I Presìdi Slow Food in Abruzzo I Presìdi Slow Food riuniscono e sostengono piccoli produttori custodi di grandi tradizioni gastronomiche a rischio di estinzione 1 © Archivio Slow Food I Presìdi Slow Food in Abruzzo 3 Questa pubblicazione è stata realizzata grazie a Attività cofinanziata dal Programma di Sviluppo Rurale della Regione Abruzzo 2007-2013 Fondo FEASR; Asse 4 Leader; PSL “Un’identità massiccia” Gal Gran Sasso Velino Misura 4.2.1. – Cooperazione interterritoriale “Abruzzo nel Mondo” 3° parte REGIONE ABRUZZO Redazione Francesca Mancini Progetto grafico e impaginazione Claudia Saglietti, Francesca Baldereschi Si ringraziano Davide Acerra, Raffaele Cavallo, Silvia De Paulis, Eliodoro D’Orazio Per maggiori informazioni sul progetto Presìdi tel. 0172 419611 - [email protected] www.fondazioneslowfood.it I Presìdi Slow Food in Abruzzo I Presìdi sono forse uno dei progetti più noti di Slow Food. Coinvolgono piccoli gruppi di produttori, riuniti spesso in associazioni o consorzi: producono formaggi rari, coltivano antiche varietà di frutta, ortaggi e legumi, allevano razze autoctone, lavorano pani e dolci secondo ricette antiche, preservano salumi tradizionali di grande qualità. Slow Food li ha valorizzati e fatti conoscere a un pubblico più ampio salvandoli dall’abbandono dall’incuria. I progetti di Presidio in Abruzzo sono cresciuti notevolmente nell’ultimo anno grazie all’impegno e alla fiducia che alcuni Gruppi di Azione Locale hanno riposto in Slow Food e in questo progetto per promuovere e potenziare le eccellenze della tradizione presenti sul loro territorio e tutti i progetti di valorizzazione e di economia di piccola scala collegati. Con il loro aiuto abbiamo salvaguardato antichi legumi come i fagioli di Paganica o i ceci di Navelli, cereali antichi come il grano solina, avviato il recupero di vitigni come il montonico ed ortaggi come la patata turchesa, il peperone dolce di Altino o la cipolla di Fara Filiorum Petri. Abbiamo valorizzato la tradizione del fico secco di Atessa, del salsicciotto frentano, della ventricina del vastese e della salsiccia di fegato aquilana. E segnato un altro passo importante per la tutela delle api promuovendo i mieli di montagna. Ringraziamo quindi il Gruppo di Azione Locale Gran Sasso Velino per lo sviluppo dei Presìdi sul territorio aquilano, il Gruppo di Azione Locale Maiella Verde per i Presìdi del territorio chietino e il Gruppo di Azione Locale Leader Teramano per il proprio territorio. Questa guida è innanzi tutto il catalogo dei prodotti e dei produttori: contiene informazioni sui prodotti salvaguardati dal progetto di Slow Food, gli indirizzi dei produttori e i recapiti dei responsabili locali dei progetti, gli approfondimenti sulla storia e la cultura di queste produzioni. E inoltre le ricette che gli chef abruzzesi hanno dedicato a questi incredibili prodotti. è uno strumento utilissimo per acquistare i Presìdi e scoprire così nuovi interessanti stimoli gastronomici, ma anche per riflettere sull’eccezionale patrimonio di biodiversità agroalimentare che si conservano in aree sovente marginali, a volte poco note, ma di grande bellezza. Francesca Baldereschi Responsabile Presìdi Slow Food Italia © Archivio Slow Food I Presìdi Slow Food • I Presìdi Slow Food sono 450, in più di 50 paesi del mondo. • Coinvolgono oltre 13 mila piccoli produttori: contadini, pescatori, norcini, pastori, casari, fornai, pasticceri... • Sono esempi concreti e virtuosi di un nuovo modello di agricoltura, basata sulla qualità, sul recupero dei saperi tradizionali, sul rispetto delle stagioni, sul benessere animale. • Sostengono le piccole produzioni tradizionali a rischio di scomparsa, valorizzano territori, recuperano mestieri e tecniche di lavorazione antichi, salvano dall’estinzione razze autoctone e varietà di ortaggi e frutta. • Salvano prodotti buoni, ovvero di qualità e radicati nella cultura del territorio; prodotti puliti, ovvero ottenuti con tecniche sostenibili e nel rispetto del territorio; prodotti giusti, ovvero realizzati in condizioni di lavoro rispettose delle persone, dei loro diritti, della loro cultura, e che garantiscono una remunerazione dignitosa. • Rafforzano le economie locali e favoriscono la nascita di alleanze tra chi produce e chi consuma. In Italia i Presìdi Slow Food sono identificati dal marchio “Presidio Slow Food®” che viene riportato sulle etichette dei prodotti. Il contrassegno assicura che i produttori appartengono a un Presidio e hanno sottoscritto un disciplinare di produzione improntato al rispetto della tradizione e della sostenibilità ambientale. > L’elenco ufficiale dei Presìdi nel mondo e dei produttori coinvolti nel progetto Slow Food è consultabile sul sito: www.fondazioneslowfood.it I Presìdi Slow Food in Abruzzo 14 9 10 7 4 1 12 2 3 8 6 13 11 5 15 1 Canestrato di Castel del Monte 2 Cece di Navelli 3 Cipolla bianca di Fara Filiorum Petri 4 Fagioli di Paganica 5 Fico secco reale di Atessa 6 Grano solina dell’Appennino abruzzese 7 Lenticchia di Santo Stefano di Sessanio 8 Mieli dell’appennino aquilano 9 Mortadella di Campotosto 10 Patata turchesa 11 Peperone dolce di Altino 12 Salsiccia di fegato aquilana 13 Salsicciotto frentano 14 Uva montonico 15 Ventricina del Vastese 1 © Archivio Slow Food Canestrato di Castel del Monte Il Canestrato di Castel del Monte è un formaggio pecorino legato alla transumanza, una pratica quasi del tutto scomparsa e che fino a pochi anni fa prevedeva lo spostamento dei pastori e delle greggi giù per quell’erbal fiume silente, il Tratturo Magno, che da Campo Imperatore li avrebbe condotti nel Tavoliere delle Puglie per l’inverno; un rito che ha affascinato e incantato filosofi e poeti e a cui Gabriele d’Annunzio dedicò la poesia I pastori. Su quel vasto altopiano nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, situato a 1800 metri di quota, sono state censite oltre 300 specie foraggiere, contro le sole 30 delle Alpi. Questa eccezionale biodiversità e il clima secco hanno favorito per secoli l’allevamento ovino. Buona parte del territorio di Campo Imperatore è compresa nel comune di Castel del Monte al quale è legata la produzione del pecorino che deve il suo nome al canestro di giunco utilizzato per produrre e conservare il formaggio. Il Canestrato di Castel del Monte è ottenuto dalla caseificazione in purezza del latte di pecore Sopravvissane o Gentili di Puglia con la sola aggiunta di sale e caglio. Ogni mastro casaro ha la sua tecnica di lavorazione, ma in generale il latte viene filtrato e portato ad una temperatura di 35°- 40° e addizionato con caglio naturale (ottenuto dalla stomaco dell’agnello). Rotta la cagliata e cotta ad una temperatura di 45° per 15 minuti, viene trasferita nelle fiscelle e pressata, in modo da favorire l’ulteriore fuoriuscita del siero. Il canestro lascia la sua impronta sulla crosta della forma che può avere un peso variabile da 1 a 15 kg, e che, durante il periodo di stagionatura che va dai 2 mesi ad un anno, viene cosparsa di olio di oliva per evitare l’eccessivo disseccamento. Il diverso periodo di stagionatura dona al formaggio profumi e sapori diversi. 2 Il Presidio Pochi sono i pastori che praticano ancora la transumanza verticale che porta le greggi da valle ai monti. Il Presidio vuole richiamare l’attenzione su questo rito e trovare i modi per perpetrarlo e trasformarlo in occasione di lavoro e sviluppo; i produttori sono raccolti nel Consorzio di Tutela e valorizzazione del Canestrato di Castel del Monte. Stagionalità Si produce tutto l’anno. La stagionatura minima prevista dal disciplinare del presidio è di 2 mesi per le forme da 1 e 2 chilogrammi, 8 mesi per le forme da 5 chilogrammi e 15 mesi per le forme da 15. Area di Produzione: pascoli del versante meridionale del Gran Sasso (provincia di L’Aquila). Responsabile Slow Food Silvia De Paulis, tel. 0862 60521 [email protected] Referente dei produttori Giulio Petronio, tel. 333 5814030 [email protected] Produttori Cooperativa Campo Imperatore Calascio (Aq) Strada Provinciale, 1 tel. 0862 930345 334 2433798 Giulio Petronio Castel del Monte (Aq) Via San Donato, 56 tel. 333 5814030 [email protected] © Archivio Slow Food I produttori del Presidio lavorano il latte dei propri ovini e dei seguenti allevatori: Alfredo de Paulis di Paganica, Giulio Mucciante, Renato Mucciante, Rosetta Germano, Gianluca Marinacci, Alessandro Pelini, Giulio Petronio, Azienda Pilota per le Biodiversità di Castel del Monte, Leonardo Tartaro, Ovidio Damiani, Nino Sebastiani di Tempera, Amedeo Tartaro di San Pio delle Camere, Ruggero Damiani, Antonio Damiani, Carmelinda Iagnemma di Barisciano, Gabriella Costantini, Annarita Giuliani di Ofena, Mario Antonacci di Calascio. 3 Approfondimenti 4 La transumanza in Abruzzo risale a 3.500 anni fa, e già nel 37 a.C. Marco Terenzio Varrone scriveva: “greges ovium longe abiguntur ax Apulia in Samnium aestivatum” (De re rustica, lib. II, cap I). Una grande svolta si ebbe con la “mena delle pecore in Puglia”, quando Alfonso d’Aragona, re di Napoli, fece organizzare la rete viaria, riattivando le vecchie calles romane, che furono chiamate tratturi. Le vie della transumanza che in Italia centro-meridionale, a seconda della lunghezza e larghezza, si articolano in tratturi e tratturelli, assicuravano in inverno il passaggio dei pastori e delle loro greggi dai monti dell’Abruzzo al Tavoliere delle Puglie, e viceversa d’estate. In queste zone si contavano 12 passaggi tratturali e il più importante era il Tratturo Magno, attraversato da circa 90.000 capi l’anno, lungo 244 km e largo 111 metri, utilizzato fino agli anni Cinquanta del 1900 e che collegava L’Aquila a Foggia. Per millenni i tratturi sono stati vie di comunicazione, incontro, scambio e sviluppo economico. La scelta di voler destinare al pascolo un’ampia fascia costiera condizionò abbastanza l’agricoltura che, nonostante le favorevoli condizioni, non fu mai praticata in maniera intensiva. Le colture arboree, soprattutto i vigneti, furono penalizzati dall’attività del pascolo. Tutti i rilievi abruzzesi, soprattutto la Maiella, conservano molte tracce della frequentazione dei pastori: muretti, capanni a secco, arredi nelle grotte-ripari; tanti pastori provenienti da altre regioni hanno lasciato testimonianza del loro passaggio, incidendo sulla roccia tenera i loro nomi, date, provenienza, frasi. Francesco Giuliani di Castel del Monte, nato nel 1890, che iniziò la carriera di pastore all’età di 6 anni, per poi smettere a 65, nel 1908 incise nella zona della Maielletta il suo nome e il suo paese d’origine. È stato anche poeta e intagliatore ed ha descritto nei suoi quaderni la vita di quegli uomini costretti alla sua stessa vita. Una vita dura, fatta di stenti, con una paga giornaliera di 30 centesimi, un chilogrammo di pane, e solo una volta per mese un litro di olio e uno di vino. “Erano uomini grandi e robusti - scriveva - chissà che si avrebbero mangiato, e dei trenta chili di pane al mese, cinque o sei chili li risparmiavano, ed anche l’olio che avevano negli otto mesi che non lo consumavano tutto. Per mangiare un piatto di pasta asciutta dovevano aspettare il giorno di Natale. Stavano sempre affamati come lupi; mangiavano ogni qualità di verdura selvaggia. La carne delle pecore morte il padrone non permetteva di mangiarla, si salava e conservava secca. Qualche volta se gli riusciva di nascosto al padrone o a chi lo rappresentava, si facevano una bevuta di latte”. I pastori erano soliti prepararsi, quando potevano, la micischia, un piatto a base di carne di pecora: strisce di carne salata, speziata ed essiccata all’aria, saporita e dura da masticare; una minestra calda con gli òrapi, gli spinaci selvatici che crescevano vicino gli stazzi e il pane cotto col siero. Pallotte cacio e ova Ricetta rivisitata della tradizione abruzzese Minghino Cadadia – Avezzano (L’Aquila) Ingredienti per 32 pallotte (8 persone) 500 grammi di Canestrato di Castel del Monte. 200 grammi di parmigiano 4 uova intere (circa 200 grammi) 100 grammi di mollica di pane un po’ grossolana 500 grammi di salsa di pomodoro con cottura leggera 32 cialdine croccanti di guanciale olio di girasole per friggere q.b. Amalgamare tutti gli ingredienti facendo un unico impasto (a mano o in planetaria). Lasciare riposare per un po’ l’impasto poi, aiutati da una piccola bilancia digitale, fare le pallotte (25-30 grammi l’una). Una volta pronte, tuffarle nell’olio (fate sempre una piccola prova per verificare la temperatura dell’olio). Tempo di cottura: 4 minuti circa con olio a 170° gradi. Scolarle su carta assorbente e impiattare ponendole sulla salsa di pomodoro ben calda, accompagnate da una cialdina di guanciale resa croccate, precedentemente, in una padella senza olio. Rivisitazione della ricetta secondo lo chef: Le pallotte cacio e ova rappresentano la tipicità di un territorio dove necessità fa virtù. Esse, infatti, non sono altro che le polpette “povere” dove in mancanza della carne, venivano utilizzati ingredienti della vita contadina: formaggio e uova. “La ricetta tradizionale non prevede il parmigiano. Io lo utilizzo perché non tutti gradiscono la “forza” di un pecorino stagionato. Sempre nella ricetta tradizionale, una volta fritte, le pallotte vengono messe in sugo abbondante e fatte ricuocere per una decina di minuti. Io preferisco non farlo in modo da preservare la croccantezza della pallotta appena fritta (non fatela raffreddare). Un’ultima cosa, al contrario della tradizione, utilizzo, al momento dell’impasto (in questo caso un cucchiaino scarso) dell’ammoniaca che permette alle pallotte di gonfiarsi un po’ e avere una consistenza più “ariosa” (senza, la pallotta risulta, per me, troppo compatta)”. 5 © Valerie Ganio Cece di Navelli Il cece di Navelli è piccolo, proprio come il borgo stesso in provincia de L’Aquila, che con i suoi 500 abitanti, si trova a circa 700 metri s.l.m., ai piedi di un rilievo che domina l’omonimo altopiano. Ogni anno i campi della stessa piana tornano a colorarsi di un viola tenue, sono i fiori preziosi dello zafferano, ormai famoso in tutta la penisola. Ma c’è anche un’altra coltura, vecchia di secoli, che pochi contadini hanno saputo mantenere e portare avanti in mezzo a tante difficoltà, quella dei ceci di Navelli, per cui ogni estate, ad agosto, viene organizzata una grande festa in cui le massaie si cimentano nella preparazione di deliziose ricette locali, come i ceci in umido o con lo zafferano. I ceci sono stati a lungo un caposaldo dell’economia di paese e, oltre ad essere color crema e di piccole dimensioni, hanno una superficie perfettamente liscia; i contadini ne hanno conservato anche una seconda tipologia, ancora più piccola, di colore rosso ruggine e con superficie rugosa; storicamente i primi erano destinati alla vendita, i secondi all’uso familiare. I campi crescono ad una quota di 700 e 800 metri s.l.m. e in terreni aridi, leggeri, anche pietrosi e senza ristagno d’acqua; a ricordarlo è anche il detto popolare che dice: “alla terra nera non si mettono i ceci”, questo perché i terreni scuri e fertili fanno vegetare prima la pianta ma portano pochi frutti. Tra marzo e aprile si effettua la semina, che può essere ritardata in base alle temperature stagionali, e la raccolta avviene in estate, tra la fine di luglio e la fine di agosto. Quando le piante sono quasi secche vengono divelte, riunite in “mannelli” che si lasciano asciugare nei campi, mentre negli appezzamenti di dimensioni importanti si effettua la trebbiatura meccanica. La sgranatura è fatta a mano. I ceci rossi hanno una buccia più dura rispetto a quelli bianchi, quindi necessitano di tempi di cottura più lunghi, sono più farinosi, hanno un sapore più intenso e sono particolarmente adatti alla preparazione di zuppe. In Abruzzo i ceci vengono utilizzati per molte preparazioni, ma il piatto di rito, sostanzioso, che riscaldava il corpo e apriva il cenone della Vigilia di Natale era la zuppa di ceci e castagne. 