“UN MINUTO PER NOI” Focus formativi dei volontari del Servizio Civile Nazionale dell’Opera don Calabria progetti 2013. Casa San Benedetto Progetto: “I nostri miliardi” Questo lavoro nasce all’interno del gruppo delle 12 volontarie che hanno realizzato il progetto dal 7 gennaio 2014 al 6 gennaio 2015. Il materiale qui pubblicato è stato raccolto in occasione degli incontri di formazione specifica, allorché le giovani dovevano condurre un approfondimento sui temi della pace, della fratellanza, della solidarietà sociale, della cooperazione, della cittadinanza attiva, della Costituzione Italiana e del pensiero critico in senso generale, per dire sì alla vita contro la morte. Si è realizzato questo libretto per loro, quale prodotto a ricordo dell’esperienza vissuta, e per chi vuole conoscere un po’ di più le fondamenta del Servizio Civile Nazionale. Opera Don Calabria - Ufficio per il Servizio Civile www.serviziociviledoncalabria.it 045.8052964/2 - [email protected] 2 Dalla Costituzione Italiana Principi Fondamentali Art. 11 L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo. 3 4 ARENA DI PACE 2014 La guerra è il suicidio dell’umanità (Papa Francesco) Solo la nonviolenza ci salverà (Mahatma Gandhi) 25 aprile 2014, all’Arena di Verona, una giornata di resistenza e liberazione. La resistenza oggi si chiama nonviolenza. La liberazione oggi si chiama disarmo. Premessa L’Italia ripudia la guerra, ma noi continuiamo ad armarci. Crescono le spese militari, si costruiscono nuovi strumenti bellici. Il nostro Paese, in piena crisi economica e sociale, cade a picco in tutti gli indicatori europei e internazionali di benessere e di civiltà, ma continua ad essere tra le prime 10 potenze militari del pianeta, nella corsa agli armamenti più dispendiosa della storia. Ne sono un esempio i nuovi 90 cacciabombardieri F35, il cui costo di acquisto si attesta sui 14 miliardi di euro, mentre l’intero progetto Joint Strike Fighter supererà i 50 miliardi di euro; il nostro Paese, inoltre, “ospita” 70 bombe atomiche statunitensi B-61 (20 nella base di Ghedi a Brescia e 50 nella base di Aviano a Pordenone) che si stanno ammodernando, al costo di 10 miliardi di dollari, in testate nucleari adatte al trasporto sugli F-35. Gli armamenti sono distruttivi quando vengono utilizzati e anche quando sono prodotti, venduti, comprati e accumulati, perché sottraggono enormi risorse al futuro dell’umanità, alla realizzazione dei diritti sociali e civili, garanzia di vera sicurezza per tutti. Gli armamenti non sono una difesa da ciò che mette a rischio le basi della nostra sopravvivenza e non saranno mai una garanzia per i diritti essenziali della nostra vita – il diritto al lavoro, alla casa e all’istruzione, le protezioni sociali e sanitarie, l’ambiente, l’aria, l’acqua, la legalità e la partecipazione, la convivenza civile e la pace; e inoltre generano fame, impoverimento, miseria, insicurezza perché sempre alla ricerca di nuovi teatri e pretesti di guerra; impediscono la realizzazione di forme civili e nonviolente di prevenzione e gestione dei conflitti che salverebbero vite umane e risorse economiche. Per immaginare e costruire già oggi un futuro migliore è indispensabile, urgente, una politica di disarmo, partendo da uno stile di vita disarmante. Proposta Per questo proponiamo la convocazione di una iniziativa nonviolenta nazionale: un grande raduno, di tutte le persone, le associazioni, i movimenti della pace, della solidarietà, del volontariato, dell’impegno civile, che faccia appello non solo ai politici ma innanzitutto a noi stessi, chiedendo a chi vi parteciperà di assumersi la responsabilità di essere parte del cambiamento che vogliamo vedere nel mondo. Obiettivo Scrollarsi dalle spalle illusioni e paure, rimettersi in piedi con il coraggio della responsabilità e della partecipazione per disarmarci e disarmare l’economia, la politica, l’esercito. 5 6 Dalla Costituzione Italiana Art. 52 La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l’esercizio dei diritti politici. L’ordinamento delle Forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica. Oggi si può trascrivere così: La salvaguardia, la protezione e la tutela del nostro paese è un impegno divino di ogni cittadino. Il servizio militare e civile è obbligatorio nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge. Il suo adempimento non pregiudica la posizione di lavoro, anzi lo promuove favorendo l’ingresso del cittadino nel mondo del lavoro attraverso l’acquisizione di competenze trasversali. L’ordinamento delle forze armate e civili deputate alla difesa della Comunità italiana nel mondo, attraverso progetti di promozione della pace all’estero, s’informano allo spirito democratico della Repubblica. 7 8 Un minuto per noi LA STORIA DELLE QUATTRO CANDELE Questa è la storia di quattro candele che, bruciando, si consumavano lentamente. Bruciavano e si consumavano inutilmente, perché, dicevano loro: “Nessuno si cura di noi, nessuno approfitta della nostra luce e del nostro calore”. La prima candela disse: “Io sono la PACE, ma gli uomini non riescono a mantenermi: penso proprio che non mi resti altro da fare che spegnermi!”. Così fu, e a poco a poco, la candela si lasciò spegnere completamente. Anche la seconda, vedendo spenta la prima candela, si lasciò prendere dallo sconforto e disse: “Io sono la FEDE, purtroppo non servo a nulla. Gli uomini non ne vogliono sapere di me, e per questo motivo non ha senso che io resti accesa”. Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense. Triste e sconsolata, la terza candela, a sua volta disse: “Io sono l’AMORE, non ho la forza per continuare a rimanere accesa. Gli uomini non mi considerano e non comprendono la mia importanza. Essi odiano perfino coloro che più li amano, i loro familiari”. E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere. Inaspettatamente, un bimbo in quel momento entrò nella stanza e vide le tre candele spente. Impaurito per la semioscurità disse: “Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio!”. E così dicendo scoppiò in lacrime. Allora la quarta candela, impietositasi, disse: “Non temere, non piangere: finché io sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre tre candele: io sono la SPERANZA”. Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime, il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre. Che non si spenga mai la speranza dentro il nostro cuore... e che ciascuno di noi possa essere lo strumento, come quel bimbo, capace in ogni momento di riaccendere con la sua Speranza la Fede, la Pace e l’Amore!!! Breve riflessione I valori più importanti sono anche i più difficili da mantenere, e sono gli stessi ai quali riusciamo a rinunciare più facilmente. PACE: basta che pensiamo a quanto facciamo fatica a perdonare, o anche solo ad accettare qualcuno che ha un’idea diversa dalla nostra. La reazione che ci viene spontanea è restare fermi sulle nostre posizioni, ponendo a volte un muro tra noi e gli altri. Perché questa candela venga spenta non c’è bisogno di pensare per forza alle cose più eclatanti come le guerre, che rimangono, per fortuna, lontane da noi; è sufficiente guardarci intorno nella nostra vita quotidiana e a quanta ostilità creiamo a volte con le persone che ci stanno intorno. FEDE: è la candela che spegniamo più facilmente, perché la fede ci sembra a volte assurda, una cosa in più, non importante, l’ennesimo impegno da portare avanti, un insieme di regole senza un vero scopo, e ci chiede uno degli sforzi più grandi per noi essere umani, ossia fidarsi, fidarsi di qualcosa che apparentemente non si vede. AMORE: è la candela che abbiamo imparato ad accendere e spegnere con una facilità estrema. Amiamo e smettiamo di amare le cose e le persone quando ci sembra più opportuno. Mettiamo sempre davanti la nostra paura, le nostre ferite, le nostre difese personali, o semplicemente non abbiamo voglia di 9 metterci in gioco. Non siamo più abituati a pensare insieme e per le altre persone, siamo sempre più tendenti a preoccuparci solo di noi stessi, di quello che ci sentiamo di fare, di quello che ci fa stare bene in questo momento, e domani si vedrà. Alla fine di tutto, questo sembra un disastro, perché non siamo capaci di tenere accesa neanche una candela. E il risultato qual è? Viviamo nell’ombra, nel buio, o, ancora peggio, accendiamo una lampadina solo su noi stessi. Ci illudiamo di essere alla luce, quando in realtà non riusciamo a vedere più in là del nostro naso e vediamo solo le nostre scarpe. Ma intorno il buio resta… Ed è qui che entra in gioco la quarta candela: la SPERANZA, quella che ci fa rivedere tutto sotto un’altra luce, ci dà un altro punto di vista. Possiamo arrivare