediata
concessione della libertà vigilata. In breve, i detenuti non
fanno che inventarsi modi per cercare di uscire, e sono
sicuro che Robert Earl li ha già visti e sentiti tutti.
«Io so chi ha ucciso il giudice» rispondo, con la
massima gravità.
Con mio grande sollievo, il direttore non accenna
neppure a un sorriso. Si appoggia allo schienale della
poltroncina, si massaggia il mento e comincia ad annuire.
«E come sei venuto in possesso di questa informazione?»
«Ho conosciuto il killer.»
«Qui dentro o fuori?»
«Questo non posso dirglielo, direttore. Ma non la sto
prendendo in giro. In base a quello che leggo sui giornali,
le indagini dell’FBI non stanno andando da nessuna Teile. E
non andranno da nessuna Teile.»
Le mie note disciplinari sono immacolate. Non ho mai
rivolto una sola parola sbagliata a un agente. Non mi sono
mai lamentato. Nella mia cella non c’è mai stato un articolo
di contrabbando, neppure una bustina di zucchero della
mensa. Non gioco d’azzardo e non mi faccio prestare
soldi. Ho aiutato decine di detenuti e anche qualche civile,
compreso il direttore, a cercare di risolvere i loro problemi
legali. Tengo la mia biblioteca in un ordine meticoloso. Il
punto è che, per essere un carcerato, sono credibile.
Wade si sporge in avanti appoggiandosi sui gomiti e mi
mostra i denti giallastri. Ha due cerchi scuri sotto gli occhi,
che sono sempre lacrimosi. Sono gli occhi di uno che beve
parecchio. «Fammi indovinare, Bannister: tu vuoi
condividere l’informazione con l’FBI, concludere un accordo
e uscire di galera. Giusto?»
«Assolutamente sì, signore. Il mio piano è quello.»
Ed ecco la risata. Una lunga risata stridula che sarebbe
di per sé motivo di grande ilarità. Il direttore si calma e mi
domanda: «Quando dovresti uscire?».
«Tra cinque anni.»
«Oh, per cui sarebbe proprio un accidente di accordo,
vero? Tu dai un nome all’ FBI e trotti fuori di qui cinque anni
prima del previsto, giusto?»
«Niente è così semplice.»
«E cosa vorresti che facessi, Bannister?» ringhia Wade,
la risata ormai svanita. «Dovrei chiamare l’FBI per dire che
ho qui un tizio che sa chi è l’assassino ed è pronto a
concludere un accordo? Probabilmente ricevono cento
telefonate al giorno, perlopiù da furbastri che mirano ai
soldi della ricompensa. Perché dovrei rischiare la mia
credibilità entrando in quel gioco?»
«Perché io so la verità, e lei sa che non sono un
furbastro e non sparo cazzate.»
«Perché non scrivi una lettera all’FBI e mi lasci fuori da
questa storia?»
«Lo farò, se è questo che vuole. Ma a un certo punto lei
verrà comunque coinvolto perché le giuro che riuscirò a
convincere l’FBI. Faremo l’accordo e io le dirò addio. Lei si
occuperà solo della logistica.»
Wade si lascia andare sulla poltrona, come se si
sentisse schiacciato dalla pressione della sua carica. Si
sfrega il naso con il pollice. «Sai, Bannister, in questo
momento ho seicentodue uomini qui a Frostburg, e tu sei
l’ultimo che mi sarei aspettato di vedere entrare nel mio
ufficio con un’idea così demenziale. L’ultimissimo.»
«Grazie.»
«Prego.»
Mi sporgo in avanti e lo fisso negli occhi. «Senta,
direttore, io so di cosa sto parlando. Capisco che lei possa
non fidarsi di un detenuto, ma mi stia a sentire. Sono in
possesso di informazioni preziose. Informazioni che l’FBI
vorrebbe disperatamente. Per favore, li chiami.»
«Non lo so, Bannister. Faremo entrambi la figura degli
idioti.»
«Per favore.»
«Ci penserò. Adesso sparisci. E di’ all’agente Marvin
che ho respinto la tua richiesta di andare al funerale.»
«Sì, signore. E grazie.»
La mia sensazione è che il direttore non resisterà alla
tentazione di un po’ di movimento. Dirigere un campo di
bassa sicurezza popolato da detenuti ben educati è un
lavoro noioso. Perché non Teilecipare alle indagini sul più
famoso omicidio del paese?
Esco dalla palazzina dell’amministrazione e attraverso la
corte quadrangolare al centro del campo. Sul lato ovest ci
sono due dormitori che ospitano centocinquanta uomini
ciascuno e sul lato orientale della corte ci sono due edifici
identici. Sono il campus est e il campus ovest, come se si
stesse passeggiando in un simpatico, piccolo college.
La sala caffè degli agenti penitenziari è vicino alla
mensa ed è lì che trovo il mio caro agente Marvin. Se solo
mettessi un piede lì dentro, probabilmente mi
sparerebbero o mi impiccherebbero. La porta metallica è
aperta e posso vedere all’interno. Marvin è stravaccato su
una sedia pieghevole, con una tazza di caffè in una mano e
una grossa pasta nell’altra. Sta ridendo con altri due
agenti. Se venissero agganciati per il collo e pesati
insieme su una bilancia, i tre arriverebbero comodamente
a quattrocentocinquanta chili.
«Cosa vuoi, Bannister?» ringhia Darrel appena mi vede.
«Volevo solo ringraziarla, agente. Il direttore mi ha
negato il permesso, ma grazie ugualmente.»
«Te l’avevo detto. Mi dispiace per tua nonna.»
Dopodiché una delle guardie chiude la porta con un
calcio. La porta mi sbatte in faccia, il metallo rimbomba e
vibra e, per una frazione di secondo, mi scuote fin nel
profondo. Ho già sentito questo rumore.
Il mio arresto. Il Downtown Civic Club si riuniva ogni
mercoledì a pranzo nello storico George Washington Hotel,
cinque minuti a piedi dal mio studio. Il club contava circa
settantacinque soci, tutti bianchi tranne tre. Quel giorno io
ero l’unico nero presente, non che questo abbia un
significato Teilicolare. Seduto a un lungo tavolo, mi
sforzavo di mandare giù il solito pollo di gomma con i soliti
piselli freddi chiacchierando con il sindaco e un agente
assicurativo della State Farm. Avevamo già esaurito i soliti
argomenti – clima e football – e avevamo sfiorato
l’argomento politica, cosa che comunque veniva fatta
sempre con grande attenzione. Era un tipico pranzo del
Civic Club: trenta minuti per mangiare, seguiti da trenta
minuti di un oratore, in genere non troppo eccitante. In ogni
caso, in quel giorno memorabile non mi sarebbe stato
consentito ascoltare il discorso.
Ci fu una certa confusione all’ingresso della sala e poi,
all’improvviso, una squadra di agenti federali armati fino ai
denti fece irruzione con l’aria di volerci fare fuori tutti. Una
squadra SWAT, in completa tenuta ninja: uniformi nere,
spessi giubbotti antiproiettile, grosse armi da fuoco e
quegli elmetti resi celebri dai soldati di Hitler. Uno di loro
urlò: «Malcolm Bannister!». Io mi alzai in piedi d’istinto
farfugliando: «Ma cosa diavolo...?». Almeno cinque fucili
automatici vennero istantaneamente puntati su di me.
«Mani in alto!» strillò l’impavido caposquadra, e io alzai le
mani, che nel giro di pochi secondi mi vennero abbassate
e portate dietro la schiena. E poi, per la prima volta in vita
mia, sentii l’indescrivibile morsa delle manette ai polsi. È
una sensazione orribile, e indimenticabile. Fui spintonato
lungo lo stretto varco fra i tavoli e fuori dalla sala. L’ultima
cosa che sentii, fu il sindaco che urlava: «Tutto questo è
oltraggioso!».
Inutile dire che quella drammatica invasione ebbe un
effetto deprimente sul resto della riunione del Civic Club.
Circondato da uno sciame di paramilitari, fui scortato
attraverso l’atrio e fuori dall’hotel. Qualcuno aveva
cortesemente fatto filtrare la notizia alla rete televisiva
locale e una troupe riprese la scena di me che venivo
caricato sul sedile posteriore di una Chevrolet Tahoe nera,
in mezzo a due gorilla. Mentre ci dirigevamo verso il
carcere cittadino, domandai: «Tutto questo è davvero
necessario?».
Il capo, seduto di fianco al conducente, disse: «Sta’
zitto» senza neppure voltarsi.
«Be’, io non sono tenuto a stare zitto. Potete arrestarmi,
ma non potete farmi tacere. Lo capite?»
«Sta’ zitto.»
Il gorilla alla mia destra mi posò la canna del fucile sul
ginocchio.
«Sposti quel fucile, per favore» gli dissi, ma il fucile non
si mosse.
Il viaggio continuò. «Voialtri vi eccitate con queste
esibizioni?» domandai. «Dev’essere terribilmente
esaltante schizzare in giro come dei veri duri e fare i
prepotenti con le persone innocenti, tipo Gestapo.»
«Ti ho detto di stare zitto.»
«E io ho detto che non sto zitto. Avete un mandato
d’arresto?»
«Sì.»
«Me lo faccia vedere.»
«Te lo farò vedere in prigione. Per il momento sta’ zitto.»
«Perché non stai zitto tu, okay?»
Gli vedevo un pezzo di collo sotto l’elmetto tedesco da
combattimento e notai che stava avvampando di rabbia.
Feci un respiro profondo e mi raccomandai di mantenere
la calma.
L’elmetto. Ne avevo indossato uno dello stesso tipo
durante il mio periodo nei marine, quattro anni di servizio
attivo che avevano compreso vere battaglie durante la
prima Guerra del Golfo. Secondo reggimento, ottavo
battaglione, seconda divisione, corpo dei marine degli
Stati Uniti. Eravamo stati i primi militari americani a
ingaggiare uno scontro con gli iracheni in Kuwait. Non era
stato un gran conflitto, ma avevo visto un numero sufficiente
di morti e feriti, da entrambe le Teili.
Adesso ero circondato da un branco di soldatini
giocattolo che non avevano mai sentito un colpo esploso in
un vero combattimento e non erano in grado di correre per
un chilometro senza crollare. Ed erano i buoni.
Al nostro arrivo alla prigione trovammo un fotografo del
quotidiano della città. I miei gorilla mi fecero entrare
lentamente, assicurandosi che venissi fotografato per
bene. Era la loro versione della “passeggiata del
colpevole”.
Sarei presto venuto a sapere che un’altra squadra di duri
aveva fatto irruzione nello studio legale Copeland, Reed &
Bannister più o meno mentre io stavo pranzando con gli
altri membri del Civic Club. Con brillante capacità di
previsione e meticolosa pianificazione, la forza d’urto
congiunta aveva aspettato fino a mezzogiorno, ora in cui
l’unica persona presente in studio era la povera Mrs
Henderson. In seguito la nostra segretaria avrebbe riferito
che gli agenti erano piombati nello studio con le armi
spianate, strillando, imprecando e minacciando. Le
avevano gettato un mandato di perquisizione sulla
scrivania, l’avevano fatta sedere accanto alla finestra,
minacciando di arrestarla se avesse fatto qualcosa di più
che respirare, e poi avevano proceduto a setacciare i
nostri modesti uffici. Avevano portato via tutti i computer, le
stampanti e parecchie decine di scatoloni pieni di pratiche.
A un certo punto Mr Copeland era tornato da pranzo. Alle
sue proteste, gli avevano puntato contro una pistola,
ordinandogli di sedersi di fianco a una Mrs Henderson in
lacrime.
Il mio arresto era sicuramente una sorpresa. Era da più
di un anno che avevo a che fare con l’FBI. Avevo assunto un
legale e insieme avevamo fatto tutto il possibile per
collaborare. Avevo superato due test al poligrafo effettuati
dagli esperti dell’FBI. Avevo consegnato tutti i documenti
che, come avvocato, mi era eticamente consentito esibire.
Gran Teile di tutto questo l’avevo tenuto nascosto a
Dionne, la quale però sapeva che ero preoccupato da
morire. Combattevo con l’insonnia. Mi sforzavo di
mangiare anche se non avevo appetito. Ma finalmente,
dopo quasi dodici mesi vissuti nel terrore di sentir bussare
alla porta, l’FBI aveva informato il mio legale che il governo
non nutriva più alcun interesse nei miei confronti.
Il governo aveva mentito, non per la prima e nemmeno
per l’ultima volta.
All’interno del carcere, un luogo che visitavo almeno due
volte alla settimana, c’era un’altra squadra di agenti.
Indossavano tutti giacche a vento blu con la scritta FBI in
vistosi caratteri gialli sulla schiena ed erano in gran
fermento, anche se non riuscivo a capire esattamente cosa
stessero facendo. I poliziotti locali, molti dei quali
conoscevo bene, se ne stavano da una Teile e mi
guardavano con espressione confusa e compassionevole.
Era davvero necessario mandare una ventina di agenti
federali per arrestarmi e sequestrare le mie pratiche? Ero
andato a piedi dal mio studio al George Washington Hotel:
un qualsiasi piedipiatti idiota in pausa pranzo avrebbe
potuto bloccarmi ed effettuare l’arresto. Ma questo avrebbe
eliminato tutta la gioia da ciò che quelle persone così
importanti facevano per vivere.
Mi portarono in una piccola stanza, mi misero a sedere
davanti a un tavolo, mi tolsero le manette e mi ordinarono
di aspettare. Qualche minuto dopo entrò un uomo in abito
scuro. «Sono l’agente speciale Don Connor, dell’FBI.»
«È un vero piacere» dissi.
Connor gettò alcune carte sul tavolo. «Questo è il suo
mandato d’arresto.» Poi lasciò cadere un grosso fascio di
fogli attaccati con la cucitrice. «E questo è l’atto d’accusa
formale. Le do qualche minuto per leggere tutto.»
Si voltò e uscì, sbattendo la porta con la maggior forza
possibile. Era una spessa porta di metallo, che vibrò e
tuonò fragorosa. Il suono rimbalzò echeggiando nella
stanza per qualche secondo.
Un rumore che non dimenticherò mai.
6
Tre giorni dopo il mio primo colloquio con il direttore Wade
vengo convocato di nuovo nel suo ufficio. Entro e lo trovo
da solo, impegnato in un’importante telefonata. Mi fermo
imbarazzato accanto alla porta, in attesa. Wade conclude
la conversazione con un secco «Va bene», poi si alza in
piedi e mi dice: «Vieni con me». Varchiamo una porta
laterale ed entriamo nell’adiacente sala riunioni, tinteggiata
nel tipico verde governativo e dotata di un numero di sedie
metalliche di gran lunga superiore a quello che potrà mai
essere utilizzato.
L’anno scorso un controllo contabile ha evidenziato che il
diTeilimento dell’amministrazione penitenziaria aveva
acquistato, per “uso amministrativo”, quattromila sedie a
ottocento dollari l’una. Il fabbricante vendeva all’ingrosso la
medesima sedia a settantanove dollari. Non dovrebbe
importarmene, ma lavorare per trenta centesimi l’ora ti
regala una prospettiva diversa sulla gestione del denaro.
«Siediti» mi dice il direttore, e io mi siedo su una delle
brutte sedie strapagate. Wade si accomoda dall’altro lato
del tavolo perché deve esserci sempre una barriera tra di
noi. Mi guardo intorno e conto ventidue sedie. Lascio
perdere.
«L’altro giorno, dopo che te ne sei andato, ho chiamato
Washington» dice Wade in tono grave, come se parlasse
regolarmente con la Casa Bianca. «Il diTeilimento mi ha
suggerito di agire secondo la mia discrezione. Ho riflettuto
per qualche ora e poi mi sono messo in contatto con l’FBI a
Roanoke. Hanno mandato due agenti, che adesso stanno
aspettando nel corridoio.»
Mantengo un’espressione impassibile, anche se la
notizia mi colpisce.
Wade mi punta un dito contro e continua: «Ti avverto,
Bannister. Se questa storia si rivela un imbroglio e mi metti
in una situazione imbarazzante, farò tutto quello che è in
mio potere per renderti la vita insopportabile».
«Non è un imbroglio, direttore. Glielo giuro.»
«Non so perché ti credo.»
«Non se ne pentirà.»
Estrae da una tasca gli occhiali da lettura, li inforca a
metà del naso e legge un foglietto. «Al telefono ho parlato
con il vicedirettore, Victor Westlake, l’uomo che dirige le
indagini. Ha mandato due dei suoi a fare due chiacchiere
con te: l’agente Hanski e l’agente Erardi. Non ho ancora
fatto il tuo nome, per cui non sanno niente.»
«Grazie, direttore.»
«Resta qui.» Dà uno schiaffetto al ripiano del tavolo, si
alza in piedi ed esce dalla sala riunioni. Mentre aspetto di
sentire passi che si avvicinano, avverto un dolore acuto allo
stomaco. Se questa cosa non funziona, resterò qui dentro
per altri cinque anni, più tutto quello che riusciranno ad
aggiungerci.
L’agente speciale Chris Hanski, quello al comando, ha più
o meno la mia età e parecchi capelli grigi. L’agente Alan
Erardi è la sua spalla, più giovane di lui. Ho letto su un
quotidiano che al momento sono quaranta gli agenti dell’FBI
impegnati nel caso Fawcett e ho l’impressione che questi
due siano parecchio in basso nella catena di comando.
Questo primo incontro è importante, come lo saranno tutti,
ma è chiaro che l’FBI ha mandato due soldati semplici per
darmi un’occhiata.
Il direttore del carcere non è presente. Credo che sia di
nuovo nel suo ufficio, non molto distante, e che abbia un
orecchio incollato alla porta.
I due cominciano senza usare penne e blocchi per
appunti, un segnale evidente del fatto che sono venuti qui
solo per divertirsi un po’. Niente di serio. Immagino che non
siano abbastanza in gamba da rendersi conto che ho
passato ore e ore seduto di fronte ad agenti dell’FBI.
«E così lei vuole fare un accordo» comincia Hanski.
«Io so chi ha ucciso il giudice Fawcett e perché. Se
queste informazioni hanno qualche valore per l’FBI, sì,
penso che si possa concludere un accordo.»
«Lei Teile dal presupposto che noi non sappiamo
ancora chi è il colpevole» osserva Hanski.
«Sono sicuro di no. Altrimenti perché sareste qui?»
«Ci è stato detto di venire perché stiamo controllando
ogni possibile pista, anche se dubitiamo seriamente che la
sua possa portare da qualche Teile.»
«Mettetemi alla prova.»
I due si scambiano un’occhiata d’intesa. Che
divertimento. «Quindi lei ci dà il nome. E cosa ottiene in
cambio?»
«Esco di prigione e voi mi garantite protezione.»
«Tutto così semplice?»
«No, in realtà è molto complicato. Il tizio di cui parlo è un
soggetto pericoloso e ha amici addirittura più pericolosi di
lui. Inoltre non sono disposto ad aspettare per due anni che
venga condannato. Io vi do il nome ed esco subito.
Immediatamente.»
«E se non viene condannato?»
«Quello è un problema vostro. Se incasinerete l’accusa,
non potrete certo incolpare me.»
A questo punto Erardi estrae il suo blocco per appunti,
toglie il cappuccio a una penna da due soldi e scribacchia
qualcosa. Ho la loro attenzione. Continuano a darsi molto
da fare per sembrare indifferenti, ma questi ragazzi sono
sotto pressione. La loro piccola task force sta annaspando
perché, secondo i giornali, non c’è alcuna pista credibile.
«E se ci dà un nome sbagliato?» insiste Hanski.
«Supponiamo che noi cominciamo a dare la caccia
all’uomo sbagliato: nel frattempo lei è libero.»
«Non sarò mai libero.»
«Sarà fuori di galera.»
«A guardarmi le spalle per il resto della vita.»
«Non abbiamo mai perso un informatore inserito nel
programma protezione testimoni. Più di ottomila e in
continuo aumento.»
«È quello che pubblicizzate. Francamente non mi
preoccupo molto delle vostre statistiche o di quello che non
è successo agli altri. Mi preoccupo della mia pelle.»
C’è una pausa mentre Erardi smette di scrivere e decide
cosa dire.
«Il suo tizio mi dà l’impressione di far Teile di una gang,
magari di un trafficante di droga. Cos’altro ci può dire?»
«Niente, e io non vi ho detto niente. Potete fare tutte le
supposizioni che volete.»
Hanski sorride, anche se non c’è nulla di divertente.
«Dubito che il suo piano per uscire di prigione possa fare
molta impressione sul nostro capo. A tutt’oggi abbiamo
avuto almeno altri due detenuti che ci hanno contattato
sostenendo di avere informazioni preziose. E naturalmente
anche loro vogliono uscire di galera. Non è una cosa
insolita.»
Non ho modo di sapere se questo sia vero, ma mi
sembra credibile. Il nodo che sento nello stomaco non si è
ancora allentato. Mi stringo nelle spalle, sorrido, mi esorto
a mantenere la calma. «Potete giocare questa Teilita nel
modo che preferite. Ovviamente la decisione è vostra.
Potete continuare a sbattere la testa contro il muro, o
sprecare il vostro tempo con gli altri due detenuti. Sta a voi
scegliere. Ma se volete sapere il nome della persona che
ha ucciso il giudice Fawcett, io ve lo posso dire.»
«Qualcuno che lei ha conosciuto in prigione?» mi chiede
Erardi.
«O forse fuori. Non lo saprete finché non concluderemo
un accordo.»
C’è un lungo silenzio. I due agenti mi fissano e io fisso
loro. Alla fine Erardi chiude il suo blocco e si rimette la
penna in tasca. «Okay. Riferiremo al nostro capo» dice
Hanski.
«Sapete dove trovarmi.»
Diverse volte alla settimana incontro la mia Gang Bianca
sulla pista di atletica. Camminiamo in cerchio intorno al
campo che usiamo per giocare a calcio o a flag football.
Carl, l’optometrista, uscirà tra qualche mese. Kermit, lo
speculatore immobiliare, deve scontare ancora due anni.
Wesley, il senatore, dovrebbe uscire più o meno insieme a
me. Mark è l’unico con la causa ancora in appello. È qui da
diciotto mesi e dice che il suo avvocato è ottimista, anche
se ammette con franchezza di aver falsificato qualche
documento ipotecario.
Non parliamo molto dei nostri reati, come è normale in
prigione. Chi eri o cosa facevi fuori, qui non è importante e
inoltre è troppo doloroso da ricordare.
La moglie di Wesley ha appena chiesto il divorzio e lui la
sta prendendo molto male. Dato che Kermit e io ci siamo
già passati, gli diamo consigli e cerchiamo di risollevargli il
morale. Mi piacerebbe molto intrattenere i miei compagni
con i Teilicolari della visita dell’ FBI, ma devo mantenere il
silenzio. Se il mio piano funzionerà, un giorno loro si
ritroveranno qui per la passeggiata e io non ci sarò,
trasferito improvvisamente in un altro campo per ragioni
che non sapranno mai.
7
Il quartier generale temporaneo della task force dell’FBI
incaricata del caso Fawcett era un capannone in una zona
industriale non lontana dal Roanoke Regional Airport.
L’ultima volta era stato affittato a una società che
importava gamberi dall’America Centrale, li surgelava e li
conservava per anni. Quasi immediatamente il capannone
fu ribattezzato “il Freezer”. Offriva molto spazio, isolamento
e privacy, lontano dai media. Al suo interno i carpentieri
avevano eretto rapidamente pareti, ricavando stanze, uffici,
corridoi e sale riunioni. Tecnici provenienti da Washington
avevano lavorato ventiquattr’ore al giorno per installare i
più recenti strumenti e gadget ad alta tecnologia per le
comunicazioni, l’elaborazione dati e la sicurezza. C’era
stato un continuo viavai di camion carichi di mobilio e
attrezzature finché nel CC – centro di comando – ci furono
più scrivanie e tavoli di quanti ne sarebbero mai stati
utilizzati. Una flotta di SUV a nolo riempì il parcheggio. Fu
ingaggiato un servizio di catering per la consegna di tre
pasti al giorno alla task force, che arrivò rapidamente a
contare settanta elementi, circa quaranta agenti più il
personale d’ufficio. Nessun limite di budget e nessuna
preoccupazione per i costi. Dopo tutto, la vittima era un
giudice federale.
Venne firmato un contratto d’affitto per sei mesi, ma
dopo tre settimane di scarsi progressi si era diffusa tra i
federali la sensazione che forse avrebbero dovuto
trattenersi più a lungo. A Teile un breve elenco di sospettati
scelti a caso, tutti noti per essere soggetti violenti e per
essere comparsi davanti a Fawcett negli ultimi diciotto
anni, non c’erano vere piste da seguire. Nel 2002 un certo
Stacks aveva scritto al giudice una lettera minatoria dal
carcere. Rintracciato al lavoro in un negozio di liquori a
Panama City Beach, Florida, Stacks dimostrò di avere un
alibi per il weekend durante il quale erano stati uccisi
Fawcett e Ms Clary. Stacks inoltre non metteva piede in
Virginia da almeno cinque anni. Nel 1999 un
narcotrafficante di nome Ruiz aveva maledetto il giudice in
spagnolo quando lui lo aveva condannato a vent’anni di
reclusione. Ruiz era ancora rinchiuso in un carcere di
media sicurezza e, dopo pochi giorni trascorsi a scavare
nel suo passato, l’FBI aveva appurato che i componenti
della sua organizzazione di corrieri della coca erano tutti o
morti o in galera.
Una squadra esaminò metodicamente ogni causa
presieduta da Fawcett durante i suoi diciotto anni sullo
scranno. Era stato un vero cavallo da tiro: aveva gestito
trecento casi all’anno, sia civili che penali, mentre la media
di un giudice federale è intorno alle duecentoventicinque
cause. Fawcett aveva mandato in galera circa tremilacento
imputati, fra uomini e donne. Lavorando in base al
presupposto – fragile, secondo lo stesso FBI – che
l’assassino fosse uno di loro, una squadra bruciò centinaia
di ore aggiungendo nomi alla lista dei possibili sospetti e
poi eliminandoli. Un’altra squadra studiò i processi, civili e
penali, ancora in corso al momento dell’omicidio del
giudice. Un’altra squadra ancora dedicò tutto il suo tempo
alla causa Armanna Mines, riservando Teilicolare
attenzione a un paio di ambientalisti fanatici ai quali
Fawcett non stava molto simpatico.
Dal momento stesso in cui fu pronto a Teilire, il Freezer
diventò un alveare ronzante di tensione, con riunioni
urgenti, nervi scoperti, un’infinità di vicoli ciechi, carriere in
bilico e, sempre, qualcuno che strillava da Washington. La
stampa telefonava di continuo. I blogger alimentavano la
frenesia generale con voci fantasiose e palesemente false.
Poi nel quadro entrò un detenuto di nome Malcolm
Bannister.
A capo della task force c’era Victor Westlake, un agente
dalla carriera trentennale che vantava un bell’ufficio con uno
splendido panorama nell’Hoover Building in Pennsylvania
Avenue a Washington. Da quasi tre settimane, però, era
intrappolato in una stanza senza finestre e verniciata di
fresco al centro del CC. Non era certo la sua prima trasferta.
Westlake già da anni si era creato la reputazione di
eccezionale organizzatore, in grado di precipitarsi sulla
scena del crimine, schierare le truppe, occuparsi di mille
dettagli, pianificare l’attacco e risolvere il caso. Una volta
aveva trascorso un anno intero in un motel nei pressi di
Buffalo facendo la posta a un genio che si eccitava
mandando pacchi bomba agli ispettori sanitari federali.
Era risultato essere il genio sbagliato, ma Westlake non
aveva commesso l’errore di arrestare la sua preda. E due
anni dopo aveva inchiodato il dinamitardo.
Era nel suo ufficio, come sempre in piedi dietro la
scrivania, quando entrarono gli agenti Hanski ed Erardi.
Dato che il capo non era seduto, rimasero in piedi anche
loro. Westlake riteneva che fosse malsano, addirittura
letale, restare seduti per ore dietro la scrivania.
«Okay, vi ascolto» abbaiò, facendo schioccare le dita.
«Si chiama Malcolm Bannister» disse subito Hanski.
«Nero, quarantatré anni, condannato dalla corte federale di
Washington a dieci anni per violazioni al RICO. Ex avvocato
di Winchester, Virginia. Dice di poterci dare il nome del
killer, e anche il movente, ma naturalmente vuole uscire di
galera.»
«Vuole uscire subito» precisò Erardi. «E chiede anche
protezione.»
«Sai che sorpresa. Un detenuto che vuole uscire. È
attendibile?»
Hanski si strinse nelle spalle. «Per essere un detenuto,
credo di sì. Secondo il direttore del carcere non è uno che
spara cazzate, le sue note disciplinari sono immacolate. Il
direttore dice che dovremmo ascoltarlo.»
«Cosa vi ha dato Bannister?»
«Per ora niente. È molto furbo. Può darsi che in effetti
sappia qualcosa e, se è così, questa potrebbe essere la
sua unica occasione per uscire.»
Westlake prese a camminare sul liscio pavimento di
cemento dietro la scrivania, arrivò alla parete davanti alla
quale c’era ancora un po’ di segatura fresca e tornò
indietro. «Che tipo di avvocato era? Penalista? Difendeva
trafficanti di droga?»
Fu Hanski a rispondere: «Piccola città, avvocato
generico, un po’ di penale, ma non molto lavoro in aula. Ex
marine».
Avendo lui stesso un passato nei marine, Westlake
sembrò apprezzare la cosa. «Stato di servizio?»
«Quattro anni, congedato con onore. Ha combattuto
nella prima Guerra del Golfo. Suo padre è stato marine e
anche poliziotto della Stradale in Virginia.»
«Cosa ha rovinato Bannister?»
«Non ci crederà: Bustarella Barry.»
Westlake aggrottò la fronte e allo stesso tempo sorrise.
«Non è vero!»
«Sul serio. Bannister si era occupato di certe transazioni
immobiliari per conto di Barry ed è rimasto travolto dalla
tempesta. Come ricorderà, la giuria ritenne tutti colpevoli
delle accuse di violazioni al RICO e cospirazione. Credo che
siano stati processati in otto, tutti insieme. Bannister era un
pesce piccolo, rimasto impigliato in una grande rete.»
«Collegamenti con Fawcett?»
«Non ancora. Il nome di Bannister è saltato fuori solo tre
ore fa.»
«Avete un piano?»
«Più o meno» rispose Hanski. «Se accettiamo l’idea
che Bannister conosce l’assassino, allora possiamo
presumere con una certa sicurezza che l’abbia incontrato
in prigione. Dubito che possa essere successo nella
tranquilla Winchester, è molto più probabile che le loro
strade si siano incrociate in galera. Bannister è dentro da
cinque anni e ha trascorso i primi ventidue mesi a
Louisville, Kentucky, in un carcere di media sicurezza che
ospitava duemila detenuti. Dopodiché è passato a
Frostburg, un campo con seicento ospiti.»
«Un mucchio di gente» osservò Westlake. «E i detenuti
vanno e vengono.»
«Giusto, per cui cominciamo dal posto più logico. Ci
procuriamo la sua storia carceraria, i nomi dei compagni di
cella, forse di dormitorio. Andiamo nelle due prigioni,
parliamo con i direttori, i caposettore, gli agenti
penitenziari, con tutti quelli che possono sapere qualcosa
di Bannister e dei suoi amici. Cominciamo a raccogliere
nomi e vediamo quanti di loro hanno incrociato Fawcett.»
«Bannister dice che l’assassino ha amici pericolosi»
aggiunse Erardi. «Da qui la sua richiesta di protezione.
Verrebbe da pensare a una gang. Una volta che
cominciamo a mettere insieme dei nomi, ci concentreremo
su quelli con collegamenti a gang.»
Una pausa, poi un dubbioso Westlake domandò: «Tutto
qui?».
«È il massimo che possiamo fare, per il momento.»
Westlake unì i talloni, arcuò la schiena e intrecciò le mani
dietro la testa. Si stirò, fece un respiro profondo, si stirò di
nuovo e disse: «Okay. Mettete insieme la storia carceraria
di Bannister e datevi una mossa. Di quanti uomini avete
bisogno?».
«Può darcene due?»
«No, ma li avrete. Adesso andate. Al lavoro.»
Bustarella Barry. Il cliente che non avevo mai visto finché in
una grigia mattina ci hanno trascinato tutti in un’aula del
tribunale federale e ci hanno letto a voce alta le
imputazioni.
Lavorando in un modesto studio generico con vetrina
sulla strada impari i fondamentali di molti ordinari affari
legali, ma è difficile specializzarsi. Io cercavo di evitare
divorzi e fallimenti e non mi è mai piaciuto l’immobiliare,
ma per sopravvivere dovevo spesso accettare chiunque e
qualunque cosa varcasse la porta dello studio.
Stranamente, sarebbe stata proprio una transazione
immobiliare a determinare la Caduta.
La segnalazione mi arrivò da un compagno di università
che lavorava in uno studio di medie dimensioni a
Washington. Lo studio aveva un cliente che desiderava
acquistare un certo casino di caccia nella contea di
Shenandoah, ai piedi dei monti Allegheny, circa un’ora a
sudovest di Winchester. Il cliente desiderava la massima
riservatezza ed esigeva l’anonimato, il che avrebbe dovuto
essere il primo segnale d’allarme. Il prezzo di vendita era
di quattro milioni di dollari e, dopo aver mercanteggiato un
po’, riuscii a ottenere una parcella forfettaria di centomila
dollari per Copeland, Reed & Bannister per la definizione
dell’affare. Né io né i miei soci avevamo mai visto una
parcella del genere ed eravamo tutti e tre molto eccitati,
all’inizio. Misi da Teile tutte le altre pratiche e andai a
verificare la situazione all’ufficio del catasto della contea di
Shenandoah.
Il casino di caccia era stato fatto costruire circa vent’anni
prima da alcuni medici amanti della caccia al gallo
cedrone, ma, come capita spesso in iniziative del genere,
tra i soci era nato un dissenso. Un dissenso serio, che
aveva comportato avvocati e cause legali, addirittura un
paio di fallimenti. Comunque, in due o tre settimane
sbrogliai la matassa e non fu un problema assicurare al
mio anonimo cliente che il titolo di proprietà era in ordine.
Venne stabilita la data di stipulazione e io preparai tutti i
contratti e gli atti necessari. Si trattava di un mucchio di
carte, ma d’altra Teile avremmo incassato una parcella
piuttosto sostanziosa.
La data venne posticipata di un mese e io chiesi al mio
vecchio compagno di università cinquantamila dollari, vale
a dire metà della parcella. Non era una richiesta insolita, e
dato che a quel punto avevo già investito un centinaio di
ore di lavoro, volevo essere pagato. Il mio amico mi
richiamò informandomi che il cliente non era d’accordo.
Non un grosso problema, pensai. In una tipica transazione
immobiliare, gli avvocati vengono pagati solo alla
conclusione dell’affare. Venni informato inoltre che il mio
cliente, una società, aveva cambiato nome. Rifeci tutti i
documenti e aspettai. La data venne di nuovo posticipata e
i venditori cominciarono a minacciare di non volerne fare
più niente.
In quel periodo conoscevo solo vagamente il nome e la
reputazione di un faccendiere che operava all’interno della
Beltway, cioè a livello del governo federale: un certo Barry
Rafko, meglio noto come Bustarella Barry. Sui
cinquant’anni, aveva trascorso la maggior Teile della sua
vita da adulto arrabattandosi in giro per Washington alla
ricerca di un modo poco faticoso per raccattare qualche
dollaro. Era stato consulente, stratega, analista, addetto
alla raccolta fondi e portavoce, e aveva lavorato ai piani più
bassi di due o tre campagne elettorali di rappresentanti al
Congresso e senatori, sia democratici che repubblicani. A
Barry non importava: se lo pagavano, poteva fare lo
stratega o l’analista da uno qualunque dei due lati della
barricata. In ogni caso aveva trovato la sua vera strada
quando, insieme a un socio, aveva aperto un bar nei pressi
del Campidoglio. Barry aveva assunto alcune giovani
prostitute perché servissero al bar in minigonna, e quasi da
un giorno all’altro il locale era diventato uno dei mercati
della carne preferiti dalle legioni di funzionari che
affollavano Capitol Hill. Poi il locale era stato scoperto da
alcuni membri poco importanti del Congresso e da
burocrati di medio livello, e Barry era entrato nel giro
giusto. Con le tasche piene di soldi, era passato
all’iniziativa successiva, una steakhouse di lusso a due
isolati dal bar. Barry offriva alla sua clientela di lobbisti
stupende bistecche accompagnate da ottimi vini a prezzi
ragionevoli, e nel giro di poco tempo poteva già vantare
senatori con il loro tavolo preferito. Appassionato di sport,
Barry comprava valanghe di biglietti – per le Teilite dei
Redskins, dei Capitals, dei Wizards e dei Georgetown
Hoyas – che poi regalava agli amici. A quel punto aveva
già fondato la sua società di “relazioni governative”, che
stava crescendo rapidamente. Poi aveva litigato con il suo
socio e ne aveva rilevato la quota. Solo, ricco e spinto
dall’ambizione, aveva alzato il tiro e mirato ai vertici della
sua professione. Del tutto privo di scrupoli etici, era
diventato uno dei più aggressivi procacciatori d’affari di
Washington. Se un ricco cliente desiderava una nuova
scappatoia fiscale, Barry era in grado di pagare qualcuno
che la redigesse, la inserisse nella normativa, convincesse
i suoi amici ad appoggiarla e poi di riuscire
magistralmente a nascondere il tutto. Se un ricco cliente
aveva bisogno di espandere una sua fabbrica, Barry
poteva organizzare un accordo in base al quale il
rappresentante al Congresso avrebbe ottenuto lo
stanziamento dei fondi, inviato il denaro alla fabbrica e
intascato una fetta notevole da destinare ai suoi sforzi per
la rielezione. E tutti sarebbero stati contenti.
Nel suo primo scontro con la legge, Barry era stato
accusato di aver fatto scivolare contanti nelle tasche del
consigliere di un senatore. L’accusa non aveva retto, ma il
soprannome sì: Bustarella Barry.
Dato che operava nel lato più oscuro di un’attività già di
per sé spesso oscura, Barry era consapevole del potere
del denaro, e del sesso. Il suo yacht sul Potomac diventò
una nota love boat, famosa per le feste scatenate e il gran
numero di giovani donne. Possedeva un campo da golf in
South Carolina, dove ospitava per lunghi weekend membri
del Congresso, di solito senza le mogli.
Ma più diventava potente, più si avventurava in
operazioni ad alto rischio. I vecchi amici si allontanarono,
spaventati dai guai che ormai sembravano inevitabili. Il
nome di Barry comparve nel corso di un’indagine della
commissione etica interna al Congresso. Il “Washington
Post” fiutò la pista e Barry Rafko, un uomo che aveva
sempre bramato l’attenzione, si ritrovò ad averne più di
quanta ne avesse mai desiderata.
Io non avevo idea, né modo di sapere, che il casino di
caccia era uno dei suoi progetti.
Il nome della società cambiò di nuovo e tutta la
documentazione venne rifatta. Un’altra data fissata per la
firma del contratto venne annullata. Poi arrivò una nuova
proposta: il mio cliente voleva affittare il casino per
duecentomila dollari al mese, detraendo poi l’importo delle
rate dal prezzo di acquisto. Questo comportò una
settimana di intense dispute e discussioni, ma alla fine si
arrivò a un accordo. Redassi di nuovo l’intera
documentazione e insistetti perché al mio studio fosse
pagata metà della parcella, cosa che avvenne. Mr
Copeland e Mr Reed si sentirono molto sollevati.
Nel momento in cui i contratti furono finalmente
sottoscritti, scoprii che il mio cliente era una società offshore con sede nella minuscola isola di St Kitts. Io non
avevo ancora idea di chi ci fosse dietro. I contratti vennero
firmati da un invisibile rappresentante della società giù nei
Caraibi e rispediti il giorno dopo al mio studio. In base agli
accordi, il mio cliente avrebbe effettuato un bonifico sul
conto
fiduciario
del
nostro
studio
di
quattrocentocinquantamila dollari e rotti, somma sufficiente
a pagare i primi due mesi di affitto, più il saldo della nostra
parcella, più altre spese varie. Da Teile mia, avrei emesso
un assegno di duecentomila dollari a favore dei venditori
per ognuno dei primi due mesi, poi il mio cliente avrebbe
reintegrato i fondi. Dopo dodici mesi di questa procedura,
l’affitto si sarebbe trasformato in una vendita e il nostro
piccolo studio avrebbe avuto diritto a un’altra consistente
parcella.
Quando i fondi arrivarono alla nostra banca, il direttore
mi telefonò per informarmi che il nostro conto aveva
appena ricevuto non quattrocentocinquantamila dollari, ma
quattro milioni e mezzo. Immaginai che qualcuno si fosse
lasciato prendere la mano dagli zeri, e poi ci sono cose
peggiori che ritrovarsi con troppi soldi in banca. Ma
qualcosa non quadrava. Cercai di contattare a St Kitts la
società di comodo che tecnicamente era il mio cliente, ma
mi passarono da una persona all’altra e non arrivai a nulla.
Telefonai al compagno di università che mi aveva
trasmesso la pratica e lui mi promise di fare qualche
controllo. Io pagai l’affitto del primo mese e la parcella del
nostro studio e poi aspettai istruzioni per la restituzione
della somma in eccesso. Trascorsero giorni, poi
settimane. Un mese dopo il direttore della banca telefonò
per comunicarci che sul nostro conto erano appena
piombati altri tre milioni di dollari.
A quel punto Mr Reed e Mr Copeland erano
profondamente turbati. Diedi istruzioni alla banca di
sbarazzarsi del denaro, ritrasmettendolo con bonifico
bancario alla fonte da cui proveniva, e di farlo in fretta. Il
direttore della banca si diede da fare per un paio di giorni,
ma solo per scoprire che il conto a St Kitts era stato
chiuso. Finalmente il mio collega mi mandò un’e-mail nella
quale mi dava istruzioni di versare metà del denaro su un
conto a Grand Cayman e l’altra metà su un conto a
Panamá.
Quale piccolo avvocato di provincia, avevo zero
esperienza in fatto di bonifici su conti cifrati, ma pochi
minuti di ricerche su Google mi rivelarono che mi stavo
avventurando alla cieca in alcuni dei più famigerati paradisi
fiscali del mondo. Desiderai non avere mai accettato di
lavorare per un cliente anonimo, nonostante i soldi.
Il bonifico a Panamá, circa tre milioni e mezzo, mi tornò
indietro. Io strillai al mio compagno di università, che a sua
volta strillò a qualcun altro. Il denaro se ne restò tranquillo
per due mesi maturando interessi, anche se da un punto di
vista etico noi non potevamo trattenerne nemmeno la più
piccola Teile. L’etica esigeva inoltre che io prendessi tutte
le misure necessarie per proteggere quei soldi
indesiderati. Non erano miei e di certo io non avanzavo
alcuna pretesa, ma in ogni caso ero tenuto a
salvaguardarli.
Innocentemente, o forse stupidamente, avevo consentito
che il denaro sporco di Bustarella Barry riposasse sereno
sotto il controllo dello studio Copeland, Reed & Bannister.
Una volta in possesso del casino di caccia, Barry
procedette a una rapida ristrutturazione, lo abbellì un po’,
costruì un centro benessere e aggiunse un eliporto. Affittò
un elicottero Sikorsky S-76 con il quale trasportare dieci
dei suoi migliori amici da Washington al casino in soli venti
minuti. In un tipico venerdì pomeriggio venivano effettuati
diversi voli navetta e la festa cominciava. In quella fase
della sua carriera, Barry ormai aveva lasciato perdere
quasi tutti i burocrati e i lobbisti per concentrarsi
principalmente su membri del Congresso e rispettivi capi
dello staff. Al casino di caccia tutto era disponibile: ottimo
cibo e vini eccellenti, sigari cubani, droga, scotch di
trent’anni e ragazze di venti. Ogni tanto veniva organizzata
una caccia al gallo cedrone, ma di solito gli ospiti erano più
interessati allo stupefacente assortimento di bionde
slanciate a loro disposizione.
La ragazza era originaria dell’Ucraina. Durante il
processo – il mio processo – il suo protettore avrebbe
dichiarato in un inglese dal pesante accento di essere
stato pagato centomila dollari per la giovane, che era stata
portata al casino dove le era stata assegnata una stanza. I
contanti gli erano stati consegnati da un tizio che in seguito
avrebbe dichiarato, come teste per l’accusa, di essere
stato uno dei molti fattorini di Barry.
La ragazza morì. L’autopsia stabilì che era morta per
overdose dopo una lunga notte di baldoria in compagnia di
Barry e dei suoi amici di Washington. Girarono voci
secondo le quali la mattina non si era più svegliata nel letto
che divideva con un membro del Congresso, ma questo
non fu mai provato. Barry dispose i suoi carri in cerchio
molto prima dell’arrivo delle autorità sulla scena, e con chi
avesse dormito la ragazza durante la sua ultima notte su
questa terra non si sarebbe mai saputo. Si scatenò una
tempesta mediatica intorno a Barry, i suoi affari, i suoi
amici, i suoi jet, yacht, elicotteri, ristoranti, ville e ogni
dettaglio della sua sordida influenza. E mentre la stampa
calava in massa su di lui, i suoi vecchi amici e clienti
scomparvero velocemente. Indignati membri del
Congresso andavano a caccia di interviste ed esigevano a
gran voce audizioni e indagini.
La storia prese una piega anche peggiore quando a
Kiev venne rintracciata la madre della ragazza. La donna
esibì un certificato di nascita da cui risultava che la figlia
aveva solo sedici anni. Una schiava del sesso sedicenne
che Teilecipava a festini con membri del Congresso in un
casino di caccia nei monti Allegheny, ad appena due ore di
auto dal Campidoglio.
Il rinvio a giudizio originale era di cento pagine e
addebitava a quattordici imputati uno sbalorditivo
assortimento di reati. Io ero uno dei quattordici e il mio
presunto crimine consisteva in ciò che viene comunemente
definito riciclaggio di denaro sporco. Si sosteneva che,
consentendo a una delle società anonime di Barry Rafko di
parcheggiare denaro nel conto fiduciario del mio studio, io
avevo aiutato lo stesso Rafko a gestire i soldi sporchi che
lui rubacchiava ai suoi clienti, ripulendoli un po’ off-shore e
poi trasformandoli in un bene di valore, il casino di caccia.
Ero anche accusato di avere aiutato Barry a nascondere
denaro all’FBI, al fisco e ad altri.
Le manovre preprocessuali eliminarono alcuni tra gli
imputati; a molti fu permesso di sganciarsi dal gruppo e di
collaborare con il governo o di avere un processo
separato. Dal giorno del rinvio a giudizio a quello del
processo il mio avvocato e io presentammo ventidue
istanze; una sola venne accolta. E fu una vittoria inutile.
Il diTeilimento di Giustizia, tramite l’ FBI e l’ufficio del
procuratore federale di Washington, bombardò con tutte le
munizioni disponibili Barry Rafko e i suoi sodali, tra cui un
rappresentante al Congresso e un suo collaboratore. Non
contava che un paio di noi potessero essere innocenti, così
come non ebbe importanza che la nostra versione della
verità venisse distorta dal governo.
Fu così che mi ritrovai a sedere in un’affollata aula di
tribunale in compagnia di altri sette imputati, compreso il
più nefasto faccendiere politico che Washington avesse
prodotto da decenni. Sì, ero colpevole. Colpevole di
stupidità per avere consentito a me stesso di cacciarmi in
un simile disastro.
Dopo la selezione della giuria, il procuratore federale mi
propose un ultimo patteggiamento: dichiarati colpevole di
violazione alle norme RICO, paga una multa di diecimila
dollari e sconta due anni di carcere.
Di nuovo, gli dissi di andare all’inferno. Io ero innocente.
8
Mr Victor Westlake
Vicedirettore FBI
Hoover Building
935 Pennsylvania Avenue
Washington, DC 20535
PREGO INOLTRARE
Egregio Mr Westlake,
mi chiamo Malcolm Bannister e sono attualmente detenuto
presso il Federal Prison Camp di Frostburg, Maryland. Lunedì 21
febbraio 2011 ho avuto un colloquio con due dei suoi uomini
impegnati nelle indagini sull’omicidio del giudice Fawcett: l’agente
Hanski e l’agente Erardi. Tipi simpatici eccetera, ma ho la
sensazione che non siano rimasti molto colpiti né da me né dalla
mia storia.
Secondo gli articoli comparsi questa mattina sul “Washington
Post”, il “New York Times”, il “Wall Street Journal” e il “Roanoke
Times”, lei e la sua squadra state ancora girando a vuoto e non
avete alcun indizio. Non ho modo di sapere se lei dispone di un
elenco di sospettati credibili, ma le posso garantire che il vero
assassino non figura su alcuna lista redatta da lei o dalla sua
squadra.
Come ho spiegato ai suoi agenti, conosco l’identità dell’omicida
e so qual è stato il movente.
Nel caso Hanski ed Erardi abbiano compreso male i dettagli (per
inciso, il modo in cui prendono appunti lascia molto a desiderare)
ecco la mia idea di accordo: io rivelo il nome del killer e voi (il
governo) autorizzate il mio rilascio. Non prenderò in considerazione
alcun tipo di sospensione condizionale della pena. Non prenderò in
considerazione la libertà vigilata. Voglio uscire di qui da uomo libero,
con una nuova identità e con la vostra protezione.
Ovviamente un accordo del genere comporterà il coinvolgimento
del diTeilimento di Giustizia e degli uffici dei procuratori federali del
Distretto Nord e del Distretto Sud della Virginia.
Esigo inoltre il denaro della ricompensa, al quale avrò diritto.
Secondo il “Roanoke Times” di oggi, la somma è stata
recentemente portata a centocinquantamila dollari.
Naturalmente siete liberi di continuare a girare a vuoto.
Da ex marine a ex marine, credo proprio che noi due dovremmo
parlare.
Sa dove trovarmi.
Cordialmente,
Malcolm Bannister #44861-127
Il mio compagno di cella è un ragazzino nero di Baltimora,
ha diciannove anni ed è stato condannato a otto per
spaccio di crack. Gerard è come mille altri che ho
conosciuto negli ultimi cinque anni: un giovane nero
proveniente da un quartiere povero e degradato, con una
madre ancora adolescente al momento della sua nascita e
un padre svanito nel nulla ancora prima. Gerard ha
abbandonato la scuola al secondo anno delle superiori e si
è trovato un lavoro come lavapiatti. Quando sua madre è
finita in prigione, si è trasferito dalla nonna, che stava già
crescendo un’orda di suoi cugini. Ha cominciato a farsi di
crack e poi a venderlo. Nonostante una vita in strada,
Gerard è un’anima gentile, senza alcuna vena di malvagità.
Non ha precedenti di violenza e non dovrebbe sprecare la
sua vita in prigione. È uno del milione di ragazzi neri
mantenuti al fresco dai contribuenti. In questo paese ci
stiamo avvicinando ai due milioni e mezzo di detenuti, di
gran lunga il più alto tasso di detenzione in qualsiasi
nazione semicivilizzata.
Non è insolito ritrovarsi con un compagno di cella che
non ti piace. Ne ho avuto uno a cui bastavano pochissime
ore di sonno e ascoltava il suo iPod per tutta la notte. Si
metteva le cuffie, obbligatorie dopo le ventidue, ma il
volume era così alto che sentivo comunque la musica. Ci
ho messo tre mesi per ottenere il trasferimento. Gerard,
invece, capisce le regole. Una volta mi ha detto di aver
dormito per settimane in un’auto abbandonata e di essere
quasi morto assiderato. Qualunque cosa è meglio di
quello.
Gerard e io cominciamo la nostra giornata alle sei,
quando ci sveglia il cicalino. Indossiamo in fretta la tenuta
da lavoro, entrambi attenti a lasciare all’altro il maggior
spazio possibile nella nostra cella di tre metri per tre e
cinquanta. Rifacciamo le brande. Gerard dorme in quella di
sopra e io, in virtù della mia anzianità, in quella di sotto.
Alle sei e mezzo andiamo in mensa per la colazione.
Nella mensa esistono barriere invisibili che impongono
dove devi sederti a mangiare. C’è una sezione riservata ai
neri, una ai bianchi e una agli scuri. Le mescolanze
vengono guardate con disapprovazione e non avvengono
quasi mai. Anche se Frostburg è un campo, è comunque
una prigione, con parecchio stress. Una delle regole più
importanti dell’etichetta carceraria è il rispetto dello spazio
altrui. Mai saltare la fila. Mai tendere un braccio per
prendere qualcosa: se vuoi il sale o il pepe, chiedi a
qualcuno di passartelo, per favore. A Louisville, la mia
precedente residenza, le risse in mensa non erano insolite
e in genere si scatenavano quando un idiota con i gomiti
troppo appuntiti invadeva lo spazio di qualcun altro.
Qui invece mangiamo adagio e con modi
sorprendentemente educati per un branco di criminali. Una
volta fuori dalle nostre celle anguste, ci godiamo gli spazi
più ampi della mensa. Le prese in giro si sprecano, come
le barzellette sporche e le chiacchiere sulle donne. Ho
conosciuto uomini che erano stati mandati nel buco, cioè in
isolamento, e tutti dicevano che la cosa peggiore è
l’assenza d’interazione sociale. Qualcuno la sopporta
bene, ma la maggior Teile comincia a crollare dopo pochi
giorni. Perfino i solitari più incalliti, e in prigione ce ne sono
parecchi, hanno bisogno di gente intorno.
Dopo colazione Gerard inizia il suo lavoro di
lavapavimenti. Io ho un’ora libera prima di presentarmi in
biblioteca, ed è questo il momento in cui vado nella sala
caffè a leggere i quotidiani.
Anche oggi sembrano esserci pochi progressi
nell’indagine Fawcett. Noto però con interesse che il figlio
maggiore del giudice si è lamentato con un giornalista del
“Post” dichiarando che l’FBI sta facendo un lavoro schifoso
nel tenere aggiornata la famiglia. Nessuna reazione da
Teile dell’FBI.
Ogni giorno che passa la pressione aumenta.
Ieri un reporter ha scritto che l’FBI si sta interessando
all’ex marito di Naomi Clary. Il divorzio, avvenuto tre anni fa,
è stato conflittuale, con le Teili che si accusavano a
vicenda di adulterio. Secondo il giornalista, le sue fonti
assicurano che l’FBI ha interrogato l’ex coniuge almeno due
volte.
La biblioteca si trova in un annesso che ospita anche
una piccola cappella e l’infermeria. È lunga dodici metri e
larga nove, con quattro cubicoli a garantire la privacy,
cinque computer e tre lunghi tavoli ai quali i detenuti
possono leggere, scrivere e fare ricerche. Ci sono anche
dieci scaffalature che ospitano circa millecinquecento libri,
perlopiù in edizione rilegata. A Frostburg ci è consentito
tenere in cella fino a un massimo di dieci libri, anche se
quasi tutti ne hanno di più. Un detenuto può venire in
biblioteca nelle sue ore libere, e le regole sono parecchio
flessibili. Si possono prendere in prestito due volumi alla
settimana, e io impiego metà del mio tempo a inseguire
libri il cui prestito è scaduto.
Un quarto del mio tempo lo trascorro in veste di avvocato
da galera, e oggi ho un nuovo cliente. Roman viene da una
cittadina del North Carolina, dove era proprietario di un
banco dei pegni specializzato in ricettazione, soprattutto di
armi. I suoi fornitori erano un paio di gang formate da
cocainomani idioti che svaligiavano ricche case in pieno
giorno. Non possedendo la minima specializzazione, erano
stati colti in flagrante e nel giro di pochi minuti ognuno di
loro aveva cominciato a vuotare il sacco su tutti gli altri.
Chiamato in causa e accusato di ogni tipo di reato
federale, Roman aveva sostenuto di ignorare la
provenienza della merce. È comunque evidente che il suo
avvocato d’ufficio era senza dubbio la persona più stupida
presente in aula.
Non ho la pretesa di essere un esperto in diritto penale,
ma qualunque studente di legge al primo anno sarebbe in
grado di individuare gli errori commessi da quell’avvocato
nel corso del processo. Giudicato colpevole, Roman è
stato condannato a sette anni e la sua causa è attualmente
in appello. Si presenta da me con le sue “carte legali”, i
documenti che ogni detenuto ha il diritto di tenere nella
propria cella e che ora esaminiamo insieme nel mio
piccolo ufficio, un cubicolo pieno di miei oggetti personali e
off-limits per tutti gli altri. Roman non smette un attimo di
accalorarsi per la pochezza del suo difensore e devo
dichiararmi d’accordo con lui. È molto comune che chi è
stato condannato in un processo voglia ricorrere in appello
per assistenza legale inadeguata, che però poche volte
risulta motivo di annullamento della sentenza di primo
grado in casi che non comportino la pena di morte.
Sono eccitato dalla possibilità di attaccare la
prestazione di un avvocato che è ancora là fuori e che
continua a guadagnarsi da vivere fingendo di essere molto
meglio di quello che è. Trascorro un’ora con Roman e poi
fissiamo un appuntamento per il prossimo colloquio.
È stato uno dei miei primi clienti a parlarmi del giudice
Fawcett. Voleva disperatamente uscire di galera ed era
convinto che io potessi fare miracoli. Sapeva esattamente
qual era il contenuto della cassaforte nel seminterrato di
quel cottage ed era ossessionato dall’idea di metterci le
mani sopra prima che sparisse.
9
Sono di nuovo nell’ufficio del direttore. Deve essere
successo qualcosa. Wade indossa un abito scuro, camicia
bianca inamidata, cravatta a motivi cashmere e i soliti
stivali da cowboy, che oggi risplendono di lucido da
scarpe. Il direttore è sicuro di sé come sempre, ma anche
un po’ nervoso.
«Bannister» mi sta dicendo «non so cos’hai raccontato
a quella gente, ma la tua storia è piaciuta. Detesto
ripetermi, ma se questa è la tua idea di scherzo, la
pagherai cara.»
«Non è uno scherzo, signore.» Ho il sospetto che Wade
l’altra volta abbia origliato alla porta e sappia esattamente
cosa ho detto.
«Due giorni fa hanno mandato qui quattro agenti. Hanno
ficcato il naso dappertutto e hanno voluto sapere con chi
passi il tempo, per chi hai fatto lavoro legale, con chi giochi
a scacchi, dove lavori, con chi mangi, con chi fai la doccia,
con chi dividi la cella, eccetera eccetera.»
«Io la doccia la faccio da solo.»
«Immagino che vogliano capire chi sono i tuoi amici,
giusto?»
«Non lo so, signore, ma non mi sorprenderebbe. Ho
pensato anch’io qualcosa del genere.» Ho saputo che l’FBI
stava curiosando in giro per Frostburg, anche se non ho
mai visto gli agenti. In prigione è molto difficile mantenere i
segreti, specie quando arriva gente da fuori e comincia a
fare domande. Secondo me, e in base a una certa
esperienza, è stato un modo piuttosto goffo di scavare
nella mia vita.
«Be’, stanno per tornare» mi informa Wade. «Saranno
qui alle dieci e mi hanno detto che la cosa potrà richiedere
un po’ di tempo.»
Sono le dieci meno cinque. Il solito dolore acuto mi
prende allo stomaco e io cerco di fare respiri profondi
senza darlo a vedere. Mi stringo nelle spalle, come se non
si trattasse di una questione importante. «Chi viene?»
domando.
«Che mi venga un accidente se lo so.»
Qualche secondo dopo l’interfono ronza e la segretaria
riferisce un messaggio al direttore.
Siamo di nuovo nella stanza adiacente l’ufficio del
direttore, il quale naturalmente non è presente. Gli agenti
Hanski ed Erardi sono tornati in compagnia di un
giovanotto dall’aria decisa che si chiama Dunleavy ed è
viceprocuratore federale del Distretto Sud della Virginia,
ufficio di Roanoke.
Sto facendo progressi: la mia credibilità è in crescita e
la curiosità aumenta. Il gruppetto dei miei inquisitori ha
un’aria più importante.
Anche se Dunleavy è il più giovane dei tre, è un
procuratore federale, mentre gli altri due sono semplici
agenti. Di conseguenza, in questo momento è Dunleavy il
più alto in grado. Sembra piuttosto pieno di sé, un
atteggiamento non insolito in chi occupa una posizione del
genere. Non può essere uscito dalla scuola di legge da più
di cinque anni e presumo che sarà soprattutto lui a gestire
la conversazione.
«Mr Bannister» comincia in un tono sgradevolmente
condiscendente «è ovvio che non saremmo qui se non
avessimo qualche interesse per la sua storiella.»
Storiella. Che stronzo.
«Posso chiamarti Malcolm?» domanda.
«Atteniamoci a Mr Bannister e Mr Dunleavy, almeno per
il momento» rispondo. Sono un detenuto e da anni
nessuno mi chiama Mr Bannister. Mi piace come suona.
«Perfetto» dice secco Dunleavy. Estrae rapidamente da
una tasca un sottile registratore che posa sul tavolo, a metà
strada tra me da un lato e loro tre dall’altro. «Vorrei
registrare la nostra conversazione, se per lei è okay.»
E con questo la mia causa fa un gigantesco passo
avanti. Una settimana fa Hanski ed Erardi erano riluttanti a
impugnare una penna per prendere qualche appunto.
Adesso il governo vuole catturare ogni mia parola. Mi
stringo nelle spalle e rispondo: «Nessun problema».
Dunleavy preme un tasto e comincia: «Dunque, lei
afferma di sapere chi ha ucciso il giudice Fawcett e vuole
barattare questa informazione con un biglietto per uscire
da qui. E, una volta fuori, vuole la nostra protezione.
Sarebbero questi, in sostanza, i termini dell’accordo?».
«Perfetto» rispondo, rifacendogli il verso.
«Perché dovremmo crederle?»
«Perché io so la verità e perché voi non ci siete neppure
vicini.»
«Come fa a saperlo?»
«Lo so. Se aveste un sospettato serio, non sareste qui a
parlare con me.»
«Lei è in contatto con l’assassino?»
«Non intendo rispondere a questa domanda.»
«Deve darci qualcosa, Mr Bannister. Qualcosa che ci
faccia sentire meglio a proposito del suo piccolo
accordo.»
«Io non lo definirei piccolo.»
«Allora lo definiremo come preferisce lei. Perché non ce
lo spiega? Come pensa che possa avvenire questo
grande accordo?»
«Okay. Dovrà essere segreto, altamente confidenziale.
Sarà un documento scritto, approvato dall’ufficio del
procuratore federale del Distretto Nord, dove sono stato
accusato e condannato, e da quello del Distretto Sud, dove
state svolgendo le vostre indagini. Anche il giudice Slater,
quello che mi ha condannato, dovrà firmare. Una volta fatto
questo, io vi dirò il nome dell’assassino. Voi lo fermate,
indagate e, appena il gran giurì lo rinvia a giudizio, io
vengo spostato subito in un altro carcere. Solo che non
sconterò più alcuna pena. Me ne andrò di qui come se mi
stessero trasferendo, ma in realtà entrerò nel vostro
programma protezione testimoni. La mia condanna verrà
annullata, la mia fedina penale sarà ripulita, avrò un nome
nuovo e probabilmente mi ci vorrà anche un po’ di chirurgia
plastica per cambiare i connotati. Avrò documenti nuovi,
una faccia nuova, un bell’impiego federale da qualche Teile
e, ciliegina sulla torta, il denaro della ricompensa.»
Tre visi di pietra mi fissano. Poi Dunleavy dice: «Tutto
qui?».
«Tutto qui. E non è negoziabile.»
«Wow» fa il procuratore, come se fosse scioccato.
«Immagino che abbia avuto un sacco di tempo per
pensare a tutto questo.»
«Molto più di lei.»
«E se si sbaglia? Cosa succede se arrestiamo l’uomo
sbagliato, otteniamo in qualche modo il rinvio a giudizio, lei
esce e poi noi non riusciamo a dimostrare niente?»
«Sarà un problema vostro. Se al processo incasinerete
l’impianto accusatorio, sarà solo colpa vostra.»
«Okay. Ma una volta che avremo il nostro uomo, di quali
prove disporremo?»
«Avete tutto il governo federale a vostra disposizione. Di
sicuro riuscirete a trovare prove sufficienti, una volta che
avrete l’assassino. Non posso pensare a tutto io.»
Per fare un po’ di teatro, Dunleavy si alza in piedi, si stira
e raggiunge con studiata lentezza un’estremità della
stanza, come se fosse combattuto e immerso nei pensieri.
Poi torna indietro, si siede e mi guarda. «Io credo che qui
stiamo sprecando il nostro tempo» dichiara; un pessimo
bluff, recitato in modo poco convincente da un ragazzino
che non dovrebbe neppure essere in questa stanza.
Hanski, il veterano, china appena la testa e sbatte le
palpebre. Non riesce a credere all’incapacità di Dunleavy.
Erardi non mi toglie gli occhi di dosso e io percepisco il
suo senso di disperazione. Percepisco anche la tensione
tra l’FBI e l’ufficio del procuratore federale, cosa per niente
insolita.
Mi alzo in piedi e dico: «Ha ragione. Stiamo sprecando
tempo. Non parlerò più finché voi ragazzi non mi
manderete qualcuno che abbia qualcosa di più di una
peluria di pesca sulla faccia. Vi ho esposto le condizioni
del mio accordo, e al prossimo incontro voglio Mr Victor
Westlake a questo tavolo. Insieme a uno dei suoi capi, Mr
Dunleavy. E se nella stanza ci sarà anche lei, io me ne
andrò».
Detto questo, esco. Mentre richiudo la porta, lancio
un’occhiata dietro di me e vedo Hanski che si massaggia
le tempie.
Torneranno.
Sarebbe stato possibile programmare la riunione a
Washington, nell’Hoover Building in Pennsylvania Avenue,
e Victor Westlake sarebbe stato felice di tornare a casa
per un po’, vedere il capo, parlare con il suo staff, godersi
una bella cena in famiglia e così via. Il direttore, però,
aveva voglia di una trasferta veloce. Sentiva il bisogno di
allontanarsi per qualche ora dal Building, così fece salire il
suo entourage a bordo di un jet privato, uno dei quattro a
disposizione dell’FBI, che decollò per un volo di quaranta
minuti, destinazione Roanoke.
Il direttore si chiamava George McTavey, aveva
sessantun anni ed era un funzionario di carriera, non di
nomina politica. Anzi, le sue posizioni al momento gli
creavano problemi con il presidente. Secondo le voci che
circolavano all’interno della Beltway, il destino
professionale di McTavey era appeso a un filo. Il
presidente voleva un nuovo direttore dell’FBI. Dopo
quattordici anni, McTavey se ne doveva andare.
Nell’Hoover Building il morale era basso, o almeno così
dicevano i pettegolezzi. Negli ultimi mesi McTavey
raramente si era lasciato sfuggire un’occasione per
allontanarsi da Washington, sia pure solo per qualche ora.
Ed era quasi un sollievo concentrarsi su un crimine
vecchio stile come l’omicidio. Erano ormai dieci anni che
McTavey combatteva il terrorismo e non era ancora
emerso il minimo indizio che suggerisse un collegamento
tra la morte di Fawcett e Al-Qaeda o altre cellule
terroristiche nazionali. I bei tempi della lotta al crimine
organizzato e della caccia ai falsari erano finiti per sempre.
A Roanoke c’era un SUV nero in attesa ai piedi della
scaletta dell’aereo, e McTavey e relativa squadra vennero
caricati e portati via nel giro di pochi secondi, come se ci
fossero stati dei cecchini in agguato. Un minuto dopo il SUV
si fermò davanti al Freezer e il gruppo entrò rapidamente
nel capannone.
La visita del direttore aveva due obiettivi. Il primo era
sollevare lo spirito della task force e far comprendere ai
suoi componenti che, nonostante la mancanza di
progressi, il loro lavoro aveva la massima priorità. Il
secondo era aumentare la pressione. Dopo una veloce
visita alla struttura e un giro di strette di mano che avrebbe
fatto invidia a un politico, McTavey venne accompagnato
nella sala riunioni per il briefing.
Il direttore si sedette di fianco a Victor Westlake, un suo
vecchio amico. Mangiando ciambelle, i due ascoltarono un
investigatore capo esporre un contorto riassunto delle
ultime novità, che non erano molte. McTavey non avrebbe
avuto bisogno di ascoltare i ragguagli di persona. Dalla
scoperta dell’omicidio, si sentiva con Westlake almeno
due volte al giorno.
«Parliamo di questo Bannister» disse McTavey dopo
mezz’ora di una monotona esposizione che non stava
andando da nessuna Teile. Un altro rapporto venne
distribuito rapidamente intorno al tavolo. «Questo è
l’ultimo» lo informò Westlake. «Abbiamo cominciato con i
compagni di liceo, poi siamo passati a quelli del college e
della scuola di legge: nessun sospettato credibile.
Nessuna traccia di amici o conoscenti, e di nessun altro in
realtà, la cui strada abbia mai incrociato quella del giudice
Fawcett. Nessun membro di gang, nessun trafficante di
droga, nessuno che si possa definire criminale. Poi
abbiamo cercato di individuare il maggior numero
possibile degli ex clienti di Bannister, anche se è stato
difficile perché non abbiamo accesso a molte delle sue
vecchie pratiche. Comunque nessun soggetto interessante
neppure lì. Bannister ha fatto il legale di provincia per circa
dieci anni, in società con due avvocati afroamericani più
vecchi di lui, e la loro attività è sempre stata cristallina.»
«Bannister ha mai esercitato nel tribunale del giudice
Fawcett?» chiese McTavey.
«Non esiste una documentazione che lo indichi.
Bannister non ha mai fatto molto lavoro a livello federale, e
comunque esercitava nel Distretto Nord della Virginia.
Possiamo dire che Mr Bannister non era un avvocato
processuale molto ambito.»
«Quindi tu pensi che l’assassino di Fawcett sia qualcuno
che Mr Bannister ha conosciuto in prigione. Sempre
presumendo, naturalmente, che decidiamo di credere alle
sue affermazioni.»
«Sì. Bannister ha scontato i primi ventidue mesi a
Louisville, Kentucky, un carcere di media sicurezza con
duemila detenuti. In quel periodo ha avuto tre diversi
compagni di cella e ha lavorato in lavanderia e in cucina.
Ha anche affinato le sue capacità di avvocato da galera e
ha aiutato almeno cinque compagni a uscire di prigione.
Abbiamo un elenco di circa cinquanta uomini che
Bannister probabilmente conosceva bene, ma francamente
è impossibile individuare tutti quelli con cui è entrato in
contatto a Louisville. E lo stesso vale per Frostburg: è là
dentro da tre anni, durante i quali ha conosciuto un migliaio
di uomini.»
«Quanto è lunga quella lista?» chiese McTavey.
«Abbiamo circa centodieci nomi, ma per la maggior
Teile di loro non nutriamo molte speranze.»
«Quanti sono stati condannati da Fawcett?»
«Sei.»
«Perciò non c’è un chiaro sospettato nella storia
carceraria di Bannister?»
«Per adesso no, ma stiamo ancora scavando. Tieni
presente che questa è la nostra seconda teoria, quella
basata sul presupposto che chi ha ucciso il giudice
nutrisse del rancore nei suoi confronti a causa di un
verdetto sfavorevole. La nostra prima teoria è che si sia
trattato di un normale furto con omicidio.»
«Hai anche una terza teoria?»
«La gelosia dell’ex marito della segretaria assassinata»
rispose Westlake.
«Ma non è credibile, giusto?»
«Giusto.»
«Quarta teoria?»
«No. Per il momento no.»
McTavey bevve un sorso di caffè e disse: «Questo caffè
è veramente pessimo». Due tirapiedi in fondo alla sala
scattarono sull’attenti e scomparvero alla ricerca di
qualcosa di meglio.
«Mi dispiace» si scusò Westlake. Era universalmente
noto che il direttore era un vero amante del caffè. Offrirgli
una miscela non all’altezza era motivo di imbarazzo.
«Riparlami dei precedenti di Bannister» disse McTavey.
«Condannato a dieci anni per violazioni al RICO. Era
rimasto impigliato nell’affare Barry Rafko di qualche anno
fa, anche se non era un pesce grosso. Si era occupato di
certe transazioni immobiliari per conto di Barry e si è fatto
condannare.»
«Allora, non lo avevano trovato a letto con una
sedicenne?»
«Oh, no. Quello era il nostro rappresentante al
Congresso. Bannister sembra essere un tipo a posto, ex
marine eccetera, solo che si è scelto il cliente sbagliato.»
«Insomma, era colpevole o no?»
«La giuria ha ritenuto di sì. E lo stesso il giudice. Non ti
becchi dieci anni se non hai combinato qualche casino.»
Un’altra tazza venne posata davanti al direttore, che ne
annusò il contenuto e poi finalmente bevve un sorso mentre
tutti trattenevano il fiato. Un altro sorso e tutti ripresero a
respirare.
«Perché dovremmo credere a Bannister?» domandò
McTavey.
Westlake passò velocemente il cerino acceso.
«Hanski.»
L’agente Chris Hanski era pronto e aspettava solo il
segnale di via. Si schiarì la voce e attaccò: «Ecco, non so
se dobbiamo credere a Bannister, comunque lui fa una
buona impressione. Gli ho parlato due volte, l’ho osservato
con attenzione e non ho notato segnali che indichino
l’inganno. È brillante, scaltro, e non ha niente da
guadagnare mentendoci. In cinque anni di galera è
assolutamente possibile che abbia conosciuto qualcuno
che voleva far fuori il giudice Fawcett o derubarlo».
«E noi non abbiamo proprio idea di chi possa essere
quel qualcuno, vero?»
Hanski si voltò verso Victor Westlake, che rispose: «Al
momento no. Ma stiamo indagando».
«Non mi piace che le nostre possibilità di scoprire
l’identità dell’assassino si basino sulle persone che Mr
Bannister può avere conosciuto per caso in prigione»
disse McTavey, con perfetta logica. «Potremmo ritrovarci a
dare la caccia ai fantasmi per i prossimi dieci anni. Ma
quale sarebbe il lato negativo di un accordo con
Bannister? Sentite, il nostro amico è un colletto bianco che
si è già fatto cinque anni per un’attività criminale piuttosto
innocua nello schema generale delle cose. Non credi
anche tu, Vic?»
Vic stava annuendo con aria grave.
McTavey continuò: «Bene, diciamo che l’amico esce di
prigione. Non è che mettiamo in libertà un serial killer o un
predatore sessuale. Se Bannister dice la verità, allora il
caso è risolto e possiamo andarcene tutti a casa. Se
invece ci sta imbrogliando, quale potrebbe essere il
grande disastro?».
Al momento nessuno intorno al tavolo riusciva a
immaginare un grande disastro.
«Chi potrebbe opporsi?» chiese McTavey.
«L’ufficio del procuratore federale non è d’accordo»
disse Westlake.
«Non mi sorprende. Domani pomeriggio ho
appuntamento con il procuratore generale. Posso
neutralizzare la cosa. Altri problemi?»
Hanski si schiarì di nuovo la voce. «Ecco, signore,
Bannister insiste che non ci dirà il nome finché un giudice
federale non avrà firmato un’ordinanza di commutazione
della pena. Non so bene come funzioni, ma la
commutazione dovrà avvenire automaticamente quando il
gran giurì rinvierà a giudizio il nostro uomo misterioso.»
McTavey liquidò la faccenda con un gesto della mano.
«Abbiamo degli avvocati per gestire queste rogne.
Bannister ha un legale?»
«Non che io sappia.»
«Gliene serve uno?»
«Sarò lieto di chiederglielo» disse Hanski.
«Concludiamo questo accordo, okay?» tagliò corto
McTavey con impazienza. «I vantaggi sono molti e gli
svantaggi pochi. Considerati i nostri progressi fino a
questo momento, siamo in credito con la fortuna.»
10
È passato un mese dagli omicidi del giudice Fawcett e di
Naomi Clary. Sui giornali gli articoli riguardanti le indagini
sono diventati più brevi e meno frequenti. L’ FBI non ha
rilasciato commenti e, dopo un mese di lavoro frenetico
senza risultati, la task force sembra essere svanita. In
questo periodo, un terremoto in Bolivia, una sparatoria nel
cortile di una scuola in Kansas, l’overdose di una star del
rap e la disintossicazione di un’altra hanno contribuito a
spostare l’attenzione generale su altri temi.
Per me queste sono tutte buone notizie. In superficie
l’indagine può sembrare in una fase di stanca, ma
all’interno la pressione aumenta. Il mio incubo peggiore è
un titolo a caratteri cubitali che annuncia l’arresto di
qualcuno, ma la cosa sembra sempre meno probabile. I
giorni passano e io aspetto paziente.
Ricevo i clienti solo su appuntamento. Li incontro nel mio
cubicolo in biblioteca. Si presentano tutti con la loro pila di
istanze, ordinanze, mozioni e sentenze che noi detenuti
abbiamo il diritto di tenere in cella. Gli agenti penitenziari
non possono toccare le nostre carte legali.
Nella maggior Teile dei casi bastano due appuntamenti
per convincere i miei clienti che non c’è niente da fare.
Durante il primo incontro esaminiamo insieme i
fondamentali della causa e io studio la documentazione.
Poi dedico qualche ora alle ricerche del caso. Nel corso
del secondo colloquio di solito devo comunicare la brutta
notizia che la fortuna non è dalla loro Teile. Non esiste
alcuna scappatoia per salvarli.
In cinque anni ho aiutato sei detenuti a ottenere un
rilascio anticipato. Inutile dire che questi risultati hanno
accresciuto enormemente la mia reputazione di geniale
avvocato da galera, ma io avverto sempre ogni nuovo
cliente che le probabilità sono quasi tutte contro di lui.
È quello che spiego anche al giovane Otis Carter, un
ventitreenne padre di due figli che trascorrerà i prossimi
quattordici mesi qui a Frostburg per un reato che non
avrebbe dovuto essere un reato. Otis è un ragazzo di
campagna, un battista dalla fede profonda, un elettricista
felicemente coniugato che non riesce ancora a credere di
trovarsi in un carcere federale. Otis e suo nonno sono stati
accusati e condannati per violazione al Civil War Battlefield
and Artifact Preservation Act del 1979 (come emendato
nel 1983, 1989, 1997, 2002, 2008 e 2010). Il nonno, di
settantaquattro anni e affetto da enfisema, è ricoverato in
un centro medico federale in Tennessee e anche lui sta
scontando una pena di quattordici mesi. A causa delle sue
condizioni di salute, costerà ai contribuenti circa
venticinquemila dollari al mese.
I due Carter erano andati a caccia di manufatti nella loro
fattoria di ottanta ettari, adiacente al New Market Battlefield
State Historical Park nella valle di Shenandoah, a meno di
un’ora da Winchester, la mia città. La fattoria apTeileneva
alla famiglia da più di cento anni e fin da quando era stato
in grado di camminare Otis aveva sempre accompagnato
il nonno ogni volta che “andava a scavare,” alla ricerca di
reperti e souvenir della Guerra Civile. Nel corso dei
decenni
i
Carter
avevano
messo
insieme
un’impressionante raccolta di pallottole Minié per fucili ad
avancarica, palle da cannone, borracce, bottoni di ottone,
brandelli di uniformi, un paio di bandiere di guerra e
parecchie decine di armi da fuoco di ogni tipo. La famiglia
aveva agito legalmente. È illegale prelevare manufatti e
oggetti da un National Historic Landmark, che è di
proprietà federale, e i Carter erano perfettamente a
conoscenza di questa legge. Il loro piccolo museo privato,
che avevano allestito in un fienile ristrutturato, era pieno di
reperti che avevano rinvenuto nella loro proprietà privata.
Ma nel 2010 il Civil War Battlefield and Artifact
Preservation Act era stato modificato di nuovo.
