Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro
panorama
per i giovani
Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - POSTA TARGET CREATIVE Aut. n. S/SA0188/2008 valida dal 01/07/2008 - anno XLIII - n. 3 - settembre-dicembre 2010
NASCITA DI UNA NAZIONE
Forma di Stato, lingua,
scuola, infrastrutture
LA PATRIA OGGI
Intervista a
Gian Antonio Stella
STORIA
Il Risorgimento,
la Chiesa, la Massoneria
1861-2011
1861-2011
150 anni di Unità d’Italia
Sommario
panorama
giovani
per i
n. 3, settembre-dicembre 2010
3. Editoriale
di Stefano Semplici
150 anni di Unità d’Italia
4. Come fare l’Italia?
Il dibattito piemontese sulle “forme dello
Stato” durante il Risorgimento.
33. La Società siciliana di storia patria
Breve storia di una delle più importanti
istituzioni culturali della Sicilia.
di Carmelo Di Natale
34. Risorgimento e Resurrezione
Il rapporto tra Stato italiano e Chiesa.
di Martina Zollo
di Donato Andrea Sambugaro
8. Il prestigio di vecchie capitali e il
sogno unitario
Dopo l’Unità le vecchie capitali sono
destinate a una lenta involuzione.
di Marianna Meriani
11. Italiani, popolo di poeti, santi ed
emigranti
Il fenomeno emigratorio italiano.
di Livio Ghilardi
14. “L’Italia è lunga”
Viaggio nella rete stradale e autostradale
italiana dal 1860 ad oggi.
di Claudia Macaluso
37. La massoneria che fece l’Italia
La storia delle logge si intreccia con
quella del Risorgimento.
PANORAMA PER I GIOVANI
Periodico della Federazione Nazionale
dei Cavalieri del Lavoro - Roma
Anno XLIII - n. 3 - settembre-dicembre 2010
Direttore responsabile
Mario Sarcinelli
di Donato Andrea Sambugaro
Direttore editoriale
38. Gli alpinisti tridentini
La lotta per l’identità e la montagna.
Stefano Semplici
di Aleksandra Arsova
Piero Polidoro
39. Solferino e la Croce Rossa
Le origini del Corpo nella Seconda
Guerra d’Indipendenza.
Redazione: Carmelo Di Natale, Selene
Favuzzi, Elisa Giacalone, Nicola Lattanzi,
Claudia Macaluso, Beatrice Poles, Maria
Teresa Rachetta, Gabriele Rosana,
Donato Andrea Sambugaro, Sara Simone,
Andrea Traficante.
di Angelo Filippi
40. O’ mare canta...
Libero Bovio e la poesia in musica.
di Selene Favuzzi
18. Fatta l’Italia, bisogna fare l’italiano
Le varietà regionali dell’italiano
prolungano la tradizione dei dialetti.
41. Tra Dolce Vita e geopolitica
Le Olimpiadi di Roma 1960.
di Francesca Parlati
di Carmelo Di Natale
21. Non è mai troppo tardi
La scuola italiana non ha mai smesso di
cambiare volto.
42. Sa vida pro patria
Storia della Brigata Sassari.
di Fabrizio Grussu
di Nicola Lattanzi
24. I Lincei di Sella
La cultura risorta nella neonata Italia.
43. Le tavolozze del Risorgimento
1861. I pittori del Risorgimento alle
Scuderie del Quirinale.
di Angela Rita Provenzano
di Francesca Parlati e Aleksandra Arsova
25. I Nobel scientifici italiani
44. Ritratto di una nazione unita
La mostra “Gioventù Ribelle” al Vittoriano.
di Damiano Ricceri
Un bersagliere
e altri patrioti
difendono la
Repubblica
Romana nel 1849
(monumento del
Gianicolo a Roma;
Foto:
iStockphoto/
PaoloGaetano).
Segretario di redazione
Direzione: presso il Collegio Universitario
“Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 00173 Roma, tel. 0672.971.322 - fax
0672.971.326
Internet: www.collegiocavalieri.it
E-mail: [email protected]
Agli autori spetta la responsabilità degli
articoli, alla direzione l’orientamento scientifico e culturale della Rivista. Né gli uni, né
l’altra impegnano la Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro.
Potete leggere tutti gli articoli della rivista
sul sito: www.collegiocavalieri.it
di Elena Martini
25. Fratelli d’Italia, fratelli di crimini
Dal brigantaggio alla mafia. Intervista ad
Antonio Nicaso.
45. Una sfida per il futuro
L’Expo Milano 2015.
a cura di Chiara Curia
di Elena Gambaro
28. Se le coccarde sono appuntate
sulle prime pagine dei quotidiani
“Corriere della Sera” e “Stampa”
celebrano l’Unità d’Italia.
46. Petrolio e assenzio
Un’interessante raccolta di autori ottocenteschi.
di Gabriele Rosana
di Giuseppe Fasanella
46. Il mio paese
di Selene Favuzzi
Autorizzazione:
29. Leggere, studiare e ricordare
Intervista a Gian Antonio Stella.
47. Post scripta
Tribunale di Roma n. 361/2008 del
13/10/2008
a cura di Gabriele Rosana
di Mario Sarcinelli
31. Deputazioni di storia patria e
società storiche
Come preservare la storia delle regioni.
Dal Collegio
di Giuseppe Grazioso
48. Incontri
Gli incontri del Collegio “Lamaro Pozzani”.
Scriveteci
Per commenti o per contattare gli autori degli
articoli, potete inviare una e-mail all’indirizzo:
[email protected]
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panorama
per i giovani
Collegio Universitario “Lamaro Pozzani” - Via Saredo 74 - Roma - Quadrimestrale - Tariffa R.O.C.: “Poste italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 N° 46) art. 1 comma 1, DCB Modena” - anno XLII - n. 3 - settembre-dicembre 2009
ECONOMIA
Il mercato
elettrico
in Italia
ECOLOGIA
Cosa fare per
consumare meno
MARCONI
L’inventore
imprenditore
AMBIENTE
AMBIENTE
Energia da risparmiare
panorama
per i giovani
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INTERVISTE
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Sul sito del Collegio Universitario “Lamaro Pozzani”
puoi leggere e scaricare tutti i numeri e gli articoli
di Panorama per i giovani
www.collegiocavalieri.it
Editoriale
L
a Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro ha Padoa Schioppa era una delle personalità che più hanno contripubblicato nel mese di novembre il Terzo Rapporto sugli buito a tenere alto il prestigio dell’Italia all’estero. Le tasse – disstudenti eccellenti. L’indagine, realizzata in collaborazio- se una volta in un’intervista – sono una cosa bellissima, perché
ne con l’Istituto Carlo Cattaneo, ha lo scopo di verificare consentono appunto a un paese di organizzarsi per il bene comuil profilo sociale e le scelte universitarie dei candidati al Premio ne, rendendo disponibili quei servizi che altrimenti resterebbero
“Alfieri del Lavoro”, cioè degli studenti segnalati ogni anno dal- privilegio di pochi e favorendo così la promozione della dignità
le scuole italiane per il loro eccezionale curriculum. Nella ricer- e delle capacità di tutti. Molti italiani sorrisero. Qualcuno riuscì
ca è stato inserito quest’anno un capitolo dedicato al sentimento perfino a scandalizzarsi...
di appartenenza e di orgoglio nazionale di questi giovani, che
Dagli studenti “capaci e meritevoli”, secondo l’attualissima
rappresentano idealmente i talenti, la capacità di impegno e le formula dell’articolo 34 della Costituzione, non viene solo la riconcrete speranze di successo dai quali continuerà a dipendere in chiesta di crescere di più. In loro è acuta anche la sensibilità per
primo luogo il futuro del paese. Siamo così in grado di mettere le forme delle relazioni sociali, per gli esiti della distribuzione del
a fuoco la percezione di aspetti cruciali dell’identità italiana in potere, per i cortocircuiti di modelli e stili educativi che hanno
un segmento qualitativamente molto significativo almeno delle messo quasi “fuori corso” il vocabolario del dovere, dell’integrità
nuove generazioni e mi sento di proporre i risultati come pre- personale, della capacità di interpretare e promuovere scopi conmessa e insieme chiave di lettura di luci e ombre del percorso divisi. Le differenze, in Italia, ci sono sempre state e anche gli
attraverso i 150 anni dell’unità nazionale al quale dedichiamo articoli che proponiamo cercano di non edulcorare la realtà di un
per intero questo fascicolo.
passato che in fondo solo da poco è diventato unitario. Già Dante
Gli studenti più bravi – questo è il primo dato – non si ver- conosceva e distingueva “l’arzanà de’ veneziani”, “la vipera che
gognano “nel complesso” di essere italiani. Su una scala da 1 ‘l melanese accampa”, il “bel paese là dove il sì suona”, il “gala 5, solo il 6% ha optato per i due punteggi
lo di Gallura”, anche se è altrettanto vero che
più bassi, mentre oltre il 20 per cento si è dipossiamo leggere e comprendere Dante ancora
chiarato “molto orgoglioso” del proprio pas- I giovani dimostrano quasi senza vocabolario e questa continuità è
saporto. Scomponendo questo sentimento nei di non voler cedere
sconosciuta a popoli che pure hanno una pludiversi fattori che, per dirla con Hegel, con- all’amarezza.
risecolare esperienza di unità politica. Forti di
tribuiscono al “patriottismo” come coscienza
questa consapevolezza, non dobbiamo eludere
Sono proprio gli
quotidianamente vissuta che il proprio bene
l’evidenza delle differenze che ci sollecitano
cresce insieme a quello di tutti gli altri citta- studenti eccellenti,
oggi a ripensare il nostro modello istituzionale
dini, la prospettiva – tuttavia – cambia. E non insomma, che ci
e che vanno affrontate con concretezza di medi poco. Sembra inevitabile concludere che i aiutano a sentirci
todo e di prospettive. In che modo, per esemgiovani amano la storia dalla quale veniamo un po’ più italiani.
pio, il federalismo potrà contribuire a ridurre
e le bellezze che abbiamo ricevuto, ma non
la forbice, impietosamente evidenziata dalle
sono affatto fieri di ciò che oggi, concretaindagini comparative svolte anche a livello
mente, siamo e facciamo. Di fronte all’arte, alla natura e alla cul- internazionale, nel reddito pro capite delle diverse regioni, nella
tura italiane si dichiara abbastanza o senz’altro molto orgoglioso qualità della filiera dell’istruzione, nell’accesso ai servizi sanitari?
circa il 90% del campione, ma siamo sotto il 25 per il benessere I lamenti sui mali dell’Italia sono una consunta litania e accompaeconomico e la capacità di organizzarsi per il bene comune e gnano ogni celebrazione che si rispetti: “Tutto cade. Ogni ideale
la percentuale crolla addirittura a poco più del 10% quando si svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clienchiede ai giovani cosa pensano del trattamento degli immigra- tele. Dal parlamento il triste spettacolo si ripercuote nel paese”.
ti. Sembra la fotografia di una generazione che davvero, anche Questo il giudizio di Giuseppe Prezzolini alla vigilia del cinquanquando scende in piazza per protestare contro una riforma del tenario del 1911. I giovani dell’indagine dei Cavalieri del Lavoro
sistema di governance dell’università, come è accaduto in questi dimostrano di non voler cedere a questa amarezza. Solo il 12%
ultimi mesi, lo fa per far sfilare davanti a tutti il proprio disagio si dichiara piuttosto o completamente sfiduciato nei confronti dei
di figli che rischiano di avere meno dei padri e che già pagano connazionali (e quasi l’80% ritiene un dovere la solidarietà fra le
un prezzo pesante per il basso livello di disponibilità al sacrificio aree più ricche del paese e quelle meno fortunate). In una ricerca
per la “cosa pubblica”, troppo spesso spacciato per quella vir- del 1999, curata sempre dall’Istituto Cattaneo su un campione più
tuosa arte d’arrangiarsi nella quale gli stessi giovani dichiarano vasto, la percentuale sfiorava il 25%. Sono proprio gli studenti
comunque di riconoscersi più che nella tradizione della nostra eccellenti, insomma, che ci aiutano a sentirci un po’ più italiani.
ricerca scientifica e perfino dei nostri successi sportivi. Tommaso
Stefano Semplici
panorama per i giovani
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Come fare l’Italia?
Le forme dello Stato
L’Italia è stata una monarchia, è una repubblica. Ma queste erano solo
due delle possibilità nel momento in cui il nostro Stato si formò, 150
anni fa. Analizziamo il dibattito piemontese sulle “forme dello Stato”
durante il Risorgimento e il tema del federalismo.
di Donato Andrea Sambugaro
Foto: iStockphoto/PaoloGaetano
“Ogni Stato d’Italia deve rimanere sovrano e libero in sé; [non si può] conservare
la libertà se il popolo non vi mette le mani
sopra, sì, ogni popolo in casa sua, sotto
la sicurezza e la vigilanza di tutti gli altri. Perché dunque l’efficacia della Costituente si faccia sentire, è necessario che
abbiano valore popolare i Parlamenti di
ogni Stato [all’interno dell’Italia]. [Poi] le
Sono, queste, parole di sconcertante
attualità, che a pieno titolo potrebbero
essere ascritte al dibattito presente sulle
questioni nazionali e internazionali. Potrebbero essere state pronunciate, verrebbe da ipotizzare, da un ideologo leghista
d’ampia cultura e vedute per quanto si dice
nella prima parte, circa la necessità di uno
Stato italiano federalista. O potrebbero
apparire le parole
di un lungimirante
“Le nazioni europee devono
politologo, attento
congiungersi... Avremo pace vera
alle questioni euquando avremo gli Stati Uniti
ropee, per quanto
si afferma nella
d’Europa” (C. Cattaneo).
seconda parte. Innazioni europee devono congiungersi, col vero, un’ipotetica Ansa che le riportasse
principio morale dell’eguaglianza e della recherebbe il nome di Carlo Cattaneo, e la
libertà. Avremo pace vera quando avremo data sarebbe il 1849. Quanto ho riportato
è estratto dal testo Dell’insurrezione di
gli Stati Uniti d’Europa”.
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n. 3, settembre-dicembre 2010
Milano nel 1848 e della successiva guerra, scritto dal patriota lombardo all’indomani del fallimento dei moti milanesi.
Le riflessioni che ho portato ad esempio ben evidenziano, nella pregnante attualità che le caratterizza, il fatto che il
dibattito sulle forme e sulle istituzioni politiche di uno “Stato italiano”, fosse esso,
com’era allora, ipotetico, o sia, com’è
oggi, realizzato compiutamente, non è
certo cosa recente, ma affonda le radici in
tempi ben lontani.
Tenteremo qui dunque di analizzare,
per sommi capi, quali correnti di pensiero si fronteggiavano in campo politico al
momento di quell’Unità da cui decorrono
i centocinquant’anni, osservando come la
soluzione poi realizzatasi, quella di uno
Stato nazionale, centralista e monarchico,
fosse solo una fra le molte possibili. Sarà
dunque di una qualche utilità ricostruire
lo scenario storico del dibattito, che – è
giusto ricordarlo – si svolse principalmente sotto l’azione e la spinta di intellettuali piemontesi e (in parte) lombardi. Ciò
non deve stupire, né si intende in questo
modo affermare un presunto “predominio
culturale” di questa zona d’Italia. È però
evidente che, se la parte nord-orientale
d’Italia era esclusa da questo dibattito in
quanto sottoposta a un dominio straniero,
oltretutto oltremodo repressivo verso le
spinte nazionaliste, altrettanto non poteva
che valere per l’Italia meridionale, lontana dalle novità culturali e dal fresco confronto della prima parte del XIX secolo,
politico quanto letterario.
Nel corso degli anni Quaranta, infatti,
in coincidenza con un relativo risveglio
dell’economia e della società civile, il di-
battito politico italiano si arricchì di nuo- Sopra: il monumento a Goffredo Mameli,
ve voci, con il prepotente e fondamentale patriota e autore del testo del nostro inno
nazionale, presso il cimitero del Verano
emergere di un orientamento moderato, (Roma).
che si distingueva nettamente sia dal tradizionalismo conservatore sia dal radicalismo rivoluzionario mazziniano, propo- vita che lo portò però anche a dover sopnendo soluzioni graduali alla questione portare forti contrasti per motivi politici,
italiana e tentando di conciliare la causa che lo costrinsero a vivere parte della sua
esistenza come esule, ramingo per l’Euliberale-patriottica con il fronte cattolico.
Nasce così la
corrente di penMentre il neoguelfismo, in
siero poi battezzaPiemonte, conosceva il maggior
ta neoguelfa, il cui
successo, in Lombardia nasceva
principale espoil federalismo di Cattaneo.
nente fu Vincenzo
Gioberti. Nato nel
1801 e ordinato sacerdote nel 1825, Gio- ropa (Parigi, Bruxelles…) e a morire in
berti si interessò alla politica del regno solitaria ma dignitosa povertà. Proprio
sabaudo pur conducendo una vita ritirata durante un soggiorno a Bruxelles scrisse,
e mai (si direbbe oggi) “sotto i riflettori”; nel 1843, il libro Del primato morale e
panorama per i giovani
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150 anni di Unità d’Italia
Foto: iStockphoto/HultonArchive
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n. 3, settembre-dicembre 2010
“slogan”, si macchiano di superficialità e
non osservano la teoria e il pensiero politico giobertiano nella sua ampia e più
completa accezione.
Partiamo prima di tutto da alcune osservazioni basilari. L’intero edificio concettuale di Gioberti
(si legga questa
mia affermazione
e quelle che seguiranno come riferite
principalmente alla
teoria politica così
come è espressa
nel Del primato) è
poco solido almeno
per ciò che riguarda
due aspetti, entrambi di carattere pragmatico e fattuale.
In primo luogo
Gioberti trascura il
problema della presenza austriaca nel
Lombardo-Veneto
– che sarebbe dunque rimasto escluso da qualsivoglia
progetto unitario
– ed è questo un
problema immenso
e molto grave, se
si pensa a quanto
le questioni delle
terre irredente peseranno sulla politica sabauda prima
Alcuni dei principali protagonisti del
Risorgimento. Dall’alto, in senso orario:
Vittorio Emanuele II, Giuseppe Mazzini e
Camillo Benso, Conte di Cavour. In basso
a sinistra: Giuseppe Garibaldi a Caprera in
una foto dell’epoca.
e italiana poi per lungo tempo, nel XIX
secolo come nel XX. In secondo luogo
Gioberti non è così chiaro (come ad alcuni
potrebbe apparire) su chi debba guidare e
reggere – e con che forma istituzionale –
l’ipotetico stato federale italiano, soprattutto se si pensa che nel momento in cui
Gioberti vergava le sue pagine infuocate
era Papa Gregorio XVI, sicché sarebbe
dovuto essere “presidente” dello stato un
Papa dichiaratamente reazionario e che,
nell’enciclica Mirari Vos, condannava
ogni sorta di pensiero liberale.
Vincenzo Gioberti, in ultima analisi,
viene visto come il “padre” del pensiero
federalista in Italia. Questo è, in parte,
innegabilmente vero, dato che l’elemento federalista rappresenta al contempo il
più netto e più innovativo della sua opera.
Pure, il federalismo giobertiano è caratterizzato da tratti marcatamente antistorici.
Non è il federalismo di un nuovo stato, di
una nuova epoca storica, di un rinnovamento. Guarda al passato più che al futuro. Il nome della corrente politica che
fonda e in cui ricade attinge per il nome
al repertorio medievale (“neoguelfismo”)
e la sua ipotesi è in fondo quella di una restaurazione di qualcosa (in prima istanza
il primato del cattolicesimo e del papato)
Foto: iStockphoto/PaoloGaetano
civile degli italiani. Il “primato” oggetto
dello studio di Gioberti era quello derivante all’Italia dall’essere sede del papato e
di averne condiviso nel corso dei secoli la
missione di civiltà. Proprio in ragione di
ciò Gioberti proponeva una confederazione degli stati italiani presieduta dal Papa e
un grande movimento politico, avente alla
base gli antichi valori cristiani, che avrebbe dovuto raccogliere varie forze partitiche per un progetto unitario: un “partito”
cattolico, italiano, nazionale e moderno.
Di qui i molti e diversi giudizi sulla sua
prospettiva. Gioberti, viene detto da molti,
è il padre dell’ideologia federalista. Gioberti predisse lucidamente l’avvento della
Democrazia Cristiana, si premurano di affermare altri. Gioberti, rilanciano altri ancora, voleva un Italia decentralizzata e che
avesse il federalismo (politico? fiscale?)
come nucleo fondante della sua identità.
È evidente e forse superfluo far notare
come queste siano semplificazioni, talvolta fatte in buona fede, talaltra realizzate
colpevolmente per “aggiudicarsi” illustri
precedenti storici. Senz’altro, sono tutte
osservazioni che, nella loro tensione allo
150 anni di Unità d’Italia
che è stato e che deve tornare a essere:
una ri-fondazione che apparirà alla prova
dei fatti una prospettiva sostanzialmente
antistorica.
I fermenti culturali e il dibattito politico all’interno del regno sabaudo non
sono ovviamente ridotti al solo Gioberti.
Negli stessi anni in cui il sacerdote torinese rifletteva sul “primato degli italiani”
un altro personaggio politico torinese, il
liberale Cesare Balbo, pubblicava il testo
Le speranze d’Italia, che in un certo qual
modo si poneva come “complementare”
all’opera di Gioberti, affrontando con
maggior attenzione e realismo pragmatico
i due temi da lui colpevolmente tralasciati
o, come si è visto, appena toccati. Balbo
auspicava un ritiro della presenza austriaca dal Lombardo-Veneto tramite mezzi
diplomatici e proponeva, come lo stesso
Gioberti, di puntare a un’unità d’Italia
realizzata su un modello federalista, vagheggiando una confederazione che avesse i suoi due poli nell’autorità morale del
papato e nella forza in armi del Regno di
Sardegna.
l’ipotesi di un’unificazione guidata da un
Piemonte ancora clericale e monarchico
e proponeva di puntare in prima istanza
sulle riforme politiche e sullo sviluppo dei
singoli Stati, uno sviluppo che interessasse
l’aspetto economico ma anche quello delle
infrastrutture, delle vie di comunicazione e
dell’istruzione pubblica. L’obbiettivo finale
che Cattaneo auspicava era invero alquanto
diverso da quello della frangia politica dei
moderati; egli pensava a una confederazione repubblicana che si rifacesse al modello
della Svizzera (paese in cui Cattaneo aveva
soggiornato a lungo) e degli Usa, che lasciasse ampi margini di autonomia locale e
che fosse premessa e base per la costituzione degli Stati Uniti d’Europa, cui accenna
nel testo da noi citato con una lungimiranza lucida ed esatta, sconosciuta agli altri
artefici della politica del suo tempo, come
la costituzione di un’Unione Europea sempre più ampia dimostra.
Proviamo a tirare le fila di questo rapido schizzo delle posizioni che erano in
campo negli anni in cui si preparò e realizzò l’unità d’Italia. Si è tentato di mostrare
quanto travagliata, complessa e precaria
sia stata non solo la “fondazione” di uno
Stato nazionale italiano, ma anche la sua
semplice “concezione”. Oggi il federalismo è tra i temi politici più sentiti e affrontati. Pure, se da un lato non si parla
più (coerentemente con il mutato contesto
storico) di un primato papale, dall’altro pa-
Un’ultima figura politica di rilievo nel
panorama piemontese, che merita di essere accennata perché attinente al discorso
svolto finora, è Massimo D’Azeglio, autore di un opuscolo (Gli ultimi casi di Romagna, 1846) in cui si criticavano aspramente
sia il malgoverno pontificio sia i tentativi
insurrezionali attuati nella penisola (specie a opera delle società segrete), additati
come inutili se non addirittura controproducenti. Si proponeva viceversa una via
fatta di riforme graduali, che lasciasse
però aperta la possibilità di un apporto
(principalmente inteso come militare) dei
re sabaudi. D’Azeglio è un personaggio
piuttosto singolare: fu intellettuale romantico, pittore e scrittore prima e più che politico, autore fra l’altro del celebre Ettore
Fieramosca, o la disfida di Barletta. Egli
ben sta a significare e a segnalare come il
dibattito di cui abbiamo appena cercato di
delineare i contorni fosse ben più
Travagliata, complessa, precaria
che una discusè stata non solo la fondazione
sione sterilmente,
dello Stato nazionale italiano,
astrattamente politica e a cui soli
ma anche la sua concezione.
si interessavano i
“politici di professione” (per usare un ter- iono uscite dal vocabolario della politica
mine moderno e gergale). Era, invero, un parole come “solidarietà, sviluppo comune
tema che stimolava le corde più profonde delle infrastrutture e del sistema dell’istrue reattive del sentire comune, abbraccian- zione”. Appaiono poco chiare le compedo una classe di intellettuali che andava tenze rispettive; i singoli soggetti politici,
ben oltre la mera classe politica.
nazionali e locali sembrano operare, più
Possiamo tornare a questo punto a Car- che in sinergica sintonia, con dissonante
lo Cattaneo, l’acuto uomo politico mene- incoerenza. Il federalismo, il riconoscighino che ci ha offerto la citazione dalla mento di particolarità e autonomie sono,
quale abbiamo preso le mosse. Negli anni l’abbiamo visto, istanze vecchie quanto e
in cui il neoguelfismo conosceva la mag- più del nostro Stato. Purché non divengano
gior diffusione e il maggior successo in particolarismi, dobbiamo comprendere che
Piemonte, in Lombardia nasceva, da un è necessario confrontarsi con esse, perché
retroterra sostanzialmente formatosi sulla l’Italia non muoia in silenzio, proprio mencultura illuminista, un “partito” federalista, tre tutt’attorno si sprecano i coriandoli, le
democratico e repubblicano il cui capofi- feste e i discorsi per festeggiare il suo cenla era appunto Cattaneo. Egli avversava tocinquantesimo anniversario.
panorama per i giovani
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Foto: iStockphoto/lrescigno
150 anni di Unità d’Italia
Il prestigio di vecchie capitali
e il sogno unitario
Dopo la costituzione dello Stato italiano le antiche capitali dei regni
pre-unitari sono destinate a una lenta e inesorabile involuzione
provincialista: evanescenti ombre alle periferie dell’Italia.
di Marianna Meriani
“Ogni collettività umana avente un riferimento comune e una propria cultura e una
propria tradizione storica, sviluppata su
un territorio geograficamente determinato
[…] costituisce un popolo. Ogni popolo ha
diritto d’identificarsi in quanto tale. Ogni
esterna e alla liberazione dal giogo straniero. È stata l’Italia tutta ad aver scosso le
sue dolenti membra, vessate ormai da tanti,
troppi secoli, dall’invasore straniero. È stato il ΧIΧ secolo il tempo dei grandi moti
liberali, che hanno visto una nazione non
ancora Stato in veste di attrice sul set
Solo il 17 marzo 1861 l’Italia può
della storia, nel diproclamarsi uno Stato unitario e
sperato desiderio
prepararsi ad affrontare le nuove
di unire quanto era
stato fino a quel
sfide della modernità.
momento artifipopolo ha diritto di affermarsi come Na- cialmente diviso, non potendo più mettere
zione”. È la dichiarazione dei diritti col- a tacere quello spirito di ricongiungimento
lettivi dei popoli, firmata a Barcellona nel che anelava a costituire l’Italia e lanciava
maggio del 1990, a positivizzare il diritto un triste grido all’invasore perché liberasse
naturale dei popoli all’autodeterminazione una terra che non gli apparteneva: “o stra8
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n. 3, settembre-dicembre 2010
nieri, nel proprio retaggio / torna Italia, e il
suo suolo riprende; / o stranieri strappate
le tende / da una terra che madre non v’è”
(Marzo 1821, A. Manzoni).
