Il castello
da Franz Kafka
drammaturgia e regia Roberta Nicolai
Egli è un cittadino libero e sicuro della terra, poiché è legato ad una catena lunga quanto basta per dargli libero accesso a tutti gli spazi della terra, e però è di una
lunghezza tale per cui nulla può trascinarlo oltre i confini della terra. Ma al tempo stesso egli è anche un cittadino libero del cielo, poiché è legato ad una catena
celeste regolata in modo simile. Così se vuole muoversi verso la terra lo strozza il collare del cielo, se vuole muoversi verso il cielo quello della terra. E ciò
nonostante egli ha tutte le possibilità e lo sente.
Franz Kafka, Aforismi di Zurau, 66
K, l’individuo, il soggetto, lo straniero, privo di tutto, anche del nome, incapace di armonizzare sé e il mondo, solo e contraddittoriamente
spinto a differenziarsi e ad appartenere. Cosa vuole? Il lavoro, la casa, l’amore, il riconoscimento. Di fronte a lui la società degli altri…
sembrano possedere strumenti che a lui sono negati, conoscono tutto, sono fantocci full-optional… una collettività, nervosa, disturbata e
allarmata dalla presenza del granello nell’ingranaggio. Ma la macchina ha bisogno del singolo, solo in sua presenza può mettersi in
movimento. La macchina gira e la collettività si sgrana, si dissolve lasciando sul terreno uomini confusi e disperati.
Un uomo e una collettività. Elementi di un romanzo incompiuto scritto con gli ultimi respiri, singhiozzante e fluido, visione a ritroso alla fine di
un percorso. Manifesto di una resistenza umana senza limiti se non quelli fisici dell’essere uomini, quelli fisiologici della stanchezza, del
sonno e della morte. Arrivare al Castello, entrare nel Castello, appropriarsi della chiavi della verità… ma il Castello è avvolto dall’ignoto e
difeso da un esercito di adepti inconsapevoli eppure tesi a perpetrare il suo assoluto silenzio.
L’invisibile ha una beffarda tendenza a presentarsi come visibile
Franz Kafka, Il castello
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Scheda spettacolo
Personaggi e interpreti
(in ordine di apparizione)
K
Il funzionario
Artur e Geremia
Barnaba
Olga
Frieda
L’ostessa
Amalia
Enea Tomei
Michele Baronio
Michele Riondino
Leonardo Maddalena
Francesca Farcomeni
Tamara Bartolini
Lucilla Mininno
Marzia Ercolani
Costumi – Andrea Grassi
Scene – Roberta Nicolai
Scenotecnica – Sergio Bartolini, Valerio Spallasso
Audio – Gianluca Saporito, Peppe Montana
Direzione di scena – Luigi Acunzo
Grafica e disegni – Francesco Gaston
Video – Roberto Salinas
Foto – Eva Tomei, Enrico Saccone
Collaborazioni – Simona Lobefaro, Stefano Lattavo
drammaturgia e regia Roberta Nicolai
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Note di regia
Un testo che rivela.
Ho cominciato a lavorare al Castello perché ne intuivo l’enorme potenziale critico. Nel tempo questo testo ha rivelato la sua natura di trattato
in forma di romanzo. Seppure non sistematicamente e sempre partendo dalla vita reale, nel Castello, Kafka affronta i temi filosofici del
rapporto tra l’uno e il tutto, le categorie fisiche dello spazio e del tempo, e metafisiche del sacro e della realtà come derivazione dal sacro.
Una sublime mescolanza di matrici neoplatoniche ed esistenzialiste. Una forma filosofica contemporanea.
Lavorando con i corpi e le voci vive degli attori, emergevano quotidianamente linee e colori, contrasti brutali, masse informi e linee nette, uno
spazio svuotato e improvvisamente riempito, nitidezza di contorni e offuscamento delle forme nella percezione dell’osservatore. Affioravano
stili: le commistioni del surrealismo, le masse coloriche dell’espressionismo, la rarefazione dell’impressionismo e il realismo, con il suo
approccio fotografico al reale.
E non è un caso che la filmografia ispirata all’opera di Kafka o che da Kafka ha tratto spunti e soggetti sia infinita. Modalità di racconto
contrastata, incostante, come solo il cinema realizza, cambio di luoghi, di rapporti spaziali e dimensionali, un tessuto narrativo denso e
interiore, contraddittoriamente spinto nelle opposte direzioni della linearità e della circolarità.
Tutto questo nella forma di romanzo del ‘900 lanciato verso l’universalità. E quando si affronta Kafka questa universalità passa nei contenuti
quanto nella forma. Anni di sperimentazione di nuovi linguaggi, di sperimentazione espressiva, non riescono a rendere superato un testo
che fa della sintesi visiva il meccanismo e l’obiettivo di una scrittura.
Trasformare due anni di studio in teatro è stato un percorso a volte doloroso, fatto di scelte e rinunce. Cosa privilegiare? Cosa raccontare?