6 Il Presidio Nasce per tutelare questa tradizione contadina e coinvolge i pochi produttori rimasti a Navelli e nei borghi limitrofi. Quest’area ormai si sta spopolando da decenni e il processo si è accelerato dal terremoto del 2009. La produzione arriva ai 10 – 15 quintali ad ettaro e proviene solo dai campi che sono stati scelti per questa coltivazione, ben drenati ed esposti al sole. I produttori si sono riuniti e si sono dati un disciplinare di produzione che garantisce la sostenibilità naturale di questa coltivazione. Il loro obiettivo è la valorizzazione del prodotto non solo sul mercato locale ed il recupero gastronomico di questo legume nella ristorazione. Stagionalità La raccolta avviene tra la fine di luglio e la fine di agosto. Area di Produzione: territorio della Piana di Navelli, provincia de L’Aquila. Responsabile Slow Food Giovanni Cialone tel. 338 5861506 [email protected] Referente dei produttori Alfonso Papaoli, tel. 347 9331731 [email protected] Produttori Sandro Angelone Navelli (Aq) Via del Commercio, 53 tel. 339 2806981 [email protected] Berardino Di Felice Navelli (Aq) Via Spiagge Grandu, 26 tel. 329 6121814 [email protected] Tommaso Angelone Navelli (Aq) Via dei Mori, 5 tel. 339 6223456 [email protected] Agnese Di Iorio Civitarenga (Aq) Via Cavour, 3 tel. 334 9038827 [email protected] Tommaso Cantalini Navelli (Aq) Via del Commercio, 3 tel. 338 3304194 Mario Federico Navelli (Aq) Via Roma, 10 tel. 339 2806981 Giuliana di Luzio Navelli (Aq) Via Fontevecchia, 5 tel. 338 5865607 339 7797235 [email protected] Daniela Ippoliti Navelli (Aq) Via del Commercio, 43 tel. 0862 959418 329 6121295 Maria Grazia Palmerio Navelli (Aq) Via del Commercio, 42 tel. 0862 959442 Alfonso Papaoli Navelli (Aq) Via Spiagge Piccole, 2 tel. 347 9331731 [email protected] Luigi Petrucci Navelli (Aq) Via Pereto, 11 tel. 0862 959132 7 Approfondimenti 8 La coltivazione dei ceci nel periodo medievale in Abruzzo doveva essere molto radicata, insieme a quella delle cicerchie e delle lenticchie. Pare che nel 1801, fossero in uso tre varietà di ceci: bianchi, rossi e negri; intorno alla metà del 1700, i monaci del convento di San Domenico a Chieti acquistavano sia ceci rossi che bianchi, e ne1836, Mozzetti, annotava che Navelli era ancora interessata dalla coltivazione del legume introdotto dalla Spagna dove era in uso una varietà che si distingueva per le dimensioni dei semi. Di solito i ceci venivano consumati in minestra, cotti con la pasta o ridotti in farina per farne la fracchiata, una polenta di farine di altre legumi e cereali. I ceci arrostiti in una pentola con vino erano un cibo preparato durante i momenti conviviali, in cantine, tra amici, presenti anche sulle bancarelle delle festività religiose. I ceci bolliti, schiacciati e mescolati con il miele sono la farcia di squisiti dolcetti natalizi chiamati calcionetti. Anche Quartapelle scrisse che: “colla farina di ceci si fa una sorta di polenta, che piace assai ai nostri contadini; se ne fanno ancora delle buone fritture. La medesima si unisce colla farina di frumento per farne del pane. Coi ceci bianchi cotti nell’acqua, e poscia pestati se ne fanno dei ravioli, vivanda di ceci pestati condita col pepe e col mele o col zucchero e chiusa in piccoli pezzetti di pasta”. Il Trigramma berardiniano, presente a L’Aquila all’interno della Basilica di San Bernardino, ha un legame con il cece di Navelli; in base agli studi condotti, infatti, sembra che i ceci siano stati incollati al tavolato ligneo che sorregge l’opera per rendere la superficie irregolare, scabra. Dorati e stuccati i ceci sono stati utilizzati per creare un definito effetto chiaroscurale al prezioso dettaglio voluto e disegnato dallo stesso Bernardino. Chiusa dopo il sisma del 2009, la Basilica di San Bernardino a L’Aquila è stata riaperta al pubblico; cinque anni sono durate le operazioni di restauro che hanno restituito la brillantezza dei colori originali alla serie di affreschi e stucchi presenti all’interno del tempio cristiano costruito, insieme al convento annesso, tra il 1454 e il 1542 in onore del Santo di Siena, le cui spoglie sono conservate all’interno del mausoleo nella basilica stessa. Lungo la navata centrale con soffitto a cassettoni lignei intagliati, dipinti e dorati, è tornato del suo azzurro originale lo sfondo del trigramma IHS realizzato da Ferdinando Mosca nei primi anni del 1700, incastonato in un grande sole dorato con 12 raggi serpeggianti su sfondo azzurro, il colore della fede. Quei raggi dovevano irradiare sul popolo la parola di Dio e la conoscenza del significato mistico dei Vangeli. Minestra cazzarielli, ceci e cime di rapa Reale – Castel di Sangro (L’Aquila) Ingredienti per 4 persone per la pasta 300 grammi di farina 00 180 grammi di acqua 1 patata lessata e pelata per il condimento 650 grammi di passata di pomodoro 400 grammi di cime di rapa 300 grammi di ceci secchi di navelli 1 costa di sedano 1 carota 1 cipolla 1 rametto di timo 1 rametto di rosmarino 4 foglie di salvia 1 spicchio intero pelato di aglio rosso di sulmona sale, pepe olio extravergine di oliva Con un certo anticipo mettete i ceci in ammollo per 12 ore in acqua tiepida. Preparate la pasta: ponete la farina in un’ampia terrina, incorporate la purea di patata lasciata cadere dal passaverdure e versate, a piccole dosi, l’acqua tiepida impastando finché venga ben assorbita dalla farina. Quando il composto sarà omogeneo avvolgetelo a palla in un panno umido e lasciatelo riposare per mezz’ora. Quindi confezionate i “cazzarielli” (un tipo tradizionale di gnocchetti): su un piano di legno infarinato tirate dei pezzetti di impasto fino a ottenere dei sottili serpentelli di mezzo centimetro (grandi come una matita). Sezionateli in tocchetti di circa un centimetro, dando loro la forma di piccoli gnocchi e distribuiteli ad asciugare su canovacci infarinati. Sciacquate i ceci ammollati e cuoceteli per 45 minuti in acqua, inizialmente fredda, con le erbe aromatiche, la carota e la cipolla mondate. Pulite le cime di rapa, tenete solo le foglie e sbollentatele per 15 minuti; scolatele, raffreddatele in acqua ghiacciata e poi sminuzzatele. In una casseruola versate la passata di pomodoro al naturale: fatela cuocere, a fiamma dolce, per mezz’ora. Lessate i “cazzarielli” in abbondante acqua salata per 6-7 minuti; nel frattempo, a parte, in una larga padella soffriggete l’aglio nell’olio, poi aggiungete i ceci, qualche cucchiaio di passata di pomodoro e due mestoli d’acqua: mescolate, salate e fate insaporire. scolate la pasta, amalgamatela al condimento in padella e terminatene la cottura per altri 5-6 minuti. infine aggiungete le foglie di cime di rapa. Versate in ogni piatto fondo un’abbondante mestolo di minestra ben calda e completate con un filo di olio extravergine di oliva. 9 © Archivio Slow Food Cipolla bianca di Fara Filiorum Petri La cipolla classica di Fara Filiorum Petri è quella piatta, bianca, dolce e aromatica. Secondo tradizione, nel 1300, i monaci del locale convento di Sant’Eufemia di dedicavano alla coltivazione, nei loro orti, di un tipo di cipolla davvero particolare, sia per forma che per sapore. Questo tipo di coltura ha trovato nei terreni argillosi l’ambiente ideale per poter crescere, tanto da essere chiamati appunto “cipollari”. Pare che la cipolla abbia la particolare forma schiacciata a causa dell’elevata quantità di acqua di cui necessita, per cui, gli agricoltori, raccoglievano dell’acqua con una pala e la versavano sulle cipolle, in modo da non far mai mancare il giusto apporto idrico di cui avevano bisogno. La violenza del getto avrebbe causato l’appiattimento dell’ortaggio che, di conseguenza, si sarebbe poi sviluppato in larghezza. Un ortaggio così importante per l’economia del paese che viene festeggiato ogni primo fine settimana di agosto. Questa varietà locale è da sempre nota nella tradizione gastronomica come una prelibatezza della provincia di Chieti. Detta anche piattona, per il suo sapore particolare può accompagnare fresche insalate o piatti a base di fegatini; le cipolle inoltre possono essere l’ingrediente principale della cipollata un piatto tradizionale a base di cipolle, da poco raccolte, che cotte per lungo tempo in un tegame di coccio, diventano morbide e dolci Sono apprezzate anche arrostite sulla brace sotto il coppo (un apposito coperchio da apporre sulla griglia). 10 Il Presidio Con il tempo i semi sono andati perduti e soltanto recentemente, dopo numerosi tentativi e tanta fatica, i contadini locali sono riusciti a recuperare il seme originario dall’ultimo coltivatore rimasto. Il Presidio vuole sostenere la loro attività per aumentare la quantità prodotta e restituire alla coltivazione i terreni alluvionali e ricchi di acqua del comune di Fara Filiorum Petri che hanno permesso lo sviluppo di questa particolare varietà nei secoli. I produttori hanno anche promosso il recupero della locale festa dedicata alla cipolla, Fara Cipollara, che si svolge ogni anno in agosto. Stagionalità Si raccoglie nel periodo estivo, è disponibile per il consumo dalla fine di luglio. Area di Produzione: il territorio del comune di Fara Filiorum Petri, in provincia di Chieti. Responsabile Slow Food Aldo Mario Grifone tel. 339 1784284 [email protected] Referente dei produttori Corrado di Nardo tel. 347 8954727 [email protected] Produttori Laura Tucci Bucchianico (Ch) Via Santa Chiara, 25 tel. 347 8462925 La Fattoria del Nonno di Giampietro De Vitis Fara Filiorum Petri (Ch) Via San Nicola, 18 tel. 338 1508985 - 339 6301478 Stefania Ranieri Fara Filiorum Petri (Ch) Via Mandrone, 3 tel. 0871 70512 - 338 8655246 Rosanna Del Ciotto e Pinti Simone Via Colli, 235 Fara Filiorum Petri (Ch) tel. 366 3237494 [email protected] Cristian Bucciarelli Fara Filiorum Petri (Ch) Via Colle Pagnotto, 9 tel. 320 5660886 11 Approfondimenti Nei paesi del Mediterraneo la cipolla è sempre stata un ortaggio largamente utilizzato, ne consegue che abbia sempre rivestito un ruolo economico importante. Sviluppatasi probabilmente in Asia centrale, la cipolla coltivata, mostra caratteristiche in comune con due specie selvatiche proprie di quella zona. Già attestata in Egitto nel 2500 a.C., la coltura di questo ortaggio si diffonde soprattutto nel periodo romano, quando si conoscevano diverse specie sia nazionali che d’importazione. Secondo Plinio, una delle cipolle più note era quella amiternina, ossia quella coltivata nei pressi di Amiternum (Aq). A Columella, invece, piacevano le cipolle della Marsica, caratterizzate dalla presenza di un solo bulbo, per questo chiamate unio, e da cui poi sarebbero derivati i termini onion e oignon. Anche nel Medioevo la pianta era coltivata in maniera abbastanza capillare e oltre alla cipolla classica era noto anche lo scalogno. Fino agli inizi del ‘900 le aree abruzzesi vocate alla coltivazione erano: Paganica e Bagno nella provincia aquilana, Cappelle sul Tavo (Pe) e Fara Filiorum Petri (Ch). Nell’ultimo paese citato, la coltivazione della cipolla veniva effettuata nei “cipollari”, terreni pianeggianti localizzati in prossimità del fiume, un’attività attestata da diversi documenti notarili del XIX secolo. Ma Fara Filiorum Petri non è solo il paese della cipolla, è tradizione, infatti, festeggiare Santo Antonio Abate col rito particolare della costruzione delle “farchie”: enormi fiaccole di canne palustri che vengono bruciate durante la festa. Leggenda vuole che il rito nasca da un miracolo attribuito a Sant’Antonio, apparso nelle vesti di un generale alle truppe francesi che, nel 1799, stavano tentando di conquistare anche Fara. In quel momento il bosco intorno al paese diventò un muro di fuoco ed è per questo che, ogni anno, gli uomini di tutte le contrade si riuniscono per comporre le “farchie”, che a gennaio, nei giorni di festa dedicati al Santo, vengono innalzate al cielo e arse. Alle donne, invece, spetta il compito di preparare il cibo tradizionale della festa, cipollate, pani di Sant’Antonio, e soprattutto dolci, crespelle e calzoncini ripieni di ceci e miele, marmellate, mandorle ecc. 12 Tortino di cipolla di Fara Filiorum Petri su vellutata di fagioli a pane di Paganica e crostini di pane di solina Locanda del Barone - Caramanico Terme (Pescara) Ingredienti Per 4 persone Per la crema di cipolle 300 grammi di cipolla 90 grammi di burro 20 grammi di farina mezzo litro di brodo vegetale Per il tortino 300 grammi di crema di cipolle 300 grammi di mascarpone 240 grammi di uova intere 30 grammi di pecorino pane raffermo tagliato a dadini sale, pepe Per la vellutata di fagioli 250 grammi di fagioli di Paganica uno spicchio d’aglio olio extra vergine di oliva alloro sale, pepe Si ammollano in primis i fagioli, coperti con acqua fredda, per almeno 12 ore. Trascorso questo tempo si scolano e si pongono in pentola, coperti con acqua, si aggiungono due foglie di alloro, lo spicchio d’aglio e si procede alla cottura. Terminata la cottura si scolano, mantenendo l’acqua di cottura. Si passano in una padella con un filo d’olio e uno spicchio d’aglio per farli insaporire. A questo punto si passano in un frullatore e si controlla la densità aggiungendo pian piano un filo d’olio extravergine e l’acqua di cottura che abbiamo tenuto da parte. Si procede con la crema di cipolle. Pulire e tagliare le cipolle in lamelle sottili, prendere una pentola mettervi il burro e appena comincia a sciogliersi aggiungere la cipolla ,coprirla e farla stufare a fuoco lento per circa 15 minuti. Quando le cipolle sono appassite,aggiungere la farina e mescolare per bene, aggiungere il brodo vegetale e continuare la cottura aspettando che si addensi il tutto. Passare le cipolle in un frullatore, salare e pepare, far raffreddare. Una volta che la crema è fredda si procede con la preparazione del tortino. Aggiungere alla crema il mascarpone,le uova, il pecorino, aggiustare di sale e pepe e mescolare di nuovo il tutto. Imburrare dei piccoli stampi con burro, riempirli per tre quarti del composto e adagiarvi in superficie i pezzetti di pane. Cuocere in forno a 170° gradi per 20 minuti circa. Stendere la vellutata di fagioli in un piatto e adagiarvi il tortino; decorare con qualche fagiolo tenuto da parte e con dei petali di cipolla stufata. 13 © Federica Bolla Fagioli di Paganica Situato a 669 metri s.l.m., il piccolo borgo di Paganica dista solo 7 chilometri dal capoluogo abruzzese. In questo luogo continua a perpetrarsi un rito che affonda le radici nella terra della conca del fiume Vera, dove i contadini, con molte difficoltà, coltivano in maniera tradizionale i loro fagioli. La loro coltivazione è attestata dai primi del XX secolo ed era associata a quella del mais, che fungeva da supporto alla pianta rampicante del fagiolo e, a sua volta, il granturco riceveva beneficio dall’altra pianta che intrecciandosi lo rendeva più stabile e più riparato dal vento. Fino a qualche decennio fa quella dei fagioli doveva essere una produzione importante, in grado di assicurare la vendita sui mercati regionali e limitrofi come quello di Rieti e Terni. La classica coltura irrigua impalcata con canne o frasche si estende su tutta l’area del Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga; si semina in tarda primavera e la raccolta a mano avviene a fine estate, inizio autunno. Del fagiolo di Paganica esistono due ecotipi, entrambi vengono coltivati con un ciclo che va dai 160 ai 180 giorni, con fiore bianco, rampicanti, possono raggiungere i due metri di altezza se vengono sostenuti da appositi pali di legno di salice. L’unica differenza è il colore del seme: il fagiolo a pane (o “ad olio”), ha un colore compreso tra il beige, l’avano, il nocciola, ed ha un occhio centrale, mentre il fagiolo bianco (anche definito “a pisello”), è di colore bianco avorio ed è leggermente più tondo del primo. Il fagiolo bianco ha una buccia meno consistente e parte interna burrosa, ed è più tenero rispetto a quello “ad olio”, che però conserva maggiore fragranza e sapore dopo la cottura, che non deve superare i 30 minuti, per rispettare l’indice di qualità. Sono ottimi cucinati da soli, conditi con un filo di olio extra vergine, sale e pepe, oppure utilizzati per la preparazione della tipica zuppa locale, a cui viene aggiunto del guanciale, altro prodotto che nel territorio non può mancare, e pane casereccio. 