a capire che la PACE non è uniformarsi per avere tutti le stesse idee, e neanche rassegnarsi e rinunciare a portare avanti i propri valori, ma è lottare per ciò in cui si crede con fermezza ma anche con la disponibilità ad accogliere quanto di buono viene dall’altro. Possiamo capire che la FEDE, quando si arriva a comprenderla, è qualcosa di prezioso, che riempie di significato tutta la vita, non è un insieme di regole che impongono dei divieti. Quelle che sembrano regole sono in realtà degli inviti a impostare la vita in modo che possa essere vissuta nella sua vera bellezza, dando un valore pieno a delle cose che ormai sono diventate banali. La fede parte prima di tutto da un rapporto che è personale e intimo con Dio, che può cambiarti la vita se solo tu accetti che Lui ne faccia parte. Possiamo imparare a non dare per scontate le persone che abbiamo a fianco, a capire quanto hanno di prezioso dentro di sé, mettere ogni tanto il nostro io da parte per fare posto all’altro. L’AMORE non è solo un sentimento passeggero, per cui oggi mi va e domani non mi va più. È un perenne dedicarsi agli altri, offrendo ciò che di più bello possiamo dare. È una scelta, che costa fatica, e molte volte porta a dolore, ma la gioia che si prova quando si ama è capace di superare qualsiasi ostacolo: siamo nati per amare. Non ci pensiamo, forse, ma ognuno nel suo piccolo può e ha la responsabilità di tenere accese queste candele, non sono concetti solo teorici su cui fantasticare. Sono presenti nella realtà in cui viviamo, e sono tre punti su cui ogni giorno ci misuriamo, in tutte le esperienze che viviamo. ÂS. Giacomo sia il grande faro di Dio, e accenda, e faccia risplendere di vivida luce luce tutti coloro che salgono […]” (S. Giovanni Calabria) 10 Il circo della farfalla (Titolo originale: The Butterfly Circus, 2009, USA, regia e sceneggiatura di Joshua Weigel) La riflessione che ho deciso di condividere oggi con voi trae spunto da un cortometraggio intitolato “Il circo della farfalla”. Nel titolo di quest’ultimo è presente un’immagine che richiama il concetto di educazione, intesa nel suo primo significato di “educere”, ossia trarre fuori […] favorendo lo sviluppo delle potenzialità insite nell’educando (Laeng 1992 in Portera A., Bohm W., Secco L., Educabilità, educazione e pedagogia nella società complessa, 2011, pg.74): il bozzolo da cui nasce la farfalla ha dentro di sé tutte le facoltà naturali di cui necessita per evolversi e poi spiccare il volo, evolvendosi da uno stato di iniziazione ad un livello di forza compiuta e completa, come afferma Pestalozzi nella sua opera “Il canto del cigno”. Oltre all’azione del tirar fuori, la pratica educativa apporta anche un nutrimento dall’esterno, che ben può essere rappresentato dallo sguardo d’amore che il signor Mendez riversa su Willy: il suo approccio all’uomo senza arti non è volto a stigmatizzarne la diversità, interpretata dagli altri come attrazione, paura, terrore, ribrezzo e motivo di esclusione ed espulsione dalla società, bensì a rovesciarne il valore, trasformandola in ricchezza, opportunità e motivo di crescita. L’importanza dello sguardo dell’educatore rivolto a chi ha di fronte è un tema che sta a cuore ad entrambe e che abbiamo voluto approfondire grazie alle parole cristalline e dirette della filosofa spagnola Maria Zambrano, di cui qui di seguito riporto un breve brano. “Un giorno un sultano volle decorare in modo particolarmente bello una sala del suo palazzo. Per questo fece venire due gruppi di pittori da luoghi molto lontani tra loro: Bisanzio e la Cina. Ogni gruppo avrebbe dipinto l’affresco in una delle due grandi pareti parallele del salone, senza poter sapere ciò che avrebbe dipinto l’altro. Assegnò a ciascun gruppo una parete senza permettere che entrassero in comunicazione; nel mezzo della sala una tenda debitamente collocata impediva qualsiasi tipo di comunicazione tra i pittori ai due lati. Quando l’opera fu terminata il sultano si diresse prima a ispezionare l’affresco dipinto dai cinesi. In verità era di una bellezza meravigliosa. Nulla può essere più bello di questo disse il sultano e, con questa convinzione, fece scorrere la tenda perché apparisse la parete dipinta dai Greci di Bisanzio. Ma in quella parete non era dipinto nulla. I Greci l’avevano soltanto pulita e ripulita fino a mutarla in uno specchio di un biancore misterioso che rifletteva come in un mezzo più puro le forme sulla parete cinese. Le forme e i colori acquistavano una bellezza inimmaginabile, che non sembrava più appartenere a questo mondo: una nuova dimensione, diremmo, per gli occhi e per lo sguardo umano” (Zambrano M., Per l’amore e per la libertà, 2008, pg.138-139). Nulla è brutto se si guarda attraverso un altro mezzo più puro e più intellegibile. Portando alle estreme conseguenze questo pensiero, si potrebbe dire che lo sguardo sarebbe capace di riscattare ogni bruttura, ogni mediocrità, purché sia lo sguardo di chi sappia, guardando, creare un mezzo purificato e lavato come la parete Bizantina. Questo è lo sguardo del signor Mendez, che ogni educatore dovrebbe avere. Un’ulteriore immagine che colpisce è quella dell’incontro tra Mendez e Willy: il primo si avvicina al secondo con un’esclamazione di meraviglia, a cui Willy stesso non è abituato, tanto che si incupisce ed appare disorientato. In quel momento Mendez si piega verso il ragazzo, proprio come Secco suggerisce nella sua definizione di educazione, ma nel farlo non rispetta la giusta distanza e il tempo necessario indispensabili nella relazione che gradualmente sboccia tra educatore ed educando. L’intervento educativo più chiaro e lampante del cortometraggio avviene, a nostro parere, quando il signor Mendez, a cui Willy chiede aiuto per attraversare la sponda del laghetto, gli nega un immediato sostegno: è proprio grazie a questa presenza che non si vuole sostituire all’attività dell’altro, che Willy compie il salto necessario a capire, manifestare ed adoperare le sue capacità innate, iniziando così a 11 nuotare nell’acqua. Tale immagine richiama nuovamente l’affermazione di Pestalozzi, secondo il quale “nelle facoltà dell’uomo risiede un appello ad essere adoperate per dischiudersi” (Portera A., Bohm W., Secco L., Educabilità, educazione e pedagogia nella società complessa, 2011, pg.6). In questo modo Willy compie il cammino verso l’autonomia, dandosi da solo la sua vocazione, superando l’eteronomia, ovvero l’imposizione dall’esterno di strade prestabilite da seguire, diviene capace di rispondere di sé e per sé. Il fine dell’educatore infatti “sarà mettersi da parte e lasciarsi superare: ogni maestro lavora a rendersi inutile, affinché il discepolo possa prenderne il posto” (Portera A., Bohm W., Secco L., Educabilità, educazione e pedagogia nella società complessa, 2011, pg.77). Alla fine della storia ecco che quindi entrambi i protagonisti, educatore ed educando, il signor Mendez e Willy, hanno raggiunto gli obiettivi dell’azione educativa, che è sia poiesis ovvero “fare” che praxis ovvero libertà e creatività: il primo si è lasciato superare ed è riuscito nel difficile compito di suscitare la persona, il secondo ha raggiunto la sua autonomia, dischiudendo le sue potenzialità intrinseche. L’ultima scena del cortometraggio chiude il cerchio della nostra riflessione: il bambino affiancato dall’adulto, svita il tappo del barattolo in cui custodiva il bozzolo, lasciando fuoriuscire e volare via la farfalla in piena libertà e bellezza. 