Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro panorama per i giovani Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - POSTA TARGET CREATIVE Aut. n. S/SA0188/2008 valida dal 01/07/2008 - anno XLIII - n. 3 - settembre-dicembre 2010 NASCITA DI UNA NAZIONE Forma di Stato, lingua, scuola, infrastrutture LA PATRIA OGGI Intervista a Gian Antonio Stella STORIA Il Risorgimento, la Chiesa, la Massoneria 1861-2011 1861-2011 150 anni di Unità d’Italia Sommario panorama giovani per i n. 3, settembre-dicembre 2010 3. Editoriale di Stefano Semplici 150 anni di Unità d’Italia 4. Come fare l’Italia? Il dibattito piemontese sulle “forme dello Stato” durante il Risorgimento. 33. La Società siciliana di storia patria Breve storia di una delle più importanti istituzioni culturali della Sicilia. di Carmelo Di Natale 34. Risorgimento e Resurrezione Il rapporto tra Stato italiano e Chiesa. di Martina Zollo di Donato Andrea Sambugaro 8. Il prestigio di vecchie capitali e il sogno unitario Dopo l’Unità le vecchie capitali sono destinate a una lenta involuzione. di Marianna Meriani 11. Italiani, popolo di poeti, santi ed emigranti Il fenomeno emigratorio italiano. di Livio Ghilardi 14. “L’Italia è lunga” Viaggio nella rete stradale e autostradale italiana dal 1860 ad oggi. di Claudia Macaluso 37. La massoneria che fece l’Italia La storia delle logge si intreccia con quella del Risorgimento. PANORAMA PER I GIOVANI Periodico della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro - Roma Anno XLIII - n. 3 - settembre-dicembre 2010 Direttore responsabile Mario Sarcinelli di Donato Andrea Sambugaro Direttore editoriale 38. Gli alpinisti tridentini La lotta per l’identità e la montagna. Stefano Semplici di Aleksandra Arsova Piero Polidoro 39. Solferino e la Croce Rossa Le origini del Corpo nella Seconda Guerra d’Indipendenza. Redazione: Carmelo Di Natale, Selene Favuzzi, Elisa Giacalone, Nicola Lattanzi, Claudia Macaluso, Beatrice Poles, Maria Teresa Rachetta, Gabriele Rosana, Donato Andrea Sambugaro, Sara Simone, Andrea Traficante. di Angelo Filippi 40. O’ mare canta... Libero Bovio e la poesia in musica. di Selene Favuzzi 18. Fatta l’Italia, bisogna fare l’italiano Le varietà regionali dell’italiano prolungano la tradizione dei dialetti. 41. Tra Dolce Vita e geopolitica Le Olimpiadi di Roma 1960. di Francesca Parlati di Carmelo Di Natale 21. Non è mai troppo tardi La scuola italiana non ha mai smesso di cambiare volto. 42. Sa vida pro patria Storia della Brigata Sassari. di Fabrizio Grussu di Nicola Lattanzi 24. I Lincei di Sella La cultura risorta nella neonata Italia. 43. Le tavolozze del Risorgimento 1861. I pittori del Risorgimento alle Scuderie del Quirinale. di Angela Rita Provenzano di Francesca Parlati e Aleksandra Arsova 25. I Nobel scientifici italiani 44. Ritratto di una nazione unita La mostra “Gioventù Ribelle” al Vittoriano. di Damiano Ricceri Un bersagliere e altri patrioti difendono la Repubblica Romana nel 1849 (monumento del Gianicolo a Roma; Foto: iStockphoto/ PaoloGaetano). Segretario di redazione Direzione: presso il Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 00173 Roma, tel. 0672.971.322 - fax 0672.971.326 Internet: www.collegiocavalieri.it E-mail: [email protected] Agli autori spetta la responsabilità degli articoli, alla direzione l’orientamento scientifico e culturale della Rivista. Né gli uni, né l’altra impegnano la Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro. Potete leggere tutti gli articoli della rivista sul sito: www.collegiocavalieri.it di Elena Martini 25. Fratelli d’Italia, fratelli di crimini Dal brigantaggio alla mafia. Intervista ad Antonio Nicaso. 45. Una sfida per il futuro L’Expo Milano 2015. a cura di Chiara Curia di Elena Gambaro 28. Se le coccarde sono appuntate sulle prime pagine dei quotidiani “Corriere della Sera” e “Stampa” celebrano l’Unità d’Italia. 46. Petrolio e assenzio Un’interessante raccolta di autori ottocenteschi. di Gabriele Rosana di Giuseppe Fasanella 46. Il mio paese di Selene Favuzzi Autorizzazione: 29. Leggere, studiare e ricordare Intervista a Gian Antonio Stella. 47. Post scripta Tribunale di Roma n. 361/2008 del 13/10/2008 a cura di Gabriele Rosana di Mario Sarcinelli 31. Deputazioni di storia patria e società storiche Come preservare la storia delle regioni. Dal Collegio di Giuseppe Grazioso 48. Incontri Gli incontri del Collegio “Lamaro Pozzani”. Scriveteci Per commenti o per contattare gli autori degli articoli, potete inviare una e-mail all’indirizzo: [email protected] #OLLEG OLLEGIO5NIVE O5NIVERSITARIOh,AMA RS RO0OZZA OZZANIv& &EDERAZIONE.A NE.AZIONALEDEI#AVALIERIDE VA EL,A ,AVORO Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro pano pa ano nora r ma per i gi giov iovan anii #OLLEGIO5NIVERSITARIOh,AMARO0OZZANIv6IA3AREDO2OMA1UADRIMESTRALE4ARIFFA2/#h0OSTEITALIANESPA3PEDIZIONEIN!BBONAMENTOPOSTALE$,CONVIN,.ARTCOMMA$#"-ODENAvANNO888)8NSETTEMBREDICEMBRE INTEG EGRAZIONE INTEGRAZIONE Interviste idi di erviste a Marcella Lu Lucid Lucidi cidi e Alfredo Ma t ano Mantovano ntova INDUSTRIA D DUSTRIA L storia La ll’I ntata storia de dell dell’Iri Irii rraccontata raccontat acconta contata a da Anton tonio Antonio oniio Zurzolo Z SCIENZA A Daii m i tterii d ll matematica tica misteri della ella mat ... ll a pent t ola l a pressione i one ...alla ...all ..all pentola p pr IMMIGRAZIONE IMMIGRAZIONE I MMIGRAZIONE IGRA L La a c città it à di tutti ittà panorama per i giovani Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - Tariffa R.O.C.: “Poste italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 N° 46) art. 1 comma 1, DCB Modena” - anno XLII - n. 3 - settembre-dicembre 2009 ECONOMIA Il mercato elettrico in Italia ECOLOGIA Cosa fare per consumare meno MARCONI L’inventore imprenditore AMBIENTE AMBIENTE Energia da risparmiare panorama per i giovani #OLLEGIO5NIVERSITARIOh,AMARO0OZZANIv6IA3AREDO2OMA1UADRIMESTRALE4ARIFFA2/#h0OSTEITALIANESPA3PEDIZIONEIN!BBONAMENTOPOSTALE$,CONVIN,.ARTCOMMA$#"-ODENAvANNO888)8NGENNAIOAPRILE AIOAPRILE INTERVISTE Bucciarelli, G tili Bu Gent Gentili, ntili, n ili, Morcellini, orcellini,, Masini sini ni e Pescia a CONFRONTI CONFR NFRONTI ONTI L’istruzi truzion ruzione L’istruzione ruzion uz zione superiore superiore nei europei e in Cina eii paesii eur euro DATI, 2” DATI, DUBBI DUBBI UBBI E E DIBATTITI DIBATTITI S DIBATTI SUL S L “3+ SUL “3+2” “3+ +2” L i La a riforma rii forma ma universit univers universitaria universi versitaria taria Sul sito del Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” puoi leggere e scaricare tutti i numeri e gli articoli di Panorama per i giovani www.collegiocavalieri.it Editoriale L a Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro ha Padoa Schioppa era una delle personalità che più hanno contripubblicato nel mese di novembre il Terzo Rapporto sugli buito a tenere alto il prestigio dell’Italia all’estero. Le tasse – disstudenti eccellenti. L’indagine, realizzata in collaborazio- se una volta in un’intervista – sono una cosa bellissima, perché ne con l’Istituto Carlo Cattaneo, ha lo scopo di verificare consentono appunto a un paese di organizzarsi per il bene comuil profilo sociale e le scelte universitarie dei candidati al Premio ne, rendendo disponibili quei servizi che altrimenti resterebbero “Alfieri del Lavoro”, cioè degli studenti segnalati ogni anno dal- privilegio di pochi e favorendo così la promozione della dignità le scuole italiane per il loro eccezionale curriculum. Nella ricer- e delle capacità di tutti. Molti italiani sorrisero. Qualcuno riuscì ca è stato inserito quest’anno un capitolo dedicato al sentimento perfino a scandalizzarsi... di appartenenza e di orgoglio nazionale di questi giovani, che Dagli studenti “capaci e meritevoli”, secondo l’attualissima rappresentano idealmente i talenti, la capacità di impegno e le formula dell’articolo 34 della Costituzione, non viene solo la riconcrete speranze di successo dai quali continuerà a dipendere in chiesta di crescere di più. In loro è acuta anche la sensibilità per primo luogo il futuro del paese. Siamo così in grado di mettere le forme delle relazioni sociali, per gli esiti della distribuzione del a fuoco la percezione di aspetti cruciali dell’identità italiana in potere, per i cortocircuiti di modelli e stili educativi che hanno un segmento qualitativamente molto significativo almeno delle messo quasi “fuori corso” il vocabolario del dovere, dell’integrità nuove generazioni e mi sento di proporre i risultati come pre- personale, della capacità di interpretare e promuovere scopi conmessa e insieme chiave di lettura di luci e ombre del percorso divisi. Le differenze, in Italia, ci sono sempre state e anche gli attraverso i 150 anni dell’unità nazionale al quale dedichiamo articoli che proponiamo cercano di non edulcorare la realtà di un per intero questo fascicolo. passato che in fondo solo da poco è diventato unitario. Già Dante Gli studenti più bravi – questo è il primo dato – non si ver- conosceva e distingueva “l’arzanà de’ veneziani”, “la vipera che gognano “nel complesso” di essere italiani. Su una scala da 1 ‘l melanese accampa”, il “bel paese là dove il sì suona”, il “gala 5, solo il 6% ha optato per i due punteggi lo di Gallura”, anche se è altrettanto vero che più bassi, mentre oltre il 20 per cento si è dipossiamo leggere e comprendere Dante ancora chiarato “molto orgoglioso” del proprio pas- I giovani dimostrano quasi senza vocabolario e questa continuità è saporto. Scomponendo questo sentimento nei di non voler cedere sconosciuta a popoli che pure hanno una pludiversi fattori che, per dirla con Hegel, con- all’amarezza. risecolare esperienza di unità politica. Forti di tribuiscono al “patriottismo” come coscienza questa consapevolezza, non dobbiamo eludere Sono proprio gli quotidianamente vissuta che il proprio bene l’evidenza delle differenze che ci sollecitano cresce insieme a quello di tutti gli altri citta- studenti eccellenti, oggi a ripensare il nostro modello istituzionale dini, la prospettiva – tuttavia – cambia. E non insomma, che ci e che vanno affrontate con concretezza di medi poco. Sembra inevitabile concludere che i aiutano a sentirci todo e di prospettive. In che modo, per esemgiovani amano la storia dalla quale veniamo un po’ più italiani. pio, il federalismo potrà contribuire a ridurre e le bellezze che abbiamo ricevuto, ma non la forbice, impietosamente evidenziata dalle sono affatto fieri di ciò che oggi, concretaindagini comparative svolte anche a livello mente, siamo e facciamo. Di fronte all’arte, alla natura e alla cul- internazionale, nel reddito pro capite delle diverse regioni, nella tura italiane si dichiara abbastanza o senz’altro molto orgoglioso qualità della filiera dell’istruzione, nell’accesso ai servizi sanitari? circa il 90% del campione, ma siamo sotto il 25 per il benessere I lamenti sui mali dell’Italia sono una consunta litania e accompaeconomico e la capacità di organizzarsi per il bene comune e gnano ogni celebrazione che si rispetti: “Tutto cade. Ogni ideale la percentuale crolla addirittura a poco più del 10% quando si svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clienchiede ai giovani cosa pensano del trattamento degli immigra- tele. Dal parlamento il triste spettacolo si ripercuote nel paese”. ti. Sembra la fotografia di una generazione che davvero, anche Questo il giudizio di Giuseppe Prezzolini alla vigilia del cinquanquando scende in piazza per protestare contro una riforma del tenario del 1911. I giovani dell’indagine dei Cavalieri del Lavoro sistema di governance dell’università, come è accaduto in questi dimostrano di non voler cedere a questa amarezza. Solo il 12% ultimi mesi, lo fa per far sfilare davanti a tutti il proprio disagio si dichiara piuttosto o completamente sfiduciato nei confronti dei di figli che rischiano di avere meno dei padri e che già pagano connazionali (e quasi l’80% ritiene un dovere la solidarietà fra le un prezzo pesante per il basso livello di disponibilità al sacrificio aree più ricche del paese e quelle meno fortunate). In una ricerca per la “cosa pubblica”, troppo spesso spacciato per quella vir- del 1999, curata sempre dall’Istituto Cattaneo su un campione più tuosa arte d’arrangiarsi nella quale gli stessi giovani dichiarano vasto, la percentuale sfiorava il 25%. Sono proprio gli studenti comunque di riconoscersi più che nella tradizione della nostra eccellenti, insomma, che ci aiutano a sentirci un po’ più italiani. ricerca scientifica e perfino dei nostri successi sportivi. Tommaso Stefano Semplici panorama per i giovani • 3 Come fare l’Italia? Le forme dello Stato L’Italia è stata una monarchia, è una repubblica. Ma queste erano solo due delle possibilità nel momento in cui il nostro Stato si formò, 150 anni fa. Analizziamo il dibattito piemontese sulle “forme dello Stato” durante il Risorgimento e il tema del federalismo. di Donato Andrea Sambugaro Foto: iStockphoto/PaoloGaetano “Ogni Stato d’Italia deve rimanere sovrano e libero in sé; [non si può] conservare la libertà se il popolo non vi mette le mani sopra, sì, ogni popolo in casa sua, sotto la sicurezza e la vigilanza di tutti gli altri. Perché dunque l’efficacia della Costituente si faccia sentire, è necessario che abbiano valore popolare i Parlamenti di ogni Stato [all’interno dell’Italia]. [Poi] le Sono, queste, parole di sconcertante attualità, che a pieno titolo potrebbero essere ascritte al dibattito presente sulle questioni nazionali e internazionali. Potrebbero essere state pronunciate, verrebbe da ipotizzare, da un ideologo leghista d’ampia cultura e vedute per quanto si dice nella prima parte, circa la necessità di uno Stato italiano federalista. O potrebbero apparire le parole di un lungimirante “Le nazioni europee devono politologo, attento congiungersi... Avremo pace vera alle questioni euquando avremo gli Stati Uniti ropee, per quanto si afferma nella d’Europa” (C. Cattaneo). seconda parte. Innazioni europee devono congiungersi, col vero, un’ipotetica Ansa che le riportasse principio morale dell’eguaglianza e della recherebbe il nome di Carlo Cattaneo, e la libertà. Avremo pace vera quando avremo data sarebbe il 1849. Quanto ho riportato è estratto dal testo Dell’insurrezione di gli Stati Uniti d’Europa”. 4 • n. 3, settembre-dicembre 2010 Milano nel 1848 e della successiva guerra, scritto dal patriota lombardo all’indomani del fallimento dei moti milanesi. Le riflessioni che ho portato ad esempio ben evidenziano, nella pregnante attualità che le caratterizza, il fatto che il dibattito sulle forme e sulle istituzioni politiche di uno “Stato italiano”, fosse esso, com’era allora, ipotetico, o sia, com’è oggi, realizzato compiutamente, non è certo cosa recente, ma affonda le radici in tempi ben lontani. Tenteremo qui dunque di analizzare, per sommi capi, quali correnti di pensiero si fronteggiavano in campo politico al momento di quell’Unità da cui decorrono i centocinquant’anni, osservando come la soluzione poi realizzatasi, quella di uno Stato nazionale, centralista e monarchico, fosse solo una fra le molte possibili. Sarà dunque di una qualche utilità ricostruire lo scenario storico del dibattito, che – è giusto ricordarlo – si svolse principalmente sotto l’azione e la spinta di intellettuali piemontesi e (in parte) lombardi. Ciò non deve stupire, né si intende in questo modo affermare un presunto “predominio culturale” di questa zona d’Italia. È però evidente che, se la parte nord-orientale d’Italia era esclusa da questo dibattito in quanto sottoposta a un dominio straniero, oltretutto oltremodo repressivo verso le spinte nazionaliste, altrettanto non poteva che valere per l’Italia meridionale, lontana dalle novità culturali e dal fresco confronto della prima parte del XIX secolo, politico quanto letterario. Nel corso degli anni Quaranta, infatti, in coincidenza con un relativo risveglio dell’economia e della società civile, il di- battito politico italiano si arricchì di nuo- Sopra: il monumento a Goffredo Mameli, ve voci, con il prepotente e fondamentale patriota e autore del testo del nostro inno nazionale, presso il cimitero del Verano emergere di un orientamento moderato, (Roma). che si distingueva nettamente sia dal tradizionalismo conservatore sia dal radicalismo rivoluzionario mazziniano, propo- vita che lo portò però anche a dover sopnendo soluzioni graduali alla questione portare forti contrasti per motivi politici, italiana e tentando di conciliare la causa che lo costrinsero a vivere parte della sua esistenza come esule, ramingo per l’Euliberale-patriottica con il fronte cattolico. Nasce così la corrente di penMentre il neoguelfismo, in siero poi battezzaPiemonte, conosceva il maggior ta neoguelfa, il cui successo, in Lombardia nasceva principale espoil federalismo di Cattaneo. nente fu Vincenzo Gioberti. Nato nel 1801 e ordinato sacerdote nel 1825, Gio- ropa (Parigi, Bruxelles…) e a morire in berti si interessò alla politica del regno solitaria ma dignitosa povertà. Proprio sabaudo pur conducendo una vita ritirata durante un soggiorno a Bruxelles scrisse, e mai (si direbbe oggi) “sotto i riflettori”; nel 1843, il libro Del primato morale e panorama per i giovani • 5 150 anni di Unità d’Italia Foto: iStockphoto/HultonArchive 6 • n. 3, settembre-dicembre 2010 “slogan”, si macchiano di superficialità e non osservano la teoria e il pensiero politico giobertiano nella sua ampia e più completa accezione. Partiamo prima di tutto da alcune osservazioni basilari. L’intero edificio concettuale di Gioberti (si legga questa mia affermazione e quelle che seguiranno come riferite principalmente alla teoria politica così come è espressa nel Del primato) è poco solido almeno per ciò che riguarda due aspetti, entrambi di carattere pragmatico e fattuale. In primo luogo Gioberti trascura il problema della presenza austriaca nel Lombardo-Veneto – che sarebbe dunque rimasto escluso da qualsivoglia progetto unitario – ed è questo un problema immenso e molto grave, se si pensa a quanto le questioni delle terre irredente peseranno sulla politica sabauda prima Alcuni dei principali protagonisti del Risorgimento. Dall’alto, in senso orario: Vittorio Emanuele II, Giuseppe Mazzini e Camillo Benso, Conte di Cavour. In basso a sinistra: Giuseppe Garibaldi a Caprera in una foto dell’epoca. e italiana poi per lungo tempo, nel XIX secolo come nel XX. In secondo luogo Gioberti non è così chiaro (come ad alcuni potrebbe apparire) su chi debba guidare e reggere – e con che forma istituzionale – l’ipotetico stato federale italiano, soprattutto se si pensa che nel momento in cui Gioberti vergava le sue pagine infuocate era Papa Gregorio XVI, sicché sarebbe dovuto essere “presidente” dello stato un Papa dichiaratamente reazionario e che, nell’enciclica Mirari Vos, condannava ogni sorta di pensiero liberale. Vincenzo Gioberti, in ultima analisi, viene visto come il “padre” del pensiero federalista in Italia. Questo è, in parte, innegabilmente vero, dato che l’elemento federalista rappresenta al contempo il più netto e più innovativo della sua opera. Pure, il federalismo giobertiano è caratterizzato da tratti marcatamente antistorici. Non è il federalismo di un nuovo stato, di una nuova epoca storica, di un rinnovamento. Guarda al passato più che al futuro. Il nome della corrente politica che fonda e in cui ricade attinge per il nome al repertorio medievale (“neoguelfismo”) e la sua ipotesi è in fondo quella di una restaurazione di qualcosa (in prima istanza il primato del cattolicesimo e del papato) Foto: iStockphoto/PaoloGaetano civile degli italiani. Il “primato” oggetto dello studio di Gioberti era quello derivante all’Italia dall’essere sede del papato e di averne condiviso nel corso dei secoli la missione di civiltà. Proprio in ragione di ciò Gioberti proponeva una confederazione degli stati italiani presieduta dal Papa e un grande movimento politico, avente alla base gli antichi valori cristiani, che avrebbe dovuto raccogliere varie forze partitiche per un progetto unitario: un “partito” cattolico, italiano, nazionale e moderno. Di qui i molti e diversi giudizi sulla sua prospettiva. Gioberti, viene detto da molti, è il padre dell’ideologia federalista. Gioberti predisse lucidamente l’avvento della Democrazia Cristiana, si premurano di affermare altri. Gioberti, rilanciano altri ancora, voleva un Italia decentralizzata e che avesse il federalismo (politico? fiscale?) come nucleo fondante della sua identità. È evidente e forse superfluo far notare come queste siano semplificazioni, talvolta fatte in buona fede, talaltra realizzate colpevolmente per “aggiudicarsi” illustri precedenti storici. Senz’altro, sono tutte osservazioni che, nella loro tensione allo 150 anni di Unità d’Italia che è stato e che deve tornare a essere: una ri-fondazione che apparirà alla prova dei fatti una prospettiva sostanzialmente antistorica. I fermenti culturali e il dibattito politico all’interno del regno sabaudo non sono ovviamente ridotti al solo Gioberti. Negli stessi anni in cui il sacerdote torinese rifletteva sul “primato degli italiani” un altro personaggio politico torinese, il liberale Cesare Balbo, pubblicava il testo Le speranze d’Italia, che in un certo qual modo si poneva come “complementare” all’opera di Gioberti, affrontando con maggior attenzione e realismo pragmatico i due temi da lui colpevolmente tralasciati o, come si è visto, appena toccati. Balbo auspicava un ritiro della presenza austriaca dal Lombardo-Veneto tramite mezzi diplomatici e proponeva, come lo stesso Gioberti, di puntare a un’unità d’Italia realizzata su un modello federalista, vagheggiando una confederazione che avesse i suoi due poli nell’autorità morale del papato e nella forza in armi del Regno di Sardegna. l’ipotesi di un’unificazione guidata da un Piemonte ancora clericale e monarchico e proponeva di puntare in prima istanza sulle riforme politiche e sullo sviluppo dei singoli Stati, uno sviluppo che interessasse l’aspetto economico ma anche quello delle infrastrutture, delle vie di comunicazione e dell’istruzione pubblica. L’obbiettivo finale che Cattaneo auspicava era invero alquanto diverso da quello della frangia politica dei moderati; egli pensava a una confederazione repubblicana che si rifacesse al modello della Svizzera (paese in cui Cattaneo aveva soggiornato a lungo) e degli Usa, che lasciasse ampi margini di autonomia locale e che fosse premessa e base per la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, cui accenna nel testo da noi citato con una lungimiranza lucida ed esatta, sconosciuta agli altri artefici della politica del suo tempo, come la costituzione di un’Unione Europea sempre più ampia dimostra. Proviamo a tirare le fila di questo rapido schizzo delle posizioni che erano in campo negli anni in cui si preparò e realizzò l’unità d’Italia. Si è tentato di mostrare quanto travagliata, complessa e precaria sia stata non solo la “fondazione” di uno Stato nazionale italiano, ma anche la sua semplice “concezione”. Oggi il federalismo è tra i temi politici più sentiti e affrontati. Pure, se da un lato non si parla più (coerentemente con il mutato contesto storico) di un primato papale, dall’altro pa- Un’ultima figura politica di rilievo nel panorama piemontese, che merita di essere accennata perché attinente al discorso svolto finora, è Massimo D’Azeglio, autore di un opuscolo (Gli ultimi casi di Romagna, 1846) in cui si criticavano aspramente sia il malgoverno pontificio sia i tentativi insurrezionali attuati nella penisola (specie a opera delle società segrete), additati come inutili se non addirittura controproducenti. Si proponeva viceversa una via fatta di riforme graduali, che lasciasse però aperta la possibilità di un apporto (principalmente inteso come militare) dei re sabaudi. D’Azeglio è un personaggio piuttosto singolare: fu intellettuale romantico, pittore e scrittore prima e più che politico, autore fra l’altro del celebre Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta. Egli ben sta a significare e a segnalare come il dibattito di cui abbiamo appena cercato di delineare i contorni fosse ben più Travagliata, complessa, precaria che una discusè stata non solo la fondazione sione sterilmente, dello Stato nazionale italiano, astrattamente politica e a cui soli ma anche la sua concezione. si interessavano i “politici di professione” (per usare un ter- iono uscite dal vocabolario della politica mine moderno e gergale). Era, invero, un parole come “solidarietà, sviluppo comune tema che stimolava le corde più profonde delle infrastrutture e del sistema dell’istrue reattive del sentire comune, abbraccian- zione”. Appaiono poco chiare le compedo una classe di intellettuali che andava tenze rispettive; i singoli soggetti politici, ben oltre la mera classe politica. nazionali e locali sembrano operare, più Possiamo tornare a questo punto a Car- che in sinergica sintonia, con dissonante lo Cattaneo, l’acuto uomo politico mene- incoerenza. Il federalismo, il riconoscighino che ci ha offerto la citazione dalla mento di particolarità e autonomie sono, quale abbiamo preso le mosse. Negli anni l’abbiamo visto, istanze vecchie quanto e in cui il neoguelfismo conosceva la mag- più del nostro Stato. Purché non divengano gior diffusione e il maggior successo in particolarismi, dobbiamo comprendere che Piemonte, in Lombardia nasceva, da un è necessario confrontarsi con esse, perché retroterra sostanzialmente formatosi sulla l’Italia non muoia in silenzio, proprio mencultura illuminista, un “partito” federalista, tre tutt’attorno si sprecano i coriandoli, le democratico e repubblicano il cui capofi- feste e i discorsi per festeggiare il suo cenla era appunto Cattaneo. Egli avversava tocinquantesimo anniversario. panorama per i giovani • 7 Foto: iStockphoto/lrescigno 150 anni di Unità d’Italia Il prestigio di vecchie capitali e il sogno unitario Dopo la costituzione dello Stato italiano le antiche capitali dei regni pre-unitari sono destinate a una lenta e inesorabile involuzione provincialista: evanescenti ombre alle periferie dell’Italia. di Marianna Meriani “Ogni