Solo il 17 marzo 1861 l’Italia può proclamarsi uno Stato unitario e prepararsi
così ad affrontare le nuove sfide della modernità, dovendo però far fronte a una serie
di problematiche derivanti dal repentino
mutamento istituzionale. Sicuramente non
possono essere passate sotto silenzio le
questioni connesse all’involuzione provincialista delle capitali dei regni pre-unitari,
anche se non manca qualche eccezione per
città come Torino, che, pur spodestata nel
1865 dall’elevazione di Firenze a capitale del neonato Regno d’Italia in attesa di
cedere lo scettro a Roma, vivrà comunque
un grande sviluppo futuro in quanto centro
propulsore del vecchio regno sabaudo, divenuto leader nella conduzione della politica italiana. È principalmente Napoli, che
del vecchio Regno delle Due Sicilie era
stata florida capitale, a divenire spettro di
se stessa, passando da un’antica condizione che l’aveva vista protagonista sulla scena economico-culturale a testimonianza
ancor viva di quella lacerazione profonda
tra un Nord all’avanguardia e un Sud og-
150 anni di Unità d’Italia
getto di disattenzioni, ma che il trasformismo rende appetibile. Non si può nascondere questa realtà, tanto che veementi sono
le accuse di intellettuali come Salvemini,
che negli Scritti sulla questione meridionale arriva a sostenere che “se dall’unità
il Mezzogiorno è stato rovinato, Napoli è
stata addirittura assassinata: ha perduto la
capitale, ha finito di essere il mercato del
Mezzogiorno, è caduta in una crisi che ha
tolto il pane a migliaia e migliaia di persone”. Nel saggio Nord e Sud dei primi anni
del Novecento, Francesco Nitti delinea con
non minore realismo le differenze tra la
Napoli post-unitaria e quell’antica panacea
del meridione, che, grazie agli stabilimenti serici e ai numerosi cotonifici, poteva
vantare la propria condizione di principale
esportatrice di prodotti tessili del Regno
delle Due Sicilie, seguita poi dalla vicina
Salerno, che aveva così pregiati lanifici
da essere stata ribattezzata “la Manchester
delle Due Sicilie”. Non meno sviluppato
era il settore dell’industria pesante grazie
al polo metalmeccanico di Pietrarsa, che
produceva materiali per navi e locomotive, divenendo col tempo la più grande
fabbrica di tutta la penisola. Il Regno delle Due Sicilie aveva poi, oltre alle risorse
campane, altri importanti centri propulsori
in territorio calabrese e siciliano, dove vi
erano rispettivamente rinomate fonderie
per la produzione della ghisa e fabbriche
per la lavorazione dello zolfo. Verosimile,
dunque, risulta il quadro tratteggiato da
Nitti, che presenta una stima precisa del
contributo portato da questo florido regno
alla ricchezza italiana, il cui patrimonio
ammontava a circa quattrocento milioni di
lire oro, contro i novanta del Granducato
di Toscana e dello stato pontificio e i soli
ventisette del Regno di Sardegna. Il regno
borbonico, pur apportando la più bassa
percentuale di debiti e la maggior ricchezza, deve coprire il ben più consistente
debito del regno sabaudo e sopportare la
ferita ancor più dolorosa della perdita della
propria leadership economica a causa di
un’industrializzazione volutamente realizzata nel Nord.
Non tutto però cambia, non si modifica però, la rinnovata legislazione penale: nel
quell’ingiusta stratificazione della società, 1786 la Toscana è il primo paese europeo
per la quale l’essere è definito dal posse- ad abolire la pena di morte e il 30 novemdere e l’acuta critica di Giuseppe Tomasi bre, giorno della promulgazione del nuovo
di Lampedusa, secondo la quale cambia codice penale, è diventata la data simbolo
tutto affinché nulla cambi, sicuramente contro la pena capitale (attualmente sono
rispecchia quella
cristallizzazione
Dopo l’Unità, Napoli, che era
sociale non affranstata la florida capitale del
catasi dal vecchio
Regno delle Due Sicilie, divenne
baronaggio. Quella “Babele della
lo spettro di se stessa.
storia” – come
usava definirla Stanislao Nievo – non rie- 141 i paesi che hanno stabilito, di diritto o
sce a sottrarsi agli artigli di una storia forse di fatto, di non eseguirla più). Lo stesso catroppo rapace e poco rispettosa delle sue risma, tuttavia, non caratterizza la politica
secolari tradizioni.
di Leopoldo II, teso a difendere le sorti del
Passando al caso toscano, invece, una suo trono più che il benessere del Granduserie di errori caratterizza la reggenza di cato: lega la sua politica alle sorti della doLeopoldo II, causando l’inesorabile de- minazione austriaca sul Lombardo-Veneto,
clino del Granducato, che sin dagli albori e, costretto ad una rovinosa fuga in seguito
della sua costituzione si era distinto per le alla costituzione della fragile Repubblica
esemplari novità in campo socio-politico, Toscana, proclamata il 15 febbraio 1850
ma che nel decennio pre-unitario non sa all’arrivo di Mazzini a Livorno e a congestire il repentino cambiamento istituzio- clusione dei moti indipendentisti, non ha
nale. La dinastia lorenese poteva vantare il coraggio di accettare l’invito sabaudo a
tra i suoi esponenti Leopoldo I, sovrano unirsi nella lotta contro l’Austria. Ineviilluminato che aveva retto le redini del tabile è l’abdicazione e la consegna della
Granducato nella seconda metà del ΧVIII propria terra ai Savoia, che nel febbraio
secolo e dato avvio a una serie di grandi ri- del 1860 procedono alla sua annessione
forme politico-economiche. Degne di nota al Regno di Sardegna. Anche la Toscana
erano state l’abolizione del datato sistema si avvia a divenire solo una provincia del
corporativo, l’eliminazione delle elevate futuro Regno d’Italia, a cui consegna una
tariffe doganali e la loro sostituzione con ricca tradizione politico-culturale. La terra
meno onerosi dazi protettivi, l’imposizio- di Dante e del Petrarca, la culla della lingua
ne diretta dei tributi e la predisposizione di italiana, la patria del riformismo illuminaun piano per la riduzione del debito pub- to non è sottratta agli errori della politica e
blico. La novità più significativa era stata, non esce indenne dagli inganni del potere.
Foto: iStockphoto/da-kuk
Con l’Unità d’Italia Napoli (nella pagina
precedente), cuore del Regno delle Due
Sicilie, perse lo status di capitale; lo
stesso destino toccò a Firenze (a destra),
ex capitale del Granducato di Toscana.
Firenze, però, fu capitale del Regno d’Italia
dal 1865 al 1871. Nella pagina successiva:
Torino, capitale del Regno di Sardegna, fu
capitale italiana dal 1861 al 1865.
panorama per i giovani
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9
150 anni di Unità d’Italia
Un’aria tutta particolare, invece, si respira in quel periodo nello Stato pontificio;
un periodo di grandi e profondi cambiamenti, che coincise con il lungo pontificato (1846-1878) di Pio IX. I due scettri del
potere sono destinati a dividersi nel nuovo
regno d’Italia, dove la sfera temporale può
essere gestita solo dall’autorità regia e al
pontefice è riservata la guida spirituale.
Questa rivoluzione non può essere accet-
il legittimo possesso universalmente riconosciuto”. Il Regno d’Italia diviene uno
“stato senz’anima” e dovranno passare
anni prima che Roma divenga una capitale
effettiva, che sappia assolvere al compito
di rappresentare la nuova istituzione e assumere il ruolo di faro dello stato-nazione.
Bisogna attendere più di mezzo secolo per
veder tramontare quell’ostilità resa manifesta nella questione romana e giungere a
un compromesso
che trova nei PatAnche la Toscana si avviò a
Lateranensi del
diventare una provincia del futuro ti1929
la sua più
Regno d’Italia, consegnandogli
completa concretizzazione.
una ricca tradizione culturale.
La storia è fatta
tata passivamente dal papa, che, dopo la di continui sviluppi e involuzioni, ma ciò
breccia di Porta Pia del 20 settembre del che non può essere passato sotto silenzio è
1870 e la successiva annessione dello Sta- il persistere dell’idea di nazione. Dopo 150
to pontificio al Regno d’Italia, riprende il anni dalla costituzione dell’Unità d’Italia
non expedit del 1868 e invita i cattolici ad non è più la questione romana a interessaastenersi dalla vita politica. Comincia in re le diatribe accademiche, è forse ancoquesti termini la nota “questione romana”, ra la questione meridionale a far sorgere
per la quale un papa, che si dichiara ostag- qualche interrogativo sulla gestione degli
gio del Regno, si ostina a non riconoscer- affari statali e a essere inevitabilmente
ne la legittimità e a ribadire quanto già af- strumentalizzata da una visione di corto
fermato nel 1850 in un accorato invito alle periodo della politica, dimentica dell’idea
potenze europee a intervenire in proprio d’Italia come luogo spirituale, come terra
aiuto: “domandiamo che sia mantenuto il madre, che ospita un popolo unito da una
sacro diritto del temporale dominio della ricca eredità di lingua, tradizioni e comuni
Santa Sede, del quale gode da tanti secoli ideali.
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n. 3, settembre-dicembre 2010
150 anni di Unità d’Italia
Italiani, popolo di poeti,
santi ed emigranti
A centocinquant’anni dall’Unità, occorre una riflessione condivisa sul
fenomeno emigratorio italiano, per affrontare al meglio le nuove sfide
socio-demografiche del Bel Paese.
di Livio Ghilardi
starsi. Esso assume semmai nuove forme
e riguarda diverse fasce della popolazione
italiana, mentre cresce, di converso, l’immigrazione verso l’Italia da parte, soprattutto, delle popolazioni di quei paesi che si
affacciano sul Mar Mediterraneo o la cui
economia è ancora fortemente arretrata.
Prima del 1861, gli Stati che di lì a
poco
sarebbero
stati
assorbiti
Dal 1861 ad oggi il numero di
dal Regno d’Itacittadini italiani che hanno
lia non subivano
lasciato la loro terra d’origine
flussi migratori di
livello significatiha superato i 30 milioni.
vo, anche a causa
mero di cittadini italiani che hanno lasciato delle politiche economiche da essi adotla loro terra d’origine verso altri paesi ha tate. Sebbene si sia erroneamente portati a
abbondantemente superato i 30 milioni. E pensare che l’emigrazione caratterizzasse
il fenomeno, sebbene notevolmente lonta- già allora il Sud (all’epoca riunito sotto il
no dai picchi numerici segnati nel primo Regno delle Due Sicilie), in realtà furono
decennio del XX secolo, non sembra arre- soprattutto gli stati della parte settentrio-
Foto: iStockphoto (empusa; craftvision)
L’emigrazione è da sempre un elemento
pressoché onnipresente nella storia dell’Italia unita. Sin dai suoi primissimi vagiti,
lo stato italiano si è misurato con questo
fenomeno, la cui rilevanza non è legata
esclusivamente all’ambito demografico,
ma anche e soprattutto alle evoluzioni economiche e sociali. Dal 1861 ad oggi, il nu-
nale della penisola a essere protagonisti
dei primi flussi migratori, rivolti in particolare verso la Francia, la Svizzera e il nascente stato tedesco, mentre nel Meridione
non vi erano movimenti degni di nota.
Con l’unificazione del Regno d’Italia
tra il 1861 e il 1870, e in particolare dal
1876, cominciarono i primi veri e propri
flussi migratori verso il resto d’Europa e
le Americhe. Ancora una volta, si trattò
di un fenomeno prevalentemente “settentrionale”: gli abitanti di Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Piemonte componevano il
47% degli italiani che a fine Ottocento abbandonarono il neonato regno alla ricerca
di migliori fortune, cercando di lasciarsi
alle spalle difficilissime condizioni economiche. Anche al Sud, tuttavia, dal 1880
iniziarono a profilarsi quelle dinamiche
che avrebbero raggiunto livelli altissimi
di lì a pochi decenni.
La motivazione principale di un fenomeno di tale portata va certamente ricercata negli sconvolgimenti economici, sociali e demografici che segnarono i primi
anni della storia dell’Italia unita. Sebbene
si fosse ormai formato lo Stato italiano
(non senza difficoltà e contrasti interni,
basti pensare al fenomeno del brigantaggio), il neonato regno era tuttavia privo di
unità economica. Lo sviluppo industriale
era solo agli albori e riguardava esclusiva-
panorama per i giovani
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11
150 anni di Unità d’Italia
mente il triangolo Torino-Milano-Genova,
mentre nel resto d’Italia predominava ancora un’economia agricola, quasi sempre
di sussistenza o legata alla preponderante
e ingombrante presenza di latifondisti. I
timidi passi avanti fatti a livello tecnologico e un deciso miglioramento produttivo non fecero altro che radicalizzare le
divisioni di un paese ancora poco unito,
creando contrasti e differenze sostanziali
fra le varie classi sociali e fra le diverse
aree del regno, nonché tra i diversi settori dell’economia italiana dell’epoca. Tale
crescita, inoltre, era del tutto incapace di
soddisfare il notevole incremento demografico che interessò il Regno d’Italia in
quegli anni. A una decisa diminuzione
della mortalità infantile non corrispose,
infatti, una riduzione della natalità, che
al contrario a fine Ottocento raggiunse
picchi altissimi. Venne così a crearsi una
disoccupazione crescente e fu proprio
una tale drammatica situazione, unita
alla speranza di trovare fortune migliori
all’estero, a spingere milioni di italiani ad
abbandonare il Bel Paese, quasi sempre
senza essere accompagnati da certezze o
da progetti lavorativi e di vita.
Tra le destinazioni più “gettonate”
dagli emigranti italiani di fine Ottocento vi furono le Americhe. I trasferimenti
transoceanici furono infatti favoriti dal
notevole sviluppo che ebbe la navigazione a vapore, soprattutto nei porti italiani più importanti, quali Napoli, Palermo e Genova. Grazie a tale crescita, si
ridussero abbondantemente i costi del
viaggio, nonché i tempi necessari per
attraversare l’Atlantico. Le Americhe,
inoltre, rappresentavano una grandissima attrattiva per i lavoratori italiani. Sia
negli Stati Uniti sia in Argentina e Brasile vi era un’amplissima richiesta di ma-
quella americana. Quest’ultima si ridusse in seguito alla Prima Guerra Mondiale soprattutto a causa delle prime norme
restrittive emanate dai quei paesi che
fino ad allora avevano accolto milioni
di migranti, non senza difficoltà e malumori. Spesso, infatti, gli italiani non
furono ben accetti nei paesi dove si recavano per cercare lavoro, come ha ben
dimostrato Gian Antonio Stella nel suo
bestseller L’orda. Quando gli albanesi
eravamo noi, edito nel 2002 da Rizzoli.
Nelle pagine di Stella è possibile ritrovare racconti di veri e propri linciaggi e
di altre drammatiche esperienze di tanti connazionali partiti alla ricerca di un
futuro migliore e vittime di soprusi o di
accuse giudiziarie ingiuste (basti pensare alla vicenda degli anarchici Sacco e
Vanzetti). Insomma: gli italiani hanno
vissuto sulla loro pelle quel vocabolario
della xenofobia che oggi, purtroppo, si
affaccia nel nostro paese nei confronti
di quei migranti che la fortuna vengono
a cercarla da noi. L’emigrazione americana giunse quasi a esaurirsi nel secondo dopoguerra, mentre quella europea
ebbe un enorme sviluppo. Privilegiate in
particolare Francia, Germania, Belgio e
Svizzera. È in questi paesi che si trovano
tutt’oggi le più grandi comunità di italiani all’estero, spesso riunite in nutrite
associazioni.
In un’analisi storico-demografica di
centocinquant’anni di storia italiana non
bisogna dimenticare i flussi migratori
interni, che hanno visto e vedono tuttora
tantissimi lavoratori e studenti lasciare le
regioni del Sud per quelle settentrionali.
Qui l’economia ha avuto uno sviluppo
molto maggiore rispetto a quella meridionale, la cui crescita è stata rallentata
da politiche assistenziali e dall’influenza
negativa della criminalità organizAlla fine dell’Ottocento la meta
zata. Nelle città
degli emigranti era l’America,
del Centro-Nord
ma nel secondo dopoguerra
oggi è possibile
incontrare
tandiventò l’Europa.
tissimi studenti
nodopera specializzata. Ma molti furono fuorisede che lasciano la terra d’origine
i nostri migranti anche verso l’Uruguay alla ricerca di maggiore organizzazione
e l’America centrale, così come verso universitaria o di migliori chance lavoraalcuni paesi dell’Africa settentrionale e tive. Emblematici rimangono i treni che,
le colonie italiane nel continente nero. carichi di studenti e lavoratori, percorroL’emigrazione verso l’Europa, invece, no l’asse Nord-Sud durante le vacanze
era ancora numericamente circoscritta natalizie, quando tutti i fuorisede fanno
alla Francia e di molto minore rispetto a ritorno a casa per trascorrere alcuni giorni
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n. 3, settembre-dicembre 2010
con la propria famiglia, nella propria terra, come ben descritto recentemente dal
giovane scrittore pugliese Mario Desiati
nel suo libro Foto di classe. U uagnon se
n’asciot, edito da Laterza.
Nell’Italia del XXI secolo il dato più
interessante a livello socio-demografico è
la cosiddetta “fuga dei cervelli”, ovvero
quel fenomeno che vede tanti, tantissimi
giovani di talento lasciare l’Italia verso paesi stranieri nei quali la ricerca è più finanziata e dove possono sentire maggiormente
ricompensato il proprio lavoro in termini
economici, di prestigio e di riconoscimento sociale. In un recente articolo di Rosaria Amato, pubblicato su “La Repubblica”
del 30 novembre 2010, è stato riportato un
dato preoccupante: negli ultimi vent’anni
l’Italia, anche a causa di politiche universitarie che non si sono rivelate abbastanza
efficaci, ha perso circa quattro miliardi di
euro in seguito alla fuga di giovani ricercatori all’estero (la cifra è stata calcolata
dall’Icom, Istituto per la Competitività,
in un’indagine commissionata dalla Fondazione Lilly e dalla Fondazione Cariplo,
tenendo conto di 456 brevetti a cui hanno
contribuito ricercatori italiani emigrati).
Foto: iStockphot/xlh1
150 anni di Unità d’Italia
La percezione che si ha è che l’Italia
sia un paese in vera e propria transizione
demografica, che sembra diventare sempre
più un “paese per vecchi”, se si considera
l’innalzamento dell’età media e soprattutto
il crollo radicale delle nascite che da anni
interessa le giovani coppie italiane, che
non sono mai state accompagnate da adeguate politiche di sostegno da parte dei vari
governi che si sono succeduti. È anche per
questo che l’Italia, dopo più di un secolo di
emigrazione e di sviluppo economico, ha
attirato negli ultimi vent’anni una massiccia immigrazione, ormai perennemente al
centro del dibattito politico, con proposte
di contenimento o di integrazione tutt’altro
che condivise tra gli esponenti dei partiti
e tra i cittadini, spesso non adeguatamente
informati in merito. Spesso, purtroppo, nel
rapportarsi agli stranieri che si trasferiscono nello stivale, gli italiani dimenticano la
loro esperienza secolare di emigranti e i
linciaggi subiti all’estero, generando quelle forme di xenofobia alle quali ho già accennato e che, sebbene espressione di una
piccola minoranza, lasciano sconcertati e
generano contraddittorie riflessioni nella
società civile.
In centocinquant’anni il Bel Paese, Sopra: Ellis Island, isola di fronte alla
terra di santi, poeti e navigatori, si è ca- città di New York, è stata fra la fine
dell’Ottocento e la metà del Novecento il
ratterizzato anche e soprattutto come principale punto d’arrivo degli emigranti
terra di emigranti, nelle forme più sva- che volevano raggiungere gli Stati Uniti.
riate e con le destinazioni più varie. Re- Oggi ospita il Museo dell’Immigrazione
centemente l’inaugurazione del Museo (sopra il titolo alcune delle valigie che vi
sono esposte).
dell’Emigrazione presso la gipsoteca del
Complesso Monumentale del Vittoriano
a Roma ha ulteriormente riaffermato l’at- lo Stato italiano, in primis negli organi
tualità del tema, con uno sguardo a 360 che lo rappresentano, avverta la necesgradi sul secolo e mezzo di fenomeni mi- sità di svolgere una profonda retrospetgratori che hanno visto l’Italia protago- tiva sull’esperienza emigratoria vissuta e
nista, nel bene e nel male, da una parte un’analisi accurata su quella immigratocon le storie di
successi lavoratiNegli ultimi vent’anni l’Italia
vi, fortune, riscatha perso più di quattro miliardi
to dalla povertà e
di euro per la fuga dei giovani
orgoglio italiano
e dall’altra con
ricercatori all’estero.
quelle di linciaggi, esecuzioni, razzismo e torti subiti per ria che oggigiorno vive. Occorre, indubcolpa della propria cittadinanza o del biamente, un’attenta e profonda riflesproprio aspetto fisico. La collaborazio- sione sul fenomeno migratorio, per non
ne all’allestimento della mostra da parte dimenticare chi siamo stati, cosa abbiadella Presidenza della Repubblica, della mo prodotto nel nostro paese e all’estero
Presidenza della Camera, del Ministero e ciò che abbiamo subito, ma soprattutdei Beni Culturali e del Ministero degli to per diventare cittadini migliori di un
Esteri è un segno tangibile di quanto mondo sempre più globalizzato.
panorama per i giovani
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150 anni di Unità d’Italia
“L’Italia è lunga”
ovvero un viaggio nella rete stradale e
autostradale italiana dal 1860 ad oggi
Foto: iStockphoto/labsas
L’unità nazionale passa anche attraverso la rete sempre più fitta di strade e
autostrade che, insieme con quella ferroviaria, ha accorciato le distanze fra
una città e l’altra dello stivale. La prima fase fu inevitabilmente quella della
costruzione. Oggi il problema principale è quello dell’ammodernamento
e della manutenzione.
di Claudia Macaluso
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n. 3, settembre-dicembre 2010
150 anni di Unità d’Italia
Ricordo che quando, da bambina, d’estate
passavo alcune settimane dai nonni in un
piccolo paese del centro della Sicilia, non
era raro ascoltare i racconti degli anziani
che rievocavano le loro esperienze trascorse e soprattutto i periodi passati nell’esercito, che spesso erano l’unica occasione
per loro di “vedere il mondo”. E se qualche
ragazzo passava, lo zaino in spalla, l’aria
abbattuta di chi parte per la leva (allora ancora obbligatoria), ecco fioccare gli auguri
e le domande, nonché l’inevitabile commento all’udire la destinazione: “Vai, vai...
ché l’Italia è lunga”. Questa “lunghezza”
dell’Italia è rimasta nella mia memoria e,
probabilmente accentuata dalla consapevolezza di vivere a una delle estremità di
questa lunga penisola, mi ha sempre accompagnata nei miei viaggi.
Certo lo spiccato sviluppo longitudinale
dello stivale non è l’unico mito che accompagna la storia dei trasporti italiani: le vicende di strade e autostrade, infatti, si sono intrecciate alla vita quotidiana come alla letteratura e, se non possiamo vantare leggende
come la route 66, di certo un mito nostrano
come l’autostrada Salerno-Reggio Calabria
fa ormai parte del patrimonio nazionale. Per
non parlare delle strade ferrate che, oltre a
essere fonte di ispirazione artistica (pensiamo a canzoni come Il fischio del vapore, La
locomotiva o a Conversazione in Sicilia di
Elio Vittorini, per metà ambientato in treno), hanno per anni trasportato i poveri del
meridione verso il Nord del paese, in cerca
di una vita più dignitosa. Addentriamoci,
dunque, in questa storia piena di fascino: la
storia delle strade italiane, che è storia del
paese e dei suoi cittadini.
istituito il Ministero dei Lavori Pubblici, si
iniziò il riordino delle strade ferrate e si stabilirono le regole in materia di espropriazione per cause di utilità pubblica. Nello
stesso anno le strade vennero classificate in
nazionali, provinciali, comunali e vicinali.
Fino al 1870, tuttavia, la realizzazione di un
efficiente e vasto sistema viario passò in secondo piano rispetto allo sviluppo della rete
ferroviaria nazionale, più che altro a causa
del pesante deficit di bilancio che non permetteva investimenti statali adeguati; infatti, fino a quando non furono i dirigenti delle
ferrovie stesse a domandare un maggiore
sviluppo della viabilità minore per agevolare i commerci, lo Stato scaricò sugli enti
locali l’onere della costruzione di nuove
strade e della manutenzione di quelle esistenti. Come possiamo immaginare, però,
nel neonato stato unitario province e comuni non avevano la forza economica per
adempiere a questo compito e lo sviluppo
della rete stradale ne risultò compromesso,
fino a una serie di provvedimenti (varati tra
il 1868 e il 1870) che posero le redini del
sistema viario di nuovo nelle mani del governo centrale, che sempre in quegli anni,
si incaricò anche dell’allacciamento dei sistemi stradali preunitari.
Il Novecento
Dopo questi primi incerti passi, la rete
stradale italiana raggiunse, nei primi anni
del Novecento, i 138.097 km, contro gli
89.765 km del 1864. I primi anni del Novecento videro anche l’adozione di una
politica detta di “collegamento”: venivano
individuati alcuni snodi principali, stazioni ferroviarie, porti postali e capoluoghi,
attorno ai quali costruire una rete stradale
a raggiera, che li collegasse tra loro e con
i comuni più isolati della penisola. Primo
esempio di politica dei trasporti autenticamente nazionale furono appunto le
leggi sul “collegamento” del 1904-5, che
portarono a uno sviluppo sostenuto della
Le origini
Nel 1861, all’indomani dell’Unità d’Italia,
le differenze economiche e culturali tra il
Nord e il Sud del paese si fanno evidenti
anche nella dotazione della rete stradale. Secondo i dati dell’Anas, infatti, nel
1864, mentre per
la Lombardia si
Nel 1864, mentre per la
contavano 6 km di
Lombardia si contavano 6 km
strada ogni 1.000
di strada ogni 1.000 abitanti, in
abitanti, in Campania se ne avevaCampania ce n’erano 0,8.
no 0,8 e nelle isole
solamente 0,2. Uno dei primi compiti del rete viaria. Quando, nel 1919, con l’anneonato governo italiano fu quindi quello nessione della Venezia Tridentina e della
di riordinare la rete stradale e muovere i Venezia Giulia, il patrimonio stradale itaprimi passi per uniformare la rete dei tra- liano si accrebbe di 4.000 km, la rete ne
sporti lungo la penisola: nel 1865 venne contava ormai ben 170.000.
panorama per i giovani
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Foto: iStockphoto (manichino; tommaso79)
150 anni di Unità d’Italia
Superati i primi anni del dopoguerra,
prese corpo, sull’onda di un rinnovato sviluppo economico, un progetto innovativo:
l’autostrada, ovvero “una nuova strada riservata esclusivamente al traffico a motore”. Come riporta l’Anas nei suoi archivi,
è nel 1922 che l’ing. Piero Puricelli elaborò il progetto dell’autostrada Milano-Laghi; il 21 settembre 1924 ne fu inaugurata
la tratta iniziale, la Milano-Varese. Con
l’avvento del fascismo, lo sviluppo della
rete stradale divenne un obiettivo prioritario del governo, anche per ragioni propagandistiche. Nel 1928 nasceva l’Aass,
Azienda autonoma statale della strada
(l’antenata dell’Anas, Azienda nazionale
autonoma delle strade). Lo sviluppo della
rete, invece, subiva una parziale battuta
Un treno ad alta velocità Freccia rossa
entra nella stazione di Milano Centrale. In
alto: un tratto autostradale in Abruzzo.
