RS
RICERCHE STORICHE
Anno XXX
N. 80- Ottobre 1996
Direttore
Salvatore Fangareggi
Direttore Responsabile
Le immagini del numero provengono dal
"Fondo Corrado Corghi", depositato presso
Istoreco. Tale fondo comprende, oltre a
diverse fotografie di soggetto vario, pezzi
epistolari, documenti, libri e opuscoli rari.
Sergio Rivi
Segretario
Antonio Zambonelli
Capo Redattore
C. Mario Lanzafame
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Renzo Barauoni, Giorgio Boccolari, Ettore Borghi,
Antonio Canovi,
Alberto Ferraboschi, Sereno Folloni,
Sergio Morini, Marco Paterlini,
Massimo Storchi, Antonio Torrenzano
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Rivista quadrimestrale dell' Istoreco( Istituto
per la storia della resisistenza e della società
contemporanea in provincia di Reggio
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Registrazione presso il Tribunale di
Reggio Emilia n. 220 in data 18 marzo 1967
La selezione pubblicata appartiene anche
alla storia personale del professore
Corghi, che dell'Azione cattolica reggiana
fu per molti anni attivo militante nonché
presidente diocesano nell'immediato
dopoguerra. Queste immagini sono
soprattutto uno sguardo inedito su persone
e luoghi della città e della provincia che
hanno segnato la storia del nostro
territorio, oltre che dell'Azione cattolica,
da metà anni trenta all'immediato post
liberazione.
Cogliamo l'occasione per ringraziare
pubblicamente il professor Corghi per le
importanti donazioni che da anni va
facendo all'lstoreco.
In prima di copertina:
Marola, luglio 1945. Tre giorni dell'Azione
Cattolica. Sorridente, don Giardo Ruggerini,
Assistente diocesano.
In quarta:
giovani di A.C. durante la stessa "tre giorni".
Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi,
non già di raccogliere certezze.
Di certezze- rivestite della fastosità del mito o edificate con la pietra dura del dogmasono piene, rigurgitanti,
le cronache della pseudocultura degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti
interessati.
Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione:
valutare tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllare tutte le testimonianze
prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal
quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva.
(Bobbio, 1951)
. . . . . . ..
6 Editoriale
10
16
Antonio Canovi
Istoreco allo specchio
Riflessioni
Massimo Storchi
Ancora sulla riconciliazione
Conversazioni
C. Schminck-Gustavus
Marcello Flores
36
54
Saggi
Michela Marchioro
Sono tutte storie di personaggi
(a cura di Massimo Storchi)
Totalitarismi e archeologia delle società di massa
(a cura di Maria Nella Casali).
L'Associazione Pionieri d'Italia
Memorie
20 mesi di guerra civile,
50 anni di dopoguerra.
68
Documenti
Ulisse Gilioli
Il Volontario della Libertà
78
Crocevia
a cura di C. Mario Lanzafame
Giampaolo Calchi Novati L'Egitto per sé e per il mondo arabo
Ohue Idemudia Pedro
Comments
98
Didattica
Cesare Grazioli
Manuale e documenti: da nemici ad alleati
Recensioni
Alberto Ferraboschi
Fulvio Zannoni
Roberto Marcuccio
Patria o Nazione?
Oltre la pace. Studiare la guerra
Don Giuseppe lemmi e il governo delle passioni
108
5
Istoreco allo specchio:
quando un'associazione si fa
impresa culturale
TI 6 settembre, nella ex colonia montana di Busana, Istoreco ha
sentito il bisogno di riflettere pubblicamente sul cammino compiuto
dopo la trasformazione statutaria. Ha voluto farlo forse enfatizzando
le proprie ambizioni ma, insieme, "mettendosi in scena" impietosamente di fronte a consiglieri e collaboratori, partigiani e storici,
oltre a vari amici degli altri Istituti. Un primo risultato è stato
raggiunto: l'intensa tensione emotiva che ha percorso la giornata è
senza dubbio servita allo scopo di ancorare questo delicato passaggio
alla soggettività di quanti vi collaborano, secondo l'impegno di
ciascuno e le diverse responsabilità.
La radicalità dell'approccio mi pare sia servita egregiamente a
scongiurare il rischio (proprio delle burocrazie) di un avvitamento
autoreferenziale. Istoreco - al pari degli altri Istituti nati per diffondere gli studi storici dedicati alla Resistenza - è un organismo
complesso, nella cui struttura genetica ritroviamo tre livelli convergenti. Per le tradizioni politiche incorporate, si tratta di un'associazione basata sul volontariato, con finalità etiche (la trasmissione dei
valori resistenziali si fa patto fra le generazioni). La partecipazione
fondativa dei soci istituzionali ha inoltre investito l'associazione sin dai primi vagiti - di compiti universali di rappresentanza (sintetizzabili nella formula: rammemorare il patrimonio storico per
commemorare la comunità locale). Infine, sono i servizi offerti a
decidere oggi della sua capacità a stare sul mercato culturale.
C'era da comunicare, da quest'ultimo punto di vista, il dato forte
di un Istituto che, perseguendo linee di sviluppo impetuose - il
ANTONIO CANOVI
7
bilancio reale è decuplicato in 5 anni! -, sa già muoversi come
un'agenzia di servizi. L'attuale suddivisione del lavoro per aree
funzionali, coordinate in staff, nasce infatti dalla necessità di soddisfare la nuova tipologia di richieste avanzate dai soci (istituzionali
e non) di Istoreco. Detto in termini espliciti: l'appartenenza alla
tradizione antifascista e ai valori costituzionali vive (ed è finanziabile) quando sa tradursi in concreta e praticabile proposta di formazione storica. Perciò Istoreco, nel passaggio a Istituto per la storia
della Resistenza e della Società Contemporanea, si è preoccupata
particolarmente di rendere virtuoso il circuito (per definizione paritario e non gerarchizzabile) tra ricerca e divulgazione didattica.
La direzione della pratica intrapresa indica, tra l'altro, come non
basti la risposta in termini di efficienza ed efficacia dei servizi prestati
per soddisfare la vocazione etica di questi Istituti. Il mercato è utile
in quanto costringe a relazionare con una pluralità di soggetti, e
mentre ottimizza le capacità di lavoro della tecnostruttura sollecita
il dinamismo dell'intero organismo associativo. Ma gli Istituti sono
nati per assolvere ad una funzione· sociale da perseguire senza scopi
di lucro e, salvo diventare qualcosa d'altro, non basterà trasformarsi
in impresa tout court (tanto meno, come taluno sembra adombrare,
in cooperativa di servizi, privata di ogni progettualità).
Per sciogliere questo nodo, che altrimenti potremmo definire l'
anomalia di un'associazione che si fa impresa culturale, la giornata
del 6 settembre è appena bastata ad impostare alcune questioni tra
gli amici presenti. RS sarà felice di ospitare, nei prossimi numeri,
alcuni fra quegli interventi, ed altri che solleciteremo come Istoreco.
8
Maggio 1937. Cortile della Ghiara, Pellegrinaggio dei giovani di Ac. Sul podio: Cornaggia-Medici, vice presidente centrale della
Giac e Fulvio Lari, presidente diocesano.
Fulvio Lari
9
Ancora sulla riconciliazione
Capita a volte nel cammino dello storico di trovarsi in territori
trascurati e quasi abbandonati dalla percezione pubblica e dall'interesse dei mezzi di comunicazione. "Come il vecchio marinaio,
abbiamo parlato ai morti, ma fatichiamo a farci ascoltare dai vivi.
Per loro siamo una seccatura" 1.
MASSIMO STORCHI
1) R. DARNTON, /I bacio di Lamourette,
Adelphi Edizioni, Milano, 1994, p.15.
Si torna dalle immersioni negli habitat dello storico (l'archivio,
la biblioteca, l'incontro coi testimoni) e ci si ritrova quasi isolati
a dover fissare sulla pagina bianca (di fronte alla tastiera del Pc)
una traccia di quel percorso, incerti sul destinatario e sul pubblico
potenziale, quasi ancora a preparare un messaggio in bottiglia da
affidare alla buona sorte del mare circostante.
Poi, all'improvviso, lo scenario cambia, e ci si accorge di essere,
all'improvviso, per una sorta di corto circuito casuale, invece pienamente sull' onda dell' attuale "dibattito politico-culturale" nel quale
però si continua a provare la stessa difficoltà del marinaio di Darnton,
forse perché diversi sono gli obiettivi, diverse, certamente, le culture.
Il passaggio, ormai ripetuto all'infinito, nel discorso di insediamento del presidente della Camera ono Violante, incentrato sulla
necessità di riprendere una riflessione sulle motivazioni di una scelta
per Salò di tanti giovani, è venuto a coincidere con una iniziativa
pubblica dove, per la prima volta in maniera ufficiale e organica,
venivano a confrontarsi due protagonisti che quella scelta avevano
maturato in maniera opposta, un giovane garibaldino e un giovane
sottotenente della Guardia Nazionale Repubblicana2•
2) L'incontro dibattito "20 mesi di guerra
civile, 50 anni di dopoguerra" si è tenuto
il 18 maggio presso la Sala Capitano del
Popolo di Reggio Emilia, promosso dalla I
Circoscrizione del Comune di Reggio Emilia.
In altra parte della rivista si pubblicano le
testimonianze rese nell'occasione dai due
protagonisti.
11
3) G.VACCA, Per una nuova Costituente,
passaggi Bompiani, Milano, 1996, pag.81.
4) La citazione di Silvio Lanaro è contenuto
in S.F10RI, Cari politici ma che uso fate della
nostra storia, 'La Repubblica', 29 agosto
1996.
Per chi, come Istoreco, sul fenomeno-fascismo sta riflettendo
almeno da un decennio, l'autorevole appello ha avuto una duplice
eco. Da un lato l'immediato piacere di sentire che tanto lavoro, spesso
comunicato con grande difficoltà non era stato del tutto inutile.
Dall'altro il fastidioso sospetto che quel richiamo (come gli altri
seguiti ancora su temi legati al secondo conflitto mondiale) fosse,
ancora una volta, strumentale a situazioni contingenti, che, insomma,
la storia fosse lo strumento per raggiungere altri obiettivi. Così, di
fronte alla pur buffonesca minaccia di chi punta alla rottura dell'unità
nazionale, ecco la necessità di chiudere, una volta per tutte, una antica
frattura che impedisce una più compiuta unità di spiriti di fronte
al pericolo del momento. O ancora meglio, quando si arriva a
teorizzare la necessità, in vista di una "seconda Repubblica" articolata
su un bipolarismo da costruire a tavolino, di superare definitivamente
rispettivamente l'anticomunismo e l'antifascismo quali "criteri di
interdizione reciproca che avevano contrapposto le forze politiche
nella Prima Repubblica"3.
Secondo le necessità tattiche del momento politico si chiede agli
storici di giocare un ruolo limitato a "portatori di prove" in vista
di questa o quella occasione contingente. E se un "revisionismo di
sinistra" è necessario, come ha sottolineato Lanaro, per rispondere
"alle nuove domande di una società in fermento" questo è invece
inaccettabile quando "diventa filosofia, ideologia, apriorismo: l'atteggiamento di chi vuole a tutti i costi reintepretare la storia, predeterminando tutti i passaggi di questa revisione, per la quale
manipola fonti e testimonianze".4
Si tende quindi a dimenticarsi (più o meno a ragion veduta) della
reale necessità di confrontarsi con una realtà (di memoria e documentale) che continua a mostrare segni inequivocabili di conflitti
e dolori. Un uso strumentale della storia che, se è pane quotidiano
per politici e affini, continua a sollevare una sottile irritazione in
chi della storia ha fatto il proprio campo di attività e appiattisce
definitivamente una realtà ancora dolorosa e complessa.
Segni di antichi conflitti e dolori sono usciti con grande chiarezza
dal confronto sia fra i protagonisti che fra di quanti di quelle vicende,
di quel nodo storico e storiografico si occupano. In questo senso
l'occasione di confronto del 18 maggio è stata certamente utile, per
12
chiarire le posizioni e anche per eliminare malintesi e aspettative
ingiustificate. Non è questa l'occasione per una riflessione approfondita sulla questione annosa della "riconciliazione", vale però la
pena sottolineare come, proprio dal confronto fra le posizioni opposte, sia emersa tutta la difficoltà di proporre una operazione, a
metà strada fra la verifica storica e la riscrittura di un comune passato,
che valga a chiudere, con una riflessione comune, un momento così
nevralgico e decisivo della storia nazionale.
Fra le tante difficoltà due possono essere esemplificate in breve:
da una lato la mancanza, dopo cinquanta anni, di una storiografia
di destra pur revisionista, ma almeno documentariamente fondata,
che vada oltre la (questa sì) vulgata (neo )fascista che continua invece
ad innervare profondamente le posizioni e le analisi degli eredi di
Salò. Dall'altra, e direttamente connessa alla precedente, il permanere
di due atteggiamenti tipici e ripetuti della cultura dell'estrema destra:
un forte influsso estetizzante al limite del misticismo, diversamente
esercitato, e un ricorrente vittimismo in eterna oscillazione fra la
teoria del "complotto" (abbiamo perso perché tutti erano contro di
noi) e quella del "capro espiatorio"5. I fascisti repubblicani sarebbero
stati caricati delle "colpe" storiche della nazione e sacrificati per una
sua 'purificazione'.
E' evidente che di fronte ad un permanere di simile bagaglio il
confronto sui fatti rimane l'unica possibile opzione, per sperare
almeno in qualche possibilità di comunicazione con una controparte
che sembra invece ancora chiusa in schemi rigidamente costruiti e
comunque ancorati a stereotipi storicamente insostenibili.
5) Per un'analisi breve ma motivata del ruolo
del "capro espiatorio" si veda: M.TARCHI,
Esuli in patria. I fascisti nell'Italia repubblicana, Ugo Guanda Editore, Parma 1995,
pagg.15-20. Su come permanga ancora
intatta la struttura ideologica edi riferimento
legata ai protagonisti, di parte fascista, di
quelle vicende si veca: C.MAZZANTINI, E i
balilla andarono a Salò, Marsilio, Venezia
1995.
Il fascismo di Salò come mitigatore dell'ira nazista, come protettore dei "sacri confini" della patria, come disperata testimonianza
per "dare dignità alla sconfitta", sono tutti questi elementi che,
ripetuti ancora una volta, testimoniano della grande difficoltà della
destra post-fascista di fare i conti criticamente con il proprio passato.
Risulta infatti difficile riuscire a capire come sia credibile la recentemente dichiarata fede nella libertà e nella democrazia quando poi
si assume in toto come proprio patrimonio storico (e ahimè ideale)
l'intera esperienza di Salò che di quella libertà e democrazia fu
negazione assoluta e pervicace. Altrettanto difficilmente plausibile
risulta la tesi di una destra postfascista "perseguitata" nel dopoguerra
13
6) Sulle più recenti "rivelazioni" sul dramma
delle foibe esull'uso strumentale della storia
si veda: C.MAGRIS, Novecento, il mattatoio
della storia, "Corriere della Sera", 31 agosto
1996 e M.SERRA, Fine della storia, 'Cuore',
31 agosto 1996.
7) N.TRANFAGLlA, Un passato scomodo.
Fascismo e posttascismo, Editori Laterza,
Roma-Bari 1996, pag.105.
da un antifascismo "assoluto", quando proprio la sostanziale ignoranza della storia del novecento del nostro paese è il risultato lampante del mancato insegnamento della storia contemporanea nelle
nostre scuole, carenza questa che rende oggi possibile credere ad
ogni mistificazione della storia (compreso la possibile riscrittura e
rivalutazione del fascismo), quali quelle che i mass media ci hanno
periodicamente proposto da almeno da una decina di anni fino ad
oggi6•
Perché se è vero, che 1'antifascismo è stato oggettivamente 1'elemento di legittimazione dello stato democratico, fino ad uso strumentale e vuotamente celebrativo, è altrettanto corretta 1'analisi di
Tranfaglia quando ci ricorda che "le classi dirigenti non sentono il
bisogno di trasmettere i valori e le regole della democrazia"7,
improntando a questa loro visione la strutturazione dei programmi
scolastici.
In un simile scenario il termine "riconciliazione" assume un senso
e una sfumatura fortemente ambigua, perché di fronte all' esigenza,
reale e legittima, di costruire finalmente una identità nazionale e di
chiudere, metabolizzandone valori e veleni, un periodo storico,
rimane comunque la necessità di sostanziare quel termine con atti
e fatti concreti. Riconciliarsi significa certamente prendere atto di
quella divisione storica e di quella guerra (anche) civile, dalla quale
però è nata una patria libera e democratica per tutti. Sui valori
fondanti di questa patria è possibile un incontro e una riconciliazione,
non sul semplice accostamento di esperienze parallele. Riconciliazione presuppone anche il riconoscimento di un errore fatto, di aver
combattuto dalla parte sbagliata. Non basta insomma dire "voi
combattevate di là, noi di qua, avete vinto voi, adesso chiudiamo
la questione ... ", equiparando così democrazia e totalitarismo, perché
se è vero che le motivazioni che furono alla base della "scelta" di
tanti giovani furono le più varie, le idealità che quelle scelte incarnarono non erano e non sono intercambiabili. Chi scelse la libertà
non va accomunato a quanti optarono per un complesso di idee che
poneva, nella teoria come nella prassi, la sopraffazione dell'uomo
sull'uQmo come le radici del proprio agire.
Analogamente è vero che i morti hanno tutti diritto alla stessa
dignità e che ogni caduto ha diritto ad una sepoltura dignitosa, senza
14
però dimenticare cosa siano stati in vita tanti di quei caduti, che
purtroppo la vulgata postfascista si ostina a raccogliere tutti sotto
la nobile definizione di "martire".
Se è vero che "Nessuna bella morte può giustificare una causa
sbagliata", come ci ricorda Thomas Mann, risulta comunque difficile
accomunare il giovane marò caduto sul fronte di Anzio, convinto
in buona fede (e vittima di una cultura di morte) di difendere in
quel modo la patria dal "nemico", da quegli elementi definiti dagli
stessi alleati tedeschi" ... uomini ... capaci di assassinare chiunque,
di compiere qualsiasi nefandezza quando si trattava di eliminare un
avversario politico"8?
Anche sulla questione dolorosa e in parte irrisolta degli scomparsi
del periodo della Liberazione, come dimenticare la poco dignitosa
"tombola" sul numero delle vittime tante volte rilanciata dalla
pubblicistica di parte a replicare le ipotesi di un complotto (ovviamente comunista) tendente ad una eliminazione di massa9, preordinata e messa in pratica, accomunando ancora una volta vittime
innocenti e casuali a vittime che per il loro comportamento, direi
quasi per la loro esistenza, erano rimaste vittime di una vendetta
pur ingiustificabile ma purtroppo logica e umana?lO
Con queste premesse Istoreco rimane e vuole rimanere il luogo
di dibattito e ricerca per chiunque voglia approfondire i tanti aspetti
ancora in ombra di quella lotta di Liberazione che la semplice
etichetta di 'guerra civile' non basta a definire in termini di complessità, implicazioni e valori. Lo svolgimento del Convegno dell'autunno '95 proprio sulla storia della Rsi a Reggio Emilia è stato
8) [[ giudizio è quello espresso dal gen.Frido
von Senger und Etter[in, comandante del
settore militare di Bo[ogna, nei confronti della
Brigata Nera "Pappa[ardo" comandata da
Franz Pag[iani, in F.Von Senger und Etterlin,
Combattere senza paura e senza speranza,
Longanesi & c., Mi[ano 1960, pag.500.
9) Si veda ad esempio ['introduzione a Reggio Emilia 1943-1946, a cura de[I'Associazione Naziona[e Famiglie Caduti e dispersi
della Repubblica Sociale [taliana, L:U[tima
Crociata, s.i.[, 1994, pagg. 8-19.
10) Fra i tanti esempi possibili si pensi a[
caso di Giovanni Pini, sedici anni, unica
'colpa' essere figlio del s/Segretario agli
Interni del Governo di Salò, ucciso nel
modenese nel maggio '45, di fronte a figure
come A.B., squadrista reggiano, picchiatore,
che fino all'u[timo non esita a uccidere e
torturare il partigiano inviato a trattare [a
resa del presidio in cui era asserag[iato il
proprio reparto in fuga.
un momento importante di questo percorso che nei prossimi mesi
troverà nuove occasioni di realizzazione, al di fuori però di percorsi
addomesticati alle necessità contingenti, nella convinzione che solo
attraverso una continua verifica degli obiettivi raggiunti sia possibile
condurre un lavoro storiografico serio. In questo Senso anche il
recupero della memoria storica finora dispersa sul territorio può
costituire un altro percorso di notevole efficacia. La realizzazione,
nell'ultimo anno, di mappe storiche dei luoghi del fascismo e
dell'antifascismo (per i Comuni di Reggio, Campegine e Poviglio)
ha consentito il saldarsi della memoria diffusa con l'interesse delle
giovani generazioni al loro passato, letto nella dimensione spaziale
più immediata.
15
Sono tutte storie
di personaggi
a cura di
Massimo Storchi
D. Lo scorso anno sull'Unità era apparso un articolo, sulla concessione della pensione ai disertori del Terzo Reich, ad una prima
lettura frettolosa sembrava che la questione fosse risolta, che fossero
stati, cioè, reintegrati nei loro diritti civili. Al contrario, dopo la
tua coriferenza e con una lettura più attenta, la questione risulta
ancora aperta. Si parla adesso al massimo di un riesame caso per
caso di queste vicende ...
CHRISTOPH SCHMINCKGUSTAVUS
Schminck-Gustavus. Sì, purtroppo la questione è aperta. Il Bundessozialgericht che ha giurisdizione per la concessione di pensioniha
emesso una sentenza nel 1995 in cui ha riconosciuto la pensione
di guerra alla vedova di un disertore. In seguito anche periodi
trascorsi in carcere o lager per diserzione sono stati riconosciuti validi
sempre ai fini pensionistici. Ma queste sentenze sono altra cosa dall'
annullamento giuridico delle rispettive sentenze. Si rifiuta la cancellazione e, su pressione della Cdu e Csu (i partiti democratico
cristiani tedeschi e bavarese), è stato proposto proprio questo metodo:
esaminare le situazioni caso per caso. Esaminare cioè se i motivi
della diserzione erano degni di stima, onorevoli, insomma, oppure
no. Come esperto si è auto-offerto l'avvocato Norbert Geiss, membro
della Commissione parlamentare costituita per affrontare il problema.
Cioè questo signore si è offerto di fare questi esami del caso "singolo"
nel suo studio legale! Sarebbe insomma lui a decidere se i motivi
erano "degni di stima" o meno, "onorevoli" o meno. Ma il dott. Geiss,
parte dalla comune convinzione che la diserzione è sempre un delitto,
Cristoph U. Schminck-Gustavus insegna
Storia del diritto all' Università di Brema; si
occupa di storia sociale con particolare
attenzione alle vicende legate alla seconda
guerra mondiale. Tra i suoi libri tradotti in
italiano ricordiamo: L'attesa. Cronaca di una
prigionia al tempo dei lager, Roma, Editori
Riuniti, 1989 e Mal di casa, un ragazzo
davanti ai giudici 1941-1942, Torino, BollatiBoringhieri, 1994.
L'intervista collettiva è stata realizzata il 6
settembre 1996 presso l' Istoreco.
17
compiuto da gente squilibrata o per paura, vigliaccheria, insomma
una scelta che non può avere motivi nobili.
D. Com'erano e da chi erano composti i tribunali militari in
Germania nel Terzo Reich?
Schminck-Gustavus. Il comandante in capo di ogni divisione
aveva anche una funzione giuridica: svolgeva cioè la funzione del
così detto gerichtsherr (plenipotenziario giudiziario). A lui spettava
la competenza di aprire un procedimento, un ruolo quindi simile a
quello del pubblico ministero. Se il procedimento veniva aperto di
regola presiedeva un giudice militare e il giudizio era militare. Ma
quando spesso la presenza di un giudice non era possibile, ci si
trovava ad operare sul campo, in situazioni di emergenza, dove
bisognava procedere subito, e quindi non si poteva attendere l'arrivo
del giudice militare. In questi casi, al limite, poteva funzionare un
tribunale militare senza la presenza di neanche un giurista. Bastava
un ufficiale nel rango di maggiore, con altri due militari come
"assessori della corte marziale". Così il caso di Albinea, dove non
si è chiamato o atteso un giudice da un altro comando. Uno degli
assessori doveva essere dello stesso grado militare dell'imputato.
Quindi se l'imputato era un fante semplice, un fante semplice doveva
far parte come terzo membro di questo tribunale. La procedura era
semplificata, l'imputato non poteva nominare un difensore e la
sentenza non era appellabile, mentre la conferma della sentenza
spettava di nuovo al gerichtsherr , cioè al comandante in capo della
divisione.
Questa figura del gerichtsherr così gioca un doppio ruolo, prima
da pubblico ministero e poi anche da massima autorità che decide
sulla eventuale concessione della grazia. Questa è una costruzione
giuridica assurda, perché se uno decide di procedere contro un
imputato significa che si è già fatto una propria idea, quindi affidare
a lui la competenza di graziare o meno è una cosa abbastanza
1) Per una visione generale, vedi M. MESSERSHMIDT, F. WULLER, Die Wehrmachtsjustiz im dienste des nazionalsozialismus. Zerstorung eine legende, BadenBaden, 1987. Questo libro è stata la prima
ricerca seria in assoluto.
18
grottesca. l
D. Che significato ha la diserzione per un tedesco? Passare
dali' altra parte, forse combatterè contro i propri connazionali ri-
mane sempre un problema di coscienza grave. In Spagna testimoni
mi hanno riferito del rifiuto dei tedeschi inquadrati nel battaglione
Thalmann di affrontare i tedeschi della Legione Condor. Era forse
un sentimento di appartenenza ancora vivo e diffuso nella mentalità
tedesca a spingere a questo comportamento? Questo era un problema
che gli italiani antifascisti non sentivano in modo particolare, anzi,
forse era il contrario ...
Schminck-Gustavus. Non so se sia una cosa generalizzabile
questo ricordo, in realtà credo che la contrapposizione ideologica
e politica fosse un elemento molto forte. Negli anni venti una delle
canzoni comuniste più popolari aveva come ritornello "colpite i
fascisti dove li incontrate", o un'altra "Wedding rosso" (Wedding
era un quartiere comunista di Berlino), dove si parla di sangue, di
lotta dura. Queste obiezioni credo fossero casi privati e non generalizzabili. Tanti di quei combattenti tedeschi erano sfuggiti a carceri
e lager e avevano ben chiaro il ricordo del trattamento avuto dalle
S.S., no, non credo, fosse un comportamento generalizzabile.
D. Del resto questa visione, del tedesco che rifiuta di combattere
contro i suoi, è una conseguenza di un nostro schema mentale, legato
alla visione di una Germania ordinata, dove il senso di disciplina
è sempre molto forte. In realtà come anche il partigiano ci diceva
ieri, Schmidt voleva salire in montagna per costituire un piccolo
distaccamento per dare un segnale che c'erano tedeschi che combattevano per la libertà. Del resto anche fra gli assalitori di Villa Rossi
nel marzo '45 c'era un tedesco (oltre i 40 che comunque erano già
attivi nella Resistenza reggiana).
Schminck-Gustavus. Posso dire qualcosa del caso greco: lì i
disertori tedeschi sono stati molti, sono fuggiti sulle montagne col
rischio, frequente purtroppo, di venire scambiati per spie e di essere
fucilati. I greci però non li hanno adoperati in azioni di battaglia,
li hanno utilizzati per fare volantinaggi, per altri incarichi, ma non
erano armati, vivevano in montagna e cercavano di rendersi utili negli
ospedali partigiani, nell' approvvigionamento. Il fenomeno in Grecia
fu di ampie dimensioni, i disertori furono migliaia, tanto che anche
il loro rimpatrio a fine guerra non fu cosa semplice.
19
D. In Italia, zona di occupazione, si confrontavano vari poteri nella
macchina militare nazista, era quella situazione di policrazia di cui
parla Klùtkhammer. Sono esistiti conflitti anche nel campo della
giustizia militare?
Schminck-Gustavus. E' una questione ancora poco studiata. Tra
le gerarchie naziste esistevano questi problemi, c'erano tensioni fra
i vari corpi armati che potevano portare a conflitti di competenza.