collettività umana avente un riferimento comune e una propria cultura e una propria tradizione storica, sviluppata su un territorio geograficamente determinato […] costituisce un popolo. Ogni popolo ha diritto d’identificarsi in quanto tale. Ogni esterna e alla liberazione dal giogo straniero. È stata l’Italia tutta ad aver scosso le sue dolenti membra, vessate ormai da tanti, troppi secoli, dall’invasore straniero. È stato il ΧIΧ secolo il tempo dei grandi moti liberali, che hanno visto una nazione non ancora Stato in veste di attrice sul set Solo il 17 marzo 1861 l’Italia può della storia, nel diproclamarsi uno Stato unitario e sperato desiderio prepararsi ad affrontare le nuove di unire quanto era stato fino a quel sfide della modernità. momento artifipopolo ha diritto di affermarsi come Na- cialmente diviso, non potendo più mettere zione”. È la dichiarazione dei diritti col- a tacere quello spirito di ricongiungimento lettivi dei popoli, firmata a Barcellona nel che anelava a costituire l’Italia e lanciava maggio del 1990, a positivizzare il diritto un triste grido all’invasore perché liberasse naturale dei popoli all’autodeterminazione una terra che non gli apparteneva: “o stra8 • n. 3, settembre-dicembre 2010 nieri, nel proprio retaggio / torna Italia, e il suo suolo riprende; / o stranieri strappate le tende / da una terra che madre non v’è” (Marzo 1821, A. Manzoni). Solo il 17 marzo 1861 l’Italia può proclamarsi uno Stato unitario e prepararsi così ad affrontare le nuove sfide della modernità, dovendo però far fronte a una serie di problematiche derivanti dal repentino mutamento istituzionale. Sicuramente non possono essere passate sotto silenzio le questioni connesse all’involuzione provincialista delle capitali dei regni pre-unitari, anche se non manca qualche eccezione per città come Torino, che, pur spodestata nel 1865 dall’elevazione di Firenze a capitale del neonato Regno d’Italia in attesa di cedere lo scettro a Roma, vivrà comunque un grande sviluppo futuro in quanto centro propulsore del vecchio regno sabaudo, divenuto leader nella conduzione della politica italiana. È principalmente Napoli, che del vecchio Regno delle Due Sicilie era stata florida capitale, a divenire spettro di se stessa, passando da un’antica condizione che l’aveva vista protagonista sulla scena economico-culturale a testimonianza ancor viva di quella lacerazione profonda tra un Nord all’avanguardia e un Sud og- 150 anni di Unità d’Italia getto di disattenzioni, ma che il trasformismo rende appetibile. Non si può nascondere questa realtà, tanto che veementi sono le accuse di intellettuali come Salvemini, che negli Scritti sulla questione meridionale arriva a sostenere che “se dall’unità il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è stata addirittura assassinata: ha perduto la capitale, ha finito di essere il mercato del Mezzogiorno, è caduta in una crisi che ha tolto il pane a migliaia e migliaia di persone”. Nel saggio Nord e Sud dei primi anni del Novecento, Francesco Nitti delinea con non minore realismo le differenze tra la Napoli post-unitaria e quell’antica panacea del meridione, che, grazie agli stabilimenti serici e ai numerosi cotonifici, poteva vantare la propria condizione di principale esportatrice di prodotti tessili del Regno delle Due Sicilie, seguita poi dalla vicina Salerno, che aveva così pregiati lanifici da essere stata ribattezzata “la Manchester delle Due Sicilie”. Non meno sviluppato era il settore dell’industria pesante grazie al polo metalmeccanico di Pietrarsa, che produceva materiali per navi e locomotive, divenendo col tempo la più grande fabbrica di tutta la penisola. Il Regno delle Due Sicilie aveva poi, oltre alle risorse campane, altri importanti centri propulsori in territorio calabrese e siciliano, dove vi erano rispettivamente rinomate fonderie per la produzione della ghisa e fabbriche per la lavorazione dello zolfo. Verosimile, dunque, risulta il quadro tratteggiato da Nitti, che presenta una stima precisa del contributo portato da questo florido regno alla ricchezza italiana, il cui patrimonio ammontava a circa quattrocento milioni di lire oro, contro i novanta del Granducato di Toscana e dello stato pontificio e i soli ventisette del Regno di Sardegna. Il regno borbonico, pur apportando la più bassa percentuale di debiti e la maggior ricchezza, deve coprire il ben più consistente debito del regno sabaudo e sopportare la ferita ancor più dolorosa della perdita della propria leadership economica a causa di un’industrializzazione volutamente realizzata nel Nord. Non tutto però cambia, non si modifica però, la rinnovata legislazione penale: nel quell’ingiusta stratificazione della società, 1786 la Toscana è il primo paese europeo per la quale l’essere è definito dal posse- ad abolire la pena di morte e il 30 novemdere e l’acuta critica di Giuseppe Tomasi bre, giorno della promulgazione del nuovo di Lampedusa, secondo la quale cambia codice penale, è diventata la data simbolo tutto affinché nulla cambi, sicuramente contro la pena capitale (attualmente sono rispecchia quella cristallizzazione Dopo l’Unità, Napoli, che era sociale non affranstata la florida capitale del catasi dal vecchio Regno delle Due Sicilie, divenne baronaggio. Quella “Babele della lo spettro di se stessa. storia” – come usava definirla Stanislao Nievo – non rie- 141 i paesi che hanno stabilito, di diritto o sce a sottrarsi agli artigli di una storia forse di fatto, di non eseguirla più). Lo stesso catroppo rapace e poco rispettosa delle sue risma, tuttavia, non caratterizza la politica secolari tradizioni. di Leopoldo II, teso a difendere le sorti del Passando al caso toscano, invece, una suo trono più che il benessere del Granduserie di errori caratterizza la reggenza di cato: lega la sua politica alle sorti della doLeopoldo II, causando l’inesorabile de- minazione austriaca sul Lombardo-Veneto, clino del Granducato, che sin dagli albori e, costretto ad una rovinosa fuga in seguito della sua costituzione si era distinto per le alla costituzione della fragile Repubblica esemplari novità in campo socio-politico, Toscana, proclamata il 15 febbraio 1850 ma che nel decennio pre-unitario non sa all’arrivo di Mazzini a Livorno e a congestire il repentino cambiamento istituzio- clusione dei moti indipendentisti, non ha nale. La dinastia lorenese poteva vantare il coraggio di accettare l’invito sabaudo a tra i suoi esponenti Leopoldo I, sovrano unirsi nella lotta contro l’Austria. Ineviilluminato che aveva retto le redini del tabile è l’abdicazione e la consegna della Granducato nella seconda metà del ΧVIII propria terra ai Savoia, che nel febbraio secolo e dato avvio a una serie di grandi ri- del 1860 procedono alla sua annessione forme politico-economiche. Degne di nota al Regno di Sardegna. Anche la Toscana erano state l’abolizione del datato sistema si avvia a divenire solo una provincia del corporativo, l’eliminazione delle elevate futuro Regno d’Italia, a cui consegna una tariffe doganali e la loro sostituzione con ricca tradizione politico-culturale. La terra meno onerosi dazi protettivi, l’imposizio- di Dante e del Petrarca, la culla della lingua ne diretta dei tributi e la predisposizione di italiana, la patria del riformismo illuminaun piano per la riduzione del debito pub- to non è sottratta agli errori della politica e blico. La novità più significativa era stata, non esce indenne dagli inganni del potere. Foto: iStockphoto/da-kuk Con l’Unità d’Italia Napoli (nella pagina precedente), cuore del Regno delle Due Sicilie, perse lo status di capitale; lo stesso destino toccò a Firenze (a destra), ex capitale del Granducato di Toscana. Firenze, però, fu capitale del Regno d’Italia dal 1865 al 1871. Nella pagina successiva: Torino, capitale del Regno di Sardegna, fu capitale italiana dal 1861 al 1865. panorama per i giovani • 9 150 anni di Unità d’Italia Un’aria tutta particolare, invece, si respira in quel periodo nello Stato pontificio; un periodo di grandi e profondi cambiamenti, che coincise con il lungo pontificato (1846-1878) di Pio IX. I due scettri del potere sono destinati a dividersi nel nuovo regno d’Italia, dove la sfera temporale può essere gestita solo dall’autorità regia e al pontefice è riservata la guida spirituale. Questa rivoluzione non può essere accet- il legittimo possesso universalmente riconosciuto”. Il Regno d’Italia diviene uno “stato senz’anima” e dovranno passare anni prima che Roma divenga una capitale effettiva, che sappia assolvere al compito di rappresentare la nuova istituzione e assumere il ruolo di faro dello stato-nazione. Bisogna attendere più di mezzo secolo per veder tramontare quell’ostilità resa manifesta nella questione romana e giungere a un compromesso che trova nei PatAnche la Toscana si avviò a Lateranensi del diventare una provincia del futuro ti1929 la sua più Regno d’Italia, consegnandogli completa concretizzazione. una ricca tradizione culturale. La storia è fatta tata passivamente dal papa, che, dopo la di continui sviluppi e involuzioni, ma ciò breccia di Porta Pia del 20 settembre del che non può essere passato sotto silenzio è 1870 e la successiva annessione dello Sta- il persistere dell’idea di nazione. Dopo 150 to pontificio al Regno d’Italia, riprende il anni dalla costituzione dell’Unità d’Italia non expedit del 1868 e invita i cattolici ad non è più la questione romana a interessaastenersi dalla vita politica. Comincia in re le diatribe accademiche, è forse ancoquesti termini la nota “questione romana”, ra la questione meridionale a far sorgere per la quale un papa, che si dichiara ostag- qualche interrogativo sulla gestione degli gio del Regno, si ostina a non riconoscer- affari statali e a essere inevitabilmente ne la legittimità e a ribadire quanto già af- strumentalizzata da una visione di corto fermato nel 1850 in un accorato invito alle periodo della politica, dimentica dell’idea potenze europee a intervenire in proprio d’Italia come luogo spirituale, come terra aiuto: “domandiamo che sia mantenuto il madre, che ospita un popolo unito da una sacro diritto del temporale dominio della ricca eredità di lingua, tradizioni e comuni Santa Sede, del quale gode da tanti secoli ideali. 10 • n. 3, settembre-dicembre 2010 150 anni di Unità d’Italia Italiani, popolo di poeti, santi ed emigranti A centocinquant’anni dall’Unità, occorre una riflessione condivisa sul fenomeno emigratorio italiano, per affrontare al meglio le nuove sfide socio-demografiche del Bel Paese. di Livio Ghilardi starsi. Esso assume semmai nuove forme e riguarda diverse fasce della popolazione italiana, mentre cresce, di converso, l’immigrazione verso l’Italia da parte, soprattutto, delle popolazioni di quei paesi che si affacciano sul Mar Mediterraneo o la cui economia è ancora fortemente arretrata. Prima del 1861, gli Stati che di lì a poco sarebbero stati assorbiti Dal 1861 ad oggi il numero di dal Regno d’Itacittadini italiani che hanno lia non subivano lasciato la loro terra d’origine flussi migratori di livello significatiha superato i 30 milioni. vo, anche a causa mero di cittadini italiani che hanno lasciato delle politiche economiche da essi adotla loro terra d’origine verso altri paesi ha tate. Sebbene si sia erroneamente portati a abbondantemente superato i 30 milioni. E pensare che l’emigrazione caratterizzasse il fenomeno, sebbene notevolmente lonta- già allora il Sud (all’epoca riunito sotto il no dai picchi numerici segnati nel primo Regno delle Due Sicilie), in realtà furono decennio del XX secolo, non sembra arre- soprattutto gli stati della parte settentrio- Foto: iStockphoto (empusa; craftvision) L’emigrazione è da sempre un elemento pressoché onnipresente nella storia dell’Italia unita. Sin dai suoi primissimi vagiti, lo stato italiano si è misurato con questo fenomeno, la cui rilevanza non è legata esclusivamente all’ambito demografico, ma anche e soprattutto alle evoluzioni economiche e sociali. Dal 1861 ad oggi, il nu- nale della penisola a essere protagonisti dei primi flussi migratori, rivolti in particolare verso la Francia, la Svizzera e il nascente stato tedesco, mentre nel Meridione non vi erano movimenti degni di nota. Con l’unificazione del Regno d’Italia tra il 1861 e il 1870, e in particolare dal 1876, cominciarono i primi veri e propri flussi migratori verso il resto d’Europa e le Americhe. Ancora una volta, si trattò di un fenomeno prevalentemente “settentrionale”: gli abitanti di Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Piemonte componevano il 47% degli italiani che a fine Ottocento abbandonarono il neonato regno alla ricerca di migliori fortune, cercando di lasciarsi alle spalle difficilissime condizioni economiche. Anche al Sud, tuttavia, dal 1880 iniziarono a profilarsi quelle dinamiche che avrebbero raggiunto livelli altissimi di lì a pochi decenni. La motivazione principale di un fenomeno di tale portata va certamente ricercata negli sconvolgimenti economici, sociali e demografici che segnarono i primi anni della storia dell’Italia unita. Sebbene si fosse ormai formato lo Stato italiano (non senza difficoltà e contrasti interni, basti pensare al fenomeno del brigantaggio), il neonato regno era tuttavia privo di unità economica. Lo sviluppo industriale era solo agli albori e riguardava esclusiva- panorama per i giovani • 11 150 anni di Unità d’Italia mente il triangolo Torino-Milano-Genova, mentre nel resto d’Italia predominava ancora un’economia agricola, quasi sempre di sussistenza o legata alla preponderante e ingombrante presenza di latifondisti. I timidi passi avanti fatti a livello tecnologico e un deciso miglioramento produttivo non fecero altro che radicalizzare le divisioni di un paese ancora poco unito, creando contrasti e differenze sostanziali fra le varie classi sociali e fra le diverse aree del regno, nonché tra i diversi settori dell’economia italiana dell’epoca. Tale crescita, inoltre, era del tutto incapace di soddisfare il notevole incremento demografico che interessò il Regno d’Italia in quegli anni. A una decisa diminuzione della mortalità infantile non corrispose, infatti, una riduzione della natalità, che al contrario a fine Ottocento raggiunse picchi altissimi. Venne così a crearsi una disoccupazione crescente e fu proprio una tale drammatica situazione, unita alla speranza di trovare fortune migliori all’estero, a spingere milioni di italiani ad abbandonare il Bel Paese, quasi sempre senza essere accompagnati da certezze o da progetti lavorativi e di vita. Tra le destinazioni più “gettonate” dagli emigranti italiani di fine Ottocento vi furono le Americhe. I trasferimenti transoceanici furono infatti favoriti dal notevole sviluppo che ebbe la navigazione a vapore, soprattutto nei porti italiani più importanti, quali Napoli, Palermo e Genova. Grazie a tale crescita, si ridussero abbondantemente i costi del viaggio, nonché i tempi necessari per attraversare l’Atlantico. Le Americhe, inoltre, rappresentavano una grandissima attrattiva per i lavoratori italiani. Sia negli Stati Uniti sia in Argentina e Brasile vi era un’amplissima richiesta di ma- quella americana. Quest’ultima si ridusse in seguito alla Prima Guerra Mondiale soprattutto a causa delle prime norme restrittive emanate dai quei paesi che fino ad allora avevano accolto milioni di migranti, non senza difficoltà e malumori. Spesso, infatti, gli italiani non furono ben accetti nei paesi dove si recavano per cercare lavoro, come ha ben dimostrato Gian Antonio Stella nel suo bestseller L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, edito nel 2002 da Rizzoli. Nelle pagine di Stella è possibile ritrovare racconti di veri e propri linciaggi e di altre drammatiche esperienze di tanti connazionali partiti alla ricerca di un futuro migliore e vittime di soprusi o di accuse giudiziarie ingiuste (basti pensare alla vicenda degli anarchici Sacco e Vanzetti). Insomma: gli italiani hanno vissuto sulla loro pelle quel vocabolario della xenofobia che oggi, purtroppo, si affaccia nel nostro paese nei confronti di quei migranti che la fortuna vengono a cercarla da noi. L’emigrazione americana giunse quasi a esaurirsi nel secondo dopoguerra, mentre quella europea ebbe un enorme sviluppo. Privilegiate in particolare Francia, Germania, Belgio e Svizzera. È in questi paesi che si trovano tutt’oggi le più grandi comunità di italiani all’estero, spesso riunite in nutrite associazioni. In un’analisi storico-demografica di centocinquant’anni di storia italiana non bisogna dimenticare i flussi migratori interni, che hanno visto e vedono tuttora tantissimi lavoratori e studenti lasciare le regioni del Sud per quelle settentrionali. Qui l’economia ha avuto uno sviluppo molto maggiore rispetto a quella meridionale, la cui crescita è stata rallentata da politiche assistenziali e dall’influenza negativa della criminalità organizAlla fine dell’Ottocento la meta zata. Nelle città degli emigranti era l’America, del Centro-Nord ma nel secondo dopoguerra oggi è possibile incontrare tandiventò l’Europa. tissimi studenti nodopera specializzata. Ma molti furono fuorisede che lasciano la terra d’origine i nostri migranti anche verso l’Uruguay alla ricerca di maggiore organizzazione e l’America centrale, così come verso universitaria o di migliori chance lavoraalcuni paesi dell’Africa settentrionale e tive. Emblematici rimangono i treni che, le colonie italiane nel continente nero. carichi di studenti e lavoratori, percorroL’emigrazione verso l’Europa, invece, no l’asse Nord-Sud durante le vacanze era ancora numericamente circoscritta natalizie, quando tutti i fuorisede fanno alla Francia e di molto minore rispetto a ritorno a casa per trascorrere alcuni giorni 12 • n. 3, settembre-dicembre 2010 con la propria famiglia, nella propria terra, come ben descritto recentemente dal giovane scrittore pugliese Mario Desiati nel suo libro Foto di classe. U uagnon se n’asciot, edito da Laterza. Nell’Italia del XXI secolo il dato più interessante a livello socio-demografico è la cosiddetta “fuga dei cervelli”, ovvero quel fenomeno che vede tanti, tantissimi giovani di talento lasciare l’Italia verso paesi stranieri nei quali la ricerca è più finanziata e dove possono sentire maggiormente ricompensato il proprio lavoro in termini economici, di prestigio e di riconoscimento sociale. In un recente articolo di Rosaria Amato, pubblicato su “La Repubblica” del 30 novembre 2010, è stato riportato un dato preoccupante: negli ultimi vent’anni l’Italia, anche a causa di politiche universitarie che non si sono rivelate abbastanza efficaci, ha perso circa quattro miliardi di euro in seguito alla fuga di giovani ricercatori all’estero (la cifra è stata calcolata dall’Icom, Istituto per la Competitività, in un’indagine commissionata dalla Fondazione Lilly e dalla Fondazione Cariplo, tenendo conto di 456 brevetti a cui hanno contribuito ricercatori italiani emigrati). Foto: iStockphot/xlh1 150 anni di Unità d’Italia La percezione che si ha è che l’Italia sia un paese in vera e propria transizione demografica, che sembra diventare sempre più un “paese per vecchi”, se si considera l’innalzamento dell’età media e soprattutto il crollo radicale delle nascite che da anni interessa le giovani coppie italiane, che non sono mai state accompagnate da adeguate politiche di sostegno da parte dei vari governi che si sono succeduti. È anche per questo che l’Italia, dopo più di un secolo di emigrazione e di sviluppo economico, ha attirato negli ultimi vent’anni una massiccia immigrazione, ormai perennemente al centro del dibattito politico, con proposte di contenimento o di integrazione tutt’altro che condivise tra gli esponenti dei partiti e tra i cittadini, spesso non adeguatamente informati in merito. Spesso, purtroppo, nel rapportarsi agli stranieri che si trasferiscono nello stivale, gli italiani dimenticano la loro esperienza secolare di emigranti e i linciaggi subiti all’estero, generando quelle forme di xenofobia alle quali ho già accennato e che, sebbene espressione di una piccola minoranza, lasciano sconcertati e generano contraddittorie riflessioni nella società civile. In centocinquant’anni il Bel Paese, Sopra: Ellis Island, isola di fronte alla terra di santi, poeti e navigatori, si è ca- città di New York, è stata fra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento il ratterizzato anche e soprattutto come principale punto d’arrivo degli emigranti terra di emigranti, nelle forme più sva- che volevano raggiungere gli Stati Uniti. riate e con le destinazioni più varie. Re- Oggi ospita il Museo dell’Immigrazione centemente l’inaugurazione del Museo (sopra il titolo alcune delle valigie che vi sono esposte). dell’Emigrazione presso la gipsoteca del Complesso Monumentale del Vittoriano a Roma ha ulteriormente riaffermato l’at- lo Stato italiano, in primis negli organi tualità del tema, con uno sguardo a 360 che lo rappresentano, avverta la necesgradi sul secolo e mezzo di fenomeni mi- sità di svolgere una profonda retrospetgratori che hanno visto l’Italia protago- tiva sull’esperienza emigratoria vissuta e nista, nel bene e nel male, da una parte un’analisi accurata su quella immigratocon le storie di successi lavoratiNegli ultimi vent’anni l’Italia vi, fortune, riscatha perso più di quattro miliardi to dalla povertà e di euro per la fuga dei giovani orgoglio italiano e dall’altra con ricercatori all’estero. quelle di linciaggi, esecuzioni, razzismo e torti subiti per ria che oggigiorno vive. Occorre, indubcolpa della propria cittadinanza o del biamente, un’attenta e profonda riflesproprio aspetto fisico. La collaborazio- sione sul fenomeno migratorio, per non ne all’allestimento della mostra da parte dimenticare chi siamo stati, cosa abbiadella Presidenza della Repubblica, della mo prodotto nel nostro paese e all’estero Presidenza della Camera, del Ministero e ciò che abbiamo subito, ma soprattutdei Beni Culturali e del Ministero degli to per diventare cittadini migliori di un Esteri è un segno tangibile di quanto mondo sempre più globalizzato. panorama per i giovani • 13 150 anni di Unità d’Italia “L’Italia è lunga” ovvero un viaggio nella rete stradale e autostradale italiana dal 1860 ad oggi Foto: iStockphoto/labsas L’unità nazionale passa anche attraverso la rete sempre più fitta di strade e autostrade che, insieme con quella ferroviaria, ha accorciato le distanze fra una città e l’altra dello stivale. La prima fase fu inevitabilmente quella della costruzione. Oggi il problema principale è quello dell’ammodernamento e della manutenzione. di Claudia Macaluso 14 • n. 3, settembre-dicembre 2010 150 anni di Unità d’Italia Ricordo che quando, da bambina, d’estate passavo alcune settimane dai nonni in un piccolo paese del centro della Sicilia, non era raro ascoltare i racconti degli anziani che rievocavano le loro esperienze trascorse e soprattutto i periodi passati nell’esercito, che spesso erano l’unica occasione per loro di “vedere il mondo”. E se qualche ragazzo passava, lo zaino in spalla, l’aria abbattuta di chi parte per la leva (allora ancora obbligatoria), ecco fioccare gli auguri e le domande, nonché l’inevitabile commento all’udire la destinazione: “Vai, vai... ché l’Italia è lunga”. Questa “lunghezza” dell’Italia è rimasta nella mia memoria e, probabilmente accentuata dalla consapevolezza di vivere a una delle estremità di questa lunga penisola, mi ha sempre accompagnata nei miei viaggi. Certo lo spiccato sviluppo longitudinale dello stivale non è l’unico mito che accompagna la storia dei trasporti italiani: le vicende di strade e autostrade, infatti, si sono intrecciate alla vita quotidiana come alla letteratura e, se non possiamo vantare leggende come la route 66, di certo un mito nostrano come l’autostrada Salerno-Reggio Calabria fa ormai parte del patrimonio nazionale. Per non parlare delle strade ferrate che, oltre a essere fonte di ispirazione artistica (pensiamo a canzoni come Il fischio del vapore, La locomotiva o a Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini, per metà ambientato in treno), hanno per anni trasportato i poveri del meridione verso il Nord del paese, in cerca di una vita più dignitosa. Addentriamoci, dunque, in questa storia piena di fascino: la storia delle strade italiane, che è storia del paese e dei suoi cittadini. istituito il Ministero dei Lavori Pubblici, si iniziò il riordino delle strade ferrate e si stabilirono le regole in materia di espropriazione per cause di utilità pubblica. Nello stesso anno le strade vennero classificate in nazionali, provinciali, comunali e vicinali. Fino al 1870, tuttavia, la realizzazione di un efficiente e vasto sistema viario passò in secondo piano rispetto allo sviluppo della rete ferroviaria nazionale, più che altro a causa del pesante deficit di bilancio che non permetteva investimenti statali adeguati; infatti, fino a quando non furono i dirigenti delle ferrovie stesse a domandare un maggiore sviluppo della viabilità minore per agevolare i commerci, lo Stato scaricò sugli enti locali l’onere della costruzione di nuove strade e della manutenzione di quelle esistenti. Come possiamo immaginare, però, nel neonato stato unitario province e comuni non avevano la forza economica per adempiere a questo compito e lo sviluppo della rete stradale ne risultò compromesso, fino a una serie di provvedimenti (varati tra il 1868 e il 1870) che posero le redini del sistema viario di nuovo nelle mani del governo centrale, che sempre in quegli anni, si incaricò anche dell’allacciamento dei sistemi stradali preunitari. Il Novecento Dopo questi primi incerti passi, la rete stradale italiana raggiunse, nei primi anni del Novecento, i 138.097 km, contro gli 89.765 km del 1864. I primi anni del Novecento videro anche l’adozione di una politica detta di “collegamento”: venivano individuati alcuni snodi principali, stazioni ferroviarie, porti postali e capoluoghi, attorno ai quali costruire una rete stradale a raggiera, che li collegasse tra loro e con i comuni più isolati della penisola. Primo esempio di politica dei trasporti autenticamente nazionale furono appunto le leggi sul “collegamento” del 1904-5, che portarono a uno sviluppo sostenuto della Le origini Nel 1861, all’indomani dell’Unità d’Italia, le differenze economiche e culturali tra il Nord e il Sud del paese si fanno evidenti anche nella dotazione della rete stradale. Secondo i dati dell’Anas, infatti, nel 1864, mentre per la Lombardia si Nel 1864, mentre per la contavano 6 km di Lombardia si contavano 6 km strada ogni 1.000 di strada ogni 1.000 abitanti, in abitanti, in Campania se ne avevaCampania ce n’erano 0,8. no 0,8 e nelle isole solamente 0,2. Uno dei primi compiti del rete viaria. Quando, nel 1919, con l’anneonato governo italiano fu quindi quello nessione della Venezia Tridentina e della di riordinare la rete stradale e muovere i Venezia Giulia, il patrimonio stradale itaprimi passi per uniformare la rete dei tra- liano si accrebbe di 4.000 km, la rete ne sporti lungo la penisola: nel 1865 venne contava ormai ben 170.000. panorama per i giovani • 15 Foto: iStockphoto (manichino; tommaso79) 150 anni di Unità d’Italia Superati i primi anni del dopoguerra, prese corpo, sull’onda di un rinnovato sviluppo economico, un progetto innovativo: l’autostrada, ovvero “una nuova strada riservata esclusivamente al traffico a motore”. Come riporta l’Anas nei suoi archivi, è nel 1922 che l’ing. Piero Puricelli elaborò il progetto dell’autostrada Milano-Laghi; il 21 settembre 1924 ne fu inaugurata la tratta iniziale, la Milano-Varese. Con l’avvento del fascismo, lo sviluppo della rete stradale divenne un obiettivo prioritario del governo, anche per ragioni propagandistiche. Nel 1928 nasceva l’Aass, Azienda autonoma statale della strada (l’antenata dell’Anas, Azienda nazionale autonoma delle strade). Lo sviluppo della rete, invece, subiva una parziale battuta Un treno ad alta velocità Freccia rossa entra nella stazione di Milano Centrale. In alto: un tratto autostradale in Abruzzo. 