Priscilla Manfren - Scuola di dottorato in Storia, Critica e Conservazione dei Beni Culturali - XXVIII ciclo - Università degli Studi di Padova
Niger Alter Ego: dagli strascichi dell’esotismo ottocentesco alla dualità del razzismo fascista.
Percezione, reinvenzione e diffusione degli stereotipi visivo - letterari sulla popolazione coloniale
africana nell’Italia del Ventennio
Premessa
In un periodo in cui i mezzi di comunicazione, televisione in primis, diffondono e discutono le
odierne problematiche dell’integrazione sociale e del razzismo ad essa collegato, ci si sofferma ad
osservare e a tentare di comprendere le modalità in cui queste tematiche vengono affrontate,
notando come spesso l’alterità, in particolare quella nera, venga tuttora spettacolarizzata e come,
talvolta, si ironizzi sui personaggi che ne sono in qualche modo protagonisti. Si prenda in
considerazione il programma televisivo “Il Grande Fratello”, reinterpretazione moderna degli
human zoos1 ottocenteschi giunto ormai alla sua tredicesima edizione: quest’anno gli autori hanno
spettacolarizzato, con evidenti intenti di buonismo, l’alterità africana, ammantando per altro il tutto
di un convinto messaggio di antirazzismo e integrazione veicolato proprio dall’unico concorrente di
colore ammesso nella casa, il senegalese Samba, attraverso il motto da lui spesso ripetuto “nella vita
non c’è black senza white”. Parimenti, si pensi al noto esempio del giovane calciatore di colore
Mario Balotelli, da tempo associato dai media alla questione del razzismo nello sport e trasformato
in personaggio comico nel programma “Colorado” dall’attore Michelangelo Pulci. Nei suoi sketch
il comico, per mettere in scena lo stereotipo contemporaneo del giovane di colore incarnato da
Balotelli, riesuma la tradizione recitativa americana del blackface, diffusasi a partire dal primo
Ottocento negli Stati Uniti e consistente in una parodia caricaturale di atteggiamenti e
comportamenti ritenuti tipici della popolazione nera da parte di attori bianchi, truccati con cerone
scuro e varie accortezze al fine di ricreare sul proprio volto la fisionomia stilizzata di una persona di
colore 2 . Alla ricciuta parrucca scura si sostituisce un’estrosa cresta biondo-gialla, al frac un
abbigliamento sportivo, entrambi elementi caratterizzanti e nuovi status symbol delle giovani
generazioni di ragazzi neri presenti anche in Italia; status symbol sono ugualmente i tanti piercinggioiello e la vistosa collana con medaglione che l’attore indossa e attraverso i quali, in verità,
sembra voler ricordare gli orecchini ad anello e la grossa catena con sveglia appesa al collo che, in
1
Il tema degli “zoo umani” è oggetto di trattazione in Zoo umani: dalla Venere ottentotta ai reality show, a cura di S.
Lemaire et al., Verona 2003; Human Zoos. Science and Spectacle in the Age of Colonial Empire, edited by P. Blanchard
et al, Liverpool 2008; Exhibitions. L’invention du sauvage, catalogue de l’exposition (Paris, Musée du Quai Branly, 29
novembre 2011-3 juin 2012), sous la direction de P. Blanchard, G. Boëtsch, N. Jaconijn Snoep, Paris 2012.
2
Variegata è la bibliografia su questo filone di studi; si possono citare, a titolo d’esempio, quelli di Lott E., Love&Theft.
Blackface, minstrelsy and the american working class, New York 1993; Mahar W. J., Behind the Burnt Cork Mask.
Early Blackface, Minstrelsy and Antebellum American Populare Culture, United States of America 1999; Beyond
Blackface. African Americans and the Creation of American Popular Culture, 1890-1930, edited by W. Fitzhugh
Brundage, United States of America 2011; Burnt cork. Traditions and legacies of blackface minstrelsy, edited by S.
Johnson, United States of America 2012.
1
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tante rappresentazioni satiriche del passato, venivano assegnati al personaggio del vanaglorioso
capo di qualche tribù africana. Ciò che allora viene naturale domandarsi è la provenienza, l’origine
e le motivazioni della radicata persistenza di rappresentazioni e atteggiamenti di questo tipo
nell’immaginario e nei comportamenti collettivi presenti ancora oggi nel nostro paese; da ciò nasce
anche la volontà di risalire al contesto e al periodo in cui, effettivamente, l’Italia ha iniziato a venire
massicciamente a contatto con l’Africa e la realtà delle sue popolazioni, desiderando altresì
indagare e analizzare modalità e sfumature attraverso cui tale contatto italiano con l’alterità nera è
avvenuto.
