LA STORIOGRAFIA UMANISTICA E RINASCIMENTALE La scoperta del metodo storico Caratteri della storiografia umanistica Fra Quattro e Cinquecento la storiografia europea si rifonda: 1. Si riprende – essenzialmente a livello formale - il modello classico latino (assai meno quello greco) 2. Si mette in discussione la periodizzazione biblica (sei età, quattro monarchie, ecc.) 3. Si riscopre la dimensione immanente e umana della storia (laicizzazione) 4. La storiografia teologica è confinata nella cerchia della storiografia ecclesiastica e confessionale 5. Ritorna l’idea di ciclicità della storia rapportata alla vita umana 6. Si affermano nuove forze motrici della storia: la Natura e la Fortuna 7. Nasce la filologia come disciplina ausiliaria storia Gli storici e le fonti Inizialmente gli storici che usavano fonti documentarie non erano considerati degli innovatori e non pretendevano di esserlo. Nel comporre le loro opere gli storici umanisti seguivano di solito un’unica fonte. Non era loro costume vagliare tutte le relazioni disponibili ed elaborare una propria versione come risultato di questa ricerca. Fonti come testimoni oculari Di conseguenza per gli umanisti c’era un solo problema di metodo critico: stabilire i criteri per individuare fra le fonti narrative quella più attendibile da usare come base per la propria ricostruzione storica. Gli umanisti non seppero elaborare un sistema per determinare questi criteri. L’unico punto su cui convenivano era che l’attendibilità di una fonte normativa dipendeva dalla prossimità temporale dell’autore agli avvenimenti narrati. (Felix Gilbert) Storia e Fortuna Per gli storici umanisti il mondo della storia è il regno della Fortuna, una forza autonoma e incontrollabile con potere illimitato sulle cose umane. Diversa dalla Provvidenza divina, la Fortuna non era mossa da un disegno razionale o riconducibile ad un’intelligenza superiore. Paradossalmente, questa visione del potere della Fortuna e dell’impotenza umana diede maggior attrattiva allo studio della passato e alla ricerca storica, intesa come ricerca delle leggi nascoste dell’agire umano e della politica. Le spiegazioni di come si erano svolte le cose parvero più interessanti dei precetti sul modo di condursi. Storia e letteratura Gli umanisti sono innanzitutto letterati che scrivono di storia (scrittori di storia più che storici), come Petrarca o Boccaccio. Per molti di loro (Valla, Bruni, Bembo, Sabellico, lo stesso Machiavelli) la storiografia è un’arte – come la retorica - al servizio della politica. Al tempo stesso la storiografia deve fondarsi sulla filologia e sull’erudizione critica (raccolta, esame e critica delle fonti). Nasce un nuovo genere storiografico-letterario come la biografia (Vasari, V. Da Bisticci) basata sulle fonti, ma tesa a caratterizzare una personalità (artisti o letterati, non solo santi o eroi). La riscoperta della storiografia antica “La montagna di testi storici antichi recuperati nei secoli XV e XVI rendeva lo scrivere storia in Europa occidentale un’operazione molto più complicata e discutibile di quanto fosse mai stata a partire dal VI secolo. Essa fu affiancata da scritti teorici sull’arte della storia in una misura che era sconosciuta al medioevo latino”. (A. Momigliano) La storiografia antica come modello ideale La lettura delle opere degli storici classici non stimola però lo studio dell’antichità, ma viene usata come guida per scrivere sugli eventi contemporanei. Come gli storici classici, lo storico umanista è un individuo che non descrive solo fatti, ma popone un’interpretazione e mette le sue capacità a disposizione del “mercato” (le corti delle nuove monarchie nazionali). Storici italiani in Europa Finché la tecnica (conoscenza della lingua latina, stile, retorica) è prerogativa degli intellettuali italiani gli storici delle monarchie europee saranno essenzialmente italiani. Paolo Emilei, veronese, in Francia Polidoro Vergilio, urbinate, in Inghilterra L. M. Siculo, palermitano, in Spagna P. Buonaccorsi, fiorentino, in Polonia Giuseppe Giusto Scaligero, gardesano, in Olanda. La storiografia umanistica dall’Italia all’Europa 1. 