14 Il Presidio La coltivazione dei fagioli di Paganica richiede molta manodopera per il diserbo manuale delle erbe infestanti, per la sistemazione dei pali in legno (ottenuti dalle potature del bosco autunnali) che serviranno da sostegno, per la raccolta manuale e scalare (nell’arco di qualche settimana), e infine, per la separazione dei fagioli dai baccelli ormai secchi. Per questa ragione dagli anni Settanta in poi, questa produzione è calata drasticamente. Inoltre, scelte politiche e territoriali errate hanno destinato all’industria e allo sviluppo edilizio terreni fertili e vocati alla coltivazione del fagiolo, complice anche la ricostruzione dovuta al recente terremoto del 2009. Il futuro di questa coltivazione è legato ad un piccolo e motivato gruppo di giovani coltivatori che hanno creduto nella produzione dei fagioli sia come fonte di reddito sia come volano per la rinascita sociale del territorio. Stagionalità Semina in tarda primavera con raccolta in autunno. Area di Produzione: frazioni di Paganica, Tempera, San Gregorio, Bazzano e Onna, nel comune de L’Aquila. Responsabile Slow Food Giovanni Cialone tel. 338 5861506 [email protected] Referente dei produttori Matteo Griguoli tel. 338 7398037 [email protected] Produttori Antonello Angelini Paganica – L’Aquila Via Luigi Biordi, 3F tel. 349 3451746 [email protected] Giuseppe Moro Paganica – L’Aquila Via San Giustino tel. 338 1693340 [email protected] Emanuele Falerni San Gregorio – L’Aquila Via Paganica, 6 tel. 327 7864032 [email protected] Antonio Tennina Paganica – L’Aquila Via Onna, 11 tel. 389 081252 Matteo Griguoli Paganica – L’Aquila Via Arco dei giusti, 2B oppure Via della Perola tel. 338 7398037 [email protected] 15 Approfondimenti I fagioli bianchi di Paganica sono stati importati dalla Francia, da Marsiglia, per mano di Giovan Battista Dragonetti. Le aree tuttora interessate maggiormente dalla coltivazione dei fagioli sono le valli del Raiale e dell’Aterno, e soprattutto i paesi di Bazzano, Paganica, Onna, Fossa, dove i fagioli hanno rivestito un ruolo importante nell’alimentazione di intere popolazioni, quando la coltivazione di questo legume aveva una diffusione capillare. Si consumavano in minestre, insalate, pasta, o macinati per farina. Rispetto agli altri fagioli, quelli di Paganica, distinti tra “puseju co le mazze” (fagioli bianchi) e “tonni co le mazze” (fagioli a pane), non sono mai rientrati in quella categoria di alimenti etichettati col nome di “carne dei poveri”. Questo perché da sempre hanno avuto un mercato di nicchia ed un costo più alto rispetto ai fagioli “tunniti” e “biancucci”, due specie non rampicanti, che richiedevano meno impegno, precoci nella fioritura, di qualità inferiore, e coltivati nelle “ristroppole”, le stoppie della mietitura del grano. La semina e la coltivazione dei fagioli di Paganica vogliono un terreno breccioso che, con l’urbanizzazione degli ultimi decenni, si è notevolmente ridotto, compromettendone la possibilità di coltivazione. Dopo la semina, i piccoli germogli vengono ricoperti di terra in cui sono inseriti i tutori che serviranno a sorreggere le piante durante il loro sviluppo. I fagioli di Paganica, infatti, sono piante rampicanti e per crescere hanno bisogno di sostegni che le riparino dal vento. Se la stagione è particolarmente arida, i campi vengono irrigati attraverso un sistema di canalette che riesce a sfruttare le acque del fiume Vera e del torrente Raiale. La raccolta, tra settembre e ottobre, viene ancora effettuata a mano, seguendo antiche procedure; questo è possibile perché il quantitativo prodotto non è così massiccio da dover richiedere macchine industriali. Tolti i tutori, le piante vengono divelte e raccolte in covoni per essere trasportate in azienda, in cui verranno lasciate ad asciugare al sole, in modo che i baccelli secchino per bene. La battitura si effettua a mano con le forche, e una volta separati i fagioli dalla paglia, si fanno passare al crivello, per poi essere sottoposti, uno per uno, ad un attento controllo. In passato gli scarti della lavorazione, paglia, baccelli e fagioli, venivano riuniti nelle aie fino a formare dei grossi mucchi, oppie, che i ragazzini si divertivano a scendere, facendo a gara a chi riuscisse per primo ad arrivare in cima. Oggi il gioco del “re del monte” si è perso, ma il fieno e i baccelli sono il naturale nutrimento degli animali allevati. 16 Fagioli bianchi di Paganica al prosciutto crudo Taverna De Li Caldora - Pacentro (L’Aquila) Ingredienti per 4 persone 200 grammi di fagioli bianchi di Paganica precedentemente Bollire i fagioli in abbondante acqua; a parte preparare un soffritto con olio, la cipolla e il peperone a pezzettini, peperoncino. Aggiungere poi il prosciutto a tocchetti e infine i fagioli con una parte del loro brodo di cottura. Salare e servire con crostini di pane fritto. ammollati 60 grammi di prosciutto crudo di montagna a tocchetti 20 grammi di peperone dolce a pezzettini mezza cipolla fresca a pezzettini olio extravergine di oliva sale q.b. 17 © Archivio Slow Food Fico secco reale di Atessa Il fico reale di Atessa è una varietà molto apprezzata a partire dagli ultimi due secoli ed è considerato ideale per l’essiccazione, una tradizione ben radicata ad Atessa. Alcuni storici del passato raccontano che Roberto d’Angiò, regnante sulla zona di Chieti e Lanciano all’epoca, avesse addirittura imposto nel 1320 delle gabelle sui fichi secchi prodotti ad Atessa e commercializzati via mare. Il periodo di raccolta ed essiccazione, a seconda del clima, va tra metà agosto fino alla fine di settembre. I fichi vengono raccolti a mano, nelle prime ore del mattino, uno ad uno con una leggera rotazione del frutto per preservare l’integrità del picciolo, e posti negli essiccatoi, fatti di piccole canne (cannizzi) legate tra loro. Possono essere essiccati interi o incisi a metà, ma le loro facce non devono aprirsi del tutto. Esposti al sole durante il giorno, coperti da una rete che tenga lontani gli insetti, alla sera, per evitare che ci siano problemi di umidità, si ritirano in un luogo riparato e asciutto. Questa è un’operazione che va ripetuta per alcuni giorni, fino a quando i fichi non sono asciutti e ancora morbidi al tatto. Una volta completata l’operazione i fichi andrebbero immersi in una soluzione salina (come l’acqua di mare) o immersi in acqua bollente per un paio di minuti. A questo punto vengono tagliati e arricchiti nel mezzo da un gheriglio di noce, richiusi e riposti con foglie di alloro in un luogo buio ed asciutto. La loro prelibatezza e la lunga conservazione hanno reso celebri i fichi di Atessa e vengono utilizzati in cucina per diverse ricette, come dolci, confetture, dessert, condimento per carni, pesci, pani e biscotti. 18 Il Presidio La città di Atessa ha una storia che affonda le sue radici nell’epoca romana e gli scavi archeologici hanno evidenziato il legame millenario con la coltivazione del fico. Fino ad alcuni decenni fa Atessa poteva vantare una vasta produzione di fichi secchi ma negli anni ‘70 e ‘80 lo sviluppo industriale della Val di Sangro ha messo in crisi la produzione. Oggi pochi giovani hanno deciso di recuperare la tradizione e il Presidio vuole sostenere la loro azione. Stagionalità Si raccoglie alla fine del periodo estivo. Ogni anno il fico secco viene messo in commercio dopo il 4 ottobre. Area di Produzione: la zona collinare dei comuni di Atessa, Torino di Sangro, Archi, Perano e Paglieta (provincia di Chieti) Responsabile Slow Food Manola Cascante tel. 349 8421993 [email protected] Referente dei produttori Vincenzo Menna tel. 339 1710276 [email protected] Produttori Concezio Candeloro Atessa (Ch) Via Benedetto Croce,5 tel. 320 0286044 [email protected] Sergio Silvestri Atessa (Ch) Contrada Sciola tel. 329 6874861 [email protected] La Ruelle di Lucia di Cintio Atessa (Ch) Contrada Piana Matteo tel. 333 3623968 [email protected] Tenuta Sant’Antonio di Roberta Del Vecchio Atessa (Ch) Contrada Solagna Longa tel. 0872 596517 - 328 3879002 [email protected] Marco Rossi Atessa (Ch) Contrada Piana dell’Edera, 27 tel. 0872 850390 - 339 1689872 [email protected] 19 Approfondimenti L’inizio della coltivazione del fico in Abruzzo non è ancora molto chiara, anche perché non ci sono stati ancora ritrovamenti archeo-botanici e non ci sono fonti letterarie che attestino il momento, ma certo Plinio racconta che a Roma arrivavano fichi dalla Caria e da Alba. L’ultima città in questione potrebbe essere Alba Fucens, colonia romana costituita a ridosso del lago Fucino. Il termine vernacolare carracine (o caricine) utilizzato per indicare in tutta la regione i fichi secchi, invece, probabilmente deriva da Caria, una regione dell’Asia Minore, da dove furono introdotti in epoca romana i fichi migliori per essere essiccati. I carracine erano una scorta di zuccheri fondamentale per l’apporto di calorie, l’ingrediente principale di dolci natalizi, oppure, infilati su canne, potevano diventare delle dolci pupe e cavallini per i bambini. Plinio menziona tra le varietà prelibate quelle dei marrucini, descrivendone le caratteristiche della maturazione: “sono molli al tatto, producono un succo come il latte, maturano sugli alberi. Sono essiccati e conservati in contenitori chiusi, ve ne sono moltissimi e buonissimi nell’isola di Ebuso e presso i Marrucini”. Secondo Columella i fichi dovevano essere raccolti né troppo maturi, né troppo acerbi, esposti al sole a seccare per un giorno, dopo aver costruito dei cannicci rialzati da terra per non farli inumidire. Le attestazioni storiche dei fichi di Atessa sono alquanto scarse, la prima risale al 1500, quando sono menzionati come fattore primario dell’economia e dell’alimentazione nel territorio atessano. In una delle cronache di Camillo Manieri Riccio, si narra di come Roberto d’Angiò nel 1320 avesse imposto delle gabelle sui fichi secchi prodotti ad Atessa e commercializzati via mare. Nel 1819 ad Atessa erano conosciute diverse varietà come la reale bianca: “il fico reale, o di Versailles è quasi rotondo, bianco. È abbondantissimo, ma non buono se non secco: i terreni asciutti meglio convengono a questo”. La produzione e il commercio dei fichi si conferma molto importante, tanto da essere citato nel Dizionario geografico-ragionato del 1797 del Regno di Napoli, e nel Nuovo Dizionario di geografia universale, del 1858, fino ad arrivare al 1965, quando il Touring Club Italiano, nella guida a pagina 83, menziona i fichi bianchi di Atessa tra le specialità regionali. 20 Chutney di fichi secchi di Atessa Taverna 58, Pescara Ingredienti Per 1 chilogrammo di chutney 800 grammi di fichi secchi 80 grammi di zucchero semolato una mela cotogna un bicchiere di vino bianco secco mezza cipolla rossa un peperoncino piccante buccia di un limone non trattato In una pentola caramellare con poca acqua zucchero e cipolla, aggiungere la mela cotogna, sbucciata e tagliata a tocchetti e il peperoncino ben tritato, versare il vino bianco, lasciare cuocere ed evaporare per un paio di minuti. A questo punto aggiungere i fichi secchi, lavati, privati dei piccioli, e tagliati in quattro-sei pezzi a coltello. Unire la buccia grattugiata del limone e un mestolo di acqua calda. Cuocere a fuoco dolce per 20 minuti circa, rimestando con mestolo di legno, integrare altra acqua all’occorrenza. Si conserva in frigo per qualche giorno, oppure in vasi ermetici come per le marmellate. È un ideale accompagnamento per formaggi caprini e pecorini stagionati. 21 © Valerie Ganio Grano solina dell’Appenino abruzzese “Quella di solina aggiusta tutte le farine” – “Se il contadino vuole andare al mulino, deve seminare la solina”, due detti popolari che testimoniano la connessione tra questa varietà di grano e la vita contadina abruzzese. La solina è il frumento tenero tipico delle montagne dell’Abruzzo, per la costanza produttiva su terreni poco fertili e per la resistenza al freddo. È questo un esempio di recupero di una cultivar molto antica, che riconferma la biodiversità abruzzese in agricoltura. Fonti storiche, atti notarili di compravendita, fonti risalenti al 1500, testimoniano la sua coltivazione in Abruzzo, ed è citata a fine ‘700 nel libro Pel paese dei Peligni di Michele Torcia, in cui annota che da questo grano si ricavava “uno dei migliori pani del Regno”. Agli inizi del XX secolo, questo tipo di frumento è stato utilizzato dal famoso genetista italiano Nazareno Strampelli per alcuni esperimenti e incroci con altre varietà locali. È un grano caratteristico delle zone montane, soprattutto del versante aquilano, dove ha sviluppato un attaccamento all’ambiente difficile, caratterizzato da un terreno brullo e clima rigido. In grado di sopravvivere per mesi sotto la neve senza marcire, può essere coltivato dai 600 ai 1400 metri s.l.m.; anzi maggiore è l’altitudine, migliore è la qualità. La semina avviene in autunno, da metà-fine settembre per i terreni più alti, alla seconda-terza decade di ottobre per le vallate interne poste a quote più basse. Dal seme si produce una farina molto rustica, tenace e adatta alle lavorazioni, con cui per secoli in Abruzzo sono stati prodotti pane e pasta fatta in casa. Due sono le preparazioni che la riguardano: la sfoglia tagliata a fazzoletti per i timballi e le scrippelle (crepes tipiche del teramano) in brodo. 