16 • n. 3, settembre-dicembre 2010 torizzazione di massa, gli italiani si sarebbero letteralmente riversati sulle strade? Nel 1955 la Fiat presenta la 600, la prima utilitaria dal prezzo contenuto. Nel 1956 la Piaggio produce il milionesimo esemplare della Vespa. Un anno dopo, è la volta della Fiat 500. Dal 1954 al 1964 le automobili passano da 342.000 a 4.670.000 e i motoveicoli da 700.000 a 4.300.000. Non è un caso, perciò, se è proprio in questo periodo che si realizza un incremento davvero epocale della rete autostradale: dai 500 km di autostrade del 1941 si passa ai 5.500 del 1975. La crescita economica del paese porta con sé anche l’esigenza di “allargare” i propri confini: l’apertura, nel 1964, del Traforo del Gran San Bernando e l’inaugurazione, nel 1965, del Traforo del Monte Bianco risolvono il problema delle comunicazioni stradali con la Svizzera e con la Francia durante i mesi invernali e costituiscono un traguardo per il paese intero. Nel 1975, infine, hanno ini- d’arresto: tra il 1923 e il 1938 ci si occupa praticamente solo dell’autostrada e dei suoi primi 479 km e vengono costruiti, invece, solamente 3.296 km di strade minori. Tra il 1938 e il 1941 i chilometri di autostrade e strade in esercizio Nel primo dopoguerra nacque restano gli stessi e una nuova idea: l’autostrada, una l’entrata in guerra strada riservata esclusivamente nel 1940, fra le alal traffico a motore. tre terribili conseguenze, avrebbe portato nel giro di pochi anni al dissesto zio anche i lavori per il Traforo del Frejus, completo delle reti di trasporto esistenti aperto cinque anni dopo. e a un vero e proprio stato di emergenza Gli ultimi trent’anni della rete viaria. Chi avrebbe potuto prevedere, dunque, Gli anni Ottanta, iniziati con un nuovo che meno di dieci anni dopo, con la mo- slancio per il rilancio delle rete viaria (il 150 anni di Unità d’Italia Piano Decennale) e il riassetto della struttura di manutenzione (scompaiono le case cantoniere, per esempio, soppiantate da nuclei operativi e da una rete organizzativa telematica) si chiudono con la tornata autostrade in tutto il paese, la cui gestione è in parte demandata a società controllate dall’Anas e dalle regioni, in parte alla società per azioni Autostrade per l’Italia. Nel 2010 sono circa 5 milioni i viaggiatori che transitano quotidianamente sulla Nel 2010 sono circa 5 milioni rete nazionale di i viaggiatori che transitano autostrade, che si quotidianamente sulla rete estende ad oggi per ben per 6413,4 nazionale di autostrade. km. dei lavori straordinari in vari capoluoghi Tutto perfetto, dunque? I problemi di provincia per i campionati mondiali di della manutenzione sono pressanti e, calcio. Gli anni Novanta, invece, vedono sebbene il paese abbia compiuto dal seil paese e molte aziende pubbliche, tra cui condo dopoguerra dei veri e propri pasl’Anas, coinvolti in episodi di corruzione si da gigante, la preferenza accordata al e in tempeste giudiziarie. Il commissariatrasporto su gomma dagli anni Cinquanta mento dell’Anas, protrattosi fino al 1994, ha portato a ridurre il traffico merci su causa un periodo di stasi nello sviluppo rotaia a ben poca cosa, a intasare troppo della rete viaria; solo eventi tragici come spesso le autostrade con autoarticolati e l’incendio della galleria del Monte Bianco a rinforzare lobbies e gruppi di pressione sembrano riportare l’attenzione sui necesche a volte approfittano del loro potere, sari investimenti nei settori del controllo minacciando scioperi e serrate, senza tetecnologico e di qualità e della previsione nere in conto il bene della collettività. Per delle condizioni di circolazione. Gli anni quanto riguarda la ferrovia oggi, grazie Duemila, infine, sono invece quelli del all’alta velocità, il trasporto passeggeri è grande sviluppo della tecnologia inforin ripresa; quello merci, invece, continua matica e dell’inserimento di dispositivi a essere la cenerentola del settore, nonointerattivi per la comunicazione lungo i stante le promesse dell’alta capacità e i tracciati. Si avvia, tra le altre cose, il probenefici ambientali ed economici che decesso di regionalizzazione e privatizzazioriverebbero da una più equa ripartizione ne del settore stradale e autostradale. Tra i del trasporto di merci tra strade e ferrorisultati maggiori del decennio, ricordiamo vie. Il dualismo strada-rotaia è stato una l’ammodernamento del Grande Raccordo delle caratteristiche del nostro sistema di Anulare di Roma e la costruzione di nuove trasporto e non è stato ancora ricomposto. Se negli anni Venti era la rete stradale a soccombere a quella ferroviaria, oggi avviene il contrario e le conseguenze sulle future generazioni, soprattutto per quanto riguarda l’inquinamento dell’aria, non potranno essere trascurate ancora a lungo. LA STRADA FERRATA NELL’ITALIA UNITA Molti storici ritengono che le ferrovie siano state il settore trainante della seconda rivoluzione industriale. In Italia, invece, lo sviluppo della strada ferrata è stato piuttosto tardivo e spinto per lo più da esigenze di “unità nazionale”. Dall’apertura della prima linea, la Napoli-Portici, nel 1839, all’Unità, l’Italia vede svilupparsi soprattutto la rete regionale: circa 2.000 km di linea, di cui più della metà in Toscana, Emilia-Romagna, Lombardia e Piemonte. Nel primo ventennio post-unitario le ferrovie sono al centro dell’azione di governo: 6.500 chilometri di nuova linea sono messi in esercizio, nel 1875 viene finalmente raggiunta anche Reggio Calabria e nel 1880 sono completate le ferrovie di Sicilia e Sardegna. Segue poi lo sviluppo delle linee minori, in ottemperanza alle politiche di “collegamento” in auge nel primo Novecento. Nel 1900 la rete ferroviaria è davvero nazionale. Alla Grande Guerra l’Italia arriva quindi con 17.500 km di strada ferrata: un notevole progresso per il neonato stato unitario, ma pur sempre meno della metà rispetto alle grandi potenze europee di allora. Ed oggi? La rete di alta velocità italiana, con i treni Freccia rossa e Freccia argento, corre da Torino a Salerno per quasi 1.000 chilometri, attraversando 6 regioni, 17 province e 161 comuni, un territorio in cui vive e lavora oltre il 65% della popolazione. Insomma, come si legge sul sito di Trenitalia Spa, “le frecce corrono veloci verso il futuro di un’Italia più unita, riducendo le distanze con livelli di massima qualità e sicurezza. Più velocità, più treni, più servizi: una vera rivoluzione del modo di vivere e di viaggiare degli italiani”. Ma cosa accade lungo le migliaia di chilometri che sono rimasti a velocità “normale”? Le periodiche proteste dei pendolari per i disservizi sulle tratte che sono costretti a percorrere due volte al giorno sono un triste richiamo alla realtà di un paese ancora “diviso”. Per approfondimenti sui primi cinquant’anni delle ferrovie italiane: S. Fenoaltea, L’economia italiana dall’Unità alla Grande Guerra, Laterza, Roma-Bari 2006 (cap. 5, “Le ferrovie”). panorama per i giovani • 17 150 Laanni salute di Unità nel mondo d’Italia Fatta l’Italia, bisogna fare l’italiano Dopo 150 anni l’unità linguistica del paese può considerarsi realizzata, anche se nelle varietà regionali dell’italiano si prolunga (fortunatamente) la tradizione e la ricchezza dei dialetti. La scelta del fiorentino come lingua di tutti. Se domandassi ai lettori in che lingua sto scrivendo in questo momento, la maggior parte mi risponderebbe che ovviamente sto scrivendo in italiano. Certo, direi poi loro, ma in che italiano? Italiano comune, standard, letterario o regionale? Sì, cari lettori, c’è n’è più d’uno e noi passiamo dall’uno all’altro senza neanche accorgerci del cambiamento. La lingua italiana, come del resto tutte le lingue vive, è come un’Idra, il mostro mitologico greco: un solo corpo e molteplici teste. Qual è il corpo originario, allora? All’alba dello Stato italiano, la questione era parzialmente risolta: la lingua eletta, quella varietà d’italiano che sarebbe diventata ufficialmente la lingua italiana, era il fiorentino. Emilio Broglio, ministro della Pubblica Istruzione fra l’ottobre del 1867 e il maggio del 1869, nel 1868 chiamò Alessandro Manzoni a presiedere una commissione col compito “di ricercare e proporre tutti i provvedimenti e i modi, coi quali si potesse aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronunzia”. Il Manzoni, che lavorava Sin da quando l’italiano, in tutte le sue forme, è una lingua viva e parlata, vi è sempre stata una differenza tra lingua usata per fini dotti e lingua parlata ogni giorno dal popolo. Una prima forma di italiano vero e proprio, che si differenzia dal latino volgare, è la koinè (dal greco, lingua comune) delle corti rinascimentali, di base fiorentina, che si caratterizzava poi nelle diverse zone a seconda delle influenze locali. La koinè era diversa dalle lingue (non si può parlare ancora di dialetti) parlate nelle varie zone, eppure l’una influenzava l’altra: la lingua del posto, infatti, integrava in sé parole estranee al suo vocabolario e la koinè, a sua volta, assumeva fenomeni fonetici tipici della zona, trasformando parzialmente le parole. La comunicazione avveniva così su due binari, distinguendo la lingua usata per la comunicazione scritta e dotta da quella per tutti gli altri scopi, tracciando un confine invalicabile che il Manzoni abbatterà con le varie redazioni del Fermo e Lucia e dei Promessi Sposi. Nelle diverse introduzioni all’opera, da lui stesso modificate a seconda delle edizioni, troviamo tutto il percorso manzoniano sulla scelta della lingua, Quale italiano parliamo? perfetto specchio Italiano comune, italiano a rovescio del standard, italiano letterario, percorso che la nostra nazione italiano regionale? affronterà negli in coppia con Ruggero Bonghi e Giu- anni, con l’avvicendarsi delle teorie sullio Carcano, pubblicò i risultati dei suoi la lingua. Il punto di partenza, estratto lavori già nel 1868. La relazione, da lui dall’edizione del 1823, vede il dialetto redatta e dai colleghi sottoscritta, era nella parte del leone: la sua perdita saintitolata Dell’unità della lingua e dei rebbe una gravissima menomazione dal mezzi per diffonderla e risolveva una punto di vista culturale e personale, in questione annosa e sempre argomento quanto prima lingua di molti popolani di viva discussione in Italia, ovvero la e non. Il dialetto poi si riverbera anche differenza tra l’italiano letterario e l’ita- nella cultura scritta, con parole e loculiano nella sua totalità d’uso. zioni locali, che danno un certo “colore 18 • n. 3, settembre-dicembre 2010 municipale”, per voler usare le parole del Manzoni. Nell’ultima introduzione ai Promessi Sposi, invece, il Manzoni ha ormai maturato definitivamente il suo pensiero e vede il futuro nella perfetta lingua comune, il toscano fiorentino, che avrebbe dovuto appianare ogni differenza linguistica in tutta l’Italia. Questa posizione, espressa anche nella relazione che ho già citato, è il punto di partenza delle prime politiche dello Stato unitario. Il problema diventava allora il metodo di diffusione della lingua su tutto il territorio, indicato anche questo dalla relazione: le soluzioni erano la compilazione di un vocabolario, il Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (1870-1874), presente in tutte le scuole e abbastanza economico da permetterne l’acquisto anche ai privati, la revisione dei testi scolastici da parte di fiorentini e la circolazione in tutta Italia di maestri toscani. Non si trattava di un’opera di soffocamento dei dialetti, ma di promozione del fiorentino a livello di lingua nazionale non solo per gli strati dotti della popolazione, ma per tutto il neonato e, per la maggior parte, inconsapevole popolo italiano. Foto: iStockphoto.com/Ugly_Mau di Francesca Parlati Il futuro della terza età Si è molto dibattuto sull’effettivo numero di italofoni nel periodo immediatamente successivo all’unificazione italiana, in quanto il numero varia notevolmente a seconda dei dati presi in considerazione. Secondo gli studi del De Mauro (1970), gli italofoni erano circa 600.000 su una popolazione di 25 milioni di individui, ovvero appena il 2,5%. Questi dati furono ottenuti calcolando, però solo il numero della popolazione scolarizzata, trascurando altri elementi importanti, considerati invece nei calcoli del Castellani. Egli infatti attesta come il numero di italiani con possibilità di accesso all’istruzione e alla cultura fosse più alto, aumentando così di 390.000 il numero di italofoni. Inoltre il Castellani calcola come italofoni anche tutti gli abitanti della Toscana e, dal 1871, quelli del Lazio (analfabeti e non), perché linguisticamente prossimi al toscano. Il conto sale così a 2.220.000, il 9,5% della popolazione. A queste stime bisogna anche aggiungere chi aveva la competenza passiva dell’italiano, ovvero lo comprendeva senza parlarlo: basti pensare che nei paesini del Sud e anche in qualcuno del Nord, era indispensabile capire l’italiano per avere rapporto con i notabili del paese (il medico, il farmacista e l’avvocato), di abbastanza rilevanti, quali una crescente solito gente istruita che non sempre usava urbanizzazione (migrazione interna) e il dialetto. Dialetto che, comunque, ave- una sempre maggiore emigrazione verso va ancora una forte influenza e un forte l’estero, con picchi di partenze annue suutilizzo anche nelle classi più colte. Te- periori al mezzo milione. stimonianze dirette del Manzoni riportaCon lo scoppiare della Prima Guerra no che esso era utilizzato anche in con- Mondiale si ha un’ulteriore spinta verso versazioni di alta cultura e che comunque la creazione di un’identità nazionale e di già esistevano variazioni regionali di un’identità di lingua: si vengono a trovare italiano, come il “parlar finito” milanese a contatto uomini delle più diverse par(così chiamato perché consisteva general- ti d’Italia, obbligati a vivere esperienze mente nel concludere le parole, che per la traumatiche fianco a fianco nella vita di maggior parte nel dialetto milanese Una prima forma di italiano vero vengono troncae proprio è la koinè delle corti te). Il Manzoni rinascimentali, di base fiorentina testimonia anche una delle deboma influenzata dai vari dialetti. lezze dell’italiano, ovvero la mancanza in esso di termini trincea. Questa comunione di sofferenze specialistici e tecnici, facendone emerge- mette per la prima volta in contatto gente re l’insufficiente diffusione sul piano qua- molto distante culturalmente e geogralitativo e quantitativo. ficamente, rafforzando l’idea di essere, All’inizio del Novecento l’unità cultu- prima che del proprio paesino, italiani, rale e linguistica dell’Italia era ancora ben con una lingua che non è il dialetto, ma lontana, nonostante i grandi progressi co- l’italiano, indispensabile per capirsi lonmunque avvenuti. Contemporaneamente, tano da casa. si ha in questo periodo un grande sviluppo Dopo la fine della guerra, con l’avvendell’industrializzazione, con conseguenze to del fascismo, si ha un ulteriore raffor- panorama per i giovani • 19 co, (wcc’ir) e uno subentrato negli anni Cinquanta, di cui prima non è attestata alcuna testimonianza, (mw’cellar); la forma italianizzata non è certamente uguale al termine in italiano, ma rende più facile zamento dell’unità nazionale e linguistica, capire di cosa si stia parlando, rendendolo ma è dopo la Seconda Guerra Mondiale comprensibile anche a chi non è avvezzo che arriva la spinta decisiva e definitiva al dialetto. Nel secondo caso (urbanizzain questa direzione. Riprende in maniera zione extra-regionale), invece, si ha una cospicua l’emigrazione verso l’estero e progressiva perdita del dialetto e l’acquic’è un massiccio aumento dell’immigra- sizione del dialetto urbano del luogo. zione “interna” dai paesi del Sud alle città Parte importante nel processo di uniindustriali del Nord. Entrambi questi tipi ficazione della lingua la ebbero anche radi immigrazione hanno diretti effetti sulla dio, televisione e cinema. Specialmente lingua italiana. Chi emigra all’estero pren- questi ultimi due mezzi di comunicazione de coscienza dell’importanza dell’educa- furono pietre miliari: basti pensare a prozione, quindi aumenta in maniera notevo- grammi dell’immediato dopoguerra, come le il numero di figli di emigranti che fre- per esempio Non è mai troppo tardi, che quentano le scuole. Per quanto riguarda il promovevano l’apprendimento dei fonprocesso di immigrazione interna, invece, damenti della lingua e della grammatica si tratta di perdita e variazione dell’italia- italiane; un ruolo determinante fu svolto no e dei dialetti. Si parla, infatti, di urba- dal divismo: la gente imitava gli idoli che nizzazione di due tipi: inter-regionale o vedeva sul grande e sul piccolo schermo, provinciale ed extra-regionale. Nel primo usava le parole delle canzonette della racaso il diretto effetto è l’indebolimento dio, abbandonava il dialetto dei nonni per inseguire i miti della televisione e Ai tempi di Manzoni il dialetto di Cinecittà. veniva usato anche dalle classi Conseguenza colte, come dimostra il “parlar di questi fenomeni è la formazione finito” milanese. dei vari italiani del dialetto, ovvero l’affiancamento a un regionali, che altro non sono che i diretti termine dialettale di un altro di deriva- discendenti del “parlar finito” manzoniazione italiana, ma che risente degli stessi no, ovvero un parlare italiano inserendo effetti fonetici del dialetto. Nel dialetto locuzioni regionali tipiche, termini diabarese, ad esempio, per indicare il macel- lettali italianizzati, costruzioni sintattilaio si hanno due termini: uno più arcai- che proprie del dialetto (per rimanere Foto: iStockphoto.com/Spiderstock Sopra: la radio prima e la televisione dopo sono stati importanti strumenti di diffusione dell’italiano. Nella pagina precedente: definizione di “italiano” in un dizionario del 1902. 20 • n. 3, settembre-dicembre 2010 nell’ambito pugliese, l’utilizzo di alcuni verbi intransitivi come salire e scendere in maniera transitiva) e l’utilizzo della cadenza e della pronuncia tipici del posto. Questi processi non hanno coinvolto solamente l’italiano. Nel corso dei secoli tutte le lingue hanno subito variazioni, basti pensare alle varietà di francese, diverse da distretto a distretto o alle numerose varietà di inglese derivanti dallo sgretolarsi dell’impero coloniale. Si può dire allora che queste lingue siano uniche? Nel caso dell’italiano si può parlare, quindi, di un’unica lingua italiana? Si può dire che a 150 anni dall’Unità d’Italia si è giunti a un’unità linguistica, nonostante che sussistano ancora i dialetti e le varietà regionali di italiano? La risposta non può essere altro che positiva. La prova? Ripensiamo alla domanda posta all’inizio dell’articolo, alla quale a tutti sarebbe venuto spontaneo rispondere che stavo scrivendo in italiano: è proprio questo non avvertire come altra lingua i vari tipi di italiano regionale che ci conferma che l’italiano è ormai concepito come corpo unico; le teste della nostra Idra sono visibili chiaramente solo “agli addetti ai lavori”, avvezzi a questi studi. Per il resto di noi l’italiano è uno e solo, il resto sono mere variazioni sul tema. Rimaniamo così, allora, a osservare l’italiano cristallizzato per un momento almeno, prima che, come tutte le lingue vive e vitali, riprenda a fluire e a modificarsi, anche mentre io sto scrivendo e voi state leggendo. Il momento è passato, l’italiano è già cambiato. 150 anni di Unità d’Italia Non è mai troppo tardi Dalla legge Casati alla riforma Gelmini, la scuola italiana non ha mai smesso di cambiare volto. Non sempre è bene intervenire e non sempre si interviene dove si dovrebbe. Foto: iStockphoto.com/tirc83 di Nicola Lattanzi Dai tre mesi fino ai tre anni è l’asilo nido. Poi tre anni di scuola materna. Poi ben tredici anni di scuola primaria e secondaria (quanto ci piacciono gli anglismi! Sarò rétro, ma preferivo di gran lunga una scuola elementare e una scuola media, seguite dalle superiori). E poi ancora, variamente combinati, cinque anni di università. E poi... Insomma, se va bene – molto bene – ci schiaffano diretti dalla sala parto davanti a un banco per ventiquattro anni circa. E naturalmente non passerà una settimana della nostra carriera scolastica senza che qualcuno ci dica che “non si finisce mai di imparare” e che “gli esami non finiscono dente alle nostre aspirazioni e conforme alla nostra preparazione. Oltre a ciò, cosa avrebbe dovuto essere la scuola? Scambio d’idee, luogo di integrazione e crescita spirituale del paese. Invece, la meritocrazia non esiste, si vogliono fare classi separate per gli stranieri, si insegue il mito della privatizzazione-a-tutti-i-costi (a nostre spese, in tutti i sensi), alcune materie improvvisamente scompaiono e l’italiano non si sa più dove sia finito – ma chi se ne importa: meglio salvare i dialetti! Mi chiedo: come siamo arrivati a questo punto? Al momento dell’unificazione del paese, nel 1861, la percentuale di analfabeti era a dir poco sconvolgente. Vittorio Emanuele II si sarebbe apprestato a governare un regno in cui il 78% della popolazione non sapeva né leggere né scrivere (rectius, non sapeva nemmeno scrivere il proprio nome), con addirittura picchi del 91% in Sardegna e del 90% in Calabria e Sicilia. La situazione del suo Piemonte era, se così possiamo dire, migliore: 57%. E la questione era che non solo c’era la quasi totalità della popolazione da alfabetizzare, ma che si doveva far loro imparare una lingua. Sì, fatta l’Italia, sottolineava D’Azeglio, si dovevano fare gli Italiani. E l’obiettivo, tutt’oggi, non mi sembra sia stato pienamente raggiunto. Anzi. Arrivati al censimento generale del 1951 la situazione era migliorata, indubbiamente in virtù del ruolo che il regime fascista aveva riconosciuto all’istruzione: si passava, difatti, dall’1% del Trentino-Alto Adige al 32% della Calabria. Nei decenni a seguire le cifre continuano ad assottigliarsi. Magari anche grazie ad Alberto Manzi, che, dal 1960 al 1968, fu il “caro maestro” per molti italiani con la sua trasmissione Non è mai troppo tardi, che si proponeva come “Corso d’istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”. Un programma che fa parte della memoria collettiva e che dimostra che, se si vuole, certi mezzi di comunicazione di massa possono essere mai”. Per che cosa? Ci si batte e ci si ribatte, si riforma e si controriforma: progetti, sperimentazioni, maxi sperimentazioni dei progetti. E nel frattempo, mentre siamo lì a studiare, subendo più o meno passiSolo il 20% degli italiani adulti vamente (in questi possiede gli strumenti minimi giorni direi molto di lettura, scrittura e calcolo per meno che più) la furia normativa orientarsi nella nostra società. dei variamente nominati Ministri dell’Istruzione, Università utilizzati come strumento di promozione e Ricerca (?), non v’è chi ci assicuri che socio-culturale. D’accordo che era un’altutta questa fatica verrà ripagata con un po- tra televisione, d’accordo che era un’altra sto di lavoro almeno parzialmente rispon- Italia…ma insomma. Come ha scritto il panorama per i giovani • 21 che le faccia poi così bene. Leggere il no- cune delle quali, a ragion del vero, aprivano stro sistema d’istruzione, e conseguente- all’università): l’esclusione degli studenti mente modificarlo, sulla base di statistiche appartenenti alle famiglie meno agiate era e prove parametrate su categorie e model- la conseguenza naturale. Uno dei profili che li che sono lontani anni-luce dalla nostra furono oggetto di ripetuti interventi negli tradizione formativa non può che andare anni a venire fu indubbiamente quello rea distruggere quel plusvalore offertoDon Milani voleva che gli ci dal nostro sistestudenti si costruissero una ma educativo. Di coscienza sociale e civile; il suo questo dobbiamo avere consapevomotto era “I care”. lezza, del potenziale che gli studenti italiani hanno, e che lativo all’obbligatorietà: ed ecco la legge sono in grado di esportare, per un innato Coppino, che nel 1877 introduce l’obbligo vantaggio dovuto alla invidiabile circo- del triennio delle elementari, dopo averle stanza di essere nati nel paese più ricco per portate a 5 anni; e ancora la legge Orlando patrimonio