2. 3. La nuova storiografia nasce in Italia e dall’Italia si diffonde in tutta Europa. Il modello è quello classico, ma l’ispirazione è diversa: Il ritorno all’antico è innanzitutto un obiettivo formale e letterario L’universalismo è sostituito dal patriottismo. La secolarizzazione non esclude la trascendenza divina Dalle cronache medievali alla storiografia umanistica Inizialmente gli storici umanisti al servizio delle monarchie europee (Lorenzo Valla a Napoli; Paolo Emilei in Francia; Polidoro Vergilio in Inghilterra; L. M. Siculo in Spagna; Giuseppe Giusto Scaligero in Olanda; P. Buonaccorsi in Polonia) riprendono le cronache del tardo medioevo per trasporle in latino classico (la “forma umanistica”). Successivamente provvederanno a scrivere nuove storie “alla maniera degli antichi” ad uso dei sovrani. Mediante queste storie riscritte i sovrani cercano di legittimare il loro potere di fronte all’Europa colta. Solo ora nasce una vera tradizione nazionale comprensiva di leggende e di miti delle origini. Stato moderno e storiografia Con gli Stati moderni (XIV-XVI secc.) nasce anche la storiografia moderna che è innanzitutto storiografia nazionale. Ecco perché la storiografia del XVI secolo guarda soprattutto al modello romano (nazionale) piuttosto che a quello greco (non nazionale). Il modello greco (cittadino) gode invece di buona fortuna nell’Italia delle cento città. LORENZO VALLA (1407-1457) LORENZO VALLA (1407-1457) Lorenzo Valla nasce a Roma nel 1407 da famiglia piacentina, il padre è avvocato. Non ancora ventenne inizia le sue polemiche con un opuscolo anticiceroniano (Paragone tra Cicerone e Quintiliano). Punta ad ottenere una segreteria pontificia, ma senza esito. Da Roma passa a Pavia dove ottiene la cattedra di retorica e scrive il trattato filosofico De voluptate (1432), sotto forma di dialogo. Nel 1433 lascia Pavia per sfuggire all'ostilità dei giuristi locali, in una Epistola de insigniis et armis contro Bartolo di Sassoferrato. Soggiorna a Milano e a Firenze per poco tempo. LORENZO VALLA (1407-1457) Nel 1437 è a Napoli dove viene nominato lettore e segretario di re Alfonso I d'Aragona (allora in conflitto con il papa Eugenio IV), e dove rimane un decennio, scrivendo le sue opere più importanti: gli Elegantiarum libri, contro il latino medievale, i Disputationes dialecticae libri tres (1439), contro la tradizione aristotelica, il De libero arbitrio (1439) e la celebre Declamatio (1440) che verrà pubblicata solo nel 1523 da U. von Hutten, con un ironica dedica a Leone X contro le pretese temporali della Chiesa di Roma. Le sue dure polemiche contro i frati (De professione religiosorum, 1442) lo conducono davanti all'Inquisizione arcivescovile di Napoli dalla quale si salva grazie alla protezione del sovrano. LORENZO VALLA (1407-1457) Nel 1447 ritorna a Roma, sotto la protezione del nuovo papa Niccolò V che lo nomina scrittore apostolico. In questi ultimi anni polemizza vigorosamente con Poggio Bracciolini; critica la storiografia liviana, rivalutando la "libertà repubblicana" di Roma; pubblica varie traduzioni dal greco e le In Novum Testamentum adnotationes (iniziate a Milano nel 1434), poi utilizzate da Erasmo da Rotterdam, dagli esegeti protestanti e da Spinoza. Suo ultimo scritto è un ironico Encomium di san Tommaso d'Aquino, nel quale polemizza contro l'ignoranza fratesca, il gergo scolastico e dichiara Tommaso inferiore agli antichi Padri. Muore a Roma il 1 agosto 1457. De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio, (Napoli 1440) Valla procede con metodo: prima formula le ipotesi, poi le confuta una ad una, senza lasciare