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n. 3, settembre-dicembre 2010
torizzazione di massa, gli italiani si sarebbero letteralmente riversati sulle strade?
Nel 1955 la Fiat presenta la 600, la prima
utilitaria dal prezzo contenuto. Nel 1956
la Piaggio produce il milionesimo esemplare della Vespa. Un anno dopo, è la volta della Fiat 500. Dal 1954 al 1964 le automobili passano da 342.000 a 4.670.000
e i motoveicoli da 700.000 a 4.300.000.
Non è un caso, perciò, se è proprio in questo periodo che si realizza un incremento
davvero epocale della rete autostradale:
dai 500 km di autostrade del 1941 si passa
ai 5.500 del 1975. La crescita economica
del paese porta con sé anche l’esigenza di
“allargare” i propri confini: l’apertura, nel
1964, del Traforo del Gran San Bernando
e l’inaugurazione, nel 1965, del Traforo
del Monte Bianco risolvono il problema
delle comunicazioni stradali con la Svizzera e con la Francia durante i mesi invernali e costituiscono un traguardo per il
paese intero. Nel 1975, infine, hanno ini-
d’arresto: tra il 1923 e il 1938 ci si occupa praticamente solo dell’autostrada e
dei suoi primi 479 km e vengono costruiti, invece, solamente 3.296 km di strade
minori. Tra il 1938 e il 1941 i chilometri di autostrade e
strade in esercizio
Nel primo dopoguerra nacque
restano gli stessi e
una nuova idea: l’autostrada, una
l’entrata in guerra
strada riservata esclusivamente
nel 1940, fra le alal traffico a motore.
tre terribili conseguenze, avrebbe
portato nel giro di pochi anni al dissesto zio anche i lavori per il Traforo del Frejus,
completo delle reti di trasporto esistenti aperto cinque anni dopo.
e a un vero e proprio stato di emergenza
Gli ultimi trent’anni
della rete viaria.
Chi avrebbe potuto prevedere, dunque, Gli anni Ottanta, iniziati con un nuovo
che meno di dieci anni dopo, con la mo- slancio per il rilancio delle rete viaria (il
150 anni di Unità d’Italia
Piano Decennale) e il riassetto della struttura di manutenzione (scompaiono le case
cantoniere, per esempio, soppiantate da
nuclei operativi e da una rete organizzativa telematica) si chiudono con la tornata
autostrade in tutto il paese, la cui gestione
è in parte demandata a società controllate
dall’Anas e dalle regioni, in parte alla società per azioni Autostrade per l’Italia. Nel
2010 sono circa 5 milioni i viaggiatori che
transitano quotidianamente sulla
Nel 2010 sono circa 5 milioni
rete nazionale di
i viaggiatori che transitano
autostrade, che si
quotidianamente sulla rete
estende ad oggi
per ben per 6413,4
nazionale di autostrade.
km.
dei lavori straordinari in vari capoluoghi
Tutto perfetto, dunque? I problemi
di provincia per i campionati mondiali di
della manutenzione sono pressanti e,
calcio. Gli anni Novanta, invece, vedono
sebbene il paese abbia compiuto dal seil paese e molte aziende pubbliche, tra cui
condo dopoguerra dei veri e propri pasl’Anas, coinvolti in episodi di corruzione
si da gigante, la preferenza accordata al
e in tempeste giudiziarie. Il commissariatrasporto su gomma dagli anni Cinquanta
mento dell’Anas, protrattosi fino al 1994,
ha portato a ridurre il traffico merci su
causa un periodo di stasi nello sviluppo
rotaia a ben poca cosa, a intasare troppo
della rete viaria; solo eventi tragici come
spesso le autostrade con autoarticolati e
l’incendio della galleria del Monte Bianco
a rinforzare lobbies e gruppi di pressione
sembrano riportare l’attenzione sui necesche a volte approfittano del loro potere,
sari investimenti nei settori del controllo
minacciando scioperi e serrate, senza tetecnologico e di qualità e della previsione
nere in conto il bene della collettività. Per
delle condizioni di circolazione. Gli anni
quanto riguarda la ferrovia oggi, grazie
Duemila, infine, sono invece quelli del
all’alta velocità, il trasporto passeggeri è
grande sviluppo della tecnologia inforin ripresa; quello merci, invece, continua
matica e dell’inserimento di dispositivi
a essere la cenerentola del settore, nonointerattivi per la comunicazione lungo i
stante le promesse dell’alta capacità e i
tracciati. Si avvia, tra le altre cose, il probenefici ambientali ed economici che decesso di regionalizzazione e privatizzazioriverebbero da una più equa ripartizione
ne del settore stradale e autostradale. Tra i
del trasporto di merci tra strade e ferrorisultati maggiori del decennio, ricordiamo
vie. Il dualismo strada-rotaia è stato una
l’ammodernamento del Grande Raccordo
delle caratteristiche del nostro sistema di
Anulare di Roma e la costruzione di nuove
trasporto e non è stato ancora ricomposto. Se negli anni Venti era la rete stradale a soccombere a quella ferroviaria, oggi avviene il contrario
e le conseguenze sulle future
generazioni,
soprattutto
per quanto riguarda l’inquinamento dell’aria,
non potranno essere trascurate ancora a
lungo.
LA STRADA FERRATA NELL’ITALIA UNITA
Molti storici ritengono che le ferrovie
siano state il settore trainante della
seconda rivoluzione industriale. In
Italia, invece, lo sviluppo della strada
ferrata è stato piuttosto tardivo e
spinto per lo più da esigenze di “unità
nazionale”. Dall’apertura della prima
linea, la Napoli-Portici, nel 1839,
all’Unità, l’Italia vede svilupparsi
soprattutto la rete regionale: circa
2.000 km di linea, di cui più della
metà in Toscana, Emilia-Romagna,
Lombardia e Piemonte. Nel primo
ventennio post-unitario le ferrovie
sono al centro dell’azione di governo:
6.500 chilometri di nuova linea sono
messi in esercizio, nel 1875 viene
finalmente raggiunta anche Reggio
Calabria e nel 1880 sono completate
le ferrovie di Sicilia e Sardegna.
Segue poi lo sviluppo delle linee
minori, in ottemperanza alle politiche
di “collegamento” in auge nel
primo Novecento. Nel 1900 la rete
ferroviaria è davvero nazionale. Alla
Grande Guerra l’Italia arriva quindi
con 17.500 km di strada ferrata: un
notevole progresso per il neonato
stato unitario, ma pur sempre meno
della metà rispetto alle grandi
potenze europee di allora.
Ed oggi? La rete di alta velocità
italiana, con i treni Freccia rossa e
Freccia argento, corre da Torino a
Salerno per quasi 1.000 chilometri,
attraversando 6 regioni, 17 province
e 161 comuni, un territorio in cui
vive e lavora oltre il 65% della
popolazione. Insomma, come si
legge sul sito di Trenitalia Spa, “le
frecce corrono veloci verso il futuro
di un’Italia più unita, riducendo le
distanze con livelli di massima qualità
e sicurezza. Più velocità, più treni,
più servizi: una vera rivoluzione del
modo di vivere e di viaggiare degli
italiani”. Ma cosa accade lungo le
migliaia di chilometri che sono rimasti
a velocità “normale”? Le periodiche
proteste dei pendolari per i disservizi
sulle tratte che sono costretti a
percorrere due volte al giorno sono
un triste richiamo alla realtà di un
paese ancora “diviso”.
Per approfondimenti sui primi
cinquant’anni delle ferrovie italiane:
S. Fenoaltea, L’economia italiana
dall’Unità alla Grande Guerra, Laterza,
Roma-Bari 2006 (cap. 5, “Le ferrovie”).
panorama per i giovani
•
17
150
Laanni
salute
di Unità
nel mondo
d’Italia
Fatta l’Italia,
bisogna fare l’italiano
Dopo 150 anni l’unità linguistica del paese può considerarsi realizzata,
anche se nelle varietà regionali dell’italiano si prolunga (fortunatamente)
la tradizione e la ricchezza dei dialetti. La scelta del fiorentino come
lingua di tutti.
Se domandassi ai lettori in che lingua sto
scrivendo in questo momento, la maggior
parte mi risponderebbe che ovviamente
sto scrivendo in italiano. Certo, direi poi
loro, ma in che italiano? Italiano comune,
standard, letterario o regionale? Sì, cari
lettori, c’è n’è più d’uno e noi passiamo
dall’uno all’altro senza neanche accorgerci del cambiamento. La lingua italiana, come del resto tutte le lingue vive, è
come un’Idra, il mostro mitologico greco:
un solo corpo e molteplici teste. Qual è il
corpo originario, allora?
All’alba dello Stato italiano, la
questione era parzialmente risolta: la
lingua eletta, quella varietà d’italiano
che sarebbe diventata ufficialmente la
lingua italiana, era il fiorentino. Emilio
Broglio, ministro della Pubblica Istruzione fra l’ottobre del 1867 e il maggio
del 1869, nel 1868 chiamò Alessandro
Manzoni a presiedere una commissione col compito “di ricercare e proporre
tutti i provvedimenti e i modi, coi quali
si potesse aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona
pronunzia”. Il Manzoni, che lavorava
Sin da quando l’italiano, in tutte le
sue forme, è una lingua viva e parlata, vi
è sempre stata una differenza tra lingua
usata per fini dotti e lingua parlata ogni
giorno dal popolo. Una prima forma di
italiano vero e proprio, che si differenzia
dal latino volgare, è la koinè (dal greco,
lingua comune) delle corti rinascimentali, di base fiorentina, che si caratterizzava poi nelle diverse zone a seconda delle influenze locali. La koinè era diversa
dalle lingue (non si può parlare ancora
di dialetti) parlate nelle varie zone, eppure l’una influenzava l’altra: la lingua
del posto, infatti, integrava in sé parole
estranee al suo vocabolario e la koinè, a
sua volta, assumeva fenomeni fonetici
tipici della zona, trasformando parzialmente le parole. La comunicazione avveniva così su due binari, distinguendo la
lingua usata per la comunicazione scritta
e dotta da quella per tutti gli altri scopi,
tracciando un confine invalicabile che il
Manzoni abbatterà con le varie redazioni
del Fermo e Lucia e dei Promessi Sposi.
Nelle diverse introduzioni all’opera, da
lui stesso modificate a seconda delle edizioni, troviamo tutto il percorso manzoniano sulla scelta della lingua,
Quale italiano parliamo?
perfetto specchio
Italiano comune, italiano
a rovescio del
standard, italiano letterario,
percorso che la
nostra
nazione
italiano regionale?
affronterà negli
in coppia con Ruggero Bonghi e Giu- anni, con l’avvicendarsi delle teorie sullio Carcano, pubblicò i risultati dei suoi la lingua. Il punto di partenza, estratto
lavori già nel 1868. La relazione, da lui dall’edizione del 1823, vede il dialetto
redatta e dai colleghi sottoscritta, era nella parte del leone: la sua perdita saintitolata Dell’unità della lingua e dei rebbe una gravissima menomazione dal
mezzi per diffonderla e risolveva una punto di vista culturale e personale, in
questione annosa e sempre argomento quanto prima lingua di molti popolani
di viva discussione in Italia, ovvero la e non. Il dialetto poi si riverbera anche
differenza tra l’italiano letterario e l’ita- nella cultura scritta, con parole e loculiano nella sua totalità d’uso.
zioni locali, che danno un certo “colore
18
•
n. 3, settembre-dicembre 2010
municipale”, per voler usare le parole
del Manzoni. Nell’ultima introduzione
ai Promessi Sposi, invece, il Manzoni
ha ormai maturato definitivamente il suo
pensiero e vede il futuro nella perfetta
lingua comune, il toscano fiorentino, che
avrebbe dovuto appianare ogni differenza linguistica in tutta l’Italia.
Questa posizione, espressa anche nella relazione che ho già citato, è il punto
di partenza delle prime politiche dello
Stato unitario. Il problema diventava allora il metodo di diffusione della lingua
su tutto il territorio, indicato anche questo dalla relazione: le soluzioni erano la
compilazione di un vocabolario, il Novo
vocabolario della lingua italiana secondo
l’uso di Firenze (1870-1874), presente in
tutte le scuole e abbastanza economico da
permetterne l’acquisto anche ai privati,
la revisione dei testi scolastici da parte di
fiorentini e la circolazione in tutta Italia di
maestri toscani. Non si trattava di un’opera di soffocamento dei dialetti, ma di promozione del fiorentino a livello di lingua
nazionale non solo per gli strati dotti della
popolazione, ma per tutto il neonato e, per
la maggior parte, inconsapevole popolo
italiano.
Foto: iStockphoto.com/Ugly_Mau
di Francesca Parlati
Il futuro della terza età
Si è molto dibattuto sull’effettivo numero di italofoni nel periodo immediatamente successivo all’unificazione italiana,
in quanto il numero varia notevolmente a
seconda dei dati presi in considerazione.
Secondo gli studi del De Mauro (1970),
gli italofoni erano circa 600.000 su una
popolazione di 25 milioni di individui,
ovvero appena il 2,5%. Questi dati furono
ottenuti calcolando, però solo il numero
della popolazione scolarizzata, trascurando altri elementi importanti, considerati
invece nei calcoli del Castellani. Egli infatti attesta come il numero di italiani con
possibilità di accesso all’istruzione e alla
cultura fosse più alto, aumentando così di
390.000 il numero di italofoni. Inoltre il
Castellani calcola come italofoni anche
tutti gli abitanti della Toscana e, dal 1871,
quelli del Lazio (analfabeti e non), perché
linguisticamente prossimi al toscano. Il
conto sale così a 2.220.000, il 9,5% della
popolazione. A queste stime bisogna anche aggiungere chi aveva la competenza
passiva dell’italiano, ovvero lo comprendeva senza parlarlo: basti pensare che nei
paesini del Sud e anche in qualcuno del
Nord, era indispensabile capire l’italiano
per avere rapporto con i notabili del paese
(il medico, il farmacista e l’avvocato), di abbastanza rilevanti, quali una crescente
solito gente istruita che non sempre usava urbanizzazione (migrazione interna) e
il dialetto. Dialetto che, comunque, ave- una sempre maggiore emigrazione verso
va ancora una forte influenza e un forte l’estero, con picchi di partenze annue suutilizzo anche nelle classi più colte. Te- periori al mezzo milione.
stimonianze dirette del Manzoni riportaCon lo scoppiare della Prima Guerra
no che esso era utilizzato anche in con- Mondiale si ha un’ulteriore spinta verso
versazioni di alta cultura e che comunque la creazione di un’identità nazionale e di
già esistevano variazioni regionali di un’identità di lingua: si vengono a trovare
italiano, come il “parlar finito” milanese a contatto uomini delle più diverse par(così chiamato perché consisteva general- ti d’Italia, obbligati a vivere esperienze
mente nel concludere le parole, che per la traumatiche fianco a fianco nella vita di
maggior parte nel
dialetto milanese
Una prima forma di italiano vero
vengono troncae proprio è la koinè delle corti
te). Il Manzoni
rinascimentali, di base fiorentina
testimonia anche
una delle deboma influenzata dai vari dialetti.
lezze dell’italiano, ovvero la mancanza in esso di termini trincea. Questa comunione di sofferenze
specialistici e tecnici, facendone emerge- mette per la prima volta in contatto gente
re l’insufficiente diffusione sul piano qua- molto distante culturalmente e geogralitativo e quantitativo.
ficamente, rafforzando l’idea di essere,
All’inizio del Novecento l’unità cultu- prima che del proprio paesino, italiani,
rale e linguistica dell’Italia era ancora ben con una lingua che non è il dialetto, ma
lontana, nonostante i grandi progressi co- l’italiano, indispensabile per capirsi lonmunque avvenuti. Contemporaneamente, tano da casa.
si ha in questo periodo un grande sviluppo
Dopo la fine della guerra, con l’avvendell’industrializzazione, con conseguenze to del fascismo, si ha un ulteriore raffor-
panorama per i giovani
•
19
co, (wcc’ir) e uno subentrato negli anni
Cinquanta, di cui prima non è attestata
alcuna testimonianza, (mw’cellar); la forma italianizzata non è certamente uguale
al termine in italiano, ma rende più facile
zamento dell’unità nazionale e linguistica, capire di cosa si stia parlando, rendendolo
ma è dopo la Seconda Guerra Mondiale comprensibile anche a chi non è avvezzo
che arriva la spinta decisiva e definitiva al dialetto. Nel secondo caso (urbanizzain questa direzione. Riprende in maniera zione extra-regionale), invece, si ha una
cospicua l’emigrazione verso l’estero e progressiva perdita del dialetto e l’acquic’è un massiccio aumento dell’immigra- sizione del dialetto urbano del luogo.
zione “interna” dai paesi del Sud alle città
Parte importante nel processo di uniindustriali del Nord. Entrambi questi tipi ficazione della lingua la ebbero anche radi immigrazione hanno diretti effetti sulla dio, televisione e cinema. Specialmente
lingua italiana. Chi emigra all’estero pren- questi ultimi due mezzi di comunicazione
de coscienza dell’importanza dell’educa- furono pietre miliari: basti pensare a prozione, quindi aumenta in maniera notevo- grammi dell’immediato dopoguerra, come
le il numero di figli di emigranti che fre- per esempio Non è mai troppo tardi, che
quentano le scuole. Per quanto riguarda il promovevano l’apprendimento dei fonprocesso di immigrazione interna, invece, damenti della lingua e della grammatica
si tratta di perdita e variazione dell’italia- italiane; un ruolo determinante fu svolto
no e dei dialetti. Si parla, infatti, di urba- dal divismo: la gente imitava gli idoli che
nizzazione di due tipi: inter-regionale o vedeva sul grande e sul piccolo schermo,
provinciale ed extra-regionale. Nel primo usava le parole delle canzonette della racaso il diretto effetto è l’indebolimento dio, abbandonava il dialetto dei nonni per
inseguire i miti
della televisione e
Ai tempi di Manzoni il dialetto
di Cinecittà.
veniva usato anche dalle classi
Conseguenza
colte, come dimostra il “parlar
di questi fenomeni è la formazione
finito” milanese.
dei vari italiani
del dialetto, ovvero l’affiancamento a un regionali, che altro non sono che i diretti
termine dialettale di un altro di deriva- discendenti del “parlar finito” manzoniazione italiana, ma che risente degli stessi no, ovvero un parlare italiano inserendo
effetti fonetici del dialetto. Nel dialetto locuzioni regionali tipiche, termini diabarese, ad esempio, per indicare il macel- lettali italianizzati, costruzioni sintattilaio si hanno due termini: uno più arcai- che proprie del dialetto (per rimanere
Foto: iStockphoto.com/Spiderstock
Sopra: la radio prima e la televisione
dopo sono stati importanti strumenti
di diffusione dell’italiano. Nella pagina
precedente: definizione di “italiano” in un
dizionario del 1902.
20
•
n. 3, settembre-dicembre 2010
nell’ambito pugliese, l’utilizzo di alcuni
verbi intransitivi come salire e scendere
in maniera transitiva) e l’utilizzo della cadenza e della pronuncia tipici del posto.
Questi processi non hanno coinvolto
solamente l’italiano. Nel corso dei secoli tutte le lingue hanno subito variazioni, basti pensare alle varietà di francese,
diverse da distretto a distretto o alle numerose varietà di inglese derivanti dallo
sgretolarsi dell’impero coloniale. Si può
dire allora che queste lingue siano uniche? Nel caso dell’italiano si può parlare,
quindi, di un’unica lingua italiana? Si può
dire che a 150 anni dall’Unità d’Italia si
è giunti a un’unità linguistica, nonostante
che sussistano ancora i dialetti e le varietà regionali di italiano? La risposta non
può essere altro che positiva. La prova?
Ripensiamo alla domanda posta all’inizio dell’articolo, alla quale a tutti sarebbe
venuto spontaneo rispondere che stavo
scrivendo in italiano: è proprio questo
non avvertire come altra lingua i vari tipi
di italiano regionale che ci conferma che
l’italiano è ormai concepito come corpo unico; le teste della nostra Idra sono
visibili chiaramente solo “agli addetti ai
lavori”, avvezzi a questi studi. Per il resto
di noi l’italiano è uno e solo, il resto sono
mere variazioni sul tema. Rimaniamo
così, allora, a osservare l’italiano cristallizzato per un momento almeno, prima
che, come tutte le lingue vive e vitali,
riprenda a fluire e a modificarsi, anche
mentre io sto scrivendo e voi state leggendo. Il momento è passato, l’italiano è
già cambiato.
150 anni di Unità d’Italia
Non è mai troppo tardi
Dalla legge Casati alla riforma Gelmini, la scuola italiana non ha mai
smesso di cambiare volto. Non sempre è bene intervenire e non sempre
si interviene dove si dovrebbe.
Foto: iStockphoto.com/tirc83
di Nicola Lattanzi
Dai tre mesi fino ai tre anni è l’asilo nido.
Poi tre anni di scuola materna. Poi ben
tredici anni di scuola primaria e secondaria (quanto ci piacciono gli anglismi! Sarò
rétro, ma preferivo di gran lunga una scuola elementare e una scuola media, seguite
dalle superiori). E poi ancora, variamente
combinati, cinque anni di università. E
poi... Insomma, se va bene – molto bene –
ci schiaffano diretti dalla sala parto davanti
a un banco per ventiquattro anni circa. E
naturalmente non passerà una settimana
della nostra carriera scolastica senza che
qualcuno ci dica che “non si finisce mai di
imparare” e che “gli esami non finiscono
dente alle nostre aspirazioni e conforme
alla nostra preparazione. Oltre a ciò, cosa
avrebbe dovuto essere la scuola? Scambio
d’idee, luogo di integrazione e crescita spirituale del paese. Invece, la meritocrazia
non esiste, si vogliono fare classi separate
per gli stranieri, si insegue il mito della privatizzazione-a-tutti-i-costi (a nostre spese,
in tutti i sensi), alcune materie improvvisamente scompaiono e l’italiano non si sa
più dove sia finito – ma chi se ne importa:
meglio salvare i dialetti! Mi chiedo: come
siamo arrivati a questo punto?
Al momento dell’unificazione del paese, nel 1861, la percentuale di analfabeti
era a dir poco sconvolgente. Vittorio Emanuele II si sarebbe apprestato a governare
un regno in cui il 78% della popolazione
non sapeva né leggere né scrivere (rectius,
non sapeva nemmeno scrivere il proprio
nome), con addirittura picchi del 91% in
Sardegna e del 90% in Calabria e Sicilia.
La situazione del suo Piemonte era, se
così possiamo dire, migliore: 57%. E la
questione era che non solo c’era la quasi
totalità della popolazione da alfabetizzare, ma che si doveva far loro imparare
una lingua. Sì, fatta l’Italia, sottolineava
D’Azeglio, si dovevano fare gli Italiani.
E l’obiettivo, tutt’oggi, non mi sembra sia
stato pienamente raggiunto. Anzi. Arrivati
al censimento generale del 1951 la situazione era migliorata, indubbiamente in
virtù del ruolo che il regime fascista aveva riconosciuto all’istruzione: si passava,
difatti, dall’1% del Trentino-Alto Adige al
32% della Calabria. Nei decenni a seguire
le cifre continuano ad assottigliarsi. Magari anche grazie ad Alberto Manzi, che,
dal 1960 al 1968, fu il “caro maestro” per
molti italiani con la sua trasmissione Non
è mai troppo tardi, che si proponeva come
“Corso d’istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”. Un programma
che fa parte della memoria collettiva e che
dimostra che, se si vuole, certi mezzi di
comunicazione di massa possono essere
mai”. Per che cosa? Ci si batte e ci si ribatte, si riforma e si controriforma: progetti,
sperimentazioni, maxi sperimentazioni dei
progetti. E nel frattempo, mentre siamo lì a
studiare, subendo
più o meno passiSolo il 20% degli italiani adulti
vamente (in questi
possiede gli strumenti minimi
giorni direi molto
di lettura, scrittura e calcolo per
meno che più) la
furia normativa
orientarsi nella nostra società.
dei variamente nominati Ministri dell’Istruzione, Università utilizzati come strumento di promozione
e Ricerca (?), non v’è chi ci assicuri che socio-culturale. D’accordo che era un’altutta questa fatica verrà ripagata con un po- tra televisione, d’accordo che era un’altra
sto di lavoro almeno parzialmente rispon- Italia…ma insomma. Come ha scritto il
panorama per i giovani
•
21
che le faccia poi così bene. Leggere il no- cune delle quali, a ragion del vero, aprivano
stro sistema d’istruzione, e conseguente- all’università): l’esclusione degli studenti
mente modificarlo, sulla base di statistiche appartenenti alle famiglie meno agiate era
e prove parametrate su categorie e model- la conseguenza naturale. Uno dei profili che
li che sono lontani anni-luce dalla nostra furono oggetto di ripetuti interventi negli
tradizione formativa non può che andare anni a venire fu indubbiamente quello rea distruggere quel
plusvalore offertoDon Milani voleva che gli
ci dal nostro sistestudenti si costruissero una
ma educativo. Di
coscienza sociale e civile; il suo
questo dobbiamo
avere consapevomotto era “I care”.
lezza, del potenziale che gli studenti italiani hanno, e che lativo all’obbligatorietà: ed ecco la legge
sono in grado di esportare, per un innato Coppino, che nel 1877 introduce l’obbligo
vantaggio dovuto alla invidiabile circo- del triennio delle elementari, dopo averle
stanza di essere nati nel paese più ricco per portate a 5 anni; e ancora la legge Orlando
patrimonio storico-culturale.