12 La Resilienza Psicologica: come superare un trauma La resilienza psicologica è il ripristino dell’equilibrio emotivo compromesso di fronte alle avversità. Si tratta di una sorta di riassestamento, a livello psicologico, che la persona ha in seguito ad uno shock traumatico, ad una disgrazia o dopo essere stata sottoposta ad un periodo di forte stress. Altre situazioni in cui la resilienza può essere risolutiva sono, ad esempio, prolungati problemi familiari o di relazione, gravi problemi di salute oppure contingenze finanziare difficili, oltre a difficoltà pesanti in campo lavorativo. La resilienza non è un’attitudine innata, non vi sono individui che la posseggono ed altri no. È un aspetto caratteriale, una sfumatura della personalità, atteggiamenti, riflessioni e azioni che tutte le persone possono imparare e incrementare. Sviluppare la resilienza si può, si tratta di un percorso personale, in quanto ciò che per una persona può essere valido, per un’altra può non esserlo. Molto dipende dal tipo di reazione che le persone hanno di fronte alle avversità, i metodi che usano per aggirarle e, non ultime le differenze culturali. Avere una forte resilienza non significa essere insensibili, ma saper affrontare le crisi, momentanee o prolungate, come parte naturale del percorso della vita. Vediamo come potenziare la resilienza • Creare buoni rapporti. Stabilire relazioni sane con i propri familiari e con gli amici più in generale. Imparare ad accettare con serenità il supporto che ci offrono le persone che si interessano a noi, produce un aumento della resilienza. In alcuni casi, le persone si sentono molto meglio quando fanno parte di associazioni o gruppi di solidarietà e possono rendersi utili agli altri. Assistere chi è in difficoltà porta benefici anche a chi aiuta. • Non vivere le crisi come difficoltà impossibili da superare. È impossibile modificare il fatto che accadano circostanze altamente stressanti; è possibile, però, modificare il modo in cui si definiscono e come le si risolvono. Il suggerimento è di ricercare, in ogni situazione, un piccolo spazio per stare un po’ meglio, un modo per recuperare energie. • Accettare il cambiamento. Nella vita tutto cambia e a volte, quello che ci aspettavamo di realizzare, si allontana. È questo il momento in cui imparare a riconsiderare le scelte fatte e verificare come riprendere il cammino verso gli obiettivi che ci siamo posti, magari adottando un’altra strategia, cercare una nuova strada. • Obiettivi realistici. Evitare di focalizzarsi su risultati difficili da ottenere. Non raggiungere quello a cui tendiamo, nel breve termine, abbassa il livello di autostima e distrugge la resilienza. Piuttosto impariamo a compiere, ogni giorno, piccole azioni che, anche impercettibilmente, ci avvicinano un po’ di più ai risultati che vogliamo ottenere. Domandarsi “cosa posso fare, adesso, di utile per avanzare verso quello che voglio realizzare?”, è spesso la cosa più sensata e vantaggiosa da fare. • Agire in modo deciso. Anche se può essere difficile, nelle situazioni sfavorevoli è importante reagire con azioni decise. È l’atteggiamento più consigliato, piuttosto che estraniarsi dal problema e sperare che questo scompaia miracolosamente. • Imparare cose nuove. Mentre lottiamo in una situazione avversa, spesso impariamo qualcosa di più su noi stessi, sulle nostre reazioni alle circostanze. È probabile, poi, che si acquisisca una nuova prospettiva della vita e si arrivi, così, a migliorare relazioni, ad aumentare la nostra forza d’animo, a percepire un netto aumento della nostra autostima per essere riusciti a sostenere le difficoltà. 13 Potremmo anche rivalutare il nostro lato spirituale e vivere meglio ogni aspetto interiore. • Coltivare la fiducia in se stessi. Accordarsi fiducia è importante. Imparare a fidarsi del proprio sesto senso, delle intuizioni, accresce la resilienza e sviluppa la capacità di trovare soluzioni ai problemi. • Guardare gli eventi da una prospettiva più ampia. In una situazione dolorosa, è importante cercare di mantenere l’attenzione il più possibile al contesto nel lungo periodo. Proviamo a pensare a come potrebbe essere lo scenario più avanti nel tempo, una specie di “proiezione” nel futuro che ci alleggerisca dal fissarci sull’evento doloroso e ingigantirlo a dismisura. • Prendersi cura di sé. E infine, ultima ma non meno importante, è forse la regola migliore. Imparare ad aver cura di se stessi, dando voce ai propri bisogni, alle necessità primarie, ai sentimenti. Coltivare attività che ci gratificano, impegnarsi per ricercare il nostro benessere, sono azioni che consentono di aumentare la capacità di resilienza. Altri accorgimenti per aumentare la resilienza e la sua applicazione nella vita quotidiana, possono essere, ad esempio, la stesura di un diario al quale affidare riflessioni, sfoghi e sentimenti che riguardano il trauma che abbiamo vissuto o l’evento stressante che ci ha penalizzato. Anche la meditazione, la cura del lato spirituale, hanno la loro importanza nell’aumentare la capacità resiliente. Il senso di unione che si sviluppa con queste discipline, fa riacquistare positività e speranza di miglioramento. La cosa importante è trovare il nostro personale modo di incrementare questa importante capacità di risposta alle sfide della vita. Ognuno di noi può trovare quale sia la propria strategia migliore per favorire l’accrescimento della sua resilienza. 14 Natale: “Dio ha sei miliardi di volti «Quest’anno il mio Presepe è ancora vuoto. C’è il paesaggio, il fiume, il cielo e la grotta con la natività, e nient’altro. Non è esattamente vuoto, più che altro è spopolato. Non ci sono i pastori, gli zampognari, le pecorelle, gli angeli. Solo un paesaggio e un bambino con la sua famiglia. Un vuoto da riempire: troppo silenzio, troppa solitudine. E non ho più i pastori, li avrò smarriti? chissà …; e, allora, quest’anno decido io chi mettere nel mio presepe, davanti a quella grotta, in cammino verso quel neonato. Mi piacerebbe che tutti i miei personaggi, in un modo o nell’altro, somigliassero a quel bambino, che avessero il suo volto; ma non è facile scegliere: Dio ha sei miliardi di volti... L’itinerario per arrivare a lui passa attraverso tutte le strade del mondo e soltanto “perdendo tempo” con quei volti ho la certezza di giungere puntuale dinanzi a lui. È sempre così. E allora scelgo volti, quelli che Lui stesso ha trovato somiglianti a sé, volti che hanno fame, che hanno sete, volti nudi, volti forestieri, volti malati, carcerati. E mi ci metto anche io, perché se è nato in una stalla non si scandalizzerà di me, della mia miseria. I volti dei potenti no, non ce li metto nel mio presepe: volti sicuri, forti, vincenti; quelli, comunque, non si metterebbero in cammino, ricordate Erode? So bene che in questo mondo comandano i più forti, che Erode siede sempre su un trono di morti, che la vita è avventura e pericoli, di strade e di esilio, ma so che dietro a questo c’è un filo rosso il cui capo è saldo nelle mani di Dio. So che il denaro comanda, ma so anche che non è il denaro il senso delle cose. Compongo così il mio presepe Ci metto quel volto che ha fame, Caterina, una mamma che ha perso il lavoro. Porta in braccio e per la mano i suoi figli, da sfamare con i pacchi del banco alimentare, da mandare a scuola, vestire, in cammino verso quel bambino che piange per la fame, verso quell’altra mamma che deve dare da mangiare… Anche Dio viene come un bambino: un neonato non può far paura, si affida alle mani della madre, vive solo se qualcuno lo ama. Così le madri fanno vivere i propri figli, li nutrono di latte e di sogni, ma prima ancora di amore. Ci metto, poi, il volto di chi ha sete, Steven, ugandese di sette anni che ogni giorno fa cinque chilometri a piedi: la strada dal suo villaggio al pozzo più vicino, portando taniche gialle sulle strade di polvere rossa, chè l’acqua, quella buona, l’hanno presa gli europei per annaffiare le loro piante di tè. In cammino anche qui con le sue taniche, nel mio presepe, verso quel bambino che sarà acqua viva, che smorza la sua sete con le sue lacrime. Ci metto quel volto nudo di Marja, che passeggia di notte, piena di timore, sui viali di Bologna come un tempo passeggiava spensierata per le strade di Tirana. Nuda, per vendere un corpo che non le appartiene più, schiava; nuda della propria dignità di donna e di madre, della propria libertà. Nuda per il piacere di uomini, nuda per il guadagno di altri uomini. Nel mio presepe sta in una strada migliore, che la porta verso una casa, a ritrovare sogni e speranze nella famiglia che non ha, dove l’uomo è un padre giusto, un falegname, un uomo nuovo che conosce l’amore e la dolcezza. E, soprattutto, il rispetto della dignità, e la tenerezza di una madre che le restituisce il senso della sua vita. Metto nel mio presepe, ancora, il volto forestiero. Non vi scandalizzate, il mio forestiero si chiama Marco, è italiano. Emigrato a Londra perché il laboratorio in cui faceva ricerca non lo pagava più. Paga un affitto sempre troppo caro e il prezzo di una nostalgia scavata nel cuore. Non c’è una mattina in cui non scopra l’amarezza di svegliarsi lontano dalla sua casa, dai suoi amici, dai suoi fratelli, dalla sua ragazza. Come ogni altro straniero qui in Italia! Porta verso quella grotta la sua vecchia borsa piena di sogni e un curriculum non letto. 