nulla di intentato. Solo alla fine lancia le sue invettive contro la tirannia papale ("Potremmo noi ammettere come legale l'origine della potenza papale, che vediamo essere causa di tanti delitti e di tanti mali di ogni genere?" p.102), cogliendo l'occasione per parlare contro i miracoli e il culto dei santi. All'inizio introduce anche alcune orazioni immaginarie (del senato e del popolo romano, di Silvestro e dello stesso Costantino) per rendere più efficace il discorso. Valla tratta il falsificatore da bugiardo e da ignorante muovendo da quattro assunti principali. Valla procede quindi alla confutazione vera e propria del testo su quattro diversi piani. Quattro assunti principali 1. 2. 3. 4. Costantino e Silvestro non avevano la personalità giuridica per donare e per accettare il dono; anche se così fosse stato, mai Costantino donò, né Silvestro accettò il dono, ma i territori dell'Impero rimasero sempre sotto la sovranità degli imperatori; nulla diede Costantino a Silvestro, ma semmai al suo predecessore Melchiade da cui fu battezzato; è falso che il testo della Donazione si trovi nelle decretali della Chiesa o nella Vita di S. Silvestro; non se ne fa cenno in alcuna cronaca medievale. 1. Confutazione sul piano logico • Perché mai Costantino, imperatore guerriero, avrebbe dovuto alienare la parte migliore dell'impero, calpestando le prerogative del senato e diseredando i suoi figli? • Se il papa possedeva tante terre, quando, perché e per mano di chi le avrebbe poi perdute? 2. Confutazione sul piano teologico • La Chiesa non dovrebbe accettare beni terreni (Cristo rifiutò di diventare re) e tanto meno prerogative imperiali e militari. 3. Confutazione sul piano storico • Il testo della pretesa donazione contiene anacronismi; • cita o ricalca passi della Bibbia che Costantino (appena convertito) non poteva conoscere; • descrive attributi imperiali (il diadema e la corona) introdotti solo dopo Costantino; • nomina luoghi (le basiliche di S. Pietro e S. Paolo) inesistenti all'epoca di Costantino. 4. Confutazione sul piano diplomatico • Un documento così importante avrebbe dovuto essere conservato in più copie, è impossibile che non si sia conservato l'originale; è altresì impossibile che l'originale sia stato scritto su semplice carta (e non su pietra, su marmo, su bronzo) e che sia stato nascosto dentro il sepolcro di S. Pietro; anche ammesso che il testo conosciuto sia una copia del secolo VIII, da dove proviene e da chi fu fatta? 5. Confutazione sul piano filologico • Il testo contiene incongruenze linguistiche e stilistiche, barbarismi e solecismi; il latino del testo è tardo e non è quello del IV secolo. Conclusione In definitiva: la donazione è stata ritenuta vera per sette secoli solo per ignoranza e malafede. Il falso, costruito nell'interesse dei papi, è stato - a ragione - sempre rifiutato dagli imperatori greci, privati delle loro terre d'Occidente, mentre è stato accettato solo dagli imperatori "latini", in quanto essi stessi sarebbero una creazione del papa (Stefano III e la "traslatio Imperii") che si arroga il diritto di incoronarli, usurpando una prerogativa del senato e del popolo romano. Niccolò Machiavelli (1469-1527) La formazione (1469-1498) Niccolò Machiavelli nasce a Firenze da antica famiglia patrizia impoverita. Suo padre Bernardo è un colto giurista legato ai • circoli umanistici. Della sua adolescenza poco sappiamo, se non che a dieci anni scrive già in latino e divora i libri della biblioteca paterna, ma non conosce il greco, il che rappresenta per lui una chiara discriminante intellettuale rispetto al mondo degli umanisti fiorentini. Nel 1498, nel quinto ed ultimo anno del governo di Girolamo Savonarola, è fra i candidati all'incarico di secondo segretario della Signoria, ma non l'ottiene; pochi mesi dopo, caduto il Savonarola, ottiene il ben più importante incarico di primo