22 Il Presidio Poco adatta alle moderne tecnologie di produzione, che richiedono grani ad alto contenuto di glutine, la farina di solina dona ai prodotti da forno e alla pasta fatta in casa sapori inaspettati, quasi dimenticati. La sua coltivazione, però, è impegnativa: i terreni montani sono difficili da raggiungere e da lavorare; la coltivazione deve essere alternata a colture con mais e patate e poi a leguminose da foraggio o da granella come cece e lenticchie; i tempi di attesa del raccolto sono lunghi, specie nelle altitudini più elevate, infine la resa media non è altissima, attestandosi sui 20 quintali ad ettaro. Una decina di agricoltori della zona montana, riuniti in cooperativa, portano avanti il recupero e la valorizzazione di questa varietà antica, coltivando alle altitudini maggiori, più vocate, seguendo i princìpi dell’agricoltura biologica e cercando di promuovere nelle lavorazioni artigianali, l’utilizzo della farina per la preparazione di pasta e pane. Stagionalità La semina è esclusivamente autunnale: da metà – fine settembre per i terreni più altri, seconda – terza decade di ottobre per le vallate interne, poste a quote più basse. La raccolta avviene in luglio inoltrato. Area di Produzione: Areale del Gran Sasso, in particolare nella provincia de L’Aquila e nelle zone del versante opposto con altitudine superiore ai 750 metri s.l.m. Responsabile Slow Food Giorgio Davini tel. 392 6763960 [email protected] Produttori Bruna Battista Goriano Sicoli (Aq) Via Vittorio Veneto, 5 tel. 0864 720015 339 6441969 [email protected] Tonino de Santis Introdacqua (Aq) Strada Provinciale, 14/1 tel. 0864 34011 338 7470325 [email protected] Referente dei produttori Donato Domenico Silveri tel. 333 8465692 [email protected] Francesco Simone Maggi Secinaro (Aq) Via Plaiola tel. 392 4080088 [email protected] Dante Santavicca Barisciano (Aq) Via Aldo Moro tel. 0862 89420 347 6040425 Nunzio Nolletti Collepietro (Aq) Via Capo Croce, 13 tel. 339 3617704 Terre del Tirino Capestrano (Aq) Nucleo Capodacqua, 4 tel. 0862 95308 331 6766139 [email protected] [email protected] 23 Approfondimenti Sul frumento duro e tenero si fonda l’alimentazione delle popolazioni mediterranee occidentali. Il grano duro viene coltivato nelle zone più calde, quello tenero è più adatto a climi più rigidi. Il primo è utilizzato per la produzione di pasta alimentare, anche se nel Mezzogiorno italiano, lo si impiega nella panificazione; il secondo, quello tenero o gentile, fin dal periodo classico è il cereale più utilizzato per il pane. La varietà di grano duro più diffusa in Abruzzo tra il XVI e XIX secolo era la saragolla o saravolla. Questa antica cultivar è stata quasi del tutto abbandonata agli inizi del ‘900 e soppiantata dalla varietà “senatore Cappelli”, adottato in maniera così vasta che pare che il “pane di cappella” aveva un ottimo sapore. Tra le diverse specie di grano tenero coltivate in Abruzzo fino al secondo dopoguerra, due in particolare, risultano avere una larga coltivazione: la rosciola e la solina. Quest’ultimo è tuttora coltivato, seppur in minime quantità, nelle zone più montane della regione, caratteristica che ha contribuito a creare una forte connotazione territoriale. Probabilmente questo frumento è il diretto discendente della siligo, il grano tenero dei Romani, con cui veniva confezionato il miglior pane. In Abruzzo la farina di solina, oltre che per la preparazione di paste fresche tradizionali, come le sagne e i maccheroni alla chitarra, veniva utilizzata soprattutto per il pane e la testimonianza del Torcia del 1793 è molto chiara: “non dimenticheremo il pane di Popoli che non la cede se non al solo di Teramo in tutta la Monarchia... il pane a Popoli esce dal grano solino. In bontà ha per compagni per altro il pane dell’amena Serracapriola, del fulgido Montefusolo, del pingue Benevento, e per la verità in altri luoghi dell’Apruzzo”. Il pane, oltre ad essere alimento popolare per eccellenza, dall’XI secolo assume un ruolo fondamentale, e la diffusione del termine companatico, di origine romanza, ne è la prova concreta. È citato in moltissimi documenti, e nei contratti agrari i coltivi vengono chiamati “terre del pane”. Nobili e popolo dalla fine del Medioevo ne consumano grandi quantità, anche se il pane bianco spettava di diritto solo ai ricchi, e quello nero, più grossolano, ai meno abbienti. Anche il cristianesimo ha assunto simboli alimentari come strumenti del suo culto, prodotti primari dell’alimentazione: il pane, il vino e l’olio; tre alimenti che hanno avuto una straordinaria promozione d’immagine, ed una forte carica simbolica. Il pane è entrato nelle feste liturgiche e, tuttora, in diversi paesi abruzzesi, gruppi di massaie si ritrovano giorni prima della ricorrenza della festa per il santo, ad impastare e sfornare fragranti pani dalle forme più diverse e curiose. 24 Ravioli di grano solina ripieni di ricotta di capra con bieta e noci Font’Artana - Picciano (Pescara) Ingredienti per 4 persone Per il ripieno 500 grammi di ricotta fresca di capra 2 uova intere 100 grammi di formaggio vaccino grattugiato sale, pepe Per l’impasto 600 grammi di farina di grano solina 5 uova intere 1 cucchiaio di olio extravergine d’oliva 1 pizzico di sale Preparare il ripieno dei ravioli amalgamando la ricotta con le uova, il formaggio grattugiato, sale e pepe. Impastare per fare la sfoglia la farina di solina, le uova, il cucchiaio di olio e un pizzico di sale. Fare una sfoglia con il matterello in modo che risulti molto sottile. Disporre su di una metà della sfoglia delle cucchiaiate di ripieno, distanziandole di 2 centimetri circa l’una dall’altra, ricoprire con l’altra metà della sfoglia e ritagliare con un tagliapasta dentato in modo da formare dei ravioli. In una piccola padella aggiungere dell’olio, fare rosolare una cipolla tagliata alla julienne, poi le noci appena triturate, fare rosolare il tutto e aggiungere la bieta precedentemente sminuzzata, aggiustare con il sale. Una volta lessati i ravioli versarli nella padella e farli saltare insieme al condimento preparato. Per il condimento 4 cucchiai di olio extrvergine d’oliva 200 grammi di bietola sbollentata 50 grammi di noci sgusciate cipolla sale 25 © Archivio Slow Food Lenticchia di Santo Stefano di Sessanio Con un diametro di pochi millimetri, globosa, saporita e con un colore marrone violaceo, la lenticchia di Santo Stefano di Sessanio cresce oltre i 1000 metri s.l.m., solo sulle pendici del Gran Sasso, zona in cui le coltivazioni di legumi sono attestate in documenti monastici del 998. L’habitat ideale, con inverni lunghi e rigidi e primavere brevi e molto fresche, permette alle piantine di maturare in tempi diversi, e una volta sfalciate, se lasciate sul campo accumulate in piccoli covoni e poi ammassate sotto un telo, nutrono comunque i loro semi portandoli a maturazione. Crescendo su terreni brulli e aridi, la lenticchia non ha bisogno di particolari cure, ma diventa un legume impegnativo nel momento della raccolta che si fa sempre a mano, anche perché i campi sono impervi e la meccanizzazione comporterebbe una perdita del 30-40% del raccolto. È un processo che si effettua ancora come 1000 anni fa, ed è molto faticoso; le lenticchie arrivano a maturazione in momenti diversi, questo perché le altitudini sono variabili, ma di solito tra il taglio e la battitura a volte trascorrono 15 giorni compresi tra la fine di luglio e la fine di agosto. La lenticchia di Santo Stefano non è una lenticchia qualsiasi, ma si tratta di un biotipo preciso che è stato selezionato per questi territori da tempo immemore; proprio per le piccole dimensioni, 2-5 mm, questo tipo di lenticchia, non ha bisogno di essere messa in ammollo, è straordinariamente saporita e il modo migliore per apprezzarla è una zuppa molto semplice: bisogna coprirla con acqua e aggiungere spicchi d’aglio scamiciati, qualche foglia di alloro, sale, olio extra vergine di oliva, e portare quindi a ebollizione, a pentola chiusa. Nelle lenticchie si evidenzia un basso contenuto di lipidi ed una discreta quantità e qualità di proteine. 26 Il Presidio I produttori sono in prevalenza anziani e perlopiù coltivano un poco di lenticchie per il consumo famigliare. Le quantità ottenute sono limitate e diminuiscono ogni anno, il tutto aggravato da un proliferare di un mercato di false lenticchie di Santo Stefano di Sessanio, che avvilisce i produttori locali. Il presidio, che sposa un progetto già avviato negli anni passati dal Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti, e dall’Arssa Regione Abruzzo ha permesso di riunirli in un’associazione, per arrivare a un’etichettatura e a un controllo del raccolto, al fine di garantire il consumatore da eventuali frodi. Ma soprattutto lavora per aumentare le coltivazioni, per offrire un’opportunità di sviluppo e una possibilità per i giovani di rimanere su un territorio straordinario. Stagionalità Le lenticchie di Santo Stefano di Sessanio si raccolgono nel mese di agosto, ma si consumano essiccate, quindi sono disponibili tutto l’anno. Area di Produzione: comune di Santo Stefano di Sessanio e alcune aree dei comuni limitrofi (provincia di L’Aquila). Responsabile Slow Food Silvia De Paulis tel. 0862 60521 [email protected] Referente dei produttori Ettore Ciarrocca tel. 338 8996070 [email protected] Produttori Ettore Ciarrocca Santo Stefano di Sessanio (Aq) Piazza Municipio, 12 tel. 0862 28460 338 8996070 – 339 6338959 [email protected] Mario Ciarrocca Santo Stefano di Sessanio (Aq) Via D’Annunzio, 12 tel. 0862 89445 349 33901153 www.residenceilpalazzo.it [email protected] Anna D’Alessandro Santo Stefano di Sessanio (Aq) Via Roma, 48 tel. 339 5735273 Silvana Fulgenzi Santo Stefano di Sessanio (Aq) Via delle Aie, 18 tel. 340 4819763 Alessandra Gentile Calascio (Aq) Via Plaia, 18 tel. 377 1290446 Rosa Ciarrocca Santo Stefano di Sessanio (Aq) Via Benedetta, 5 tel. 0862 89679 335 6529016 [email protected] Pina di Mara Iannessa Castelvecchio Calvisio (Aq) Via delle Vigne, 1 tel. 0862 930321 333 3800999 [email protected] Ernesto Ciuffini Castelvecchio Calvisio (Aq) Via della Mora, 9 tel. 0862 930196 340 4747207 Marco Matergia Barisciano (Aq) Via Provinciale, 145 tel. 0862 89335 331 2853075 – 334 1041133 [email protected] Giulio Petronio Castel del Monte (Aq) Piazzale del Lago, 2 tel. 0862 938107 335 5814030 [email protected] Stefano Santavicca Barisciano (Aq) Via Aldo Moro, 2 tel. 0862 89420 347 6040425 [email protected] Sapori di Campagna Di Livia di Battista Ofena (Aq) Strada Provinciale delle Vigne, km 7,8 tel. 0862 954253 347 6995264 [email protected] www.saporidicampagna.com 27 Approfondimenti Già 7000 anni fa, la lenticchia, Lens oculenta, era stata domesticata e quindi coltivata dall’uomo; con tutta probabilità, l’assunzione di cereali doveva essere correlata a quella di legumi utilizzati sotto forma di farina. Le fonti che si riferiscono a tale utilizzo provengono dalla zona sirio-palestinese, anche se non specificatamente alla Fenicia, e prime fra tutte sono i testi di Ugarit e la Bibbia. È ben nota la storia del piatto di lenticchie con il quale Esaù scambiò il proprio diritto alla primogenitura al fratello minore Giacobbe (Gn 25, 29-34), mentre nel libro di Samuele viene citato un guerriero di Davide che difende dai Filistei un campo pieno di lenticchie. Altri documenti risalenti al Medioevo e riguardanti questa volta il territorio abruzzese, di proprietà del Monastero di San Vincenzo al Volturno, che possedeva molti territori della zona aquilana, attestano che in quella zona venivano coltivati i legumi. Nel contratto di Tussio, Carapelle e Trita (Valle del Trino) del 998, si fa riferimento ai legumi coltivati in zona; testimonianze che esplicitano l’importanza della coltivazione di tali prodotti, economicamente fondamentali, tanto da essere sottoposti al canone livellario. Notizia più recente delle coltivazioni nella zona aquilana di ceci, fagioli, lenticchie e altre civaie (legumi in genere) si hanno negli scritti ottocenteschi di R. Quaranta (1885) e T. Bonanni (1888). Le lenticchie, cibo dei meno abbienti, non aveva un buon nome e insieme ai fagioli venivano definite la “carne dei poveri”, soprattutto per l’alto contenuto di proteine, che risulta essere il doppio su cento grammi, rispetto allo stesso quantitativo di carne. La coltivazione della lenticchia è ancora un elemento cardine dell’economia di piccoli borghi aquilani, ed è per questo che per volere del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, Arssa Regione Abruzzo e degli agricoltori stessi, è stata creata nel 2008 un’associazione per la tutela e la valorizzazione della lenticchia. Quella coltivata nella zona di Santo Stefano di Sessanio è piccola e di colore scuro striato, cresce su terreni brulli, e forse proprio questa difficoltà di sopravvivenza le permette di entrare nell’olimpo delle lenticchie più pregiate d’Italia. Per festeggiare il raccolto ogni anno e nella prima settimana di settembre, in onore del legume tanto pregiato, viene organizzata una sagra durante la quale è possibile degustare piatti tipici popolari, come la zuppa di lenticchia con crostini. 28 Dolcetti di lenticchie Sapori di Campagna - Ofena (L’Aquila) Ingredienti per 4 persone 200 grammi di cioccolato fondente 70 grammi di panna fresca 150 grammi di purea di lenticchie 30 grammi di nocciole tritate 2 biscotti al latte (circa 60 grammi) 1 cucchiaino di cacao amaro 5 grammi di rhum Lessiamo le lenticchie e riduciamole a purea. Facciamo fondere a bagnomaria il cioccolato con la panna, girando spesso con un cucchiaio di legno. Non appena risulta omogeneo, allontaniamo dal fuoco. Incorporiamo la purea di lenticchie, il cacao amaro, le nocciole, i biscotti finemente tritati ed infine il rhum. Lasciamo raffreddare il composto fino a quando raggiungerà la giusta consistenza per lavorarlo. Formiamo delle palline grandi come una noce che passeremo poi nelle nocciole tritate (che avremo messo precedentemente da parte in un piccolo vassoio). Facciamo riposare i dolcetti in frigo per alcune ore e serviamo poi a fine pasto con un buon caffè. 29 © Valerie Ganio Mieli dell’Appennino aquilano 30 Il 30% del territorio abruzzese è compreso in un complesso sistema di Parchi e Riserve Naturali e proprio qui, molti apicoltori, attraverso il nomadismo, spesso spostano i loro apiari direttamente da un’area protetta all’altra. Grazie alla biodiversità della flora presente, alle attività agricole a basso impatto ambientale, in queste zone è possibile ottenere un miele eccellente. Nell’area del Gran Sasso, dei monti della Laga e del Sirente Velino, tutti in provincia de L’Aquila, sono molto interessanti due mieli monofloreali ricavati dalle essenze più tipiche di questi luoghi, la santoreggia (Satureja montana) e la stregonia (Syderitis syriaca). Questi due arbusti fanno parte della famiglia delle Labiate e crescono su prati aridi e terreni calcarei fino ad un’altitudine di 1300 metri la prima e 1500 la seconda. Da maggio a giugno fiorisce la stregonia, e da luglio a settembre, la santoreggia. La produzione del miele di santoreggia è rara e irregolare, ma non trascurabile in alcune zone del Gran Sasso, e dell’Appennino abruzzese. La stregonia, a volte confusa con l’ortica per via dell’aspetto, è diffusa in tutto il centro Italia ed è usata come decongestionante. Il miele di santoreggia ha un colore ambra chiaro, tendente al giallo – verde quando è liquido, grigio – verde se cristallizzato. Dopo la raccolta tende a solidificarsi velocemente, e i cristalli formano una trama molto fine che conferisce al prodotto una consistenza morbida e piacevole in bocca. Oltre ai monoflora, la produzione della montagna aquilana offre un millefiori interessante, prodotto sui pascoli montani, in apiari posti a quote superiori agli 850 metri s.l.m. Recenti studi hanno dimostrato come la ricchezza della biodiversità sia direttamente proporzionale all’altitudine montana: oltre la quota appena citata si assiste ad uno straordinario aumento di fioriture, passando dalle 80 specie in primavera, alle 130 in estate. Tra le piante più comuni ci sono numerose graminacee, cistacee e labiate, abbinate a trifoglio bianco, rovo e altre rosacee, papaveri, lupinella e ginestrino. In tarda estate, con una maggiore fioritura, si aggiungono asparago selvatico ed edera. Tutto questo si traduce in un millefiori di montagna dai profumi e dai sentori particolari e caratteristici: delicati e floreali in primavera, più decisi nei mieli tardivi. Il Presidio Oggi soltanto pochi apicoltori riescono a produrre questi mieli monoflora rari e non sempre è possibile trovarli in commercio. Il Presidio nasce con l’obiettivo di preservare e incrementare la produzione dei mieli particolari dell’Appennino abruzzese. Mantenere attiva questa tradizione significa tutelare la biodiversità dei pascoli montani e riconoscere agli apicoltori e alle api un ruolo importantissimo nella salvaguardia della biodiversità floreale e vegetale. Oggi, grazie al Presidio, è nata la prima associazione di apicoltori della regione, che raggruppa oltre dieci produttori. Stagionalità Le due fioriture dei monoflora si susseguono: da maggio a luglio fiorisce la stregonia, da luglio a settembre la santoreggia. Lungo tutta l’estate si produce il millefiori. Area di Produzione: La produzione dei tre mieli avviene sulla montagna aquilana, partendo da un’altitudine minima di 850 metri s.l.m. In particolare per i due mieli monofloreali, sono state individuate due aree vocate sul versante aquilano del Gran Sasso (per la santoreggia), e nell’area marsicana del massiccio del Sirente Velino (per la stregonia), sempre in provincia de L’Aquila. Responsabile Slow Food Lidia Di Pietro tel. 349 2914105 [email protected] Referente dei produttori Vittoriano Ciaccia tel. 328 8960562 [email protected] Produttori Pietro Asci Ortona dei Marsi (Aq) tel. 347 9451399 [email protected] Rosangela D’Ascenzo