- Giovedì 30 Giugno 2011, 15:18
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Distanze
Andrea Previtera
Marcello mi convince a fare del volontariato, ed io mi stringo nelle spalle. Accetto e mi stringo
nelle spalle, perchè provo a passare in rassegna i miei compiti, i miei doveri e le mie passioni
ma non trovo nulla. Spazzo ogni angolo della mia vita ed ogni cosa è in ordine come
nell’appartamento che occupo da un mese senza avervi ancora portato un solo mobile, una
forchetta, una sedia.
Trascorro la maggior parte del tempo di fronte alla porta-finestra del soggiorno con le braccia
che mi ricadono lungo i fianchi, senza neanche la tentazione di cercare una posizione più
comoda. Poi quando la luce si affievolisce esco a mangiare del cibo cinese, e rientro
immediatamente.
Dormo sul pavimento e mi sveglio con la schiena indolenzita e la bocca molto asciutta, le labbra
aride. Per riprendere il controllo del mio corpo passeggio per le tre stanze ed il breve corridoio
lasciando scorrere le dita sulla calce che ancora imbianca alcuni angoli, e trovo sempre dei
piccoli pezzi di nastro adesivo che riduco in palline appiccicose. Poi li metto in tasca, perchè
non saprei dove altro riporli, e costruiscono lentamente un monito, acquistano un significato
nuovo.
"Ciao!" dice Marcello, sorride nella luce del sole e sembra trarne forza. Io invece ne resto
abbagliato, mi comunica un senso di inadeguatezza che tarda ad abbandonarmi anche quando
riconquisto la sicurezza degli interni, e per questo odio Marcello. Lo odio mentre mi parla della
rotazione dei compiti al reparto di lunga degenza infantile, mentre mi loda per la scelta che non
ho preso, mentre mi descrive le qualità peculiari del volontariato, l’essenza, la filosofia:
vorrei aprirgli il petto in un lampo di luce, cancellarlo dai miei ricordi. Marcello è alto e robusto,
queste spalle larghe che ne tracciano tutte le verità evidenti, questi denti regolarissimi. Ha
capelli ricci e folti prematuramente brizzolati dai riflessi che mi sorprendono - ma nascondono
qualcosa, c’è senza dubbio dell’altro sotto la cute e le radici.
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L'Indro è un quotidiano registrato al Tribunale di Torino, n° 11 del 02.03.2012, edito da L'Indro S.r.l.
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Mi chiede di seguirlo ed io lo accompagno lungo i giardini ed i prefabbricati che odorano
di minestra e lavanda, di disinfettanti, e parla con i bambini; carezza le piccole teste rasate,
scherza con loro, tocca le garze e le ferite come gli ultimi tasti di un pianoforte ma non ne trae
alcun suono. Domani, mi dice, inizierò leggendo loro qualcosa.
Mi trattengo a lungo alla rosticceria cinese. Osservo ogni dettaglio del menù, che è conservato
in una pellicola di plastica come un corpo del reato o un cadavere. Cerco un pasto segreto,
pietanze dimenticate che impieghino la cucina fino alle prime luci dell’alba, ma alla fine non
posso far altro che ordinare ancora del riso con gamberi. La ragazza che si occupa delle
ordinazioni è in carne, ha la pelle tirata e lucidissima e occhi che non dicono nulla. Tra una mia
richiesta e la successiva siede dinnanzi ad un minuscolo apparecchio televisivo sintonizzato via
satellite su canali cinesi, e considero che in fondo non c’è molta differenza tra questo ed i miei
giorni di fronte alla finestra. Aspetto una sua parola come una rivelazione, ma i suoi confini sono
fatti di bacchette e salsa di soia, il suo corpo può esistere solo tra la porta della cucina ed il
limite estremo dell’ultimo tavolo. Premo con le dita su alcuni chicchi di riso sparsi
sulla tovaglietta di plastica fino a farne una pasta sottile e sporca, grigiastra, poi lascio del
denaro e mi allontano senza aspettare la mia ultima ordinazione.