Accogliendo le istanze dei conservazionisti volte a limitare
la cementificazione nelle vicinanze dei campi di battaglia,
era stata aggiunta una clausola dell’ultimo minuto alle cento
pagine dell’emendamento. Adesso diventava illegale
effettuare scavi alla ricerca di reperti “nel raggio di 3200
metri” dai confini di un National Historic Landmark, e a chi
apTeilenesse il terreno in cui si scavava non aveva più
alcuna rilevanza. I Carter non erano informati sulle nuove
regole; in realtà la norma era sepolta così in profondità
nell’emendamento che in pratica nessuno ne era a
conoscenza.
Nel corso degli anni gli agenti federali avevano
tormentato il nonno di Otis, accusandolo di effettuare scavi
in terreni protetti. Passavano periodicamente a casa sua
ed esigevano di vedere il museo. Quando la legge cambiò,
aspettarono pazientemente finché colsero Otis e il nonno
mentre, armati di metal detector, setacciavano un’area
boscosa all’interno della loro proprietà. I Carter si rivolsero
a un avvocato, il quale consigliò di dichiararsi colpevoli.
Per molti reati federali, l’intenzione criminale non è più un
requisito essenziale. E l’ignoranza della legge non
costituisce elemento di difesa.
Quale vittima del RICO (Racketeer Influenced and Corrupt
Organizations Act) – una legge federale nata per
combattere il crimine organizzato –, spesso inadeguata e
notoriamente flessibile, nutro un vivo interesse per la
proliferazione delle norme nel Codice penale, che oggi
conta ventisettemila pagine ed è in costante crescita. La
Costituzione contempla solo tre reati federali: tradimento,
pirateria e contraffazione. Oggi i reati federali sono più di
quattromilacinquecento e il loro numero continua ad
aumentare grazie al Congresso, sempre più duro nei
confronti del crimine, e ai procuratori federali, sempre più
creativi nel trovare modi per applicare tutte le loro nuove
leggi.
Otis potrebbe forse passare all’attacco mettendo in
discussione la costituzionalità della legge emendata.
Questo però comporterebbe parecchi anni di controversie
legali e la cosa si trascinerebbe a lungo, anche dopo la
concessione della libertà vigilata e il ritorno a casa dalla
famiglia. Mentre gli spiego la situazione durante il nostro
secondo incontro, Otis sembra perdere interesse. Se non
può uscire subito, perché prendersi il disturbo? Ma il suo
caso mi intriga. Decidiamo di discuterne di nuovo.
Se il mio grande piano dovesse fallire miseramente,
potrei occuparmi della causa di Otis e combattere fino alla
Corte Suprema. Questo mi terrebbe occupato per i
prossimi cinque anni.
Per ben due volte la Corte Suprema ha rifiutato di prendere
in considerazione il mio caso. Anche se il mio avvocato e
io non potevamo dimostrarlo, c’era la netta sensazione che
i miei appelli viaggiassero velocissimi attraverso il sistema
giudiziario a causa dell’entusiasmo del governo nel
mettere al fresco Barry Rafko e i suoi compari, me
compreso.
Sono stato giudicato colpevole nel novembre del 2005 e
condannato a dieci anni due mesi dopo. Al momento della
sentenza, sono stato spedito in carcere. A qualche
condannato con maggiore fortuna viene concessa
l’“autoconsegna”, vale a dire che può restare in libertà fino
a quando non gli verrà ordinato di presentarsi in una
struttura di detenzione. In questo modo ha il tempo di
prepararsi, ma alla maggior Teile dei condannati questo
lusso non viene concesso.
Il mio avvocato riteneva che sarei stato condannato a
cinque o sei anni. Bustarella Barry, l’imputato superstar, il
bersaglio, il pittoresco furfante che tutti amavano odiare, si
era preso dodici anni. Di sicuro io meritavo meno della
metà della pena inflitta a quella palla di merda. Dionne, la
mia bella, amorevole moglie decisa a sostenermi per
sempre, era in aula e sedeva coraggiosamente accanto a
mio padre, umiliato. Quel giorno io ero l’unico degli otto
imputati in attesa della sentenza e, mentre me ne stavo in
piedi davanti al giudice Slater con il mio avvocato alla mia
destra, non riuscivo quasi a respirare. Non può essere,
continuavo a ripetermi mentre passavo lo sguardo sulle
immagini confuse intorno a me. Non me lo merito. Posso
spiegare tutto. Non sono colpevole. Slater usò formule di
rimprovero, predicò e recitò a beneficio della stampa,
mentre io mi sentivo come un malconcio peso massimo
alla quindicesima ripresa che, aggrappato alle corde, si
protegge la faccia in attesa del pugno successivo. Sentivo
le ginocchia molli. Stavo sudando.
Quando il giudice Slater proclamò “dieci anni”, udii un
gemito smorzato dietro di me e poi Dionne scoppiò in
lacrime. Mentre mi portavano via, mi voltai per un’ultima
occhiata. L’ho visto cento volte al cinema, nei telefilm e
nelle riprese dei processi dal vero: quell’ultimo, frenetico
sguardo d’addio del condannato. A cosa pensi mentre stai
uscendo dall’aula e non per tornare a casa? La verità è che
non c’è niente di chiaro. Ci sono troppi pensieri che si
affollano, troppa paura, troppa rabbia e troppe emozioni
vibranti per capire cosa sta succedendo.
Dionne aveva entrambe le mani sulla bocca, era in stato
di shock e piangeva a dirotto. Mio padre le aveva passato
un braccio sulle spalle e cercava di consolarla. È questa
l’ultima cosa che vidi: la mia bella moglie sconvolta e
distrutta.
Adesso è sposata con un altro.
Grazie al governo federale.
I miei giurati provenivano tutti dal Distretto. Due o tre
avevano l’aria di essere intelligenti e istruiti, ma gli altri non
erano, diciamo, molto sofisticati. Dopo tre giorni di camera
di consiglio, comunicarono al giudice che non stavano
facendo progressi. E chi poteva biasimarli? Scaricando
negli atti dell’accusa una fetta notevole del Codice penale
federale, i procuratori avevano adottato la vecchia
strategia che consiste nello scagliare quanto più fango
possibile contro gli imputati e sperare che qualcosa resti
attaccato. Questo eccesso di fuoco aveva trasformato
quella che doveva essere una causa relativamente
semplice contro Barry Rafko e il rappresentante al
Congresso in un pantano legale. Perfino io, che avevo
trascorso un numero infinito di ore a lavorare alla mia
difesa, non riuscivo a capire tutte le teorie dell’accusa. Fin
dall’inizio il mio avvocato aveva previsto una giuria
discorde.
Dopo quattro giorni di camera di consiglio, il giudice
Slater sganciò quella che negli ambienti processuali è
comunemente nota come “carica di dinamite”. In sostanza
si impone ai giurati di tornare in camera di consiglio e
arrivare a un giudizio unanime, a qualsiasi costo. Non
tornerete a casa finché non avremo un verdetto!
Raramente la cosa funziona, ma io non fui così fortunato.
Un’ora dopo i giurati, esausti ed emotivamente svuotati, si
ripresentarono in aula con un verdetto di colpevolezza per
tutti gli imputati, e per tutti i capi d’accusa. Per me, e per
molti altri, era chiaro che i giurati non avevano capito la
maggior Teile degli articoli del Codice e le complicate
teorie utilizzate dall’accusa. In seguito uno di loro avrebbe
dichiarato testualmente: “Abbiamo dato per scontato che
fossero colpevoli, in caso contrario non sarebbero stati
accusati, tanto per cominciare”. Nei miei appelli ho
riportato questa citazione, ma a quanto pare è caduta nel
vuoto.
Osservai con attenzione i giurati per tutta la durata del
processo e posso dire che rimasero travolti e sopraffatti fin
dalle dichiarazioni di apertura. E perché non avrebbero
dovuto? Nove diversi avvocati diedero la loro versione di
ciò che era successo. L’aula dovette essere riorganizzata
per assicurare lo spazio necessario a tutti gli imputati e ai
rispettivi legali.
Il processo fu uno spettacolo, una farsa, un modo ridicolo
di cercare la verità. Ma, come sono arrivato a capire, la
verità non era importante. In un’altra epoca forse il
processo è stato veramente una pratica per la
presentazione dei fatti, la ricerca della verità e
l’imposizione della giustizia. Adesso un processo è una
competizione, con un vincitore e uno sconfitto. Ognuna
delle Teili si aspetta che l’altra pieghi le regole o imbrogli,
per cui nessuna delle due gioca lealmente. E la verità si
perde nella confusione.
Due mesi dopo tornai in aula per la condanna. Il mio
avvocato aveva chiesto che mi venisse concessa
l’autoconsegna, ma il giudice Slater non era rimasto molto
colpito dalla nostra istanza. Dopo avermi condannato a
dieci anni, ordinò che fossi tradotto in carcere.
È davvero sorprendente che i giudici federali uccisi a
colpi di pistola non siano molti di più. Dopo la condanna
passai settimane a elaborare ogni tipo di piano per
infliggere a Slater una morte lenta e dolorosa.
Venni scortato in aula dall’ US Marshals e condotto in una
cella di custodia all’interno del tribunale, quindi al carcere
di Washington dove venni perquisito, spogliato, dotato di
una tuta arancione e rinchiuso in una cella con altri sei
detenuti. Le brande erano solo quattro. Trascorsi la prima
notte seduto sul pavimento, io e la mia sottile coperta
piena di buchi. Il carcere era uno zoo rumoroso,
sovraffollato e sotto organico, e dormire era impossibile. Io
ero troppo spaventato e troppo stordito per chiudere
occhio, per cui me ne restai a sedere in un angolo e
ascoltai urla, strilli e minacce fino all’alba. Rimasi in quel
carcere per una settimana, mangiando poco, dormendo
poco, urinando in un sudicio water il cui sciacquone non
funzionava e che si trovava a meno di tre metri dai miei
compagni. Ci fu un momento in cui ci ritrovammo in dieci
nella cella. Non feci mai la doccia. L’eventuale
sommovimento intestinale comportava la preghiera
urgente di visitare la “stanza della merda” in fondo al
corridoio.
Il trasporto dei detenuti federali è affidato all’US Marshals,
ed è un incubo. Prigionieri di diversi livelli di sicurezza
vengono ammassati tutti insieme, senza badare ai reati
che abbiamo commesso o ai rischi che possiamo porre.
Di conseguenza veniamo trattati tutti come feroci
assassini. A ogni trasferimento sono stato ammanettato e
incatenato alle caviglie, unitamente al detenuto davanti a
me e a quello dietro. L’umore generale è pessimo. I
marshal hanno un compito: trasferire i prigionieri in
sicurezza e senza possibilità di fuga. I detenuti, molti dei
quali alla prima esperienza come me, sono terrorizzati,
frustrati e confusi.
Quattordici di noi lasciarono Washington a bordo di un
bus, un veicolo privo di contrassegni che decenni prima
aveva trasportato scolari e che puntò verso sud. Le
manette e le catene non ci vennero tolte. Sul sedile davanti
sedeva un marshal armato di fucile. Dopo quattro ore ci
fermammo in un carcere di contea in North Carolina. Ci
venne consegnato un sandwich molliccio e ci fu consentito
di urinare dietro l’autobus, sempre ammanettati e
incatenati l’uno all’altro. Le manette e i ferri alle caviglie non
vennero mai tolti. Dopo due ore di attesa riTeilimmo con
tre detenuti in più e ci dirigemmo a ovest. Nei successivi
sei giorni ci fermammo in carceri di contea in North
Carolina, Tennessee e Alabama, prelevando prigionieri,
scaricandone uno ogni tanto e dormendo ogni notte in una
cella diversa.
Le carceri di contea sono le peggiori: celle minuscole
senza riscaldamento, aria condizionata, luce del sole o
servizi igienici adeguati; cibo che perfino i cani
rifiuterebbero; scarsità d’acqua; zotici razzisti come
guardie; rischi di violenza molto maggiori; detenuti locali
irritati dall’intrusione dei “prigionieri federali”. Non riuscivo
a credere che negli Stati Uniti fossero possibili condizioni
così deplorevoli, ma ero un ingenuo. A mano a mano che il
viaggio proseguiva e l’umore diventava sempre più acido,
a bordo del bus ci fu un significativo aumento di litigiosità. I
contrasti cessarono quando un detenuto veterano ci spiegò
il concetto di “terapia diesel”. Lamentatevi o create
problemi e i marshal vi terranno sul bus per settimane e vi
faranno fare un tour gratuito di decine di carceri di contea.
Non c’era fretta. I marshal possono trasportare i detenuti
solo nelle ore diurne, per cui le distanze tendono a essere
brevi. A loro non interessava minimamente il nostro comfort
o la nostra privacy.
A un certo punto arrivammo in un centro di smistamento
ad Atlanta, un posto famigerato dove venni messo in
isolamento per ventitré ore al giorno mentre la mia
documentazione attraversava a passo di lumaca la
scrivania di qualcuno a Washington. Dopo tre settimane di
quel trattamento stavo già impazzendo. Niente da leggere,
nessuno con cui parlare, cibo terribile, guardie perfide. Alla
fine venimmo di nuovo ammanettati e incatenati, caricati su
un altro bus e trasportati all’aeroporto di Atlanta, dove ci
fecero salire a bordo di un aereo da trasporto senza
contrassegni. Incatenati a una dura panca di plastica e
seduti ginocchio contro ginocchio, decollammo per Miami,
anche se non avevamo idea di quale fosse la nostra
destinazione. Fu uno dei marshal a informarci gentilmente.
A Miami caricammo qualche altro detenuto e poi volammo
a New Orleans, dove restammo a sedere per un’ora in
un’umidità soffocante mentre i marshal facevano salire altri
prigionieri.
Sull’aereo ci venne consentito chiacchierare, e fu un
sollievo. Quasi tutti noi eravamo reduci dall’isolamento, per
cui ci tuffammo con gioia nella conversazione. Quello non
era il primo viaggio per alcuni dei ragazzi, che ci
raccontarono storie di altri trasferimenti in catene, gentile
omaggio del governo federale. Cominciai anche a sentire
descrizioni della vita in carcere.
Era buio quando atterrammo a Oklahoma City, dove
salimmo sull’ennesimo bus e venimmo portati in un altro
centro di smistamento. Non era orribile come quello di
Atlanta, ma a quel punto stavo già pensando al suicidio.
Dopo cinque giorni in isolamento, fummo riammanettati e
riportati all’aeroporto. Volammo in Texas, capitale
mondiale dell’iniezione letale, e sognai a occhi aperti l’ago
che si conficcava nel mio braccio e io che me ne volavo
via. A Dallas salirono a bordo del “Con Air” otto tipi
dall’aria dura, tutti ispanici, e poi volammo a Little Rock.
Poi a Memphis e infine a Cincinnati, dove i miei giorni di
trasmigrazioni aeree ebbero fine. Passai sei notti in un
brutto carcere della città prima che un paio di marshal mi
portassero nel carcere di Louisville, Kentucky.
Louisville è a ottocento chilometri dalla mia città,
Winchester, Virginia. Se mi fosse stato permesso di
autoconsegnarmi, mio padre e io avremmo completato il
viaggio in auto in circa otto ore. Lui mi avrebbe lasciato
davanti al cancello e ci saremmo salutati.
Quarantaquattro giorni, ventisei dei quali in isolamento, e
troppe tappe per poterle ricordare tutte. Non c’è una logica
in questo sistema, e a nessuno importa. Nessuno ci bada.
La vera tragedia del sistema penale federale non sono
le assurdità. Sono le vite rovinate e sprecate. Il Congresso
chiede condanne lunghe e severe, e per i soggetti violenti
questo è giusto. I criminali incalliti sono rinchiusi negli “US
Pens”, vere e proprie fortezze dove le gang la fanno da
padrone e gli omicidi sono all’ordine del giorno. Ma la
maggior Teile dei detenuti federali è costituita da individui
non violenti, e molti di loro sono condannati per reati che
comportano scarsa, o addirittura nessuna, attività
criminale.
Per il resto della mia vita io sarò considerato un
criminale. Mi rifiuto di accettarlo. Io avrò una vita, libera dal
mio passato e lontanissima dai tentacoli del governo
federale.
11
È l’articolo 35 del Codice di procedura penale federale a
fornire l’unico meccanismo possibile per la commutazione
di una pena detentiva. La sua logica è brillante e si adatta
perfettamente alla mia situazione. Se un detenuto è in
grado di risolvere un crimine commesso da altri, un crimine
che interessi i federali, allora la condanna del detenuto in
questione può essere ridotta. Naturalmente questo
richiede la collaborazione delle autorità preposte alle
indagini – FBI, DEA, CIA, ATF eccetera – e del tribunale dal
quale il detenuto è stato condannato.
Se tutto va come previsto, forse tra non molto avrò il
privilegio di un nuovo incontro con l’onorevole giudice
Slater, e sarà alle mie condizioni.
I federali sono tornati.
In questi giorni il direttore è molto più gentile del solito con
me. Ritiene di essere in possesso di un pezzo ambito da
alcuni alti papaveri e vuole trovarsi al centro dell’azione. Mi
siedo davanti alla sua scrivania e lui mi chiede se desidero
un caffè. La proposta è così surreale da risultare quasi
incomprensibile: l’onnipotente direttore che offre il caffè a
un carcerato.
«Certo» rispondo. «Nero.»
Wade preme un pulsante e comunica la nostra richiesta
a una segretaria. Noto che oggi porta i gemelli, buon
segno.
«Mal, oggi arrivano i pezzi grossi» mi informa
soddisfatto, come se fosse lui a coordinare tutti gli sforzi
per trovare l’assassino. Visto che adesso siamo così
amici, mi chiama per nome. Finora è sempre stato
Bannister qui e Bannister là.
«Chi?» gli domando.
«Il direttore della task force, Victor Westlake, da
Washington, e un branco di avvocati. Direi che hai ottenuto
la loro attenzione.»
Non posso fare a meno di sorridere, ma solo per un
secondo.
«Quel tizio che ha ucciso il giudice Fawcett... è mai stato
qui, a Frostburg?» mi chiede Wade.
«Spiacente, direttore, ma non posso rispondere alla sua
domanda.»
«O qui o a Louisville, immagino.»
«Forse. O forse l’ho conosciuto prima di finire in
prigione.»
Il direttore aggrotta la fronte e si sfrega il mento.
«Capisco» borbotta.
Arriva il caffè, su un vassoio, e per la prima volta da anni
bevo da una tazza che non è fatta di plastica o di carta.
Ammazziamo il tempo per qualche minuto chiacchierando
del più e del meno. Alle undici e cinque la segretaria
annuncia dall’interfono sulla scrivania: «Sono arrivati».
Varco la porta insieme al direttore ed entro nella solita sala
riunioni.
Cinque uomini. Stesso abito scuro, stessa camicia
bianca botton down, stessa cravatta anonima. Se li avessi
visti tra la folla da un chilometro di distanza, avrei detto:
“Ecco i federali”.
Sbrighiamo le rigide presentazioni di rito, dopodiché il
direttore si congeda, anche se con riluttanza. Mi siedo
lungo un lato del tavolo e i miei cinque nuovi amici si
accomodano di fronte a me. Victor Westlake è al centro;
alla sua destra ci sono l’agente Hanski e un nuovo arrivato,
l’agente Sasswater. Nessuno dei due dirà una parola. Alla
sinistra di Westlake siedono due viceprocuratori federali:
Mangrum del Distretto Sud della Virginia e Craddok del
Distretto Nord. Dunleavy il novellino è stato lasciato a casa.
È scoppiato un temporale subito dopo la mezzanotte e
Westlake comincia dicendo: «Una bella tempesta la notte
scorsa, eh?».
Io socchiudo gli occhi e lo fisso. «Davvero? Vuole
parlare del tempo?»
La battuta lo irrita, ma Westlake è un professionista. Un
sorriso, un grugnito e poi: «No, Mr Bannister, non sono qui
per parlare del tempo. Il mio capo ritiene che dovremmo
concludere un accordo con lei, è questa la ragione per cui
sono qui».
«Magnifico. E, sì: è stata davvero una bella tempesta.»
«Vorremmo sentire le sue condizioni.»
«Credo che le sappiate già. Ci avvaliamo dell’articolo
35. Firmiamo un accordo, tutti noi, in base al quale io vi
comunico il nome dell’uomo che ha ucciso il giudice
Fawcett. Voi lo arrestate, indagate, fate tutte le vostre cose
e appena il gran giurì federale lo rinvia a giudizio, io esco. Il
giorno stesso. Vengo trasferito da Frostburg e svanisco nel
programma protezione testimoni. Niente più carcere,
niente più fedina penale sporca, niente più Malcolm
Bannister. L’accordo è segreto, sigillato, sepolto in
profondità e sottoscritto dal procuratore generale.»
«Il procuratore generale?»
«Sissignore. Non mi fido di lei né di nessun altro in
questa stanza. Non mi fido del giudice Slater né di
qualsiasi altro giudice, procuratore o viceprocuratore
federale, agente dell’FBI o di chiunque lavori per il governo. I
documenti devono essere perfetti, l’accordo inattaccabile.
Quando il killer viene rinviato a giudizio, io esco. Punto.»
«Si servirà di un avvocato?»
«No, signore. Posso cavarmela da solo.»
«Mi sembra giusto.»
Mangrum all’improvviso fa comparire una cartellina da
cui estrae diverse copie di un documento. Ne fa scivolare
una attraverso il tavolo e la copia si ferma davanti a me, in
posizione perfetta. Lancio un’occhiata e il cuore comincia
a martellarmi. L’intestazione è la stessa di tutte le istanze e
le ordinanze archiviate nella mia pratica: “Tribunale
Distrettuale degli Stati Uniti a Washington, DC; Stati Uniti
d’America contro Malcolm W. Bannister”. Al centro della
pagina, tutte in maiuscolo, compaiono le parole “ISTANZA AI
SENSI DELL’ARTICOLO 35”.
«Questa è una proposta di ordinanza della corte»
spiega Mangrum. «È solo un punto di Teilenza, ma ci
abbiamo dedicato abbastanza tempo.»
Due giorni dopo vengo fatto accomodare sul sedile
posteriore di un SUV Ford e portato via da Frostburg.
Questa è la mia prima uscita dal campo dal giorno in cui
sono arrivato, tre anni fa. Niente catene alle gambe oggi,
ma ho i polsi ammanettati. I miei due compagni di viaggio
sono marshal, nomi ignoti, ma abbastanza simpatici.
Esaurito l’argomento tempo, uno di loro mi chiede se
conosco qualche barzelletta. Mettete sottochiave seicento
uomini, lasciateli con un mucchio di tempo libero e le
barzellette arrivano a valanga.
«Pulita o sporca?» chiedo, anche se sono poche le
barzellette pulite che circolano in prigione.
«Be’, sporca, naturalmente» risponde il marshal al
volante.
Ne racconto un paio e ottengo qualche sana risata
mentre i chilometri scivolano via. Siamo sull’Interstatale 68,
stiamo attraversando Hagerstown e la sensazione di
libertà è inebriante. Malgrado le manette ai polsi, riesco
quasi a sentire il sapore della vita là fuori. Guardo il traffico
e sogno di possedere e guidare di nuovo una macchina, di
andarmene in giro ovunque. Vedo i fast food agli svincoli e
mi viene l’acquolina in bocca al pensiero di un hamburger
con le patatine fritte. Vedo una coppia che entra in un
negozio tenendosi per mano e mi pare quasi di sentire il
tocco della ragazza. L’insegna di una birra sulla vetrina di
un bar mi fa venire sete. Un cartellone che pubblicizza
crociere nei Caraibi mi trasporta in un altro mondo. Mi
sento come se fossi rinchiuso da un secolo.
Giriamo verso sud sull’Interstatale 70 e poco dopo ci
ritroviamo nell’agglomerato urbano di WashingtonBaltimora. Tre ore dopo la Teilenza da Frostburg entriamo
nel seminterrato del tribunale federale nel centro di
Washington. Una volta all’interno dell’edificio mi vengono
tolte le manette. Mi avvio con un marshal davanti a me e
l’altro dietro.
La riunione si svolge nell’ufficio del giudice Slater, il quale
è irritabile come sempre e sembra essere invecchiato di
vent’anni negli ultimi cinque. Mi considera un criminale e dà
a malapena segno di accorgersi della mia presenza.
Nessun problema, non me ne importa. È evidente che ci
sono state moltissime conversazioni tra il suo ufficio, quello
del procuratore federale, l’FBI e il diTeilimento di Giustizia.
A un certo punto conto undici persone intorno al tavolo.
L’istanza ai sensi dell’articolo 35, alla quale è stato
allegato l’accordo, è diventata più voluminosa e adesso
conta ventidue pagine. Ho letto ogni parola cinque volte.
Ho addirittura preteso inserimenti o modifiche formulati da
me.
L’accordo, in breve, mi dà tutto ciò che voglio. La libertà,
una nuova identità, la protezione del governo e i
centocinquantamila dollari della ricompensa.
Dopo l’abituale schiarimento di voce, il giudice Slater
assume il comando della riunione. «Da questo momento
mettiamo tutto a verbale» annuncia, e la sua stenotipista
comincia a battere i tasti. «Anche se si tratta di una
questione riservata e l’ordinanza del tribunale verrà
secretata, voglio un verbale di questa udienza.» Una
pausa, mentre Slater cerca tra i fogli. «Questa è un’istanza
presentata dagli Stati Uniti per rilascio ai sensi dell’articolo
35. Bannister, ha letto l’istanza, l’accordo e l’ordinanza
proposta?»
«Sì, vostro onore.»
«E mi pare che lei sia avvocato. O meglio, che lo fosse.»
«È così, vostro onore.»
«L’istanza, l’accordo e l’ordinanza hanno la sua
approvazione?»
Accidenti se ce l’hanno, vecchio mio. «Sì, signore.»
Il giudice Slater rivolge la stessa domanda a tutti coloro
che siedono al tavolo. È solo una formalità perché tutti si
sono già dichiarati d’accordo. E, cosa più importante, il
procuratore generale ha firmato l’accordo.
Slater mi guarda e dice: «Mr Bannister, è consapevole
del fatto che se il nome da lei indicato non porterà a un
rinvio a giudizio, dopo dodici mesi l’accordo sarà nullo e
privo di valore legale, la sua sentenza non verrà commutata
e lei sconterà per intero il resto della pena?».
«Sì, signore.»
«E che finché non ci sarà un rinvio a giudizio lei resterà
sotto la custodia del diTeilimento dell’amministrazione
penitenziaria?»
«Sì, signore.»
Dopo qualche altra discussione sui termini dell’accordo,
il giudice Slater firma l’ordinanza e l’udienza si conclude.
Slater non mi saluta e io non lo maledico come invece mi
piacerebbe fare. Devo ripetermi: è un miracolo che non
vengano fatti fuori più giudici federali.
Circondato da un capannello, scendo le scale ed entro in
una stanza dove mi aspettano altri abiti scuri. C’è una
videocamera pronta per me e Mr Victor Westlake sta
camminando avanti e indietro. Mi viene chiesto di sedere a
un’estremità del tavolo, rivolto verso la videocamera, e mi
viene offerto da bere. Quello intorno a me è un gruppo
molto nervoso, nella spasmodica attesa di sentirmi
pronunciare quel nome.
12
«Si chiama Quinn Rucker. Maschio, nero, trentotto anni,
originario del quadrante sudovest di Washington,
processato due anni fa per traffico di stupefacenti e
condannato a sette anni. L’ho conosciuto a Frostburg. Ha
tagliato la corda circa tre mesi fa e da allora nessuno l’ha
più visto. Fa Teile di una grande famiglia di trafficanti che
operano con successo nel mercato della droga da
parecchi anni. Non stiamo parlando di piccoli spacciatori
di strada. Sono uomini d’affari, che hanno contatti in tutta la
costa orientale. Cercano di evitare la violenza, che però di
certo non li spaventa. Sono ben inquadrati, tosti e pieni di
risorse. Molti di loro sono finiti in galera. Molti sono stati
uccisi. Per loro rientra tutto nella normale
amministrazione.»
Faccio una pausa e prendo fiato. Nella stanza c’è
silenzio.
Sono almeno cinque gli abiti scuri che stanno prendendo
appunti. Uno ha un laptop e ha già aperto il file di Quinn
Rucker, che corrispondeva a parecchi parametri e figurava
già nei primi cinquanta sospetti dell’FBI, soprattutto a causa
del periodo trascorso insieme a me a Frostburg e della
sua fuga da quel carcere.
«Come dicevo, ho conosciuto Quinn a Frostburg e
siamo diventati amici. Come parecchi detenuti, era
convinto che io potessi depositare una magica istanza che
l’avrebbe fatto uscire, ma non era così. In prigione non se la
cavava bene, anche perché Frostburg era il suo primo
carcere. Succede ad alcuni dei nuovi arrivati che non
hanno mai vissuto altre esperienze di detenzione. Non
apprezzano l’atmosfera del campo. Comunque il tempo
passava e lui diventava sempre più irrequieto. Non riusciva
a immaginare di farsi altri cinque anni. Rucker ha una
moglie, un paio di bambini, soldi dall’attività di famiglia e
un mucchio di insicurezze. Era convinto che certi cugini si
stessero facendo avanti, che stessero prendendo il suo
posto e gli rubassero la sua fetta. Gliene ho sentite
raccontare tante, ma non me le sono bevute tutte. In genere
quelli delle gang raccontano un mucchio di balle e amano
esagerare, specie quando si tratta di soldi o di violenza.
Però Quinn mi era simpatico. Probabilmente è stato il
migliore amico che mi sia fatto in prigione. Non siamo mai
stati compagni di cella, ma eravamo legati.»
«Lei sa perché è evaso?» mi chiede Victor Westlake.
«Credo di sì. Quinn smerciava erba a Frostburg e
guadagnava bene. Ne fumava anche molta. Come sa, il
sistema più veloce per essere cacciati da un campo
federale è farsi beccare con droga o alcol. Severamente
proibito. Quinn era venuto a sapere da un informatore che
gli agenti penitenziari erano al corrente della sua attività e
che stavano per saltargli addosso. Ma lui è un tipo in
gamba, ha senso pratico, e non ha mai tenuto droga nella
sua cella. Come la maggior Teile di quelli che smerciano,
nascondeva la roba nelle aree comuni. Era sotto tiro e
sapeva che se l’avessero beccato l’avrebbero spedito in
un carcere più duro. Così ha tagliato la corda. Sono sicuro
che non ha dovuto fare molta strada: probabilmente c’era
qualcuno che lo aspettava poco lontano.»
«Lei sa dov’è Rucker adesso?»
Annuisco, me la prendo comoda e poi rispondo: «Quinn
ha un cugino. Non so come si chiama, ma so che ha un
paio di strip club a Norfolk, Virginia, vicino alla base
navale. Trovate il cugino e troverete Quinn».
«Sotto quale nome?»
«Non ne ho idea, ma di certo non Quinn Rucker.»
«Lei come lo sa?»
«Spiacente, ma non sono affari suoi.»
A questo punto Westlake fa un cenno a un agente in
piedi accanto alla porta e l’agente scompare. La caccia è
cominciata.
«Parliamo del giudice Fawcett» dice Westlake.
«Okay.» Non so quante volte ho sognato questo
momento. Ho provato le battute nel buio della mia cella
quando non riuscivo a dormire. L’ho scritto sotto forma di
racconto che poi ho distrutto. L’ho recitato a voce alta
mentre facevo interminabili e solitarie passeggiate lungo i
confini di Frostburg. È difficile credere che finalmente stia
succedendo davvero.
«Gran Teile dell’attività della gang di Quinn consisteva
nel far viaggiare la coca da Miami alle principali città della
costa orientale, soprattutto nell’area sud: Atlanta,
Charleston, Raleigh, Charlotte, Richmond, eccetera. Il
percorso preferito era quello dell’Interstatale 95 per via del
traffico intenso, ma la banda utilizzava ogni highway statale
e ogni strada di contea presente sulla carta geografica.
Quasi tutto il lavoro era fatto da corrieri. Davano cinquemila
dollari a un autista perché noleggiasse un’auto e portasse
un carico di coca a un centro di distribuzione a... scelga lei
una città. Il corriere effettuava la consegna, poi faceva
dietro-front e tornava nel Sud della Florida. Secondo Quinn,
il novanta per cento della coca che si sniffa a Manhattan
arriva in città su un’auto che un corriere noleggia a Miami e
guida fino al Nord come in un normalissimo viaggio di
lavoro. Scoprirli è virtualmente impossibile. Se un corriere
viene arrestato, è perché qualcuno ha fatto la soffiata.
Comunque, Quinn aveva un nipote che stava cominciando
farsi strada nel business di famiglia. Il ragazzo era un
corriere e capita che lo fermino per eccesso di velocità
sull’Interstatale 81, appena fuori Roanoke. Guidava un
furgone Avis a nolo e disse che stava andando a
consegnare mobili antichi a un negozio di Georgetown. Sul
furgone c’erano effettivamente dei mobili, ma la vera
merce era un carico di cocaina, valore al dettaglio cinque
milioni di dollari. L’agente si insospettì e chiese l’intervento
del collega. Il nipote di Quinn conosceva la legge e si rifiutò
di autorizzare la perquisizione del furgone. Il secondo
agente era un novellino, una recluta iperzelante, che
cominciò a curiosare nel cassone. Non aveva un mandato,
non aveva una causa ragionevole e non aveva il permesso
di perquisire. Quando trovò la cocaina, diede fuori di testa
e tutto cambiò.»
Faccio una pausa e bevo un sorso d’acqua. L’agente
con il laptop sta picchiettando sulla tastiera, indubbiamente
per inviare istruzioni a tutta la costa orientale.
«Come si chiama il nipote?» mi domanda Westlake.
«Non lo so, ma non credo che il cognome sia Rucker.
Nella famiglia di Quinn ci sono parecchi cognomi e un
discreto numero di false identità.»
«E così il caso del nipote finì al giudice Fawcett?»
chiede Westlake per sollecitarmi ad andare avanti, anche
se nessuno sembra avere fretta. Pendono tutti dalle mie
labbra e sono ansiosi di trovare Quinn Rucker, ma vogliono
sentire tutta la storia.
«Sì, e Quinn assunse un famoso avvocato di Roanoke, il
quale gli assicurò che la perquisizione era stata
palesemente incostituzionale. Se la perquisizione fosse
stata giudicata inammissibile da Fawcett, lo stesso destino
sarebbe toccato alle prove. Niente prove, niente processo,
niente condanna, niente di niente. A un certo punto, Quinn
venne a sapere che il giudice Fawcett avrebbe potuto
considerare più favorevolmente la posizione del nipote nel
caso che un po’ di soldi avessero cambiato di mano. Soldi
seri. Per come la racconta Quinn, fu il suo avvocato a fare
da intermediario nella trattativa. E no: non conosco il nome
dell’avvocato.»
«Quanto?» chiede Westlake.
«Mezzo milione.» La mia risposta è accolta con grande
scetticismo, e la cosa non mi sorprende. «Ho fatto fatica
anch’io a crederci. Un giudice federale che prende una
mazzetta... Però rimasi scioccato anche quando si scoprì
che un agente dell’FBI era una spia dei russi. Immagino che
in determinate circostanze un uomo possa fare qualsiasi
cosa.»
«Cerchiamo di restare in argomento» replica Westlake
irritato.
«Certo. Quinn e la famiglia sganciarono i soldi. Fawcett
li prese. Il caso seguì lentamente il suo corso finché un
giorno si arrivò all’udienza riguardante l’istanza di
inammissibilità delle prove perché ottenute nel corso di una
perquisizione illegale. Con grande sorpresa di tutti, il
giudice deliberò contro il nipote di Quinn e ordinò il rinvio a
giudizio. Privo di argomenti difensivi, il ragazzo venne
riconosciuto colpevole dalla giuria, ma l’avvocato si
dichiarò ottimista per quanto riguardava le possibilità in
appello. La causa sta tuttora arrancando. Nel frattempo il
nipote sta scontando una condanna a diciotto anni in
Alabama.»
«Una storia interessante, Mr Bannister» commenta
Westlake. «Ma lei come fa a sapere che è stato Quinn
Rucker a uccidere il giudice?»
«Perché mi ha detto che l’avrebbe fatto, per vendetta e
per recuperare i soldi. Ne parlava spesso. Sapeva
esattamente dove abitava il giudice, dove lavorava e dove
amava passare il weekend. Sospettava che il denaro fosse
nascosto da qualche Teile nel cottage ed era fermamente
convinto di non essere stato l’unico rapinato da Fawcett. E
visto che è stato Rucker a raccontarmi tutto questo, Mr
Westlake, appena lui verrà arrestato io diventerò il suo
bersaglio. Posso anche uscire di prigione, ma dovrò
sempre guardarmi le spalle. Questi sono tipi in gamba...
Guardi le sue indagini: niente, nessun indizio. È gente che
serba rancore ed è molto paziente. Quinn ha aspettato
quasi tre anni per uccidere il giudice. Ne aspetterà anche
venti pur di arrivare a me.»
«Se è così in gamba, come mai le ha raccontato tutto
quanto?» mi domanda Westlake.
«Semplice. Come molti altri detenuti, Quinn pensava che
io potessi presentare qualche brillante istanza, trovare un
cavillo e farlo uscire di galera. Disse che mi avrebbe
pagato, che mi avrebbe dato metà di quello che si sarebbe
ripreso dal giudice Fawcett. Avevo sentito storie del
genere prima di Quinn e ne ho sentite anche dopo. Studiai
la sua pratica e gli assicurai che non c’era niente che
potessi fare.»
Devono credere che stia dicendo la verità. Se Rucker
non verrà rinviato a giudizio, dovrò passare i prossimi
cinque anni in carcere. Siamo ancora su lati opposti della
barricata, loro e io, ma stiamo lentamente trovando un
terreno comune.
13
Sei ore più tardi due agenti neri dell’FBI pagarono la quota
d’ingresso al Velvet Club, a tre isolati dalla base navale di
Norfolk. Vestiti come due operai edili, si confondevano
facilmente tra la clientela del locale, composta per metà da
bianchi e per metà da neri, per metà da marinai e per metà
da civili. Anche le ballerine erano per metà bianche e per
metà nere, niente discriminazioni. Due furgoni di
sorveglianza attendevano nel parcheggio, insieme a
un’altra decina di agenti. Quinn Rucker era stato
localizzato, fotografato e identificato mentre alle diciassette
e trenta entrava nel club, dove lavorava come barista.
Quando alle venti e quarantacinque si allontanò dalla sua
postazione per andare in bagno, fu seguito. Nel bagno
venne affrontato dai due agenti e, dopo una breve
discussione, tutti e tre concordarono di uscire da una porta
sul retro del locale. Quinn capì la situazione e non tentò
mosse azzardate. E non sembrò neppure sorpreso. Come
per molti altri evasi prima di lui, la fine della fuga fu sotto
molti punti di vista un sollievo. I sogni di libertà si
sgretolano davanti alla sfida di condurre una vita normale.
C’è sempre qualcuno, là dietro.
Quinn Rucker venne ammanettato e portato nella sede
dell’FBI di Norfolk. In una stanza per gli interrogatori, i due
agenti neri gli portarono un caffè e cominciarono a
chiacchierare amichevolmente con lui. Il reato era una
banale evasione e Quinn non aveva argomenti di difesa:
era colpevole senza scampo e destinato a tornare in
prigione.
Gli chiesero se fosse disposto a rispondere a qualche
domanda sulla sua evasione, avvenuta circa tre mesi
prima, e Quinn non si negò. Raccontò spontaneamente di
aver raggiunto, non lontano dal campo di Frostburg, un
complice, di cui non fece il nome, che l’aveva riportato a
Washington, dove era rimasto a ciondolare per qualche
giorno. La sua presenza però non era stata ben accolta. Gli
evasi richiamano l’attenzione e ai ragazzi della gang non
andava l’idea dell’FBI che ficcava il naso in giro alla sua
ricerca. Così Rucker aveva cominciato a trasportare
cocaina da Miami ad Atlanta, ma il lavoro andava a rilento.
Lui era merce avariata e il suo “sindacato”, come Quinn lo
definiva, era molto diffidente nei suoi confronti. Ogni tanto
andava a trovare moglie e figli, ma era consapevole del
pericolo che correva avvicinandosi troppo a casa. Aveva
trascorso un po’ di tempo con una sua vecchia fiamma a
Baltimora, ma anche lei si era dimostrata poco entusiasta
della sua presenza. Aveva vissuto alla giornata, effettuando
qualche consegna di droga, e poi finalmente aveva avuto
un colpo di fortuna quando suo cugino gli aveva offerto il
lavoro di barista al Velvet Club.
Alla porta accanto, in una stanza più grande, due agenti
dell’FBI veterani degli interrogatori ascoltavano la
conversazione. Al piano di sopra c’era un’altra squadra, in
attesa e in ascolto. Se le cose fossero andate bene,
sarebbe stata una lunga notte per Quinn. E le cose
dovevano andare bene per l’FBI: considerata l’assenza di
qualsiasi elemento concreto, era imperativo che
l’interrogatorio producesse qualche prova. Gli agenti però
erano preoccupati, perché quello con cui se la dovevano
vedere era un uomo che conosceva bene tutti i trucchi. Era
improbabile che riuscissero a intimorirlo tanto da farlo
parlare.
Appena Quinn venne scortato fuori dal Velvet Club, altri
agenti dell’FBI piombarono su suo cugino. Il cugino la
sapeva lunga e disse ben poco, poi però venne minacciato
con l’accusa di aver dato rifugio a un evaso. L’uomo aveva
una fedina penale impressionante e con ogni probabilità
un’altra condanna lo avrebbe rispedito dritto al
penitenziario. Dato che preferiva vivere libero, cominciò a
cantare. Quinn al momento viveva e lavorava sotto il falso
nome di Jackie Todd, anche se il salario gli veniva pagato
in nero e in contanti. Il cugino accompagnò gli agenti a uno
squallido parcheggio per roulotte distante meno di un
chilometro e indicò la casa mobile arredata di cui Quinn
rinnovava il contratto di affitto di mese in mese. Accanto
alla casa mobile c’era un SUV Hummer H3, del 2008, con
targa del North Carolina. Il cugino spiegò che Quinn,
condizioni meteo permettendo, preferiva andare al lavoro a
piedi e tenere l’Hummer nascosto.
Nel giro di un’ora l’FBI ottenne un mandato di
perquisizione sia per la casa mobile che per il SUV, che
venne trasportato con un carro attrezzi nel parcheggio della
polizia di Norfolk, dove fu aperto ed esaminato. La porta
della casa mobile era chiusa a chiave, ma era anche
piuttosto fragile. Un colpo di mazza ben assestato e gli
agenti entrarono. L’interno era pulito e ordinato. Lavorando
con efficienza, sei agenti lo setacciarono in lungo e in
largo. Nell’unica camera da letto, fra il materasso e la rete,
trovarono il portafoglio, le chiavi e il cellulare di Quinn. Il
portafoglio conteneva circa cinquecento dollari in contanti,
una patente di guida falsa del North Carolina e due carte di
credito VISA prepagate del valore di milleduecento dollari
ciascuna. Il cellulare era del tipo prepagato, usa e getta,
perfetto per un uomo in fuga. Sotto il letto gli agenti
rinvennero una pistola Smith & Wesson a canna corta
calibro .38, caricata con pallottole a punta cava.
Maneggiandola con estrema cura, gli agenti ipotizzarono
immediatamente che quella fosse l’arma usata per
uccidere il giudice Fawcett e Naomi Clary.
Tra le chiavi c’era quella di un box in un magazzinodeposito distante tre chilometri. In un cassetto della cucina
un agente trovò l’“ufficio” di Quinn: un paio di cartelline che
contenevano pochi documenti. Un modulo, però, era il
contratto d’affitto per sei mesi di un box presso il Macon’s
Mini-Storage, firmato da Jackie Todd. Il capo degli
investigatori telefonò al magistrato federale di turno a
Roanoke, il quale inviò per e-mail a Norfolk il mandato di
perquisizione.
Nella cartellina c’era anche il certificato di proprietà,
intestato a Jackie Todd, del SUV Hummer H3 del 2008. Sul
documento non era indicato alcun patto di riservato
dominio, quindi si poteva concludere con certezza che Mr
Todd aveva pagato il veicolo per intero e in un unico
versamento, in contanti o con assegno. Nel cassetto non
vennero trovati libretti di assegni o estratti conto bancari,
ma nemmeno ci si aspettava di trovarne. L’atto di vendita
del veicolo evidenziava che il SUV era stato acquistato il 9
febbraio 2011 presso un rivenditore di auto usate a
Roanoke. 9 febbraio, due giorni dopo il ritrovamento dei
corpi.
Forti del nuovo mandato, due agenti entrarono nel
minuscolo box di Jackie Todd presso il Macon’s MiniStorage, sotto lo sguardo attento e sospettoso di Mr
Macon in persona. Pavimento di cemento, pareti grezze,
una solitaria lampadina fissata al soffitto. C’erano cinque
scatoloni di cartone impilati contro una parete. Una rapida
occhiata rivelò alcuni vecchi indumenti, un paio di stivali da
combattimento infangati, una pistola Glock 9 millimetri con
la matricola abrasa e, infine, una cassettina di metallo
piena di contanti. Gli agenti presero i cinque scatoloni,
ringraziarono Mr Macon per l’ospitalità e riTeilirono
velocemente.
Nel frattempo, il nome Jackie R. Todd veniva controllato
nel database del National Crime Information Center. La
ricerca diede un solo risultato. A Roanoke, Virginia.
A mezzanotte, Rucker venne trasferito nella stanza accanto
e presentato agli agenti speciali Pankovits e Delocke, i
quali gli spiegarono di essere specialisti dell’FBI negli
interrogatori agli evasi. Si trattava di un semplice colloquio
di routine, una piccola indagine mirante a definire i fatti e
che loro si divertivano sempre a svolgere: a chi non
piacerebbe fare due chiacchiere con un evaso e venire a
sapere tutti i dettagli? Era tardi, e se Quinn preferiva
andarsene a dormire per qualche ora nel carcere di
contea, loro sarebbero stati lieti di rimandare il colloquio
all’indomani mattina. Quinn declinò l’offerta e disse che
voleva farla finita subito. Arrivarono sandwich e bibite
analcoliche. L’umore generale era rilassato e gli agenti
estremamente cordiali. Pankovits era bianco e Delocke
nero, e Quinn sembrava apprezzare la loro compagnia.
Mangiucchiò un panino al prosciutto e formaggio mentre i
due gli raccontavano la storia di un evaso che era rimasto
latitante per ventun anni. L’ FBI li aveva fatti volare fino in
Thailandia per riportarlo a casa. Che spasso.
Interrogarono Rucker sulla sua evasione e sui suoi
movimenti nei giorni successivi, domande e risposte già
coperte dal primo interrogatorio. Quinn si rifiutò di fornire i
nomi del suo complice e di chiunque lo avesse aiutato
durante la latitanza. Nessun problema. Gli agenti non
insistettero, apparentemente disinteressati a dare la
caccia ad altri. Dopo un’ora di chiacchiere amichevoli, a
Pankovits venne in mente che non avevano letto a Rucker i
diritti del Miranda. Niente di male, gli assicurarono, dato
che il reato era evidente e lui, Quinn, non era implicato in
niente, a Teile l’evasione. Nessun problema, ma se voleva
continuare, doveva rinunciare formalmente ai suoi diritti.
Rucker lo fece firmando un modulo. A quel punto, ormai, lui
era Quinn, Pankovits era Andy e Delocke era Jesse.
Ricostruirono con cura i movimenti di Rucker nei tre
mesi precedenti, e lui si dimostrò sorprendentemente
preciso nell’indicare date, luoghi e avvenimenti.
Impressionati, i due agenti si complimentarono per la sua
memoria. Erano interessati in Teilicolare ai suoi guadagni;
tutti in contanti naturalmente, ma quanto aveva incassato
per ogni viaggio? «Allora, per la seconda corsa da Miami
a Charleston» disse Pankovits, sorridendo ai suoi appunti
«quella della settimana dopo Capodanno, quanto hai
preso in contanti?»
«Mi sembra seimila.»
«Giusto, giusto.»
Entrambi gli agenti prendevano furiosamente appunti,
come se avessero creduto a ogni parola pronunciata dal
soggetto. Quinn disse che viveva e lavorava a Norfolk da
metà febbraio, cioè da circa un mese. Abitava con suo
cugino e due sue fidanzate in un grande apTeilamento non
lontano dal Velvet Club. Veniva pagato in contanti, cibo,
bevande, sesso ed erba.
«Allora, Quinn» disse Delocke, facendo la somma di una
serie di cifre. «A me pare che tu abbia guadagnato circa
quarantaseimila dollari da quando te ne sei andato da
Frostburg, tutti in contanti ed esentasse. Non male per tre
mesi di lavoro.»
«Immagino di sì.»
«E quanti ne hai spesi?» domandò Pankovits.
Quinn si strinse nelle spalle, come se la cosa non avesse
molta importanza. «Non saprei. Quasi tutti. Servono
parecchi soldi per spostarsi.»
«Quando Teilivi con la droga da Miami e poi tornavi
indietro, come noleggiavi le auto?» chiese Delocke.
«Non le noleggiavo. Lo faceva qualcun altro, che poi mi
dava le chiavi. Il mio lavoro consisteva nel guidare con
molta attenzione, senza superare i limiti e senza farmi
fermare dalla polizia.»
Verosimile, ed entrambi gli agenti ne convennero. «Ti
sei comprato un’auto?» chiese Pankovits senza alzare gli
occhi dai suoi appunti.
«No» rispose Rucker con un sorriso. Che domanda
stupida. «Non puoi comprarti una macchina se sei un
latitante senza documenti.»
Naturalmente no.
Nel Freezer a Roanoke, Victor Westlake sedeva davanti a
un grande schermo e fissava immobile l’immagine di Quinn
Rucker. Una telecamera nascosta nella stanza degli
interrogatori stava inviando il video attraverso il
Commonwealth fino a una sala proiezioni improvvisata,
attrezzata con una stupefacente quantità di gadget e
tecnologia. C’erano quattro agenti insieme a Westlake, e
tutti osservavano gli occhi e le espressioni di Mr Rucker.
«Niente da fare» borbottò uno dei quattro. «Quel tipo è
troppo furbo. Sa che troveremo la casa mobile, il
portafoglio, i documenti falsi, il SUV.»
«Forse no» mormorò un altro. «Per ora stanno parlando
solo dell’evasione. Rucker è convinto che non abbiamo
idea dell’omicidio. Niente di serio.»
«Sono d’accordo» disse un altro. «Io credo che stia
prendendo tempo, che stia giocando le sue carte. Pensa di
poter sopravvivere a qualche domanda e che poi lo
riporteranno in cella di sicurezza e infine in carcere. Ha in
mente di telefonare a suo cugino, a un certo punto, e di
dirgli di fare sparire tutto.»
«Aspettiamo e vediamo» suggerì Westlake. «Stiamo a
vedere come reagirà quando cadrà la prima bomba.»
Alle due del mattino, Quinn chiese: «Posso andare in
bagno?».
Delocke si alzò in piedi e lo scortò fuori dalla stanza, fino
in fondo al corridoio. C’era un altro agente di guardia, una
dimostrazione di forza. Cinque minuti dopo, Rucker era di
nuovo sulla sua sedia.
«È piuttosto tardi, Quinn» disse Pankovits. «Vuoi andare
in prigione e dormire un po’? Abbiamo un mucchio di
tempo a disposizione.»
«Preferisco restare qui, piuttosto che andare in
prigione» rispose Rucker con voce triste. «Di quanto
pensate che aumenterà la mia condanna?» chiese.
«Non lo so, Quinn» rispose Delocke. «Lo deciderà il
procuratore federale. La cosa peggiore è che non ti
rimanderanno in un campo. Mai più. Andrai in un carcere
vero.»
«Sai, Jesse, ho quasi nostalgia del campo. Non era poi
così male.»
«Allora come mai te ne sei andato?»
«Perché sono stupido. Perché? Perché ne avevo la
possibilità. Mi sono semplicemente allontanato a piedi e a
nessuno è sembrato importare.»
«Ogni anno interroghiamo circa venticinque tizi che se
ne sono andati da un campo federale. “Stupido” credo che
sia l’aggettivo giusto.»
Pankovits affastellò qualche foglio e disse: «Bene,
Quinn, mi pare che abbiamo definito il quadro. Date,
luoghi, movimenti, contanti. Tutto questo verrà inserito nel
rapporto preprocessuale. Il lato positivo è che negli ultimi
tre mesi non hai fatto niente di Teilicolarmente grave.
Qualche consegna di droga, cosa che ovviamente non ti
aiuterà, ma non hai fatto del male a nessuno, giusto?».
«Giusto.»
«E tu ci hai raccontato tutta la storia, vero? Non hai
lasciato fuori niente?»
«Sì.»
I due agenti si irrigidirono leggermente e corrugarono la
fronte. «Cosa ci dici di Roanoke, Quinn?» domandò
Pankovits. «Sei mai stato a Roanoke?»
Rucker guardò il soffitto, rifletté un momento e poi
rispose: «Forse ci sono passato un paio di volte,
nient’altro».
«Ne sei sicuro?»
«Sì, sono sicuro.»
Delocke aprì una cartellina, scorse rapidamente un foglio
e chiese: «Chi è Jackie Todd?».
Gli occhi di Rucker si chiusero e la bocca si aprì appena.
Ne uscì un basso suono gutturale che arrivava dal
profondo, come se Quinn fosse stato colpito da un pugno
sotto la cintura. Le spalle si abbassarono di colpo. Se
fosse stato bianco, sarebbe impallidito. «Non lo so»
rispose dopo qualche istante. «Mai conosciuto.»
«Davvero?» insistette Delocke. «Be’, a quanto pare
questo Mr Jackie R. Todd è stato arrestato nella notte di
martedì, otto febbraio, in un bar di Roanoke. Ubriachezza
molesta e aggressione. Secondo il rapporto della polizia,
si era azzuffato con qualche altro ubriaco e ha passato la
notte in cella. La mattina dopo ha versato una cauzione di
ottocento dollari in contanti e se n’è andato.»
«Non ero io.»
«Davvero?» Delocke fece scivolare un foglio sul tavolo.
Quinn lo prese lentamente in mano. Era una foto
segnaletica, chiaramente sua.
«Non ci sono molti dubbi, ti sembra, Quinn?»
Rucker posò il foglio sul tavolo e disse: «Okay, okay. Va
bene: avevo un nome falso. Cosa avrei dovuto fare?
Giocare a nascondino con il mio nome vero?».
«Certo che no» ammise Pankovits. «Però tu ci hai
mentito, giusto?»
«Non siete i primi piedipiatti ai quali ho mentito.»
«Mentire all’FBI può costarti cinque anni.»
«Okay, ho raccontato qualche balla.»
«Nessuna sorpresa, ma ora non possiamo più credere a
niente. Immagino che dovremo ricominciare tutto
daccapo.»
«Il nove febbraio» disse Delocke «un certo Jackie Todd
si è presentato da un rivenditore di auto usate a Roanoke e
ha comprato un SUV Hummer H3 del 2008 pagandolo
ventiquattromila dollari in contanti. Ti ricorda qualcosa,
Quinn?»
«No. Non ero io.»
«Ne ero sicuro.» Delocke fece scivolare sul tavolo una
copia dell’atto di vendita. «E questo non l’hai mai visto,
vero?»
Rucker guardò il documento e rispose: «No».
Pankovits scattò: «Andiamo, Quinn! Non siamo stupidi
nemmeno la metà di quello che pensi. L’otto febbraio tu eri
a Roanoke, sei entrato in quel bar, hai fatto a botte e sei
finito in prigione. La mattina dopo sei uscito su cauzione,
sei tornato nella tua camera al motel Safe Lodge, dove hai
pagato in contanti, hai preso altri contanti e ti sei comprato
il SUV».
«È un reato pagare una macchina in contanti?»
«Assolutamente no» rispose Pankovits. «Ma in quel
momento tu non avresti dovuto avere tutti quei soldi a
disposizione.»
«Può darsi che abbia confuso qualche data e qualche
incasso di contanti. Non posso ricordare tutto.»
«Ti ricordi dove hai comprato le pistole?» chiese
Delocke.
«Quali pistole?»
«La Smith & Wesson calibro .38 che abbiamo trovato
nella tua casa mobile e la Glock 9 millimetri che abbiamo
trovato nel tuo box al deposito, circa due ore fa.»
«Pistole rubate» aggiunse sollecito Pankovits. «Altri
reati federali.»
Quinn intrecciò lentamente le mani dietro la testa e puntò
lo sguardo sulle ginocchia. Passò un minuto, poi un altro. I
due agenti lo fissavano senza sbattere le palpebre e senza
muovere un muscolo. La stanza era silenziosa, immobile,
tesa. Poi Pankovits frugò tra le sue carte, scelse un foglio e
disse: «L’inventario comprende un portafoglio contenente
cinquecentododici dollari in contanti, una patente di guida
falsa del North Carolina, due carte di credito VISA
prepagate, un cellulare prepagato, la già citata Smith &
Wesson, i documenti di acquisto dell’Hummer, un
certificato di assicurazione per il veicolo, il contratto
d’affitto del box, una scatola di pallottole per la .38 e
qualche altro articolo, il tutto prelevato dalla casa mobile
che hai in affitto per quattrocento dollari al mese. Nel box
del deposito abbiamo inventariato alcuni indumenti, la
Glock 9 millimetri, un paio di stivali da combattimento,
qualche altro oggetto e, cosa più importante, una
cassettina di metallo contenente quarantunmila dollari in
banconote da cento».
Rucker incrociò le braccia sul petto e fissò Delocke, che
gli disse: «Abbiamo tutta la notte, Quinn. Cosa ne pensi di
darci una spiegazione?».
«Forse le corse sono state più di quelle che ricordavo.
Ho fatto un mucchio di viaggi fino a Miami e ritorno.»
«E perché non ci hai parlato di tutti questi viaggi?»
«Come dicevo, non è che posso ricordare tutto. Quando
sei continuamente in fuga, come me, tendi a dimenticare le
cose.»
«Ricordi di avere usato per qualsiasi ragione l’una o
l’altra di quelle due pistole?» chiese Delocke.
«No.»
«Nel senso che non hai usato quelle pistole, o che non
ricordi se le hai usate?»
«Non le ho usate.»
Pankovits trovò un altro foglio e lo studiò con aria grave.
«Ne sei sicuro, Quinn? Qui abbiamo una perizia balistica
preliminare.»
Lentamente, Rucker spinse indietro la sedia e si alzò in
piedi. Si stirò e fece pochi passi fino ad arrivare a un
angolo della stanza. «Forse mi serve un avvocato.»
14
Non esisteva alcuna perizia balistica. La Smith & Wesson
calibro .38 era al laboratorio dell’FBI a Quantico e sarebbe
stata esaminata appena i tecnici si fossero presentati al
lavoro tra circa cinque ore. Il foglio che Pankovits brandiva
come un’arma era la copia di un qualche inutile memo.
Pankovits e Delocke disponevano di un intero repertorio
di trucchetti, tutti approvati dalla Corte Suprema degli Stati
Uniti. Utilizzarli dipendeva dal punto fino al quale Quinn
avrebbe consentito spingersi. Il problema nell’immediato
era il suo accenno alla necessità di un “avvocato”. Se
Rucker avesse detto, chiaramente e inequivocabilmente,
“Voglio un avvocato!” oppure “Non intendo rispondere ad
altre domande finché non avrò un avvocato!” o qualcosa di
simile, l’interrogatorio avrebbe avuto immediatamente
termine. Ma Quinn era stato vago e aveva usato la parola
“forse”.
La tempistica era cruciale. Per distogliere l’attenzione
dall’argomento avvocato, gli agenti modificarono
rapidamente lo scenario. Delocke si alzò in piedi e
annunciò: «Devo andare a fare pipì».
Pankovits disse: «E io ho bisogno di altro caffè. Tu,
Quinn?».
«No.»
Delocke uscì sbattendo la porta. Pankovits si alzò e si
stirò la schiena. Erano quasi le tre del mattino.
Quinn Rucker aveva due fratelli e due sorelle, età
compresa tra i ventisette e i quarantadue anni, e tutti in
momenti diversi erano stati coinvolti nel sindacato di
famiglia del traffico di droga. Una sorella si era chiamata
fuori dallo spaccio vero e proprio, ma era ancora attiva in
varie operazioni di riciclaggio. Gli altri erano usciti dal
business, si erano trasferiti in altre città e cercavano di
evitare al massimo i parenti. Il minore dei fratelli era Dee
Ray Rucker, un ragazzo tranquillo che studiava economia
alla Georgetown e sapeva come spostare il denaro. Aveva
un precedente per possesso illegale di un’arma, ma
nient’altro di significativo. In realtà Dee Ray non aveva lo
stomaco per affrontare i rischi e la violenza della vita di
strada e cercava di starne alla larga. Abitava con la sua
ragazza in un modesto apTeilamento nei pressi di Union
Station, e fu lì che l’FBI lo trovò poco dopo mezzanotte: a
letto, libero da preoccupazioni di mandati in sospeso o di
indagini penali in corso, ignaro di ciò che stava
succedendo al suo caro fratello Quinn, tranquillo e sereno,
e profondamente addormentato. Fu preso in custodia
senza che opponesse resistenza, ma avanzando
un’enorme quantità di rimostranze. La squadra di agenti
non gli diede praticamente spiegazioni. Nella sede dell’FBI
in Pennsylvania Avenue, Dee Ray venne fatto entrare in
una stanza, messo a sedere e circondato da agenti, tutti
con il giubbotto blu e la scritta FBI in giallo vivo. La scena
venne fotografata da diverse angolazioni. Dopo un’ora
trascorsa a sedere con le manette ai polsi e senza che gli
venisse detto nulla, fu fatto uscire dalla stanza, riportato al
furgone e riaccompagnato a casa. Venne scaricato sul
marciapiede senza una parola.
La sua ragazza gli fece mandare giù qualche pillola e
Dee Ray dopo un po’ si calmò. La mattina successiva
avrebbe chiamato il suo avvocato scatenando l’inferno, ma
l’intero episodio sarebbe stato presto dimenticato.
Nel ramo droga non ti aspetti mai un lieto fine.
Tornando dal bagno, Delocke tenne la porta aperta per un
momento e lasciò entrare un’attraente segretaria che posò
sul bordo del tavolo un vassoio con bibite e biscotti. La
ragazza sorrise a Quinn, ancora in piedi in un angolo e
troppo confuso per notare la sua presenza. Dopo che la
segretaria se ne fu andata, Pankovits aprì una lattina di
Red Bull e ne versò il contenuto in un bicchiere con il
ghiaccio. «Vuoi una Red Bull, Quinn?»
«No.» Tutte le sere Rucker serviva al bar quella roba,
Red Bull e vodka, ma il sapore non gli era mai piaciuto. La
pausa nell’interrogatorio gli dava modo di riprendere fiato
e riorganizzare i pensieri. Doveva continuare o sarebbe
stato meglio restare in silenzio e insistere per l’avvocato?
L’istinto gli suggeriva la seconda opzione, ma Quinn era
estremamente curioso di capire cosa sapeva l’FBI. Era
ancora disorientato a causa di quello che avevano già
scoperto, ma fino a che punto erano arrivati?
Anche Delocke si versò una Red Bull con ghiaccio e
sgranocchiò un biscotto. «Siediti, Quinn» disse, indicando
il tavolo con un gesto della mano. Rucker si mise a sedere.
Pankovits stava già prendendo appunti. «Tuo fratello
maggiore, mi pare che si faccia chiamare Tall Man, è
ancora nell’area di Washington?»
«Lui cosa c’entra?»
«È solo per riempire qualche vuoto. Tutto qui. Mi piace
conoscere tutti i fatti, o il maggior numero di fatti possibile.
Hai visto spesso Tall Man negli ultimi tre mesi?»
«No comment.»
«Okay. Tuo fratello minore, Dee Ray, è ancora nell’area
di Washington?»
«Non so dove sia Dee Ray.»
«Hai visto spesso Dee Ray negli ultimi tre mesi?»
«No comment.»
«Dee Ray era con te a Roanoke quando sei stato
arrestato?»
«No comment.»
«C’era qualcuno insieme te, quando sei stato arrestato a
Roanoke?»
«Ero solo.»
Delocke sbuffò, frustrato. Pankovits sospirò, come se
Quinn avesse risposto con un’altra bugia e loro lo
sapessero.
«Giuro che ero solo» ribadì Rucker.
«Cosa ci facevi a Roanoke?» gli chiese Delocke.
«Affari.»
«Spaccio?»
«È il nostro lavoro. Roanoke rientra nel nostro territorio.
Si era creata una certa situazione e io dovevo
occuparmene.»
«Che tipo di situazione?»
«No comment.»
Pankovits bevve un lungo sorso di Red Bull, poi disse:
«Sai, Quinn, il problema che abbiamo in questo momento
è che non possiamo credere a una sola parola. Tu menti.
Sappiamo che menti. Tu stesso ammetti di mentire. Noi ti
facciamo una domanda e tu ci rispondi con una bugia».
«Non stiamo andando da nessuna Teile, Quinn»
intervenne Delocke. «Cosa ci facevi a Roanoke?»
Rucker tese una mano, prese un biscotto farcito, tolse lo
strato superiore, leccò la crema, fissò Delocke e
finalmente rispose: «Sospettavamo che un nostro corriere
da quelle Teili fosse un informatore. Avevamo perso due
consegne in circostanze piuttosto strane e abbiamo capito
come stavano le cose. Sono andato a cercare il corriere».
«Per ucciderlo?»
«No, noi non operiamo in quel modo. Non sono riuscito a
trovarlo: evidentemente gli era arrivato qualcosa
all’orecchio e aveva tagliato la corda. Sono entrato in un
bar, ho bevuto troppo, sono finito in una rissa e ho passato
una brutta notte. Il giorno dopo un mio amico mi ha parlato
di un Hummer che era un ottimo affare e così sono andato
a vederlo.»
«Chi era l’amico?»
«No comment.»
«Stai mentendo» disse Delocke. «Stai mentendo e noi
lo sappiamo. E non sei neppure un bravo bugiardo, Quinn,
lo sai?»
«Se lo dici tu.»
«Perché hai immatricolato l’Hummer in North Carolina?»
chiese Pankovits.
«Perché ero latitante, hai presente? Ero un evaso e
cercavo di non lasciare tracce. Ci arrivate, ragazzi?
Documenti falsi. Indirizzo falso. Tutto falso.»
«Chi è Jakeel Staley?» domandò Delocke.
Quinn esitò per un secondo, cercò di sembrare
indifferente e rispose con noncuranza: «Mio nipote».
«Dov’è adesso?»
«In un penitenziario federale da qualche Teile. Sono
sicuro che voi ragazzi conoscete la risposta.»
«Alabama. Sta scontando diciotto anni» disse
Pankovits. «Jakeel era stato arrestato nei dintorni di
Roanoke con un furgone pieno di coca, giusto?»
«Sono sicuro che avete la pratica.»
«Hai cercato di aiutare Jakeel?»
«Quando?»
Entrambi gli agenti reagirono esagerando i segnali di
frustrazione. Tutti e due bevvero un sorso di Red Bull.
Delocke prese un altro biscotto. Sul vassoio ce n’era
ancora una decina, oltre a una caffettiera piena. I due
avevano l’aria di voler continuare per tutta la notte.
«Andiamo, Quinn, piantala con i giochetti» disse
Pankovits. «Abbiamo assodato che Jakeel è stato
arrestato a Roanoke. Una montagna di coca e la
prospettiva di una montagna di anni dentro un
penitenziario. La domanda è se tu hai provato ad aiutare il
ragazzo oppure no.»
«Certo che ci ho provato. Jakeel fa Teile della famiglia,
fa Teile del business ed è stato arrestato sul lavoro. La
famiglia interviene sempre.»
«Hai assunto tu l’avvocato?»
«Sì.»
«Quanto lo hai pagato?»
Quinn rifletté per un momento, poi rispose: «Non ricordo
proprio. Un bel po’ di bigliettoni comunque».
«Hai pagato l’avvocato in contanti?»
«È quello che ho appena detto. Niente di illegale nei
contanti, l’ultima volta che ho controllato. Noi non usiamo
bonifici, carte di credito o qualunque altra cosa che i
federali possano tracciare. Solo contanti.»
«Chi ti ha dato i soldi per pagare l’avvocato?»
«No comment.»
«Li hai avuti da Dee Ray?»
«No comment.»
Pankovits tese lentamente una mano verso un sottile
fascicolo ed estrasse un foglio. «Be’, Dee Ray dice che è
stato lui a darti i soldi che ti servivano a Roanoke.»
Rucker scosse la testa e fece un sorriso sarcastico che
significava: “Stronzate”.
Pankovits gli passò un ingrandimento venti per
venticinque di una foto a colori. Era Dee Ray che,
circondato da agenti dell’FBI, aveva le manette ai polsi, la
bocca aperta e l’espressione rabbiosa. Delocke spiegò:
«Abbiamo prelevato Dee Ray a Washington circa un’ora
dopo che abbiamo preso te. Sai, a lui piace parlare. In
effetti parla molto più di te».
Quinn fissava la foto ed era senza parole.
Il Freezer. Quattro del mattino. Victor Westlake si alzò di
nuovo in piedi e prese a camminare nella stanza. Era
necessario muoversi per combattere il sonno. Gli altri
quattro agenti erano ancora svegli, i nervi pompati con
anfetamine da banco, Red Bull e caffè. «Maledizione, quei
due sono troppo lenti» disse uno di loro.
«Sono metodici» obiettò un altro. «Mirano a sfinirlo. Il
fatto che stia ancora parlando dopo sette ore è
incredibile.»
«Non vuole andare nel carcere di contea.»
«Non posso dargli torto.»
«Io credo che sia ancora mosso dalla curiosità. Il gatto e
il topo. Cosa sa effettivamente l’FBI?»
«Non riusciranno a fregarlo. È troppo furbo.»
«Sanno quello che stanno facendo» disse Westlake. Si
rimise a sedere e si versò un’altra tazza di caffè.
A Norfolk, Pankovits si versò una tazza di caffè e chiese:
«Chi ti ha accompagnato a Roanoke?».
«Nessuno. Ci sono andato da solo in macchina.»
«Che tipo di macchina?»
«Non mi ricordo.»
«Stai mentendo, Quinn. Qualcuno ti ha portato a
Roanoke la settimana prima del sette febbraio. Eravate in
due. Abbiamo dei testimoni.»
«Allora i vostri testimoni mentono. Voi mentite. Tutti
mentono.»
«Hai comprato l’Hummer il nove febbraio, l’hai pagato in
contanti e non c’è stata nessuna permuta. Come sei
arrivato dal rivenditore di auto usate il giorno in cui hai
comprato il SUV? Chi ti ha accompagnato?»
«Non mi ricordo.»
«Non ricordi chi ti ha accompagnato?»
«Non ricordo niente. Stavo male per i postumi della
sbornia ed ero ancora mezzo ubriaco.»
«Dài, Quinn!» fece Delocke. «Queste bugie stanno
diventando ridicole. Cosa stai nascondendo? Se non
stessi nascondendo qualcosa, non diresti tante bugie.»
«Cosa diavolo volete sapere esattamente?» domandò
Quinn, alzando le mani in aria.
«Dove avevi preso tutti quei contanti?»
«Sono uno spacciatore. Sono uno spacciatore da una
vita. Sono stato in galera perché sono uno spacciatore. E
noi spacciatori li bruciamo i contanti. Li mangiamo. Lo
capite o no?»
Pankovits stava scuotendo la testa. «Però, vedi, Quinn,
secondo la tua storia, dopo l’evasione non stavi lavorando
molto per la famiglia. Avevano paura di te, giusto? Ho
ragione o no?» domandò a Delocke, il quale confermò
subito che sì, il suo collega aveva ragione.
«La famiglia ti teneva alla larga» spiegò Delocke «e così
hai cominciato con le corse giù al Sud e ritorno. Hai detto
di avere guadagnato circa quarantaseimila dollari, ma noi
adesso sappiamo che è una bugia perché ne hai spesi
ventiquattromila per l’Hummer e abbiamo trovato
quarantunmila dollari nel tuo box al deposito.»
Pankovits aggiunse: «Avevi un bel po’ di contanti, Quinn.
Cosa ci nascondi?».
«Niente.»
«Allora perché stai mentendo?»
«Tutti mentono. Pensavo che su questo fossimo
d’accordo.»
Delocke picchiettò il ripiano del tavolo con un dito e
disse: «Torniamo indietro di qualche anno. Tuo nipote
Jakeel Staley è in carcere qui a Roanoke, in attesa del
processo, e tu versi al suo avvocato una certa somma in
contanti per l’assistenza legale, giusto?».
«Giusto.»
«Ci sono stati altri versamenti di denaro? Un piccolo
extra per ungere il sistema? Magari una bustarella in modo
che la corte avesse la mano leggera con tuo nipote?
Niente del genere, Quinn?»
«No.»
«Sei sicuro?»
«Certo che sono sicuro.»
«Andiamo, Quinn!»
«Ho pagato l’avvocato in contanti. Ho dato per scontato
che si tenesse i soldi per la parcella. Non so altro.»
«Chi era il giudice?»
«Non mi ricordo.»
«Il giudice Fawcett ti dice qualcosa?»
Rucker si strinse nelle spalle. «Forse.»
«Sei mai andato in tribunale con Jakeel?»
«Ero presente quando l’hanno condannato a diciotto
anni.»
«Sei rimasto sorpreso quando gli hanno dato diciotto
anni?»
«Sì, in effetti sì.»
«Si supponeva che prendesse molto meno, vero?»
«Secondo il suo avvocato, sì.»
«E tu eri in aula e hai potuto dare una bella occhiata al
giudice Fawcett, giusto?»
«Ero in aula per mio nipote. Tutto qua.»
La squadra interrogatori fece una pausa nello stesso
momento. Delocke bevve un sorso di Red Bull. Pankovits
disse: «Devo andare in bagno. Tu sei a posto, Quinn?».
Rucker si stava pizzicando la fronte. «Certo» rispose.
«Vuoi qualcosa da bere?»
«Magari una Sprite.»
«Te la porto.»
Pankovits se la prese comoda. Rucker sorseggiò la sua
bibita. L’interrogatorio riprese alle quattro e mezzo,
Delocke domandò: «Allora, Quinn, ti sei tenuto aggiornato
negli ultimi tre mesi? Hai letto i giornali? Sarai stato
curioso di sapere se la tua evasione aveva fatto notizia,
no?».
«Veramente no» rispose Rucker.
«Hai saputo del giudice Fawcett?»
«No. Cosa gli è successo?»
«È stato assassinato, due colpi alla nuca.»
Nessuna reazione da Teile di Rucker. Nessuna
sorpresa. Nessuna pietà. Niente.
«Non lo sapevi, Quinn?» gli chiese Pankovits.
«No.»
«Due pallottole a punta cava, esplose da una pistola
calibro .38 identica a quella che abbiamo trovato nella tua
casa mobile. La perizia balistica preliminare dice che ci
sono novanta probabilità su cento che sia stata la tua
pistola a uccidere il giudice.»
Rucker cominciò a sorridere e ad annuire. «Adesso
capisco: tutta questa storia è per via di un giudice morto.
Voi ragazzi pensate che sia stato io a uccidere Fawcett,
giusto?»
«Esatto.»
«Grandioso. E così abbiamo sprecato... quante?, sette
ore con questa stronzata. State sprecando il vostro tempo,
il mio tempo, il tempo di Dee Ray, il tempo di tutti. Io non ho
ucciso nessuno.»
«Sei mai stato a Ripplemead, Virginia, cinquecento
abitanti, tra le montagne a ovest di Roanoke?»
«No.»
«È il luogo abitato più vicino al laghetto dove è stato
ucciso il giudice. Non ci sono neri a Ripplemead, e quando
ne spunta uno viene notato. Il giorno prima che il giudice
fosse assassinato, in città c’era un nero che corrisponde
alla tua descrizione, secondo il proprietario di una stazione
di servizio.»
«Un’identificazione certa o solo un tirare a indovinare?»
«Una via di mezzo. Domani gli faremo vedere una foto
migliore.»
«Sono sicuro che lo farete e scommetto anche che la
sua memoria migliorerà notevolmente.»
«Di solito succede così» disse Delocke. «Sei chilometri
a ovest di Ripplemead il mondo finisce. Niente più asfalto,
solo una serie di stradine sterrate che si perdono fra le
montagne. C’è un vecchio emporio che si chiama
Peacock’s, e Mr Peacock vede tutto. Dice che il giorno
prima dell’omicidio un nero si è fermato nel suo negozio
per chiedere indicazioni. Mr Peacock non riesce a
ricordare l’ultima volta che aveva visto un nero nella sua
Teile di mondo. Ci ha fornito una descrizione. Corrisponde
perfettamente a te.»
Rucker scrollò le spalle e disse: «Io non sono così
stupido».
«Davvero? Allora perché ti sei tenuto la Smith &
Wesson? Appena riceviamo la perizia balistica definitiva,
tu sei spacciato, Quinn.»
«La pistola è rubata, okay? Le pistole rubate passano di
mano. L’ho comprata in un banco dei pegni a Lynchburg
due settimane fa. Nell’ultimo anno probabilmente ha
cambiato proprietario almeno una decina di volte.»
Un buon punto, che i due agenti non potevano
contestare, almeno finché non fossero stati completati i test
balistici. Una volta che avessero avuto la prova, tuttavia,
nessuna giuria avrebbe creduto alla storia della pistola
rubata.
«Nel tuo box al deposito abbiamo trovato un paio di
stivali da combattimento» disse Pankovits. «Roba
scadente, di falsa provenienza militare: tela, disegno
mimetico, tutte quelle stronzate. Sono abbastanza nuovi, e
non sembrano essere stati usati molto. A cosa ti servono
degli stivali da combattimento, Quinn?»
«Ho le caviglie deboli.»
«Ottima risposta. Te li metti spesso?»
«Non così spesso, visto che erano nel deposito. Li ho
provati, mi hanno fatto venire una vescica e li ho lasciati
perdere. Qual è il problema?»
«Il problema è che corrispondono all’impronta di uno
stivale che abbiamo rilevato sul terreno non lontano dal
cottage dove è stato ucciso il giudice Fawcett» disse
Pankovits mentendo, ma con molta efficacia. «Un
riscontro, Quinn. Un riscontro che ti inchioda sulla scena.»
Rucker spalancò la bocca e si sfregò gli occhi. Erano
stanchi e iniettati di sangue. «Che ore sono?»
«Le quattro e cinquanta» rispose Delocke.
«Ho bisogno di dormire un po’.»
«Be’, questo potrebbe essere difficile, Quinn. Abbiamo
parlato con il carcere di contea e la tua cella è parecchio
affollata. Otto uomini, quattro brande. Sarai fortunato se
avrai un pezzetto di pavimento.»
«Non credo che quel carcere mi piaccia. Non potremmo
trovarne un altro?»
«Spiacente. Se non è di tuo gradimento, aspetta di
vedere il braccio della morte.»
«Io non andrò in nessun braccio della morte perché non
ho ucciso nessuno.»
«Ti faccio il quadro della situazione, Quinn» disse
Pankovits. «Due testimoni ti collocano in zona al momento
dell’omicidio, e la zona non è esattamente un trafficato
incrocio stradale. Tu eri là, sei stato notato e si ricordano di
te. La balistica ti inchioda. L’impronta di stivale è la
ciliegina sulla torta: quella è la scena del delitto. E dopo
l’omicidio le cose si mettono addirittura meglio, o peggio,
a seconda dei punti di vista. Tu eri a Roanoke il giorno
dopo la scoperta dei cadaveri, martedì otto febbraio, per
tua stessa ammissione e come documentato dal registro
della prigione della città e da quello del tribunale. E
all’improvviso avevi un sacco di contanti. Hai pagato la
cauzione, hai speso ventiquattromila dollari per l’Hummer,
hai sperperato un altro mucchio di soldi e quando alla fine
ti becchiamo, troviamo un altro bel po’ di dollari nascosti
nel box di un magazzino. Il movente? Abbiamo un ottimo
movente. Tu avevi un accordo con il giudice Fawcett
perché deliberasse a favore di Jakeel Staley. Gli hai dato
una mazzetta, qualcosa come cinquecentomila dollari, ma,
dopo essersi preso i soldi, Fawcett si è dimenticato
dell’accordo. Ha scaricato tutto il Codice addosso a Jakeel
e tu hai giurato vendetta. E alla fine l’hai avuta.