Ogni corpo aveva la propria giurisdizione. Anche la testimonianza
del partigiano che ci raccontava dell'arrivo delle S.S. ad Albinea
prima del processo e dell'esecuzione credo vada letta come una
operazione per rafforzare la sicurezza di quel comando (che era della
Luftwaffe all'epoca), forse per eseguire le fucilazioni, ma la sentenza
marziale spettava alla Luftwaffe. Se i cinque fossero stati S.S. solo
allora le cose sarebbe ricadute sotto la loro autorità. Il tribunale fu
formato certamente da membri del Comando di Albinea.
Situazione diversa era per la Gestapo che non era un corpo militare,
dipendeva direttamente da Berlino. Era la polizia segreta di Stato.
Diverso ancora era il discorso per la polizia militare della Wehrmacht,
per le unità di Feldgendarmerie,· facilmente riconoscibili per quel
medaglione che portavano sulla divisa ...
D. Furono loro infatti a compiere nel giugno '44 la strage della
Bettola con 32 morti. Anche se poi nell 'immaginario le S.S. diventano
il simbolo di tutto il male, e nella memoria sono le responsabili di
ogni atrocità.
Schminck-Gustavus. In realtà la Wehrmacht partecipò attivamente alla repressione contro le popolazioni, ovunque. E' questa una
questione ancora spinosa in Germania. La Wehrmacht era l'esercito,
un corpo di tradizione, con una propria storia e prestigio, sociale
e politico.
Gli altri corpi (S.A. prima e S.S. dopo) avevano un'altra considerazione, un'altra storia, erano milizie armate, nate nella cosiddetta
Kampfzeit, cioè il periodo di ascesa del nazismo prima della presa
del potere; questi corpi erano addetti al servizio d'ordine nelle assemblee di partito, erano reclutate anche fra gli elementi più discu20
tibili. La Wehrmacht no, la Wehrmacht camminava con la divisa
pulita, anche per estrazione sociale la differenza era forte. I generali
della Wehrmacht erano spesso nobili, discendenti di antiche famiglie,
i membri della S.A. o delle S.S. invece venivano spesso dal sottoproletariato, gente che aveva fatto carriera all'interno di questi corpi
armati nazisti. Anche questo spiega la conflittualità che quelli della
Wehrmacht avevano, era una questione di classe e stile, nei confronti
di certi elementi delle SS. Questa situazione ha facilitato nel dopoguerra 1'affermazione da parte di alti militari che la Wehrmacht
era rimasta sempre pulita, ligia alle regole della guerra etc. Questo
si spiega proprio per il diverso retroterra sociale delle alte gerarchie
dei diversi corpi armati.
Un collaboratore di Canaris racconta in una lettera alla moglie
dei suoi tentativi di convincere alti ufficiali della Wehrmacht ad
aderire alla congiura del 20 luglio '44. Ne incontra uno e mentre
gli parla del progetto, questo per accavallare le gambe (erano a sedere
insieme) tira fuori un fazzoletto e lo mette sui calzoni, per non
rovinare la piega dell'uniforme.
Erano elementi dell' alta borghesia e dell' aristocrazia, disprezzavano le S.S. ma erano vincolati a una mentalità molto rigida.
D. E' stato fatto uno studio per conoscere a quali gruppi sociali
appartenessero i disertori? In quali unità militari vi sono verificati
maggiormente i casi di diserzione?
Schminck-Gustavus. E' un lavoro in gran parte da fare. Un
elemento interessante è però il fatto che, sia nei codici del tempo,
che nel dibattito odierno si accredita il fatto che i disertori fossero
elementi di bassa formazione culturale e mentale, quasi dei minorati.
Si dice di loro che non avevano terminato gli studi, che avevano
precedenti penali. Insomma gente di bassa estrazione sociale con
componenti di asocialità. Ma sono affermazioni senza nessun riscontro. Purtroppo questi argomenti si sono sentiti ancora nella Commissione Parlamentare, dove il dott. Jurgen Schreiber, generale della
Bundeswehr in pensione e ex-giudice militare dell' esercito federale,
ha ripetuto gli stessi argomenti, già contenuti in un commento nazista
al codice militare. La tesi è che solo gente minorata o socialmente
21
1938. Santuario mariano della Pietra di
Bismantova, Convegno diocesano della Giac.
22
Giugno 1942. Nel cortile del vecchio
San Rocco, sede del mitico oratorio.
Si riconoscono don Giuseppe Tondelli
ed il giovane Corrado Carghi.
23
pericolosa poteva lasciare le fila dell'esercito, abbandonando i propri
compagni. Stesso discorso sui reparti di provenienza. Per fare un
altro esempio che ho studiato bene: la Grecia. In Grecia operavano
delle Strafbataillone, unità di punizione. In queste unità metà era
gente di sinistra (comunisti e socialisti) che avevano fatto il carcere
o illager, l'altra metà criminali comuni, asociali, estratti anche questi
da campi di punizione. Unità simili potevano essere tenute insieme
solo con una disciplina ferrea. Erano mentalità opposte che dovevano
convivere a tutti costi.
In questi reparti di punizione la tendenza alla diserzione ovvia- mente era molto alta, certo più fra i politici che si rendevano meglio
conto di cosa venivano comandati a fare (rastrellamenti, fucilazioni,
etc.). I politici però rischiavano due volte, erano i più controllati.
Il comandante conosceva i loro precedenti e se uno veniva preso,
com'è accaduto, in un tentativo di fuga, veniva fatto fucilare dai
suoi commilitoni, dai suoi amici più vicini. Questo per terrorizzare
il gruppo e rafforzare la disciplina. Non ho trovato norme ufficiali,
2) Vedi Hans-Peter KLAUSCH, Die 99ger. Die
Bewahrungsbataillon und ihr Antei/ am
antifaschistischen Widerstand, Franfurt
a.Main, 1986.
esistono però testimonianze, raccolte anche in studU
Erano casi molto tragici a volte, chi si rifiutava non la passava
liscia. Ricordo un caso avvenuto sull'isola di Samos. Cinque soldati
tentarono di passare sulla riva turca che è proprio lì di fronte. Il
vento contrario li riportò però indietro. Si nascosero sull'isola,
iniziarono a cercarli, fucilando tutti quegli isolani che li avevano
aiutati. Ne catturarono tre, uno si uccise, il quinto fu preso pochi
giorni dopo. Quest'ultimo, processato e condannato a morte, fu
sorvegliato l'ultima notte da un militare che il comandante non
sapeva fosse suo amico. Questo gli offrì di lasciarlo fuggire. Ma
il soldato rifiutò "hanno già ucciso troppa gente-gli disse-domani
3) /Ibidem, p. 302 e sego
io muoio ma almeno è finita qui".3
Questa è una vicenda uscita dopo 40 anni perché quell'arnicosentinella ha raccontato l'accaduto, anche le modalità del processo
e dell'esecuzione che furono ben più sbrigative delle disposizioni
4) Si fa riferimento al documento presentato
in JORGH KAMMLER, /Kasse/er So/daten
zwischen Verweigerung und Widerstand
(1939-1945 ), Fulda, 1985, p. 242 e sgg.
che ho citato ieri nella conferenza di ieri ad Albinea. 4
D. Una domanda personale. In Italia noi siamo abituati ad un
altro tipo di storici del diritto: sono studiosi che in genere si
occupano di sistemi giuridici, singoli o comparati e cose simili. Tu
24
invece lavori più sul campo della storia sociale. La tua è una scelta
storiografica o esistono anche motivazioni etiche e politiche in senso
ampio?
Schminck-Gustavus. Sì, ogni lavoro di ricerca è frutto di una
scelta precisa. Per conto mio sono venuto a Bologna nel 1980 e avevo
portato con me molto materiale per un volume sui lavoratori forzati
polacchi nel III Reich. Fino a quel punto però non avevo mai
conosciuto nessun polacco che fosse stato nel Reich, eppure ce ne
erano stati due milioni e mezzo. Avevo scelto questo argomento dopo
una discussione con un collega polacco, era una questione che volevo
approfondire. Poi qui in Italia ho incontrato per caso una signora
anziana di Borgo Panigale a Bologna, Gigina che mi raccontato la
sua storia, la sua lotta, il figlio ammalato, il marito prigioniero a
Brema, proprio nella mia città. Questo e altri incontri sono stati molto
intensi. Ho indagato le loro storie, come avevo indagato anche la
storia della Gigina e di suo marito, prigioniero per 22 mesi. Allora
ho capito cosa vuole dire indagare su un caso singolo, entrare nella
storia vissuta che è cosa ben diversa da scrivere un libro su un
argomento di carattere giuridico-sociale. Così ho iniziato a cercare
lavoratori polacchi che erano stati a Brema.
Queste storie che per uno che non ha vissuto la guerra sembravano
piuttosto incredibili, vanno anche ambientate in un clima di mobilitazione pacifista degli anni ottanta, hanno modificato il mio metodo
di ricerca e hanno cambiato i destinatari del mio lavoro. Non scrivo
per l'accademia, perché in una scuola con sedicenni, con diciassettenni, non puoi fare una conferenza su la storia in genere, devi essere
molto concreto. Mi interessa sempre raggiungere ragazzi, perché mi
sembra importante, fate la stessa cosa anche voi. Quindi questo è
stato il motivo di cercare casi singoli: Walerjan 5 , Attilio 6 Amos 7,
in Italia come in Grecia, sono tutte storie di personaggi. Non mi
interessa tanto un discorso sulle strutture, sui problemi tecnici, mi
interessa invece che cosa ha pensato Walerjan, che cosa è successo
alla Gigina con il bambino malato, con gli anni più belli rubati ecc.
Queste sono cose che puoi raccontare, che puoi spiegare ai ragazzi.
5) Mal di casa, Un ragazzo davanti ai giudici,
Torino, Bollati-Boringhieri, 1995.
6) L'attesa. Cronaca di una prigionia ai tempi
dei lager, Roma, Editori Riuniti, 1986,
7) I sommessi di Cefalonia, Firenze, 1996
25
D. Quale è il senso dell'opinione pubblica in Germania oggi sul
tema diserzione? Le proposte strumentali della Cdu nel dibattito
parlamentare hanno sollevato un dibattito? Questa idea della revisione caso per caso è chiaramente un modo ostruzionistico, un
modo per dire 'no' alla cancellazione.
Schminck-Gustavus. I disertori hanno rifiutato una simile proposta. Alla fine della guerra erano 4000 superstiti, condannati a
morte; ormai rimangono in 300, sono anziani, spesso con problemi
di salute o anche di vita quotidiana, non possono aspettare tante
dilazioni e formalità.
Molti di loro hanno avuto problemi gravi di reinserimento, si
sentivano (ed erano) esclusi, considerati alla stregua di vigliacchi.
Avevano interiorizzato queste accuse e per recuperare un equilibrio
ci sono voluti anni. Sulla questione il dibattito è aperto ma non è
ancora diffuso come dovrebbe essere per raggiungere 1'obiettivo della
cancellazione del crimine e la completa riabilitazione dei disertori.
Anche nel partito socialdemocratico ci sono difficoltà e riluttanze
sul problema. Parlarne anche in Italia è stato un elemento importante,
e quello che potremo fare insieme sarà certamente di grande utilità.
26
1942. Parrocchia di S. Teresa, i
soci della S. Tarcisio. AI centro, don
Dino Torreggiani. Tra i giovani:
Osvaldo Piacentini, Alberto Altana,
Bruno Piacentini, Clito Casali.
27
Don Angelo Spadoni
1943. Cortile del vecchio San
Rocco. Tra i sacerdoti anche il
futuro "prete di dio", don Angelo
Spadoni, e l'allora vicario generale
della diocesi don Lindner. Accanto
a loro: l'onorevole Giovanni Manenti, il professar Umberto Lari,
Voltolini e William Ferrari.
28
Totalitarismi e archeologia
delle società di massa
A CURA DI MARIA NELLA
CASALI
D. Rifacendomi al vivace dibattito storiografico suscitato dalla
giornata seminariale dedicata ai totalitarismi, a cui tu stesso hai
preso parte, organizzata da [storeco nella scorsa primavera, qui a
Reggio Emilia1, mi piacerebbe ripartire da due questioni - cardine:
la problematicità con cui ancor oggi si usa la categoria di totalitarismo per la storia dei regimi dittatoriali del '900 in Europa
occidentale e orientale e la consequenziale, difficile ( o addirittura
negata) comparabilità di quegli stessi sistemi politici e istituzionali.
MARCELLO FLORES
Ti pare legittimo, viceversa, applicare non solo il criterio di
estendibilità geopolitica del termine all'esperienza nazista e fascista,
da un lato, e a quella bolscevica, dall'altro, ma anche sostenere
una sorta di comparabilità sul piano storico di quelle diverse
esperienze?
[ ritardi nel dibattito storiografico sulla comparabilità dei totalitarismi sono determinati solo dallo scarso peso scientifico del
termine - che ha consentito piuttosto le valenze della suggestione
- o forse anche dal timore di indurre una falsa equivalenza del ruolo
storico dei diversi regimi?
Marcello Flores, insegna storia dell'Europa
orientale e storia delle relazioni internazionali alla Facoltà di Lettere dell'Università di
Siena.
Ha pubblicato: 1956, Bologna, Il Mulino,
1996; L'età del sospetto, Bologna, Il Mulino,
1995; L'immagine dell'URSS, Milano, Il Saggiatore, 1991; con N. GALLERANO, Sul P.C.I,
un interpretazione storica, Bologna, Il Mulino, 1992 e Guida alla storia contemporanea,
Milano, Bruno Mondadori, 1995.
1 ) Si allude alla giornata seminariale tenutasi a Reggio Emilia il 29 aprile 1996 presso
I "Aula Magna dell'Istituto Tecnico Commerciale "C.Levi" dal titolo "Lo specchio dei
totalitarismi". L:incontro rientrava nel novero degli incontri strutturati da ISTORECO, in
relazione al corso d'aggiornamento per insegnanti, dal titolo "Multiculturalismo e
diritti di cittadinanza: storie di segni, memorie presenti" per l'anno scolastico '95 - '96.
Alla giornata seminariale in oggetto hanno
partecipato, oltre a Marcello FLORES,
Domenico LOSURDO dell' Università di
Urbino e Francesco BENVENUTI dell' Università di Bologna.
L'uso del termine totalitarismo è sempre stato, soprattutto
in Italia, difficoltoso, anche se ormai da tempo è entrato nel linguaggio comune e si trova spesso adoperato in testi scolastici e
divulgativi. Le reticenze a usare questo concetto non nascevano solo
dai limiti e dalle ambiguità del concetto stesso, dalla sua eccessiva
indeterminatezza o dalla non convincente scientificità che conteneva;
FLORES
29
ma soprattutto dal presupporre e dare per scontata una comparabilità
e una somiglianza tra i regimi dittatoriali di tipo fascista, cioè occidentali, e quelli di tipo comunista, cioè orientali: mettendo su uno
stesso piano, in base a categorie prevalentemente politiche ed economiche, esperienze storiche lontane e contrapposte tanto geograficamente che ideologicamente.
Senza voler ripercorrere qui tutto il dibattito critico che ha accompagnato la fortuna e l'uso del concetto di totalitarismo, occorre
sottolineare che in Italia non ci si è limitati, spesso, a rifiutare il
giudizio di somiglianza tra fascismi e comunismi: si è partiti da
un'idea di incomparabilità preconcetta fondando proprio sulla differenza ideologica l'impossibilità di un confronto strutturale e storico. Credo quindi che da noi i ritardi nel dibatti~o storiografico
vadano ascritti più al timore "politico-ideologico" di avvallare una
falsa equivalenza nel giudizio storico su regimi opposti che non nelle
effettive e più volte messe in luce debolezze "scientifiche" del
termine. Ritardi che fu soprattutto la storiografia d'impianto marxista
a favorire e che non fu certo positiva nè per quanto riguarda gli
studi sul fascismo nè per quelli sui paesi socialisti e dell'Europa
orientale. Nel primo caso mancò la capacità di contrastare con
ricerche innovative e a vasto raggio (e non solo di taglio ideologico)
l'interpretazione di Renzo De Felice; nel secondo prevalse un
moderato giustificazionismo delle necessità storiche dello stalinismo
e del poststalinismo accompagnato da critiche, a volte anche aperte,
finalizzate a un'ipotesi di riforma interna del sistema comunista. Solo
la "fine" del comunismo, in qualche modo, ha liberato gli stessi
storici comunisti (o almeno una parte di essi) dalle gabbie metodologiche e ideologiche che impedivano loro di poter affrontare in
modo veramente libero e aperto la questione del totalitarismo del
XX secolo.
D. Ragionando più in dettaglio sulle affinità politiche e istituzionali tra i totalitarismi del XX secolo, è possibile prendere atto che
tali esperienze siano l'effetto del dramma di una destrutturazione
della civiltà contemporanea europea, che si caratterizzò non solo
per una profonda rivoluzione politica (monopolio del potere e dei
mezzi di repressione) ma anche e soprattutto di ordine sociale (
visione manichea della storia, militarizzazione del consenso, ecc.)
30
fino a una regressione delle forme di convivenza civile e a una
estrema semplificazione delle strutture sociali esistenti?
Forse una sorta di contradditorietà tra elementi distruttivi e
irrazionali (immediata filiazione di ideologie imperialistiche e razziali) e sforzi costruttivi, orientati, in certo senso, dalla tradizione
illuministica?
E cosa ne pensi della comune ostilità al liberalismo e al parlamentarismo, propri sia del nazionalismo europeo radicale, sia del
bolscevismo, sin dalle sue origini?
Flores. Le ipotesi che suggerisci sono tutte presenti nella riflessione storica più attenta. Ma vanno ulteriormente approfondite. Il
primo passo non può che essere quello di proseguire sulla strada
del confronto e della comparazione.
lo sono convinto che la crisi di "destrutturazione" della civiltà
europea, come la chiami tu, abbia avuto un peso molto maggiore
e degli effetti necessariamente più simili di quanto le ideologie
diverse e contrapposte riuscivano a comprendere ed erano disposte
ad ammettere. L'opposizione nei confronti delliberalismo e l'ostilità
verso il parlamentarismo, ma in genere verso la democrazia "borghese" fu comune ai movimenti sovversivi d'inizio secolo di diverso
orientamento ideologico.
Era l'ostilità di chi era stato costretto a "entrare" nella storia con
la promessa di partecipazione e potere e si trovava ancora emarginato
oppure, come per la piccola borghesia, ridimensionato rispetto ai
progressi già compiuti. Era un'ostilità che ebbe successo a causa
delle inadempienze e delle promesse mancate della democrazia, ma
che si risolse poi in un antidemocratismo più profondo, segnato da
forti venature integraliste e antimoderniste.
Proprio su questo terreno, accanto a elementi comuni vi furono
forti diversità e vere e proprie contrapposizioni tra i fascismi e
comunismo, soprattutto in ordine agli obiettivi finali e ai valori
costitutivi, alla tradizione di cui si voleva essere eredi, al proprio
ruolo nell'ordine internazionale esistente. Non va però dimenticato
che molte di queste diversità vennero cancellate sul terreno pratico
della costruzione dei rispettivi regimi: il monopolio del potere e il
monopartitismo, la repressione dell'opposizione e del dissenso e dei
31
presunti nemici "interni", la militarizzazione della società e dell'economia, il culto del capo e la falsificazione della storia, la propaganda
e l'educazione e i rituali di massa sono tutti terreni in cui a distanza
di tempo, è possibile individuare forti connotati di somiglianza.
L'analisi comparativa non può sottostare a giudizi preordinati,
siano essi di carattere politico, ideologico o etico. Così come non
può avvenire al di fuori di un' attenta considerazione del contesto
storico complessivo. Non si può dimenticare, ad esempio, che l'esperienza nazista è stata circoscritta nel tempo e ha avuto caratteri più
marcati e unilaterali del fascismo italiano: che ha avuto tratti più
contradditori e spazi di dialettica interna estremamente più visibili.
Nè che la storia dell'URSS ha attraversato fasi diverse che, pur legate
da molti elementi di continuità, hanno costituito anche effettive
deviazioni da un modello unico e lineare.
Lo studio comparato dei regimi totalitari, affrontato con le avvertenze sopra ricordate, può diventare un formidabile aiuto alle comprensioni delle vicende del XX secolo, soprattutto rispetto ai temi,
intrecciati e decisivi, della modernizzazione e della massificazione
della società contemporanea.
D. Vorrei ora spostare la riflessione sui protagonisti e sulla leadership dei regimi totalitari, analizzandoli tuttavia non solo in veste
di Realpolitiker ma anche, in un certo senso, in quanto moderni
sacerdoti del mito.
E' lecito,per esempio, concordare in qualche modo con le tesi di
chi sostiene che, malgrado Hitler abbia potuto controllare manu
militari un terzo del globo non era in grado di trasformare l'ideologia nazionalsocialista in immagine di felicità e di potenza, para2) In particolare, il saggio di Maurizio
SERRA, Sul mito dell'URSS, in "Storia
contemporanea" n02, anno 1992
dossalmente proprio a causa del cosiddetto dogma biologico-razziale
del Superuom0 2 ? Mentre l'Unione Sovietica si é dimostrata in grado
di inglobare una serie di sotto-miti, anche tra loro antitetici (quali
il nazionalismo delle minoranze etniche, così come l'internazionalismo proletario, la belligeranza terzomondista e il pacifismo occidentale, ecc.) trasformandoli nella forza propulsiva del mito e
mettendo quest'ultimo in diretto rapporto con le masse?
32
Flores. Che tra nazismo e comunismo vi fossero delle differenze
enormi, accanto a tratti più simili, è dimostrato proprio dai "miti"
che essi seppero incarnare, diffondere, sviluppare.
Il mito che ha accompagnato la storia dell'URSS (in realtà diversi
sotto-miti che si sono succeduti e intrecciati nel corso del secolo
in diverse aree geografiche) si è in genere identificato con le forze
di cambiamento (non diciamo, per precisione, di progresso, anche
quando questo voleva poter dire cose diverse: ad esempio, come
ricordi tu, il bellicismo terzomondista e il pacifismo occidentale).
Va però ricordato che il mito nazista, pur incapace di trasmettere
"felicità" e di presentarsi in veste universalistica, riuscì a manifestare
un'immagine di "potenza" assai elevata, che favorì il consenso, sia
pure limitato, in moltissimi paesi europei e non solo. Entrambi i miti
riuscirono a creare e garantirsi un rapporto di massa: anche se quello
sovietico, più "aperto" perchè più universalistico e adattabile, potè
godere di una più lunga e articolata diffusione. Ma proprio la
compresenza di più sottili sotto-miti all'interno del più generale mito
sovietico (il mito della rivoluzione, il mito antifascista, il mito
industriali sta e pianificatorio) non deve far dimenticare gli anti-miti
che coesistettero con i primi. Il mito infatti fu in genere un fenomeno
esterno all'URSS mentre all'interno prevalsero, tranne forse i primi
anni dell' esperienza rivoluzionaria e della guerra civile, mitologie
negative. Lo stesso fu vero per le democrazie popolari e questo non
è, ovviamente, in contraddizione con l'esistenza di un consenso ai
regimi socialisti che ebbe luogo pressocchè in ogni periodo storico.
Per i fascismi successe invece l'opposto: il mito funzionò all'interno come catalizzatore e cemento ideologico-culturale, ma non
riuscì mai a varcare, se non in forme irrisorie, i confini nazionali.
D. Analizzare la categoria di mito ci rimanda alla sistemazione
che di essa hafatto Sorel già allafine del secolo scorso: se si sostiene
l'autonomia del mito rispetto alla realtà e la sua efficacia nell'approfondire e allargare le basi del consenso a qualsivoglia regime,
ci si spiega ad esempio quanto esso abbia costituito in qualche modo
una risposta e una via d'uscita alle crisi della società sovietica.
Potremmo in qualche modo affermare che i riferimenti simbolici
del mito sovietico siano stati in grado di accompagnare l'ingresso
33
3) Vedi sul tema M. FLORES, Senza il
socialismo in un paese solo, in "II Mulino"
ott-dic. 1991, dove l'analisi storico-sociologica dell' autore identifica la sfida politica
della contemporanea società russa come
una "questione" sospesa tra la tradizione
populista e in qualche modo autocratica del
popolo russo e la creazione di quegli organismi intermedi (associazioni, partiti, sindacati, ecc.) che andrebbero a costituire il
cosiddetto "stato di diritto".
delle masse nella società moderna? Qual' è il tuo parere, inoltre,
sull'attuale sfida politica giocata dalla società civile russa ? 3
Flores. Penso che il mito abbia una sua relativa autonomia rispetto
alla realtà, e diventi anzi esso stess o realtà da considerare come
tale in tutta la sua "materialità". Proprio per questo non parlerei,
o almeno non solo, di mito come risposta o vie d'uscita alle crisi
della società sovietica.
Innanzi tutto per quanto detto prima, e cioè che il mito fu tanto
più forte all'esterno dell'esperienza sovietica, mentre le crisi, tranne
l'ultima, vennero superate da forze e dinamiche interne, senza
interventi esogeni. Il mito è il risultato della concreta esperienza
sovietica e dell'immagine che essa tenta di offrire con i bisogni,
le aspirazioni, le paure e le speranze di quella parte della società
novecentesca (nella prima metà del secolo prevalentemente europea,
più tardi a livello mondiale) che non si identificava o accettava il
dominio capitalista. E dal momento che quello era il dominio attraverso cui le masse entrarono nella modernità è altrettanto chiaro
che la simbologia e la mitologia sovietica furono usate dalle classi
subalterne (espressione un po' schematica e riduttiva) per entrare con
una qualche autonomia e non solo passivamente in quella modernità.
Quanto alla sfida che ha di fronte oggi il popolo russo, sospesa
tra populismo e autocrazia, bisognerebbe, per poterla interpretare,
andare al di là della storia, la cui influenza, pur grande, è tuttavia
limitata. Manchiamo purtroppo, di conoscenze sociologiche essenziali ed elementari per decifrare la realtà odierna: tentare di farlo
prevalentemente attraverso categorie storiografiche è un pericolo da
cui occorre guardarsi.
D. La costruzione del socialismo attraverso la pace è l'imperativo
degli anni Trenta in URSS e rimane cardine di tutta la propaganda
sovietica dopo di allora: la stessa Grande Guerra Patriottica del
'41-'45 è stata esaltata come guerra di difesa e di liberazione contro
l'aggressione fascista ed è divenuta sinonimo essa stessa di resistenza civile.
Si trattava di una volontà di pace che benchè non fosse in grado
di garantire nell'immediato nè libertà nè benessere (così come
34
viceversa si postulava nell'immaginario antifascista occidentale)
diveniva l'emblema di un nuovo umanesimo comunista: un mito che
mirava a scindere l'idea comunista da quella della guerra.
Che ne pensi?
Flores. Se dovessi definire attraverso cosa l'URSS voleva costruire
il socialismo negli anni Trenta parlerei più di "progresso" che di
"pace". E' la pianificazione, sotto specie di industrializzazione
accelerata e di collettivizzazione forzata, a costituire l'essenza
dell'esperienza sovietica in quel decennio. La questione della pace
è legata a quella del pericolo che l'URSS, del timore che l'accerchiamento capitalista possa accentuarsi: è, insomma, un "pacifismo"
molto strumentale, sia in direzione internazionale che interna. L'umanesimo comunista dell' epoca è marcato molto fortemente dai successi
economici; e per quanto riguarda gli aspetto politici più dall'antifascismo che dal pacifismo (anzi, l'antifascismo era in qualche modo
alternativo al pacifismo: come si vide in Spagna e poi nella guerra
mondiale).
Non a caso Zdanov parlò degli intellettuali come "ingegneri di
anime" una dizione che piacque agli scrittori riuniti a Parigi nel 1935
per il Convegno per la libertà della cultura. Proprio perchè tutt' altro
che pacifista, l'antifascismo comunista potè avere dentro di sè forti
elementi autoritari e intolleranti nei confronti delle altre tradizioni
antifasciste; e contro di esse si fece forte dei successi economici
raggiunti dall'URSS mentre il capitalismo consumava la sua crisi
iniziata nel 1929.
Da questo punto di vista parlerei più di ridefinizione e riappropiazione della guerra che non di scissione tra l'idea comunista e
quella della guerra. Questo appartiene forse all'epoca, successiva,
della coesistenza pacifica.
D. Ancora una domada, in chiave di mito sovietico, visto questa
volta dalla società italiana tra la fine del secondo conflitto e i primi
anni del dopoguerra.
Se in quel contesto il PCI rappresentava, in sintesi, una sorta di
laboratorio per la modernizzazione delle masse in cui l'azione di
avanguardia rivoluzionaria era temperata da un concetto realistico
35
e nazionalpopolare di democrazia concreta, verificata dal consenso
delle masse, le metafore di Stalin e dell'Unione Sovietica costituivano
pur sempre un medium rassicurante con cui la società italiana
tentava di esorcizzare l'inquietudine dello sviluppo in corso.