segretario della Cancelleria, addetto alla magistratura dei "Dieci di libertà e di pace", che dirigevano i rapporti con l'estero e le imprese militari, incarico che manterrà per quindici anni fino al 1512. Gli anni operosi (1498-1520) In questi anni M. sarà incaricato, per conto della Repubblica, di molte delicate missioni in Italia (a Siena, Pistoia, Urbino, Roma, Imola e in Romagna nel 1502-1503) e all'estero (in Francia nel 1500, 1504 e 1510 e in Germania nel 1507-1508 con Francesco Vettori). Principale consigliere del Gonfaloniere Pier Soderini, esponente del partito antimediceo, M. ne sostiene la politica con gli scritti e con gli atti. Caduta la repubblica e ritornati i Medici a Firenze nel 1512, M. viene allontanato dagli uffici, incarcerato per breve tempo ed infine costretto a ritirarsi nella sua casa di campagna presso San Casciano, dove scrive i Discorsi (1513-1519) e il Principe (1513-1515). Attenuandosi il regime del confino, si reca di tanto in tanto a Firenze dove frequenta il circolo intellettuale • di palazzo Rucellai (i cosiddetti "Orti oricellari"). Fra il 1519 e il 1520 scrive i Libri dell'arte della guerra. Gli ultimi anni (1520-1527) Nel 1520 ritorna a Firenze e svolge qualche missione per conto di cittadini privati (missione a Lucca del 1520). Viene presentato al cardinale Giulio de‘ Medici (futuro papa Clemente VII), presidente dello Studio fiorentino, dal quale riceva l’incarico di scrivere una storia della città di Firenze. Fra il 1520 e il 1525 scrive le Istorie fiorentine, presentate solennemente a Roma nel 1525. Negli ultimi anni di vita M. partecipa alla difesa di Firenze • contro Carlo V ed assiste alla caduta dei Medici e all’effimera restaurazione della repubblica, ma il nuovo governo, diffidente, gli nega ogni incarico. Muore a Firenze nel 1527: l'anno del "sacco di Roma". L’opera L'anno 1512 (ritorno dei Medici a Firenze) rappresenta la svolta cruciale nella vita di M., dalla vita attiva di uomo politico alla vita contemplativa di storico e letterato, ma la cesura fra il politico e il letterato non è così netta; dopo il 1512 M. opera quasi esclusivamente nell'intento di ottenere un incarico politico e per questo cerca la protezione dei potenti (Medici compresi). Il paradosso risiede semmai nel fatto che, mentre M. si presentava come scrittore con obiettivi politici pratici, non faceva più parte del ceto dirigente, anzi era un oppositore del governo aristocratico. In ogni caso il Principe e i Discorsi sono l'opera di un uomo politico sconfitto, che riflette sugli errori dai quali è stato provocato il fallimento della sua causa. La contraddizione fra il Principe ("manuale per i tiranni") e i Discorsi ("idealizzazione di una libera repubblica") è solo apparente: in realtà in entrambe le opere basilare è il tema della direzione politica; nel primo testo M. guarda le cose dall'alto, nel secondo dal basso. M. intendeva fare per la politica ciò che altri avevano fatto per l'arte, il diritto e la medicina: chiarire e codificare i princìpi seguiti dagli antichi. Egli tuttavia non intende enunciare norme di valore generale applicabili alla condotta di ogni individuo, ma solo considerazioni politiche destinate ai politici e dedotte dall'esperienza. Le leggi della politica dipendono dal contesto In politica non esistono leggi immutabili. Occorre infatti distinguere fra la politica che M. suggerisce per gli uomini che vivono liberamente (nei Discorsi) e quella che indica come inevitabile per la civiltà corrotta (nel Principe). Virtù La “Virtù” è un concetto chiave di M.: ma non indica la virtù cristiana, bensì la forza e il vigore che derivano dalle azioni umane. La Virtù è un requisito essenziale per il comando e può essere posseduta sia da un singolo (il Principe) che da un corpo collettivo (la Repubblica). Non è un dono naturale, ma un risultato. Morale e politica Machiavelli