Sfortunatamente, ci è andata di mezzo anche la segretaria
del giudice.»
«È un caso da condanna a morte, Quinn» disse
Delocke. «I giochi sono chiusi. Pena capitale.»
Quinn chiuse gli occhi e il corpo sembrò rattrappirsi.
Cominciò a respirare affannosamente mentre la fronte si
imperlava di sudore. Passò un minuto, poi un altro. Il duro
di prima non c’era più. La sua controfigura disse con voce
flebile: «Avete preso l’uomo sbagliato».
Pankovits scoppiò a ridere e Delocke, sogghignando,
domandò: «È il meglio che riesci a tirare fuori?».
«Avete preso l’uomo sbagliato» ripeté Rucker, ma con
convinzione addirittura minore.
«Suona piuttosto debole, Quinn» osservò Delocke. «E
suonerà ancora più debole in aula.»
Quinn si fissò le mani e lasciò passare un altro minuto.
Poi disse: «Se voi ragazzi sapete tutte queste cose,
cos’altro volete?».
«C’è ancora qualche buco» ammise Pankovits. «Hai
agito da solo? Come hai aperto la cassaforte? Perché hai
ucciso la segretaria? Cos’è successo al resto del
denaro?»
«Non vi posso aiutare. Non so niente.»
«Tu sai tutto, Quinn, e non ce ne andremo finché non
avrai riempito i buchi.»
«Allora credo che resteremo qui a lungo» disse Rucker.
Si piegò in avanti, posò la testa sul tavolo e annunciò: «Ho
bisogno di un sonnellino».
I due agenti si alzarono in piedi raccogliendo fascicoli e
blocchi per appunti. «Facciamo una pausa, Quinn.
Torniamo fra mezz’ora.»
15
Anche se soddisfatto dei progressi dell’interrogatorio,
Victor Westlake era preoccupato. Non c’erano testimoni,
nessuna perizia balistica che collegasse la .38 di Quinn
alla scena del delitto, nessuna impronta di stivale e nessun
interrogatorio in simultanea di Dee Ray. C’era un movente,
se dovevano credere alla storia di Malcolm Bannister sulla
bustarella. Ma fino a quel momento gli elementi più
consistenti erano la presenza di Quinn Rucker a Roanoke il
giorno dopo la scoperta dei cadaveri e i troppi contanti che
aveva con sé. Westlake e la sua squadra erano esausti per
la nottata in piedi e fuori era ancora buio. Si ricaricarono
tutti con il caffè e fecero lunghe passeggiate nel Freezer.
Ogni tanto davano un’occhiata allo schermo per controllare
il loro sospettato. Quinn teneva la testa sul tavolo, ma non
stava dormendo.
Alle sei Pankovits e Delocke rientrarono nella stanza degli
interrogatori, ognuno con un nuovo pieno di Red Bull con
ghiaccio in un bicchiere alto. Rucker sollevò la testa dal
tavolo e si risistemò sulla sedia per un altro round.
Fu Pankovits a cominciare. «Abbiamo appena parlato al
telefono con il procuratore federale. Lo abbiamo informato
dei nostri progressi con te e ci ha detto che il gran giurì si
riunirà domani per il rinvio a giudizio. Due capi d’accusa
per omicidio, con richiesta di pena capitale.»
«Congratulazioni» disse Quinn. «Allora farei meglio a
trovarmi un avvocato, immagino.»
«Certo, ma forse ce ne vorrà più di uno. Io non so quanto
tu capisca di leggi federali contro l’attività di racket, ma ti
assicuro che possono essere brutali. Il procuratore
sosterrà che gli omicidi del giudice Fawcett e della sua
segretaria sono stati opera di una gang, una gang ben nota
e ben organizzata, e che tu, naturalmente, sei stato
l’esecutore materiale. Il rinvio a giudizio elencherà un
sacco di imputazioni, non solo il duplice omicidio, ma
anche la corruzione. E, cosa più importante, non citerà te
soltanto, ma pure altri nefasti personaggi come Tall Man,
Dee Ray, una delle tue sorelle, tuo cugino Antoine Beck e
una ventina di altri parenti.»
«Potrete avere un’ala tutta vostra nel braccio della
morte» aggiunse Delocke. «La gang Rucker-Beck, tutti in
fila cella dopo cella, in attesa dell’ago.» Delocke stava
sorridendo e Pankovits era divertito. Una coppia di comici.
Quinn cominciò a grattarsi una tempia e a parlare con gli
occhi rivolti al pavimento. «Sapete, mi chiedo cosa
direbbe il mio avvocato di tutto questo, con me rinchiuso in
questa stanza buia e senza finestre per tutta la notte,
dalle... che ora era?, diciamo dalle nove di ieri sera, e
adesso sono le sei di mattina. Nove ore di seguito di
stronzate, con voi due che prima mi accusate di avere
corrotto un giudice, poi di avere ucciso un giudice, e
adesso mi minacciate di morte, e non solo me, ma anche
la mia famiglia. Voi dite che avete dei testimoni, tutti in fila
là fuori e pronti a testimoniare, più la perizia su una pistola
rubata, più l’impronta di uno stivale di qualche figlio di
puttana che ha camminato nel fango. E io come faccio a
sapere se questa è la verità o mi state raccontando
cazzate? Perché io non mi fido per niente dell’FBI, non mi
sono mai fidato e non mi fiderò mai. Mi avete mentito la
prima volta che mi avete preso e do per scontato che state
mentendo anche qui, questa notte. Forse io ho raccontato
qualche balla, ma voi due potete onestamente sostenere di
non avermi mentito questa notte? Potete?»
Pankovits e Delocke lo fissarono. Forse era paura, o
senso di colpa. Forse era delirio. Qualunque cosa fosse,
Quinn stava parlando.
«Stiamo dicendo la verità» riuscì a dire Pankovits.
«E aggiungiamo un’altra balla all’elenco. Il mio avvocato
andrà fino in fondo a questa faccenda. Vi farà il culo in
aula, vi denuncerà pubblicamente, voi e le vostre bugie.
Fatemi vedere la perizia sull’impronta dello stivale.
Adesso, voglio vederla adesso.»
«Non siamo autorizzati a mostrarla» disse Pankovits.
«Molto comodo.» Quinn si piegò in avanti, appoggiando
i gomiti sulle ginocchia, quasi sfiorando il bordo del tavolo
con la fronte. Continuò a parlare al pavimento: «E la perizia
balistica? Posso vederla?».
«Non siamo autorizzati a...»
«Ma che sorpresa. Se la farà dare il mio avvocato,
quando e dove avrò la possibilità di parlare con lui. Ho
chiesto l’avvocato per tutta la notte, i miei diritti sono stati
violati.»
«Tu non hai chiesto l’avvocato» precisò Delocke. «Hai
accennato a un avvocato in termini vaghi, ma non ne hai
mai chiesto uno. E hai continuato a parlare.»
«Come se avessi avuto scelta. O stavo qui seduto a
parlare, oppure finivo in una cella insieme a un branco di
alcolizzati. Ci sono già passato, sapete, e non ho paura.
Fa Teile del mestiere, tu commetti il tuo reato e, se ti
beccano, vai dentro. Conosci già le regole quando entri nel
business. Non fai altro che vedere amici e parenti che
finiscono in galera. Ma poi tornano, no? Sconti la tua pena
ed esci.»
«Oppure evadi» disse Delocke.
«Anche. Una cosa abbastanza stupida, forse, ma
dovevo uscire.»
«Perché dovevi sistemare un vecchio conto, vero? In
prigione non hai fatto che pensare al giudice Fawcett tutti i
giorni, per due anni. Si era preso i tuoi soldi e poi non
aveva rispettato i patti. Nel tuo ambiente, questo
significava che doveva morire, non è così?»
«Sì, è così.»
Quinn si stava massaggiando le tempie, fissandosi i
piedi, quasi borbottando. I due agenti fecero un respiro
profondo e si scambiarono un sorriso veloce. Finalmente il
primo accenno di ammissione.
Pankovits risistemò alcuni fogli e disse: «Dunque, Quinn,
facciamo il punto della situazione. Hai appena ammesso
che il giudice Fawcett doveva morire, giusto? Quinn?».
Rucker era ancora chino sui gomiti e fissava il
pavimento, dondolandosi avanti e indietro come intontito.
Delocke lesse dal suo blocco e disse: «Secondo i miei
appunti, io ti ho rivolto la testuale domanda: “Nel tuo
ambiente questo significa che doveva morire, non è così?”.
E tu hai risposto: “Sì, è così”. Lo neghi?».
«Mi state mettendo le parole in bocca. Piantatela.»
«Okay, Quinn» intervenne Pankovits. «Dobbiamo
informarti di alcuni recenti sviluppi. Circa due ore fa, Dee
Ray ha finalmente ammesso di averti dato i contanti da
consegnare al giudice Fawcett. Ha ammesso anche che lui
stesso, Tall Man e qualche altro ti hanno aiutato a
pianificare il delitto. Dee Ray ha spiattellato tutto e ha già
concluso un accordo: niente condanna a morte, niente
imputazione di omicidio con richiesta di pena capitale.
Abbiamo fermato Tall Man due ore fa e adesso stiamo
cercando una delle tue sorelle. La situazione sta
diventando critica.»
«Ma andiamo. Loro non sanno niente.»
«Certo che sanno, e domani saranno rinviati a giudizio
insieme a te.»
«Non potete fare una cosa del genere. Mia madre ne
morirà. Povera donna, ha settant’anni e il cuore malandato.
Non potete metterla in mezzo in questo modo.»
«Allora deciditi a parlare, Quinn!» disse Pankovits
alzando la voce. «Affronta le conseguenze! Tu hai
commesso il reato. E, come ti piace dire, adesso vai
dentro. Non ha senso trascinarti dietro il resto della
famiglia.»
«Io parlo, e poi?»
«Facciamo un accordo. Tu ci fornisci tutti i dettagli e noi
ci impegniamo a fare in modo che il procuratore federale
lasci in pace la tua famiglia» rispose Pankovits.
«C’è un’altra cosa» aggiunse Delocke. «Se
concludiamo l’accordo, non ci sarà pena di morte. Solo
ergastolo, senza libertà vigilata. A quanto pare la famiglia
Fawcett non crede nella pena di morte e intende evitare un
processo lungo e penoso. Vogliono che il caso sia chiuso,
e il procuratore rispetterà i loro desideri. Lui stesso ha
detto che prenderà in considerazione un patteggiamento,
se ti dichiarerai colpevole. Un patteggiamento che ti
salverà la vita.»
«Perché dovrei credervi?»
«Non sei obbligato a crederci. Puoi aspettare che arrivi
il rinvio a giudizio tra un paio di giorni. Ci saranno qualcosa
come trenta persone accusate di vari reati.»
Quinn Rucker si alzò lentamente in piedi e tese le
braccia più in alto possibile. Fece alcuni passi in una
direzione, poi nell’altra e cominciò a dire: «Bannister,
Bannister, Bannister».
«Come dici?» chiese Pankovits.
«Bannister, Bannister, Bannister.»
«Chi è Bannister?» domandò Delocke.
«Bannister è uno spione» rispose Quinn con amarezza.
«Un verme, un vecchio amico di Frostburg, un avvocato
disonesto che dice di essere innocente. Ma è soltanto uno
spione. Non fate finta di non conoscerlo, perché non
sareste qui se lui non fosse uno spione.»
«Mai sentito nominare» disse Pankovits. Delocke stava
scuotendo la testa: no.
Rucker si rimise a sedere e piantò entrambi i gomiti sul
tavolo. Sveglissimo, ora, teneva gli occhi fissi sui due
agenti e si sfregava le grosse mani. «Allora, qual è
l’accordo?»
«Noi non possiamo fare accordi, Quinn. Ma possiamo
fare in modo che le cose succedano» disse Pankovits.
«Tanto per cominciare, richiamiamo i cani a Washington,
così la tua famiglia e la tua gang vengono lasciate in pace,
almeno per il momento. Il procuratore federale è sotto
pressione da cinque settimane, dal momento dell’omicidio,
e vuole disperatamente qualche buona notizia. Lui ci
assicura, e noi lo assicuriamo a te, che non richiederà la
pena di morte e che ci sarà un unico imputato. Solo tu, per
i due omicidi. Semplice e chiaro.»
«Questa è metà dell’accordo» precisò Delocke. «L’altra
metà è una tua dichiarazione registrata in video in cui
confessi gli omicidi.»
Quinn intrecciò le mani dietro la testa e chiuse gli occhi.
Passò un minuto a lottare con se stesso. «Voglio il mio
avvocato» disse finalmente a denti stretti.
Fu Delocke a rispondergli: «Puoi chiederlo, Quinn, ovvio
che puoi chiederlo. Ma in questo momento Dee Ray e Tall
Man sono sotto custodia. Stanno cantando come usignoli e
la situazione sta peggiorando. Potrebbero passare un paio
di giorni prima che il tuo avvocato arrivi quaggiù. Ma se
parli, noi liberiamo i tuoi fratelli e li lasciamo in pace».
Rucker ebbe uno scatto improvviso e gridò: «Va bene!».
«Va bene cosa?»
«Va bene, ci sto!»
«Non così in fretta, Quinn» disse Pankovits. «Prima
dobbiamo definire alcune cose. Riesaminiamo i fatti, li
mettiamo in ordine, prepariamo il set e ci accertiamo che
siamo tutti d’accordo sulla scena del delitto. Dobbiamo
assicurarci che non manchi nessun dettaglio importante.»
«Okay, okay. Ma posso fare colazione?»
«Certo, Quinn, nessun problema. Abbiamo tutto il
giorno.»
16
Una delle poche virtù della vita in carcere è la graduale
acquisizione della pazienza. Dato che niente si muove a un
ritmo ragionevole, impari a ignorare l’orologio. Domani
arriverà abbastanza presto e, come sfida, è già sufficiente
sopravvivere all’oggi. Dopo il mio breve viaggio a
Washington, per un paio di giorni vago in giro per
Frostburg, ricordando a me stesso che sono diventato una
persona molto paziente, che l’FBI si muoverà in fretta e che,
in ogni caso, non c’è più niente che io possa fare. Ma con
mia grande sorpresa, e sollievo, gli avvenimenti si
susseguono con rapidità.
Non mi aspetto che l’FBI mi tenga informato, per cui non
ho modo di sapere se Quinn Rucker sia stato arrestato e
se abbia confessato. La notizia viene data sabato 19
marzo dal “Washington Post”; è in prima pagina, in taglio
basso: Arrestato un uomo per l’omicidio del giudice
federale. C’è una foto grande in bianco e nero di Quinn,
una foto segnaletica, e io fisso il mio vecchio amico negli
occhi mentre mi siedo nella sala caffè subito dopo
colazione. L’articolo è piuttosto avaro di fatti, ma ricco di
sospetti più o meno fondati. Evidentemente tutte le
informazioni vengono selezionate dall’FBI, per cui non ci
sono molti Teilicolari. Si parla dell’arresto a Norfolk di un
evaso, un criminale con una condanna per traffico di droga
e una lunga storia di criminalità organizzata nell’area di
Washington. Non si accenna neppure a un movente, né a
come l’FBI sia arrivato a stabilire che Quinn è il suo uomo;
c’è solo un riferimento di sfuggita a una perizia balistica.
Cosa più importante, l’articolo dice: “Dopo aver rinunciato
ai diritti del Miranda, il sospettato si è volontariamente
sottoposto a un lungo interrogatorio e ha fornito all’FBI una
confessione videoregistrata”.
Ho conosciuto Quinn Rucker due anni fa, poco dopo il
suo arrivo a Frostburg. Una volta sistemato e ambientato,
venne in biblioteca e mi chiese di dare un’occhiata alla sua
sentenza. In prigione impari a fare amicizia senza fretta,
con molta cautela, perché sono poche le persone sincere.
Naturalmente il posto pullula di ladri, truffatori e artisti del
raggiro, e tutti stanno in guardia per salvarsi la pelle. Con
Quinn, però, le cose erano diverse. Risultava subito
simpatico, e non credo di avere mai incontrato qualcuno
con altrettanto carisma e schiettezza. Ma a volte cambiava
umore, si ritirava in se stesso e si trascinava in quelli che
definiva i suoi “giorni bui”, durante i quali era irritabile,
ruvido, duro, e un impeto di violenza non si poteva
escludere. Mangiava da solo e non parlava con nessuno.
Due giorni dopo, raccontava barzellette a colazione e
sfidava a poker i giocatori più bravi. Poteva essere
chiacchierone e arrogante, o silenzioso e vulnerabile.
Come ho detto, non c’è violenza a Frostburg. La cosa più
vicina a una rissa che abbia mai visto fu quando un
montanaro che chiamavamo Skunk sfidò Quinn a pugni per
risolvere una disputa di gioco. Skunk era più basso di
Rucker di almeno dieci centimetri e pesava una decina di
chili in meno, ma il combattimento non ebbe mai luogo.
Quinn fece un passo indietro, umiliandosi. Due giorni dopo
mi fece vedere uno shank, un coltello rudimentale che si
era procurato. Aveva in mente di servirsene per tagliare la
gola a Skunk.
Riuscii a dissuaderlo, anche se non ero convinto che
parlasse sul serio. Passavamo un sacco di tempo insieme
e diventammo amici. Quinn era convinto che io potessi fare
qualche magia legale che ci avrebbe fatto uscire entrambi,
dopodiché saremmo diventati soci in qualcosa. Era stanco
dell’attività di famiglia, voleva sistemarsi e rigare diritto.
C’era una pentola piena d’oro che aspettava là fuori, e il
giudice Fawcett c’era seduto sopra.
Henry Bannister sta aspettando in sala visite,
malinconicamente seduto su una sedia pieghevole mentre
vicino a lui strillano una giovane madre e i suoi tre bambini.
Con il passare delle ore la sala si riempirà sempre di più e
Henry preferisce togliersi il pensiero il prima possibile. Il
regolamento consente a un familiare di sedersi a
chiacchierare con il detenuto dalle sette del mattino fino
alle quindici, tutti i sabati e le domeniche, ma per Henry
un’ora è sufficiente. E anche per me.
Se le cose andranno come programmato, e ho scarse
ragioni di credere che sarà così, questo potrebbe essere
l’ultimo colloquio con mio padre. Potrei non rivederlo più
per anni, forse per sempre, ma di questo non posso
parlare. Prendo il sacchetto dei biscotti di zia Racine e ne
sgranocchio uno. Parliamo di mio fratello Marcus e dei
suoi figli delinquenti, poi di mia sorella Ruby e dei suoi figli
perfetti.
La città di Winchester conta in media un omicidio
all’anno e la quota è stata raggiunta la settimana scorsa,
quando un marito è rientrato dal lavoro prima del previsto e
ha notato un furgone nel suo vialetto. È entrato in casa
senza far rumore e ha sorpreso la moglie insieme a un suo
conoscente, entrambi intenti a violare con entusiasmo i
rispettivi vincoli coniugali. Il marito ha preso il fucile e
l’adultero, appena l’ha visto, ha tentato di saltare fuori da
una finestra chiusa della camera da letto, nudo. Non ce l’ha
fatta, e sono seguiti i colpi di fucile.
Henry ritiene che il marito potrebbe anche cavarsela e si
diverte a raccontare l’episodio. A quanto pare la città è
divisa a metà tra chi sostiene la tesi dell’omicidio
volontario e chi pensa invece che si tratti di una reazione
giustificata. Mi sembra quasi di sentire i pettegolezzi
spietati nei bar della città vecchia che ero solito
frequentare. Mio padre si sofferma a lungo su questa
storia, probabilmente perché nessuno di noi due ha voglia
di parlare di questioni familiari.
Però dobbiamo parlarne. Henry cambia argomento.
«Sembra che quella ragazzina bianca stia pensando a un
aborto. Forse non diventerò bisnonno, alla fine.»
«Delmon lo rifarà» dico. Ci aspettiamo sempre il peggio
da quel ragazzo.
«Dobbiamo farlo sterilizzare. È troppo stupido per usare
il preservativo.»
«Compragliene un po’, comunque. Lo sai che Marcus è
sempre al verde.»
«Io vedo quel ragazzo solo quando ha bisogno di
qualcosa. Accidenti, probabilmente li vorranno da me i
soldi per l’aborto. Credo che la ragazza sia una
poveraccia.»
Mentre siamo in argomento soldi, non posso fare a
meno di pensare alla ricompensa per il caso Fawcett.
Centocinquantamila dollari in contanti. Non ho mai visto
tanto denaro tutto insieme. Prima che nascesse Bo,
Dionne e io un giorno ci rendemmo conto che avevamo
risparmiato seimila dollari. Ne mettemmo metà in un fondo
di investimento e con il resto andammo in crociera. Le
nostre giudiziose abitudini vennero presto dimenticate,
perché in seguito non disponemmo mai più di una simile
quantità di denaro. Poco prima del mio rinvio a giudizio,
rifinanziammo l’ipoteca sulla nostra casa per spremere fino
all’ultima goccia del suo valore. I soldi servivano per le
parcelle legali.
Sarò ricco e libero. Rammento a me stesso che non
devo eccitarmi troppo, ma è impossibile.
Henry ha bisogno di un nuovo ginocchio sinistro e per un
po’ parliamo di questo. Ha sempre preso in giro gli anziani
che parlano solo dei loro malanni, ma sta diventando così
anche lui. Dopo un’ora è già annoiato e pronto ad
andarsene. Lo accompagno alla porta e ci stringiamo
formalmente la mano. Henry se ne va e io mi chiedo se lo
rivedrò mai.
Domenica. Non una parola dall’FBI, né da nessun altro.
Dopo colazione leggo quattro quotidiani e non vengo a
sapere niente di nuovo su Quinn Rucker e sul suo arresto.
Però uno sviluppo significativo c’è. Secondo il “Post” il
procuratore federale del Distretto Sud della Virginia
sottoporrà il caso al gran giurì domani. Lunedì. Se il gran
giurì si pronuncerà per il rinvio a giudizio, allora, in teoria e
in base agli accordi, io dovrei diventare un uomo libero.
In carcere c’è una sorprendente quantità di credi religiosi
organizzati. Noi, uomini tormentati, cerchiamo sollievo,
pace, conforto e guida. Siamo stati umiliati, mortificati,
spogliati di ogni dignità, privati della famiglia e dei nostri
beni. Non ci è rimasto niente. Buttati nell’inferno,
guardiamo in alto in cerca di una via d’uscita. Qui dentro ci
sono due o tre musulmani che pregano cinque volte al
giorno e fanno gruppo per conto loro. C’è un sedicente
monaco buddista con alcuni seguaci. Nessun ebreo o
mormone, che io sappia. Poi ci siamo noi cristiani, ed è
qui che le cose si fanno complicate. Un sacerdote cattolico
si presenta due volte al mese per celebrare la messa alle
otto della domenica mattina. Appena i cattolici sgombrano
la piccola cappella, viene tenuto un servizio
multiconfessionale per i fedeli delle principali chiese:
metodista, battista, presbiteriana eccetera. È lì che vado
quasi tutte le domeniche. Alle dieci i pentecostali bianchi si
riuniscono per una chiassosa funzione che prevede musica
ad alto volume e preghiere a volume ancora più alto, oltre a
guarigioni miracolose e gente che comincia a parlare in
lingue sconosciute. La cosa dovrebbe concludersi alle
undici, ma spesso si prolunga per via dello spirito che
passa tra i fedeli. I pentecostali neri dovrebbero avere la
cappella libera alle undici, ma a volte devono aspettare che
i bianchi smaltiscano l’ispirazione. Ho sentito storie di litigi
tra i due gruppi, ma finora non sono mai scoppiate risse.
Una volta impadronitisi del pulpito, i pentecostali neri se lo
tengono per tutto il pomeriggio.
Sarebbe sbagliato farsi l’idea che Frostburg sia pieno di
predicatori evangelici integralisti. Non è così. È sempre un
carcere, e la maggior Teile dei miei compagni non si
farebbe sorprendere nemmeno morto a una funzione
religiosa.
Mentre esco dalla cappella dopo la funzione
multiconfessionale, un agente penitenziario si avvicina e mi
dice: «Ti vogliono nella palazzina dell’amministrazione».
17
L’agente Hanski mi sta aspettando insieme a un nuovo
giocatore della Teilita: Pat Surhoff, US Marshal. Dopo le
presentazioni ci sediamo intorno a un piccolo tavolo.
Siamo in un ufficio in fondo al corridoio, non lontano da
quello del direttore, il quale, naturalmente, non si farebbe
mai sorprendere qui di domenica, e chi può biasimarlo?
Hanski estrae subito un documento e lo fa scivolare sul
tavolo. «Questo è il rinvio a giudizio» mi dice. «Emesso nel
tardo pomeriggio di venerdì scorso a Roanoke; è ancora
un segreto, ma la notizia sarà comunicata alla stampa per
prima cosa domani mattina.» Stringo il foglio nella mano
come se fosse un lingotto d’oro e ho dei problemi a
mettere a fuoco le parole. “Stati Uniti d’America contro
Quinn Al Rucker.” È scritto nell’angolo a destra in alto, con
la data di venerdì scorso in inchiostro azzurro.
«Sul “Post” c’era scritto che il gran giurì si sarebbe
riunito domattina» mi azzardo a dire, anche se è ovvio che
è già successo.
«Stiamo giocando con la stampa» replica compiaciuto
Hanski. Compiaciuto, ma molto più gentile e simpatico,
questa volta. I nostri ruoli sono drasticamente cambiati.
Prima ero il galeotto dallo sguardo sfuggente in cerca di un
accordo, e che probabilmente voleva fregare il sistema.
Ora invece sono il ragazzo d’oro, quello che sta per uscire
di qui portando con sé un bel po’ di soldi.
Scuoto la testa e dico: «Ragazzi, sono senza parole.
Datemi una mano».
Hanski è pronto a lanciarsi. «Le spiego cosa abbiamo in
mente, Mr Bannister.»
«Cosa ne dici di chiamarmi Mal?»
«Fantastico. Io sono Chris e lui è Pat.»
«Okay.»
«Il diTeilimento dell’amministrazione penitenziaria ti ha
appena riassegnato al carcere di media sicurezza di Fort
Wayne, Indiana. Motivo ignoto, o non comunicato. Qualche
violazione alle regole che ha fatto incazzare i grandi capi.
Niente visite per sei mesi. Regime di isolamento. Eventuali
curiosi potranno rintracciarti online nel sito del servizio
localizzazione detenuti, ma andranno presto a sbattere
contro un muro. Dopo un paio di mesi a Fort Wayne, sarai
trasferito di nuovo. L’idea è di spostarti continuamente
attraverso il sistema fino a seppellirtici dentro.»
«Sono certo che per il Bureau sarà piuttosto facile»
osservo. Ridono di gusto tutti e due. Cavolo, ho cambiato
squadra o cosa?
«Tra qualche minuto Teiliamo con la sceneggiata delle
manette e delle catene alle caviglie, per l’ultima volta, e ti
scortiamo fuori di qui, come per un normale trasferimento.
Salirai su un furgone privo di contrassegni insieme a Pat e
a un altro marshal e punterai a ovest, direzione Fort
Wayne. Io vi seguirò. A cento chilometri da qui, su questo
lato di Morgantown, ci fermeremo in un motel dove
abbiamo preso alcune camere. Lì ti cambi, pranzi e poi
parleremo del futuro.»
«Tra qualche minuto?» Sono scioccato.
«Il piano è quello. C’è qualcosa nella tua cella senza la
quale non puoi vivere?»
«Sì. Qualche effetto personale, documenti e cose varie.»
«Okay. Domani faremo inscatolare tutto da qualcuno del
carcere e poi provvederemo a fartelo avere. È meglio se
non torni in cella. Se qualcuno ti vedesse raccogliere le tue
cose, ci potrebbero essere delle domande. Non vogliamo
che si sappia che te ne vai finché non sarai già lontano.»
«Capito.»
«Niente addii o stronzate del genere, okay?»
«Okay.» Per un secondo penso ai miei amici qui a
Frostburg, ma lascio perdere in fretta. Questo giorno
arriverà anche per loro, e una volta che sei libero non ti volti
a guardare indietro. Dubito seriamente che i rapporti stretti
in prigione durino anche fuori. E nel mio caso, in
Teilicolare, non potrò mai ritrovarmi con i vecchi amici per
parlare dei tempi andati. Sto per diventare un’altra
persona.
«Hai settantotto dollari sul tuo conto della prigione. Li
trasferiremo a Fort Wayne e si perderanno nei meandri del
sistema.»
«Fregato un’altra volta dal governo federale» dico, e di
nuovo Hanski e il marshal mi trovano spiritoso.
«Domande?» mi chiede Hanski.
«Certo. Come siete riusciti a farlo confessare? È troppo
furbo per una cosa del genere.»
«Francamente siamo rimasti sorpresi anche noi. Ci
siamo serviti di due nostri veterani dell’interrogatorio, che
hanno i loro metodi. Rucker ha accennato un paio di volte a
un avvocato, ma poi non ha dato seguito alla cosa. Voleva
parlare e sembrava sconvolto dal fatto di essere stato
catturato, non per l’evasione, ma per l’omicidio. Voleva
sapere cosa sapevamo, così abbiamo continuato a
parlare. Per dieci ore. Per tutta la notte e fino alle prime ore
del mattino. Non voleva assolutamente andare in cella e
quindi è rimasto nella stanza. E una volta che si è convinto
che noi sapevamo quello che sapevamo, è crollato.
Quando abbiamo accennato alla possibilità di accusare
tutta la sua famiglia, e buona Teile della gang, ha voluto
negoziare un accordo. E ci ha detto tutto.»
«Con “tutto” cosa intendi?»
«La sua storia è sostanzialmente quella che ci hai
raccontato tu. Rucker aveva dato una bustarella di
cinquecentomila dollari al giudice Fawcett perché salvasse
suo nipote, e invece il giudice l’ha fregato. Si è tenuto i
soldi e ha inchiodato il ragazzo. Nel mondo di Quinn quello
è un crimine che non può essere perdonato. Rucker ha
controllato i movimenti di Fawcett, l’ha seguito al cottage, è
piombato su di lui e sulla segretaria e si è vendicato.»
«Quanta Teile dei soldi era rimasta?»
«Circa la metà. Quinn afferma di essere entrato
nell’apTeilamento del giudice a Roanoke, di averlo
perquisito e di non essere riuscito a trovare il denaro. Ha
sospettato che fossero nascosti da qualche altra Teile, in
un posto più sicuro, ed è per questo che ha seguito
Fawcett fino al cottage. Gli è saltato addosso sulla
veranda, l’ha sopraffatto ed è entrato. Non era sicuro che il
denaro fosse lì, ma era deciso a scoprire il nascondiglio.
Ha fatto qualche brutta cosa alla segretaria e Fawcett si è
convinto a dirgli dove erano i soldi. Ed ecco la cassaforte
nascosta. Nella mente di Quinn, il denaro apTeileneva a
lui.»
«E immagino che si sentisse in dovere di uccidere quei
due.»
«Oh, certo. Non poteva lasciarsi dietro due testimoni.
Non c’è alcun rimorso, Mal. Il giudice se l’era cercata, la
segretaria gli è semplicemente finita tra i piedi. Adesso
Quinn dovrà vedersela con due imputazioni di omicidio.»
«Perciò è un caso da pena di morte?»
«Molto probabilmente. Non abbiamo mai giustiziato
nessuno per l’omicidio di un giudice federale e ci
piacerebbe fare di Quinn Rucker il nostro primo esempio.»
«Ha fatto il mio nome?» chiedo, sicuro della risposta.
«L’ha fatto eccome. Sospetta fortemente che sia tu la
nostra fonte, e con ogni probabilità sta già pianificando la
sua vendetta. È per questo che adesso siamo qui, pronti a
Teilire.»
Io voglio Teilire, ma non così in fretta. «Quinn sa
dell’articolo 35, tutti i detenuti federali ne sono al corrente.
Tu risolvi un crimine commesso fuori e la tua condanna
viene commutata. Inoltre, Quinn ritiene che io sia un
brillante avvocato. Lui e la sua famiglia sapranno
benissimo che sono fuori, non in prigione, non a Fort
Wayne né in qualsiasi altro carcere.»
«È vero, ma lasciamoli nel dubbio. È importante che
anche la tua famiglia e i tuoi amici ti credano ancora
sottochiave.»
«Siete preoccupati per i miei familiari?» domando.
Finalmente parla Pat Surhoff. «In qualche modo, sì.
Possiamo metterli sotto protezione, se lo desideri.
Ovviamente questo sconvolgerebbe la loro vita.»
«Non accetteranno mai» dico. «Mio padre ti mollerebbe
un pugno, se solo gliene parlassi. È un poliziotto in
pensione ed è convinto di saper badare a se stesso. Mio
figlio ha un nuovo padre e una nuova vita.» Non riesco a
immaginare una telefonata a Dionne per informarla che Bo
potrebbe essere in pericolo a causa di qualcosa che ho
combinato in prigione. E c’è una Teile di me che non crede
che Quinn Rucker potrebbe fare del male a un ragazzino
innocente.
«Possiamo riparlarne più tardi, se vuoi» suggerisce Pat
Surhoff.
«Sì, facciamo così. In questo momento ho troppi pensieri
per la testa.»
«La libertà ti aspetta, Mal» dice Hanski.
«Andiamocene di qui.» Seguo Hanski e Surhoff lungo il
corridoio fino a un altro edificio, dove mi stanno aspettando
tre agenti penitenziari e il loro capitano. Mi mettono le
manette ai polsi e le catene alle caviglie, poi vengo
scortato fino a un minivan fermo lungo il marciapiede. Un
osservatore all’oscuro di tutto penserebbe che mi stiano
accompagnando all’esecuzione. Al volante c’è un altro
marshal che si chiama Hitchcock. Surhoff chiude lo
sportello scorrevole di fianco a me e si sistema sul sedile
anteriore del passeggero. Teiliamo.
Mi rifiuto di voltarmi per dare un ultimo sguardo a
Frostburg, di cui ho già immagini a sufficienza per anni.
Osservo la campagna che mi sfreccia di lato e non riesco
a reprimere un sorriso. Pochi minuti dopo entriamo nel
parcheggio di un centro commerciale. Surhoff scende, fa
scorrere la portiera e mi apre le manette. Poi mi libera le
caviglie. «Congratulazioni» mi dice con calore, e io decido
che quest’uomo mi piace. Sento per l’ultima volta il
clangore delle catene e mi massaggio i polsi.
Riprendiamo il viaggio lungo l’Interstatale 68 in direzione
ovest. È quasi primavera e le colline ondulate del Maryland
occidentale cominciano a mostrare segni di vita. Sono
quasi sopraffatto da questi primi momenti di libertà. Ho
sognato questo giorno per cinque anni e la sensazione è
esaltante. Ci sono tantissimi pensieri che competono per
avere la mia attenzione. Non vedo l’ora di scegliermi gli
abiti che voglio e di indossare un paio di jeans. Non vedo
l’ora di comprarmi un’auto e andare dove mi pare.
Desidero da morire la sensazione del corpo di una donna
e il sapore di una bistecca e di una birra ghiacciata. Rifiuto
di preoccuparmi per la sicurezza di mio figlio e di mio
padre. Nessuno farà loro del male.
I marshal hanno voglia di chiacchierare e io li ascolto.
Pat Surhoff mi sta dicendo: «Dunque, Mal, adesso non sei
più sotto la custodia di nessuno. Se decidi di entrare nel
programma protezione testimoni, noi dell’US Marshals
Service ci prenderemo cura di te. Ti garantiamo sicurezza,
protezione e benessere. Ti forniamo una nuova identità con
documenti autentici. Riceverai aiuti finanziari per la casa, le
spese correnti e l’assistenza medica. Ti troveremo un
lavoro. Una volta che sarai sistemato, non terremo sotto
controllo le tue attività quotidiane, ma saremo sempre a
portata di mano se avrai bisogno di noi».
Sembra che stia leggendo da un dépliant pubblicitario,
ma le sue parole sono musica. Hitchcock aggiunge:
«Abbiamo avuto oltre ottomila testimoni nel programma di
protezione, e a nessuno di loro è mai stato fatto del male».
Pongo la domanda più ovvia: «Dove vivrò?».
«Questo è un grande paese, Mal» mi risponde
Hitchcock. «Abbiamo sistemato testimoni a duecento o a
tremila chilometri da quella che era la loro casa. La
distanza non è un elemento così cruciale ma, in linea di
massima, più ci si allontana, meglio è. Preferisci il clima
caldo o la neve? Montagne e laghi o sole e spiagge? Città
grandi o cittadine? Le città piccole sono problematiche e
noi raccomandiamo sempre località con almeno centomila
abitanti.»
«È più facile confondersi» chiarisce Surhoff.
«E posso scegliere?» chiedo.
«Entro limiti ragionevoli, sì» risponde Hitchcock.
«Lasciatemi riflettere.»
Cosa che faccio per i successivi quindici o venti
chilometri, e non per la prima volta. Ho già un’idea piuttosto
precisa di dove voglio andare, e per quali ragioni. Mi volto
per dare un’occhiata alle nostre spalle e vedo un veicolo
familiare. «Immagino che ci sia l’FBI dietro di noi.»
«Sì. L’agente Hanski e un suo collega» conferma
Surhoff.
«Per quanto tempo ci seguiranno?»
«Spariranno entro pochi giorni, credo» risponde Surhoff,
scambiando un’occhiata con Hitchcock. In realtà non lo
sanno, ma non ho intenzione di insistere.
«L’FBI di norma continua a tenere d’occhio i testimoni
come me?» domando.
«Dipende» risponde Hitchcock. «Di solito il testimone
che entra nel programma di protezione ha ancora delle
questioni in sospeso con la persona o le persone sulle
quali ha fatto la spia. Può darsi che debba tornare a
deporre in tribunale. In questo caso l’FBI vuole tenersi
aggiornato sul testimone, ma lo fa tramite noi. Sempre
tramite noi. Con il passare del tempo, però, a mano a
mano che passano gli anni, l’FBI tende a dimenticarsi dei
testimoni.»
Pat cambia argomento. «Una delle prime cose che
dovrai fare è cambiare nome, legalmente, è ovvio. Noi ci
rivolgiamo sempre a un giudice della contea di Fairfax,
Nord Virginia, che tiene tutte le pratiche al sicuro. È la
routine, ma devi sceglierti un nome nuovo. La cosa
migliore è mantenere le stesse iniziali e optare per
qualcosa di semplice.»
«Per esempio?»
«Mike Barnes. Matt Booth. Mark Bridges. Mitch
Baldwin.»
«Sembrano tutti membri di una confraternita bianca.»
«Sì, è vero. Ma lo sembra anche Malcolm Bannister.»
«Grazie.»
Riflettiamo sul mio nuovo nome per alcuni chilometri.
Surhoff apre un laptop, comincia a picchiettare sulla
tastiera e poi domanda: «Qual è il cognome che comincia
con la lettera B più diffuso in questo paese?».
«Baker» tira a indovinare Hitchcock.
«Quello è il numero due.»
«Bailey» azzardo io.
«Quello è il numero tre. Bell è il quarto. Brooks il quinto.
Vince Brown, con il doppio dei clienti di Baker, il secondo
classificato.»
«Uno degli scrittori afroamericani che preferisco è
James Baldwin» dico. «Mi prendo quello di cognome.»
«Okay» approva Surhoff, battendo sui tasti. «Nome?»
«Cosa ne pensate di Max?»
Hitchcock annuisce, mentre Surhoff inserisce il nome
Max.
«Mi piace» dichiara Hitchcock, come se stesse fiutando
un vino pregiato. Surhoff alza gli occhi dal laptop e
comunica: «Ci sono circa venticinque Max Baldwin negli
Stati Uniti, per cui va bene. Un bel nome solido, non troppo
comune, non troppo esotico o bizzarro. Mi piace.
Rivestiamolo un po’. Nome intermedio? Tu, Max, quale
pensi che possa funzionare?».
Niente può funzionare come nome intermedio con un
Max davanti. Ma poi penso a Mr Reed e Mr Copeland, i
miei due ex soci, e al loro minuscolo studio in Braddock
Street a Winchester. Copeland & Reed, Avvocati. In loro
onore, scelgo Reed.
«Max Reed Baldwin» declama Surhoff. «Funziona. Ora,
per concludere, un piccolo suffisso, okay, Max? Junior,
Terzo, Quarto... Qui non dobbiamo andare troppo sul
fantasioso.»
Hitchcock sta scuotendo la testa. «No, lasciamolo così»
suggerisce, quasi sottovoce.
«Sono d’accordo» dico. «Non aggiungiamo niente alla
fine.»
«Perfetto. Allora abbiamo un nome: Max R. Baldwin.
Giusto, Max?»
«Immagino di sì. Lasciatemelo digerire per un paio
d’ore. Devo farci l’abitudine.»
«Naturalmente.»
Per quanto destabilizzante, scegliere il nome nuovo che
userò per il resto della vita sarà una delle mie decisioni più
facili. Tra non molto dovrò fare scelte di gran lunga più
difficili: occhi, naso, labbra, mento, casa, lavoro, storia di
famiglia... e che tipo di infanzia ho avuto? Che college ho
frequentato e che cosa ho studiato? Perché sono single?
Sono mai stato sposato? Ho figli?
Mi gira la testa.
18
Pochi chilometri a est di Morgantown, usciamo
dall’Interstatale ed entriamo nel parcheggio di un Best
Western, uno di quei motel vecchio stile dove puoi lasciare
l’auto proprio davanti alla tua stanza. Ci sono degli uomini
in attesa, agenti di un qualche tipo – FBI, presumo – e
mentre scivolo fuori dal furgone, meravigliosamente privo
di manette, Hanski mi informa: «La camera 38 è la tua».
Uno degli agenti senza nome apre la serratura della porta
e mi passa la chiave. Nella stanza ci sono due letti
matrimoniali e, su uno dei due, un assortimento di
indumenti. Hanski e Surhoff richiudono la porta.
«Mi sono fatto dare le tue misure dalla prigione» dice
Hanski, agitando una mano in direzione del mio nuovo
guardaroba. «Se quella roba non ti piace, nessun
problema. Possiamo andare a fare shopping.»
Ci sono due camicie bianche e una a quadri blu, tutte
botton down; due paia di pantaloni cachi e un paio di jeans
délavé; una cintura marrone di pelle; una pila di boxer
ordinatamente ripiegati; due magliette bianche; parecchie
paia di calzini ancora nella confezione; un paio di
mocassini marrone abbastanza presentabili e il più brutto
paio di loafer neri che io abbia mai visto. Tutto sommato,
non un cattivo inizio. «Grazie» dico.
Hanski continua: «Spazzolino da denti, dentifricio,
occorrente per la rasatura... è tutto in bagno. C’è anche una
piccola borsa da palestra. Se ti serve qualcos’altro,
facciamo un salto in negozio. Vuoi pranzare?».
«Non adesso. Vorrei semplicemente restare solo.»
«Nessun problema, Mal.»
«Adesso sono Max, se non ti dispiace.»
«Max Baldwin» precisa Surhoff.
«Ti sei abituato in fretta.»
I due marshal escono e io chiudo la porta a chiave. Mi
tolgo lentamente gli indumenti della prigione: pantaloni e
camicia verde oliva, calzini bianchi, scarpe nere con le
stringhe e la suola spessa, boxer vecchi e lisi. Indosso un
paio di boxer e una maglietta nuovi, poi scivolo sotto le
coperte e fisso il soffitto.
Per il pranzo raggiungiamo a piedi il vicino ristorante a
buon mercato specializzato in pesce. Il locale è dotato di
drive-through e per sette dollari e novantanove centesimi
puoi mangiare tutte le zampe di granchio che vuoi. Siamo
solo Hanski, Surhoff e io, e ci gustiamo un lungo pranzo a
base di pesce mediocre che per me è comunque squisito.
Adesso che la pressione è sparita, i due marshal si
lasciano andare alle battute e fanno commenti sul mio
guardaroba. Ricambio le offese ricordando che non sono
un ragazzo da confraternita bianca come loro due e che da
adesso in poi i vestiti me li comprerò da solo.
Il pomeriggio avanza e mi informano che abbiamo del
lavoro da sbrigare. Ci sono molte decisioni da prendere.
Torniamo al motel ed entriamo nella stanza accanto alla
mia, dove uno dei due letti è coperto da pratiche e
documenti. Hitchcock ci raggiunge, per cui ora siamo in
quattro nella stanza. Teoricamente lavoriamo tutti insieme,
ma io sono scettico. Continuo a ripetermi che questi
uomini adesso sono dalla mia Teile, che il governo è mio
amico e mi protegge, ma non riesco ad accettare del tutto
l’idea. Forse con il tempo si guadagneranno la mia fiducia,
ma ne dubito. L’ultima volta che ho trascorso ore in
compagnia di agenti del governo, mi era stato promesso
che non sarei stato accusato.
A questo punto il nuovo nome ha fatto presa e la mia
decisione è definitiva. Hanski mi dice: «Max, domattina
Teiliamo e dobbiamo decidere dove andare. La
destinazione sarà determinata dai cambiamenti facciali
che hai in mente. Hai dichiarato che vuoi modificare il viso
e questo è un po’ un problema».
«Ti riferisci alla mia testimonianza?» chiedo.
«Sì. Il processo Rucker potrebbe avere luogo tra sei
mesi, o anche un anno.»
«Oppure può darsi che Quinn si dichiari colpevole e non
vada a processo» osservo.
«Certo. Ma supponiamo che non lo faccia. Supponiamo
che vada a processo. Se ti fai operare adesso, metterai in
mostra la tua nuova faccia quando andrai a testimoniare.
Saresti molto più al sicuro se aspettassi dopo il
processo.»
«Più sicuro allora, ma adesso?» ribatto. «Cosa mi dici
dei prossimi sei mesi? La gang di Rucker mi darà la
caccia, lo sappiamo. Se ne stanno già occupando e per
loro prima sarà, meglio sarà. Se riescono a beccarmi
prima del processo, possono eliminare un testimone
importante. I prossimi sei mesi sono i più pericolosi, per
cui voglio l’intervento chirurgico ora. Subito.»
«Okay. E al processo?»
«Andiamo, Chris! Esistono dei modi per non farmi
vedere, lo sai. Posso deporre dietro un paravento o una
tenda. È già stato fatto. Non guardi mai la televisione, non
vai mai al cinema?»
C’è qualche risatina, ma l’atmosfera è seria. Il pensiero
di testimoniare contro Quinn Rucker è terrificante, ma ci
sono dei modi per tutelare la mia incolumità.
«L’abbiamo fatto l’anno scorso» dice Hitchcock. «Un
importante processo per droga in New Jersey.
L’informatore non assomigliava per niente al suo vecchio
se stesso. Abbiamo sistemato un pannello davanti al
banco dei testimoni in modo che solo il giudice e la giuria
potessero vederlo e abbiamo utilizzato un dispositivo per
l’alterazione della voce. Gli imputati non avevano idea di
chi fosse il teste o di che aspetto avesse.»
«Nel mio caso sapranno con certezza chi sono» dico.
«Mi basta che non mi vedano.»
«Va bene» cede Hanski. «È una tua decisione.»
«Allora considerala definitiva.»
Hanski estrae il cellulare e va verso la porta. «Faccio
qualche telefonata.»
Dopo che il collega è uscito dalla stanza, Surhoff mi
dice: «Okay, mentre Hanski è al telefono, possiamo
parlare della destinazione? Dacci qualche indicazione,
Max, così cominciamo a muoverci per trovarti un posto».
«Florida» rispondo. «A Teile il periodo nei marine, ho
trascorso tutta la vita in mezzo a colline e montagne. Voglio
cambiare paesaggio: spiagge, panorami con l’oceano, un
clima più caldo.» Mitraglio la risposta come se avessi
passato ore a pensarci, cosa che in effetti ho fatto. «Ma
non la Florida meridionale, fa troppo caldo. Magari
Pensacola o Jacksonville. Nel Nord, dove il clima è un po’
più mite.»
I marshal assimilano l’informazione e mi sembra quasi di
vedere le loro menti al lavoro. Surhoff comincia a pestare
sui tasti del suo laptop, in cerca del mio nuovo posto al
sole. Io mi rilasso in poltrona, con i piedi nudi sul letto, e
non posso fare a meno di bearmi del posto in cui mi trovo.
Sono quasi le quattro. Le domeniche pomeriggio sono i
giorni peggiori a Frostburg. Come la maggior Teile dei
detenuti, non ho mai lavorato nel giorno del Signore e mi
sono annoiato spesso. Si improvvisano Teilite di basket e
si fanno lunghe passeggiate sulla pista da jogging,
qualunque cosa per tenersi occupati. Le visite sono finite e
quelli che hanno incontrato i familiari di solito a quell’ora
sono depressi. Sta per cominciare un’altra settimana,
esattamente uguale alla precedente.
La vita in carcere sta già sbiadendo lentamente. So che
sarà impossibile dimenticarla, ma è arrivato il momento di
cominciare a mettersi tutto dietro le spalle. Malcolm
Bannister è ancora un detenuto, rinchiuso da qualche Teile,
ma Max Baldwin è un uomo libero, con posti dove andare e
cose da vedere.
Quando fa buio saliamo in auto ed entriamo a Morgantown
alla ricerca di una steakhouse. Lungo il tragitto passiamo
davanti a uno strip club. Non viene detta una sola parola,
ma sono estremamente tentato. Non vedo una donna nuda
da cinque anni, anche se ovviamente ne ho sognate
spesso. Tuttavia non sono sicuro che a questo punto
guardare a bocca aperta un gruppo di spogliarelliste
possa essere molto appagante. Troviamo il ristorante che
ci è stato raccomandato e ci accomodiamo a un tavolo, tre
vecchi amici che si godono una bella cena. Hanski, Surhoff
e io ordiniamo i filetti più grossi presenti nel menu e io
annaffio il mio con tre birre alla spina. I marshal si limitano
al tè freddo, ma colgo benissimo la loro invidia. Rientriamo
al motel prima delle dieci, ma dormire è impossibile.
Guardo la televisione per un’ora, una cosa che a Frostburg
facevo raramente.
A mezzanotte prendo in mano la copia del rinvio a
giudizio che mi ha lasciato Hanski e la leggo parola per
parola. Non si fa cenno a una perizia balistica, e neppure a
testimoni. C’è una lunga esposizione riguardante la scena
del delitto, le ferite d’arma da fuoco, la causa dei decessi,
le bruciature sul corpo di Naomi Clary e la cassaforte
vuota, ma non ci sono descrizioni di prove tangibili. A
questo punto la confessione di Quinn è tutto ciò che hanno
in mano. La confessione, più i sospetti sui contanti trovati
in suo possesso. Un rinvio a giudizio può essere
modificato dall’accusa quasi in ogni momento e questo in
Teilicolare richiede ancora un po’ di lavoro. Dà
l’impressione di essere un lavoro affrettato, raffazzonato
allo scopo di abbassare la temperatura.
Non che voglia essere critico: per me è un documento
magnifico.
19
Per Stanley Mumphrey l’evento sarebbe stato il momento
più importante della sua breve carriera di procuratore
federale per il Distretto Sud. Salito a quella carica due anni
prima su nomina del presidente, aveva trovato il lavoro
piuttosto banale e, sebbene costituisse una favolosa
aggiunta al suo curriculum, lo giudicava poco gratificante.
Finché, naturalmente, il giudice Fawcett e Ms Clary non
erano stati assassinati e all’improvviso la sua carriera
aveva assunto un nuovo significato. Stanley si ritrovava fra
le mani il caso più bollente del paese e, come molti
procuratori federali, era deciso a trarne il massimo
vantaggio.
La riunione era stata pubblicizzata come una conferenza
stampa, anche se nessuna delle autorità aveva intenzione
di rispondere alle domande. Era uno show, niente di più,
niente di meno. Uno spettacolo accuratamente orchestrato
al fine di: 1) soddisfare qualche ego; e 2) far sapere
all’opinione pubblica, in Teilicolare ai potenziali giurati, che
i federali avevano arrestato il colpevole, e che il suo nome
era Quinn Al Rucker.
Alle nove di mattina il leggio era nascosto dai microfoni,
tutti con il logo delle televisioni e delle stazioni radio a cui
apTeilenevano. L’aula era stracolma di giornalisti di ogni
tipo. Uomini armati di voluminose telecamere si
calpestavano a vicenda lottando per prendere posizione, il
tutto sotto gli occhi attenti degli agenti del tribunale.
Nei codici e nei regolamenti che governano la pratica e
le procedure della normativa penale, sia a livello statale
che federale, non c’è scritto da nessuna Teile che
l’“annuncio” o la “comunicazione” o la “notifica” o
l’“emissione” di un rinvio a giudizio debba essere
pubblicizzato. Anzi, non succede quasi mai. Una volta che il
gran giurì abbia preso la sua decisione, l’atto viene
depositato formalmente presso la cancelleria del tribunale
e in seguito viene notificato all’imputato. Il rinvio a giudizio
è solo una metà della causa: quella dell’accusa. Niente di
ciò che è scritto nell’atto costituisce una prova; al
processo, la giuria non vedrà mai quel documento. Il gran
giurì che decide il rinvio ascolta solo una versione della
causa, quella presentata dal governo.
A volte, però, un rinvio a giudizio è troppo sensazionale,
troppo importante, troppo gratificante per consentirgli di
viaggiare tranquillo attraverso il sistema. Deve essere
pubblicizzato da coloro che hanno lavorato così duramente
per catturare un criminale e portarlo davanti alla giustizia.
Stanley Mumphrey non aveva fatto niente per arrivare
all’arresto di Quinn Rucker, ma di sicuro era l’uomo che lo
avrebbe portato a processo. Nella gerarchia federale, il
procuratore federale è di gran lunga superiore a un
semplice agente dell’FBI, e perciò l’evento apTeileneva a
Stanley. Come d’abitudine, avrebbe condiviso – con
riluttanza – le luci della ribalta con il Bureau.
Alle nove e dieci si aprì una porta di fianco al banco del
giudice e un plotone di duri in abito nero si asserragliò
nello spazio dietro il leggio. Fecero a gomitate per
sistemarsi in fila, tutti con le mani a coppa sopra le palle.
La disposizione era cruciale perché le telecamere più di un
certo numero non ne potevano inquadrare. In piedi davanti
al leggio, fianco a fianco, c’erano Stanley Mumphrey e
Victor Westlake, il procuratore capo e il capo della polizia.
Alle loro spalle agenti dell’FBI e viceprocuratori si
stringevano schiacciandosi tra loro nel tentativo di avere
una buona visuale delle telecamere, sperando che le
telecamere vedessero loro. I più fortunati avrebbero
ascoltato assorti Mr Mumphrey e Mr Westlake, aggrottando
la fronte e atteggiandosi come se non sospettassero la
presenza di una telecamera nel raggio di tre chilometri dal
tribunale. Era la stessa patetica routine portata alla
perfezione dai membri del Congresso.
«Questa mattina abbiamo un rinvio a giudizio per
l’omicidio del giudice Raymond Fawcett e di Ms Naomi
Clary» disse lentamente Mumphrey, la voce nervosa e più
alta del solito di almeno due ottave. Come procuratore, in
tribunale arrancava faticosamente, non di rado perdendo le
cause facilissime che assegnava a se stesso. La critica
più comune nei suoi confronti era che sembrava sempre
troppo nervoso e fuori posto. Alcuni ritenevano che il
motivo stesse nel poco tempo passato in aula durante la
sua poco significativa carriera decennale.
Stanley afferrò l’atto e lo tenne sollevato, quasi si
aspettasse che i presenti ne potessero leggere il testo.
«L’accusa è di duplice omicidio. L’imputato è un certo
Quinn Al Rucker. E, sì: prevedo di chiedere la pena di
morte per questo caso.» L’ultima frase era stata pensata
per fare spettacolo e suscitare un brivido nella folla, ma
Stanley aveva sbagliato la scelta di tempo. Tuttavia lo
spettacolo arrivò quando un assistente fece comparire
improvvisamente sullo schermo una grande foto in bianco
e nero di Quinn. Finalmente il mondo vedeva l’uomo che
aveva ucciso il giudice e la sua segretaria. Colpevole!
Leggendo dai suoi appunti con voce incerta, Stanley
illustrò i precedenti di Quinn e riuscì a trasmettere l’idea
che fosse evaso dal carcere al solo scopo di vendicarsi del
giudice. A un certo punto Victor Westlake, in piedi di fianco
al procuratore come una sentinella, aggrottò la fronte e
abbassò lo sguardo sui propri appunti. Ma Stanley
continuò imperterrito e quasi singhiozzò parlando del suo
caro amico e mentore Raymond Fawcett, di ciò che quel
giudice aveva significato per lui e così via. La voce gli
tremò davvero quando cercò di spiegare quanto si
sentisse onorato di avere la terribile responsabilità di
chiedere giustizia per quei “raccapriccianti” delitti.
Sarebbero bastati più o meno due minuti per leggere
l’intero atto e andarsene tutti a casa. Invece no. Con una
folla come quella, e milioni di telespettatori, Stanley ritenne
necessario continuare a blaterare e tenere un discorso
sulla giustizia e sulla guerra al crimine. Dopo parecchie
penose divagazioni, tornò in argomento verso la fine, al
momento di passare la mano. Elogiò Victor Westlake e
tutto il Federal Bureau of Investigation per il loro lavoro, un
lavoro che era stato “sovrumano, instancabile e brillante”.
Quando Mumphrey finalmente tacque, Westlake lo
ringraziò, quantunque non fosse chiaro se lo faceva perché
aveva chiuso il becco o per i complimenti. Westlake aveva
molta più esperienza del giovane Stanley in quel genere di
esibizioni e parlò per cinque minuti senza dire niente.
Ringraziò i suoi uomini, si dichiarò sicuro della soluzione
del caso e formulò i suoi migliori auguri all’accusa. Quando
terminò di parlare e fece un passo indietro, un giornalista
gridò una domanda. «No comment» rispose seccamente
Westlake, lasciando capire che era ora di andare. Stanley,
però, non era ancora pronto ad abbandonare la selva di
telecamere. Per qualche secondo sorrise stupidamente
alla folla, come per dire: “Eccomi qui”. Poi Westlake gli
sussurrò qualcosa.
«Grazie» disse Stanley, e se ne andò. L’evento era
terminato.
Seguo la conferenza stampa dalla mia stanza al Best
Western. Il pensiero che mi attraversa la mente è che, con
Stanley al comando, Quinn potrebbe avere qualche
possibilità di lotta. Tuttavia, se il caso arriverà a processo,
è molto probabile che Stanley faccia un passo indietro e
lasci gestire la faccenda a uno dei suoi vice più esperti.
Indubbiamente continuerà a lavorarsi i media e comincerà
a programmare la sua corsa per una carica più alta, ma il
lavoro processuale serio sarà condotto dai professionisti.
Potrebbe darsi addirittura che Stanley si ritrovi senza
lavoro: dipende da quanto la cosa andrà per le lunghe. Il
suo mandato è di quattro anni, come quello del presidente.
Nel momento in cui è lo sfidante a impossessarsi della
Casa Bianca, tutti i procuratori federali degli Stati Uniti
hanno chiuso.
La conferenza stampa termina, i mezzobusti della CNN
iniziano a blaterare e io comincio a fare zapping, ma non
trovo nulla che mi interessi. Armato di telecomando, ho il
controllo totale del televisore. Mi sto adattando alla libertà
con sorprendente facilità. Posso dormire fino a quando mi
sveglio. Posso decidere cosa indossare, anche se al
momento le mie scelte sono limitate. Cosa più importante,
non c’è nessun compagno di cella, nessuno con cui
combattere in un cubo di tre metri per tre e cinquanta. Ho
misurato due volte la camera del motel: è larga circa
cinque metri e lunga più di dieci, compreso il bagno. È un
castello.
A metà mattina siamo in viaggio, diretti a sud
sull’Interstatale 79. Tre ore dopo arriviamo all’aeroporto di
Charleston, West Virginia, dove diciamo addio all’agente
Chris Hanski. Mi fa gli auguri e io lo ringrazio per le sue
premure. Poi, insieme a Pat Surhoff, raggiungo l’imbarco
di un volo navetta per Charlotte, North Carolina. Non ho
documenti, ma il Marshals Service e la compagnia aerea
si parlano nel loro codice segreto. Io mi limito a seguire
Pat e devo ammettere di sentirmi eccitato quando salgo a
bordo del piccolo aereo.
L’aeroporto di Charlotte è una struttura vasta, aperta e
moderna, e io passo due ore in piedi su un mezzanino a
guardare le persone che vanno e vengono. Sono uno di
loro, un uomo libero, e presto potrò presentarmi a un banco
e comprarmi un biglietto per qualsiasi destinazione.
Alle sei e dieci ci imbarchiamo su un volo nonstop diretto
a Denver. Il codice segreto ci ha procurato un upgrading,
così Pat e io sediamo fianco a fianco in prima classe,
gentile omaggio dei contribuenti. Io chiedo una birra e Pat
un ginger ale. La cena è pollo arrosto con salsa, e
suppongo che la maggior Teile dei passeggeri lo mangi
solo a fini di sopravvivenza. Per me è una cena raffinata.
Bevo un bicchiere di pinot nero, il mio primo sorso di vino
da molti anni.
Terminata la conferenza stampa, Victor Westlake e il suo
entourage salirono in auto e percorsero i quattro isolati che
li separavano dallo studio legale di Jimmy Lee Arnold, in
centro città. Si presentarono alla receptionist, che li stava
aspettando e che, dopo pochi minuti, li accompagnò lungo
uno stretto corridoio fino a una grande sala riunioni, dove si
offrì di servire il caffè. Il gruppo di Westlake la ringraziò, ma
declinò l’offerta.
Jimmy Lee era un’istituzione nel tribunale penale di
Roanoke, un veterano delle guerre contro droga e
prostituzione con un’esperienza ventennale. Quattro anni
prima aveva difeso Jakeel Staley, il nipote di Quinn
Rucker. Come molti dei pistoleri solitari che operano ai
margini della malavita, Jimmy Lee era un personaggio.
Lunghi capelli grigi, stivali da cowboy, diversi anelli,
occhiali da lettura con montatura rossa in bilico sul naso.
Anche se sospettoso nei confronti dell’FBI, diede agli ospiti
il benvenuto nel suo dominio. Non erano i primi agenti che
gli facevano visita: ce n’erano stati molti altri nel corso degli
anni.
«E così avete un rinvio a giudizio» disse, appena
sbrigate le presentazioni. Victor Westlake gli fornì uno
stringato riassunto delle accuse contro Quinn Rucker.
«Qualche anno fa lei ha rappresentato suo nipote, Jakeel
Staley, esatto?»
«Esatto» confermò Jimmy Lee. «Ma non ho mai
conosciuto Quinn Rucker.»
«Presumo che sia stata la famiglia, o la gang, ad
assumerla per difendere il ragazzo.»
«Qualcosa del genere. È stato un contratto privato, non
un incarico del tribunale.»
«Chi della famiglia trattò con lei?»
L’atteggiamento di Jimmy Lee cambiò. Infilò una mano
in una tasca della giacca ed estrasse un piccolo
registratore. «Tanto per stare sul sicuro» disse, premendo
un tasto. «Mettiamo tutto agli atti. Voi siete in tre, io sono
da solo. E voglio essere sicuro che non sorgano equivoci.
Qualche problema?»
«No» rispose Westlake.
«Bene. Dunque, lei mi ha chiesto chi della famiglia trattò
con me quando fui assunto per rappresentare Jakeel
Staley, esatto?»
«Esatto.»
«Be’, non sono sicuro di poterle rispondere. Rapporto
confidenziale con il cliente eccetera. Perché non mi spiega
il motivo del suo interesse?»
«Certo. Quinn Rucker ha confessato. Ha detto di avere
ucciso il giudice Fawcett perché non aveva mantenuto una
promessa fatta dopo essersi intascato una mazzetta. Ha
detto che lui, la gang, aveva versato cinquecentomila
dollari in contanti a Fawcett perché accogliesse l’istanza in
cui gli si chiedeva di dichiarare inammissibile la
perquisizione che aveva portato alla scoperta del carico di
coca sul furgone.» Westlake fece una pausa e osservò
attentamente Jimmy Lee. Gli occhi dell’avvocato non
rivelavano nulla. Poi Jimmy Lee si strinse nelle spalle e
disse: «E allora?».
«Allora, lei ha mai saputo qualcosa di quella mazzetta?»
«Se ne fossi stato a conoscenza, avrei commesso un
reato anch’io, le pare? Mi crede così stupido da ammettere
un reato? Sono offeso.»
«Oh, non si offenda, Mr Arnold. Non la sto accusando di
niente.»
«Quinn Rucker ha fatto il mio nome a proposito della
corruzione?»
«Finora è stato piuttosto vago, ha detto soltanto che
l’intermediario era un avvocato.»
«Sono sicuro che questa Teilicolare gang di delinquenti
ha accesso a un sacco di avvocati.»
«È vero. Lei è rimasto sorpreso quando il giudice
Fawcett ha respinto l’istanza di inammissibilità?»
Jimmy Lee sorrise e roteò gli occhi. «Niente mi può più
sorprendere. Se si crede nella Costituzione, allora quella
era una perquisizione illegale e le prove, centocinquanta
chili di cocaina pura, avrebbero dovuto essere escluse a
calci. Ci sarebbe voluta un po’ di spina dorsale, ma non se
ne vede più molta in giro, specie nei grossi casi di droga.
Un giudice, statale o federale che sia, deve avere le palle
per invalidare delle prove così meravigliose, a prescindere
da cosa possano avere combinato i poliziotti per ottenerle.
No, non sono rimasto sorpreso.»
«Per quanto tempo ha esercitato nell’aula del giudice
Fawcett?»
«Dal giorno della sua nomina, vent’anni fa. Lo
conoscevo bene.»
«Lei crede che si sarebbe mai fatto corrompere?»
«Soldi in cambio di una decisione favorevole?»
«E di una condanna più lieve.»
Jimmy Lee accavallò le gambe, posò uno stivale in pelle
di struzzo su un ginocchio e intrecciò le mani appena sotto
la pancia. Rifletté per un momento e poi disse: «Ho visto
giudici prendere decisioni infami, ma di solito solo per
stupidità o pigrizia. Però no, Mr Westlake, io non credo che
il giudice Fawcett, o qualsiasi altro giudice di Stato o
federale del Commonwealth of Virginia, accetterebbe mai
una mazzetta, in contanti o meno. Ho detto che niente mi
sorprende più, ma mi sbagliavo. Un bustarella del genere
per me sarebbe uno shock».
«Lei direbbe che il giudice Fawcett godeva di una
reputazione di assoluta integrità?»
«No, non direi questo. Fawcett è stato okay nei suoi
primi anni in magistratura, ma poi è cambiato ed è
diventato un vero stronzo. I miei clienti sono stati tutti
accusati di crimini vari, ma non tutti sono criminali. Fawcett
però non la vedeva così. Era fin troppo felice di spedire un
tizio in galera per vent’anni. Si schierava sempre con
l’accusa e con la polizia, e per me questa non è integrità.»
«Ma non prendeva soldi?»
«Non che io sappia.»
«Le spiego il nostro problema, Mr Arnold. Se Quinn
Rucker sta dicendo la verità, com’è riuscito a far arrivare i
soldi al giudice? Stiamo parlando di un duro ragazzo di
strada di Washington che non aveva mai visto prima
Fawcett. Deve esserci stato un intermediario da qualche
Teile, lungo il percorso. Non sto dicendo che sia lei e non
sottintendo assolutamente un suo coinvolgimento in questa
storia. Ma lei conosce il sistema. Come hanno fatto quei
cinquecentomila dollari a cambiare di mano?»
Jimmy Lee stava scuotendo la testa. «Se il sistema
comporta la corruzione, allora io non so come funziona,
okay? È un’insinuazione che mi offende. Lei sta parlando
con l’uomo sbagliato.»
«Glielo ripeto: non la sto accusando di niente e non sto
insinuando niente.»
«Però ci va maledettamente vicino.» Jimmy Lee si alzò
in piedi e tese la mano verso il registratore. «Diciamo che
questa piccola riunione è terminata.»
«Non c’è bisogno di quello, Mr Arnold.»
Jimmy Lee prese il registratore e se lo rimise in tasca.
«È stato un vero piacere» disse, spalancando la porta per
poi scomparire lungo il corridoio.
Sul lato opposto di Church Street, Dee Ray Rucker stava
entrando in un altro studio legale proprio mentre Victor
Westlake e i suoi agenti uscivano da quello di Jimmy Lee.
Quinn era stato arrestato la sera del mercoledì
precedente e aveva trascorso le prime dieci ore di fermo
nella stanza degli interrogatori. Dopo la confessione,
videoregistrata, era stato infine trasferito nel carcere
cittadino di Norfolk, dove era stato posto in isolamento e
aveva dormito per dodici ore di fila. Non gli era stato
permesso di usare il telefono fino al sabato mattina e ci
aveva messo quasi tutto il giorno per trovare un familiare
disposto a parlare con lui. Nella prima serata di domenica,
Quinn era stato trasferito da Norfolk a Roanoke, un viaggio
di quattro ore e mezzo.
Una volta resosi conto che suo fratello maggiore era in
carcere con l’accusa di avere assassinato un giudice
federale, Dee Ray si era dato da fare per trovare un
avvocato disposto ad accettare il caso. Parecchi legali di
Washington e della Virginia avevano rifiutato. Ma nel tardo
pomeriggio della domenica un altro personaggio
caratteristico di Roanoke, che si chiamava Dusty Shiver,
aveva accettato di rappresentare Quinn nelle fasi iniziali
del procedimento giudiziario, riservandosi però di
rinunciare all’incarico nel caso in cui si fosse profilato un
processo. Per ovvie ragioni, la locale comunità degli
avvocati era piuttosto nervosa all’idea di difendere un
uomo accusato di aver fatto fuori un membro così
importante del sistema giudiziario.
Un tempo Dusty Shiver aveva esercitato insieme a
Jimmy Lee Arnold, e i due erano fatti della stessa pasta.
Nell’attività legale la maggior Teile delle società, grandi o
piccole che siano, prima o poi esplode, di solito per
questioni di denaro. Jimmy Lee si era convinto di essere
stato fregato con una parcella, aveva accusato i suoi soci e
si era trasferito sull’altro lato della strada.
Dusty era riuscito a trascorrere un’ora con Quinn in
carcere il lunedì mattina, prima che venisse annunciato il
rinvio a giudizio. Era rimasto sorpreso quando aveva
saputo che il suo cliente aveva già confessato. Quinn
aveva sostenuto con fermezza di essere stato costretto,
ingannato, sottoposto a pressioni, minacciato, e che la
confessione era un falso. Dichiarava di essere innocente.
Uscito dal carcere, Dusty era passato dall’ufficio del
procuratore federale e si era fatto consegnare una copia
dell’atto formale. Stava studiando il documento quando la
segretaria citofonò per informarlo che Mr Dee Ray Rucker
era arrivato.
Con i suoi lunghi capelli grigi, i jeans sbiaditi e il gilet
rosso di pelle, era Dusty tra i due quello che sembrava un
trafficante di droga, mentre Dee Ray, nel suo abito Zegna,
aveva l’aria dell’avvocato. Si presentarono e si salutarono
con circospezione nel disordinato ufficio di Dusty. Il primo
argomento fu quello relativo all’onorario. Dee Ray aprì la
sua valigetta Prada ed estrasse cinquantamila dollari in
contanti, che il legale, dopo averli contati, infilò in un
cassetto.
«Lei sa che Quinn ha già confessato?» domandò Dusty
mentre riponeva i soldi.
«Quinn cosa...?» chiese Dee Ray scioccato.
«Sì, ha confessato. Dice di avere firmato una
dichiarazione scritta in cui ammette gli omicidi, e
presumibilmente esiste anche un video. Per favore, mi dica
che suo fratello è troppo furbo per una cosa del genere.»
«È troppo furbo per una cosa del genere. Noi non
parliamo mai con i poliziotti, mai. Quinn non confesserebbe
mai niente volontariamente, neanche se ci fosse dentro
fino al collo. Non è il nostro modus operandi. Appena
compare un poliziotto, noi chiamiamo gli avvocati.»
«Quinn dice che l’interrogatorio è durato tutta la notte,
che aveva rinunciato ai suoi diritti, che poi ha chiesto
diverse volte un avvocato, ma i due agenti dell’FBI hanno
continuato a martellarlo. Lo hanno fatto cadere in
contraddizione, lo hanno confuso e lui ha cominciato ad
avere allucinazioni. Non riusciva a stare zitto. Gli agenti gli
hanno detto che se la sarebbe vista con due imputazioni
d’omicidio, che avrebbe rischiato la pena capitale e che
sarebbe stata incriminata anche tutta la famiglia, dato che i
due delitti rientravano nell’attività criminale della gang. Gli
hanno mentito e gli hanno detto che l’avrebbero aiutato se
avesse collaborato, che la famiglia del giudice Fawcett era
contraria alla pena di morte e così via. Dopo ore di questo
trattamento, sono riusciti a piegarlo e Quinn gli ha dato
quello che volevano. Non ricorda tutto quello che è
successo, era troppo esausto. Quando si è svegliato e ha
cercato di ricostruire l’accaduto, gli è sembrato tutto un
sogno, un incubo. Ci ha messo parecchie ore per rendersi
conto di quello che aveva combinato, ma perfino adesso
non riesce a ricordare tutto.»
Dee Ray ascoltava, troppo sbalordito per parlare.
Dusty continuò: «Ricorda però che gli agenti dell’FBI gli
hanno detto di avere una perizia balistica che collega una
delle sue pistole alla scena del delitto, e pare che ci sia
anche un’impronta di scarpa. Inoltre, ci sono dei testimoni
che lo inchiodano in zona nella finestra di tempo in cui sono
avvenuti gli omicidi. Di nuovo, molta di questa roba è sul
vago».
«Lei quando potrà vedere la confessione?»
«Incontrerò il procuratore federale il più presto possibile,
ma niente succederà in fretta. Potrebbero volerci settimane
prima che io veda la confessione scritta e il video, così
come le altre prove che l’accusa pensa di utilizzare.»
«Se Quinn aveva chiesto un avvocato, perché non hanno
interrotto l’interrogatorio?»
«Questa è una buona domanda. Di solito i poliziotti
giurano che l’imputato ha rinunciato ai suoi diritti e non ha
mai chiesto un avvocato. È la parola di Quinn contro quella
degli agenti. In un caso di questa importanza, ci può
scommettere che gli uomini dell’FBI giureranno sulla loro
madre che Quinn non ha mai neppure accennato a un
avvocato. Così come giureranno di non averlo mai
minacciato, di non avergli mai mentito o di avergli
promesso un accordo. Hanno ottenuto la loro confessione
e adesso cercheranno di costruire l’accusa con delle prove
materiali. Se non troveranno niente, allora avranno soltanto
la confessione.»
«Ed è sufficiente?»
«Oh, sì.»
«Io non credo a questa storia. Quinn non è stupido. Non
avrebbe mai accettato un interrogatorio.»
«Ha già ucciso qualcuno in precedenza?»
«Non che io sappia. Abbiamo altra gente per quel
genere di cose.»
«Perché è evaso dal carcere?»
«Lei è mai stato in prigione?»
«No.»
«Neppure io, ma conosco un sacco di persone che sono
state dentro. Tutti vogliono uscire.»
«Immagino che sia così» concesse Shiver. «Ha mai
sentito nominare un certo Malcolm Bannister?»
«No.»
«Quinn dice che erano insieme a Frostburg e che c’è
Bannister dietro alle accuse. Dice che erano amici e che
hanno parlato a lungo del giudice Fawcett, del suo lavoro
sporco. Ce l’ha veramente a morte con Bannister.»
«Quando posso vedere mio fratello?»
«Non prima di sabato, visita regolare. Io tornerò in
carcere questo pomeriggio con una copia del rinvio a
giudizio. Posso trasmettere a Quinn un suo messaggio, se
lo desidera.»
«Certo. Gli dica di tenere la bocca chiusa.»
«Temo che per questo sia già troppo tardi.»
20
I dettagli sono vaghi ed è poco probabile che diventino più
chiari. Tutto ciò che Pat Surhoff è disposto a dirmi è che la
clinica fa Teile dell’ospedale dell’esercito USA a Fort
Carson, ma questo sarebbe difficile da negare. Il marshal
mi informa che la struttura è specializzata in MRC, modifiche
radicali connotati, e che viene utilizzata da numerose
agenzie del governo federale. I chirurghi plastici sono tra i
migliori e hanno lavorato su un sacco di facce che, se non
avessero subito modifiche radicali, sarebbero state
devastate dai proiettili. Insisto con le domande a Pat solo
per vederlo agitarsi, a disagio, ma non mi dice molto altro.
Dopo l’intervento, resterò in convalescenza qui per due
mesi e poi verrò trasferito.
Il mio primo appuntamento è con una specie di
terapeuta, la quale vuole essere sicura che io sia pronto ad
affrontare l’esperienza traumatica del cambiamento non
solo del nome, ma anche della faccia. È simpatica e
premurosa, e la convinco facilmente che non vedo l’ora di
procedere.
Il secondo colloquio è con due medici e un’infermiera. La
presenza dell’infermiera è necessaria per avere il punto di
vista femminile sul mio aspetto futuro. Non mi ci vuole
molto per rendermi conto che questi tre sono molto bravi in
quello che fanno. Utilizzando un sofisticato software, sono
in grado di prendere la mia faccia e di apportarvi qualsiasi
modifica. Gli occhi sono l’elemento cruciale, sottolineano
più di una volta. Cambia gli occhi e cambi tutto. Affiliamo
un tantino il naso. Lasciamo stare le labbra. Un po’ di botox
nelle pieghe delle guance dovrebbe funzionare.
Assolutamente, rasare a zero la testa e tenerla così. Per
quasi due ore giochiamo e ci impegniamo con la nuova
faccia di Max Baldwin.
Nelle mani di chirurghi meno esperti, questa potrebbe
essere un’esperienza da torcere le budella. Negli ultimi
venticinque anni, tutta la mia vita da adulto, ho avuto
sostanzialmente lo stesso aspetto, con il mio viso plasmato
dalla genetica, stagionato dagli anni e, per fortuna, mai
segnato da ferite o lesioni. È una bella faccia di cui sono
stato sempre contento, e scaricarla di colpo non è un
passo da poco. I miei nuovi amici mi dicono che non c’è
bisogno di cambiare tutto, si tratterà solo di alcuni ritocchi.
Una piccola modifica qui, un’aggiustatina là, qualche
tiratina e voilà: una nuova versione, gradevole quanto la
precedente e di gran lunga più sicura. Sottolineo che sono
molto più preoccupato della sicurezza che della vanità, e
loro si dichiarano subito d’accordo con me. Hanno già
sentito queste parole. Non posso fare a meno di chiedermi
su quanti informatori, delatori e spie abbiano lavorato.
Centinaia, a giudicare dall’efficienza del loro lavoro di
squadra.
Mentre il mio nuovo aspetto prende forma sul grande
schermo del computer, discutiamo con serietà degli
accessori e i tre sembrano sinceramente emozionati
quando sulla faccia di Max compare un bel paio di occhiali
rotondi con la montatura di tartaruga. «Ci siamo!» esclama
eccitata l’infermiera, e devo ammettere che con quegli
occhiali Max sembra molto più intelligente e trendy.
Passiamo mezz’ora a giocare con vari tipi di baffi prima di
scartare del tutto l’idea. Siamo due contro due per quanto
riguarda l’idea della barba, pertanto decidiamo di
aspettare e stare a vedere. Prometto di non radermi per
una settimana, così avremo un’idea più fondata.
A causa dell’importanza di ciò che stiamo facendo, la
mia piccola squadra non ha alcuna fretta. Trascorriamo
l’intera mattinata a riprogettare Max e, quando siamo tutti
soddisfatti, stampiamo un’immagine in alta definizione del
mio nuovo viso. Porto la stampa in camera mia e la fisso
alla parete. Dopo averla studiata, un’infermiera dichiara
che le piace. Anche a me piace lei, ma è sposata e non
flirta. Se solo sapesse.