L'esportazione del mito delle "piccole Russie", utilizzato a livello
locale - e specie in Emilia - come dimensione di vita capace di
assicurare la più larga ed equilibrata fruizione collettiva di tutte
le risorse materiali e spirituali disponibili - aldilà del sistema vigente
ritenuto iniquo - ne è un esempio significativo.
4) Sul tema, mi paiono particolarmente
interessanti le indicazioni che emergono da
uno screening attraverso le fonti orali costruito sulla memoria della subcultura politica emiliana e in particolare di quella
reggiana nel saggio di A.CANOVI,
M.MIETIO, M,FINCARDI, M.G.RUGGERINI
"Memoria e parola: "le piccole Russie"
emiliane. Osservazioni sul/' utilizzo della storia orale", in "Rivista di storia contemporanea" n03, anno 1994/95.
I.:analisi della categoria di "mito" diventa qui
non solo nominalistica ma concreta interfaccia tra passato e presente della memoria
personale e collettiva, luogo dei significati
e delle rilevanze all'interno di una comunità
in cui la costruzione del sè coincide consapevolmente con l'elaborazione del futuro
della comunità sociale d'appartenenza, in cui
il passaggio incerto alla modernità è mediato
da un "modello" d'esperienza, ancor prima
che politico, consolidato.
36
Com'è stata utilizzata, dunque, secondo te, l'esperienza sovietica
in chiave di emancipazione? 4
Flores. Non so quanto si possa configurare il PCI come strumento
di modernizzazione delle masse. In parte senz' altro, almeno nel senso
di una modemizzazione in cui le masse erano protette, con una
capacità contrattuale forte, con una propria rappresentanza politica.
Da questo punto di vista il mito di Stalin e dell'URSS costituiscono
l'altra faccia (quella mitologico-simbolica, escatologica, millenarista,
religiosa) della politica realista di Togliatti e della cultura nazionalpopolare. Vi è però anche una parte antimodernista, presente tanto nella
politica comunista che nella mitologia sovietica, che non può essere
dimenticata.
Quello che le "piccole Russie" sembrano suggerire - e sarebbe
opportuno che la ricerca in quella direzione continui e si approfondisca - è un qualcosa di ancora diverso: un momento in cui tanto
la realpolitik togliattiana che la mitologia staliniana vengono accolte
per diventare parte di una tradizione collettivo-comunitaria fortemente emancipatoria: tradizione che ha una storia lunga e che è capace
di rinnovarsi rapidamente, che trova nel lavoro il suo punto d'aggregazione e che non separa il momento familiare da quello comunitario, in una dimensione culturale che prevede non solo la futura
emancipazione collettiva ma la stessa liberazione individuale. Da
questo punto di vista l'esperienza sovietica è stata utilizzata per gli
elementi che potevano far comodo, ignora14 per quelli che non
rientravano nella propria tradizione.
Maggio 1942. Tre giorni della
Giac a Marola. Don Giardo
Ruggerini tiene una relazione
all'ombra dei castagni.
37
L'Associazione Pionieri
d' Ital ia.
Un progetto del dopoguerra
per le generazioni future.
l.Tra la fine degli anni '40 e l'inizio degli anni '50, alla ripresa
MICHELA MARCHIORO
dell'attività democratica in Italia, merita di essere ricordata un'esperienza su cui, ancora oggi, è stato calato un silenzio incomprensibile.
L'iniziativa dell' Associazione Pionieri d'Italia va collocata, più che
nella storia organizzativa ed educativa dei ragazzi di allora, nella
storia dell'Italia popolare. I primi sviluppi di questa associazione
risalgono all'immediato dopoguerra nelle provincia emiliana di
Reggio Emilia. Anche in altre parti d'Italia già dal 1946 si era
verificata la nascita di gruppi non coordinati tra loro. Quei primi
nuclei formatisi a livello provinciale avevano nomi diversi: Piccoli
Garibaldini, Speranze d'Italia, Pionieri d'Italia. Il fenomeno però
divenne particolarmente forte soprattutto nelle zone dell'Italia settentrionale, nell'area emiliana dove si era combattuta la lotta partigiana. Fin dal maggio del 1947 sorse alla periferia di Reggio, presso
il Villaggio Pistelli, una prima forma di associazionismo ricreativo,
i primi pionieri. Era veramente necessario in quei primi anni del
dopoguerra dare sostegno, assistenza, istruzione ai bambini, migliorame le condizioni di vita.
1
Questi furono gli obiettivi della
mobilitazione dal basso che si ebbe attorno ai più piccoli. A mobilitarsi furono principalmente forze della società civile, uomini e
1) Cfr. M. MARCHI ORO, La stampa per /'infanzia nel secondo dopoguerra: "II Pioniere",
Tesi di laurea in Storia d'Italia nel Secolo XX,
Università di Bologna, 1992-1993.
donne, contadini e operai (come nel caso delle officine Reggiane
di Reggio Emilia), l'Udi, la Federazione delle cooperative, le associazioni partigiane. Lo spirito "nuovo" delle forze popolari, unito
all'attività dei ragazzi che ispiravano i loro giochi alla Resistenza,
in nome dei valori di lotta e libertà per cui i loro padri spesso avevano
39
combattuto, confluivano in una attiva collaborazione e in un interesse
vivo per il mondo dell'infanzia che conferiva alle attività educative
un'importanza primaria. I convitti per gli orfani di guerra, le scuole
infantili, le colonie estive erano opera dell'Udi, dei municipi e delle
2) Sui convitti si vedano: TIZIANA FONTA- cooperative. 2 Erano esperienze realizzate grazie ai volontari e alle
NESI, Le scuole della Resistenza, Bologna,
la Squilla, 1977; L. FINZI, G. FEDERICI, I tante volontarie che segnarono 1'attività popolare di tanta parte della
ragazzi del collettivo. /I convitto Francesco popolazione di sinistra degli anni '50. Queste iniziative si svolsero
Biancotlo di Venezia 1947-1957, Venezia,
in una realtà sociale, più che politica, di pari passo con i programmi
1993.
di lavoro e di sviluppo dell' Associazione Pionieri d'Italia che per
più di un decennio operò tra i ragazzi italiani in collaborazione con
le loro famiglie. Il nucleo fondatore dell' Api nacque a Reggio Emilia.
Inizialmente il nome era quello di Associazione Giovani Esploratori
(Age), un'organizzazione di giovanissimi appartenente prima al
3) Cfr. GIORGIO BOCCOlARI, Il ciclismo "Fronte della Gioventù" e poi ad Alleanza Giovanile. 3 La denomisocialista a Reggio Emilia, in "L:Almanacco", nazione Hge fu modificata quando il gruppo confluì nella nascente
Reggio Emilia, n.23-24, giugno/dicembre
Associazione Pionieri d'Italia. Nel 1949, dopo contatti tra i giovani
1994.
fondatori dell' Age e il Partito Comunista Italiano, esponenti dei
nuclei reggiani si recarono a Roma per dare all'associazione un
4) Sull'Api e il Pci: ADA MARCHESINI GO- carattere più ufficiale e soprattutto nazionale. 4 Segretario dell' Api,
BETII, Dibattito sull'attività educativa tra i
ragazzi, in "Quaderno dell'Attivista", n.5, 20 dalla sua fondazione allo scioglimento nel '60, fu Carlo Pagliarini,
maggio 1957 e CARLO PAGLIARINi, Gli di Sant'Ilario d'Enza, oggi Presidente nazionale dell' Arci Ragazzi,
orientamenti educativi dell'Api, in "Quaderno
figura che per tutto il decennio è stata il portavoce ufficiale e il
dell'Attivista", n.10, 30 maggio 1957.
principale ispiratore della linea dell'associazione. Reggiano di origine si trasferì giovanissimo a Roma, dopo aver preso parte alla
Resistenza. Con lui arrivò a Roma il grande progetto di poter
sviluppare ad un livello più ampio ed uniforme su tutto il territorio
italiano un'associazione fino ad allora caratterizzata dall'attività
frammentaria di singoli gruppi locali. Nelle campagne, nelle periferie, attorno alle Case del Popolo, alle cooperative, con 1'aiuto dei
militanti si era infatti cominciato ad organizzare i ragazzi, reclutandoli in attività ricreative all'aperto principalmente nelle ore pomeridiane. Appoggiato inizialmente nel progetto in modo non ufficiale
dal Pci, Pagliarini procedette alla fondazione di un'associazione
nazionale che si potè sviluppare solo facendo affidamento, proprio
a livello locale, sulle attività e la disponibilità delle Case del Popolo,
degli attivisti di ogni paese provincia e città, che si riconoscevano
nei programmi e nei valori di questa nuova associazione. Si trattò
di una delle prime iniziative della sinistra italiana per i giovanissimi
40
in un settore, quello dell'educazione infantile, in cui fino ad allora
avevano sempre operato esclusivamente le associazioni scautistiche
o di matrice cattolica. 5 Anche organizzazioni già esistenti come
l'Afri, Associazione Falchi Rossi Italiani, di matrice socialista, si
federarono nell' Api apportando il loro contributo, non solo numerico,
ai programmi dell' Associazione Pionieri. Il movimento dei Falchi
Rossi era stato fondato a Roma nel giugno del 1949 dal reggiano
Luciano Borciani. L'anno successivo fu nominato suo successore alla
guida del movimento nazionale Erasmo Boiardi, che entrò successivamente a far parte del comitato organizzativo dell' Associazione
Pionieri. L'Api, nell'universo di sinistra degli anni '50 e fino ai nostri
giorni, fu l'unica organizzazione di tipo educativo che il Pci o meglio
le sue organizzazioni collaterali (che direttamente finanziavano 1'associazione) abbiano sostenuto. Non sottovalutiamo i campi solari,
gli asili, gli ambulatori, i collegi, le colonie estive che Fgci, Sindacati,
Leghe delle cooperative, Camera del lavoro organizzavano. Senza
dubbio si trattò di attività di importanza primaria, ma comunque di
tipo assistenziale. Ci riferiamo a progetti direttamente educativi,
finalizzati alla crescita delle nuove generazioni partendo dai valori
fondanti della Repubblica e della sua Costituzione.
Per quanto 1'Api sia stata sempre tenuta un po' a margine dai grandi
progetti del partito, il Pci si trovò a dover considerare le attività per
i giovani cui si dedicavano tanti volontari: doposcuola, giochi,
piccole escursioni, attività creative che con inventiva e capacità
venivano organizzate nelle Case del popolo, nelle sedi delle cooperative o più semplicemente nei cortili dei quartieri popolari con
la collaborazione tra adulti e ragazzi. Il Pci non poteva sorvolare
su quanto queste attività fossero utili per integrare attivamente i
bambini nella subcultura rossa dei genitori e per estendere il campo
dell'associazionismo a tutte le fasce di età. Inoltre, mosso dai violenti
attacchi che si scatenarono contro 1'Api da parte del mondo cattolico
per il suo carattere laico, il Pci cominciò ad interessarsi seriamente
all'Api.
2. L'associazione per tutti gli anni '50 fu guidata da un consiglio
che si riunì con cadenza annuale. Vi partecipavano i segretari provinciali e i dirigenti di associazioni vicine all' Api (Fgci, Udi ... ) per
esporre i nuovi programmi e verificare i risultati raggiunti. L'associazione produceva materiale da divulgare tra i gruppi di attività:
5) Cfr. AA.vv., Chiesa e progetto educativo
nell'Italia del secondo dopoguerra (19451958), Brescia, 1988; per lo scautismo italiano vedi P. SEVERI, Lo scautismo cattolico
italiano, Modena, 1969 e M. SICA, Storia
dello scautismo in Italia, Firenze, 1°ed.
1973, 2° ed. 1987.
41
dispense, opuscoli di intrattenimento e una pubblicazione intitolata
"La Repubblica dei ragazzi" indirizzata ai dirigenti. Vicino all' Api
con una sua redazione indipendente nacque nel 1950 "Il Pioniere"
che, grazie al suo titolo, divenne immediatamente la rivista-chiave
dell'organizzazione. In realtà il giornale ebbe sempre una sua autonoma elaborazione e obiettivo della redazione fu rivolgersi e
conquistare non solo i pionieri, ma tutti i ragazzi senza distinzioni.
Direttore fu per molti anni Gianni Rodari che con le sue idee
educative e la sua fantasia, assieme a collaboratori quali Dina Rinaldi
e lo scrittore per ragazzi Marcello Argilli, ideò un periodico che
divenne utile strumento di lavoro per tanti volontari dell' Api, veicolo
di alti valori educativi e di una buona letteratura per ragazzi.
Educatori, responsabili, dirigenti radunavano i ragazzi nella sede
dell'Api, la quale, come lo stesso statuto dell'associazione enuncia,
"potrà essere nei locali di una organizzazione democratica (casa del
6) Cfr. Statuto dell'Associazione Pionieri
d'Italia, 1949.
popolo, cooperativa, sindacato, Udi etc.) o in altro luogo".6 La realtà
dei cosiddetti "reparti" dei pionieri era data dall'insieme dei gruppi
e dei circoli esistenti nella stessa zona. Spesso non si trattava d'altro:
soprattutto nei mesi invernali l'attività si riduceva a gruppi di bambini
badati da qualche genitore nelle ore pomeridiane dopo la scuola.
Nonostante ciò lo sforzo per potenziare l' associazione fu sempre alto.
Senza dubbio l'Api per valori e ideali costituì una novità, una
sperimentazione. Fu il tentativo riuscito della politica dei partiti di
sinistra di affermare una presenza forte a livello sociale, di innescare
un procedimento di compenetrazione e partecipazione tra gli aderenti
ai partiti e i simpatizzanti, che per tutti gli anni '50 rese 1'attività
dei militanti, il loro impegno politico e sociale, il fare politica un
ideale che faceva parte della vita. Così attraverso l'Api anche i
ragazzi venivano educati ad una forma di partecipazione. Non si
trattava di un programma politico. Si cercava di trasmettere ai più
piccoli quell'etica dell'impegno e della responsabilità che caratterizzava molti comunisti italiani e che traeva spunto dall'ideologia
e dai valori di un universo socialista. Ne consegue così che il
pionierismo fu volto alla formazione di una nuova generazione, non
di piccoli militanti politici, quanto piuttosto di ragazzi coscienti e
partecipi della società e della realtà in cui vivono.
Con le tante campagne di autofinanziamento e le raccolte di fondi
per aiutare gente che aveva bisogno di sostentamento, rApi si
42
mobilitò in varie occasioni. Ricordiamo l'epidemia di tracoma a
Napoli, la guerra in Corea nel 1950 o l'alluvione nel Polesine nel
1951. L'Api lavorò per trovare alloggi ai bambini sfollati e orfani.
Queste azioni affiancavano le attività assistenziali. Intrattenere i
ragazzi, allontanarli dall'ambiente insano della strada, staccarli dalla
vita urbana che non riservava loro spazi idonei per il gioco e il
divertimento, supplire al poco tempo che i genitori avevano da
dedicare ai loro figli poiché impegnati al lavoro nei campi o nelle
fabbriche: questi erano gli obiettivi. Si organizzavano allora gite
all'aria aperta, escursioni, campeggi, attività sportive. L'obiettivo fu
sempre unire l'azione fisica a un programma educativo-istruttivo (a
questo scopo i campeggi erano l'esperienza più adatta, e il 10
Campeggio Nazionale si tenne a Sestola sull' Appennino modenese
nel 1956). Le escursioni per riflettere sulla realtà e capire il mondo
si organizzavano invece nei municipi, presso le fabbriche e nei campi.
Vi era spazio anche per le attività culturali: canti in coro, "racconti
attorno al fuoco", suggestivi perché narrati da partigiani. Non
mancavano le attività filodrammatiche, recite, rappresentazioni,
teatrini e maschere che richiamavano la grande tradizione del teatro
di massa sovietico. La creazione di una piccola biblioteca, quando
possibile, stimolava i ragazzi alla lettura e consentiva di fare letture
collettive di racconti e romanzi (si prediligevano libri di viaggio o
narrazioni di grandi imprese). I dirigenti non tralasciavano lo studio
e consideravano il metodo della ricerca un utile strumento conoscitivo. Si pensarono ricerche-inchieste che traevano spunto sia dalla
curiosità stessa dei piccoli che dalla necessità di far loro conoscere
la realtà. Si ricorreva a ricerche tipo. Ad esempio se nel paese o
nel quartiere era in corso uno sciopero organizzato dai lavoratori
di una fabbrica o di una fornace si sensibilizzavano i ragazzi sull'argomento. I bambini, appartenendo a famiglie di estrazione contadina e operaia, vivevano spesso lo sciopero a casa, in famiglia come
un problema legato alle condizioni di vita e alla politica. Era necessario, a sciopero concluso, che ai pionieri si spiegasse in modo
più obiettivo il perché dello sciopero. Spesso si visitava il luogo di
lavoro dove si erano svolte le manifestazioni, si osservava il funzionamento della fabbrica, si ascoltavano le motivazioni della
lotta condotta dai lavoratori.
3. Forza centrale dell' Api furono i dirigenti: sono figure-chiave
43
Maggio 1942. Marola.
Giovani di Ac sul Barello.
44
Maggio 1942. L'arrivo del
vescovo Eduardo Brettoni.
45
7) Di ANTON SEMENOVIC MAKARENKO si
indicano i seguenti testi: Consigli ai genitori,
Roma, s.d.; " poema pedagogico, Roma,
1960 (ma deve esistere un'edizione precedente a cura delle Edizioni di Cultura Sociale); Pedagogia scolastica sovietica, Roma,
1974.
8) Cfr. GIANNI RODARI, " Manuale del Pioniere, Roma, 1951, pp.18-20.
9) Intervista a Carlo Pagliarini, Bologna 2
Novembre 1992.
10) NILDE JOTTI, intervento in Atti del"
Consiglio Nazionale Api, Roma, 3-4 maggio
1952, p.26.
46
per comprendere il funzionamento dell'associazione_ Avevano non
solo il rapporto diretto con i bambini, ma erano gli interlocutori delle
famiglie. Data l'estrazione operaia e contadina dei collaboratori si
rendeva necessario studiare non solo il materiale pubblicato dall'Api,
ma i testi di pedagogisti quali Lombardo Radice, Dina Bertoni Jovine
o un classico come il sovietico Makarenko. 7 Poiché il lavoro degli
educatori era spesso svolto in piccole realtà locali e provinciali i
dirigenti si tenevano in contatto con la direzione nazionale e con
quella provinciale per aggiornarsi, organizzare incontri periodici,
scambiare pareri e metodi. Si organizzavano convegni, raduni,
momenti di incontro e le "tre giorni": corsi rapidi e sintetici per la
formazione dei dirigenti.
Come si arrivava alla scelta dei dirigenti? Perché si avvicinavano
al mondo dell' Api? Gli educatori dovevano rispondere a tre caratteristiche: essere animatori, entusiasti, ed organizzatori. 8 La carenza
di operatori giovani e preparati faceva sì che le maggiori energie
dell' Api fossero costituite da donne e adulti disponibili e in grado
di apportare le loro energie allo sviluppo dei pionieri. Non siamo
riusciti a ricostruire un organigramma nazionale, regionale o locale
su cui verificare chi erano i dirigenti, quale la loro origine sociale,
la professione, l'età, il sesso. Secondo la testimonianza di Carlo
Pagliarini la composizione del gruppo dirigente era di questo tipo:
per il 95% si trattava di giovani, in maggioranza contadini e operai,
in minima parte (circa il 5%) di insegnanti. 9 Gli operatori Api erano
dunque in pochissime eccezioni insegnanti, persone già operanti nel
settore infantile; erano soprattutto inizialmente lavoratori e genitori
in grado di trasporre i valori democratici nell' educazione dei bambini.
Chi lavorava in altre organizzazioni di sinistra difficilmente sarebbe
stato disponibile a trasferire la propria esperienza in un campo così
sperimentale e lontano da una rapporto diretto con la politica. Di
conseguenza si coinvolgevano quelle persone che dimostravano
grande volontà, grande desiderio di operare. Si sperava inoltre che
i dirigenti migliori non abbandonassero l'associazione per spostarsi
in altre organizzazioni, disperdendo energie investite ed esperienze
acquisite: caratteristica dell' Api era l'autogenerazione dei quadri.
4. L'associazione assunse un coordinamento nazionale nel 1949.
Il movimento non raggiunse numeri alti di aderenti come accadeva
per l'Azione cattolica che organizzava due milioni di bambini. lO Mai
l'Api riuscì nemmeno ad uguagliare la capillarità della presenza
cattolica nel settore dell'associazionismo giovanile. 11
La consistenza numerica dei pionieri si misura sui dati del tesseramento che l'associazione effettuava tra i piccoli. Esaminiamo
alcuni dati numerici. Alla fine del novembre '50 gli iscritti all' Api
risultano 97.330, quelli aderenti ai Falchi Rossi 26.000. Alla fine
del 1951 erano state ritirate 148.000 tessere dell' Api e 33.000 degli
associati Falchi Rossi. Diciamo che le tessere diffuse ufficialmente
sono circa 150.000. Nel 1952 le tessere rilasciate sono 121.000 per
l'Api e 29.000 per l'Afri, distribuite però nella seguente misura:
80.450 nell'Italia settentrionale (l'Emilia è al primo posto con 51.000
tessere); 26.885 nell'Italia centrale (la Toscana ritira 10.699); 21.581
nell'Italia meridionale. Per il 1951 riportiamo anche i dati parziali
sulle attività dei reparti dei pionieri: reparti dei pionieri 1662 in
44 province di cui 111 femminili; gruppi di lavoro vari 396 in lO
province; staffette del Pioniere 160 in 8 province; consigli degli
anziani 43 in 7 province.
Nel '51 si registrò anche un rafforzamento del gruppo dirigente:
funzionari, attivisti e molti giovani iniziarono a dedicarsi esclusivamente al lavoro Api; anche nel Meridione (Taranto, Bari, Catania,
Napoli, Reggio, Pescara) l'associazione riuscì a conquistare diverse
persone che si assunsero il compito di lavorare per l'Api. I dati
numerici riportati per il 1951 sono desunti dagli Atti del III Consiglio
nazionale. Risultano però discordanti da quelli riportati in un saggio
sulle attività dei partiti, in cui si annota che : "Nel 1950 gli iscritti
all' Api sono circa 97.075, concentrati per il 50% in una sola regione,
l'Emilia; nel '53 sono circa 70.000 con 400 sezioni; nel '57-'58 viene
posto l'obiettivo dei 100.000 iscritti." Altre fonti (anticomuniste)
attribuivano all' organizzazione 200.000 iscritti con 10.000 gruppi di
attività e 3.000 capi-reparto. 12 Nel 1954 gli iscritti all' Api risultano
142.000 e quelli iscritti nei Falchi Rossi 15.000. L'Api raggiunse
una punta massima di circa 150.000 pionieri. 13
Berlinguer, allora segretario della Fgci, sottolineò l'assenza dell'Api in intere provincie e regioni d'Italia. L'Api era sostanzialmente:
"( ... ) L'organizzazione dei ragazzi emiliani, toscani, dei ragazzi
milanesi, torinesi, genovesi e di altre provincie; ma non è, per
esempio, l'organizzazione dei ragazzi meridionali, siciliani, veneti."14
Le zone di maggiore sviluppo furono proprio l'Emilia, la Toscana,
11) Cfr. LUC[ANO CA[M[, "Aspetti e prob[emi dell'associazionismo giovanile nel secondo dopoguerra", in AA.vv., L'associazionismo educativo, Firenze, 1990, pag.74.
12) Cfr. LORENZO BEDESCH[, Dissacrano
/'infanzia.! pionieri d'Italia, Bo[ogna, 1950;
TOMMASO TOSCH[, La maschera e il volto,
Bo[ogna, 1950.
13) Tutti i dati numerici sono tratti dagli Atti
dei Consigli Naziona[i de[I'Api.
14) "La Fgci per [o sviluppo de[['Api", in
Documentazione sulla Fgci e sulla gioventù
italiana, XIV Congresso Fgci, Milano, 23-26
giugno 1955.
47
il Piemonte, alcune zone della Puglia, ma soprattutto l'Emilia con
Bologna, Reggio Emilia e le loro provincie che trainavano un po'
tutta l'associazione.
Nonostante fin dalle origini l'associazione si fosse caratterizzata
per disomogeneità, autonomia, spontaneità, si cercò di trasformarla
in un'associazione nazionale. Era l'idea di un grande progetto di
educazione del bambino con l'ambizione di gettare le basi per
diffondere i valori e i principi di una nuova etica tra le nuove
generazioni, in anni in cui lo scontro politico tra i partiti di sinistra
e la Democrazia Cristiana era molto forte. Berlinguer si rendeva
conto dei limiti reali dell'associazione sul territorio italiano, era
consapevole delle difficoltà incontrate in quelle regioni e provincie
in cui le attività dei partiti democratici erano inconsistenti e non
potevano essere di supporto. Faceva parte della mentalità di un
giovane dirigente della Fgci pensare nell' ottica di crescita delle
ramificazioni del partito, anche nel caso di una associazione autonoma come quella dell' Api. Una mentalità forse burocratica, con
l'obiettivo di una dimensione "nazionale" anche nel caso di un'organizzazione sostenuta sul volontariato, i contributi di associazioni
15) Cfr. ENRICO BERLINGUER, intervento in
Atti del /II Consiglio Api, Roma, 3-4 Maggio,
1952.
democratiche e campagne di autofinanziamento.
15
5. L'Api dunque non raggiunse un pieno sviluppo. Non raggiunse
soprattutto le dimensioni dei pionieri sovietici e dell'Est. L'influenza
sovietica fu comunque rilevante. La differenza principale tra organizzazione sovietica e quella ital.iana si riscontra nel fatto che in Urss
l'organizzazione era parallela a quella scolastica. Trattandosi di
istituzioni statali vi era coincidenza di obiettivi e non contrasto tra
i programmi delle prime e le linee di governo. Al contrario di quanto
avveniva in Italia, dove l'Api era considerata da alcune forze
politiche ai limiti della legalità.
Negli stessi atti dei convegni dell'associazione italiana si trovano
forti e soventi richiami alla pedagogia sovietica e alle letture da fare
per avvicinarsi meglio a quelle tecniche. Durante le visite che i
dirigenti Api effettuarono in Unione Sovietica, ebbero molte occasioni per confrontare il loro operato con quello degli educatori
dell'Urss. Pagliarini che partecipò a quei soggiorni sottolinea la
seguente differenza. I pionieri sovietici vennero istituiti dal Pcus,
rientravano in un preciso programma politico, erano un mezzo per
educare a determinati principi la popolazione mediante un program-
48
ma di indottrinamento ideologico. Quella dei Pionieri sovietici era
un'organizzazione quasi statuale, pensata dagli adulti, che veniva
"calata" sui ragazzi, faceva parte dell'educazione nazionale da
impartire per ottenere la crescita di un popolo sovietico e socialista.
I nostri pionieri, al contrario, nacquero come movimento spontaneo,
in più zone d'Italia, animato dai giovanissimi che avevano avuto
esperienze vicine alla lotta partigiana. L'Associazione Pionieri Italiani presentava alcune somiglianze organizzative con i pionieri
sovietici, ma la differenza numerica tra i nostri pionieri e i sovietici
era in questi termini: per i secondi si parla di 75.000 iscritti nel 1923,
di 4 milioni nel 1931 e di addirittura 7 milioni nel 1936. 16
6. Che rapporto instaurò l'Api con le famiglie? Non sempre le
famiglie italiane del secondo dopoguerra erano in grado di assolvere
pienamente ai loro doveri di educatori e genitori, la situazione di
16) Sui pionieri sovietici si vedano: URIE
BRONFENBRENNER, Due mondi dell'infanzia: Usa e Urss. Struttura sociale e socia/izzazione, Roma, 1972; e DINA RINALDI, I
pionieri nel paese del socialismo, Roma,
1951.
crisi del paese distoglieva i genitori dai propri compiti. L'Associazione Pionieri si propose di intervenire in questo campo come
presenza costante. I dirigenti lavorarono per riuscire ad entrare in
contatto con le famiglie, per farsi comprendere dai genitori, coinvolgerli, interessarli. L'Api si presentava come intermediario tra
ragazzo-famiglia-scuola-società. Era necessario ottenere l'approvazione e la stima di genitori che non erano abituati ad affidare i
bambini a organizzazioni laiche. Questo per far sì che il movimento
si diffondesse, trovasse spazio, potesse impegnarsi a pieno per una
educazione democratica. I dirigenti sapevano che le difficoltà derivavano dal fatto che le famiglie italiane, seppure di lavoratori e
dunque sensibili all'operato dei movimenti democratici, non davano
una totale adesione all'Api.