(1904) che lo prolunga fino al dodicesimo
Troppo spesso, però, si è tentato di fare anno di età, istituendo un “corso popolare”
della cultura uno strumento di discrimina- formato dalle classi quinta e sesta; si prosezione e la si è vista come un privilegio ad gue con la legge Daneo-Credaro (1911) che,
appannaggio di pochi. Così la legge Casati, al fine di poter meglio disciplinare l’obbliche nel 1859, a ridosso dell’unificazione, go, rende la scuola elementare un servizio
istituiva una scuola elementare articolata statale, ponendo in questo modo a carico
su due bienni e dello Stato il pagamento degli stipendi dei
obbligatoria per maestri. Ma il momento sicuramente più
Il recupero della lingua italiana è
il primo biennio. significativo, per quello che sarà il successiuno strumento fondamentale per
Aldilà della posi- vo sviluppo dell’istruzione in Italia, si ebbe
garantire la riuscita dei processi
tiva introduzione con la “più fascista” delle leggi del goverdell’obbligo scola- no Mussolini: la riforma Gentile. Si tratta
di integrazione.
stico, seppur mini- di una serie di atti normativi adottati tra il
teatro, meno musei: insomma, meno cultu- mo, la legge mostrava il suo volto classista 1922 e il 1923 su proposta dell’allora Minira. Che è meno vita.
nel prevedere che dopo la scuola elemen- stro dell’Istruzione, il filosofo neoidealista
La scuola italiana, però, non è da butta- tare si potesse accedere al ginnasio solo a Giovanni Gentile. Egli impresse alla scuola
re via. Viene rifatta e ritoccata anche trop- pagamento. Altrimenti si sarebbe potuto italiana un’impronta che rimarrà pressoché
po spesso, ma tutta questa chirurgia non è proseguire solo con le scuole tecniche (al- indelebile. Fino ad oggi. L’obbligo venne
22
•
n. 3, settembre-dicembre 2010
Foto: iStockphoto.com (CFargo; kkgas)
linguista Tullio De Mauro, che da anni si
occupa delle ricerche sull’analfabetismo
funzionale, ad oggi “soltanto il 20% della popolazione adulta italiana possiede gli
strumenti minimi indispensabili di lettura,
scrittura e calcolo necessari per orientarsi
in una società contemporanea”. E non bisogna dimenticare che c’è un 5% che non
riesce a distinguere correttamente le lettere
e le cifre. A completare i tre quarti della popolazione italiana vi è una terza categoria,
sempre individuata da De Mauro: quella
di coloro che, seppure in una condizione
migliore, trovano “oltre le loro capacità
di lettura e scrittura un testo che riguardi
fatti collettivi, di rilievo anche nella vita
quotidiana e un’icona incomprensibile un
grafico con qualche percentuale”. Dati che
dovrebbero notevolmente allarmare un popolo che tenta di continuare, in mancanza
d’altro, a vendersi per la sua tradizione
storico-culturale, una tradizione che poi in
realtà rischia di ignorare. Cifre pericolose,
dunque, che significano meno libri, meno
150 anni di Unità d’Italia
esteso ai quattordici anni, con un iniziale
ciclo elementare di cinque anni, uguale per
tutti, al termine dei quali l’alunno poteva
scegliere tra il ginnasio, quinquennale e che
dava possibilità di accesso ai licei (classico
e scientifico), e la scuola di avviamento professionale. Solo il liceo classico consentiva
l’accesso a tutte le facoltà. Fu nel 1962 che
si ebbe l’unificazione della scuola media,
mentre occorrerà il fermento sessantottino
per far sì che si liberalizzassero gli accessi
alle università. E sempre nel 1969 si modificò l’esame di maturità, dandogli quella
struttura che rimarrà quasi fino all’avvento
degli anni Duemila, con due prove scritte
(italiano e una specifica in funzione del tipo
d’istituto) e una prova orale con due materie
a scelta tra una rosa di quattro, diverse per
ogni istituto scolastico. Nel frattempo era
intervenuta anche l’istituzione della scuola
materna statale e di lì a poco si ebbe l’introduzione del tempo pieno. Malgrado le continue novità nei decenni seguenti, soprattutto dagli anni Ottanta, si registrò un aumento
della dispersione scolastica, con frequenze
irregolari, scarso apprendimento e bocciature. Probabilmente è stata proprio la difficoltà di arrestare tale fenomeno che ha spinto
il legislatore a rimaneggiare nuovamente la
scuola italiana, mai soddisfatto e soprattutto
in una continua scissione con se stesso, per
il succedersi di maggioranze politiche di
diverso colore e diverso approccio al tema
in questione. Riforma Berlinguer e il nuovo
esame di maturità (che sarà poi ulteriormente cesellato dal Ministro Fioroni), la Riforma Moratti e la Riforma Gelmini. Interventi
sempre poco ben voluti, perché magari non
sempre sentiti vicini e rispondenti alle vere
esigenze che solo gli studenti, in quanto diretti fruitori del servizio scolastico, possono
esprimere, sia pure confusamente.
Ci vorrebbe qualcuno che scrivesse
un’altra Lettera ad una professoressa. Quella di don Milani fu una riflessione che aveva saputo intercettare il bisogno di cambiamento avvertito non solo dagli studenti, ma
anche da educatori e genitori. Il bisogno di
realtà, l’attenzione al milieu in cui nascono,
crescono e si sviluppano i ragazzi, l’importanza della cooperazione, l’insostituibilità
dello studio per lo sviluppo di una coscienza critica e di un pensiero libero. Ciò che
voleva fornire don Milani erano strumenti:
un’istruzione per crescere e andare avanti
senza essere manipolati. Uno dei più grandi
timori che dobbiamo avere è proprio questo: che i programmi della scuola possano
essere strumentalizzati e le menti perversa- gazzi a diventare sovrani”. Se preservare la
mente riempite di nozioni che non possono propria identità regionale può anche essere
che avvilirle e renderle sterili. I care, diceva importante, non si può tollerare una così
don Milani. Non so quanti di noi riuscireb- scarsa conoscenza dell’italiano. Talvolta si
bero a pensare lo stesso di coloro che si oc- è sottovalutato quanto esso sia alla base di
cupano della nostra formazione e della no- un’effettiva integrazione, tra italiani ma anstra cultura. E vedere che gli studenti paiono che tra italiani e immigrati, i quali dovrebadesso essersi destati da anni di maggior bero essere messi in grado di apprendere la
torpore non è poi
un cattivo segno,
Nel 1923 Giovanni Gentile
perché denota che
delineò, con la sua riforma,
we care. Ci sono
i tratti peculiari del nostro
due punti di straordinaria pregnansistema scolastico.
za e attualità nella
riflessione del parroco di Barbiana, aldilà lingua del paese che li ospita. Un maestro
delle questioni di metodo. Egli insiste sulla Manzi in più non farebbe male, magari al
importanza di dare uno scopo ai ragazzi, in posto dell’ennesimo programma di artisti
particolare agli svogliati. Ecco quello di cui tuttofare. E non poco potrebbero servire i
abbiamo bisogno oggi: credere nella nostra mezzi di comunicazione: non solo una telescuola, nelle nostre università, potenziarle visione decente, ma anche il potenziamento
e non sottrarre a esse l’aria, dare stimoli e di internet e dei mezzi informatici. Le fafiducia agli studenti, affinché possano per- mose tre i erano cosa buona e giusta, se si
correre i loro anni di formazione nella con- fossero concretizzate appieno e se si fossero
vinzione che tutto quello che si semina poi accompagnate a una quarta: l’italiano!
si potrà raccogliere, che le fatiche di notti
Un tema come quello della scuola è
insonni passate sui libri saranno ripagate. senza dubbio caldo e di scontro tra visioni
La prospettiva di un futuro è imprescindi- spesso e volentieri diametralmente oppobile per un sistema che si possa dire funzio- ste, ma ciò non significa che si debbano
nante. C’è poi un secondo aspetto che non abbandonare le speranze in un confronto
va tralasciato: la lingua. “È solo la lingua costruttivo, nel momento in cui ci si renche fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e da conto che si può sempre imparare a far
intende l’espressione altrui. Educare i ra- bene e che non è mai troppo tardi.
panorama per i giovani
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23
150 anni di Unità d’Italia
La lince, simbolo dell’Accademia dei
Lincei, rappresenta lo sguardo acuto,
metafora della ricerca scientifica.
I Lincei di Sella
La cultura risorta della neonata Italia.
di Angela Rita Provenzano
Foto: iStockphoto.com/andyworks
Nel quadro della formazione degli statinazione, Italia e Germania godono di
una comune peculiarità: l’unità culturale
ha preceduto quella politica e ha rappresentato la trama ideale sottesa ai fili della
storia. Nonostante l’Italia sia stata fino
al Risorgimento un “volgo disperso che
nome non ha” (A. Manzoni, Adelchi, coro
atto III), si è sempre potuta fregiare della
grandezza della propria arte e dell’eredità
greco-romana nel rivendicare il primato
culturale al momento della sua unificazione. In questo contesto, un ruolo importante va riconosciuto all’Accademia
dei Lincei, che ha sempre avuto come fine
istituzionale la promozione e la diffusio-
che ben incarna lo spirito di ricerca posto
a guida della compagnia. Nella volontà del
fondatore, infatti, il fulcro dell’Accademia
risiedeva in un’indagine scientifica che
sapesse rapportarsi con spirito critico alla
tradizione aristotelica; ciò la distinse dalle accademie italiane tardo-rinascimentali,
di stampo letterario. Il sodalizio dei Lincei
rappresentò un fertile incontro di intellettuali italiani e stranieri, tra cui Galileo Galilei. Purtroppo la morte del Cesi, avvenuta
nel 1630, coincise con un rapido declino
dell’istituzione. Dei Lincei restò solo il
prestigio di un’illustre eredità storica che
in molti tentarono di far rivivere.
L’ultima e più importante riforma
dell’Accademia
venne realizzata
Quella dei Lincei è la più antica
all’indomani delaccademia scientifica del
la proclamazione
mondo e la massima istituzione
di Roma a capiculturale italiana.
tale del Regno
d’Italia. Essa fu
ne della scienza nell’orizzonte dell’unità voluta dallo statista piemontese Quintino
e universalità della cultura.
Sella, uno dei protagonisti del neonato reQuella dei Lincei è la più antica acca- gno (principalmente in qualità di intrandemia scientifica del mondo, nata nel 1603 sigente ministro delle Finanze), uomo
da un sodalizio tra il patrizio Federico Cesi dalla proteiforme intelligenza, ingegnere,
e tre suoi amici. Simbolo dell’Accademia scienziato e matematico (celebri i suoi
è la lince, animale dallo sguardo acuto, contributi allo sviluppo dell’assonome24
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n. 3, settembre-dicembre 2010
tria). Per il suo poliedrico profilo e per
la formazione eminentemente scientifica,
ma votata alla patria, Sella incarna lo spirito di un’Italia che, a seguito dell’unificazione, nutriva la volontà di ricostruire
un sapere libero da cui foggiare un’identità culturale. Il passo più significativo,
in tale direzione, fu riconoscere il valore
che l’Accademia aveva avuto nel quadro
della cultura italiana e portarla a nuova
vita. Fu così che nel 1874 i Lincei tornarono a pieno titolo sul teatro della storia
d’Italia grazie alla ricostituzione dell’Accademia, ora coronata dagli attributi di
“nazionale” e “regia”.
I Lincei di Sella sono generalmente
ritenuti i titolari ideali dell’eredità storica del Cesi: il “Divino Amore” che il
fondatore dell’Accademia scorgeva nella
libera indagine scientifica, con Sella poté
rinascere e fondersi al clima risorgimentale del neonato regno, facendo dei Lincei
uno snodo cruciale del sapere laico italiano. La riforma di Sella prevedeva un allargamento delle scienze lincee da quelle
tipicamente fisico-matematiche a quelle
umanistiche (filosofia, economia, storia,
diritto, filologia, archeologia). L’Accademia si articolò quindi in due classi distinte: una per le scienze fisiche e l’altra per
quelle “morali”. Sella profuse la sua lungimiranza e intelligenza nella restaurazione
dell’Accademia per fare di quest’ultima e
di Roma, sede storica dell’ordine linceo,
il fulcro della vita culturale italiana. I Lincei così rinati nel clima risorgimentale
hanno superato oltre un secolo di storia,
annoverando tra i loro membri personalità
del calibro di Fermi, Righi, Castelnuovo,
Pasteur, Einstein e ancora Croce, Gentile,
Einaudi.
Nel periodo fascista l’Accademia
conobbe un periodo di eclissi (confluì
nell’Accademia d’Italia), ma poi venne
ricostituita, per volontà di Croce, sull’impronta di quella selliana.
Nonostante le traversie storiche (e
oggi anche finanziarie, data la riduzione
dei trasferimenti dello Stato), l’Accademia ha saputo rinascere fortificata e ora
rappresenta la massima istituzione culturale italiana, con un prestigioso retaggio
alle spalle e lo sguardo della lince puntato
verso il futuro.
150 anni di Unità d’Italia
di Damiano Ricceri
In un periodo in cui in Italia si (ab)usa
di espressioni quali “fuga di cervelli” o
“mancanza di Meritocrazia” non possiamo
dimenticarci di tanti italiani che hanno
scritto pagine molto importanti nella storia
della scienza. Molti di loro hanno lavorato
all’estero, ma hanno cominciato o proseguito
le loro ricerche in Italia, dimostrando
l’importanza, soprattutto nel settore della
ricerca, dei continui scambi con altre realtà.
Pensiamo ai fisici teorici che, capeggiati da
Enrico Fermi (1901-1954), Premio Nobel per
la Fisica nel 1938 grazie al suo lavoro sulla
radioattività, hanno dato origine a Roma a una
scuola di Fisica Teorica che ancora oggi è da
considerarsi tra le migliori al mondo: studiosi
quali Segre, Majorana e Rasetti (oltre al già
citato Fermi) hanno infatti ottenuto risultati che
sono pietre miliari della moderna Fisica.
Gli esempi si estendono subito ad altri
ambiti: basti pensare – per restare ai vincitori
del Nobel – a Rita Levi Montalcini (1909-),
vincitrice dell’ambito premio nel 1986
per le sue importanti scoperte nel campo
della Neurobiologia, animata ancora oggi
(nonostante il secolo di vita) da un’incrollabile
passione scientifica, che si sposa col
profondo impegno civile.
Un altro luminoso esempio nel campo
biomedico è rappresentato da Renato
Dulbecco (1914-), anch’egli insignito del
Nobel per la Medicina (1975) grazie ai suoi
studi sugli effetti dei tumori sulle cellule. Già
questo breve elenco (che potrebbe allungarsi
di molto) mostra i contributi eccezionali dati
da molti italiani ai più disparati campi della
scienza: è anche da questi risultati che molti
ricercatori traggono stimolo per continuare a
lavorare, nonostante le difficoltà contingenti.
I NOBEL SCIENTIFICI ITALIANI
Chimica
Giulio Natta (1963)
Fisica
Guglielmo Marconi (1909)
Enrico Fermi (1938)
Emilio Segre (1959)
Carlo Rubbia (1984)
Riccardo Giacconi (2002)
Medicina
Camillo Golgi (1906)
Daniel Bovet (1957)
Salvador Luria (1969)
Renato Dulbecco (1975)
Rita Levi Montalcini (1986)
Fratelli d’Italia,
fratelli di crimini
Dal fenomeno del brigantaggio alla nascita della mafia: storia dell’Unità
sotto il profilo della criminalità. Una panoramica dell’Italia di ieri per
conoscere l’Italia di oggi.
di Chiara Curia
Nel corso di tutta la Divina Commedia
Dante fa spesso riferimento all’Italia del
suo tempo, apostrofandola con parole
dure, graffianti, taglienti. Nel VI canto del
Purgatorio, per esempio, pronuncia con
grande foga una delle sue invettive più celebri: “Ahi serva Italia, di dolore ostello,
/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,
/ non donna di province, ma bordello!”.
Viene da chiedersi cosa ne penserebbe ora
Dante della sua Italia unita. Di certo, se fu
possibile unire l’Italia dal punto di vista
geopolitico, ci fu poca attenzione a unire
il paese anche da quello culturale e sociale: conclusa l’impresa dei Mille, acquisirono lo status di cittadini italiani genti
che parlavano idiomi diversi, che aveva-
no avuto una storia diversa e ragionavano
secondo valori e ideali diversi. Nacque
in tale contesto anche la questione meridionale, con il suo carico di reciproche
accuse e incomprensioni. Da una parte
c’erano coloro che lamentavano il fatto
che un’economia vivace e attiva quale era
quella del Regno delle Due Sicilie fosse
stata rallentata, se non addirittura bloccata, dalla “piemontesizzazione”. Dall’altra
quanti, al contrario, propagavano la visione di un Mezzogiorno flagellato dalla miseria e dall’oppressione durante il regno
borbonico, terra di delinquenza, focolaio
di comportamenti asociali e antisociali,
pronto a infettare anche le zone “sane”
della penisola. Affrontare questo proble-
panorama per i giovani
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Foto: iStockphoto.com/BanksPhotos
Ci sono anche gli italiani fra i grandi
della scienza del Novecento
Foto: iStockphoto.com/oneword
150
Laanni
salute
di Unità
nel mondo
d’Italia
ce infette” fu svolta secondo veri e propri po di raggiungere i loro fini politici, che
canoni di repressione e con metodi quali sfruttò i briganti in questa commedia dai
arresti in massa, esecuzioni sommarie, ruoli non ben definiti per poi prenderne le
deportazioni, distruzioni di interi centri distanze.
Collegata all’Unità d’Italia è per molabitati. Nel 1870 il brigantaggio venne
dichiarato eliminato e ciò anche grazie ti anche la crescita delle associazioni di
alla Legge Pica, la stampo mafioso, che ebbe fra le sue cause
quale, in contrasto la corruzione dilagante, la frammentaNel 1870 il brigantaggio venne
con molte disposi- zione del potere e, di conseguenza, deldichiarato eliminato, ma questo
zioni costituziona- la legalità, nonché una scarsa fiducia nel
risultato fu raggiunto anche con
li, colpì non solo i potere centrale. Molte corporazioni merpresunti briganti cantili, così come esponenti della nobiltà
leggi che violavano diritti.
ma anche intere e del clero, avevano cominciato a ingagbuona parte della popolazione contestava famiglie. Per comprendere maggiormente giare gruppi armati al fine di difendere i
da un lato ai piemontesi e dall’altro ai la- tale fenomeno basti pensare che il brigan- propri beni e interessi, fino alla creazione
tifondisti meridionali loro alleati. Pastori, taggio si era già sviluppato precedente- di vere milizie. Queste ultime iniziarono
intellettuali, contadini, ex soldati borboni- mente in maniera sporadica prima sotto il poi a mettersi in proprio, organizzandosi
ci e garibaldini, addirittura rappresentanti dominio francese
del clero si unirono in gruppi di lotta in nel periodo del
Ad avere un ruolo fondamentale
difesa delle proprie terre. Lo scontro por- Decennio, poi dunello sviluppo della mafia fu
tò a una vera e propria guerra civile, che rante la restaurail legame con un territorio
ebbe conseguenze disastrose. Nell’agosto zione borbonica,
del 1861 il generale Enrico Cialdini ven- sebbene in forma
dominato dal latifondismo.
ne inviato nel Meridione con poteri ecce- minore. E saranno
zionali di luogotenenza, con l’obiettivo di proprio i Borbone a sfruttare l’insofferen- in sette o cosche e dando così origine al
sconfiggere il brigantaggio. Nei fatti l’at- za generale creatasi nel Sud Italia per cre- fenomeno mafioso. Ma ad avere un ruolo
tività del generale Cialdini nelle “provin- are queste milizie illegali con il solo sco- predominante nello sviluppo della mafia
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n. 3, settembre-dicembre 2010
Foto: iStockphoto.com (PaoloGaetano; Pictore)
ma significa necessariamente parlare di
criminalità, distinguendo fin dall’inizio la
questione del brigantaggio da quella della
mafia.
Fra le cause del brigantaggio molti studiosi sottolineano il ruolo dei soprusi che
150 anni di Unità d’Italia
fu anche la storia del territorio. Nel corso
dei secoli le regioni meridionali si erano
caratterizzate per la presenza massiccia
dei latifondi. In tale contesto si rafforzò
maggiormente un sistema gerarchico patriarcale che permise il dominio di poche
famiglie sul territorio, spesso in lotta fra
di loro. Ciò che distingueva, e distingue
tuttora, gli appartenenti alle cosche mafiose da tutti gli altri criminali è il fatto
che i picciotti si vantavano della propria
notorietà, continuavano a svolgere vita
attiva all’interno della società e usavano
la propria immagine e i propri mezzi per
far apparire legali azioni che invece tali
non erano. Per poter esercitare le loro attività illecite e il loro potere gli esponenti
della mafia si servono tutt’ora di una fitta rete di amicizie e conoscenze, senza la
quale non potrebbero coprire e proteggere il loro operato criminale. Furono due i
fattori che rafforzarono e svilupparono i
legami fra politica e criminalità organizzata: l’importanza dei lavori pubblici e la
possibilità, con l’ampliamento del suffragio a tutti gli uomini (1919) e poi anche
alle donne (1946), di pilotare il voto delle
masse per far eleggere personaggi vicini
agli interessi mafiosi.
Ci siamo rivolti al professor Nicaso
per approfondire il ruolo che l’unità d’Italia ha svolto nella nascita e formazione
della criminalità. Antonio Nicaso, nato in
Calabria, giornalista e scrittore, è fra i più
importanti esperti di ‘ndrangheta a livello
internazionale e autore di diversi best seller, ben noti al pubblico di tutto il mondo.
Note sono le sue collaborazioni con l’attuale procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria
Nicola Gratteri, con il quale ha scritto libri
come Fratelli di sangue e, recentemente,
La malapianta. Il professore Nicaso insegna Storia della questione meridionale
e Storia delle organizzazioni criminali in
corsi estivi post lauream presso il Middlebury College nel Vermont (Usa).
La prima domanda è d’obbligo: l’Unità d’Italia ha favorito la nascita delle
mafie e quale nesso esiste con il fenomeno del brigantaggio?
Sono indispensabili innanzitutto alcune
considerazioni preliminari molto importanti per inquadrare gli spazi entro i quali ci moviamo. Il brigantaggio e la mafia
sono due cose distinte. Il primo è un mo-
vimento “partigiano” non sovrapponibile
con le organizzazioni criminali di stampo mafioso, che mostra un forte attaccamento alla cultura locale e quindi alla sua
valorizzazione. Parlare di mafia vuol dire
parlare d’altro, perché uno dei suoi caratteri fondanti principali è lo stretto rapporto che crea con la politica. Si tratta di un
rapporto malato, che molto spesso porta
alla sopraffazione delle cosche mafiose
sulla politica, che ne diventa vittima. Già
nei primi anni di vita dello stato italiano,
in Sicilia si crearono contatti fra i politici
e i primi gruppi mafiosi, ma andando ancora più indietro, fino alla spedizione dei
Mille, si trova che molti picciotti siciliani
si unirono alla spedizione. Possiamo dire
che la mafia è un fenomeno che coniuga
vecchio e nuovo, senza i rapporti con la
politica non sarebbe mafia.
Dal 1861 ad oggi cosa è cambiato nel
microcosmo delle organizzazioni criminali di stampo mafioso e quale critica
possiamo fare dal punto di vista della
legalità?
Unificare l’Italia era un gesto che indubbiamente andava fatto, ma di certo il
processo fu molto discutibile e più che di
unità bisogna parlare di unificazione. La
politica sabauda aveva l’obiettivo di piemontesizzare la penisola senza mostrare
segni d’attenzione alle variegate diversità
del paese. Un esempio su tutti: lo Statuto
Albertino, elaborato da diciassette nobili,
scritto in francese, pensato in origine per
una popolazione di sei milioni di abitanti,
fu esteso di colpo a un territorio che di abitanti ne contava circa il triplo. La cultura
del Sud è stata a dir poco sottovalutata e la
sua ricchezza di grandi menti e pensatori
con un forte senso di appartenenza e affetto verso il territorio – un nome su tutti:
Filangeri – venne screditata e zittita.
Lo scrittore Pino Aprile, nel suo libro
recente Terroni, afferma che è stato
molto più facile unificare la Germania
dopo il crollo del muro di Berlino in
dieci anni che l’Italia in centocinquanta. Quanto l’Italia è unita dal punto di
vista criminale e quanto dal punto di
vista della lotta alla mafia?
La Germania, così come l’Italia, subì un
processo di unificazione fra il 1870 e il
1871. La differenza fu che lo stato tede-
sco fu soggetto a un processo di unità graduale, è stato unificato prima dal punto di
vista economico, poi politico. Mettendo
i due modelli a confronto, quello tedesco risulta sicuramente vincente rispetto
a quello italiano, poiché in Italia si cercò
da subito solo un’unità politica. Dal punto
di vista criminale c’è stato un movimento
dal Sud al Nord del paese, anche se non
semplicemente nel senso per il quale ci
sarebbe una zona felice e sana (il Nord
Italia) che è stata “contagiata” dalla vicinanza e dall’unione con la terra maledetta (il Sud Italia). La linea di palma di cui
parlava Sciascia è stata anche l’incontro
terribile fra criminali senza regole del Sud
e pescecani della finanza privi di scrupoli
del Nord.
Sembra quindi che la criminalità organizzata per vivere abbia bisogno di
unità, intesa sotto diversi punti di vista
e a più livelli. Quanto la formazione
dell’Unione Europea ha influito sulla
diffusione della mafia?
La formazione dell’Unione Europea ha
certamente favorito la diffusione delle
mafie e proprio per questo dico che ci
sarebbe bisogno di uno spazio giuridico
comune in tutta Europa, poiché la frammentazione giuridica rallenta il processo
di lotta alle cosche. Ad esempio, alcune
leggi previste in Italia per la lotta alla
criminalità organizzata, quali il regime
di carcere duro (41 bis), non sono valide
in altri paesi, così come è molto difficile
la confisca dei beni all’estero. Lì dove le
mafie si uniscono, la giustizia internazionale si divide.
Fra altri cinquant’anni, quando l’Italia
compirà duecento anni, secondo lei si
parlerà ancora di lotta alla mafia?
Non si smetterà di parlare di mafie finché
non si aggredirà il rapporto mafia-politica. Se dal 1861 ad oggi la mafia è rimasta
forte vuol dire che non siamo stati capaci
di affrontarla a dovere. Bisogna concentrare l’attenzione sul nodo cruciale del
rapporto fra il crimine organizzato e la
politica, che costituisce la spina dorsale
di tutto il sistema. Non basta la sola lotta
giuridica, bisogna parlarne nelle scuole,
perché la mafia si vince non con il sacrificio di pochi, ma con l’attenzione da parte
di tutti.
panorama per i giovani
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150 anni di Unità d’Italia
Se le coccarde per i 150 anni
sono appuntate sulle prime
pagine dei quotidiani
Dai primi mesi del 2010 “Corriere della Sera” e “Stampa” celebrano con
inchieste e rievocazioni l’anniversario dello Stato italiano.
Foto: iStockphoto.com/matteodestefano
di Gabriele Rosana
E dire che se la prendono sempre con le
testate giornalistiche. Prima il comitato di
garanti per le celebrazioni al centro della polemica politica, poi Pompei che si
sgretola lanciando un non proprio icastico spot sull’Italia di oggi, quindi giù con
le sforbiciate agli investimenti in cultura
e istruzione e via con le iniezioni di patriottismo per le belle occasioni, a mo’ di
botulino... Scattare un’istantanea del volto più istituzionale del paese alla vigilia
dell’importante anniversario non è proprio
rincuorante. Eppure i drappi tricolore che
avvolgono questi 150 anni dell’Italia unita, prim’ancora che dai monumenti-icona
imbellettati a festa, pendono proprio dalle
prime pagine dei principali quotidiani nazionali.