storico-culturale. (1904) che lo prolunga fino al dodicesimo Troppo spesso, però, si è tentato di fare anno di età, istituendo un “corso popolare” della cultura uno strumento di discrimina- formato dalle classi quinta e sesta; si prosezione e la si è vista come un privilegio ad gue con la legge Daneo-Credaro (1911) che, appannaggio di pochi. Così la legge Casati, al fine di poter meglio disciplinare l’obbliche nel 1859, a ridosso dell’unificazione, go, rende la scuola elementare un servizio istituiva una scuola elementare articolata statale, ponendo in questo modo a carico su due bienni e dello Stato il pagamento degli stipendi dei obbligatoria per maestri. Ma il momento sicuramente più Il recupero della lingua italiana è il primo biennio. significativo, per quello che sarà il successiuno strumento fondamentale per Aldilà della posi- vo sviluppo dell’istruzione in Italia, si ebbe garantire la riuscita dei processi tiva introduzione con la “più fascista” delle leggi del goverdell’obbligo scola- no Mussolini: la riforma Gentile. Si tratta di integrazione. stico, seppur mini- di una serie di atti normativi adottati tra il teatro, meno musei: insomma, meno cultu- mo, la legge mostrava il suo volto classista 1922 e il 1923 su proposta dell’allora Minira. Che è meno vita. nel prevedere che dopo la scuola elemen- stro dell’Istruzione, il filosofo neoidealista La scuola italiana, però, non è da butta- tare si potesse accedere al ginnasio solo a Giovanni Gentile. Egli impresse alla scuola re via. Viene rifatta e ritoccata anche trop- pagamento. Altrimenti si sarebbe potuto italiana un’impronta che rimarrà pressoché po spesso, ma tutta questa chirurgia non è proseguire solo con le scuole tecniche (al- indelebile. Fino ad oggi. L’obbligo venne 22 • n. 3, settembre-dicembre 2010 Foto: iStockphoto.com (CFargo; kkgas) linguista Tullio De Mauro, che da anni si occupa delle ricerche sull’analfabetismo funzionale, ad oggi “soltanto il 20% della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea”. E non bisogna dimenticare che c’è un 5% che non riesce a distinguere correttamente le lettere e le cifre. A completare i tre quarti della popolazione italiana vi è una terza categoria, sempre individuata da De Mauro: quella di coloro che, seppure in una condizione migliore, trovano “oltre le loro capacità di lettura e scrittura un testo che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana e un’icona incomprensibile un grafico con qualche percentuale”. Dati che dovrebbero notevolmente allarmare un popolo che tenta di continuare, in mancanza d’altro, a vendersi per la sua tradizione storico-culturale, una tradizione che poi in realtà rischia di ignorare. Cifre pericolose, dunque, che significano meno libri, meno 150 anni di Unità d’Italia esteso ai quattordici anni, con un iniziale ciclo elementare di cinque anni, uguale per tutti, al termine dei quali l’alunno poteva scegliere tra il ginnasio, quinquennale e che dava possibilità di accesso ai licei (classico e scientifico), e la scuola di avviamento professionale. Solo il liceo classico consentiva l’accesso a tutte le facoltà. Fu nel 1962 che si ebbe l’unificazione della scuola media, mentre occorrerà il fermento sessantottino per far sì che si liberalizzassero gli accessi alle università. E sempre nel 1969 si modificò l’esame di maturità, dandogli quella struttura che rimarrà quasi fino all’avvento degli anni Duemila, con due prove scritte (italiano e una specifica in funzione del tipo d’istituto) e una prova orale con due materie a scelta tra una rosa di quattro, diverse per ogni istituto scolastico. Nel frattempo era intervenuta anche l’istituzione della scuola materna statale e di lì a poco si ebbe l’introduzione del tempo pieno. Malgrado le continue novità nei decenni seguenti, soprattutto dagli anni Ottanta, si registrò un aumento della dispersione scolastica, con frequenze irregolari, scarso apprendimento e bocciature. Probabilmente è stata proprio la difficoltà di arrestare tale fenomeno che ha spinto il legislatore a rimaneggiare nuovamente la scuola italiana, mai soddisfatto e soprattutto in una continua scissione con se stesso, per il succedersi di maggioranze politiche di diverso colore e diverso approccio al tema in questione. Riforma Berlinguer e il nuovo esame di maturità (che sarà poi ulteriormente cesellato dal Ministro Fioroni), la Riforma Moratti e la Riforma Gelmini. Interventi sempre poco ben voluti, perché magari non sempre sentiti vicini e rispondenti alle vere esigenze che solo gli studenti, in quanto diretti fruitori del servizio scolastico, possono esprimere, sia pure confusamente. Ci vorrebbe qualcuno che scrivesse un’altra Lettera ad una professoressa. Quella di don Milani fu una riflessione che aveva saputo intercettare il bisogno di cambiamento avvertito non solo dagli studenti, ma anche da educatori e genitori. Il bisogno di realtà, l’attenzione al milieu in cui nascono, crescono e si sviluppano i ragazzi, l’importanza della cooperazione, l’insostituibilità dello studio per lo sviluppo di una coscienza critica e di un pensiero libero. Ciò che voleva fornire don Milani erano strumenti: un’istruzione per crescere e andare avanti senza essere manipolati. Uno dei più grandi timori che dobbiamo avere è proprio questo: che i programmi della scuola possano essere strumentalizzati e le menti perversa- gazzi a diventare sovrani”. Se preservare la mente riempite di nozioni che non possono propria identità regionale può anche essere che avvilirle e renderle sterili. I care, diceva importante, non si può tollerare una così don Milani. Non so quanti di noi riuscireb- scarsa conoscenza dell’italiano. Talvolta si bero a pensare lo stesso di coloro che si oc- è sottovalutato quanto esso sia alla base di cupano della nostra formazione e della no- un’effettiva integrazione, tra italiani ma anstra cultura. E vedere che gli studenti paiono che tra italiani e immigrati, i quali dovrebadesso essersi destati da anni di maggior bero essere messi in grado di apprendere la torpore non è poi un cattivo segno, Nel 1923 Giovanni Gentile perché denota che delineò, con la sua riforma, we care. Ci sono i tratti peculiari del nostro due punti di straordinaria pregnansistema scolastico. za e attualità nella riflessione del parroco di Barbiana, aldilà lingua del paese che li ospita. Un maestro delle questioni di metodo. Egli insiste sulla Manzi in più non farebbe male, magari al importanza di dare uno scopo ai ragazzi, in posto dell’ennesimo programma di artisti particolare agli svogliati. Ecco quello di cui tuttofare. E non poco potrebbero servire i abbiamo bisogno oggi: credere nella nostra mezzi di comunicazione: non solo una telescuola, nelle nostre università, potenziarle visione decente, ma anche il potenziamento e non sottrarre a esse l’aria, dare stimoli e di internet e dei mezzi informatici. Le fafiducia agli studenti, affinché possano per- mose tre i erano cosa buona e giusta, se si correre i loro anni di formazione nella con- fossero concretizzate appieno e se si fossero vinzione che tutto quello che si semina poi accompagnate a una quarta: l’italiano! si potrà raccogliere, che le fatiche di notti Un tema come quello della scuola è insonni passate sui libri saranno ripagate. senza dubbio caldo e di scontro tra visioni La prospettiva di un futuro è imprescindi- spesso e volentieri diametralmente oppobile per un sistema che si possa dire funzio- ste, ma ciò non significa che si debbano nante. C’è poi un secondo aspetto che non abbandonare le speranze in un confronto va tralasciato: la lingua. “È solo la lingua costruttivo, nel momento in cui ci si renche fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e da conto che si può sempre imparare a far intende l’espressione altrui. Educare i ra- bene e che non è mai troppo tardi. panorama per i giovani • 23 150 anni di Unità d’Italia La lince, simbolo dell’Accademia dei Lincei, rappresenta lo sguardo acuto, metafora della ricerca scientifica. I Lincei di Sella La cultura risorta della neonata Italia. di Angela Rita Provenzano Foto: iStockphoto.com/andyworks Nel quadro della formazione degli statinazione, Italia e Germania godono di una comune peculiarità: l’unità culturale ha preceduto quella politica e ha rappresentato la trama ideale sottesa ai fili della storia. Nonostante l’Italia sia stata fino al Risorgimento un “volgo disperso che nome non ha” (A. Manzoni, Adelchi, coro atto III), si è sempre potuta fregiare della grandezza della propria arte e dell’eredità greco-romana nel rivendicare il primato culturale al momento della sua unificazione. In questo contesto, un ruolo importante va riconosciuto all’Accademia dei Lincei, che ha sempre avuto come fine istituzionale la promozione e la diffusio- che ben incarna lo spirito di ricerca posto a guida della compagnia. Nella volontà del fondatore, infatti, il fulcro dell’Accademia risiedeva in un’indagine scientifica che sapesse rapportarsi con spirito critico alla tradizione aristotelica; ciò la distinse dalle accademie italiane tardo-rinascimentali, di stampo letterario. Il sodalizio dei Lincei rappresentò un fertile incontro di intellettuali italiani e stranieri, tra cui Galileo Galilei. Purtroppo la morte del Cesi, avvenuta nel 1630, coincise con un rapido declino dell’istituzione. Dei Lincei restò solo il prestigio di un’illustre eredità storica che in molti tentarono di far rivivere. L’ultima e più importante riforma dell’Accademia venne realizzata Quella dei Lincei è la più antica all’indomani delaccademia scientifica del la proclamazione mondo e la massima istituzione di Roma a capiculturale italiana. tale del Regno d’Italia. Essa fu ne della scienza nell’orizzonte dell’unità voluta dallo statista piemontese Quintino e universalità della cultura. Sella, uno dei protagonisti del neonato reQuella dei Lincei è la più antica acca- gno (principalmente in qualità di intrandemia scientifica del mondo, nata nel 1603 sigente ministro delle Finanze), uomo da un sodalizio tra il patrizio Federico Cesi dalla proteiforme intelligenza, ingegnere, e tre suoi amici. Simbolo dell’Accademia scienziato e matematico (celebri i suoi è la lince, animale dallo sguardo acuto, contributi allo sviluppo dell’assonome24 • n. 3, settembre-dicembre 2010 tria). Per il suo poliedrico profilo e per la formazione eminentemente scientifica, ma votata alla patria, Sella incarna lo spirito di un’Italia che, a seguito dell’unificazione, nutriva la volontà di ricostruire un sapere libero da cui foggiare un’identità culturale. Il passo più significativo, in tale direzione, fu riconoscere il valore che l’Accademia aveva avuto nel quadro della cultura italiana e portarla a nuova vita. Fu così che nel 1874 i Lincei tornarono a pieno titolo sul teatro della storia d’Italia grazie alla ricostituzione dell’Accademia, ora coronata dagli attributi di “nazionale” e “regia”. I Lincei di Sella sono generalmente ritenuti i titolari ideali dell’eredità storica del Cesi: il “Divino Amore” che il fondatore dell’Accademia scorgeva nella libera indagine scientifica, con Sella poté rinascere e fondersi al clima risorgimentale del neonato regno, facendo dei Lincei uno snodo cruciale del sapere laico italiano. La riforma di Sella prevedeva un allargamento delle scienze lincee da quelle tipicamente fisico-matematiche a quelle umanistiche (filosofia, economia, storia, diritto, filologia, archeologia). L’Accademia si articolò quindi in due classi distinte: una per le scienze fisiche e l’altra per quelle “morali”. Sella profuse la sua lungimiranza e intelligenza nella restaurazione dell’Accademia per fare di quest’ultima e di Roma, sede storica dell’ordine linceo, il fulcro della vita culturale italiana. I Lincei così rinati nel clima risorgimentale hanno superato oltre un secolo di storia, annoverando tra i loro membri personalità del calibro di Fermi, Righi, Castelnuovo, Pasteur, Einstein e ancora Croce, Gentile, Einaudi. Nel periodo fascista l’Accademia conobbe un periodo di eclissi (confluì nell’Accademia d’Italia), ma poi venne ricostituita, per volontà di Croce, sull’impronta di quella selliana. Nonostante le traversie storiche (e oggi anche finanziarie, data la riduzione dei trasferimenti dello Stato), l’Accademia ha saputo rinascere fortificata e ora rappresenta la massima istituzione culturale italiana, con un prestigioso retaggio alle spalle e lo sguardo della lince puntato verso il futuro. 150 anni di Unità d’Italia di Damiano Ricceri In un periodo in cui in Italia si (ab)usa di espressioni quali “fuga di cervelli” o “mancanza di Meritocrazia” non possiamo dimenticarci di tanti italiani che hanno scritto pagine molto importanti nella storia della scienza. Molti di loro hanno lavorato all’estero, ma hanno cominciato o proseguito le loro ricerche in Italia, dimostrando l’importanza, soprattutto nel settore della ricerca, dei continui scambi con altre realtà. Pensiamo ai fisici teorici che, capeggiati da Enrico Fermi (1901-1954), Premio Nobel per la Fisica nel 1938 grazie al suo lavoro sulla radioattività, hanno dato origine a Roma a una scuola di Fisica Teorica che ancora oggi è da considerarsi tra le migliori al mondo: studiosi quali Segre, Majorana e Rasetti (oltre al già citato Fermi) hanno infatti ottenuto risultati che sono pietre miliari della moderna Fisica. Gli esempi si estendono subito ad altri ambiti: basti pensare – per restare ai vincitori del Nobel – a Rita Levi Montalcini (1909-), vincitrice dell’ambito premio nel 1986 per le sue importanti scoperte nel campo della Neurobiologia, animata ancora oggi (nonostante il secolo di vita) da un’incrollabile passione scientifica, che si sposa col profondo impegno civile. Un altro luminoso esempio nel campo biomedico è rappresentato da Renato Dulbecco (1914-), anch’egli insignito del Nobel per la Medicina (1975) grazie ai suoi studi sugli effetti dei tumori sulle cellule. Già questo breve elenco (che potrebbe allungarsi di molto) mostra i contributi eccezionali dati da molti italiani ai più disparati campi della scienza: è anche da questi risultati che molti ricercatori traggono stimolo per continuare a lavorare, nonostante le difficoltà contingenti. I NOBEL SCIENTIFICI ITALIANI Chimica Giulio Natta (1963) Fisica Guglielmo Marconi (1909) Enrico Fermi (1938) Emilio Segre (1959) Carlo Rubbia (1984) Riccardo Giacconi (2002) Medicina Camillo Golgi (1906) Daniel Bovet (1957) Salvador Luria (1969) Renato Dulbecco (1975) Rita Levi Montalcini (1986) Fratelli d’Italia, fratelli di crimini Dal fenomeno del brigantaggio alla nascita della mafia: storia dell’Unità sotto il profilo della criminalità. Una panoramica dell’Italia di ieri per conoscere l’Italia di oggi. di Chiara Curia Nel corso di tutta la Divina Commedia Dante fa spesso riferimento all’Italia del suo tempo, apostrofandola con parole dure, graffianti, taglienti. Nel VI canto del Purgatorio, per esempio, pronuncia con grande foga una delle sue invettive più celebri: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello!”. Viene da chiedersi cosa ne penserebbe ora Dante della sua Italia unita. Di certo, se fu possibile unire l’Italia dal punto di vista geopolitico, ci fu poca attenzione a unire il paese anche da quello culturale e sociale: conclusa l’impresa dei Mille, acquisirono lo status di cittadini italiani genti che parlavano idiomi diversi, che aveva- no avuto una storia diversa e ragionavano secondo valori e ideali diversi. Nacque in tale contesto anche la questione meridionale, con il suo carico di reciproche accuse e incomprensioni. Da una parte c’erano coloro che lamentavano il fatto che un’economia vivace e attiva quale era quella del Regno delle Due Sicilie fosse stata rallentata, se non addirittura bloccata, dalla “piemontesizzazione”. Dall’altra quanti, al contrario, propagavano la visione di un Mezzogiorno flagellato dalla miseria e dall’oppressione durante il regno borbonico, terra di delinquenza, focolaio di comportamenti asociali e antisociali, pronto a infettare anche le zone “sane” della penisola. Affrontare questo proble- panorama per i giovani • 25 Foto: iStockphoto.com/BanksPhotos Ci sono anche gli italiani fra i grandi della scienza del Novecento Foto: iStockphoto.com/oneword 150 Laanni salute di Unità nel mondo d’Italia ce infette” fu svolta secondo veri e propri po di raggiungere i loro fini politici, che canoni di repressione e con metodi quali sfruttò i briganti in questa commedia dai arresti in massa, esecuzioni sommarie, ruoli non ben definiti per poi prenderne le deportazioni, distruzioni di interi centri distanze. Collegata all’Unità d’Italia è per molabitati. Nel 1870 il brigantaggio venne dichiarato eliminato e ciò anche grazie ti anche la crescita delle associazioni di alla Legge Pica, la stampo mafioso, che ebbe fra le sue cause quale, in contrasto la corruzione dilagante, la frammentaNel 1870 il brigantaggio venne con molte disposi- zione del potere e, di conseguenza, deldichiarato eliminato, ma questo zioni costituziona- la legalità, nonché una scarsa fiducia nel risultato fu raggiunto anche con li, colpì non solo i potere centrale. Molte corporazioni merpresunti briganti cantili, così come esponenti della nobiltà leggi che violavano diritti. ma anche intere e del clero, avevano cominciato a ingagbuona parte della popolazione contestava famiglie. Per comprendere maggiormente giare gruppi armati al fine di difendere i da un lato ai piemontesi e dall’altro ai la- tale fenomeno basti pensare che il brigan- propri beni e interessi, fino alla creazione tifondisti meridionali loro alleati. Pastori, taggio si era già sviluppato precedente- di vere milizie. Queste ultime iniziarono intellettuali, contadini, ex soldati borboni- mente in maniera sporadica prima sotto il poi a mettersi in proprio, organizzandosi ci e garibaldini, addirittura rappresentanti dominio francese del clero si unirono in gruppi di lotta in nel periodo del Ad avere un ruolo fondamentale difesa delle proprie terre. Lo scontro por- Decennio, poi dunello sviluppo della mafia fu tò a una vera e propria guerra civile, che rante la restaurail legame con un territorio ebbe conseguenze disastrose. Nell’agosto zione borbonica, del 1861 il generale Enrico Cialdini ven- sebbene in forma dominato dal latifondismo. ne inviato nel Meridione con poteri ecce- minore. E saranno zionali di luogotenenza, con l’obiettivo di proprio i Borbone a sfruttare l’insofferen- in sette o cosche e dando così origine al sconfiggere il brigantaggio. Nei fatti l’at- za generale creatasi nel Sud Italia per cre- fenomeno mafioso. Ma ad avere un ruolo tività del generale Cialdini nelle “provin- are queste milizie illegali con il solo sco- predominante nello sviluppo della mafia 26 • n. 3, settembre-dicembre 2010 Foto: iStockphoto.com (PaoloGaetano; Pictore) ma significa necessariamente parlare di criminalità, distinguendo fin dall’inizio la questione del brigantaggio da quella della mafia. Fra le cause del brigantaggio molti studiosi sottolineano il ruolo dei soprusi che 150 anni di Unità d’Italia fu anche la storia del territorio. Nel corso dei secoli le regioni meridionali si erano caratterizzate per la presenza massiccia dei latifondi. In tale contesto si rafforzò maggiormente un sistema gerarchico patriarcale che permise il dominio di poche famiglie sul territorio, spesso in lotta fra di loro. Ciò che distingueva, e distingue tuttora, gli appartenenti alle cosche mafiose da tutti gli altri criminali è il fatto che i picciotti si vantavano della propria notorietà, continuavano a svolgere vita attiva all’interno della società e usavano la propria immagine e i propri mezzi per far apparire legali azioni che invece tali non erano. Per poter esercitare le loro attività illecite e il loro potere gli esponenti della mafia si servono tutt’ora di una fitta rete di amicizie e conoscenze, senza la quale non potrebbero coprire e proteggere il loro operato criminale. Furono due i fattori che rafforzarono e svilupparono i legami fra politica e criminalità organizzata: l’importanza dei lavori pubblici e la possibilità, con l’ampliamento del suffragio a tutti gli uomini (1919) e poi anche alle donne (1946), di pilotare il voto delle masse per far eleggere personaggi vicini agli interessi mafiosi. Ci siamo rivolti al professor Nicaso per approfondire il ruolo che l’unità d’Italia ha svolto nella nascita e formazione della criminalità. Antonio Nicaso, nato in Calabria, giornalista e scrittore, è fra i più importanti esperti di ‘ndrangheta a livello internazionale e autore di diversi best seller, ben noti al pubblico di tutto il mondo. Note sono le sue collaborazioni con l’attuale procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria Nicola Gratteri, con il quale ha scritto libri come Fratelli di sangue e, recentemente, La malapianta. Il professore Nicaso insegna Storia della questione meridionale e Storia delle organizzazioni criminali in corsi estivi post lauream presso il Middlebury College nel Vermont (Usa). La prima domanda è d’obbligo: l’Unità d’Italia ha favorito la nascita delle mafie e quale nesso esiste con il fenomeno del brigantaggio? Sono indispensabili innanzitutto alcune considerazioni preliminari molto importanti per inquadrare gli spazi entro i quali ci moviamo. Il brigantaggio e la mafia sono due cose distinte. Il primo è un mo- vimento “partigiano” non sovrapponibile con le organizzazioni criminali di stampo mafioso, che mostra un forte attaccamento alla cultura locale e quindi alla sua valorizzazione. Parlare di mafia vuol dire parlare d’altro, perché uno dei suoi caratteri fondanti principali è lo stretto rapporto che crea con la politica. Si tratta di un rapporto malato, che molto spesso porta alla sopraffazione delle cosche mafiose sulla politica, che ne diventa vittima. Già nei primi anni di vita dello stato italiano, in Sicilia si crearono contatti fra i politici e i primi gruppi mafiosi, ma andando ancora più indietro, fino alla spedizione dei Mille, si trova che molti picciotti siciliani si unirono alla spedizione. Possiamo dire che la mafia è un fenomeno che coniuga vecchio e nuovo, senza i rapporti con la politica non sarebbe mafia. Dal 1861 ad oggi cosa è cambiato nel microcosmo delle organizzazioni criminali di stampo mafioso e quale critica possiamo fare dal punto di vista della legalità? Unificare l’Italia era un gesto che indubbiamente andava fatto, ma di certo il processo fu molto discutibile e più che di unità bisogna parlare di unificazione. La politica sabauda aveva l’obiettivo di piemontesizzare la penisola senza mostrare segni d’attenzione alle variegate diversità del paese. Un esempio su tutti: lo Statuto Albertino, elaborato da diciassette nobili, scritto in francese, pensato in origine per una popolazione di sei milioni di abitanti, fu esteso di colpo a un territorio che di abitanti ne contava circa il triplo. La cultura del Sud è stata a dir poco sottovalutata e la sua ricchezza di grandi menti e pensatori con un forte senso di appartenenza e affetto verso il territorio – un nome su tutti: Filangeri – venne screditata e zittita. Lo scrittore Pino Aprile, nel suo libro recente Terroni, afferma che è stato molto più facile unificare la Germania dopo il crollo del muro di Berlino in dieci anni che l’Italia in centocinquanta. Quanto l’Italia è unita dal punto di vista criminale e quanto dal punto di vista della lotta alla mafia? La Germania, così come l’Italia, subì un processo di unificazione fra il 1870 e il 1871. La differenza fu che lo stato tede- sco fu soggetto a un processo di unità graduale, è stato unificato prima dal punto di vista economico, poi politico. Mettendo i due modelli a confronto, quello tedesco risulta sicuramente vincente rispetto a quello italiano, poiché in Italia si cercò da subito solo un’unità politica. Dal punto di vista criminale c’è stato un movimento dal Sud al Nord del paese, anche se non semplicemente nel senso per il quale ci sarebbe una zona felice e sana (il Nord Italia) che è stata “contagiata” dalla vicinanza e dall’unione con la terra maledetta (il Sud Italia). La linea di palma di cui parlava Sciascia è stata anche l’incontro terribile fra criminali senza regole del Sud e pescecani della finanza privi di scrupoli del Nord. Sembra quindi che la criminalità organizzata per vivere abbia bisogno di unità, intesa sotto diversi punti di vista e a più livelli. Quanto la formazione dell’Unione Europea ha influito sulla diffusione della mafia? La formazione dell’Unione Europea ha certamente favorito la diffusione delle mafie e proprio per questo dico che ci sarebbe bisogno di uno spazio giuridico comune in tutta Europa, poiché la frammentazione giuridica rallenta il processo di lotta alle cosche. Ad esempio, alcune leggi previste in Italia per la lotta alla criminalità organizzata, quali il regime di carcere duro (41 bis), non sono valide in altri paesi, così come è molto difficile la confisca dei beni all’estero. Lì dove le mafie si uniscono, la giustizia internazionale si divide. Fra altri cinquant’anni, quando l’Italia compirà duecento anni, secondo lei si parlerà ancora di lotta alla mafia? Non si smetterà di parlare di mafie finché non si aggredirà il rapporto mafia-politica. Se dal 1861 ad oggi la mafia è rimasta forte vuol dire che non siamo stati capaci di affrontarla a dovere. Bisogna concentrare l’attenzione sul nodo cruciale del rapporto fra il crimine organizzato e la politica, che costituisce la spina dorsale di tutto il sistema. Non basta la sola lotta giuridica, bisogna parlarne nelle scuole, perché la mafia si vince non con il sacrificio di pochi, ma con l’attenzione da parte di tutti. panorama per i giovani • 27 150 anni di Unità d’Italia Se le coccarde per i 150 anni sono appuntate sulle prime pagine dei quotidiani Dai primi mesi del 2010 “Corriere della Sera” e “Stampa” celebrano con inchieste e rievocazioni l’anniversario dello Stato italiano. Foto: iStockphoto.com/matteodestefano di Gabriele Rosana E dire che se la prendono sempre con le testate giornalistiche. Prima il comitato di garanti per le celebrazioni al centro della polemica politica, poi Pompei che si sgretola