"Diremo (però) che la mancanza di una tradizione democratica
di vita collettiva e l'assenza nel nostro Paese di serie e laiche
istituzioni ricreative e post-scolastiche per ragazzi, fanno sì che la
famiglia italiana mantenga un atteggiamento di riserbo e a volte di
diffidenza verso quelle forme di vita associativa che non si identificavano con la scuola o con l'oratorio"
17
e inoltre, sono le parole
di una dirigente: "Constatiamo che da parte delle famiglie che sono
17) DINA RINALDI, intervento in Atti del I
Convegno dei dirigenti, Milano, 25-26-27
giugno 1954.
in modo più o meno legate alle organizzazioni democratiche, vi è
indifferenza se non resistenza a mandare i propri figli nell' Api, nei
Falchi Rossi, o in istituzioni popolari".
18
18) Ibidem, p.72.
Le motivazioni che inducevano i genitori a non mandare i bambini
49
19) Cfr. CARMEN BETTI, L'Opera Nazionale
Balilla e l'educazione fascista, Firenze, 1984.
20) Cfr. DINA RINALDI, in Atti del IV Consiglio, Bologna, 20-21 Dicembre, 1952.
21) Ibidem, p. 64.
50
nell' Api sono facilmente comprensibili. Innanzitutto un senso comune generalizzato riteneva che l'educazione fosse un compito
proprio della Chiesa o dei genitori; molte famiglie comuniste facevano fatica a rompere con costumi di vita tradizionali. In secondo
luogo va ricordato che gli anni del fascismo non erano lontani nella
memoria della gente. Già il regime di Mussolini si era preoccupato
di tesserare i bambini e di impegnarli nel tempo libero; diventava
difficile per chi aveva vissuto quegli anni pensare a una nuova
organizzazione che, seppure su principi diversi, intendeva ancora una
volta occuparsi dei ragazzi, radunarli, avviarli verso alti valori ed
alti ideali per la costruzione della patria per di più con una divisa
indosso.1 9
La sperimentazione dell' Api coinvolge i genitori. Cerca di sensibilizzarli sul piano educativo rendendoli coscienti delle necessità
dei propri figli: "Nella famiglia tipica italiana, di lavoratori, di
impiegati (... ) i ragazzi, per l'incuria dei genitori, per la difficile
situazione economica e l'ambiente in cui vivono, spesso sono
abbandonati a se stessi; poco o male i genitori si preoccupano di
conoscere i loro pensieri, i loro giochi e interessi, le amicizie, le
letture." 20
La stessa scuola degli anni '50 per l'Api non assolveva pienamente
ai suoi doveri educativi. Il Pci e tutta la sinistra, dal 1947 fuori dal
governo, avevano l'amara consapevolezza dell'impossibilità di agire
direttamente sulla scuola in tempi brevi. La soluzione era allora
avvicinarsi ai ragazzi al di fuori della scuola, contattare i genitori
e quegli insegnanti democratici che erano dentro all'istituzione
scuola. Tutte le forze erano necessarie, l'impegno dell' Api era di
portata nazionale:"Il nostro interesse per la scuola non solo si
giustifica sul piano politico e sociale, ma è indispensabile per poter
partecipare, se pure al di fuori della scuola, all' opera di educazione
e di formazione della coscienza, della personalità del futuro cittadino
italiano". 21 Vi era dunque la consapevolezza del carattere extra
scolastico dell' Api e quella di non poter contrapporsi all'istituzione
scuola. Una contrapposizione non sarebbe stata produttiva per l'associazione. C'era piuttosto il tentativo di arricchire e compensare
l'operato della scuola. Su questa strada nacque a Roma nel 1952
il Comitato per l'Educazione democratica dei giovanissimi. Lo scopo
era discutere dei problemi dell'educazione delle giovani generazioni
secondo lo spirito della nostra Costituzione repubblicana. Su proposta
dell' Api iniziò la pubblicazione bimestrale della rivista "Educazione
democratica". 22
7. Nel quadro della guerra fredda i comportamenti della Dc e del
Pci furono tendenzialmente bipolari. Il tentativo di costruire una
comune identità nazionale riferendosi ai valori della guerra di liberazione e alla Costituzione repubblicana subì un brusco rallentamento. 23 Anche l'Api trovò non poche occasioni di scontro politico. Nel
novembre del 1950 l'onorevole Luciana Viviani, durante il dibattito
sul bilancio degli Interni, tenne un discorso che permette di inquadrare la posizione dell'Api in quella situazione di contrapposizioni
frontali tra due blocchi politici. Il primo punto di discussione tra
l'esponente comunista e l'allora Ministro dell'Interno Scelba concerneva i tagli previsti per quell'anno 1950 ai fondi destinati alle
colonie per ragazzi, in favore di una politica di riarmo. Si sottolineò
inoltre una distribuzione iniqua dei fondi assistenziali che segnava
un ulteriore passo avanti verso il monopolio clericale. Si affermò
che su due miliardi stanziati per le colonie, il 90% era stato assegnato
ad organismi di carattere confessionale e che solo il rimanente, circa
60 milioni, era arrivato agli organismi democratici. Le parole della
Vivi ani si fecero più forti, e il momento saliente dello scontro ScelbaViviani fu raggiunto a proposito della polemica promossa dalle
organizzazioni di azione Cattolica contro le organizzazioni democratiche dell'infanzia: "L'onorevole Cimenti (... ) ha chiesto (... )
addirittura lo scioglimento di queste organizzazioni additandole come
una minaccia per l'infanzia. Questa polemica ha svelato invece
ancora una volta il carattere politico proprio di quelle organizzazioni
cui lei, onorevole Scelba, vorrebbe attribuire una funzione religiosa
e assistenziale". 24 Parole e toni evidenziano come anche l'infanzia,
in quegli anni, fosse divenuta uno strumento e un campo di lotta
politica. I motivi della campagna di diffamazione condotta dai
cattolici sono ravvisabili nel timore di perdere l'assoluta influenza
sui ragazzi e i genitori, attraverso un' opera di scristianizzazione di
tutta l'infanzia italiana. Si trattava indubbiamente non solo di un
problema religioso e morale, quanto più di una questione di natura
politica. Lo scontro si attenuò solo dopo il 1955, quando del resto
cessò il violento bipolarismo implicito alla guerra fredda. 25 Non
possiamo tralasciare le lettere pastorali datate 4 e 30 Maggio 1950,
22) Cfr. "La Repubblica dei ragazzi", nA,
luglio-agosto 1952.
23) Cfr. SEVERINO GALANTE, "L'educazione
delle nuove generazioni negli anni della
guerra fredda", in AA.vv., I valori ei linguaggi, Firenze, 1990, pag.13-19.
24) Cfr. LUCIANA VIVIANI, A chi spetta
l'educazione dell'infanzia?, Roma, 1950.
25) Sullo scontro con i cattolici si possono
vedere: MARCO BARBANTI, Cultura cattolica, lotta anticomunista e moralità pubblica
(1948-1960), "Rivista di storia contemporanea", XXI, 1992; Ibidem, La classe dirigente
cattolica e la "battaglia per la moralità",
(1948-1960). Appunti sul regime "clericale",
"Italia Contemporanea", n.189, 1992.
51
26) Monito del santo Uffizio, 28 Luglio 1950.
27) Intervista a Lorenzo Bedeschi, Bologna,
19 Ottobre 1992. Il testo è Dissacrano l'infanzia! I Pionieri d'Italia, Bologna, 1950.
28) Cfr. MARCELLO FLORES, L'immagine
dell'Urss, Milano, 1990.
52
a cura dei vescovi della regione flaminia ed emiliana: condanne
rigidissime in risposta alla sempre maggiore attività dei pionieri nelle
provincie emiliane. I vescovi si riferiscono alle associazioni per
ragazzi di sinistra denunciandole come un tentativo di pervertire i
piccoli, sradicandone dall'anima ogni fede in dio e svegliandone i
funesti istinti di sensualità. Ricordiamo anche il Monito del Santo
Uffizio del 28 Luglio 1950 che scomunicava chi collaborava ad
associazioni come l' Api. 26 Alle posizioni ecclesiastiche ufficiali seguì
anche la pubblicazione di un libello interamente sull' Api, a cura di
Don Lorenzo Bedeschi, allora giornalista dell' Avvenire d'Italia, per
"svelare" razione nefanda dell' Api. L'opuscolo, pubblicato a Bologna, è il testo più eclatante di accusa all' Api. Ebbe almeno tre
edizioni e fu diffuso in quindicimila copie. Il campo d'osservazione
dell'inchiesta è quello delle zone dove l'Api si espanse maggiormente: Romagna, Emilia, Toscana. Bedeschi considerava l'Api una
completa mimesi dei pionieri sovietici. L'autore presenta oggi quella
pubblicazione come un'inchiesta di tipo giornalistico che gli fu
commissionata come tante altre. Secondo Bedeschi quell'episodio
va citato solo nel contesto della guerra fredda degli anni '50. 27 In
realtà, l'attacco all'Api fu forte, proprio perché la sua azione segnava
un momento di rottura nel monopolio cattolico. Per la Chiesa, l'Api
era sinonimo di comunismo. Il nemico era unico: a livello internazionale, nazionale, e a livello locale. L'Api e il "comunismo" in tutte
le sue manifestazioni erano recepite come il nemico della comunità
volto a destabilizzare equilibri tradizionali. Prioritario divenne allora
impedire che il nemico si infiltrasse nella società civile. Se i comunisti si facevano affascinare da un mito sovietico, i cattolici
vivevano una fobia rossa. 28
Del resto l'Api negli anni '50 faceva parte di un poliedrico universo
comunista, era un'associazione che svolgeva, secondo i cattolici,
attività immorali e antireligiose; il clero temeva la penetrazione del
Pci nella società, un suo rafforzamento per rovesciare gli equilibri
esistenti. L'Api, proprio perché alternativa educativa, ricreativa e
sperimentale, fu ritenuta un'associazione per il reclutamento di
piccoli comunisti.
Vale la pena ricordare un episodio grave e noto per la vasta
risonanza che ebbe sulla stampa: ci riferiamo ai fatti di Pozzonovo,
paese della bassa padovana. Pozzonovo nel cattolicissimo Veneto era
il simbolo delle sollevazioni popolari bracciantili negli ultimi due
secoli. Si trattò di un vero processo, i cui imputati, militanti e attivisti
del Pci, furono chiamati a rispondere dei seguenti capi di imputazione: associazione a delinquere, atti osceni continuati, spettacoli
osceni, atti di libidine violenti continuati, violenza carnale continuata,
sequestro di persona continuato aggravato, violenza privata continuata aggravata. Le vittime erano bambini, quasi tutti figli o nipoti
di militanti comunisti. Il processo ebbe un alto valore politico e mirò
da parte cattolica a 'delegittimare tutti i valori e i principi dei partiti
di sinistra. Testimoniarono a favore dell' Api alti esponenti della
cultura di sinistra, Ada Gobetti e Concetto Marchesi. Il 28 gennaio
in un clima di fortissima tensione venne emessa la sentenza assolutoria con formula piena, ma non si presero provvedimenti verso
quel clero che aveva calunniato l'Api e i suoi dirigenti. Il clima
politico nella città del processo non permetteva di andare oltre. Per
l'Api il successo fu quello di essere riconosciuta come un' associazione per ragazzi con fini e scopi rispettosi della legalità e della
Costituzione. Il processo di Pozzonovo rimane a testimonianza
concreta del drammatico rapporto tra Api e mondo cattolico. 29
8. Per tutti gli anni '50 i pionieri continuarono le loro attività,
anche se col passare del tempo si registrarono cambiamenti organizzativi e di contenuto rilevanti. L'obiettivo iniziale di un reclutamento di massa si scontrò con la realtà di una crescita disomogenea
sul territorio nazionale, unita all'impossibilità di diffondere i contenuti Api e la sua organizzazione in tutte le regioni, le provincie,
i comuni d'Italia. Quale la soluzione? L'Api non poteva rinunciare
al lavoro svolto. Ma nello stesso tempo doveva considerare che alle
soglie degli anni '60 i valori e i principi insegnati ai pionieri non
trovavano sempre un riscontro favorevole nella realtà di tutti i giorni.
I gruppi non avevano più significato, se non erano in grado di
svolgere attività con frequenza assidua, se vivevano solo per le
giornate celebrative e le manifestazioni importanti. I reparti potevano
ancora esistere solo se trasformati in circoli di attività pratica. Non
sempre era sufficiente infatti la buona volontà degli operatori, forse
non più caratterizzati da quella spinta di cambiamento che animava
i primi educatori dei pionieri. Non solo perché l'attesa entusiasta
per una società nuova e di stampo socialista si andava affievolendo,
ma perché il mondo era cambiato. Fu soprattutto una nuova visione
29) Per i capi d'accusa e i trattti essenziali
dello svolgimento del processo: A.COLASIO,
Forme del conflitto politico del Veneto degli
anni '50. /I processo di Pozzonovo, in "Venetica", n.2, 1984; e gli Atti processuali
posseduti da C.Pagliarini.
53
30) Cfr. C.PAGLIARINI, Nuovi compiti di lavoro, in "Esperienze Educative", n.1, 1960.
54
della vita importata dagli Usa che si scontrò con un programma
educativo come quello dei pionieri. In che termini? Il messaggio
americano determinò l'avvio di una fase di maggior industrializzazione e di consumismo. Sono gli anni del boom economico, dell'arrivo della televisione. La vita non era più la stessa anche per
i ragazzi. Si giunse così al 1958, anno in cui si festeggiarono i dieci
anni di vita dell' Associazione Pionieri d'Italia. Nelle provincie come
Reggio Emilia o Bologna si erano già tenute le celebrazioni, poiché
il carattere spontaneo e a volte confuso con cui erano sorti i primi
gruppi tra il '47 e il '51 rendevano impossibile una larga e unitaria
celebrazione del decennale Api.
Alla fine degli anni '50 l'esperienza Api andò esaurendosi. Forse
non è il termine giusto, nel senso che da un punto di vista numerico
l'organizzazione era ancora consistente; il senso, il significato di
un'attività come quella dei pionieri persero importanza. Non è
semplice spiegare perché, ma ci sono motivazioni profonde che
hanno portato allo scioglimento dei pionieri.
Gli ultimi consigli nazionali si tennero a Reggio Emilia, dove si
celebrò anche il decennale dell'associazione. Diciamo questo perché
la regione emiliana era ancora la più attiva, la più stimolante per
l'Api. Poi in un incontro tenutosi a Bologna nel mese di giugno del
1960 si stabilì, probabilmente per decisione della direzione del Pci,
di rinunciare ad una direzione nazionale dell' Associazione Pionieri
d'Italia. Questa decisione comportò lo scioglimento degli organismi
dirigenti nazionali. Non tutti, fra cui il segretario Pagliarini, furono
d' accordo. 30 Non si poteva cancellare l'Api e la sua storia, erano
il simbolo di un momento di crescita e di rinnovamento nel panorama
educativo italiano. E infatti il contenuto di un lavoro più che decennale non fu distrutto, si cambiò la forma, annullando l'aspetto
nazionale dell'associazione che aveva avuto uno sviluppo effettivamente limitato a varie provincie: il risultato fu sciogliere quell'unica
formula organizzativa che presentava un carattere di anomalia e di
schematismo. La decisione di sciogliere la direzione nazionale non
implicava lo scioglimento di tutte le organizzazioni locali, provinciali
che funzionavano e avevano una solida base. A livello locale molte
sedi dei pionieri lavorarono per tutti gli anni '60.
Tra le tante motivazioni che condussero alla fine dell' Api ve ne
sono due in particolare da considerare: il progetto per una riforma
della scuola, che si sarebbe concretizzata nel 1962, e l'ipotesi di
un governo di centro-sinistra che cominciava a prospettarsi. La
situazione politica che si avviava a un possibile centro-sinistra, così
come la fine della guerra fredda ponevano anche al Pci il problema
di una modernizzazione e di una nuova visione del rapporto adultiragazzi. L'abbandono dell' esperienza dell' Api, caratterizzatasi sempre come attività di tipo extra-scolastico, si può forse leggere in
previsione di risultati raggiunti a livello istituzionale. Secondo
Pagliarini, quell'atto segnò l'inizio di una stagione che ancora non
si è conclusa e che caratterizza la sinistra e il mondo laico italiani
per un loro sostanziale disimpegno rispetto a forme di organizzazione
dei ragazzi. Dal nostro punto di vista il progetto Api fu abbandonato
perché considerato settario e di parte. Nei progetti della sinistra la
nuova scuola avrebbe supplito anche alla funzione dell' Api. Sicuramente l'abbandono dell'organizzazione dei pionieri ha segnato la
perdita di una comunicazione diretta con i ragazzi da parte della
sinistra. E questo processo di cambiamento nei rapporti tra adulti
e giovani testimonia l'evoluzione dei rapporti generazionali tra un
decennio e l'altro, il passaggio dei tempi e i cambiamenti di costumi,
come nel caso della militanza. L'attivismo che aveva distinto gli anni
'50, la partecipazione politica, la frequentazione di luoghi come le
Case del Popolo, sedi politiche e grandi centri di aggregazione, si
attenuò. Secondo Giorgio Triani il ruolo delle Case del Popolo mutò
con l'arrivo degli anni '60: "Non più cuore e rappresentazione anche
fisica del potere popolare, non più centro di elaborazione politica,
non più risposta totale ai bisogni dei lavoratori, esse si trovano ad
essere ridotte al rango di semplici luoghi d'incontro frequentati da
una popolazione la cui età media si è notevolmente alzata e al cui
interno i giovani calano vistosamente. Le cause della frattura generazionale, che impediscono il ricambio di idee e uomini, sono
molteplici, ma soprattutto riconducibili alla fine -avvenuta ufficialmente nel 1960- del movimento giovanile organizzato nell' Api, che
era sorto nell'immediato dopoguerra e aveva trovato la sua sede
naturale nelle Case del Popolo ... ". 31
Non tralasciamo dunque il fatto che l'Api avesse rappresentato
un'esperienza di militanza per genitori, lavoratori, e operatori, che
fosse stata anche luogo di vita politica. Per parte della sinistra italiana
aveva avuto più significati: era stata occasione per affermare il diritto
31) GIORGIO TRIANI, "Riflessioni e problemi d'oggi", in AA.vv., Storie di Case del
Popolo, Bologna, 1982.
55
di difendere la vita dei giovanissimi, per aprire le loro coscienze
agli ideali della giustizia, della fratellanza, del lavoro; era stata
motivo di lotta e di orgoglio per dare alle famiglie dei lavoratori
quell'assistenza prevista dalle leggi costituzionali; era stata la contrapposizione alla secolare e monopolizzatrice azione delle forze
cattoliche.
Gli equilibri politici e sociali degli anni '50 influenzarono e
abbiamo visto non poco l'esperienza dell' Associazione Pionieri
d'Italia e dei suoi protagonisti. Quel che va sottolineato è come l'Api
riuscì a vivere e operare proprio in quel contesto di scontro ideologico
forte. Quasi a dire che l'Api visse solo perché nata e pensata negli
anni '50. L'ipotesi è forse riduttiva, ma è proprio alla soglia del
decennio successivo, caratterizzato da un'attenuazione del conflitto
politico, che 1'associazione e lo stesso giornale incontrano le prime
difficoltà. Difficile dire se quella formula associativa sarebbe stata
adatta per le nuove generazioni sappiamo che ebbe una certa "produttività" nell'influenzare la formazione di una generazione di
militanti, nel formare persone impegnate sul piano politico e sociale.
56
Maggio 1942. Marola.
I "tregiornisti" col vescovo
Brettoni.
57
20 mesi di guerra civile
50 anni di dopoguerra
Il 18 maggio 1996 si è tenuto, organizzato
dalla Circoscrizione i-Centro storico, l'incontro sul tema "20 mesi di guerra civile50 anni di dopoguerra". Pubblichiamo le
testimonianze di Riccardo Barbieri Manodori
(all'epoca giovane ufficiale della GNR) e di
Giannetto Magnanini (organizzato nelle formazioni SAP reggiane).
La qualità e la dignità degli interlocutori è garanzia che le risultanze
di questo incontro saranno positive o non sono uno storico: la mia
è soltanto una testimonianza; è la prima volta che mi è consentito
esprimermi pubblicamente.
RICCARDO BARBIERI
MANODORI
Nei confronti di Giannetto Magnanini e di Massimo Storchi sono
in condizioni di inferiorità appunto perché, non storico, risento anche
degli effetti di un vuoto che ha contrassegnato la vita culturale italiana
negli ultimi cinquant' anni.
Mi esprimo meglio citando un passo di Renzo De Felice.
Scrive Renzo De Felice in "Mussolini l'alleato": "Sulla contemporaneistica italiana ha gravato, e grava ancora, il peso della difficoltà
di accedere a tutte le fonti pubbliche ed ancora più a quelle private,
il peso dell'egemonia stabilita nel primo trentennio post-liberazione
dal partito comunista sulla cultura italiana e dei condizionamenti che
essa ha esercitato sulla forma mentis di larghi settori di italiani non
comunisti (discorso questo che pure andrebbe fatto per capire il
carattere non solo di gran parte della pubblicistica e della manualistica storiche ma anche di certa storiografia cattolica e persino
liberaldemocratica) una egemonia che al contrario di quanto avvenuto
in altri Paesi e sta avvenendo nell'Unione Sovietica, non solo è
passata pressoché indenne attraverso le vicende che hanno travolto
il "Socialismo idealizzato" e la sua ideologia e, dunque, la sua
"vulgata" storiografica ma essendo rimasto l'unico strumento su cui
una "nuova sinistra "può ormai far leva per cercare di giustificare
e rilanciare la propria ragione di essere politica - si è addirittura
59
fatta più aggressiva".
Ma c'è di più.
Vigono ancora leggi (quelle sì antidemocratiche) che puniscono
i delitti di "apologia del passato regime e di oltraggio ai valori della
resistenza" .
Tutto il mio dire dunque oggi sarà condizionato da questa spada
di Damocle così come da allora è stato condizionato il nostro essere,
il nostro esistere.
Un'esistenza difficile e forse per questo ancora più esaltante
ricominciata nelle persecuzioni e nelle epurazioni, continuate nella
coscienza di una cultura civica e professionale e su ciò credo che
se ne debba dare atto non soltanto al sottoscritto.
lo sostengo che soltanto attraverso la presa di coscienza delle verità
storiche sarà possibile instaurare un nuovo rapporto di pacificazione
degli animi.
E a tale verità storica e a tale rivisitazione storica cercherò di dare
un breve contributo attraverso la mia modesta testimonianza: anche
i vinti hanno una dignità, anche la loro testimonianza ha un valore.
Ed ecco il perché della nostra scelta.
Tutto comincia l' 8 Settembre ' 43 quando viene commesso dal
governo Badoglio un errore tremendo, anzi una nefandezza. L'armistizio era nell' aria ma il modo come fu stipulato e ne fu data notizia
fu veramente nefando.
Traggo dal mio diario: "Stavo studiando chimica quando piombò
Leopoldo urlando "Armistizio senza condizioni!". Uscimmo in
piazza e il sergentino tedesco, spesso incontrato in casa Lombardini,
senza salutarci ci fissò con aria di sfida. Il paese era deserto: nel
primo pomeriggio arrivò un sidecar con tre tedeschi che "occuparono" Novellara. Li vedemmo entrare e poi uscire dalla Cassa di
Risparmio; erano stati in Municipio e alla Caserma dei Carabinieri.
Si fece notte: si udì uno sferragliare e subito due forti spari; svoltava
l'angolo della piazza un cingolato. Il vecchio Nonno piangeva
accasciato su un gradino della scala, lui che era stato così forte in
occasione della morte del figlio: "Poveri ragazzi, questo è l'inizio
della guerra civile".
Nei giorni seguenti la confusione è indescrivibile: notizie e
smentite si susseguono e intanto cominciano ad arrivare gli sbandati
60
a dimostrazione che l'esercito è stato letteralmente sorpreso dall'avvenimento. Si viene a sapere della fuga del Re e del governo e crolla
nella coscienza qualunque fiducia. Gli italiani sono stati abbandonati
a se stessi e alla mercé degli invasori: da una parte il nemico vittorioso
e tracotante, dall'altra l'alleato che si fa vendicativo per il tradimento
subito. Il fronte divide le due Italie invase e fa degli italiani dei sudditi
dello straniero fra di loro nemici".
Nella nostra giovanile coscienza regna lo smarrimento provocato
dai recentissimi eventi. Alla nostra personalità, educata all'amore per
la Patria e alla devozione per chi la Patria rappresenta, ripugnava
il pensiero o il sospetto che si fosse potuto agire contro i principi
ai quali avevamo affidato la nostra fede.
Fummo dunque gettati allo sbaraglio: noi come gli altri, fratelli
destinati a diventare nemici dei nostri fratelli.
Fu dunque il "come" dell'armistizio a decidere almeno in parte
la nostra scelta e con essa la nostra sorte.
Gli italiani cercavano finalmente la pace.
Lo stato sociale repubblicano appena nato doveva svolgere una
chiara azione di pacificazione nazionale come difensore delle frontiere e dell'integrità territoriale continuando la lotta contro il nemico,
ma si poneva anche e principalmente come garante di non sudditanza
nei confronti dell' alleato a garanzia dunque della sopravvivenza delle
istituzioni e delle competenze dell'autorità costituita e della dignità
dei cittadini.
La Rsi dunque come uno Stato di necessità oltre che come Stato
di diritto.
Sui tentativi di pacificazione fatti anche attraverso incontri personali con rappresentanti della parte avversa ma frustrati ben presto
dalle prime azioni di guerriglia partigiana, posso portare testimonianze personali.
Per contro il fenomeno che si sviluppa spontaneo e stupefacente
è l'accorrere dei giovani ad arruolarsi nelle forze armate della
repubblica appena nata.
Nessun bando era stato emanato, nessuno ci aveva chiamato. Nel
libro di Cavaterra intitolato "4000 studenti alla guerra" si narra la
storia delle Scuole Allievi Ufficiali, dei volontari: un fenomeno mai
riscontrato nella storia d'ltalia. Al quale si aggiunge anche un afflato
61
di poesia che ho avvertito nelle parole di Violante: "Migliaia di
ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto ... ".
E' su questo che io vi invito a meditare.
E che dire del fervore giovanile nell'impegno politico e culturale?
Furono i giovanissimi a costituire i primi nuclei del Pfr, a dibattere
su nuove riviste i temi culturali e sociali (ricordo Spadolini). A tal
proposito vorrei richiamare i contenuti del Manifesto di Verona e
il primo ed unico esempio di socializzazione avvenuto in Italia. La
nostra scelta, carica di giovanile entusiasmo e di profonda convinzione, era dettata dalle necessità che sentivamo in noi di partecipare
al riscatto continuando a combattere contro il nemico, consci come
eravamo che la partita era già persa e che offrivamo a cuore aperto
la nostra stessa esistenza. Nelle Scuole Allievi Ufficiali non ci è stata
insegnata la guerra civile ma la guerra a viso aperto contro il nemico
straniero, la disciplina, 1'ordine.
Quanto diverso ci appariva il mondo nelle brevi soste durante le
licenze. Quanto difficile 1'adattamento ad una realtà che ci ripugnava
ed alla quale non eravamo preparati. Una realtà che vedeva fratelli
contro fratelli senza esclusioni di colpi.
E' comunque mia convinzione che la guerra civile non ha accorciato il tempo della guerra combattuta nemmeno di un giorno
nonostante 1'appoggio dato dagli alleati ai partigiani.
Né è servita ad indebolire i tedeschi.
Per i vivi ormai è passato il tempo di chiedere arretrati e pensioni;
ci basta l'abolizione delle leggi persecutorie nei nostri confronti e
il riconoscimento del servizio prestato sotto la Rsi per i militari non
volontari, così come è riconosciuto quello dei Funzionari civili e
della Magistratura.
Già 1'abbraccio fra i combattenti del sud e quelli del nord è un
fatto compiuto: esso è avvenuto nonostante 1'assenza delle istituzioni.
Già le Forze Armate repubblicane sono riconosciute dagli alleati.
Ricordiamo per inciso, che la resa di molti reparti della Rsi è
avvenuta con l'onore delle armi, come quella dell'ultimo reparto in
Garfagnana l' 8 Maggio '45. La riconciliazione deve avvenire fra
due interlocutori; non deve essere una operazione unilaterale.
Per la riconciliazione occorre una condivisione, un uguale sentire
su temi di alto valore etico ed ideologico. Due sono i temi: la fede
62
religiosa e l'amore per la Patria.