non postula l’immoralità della politica, ma constata semplicemente che le leggi della politica sono autonome da quelle della morale. Politica e morale sono autonome, ma non avulse: solo nella Repubblica retta da buone leggi si può esplicare pienamente la virtù. I Discorsi su Tito Livio (1513-1519) Livio, storico di Roma repubblicana, offre spunti di riflessione allo storico, ma soprattutto all’uomo politico: 1) nesso libertà-civiltà (“tutte le terre e le provincie che vivono libere in ogni parte fanno profitti grandissimi”) 2) corruzione=negazione di libertà(“è impossibile in una città corrotta mantenere uno stato libero”) 3) fragilità delle dittature (“gli regni i quali dipendono solo dalla virtù di uno uomo, sono poco durabili”) 4) superiorità dello “Stato popolare” … 5) … basata sulla “civile equalità” (“le repubbliche bene ordinate hanno a tenere ricco il publico e gli loro cittadini poveri”) I Discorsi su Tito Livio (1513-1519) 6) pericolo rappresentato dalle signorie territoriali (“coloro che non solo oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni abbondantemente, ma che comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono loro”) 7) Fortuna e Virtù sono in rapporto inversamente proporzionale (“dove gli uomini hanno poca Virtù, la Fortuna mostra assai la potenza sua”) 8) “le buone leggi sono il cardine del vivere civile” Francesco Guicciardini (1483-1540) Francesco Guicciardini (1483-1540): gli esordi (1483-1513) Francesco Guicciardini nasce a Firenze da una famiglia di ricca e potente aristocrazia (terre, commerci, cariche politiche). Studia a Firenze, Ferrara e Padova e si laurea in diritto civile a Pisa (1505). Intraprende la carriera politica svolgendo alcune missioni diplomatiche minori per conto della Signoria. Nel 1508 sposa Maria Salviati, di famiglia aristocratica povera, ma influente nella politica fiorentina. Inizia in questo periodo anche l'attività letteraria, componendo le Storie fiorentine (1509). Giovane ambizioso e capace, ottiene dalla Repubblica incarichi diplomatici sempre più importanti: nel 1511 è nominato ambasciatore presso la corte di Spagna, dove rimane fino al 1513. Francesco Guicciardini (1483-1540): al servizio dei Medici e dei Papi (1515-1527) Caduta la repubblica, passa al servizio dei Medici per conto dei quali scrive i due discorsi Come assicurare lo stato ai Medici (1515). Alla fine del 1515 passa al servizio di papa Leone X (Giovanni de' Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico) che gli affida importantissimi incarichi politici e militari: - nel 1516 è governatore di Modena; - nel 1521 è governatore anche di Reggio Emilia; - nel 1522 è governatore di Parma e difende la città contro i francesi; - nel 1524 è nominato da papa Clemente VII (Giulio de' Medici, nipote di Leone X) presidente del governo di Romagna e riconduce all'ordine i territori ribelli; - nel 1526 è incaricato delle trattative diplomatiche per la Lega di Cognac (contro l'Impero) ed è nominato Luogotenente generale dell'esercito pontificio. Si afferma come uno degli uomini di Stato più potenti d’Italia. La sconfitta della Lega ed il sacco di Roma (1527) inducono Guicciardini a ritornare a Firenze, dove è stata appena restaurata la repubblica. Francesco Guicciardini (1483-1540): gli ultimi anni (1527-1540) Scrive il dialogo Del reggimento di Firenze (1526). Considerato filomediceo è confinato nella sua villa di Finocchietto, dove si dedica all'attività letteraria e storiografica. Nel 1528 scrive le orazioni Consolatoria, Accusatoria e Difensoria, a difesa del proprio operato politico; nel 1529 le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli sulla prima deca di Tito Livio. Nel 1530 è accusato dalla repubblica fiorentina di "macchinazioni contro lo stato" e condannato in contumacia, ma la restaurazione medicea gli permette di rientrare a Firenze e riprendere