Passo il pomeriggio a leggere e a passeggiare nelle
aree della base non soggette a restrizioni. È un po’ come
ammazzare il tempo a Frostburg, un luogo ormai molto
distante sia nella memoria che nello spazio. Continuo a
tornare in camera mia, alla faccia sulla parete: testa rasata,
naso appena appuntito, un mento un po’ più marcato,
guance più scavate, niente rughe e gli occhi di qualcun
altro. La flaccidezza della mezz’età è scomparsa. Le
palpebre non sono più così carnose. Cosa più importante,
Max mi sta guardando attraverso un paio di occhiali rotondi
firmati e ha un’aria maledettamente cool.
Devo presumere che sarà una cosa facile come dicono,
che questi medici siano in grado di consegnarmi una
faccia esattamente uguale a quella di Max sulla parete. Ma
anche se ci andranno solo vicino, sarò contento lo stesso.
Nessuno riconoscerà la loro nuova creazione, ed è questo
che conta. Sono troppo coinvolto per giudicare se risulterò
più bello prima o dopo, ma la verità è che sarò bello
abbastanza. La sicurezza è davvero di gran lunga più
importante della vanità.
Alle sette del mattino seguente mi preparano per
l’intervento e mi trasportano in barella in una piccola sala
operatoria. L’anestesista fa il suo dovere e io scivolo
serenamente nel nulla.
L’operazione dura cinque ore ed è un successo,
secondo quanto dichiarano i chirurghi. Ovviamente non
hanno modo di saperlo dato che la mia testa è fasciata
come quella di una mummia. Ci vorranno settimane perché
la tumefazione sparisca e i miei nuovi lineamenti prendano
forma.
Quattro giorni dopo la notifica del rinvio a giudizio, Quinn
Rucker si presentò per la prima volta in tribunale. Per
l’occasione gli fu imposta la stessa tuta arancione che
indossava dal giorno del suo ingresso nel carcere cittadino
di Roanoke. Gli vennero messe le manette, da cui Teiliva
una catena che si collegava a quella intorno alla vita, e gli
vennero strette le catene anche alle caviglie. Un giubbotto
antiproiettile con chiusure a strappo gli venne fissato sulle
spalle e intorno alla vita, dopodiché non meno di dieci
uomini tra guardie, agenti e vicesceriffi armati fino ai denti
lo scortarono fuori dal carcere e lo fecero salire su una
Chevrolet Suburban blindata. Non c’era stata alcuna
minaccia di morte nei confronti di Quinn e per raggiungere
il tribunale federale sarebbe stato seguito un percorso
segreto, ma le autorità non volevano correre rischi.
Giornalisti e spettatori riempirono l’aula molto prima
dell’arrivo di Rucker, previsto per le dieci. Il suo arresto e il
successivo rinvio a giudizio erano la notizia del giorno,
dato che nel frattempo nessun omicidio di massa o
divorzio di qualche celebrità gli avevano rubato la scena.
Fuori dall’aula gli vennero rimossi giubbotto e catene e
Rucker fece la sua entrata senza manette. Quale unico
presente in tuta arancione e in pratica unico nero in aula,
Quinn aveva tutta l’aria del colpevole. Si sedette al tavolo di
Dusty Shiver, che era accompagnato da un suo associato.
Sull’altro lato della corsia centrale, Stanley Mumphrey e la
sua brigata di assistenti consultavano pratiche e fascicoli
con aria solenne, quasi stessero per dibattere davanti alla
Corte Suprema.
Per rispetto verso il collega caduto, gli altri undici giudici
del Distretto Sud si erano avvalsi della procedura di
astensione spontanea. La prima udienza si sarebbe quindi
tenuta davanti a Ken Konover, un magistrato onorario
coadiutore che si sarebbe comportato e avrebbe agito in
modo molto simile a quello di un normale giudice. Konover
prese posto sullo scranno e richiamò l’aula all’ordine.
Snocciolò rapidamente alcune formule introduttive e poi
chiese se l’imputato avesse letto l’atto di rinvio a giudizio.
«Sì, vostro onore» rispose Dusty «e rinunciamo alla lettura
formale.»
«Grazie» disse Konover.
Seduto nella prima fila dietro al tavolo della difesa c’era
Dee Ray, vestito come sempre alla moda e chiaramente
preoccupato.
«L’imputato desidera rilasciare la sua dichiarazione in
questa fase?» domandò il giudice.
Dusty si alzò in piedi e rivolse un cenno al suo cliente,
che si alzò in piedi a sua volta e disse imbarazzato: «Sì,
signore. Non colpevole».
«Molto bene, si metta a verbale la dichiarazione di non
colpevolezza.» Dusty e Quinn si rimisero a sedere.
«Ho qui una richiesta di libertà su cauzione, Mr Shiver.
Vuole essere sentito su questo punto?» Il tono di Konover
non lasciava dubbi sul fatto che non c’era niente che Dusty
potesse dire per persuadere la corte a concedere una
cauzione ragionevole, o anche irragionevole.
Intuendo l’inevitabile, e non volendo mettersi in una
situazione imbarazzante, Dusty rispose: «No, vostro onore,
la nostra istanza parla da sola».
«Mr Mumphrey?»
Stanley si alzò in piedi e andò al leggio. Si schiarì la
voce e disse: «Vostro onore, l’imputato è accusato
dell’omicidio di un giudice federale. Gli Stati Uniti ritengono
che debba restare in carcere e che non debba essere
concessa la libertà su cauzione».
«Sono d’accordo» dichiarò subito Konover. «Nient’altro,
Mr Mumphrey?»
«No, signore, non in questo momento.»
«Mr Shiver?»
«No, vostro onore.»
«L’imputato resterà in carcere sotto custodia dell’ US
Marshals Service.» Konover batté il martelletto, si alzò e
lasciò il banco del giudice. La prima comparizione era
durata meno di dieci minuti.
Dee Ray era a Roanoke da tre giorni ed era già stanco di
quel posto. Fece pressioni su Dusty Shiver, il quale fece
pressioni su un amico al carcere e fu così che venne
organizzato un rapido incontro con l’imputato. Dato che le
visite dei familiari erano ammesse solo nei weekend,
questa avrebbe avuto carattere ufficioso e si sarebbe
svolta in una stanza utilizzata per sottoporre a test
alcolemico gli automobilisti ubriachi. La visita non sarebbe
mai stata riportata su alcun registro ufficiale. I due fratelli
non sospettavano che ci fosse qualcuno in ascolto. L’ FBI
registrò la loro conversazione, Teile della quale fu:
QUINN: Dee, io
sono qui per colpa di Malcolm Bannister,
capisci quello che ti dico?
DEE RAY: Ho capito, ho capito. Ce ne occuperemo in
seguito. Ora, però, devi raccontarmi cos’è successo.
QUINN: Non è successo niente. Io non ho ucciso
nessuno. Mi hanno fatto confessare con l’inganno,
come ho già detto. Voglio che si faccia qualcosa
riguardo a Bannister.
DEE RAY: È in prigione, giusto?
QUINN: Probabilmente no. Conoscendo Bannister,
probabilmente è uscito con l’articolo 35.
DEE RAY: L’articolo 35?
QUINN: Tutti in galera sanno
del 35. Ma ora non ha
importanza. Bannister è fuori e bisogna trovarlo.
Una lunga pausa.
DEE RAY: Un sacco di tempo al fresco, un sacco di soldi.
QUINN: Senti, fratellino, non parlarmi del tempo. Quelli
dell’FBI non hanno niente contro di me. E sottolineo
niente. Ciò non significa che non me lo possono
mettere nel culo. Se questa storia arriva al processo
nel giro di un anno o giù di lì, Bannister può essere il
loro testimone superstar, mi capisci?
DEE RAY: E cosa dirà?
QUINN: Dirà tutto quello che serve, non gliene frega
niente. Lui è fuori, ha concluso l’accordo. Dirà che io e
lui avevamo parlato del giudice Fawcett quando
eravamo in prigione insieme. Ecco cosa dirà.
DEE RAY: Ed è vero?
Un’altra lunga pausa.
QUINN: Sì, ne
parlavamo di continuo. Sapevamo che
aveva dei contanti.
Una pausa.
QUINN: Dee Ray, devi trovare Bannister. Okay?
DEE RAY: Okay. Ne parlerò con Tall Man.
21
Tre settimane dall’intervento e io mi arrampico sui muri. Le
bende non ci sono più e i punti sono stati tolti, ma per il
gonfiore ci vuole un’eternità. Mi guardo allo specchio cento
volte al giorno, in attesa di un miglioramento, in attesa che
Max emerga dai lividi e dalle tumefazioni. L’équipe
chirurgica passa di continuo per dirmi che ho un aspetto
splendido, ma ormai questa gente mi dà la nausea. Non
riesco a masticare, non riesco a mangiare, non riesco a
camminare per più di cinque minuti e di conseguenza
passo la maggior Teile del tempo andandomene in giro su
una sedia a rotelle. I movimenti devono essere lenti e
calcolati, altrimenti potrei provocare qualche strappo
nell’opera d’arte finita nella faccia di Max Reed Baldwin.
Conto i giorni e ho spesso l’impressione di essere ancora
in carcere.
Passano altre settimane, e lentamente lividi e gonfiore
scompaiono.
È possibile essere innamorato di una donna che non hai
mai neppure sfiorato? Mi sono convinto che la risposta è
sì. Si chiama Vanessa Young e l’ho conosciuta nella sala
visite di Frostburg in un freddo sabato mattina d’inverno.
Non dovrei dire che in quell’occasione l’ho conosciuta, ma
che l’ho vista per la prima volta. Era lì in visita a suo fratello,
un ragazzo simpatico. Ci siamo conosciuti in seguito,
durante un’altra sua visita, ma non abbiamo mai potuto
toccarci. Ho cominciato a scriverle delle lettere e lei ogni
tanto mi rispondeva, ma ben presto è diventato
penosamente evidente, almeno per me, che la mia
infatuazione non era esattamente una strada a doppio
senso.
Non so quantificare le ore che ho investito in fantasie su
quella donna.
Nel corso degli ultimi due anni sia la sua vita che la mia
sono cambiate radicalmente e adesso mi sento
abbastanza sicuro di me da contattarla. Il mio nuovo miglior
amico, Pat Surhoff, mi ha informato che non posso scrivere
o ricevere lettere mentre sono a Fort Carson, ma io
comunque ne scrivo una. Ci lavoro per giorni,
correggendola, limandola, ammazzando il tempo. Metto a
nudo la mia anima davanti a Vanessa e in pratica la
supplico di vederci.
Troverò un modo per spedirle la lettera.
Pat Surhoff è tornato a prendermi. Lasciamo Fort Carson
in gran fretta e in auto raggiungiamo Denver, dove ci
imbarchiamo su un volo nonstop per Atlanta. Indosso un
berretto da baseball e grandi occhiali da sole, e non noto
una sola occhiata curiosa. Mi lamento dei posti: Surhoff e
io sediamo fianco a fianco in classe economica, non in
prima. Pat mi dice che il Congresso sta tagliando i budget
dappertutto. Dopo un lauto pasto a base di uva passa e
Coca-Cola, ci mettiamo al lavoro. Surhoff apre una
deliziosa, piccola cartellina che contiene ogni sorta di
chicche: un’ordinanza del tribunale della Virginia che mi
cambia il nome in Max Reed Baldwin; una nuova tessera
della previdenza sociale intestata al suddetto nominativo;
un certificato di nascita in cui si attesta che sono nato a
Memphis da genitori che non ho mai sentito nominare; una
patente di guida della Florida con una foto ricavata
dall’immagine computerizzata elaborata dai miei medici e
da me prima dell’intervento. Sembra così autentica che
perfino io non direi mai che è falsa. Pat mi spiega che avrò
un’altra patente fra circa un mese, quando finalmente la
mia faccia si sarà assestata. Stessa cosa per il
passaporto. Compiliamo i moduli per richiedere le carte di
credito VISA e American Express. Dietro suggerimento di
Surhoff, mi sto esercitando da tempo in una nuova, diversa
grafia; fa pensare a zampe di gallina, ma non è molto
peggiore della vecchia. Max firma un contratto d’affitto di
sei mesi per un apTeilamento con un’unica camera da letto
a Neptune Beach, pochi chilometri a est di Jacksonville, e
compila il modulo per aprire un conto corrente presso la
SunCoast Bank la quale, mi informa Pat, ha una filiale a
soli tre isolati dal mio condominio. I centocinquantamila
dollari della ricompensa mi verranno versati con un bonifico
sul conto appena questo sarà operativo e da quel
momento in poi potrò farne ciò che voglio. Dato che
comincerò la mia nuova vita con così tanto denaro,
l’autorità costituita ritiene di non dovermi dare molto altro.
Su questo non posso fare obiezioni. Pat mi dice che il fisco
mi concederà l’esenzione da qualsiasi tassa sul denaro
della ricompensa e mi fornisce il nominativo di un
commercialista a conoscenza sia dei misteri del fisco che
di quelli, quali che siano, dei marshal. Poi mi consegna una
busta contenente tremila dollari in contanti, dicendo che
dovrebbero essere sufficienti per cominciare a sistemarmi.
Discutiamo sui pro e i contro dell’acquisto di un’auto
rispetto al leasing; Pat afferma che il leasing è più facile e
serve anche a creare una buona storia di credito.
Mi consegna un riassunto di due pagine della vita di Max
Baldwin, riassunto che sembra quasi un necrologio.
Genitori, fratelli, studi, storia lavorativa... resto affascinato
scoprendo che ho trascorso la maggior Teile della mia vita
a Seattle e che ho divorziato due volte, niente figli. Mi sto
trasferendo in Florida perché è il posto più lontano
possibile dalla moglie numero due. È importante che io
memorizzi questi dati e mi attenga sempre al copione. Ho
un curriculum di impiegato (sempre in agenzie governative)
e una valutazione della mia affidabilità creditizia.
Per quanto riguarda il lavoro ho due scelte. La prima è
quella di responsabile dell’ufficio acquisti alla Mayport
Naval Station, pochi chilometri a nord di Neptune Beach;
stipendio iniziale quarantottomila dollari, due mesi di
addestramento obbligatori. La seconda possibilità è
direttore amministrativo alla Veteran’s Administration,
sempre per quarantottomila dollari l’anno. È meglio se
continuo a essere un impiegato federale, almeno per i
primi anni. In ogni caso, sottolinea Pat per l’ennesima volta,
la mia vita adesso apTeiliene a me e posso fare tutto ciò
che voglio. Gli unici limiti sono quelli imposti dal mio
passato.
Proprio quando sto cominciando a sentirmi quasi
sopraffatto, Pat fruga nella sua valigetta ed estrae i
giocattoli. Il primo è un iPad, mio per gentile omaggio del
governo e già registrato a nome di Max. Come
bibliotecario, Malcolm aveva accesso ai computer (ma non
a Internet), e io ho sempre lavorato sodo per mantenermi
aggiornato. Ma questo coso va oltre le mie possibilità.
Dedichiamo un’ora intera a un corso intensivo. Quando
sono esausto, Pat mi mostra un iPhone. È suo, non mio,
perché dovrò essere io a scegliermi un provider e ad
acquistare il mio cellulare personale. Surhoff comunque mi
prende per mano e mi istruisce su questo sorprendente
strumento. Il volo termina prima che abbiamo finito.
Nell’aeroporto di Atlanta trovo un negozio di computer e
ammazzo il tempo curiosando per un’ora tra i vari gadget.
La tecnologia sarà la chiave della mia sopravvivenza e
sono deciso a familiarizzare con tutte le ultime novità.
Prima di decollare da Atlanta, lascio cadere nella cassetta
della posta la lettera che ho scritto a Vanessa Young.
Nessun indirizzo del mittente.
Atterriamo a Jacksonville che è buio, noleggiamo
un’auto e dopo mezz’ora raggiungiamo le spiagge a est
della città. Atlantic Beach, Neptune Beach, Jacksonville
Beach... non si riesce a capire dove finisca una e inizi
l’altra. È una zona elegante con centinaia di bei cottage –
alcuni di proprietà, altri in affitto – e un assortimento di
piccoli hotel e moderni condominii rivolti verso l’oceano.
L’uva passa del pranzo è solo un lontano ricordo e Pat e io
stiamo morendo di fame. Troviamo un ristorante di pesce
in un’area pedonale a un isolato dall’oceano e divoriamo
ostriche e gamberi. La folla al bar del ristorante è tutta
composta di giovani, un sacco di belle ragazze dalle
gambe abbronzate, e io non posso fare a meno di
guardarle. Finora ho visto solo bianchi e mi chiedo se darò
nell’occhio. L’area metropolitana di Jacksonville conta un
milione di abitanti, il diciotto per cento dei quali è nero,
perciò Pat non crede che la mia etnia sarà un problema.
Provo a fargli capire cosa significa essere nero in un
mondo bianco, ma mi rendo conto, ancora una volta, che
certe cose non si possono spiegare pienamente nel corso
di una cena, o forse mai.
Cambio argomento e faccio qualche domanda sul
programma protezione testimoni. Pat è di base in Virginia
e presto tornerà a casa. Un altro marshal diventerà il mio
contatto, il mio referente, e questa persona non tenterà
mai, in nessun modo, di tenermi sotto sorveglianza. Lui, o
lei, sarà sempre raggiungibile in caso di problemi, o di
guai. Tipicamente, il mio referente avrà diverse altre
“persone” da monitorare. Se ci sarà il minimo segnale che
qualcosa non va, verrò immediatamente trasferito altrove,
ma, mi assicura Surhoff, questo succede molto di rado.
Come potrebbero fare i cattivi a trovarmi? Pat mi
risponde di non saperlo perché non è mai accaduto. Io
insisto: «Ma ti sarà capitato di sicuro di dover ritrasferire
qualcuno».
«Personalmente non sono mai stato coinvolto in un
trasferimento, però sì: è successo. Per quello che ne so, e
gestisco informatori da dieci anni, non c’è mai stata una
seria minaccia. Comunque ho sentito parlare di due, forse
tre soggetti che si erano convinti di essere stati scoperti.
Volevano andare via, così siamo intervenuti e loro sono
svaniti, un’altra volta.»
Per ovvie ragioni, a Frostburg né la biblioteca legale né
quella generica offrivano testi sul programma protezione
testimoni, per cui la mia conoscenza in materia è limitata.
Ma so che il programma non è perfetto. «Quindi, mai
nessun problema di nessun tipo? Difficile da credere.»
«Non ho mai detto che il programma è perfetto. C’è una
storia bellissima che risale a trent’anni fa, una leggenda nel
nostro settore. Avevamo un importante informatore della
mafia che aveva vuotato il sacco sulla famiglia e fatto finire
dentro alcuni pezzi da novanta. Uno dei colpi più
spettacolari messi a segno dall’FBI. Quel tipo aveva un
bersaglio così grande appeso al collo che avresti potuto
centrarlo anche a occhi bendati. Ce ne siamo occupati,
l’abbiamo sepolto in profondità ed è trascorso qualche
anno. Lavorava come ispettore postale in una città di
cinquantamila abitanti. Una copertura perfetta, ma lui era
un delinquente, okay? Un criminale dalla nascita, gli era
impossibile restare pulito. Apre una rivendita di auto usate,
poi un’altra. Entra nel business dei banchi di pegno,
comincia a fare il ricettatore e dopo un po’ arriva al
commercio di marijuana. Noi sapevano chi era, ma l’FBI no.
Quando viene arrestato, chiama il suo referente perché
corra a farlo uscire su cauzione. Il referente si spaventa da
morire, così come tutti nella catena di comando, su su fino
al direttore dell’FBI. C’è stato un casino pazzesco per tirarlo
fuori di galera e trasferirlo di nuovo. Sono stati minacciati
licenziamenti, sono stati conclusi accordi, si sono
supplicati giudici e alla fine le accuse sono state fatte
cadere. Quella volta l’abbiamo spuntata per un pelo.
Quindi, vedi di non ricominciare a riciclare soldi sporchi.»
Pat crede che la sua ultima frase sia divertente. «Io non
ho mai riciclato soldi sporchi» dico senza sorridere.
«Scusa.»
Finiamo il dolce e ci dirigiamo verso la mia nuova casa.
È al settimo piano di una torre, una di un gruppo di quattro
allineate lungo la spiaggia, con campi da tennis e piscine
sparsi in giro. Pat mi spiega che quasi tutti gli apTeilamenti
sono affittati, ma pochi ospitano inquilini permanenti. Io
resterò qui per sei mesi, poi starà a me decidere. Il mio
apTeilamento, arredato, vanta una camera da letto e una
combinazione soggiorno-cucina; bel divano e belle
poltrone, niente di lussuoso, ma nemmeno di dozzinale.
Dopo che Surhoff se n’è andato, esco sul piccolo balcone
e guardo la luna sull’oceano. Respiro l’aria salmastra e
ascolto le onde frangersi dolcemente sulla riva.
La libertà è esaltante, e indescrivibile.
Ho dimenticato di chiudere le tende e vengo svegliato da
un sole accecante. È la mia prima vera mattina da persona
libera e non sorvegliata, e non vedo l’ora di sentire la
sabbia tra le dita dei piedi. Ci sono solo poche persone in
spiaggia e io mi affretto a scendere, cercando di
camuffarmi con berretto e occhiali da sole. Ma nessuno fa
caso a me, nessuno si interessa. Quelli che vagano senza
meta su e giù per le spiagge sono persi nel loro mondo e
io mi perdo rapidamente nel mio. Non ho famiglia, non ho
lavoro, nessuna responsabilità, nessun passato. Max sta
cominciando una vita nuova di zecca.
Pat Surhoff passa a recuperarmi verso mezzogiorno.
Pranziamo con un sandwich e poi Pat mi accompagna in
auto alla Mayport Naval Station, dove ho appuntamento
con un medico del giro segreto dei marshal. Il decorso
dopo l’intervento procede bene, nessuna complicazione di
qualsiasi tipo. Tornerò tra due settimane per un altro
controllo.
La tappa successiva è alla filiale della SunCoast Bank
nei pressi del mio condominio e, mentre ci avviciniamo,
Pat mi spiega quello che succederà. Lui non entrerà in
banca perché è importante che sia io ad aprire il conto.
Nessuno della banca è nel giro: sarà tutto rigorosamente
normale e alla luce del sole. Per il momento Max Baldwin è
un semipensionato, non lavora e sta valutando se trasferirsi
definitivamente in zona. Vuole aprire un conto corrente
standard, senza fronzoli o cose varie, e verserà mille dollari
in contanti come deposito iniziale. Una volta aperto il conto,
Max tornerà in banca e si farà dare tutte le istruzioni per
ricevere un bonifico. Entro nella filiale e vengo indirizzato
all’adorabile Gretchen Hiler, una finta bionda sui
quarant’anni che ha passato troppo tempo al sole. Siede
dietro una scrivania in un minuscolo cubicolo e noto che
non ha la fede al dito. Non ha modo di sapere che lei è la
prima donna con cui mi trovo realmente da solo da più di
cinque anni. Per quanto mi sforzi, non riesco a impedirmi lo
scatenamento di pensieri indecenti. O forse solo naturali.
Gretchen è una chiacchierona e al momento lo sono
anch’io. Compiliamo rapidamente i moduli e ho l’orgoglio
di fornire un indirizzo autentico. Verso mille dollari in
contanti e Gretchen va a prendere alcuni assegni
provvisori, assicurandomi che me ne invierà degli altri per
posta. Terminati gli affari, continuiamo a chiacchierare.
Gretchen mi dà il suo biglietto da visita e si dichiara pronta
ad aiutarmi in ogni modo. Io prometto di chiamare appena
avrò un cellulare: la banca ha bisogno di un numero di
telefono. Sto quasi per invitarla a cena, soprattutto perché
sono convinto che potrebbe accettare, ma lascio
saggiamente perdere. Per queste cose ci sarà tempo più
avanti, quando mi sentirò più a mio agio e la mia faccia
sarà più gradevole da guardare, almeno spero.
Ho chiesto a Dionne di sposarmi quando avevo
ventiquattro anni e da quel momento fino al giorno in cui
sono stato condannato e portato in carcere non le sono
mai stato infedele. Una volta ci sono andato vicino, con la
moglie di un conoscente, ma entrambi ci rendemmo conto
che le cose potevano finire male. Come avvocato in una
piccola città, vedevo moltissimi divorzi e restavo
continuamente stupito dai modi incredibili in cui gli uomini
rovinavano la propria vita e la famiglia solo perché non
riuscivano a resistere alle tentazioni. Una sveltina, poi una
relazione occasionale, poi qualcosa di più serio e nel giro
di poco tempo si ritrovavano in tribunale a farsi cavare gli
occhi e ad affrontare la perdita dei figli, oltre che del loro
denaro. La verità era che io adoravo mia moglie e trovavo
in casa tutto il sesso che volevo. Ma devo ammettere che
non mi sono mai visto come un dongiovanni.
Prima di Dionne ho avuto delle ragazze e mi sono
goduto i miei giorni da single, ma non sono mai saltato da
un letto all’altro. Adesso, a quarantatré anni e single, ho la
sensazione che in giro ci siano tantissime donne più o
meno della mia età in cerca di compagnia. L’impulso c’è,
ma è anche vero che tutti i miei movimenti devono essere
attentamente calcolati.
Esco dalla banca con un senso di soddisfazione. Ho
appena portato felicemente a termine la prima piccola
missione della mia esistenza segreta. Pat è rimasto ad
aspettarmi in macchina e, quando salgo, mi chiede:
«Allora?».
«Nessun problema.»
«Come mai ci hai messo tanto?»
«L’addetta ai conti correnti è una bella ragazza e mi si è
buttata fra le braccia.»
«Questo è sempre stato un tuo problema?»
«Non lo definirei un problema, comunque sì: le donne
sono attratte da me. Devo combattere per tenerle lontane.»
«Continua a combattere. Le donne sono state la rovina
di molti uomini.»
«Quindi tu sei un esperto di donne?»
«Per niente. Dove andiamo adesso?»
«A fare shopping. Voglio qualche vestito decente.»
Troviamo un negozio di abbigliamento maschile e
spendo ottocento dollari per alzare il livello del mio
guardaroba. Anche questa volta Pat mi aspetta in
macchina. Ci siamo trovati d’accordo sul fatto che due
uomini, entrambi sui quarant’anni, uno bianco e uno nero,
che fanno shopping insieme potrebbero fare inarcare più
di un sopracciglio. Il mio obiettivo è farne inarcare il minor
numero possibile. Pat poi mi scarica a un ufficio della
Florida Cellular, dove apro un conto e acquisto un iPhone.
E con quello in tasca mi sento finalmente un vero
americano, finalmente connesso.
Passiamo i due giorni seguenti a sbrigare commissioni e a
consolidare l’esistenza di Max. Compilo il mio primo
assegno a favore di un’agenzia di leasing automobilistico
e me ne vado alla guida di un’Audi A4 decappottabile
usata, mia per i prossimi dodici mesi a quattrocento dollari
al mese, assicurazione compresa. Adesso che sono
motorizzato e che cominciamo a starci sulle scatole, Pat
inizia a parlare della sua uscita di scena. Io sono pronto
per l’indipendenza e lui per tornarsene a casa.
Vado di nuovo a trovare Gretchen per informarmi sulle
modalità della banca per quanto riguarda i bonifici e la
informo che sta per arrivarmi una notevole somma di
denaro. Pat parla con i suoi superiori e i soldi della
ricompensa vengono trasferiti da qualche conto misterioso
alla Sun-Coast. Do per scontato che ogni persona
coinvolta nel bonifico adotti tutte le precauzioni standard.
Non ho modo di sapere che qualcuno sta tenendo
d’occhio l’operazione.
22
L’istanza presentata da Dusty Shiver per richiedere la non
validità della confessione non era per niente inaspettata.
Lunga, ben scritta e ben argomentata, era integrata da una
dichiarazione giurata di trenta pagine nella quale Quinn
Rucker ritrattava totalmente. Tre giorni dopo che il
documento era stato depositato, Victor Westlake e due
suoi agenti si riunirono con Stanley Mumphrey e due suoi
assistenti. Scopo dell’incontro era esaminare a fondo
l’istanza e preparare le risposte. Né Mumphrey né nessun
altro del suo ufficio erano a conoscenza delle tattiche
d’interrogatorio adottate dagli agenti Pankovits e Delocke,
così come nessuno di loro sapeva che Westlake e quattro
dei suoi uomini avevano seguito tramite trasmissione a
circuito chiuso la maratona di dieci ore e che ne
conservavano il nastro. Queste informazioni non sarebbero
mai state comunicate al procuratore federale e di
conseguenza non sarebbero mai venute a conoscenza
della difesa, del giudice o di chiunque altro.
Aggiornato su tutti i Teilicolari dai suoi luogotenenti, fu
Stanley ad assumere il controllo della riunione. Cominciò
dicendo: «Il primo punto, e il più importante, è
l’affermazione dell’imputato secondo cui avrebbe voluto
parlare con un avvocato».
Westlake rivolse un cenno a un agente, il quale estrasse
subito alcuni fogli. Westlake spiegò: «Queste sono le
dichiarazioni giurate degli agenti Pankovits e Delocke, che
hanno condotto l’interrogatorio, in cui rispondono a tale
accusa. Come vedrai, gli agenti ammettono che l’imputato
ha accennato a un avvocato in un paio di occasioni, ma
affermano anche che non ne ha mai richiesto
esplicitamente uno. Non ha mai interrotto l’interrogatorio.
Voleva parlare».
Stanley e i suoi uomini scorsero rapidamente le due
dichiarazioni giurate. Dopo qualche minuto, il procuratore
disse: «Okay, punto numero due. L’imputato sostiene di
essere stato più volte minacciato di pena di morte da
entrambi gli agenti. Se questo è vero, si tratterebbe di un
comportamento estremamente scorretto e con ogni
probabilità renderebbe nulla la confessione».
Westlake scosse la testa e rispose: «Leggi in fondo a
pagina sette di entrambe le dichiarazioni. Gli agenti
affermano, sotto giuramento, di non aver fatto alcun tipo di
minaccia. Sono due esperti in interrogatori, Stan, molto
esperti, e conoscono le regole come chiunque altro».
Stanley e i suoi trovarono pagina sette e lessero il testo.
Perfetto. Qualunque cosa sostenesse Quinn nella sua
dichiarazione giurata, c’erano due agenti dell’FBI pronti a
spiegare cos’era veramente successo. «Sembra tutto a
posto» disse il procuratore. «Il terzo punto è che gli agenti
avrebbero promesso all’imputato che sarebbe stato
processato per omicidio, ma senza richiesta di pena
capitale.»
«Pagina nove» disse Westlake. «I nostri agenti sanno di
non avere l’autorità per negoziare patteggiamenti. Solo il
procuratore federale può farlo. Francamente trovo ridicola
un’accusa del genere. Rucker è un criminale di carriera.
Dovrebbe sapere che sono i procuratori a concludere gli
accordi, non i poliziotti.»
«In effetti» confermò subito Stanley. «C’è poi l’accusa
secondo la quale gli agenti dell’FBI avrebbero minacciato di
perseguire altri membri della famiglia Rucker.»
«Non è quello che dicono sempre, Stan? Confessano,
liberamente e di loro spontanea volontà, e poi non vedono
l’ora di ritrattare tutto dicendo che sono stati minacciati.
Devi averlo visto succedere parecchie volte.» Certo che
Stan l’aveva visto succedere, anche se in realtà non gli era
mai capitato. Westlake proseguì: «Anche se devo
ammettere che non sarebbe una cattiva idea rastrellare
tutti i Rucker e piantargli l’ago nel braccio».
Gli uomini di Westlake risero. Gli uomini di Stanley
risero. Un vero Teily.
«E cosa mi dici dell’accusa secondo la quale gli agenti
hanno oltrepassato il limite, spingendo Rucker addirittura
allo sfinimento?»
«Stan, la verità è questa» rispose Westlake. «Gli agenti
hanno più volte chiesto a Rucker se voleva interrompere
l’interrogatorio e riprenderlo in seguito. Lui ha sempre
risposto di no perché non voleva passare la notte nel
carcere di contea. Noi avevamo controllato e sapevamo
che la prigione era sovraffollata, davvero stracolma. Gli
agenti lo hanno comunicato a Rucker, e lui non ci è voluto
andare.»
La cosa aveva perfettamente senso per Stanley, che
disse: «Okay, i tre punti seguenti devono essere presi in
esame, ma non credo che ne parleremo molto nella nostra
risposta. C’è l’accusa secondo la quale gli agenti dell’FBI
hanno mentito riguardo all’esistenza di una perizia balistica
che collegava gli omicidi alla Smith & Wesson sequestrata
all’imputato. Sfortunatamente, come sappiamo, la perizia
balistica ha invece escluso quell’arma».
«Mentire è consentito, Stanley, specie in un
interrogatorio di alto livello come questo.» Il tono di
Westlake era molto simile a quello di un vecchio e saggio
professore.
«Lo so, ma giusto per curiosità: i tuoi agenti hanno
davvero mentito a proposito della pistola?»
«Naturalmente no. No, assolutamente no. Pagina dodici
delle dichiarazioni giurate.»
«Infatti non lo pensavo. E cosa mi dici dell’accusa
successiva, e cioè che i tuoi agenti hanno mentito riguardo
all’esistenza di un’impronta di scarpa sulla scena del
delitto? Impronta che hanno detto corrispondere a certi
stivali sequestrati all’indiziato?»
«Non è vero, Stan. È solo la fantasia di un avvocato
disperato e del suo cliente colpevole.»
«Ce l’avete o no questa impronta di stivale?»
Westlake lanciò un’occhiata a uno dei suoi uomini, come
se fosse potuta esistere un’impronta di stivale di cui si era
in qualche modo dimenticato. L’agente scosse la testa.
«No» ammise Westlake. «Non c’è alcuna impronta.»
«E poi abbiamo l’accusa secondo la quale i tuoi agenti
hanno mentito a proposito di testimoni oculari. Il primo
avrebbe visto l’imputato nella cittadina di Ripplemead più o
meno all’epoca dei delitti. C’è qualcosa di vero?»
Westlake spostò il proprio peso da una natica all’altra e
fece un sorriso condiscendente. «Ascoltami bene, Stan, io
non so se ti rendi conto di cosa occorra per far crollare un
colpevole. Esistono dei trucchi, okay, e...»
«Capisco.»
«E bisogna instillare la paura, bisogna far credere
all’indiziato che si è in possesso di molte più prove di
quante se ne abbiano in realtà.»
«Non ho visto alcun rapporto su quel testimone.»
«E non lo vedrai. Non esiste.»
«Vic, qui siamo tutti dalla stessa Teile. È solo che io ho
bisogno di sapere la verità per poter rispondere all’istanza
di nullità, capisci?»
«Certo.»
«E il secondo testimone, quello dell’emporio di
campagna vicino al cottage? Non esiste neppure lui,
giusto?»
«Giusto.»
«I tuoi agenti si sono serviti di qualche altro trucco di cui
io non sono a conoscenza?»
«No» rispose Westlake, ma nessuno nella stanza gli
credette.
«Allora, tanto per riassumere il nostro caso contro Quinn
Rucker: nessun testimone, nessuna perizia balistica,
nessuna impronta di stivale, nessuna impronta digitale,
nessuna prova materiale di alcun tipo. Corretto?»
Westlake annuì lentamente, ma non disse nulla.
«Abbiamo un indiziato che si trovava nell’area di
Roanoke dopo gli omicidi, ma nessuna prova che si
trovasse lì anche prima, giusto?»
Un altro cenno di assenso.
«E il nostro indiziato è stato preso con più contanti di
quanti una persona normale di solito porta con sé. Molti,
molti di più, direi.»
Westlake confermò.
«Ma è anche vero che Mr Rucker è un corriere della
droga reo confesso e apTeiliene a una famiglia di noti
trafficanti, per cui i contanti non sarebbero difficili da
spiegare.» Stanley allontanò il blocco legale e si
massaggiò le tempie. «Signori, abbiamo una confessione
e nient’altro. Se questa salta, Mr Rucker se ne va e non c’è
alcun processo.»
«Non puoi perdere la confessione, Stan» disse
Westlake. «È impensabile.»
«Non ho alcuna intenzione di perderla, ma vedo già il
giudice che guarda storto all’interrogatorio. È la durata che
mi preoccupa: dieci ore, tutta la notte. Un indiziato
palesemente esausto, che però come criminale di lungo
corso molto probabilmente avrebbe chiesto un avvocato.
Due agenti veterani degli interrogatori che conoscono tutti i
trucchi... Potremmo essere al limite.»
Westlake aveva ascoltato con un sorriso e, dopo una
lunga pausa, disse: «Non dimentichiamo il nostro
testimone superstar. Malcolm Bannister dichiarerà che
Quinn Rucker aveva parlato più volte di uccidere il giudice
Fawcett. Rucker voleva vendetta, e voleva indietro i suoi
soldi».
«È vero, e quella testimonianza, più la confessione,
porteranno a una condanna. Ma, da sola, la testimonianza
non è sufficiente.»
«Non mi sembri molto fiducioso, Stan.»
«Al contrario. Si tratta dell’omicidio di un giudice
federale. Non riesco a immaginare un altro giudice
federale che dimostri comprensione nei confronti di Quinn
Rucker. Avremo la confessione, e abbiamo Malcolm
Bannister. Otterremo una condanna.»
«Adesso sì che mi piaci.»
«A proposito, come va con il nostro giovane Bannister?»
«Sano e salvo, sepolto in profondità dall’US Marshals
Service.»
«Dov’è?»
«Spiacente, Stan. Ci sono cose di cui non possiamo
parlare. Ma non preoccuTeili. Quando avremo bisogno di
lui, ci sarà.»
23
Chi sostituirà Pat Surhoff è Diana Tyler. Incontro entrambi i
marshal a pranzo dopo una lunga mattinata in ospedale,
dove sono stato visitato e invitato a ripresentarmi fra un
mese. Ms Tyler è una signora alta e carina sui
cinquant’anni, con i capelli corti, poco trucco, un blazer blu
e niente fede al dito. È abbastanza simpatica e, mentre
mangiamo le nostre insalate, mi fa il suo discorsetto. Vive
“in zona” e segue qualche altro soggetto nella mia stessa
situazione. È disponibile ventiquattr’ore su ventiquattro,
sette giorni su sette, e vorrebbe sentirmi al telefono almeno
una volta alla settimana.
Comprende quello che sto passando e mi rassicura sulla
mia istintiva tendenza a guardarmi sempre le spalle. Con il
tempo queste paure svaniranno e la mia vita diventerà
assolutamente normale. Nel caso dovessi andare fuori città
– ed entrambi i marshal sottolineano che posso farlo
quando voglio – le piacerebbe conoscere in anticipo i
dettagli dei miei spostamenti. I marshal intendono tenermi
d’occhio anche dopo che avrò testimoniato contro Quinn
Rucker, e Pat e Diana insistono nel dipingere il quadro del
futuro sicuro e piacevole che avrò un giorno, quando tutti gli
ostacoli attuali saranno superati.
Accennano ai due colloqui di lavoro e io li prendo in
contropiede, spiegando che non mi sento ancora pronto
per un impiego. Con un po’ di soldi in banca e libertà
illimitata, proprio non me la sento di iniziare una nuova
carriera. Voglio viaggiare, fare lunghe gite in macchina,
magari andare in Europa. Viaggiare va benissimo,
concordano i due, ma la copertura funzionerà meglio se
avrò un vero lavoro. Decidiamo di tornarci sopra più avanti.
Questo porta la conversazione sul passaporto e sulla
patente di guida. Ancora una settimana e la mia faccia
sarà pronta per essere fotografata. Diana mi promette di
preparare la documentazione necessaria.
Mentre beviamo il caffè, consegno a Pat una lettera per
mio padre. L’indirizzo del mittente è l’istituto circondariale
federale di Fort Wayne, Indiana. Pat la spedirà al carcere,
dove qualcuno provvederà a inoltrarla a Henry Bannister a
Winchester, Virginia. Nella lettera spiego al vecchio Henry
che a Frostburg ho combinato un casino e che di
conseguenza mi hanno rimandato a calci in un carcere
normale. Sono in isolamento e non posso ricevere visite
per almeno tre mesi. Gli chiedo di informare mia sorella
Ruby in California e mio fratello Marcus a Washington. Gli
dico anche di non preoccuparsi: io sto bene e ho un piano
per riuscire a tornare a Frostburg.
Pat e io ci salutiamo. Lo ringrazio per la sua cortesia e
professionalità e lui mi augura ogni bene. Mi garantisce
che la mia nuova vita sarà sicura e gratificante. Non sono
certo di credergli, dato che continuo sempre a guardarmi
intorno. Ho il forte sospetto che l’FBI continuerà a
monitorarmi per un po’ di tempo, almeno fino al giorno in
cui Quinn Rucker verrà condannato e rinchiuso in carcere.
La verità è che non posso fidarmi di nessuno, compresi
Pat Surhoff, Diana Tyler, l’ US Marshals Service e l’FBI. Non
me lo posso permettere. Ci sono molte ombre là in mezzo,
per non parlare dei cattivi. Se il governo vuole tenermi
d’occhio, non c’è molto che io possa fare. Possono
ottenere ordinanze della corte per mettere il naso nel mio
conto corrente, per ascoltare le mie telefonate, per
controllare la mia carta di credito e per seguire i miei
movimenti online. So che lo faranno e la sfida che dovrò
affrontare nel prossimo futuro consisterà nel riuscire a
ingannarli senza che si accorgano di essere ingannati.
Accettare uno dei lavori servirebbe solo a dare a quella
gente un’ulteriore opportunità di spiarmi.
Nel pomeriggio apro un altro conto corrente presso
l’Atlantic Trust, sul quale trasferisco cinquantamila dei
dollari depositati alla SunCoast. Poi ripeto la stessa
operazione con una terza banca, la Jacksonville Savings.
Tra un paio di giorni, una volta avuto l’okay per gli assegni,
comincerò a prelevare contanti.
Mentre vago per il quartiere a bordo della mia Audi,
riservo allo specchietto retrovisore lo stesso tempo che
dedico alla strada davanti a me. È già un’abitudine.
Quando passeggio in spiaggia, studio ogni viso che
incontro. Quando entro in un negozio, cerco
immediatamente una posizione protetta e tengo d’occhio
l’ingresso dal quale sono appena entrato. Non mangio mai
due volte nello stesso ristorante e cerco sempre un tavolo
con vista sul parcheggio. Uso il cellulare solo per
conversazioni di routine, presumendo che ci sia qualcuno
in ascolto. Acquisto un laptop pagandolo in contanti, apro
tre account Gmail e navigo in rete solo in Internet café,
utilizzando i loro server. Comincio a sperimentare l’uso
delle carte di credito prepagate che ho acquistato da
Walgreens. Installo due telecamere nascoste nel mio
apTeilamento, nel caso qualcuno entri mentre io sono fuori.
La parola chiave è paranoia. Mi convinco che ci sia
sempre qualcuno che guarda e ascolta, e con il passare
dei giorni sprofondo sempre più nel mio piccolo, personale
mondo dell’inganno. Telefono a Diana a giorni alterni per
comunicarle le ultime notizie sulla mia vita sempre più
mondana e lei non dà alcun segno di essere sospettosa. È
anche vero che non lo darebbe in ogni caso.
L’avvocato si chiama Murray Huggins e il suo annuncio
sulle pagine gialle lo pubblicizza come specialista
praticamente in tutto. Divorzi, compravendite immobiliari,
fallimenti, questioni penali e così via; in sostanza la stessa
modesta routine del vecchio, caro studio legale Copeland,
Reed & Bannister. L’ufficio di Huggins non è lontano da
casa mia e basta una sola occhiata a suggerire l’immagine
della rilassata professione di uno che va a lavorare alle
nove e alle tre di pomeriggio è già sul campo da golf. In
occasione del nostro primo colloquio, Murray mi racconta
la storia della sua vita. È stato un avvocato di successo in
un importante studio legale di Tampa, ma a cinquant’anni è
crollato e ha provato ad andare in pensione. Si è trasferito
ad Atlantic Beach, ha divorziato, poi ha cominciato ad
annoiarsi e ha deciso di aprire bottega da solo. Ora ha
superato i sessant’anni ed è felice del suo piccolo studio,
dove ogni tanto va a lavorare per qualche ora e seleziona
con cura i suoi clienti.
Passiamo alla mia biografia e perlopiù mi attengo al
copione: un paio di ex mogli a Seattle eccetera. Aggiungo
il mio nuovo dettaglio e racconto di essere uno
sceneggiatore alle prime armi, al momento impegnato
nella rifinitura del suo primo lavoro. Grazie a qualche colpo
di fortuna, la sceneggiatura è stata opzionata da una
piccola casa di produzione che si occupa di documentari.
Per varie ragioni, ho bisogno di crearmi una facciata in
Florida.
In cambio di duemilacinquecento dollari, Murray può
innalzare qualche barriera protettiva. Creerà una SRL –
società a responsabilità limitata – in Florida e l’unico
proprietario sarà M. R. Baldwin. La SRL in seguito costituirà
una società in Delaware della quale Murray sarà il solo
socio fondatore e io l’unico proprietario. L’indirizzo
registrato sarà quello dello studio legale e il mio nome non
comparirà in nessuno dei documenti societari. «Lo faccio
di continuo» mi assicura Huggins. «La Florida attrae un
mucchio di gente che vuole iniziare un’attività.» Se lo dici
tu, Murray...
Potrei fare tutto questo via computer, ma è più sicuro
procedere tramite un avvocato. La riservatezza è
importante. Posso pagare Huggins perché faccia cose che
le ombre non sospetteranno mai e che non riusciranno mai
a tracciare. Sotto la guida esperta di Murray, la Skelter
Films prende vita.
Due mesi e mezzo dopo l’arresto di Quinn Rucker, e due
settimane dopo il mio arrivo nel condominio sulla spiaggia,
sto bevendo il caffè del mattino quando vengo informato da
Diana che i federali gradirebbero incontrarmi. Ci sono
molte ragioni per questo, la più importante è il loro
desiderio di aggiornarmi sul caso e parlare del processo.
Vogliono pianificare la mia deposizione. Sono certo che
vogliono anche dare una bella occhiata a Max Baldwin, il
quale, per inciso, rappresenta un netto miglioramento
rispetto a Malcolm Bannister.
Il gonfiore è sparito. Il naso e il mento sono un po’ più
netti e definiti. Lo sguardo sembra molto più giovane e gli
occhiali di tartaruga, rossi e rotondi, mi danno un’aria da
cineasta cerebrale e parecchio fico. Mi rado solo una volta
alla settimana e di conseguenza ho sempre un po’ di
barba, con appena un tocco di grigio. Lo scalpo
perfettamente liscio richiede una passata di rasoio un
giorno sì e uno no. Le guance sono più scavate, soprattutto
perché ho mangiato molto poco durante la convalescenza
e ho perso nove chili, che non ho intenzione di riprendere.
Tutto sommato non assomiglio per niente al precedente
me stesso, e sebbene questo sia spesso fonte di
inquietudine, è anche rassicurante.
Mi suggeriscono di tornare a Roanoke per incontrare
Stanley Mumphrey e la sua gang, ma oppongo un netto
rifiuto. Diana mi assicura che l’FBI e l’ufficio del procuratore
federale non sanno dove mi nascondo e io fingo di
crederle. Non voglio incontrarli in Florida. Dopo un po’ di
tira e molla, ci accordiamo su un hotel a Charleston, South
Carolina. Diana prenota i biglietti aerei per entrambi e
decolliamo da Jacksonville, sullo stesso volo ma lontani
l’uno dall’altra.
Nel momento stesso in cui entriamo nell’atrio dell’hotel,
so di essere osservato e probabilmente anche fotografato.
L’FBI non vedeva l’ora di verificare il mio nuovo aspetto.
Colgo un paio di rapide occhiate, ma faccio finta di niente.
Dopo un sandwich in camera, incontro Diana nel corridoio
e insieme saliamo le scale per raggiungere una suite due
piani sopra di noi. La porta è sorvegliata da due robusti
ragazzoni vestiti di nero che sembrano pronti ad aprire il
fuoco alla minima provocazione. In quanto marshal, Diana
non ha alcun ruolo nella squadra dell’accusa, perciò rimane
fuori con i due doberman, mentre io entro e saluto la
banda.
Stanley Mumphrey ha portato con sé tre suoi assistenti, i
cui nomi si perdono nel diluvio delle presentazioni. Il mio
amico agente Chris Hanski è tornato, senza dubbio per
studiarmi ai fini di un rapporto “prima e dopo la cura”. Ha
un tirapiedi anche lui, nome dimenticato all’istante. Mentre
ci sediamo imbarazzati intorno a un piccolo tavolo da
riunioni, non posso fare a meno di notare tra i vari
documenti sul ripiano un paio di foto identiche. Sono di
Malcolm Bannister, ed è lui che questi signori stavano
esaminando. Adesso guardano a bocca aperta Max. Sono
impressionati dalla trasformazione.
Dato che Hanski è l’unico che mi ha conosciuto prima
del cambiamento, è lui a parlare per primo. «Max, devo
ammettere che sembri più giovane e più in forma. Non
sono sicuro che tu sia anche più carino, ma nel complesso
non è male come trasformazione.» Il tono è gioviale e il
commento dovrebbe servire a rompere il ghiaccio.
«La tua approvazione significa molto per me» replico,
con un sorriso fasullo.
Stanley afferra la foto e dice: «Nessuna somiglianza,
Max. Nessuno sospetterebbe mai che tu e Malcolm siete la
stessa persona. Davvero notevole».
Facciamo tutti Teile della stessa squadra, adesso, e per
un po’ chiacchieriamo come vecchi amici. Ma non esistono
basi solide, per cui la conversazione comincia a languire.
«Si conosce già la data del processo?» chiedo, e la
domanda cambia subito l’atmosfera.
«Sì» risponde Stanley. «Dieci ottobre, a Roanoke.»
«Sono solo quattro mesi» osservo. «Mi sembra molto
veloce.»
«Siamo parecchio efficienti nel Distretto Sud» dichiara
compiaciuto Stanley. «In media dal rinvio a giudizio al
processo passano otto mesi. Questo caso ha avuto
qualche pressione in più.»
«Chi è il giudice?»
«Sam Stillwater, in prestito dal Distretto Nord. Tutti i
colleghi di Fawcett del Distretto Sud si sono avvalsi
dell’astensione spontanea.»
«Parlami del processo.»
Stanley aggrotta la fronte, e lo stesso fa il resto della sua
banda. «Potrebbe essere piuttosto breve, Max. Non ci
sono molti testimoni, né molte prove. Dimostreremo che
Rucker era in zona al momento dei delitti, e che al
momento dell’arresto aveva un mucchio di contanti.
Esporremo in dettaglio il caso di suo nipote e la sentenza
del giudice Fawcett, forse è entrato in gioco anche un
elemento di vendetta.» Stanley fa una pausa e io non
riesco a resistere alla tentazione. «Roba forte» commento,
da stronzo.
«Senza dubbio. E poi abbiamo la confessione, che la
difesa ha già preso di mira. La settimana prossima
avremo un’udienza davanti al giudice Stillwater: ci
aspettiamo di vincere e di tenerci buona la confessione.
Ma a Teile questo, Max, il nostro teste superstar potresti
essere tu.»
«Vi ho già detto tutto. Conoscete il contenuto della mia
testimonianza.»
«Giusto, giusto, ma vogliamo riesaminarla con te.
Adesso che abbiamo riempito alcuni buchi, vogliamo
limarla alla perfezione.»
«Certo. Come se la passa il mio vecchio amico Quinn?»
«Non molto bene in questi giorni. Non gli piace
l’isolamento, non gli piace il cibo, non gli piacciono le
guardie e nemmeno le regole. Dice di essere innocente...
sai che sorpresa. Credo che senta la mancanza della bella
vita del country club federale.»
«La sento anch’io.» Suscito un paio di risatine.
«L’avvocato di Quinn ha convinto il giudice che era
necessaria una valutazione psichiatrica del suo cliente. Il
medico ha detto che Rucker può essere processato, ma
che deve assumere antidepressivi. Quinn è molto umorale
e spesso non rivolge la parola a nessuno per giorni.»
«Sembra il Quinn che conoscevo io. Parla di me?»
«Oh, sì. Non gli piaci neppure tu. Sospetta che sia tu il
nostro informatore e crede che testimonierai contro di lui al
processo.»
«Quando dovete presentare il vostro elenco dei
testimoni?»
«Sessanta giorni prima del processo.»
«Hai detto all’avvocato di Quinn che testimonierò?»
«No. Noi non divulghiamo mai informazioni finché non ci
siamo costretti.»
«Sì, me lo ricordo» commento. Questi tizi dimenticano
che anch’io a suo tempo sono stato oggetto di un’accusa
federale, con agenti dell’FBI che setacciavano ogni aspetto
della mia vita e un ufficio del procuratore che minacciava di
arrestare non solo me, ma anche i miei due soci innocenti.
Pensano che adesso siamo grandi amici, un’unica
squadra che marcia felice e compatta verso un altro giusto
verdetto. Se potessi, li pugnalerei tutti alla schiena e
manderei a monte il loro caso.
Loro, il governo federale, si sono presi cinque anni della
mia vita, oltre a mio figlio, mia moglie e la mia carriera.
Come osano starsene qui a sedere come se fossimo
colleghi fidati?
Finalmente arriviamo alla mia testimonianza e la
rivediamo insieme per un paio d’ore. Ce ne siamo già
occupati in precedenza e trovo la faccenda tediosa.
L’assistente capo di Mumphrey mi consegna un copione –
domande e risposte – che dovrò studiare. Devo ammettere
che è un ottimo lavoro, niente è stato tralasciato.
Tento di visualizzare la scena surreale della mia
deposizione. Quando mi scorteranno in aula indosserò una
maschera. Mi siederò dietro un pannello o qualche tipo di
divisorio che impedirà agli avvocati, all’imputato e agli
spettatori di vedere la mia faccia quando mi toglierò la
maschera. Io guarderò i giurati. Gli avvocati formuleranno
le loro domande al di là del divisorio e io risponderò, ma la
mia voce sarà distorta. In aula ci saranno anche Quinn, i
suoi familiari e i loro gorilla, e tutti loro si sforzeranno di
cogliere il minimo segno utile al riconoscimento. Sapranno
che sono io, naturalmente, ma non vedranno mai il mio
viso.
Per quanto tutto questo possa sembrare sicuro, dubito
seriamente che succederà mai.
24
Diana mi telefona per dirmi di avere disponibili la mia
nuova patente della Florida e il mio nuovo passaporto. Ci
incontriamo per un caffè e lei mi consegna i documenti. Da
Teile mia, le fornisco un itinerario con un mucchio di buchi.
«Ti fai un bel viaggetto, eh?» mi chiede, studiando il
foglio.
«Già. Non vedo l’ora di provare il mio passaporto nuovo.
Le prime tre notti le passo a Miami, South Beach, a
cominciare da stasera. Teilo in auto appena finisco questa
tazza di caffè. Da Miami volerò in Giamaica, dove mi
tratterrò per una settimana circa, poi andrò ad Antigua e
forse anche a Trinidad. Ti telefonerò a ogni tappa. Lascerò
l’auto all’aeroporto di Miami, così potrai dire all’FBI dov’è
esattamente. E già che ci sei, chiedigli per favore di
lasciarmi in pace mentre me ne vado in giro per i Caraibi.»
«Lasciarti in pace?» dice Diana, fingendo di non capire.
«Mi hai sentito. Non prendiamoci in giro, Diana. Forse
non sarò il testimone più protetto del paese, ma
probabilmente rientro fra i primi tre. C’è sempre qualcuno
che mi tiene d’occhio. C’è un tizio, io lo chiamo Taglio a
Spazzola, che ho visto almeno cinque volte nelle ultime due
settimane. Non è molto in gamba, perciò comunicalo ai
federali quando farai rapporto. Un metro e ottanta, ottanta
chili, Ray-Ban, pizzetto biondo, guida una Cooper ed
esibisce un’acconciatura da marine. Molto, molto goffo.
Sono sorpreso.»
È sorpresa anche Diana. Tiene gli occhi fissi sul mio
itinerario e non riesce a pensare a niente da dire. Fregata.
Pago il caffè e mi metto in viaggio sull’Interstatale 95,
dritto verso sud per cinquecentosessanta chilometri. Il
clima è caldissimo e afoso, il traffico intenso e lento, e io
adoro ogni chilometro del mio viaggio. Mi fermo spesso
per fare benzina, sgranchirmi le gambe e controllare
eventuali movimenti dietro di me. Non me ne aspetto. Dato
che l’FBI sa dove sto andando, non si prenderà certo il
disturbo di seguirmi. D’altra Teile presumo che ci sia un
localizzatore satellitare GPS astutamente nascosto da
qualche Teile sulla mia auto. Sette ore più tardi, mi fermo
davanti all’ingresso del Blue Moon Hotel, uno dei numerosi
piccoli alberghiboutique appena ristrutturati nel cuore
dell’area art déco a South Beach. Estraggo la mia valigetta
e una piccola borsa dal bagagliaio, passo le chiavi della
macchina all’addetto ed entro in una scena tipo “Miami
Vice”. Le pale dei ventilatori appesi al soffitto ruotano
lentamente sopra gli ospiti che, seduti sulle poltrone
bianche di vimini, spettegolano e bevono.
«Desidera registrarsi, signore?» mi chiede la graziosa
impiegata.
«Sì. Max Baldwin» rispondo, e per qualche motivo
questo è un momento di orgoglio. Io, il potente Max, sto
annegando in più libertà di quanta ne possa assimilare al
momento. Un mucchio di contanti, documenti nuovi
perfettamente legali, una decappottabile che mi porterà
ovunque... è quasi troppo. Ma vengo riportato di colpo alla
realtà quando una bruna alta e abbronzata attraversa lenta
l’atrio. Il top è ciò che resta di un bikini e non copre quasi
niente. Il pezzo sotto è una gonna trasparente che copre
ancora meno.
Consegno all’impiegata la mia VISA per i vari addebiti.
Potrei usare i contanti o una carta di credito prepagata, ma
dato che i federali sanno dove mi trovo non ho motivo di
ricorrere a sotterfugi. Sono sicuro che l’ufficio di Miami è
già stato avvertito e probabilmente ci sono occhi che mi
osservano da non molto lontano. Se fossi davvero
paranoico, potrei pensare che l’FBI sia già passato nella
mia stanza e che magari ci abbia lasciato due o tre cimici.
Salgo in camera, non vedo microspie o ficcanaso, faccio
una doccia veloce e indosso shorts e sandali. Scendo al
bar per saggiare il panorama femminile. Mangio da solo
nella caffetteria dell’hotel e incontro lo sguardo di una
donna sulla quarantina che sta cenando con quella che
sembra essere un’amica. Più tardi, di nuovo al bar, la
rivedo e ci presentiamo. Eva, da Porto Rico. Stiamo
bevendo qualcosa insieme quando la band comincia a
suonare. Eva vuole ballare e, anche se per me sono
passati anni dall’ultima volta, mi butto in pista con tutta
l’energia che ho.
Verso mezzanotte saliamo in camera mia, dove ci
spogliamo immediatamente e saltiamo sul letto. Quasi
prego che l’FBI abbia attrezzato la camera in modo da
cogliere anche il più debole dei suoni. Se è così, Eva e io
forniamo parecchio materiale da ascoltare.
Scendo dal taxi sul marciapiede dell’Ottava Avenue, nel
centro di Miami. Sono le nove e mezzo di mattina e fa già
caldissimo; dopo pochi minuti che cammino di buon passo
ho la camicia appiccicata alla schiena. Non credo di
essere seguito, ma procedo circospetto e cambio spesso
direzione come se lo fossi. L’edificio è una scatola tozza di
cinque piani, così brutto da rendere difficile credere che
qualcuno abbia pagato un architetto per progettarlo. D’altra
Teile, dubito che la maggior Teile degli occupanti sia
costituita da società di altissimo livello. Uno di loro è la
Corporate Registry Service, o CRS, un nome così blando e
innocuo che nessuno sarà mai in grado di capire cosa
faccia in realtà. E quasi nessuno vorrebbe saperlo.
L a CRS può anche essere perfettamente legale, tuttavia
richiama un mucchio di clienti che non lo sono. La CRS è un
indirizzo, una buca per le lettere, una facciata, un servizio di
segreteria telefonica che il cliente può affittare per
assicurarsi una certa autenticità. Dato che non ho fissato
un appuntamento, aspetto per un’ora che si liberi un
funzionario commerciale. Si chiama Loyd ed è lui che mi
guida in un piccolo, soffocante ufficio e mi fa accomodare
davanti alla sua discarica di scrivania. Chiacchieriamo per
qualche minuto mentre Loyd scorre velocemente il
questionario che ho compilato nell’attesa.
«Che cos’è la Skelter Films?» domanda.
«Una società che produce docu-film.»
«Chi è il proprietario?»
«Io. La società è registrata in Delaware.»
«Quanti lavori ha già prodotto?»
«Nessuno. Siamo agli inizi.»
«Quante sono le probabilità che la Skelter Films sia
ancora in attività fra due anni da oggi?»
«Poche.»
Loyd ascolta ambiguità del genere tutti i giorni e non è
turbato.
«Sembrerebbe un’operazione di facciata.»
«Abbastanza esatto.»
«Noi richiediamo una dichiarazione ufficiale in cui lei
giura che la sua società non svolge e non svolgerà mai
attività criminali.»
«Lo giuro.»
Loyd ha già sentito anche questo. «Okay, ecco come
operiamo. Noi forniamo alla Skelter un indirizzo fisico, qui
in questo edificio. Quando riceviamo della posta, la
inoltriamo dove ci dirà lei. Diamo un numero telefonico e
tutte le chiamate in arrivo verranno gestite da una persona
che cinguetterà qualsiasi cosa lei desideri. “Buongiorno,
Skelter Films, con chi desidera parlare?” O qualcos’altro.
Lei ha dei soci?»
«No.»
«Dipendenti, fittizi o meno?»
«Avrò alcuni nomi, tutti fittizi.»
«Nessun problema. Se chi telefona chiede di uno dei
suoi fantasmi, la nostra ragazza dirà quello che lei
preferisce, tipo: “Spiacente, sta girando in esterni”. Lei ci
scrive il copione e noi lo recitiamo. Appena riceveremo
una telefonata, la informeremo. Cosa ne dice di un sito
Web?»
Di questo non sono sicuro, così rispondo: «Non ancora.
Quali sono i vantaggi?».
Loyd sposta il proprio peso sulla poltroncina e si china in
avanti, sui gomiti. «Okay, diciamo che la Skelter è una
società che girerà tantissimi documentari. In questo caso
avrà bisogno di un sito Web per le solite ragioni:
marketing, informazioni, narcisismo. Supponiamo al
contrario che la Skelter sia una vera società, ma non una
società di produzioni audiovisive. E che, per qualche
ragione, stia cercando di dare quell’impressione. Un sito
Web è un eccellente sistema per rafforzare questa
immagine, per... manipolare la realtà. Niente di illegale,
badi bene. E noi possiamo creare un sito Web con
immagini di repertorio, biografie dei componenti il suo
staff, i prodotti, i premi, i progetti in corso, quello che
vuole.»
«Quanto?»
«Diecimila.»
Non sono certo di volere, o di dovere, spendere tutti quei
soldi. Non a questo punto, almeno. «Mi ci faccia pensare»
dico, e Loyd si stringe nelle spalle. «Quanto per i vostri
servizi standard di base?»
«Indirizzo, telefono, fax e via discorrendo fanno
cinquecento dollari al mese, con pagamento anticipato di
sei mesi.»
«Accettate contanti?»
Loyd sorride e risponde: «Oh, sì. Noi preferiamo i
contanti». Non mi sorprende. Pago, firmo il contratto, firmo
la dichiarazione in cui prometto di dedicarmi ad attività
lecite ed esco dall’ufficio. La CRS vanta cinquecento clienti
soddisfatti, e mentre attraverso l’atrio del palazzo non
posso fare a meno di sentirmi come se fossi entrato in una
sorta di sottobosco popolato da società fantasma,
malfattori anonimi ed evasori fiscali. Al diavolo.
Dopo altre due notti insieme, Eva vuole che vada con lei a
Porto Rico. Le prometto di pensarci su, poi me la squaglio
dal Blue Moon e vado al Miami International Airport, dove
lascio l’auto nel parcheggio a lungo termine e raggiungo i
terminal con la navetta.
Armato di carta di credito e del mio nuovo passaporto,
acquisto un biglietto dell’Air Jamaica per Montego Bay,
solo andata. L’aereo è stracolmo: metà giamaicani dalla
carnagione scura e metà pallidi turisti in cerca di sole.
Prima del decollo le adorabili hostess ci servono rum
punch. Il volo dura quarantacinque minuti. Una volta a terra,
il funzionario del controllo passaporti studia il mio fin troppo
a lungo e sto già per andare nel panico quando finalmente
agita la mano, facendomi segno di passare.
Trovo l’autobus del Rum Bay Resort, complesso turistico
con una serie di spiagge topless, notoriamente solo per
single e prezzo tutto compreso. Per tre giorni me ne sto
seduto all’ombra a bordo piscina a riflettere sul significato
della vita.
Dalla Giamaica volo ad Antigua, nei Caraibi orientali. È
un’isola bellissima di duecentottanta chilometri quadrati,
con montagne, spiagge bianche e decine di resort. È nota
anche come uno dei più accoglienti paradisi fiscali del
mondo, ed è questa l’unica ragione della mia visita. Se non
avessi voluto qualcosa in più del divertimento, sarei
rimasto in Giamaica. La capitale è St John’s, una vivace
cittadina affacciata su un porto dai fondali profondi che
attrae le navi da crociera. Mi trovo una stanza in un piccolo
albergo quasi alla periferia di St John’s, con una bella vista
sull’oceano, le barche e gli yacht. È giugno, bassa
stagione, e per trecento dollari a notte mangerò come un
re, dormirò fino a mezzogiorno e mi godrò la
consapevolezza che nessuno sa chi sono, da dove vengo o
qualcosa del mio passato.
25
Il Freezer era stato smantellato un mese prima e Victor
Westlake era tornato alla solita routine nel suo ufficio al
quarto piano dell’Hoover Building a Washington. Anche se
il duplice omicidio del giudice Fawcett e di Naomi Clary
era tecnicamente risolto, restavano ancora molti dubbi e
molte domande. Il punto più pressante, naturalmente, era la
validità della confessione di Quinn Rucker. Se il giudice
l’avesse ritenuta inammissibile, al governo sarebbero
rimaste ben poche prove con cui procedere. Gli omicidi
erano risolti, ma il caso non era chiuso, almeno a parere di
Westlake. Continuava a dedicarci due ore al giorno. C’era
il rapporto quotidiano sulle attività di Max Baldwin:
movimenti, incontri, telefonate, Internet eccetera. Fino a
quel momento Max non aveva fatto mosse a sorpresa. A
Westlake non piaceva molto la gita in Giamaica e dintorni,
ma non poteva farci niente, se non prestare la massima
attenzione possibile. E poi c’era il rapporto quotidiano sulla
famiglia Rucker. L’ FBI aveva ottenuto l’autorizzazione del
tribunale a monitorare le conversazioni telefoniche di Dee
Ray Rucker, Sammy (Tall Man) Rucker, la sorella Lucinda e
altri quattro parenti che operavano nella filiale di
Washington del traffico di droga.
Mercoledì 15 giugno, Westlake era in riunione con il suo
staff quando venne chiamato al telefono. Era una questione
urgente e dopo pochi minuti era già in una sala dove alcuni
tecnici stavano lavorando per mettere a punto l’audio. Uno
di loro disse: «La telefonata è arrivata al cellulare di Dee
Ray ieri sera, alle ventitré e diciannove. Non sappiamo da
dove provenisse, comunque l’abbiamo registrata. La prima
voce è quella di Dee Ray, la seconda è di un certo Sully,
che non abbiamo ancora identificato». Un altro tecnico
annunciò: «Ci siamo».
DEE RAY: Pronto?
SULLY: Dee Ray, sono Sully.
DEE RAY: Cos’hai per me?
SULLY: Ho il tuo spione, amico. Bannister.
DEE RAY: Cazzo, amico.
SULLY: Ci puoi giurare, Dee Ray.
DEE RAY: Okay, lascia perdere il resto. Dimmi
solo
dov’è.
SULLY: Be’, adesso fa il tipo da spiaggia in Florida. Si
chiama Max Baldwin e abita in un piccolo
apTeilamento a Neptune Beach, a est di Jacksonville.
Sembra che abbia un bel po’ di grana, se la prende
comoda, capisci. Fa la bella vita.
DEE RAY: Che aspetto ha?
SULLY: È un altro uomo. Ci hanno dato dentro con la
chirurgia plastica. Stessa altezza, però ha perso
qualche chilo. Stessa camminata. Abbiamo
un’impronta digitale e un riscontro positivo.
DEE RAY: Un’impronta digitale?
SULLY: La nostra è una ditta seria. I miei l’hanno seguito
in spiaggia e l’hanno visto buttare una bottiglietta
d’acqua nel cestino dei rifiuti. L’hanno recuperata e
hanno rilevato l’impronta.
DEE RAY: Ottimo.
SULLY: Come ti dicevo. E adesso?
DEE RAY: Non fare niente. Lascia che ci dorma su. Tanto
l’amico non va da nessuna Teile, giusto?
SULLY: No, è un ragazzo felice.
DEE RAY: Perfetto.
Westlake si lasciò cadere lentamente a sedere. Pallido
e con la bocca socchiusa, era troppo scosso per riuscire a
parlare. Poi ordinò: «Trovatemi Twill». Un agente
scomparve di corsa e nell’attesa Westlake si sfregò gli
occhi, riflettendo sulla mossa successiva. Twill, il suo primo
assistente, irruppe nella sala. Ascoltarono di nuovo la
registrazione. Per Westlake, la seconda esperienza fu
addirittura più agghiacciante.
«Come diavolo...» mormorò Twill.
Westlake si stava riprendendo. «Chiamami Bratten del
Marshals Service.»
«Bratten ieri ha subito un intervento chirurgico» disse
Twill. «Lo sostituisce Newcombe.»
«Allora chiamami Newcombe. Non abbiamo tempo da
perdere.»
Mi sono iscritto a una palestra, dove vado tutti i giorni verso
mezzogiorno e passo un’ora a camminare in salita su un
tapis roulant e a sollevare pesi leggeri. Se devo trascorrere
così tanto tempo in spiaggia, sarà meglio che abbia un
fisico adatto alla Teile.
Dopo un breve passaggio nella sauna e una lunga
doccia, mi sto vestendo quando il cellulare inizia a ronzare
sul ripiano più alto del mio armadietto. È la cara Diana, e
questo è un orario insolito per una sua telefonata.
«Pronto?» rispondo sottovoce, anche se lo spogliatoio non
è per niente affollato.
«Dobbiamo parlare» dice brusca Diana, il primo indizio
che forse c’è qualcosa che non va.
«Di cosa?»
«Non adesso. Ci sono due agenti dell’FBI nel parcheggio,
a bordo di una Jeep Cherokee rosso scuro di fianco alla
tua auto. Ti daranno un passaggio.»
«Solo per curiosità, Diana, tu come fai a sapere dove mi
trovo in questo momento?»
«Ne parliamo dopo.»
Mi siedo su una sedia pieghevole. «No, spiegami cosa
sta succedendo.»
«Max, sono a dieci minuti da te. Esegui gli ordini, sali su
quella Jeep e appena ti vedo ti dico tutto quello che so.
Non parliamo al telefono.»
«Okay.» Finisco di vestirmi e cerco di comportarmi con
la calma di sempre. Attraverso la palestra e sorrido alla
maestra di yoga alla quale sorrido ormai da una settimana.
Arrivo alla porta d’ingresso, do un’occhiata all’esterno e
vedo la Jeep parcheggiata di fianco alla mia auto.
A questo punto è abbastanza evidente che è successo
qualcosa di terribile. Deglutisco a fatica ed esco nel sole
accecante del mezzogiorno.
Il conducente della Jeep balza a terra e, senza dire una
parola, apre la portiera posteriore. Viaggiamo per sette
minuti in un silenzio totale finché parcheggiamo nel vialetto
di un bizzarro cottage bifamiliare con il cartello AFFITTASI nel
giardinetto sul davanti. Siamo a un isolato dall’oceano.
Appena spento il motore, entrambi gli agenti saltano giù
dall’auto ed esaminano la scena, come se ci potessero
essere dei cecchini appostati. Il nodo che sento nello
stomaco mi dà la sensazione di una palla da bowling.
Entriamo senza che nessuno ci spari e troviamo Diana
ad aspettarci.
«Bel posticino» osservo.
«È una casa sicura» risponde Diana.
«Oh, okay. E come mai ci nascondiamo in una casa
sicura nel bel mezzo di una giornata assolutamente
perfetta?»
Dalla cucina entra un uomo con i capelli grigi, che mi
tende la mano. «Max, io sono Dan Raynor, US Marshal,
supervisore di quest’area.» Ci stringiamo la mano come
due vecchi amici e Raynor mi sorride come se stessimo
per goderci un lungo pranzo.
«È un vero piacere» dico. «Cosa sta succedendo?»
Sono in quattro – Raynor, Diana e i due innominati
agenti dell’FBI –, e per qualche secondo nessuno di loro sa
bene quale sia il protocollo. Di chi è il territorio? Chi è
compreso nel giro? Chi resta e chi se ne va? Come ho già
imparato, queste lotte territoriali tra agenzie possono
essere motivo di confusione.
Alla fine è Raynor a parlare. «Max, temo che ci sia stata
una fuga di notizie. Per dirla brutalmente, la tua copertura è
saltata. Non abbiamo idea di come sia successo.»
Mi siedo e mi passo una mano sulla fronte. «Chi è al
corrente di che cosa?» domando.
«Noi non ti sappiamo dire molto» risponde Raynor «ma
qualcuno sta arrivando in volo da Washington. Dovrebbero
essere qui tra un’ora circa. Evidentemente ieri sera l’FBI ha
scoperto qualcosa da un’intercettazione. C’è stata una
conversazione dei Rucker e l’FBI l’ha ascoltata.»
«Sanno dove mi trovo?»
«Sì. Sanno esattamente dove abiti.»
«Ci dispiace moltissimo, Max» dice Diana. Guardo lei e
tutta la sua stupidità come se potessi strangolarla.
«Accidenti, sono davvero impressionato. Perché non
tieni la bocca chiusa e basta?»
«Mi dispiace.»
«È la seconda volta che lo dici. Per favore, non ripeterlo
più, okay? Non significa niente. È del tutto inutile.»
Diana è ferita dalla mia durezza, ma francamente non
me ne importa. In questo momento la mia unica
preoccupazione è per la mia pelle. I quattro che mi fissano,
unitamente ai loro superiori e al loro intero governo, sono
tutti responsabili della “fuga di notizie”.
«Ti andrebbe un caffè?» mi chiede timidamente Diana.
«No, mi andrebbe un po’ di eroina» rispondo. I quattro
trovano la battuta divertente, ma è anche vero che una
risata fa bene a tutti. Viene versato il caffè e un vassoio di
biscotti viene passato in giro. Cominciamo l’attesa. Per
quanto surreale sia la situazione, comincio a pensare a
dove andare adesso.
Raynor dice che andranno a prendere la mia auto
quando farà buio. Stanno aspettando un agente nero
dell’ufficio di Orlando che sarà la mia controfigura per un
paio di giorni. In nessun caso mi verrà consentito di tornare
nel mio apTeilamento e per un po’ discutiamo su come
recuperare i miei scarsi beni. Il Marshals Service si farà
carico dell’affitto e provvederà a disdire i contratti delle
utenze. Raynor pensa che avrò bisogno di una nuova auto,
ma io all’inizio mi oppongo all’idea.
Gli agenti dell’FBI escono e tornano con i sandwich.
L’orologio sembra bloccarsi e le pareti restringersi intorno
a noi. Finalmente, alle tre e mezzo, Mr Victor Westlake
entra dalla porta d’ingresso e dice: «Max, mi dispiace». Io
non mi alzo in piedi e neppure gli tendo la mano. Il divano è
tutto mio. Westlake è accompagnato da tre “vestiti scuri”, i
quali vanno a prendere sedie e sgabelli in cucina. Quando
tutti sono stati presentati e si sono seduti, Westlake
attacca: «Max, questa è una situazione estremamente
insolita e io non so davvero cosa dire. In questo momento
non sappiamo a che livello si sia verificata la fuga di
notizie, e forse non lo sapremo mai».
«Mi dica quello che sa.»
Westlake apre un fascicolo ed estrae alcuni fogli.
«Questa è la trascrizione della conversazione telefonica tra
Dee Ray Rucker e un certo Sully che abbiamo intercettato
ieri sera. Tutti e due parlavano da cellulari. Dee Ray era a
Washington. Sully ha chiamato da qualche Teile qui nei
dintorni.»
Leggo la trascrizione mentre gli altri trattengono il fiato.
Impiego pochi secondi, poi poso il foglio sul tavolino.
«Come hanno fatto?»
«Ci stiamo lavorando. Una teoria è che abbiano assunto
una società privata per rintracciarti. Noi monitoriamo una
manciata di ditte specializzate in spionaggio industriale,
sorveglianza, persone scomparse, indagini private e roba
del genere. Si tratta di ex militari, ex spie e, mi vergogno a
dirlo, anche di qualche ex agente dell’FBI. Sono tipi in
gamba e dispongono di alta tecnologia. Per la giusta
parcella, sono in grado di raccogliere un bel po’ di
informazioni.»
«Da dove, dall’interno?»
«Ancora non lo sappiamo, Max.»
«E anche se lo sapesse, non me lo direbbe. Non lo
ammetterebbe mai, se la fuga di notizie fosse dovuta a
qualcuno all’interno del governo, FBI, Marshals Service,
ufficio del procuratore federale, diTeilimento di Giustizia,
amministrazione penitenziaria e Dio solo sa chi altri.
Quante sono le persone al corrente del nostro piccolo
segreto, Mr Westlake? Parecchie decine, forse di più. I
Rucker mi hanno trovato perché hanno fiutato la mia pista,
oppure hanno seguito l’FBI perché l’FBI stava seguendo
me?»
«Ti assicuro che non c’è stata alcuna falla interna.»
«Ma se ha appena detto che non lo sa. Le sue
assicurazioni non significano niente, a questo punto.
L’unica certezza è che chiunque sia coinvolto
nell’operazione si proteggerà il culo e darà la colpa a
qualcun altro, a cominciare da adesso. Non credo a niente
di quello che mi dice, Mr Westlake. Lei o chiunque altro.»
«Devi fidarti di noi, Max. La situazione è grave, forse
letale.»
«Mi sono fidato di voi fino a questa mattina, e guardi
come sono messo. Nessuna fiducia. Zero.»
«Senti, dobbiamo proteggerti fino al processo. Questo lo
capisci. Dopo il processo, non avremo più alcun interesse.
Ma fino ad allora dobbiamo essere certi che tu sia al
sicuro. È per questo che avevamo messo i telefoni sotto
controllo: monitoravamo i Rucker e abbiamo avuto fortuna.
Noi siamo dalla tua Teile, Max. Sì, da qualche Teile c’è
stato un problema, e noi scopriremo cosa è successo.
Però tu adesso te ne stai seduto qui tutto intero perché noi
stiamo facendo il nostro lavoro.»
«Congratulazioni» dico, e vado in bagno.
Il vero casino scoppia quando li informo che intendo
uscire dal programma protezione testimoni. Dan Raynor
pontifica su quanto sarà pericolosa la mia vita se non
consento al governo di imballarmi e scaricarmi a mille
miglia da qui, sotto un altro nome nuovo. Peccato. Correrò
i miei rischi nascondendomi per conto mio. Westlake mi
implora di restare con loro. La mia testimonianza al
processo è cruciale, e senza la mia deposizione è
possibile che non ci sia alcuna condanna. Gli ricordo più
volte che hanno già una confessione e che nessun giudice
federale la giudicherà inammissibile. Prometto che mi
presenterò al processo. Sostengo che la mia vita sarà più
sicura nel momento in cui solo io saprò dove mi nascondo.