La ricerca, i suoi presupposti e i suoi scopi
L’apparizione del Diverso, dell’Altro, di ciò che è extra ordinario e viene percepito come novità nel
contesto del vivere quotidiano attrae, da sempre, l’attenzione dell’essere umano. Il confronto con
l’alterità è, inizialmente, una riflessione di tipo interiore mirante a stabilire i punti cardine della
propria identità; in un secondo momento, invece, si attua un processo che vede lo spostarsi
dell’attenzione da sé e dal proprio microcosmo a ciò che è esterno, ossia l’Altro e il suo mondo.
Alla ricerca delle somiglianze si affianca, e spesso prevale, la constatazione delle differenze, cosa
che, inevitabilmente, contribuisce ad avviare un rapporto di tipo dialettico-oppositivo, spesso
fondato sulla prima impressione che, com’è noto, è nella maggior parte dei casi generata
dall’impatto visivo con la diversità. Tale primo fondamentale approccio all’alterità è dunque basato
su un insieme di caratteristiche e valori che, essendo giudicati più in funzione di un’immediata
percezione sensoriale che non attraverso una modalità razionale, conducono il soggetto a trarre delle
conclusioni parziali; tali assunti sono meglio noti come stereotipi, immagini rigide entro le quali il
soggetto tenta di riassumere quanto appreso dall’esperienza. Gli stereotipi, termine derivante dalla
fase del processo di stampa durante la quale si crea un calco per riprodurre sulla pagina modelli e
figure, sono per l’appunto dei “calchi cognitivi”3 che gli individui utilizzano per riprodurre nella
loro mente immagini di persone o eventi. Per stereotipo, generalmente, si intende un insieme di
caratteri associati a una categoria di oggetti o persone o, citando la definizione di Galimberti, una
“opinione precostituita su una classe di individui, di gruppi o di oggetti che riproducono forme
schematiche di percezione e di giudizio” 4. Walter Lippmann, in Public opinion del 1922, affronta
per primo l’argomento sostenendo che, essendo la realtà troppo complessa in quanto tale,
l’individuo utilizza delle rappresentazioni mentali o “quadri”, in parte determinati culturalmente,
per mettere in atto una spiegazione dell’organizzazione sociale esistente, e quindi razionalizzarla.
3
4
Quadrio Aristarchi A., Puggelli F. R., Elementi di psicologia (2000, Milano), Lavis 2004, p. 84.
Galimberti U., Dizionario di Psicologia, Torino 1992, ad vocem “Stereotipo”, p. 912.
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Lippmann sostiene inoltre la negatività degli stereotipi, i cui contenuti, nella maggior parte dei casi,
risultano scorretti e generati da un erroneo processo mentale, che impone una certa modalità di
lettura ai dati percepiti dai nostri sensi prima della loro effettiva ricezione da parte dell’intelletto.
Inoltre, è da sottolineare che, sin dai primi studi, un ruolo determinante nella creazione di stereotipi
è stato individuato in fattori di ordine economico e politico, e che la nascita degli stessi è spesso
connessa al tema del carattere nazionale o alla necessità di descrivere una serie di caratteristiche
generalmente assegnate a un preciso gruppo etnico 5 . Il concetto di stereotipo, inoltre, risulta
strettamente connesso a quello di pregiudizio, inteso come anticipazione acritica del giudizio non
validata da un’effettiva esperienza empirica o, più in dettaglio, “l’attitudine a reagire nei confronti
di una persona prontamente ed in modo chiaramente sfavorevole, sulla base dell’appartenenza della
persona stessa ad una classe o categoria”6, nonché “l’espressione di atteggiamenti di disprezzo o di
un comportamento discriminatorio verso la maggior parte o tutti i membri di un outgroup (o di più
outgroups)” 7 . Lo stereotipo fungerebbe dunque da “nucleo cognitivo del pregiudizio”, ossia
“l’insieme di credenze e di elementi di informazione relativi a una categoria di persone, rielaborati
in una immagine coerente e tendenzialmente stabile, in grado di sostanziare e riprodurre un
pregiudizio nei loro confronti”8.
Gli stereotipi hanno dunque una forte pregnanza comunicativa: essi sono infatti utili per veicolare,
in svariati campi della vita umana, idee e concetti attraverso una schematica semplicità; la loro forza
sta nella capacità di generalizzare particolarismi e sintetizzare i punti chiave di ciò che il soggetto
creatore degli stessi vuole trasmettere al suo ipotetico pubblico, ossia ad altri soggetti a lui affini e
ritenuti facenti parte del suo medesimo gruppo di appartenenza. Queste immagini rigide sono,
inoltre, difficilmente trasformabili: gli individui, infatti, attuano una serie di processi cognitivi,
comportamentali e linguistici che fungono da meccanismo di protezione degli stereotipi i quali, una
volta plasmati, si consolidano e, pur evolvendosi nel tempo, mantengono parte delle loro
caratteristiche, assicurando così al gruppo che li ha generati la possibilità di assecondare la sua
esigenza di un mondo stabile, ordinato e percepibile. Lo stereotipo, come scrive Barbara Johnson, è
in sintesi “an already read text”9, un testo di cui il lettore conosce già inizio ed epilogo, fatto dal
quale trae un senso di rassicurante certezza.