Abbiamo partecipato 1'anno scorso ad una Via Crucis organizzata
dalla Diocesi di Reggio, nobile iniziativa che purtroppo ha visto
escluso quasi totalmente uno dei due interlocutori, salvo che, per
fortunata circostanza, a Campagnola.
La nostra fede non si attenua comunque: ogni anno il tempo
assottiglia le nostre file ma diventa maggiore la speranza della nostra
comunione coi Morti. Ogni anno molti giovani ricevono da noi la
testimonianza.
Coi laici, con Voi, Magnanini, a parte il rapporto personale che
si è instaurato, porto una testimonianza che mi pare illuminante.
Nel 1978, nel riferire sulla nascita del Tricolore ad alcuni ospiti
del Club di cui faccio parte, terminai il mio dire con il ringraziamento
a Dio per averci dato il Tricolore e con la speranza che Esso non
diventi mai monocromatico.
Col passare degli anni mi sono trovato più volte all'ombra del
Tricolore con alcune personalità tra le quali Otello Montanari.
Quando abbiamo portato il Tricolore al Presidente del Senato, dopo
il memorabile incontro, abbiamo insieme constatato che cinquant' anni fa incontrandoci ci si sarebbe sparati (si fa per dire!) oggi siamo
amici proprio all'ombra del Tricolore.
Per quanto riguarda la Patria, le idee di Nazione, di Patria e di
Bandiera, ostacolate dai marxisti da una parte e dai cattolici dall' altra,
riaffiorano con sempre maggiore evidenza.
Noi che avevamo fatto di queste idee la ragione della nostra
esistenza, ne proviamo gioia profonda.
Dunque due simboli: la Croce e il Tricolore.
Giannetto Magnanini mi ha chiesto notizie sul fascismo reggiano
durante la R.S.I. sul quale mancano documentazioni e notizie ufficiali, se non quel mio librino modesto, scritto per ben più nobile
scopo ed anche quell'elenco di morti così faticosamente e dolorosamente redatto per il quale, è doveroso dirlo, ci siamo serviti anche
di documentazioni forniteci dall'Istoreco.
Dal mio libricino si evince tuttavia un dato certo: da parte fascista,
nonostante la cruenta lotta senza quartieri, si è cercato di evitare
l'ultimo bagno di sangue mediante trattative con elementi antifascisti
su incarico del Capo della Provincia Caneva.
63
Tale incarico non portò ad alcun risultato nonostante frequenti
incontri oltre i quali non si potè proseguire.
Purtroppo il bagno di sangue c'è stato prima, durante e dopo la
fine.
Già un notevole numero di combattenti erano morti sui vari fronti.
Poi era venuto lo stillicidio delle morti singole.
Poi vennero i giorni della primavera.
Ho scritto: "il massacro fu talmente totale, con le stesse caratteristiche, con gli stessi metodi, con la stessa determinazione, che
non poteva che essere preordinato e organizzato scientificamente".
Ho ancora scritto:"ai superstiti fu impedito il viver civile e sui delitti
calò il silenzio più assoluto. Le ricerche furono impedite ed una cappa
di silenzio calò sulla vicenda".
Poi vennero il "Chi sa parli" di Otello Montanari e la lettera ai
cittadini di Campagnola da parte del professore Parmeggiani. Poi
venne 1'opera di Umberto Righi e il ritrovamento dei morti di
Campagnola.
Fatti presto dimenticati dalla stampa e dalle istituzioni.
Oggi siamo qui a trattare di un tema che parla di venti mesi di
guerra civile e di cinquant' anni di dopoguerra.
La storia è andata avanti in questi cinquant' anni. Per i più giovani
stiamo parlando di incomprensibili vicende di epoca remota.
Noi vogliamo gettare un seme che conduca alla riconciliazione
nel nome dei Morti.
Di fronte al mistero sacrale della tomba siamo e saremo tutti uguali.
Noi pretendiamo soltanto per i nostri Morti lo stesso rispetto e lo
stesso Suffragio.
Molti di noi attendono ancora un segnale per dare ai Morti un
lembo di terra benedetta.
Mi disse un giorno Magnanini che non comprendeva la nostra
ostinazione, lui marxista ateo. Gli risposi che la civiltà di un popolo
prende origine dal suo culto per i Morti.
All'ombra della Croce, sulla soglia del suo bimillenario; all'ombra
del Tricolore nel bicentenario della sua nascita, la riconciliazione
appare tanto più necessaria in quanto garanzia dell'unità d'Italia.
L'ltalia ha ora bisogno di tutti i suoi figli.
64
Oltre un mese prima delle importanti dichiarazioni del Presidente
della Camera, ono Violante, che tanto interesse hanno suscitato, mi
è stato proposto di partecipare alla presente iniziativa. Accolsi l'invito, ritenendo potesse essere utile un dibattito rivolto ai giovani
partendo da testimonianze di due persone che avevano 20 anni oltre
mezzo secolo fa e che compirono scelte opposte, confronto che
auspico animato soprattutto da due giovani studiosi di oggi. Un
confronto pertanto non fra due ex nemici, come è stato scritto nei
giornali, ma fra giovani di oggi, stimolati da testimonianze e da
opinioni di due ex nemici.
GIANNETTO MAGNANINI
L'osservazione che devo fare in premessa, e che ho fatto al
momento in cui fui invitato al dibattito, è la seguente: ritengo
sbagliato il titolo dato all'incontro, cioè 20 mesi di guerra civile.
Non fu così, sarebbe un tema deviante.
Nei 20 mesi che vanno dal settembre 1943 all'aprile del 1945 vi
è stata una guerra di liberazione nazionale condotta contro lo straniero
occupante, una lotta per por fine alla guerra, per la indipendenza
nazionale, per la libertà. L'esito della lotta di Resistenza ha segnato
l'avvenire della nostra Italia. Dalla Resistenza è sorta la Repubblica
si è fatto la nuova Costituzione che ha dettato le basi della democrazia
e le regole della convivenza civile e del divenire del Paese.
La guerra '43-' 45 è stata dunque guerra patriottica di liberazione
nazionale, ma non sono mancati aspetti di guerra civile e di guerra
di classe. Claudio Pavone ha scritto che in ognuno di noi possono
aver convissuto contemporaneamente quçsti tr~' aspetti.
E' indubbio che il nemico principale era lo straniero, il tedesco,
ma una parte di italiani si pose al servizio dei tedeschi, quindi fu
anche guerra tra italiani, da qui aspetti della guerra civile.
Espongo ora in sintesi la scelta che feci allora e la mia esperienza.
Italo Calvino ha scritto che a determinare la scelta, dato il disorientamento generale, bastò trovarsi in un posto piuttosto che in un altro,
65
o un'amicizia, o un libro.
lo ero orfano di padre e madre, ospite al Collegio Artigianelli,
grado di istruzione 5A elementare e dopo tre anni di lavoro in una
bottega artigianale a meno di 15 anni entrai apprendista operaio alla
Lombardini.
Noi giovani operai eravamo ignari di tutto. Con l'entrata dell'Italia
in guerra, quelli appena un po' più adulti andarono alla guerra, e
in fabbrica si lavorava a turno continuato. Una settimana dalle 7.30
alle 19.30, l'altra settimana dalle 19.30 alle 7.30 del mattino. 12 ore
al giorno a 72 ore alla settimana, conservo le buste paga. All'inizio
percepivo lire 0,58 l'ora, poi lire 0,62. Presto venne il razionamento
dei viveri: facevo la fame, fame tremenda.
Ci incontravamo brevemente nei cessi per scambiarci qualche
parola. Di notte trovavamo il modo di parlare di più. Inizialmente
pensavo alle promesse di Mussolini: l'Italia proletaria e fascista
combatte contro le grandi plutocrazie, contro la ricca Inghilterra.
Dopo la guerra vittoriosa il fascismo avrebbe risolto i nostri problemi.
Le discussioni sul conflitto, sul razionamento, su qualche amico
morto in guerra, soprattutto i discorsi con gli operai anziani, vinsero
facilmente sulla propaganda fascista. Il sindacato fascista era inesistente. Nel 1943 il costo della vita era salito del 57% sul 1942,
nel 1944 del 308% sul 1943. Le spese di alimentazione pesavano
sul salario operaio del 67-70% mentre in Germania e Gran Bretagna
pesava rispettivamente del 41% e del 44%.
Il 12 luglio 1943 fui chiamato alle armi, andai a Venezia, la notte
tra il 25 e il 26 luglio la popolazione esultava e salutava noi marinai
che entravamo in servizio. Dopo qualche giorno venne a trovarmi
il vecchio operaio comunista Adolfo Ganassi e seppi che a Reggio
furono uccisi 9 operai perché manifestavano per la pace. Il 26 luglio
vi furono manifestazioni spontanee in tutta Italia. A Reggio vi furono
manifestazioni spontanee antifasciste in 31 comuni su 45 e non fu
torto un capello ai fascisti.
Ai primi di agostòalla caserma'Sanguineti del Maridepo, sempre
a Venezia, dei giovani triestini mi invitarono in un angolo del piazzale
della Caserma stessa a seguire un processo a Mussolini.
Fu la mia prima riunione libera cui partecipai e rimasi profondamente colpito dal fatto che un gruppo di giovani marinai di Trieste
66
e della Venezia Giulia accusava il fascismo. Essi dicevano che il
fascismo aveva imposto loro cognomi diversi, cioè italianizzati, la
discriminazione nelle scuole, la proibizione di parlare la loro lingua.
In tutti gli uffici venivano esclusi i cittadini locali e venivano messi
gli squadristi negli uffici statali e parastatali con lo scopo di italianizzare quelle zone. Sentii parlare di confino, di carcere e di
tribunale speciale.
Venne l' 8 settembre e mi trovavo a La Spezia ad una scuola per
allievi su mezzi antisommergibili, il comandante ci invitò a seguirlo
per affiancarsi ai tedeschi ma quasi tutti cercammo di tornare a casa.
Sapemmo che i tedeschi bloccavano i soldati, che venivano pigiati
su tradotte piombate e dirette in Germania. Salimmo su un treno
dopo La Spezia ma a Fornovo scendemmo, proseguii a piedi fino
a Reggio e trovai sui muri il bando che intimava di presentarsi ai
tedeschi pena la fucilazione.
L' 8 settembre vi fu lo sfacelo: le classi dirigenti, monarchia e
fascismo tradirono e lasciarono allo sbando milioni di italiani. Un
milione di uomini erano prigionieri degli alleati, 650.00 furono
deportati in Germania altri erano sparsi per tutta l'Europa.
I tedeschi avevano occupato il Paese già prima dell' 8 settembre
e in seguito calarono con le loro divisioni dal Brennero e dalla
Francia. A noi sembrò tutto chiaro il nemico era l'occupante tedesco
e il tallone dell' oppressore si fece sentire subito. I bandi sui muri
dicevano che tutti gli uomini dai 19-20 in su dovevano presentarsi
nelle caserme sotto lo straniero tedesco.
I fascisti che erano stati graziati dalla popolazione il 25 luglio
alzarono la testa e si posero al servizio dell'occupante; quindi il
tedesco era il nemico principale, ma dovevamo guardarci dai fascisti
posti si al loro servizio.
Nella notte tra l' 8 e il 9 settembre vi fu l'occupazione dei punti
strategici della città e non mancò la prima giusta reazione con 5
militari uccisi e 11 feriti che diedero l'esempio di come si doveva
rispondere ai bandi di presentazione e alle minacce di fucilazione.
Seguirono 19 mesi di lotta contro l'occupazione contro le razzie,
le rappresaglie, le deportazioni. I tedeschi affermavano che loro
erano i combattenti e che gli italiani dovevano limitarsi a lavorare
per i soldati tedeschi. Quando nel gennaio del '44 vi fu lo sbarco
67
Maggio 1942. Marola.
I "tregiornisti" giocano attorno al grande castagno.
68
Luglio 1945. Marola.
69
ad Anzio e a Nettuno, Mussolini chiese di mandare le giovani
reclute della Repubblica di Salò al fronte; ma i tedeschi non si
fidavano e risposero negativamente, anche alle suppliche di
Mussolini di farli combattere sotto la direzione degli ufficiali
tedeschi. Vedevamo pertanto i tedeschi come occupanti del nostro
paese e i fascisti al servizio dell'aggressore ancora più odiosi perché
servi dello straniero.
Le chiamate alle armi da parte della Rsi dei giovani delle classi
1923, 1924 e 1925 furono un fallimento, la Gnr era fatta di militari
non convinti poi vennero le brigate nere e fu chiaro che i militari
nella Rsi erano utilizzati solo per il fronte interno contro i partigiani.
Dal lO novembre del ' 43 infatti con i bandi di chiamata dei
giovani di 18-19-20 anni si apre la grande contesa tra fascismo
e antifascismo: dei 600.000 deportati in Germania solo 28.000
aderirono alla RSI, dei 187.000 che ricevettero la cartolina si
presentarono soltanto in 87.000 (ma Graziani dirà che erano
51.162). Vi fu un nuovo bando di presentarsi entro 1'8 marzo '44
e a Reggio si presentarono soltanto 18 volontari, 3.195 giovani su
~.240
reclute, 984 si giustificarono, ma ben 1.061 non si giusti-
ficarono. Sul piano nazionale si presentarono 60-70.000 reclute ma
subito dopo iniziò fra questi il fuggi fuggi, seguirono nuovi appelli
e minacce di morte sino al 25 maggio, furono i mesi in cui la Rsi
perse la battaglia sul campo, la maggioranza dei giovani cercava
di salire sulle montagne, parte si nascondeva e di giorno in giorno
aumentavano le diserzioni.
Mussolini non riesce a fare l'esercito, la Guardia Nazionale
Repubblicana fallisce, i giovani che dovevano formare le divisioni
"Monte Rosa" e "Italia" vengono addestrati ma non saranno mandati
al fronte. La Gnr, poi le Brigate Nere vengono utilizzate non contro
gli alleati ma nel fronte interno nelle rappresaglie e nei rastrellamenti.
Leggete il libro di Franzini "Storie di montagna" e apparirà chiaro
come i partigiani cercavano il combattimento contro i tedeschi anche
durante i grandi rastrellamenti e come i fascisti erano al seguito dei
tedeschi.
lo allora lavoravo in fabbrica, per me era scontato che i tedeschi
avrebbero perso, pensavo al dopo, a cosa doveva succedere con il
crollo fascista e la pace. Parlavamo di capitalismo, di classe operaia,
di socialismo, di religione.
70
Il 3 aprile del 1944 al secondo allarme della giornata assieme ad
un gruppo di altri 6 giovani avemmo un incontro con il rappresentante
del PCI ed è lì che incontrai Paolo Davoli che sarà medaglia d'oro
della Resistenza. Davoli ci disse: "da oggi siete iscritti al PCI ma
il primo problema è cacciare i tedeschi e i loro servi fascisti dovete
sabotare la produzione e convincere gli altri operai a fare altrettanto".
E così organizzammo lo sciopero del 1o maggio 1944 del quale parlò
persino radio Londra, venimmo additati come esempio in tutta
Europa. Nei mesi seguenti la produzione fu quasi azzerata, letteralmente. Eppure avevamo conosciuto gli operai comunisti che erano
colti e ci insegnavano a lavorare bene e in fretta, ad istruirci ma
ci dicevano che ora era tempo di combattere.
Poi costituimmo il "Fronte della Gioventù" (e i fascisti hanno
cercato di rubarci anche quel nome glorioso). Al Fdg arrivammo ad
essere iscritti in 2.500 alla liberazione mentre 1.500 erano passati
alle formazioni partigiane. Il programma del Fdg era: lotta per
l'indipendenza, per la pace e la libertà, per un avvenire migliore.
Ed era aperto a tutte le correnti politiche: cattolici, comunisti,
socialisti, liberali in gran parte apolitici ed è con questo spirito
unitario che ci trovammo in Piazza del Monte il 24 aprile 1945 per
liberare la città.
Nella replica avrò modo di esprimere il mio parere sul quesito
posto dal Presidente ono Violante nei confronti dei giovani che si
schierarono dall'altra parte; i vinti. Ciò che voglio però ribadire e
con orgoglio è che la scelta di allora mi permise di partecipare a
quel grande movimento di lotta definita poi la più bella pagina dal
primo Risorgimento, una lotta che ha contribuito a sconfiggere il
nazismo, che ha cancellato la dittatura fascista e ha dato la libertà,
la democrazia a tutti gli italiani, anche coloro che si schierarono dalla
parte sbagliata.
Non è trascorso un mese dalle elezioni che hanno segnato la vittoria
delle forze che si richiamano ai valori della Resistenza. Il governo
Prodi dà la speranza di realizzare pienamente gli ideali della Resistenza. Come uomini della Resistenza ci sentiamo impegnati a far
sì che i valori della Resistenza diventino i valori universali degli
italiani.
Cerchiamo di capire, ma non giustificare coloro che si schierarono
dalla parte sbagliata. La patria, l'Italia non era grande quando si
71
sopprimeva la libertà, si preparava e si scatenava la guerra, ci si
poneva al servizio dello straniero.
Oggi auspichiamo l'impegno di tutti per lavorare per il bene
dell'Italia che è grande nella misura in cui gode prestigio nel mondo
nel rispetto dei valori universali e fa progredire socialmente e
culturalmente tutti coloro che la abitano.
72
Corrado Còrghi
Ottobre 1945.
Teatro Municipale.
Assemblea dei giovani di Ac.
AI centro Corrado Carghi,
presidente diocesano.
73
.~
~
"II Volontario della Libertà"
Dialogo fra protagonisti
Orazio. "Il Volontario della Libertà" non fu il primo giornale a
salutare le vittoriose forze patriottiche, ma "Reggio Democratica".
Un periodico sorto dalle macerie del "Solco Fascista" alle prime luci
dell'alba del 25 aprile 1945 per volontà e decisione del Clnp, di
un imprecisato numero di partigiani che, a turno, per mancanza di
forza motrice, si avvicendavano a far funzionare la rotatrice, sotto
l'occhio vigile del giornalista professore Ugo Bellocchi.
a cura di
ULiSSE GILIOLI (ORAZIO)
"Il Volontario della Libertà" (già noto ai partigiani della montagna,
alle popolazioni montanare e ai tanti "addetti ai lavori" della pianura,
che se lo vedevano recapitare quasi puntualmente nei modi e con
i mezzi più disparati) invece uscì il 5 maggio 1945 dalla tipografia
dei Fratelli Rossi, in Viale Isonzo. Fu un trionfo editoriale. Finalmente "Il Volontario" come tutti affettuosamente lo chiamavano
aveva una fissa dimora: redazione e amministrazione in Viale
Antonio Allegri 1, telefono 3036, anno 2°, n.20 come si legge in
occhiello.
Ecco, il segreto sta proprio qui, in questi due numeri che racchiudono la storia del settimanale; storia che ho cercato di ricostruire
con i redattori del "Volontario", Vittorio, Formica e il sottoscritto
Orazio!, chiamati, - in periodi diversi-dal Commissario Generale Eros
a redigere "Il Garibaldino" 'e"11 Partigiano", organi delle formazioni
partigiane.
1) I nomi di battaglia nascondevano le generalità di Landa L.Landini (Vittorio), Davide
Valeriani (Formica) e Ulisse Gilioli (Orazio),
Ufficiali del Comando Unico col grado di
capitano i primi due e tenente il terzo.
Con l'unificazione di tutte le Brigate combattenti le due testate
preesistenti lasciarono il posto al "Volontario della Libertà". Da quel
momento a far parte della redazione entrava, a pieno titolo, anche
75
la "fiamma verde" Romagna (Francesco Melandri), mentre Eros
manteneva il ruolo di Direttore Responsabile. Ricordo bene?
VIttorio. Il tuo ricordo è esatto. La testata del "Volontario" nacque
in montagna il 22 aprile 1945, proprio nel momento in cui era in
atto l'attacco finale per liberare quelle zone ancora occupate. Nella
numerazione, pur recando la nuova testata, seguiva quella dei due
periodici di cui era la continuazione che uscivano alternativamente
a qualche giorno di distanza, settimanalmente se non vi erano
problemi. Del "Garibaldino" furono pubblicati dieci numeri, de "Il
partigiano" otto.
Orazio. Perché si pensò alla creazione di una nuova testata?
Vittorio. La creazione del periodico credo sia stata il compimento
del programma del Commissariato Generale conseguente alla politica
di unità delle forze combattenti perseguita dal Cln.
"Il Garibaldino" era espressione dei partigiani di tendenza marxista
e che nel' 44 costituivano la gran parte delle formazioni combattenti.
Con la creazione della Brigata "Fiamme Verdi", di ispirazione democristiana, sempre agli ordine del Comando Generale e del Commissariato Generale, prese corpo l'esigenza di un periodico che fosse
portavoce di tutte le forze combattenti, anche se non si ebbe il
coraggio di sopprimere "Il Garibaldino". Il nuovo periodico fu "Il
Partigiano", prima come "organo delle Brigate Garibaldi e Fiamme
Verdi" e poi anche "Battaglione Alleato", e uscì il 18 ottobre 1944.
Nell'articolo di fondo si diceva che i partigiani reggiani, uniti delle
Brigate Garibaldi e Fiamme Verdi "con il loro giornale intendono
temprare maggiormente la loro unione per la lotta comune". Quindi,
come dicevo, alla vigilia della Liberazione le due testate scomparvero
per cedere il posto al "Volontario della Libertà" quale "Organo della
formazioni patriottiche reggiane".
L'articolo di fondo dell'ultimo numero de "Il Garibaldino", datato
18 aprile 1945, "Unificazione delle forze patriottiche" spiegava le
ragioni della decisione di sopprimere i nomi delle varie Brigate che
da quel momento entravano a far parte del Corpo Volontari della
Libertà. Dei primi due numeri de "Il Garibaldino" non posso dirvi
76
molto, uscirono prima del rastrellamento dell' agosto ' 44, quando
ancora non ero salito in montagna.
Orazio. Puoi essere più preciso tu, Aldo (Osvaldo Salvarani) come
Capo di Stato Maggiore?
Aldo. L'idea fu di Eros. Ricordo bene: eravamo a Ligonchio. ne
parlò con Miro allora Comandante Generale e con me. Ci trovammo
subito d'accordo sul titolo, sull'orientamento politico-militare da
seguire, sulle parole d'ordine. Con una lettera circolare a tutte le
formazioni, il Commissario Generale spiegava le ragioni per cui il
Comando e il Commissariato avevano preso la decisione di dar vita
la giornale delle Brigate. Infatti, perché la voce rispecchiasse fedelmente la volontà degli uomini della Resistenza, invitava tutti i
partigiani a collaborare. I miei compiti erano di natura prettamente
militare e mi costringevano a continui spostamenti da una zona
all'altra. Ebbene, proprio tornando a Ligonchio qualche giorno dopo
mi trovai sul tavolo una copia fresca del giornalino, dattiloscritto
e in veste tipografica molto dimessa. Era il 7 luglio 1944. Il secondo
numero uscì il 25 luglio a Montecagno. Poi ci fu il terribile rastrellamento, quando le formazioni si ricomposero la pubblicazione
riprese.
La Redazione de "II Volontario della Libertà":
da sinistra Ottavio Tirelli, Davide Valeriani,
Ulisse Gilioli, Landa Landini.
Orazio. Tu, Vittorio, quando sei arrivato?
Vittorio. Era il 9 settembre 1944. Come studente universitario
fui destinato al Commissariato Generale in veste di responsabile
della Sezione Stampa e Propaganda. Fin dai primi giorni del mio
arrivo si pensò di riprendere le pubblicazioni. Mancavano carta e
il ciclostile, ma si voleva far qualcosa di più ed i meglio di quanto
si fosse fatto con i primi due numeri, usciti in poche copie dattiloscritte. Non so dire come fu, ma in pochi giorni sbucarono sia
l'una che l'altro. In realtà non proprio carta, ma fogli di cartoncino,
spessi e rugosi. Si fece di necessità virtù, non era il caso di
discutere. Il rifornimento, però, fu costante e considerevole, tanto
da consentirci di uscire con otto e dieci pagine e una tiratura di
qualche centinaio di copie, quasi regolarmente ogni settimana a
77
partire dal 2 ottobre con quella testata che Rossellini con Paisà
2) Si dovette al tenente Cipro (Verardo Zanetti) il reperimento del ciclostile e di parecchi quintali di cartoncino rosso e marrone. Come avesse scoperto un simile tesoro (completo di inchiostri e quant'altro di
utile alla redazione) non è mai stato chiarito.
Alla richiesta di un membro della redazione
sulla provenienza del materiale Cipro rispose semplicemente "Si trova dove si trovava,
amico mio bello".
fece conoscere a tutto il mond0 2 •
Orazio. Olindo, come nacque la testata?
Olindo. Eravamo al Commissariato, alloggiati in una catapecchia
credo in Val d'Asta, a primi di ottobre, quando Eros mi disse:
"Dobbiamo rifare il giornale. Abbozza subito la testata, come hai
fatto per "La lotta" (organo del Pci reggiano n.d.r.) nel modo tipografico migliore, considerato il titolo importante che gli abbiamo
dato". Quando Eros diceva "subito" intendeva immediatamente. Mi
misi al lavoro. Fortunatamente la prima idea, appena abbozzata, fu
subito ritenuta buona dal capo. Nacque così la testata: una mezza
iperbole irregolare, con la scritta "Il Garibaldino" sul tracciato esterno
della curva, sovrastata da una stella a cinque punte che nelle mie
intenzioni doveva illuminare il cammino al partigiano proteso alla
conquista della vittoria e della libertà.
Orazio. Come si lavorava per realizzare il giornale?
Vittorio. In principio ero solo, battevo a macchina le matrici e
giravo la manovella del ciclostile. L'articolo di fondo era quasi
sempre di Eros, gli altri articoli erano scritti da partigiani. Ecco, il
nostro scopo! Senza pretese letterarie, artigianale nella sostanza come
nella forma, il "giornaletto" doveva arrivare al cuore dei ragazzi la
cui vita quotidiana era un calvario. Ogni giorno si presentavano i
problemi soliti: mangiare, dormire, affrontare il nemico forte e
spietato. Ogni giorno era incombente il pericolo di morte, o, peggio
della cattura e della tortura. Si voleva sollevare il morale dei partigiani. Poi venne a darmi una mano Formica e poi tu, Orazio, da
me invitato dopo la lettura di una tua poesia.
Orazio. Com' erano i vostri rapporti in redazione nei confronti di
Romagna, fiamma verde di ispirazione ideologica non marxista?
Eravate liberi o dovevate seguire rigidi schemi di orientamento?
Formica. Eravamo completamente liberi, godendo della massima
fiducia del Commissariato. Liberi di criticare, anche attraverso la
78
satira, certi aspetti non consoni alla situazione in cui venivamo a
trovarci, o comportamenti che puzzavano di gerarchia da superare.
I nostri rapporti col collega delle "Fiamme Verdi" tu sai bene che
la collaborazione fu sempre ottima.
Orazio. Anche quando eri Vice-Commissario proprio delle "Fiamme verdi"?
Formica. Sì, pur nella diversità d'orientamento politico e religioso,
eravamo sempre rispettosi della politica unitaria partigiana. L'antifascismo, per ornare al giornale, era il solo argomento degli articoli
di fondo, pur con molta retorica, inevitabile al momento. Molte erano
le parole d'ordine, inneggianti alla vittoria e alla libertà, traguardo
finale della lotta partigiana. Le manifestazioni di settarismo erano
rare e di nessuna rilevanza.
Orazio. C'è qualche episodio legato alla vita del "giornaletto" da
ricordare?
Vittorio. Certo. Uno fra i tanti ma emblematico e degno di un
ricordo particolare. Il rastrellamento dell'inverno iniziò a sorpresa
il 7 gennaio 1945 e ci costrinse ad una estenuante marcia di
ripiegamento verso la montagna al confine con parmense. Marciammo nella neve e guadammo acque gelide dei torrenti in piena. Fu
una notte drammatica e indimenticabile. Molti partigiani erano
febbricitanti, alcuni congelati. I tedeschi, come si seppe poi, contavano non solo di colpire mortalmente le forze partigiane, ma di
catturare anche i capi. Non avevano fatto i conti con la rete capillare
dei distaccamenti che costituivano una valida protezione dei Comandi e del Comando Unico in particolare. Eravamo pronti ad
uscire con il primo numero de "Il partigiano", anno 2°; nascondemmo tutto con cura in grotte inaccessibili e via nella notte, la
neve fino alla cintola, le scarpe rotte, il vestiario sbrindellato. Giunti
nel parmense, stremati di forze e trovato ristoro in un fienile pieno
di spifferi, fu presa una decisione ... garibaldina: rientrare immediatamente in zona in tre o quattro e uscire con il "giornaletto".