Semplicemente, sono troppi gli agenti coinvolti nella mia
protezione. Raynor mi ricorda più di una volta che il
Marshals Service non ha mai perso un informatore sotto la
sua protezione – più di ottomila e in continua crescita –, e
io gli faccio presente più di una volta che qualcuno, presto
o tardi, sarà la prima vittima. E quel qualcuno non sarò io.
La discussione assume spesso toni accesi, ma non ho
intenzione di cedere. Tutto quello che possono fare è
parlare. Non hanno alcuna autorità su di me. La mia
condanna è stata annullata e non sono in libertà vigilata. Ho
accettato di deporre in aula e lo farò. Il mio accordo con il
Marshals Service prevede che io possa lasciare il
programma in qualsiasi momento lo voglia.
«Me ne vado» dichiaro alzandomi in piedi. «Vorreste
essere così gentili da riaccompagnarmi alla mia auto?»
Nessuno si muove. Raynor mi domanda: «Quali sono i
tuoi programmi?».
«Perché dovrei condividerli con te?»
«E l’apTeilamento?»
«Me ne andrò tra un paio di giorni, poi sarà tutto vostro.»
«Quindi lasci questa zona?» mi chiede Diana.
«Non ho detto questo. Ho detto che me ne vado
dall’apTeilamento.» Guardo Westlake e aggiungo: «E per
favore piantatela di seguirmi. C’è la possibilità che
qualcuno tenga d’occhio voi mentre tenete d’occhio me.
Fatemi respirare, okay?».
«Questo non è vero, Max.»
«Lei non sa cosa è vero e cosa non lo è. Piantatela di
seguirmi, va bene?»
Naturalmente non mi dà conferma. Ha le guance
arrossate ed è veramente incazzato, perché è un uomo
abituato a far andare le cose come vuole lui. Vado alla
porta e la spalanco. «Se non mi date un passaggio, andrò
a piedi.»
«Riportatelo indietro» ordina Westlake.
«Grazie» dico da sopra la spalla mentre esco dal
cottage. L’ultima cosa che sento è Raynor che mi
ammonisce a voce alta: «Stai commettendo un grosso
errore, Max».
Mi accomodo sul sedile posteriore della Jeep mentre gli
stessi agenti dell’andata mi accompagnano in silenzio.
Arrivati nel parcheggio della palestra, scendo senza dire
niente. I due riTeilono, ma dubito che vadano molto lontano.
Salgo sulla mia Audi, abbasso la capote e Teilo per un giro
seguendo la spiaggia sulla Highway A1A. Mi rifiuto di
guardare lo specchietto retrovisore.
Victor Westlake tornò a Washington volando su un jet del
governo. Entrò nel suo ufficio che faceva già buio e venne
informato che il giudice Sam Stillwater aveva respinto
l’istanza presentata dalla difesa per l’inammissibilità della
confessione di Quinn Rucker. Non era una grande
sorpresa, ma era comunque un sollievo. Westlake telefonò
a Stanley Mumphrey a Roanoke e si congratulò con lui.
Non lo informò del fatto che il loro teste superstar stava per
lasciare il programma protezione testimoni e scomparire
nella notte.
26
Dormo con una pistola, una Beretta 9 millimetri che ho
acquistato e detengo legalmente visto che ho un regolare
porto d’armi dello Stato della Florida. Non sparo un colpo
da vent’anni, dai tempi dei marine, e non ho alcun
desiderio di ricominciare ora. La pistola se ne sta
tranquilla sopra lo scatolone che uso come comodino
accanto al letto. Un altro scatolone sul pavimento contiene
gli oggetti che mi servono: il laptop, l’iPad, qualche libro, il
necessario per radermi, un sacchetto di plastica a chiusura
ermetica pieno di contanti, un paio di fascicoli contenenti
documenti personali e un cellulare prepagato con minuti
illimitati e prefisso di Miami. Inoltre, tengo pronta una
valigia piena di miei indumenti. È a buon mercato e delle
dimensioni giuste per poter stare nel bagagliaio dell’Audi.
La maggior Teile di queste cose – la pistola, il cellulare, la
valigia – è stata acquistata di recente nel caso si rendesse
necessaria una Teilenza veloce e improvvisa.
Be’, tale Teilenza ormai è imminente. Carico l’auto prima
dell’alba e poi aspetto. Mi siedo in terrazza per l’ultima
volta, sorseggio il caffè e guardo l’oceano schiarirsi nel
rosa e poi nell’arancione a mano a mano che il sole si alza
all’orizzonte. Ho guardato questa scena innumerevoli volte
e non me ne stanco mai. In una mattinata limpida, la sfera
perfetta del sole spunta dall’acqua e dice: buongiorno,
anche questa sarà una splendida giornata.
Non so bene dove andrò né dove finirò, ma di certo sarà
un posto vicino a una spiaggia, in modo da poter
cominciare ogni giorno con la stessa tranquilla perfezione.
Alle otto e mezzo esco dal condominio, alle spalle un
frigo pieno a metà di cibo e bevande, un variegato
assortimento di piatti e utensili da cucina, una bella
macchinetta per il caffè, qualche rivista sul divano e un po’
di pane e cracker in dispensa. Ho abitato qui per
quarantasei giorni, la mia prima vera casa dopo la
prigione, e mi rattrista andarmene. Avevo pensato di
restarci più a lungo. Lascio le luci accese, chiudo la porta a
chiave e mi chiedo quanti altri nascondigli temporanei mi
aspettano prima che non sia più costretto a scappare. Mi
allontano in auto e poco dopo sono già perso nel traffico
intenso dei pendolari diretti a ovest, a Jacksonville. So che
“loro” mi stanno seguendo, ma forse non per molto ancora.
Due ore più tardi entro nell’agglomerato urbano a nord di
Orlando e mi fermo a fare colazione in una pancake house.
Mangio lentamente, leggo i quotidiani e osservo la gente.
Più avanti lungo la stessa strada, scendo in un motel a
buon mercato e pago in contanti per una notte. L’impiegata
alla reception mi chiede un documento con foto e io le
spiego di avere perso il portafoglio ieri notte in un bar. La
cosa non le piace, però le piacciono i contanti e così non fa
storie. Mi consegna una chiave e io vado in camera mia.
Lavorando sulle Pagine Gialle e servendomi del cellulare
prepagato, alla fine riesco a trovare un autolavaggio di
lusso che ha un posto libero alle tre di oggi pomeriggio.
Per centonovantanove dollari, il ragazzo all’altro capo della
linea mi promette che farà sembrare la mia auto come
nuova.
Buck’s Pro Shine è dietro un grande autolavaggio
standard, tipo catena di montaggio, che sta facendo ottimi
affari. La mia auto e io veniamo assegnati a un
magrissimo ragazzo di campagna che si chiama Denny, il
quale prende il suo lavoro molto seriamente. In minuzioso
dettaglio, mi espone il suo programma di lavaggio e
lucidatura e si mostra sorpreso quando gli dico che rimarrò
ad aspettare. «Potrebbe volerci un paio d’ore» mi dice.
«Non devo andare da nessuna Teile» replico. Denny si
stringe nelle spalle e porta l’Audi sulla piattaforma di
lavaggio. Trovo una panchina sotto un tendone e comincio
a leggere un tascabile di Walter Mosley. Mezz’ora dopo,
Denny finisce il lavaggio esterno e attacca con
l’aspirapolvere. Apre entrambe le portiere e io mi avvicino
per fare due chiacchiere. Gli spiego che sto per lasciare la
città e perciò le valigie e lo scatolone nel bagagliaio non
devono essere toccati. Il ragazzo si stringe di nuovo nelle
spalle, non gli interessa. Meno lavoro per lui. Mi avvicino di
un altro passo e gli confido che sono nel bel mezzo di un
brutto divorzio e ho motivo di credere che i legali di mia
moglie seguano ogni mio movimento. Sospetto fortemente
che ci sia un localizzatore GPS nascosto da qualche Teile
nell’auto. Se riesce a trovarlo, gli faccio scivolare in tasca
cento dollari extra. All’inizio il ragazzo esita, ma io gli
assicuro che la macchina è mia e che non c’è niente di
illegale nel disattivare un localizzatore. Sono i viscidi
avvocati di mia moglie quelli che stanno infrangendo la
legge. Alla fine negli occhi di Denny compare una luce
complice: il ragazzo è con me. Apro il cofano e insieme
cominciamo a setacciare la vettura. Nel corso
dell’operazione spiego che esistono decine di dispositivi
diversi, di ogni forma e dimensione, ma in genere sono tutti
fissati con un potente magnete. A seconda del modello, la
batteria può durare settimane, oppure il dispositivo può
essere addirittura collegato all’impianto elettrico del
veicolo. Alcune antenne sono esterne, altre interne.
«Ma lei come fa a sapere tutte queste cose?» chiede
Denny, disteso sulla schiena e con la testa sotto l’auto,
intento a controllare il telaio.
«Perché ne ho piazzato uno nella macchina di mia
moglie» rispondo, e il ragazzo sembra trovare la cosa
divertente.
«Come mai non ha cercato quel coso da solo?»
«Perché mi tenevano d’occhio.»
Cerchiamo per un’ora e non troviamo niente. Comincio a
pensare che forse non ci sono cimici nella mia auto
quando Denny smonta un piccolo pannello dietro il faro
destro. Il ragazzo è supino, la spalla premuta contro la ruota
anteriore destra. Stacca un oggetto e me lo porge. La
custodia è a tenuta stagna, di plastica nera e rigida, e ha le
dimensioni di un cellulare. La tolgo e dico: «Bingo». Ho
studiato centinaia di questi aggeggi in Internet e non ne ho
mai visto uno come questo, per cui presumo che sia
materiale di appannaggio governativo. Niente nome del
fabbricante, nessun marchio, numero o lettera dell’alfabeto.
«Bel lavoro, Denny.» Passo al ragazzo una banconota da
cento.
«Ora posso finire l’interno?» mi chiede.
«Certo.» Mi allontano, lasciandolo al suo lavoro. Vicino
all’autolavaggio c’è un piccolo centro commerciale con
cinque o sei negozi a buon mercato. Entro in un bar, pago
una tazza di decaffeinato che sa di rancido e mi siedo
accanto alla vetrina, dalla quale posso vedere il
parcheggio. Un’anziana coppia a bordo di una Cadillac
parcheggia, scende dall’auto ed entra in un ristorante
cinese a buffet. Appena i due sono all’interno del locale,
esco dal bar e attraverso il parcheggio come se fossi
diretto alla mia auto. Dietro la Cadillac, mi chino
rapidamente e fisso il dispositivo sul fondo del serbatoio.
Targhe dell’Ontario: perfetto.
Denny è occupato con i finestrini e suda a profusione,
perso nel suo lavoro. Gli do un colpetto sulla spalla,
facendolo sobbalzare, e gli dico: «Senti, Denny, stai
facendo un ottimo lavoro, ma è successo qualcosa. Devo
andarmene subito». Conto le banconote e gliene consegno
tre da cento dollari. Il ragazzo è confuso, ma non mi
importa.
«Come vuoi, amico» borbotta, guardando i soldi.
«Devo proprio scappare.»
Il ragazzo afferra un asciugamano sul tettuccio dell’Audi.
«Buona fortuna per il divorzio, amico.»
«Grazie.»
A ovest di Orlando, mi immetto sull’Interstatale 75 in
direzione nord, supero Ocala, poi Gainesville, ed entro in
Georgia, dove decido di passare la notte a Valdosta.
Nei cinque giorni successivi i miei vagabondaggi mi
portano a sud fino a New Orleans, a ovest fino a Wichita
Falls, Texas, e a nord fino a Kansas City. Viaggio lungo
interstatali, statali, strade di contea e strade dei parchi
nazionali. Pago tutto in contanti e quindi, per quello che ne
so, non lascio tracce. Rifaccio il percorso a ritroso almeno
una decina di volte e mi convinco che nessuno mi sta
seguendo. Il viaggio termina a Lynchburg, Virginia, dove
arrivo poco dopo la mezzanotte e, di nuovo, pago in
contanti la stanza del motel. Fino a oggi, soltanto uno ha
rifiutato di fare affari con me perché dichiaro di non avere
documenti. È anche vero che non scendo mai in un Marriott
o in un Hilton. Sono stanco della strada e ansioso di
mettermi al lavoro.
La mattina dopo dormo fino a tardi e poi guido per
un’ora fino a Roanoke, l’ultimo posto in cui chiunque
conosca Max Baldwin si aspetterebbe di trovarlo. Forte di
questa convinzione, e di una nuova faccia, sono sicuro di
potermi muovere anonimamente in un’area metropolitana
di duecentomila persone. L’unica fonte di preoccupazione
del mio pacchetto-sicurezza è la targa della Florida.
Contemplo l’idea di noleggiare un’altra vettura, ma poi
decido di non farne niente per via dei documenti. Inoltre,
l’elemento Florida mi sarà utile in seguito.
Per un po’ giro in macchina per la città guardando il
panorama, il centro, i vecchi quartieri e l’inevitabile distesa
della periferia. Malcolm Bannister è stato a Roanoke
parecchie volte, compresa quella in veste di diciassettenne
giocatore di football del liceo. Winchester è a sole tre ore
d’auto da qui, a nord sull’Interstatale 81. Da giovane
avvocato, Malcolm è venuto a Roanoke almeno due volte
per raccogliere delle deposizioni. La città di Salem confina
con Roanoke, e Malcolm una volta ci ha passato un
weekend, in occasione del matrimonio di un amico.
Quel matrimonio si è poi concluso con un divorzio,
esattamente come quello di Malcolm. L’amico non si è più
visto o sentito da quando Malcolm è finito in prigione.
Il punto è che conosco abbastanza bene la zona. Il mio
primo tentativo è in un motel apTeilenente a una catena
nazionale che ha regole abbastanza severe per quanto
riguarda la registrazione dei clienti. La vecchia storia del
portafoglio smarrito non funziona e, visto che non posso
presentare documenti, la stanza mi viene negata. Nessun
problema: nell’area c’è grande abbondanza di motel poco
costosi. Mi sposto verso il confine sud di Roanoke e mi
ritrovo in una Teile non molto florida di Salem, dove noto un
motel che probabilmente offre camere a ore, o a notte. I
contanti sono ben accetti. Opto per la tariffa giornaliera di
quaranta dollari e informo l’anziana alla reception che mi
tratterrò per qualche giorno. La donna non è molto cordiale
e penso che forse era proprietaria dell’albergo ai bei
vecchi tempi quando i neri venivano respinti. Ci sono
almeno trentadue gradi e le chiedo se l’aria condizionata
funziona. Condizionatori nuovi di zecca, mi risponde con
orgoglio l’anziana. Parcheggio sul retro, direttamente
davanti alla mia stanza e lontano dalla strada. Lenzuola e
pavimenti sono puliti. Il bagno è immacolato. Il
condizionatore alla finestra è nuovo, ronza piacevolmente
e, quando finisco di scaricare la macchina, la temperatura
è scesa sotto i ventidue gradi. Mi distendo sul letto e mi
chiedo quanti accoppiamenti illeciti abbiano avuto luogo
qui. Penso a Eva da Porto Rico e a come sarebbe
piacevole stringerla di nuovo fra le braccia. E penso a
Vanessa Young, a come sarebbe poterla finalmente
toccare.
Quando fa buio, mi avventuro in fondo alla strada per
un’insalata in un fast food. Ho perso nove chili da quando
me ne sono andato da Frostburg e conto di perderne altri,
almeno per il momento. Quando esco dal ristorante, noto le
luci dello stadio e decido di concedermi una Teilita di
baseball. Raggiungo in auto il Memorial Stadium, sede dei
Salem Red Sox, affiliati di seconda categoria alla squadra
di Boston. Questa sera giocano contro i Lynchburg Hillcats
davanti a un bel pubblico numeroso. Per sei dollari mi
procuro un posto in gradinata. Compro una birra dal
ragazzo delle bibite e mi godo la vista e i rumori della
Teilita.
Accanto a me siede un giovane padre con i suoi due
figli, entrambi giocatori di T-ball, sospetto. Non possono
avere più di sei anni e indossano la maglietta e il berretto
dei Red Sox. Penso a Bo e a tutte le ore che abbiamo
passato insieme giocando nel cortile dietro casa, mentre
Dionne sedeva sul piccolo patio sorseggiando tè
ghiacciato. Sembra ieri che eravamo tutti insieme, una
bella famiglia con grandi sogni e un futuro. Bo era così
piccolo e carino, e suo padre era un eroe. Stavo cercando
di trasformarlo in un battitore ambidestro, a cinque anni,
quando i federali sono entrati nella mia vita e hanno
distrutto tutto. Che spreco.
E, a Teile me, a nessuno importa più niente di tutto
questo. Immagino che a mio padre, a mio fratello e a mia
sorella farebbe piacere vedere la mia vita di nuovo sui
binari giusti, ma per loro non è una priorità. Hanno ognuno
la propria vita della quale preoccuparsi. Una volta che
finisci in galera, il mondo dà per scontato che te lo sei
meritato e la pietà prima o poi si esaurisce. Se si facesse
un sondaggio tra i miei ex amici e conoscenti, sono sicuro
che direbbero qualcosa del tipo: “Povero Malcolm, si è
invischiato con le persone sbagliate. Ha preso qualche
scorciatoia di troppo. È diventato un po’ troppo avido. Che
tragedia”. Tutti dimenticano in fretta perché tutti vogliono
dimenticare. La guerra al crimine ha bisogno di caduti, e il
povero Malcolm si è fatto beccare.
Per cui c’è solo Max Reed Baldwin – libero ma in fuga –
a cercare di inventare un modo per vendicarsi mentre si
allontana cavalcando verso il tramonto.
27
Per il sesto giorno consecutivo, Victor Westlake bevve il
suo primo caffè del mattino scorrendo un breve rapporto su
Mr Max Baldwin. L’informatore era svanito. Il localizzatore
GPS era stato finalmente recuperato da una Cadillac Seville
mentre i proprietari dell’auto, un’anziana coppia canadese,
stavano pranzando nei pressi di Savannah, Georgia. I due
non avrebbero mai saputo di essere stati cyber-seguiti
dall’FBI per quattrocentottanta chilometri. Westlake aveva
punito i tre agenti incaricati del monitoraggio dell’auto di
Baldwin, che avevano perso a Orlando seguendo la pista
sbagliata della Cadillac diretta a nord.
Baldwin non si stava servendo del suo iPhone, delle
carte di credito e neppure del suo iniziale provider.
L’autorizzazione del tribunale a ficcanasare su quei fronti
sarebbe scaduta nel giro di una settimana e c’erano
scarsissime possibilità che venisse rinnovata. Baldwin non
era né un indiziato né un evaso, e la corte era riluttante a
consentire una sorveglianza così estesa su un cittadino
rispettoso delle leggi. Il saldo del conto corrente di Baldwin
presso la SunCoast ammontava a quattromilacinquecento
dollari. Il denaro della ricompensa era stato tracciato
mentre veniva suddiviso e rimbalzava in giro per lo Stato
della Florida, ma alla fine l’FBI ne aveva perso la pista.
Baldwin aveva spostato i soldi così rapidamente che i
legali del Bureau non erano riusciti a mantenere il passo
con le loro richieste di mandati di perquisizione. C’erano
stati almeno otto prelievi per un totale di
sessantacinquemila dollari in contanti. C’era prova di un
bonifico di quarantamila dollari su un conto a Panamá, e
Westlake presumeva che anche il resto del denaro fosse
ormai off-shore. Suo malgrado era arrivato a rispettare
Baldwin e la sua abilità nello scomparire. Se nemmeno l’FBI
era in grado di trovarlo, forse dopo tutto era al sicuro.
Se Max riusciva a non usare carte di credito, iPhone e
passaporto, e a non farsi arrestare, poteva restarsene
nascosto per molto tempo. Non erano arrivate altre voci dal
clan Rucker, e Westlake era ancora confuso dal fatto che
una gang di narcotrafficanti dell’area di Washington avesse
localizzato Baldwin nei pressi di Jacksonville. L’ FBI e il
Marshals Service stavano indagando al loro interno, ma
fino a quel momento non avevano trovato un solo indizio.
Westlake posò il rapporto sopra una pila di documenti e
finì di bere il suo caffè.
Trovo la sede della Beebe Security in un palazzo di uffici
non lontano dal mio motel. L’annuncio sulle Pagine Gialle
vanta vent’anni di esperienza, un passato nelle forze
dell’ordine, tecnologia di ultimissima generazione e così
via. Quasi tutti gli annunci nella sezione “Investigazioni
private” usano lo stesso linguaggio e, mentre parcheggio,
non riesco a ricordare cosa in Teilicolare mi abbia attratto
della Beebe. Forse il nome. In ogni caso, se l’agenzia non
mi piacerà passerò a quella successiva della mia lista.
Se avessi visto Frank Beebe camminare per strada,
avrei detto: “Quello è un detective privato”. Cinquant’anni,
torace robusto con la pancia che preme contro i bottoni
della camicia, pantaloni di poliestere, stivali a punta da
cowboy, folti capelli grigi, gli indispensabili baffi e
l’atteggiamento spavaldo di un uomo che è armato e senza
paura. Chiude la porta del suo ufficio troppo pieno di roba
e mi chiede: «Cosa posso fare per lei, Mr Baldwin?».
«Devo rintracciare una persona.»
«Di che caso si tratta?» mi domanda, mentre atterra
pesantemente sulla sua poltrona da dirigente
sovradimensionata. La parete alle sue spalle è coperta da
grandi foto e certificati di Teilecipazione a vari seminari.
«Non è proprio un caso. Ho solo bisogno di trovare un
tizio.»
«E cosa farà quando l’avrà trovato?»
«Parlerò con lui. Nient’altro. Non c’è nessun marito
traditore e nessun debitore. Non cerco soldi, vendetta o
altro. Devo solo incontrare quest’uomo e sapere quanto più
possibile di lui.»
«Va bene.» Frank toglie il cappuccio alla penna, pronto
a prendere appunti. «Mi parli di questa persona.»
«Si chiama Nathan Cooley. Credo che sia conosciuto
anche come Nat. Trent’anni, single, credo. È originario di
una cittadina che si chiama Willow Gap.»
«Conosco Willow Gap.»
«In base alle ultime notizie di cui dispongo, sua madre
vive ancora là, ma non so dove si trovi Cooley adesso.
Qualche anno fa è stato arrestato nel corso di
un’operazione antidroga. Metanfetamina...»
«Che sorpresa.»
«Ha passato alcuni anni in un carcere federale. E suo
fratello maggiore è rimasto ucciso in uno scontro a fuoco
con la polizia.»
Frank continua a scrivere. «Lei come mai conosce
questo tizio?»
«Diciamo che è un’amicizia di vecchia data.»
«Okay.» Beebe sa quando fare domande e quando
soprassedere. «E io cosa dovrei fare?»
«Senta, Mr Beebe...»
«Frank.»
«Okay. Frank, dubito che ci siano molti neri a Willow
Gap e dintorni. Inoltre io sono di Miami e la mia piccola
auto straniera ha la targa della Florida. Se andassi là e
cominciassi a curiosare in giro e a fare domande,
probabilmente non farei molta strada.»
«Probabilmente ti faresti sparare.»
«Mi piacerebbe evitarlo. Credo che tu possa risolvere la
cosa senza suscitare sospetti. Ho bisogno soltanto
dell’indirizzo di Cooley e, se possibile, del suo numero di
telefono. Qualsiasi informazione in più sarebbe gradita.»
«Hai provato con l’elenco?»
«Sì, e ci sono parecchi Cooley nell’area di Willow Gap,
ma nessun Nathan. Non arriverei lontano facendo un
mucchio di telefonate a caso.»
«Giusto. Nient’altro?»
«Tutto qui. Molto semplice.»
«Okay. Sono cento dollari l’ora, più le spese. Andrò a
Willow Gap oggi pomeriggio. È a circa un’ora d’auto da
qui, praticamente in mezzo al nulla.»
«Così ho sentito.»
La prima bozza della mia lettera dice:
Egregio Mr Cooley,
mi chiamo Reed Baldwin, sono un documentarista di Miami e,
insieme ad altri due soci, sono titolare di una casa di produzione, la
Skelter Films. Siamo specializzati in lavori che trattano il tema
dell’abuso di potere da Teile del governo federale.
Il mio attuale progetto riguarda una serie di omicidi a sangue
freddo commessi da agenti della Drug Enforcement Administration.
L’argomento mi tocca da vicino perché tre anni fa un mio nipote
diciassettenne è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco da due agenti
a Trenton, New Jersey. Mio nipote era disarmato e non aveva
precedenti. Naturalmente l’indagine interna non ha evidenziato alcun
dolo da Teile della DEA. La causa intentata dalla mia famiglia è stata
dichiarata non ammissibile.
Nel corso delle mie ricerche, credo di avere scoperto una
cospirazione che coinvolge i livelli più alti della DEA. Sono convinto
che certi agenti vengano incoraggiati a uccidere gli spacciatori o
presunti tali. Lo scopo è duplice. Primo, tali omicidi ovviamente
pongono fine a un’attività criminale. Secondo, il governo evita lunghi
processi. La DEA uccide le persone invece di arrestarle.
A tutt’oggi, ho individuato circa una decina di queste uccisioni
sospette. Ho parlato con numerosi familiari delle vittime e tutti hanno
la sensazione che i loro cari siano stati assassinati. È questo il
motivo che mi porta a lei: sono a conoscenza dei dati di base
riguardanti la morte di suo fratello Gene, avvenuta nel 2004. Gli
agenti della DEA coinvolti nella sparatoria erano almeno tre e, come
sempre, sostengono di avere agito per legittima difesa. So che lei
era presente sulla scena al momento della sparatoria.
La prego di concedermi la possibilità di incontrarla, offrirle il
pranzo e discutere il mio progetto. Al momento mi trovo a
Washington, ma posso lasciar perdere tutto e venire in auto nel
Southwest Virginia quando le farà più comodo. Il mio numero di
cellulare è 305-806-1921.
La ringrazio per il suo tempo.
Cordialmente,
M. Reed Baldwin
L’orologio rallenta sensibilmente con il passare delle
ore. Faccio una lunga gita in auto lungo l’Interstatale 81, in
direzione sud, e do un’occhiata a Blacksburg, sede del
Virginia Tech, a Christiansburg, Radford, Marion e Pulaski.
È una zona di montagna e il viaggio è piacevole, ma non
sono qui per ammirare il panorama. È possibile che nel
prossimo futuro abbia bisogno di una di queste cittadine,
perciò prendo nota di ristoranti per camionisti, motel e fast
food nei pressi dell’interstatale. Il traffico dei camion è
intenso e vedo auto di tutti e cinquanta gli Stati, per cui
nessuno bada a me. Ogni tanto esco dall’interstatale a
quattro corsie e mi avventuro fra le colline, attraversando
piccoli centri senza fermarmi. Trovo Ripplemead,
popolazione cinquecento abitanti, il villaggio più vicino al
cottage sul lago dove sono stati assassinati il giudice
Fawcett e Naomi Clary. Quando finalmente rientro a
Roanoke vedo le luci accese dello stadio: i Red Sox
giocano di nuovo. Compro un biglietto e ceno con un hot
dog e una birra.
Frank Beebe mi telefona alle otto di mattina e un’ora dopo
sono nel suo ufficio. Mentre versa il caffè, mi dice in tono
professionale: «L’ho trovato a Radford, una piccola città
con un college e circa sedicimila abitanti. È uscito di
prigione qualche mese fa, ha abitato per un po’ con sua
madre e poi se n’è andato. Ho parlato con lei, una signora
tosta, e mi ha detto che suo figlio ha comprato un bar a
Radford».
Sono curioso, per cui domando: «Come sei riuscito a
farla parlare?».
Frank ride e si accende una sigaretta. «Quella è la Teile
più facile, Reed. Quando lavori in questo ramo da tanto
tempo come me, riesci sempre a inventarti qualche
stronzata per far parlare la gente. Ho pensato che la madre
avesse ancora una bella fifa di chiunque sia collegato al
sistema carcerario, così le ho detto di essere un agente di
custodia federale e che avevo bisogno di fare due
chiacchiere con il suo ragazzo.»
«Non è sostituzione di persona?»
«Nossignore, perché gli agenti di custodia federali non
esistono. La signora non mi ha chiesto un documento e, se
l’avesse fatto, gliene avrei mostrato uno. Ho sempre una
manciata di tessere con me. In un giorno qualsiasi posso
essere uno di molti tipi di agente federale. Ti stupirebbe
sapere com’è facile ingannare le persone.»
«Sei andato al bar?»
«Sì, ma non sono entrato. Non mi sarei confuso tra la
gente. Il bar è vicinissimo al campus della Radford
University, perciò i clienti sono parecchio più giovani di me.
Il locale si chiama Bombay’s ed esiste già da un po’ di
tempo. Secondo i registri della città, è passato di mano il
dieci maggio di quest’anno. Il venditore era un certo Arthur
Stone e l’acquirente era il tuo amico, Nathan Cooley.»
«Dove abita?»
«Non lo so. Al catasto non risulta niente. Penso che sia
in affitto e, se è così, non ci sono dati ufficiali. Accidenti,
potrebbe addirittura abitare sopra il bar: è un vecchio
edificio a due piani. Non hai intenzione di andarci, vero?»
«No.»
«Bene. Sei troppo vecchio e troppo nero. Quella è una
clientela tutta bianca.»
«Grazie. Incontrerò Nathan da qualche altra Teile.»
Pago Beebe con seicento dollari in contanti e, quando
sto già uscendo, gli chiedo: «Senti, Frank, se avessi
bisogno di un passaporto falso, tu avresti qualche idea?».
«Certo. C’è un tizio a Baltimora al quale mi sono già
rivolto in passato, sa fare quasi tutto. Ma i passaporti
scottano di questi tempi. Sai, la Sicurezza interna e tutto
quello che ci va dietro. Se ti beccano, si eccitano da
morire.»
Sorrido e dico: «Il passaporto non è per me».
Frank ride. «Cavolo, questa non l’avevo mai sentita.»
L’auto è già carica e lascio la città. Quattro ore dopo
sono a McLean, Virginia, e sto cercando una copisteria
che offra servizi executive. Ne trovo una in un centro
commerciale di lusso, pago la tariffa di connessione e
collego il mio laptop a una stampante. Dopo dieci minuti di
prove e tentativi, riesco a far funzionare il maledetto
aggeggio e stampo la lettera per Nathan Cooley. È su
carta intestata della Skelter Films, con un indirizzo
nell’Ottava Avenue di Miami e tutta una serie di numeri di
telefono e fax. Sulla busta scrivo: “Mr Nathan Cooley,
presso Bombay’s Bar & Grill, 914 East Main Street,
Radford, Virginia 24141”. A sinistra dell’indirizzo, in
grassetto, scrivo: “Riservata personale”.
Quando il tutto è perfetto, attraverso il Potomac e mi
spingo nel centro di Washington, alla ricerca di una
cassetta per le lettere.
28
Quinn Rucker si voltò di schiena, passò le mani tra le
sbarre e unì i polsi. Un vicesceriffo fece scattare le manette
mentre un altro apriva la porta della cella. I due scortarono
Quinn fino a una soffocante saletta di transito dove lo
aspettavano due agenti dell’FBI, che lo fecero uscire da una
porta secondaria e poi salire a bordo di un SUV nero con i
finestrini oscurati e altre guardie armate. Dieci minuti più
tardi, Rucker e la sua scorta raggiunsero l’ingresso
posteriore dell’edificio federale, dove venne fatto entrare
rapidamente per poi salire due rampe di scale.
Né Victor Westlake, né Stanley Mumphrey, né gli altri
avvocati presenti nella stanza avevano mai Teilecipato a
una riunione del genere. L’accusato non veniva mai portato
fin lì per una chiacchierata. Se la polizia aveva bisogno di
parlare con lui, lo faceva all’interno del carcere. Se la sua
presenza era richiesta in tribunale, il giudice lo convocava
in aula.
Quinn venne fatto entrare nella piccola sala riunioni e gli
furono tolte le manette. Strinse la mano al suo avvocato,
Dusty Shiver, il quale naturalmente doveva essere
presente, ma non sapeva bene cosa pensare di quel
colloquio. Aveva avvertito i federali che il suo cliente non
avrebbe detto niente prima che lui, Dusty, lo autorizzasse a
parlare.
Quinn era in galera da quattro mesi e non se la stava
passando bene. Per ragioni note solo ai suoi carcerieri,
era tenuto in isolamento. I contatti con le guardie erano
ridotti al minimo. Il cibo era disgustoso e Rucker stava
dimagrendo. Inoltre assumeva antidepressivi e dormiva
quindici ore al giorno. Rifiutava spesso le visite dei
familiari e anche quelle di Dusty. Una settimana esigeva il
diritto di dichiararsi colpevole in cambio dell’ergastolo, e la
settimana dopo voleva il processo. Aveva licenziato Dusty
due volte, ma solo per riassumerlo qualche giorno dopo.
Ogni tanto ammetteva di avere ucciso il giudice Fawcett e
la sua amica, ma ritrattava sempre e accusava il governo
di drogargli il cibo. Aveva minacciato di morte le guardie e
i loro figli, chiedendo poi perdono in lacrime appena
cambiava umore.
Era Victor Westlake a dirigere l’incontro e cominciò
dicendo: «Andiamo subito al punto, Mr Rucker. Sappiamo
che lei e alcuni dei suoi complici volete eliminare uno dei
nostri testimoni».
Dusty toccò il braccio di Quinn. «Non una parola. Non
parlare finché non te lo dico io.» Quinn sorrise a Westlake,
come se uccidere un teste del governo fosse una
prospettiva deliziosa.
«Lo scopo di questa piccola riunione, Mr Rucker»
continuò Westlake «è avvertirla che se a uno dei nostri
testimoni verrà fatto del male, lei si ritroverà con ulteriori
imputazioni. E non solo lei: staremo addosso a ogni
membro della sua famiglia.»
Quinn, che stava ancora sorridendo, sbottò: «E così
Bannister sta scappando, eh?».
«Zitto, Quinn» disse Dusty.
«Io non devo stare zitto» ribatté Rucker. «Ho saputo che
Bannister ha lasciato il caldo sole della Florida.»
«Taci, Quinn!» ringhiò di nuovo Dusty.
«Gli avete dato una faccia nuova, probabilmente anche
un nome nuovo, tutto il pacchetto» continuò Quinn.
Stanley Mumphrey disse: «Accuseremo Dee Ray, Tall
Man, parecchi dei tuoi cugini e tutti quelli del tuo giro, se
farai qualcosa a uno dei nostri testimoni».
«Voi non avete testimoni» sparò Quinn dal lato opposto
del tavolo. «Avete solo Bannister.»
Dusty alzò le mani e si lasciò andare sulla sedia. «Quinn,
io ti consiglio di tacere.»
«Ti ho sentito» disse Rucker. «Ti ho sentito.»
Westlake riuscì a mantenere un’espressione torva
mentre fissava il detenuto, ma in realtà era sbalordito.
L’incontro avrebbe dovuto intimidire Quinn, non spaventare
il governo. Come diavolo erano riusciti a rintracciare
Bannister in Florida? E adesso come facevano a sapere
che aveva tagliato la corda? Era un momento
agghiacciante per Westlake e i suoi assistenti. Se fossero
riusciti a trovare il loro informatore, di certo l’avrebbero
nascosto in un posto sicuro.
«Tutta la tua famiglia potrebbe doversela vedere con
l’accusa di omicidio e la richiesta di pena capitale»
insistette Stanley, in un debole tentativo di fare il duro.
Quinn si limitò a sorridere. Smise di parlare e si sistemò
sulla sedia a braccia conserte.
Devo vedere Vanessa Young. Un incontro presenta un
elemento di rischio: essere visti insieme dalle persone
sbagliate solleverebbe domande alle quali non sono
disposto a rispondere. Ma un incontro è inevitabile, e lo è
già da parecchi anni.
L’ho vista per la prima volta a Frostburg, in un giorno in
cui la neve aveva scoraggiato molti visitatori dal mettersi al
volante. Mentre stavo parlando con Henry, mio padre,
Vanessa era entrata e si era seduta al tavolo accanto al
nostro. Era venuta a trovare suo fratello. Era splendida, sui
quarant’anni, con la pelle di un marrone chiaro, occhi belli e
tristi, gambe lunghe e jeans aderenti. Il pacchetto completo.
Non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso, tanto che alla
fine Henry mi aveva detto: “Vuoi che me ne vada?”.
Naturalmente no, perché se se ne fosse andato la mia
visita sarebbe finita. Più a lungo mio padre restava, più io
potevo guardare Vanessa. Dopo un po’ aveva cominciato
a guardarmi anche lei e c’era stato un serio scambio di
sguardi. L’attrazione era reciproca, all’inizio.
Ma c’erano alcune difficoltà. La mia detenzione
innanzitutto e, in secondo luogo, il suo matrimonio che,
com’è poi risultato, era un disastro. Sondavo suo fratello
per avere informazioni, ma lui voleva restarne fuori.
Vanessa e io ci scambiammo qualche lettera, ma lei aveva
paura che il marito la scoprisse. Cercava di venire a
Frostburg più spesso, per vedere sia suo fratello che me,
ma aveva due figli adolescenti che le stavano complicando
la vita. Dopo che il divorzio era diventato definitivo, era
uscita con altri uomini, ma non aveva funzionato. Io l’avevo
implorata di aspettarmi, ma sette anni sono tantissimi, se
ne hai quarantuno. Quando i figli se n’erano andati di casa,
Vanessa si era trasferita a Richmond, Virginia, e la nostra
storia d’amore a distanza si era gradualmente raffreddata.
Vanessa ha un tale passato che è estremamente cauta e
tiene sempre un occhio allo specchietto retrovisore.
Immagino che sia una cosa che abbiamo in comune.
Scambiandoci e-mail in codice, riusciamo a concordare
luogo e ora. L’avverto che non assomiglio affatto al
Malcolm Bannister che ha conosciuto in prigione. Dice che
correrà il rischio. Non vede l’ora di esaminare la nuova
versione migliorata.
Mentre parcheggio davanti al ristorante alla periferia di
Richmond, ho un brutto attacco di panico. Sono tesissimo
perché finalmente sto per toccare la donna che sogno da
quasi tre anni. So che anche lei vuole toccarmi, ma l’uomo
dal quale un tempo era così attratta ora ha un aspetto
completamente diverso. E se non le piacessi? Se
preferisse Malcolm a Max? Mi innervosisce anche l’idea
che sto per trascorrere un po’ di tempo con l’unica
persona, federali a Teile, che conosce tutti e due.
Mi asciugo il sudore dalla fronte e prendo in
considerazione l’idea di andarmene. Poi scendo dall’auto
e chiudo la portiera sbattendola.
Vanessa è seduta a un tavolo e, mentre mi avvicino con
passo incerto, mi sorride. Approva. Le do un bacio
delicato sulla guancia, mi siedo e per diversi minuti ci
limitiamo semplicemente a guardarci. Alla fine domando:
«Allora, cosa ne pensi?».
Vanessa scuote la testa e risponde: «Incredibile. Non
avrei mai detto che sei tu. Hai un documento?». Ridiamo
tutti e due, poi rispondo: «Certo, ma è falso. Attesta che
ora sono Max, non Malcolm».
«Sei dimagrito, Max.»
«Grazie, anche tu.» Ho dato un’occhiata veloce alle sue
gambe sotto il tavolo. Gonna corta. Tacchi alti e sexy. È in
tenuta da combattimento.
«Tu quale preferisci dei due?» le domando.
«Be’, credo di non avere molta scelta, no? Penso che tu
sia piuttosto belloccio, Max. Mi piace la tua nuova versione,
tutto l’insieme. Di chi è stata l’idea degli occhiali firmati?»
«Del mio consulente, lo stesso che ha suggerito la testa
rasata a zero e la barba di quattro giorni.»
«Più ti guardo, più mi piace.»
«Grazie a Dio. Avevo i nervi a pezzi.»
«Rilassati, baby. Ci aspetta una lunga notte.»
La cameriera prende nota delle nostre ordinazioni: un
martini per me, una bibita dietetica per lei. Ci sono
moltissime cose delle quali non voglio discutere, in
Teilicolare del mio improvviso rilascio dal carcere e della
protezione testimoni. Il fratello che Vanessa andava a
trovare in prigione era uscito, però è già tornato dietro le
sbarre, così lo lasciamo fuori dalla conversazione. Le
chiedo dei suoi figli, una ragazza di vent’anni che adesso è
al college e un ragazzo di diciotto che le sta sfuggendo di
mano.
A un certo punto, mentre sto parlando, Vanessa mi
interrompe e osserva: «Parli addirittura in modo diverso».
«Bene. Sono mesi, ormai, che mi alleno. Parlata molto
più lenta e voce più profonda. Suona autentico?»
«Credo di sì. Sì, funziona.»
Mi chiede dove abito e io le spiego che devo ancora
trovarmi una sistemazione. Mi sposto di continuo,
cercando di non farmi individuare dall’FBI e da altri. Un
mucchio di motel a buon mercato. Non sono un fuggitivo,
ma non sono neppure del tutto libero. Arriva la cena, ma
quasi non ce ne accorgiamo.
«Sembri molto più giovane» dice Vanessa. «Forse
dovrei andare a trovare il tuo chirurgo plastico.»
«Ti prego, non cambiare niente.» Le parlo delle mie
modifiche, soprattutto gli occhi, il naso e il mento. La
diverto descrivendole le riunioni con l’équipe chirurgica e i
nostri sforzi per progettare una nuova faccia. Ho anche
perso nove chili e Vanessa pensa che dovrei recuperarne
un paio. A mano a mano che i nervi si calmano, ci
rilassiamo e parliamo come due vecchi amici. La
cameriera ci chiede se va tutto bene, dato che non
abbiamo praticamente toccato cibo. Sfioriamo diversi
argomenti, ma entrambi in fondo alla mente stiamo
pensando alla stessa cosa. E finalmente le dico:
«Andiamocene di qui».
Non ho quasi finito di parlare che Vanessa sta già
afferrando la borsa. Pago in contanti e usciamo nel
parcheggio. Non mi va l’idea del suo apTeilamento e
Vanessa è d’accordo. È molto piccolo e spoglio, mi
spiega. Scendiamo in un hotel che avevo notato lungo la
strada e ordiniamo una bottiglia di champagne. Due
ragazzini alla prima notte di nozze non potrebbero essere
più carichi di energia di Vanessa e me. C’è così tanto da
fare, così tanto da recuperare.
29
Mentre Vanessa è al lavoro, sbrigo qualche commissione
in giro per Richmond. Spendo settanta dollari in un negozio
per un cellulare prepagato con cento minuti di
conversazione e in un altro negozio compro un telefonino
identico per sessantotto dollari. Uno lo darò a Vanessa e
io mi terrò l’altro. In una farmacia faccio scorta di carte di
credito prepagate. Vado all’appuntamento con il
proprietario di un negozio di articoli fotografici che si
autodefinisce videografo, operatore e montatore video, ma
la sua tariffa è troppo alta. Se avrò fortuna e otterrò
l’intervista, avrò bisogno di due persone: un operatore e un
assistente. Il tizio dell’appuntamento dice che lui lavora con
una troupe completa o niente.
Vanessa e io pranziamo con un sandwich in una tavola
calda vicino al suo ufficio. A cena andiamo in un bistrot nel
quartiere di Carytown. Il dopocena è notevolmente e
meravigliosamente simile a quello di ieri sera e si svolge
nella stessa camera d’albergo. Potrebbe diventare
un’abitudine. Ma i nostri piani per la terza notte deragliano
quando telefona il figlio di Vanessa: sta per arrivare in città
e ha bisogno di un posto dove stare. Sua madre è convinta
che abbia bisogno anche di un po’ di soldi.
Stiamo finendo di cenare quando il cellulare che ho in
tasca comincia a vibrare. Il numero di chi mi sta chiamando
risulta “sconosciuto” ma lo stesso vale per tutte le chiamate
a questo telefonino. Dato che mi aspetto una grossa
notizia, dico a Vanessa: «Scusami, per favore» e mi alzo
da tavola. Rispondo al telefono nell’atrio del ristorante.
Una voce vagamente familiare mi dice: «Mr Reed
Baldwin, sono Nathan Cooley. Ho ricevuto la sua lettera».
Ricordo a me stesso che devo parlare lentamente e con
un tono profondo. «Sì, Mr Cooley, grazie per avermi
chiamato.» Ovvio che ha ricevuto la lettera, altrimenti come
potrebbe avere il mio numero?
«Quando vuole che ci vediamo?» domanda Cooley.
«Quando preferisce. In questo momento sono a
Washington e abbiamo finito le riprese proprio oggi. Ho un
po’ di tempo libero, per cui subito per me sarebbe perfetto.
Cosa ne pensa?»
«Io non devo andare da nessuna Teile. Come ha fatto a
trovarmi?»
«Internet. È difficile nascondersi, al giorno d’oggi.»
«Già. Senta, io di solito mi alzo tardi e poi lavoro al bar
dalle due del pomeriggio fino a mezzanotte.»
«Cosa ne direbbe di pranzare insieme domani?»
propongo, un po’ troppo ansiosamente. «Solo noi due,
niente cineprese, registratori o roba del genere. Offro io.»
Una pausa, e io trattengo il fiato. «Okay. Dove?»
«È il suo territorio, Mr Cooley. Scelga lei posto e ora. Io
ci sarò.»
«Va bene. All’uscita per Radford sull’Interstatale 81 c’è
un ristorante che si chiama Spanky’s. L’aspetto là domani
a mezzogiorno.»
«Ci sarò.»
«Come farò a riconoscerla?» domanda, e per poco non
lascio cadere il cellulare. Il fattore riconoscimento è molto
più importante di quanto Cooley possa mai immaginare.
Mi sono sottoposto a interventi chirurgici che hanno
modificato radicalmente la mia faccia. Mi rado la testa a
giorni alterni e la barba una volta alla settimana. Ho fatto la
fame e ho smaltito nove chili. Indosso falsi occhiali da vista
rotondi con la montatura in tartaruga rossa, magliette nere,
false giacche Armani e sandali di tela che si trovano solo a
Miami o a Los Angeles. Ho un nome diverso. Ho una voce
diversa e un diverso modo di parlare.
E tutta questa sceneggiata è stata accuratamente
messa in atto non per ingannare gente che vuole pedinarmi
o uccidermi, ma solo per nascondere la mia vera identità
proprio a te, Mr Nathan Cooley.
Rispondo: «Sono alto poco più di un metro e ottanta,
nero, magro, testa rasata. Indosserò un cappello di paglia
bianco, tipo panama».
«Lei è nero?» scappa detto a Nathan.
«Già. È un problema?»
«No. Ci vediamo domani.»
Torno al tavolo dove Vanessa mi aspetta ansiosa. Le
dico sottovoce: «Era Cooley. Lo vedo domani».
Mi sorride. «E vai!» mi dice. Finiamo la cena e ci
salutiamo a malincuore. Fuori dal ristorante ci baciamo e ci
comportiamo come una coppia di adolescenti. Penso a
Vanessa per tutto il viaggio fino a Roanoke.
Arrivo con quindici minuti di anticipo e mi posiziono in
modo da poter osservare i veicoli che entrano nel
parcheggio di Spanky’s. La prima cosa che vedrò di lui
sarà la sua auto, o pickup, e questo mi dirà parecchio. Sei
mesi fa era in prigione, dove ha scontato poco più di
cinque anni. Non ha un padre, sua madre è alcolista e non
è andato oltre i primi anni delle superiori, per cui la sua
scelta del mezzo di trasporto risulterà interessante. Il mio
piano è di prendere mentalmente nota, mentre parleremo,
di tutto ciò che potrò vedere di lui: abiti, gioielli, orologio,
cellulare.
Il traffico si fa più intenso con l’arrivo dei clienti per il
pranzo. A mezzogiorno e tre minuti compare un pickup
Chevrolet Silverado da mezza tonnellata, nuovo di zecca,
che sospetto apTeilenga a Cooley. Infatti è così. Nathan si
ferma sul lato opposto del parcheggio e, mentre si dirige
verso l’ingresso del ristorante, si guarda intorno
nervosamente.
Sono passati quattro anni dall’ultima volta che l’ho visto e
sembra essere cambiato ben poco. Stesso peso e stessi
capelli biondi unti, anche se in prigione teneva la testa
rasata. Guarda due volte la targa della Florida della mia
auto e poi entra. Io faccio un respiro profondo, mi metto il
panama in testa e varco la porta. “Sta’ calmo, idiota” mi
ordino, mentre sento torcersi le budella. Saranno necessari
mano ferma e nervi d’acciaio.
Ci incontriamo nell’ingresso del ristorante e ci
presentiamo. Mi tolgo il cappello mentre seguiamo la
direttrice di sala fino a un séparé in fondo al locale. Ci
sediamo l’uno di fronte all’altro e parliamo del tempo. Per
un momento sono quasi sopraffatto dall’enormità del mio
inganno. Nathan sta parlando con uno sconosciuto, io con
un ragazzo che un tempo conoscevo molto bene. Non
sembra per niente sospettoso: non mi studia gli occhi o il
naso, non socchiude gli occhi, non inarca le sopracciglia e
non fissa lo sguardo nel vuoto mentre ascolta la mia voce.
E, grazie al cielo, non dice: “Lei mi ricorda un tale che
conoscevo”. Niente, finora.
Ordino una birra grande alla spina, e Nathan esita prima
di dire alla cameriera: «Lo stesso anche per me». Il
successo di questa missione, che ha scarse probabilità di
riuscita, potrebbe benissimo dipendere dall’alcol. Nathan è
cresciuto in una cultura fatta di grandi bevute e di
dipendenza da metanfetamina. Poi ha passato cinque anni
in prigione, sobrio e pulito. Adesso che è fuori, presumo
che sia tornato alle vecchie abitudini. Il fatto che sia il
proprietario del bar dove lavora è una buona indicazione.
Per essere un ragazzo di campagna al quale nessuno ha
mai insegnato come ci si veste, Nathan è okay. Jeans
délavé, una maglietta con il logo della Coors Light che
qualche rappresentante gli ha lasciato al bar e stivali da
combattimento. Niente gioielli e niente orologio, però ha un
tatuaggio da galera incredibilmente brutto all’interno
dell’avambraccio sinistro. In poche parole, Nathan non fa
esibizione di ricchezza con il suo aspetto.
Arrivano le birre e facciamo cincin. «Mi parli di questo
progetto» dice Nathan.
Per abitudine annuisco, taccio per un attimo e poi mi
raccomando di parlare lentamente, in modo chiaro e con la
voce più profonda possibile. «Faccio film documentari da
dieci anni e questo è il progetto più emozionante che mi
sia mai capitato.»
«Senta, Mr Baldwin, che cos’è un film documentario,
esattamente? Io vado al cinema come tutti, ma non credo
di averne visti molti.»
«Certo. Tipicamente, i film documentari sono piccole
realizzazioni indipendenti che non arrivano nelle grandi
sale. Non sono prodotti commerciali. Parlano di gente
vera, di problemi veri, di temi veri. Niente a che vedere con
le grandi star e simili. È roba davvero buona. I migliori
vincono premi ai festival cinematografici e richiamano un
po’ d’attenzione, ma non fanno mai molti soldi. La mia
società è specializzata in lavori che parlano dell’abuso di
potere, soprattutto da Teile del governo federale, ma anche
delle grandi società.» Bevo un sorso e mi dico di
rallentare. «La maggior Teile dei film documentari dura
circa un’ora. Questo in Teilicolare potrà forse arrivare a
novanta minuti, ma lo decideremo in seguito.»
La cameriera è tornata. Io ordino un sandwich al pollo,
Nathan chiede un cestino di ali di pollo.
«E lei com’è finito nel ramo bar?» chiedo.
Nathan beve un sorso e sorride. «Un amico. Il
proprietario del bar aveva problemi economici, non per via
del locale, ma di altre proprietà. Colpa della recessione,
immagino. Così voleva sbarazzarsi del Bombay’s e
cercava un pazzo che glielo comprasse e si prendesse
anche i debiti. Io ho pensato: che diavolo, ho solo
trent’anni, non ho un lavoro, non ho prospettive, perché non
provarci? Finora, comunque, ci sto guadagnando. Ed è
anche divertente. Un mucchio di ragazze del college
vengono a ciondolare nel bar.»
«Lei non è sposato?»
«No. Non so cosa sappia di me, Mr Baldwin, ma ho
appena finito di scontare cinque anni di carcere. Grazie al
governo federale, non ho avuto molti appuntamenti di
recente; sto rientrando in gioco solo adesso. Capisce cosa
intendo?»
«Certo. La prigione è stata conseguenza dello stesso
incidente nel quale è stato ucciso suo fratello, giusto?»
«Sì, è così. Mi sono dichiarato colpevole e mi hanno
messo dentro per cinque anni. Mio cugino è ancora in
galera, Big Sandy in Kentucky, un brutto posto. Quasi tutti i
miei cugini sono al fresco o morti. È la ragione per la quale
mi sono trasferito a Radford, Mr Baldwin, per allontanarmi
dal business della droga.»
«Capisco. Chiamami Reed, per favore. Mr Baldwin è
mio padre.»
«Okay. E io sono Nathan, o Nate.» Facciamo di nuovo
cincin come se all’improvviso fossimo molto più amici. In
prigione lo chiamavamo Nattie.
«Parlami della tua società» dice. Avevo previsto la
domanda, ma è comunque un terreno scivoloso.
Bevo un sorso e lo mando giù lentamente. «La Skelter è
una società nuova con sede a Miami. Solo io insieme a
due soci, più il personale amministrativo. Ho lavorato anni
per una grossa società di Los Angeles, la Cove Creek
Films, forse l’hai sentita nominare.» Invece no. Nate ha
appena lanciato un’occhiata al posteriore di una giovane
cameriera formosa. «Comunque, la Cove Creek ha vinto
un sacco di premi e ha fatto un bel po’ di soldi, ma l’anno
scorso è andata in pezzi: liti tremende su chi doveva avere
il controllo creativo e su quali progetti realizzare. Siamo
ancora nel bel mezzo di una brutta causa che credo si
trascinerà per anni. C’è un’ingiunzione presso la corte
federale di Los Angeles che mi proibisce addirittura di
parlare della Cove Creek e della causa. Pazzesco, eh?»
Con mio grande sollievo, Nathan sta rapidamente
perdendo interesse nella mia casa di produzione e relativi
problemi.
«Come mai la sede è a Miami?»
«C’ero stato qualche anno fa per un film su certi fornitori
fasulli della Difesa e mi sono innamorato del posto. Vivo a
South Beach. Ci sei mai stato?»
«No.» A Teile le gite organizzate dall’ US Marshals
Service, Nathan non si è mai avventurato a più di trecento
chilometri da Willow Gap.
«È un posto eccitante. Belle spiagge, ragazze stupende,
vita notturna scatenata. Ho divorziato quattro anni fa e mi
sto godendo di nuovo la vita da single. Trascorro circa sei
mesi l’anno a Miami. Gli altri sei li passo sulla strada, a
lavorare.»
«Come si fa un film documentario?» chiede Nathan, che
poi manda giù un altro po’ di birra.
«È molto diverso da un film normale. Di solito siamo solo
io e l’operatore, più magari un tecnico o due. L’elemento
più importante è la storia, non la scenografia o la faccia
dell’attore.»
«E tu vuoi fare un film con me?»
«Assolutamente sì. Con te e forse tua madre, magari
qualche altro tuo parente. Voglio andare nel luogo dove è
stato ucciso tuo fratello. Quello che cerco, Nathan, è la
verità. Ho trovato qualcosa, qualcosa che potrebbe essere
davvero una bomba. Se riesco a provare che la DEA elimina
sistematicamente gli spacciatori, che li uccide a sangue
freddo, allora forse potremo incastrare quei figli di puttana.
Mio nipote aveva preso una brutta strada, era sempre più
coinvolto nello spaccio di crack, ma non era un grosso
trafficante, e neppure un violento. Stupido, sì, ma non
pericoloso. Aveva diciassette anni, era disarmato e gli
hanno sparato tre volte a bruciapelo. Sulla scena è stata
rinvenuta una pistola rubata e la DEA ha sostenuto che
apTeileneva a lui. Sono un branco di bugiardi.»
Il viso di Nathan si sta lentamente contorcendo dalla
rabbia. Sembra quasi sul punto di sputare.
Insisto: «Il film sarà la storia di tre, forse quattro di questi
omicidi. Non so ancora se includeremo anche quella di mio
nipote, dato che il regista sono io. Forse la sua morte mi
tocca troppo da vicino. Ho già lavorato sulla storia di Jose
Alvarez ad Amarillo, Texas: un operaio diciannovenne,
immigrato clandestino, colpito da quattordici colpi sparati
da agenti della DEA. Il problema è che nessuno della sua
famiglia parla inglese e non c’è molta solidarietà nei
confronti degli immigrati clandestini. E poi c’è Tyler
Marshak, uno studente di college californiano che vendeva
piccole quantità di marijuana. Gli agenti della DEA hanno
fatto irruzione nella sua stanza al dormitorio come una
squadra della Gestapo e gli hanno sparato, ammazzandolo
nel suo letto. Forse hai letto qualcosa». Nathan non ha
letto. Il Nathan Cooley che ho conosciuto io passava ore e
ore a giocare ai videogame e non ha mai degnato di
un’occhiata un quotidiano o una rivista. E non ha neppure
quella curiosità innata che potrebbe spingerlo a fare
ricerche sulla Skelter Films o la Cove Creek.
«Ho già ottime riprese della stanza al dormitorio e
dell’autopsia; ho anche le testimonianze dei familiari, che
però al momento sono invischiati in una causa contro la
DEA. È possibile che non possa utilizzare quel materiale.»
Arriva il pranzo e ordiniamo altra birra. Nathan stacca a
morsi dall’osso la carne di pollo e si pulisce la bocca con il
tovagliolo. «Perché sei così interessato al caso di mio
fratello?»
«Diciamo che sono curioso. Non conosco ancora tutti i
dettagli. Mi piacerebbe sentire la tua versione su quello
che è successo e ricostruire con te sulla scena l’intera
operazione antidroga. I miei avvocati hanno presentato
richieste ufficiali in base alla legge sulla libertà
d’informazione per avere i fascicoli della DEA e anche quelli
del tribunale. Esamineremo tutta la documentazione, ma è
molto probabile che la DEA abbia coperto tutto. È quello che
fanno sempre. Poco alla volta metteremo insieme tutti i
pezzi e, allo stesso tempo, valuteremo come tu e i tuoi
familiari risultate sullo schermo. La videocamera non ama
tutti, Nathan.»
«Dubito che possa amare mia madre.»
«Vedremo.»
«Non so. Probabilmente non accetterà. Basta accennare
alla morte di Gene e lei crolla.» Si lecca le dita e sceglie
un’altra ala di pollo.
«Perfetto. È proprio quello che voglio catturare nel film.»
«Qual è il programma? Di che tempi stiamo parlando?»
Mordo un boccone del mio sandwich e mastico per un
po’ mentre rifletto.
«Forse un anno. Mi piacerebbe finire tutto entro i
prossimi sei mesi, in modo da averne altri sei per tagliare,
montare, editare, forse girare qualcosa di nuovo. Si può
continuare a tornarci sopra all’infinito ed è difficile decidere
quando fermarsi. Per quello che ti riguarda, vorrei fare
qualche ripresa iniziale, tre o quattro ore, e mandare il
materiale ai miei producer e montatori a Miami, in modo
che ti vedano, ti sentano parlare e si facciano un’idea della
storia e della tua capacità di raccontarla. Se alla fine
saremo tutti d’accordo, continueremo le riprese.»
«Io cosa ci guadagno?»
«Niente, a Teile la verità e la possibilità di denunciare gli
uomini che hanno ucciso tuo fratello. Pensaci, Nathan. Non
ti piacerebbe vedere quei bastardi accusati d’omicidio e
mandati sotto processo?»
«Accidenti se mi piacerebbe.»
Continuo deciso l’attacco, gli occhi in fiamme. «Allora
deciditi, Nathan. Raccontami la tua storia. Non hai niente
da perdere e molto da guadagnare. Parlami del
commercio della droga e di come ha rovinato la tua
famiglia, di come Gene ci si è ritrovato in mezzo, di come
quello fosse semplicemente un sistema di vita da queste
Teili perché non c’erano altri lavori. Non dovrai fare nomi:
non voglio mettere nessuno nei guai.» Un ultimo sorso e
finisco la mia seconda birra. «Dov’era Gene l’ultima volta
che lo hai visto?»
«Era steso a terra, con le mani dietro la schiena perché
lo stavano ammanettando. Non era stato esploso un colpo,
da Teile di nessuno, e l’operazione della DEA era finita. Io
ero ammanettato e mi stavano portando via, quando ho
sentito gli spari. Hanno detto che Gene aveva fatto lo
sgambetto a un agente ed era scattato di corsa verso il
bosco. Stronzate. L’hanno ucciso a sangue freddo.»
«Devi raccontarmi questa storia, Nathan. Devi portarmi
sul posto e ricostruire la scena. Il mondo deve sapere cosa
sta combinando il governo nella sua guerra contro la droga.
Non fa prigionieri.»
Nathan fa un respiro profondo per lasciar passare il
momento. Io sto parlando troppo, e troppo in fretta, così per
qualche minuto mi dedico al mio sandwich. La cameriera
ci chiede se vogliamo un altro giro di birre. «Per me sì, per
favore» rispondo, e Nathan segue subito il mio esempio.
Finisce di mangiare un’ala, si lecca le dita e poi dice: «La
mia famiglia mi sta creando delle difficoltà, al momento. È
per questo che mi sono trasferito a Radford».
Mi stringo nelle spalle come se fossero affari suoi, non
miei, ma non sono sorpreso. «Se tu collabori e il resto
della tua famiglia no, ci saranno altri problemi?» domando.
Nathan ride. «I problemi sono la regola, per i Cooley.
Siamo famosi per le lotte in famiglia.»
«Allora andiamo avanti e firma il contratto. È di una sola
pagina, già redatto dai miei avvocati in un inglese così
semplice che non hai bisogno di cercarti un legale tuo, a
meno che non ti diverta a buttare via i soldi. Il contratto dice
che tu, Nathan Cooley, collaborerai alla realizzazione di
questo film documentario. In cambio riceverai una
retribuzione di ottomila dollari, il minimo riconosciuto agli
attori per questo tipo di progetti. Ogni tanto, o in qualunque
momento tu voglia, potrai esaminare il materiale in
lavorazione, e, questo è cruciale, se ciò che vedrai non ti
piacerà potrai chiamarti fuori e io non potrò usare le
riprese in cui compari tu. È un accordo molto equo.»
Nathan annuisce mentre riflette su possibili fregature, ma
Nathan non è tipo da analizzare le cose rapidamente.
Inoltre, l’alcol lo sollecita ad agire. Sospetto che stia già
sbavando alla parola “attore”.
«Ottomila dollari?» ripete.
«Sì. Come ti dicevo, i nostri sono lavori a basso costo.
Nessuno guadagnerà montagne di soldi.»
Il punto interessante qui è che ho pronunciato la parola
soldi prima che lo facesse lui. Addolcisco la proposta
aggiungendo: «Inoltre, avrai diritto a una piccola quota
degli incassi. Significa che intascherai qualche dollaro in
più, se il film venderà un po’ di biglietti al botteghino, però
non ci contare. Ma tu non devi fare questa cosa per soldi,
Nathan. La devi fare per tuo fratello».
Il piatto davanti a Cooley è pieno di ossa di pollo. La
cameriera ci serve il nostro terzo giro di birre e porta via gli
avanzi. È importante continuare a far parlare Nathan
perché non voglio che pensi troppo.
«Che tipo di persona era Gene?» domando.
Nathan scuote la testa e sembra quasi sul punto di
piangere. «Era il mio fratellone. Nostro padre se n’è
andato quando eravamo ancora piccoli. Eravamo solo noi
due, io e Gene.» Mi racconta qualche episodio della loro
infanzia, storie buffe di due ragazzini che cercano di
sopravvivere. Finiamo la nostra terza birra e ordiniamo un
altro giro, ma giuriamo che sarà l’ultimo.
Alle dieci del giorno dopo, Nathan e io ci incontriamo in un
bar a Radford. Lui legge il contratto, mi fa qualche
domanda e firma. Io firmo nella mia veste di vicepresidente
della Skelter Films e gli consegno un assegno di ottomila
dollari emesso da un conto corrente societario a Miami.
«Quando si inizia?» chiede Nathan.
«Be’, sono già qui e non devo Teilire. Prima
cominciamo, meglio è. Cosa ne dici di domattina?»
«Bene. Dove?»
«Ci ho pensato. Siamo nel Southwest Virginia, dove le
montagne sono importanti. In effetti, il territorio ha molto a
che fare con la storia: l’isolamento delle montagne e così
via. Mi piacerebbe girare in esterni, almeno all’inizio. Poi
possiamo sempre spostarci. Tu abiti in città o in
campagna?»
«Ho un posto in affitto appena fuori città. Dal cortile sul
retro c’è una bella vista delle colline.»
«Diamoci un’occhiata. Verrò da te domattina alle dieci
con una piccola troupe e controlleremo la luce.»
«Okay. Senti, ho parlato con mia madre e ha detto di
no.»
«Posso provarci io?»
«Fa’ pure, ma è parecchio tosta. Non le piace l’idea di te
o di chiunque altro che fa un film su Gene e la nostra
famiglia. Ha paura che ci farai passare per un branco di
montanari ignoranti.»
«Le hai spiegato che hai il diritto di controllare il film a
mano a mano che viene girato?»
«Ho tentato, ma aveva bevuto.»
«Mi dispiace.»
«Ci vediamo domattina.»
30
Nathan vive in una casetta di mattoni rossi in una strada
stretta, a qualche chilometro dal confine occidentale di
Radford. L’abitante più prossimo occupa una casa mobile
doppia, più vicino di un chilometro alla statale. Il prato
davanti all’abitazione di Cooley è tosato con cura e ci sono
alcuni cespugli allineati sotto la piccola veranda. Quando
arriviamo e parcheggiamo dietro il suo lucente pickup
nuovo, sta giocando con un labrador color miele.
La mia troupe consiste nella nuova assistente, Vanessa,
che per questo progetto si chiamerà Gwen, e in due
freelance di Roanoke: Slade, il videografo, e Cody, il suo
assistente. Slade si definisce un filmmaker e lavora nel suo
garage. È proprietario delle videocamere e di tutta
l’attrezzatura, ed è perfettamente in Teile: capelli lunghi
raccolti in una coda di cavallo, jeans con strappi alle
ginocchia, un paio di catene d’oro al collo. Cody è più
giovane e sufficientemente trasandato. La loro tariffa è di
mille dollari al giorno più le spese, e Teile del nostro
accordo è che facciano quello che devono fare e parlino il
meno possibile. Ho promesso di pagarli in contanti e non
ho fatto alcun cenno alla Skelter Films o a qualsiasi altra
cosa. Può trattarsi di un film documentario o di
qualcos’altro. Fate quello che vi dico e non fornite dettagli a
Nathan Cooley.
Vanessa è arrivata a Radford ieri sera e abbiamo
passato la notte insieme in un accogliente hotel, dove ci
siamo registrati a suo nome e abbiamo utilizzato una carta
di credito prepagata. Vanessa ha detto al suo capo di
avere l’influenza e che, ordine del medico, non potrà uscire
di casa per diversi giorni. Non ha la minima idea di come
si faccia un film, ma d’altra Teile non lo so neppure io.
Dopo un giro di goffe presentazioni nel vialetto, diamo
un’occhiata al posto. Il prato dietro casa è una vasta area
aperta che sale sul fianco della collina. Un branco di cervi
dalla coda bianca supera con un salto uno steccato
appena ci vede. Chiedo a Nathan quanto tempo impiega
per tagliare l’erba e mi risponde tre ore. Indica una tettoia,
sotto la quale vedo un sontuoso trattorino tosaerba John
Deere. Sembra nuovo. Nathan mi dice di essere un
ragazzo di campagna che ama vivere all’aperto, andare a
caccia e a pesca e fare pipì dalla veranda dietro casa.
Inoltre pensa spesso alla prigione e alla vita là dentro, con
mille uomini che devono sopravvivere in ambienti ristretti.
No, grazie: a lui piacciono i grandi spazi. Mentre noi due
camminiamo e parliamo, Slade e Cody vagano in giro e
borbottano tra loro, guardando il sole e sfregandosi il
mento.
«Mi piace qui» annuncio, indicando il posto e
assumendo il comando. «Voglio quelle colline
nell’inquadratura.»
Slade non sembra essere d’accordo, ma insieme a
Cody comincia comunque a scaricare l’attrezzatura dal
furgone. I preparativi si protraggono per un’eternità e, per
dimostrare il mio temperamento artistico, comincio ad
abbaiare a proposito del tempo che stiamo perdendo.
Gwen ha portato con sé un kit per il trucco e Nathan
accetta con riluttanza una passata di cipria e fard. Sono
sicuro che per lui questa è la prima volta, ma ho bisogno
che si senta un attore. Gwen indossa una gonna molto
corta con una camicetta quasi sbottonata, e Teile del suo
compito consiste nel verificare con quanta facilità si possa
distrarre il ragazzo. Fingo di controllare i miei appunti, ma
osservo Nathan che osserva Gwen. Cooley adora sia
l’attenzione che la distrazione.
Quando videocamera, luci, monitor e audio sono quasi
pronti, prendo Nathan da Teile: solo noi due, il regista e la
sua star, per spiegargli la mia visione.
«Okay, Nathan. Voglio che tu sia molto serio. Pensa a
Gene, al suo omicidio per mano del governo federale. Ti
voglio composto. Niente sorrisi, niente di buffo, okay?»
«Capito.»
«Parla lentamente, quasi con dolore. Io ti farò le
domande; tu guarda l’obiettivo e parla. Sii naturale. Sei un
bel ragazzo e credo che la videocamera ti amerà, ma è
importante che tu sia te stesso.»
«Ci proverò» mi assicura, ed è chiaro che non vede l’ora
di cominciare.
«Un’ultima cosa, avrei dovuto parlartene ieri. Se questo
film avrà l’effetto che speriamo e farà saltare la copertura
d e lla DEA, forse ci saranno delle rappresaglie, delle
ritorsioni. Non mi fido della DEA, sono un branco di
delinquenti e possono fare qualsiasi cosa. Per questo è
importante che tu sia... diciamo fuori dal giro.»
«Sono pulito, amico» assicura Nathan.
«Non stai spacciando? In nessun modo?»
«Cavolo, no. Non ho intenzione di tornare dentro. È il
motivo per cui sono venuto a stare qui, lontano dalla
famiglia. Loro continuano a preparare e vendere
metanfetamina, io no.»
«Okay. Adesso concentrati su Gene.»
Cody gli sistema il microfono e tutti prendiamo
posizione. Siamo su un set, con le sedie pieghevoli, le luci
e i cavi tutto intorno a noi. La videocamera è sopra la mia
spalla e per un momento mi sento come un autentico,
intrepido giornalista investigativo. Guardo Gwen e le dico:
«Hai dimenticato le foto? Andiamo, Gwen!».
Lei salta in piedi mentre sto ancora abbaiando e afferra
una macchina fotografica. «Solo un paio di scatti, Nathan,
in modo da avere una documentazione precisa delle luci.»
All’inizio Cooley aggrotta la fronte, ma poi sorride a Gwen
che lo inquadra. Finalmente, dopo un’ora dal nostro arrivo,
cominciamo a girare. Impugno una penna nella mano
sinistra e scribacchio su un blocco.
Malcolm Bannister era destro, nel caso Nathan sia
sospettoso. Cosa che non sembra essere.
Per farlo sciogliere, comincio con i fondamentali: nome,
età, occupazione, studi, precedenti penali, eventuali figli o
matrimoni eccetera. Un paio di volte lo invito a rilassarsi, o
a ripetere qualcosa, stiamo solo facendo conversazione.
La sua infanzia: case, scuole, la vita con il fratello maggiore
– Gene –, padre assente, un rapporto tormentato con la
madre. A questo punto, Nathan dice: «Senti, Reed, non ho
intenzione di parlare male di mia madre, okay?».
«Naturalmente no. Non è quello che avevo in mente.» E
cambio subito argomento. Arriviamo alla cultura della
metanfetamina in cui è cresciuto. Con qualche esitazione,
finalmente si apre e dipinge il quadro deprimente di
un’adolescenza difficile fatta di droga, alcol, sesso e
violenza. A quindici anni sapeva come “cucinare” la
metanfetamina. Due suoi cugini sono bruciati vivi quando è
esploso il laboratorio che avevano installato in una casa
mobile. Nathan aveva sedici anni quando ha visto per la
prima volta l’interno di una cella. A quel punto ha lasciato la
scuola, e la vita è diventata ancora più folle. Almeno quattro
suoi cugini sono finiti dentro per spaccio di droga; due
sono ancora al fresco. Ma per quanto brutta sia stata la
prigione, è servita ad allontanarlo dagli stupefacenti e
dall’alcol. Nei cinque anni passati in carcere si è ripulito e
ora è deciso a restare alla larga dalla metanfetamina. La
birra è tutta un’altra storia.
A mezzogiorno facciamo una pausa. Il sole è
perpendicolare e Slade è preoccupato per la luce troppo
intensa. Lui e Cody se ne vanno in giro, cercando un’altra
postazione. «Per quanto tempo puoi lavorare con noi
oggi?» chiedo a Nathan.
«Il capo sono io» risponde orgoglioso. «Posso andare al
bar quando voglio.»
«Splendido. Facciamo altre due ore?»
«Perché no? Come sto andando?»
«Alla grande. Ci hai messo un po’ a scioglierti, ma
adesso sei molto spontaneo, molto autentico.»
«Sei un raccontatore fantastico, Nathan» aggiunge
Gwen. A Cooley questo fa piacere. Gwen riTeile con il
numero del trucco, asciugandogli il sudore dalla fronte,
spazzolandolo, ritoccandolo, flirtando, mostrandosi un po’.
Nathan è assetato di attenzioni.
Andiamo a prendere sandwich e bibite e mangiamo
all’ombra di una quercia vicino al capanno per gli attrezzi.
A Slade il posto piace e decidiamo di trasferire qui il set.
Gwen bisbiglia qualcosa a Nathan a proposito del bagno.
La richiesta lo mette a disagio, ma ormai non riesce quasi
più a staccare gli occhi dalle gambe di Gwen. Io mi
allontano e fingo di parlare al cellulare con importanti
personaggi di Los Angeles.
Gwen scompare al di là della porta sul retro. In seguito
riferirà che la casa ha due camere da letto, di cui una sola
però arredata; un soggiorno spoglio, a Teile un divano, una
poltrona e un enorme televisore ad alta definizione; un
bagno che ha bisogno di una bella pulita; una cucina con
un acquaio pieno di piatti sporchi e un frigo colmo di birre
e salumi. C’è anche una soffitta alla quale si accede con
una scala retrattile. I pavimenti sono rivestiti da una
moquette dozzinale. Gli accessi sono tre – la porta davanti,
quella sul retro e quella del garage – e tutti e tre sono dotati
di robuste serrature di sicurezza, chiaramente installate da
poco. Non sembra esserci un sistema d’allarme: nessuna
tastiera e nessun sensore alle finestre o alle porte. In un
armadio in camera da letto ci sono due fucili e due
doppiette. Nella cabina armadio della camera degli ospiti
c’è soltanto un paio di stivali da caccia infangati.
Mentre Gwen è in casa, io continuo la mia finta
telefonata e osservo Nathan da dietro i miei grandi occhiali
da sole. Ha lo sguardo puntato sul retro di casa, innervosito
dal fatto che la ragazza sia dentro da sola. Slade e Cody
stanno riallestendo il set. Quando Gwen ricompare, Nathan
si rilassa e si scusa per il disordine domestico. Lei lo
tranquillizza tubando e si mette al lavoro sui suoi capelli.
Quando tutto è pronto, ci tuffiamo nella sessione
pomeridiana.
Nathan ci parla di un incidente in moto avvenuto quando
aveva quattordici anni e io disseziono l’episodio per
mezz’ora. Ci soffermiamo sulla sua scarna storia
lavorativa: capi, colleghi, mansioni, salari, dimissioni o
licenziamenti. Poi torniamo sul commercio di droga con
dettagli su come si prepara la metanfetamina, chi glielo ha
insegnato, quali sono gli ingredienti chiave e così via.
Storie d’amore? Fidanzate? Nathan dichiara di avere
messo incinta una sua giovane cugina quando aveva
vent’anni, ma non ha idea di cosa sia successo alla madre
o al bambino. Prima di finire in prigione aveva una storia
seria con una ragazza, ma poi lei lo ha lasciato. A
giudicare da come guarda Gwen, è evidente che è
parecchio eccitato.
Ha trent’anni e, a Teile la morte del fratello e il periodo in
carcere, la sua vita è priva di eventi significativi. Dopo tre
ore passate a sollecitarlo e interrogarlo, ho esaurito
qualsiasi elemento di interesse. Mi informa che deve
andare al lavoro.
«Devi mostrarmi il luogo dove è stato ucciso Gene»
dico, mentre Slade spegne la videocamera e tutti si
rilassano.
«È poco fuori Bluefield, a circa un’ora da qui.»
«Bluefield, West Virginia?» domando.
«Esatto.»
«Come mai eravate là?»
«Dovevamo fare una consegna, ma l’acquirente era un
informatore della polizia.»
«Devo vedere il posto, Nathan, per ripercorrere e far
rivivere la scena, la violenza, il momento in cui Gene è
stato colpito e ucciso. Era notte, vero?»
«Sì, molto dopo mezzanotte.» Gwen gli sta struccando il
viso con un fazzoletto. «Vieni davvero molto bene in video»
dice sottovoce. Nathan sorride.
«Quando possiamo andarci?» chiedo.
Cooley si stringe nelle spalle. «Quando preferisci.
Domani, se vuoi.»
Perfetto. Stabiliamo di ritrovarci qui domattina alle nove
per poi muoverci attraverso le montagne e inoltrarci in
West Virginia, fino alla miniera abbandonata dove i fratelli
Cooley sono caduti in trappola.
Quella trascorsa con Nathan è stata una buona giornata.
Lui e io siamo andati alla grande nei rispettivi ruoli di
regista e attore, e in certi momenti Nathan e Gwen
sembravano pronti a spogliarsi e darci dentro. Nel tardo
pomeriggio vado con lei al Bombay’s nella Main Street di
Radford, nei pressi del campus. Ci sediamo a un tavolo
vicino al bersaglio delle freccette. È ancora troppo presto
per la folla dei ragazzi del college, anche se al bar c’è già
qualche scalmanato che approfitta dell’happy hour. Chiedo
alla cameriera di comunicare a Nathan Cooley la nostra
presenza e nel giro di pochi secondi lui compare, con un
grande sorriso. Lo invitiamo a sedersi con noi, cosa che fa,
e cominciamo con la birra. Gwen beve poco e riesce a
sorseggiare un solo bicchiere di vino mentre Nathan e io ci
facciamo qualche pinta.
Gli studenti cominciano ad affluire e il locale diventa
sempre più rumoroso. Mi informo sulle specialità del giorno
e vedo che sulla lavagna compare il sandwich alle ostriche.
Ne ordiniamo due e Nathan scompare per strillare al
cuoco. Gwen e io ceniamo e ci tratteniamo finché fa buio.
Non solo siamo gli unici due neri nel bar, ma siamo anche
gli unici clienti di età superiore ai ventidue anni. Ogni tanto
Nathan viene a vedere come ce la passiamo, ma è
veramente molto indaffarato.
31
Alle nove del giorno dopo torniamo da Nathan, che anche
questa volta sta giocando con il suo cane nel prato davanti
a casa. Ho il sospetto che ci attenda fuori perché non vuole
farci entrare in casa. Gli spiego che la mia Audi avrebbe
bisogno di una messa a punto e che forse sarebbe meglio
usare il suo pickup. I due viaggi di andata e ritorno ci
regaleranno due ore da soli con Nathan, senza distrazioni.