L’Aquila Via S. Raniero, 10 tel. 347 3286713 [email protected] Pasquale di Leonardo Ortona dei Marsi (Aq) Cesoli tel. 335 5827446 [email protected] Carlo Alberto Pietrangeli Campotosto (Aq) Fraz. Poggio Cancelli tel. 345 9062443 [email protected] Primo Franchi Montorio al Vomano (Te) Fraz. San Mauro, 31 tel. 0861 593164 335 7420616 Pasquale Nucci Torricella Sicura (Te) Fraz. Magnanella tel. 380 3326251 [email protected] Massimiliano Aloisio I sapori della Terra San Pio delle Camere (Aq) Via Circonvallazione sud tel. 338 4563469 [email protected] Fabio Alberto Montagliani Apicoltura Montagliani Aielli (Aq) Via Garibaldi, 4 tel. 0863 789273 338 2212839 [email protected] Vittoriano Ciaccia Apiciaccia Celano (Aq) Via Cicivette, 70 tel. 0863 790754 328 8960562 – 329 1034039 [email protected] Antonio Iulianella Apicoltura Iulianella Pescina (Aq) Via Garibaldi, 10 tel. 0863 841957 348 2586081 Rosetta Germano Castel del Monte (Aq) Piazzale el Lago tel. 333 4107973 [email protected] Franco Troiani Apicoltura Raggi di Sole Pescina (Aq) Loc. Ponte San Valentino tel. 0863 842237 339 7566155 [email protected] 31 Approfondimenti L’Abruzzo è “un paese dove scorre latte e miele”. Il latte, alimento base per i pastori, e il miele, l’equivalente di un dessert e rappresentava la dolcezza di vivere, in una civiltà che fino a qualche decennio fa non conosceva affatto lo zucchero, più raffinato e più costoso. La parola, forse, è addirittura ittita, melit, e per secoli, prima dell’arrivo del diretto concorrente, è stato l’unico alimento dolce disponibile. Fonti attestano che già nell’Egitto di 4000 anni fa, il miele veniva prodotto da apicoltori che spostavano le loro arnie lungo il Nilo. Lo usavano anche come ingrediente per i fluidi per l’imbalsamazione, e alcune imposte erano pagate in miele quando non era soggetto a tassazione. I ricettari greci abbondano di dolci al miele, spesso mischiati con formaggi di capra e pecora, un alimento considerato il “cibo degli dei”. I romani ne adoperavano grandi quantità, tanto che lo importavano da Creta, Cipro, Spagna e Malta. Apicio, nel suo De re coquinaria, riporta una serie di ricette in cui è presente il dolce nettare, abbinato a piatti di pesce, carne, formaggi, verdura e frutta. Nel Medioevo aveva ancora un ruolo centrale e veniva utilizzato soprattutto come conservante, oltre che come dolcificante. Il consumo di miele subisce un calo quando viene introdotto lo zucchero, ma in Abruzzo, ed in molte altre regioni italiane, resta presente nelle ricette della tradizione legate anche alle ricorrenze religiose. In pasticceria continua a trovare largo impiego e nei giorni del Carnevale è difficile resistere alle croccanti palline di pasta fritta ricoperte di miele che compongono la “Cicerchiata”. È un dolce a base di farina, uova, olio extra vergine di oliva, zucchero; dal loro impasto si ricavano delle palline di un centimetro di diametro che vengono fritte in olio bollente o nello strutto, scolate, mescolate con miele bollente e disposte o a mucchietti o a formare una grande ciambella. Il miele, una volta freddo, solidifica la struttura del dolce che resta intatto per diversi giorni. Secondo le fonti, il dolce viene citato nelle Tavole Eugubine umbre, in cui è considerato un dolce sacrificale. Con tutta probabilità, però, il nome del dolce ha origini medievali e deriverebbe dalla cicerchia, uno dei legumi che facevano parte della dieta dei poveri, simile al pisello e al cece e molto diffuso in Abruzzo e in Umbria. 32 Fegato di agnello, in salsa agrodolce al miele di santoreggia, e cicoria di campo Borgo Spoltino - Mosciano Sant’Angelo (Teramo) Ingredienti per 4 Persone 2 scaloppe di fegato di agnello di circa 250 grammi ciascuna una foglia di alloro un rametto di rosmarino un rametto di salvia un mazzetto di timo (legato con spago da cucina) una cipolla media tagliata a fettine sottili mezzo bicchiere di buon aceto di vino rosso un cucchiaio di miele di santoreggia 350 grammi di cicoria di campo lessata due spicchi di aglio mezzo peperoncino senza semi sale grosso integrale di Cervia pepe nero di mulinello olio extravergine di oliva Mettere sul fornello una padella antiaderente e scaldarla bene. Versare un filo di olio extravergine e rosolare le scaloppe le su entrambi i lati fino a quando non risultino ben dorate. Sistemare le scaloppe su una placca e continuare la cottura al forno a 110° per 15 minuti. Nella stessa padella dove si è rosolato il fegato, versare la cipolla affettata, il miele, l’aceto ed un pizzico di sale. Portare a bollore e staccare, con un cucchiaio di legno, il fondo di cottura del fegato. Aggiungere tutte le erbe aromatiche e cuocere, a fuoco basso e tegame coperto, per circa 15 minuti e comunque fino a quando le cipolle risultano cotte. Nel caso la salsa dovesse asciugare troppo, aggiungere poca acqua calda. Togliere tutte le erbe aromatiche e passare la salsa al passaverdura. Rimettere nella padella il fegato insieme alla salsa e lasciare insaporire per qualche minuto a fuoco basso. Tagliare, leggermente in diagonale, il fegato a fettine e sistemarlo sui piatti di portata. Aggiungere pochi grani di sale di Cervia, una macinata di pepe nero e condire con la salsa ben calda. Servire con la cicoria precedentemente bollita in acqua salata, raffreddata in acqua e ghiaccio e saltata con aglio, olio e peperoncino. 33 © Archivio Slow Food Mortadella di Campotosto Campotosto, Camputostu in dialetto sabino, è un piccolo borgo in provincia de L’Aquila, quasi a confine con il Lazio, situato a 1420 metri di altitudine. Il territorio del paese comprende anche un lago, a cui dà il nome, e una Riserva Statale, parte del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Qui, dove i pochi abitanti arrivano a sfiorare appena le 500 unità, dal 1796, si produce un salume dal nome e dalla forma del tutto particolari: i “coglioni di mulo”, data la forma e la vendita a coppie. La mortadella di Campotosto, questo è il nome con cui oggi viene identificato il salume, ovoidale, legata a due a due da uno spago annodato a mano, viene ancora prodotta secondo antica ricetta, quando le famiglie del paese lavoravano insieme per un’insolita corvée comunitaria per produrre le mortadelle che venivano consumate a partire dalla Pasqua. Si prepara tritando tagli magri e scelti del suino cui si aggiungono pancetta macinata, sale, pepe, e una miscela segreta di spezie. Nell’impasto è inserito un lardello lungo una decina di centimetri. Appena confezionate, le mortadelle sono appese a una pertica ed esposte per circa 15 giorni al fumo di un camino alimentato con legna di quercia o di faggio. Sono poi trasferite in locali di stagionatura naturale: il vento di tramontana e l’altitudine garantiscono una temperatura e un’umidità ideali, indispensabili per l’essiccamento ottimale. A tre mesi sono pronte per il consumo. A taglio la fettina è di colore rosso intenso, scuro, con il lardello bianchissimo, in bocca è cuoiosa e compatta e il lardello è dolce e croccante. Un salume importante, di gusto pieno e lungo, che richiede vini non banali. 34 Il Presidio Sono spesso confuse con i prodotti industriali appesi a centinaia nelle norcinerie e nei negozi di specialità per turisti un po’ di tutto il centro Italia. Ma le differenze, evidenti all’occhio e al palato dell’intenditore, sono sostanziali: le comuni mortadelle industriali sono fatte con sacchetti precuciti, i lardelli sono congelati, la legatura è elastica, la qualità delle carni meno selezionata e contengono additivi e conservanti assolutamente assenti, invece, nel prodotto originale. Proprio per rimarcare questa differenza e salvaguardare la produzione artigianale è nato un Presidio Slow Food. Solo due produttori di Campotosto preparano ancora le mortadelle secondo tradizione, con tagli di carne suina magra di prima scelta, macinata a grana fine, sale, pepe e una concia di aromi dalla miscela segreta. Stagionalità Si producono esclusivamente nel periodo invernale. La stagionatura minima prevista dal disciplinare del Presidio è di due mesi. Area di Produzione: comune di Campotosto (Aq). Responsabile Slow Food Silvia De Paulis tel. 0862 60521 [email protected] Referente dei produttori Ernesto Berardi tel. 0862 909260 – 347 9402266 [email protected] Produttori Nonna Ina Di Goffredo Pandolfi Campotosto (Aq) Via Piave, 8 tel. 0862 900132 – 347 1160947 [email protected] www.nonnaina.it Ernesto e Fabrizio Berardi Campotosto (Aq) Loc. Poggio Cancelli Via S. Giorgio, 1 tel. 0862 909260 347 9402266 – 339 5740047 [email protected] [email protected] www.salumiberardi.it 35 Approfondimenti La mortadella di Campotosto è un salume e non un insaccato, dalle origini antiche. Pare, infatti, che nel Medioevo i produttori si tramandassero oralmente il segreto della loro lavorazione e realizzazione. Proprio per questo, pur avendo secoli di storia da raccontare, è difficile risalire a notizie che ne attestino la nascita precisa. Chiamate in maniera vernacolare “coglioni di mulo”, le mortadelle si producevano anche in paesi limitrofi a Campotosto e una volta arrivate sul mercato romano, per la forma ovoidale, e per la particolarità di essere vendute a coppia, furono etichettate scherzosamente così. Prodotte in maniera artigianale nel paese di Campotosto a cui è stata attribuita l’origine, le mortadelle sono ancora lavorate a mano con tagli di carne di suino pesante macinati a grana fine. La particolare macinatura fine, oltre a donare il nome al prodotto, è indispensabile perché il lardello centrale attecchisca al meglio alla polpa macinata. I tagli della carne sono solo parti nobili: spalla, collo, lombo, pancetta, coscia. Le percentuali cambiano a seconda della parte da macinare e deve essere tale da garantire l’80% di carne magra e un 20% di pancetta. La macinazione viene effettuata con macinacarne con stampo a fori di diametro compreso tra i 2 e i 4 millimetri. In passato, durante la lavorazione artigianale, si utilizzava lo scifone, un contenitore in legno che doveva servire a favorire l’intervento dei batteri lattici nella trasformazione della carne in salume. In questo contenitore, l’impasto, che i norcini chiamano marretto, veniva riposto e periodicamente rimescolato. Tale procedimento consente ancora oggi, anche se lo scifone è stato ammodernato, di aromatizzare le carni e disidratarle parzialmente. Sono pochissime le famiglie che si tramandano ancora questa antica arte norcina, anche se sul mercato si trovano molti prodotti simili alle mortadelle di Campotosto; nonostante ciò non è difficile distinguere le imitazioni dai “coglioni” veri, per la trama fine, colore e aroma inconfondibili. 36 La mortadella di Campotosto a tavola ... Il salume dal colore rosso vivo dell’impasto, risulta in bocca persistente e compatto, mentre il lardello bianchissimo centrale dona un retrogusto dolce e croccante. Suggeriamo dunque di abbinarlo con un vino giovane come il Cerasuolo d’Abruzzo, e per chi riesce a trovarlo, con il pane di Montereale cotto a legna. Il salume non va tagliato a fettine troppo sottili, ma di uno spessore di 2-3 centimetri. 37 © Valerie Ganio Patata turchesa Turca, turchesca o turchesa, proprio per evidenziare le sue origini esotiche, questa patata è entrata a far parte delle coltivazioni abruzzesi sin dal 1700. Il nome, infatti, ricorda il granoturco, ovvero un prodotto che arriva dal lontano Nuovo Mondo. Analogamente al mais, la patata diventa per l’Abruzzo e soprattutto per le zone del Gran Sasso, una ricchezza insostituibile e una importante risorsa alimentare. Poteva essere coltivata a quote notevoli (oltre i 1600 metri), di facile conservazione, si consumava in loco oppure si scambiava con altri prodotti di base. In alcuni centri abitati della montagna aquilana, nei secoli, sono stati impiegati ambienti sotterranei e grotte a ridosso degli agglomerati urbani proprio per conservare il prezioso tubero dopo la raccolta, e averlo a disposizione per tutto l’anno. La patata turchesa ha una buccia color viola intenso ricca di sostanze antiossidanti. Al suo interno, la pasta è di colore bianco candido, ha un basso contenuto in acqua, consistenza e granulosità medie; caratteristiche che la rendono adatta a diversi usi e cotture. È riconoscibile, oltre che per l’inconfondibile colore esterno, la forma irregolare, bitorzoluta, e i numerosi occhi profondamente incavati, segno genetico distintivo delle varietà antiche. Anche i fiori sono particolari, grazie alle sfumature azzurrine dei petali e alla loro lunga persistenza sulla pianta (se la stagione lo consente, può protrarsi fino a novembre). In condizioni favorevoli, la Turchesa è in grado di produrre anche il frutto, una sorta di piccolo pomodoro scuro contenente i semi. Questa antica popolazione, un tempo diffusa nelle aree montane abruzzesi, negli ultimi decenni è stata gradualmente sostituita da cultivar più produttive, rischiando la completa estinzione. 38 Il Presidio Nel 2001, l’Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, ha avviato un importante progetto di valorizzazione e recupero. Oggi l’associazione dei produttori conta oltre venti iscritti che si sono impegnati non solo nella coltivazione, fatta eseguendo i principi di un’agricoltura a basso impatto ambientale, ma anche nella riproduzione dei semi. I produttori si impegnano inoltre a fornire tutte le indicazioni sulla produzione attraverso un codice presente sulla confezione, che rimanda ad una pagina web. Stagionalità La pianta si semina da marzo a maggio e si raccoglie dalla fine dell’estate a ottobre. Area di Produzione: la montagna appenninica interna compresa nel territorio del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga Responsabile Slow Food Luca Schillaci, tel. 0862 6052227 [email protected] Referente dei produttori Filiberto Cioti, tel. 339 6276273 [email protected] Produttori Gino Carpente L’Aquila Via delle Nocelle, 13 tel. 347 9331664 [email protected] Filippo Della Rovere Montebello di Bertona (Pe) Via Ducale, 12 tel. 339 5281289 [email protected] Filiberto Cioti Campli (Te) Via Paterno Te. 339 6276273 Emanuele Falerni Barisciano (Aq) Via Paganica, 6 tel. 327 7864032 Giovanni Matergia Barisciano (Aq) Via Provinciale, 145 tel. 0862 89335 334 1041133 [email protected] Nadja Ettorre Teramo Viale Europa, 65 tel. 333 3862256 [email protected] Filomena Moretti Campotosto (Aq) Via Rio Fucino tel. 0862 900227 Luciana Fazi Acquasanta Terme (Ap) Via Bonamici, 12 tel. 0736 802317 339 7557846 Dante Santavicca Barisciano (Aq) Via Aldo Moro tel. 0862 89420 347 6040425 Antonello Angelini Paganica (Aq) Via Luigi Biordi, 3f tel. 349 3451746 Massimiliano Rosati Amatrice (Ri) Fraz. Nommisci tel. 339 5612293 Ewa Sewera Valle Castellana (Te) Fraz. Macchia da Sole tel. 0861 930403 348 5658957 [email protected] Elias Colasante Montebello di Bertona (Pe) Via Campo delle Piane, 15 tel. 377 142782 [email protected] [email protected] [email protected] Alessandro Perotti Amatrice (Ri) Fraz. S. Lorenzo tel. 0746 88078 334 9308582 [email protected] Monica Del Vecchio Teramo Via D’Ortenzio tel. 329 9235147 331 3632709 [email protected] Elsa Romualdi Rocca S. Maria (Te) Fraz. Belvedere, 8 tel. 0861 247862 388 1619958 [email protected] Andrea Marsili Torre de Passeri (Pe) Via della Resistenza, 8 tel. 085 8884010 340 2829348 Matteo Griguoli Paganica (Aq) Via Arco dei Giusti tel. 338 7398037 [email protected] Angelo Fiordigigli Cooperativa ACF Assergi (AQ) tel. 348 4135270 [email protected] Enrico Di Carmine Pro Loco Pagliari Cortino (Te) Via della Resistenza, 60 tel. 347 7500712 Leonardo Porfirio Cese di Preturo (Aq) Via Cesanuova, 11 tel. 348 2560698 [email protected] Giuseppe Moro Paganica (Aq) Via delle Aie, 4 tel. 0862 68758 338 1693340 [email protected] Domenico Gianni Amatrice (Ri) Fraz. Sommati, 297 tel. 388 4323084 [email protected] Rossella Anzuini Montereale (Aq) Ville di Fano tel. 0862 