lanciando un non proprio icastico spot sull’Italia di oggi, quindi giù con le sforbiciate agli investimenti in cultura e istruzione e via con le iniezioni di patriottismo per le belle occasioni, a mo’ di botulino... Scattare un’istantanea del volto più istituzionale del paese alla vigilia dell’importante anniversario non è proprio rincuorante. Eppure i drappi tricolore che avvolgono questi 150 anni dell’Italia unita, prim’ancora che dai monumenti-icona imbellettati a festa, pendono proprio dalle prime pagine dei principali quotidiani nazionali. Non ci sono solo biglietti d’auguri con il paese capovolto e i ministeri ridotti a decori per un albero di Natale precario già solo a vederlo, ma pretenziosamente vaticinante; né solenni parate militari con coccarde e present-arm. C’è soprattutto un’Italia che con sobrietà e pacatezza guarda indietro alla propria storia, 28 • n. 3, settembre-dicembre 2010 si insinua nelle pagine buie, consapevole che rilettura non fa rima con revisionismo, cosciente che un approccio non urlato non cela affatto dietro di sé i germi dell’antipatriottismo. C’è l’Italia dei civil servant, ideali continuatori dell’opera di chi lo Stato l’ha costruito, nelle varie epoche, attraversando periodi storici non poco controversi, nella centellinata trasformazione delle nostre istituzioni. C’è la piccola Italia delle province, quell’Italia dai cento campanili, erede di una mai dimenticata storia comunale. C’è l’Italia che issa il tricolore accanto al vessillo blu stellato dell’Unione Europea, fedele nella concretizzazione di un disegno già articolato da Mazzini. Ci sono la gloria, l’orgoglio, la consapevolezza, la fama, la ragionata umiltà... I quotidiani specchio del paese Le storie che le penne dei più illustri giornalisti ed esponenti della cultura italiani hanno affidato alle pagine dei quotidiani snocciolano momento per momento questa grande, unica storia. Il “Corriere della Sera” e la “Stampa” hanno puntato sui cavalli di razza delle proprie scuderie per raccontare l’Italia, secondo due prospettive tra loro ben diverse. Centocinquanta date per ripercorrere insieme gli eventi che hanno fatto l’Italia, le ricorrenze, i nomi troppe volte relegati al nozionismo e alle polverose vicende apprese e lasciate sui banchi di scuola: questo l’ambizioso progetto de “la Stampa”, che ogni domenica, dal 31 gennaio 2010, orna la sua ultima pagina con i racconti di una inedita coppia, che non ha mancato di conferire alle storie la propria carica anticonformista. Carlo Fruttero, l’ultraottantenne scrittore, e Massimo Gramellini, l’arguto vicedirettore del quotidiano torinese (quanti dei lettori non sono affezionati al suo Buongiorno sempre in punta di penna?) hanno raccolto la scommessa e dal buen retiro di Fruttero in Castiglion della Pescaia hanno intessuto le trame dei primi centocinquant’anni dell’Italia unita: da Vittorio Emanuele II a Sandro Pertini, da Dorando Pietri a Lucio Battisti. “L’idea che ci ha spinto è quella di non essere enciclopedici – si rivolge così ai lettori il direttore de ‘la Stampa’ Mario Calabresi –, di volervi raccontare tutto, ma solo di stuzzicare la vostra curiosità, la voglia di saperne di più e provare a scalfire quel muro di disinteresse verso il nostro passato che fa di noi un paese di smemorati”. L’iniziativa che ha preso le mosse sotto la Mole è presto diventata un più ampio progetto editoriale e Mondadori ha dato alle stampe, per la collana “Strade blu”, La Patria, bene o male, raccolta di questi centocinquanta racconti. Nelle pagine del duo che non t’aspetti si va dal 17 marzo 1861, la data della nascita dell’Italia unita sotto i vessilli sabaudi, al 10 febbraio 2006, quando il paese tornava a sentirsi uno nel capoluogo piemontese, all’arrivo della fiaccola delle Olimpiadi invernali. Ci sono i fatti di Erba, grotteschi esempi di un malcostume cronachistico tutto italiano, e la vespa scassata di Roberto Saviano, a fare il paio con l’assassinio di Carlo Casalegno e il rivoluzionario Bakunin che fugge da Bologna travestito da prete. “C’è cronaca rosa e cronaca nera, sinistri figuri accanto a purissimi eroi, non manca Pavarotti ma è assente la Callas, c’è il Vajont ma non il Polesine. Primo Carnera, Enrico Cuccia e Alberto Sordi non sono chiamati sul palco, solo citati di sfuggita”, spiegano 150 anni di Unità d’Italia Fruttero e Gramellini nella prefazione. Spalmate nell’arco dei quindici decenni ci sono date per così dire “obbligatorie”, da cui non poter prescindere nell’affresco dell’Italia, ma altre inserite a discrezione dei narratori, che sin dalle prime battute escludono un lavoro di cesellatura storica; Tucidide, Tacito e Machiavelli rimangono sullo sfondo, come maestri “che ci hanno insegnato come la Storia obiettiva, imparziale, definitivamente veritiera non esiste, ma può essere soltanto un’aspirazione, una meta intravista ed irraggiungibile”. Nasce così questo almanacco essenziale dell’Italia unita: la Patria, bene o male. La Patria nel bene e nel male: “un Paese irritante, fastidioso, quasi sempre dilaniato da emotività contrapposte e che potrebbe fare molto di più, come dicevano gli insegnanti alle nostre mamme”. Da Milano il “Corriere della Sera” rispolvera un progetto che aveva lanciato già quarantacinque anni fa, con Indro Montanelli, Piero Ottone, Alberto Cavallari, Giovanni Russo e Gianfranco Piazzesi. Italia sotto inchiesta rappresentò la testimonianza di un’epoca, la fotografia di una realtà politica, sociale ed economica. Un viaggio in lungo e in largo per la penisola, per calarsi nelle realtà locali e raccontare l’Italia di oggi. Una sfida raccolta da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, la coppia che ha scalato la top ten dei libri più venduti con La Casta (Rizzoli, 2007) e ha inaugurato una serie di inchieste sui malcostumi del paese, a cominciare dalla sua classe politica. Da Partinico a Curtatone, da Aosta a Santa Maria Capua Vetere, da Quarto a Trieste, da L’Aquila a Pontida, da Livorno a Teano, da Bronte a Novara, da Zara a Melfi: le due penne di punta di via Solferino, dal febbraio scorso, attraversano il paese e fanno tappa nelle realtà locali che in questi 150 anni hanno segnato in un modo o nell’altro la costruenda Italia (di notevole interesse il ritratto storico del luogo che un’altra firma svolge nella pagina immediatamente seguente), con inevitabili e gustose appendici sui fatti di cronaca più recenti, sui fascicoli dei tribunali che non mancano mai, sulle stranezze delle nostre province, come nello stile cui Stella e Rizzo ci hanno abituati sulle colonne del “Corriere”. Uno stile che si rivolge al paese, partendo da ieri, per parlare dell’oggi, in vista del domani. Leggere, studiare e ricordare. O il paese non andrà lontano Intervista a Gian Antonio Stella. a cura di Gabriele Rosana La voce di Gian Antonio Stella è temprata già di prima mattina, all’altro capo del telefono. La firma di punta del “Corriere della Sera” sta viaggiando su e giù per l’Italia che si avvia a celebrare i suoi 150 anni, insieme al collega di sempre Sergio Rizzo, per offrire ai propri lettori il ritratto della penisola di oggi. Un’operazione che al quotidiano di via Solferino mancava dagli anni Sessanta. Questo mi pare un costume tutto italiano. La nostra inchiesta è basata tutta sull’oggi, ma nel momento in cui andiamo in Calabria, per esempio, nei luoghi in cui la repressione del brigantaggio è stata feroce, non possiamo non chiederci quanto ha inciso la responsabilità di chi non ha voluto affrontare i problemi rispetto alle ostilità presenti ancora oggi nei confronti dello Stato. Come nasce l’appuntamento del sabato Visioni d’Italia? Quante volte, nelle realtà visitate, sente parlare di patria? Erano anni che avevamo in mente di intraprendere un viaggio a tappeto di questo tipo, ben sapendo che sarebbe stato molto faticoso. L’ultimo risale al biennio 19631965, quando cinque giornalisti del “Corriere” (Montanelli, Ottone, Russo, Cavallari e Piazzesi) batterono in lungo e in largo il paese realizzando quello che poi sarebbe diventato il libro Italia sotto inchiesta. Il sentimento di patria è un po’ ammaccato, ma non del tutto scomparso dal cuore del popolo italiano. Anzi, penso che sia in forte rinascita, anche per reazione nei confronti di alcuni eccessi della Lega al Nord e dei neoborbonici al Sud. Insomma, abbiamo letto scempiaggini di ogni genere! Alla fine tocca ai giornalisti spesso così bistrattati tenere il polso del paese. Lei, attraversando l’Italia, quanta memoria condivisa ha percepito in giro? Quanto la voglia di ricordare trascende le commemorazioni scolastiche e gli inni (ahinoi, sempre più scarseggianti) strimpellati nei comuni di provincia (quando qualche amministratore non opta per il verdiano Nabucco)? Rispetto a quella che è una vera e propria manipolazione della storia da parte di alcuni settori, devo dire che sento un positivo fastidio. L’errore è stato iniziale, da parte di chi – storici e istituzioni scolastiche – non ha voluto riflettere sin da subito sugli errori commessi dal Risorgimento. Ognuno ci ha così raccontato i pezzi di storia che gli facevano comodo, producendo storture (notevole eccezione fu, però, il deputato milanese Giuseppe Ferrari, che portò subito davanti al neonato Parlamento italiano l’eccidio di Pontelandolfo, dove per una ritorsione contro 40 soldati italiani persero la vita oltre 400 inermi cittadini). Pensiamo, però, alla battaglia di Sand Creek. Forse per gli errori commessi all’epoca delle guerre indiane gli Stati Uniti hanno buttato via la loro storia? L’Italia di ieri e gli italiani domani. Con L’Orda è stato tra gli antesignani del tema dell’accoglienza dello straniero. Cosa direbbe suo nonno Tony Caio, che mangiò pane e disprezzo in Prussia e Ungheria, dell’Italia di oggi che sputa a quelli come lui? Basta leggere quello che ha dichiarato qualche giorno fa Salvini della Lega, il quale si inventa che certi reati ci sono sempre stati, ma da quando ci sono gli immigrati ce ne sono di più. Ma che statistiche ha? Oggi ci sono un quinto dei reati degli anni Ottanta! Non è possibile vomitare addosso agli immigrati in questo modo! Anche perché, parliamoci chiaro: se non ci fossero gli immigrati la situazione dell’Italia sarebbe oggi molto più pesante. Non dimentichiamo che se è vero che oggi gli immigrati sono circa il 7% della popolazione e producono, secondo le stime, addirittura l’11,2% della nostra ricchezza, con una battuta paradossale potremmo dire che sono come i lombardi. Entrambe le categorie producono molto più di quanto dovrebbero se consideriamo solo i dati percentuali. Come ha visto nei racconti della gente il filo rosso Risorgimento-Resistenza-Costituzione? L’Appennino è ancora venato dal sangue dei partigiani? panorama per i giovani • 29 150 Laanni salute di Unità nel mondo d’Italia Penso che la Resistenza sia stata una fase straordinaria della nostra storia. Dio la benedica: meno male che c’è stata! Detto questo bisogna anche ammettere, purtroppo, che l’appropriazione della Resistenza per tanto tempo da parte della sinistra – per cui pareva che l’avessero fatta solo socialisti e comunisti – ha fatto sì che la condivisione di questa stupenda fase della nostra storia sia venuta meno. È stato un gravissimo errore della sinistra che non ha mancato di causare gravi danni. Credo che tutta la storia italiana debba esser riletta. E riletta in maniera diversa, senza più appropriazioni di pezzi di storia scomposti a seconda di quello che serve, per cui la Lega della storia d’Italia va a prendersi solo Pontida (che è tutto fuorché leghista, peraltro: nel Ventennio era sede delle adunate fasciste, come ci rammenta l’Eco di Bergamo!) o la catastrofica battaglia di Lissa (definita sui siti Internet dei venetisti come la vittoria della marina austro-veneta contro la massoneria italiana!), e altri il fatto che i Borboni hanno costruito la prima ferrovia d’Italia, senza tener conto di tutta la storia nel suo insieme, che ci dice che nel 1861 la sproporzione fra le ferrovie costruite al Nord e quelle del Regno delle Due Sicilie era assolutamente schiacciante e persino umiliante per quest’ultimo. Per cui, se cominciassimo a studiare la storia tutta insieme, luci e ombre, forse un po’ alla volta riusciremmo a ricostruire un comune sentire di cui questo paese ha drammaticamente bisogno. Il Presidente Ciampi titola amaramente il libro Non è il paese che sognavo dato alle stampe qualche settimana fa. La sua generazione cosa si aspettava dall’Italia? I ragazzi di destra hanno vissuto in modo strumentale il patriottismo, vedendovi un’arma da usare contro i comunisti per distinguersi e fare a botte con loro. È anche vero, però, che un’altra fetta della mia generazione non ha minimamente avvertito l’importanza dell’idea di patria, recuperata solo in seguito. Ricordo che la stessa sinistra che adesso si scandalizza con la Lega aveva la bandiera italiana nel simbolo, però questa era seminascosta dietro la bandiera rossa, lì ferma in primo piano. Il che non è un dettaglio da poco. Va detto che effettivamente c’è stata, sotto questo profilo, una riflessione seria da parte dei progressisti italiani, che ha portato a un cambiamento di posizione molto netto su questi temi. Oggi il centrosinistra italiano ha fortunatamente una 30 • n. 3, settembre-dicembre 2010 idea di Risorgimento ben diversa da quella di Togliatti, il quale arrivò a dire che il Risorgimento è per gli italiani come la fanfara per gli sfaccendati. Un giudizio tremendo del tutto impossibile da condividere. Forse che la questione Nord-Sud era meno esplosiva durante la Prima Repubblica? La Prima Repubblica effettivamente ha avuto tanti difetti, ma la Dc ha diritto a vedersi riconosciuto l’aver provato a tenere insieme questo paese senza lasciare spazio agli egoismi che si vedono oggi. Ai democristiani bisogna dar atto di aver contenuto le spinte razziste e questo va a loro onore. Oggi alcuni grandi partiti non si regolano così, ma giocherellano col razzismo, ammiccano, dicono e non dicono per andarsi poi a prendere i voti. E questo crea danni al paese. Ma è anche vero che l’Italia non rischia di fare la fine delle Fiandre e della Vallonia... Chi l’ha detto? Non sono così ottimista. Stiamo alla larga da paragoni che possono spaventare ed essere anche eccessivi, però, sinceramente, avevano cominciato ridendo anche dalle altre parti. In Serbia ridevano quando Karadzic cominciò a dire che i serbi sono una razza superiore perché hanno il femore più lungo d’Europa. Ridevano. Certo che c’era da ridere, poi però è finita con le teste mozzate a Srebrenica. Insisto: non voglio fare paragoni; la situazione è completamente diversa, siamo in Europa. Facciamo tutti i distinguo possibili e immaginabili, però, alla fine della fiera, l’unica cosa che mi pare impossibile da sostenere è che quando una cosa fa sorridere debba per forza finir bene. Non è così: alcune cose nascono in un certo modo e poi vanno a finire male, anche a prescindere dalla volontà dei protagonisti. Anche a prescindere dai sentimenti dei tanti semplici cittadini che magari non condividono gli slogan urlati? Cito uno scrittore che ho amato, Fulvio Tomizza, che nel suo libro Materada racconta la storia del paese istriano in cui era cresciuto, dove vivevano italiani e slavi. Tomizza stesso era figlio di un italiano e di una slava ed era perfettamente bilingue; si sentiva istriano, non avrebbe mai rinunciato al suo pezzo di carne italiano e al suo se stesso slavo. Poi, una parola tira l’altra, si comincia con delle minuzie e i conflitti deflagrano. “Devono ancora inventare un lievito che gonfi come gonfia l’odio”, scrive Tomizza. Una frase che io condivido totalmente: non so come meglio spiegare il tipo di meccanismo che si genera con il razzismo e con l’odio. Come evitare un approdo così catastrofico per l’Italia? Bisogna leggere, studiare, andare a rivedere la nostra storia, rivederla tutta! Riflettere sugli errori commessi dal Risorgimento, così da ricostruire la nostra storia andandola a riprendere filo per filo e rimetterla a posto. L’imperativo di D’Azeglio si ripercuote nella quotidianità. Bisogna fare gli italiani giorno per giorno. Certo, questo è fuori discussione. Se non pensassi questo farei un mestiere più facile! Un imperativo a cui Gian Antonio Stella si uniforma attraverso la sua attività giornalistica. Io sono cimbro e quindi di origine tedesca, tutta la mia famiglia è di origine tedesca. I cimbri sono arrivati nell’altopiano di Asiago nel IV secolo: abbiamo uno storia che ha 1.600 anni di autonomia! Ma l’idea di battermi per costituire la repubblichina dell’altopiano di Asiago mi fa ridere. Andare a chiedere come alcuni indipendentisti sardi che venga denunciato un trattato del 1847 mi fa ridere! Il mondo è cambiato completamente, s’è fatto più piccolo, siamo in Europa, siamo tutti interdipendenti. Anch’io son fiero delle mie origini, ci mancherebbe altro. Ma io mi sento asiaghese, vicentino, veneto, italiano ed europeo! Guai a chi mi tocca un pezzo di questa mia identità: sparo! Giù le mani dalla molteplicità di identità! Messa giù la cornetta, il pensiero non può non correre a quanto diceva Curzio Malaparte: “Vi sono due modi di amare il proprio Paese: quello di dire apertamente la verità sui mali, le miserie, le vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto il mantello dell’ipocrisia, negando piaghe, miserie, e vergogne (…) Tra i due modi, preferisco il primo”. Un giornalista non può che scegliere questo. Deputazioni di storia patria e società storiche Come preservare la storia delle nostre regioni. Foto: iStockphoto.co/Nikada di Giuseppe Grazioso Risale alla prima metà dell’Ottocento la diffusione in tutta l’Europa occidentale di un rinato spirito culturale teso a riscoprire la storia e le tradizioni del passato. Tale tendenza si esplicava non tanto nella riscoperta della “storia classica”, quanto piuttosto nello sforzo di ricostruire il corso degli eventi dai primi secoli dopo l’anno Mille. Si pensi alla nascita, nei primi decenni del XIX secolo, del romanzo storico, genere di così ampio successo da indirizzare ancor di più l’attenzione di molti ambienti culturali europei verso lo studio e soprattutto la diffusione delle fonti storiche. Questo generale orientamento finalizzato a indagare il passato e in particolare gli avvenimenti che avevano contribuito alla formazione degli Stati che componevano la penisola era un’attività dispendiosa e di difficile del Regno di Sardegna. Nacque così la Regia Deputazione di storia patria (oggi Deputazione subalpina di storia patria), con sede a Torino e l’obiettivo di studiare e divulgare la storia del Regno. Con una collana composta da circa una ventina di volumi pubblicati dal 1836 al 1898, dal titolo Historia Patriae Monumenta, questo istituto fu il primo a offrire una chiara raccolta dei trascorsi del regno, in special modo per l’antologia di fonti storiche medioevali in essa contenuta. Dal 1896 cura la redazione del “Bollettino storicobibliografico subalpino”. L’istituzione, nonostante il suo carattere prettamente culturale, era un primo segno del ruolo preminente che il regno sabaudo avrebbe assunto durante il Risorgimento in tutta la penisola italica. Con il decreto del 21 feb- conduzione. Pochi, volenterosi intellettuali non avevano la possibilità di raccogliere una mole di informazioni tale da ricostruire la storia di uno Stato, anche se di piccole dimensioni. La carenza di mezzi per la diffusione di tali ricerche rendeva l’attività di pubblicazione piena di ostacoli. Ad assecondare l’amore per l’erudizione storica intervenne anche il Re Carlo Alberto di Savoia, che meNel 1833 Carlo Alberto diede vita diante il Regio a un istituto con la funzione di Brevetto del 20 raccogliere e pubblicare scritti aprile 1833 diede di carattere storico. vita a un istituto con la preziosissima funzione di raccogliere e pubblicare braio 1860, l’operato della deputazione scritti di carattere storico e far circolare stessa era esteso a parte della Lombardia periodici che documentassero i trascorsi annessa al regno. Anche questo era un se- panorama per i giovani • 31 150 Laanni salute di Unità nel mondo d’Italia gnale di come i Savoia avrebbero voluto esportare nei territori conquistati le loro istituzioni. L’unicità di questa società storica venne meno quando Luigi Carlo Farini fondò la Deputazione per province di Romagna. A Parma fu istituita la Deputazione delle province parmensi (Parma e Piacenza) e a Modena quella delle province modenesi (Modena, Massa Carrara, Reggio Emilia), il 10 febbraio 1860. Con l’unità questa società storica pubblica la “Miscellanea di storia italiana”, un’opera con il precipuo interesse di “estendere dall’alto degli studi storici la benefica sua influenza sopra la penisola intera”. Con il neonato Stato italiano il processo di formazione di queste società a carattere regionale si intensificò, in alcuni casi per un rinvigorimento dell’amore per gli ormai scomparsi stati preunitari, in altri per la volontà di consolidare i valori comuni degli italiani. Nel 1862 Giovan Pietro Vieusseux propose la fondazione di un’altra deputazione di storia patria con sede a Firenze e che si interessava anche delle altre province toscane e dell’Umbria (Regio Decreto 27 novembre 1862), cui si aggiunsero poi anche quelle delle Marche (Regio Decreto 19 luglio 1863). Il Re Vittorio Emanuele II decise di fondare in Lombardia una società analoga a quella piemontese. Nasce nel 1873 la Società storica lombarda, grazie agli indispensabili apporti di Cesare Cantù. Una deputazione che raccogliesse i trascorsi delle province venete fu istituita nel 1874, con lo scopo di promuovere gli studi sulla “storia delle regioni veneta, tridentina, giulia ed adriatica e, per il periodo del dominio veneziano, delle province e dei luoghi che furono soggetti o formarono parte della Repubblica di Venezia”. Nel 1918, come risultato della dell’attività della deputazione toscana, teca di questa deputazione, che conta sorgevano una deputazione marchigiana circa 350.000 volumi, che costituiscono (Regio Decreto 30 marzo 1890) e una un’inestimabile ricchezza culturale per deputazione umbra (1896). La Deputa- l’ente. In Campania sono presenti anche zione di storia patria per le Marche mira- la Società di storia patria salernitana, va a “raccogliere, scegliere e pubblicare istituita nel 1920 dal bibliofilo Paolo storie, cronache, statuti, documenti, no- Emilio Bilotti, e quella casertana, denotizie, di ogni tempo e specialmente del minata Società di storia patria di Terra Medioevo, che siano di capitale impor- di lavoro. Nel resto del Meridione ritroviamo tanza alla illustrazione della storia civile, militare, giuridica, economica, letteraria numerose deputazioni: in Calabria, Basilicata (le deputazioni inerenti a queste e artistica”. Intanto all’iniziativa statale veniva ad due regioni sono state unite fra loro fino aggiungersi e sovrapporsi quella di natura al 1956) e in Puglia (dove ci sono due privata, con la fondazione di società sto- società). In Liguria operano una società riche, alcune delle quali furono successi- savonese e un’altra genovese. Di più revamente trasformate in deputazioni. È il cente istituzione è la Società storica pisacaso della società abruzzese, che nacque a na, nata nel maggio 1930 con la finalità di L’Aquila il 26 settembre 1888 come ente “promuovere gli studi di storia pisana o privato: Società di storia patria ‘A.L. An- comunque attinenti alla storia di Pisa e di tinori’ negli Abruzzi. Con il Regio Decre- dare opera alla ricerca, alla conservazioto del 16 gennaio 1910 venne convertita ne, alla pubblicazione e all’illustrazione in Regia Deputazione di storia patria. Allo del materiale storico relativo, di diffonstesso modo, quella che diventerà la de- dere la conoscenza della storia e dell’arte putazione siciliana era nata già nel 1863 pisana”. A questa condizione di profonda diin forma privata, con uno sparuto gruppo di intellettuali che si riuniva nell’abitazio- somogeneità si reagì fin dal 1878 con ne dello studioso palermitano Agostino diversi congressi, che dovevano riunire Gallo. Altra società Per ridurre la grande che non poté godisomogeneità fra le società dere del riconostoriche, nel 1883 venne fondato scimento da parte del regno è stata l’Istituto Storico Italiano. la Società romana di storia patria (alla cui creazione diede gli esponenti delle società e delle depuforte impulso il letterato Ernesto Mona- tazioni. A cercare di assicurare il coorci), nata il 5 dicembre 1876 con il fine di dinamento delle attività fu il Regio De“pubblicare documenti illustrativi della creto del 25 novembre 1883, che diede storia della città e provincia di Roma in vita all’Istituto storico Italiano (voluto tutti i suoi rapporti dalla caduta dell’Im- da Ernesto Monaci stesso). Questo orpero alla fine del secolo decimottavo ed gano, il cui vertice era composto da 15 un Bollettino annuale di studi e memorie membri, 4 di nomina regia, 6 delegati delle società e 5 rappresentanti delle concernenti la storia medesima”. La prima Società napoletana di sto- deputazioni, ebbe purtroppo vita breve ria patria risale (scomparve a metà degli anni Trenta) e al 1843, ma ri- scarsa efficacia. Con l’Unità d’Italia il processo Oggigiorno le deputazioni e le sociecevette riconodi formazione di società scimento statale tà hanno ampia autonomia. Ce ne sono storiche a carattere regionale si nel 1875. Questo una trentina sparse per la penisola che istituto si distin- continuano a pubblicare bollettini, “Atti intensificò. se per una spic- e Memorie” o archivi storici. Essi rapseparazione dalla deputazione veneta, cata dedizione filologica e vanta tutto- presentano una fondamentale fonte di nascerà quella per il Friuli, che veniva ad ra un’indubbia fama, accresciuta dalla ricchezza, anche perché, assieme alle unirsi con la Società storica friulana, già pubblicazione del periodico “Archivio università, sono gli unici centri di raccoloperante dal 1911 a Udine grazie all’ap- Storico per le Province Napoletane” (fu ta della storia di un determinato territoporto di Pier Silverio Leicht. Con distac- curato dal 1899 al 1932 da Benedetto rio. Va quindi considerata fondamentale co delle rispettive province dall’ambito Croce). Merita di essere citata la biblio- la loro tutela. 