15 Sulla sua carrozzina, nel mio presepe, ci metto il volto di Maurizio. Ma ci vuole qualcuno che spinga la carrozzina, così scelgo il volto di Francesco, un ragazzo sieropositivo. Maurizio che ha accettato con dignità la sua malattia, Francesco non si rassegna e vuole riempire di senso il tempo che gli è dato. Si spingono a vicenda verso quella grotta, l’uno con le braccia, l’altro con l’anima. Attraversano dolori e giudizi, paure ed esclusioni, superano insieme barriere architettoniche e pregiudizi per raggiungere il tenero sguardo di quel bambino, per abbandonarsi tra le sue piccole braccia, per specchiare i loro mali nella sua santità. Perché c’è qualcosa di Dio in ogni uomo, c’è santità in ogni vita. Ci metto, infine, anche il volto di Giovanni, sedici anni e una condanna di omicidio sulle spalle. Giovanni che si porta appresso il suo dolore tra carceri e tribunali, che un giorno ha voluto liberare la sua famiglia dal mostro che la divorava, Giovanni che sa che deve pagare per questo. Giovanni che ha attraversato l’inferno ed ora è solo con il suo passato e fantasmi troppo ingombranti da far tacere. Che cerca in quella grotta una via per sentirsi ancora libero, ancora vivo. Che cerca da quel bambino il perdono che nessun altro può dargli. Guardo il mio presepe ora, cerco nel cuore delle cose, in fondo alla speranza. Fisso gli abissi del cielo e poi gli abissi del cuore. Mi accorgo che manca ancora qualcosa: ci metto anche il volto di angeli. Non va bene un presepe senza angeli: Dio non invia soldati, ma angeli dentro l’umile via del sogno, e non per risparmiare ai suoi il deserto o l’esilio, ma perché non si arrendano in mezzo al deserto, non si rassegnino all’esilio. E allora metto angeli veri, donne e uomini benedetti dal Padre nostro, quelli che danno da mangiare, da bere, che visitano, lottano per i diritti e la dignità. Quelli che amano. I volontari che curano le mense, quelli che costruiscono pozzi e legami d’amicizia, quelli che si prendono cura, che portano coperte e pane sulle strade delle metropoli e sulle spiagge di Lampedusa, i medici che lasciano i loro poliambulatori nuovi di zecca per curare malati senza diritti e senza soldi in ospedali di guerra, quelli che amano la pace, che vivono con dignità, che sono fedeli alla propria vocazione nella storia, quelli che non scendono a compromessi, che non si vendono per nessun piatto di lenticchie. Quelli che ci sono sempre. Gli angeli! Eccolo il mio presepe: si è popolato. Pensavo non ci fosse nessuno e invece lo scopro pieno di un’umanità bella, di donne , uomini e bambini senza risposte e senza certezze, di un’umanità provata ma viva che non può fare altro che abbandonarsi al mistero, cercare la Verità e la Vita nella luce di una stalla, tenue ma molto più luminosa di ogni illusione umana, e scaldarsi al fuoco della Speranza. Ed è su quella luce che, in questo Natale, fisso il mio cuore. E da lì, riparto!». Don Mimmo Battaglia, da anni impegnato nelle comunità terapeutiche 16 “Servire negli uomini il Figlio dell’Uomo”: don Orione Don Orione era un prete che visse all’inizio del Novecento. Era un ragazzo di un’umile famiglia di Pontecuore, in provincia di Alessandria. Fondò due congregazioni religiose: il ramo maschile dei Figli della Divina Provvidenza e le Piccole Suore Missionarie della Carità. Don Orione era un giovane seminarista che incominciò a lavorare per i ragazzi poveri e non si fermò più. Era uno che vide la povertà, le guerre, i problemi che tutti vediamo, e decise di non lavarsi le mani. Non si accontentò di amare Dio, ma tentò di amarlo nei fratelli, incominciando da quelli più disperati. Conoscendo la povertà in carne propria, si sentì solidale con tutti i poveri che incontrava nel suo cammino. Cominciò già da giovane seminarista a lavorare per i ragazzi poveri e poi, aiutato da altri sacerdoti e laici, cominciò a seminare opere di carità in diverse regioni d’Italia. Voleva arrivare a tutti. Per lui, i poveri erano gli orfani del terremoto, i vecchi senza casa, i disabili ai quali nessuno pensava. Poi non gli bastò più l’Italia e si aprì alle missioni. Allora i poveri erano la gente del Brasile, dell’Argentina, dell’Albania, della Polonia, dell’Africa e dell’Asia (oggi l’opera è presente in 29 Paesi in tutto il mondo). Don Luigi Orione morì nel 1940 all’età di 68 anni lasciando un messaggio a tutti: “Servire negli uomini il Figlio dell’Uomo”. Il 16 maggio 2004 papa Giovanni Paolo II proclamò al mondo don Orione santo. Ho conosciuto l’opera di don Orione a maggio di quest’anno e mi è rimasta nel cuore. Ho passato una giornata tra le dolci anime di adulti disabili della comunità orionina a Chirignago, nel comune di Venezia. Don Luigi Orione parlava di “poveri” disabili abbandonati… a me hanno trasmesso una ricchezza immensa. L’opera è situata in una villa enorme, in cui sorgono sia la comunità che il centro diurno. Le persone che la frequentano sono impegnate in attività di giardinaggio, allevamento di animali, creazione di oggetti artigianali e si trasformano in camerieri doc per le feste dell’opera, sentendosi così anche loro parte del mondo. 17 Il rituale del Kula Il kula è uno scambio simbolico di doni effettuato nelle isole Trobriand (nell’Oceano Pacifico) tra le popolazioni di queste isole ed è basato su un rapporto di fiducia. Di questo fenomeno ha iniziato ad occuparsi Malinowski, antropologo di origine polacca, trasferitosi nelle isole Trobriand per studiare la cultura indigena. Grazie a lui il rituale Kula è divenuto uno dei fenomeni socio-culturali dei quali si è più discusso, non solamente all’interno delle discipline etnoantropologiche. Malinowski scoprì che numerose isole della Melanesia occidentale formavano una sorta di “anello”: i partecipanti compivano viaggi anche di centinaia di chilometri in canoa muovendosi in cerchio (seguendo le lancette dell’orologio) per scambiarsi doni che consistono in collane di conchiglie rosse (soulava), scambiate in direzione nord e braccialetti di conchiglia bianca (mwali), scambiati in direzione sud. Dunque lo scambio può avvenire solo tra oggetti diversi: braccialetti per collane e viceversa. Gli oggetti dovevano circolare in continuazione, restando nelle mani del possessore solo per un periodo limitato di tempo e venivano poi barattati nel corso di visite che gli abitanti delle isole si scambiavano periodicamente. I preparativi per la partenza e gli scambi erano fortemente e rigidamente ritualizzati, ma durante il viaggio per gli scambi di tipo kula avveniva anche un commercio meno simbolico con il quale venivano scambiati oggetti ed alimenti di uso comune. Il ricercatore polacco, interessato a comprendere la funzione di questa istituzione, dopo due anni concluse i suoi studi non riuscendo a coglierne il senso più profondo. Più tardi i suoi studi vennero ripresi da Marcel Mauss, antropologo francese, dai quali egli trasse la sua famosa teoria sul dono. Il senso del rituale del kula, secondo l’autore, era il rituale stesso. Lo scambio dei doni di quelle popolazioni non è finalizzato al possesso bensì alla circolazione, alla relazione, al creare dei legami. Noi oggi siamo abituati ad un’economia basata sul do ut des, dare per avere, basata sul possesso e sul consumo. Dovremmo invece imparare da queste popolazioni a far sì che l’economia, lo scambio di beni 18 siano funzionali al costruire relazioni, che vi sia una reciprocità basata sul dare e avere e non sul dare per avere (in cambio di qualcosa). Riflettiamo sulla parola ECONOMIA: dal greco oikos: casa, inteso anche come beni di famiglia. Riflettiamo sulla parola DONO: detto anche regalo, dovrebbe avere come unico significato il farlo. Donare gratuitamente senza l’aspettativa di avere qualcosa in cambio. Riflettiamo infine sulla parola PERDONO: anche il perdono spesso implica una qualche forma di ritorno (pentimento, confessione) quando invece esso per sua natura dovrebbe essere un dono (per-dono). Nonostante le profonde trasformazioni delle isole melanesiane nel 20° secolo, il rituale è tutt’ora praticato. 