Non ci sono solo biglietti d’auguri con
il paese capovolto e i ministeri ridotti a
decori per un albero di Natale precario
già solo a vederlo, ma pretenziosamente vaticinante; né solenni parate militari
con coccarde e present-arm. C’è soprattutto un’Italia che con sobrietà e pacatezza guarda indietro alla propria storia,
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n. 3, settembre-dicembre 2010
si insinua nelle pagine buie, consapevole
che rilettura non fa rima con revisionismo, cosciente che un approccio non urlato non cela affatto dietro di sé i germi
dell’antipatriottismo. C’è l’Italia dei civil
servant, ideali continuatori dell’opera
di chi lo Stato l’ha costruito, nelle varie
epoche, attraversando periodi storici non
poco controversi, nella centellinata trasformazione delle nostre istituzioni. C’è
la piccola Italia delle province, quell’Italia dai cento campanili, erede di una mai
dimenticata storia comunale. C’è l’Italia
che issa il tricolore accanto al vessillo
blu stellato dell’Unione Europea, fedele
nella concretizzazione di un disegno già
articolato da Mazzini. Ci sono la gloria,
l’orgoglio, la consapevolezza, la fama, la
ragionata umiltà...
I quotidiani specchio del paese
Le storie che le penne dei più illustri giornalisti ed esponenti della cultura italiani
hanno affidato alle pagine dei quotidiani
snocciolano momento per momento questa grande, unica storia. Il “Corriere della
Sera” e la “Stampa” hanno puntato sui
cavalli di razza delle proprie scuderie per
raccontare l’Italia, secondo due prospettive tra loro ben diverse.
Centocinquanta date per ripercorrere
insieme gli eventi che hanno fatto l’Italia,
le ricorrenze, i nomi troppe volte relegati
al nozionismo e alle polverose vicende apprese e lasciate sui banchi di scuola: questo l’ambizioso progetto de “la Stampa”,
che ogni domenica, dal 31 gennaio 2010,
orna la sua ultima pagina con i racconti di
una inedita coppia, che non ha mancato
di conferire alle storie la propria carica
anticonformista. Carlo Fruttero, l’ultraottantenne scrittore, e Massimo Gramellini,
l’arguto vicedirettore del quotidiano torinese (quanti dei lettori non sono affezionati al suo Buongiorno sempre in punta
di penna?) hanno raccolto la scommessa
e dal buen retiro di Fruttero in Castiglion
della Pescaia hanno intessuto le trame
dei primi centocinquant’anni dell’Italia
unita: da Vittorio Emanuele II a Sandro
Pertini, da Dorando Pietri a Lucio Battisti. “L’idea che ci ha spinto è quella di
non essere enciclopedici – si rivolge così
ai lettori il direttore de ‘la Stampa’ Mario
Calabresi –, di volervi raccontare tutto,
ma solo di stuzzicare la vostra curiosità, la voglia di saperne di più e provare
a scalfire quel muro di disinteresse verso
il nostro passato che fa di noi un paese
di smemorati”. L’iniziativa che ha preso
le mosse sotto la Mole è presto diventata
un più ampio progetto editoriale e Mondadori ha dato alle stampe, per la collana “Strade blu”, La Patria, bene o male,
raccolta di questi centocinquanta racconti. Nelle pagine del duo che non t’aspetti si va dal 17 marzo 1861, la data della
nascita dell’Italia unita sotto i vessilli sabaudi, al 10 febbraio 2006, quando il paese tornava a sentirsi uno nel capoluogo
piemontese, all’arrivo della fiaccola delle Olimpiadi invernali. Ci sono i fatti di
Erba, grotteschi esempi di un malcostume cronachistico tutto italiano, e la vespa scassata di Roberto Saviano, a fare il
paio con l’assassinio di Carlo Casalegno
e il rivoluzionario Bakunin che fugge da
Bologna travestito da prete. “C’è cronaca
rosa e cronaca nera, sinistri figuri accanto
a purissimi eroi, non manca Pavarotti ma
è assente la Callas, c’è il Vajont ma non
il Polesine. Primo Carnera, Enrico Cuccia e Alberto Sordi non sono chiamati sul
palco, solo citati di sfuggita”, spiegano
150 anni di Unità d’Italia
Fruttero e Gramellini nella prefazione.
Spalmate nell’arco dei quindici decenni
ci sono date per così dire “obbligatorie”,
da cui non poter prescindere nell’affresco
dell’Italia, ma altre inserite a discrezione
dei narratori, che sin dalle prime battute
escludono un lavoro di cesellatura storica; Tucidide, Tacito e Machiavelli rimangono sullo sfondo, come maestri “che ci
hanno insegnato come la Storia obiettiva,
imparziale, definitivamente veritiera non
esiste, ma può essere soltanto un’aspirazione, una meta intravista ed irraggiungibile”. Nasce così questo almanacco essenziale dell’Italia unita: la Patria, bene o
male. La Patria nel bene e nel male: “un
Paese irritante, fastidioso, quasi sempre
dilaniato da emotività contrapposte e che
potrebbe fare molto di più, come dicevano gli insegnanti alle nostre mamme”.
Da Milano il “Corriere della Sera”
rispolvera un progetto che aveva lanciato già quarantacinque anni fa, con Indro
Montanelli, Piero Ottone, Alberto Cavallari, Giovanni Russo e Gianfranco Piazzesi. Italia sotto inchiesta rappresentò la
testimonianza di un’epoca, la fotografia di
una realtà politica, sociale ed economica.
Un viaggio in lungo e in largo per la penisola, per calarsi nelle realtà locali e raccontare l’Italia di oggi. Una sfida raccolta
da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, la
coppia che ha scalato la top ten dei libri
più venduti con La Casta (Rizzoli, 2007)
e ha inaugurato una serie di inchieste sui
malcostumi del paese, a cominciare dalla
sua classe politica.
Da Partinico a Curtatone, da Aosta a
Santa Maria Capua Vetere, da Quarto a
Trieste, da L’Aquila a Pontida, da Livorno a Teano, da Bronte a Novara, da Zara
a Melfi: le due penne di punta di via Solferino, dal febbraio scorso, attraversano
il paese e fanno tappa nelle realtà locali
che in questi 150 anni hanno segnato in
un modo o nell’altro la costruenda Italia
(di notevole interesse il ritratto storico
del luogo che un’altra firma svolge nella
pagina immediatamente seguente), con
inevitabili e gustose appendici sui fatti
di cronaca più recenti, sui fascicoli dei
tribunali che non mancano mai, sulle
stranezze delle nostre province, come
nello stile cui Stella e Rizzo ci hanno
abituati sulle colonne del “Corriere”.
Uno stile che si rivolge al paese, partendo da ieri, per parlare dell’oggi, in vista
del domani.
Leggere, studiare e ricordare.
O il paese non andrà lontano
Intervista a Gian Antonio Stella.
a cura di Gabriele Rosana
La voce di Gian Antonio Stella è temprata
già di prima mattina, all’altro capo del telefono. La firma di punta del “Corriere della
Sera” sta viaggiando su e giù per l’Italia che
si avvia a celebrare i suoi 150 anni, insieme
al collega di sempre Sergio Rizzo, per offrire ai propri lettori il ritratto della penisola
di oggi. Un’operazione che al quotidiano di
via Solferino mancava dagli anni Sessanta.
Questo mi pare un costume tutto italiano.
La nostra inchiesta è basata tutta sull’oggi,
ma nel momento in cui andiamo in Calabria,
per esempio, nei luoghi in cui la repressione
del brigantaggio è stata feroce, non possiamo non chiederci quanto ha inciso la responsabilità di chi non ha voluto affrontare i
problemi rispetto alle ostilità presenti ancora oggi nei confronti dello Stato.
Come nasce l’appuntamento del sabato
Visioni d’Italia?
Quante volte, nelle realtà visitate, sente
parlare di patria?
Erano anni che avevamo in mente di intraprendere un viaggio a tappeto di questo
tipo, ben sapendo che sarebbe stato molto
faticoso. L’ultimo risale al biennio 19631965, quando cinque giornalisti del “Corriere” (Montanelli, Ottone, Russo, Cavallari
e Piazzesi) batterono in lungo e in largo il
paese realizzando quello che poi sarebbe diventato il libro Italia sotto inchiesta.
Il sentimento di patria è un po’ ammaccato,
ma non del tutto scomparso dal cuore del
popolo italiano. Anzi, penso che sia in forte
rinascita, anche per reazione nei confronti di
alcuni eccessi della Lega al Nord e dei neoborbonici al Sud. Insomma, abbiamo letto
scempiaggini di ogni genere!
Alla fine tocca ai giornalisti spesso così bistrattati tenere il polso del paese. Lei, attraversando l’Italia, quanta memoria condivisa ha percepito in giro? Quanto la voglia
di ricordare trascende le commemorazioni
scolastiche e gli inni (ahinoi, sempre più
scarseggianti) strimpellati nei comuni di
provincia (quando qualche amministratore non opta per il verdiano Nabucco)?
Rispetto a quella che è una vera e propria
manipolazione della storia da parte di alcuni
settori, devo dire che sento un positivo fastidio. L’errore è stato iniziale, da parte di
chi – storici e istituzioni scolastiche – non
ha voluto riflettere sin da subito sugli errori
commessi dal Risorgimento. Ognuno ci ha
così raccontato i pezzi di storia che gli facevano comodo, producendo storture (notevole eccezione fu, però, il deputato milanese
Giuseppe Ferrari, che portò subito davanti
al neonato Parlamento italiano l’eccidio di
Pontelandolfo, dove per una ritorsione contro 40 soldati italiani persero la vita oltre
400 inermi cittadini). Pensiamo, però, alla
battaglia di Sand Creek. Forse per gli errori
commessi all’epoca delle guerre indiane gli
Stati Uniti hanno buttato via la loro storia?
L’Italia di ieri e gli italiani domani. Con
L’Orda è stato tra gli antesignani del tema
dell’accoglienza dello straniero. Cosa direbbe suo nonno Tony Caio, che mangiò pane
e disprezzo in Prussia e Ungheria, dell’Italia di oggi che sputa a quelli come lui?
Basta leggere quello che ha dichiarato qualche giorno fa Salvini della Lega, il quale si
inventa che certi reati ci sono sempre stati, ma
da quando ci sono gli immigrati ce ne sono
di più. Ma che statistiche ha? Oggi ci sono
un quinto dei reati degli anni Ottanta! Non è
possibile vomitare addosso agli immigrati in
questo modo! Anche perché, parliamoci chiaro: se non ci fossero gli immigrati la situazione dell’Italia sarebbe oggi molto più pesante.
Non dimentichiamo che se è vero che oggi gli
immigrati sono circa il 7% della popolazione e producono, secondo le stime, addirittura
l’11,2% della nostra ricchezza, con una battuta paradossale potremmo dire che sono come
i lombardi. Entrambe le categorie producono
molto più di quanto dovrebbero se consideriamo solo i dati percentuali.
Come ha visto nei racconti della gente il
filo rosso Risorgimento-Resistenza-Costituzione? L’Appennino è ancora venato
dal sangue dei partigiani?
panorama per i giovani
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29
150
Laanni
salute
di Unità
nel mondo
d’Italia
Penso che la Resistenza sia stata una fase
straordinaria della nostra storia. Dio la benedica: meno male che c’è stata! Detto questo
bisogna anche ammettere, purtroppo, che
l’appropriazione della Resistenza per tanto
tempo da parte della sinistra – per cui pareva che l’avessero fatta solo socialisti e comunisti – ha fatto sì che la condivisione di
questa stupenda fase della nostra storia sia
venuta meno. È stato un gravissimo errore
della sinistra che non ha mancato di causare
gravi danni. Credo che tutta la storia italiana
debba esser riletta. E riletta in maniera diversa, senza più appropriazioni di pezzi di storia
scomposti a seconda di quello che serve, per
cui la Lega della storia d’Italia va a prendersi solo Pontida (che è tutto fuorché leghista,
peraltro: nel Ventennio era sede delle adunate fasciste, come ci rammenta l’Eco di
Bergamo!) o la catastrofica battaglia di Lissa
(definita sui siti Internet dei venetisti come
la vittoria della marina austro-veneta contro
la massoneria italiana!), e altri il fatto che i
Borboni hanno costruito la prima ferrovia
d’Italia, senza tener conto di tutta la storia
nel suo insieme, che ci dice che nel 1861 la
sproporzione fra le ferrovie costruite al Nord
e quelle del Regno delle Due Sicilie era assolutamente schiacciante e persino umiliante
per quest’ultimo. Per cui, se cominciassimo
a studiare la storia tutta insieme, luci e ombre, forse un po’ alla volta riusciremmo a
ricostruire un comune sentire di cui questo
paese ha drammaticamente bisogno.
Il Presidente Ciampi titola amaramente
il libro Non è il paese che sognavo dato
alle stampe qualche settimana fa. La sua
generazione cosa si aspettava dall’Italia?
I ragazzi di destra hanno vissuto in modo
strumentale il patriottismo, vedendovi
un’arma da usare contro i comunisti per distinguersi e fare a botte con loro. È anche
vero, però, che un’altra fetta della mia generazione non ha minimamente avvertito
l’importanza dell’idea di patria, recuperata
solo in seguito. Ricordo che la stessa sinistra che adesso si scandalizza con la Lega
aveva la bandiera italiana nel simbolo, però
questa era seminascosta dietro la bandiera
rossa, lì ferma in primo piano. Il che non è
un dettaglio da poco. Va detto che effettivamente c’è stata, sotto questo profilo, una
riflessione seria da parte dei progressisti italiani, che ha portato a un cambiamento di
posizione molto netto su questi temi. Oggi il
centrosinistra italiano ha fortunatamente una
30
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n. 3, settembre-dicembre 2010
idea di Risorgimento ben diversa da quella
di Togliatti, il quale arrivò a dire che il Risorgimento è per gli italiani come la fanfara
per gli sfaccendati. Un giudizio tremendo
del tutto impossibile da condividere.
Forse che la questione Nord-Sud era
meno esplosiva durante la Prima Repubblica?
La Prima Repubblica effettivamente ha avuto tanti difetti, ma la Dc ha diritto a vedersi
riconosciuto l’aver provato a tenere insieme
questo paese senza lasciare spazio agli egoismi che si vedono oggi. Ai democristiani
bisogna dar atto di aver contenuto le spinte
razziste e questo va a loro onore. Oggi alcuni grandi partiti non si regolano così, ma
giocherellano col razzismo, ammiccano, dicono e non dicono per andarsi poi a prendere i voti. E questo crea danni al paese.
Ma è anche vero che l’Italia non rischia
di fare la fine delle Fiandre e della Vallonia...
Chi l’ha detto? Non sono così ottimista.
Stiamo alla larga da paragoni che possono
spaventare ed essere anche eccessivi, però,
sinceramente, avevano cominciato ridendo
anche dalle altre parti. In Serbia ridevano
quando Karadzic cominciò a dire che i serbi sono una razza superiore perché hanno
il femore più lungo d’Europa. Ridevano.
Certo che c’era da ridere, poi però è finita
con le teste mozzate a Srebrenica. Insisto:
non voglio fare paragoni; la situazione è
completamente diversa, siamo in Europa.
Facciamo tutti i distinguo possibili e immaginabili, però, alla fine della fiera, l’unica
cosa che mi pare impossibile da sostenere è
che quando una cosa fa sorridere debba per
forza finir bene. Non è così: alcune cose nascono in un certo modo e poi vanno a finire
male, anche a prescindere dalla volontà dei
protagonisti.
Anche a prescindere dai sentimenti dei
tanti semplici cittadini che magari non
condividono gli slogan urlati?
Cito uno scrittore che ho amato, Fulvio Tomizza, che nel suo libro Materada racconta
la storia del paese istriano in cui era cresciuto, dove vivevano italiani e slavi. Tomizza
stesso era figlio di un italiano e di una slava ed era perfettamente bilingue; si sentiva
istriano, non avrebbe mai rinunciato al suo
pezzo di carne italiano e al suo se stesso slavo. Poi, una parola tira l’altra, si comincia
con delle minuzie e i conflitti deflagrano.
“Devono ancora inventare un lievito che
gonfi come gonfia l’odio”, scrive Tomizza.
Una frase che io condivido totalmente: non
so come meglio spiegare il tipo di meccanismo che si genera con il razzismo e con
l’odio.
Come evitare un approdo così catastrofico per l’Italia?
Bisogna leggere, studiare, andare a rivedere
la nostra storia, rivederla tutta! Riflettere sugli errori commessi dal Risorgimento, così
da ricostruire la nostra storia andandola a
riprendere filo per filo e rimetterla a posto.
L’imperativo di D’Azeglio si ripercuote
nella quotidianità. Bisogna fare gli italiani giorno per giorno.
Certo, questo è fuori discussione. Se non
pensassi questo farei un mestiere più facile!
Un imperativo a cui Gian Antonio Stella si uniforma attraverso la sua attività
giornalistica.
Io sono cimbro e quindi di origine tedesca,
tutta la mia famiglia è di origine tedesca. I
cimbri sono arrivati nell’altopiano di Asiago nel IV secolo: abbiamo uno storia che ha
1.600 anni di autonomia! Ma l’idea di battermi per costituire la repubblichina dell’altopiano di Asiago mi fa ridere. Andare a
chiedere come alcuni indipendentisti sardi
che venga denunciato un trattato del 1847
mi fa ridere! Il mondo è cambiato completamente, s’è fatto più piccolo, siamo in Europa, siamo tutti interdipendenti. Anch’io
son fiero delle mie origini, ci mancherebbe
altro. Ma io mi sento asiaghese, vicentino,
veneto, italiano ed europeo! Guai a chi mi
tocca un pezzo di questa mia identità: sparo!
Giù le mani dalla molteplicità di identità!
Messa giù la cornetta, il pensiero non può
non correre a quanto diceva Curzio Malaparte: “Vi sono due modi di amare il proprio
Paese: quello di dire apertamente la verità
sui mali, le miserie, le vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto
il mantello dell’ipocrisia, negando piaghe,
miserie, e vergogne (…) Tra i due modi,
preferisco il primo”. Un giornalista non può
che scegliere questo.
Deputazioni di storia patria
e società storiche
Come preservare la storia delle nostre regioni.
Foto: iStockphoto.co/Nikada
di Giuseppe Grazioso
Risale alla prima metà dell’Ottocento la
diffusione in tutta l’Europa occidentale
di un rinato spirito culturale teso a riscoprire la storia e le tradizioni del passato. Tale tendenza si esplicava non tanto
nella riscoperta della “storia classica”,
quanto piuttosto nello sforzo di ricostruire il corso degli eventi dai primi secoli
dopo l’anno Mille. Si pensi alla nascita,
nei primi decenni del XIX secolo, del romanzo storico, genere di così ampio successo da indirizzare ancor di più l’attenzione di molti ambienti culturali europei
verso lo studio e soprattutto la diffusione delle fonti storiche. Questo generale
orientamento finalizzato a indagare il
passato e in particolare gli avvenimenti
che avevano contribuito alla formazione
degli Stati che componevano la penisola
era un’attività dispendiosa e di difficile
del Regno di Sardegna. Nacque così la
Regia Deputazione di storia patria (oggi
Deputazione subalpina di storia patria),
con sede a Torino e l’obiettivo di studiare
e divulgare la storia del Regno. Con una
collana composta da circa una ventina di
volumi pubblicati dal 1836 al 1898, dal
titolo Historia Patriae Monumenta, questo istituto fu il primo a offrire una chiara
raccolta dei trascorsi del regno, in special
modo per l’antologia di fonti storiche
medioevali in essa contenuta. Dal 1896
cura la redazione del “Bollettino storicobibliografico subalpino”. L’istituzione,
nonostante il suo carattere prettamente
culturale, era un primo segno del ruolo
preminente che il regno sabaudo avrebbe
assunto durante il Risorgimento in tutta la
penisola italica. Con il decreto del 21 feb-
conduzione. Pochi, volenterosi intellettuali non avevano la possibilità di raccogliere una mole di informazioni tale da
ricostruire la storia di uno Stato, anche
se di piccole dimensioni. La carenza di
mezzi per la diffusione di tali ricerche
rendeva l’attività di pubblicazione piena
di ostacoli.
Ad assecondare l’amore per l’erudizione storica intervenne anche il Re
Carlo Alberto di
Savoia, che meNel 1833 Carlo Alberto diede vita
diante il Regio
a un istituto con la funzione di
Brevetto del 20
raccogliere e pubblicare scritti
aprile 1833 diede
di carattere storico.
vita a un istituto
con la preziosissima funzione di raccogliere e pubblicare braio 1860, l’operato della deputazione
scritti di carattere storico e far circolare stessa era esteso a parte della Lombardia
periodici che documentassero i trascorsi annessa al regno. Anche questo era un se-
panorama per i giovani
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31
150
Laanni
salute
di Unità
nel mondo
d’Italia
gnale di come i Savoia avrebbero voluto
esportare nei territori conquistati le loro
istituzioni.
L’unicità di questa società storica
venne meno quando Luigi Carlo Farini
fondò la Deputazione per province di
Romagna. A Parma fu istituita la Deputazione delle province parmensi (Parma
e Piacenza) e a Modena quella delle province modenesi (Modena, Massa Carrara,
Reggio Emilia), il 10 febbraio 1860. Con
l’unità questa società storica pubblica la
“Miscellanea di storia italiana”, un’opera con il precipuo interesse di “estendere
dall’alto degli studi storici la benefica
sua influenza sopra la penisola intera”.
Con il neonato Stato italiano il processo
di formazione di queste società a carattere regionale si intensificò, in alcuni casi
per un rinvigorimento dell’amore per gli
ormai scomparsi stati preunitari, in altri
per la volontà di consolidare i valori comuni degli italiani.
Nel 1862 Giovan Pietro Vieusseux
propose la fondazione di un’altra deputazione di storia patria con sede a Firenze e
che si interessava anche delle altre province toscane e dell’Umbria (Regio Decreto
27 novembre 1862), cui si aggiunsero poi
anche quelle delle Marche (Regio Decreto 19 luglio 1863).
Il Re Vittorio Emanuele II decise di
fondare in Lombardia una società analoga a quella piemontese. Nasce nel 1873
la Società storica lombarda, grazie agli
indispensabili apporti di Cesare Cantù.
Una deputazione che raccogliesse i trascorsi delle province venete fu istituita
nel 1874, con lo scopo di promuovere
gli studi sulla “storia delle regioni veneta, tridentina, giulia ed adriatica e, per
il periodo del dominio veneziano, delle
province e dei luoghi che furono soggetti o formarono parte della Repubblica di
Venezia”. Nel 1918, come risultato della
dell’attività della deputazione toscana, teca di questa deputazione, che conta
sorgevano una deputazione marchigiana circa 350.000 volumi, che costituiscono
(Regio Decreto 30 marzo 1890) e una un’inestimabile ricchezza culturale per
deputazione umbra (1896). La Deputa- l’ente. In Campania sono presenti anche
zione di storia patria per le Marche mira- la Società di storia patria salernitana,
va a “raccogliere, scegliere e pubblicare istituita nel 1920 dal bibliofilo Paolo
storie, cronache, statuti, documenti, no- Emilio Bilotti, e quella casertana, denotizie, di ogni tempo e specialmente del minata Società di storia patria di Terra
Medioevo, che siano di capitale impor- di lavoro.
Nel resto del Meridione ritroviamo
tanza alla illustrazione della storia civile,
militare, giuridica, economica, letteraria numerose deputazioni: in Calabria, Basilicata (le deputazioni inerenti a queste
e artistica”.
Intanto all’iniziativa statale veniva ad due regioni sono state unite fra loro fino
aggiungersi e sovrapporsi quella di natura al 1956) e in Puglia (dove ci sono due
privata, con la fondazione di società sto- società). In Liguria operano una società
riche, alcune delle quali furono successi- savonese e un’altra genovese. Di più revamente trasformate in deputazioni. È il cente istituzione è la Società storica pisacaso della società abruzzese, che nacque a na, nata nel maggio 1930 con la finalità di
L’Aquila il 26 settembre 1888 come ente “promuovere gli studi di storia pisana o
privato: Società di storia patria ‘A.L. An- comunque attinenti alla storia di Pisa e di
tinori’ negli Abruzzi. Con il Regio Decre- dare opera alla ricerca, alla conservazioto del 16 gennaio 1910 venne convertita ne, alla pubblicazione e all’illustrazione
in Regia Deputazione di storia patria. Allo del materiale storico relativo, di diffonstesso modo, quella che diventerà la de- dere la conoscenza della storia e dell’arte
putazione siciliana era nata già nel 1863 pisana”.
A questa condizione di profonda diin forma privata, con uno sparuto gruppo
di intellettuali che si riuniva nell’abitazio- somogeneità si reagì fin dal 1878 con
ne dello studioso palermitano Agostino diversi congressi, che dovevano riunire
Gallo.
Altra società
Per ridurre la grande
che non poté godisomogeneità fra le società
dere del riconostoriche, nel 1883 venne fondato
scimento da parte
del regno è stata
l’Istituto Storico Italiano.
la Società romana
di storia patria (alla cui creazione diede gli esponenti delle società e delle depuforte impulso il letterato Ernesto Mona- tazioni. A cercare di assicurare il coorci), nata il 5 dicembre 1876 con il fine di dinamento delle attività fu il Regio De“pubblicare documenti illustrativi della creto del 25 novembre 1883, che diede
storia della città e provincia di Roma in vita all’Istituto storico Italiano (voluto
tutti i suoi rapporti dalla caduta dell’Im- da Ernesto Monaci stesso). Questo orpero alla fine del secolo decimottavo ed gano, il cui vertice era composto da 15
un Bollettino annuale di studi e memorie membri, 4 di nomina regia, 6 delegati delle società e 5 rappresentanti delle
concernenti la storia medesima”.
La prima Società napoletana di sto- deputazioni, ebbe purtroppo vita breve
ria patria risale (scomparve a metà degli anni Trenta) e
al 1843, ma ri- scarsa efficacia.
Con l’Unità d’Italia il processo
Oggigiorno le deputazioni e le sociecevette riconodi formazione di società
scimento statale tà hanno ampia autonomia. Ce ne sono
storiche a carattere regionale si
nel 1875. Questo una trentina sparse per la penisola che
istituto si distin- continuano a pubblicare bollettini, “Atti
intensificò.
se per una spic- e Memorie” o archivi storici. Essi rapseparazione dalla deputazione veneta, cata dedizione filologica e vanta tutto- presentano una fondamentale fonte di
nascerà quella per il Friuli, che veniva ad ra un’indubbia fama, accresciuta dalla ricchezza, anche perché, assieme alle
unirsi con la Società storica friulana, già pubblicazione del periodico “Archivio università, sono gli unici centri di raccoloperante dal 1911 a Udine grazie all’ap- Storico per le Province Napoletane” (fu ta della storia di un determinato territoporto di Pier Silverio Leicht. Con distac- curato dal 1899 al 1932 da Benedetto rio. Va quindi considerata fondamentale
co delle rispettive province dall’ambito Croce). Merita di essere citata la biblio- la loro tutela.
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n. 3, settembre-dicembre 2010
150 anni di Unità d’Italia
La Società siciliana di
storia patria
Breve storia di una delle più importanti istituzioni culturali in Sicilia.
Foto: iStockphoto.com/majaiva
di Carmelo Di Natale
“L’aspetto politico della Sicilia è cangiato. Essa era serva cinta di ceppi e di catene: ora è libera per prodigio. Ella sente
una nuova vita, una gioja fin qui ignota,
incommensurabile. Il suo tripudio cresce
quando volgendo l’occhio alle condizioni
presenti del mondo, ben si accorge che il
suo avvenire è saldo, che la sua redenzione non può aver nemici allo straniero. La
Sicilia non vorrà perder tanto bene per sua
colpa od improvvidenza. Ella sarà saggia
e prudente, perché ben conosce avere assai d’uopo di queste due virtù per reggersi
opportunamente nella presente sua posizione. Lascerà l’entusiasmo alla guerra,
ove sventura la rendesse necessaria, ma
tratterà con maturo giudizio la politica e
le leggi. Adatterà queste allo stato della
sua civiltà, ai suoi costumi, a tutti gli elementi che compongono la sua vita. Lascerà l’Inghilterra agli inglesi, la Francia ai
francesi e acconcerà se stessa ai siciliani.