32 • n. 3, settembre-dicembre 2010 150 anni di Unità d’Italia La Società siciliana di storia patria Breve storia di una delle più importanti istituzioni culturali in Sicilia. Foto: iStockphoto.com/majaiva di Carmelo Di Natale “L’aspetto politico della Sicilia è cangiato. Essa era serva cinta di ceppi e di catene: ora è libera per prodigio. Ella sente una nuova vita, una gioja fin qui ignota, incommensurabile. Il suo tripudio cresce quando volgendo l’occhio alle condizioni presenti del mondo, ben si accorge che il suo avvenire è saldo, che la sua redenzione non può aver nemici allo straniero. La Sicilia non vorrà perder tanto bene per sua colpa od improvvidenza. Ella sarà saggia e prudente, perché ben conosce avere assai d’uopo di queste due virtù per reggersi opportunamente nella presente sua posizione. Lascerà l’entusiasmo alla guerra, ove sventura la rendesse necessaria, ma tratterà con maturo giudizio la politica e le leggi. Adatterà queste allo stato della sua civiltà, ai suoi costumi, a tutti gli elementi che compongono la sua vita. Lascerà l’Inghilterra agli inglesi, la Francia ai francesi e acconcerà se stessa ai siciliani. Così ella marcerà l’un di più che l’altro verso quella piena e larga libertà che è il suo bel destino, se i suoi figliuoli per troppo affetto ed alcuno di essi per sfrenati appetiti non lo muteranno. […]”. Questo passo tratto dal Discorso di un cittadino con sé medesimo, un interessantissimo documento attribuito (sia pur con qualche dubbio) all’intellettuale messinese Giuseppe La Farina, ben rappresenta la peculiarità del Risorgimento siciliano (cfr. S. Avveduto, Messina nell’Ottocento, Editalia). L’intellighenzia che ne fu guida era infatti ben lontana dall’idea di costruzione di uno stato italiano di cui la Sicilia costituisse l’estrema periferia, ma puntava piuttosto ad affrancare definitivamente l’isola (sede di uno dei più antichi parlamenti del mondo) dal dominio straniero, rappresentato da un lato dall’odiata dinastia borbonica e da Napoli e dall’altro dall’indiscussa egemonia economica e strategica degli inglesi, presenti nell’isola ormai da molto tempo. “Lascerà la Francia ai francesi, l’Inghilterra agli inglesi ed acconcerà se stessa ai siciliani” proclama aulico l’autore del prezioso testo. L’accesso a siffatti documenti è di fondamentale importanza per approfondire in modo critico e proficuo l’assai complessa storia risorgimentale siciliana; Palermo (a sinistra, la Cattedrale) è la sede della Società siciliana di storia patria (www. storiapatria.it). l’istituzione che da quasi centocinquanta anni si occupa di raccogliere, restaurare, studiare e ripubblicare testi come questo è la Società siciliana di storia patria, la costola siciliana del sistema nazionale delle Deputazioni di storia patria. Tale istituto nasce nel 1863, appena due anni dopo l’unificazione nazionale, con il nome di Assemblea di storia patria; non si trattava tuttavia di un vero e proprio organismo strutturato, ma piuttosto di un circolo informale di studiosi di storiografia siciliana che si riuniva periodicamente a Palermo. L’Assemblea pubblicò nel 1864 il volume Atti e documenti inediti e rari e si sciolse subito dopo, per far posto alla più strutturata Nuova società per la storia di Sicilia, con sede a Palermo e presidenza affidata al grande giurista Emerico Amari. La nuova istituzione conobbe alterne fortune; ad ogni modo nel 1873, grazie alla collaborazione tra stimati intellettuali – come l’archeologo Antonio Salinas e il grecista Giuseppe De Spuches – e l’Archivio di Stato di Palermo, si diede avvio alla redazione del periodico “Archivio Storico Siciliano”, un volume di elevato spessore culturale pubblicato con cadenza annuale dal 1873 ad oggi che raccoglie articoli sulle più diverse materie legate alla storia, alla cultura e al folklore dell’isola. Di lì a poco il prefetto di Palermo, su sollecitazione del Ministero della Pubblica Istruzione, chiederà ai redattori della rivista di costituirsi in una società storica, in conformità alle deputazioni di storia patria già presenti in altre aree del paese. Veniva inaugurata così nel 1875 la Società siciliana di storia patria, con sede a Palermo e alcuni dei più importanti nomi dell’intellettualità siciliana come membri. Oggi la Società siciliana di storia patria è sicuramente una delle più importanti istituzioni culturali in Sicilia; oltre all’“Archivio Storico Siciliano”, il periodico con cui è nata, pubblica numerose monografie e una vasta collezione di documenti storiografici originali. La Società ospita inoltre una grande biblioteca, aperta al pubblico, con oltre 100.000 volumi e 1.500 riviste, e un Museo del Risorgimento siciliano; la sua opera di ricerca e divulgazione contribuisce in modo determinante a mantenere viva la memoria storica siciliana. panorama per i giovani • 33 150 Laanni salute di Unità nel mondo d’Italia Risorgimento e Resurrezione Cenni storici sul rapporto tra Stato e Chiesa dall’Unità d’Italia in poi. di Martina Zollo rio dalla fondazione della testata, con la collaborazione dell’attuale direttore, Gian Maria Vian. Alla luce della complessità storica, istituzionale e politica dei rapporti che intercorrono tra Chiesa cattolica e Repubblica italiana, l’affermazione del La politica ecclesiastica del Presidente della neonato Regno d’Italia era Repubblica assuispirata dal principio liberale della me un significato davvero particoseparazione fra Stato e Chiasa. lare. Per questo Vaticano, dedicato ai 150 anni dell’“Os- può essere utile ricordare almeno alcuni servatore Romano”. E pensare che tale momenti principali della storia di questa “singolarissimo giornale” era nato “con- relazione. Il neonato Regno d’Italia proseguì la tro l’unità d’Italia e contro i suoi principali artefici”, come rileva l’ambasciatore politica ecclesiastica dello Stato sabaudo d’Italia Antonio Zanardi Landi nell’intro- (che fu uno dei principali attori del produzione al volume edito per l’anniversa- cesso risorgimentale dell’unificazione Foto: iStockphoto.com (fotoVoyager; PaoloGaetano) “I rapporti fra l’Italia e il Vaticano sono oggi davvero eccellenti”. A dichiararlo è il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione di un convegno a palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata italiana presso lo Stato della Città del 34 • n. 3, settembre-dicembre 2010 italiana), ispirata dai principi liberali del separatismo tra corpo statale e Chiesa. La legislazione piemontese in merito fu estesa via via ai territori annessi, radicalizzandone lo spirito anticlericale. La Chiesa, da parte sua, utilizzò come “arma di difesa” l’enciclica Quanta cura del 1864: in essa condannava il liberalismo e ribadiva le proprie prerogative e immunità. Significativa fu anche l’affermazione del dogma dell’infallibilità del Papa nel Concilio Vaticano I. Evento critico fu naturalmente la presa di Roma. Nel 1870, alcune settimane dopo la caduta di Napoleone III, che era stato garante dell’equilibrio tra Regno d’Italia e Stato Pontificio, l’esercito regio guidato dal generale Cadorna entrò in Roma. Ciò segnò la caduta dello Stato della Chiesa e la sua annessione al Regno d’Italia. Il 3 febbraio 1871 Roma fu dichiarata capitale del Regno d’Italia, come auspicato nel famoso discorso di Cavour del 1861 alla Camera dei Deputati (lo stesso dell’affermazione del principio “Libera Chiesa in libero Stato”). Si apre dunque la cosiddetta “questione romana”, controversia politica relativa al ruolo di Roma, sede del potere religioso del Papa e insieme capitale d’Italia. 150 anni di Unità d’Italia Successivamente, la situazione fu regolata dalla legge delle Guarentigie, la quale – come dice il suo nome – stabiliva precise garanzie per il Papa e per la Santa Sede, quali gli onori sovrani al Papa, la facoltà di conservare guardie armate e la proprietà dei palazzi apostolici e di godere dell’esenzione dalla giurisdizione italiana. Inoltre, lo Stato garantiva la libera partecipazione dei cardinali al conclave, il diritto di rappresentanza diplomatica e la corrispondenza di una dotazione annua per il mantenimento della corte pontificia. In sintesi, la legge pose in atto i principi del separatismo, pur con qualche limitazione. La reazione del pontefice dell’epoca, Pio IX, fu delle più drastiche: condannò i fatti successivi alla breccia di Porta Pia e rifiutò la legge delle Guarentigie. Soprattutto si dichiarò “prigioniero nel Vaticano” e nel 1874 affermò in via ufficiale che non era conveniente per un buon fedele partecipare alle elezioni politiche (il cosiddetto non expedit, letteralmente ve (il “clerico-moderatismo”). Sintomo “non conviene”). Questa presa di posi- di questi cambiamenti è l’enciclica di zione pontificia, che mirava a indebolire Pio X Il fermo proposito, del 1904, che, le nuove istituzioni vietando ai cattolici se da un lato ribadiva il non expedit, ne di essere eletti o elettori, fu confermata consentiva tuttavia ampie eccezioni, che per un trentennio, formalmente fino al si moltiplicarono col passare del tempo: 1919, senza peraltro sortire l’effetto spe- fra tutte spicca il Patto Gentiloni, ossia rato. l’intesa tra Giolitti e il conte Gentiloni, Lo Stato reagì con norme restrittive: presidente dell’Unione cattolica italiana, si esclusero gli ecclesiastici da Evento critico nei rapporti fra alcuni uffici e si Stato e Chiesa fu la presa di Roma; vietò l’insegnail 20 settembre 1870 i bersaglieri mento della teologia nelle universidi Cadorna entravano nella città. tà, nonché la fondazione di una libera università da parte in occasione delle elezioni politiche del dei docenti cattolici che si erano ritirati 1913. dall’ateneo romano. Questa non è che una Di lì a qualche tempo, i traumi che minima parte dei numerosi provvedimen- accompagnarono e seguirono la Prima ti legislativi con i quali, nell’ultimo ven- Guerra Mondiale influirono senza dubbio tennio dell’Ottocento, l’Italia ormai unita sulle vicende che stiamo considerando: i inflisse “colpi di spillo” a una Chiesa che cattolici, anche provenienti dai seminari mostrava di non ritenere ancora definitiva o dai conventi, parteciparono appieno al l’Unità. conflitto, dimostrando un vivo spirito paIn seguito si ebbe una lenta distensio- triottico. ne dei rapporti e un graduale riavvicinaAl termine della guerra, fecero irruziomento tra le parti, al quale contribuirono ne sulla scena politica i cosiddetti “partiti in diversa misura i successori di Pio IX: di massa”: tra questi il Partito Popolare Leone XIII, ovvero il Papa che con l’en- Italiano, fondato nel 1919, la cui anima ciclica Rerum novarum diede inizio nel era un sacerdote siciliano, don Luigi Stur1891 alla dottrina sociale della Chiesa, zo. A questo punto l’abolizione del non Pio X, Benedetto XV e infine Pio XI. expedit fu solo una formalità, “sbrigata” Contemporaneamente, l’affermazione da Benedetto XV. politica dei partiti d’ispirazione socialiInoltre le sedute per le trattative di sta favorì l’alleanza tra cattolici e liberali pace a Parigi diedero occasione ai presimoderati in molte elezioni amministrati- denti del consiglio dell’epoca, Orlando Sopra il titolo: San Pietro. A destra: Porta Pia a Roma; fu nei pressi di questa porta (progettata da Michelangelo) che i bersaglieri di Cadorna aprirono una breccia nelle mura aureliane ed entrarono nella città. panorama per i giovani • 35 150 Laanni salute di Unità nel mondo d’Italia Foto: iStockphoto.com/PaoloGaetano A sinistra: il monumento in onore dei bersaglieri che si trova di fronte a Porta Pia. pressioni degli irredentisti e l’avventura dannunziana di Fiume erano altri sintomi di un malcontento crescente che avrebbe, di lì a poco, favorito l’ascesa al potere del fascismo (1922), il quale riprese e riformulò la politica legislativa in materia ecclesiastica. Il programma proposto dal movimento fascista alle elezioni del 1919 prevedeva, a dire il vero, provvedimenti anticlericali: ma in quelle elezioni i fascisti non riuscirono a mandare in Parlamento alcun deputato. Avendo ottenuto il mandato parlamentare con le elezioni anticipate del 1921, Mussolini cambiò radicalmente il proprio programma di politica ecclesiastica: nel suo primo discorso alla Camera sottolineò l’importanza del papato e prospettò l’opportunità di migliorare le relazioni tra esso e lo Stato, affinché quest’ultimo ne traesse maggior influenza sullo scacchiere mondiale. Tale cambiamento di strategia è riconducibile alla fusione dell’ideologia fascista con quella nazionalista, che aveva fatto propria l’idea che la religione cattolica, in quanto tradizione culturale del popolo italiano, fosse un prezioso collante per l’unità spirituale della nazione. Queste convinzioni di fondo ispirarono l’introduzione di norme come quella del 1923 che dichiarava la dottrina cristiana, secondo la forma ricevuta nella tradizione cattolica, fondamento e coronamento dell’istruzione in ogni suo grado. L’anno prima e Nitti poi, di aprire un dialogo seguente lo Stato riconosceva la prima licon i rappresentanti della Santa Sede bera università italiana, l’Università Catin vista di una soluzione concordata e tolica del Sacro Cuore, fondata nel 1921 amichevole della “questione romana”. da padre Agostino Gemelli a Milano. Nel Questi propositi non ebbero una con- 1925 il governo arrivò persino a insediare una commissione mista di laici e reNel 1919 don Sturzo fondò il ligiosi, infruttuosa Partito Popolare, partito di poiché la Chiesa massa che subito ebbe un ruolo ne ritenne le proposte come asdi primo piano. solutamente non creta realizzazione a causa della tumul- vincolanti. Nel frattempo, i partiti politici tuosa situazione politica interna italia- erano stati sciolti e con essi era stata liquina. Nell’immediato dopoguerra, infatti, data l’opposizione legale: tragicamente, la fine delle restrizioni politiche e del- si era alla dittatura. la censura del periodo bellico e il rieIn tale clima iniziarono nel 1926 le mergere delle tensioni sociali avevano trattative per quegli accordi che avrebportato a un’ondata di scioperi, manife- bero preso il nome di Patti Lateranensi: stazioni e occupazioni di fabbriche; le esse si svolsero in segreto e portarono l’11 36 • n. 3, settembre-dicembre 2010 febbraio 1929 alla solenne stipula nel palazzo del Laterano dei Patti, composti da un Trattato (che risolveva la “questione romana”, con l’accettazione da parte della Santa Sede dell’annessione di Roma al Regno d’Italia e il riconoscimento della sovranità del pontefice in ambito internazionale e sul territorio dello Stato Città del Vaticano); da una Convenzione finanziaria, nella quale lo Stato italiano si impegnò a risarcire la Chiesa per la perdita del patrimonio dello Stato pontificio e dei beni confiscati in passato; da un Concordato, che assicurò alla Chiesa il libero esercizio del potere spirituale, in tutte le sue forme. Questi tre documenti sono comunemente designati come “conciliazione”. Queste norme segnavano un’inversione di rotta rispetto alla politica separatista e pertanto suscitarono critiche da varie parti. Nel complesso, tuttavia, la popolazione le accolse con favore e questo contava più d’ogni altra cosa per il rafforzamento del potere personale di Mussolini. I buoni rapporti tra Stato e Chiesa si incrinarono nel 1938, quando le leggi razziali provocarono il dissenso di numerosi cattolici e un aperto conflitto sull’interpretazione del Concordato. La legge sulla nullità dei matrimoni tra ariani e ebrei fu giudicata infatti da Pio XI una vera e propria ferita inferta ai Patti lateranensi. Come sappiamo, la Chiesa, nella temperie degli anni tra il 1943 e il 1945, aveva fatto il suo dovere, concedendo asilo ai perseguitati dai nazifascismi. I cattolici, da parte loro, contribuirono alla Resistenza: la rinata Democrazia Cristiana era infatti parte del Comitato di Liberazione Nazionale. Alla caduta del regime, l’importante ruolo pacificatore della Chiesa fu riconosciuto anche durante i lavori per l’Assemblea Costituente: nel 1948, i Patti Lateranensi vennero recepiti nella Costituzione. Il procedimento di revisione del Concordato, lungo e faticoso, ma altrettanto necessario, terminerà solo nel 1984, con la firma di un nuovo Concordato, più esteso del primo. Ciò fu dovuto alle numerose polemiche che coinvolgeranno Stato e Chiesa proprio negli anni più recenti, come quella che precederà l’introduzione del divorzio in Italia, terminata con il referendum abrogativo del 1974 e quella sull’aborto, di pochi anni successiva. Ma questa è ormai la cronaca dei nostri giorni. 150 anni di Unità d’Italia La massoneria che fece l’Italia Le logge massoniche e il Grande Oriente d’Italia contribuirono fortemente a realizzare e a mantenere l’unità dello stato italiano e la storia della massoneria si intreccia con la storia d’Italia: vediamo come. di Donato Sambugaro Per chi è nato, come chi scrive in questo momento, attorno agli anni Novanta, il termine “massoneria” è necessariamente legato agli avvenimenti giudiziari delle logge deviate, alle oscure trame politiche della P2 e, recentemente, della P3, forse al “fratello” incappucciato interpretato da Guzzanti, certo non a un coerente contesto storico e al processo che ha portato la massoneria italiana a interagire con le più alte sfere del potere politico, rendendola una delle componenti innegabilmente essenziali nella storia della formazione dello Stato italiano. In fondo, l’Unità d’Italia l’ha fatta un massone: Giuseppe Garibaldi. Cerchiamo allora di delineare brevemente – con l’aiuto del professore Ferdinando Cordova, al quale quest’articolo deve molto più di quanto dimostra la sua scarna brevità – la storia della massoneria, nelle tappe fondamentali che hanno coinciso con altrettanti passaggi decisivi della storia d’Italia. I primi vagiti della Massoneria si ebbero a Milano nel 1805, ma si spensero con la caduta di Napoleone. È invece a Torino che nasce nel 1859 il Grande Oriente Italiano, che esplicitamente aspira a diventare punto di riferimento nazionale e che appoggia dichiaratamente l’opera diplomatica di Cavour, per schierarsi successivamente dalla parte di Crispi. Trasferita la capitale a Firenze, assunse il nome di Grande Oriente d’Italia. Gli uomini che lo compongono sono ricchi borghesi e appartenenti all’aristocrazia fondiaria. Si può in effetti dire che la massoneria agisce per lungo tempo in senso suppletivo, coadiuvante e paralle- Il compasso e la squadra sono fra i simboli più diffusi della massoneria: ricordano la costruzione del Tempio di Re Salomone e sono la metafora della costruzione di un nuovo mondo. lo al regno prima sabaudo e poi italiano. L’anima fondamentalmente borghese e laica della massoneria è dimostrata dal fatto che fin dagli albori essa si pronuncia a favore di Roma capitale e contro il potere temporale del Papa, attirandosi i lunghi odi e le inimicizie della parte cattolica. Negli alti ranghi della massoneria ci si rende conto della fragilità del neonato Stato e si teme che il processo unitario possa essere messo in discussione; di qui la salda posizione in questo senso delle alte componenti della massoneria (che nel frattempo si era spostata a Palazzo Giustiniani, a Roma), che contribuirono innegabilmente a mantenere solido un coacervo di territori e istituzioni altrimenti friabile, nonostante quest’associazione si trovasse politicamente a dover lottare da un lato contro la componente socialista e dall’altro contro quella cattolica e, successivamente (dai primi decenni del nuovo secolo), contro la neonata corrente nazionalista, che non vedeva di buon occhio l’internazionalismo massonico. In età giolittiana la massoneria si prodiga affinché i provvedimenti politici vadano nella direzione di una più netta laicizzazione dello Stato. Allorché Giolitti si dimostra restio a perseguire questa linea, come gli stessi massoni evincono da una scelta come quella del Patto Gentiloni, essi mirano alla creazione di una sorta di “nuovo Stato”, realizzato anche attraverso la guerra (i massoni sono dunque sostanzialmente interventisti) che, si crede, potrebbe costituire un nuovo ordine internazionale. Successivamente la massoneria asseconderà l’impresa di Fiume (salvo staccarsene per le sue ultime derive politiche) e guarderà con attenzione al fascismo che, seppur non promosso, non è neppure ostacolato (ed è rigettato solo dal 1921-1922). Non si legge, in queste pagine della storia, un filo coerente all’interno del Grande Oriente. La massoneria, infatti, nasce come istituzione atta a promuovere il miglioramento personale dell’individuo all’interno di un percorso morale, ma ben presto si caratterizza (come le altre logge massoniche europee ma contrariamente allo spirito dell’originaria e contemporanea associazione massonica inglese) attraverso evidenti connotazioni politiche, generate chiaramente dal contesto in cui viene a trovarsi. Il Grande Oriente d’Italia viene ufficialmente sciolto nel 1925 proprio in seguito alle disposizioni fasciste che inibiscono l’attività massonica e rendono incompatibile l’appartenenza a una loggia massonica e al partito, colpendo così anche l’altra grande loggia massonica formatasi da una costola del Grande Oriente, la cosiddetta loggia “di Piazza del Gesù”, che aveva inizialmente appoggiato con forza Mussolini proprio in opposizione agli altri massoni e per interessi personali. Dal 1943-44 la massoneria si ricostituisce sotto l’ala protettiva del governo americano di Truman e in funzione anticomunista. Molti esponenti massoni di spicco confluiscono poi nei partiti liberali, formando così una “base laica” d’appoggio alla Dc. Non ripercorrerò gli eventi più recenti, molto meglio noti e forse ingiusti verso una realtà di cui è arduo dare un giudizio nettamente positivo o negativo, ché certo entrambi potrebbero essere difesi a buon diritto. Mi premeva piuttosto sottolineare come anche in questa direzione vadano cercate le spinte che hanno prima reso possibile e poi sostenuto il processo di unità nazionale. Qualche pietra di quest’Italia barcollante, insomma, l’ha ben posta anche la massoneria. Si ringrazia il professor Ferdinando Cordova per la sua disponibilità. panorama per i giovani • 37 150 anni di Unità d’Italia Foto: iStockphoto.com/morozena A sinistra: la valle di Trento e le montagne che la circondano. Nella pagina seguente: Henry Dunant in una stampa ottocentesca. Gli alpinisti tridentini Dalla lotta per l’identità culturale a quella per la montagna. di Aleksandra Arsova La storia della Sat (Società degli Alpinisti Tridentini) ha un inizio non molto diverso da quello di altre società di epoca risorgimentale, nate in difesa della lingua e della nazionalità italiana. Quando nel 1872 i trentini Napomuceno Bolognini e Prospero Marchetti decisero di farsi promotori di una società alpina locale, uno dei loro intenti primari era appunto di carattere patriottico, dal momento che si voleva rivendicare l’identità del Trentino e il suo legame con la cultura italiana, essendo esso ancora sotto la dominazione asburgica. Sono innumerevoli gli episodi riconducibili proprio a quest’ideale patriottico. Basti ricordare, ad esempio, la scelta della Sat nel 1876, d’altronde, la Società venne sciolta dalle autorità austriache proprio a causa del suo atteggiamento filo-italiano. Né si può dimenticare, qualche decennio più tardi, la partecipazione volontaria dei soci della Sat alla Prima Guerra Mondiale in favore dell’unificazione del Trentino all’Italia. In tutto questo, però, ciò che davvero ha distinto quella degli alpinisti tridentini dalle altre società risorgimentali e ha fatto sì che durasse sino ad oggi è il suo interesse per la montagna e per il territorio del Trentino. Fin dalle sue origini, la Sat si diede l’obiettivo di restituire dignità alla propria regione, studiandone il territorio, tutelandone la flora e la fauna e cercando anche di avviciCiò che ha distinto la Sat dalle nare l’uomo alla altre società risorgimentali è natura. Testimostato l’interesse per la montagna nianza esplicita di tale finalità è e per il territorio del Trentino. il primo statuto, di battezzare con il nome Roma una vet- risalente all’anno di fondazione: “La ta del Brenta scalata nel 1875, a pochi Società si prefigge di raggiungere il anni cioè dalla Breccia di Porta Pia. Già suo scopo mediante ricerche scientifiche 38 • n. 3, settembre-dicembre 2010 sulle montagne, e descrizioni delle medesime, desunte da tutti i diversi punti di vista, sotto i quali si presentano”. Questa attività nel settore ambientale e naturalistico ha ovviamente subito un’evoluzione nei 138 anni di vita della Società: dalla semplice conoscenza dell’ambiente montano, mediante ricerche di carattere scientifico nei più svariati campi, quali la geografia, la geologia, la limnologia (lo studio degli ecosistemi di acqua dolce) e la speleologia, si è passati all’educazione alla montagna e all’alpinismo, come dimostrano la rete dei sentieri alpinistici, la creazione di rifugi e di guide alpine, per giungere infine all’interesse per la salvaguardia e la protezione della montagna. Riguardo a quest’ultimo punto, la Sat ha sempre cercato di mediare in maniera lungimirante la realtà di quest’ultima e i bisogni dell’uomo, tentando di educare al rispetto del bene pubblico come patrimonio da utilizzare con accortezza e da preservare per le generazioni future. Talvolta questo atteggiamento ha portato la Società a prendere una posizione contraria a certe forme di sfruttamento turistico e alla costruzione di infrastrutture che poco si conciliano con il paesaggio. Risale agli anni Sessanta, per esempio, la questione del “Brenta da salvare”: come testimonia un opuscolo dell’epoca, venne sollevato il problema della opportunità di realizzare una nuova funivia che avrebbe danneggiato dal punto di vista sia morfologico sia estetico la montagna forse più cara ai Trentini. Venendo ad anni più recenti, merita di essere ricordato almeno il Congresso di Ala del 1982, dove per la prima volta, grazie all’idea di istituire i parchi non solo a livello burocratico ma con una funzione civica, si cercò di affiancare alla difesa della natura quella delle tradizioni dell’identità trentina. Oggi, a quasi 140 anni dalla sua fondazione, la Sat prosegue con determinazione le proprie attività, puntando non solo sulla valorizzazione del territorio locale, ma mirando a collaborazioni di rilevanza nazionale e internazionale, con lo scopo principale di avvicinare i giovani all’alpinismo e di far rinascere in loro l’amore per la natura e per la montagna. 