19 La Banca del Tempo A Verona esiste un progetto che si chiama ”Banca del Tempo”: Cos’è la Banca del Tempo? La Banca del Tempo è un istituto di credito del tutto particolare, dove non si amministra denaro ma tempo. Le persone si scambiano reciprocamente attività, servizi e conoscenze. Come funziona? Il meccanismo è semplice: io so fare una cosa e mi metto a disposizione, così quando avrò bisogno potrò chiedere a mia volta un altro servizio. Si tratta di una versione riveduta e corretta del micro-sistema basato sul baratto di servizi e beni, molto diffuso nei Paesi anglosassoni. Perché una Banca del Tempo? Lo scopo di una Banca del Tempo è essenzialmente quello di sviluppare il senso di solidarietà fra le persone che partecipano, creare legami sociali e consolidare quelli esistenti alla luce di un principio: il tempo liberato dal senso del puro profitto e dedicato alla volontà di ampliare i propri orizzonti, sociali, culturali, umani. A chi interessa: A tutte le persone di ogni sesso ed età che intendano mettere a disposizione il loro tempo e le loro abilità collaborando e scambiandoli con quelli di altre persone. Come: Ecco i passi necessari per l’iscrizione • Contatto telefonico o visita per inoltrare la richiesta d’iscrizione presso gli sportelli delle Banche del Tempo presenti nel territorio, utilizzando la scheda allegata. • Colloquio conoscitivo sui servizi o le attività che si intendono offrire, il numero di ore che si desidera mettere a disposizione e le richieste che si avanzano rispetto al tempo e alle abilità altrui. • Accettazione del regolamento della Banca del Tempo. • Consegna del libretto di assegni tempo: chi offre un servizio acquista un credito in ore e potrà richiedere a sua volta un servizio per lo stesso ammontare di tempo. • È possibile richiederlo a chiunque: nella banca del tempo il tempo è completamente libero. Non ci sono vincoli per il deposito di tempo, si possono versare una, due, dieci ore a settimana o a mese: l’importante è restare in pareggio. Dove: Largo Pasubio, 6 - 37121 Verona Tel. 045 8078538 Fax 045 8079562 e-mail: [email protected] Orari di apertura al pubblico: - lunedì, martedì, mercoledì, giovedì e venerdì ore 9.30-12.30 - martedì e giovedì ore 15.30-16,30 20 Dalla Costituzione Italiana Principi Fondamentali Art. 2 La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Possiamo tradurla così oggi: Dobbiamo volerci bene aiutandoci l’un l’altro come fratelli e sorelle! Semplicemente… 21 22 Il mondo di Lucy Un futuro di speranza “Ci sono cose che si possono imparare solo dai più deboli tra di noi”. (Gianna Jessen) “Questa storia parla di speranza, di una scelta fatta per amore che ha generato amore. Potevamo scegliere il buio, potevamo allontanare tutto in un attimo, con un semplice no. Abbiamo scelto la vita, la vita di Lucy. E Lucy ha illuminato la nostra. È bastato aprire le braccia e una grande luce ha illuminato la nostra vita”. Anna e Gianluca È la storia di Anna e Gianluca, una coppia di musicisti di Verona. Dopo anni di matrimonio, nell’ottobre del 2008, scoprono di aspettare un figlio. Al quinto mese di gravidanza l’ecografia morfologica rivela che quella minuscola creatura è affetta dalla sindrome di Dandy Walker, una grave malformazione al cervelletto. Anna e Gianluca capiscono che ha a che fare con il liquor presente nella testa, il cervelletto non è completo e quel liquido in eccesso nel tempo potrebbe andare a schiacciare il cervello. Presto scoprono che c’è di più, si tratta di una rara associazione di due sindromi: Dandy Walker e Down. Non esiste documentazione medica, un solo caso conosciuto, nel 1989, deceduto. 23 Paura. Sconforto. Disperazione. Un sonno agitato… e poi all’improvviso, dal cuore della notte, il risveglio. Una luce calda e avvolgente lascia un segno. Una voce, una frase nitida compare: “Luce, invadi…”. Inizia così il mondo di Lucy, un futuro di speranza. Nel cogliere questa scoperta nasce in Monica e Gianluca il desiderio forte di dire al mondo quello che stanno vivendo, quanto si sentono felici, forti e realizzati dopo aver accolto quella piccola creatura nelle loro vite. Fin da subito viene loro spontaneo trasformare sensazioni, sentimenti, emozioni in musica, in poesia, così come la loro natura di musicisti li ispira. Iniziano a creare un blog, un sito internet, dove condividere tutto quello che sta accadendo, la loro gioia, i momenti difficili ma soprattutto la speranza. La risposta di molte persone alimenta questo piccolo fuoco luminoso e quando una madre in Portogallo, venendo a conoscenza della storia di Lucy, decide di non abortire, per Anna e Gianluca diventa chiaro che devono fare qualcosa di più. Raccolgono canzoni, moltissime immagini che documentavano il loro viaggio, filmati, parole. Con i loro amici musicisti danno vita al VIDEO-CONCERTO “Il Mondo di Lucy”. Si tratta di un viaggio emozionante fatto di canzoni, narrazione, musica e immagini che raccontano la storia di Anna e Gianluca e di una bimba speciale, Lucy. Un giro d’Italia che non conosce soste: Roma, Verona, Trento, Padova, Padova, Milano, Sondrio, Cuneo, Udine, Rimini, Trapani, Treviso, Torino, Monza, Assisi, Perugia, Benevento, San Benedetto del Tronto, Vicenza, Brescia e molte altre. Sono stati invitati a tenere video-concerti anche a Medjugorje. Il sito di Lucy riceve più di 40.000 visite l’anno e molti lasciano post, disegni, poesie, foto… C’è chi scrive persino dall’India, dall’America, da Israele, dalla Gran Bretagna. Dal desiderio di poter meglio divulgare questa testimonianza, il 30 luglio 2010 nasce anche l’Associazione Il Mondo di Lucy. Ogni anno il 7 luglio, in occasione del compleanno di Lucy, si festeggia “La Festa della Vita”. www.ilmondodilucy.it 24 Amici del progetto Roberto Missione e visione Roberto Danese va nella Repubblica Domenicana agli inizi del 1986, con il solo scopo di prendersi una meritata vacanza, dopo aver prestato il servizio militare come carabiniere ausiliario ed aver lavorato sodo per due anni. Sulle spiagge assolate e meravigliose di Boca Chica e Punta Cana incontra un suo giovane coetaneo, Raphael, che vende oggetti d’artigianato e che, sollecitato dalla curiosità di Roberto, gli parla della misera realtà e della povertà che regnano, invece, in tutta l’Isola Ispaniola. Raphael accompagna Roberto verso l’interno, dove allora proprio i turisti non si sognavano neanche di andare e quello che vede lo intristisce al punto che decide che non avrebbe più fatto vacanze in posti dove non avrebbe incontrato la povertà. Al rientro in Italia, il suo pensiero è rivolto alla Repubblica Domenicana, tanto che alla fine del 1986 decide di ripartire per Santo Domingo e si incontra nuovamente con Raphael, con il quale decide di dividere la vita giornaliera, accompagnandolo nella sua attività e vivendo nella sua capanna, nel suo batei. Piano piano egli impara lo spagnolo e comincia ad addentrarsi nei vari miseri barrios della capitale, dove conosce un sacerdote spagnolo, Padre Abel, che lo ospita, in cambio di aiuto materiale verso i poveri parrocchiani del barrio di “Cristo Rey”. In quel periodo, nella zona di Andrès, dà inizio alla sua attività di “costruttore per amore”, mettendo in piedi le prime case di legno per alcune famiglie, che fino ad allora avevano vissuto in case di cartone e di latta. Per tutto il 1987 cerca l’ispirazione e pensa intensamente a trovare soluzioni che possano aiutare sostanzialmente i più diseredati ed i più poveri. Allora Padre Abel lo indirizza verso un sacerdote italiano, Padre Francesco Buriasco, che svolge la sua opera missionaria all’interno dell’isola, in uno sperduto paese a circa 120 chilometri dalla capitale, Sabana Grande de Boyà. Padre Francesco è però sospettoso di questo giovane italiano, invaso dalla voglia di fare ed inizialmente, pur ospitandolo nella sua povera e misera canonica, lo mette alla prova, consigliandogli di seguirlo nelle sue visite ai circa trenta batei dispersi nella foresta e presso i quali egli si reca regolarmente ogni mese, parlando con la gente, confortandola, aiutandola materialmente per quello che poteva e terminando la sua visita con la SS. Messa e l’Eucarestia. Le visite, a piedi e poi a cavallo, iniziavano la mattina presto e terminavano la sera tardi, ogni giorno, senza alcuna interruzione temporale. È da questi batei che egli raccoglie i più miseri e li porta nel suo “Mondo Felice”. Roberto vive con Padre Francesco per circa otto anni e, nel frattempo, costruisce il suo primo “Progetto”, quello che oggi è chiamato “Pueblo Nuevo” e che ospitava, all’inizio, circa cento bambini, svolgendovi attività scolastica e dando loro, regolarmente ed ogni giorno, un pasto caldo nella mensa, ricoperta, allora, da spesse foglie di cocco. Partendo dal presupposto che i “suoi” bambini dovevano poter stare in costruzioni civili, pulite e decorose, Roberto comincia a realizzare l’opera grande, il Progetto Roberto. Ed in questa grande opera realizza appieno i suoi obiettivi: costruisce un’area per l’alimentazione ed un’area sanitaria, che comprende il laboratorio d’analisi, un consultorio familiare con psicologo, ginecologo e pediatra, ambulatori di medicina generale, odontoiatria, cardiologia ed ortopedia. Vi sono aule per l’informatica, un salone per riunioni ed un’area sportiva. Realizzato questo obiettivo in poco più di due anni, non riesce a stare fermo e pensa di realizzare circa cento casette per i genitori dei suoi bambini, adottati a distanza dagli amici di Verona, che lo hanno sempre sostenuto e lo stanno tuttora aiutando. Nasce così il “Villaggio Arcobaleno”: un complesso urbano, inserito in un barrio poverissimo a sud del centro di Sabana. 