Queste considerazioni di ordine generale vogliono porsi, in tale sede, come chiosa introduttiva ad
una riflessione ben più specifica che trova la sua ragion d’essere, come si vedrà, proprio nella
5
Cfr. Quadrio Aristarchi A., Puggelli F. R., Elementi di psicologia, cit., pp. 84-85.
Gergen K. J., Gergen M. M., Psicologia sociale, Bologna 1990, p. 167.
7
Brown R., Psicologia sociale dei gruppi, Bologna, Il Mulino, 1990, p. 189.
8
Contributi di psicologia sociale in contesti socio-educativi, a cura di B. Pojaghi, P. Nicolini, Milano 2003, p. 53.
9
Johnson B., The Critical Difference: Essays in the Contemporary Rethoric of Reading, Baltimore 1992, p. 3.
6
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trattazione delle tematiche cui sopra si è accennato, ossia la percezione dell’Altro, la creazione di
stereotipi e la loro politicizzata strumentalizzazione in un contesto storico-culturale ben preciso.
L’alterità che qui diviene oggetto della questione è quella africana: l’aggettivo alter, che all’interno
di un binomio oppositivo indica il secondo termine e lo relega, implicitamente, ad una sorta di
innata sudditanza, e l’aggettivo niger, che mette in evidenza l’importanza cruciale del fattore visivo
nella percezione di tale contrapposizione, vengono utilizzati nel titolo della presente ricerca per
sintetizzare la volontà di indagare il tema della diversità, dell’alterità nera rispetto a quell’ego
fortemente eurocentrico che, impostosi per secoli, ne ha ridisegnato e risemantizzato le componenti
fisiche e spirituali. Il tema vuole essere affrontato tenendone presente sia la componente più teorica,
generata dagli studi storici, di genere, razziali e razzisti che stanno a monte della questione, sia la
parte più concreta e quotidiana della percezione e della conseguente rappresentazione visivoletteraria dell’alterità.
Essendo questo un macrotema effettivamente ampio e trasversale, si è deciso di optare per
un’analisi mirata e circoscritta all’ambito italiano, ponendo come limite cronologico d’inizio
l’acquisizione tardo ottocentesca delle prime colonie in terra africana, e come secondo estremo il
momento della massima espansione coloniale italiana, concretizzatasi nella seconda metà degli anni
Trenta con la dichiarazione dell’Impero fascista nel maggio del 1936. Inoltre, all’interno di questo
già ristretto ambito temporale, si concederà maggiore attenzione proprio al periodo mussoliniano: è
infatti soprattutto durante il fascismo che in Italia si diffondono, in maniera sempre più evidente e
attraverso diverse tipologie di media, le immagini e le rappresentazioni dell’Africa e dei suoi
abitanti, secondo una strategia politico-culturale pensata sia in vista di relazioni e interessi
puramente economici che di una più ampia colonizzazione. Se da un lato tale interesse per la
diffusione di immagini e testi a tema africano mira ad avvicinare e a rendere famigliare agli italiani
il contesto della vita oltremare, e il conseguente contatto con le popolazioni indigene, dall’altro esso
ha come scopo quello di mettere in evidenza la diversità razziale tra europei, italiani in questo caso,
ed africani, sulla scia delle teorie razziali a presunta base scientifica che avevano trovato il loro
incipit nel 1735, quando Linneo, per primo, aveva utilizzato il colore della pelle come criterio
distintivo delle razze, descrivendo gli europei come “perspicaci, creativi […] governati dalle leggi”
e i neri come “furbi, indolenti, negligenti […] governati dal capriccio” 10.
L’emulazione delle altre nazioni e dei loro atteggiamenti in ambito coloniale, la retorica imperialista
fascista di una pax augusta universale e civilizzatrice, la discriminazione di genere e le teorie
razziali e razziste diffuse all’epoca insieme a varie forme di pregiudizio, nonché le vaste e
multiformi possibilità comunicative create dall’imponente apparato propagandistico del regime,
10
Citazione tratta da Fredrickson G. M., Breve storia del razzismo, Roma 2005, p. 60.