Narrare il mondo di oggi, partendo dal racconto di Kafka, la percezione dell’attuale senza sottomettere l’arte all’ideologia, ma cercando di
andare a fondo nel ragionamento, nell’analisi e nella critica alla nostra società.
Il risultato mi fa sperare che il teatro abbia ancora profonde radici ancorate nel reale e che possa ancora offrire ad ogni singolo spettatore
una chiave d’accesso personale, privilegiata e critica al mondo in cui viviamo.
Il capitalismo iperindustriale ha sviluppato le sue tecniche al punto che, ogni giorno, milioni di persone si connettono simultaneamente agli stessi programmi di
televisione, radio o giochi elettronici. Il consumo culturale, metodicamente massificato, non è privo di conseguenze sul desiderio e le coscienze. L’illusione del
trionfo dell’individuo sfuma, mentre si precisano le minacce contro le capacità intellettuali, affettive ed estetiche dell’umanità.
Bernard Stiegler
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Kafka: lo straniero
Modi da cinese, leggerezza di un uccello, passo veloce, corpo un po’ inclinato, lunga falcata, sguardo da indiano mezzo sangue… Kafka
vive la propria vita come uno straniero, senza partecipare ai riti, senza riconoscersi, senza identità, senza un volto, senza un luogo proprio.
Vivere come soggiornare in una stanza di passaggio, strada di collegamento tra salotto e camera da letto. Oggetti pronti ad essere usati,
libri semidischiusi, opuscoli e giornali spiegazzati, cravatta annodata.
Lo straniero: l’uomo buttato fuori dal mondo; non ha un centro, una protezione, una famiglia, una rendita, un amore: nulla a cui appoggiarsi;
vive soltanto di sé, nutrendosi di se stesso, affondando in se stesso. Non ha contatti umani, non sa vivere con il prossimo, perché qualsiasi
uomo, anche il più amato e desiderato, gli ripugna profondamente. Il suo sguardo scende sugli altri gelido ed estraneo. Solitudine senza
gesto e senza parola dell’animale condannato che si chiude nella tana e non vuole più uscirne.
Se per caso o per errore entra nella terra popolata, subito si ritira nella terra di confine tra solitudine e comunità, tra la campagna innevata e
il Castello dove avere la sensazione di essere in attesa di un qualche messaggio. Lo straniero ha il disgusto della vita e ne odia soprattutto il
frastuono, i rumori.
Lo Straniero conosce benissimo lo straniero che porta dentro di sé: sa che vuole il silenzio perché desidera la morte: “quanto più profonda si
scava la fossa, tanto più silenzio si ottiene”.
Lo Straniero a poco a poco si costruisce il proprio carcere fino ad essere imprigionato tutto dentro se stesso. La vita è monotona, assomiglia
ad un compito dato a scolari negligenti: scrivere 10, 100, 1000 volte la stessa frase. Tutto è “strettezza”. L’intero universo lo stringe da tutte
le parti fino a farlo soffocare, persino l’eternità che porta nel cuore lo soffoca.
Ma anche la prigione si rivela una falsa prigione, è una gabbia: le grate sono distanti metri tra loro, da esse entrano i colori e i rumori del
mondo; si può uscire, si può perfino abbandonare la gabbia. Non sa che farsene di questa condizione a metà tra libertà e prigionia. Vuole
essere totalmente chiuso, sbarrato, abbandonato dal mondo: vuole altissimi e impenetrabili muri.
Lo spazio che possiede è troppo piccolo per viverci e con il passare degli anni finisce per identificarsi con la bara. Mentre gli altri sono
abbattuti dalla morte, lui si affila, si restringe e finisce per morire quasi di propria volontà. Niente dietro di sé, niente davanti a sé, lo Straniero
senza passato e senza futuro, quasi senza corpo e senza peso, così sottile, così aereo, così dolcemente folle.
Ma non debole. Lo Straniero ha un’immensa energia: ha scoperto la leva con la quale sollevare il mondo. Solo che il mondo non c’è più, c’è
solo lui che occupa la totalità del mondo: l’azione dello Straniero non fa che scardinare e distruggere il suo io. Egli si blocca la strada da
solo; è il proprio unico inciampo. Egli è il campo di battaglia su cui si affrontano gli avversari molteplici, tutti estratti da lui, tutti fraterni. Una
guerra sanguinosa in cui nessuno muore.
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Il percorso
Sul Castello di Kafka ho articolato tre fasi di studio.
Oggetto della prima fase è stato lo spazio. Sono partita dall’assimilazione dell’estraneità ad un’idea di spazio, un preciso disegno da cui
derivano obblighi e regole, come all’interno di un gioco infantile. Di questa conoscenza partecipano tutte le creature del Castello ad
eccezione di K. Egli, straniero, non conosce le regole del gioco, non sa qual è la strada giusta per arrivare al Castello, non sa qual è il giusto
modo di muoversi e di relazionarsi. Tutte le creature del Castello hanno interiorizzato questi meccanismi, complesso sistema di direzioni e di
distanze, li realizzano meccanicamente, giocando una partita involontaria.