Lui scrolla le spalle e dice che va bene, nessun problema,
e così Teiliamo, seguiti da Slade e Cody a bordo del loro
furgone. Io siedo davanti, Gwen è rannicchiata nel sedile
posteriore. Questa mattina è in jeans perché ieri Nathan
non riusciva a staccarle gli occhi dalle gambe. Oggi sarà
un po’ più riservata, tanto per tenere il ragazzo sulla corda.
Mentre puntiamo a ovest verso le montagne, ammiro
l’interno del pickup e spiego che mi è capitato raramente
di viaggiare su veicoli di questo tipo. I sedili sono di pelle,
c’è un navigatore satellitare di ultima generazione e così
via. Nathan è molto orgoglioso del suo pickup e ne parla a
lungo.
Per cambiare argomento, torno a ripetergli che mi
piacerebbe incontrare sua madre. Cooley dice: «Senti, se
vuoi puoi provarci, ma a lei proprio non va giù quello che
stiamo facendo. Le ho parlato di nuovo ieri sera e le ho
illustrato il progetto. Le ho spiegato quanto è importante e
che tu hai bisogno anche di lei, ma non ho concluso
niente».
«Non potrei almeno salutarla, conoscerla?» Sto quasi
per voltarmi e sorridere a Gwen: adesso sappiamo che
Nathan giudica il progetto “importante”.
«Ne dubito. Mia madre è una donna difficile. Beve
parecchio e ha un brutto carattere. Non siamo in buoni
rapporti, in questo momento.»
Essendo un giornalista investigativo determinato, decido
di tuffarmi in temi delicati. «Perché hai lasciato l’attività di
famiglia e ti guadagni da vivere con il bar?»
«È una domanda molto personale, ti pare?» mi
rimprovera Gwen da dietro.
Nathan fa un respiro profondo e dà un’occhiata fuori dal
finestrino. Stringe il volante con entrambe le mani e dice:
«È una lunga storia, ma mia madre ha sempre dato la
colpa a me per la morte di Gene, il che è una follia. Era lui il
fratello maggiore, il capo della gang e del laboratorio di
metanfetamina. Ed era anche tossicodipendente. Io no.
Ogni tanto mi facevo anch’io, ma non ci sono mai cascato
dentro. Gene, invece... lui era fuori controllo. Il posto dove
stiamo andando adesso era quello dove effettuava una
consegna una volta alla settimana. Qualche volta lo
accompagnavo. Non avrei dovuto esserci la notte che ci
hanno beccato. C’era un tizio, ma non farò nomi, che
vendeva metanfetamina per nostro conto nella zona ovest
di Bluefield. Noi non lo sapevamo, ma il tizio era stato
arrestato, aveva perso la testa e aveva detto alla DEA dove
e quando. Mio fratello e io siamo finiti in una trappola e
giuro che non ho potuto fare niente per aiutare Gene.
Come ti ho già raccontato, ci eravamo arresi e ci stavano
arrestando. Ho sentito gli spari e Gene era morto. L’ho
spiegato cento volte a mia madre, ma lei non mi ascolta.
Gene era il suo preferito e la sua morte è tutta colpa mia».
«È terribile» mormoro.
«Tua madre veniva a trovarti in prigione?» chiede da
dietro la voce dolce di Gwen.
Un’altra lunga pausa. «Due volte.» Viaggiamo in silenzio
per almeno cinque chilometri. Siamo sull’interstatale,
adesso, e procediamo in direzione sudovest,
accompagnati dalla musica di Kenny Chesney. Nathan si
schiarisce la voce e dice: «A essere sincero, sto cercando
di staccarmi dalla famiglia. Mia madre, i miei cugini, un
branco di nipoti buoni a nulla. In giro si è già sparsa la voce
che sono proprietario di un bel bar e che me la sto
cavando bene, per cui tra un po’ quei pagliacci verranno a
chiedermi soldi. Bisogna che mi allontani ancora di più».
«Dove vorresti andare?» chiedo, con grande
Teilecipazione.
«Non molto lontano. A me piace la montagna, adoro fare
escursioni e andare a pesca. Io sono un montanaro, Reed,
e lo sarò sempre. Boone, North Carolina, non è male.
Penso a un posto del genere, un posto dove non ci siano
Cooley nell’elenco telefonico.» Ride, una breve risata triste.
Qualche minuto dopo, ci manda nel panico. «Sai, avevo
un amico in prigione che mi fa pensare a te. Malcolm
Bannister, si chiamava. Un tipo in gamba, nero, veniva da
Winchester, Virginia. Era avvocato e continuava a ripetere
che i federali l’avevano sbattuto dentro senza alcun motivo
valido.»
Ascolto e annuisco, come se quello che Nathan sta
dicendo non avesse la minima importanza. Mi sembra
quasi di sentire Gwen irrigidirsi sul sedile posteriore.
«Cosa ne è stato di lui?» riesco a chiedere. La mia bocca
non è mai stata più arida.
«Credo che Mal sia sempre dentro. Deve farsi ancora un
paio d’anni, mi pare. Non ne ho più saputo niente. C’è
qualcosa in te, nella voce, forse nel modo di fare, qualcosa
che non riesco a definire... ma tu mi ricordi Mal.»
«Il mondo è grande, Nathan» dico con voce ancora più
profonda e totale indifferenza. «E tieni presente che per voi
bianchi noi neri siamo tutti uguali.»
Nathan ride e anche Gwen riesce produrre una risata
forzata.
Mentre ero in convalescenza a Fort Carson, ho lavorato
con un esperto che mi ha ripreso per ore e ha compilato un
elenco di abitudini e atteggiamenti che dovevo cambiare.
Mi sono esercitato a lungo, ma poi, una volta arrivato in
Florida, ho smesso di tenermi in allenamento. Movimenti e
gesti spontanei sono difficili da abbandonare. La mia
mente si è paralizzata e non trovo altro da dire.
Gwen mi viene in aiuto. «Nathan, poco fa hai accennato
ai tuoi nipoti. Quanto credi che andrà avanti tutta questa
storia? Perché mi sembra che in molte famiglie il business
della metanfetamina stia diventando un fatto
generazionale.»
Cooley aggrotta la fronte e riflette. «Secondo me non c’è
speranza. Lavoro non ce n’è, a Teile l’estrazione del
carbone, ma molti ragazzi non ne vogliono più sapere di
andare a lavorare in miniera. Inoltre cominciano a farsi
intorno ai quindici anni e a sedici sono già assuefatti. Le
ragazze restano incinte a sedici anni, sono bambine che
fanno bambini, e poi nessuno li vuole. E una volta che
cominci a fare casini, non smetti più. Non vedo molto futuro
qui in giro, non per gente come me.»
Sto ascoltando, ma non recepisco. La testa mi gira
mentre mi domando quanto sappia Nathan. Ha dei
sospetti? Cos’ho fatto per suscitarglieli? Sono ancora
sotto copertura – di questo sono certo –, ma lui cosa sta
pensando?
Bluefield, West Virginia, è una città di undicimila abitanti
nell’estrema punta meridionale dello Stato, non lontano dal
confine che sfioriamo percorrendo la Highway 52. Poco
dopo ci ritroviamo su tragitti tortuosi che salgono e
scendono vertiginosamente. Nathan conosce bene la zona,
anche se sono passati anni dall’ultima volta che è stato qui.
Ci immettiamo in una strada di campagna e ci inoltriamo in
una valle. L’asfalto termina e zigzaghiamo su sentieri a
ghiaia e in terra battuta finché ci fermiamo sulla riva di un
torrente. Vecchie querce incombono alte e nascondono il
sole. Le erbacce arrivano al ginocchio. «Siamo arrivati»
annuncia Nathan, spegnendo il motore.
Scendiamo dal pickup e dico a Slade e Cody di
scaricare l’attrezzatura. Non impiegheremo luci artificiali e
voglio che venga usata la videocamera piccola, quella a
mano. I due si danno da fare, afferrando le loro cose.
Nathan si avvicina alla riva del torrente e sorride
all’acqua scrosciante. «Venivi qui spesso?» domando.
«No, non spesso. Avevamo diversi punti di consegna
intorno a Bluefield, ma questo era il principale. Gene
operava qui da dieci anni, ma non io. Il fatto è che non
Teilecipavo all’impresa quanto lui avrebbe voluto. Già
allora prevedevo guai. Sai, cercavo di trovare altri lavori, di
tirarmi fuori. Gene, invece, voleva che entrassi di più nel
giro.»
«Dove avevate parcheggiato?»
Nathan si volta, indica con il dito e io decido di spostare
il suo pickup e il furgone di Slade, in modo che i due veicoli
non entrino nell’inquadratura. Basandomi sulla mia vasta
esperienza di regista, decido per una sequenza d’azione
con Nathan che si avvicina a piedi alla scena e la
videocamera immediatamente alle sue spalle. Facciamo
qualche prova e poi cominciamo a girare. Cooley fa anche
il narratore.
«Più forte, Nathan. Devi parlare a voce più alta» abbaio
da un lato.
Nathan si avvicina alla scena. «Gene e io siamo arrivati
verso le due di notte. Eravamo a bordo del suo pickup,
guidavo io. Quando ci siamo fermati, proprio qui, abbiamo
visto l’altro veicolo laggiù, seminascosto fra quegli alberi,
esattamente dove doveva essere.» Cooley continua a
camminare e a indicare con la mano. «Sembrava tutto
normale. Ci siamo fermati lì accanto e il nostro uomo,
chiamiamolo Joe, scende e ci saluta. Noi ricambiamo e ci
spostiamo sul retro del pickup di Gene. Dentro una
cassetta degli attrezzi chiusa con un lucchetto ci sono circa
quattro chili e mezzo di metanfetamina; è roba buona,
quasi tutta cucinata da Gene in persona. Sotto un foglio di
compensato c’è un piccolo frigo portatile, con altri quattro
chili e mezzo. La consegna totale era intorno ai nove chili,
per un valore all’ingrosso sui duecentomila dollari.
Scarichiamo la merce dal pickup e la sistemiamo nel
bagagliaio di Joe. Appena lui richiude il portellone si
scatena l’inferno. Dovevano essere almeno dieci gli agenti
della DEA che ci sono saltati addosso. Non so da dove
arrivassero, ma sono stati veloci. Joe è scomparso, non ne
ho più saputo niente. Hanno trascinato Gene accanto al
suo pickup. Inveiva contro Joe e faceva ogni tipo di
minacce. Io ero così spaventato che non riuscivo quasi a
respirare. Ci avevano beccato con le mani nel sacco e
sapevo che sarei finito in galera. Mi hanno ammanettato,
mi hanno perquisito tasche e portafoglio e poi mi hanno
scortato lungo il sentiero, quello laggiù. Mentre mi
allontanavo, ho guardato dietro di me e sono riuscito a
intravedere mio fratello steso a terra, con le mani dietro la
schiena. Era furioso e continuava a imprecare. Qualche
secondo dopo sono risuonati degli spari, e ho sentito Gene
gridare quando è stato colpito.»
«Stop!» ordino a voce alta. Cammino in cerchio per un
momento, riflettendo. «Rifacciamola» dico. Torniamo tutti
al punto di Teilenza. Dopo il terzo ciak, mi dichiaro
soddisfatto e passo all’idea successiva. Chiedo a Cooley
di andare nel punto esatto dove si trovava Gene quando lo
ha visto per l’ultima volta. Sistemiamo una sedia
pieghevole e Nathan si accomoda. Con la videocamera in
funzione, domando: «Qual è stata la tua reazione quando
hai sentito gli spari?».
«Non potevo crederci. Gene era a terra e c’erano
almeno quattro agenti della DEA in piedi intorno a lui. Mio
fratello aveva già le mani dietro la schiena, anche se non
era stato ancora ammanettato. Non era armato. Sul pickup
c’erano una doppietta e due 9 millimetri, ma non avevamo
preso niente con noi. Non mi interessa quello che ha
sostenuto la DEA in seguito: Gene era disarmato.»
«Ma quando hai sentito gli spari, cosa hai fatto?»
«Mi sono fermato di colpo e urlato qualcosa come:
“Cos’è stato? Cosa sta succedendo?”. Ho chiamato Gene,
ma gli agenti mi spingevano avanti, lungo il sentiero. Non
riuscivo a guardare indietro, ero troppo lontano. A un certo
punto ho detto: “Voglio vedere mio fratello” ma loro si sono
messi a ridere e hanno continuato a spingermi, al buio. Alla
fine siamo arrivati a un furgone e mi hanno fatto salire. Mi
hanno portato in prigione a Bluefield e per tutto il tempo io
non ho fatto che chiedere di mio fratello. Cos’è successo?
Dov’è Gene? Cosa gli avete fatto?»
«Fermiamoci per un momento» dico a Slade. Guardo
Nathan. «A questo punto è okay se fai vedere un po’ di
emozione. Pensa alla gente che guarda questo film. Cosa
vuoi che provino mentre ascoltano questa storia terribile?
Rabbia? Amarezza? Tristezza? Sta a te trasmettere
queste sensazioni, perciò riproviamoci, ma questa volta
con delle emozioni. Puoi farlo?»
«Ci provo.»
«Vai, Slade. Allora, Nathan, quando hai saputo che tuo
fratello era morto?»
«La mattina dopo, in prigione, è venuto da me un vice
con dei documenti da compilare. Io gli ho chiesto di Gene
e lui mi ha risposto: “Tuo fratello è morto. Ha tentato di
fuggire e gli agenti della DEA gli hanno sparato”. Proprio
così. Nessuna comprensione, nessun riguardo, niente.»
Nathan tace e deglutisce a fatica. Le labbra cominciano a
tremargli e ha gli occhi umidi. Da dietro la videocamera, gli
faccio segno alzando i pollici. Nathan continua: «Non
sapevo cosa dire. Ero sotto shock. Gene non ha cercato di
scappare. Gene è stato assassinato». Si asciuga una
lacrima con il dorso della mano. «Mi dispiace» aggiunge
sottovoce. Il ragazzo soffre davvero. Non sta recitando, le
sue sono emozioni autentiche.
«Stop» ordino, e facciamo una pausa. Gwen si precipita
da Cooley con una spazzola e una manciata di fazzolettini
di carta. «Bello, veramente bello» commenta. Nathan si
alza in piedi e si avvicina al torrente, perso nei suoi
pensieri. Dico a Slade di ricominciare a girare.
Passiamo tre ore sul posto, girando e rigirando scene
che mi invento su due piedi. Per l’una siamo tutti stanchi e
affamati. Troviamo un fast food a Bluefield e ci rimpinziamo
di hamburger e patatine fritte. Nel viaggio di ritorno a
Radford, Nathan, Gwen e io restiamo in silenzio finché non
ordino alla mia assistente di chiamare Tad Carsloff, uno
dei miei soci a Miami. Il nome Carsloff è stato fatto dalla
segretaria della CRS quando, due giorni fa, Nathan ha
chiamato il numero della nostra sede.
Fingendo una conversazione, Gwen dice: «Salve, Tad,
sono Gwen. Benissimo, grazie, e tu? Sì, be’, adesso
stiamo tornando a Radford con Nathan. Abbiamo passato
la mattinata nel posto dove hanno ucciso suo fratello:
materiale davvero impressionante. Nathan ha fatto un
lavoro fantastico come narratore. Non ha bisogno di
copione, è un talento naturale». Rubo un’occhiata a Cooley
che siede al volante. Non riesce a trattenere un sorriso
compiaciuto.
Gwen continua il suo dialogo a senso unico. «Sua
madre?» Pausa. «Non è ancora dei nostri. Nathan dice
che non vuole saperne del film e che non lo approva. Reed
vuole riprovarci domani.» Un’altra pausa. «Sta pensando
di andare nella loro cittadina per filmare la tomba, parlare
con i vecchi amici, magari con qualche collega, sai, quel
tipo di cose.» Silenzio, mentre Gwen ascolta concentrata il
nulla. «Sì, le cose non potrebbero andare meglio. Reed è
felicissimo di questi primi due giorni di riprese e Nathan è
una persona meravigliosa con cui lavorare. Ti ripeto: roba
davvero impressionante. Reed dice che ti richiamerà nel
pomeriggio. Ciao.»
Viaggiamo in silenzio per qualche chilometro mentre
Nathan si bea delle lodi. Poi chiede: «Quindi domani
andiamo a Willow Gap?».
«Sì. Ma tu non sei obbligato a venire, se non ne hai
voglia» rispondo. «Immagino che dopo due giorni tu ne
abbia già abbastanza di questa storia.»
«Allora hai già finito con me?» domanda Cooley con
voce triste.
«Oh, no. Dopodomani torno a Miami e per qualche
giorno mi studio il materiale. Cominceremo l’editing,
cercando di accorciare un po’ il tutto. E poi, tra un paio di
settimane, quando potrai lavorare con noi, torneremo per
un altro giro di riprese.»
«Hai detto a Nathan dell’idea di Tad?» mi domanda
Gwen da dietro.
«No, non ancora.»
«A me sembra brillante» dice Gwen.
«Di cosa si tratta?» chiede Nathan.
«Tad è il miglior editor della nostra società. Lui e io
lavoriamo insieme su tutto. Dato che questo film riguarda
tre o quattro diverse famiglie, tre o quattro diversi omicidi,
Tad ha suggerito l’idea di riunirvi tutti nello stesso posto,
nello stesso momento, e di lasciare semplicemente che le
videocamere vi riprendano. Vi mettiamo in una stanza, in
un ambiente molto confortevole, e lasciamo che la
conversazione fluisca. Niente copione, niente regia: solo i
fatti nudi e crudi, nella loro brutalità. Come ti ho detto,
abbiamo svolto ricerche su una decina di casi e tutti
presentano grosse similitudini. Sceglieremo i tre o quattro
migliori...»
«Il tuo è il migliore in assoluto» interviene Gwen.
«Lasceremo che voi, le vittime, confrontiate le vostre
storie. Tad è convinto che sarebbe qualcosa di
incredibilmente forte.»
«Ha ragione» cinguetta Gwen. «A me piacerebbe
molto.»
«Tendo a essere d’accordo» dico.
«Dove ci dovremmo riunire?» chiede Nathan,
praticamente già a bordo.
«Non abbiamo ancora deciso, ma è probabile che sarà
a Miami.»
«Nathan, sei mai stato a South Beach?» domanda
Gwen.
«No.»
«Oh, ragazzi! Per un trentenne single... Non vorrai più
riTeilire. Ci sono Teily non stop e le ragazze sono... Tu
come le descriveresti, Reed?»
«Non le ho notate» rispondo, come da copione.
«Già. Diciamo solo che sono belle e sexy.»
«Qui non si tratta di divertirsi» rimprovero la mia
assistente. «Potremmo anche organizzare l’incontro
nell’area di Washington, il che probabilmente sarebbe più
comodo per le famiglie.»
Nathan non dice niente, ma io so che il suo voto è per
South Beach.
Vanessa e io passiamo il pomeriggio in una stanza
d’albergo a Pulaski, Virginia, mezz’ora d’auto a sudovest
di Radford. Controlliamo i miei appunti di Fort Carson e
cerchiamo ansiosamente di capire che cosa possa aver
insospettito Nathan. Sentirlo pronunciare il nome di
Malcolm Bannister è stato raggelante, adesso dobbiamo
capire perché è successo. Malcolm si stringeva il naso tra
pollice e indice quando pensava. Picchiettava la punta
delle dita quando ascoltava. Inclinava leggermente la testa
verso destra quando era divertito. Abbassava il mento
quando era scettico. Premeva l’indice della mano destra
sulla tempia destra quando una conversazione lo annoiava.
«Tieni le mani ferme e lontane dalla faccia» mi consiglia
Vanessa. «E parla con voce più profonda.»
«Era troppo alta?»
«Tende a tornare normale quando parli molto. Cerca di
tacere di più. Meno parole.»
Discutiamo su quanto possano essere allarmanti le
perplessità di Cooley. Vanessa è convinta che il ragazzo
sia completamente con noi e che non veda l’ora di una gita
a Miami. È certa che nessuno del mio passato potrebbe
riconoscermi. Tendo a essere d’accordo con lei, ma sono
ancora sconvolto dall’innegabile realtà di Nathan che
pronuncia il mio vecchio nome. Sono quasi sicuro di avere
notato un luccichio nei suoi occhi quando lo ha fatto, come
per dire: “Io so chi sei e so perché sei qui”.
32
Nathan insiste per venire con noi a Willow Gap, la cittadina
dove è nato, così ci avventuriamo fra le montagne per la
seconda mattina di seguito. Mentre Nathan guida, Gwen gli
parla estasiata delle reazioni a Miami. Lo informa che Tad
Carsloff e altri importanti personaggi in sede hanno
visionato le nostre riprese e sono più che entusiasti. Sono
entusiasti di Nathan in video e sono convinti che
rappresenti il punto di svolta. Cosa ancora più importante,
uno dei nostri principali investitori è in visita a Miami e per
puro caso ha visto il filmato dalla Virginia. È rimasto
talmente colpito che si è detto disposto a raddoppiare
l’investimento. Quell’uomo vale una montagna di denaro e
ritiene che il film dovrebbe avere una durata di almeno
novanta minuti. Potrebbe portare all’incriminazione di
gente della DEA. E sarebbe uno scandalo come a
Washington non se ne sono mai visti.
Ascolto queste chiacchiere mentre sono al telefono e sto
teoricamente parlando con la nostra sede centrale. Non c’è
nessuno all’altro capo della linea. Ogni tanto emetto un
grugnito e faccio un’osservazione profonda, ma perlopiù
ascolto, medito assorto e do l’impressione che il processo
creativo può essere gravoso. Lancio un’occhiata a Nathan.
Il ragazzo è con noi.
Mentre facevamo colazione, Gwen ha sottolineato di
nuovo che devo parlare il meno possibile, lentamente e con
voce profonda, e che devo tenere le mani lontano dalla
faccia. Sono lieto di lasciare parlare lei, cosa che sa fare
benissimo.
Gene Cooley è sepolto dietro una chiesa di campagna
abbandonata, in un piccolo cimitero pieno di erbacce che
conta un centinaio di tombe. Dico a Slade e a Cody che
voglio parecchie inquadrature della tomba e dell’area
circostante, poi mi allontano per un’altra telefonata
importante. Nathan, ormai del tutto attore e pieno di sé,
propone di inginocchiarsi di fianco alla tomba, e a Gwen
l’idea sembra fantastica. Io annuisco da lontano, mentre
continuo a sussurrare a nessuno con il cellulare premuto
all’orecchio. Nathan riesce addirittura a produrre qualche
altra lacrima e Slade zuma su di lui per un primo piano.
Per la cronaca, Willow Gap conta cinquecento abitanti,
che però non troverete mai. Il centro città è una viuzza
appena un po’ cresciuta, con quattro edifici cadenti e un
emporio con annesso ufficio postale. C’è qualche persona
in giro e Nathan diventa nervoso. Conosce questa gente e
non vuole essere visto insieme a una troupe
cinematografica. Mi spiega che quasi tutti gli abitanti,
compresi i suoi familiari e amici, vivono fuori città, lungo
strette piste sterrate nelle profondità delle valli. È gente
sospettosa per natura, e adesso capisco perché Cooley
ha voluto accompagnarci.
Le scuole che Nathan e Gene hanno frequentato non
sono qui: i bambini di Willow Gap si fanno un’ora di
autobus tutti i giorni. «Così è stato più facile decidere di
mollare» dice, quasi a se stesso. Anche se con riluttanza,
ci mostra il minuscolo cottage di quattro stanze, ora
abbandonato, dove lui e suo fratello hanno abitato per circa
un anno. «È l’ultimo posto dove ricordo di avere vissuto
con mio padre. Io avevo circa sei anni, mi pare, per cui
Gene doveva averne più o meno dieci.»
Lo convinco a sedersi sugli scalini rotti dell’ingresso e a
parlare, rivolto alla videocamera, di tutti i posti dove ha
vissuto insieme a Gene. Per un momento Cooley
dimentica tutto il glamour dell’attore e diventa scontroso.
Gli chiedo di suo padre, ma non vuole saperne. Si infuria,
urla contro di me, e all’improvviso sta recitando di nuovo.
Qualche minuto dopo, Gwen, chiaramente dalla sua Teile e
arrabbiata con me, gli dice che è stato superbo.
Nella cittadina ci sono un paio di chiese, ma i Cooley
non ne frequentavano nessuna. Mentre ci attardiamo
davanti alla baracca, io cammino avanti e indietro, perso in
un tormentato processo creativo. Finalmente chiedo a
Nathan dove abita sua madre. Lui indica una direzione e
dice: «A circa dieci minuti da qui, lungo quella strada, però
non ci andiamo, okay?».
Accetto di malavoglia e mi allontano di nuovo per parlare
al cellulare. Dopo due ore a Willow Gap e dintorni,
abbiamo visto abbastanza. Rendo noto a tutti che non sono
soddisfatto del materiale che abbiamo girato e divento
irritabile. Gwen sussurra a Nathan: «Gli passerà».
«Dov’era il laboratorio di Gene?» domando.
«Non esiste più» risponde Nathan. «È saltato in aria
poco dopo la sua morte.»
«Fantastico» borbotto.
Finalmente ricarichiamo tutta l’attrezzatura e ce ne
andiamo. Pranziamo di nuovo con hamburger e patatine
fritte in un fast food nei pressi di un’uscita dell’interstatale.
Quando siamo di nuovo in viaggio, concludo un’altra
telefonata immaginaria e poi metto il cellulare in tasca. Mi
volto in modo da poter guardare Gwen. È evidente che ho
grandi notizie. «Okay, ecco a che punto siamo. Tad è in
continuo contatto con la famiglia Alvarez in Texas e con la
famiglia Marshak in California. Nathan, forse ricorderai che
ti ho parlato di questi due casi. Il ragazzo Alvarez è stato
ucciso con quattordici colpi d’arma da fuoco da agenti
della DEA. Il ragazzo Marshak dormiva nella sua stanza al
college quando hanno fatto irruzione e gli hanno sparato
prima ancora che si svegliasse. Ti ricordi?»
Nathan annuisce mentre continua a guidare.
«Hanno trovato un cugino nella famiglia Alvarez che
parla un buon inglese e che è disposto a parlare. Mr
Marshak ha fatto causa alla DEA e i suoi avvocati gli hanno
detto di tenere la bocca chiusa, ma lui è veramente
incazzato e vuole rendere pubblica la storia. Tutti e due
possono essere a Miami in questo fine settimana, a nostre
spese naturalmente. Tutti e due, però, hanno un lavoro,
perciò dovremo girare di sabato. Due domande, Nathan:
primo, vuoi venire a Miami per questo lavoro? E, secondo,
puoi farlo con un preavviso così breve?»
«Gli hai detto della DEA?» domanda Gwen prima che
Cooley possa rispondermi.
«Non ancora. L’ho saputo solo questa mattina.»
«Che cosa?» si informa Nathan.
«Credo di averti detto che i nostri avvocati avevano
presentato tutta la documentazione necessaria per
ottenere le copie dei fascicoli della DEA relativi a
determinati casi, compreso quello di Gene. Ieri un giudice
federale di Washington ha deliberato a nostro favore, più o
meno. Possiamo visionare i fascicoli, ma non possiamo
averli in nostro possesso. Per cui la DEA di Washington
manderà le pratiche all’ufficio della DEA di Miami, dove
avremo accesso al materiale.»
«Quando?» vuole sapere Gwen.
«Già lunedì.»
«Nathan, tu vuoi vedere il fascicolo di Gene?» chiede
Gwen, cauta e protettiva.
Cooley non risponde subito, allora intervengo io: «Non ci
faranno vedere tutto, ma ci saranno moltissime fotografie,
rapporti sulla scena del delitto e dichiarazioni di tutti gli
agenti. Probabilmente ci sarà anche la deposizione
dell’informatore che vi ha fatto cadere in trappola. Ci
saranno le perizie balistiche, l’autopsia, le foto. Potrebbe
essere interessante».
Nathan serra le mascelle e dice: «Voglio vedere».
«Quindi, sei dei nostri?» domando.
«Qual è il lato negativo?» chiede Cooley, e la domanda
determina una lunga pausa di riflessione. Poi io dico: «Il
lato negativo? Se stai ancora spacciando, la DEA ti
piomberà addosso come una furia. Ne abbiamo già
parlato».
«Non spaccio. Te lo ripeto.»
«Allora non c’è un lato negativo. Lo farai per Gene e per
tutte le vittime d’omicidio della DEA. Lo farai per la
giustizia.»
«E South Beach ti piacerà da morire» aggiunge Gwen.
Concludo l’affare dicendo: «Possiamo Teilire domani
pomeriggio da Roanoke, volare dritto a Miami, girare
sabato, continuare domenica e vedere i fascicoli della DEA
lunedì mattina. Lunedì sera sarai già a casa».
«Credevo che il jet ce l’avesse Nicky a Vancouver»
osserva Gwen.
«È così, ma sarà qui domani pomeriggio.»
«Tu hai un jet?» chiede Nathan, e mi guarda in totale
sbalordimento.
Per Gwen e me la domanda è divertente. Rido e
rispondo: «Non mio personale, ma la nostra società ne ha
uno in affitto. Noi viaggiamo moltissimo e a volte un jet
privato è l’unico modo per riuscire a lavorare».
«Io non posso Teilire domani» ci informa Gwen,
controllando i suoi impegni sull’iPhone. «Sarò a
Washington, ma posso essere a Miami sabato. Non mi
voglio perdere le tre famiglie nella stessa stanza, nello
stesso momento. Incredibile.»
«E il tuo bar?» domando a Nathan.
«Sono io il proprietario» ribadisce soddisfatto. «Ho un
ottimo gestore. E poi mi piacerebbe davvero andare fuori
città per qualche giorno. Il bar significa lavorare dieci,
dodici ore al giorno, sei giorni la settimana.»
«E il tuo agente di controllo per la libertà vigilata?»
«Sono libero di viaggiare. Devo solo avvertirlo,
nient’altro.»
«Com’è eccitante» dice Gwen, quasi squittendo di gioia.
Cooley sta sorridendo come un bambino a Natale. Io,
come sempre, sono l’emblema della professionalità.
«Senti, Nathan, devo organizzare tutto immediatamente.
Se andiamo a Miami, bisogna che tu me lo confermi
adesso. Devo telefonare a Nicky per far arrivare il jet e
devo chiamare anche Tad in modo che si occupi dei voli
delle altre famiglie. Sì o no?»
Senza esitare, Nathan risponde: «Sì. Andiamo».
«Perfetto.»
«Reed, quale hotel potrebbe andare bene per Nathan?»
chiede Gwen.
«Non saprei. Sono tutti buoni. Scegli tu.» Digito un
numero sul mio cellulare e do inizio a un’altra
conversazione unilaterale.
«Nathan, vuoi alloggiare sulla spiaggia o a un isolato di
distanza?»
«Dove sono le ragazze?» domanda Cooley, e ride per il
suo incredibile senso dell’umorismo.
«Okay, allora la spiaggia.»
Quando arriviamo a Radford, Nathan Cooley sa già di
avere una prenotazione in uno degli hotel più eleganti del
mondo, in una delle spiagge più trendy del mondo, dove
arriverà a bordo di un jet privato. Il che è solo il minimo per
un vero attore.
Vanessa Teile per una folle corsa in direzione di Reston,
Virginia, nell’area metropolitana di Washington, a circa
quattro ore d’auto. La sua prima destinazione è
un’organizzazione senza nome che occupa alcuni locali in
affitto in un modesto centro commerciale lungo la strada. È
il laboratorio di un gruppo di falsari di talento, in grado di
creare virtualmente ogni documento su due piedi. Sono
specializzati in passaporti, ma per il giusto prezzo possono
fabbricare anche lauree, certificati di nascita, licenze di
matrimonio, ordinanze del tribunale, libretti di circolazione,
notifiche di sfratto, patenti di guida, referenze di credito...
non c’è limite alle loro scelleratezze. Teile di ciò che fanno
è illegale e Teile no. Si fanno spavaldamente pubblicità in
Internet, come del resto un numero stupefacente di loro
concorrenti, ma affermano di scegliere con attenzione le
persone per le quali lavorare.
Li ho trovati parecchie settimane fa dopo
un’approfondita ricerca e, per verificare la loro affidabilità,
ho inviato un assegno della Skelter Films di cinquecento
dollari ordinando un passaporto falso. Il documento è
arrivato in Florida la settimana dopo e sono rimasto
abbagliato dalla sua apparente autenticità. Secondo il tizio
con cui ho parlato al telefono, c’erano ottanta probabilità su
cento che il passaporto superasse senza problemi i
controlli nel caso avessi voluto espatriare. C’erano novanta
probabilità su cento di riuscire a entrare in un qualsiasi
paese dei Caraibi. I problemi, però, sarebbero sorti
qualora avessi tentato di rientrare negli Stati Uniti. Gli ho
assicurato che questo non sarebbe successo, non con il
mio nuovo passaporto falso, comunque. Il tizio mi ha
spiegato che al giorno d’oggi, nell’era del terrore, il servizio
immigrazione degli Stati Uniti si preoccupa molto di più di
chi figura sulla No Fly List che di chi se ne va in giro con
documenti falsi.
Dato che si tratta di un lavoro urgentissimo, Vanessa
scuce mille dollari in contanti e si mette subito al lavoro con
il suo falsario, un genio nervoso e introverso con un nome
strano che rivela con molta riluttanza. Come i suoi colleghi,
lavora in uno stipato cubicolo fortificato, con nessun altro in
vista. L’atmosfera è sospettosa, come se chiunque lì
dentro stesse violando qualche legge e si aspettasse
l’irruzione di una squadra SWAT da un momento all’altro. Ai
falsari non piacciono i clienti che si presentano di persona
e senza preavviso. Preferiscono lo scudo di Internet, in
modo che nessuno veda il loro oscuro lavoro.
Vanessa consegna la memory card della sua macchina
fotografica e insieme al falsario guarda su uno schermo da
venti pollici le foto di un sorridente Nathan Cooley. Ne
scelgono una per il passaporto e la patente e poi si
dedicano ai dati anagrafici: indirizzo, data di nascita
eccetera. Vanessa vuole che i nuovi documenti vengano
intestati a Nathaniel Coley, non Cooley. Come preferisce,
dice il falsario. Non potrebbe importargliene di meno. Nel
giro di pochi minuti si perde in un flusso vertiginoso di
immagini ad alta velocità. Impiega un’ora per produrre un
passaporto statunitense e una patente della Virginia che
ingannerebbero chiunque. La copertina blu di vinile del
passaporto è sufficientemente consunta e il nostro Nathan,
che non ha mai viaggiato molto, adesso ha visitato tutta
l’Europa e buona Teile dell’Asia.
Vanessa si precipita poi a Washington, dove si procura
due kit di pronto soccorso, una pistola e alcune pillole. Alle
otto e mezzo, fa dietro-front e punta verso sud, diretta a
Roanoke.
33
L’aereo è un Challenger 604, uno dei jet privati più belli
disponibili a noleggio. La cabina ospita comodamente otto
poltrone e consente ai passeggeri di altezza inferiore al
metro e ottanta di andarsene in giro senza sfiorare il
soffitto. Nuovo costa intorno ai trenta milioni di dollari,
secondo le informazioni disponibili in rete, ma io non sono
interessato all’acquisto. Mi serve solo un noleggio veloce,
a cinquemila dollari l’ora. Il servizio charter, che si trova
fuori Raleigh, è stato già pagato per intero con un assegno
della Skelter Films su una banca di Miami. Abbiamo
stabilito di decollare da Roanoke alle diciassette di
venerdì; i passeggeri saranno solo due: Nathan e io. Passo
la maggior Teile di venerdì mattina cercando di convincere
il servizio charter che invierò per e-mail le copie dei nostri
passaporti appena riuscirò a trovare il mio. La storia che
racconto è che devo averlo dimenticato da qualche Teile e
che lo sto cercando rivoltando tutto il mio apTeilamento.
Per i voli diretti all’estero, un servizio charter privato deve
comunicare i nomi dei passeggeri ed esibire copie dei
loro passaporti molte ore prima del decollo. Il servizio
immigrazione controlla questi dati e verifica che i
nominativi non compaiano sulla No Fly List. Io so che né
Malcolm Bannister né Max Reed Baldwin figurano
nell’elenco, ma non ho idea di cosa potrà succedere
quando il servizio immigrazione riceverà copia del
passaporto falso di Nathaniel Coley. Così prendo tempo,
sperando e credendo che meno tempo avrà tra le mani
entrambi i passaporti, più potrò avere fortuna. Alla fine
informo il servizio charter di avere trovato il mio
passaporto, ma faccio passare un’altra ora prima di
inviarne la copia per e-mail all’ufficio di Raleigh, insieme a
quella di Nathaniel. Non ho idea di cosa farà il servizio
immigrazione quando riceverà la copia del mio
passaporto. Molto probabilmente il mio nome farà scattare
qualche allarme e l’FBI verrà avvertito. Se sarà così, per
quello che ne so sarà la prima traccia che avranno di me
da quando me ne sono andato dalla Florida, sedici giorni
fa. Ripeto a me stesso che non sarebbe comunque un
problema, dato che non sono né un sospettato né un
evaso. Sono un uomo libero che può viaggiare e andare
dove vuole senza alcuna restrizione, giusto?
Allora perché questo scenario mi innervosisce? Perché
non mi fido dell’FBI.
Accompagno in auto Vanessa al Roanoke Regional
Airport, dove sale su un volo per Miami, via Atlanta. Dopo
averla lasciata, me ne vado in giro finché trovo il piccolo
terminal degli aerei privati. Ho ancora qualche ora da far
passare, così cerco un parcheggio e nascondo la mia Audi
tra due pickup. Telefono a Nathan al bar e gli comunico la
brutta notizia che il volo è stato posticipato. Secondo i
“nostri piloti” c’è qualcosa che non va in una spia di
controllo. Non è un grosso guaio, ma i “nostri tecnici” sono
già al lavoro e dovremmo decollare intorno alle diciannove.
Il servizio charter mi ha inviato per e-mail una copia del
nostro itinerario e il programma prevede che il Challenger
venga “riposizionato” a Roanoke alle quindici. E infatti alle
quindici in punto l’aereo atterra e rulla fino al terminal.
L’avventura che sta per avere inizio mi rende nervoso e,
allo stesso tempo, eccitato. Aspetto mezz’ora e poi
telefono al servizio charter a Raleigh per spiegare che sarò
in ritardo e mi presenterò verso le diciannove.
Le ore passano e devo combattere la noia. Alle diciotto
entro nel terminal, mi informo in giro e vado a presentarmi
a uno dei piloti, Devin. Sfodero tutto il mio fascino e
comincio a chiacchierare con lui come se fossimo vecchi
amici. Gli spiego che il mio co-passeggero, Nathan, è il
soggetto di uno dei miei film e che stiamo andando a
divertirci al mare per qualche giorno. Non conosco molto
bene il ragazzo. Devin mi chiede il passaporto e io glielo
consegno. Senza farsi troppo notare, il pilota controlla la
mia faccia e la foto. Tutto bene. Io chiedo di dare
un’occhiata all’aereo.
Will, l’altro pilota, sta leggendo un quotidiano nella
cabina di pilotaggio quando, per la prima volta in vita mia,
metto piede all’interno di un jet privato. Stringo la mano a
Will come farebbe un politico ed esprimo qualche
commento sull’incredibile assortimento di schermi,
interruttori, strumenti, quadranti, indicatori eccetera. Devin
mi mostra il resto dell’aereo. Dietro la cabina di pilotaggio
c’è la cucinetta, o cambusa, completa di forno a
microonde, lavandino con acqua calda e fredda, bar,
cassetti con piatti di porcellana e posate e un grande
secchiello pieno di ghiaccio dove c’è già la birra in attesa.
Ho chiesto due marche specifiche, una alcolica e l’altra
analcolica. Dietro uno sportello c’è tutta una collezione di
snack nel caso ci venga fame. Non verrà servita la cena
perché non ho voluto un’hostess a bordo. Quelli del servizio
charter insistevano nel dire che il proprietario dell’aereo
esigeva la presenza di un’assistente di volo, ma io ho
minacciato di annullare tutto. A quel punto hanno ceduto, di
conseguenza su questo volo diretto a sud ci saremo solo
Nathan e io.
La cabina passeggeri è arredata con sei grandi poltrone
di pelle e un piccolo divano, il tutto in morbide sfumature
color terra, molto raffinato. La moquette è costosa e
immacolata. Ci sono almeno tre schermi per i film e, mi
informa Devin con orgoglio, un sistema surround sound.
Dalla cabina passiamo al bagno, poi alla stiva. Io viaggio
leggero e Devin si prende la mia borsa. Esito per un
attimo, come se avessi dimenticato qualcosa. «Nella borsa
c’è qualche DVD di cui potrei avere bisogno» gli spiego.
«Posso andare a prenderla durante il volo?»
«Certo, nessun problema. Anche la stiva è pressurizzata,
per cui c’è libero accesso.»
«Ottimo.»
Trascorro mezz’ora a esaminare l’aereo, poi comincio a
guardare l’orologio come se fossi irritato dal ritardo di
Nathan.
«È un ragazzo di montagna» spiego a Devin mentre ci
sediamo in cabina. «Dubito che sia mai salito su un aereo
prima d’ora. Diciamo che è un po’ rustico.»
«Che tipo di film sta girando?» chiede il pilota.
«Un documentario. Il business della metanfetamina in
Appalachia.»
Devin e io torniamo al terminal e continuiamo ad
aspettare. Ho dimenticato qualcosa in auto ed esco
dall’edificio. Pochi minuti dopo vedo arrivare il pickup
nuovo di Nathan. Cooley parcheggia rapidamente e poi
salta giù dal veicolo, ansioso. Indossa jeans tagliati al
ginocchio, scarpe da corsa Nike bianche, niente calzini, un
berretto con visiera da camionista e, ciliegina sulla torta,
una camicia hawaiana a fiori rosa e arancione, con i primi
due bottoni aperti. Afferra una rigonfia borsa da palestra
Adidas dal retro del pickup e si avvia verso il terminal. Lo
intercetto e ci salutiamo dandoci la mano. Nell’altra stringo
alcuni fogli.
«Mi dispiace per il ritardo» dico «ma adesso l’aereo è
qui e pronto a Teilire.»
«Nessun problema.» Gli occhi di Nathan sono acquosi.
Colgo una zaffata di birra stantia. Splendido!
Lo accompagno all’interno del terminal e fino al
bancone, dove Devin sta flirtando con l’impiegata. Faccio
avvicinare Nathan alle finestre e gli indico il Challenger. «È
il nostro» annuncio con orgoglio. «Almeno per questo
weekend.» Cooley sta guardando l’aereo a bocca aperta
quando si avvicina Devin, al quale passo velocemente il
passaporto falso di Cooley. Il pilota dà un’occhiata alla foto
e poi a Nathan, che proprio in quel momento si volta dalla
vetrata. Lo presento a Devin, che mi rende il passaporto e
dice: «Benvenuti a bordo».
«Siamo pronti a Teilire?» domando.
«Venite con me» risponde Devin. E, mentre usciamo dal
terminal, dico: «Spiaggia, stiamo arrivando».
Una volta a bordo, Devin prende la borsa da palestra e
la sistema nella stiva. Nathan si lascia cadere su una delle
poltrone di pelle e si guarda intorno ammirato. Io sono in
cambusa e sto preparando il primo giro di birre: vera per
Nathan, analcolica per me. Una volta versate in boccali
ghiacciati non c’è modo di notare la differenza.
Chiacchiero con Devin mentre ci illustra le procedure di
emergenza, preoccupato che possa accennare alla nostra
destinazione. Non lo fa e, quando si ritira nella cabina di
pilotaggio e si allaccia la cintura, faccio un sospiro di
sollievo. Devin e Will mi mostrano il pollice alto e
accendono i motori.
«Alla salute» dico a Nathan. Facciamo cincin e beviamo
un sorso. Apro il tavolino di mogano tra di noi.
Mentre il jet comincia a rullare, domando: «Ti piace la
tequila?».
«Accidenti, sì!» risponde Cooley, già animale da Teily.
Scatto in piedi, vado in cambusa, afferro una bottiglia di
Cuervo Gold da un litro e due bicchierini da liquore e poso
il tutto sul tavolino. Verso la tequila nei bicchierini, li
svuotiamo e facciamo seguire altra birra. Al momento del
decollo mi sento già molto euforico. Appena si spegne il
segnale luminoso delle cinture di sicurezza, verso altra
birra, poi altra tequila. Tequila e birra, birra e tequila.
Riempio i vuoti nella conversazione con chiacchiere sul film
e sull’eccitazione dei nostri soci finanziari. Ben presto
questi discorsi annoiano Nathan, così lo informo che
abbiamo in programma una cena in tarda serata e che una
delle signorine presenti ha un’amica, forse la ragazza più
sexy di South Beach. Ha visto Teile delle nostre riprese e
vuole conoscere Nathan. «Hai portato dei pantaloni
lunghi?» gli domando.
Presumo che la borsa Adidas sia piena di capi raffinati
più o meno come quelli che sto vedendo.
«Oh, certo. Ho portato roba di ogni tipo» mi risponde
Cooley, la lingua sempre più impastata.
Quando la bottiglia di Cuervo Gold è vuota per metà,
guardo la mappa avanzamento volo sullo schermo e
annuncio: «Ancora un’ora e siamo a Miami. Bevi». Ci
spariamo un altro bicchierino e poi io vuoto il mio boccale
di analcolica. Peso almeno dieci chili più di Nathan, metà
di quello che bevo è analcolico e tuttavia ho già la vista
annebbiata quando sorvoliamo Savannah da un’altezza di
undicimila metri. Nathan si sta sbronzando di brutto.
Io continuo a versare e lui non dà segno di voler
rallentare. Mentre sorvoliamo il mio vecchio territorio di
Neptune Beach, preparo il giro finale. Lascio cadere nel
boccale di birra di Nathan due compresse di idrato di
cloralio da cinquanta milligrammi l’una.
«Dritti fino al traguardo!» dico, sbattendo i boccali sul
tavolo. Brindiamo. Io bevo prendendomela comoda e
Nathan vince la gara. Trenta minuti dopo, non è più tra noi.
Seguo i progressi dell’aereo sullo schermo accanto alla
cambusa. Adesso voliamo a dodicimila metri. Miami è già
in vista, ma non cominciamo la discesa. Sollevo Nathan
dalla poltrona e lo trascino fino al divano, sul quale lo
distendo. Gli controllo il polso. Mi verso una tazza di caffè e
guardo Miami svanire sotto di noi.
Poco dopo anche Cuba è alle nostre spalle e dal fondo
dello schermo emerge la Giamaica. I motori riducono la
velocità e l’aereo inizia la sua lunga discesa. Butto giù altro
caffè nel disperato tentativo di schiarirmi la mente. I
prossimi venti minuti saranno cruciali e caotici. Ho un
piano, gran Teile del quale però è al di là del mio controllo.
Il respiro di Nathan è lento e faticoso. Lo scuoto, ma è
privo di sensi. Dalla tasca destra dei suoi shorts troppo
stretti estraggo il portachiavi. Oltre a quella del pickup, ci
sono altre sei chiavi di vario tipo e dimensione. Sono certo
che due aprono le porte di casa sua. Forse altre due o tre
sono del Bombay’s. Nella tasca sinistra trovo un’ordinata
mazzetta di contanti, circa cinquecento dollari, e una
confezione di chewing gum. Dalla tasca posteriore sinistra
estraggo il portafoglio, un dozzinale esemplare di finta
pelle a tre scomTeili con la chiusura in velcro. È piuttosto
voluminoso. Faccio l’inventario e capisco il perché. Il nostro
giocherellone è Teilito con una scorta di otto preservativi.
Ci sono anche dieci banconote da cento dollari nuove di
zecca, una patente della Virginia, due tessere del
Bombay’s, un biglietto da visita del suo agente di controllo
per la libertà vigilata e uno di un fornitore di birra. Nathan
non ha carte di credito, probabilmente a causa dei suoi
recenti cinque anni in galera e della mancanza di un vero
lavoro. Lascio i contanti al loro posto, non tocco i
preservativi e prelevo tutto il resto. Sostituisco la patente
valida con quella falsa e restituisco a Nathaniel Coley il suo
portafoglio. Poi gli sistemo delicatamente il passaporto
falso nella tasca posteriore destra. Lui non si muove di un
millimetro, non si accorge di niente.
Vado in bagno e chiudo la porta a chiave. Apro la stiva,
tiro la lampo della mia borsa ed estraggo due buste di
nylon con la scritta PRONTO SOCCORSO. Sistemo le buste in
fondo alla borsa di Nathan e poi richiudo entrambe le
borse. Esco dal bagno, raggiungo la cabina di pilotaggio,
scosto la tenda nera e mi sporgo in avanti per richiamare
l’attenzione di Devin. Lui si toglie subito la cuffia e io gli
dico: «Senti, il nostro amico ci ha dato dentro con il bere e
ora è privo di sensi. Non dà segno di vita e il polso mi
sembra molto debole. Appena atterriamo credo che
avremo bisogno di assistenza medica». Will sente tutto
nonostante la cuffia, e per una frazione di secondo lui e
Devin si fissano. Se non fossero impegnati nella discesa,
uno dei due probabilmente si alzerebbe per dare
un’occhiata a Nathan.
«Okay» dice finalmente Devin, e io torno da Cooley, che
giace quasi in rigor mortis, però con il cuore che batte.
Cinque minuti dopo torno in cabina di pilotaggio e
comunico che il passeggero respira, ma che non riesco a
svegliarlo. «Quell’idiota si è scolato un litro di tequila in
meno di due ore.» I due piloti scuotono entrambi la testa.
Atterriamo a Montego Bay e rulliamo accanto a una fila
di aerei di linea fermi ai gate del terminal principale. Più a
sud, vedo tre jet parcheggiati davanti al terminal dei voli
privati. Ci sono veicoli di emergenza con le luci rosse
lampeggianti, tutti in attesa di Nathan. Avrò bisogno del
caos per scomparire. Sono ben lungi dall’essere sobrio,
ma è scattato l’effetto dell’adrenalina e riesco a pensare
con lucidità.
Appena spenti i motori, Devin scatta in piedi e va ad
aprire il portellone. Ho già sistemato la mia valigetta e la
borsa sulla poltrona, pronto a cogliere al volo l’occasione,
ma sto anche fingendo di occuparmi di Nathan. «Aspetti
l’immigrazione» mi dice Devin.
«Certo» rispondo.
Due funzionari giamaicani dall’aria cupa compaiono in
cabina e mi guardano torvi. «Passaporto, prego» dice uno
dei due. Glielo consegno. Lui dà un’occhiata e ordina:
«Scenda dall’aereo, per favore». Mi affretto a scendere la
scaletta, e una volta a terra un altro funzionario mi invita ad
aspettare.
Due medici salgono a bordo, presumibilmente per
occuparsi di Nathan. Un’ambulanza si avvicina a marcia
indietro alla scaletta, poi arriva un’auto della polizia con i
lampeggianti accesi, ma senza sirena. Faccio un passo
indietro, poi un altro. C’è una discussione sul modo
migliore per sbarcare il paziente dall’aereo e ognuno –
medici, funzionari e poliziotti – sembra avere un’opinione
diversa. Alla fine decidono di non usare la lettiga, per cui
Nathan è sostanzialmente trascinato fuori e passato di
mano lungo la scaletta. È un peso morto, e se superasse
sessanta chili l’intera operazione sarebbe a rischio. Mentre
viene caricato sull’ambulanza compare anche la sua borsa
da palestra, e un funzionario dell’immigrazione interroga
Devin in proposito. Il pilota si assicura che le autorità siano
informate che la borsa Adidas apTeiliene al passeggero
privo di sensi. Finalmente questa viene caricata in
ambulanza insieme a Nathan.
«Io adesso dovrei andare» dico al funzionario più vicino,
che mi indica una porta del terminal privato. Entro nel
momento stesso in cui Teile l’ambulanza di Nathan. Il mio
passaporto viene timbrato e valigetta e borsa vengono
controllate. Un doganiere mi chiede di aspettare nell’atrio;
mentre seguo le sue indicazioni, vedo Devin e Will
impegnati in un’accesa discussione con le autorità
giamaicane. Probabilmente avrebbero qualche domanda
difficile per me, ma io preferisco evitarle. Un taxi si ferma
sotto la terrazza davanti all’ingresso principale. Il vetro del
finestrino posteriore si abbassa e vedo la mia cara
Vanessa che mi sollecita a salire con gesti frenetici.
Aspetto che non ci sia nessuno vicino a me, poi esco dal
terminal e salto a bordo del taxi, che si allontana veloce.
Vanessa ha preso una stanza in un hotel a buon
mercato, a cinque minuti d’auto dal terminal. Dal nostro
balcone al terzo piano vediamo l’aeroporto e i jet che
decollano e atterrano. Possiamo sentirli stando distesi sul
letto. Siamo entrambi esausti, abbiamo esaurito il
carburante e andiamo avanti per inerzia, ma dormire è
fuori questione.
34
Sabato mattina Victor Westlake avrebbe voluto dormire
fino a tardi, ma dopo la seconda telefonata si alzò dal letto
e si preparò il caffè. Stava contemplando la possibilità di
un sonnellino sul divano quando arrivò la terza telefonata,
che lo scosse definitivamente e spazzò via la sonnolenza
residua. Chi chiamava era un assistente di nome Fox, al
momento addetto alla pratica Bannister/Baldwin e in attesa
di qualcosa da monitorare. Non c’era stato nemmeno un
sussurro in più di due settimane.
«La segnalazione è arrivata dal servizio immigrazione»
stava dicendo Fox. «Baldwin è Teilito ieri pomeriggio da
Roanoke a bordo di un jet privato diretto in Giamaica.»
«Un jet privato?» ripeté Westlake, pensando ai
centocinquantamila dollari della ricompensa e chiedendosi
quanto sarebbero durati, se Baldwin se li bruciava in quel
modo.
«Sì, signore. Un Challenger 604, noleggiato da una
società di Raleigh.»
Westlake rifletté per un momento. «Chissà cosa ci
faceva a Roanoke. Strano.»
«Sì, signore.»
«Non era già stato in Giamaica qualche settimana fa?
Nel suo primo viaggio all’estero?»
«Sì, signore. Baldwin era Teilito da Miami per Montego
Bay, dove ha trascorso qualche giorno per poi andare ad
Antigua.»
«Immagino che gli piacciano le isole» osservò Westlake
mentre si versava altro caffè. «È solo?»
«No, signore. È insieme a un certo Nathaniel Coley, o
almeno questo è il nome che compare sul passaporto.
Comunque sembra che questo Coley stia viaggiando con
un passaporto falso.»
Westlake posò la tazza di caffè intatta su un ripiano e
cominciò a camminare avanti e indietro nella cucina.
«Questo tizio ha superato i controlli del servizio
immigrazione con un passaporto falso?»
«Sì, signore. Ma tenga presente che si trattava di un
aereo privato e i funzionari dell’immigrazione non hanno
esaminato il passaporto vero e proprio. Avevano solo la
copia inviata dal servizio charter e hanno semplicemente
controllato che il nominativo non figurasse nella No Fly List.
È la prassi.»
«Ricordami che dobbiamo rivedere questa prassi.»
«Sì, signore.»
«Quindi, Fox, la domanda è: cosa sta combinando
Baldwin? Perché noleggia un jet privato? Perché viaggia
con un uomo che usa un passaporto falso? Puoi
rispondere a queste domande? E in fretta?»
«Se questi sono i miei ordini, sì, signore. Ma sono sicuro
che non ho bisogno di ricordarle quanto siano suscettibili i
giamaicani.»
«No, non ne hai bisogno.» Nella guerra alla droga non
tutte le battaglie venivano combattute tra poliziotti e
trafficanti. Era da tempo che i giamaicani, come molte altre
forze dell’ordine caraibiche, si sentivano offesi e irritati
dall’atteggiamento dittatoriale dei funzionari statunitensi.
«Mi metto subito al lavoro» disse Fox. «Però è sabato,
sia qui che in Giamaica.»
«Presentati nel mio ufficio lunedì mattina presto. Con
qualcosa, okay?»
«Sì, signore.»
Nathan Cooley si svegliò in una stanzetta priva di finestre,
completamente buia a eccezione della tenue luce rossa di
un monitor sul tavolino accanto a lui. Era disteso su quello
che sembrava un letto di ospedale, stretto e con le sponde
alte. Alzò lo sguardo e vide una sacca piena di liquido, poi
con gli occhi seguì il tubicino che scendeva fino al dorso
della mano sinistra e scompariva sotto una garza bianca.
“Okay, sono in ospedale.”
Sentiva la bocca secca e la testa cominciò a martellargli
appena cercò di pensare. Guardò in basso e vide che ai
piedi aveva ancora le sue Nike da corsa. Loro, chiunque
fossero, non si erano presi il disturbo di coprirlo o di fargli
indossare un camice da paziente. Richiuse gli occhi e,
lentamente, la nebbia cominciò a diradarsi. Gli vennero in
mente i bicchierini di tequila, gli infiniti boccali di birra, la
follia di Reed Baldwin mentre si ubriacavano insieme.
Ricordò che aveva già bevuto qualcosa nel suo bar venerdì
pomeriggio, mentre aspettava di andare all’aeroporto per
volare a Miami. Doveva essersi fatto almeno dieci birre e
dieci bicchierini di tequila. Che idiota! Era svenuto e
adesso si ritrovava attaccato a una flebo. Avrebbe voluto
alzarsi e muoversi, ma gli sembrava che la testa urlasse e
gli occhi gli sanguinassero. “Non muoverti” si disse.
Ci fu un rumore alla porta e poi si accese una luce.
Un’infermiera alta e molto nera, in una divisa bianca
immacolata, entrò nella stanza. «Bene, Mr Coley, è ora di
andare. Sono venuti dei signori a prenderla.» La lingua era
l’inglese, ma l’accento era strano. Nathan stava per
chiedere: “Dove mi trovo?” quando entrarono tre agenti in
uniforme che sembravano pronti a pestarlo. Tutti e tre
erano neri, molto scuri. «Ma cosa diavolo...?» riuscì a dire
Nathan, mettendosi a sedere. L’infermiera staccò la flebo e
scomparve, chiudendosi la porta alle spalle. L’agente più
anziano si fece avanti e mostrò un distintivo. «Capitano
Fremont, polizia giamaicana» annunciò, proprio come in
televisione.
«Dove mi trovo?» chiese Nathan.
Fremont sorrise, e lo stesso fecero i due agenti dietro di
lui. «Non sa dove si trova?»
«Dove sono?»
«Lei è in Giamaica, a Montego Bay. In ospedale, per il
momento, ma tra non molto nel carcere della città.»
«Come sono arrivato in Giamaica?» domandò Cooley.
«Su un jet privato. Molto bello, tra l’altro.»
«Ma io dovrei essere a Miami, a South Beach. Ci
dev’essere un errore, capite? Ma cos’è? Uno scherzo o
cosa?»
«Le sembriamo gente in vena di scherzare, Mr Coley?»
Nathan pensò che era strano il modo in cui quei
giamaicani pronunciavano il suo cognome.
«Perché ha cercato di entrare in Giamaica con un
passaporto falso, Mr Coley?»
Nathan frugò nella tasca posteriore degli shorts e si
accorse che il portafoglio era scomparso. «Dov’è il mio
portafoglio?»
«In nostra custodia, insieme a tutto il resto.»
Nathan si massaggiò le tempie e lottò contro l’impulso di
vomitare.
«Giamaica? Cosa diavolo ci faccio in Giamaica?»
«Vorremmo farle anche noi la stessa domanda, Mr
Coley.»
«Passaporto? Quale passaporto? Io non ho mai avuto
un passaporto.»
«Glielo mostreremo più tardi. È una violazione delle
leggi giamaicane tentare di entrare nel nostro paese con
un passaporto falso, Mr Coley. Nelle attuali circostanze,
tuttavia, lei è in guai molto più seri.»
«Dov’è Reed?»
«Prego?»
«Reed Baldwin. Quello che mi ha portato qui. Trovatelo e
lui vi spiegherà tutto.»
«Mai visto questo Reed Baldwin.»
«Be’, dovete trovarlo, okay? È nero, come voi. Reed può
chiarire ogni cosa. Insomma, siamo Teiliti da Roanoke ieri
sera verso le sette. Forse abbiamo bevuto un po’ troppo.
Eravamo diretti a Miami, a South Beach, dove dovevamo
lavorare al suo documentario. Parla di mio fratello Gene,
sapete? Comunque, qui è stato commesso un grosso
errore. Noi dovremmo essere a Miami.»
Fremont si voltò lentamente verso i suoi colleghi. Gli
sguardi che si scambiarono i tre lasciavano pochi dubbi sul
fatto che fossero convinti di avere a che fare con un idiota
in stato confusionale.
«Carcere? Lei ha parlato di carcere?» chiese Nathan.
«La sua prossima fermata, amico mio.»
Cooley si premette le mani sullo stomaco e la bocca gli
si riempì di vomito. Fremont gli passò rapidamente un
cestino dei rifiuti e poi fece un passo indietro per non
correre rischi. Nathan vomitò, sussultò, boccheggiò e
imprecò per cinque minuti, durante i quali i tre poliziotti si
studiarono gli stivali o ammirarono il soffitto. Quando
l’attacco ebbe misericordiosamente termine, Nathan si
alzò in piedi e posò il cestino sul pavimento. Si pulì la
bocca con un fazzolettino di carta trovato sul tavolo e bevve
un sorso d’acqua. «Per favore, spiegatemi cosa sta
succedendo» disse con voce gracchiante.
«Lei è in arresto, Mr Coley» dichiarò Fremont.
«Violazione delle leggi sull’immigrazione, importazione di
sostanze stupefacenti e detenzione illegale di un’arma da
fuoco. Come mai ha pensato di poter entrare in Giamaica
con quattro chili di cocaina pura e una pistola?»
La mascella di Nathan crollò. La bocca era aperta, ma
ne uscì solo aria calda. Cooley socchiuse gli occhi,
aggrottò la fronte, implorò con lo sguardo e tentò di nuovo
di parlare. Niente. Poi, finalmente, riuscì a emettere un
debole: «Che cosa?».
«Non faccia l’ingenuo, Mr Coley. Dove aveva intenzione
di andare? In uno dei nostri famosi resort per una
settimana di sesso e droga? Era tutta per uso personale o
intendeva venderne un po’ ad altri ricchi americani?»
«È uno scherzo, vero? Dov’è Reed? Va bene, fine del
divertimento. Ah-ah. Ora fatemi uscire di qui.»
Fremont sganciò un paio di manette dal suo grosso
cinturone.
«Si volti, signore. Mani dietro la schiena.»
«Reed!» gridò all’improvviso Nathan. «Reed! So che sei
lì fuori! Piantala di ridere, stronzo, e di’ a questi pagliacci di
piantarla!»
«Si volti, signore» ripeté Fremont, ma Cooley non ubbidì
e riprese a strillare a voce ancora più alta: «Reed! Te la
farò pagare! Bello scherzo! Guarda che ti sento ridere, là
fuori!».
Gli altri due agenti si fecero avanti e gli afferrarono un
braccio per uno. Nathan capì che opporre resistenza non
avrebbe funzionato. Una volta ammanettato, i poliziotti lo
condussero nel corridoio. Cooley prese a girare
freneticamente su se stesso, cercando Reed o chiunque
potesse presentarsi e mettere fine a tutta quella storia.
Passarono davanti a stanze con le porte aperte, spazi
piccoli con due o tre letti così vicini che quasi si toccavano.
Passarono davanti a pazienti comatosi su lettighe
addossate alle pareti, a infermiere che scrivevano su
cartelle di malati e a inservienti che guardavano la
televisione. “Sono tutti neri” si disse Nathan. “Sono davvero
in Giamaica.” Gli fecero scendere una rampa di scale e
varcare una porta. Appena uscì nell’aria densa e nel sole
splendente, Nathan capì di trovarsi in territorio straniero e
ostile.
Un taxi riporta Vanessa all’aeroporto, dove salirà sul volo
delle nove e quaranta diretto ad Atlanta. Secondo il
programma, arriverà a Roanoke questa sera alle sei e
cinquanta. Raggiungerà Radford in auto e scenderà in un
motel. Io la raggiungerò solo tra qualche giorno.
Prendo un altro taxi e raggiungo il centro di Montego
Bay. A differenza di Kingston, la capitale, che risale a
trecento anni fa, Montego Bay è una città nuova che si è
sviluppata a mano a mano che resort, hotel, condominii e
villaggi dello shopping si sono spinti verso l’interno, lontano
dall’oceano, e alla fine si sono congiunti alle abitazioni.
Non esiste un ampio corso principale, né una piazza e
neppure un imponente tribunale in centro. Gli edifici
governativi sono sparsi su un’ampia area, come la
maggior Teile dei palazzi di uffici. Il tassista si ferma
davanti allo studio legale di Mr Rashford Watley. Pago la
corsa, salgo una rampa di scale e raggiungo un
pianerottolo sul quale si affacciano le piccole stanze di un
branco di avvocati. Mr Watley mi ha spiegato al telefono
che di rado lavora di sabato, ma che farà un’eccezione per
me. Nel suo annuncio sulle Pagine Gialle vanta trent’anni di
esperienza in tutti i tribunali penali. Quando ci stringiamo la
mano, mi accorgo che è piacevolmente sorpreso dal fatto
che anch’io sono nero. Probabilmente pensava che, in
quanto turista americano, fossi come tutti gli altri.
Ci accomodiamo nel suo modesto ufficio e, dopo
qualche chiacchiera di circostanza, vado al punto. Più o
meno. Watley propone di lasciar perdere le formalità e di
darci del tu, così adesso siamo Reed e Rashford. Sbrigo in
fretta la storia del regista, del mio attuale progetto in cui
rientra un certo Nathan Coley e così via, poi comincio a
deviare dal copione. Spiego a Rashford che Nathan e io
siamo venuti in Giamaica per qualche giorno di vacanza. In
aereo Coley si è ubriacato e ha perso conoscenza, cosa
che ha richiesto immediata assistenza medica all’arrivo.
Non ne sono sicuro, ma credo che Nathan volesse
contrabbandare un po’ di droga e che avesse un’arma con
sé. Io sono riuscito a eclissarmi nella confusione. Di
conseguenza ora desidero assumere Rashford per due
ragioni: la prima, e la più importante, perché mi rappresenti
e mi protegga dai guai in cui potrei venire a trovarmi; la
seconda, perché faccia qualche telefonata e manovri un
po’ dietro le quinte per avere notizie di Nathan e delle
accuse nei suoi confronti. Voglio che Rashford vada a
fargli visita in carcere e gli assicuri che sto facendo tutto il
possibile per ottenere il suo rilascio.
Nessun problema, mi assicura l’avvocato. Ci
accordiamo sulla parcella e lo pago in contanti. Rashford si
mette immediatamente al lavoro e telefona ai suoi contatti
all’immigrazione e nella polizia. Non sono in grado di dire
se stia facendo scena a mio beneficio, però di sicuro
conosce un mucchio di gente. Dopo un’ora, mi scuso e
scendo in strada per una bibita. Quando ritorno in studio,
Rashford è ancora al telefono e sta prendendo appunti.
Sto leggendo una rivista nell’ingresso, sotto un rumoroso
ventilatore appeso al soffitto, quando l’avvocato compare e
si siede sulla scrivania della segretaria. La situazione è
seria e lui scuote la testa. «Il tuo amico è in guai grossi»
dice. «Prima di tutto ha cercato di entrare con un
passaporto falso.»
Non mi dire, Rash. Continuo ad ascoltare attento.
«Tu lo sapevi?» domanda.
«Naturalmente no» rispondo. Presumo che Rashford non
abbia mai volato su un jet privato e che quindi non sia al
corrente della routine.
«Ma la cosa peggiore» continua «è che ha cercato di far
entrare una pistola e quattro chili di cocaina.»
«Quattro chili di cocaina» ripeto, con l’aria più scioccata
possibile.
«Hanno trovato la polvere in due kit di pronto soccorso,
dentro la sua borsa da palestra. Più una piccola pistola.
Che deficiente.»
Scuoto la testa, incredulo. «Aveva accennato all’idea di
comprare della roba una volta arrivato qui, ma non mi
aveva detto niente a proposito di contrabbandarla nel
paese.»
«Conosci bene questo signore?» domanda Rashford.
«L’ho conosciuto una settimana fa. Non è che siamo
amici intimi. So che ha dei precedenti per droga negli Stati
Uniti, ma non avevo idea che fosse un idiota.»
«Be’, lo è. E probabilmente passerà i prossimi vent’anni
in una delle nostre belle prigioni.»
«Venti?!»
«Cinque per la coca, quindici per la pistola.»
«Ma è inaccettabile. Devi fare qualcosa, Rashford!»
«Le opzioni sono limitate, ma lascia che faccia il mio
lavoro.»
«E io? Sono al sicuro qui? Insomma, alla dogana mi
hanno controllato i bagagli ed era tutto a posto. Non sono
complice o fiancheggiatore, vero?»
«Per il momento non c’è niente contro di te. Però ti
suggerisco di Teilire il più presto possibile.»
«Non posso andarmene senza avere visto Nathan. Devo
aiutarlo, capisci?»
«Non c’è molto che tu possa fare, Reed. Gli hanno
trovato la coca e la pistola nella borsa.»
Comincio a camminare nella stanza, assorto nei miei
pensieri e preoccupato da morire. Rashford mi osserva
per un momento, poi dice: «Probabilmente mi
permetteranno di vedere Mr Coley. Conosco i ragazzi del
carcere, li vedo tutti i giorni. Hai assunto l’avvocato giusto,
Reed, ma, ti ripeto, non credo che si possa fare molto».
«Ti capita spesso di vedere casi del genere? Turisti
americani arrestati per droga?»
Rashford ci pensa per un momento e poi risponde:
«Succede di continuo, ma non così. Gli americani si fanno
beccare quando se ne vanno, non mentre portano droga
nel paese. È piuttosto insolito, ma le accuse per gli
stupefacenti non sono poi così importanti. Qui abbiamo la
mano leggera per la droga, ma pesante per le armi.
Abbiamo leggi molto severe, specie per quanto riguarda le
pistole. Ma cosa aveva in mente quel ragazzo?».
«Non lo so.»
«Lascia che vada a trovarlo e prenda contatto con lui.»
«Ho bisogno di vederlo anch’io, Rashford. Devi aiutarmi.
Parla con i tuoi amici del carcere e convincili.»
«Potrebbero volerci un po’ di contanti.»
«Quanto?»
Rashford si stringe nelle spalle. «Non molto. Venti dollari
americani.»
«D’accordo.»
«Vedrò cosa posso fare.»
35
I piloti mi chiamano sul cellulare, ma io non rispondo. Devin
mi lascia quattro messaggi irritati in segreteria, tutti molto
simili: la polizia ha sequestrato l’aereo e loro due, i piloti,
sono stati informati che non possono lasciare l’isola.
Alloggiano all’Hilton, ma non si stanno divertendo per
niente. L’ufficio di Raleigh strepita e tutti vogliono delle
risposte. I piloti sono sotto torchio perché hanno presentato
un passaporto falso e probabilmente perderanno il lavoro. Il
proprietario dell’aereo sta facendo ogni tipo di minaccia
eccetera.
Non ho tempo di preoccuparmi per quella gente. Sono
sicuro che chi possiede un jet da trenta milioni di dollari è
in grado di trovare un modo per farselo restituire.
Alle quattordici, Rashford e io usciamo dallo studio e
saliamo sulla sua auto per il viaggio di dieci minuti fino al
diTeilimento di polizia, al quale è collegato il carcere
cittadino. Il mio avvocato si ferma in un parcheggio affollato
e con un cenno del capo mi indica un edificio lungo e
basso, con il tetto piatto, strette feritoie al posto delle
finestre e filo spinato come decorazione. Percorriamo un
marciapiede e Rashford saluta amichevolmente guardie e
inservienti.
Va a una porta e sussurra qualcosa a una guardia che
evidentemente conosce bene. Io osservo senza farmi
notare e non vedo passaggi di contanti. A una scrivania,
firmiamo un modulo fissato a un portablocco. «Ho detto
che sei un legale e che lavori con me» mi sussurra
Rashford mentre scribacchio uno dei miei nomi.
«Comportati da avvocato.»
Se solo sapesse.
Rashford aspetta nella stanza lunga e stretta che i legali
utilizzano per parlare con i loro clienti quando la polizia non
la occupa per altri usi. Non c’è aria condizionata e sembra
di essere in una sauna. Dopo qualche minuto la porta si
apre e Nathan Coley viene spintonato dentro. Guarda con
occhi sbarrati Rashford, poi si volta verso la guardia, che
se ne va chiudendosi la porta alle spalle. Nathan si siede
lentamente su uno sgabello di metallo e fissa Rashford,
che gli porge un biglietto da visita e dice: «Mi chiamo
Rashford Watley e sono un avvocato. Il suo amico Reed
Baldwin mi ha assunto perché mi occupi della sua
situazione».
Nathan prende il biglietto da visita e avvicina lo sgabello.
L’occhio sinistro è semichiuso e il lato sinistro della
mascella è gonfio. C’è del sangue secco a un angolo della
bocca. «Dov’è Reed?» domanda.
«È qui. È molto preoccupato e vuole parlare con lei. Si
sente bene, Mr Coley? Ha la mascella gonfia.»
Nathan guarda la faccia nera e rotonda dell’avvocato e
tenta di assimilare le parole. L’uomo parla inglese, okay,
ma con uno strano accento. Vorrebbe correggerlo e
spiegargli che lui di cognome si chiama Cooley, non Coley.
Ma forse questo avvocato fa del suo meglio per dire
Cooley, solo che in Giamaica viene fuori in modo diverso.
«Sta bene, Mr Coley?» ripete l’avvocato.
«Sono stato coinvolto in due risse nelle ultime due ore.
Le ho perse entrambe. Lei deve tirarmi fuori di qui, Mr...»
Nathan guarda il biglietto da visita, ma non riesce a
mettere a fuoco.
«Watley, Mr Watley.»
«Certo, Mr Watley. È tutto un grosso equivoco. Non so
cos’è successo, cosa è andato storto, ma io non ho fatto
niente. Non ho usato un passaporto falso e di certo non ho
cercato di contrabbandare stupefacenti e una pistola.
Qualcuno mi ha infilato quella roba nella borsa, capisce? È
la verità e sono pronto a giurarlo sopra una montagna di
bibbie. Non faccio uso di stupefacenti, non li spaccio e
sicuro come l’inferno non li contrabbando. Voglio parlare
con Reed.» In pratica sputa le parole a denti stretti. Si
sfrega la mascella mentre parla.
«È fratturata?» domanda Rashford.
«Non sono un dottore.»
«Cercherò di procurargliene uno. E cercherò anche di
farla trasferire in un’altra cella.»
«Sono tutte uguali: soffocanti, sovraffollate e lerce. Lei
deve fare qualcosa, Mr Watley. E in fretta. Non
sopravviverò qui dentro.»
«Lei è già stato in prigione, mi pare.»
«Ho fatto qualche anno in un penitenziario federale, ma
non era come qui. E io che pensavo che là fosse orrendo.
Qui è un incubo. Ci sono quindici uomini nella mia cella,
tutti neri tranne me, con due letti e un buco in un angolo per
pisciare. Niente aria condizionata e niente cibo. La prego,
Mr Watley, faccia qualcosa.»
«Lei è accusato di reati molto seri, Mr Coley. Se sarà
condannato per tutti i capi d’imputazione, dovrà scontare
vent’anni.»
Nathan china la testa e fa un respiro profondo. «Non
resisterò nemmeno una settimana.»
«Sono abbastanza sicuro di riuscire a ottenere una
riduzione della condanna, ma deve comunque aspettarsi
una pena molto lunga. E non in un carcere cittadino come
questo. La manderanno in una delle nostre prigioni
regionali, dove le condizioni non sono sempre così
piacevoli.»
«Allora studi un piano. Deve spiegare al giudice o chi
per lui che è tutto un errore. Io non sono colpevole, okay?
Deve convincerli di questo.»
«Ci proverò, Mr Coley. Ma il sistema deve seguire il suo
corso e purtroppo le cose si muovono piuttosto lentamente
qui in Giamaica. Il tribunale fisserà la sua prima
comparizione tra qualche giorno, poi le verranno
comunicate le accuse formali.»
«Cosa mi dice della libertà vigilata? Posso pagare una
cauzione e uscire di qui?»
«Ci sto lavorando con un garante per le cauzioni, ma non
sono ottimista. Il tribunale la considererà un soggetto a
rischio di fuga. Di quanto denaro dispone?»
Nathan sbuffa e scuote la testa. «Non lo so. Avevo mille
dollari nel portafoglio, ma adesso non so dov’è.
Comunque, sono sicuro che i soldi non ci sono più. Avevo
altri cinquecento dollari in tasca, ma sono spariti anche
quelli. Mi hanno ripulito. Ho qualche proprietà negli Stati
Uniti, ma niente liquidi. Io non sono ricco, Mr Watley. Sono
un ex detenuto trentenne che fino a sei mesi fa era in
galera. E la mia famiglia non ha niente.»
«Be’, la corte guarderà la quantità di cocaina e il jet
privato, e arriverà a una conclusione diversa.»
«La coca non è mia. Non l’ho mai vista, mai toccata. È
stata messa lì apposta, okay? Stessa cosa per la pistola.»
«Io le credo, Mr Coley, ma probabilmente il giudice sarà
più scettico. Capita spesso di sentire storie del genere.»
Nathan apre lentamente la bocca e saggia con la lingua
il sangue secco nell’angolo. È chiaramente sofferente e in
stato di shock.
Rashford si alza in piedi. «Resti a sedere. Reed è qui.
Se qualcuno le chiede qualcosa, dica che è uno dei suoi
avvocati.»
La faccia malconcia di Nathan si illumina un po’ quando mi
vede entrare. Mi siedo sullo sgabello, a meno di un metro
da lui. Cooley vorrebbe urlare, ma sa che qualcuno ci sta
ascoltando. «Cosa diavolo sta succedendo, Reed?
Spiegamelo!»
La Teile che devo recitare a questo punto è quella di un
uomo spaventato che non sa cosa succederà domani.
«Non lo so, Nathan» rispondo nervosamente. «Non sono in
arresto, ma non posso lasciare l’isola. Ho assunto
Rashford Watley per prima cosa questa mattina e stiamo
cercando di capire cos’è successo. Io ricordo solo che ci
siamo sbronzati forte, e molto in fretta. Da stupidi. Questo
è sicuro. Tu hai perso i sensi sul divano e io ero a
malapena cosciente. A un certo punto uno dei piloti mi ha
chiamato nella cabina di pilotaggio e mi ha detto che il
traffico aereo su Miami era bloccato a causa delle
condizioni meteo. Allerta tornado, tempesta tropicale, roba
brutta. Insomma, il Miami International era chiuso. Il sistema
temporalesco stava avanzando verso nord e così abbiamo
virato a sud e siamo stati dirottati sui Caraibi. Abbiamo
cominciato a volare in cerchio e davvero non ricordo tutto
quello che è successo. So che ho cercato di svegliarti, ma
tu stavi russando.»
«Non ricordo di avere perso i sensi» dice Nathan,
toccandosi la mascella gonfia.
«Un ubriaco ricorda di essere svenuto? No, non lo
ricorda. Eri cotto, okay? Avevi bevuto già prima del
decollo. Comunque, a un certo punto ci siamo ritrovati a
corto di carburante e siamo stati costretti ad atterrare.
Secondo i piloti, eravamo diretti qui, a Montego Bay, dove
avremmo fatto rifornimento e poi saremmo riTeiliti per
Miami, dove intanto il tempo era migliorato. Io nel frattempo
avevo bevuto litri di caffè, perciò ricordo quasi tutto quello
che è successo. Insomma, atterriamo e il pilota mi dice di
restare a bordo: ci tratterremo solo per una ventina di
minuti. Poi dice che l’immigrazione e la dogana vogliono
dare un’occhiata. Ci ordinano di scendere dall’aereo, ma
tu sei in coma e non ti muovi. Il polso si sente appena.