Marcello mi abbandona quasi subito ma prima cerca di confortarmi, mi abbraccia e prende metà
del mio viso in una mano, queste mani grandi e forti. Pronuncia delle parole che non capisco
con un’enfasi che mi lascia atterrito. Poi in un attimo percorre il vialone che porta al reparto
geriatrico e sparisce. In Primavera sparire è semplice, per tutti ma non per me, a me non è
concesso molto. Quando mi riscuoto dal torpore mi rendo conto di aver passato nel mezzo dello
spiazzo alberato moltissimo tempo, forse ore, e che nella mia mano c’è un libro con la
copertina di cartone colorato. ’I racconti di Nonna Orsa’. I bambini non sembrano
notare l’assenza di Marcello o il mio ritardo, rimangono in posizione orizzontale nei loro letti,
dietro le sbarre di alluminio e si volgono appena in direzione della porta uno dopo l’altro come
in un’onda di teste. Cosa c’è oltre le cuffie di plastica, oltre le cicatrici? Provo per loro un
disprezzo profondo ed immediato, perchè non attendono che io mi presenti e prendono
l’iniziativa, mi sommergono dei loro nomi, delle loro età scandite sulle dita sottili, sorridendo
con denti radi. In ogni caso, io non mi sarei mai presentato.
Durante la notte vengo svegliato da una festa appena percettibile, un lume distante nel buio e
delle voci. Una musica che nel tragitto notturno si fa vaga e perde ogni connotazione. Questi
contorni indefiniti, questa incertezza, ed un ronzio che sottolinea altri dubbi dietro i miei occhi e
sulla superficie umida della mia pelle. Vorrei spalancare la finestra ma le ombre mi impongono
altre ragioni, e sopprimo l’istinto, mi abbandono al sonno.
Detergo bene ogni angolo del mio corpo con acqua fredda ma tremo al pensiero delle mie
nudità, così tengo un asciugamano allacciato intorno alla vita, poi qualcuno bussa alla porta e
stranamente decido di aprire. Sui dieci centimetri di marmo ocra che separano la mia vita
privata dal pianerottolo compare una donna anziana tradita dai suoi anni, invecchiata troppo in
fretta. Mi perdo tra le sue parole, nel dialetto che mi è ancora estraneo e nel verde violento
dell’ombretto che ostenta. Solo quando mi consegna tra le mani una cartella contenente delle
cifre e dei nomi capisco che si tratta dell’amministratrice del condominio e decido di chiudere
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subito la porta e la conversazione senza aggiungere nulla. Poi devo necessariamente
controllare quel che sono in una superficie che mi rifletta senza inganni, allora chiudo le imposte
e mi specchio su di una finestra. Traccio dei messaggi immaginari sulla mia vita riflessa ed ecco
tutto: un ragazzo magro con ginocchia deboli ed occhi infossati, del sangue rappreso sul labbro
superiore. Cosa c’è oltre le tempie troppo scoperte, che cosa appena oltre le sopracciglia?
Il secondo giorno Marcello mi propone di fare ritorno dai bambini, perchè "sembra che non
siano ancora entrati in sintonia con te"; scandisce queste parole, le sorride - poi mi saluta con
un gesto leggero e viene subito intercettato da un’infermiera cortese e veramente bassa che gli
mostra delle cartelle. Lascio subito il reparto di lunga degenza infantile e decido di esplorare il
perimetro del prefabbricato. Avanzo passo dopo passo con cautela nello stretto corridoio di
terra ed erba tra l’edificio e le mura esterne dell’ospedale, cercando di vedere senza essere
visto. Osservo l’alluminio delle finestre, questi quadri disposti ad intervalli regolari: una stanza
per ogni cornice, una scena per ciascuna stanza. Un bambino molto magro circondato da
quattro camici, alcuni bambini con piccole cuffie da nuoto; poi su un davanzale trovo la testa di
plastica di una bambola, sbiadita e sporca di terriccio. Mi chiedo cosa nasconda al suo interno,
cosa mi possa aspettare dagli occhi dipinti in un azzurro slavato, ma non appena allungo la
mano per raccoglierla vengo sorpreso da un bambino di non più di 5 anni che la prende e la
stringe al petto, poi sparisce correndo nella luce della stanza. Entro nuovamente dall’ingresso
principale e trovo ’I racconti di Nonna Orsa’ proprio sulla stessa sedia su cui l’avevo lasciato: i
bambini sono tutti rivolti verso di me e quando mi raggiungono le prime vibrazioni non mi resta
altro da fare che andarmene immediatamente.