Lo spazio racconta. Ma approdando al Castello dopo aver sperimentato lo spazio scenico in modi diversi, ci si trova in uno stato di
disequilibrio, in una posizione contemporaneamente scomoda e stimolante. Certo l’alternanza di non-luoghi e di porzioni di realtà
iperdefinite, è la prima certezza, ma anche la prima domanda: quale spazio? Il vuoto, lo spazio immenso e dilatato all’inizio della storia, il
non-luogo sospeso tra scenari conosciuti, tra l’Inferno di Dante e il mondo di Oz. Luogo dell’anima con tutta la nettezza del luogo geografico
improvvisamente invaso da una realtà deformata e deformante, dal carattere cupo, primordiale e tristemente infantile.
Uno spazio che si modifica, che scivola e fa scivolare negli angoli, che contrasta le convenzioni teatrali e inventa nuove dimensioni, lo
spazio virtuale del nostro mondo contemporaneo dove tutto esiste soltanto in quanto gestito, attraversato, visitato. Spazio delle relazioni in
cui la regola poggia la sua esistenza sull’eccezione.
Il punto di approdo: lo spazio diviene doppio. Da una parte un vuoto dalla pianta continuamente mutevole, un gioco da tavolo, l’ordine di uno
schedario e la pianta di un supermercato: una commistione di abilità e fortuna, di caso e ragione che traccia nel vuoto segni indelebili.
L’azione scenica come luogo principale ma non esclusivo: creazione di “vie di fuga”, di uscite violente dallo spazio teatrale.
Dall’altra uno spazio che stringe, che blocca, un inscatolamento dell’umanità, divenuta prodotto commerciale. Scatole di bambole da cui
sono raccontati gli ambienti e gli strati della storia individuale di ognuna delle creature che popolano il Castello, concentrazioni di realtà in cui
poter avere tutto ciò che occorre all’individuo sotto forma di pezzo di ricambio.
Nella seconda fase di lavoro è stato esplorato il linguaggio attoriale nella direzione di una meccanicità corporea espressa attraverso diversi
gradi di declinazione e di aderenza.
La meccanicità come sintomo, come appartenenza allo stesso meccanismo, come carattere dei prodotti creati dello stesso creatore ma
anche come natura più profonda dell’individuo costretto a bilanciarsi continuamente e impegnato nella gestione di mostri interiori. Risultato è
uno stato di disagio e di incapacità di controllo nella natura impaziente, nevrotica e fragile dei personaggi.
Tutti gli errori umani sono impazienza, una prematura interruzione della metodicità, una recinzione apparente della cosa apparente.
Kafka, Aforismi di Zurau, 2
La meccanicità diviene l’anima di una società, meccanici sono gli stati emozionali, l’inconscio dei corpi e delle anime dei personaggi di una
società di controllo, condizionati e determinati da una ipersincronizzazione che conduce alla perdita dell’individuo e alla distruzione del
narcisismo primordiale, attraverso l’ omogeneizzazione del loro passato, “ormai confusi nell’infermità simbolica di un pronome impersonale
un sì amorfo”.
Il meccanismo è ciò che collega il clan del Castello, è la sua anima, la sua essenza comunicata attraverso la forma in cui si esprime. Di
fronte al tutto, la parte ribelle, il granello nell’ingranaggio, l’eccezione alla regola: K. Ma la regola prevede l’eccezione, non è neanche
formulabile senza l’irregolarità, la si vive soltanto in presenza dell’irregolarità.
E così la meccanicità, l’appartenenza si esplica solo in presenza dello straniero in un’estenuante soggettiva lunga quanto l’esistenza.
Terza fase: la sintesi sonora.
“Un tocco di campana, alato e giocondo, un tocco che faceva tremare il cuore, almeno per un istante, quasi lo minacciasse – perché il tocco
era anche doloroso – l’adempimento dei suoi incerti desideri. Ma la grande campana tacque subito, e fu sostituita da una campanella fioca e
monotona…”
Il suono in Kafka sembra tessere continue connessioni con l’immagine. Ma non è certo la musica organizzata, la forma musicale che lo
interessa; non è una musica composta, quanto la pura materia sonora e le intrusioni: fischi, ronzii, cantilene, musica che nasce senza che si
riesca a capire come, baccano, frastuono… un caos di suoni.
Questa materia sonora intensa, sempre in rapporto con la propria abolizione, suono musicale senza territorio, grido che sfugge alla
significazione, alla composizione, al canto, alla parola, sonorità in rottura per liberarsi di una catena che è ancora troppo significante diventa
tessuto narrante.
Tale ricerca del suono e dei suoni presenti nel Castello, attraversa la recitazione degli attori, i frammenti di brani cantati, lo sgretolamento
operato sui brani musicali scelti e soprattutto il rapporto tra musica e azione, tra partitura sonora e partitura fisica e vocale.
triangolo scaleno teatro via dei latini, 4 00185 Roma tel/fax: 06/444.12.18 www.triangoloscalenoteatro.it
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Presentazione - Triangolo Scaleno Teatro