Così ella marcerà l’un di più che l’altro
verso quella piena e larga libertà che è il
suo bel destino, se i suoi figliuoli per troppo affetto ed alcuno di essi per sfrenati
appetiti non lo muteranno. […]”.
Questo passo tratto dal Discorso di un
cittadino con sé medesimo, un interessantissimo documento attribuito (sia pur con
qualche dubbio) all’intellettuale messinese Giuseppe La Farina, ben rappresenta
la peculiarità del Risorgimento siciliano
(cfr. S. Avveduto, Messina nell’Ottocento, Editalia).
L’intellighenzia che ne fu guida era infatti ben lontana dall’idea di costruzione
di uno stato italiano di cui la Sicilia costituisse l’estrema periferia, ma puntava
piuttosto ad affrancare definitivamente
l’isola (sede di uno dei più antichi parlamenti del mondo) dal dominio straniero,
rappresentato da un lato dall’odiata dinastia borbonica e da Napoli e dall’altro
dall’indiscussa egemonia economica e
strategica degli inglesi, presenti nell’isola
ormai da molto tempo. “Lascerà la Francia ai francesi, l’Inghilterra agli inglesi ed
acconcerà se stessa ai siciliani” proclama
aulico l’autore del prezioso testo.
L’accesso a siffatti documenti è di
fondamentale importanza per approfondire in modo critico e proficuo l’assai
complessa storia risorgimentale siciliana;
Palermo (a sinistra, la Cattedrale) è la sede
della Società siciliana di storia patria (www.
storiapatria.it).
l’istituzione che da quasi centocinquanta
anni si occupa di raccogliere, restaurare,
studiare e ripubblicare testi come questo è
la Società siciliana di storia patria, la costola siciliana del sistema nazionale delle
Deputazioni di storia patria. Tale istituto
nasce nel 1863, appena due anni dopo
l’unificazione nazionale, con il nome di
Assemblea di storia patria; non si trattava
tuttavia di un vero e proprio organismo
strutturato, ma piuttosto di un circolo
informale di studiosi di storiografia siciliana che si riuniva periodicamente a Palermo. L’Assemblea pubblicò nel 1864 il
volume Atti e documenti inediti e rari e si
sciolse subito dopo, per far posto alla più
strutturata Nuova società per la storia di
Sicilia, con sede a Palermo e presidenza
affidata al grande giurista Emerico Amari. La nuova istituzione conobbe alterne
fortune; ad ogni modo nel 1873, grazie
alla collaborazione tra stimati intellettuali
– come l’archeologo Antonio Salinas e il
grecista Giuseppe De Spuches – e l’Archivio di Stato di Palermo, si diede avvio
alla redazione del periodico “Archivio
Storico Siciliano”, un volume di elevato
spessore culturale pubblicato con cadenza
annuale dal 1873 ad oggi che raccoglie articoli sulle più diverse materie legate alla
storia, alla cultura e al folklore dell’isola.
Di lì a poco il prefetto di Palermo, su sollecitazione del Ministero della Pubblica
Istruzione, chiederà ai redattori della rivista di costituirsi in una società storica, in
conformità alle deputazioni di storia patria
già presenti in altre aree del paese. Veniva
inaugurata così nel 1875 la Società siciliana di storia patria, con sede a Palermo e
alcuni dei più importanti nomi dell’intellettualità siciliana come membri.
Oggi la Società siciliana di storia patria è sicuramente una delle più importanti
istituzioni culturali in Sicilia; oltre all’“Archivio Storico Siciliano”, il periodico con
cui è nata, pubblica numerose monografie
e una vasta collezione di documenti storiografici originali. La Società ospita inoltre
una grande biblioteca, aperta al pubblico,
con oltre 100.000 volumi e 1.500 riviste,
e un Museo del Risorgimento siciliano; la
sua opera di ricerca e divulgazione contribuisce in modo determinante a mantenere
viva la memoria storica siciliana.
panorama per i giovani
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150
Laanni
salute
di Unità
nel mondo
d’Italia
Risorgimento
e Resurrezione
Cenni storici sul rapporto tra Stato e Chiesa dall’Unità d’Italia in poi.
di Martina Zollo
rio dalla fondazione della testata, con la
collaborazione dell’attuale direttore, Gian
Maria Vian.
Alla luce della complessità storica,
istituzionale e politica dei rapporti che
intercorrono tra Chiesa cattolica e Repubblica italiana,
l’affermazione del
La politica ecclesiastica del
Presidente della
neonato Regno d’Italia era
Repubblica assuispirata dal principio liberale della me un significato
davvero particoseparazione fra Stato e Chiasa.
lare. Per questo
Vaticano, dedicato ai 150 anni dell’“Os- può essere utile ricordare almeno alcuni
servatore Romano”. E pensare che tale momenti principali della storia di questa
“singolarissimo giornale” era nato “con- relazione.
Il neonato Regno d’Italia proseguì la
tro l’unità d’Italia e contro i suoi principali artefici”, come rileva l’ambasciatore politica ecclesiastica dello Stato sabaudo
d’Italia Antonio Zanardi Landi nell’intro- (che fu uno dei principali attori del produzione al volume edito per l’anniversa- cesso risorgimentale dell’unificazione
Foto: iStockphoto.com (fotoVoyager; PaoloGaetano)
“I rapporti fra l’Italia e il Vaticano sono
oggi davvero eccellenti”. A dichiararlo
è il Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano, in occasione di un convegno
a palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata italiana presso lo Stato della Città del
34
•
n. 3, settembre-dicembre 2010
italiana), ispirata dai principi liberali del
separatismo tra corpo statale e Chiesa. La
legislazione piemontese in merito fu estesa via via ai territori annessi, radicalizzandone lo spirito anticlericale. La Chiesa, da
parte sua, utilizzò come “arma di difesa”
l’enciclica Quanta cura del 1864: in essa
condannava il liberalismo e ribadiva le
proprie prerogative e immunità. Significativa fu anche l’affermazione del dogma
dell’infallibilità del Papa nel Concilio Vaticano I.
Evento critico fu naturalmente la presa di Roma. Nel 1870, alcune settimane
dopo la caduta di Napoleone III, che era
stato garante dell’equilibrio tra Regno
d’Italia e Stato Pontificio, l’esercito regio guidato dal generale Cadorna entrò
in Roma. Ciò segnò la caduta dello Stato
della Chiesa e la sua annessione al Regno
d’Italia. Il 3 febbraio 1871 Roma fu dichiarata capitale del Regno d’Italia, come
auspicato nel famoso discorso di Cavour
del 1861 alla Camera dei Deputati (lo
stesso dell’affermazione del principio
“Libera Chiesa in libero Stato”). Si apre
dunque la cosiddetta “questione romana”,
controversia politica relativa al ruolo di
Roma, sede del potere religioso del Papa
e insieme capitale d’Italia.
150 anni di Unità d’Italia
Successivamente, la situazione fu
regolata dalla legge delle Guarentigie,
la quale – come dice il suo nome – stabiliva precise garanzie per il Papa e per
la Santa Sede, quali gli onori sovrani al
Papa, la facoltà di conservare guardie armate e la proprietà dei palazzi apostolici
e di godere dell’esenzione dalla giurisdizione italiana. Inoltre, lo Stato garantiva
la libera partecipazione dei cardinali al
conclave, il diritto di rappresentanza diplomatica e la corrispondenza di una dotazione annua per il mantenimento della
corte pontificia. In sintesi, la legge pose
in atto i principi del separatismo, pur con
qualche limitazione.
La reazione del pontefice dell’epoca,
Pio IX, fu delle più drastiche: condannò
i fatti successivi alla breccia di Porta Pia
e rifiutò la legge delle Guarentigie. Soprattutto si dichiarò “prigioniero nel Vaticano” e nel 1874 affermò in via ufficiale che non era conveniente per un buon
fedele partecipare alle elezioni politiche
(il cosiddetto non expedit, letteralmente ve (il “clerico-moderatismo”). Sintomo
“non conviene”). Questa presa di posi- di questi cambiamenti è l’enciclica di
zione pontificia, che mirava a indebolire Pio X Il fermo proposito, del 1904, che,
le nuove istituzioni vietando ai cattolici se da un lato ribadiva il non expedit, ne
di essere eletti o elettori, fu confermata consentiva tuttavia ampie eccezioni, che
per un trentennio, formalmente fino al si moltiplicarono col passare del tempo:
1919, senza peraltro sortire l’effetto spe- fra tutte spicca il Patto Gentiloni, ossia
rato.
l’intesa tra Giolitti e il conte Gentiloni,
Lo Stato reagì con norme restrittive: presidente dell’Unione cattolica italiana,
si esclusero gli
ecclesiastici da
Evento critico nei rapporti fra
alcuni uffici e si
Stato e Chiesa fu la presa di Roma;
vietò l’insegnail 20 settembre 1870 i bersaglieri
mento della teologia nelle universidi Cadorna entravano nella città.
tà, nonché la fondazione di una libera università da parte in occasione delle elezioni politiche del
dei docenti cattolici che si erano ritirati 1913.
dall’ateneo romano. Questa non è che una
Di lì a qualche tempo, i traumi che
minima parte dei numerosi provvedimen- accompagnarono e seguirono la Prima
ti legislativi con i quali, nell’ultimo ven- Guerra Mondiale influirono senza dubbio
tennio dell’Ottocento, l’Italia ormai unita sulle vicende che stiamo considerando: i
inflisse “colpi di spillo” a una Chiesa che cattolici, anche provenienti dai seminari
mostrava di non ritenere ancora definitiva o dai conventi, parteciparono appieno al
l’Unità.
conflitto, dimostrando un vivo spirito paIn seguito si ebbe una lenta distensio- triottico.
ne dei rapporti e un graduale riavvicinaAl termine della guerra, fecero irruziomento tra le parti, al quale contribuirono ne sulla scena politica i cosiddetti “partiti
in diversa misura i successori di Pio IX: di massa”: tra questi il Partito Popolare
Leone XIII, ovvero il Papa che con l’en- Italiano, fondato nel 1919, la cui anima
ciclica Rerum novarum diede inizio nel era un sacerdote siciliano, don Luigi Stur1891 alla dottrina sociale della Chiesa, zo. A questo punto l’abolizione del non
Pio X, Benedetto XV e infine Pio XI. expedit fu solo una formalità, “sbrigata”
Contemporaneamente, l’affermazione da Benedetto XV.
politica dei partiti d’ispirazione socialiInoltre le sedute per le trattative di
sta favorì l’alleanza tra cattolici e liberali pace a Parigi diedero occasione ai presimoderati in molte elezioni amministrati- denti del consiglio dell’epoca, Orlando
Sopra il titolo: San Pietro. A destra:
Porta Pia a Roma; fu nei pressi di questa
porta (progettata da Michelangelo) che i
bersaglieri di Cadorna aprirono una breccia
nelle mura aureliane ed entrarono nella
città.
panorama per i giovani
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nel mondo
d’Italia
Foto: iStockphoto.com/PaoloGaetano
A sinistra: il monumento in onore dei
bersaglieri che si trova di fronte a Porta
Pia.
pressioni degli irredentisti e l’avventura
dannunziana di Fiume erano altri sintomi di un malcontento crescente che
avrebbe, di lì a poco, favorito l’ascesa
al potere del fascismo (1922), il quale
riprese e riformulò la politica legislativa in materia ecclesiastica.
Il programma proposto dal movimento
fascista alle elezioni del 1919 prevedeva,
a dire il vero, provvedimenti anticlericali:
ma in quelle elezioni i fascisti non riuscirono a mandare in Parlamento alcun deputato. Avendo ottenuto il mandato parlamentare con le elezioni anticipate del 1921,
Mussolini cambiò radicalmente il proprio
programma di politica ecclesiastica: nel
suo primo discorso alla Camera sottolineò l’importanza del papato e prospettò
l’opportunità di migliorare le relazioni tra
esso e lo Stato, affinché quest’ultimo ne
traesse maggior influenza sullo scacchiere
mondiale. Tale cambiamento di strategia
è riconducibile alla fusione dell’ideologia
fascista con quella nazionalista, che aveva
fatto propria l’idea che la religione cattolica, in quanto tradizione culturale del
popolo italiano, fosse un prezioso collante
per l’unità spirituale della nazione.
Queste convinzioni di fondo ispirarono
l’introduzione di norme come quella del
1923 che dichiarava la dottrina cristiana,
secondo la forma ricevuta nella tradizione cattolica, fondamento e coronamento
dell’istruzione in ogni suo grado. L’anno
prima e Nitti poi, di aprire un dialogo seguente lo Stato riconosceva la prima licon i rappresentanti della Santa Sede bera università italiana, l’Università Catin vista di una soluzione concordata e tolica del Sacro Cuore, fondata nel 1921
amichevole della “questione romana”. da padre Agostino Gemelli a Milano. Nel
Questi propositi non ebbero una con- 1925 il governo arrivò persino a insediare
una commissione
mista di laici e reNel 1919 don Sturzo fondò il
ligiosi, infruttuosa
Partito Popolare, partito di
poiché la Chiesa
massa che subito ebbe un ruolo
ne ritenne le proposte come asdi primo piano.
solutamente non
creta realizzazione a causa della tumul- vincolanti. Nel frattempo, i partiti politici
tuosa situazione politica interna italia- erano stati sciolti e con essi era stata liquina. Nell’immediato dopoguerra, infatti, data l’opposizione legale: tragicamente,
la fine delle restrizioni politiche e del- si era alla dittatura.
la censura del periodo bellico e il rieIn tale clima iniziarono nel 1926 le
mergere delle tensioni sociali avevano trattative per quegli accordi che avrebportato a un’ondata di scioperi, manife- bero preso il nome di Patti Lateranensi:
stazioni e occupazioni di fabbriche; le esse si svolsero in segreto e portarono l’11
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n. 3, settembre-dicembre 2010
febbraio 1929 alla solenne stipula nel palazzo del Laterano dei Patti, composti da
un Trattato (che risolveva la “questione
romana”, con l’accettazione da parte della Santa Sede dell’annessione di Roma al
Regno d’Italia e il riconoscimento della
sovranità del pontefice in ambito internazionale e sul territorio dello Stato Città del
Vaticano); da una Convenzione finanziaria, nella quale lo Stato italiano si impegnò
a risarcire la Chiesa per la perdita del patrimonio dello Stato pontificio e dei beni
confiscati in passato; da un Concordato,
che assicurò alla Chiesa il libero esercizio
del potere spirituale, in tutte le sue forme.
Questi tre documenti sono comunemente
designati come “conciliazione”.
Queste norme segnavano un’inversione di rotta rispetto alla politica separatista e pertanto suscitarono critiche
da varie parti. Nel complesso, tuttavia,
la popolazione le accolse con favore e
questo contava più d’ogni altra cosa per
il rafforzamento del potere personale di
Mussolini.
I buoni rapporti tra Stato e Chiesa
si incrinarono nel 1938, quando le leggi razziali provocarono il dissenso di
numerosi cattolici e un aperto conflitto
sull’interpretazione del Concordato. La
legge sulla nullità dei matrimoni tra ariani e ebrei fu giudicata infatti da Pio XI
una vera e propria ferita inferta ai Patti
lateranensi.
Come sappiamo, la Chiesa, nella temperie degli anni tra il 1943 e il 1945, aveva fatto il suo dovere, concedendo asilo ai
perseguitati dai nazifascismi. I cattolici, da
parte loro, contribuirono alla Resistenza: la
rinata Democrazia Cristiana era infatti parte del Comitato di Liberazione Nazionale.
Alla caduta del regime, l’importante ruolo
pacificatore della Chiesa fu riconosciuto
anche durante i lavori per l’Assemblea
Costituente: nel 1948, i Patti Lateranensi
vennero recepiti nella Costituzione.
Il procedimento di revisione del Concordato, lungo e faticoso, ma altrettanto
necessario, terminerà solo nel 1984, con la
firma di un nuovo Concordato, più esteso
del primo. Ciò fu dovuto alle numerose polemiche che coinvolgeranno Stato e Chiesa
proprio negli anni più recenti, come quella
che precederà l’introduzione del divorzio
in Italia, terminata con il referendum abrogativo del 1974 e quella sull’aborto, di pochi anni successiva. Ma questa è ormai la
cronaca dei nostri giorni.
150 anni di Unità d’Italia
La massoneria
che fece l’Italia
Le logge massoniche e il Grande
Oriente d’Italia contribuirono
fortemente a realizzare e
a mantenere l’unità dello
stato italiano e la storia della
massoneria si intreccia con la
storia d’Italia: vediamo come.
di Donato Sambugaro
Per chi è nato, come chi scrive in questo
momento, attorno agli anni Novanta, il
termine “massoneria” è necessariamente
legato agli avvenimenti giudiziari delle
logge deviate, alle oscure trame politiche
della P2 e, recentemente, della P3, forse
al “fratello” incappucciato interpretato da
Guzzanti, certo non a un coerente contesto
storico e al processo che ha portato la massoneria italiana a interagire con le più alte
sfere del potere politico, rendendola una
delle componenti innegabilmente essenziali nella storia della formazione dello Stato
italiano. In fondo, l’Unità d’Italia l’ha fatta
un massone: Giuseppe Garibaldi.
Cerchiamo allora di delineare brevemente – con l’aiuto del professore Ferdinando Cordova, al quale quest’articolo
deve molto più di quanto dimostra la sua
scarna brevità – la storia della massoneria, nelle tappe fondamentali che hanno
coinciso con altrettanti passaggi decisivi
della storia d’Italia. I primi vagiti della
Massoneria si ebbero a Milano nel 1805,
ma si spensero con la caduta di Napoleone. È invece a Torino che nasce nel 1859
il Grande Oriente Italiano, che esplicitamente aspira a diventare punto di riferimento nazionale e che appoggia dichiaratamente l’opera diplomatica di Cavour,
per schierarsi successivamente dalla parte
di Crispi. Trasferita la capitale a Firenze,
assunse il nome di Grande Oriente d’Italia. Gli uomini che lo compongono sono
ricchi borghesi e appartenenti all’aristocrazia fondiaria. Si può in effetti dire che
la massoneria agisce per lungo tempo in
senso suppletivo, coadiuvante e paralle-
Il compasso e la squadra sono fra i simboli
più diffusi della massoneria: ricordano la
costruzione del Tempio di Re Salomone e
sono la metafora della costruzione di un
nuovo mondo.
lo al regno prima sabaudo e poi italiano.
L’anima fondamentalmente borghese e
laica della massoneria è dimostrata dal
fatto che fin dagli albori essa si pronuncia a favore di Roma capitale e contro il
potere temporale del Papa, attirandosi i
lunghi odi e le inimicizie della parte cattolica. Negli alti ranghi della massoneria
ci si rende conto della fragilità del neonato Stato e si teme che il processo unitario
possa essere messo in discussione; di qui
la salda posizione in questo senso delle
alte componenti della massoneria (che
nel frattempo si era spostata a Palazzo
Giustiniani, a Roma), che contribuirono
innegabilmente a mantenere solido un coacervo di territori e istituzioni altrimenti
friabile, nonostante quest’associazione
si trovasse politicamente a dover lottare
da un lato contro la componente socialista e dall’altro contro quella cattolica e,
successivamente (dai primi decenni del
nuovo secolo), contro la neonata corrente
nazionalista, che non vedeva di buon occhio l’internazionalismo massonico.
In età giolittiana la massoneria si
prodiga affinché i provvedimenti politici
vadano nella direzione di una più netta
laicizzazione dello Stato. Allorché Giolitti si dimostra restio a perseguire questa
linea, come gli stessi massoni evincono
da una scelta come quella del Patto Gentiloni, essi mirano alla creazione di una
sorta di “nuovo Stato”, realizzato anche
attraverso la guerra (i massoni sono dunque sostanzialmente interventisti) che,
si crede, potrebbe costituire un nuovo
ordine internazionale. Successivamente la massoneria asseconderà l’impresa
di Fiume (salvo staccarsene per le sue
ultime derive politiche) e guarderà con
attenzione al fascismo che, seppur non
promosso, non è neppure ostacolato (ed è
rigettato solo dal 1921-1922). Non si legge, in queste pagine della storia, un filo
coerente all’interno del Grande Oriente.
La massoneria, infatti, nasce come istituzione atta a promuovere il miglioramento
personale dell’individuo all’interno di un
percorso morale, ma ben presto si caratterizza (come le altre logge massoniche
europee ma contrariamente allo spirito
dell’originaria e contemporanea associazione massonica inglese) attraverso
evidenti connotazioni politiche, generate
chiaramente dal contesto in cui viene a
trovarsi.
Il Grande Oriente d’Italia viene ufficialmente sciolto nel 1925 proprio in
seguito alle disposizioni fasciste che
inibiscono l’attività massonica e rendono incompatibile l’appartenenza a una
loggia massonica e al partito, colpendo
così anche l’altra grande loggia massonica formatasi da una costola del Grande
Oriente, la cosiddetta loggia “di Piazza
del Gesù”, che aveva inizialmente appoggiato con forza Mussolini proprio in
opposizione agli altri massoni e per interessi personali.
Dal 1943-44 la massoneria si ricostituisce sotto l’ala protettiva del governo
americano di Truman e in funzione anticomunista. Molti esponenti massoni di
spicco confluiscono poi nei partiti liberali, formando così una “base laica” d’appoggio alla Dc.
Non ripercorrerò gli eventi più recenti, molto meglio noti e forse ingiusti verso una realtà di cui è arduo dare un giudizio nettamente positivo o negativo, ché
certo entrambi potrebbero essere difesi a
buon diritto. Mi premeva piuttosto sottolineare come anche in questa direzione
vadano cercate le spinte che hanno prima
reso possibile e poi sostenuto il processo di unità nazionale. Qualche pietra di
quest’Italia barcollante, insomma, l’ha
ben posta anche la massoneria.
Si ringrazia il professor Ferdinando Cordova per la
sua disponibilità.
panorama per i giovani
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150 anni di Unità d’Italia
Foto: iStockphoto.com/morozena
A sinistra: la valle di Trento e le montagne
che la circondano. Nella pagina seguente:
Henry Dunant in una stampa ottocentesca.
Gli alpinisti tridentini
Dalla lotta per l’identità culturale a quella per la montagna.
di Aleksandra Arsova
La storia della Sat (Società degli Alpinisti Tridentini) ha un inizio non molto diverso da quello di altre società di
epoca risorgimentale, nate in difesa
della lingua e della nazionalità italiana.
Quando nel 1872 i trentini Napomuceno
Bolognini e Prospero Marchetti decisero
di farsi promotori di una società alpina
locale, uno dei loro intenti primari era
appunto di carattere patriottico, dal momento che si voleva rivendicare l’identità del Trentino e il suo legame con la
cultura italiana, essendo esso ancora
sotto la dominazione asburgica. Sono
innumerevoli gli episodi riconducibili
proprio a quest’ideale patriottico. Basti
ricordare, ad esempio, la scelta della Sat
nel 1876, d’altronde, la Società venne
sciolta dalle autorità austriache proprio
a causa del suo atteggiamento filo-italiano. Né si può dimenticare, qualche
decennio più tardi, la partecipazione
volontaria dei soci della Sat alla Prima
Guerra Mondiale in favore dell’unificazione del Trentino all’Italia.
In tutto questo, però, ciò che davvero
ha distinto quella degli alpinisti tridentini dalle altre società risorgimentali e ha
fatto sì che durasse sino ad oggi è il suo
interesse per la montagna e per il territorio del Trentino. Fin dalle sue origini,
la Sat si diede l’obiettivo di restituire
dignità alla propria regione, studiandone il territorio, tutelandone la flora e la
fauna e cercando
anche di avviciCiò che ha distinto la Sat dalle
nare l’uomo alla
altre società risorgimentali è
natura. Testimostato l’interesse per la montagna nianza esplicita
di tale finalità è
e per il territorio del Trentino.
il primo statuto,
di battezzare con il nome Roma una vet- risalente all’anno di fondazione: “La
ta del Brenta scalata nel 1875, a pochi Società si prefigge di raggiungere il
anni cioè dalla Breccia di Porta Pia. Già suo scopo mediante ricerche scientifiche
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n. 3, settembre-dicembre 2010
sulle montagne, e descrizioni delle medesime, desunte da tutti i diversi punti di
vista, sotto i quali si presentano”. Questa
attività nel settore ambientale e naturalistico ha ovviamente subito un’evoluzione nei 138 anni di vita della Società:
dalla semplice conoscenza dell’ambiente
montano, mediante ricerche di carattere
scientifico nei più svariati campi, quali la
geografia, la geologia, la limnologia (lo
studio degli ecosistemi di acqua dolce) e
la speleologia, si è passati all’educazione
alla montagna e all’alpinismo, come dimostrano la rete dei sentieri alpinistici, la
creazione di rifugi e di guide alpine, per
giungere infine all’interesse per la salvaguardia e la protezione della montagna.
Riguardo a quest’ultimo punto, la Sat
ha sempre cercato di mediare in maniera lungimirante la realtà di quest’ultima
e i bisogni dell’uomo, tentando di educare al rispetto del bene pubblico come
patrimonio da utilizzare con accortezza
e da preservare per le generazioni future.
Talvolta questo atteggiamento ha portato
la Società a prendere una posizione contraria a certe forme di sfruttamento turistico e alla costruzione di infrastrutture
che poco si conciliano con il paesaggio.
Risale agli anni Sessanta, per esempio, la
questione del “Brenta da salvare”: come
testimonia un opuscolo dell’epoca, venne
sollevato il problema della opportunità di
realizzare una nuova funivia che avrebbe
danneggiato dal punto di vista sia morfologico sia estetico la montagna forse più
cara ai Trentini. Venendo ad anni più recenti, merita di essere ricordato almeno
il Congresso di Ala del 1982, dove per
la prima volta, grazie all’idea di istituire i parchi non solo a livello burocratico
ma con una funzione civica, si cercò di
affiancare alla difesa della natura quella
delle tradizioni dell’identità trentina.
Oggi, a quasi 140 anni dalla sua fondazione, la Sat prosegue con determinazione le proprie attività, puntando non
solo sulla valorizzazione del territorio
locale, ma mirando a collaborazioni di
rilevanza nazionale e internazionale,
con lo scopo principale di avvicinare i
giovani all’alpinismo e di far rinascere in loro l’amore per la natura e per la
montagna.
150 anni di Unità d’Italia
La battaglia di Solferino
e la Croce Rossa
La Seconda Guerra d’Indipendenza e la nascita di un corpo
sovranazionale di soccorso dei feriti in guerra.
Foto: iStockphoto.com/vincevoigt
di Angelo Filippi
È il 24 giugno del 1859 quando a Solferino
si svolge una delle battaglie più sanguinose
che l’Europa abbia mai visto. Al termine
dei combattimenti circa ventinovemila uomini, tra morti e feriti, giacciono sul campo
di una battaglia che oltre a essere stata di
fondamentale importanza per l’unificazione
del nostro paese ha permesso che, dalle sue
ceneri, nascesse uno degli organi di sostegno umanitario più importante al mondo.