Chiamano un’ambulanza e tutto comincia ad andare
male.»
«Cos’è quella stronzata del passaporto falso?»
«Colpa mia. Noi ci serviamo di continuo del Miami
International, dove spesso esigono di vedere i passaporti
anche per i voli interni, specie quelli privati. Penso che la
cosa risalga alle guerre contro la droga degli anni Ottanta,
quando molti jet privati venivano utilizzati dai signori della
droga e relativi entourage. Adesso, con la guerra al
terrorismo, vogliono vedere il passaporto. Non è
obbligatorio averlo, ma è molto utile. Conosco un tale a
Washington che per cento dollari può fabbricarne uno in
giornata e così gli ho chiesto di farne uno per te, giusto per
l’eventualità che ce ne fosse stato bisogno. Non avevo idea
che sarebbe diventato un problema.»
Il povero Nathan non sa cosa credere. Io ho il vantaggio
di mesi di preparazione. Lui subisce colpi duri a ripetizione
ed è completamente stordito.
«Credimi, Nathan: il passaporto falso è il minore dei tuoi
problemi.»
«Da dove arrivano coca e pistola?»
«La polizia» rispondo in tono piatto, ma sicuro. «Non era
roba mia né tua, quindi questo restringe la lista dei
sospetti. Rashford dice che non è la prima volta che
succede su quest’isola. Dagli Stati Uniti arriva un jet privato
con due ricconi a bordo... ricchi, perché altrimenti non se
ne andrebbero in giro su un aereo del genere. Uno dei due
riccastri è così ubriaco da non riuscire a trovarsi il sedere
con le mani. Collassato, privo di sensi. Fanno scendere
dall’aereo quello più sobrio, distraggono i piloti con un po’
di scartoffie e, quando il momento è perfetto, piazzano la
droga. La cacciano dentro una borsa, semplicemente.
Qualche ora dopo il jet è ufficialmente sequestrato dal
governo giamaicano e il trafficante viene arrestato. È solo
una questione di soldi, di contanti.»
Nathan assorbe queste informazioni fissandosi i piedi
nudi. La sua camicia hawaiana rosa e arancione è
macchiata di sangue. Ci sono graffi sulle braccia e sulle
mani. «Reed, puoi farmi avere qualcosa da mangiare? Sto
morendo di fame. Hanno portato il pranzo un’ora fa, una
merda che non puoi immaginare, ma prima che potessi
buttare giù un boccone, un mio compagno di cella ha
deciso che ne aveva più bisogno di me.»
«Mi dispiace moltissimo, Nathan. Vedrò se Rashford
può corrompere una delle guardie.»
«Per favore» biascica Cooley.
«Vuoi che avverta qualcuno a casa?»
Scuote la testa. No. «Chi? L’unica persona della quale
mi fido un po’ è il tizio che gestisce il mio bar, e ho il
sospetto che mi derubi. Ho tagliato i ponti con la famiglia, e
comunque loro non mi aiuterebbero. Come potrebbero?
Non sanno neppure dov’è la Giamaica. Nemmeno io sono
sicuro di saperla trovare su una carta geografica.»
«Rashford pensa che potrebbero accusarmi di
complicità, per cui è possibile che venga a raggiungerti.»
Nathan scuote di nuovo la testa. «Tu puoi sopravvivere
perché sei nero e sei in forma. Ma un bianco pelle e ossa
come me non ha una sola possibilità. Appena entro nella
cella, uno grande e grosso mi dice che le mie Nike gli
piacciono un sacco. Andate. Poi un altro vuole dei soldi e,
dato che non ne ho, pretende che gli prometta di dargliene
entro breve. Questo dà il via al primo pestaggio, con
almeno tre di quei gorilla che mi picchiano a sangue.
Ricordo di aver sentito ridere una guardia, che ha detto
qualcosa a proposito del ragazzo bianco che non sa
battersi molto bene. Il mio posto sul pavimento è proprio
accanto al cesso, nient’altro che un buco, come un
gabinetto all’aperto. Il tanfo fa vomitare. Se mi sposto di
qualche centimetro, invado il territorio di qualcun altro e mi
pestano. Niente aria condizionata, sembra di essere in un
forno. Quindici uomini in uno spazio ristretto, tutti sudati,
affamati e assetati. Nessuno riesce a dormire. Non voglio
immaginare come sarà questa notte. Ti prego, Reed,
fammi uscire di qui.»
«Ci proverò, ma è molto probabile che questa gente
tenti di incastrare anche me.»
«Fa’ qualcosa. Per favore.»
«Senti, Nathan, è tutta colpa mia, okay? So che non
significa niente, ma non avevo modo di sapere che
stavamo finendo in una tempesta tropicale. Quegli stupidi
dei piloti avrebbero dovuto avvertirci delle previsioni meteo
prima del decollo, oppure avrebbero dovuto atterrare da
qualche Teile in territorio americano, o magari avrebbero
dovuto avere più carburante a bordo. Faremo causa ai
bastardi quando torneremo a casa, okay?»
«Come ti pare.»
«Nathan, farò tutto quello che posso per farti uscire, ma
sono a rischio anch’io. Alla fine sarà solo un problema di
soldi. Qui si tratta semplicemente di estorsione, un furto da
Teile di un branco di sbirri che sa come si gioca la Teilita.
Accidenti, le regole le hanno scritte loro. Rashford dice che
spremeranno il proprietario del jet e si intascheranno una
bella bustarella. Poi ci getteranno un osso per vedere
quanta grana possiamo mettere insieme noi. Adesso
sanno che abbiamo un avvocato, e Rashford pensa che lo
contatteranno presto. Preferiscono concludere le loro
piccole storie di estorsione prima che il caso arrivi in
tribunale. Dopo ci sono le accuse formali e giudici che
esaminano tutto. Hai capito quello che ti ho detto,
Nathan?»
«Credo di sì. È che proprio non riesco a crederci. Ieri a
quest’ora ero nel mio bar, bevevo una birra insieme a una
bella ragazza e mi davo delle arie perché stavo per volare
a Miami per il weekend. Guardami ora: buttato in una cella
fetida con un branco di giamaicani, tutti in fila per
prendermi a calci nel culo. Hai ragione, Reed: è tutta colpa
tua. Tu e il tuo ridicolo film. Non avrei mai dovuto darti
retta.»
«Mi dispiace, Nathan. Credimi, mi dispiace moltissimo.»
«E vorrei vedere. Però adesso fa’ qualcosa, e in fretta.
Non resisterò a lungo, qui dentro.»
36
Rashford mi dà un passaggio fino all’albergo e, all’ultimo
momento, mi invita gentilmente a cena a casa sua. Dice
che sua moglie è una cuoca eccellente e che entrambi
sarebbero felici di avere come ospite un esperto uomo di
cinema come me. Anche se sono tentato di accettare,
soprattutto perché per le prossime diciotto ore non ho
niente da fare, declino l’invito con la debole scusa di non
sentirmi troppo bene e di voler dormire. Sto vivendo una
menzogna e l’ultima cosa di cui ho bisogno è una lunga
conversazione sulla mia vita, il mio lavoro e il mio passato.
Ho il sospetto che ci sia gente in gamba a seguire le mie
tracce e a fiutare l’aria a caccia di indizi. Una parola
sbagliata adesso potrebbe pregiudicare il mio futuro.
È luglio, la stagione turistica è finita e l’hotel non è
affollato. C’è una piccola piscina con un bar all’ombra e
trascorro il pomeriggio sotto un ombrellone, leggendo un
giallo di Walter Mosley e sorseggiando birra Red Stripe.
Vanessa atterra a Roanoke alle sette di sabato sera. È
esausta, ma il riposo non è un’opzione. Nelle ultime
quarantott’ore ha guidato da Radford a Washington e a
Roanoke, e ha volato da Roanoke alla Giamaica e ritorno
via Charlotte, Atlanta e Miami. A Teile un sonno agitato di
tre ore a Montego Bay, e qualche pisolino in aereo, non ha
praticamente dormito.
Esce dal terminal con il suo borsone e se la prende
comoda per raggiungere l’auto. Come sempre, osserva
tutto e tutti intorno a lei. Non crediamo che qualcuno la
segua, ma a questo punto non diamo nulla per scontato.
Dall’aeroporto si immette sulla highway e poi scende in un
Holiday Inn. Fa la sua ordinazione al servizio in camera e
cena accanto alla finestra mentre il sole tramonta. Alle
dieci mi telefona e parliamo brevemente, in codice. Siamo
al nostro terzo o quarto cellulare prepagato ed è
estremamente improbabile che ci sia qualcuno in ascolto
ma, di nuovo, non vogliamo correre rischi. Concludo con un
semplice «Procedi come da programma».
Vanessa torna in auto all’aeroporto, raggiunge il terminal
dei voli privati e si infila accanto al pickup di Nathan. È
sabato notte, non c’è praticamente traffico aereo privato e
nessuno nel parcheggio vuoto. Indossa un paio di sottili
guanti di pelle e, usando le chiavi di Nathan, apre la
portiera del pickup, sale a bordo e Teile. È la prima volta
che guida un veicolo del genere e procede con calma.
Poco dopo si ferma nel parcheggio di un fast food per
regolare sedile e specchietti. È abituata alla piccola vettura
giapponese che guida da cinque anni, e il passaggio di
categoria è traumatico e disagevole. L’ultima cosa che
possiamo permetterci è un tamponamento o una serie di
luci azzurre lampeggianti. Si immette sull’Interstatale 81 in
direzione sud, verso Radford, Virginia.
È quasi mezzanotte quando Vanessa lascia la highway e
svolta nella stradina di campagna che porta alla residenza
di Nathan. Supera la casa mobile, dove vive il vicino più
prossimo di Cooley, a venticinque chilometri l’ora, senza
fare rumore. Ha fatto questo percorso almeno una decina
di volte a bordo della propria auto e conosce bene il
terreno. La strada si piega in una curva subito dopo
l’abitazione di Nathan e attraversa un pascolo prima di
arrivare a un’altra casa, distante quasi tre chilometri. Oltre
quel punto l’asfalto sfuma nella ghiaia e poi nella terra
battuta. Non c’è traffico perché la zona è scarsamente
popolata. Sembra strano che uno scapolo trentenne possa
decidere di abitare in un posto così isolato.
Vanessa si ferma nel vialetto d’accesso di Nathan e
resta in ascolto. Il labrador abbaia nel cortile sul retro,
all’interno di un vasto recinto con una graziosa casetta per
tenerlo all’asciutto. A Teile il cane, non si sentono altri
rumori. L’oscurità è appena perforata da una piccola luce
gialla sulla veranda. Vanessa ha una Glock 9 millimetri in
tasca e crede di sapere come usarla. Fa un giro intorno
alla casa, attenta a dove mette i piedi e sempre in ascolto.
Il cane abbaia più forte, ma nessuno lo sente, a Teile
Vanessa. Arrivata alla porta sul retro, comincia a provare le
chiavi. Le prime tre non entrano né nel pomolo, né nella
serratura di sicurezza, ma la numero quattro e cinque
funzionano. Vanessa fa un respiro profondo e spalanca la
porta. Nessuna sirena, nessun frenetico bip. Ha varcato
questa stessa porta solo cinque giorni fa durante la prima
serie di riprese e ha notato sia le serrature che l’assenza di
un sistema d’allarme.
Una volta entrata, si toglie i guanti di pelle e ne indossa
un paio di latex, del tipo usa e getta. Sta per setacciare
ogni centimetro della casa e non può lasciare una sola
impronta. Muovendosi rapidamente, accende le luci,
abbassa tutte le tapparelle e fa Teilire l’aria condizionata.
Quella in cui si trova è una modesta casa in affitto,
occupata da un montanaro scapolo che ha passato gli
ultimi cinque anni in prigione, di conseguenza arredamento
e suppellettili sono al minimo. Ci sono due o tre mobili,
l’immancabile televisore sovradimensionato e tende solo
ad alcune delle finestre. Ci sono anche piatti sporchi
impilati nell’acquaio in cucina e indumenti sporchi sul
pavimento del bagno. La stanza degli ospiti è utilizzata
come ripostiglio. Due topi morti se ne stanno
perfettamente immobili nelle rispettive trappole, con il collo
spezzato in due.
Vanessa comincia dalla camera da letto di Nathan.
Fruga all’interno di un alto cassettone. Niente. Guarda sotto
il letto, poi tra il materasso e la rete. Esamina ogni
millimetro della disordinata cabina armadio. Le
fondamenta della casa sono di tipo tradizionale, su
sostegni di legno – non c’è una base in cemento –, e il
pavimento a doghe cede impercettibilmente a ogni passo.
Vanessa vi picchia sopra con le nocche e ascolta,
cercando l’eventuale suono più sordo che le riveli un
nascondiglio.
Ho il sospetto che Nathan abbia nascosto il suo tesoro
da qualche Teile nell’abitazione, anche se probabilmente
non in una delle stanze principali. In ogni caso, dobbiamo
controllare dappertutto. Se Nathan è furbo, cosa difficile da
immaginare, deve avere suddiviso il bottino e sistemato le
Teili in luoghi diversi.
Dalla camera da letto padronale, Vanessa si sposta in
quella degli ospiti, tenendosi alla larga dai topi morti. A
mezzanotte e mezzo comincia a spegnere le luci, come se
Nathan stesse per andarsene a dormire. Passa da una
stanza all’altra, controllando ogni angolo. Non c’è niente
che non venga rivoltato o esaminato. Ciò che Vanessa sta
cercando potrebbe essere nelle pareti, sotto i pavimenti,
nel cartongesso sopra i soffitti, oppure potrebbe essere
sepolto nel cortile dietro casa o magari al sicuro in una
cassaforte al Bombay’s.
Il soffocante seminterrato ha un soffitto alto due metri,
pareti in blocchi di cemento grezzo ed è privo di aria
condizionata. Dopo un’ora passata là dentro, Vanessa è
fradicia di sudore e troppo stanca per continuare. Alle due
si distende sul divano in soggiorno e si addormenta con la
mano sulla fondina della Glock.
Se Rashford era esitante a lavorare di sabato, la domenica
è quasi ostile, ma non gli ho lasciato molta scelta. L’ho
pregato di accompagnarmi al carcere e di sfruttare le sue
conoscenze come ha fatto il giorno prima. Gli ho anche
consegnato una banconota da cento dollari per facilitare le
cose.
Arriviamo alla prigione poco prima delle nove di mattina
e quindici minuti dopo sono solo con Nathan, nella stessa
stanza di ieri. Rimango scioccato dal suo aspetto. Le ferite
sono evidenti e serie; mi chiedo per quanto tempo ancora
le guardie consentiranno che gli abusi continuino. La faccia
è un disastro di tagli, lacerazioni aperte e sangue secco. Il
labbro superiore è gonfio e sporge grottesco da sotto il
naso. L’occhio sinistro è completamente chiuso e il destro
è arrossato e tumido. Manca un incisivo. I jeans tagliati al
ginocchio e la simpatica camicia hawaiana sono
scomparsi, sostituiti da una tuta bianca piena di macchie e
sporca di sangue.
Ci pieghiamo entrambi in avanti, le teste distanti solo
pochi centimetri. «Aiutami» riesce a dire Nathan, quasi in
lacrime.
«Ecco le ultime notizie» comincio. «Questi delinquenti
hanno chiesto un milione di dollari al proprietario del jet,
che ha accettato di pagare. Quindi, gli stronzi avranno i loro
soldi. Non mi accuseranno di niente, almeno per quello che
se ne sa questa mattina. Per te, vogliono mezzo milione di
dollari. Ho spiegato, tramite Rashford, che nessuno di noi
due dispone di una somma del genere. Ho spiegato che
noi eravamo solo passeggeri a bordo di un jet che
apTeiliene a qualcun altro, che non siamo ricchi e così via. I
giamaicani, però, non ci credono. Comunque, così stanno
le cose al momento.»
Nathan fa una smorfia, come se respirare gli causasse
dolore. Per quanto brutta sia la sua faccia, non voglio
pensare al resto del corpo. Immagino il peggio, perciò non
gli chiedo cosa gli è successo.
Emette un grugnito e chiede: «Tu puoi tornare negli Stati
Uniti?».
Perfino la voce, debole e gracchiante, è ferita.
«Credo di sì. Rashford pensa di sì. Ma io non ho molti
soldi, Nathan.»
Si acciglia, grugnisce di nuovo e sembra sul punto di
svenire o di mettersi a piangere. «Reed, stammi a sentire.
Io di soldi ne ho. Tanti.»
Lo guardo dritto negli occhi, o almeno nell’occhio destro,
dato che il sinistro è chiuso. Questo è l’istante fatale per cui
tutto è stato creato. Senza questo momento, l’intero
progetto sarebbe un disastro di proporzioni gigantesche,
un gioco d’azzardo finito in modo pessimo.
«Quanti?» chiedo. Cooley tace. Non vorrebbe parlare,
ma non ha scelta.
«Abbastanza da farmi uscire.»
«Mezzo milione di dollari, Nathan?»
«Anche di più. Dobbiamo diventare soci, Reed. Solo tu
e io. Io ti dico dove sono i soldi, tu vai a prenderli, mi tiri
fuori di qui e diventiamo soci. Però devi darmi la tua
parola. Devo potermi fidare di te, okay?»
«Aspetta un attimo» dico, facendomi indietro e
mostrandogli i palmi delle mani. «Tu ti aspetti che io Teila,
rientri negli Stati Uniti e poi torni con un sacco di grana per
corrompere la polizia giamaicana? Parli sul serio?»
«Ti prego, Reed. Non ho nessun altro. Non posso
chiamare nessuno a casa. Nessuno capirebbe cosa sta
succedendo qui, ci sei solo tu. Devi farlo. Per favore. La
mia vita dipende da te. Non posso sopravvivere qui dentro.
Guardami! Ti prego, Reed. Fa’ quello che ti chiedo, fammi
uscire e sarai un uomo ricco.»
Mi faccio ancora più indietro, come se Nathan fosse
contagioso.
«Per favore, Reed» mi supplica. «Mi hai cacciato tu in
questo guaio e adesso devi tirarmi fuori.»
«Potrebbe essere utile sapere come sei riuscito a fare
tanti soldi.»
«Non li ho fatti. Li ho rubati.»
Nessuna sorpresa. «Droga?» domando, ma so già la
risposta.
«No, no, no. Allora, siamo soci?»
«Non lo so. Non sono sicuro di voler corrompere la
polizia giamaicana. E se mi arrestano? Potrei finire
esattamente come te.»
«Allora non tornare. Manda i soldi a Rashford e lascia
che sia lui a fare la consegna. Puoi studiare un modo,
Reed. Accidenti, tu sei in gamba.»
Annuisco, come se mi piacesse il suo modo di pensare.
«E dove sono questi soldi, Nathan?»
«Siamo soci? Cinquanta e cinquanta, solo tu e io, okay,
amico?»
«Okay, okay. Ma non ho intenzione di rischiare la galera
per questa cosa, hai capito?»
«Certo.»
C’è una pausa mentre ci studiamo a vicenda. Il respiro di
Cooley è faticoso e ogni parola lo fa soffrire. Lentamente,
mi tende la destra, che è gonfia e piena di escoriazioni.
«Soci, Reed?» mi supplica. Lentamente, gli stringo la
mano e lui fa una smorfia. Probabilmente è fratturata.
«Dove sono i soldi?» domando.
«A casa mia» risponde riluttante, come se stesse
rivelando il segreto più prezioso della sua vita. «Ci sei
stato. Nel cortile sul retro c’è un capanno per gli attrezzi,
pieno di cianfrusaglie. Il pavimento è di legno e a destra,
sotto un vecchio tosaerba Sears che non funziona più, c’è
una botola. Non si vede, se non si sposta il tosaerba e tutte
le cose che ci sono intorno. Fa’ attenzione ai serpenti: ci
sono due o tre serpenti reali che hanno fatto il nido là
dentro. Apri la botola e vedrai una bara di bronzo.» Cooley
ha il fiato corto e suda moltissimo. Il dolore fisico è
evidente, ma Nathan è tormentato anche dalla sofferenza
di una simile rivelazione.
«Una bara?» ripeto incredulo.
«Sì, da bambino. Chiusa e sigillata, a tenuta stagna e
sottovuoto. C’è un chiavistello nascosto su uno dei lati corti,
dove dovrebbero esserci i piedi. Quando lo sollevi, i
dispositivi di chiusura scattano e si può aprire la bara.»
«Cosa c’è dentro?»
«Parecchie scatole di sigari chiuse con del nastro
adesivo, quello largo impermeabile. Credo che siano
diciotto.»
«Hai nascosto dei contanti dentro le scatole di sigari?»
«Non sono contanti» mi dice Nathan, piegandosi in
avanti. «È oro.»
Sono troppo sbalordito per poter parlare, così Cooley
continua, quasi in un sussurro. «Minilingotti, ognuno del
peso di dieci once, puri quanto può essere puro l’oro.
Sono grandi più o meno come una tessera del domino.
Sono belli, Reed, bellissimi.»
Lo fisso a lungo incredulo, poi dico: «Okay, per quanto
sia difficile, resisto alla tentazione di farti un mucchio di
domande scontate. Quindi, io dovrei precipitarmi a casa
tua, prelevare l’oro da una cassa da morto, combattere
contro qualche serpente, trovare un ricettatore che mi dia
dei contanti in cambio dell’oro e poi inventarmi un modo
per far arrivare mezzo milione di dollari qui in Giamaica,
dove dovrei passarlo ad alcuni agenti corrotti della polizia
e dell’immigrazione, i quali poi ti libereranno. È un buon
riassunto, Nathan?».
«Sì. E sbrigati, okay?»
«Io credo che tu sia pazzo.»
«Ci siamo stretti la mano. Siamo soci, Reed. Trova il
modo e diventerai ricco.»
«Di quante tessere del domino stiamo parlando?»
«Tra cinquecento e seicento.»
«Quanto vale l’oro di questi tempi?»
«Due giorni fa veniva quotato sui millecinquecento dollari
l’oncia.»
Faccio i calcoli e dico: «Siamo tra i sette e i nove milioni
di dollari».
Nathan sta annuendo. Fa questi calcoli ogni giorno della
sua vita seguendo le oscillazioni del prezzo dell’oro.
Qualcuno bussa rumorosamente alla porta alle mie spalle,
poi entra una delle guardie carcerarie. «Tempo scaduto,
amico» mi informa, poi scompare.
«Probabilmente sarà una delle cose più stupide che farò
in tutta la mia vita» dico.
«O forse una delle più furbe» ribatte Nathan. «Però fa’
presto, per favore. Non riuscirò a resistere a lungo qui
dentro.»
Ci stringiamo di nuovo la mano e ci salutiamo. La mia
ultima visione di Nathan è quella di un ometto malconcio
che cerca di alzarsi in piedi. Rashford e io ce ne andiamo
in fretta. L’avvocato mi scarica davanti all’hotel e io mi
precipito in camera per telefonare a Vanessa.
È in soffitta, dove ci sono quasi cinquanta gradi, e sta
frugando dentro vecchi scatoloni e mobili rotti. «Non è lì» la
informo. «È fuori, nel capanno per gli attrezzi.»
«Resta in linea.» Sento Vanessa scendere la scala
retrattile.
«Te l’ha detto lui?» mi chiede tra un respiro e l’altro.
«Sì.»
«C’è qualcuno» mi comunica all’improvviso, e al telefono
sento il campanello della porta. Vanessa si acquatta
nell’ingresso e impugna la Glock. «Ti richiamo» sussurra al
cellulare, e chiude la comunicazione.
È la tarda mattinata di domenica. Il pickup di Nathan è
nel vialetto. Presumendo che i suoi amici sapessero che
se ne sarebbe andato per il weekend, la presenza del
veicolo può aver fatto nascere delle domande. Il
campanello suona di nuovo e qualcuno comincia a
picchiare con forza alla porta. Poi urla: «Nathan, ci sei?
Apri!».
Vanessa si accuccia ancora di più, ma non si sposta. I
colpi alla porta continuano, poi qualcun altro bussa
all’ingresso sul retro e grida chiamando Nathan. Sono
almeno in due. Le voci sono giovani, si tratta senza dubbio
di amici di Cooley che per qualche ragione sono passati
da casa sua. Non danno segno di volersene andare. Uno
bussa alla finestra della camera da letto, ma non può
vedere all’interno. Vanessa raggiunge cautamente il bagno
e si lava la faccia. Sta ansimando e trema di paura.
I due adesso gridano e tra poco arriveranno alla
conclusione che a Nathan è successo qualcosa.
Sfonderanno una porta. D’istinto, Vanessa si spoglia
restando in slip, si asciuga il sudore dal corpo, lascia la
Glock accanto al lavandino e va alla porta d’ingresso. La
spalanca e il ragazzo riceve un regalo inaspettato. Il seno è
grosso e sodo, il corpo scuro atletico e tonico. Il ragazzo
abbassa lo sguardo dal seno agli slip, studiati per
mostrare quanta più carne possibile, poi riacquista il
controllo. Vanessa sorride e dice: «Forse Nathan ha da
fare in questo momento».
«Wow. Chiedo scusa.»
Sono l’uno di fronte all’altra, divisi dalla zanzariera, e
nessuno dei due ha fretta di andarsene. Voltando appena
la testa, il ragazzo grida: «Ehi, Tommy, vieni qui».
Tommy arriva di corsa e non riesce a credere ai suoi
occhi.
«Andiamo, ragazzi» fa Vanessa. «Lasciateci un po’ di
privacy, okay? Nathan adesso si sta facendo una doccia,
ma non abbiamo ancora finito. Chi devo dire che è
passato a salutarlo?» A questo punto si accorge che nella
fretta ha dimenticato di togliersi i guanti di latex. Slip rossi,
guanti color acquamarina.
Nessuno dei due distoglie lo sguardo dal seno. «Ah...
Greg e Tommy. Noi... noi passavamo di qua.» Entrambi
sono ipnotizzati dalla nudità di Vanessa e sconcertati dai
guanti. Cosa diavolo sta facendo questa pollastra con il
nostro amico?
«Glielo dirò» assicura Vanessa con un bel sorriso
mentre chiude lentamente la porta. Dalla finestra li guarda
arretrare, ancora confusi e a bocca aperta. Finalmente
arrivano al loro pickup e salgono a bordo. Cominciano a
ridere ed escono dal vialetto. Dopo che se ne sono andati,
Vanessa si versa un bicchiere di acqua ghiacciata e si
siede per qualche minuto al tavolo della cucina. È scossa e
sul punto di crollare, ma non se lo può permettere. Ha la
nausea di questa casa e seri dubbi su tutto il progetto. Ma
deve andare avanti.
Sono sul sedile posteriore di un taxi diretto all’aeroporto
quando vedo la chiamata. Ho passato gli ultimi quindici
minuti immaginando diversi scenari nella casa di Nathan,
nessuno dei quali con un bel finale.
«Stai bene?» domando.
«Sì. Erano solo due bifolchi che cercavano Nathan. Me
ne sono sbarazzata.»
«Come?»
«Te lo spiegherò poi.»
«Ti hanno vista?»
«Oh, sì. Va tutto bene. Allora, dov’è la roba?»
«Nel capanno per gli attrezzi sul retro. Resto al telefono.»
«Okay.» Vanessa controlla di nuovo il vialetto per
assicurarsi che non ci siano altri visitatori, poi corre alla
porta sul retro e al capanno. Il cane ringhia e abbaia
frenetico, lo sento chiaramente dalla Giamaica.
Non trovo la forza di avvertire Vanessa dei serpenti, così
prego in silenzio che non li trovi. Frugare in un capanno
sudicio è già abbastanza sgradevole, mettici anche i
serpenti e Vanessa può crollare per la paura e darsela a
gambe. Entra nel capanno e me lo descrive. Dice che è
come essere in un forno. Le ripeto le istruzioni di Nathan e
chiudo la comunicazione: Vanessa avrà bisogno di
entrambe le mani.
Sposta due bidoni di diluente per vernice vuoti, allontana
con un calcio un sacco di iuta, spinge il tosaerba Sears il
più lontano possibile, solleva un’asse di compensato e
vede una maniglia di corda. È bloccata, così tira con forza
finché il coperchio della botola si apre. Non ci sono cardini,
perciò l’intero coperchio si stacca di colpo dal pavimento e
finisce contro la parete.
Sotto, come annunciato, c’è una bara di bronzo sporca
di terriccio. È lunga non più di un metro e venti. Vanessa
boccheggia inorridita, come se fosse capitata sulla scena
di un delitto e avesse trovato il cadavere di un povero
bambino. Ma non c’è tempo per la paura o i ripensamenti,
non c’è tempo per chiedersi: “Cosa diavolo ci faccio qui?”.
Cerca di sollevare la bara, ma è troppo pesante. Trova il
chiavistello, lo ruota e lentamente si apre metà del
coperchio. Per fortuna non c’è alcun cadavere all’interno.
Niente del genere. Vanessa si prende una pausa per
studiare la collezione di piccole scatole di sigari, tutte
sigillate con una striscia di nastro adesivo color argento e,
per la maggior Teile, impilate e disposte in file. Il sudore
gocciola dalle sopracciglia e Vanessa cerca di asciugarlo
con l’avambraccio. Con cautela, prende una delle scatole,
esce dal capanno e si sposta all’ombra di una quercia. Si
guarda intorno e non vede nessuno, a Teile il cane che si è
stancato di ringhiare e abbaiare. Toglie il nastro adesivo,
apre la scatola e solleva adagio un foglio di giornale
accartocciato.
Minilingotti. Mattoncini. Tessere del domino. Un’intera
bara piena. Milioni e milioni di dollari.
Vanessa estrae un minilingotto e lo esamina. È un
rettangolo perfetto, spesso poco più di un centimetro, con
un minuscolo bordo rialzato che consente la precisa
sovrapposizione dei pezzi e relativo immagazzinamento.
Su una faccia compare l’incisione 10 ONCE. E sotto: 99,9%.
Niente altro: nessun nome di banca, nessuna indicazione
della provenienza dell’oro o di chi l’ha estratto. Nessun
numero di registrazione.
Usando una carta di credito prepagata, per trecento dollari
acquisto un biglietto dell’Air Jamaica per San Juan, Porto
Rico. Il volo decolla tra un’ora, così mi siedo su una
panchina vicino al gate e cerco di ammazzare il tempo, ma
continuo a fissare il cellulare. Passano pochi minuti e il
telefonino si illumina e vibra.
«Non mentiva» dice Vanessa.
«Racconta.»
«Ti piacerà, baby. Siamo appena diventati proprietari di
diciotto scatole di sigari piene di meravigliosi lingottini
d’oro. Non li ho ancora contati tutti, ma devono essere
almeno cinquecento.»
Faccio un respiro profondo. Avrei voglia di piangere.
Questo progetto è allo studio da più di due anni e per la
maggior Teile del tempo le probabilità di successo sono
state al massimo di mille a uno. Tutta una serie di eventi
variamente collegati doveva verificarsi esattamente in un
determinato modo. Non abbiamo ancora raggiunto il
traguardo, ma siamo comunque in dirittura d’arrivo. Sono
come un cavallo che comincia a sentire l’odore della sua
stalla.
«Tra i cinquecento e i seicento, secondo il nostro
amico» dico al cellulare.
«Be’, si è guadagnato il diritto di essere creduto. Dove
sei?»
«All’aeroporto. Ho comprato il biglietto, ho passato la
dogana e mi imbarco tra un’ora. Fino a questo momento
nessun problema. E tu dove sei?»
«Sto per andarmene da questa cloaca. Ho caricato la
merce e ho rimesso tutto al suo posto. La casa è chiusa a
chiave.»
«Non ti preoccupare per la casa. Non la rivedrà mai
più.»
«Lo so. Ho lasciato un intero sacco di cibo al cane.
Spero che qualcuno venga a dargli un’occhiata.»
«Vattene di lì.»
«Teilo subito.»
«Attieniti al piano. Ti chiamo appena posso.»
37
Sono quasi le undici di domenica mattina, 24 luglio. La
giornata è limpida e calda, e il traffico intorno a Radford è
scarso. Vanessa vuole evitare altri incontri con chiunque
possa notare il pickup di Nathan e insospettirsi. Diretta a
nord sull’interstatale, supera Roanoke e si inoltra nel cuore
della Shenandoah Valley; guida con la massima prudenza
possibile, con il tachimetro fisso sui centodieci chilometri
l’ora e segnalando doverosamente ogni cambio di corsia.
Controlla lo specchietto retrovisore perché ormai è
diventata un’abitudine e tiene d’occhio tutti gli altri veicoli
per evitare ogni possibile collisione. Davanti al sedile del
passeggero, e sul sedile stesso, c’è letteralmente una
fortuna in oro, lingotti anonimi e non rintracciabili, appena
rubati a un ladro che a sua volta li ha rubati a un individuo
corrotto che li ha ricevuti da una banda di delinquenti.
Come potrebbe spiegare Vanessa una tale collezione di
metallo prezioso a un agente della Stradale ficcanaso?
Non potrebbe, per cui guida nel modo più irreprensibile
mentre i TIR a diciotto ruote la superano ruggendo sulla
corsia alla sua sinistra.
Prende l’uscita per una cittadina e vaga per un po’ finché
trova un grande magazzino di fascia bassa. La scritta sulle
vetrine pubblicizza offerte speciali per il ritorno a scuola.
Vanessa parcheggia vicino all’entrata e nasconde le
scatole di sigari con una coperta sporca che ha preso a
casa di Nathan. Sistema la Glock sotto un angolo della
coperta, a portata di mano, e studia il parcheggio. Di
domenica mattina è praticamente deserto. Poi fa un
respiro, scende dal pickup e si affretta a entrare nel
negozio. In meno di dieci minuti acquista dieci zaini da
bambino, tutti con una colorazione mimetica. Paga in
contanti e non risponde quando il cassiere osserva: «Deve
avere un mucchio di ragazzini che vanno a scuola».
Carica i suoi acquisti nella cabina del pickup e torna
sull’interstatale. Un’ora dopo trova un’area di sosta per
camion nei pressi di Staunton, Virginia, e si ferma accanto
a i TIR. Quando è sicura che nessuno la sta guardando,
comincia a sistemare rapidamente le scatole di sigari negli
zaini, due dei quali non vengono utilizzati.
Fa il pieno, si compra il pranzo al drive through di un fast
food e ammazza il tempo andando su e giù lungo
l’Interstatale 81, spingendosi a nord fino al Maryland e a
sud fino a Roanoke. Le ore si trascinano lente. Non può
parcheggiare e allontanarsi dal tesoro, che deve essere
sorvegliato ininterrottamente, perciò si lascia trasportare
dal flusso del traffico e aspetta che faccia buio.
Cammino su e giù in un’ala umida e affollata dell’aeroporto
di San Juan, in attesa di un volo Delta per Atlanta. Il mio
biglietto è stato acquistato a nome di Malcolm Bannister, il
cui vecchio passaporto ha funzionato alla perfezione.
Scadrà fra quattro mesi. L’ultima volta che l’ho usato, è
stato quando Dionne e io ci siamo concessi una crociera a
buon mercato alle Bahamas. In un’altra vita.
Telefono a Vanessa due volte e parliamo in codice.
Merce caricata. Imballo a posto. Vanessa se ne sta
andando in giro, seguendo il piano. Se da qualche Teile
c’è un ficcanaso in ascolto, si starà grattando la testa
perplesso.
Alle tre e mezzo finalmente ci imbarchiamo, poi restiamo
seduti per un’ora nell’aereo bollente mentre una tempesta
si scatena ululando sull’aeroporto e i piloti diventano muti.
Dietro di me ci sono almeno due bambini piccoli che
strillano. Mentre l’irritazione generale aumenta, chiudo gli
occhi e tento di appisolarmi, ma mi sono privato del sonno
così a lungo che ho dimenticato come si fa. Comincio a
pensare a Nathan Cooley e alla sua situazione senza
speranza, anche se non provo molta compassione per lui.
Penso a Vanessa e sorrido alla sua resistenza sotto
pressione. Siamo vicini alla meta, ma ci sono ancora
tantissimi modi per fallire. Abbiamo l’oro, ma riusciremo a
tenercelo?
Mi scuoto quando l’aereo fa un balzo in avanti e
comincia a correre rombando lungo la pista. Due ore dopo
atterriamo ad Atlanta. Al controllo passaporti riesco a
evitare i banchi presidiati da funzionari neri e scelgo un
paffuto ragazzo bianco dall’aria annoiata e indifferente.
Prende il mio passaporto, dà un’occhiata alla foto di
Malcolm Bannister vecchia di nove anni, la confronta
velocemente con la faccia revisionata di Max Reed
Baldwin e non nota niente di strano. Noi neri siamo tutti
uguali.
Do per scontato che il servizio immigrazione abbia
avvertito l’FBI che due giorni fa ho lasciato il paese a bordo
di un jet privato diretto in Giamaica. Quello che non so, è
se l’FBI stia monitorando eventuali movimenti di Malcolm
Bannister. Sono pronto a scommettere di no e voglio che
l’FBI pensi che me la sto ancora spassando da qualche
Teile nei Caraibi. In ogni caso mi devo muovere in fretta.
Dato che Malcolm non dispone più di una patente valida, è
Max che noleggia un’auto dell’Avis e così, quarantacinque
minuti dopo l’atterraggio ad Atlanta, lascio la città. Nei
dintorni di Roswell, Georgia, mi fermo a un Walmart e
compro, in contanti, altri due cellulari prepagati. Mentre
esco dal magazzino, butto i due vecchi in un cestino dei
rifiuti.
Ormai è buio e Vanessa parcheggia definitivamente il
pickup. Lo ha guidato per quasi mezza giornata e non vede
l’ora di sbarazzarsene. Resta seduta per un momento al
volante, in uno spazio vicino alla sua Honda Accord, e
osserva un aereo navetta rullare verso il terminal di
Roanoke. Sono passate da poco le ventuno di domenica e
non sembra esserci traffico. Il parcheggio è semideserto.
Vanessa scende e, guardandosi continuamente intorno,
trasferisce gli zainetti dal sedile anteriore del pickup di
Nathan al bagagliaio della propria auto. Otto zaini, ognuno
dei quali le sembra più pesante del precedente, ma non le
importa.
Chiude il pickup, si mette in tasca le chiavi ed esce dal
parcheggio. Se tutto va come previsto, il veicolo di Nathan
non verrà notato per parecchi giorni. Quando gli amici di
Cooley si renderanno conto che è scomparso, a un certo
punto avvertiranno la polizia, che troverà il pickup e
comincerà a mettere insieme i pezzi di una storia. Non c’è
dubbio che Nathan si sia vantato con qualcuno del fatto che
sarebbe andato a Miami su un jet privato e questo farà sì
che i poliziotti per un po’ correranno in tondo inseguendosi
la coda.
Non ho modo di sapere se le autorità saranno in grado
di collegare l’uomo scomparso a Nathaniel Coley, l’idiota
che di recente è andato all’estero con un passaporto falso,
quattro chili di coca e una pistola, ma ne dubito. È
possibile che Nathan non venga rintracciato finché
qualcuno in Giamaica non gli permetterà finalmente di fare
una telefonata. Chi Cooley possa chiamare, e cosa possa
dire, è impossibile prevederlo. È probabile comunque che
adesso stia contando le ore e i giorni che lo separano dal
mio ritorno, con un sacco di contanti da utilizzare per
corrompere gente. Dopo qualche settimana, magari un
mese, si renderà conto che il suo vecchio amico Reed lo
ha fregato, si è preso i soldi ed è scappato.
Un po’ mi dispiace per lui.
All’una di notte, mentre mi avvicino ad Asheville, North
Carolina, vedo l’insegna di un motel vicino a un trafficato
svincolo autostradale. Dietro il motel, lontano da occhi
indiscreti, c’è una piccola Honda Accord azzurra con la mia
cara Vanessa al posto di guida, la Glock accanto a sé.
Parcheggio vicino a lei ed entriamo insieme nella nostra
stanza al piano terra. Ci baciamo e ci abbracciamo, ma
siamo troppo tesi per fare l’amore. Scarichiamo in silenzio
il bagagliaio dell’Accord e gettiamo gli zaini su uno dei letti.
Chiudo la porta a chiave, metto la catena e incastro una
sedia sotto il pomolo. Tiro le tende e appendo degli
asciugamani al bastone per chiudere eventuali fessure e
assicurarmi che nessuno possa vedere all’interno del
nostro caveau privato. Mentre sbrigo queste faccende,
Vanessa si fa una doccia e poi emerge dal bagno avvolta
in un corto accappatoio che rivela chilometri e chilometri
delle gambe più belle che io abbia mai visto. «Non
pensarci neppure» dice. È esausta. Forse domani.
Svuotiamo gli zainetti, indossiamo guanti di latex usa e
getta e disponiamo ordinatamente le diciotto scatole di
sigari, ognuna delle quali è sigillata con due strisce di
nastro adesivo argentato. Notiamo che due scatole
sembrano essere già state aperte – il nastro è tagliato
lungo il coperchio – e le mettiamo da Teile. Servendomi di
un temperino, taglio il nastro della prima scatola e la apro.
Estraiamo i minilingotti, li contiamo – sono trenta – e poi li
rimettiamo nella scatola, che richiudiamo con il nastro
adesivo. Vanessa prende nota della quantità e apriamo la
seconda scatola. Contiene trentadue minilingotti, tutti
lucenti, perfettamente sagomati e apparentemente mai
toccati da mani umane.
«Belli, bellissimi» dice Vanessa, più e più volte.
«Dureranno secoli.»
«Per l’eternità» la correggo, passando un dito su un
lingotto. «Non ti piacerebbe sapere da quale Teile del
mondo provengono?»
Vanessa ride perché non lo sapremo mai.
Apriamo le sedici scatole sigillate e poi inventariamo i
minilingotti delle due aperte in precedenza. Contengono
circa la metà dei pezzi delle altre. Il nostro totale è di
cinquecentosettanta lingottini. Dato che il prezzo dell’oro
oscilla intorno ai millecinquecento dollari l’oncia, il nostro
jackpot vale sugli otto milioni e mezzo di dollari.
Ci distendiamo sul letto con l’oro tra di noi. Impossibile
non sorridere. Ci starebbe bene una bottiglia di
champagne, ma alle due di un lunedì mattina in un motel a
buon mercato in North Carolina, lo champagne non esiste.
C’è molto su cui riflettere in questo momento, ma uno degli
aspetti più meravigliosi del nostro piano è che nessuno sta
cercando questo tesoro. A Teile Nathan Cooley, nessuno
sa che esiste. L’abbiamo rubato a un ladro, il quale non ha
lasciato alcuna traccia.
Vedere, toccare e contare la nostra fortuna ci ha dato
energia. Strappo l’accappatoio di Vanessa e scivoliamo
sotto le coperte dell’altro letto. Per quanto ci sforziamo, è
difficile fare l’amore senza tenere un occhio sull’oro.
Quando finiamo, collassiamo esausti e dormiamo come
morti.
38
Alle sei e mezzo di lunedì mattina, l’agente Fox entrò nel
vasto ufficio di Victor Westlake e disse: «I giamaicani sono
lenti come sempre. Non c’è molto da dire. Baldwin è
arrivato nel tardo pomeriggio di venerdì su un jet noleggiato
da una società di Raleigh, un bell’aereo che al momento è
sotto sequestro da Teile della dogana giamaicana e non
può tornare a casa. Nessun segno di Baldwin. Il suo amico,
Nathaniel Coley, ha cercato di entrare nel paese con un
passaporto falso e adesso è sottochiave, esattamente
come l’aereo».
«È in prigione?» chiese Westlake, mordicchiandosi
l’unghia del pollice.
«Sì, signore. È tutto quello che so al momento. Non ho
idea di quando possa essere rilasciato. Sto provando a
convincere la polizia giamaicana a controllare i registri
degli alberghi per localizzare Baldwin, ma sono molto
riluttanti. Baldwin non è un fuggitivo e a loro non piace
disturbare gli hotel. Inoltre, era il weekend eccetera.»
«Trovatemi Baldwin.»
«Ci stiamo provando, signore.»
«Cosa sta combinando?»
Fox scosse la testa. «Non ha senso. Perché bruciare un
mucchio di soldi per un jet privato? Perché viaggiare
insieme a un tizio con un passaporto falso? E chi diavolo è
Nathaniel Coley? Abbiamo fatto ricerche in Virginia e West
Virginia e non abbiamo trovato niente. Forse Coley è un
vecchio amico che non può richiedere il passaporto e così
hanno cercato di fregare il servizio immigrazione per
potersela spassare qualche giorno al sole.»
«Forse, forse.»
«Sì, signore.»
«Continuate a scavare e fatemi rapporto per e-mail.»
«Sì, signore.»
«Immagino che Baldwin abbia lasciato la sua auto
all’aeroporto di Roanoke.»
«Sì, nel parcheggio del terminal voli privati. Stessa targa
della Florida. L’abbiamo trovata sabato mattina e la
teniamo sotto sorveglianza.»
«Bene. Trovatemi Baldwin, okay?»
«E se lo troviamo?»
«Seguitelo e scoprite cosa sta facendo.»
Davanti a due tazze di caffè e all’oro, programmiamo la
nostra giornata, ma senza perdere tempo. Alle nove
Vanessa riconsegna la chiave della stanza e paga il conto.
Ci salutiamo con un bacio, poi la seguo in auto fuori dal
parcheggio, attento a non stare troppo attaccato al paraurti
posteriore della sua Accord, a pochi centimetri dal quale,
nascosta in fondo al bagagliaio, c’è metà dell’oro. L’altra
metà è nel bagagliaio della mia Impala a noleggio. Ci
separiamo all’altezza dello svincolo: Vanessa va a nord e
io a sud. La vedo nello specchietto retrovisore salutarmi
con la mano e mi chiedo quando la rivedrò.
Mentre mi preparo al lungo viaggio in auto con una
grande tazza di caffè a portata di mano, rammento a me
stesso che devo impiegare saggiamente il mio tempo.
Niente stupidi sogni a occhi aperti, niente vagabondaggi
mentali, niente fantasie su cosa fare di tutto il denaro. Ci
sono molti punti che esigono un’attenzione prioritaria. La
polizia quando troverà il pickup di Nathan? Quando devo
telefonare a Rashford Watley per dirgli di riferire a Nathan
che tutto procede come previsto? Quante scatole di sigari
possono entrare nelle cassette di sicurezza che ho affittato
un mese fa? Quanto oro devo cercare di vendere per
intascare un po’ di contanti? Come faccio a ottenere
l’attenzione di Victor Westlake e di Stanley Mumphrey, il
procuratore federale di Roanoke? E, cosa più importante
di tutte, come faremo uscire l’oro dal paese? E quanto
tempo ci vorrà?
E tuttavia la mente scivola verso mio padre, il vecchio
Henry, che non ha più alcun contatto con il figlio minore da
oltre quattro mesi. Sono sicuro che l’ho disgustato,
facendomi sbattere fuori da Frostburg e spedire a Fort
Wayne. Sono sicuro che è sconcertato dalla mancanza di
notizie. Probabilmente ha telefonato a mio fratello Marcus
a Washington e a mia sorella Ruby in California per
chiedere se hanno saputo qualcosa. Chissà se Henry è già
diventato bisnonno grazie al figlio delinquente di Marcus e
alla sua fidanzatina quattordicenne? Oppure la ragazza ha
abortito?
Ripensandoci, forse la mia famiglia non mi manca
quanto mi sembra a volte. Però sarebbe bello rivedere mio
padre, anche se sospetto che non approverebbe il mio
nuovo look. La verità è che con ogni probabilità non rivedrò
mai più nessuno di loro. A seconda di quelli che saranno i
capricci e le macchinazioni del governo federale, potrò
continuare a essere un uomo libero o passare il resto della
vita da fuggitivo. In ogni caso, avrò l’oro.
Mentre i chilometri scivolano via e io mi attengo al limite
di velocità, cercando di non farmi travolgere dai grossi TIR,
non posso evitare di pensare a Bo. Sono uscito di prigione
quattro mesi fa e ogni giorno ho dovuto soffocare l’impulso
di pensare a mio figlio. L’idea che forse non lo rivedrò mai
più fa male, ma con il passare delle settimane sono
arrivato ad accettare questa realtà. Riprendere in qualche
modo contatto con lui sarebbe il primo, enorme passo
lungo la strada che porta alla normalità, ma da ora in poi la
mia vita sarà tutto tranne che normale. Non sarà più
possibile vivere di nuovo insieme sotto lo stesso tetto,
come padre e figlio, e non vedo alcun vantaggio per Bo se
sapesse che sono improvvisamente ricomparso e che mi
piacerebbe mangiare un gelato con lui due volte al mese.
Sono sicuro che si ricorda ancora di me, ma i ricordi
stanno di certo sbiadendo. Dionne è una donna adorabile
e in gamba, e non ho dubbi che lei e il suo nuovo marito
stiano garantendo a Bo una vita felice. Perché io,
praticamente uno sconosciuto e comunque un tizio che lo
sembra, dovrebbe piombare nel loro mondo e
sconvolgerlo? E una volta che convincessi Bo che sono
davvero suo padre, come farei a resuscitare un rapporto
morto da più di cinque anni?
Per mettere fine a questo tormento, cerco di focalizzare i
pensieri sulle prossime ore, poi sui prossimi giorni. Mi
aspettano dei passi cruciali: un errore potrebbe costarmi
una fortuna e forse rimandarmi in galera.
Nei dintorni di Savannah mi fermo a fare benzina e
mangio un sandwich preso da un distributore automatico.
Due ore e mezzo dopo sono a Neptune Beach, il mio
vecchio territorio temporaneo. In un negozio di articoli per
ufficio acquisto una grossa valigetta, poi raggiungo uno dei
parcheggi pubblici della spiaggia. Non ci sono telecamere
di sorveglianza e nemmeno pedoni in giro; apro
velocemente il bagagliaio, estraggo due scatole di sigari e
le sistemo nella valigetta. Adesso arriva a circa diciotto
chili e, mentre giro intorno all’auto, mi rendo conto che è
troppo pesante. Tolgo una scatola e la rimetto nel
bagagliaio.
A quattro isolati di distanza, parcheggio davanti alla First
Coast Trust e mi avvio con aria indifferente verso l’ingresso
principale. Il termometro digitale sul tabellone elettronico
della banca indica trentasei gradi. A ogni passo la valigetta
diventa sempre più pesante e mi sforzo di muovermi come
se contenesse solo qualche documento. Nove chili non
sono molti, ma di sicuro sono troppi per una valigetta, di
qualsiasi dimensione.
Adesso ogni mossa viene videoregistrata e l’ultima cosa
che voglio è un’immagine di me che entro in banca
arrancando per il peso eccessivo. Mi preoccupo per
Vanessa e per lo sforzo che dovrà fare per accedere alle
cassette di sicurezza di Richmond con un tale carico sulle
spalle.
Ma per quanto gravoso, non posso fare a meno di
sorridere all’incredibile peso dell’oro puro.
All’interno della banca aspetto pazientemente che
l’impiegata addetta al caveau finisca con un altro cliente.
Quando arriva il mio turno, le consegno la mia patente della
Florida e le faccio una firma sul modulo. La donna controlla
la mia faccia e la mia grafia, approva e mi scorta nel
caveau sul retro dell’edificio. Inserisce la chiave della
banca nella serratura della mia cassetta, poi io inserisco la
mia. I due clic sono perfetti, la cassetta può essere estratta
e io la porto in uno stretto cubicolo riservato, di cui chiudo
la porta. L’impiegata aspetta fuori, al centro del caveau.
La cassetta è larga quindici centimetri, alta quindici e
lunga quarantacinque, la più grande disponibile un mese
fa, quando l’ho affittata per un anno versando trecento
dollari. Metto la scatola di sigari nella cassetta. Vanessa e
io abbiamo scritto su ogni scatola il numero esatto dei
minilingotti all’interno. Questa ne contiene trentatré, pari a
trecentotrenta once, per un valore approssimativo di
cinquecentomila dollari. Chiudo la cassetta e rimango in
ammirazione, lascio passare qualche minuto, poi apro la
porta e avverto l’impiegata. Teile del suo lavoro consiste
nel mantenere un atteggiamento impassibile e distaccato,
e lei ci riesce bene. Immagino che abbia visto di tutto.
Venti minuti più tardi sono nel caveau di una filiale della
Jacksonville Savings Bank. Lo spazio qui è più ampio, le
cassette più piccole e l’impiegato più sospettoso, ma tutto
il resto è uguale. Dietro la porta chiusa a chiave, dispongo
delicatamente un altro tesoretto di minilingotti all’interno
della cassetta. Trentadue affascinanti lingottini che valgono
un altro mezzo milione.
Nella terza e ultima banca, distante meno di ottocento
metri dalla prima, effettuo l’ultimo deposito della giornata,
poi passo un’ora alla ricerca di un motel dove possa
parcheggiare davanti alla mia camera.
In un centro commerciale alla periferia ovest di Richmond,
Vanessa si aggira in un grande magazzino di lusso alla
ricerca del reTeilo accessori femminili. Anche se si muove
con calma, è un fascio di nervi perché l’Accord è là fuori,
abbandonata nel parcheggio e in attesa solo di essere
vandalizzata o rubata. Sceglie una raffinata borsa di pelle a
tracolla, rossa e sufficientemente capiente da essere
definita bagaglio. È stata disegnata da un famoso stilista e
molto probabilmente verrà notata dalle impiegate delle
banche. Paga in contanti e si precipita alla sua auto.
Due settimane fa, Max – Vanessa lo ha sempre
conosciuto come Malcolm, ma il nome nuovo le piace di
più – le ha ordinato di affittare tre cassette di sicurezza. Lei
ha accuratamente selezionato le banche nell’area di
Richmond, ha compilato i moduli, ha superato i controlli e
ha pagato gli affitti. Poi, come da istruzioni, è andata per
due volte a depositare inutili cartacce in ognuna delle
cassette. Adesso gli impiegati la conoscono, si fidano di
lei e non hanno il minimo sospetto quando Ms Vanessa
Young si presenta con la sua nuova borsa firmata e chiede
di avere accesso al caveau.
In meno di novanta minuti Vanessa mette al sicuro quasi
un milione e mezzo di dollari in oro.
Torna a casa per la prima volta dopo più di una
settimana e parcheggia in uno spazio che può tenere
d’occhio dalla sua finestra al secondo piano. Il palazzo è in
una bella zona della città, vicino all’University of Richmond
e il quartiere in genere è sicuro. Vanessa abita qui da due
anni e non ricorda una sola auto rubata o un solo furto. In
ogni caso non intende correre rischi. Ispeziona porte e
finestre cercando segni di scasso, ma non ne trova. Fa una
doccia, si cambia ed esce di nuovo.
Quattro ore dopo è di ritorno e, nel buio, trasporta
lentamente e metodicamente il tesoro all’interno
dell’apTeilamento e lo nasconde sotto il letto. Ci dorme
sopra, con la Glock sul comodino e tutte le porte chiuse a
chiave e bloccate da una sedia sotto il pomolo.
Dorme solo a tratti e all’alba sta già sorseggiando caffè
sul divano del soggiorno mentre guarda le previsioni del
tempo sulla locale TV via cavo. L’orologio sembra essersi
fermato. Le piacerebbe dormire ancora un po’, ma sa che
la mente non consentirà al corpo di lasciarsi andare. Le è
sparito anche l’appetito, ma si sforza di buttare giù un po’
di fiocchi di latte. Più o meno ogni dieci minuti, si avvicina
alla finestra e controlla il parcheggio. I pendolari del primo
mattino escono di casa a ondate: sette e trenta, sette e
quarantacinque, otto. Le banche apriranno solo alle nove.
Vanessa fa un’altra lunga doccia, si veste come se
dovesse andare a corte, prepara una borsa da viaggio e la
carica sull’Accord. Nel corso dei venti minuti successivi,
preleva tre scatole di sigari da sotto il letto e le trasferisce
in auto. Tra poco le depositerà nelle stesse tre cassette di
sicurezza che ha visitato ieri.
Il grande dibattito che infuria nella sua mente è se le
restanti tre scatole saranno più al sicuro nel bagagliaio
dell’auto o sotto il letto nell’apTeilamento. Decide di andare
sul sicuro: ne lascia due a casa e prende l’altra con sé.
Vanessa mi telefona per comunicarmi che ha effettuato il
terzo e ultimo deposito del mattino e che sta andando a
Roanoke, dove incontrerà l’avvocato. Io la precedo di un
paio di passi. Ho visitato le mie tre banche un po’ prima di
lei, ho effettuato i depositi e adesso sono in auto, diretto a
Miami. Abbiamo messo al sicuro trecentottanta dei
cinquecentosettanta minilingotti. È una bella sensazione,
ma la pressione è ancora alta. Nelle giuste circostanze, e
anche in quelle sbagliate, i federali hanno la facoltà di
mettere sotto sequestro qualsiasi bene o proprietà, e lo
fanno. Perciò non vogliamo correre rischi. Devo portare
l’oro fuori dal paese.
Suppongo che i federali non sappiano che Vanessa e io
lavoriamo insieme. Suppongo anche che non abbiano
ancora collegato Nathan Cooley a me. Sto facendo un
mucchio di supposizioni e non ho modo di sapere se sono
corrette o no.
39
Impantanato in un rallentamento per lavori stradali nei
pressi di Fort Lauderdale, digito il numero del cellulare di
Mr Rashford Watley, a Montego Bay. L’avvocato mi
risponde con una gran risata, come se fossimo amici da
decenni. Lo informo che sono di nuovo al sicuro negli Stati
Uniti e che va tutto bene. Quarantott’ore fa sgusciavo fuori
dalla Giamaica dopo avere salutato sia Nathan che
Rashford, terrorizzato all’idea di essere fermato da uomini
in uniforme prima di potermi imbarcare sul volo diretto a
Porto Rico. Sono stupefatto dalla velocità con cui
succedono le cose. Rammento più volte a me stesso che
devo restare concentrato e pensare alla prossima mossa.
Da domenica Rashford non è più tornato alla prigione.
Gli spiego che Nathaniel si è inventato un piano per
corrompere gente in Giamaica e vaneggia su un mio
ritorno con un vagone di contanti. Ho fatto qualche
telefonata e sembra proprio che il ragazzo abbia una lunga
storia di tossicodipendenza; non riesco ancora a credere
che quell’idiota abbia provato a contrabbandare quattro
chili di coca e non so assolutamente spiegarmi la pistola.
Un deficiente.
L’avvocato si dichiara d’accordo con me e mi informa
che ieri, lunedì, ha fatto due chiacchiere con il procuratore.
Se Rashford riuscirà a far funzionare la sua magia, il nostro
amico se la dovrà vedere con “circa” vent’anni nel sistema
carcerario giamaicano. Francamente, ammette Rashford,
non crede che Nathaniel potrà sopravvivere così a lungo. A
giudicare dai pestaggi che ha subito nelle prime due notti
in cella, sarà fortunato se resisterà una settimana.
Mi accordo con Rashford per una sua visita a Nathaniel
nel pomeriggio. Gli chiedo di riferire al nostro amico che
sto lavorando sodo per ottenere il suo rilascio, che la visita
a casa sua è andata come previsto e che le cose
procedono come stabilito. «Come vuoi» mi dice Rashford.
Gli ho pagato la parcella, perciò, tecnicamente, sta ancora
lavorando per me.
Spero che questa sia la nostra ultima conversazione.
Vanessa affronta di nuovo le tre ore e mezzo d’auto da
Richmond a Roanoke e si presenta puntuale
all’appuntamento delle quattordici con Dusty Shiver,
l’avvocato di Quinn Rucker. Quando ha telefonato per
concordare l’incontro, Vanessa ha assicurato di essere in
possesso di prove vitali riguardanti il caso di Quinn. Dusty
si è incuriosito e ha cercato di ottenere qualche
informazione, ma Vanessa ha insistito per un incontro a
quattr’occhi, il più presto possibile.
È vestita alla moda, con una gonna abbastanza corta da
attirare l’attenzione. Con sé ha una piccola valigetta di
pelle. Quando entra nell’ufficio, Dusty scatta in piedi per
offrirle una sedia. Una segretaria serve il caffè e viene
scambiata qualche chiacchiera di circostanza fino a
quando la porta si richiude definitivamente.
«Vado subito al punto, Mr Shiver» attacca Vanessa.
«Quinn Rucker è mio fratello e io posso provare che è
innocente.»
Dusty riflette sulla dichiarazione e lascia che echeggi
nella stanza. Sa che Quinn ha due fratelli, Dee Ray e Tall
Man, e sa che ha anche una sorella, Lucinda. Lavorano tutti
nell’impresa di famiglia. Adesso ricorda che c’è anche
un’altra sorella che non si è mai lasciata coinvolgere e
della quale non è mai stata fatta menzione.
«Quinn è suo fratello» ripete Dusty, quasi borbottando.
«Sì. Io me ne sono andata da Washington qualche anno
fa per restare alla larga da tutto.»
«Okay, l’ascolto. Sentiamo.»
Vanessa accavalla di nuovo le gambe, ma Dusty
mantiene il contatto degli occhi.
«Più o meno una settimana dopo l’evasione da
Frostburg, Quinn per poco non è morto per un’overdose di
cocaina a Washington. Noi, la famiglia, sapevamo che
avrebbe finito per uccidersi con quella roba... Quinn è
sempre stato quello che si faceva di più... e siamo
intervenuti. Mio fratello Dee Ray e io lo abbiamo portato in
un centro di riabilitazione vicino ad Akron, Ohio, un posto
per tossici seri. Non c’era un’ordinanza del tribunale, per
cui non lo si poteva rinchiudere, ma in sostanza è ciò che
succede in quella struttura. Quinn era lì da ventun giorni
quando, il sette febbraio, sono stati trovati i corpi del
giudice Fawcett e della sua segretaria.» Vanessa estrae
una cartellina dalla sua valigetta e la posa sulla scrivania di
Dusty. «Lì dentro c’è tutta la documentazione. Dato che era
appena evaso di prigione, Quinn è stato ricoverato sotto
falso nome: Mr James Williams. Abbiamo versato un
anticipo di ventimila dollari in contanti, per cui al centro di
riabilitazione non hanno sollevato obiezioni, né hanno fatto
domande. Ma hanno sottoposto mio fratello a un check-up
completo, compresi gli esami del sangue, perciò esiste la
prova del DNA in grado di dimostrare che al momento degli
omicidi Quinn era là dentro.»
«Da quanto tempo lei è al corrente della situazione?»
«Non posso rispondere a tutte le sue domande, Mr
Shiver. Nella nostra famiglia ci sono molti segreti, e non
molte risposte.»
Dusty la fissa e Vanessa sostiene calma il suo sguardo.
L’avvocato è consapevole che non verrà mai a sapere
tutto, ma al momento la cosa non è poi così importante. Ha
appena conseguito una grossa vittoria sul governo e sta
già ridendo. «Perché suo fratello ha confessato?»
«Perché una persona confessa un crimine che non ha
commesso? Non lo so. Quinn soffre di un grave disturbo
bipolare, e anche altri problemi. Quelli dell’FBI l’hanno
martellato per dieci ore e hanno usato tutti i trucchi a loro
disposizione. Conoscendo Quinn, direi che è stato al
gioco. Probabilmente ha dato a quella gente ciò che voleva
in modo che lo lasciassero in pace. Forse si è inventato
una bella storia solo per farli correre in cerchio nel tentativo
di verificarla. Non lo so. Lei ricorda la vicenda di baby
Lindbergh, il più famoso caso di rapimento della storia?»
«Ho letto di quel caso, certo.»
«Be’, furono almeno centocinquanta le persone che si
autoaccusarono del crimine. Non ha senso, ma Quinn a
volte può essere completamente pazzo.»
Dusty apre la cartellina. C’è un rapporto per ogni giorno
che Quinn ha trascorso in riabilitazione, dal diciassette
gennaio al sette febbraio, il lunedì in cui sono stati rinvenuti
i cadaveri del giudice Fawcett e di Naomi Clary. «Qui c’è
scritto che Quinn ha lasciato la struttura nel pomeriggio del
sette febbraio» dice Dusty leggendo.
«È così. Mio fratello se n’è andato, o è scappato, e ha
raggiunto Roanoke.»
«E perché, se posso chiederlo, è andato a Roanoke?»
«Di nuovo, Mr Shiver, ci sono domande alle quali non
posso rispondere.»
«E così suo fratello compare a Roanoke il giorno dopo la
scoperta dei cadaveri, va in un bar, si ubriaca, si azzuffa, si
fa arrestare e gli trovano un sacco di contanti in tasca. Ci
sono parecchi buchi, Miss...»
«Sì, è vero, ma con il tempo quei buchi verranno colmati.
Adesso però non ha molta importanza, no? Ciò che
importa, è che lei ha la prova inconfutabile dell’innocenza
di Quinn. A Teile la falsa confessione, il governo non ha
alcuna prova contro mio fratello, giusto?»
«Giusto. Non ci sono prove materiali, solo un
comportamento molto sospetto. Per esempio, perché era
a Roanoke? Come ci era arrivato? Dove aveva preso tutti
quei contanti? Dove aveva acquistato le armi rubate? Sono
un mucchio di domande, ma immagino che lei non abbia le
risposte, vero?»
«Vero.»
Dusty intreccia le mani dietro la nuca e fissa il soffitto.
Dopo un lungo silenzio dice: «Dovrò fare delle indagini.
Andare al centro di riabilitazione, interrogare il personale,
farmi rilasciare delle dichiarazioni giurate eccetera. I
federali non cederanno finché la nostra pratica non sarà
molto più voluminosa e non potremo sbattergliela in faccia.
Mi serviranno altri venticinquemila dollari».
Senza esitare, Vanessa dice: «Ne parlerò con Dee
Ray».
«L’udienza preprocessuale è tra due settimane, perciò
dobbiamo muoverci in fretta. Mi piacerebbe depositare
l’istanza di archiviazione dell’indagine prima dell’udienza.»
«L’avvocato è lei.»
Un’altra pausa mentre Dusty si piega in avanti sui gomiti
e fissa Vanessa. «Conoscevo bene il giudice Fawcett. Non
eravamo amici intimi, solo buoni conoscenti. Se non è
stato Quinn a ucciderlo, ha idea di chi può essere stato?»
Vanessa sta già scuotendo la testa. No.
La polizia trovò il pickup di Nathan nel parcheggio dei voli
privati del Roanoke Regional Airport nella tarda mattinata
di martedì. Come prevedibile, il lunedì i dipendenti del bar
si erano preoccupati non vedendo arrivare Cooley e in
serata avevano cominciato a telefonare in giro. Alla fine
avevano chiamato la polizia, che aveva perlustrato la zona
dell’aeroporto. Nathan si era vantato del suo volo a Miami
a bordo di un jet privato, per cui la ricerca non risultò
difficile, almeno per quanto riguardava il pickup. Il
ritrovamento del veicolo, tuttavia, non indicava
automaticamente un reato, e la polizia non aveva molta
fretta di dare inizio a una caccia all’uomo. Un rapido
controllo sull’individuo scomparso ne rivelò i precedenti
penali e questo non contribuì molto a suscitare solidarietà
e comprensione. Inoltre, non c’era una famiglia che
strillasse per la scomparsa dell’amato congiunto.
Una ricerca al computer e qualche telefonata appurarono
che Nathan aveva acquistato il suo Chevy Silverado nuovo
di zecca due mesi prima presso un concessionario di
Lexington, Virginia, un’ora d’auto a nord di Roanoke
sull’Interstatale 81. Il prezzo di vendita era stato di
quarantunmila dollari e Nathan aveva pagato sull’unghia.
Non nel senso di assegno, ma di contanti. Un notevole
mucchietto di banconote da cento.
All’insaputa del concessionario e della polizia – o di
chiunque altro, se era per quello – Nathan si era trovato un
commerciante d’oro.
Finalmente ne trovo uno anch’io.
Dopo due viaggi nel caveau della Palmetto Trust nella
Teile sud del centro di Miami, ho ancora in mio possesso –
nel bagagliaio dell’Impala a noleggio – esattamente
quarantuno preziosi minilingotti, per un valore di circa
seicentomila dollari. Ho bisogno di convertirne una Teile in
contanti e, per farlo, sono costretto ad avventurarmi
nell’oscuro mondo del commercio dell’oro, dove le regole
sono flessibili, adattate al momento, e tutti i personaggi
hanno occhi sfuggenti e usano un linguaggio ambiguo.
I primi due, pescati sulle Pagine Gialle, sospettano che
io sia un agente di qualche tipo e riattaccano subito. Il
terzo, un gentiluomo dall’accento straniero – cosa che,
come sto imparando in fretta, non è insolita nell’ambiente –
vuole sapere come sono entrato in possesso di un lingotto
da dieci once di oro apparentemente puro. «È una lunga
storia» rispondo, e riattacco. Il numero quattro è un pesce
piccolo che ufficialmente gestisce un banco di pegni e
compra gioielli sottobanco. Il numero cinque sembra avere
un certo potenziale, ma naturalmente esige di vedere la
merce. Gli spiego che non voglio entrare nel suo negozio
perché non mi va di essere ripreso dalle telecamere. Lui
tace e sospetto che stia pensando alla possibilità di venire
derubato dei suoi contanti sotto la minaccia di una pistola.
Alla fine concordiamo un incontro in una gelateria a due
porte dal suo negozio, all’interno di un centro commerciale
in una zona rispettabile della città. Il mio uomo indosserà
un berretto nero dei Marlins.
Mezz’ora più tardi sono seduto davanti a un gelato al
pistacchio. Hassan, un corpulento siriano dalla barba
grigia, è di fronte a me e si sta lavorando la sua coppa con
tripla glassa di cioccolato. A sei metri da noi c’è un altro
gentiluomo dalla pelle scura che legge un quotidiano,
mangia un gelato allo yogurt e probabilmente è pronto a
spararmi se solo do il minimo segno di voler creare guai.
Dopo aver cercato, senza riuscirci, di fare due
chiacchiere amichevoli, faccio scivolare sul tavolo una
busta sgualcita. Dentro c’è un unico lingotto. Hassan si
guarda intorno, ma gli unici clienti sono giovani mamme
con i loro figlioletti, più l’altro siriano. Hassan afferra il
minilingotto con la sua grossa zampa, lo stringe, sorride, lo
picchietta leggermente sull’angolo del tavolo e mormora:
«Wow». Questo lo dice senza la minima traccia d’accento.
Mi stupisce constatare quanto sia tranquillizzante quella
semplice esclamazione. Non ho mai pensato che l’oro
fosse falso, ma sentirmelo confermare da un professionista
è rassicurante. «Le piace, eh?» domando stupidamente,
tanto per dire qualcosa.
«Molto bello» conferma Hassan, rimettendo il lingotto
nella busta. Tendo la mano e me la riprendo. Lui mi chiede:
«Quanti?».
«Diciamo cinque pezzi, cinquanta once. Ieri l’oro ha
chiuso a millecinquecentoventi dollari l’oncia, per cui...»
«Conosco il prezzo dell’oro» mi interrompe Hassan.
«Certo. Vuole comprare cinque lingottini?»
Un uomo così non dice mai sì o no. Borbotta, la prende
alla larga, ci gira intorno e bluffa. «È possibile. Ovviamente
dipende dal prezzo.»
«Lei quanto offre?» domando, ma senza troppa ansia.
Ci sono altri commercianti d’oro sulle Pagine Gialle, anche
se il tempo comincia a scarseggiare e sono stanco di fare
telefonate.
«Be’, Mr Baldwin, dipende da diverse cose. In una
situazione come questa bisogna presumere che l’oro sia...
diciamo del tipo mercato nero. Non so dove lei lo abbia
preso, e non voglio saperlo, ma esiste una ragionevole
possibilità che sia stato... diciamo prelevato dal suo
precedente proprietario.»
«Importa veramente da dove...»
«Lei è il proprietario registrato di questo oro, Mr
Baldwin?» mi chiede bruscamente il siriano.
Mi guardo intorno. «No.»
«Naturalmente. Lo sconto al mercato nero è del venti per
cento.» Non ha bisogno della calcolatrice. «Le pagherò
milleduecentoventi dollari l’oncia» dice con calma, ma con
fermezza, piegandosi in avanti. La barba gli copre in Teile
le labbra, ma le parole nonostante l’accento sono chiare.
«Per cinque lingotti?» chiedo. «Cinquanta once?»
«Sempre che gli altri quattro siano della stessa qualità.»
«Sono identici a questo.»
«E lei non ha registrazioni, fatture, documenti... niente,
vero, Mr Baldwin?»
«Vero, e non voglio registrazioni neppure adesso. Una
semplice transazione, oro in cambio di contanti, niente
ricevute, niente documenti, niente video, niente. Sono
arrivato e poi sono svanito nella notte.»
Hassan sorride. Ci stringiamo la mano e l’affare è
concluso. Concordiamo di rivederci domani mattina alle
nove in una tavola calda sull’altro lato della strada, un locale
con séparé dove potremo sbrigare i nostri affari in privato.
Quando esco dalla gelateria ho come la sensazione di
avere commesso un reato e devo ripetere a me stesso
quello che dovrebbe essere ovvio, e cioè che non è contro
la legge comprare e vendere oro, a prezzi scontati o
gonfiati. Non è che stiamo spacciando crack in strada, né
si tratta di informazioni riservate fatte filtrare da un
consiglio d’amministrazione. Questa è una transazione
perfettamente legale, giusto?
Chiunque avesse guardato Hassan e me avrebbe
giurato di avere visto due delinquenti che concludevano un
affare da delinquenti. E chi avrebbe potuto dargli torto?
Ma, a questo punto, non mi importa più.
Sto correndo dei rischi, ma non ho scelta. Hassan è un
rischio, ma io ho bisogno di soldi. Anche portare l’oro fuori
dal paese comporterà dei rischi, ma lasciarlo qui potrebbe
significare perderlo.
Impiego le due ore successive facendo shopping in
diversi discount. Compro vari articoli, come scatole di
backgammon, piccole cassette degli attrezzi, libri in
edizione rilegata e tre laptop a buon mercato. Scarico i
miei acquisti nella stanza al piano terra di un motel a sud di
Coral Gable e trascorro il resto della sera armeggiando,
imballando e sorseggiando birra ghiacciata.
Estraggo dai laptop gli hard drive e le batterie, che
sostituisco con tre dei miei mattoncini. Inserisco all’interno
di ogni volume rilegato un minilingotto avvolto in carta di
giornale e foglio di alluminio, poi passo il nastro adesivo
intorno al libro. Nelle cassette degli attrezzi lascio il
martello e i cacciavite, ma tolgo tutto il resto. Sistemo
ordinatamente quattro lingottini in ogni cassetta. Le scatole
del backgammon possono ospitarne due senza suscitare
sospetti per il peso. Usando materiale di FedEx, UPS e DHL,
imballo con cura i vari articoli, mentre le ore passano e io
sono perso in un altro mondo.
Telefono due volte a Vanessa e ci raccontiamo la nostra
giornata. Lei è di nuovo a Richmond e sta facendo quello
che sto facendo io. Siamo entrambi esausti, fisicamente e
mentalmente, ma ci incoraggiamo a vicenda. Non è il
momento di rallentare o di diventare sbadati.
A mezzanotte ho finito e ammiro il mio lavoro. Sulla
credenza ci sono circa dieci pacchi per consegna urgente,
tutti sigillati e debitamente accompagnati dalle rispettive
lettere di vettura aeree; hanno un’apparenza irreprensibile,
per nulla sospetta, e complessivamente contengono
trentadue minilingotti per un valore di cinquecentomila
dollari circa. La compilazione dei moduli per le spedizioni
internazionali è noiosa e sono costretto a imbrogliare un
po’ per quanto riguarda il contenuto dei pacchi. Il mittente è
Mr M. Reed Baldwin della Skelter Films di Miami, e il
destinatario è la stessa persona, a Sugar Cove Villas, n.
26, Willoughby Bay, Antigua. Il mio piano prevede che mi
trovi là per ricevere personalmente i pacchi. Se arriveranno
a destinazione senza incidenti, probabilmente Vanessa e
io tenteremo identiche spedizioni nel prossimo futuro. Se
invece qualcosa andrà male, studieremo piani alternativi.
Spedire l’oro in questo modo è un altro rischio: i pacchi
potrebbero essere controllati e sequestrati, l’oro potrebbe
essere rubato lungo il percorso. Tuttavia sono
ragionevolmente sicuro che arriverà alla sua nuova casa.
Ricordo a me stesso che non stiamo spedendo
stupefacenti.
Sono troppo teso per dormire e alle due di notte
accendo sia la luce che il laptop e mi metto al lavoro sull’e-
mail che invierò a Mr Stanley Mumphrey, procuratore
federale, Distretto Sud della Virginia, e a Mr Victor
Westlake, FBI, Washington. La bozza in lavorazione dice:
Cari Mr Mumphrey e Mr Westlake,
temo di aver commesso un grave errore. Quinn Rucker non ha
ucciso il giudice Raymond Fawcett e neppure Ms Naomi Clary. Fuori
dal carcere, mi ci sono voluti parecchi mesi per rendermene conto e
per identificare il vero assassino.
La confessione di Quinn è falsa, come ormai probabilmente sapete,
e contro di lui avete zero prove. Il suo avvocato, Dusty Shiver, è ora in
possesso di prove inoppugnabili
e di un alibi che discolperà Quinn, perciò preparatevi
alla necessità di far cadere ogni accusa nei suoi confronti.
Mi scuso per qualsiasi inconveniente possa avervi causato.
È imperativo che ci incontriamo il più presto possibile.
Ho un piano dettagliato riguardante il modo di procedere,
e solo la vostra totale collaborazione porterà all’arresto
e alla condanna dell’assassino. Tale piano inizia con la promessa
di totale immunità per me e per altre persone, e termina con il
risultato che desiderate. Lavorando insieme, potremo finalmente
risolvere la questione e far sì che venga fatta giustizia.
Sono all’estero e non ho in programma di rientrare, mai più.
Cordialmente,
Malcolm Bannister
40
Come ormai d’abitudine, il sonno è sfuggente. Anzi, è così
inafferrabile e intermittente che non sono neppure sicuro di
aver dormito. C’è talmente tanto da fare che mi ritrovo a
bere caffè cattivo e a guardare la televisione ben prima
che il sole si alzi. Alla fine faccio la doccia, mi vesto, carico
i miei pacchi in auto e mi inoltro nelle strade ancora
deserte di Miami alla ricerca della colazione. Alle nove
Hassan fa il suo ingresso nella tavola calda con un
sacchetto di carta marrone, come se fosse appena andato
a comprare qualcosa in un negozio di alimentari. Ci
rannicchiamo in un séparé, ordiniamo caffè e,
nascondendoci alla cameriera, procediamo con i conteggi.
Quello di Hassan è molto più facile del mio; accarezza i
cinque minilingotti e poi se li lascia cadere nelle tasche
interne del blazer grinzoso. Io sbircio all’interno del
sacchetto marrone e tento di contare centoventidue
mazzette di banconote da cento, dieci per mazzetta. «C’è
tutto» mi assicura Hassan, tenendo d’occhio la cameriera.
«Centoventiduemila dollari.»
Una volta soddisfatto, richiudo il sacchetto e tento di
gustarmi il caffè. Venti minuti dopo essere arrivato, Hassan
se ne va. Io mi trattengo ancora un po’, esco a mia volta e,
aspettando nervosamente l’assalto di una squadra SWAT, mi
avvio verso la mia auto. Tengo a portata di mano
ventiduemila dollari per il viaggio e sistemo cinquantamila
dollari in ognuna delle due rimanenti scatole di
backgammon. A una filiale della FedEx, aspetto in fila con i
miei cinque pacchi e osservo attento i clienti che mi
precedono sbrigare i loro affari.
Quando arriva il mio turno, l’impiegata esamina le lettere
di vettura aerea e con indifferenza mi chiede: «Cosa c’è
dentro?».
«Articoli per la casa, qualche libro, niente di valore,
niente da assicurare» rispondo con le parole
accuratamente preparate. «Ho una casa ad Antigua che
voglio sistemare un po’.» La donna annuisce come se i
miei programmi la interessassero davvero.