25 Nel 1997, su richiesta ed indicazione del Vescovo locale, realizza un’opera analoga al Progetto Roberto di Sabana, ma più piccola, a Yamasà, che finisce agli inizi del mese di novembre 1998, ma che l’uragano del 25 dello stesso mese lo costringe a ricostruire, in parte, dopo sei mesi. L’uragano del 25 novembre 1998 ha dato un colpo tremendo a tutte le opere di Roberto, ma gli immediati aiuti veronesi, concretizzatisi con l’invio pressoché immediato di dieci containers con ogni tipo di aiuto, e la sua immensa volontà di ritornare alla vita di tutti i giorni hanno permesso di riportare tutto come era, anzi di migliorarlo. Nel 2000 egli ha iniziato la costruzione di “Mondo Felice", un complesso costruito su due basi: un orfanotrofio, (Mondo Felice) che, a pieno regime, potrà accogliere 150 bambini ed un pensionato, (Hogar de Fatima) che potrà accogliere 80 anziani. Attualmente sono ospitati permanentemente bambini e anziani, senza famiglia. Alcuni anziani sono ciechi, senza arti, ed alcuni ammalati di AIDS. Mondo Felice, ha avuto una sostanziosa sovvenzione dalla Amministrazione Provinciale di Verona, è stato inaugurato nel maggio del 2003, alla presenza del Cardinale di Santo Domingo, Mons. Lopez Rodriguez e del Vice Presidente della Provincia di Verona, dott. Antonio Pastorello. Dopo la inaugurazione di Mondo Felice, nel 2003, alcuni spontanei “amici” hanno ritenuto opportuno dare una forma di legalità (almeno in Italia) a tutta la attività di Roberto ed hanno deciso di costituirsi in Associazione Onlus. Ed è così che il 16 ottobre 2003, 19 amici si sono ritrovati presso uno studio notarile di Verona ed hanno dato vita alla "ASSOCIAZIONE Onlus AMICI DEL PROGETTO ROBERTO", che ha come solo obiettivo quello di supportare tutte le attività benefiche di Roberto nella Repubblica Domenicana. I PROGETTI Progetto Roberto Il Progetto Roberto è una realtà ideata nel 1986 nel cuore della Repubblica Dominicana e nata dalle varie esperienze vissute sulla propria pelle di un giovane veronese, Roberto Danese, di San Martino Buon Albergo che, immersosi nelle condizioni miserevoli della gente di Sabana Grande de Boyà, ha sentito l’esigenza di donarsi loro e condividerne la povertà. Il Progetto è la prova concreta dell’importanza di costruire nell’amore e nella tutela dei diritti umani di persone nate in una terra in cui, ai più, non è riconosciuto il diritto di vivere. Infatti dopo alcuni anni vissuti con questa gente, Roberto ha compreso l’urgenza di aprire una struttura che accogliesse i bambini dando loro nutrimento ed educazione. Il Progetto si è ampliato con grandi sforzi e difficoltà; oggi il centro ospita 2.687 ragazzi dalla scuola materna al “bacigerato” (le nostre superiori). La struttura vede impegnata un equipe di suore, insegnanti, cuoche, medici, infermieri, meccanici e artigiani tutti del luogo, i quali operano in strutture molto semplici. I bambini frequentano la scuola in due turni: un gruppo al mattino ed uno al pomeriggio, le scuole pubbliche funzionano poco e male. Il progetto assicura anche un pasto al giorno, materiale scolastico, una divisa (imposta dal governo) e cure mediche. Insieme a quella di Sabana, Roberto ha fondato a Yamasà un altro centro che dà ospitalità a 1.050 bambini, ed altre strutture satelliti minori distribuite sul territorio. Sono state poi costruite 99 abitazioni per famiglie disagiate ed in grave situazione economica. 26 Nel 1999 il Progetto ha raggiunto la propria indipendenza economica, anche grazie ad un finanziamento del governo domenicano, per cui si è pensato di lasciare la gestione ad una Congregazione di Suore Domenicane: Las Hermanas Misioneras del Corazon de Jesus, che continuano le finalità del Progetto in ogni sua parte, rimanendo sempre sotto la supervisione della Associazione Onlus Amici del Progetto Roberto, che continua ad aiutare e supportare economicamente i bambini di Mondo Felice ed i nonni dell’Hogar de Fatima. Progetto Mondo Felice Nel maggio 2003, è stato inaugurato “Mondo Felice” un nuovo progetto costruito da due centri di accoglienza, uno per i bambini in gravi situazioni familiari, malnutriti, malati, disabili od orfani e uno per gli anziani soli e malati. Questi ospiteranno rispettivamente 150 bambini e 80 persone anziane. Ma per funzionare, c’è bisogno del nostro aiuto economico, ed è per questo motivo che bisogna ripartire con le adozione a distanza dei bambini orfani ma anche dei nonni, per garantire a loro alimentazione, istruzione e assistenza sanitaria. Per adozione a distanza si intende l’impegno e la responsabilità che una persona si prende nell’inviare un contributo al progetto autotassandosi mensilmente, per rispondere alle necessità di assistenza di un bambino o di un nonno. Progetto Boyà Comprende un centro per bambini orfani e abbandonati e una decina di scuole nei villaggi rurali più lontani. È questa la nuova iniziativa del volontario veronese appoggiato dall’associazione “Amici del Progetto Roberto Onlus”, rivolta, ancora una volta, ai bambini della zona più povera della Repubblica Dominicana, quella di Boyà, un paese a metà strada tra Sabana Grande e la città di Monte Plata. Adiacente al tempio coloniale (una delle chiese più antiche delle americhe, restaurata e riaperta al culto grazie a Roberto), si trova la scuola realizzata dal Progetto. Essa è in grado di ospitare, per le lezioni giornaliere, un’ottantina di bambini per i quali la stessa ha anche funzione di famiglia. Attualmente il centro ospita fanciulli rimasti orfani, a volte violentati e abbandonati. Molti di questi arrivano dalla frontiera di Haiti, dove i genitori li lasciano, sperando che nel paese confinante abbiano un futuro migliore. Per far fronte alle crescenti richieste di aiuto la struttura è stata recentemente ampliata. Le scuole nei villaggi hanno un duplice ruolo: da un lato insegnare e formare i bambini che altrimenti non avrebbero la possibilità di avere un’istruzione se non a costo di ore di cammino a piedi. Dall’altro creare un’economia alternativa, perché le maestre e gli addetti delle scuole sono persone che vivono nel villaggio e in questo modo possono avere un’occupazione dignitosa e una fonte di reddito. Il progetto Boyà comprende anche una piccola casa di riposo per i tagliatori di canna senza famiglia. Persone che nella loro vita sono state lavorativamente sfruttate fino ad essere diventate cieche a causa del veleno presente nella canna da zucchero. Persone che altrimenti concluderebbero la loro esistenza in miseria e abbandono. 27 UN MINUTO PER NOI Formazione specifica progetto “I nostri Miliardi”, Servizio Civile Nazionale La storia di Abdoul Buongiorno a tutti. Mi chiamo Abdoul. Sono nato a Bolokoro in Mali. Ho lasciato il mio paese a causa di situazioni molto gravi. Già da quando avevo 6 anni sono iniziate le mie sofferenze. I miei genitori divorziarono e nello stesso tempo mia madre era molto malata quindi non poteva prendersi cura di me. Mio padre, in questa situazione di desolazione ci ha abbandonati, si è spostato in un altro paese e lì si è risposato. Io sono rimasto con mia madre sofferente. Un giorno è venuta mia nonna materna a prenderci e ci siamo trasferiti da lei. Mia madre continuava a peggiorare, io ero piccolo e non potevo fare niente per lei e non c’era nemmeno mio padre. Un giorno ho fatto questa domanda a mia madre: “Mamma perché te e papà non andate d’accordo?”. Lei mi raccontò tutti i problemi tra di loro e io mi misi a piangere. Lei mi disse: “Non piangere Abdoul, questa è la volontà di Dio e il futuro è tra le sue mani”. Un giorno mia madre morì. Rimasto solo nella vita ho continuato a vivere da mia nonna. Alcuni mesi dopo arrivarono i fratelli e sorelle di mio padre a strapparmi all’amore di mia nonna. Essi mi portarono con la forza nella loro grande famiglia. Io ero orfano e non c’era nessuno a prendersi cura di me. Passavo tutte le mie giornate a piangere e la notte non dormivo. Io Abdoul non sono mai stato felice. Un giorno mi sono fatto male al braccio e nessuno mi curava in questa grande famiglia, eccetto una seconda moglie del nostro capofamiglia, che mi portò in ospedale e mi adottò quasi come un figlio e anche per me lei era come una madre. Lei mi voleva molto bene. Un anno dopo però si ammalò di malocchio nella gola e io sono impazzito perché lei era tutto per me. Ero proprio disperato ed ho fatto una fuga. Sono andato nella capitale del Mali, Bamako. Lì ho passato dei momenti duri, non c’è sicurezza, ad esempio i poliziotti non hanno rispetto della popolazione e i musulmani non vanno d’accordo tra di loro. La religione in Mali è l’Islam e ci sono vari gruppi islamici. Nel Corano il nostro profeta Mohamed ha detto che tutti i musulmani sono fratelli: ma allora perché noi musulmani non andiamo d’accordo? Io ero come uno straniero nel mio paese e nella mia famiglia. Un giorno mi sono detto: perché non lascio il Mali? Così nel 2011 sono andato in Libia. Quindici giorni dopo scoppiò