4
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sono dunque i principali fattori che concorrono alla creazione e alla propagazione di un insieme di
stereotipi sulle popolazioni africane e, all’interno di questi, di nuclei tematici e iconografie visive
ricorrenti.
La dualità del razzismo fascista, come ben si comprende dal titolo stesso del progetto, è un altro
elemento cardine da cui avviare e su cui sviluppare la riflessione sull’alterità africana, essendo tale
dualità generatrice di diversi modi di percezione e reinvenzione dell’Altro; inoltre, è da sottolinearsi
che il dualismo va rintracciato su più livelli. Si può infatti notare un dualismo cronologico, il cui
spartiacque ufficiale può essere individuato nell’avvio della legislazione razziale con l’emanazione
del R.D.L. 19 aprile 1937, n. 880, dedicato alle “Sanzioni per i rapporti d’indole coniugale tra
cittadini e sudditi”, con cui si assiste in pratica al passaggio definitivo dal pregiudizio paternalistico
al pregiudizio sprezzante 11 : da una rappresentazione bonaria e ancora parzialmente positiva
dell’africano, oscillante tra primordiale ma simpatica stoltezza e nobili qualità da “buon selvaggio”,
si passa alla negativizzazione dello stesso, che viene relegato in un immutabile status di inferiorità,
oggettivizzato attraverso uno sguardo puramente etnografico12 e caratterizzato, eventualmente, da
tratti di brutale e crudo primitivismo.
E’ poi evidente un dualismo di genere, che si concretizza in diversi atteggiamenti e modalità di
rappresentazione dell’alterità nera a seconda dei casi: spesso l’elemento femminile subisce una sorta
11
A tale proposito si veda il saggio di Chiara Volpato, La violenza contro le donne nelle colonie italiane. Prospettive
psicosociali di analisi, in “DEP- rivista telematica di studi sulla memoria femminile”, n. 10, maggio 2009, pp.110-31.
L’autrice qui, oltre a trattare il tema della violenza sulle donne africane, sintetizza il contenuto di alcuni recenti studi di
psicologia sociale su pregiudizi e stereotipi, come la creazione dello Stereotipe Content Model e la sua applicabilità alla
situazione coloniale fascista. L’autrice ricorda come in tale modello si sostenga che “nelle relazioni sociali, due fattori
di base – lo status socio-economico e il tipo di interdipendenza (cooperativa o competitiva) – generano le dimensioni di
contenuto degli stereotipi, che si articolano intorno a due nuclei fondamentali: la competenza e il calore percepiti.
Secondo il modello, un gruppo di status elevato ha alte probabilità di essere percepito competente, mentre un gruppo di
status poco elevato ha alte probabilità di essere percepito incompetente. Sarà la qualità dell’interdipendenza, invece, a
determinare la percezione di calore. Se un gruppo di alto status è giudicato cooperativo, sarà valutato competente e
caldo e susciterà ammirazione. Viceversa, se allo stesso gruppo vengono attribuiti obiettivi competitivi, sarà percepito
competente ma non caldo, e susciterà risentimento. Il modello delinea una tassonomia del pregiudizio; esso prevede
infatti che, a partire dal contenuto degli stereotipi, si sviluppino quattro modalità di pregiudizio”. Tali modalità vengono
dette pregiudizio di ammirazione (rivolto a gruppi di alto status con i quali si percepisce una relazione cooperativa),
pregiudizio sprezzante (rivolto a gruppi di basso status con i quali si percepisce una relazione competitiva), pregiudizio
invidioso (rivolto a gruppi di alto status con i quali si percepisce una relazione di competizione) e pregiudizio
paternalistico (rivolto a gruppi di basso status con i quali si percepisce una relazione di cooperazione). Se il Modello del
Contenuto degli Stereotipi viene applicato all’atteggiamento italiano nei confronti degli africani, si individuano due
forme di pregiudizio: il pregiudizio paternalistico e il pregiudizio sprezzante. Nota infatti l’autrice che “l’atteggiamento
di superiorità paternalistica fu presente soprattutto nelle prime generazioni di colonialisti […] e nei cosiddetti
‘insabbiati’, vale a dire coloro che mettevano radici in Africa facendosi contaminare dalla sua atmosfera culturale. Tale
atteggiamento non era in contrasto con la fede nella missione civilizzatrice delle società dominanti; la superiorità
europea era però attribuita a un maggior grado di civiltà più che a determinismi biologici; il suo carattere era quindi
considerato relativo e potenzialmente modificabile. Anche il pregiudizio sprezzante fu presente fin dall’inizio
dell’avventura coloniale italiana in una parte dei colonizzatori, ma divenne dominante solo durante il periodo fascista;
esso riteneva la superiorità europea fondata su determinismi di tipo biologico e quindi immodificabile”.