Per una consegna standard garantita entro tre giorni, la
fattura ammonta a trecentodieci dollari, che saldo con una
carta di credito prepagata. Quando esco dall’ufficio,
lasciandomi l’oro alle spalle, faccio un respiro profondo e
spero per il meglio. Servendomi del GPS dell’auto a nolo,
raggiungo una filiale UPS e ripeto la stessa procedura.
Torno alla Palmetto Trust e impiego un’ora per arrivare alla
mia cassetta, dentro la quale lascio il resto dei contanti e i
quattro lingottini rimanenti.
Ci metto un po’ a trovare l’ufficio spedizioni della DHL
nell’area del Miami International, ma alla fine ci arrivo e mi
sbarazzo di altri pacchi. Finalmente mi separo dall’Impala
al banco dell’Avis e con un taxi raggiungo la sezione voli
privati dell’aeroporto, lontanissima dal terminal principale.
Ci sono isolati di hangar per aerei privati, società charter e
scuole di volo, e il mio tassista si perde mentre cerchiamo
invano una compagnia denominata Maritime Aviation. Ci
sarebbe bisogno di un’insegna più grande perché quella
attualmente in uso non si vede quasi dalla strada vicina e
sono tentato di rimarcare questa verità all’impiegato
appena varco la porta. Ma riesco a mordermi la lingua e a
rilassarmi.
Non c’è uno scanner che esamini me o il mio bagaglio;
immagino che i terminal dei voli privati non siano dotati di
strumenti del genere. Penso che sarò comunque
controllato al mio arrivo ad Antigua, perciò ho deciso di
giocare sul sicuro. Ho circa trentamila dollari in contanti, la
maggior Teile dei quali nascosta nel bagaglio; se li
troveranno e si faranno prendere dall’eccitazione, fingerò
di cadere dalle nuvole e pagherò la multa. Ho avuto la
tentazione di cercare di portare fuori dal paese un paio di
lingotti, tanto per vedere se è possibile riuscirci, ma il
rischio sarebbe stato maggiore del vantaggio.
Alle tredici e trenta i piloti mi dicono che è ora di
imbarcarci, così saliamo a bordo di un Learjet 35, un
piccolo aereo che misura circa la metà del Challenger che
Nathan e io ci siamo goduti per un po’ durante la nostra
recente gita in Giamaica. Il 35 può arrivare a ospitare sei
persone, ma se si trattasse di uomini adulti dovrebbero
sedere spalla a spalla. Invece del bagno, c’è un contenitore
d’emergenza sotto un sedile. La cabina è stipata, come
minimo, ma chi se ne importa? Il Learjet è molto meno caro
di un grosso aereo, ma altrettanto veloce. Io sono l’unico
passeggero, e ho fretta.
A bordo c’è Max Baldwin, con tutti i suoi regolari
documenti.
Malcolm Bannister è uscito di scena, definitivamente.
Sono sicuro che il servizio immigrazione prima o poi
avvertirà un ficcanaso dell’FBI, il quale, dopo qualche
perplessità, riferirà al suo capo. Si sfregheranno il mento e
si chiederanno cosa abbia in mente Baldwin. Perché
questa fissazione per i jet privati? Perché sta buttando via
tutti i suoi soldi? Un mucchio di domande, ma la più
importante sarà sempre: cosa diavolo sta facendo?
Non ne avranno la minima idea finché non glielo dirò io.
Mentre l’aereo si allontana dal terminal, rivedo
velocemente la mia e-mail per Mumphrey e Westlake e
clicco su “Invio”.
Oggi è il 28 luglio. Quattro mesi fa ho lasciato Frostburg e
due mesi fa me ne sono andato da Fort Carson con una
nuova faccia e un nuovo nome. Mentre cerco di ricostruire
le ultime settimane e di valutarle in prospettiva, comincio
ad appisolarmi. Quando raggiungiamo l’altezza di
dodicimila metri, mi addormento del tutto.
Due ore più tardi vengo svegliato da una turbolenza e
guardo fuori dall’oblò. Stiamo cavalcando una tempesta
estiva e il piccolo jet viene sballottato in ogni direzione.
Uno dei piloti si volta e mi fa segno con i pollici alzati: è
tutto okay. Se lo dici tu, amico. Qualche minuto dopo il
cielo è di nuovo sereno, la tempesta è alle nostre spalle e
io osservo le meravigliose acque dei Caraibi sotto di noi.
Secondo il NavScreen sulla paratia davanti a me, stiamo
per sorvolare St Croix nelle Isole Vergini.
Ci sono così tante splendide isole, laggiù, e così varie.
Quando ero in carcere, tenevo nascosta in biblioteca una
copia della Fodor’s Guide to the Caribbean, un grosso
testo di consultazione con una ventina di foto a colori,
mappe, elenchi di cose da fare e una breve storia di tutte le
isole. Sognavo che un giorno sarei stato libero nei Caraibi
insieme a Vanessa e che, noi due soli a bordo di una
piccola barca a vela, avremmo vagato da una meta all’altra
in totale e assoluta libertà. Non so andare a vela e non ho
mai posseduto una barca, ma quello era Malcolm. Oggi
Max sta per cominciare una nuova vita a quarantatré anni,
e se vuole comprarsi uno skiff, imparare ad andare a vela
e passare il resto dell’esistenza scivolando da una
spiaggia all’altra, chi può impedirglielo?
L’aereo ha un piccolo sobbalzo quando la potenza dei
motori viene leggermente ridotta. Osservo il capitano
abbassare le manette mentre inizia la lunga discesa. C’è
un frigo portatile accanto al portellone ed estraggo una
birra. Sorvoliamo Nevis e St Kitts. Anche queste due isole
hanno un’interessante normativa bancaria e le ho prese
brevemente in considerazione quando ero ancora a
Frostburg e avevo un sacco di tempo da dedicare alle mie
ricerche. Ho preso in considerazione anche le Cayman, ma
poi ho saputo che ormai sono terribilmente cementificate.
Le Bahamas sono troppo vicine alla Florida e infestate da
agenti americani. Porto Rico è territorio americano, perciò
non è mai comparso sul mio elenco. St Bart ha problemi di
traffico. Nelle Isole Vergini c’è troppa criminalità. La
Giamaica è dove adesso risiede Nathan. Ho scelto
Antigua come prima base operativa perché conta
settantacinquemila abitanti, quasi tutti neri come me; non è
sovraffollata, ma nemmeno scarsamente popolata. È
un’isola montagnosa con trecentosessantacinque spiagge,
una per ogni giorno dell’anno, o almeno così dicono i
dépliant e i siti Web. Ho scelto Antigua perché le sue
banche sono notoriamente flessibili e famose per chiudere
un occhio. E se per qualche ragione non dovesse
piacermi, farò presto ad andarmene. Di posti da vedere ce
ne sono fin troppi.
L’aereo tocca terra con violenza e si ferma con stridio di
freni. Il capitano si volta e mima le parole “Mi scusi”. Tutti i
piloti vanno orgogliosi dei loro atterraggi vellutati, e l’uomo
probabilmente è imbarazzato. Come se a me importasse.
In questo momento l’unica cosa che mi interessa è uscire
in sicurezza dall’aereo ed entrare nel paese senza
problemi. Ci sono altri due jet al terminal dei voli privati, e
fortunatamente ne è appena atterrato uno bello grosso.
Almeno dieci americani in pantaloncini corti e sandali si
stanno dirigendo verso l’edificio per superare i controlli.
Traccheggio un po’, abbastanza per accodarmi a loro.
Mentre i funzionari della dogana e dell’immigrazione
sbrigano la solita routine, mi accorgo che non ci sono
scanner per i passeggeri e i bagagli dei voli privati.
Eccellente! Saluto i miei piloti e poi, all’esterno del piccolo
edificio, guardo gli americani salire a bordo di un pulmino
e scomparire. Mi siedo su una panchina finché non arriva il
mio taxi.
La villetta è a Willoughby Bay, a venti minuti d’auto
dall’aeroporto. Siedo sul retro del taxi con i finestrini
abbassati e l’aria calda e salata che mi soffia in faccia
mentre ci arrampichiamo su un lato della montagna e poi
scendiamo lentamente dall’altro. Vedo in lontananza
decine di piccole barche che, all’ancora in una baia,
riposano su un’acqua azzurra che sembra perfettamente
immobile.
La villetta, arredata e con due camere da letto, fa Teile di
un gruppo di costruzioni tutte uguali, non proprio sulla
spiaggia, ma abbastanza vicino da sentire il rumore delle
onde che si frangono a riva. È affittata a nome mio, quello
attuale, e l’affitto di tre mesi è stato saldato con un assegno
della Skelter Films. Pago la corsa al tassista e varco il
cancello d’ingresso di Sugar Cove. La simpatica signora
dell’ufficio mi consegna la chiave, un opuscolo con il
regolamento e le istruzioni dell’unità abitativa. Entro, attivo
ventilatori e aria condizionata e do un’occhiata alle stanze.
Quindici minuti dopo sono nell’oceano.
Alle diciassette e trenta esatte, Stanley Mumphrey e due
suoi sottoposti si riunirono intorno all’altoparlante al centro
del tavolo nella sala riunioni. Dopo pochi secondi risuonò la
voce di Victor Westlake che, dopo un rapido scambio di
saluti, disse: «Allora, Stan, cosa ne pensi?».
Stanley, che non aveva pensato a nient’altro da quando
aveva ricevuto l’e-mail quattro ore prima, rispose: «Be’,
Vic, a me sembra che prima di tutto dobbiamo decidere se
credere di nuovo al nostro amico, ti pare? Insomma,
ammette di essersi sbagliato la prima volta. Non ammette
di averci mentito, ma dice di avere commesso un errore.
Ci sta prendendo in giro».
«Sarà difficile fidarsi di nuovo di lui» disse Westlake.
«Sai dov’è in questo momento?»
«È appena volato da Miami ad Antigua, su un jet privato.
Venerdì scorso è volato da Roanoke in Giamaica sempre
su un jet privato, poi è rientrato negli Stati Uniti domenica
come Malcolm Bannister.»
«Hai idea del perché di tutti questi strani movimenti?»
«Neanche una, Stan. Siamo sconcertati. Bannister si è
dimostrato molto abile a sparire e a spostare soldi.»
«Già. Io ho immaginato uno scenario, Vic. Supponiamo
che ci abbia mentito a proposito di Quinn Rucker, il quale
forse fa Teile del piano ed è stato al gioco in modo che
Bannister potesse uscire di prigione. E ora stanno
cercando di salvare il culo a Rucker. A me puzza di
complotto. Bugie, complotto... Cosa ne dici di scaricare
addosso a tutti e due una richiesta segreta di rinvio a
giudizio, trovare Bannister, rispedirlo in galera e vedere
cosa sa del vero assassino? Potrebbe essere più loquace,
dall’altro lato delle sbarre.»
«E allora gli crederesti?» domandò Westlake.
«Non ho detto questo. Per niente. Ma se quello che ha
scritto nell’e-mail è vero, e se Dusty Shiver ha un alibi per
Rucker, l’accusa va a farsi fottere.»
«Che sia il caso di parlare con Dusty?»
«Non ce n’è bisogno. Se ha davvero delle prove, le
vedremo presto. Una cosa che non riesco a capire, fra le
tante, è perché ci siano rimasti seduti sopra in silenzio per
così tanto tempo.»
«Non lo capisco neppure io» ammise Westlake. «Una
teoria che stiamo prendendo in considerazione è che
Bannister avesse bisogno di tempo per trovare
l’assassino. Sempre che vogliamo credergli, naturalmente.
In tutta franchezza, a questo punto non so cosa pensare. E
se Bannister sapesse davvero la verità? Noi non abbiamo
niente in mano, nemmeno uno straccio di prova materiale.
La confessione fa acqua da tutte le Teili. E se Dusty ha
davvero un asso nella manica, ci toccherà mandare giù il
rospo.»
«Incriminiamoli e spremiamoli» disse Mumphrey.
«Convocherò il gran giurì domani e avremo il rinvio a
giudizio entro ventiquattr’ore. Sarà un problema mettere le
mani su Bannister ad Antigua?»
«Sarà una spina nel culo. Dovrà essere estradato, e
potrebbero volerci mesi. Inoltre potrebbe scomparire di
nuovo. L’amico è in gamba. Lascia che parli con il capo,
prima di convocare il gran giurì.»
«Okay. Ma il fatto che Bannister chieda l’immunità dà
l’impressione che abbia commesso un reato e voglia un
accordo, non credi?»
Westlake tacque per un secondo, poi disse: «È raro che
un innocente chieda l’immunità. Può succedere, ma non
molto spesso. A che reato stai pensando?».
«Niente di Teilicolare, ma ne troveremo uno. Mi viene in
mente l’attività di racket. Sono sicuro che possiamo
adattare la normativa RICO alle nostre esigenze.
Cospirazione al fine di intralciare il corso della giustizia.
False dichiarazioni in tribunale e all’FBI. Pensandoci bene,
le accuse diventano sempre più numerose a mano a mano
che parliamo. Sono incazzato, Vic. Bannister e Rucker
hanno fatto amicizia a Frostburg e ci hanno combinato
questo scherzetto. Rucker evade in dicembre. Il giudice
Fawcett viene ucciso in febbraio. E adesso sembra che
Bannister ci abbia raccontato un mucchio di stronzate su
Rucker e il suo movente. Non so tu, Vic, ma io comincio ad
avere la sensazione che ci abbiano fregato.»
«Non esageriamo. Il primo passo è stabilire se
Bannister sta dicendo la verità.»
«Okay. E come ci riusciamo?»
«Aspettiamo che Dusty ci mostri cos’ha in mano. Nel
frattempo parlerò con il mio capo. Ci risentiamo domani.»
«D’accordo.»
41
In una tabaccheria nel centro di St John’s vedo qualcosa
che prima mi raggela, poi mi suscita un sorriso. È una
scatola di Lavo, un’oscura marca di sigari confezionati a
mano in Honduras che qui costano la metà rispetto agli
Stati Uniti. Il sigaro a forma di siluro è lungo dieci centimetri
viene venduto a cinque dollari ad Antigua e a dieci al
Vandy’s Smokes, la tabaccheria nel centro di Roanoke
dove il giudice Fawcett era solito acquistare la sua marca
preferita. Sul fondo di quattro delle quattordici scatole Lavo
adesso al sicuro in banca, ci sono etichette bianche
quadrate che pubblicizzano il Vandy’s, con tanto di numero
di telefono e indirizzo.
Compro venti Lavo e ammiro la scatola. È di legno, non
di cartone, e il marchio sembra essere stato inciso a mano
sul coperchio. Il giudice Fawcett era noto per l’abitudine di
andarsene a pesca in canoa sul lago Higgins, gustandosi i
suoi Lavo e la solitudine. Evidentemente conservava le
scatole vuote.
Le navi da crociera non sono ancora arrivate, per cui il
centro della cittadina è tranquillo. Seduti all’ombra davanti
ai negozi, i commercianti ridono e chiacchierano nella loro
seducente versione cantilenante del King’s English. Entro a
curiosare in un negozio dopo l’altro, dimentico del tempo.
Sono passato dal tedio ottenebrante della vita in carcere
alla frenetica follia della caccia a un assassino e al suo
bottino, e infine a questo: il ritmo languido dei Caraibi.
Preferisco quest’ultimo, per ovvie ragioni, ma anche
perché è l’adesso, il presente e il futuro. Max è una
persona nuova con una nuova vita e il vecchio bagaglio sta
rapidamente cadendo ai margini della strada.
Dopo essermi comprato qualche maglietta e alcune paia
di shorts, roba da spiaggia, vado alla mia banca, la Royal
Bank of the East Caribbean, e flirto con la bella ragazza del
ricevimento clienti. Mi indica la procedura e alla fine mi
presento all’addetta al caveau. La donna studia il mio
passaporto e poi mi guida nelle profondità della banca.
Durante la mia prima visita di nove settimane fa, ho affittato
due cassette di sicurezza, le più capienti disponibili.
Adesso sistemo al loro interno un po’ di contanti e qualche
cartaccia, chiedendomi quanto tempo ci vorrà per riempirle
di piccoli lingotti d’oro. Flirto anche quando esco e
prometto di tornare presto.
Noleggio per un mese un Maggiolino cabriolet, abbasso
la capote, mi accendo un Lavo e comincio il tour dell’isola.
Dopo pochi minuti mi sento girare la testa. Non ricordo
l’ultima volta che ho fumato un sigaro e non so bene perché
lo stia facendo adesso. Il Lavo è corto e nero, e perfino il
suo aspetto è duro e tosto. Lo getto dal finestrino e
continuo a guidare.
È la FedEx a vincere la gara. I primi pacchi arrivano lunedì
verso mezzogiorno e, dato che sto passeggiando
ansiosamente nel parco di Sugar Cove, vedo arrivare il
furgone. Miss Robinson, la simpatica signora che gestisce
l’ufficio, a questo punto ha già sentito la versione integrale
della mia identità di fantasia. Io sono uno scrittore/cineasta,
rintanato in una delle sue ville per i prossimi tre mesi e
disperatamente al lavoro per portare a termine un romanzo
e una sceneggiatura basata su detto romanzo. I miei soci,
nel frattempo, stanno già girando le scene preliminari. Bla,
bla, bla. Di conseguenza mi aspetto una ventina di pacchi
da Miami: manoscritti, ricerche, video, addirittura alcuni
attrezzi. La signora è visibilmente impressionata.
Attendo davvero con ansia il giorno in cui potrò smettere
di mentire.
Apro i pacchi all’interno della mia villetta. Una scatola di
backgammon contiene due lingotti; una cassetta degli
attrezzi quattro; un libro rilegato uno; e un’altra scatola di
backgammon due. Un totale di nove minilingotti, tutti
apparentemente mai toccati nel corso del loro viaggio da
Miami ad Antigua. Mi chiedo spesso quale sia la loro
storia. Chi ha estratto l’oro? In quale continente? Chi l’ha
fuso? Come è arrivato negli Stati Uniti? E così via. Ma so
che queste domande non avranno mai risposta.
Ritorno in fretta a St John’s, entro nella Royal Bank of the
East Caribbean e metto a dormire i miei preziosi lingotti.
La mia seconda e-mail ai signori Westlake e Mumphrey
dice:
Ehi, ragazzi.
Sono di nuovo io. Vergogna! Non avete risposto alla mia e-mail di
due giorni fa. Se volete trovare l’assassino del giudice Fawcett, vi
consiglio di migliorare le vostre capacità di comunicazione. Io non ho
intenzione di andarmene.
Scommetto che la vostra reazione iniziale è stata quella
di inventarvi qualche accusa fasulla per scaricarla su di me e Quinn
Rucker. Non potete evitarlo perché, dopo tutto, siete federali e la
vostra natura è quella. Cosa c’è nel nostro sistema giudiziario che fa
sì che gente come voi voglia mandare tutti in galera? È patetico, dico
sul serio. In carcere ho conosciuto decine di brave persone: uomini
che non farebbero più male a una mosca, uomini che non si
sarebbero mai più messi nei guai con la legge. Eppure, grazie a voi,
stanno scontando lunghe pene e la loro vita è rovinata.
Ma sto divagando. Lasciate perdere altri rinvii a giudizio.
Le accuse non reggerebbero – non che questo vi abbia mai
trattenuto – e inoltre, semplicemente, non esiste alcun articolo nel
vostro vasto Codice federale che possiate usare contro di me.
Cosa ancora più importante, non riuscirete mai
a prendermi. Fate qualcosa di stupido e io sparisco di nuovo. Non
tornerò in prigione, mai.
Allego a questa e-mail quattro foto a colori. Le prime tre sono di una
scatola di sigari, sempre la stessa. È di legno marrone scuro,
lavorata a mano da qualche Teile in Honduras e all’interno della
quale un operaio ha ordinatamente disposto venti Lavo, un sigaro
forte, nero e quasi letale con la punta conica. La scatola è stata
spedita a un importatore di Miami, che a sua volta l’ha inviata al
Vandy’s Smokes nel centro di Roanoke, dove infine è stata
acquistata dall’onorevole Raymond Fawcett. Evidentemente il
giudice Fawcett ha fumato Lavo per molti anni, conservando le
scatole vuote. Forse ne avete trovate alcune quando avete setacciato
il cottage dopo gli omicidi. Ho la sensazione che il proprietario del
Vandy’s, se interrogato, vi dirà che conosceva bene il giudice Fawcett
e i suoi gusti piuttosto insoliti in fatto di sigari.
La prima foto si riferisce alla scatola così come si presenterebbe in
negozio. È un quadrato quasi perfetto di tredici centimetri di lato per
un’altezza di tredici centimetri, dimensioni insolite per una scatola di
sigari. La seconda foto è un’inquadratura laterale. La terza foto
riprende il fondo della scatola, dove si vede chiaramente l’etichetta
bianca del Vandy’s Smokes.
Questa scatola è stata sottratta dalla cassaforte del giudice Fawcett
poco dopo la sua esecuzione ed è ora in mio possesso. Potrei
anche consegnarvela, ma quasi certamente sopra ci sono le
impronte digitali dell’assassino e non voglio rovinarvi la sorpresa.
La quarta foto è la ragione per cui ci ritroviamo a negoziare. È la foto
di tre lingottini d’oro da dieci once, tre perfetti minilingotti senza alcun
segno di registrazione o identificazione (seguiranno maggiori
dettagli). Questi gingillini erano conservati a gruppi di trenta per ogni
scatola di sigari e nascosti nella cassaforte del giudice Fawcett.
Quindi adesso almeno un mistero è risolto. Perché Fawcett è stato
ucciso?
Perché qualcuno sapeva che aveva una pentola d’oro.
Ma il grande mistero continua a perseguitarvi. Il killer è ancora là
fuori, e dopo sei mesi di affanni, inciampi, caccia alle streghe,
spavalderia e menzogne NON AVETE UN SOLO INDIZIO!
Andiamo, ragazzi: arrendetevi. Definiamo l’accordo e chiudiamo
questa pratica.
Il vostro amico, Malcolm
Victor Westlake annullò l’ennesima cena con la moglie e
alle diciannove di venerdì entrò nell’ufficio del suo capo, Mr
George McTavey, il direttore dell’ FBI. Due assistenti di
McTavey rimasero nell’ufficio per prendere appunti e per
andare eventualmente a recuperare pratiche. Si sedettero
intorno a un lungo tavolo, tutti sfiniti da un’altra interminabile
settimana.
McTavey era già stato informato di tutto, per cui non
c’era bisogno di riassumere i precedenti. Attaccò con il
suo marchio di fabbrica: «C’è qualcosa che non so?». Era
una domanda sempre prevedibile ed era meglio per tutti
che ottenesse una risposta sincera.
«Sì» rispose Westlake.
«Sentiamo.»
«Il rialzo del prezzo dell’oro ha determinato un’enorme
domanda del metallo e stiamo assistendo a qualsiasi sorta
di traffico. Ogni titolare di banco dei pegni del paese è
diventato un commerciante d’oro, per cui puoi immaginare
la quantità di merce che viene comprata e venduta. L’anno
scorso abbiamo svolto un’indagine a New York su alcuni
commercianti piuttosto noti che fondevano oro, lo diluivano
e poi lo smerciavano come praticamente puro. Non ci sono
ancora incriminazioni, ma il caso è tuttora aperto. Nel
corso di questa operazione, un informatore che lavorava
per un commerciante d’oro ha messo le mani su un lingotto
da dieci once privo di qualsiasi identificazione. Puro al
novantanove virgola nove per cento, ottima qualità, e un
prezzo insolito. L’informatore ha scavato un po’ in giro e ha
scoperto che un certo Ray Fawcett si presentava di tanto in
tanto per vendere qualche lingotto, a un prezzo un po’
scontato e naturalmente in cambio di contanti. Abbiamo un
video di Fawcett nel negozio sulla Quarantasettesima
strada; risale a dicembre, due mesi prima che venisse
assassinato. A quanto pare, andava a New York un paio di
volte all’anno, vendeva la sua merce e se ne tornava a
Roanoke con un bel po’ di contanti. Le registrazioni
sembrano incomplete, ma in base a ciò che abbiamo in
mano sembra che Fawcett nel corso degli ultimi quattro
anni abbia venduto oro a New York per un valore di almeno
seicentomila dollari. In questo non c’è niente di illegale,
sempre che, ovvio, quell’oro fosse legittimamente in
possesso di Fawcett.»
«Interessante. Ma?»
«Ho mostrato la foto dell’oro di Bannister al nostro
informatore. A suo parere, i lingotti sono identici. Bannister
ha l’oro. Quanto, non abbiamo modo di saperlo. La scatola
di sigari corrisponde. L’oro corrisponde. Se davvero ha
avuto l’oro dal killer, allora sa sicuramente la verità.»
«E la tua teoria sarebbe?»
«Malcolm Bannister e Quinn Rucker erano in carcere
insieme a Frostburg ed erano molto più amici di quanto ci
fossimo resi conto. Uno dei due sapeva di Fawcett e del
suo tesoro in oro e così hanno pianificato il loro complotto.
Rucker evade, va in riabilitazione per crearsi un alibi e tutti
e due aspettano che l’assassino colpisca. Appena
succede, il piano diventa immediatamente operativo.
Bannister denuncia Rucker, il quale rilascia una falsa
confessione che determina subito il suo rinvio a giudizio. E
Bannister esce di galera. Una volta fuori, entra nel
programma protezione testimoni, poi si tira fuori e in
qualche modo trova l’assassino e l’oro.»
«Non ha dovuto uccidere l’assassino per impadronirsi
dell’oro?»
Westlake si strinse nelle spalle. Non ne aveva idea.
«Forse, ma forse no. Bannister vuole l’immunità e siamo
pronti a scommettere che chiederà anche il rilascio di
Rucker in base all’articolo 35. Quinn deve scontare ancora
cinque anni per la condanna originale, più qualche altro
anno per l’evasione. Se tu fossi Bannister, non proveresti a
fare uscire il tuo amico? Se l’assassino è morto, l’articolo
35 potrebbe non funzionare per Quinn. Non lo so. Al piano
di sotto i nostri avvocati si stanno grattando la testa.»
«Questo è sempre confortante» commentò McTavey.
«Qual è il lato negativo di un accordo con Bannister?»
«L’ultima volta che abbiamo trattato con lui ci ha
mentito.»
«Okay, ma cos’ha da guadagnare mentendoci
adesso?»
«Niente. Ha l’oro.»
Il viso stanco e preoccupato di McTavey diventò
improvvisamente divertito. Il direttore ridacchiò, alzò le
mani e disse: «Un piano geniale, brillante, mi piace!
Dobbiamo assumere quel Bannister, è molto più in gamba
di noi. Uno con le palle. Fa accusare il suo caro amico
dell’omicidio di un giudice federale sapendo fin dall’inizio
che poi potrà farlo uscire chiarendo tutto. Non è uno
spasso? E noi facciamo la figura di un branco di idioti».
Westlake non poté fare a meno di condividere il
divertimento. Sorrise e scosse la testa incredulo.
«Bannister non sta mentendo, Vic» continuò McTavey.
«Perché non ha bisogno di mentire. Le bugie erano
importanti prima, durante la prima fase del progetto, ma
non adesso. Adesso è il momento della verità, e Bannister
la conosce.»
Westlake annuì, d’accordo con il suo capo. «Allora, qual
è il nostro piano?»
«Che opinione ha il procuratore federale su questa
storia? Come si chiama?»
«Mumphrey. Sbraita perché vuole un altro rinvio a
giudizio, ma questo non succederà.»
«Sa tutto?»
«Ovviamente no. Non sa che noi sappiamo che Fawcett
vendeva oro a New York.»
«Domani vedrò il procuratore generale per un brunch. Gli
spiegherò quello che stiamo facendo e ci penserà lui a
mettere Mumphrey in riga. Suggerirei che voi due
incontriate Bannister il prima possibile in modo da chiarire
tutti i punti in sospeso. Sono veramente stufo del giudice
Fawcett, Vic. Capisci cosa intendo?»
«Sì, signore.»
42
Sono in attesa dell’ennesimo volo in ritardo nel terminal
caldissimo e soffocante del V. C. Bird International Airport,
ma non sono minimamente irritato o ansioso. Ormai, al mio
quarto giorno ad Antigua, l’orologio da polso è finito in un
cassetto e io sono regolato sul fuso orario dell’isola. I
cambiamenti sono quasi impercettibili, ma a poco a poco
mi sto depurando dalle abitudini frenetiche della vita
moderna. I movimenti si sono fatti più lenti, i pensieri più
limpidi, gli obiettivi inesistenti. Vivo in funzione del presente
e mi limito a lanciare solo una pigra e occasionale
occhiata al domani; per tutto il resto, lasciatemi in pace.
Quando scende la scaletta dell’aereo proveniente da
San Juan, Vanessa sembra una top model: cappello di
paglia a tesa larga, occhiali da sole firmati, abito estivo
deliziosamente corto e la grazia disinvolta della donna che
sa di essere uno schianto. Dieci minuti dopo siamo a
bordo del Maggiolino e la mia mano è sulla sua coscia. Mi
informa che è stata licenziata per le troppe assenze. E per
insubordinazione. Scoppiamo a ridere. Chi se ne frega?
Andiamo direttamente a pranzo al Great Reef Club che,
da una scogliera sull’oceano, offre una vista ipnotica. La
clientela è ricca e britannica. Noi due siamo gli unici neri,
ma tutto lo staff è come noi. Il cibo è appena passabile e ci
ripromettiamo di provare i ristoranti frequentati dai locali in
modo da poter mangiare con gente vera. Immagino che
siamo tecnicamente ricchi, ma sembra impossibile
pensare in questi termini. Non sono necessariamente i
soldi che vogliamo, quanto la libertà e la sicurezza.
Suppongo che a poco a poco ci abitueremo a una vita
migliore.
Dopo un tuffo nell’oceano, Vanessa vuole esplorare
Antigua. Abbassiamo la capote, troviamo una stazione
reggae alla radio e voliamo lungo le stradine strette come
due fidanzatini finalmente in fuga. Mentre accarezzo le
gambe di Vanessa e guardo il suo sorriso, trovo difficile
credere che fino a questo punto ce l’abbiamo fatta. Sono
stupito dalla nostra fortuna.
Il summit si svolge al Blue Waters Hotel, sulla punta
nordoccidentale dell’isola. Entro nell’edificio principale in
stile coloniale e nella hall ariosa, tutto solo. Individuo una
coppia di agenti che, malamente travestiti da turisti,
sorseggiano una bibita e cercano di avere un’aria
indifferente. Un vero turista ha un aspetto rilassato e
disinvolto, un federale che si finge turista sembra un
disadattato. Mi chiedo quanti agenti, viceprocuratori,
vicedirettori eccetera siano riusciti a intrufolarsi a spese
dello Zio Sam in questa breve gita ai Caraibi, coniugi
inclusi, naturalmente. Procedo sotto passaggi ad arco,
davanti a elaborate decorazioni lignee, costeggio palizzate
e finalmente raggiungo un’ala dove si può parlare di affari.
Ci incontriamo in una piccola suite al primo piano, con
vista sulla spiaggia. Vengo accolto da Victor Westlake,
Stanley Mumphrey e altri quattro uomini dei quali non provo
nemmeno a memorizzare i nomi. Abiti scuri e cravatte tristi
sono scomparsi, sostituiti da magliette da golf e bermuda.
Anche se siamo all’inizio di agosto, la maggior Teile delle
gambe in questa stanza non ha ancora incontrato il sole.
L’atmosfera è rilassata; non ho mai visto tanti sorrisi in una
riunione così importante. Questi uomini rappresentano
l’élite della lotta al crimine e sono abituati a giornate dure e
senza allegria. Questo diversivo per loro è un sogno.
Ho un ultimo, inquietante dubbio. È possibile che questa
sia una trappola, che io ci stia cadendo dentro e che i
ragazzi siano pronti a sfoderare un atto di rinvio a giudizio,
un mandato d’arresto, un ordine di estradizione o
qualunque altra cosa possa rimandarmi in prigione. In quel
caso Vanessa farà scattare un piano che assicurerà la
protezione dei nostri beni. Si trova a circa duecento metri
da me, in attesa.
Non ci sono sorprese. Abbiamo parlato abbastanza a
lungo al telefono da essere tutti al corrente dei presupposti,
così ci mettiamo subito al lavoro. Attivando il vivavoce,
Stanley chiama l’ufficio di Dusty Shiver a Roanoke; Shiver
adesso rappresenta non solo Quinn Rucker, ma anche sua
sorella Vanessa e me. Una volta in linea, Dusty fa qualche
debole battuta sul fatto che si sta perdendo tutto il
divertimento ad Antigua. I federali ruggiscono ridendo.
Come prima cosa rivediamo l’accordo relativo
all’immunità, il quale in sostanza dichiara che il governo
non accuserà né me, né Quinn, né Vanessa Young, né
Denton Rucker (alias Dee Ray) di alcun illecito
eventualmente rilevato nel corso delle indagini sul duplice
omicidio del giudice Raymond Fawcett e Naomi Clary. Ci
vogliono quattordici pagine per dirlo, ma sono soddisfatto.
Anche Dusty ha rivisto il documento e chiede un paio di
leggere modifiche da Teile dell’ufficio di Mumphrey.
Essendo avvocati, si sentono entrambi in obbligo di
discutere per un po’, ma alla fine trovano un’intesa. Il
documento viene riscritto nella stanza, poi firmato e inviato
per e-mail a un magistrato federale a nostra disposizione a
Roanoke. Trenta minuti dopo riceviamo una copia via email con l’approvazione e la firma del magistrato. In senso
legale, adesso siamo tutti invulnerabili.
La questione della libertà di Quinn è un po’ più
complicata. Per prima cosa c’è un decreto di archiviazione
dell’indagine che lo solleva da tutte le accuse collegate agli
omicidi, ma che contiene alcune frasi inserite da
Mumphrey e i suoi nel tentativo di minimizzare la loro
responsabilità in un procedimento giudiziario infondato.
Dusty e io ci opponiamo e le frasi in questione vengono
eliminate. Il decreto viene spedito per e-mail al magistrato
di Roanoke, che lo firma immediatamente.
C’è poi un’istanza ai sensi dell’articolo 35 in cui si
richiede la modifica della sentenza di Quinn e la sua
liberazione. È stata depositata presso il tribunale federale
di Washington, lo stesso che lo ha condannato per spaccio
di cocaina, ma Quinn è tuttora in carcere a Roanoke.
Ripeto quello che ho già detto molte volte: non rispetterò la
mia Teile dell’accordo finché Quinn non verrà rilasciato.
Punto. C’è già un’intesa in questo senso, ma servono i
movimenti coordinati di diverse persone, che ora devono
seguire le istruzioni provenienti da una nazione, una
scheggia d’isola, denominata Antigua. Il giudice di
Washington che ha condannato Quinn è al corrente di tutto
e disponibile, ma in questo momento è bloccato in aula.
L’US Marshals Service si sente in obbligo di intervenire e
insiste per occuparsi del trasferimento di Quinn quando
arriverà il momento. A un certo punto, cinque dei sei
avvocati presenti alla riunione sono al cellulare e due di
loro digitano freneticamente sui rispettivi laptop.
Ci prendiamo una pausa e Vic Westlake mi invita ad
andare a bere qualcosa di fresco con lui. Troviamo un
tavolo sotto una terrazza accanto a una piscina, lontano
dagli altri, e ordiniamo tè ghiacciato. Westlake finge
frustrazione per la perdita di tempo. Sono quasi certo che
abbia addosso un qualche tipo di microfono e che
probabilmente voglia parlare dell’oro. Io sono tutto sorrisi,
da rilassato isolano di Antigua, ma il mio radar è in stato di
massima allerta.
«E se avessimo bisogno della tua testimonianza al
processo?» mi chiede Westlake in tono grave. Ne
abbiamo discusso a lungo e pensavo che questo punto
ormai fosse chiarito. «Lo so, lo so» dice Westlake. «Ma se
avessimo bisogno di qualche prova extra?»
Dato che non sa ancora il nome dell’assassino, né le
circostanze dell’omicidio, la domanda è prematura.
Probabilmente è solo una fase di riscaldamento in vista di
qualcos’altro.
«La mia risposta è no, okay? Sono stato chiaro. Non ho
in programma di tornare negli Stati Uniti. Mai più. Sto
pensando seriamente di rinunciare alla cittadinanza e
diventare antiguano a pieno titolo. Se non rimetterò più
piede sul suolo americano, morirò felice.»
«Mi sembra che tu stia esagerando, non credi, Max?»
replica Westlake con un tono che non gradisco. «Adesso
godi di immunità totale.»
«Per te è facile dirlo, Vic, ma tu non sei mai stato in
galera per un crimine che non hai commesso. I federali mi
hanno già incastrato una volta e mi hanno quasi rovinato la
vita. Non succederà di nuovo. Sono fortunato ad avere una
seconda possibilità e per qualche strana ragione esito un
tantino a mettermi di nuovo sotto la vostra giurisdizione.»
Westlake beve un sorso di tè e si asciuga la bocca con
un tovagliolo di lino. «Una seconda possibilità... Sparire
navigando verso il tramonto con una pentola piena d’oro.»
Mi limito a fissarlo. Dopo qualche secondo, con un po’ di
imbarazzo, aggiunge: «Non abbiamo ancora discusso
dell’oro, vero?».
«No.»
«Allora facciamolo. Cosa ti dà il diritto di tenertelo?»
Punto lo sguardo su un bottone della sua camicia e
scandisco con chiarezza: «Non so di cosa tu stia parlando.
Io non ho nessun oro. Chiuso il discorso».
«E i tre minilingotti della foto che hai mandato per e-mail
la settimana scorsa?»
«Costituiscono una prova e a tempo debito ve li farò
avere, unitamente alla scatola di sigari dell’altra foto.
Penso che quegli oggettini siano pieni di impronte digitali,
sia di Fawcett che dell’assassino.»
«Fantastico. Ma la grande domanda sarà: dov’è il resto
dell’oro?»
«Io non lo so.»
«Okay. Ti rendi senz’altro conto che per l’accusa sarà
importante sapere cosa c’era nella cassaforte del giudice
Fawcett. Che cosa ha determinato il suo omicidio? A un
certo punto dovremo sapere tutto.»
«Forse non saprete mai tutto. Ci saranno prove in
abbondanza per condannare l’assassino. E se il governo
non sarà in grado di sostenere l’accusa, non è un mio
problema.»
Un altro sorso di tè, un’espressione esasperata e poi:
«Non hai il diritto di tenertelo, Max».
«Tenermi cosa?»
«L’oro.»
«Io non ce l’ho. Ma, parlando per ipotesi, in una
situazione come questa a me pare che quel bottino non
apTeilenga a nessuno. Di sicuro non è proprietà del
governo: non è stato sottratto ai contribuenti. Voialtri non ne
siete mai stati in possesso e non potete accampare diritti.
Non l’avete mai visto e, a questo punto, non siete neppure
sicuri che esista davvero. Non apTeiliene al killer, che è
anche un ladro: l’ha rubato a un funzionario dello Stato che
presumibilmente l’ha ottenuto facendosi corrompere. E se
per caso riusciste a identificare la fonte originale di
quell’oro e tentaste di restituirlo, quella gente si
nasconderebbe sotto la scrivania o scapperebbe di corsa.
L’oro è là fuori, tra le nuvole, come Internet. Non apTeiliene
a nessuno.» Agito le mani verso il cielo mentre concludo
questo discorso preparato da tempo.
Westlake sorride perché entrambi conosciamo la verità.
C’è un luccichio nei suoi occhi, come se avesse voglia di
ridere, arrendersi e dirmi: “Complimenti, uno splendido
lavoro”. Ma naturalmente non succede.
Torniamo nella suite e ci comunicano che il giudice di
Washington è ancora impegnato in questioni più
importanti. Non ho intenzione di ciondolare intorno al tavolo
con un branco di federali, per cui vado a fare una
passeggiata sulla spiaggia. Telefono a Vanessa, la
informo che le cose stanno procedendo lentamente e che
no, non ho visto manette o pistole. Finora tutto bene. Quinn
dovrebbe essere rilasciato entro breve. Vanessa mi dice
che Dee Ray si trova nello studio di Dusty, in attesa del
fratello.
Durante la pausa pranzo, il giudice che aveva condannato
Quinn a sette anni per spaccio di droga ha firmato
controvoglia un’ordinanza di commutazione della pena ai
sensi dell’articolo 35. Ieri ha parlato con Stanley Mumphrey,
con Victor Westlake e con il suo capo, George McTavey, e,
a sottolineare l’importanza della questione, anche con il
procuratore generale.
Quinn è stato subito trasferito dal carcere di Roanoke
allo studio legale di Dusty Shiver, dove ha abbracciato Dee
Ray e si è cambiato, indossando un paio di jeans e una
polo. Centoquaranta giorni dopo essere stato arrestato da
evaso a Norfolk, Virginia, Quinn è un uomo libero.
Sono quasi le due e mezzo quando tutte le ordinanze e i
documenti sono debitamente firmati, esaminati e verificati.
All’ultimo momento esco dalla stanza e telefono a Dusty, il
quale mi assicura che “li teniamo per la gola”, che tutte le
carte sono in ordine, tutti i nostri diritti protetti e tutte le
promesse mantenute. «Comincia pure a cantare»
conclude con una risata.
Sei mesi dopo il mio arrivo al Louisville Federal
Correctional Institution avevo accettato di occuparmi del
caso di uno spacciatore di Cincinnati. Il tribunale aveva
commesso un errore grossolano nel calcolo della pena,
l’errore era evidente e io depositai un’istanza chiedendo il
rilascio immediato del detenuto perché in pratica aveva già
scontato la sua condanna. Fu una di quelle rare occasioni
in cui tutto funzionò in modo perfetto e veloce, e nel giro di
due settimane il mio cliente se ne tornò a casa soddisfatto.
Ovviamente la notizia si diffuse all’interno del carcere e io
venni subito acclamato geniale avvocato da galera, in
grado di compiere miracoli. Fui inondato di richieste
perché esaminassi i vari casi ed esercitassi la mia magia.
Ci volle un po’ perché l’eccitazione si calmasse.
Fu più o meno a quell’epoca che un detenuto che
chiamavamo Nattie entrò nella mia vita, costringendomi a
dedicargli più tempo di quanto fossi disposto a
concedergli. Bianco e scheletrico, era stato condannato
per spaccio di metanfetamina in West Virginia e voleva
assolutamente che io studiassi il suo caso, schioccassi le
dita e lo facessi uscire. Nattie mi era simpatico, così
esaminai le sue carte e cercai di spiegargli che non c’era
niente da fare. Lui cominciò a parlarmi di una ricompensa;
all’inizio ci furono solo vaghi accenni a un mucchio di soldi
nascosti in qualche posto, Teile dei quali sarebbe stata
mia se solo lo avessi fatto uscire di galera. Nattie si
rifiutava di credere che non potessi aiutarlo. Invece di
accettare la realtà, diventò sempre più ossessivo e
delirante, sempre più convinto che fossi in grado di
scovare un cavillo, depositare un’istanza e farlo uscire. A
un certo punto mi parlò di una grossa quantità di lingotti
d’oro, e io pensai che avesse perso la testa. Lo strigliai e
lui, per dimostrarmi che stava dicendo la verità, mi
raccontò tutta la storia. Mi fece giurare di mantenere il
segreto e mi promise metà della sua fortuna se lo avessi
aiutato.
Già da bambino, Nattie era stato un ladruncolo
professionista e durante l’adolescenza era entrato nel
mondo della metanfetamina. Si spostava parecchio in giro,
cercando di scansare agenti dell’Antidroga, addetti al
recupero crediti, vicesceriffi con mandati, padri con figlie
incinte e rivali incazzati di altre gang specializzate in quel
tipo di narcotraffico. Aveva cercato più volte di tirarsi fuori,
ma aveva la tendenza a ricaderci. Vedeva i suoi cugini e i
suoi amici rovinarsi la vita, con la droga o in carcere, e
desiderava veramente qualcosa di meglio per sé.
Lavorava come cassiere in un emporio sulle montagne
intorno alla cittadina di Ripplemead, quando era stato
avvicinato da uno sconosciuto che gli aveva offerto dieci
dollari l’ora per un certo lavoro. Nessuno al negozio aveva
mai visto quell’uomo, e nessuno lo avrebbe più rivisto.
Nattie guadagnava cinque dollari l’ora, in contanti e in
nero, così colse al volo la possibilità di intascare qualcosa
di più. Alla fine del turno incontrò lo sconosciuto nel luogo
che avevano concordato e risalì con lui uno stretto sentiero
sterrato fino a un cottage incuneato nel fianco di una ripida
collina, poco sopra un laghetto. L’uomo, che si presentò
solo come Ray, era alla guida di un bel pickup, sul pianale
del quale c’era una cassa di legno. Risultò poi che questa
conteneva una cassaforte del peso di duecentoventicinque
chili, troppi perché Ray potesse maneggiarli da solo. I due
agganciarono una carrucola e relativo cavo al ramo di un
albero e riuscirono a sollevare la cassaforte dal pianale, a
posarla a terra e infine a trascinarla nel seminterrato del
cottage. Fu un lavoro noioso, duro da spezzare la schiena,
che richiese quasi tre ore. Ray pagò Nattie in contanti, lo
ringraziò e gli disse addio.
Nattie raccontò tutto a suo fratello Gene, il quale si
nascondeva nelle vicinanze per non farsi trovare dallo
sceriffo, distante due contee. La cassaforte, e il suo
contenuto, incuriosì i due fratelli, che decisero di dare
un’occhiata. Una volta certi che Ray se n’era andato,
cercarono di penetrare nel cottage, ma furono bloccati
dalle massicce porte di quercia, dai vetri antisfondamento
e dalle grosse serrature di sicurezza. A quel punto
decisero semplicemente di smontare una finestra del
seminterrato. Una volta dentro, non riuscirono a trovare la
cassaforte, ma arrivarono a identificare Ray. Frugando tra
le carte sparse su un tavolo da lavoro, si resero conto che il
loro vicino di casa era un pezzo grosso, un giudice
federale di Roanoke. C’era perfino un articolo di giornale
riguardante un importante processo, presieduto
dall’onorevole Raymond Fawcett, che riguardava
l’estrazione dell’uranio in Virginia.
I due fratelli raggiunsero Roanoke in auto, trovarono il
tribunale federale e assistettero a due ore di deposizioni.
Nattie indossava occhiali e berretto da baseball nel caso il
giudice si fosse annoiato e avesse cominciato a guardarsi
intorno nell’aula. Ma c’erano molti spettatori e Ray non alzò
mai lo sguardo sul pubblico. Convinti di aver messo le
mani su qualcosa, i fratelli tornarono al cottage, rientrarono
attraverso la finestra del seminterrato e cercarono di nuovo
la cassaforte. Doveva essere lì, perché era lì che Nattie e il
giudice l’avevano lasciata. Un’intera parete era occupata
da scaffali con spessi tomi legali, e i fratelli si convinsero
che lì dietro doveva esserci uno spazio nascosto.
Rimossero con cura ogni libro, guardarono e lo rimisero a
posto. Ci volle un po’ di tempo, ma alla fine trovarono un
interruttore che apriva uno sportello. Una volta spalancato,
ecco la cassaforte a livello del pavimento, che aspettava
solo di essere aperta. Cosa che però risultò essere
impossibile perché la cassaforte era dotata di una tastiera
digitale che, naturalmente, richiedeva un codice d’accesso.
I due tentarono alla cieca per un paio di giorni, ma non
ebbero fortuna. Trascorsero molto tempo all’interno del
cottage, sempre attenti a non lasciare la minima traccia.
Un venerdì Gene andò a Roanoke, distante circa un’ora
d’auto, entrò in tribunale, trovò il giudice e rimase ad
aspettare che sospendesse l’udienza per il weekend,
aggiornandola alle nove del lunedì mattina. Seguì Fawcett
fino a casa e lo guardò caricare sul pickup quello che
sembrava un sacchetto contenente generi alimentari, una
borsa termica, numerose bottiglie di vino, una borsa da
palestra, due voluminose cartelle e una pila di libri. Ray
lasciò il suo apTeilamento, da solo, e si diresse verso
ovest.
Gene telefonò al fratello e lo avvertì che il giudice stava
arrivando. Nattie rimise tutto in ordine all’interno del
cottage, rimontò la finestra del seminterrato, cancellò le
impronte nel terreno davanti alla veranda e si arrampicò su
un albero distante una cinquantina di metri. Come previsto,
un’ora dopo arrivò Fawcett, che scaricò il pickup e si
concesse immediatamente un pisolino nell’amaca sulla
veranda. Nattie e Gene lo tenevano d’occhio dal fitto bosco
che circondava il cottage. Il giorno dopo, sabato, Fawcett
trascinò la sua canoa in riva al lago, caricò a bordo canne
da pesca e alcune bottiglie d’acqua, si accese un sigaro
corto e nero e prese il largo nelle acque dell’Higgins. Nattie
lo osservava con il binocolo mentre Gene rimuoveva la
finestra ed entrava nel cottage. Lo sportello era aperto e la
cassaforte era visibile, ma chiusa. Di nuovo sfortunato,
Gene uscì in fretta dal seminterrato, rimontò la finestra e
scomparve nel bosco.
I due ragazzi erano decisi a scoprire cosa contenesse
quella cassaforte, ma erano anche pazienti. Ray non aveva
idea di essere tenuto d’occhio e, se ogni settimana
aggiungeva qualcosa al suo tesoro, allora non c’era alcuna
fretta. Per i due venerdì successivi, Gene sorvegliò il
tribunale di Roanoke, ma il giudice rimase a lavorare fino a
tardi. Si stava avvicinando una festività e i fratelli
ipotizzarono che probabilmente Fawcett si sarebbe
concesso un lungo weekend. Secondo quanto dicevano i
giornali, il dibattimento in corso era impegnativo, molto
combattuto, e il giudice era sotto pressione. Avevano
indovinato. Venerdì alle quattordici, il processo venne
aggiornato a martedì mattina alle nove. Gene guardò Ray
caricare il pickup e Teilire per il lago, da solo.
Il cottage era troppo isolato fra le montagne per avere
gas ed elettricità, di conseguenza era privo sia di aria
condizionata che di riscaldamento, a Teile un grande
caminetto. Cibi e bevande venivano conservati nella borsa
termica che Ray trasportava avanti e indietro. Quando la
sera aveva bisogno di luce per leggere, il giudice attivava
un piccolo generatore a gas che si trovava all’esterno,
vicino al seminterrato, il cui rumore basso e smorzato
echeggiava in tutta la valle. Di solito, però, alle nove di sera
Fawcett stava già dormendo.
Il seminterrato era costituito da una stanza e da un
ripostiglio, un piccolo locale stretto con una porticina a due
ante nel quale Ray conservava roba che sembrava essere
dimenticata, almeno in maggio: indumenti da cacciatore,
scarponi e una pila di vecchie trapunte e coperte. Gene
elaborò un piano in base al quale Nattie sarebbe rimasto
nascosto là dentro, per ore; l’idea era che, attraverso una
minuscola fessura in una delle ante, Nattie sarebbe riuscito
a vedere il giudice quando avesse aperto la cassaforte per
riporci ciò che stava nascondendo, qualunque cosa fosse.
Alto un metro e settanta per cinquantanove chili, Nattie era
un esperto nel nascondersi in posti piccoli e stretti, ma
all’inizio si mostrò riluttante all’idea di passare la notte nel
ripostiglio. Il piano venne modificato.
Il venerdì che precedeva il Columbus Day, il giudice
Fawcett arrivò al cottage intorno alle sei del pomeriggio e
cominciò a scaricare con calma il suo pickup. Nattie era
rannicchiato nel ripostiglio del seminterrato, virtualmente
invisibile tra i capi da cacciatore, le coperte e le trapunte. In
tasca aveva una pistola, nel caso le cose si fossero messe
male. Gene, anche lui armato di pistola, sorvegliava la
scena tra gli alberi. I due fratelli erano tesi come corde di
violino, ma anche incredibilmente eccitati. Mentre
sistemava le sue cose, Ray si accese un sigaro e il cottage
si riempì dell’aroma di tabacco. Il giudice se la stava
prendendo comoda, borbottando fra sé e canticchiando a
bocca chiusa lo stesso motivetto più e più volte, ma poi
finalmente scese nel seminterrato con una cartella
voluminosa. Nattie quasi non respirò mentre osservava il
giudice estrarre un libro di legge dal ripiano, attivare
l’interruttore nascosto e aprire lo sportello. Poi Fawcett
digitò il codice sulla tastiera e aprì la cassaforte. Era piena
di scatole di sigari. Il giudice si scostò e dalla cartella
estrasse un’altra scatola. Si fermò per un attimo, sollevò il
coperchio e afferrò un piccolo, bellissimo lingotto d’oro. Lo
ammirò, lo accarezzò e poi lo rimise nella scatola, che
sistemò con cura nella cassaforte, facendola seguire da
una seconda scatola di sigari. Richiuse la cassaforte,
inserì il codice e rimise a posto lo sportello.
Nathan sentiva il cuore battergli con tale violenza che
temeva potesse scuotere l’intero ripostiglio, ma si impose
di restare calmo. Mentre se ne stava andando, il giudice
notò l’anta appena accostata e la chiuse.
Verso le diciannove si accese un altro sigaro, si versò un
bicchiere di vino bianco, andò nella veranda e si
accomodò sulla sedia a dondolo per guardare il sole
scomparire dietro le montagne. Appena si fece buio,
azionò il generatore e ciondolò nel cottage fino alle dieci,
quando spense tutto e se ne andò a dormire. Una volta che
tutto fu immobile e silenzioso, Gene si materializzò dal
bosco e bussò con forza alla porta. «Chi è?» domandò
arrabbiato Ray dall’interno. Gene rispose che stava
cercando il suo cane. Il giudice aprì la porta e i due
parlarono attraverso la zanzariera. Gene spiegò di essere
il proprietario di un cottage distante circa un chilometro e
mezzo, sull’altro lato del lago, e che Yank, il suo amato
cane, era scomparso. Ray non fu per niente cordiale e
disse di non avere visto cani nei dintorni. Gene lo ringraziò
e se ne andò. Quando Nattie sentì i colpi alla porta e la
conversazione al piano di sopra, scivolò rapidamente fuori
dal ripostiglio e uscì da una porta del seminterrato. Non gli
fu possibile richiudere a chiave la serratura di sicurezza e i
due fratelli immaginarono che il giudice si sarebbe grattato
la testa confuso, chiedendosi come mai quella porta non
fosse chiusa a chiave. Per allora loro due sarebbero già
stati uccel di bosco. Fawcett avrebbe cercato e controllato,
ma non avrebbe notato alcun segno di scasso né oggetti
mancanti e alla fine non ci avrebbe più pensato.
Naturalmente i due fratelli erano sbalorditi da ciò che
avevano scoperto e cominciarono a elaborare piani per
svuotare la cassaforte. La cosa avrebbe comportato un
confronto con il giudice, e probabilmente anche violenza,
ma erano decisi ad andare fino in fondo. Passarono due
weekend e il giudice rimase a Roanoke. Poi tre.
Mentre tenevano d’occhio il cottage, e il giudice, Gene e
Nattie erano tornati al loro business della metanfetamina
perché erano completamente al verde. Prima di poter
arrivare all’oro, furono sorpresi dagli agenti della DEA. Gene
venne ucciso e Nattie finì in prigione.
Aspettò cinque anni prima di usare le maniere forti con il
giudice Fawcett, torturare Naomi Clary, svuotare la
cassaforte e uccidere tutti e due.
«E chi sarebbe questo Nattie, esattamente?» mi chiede
Westlake. Tutti e sei gli uomini presenti mi stanno fissando.
«Si chiama Nathan Edward Cooley, e lo troverete nel
carcere cittadino di Montego Bay, Giamaica. Fate pure
con comodo, non andrà da nessuna Teile.»
«È possibile che sia noto anche come Nathaniel Coley, il
tuo amico con il passaporto falso?»
«È lui. Se la deve vedere con vent’anni in una prigione
giamaicana, per cui può darsi che vi faciliti le cose. La mia
sensazione è che Nattie sarà ben felice di dichiararsi
colpevole in cambio dell’ergastolo in un carcere
americano, niente libertà vigilata naturalmente. Farà
qualsiasi cosa pur di andarsene dalla Giamaica. Offritegli
un accordo e non dovrete neppure prendervi il disturbo di
un processo.»
C’è una lunga pausa mentre tutti riprendono
collettivamente fiato.
Poi Vic mi chiede: «C’è qualcosa a cui non hai
pensato?».
«Certo. Ma preferirei non dirtelo.»
43
Il mio talento di affabulatore li ha stregati tutti e per un’ora
mi tempestano di domande. Mi affanno con le risposte e,
quando mi accorgo che sto cominciando a ripetermi, mi
irrito. Date a un branco di avvocati i dettagli precisi di un
mistero per il quale hanno perso il sonno e loro non
possono fare a meno di rivolgervi la stessa domanda in
cinque modi diversi. La mia bassa opinione di Victor
Westlake migliora un po’ quando lui annuncia: «Basta così.
La riunione è finita. Io vado al bar».
Propongo di andare a bere qualcosa noi due da soli e
torniamo al tavolo accanto alla piscina. Ordiniamo due
birre e, quando arrivano, beviamo a grandi sorsi. «C’è
qualcos’altro?» mi domanda Westlake.
«Sì, in effetti c’è un’altra cosa. Grossa quasi quanto
l’omicidio di un giudice federale.»
«Non ne hai avuto abbastanza per un giorno solo?»
«Oh, sì, ma ho ancora un ultimo colpo.»
«Ti ascolto.»
Bevo un altro lungo sorso e mi gusto il sapore della birra.
«Se il mio quadro temporale è corretto, il giudice Fawcett
accettava e nascondeva oro puro nel bel mezzo del
processo dell’uranio. Il ricorrente era Armanna Mines, un
consorzio con interessi in tutto il mondo. Il socio di
maggioranza è una compagnia canadese con sede a
Calgary, proprietaria di due delle cinque maggiori miniere
d’oro del Nordamerica. I giacimenti di uranio nella sola
Virginia vengono stimati intorno ai venti miliardi di dollari,
ma nessuno ne conosce con certezza il valore. Se un
giudice federale corrotto vuole qualche lingotto d’oro in
cambio di un ritorno di venti miliardi, perché non accettare?
La compagnia ha dato a Fawcett la sua ricompensa e
Fawcett ha dato a quella gente tutto ciò che voleva.»
«Quanto oro?» mi chiede Westlake sottovoce, quasi non
volesse farsi sentire dal suo microfono nascosto.
«Non lo sapremo mai, ma sospetto che Fawcett abbia
ricevuto circa dieci milioni di dollari in oro puro. Teile lo ha
venduto qua e là. Voi avete il vostro informatore a New
York, ma non sapremo mai se l’oro è finito anche altrove
ed è stato venduto al mercato nero. Né sapremo mai
quanti contanti c’erano nella cassaforte quando Nathan l’ha
svuotata.»
«Potrebbe dircelo lui.»
«Certo, ma non ci farei troppo affidamento. In ogni caso
il totale non ha importanza. Stiamo parlando di un mucchio
di soldi, o di oro, e per farlo viaggiare dall’Armanna Mines
fino all’austero ufficio dell’onorevole Raymond Fawcett
deve esserci stato un corriere. Qualcuno ha fatto da tramite
nell’accordo e ha effettuato le consegne.»
«Uno degli avvocati?»
«Probabile. Sono sicuro che l’Armanna ne ha almeno
una decina.»
«Qualche idea?»
«Assolutamente no. Ma sono convinto che sia stato
commesso un reato molto grave, con serie implicazioni. La
Corte Suprema esaminerà il caso in ottobre e,
considerando la tendenza pro-imprenditori della
maggioranza, è probabile che il regalo di Fawcett ai
signori dell’uranio venga confermato. E questo sarebbe
una vergogna, non credi, Vic? Una sentenza frutto di
corruzione diventa legge. Una gigantesca compagnia
mineraria aggira il divieto a colpi di bustarelle e ottiene
carta bianca per distruggere l’ambiente nella Virginia
meridionale.»
«A te cosa importa? Non tornerai mai laggiù, o almeno
così hai detto.»
«I miei sentimenti non sono importanti, ma all’FBI la cosa
dovrebbe interessare. Se avviate un’indagine, la causa
potrebbe uscire dai binari prestabiliti.»
«Quindi adesso vuoi dire all’FBI come deve fare il suo
mestiere.»
«Assolutamente no. Ma non aspettatevi che io resti in
silenzio. Hai mai sentito parlare di un giornalista
investigativo che si chiama Carson Bell?»
Le spalle di Westlake si abbassano. Distoglie lo
sguardo. «No.»
«“New York Times”. Ha seguito il processo dell’uranio e
anche gli appelli. Potrei essere una fantastica fonte
anonima.»
«Non farlo, Max.»
«Non puoi impedirmelo. Se a voi non va di indagare,
sono sicuro che Mr Bell sarà felice di farlo. Prima pagina e
tutto il resto. Insabbiamento da Teile dell’FBI.»
«Non farlo. Per favore. Dacci un po’ di tempo.»
«Hai trenta giorni. Se non sentirò niente a proposito di
un’indagine, inviterò Mr Bell a trascorrere una settimana
nella mia piccola isola.» Butto giù l’ultimo sorso, poso con
forza il bicchiere sul tavolo e mi alzo in piedi. «Grazie per la
birra.»
«Ti stai vendicando, vero, Max? Un ultimo colpo al
governo.»
«Chi ti dice che sia l’ultimo?» domando da sopra la
spalla.
Esco dall’hotel e percorro il lungo viale d’accesso, in fondo
al quale trovo Vanessa al volante del Maggiolino. Ci
allontaniamo velocemente e dieci minuti dopo
parcheggiamo davanti al terminal dei voli privati,
prendiamo il nostro bagaglio leggero e incontriamo
nell’atrio l’equipaggio della Maritime Aviation. Dopo il
controllo dei passaporti ci affrettiamo verso lo stesso
Learjet 35 che mi ha portato ad Antigua una settimana fa.
«Andiamocene di qua» dico al capitano mentre saliamo a
bordo.
Due ore e mezzo più tardi atterriamo al Miami
International mentre il sole si tuffa sotto l’orizzonte. Il Learjet
rulla fino a un ufficio del servizio immigrazione per il rientro
in patria, dopodiché Vanessa e io aspettiamo un taxi per
mezz’ora. Nel terminal principale Vanessa acquista un
biglietto di sola andata per Richmond, via Atlanta. Ci
abbracciamo e ci salutiamo con un bacio. Le auguro
buona fortuna e lei fa lo stesso con me. Noleggio un’auto e
mi trovo un motel.
Alle nove del giorno dopo sono già in attesa davanti alla
Palmetto Trust quando le porte vengono aperte. Scendo
nel caveau con il mio trolley. Nel giro di pochi minuti
prelevo cinquantamila dollari in contanti e tre scatole di
sigari Lavo contenenti ottantuno minilingotti. Quando esco,
non informo l’impiegata che non tornerò mai più. L’affitto
della cassetta di sicurezza scadrà tra un anno e la banca si
limiterà semplicemente a sostituire le chiavi e ad
assegnare la cassetta a un altro cliente. Combatto nel
traffico del primo mattino, raggiungo finalmente
l’Interstatale 95 e punto in direzione nord. Vado veloce, ma
sto attento a non farmi fermare. Jacksonville è a sei ore
d’auto. Il serbatoio è pieno e il mio programma non
prevede soste. A nord di Fort Lauderdale, Vanessa mi
chiama per darmi la gradita notizia che la missione è
compiuta. Ha recuperato i lingotti nascosti nel suo
apTeilamento, ha svuotato le tre cassette di sicurezza nelle
banche di Richmond ed è già in viaggio verso Washington
con un bagagliaio pieno d’oro.
Un cantiere stradale nei pressi di Palm Beach mi fa
perdere parecchio tempo, rovinando i miei programmi per
il pomeriggio. Quando arriverò alle spiagge di Jacksonville
le banche saranno già chiuse. Non ho scelta, così rallento e
seguo il flusso del traffico. Sono le sei passate quando
arrivo a Neptune Beach e, per amore dei vecchi tempi,
scendo in un motel dove sono già stato. Accettano contanti
e parcheggio vicino alla mia stanza, al piano terra. Porto in
camera il trolley e mi addormento con lui sul letto. Vanessa
mi sveglia alle dieci: è al sicuro nell’apTeilamento di Dee
Ray vicino a Union Station. C’è anche Quinn e tutti e tre si
stanno godendo la simpatica riunione. Per questa fase
dell’operazione Dee Ray ha rotto con la sua compagna e
l’ha cacciata di casa. A suo parere, non ci si può fidare di
lei. Non è della famiglia e di certo non è la prima ragazza
che Dee Ray ha scaricato. Io avanzo la richiesta di
aspettare ventiquattr’ore per lo champagne.
Noi – Vanessa, Dee Ray e io – avevamo espresso forti
perplessità sul fatto che Quinn includesse nel nostro piano
la moglie ormai separata. Il divorzio sembra probabile, e a
questo punto è meglio se lei non sa niente.
Ancora una volta mi ritrovo a dover aspettare qualche
minuto nel parcheggio di una banca, la First Coast Trust.
Alle nove, quando aprono le porte, entro con la massima
disinvoltura possibile e una borsa vuota. Flirto con le
impiegate. Un’altra bella giornata di sole in Florida. Solo
nel cubicolo del caveau, estraggo due scatole di sigari
dalla cassetta di sicurezza e le sistemo delicatamente nella
borsa. Pochi minuti dopo raggiungo in auto una filiale della
Jacksonville Savings distante pochi isolati. Svuotata anche
quella cassetta, procedo con l’ultima fermata alla filiale
della Wells Fargo ad Atlantic Beach. Per le dieci sono di
nuovo sull’Interstatale 95 diretto a Washington. Ho
duecentosessantuno mattoncini d’oro nel bagagliaio.
Mancano solo i cinque che ho venduto ad Hassan in
cambio di contanti.
È quasi mezzanotte quando entro nel centro di
Washington. Effettuo una breve deviazione e mi immetto in
First Street, passo davanti al palazzo della Corte Suprema
e mi chiedo quale sarà il risultato finale della memorabile
causa “Armanna Mines contro Commonwealth of Virginia”.
Uno degli avvocati, o forse due o tre fra quelli coinvolti nella
causa, hanno profanato l’ufficio di un giudice federale con
le loro luride tangenti. Che adesso si trovano nel
bagagliaio della mia auto. Che viaggio. Sono quasi tentato
di fermarmi lungo il marciapiede, prendere un minilingotto
e scagliarlo contro uno dei finestroni.
Ma prevale la ragione. Giro intorno a Union Station,
seguo il GPS fino a I Street e poi all’angolo della Quinta.
Quando parcheggio davanti al palazzo, Mr Quinn Rucker
sta già scendendo gli scalini con il sorriso più ampio che io
abbia mai visto. Il nostro abbraccio è lungo e commosso.
«Come mai ci hai messo tanto?» domanda.
«Ho fatto più in fretta possibile» rispondo.
«Sapevo che saresti venuto, fratello. Non ho mai avuto
dubbi.»
«Dubbi ce n’erano, e non pochi.»
Siamo sbalorditi dalla constatazione di avercela fatta e
quasi sopraffatti dal nostro successo. Ci abbracciamo di
nuovo ed entrambi esprimiamo la nostra reciproca
ammirazione per la magrezza. Io confesso che non vedo
l’ora di ricominciare a mangiare. Rucker che non ne può
più di recitare la Teile del pazzo. «Sono sicuro che ti viene
naturale» dico. Quinn mi afferra per le spalle, studia la mia
nuova faccia e dichiara: «Sei quasi carino, adesso».
«Ti darò il nome del chirurgo. Ne avresti bisogno anche
tu.»
Non ho mai avuto un amico più caro di Quinn Rucker. Le
ore che abbiamo trascorso insieme a Frostburg studiando
il nostro piano adesso mi sembrano un vecchio sogno.
All’epoca ci credevamo perché non c’era nient’altro in cui
sperare, ma dentro di noi, nel profondo, non pensavamo
sul serio che avrebbe funzionato. Saliamo sottobraccio gli
scalini ed entriamo nell’apTeilamento. Stringo e bacio
Vanessa e poi mi presento di nuovo a Dee Ray. L’ho visto
brevemente anni fa a Frostburg in occasione di una sua
visita al fratello, ma non sono sicuro che lo avrei
riconosciuto incontrandolo per strada. Non ha importanza:
ora siamo fratelli di sangue, i nostri legami rinsaldati dalla
fiducia e dall’oro.
La prima bottiglia di champagne viene versata in quattro
flûte Waterford – Dee Ray ha gusti costosi – e ce la
scoliamo rapidamente. Dee Ray e Quinn si mettono
entrambi una pistola in tasca e tutti insieme procediamo a
scaricare la mia auto. Il Teily che segue sembrerebbe
inverosimile perfino in un film di fantasy.
Mentre lo champagne scorre a fiumi, i lingotti vengono
disposti in pile di dieci pezzi ognuna al centro del
pavimento del soggiorno, tutti e cinquecentoventiquattro,
poi ci mettiamo a sedere su grandi cuscini intorno al nostro
tesoro. È impossibile non guardare a bocca aperta, e
nessuno tenta di soffocare il riso. Dato che io sono
l’avvocato e anche il leader ufficioso, do inizio alla Teile
lavorativa della riunione con qualche semplice calcolo.
Abbiamo davanti a noi cinquecentoventiquattro mattoncini;
cinque sono stati venduti a un commerciante d’oro siriano
a Miami e quarantuno sono al sicuro nel caveau di una
banca di Antigua. Il totale prelevato al nostro caro amico
Nathan ammonta a cinquecentosettanta, per un valore
approssimativo di otto milioni e mezzo di dollari. In base ai
nostri accordi, Dee Ray ha diritto a cinquantasette
luccicanti lingottini. Si è guadagnato il suo dieci per cento
anticipando i contanti con i quali Quinn è stato arrestato,
pagando la parcella di Dusty, fornendo i quattro chili di
coca di Nathan, oltre alla pistola e all’idrato di cloralio di cui
mi sono servito per metterlo KO. È stato Dee Ray a
prelevare Quinn quando è evaso e a monitorare il rilascio
di Nathan dal carcere in modo da comunicarci il momento
esatto in cui far scattare l’operazione. Inoltre, ha pagato
l’anticipo di ventimila dollari al centro di riabilitazione vicino
ad Akron per l’inesistente problema di coca di suo fratello.
Dee Ray è anche incaricato dello yacht. Sempre più
brillo, ci mostra una lista dettagliata delle sue spese,
compreso lo yacht, che arrotondando ammontano a
trecentomila dollari. Ipotizziamo un valore di
millecinquecento dollari l’oncia e votiamo all’unanimità per
riconoscergli altri venti lingotti. Nessuno ha voglia di
cavillare, e quando davanti a te hai una tale fortuna è facile
essere magnanimi.
A un certo momento del futuro ancora ignoto e
inconoscibile, i rimanenti quattrocentottantotto minilingotti
verranno equamente divisi tra Quinn, Vanessa e me. Ma
adesso non ha importanza: la cosa urgente, è portare la
roba fuori dal paese. Occorrerà molto tempo per convertire
a poco a poco l’oro in denaro, ma di questo ci
preoccuperemo in seguito. Per ora ci basta bere, ridere e
raccontarci a turno la nostra versione degli eventi. Quando
Vanessa replica la scena in cui, a casa di Nathan, si è
spogliata e si è presentata ai due amici alla porta, ridiamo
tanto da stare quasi male. Poi Quinn ci fa un resoconto del
colloquio con Stanley Mumphrey, durante il quale gli ha
sbattuto in faccia di essere a conoscenza che Max Baldwin
si era sottratto al programma protezione testimoni e aveva
lasciato la Florida, e imita la reazione a occhi sbarrati del
procuratore. Quando descrivo il mio secondo incontro con
Hassan, con il tentativo di contare centoventidue mazzette
da cento dollari in un’affollata tavola calda, tutti pensano
che me lo stia inventando.
Le storie si susseguono fino alle tre di notte, quando
ormai siamo troppo ubriachi per continuare. Dee Ray
copre l’oro con una trapunta e io mi offro volontario per
dormire sul divano.
44
Riprendiamo lentamente i sensi parecchie ore dopo. Il
dopo sbornia e la stanchezza sono compensati
dall’eccitazione del compito che ci attende. Per Dee Ray,
un giovanotto che ha vissuto ai margini di un’attività
specializzata nel contrabbando di sostanze illegali nel
paese, la sfida di far uscire il nostro oro dagli Stati Uniti è
quasi un divertimento. Ci spiega che ora siamo tutti degli
appassionati di immersioni e che quindi ha acquistato un
incredibile assortimento di attrezzature, tutte sistemate in
pesanti borsoni di nylon con il marchio dell’US Divers,
ognuno dei quali dotato di una robusta cerniera e di un
piccolo lucchetto. Ci diamo da fare nell’apTeilamento
estraendo dai borsoni maschere, boccagli, pinne,
erogatori, bombole, cinture con zavorra, giubbotti ad
assetto variabile, profondimetri, mute e persino fucili
subacquei, il tutto mai usato. Nel giro di un mese il
materiale sarà su eBay. L’equipaggiamento viene
sostituito da una serie di zainetti e borse stagne dell’US
Divers, tutti pieni di minilingotti d’oro. Il peso di ogni
borsone viene testato più volte da noi uomini per verificare
quanto si riesce a trasportare. I borsoni sono voluminosi e
pesanti, ma lo sarebbero anche se contenessero
attrezzature da sub. Inoltre, Dee Ray ha messo insieme
una serie di valigie, le più robuste che ha trovato, tutte
munite di rotelle. Sistemiamo l’oro all’interno di scarpe, kit
per rasatura, buste per il trucco, perfino in due piccole
scatole di esche per la pesca d’altura. Una volta aggiunti
alcuni capi di vestiario per il viaggio, i nostri bagagli
sembrano abbastanza pesanti da affondare una nave. Il
peso è importante perché non vogliamo suscitare sospetti.
Ma ciò che conta davvero è il fatto che adesso tutti i
cinquecentoventiquattro lingotti sono ben impacchettati,
sottochiave e al sicuro, o almeno preghiamo che lo siano.
Prima di uscire mi guardo intorno nell’apTeilamento, in
cui sono sparsi pezzi di equipaggiamento da sub e resti di
imballi vari. Sul tavolo della cucina vedo scatole di sigari
Lavo vuote e provo una punta di nostalgia. Hanno svolto
bene il loro compito.
Alle dieci arriva un grosso furgone, sul quale carichiamo
i borsoni da sub e i bagagli. Non c’è posto per tutti e
quattro e Vanessa si siede in braccio a me. Un quarto
d’ora dopo entriamo in un parcheggio del Washington
Marina. Lungo i moli sono allineate centinaia di
imbarcazioni di ogni tipo che dondolano dolcemente
sull’acqua. Le barche più grandi sono in fondo. Dee Ray
punta il dito in quella direzione e spiega all’autista dove
andare.
Lo yacht è un bel trenta metri dalle linee slanciate con tre
ponti, è di un bianco splendente e si chiama Rumrunner,
un nome che mi sembra vagamente appropriato. Può
ospitare comodamente otto passeggeri e ha un
equipaggio di dieci persone. Un mese fa Dee Ray l’ha
noleggiato per una breve crociera a Bermuda, perciò
conosce sia il capitano che i membri dell’equipaggio. Li
chiama per nome mentre noi scendiamo dal furgone e
cominciamo a scaricare i bagagli. Due marinai ci aiutano
con i borsoni e barcollano per il peso. Ma hanno già avuto
a che fare in precedenza con sub appassionati. I
passaporti vengono raccolti dallo steward e portati al ponte
di comando. Quello di Quinn è falso e tratteniamo il fiato.
Impieghiamo un’ora per ispezionare i nostri alloggi, farci
un’idea del posto e prepararci per il viaggio. Dee Ray
spiega ai marinai che vogliamo tenere con noi
l’attrezzatura perché siamo dei fanatici per quanto riguarda
l’equipaggiamento. Gli uomini recuperano i borsoni dalla
stiva e li portano nelle nostre cabine. Quando i motori
finalmente prendono vita, ci cambiamo indossando tutti
degli shorts e ci riuniamo sul ponte inferiore. Lo steward
arriva con la prima bottiglia di champagne e un vassoio di
gamberi. Lasciamo lentamente il porto ed entriamo nel
Potomac. Siamo oggetto di parecchie occhiate dalle
barche che incrociamo. Forse è insolito vedere uno yacht
carico di afroamericani. Questo dovrebbe essere un
divertimento riservato all’uomo bianco, no?
Lo steward si ripresenta con i nostri passaporti e la
voglia di chiacchierare. Gli spiego che ho appena
acquistato una casa ad Antigua, dove stiamo andando per
una festa. A un certo punto mi chiede cosa faccio per
vivere (in altre parole: da dove vengono tutti questi soldi?)
e io gli rispondo che sono un regista. Appena se ne va,
brindiamo al mio attore preferito: Nathan Cooley. Ben
presto ci ritroviamo nell’Atlantico e la costa sfuma in
lontananza.
La nostra cabina è spaziosa per gli standard nautici, che
non sono per niente generosi. Con quattro valigie e due
borsoni da sub, abbiamo problemi a muoverci. Il letto
comunque funziona alla perfezione. Vanessa e io facciamo
una cosa veloce e poi dormiamo per due ore.
Tre giorni dopo entriamo nel Jolly Harbour, all’estremità
occidentale di Antigua. La navigazione da diporto è un
business serio nell’isola, e la baia è affollata di barche di
ogni dimensione. Le superiamo procedendo adagio e
senza quasi creare scia mentre assimiliamo la vista delle
montagne su tutti i lati. Le imbarcazioni di maggiore stazza
sono ormeggiate tutte insieme a uno dei moli, e il nostro
capitano manovra lentamente il Rumrunner infilandolo tra
altri due yacht, uno grande più o meno come il nostro, l’altro
molto di più. In questo attimo fuggente di vita da ricchi, ci
riesce impossibile non confrontare la lunghezza delle
barche. Guardiamo la più grande e ci chiediamo: “Chi è il
proprietario? Cosa fa? Da dove viene?”. E così via. Il
nostro equipaggio corre su e giù per le manovre di attracco
e, quando i motori si spengono, il capitano raccoglie di
nuovo i nostri passaporti e scende sul molo. Percorre una
trentina di metri ed entra nel piccolo edificio della dogana
per sbrigare la Teile burocratica.
Una settimana fa, mentre ammazzavo il tempo in attesa
che Vanessa mi raggiungesse ad Antigua, sono venuto a
curiosare sul molo del Jolly Harbour e ho aspettato finché
non è arrivato uno yacht. Ho visto il capitano entrare nella
palazzina della dogana, esattamente come ha appena fatto
il nostro. E, cosa più importante, ho notato che nessun
doganiere ha ispezionato la barca.
Il capitano ritorna: è tutto a posto. Siamo arrivati ad
Antigua con l’oro e nessun sospetto. Spiego allo steward
che vogliamo portare l’attrezzatura da sub nella mia villa
perché per noi sarà più facile utilizzarla da là. E, già che ci
siamo, porteremo a terra anche le valigie. Probabilmente
ci serviremo dello yacht per fare immersioni tra le isole, e
magari per qualche cena, ma per i primi giorni staremo a
casa mia. Per lo steward non ci sono problemi, possiamo
fare quello che vogliamo, e ci chiama i taxi. Mentre
aspettiamo, aiutiamo i marinai a scaricare i bagagli. È una
vera montagna, ma nessuno sospetterebbe che nelle
valigie e nei borsoni da sub nascondiamo otto milioni di
dollari in oro.
Occorrono tre taxi per trasportare tutto e, mentre
carichiamo, salutiamo con la mano lo steward e il capitano.
Venti minuti più tardi arriviamo alla villetta a Sugar Cove. E
quando tutto è dentro casa, ci diamo il cinque e ci tuffiamo
nell’oceano.
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L’autore
L'ex avvocato
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