la guerra e di nuovo la sofferenza. Eravamo più di dieci persone nascoste in un appartamento. Non c’era lavoro, non c’erano soldi. Si mangiava male e stavamo male anche di salute, non potevamo chiamare i nostri perché non c’era la rete telefonica. I vagabondi arabi entravano in casa per aggredirci armati di pistole e coltelli. Hanno ucciso tanti neri. Siamo scappati dall’appartamento e siamo andati all’ambasciata del Mali a Tripoli, ma non c’era cibo. L’ambasciatore era in trattative per un rimpatrio, ma Gheddafi chiuse i confini. I combattimenti proseguivano. La Nato bombardava più volte. Io ero disperato e impotente. Pensavo che fosse la mia morte. Un giorno con degli amici siamo andati al porto per fuggire dalla guerra. Lì abbiamo fatto dieci giorni senza dormire, affamati, indeboliti. La nave messa a nostra disposizione era in cattivo stato e sovraccarica: più di 300 persone a bordo. Siamo riusciti 28 a partire dopo quattro tentativi. Ognuno pregava il suo Dio. Abbiamo fatto tre giorni e due notti sulla nave senza mangiare né dormire. Alla fine, grazie a Dio, siamo arrivati in Italia. Era mercoledì 9 giugno 2011. Io Abdoul ringrazio Dio di avermi salvato: pensavo di morire nel mare. Sono rimasto un mese a Lampedusa, poi mi hanno spostato a Verona. Con tutto quello che ho passato non voglio mai più ritornare in Mali. Io Abdoul ho sofferto molto nella mia vita. Ne ho abbastanza di soffrire. La storia di Mohamed Il mio nome è Mohamed. Sono nato in Costa d’Avorio, dove sono cresciuto insieme ai miei genitori e lì ho anche studiato. La Costa d’Avorio confina con il Burkina Faso, il Mali, il Ghana, la Liberia e la Guinea Conakry. Ho lasciato il mio paese a causa di un evento tragico che colpì il paese nel settembre 2002. Data la gravità della situazione, ogni giorno alle ore 18 era stato instaurato un coprifuoco. Nessuno usciva di casa. Fuori si sentivano colpi di fuoco, urla di gente. Erano i militari ivoriani e i militari francesi che attaccavano la gente per ucciderla. Io abitavo nella zona più pericolosa perché in quel quartiere abitavano tutti i politici del paese. Se succede un problema politico, la gente va là direttamente per distruggere le case e uccidere le persone. Durante uno di questi attacchi hanno bruciato la mia casa e ucciso mia madre. Chi non aveva fortuna di scappare girava per strada disperato. Altra gente si rifugiò nelle chiese. Durante una manifestazione, per dire all’esercito francese di andare via dal paese questi hanno sparato alla popolazione. È successo davanti all’hotel Ivoire. C’erano tanti morti, sangue dappertutto, sembrava venisse giù dal cielo una pioggia di sangue. Dal 2002 al 2003 la guerra continuò. Io e i miei fratelli fummo portati da nostro padre in una chiesa. Ero molto spaventato, per me stava succedendo la fine del mondo. Le violenze continuarono fino al 2006. C’erano molte tensioni nel paese. La città era piena di militari, tantissimi carri armati. Ero terrorizzato. Non si poteva neanche uscire di casa perché ogni volta venivamo fermati dalla polizia, ci facevano tante domande e usavano violenza sulle persone. Era veramente terribile. Io ogni volta continuavo a ripetere a mio padre che volevo andarmene lontano da questa guerra. Ma mio padre si rifiutava categoricamente per via della mia giovanissima età. Così nel 2008, quando si presentò l’opportunità di lasciare il paese, sono fuggito senza dire nulla a mio padre. Ero triste di lasciare la mia famiglia ma non volevo più vivere in queste situazioni. Così con tutte le sofferenze e le paure della guerra ho lasciato il paese, abbandonando mio padre e i miei fratelli per andare in Libia. Io non volevo lasciare la mia famiglia. Non avrei mai lasciato il mio paese per un altro paese se non fosse stato per la guerra. Ho lasciato il mio paese un giorno di marzo del 2008 alle 7 di mattina senza documenti. Ho preso il treno per il Burkina Faso. Sono rimasto due giorni in Burkina Faso e lì ho preso il pullman per il Niger. Il viaggio fu molto penoso. Nel deserto ho sofferto la fame e la sete per cinque giorni. Siccome c’era da pagare del denaro ad ogni villaggio, ma io non avevo soldi, fui fermato e rinchiuso dalla polizia per una giornata intera. Dopo il mio rilascio sono andato dai militari per spiegare la mia situazione. Mi hanno accolto e lavoravo nel campo dando da mangiare alle mucche per due mesi. I militari erano gentili con me. Mi hanno messo su una macchina in partenza per Madama e mi hanno dato dei soldi. Da Madama sono andato subito in Libia. Ho visto tanti corpi senza vita per strada, ho avuto tanta paura, ero sicuro di fare anch’io la stessa fine. Arrivato in Libia, l’autista mi ha rinchiuso per cinque giorni, voleva 200 euro da me. Tutti gli autisti si comportavano in questo modo: si facevano pagare di nuovo dai passeggeri. Ci ha chiesto se avevamo amici o parenti in Libia. Io ho chiamato un mio amico per chiedere aiuto e lui ha spiegato la situazione al suo padrone che si è messo d’accordo con l’autista per fargli avere i soldi. Dopo di che sono stato liberato. Dato che ero troppo piccolo e i lavori erano pesanti, ho iniziato a imparare un mestiere. Facevo decorazioni insieme a un signore congolese. Mi pagava 5 dinari al giorno. Ho lavorato con lui per circa cinque mesi. I soldi che guadagnavo li affidavo a lui perché abitavo in un centro con tante persone e a volte i libici aggredivano la gente per derubarla. Un giorno il congolese fece il ricongiungimento familiare con la moglie. Il lavoro diminuiva e la moglie del tizio si ammalò. Non ho mai ricevuto i miei soldi perché sono stati usati dal signore per curare la moglie. Ho dovuto voltare pagina e trovare un altro lavoro. Un giorno, mentre andavo al lavoro, fui fermato dalla polizia e rinchiuso in prigione per due mesi. Il giorno in cui mi dovevano trasferire in un’altra prigione scoppiò la guerra. Ci hanno liberati, ma la guerra 29 era pericolosa per noi neri perché i ribelli dicevano che eravamo tutti a favore di Gheddafi. La guerra si faceva sempre più pericolosa per noi neri, perché i militari si recavano presso i centri dove abitavamo per prelevare con la forza i ragazzi neri, obbligandoli a combattere contro i ribelli. C’è anche da dire che ai ragazzini di quindici anni furono date armi e questi facevano delle prove sui neri. E nello stesso periodo c’era anche la guerra nel mio paese. Che fare? Dove andare? Tutti i confini erano chiusi. Rimaneva solo il mare. Ho deciso di prendere quella via, dandomi a Dio perché il numero delle persone che morivano nel mare era superiore al numero delle persone che ce la facevano ad entrare in Italia. Ho pagato 300 euro per la barca. La barca era in cattivo stato, sovraccarica. Dopo due tentativi siamo riusciti a partire. Ho fatto due giorni sull’acqua senza mangiare né bere. E per la grazia di Dio sono arrivato a Lampedusa. In realtà sono nato praticamente nella guerra, quindi tutta la mia vita è stata sommersa da violenze. Violenze nel mio paese, violenze in Libia. Sono stanco di vivere nella violenza. Stanco delle guerre. Non voglio più ritornare in Africa. Per via di queste violenze non riesco più a dormire. Rimango sveglio tutte le notti, non riesco a prendere sonno. I rumori delle bombe, le urla, la paura, le sofferenze mi perseguitano. 30 Non è un film Non è un film quello che scorre intorno che vediamo ogni giorno che giriamo distogliendo lo sguardo. Non è un film e non sono comparse le persone disperse sospese e diverse tra noi e lo sfondo, è il resto del mondo che attraversa il confine, ma il confine è rotondo si sposta man mano che muoviamo lo sguardo ci sembra lontano perchè siamo in ritardo, perenne, costante, ne basta un istante, a un passo dal centro è già troppo distante, a un passo dal mare è già troppo montagna, ad un passo da qui era tutta campagna. Oggi tutto è diverso una vita mai vista. Questo qui non è un film e non sei protagonista, puoi chiamare lo stop ma non sei il regista ti puoi credere al top ma sei in fondo alla lista. Questo non è un film e le nostre belle case non corrono il pericolo di essere invase, non è un armata aliena sbarcata sulla terra, non sono extraterrestri che ci dichiaran guerra, son solamente uomini che varcano i confini, uomini con donne, vecchi con bambini, poveri con poveri che scappan dalla fame, gli uni sopra gli altri per intere settimane come in carri bestiame in un viaggio nel deserto rincorrono una via in balia dell’incerto per rimanere liberi costretti a farsi schiavi stipati nelle stive di disastronavi. Come i nostri avi contro i mostri e i draghi in un viaggio per l’inferno che prenoti e paghi sopravvivi o anneghi questo è il confine, perchè non è un film, non c’è lieto fine. Scegli