150 anni di Unità d’Italia La battaglia di Solferino e la Croce Rossa La Seconda Guerra d’Indipendenza e la nascita di un corpo sovranazionale di soccorso dei feriti in guerra. Foto: iStockphoto.com/vincevoigt di Angelo Filippi È il 24 giugno del 1859 quando a Solferino si svolge una delle battaglie più sanguinose che l’Europa abbia mai visto. Al termine dei combattimenti circa ventinovemila uomini, tra morti e feriti, giacciono sul campo di una battaglia che oltre a essere stata di fondamentale importanza per l’unificazione del nostro paese ha permesso che, dalle sue ceneri, nascesse uno degli organi di sostegno umanitario più importante al mondo. Nel 1859, in Italia, le delusioni e le sconfitte dal sapore amaro, legate alla Prima Guerra d’Indipendenza, sono ormai alle spalle e un numero sempre crescente di patrioti considera il Piemonte l’unica opportunità per raggiungere l’unità. L’idea di un’Italia unita trova sostegno internazionale nella Francia: l’Imperatore Napoleone III interviene, schierandosi col regno subalpino. I primi combattimenti dei franco-piemontesi con gli austriaci si svolgono a Montebello il 20 maggio del 1859, con la vittoria dei primi. Il mese dopo, l’offensiva austriaca si conclude il 24 giugno a San Martino con la vittoria piemontese e a Solferino con quella francese. Con l’armistizio voluto da Napoleone III termina la Seconda Guerra d’Indipendenza e bisognerà attendere la spedizione dei Mille per la proclamazione del Regno d’Italia, il 17 marzo 1861. Il 24 giugno 1859 un uomo d’affari svizzero impegnato in attività di sviluppo sociale, Henry Dunant, si trova casualmente coinvolto nelle vicende della battaglia di Solferino. Quel giorno gli austriaci persero 14.000 uomini e i franco-piemontesi 15.000. Vagando sconvolto per il campo di battaglia, egli stesso scrive nel suo libro Un Souvenir de Solferino: “Qui si svolge una lotta corpo a corpo orribile, spaventosa, Austriaci e Alleati si calpestano, si scannano sui cadaveri sanguinanti […] una lotta senza quartiere, un macello, un combattimento di belve […] anche i feriti si difendono sino all’ultimo: chi non ha più un’arma afferra l’avversario alla gola, dilaniandola con i denti”. A sconvolgere particolarmente Dunant è la mancanza di un’adeguata e organizzata assistenza sanitaria. Mosso da umana com- passione verso un ingente numero di feriti e morenti, Dunant s’improvvisa infermiere e organizza la sua prima missione umanitaria. Sempre nel suo resoconto di guerra leggiamo: “i feriti muoiono di fame e sete; vi sono filacce in abbondanza ma non mani sufficienti per applicarle sulle ferite. È dunque indispensabile organizzare un servizio volontario”. Nasce allora la necessità di creare un’organizzazione di soccorso su base volontaria sovranazionale, in grado di intervenire in ogni paese. Dalla volontà di un singolo si diramano le radici di un progetto preciso, che prevede di portare sollievo ai feriti e ai bisognosi, indifferentemente dal loro schieramento in battaglia. Nel 1863 Jean Henri Dunant, più noto come Henry Dunant, con altri quattro cittadini svizzeri realizza il Comitato ginevrino di soccorso dei militari feriti. Solo due anni dopo, il 22 agosto 1864, dodici nazioni, tra cui l’Italia, sottoscrivono la prima Convenzione di Ginevra, che diventa la base dell’attività della Croce Rossa. Nel 1991 il progetto umanitario creato da Dunant diventa la Federazione Internazionale delle Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa. Oggi la Croce Rossa Italiana è impegnata in progetti di ampio respiro internazionale, tra i quali l’intervento ad Haiti, colpita il 12 gennaio 2010 da un terremoto devastante, dove l’impegno dei volontari si è concretizzato nell’apertura di un campo base e di una scuola provvisoria a Petionville. Inoltre, a causa del sisma del 27 febbraio 2010, l’ente è presente in Cile, come anche in Indonesia, a seguito dello tsunami nelle Mentawai. La battaglia di Solferino rappresenta quindi una “pietra miliare” non solo per l’Unità d’Italia, ma per la storia dell’umanità. Da un evento bellico estremamente cruento emerge la volontà di riscattarsi, di lottare per sradicare la sofferenza. Dalla Storia con la “S” maiuscola, fatta di uomini e guerre, si svincola quella di un solo individuo, capace e volenteroso, che si distingue per il suo operato e per il suo desiderio di agire affinché, anche nell’irrazionalità della violenza più nefasta, si esprima la solidarietà umana. BIBLIO H. Dunant, Un Souvenir de Solferino, Fondazione Giorgio Ronchi Editore, Firenze 2008. E. Biolcati, Storia della Croce Rossa, Gruppo Pionieri di Torino. panorama per i giovani • 39 Foto: iStockphoto.com/snem 150 anni di Unità d’Italia O’ mare canta... Libero Bovio e l’anima popolare della poesia in musica che ha unito l’Italia. di Selene Favuzzi La canzone di Napoli è ambasciatrice di pace nel mondo. È voce d’Italia in terra straniera. È grido d’amore, ma è segno di forza: è sempre profumata di malinconia, anche quando è allegra. (Libero Bovio, Don Liberato si spassa, Prismi, Edizioni de Il Mattino, 1996) Certe volte, poche parole, appena condensate nello spazio breve d’una poesia, possono rappresentare qualcosa di ben più vasto dei confini della pagina che le contiene arginandone la forza espressiva. Il verso poetico ha un’enorme potenzialità: quella di legarsi a un’immagine, afferrandosi stretto alla maglia dei ricordi, per venire evocato anche solo da un suono e fatto rivivere in tutto il suo splendore, accogliendo ogni volta nuovo significato. Se togliessi alle parole le cadenze, i pensieri, i sospiri, le lacrime, i sorrisi, non resterebbe null’altro che una pagina bianca macchiata d’inchiostro... priva di voce. Se invece a darle voce è il canto e una melodia a darle corpo, allora sì che delle semplici parole potrebbero rappresentare una nazione intera. Questo è quello che è accaduto con l’epoca d’oro della canzone napoletana grazie a un connubio inscindibile di grandi poeti, come Salvatore di Giacomo, Ferdinando Russo, Murolo, Giovanni Capurro e straordinari compositori, fra cui Costa, Ernesto de Curtis, Gaetano Lama, Vincenzo Valente, Di Capua, Gambardella e De Gregorio; cantanti infine come Mario Abbate, 40 • n. 3, settembre-dicembre 2010 Caruso, o Massimo Ranieri, solo per citarne alcuni, diedero a essa la loro voce, rendendo le sue creazioni opere immortali. Libero Bovio (1883-1942) nacque a Napoli dal filosofo e uomo politico pugliese Giovanni Bovio e dalla pianista Bianca Nicosia e presto venne avvicinato all’amore per la musica dalla madre, che gli suonava Beethoven, cui subito egli dimostrò di preferire Gambardella e Di Capua e la tradizione partenopea. Questo è solo uno degli elementi che lo avvicinano al sentire popolare; uno dei pensieri raccolti nel suo libro di aforismi Don Liberato si spassa recita infatti: “Napoli ha avuto due poeti del popolo, due grandi poeti: un povero guantaio morto di tisi a venticinque anni e un garzone di osteria di campagna, spentosi nella più squallida miseria: l’uno si chiamava Vincenzo Russo e l’altro Giuseppe Capaldo. Ai maestri, no: a questi due popolani invidio qualche poesia”. Il rimpianto per una giovinezza perduta di Signorinella, il sofferto canto d’amore di Tu ca nun chiagne, Reginella e Passione, la riflessione sulla morte di Chiove, l’amarezza dell’emigrato di Lacreme napulitane, il canto alla luna capace di commuovere anche i “guagliune ‘e malavita” di Guapparia e il paesaggio napoletano di Silenzio Cantatore, sono solo alcune delle canzoni di questo straordinario poeta che fanno parte dell’eredità d’ogni italiano. Molti cantautori dopo di lui hanno scritto musica dedicata al nostro paese, ma difficilmente hanno raggiunto livelli simili di spontaneità e freschezza. La voce roca di Mino Reitano che canta Italia e l’aspro sarcasmo di Ma il cielo è sempre più blu; L’italiano di Toto Cutugno e Viva l’Italia di Francesco De Gregori, pur essendo canzoni forti, colme di passione e amore per il nostro paese, sono in un certo modo prive di quell’originaria ingenuità e hanno nei testi un sottile velo di retorica. Sono passati cento anni dai ritratti di Libero Bovio e della sua Italia povera ma con la forza di vivere e ricominciare sempre e le sue parole sono estremamente attuali ancora oggi: la canzone d’amore come espressione di forza; urlo malinconico, talvolta amaro, ma sempre così intenso... il canto come filo che unisce il Paese... e il riscatto che sale dal Sud di quest’Italia che ha sempre bisogno di qualcosa che ne tenga assieme le multiformi coste. Chist’è ‘o paese d’’o sole Tutto, tutto è destino… Comme putevo fà fortuna a ll’estero s’io voglio campà ccà? GIOVANNI BOVIO Il libero pensiero non vuole martiri, vuole uguali Giovanni Bovio nacque a Trani (Bari) il 6 Febbraio 1837 nella numerosa famiglia d’un modesto impiegato. Sin da giovanissimo mostrò una straordinaria memoria, che esercitò su testi del mondo classico, filosofico e giuridico; si manteneva infatti dando lezioni private di diritto, letteratura e filosofia, quando nel 1872 ottenne alla Federico II di Napoli la cattedra di Storia del Diritto e, successivamente, la libera docenza di Filosofia. Quattro anni più tardi entrò nella Camera dei Deputati per il collegio di Minervino Murge e, essendo uomo d’estremo rigore e rifiutando il trasformismo, rimase tutta la vita fra i seggi dell’ala repubblicana, come deputato della sinistra storica, adoperandosi strenuamente per “costruire” l’Italia. Fu inoltre il relatore del codice penale suo omonimo, che prevedeva fra le altre cose l’abolizione della pena di morte e il diritto di sciopero (non contenendo articoli che lo vietavano). Giovanni Bovio, con la sua riflessione filosofica d’una vita e la straordinaria eloquenza che riusciva talvolta a unire le frange più estreme, ha contribuito a fare dell’Italia il paese che conosciamo. 150 anni di Unità d’Italia Foto: iStockphoto.com/35007 A sinistra: una pista di atletica. Nella pagina precedente: il golfo di Napoli. Tra Dolce Vita e geopolitica I Giochi di Roma ’60: la capitale di un’Italia bella e vincente diviene arbitro della Guerra Fredda. di Carmelo Di Natale Con buona pace del romantico Pierre De Coubertin, i Giochi Olimpici non sono mai stati un evento puramente sportivo, almeno non da quando i grandi della terra si sono accorti di quale straordinario potenziale in termini di propaganda politica, economica, culturale sia insito in un avvenimento in cui tutte le nazioni si confrontano vincolate al solo giudizio di tempi e misure. La storia insegna che le gesta di grandi atleti hanno spesso rappresentato il volano per trasformazioni sociali e politiche di eccezionale importanza: come non ricordare a tal proposito le quattro medaglie d’oro con cui l’afroamericano Jesse Owens calpestò il mito della superiorità ariana nelle Olimpiadi di Berlino del 1936 (il più efficiente programma di propaganda nazista mai posto in essere) o il guanto nero con cui Tommy Smith e John Carlos, dal podio della finale dei 200 metri piani di Città del Messico ’68, sfidarono un’America razzista che pochi mesi prima aveva glissato indifferente sull’omicidio di Martin Luther King? E ancora, risuonano in tutta la loro rilevanza geopolitica i boicottaggi da parte delle due superpotenze della Guerra Fredda, Usa e Urss, rispettivamente di Mosca ’80 e Los Angeles ’84, l’esclusione del Sudafrica da molte edizioni olimpiche a causa dell’apartheid, i ben noti Giochi di Pechino 2008, imponente macchina di propaganda della potenza economica e politica cinese su scala globale. No, decisamente le Olimpiadi non sono solo una festa di sport... In questo quadro di simboli, gesti, scelte, significati più o meno celati, in cui l’elemento sportivo-agonistico si compenetra ineluttabilmente con quello politico e strategico, i Giochi Olimpici di Roma 1960 rivestono un’importanza particolare. Già lo stesso De Coubertin aveva pensato alla capitale italiana come sede delle Olimpiadi del 1908, ma per cause di forza maggiore (l’eruzione del Vesuvio del 1906) questi poterono tenersi nella città eterna, appunto, solo nel 1960. Quella romana fu però un’edizione olimpica di grandissimo spessore, perché segnò lo spartiacque tra una concezione fondamentalmente romantica dello sport (fatta di dilettantismo, rifiuto degli sponsor, sacralità della leale competizione sportiva) e una dimensione mediatica globale, in cui irrompono gli interessi privati e si ingigantisce la rilevanza politica e strategica, oltre che di costume, dell’evento. Un contributo fondamenta- le a questa evoluzione (o involuzione, ai posteri l’ardua sentenza...) è apportato senz’altro dalla presenza dei mezzi di comunicazione di massa: Roma ’60 è infatti la prima edizione dei Giochi trasmessa integralmente dalla televisione, con più di cento ore di diretta della giovanissima Rai, l’emittente radiotelevisiva nazionale nata appena sei anni prima. La propaganda delle due grandi potenze avversarie, Usa e Urss, era all’opera già da prima della cerimonia di apertura. Kruscev e i gerarchi sovietici vedevano gli atleti alla stregua di soldati incaricati di mostrare al mondo tutti i benefici materiali e morali del sistema socialista: le loro gesta erano parte integrante nella costruzione del prestigio della società sovietica a fronte del nemico capitalista, consumista e razzista. Dal canto loro, i funzionari americani dovevano confutare l’accusa sovietica di razzismo – che era pur fondata, ma il mondo non doveva accorgersene o quanto meno avere qualche argomento per passarvi sopra – cosicché si affrettavano a sottolineare l’armonia presente nella compagine statunitense tra atleti neri e atleti bianchi; particolare rilevanza nella propaganda americana aveva quindi il fatto che, per la prima volta, il portabandiera della squadra a stelle e strisce era nero. Si trattava del grande Rafer Johnson, atleta di straordinario talento ed eccezionale carisma destinato a imporsi, con tanto di record del mondo, nella durissima prova di decathlon sull’amico Yang Chuan-kwang, suo compagno di studi e di allenamenti, che gareggiava però per la federazione olimpica di Taiwan. Già, Taiwan, l’isola di Chang Kai-shek mai riconosciuta dalla Cina maoista: lo stato più popoloso del mondo non inviò alcun atleta a Roma, bensì solamente un gruppo di funzionari i quali, durante la cerimonia di apertura, sfilarono tenendo in mano al posto della bandiera un cartello recante la scritta In protest, in segno di protesta per l’invito della provincia ribelle. Il comitato organizzativo dei Giochi romani, presieduto dall’allora Ministro della Difesa Giulio Andreotti, pretese inoltre che la Germania si presentasse con un’unica squadra unificata: la rigidità dei criteri con i quali le federazioni olimpiche di Germania Est e Germania Ovest selezionarono la compagine da inviare a Roma fu degna degli equi- panorama per i giovani • 41 150 anni di Unità d’Italia 42 • n. 3, settembre-dicembre 2010 Sa vida pro sa Patria Dalle trincee dell’altopiano di Asiago alla sabbia dell’Afghanistan: uomini e imprese di una tra le più valorose e particolari unità dell’esercito italiano. di Fabrizio Grussu Foto: iStockphoto.com/naphtalina libri di un trattato post bellico, tanto che gli atleti raramente potevano entrare in contatto al di fuori di allenamenti, gare e cerimonie. La bandiera della squadra tedesca unificata fu quella tradizionale della Germania, nero rosso e oro, con i cinque cerchi olimpici al centro e l’Inno alla Gioia di Beethoven fece le veci dell’inno nazionale. Il comitato organizzativo di Roma seppe però prevedere e gestire molto bene queste difficoltà di natura extra-sportiva, mentre la magia della città eterna fece il resto... Al loro arrivo, gli atleti si trovarono immersi in un clima di grande speranza e positività. Roma era infatti il fiore all’occhiello di una nazione che viveva il momento forse più bello di una storia che toccava proprio allora il limite dei cento anni: quella era l’Italia del miracolo economico, con un Pil che cresceva a un ritmo paragonabile a quello dei moderni paesi Bric (Brasile, Russia, India, Cina), della Dolce Vita, dei grandi miti dello sport (proprio nel 1960 moriva tragicamente il Campionissimo, Fausto Coppi). Il comitato organizzatore si propose l’intento di rendere i Giochi un unicum con la città; si scelse quindi come cornice delle gare di pugilato la Basilica di Massenzio – dove iniziarono a far parlare di sé due tra i più grandi boxeur di tutti i tempi, l’italiano Nino Benvenuti e l’americano Cassius Clay, alias Muhammad Alì – mentre i fori imperiali furono teatro della maratona, con la commovente vittoria dell’etiope Abebe Bikila, capace di battere il precedente record del mondo correndo a piedi nudi sui sampietrini romani. I Giochi di Roma, inoltre, consacrarono definitivamente lo sport femminile, grazie alle imprese nell’atletica leggera della leggiadra Wilma Rudolph (vincitrice dell’oro nei 100, 200 e nella staffetta 4x100) e delle altre Tigerbelles, le atlete statunitensi di colore. L’Italia, dal canto suo, colse risultati sportivi inimmaginabili, riuscendo a classificarsi al terzo posto nel medagliere, dietro le sole Urss e Usa: spiccò su tutte l’inattesa e straordinaria vittoria, con record del mondo, di Livio Berruti nei 200 metri piani. In definitiva, le Olimpiadi di Roma 1960 mostrarono al mondo uno Stato, l’Italia, che avrebbe festeggiato un secolo di vita l’anno successivo, affrancatosi definitivamente dai disastri della Seconda Guerra Mondiale e pronto a svolgere un ruolo importante sullo scacchiere internazionale. E oggi, nel sesquicentenario dell’Unità? Primo marzo 1915: mancano poco più di tre mesi all’entrata in guerra dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale. In Sardegna viene fondata una brigata di fanteria destinata a essere protagonista del conflitto e della storia dell’esercito: la “Sassari”. È composta di due reggimenti, il 151° e il 152°, e ha una caratteristica unica che la differenzia dalle altre brigate dell’esercito sabaudo: è formata da soli sardi. All’inizio delle ostilità contro l’Impero austro-ungarico viene schierata lungo l’Isonzo. Sarà la prima unità a essere citata nel bollettino di guerra e l’ultima a ritirarsi (per giunta in ordine) dietro il Piave, facendo saltare l’ultimo ponte e chiudendo definitivamente l’accesso alla pianura padana al nemico. I suoi reggimenti sono gli unici, nella storia delle forze armate italiane, a essere stati entrambi decorati due volte nell’arco di una sola guerra con la medaglia d’oro al valore militare. All’indomani della battaglia sul Piave così si esprimerà il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando: “Quando vidi i valorosi della Brigata Sassari sentii l’impulso di inginocchiarmi dinanzi a loro, perché vidi riassunte in Essi tutte le virtù dell’Esercito”. Al di là del coraggio individuale dei diavoli rossi (così i nemici chiamavano i sassarini per via dei colori delle mostrine), altri due fattori contribuirono alla riuscita delle imprese di cui la Sassari fu protagonista. Innanzitutto anche i non militari di professione sapevano sparare. Si trattava di una rarità, poiché, a causa della fretta con cui i soldati dovevano essere inviati al fronte, non vi era tempo per addestrare le reclute prima di mandarle a combattere. I sardi però, in massima parte contadini o pastori, sapevano ben maneggiare le armi, che avevano imparato a usare fin da piccoli per difendere i raccolti e le greggi da lupi e faine. Molto importante fu anche la lingua: ogni esperto dell’arte militare sa quanto sia importante, ai fini della vittoria, intercettare le comunicazioni del nemico. Nell’esercito austriaco esistevano sicuramente addetti alle intercettazioni che conoscevano l’italiano, ma nessuno che conosceva il sardo. Fu così che nelle trincee sull’altopiano di Asiago dove era di stanza la brigata, il comando militare fece esporre dei cartelli con su scritto “chi sesi italianu fuedda in sardu” (se sei italiano parla in sardo). Più i fanti della Sassari avrebbero parlato nella loro lingua d’origine, meno possibilità ci sarebbero state per gli austriaci di venire a conoscenza degli spostamenti e dei piani del regio esercito. Non importava che si trattasse del campidanese, del barbaricino o di qualsiasi altro ceppo della lingua sarda: l’importante era parlare in sardo. Al temine della guerra moltissimi reduci aderiranno al Partito Sardo d’Azione. Dopo la salita al potere di Mussolini una parte di essi seguirà Emilio Lussu nel suo impegno antifascista. Durante il secondo conflitto mondiale la Sassari combatté in Jugoslavia, da cui fu richiamata dopo l’8 settembre per prendere parte alla difesa di Roma. Fu sciolta dopo la battaglia. Il 152° fu ricostituito nel 1958, il 151° nel 1962. Dal 1992 è divenuta una brigata meccanizzata. I suoi soldati hanno partecipato alle principali missioni all’estero cui l’Italia ha contribuito, sia nei Balcani sia in Medio Oriente. Per la partecipazione alla missione “Antica Babilonia” in Iraq entrambi i reggimenti sono stati decorati con un’ennesima medaglia d’oro: quella al valore dell’esercito. 150 anni di Unità d’Italia Le tavolozze del Risorgimento 1861. I pittori del Risorgimento alle Scuderie del Quirinale di Francesca Parlati e Aleksandra Arsova Inaugurata il 6 ottobre 2010, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e con il patrocinio del Ministero per i Beni Culturali, la mostra dal titolo 1861. I pittori del Risorgimento è situata nello spazio museale delle Scuderie del Quirinale, con 39 opere di 22 autori diversi. La mostra si propone di ritrarre le passioni che infiammarono gli animi degli italiani, patrioti e non, durante questo decisivo periodo storico. Le opere esposte, infatti, non si limitano a mostrare eserciti o atti manifesti di patriottismo monumentale, ma anche i soldati prima e dopo la battaglia, i contesti domestici e familiari, dove, pur non arrivando il fragore della battaglia, se ne intuisce l’emozione e la partecipazione. Proprio su tale distinzione è articolata la mostra: il primo piano è dedicato, infatti, alle opere monumentali, dove si percepisce appieno il vigore dell’atto bellico, la grandiosità dell’evento storico. Pittori come Gerolamo Induno, Federico Faruffini, Eleuterio Pagliano e Michele Cammarano Sopra: Michele Cammarano, La carica dei bersaglieri a Porta Pia, 1871, olio su tela (Napoli, Museo di Capodimonte). emblematiche come Spartaco di Vincenzo Vela o Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria di Francesco Hayez, dimostrazioni di eroismo anche degli umili. Il secondo piano, invece, è dedicato al Risorgimento “privato”. Qui si succedono dipinti raffiguranti ambienti domestici, strade, osterie, botteghe, gente che non vive in prima persona le battaglie, ma ne partecipa all’ardore e si identifica con gli stessi ideali che furono ardenti patrioti, che parteciparono a molte delle battaglie che hanno fatto la storia d’Italia, venendo poi definiti dalla critica appunto “pittori soldati”. La battaglia di Varese del Faruffini raffigura una carica dei soldati italiani, Una mostra in cui le opere non mentre da dietro la mischia emerge, si limitano a rappresentare gli ancora seminascoeserciti, ma anche i contesti sto, il tricolore. Vi domestici. è poi La battaglia di Magenta di Gerolamo Induno, che rap- animano i soldati. Si delinea così il passaggio presenta il culmine della battaglia, in una dalla fase risorgimentale vera e propria, con descrizione minuziosa, che non per questo La partenza dei coscritti nel 1866 di G. Insacrifica l’impatto emotivo suscitato nell’os- duno (immagine simbolo della mostra), alla servatore. Apice di questa scala di forti fase storica immediatamente successiva, ovemozioni è I bersaglieri alla presa di Porta vero al famoso “Fatta l’Italia bisogna fare gli Pia, di Michele Cammarano. I bersaglieri si italiani”, come si evince dal dipinto Le gioie precipitano verso chi guarda, bucando quasi della buona mamma di Giuseppe Sciuti. È un la gigantesca tela, in un’ambientazione non punto di vista diverso sulla storia risorgimenmeglio definita, tra la polvere dello sterrato tale, che la rende meno sacra e celebrativa e e la polvere da sparo, umani nell’inciampa- più umana, fornendo al visitatore nuovi mezre e cadere durante la corsa, eroi nell’unire zi per comprendere non solo la storia passata l’Italia. Come dimenticare, inoltre, opere del suo paese, ma anche l’attualità. panorama per i giovani • 43 150 anni di Unità d’Italia Foto: iStockphoto.com/PaoloGaetano A sinistra: il Vittoriano, a Piazza Venezia (Roma), è uno dei simboli dell’Unità d’Italia. Nella pagina seguente: cantieri per l’Expo di Milano 2015. Ritratto di una nazione unita Il Museo Centrale del Risorgimento e la mostra “Gioventù Ribelle”: nello scrigno del Vittoriano vive la memoria della storia italiana. di Elena Martini Alla morte di Vittorio Emanuele II, nel 1878, il Parlamento decise di costruire a Roma un monumento dedicato al primo Re dell’Italia unita, che prese il nome di Vittoriano. Oggi, troneggiante su piazza Venezia, esso ospita il Museo Centrale del Risorgimento: uno straordinario archivio della memoria dell’epopea nazionale che ripercorre le tappe fondamentali della storia italiana dalla metà del Settecento alla Prima Guerra Mondiale. Scrigno perfetto per i cimeli che richiamano la nascita dell’Italia, il monumento nazionale a Vittorio Emanuele II accoglie la salma del Milite Ignoto e viene oggi considerato uno dei simboli della Repubblica. Salita la scalinata bianchissima che conduce al museo, quello che più colpi- generale Cialdini nella battaglia di Castelfidardo. Ci si imbatte poi in una serie di busti e armi, quadri e medaglie che rievocano i protagonisti e gli antagonisti del processo risorgimentale italiano: la coperta di Garibaldi ferito sull’Aspromonte, citazioni di Mazzini, Vittorio Emanuele II e papa Pio IX, fino al volantino tricolore lanciato su Vienna da D’Annunzio. La visita prosegue in un corridoio dove oggetti e documenti nelle teche scandiscono le tappe delle diverse guerre d’indipendenza, per terminare in una sala interamente dedicata al ruolo italiano nella Prima Guerra Mondiale. Di particolare interesse sono i percorsi monografici proposti lungo tutti gli spazi espositivi, su tutti un accurato approfondimento sulla Storia della lingua nella storia d’Italia dai neoclassici Le installazioni accostano alla letteratura del celebri frasi dei padri della nuovo Stato. patria a passi del diario di uno All’uscita del museo l’Istituto sconosciuto garibaldino. Luce ha collocato sce è un gigantesco monumento in gesso, una serie di video-installazioni proiettate commissionato allo scultore Vito Pardo a rotazione nei diversi giorni della setper celebrare la fondamentale vittoria del timana, fra cui spicca il film Gloria. La 44 • n. 3, settembre-dicembre 2010 Grande Guerra 1915-1918 (1934), realizzato unendo pellicole originali a materiali provenienti dall’archivio dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano. Oltre all’esposizione permanente e alle mostre temporanee, il Museo Centrale del Risorgimento al Vittoriano propone, in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, un percorso dedicato ai giovani uomini e donne che hanno lottato e si sono spesso sacrificati perché credevano in una patria italiana. La mostra, intitolata Gioventù Ribelle. L’Italia del Risorgimento (dal 4 novembre al 18 dicembre 2010), sembra pensata in modo tale da stimolare uno spontaneo parallelismo tra i giovani protagonisti dell’epopea risorgimentale e i giovani italiani d’oggi. Nelle due sezioni Morire a vent’anni e Amabili resti la colonna sonora è del maestro Giovanni Allevi, le video-installazioni accostano attori italiani emergenti a documentari dell’Istituto Luce e celebri frasi dei padri della patria a passi del diario di uno sconosciuto durante la spedizione dei Mille. Tra biografie e fotografie di pensatori, patrioti, uomini e donne come Luciano Manara, Ippolito Nievo, Nino Bixio, Carlo Pisacane, Benedetto Cairoli, la Contessa di Castiglione, Colomba Antonetti e molti altri, colpiscono molte citazioni: “Fratelli d’Italia quanti siete dalle Alpi sino a Spartivento!”, “Ogni speranza sta in noi, in noi soli”, “È giunto finalmente il giorno in cui la patria deve riconoscere quanto valgono i suoi figli, in cui ogni italiano dev’essere un eroe o morire dal rossore”. Sono parole coraggiose, eroiche, forse troppo retoriche per le disincantate orecchie di molti giovani. Ma queste parole scritte dai ventenni di centocinquanta anni fa hanno il merito di mettere noi ventenni di oggi di fronte a un progetto che esisteva nelle loro menti e che ha preso corpo per diventare l’Italia. Lasciare da parte per un’ora il dibattito politico, la congiuntura economica e le tensioni sociali odierne per cercare di comprendere e di rinvigorire il senso di quel progetto farebbe bene a ogni italiano. Il centocinquantesimo anniversario dell’unità politica può offrirne il destro. 