l'attività politica al servizio dei Medici e poi di Clemente VII. Assume, suo malgrado, una parte preminente nella persecuzione dei capi della repubblica. Dal 1531 al 1534 è vicedelegato pontificio a Bologna, ma dopo la morte di Clemente VII - pur rimanendo nella cerchia dei consiglieri dei Medici - non avrà più incarichi di rilievo. Ritiratosi nella sua villa di S. Margherita in Montici, si dedica alla composizione della Storia d'Italia che lascia quasi ultimata al momento della morte nel 1540. Il castello di Poppiano Guicciardini L’opera e il pensiero Quella di Guicciardini è una storia politica, diplomatica e militare sul modello di Tucidide, ma con attenzione prevalente alla politica estera e al contesto europeo. G. abbandona la dimensione cittadina – che era ancora quella di Machiavelli - per assumere uno sguardo più ampio. Sa che il mondo non può essere trasformato (disincanto), ma bisogna sapersi adattare alle situazioni e trarne profitto. Il suo realismo rasenta il cinismo. La Storia d’Italia (1537-40) Storia d’Italia dalla discesa di Carlo VIII (1494) fino alla morte di papa Clemente VII de’ Medici (1534). Le fonti sono o dirette (testimonianza), o tratte dalla memoria o dal suo ricco archivio, o dall’Archivio del Consiglio dei Dieci. I personaggi (Lorenzo de Medici, Ludovico il Moro, Carlo V, Clemente VII) sono ben caratterizzati psicologicamente e i loro discorsi sono quasi sempre tratti da lettere o testi Il pessimismo Guicciardini osserva e descrive l’inesorabile declino dell’Italia sulla scena europea fino alla catastrofe finale: la “fine della libertà italiana” (1530). Gli eventi storici sono dominati dalla Fortuna e l’uomo non ha modo di garantirsi il successo, neppure usando intelligenza e virtù. Può solo resistere all’avversità coltivando il proprio “particulare”. L’Italia dalla pace di Lodi (1454) alla discesa di Carlo VIII (1494) Ritornando con nostalgia ai beati anni Novanta del Quattrocento – gli anni immediatamente precedenti la morte di Lorenzo de’Medici – Francesco Guicciardini, ormai conclusa una brillante carriera politica e ritiratosi a vita privata, nei primi anni Trenta del Cinquecento individuava con lucido pessimismo alcune fra le cause della crisi politica che aveva scatenato circa mezzo secolo di guerre italiane portando alla fine della «libertà italiana». L’Italia del 1490 nelle parole di Francesco Guicciardini «Ma le calamità d’Italia (acciocché io faccia noto quale fusse allora lo stato suo, e insieme le cagioni dalle quali ebbono l’origine tanti mali) cominciorno con tanto maggiore dispiacere e spavento negli animi degli uomini quanto le cose universali erano allora più liete e più felici. Perché manifesto è che, dappoi che lo imperio romano, indebolito principalmente per la mutazione degli antichi costumi, cominciò, già sono più di mille anni, di quella grandezza a declinare alla quale con meravigliosa virtù e fortuna era salito, non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile, quanto era quello nel quale sicuramente si riposava l’anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti». Lorenzo de’Medici (1449-1492) “… si attribuiva laude non piccola alla industria e virtù di Lorenzo de’ Medici, cittadino tanto eminente sopra ‘l grado privato nella città di Firenze che per consiglio suo si reggevano le cose di quella repubblica, potente più per l’opportunità del sito, per gli ingegni degli uomini e per la prontezza de’ denari, che per grandezza di dominio.” Papa Innocenzo VIII (1432-1492) “… e avendosi egli … ridotto a prestar fede … a’ consigli suoi Innocenzo ottavo pontefice romano …” Lorenzo de’ Medici fa sposare la figlia Maddalena con il nobile Franceschetto Cybo, figlio del papa Innocenzo VIII (Gian Battista Cybo) La conservazione della pace Lorenzo de’ Medici … “… procurava con ogni studio che le cose d’Italia in modo bilanciate si mantenessino che