903511 346 2222333 Claudio Valentini Amatrice (Ri) Fraz. Collepagliuca tel. 0746 826057 388 6349052 Nazareno Sacchi Montereale (Aq) Colle Cavallari Via Piacente tel. 335 5325410 Marina Moresi Amatrice (Ri) Fraz. Cornillo Nuovo, 46 tel. 0746 825017 347 0621116 Roberto Fortini Amatrice (Ri) Fraz. Petrana tel. 0746 88086 338 1703177 39 Approfondimenti Anche la patata, come il mais e riso, si diffonde come cibo di carestia, 40 dietro la spinta della fame e per impulso dei proprietari terrieri. Nel 1700, sui Monti della Laga, la patata si era già affermata, tant’è che da uno scritto inedito di Giuseppe De Thomasis risalente al 1799, e pubblicato postumo da Benedetto Croce nel 1919, risulta che: “cinque o sei anni prima erasi pure introdotta la semina dei pomi di terra, ossia patate, derrate che potrebbero essere di utile rinfranco nelle annate sterili. Siccome però per effetto di un ostinato pregiudizio non si è voluto mai mischiare la farina di grano, ne se faceva uso come di un pomo cotto, così sen’è abbandonata la coltura, come d’una derrata insalubre ed inutile”. La carestia del 1817 ne accelerò la diffusione, che si allargò anche alla fascia costiera, e aumentò in maniera esponenziale nelle zone di altura; a questo si aggiunse la convenienza di una coltura che si sviluppa sotto terra, al riparo dalle devastazioni portate dalle guerre. Man mano l’esperienza in cucina nelle grandi corti fece si che venisse utilizzata come base di piatti interessanti; i libri di ricette del primo 1800 rivelano l’attenzione della cultura “alta” per l’uso in cucina della patata, mentre il detto popolare abruzzese: “la patane è mezze pane”, riassume in maniera molto interessante l’importanza che man mano assunse il tubero soprattutto per gli abitanti delle fasce montane comprese tra i1600-1700 metri di quota. Nei paesi come Barisciano, Assergi, e tutti gli altri dislocati sulle falde meridionali del Gran Sasso, la vocazione pataticola si fece man mano sempre più importante, tanto che modificò parzialmente l’urbanistica dei paesi. Furono scavati ambienti ipogei con porte lignee che dovevano servire per immagazzinare le patate raccolte, mentre nelle zone più isolate, la conservazione avveniva nei campi stessi; si scavava una grossa buca nel campo in cui si deponeva il raccolto, la si chiudeva con paglia, pula e terra per non permettere alla luce di entrare; in quel modo potevano arrivare a conservarsi anche fino alla primavera successiva. La Reale Società Economica Aquilana pubblicò nel 1817 un opuscolo dal titolo Istruzioni per la Coltivazione delle patate. Per uso della Provincia, che doveva servire da insegnamento per la coltivazione, la semina e l’utilizzo del tubero: “è da poco tempo che in alcune case rurali, unendosi colla farina, se ne fanno de’ gnocchi, che riescono squisiti ed assai migliori di quelli fatti di sola farina di grano”. In Abruzzo le varietà colturali sono ancora diverse, e la patata turchesa, presto diventata uno di quei cibi indispensabili per le sue caratteristiche esterne e per quelle culinarie, ha subito rivelato qualità sorprendenti: con una forte percentuale di proprietà antiossidanti utilissime nella lotta contro i tumori, ed un basso contenuto di liquidi rispetto alla media. Insalata di baccalà con patata turchesa Zenobi – Colonnella (Teramo) Ingredienti per 4 persone 400 grammi di baccalà già ammollato 2 gambi di sedano a fettine una foglia di alloro 3 patate bollite un pomodoro grande a fettine 50 grammi di olive nere Far bollire dell’acqua con alloro, aglio, sedano e la buccia del limone. Spegnere ed immergere il baccalà, lasciarlo in immersione per 20 minuti. Scolarlo, sfogliarlo e condirlo con olio, pepe e prezzemolo. Lasciarlo riposare per qualche minuto. Tagliare le patate turchesa già bollite a fette non molto grandi. Aggiungere il pomodoro, la cipolla, le olive nere e il baccalà. Regolare di sale, pepe, olio e prezzemolo. Attendere qualche minuto prima di servire. una cipolla di Tropea a fettine mezza buccia di un limone olio extravergine di oliva prezzemolo sale, pepe 41 © Fabio Liverani Peperone dolce di Altino Ad Altino cresce un piccolo peperone a corno di colore rosso intenso chiamato anche peperone “a cocce capammonte” (a testa all’insù), perché i frutti si sviluppano rivolti verso l’alto. Una volta maturi e raccolti dalla pianta sono infilzati con un ago e dello spago all’altezza del peduncolo, in modo da creare una lunga collana chiamata “crollo”. Si lasciano essiccare all’aria per diversi giorni e, quando non c’è più traccia di umidità, si fanno tostare in forno per qualche minuto oppure si passano velocemente in olio bollente. A questo punto si sbriciolano su primi piatti, sul baccalà, sulle verdure e sulla carne di maiale. I peperoni secchi, dal caratteristico sapore dolce, possono anche essere polverizzati in antichi mortai chiamati “piloni”; la polvere così ottenuta viene utilizzata per il condimento della pasta oppure per la preparazione di insaccati come ad esempio la ventricina del vastese. Si può utilizzare anche come ingrediente della pasta e del pane fatti in casa conferendo all’impasto un vivo colore rosso. L’origine di questo peperone, detto localmente anche paesanello, è probabilmente da ricollegare all’est europeo e all’introduzione della paprika dai Balcani da parte di popolazioni slave stabilitesi nella provincia di Chieti nel XV secolo. Da questo potrebbe essersi originata anche l’abitudine di ridurre in polvere il peperone, caratteristica dell’est Europa. 42 Il Presidio Nel 2009, per promuovere lo studio, e la conservazione e valorizzazione del prodotto, è nata l’Associazione del Peperone Dolce di Altino Oasi di Serranella. Ogni anno in estate viene organizzato un festival nel centro del paese di Altino, dedicato interamente al peperone dolce, in cui tutte le contrade del paese si sfidano a suon di ricette e piatti a base di peperone. L’associazione ha recuperato e valorizzato la coltivazione seguendo un disciplinare rigoroso e con il Presidio vuole promuovere tra i coltivatori una gestione accorta della semente e un metodo di coltivazione ecosostenibile. Stagionalità Si raccolgono dalla prima decade di agosto quando le bacche raggiungono la tipica colorazione rossa. Area di Produzione: comuni di Altino, Archi, Perano, Roccascalegna, Casoli, Sant’Eusanio del Sangro ed Atessa (Chieti). Responsabile Slow Food Michele Scutti tel. 328 6256910 [email protected] Referenti dei produttori Domenico D’Orazio tel. 333 7425829 [email protected] Produttori Terra Fonte Altino (Ch) Via Briccioli, 24 tel. 348 2108834 [email protected] Domenico Daniele Altino (Ch) Contrada Sant’Angelo, 49 tel. 366 3406536 Moreno Pellicciotta Altino (Ch) Contrada Sant’Angelo,103 tel. 0872 985438 Rosso Saraceno Altino (Ch) Contrada Sant’Angelo, 24 tel. 333 7425829 [email protected] La Tavola dei Briganti Altino (Ch) Via Mandrelle, 22 tel. 333 6650118 [email protected] Domenica Angela Troilo Archi (Ch) Contrada Ruscitelli, 69 tel. 338 7613430 Aca Agrolearia Altino (Ch) Contrada Briccioli, 1 tel. 329 8671588 [email protected] La Regina di Franco di Lallo Altino (Ch) Via Bachelet, 26 tel. 334 8740710 [email protected] Tenuta Aschari Perano (Ch) Via Fontolfi, 29 tel. 333 9111490 [email protected] 43 Approfondimenti In Abruzzo le prime testimonianze risalgono al 1752, quando in un atto del notaio di Gessopalena, relativo al territorio di Roccascalegna, la pianta viene citata con il nome di peparoli. Nel corso dell’800 la coltivazione dei peperoni si é completamente radicata nelle campagne abruzzesi e tuttora resta uno degli alimenti forza dell’alimentazione rurale della regione, insieme al pomodoro. Un motto popolare spiega bene il ruolo di questi due nuovi ortaggi sulla tavola del popolo: “pomodori e peperoni, l’allegria del cafone”. A tutela del peperone dolce di Altino Oasi di Serranella è nata un’associazione con il compito di promuovere iniziative di produzione e valorizzazione del prodotto attraverso manifestazioni e festival itineranti. Sono previsti anche corsi di formazione e realizzazione di progetti di filiera in collaborazione con enti regionali e territoriali. Tra gli obiettivi da portare avanti c’è anche quello del miglioramento delle fasi di produzione e delle caratteristiche intrinseche del prodotto, puntando a dare un nuovo impulso a quella che fino ad un ventennio fa era una delle principali attività economiche del paese di Altino. Un importante appuntamento è quello del Festival del peperone dolce di Altino – Palio culinario delle contrade, che si svolge ogni anno a fine agosto nel centro storico di Altino. Tutte le contrade si sfidano a “suon di padelle”, proponendo ciascuna un men a base di peperone dolce di Altino. A giudicarli sarà una giuria di esperti grastronomi che eleggerà la contrada vincitrice. Il palio è regolato da un bando emesso ogni anno nel mese di maggio, in cui vengono fissati i parametri di valutazione delle ricette, i criteri per il punteggio da attribuire la biodiversità nel piatto, il suo equilibrio, l’abbinamento con altre pietanze e il riferimento alla tradizione storicoculinaria della comunità. L’aspetto interessante è che ogni menù ha una storia, un avvenimento particolare, un aneddoto da raccontare, e questo porta a rinnovare ogni anno la storia culinaria che Altino può vantare. Il festival nelle varie edizioni ha ricevuto un grande plauso da parte del pubblico che ogni anno è sempre più numeroso; per questo è divenuto ormai un appuntamento culinario di grande richiamo in tutto l’Abruzzo. 44 Cacigni selvatici di campagna con fagioli bianchi tondini del Tavo e peperone dolce di Altino Locanda Manthone’ - Pescara Ingredienti per 4 persone: 300 grammi di fagioli bianchi 4 peperoni rossi di Altino 1 kg di cacigni di campagna (tarassaco) una carota una cipolla una costa di sedano olio extravergine e sale q.b. Lessare i fagioli con sedano, carote e piccola cipolla bianca intera e farli raffreddare. Mettere in una padella alta i cacigni con un filo d’olio e farli “soffocare” a fuoco lento, senza aggiungere acqua. A cottura ultimata farli ripassare con olio extravergine e uno spicchio d’aglio intero. Ripassare anche i fagioli con olio extravergine di oliva e adagiarli sul piatto: aggiungerci i cacigni poggiandoli sopra ed infine guarnire col peperone dolce di Altino fritto per tre secondi. Aggiungere un filo d’ olio ed il piatto é pronto. Secondo lo chef: “Questo piatto era il pasto principale dell Abruzzo contadino del dopo guerra. Quando gli uomini tornavano dal lavoro in campagna, la moglie cucinava i frutti della terra: quindi legumi, verdure ed ortaggi. Infatti, a pensarci bene, questo é un piatto completo perché unisce le proteine e le verdure spontanee, ricche di minerali e fibre, ed è dotato di un’ottima digeribilità.” 45 © Valerie Ganio Salsiccia di fegato aquilana L’allevamento del maiale, insieme a quello della pecora, è sempre stato per l’Abruzzo una risorsa fondamentale, soprattutto per gli abitanti delle zone più interne. La salsiccia di fegato aquilana, detta localmente “cicolana”, è un insaccato storico della provincia in questione. Seguendo il rituale, ogni anno in maiale veniva ucciso tra dicembre e gennaio, proprio per sfruttare le gelate notturne che facilitavano la frollatura e la conservazione delle carni. Gli ingredienti principali della salsiccia in questione sono tre: cuore, fegato e lingua, a cui viene aggiunta un po’ di carne magra e grasso, sempre di suino. Un ottimo modo per impiegare le parti meno nobili dell’animale, grazie alla sapiente speziatura. La tradizione comprende due tipologie di salsiccia: quella di fegato classica, che prevede il condimento delle carni con pepe, aglio, peperoncino, e la salsiccia di fegato dolce, in cui si aggiunge anche del miele. Le dosi esatte delle specie da utilizzare sono un segreto gelosamente custodito dai norcini che in famiglia continuano a tramandare il rito, e per entrambe le tipologie di salsiccia, il periodo di produzione va da novembre ad aprile. La carne viene impastata e insaccata nel budello naturale, che viene legato a mano, grazie ad un’abile torsione al centro della salsiccia che conferisce la caratteristica forma a ferro di cavallo. Le salsicce vengono mantenute in un ambiente caldo per circa una settimana, in prossimità di una stufa o di un camino, e infine appese ad asciugare su una pertica per una trentina di giorni in un ambiente fresco e non termocondizionato. 46 Il Presidio Se la tradizione norcina delle aree montane della provincia aquilana ha mantenuto alcune produzioni tipiche di assoluta eccellenza, la salsiccia di fegato sta invece rischiando di scomparire,per via del cambiamento dei gusti dei consumatori. La produzione è ormai limitata a pochi artigiani che lavorano abilmente le carni e le frattaglie di suini del territorio. Il Presidio vuole valorizzare questa produzione storica, riunendo i produttori rimasti in una associazione e raccogliendo le adesioni sulla base del rispetto di un disciplinare rigoroso, che preveda il rispetto della tecnica tradizionale, escluda conservanti e additivi e si basi su una filiera locale, reintroducendo – dove possibile – anche l’allevamento dei suini abruzzesi a pelo nero ormai quasi estinti. Stagionalità La produzione avviene tra novembre e aprile. Dopo la legatura, le salsicce sono appese per una trentina di giorni in un ambiente fresco. Responsabile Slow Food Giovanni Cialone tel. 338 5861506 [email protected] Referente dei produttori Mauro De Paulis tel. 366 3319253 Produttori Salumi Berardi Campotosto (Aq) Poggio Cancelli Via San Giorgio tel. 0862 909260 – 347 9402266 [email protected] Ugo De Paulis Paganica (Aq) Piazza Concezione tel. 0862 68422 – 366 3319253 Alessandri Pelini Castel del Monte (Aq) Piazzale del Lago tel. 333 2449006 [email protected] © Valerie Ganio Area di Produzione: comuni del Gran Sasso Aquilano, dei Monti della Laga Aquilana e della media e alta Valle dell’Aterno, provincia de L’Aquila. 47 Approfondimenti L’Abruzzo sta cercando di ricostruire la propria identità alimentare e 48 culturale, anche recuperando specie vegetali e animali; è il caso del maiale nero d’Abruzzo, una razza suina quasi del tutto scomparsa a causa dell’industrializzazione e dell’arrivo del maiale “rosa”. Fino al secolo scorso esisteva un albo di razza e, nel 1926, sono stati contati più di 128mila capi. Diversi tra loro, cintati, macchiati, privi di setole, tutti erano di colore nero o grigio. Probabilmente l’origine della razza è campana, e pare che i romani ne fossero già a conoscenza; diverse fonti attestano la presenza di tali allevamenti e ne enumerano le doti di adattabilità e rusticità. Oggi, l’interesse di appassionati allevatori locali e il riconoscimento da parte del Ministero delle Politiche Agricole hanno reso possibile la salvaguardia di un patrimonio di biodiversità inestimabile. L’allevamento tradizionale si svolge in ampi spazi di boschi di faggio, castagno, quercia, con scarso utilizzo di mangimi, anzi, i maiali si cibano di ghiande, di tuberi, radici, piccoli insetti e frutti di bosco; per questo motivo il lardo dell’animale e le carni sono molto tenere, compatte e saporite. Da queste si ricavano anche le salsicce di fegato aquilane, tradizionali e dolci. Per la salsiccia di fegato “cicolana”, le frattaglie tagliate in punta di coltello, vengono fatte riposare insieme al guanciale macinato, l’aglio il peperoncino, il miele e il mosto cotto. Quando il composto è pronto, lentamente si insacca nel budello di maiale preparato in precedenza e sgrassato. I movimenti devono essere lenti, facendo attenzione che non si creino buchi d’aria nell’impasto; si procede poi alla legatura con lo spago, avendo cura di bucare e pressare con le mani le salsicce per evitare la formazione di sacche di aria che comprometterebbero il risultato. Le “cicolane” al miele vengono servite al mattino del giorno di Pasqua, insieme alla pizza pasquale, una pagnotta semidolce e uova sode. Sembra che l’utilizzo del miele nell’impasto sia stato introdotto in Abruzzo dai Duchi di Acquaviva, signori di Atri, possessori di molti territori in regione, che avevano a loro volta appreso questa tecnica dai mercanti veneziani che erano giunti dal nord. Quindi, al sapore forte della salsiccia di fegato tradizionale, si unì quello più dolce del miele, creando un gusto inaspettatamente appetitoso e molto ricercato. La salsiccia di fegato aquilana a tavola.... Il salume dal colore scuro per la presenza delle parti di fegato, cuore e lingua, risulta in bocca morbido e avvolgente, la versione con miele dona un retrogusto dolce anzichè il finale piccante della versione al peperoncino. Suggeriamo dunque di abbinarlo con una birra artigianale, magari locale, o se si preferisce un vino è da provare con un Montepulciano d’Abruzzo passito, insolito ma sicuramente più adatto ai sentori del fegato, di difficile abbinamento. Il salume non va tagliato a fettine troppo sottili, ma di uno spessore di 2-3 centimetri. 