Nel 1859, in Italia, le delusioni e le
sconfitte dal sapore amaro, legate alla Prima Guerra d’Indipendenza, sono ormai
alle spalle e un numero sempre crescente
di patrioti considera il Piemonte l’unica opportunità per raggiungere l’unità. L’idea di
un’Italia unita trova sostegno internazionale
nella Francia: l’Imperatore Napoleone III interviene, schierandosi col regno subalpino. I
primi combattimenti dei franco-piemontesi
con gli austriaci si svolgono a Montebello
il 20 maggio del 1859, con la vittoria dei
primi. Il mese dopo, l’offensiva austriaca si conclude il 24 giugno a San Martino
con la vittoria piemontese e a Solferino con
quella francese. Con l’armistizio voluto da
Napoleone III termina la Seconda Guerra
d’Indipendenza e bisognerà attendere la
spedizione dei Mille per la proclamazione
del Regno d’Italia, il 17 marzo 1861.
Il 24 giugno 1859 un uomo d’affari
svizzero impegnato in attività di sviluppo
sociale, Henry Dunant, si trova casualmente coinvolto nelle vicende della battaglia di Solferino. Quel giorno gli austriaci
persero 14.000 uomini e i franco-piemontesi 15.000. Vagando sconvolto per il
campo di battaglia, egli stesso scrive nel
suo libro Un Souvenir de Solferino: “Qui
si svolge una lotta corpo a corpo orribile,
spaventosa, Austriaci e Alleati si calpestano, si scannano sui cadaveri sanguinanti
[…] una lotta senza quartiere, un macello,
un combattimento di belve […] anche i
feriti si difendono sino all’ultimo: chi non
ha più un’arma afferra l’avversario alla
gola, dilaniandola con i denti”.
A sconvolgere particolarmente Dunant
è la mancanza di un’adeguata e organizzata
assistenza sanitaria. Mosso da umana com-
passione verso un ingente numero di feriti
e morenti, Dunant s’improvvisa infermiere
e organizza la sua prima missione umanitaria. Sempre nel suo resoconto di guerra
leggiamo: “i feriti muoiono di fame e sete;
vi sono filacce in abbondanza ma non mani
sufficienti per applicarle sulle ferite. È dunque indispensabile organizzare un servizio
volontario”. Nasce allora la necessità di
creare un’organizzazione di soccorso su
base volontaria sovranazionale, in grado di
intervenire in ogni paese. Dalla volontà di
un singolo si diramano le radici di un progetto preciso, che prevede di portare sollievo ai feriti e ai bisognosi, indifferentemente
dal loro schieramento in battaglia.
Nel 1863 Jean Henri Dunant, più noto
come Henry Dunant, con altri quattro cittadini svizzeri realizza il Comitato ginevrino
di soccorso dei militari feriti. Solo due anni
dopo, il 22 agosto 1864, dodici nazioni, tra
cui l’Italia, sottoscrivono la prima Convenzione di Ginevra, che diventa la base
dell’attività della Croce Rossa. Nel 1991 il
progetto umanitario creato da Dunant diventa la Federazione Internazionale delle
Società di Croce Rossa e Mezzaluna Rossa.
Oggi la Croce Rossa Italiana è impegnata
in progetti di ampio respiro internazionale,
tra i quali l’intervento ad Haiti, colpita il 12
gennaio 2010 da un terremoto devastante,
dove l’impegno dei volontari si è concretizzato nell’apertura di un campo base e di una
scuola provvisoria a Petionville. Inoltre, a
causa del sisma del 27 febbraio 2010, l’ente
è presente in Cile, come anche in Indonesia,
a seguito dello tsunami nelle Mentawai.
La battaglia di Solferino rappresenta quindi una “pietra miliare” non solo per l’Unità
d’Italia, ma per la storia dell’umanità. Da un
evento bellico estremamente cruento emerge la volontà di riscattarsi, di lottare per sradicare la sofferenza. Dalla Storia con la “S”
maiuscola, fatta di uomini e guerre, si svincola quella di un solo individuo, capace e volenteroso, che si distingue per il suo operato
e per il suo desiderio di agire affinché, anche
nell’irrazionalità della violenza più nefasta, si
esprima la solidarietà umana.
BIBLIO
H. Dunant, Un Souvenir de Solferino,
Fondazione Giorgio Ronchi Editore,
Firenze 2008.
E. Biolcati, Storia della Croce Rossa,
Gruppo Pionieri di Torino.
panorama per i giovani
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Foto: iStockphoto.com/snem
150 anni di Unità d’Italia
O’ mare canta...
Libero Bovio e l’anima popolare della poesia in musica che ha unito
l’Italia.
di Selene Favuzzi
La canzone di Napoli è ambasciatrice di
pace nel mondo.
È voce d’Italia in terra straniera.
È grido d’amore, ma è segno di forza:
è sempre profumata di malinconia, anche
quando è allegra.
(Libero Bovio, Don Liberato si spassa,
Prismi, Edizioni de Il Mattino, 1996)
Certe volte, poche parole, appena condensate nello spazio breve d’una poesia,
possono rappresentare qualcosa di ben
più vasto dei confini della pagina che le
contiene arginandone la forza espressiva.
Il verso poetico ha un’enorme potenzialità: quella di legarsi a un’immagine, afferrandosi stretto alla maglia dei ricordi, per
venire evocato anche solo da un suono e
fatto rivivere in tutto il suo splendore, accogliendo ogni volta nuovo significato.
Se togliessi alle parole le cadenze, i
pensieri, i sospiri, le lacrime, i sorrisi, non
resterebbe null’altro che una pagina bianca macchiata d’inchiostro... priva di voce.
Se invece a darle voce è il canto e una
melodia a darle corpo, allora sì che delle
semplici parole potrebbero rappresentare
una nazione intera.
Questo è quello che è accaduto con
l’epoca d’oro della canzone napoletana
grazie a un connubio inscindibile di grandi
poeti, come Salvatore di Giacomo, Ferdinando Russo, Murolo, Giovanni Capurro e
straordinari compositori, fra cui Costa, Ernesto de Curtis, Gaetano Lama, Vincenzo
Valente, Di Capua, Gambardella e De Gregorio; cantanti infine come Mario Abbate,
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Caruso, o Massimo Ranieri, solo per citarne alcuni, diedero a essa la loro voce, rendendo le sue creazioni opere immortali.
Libero Bovio (1883-1942) nacque a
Napoli dal filosofo e uomo politico pugliese Giovanni Bovio e dalla pianista
Bianca Nicosia e presto venne avvicinato
all’amore per la musica dalla madre, che
gli suonava Beethoven, cui subito egli dimostrò di preferire Gambardella e Di Capua e la tradizione partenopea.
Questo è solo uno degli elementi che lo
avvicinano al sentire popolare; uno dei pensieri raccolti nel suo libro di aforismi Don
Liberato si spassa recita infatti: “Napoli ha
avuto due poeti del popolo, due grandi poeti: un povero guantaio morto di tisi a venticinque anni e un garzone di osteria di campagna, spentosi nella più squallida miseria:
l’uno si chiamava Vincenzo Russo e l’altro
Giuseppe Capaldo. Ai maestri, no: a questi
due popolani invidio qualche poesia”.
Il rimpianto per una giovinezza perduta di Signorinella, il sofferto canto d’amore di Tu ca nun chiagne, Reginella e Passione, la riflessione sulla morte di Chiove,
l’amarezza dell’emigrato di Lacreme napulitane, il canto alla luna capace di commuovere anche i “guagliune ‘e malavita”
di Guapparia e il paesaggio napoletano di
Silenzio Cantatore, sono solo alcune delle
canzoni di questo straordinario poeta che
fanno parte dell’eredità d’ogni italiano.
Molti cantautori dopo di lui hanno
scritto musica dedicata al nostro paese,
ma difficilmente hanno raggiunto livelli
simili di spontaneità e freschezza.
La voce roca di Mino Reitano che canta Italia e l’aspro sarcasmo di Ma il cielo
è sempre più blu; L’italiano di Toto Cutugno e Viva l’Italia di Francesco De Gregori, pur essendo canzoni forti, colme di
passione e amore per il nostro paese, sono
in un certo modo prive di quell’originaria
ingenuità e hanno nei testi un sottile velo
di retorica.
Sono passati cento anni dai ritratti di
Libero Bovio e della sua Italia povera
ma con la forza di vivere e ricominciare
sempre e le sue parole sono estremamente attuali ancora oggi: la canzone d’amore
come espressione di forza; urlo malinconico, talvolta amaro, ma sempre così intenso... il canto come filo che unisce il Paese...
e il riscatto che sale dal Sud di quest’Italia
che ha sempre bisogno di qualcosa che ne
tenga assieme le multiformi coste.
Chist’è ‘o paese d’’o sole
Tutto, tutto è destino…
Comme putevo fà fortuna a ll’estero
s’io voglio campà ccà?
GIOVANNI BOVIO
Il libero pensiero non vuole martiri,
vuole uguali
Giovanni Bovio nacque a Trani (Bari)
il 6 Febbraio 1837 nella numerosa
famiglia d’un modesto impiegato.
Sin da giovanissimo mostrò una
straordinaria memoria, che esercitò
su testi del mondo classico, filosofico
e giuridico; si manteneva infatti dando
lezioni private di diritto, letteratura e
filosofia, quando nel 1872 ottenne
alla Federico II di Napoli la cattedra di
Storia del Diritto e, successivamente,
la libera docenza di Filosofia.
Quattro anni più tardi entrò nella
Camera dei Deputati per il collegio
di Minervino Murge e, essendo
uomo d’estremo rigore e rifiutando
il trasformismo, rimase tutta la vita
fra i seggi dell’ala repubblicana,
come deputato della sinistra storica,
adoperandosi strenuamente per
“costruire” l’Italia. Fu inoltre il relatore
del codice penale suo omonimo, che
prevedeva fra le altre cose l’abolizione
della pena di morte e il diritto di
sciopero (non contenendo articoli che
lo vietavano).
Giovanni Bovio, con la sua riflessione
filosofica d’una vita e la straordinaria
eloquenza che riusciva talvolta
a unire le frange più estreme, ha
contribuito a fare dell’Italia il paese che
conosciamo.
150 anni di Unità d’Italia
Foto: iStockphoto.com/35007
A sinistra: una pista di atletica. Nella
pagina precedente: il golfo di Napoli.
Tra Dolce Vita e
geopolitica
I Giochi di Roma ’60: la capitale di un’Italia bella e vincente diviene
arbitro della Guerra Fredda.
di Carmelo Di Natale
Con buona pace del romantico Pierre De
Coubertin, i Giochi Olimpici non sono mai
stati un evento puramente sportivo, almeno
non da quando i grandi della terra si sono
accorti di quale straordinario potenziale in
termini di propaganda politica, economica, culturale sia insito in un avvenimento
in cui tutte le nazioni si confrontano vincolate al solo giudizio di tempi e misure. La
storia insegna che le gesta di grandi atleti
hanno spesso rappresentato il volano per
trasformazioni sociali e politiche di eccezionale importanza: come non ricordare
a tal proposito le quattro medaglie d’oro
con cui l’afroamericano Jesse Owens calpestò il mito della superiorità ariana nelle
Olimpiadi di Berlino del 1936 (il più efficiente programma di propaganda nazista
mai posto in essere) o il guanto nero con
cui Tommy Smith e John Carlos, dal podio
della finale dei 200 metri piani di Città del
Messico ’68, sfidarono un’America razzista che pochi mesi prima aveva glissato
indifferente sull’omicidio di Martin Luther King? E ancora, risuonano in tutta la
loro rilevanza geopolitica i boicottaggi da
parte delle due superpotenze della Guerra Fredda, Usa e Urss, rispettivamente di
Mosca ’80 e Los Angeles ’84, l’esclusione
del Sudafrica da molte edizioni olimpiche
a causa dell’apartheid, i ben noti Giochi
di Pechino 2008, imponente macchina di
propaganda della potenza economica e
politica cinese su scala globale. No, decisamente le Olimpiadi non sono solo una
festa di sport...
In questo quadro di simboli, gesti,
scelte, significati più o meno celati, in cui
l’elemento sportivo-agonistico si compenetra ineluttabilmente con quello politico
e strategico, i Giochi Olimpici di Roma
1960 rivestono un’importanza particolare.
Già lo stesso De Coubertin aveva pensato
alla capitale italiana come sede delle Olimpiadi del 1908, ma per cause di forza maggiore (l’eruzione del Vesuvio del 1906)
questi poterono tenersi nella città eterna,
appunto, solo nel 1960. Quella romana fu
però un’edizione olimpica di grandissimo
spessore, perché segnò lo spartiacque tra
una concezione fondamentalmente romantica dello sport (fatta di dilettantismo,
rifiuto degli sponsor, sacralità della leale
competizione sportiva) e una dimensione
mediatica globale, in cui irrompono gli interessi privati e si ingigantisce la rilevanza
politica e strategica, oltre che di costume,
dell’evento. Un contributo fondamenta-
le a questa evoluzione (o involuzione, ai
posteri l’ardua sentenza...) è apportato
senz’altro dalla presenza dei mezzi di comunicazione di massa: Roma ’60 è infatti
la prima edizione dei Giochi trasmessa
integralmente dalla televisione, con più di
cento ore di diretta della giovanissima Rai,
l’emittente radiotelevisiva nazionale nata
appena sei anni prima.
La propaganda delle due grandi potenze
avversarie, Usa e Urss, era all’opera già da
prima della cerimonia di apertura. Kruscev
e i gerarchi sovietici vedevano gli atleti alla
stregua di soldati incaricati di mostrare al
mondo tutti i benefici materiali e morali del
sistema socialista: le loro gesta erano parte
integrante nella costruzione del prestigio
della società sovietica a fronte del nemico
capitalista, consumista e razzista. Dal canto
loro, i funzionari americani dovevano confutare l’accusa sovietica di razzismo – che
era pur fondata, ma il mondo non doveva
accorgersene o quanto meno avere qualche
argomento per passarvi sopra – cosicché si
affrettavano a sottolineare l’armonia presente nella compagine statunitense tra atleti neri e atleti bianchi; particolare rilevanza
nella propaganda americana aveva quindi
il fatto che, per la prima volta, il portabandiera della squadra a stelle e strisce era
nero. Si trattava del grande Rafer Johnson,
atleta di straordinario talento ed eccezionale carisma destinato a imporsi, con tanto di
record del mondo, nella durissima prova di
decathlon sull’amico Yang Chuan-kwang,
suo compagno di studi e di allenamenti,
che gareggiava però per la federazione
olimpica di Taiwan.
Già, Taiwan, l’isola di Chang Kai-shek
mai riconosciuta dalla Cina maoista: lo stato più popoloso del mondo non inviò alcun
atleta a Roma, bensì solamente un gruppo
di funzionari i quali, durante la cerimonia
di apertura, sfilarono tenendo in mano al
posto della bandiera un cartello recante la
scritta In protest, in segno di protesta per
l’invito della provincia ribelle. Il comitato
organizzativo dei Giochi romani, presieduto dall’allora Ministro della Difesa Giulio
Andreotti, pretese inoltre che la Germania
si presentasse con un’unica squadra unificata: la rigidità dei criteri con i quali le
federazioni olimpiche di Germania Est e
Germania Ovest selezionarono la compagine da inviare a Roma fu degna degli equi-
panorama per i giovani
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150 anni di Unità d’Italia
42
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n. 3, settembre-dicembre 2010
Sa vida pro sa Patria
Dalle trincee dell’altopiano di Asiago alla sabbia dell’Afghanistan:
uomini e imprese di una tra le più valorose e particolari unità dell’esercito
italiano.
di Fabrizio Grussu
Foto: iStockphoto.com/naphtalina
libri di un trattato post bellico, tanto che gli
atleti raramente potevano entrare in contatto
al di fuori di allenamenti, gare e cerimonie.
La bandiera della squadra tedesca unificata
fu quella tradizionale della Germania, nero
rosso e oro, con i cinque cerchi olimpici al
centro e l’Inno alla Gioia di Beethoven fece
le veci dell’inno nazionale.
Il comitato organizzativo di Roma
seppe però prevedere e gestire molto bene
queste difficoltà di natura extra-sportiva,
mentre la magia della città eterna fece il
resto... Al loro arrivo, gli atleti si trovarono immersi in un clima di grande speranza
e positività. Roma era infatti il fiore all’occhiello di una nazione che viveva il momento forse più bello di una storia che toccava proprio allora il limite dei cento anni:
quella era l’Italia del miracolo economico,
con un Pil che cresceva a un ritmo paragonabile a quello dei moderni paesi Bric
(Brasile, Russia, India, Cina), della Dolce
Vita, dei grandi miti dello sport (proprio
nel 1960 moriva tragicamente il Campionissimo, Fausto Coppi). Il comitato organizzatore si propose l’intento di rendere
i Giochi un unicum con la città; si scelse
quindi come cornice delle gare di pugilato
la Basilica di Massenzio – dove iniziarono a far parlare di sé due tra i più grandi
boxeur di tutti i tempi, l’italiano Nino Benvenuti e l’americano Cassius Clay, alias
Muhammad Alì – mentre i fori imperiali
furono teatro della maratona, con la commovente vittoria dell’etiope Abebe Bikila,
capace di battere il precedente record del
mondo correndo a piedi nudi sui sampietrini romani. I Giochi di Roma, inoltre,
consacrarono definitivamente lo sport
femminile, grazie alle imprese nell’atletica leggera della leggiadra Wilma Rudolph
(vincitrice dell’oro nei 100, 200 e nella
staffetta 4x100) e delle altre Tigerbelles,
le atlete statunitensi di colore. L’Italia, dal
canto suo, colse risultati sportivi inimmaginabili, riuscendo a classificarsi al terzo
posto nel medagliere, dietro le sole Urss e
Usa: spiccò su tutte l’inattesa e straordinaria vittoria, con record del mondo, di Livio
Berruti nei 200 metri piani. In definitiva,
le Olimpiadi di Roma 1960 mostrarono
al mondo uno Stato, l’Italia, che avrebbe
festeggiato un secolo di vita l’anno successivo, affrancatosi definitivamente dai
disastri della Seconda Guerra Mondiale e
pronto a svolgere un ruolo importante sullo scacchiere internazionale. E oggi, nel
sesquicentenario dell’Unità?
Primo marzo 1915: mancano poco più di
tre mesi all’entrata in guerra dell’Italia
nella Prima Guerra Mondiale. In Sardegna viene fondata una brigata di fanteria
destinata a essere protagonista del conflitto e della storia dell’esercito: la “Sassari”.
È composta di due reggimenti, il 151° e il
152°, e ha una caratteristica unica che la
differenzia dalle altre brigate dell’esercito
sabaudo: è formata da soli sardi.
All’inizio delle ostilità contro l’Impero austro-ungarico viene schierata lungo
l’Isonzo. Sarà la prima unità a essere citata nel bollettino di guerra e l’ultima a ritirarsi (per giunta in ordine) dietro il Piave,
facendo saltare l’ultimo ponte e chiudendo definitivamente l’accesso alla pianura
padana al nemico. I suoi reggimenti sono
gli unici, nella storia delle forze armate
italiane, a essere stati entrambi decorati due volte nell’arco di una sola guerra
con la medaglia d’oro al valore militare.
All’indomani della battaglia sul Piave
così si esprimerà il presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando: “Quando vidi i valorosi della Brigata Sassari
sentii l’impulso di inginocchiarmi dinanzi
a loro, perché vidi riassunte in Essi tutte le
virtù dell’Esercito”.
Al di là del coraggio individuale dei
diavoli rossi (così i nemici chiamavano i
sassarini per via dei colori delle mostrine),
altri due fattori contribuirono alla riuscita
delle imprese di cui la Sassari fu protagonista. Innanzitutto anche i non militari di
professione sapevano sparare. Si trattava
di una rarità, poiché, a causa della fretta
con cui i soldati dovevano essere inviati
al fronte, non vi era tempo per addestrare
le reclute prima di mandarle a combattere. I sardi però, in massima parte contadini o pastori, sapevano ben maneggiare
le armi, che avevano imparato a usare
fin da piccoli per difendere i raccolti e le
greggi da lupi e faine. Molto importante
fu anche la lingua: ogni esperto dell’arte
militare sa quanto sia importante, ai fini
della vittoria, intercettare le comunicazioni del nemico. Nell’esercito austriaco
esistevano sicuramente addetti alle intercettazioni che conoscevano l’italiano, ma
nessuno che conosceva il sardo. Fu così
che nelle trincee sull’altopiano di Asiago
dove era di stanza la brigata, il comando
militare fece esporre dei cartelli con su
scritto “chi sesi italianu fuedda in sardu”
(se sei italiano parla in sardo). Più i fanti
della Sassari avrebbero parlato nella loro
lingua d’origine, meno possibilità ci sarebbero state per gli austriaci di venire a
conoscenza degli spostamenti e dei piani
del regio esercito. Non importava che si
trattasse del campidanese, del barbaricino
o di qualsiasi altro ceppo della lingua sarda: l’importante era parlare in sardo.
Al temine della guerra moltissimi reduci aderiranno al Partito Sardo d’Azione. Dopo la salita al potere di Mussolini
una parte di essi seguirà Emilio Lussu nel
suo impegno antifascista.
Durante il secondo conflitto mondiale la Sassari combatté in Jugoslavia, da
cui fu richiamata dopo l’8 settembre per
prendere parte alla difesa di Roma. Fu
sciolta dopo la battaglia.
Il 152° fu ricostituito nel 1958, il 151°
nel 1962.
Dal 1992 è divenuta una brigata meccanizzata. I suoi soldati hanno partecipato
alle principali missioni all’estero cui l’Italia ha contribuito, sia nei Balcani sia in
Medio Oriente.
Per la partecipazione alla missione
“Antica Babilonia” in Iraq entrambi i
reggimenti sono stati decorati con un’ennesima medaglia d’oro: quella al valore
dell’esercito.
150 anni di Unità d’Italia
Le tavolozze del
Risorgimento
1861. I pittori del Risorgimento alle Scuderie del Quirinale
di Francesca Parlati e Aleksandra Arsova
Inaugurata il 6 ottobre 2010, sotto l’Alto
Patronato del Presidente della Repubblica
e con il patrocinio del Ministero per i Beni
Culturali, la mostra dal titolo 1861. I pittori del Risorgimento è situata nello spazio
museale delle Scuderie del Quirinale, con
39 opere di 22 autori diversi. La mostra si
propone di ritrarre le passioni che infiammarono gli animi degli italiani, patrioti e
non, durante questo decisivo periodo storico. Le opere esposte, infatti, non si limitano a mostrare eserciti o atti manifesti
di patriottismo monumentale, ma anche i
soldati prima e dopo la battaglia, i contesti
domestici e familiari, dove, pur non arrivando il fragore della battaglia, se ne intuisce l’emozione e la partecipazione.
Proprio su tale distinzione è articolata
la mostra: il primo piano è dedicato, infatti, alle opere monumentali, dove si percepisce appieno il vigore dell’atto bellico,
la grandiosità dell’evento storico. Pittori
come Gerolamo Induno, Federico Faruffini,
Eleuterio Pagliano e Michele Cammarano
Sopra: Michele Cammarano, La carica dei
bersaglieri a Porta Pia, 1871, olio su tela
(Napoli, Museo di Capodimonte).
emblematiche come Spartaco di Vincenzo
Vela o Gli abitanti di Parga che abbandonano la loro patria di Francesco Hayez, dimostrazioni di eroismo anche degli umili.
Il secondo piano, invece, è dedicato al
Risorgimento “privato”. Qui si succedono dipinti raffiguranti ambienti domestici, strade,
osterie, botteghe, gente che non vive in prima
persona le battaglie, ma ne partecipa all’ardore e si identifica con gli stessi ideali che
furono ardenti patrioti, che parteciparono
a molte delle battaglie che hanno fatto la
storia d’Italia, venendo poi definiti dalla critica appunto “pittori soldati”. La battaglia
di Varese del Faruffini raffigura una carica
dei soldati italiani,
Una mostra in cui le opere non
mentre da dietro la
mischia emerge,
si limitano a rappresentare gli
ancora seminascoeserciti, ma anche i contesti
sto, il tricolore. Vi
domestici.
è poi La battaglia
di Magenta di Gerolamo Induno, che rap- animano i soldati. Si delinea così il passaggio
presenta il culmine della battaglia, in una dalla fase risorgimentale vera e propria, con
descrizione minuziosa, che non per questo La partenza dei coscritti nel 1866 di G. Insacrifica l’impatto emotivo suscitato nell’os- duno (immagine simbolo della mostra), alla
servatore. Apice di questa scala di forti fase storica immediatamente successiva, ovemozioni è I bersaglieri alla presa di Porta vero al famoso “Fatta l’Italia bisogna fare gli
Pia, di Michele Cammarano. I bersaglieri si italiani”, come si evince dal dipinto Le gioie
precipitano verso chi guarda, bucando quasi della buona mamma di Giuseppe Sciuti. È un
la gigantesca tela, in un’ambientazione non punto di vista diverso sulla storia risorgimenmeglio definita, tra la polvere dello sterrato tale, che la rende meno sacra e celebrativa e
e la polvere da sparo, umani nell’inciampa- più umana, fornendo al visitatore nuovi mezre e cadere durante la corsa, eroi nell’unire zi per comprendere non solo la storia passata
l’Italia. Come dimenticare, inoltre, opere del suo paese, ma anche l’attualità.
panorama per i giovani
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150 anni di Unità d’Italia
Foto: iStockphoto.com/PaoloGaetano
A sinistra: il Vittoriano, a Piazza Venezia
(Roma), è uno dei simboli dell’Unità d’Italia.
Nella pagina seguente: cantieri per l’Expo
di Milano 2015.
Ritratto di
una nazione unita
Il Museo Centrale del Risorgimento e la mostra “Gioventù Ribelle”: nello
scrigno del Vittoriano vive la memoria della storia italiana.
di Elena Martini
Alla morte di Vittorio Emanuele II, nel
1878, il Parlamento decise di costruire a
Roma un monumento dedicato al primo
Re dell’Italia unita, che prese il nome di
Vittoriano. Oggi, troneggiante su piazza
Venezia, esso ospita il Museo Centrale del
Risorgimento: uno straordinario archivio
della memoria dell’epopea nazionale che
ripercorre le tappe fondamentali della storia italiana dalla metà del Settecento alla
Prima Guerra Mondiale. Scrigno perfetto per i cimeli che richiamano la nascita
dell’Italia, il monumento nazionale a Vittorio Emanuele II accoglie la salma del
Milite Ignoto e viene oggi considerato
uno dei simboli della Repubblica.
Salita la scalinata bianchissima che
conduce al museo, quello che più colpi-
generale Cialdini nella battaglia di Castelfidardo. Ci si imbatte poi in una serie di
busti e armi, quadri e medaglie che rievocano i protagonisti e gli antagonisti del
processo risorgimentale italiano: la coperta di Garibaldi ferito sull’Aspromonte,
citazioni di Mazzini, Vittorio Emanuele II
e papa Pio IX, fino al volantino tricolore
lanciato su Vienna da D’Annunzio. La visita prosegue in un corridoio dove oggetti
e documenti nelle teche scandiscono le
tappe delle diverse guerre d’indipendenza,
per terminare in una sala interamente dedicata al ruolo italiano nella Prima Guerra
Mondiale. Di particolare interesse sono i
percorsi monografici proposti lungo tutti
gli spazi espositivi, su tutti un accurato
approfondimento sulla Storia della lingua
nella storia d’Italia dai neoclassici
Le installazioni accostano
alla letteratura del
celebri frasi dei padri della
nuovo Stato.
patria a passi del diario di uno
All’uscita del
museo l’Istituto
sconosciuto garibaldino.