da che parte stare, dalla parte di chi spinge, scegli da che parte stare, dalla parte del mare. Questo sembra un film di quelli terrificanti dalla Transilvania non arrivano vampiri ma badanti, da Santo Domingo non trafugan zombie, ma ragazze condannate a qualcuno che le trombi dalle Filippine colf e pure dal Bangladesh dalla Bielorussia solo carne da lap-dance. Scappano per soddisfare vizi e sfizi nostri, loro son le prede, noi siamo i mostri,loro la pietanza noi i commensali e se loro son gli avanzi noi siam peggio dei maiali. Pronti a divorare a sazietà, ma pronti a lamentarci per la puzza per della varia umanità che ci occorre, ci soccorre, ci sostenta. Questo non è un film ma vedrai che lo diventa tu stai attento e tieniti pronto che al momento di girare i buoni vincon sempre, scegli da che parte stare. Scegli da che parte stare, dalla parte di chi spinge, scegli da che parte stare, dalla parte del mare. (Frankie Hi-nrg; Fiorella Mannoia) Link video : http://www.youtube.com/watch?v=kzFN8MiYGi0 31 Una donna e le sue mucche Temple Grandin è conosciuta nel mondo per essere una professoressa di scienze animali all’università del Colorado, ed una luminare dell’ingegneria relativa ai progetti di macelli e attrezzature per il bestiame. Segni particolari: Autismo. Ebbene sì, questa signora dai vestiti simboleggianti animali, per di più mucche e tori, ha una storia particolare, sia per l’enorme capacità comunicativa, sia per i passaggi affrontati nel guado del pregiudizio umano che definiscono la normalità, infine per l’intensa voglia di riuscire. Temple nacque negli anni ‘50, periodo in cui la sindrome autistica era ancora ai primi studi, si parlava delle “mamme frigorifero”, ed una volta diagnosticato lo spettro i bambini venivano immessi in istituti speciali. La madre di Temple rifiutò di seguire tale percorso e cominciò invece ad aiutare Temple ad adattarsi alla vita di tutti i giorni. Assunse un logopedista e mandò Temple a scuola con gli altri ragazzi “normali”, fino al college. In questi anni Temple combatte la sua primissima sfida: l’integrazione. Eh sì, non è esattamente facile stare in un contesto dove ti prendono di mira in quanto diversa e non emarginata, lo è ancor meno se non sei esattamente in grado di spiegare la tua diversità affinchè venga rispettata. Hai voluto la bici, e adesso pedali no? Temple trova aiuto e comprensione in ciò che è meno convenzionale per un umano, negli animali, e nello specifico le mucche dell’allevamento della zia dalla quale soggiornava. Una mucca ha molto a che spartire con un’autistica, non le piace troppo il nostro contatto fisico, ha determinate reazioni emotive, ed una certa tipologia di elaborazione sensoriale, e cosa più importante, è obbligata a sopravvivere nel nostro contesto. Prodotto semplice dell’incontro è proprio l’empatia che proverà Temple, una condivisione che l’aiutò a scoprire la via per contenere le sue crisi: la macchina degli abbracci. Questo Supercongegno negli allevamenti serve in primis a tranquillizzare e allo stesso tempo immobilizzare il bovino per poterlo vaccinare e tatuare. 32 Sfrutta un insieme di leve e punti di compressione fisici tali da permettere il rilassamento quasi immediato, proprio da questa macchina Temple ne crea una a misura di umano da usare all’occorrenza personalmente. Insomma sopravvive al college, grazie a questa macchina, spesso per i ‘normali’ dai fini ambigui, e per questo fino all’ultimo contestata. È solo grazie alla dimostrazione scientifica ed uno studio rigoroso che riesce a far valere la sua ragione, cioè che il dispositivo non è uno strumento sessuale o perverso, ma una macchina per auto medicare le patologie che la affliggono in determinati momenti. Sceglie in seguito di studiare zoologia e di specializzarsi in ingegneria, ed ecco la seconda sfida di Temple: il maschilismo. Da quando in qua negli anni ‘70 una donna, oltretutto autistica, si metteva a studiare le tecniche di allevamento e macellazione del bestiame? Quella era roba da veri e duri uomini, solo cowboy! Inutile citare le varie situazioni limite nelle quali si trovò a fronteggiare più che i tori, uomini offesisi per la sua riluttanza a desistere. Ciò che la portò al successo fu proprio il trovare le metodiche e le visioni giuste per progettare le strutture più funzionali possibile alla macellazione, ma soprattutto al benessere dell’animale fino al suo ultimo istante, tutto questo grazie alla sua percezione autistica delle cose. È grazie al ‘vedere in immagini’, ed alla sua empatia animale, che Temple capisce dove altri non capiscono, vede ciò che altri non vedono, e finalmente riesce dove altri non riescono, aggiungiamoci una spiccata testardaggine e tenacia, ed il genio è pronto. Queste esperienze per nulla semplici la guidano in due missioni che la vedono tutt’oggi impegnata nel mondo: far capire che lingua parlano gli autistici, le loro potenzialità oltre i loro limiti, spesso più imposti dalle nostre proiezioni su di loro; e difendere il diritto naturale degli animali, per una più sana e rispettosa convivenza, tutto questo nel pieno rispetto di tutti, senza grandi armi, solo l’autismo. 33 Ed ora… “Sii il cambiamento che vorresti vedere nel mondo” (Gandhi) 34 Il Servizio Civile Nazionale Cos’è Il Servizio Civile Nazionale (S.C.N.) è stato istituito dalla L. 64/2001, per favorire la realizzazione dei principi costituzionali di difesa della patria con attività non militari e non violente, di solidarietà sociale, per promuovere la solidarietà e la cooperazione, a livello nazionale ed internazionale, con particolare riguardo alla tutela dei diritti sociali, ai servizi alla persona ed all’educazione alla pace tra i popoli, per partecipare alla salvaguardia e tutela del patrimonio storico artistico ed ambientale. Il Servizio dura 12 mesi per un impegno settimanale di 30 ore distribuite su 5 o 6 giorni. Ai volontari è corrisposto un compenso di 433,80 Euro mensili netti direttamente accreditati dall’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile su conto corrente. Legislazione Tutta la legislazione e la normativa vigente riguardante il Servizio Civile Nazionale è riportata nel sito www.serviziocivile.gov.it Come partecipare I volontari scelgono il progetto sul sito del SCN o dell’Ente e presentano la loro candidatura direttamente alla sede presso la quale intendono prestare servizio. La selezione è affidata agli Enti ed avviene per titoli e colloquio. Requisiti per partecipare Possono partecipare al S.C.N. i/le cittadini/e italiani/e che abbiano compiuto il diciottesimo e non superato il ventinovesimo anno di età, nonché i cittadini che hanno già espletato il servizio militare. Formazione La L. 64/2001 attribuisce molta importanza all’aspetto della formazione dei volontari, intesa come aspetto centrale del Servizio Civile, nella doppia valenza di abilitazione al servizio e di educazione ai valori della solidarietà, della pace e della non violenza. I giovani che scelgono di partecipare al S.C.N. devono, attraverso la formazione generale e specifica, essere in grado di verificare e maturare le proprie motivazioni. L’Opera don Calabria e il Servizio Civile L’Opera don Calabria, uno dei primi Enti convenzionati per il servizio civile degli Obiettori di Coscienza, propone ora ai giovani l’esperienza del Nuovo S.C.N. come spazio di maturazione, partecipazione e cittadinanza attiva, attraverso l’impegno in progetti sociali nelle sue Case filiali in Italia e all’estero. Il S.C.N. offre l’occasione per una forte proposta valoriale e un percorso formativo attraverso l’esperienza del servizio alla persona e ai più poveri, della gratuità e della vita come dono, della condivisione dell’impegno per il bene comune. Con l’Opera don Calabria si può trovare l’opportunità di impegnarsi in progetti di solidarietà nel campo delle povertà e del disagio sociale: minori, malati, anziani, diversamente abili, immigrati, tossicodipendenti, persone nell’area della malattia psichica, del carcere...; in case famiglia, strutture di accoglienza, centri di formazione, parrocchie, servizi vari di prevenzione, recupero e reinserimento... Riferimenti: Opera Don Calabria - Ufficio per il Servizio Civile www.serviziociviledoncalabria.it / 045.8052962 / [email protected] 35 A nome dell’Ufficio Servizio Civile dell’Opera Don Calabria si ringraziano gli Operatori Locali di Progetto: Serena Barbi, Giacomo Brusco, Zeno Merlin, Gianpaolo Passarelli, Mauro Taioli, Alberto Tosetti. Inoltre si ringraziano di cuore tutti/e quelle persone che a vario titolo hanno favorito questo fondamentale istituto della Repubblica Italiana. Opuscolo stampato da Centro di Cultura e Spiritualità Calabriana Gennaio 2015 36