In mezzo ai tedeschi. Naturalmente dovetti andare io con scorta
79
armata di tre ragazzi volontari fra i più speri colati. Riattraversammo
le montagne, sempre di notte, passammo sotto le batterie tedesche
e giungemmo, ancora una volta al limite della resistenza fisica,
nella zona da dove due giorni prima eravamo fuggiti.
I vecchi montanari, rimasi barricati nelle case non credevano ai
loro occhi e non nascondevano il timore di feroci rappresaglie nel
caso in cui i tedeschi ci avessero avvistati. Saputo che Ligonchio
e Villa Minozzo, oltre a Castelnovo Monti, erano stati occupati,
decidemmo di dividerci. Da solo, mi diressi a Montecagno e gli altri
tre andarono a recuperare il materiale redazionale. Montecagno è
circa a un chilometro in linea d'aria da Ligonchio, a pari altitudine,
ma separato da uno strapiombo. Quando furtivamente giunsi, potei
vedere i mortai tedeschi schierati verso il paesino apparentemente
deserto. Giunto nell'abitato, entrai in un'aula scolastica ghiacciata
e buia, e subito iniziò una cauta processione di gente spaventata che
mi invitò ad andarmene. Spiegai che, se avessi potuto, l'avrei fatto
volentieri. Il giorno dopo, affamato, vidi entrare nella scuola una
vecchietta con un tozzo di pane vecchio e una scodella di brodo
di castagne. Il cuore della nostra gente!
In capo a pochi giorni, i tre ragazzi di scorta si trasformarono in
staffetta e partirono da Montecagno con "Il Partigiano" in decine
e decine di copie. I tedeschi di fronte a guardare senza vedere. Poi
si ritrovarono il "giornaletto" fra le mani. L'articolo di fondo era
intitolato "Abbiamo vinto" e fu veramente una vittoria militare
strepitosa e di altissimo valore psicologico.
Orazio. L'episodio che Vittorio ci ha raccontato è un po' il poema
epico del movimento partigiano. L'eroismo, lo spirito di sacrificio,
i disagi, la fame, la paura erano illuminati dalla speranza di fondare
una nuova società. Arrivati in città, il 24 aprile, Vittorio e Formica
si diedero da fare per continuare le pubblicazioni in veste tipografica.
lo fui comandato all'ufficio di polizia del Commissariato Generale.
Il primo numero uscì il5 maggio e si presentò cosÌ: "PARTIGIANI.
Il nostro giornale continua. Esso rivede la luce in diverso ambiente,
in diverso clima. La vita clandestina, nella quale si è formato e
temprato, è terminata. Per il 'Volontario della Libertà' incomincia
ora la vita legale".
80
Ricordo che, scorrendolo trovai un asterisco apparentemente
banale, ma in realtà di grande, grandissimo significato (il pezzo era
di Formica) con il quale il "Volontario" lamentava il fatto che in
certi locali si continuasse a giocare d'azzardo, come se nulla fosse
cambiato. Era la prima amara sorpresa (ma quante ben più gravi
ne abbiamo collezionato fino ad oggi) per chi si era battuto per un
mondo diverso e aveva sognato la fratellanza fra gli uomini come
perno di un nuovo sistema di vita. Formica, che tanto si era adoperato
per la redazione di questo numero non potrà, assieme a Vittorio,
seguire nei dettagli la sua realizzazione tipografica, perché nel
frattempo era stato nominato, con decreto prefettizio, Vice Questore
di Reggio.
Di nuovo fui chiamato ai giornale. Questa volta però non come
"inviato speciale", ma come direttore amministrativo, per la mia
esperienza in fatto di contabilità. Non ero certamente preparato allora
ad un incarico del genere, tant' è che non pensai neppure di trattenerne
un centinaio di cose per le probabili richieste di numeri arretrati.
Richieste che puntualmente vennero, qualche tempo dopo, da parte
di numerosi lettori e di biblioteche. Del primo numero, anzi del
numero 20, conservai solo due copie: la mia personale e l'altra,
Da sinistra: Ulisse Giliali, Ottavia Tirelli,
Davide Valeriani, Landa Landini.
restituitami dal giornalaio Ferretti (edicola di S.Stefano) perché
ridotta veramente a brandelli. provavo un gusto matto a consegnare
"Il Volontario" ai giornalai, i quali, prima ancora che io avessi
esaudito le loro richieste, pagavano in contanti.
La tiratura intanto era salita nel giro di un mese, dalle cinquemila
copie iniziali a oltre venticinquemila. Impiegai parecchio tempo a
convincermi che dovevo spedire diverse copie 'in omaggio', alla
Biblioteca Comunale, a enti diversi, a Carabinieri e alla Questura.
Una perdita secca per il giornale e drasticamente cessai di inviarlo,
cacciandomi in un mare di guai.
Ricevetti parecchie telefonate: dalla Biblioteca, dai Carabineri, dal
Questore. Quest'ultimo addirittura mi voleva arrestare. Ma non è
ancora finita. Un giorno si presentò in Amministrazione un certo
Mario Borsa, chiedendo la serie completa degli articoli scritti dal
professore Bertolani sulla storia dell'Ospedale psichiatrico San
Lazzaro, per ripubblicarli sul suo giornale, senza specificare quale.
"Spiacente-risposi- tutti i numeri sono esauriti. Mi scusi", lo salutai
81
lasciandolo a mani vuote. Seppi più tardi che quell'ometto un po'
calvo e un po' grassoccio, era il Direttore responsabile del "Corriere
della Sera"!
Assumemmo due collaboratori: il partigiano Ivan (Ottavio Tirelli)
già operatore al ciclostile in montagna e la partigiana Rosa Maria
Pedrazzoli in qualità di segretaria.
Eros firmerà ancora 12 numeri come Direttore responsabile. Poi
la direzione passo nelle mani di Vittorio. Più tardi vennero chiamati
a far parte della redazione Quarto (Giovanni Fucili), Renzo (Renzo
Rivasi), Gim (Domenico Grossi) ed altri. Ma il mio compito si ferma
qui.
82
Luigi Gedda
Ottobre 1945. Teatro Municipale.
Corrado Corghi e Luigi Gedda.
83
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L'Egitto per sé e
per il mondo arabo
A CURA DI C. MARIO
LANZAFAME
Da una parte lo splendore delle dinastie, delle Piramidi e dei
templi di Luxor; dall'altra l'autoinvestitura a capofila del mondo
arabo e le relative responsabilità a livello di Medio Oriente. A
seconda delle circostanze e delle convenienze, l'Egitto può riferirsi
a due storie diverse e a due diversi passati. Fu soprattutto Gamal
Abdel Nasser, dopo la rivoluzione dei militari, ad assegnare in via
prioritaria all'Egitto i compiti dell'arabismo facendo concorrenza alle
capitali storiche dell'età aurea dell'impero arabo-islamico, Damasco
e Baghdad: nel 1958 l'Egitto si fuse con la Siria dando origine alla
Repubblica araba unita (Rau) ed il nome Rau sopravvisse ufficialmente per qualche anno al suo scioglimento come pegno e impegno
della politica unitaria. Ma il suo successore, Anwar Sadat, ridimensionò le ambizioni e le funzioni della nazione e l'Egitto tornò a
chiamarsi Egitto. Il nazionalismo arabo passava in secondo piano
rispetto al nazionalismo faraonico. Il presidente attuale, Hosni
Mubarak, ha tentato una sintesi fra queste due prospettive: ha
approfittato nel 1990 degli sconvolgimenti provocati dalla guerra del
Golfo per ripristinare la centralità dell'Egitto come più importante
Stato arabo in termini di economia, popolazione e potenzialità
militare ma senza subordinare più la sua politica ai diritti e alle attese
della nazione araba e mettendola piuttosto al servizio diretto dell'Egitto - nell'età della globalizzazione - come polo di sviluppo e
di attrazione regionale.
GIAN PAOLO CALCHI
NOVATI
Docente di Storia dell' Africa all' Università
di Urbino, facoltà di Scienze Politiche.
E' autore di numerosi saggi, alcuni dei quali
tradotti, tra i quali segnaliamo:
Dalla parte dei leoni, Milano, Il Saggiato re,
1994; Il Corno d'Africa nella storia e nella
politica, Torino, Sei, 1994; Mediterraneo e
questione araba nella politica estera italiana,
in Storia dell' Italia contemporanea, Torino,
Einaudi, 1995.
La svolta che ha modificato in profondità gli assetti istituzionali
e sociali dell'Egitto contemporaneo fu il colpo di Stato dell'esercito
85
nel luglio 1952. Un comitato di "ufficiali liberi" prese il potere con
un'azione repentina esautorando il re e la vecchia classe dominante.
Non si trattava· solo di un episodio interno perché il fine ultimo era
di liberare l'Egitto dall'ingombrante influenza dell'Inghilterra. Gli
inglesi avevano occupato l'Egitto nel 1882 per sedare la cosiddetta
"rivolta" di Arabi Pascià, che si era reso interprete dell'insofferenza
delle forze armate e del partito nazionale contro l'invadenza degli
stranieri, e da allora, a vario titolo, non avevano più lasciato Il Cairo,
il Nilo e Suez. Nel 1914 fu istituito il protettorato. Neppure la formale
proclamazione dell'indipendenza nel 1922 aveva veramente emancipato l'Egitto, che scontava, paradossalmente, l'eccellenza della sua
posizione strategica. Con i militari al potere l'obiettivo dell'indipendenza "reale" fu elevato al primo posto. Per la prima volta, del resto,
l'Egitto poteva dire di àvere un gruppo dirigente a tutti gli effetti
"egiziano" .
Il carattere dirompente dell' ordine costituito, sul piano nazionale
e internazionale, del colpo di Stato degli "ufficiali liberi" non era
apparso subito evidente. Il re Faruq fu detronizzato ma il nuovo
regime rinviò di qualche mese la proclamazione della repubblica e
tenne alla sua testa un uomo, il generale Neguib, che apparteneva
al vecchio establishment, un moderato che credeva nella democrazia
liberaI-rappresentativa. Dietro Neguib premeva, impaziente e radicale, il colonnello Gamal Abdel Nasser, la cui ascesa definitiva si
consolidò fra il 1953 e il 1954. La riforma agraria, la scelta del
socialismo, la chiusura delle basi inglesi, l'istituzione del partito
unico, il neutralismo come bandiera dopo la Conferenza afro-asiatica
di Bandung del 1955 furono altrettante mosse di avvicinamento
all'impresa - la nazionalizzazione della Compagnia del Canale di
Suez - che portò il regime nasseriano alla grande ribalta provocando
una crisi internazionale di grosse proporzioni.
Per i militari egiziani la legge sulla proprietà e conduzione della
terra rivestiva una duplice valenza. La riforma agraria era un provvedimento di enorme richiamo perché la maggioranza della popolazione egiziana vive dei prodotti dei campi. Smontando il latifondo,
nel nome di un socialismo di cui si rendevano garanti dall'alto gli
stessi militari, il nuovo regime dava soddisfazione alle speranze di
milioni di contadini riscattandoli da un antico rapporto di servaggio.
Ma c'era anche un calcolo di riorganizzazione produttiva. Il governo
86
contava di sottrarre la rendita agraria al controllo esclusivo di una
esigua élite di proprietari assenteisti ponendo le premesse per uno
sviluppo moderno e procurando intanto i capitali da investire nell'industria e nei servizi.
Un valore altrettanto forte e persino maggiore aveva, nei piani del
governo e personalmente di Nasser, la costruzione della diga di
Assuan. Tutti i sovrani dell'Egitto avevano collegato la loro legittimità al controllo delle acque del Nilo. Nasser faceva affidamento,
razionalmente, sui benefici economici della diga - vaste estensioni
di nuove terre irrigate e produzione di energia idroelettrica - ma
soprattutto voleva sancire il suo potere con una grande opera. Quando
la Banca mondiale e gli Stati Uniti rifiutarono i finanziamenti
necessari, Nasser prese la decisione fatale della nazionalizzazione
della Compagnia del Canale di Suez, che annunciò in un raduno
di massajl-26 luglio 1956. Pochi giorni prima Nasser si era incontrato
a Brioni con il presidente jugoslavo Tito e il primo ministro indiano
Nehru, inaugurando la politica del non-allineamento, ma è probabile
che nell'occasione della nazionalizzazione di Suez non si parlò o
si parlò solo di sfuggita e che da Tito e da Nehru vennero se mai
inviti alla prudenza. Ma per Nasser la posta trascendeva i termini
economici o giuridici per assumere un significato simbolico.
A suo tempo, l'apertura del Canale di Suez aveva rappresentato
una delle tappe fondamentali dell'età dell'imperialismo. Per effetto
della nuova arteria, l'Egitto si era trovato al centro delle vie di
comunicazione fra Europa e Asia. L'India era la perla dell'impero
britannico e Suez divenne una delle poste della contesa su scala
mondiale fra le potenze coloniali. Il piano più grandioso del colonialismo inglese in Africa, attribuito alla fantasia e all'attivismo di
Cecil Rhodes, si reggeva sull'asse Cairo-Città del Capo. Da qui il
condizionamento che calò come un'ipoteca di ferro sull'indipendenza
dell'Egitto, i cui vicerè (khedive) per il resto erano soggetti solo
nominalmente alla sovranità dell'Impero Ottomano. Fu appunto
l'opposizione di Arabi Pascià alla perdita d'autonomia della nazione,
schiacciata dall'indebitamento per i lavori del Canale, che diede il
pretesto all'Inghilterra per il suo intervento militare. In Egitto e in
particolare a Suez furono situate le basi che consentirono per tanti
anni alla Gran Bretagna di godere di un assoluto predominio nel
Medio Oriente, anche per la protezione delle rotte per l'India.
87
La nazionalizzazione di Suez nel 1956 fu una specie di ribaltamento del 1882 ed insieme una riappropriazione del 1869. Nelle
intenzioni di Nasser e della rivoluzione egiziana significava la fine
del colonialismo. Gran Bretagna e Francia - che erano le nazioni
più toccate economicamente dal provvedimento ma che soprattutto
si preoccupavano degli effetti sulle loro posizioni coloniali nel Nord
Africa e nel Vicino Oriente - scambiarono la nazionalizzazione di
Suez per una provocazione e agirono di conseguenza. Fin dall'inizio
a Londra e Parigi, che pure finsero per mesi di negoziare una
soluzione di compromesso, si pensò alla guerra: abbattere il regime
di Nasser non solo per revocare la nazionalizzazione del Canale ma
per arrestare la diffusione del radicalismo in Egitto e nel mondo
arabo. Gran Bretagna e Francia trovarono un alleato in Israele
firmando un patto segreto che non faceva onore a nessuna delle parti.
Quando la guerra scoppiò davvero, intrecciandosi perversamente con
l'intervento delle truppe sovietiche in Ungheria, l'iniziativa - oltre
che dall'Urss, che si comportava come un alleato dell'Egitto e che
sarebbe subentrata infatti agli occidentali nel finanziamento della
diga di Assuan - fu clamorosamente sconfessata dagli Stati Uniti,
un po' per un estremo scrupolo legalitario e un po' per non far
ricadere su tutto l'Occidente le conseguenze di quel soprassalto di
colonialismo fuori tempo.
L'aggressione tripartita contro l'Egitto fu fermata dall'Onu, che
organizzò una forza d'emergenza CUnef) per dividere i contendenti.
Sconfitto militarmente, Nasser uscì ingigantito dalla prova come
campione indiscusso del nazionalismo arabo: dopo tutto, il suo
regime si era dimostrato più forte di quanto non avessero supposto
Londra e Parigi. Dal canto suo, Israele perse un'occasione per
smentire l'accusa di sistematica complicità con i nemici del mondo
arabo.
Nella seconda metà degli anni '50 il potere e la popolarità dell'Egitto e di Nasser erano al culmine, infiammando le masse dei
paesi arabi e influenzando le forze nazionaliste in Siria, in Iraq, nel
Libano. La questione palestinese ritornò d'attualità. Ma, nonostante
l'effimera esperienza della Repubblica araba unita, l'unità araba al centro del programma nasseriano - non riuscì a prevalere sugli
interessi dei vari Stati ed in ultima analisi sui loro caratteri distintivi.
Né sorte migliore ebbero gli sforzi di Nasser per realizzare quel88
l'opzione socialista che, anche ad imitazione dell'Egitto, molti partiti
e governi arabi, i militari, il Baath, avevano promosso a loro politica.
Alla lunga, la sfida contro Israele e l'Occidente segnerà la rovina
di Nasser. L'occasione fu la "guerra dei sei giorni", nel giugno 1967,
originata formalmente dalla richiesta di Nasser di ritirare le truppe
dell'Unef. Ma a determinare la guerra concorsero altri fattori fra cui
il senso di insicurezza di Israele e le rivalità interarabe. La copertura
dell'Urss~non bastò all'Egitto nel 1967 così come non gli era bastata
nel 1956: Nasser sopravvisse anche a quest'altra disfatta, ma il ciclo
del nasserismo era ormai irrimediabilmente esaurito. Con la guerra
del 1967 l'Egitto perse addirittura una parte del suo territorio, il Sinai,
oltre alla striscia di Gaza che amministrava dal 1948-49, e dovette
subire la presenza degli israeliani subito al di là del Canale. L'Egitto
non poteva più pretendere di rappresentare da solo le istanze di tutto
il mondo arabo. Le ripetute sconfitte dell'Egitto come degli altri Stati
costituiti rivalutò in particolare il movimento palestinese svincolandolo dalla tutela tutt'altro che disinteressata dei governi "amici".
Emblematicamente, Nasser morirà all'improvviso subito dopo aver
portato a termine, positivamente ma dolorosamente, un'opera di
mediazione e riconciliazione fra re Hussein e Arafat, il capo dell' Olp,
l'Organizzazione per la liberazione della Palestina, che si erano
scontrati nella guerra fra Stato giordano e resistenza palestinese (il
famoso "settembre nero" del 1970).
La rivoluzione iniziata nel 1952 era finita. Ne aveva preso atto
negli ultimi anni anche Nasser, che aveva capito l'errore di una
politica di riforme tutta di vertice, senza democrazia, basata tutt' al
più sul dialogo diretto fra il leader e il popolo nei momenti cruciali,
con un partito unico che era più uno strumento di controllo che di
partecipazione. I militari erano diventati la classe dirigente e si
comportavano come una specie di borghesia o di burocrazia di Stato:
il loro obiettivo era ora di gestire in proprio anche sul piano economico i frutti delle riforme ispirate al dirigismo e allo statalismo.
In quelle condizioni, la propensione per l'Urss contro gli Usa e
l'Occidente perdeva di senso perché per l'ulteriore sviluppo l'Egitto
aveva bisogno soprattutto di stabilità, di capitali e di tecnologia.
A raccogliere l'eredità di Nasser fu il suo vice, Anwar Sadat, altro
componente del gruppo degli "ufficiali liberi", ben lontano però dal
carisma del Rais. Il leader giusto per sancire la "normalizzazione"
89
postrivoluzionaria? Nonostante tutto, l"'uomo in grigio" seppe
compiere gesti di grande portata storica: la semirottura con Mosca
espellendo i consiglieri sovietici, una guerra di parziale riconquista
dei territori occupati da Israele unitamente alla Siria e il gesto
disperato e coraggioso del viaggio a Gerusalemme. Gli accordi di
Camp David con Israele permisero all'Egitto di recuperare gradualmente il Sinai ma gli costarono un lungo isolamento - un vero e
proprio ostracismo - da tutto il mondo arabo. La stessa Lega araba,
che dalla sua fondazione, nel 1945, era sempre stata sotto l'egida
egiziana, dovette lasciare Il Cairo trovando una sede precaria a
Tunisi.
Sadat fu assassinato nel 1981 durante una parata militare da un
"commando" di integralisti islarnici. Parve immediato pensare a una
"vendetta" di Camp David eppure le motivazioni dell'attentato
appartenevano più alle dinamiche interne che a quelle internazionali.
L'Egitto era avviato verso una parziale liberalizzazione ed il suo
successore, Mubarak, un altro generale, estraneo, se non altro per
ragioni d'età, alla cerchia degli "ufficiali liberi", ha perfezionato la
tendenza. Ma, abolito il partito unico, ammesse altre forze politiche,
eletto più o meno regolarmente il parlamento, la democrazia è ancora
incompleta. Ad inasprire i termini della lotta politica e persino la
sicurezza dell'Egitto concorre l'opposizione violenta del movimento
fondamentalista, che a tratti dà l'impressione di voler rilanciare i
principi nazionali e nazionalisti mortificati dai processi di orno10gazione in atto - all'ombra del capitalismo e dell'alleanza organica
con gli Stati Uniti - ma che per i mezzi impiegati, l'intolleranza
ideologica ed il ripudio di valori comunque acquisiti dalla società
e dalla psicologia di massa non sembra in grado di uscire dal suo
ambito ristretto.
Se le riforme che sono state adottate da Sadat e Mubarak, compresa
la pacificazione con Israele, sono da considerare irreversibili, sul
futuro dell'Egitto pendono così le incognite di una integrazione nel
sistema politico ed economico mondiale che gli assicuri pari opportunità e non snaturi la sua identità: un problema che non riguarda
il solo Egitto ma che come tale investe l'insieme dei rapporti fra
mondo arabo e Occidente.
90
1952 - Un colpo di Stato militare abbatte il regime monarchico
(23 luglio). li parlamento viene sciolto e i partiti saranno aboliti.
Fra i primi provvedimenti del nuovo regime c'è un'ampia riforma
agraria.
DA NASSER A MUBARAK
(CRONOLOGIA)
1953 - Proclamazione della repubblica (18 giugno). La lotta al
vertice fra il generale. Neguib e il più radicale col. Nasser volge
a favore di quest'ultimo, che si affermerà definitivamente come il
Rais l'anno successivo.
1956 - Nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez (26
luglio). Dopo una fase di trattative, e due conferenze a Londra assente
l'Egitto, Francia, Gran Bretagna e Israele attaccano militarmente
l'Egitto (ottobre). L'intervento dell'Onu, che varerà una forza di pace
(l'Unef), costringe al ritiro delle truppe francesi, inglesi e israeliane.
In cambio del ritiro dal Sinai, il governo di Israele ottiene dagli Stati
Uniti l'impegno a garantire il libero accesso alle vie marittime.
1958 - Egitto e Siria si fondono nella Repubblica araba unita Cl
febbraio). L'esempio del nasserismo ispira in qualche modo la guerra
civile in Libano e il colpo di Stato dei militari in Iraq (luglio).
1960 - Nasser cerca di reagire alla crisi della Rau intensificando
le misure socialisteggianti.
1961- Per iniziativa della Siria, la Rau viene sciolta (28 settembre).
1962 - Colpo di Stato militare in Yemen (settembre): l'Egitto
appoggerà le forze repubblicane contro le forze monarchiche sostenute dall' Arabia Saudita in una guerra lunga e logorante.
91
1967 - Dopo che Nasser ha chiesto il ritiro dell'Unef, il governo
israeliano, che vede annullati i vantaggi ottenuti con la guerra del
1956, attacca di sorpresa ottenendo una folgorante vittoria contro
Egitto, Siria e Giordania (giugno). E' la cosiddetta "guerra dei sei
giorni". Israele occupa, oltre alla Cisgiordania e al Golan, anche il
Sinai e la striscia di Gaza.
1970 - Guerra ad Amman fra l'esercito giordano e le forze della
resistenza palestinese. Al termine di una drammatica opera di
mediazione fra Hussein e Arafat, il presidente Nasser muore per un
attacco di cuore (28 settembre). Sale alla presidenza Anwar Sadat.
1972 - Sadat decide di espellere tutti i consiglieri sovietici (luglio),
ma l'Urss non sospenderà l'assistenza militare all'Egitto.
1973 - Egitto e Siria attaccano Israele congiuntamente (6 ottobre)
recuperando in parte i territori perduti nel 1967. La guerra, detta
del Kippur, secondo Sadat restituisce all'Egitto e al mondo arabo
un sufficiente onore per poter trattare alla pari con Israele. Da anni
fuori del giuoco medi orientale per l'alleanza con Israele, gli Stati
Uniti (il presidente Nixon e Kissinger) assumono l'opera di mediazione, che porterà ai primi accordi di disimpegno fra Israele da una
parte ed Egitto e Siria dall'altra.
1977 - Il presidente Sadat compie uno spettacolare e controverso
viaggio a Gerusalemme dove incontra il primo ministro Begin e parla
alla Knesset (19-20 novembre ). E' di fatto la fine del "rifiuto"
assoluto dello Stato ebraico da parte della nazione-leader del mondo
arabo.
1978 - Di nuovo con la mediazione americana (questa volta tocca
al presidente democratico Carter nella tenuta di Camp David), Egitto
e Israele stipulano un accordo (settembre), che verrà formalizzato
a Washington con la firma di un trattato di pace in piena regola il
26 marzo 1979. L'Egitto riconosce Israele e riavrà il Sinai. La
questione palestinese viene lasciata sullo sfondo. Tutto il mondo
arabo reagisce negativamente alla "pace separata" e l'Egitto è messo
al bando.
1981 - Sadat viene assassinato al Cairo (6 ottobre). L'attentato
è attribuito ad un movimento di fondamentalisti islamici. Il suo vice,
Hosni Mubarak, diventa presidente ed è confermato capo dello Stato
in un referendum (13 ottobre).
92
1982 - Si completa la restituzione del Sinai all'Egitto (25 aprile).
1984 - Elezioni generali per il parlamento (27 maggio): il partito
del presidente, il Partito democratico nazionale, ottiene circa due terzi
dei voti in una consultazione pluralistica e formalmente libera. Inizia
una lenta opera di democratizzazione.
1987 - Nuove elezioni generali, contestate dall' opposizione (6
aprile). Il Partito democratico nazionale ottiene una larga maggioranza, perdendo qualche punto e pochi seggi rispetto al 1984. In
luglio Mubarak viene confermato presidente per un altro termine di
sei anni dal voto dell' Assemblea popolare.
1990 - Dopo l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq (agosto),
l'Egitto prende l'iniziativa di mobilitare il mondo arabo contro
Saddam Hussein e a fianco dell'intervento americano. L'Egitto torna BIBLIOGRAFIA
al centro del mondo arabo e la Lega araba ritrova la sua sede storica
al Cairo.
Sull'Egitto contemporaneo, in particolare
1993 - Mubarak viene eletto per la terza volta alla presidenza della sulla politica dopo l'avvento al potere dei
militari, esiste una letteratura molto ampia.
Repubblica: designato dal voto dell' Assemblea (21 luglio), è con- Citiamo qui alcuni testi disponibili in italiano:
fermato presidente in un referendum nazionale con quasi il 95 per P. MINGANTI, L'Egitto modemo, Sansoni,
Firenze 1959; A. ABDEL-MALEK, Esercito e
cento dei voti validi (4 ottobre). La pace fra Rabin e Arafat riabilita società in Egitto 1952-1967, Einaudi, Torino
definitivamente Camp David: l'Egitto è in parte scavalcato dall'in- 1967; Mahmud HUSSEIN, La lotta di classe
in Egitto, Einaudi, Torino 1973; M. CAMPAcontro diretto fra israeliani e Olp ma la diplomazia del Cairo continua NINI, La teoria del socialismo in Egitto,
Centro culturale AI-Farabi, s. d.. Si veda
a svolgere una delicata opera di ricucitura.
anche di P. G. DONINI, I paesi arabi, Editori
Riuniti, Roma 1983. La rivista "Politica
Internazionale" ha dedicato molta attenzione
all'evoluzione dell'Egitto, in particolare nei
numeri 3 del 1978 e 5 del 1986. Per completezza, citiamo due libri classici per una
conoscenza più approfondita della realtà
politica ed istituzionale dell'Egitto con riguardo soprattutto all'impatto dell'occupazione coloniale: The Earl of Cromer, Modern
Egypt, Macmillan, Londra 1908 e J. BERQUE, L'Egypte: Impérialisme et Révolution,
Gallimard, Parigi 1967. Inoltre, per chi
conosce l'inglese: P. VATIKIOTIS, The History of Modern Egypt, Weidenfeld and
Nicholson, Londra 1991; Y. WATERBURY,
The Egypt of Nasser and Sadat, Princeton
University Press, Princeton 1983; R. HINNEBUSCH, Egyptian Politics Under Sadat,
Rienner, Londra 1988; C. TRIPP (a cura di),
Egypt Under Mubarak, Routledge, New
York-Londra 1989; B. RUBI N, Islamic Fundamentalism in Egyptian Politics, Macmillan, Londra 1990.