Luce ha collocato
sce è un gigantesco monumento in gesso, una serie di video-installazioni proiettate
commissionato allo scultore Vito Pardo a rotazione nei diversi giorni della setper celebrare la fondamentale vittoria del timana, fra cui spicca il film Gloria. La
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n. 3, settembre-dicembre 2010
Grande Guerra 1915-1918 (1934), realizzato unendo pellicole originali a materiali
provenienti dall’archivio dell’Istituto per
la Storia del Risorgimento italiano.
Oltre all’esposizione permanente e
alle mostre temporanee, il Museo Centrale del Risorgimento al Vittoriano propone, in occasione del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, un
percorso dedicato ai giovani uomini e
donne che hanno lottato e si sono spesso sacrificati perché credevano in una
patria italiana. La mostra, intitolata Gioventù Ribelle. L’Italia del Risorgimento
(dal 4 novembre al 18 dicembre 2010),
sembra pensata in modo tale da stimolare
uno spontaneo parallelismo tra i giovani
protagonisti dell’epopea risorgimentale e
i giovani italiani d’oggi. Nelle due sezioni Morire a vent’anni e Amabili resti la
colonna sonora è del maestro Giovanni
Allevi, le video-installazioni accostano
attori italiani emergenti a documentari
dell’Istituto Luce e celebri frasi dei padri
della patria a passi del diario di uno sconosciuto durante la spedizione dei Mille.
Tra biografie e fotografie di pensatori, patrioti, uomini e donne come Luciano Manara, Ippolito Nievo, Nino Bixio, Carlo
Pisacane, Benedetto Cairoli, la Contessa
di Castiglione, Colomba Antonetti e molti altri, colpiscono molte citazioni: “Fratelli d’Italia quanti siete dalle Alpi sino a
Spartivento!”, “Ogni speranza sta in noi,
in noi soli”, “È giunto finalmente il giorno in cui la patria deve riconoscere quanto valgono i suoi figli, in cui ogni italiano
dev’essere un eroe o morire dal rossore”.
Sono parole coraggiose, eroiche, forse
troppo retoriche per le disincantate orecchie di molti giovani. Ma queste parole
scritte dai ventenni di centocinquanta
anni fa hanno il merito di mettere noi
ventenni di oggi di fronte a un progetto
che esisteva nelle loro menti e che ha preso corpo per diventare l’Italia.
Lasciare da parte per un’ora il dibattito politico, la congiuntura economica e le
tensioni sociali odierne per cercare di comprendere e di rinvigorire il senso di quel
progetto farebbe bene a ogni italiano. Il
centocinquantesimo anniversario dell’unità politica può offrirne il destro.
150 anni di Unità d’Italia
Expo a Milano
Una sfida per il futuro
Dopo più di cent’anni dall’Esposizione Internazionale sui trasporti,
l’Expo torna a Milano. “Feeding the planet, energy for life”: il
capoluogo lombardo ha scelto la qualità e la sicurezza alimentare come
tema dell’evento.
Foto: iStockphoto.com/lucapatrone
di Elena Gambaro
Nei primi anni del secolo scorso Milano
attraversava una florida fase di sviluppo:
vari istituti di credito aprirono le proprie
succursali nella città, intensificando la loro
azione propulsiva nel sistema economico
e, accanto alle molte nuove imprese che
sorsero, quelle già esistenti consolidarono
la loro posizione. In questo clima, dal 28
aprile all’11 novembre 1906 si svolse nel
capoluogo lombardo l’Esposizione internazionale associata al completamento del
traforo alpino del Sempione. In realtà inizialmente si era pensato a una mostra sui
mezzi di trasporto per acqua; il cambiamento da un argomento specifico al tema
generale dei trasporti fece virare anche
il carattere dell’Esposizione, che assunse toni più universali per durata, numero
di nazioni coinvolte, estensione (l’area
espositiva copriva circa 28 ettari).
“Intorno a questo formidabile centro
di attività che è l’Esposizione si muovono
a migliaia interessati, curiosi e studiosi,
[…] un centinaio di congressi si svolge
nella grande occasione destinata a diven-
regolare la frequenza e la qualità di tutte
le esposizioni internazionali di natura non
commerciale, organizzate ufficialmente
da nazioni sovrane. Il Bie analizza tutte le
candidature, verificandone l’aderenza ai
grandi valori che si intendono promuovere attraverso un Expo, come la difesa della vita e la condivisione di una conoscenza universale, e decreta il paese vincitore.
Il 31 marzo 2008 il Bie ha scelto Milano
come sede dell’Expo Universale del 2015
con 21 voti di scarto sulla turca Smirne.
L’organizzazione dell’Expo sarà un banco
di prova importantissimo per verificare la
capacità dell’Italia di tornare attrattiva in
una dimensione internazionale.
Feeding the planet, energy for life:
questo è il tema generale dell’Expo 2015.
La sicurezza e la qualità alimentare per
uno sviluppo sostenibile del pianeta sono
poi declinate secondo ulteriori sottotemi,
come “Innovazione nella filiera alimentare” e “Alimentazione per migliori stili di
vita”.
L’Italia ha un’apprezzata e conosciuta tradizione alimentare; il tema scelto è
perfettamente in linea con gli standard
qualitativi e quantitativi che il comparto
italiano del cibo ha raggiunto.
I temi di lavoro e dibattito riguarderanno anche la prevenzione delle grandi
malattie sociali e la riduzione dell’alto
numero di persone che ancora oggi soffre
la fame, la sete e la malnutrizione, in linea
con alcuni degli obiettivi di sviluppo del
millennio promossi dalle Nazioni Unite.
Da un punto di vista organizzativo,
ogni Expo ha esigenze funzionali connesse
con il territorio ospitante ed è fondamen-
tare leggendaria nella vita di Milano, per
la sua speciale grandiosità”. Questa frase,
tratta dal volume Milano nel 1906, edito a
cura dell’amministrazione municipale di
Milano, ben rende le grandi speranze che
gli organizzatori nutrivano nei confronti
di questo evento
all’alba della sua
Il 31 marzo 2008 il Bureau
inaugurazione.
International des Expositions ha
Speranze quanscelto Milano come sede dell’Expo
tomeno fondate
poiché si calcola
2015.
che i visitatori
tale concretizzare senza tradire la proposta
all’epoca furono circa 10 milioni.
A cento anni dall’Esposizione del progettuale e il valore ideale. Interessanti
1906, è nata a fine ottobre 2006 la sfida or- sono le guide alle opportunità, come Expo
ganizzativa per riportare l’Expo del 2015 2015 edita dal Gruppo 24 Ore, che fornisce
in Italia e a Milano. Alla presentazione risposte ai quesiti e alle curiosità sul prodel dossier di candidatura al Bie (Bureau getto. Non sono mancati dubbi e dissidi,
International des Expositions) sono segui- ma il 23 novembre 2010, con l’approvate missioni all’estero per convincere altre zione del dossier di registrazione, Milano
nazioni ad appoggiare il progetto e forum è divenuta ufficialmente la sede dell’Expo
tematici per approfondire l’argomento 2015, un evento che, se ben sfruttato, pogenerale. Il Bie è il comitato, cui aderi- trà rafforzare la posizione del capoluogo
scono attualmente 157 paesi, preposto a lombardo e dell’Italia nel mondo.
panorama per i giovani
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150 anni di Unità d’Italia
Petrolio e assenzio
Quando la requisitoria si fa poetica e il dissenso è una cifra stilistica.
di Giuseppe Fasanella
Petrolio e assenzio. La ribellione in versi
(1870-1900) è un bel libro, pubblicato da
poco da Salerno nella collana Faville, a
cura di Giuseppe Iannaccone, docente di
Letteratura italiana contemporanea presso
l’Università di Roma Tre.
Si tratta di una sorprendente silloge di
autori normalmente ignorati dalla critica
ufficiale, esponenti di una generazione di
artisti arrabbiati, nell’Italia del secondo
Ottocento. Normalmente nelle antologie
letterarie compare soltanto l’esaltazione
più o meno pomposa delle battaglie di
quegli anni gloriosi, o tomi dall’intento
pedagogico, come le pagine deamicisiane
di Cuore. Ebbene, grazie alle ricerche di
Iannaccone, apprendiamo che non c’è solo
questo: ci troviamo infatti dinanzi una ridda di poeti che espressero una profonda insoddisfazione per la realtà politica, sociale
ed economica scaturita dal Risorgimento.
“Pur odio, e fortemente odio, ed anèlo
/ A la riscossa e ho fretta… / Come aspiran le pie anime al cielo, / L’aspiro a te,
santissima Vendetta!”, scrive per esempio
Giacinto Stiavelli nella sua Invettiva.
Evidentemente non è rimasto molto
dello slancio di gioia sincera e immediata
che illuminava la canzone del Monti Per la
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n. 3, settembre-dicembre 2010
liberazione d’Italia: la musicalità e la compostezza formale dei tempi passati non hanno senso per i ribelli e per il loro impeto.
Dall’insofferenza contro la mediocrità
della borghesia (ma anche contro un’unificazione del paese realizzata tenendo in
poco o nessun conto il contesto e i disagi
sociali) germina la rivolta di molti scrittori, che si muovono tra forme di populismo
romantico alla Victor Hugo e classicismo
alla maniera di Carducci. In verità la matrice storica fa semplicemente da collante a
un gruppo tutt’altro che omogeneo di autori, alcuni semplici bestemmiatori, altri verseggiatori improvvisati o intellettuali della
provincia, altri ancora veri e grandi poeti.
Già il titolo della raccolta, ispirato a
una poesia di Domenico Milelli, lascia
presagire il contenuto: il petrolio richiama alla memoria la leggenda delle pétroleuses della Comune di Parigi; l’assenzio
il liquore dei poeti maledetti francesi.
Una letteratura, dunque, impegnata e ribelle, che annovera una copiosa schiera
di poeti, dalla produzione rovente e accanita. “All’odio affilo, come lama, il
verso”, dice Guarnerio (Recto), mentre
Lorenzo Stecchetti tuona contro gli aguzzini di oggi: “Non sperate pietà dunque
ne’l santo / giorno de l’ira eterna. / Trop-
po, dinanzi a voi, troppo abbiam pianto”
(Iustitia).
Il canone stilistico che potremmo definire dell’“enfasi dell’invettiva” raccoglie in realtà una vera e propria galleria
di poeti: dai satanici Carducci e Rapisardi
a Giovanni Pascoli, colto prima che inventasse la sua poetica del fanciullino,
passando per Filippo Turati e Ada Negri,
molto prima che diventasse la sola donna
dell’Accademia mussoliniana. Ricordiamo ancora, tra i meno noti, gli scapigliati
Antonio Ghislanzoni, quando non scriveva libretti d’opera, e Ferdinando Fontana,
insieme ai veristi come Olindo Guerrieri.
Troviamo anche, in Petrolio e assenzio,
un folto gruppo di anticlericali bastardi e
bestemmiatori, che scagliandosi contro la
Chiesa inneggiano a Satana o a Epicuro.
Non si tratta – è importante sottolinearlo
– di una contestazione circoscritta a poche
regioni. Troviamo infatti poeti del Nord,
testimoni di una spietata società industriale, e letterati del Sud, spettatori di una cruda
realtà contadina: è un vero continente sommerso, testimonianza di un’Italia asfittica e
dura, che poco aveva da spartire con quella sognata da Mameli e dai grandi patrioti
idealisti. Nel verso non c’è spazio per le
delicatezze. Ci sono solo il risentimento e la
rabbia riassunti nei versi di Girolamo Ragusa Moleti, che Benedetto Croce ironicamente definì “ribelle dei ribelli”: “Addio, fiori,
acque lucenti, / Carezzevoli all’orecchio, /
Addio, valli, aeree cime; / Come groppo di
serpenti / Vo’ lanciar nel mondo vecchio /
Nuovamente le mie rime” (Congedo).
Il mio paese
Il mio paese è fatto di sassi
che scivolano fra l’onde,
sgretolati in sabbia a formare coste nuove.
È terra rossa mischiata a neve
che non si scioglie in un istante, lasciando una goccia
calda d’acqua là dove prima era il gelo.
Il mio paese è fatto d’indifferenza e banalità,
unite al silenzio di chi non sente il mare gemere e urlare,
né il terremoto spaccare la terra
senza che i lembi si possano unire.
È terra dove l’argento compra le emozioni
richiudendole dietro fredde pareti,
oltre le quali c’è il nulla.
E nulla fa più rumore qui.
Ma se a una parola o un canto
se a un sasso un altro
se a un’onda la sua eco nel mare s’aggiunge,
nuova voce allora sfiderà l’orizzonte.
Selene Favuzzi
post scripta
Per l’Unità d’Italia
I l 150° Natale della nostra Unità politica è giustificazione sufficiente per dare uno sguardo, a volo d’uccello, alle ragioni per le
quali gli Italiani si sentano così poco fratelli, sebbene il canto di
Mameli, divenuto nell’Italia repubblicana Inno Nazionale (provvisorio…), si apra con l’invocazione: “Fratelli d’Italia”.
Prima, però, vorrei rintracciare concetti come quelli di “nazione” e di “patria”, che sono fondamentali nella mistica di ogni
risorgimento. Con la fine dell’era napoleonica e con la restaurazione decretata a Vienna, l’idea di ottenere una Costituzione e
di liberarsi da prìncipi stranieri fomentò moti insurrezionali nel
1821, soprattutto in Piemonte e a Napoli. Ebbene, annotava un
grande poeta e pensatore, Giacomo Leopardi, nel suo Zibaldone
di pensieri il 7 novembre 1821: “l’Italia … non è neppure una
nazione, né una patria”. Ed egli riteneva che emblema di una
nazione fosse una civiltà, “un temperamento della natura colla
ragione, dove quella cioè la natura abbia la maggior parte” (7
giugno 1820), ravvisando così in essa il fulcro dei caratteri identitari. “E in genere – precisava – si può dire che la tendenza dello
spirito moderno è di ridurre tutto il mondo una nazione, e tutte
le nazioni una sola persona”. Tanto che “[u]na volta le nazioni
cercavano di superar le altre, ora cercano di somigliarle, e non
sono mai così superbe come quando credono di esserci riuscite”
(3 luglio 1820). La globalizzazione, apportatrice di benessere,
anche se non per tutti, certamente sfuma le identità e omologa i
comportamenti. Quanto alla patria, seguendo Sallustio che nella
scala dei valori pone dapprima le ricchezze, quindi, in ordine
ascendente, l’onore, la gloria, la libertà e finalmente la patria,
Leopardi annota con pessimistica tristezza che volendo usare
la figura retorica della gradazione “si disporrebbero le parole al
rovescio: prima la patria, che nessuno ha, ed è un puro nome”.
Mentre per “le ricchezze […] onore, gloria, libertà, patria e Dio,
tutto si sacrifica e s’ha per nulla” (4 febbraio 1821).
Non essendo questa la sede per approfondimenti storici non
ricercherò altri filoni di pensiero, ma mi limiterò a richiamare
perché il Risorgimento e l’Unità politica siano ancora così controversi. A mio avviso, nessun Paese, nessuna Nazione, nessuna
Civiltà, come nessuna Religione può vivere e svilupparsi senza miti; solo questi ultimi sono in grado di creare un’identità,
talvolta fantastica e non necessariamente storicamente fondata,
nella quale le genti si riconoscono e alla quale contribuiscono le
arti, la letteratura, oggi la comunicazione con i suoi multiformi
canali. E il mito, fabbrica di eroi, si rigenera sempre nel rito.
Ebbene, lo spirito critico e beffardo, spesso anarchico, degli italiani – ancor pregni dell’oraziano acetum italicum – tende a sfatare il mito, a ridimensionare gli eroi, a interpretare il rito come
inutile cerimonia. Sono decine e decine le pubblicazioni – scrive
Ernesto Galli della Loggia – che negli ultimi tempi e in misura
crescente all’avvicinarsi del sesquicentenario hanno rivangato
episodi non proprio commendevoli della lotta per raggiungere
l’unità d’Italia, tranciando giudizi sprezzanti, inappellabili su
uomini e avvenimenti.
La critica al Risorgimento non è di oggi e nacque con l’Unità, poiché quest’ultima, realizzatasi nella direzione monarchica
e centralista, suscitò la reazione di quanti si erano battuti per
un’Italia repubblicana o l’avevano pensata federale. D’altra parte, tutte le culture politiche del Novecento che si opponevano alla
tradizione cavourriana e sabauda, dal socialismo al cattolicesimo
politico, dall’azionismo al comunismo gramsciano, hanno letto e
riletto criticamente il Risorgimento, senza mai arrivare a mettere
in dubbio, però, il valore della raggiunta Unità. Ciò è avvenuto a
cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo, riscoprendo e rivalutando
la storica divisione tra Nord e Sud. Se il Nord è stato il primo a
esprimere propositi secessionisti, temporaneamente sopiti da un
laborioso processo di federalizzazione, oggi non mancano imitatori anche nel Sud e particolarmente in Sicilia, una regione da
sempre inquieta sotto questo profilo…
È l’allentamento del sentimento unitario una peculiarità del
nostro Paese? Ebbene, no. È una pulsione anche più forte in Belgio tra le Fiandre e la Vallonia ed è presente nel Regno Unito tra
Scozia e Inghilterra, in Spagna tra Catalogna e resto del paese.
Quali sono le ragioni che spiegano questa tendenza alla frammentazione nell’Europa occidentale? Al di là di fattori idiosincratici in questa o quella regione, ne vedo tre: a) il lungo periodo
di pace che ha risvegliato antiche tensioni, sopite nei periodi di
guerra per fronteggiare il nemico; b) la liberalizzazione dei commerci, che ha fatto venire meno la coincidenza del mercato con
lo stato; c) l’affievolita solidarietà delle regioni ricche, non più
disposte a sovvenire quelle povere o meno intraprendenti.
Dobbiamo rassegnarci a questa deriva verso la frammentazione? Certamente no, anche perché il posto dell’Italia nei vari consessi che tentano di governare questo mondo in continua evoluzione politica ed economica è frutto anche della nostra dimensione
demografica e territoriale, che già si sta riducendo precipitosamente in termini relativi con l’emergere di giganti come la Cina, l’India o il Brasile… Tuttavia, per evitare quella deriva è necessario
che il patto tra il Nord e il Sud d’Italia venga rifondato. A ciò può
provvedere solo una forza politica illuminata o almeno consapevole dei dilemmi esistenziali che il nostro Paese deve affrontare
e risolvere. Perciò, il mio augurio di cittadino per il 2011 è che
questa palingenesi si produca senza ulteriori, pericolosi ritardi.
Viva l’Italia!
Mario Sarcinelli
panorama per i giovani
•
47
incontri
Il futuro
Daldella
Collegio
terza età
Inaugurazione dell’anno accademico del Collegio
Il 24 novembre il Prof. Enrico Decleva, Rettore della Statale di Milano
e Presidente della CRUI, ha inaugurato con la sua prolusione l’anno
accademico 2010/2011 del Collegio “Lamaro Pozzani”.
Tutti gli incontri del Collegio Universitario
“Lamaro Pozzani” di questo periodo. Per
maggiori informazioni:
www.collegiocavalieri.it
04.10.10. La riforma dell’Università
A colloquio con il Prof. Gian Luigi Tosato,
Presidente della Commissione per le
Attività di formazione dei Cavalieri del
Lavoro.
14.10.10. Ambiente e cervello
Il prof. Lamberto Maffei, Presidente
dell’Accademia dei Lincei, spiega come
l’ambiente influenza la struttura cerebrale.
18.10.10. Morire per le idee
Roberto Carnero, laureato del Collegio,
racconta Pier Paolo Pasolini.
04.11.10. Procter&Gamble
Alcuni laureati del Collegio e la dottoressa
Cinzia Angeli incontrano gli studenti,
descrivendo attività e struttura di
un’azienda leader.
La cerimonia del 24 novembre è stata
aperta dal Presidente della Federazione
Nazionale dei Cavalieri del Lavoro Benito Benedini, che ha rivolto il suo saluto ai
partecipanti all’evento e ha poi illustrato
le principali attività del Collegio, i criteri
di selezione e le ragioni che hanno ispirato la scelta dei Cavalieri del Lavoro di
investire nella formazione di eccellenza.
Il prof. Gian Luigi Tosato, Presidente della Commissione per le attività di
formazione della Federazione, ha quindi
messo in luce come il nostro Collegio si
caratterizzi per l’attenzione ai valori che
sono alla base della cultura d’impresa. Il
prof. Tosato ha sottolineato anche l’importanza dei programmi di collaborazione
con università e altre istituzioni internazionali, che è intenzione della Federazione potenziare nei prossimi anni: la scelta
di molti dei nostri giovani di trascorrere
almeno un periodo all’estero non va intesa di per sé come un fatto negativo, a condizione che l’Italia sappia dimostrare a
sua volta una capacità di “attrazione” dei
giovani più meritevoli degli altri paesi.
La prolusione è stata tenuta dal professor Enrico Decleva, Presidente della CRUI
(Conferenza dei Rettori delle Università
Italiane) e Rettore dell’Università degli
Studi di Milano. Dopo aver analizzato le
motivazioni di base del decreto Gelmini, il
prof. Decleva ha centrato il suo intervento
sul percorso storico dell’università italia48
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n. 3, settembre-dicembre 2010
Il Prof. Decleva (Presidente della CRUI),
il Presidente della Federazione Benito
Benedini e il Prof. Gian Luigi Tosato
(Presidente della Commissione per le
Attività di formazione dei Cavalieri del
Lavoro) consegnano la medaglia d’oro del
Collegio a Salvatore Scalzo, uno dei nuovi
laureati.
na, dal decennio che ha seguito l’Unificazione ad oggi, individuando alcuni punti
di svolta cruciali nella definizione dell’attuale sistema. In particolare, ha evidenziato come l’abuso dell’autonomia concessa ai singoli atenei e lo spreco di risorse
(proliferazione di sedi distaccate e corsi
di laurea) abbiano minato una struttura di
base sostanzialmente sana e produttiva. A
proposito dell’internazionalizzazione, il
Presidente della CRUI ha rimarcato come
proprio il fatto che giovani laureati italiani
decidano di mettere il loro patrimonio di
conoscenze e capacità al servizio di un altro paese dimostri che la nostra università
è ancora in grado di formare personale altamente qualificato, pur non riuscendo poi
a offrire opportunità paragonabili a quelle
degli altri paesi. Il pensiero finale è stato
ancora per la riforma: un testo certamente
perfettibile, ma senza il quale l’università
italiana si troverebbe a dover affrontare
problemi ancora maggiori.
La cerimonia si è conclusa con la tradizionale consegna delle medaglie d’oro
ai laureati del Collegio e con la presentazione delle matricole.
05.11.10. Visita a Montecitorio
Giacomo Lasorella, laureato del Collegio
e capo del servizio Assemblea della
Camera, accompagna le matricole in visita
a Montecitorio.
11.11.10. La crisi economica
Alberto Quadrio Curzio, Vicepresidente
dell’Accademia dei Lincei, spiega
le dinamiche della crisi economica
internazionale.
15.11.10. Immigrazione (1)
Incontro con Padre Giulio Cipollone
(Pontificia Università Gregoriana),
dedicato al tema dell’immigrazione.
15.11.10. Impresa e cultura
Il Cavaliere del Lavoro Paola Santarelli
racconta la sua esperienza imprenditoriale
e l’impegno per la cultura. Il dott. Paolo
Vitellozzi ha chiuso con una lezione sulla
glittica (cioè l’incisione di pietre dure) nel
mondo antico.
22.11.10. Immigrazione (2)
Notevole risorsa o aumento di costi? Un
incontro con l’On. Isabella Bertolini.
02.12.10. Immigrazione (3)
Continua il ciclo di incontri sull’immigrazione
con Qorbanali Esmaeli, Presidente
dell’Associazione culturale Afghani in Italia.
06.12.10. Pro e contro del nucleare
Energia e sostenibilità nell’incontro con
Bruno D’Onghia, Presidente di Edf Italia.
14.12.10. Ricerca e innovazione nel
sistema pubblico
Incontro con due laureati: Paolo Occhialini
(Coordinatore delle attività del Distretto
tecnologico delle Bioscienze nel Lazio) e
Sergio Talamo (giornalista professionista).
www.cavalieridellavoro.it
Notizie e informazioni aggiornate settimanalmente
I Cavalieri
Un archivio con l’elenco di tutti i Cavalieri del Lavoro
nominati dal 1901 a oggi e più di 550 schede biografiche
costantemente aggiornate
La Federazione
Che cos’è la Federazione Nazionale dei Cavalieri del
Lavoro, la composizione degli organi, lo statuto e le
schede di tutti i presidenti
I Gruppi
Le pagine dei Gruppi regionali, con news, eventi e tutte
le informazioni più richieste
Le attività
Gli obiettivi della Federazione, la tutela dell’ordine, i
premi per gli studenti e i convegni
Il Collegio
Il Collegio Universitario “Lamaro-Pozzani” di Roma e i
nostri studenti di eccellenza
Le pubblicazioni
I volumi e le collane pubblicati dalla Federazione, la
rivista “Panorama per i Giovani” e tutti gli indici di
“Civiltà del Lavoro”
L’onorificenza
La nascita e l’evoluzione dell’Ordine al Merito del Lavoro,
le leggi e le procedure di selezione
La Storia
Tutte le informazioni su più di cento anni di storia
...e inoltre news e gallerie fotografiche sulla vita della
Federazione.
È QUANDO TI SENTI PICCOLO CHE SAI DI ESSERE DIVENTATO GRANDE.
A volte gli uomini riescono a creare qualcosa più grande di loro. Qualcosa che prima non c’era. È questo che noi intendiamo per innovazione
ed è in questo che noi crediamo.
Una visione che ci ha fatto investire nel cambiamento tecnologico sempre e solo con l’obiettivo di migliorare il valore di ogni nostra singola
produzione.
È questo pensiero che ci ha fatto acquistare per primi in Italia impianti come la rotativa Heidelberg M600 B24. O che oggi, per primi in Europa,
ci ha fatto introdurre 2 rotative da 32 pagine Roto-Offset Komori, 64 pagine-versione duplex, così da poter soddisfare ancora più puntualmente
ogni necessità di stampa di bassa, media e alta tiratura.
Se crediamo nell’importanza dell’innovazione, infatti, è perché pensiamo che non ci siano piccole cose di poca importanza.
L’etichetta di una lattina di pomodori pelati, quella di un cibo per gatti o quella di un’acqua minerale, un catalogo o un quotidiano, un magazine
o un volantone con le offerte della settimana del supermercato, tutto va pensato in grande.
È come conseguenza di questa visione che i nostri prodotti sono arrivati in 10 paesi nel mondo, che il livello di fidelizzazione dei nostri clienti
è al 90% o che il nostro fatturato si è triplicato.
Perché la grandezza è qualcosa che si crea guardando verso l’alto. Mai dall’alto in basso.
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numero 3/2010 - Collegio Universitario Lamaro Pozzani