150 anni di Unità d’Italia Expo a Milano Una sfida per il futuro Dopo più di cent’anni dall’Esposizione Internazionale sui trasporti, l’Expo torna a Milano. “Feeding the planet, energy for life”: il capoluogo lombardo ha scelto la qualità e la sicurezza alimentare come tema dell’evento. Foto: iStockphoto.com/lucapatrone di Elena Gambaro Nei primi anni del secolo scorso Milano attraversava una florida fase di sviluppo: vari istituti di credito aprirono le proprie succursali nella città, intensificando la loro azione propulsiva nel sistema economico e, accanto alle molte nuove imprese che sorsero, quelle già esistenti consolidarono la loro posizione. In questo clima, dal 28 aprile all’11 novembre 1906 si svolse nel capoluogo lombardo l’Esposizione internazionale associata al completamento del traforo alpino del Sempione. In realtà inizialmente si era pensato a una mostra sui mezzi di trasporto per acqua; il cambiamento da un argomento specifico al tema generale dei trasporti fece virare anche il carattere dell’Esposizione, che assunse toni più universali per durata, numero di nazioni coinvolte, estensione (l’area espositiva copriva circa 28 ettari). “Intorno a questo formidabile centro di attività che è l’Esposizione si muovono a migliaia interessati, curiosi e studiosi, […] un centinaio di congressi si svolge nella grande occasione destinata a diven- regolare la frequenza e la qualità di tutte le esposizioni internazionali di natura non commerciale, organizzate ufficialmente da nazioni sovrane. Il Bie analizza tutte le candidature, verificandone l’aderenza ai grandi valori che si intendono promuovere attraverso un Expo, come la difesa della vita e la condivisione di una conoscenza universale, e decreta il paese vincitore. Il 31 marzo 2008 il Bie ha scelto Milano come sede dell’Expo Universale del 2015 con 21 voti di scarto sulla turca Smirne. L’organizzazione dell’Expo sarà un banco di prova importantissimo per verificare la capacità dell’Italia di tornare attrattiva in una dimensione internazionale. Feeding the planet, energy for life: questo è il tema generale dell’Expo 2015. La sicurezza e la qualità alimentare per uno sviluppo sostenibile del pianeta sono poi declinate secondo ulteriori sottotemi, come “Innovazione nella filiera alimentare” e “Alimentazione per migliori stili di vita”. L’Italia ha un’apprezzata e conosciuta tradizione alimentare; il tema scelto è perfettamente in linea con gli standard qualitativi e quantitativi che il comparto italiano del cibo ha raggiunto. I temi di lavoro e dibattito riguarderanno anche la prevenzione delle grandi malattie sociali e la riduzione dell’alto numero di persone che ancora oggi soffre la fame, la sete e la malnutrizione, in linea con alcuni degli obiettivi di sviluppo del millennio promossi dalle Nazioni Unite. Da un punto di vista organizzativo, ogni Expo ha esigenze funzionali connesse con il territorio ospitante ed è fondamen- tare leggendaria nella vita di Milano, per la sua speciale grandiosità”. Questa frase, tratta dal volume Milano nel 1906, edito a cura dell’amministrazione municipale di Milano, ben rende le grandi speranze che gli organizzatori nutrivano nei confronti di questo evento all’alba della sua Il 31 marzo 2008 il Bureau inaugurazione. International des Expositions ha Speranze quanscelto Milano come sede dell’Expo tomeno fondate poiché si calcola 2015. che i visitatori tale concretizzare senza tradire la proposta all’epoca furono circa 10 milioni. A cento anni dall’Esposizione del progettuale e il valore ideale. Interessanti 1906, è nata a fine ottobre 2006 la sfida or- sono le guide alle opportunità, come Expo ganizzativa per riportare l’Expo del 2015 2015 edita dal Gruppo 24 Ore, che fornisce in Italia e a Milano. Alla presentazione risposte ai quesiti e alle curiosità sul prodel dossier di candidatura al Bie (Bureau getto. Non sono mancati dubbi e dissidi, International des Expositions) sono segui- ma il 23 novembre 2010, con l’approvate missioni all’estero per convincere altre zione del dossier di registrazione, Milano nazioni ad appoggiare il progetto e forum è divenuta ufficialmente la sede dell’Expo tematici per approfondire l’argomento 2015, un evento che, se ben sfruttato, pogenerale. Il Bie è il comitato, cui aderi- trà rafforzare la posizione del capoluogo scono attualmente 157 paesi, preposto a lombardo e dell’Italia nel mondo. panorama per i giovani • 45 150 anni di Unità d’Italia Petrolio e assenzio Quando la requisitoria si fa poetica e il dissenso è una cifra stilistica. di Giuseppe Fasanella Petrolio e assenzio. La ribellione in versi (1870-1900) è un bel libro, pubblicato da poco da Salerno nella collana Faville, a cura di Giuseppe Iannaccone, docente di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università di Roma Tre. Si tratta di una sorprendente silloge di autori normalmente ignorati dalla critica ufficiale, esponenti di una generazione di artisti arrabbiati, nell’Italia del secondo Ottocento. Normalmente nelle antologie letterarie compare soltanto l’esaltazione più o meno pomposa delle battaglie di quegli anni gloriosi, o tomi dall’intento pedagogico, come le pagine deamicisiane di Cuore. Ebbene, grazie alle ricerche di Iannaccone, apprendiamo che non c’è solo questo: ci troviamo infatti dinanzi una ridda di poeti che espressero una profonda insoddisfazione per la realtà politica, sociale ed economica scaturita dal Risorgimento. “Pur odio, e fortemente odio, ed anèlo / A la riscossa e ho fretta… / Come aspiran le pie anime al cielo, / L’aspiro a te, santissima Vendetta!”, scrive per esempio Giacinto Stiavelli nella sua Invettiva. Evidentemente non è rimasto molto dello slancio di gioia sincera e immediata che illuminava la canzone del Monti Per la 46 • n. 3, settembre-dicembre 2010 liberazione d’Italia: la musicalità e la compostezza formale dei tempi passati non hanno senso per i ribelli e per il loro impeto. Dall’insofferenza contro la mediocrità della borghesia (ma anche contro un’unificazione del paese realizzata tenendo in poco o nessun conto il contesto e i disagi sociali) germina la rivolta di molti scrittori, che si muovono tra forme di populismo romantico alla Victor Hugo e classicismo alla maniera di Carducci. In verità la matrice storica fa semplicemente da collante a un gruppo tutt’altro che omogeneo di autori, alcuni semplici bestemmiatori, altri verseggiatori improvvisati o intellettuali della provincia, altri ancora veri e grandi poeti. Già il titolo della raccolta, ispirato a una poesia di Domenico Milelli, lascia presagire il contenuto: il petrolio richiama alla memoria la leggenda delle pétroleuses della Comune di Parigi; l’assenzio il liquore dei poeti maledetti francesi. Una letteratura, dunque, impegnata e ribelle, che annovera una copiosa schiera di poeti, dalla produzione rovente e accanita. “All’odio affilo, come lama, il verso”, dice Guarnerio (Recto), mentre Lorenzo Stecchetti tuona contro gli aguzzini di oggi: “Non sperate pietà dunque ne’l santo / giorno de l’ira eterna. / Trop- po, dinanzi a voi, troppo abbiam pianto” (Iustitia). Il canone stilistico che potremmo definire dell’“enfasi dell’invettiva” raccoglie in realtà una vera e propria galleria di poeti: dai satanici Carducci e Rapisardi a Giovanni Pascoli, colto prima che inventasse la sua poetica del fanciullino, passando per Filippo Turati e Ada Negri, molto prima che diventasse la sola donna dell’Accademia mussoliniana. Ricordiamo ancora, tra i meno noti, gli scapigliati Antonio Ghislanzoni, quando non scriveva libretti d’opera, e Ferdinando Fontana, insieme ai veristi come Olindo Guerrieri. Troviamo anche, in Petrolio e assenzio, un folto gruppo di anticlericali bastardi e bestemmiatori, che scagliandosi contro la Chiesa inneggiano a Satana o a Epicuro. Non si tratta – è importante sottolinearlo – di una contestazione circoscritta a poche regioni. Troviamo infatti poeti del Nord, testimoni di una spietata società industriale, e letterati del Sud, spettatori di una cruda realtà contadina: è un vero continente sommerso, testimonianza di un’Italia asfittica e dura, che poco aveva da spartire con quella sognata da Mameli e dai grandi patrioti idealisti. Nel verso non c’è spazio per le delicatezze. Ci sono solo il risentimento e la rabbia riassunti nei versi di Girolamo Ragusa Moleti, che Benedetto Croce ironicamente definì “ribelle dei ribelli”: “Addio, fiori, acque lucenti, / Carezzevoli all’orecchio, / Addio, valli, aeree cime; / Come groppo di serpenti / Vo’ lanciar nel mondo vecchio / Nuovamente le mie rime” (Congedo). Il mio paese Il mio paese è fatto di sassi che scivolano fra l’onde, sgretolati in sabbia a formare coste nuove. È terra rossa mischiata a neve che non si scioglie in un istante, lasciando una goccia calda d’acqua là dove prima era il gelo. Il mio paese è fatto d’indifferenza e banalità, unite al silenzio di chi non sente il mare gemere e urlare, né il terremoto spaccare la terra senza che i lembi si possano unire. È terra dove l’argento compra le emozioni richiudendole dietro fredde pareti, oltre le quali c’è il nulla. E nulla fa più rumore qui. Ma se a una parola o un canto se a un sasso un altro se a un’onda la sua eco nel mare s’aggiunge, nuova voce allora sfiderà l’orizzonte. Selene Favuzzi post scripta Per l’Unità d’Italia I l 150° Natale della nostra Unità politica è giustificazione sufficiente per dare uno sguardo, a volo d’uccello, alle ragioni per le quali gli Italiani si sentano così poco fratelli, sebbene il canto di Mameli, divenuto nell’Italia repubblicana Inno Nazionale (provvisorio…), si apra con l’invocazione: “Fratelli d’Italia”. Prima, però, vorrei rintracciare concetti come quelli di “nazione” e di “patria”, che sono fondamentali nella mistica di ogni risorgimento. Con la fine dell’era napoleonica e con la restaurazione decretata a Vienna, l’idea di ottenere una Costituzione e di liberarsi da prìncipi stranieri fomentò moti insurrezionali nel 1821, soprattutto in Piemonte e a Napoli. Ebbene, annotava un grande poeta e pensatore, Giacomo Leopardi, nel suo Zibaldone di pensieri il 7 novembre 1821: “l’Italia … non è neppure una nazione, né una patria”. Ed egli riteneva che emblema di una nazione fosse una civiltà, “un temperamento della natura colla ragione, dove quella cioè la natura abbia la maggior parte” (7 giugno 1820), ravvisando così in essa il fulcro dei caratteri identitari. “E in genere – precisava – si può dire che la tendenza dello spirito moderno è di ridurre tutto il mondo una nazione, e tutte le nazioni una sola persona”. Tanto che “[u]na volta le nazioni cercavano di superar le altre, ora cercano di somigliarle, e non sono mai così superbe come quando credono di esserci riuscite” (3 luglio 1820). La globalizzazione, apportatrice di benessere, anche se non per tutti, certamente sfuma le identità e omologa i comportamenti. Quanto alla patria, seguendo Sallustio che nella scala dei valori pone dapprima le ricchezze, quindi, in ordine ascendente, l’onore, la gloria, la libertà e finalmente la patria, Leopardi annota con pessimistica tristezza che volendo usare la figura retorica della gradazione “si disporrebbero le parole al rovescio: prima la patria, che nessuno ha, ed è un puro nome”. Mentre per “le ricchezze […] onore, gloria, libertà, patria e Dio, tutto si sacrifica e s’ha per nulla” (4 febbraio 1821). Non essendo questa la sede per approfondimenti storici non ricercherò altri filoni di pensiero, ma mi limiterò a richiamare perché il Risorgimento e l’Unità politica siano ancora così controversi. A mio avviso, nessun Paese, nessuna Nazione, nessuna Civiltà, come nessuna Religione può vivere e svilupparsi senza miti; solo questi ultimi sono in grado di creare un’identità, talvolta fantastica e non necessariamente storicamente fondata, nella quale le genti si riconoscono e alla quale contribuiscono le arti, la letteratura, oggi la comunicazione con i suoi multiformi canali. E il mito, fabbrica di eroi, si rigenera sempre nel rito. Ebbene, lo spirito critico e beffardo, spesso anarchico, degli italiani – ancor pregni dell’oraziano acetum italicum – tende a sfatare il mito, a ridimensionare gli eroi, a interpretare il rito come inutile cerimonia. Sono decine e decine le pubblicazioni – scrive Ernesto Galli della Loggia – che negli ultimi tempi e in misura crescente all’avvicinarsi del sesquicentenario hanno rivangato episodi non proprio commendevoli della lotta per raggiungere l’unità d’Italia, tranciando giudizi sprezzanti, inappellabili su uomini e avvenimenti. La critica al Risorgimento non è di oggi e nacque con l’Unità, poiché quest’ultima, realizzatasi nella direzione monarchica e centralista, suscitò la reazione di quanti si erano battuti per un’Italia repubblicana o l’avevano pensata federale. D’altra parte, tutte le culture politiche del Novecento che si opponevano alla tradizione cavourriana e sabauda, dal socialismo al cattolicesimo politico, dall’azionismo al comunismo gramsciano, hanno letto e riletto criticamente il Risorgimento, senza mai arrivare a mettere in dubbio, però, il valore della raggiunta Unità. Ciò è avvenuto a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo, riscoprendo e rivalutando la storica divisione tra Nord e Sud. Se il Nord è stato il primo a esprimere propositi secessionisti, temporaneamente sopiti da un laborioso processo di federalizzazione, oggi non mancano imitatori anche nel Sud e particolarmente in Sicilia, una regione da sempre inquieta sotto questo profilo… È l’allentamento del sentimento unitario una peculiarità del nostro Paese? Ebbene, no. È una pulsione anche più forte in Belgio tra le Fiandre e la Vallonia ed è presente nel Regno Unito tra Scozia e Inghilterra, in Spagna tra Catalogna e resto del paese. Quali sono le ragioni che spiegano questa tendenza alla frammentazione nell’Europa occidentale? Al di là di fattori idiosincratici in questa o quella regione, ne vedo tre: a) il lungo periodo di pace che ha risvegliato antiche tensioni, sopite nei periodi di guerra per fronteggiare il nemico; b) la liberalizzazione dei commerci, che ha fatto venire meno la coincidenza del mercato con lo stato; c) l’affievolita solidarietà delle regioni ricche, non più disposte a sovvenire quelle povere o meno intraprendenti. Dobbiamo rassegnarci a questa deriva verso la frammentazione? Certamente no, anche perché il posto dell’Italia nei vari consessi che tentano di governare questo mondo in continua evoluzione politica ed economica è frutto anche della nostra dimensione demografica e territoriale, che già si sta riducendo precipitosamente in termini relativi con l’emergere di giganti come la Cina, l’India o il Brasile… Tuttavia, per evitare quella deriva è necessario che il patto tra il Nord e il Sud d’Italia venga rifondato. A ciò può provvedere solo una forza politica illuminata o almeno consapevole dei dilemmi esistenziali che il nostro Paese deve affrontare e risolvere. Perciò, il mio augurio di cittadino per il 2011 è che questa palingenesi si produca senza ulteriori, pericolosi ritardi. Viva l’Italia! Mario Sarcinelli panorama per i giovani • 47 incontri Il futuro Daldella Collegio terza età Inaugurazione dell’anno accademico del Collegio Il 24 novembre il Prof. Enrico Decleva, Rettore della Statale di Milano e Presidente della CRUI, ha inaugurato con la sua prolusione l’anno accademico 2010/2011 del Collegio “Lamaro Pozzani”. Tutti gli incontri del Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” di questo periodo. Per maggiori informazioni: www.collegiocavalieri.it 04.10.10. La riforma dell’Università A colloquio con il Prof. Gian Luigi Tosato, Presidente della Commissione per le Attività di formazione dei Cavalieri del Lavoro. 14.10.10. Ambiente e cervello Il prof. Lamberto Maffei, Presidente dell’Accademia dei Lincei, spiega come l’ambiente influenza la struttura cerebrale. 18.10.10. Morire per le idee Roberto Carnero, laureato del Collegio, racconta Pier Paolo Pasolini. 04.11.10. Procter&Gamble Alcuni laureati del Collegio e la dottoressa Cinzia Angeli incontrano gli studenti, descrivendo attività e struttura di un’azienda leader. La cerimonia del 24 novembre è stata aperta dal Presidente della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro Benito Benedini, che ha rivolto il suo saluto ai partecipanti all’evento e ha poi illustrato le principali attività del Collegio, i criteri di selezione e le ragioni che hanno ispirato la scelta dei Cavalieri del Lavoro di investire nella formazione di eccellenza. Il prof. Gian Luigi Tosato, Presidente della Commissione per le attività di formazione della Federazione, ha quindi messo in luce come il nostro Collegio si caratterizzi per l’attenzione ai valori che sono alla base della cultura d’impresa. Il prof. Tosato ha sottolineato anche l’importanza dei programmi di collaborazione con università e altre istituzioni internazionali, che è intenzione della Federazione potenziare nei prossimi anni: la scelta di molti dei nostri giovani di trascorrere almeno un periodo all’estero non va intesa di per sé come un fatto negativo, a condizione che l’Italia sappia dimostrare a sua volta una capacità di “attrazione” dei giovani più meritevoli degli altri paesi. La prolusione è stata tenuta dal professor Enrico Decleva, Presidente della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e Rettore dell’Università degli Studi di Milano. Dopo aver analizzato le motivazioni di base del decreto Gelmini, il prof. Decleva ha centrato il suo intervento sul percorso storico dell’università italia48 • n. 3, settembre-dicembre 2010 Il Prof. Decleva (Presidente della CRUI), il Presidente della Federazione Benito Benedini e il Prof. Gian Luigi Tosato (Presidente della Commissione per le Attività di formazione dei Cavalieri del Lavoro) consegnano la medaglia d’oro del Collegio a Salvatore Scalzo, uno dei nuovi laureati. na, dal decennio che ha seguito l’Unificazione ad oggi, individuando alcuni punti di svolta cruciali nella definizione dell’attuale sistema. In particolare, ha evidenziato come l’abuso dell’autonomia concessa ai singoli atenei e lo spreco di risorse (proliferazione di sedi distaccate e corsi di laurea) abbiano minato una struttura di base sostanzialmente sana e produttiva. A proposito dell’internazionalizzazione, il Presidente della CRUI ha rimarcato come proprio il fatto che giovani laureati italiani decidano di mettere il loro patrimonio di conoscenze e capacità al servizio di un altro paese dimostri che la nostra università è ancora in grado di formare personale altamente qualificato, pur non riuscendo poi a offrire opportunità paragonabili a quelle degli altri paesi. Il pensiero finale è stato ancora per la riforma: un testo certamente perfettibile, ma senza il quale l’università italiana si troverebbe a dover affrontare problemi ancora maggiori. La cerimonia si è conclusa con la tradizionale consegna delle medaglie d’oro ai laureati del Collegio e con la presentazione delle matricole. 05.11.10. Visita a Montecitorio Giacomo Lasorella, laureato del Collegio e capo del servizio Assemblea della Camera, accompagna le matricole in visita a Montecitorio. 11.11.10. La crisi economica Alberto Quadrio Curzio, Vicepresidente dell’Accademia dei Lincei, spiega le dinamiche della crisi economica internazionale. 15.11.10. Immigrazione (1) Incontro con Padre Giulio Cipollone (Pontificia Università Gregoriana), dedicato al tema dell’immigrazione. 15.11.10. Impresa e cultura Il Cavaliere del Lavoro Paola Santarelli racconta la sua esperienza imprenditoriale e l’impegno per la cultura. Il dott. Paolo Vitellozzi ha chiuso con una lezione sulla glittica (cioè l’incisione di pietre dure) nel mondo antico. 22.11.10. Immigrazione (2) Notevole risorsa o aumento di costi? Un incontro con l’On. Isabella Bertolini. 02.12.10. Immigrazione (3) Continua il ciclo di incontri sull’immigrazione con Qorbanali Esmaeli, Presidente dell’Associazione culturale Afghani in Italia. 06.12.10. Pro e contro del nucleare Energia e sostenibilità nell’incontro con Bruno D’Onghia, Presidente di Edf Italia. 14.12.10. Ricerca e innovazione nel sistema pubblico Incontro con due laureati: Paolo Occhialini (Coordinatore delle attività del Distretto tecnologico delle Bioscienze nel Lazio) e Sergio Talamo (giornalista professionista). www.cavalieridellavoro.it Notizie e informazioni aggiornate settimanalmente I Cavalieri Un archivio con l’elenco di tutti i Cavalieri del Lavoro nominati dal 1901 a oggi e più di 550 schede biografiche costantemente aggiornate La Federazione Che cos’è la Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro, la composizione degli organi, lo statuto e le schede di tutti i presidenti I Gruppi Le pagine dei Gruppi regionali, con news, eventi e tutte le informazioni più richieste Le attività Gli obiettivi della Federazione, la tutela dell’ordine, i premi per gli studenti e i convegni Il Collegio Il Collegio Universitario “Lamaro-Pozzani” di Roma e i nostri studenti di eccellenza Le pubblicazioni I volumi e le collane pubblicati dalla Federazione, la rivista “Panorama per i Giovani” e tutti gli indici di “Civiltà del Lavoro” L’onorificenza La nascita e l’evoluzione dell’Ordine al Merito del Lavoro, le leggi e le procedure di selezione La Storia Tutte le informazioni su più di cento anni di storia ...e inoltre news e gallerie fotografiche sulla vita della Federazione. È QUANDO TI SENTI PICCOLO CHE SAI DI ESSERE DIVENTATO GRANDE. A volte gli uomini riescono a creare qualcosa più grande di loro. Qualcosa che prima non c’era. È questo che noi intendiamo per innovazione ed è in questo che noi crediamo. Una visione che ci ha fatto investire nel cambiamento tecnologico sempre e solo con l’obiettivo di migliorare il valore di ogni nostra singola produzione. È questo pensiero che ci ha fatto acquistare per primi in Italia impianti come la rotativa Heidelberg M600 B24. O che oggi, per primi in Europa, ci ha fatto introdurre 2 rotative da 32 pagine Roto-Offset Komori, 64 pagine-versione duplex, così da poter soddisfare ancora più puntualmente ogni necessità di stampa di bassa, media e alta tiratura. Se crediamo nell’importanza dell’innovazione, infatti, è perché pensiamo che non ci siano piccole cose di poca importanza. L’etichetta di una lattina di pomodori pelati, quella di un cibo per gatti o quella di un’acqua minerale, un catalogo o un quotidiano, un magazine o un volantone con le offerte della settimana del supermercato, tutto va pensato in grande. È come conseguenza di questa visione che i nostri prodotti sono arrivati in 10 paesi nel mondo, che il livello di fidelizzazione dei nostri clienti è al 90% o che il nostro fatturato si è triplicato. Perché la grandezza è qualcosa che si crea guardando verso l’alto. Mai dall’alto in basso.