Arrivo alla rosticceria cinese mentre alcune gocce di pioggia iniziano a picchiettare la vetrata
decorata con oggetti insulsi, per lo più rossi ed agentati. Cerco di dare un senso ai segmenti
degli ideogrammi con troppa ostinazione, fino a sentirli fendere la pelle del viso. La cameriera,
credo, mi guarda a lungo di spalle innanzi alla vetrina mentre ad occhi chiusi seguo con le dita
linee invisibili che uniscono le mie palpebre al naso, il naso alla bocca, alle orecchie, gli occhi
agli zigomi. Poi decide di avvicinarmi e tendermi un menù. Ordino dei ravioli alla griglia e pollo
in salsa agrodolce, ma tra un piatto e il successivo devo sopprimere il desiderio di domandarle il
significato dei caratteri stampigliati sul vetro, e sono sicuro che riesca a leggere ogni cosa nella
smorfia che mi contrae il volto.
Nella cassetta delle lettere trovo alcuni depliant pubblicitari. In prevalenza si tratta di
supermercati e centri commerciali che espongono la propria merce, i prezzi, le offerte speciali.
L’odore di questi opuscoli mi sorprende ogni volta - ma c’è qualcosa che stona, una fragranza
differente, un gradino nascosto. Sfoglio ancora il ventaglio di colori e ne fugge via una busta
grigia, insignificante. Non indica il destinatario ma il mittente è ben composto in caratteri
elaborati, si tratta dell’amministratrice di condominio che congiuntamente ad uno studio notarile
mi informa di certe pratiche, certi doveri a cui dovrei assolvere con la massima premura.
Compongo il numero di telefono specificato e aspetto molto prima di sentir sollevare la cornetta.
Ma la voce, le prime parole, mi giungono come un sogno o un fastidio e dico di aver commesso
un errore, poi interrompo la conversazione e subito dopo mi rendo conto di non essere sicuro di
aver chiamato alcun numero.
Per il mio terzo giorno di volontariato, Marcello ed una sua compagna mi chiedono di prendermi
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cura di alcuni cani, di alcuni gatti che l’ospedale mantiene per far compagnia agli anziani. Ma io
sobbalzo, chiedo di poter tornare ancora una volta dai bambini, dico loro di aver costruito "una
certa intesa", uso veramente le parole "una certa intesa", e lo dico con una sorta di
disperazione cieca che non lascia scelta. "Ma sì" sorride la compagna di Marcello, o forse
digrigna i denti, e dal suo viso emerge un fitto intreccio di rughe e solchi, imperfezioni della
pelle. A cosa sottintendono questi segni? Quali sono i segreti della sua carne? Così sono
ancora destinato al reparto infantile ed uso tutta la forza di cui dispongo per raggiungerlo
quanto prima. Spalanco le porte con violenza e afferro una sedia, faccio di me il nucleo della
corsia e mi dispongo in modo che per i bambini sia impensabile non incontrarmi con lo sguardo.