più in una che in un’altra parte non pendessino…” Ferdinando I di Aragona re di Napoli (1427-1494) “… concorreva nella medesima inclinazione della quiete comune Ferdinando di Aragona re di Napoli, principe certamente prudentissimo e di grandissima estimazione; … con tutto che molte volte per l’addietro avesse dimostrato pensieri ambiziosi e alieni da’ consigli della pace …” Alfonso d’Aragona duca di Calabria (1448-1495), poi Alfonso II di Napoli Ferdinando d’Aragona era… “… molto stimolato da Alfonso duca di Calavria, suo primogenito, il quale …” Sposa nel 1465 Ippolita Maria Sforza, figlia di Francesco duca di Milano, dalla quale avrà la figlia Isabella sposa nel 1488 di Gian Galeazzo Sforza, nipote di Francesco. Gian Galeazzo Sforza, duca spodestato “… il quale malvolentieri tollerava che Giovan Galeazzo Sforza duca di Milano, suo genero, maggiore già di venti anni, benchè di intelletto incapacissimo, ritenendo solamente il nome ducale fusse depresso e soffocato …” La sorte del ducato di Milano Gian Galeazzo Sforza (1469-1494) figlio di Galeazzo Maria Sforza duca di Milano e di Bona di Savoia. Alla morte del padre (1476) viene posto sotto la tutela della madre, ma nel 1480 lo zio Lodovico Sforza ottiene con un colpo di stato la reggenza sul ducato di Milano, usurpando di fatto il potere anche dopo la maggior età di Gian Galeazzo – sposo nel 1488 di Isabella di Napoli, figlia di Alfonso d’Aragona - che viene relegato a Pavia dove muore (forse ucciso) nel 1494. Lodovico Sforza detto “il Moro” usurpatore del ducato di Milano Gian Galeazzo Sforza… “… depresso e soffocato da Lodovico Sforza suo zio: il quale avendo più di dieci anni prima, per la imprudenza e impudichi costumi della madre madonna Bona, preso la tutela di lui e con questa occasione ridotte a poco a poco in potestà propria … tutti i fondamenti dello stato, perseverava nel governo … da principe”. Lodovico il Moro (1452-1508) Lodovico Sforza (1452-1508) detto il Moro, figlio di Francesco Sforza e fratello minore del duca di Milano Galeazzo Maria Sforza, marito di Bona di Savoia e padre di Gian Galeazzo. Alla morte del fratello (1476) muove guerra a Bona di Savoia, reggente in nome del piccolo Gian Galeazzo, ottenendo nel 1480 la tutela del nipote e la reggenza del ducato. Duca di fatto, ma non di diritto, Lodovico prima si allea con Napoli contro Venezia, poi (1494) con Carlo VIII di Francia contro Ferdinando d’Aragona. Con il regno di Luigi XII (1498), discendente da una Visconti e in quanto tale pretendente al ducato di Milano, viene spodestato e catturato dai francesi. “…per fare contrapeso alla potenza de’ viniziani …” Ferdinando d’Aragona riteneva che… “… per fare contrapeso alla potenza de’ viniziani, formidabile allora a tutta Italia, conoscesse essere necessaria l’unione sua [di Napoli] con gli altri e specialmente con gli stati di Milano e di Firenze …” Ferdinando, Lodovico e Lorenzo … … e la potenza di Venezia «Essendo adunque in Ferdinando, Lodovico e Lorenzo, parte per i medesimi parte per diversi rispetti, la medesima intenzione alla pace, si continuava facilmente una confederazione contratta in nome di Ferdinando re di Napoli, di Giovan Galeazzo duca di Milano e della repubblica fiorentina, per difensione de’ loro stati; la quale, cominciata molti anni innanzi e dipoi interrotta per vari accidenti, era stata nell’anno mille quattrocento ottanta, aderendovi quasi tutti i minori potentati d’Italia, rinnovata per venticinque anni: avendo per fine principalmente di non lasciare diventare più potenti i viniziani, i quali, maggiori senza dubbio di ciascuno de’ confederati, ma molto minori di tutti insieme, procedevano con consigli separati da’ consigli comuni, e aspettando di crescere della altrui disunione e travagli, stavano attenti e preparati a valersi di ogni accidente che potesse aprire loro la via allo imperio di tutta Italia».