12
Cfr. Volpato C., La violenza contro le donne nelle colonie italiane, cit., p. 112. Si veda inoltre, a proposito dello
sguardo etnografico oggettivizzante e, dunque, deumanizzante, Chiozzi P., Autoritratto del razzismo: le fotografie
antropologiche di Lidio Cipriani, in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo
fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Bologna 1994, pp. 91-94.
5
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di idealizzazione e viene colto nei suoi più caratteristici tratti di grazia esotica ed erotica sensualità,
aspetti che richiamano la “porno-tropics tradition” 13 della Venere nera, o imprigionato in ruoli
tipicamente femminili e caratterizzati da docilità come quello della madre e dell’operosa donna di
casa. Anche l’elemento maschile è, per certi versi, idealizzato, ma non con la stessa positività e le
medesime aspirazioni estetiche di quanto accade per quello femminile: se infatti da un lato, a causa
della particolarità del loro status di elementi indigeni inseriti nei reparti delle truppe coloniali,
vengono presentate in maniera positiva figure maschili come quella dell’ascari e del dubat,
raffigurati con corpi prestanti e in azioni valorose, dall’altro lato si incontrano invece
rappresentazioni che, con sguardo concreto e reale, si soffermano sulla popolazione maschile
africana, sulle sue attività, sulle sue attitudini e sui suoi più caratteristici atteggiamenti, non solo
mimici e posturali, ma anche, per così dire, spirituali, generando di tanto in tanto personaggi dai
tratti bozzettistici che, magari al bordo di una strada, si improvvisano musici, danzatori, scrivani o,
semplicemente, oziano. Ciò non esclude tuttavia la presenza di altre figure maschili che, o per la
loro giovane età14, o perché ritratte in azioni virili come ad esempio quella della caccia, assumono
una connotazione positiva, pur nei limiti della loro indiscussa primitività. Sempre nell’ambito
dell’universo africano maschile vanno poi inserite alcune particolari figure le cui rappresentazioni
emergono soprattutto a partire dal periodo del conflitto italo-etiopico, durante il quale si assiste, tra
l’altro, ad una scissione tra il tipo generico dell’africano e l’etiope che, in qualità di nemico, viene
descritto, sia a livello testuale che a livello visivo, come barbaro, litigioso e cruento, assommando in
sé quanto di più negativo si possa ritrovare nell’africano, unito però ad un pericoloso miscuglio di
presunzione, pusillanimità e astuzia; in tale contesto va inserita l’analisi della rappresentazione della
figura di Hailé Selassié, il Negus etiope che viene trasformato, soprattutto dalla satira fascista, in
stereotipo di se stesso, assurgendo in pratica a personificazione dell’Etiopia, al pari del John Bull
britannico, della Marianne francese e dello Zio Sam statunitense; di tutt’altro genere è poi la
raffigurazione dell’ecclesiastico copto: egli, pur nella sua solenne e sfarzosa caratterizzazione
talvolta non dimentica della dignitosa grazia e della regale magnificenza di Baldassarre, il magio
nero, pare non essere esente, in talune delle immagini che lo raffigurano, da un vago senso di
scherno nei suoi riguardi.
E’ infine da sottolineare, all’interno del generale panorama della propaganda fascista, la presenza di
un dualismo delle immagini, i cui effetti si ripercuotono, ovviamente, anche nell’ambito degli
stereotipi africani e della loro diffusione, che avviene dunque attraverso mezzi, modalità e stili
comunicativi assai diversi.
13
14
McClintock A., Imperial leather: race, gender and sexuality in the colonial contest, New York - London 1995.
Si pensi ai fanciulli e ai bambini rispettivamente rientranti nel tipo del moretto o in quello del “diavoletto” africano.
6
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“Se la politica dell’immagine del fascismo prese corpo attraverso una varietà di strutture che
agirono in funzione di un progetto unitario, altrettanto variati e diversificati appaiono i modi di
funzionamento delle differenti categorie d’immagini in rapporto alla domanda ideologica del
regime. […] Considerando uno schematico spaccato dell’intero corpus della produzione figurativa
troveremo, da un lato, l’immagine di massa, destinata a un vasto pubblico, investita di una precisa
funzione sociale ed elaborata in funzione diretta della figura sociale del suo recettore; sul lato
opposto, la produzione artistica, pittura o scultura, riservata, per l’unicità che ne caratterizza lo
statuto estetico, a un pubblico più ristretto e selezionato. Essa si contrapporrà all’utilità sociale della
prima categoria per la qualità estetica dell’opera. Questo tuttavia non escluderà che l’opera pittorica,
o la scultura, possa venire investita di una funzione sociale, senza veder modificato il proprio
statuto […]”15.