49 © Paolo Andrea Montanaro Salsicciotto frentano Il salsicciotto frentano è un salume tradizionale dell’alta e media valle del Sangro e dell’Aventino, un’area collinare alle pendici orientali della Maiella, lungo il corso del Sangro, che va da Lanciano a Casoli fino a Montenerodomo. Qui la norcineria ha una storia antica: in particolare il salsicciotto è già citato nel 1592 negli “Antichi Capitoli della città di Lanciano”. Era quindi una pratica comune al tempo, tanto da rendere necessaria la definizione di una quotazione di mercato. Un’altra testimonianza, si ritrova anche nel libro dell’introito generale del Convento di Santa Chiara in Lanciano, risalente al XVIII secolo, dove lo si segnala quale compenso per l’avvocato che curava vertenze delle religiose. Questa nobile tradizione norcina non si è persa, e i salsicciotti sono ancora uno dei prodotti più interessanti della gastronomia locale, insieme all’olio extra vergine di oliva, a una grande varietà di dolci e pani, a pecorini e caciotte di qualità. I salsicciotti frentani sono insaccati di carne di maiale realizzati sostanzialmente con tagli pregiati: prosciutto, spalla, lombo, e capocollo e la parte grassa non supera mai il 10-20 % del totale. Le carni sono macinate a grana media e conciate con sale e pepe: l’unica spezia impiegata nella concia in grani spezzati o interi. L’impasto è insaccato in un budello naturale e legato manualmente alle estremità con uno spago. Se ne ottiene un salame lungo circa 25 centimetri che viene lasciato riposare per alcuni giorni. Dopo il quinto , sesto giorno lo si sottopone a pressatura sotto grandi tavole in legno fino a fargli assumere la forma di un piccolo parallelepipedo irregolare. Questa è la sua caratteristica peculiare. La stagionatura può arrivare fino ai due mesi - mai più di tre - e la conservazione a volte avviene anche sotto strutto o olio. Come tutti i salumi prodotti ancora in modo tradizionale, la produzione è tipicamente invernale, inizia in autunno e si conclude in tarda primavera. 50 Il Presidio I norcini in quest’area di Abruzzo che lavorano carni di propria produzione sono piuttosto rari, ma esiste ancora una produzione che si fonda sui suini allevati localmente. Anche la produzione casalinga è ancora frequente, sia quella finalizzata all’autoconsumo, che alla vendita nelle macellerie o negli agriturismi. Il Presidio riunisce sei artigiani norcini che producono il salsicciotto secondo la tecnica tradizionale impiegando carni di suino proprie, oppure recuperate da piccoli allevamenti locali. Alcuni di loro hanno anche aziende agrituristiche. Di comune accordo è stato definito un disciplinare di produzione che regola le varie fasi di lavorazione e che vieta l’impiego di conservanti e di altri additivi. Per fare i salsicciotti del Presidio servono solo carni suine, aglio, pepe; è prevista solo una deroga che consente l’impiego di minime quantità di nitrati. Il Presidio prevede inoltre che le fasi di allevamento e macellazione avvengano totalmente nell’area di produzione, che l’alimentazione dei suini sia basata su prodotti naturali e che sia garantita l’assenza di ogm. Stagionalità Il salsicciotto frentano si produce dall’autunno fino a tarda primavera. Area di Produzione: comuni dell’area frentana (provincia di Chieti). Responsabile Slow Food Michele Scutti tel. 328 6256910 [email protected] Referente dei produttori Tiziano Teti tel. 333 6651560 [email protected] Produttori La Guardata dei Fratelli Teti Torricella Peligna (Ch) Corso Umberto I, 156 tel. 0872 969452 – 333 6651560 [email protected] Agriturismo Aia Verde Pizzoferrato (Ch) Casale Cortellacci, 2 tel. 0872 9463339 www.aiaverde.com Agriturismo Caniloro Lanciano (Ch) Contrada S. Onofrio, 134 tel. 0872 5029 – 347 1879277 [email protected] Fonte La Spogna Di Maria Felicia Cimone Montenerodomo (Ch) Contrada Lago Saraceno, 1 tel. e Fax 0872 960225 Assunta Travaglini Casoli (Ch) Contrada Laroscia, 9 tel. 0872 985365 [email protected] Le Tre Casette di Francesco di Paolo Gessopalena (Ch) Via Santa Maria, 6 tel. 0872 988786 – 338 1659269 Il Mulino di Franca Tamburrino Montenerodomo (Ch) Contrada Schiera tel. 0872 969729 [email protected] 51 Approfondimenti Fino a qualche tempo fa, in Abruzzo, l’allevamento del maiale era un’attività imprescindibile per la sopravvivenza dei paesi delle zone pedemontane ed era tradizione allevare un maiale “comunitario”, che viveva nel paese e veniva nutrito da chi poteva. A gennaio, durante i giorni dedicati a Sant’Antonio, il maiale veniva macellato e, le sue carni consumate dalla comunità durante una grande festa. Il rito della macellazione del maiale, infatti, terminava il 17 gennaio, giorno in cui cade la ricorrenza religiosa dedicata al Santo, chiamato anche Sant’Antonio “del porcello”, perché raffigurato con un maiale ai suoi piedi. Oggi, nelle feste popolari il maiale è ancora legato a Sant’Antonio Abate, protettore del maiale e degli animali in genere. Ma il maiale non è stato sempre ben visto, anzi, con la religione cristiana, l’animale nero che grufola, presto è diventato anche sinonimo di eversione e simbolo negativo, per questo viene addomesticato da Sant’Antonio, dopo aver sconfitto la tentazione nel deserto. Da qui nasce la tradizione del maiale purificato ai piedi del santo. In Abruzzo al giorno d’oggi esistono moltissime manifestazioni, sagre, eventi, legati al maiale e alla ricorrenza della festa di Sant’Antonio. Nella vita quotidiana, in realtà, la presenza di un maiale in casa era importante perché assicurava la disponibilità di alcuni cibi fondamentali per vivere, soprattutto in inverno. Uno dei compiti principali era quello di fornire grassi e riserve di proteine attraverso i salumi e gli insaccati. La carne fresca veniva consumata raramente, anzi, farlo significava sprecare il potenziale cibo per la fredda stagione; la carne di maiale doveva servire per le scorte. Appunto per questo, si tendeva a consumare soprattutto le parti meno nobili, deperibili e di scarto che venivano fuori durante la macellazione. Alcune di queste preparazioni adesso si sono trasformate in piatti rari e ricercati: cif e ciaf; il sanguarello; il fegato con la rizza; cervello fritto; le costine e le spuntature; il sanguinaccio; la coppa di testa, le salsicce matte e l’annuje, confezionate con stomaco, interiora, carne poco pregiata e grasso. Con il resto della carne si preparavano buone salsicce, salami, prosciutti, coppe. Per le salsicce occorreva un’accurata selezione delle carni mescolate ad una giusta quantità di grasso e magro. 52 Il salsicciotto frentano a tavola... Il salume dal colore rosso vivo risulta in bocca compatto e croccante. La permanenza sotto strutto o in olio caratterizza i sentori al naso e in bocca, donando complessivamente un leggero e piacevole profumo fungineo. Suggeriamo dunque di abbinarlo con un bianco strutturato, magari un Trebbiano d’Abruzzo corposo e sapido. Il salume va tagliato a fettine non troppo spesse, ma di uno spessore medio di un centimetro. 53 © Archivio Slow Food Uva montonico Sono in pochi a conoscere il montonico e per avere notizie storiche su questo vitigno si deve cercare a ritroso nel tempo. Una fonte risalente al 1615 del Catasto Onciario testimonia che già in quel periodo nel territorio di Bisenti fosse presente un vitigno col nome di montonico. Durante i secoli è stato più volte citato come vitigno molto produttivo e buono da mangiare. La sua fama infatti è legata più alla produzione di uva da tavola che alla vinificazione. Fino agli anni Sessanta il montonico era ampiamente diffuso in Abruzzo ma da quella data in poi la sua area di coltivazione è andata sempre più ritirandosi e oggi rimane pressoché solo nella zona di Bisenti, nel teramano. Il grappolo è grande, allungato, dalla forma quasi cilindrica e gli acini sono grossi e rotondi con buccia spessa e consistente di colore giallo verdognolo. Dimostra una buona tolleranza agli attacchi di botrite e resiste bene anche al clima freddo invernale. La piena maturazione avviene in ottobre e il pregio di questa uva è quello di resistere bene all’appassimento così da essere consumata dagli abitanti della zona durante l’inverno. Potremmo definirla un’uva a molteplice attitudine grazie alla quale la popolazione di questa zona povera e montana alle pendici del Gran Sasso ha trovato sostentamento per secoli e sviluppato una piccola economia. Si usava e si vendeva infatti come uva fresca da tavola o passita, come vino e come aceto. 54 Il Presidio Dopo aver rischiato l’estinzione negli ultimi decenni, il montonico è oggi coltivato in appezzamenti per lo più familiari dalla popolazione locale che continua a festeggiarlo nella locale festa dell’uva e del vino che si tiene in ottobre nel centro storico di Bisenti. Alcuni giovani produttori, grazie al Presidio, vogliono rilanciare la sua coltivazione e recuperare i vigneti ormai abbandonati valorizzando questo vitigno come uva oltre a recuperarne la vinificazione e la trasformazione in aceto. Stagionalità La raccolta dell’uva montonico avviene a fine ottobre Area di Produzione: comune di Bisenti e comune di Cermignano, nello specifico la frazione di Poggio delle Rose, in provincia di Teramo Responsabile Slow Food Marcella Cipriani, tel. 329 2744317 [email protected] Referente dei produttori Francesca Valente tel. 342 6678377 [email protected] Produttori Francesca Valente Bisenti (Te) Contrada Chioviano I tel. 342 6678377 [email protected] www.agricolavalente.com Matteo Ciccone Bisenti (Te) Via Chioviano Basso, 38 tel. 340 5537497 [email protected] © Archivio Slow Food Agriturismo Domus di Rosa Narcisi Bisenti (Te) Contrada Collemarmo tel. 0861 997409 [email protected] 55 Approfondimenti 56 Nei primi del Novecento l’Abruzzo inizia ad avere una produzione di uve tale da poterle esportare e tra queste, nel teramano, figurano alche l’uva pane, San Francesco e Poggio Rose, una sottovarietà del locale di montonico. In alcune zone era uso comune pigiare l’uva nella vigna, per trasportare a casa solo il mosto, per questo, nelle vicinanze dei vigneti sono state ritrovate delle vasche scolpite nella pietra, utilizzate proprio per la pigiatura, e semplici torchi azionati dal peso di una grossa pietra. La presenza di questi oggetti conferma la coltura della vite e la produzione del vino in aree, anche pedemontane, in cui adesso queste pratiche sono scomparse del tutto. Dell’importanza del montonico ci sono diverse testimonianze e la storia di questo vitigno è legata in maniera indissolubile a quella della vitivinicoltura in Italia centrale. Confusa spesso con altri vitigni o chiamata con altri nomi, Racciapolone o Ciapparone, che ben indicano le sue caratteristiche, questa è una vite capace di produrre grandi quantità di uva dal grappolo grande e pieno. Vincenzo Tanara, uno studioso bolognese, nel 1644 scriveva “... Il Montenego (montonico) è della stessa qualità del torbiano (trebbiano) ma non si può lasciare sulle viti fino alla sua matura perfezion, perché essendo buono da mangiare e conservandosi assai pe’ il verno, viene rubbato, non fa vino dolce ma saporito...”. Il boom si ebbe nel 1700, quando, per le enormi quantità di vino prodotte, a Bisenti, iniziarono ad aprire diverse botteghe di bottai. La botte del maestro Ippolito Brinci, originario di Civitanova Marche e bisentino d’adozione, è realizzata interamente in rovere e senza cerchi di sostegno. Negli anni ’30 la fillossera distrusse le viti e la forte emigrazione dei lavoratori autoctoni decretarono la fine dell’età dell’uva montonico. Un’uva ricca di pregi, che per secoli ha garantito la sopravvivenza delle microeconomie del luogo, ma che con il passare degli anni si è andata perdendo, quasi del tutto soppiantata dal trebbiano o dal cococciola. Per questo motivo, il montonico, è il soggetto di un progetto nato qualche anno fa, dal volere di alcuni bisentini, per cercare di restituire alle loro uve e al loro vino la dignità di cui un tempo tanto godevano; con il loro impegno, la Regione Abruzzo e l’ARSSA, il montonico è tornato a vivere sulle colline da cui era stato cancellato, arrivando a produrre anche uno spumante di qualità. Da trent’anni si organizza anche il “Revival dell’uva e del vino Montonico”, che si svolge la prima domenica di ottobre, richiamando una grande folla ad assistere alla sfilata dei carri allegorici allestiti dalle contrade e paesi limitrofi. Carpaccio di baccalà d’autunno La Piazzetta - Sant’Omero (Teramo) Ingredienti per 4 persone 500 grammi di baccalà ammollato (filetto di Gadus Morhua) Spremere i chicchi d’uva montonico. Sfilettare il baccalà e lasciarlo marinare per venti minuti nel succo del montonico. Assemblare il carpaccio in un piatto da portata, decorare con chicchi di melograno e chicchi d’uva, condire con olio extravegine di oliva. 150 grammi di uva montonico un melograno olio extravergine di oliva 57 © Fabio Liverani Ventricina del Vastese Raramente un territorio ha un legame così forte con un prodotto come quello che unisce l’alto Vastese alla ventricina. Per prepararla, un tempo, si usavano i maiali neri o rossi, oggi si acquistano le razze bianche più comuni e diffuse sul territorio. Macellata la bestia si separano le parti più nobili (le cosce, il lombo e le spalle) che sono prima attentamente mondate, disossate e private delle parti più dure e fibrose (quelle aderenti alle ossa) e poi sezionate in piccoli pezzi di due o tre centimetri, che riposeranno per una notte. Si condiscono con sale e polvere di peperone dolce in uguale misura e in alcuni casi con finocchietto selvatico e una spruzzata di pepe. La polvere di peperone si ottiene facendo essiccare per un paio di giorni i peperoni, quelli rossi, piccoli e dolci provenienti dal paese di Altino. Quindi si scelgono quelli sani, si aprono, si puliscono e si pestano nel mortaio. Mediamente occorrono 12 quintali di peperoni freschi per ottenere un quintale di polvere. Si insacca l’impasto nella vescica di suino, badando di pressarla bene per far fuoriuscire l’aria, e si ottiene una palla di uno o due chili che sarà posta nella rete, legata a mano con lo spago e poi appesa ad asciugare in una stanza con un camino acceso da almeno sette, otto giorni. Dopo l’asciugatura la ventricina stagiona in un ambiente ventilato e fresco. A tre mesi si pulisce la superficie esterna dalle muffe e si ricopre con lo strutto, che protegge il salume da infiltrazioni di insetti e dagli sbalzi di temperatura.La ventricina si consuma dopo sette, otto mesi. Nel territorio di origine si utilizza anche, tagliata a tocchettoni, come componente del ragù, ma abitualmente si mangia cruda affettata grossolanamente con il coltello. La pasta ha un colore rosso arancio, diffuso anche intorno ai pezzi di grasso, un aroma fragrante derivante dalla lunga stagionatura e dalla caratteristica speziatura. A volte si avvertono note agrumate che derivano dall’abitudine di lavare le vesciche per l’insacco in acqua insaporita da arance o limoni. Il gusto finale è dominato dal piccante, che tuttavia non prevarica e non nasconde mai il sapore della carne e delle spezie. 