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P. MINGANTI, L'Egitto moderno, Sansoni, Firenze 1959; A. ABDEL-MALEK, Esercito esocietà
in Egitto 1952-1967, Einaudi, Torino 1967; Mahmud HUSSEIN, La lotta di classe in Egitto,
Einaudi, Torino 1973; M. CAMPANINI, La teoria del socialismo in Egitto, Centro culturale
AI-Farabi, s. d.. Si veda anche di P. G. DONINI, I paesi arabi, Editori Riuniti, Roma 1983.
La rivista "Politica Internazionale" ha dedicato molta attenzione all'evoluzione dell'Egitto,
in particolare nei numeri 3 del1 978 e 5 del 1986. Per completezza, citiamo due libri classici
per una conoscenza più approfondita della realtà politica ed istituzionale dell'Egitto con
riguardo soprattutto all'impatto dell'occupazione coloniale: The Earl of Cromer, Modern
Egypt, Macmillan, Londra 1908 e J. BERQUE, L'Egypte: Impérialisme et Révolution, GalIimard, Parigi 1967. Inoltre, per chi conosce l'inglese: P. VATIKIOTIS, The History of Modern
Egypt, Weidenfeld and Nicholson, Londra 1991; Y. WATERBURY, The Egypt of Nasser and
Sadat, Princeton University Press, Princeton 1983; R. HINNEBUSCH, Egyptian Politics Under
Sadat, Rienner, Londra 1988; C. TRIPP (a cura di), Egypt Under Mubarak, Routledge, New
York-Londra 1989; B. RUBIN, Islamic Fundamentalism in Egyptian Politics, Macmillan,
Londra 1990.
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TRE REPUBBLICHE E
MEZZO E
1960 - La Nigeria proclama l'indipendenza (1 ottobre).
1963 - Nel terzo anniversario dell'indipendenza, la Nigeria diventa
TANTI COLPI DI STATO
repubblica.
Nel numero scorso Crocevia ha presentato
la Nigeria. Per problemi tecnici non è stato
possibile inserire la Cronologia e le note
bibliografiche che presentiamo invece in
questo numero. (n.d.r.)
e denunce di brogli.
1964 - Prime elezioni dopo l'indipendenza con atti di violenza
1966 - Colpo di stato dei militari (gennaio). Fra le vittime ci sono
il capo del governo Abubakar Tafawa Balewa, il presidente della
regeione Settentrionale e altri notabili. Gli ufficiali ribelli, tutti ibo,
trasmettono il potere al capo di Stato Maggiore, gen. 1. Aguiyi-Ironsi,
anch'egli un ibo, apparentemente estraneo alla congiura. Il nuovo
governo si affretta ad abolire le regioni e la struttura federale varando
istituzioni centralizzate. Secondo colpo di stato e uccisione di Ironsi
(luglio). Il nuovo capo dello Stato è il colonnello (poi generale)
Yakubu Gowon, un cristiano che appartiene ai tiv, una piccola
comunità della fascia centrale. Viene ripristinata la federazione. Si
moltiplicano nelle città del Nord gli incidenti anti-ibo, che degenerano in veri e propri pogrom.
1967 - Il governatore militare della regione Orientale, col. O.
Ojukwu, proclama l'indipendenza del Biafra come nazione separata
(maggio). Il governo federale ristruttura la federazione in 12 stati
per erodere il senso di appartenenza etnica; tutti i tentativi di
compromesso falliscono. Ha inizio la guerra civile. Il Biafra è isolato
in Africa (solo quattro governi lo riconoscono: Costa d'Avorio,
Gabon, Tanzania e Zambia), ma usufruisce di complicità fra le
potenze (la Francia, Sud Africa e Rhodesia) e le compagnie petrolifere. Gran Bretagna e Urss appoggiano apertamente il governo
federale.
1970 - Dopo un lungo e penosissimo assedio, che ha decimato
la popolazione civile, tutti i centri del Biafra sono conquistati
dall'esercito federale e il col. Philip Effiong, che ha sostituito
Ojukwu, riparato in Costa d'Avorio, annuncia la resa del Biafra
(gennaio). L'ex-regione Orientale viene assorbita nella Nigeria e
l'élite ibo si integra nello Stato senza ulteriori tensioni.
1975 - Rovesciato il governo da un colpo di stato incruento mentre
Gowon è all'estero (luglio). Il potere è assunto dal gen. Murtala
Mohammed, personaggio integro e popolare, che si fa subito la fama
di pacificatore. Gli stati della federazione sono aumentati a 19; la
98
capitale verrà spostata a Abuja, nel centro del paese.
1976 - Il gen. Mohammed è ucciso da un gruppo di ufficiali
rinnegati nelle strade di Lagos al di fuori di un vero disegno politico
(febbraio). Gli succede un collaboratore molto prossimo, il gen.
Olusegun Obasanjo, che continua l'opera del predecessore.
1979 - Entra in vigore la nuova Costituzione modellata largamente
su quella degli Stati Uniti. Inaugurazione della Seconda Repubblica
dopo la celebrazione delle elezioni. Le elezioni vedono il successo
di un partito nordista. Alla presidenza della Repubblica si insedia
Shehu Shagari, membro dell'aristocrazia musulmana dei fulani. La
Nigeria è ormai una grande potenza, sia pure alle prese con tremendi
problemi di riequilibrio economico e sociale, influisce sulla politica
dei paesi vicini (Liberia, Ciad, ecc.), domina gli organismi regionali
(come l'ECOWAS, la comunità economica dell'Africa occidentale e
la stessa OUA).
1983 - Shagari vince di nuovo le elezioni (agosto) e si conferma
presidente per un secondo mandato, ma si intensificano le accuse
di brogli, corruzione e dissipazione delle ricchezze nazionali.
Nella notte del Capodanno fra il 1983 e il 1984, i militari riprendono il potere con il gen. Muhammad Buhari, anch'egli uomo del
Nord.
1985 - Buhari viene sostituito dal gen. Ibrahim Babangida all'interno di uno stesso gruppo dirigente (agosto). Di nuovo, viene messo
in moto un processo di normalizzazione costituzionale.
1989 - E' emanata una nuova Costituzione, che disciplina con
meticolosità tutti i passaggi per il ritono alle elezioni e ai partiti.
Il sistema codificato è di tipo binario, con due partiti costruiti
dall'alto.
1993 . Dopo molti rinvii, Babangida mantiene la parola e convoca
finalmente le elezioni (giugno). Gli stati della federazione ormai sono
30. Vince il Partito social-democratico, di centro-sinistra, che ha
come candidato alla presidenza il magnate della stampa Moshood
Kashimawo Olawale Abiola, un yoruba di fede musulmana. La
transizione fallisce perché le elezioni presidenziali sono immediatamente annullate. I militari riprendono il potere con il gen. Sani
Abacha, ex-ministro della Difesa di Babangida (novembre). La
Costituzione del 1989 è sospesa e viene ripristinata la Carta del 1979;
99
la Terza Repubblica non ha nemmeno il tempo di cominciare.
1994 - Abacha insedia una Conferenza nazionale consultiva,
parzialmente elettiva, che dovrebbe preparare le nuove istituzioni (27
giugno). Lungo sciopero "per la democrazia" dei lavoratori del
petrolio (agosto-settembre). Lo stato d'emergenza in cui vive la
Nigeria è confermato dall'arresto di Abiola, che dichiara di essere
il presidente legittimo.
BIBLIOGRAFIA
Fra i testi sulla storia della Nigeria: M.
CROWDER e G. ABDULLAHI, Nigeria. An
Introduction to its History, Londra, 1979; J.
HATCH, Nigeria: A History, Londra, 1971; E.
ISICHEI, History of Nigeria, Londra, 1983;
B. O. NWABUEZE, A Constitutional History
of Nigeria, Londra, 1982 e il "classico"
volume di M. CROWDER, The Story of
Nigeria, Londra, 1978. Sull'evoluzione del
sistema politico si veda il volume a cura di
J. F. A. AJAYI, S. G. IKOKU e B. IKARA,
Evolution of Political Culture in Nigeria,
Kaduna, 1985. Un profilo generale della
Nigeria in W. D. GRAF, The Nigerian State:
Political Economy, State, Class and Political
System in the Post-Colonial Era, Londra,
1988. Sulla guerra del Biafra vedi N. U.
AKPAN, The Struggle for Secession, 19661970, Londra, 1972 e R. UWECHUE, Reflections on the Nigerian Civil War. Facing the
Future, New York, 1971. Dei molti testi che
trattano il ruolo dei militari si cita il libro di
S. O. OLUGBEMI, Military Leadership and
Political Integration in Nigeria, Ann Arbor,
1978. In francese, vedi di D. C. BACH, Le
Nigéria contemporain, Parigi, 1986 e Nigéria, un pouvoir en puissance, Parigi, 1989.
Non esistono volumi in italiano sulla
storia della Nigeria ma della Nigeria si parla
naturalmente nelle storie generali dell'Africa
(da ultimo, A. M. GENT[LI, " leone e il cacciatore. Storia dell'Africa sub-sahariana, La
Nuova [talia Scientifica, Roma, 1995). Le
vicende recenti della Nigeria potranno essere seguite su repertori (come ['Annuario di
Politica Internazionale, finché è stato pubblicato) e riviste ("Re[azioni [nternazionali",
"Politica [nternaziona[e", "Nigrizia").
Sono disponibili in italiano [e traduzioni
di alcuni testi dei più famosi romanzieri
nigeriani, in particolare di Wo[e SOY[NKA,
Premio Nobe[ per [a Letteratura nel 1986,
e di Chinua ACHEBE (fra ['altro presso Jaca
Book di Milano e Edizioni Lavoro di Roma).
100
1995 - Malgrado l'impegno a trasferire il potere entro il 1997,
si inasprisce nel paese il clima di tensione fra il regime, che rappresenta soprattutto la casta militare del Nord, e l'opposizione. Il
gen. Obasanjo e altri esponenti dell'establishment politico-militare
sono arrestati con l'accusa di complotto contro lo Stato (marzo).
L'esecuzione della condanna a morte pronunciata da un tribunale
speciale a Port Harcourt contro Ken Saro-Wiwa e altri esponenti del
Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni (lO novembre)
determina un'ondata di proteste in tutto il mondo con minacce di
sanzioni e ostracismo.
COMMENTS
This artiele is specially designed to assist readers to know more
about Africa and Nigeria in particular. Colonialism and the making
of a country is now history, I would therefore like to broaden the
rninds of readers to present Nigeria.
OHUE IDEMUDIA PEDRO
Nigeria is the most populated African nation with the population
of about 100 rnillion inhabitant; rich in natural resources and the
6largest producer of oil in the world. On 15 January 1966 the rnilitary
siezed power in a bloody coup d'etat which started the downward
trend of the economy of Nigeria. Nigeria an agrarian economy
suddenly turned into a monotonous oil from then ono The over
reliance on proceeds from oil made the econmy very fragile. That
oil boom from the late 70s was the period of extravagant spending
of the government and its citizens. The local currency - the Naira
was overvalued against the major world currencies and it was
convertible on the international market.
But today with high unemployment, galloping inflation, politicaI
instability and high foreign debt which stands at $ 32 billion dollars.
The country has been brought to its knees by the rnilitary and the
politicians who have been known for their greed, corruption and
incompetence.
AlI said and done the present rnilitary junta headed by GeneraI
Abacha has promised to returned the country to constitutional rule
by 1998.
Nigeria as an affluent member of the international community has
made notable contribution to world peace and African unity in
101
particular. She also contributed in eradicating colonial rule, racial
oppression - apartheid in South Africa.
In this regard Nigeria needs the cooperation of the international
community to solve her problems and help speed the march towards
constitutional rule.
I know Nigeria can deliver the goods as did the national under
23 soccer team in Atlanta where they became the first African nation
to win an olympic Gold.
Questo articolo è appositamente rivolta ai lettori per avere a
disposizione maggiori informazioni riguardo all' Africa e alla Nigeria
in particolare.
Il colonialismo e la costituzione del Paese sono già storia, comunque ne vorrei illustrare le condizioni attuali.
La Nigeria è la nazione africana più popolata, con circa 100 milioni
di abitanti; ricca di risorse naturali, è la sesta maggior produttrice
di petrolio al mondo.
1115 gennaio 1966 i militari prendono il potere con un sanguinoso
coup d'etat, a partire dal quale è iniziato il tracollo della situazione
economica nigeriana; da un' economia prevalentemente agricola si
è improvvisamente passati ad una esclusiva attività, quella estrattiva
che ne ha ulteriormente indebolito la struttura.
Questo boom petrolifero iniziato alla fine degli anni settanta è stato
un periodo di sperpero sia del governo che della popolazione.
La moneta locale - il Naira - ha acquisito una supervalutazione
rispetto alle più forti valute del mondo ed era convertibile sul mercato
internazionale; oggi invece con l'alto tasso di disoccupazione, l'inflazione galoppante, l'instabilità politica ed il forte debito estero che
ammonta a 32 bilioni di dollari, l'economia è in uno stato disastroso.
Il Paese è stato messo in ginocchio dai militari e dai politici, dei
quali sono stati riconosciuti i meriti: corruzione e incompetenza.
L'attuale giunta militare, guidata dal generale Abacha, si è impegnata a riportare il Paese alle regole democratiche entro il 1998.
102
La Nigeria come membro influente della comunità internazionale
ha portato un notevole contributo alla pace mondiale e all'unità
africana in particolar modo; inoltre ha contribuito all'abbattimento
del regime coloniale, dell' oppressione razziale e dell' apartheid in Sud
Africa.
Da questo punto di vista la Nigeria abbisogna della cooperazione
della comunità internazionale per risolvere i suoi problemi e per
velocizzare il processo di democratizzazione.
lo so che la Nigeria può ottenere ottimi risultati come quelli
conseguiti dalla nazionale di calcio under 23 ad Atlanta, dove è stata
la prima nazione africana a vincere un medaglia d'oro.
103
MANUALE E DOCUMENTI:
DA NEMICI AD ALLEATI
Come si possono usare i documenti nell'insegnamento della storia?
CESARE GRAZIOLI
Perché questa domanda abbia senso, è necessario chiedersi preliminarmente: quali documenti? E per quale storia? Partendo da
quest'ultima, credo si possa sommariamente rispondere che a scuola
la storia, dovrebbe servire a due scopi:
·1) conoscere un determinato insieme di fatti del passato come
risultati del sapere storico, ovvero delle ricerche degli storici.
2) acquisire la consapevolezza, e in qualche caso la padronanza
delle procedure metodologiche e delle categorie di indagine e di
interpretazione attraverso cui è stato prodotto quel sapere.
In passato - ma troppo spesso ancora oggi - la storia era invece
insegnata esclusivamente in funzione del primo di questi due scopi;
peggio ancora, con una specie di "realismo ingenuo" si dimenticava
che il passato che conosciamo non è un dato ma è il risultato della
memoria sedimentatasi e delle ricerche degli storici, i professionisti
di tale "costruzione della memoria". Questa duplice dimenticanza
privava la storia insegnata del suo spessore di sapere codificato con
sue proprie regole e metodologie. Ne risultava un racconto che, nella
forma di "storia universale, aveva la pretesa - del tutto illusoria e
mistificante - di abbracciare le vicende umane dalle origini ai nostri
giorni: una catena lineare nella quale nulla doveva essere omesso
di ciò che era veramente "importante" (importante per chi? e secondo
quale prospettiva? Domande, queste, improponibili per la "storia
universale"), pena lo spezzarsi della catena, ovvero del senso teleologico del racconto. In questo tipo di storia, riassunta a livelli diversi
105
nei manuali-compendio dei successivi cicli scolastici, il documento
ha ben poco spazio: in primo luogo, perché "non c'è tempo per farlo",
non potendo "saltare" nulla o quasi nulla del programma; in secondo
luogo, perché in questa impostazione il documento serve per lo più
a provareJconfermare quanto già detto dal manuale, ed è quindi
accessorio quando non del tutto superfluo (specie se noioso o di
difficile lettura per gli studenti). Non c'è manuale che non abbia
a fine capitolo qualche documento spendibile in questo senso: ad
esempio il codice di Hammurabi, la Magna Charta, le tesi di Wit1) Vedi S.GUARRACINO, "Le fonti nell'insegnamento storico", in La realtà del passato,
Milano, Bruno Mondadori, 1987. In questo
saggio di estremo interesse sull' uso dei
documenti nell' insegnamento della storia,
si utilizza la distinzione, che ho qui seguito,
tra documenti unici, documenti totali, documenti tipici, documenti quantitativi.
temberg, i 17 punti di Wilson, ecc). Chiameremo documenti unici!
i testi di questo tipo, e useremo per la modalità di utilizzo ora
accennata la definizione "documento-pezza giustificativa".
Per reazione a questa significato della storia come semplice
"venire a sapere", c'è chi ha abbandonato il primo dei due scopi
indicati all'inizio in favore del secondo, contrapponendo l'uso dei
documenti, la storia-ricerca, l'apprendimento attivo all'uso del
manuale, alla storia generale, all'apprendimento passivo e nozionistico. Quasi sempre questa impostazione di ascendenza attivistica,
che ha avuto una certa diffusione negli anni '70, era viziata dalla
difficoltà nel distinguere tra ricerca a fini scientifici (quella degli
storici) e ricerca fatta in classe (che definirò ricerca didattica),
nonché dall'idea che i documenti fossero più immediati e quindi
più "veri" del manuale. Definiamo pertanto "documento-verità"
questa modalità di utilizzo.
L'unico punto di accordo tra le due tendenze (delle quali la prima
è comunque assolutamente maggioritaria tra i docenti) è che da una
parte ci sia l'asse manuale-storia generale, mentre dall' altra l'asse
documenti-storia ricerca, e che tra questi non sia possibile alcuna
alleanza. lo ritengo invece che l'insegnamento della storia, se vuole
realmente perseguire ambedue le finalità indicate all'inizio, deve:
1) a livello di struttura disciplinare, partire sia da una nuova idea
di storia generale che dalla chiara consapevolezza delle specificità
della ricerca didattica rispetto alla ricerca scientifica; documenti,
nelle iscrizioni e così via, come i pesci sul banco del pescivendolo.
Lo storico li raccoglie, li porta a casa, li cucina e li serve nel modo
2) cfr. E.H.CARR, Sei lezioni sulla storia,
Torino, Einaudi 1962.
che preferisce" 2.
E' fondamentale che anche la ricerca didattica venga impostata
sulla base di questa sequenza generale-particolare-generale, senza
106
però che i momenti cruciali del lavoro di ricerca fatto dagli studenti
siano quelli dello storico. L'approccio che propong0 3 si basa su una
precisa sequenza di operazioni:
1) acquisizione di conoscenze generali sul contesto storico
2) lavoro sul testo documentario, mediante:
a) schedatura del documento, cioè individuazione di: autore,
destinatario, tipologia, data e luogo, argomento in breve; .
b) individuazione di un "indicatore di analisi privilegiato", o
selettore di analisi, cioè di un punto di vista, di una domanda
rispetto a cui il documento è particolarmente interessante da
osservare / interrogare;
3) Tale approccio è stato messo a punto nel
corso di alcuni anni, per successiveapprossimazioni, attraverso il lavoro fatto nelle
classi terze dai docenti di storia dell' Istituto
tecnico per geometri "B.Pascal", ed è poi
diventato materiale di lavoro per i docenti
di storia della provincia che hanno partecipato al laboratorio di didattica della storia
attivato presso l'ISTORECO. Ne viene qui
presentato solo lo scheletro concettuale; la
descrizione completa del percorso, con i
materiali documentari e le esercitazioni fatte
su di essi, è in corso di pubblicazione come
quaderno di didattica dell'ISTORECO.
c) analisi del documento sulla base dell'indicatore di analisi
prescelto;
3) contestualizzazione del documento, cioè ritorno al contesto: è
il confronto del testo, analizzato sulla base dell'indicatore prescelto,
con altri testi documentari o con le conoscenze contestuali acquisite
nella prima fase. Tale confronto avviene:
a) individuando analogie e differenze; b) spiegando, o almeno
interrogando si sulle ragioni delle une e delle altre.
Riflettere su questi passaggi ci consente di misurare sia le analogie
con la ricerca storica, sia le differenze, non meno importanti delle
prime. Ad esempio le conoscenze di partenza sul contesto generale
sono un pre-requisito ovvio per lo storico, mentre diventano un
traguardo, sia pure iniziale, per lo studente, che senza di esse non
sarebbe in grado di orientarsi di fronte al documento; ed è il manuale
che può fornirle. Tra le doti dello storico ci sono invece le capacità
di reperire le fonti e (specie per quelle di epoche lontane) di decifrarle
con gli strumenti classici del metodo critico, per vagliarne l'autenticità e 1'attendibilità; allo studente, viceversa, i documenti vengono
preselezionati dall'insegnante (sul manuale, se vi si trovano, o riprodotti in fotocopia), riducendo al massimo o eliminando del tutto
le questioni di erudizione e di filologia. E' infatti evidente che non
si tratta di far diventare gli studenti dei "piccoli storici", e che non
sono gli aspetti più tecnici e specialistici del sapere storico-sociale
quelli che servono in un percorso formativo di livello scolastico.
E' dunque all'insegnante che spetta, in questo percorso didattico,
selezionare le fonti, e queste saranno scelte soprattutto tra i documenti
107
tipici: ovvero contratti agrari, capitolari, carte di affrancamento, se
il contesto storico scelto riguarda i rapporti feudali nelle campagne
europee; statuti corporativi, libri di memorie di mercanti, cronache,
statuti, leggi e regolamenti comunali, se il contesto è la città
medievale; diari di bordo, resoconti di viaggi, libri di memorie se
si tratta delle scoperte geografiche., ecc. I documenti tipici hanno
infatti un duplice vantaggio: sono esemplari di un'intera categoria,
per cui dalla statuto di una corporazione possiamo farci un'idea del
funzionamento non solo di quella situazione particolare, ma, con
buona approssimazione, di tutto il sistema di funzionamento dell' economia mercantile medievale; in secondo luogo, è facile trovare altri
documenti omologhi, ed inserirli quindi in serie omogenee utili per
il confronto e la contestualizzazione, ovvero utilizzandoli come
documenti seriali. Inoltre, tali documenti sono usualmente abbastanza
ricchi da consentire una pluralità di punti d'osservazione, rendendo
niente affatto scontata per lo studente l' individuazione dell' "indicatore di analisi privilegiato", che orienta l'indagine sul documento.
L'operazione di individuazione di un indicatore di analisi si basa
sul presupposto che il documento non è affatto immediato, non parla
da solo, ma risponde in modo più o meno esauriente sulla base delle
domande che gli vengono rivolte, e della capacità di
2) a livello di strategie didattiche, sapere intrecciare e talora
fondere storia generale e storia-ricerca;
3) a livello di strumenti didattici, utilizzare in modo diverso tanto
il manuale quanto i documenti. Il manuale infatti non deve essere
solo un serbatoio di nozioni acquisite passivamente, ma deve essere
'manipolato", cioè utilizzato attivamente, come il primo luogo in cui
si fanno una serie di "operazioni" (come la lettura selettiva, l'individuazione di parole e concetti-chiave, la classificazione delle
informazioni, la costruzione di schemi esplicativi, ecc), che sono già
ricerca. Per converso, i documenti vanno accostati secondo metodologie appropriate, tali da valorizzarne le specificità, e al contempo
renderne possibile l'integrazione con il manuale.
Ma vediamo più concretamente cosa possono significare questi
tre punti. Una nuova idea di storia generale significa l'abbandono
dell' illusoria prospettiva della "storia universale"; in favore dell'
indagine delle società viste come strutture complesse, risultanti da
relazioni tra componenti diverse: cioè tra i diversi settori (ambientale,
108
demografico, economico, politico, culturale), soggetti (individuali
e collettivi), scale spaziali (le diverse aree geo-storiche, la scala
locale, quella planetaria, ecc) e temporali (il tempo breve, il tempo
della congiuntura, quello del lungo periodo). In termini metaforici
alla storia lineare va sostituita una storia reticolare, al fatto come
evento il fatto-struttura, ovvero come risultante di una serie di
rapporti tra diverse variabili.
Questa nuova idea di storia generale non risolve ovviamente il
problema dei criteri di scelta dei contenuti, anche se contribuisce
a ridefinirlo secondo una diversa prospettiva.
Ma alla sequenza dei contenuti deve affiancarsi come l'altra faccia
di una stessa medaglia la sequenza delle competenze, cioè delle
abilità da attivare e/o consolidare nello studente, sia quelle di tipo
trasversale che quelle specificamente disciplinari, che consentono
allo studente di imparare la "grammatica del sapere storico-sociale'.
Tra le competenze che nel loro insieme formeranno questa grammatica, alcune possono essere attivate negli studenti mediante un
certo tipo di lavoro sul manuale, per altre è più efficace l'utilizzazione
dei documenti, o più esattamente l'integrazione fra manuale e
documenti, in una logica di ricerca.
Come accennato più sopra, è però indispensabile chiarire analogie
e differenze tra la ricerca storica effettuata dallo storico e la ricerca
che si può fare in classe. In termini forse un po' schematici si può
dire che nella ricerca storica c'è una successione logica tra le seguenti
fasi:
- il possesso di un' ampia serie di pre-conoscenze sull' argomento
generale all'interno del quale verrà a situarsi la ricerca;
- la delimitazione del campo d'indagine, ovvero la sua tematizzazione;
- la problematizzazione e la formulazione di ipotesi;
- l'individuazione delle fonti;
- l'analisi e la comparazione delle fonti, che diano risposte al
problema posto, ovvero che confermino l'ipotesi precedentemente
formulata (fornendo altresì gli elementi che consentano di falsificarla);
- la stesura, ovvero la riorganizzazione dell'argomento generale
da cui si è partiti, sulla base dei risultati a cui si è pervenuti.
109
In primo luogo, osserviamo che le operazioni sulle fonti non sono
all'inizio, ma al centro della sequenza, la quale procede dal generale
al particolare (ai documenti appunto) e di nuovo al generale. Ciò
consente di sgombrare il campo da quell'approccio fuorviante, di
tipo pseudo-induttivo, secondo il quale "prima vengono i documenti".
Questo "feticismo delle fonti", di derivazione positivistica come il
suo alter ego, il feticismo dei fatti, ha ormai ben poco credito nel
dibattito epistemologico, ma lo conserva pressoché intatto nel senso
comune: "E' questa, potremmo dire, l'opinione che il senso comune
ha della storia. La storia consiste in un complesso di fatti accertati.
Lo storico trova i fatti nei interpretarne le risposte da parte di chi
lo interroga. Per lo studente, le operazioni mentali più significative
del percorso saranno pertanto le seguenti:
a) individuare l'indicatore, cioè saper fare la domanda giusta, che
è possibile solo se egli ha un quadro di pre-conoscenze sul contesto
(così come a me, digiuno di medicina, .le linee spezzate di un
elettrocardiogramma non dicono assolutamente nulla, mentre danno
molte risposte al cardiologo, che le sa interrogare). Il possesso di
tali pre-conoscenze è peraltro una condizione necessaria ma non
sufficiente: bisogna saperle applicare, e questo esercizio è un ottimo
allenamento in tale direzione;
b) nella fase di analisi, classificare e categorizzare le informazioni,
cioè saper passare dal particolare al generale, dal concreto all'astratto:
ad esempio l'informazione utile non è che nel feudo di Tizio i
contadini lavoravano tre giorni la settimana sulla pars dorninica,
mentre nel feudo di Caio vi lavoravano venti giornate l'anno; bensì
che in entrambi i casi tra gli oneri dei contadini ci sono le prestazioni
personali (corvèes), ma nel primo in modo molto maggiore che nel
secondo;
c) nella fase di contestualizzazione, saper cogliere gli aspetti che
possono essere confrontati, e in modo critico, passando dalla mera
descrizione di analogie e differenze alla problematizzazione delle
stesse;
d) ad un livello più alto di difficoltà, la "rotazione del punto di
vista": il cambiamento di indicatore, cioè dell' angolazione prospettica dalla quale viene condotta l'analisi e la contestualizzazione. Si
tratta di un'altra operazione importante nella ricerca, e che allena
110
la mente a quello che gli psicologi definiscono il "decentramento
cognitivo".
Credo sia superfluo, a questo punto, sottolineare le ulteriori
analogie e differenze tra la ricerca dello storico e quella dello studente, quali emergono dall'approccio qui sommariamente esposto.