Partendo dunque dalle considerazioni di Laura Malvano a proposito della dicotomica concezione
delle immagini e del loro utilizzo durante il Ventennio, che vede la compresenza delle cosiddette
immagini a statuto nobile, di ambito puramente artistico, e delle immagini di massa o a statuto
basso, create per la retorica propagandistica e per la diffusione su ampia scala, il progetto desidera
strutturarsi come un percorso storico-iconografico a doppio binario sull’identità coloniale africana,
così come è stata percepita e rielaborata dal punto di vista italiano. Ci si ripropone quindi di
rintracciare un nutrito corpus di fonti visive, in parte già individuato, rappresentativo di entrambi gli
statuti, la cui lettura, supportata da documenti letterari d’epoca e ripensata alla luce degli studi
attuali, permetta di delineare una storia per immagini dell’evoluzione di alcuni topoi sulla
popolazione africana che, seppur generatisi in tempi e contesti ben lontani da quello attuale, quale il
periodo del colonialismo in terra americana e della connessa tratta degli schiavi, sono spesso ancora
presenti nell’immaginario collettivo odierno.
Contesto storiografico di riferimento, stato dell’arte sul tema della ricerca e collocamento del
lavoro di dottorato al suo interno
Più che di contesto storiografico si dovrebbe parlare, in questo caso, di contesti storiografici,
essendo il tema della ricerca trasversale e dovendo necessariamente trattare l’argomento tenendo
presenti più settori di studio, come quello storico, artistico, etno-antropologico, razziale e di genere,
considerati talvolta da punti di vista diversi da quello italiano. Se per considerazioni di tipo generale
15
Malvano L., Fascismo e politica dell’immagine, (1988, Torino) Torino 2002, p. 48.
7
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si possono trovare spunti in testi di autori quali Said 16 , Fanon 17 e Taguieff 18 , per l’ambito
eminentemente storico si può fare riferimento a testi di autori italiani che, soprattutto negli ultimi tre
decenni, hanno dedicato studi particolari alla vicenda coloniale italiana, come nel caso di Rochat19,
Del Boca20, Sbacchi21, Labanca22, Calchi-Novati23, solo per citarne alcuni; non sono tuttavia da
scordare gli autori e i volumi che uniscono alla tematica storica l’interesse per il dato visivo, grafico
e/o fotografico
24
. I temi di colonialismo, antropologia, razzismo, gender studies e
spettacolarizzazione dell’alterità vengono variamente affrontati, spesso in maniera interrelata tra
loro e talvolta con accenni alla situazione contemporanea, in testi di autori sia italiani, quali
Barrera 25 , Sorgoni 26 , Poidimani 27 , Stefani 28 , Giuliani e Lombardi-Diop 29 , Abbattista 30 , che
stranieri31, come ad esempio quelli di McClintock32 , Sharpley-Whiting 33 , Quereshi34 , nonché in
pubblicazioni collettanee quali, ad esempio, il volume sulla questione della razza curato dal Centro
Furio Jesi nel 1994 35 ; vi sono poi testi, alcuni dei quali illustrati, che presentano razzismo e
colonialismo in connessione alla stampa periodica36. Per quanto riguarda l’ambito visivo connesso
16
Said E., Orientalismo: l’immagine europea dell’Oriente, traduzione di S. Galli, (1991, Torino), Milano 2013.
Fanon F., Il negro e l’altro, traduzione di M. Sears, Milano 1965.
18
Taguieff P. A., La forza del pregiudizio: saggio sul razzismo e sull’antirazzismo, traduzione di M. Canosa, P. Cristalli,
Bologna 1994.
19
Rochat G., Il colonialismo italiano, (1972, Torino), Torino 1973.
20
Si vedano ad esempio: Del Boca A., Gli italiani in Africa Orientali, 4 voll., Roma-Bari 1976-1984; Idem, Il Negus.
Vita e morte dell’ultimo re dei re (1995, Roma), Roma 2007.; Idem, I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra
d’Etiopia (1996, Roma), Roma 2007; Idem, Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Vicenza 2005; Idem, La
guerra di Etiopia: l’ultima impresa del colonialismo, Milano 2010.
21
Sbacchi A., Il colonialismo italiano in Etiopia 1935-1940, (1980, Milano), Varese 2009
22
Labanca N., Una guerra per l’impero. Memorie della campagna d’Etiopia 1935-36, Bologna 2005; Idem, Oltremare:
storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna 2007.
23
Calchi Novati G.P., L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Roma 2011.