58 Il Presidio Da un maiale se ne ricavavano all’incirca tre abbastanza grandi, un tempo ogni famiglia le apriva solo nei momenti importanti della vita rurale, quali la mietitura e la vendemmia. Il Presidio sta lavorando per valorizzare questo nobilissimo salume cercando di far crescere la produzione e recuperare il processo di produzione tradizionale. Intende inoltre favorire l’allevamento di suini pesanti sul territorio di produzione. Stagionalità Si produce tutto l’anno ad eccezione dei periodi più caldi, la maturazione in media è di 100 giorni. Responsabile Slow Food Raimondo Pascale tel. 368 3151753 [email protected] Referente dei produttori Michele Piccirilli tel. 347 4027606 [email protected] Produttori Fattorie del Tratturo Scerni (Ch) Contrada Ragna, 61 tel. 0873914173 [email protected] Ventricina & Dintorni di Michele Piccirilli Roccaspinalveti (Ch) Contrada Bisceglie, 16 tel. 0873 959159 [email protected] La Genuina Carunchio (Ch) Via Provinciale, 8 tel. 334 2811711 [email protected] Ventricine Racciatti Furci (Ch) Via G. Mazzini, 17 tel. 0873 939383 – 339 9372792 [email protected] Stefano Di Fiore Fresagrandinaria (Ch) Via Della Libertà tel. 347 4479595 [email protected] Il Biancospino Carunchio (Ch) Via primovico Santa Maria tel. 333 2951913 [email protected] © Fabio Liverani Area di Produzione: medio e alto Vastese (provincia di Chieti). 59 Approfondimenti 60 La tradizione delle “maialate”, ovvero del rito dell’uccisione del maiale e la produzione di diverse tipologie di salumi e insaccati, sono la prova lampante dell’arte norcina in Abruzzo. La ventricina è uno dei prodotti di qualità e di nicchia della regione, della zona del medio-alto vastese. Le sue origini non sono ancora molto chiare, ma l’aspetto originale è dato dall’uso del peperone macinato in polvere, che può essere dolce o piccante, aggiunto alla polpa. La prima attestazione storico-lessicale della ventricina risale al 1880, nel Vocabolario dell’uso abruzzese di Gennaro Finamore, in cui si trova scritto: “vendricine. sf. Salame di carne porcina insaccata nella trippa [ventre n.d.r.] del maiale stesso”. Ma già nel 1811, in Abruzzo Citra (area geografica corrispondente all’attuale provincia di Chieti), la cosiddetta Statistica Murattiana cita un salame in qualche modo riconducibile alla ventricina. Nel catalogo dei lavorati di carne porcina si parla di un insaccato formato dal ventricolo del porco ripieno di carne suina, condito solo con semi di finocchio. Non c’è dunque menzione del peperone secco, che infatti entra nella preparazione del salume nel XIX secolo, quando inizierà ad avere una diffusione massiccia, fino a diventare un ingrediente essenziale nella realizzazione di salumi. I dati sembrano attestare il passaggio dalla ventricina “bianca” a quella “rossa”, tra il 1850 e il 1880. La particolarità di questo salume è che viene realizzato solo con le parti più nobili dell’animale, il prosciutto, e sembrerebbe che la decisione di farlo letteralmente a pezzi, e rinunciare alla sua naturale forma, sia dovuto al fatto che il clima non fosse particolarmente adatto alla buona riuscita. I locali per la lavorazione e stagionatura erano, e in alcuni casi lo sono tuttora, realizzati in pietra di fiume, perché devono respingere le temperature troppo elevate durante la fase di stagionatura. Questi, però, sono caratterizzati da tassi di umidità troppo alti, che potrebbero comprometterne la buona riuscita della ventricina. Decisiva è stata, dunque, l’introduzione nelle carni della polvere di peperone rosso, una spezia con alte capacità cinetiche rispetto all’acqua e per questo in grado di assorbire i fluidi molecolari durante la prima fase di asciugatura. Proprio l’introduzione della spezia ha permesso di iniziare una produzione continua di quello che doveva essere, già nel XIX secolo, un prodotto tipico di grande pregio. Pettole con ragù di ventricina dell’Alto Vastese Villa Maiella - Guardiagrele (Chieti) Ingredienti per 4 persone Per la pasta 300 grammi di semola di grano duro grezzo 200 grammi di farina 00 5 uova Per il condimento 300 grammi di ventricina dell’Alto Vastese 1 spicchio d’aglio 30 grammi di cipolla 1 foglia di alloro 1 bicchiere di vino bianco secco 400 grammi di polpa di pomodoro olio extravergine d’oliva Per il ragù: far imbiondire nell’olio lo spicchio d’aglio schiacciato, toglierlo e aggiungere la cipolla tagliata a julienne. Quando è appassita, aggiungere l’alloro e la ventricina sbriciolata. Far cuocere a fuoco lento per cinque minuti, bagnare con il vino e evaporare completamente, poi unire la polpa di pomodoro. Lasciar cuocere lentamente per un’ora. Per la pasta: impastare tutti gli ingredienti fino ad ottenere un composto liscio e omogeneo che si lascia riposare per circa trenta minuti coperto con pellicola da cucina. Stendere la pasta con il matterello, ottenendo una sfoglia dello spessore di un millimetro e mezzo, con le dita ricavare dalla pasta piccoli pezzi irregolari lunghi al massimo tre centimetri e larghi due. Cuocerli in acqua salata , scolarli e farli mantecare con la salsa in una padella. Per la presentazione: distribuire la pasta nei piatti e accompagnare a piacere con pecorino grattugiato. sale pecorino 61 Olio extravergine italiano L’olivicoltura italiana, quell’immenso patrimonio di olivi, di contadini e di frantoiani che popola la penisola italiana fino alle isole più meridionali, vive un momento di estrema sofferenza. Per questo Slow Food ha creato un Presidio nazionale che promuove il valore ambientale, paesaggistico, salutistico ed economico dell’olio extravergine italiano. Un progetto di carattere nazionale perché i produttori di extravergine affrontano le medesime criticità in tutta Italia, nelle diverse aree di produzione. Il Presidio Gli olivicoltori aderenti al Presidio nazionale dell’olio extravergine italiano dovranno avere oliveti di cultivar autoctone del territorio di appartenenza gestiti senza l’uso di fertilizzanti di sintesi e diserbanti chimici. Per eventuali trattamenti, sono consentiti soltanto prodotti a basso impatto ambientale, che garantiscano un residuo finale sul prodotto pari allo zero. Nel caso di pendenze o situazioni paesaggistiche complesse, le lavorazioni in campo dovranno seguire buone pratiche agronomiche per evitare l’erosione e gli smottamenti dei terreni. Inoltre, poiché potare o raccogliere le olive da piante secolari è molto più oneroso rispetto a impianti più giovani, per evitare l’abbandono degli oliveti più antichi, il Presidio prevede che almeno l’80% delle piante abbia un’età minima di 100 anni. Infine, i produttori dovranno dotarsi dell’etichetta narrante per raccontare e valorizzare adeguatamente la propria storia, il proprio territorio e il proprio lavoro. Oliva monicella Per maggiori informazioni sui produttori aderenti: www.fondazioneslowfood.it 62 Al confine con il Lazio, nella zona di San Vincenzo Valle Roveto, da secoli continua a tramandarsi la coltura di una specie di olivo chiamato monicella. Nei comuni della valle ci sono piante di monicella e alvia, che per la loro enorme mole, sono la testimonianza della loro presenza secolare in questi territori. È una pianta vigorosa, adatta al clima collinare, a terreni magri e poco profondi, che fruttifica in maniera abbondante e in modo abbastanza costante. Il microclima, particolarmente adatto all’olivicoltura, fa si che non si sviluppino particolari batteri e funghi che potrebbero danneggiare piante e raccolto. Molti coltivatori stanno portando le loro aziende alla coltivazione biologica, per produrre un olio extra vergine biologico certificato e, insieme, hanno deciso di creare l’Associazione La Monicella della Valle Roveto, per promuovere lo sviluppo del settore olivicolo, delle imprese agricole e dei frantoi. È nato da poco anche il progetto “Adotta un olivo”, per cui chi è interessato può adottare una pianta appartenente ad uno degli associati, ed avere la garanzia di ottenere un olio extra vergine di alta qualità caratterizzato da un colore oro con riflessi verdi, mediamente fruttato, con un leggero aroma di mandorla fresca e note amare di carciofo, dal gusto leggermente piccante con retrogusto amaro, ricco di sostanze fenoliniche ed antiossidanti. Si ringraziano i ristoratori che hanno gentilmente collaborato BORGO SPOLTINO Strada Selva Alta Mosciano Sant’Angelo (Te) tel. 085 8071021 ZENOBI Contrada Riomoro, 132 Colonnella (Te) tel. 0861 70581 LOCANDA BARONE Contrada Case del Barone Caramanico Terme (Pe) tel. 085 92584 FONT’ARTANA Piazza Duca Abruzzi, 8 Picciano (Pe) tel. 085 8285451 LOCANDA MANTHONE Corso Manthonè Pescara tel. 085 4549034 SAPORI DI CAMPAGNA Localita’ Orfanotrofio Frasca Ofena (Aq) tel. 0862 954253 MINGHINO CADADIA Via Crispi, 71 Avezzano (Aq) tel. 0863 412687 TAVERNA DE LI CALDORA Via Umberto I Pacentro (Aq) tel. 0864 41139 TAVERNA 58 Corso Gabriele Manthone, 46 Pescara tel. 085 690724 REALE Piana Santa Liberata Castel di Sangro (Aq) tel. 0864 69382 LA PIAZZETTA Via Alla Salara, 9 Sant’Omero (Te) tel. 0861 88530 VILLA MAIELLA Via Sette Dolori, 30 Guardiagrele (Ch) tel. 0871 809319 63 Tecn I ca ica d (cug pperi i cons alte nietti sono rip erva uno rnando nel di osti inzione (Pre di sale uno staletto lo recipi si Nei dio marin rato cale), enti. i ca quattr Slow Fo o grosdi capp cioè pperi o, cinq od). so di Tr eri a apan che travasdevono ue gior i calo l’azion ati pi essere ni segu li de re, dovue comù volte, “curat enti sono teriori. ta al binata per ev i”, esse pron Dopo la ferm di sa itare più re inva ti per il circa unentazile e pi on se co olio ccol ttat ns mes e, in ac extrav i oppurei in altrumo. Po e er i ss eto di vi gine d’ messi sobarattol ono no. olia o so tt’olio ini tt’ace to I Pr es picc ìdi sono ole prog real produzio et ti di izza te se ni di qu Slow Fo co al od Cap ità ndo Tecnica di consew w prat da sa che tute w . fne rvazio lv iche I capperi sono riposti ond trad aguard lano in recipie azi iziona are, (cugnietti nel dialetto nti. one li. alternando uno strato locale), slo di capperi a wfo uno di sale marino od. grosso di Trapani (Presidio Slow Food). it Nei quattro, cinque i capperi devono giorni seguenti cioè travasati più essere “curati”, volte, che l’azione combin per evitare calore, dovuta alla ata di sale e fermentazione, li deteriori. Dopo sono pronti per circa un mese essere invasettatiil consumo. Possono più piccoli oppure in altri barattoli olio extravergine messi sott’olio in I Presìdi sono progett i di Slow Food che in aceto di vino. d’olia o sott’aceto piccole produz tutelan o ioni di qualità da salvaguardare, realizzate second o pratiche tradizio nali. w w w. f o n d a z ioneslowfoo La qualità narrata e l’etichetta che racconta per di S o alin a Cappero di Salina d.it Slow Food propone una nuova etichetta, che può rappresentare una piccola grande rivoluzione nel mondo della comunicazione sui prodotti alimentari: l’etichetta narrante. Accanto alle indicazioni previste dalla legge, l’etichetta narrante fornisce informazioni precise sui produttori, sulle loro aziende, sulle varietà vegetali o le razze animali impiegate, sulle tecniche di coltivazione, allevamento e lavorazione, sul benessere animale, sui territori di provenienza... Per giudicare la qualità di un prodotto, infatti, non bastano analisi chimiche o fisiche e non è sufficiente neppure la degustazione. Inoltre, la comunicazione che accompagna i prodotti spesso è mistificante: fa riferimento a mondi contadini colmi di poesia, presunte tecniche tradizionali, vaghi richiami a sapori antichi. Elementi evocativi in realtà lontanissimi dalle effettive qualità dei prodotti pubblicizzati. Lo testimoniano gli elenchi di additivi e ingredienti di natura ignota ai più riportati sulle etichette dei prodotti che riponiamo nei nostri carrelli della spesa, lontani anni luce dalle immagini e dagli slogan della pubblicità. Nonostante gli appelli a leggere le etichette prima di acquistare, purtroppo scarseggiano elementi di autentico approfondimento, che possano consentire scelte consapevoli. Secondo Slow Food, la qualità di un prodotto alimentare è innanzi tutto una narrazione, che parte dall’origine del prodotto (il territorio) e comprende la tecnica di coltivazione, di trasformazione, i metodi di conservazione e, naturalmente, le caratteristiche organolettiche e nutrizionali. Soltanto la narrazione può restituire al prodotto il suo valore reale. > Visita la sezione “etichetta narrante” sul sito: www.fondazioneslowfood.it Alleanza Slow Food dei Cuochi L’Alleanza è una rete solidale che riunisce cuochi, ristoratori e osti impegnati a sostenere i progetti di Slow Food a tutela della biodiversità: scelgono materie prime locali, rispettano le stagioni, lavorano con i piccoli produttori, per conoscerli e valorizzarli. I cuochi che aderiscono al progetto impiegano regolarmente, nei loro menù, i prodotti di almeno tre Presìdi, contrassegnati sul menù con il logo, privilegiando quelli del proprio territorio, e indicano i nomi dei produttori dai quali si riforniscono. La rete dell’Alleanza al momento è attiva in Albania, Marocco, Messico, Olanda e Italia. Le pizzerie dell’Alleanza Pomodoro, fior di latte, mozzarella di bufala, olio di oliva tutti rigorosamente italiani ma, soprattutto: forno a legna e una lunga, lunghissima, lievitazione naturale, non meno di dieci ore in Italia. Le pizzerie dell’Alleanza lavorano rispettando la ricetta tradizionale con un’attenzione speciale ai Presìdi Slow Food, ai piccoli produttori e ai birrifici artigianali. > Puoi vedere l’elenco dei locali aderenti e trovare informazioni su come aderire alla pagina specifica del progetto sul sito www.fondazioneslowfood.it 65 Le comunità dei produttori abruzzesi Oltre ai Presìdi Slow Food sul territorio abruzzese insistono numerose comunità che producono, trasformano e distribuiscono cibo di qualità in maniera sostenibile e sono fortemente legate a un territorio dal punto di vista storico, sociale e culturale. Nel territorio aquilano si possono trovare i produttori di: Formaggi a latte crudo Zafferano dell’Aquila Dop Aglio rosso di Sulmona > Per informazioni: [email protected] - www.galgransassovelino.it [email protected] - www.galaias.it Nel territorio teramano si possono trovare i produttori di: Ventricina teramana Vitellone bianco Igp Oli extravergine di oliva Dop Petruziano delle Colline Teramane Tacchino alla Canzanese Pecorino di Atri > Per informazioni: [email protected] - www.galleaderteramano.it Nel territorio pescarese si possono trovare i produttori di: Olio extravergine di oliva dell’Aprutino Pescarese Dop Olio extravergine di oliva Toccolana Fagiolo tondino del Tavo Farro nelle Terre dell’Oasi Pecorino di Farindola Moscatello di Castiglione a Casauria Cereali antichi della Maiella > Per informazioni: [email protected] - www.terrepescaresi.it © FIAF Nel territorio chietino si possono trovare i produttori di: Vino cotto di Roccamontepiano Carciofo di Cupello Patata di montagna del medio Sangro Caciotta frentana Dolci frentani Dolci tipici da forno Olio extravergine di oliva monovarietale di intosso Apicoltori della Val di Sangro Pomodoro a pera d’Abruzzo varietà SAAB-CRA Maiale nero d’Abruzzo > Per informazioni: [email protected] - www.maiellaverde.it Note Questa pubblicazione è stata realizzata grazie a Attività cofinanziata dal Programma di Sviluppo Rurale della Regione Abruzzo 2007-2013 Fondo FEASR; Asse 4 Leader; PSL “Un’identità massiccia” Gal Gran Sasso Velino Misura 4.2.1. – Cooperazione interterritoriale “Abruzzo nel Mondo” 3° parte REGIONE ABRUZZO