Poi apro il libro, ’I racconti di Nonna Orsa’, sfoglio rapidamente le pagine di carta ruvida e
porosa, la prosa scontata, tracciata in grandi caratteri ben spaziati tra loro - e non trovo nulla di
adeguato alla loro pena, a queste vite che gocciolano altrove. Così incontro con gli occhi le
pagine ma traggo le parole da altri luoghi. Tutto ha inizio nel bosco, e c’è in effetti una Nonna
Orsa, e dei castori, un corvo scaltro e dei lupi feroci, ma di tanto in tanto aggiungo dettagli:
accoppiamenti, cadaveri, molto sangue e persino il paragrafo iniziale di un testo sulle procedure
di rimozione della calotta cranica del quale conservo ancora un ricordo nitido dalla mia breve
esperienza alla facoltà di Medicina. Loro però non capiscono, non piangono. Non c’è in loro
alcuna qualità che ne salverà la memoria, spariranno e questo è quanto.
Alla rosticceria cinese porto con me un compasso e misuro la distanza tra le parole contenute
nel menù, la confronto con quella tra le parole di ’I racconti di Nonna Orsa’. Decido anche di
annotare le mie variazioni al testo originale con un pennarello rosso che chiedo alla cameriera.
Questa domanda la sconvolge completamente, quel che voglio dista da lei venti centimetri
riposando in verticale in un bicchiere di carta, e tuttavia la ragazza continua a scuotere il capo
con gli occhi spalancati alla mia mano tesa. Così mi alzo e prendo il pennarello con le mie mani,
le dico ancora "il pennarello rosso" e pretendo un piatto che non esiste. Cinque minuti dopo mi
porta degli spaghetti con verdure, ed io ringrazio e torno a casa.
Al mio rientro, trovo nella cassetta delle lettere ancora senza alcuna targhetta una busta che
riporta semplicemente "amministrazione condominiale". La faccio a pezzi e torno sui miei passi,
perdo ogni desiderio di dormire e seguo le mie storie invisibili per le strade della città del tutto
silenziosa, sotto stelle incerte, nella danza degli insetti alla luce dei lampioni. Questa città che
non offre variazioni di pendenza o amori, col suo modo tutto speciale di privare del respiro.
Inizialmente sono propenso a credere che non sia il caso di tornare all’ospedale. Poi cambio
idea, e decido di procedere con il volontariato. Marcello direbbe "di procedere nella mia crescita
interiore". La sua amica direbbe "di procedere con il mio arricchimento personale". Ragiono su
questi spazi, su queste distanze incolmabili mentro attraverso le strade ed il passaggio dei
grandi tram di un giallo abbagliante mi getta in uno stato d’ansia dal quale riesco a trarmi
solo fermandomi a recuperare il fiato. Perchè dei passeggeri posso vedere solo il collo e le
teste, e immaginarli privi di un corpo è troppo facile. Cosa c’è dietro le pareti di metallo? Cosa
dietro il materiale plastico? E’ troppo facile immaginare file di bambini, ognuno con una testa
tra le mani alzate al cielo. Troppo facile varcare l’equatore della mia vita e salvare la metà di
me che aspetta una risposta. Così mi metto le mani sugli occhi e attraverso la strada correndo,
incespico e cado, sento la forza di automobili lanciate sull’asfalto fermarsi a pochi centimetri da
me e quando torno alla luce c’è una piccola folla attorno a me. Alcuni sportelli si aprono su ira,
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stupore, su sospiri di sollievo e donne in procinto di abbandonarsi ad un pianto isterico. Allora
fuggo, fendo la folla e torno in fretta a casa, dove mi libero immediatamente degli abiti e prendo
la decisione di non rivestirmi mai più.
Non rispondo alle telefonate di Marcello. Lascio che il telefono squilli a lungo mentre dispongo
le bacchette sul pavimento umido del mattino. Costruisco segni e segnali, insceno una
riproduzione delle rughe della sua compagna, delle pieghe impalpabili del menù e di questa
pellicola che avvolge i miei giorni. Ma soprattutto cerco di disegnare il sentiero dal quale sono
arrivato qui: a gambe incrociate innanzi alla finestra mi chiedo cosa troverei oltrepassando
l’osso parietale, cosa mi attenda oltre la cartilagine del setto nasale, e avanzo il primo passo.
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