24
Si vedano ad esempio Immagine coordinata per un impero: Etiopia 1935-1936, a cura di A. Mignemi, Torino 1984;
Goglia L., Storia fotografica dell’impero fascista 1935-1941, Roma 1985; Palma S., L’Italia coloniale, Roma 1999; Di
Lalla F., Immagini dell’impero: storia fotografica degli italiani in A. O. I., Chieti 2011; L’impero nel cassetto. L’Italia
coloniale tra album privati e archivi pubblici, a cura di P. Bertella Farnetti, A. Mignemi, A. Triulzi, Milano-Udine 2013.
25
Barrera G., Dangerous liaisons. Colonial concubinage in Eritrea 1890-1941, Program of African Studies Working
Papers, n. 1, North-Western University, Evanston 1996; Eadem, Colonial affairs. Italian men, eritrean women and the
construction of racial hierarchies in colonial Eritrea 1885-1941, Evanston 2002.
26
Sorgoni B., Parole e corpi: antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interrazziali nella colonia Eritrea
1890-1941, Napoli 1998.
27
Poidimani N., Difendere la razza: identità razziale e politiche sessuali nel progetto imperiale di Mussolini, Roma
2009.
28
Stefani G., Colonia per maschi: italiani in Africa orientale, una storia di genere, Verona 2007.
29
Giuliani G., Lombardi-Diop C., Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, Firenze 2013.
30
Abbattista G., Umanità in mostra: esposizioni etniche e invenzioni esotiche in Italia (1880-1940), Trieste 2013.
31
Che quindi delineano concezioni derivate da contesti coloniali diversi, come quello francese o inglese, ma comunque
parzialmente adattabili anche al discorso sul colonialismo italiano.
32
McClintock A., Imperial leather. Race, Gender and Sexuality in the colonial contest, London 1995.
33
Sharpley-Whiting T. D., Black Venus. Sexualized Savages, Primal Fears and Primitive Narratives, Durham 1999.
34
Quereshi S., Peoples on parade. Exhibitions, Empire and Anthropology in Nineteeth-century Britain, London 2011.
35
La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, catalogo della mostra
(Bologna 1994) a cura del Centro Furio Jesi, Bologna 1994.
36
Strisce d’Africa: colonialismo e anticolonialismo nel fumetto d’ambiente africano, testo realizzato dall’Assessorato
alla cultura di Torino in collaborazione con l’Istituto italo-africano di Roma, Torino 1985; Ti saluto e vado in Abissinia:
propaganda, consenso, vita quotidiana, attraverso la stampa periodica, le pubblicazioni e i documenti della Biblioteca
17
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alla cultura popolare, spunti e immagini si ritrovano in alcuni volumi che trattano il tema
dell’alterità nera nella grafica pubblicitaria37; per il settore storico-artistico, notizie utili si possono
rintracciare in alcuni testi che hanno avviato gli ancora scarsi studi in merito alle esposizioni
coloniali italiane38, mentre importanti fonti di riferimento sono i cataloghi di alcune collezioni39, di
mostre dedicate alla tematica coloniale40 e alla pittura esotica di artisti orientalisti e africanisti41,
nonché in monografie su artisti legati al contesto africano durante il Ventennio 42 . Per quel che
concerne lo stato dell’arte sullo specifico tema dell’iconografia del nero, notevoli sono i contributi
stranieri 43 , tra i quali il più rilevante, sia per l’ampiezza dell’arco cronologico trattato, che va
dall’antichità al contemporaneo, che per la ricchezza dell’apparato visivo e dei testi, è certamente la
collana di volumi The Image of the Black in Western Art, ora curati da David Bindman e Henry
Louis Gates Jr., la cui ideazione nasce negli Stati Uniti degli anni Sessanta del secolo scorso per
volontà dei coniugi e mecenati de Menil. Questi ultimi, facendo proprie le idee di studiosi
nazionale Braidense, a cura di P. Caccia e M. Mingardo, Milano 1998; Nani M., Ai confini della nazione: stampa e
razzismo nell’Italia di fine Ottocento, Roma 2006. Sul noto periodico di epoca fascista “ La Difesa della Razza”, si veda
Cassata F., La Difesa della Razza: politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Torino 2008. Si veda anche
Kapelj S., “L’Italia d’oltremare”: razzismo e costruzione dell’alterità africana negli articoli etnografici e nel romanzo
I prigionieri del sole, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Trieste, a.a. 2010/2011.
37
Si vedano rispettivamente, per la grafica per manifesti e per l’ambito delle figurine, i volumi Négripub: l’immagine
dei neri nella pubblicità, catalogo della mostra itinerante (Torino-Aosta-Brescia 1994), a cura di R. Bachollet et al.,
traduzione di M. Molina, Torino 1997; People: il catalogo degli umani tra '800 e '900, catalogo della mostra (Museo
della Figurina, Modena, 2009), a cura di M. G. Battistini e I. Pulini, con la collaborazione di T. Gramolelli, Modena
2009. In entrambi i casi i volumi presentano più che altro esempi stranieri, ma risultano comunque utili per confronti e
considerazioni di ordine generale.