E' opportuno semmai ribadire che esso non è proponibile a qualunque
livello scolastico. E' adatto per studenti all'inizio del triennio delle
superiori, o della fine del biennio: credo non prima, in quanto
presuppone una serie di abilità trasversali da acquisire nel corso del
biennio; non dopo, perché l'attenzione che dedica ai processi di
apprendimento e all' acquisizione di un rigoroso metodo di lavoro
gli conferiscono un carattere di propedeuticità rispetto ad operazioni
più sofisticate, ad abilità più complesse da acquisire nel resto del
ciclo scolastico. In termini di contenuti, invece, sarebbe applicabile
a qualunque argomento storico per il quale sia disponibile una certa
quantità di documenti.
L'opzione preferenziale qui espressa per i documenti tipici non
va intesa in senso assoluto, così come l'esclusione dei documenti
unici. E' evidente ad esempio che un classico documento unico come
la Magna Charta fornisce molte informazioni sulla struttura della
società inglese del periodo, o sulla concezione del diritto, ecc,
soprattutto sugli aspetti per i quali può essere utilizzato come testimonianza non intenzionale. Con gli stessi criteri, l'approccio descritto può valere per fonti quantitative (ad esempio su censimenti)
o anche su documenti diversi da quelli scritti: ad esempio la "rotazione del punto di vista" risulta molto efficace e didatticamente
spendibile con fonti iconiche come dipinti, opere d'arte, ecc.
Le operazioni da fare in sequenza sul documento potrebbero essere
considerate, nel loro insieme, un questionario standard col quale
interrogare le fonti e farle interagire con le conoscenze generali già
possedute. A prima vista un questionario standard potrebbe apparire
una gabbia rigida, troppo vincolante. In realtà esso si presenta
vantaggioso, una volta che lo studente abbia imparato ad usarlo,
rispetto ad entrambe le opposte alternative: all'assenza di strumenti
di indagine, che si traduce nella domanda generica "cosa c'è di
importante in questo documento?"; o ai questionari costruiti su
misura (dall'insegnante o dall'eserciziario del manuale) per ciascun
documento. Infatti questi ultimi sono certamente utili in urta fase
111
iniziale di approccio alle fonti (alle medie inferiori, o all'inizio del
biennio) in quanto aiutano maggiormente ad orientarsi nel documento; ma da un certo momento in poi diventano limitativi, proprio
perché non forniscono uno strumento generale di indagine, e quindi
non aiutano lo studente a padroneggiare autonomamente un metodo
di lavoro. Questo modo di intrecciare la storia generale con la
prospettiva della ricerca si basa su una logica di "campionamento",
in quanto ricostruisce un tema a partire da una serie limitata di
documenti assunti come rappresentativi; si basa inoltre su una forte
selettività nei criteri di scelta dei contenuti da affrontare, per il fatto
che richiede maggiore tempo e rispetto al modo tradizionale di
affrontare i contenuti del "programma". Ma la conoscenza del
passato, come ci viene offerta dal lavoro dello storico, non ha in
realtà proprio i caratteri della parzialità e della provvisorietà? Di
fronte a un passato che, per definizione, non esiste più nella sua
interezza, la conoscenza storica non è forse un mosaico di cui sono
note solo alcune tessere?
112
I portici della Trinità
Ottobre 1945. Teatro Municipale.
I convegnisti nella piazza con ancora i vecchi portici di San Rocco.
113
Patria o nazione? I linguaggi
dell' identità nazionale
A lungo virtualmente assente dalla riflessione storiografica italiana
dell' età contemporanea, il tema della nazione si è recentemente
affermato all'interno dell'attuale congiuntura di studi divenendo un
terreno d'indagine sempre più battuto e frequentato. I segnali di crisi
dell'identità nazionale collocabili in uno scenario di fine secolo
dominato, non solo in Italia, da un ampio processo di "snazionalizzazione", (per riprendere una felice espressione di Silvio Lanaro)
hanno avviato un generale ripensamento sulle forme assunte dallo
Stato contemporaneo.
ALBERTO FERRABOSCHI
Tra i tanti volumi dedicati in questi ultimi anni alla "esplosione"
delle nazioni meritano di essere segnalati tre contributi i quali, al
di là delle diverse tesi interpretative, mostrano come una nuova
percezione del problema "nazione" si sia fatta strada all'interno della
cultura politica contemporanea. Superara l'inutile cornice ideologizzante, la coscienza nazionale da potenziale veicolo di concezioni
larvatamente autoritarie ed illiberali diviene la pietra miliare sulla
quale devono necessariamente poggiare le fondamenta delle moderne
democrazie pluralistiche. La lezione della stretta interdipendenza tra
democrazia e nazione è pertanto di grande utilità per rileggere le
recenti tensioni che scuotono la fiducia nello stato unitario italiano,
richiamando appunto l'attenzione sulla fragilità del concetto di
nazione sul terreno della democrazia.
Il primo volume (M. Viroli, Per amore della patria, Roma-Bari,
Laterza, 1995) rientrante nel tradizionale filone degli studi di "storia
delle idee" analizza il significato di due termini generalmente con115
siderati equivalenti: patriottismo e nazionalismo. Esaminando l'interpretazione assunta da questi due termini nel corso dei secoli,
l'Autore intende dimostrare come tali concetti debbano essere tenuti
ben distinti: "il linguaggio del patriottismo è stato usato nei secoli
per rafforzare o suscitare l'amore per le istituzioni politiche e il modo
di vita che sostengono la libertà comune di un popolo, in una parola
la repubblica; il linguaggio del nazionalismo nato in Europa nel tardo
settecento fu elaborato per difendere e rafforzare l'unità e l'omogeneità politica, linguistica e culturale di un popolo" (p.6). Prendendo
dunque le mosse dalla ambivalenza della "patria" nelle fonti classiche, Viroli ripercorre lo sviluppo dei due concetti attraverso lo
scorrere dei secoli soffermandosi sulla svolta della fine del settecento
quando, grazie all'elaborazione di Vincenzo Cuoco e dei teorici del
romanticismo tedesco, si creò l'antitesi tra "patria" (intesa come
repubblica, libertà e bene comune) e "nazione" (sinonimo di cultura,
linguaggio e tradizione comune). Risiede pertanto nel recupero della
tradizione del "patriottismo repubblicano" il percorso privilegiato per
debellare i germi del nazionalismo ed impedire lo sfaldamento della
originaria unità statuale. La riscoperta (o la creazione) di una tradizione civile capace di calare i valori della libertà e della giustizia
nel "vissuto" della nazione diviene allora lo strumento per combattere
le concezioni che traggono dai cosiddetti "valori prepolitici della
nazione" il loro principale nutrimento.
Su una lunghezza d'onda decisamente differente si colloca un
recente saggio di Galli della Loggia (La morte della patria, RomaBari, Laterza, 1996) il quale, rifiutando nettamente la distinzione
suggerita da Viroli, individua nel momento stesso della nascita della
Repubblica le ragioni profonde dell'attuale crisi del sentimento
nazionale. Se infatti "l'esistenza della nazione è indissolubilmente
legata all'esistenza dello stato (nazionale), sicchè, da un punto di
vista storico il concetto e il sentimento di patria costituiscono
precisamente il riflesso ideologico-emotivo di questo intreccio" (p.S),
l'origine dell' odierno processo di "snazionalizzazione" va retrodatato
alla fase costituente della Repubblica. In effetti secondo Galli della
Loggia il fallimento del fascismo e l'esito della Seconda Guerra
Mondiale ebbero effetti devastanti sull'idea di nazione e di stato in
Italia, finendo per mettere in discussione lo stesso vincolo di appartenenza ad una medesima comunità nazionale nonchè il senso di
116
tale vincolo. Inoltre, sempre secondo l'Autore, a perpetuare la
scissione tra nazione e democrazia avrebbe contribuito nel secondo
dopoguerra l'indebita appropriazione-partitizzazione dell' idea di
patria da parte delle forze della sinistra che l'avrebbero utilizzata
per "scomunicare" gli avversari come nemici della nazione in funzione della propria autolegittimazione. A tale proposito peraltro non
si può mancare di osservare come il problema in realtà dovrebbe
essere rovesciato: non fu infatti tanto la scomunica dell'avversario
a produrre la scarsa legittimazione della nuova classe dirigente,
quanto l'intrinseca ed ineliminabile debolezza di questa a rendere
necessaria la ricerca di una legittimazione forte ed autorevole perseguita attraverso l'individuazione di un nemico "antinazionale".
Al di là dei limiti interpretativi sopra ricordati, anche in questo
caso prende corpo l'immagine anomala di un paese che in virtù del
mancato incontro tra nazione e democrazia non riesce a dare risposta
al problema del mancato radicamento di un comune e partecipato
spirito pubblico su cui erigere un moderno stato-nazione.
Non si discosta da questa linea interpretativa neppure l'interessante
trattazione di Silvio Lanaro (Patria. Circumnavigazione di un 'idea
controversa, Venezia, Marsilio, 1996) dedicata alla letteratura lealista
nella Francia del 1914-18 dalla quale emerge il nesso indissolubile
che unisce nazione e democrazia costituzionale. Il volume si apre
nel segno di una netta distinzione: "Nazione è la comunità politica
che tramite apposite istituzioni organizza una popolazione insediata
su un determinato territorio, tutelandola all'esterno e rappresentandone la proiezione "identitaria" in senso forte. "Patria" invece è
qualcosa che le sta dietro, che la precede logicamente e anche
cronologicamente: è il luogo -fisico dove l'ambiente e il paesaggio
( ... ) svolgono una funzione primaria di protezione e rassicurazione
esistenziale, e dove una cultura non semplicemente verbale produce
affinità, consonanze, parentele ideali e morali" (pp. 14-15). Se per
l'Autore "in linea di massima, quindi, non si dà nazione senza patria"
(p.15), il patriottismo repubblicano così come quello reazionario fa
emergere un sentimento nazional-patriottico nutrito da motivazioni
diverse (o addirittura antitetiche) che attraversa inevitabilmente il
vissuto collettivo della comunità statuale. A lungo considerata alla
stregua di un residuo ottocentesco e fonte di pericolosi nazionalismi,
la nazione diviene dunque nell' attuale congiuntura di intensa mobilità
117
demografica lo strumento decisivo per produrre integrazione sociale
ed attrezzare un ceto politico "leale" capace di promuovere un'autentica circolazione delle élites.
Se dunque far convergere l'analisi attorno al termine "nazione",
concetto per troppo tempo ingombrante ed inafferrabile, consente di
mettere' in luce le potenzialità "aggreganti" dell'idea nazionale,
risultano evidenti i pericoli insiti nelle recenti ipotesi di destrutturazione o di "superamento" dello stato nazionale.
118
OLTRE LA PACE.
STUDIARE LA GU~RRA
Il principale luogo comune sulla guerra, ha scritto Alan S.Milward,
è che essa sia un'attività assolutamente episodica nella storia dell'uomo, un incidente di percorso lungo una strada altrimenti serena
e pacifica. Essa è invece una delle attività umane più antiche e comuni
ed il fatto che oggi la guerra sia ritornata ad essere un fenomeno
largamente diffuso nel panorama internazionale non dovrebbe stupire
più di tanto chi conosce la storia dell'uomo. Paradossalmente (ma
lo studio della strategia deve sempre tenere conto della sua forte
componente paradossale) la fine della Guerra Fredda ed il crollo del
sistema internazionale bipolare, basato sullo scontro dei due blocchi
guidati dalle superpotenze americana e sovietica e regolato dalla
dissuasione termonucleare, hanno distrutto la Lunga Pace bipolare
che ha assicurato all'Europa il più lungo periodo di pace della sua
storia, rendendo la guerra un fenomeno politico molto più probabile
di quanto non fosse nell'epoca nucleare. La pace impossibile e la
guerra improbabile che caratterizzavano la guerra fredda hanno
lasciato il posto ad un rigurgito di violenza incontrollata fomentato
dal risorgere dei nazionalismi, dalle guerre etniche, dall'intolleranza
religiosa, dalla proliferazione di armi di distruzione di massa (nucleari, chimiche e batteriologiche) nei paesi del Terzo Mondo, dal
ricorso sistematico al terrorismo, dalle disuguaglianze economiche
tra nord e sud del mondo, dalla frammentazione politica di stati
multinazionali come l'Urss e la Jugoslavia. Conflitti come la Guerra
del Golfo non sarebbero mai avvenuti in epoca bipolare. Essi
venivano tollerati in forma minore ma erano ricondotti alla logica
FULVIO ZANNONI
119
del confronto tra i blocchi rivali e quindi mantenuti sotto controllo
affinché non scatenassero un processo di 'escalation', di scalata verso
la soglia d'impiego delle armi atomiche. La dissuasione atomica, cioè
la certezza della totale reciproca distruzione in caso di conflitto, e
l'ordine mondiale stabilito a Yalta avevano congelato i conflitti e
le tensioni preesistenti ma, come ha scritto lL. Gaddis, il ritiro dei
ghiacciai bipolari, che avevano schiacciato a terra le differenze, ha
portato alla luce anche i nuovi corrugamenti del terreno causati da
quarantacinque anni di logica nucleare. Lo studio e la comprensione
della guerra rivestono quindi una notevole importanza per l'inquadramento del fenomeno all'interno dei meccanismi di funzionamento
del sistema internazionale. Purtroppo la quasi totalità dei libri più
interessanti sull'argomento è in lingua inglese e non viene tradotto
in italiano a causa dello scarso interesse che essi riscuotono al di
fuori dello stretto novero degli specialisti di storia militare e studi
strategici. Fa eccezione la grande storia della guerra di John Keegan
(Milano, Mondadori, 1994, f.49.000). Inglese, Keegan è uno dei
massimi storici militari viventi nonché l'autore di libri che hanno
segnato la storiografia militare degli ultimi decenni come The face
of battle e The mask of commando Malgrado l'imprecisa traduzione
del titolo originale History of Warfare (il termine 'warfare' indica
più il modo di fare la guerra che il concetto politico vero e proprio)
si tratta di un libro di grande interesse anche per chi non è uno
specialista di cose militari poiché Keegan affronta la complessità
della fenomenologia della guerra con un'ampia dovizia di mezzi
concettuali tratti non solo dalla storia ma anche dalla sociologia e
dall' antropologia culturale, differenziandosi qui da studi più classici
come quelli di Michael Howard, ormai fuori stampa (La guerra e
le armi nella storia d'Europa, Bari, Laterza, 1978) o quello, splendido, di Victor Davis Hanson sulla guerra nella Grecia classica.
Questa visione antropologica (i capitoli si chiamano, in modo suggestivo, '11 fuoco', '11 ferro', 'La carne', 'La pietra') porta l'autore
sino a contestare la visione clausewitziana della guerra, commettendo
qui l'errore, caro a gran parte della storiografia inglese, troppo
influenzata da Liddell Hart, di travisare gli scritti del massimo
pensatore militare di ogni epoca.
Tuttavia questo non inficia l'assoluto valore dell' opera di Keegan
e l'esame che egli fa della guerra come continua rottura delle regole
120
e degli equilibri faticosamente raggiunti, come frutto di una cultura
che non può essere semplicemente spiegata in termini di naturale
aggressività dell'uomo, come costante progresso evolutivo dei mezzi
e degli strumenti con cui la guerra viene combattuta. Non appartiene
invece alla storia militare ma al campo degli studi strategici il volume
del generale Luigi Caligaris, forse il più noto commentatore di cose
militari del paese, che è uscito in libreria alcuni mesi fa (Paura di
vincere, Milano, Rizzoli, 1995, ;[.34.000). Si tratta di un lungo e
dettagliato esame delle mutate condizioni geo strategiche del sistema
internazionale, delle caratteristiche assunte dai conflitti contemporanei e della difficile posizione italiana nei nuovi scenari politicomilitari successivi al tramonto dell' ordine bipolare. In quest' ultimo
punto l'analisi di Caligaris rileva impietosamente l'arretratezza
culturale ed operativa della politica di difesa e sicurezza italiana,
condizionata da una tradizione militare gravata dal disastro dell' otto
settembre, dalla palese disattenzione della classe dirigente per i
problemi della politica militare, dalla mancanza di risorse adeguate
e comrarabili a quelle a disposizione delle forze armate dei paesi
nostri alleati, dall'ostilità culturale alle cose militari diffusa in larga
parte dell'opinione pubblica. E' un libro dal tono molto franco e
dal linguaggio semplice e preciso, arricchito da una immensa serie
di note esplicative e di riferimenti bibliografici che risultano preziosi
per gli specialisti ma che sarebbe forse stato meglio inserire direttamente nel testo per facilitarne la comprensione ai non addetti ai
lavori. Il libro risulta comunque una lettura scorrevole, cui non è
facile opporre osservazioni che ne invalidino il contenuto e le
valutazioni finali, spesso critiche verso la struttura e i vertici militari.
L'opera ha il pregio di descrivere sinceramente la difficile condizione
delle forze armate italiane e fa giustizia di molti luoghi comuni legati
all'interventismo di facciata e all'uso delle forze armate come
supplenti di una politica estera nazionale, incapace di abbandonare
il basso profilo che l'ha caratterizzata nel primo cinquantennio
dell'epoca repubblicana ed ancora alla ricerca di posizioni di prestigio per le quali non è tuttavia disposta a pagare i prezzi richiesti,
in termini di impegno internazionale, dalla sua condizione di grande
potenza mercantile. Un'altro volume di notevole interesse è quello
del generale Carlo Jean (Geopolitica, Bari, Laterza, 1995, f.35.000).
Sebbene sia precedente al suo ultimo lavoro (L'uso della forza, Bari,
121
Laterza, 1996, ;[.15.000), che è ugualmente interessante per la
comprensione deimeccanismi del conflitto internazionale ma meno
dedicato all'aspetto teorico e storico, esso consente al lettore la
possibilità di comprendere le leggi e le teorie (nonché la loro
applicazione pratica alle situazioni contingenti) di quella che è oggi
una "scienza" emergente (sebbene essa non sia certo una scienza
esatta e tenda ad essere "un'arte"). La geopolitica studia il rapporto
tra i fattori geografici e le scelte politiche. Le sue ricadute nel campo
della dottrina militare sono evidenti e Jean descrive con grande
precisione i futuri possibili scenari che si aprono, in un'epoca di
grandi mutamenti, di fronte al nostro paese. La dimensione dell'esame è globale (e non può essere altrimenti in un mondo nel quale
la globalità è la parola d'ordine). Essa si avvale di strumenti storici,
geografici, politici ed economici con grande padronanza ed abilità
e la perfetta comprensione del testo richiede quindi una più che buona
conoscenza di essi. In Italia la geopolitica è rimasta infatti sconosciuta sino alla nascita della rivista "Limes", (che ha come sottotitolo
l'indicazione 'rivista italiana di geopolitica'), il cui fragoroso ed
inaspettato successo non ha tuttavia alzato di molto il livello di
conoscenza scientifica della materia. Il testo di Jean, che è improntato
ad una visione "realista, soggettiva ed individuale" delle relazioni
internazionali ed allo studio delle dinamiche dell'attrito degli spazi
sulla stabilità degli assetti politici globali e regionali, possiede un
solido impianto narrativo ed è diviso in quattro sezioni: la prima
si occupa dei problemi e dei metodi della geopolitica, la seconda
degli strumenti della geopolitica, la terza delle attuali teorie geopolitiche e degli scenari evolutivi della situazione mondiale, la quarta
delle costanti geopolitiche della politica estera italiana. Sebbene la
guerra non sia l'argomento prioritario del libro (la sua attualità lo
è invece in L'uso della forza, dove Jean invita l'ltalia a definire un
modello concettuale, legislativo ed operativo per la sua politica di
difesa che sia in grado di integrare lo strumento militare nazionale
in quelli europeo ed euroatlantico) la possibilità che essa ridiventi
uno strumento dei rapporti tra gli stati permea la sua struttura. Lo
studio della guerra come avvenimento inscindibile dalla storia dell'uomo, frutto di una complessa intersezione di fenomeni di varia
natura, è una materia largamente diffusa nelle comunità accademiche
di oltre confine. Sebbene i rari specialisti italiani (che hanno una
122
predilezione per la storia militare nazionale, dal 1861 in avanti, ma
evitano in genere di cimentarsi quella comparata o straniera) possano
leggere in lingua originale i testi fondamentali, il fatto che gran parte
di essi non siano mai stati tradotti o che non siano più stati ristampati
negli ultimi cinquanta o sessant' anni implica, in un paese dove la
conoscenza delle lingue straniere rimane una faccenda minoritaria,
l'impossibilità di estendere la conoscenza dell' argomento al pubblico
dei lettori e quindi affrontarlo, anche criticamente, con cognizione
di causa. La storia italiana resta affidata, per numero di copie stampate e vendute, più a giornalisti divulgatori che a storici di valore
pari a quello di Piero Pieri e la mancanza di testi stranieri come
il Precfs de l'art de la guerre di Jomini (il grande rivale di Clausewitz,
la cui opera del 1838 ebbe per tutto l'Ottocento un'influenza superiore a quella del prussiano) oppure i quattro volumi sulla storia
dell'arte della guerra che costituiscono il capolavoro, del 1900, del
tedesco Hans Delbruck, priva la materia dei propri padri nobili. Fa
eccezione Clausewitz, la cui edizione italiana più recente, quella del
1993 negli Oscar Classici Mondadori, si basa però, pur godendo di
un nuovo ed eccellente saggio introduttivo di Carlo Jean, sull'ormai
datata traduzione del 1942 dello Stato Maggiore dell' Esercito (l'edizione di riferimento straniera è quella in inglese del 1976, On War,
Princeton University Press, curata e tradotta da Peter Paret e Michael
Howard, che resta in superata per chi non conosce il tedesco). I testi
più importanti del dopoguerra non hanno incontrato sorte migliore:
il Makers of Modern Strategy curato da Paret é stato tradotto parzialmente (Guerra e strategia nell'era contemporanea, Casale
Monferrato, Marietti, 1992) perdendo per strada parte dei saggi
originali (ma la bibliografia ragionata é una traccia eccellente per
chiunque voglia iniziare a studiare la guerra), Penser la Guerre:
Clausewitz di Raymond Aron (Gallimard, Parigi, 1976) non é mai
stato tradotto, così come il recente The Making of Strategy, a cura
di Williamson, Knox e Bernstein (Cambridge University Press,
1994), o il testo di Russell Weigley, (The Age of Battles, Pimlico,
Londra, 1993). Non sono state tradotte le opere fondamentali di
Michael Howard o di Martin Van Creveld, né le opere di sociologia
militare di Janowitz e Huntington o il famoso Strategy di Basil
Liddell Hart. L'elenco potrebbe continuare (l'unica eccezione é la
pubblicazione, meritoria e a cura dell'Ufficio Storico della Marina
123
Ottobre 1945.
Gli scout cattolici sfilano in occasione del Convegno diocesano di Ac.
124
Militare, di due vecchi testi fondamentali di strategia navale, di
Mahan e Corbett, usciti rispettivamente nel 1994 e 1995) ma é
comunque evidente che occorre fare un salto culturale. Sebbene la
pace tenda ad essere definita in senso negativo, come non-guerra,
come assenza di conflitto più che in senso positivo, con un proprio
vasto spettro di definizioni, la guerra, che resta un momento fondamentale nella vita della società internazionale, rimane invece un
argomento da comprendere più che un nemico da demonizzare a
livello ideologico, rifiutandolo a priori per motivi morali o religiosi
e quindi limitando la propria critica all'apparenza e non alla sostanza
delle cose. La recuperata rilevanza (qualcuno ha detto 'centralità')
del fenomeno guerra non permette un approccio di così basso profilo
e di così inconsistente valore culturale. Essa richiede un sofisticato
approccio intellettuale che sappia unire ai motivi storici e politici
quelli economici, culturali e geografici e che derivi da una preparazione scientifica che non può essere lasciata all'improvvisazione
o all'entusiasmo dei singoli. Ampliare il numero di testi di valore
presenti sugli scaffali delle nostre librerie e delle nostre biblioteche
costituirebbe un primo, importante, passo in avanti.
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Don Giuseppe lemmi
e il governo delle passioni
ROBERTO MARCUCCIO
Giuseppe Giovanelli è un insegnante di Castelnuovo ne' Monti
che ha fatto della divulgazione della storia e delle "storie" della
montagna reggiana un compito da coltivare con perseveranza e
passione. Egli ha pubblicato, fra l'altro, monografie dedicate a
località come Il Cerreto delle Alpi (1991), Cervarezza (1993) e
Campolungo (1996) ed a significative figure di sacerdoti come Don
Giuseppe Donadelli (1992) e don Giuseppe lemmi. A quest'ultimo,
Giovanelli ha dedicato il volume lemmi quasi utopista, che qui
presentiamo. Il libro, che unisce alla serietà della ricerca la vivacità
della narrazione, è il frutto di un quasi trentennale lavoro di scavo
ed espone con estrema linearità la vicenda emblematica di Giuseppe
lemmi, giovane sacerdote ucciso in tragiche circostanze da elementi
delle Brigate Garibaldi pochi giorni prima della Liberazione. Il racconto, affidandosi sia a fonti d'archivio, che a fonti orali ed al
prezioso "Diario del mio io" steso dal sacerdote, segue lo svolgersi
dell'intera vicenda biografica di Giuseppe lemmi, delineandone le
tappe e l'evoluzione. Giuseppe lemmi nacque a Montecchio Emilia
nel 1919 e, manifestando una precoce vocazione sacerdotale, entrò
nel seminario di Marola nel 1931, passando poi a quello di Albinea
nel 1936. Qui, avendo come preside mons. Leone rondelli e come
vicerettore il futuro cardinale Sergio Pignedoli, Giuseppe matura una
vocazione missionaria, che poi non gli sarà possibile realizzare.
Conduce comunque un assiduo lavoro di autoformazione, le cui
parole d'ordine sono la serenità interiore, per compiere ogni scelta
in totale libertà e consapevolezza, il servizio al prossimo come impegno
126
costante e la "spiritualità della Croce", che lo porta, in modo quasi
presago, ad accettare e quasi ricercare ogni sacrificio che lo accomuni
alla figura di Gesù Cristo, che egli aveva con estremo fervore preso
a modello. Il 27 giugno 1943 lemmi riceve l'ordinazione sacerdotale
e viene quindi nominato cappellano a Felina, nello stesso gruppo di
nomine che vede don Pasquino Borghi creato parroco di Tapignola.
Nei cruciali anni 1943-45 lemmi collabora attivamente con la Resistenza, come staffetta e fornitore di generi di conforto e sempre nello
spirito della "ribellione per amore" e della "resistenza all'odio" che
fu di tanta parte dei partigiani cattolici. Si sa che negli ultimi mesi
della guerra, all'inizio del 1945, lo scontro fra le parti in causa si inasprì
sensibilmente, fornendo l'occasione per atti di violenza che assumevano l'aspetto ed il carattere di veri e propri delitti. Proprio la dura
condanna da parte di don lemmi di uno di questi atti di violenza, il
rapimento e l'uccisione di due abitanti di Felina rei o sospetti di avere
in precedenza collaborato con il regime fascista, creò le premesse per
la sua tragica fine. Egli fu a sua volta sequestrato, percosso ed ucciso
a colpi di mitragliatrice sul monte Fòsola il 19 aprile 1945, a conclusione di una sequenza di avvenimenti tale da richiamare alla mente
una straziante "salita al monte Calvario". Altra analogia significativa
con la vicenda di don Pasquino Borghi è che, sia la madre di questo,
che la madre di lemmi pronunciarono parole di perdono nei riguardi
degli uccisori dei propri figli. L'autore dichiara di intendere questo
libro come un "profilo spirituale" di don Giuseppe lemmi e come "la
prosecuzione dell'attività di pacificazione e conciliazione"(p. 122)
svolta dal giovane sacerdote. Molta parte del valore della vicenda di
lemmi sta, secondo Giovanelli, nel fatto che, oltre all'aiuto concreto
fornito ai partigiani, il sacerdote "è testimone di un ideale resistenziale
elevato, al di sopra delle parti, che definisce la misura della giustizia
dai valori della vita e della libertà; per la quale la 'liberazione' non
è sopraffare o uccidere il nemico (e ancor meno, dunque, un estraneo
innocente), ma fargli capire il suo errore"(p. 121). Il libro di Giovanelli
rappresenta dunque un' occasione per riflettere, senza animosità, su
questo nostro passato ancora prossimo che, se divide spesso chi si
riconosce nell'uno o nell' altro dei fronti allora in lotta, offre comunque
una materia viva per comprendere, al di là delle rispettive identità
ed ideologie, la nostra comune storia civile e le radici del nostro
difficile presente.
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Finito di stampare
nel mese di novembre 1996
dall'AGE grafico-editoriale,
Reggio Emilia
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