38
L’Africa in vetrina. Storie di musei e di esposizioni coloniali in Italia, a cura di N. Labanca, Paese 1992; Arena G.,
Visioni d’oltremare: allestimenti e politica dell’immagine nelle esposizioni coloniali del XX secolo, Napoli 2011.
39
Fondamentale, soprattutto in seguito alla chiusura dell’ISIAO (Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente) nel 2011 e
alla conseguente impossibilità di visionare direttamente le opere un tempo lì conservate, ora passate nei depositi del
Museo Nazionale Preistorico Etnografico “Luigi Pigorini”, è Dipinti, Sculture e Grafica delle Collezioni del Museo
Africano. Catalogo generale, a cura di M. Margozzi, Roma 2005.
40
Vedi il saggio di C. Delvecchio, Icone d’Africa. Note sulla pittura coloniale italiana, in Architettura italiana
d’Oltremare 1870-1940, catalogo della mostra (Venezia 1993), a cura di G. Gresleri, P. G. Massaretti, S. Zagnoni, pp.
68-81.
41
Gli orientalisti italiani: cento anni di esotismo 1830-1940, catalogo della mostra (Torino 1998), a cura di R.
Bossaglia, Venezia 1998; Viaggio in Africa: dipinti e sculture delle collezioni del Museo africano, catalogo della mostra
(Roma 1999), a cura di M. Margozzi, Roma 1999; Dalle Orobie al Maghreb: gli orientalisti bergamaschi Luigi
Brignoli, Romualdo Locatelli, Giorgio Oprandi, Ernesto Quarti Marchiò, catalogo della mostra (Lovere, Atelier del
Tadini, 25 aprile-29 agosto 1999), Rovetta 1999; L’artista viaggiatore. Da Gauguin a Klee, da Matisse a Ontani,
catalogo della mostra (Ravella, 22 febbraio-21 giugno 2009), a cura di C. Spadoni e T. Sparagni, Cinisello Balsamo
2009; Orientalisti: incanti e scoperte nella pittura dell’Ottocento italiano, catalogo della mostra (Chiostro del
Bramante-Roma, 19 ottobre 2011-22 gennaio 2012), a cura di E. Angiuli e A. Villari, Cinisello Balsamo 2011.
42
Si vedano ad esempio Antonio Arosio pittore di Guerra: Africa orientale, Grecia, Russia (1935-1943), a cura di V.
Farinella, Livorno 2000; Altea G., Giuseppe Biasi, Nuoro 2004; Cuccu A., Melis Melkiorre, Nuoro 2004.
43
Per esempio, per la produzione inglese si vedano Dabydeen D., Hogarth’s Blacks: Images of Blacks in EighteenthCentury English Art, Manchester 1987; Boime A., The art of exclusion: representing blacks in the nineteenth century,
London 1990; Fowkes Tobin B., Picturing Imperial Power: Colonial Subjects in Eighteenth-Century British Painting,
Durham 1999; Black Victorians: black people in British Art, 1800-1900, catalogue of the exhibitions (ManchesterBrimingham 2005-2006), edited by J. Marsh, Aldershot 2005; per il contesto francofono Metellus J., Dorigny M., De
l’esclavage aux abolition: XVIIe-XXe siècle, Paris 1998; per l’area brasiliana Marcondes de Moura C. E., A travessia da
Calunga Grande: três séculos de imagens sobre o negro no Brasil, 1637-1899, São Paulo 2000. Si veda inoltre il
recente volume Slave Portraiture in the Atlantic World, edited by A. Lugo-Ortiz, A. Rosenthal, United States of
America 2013.
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afroamericani come Alain LeRoy Locke, pensano a tale studio come risposta alla segregazione
razziale, nella convinzione che proprio l’arte e lo sguardo dell’artista possano guidare i più oltre le
apparenze e gli stereotipi, proponendosi come fonte d’esempi di una ritrovata universalità della
dignità umana e come antidoto al pregiudizio. La ricerca, dunque, ha come scopo quello di avviare
un progetto di raccolta e analisi che, sulla falsariga di The Image of the Black in Western Art, integri
la visione su tale iconografia per quanto concerne l’ambito italiano del periodo fascista.
Metodologia e fonti della ricerca
La ricerca, che pur concentrandosi sul periodo fascista non può mancare di accennare ad eventi e
personaggi del primo colonialismo italiano di fine Ottocento, intende seguire una duplice direttrice,
sia nell’ambito degli studi che in quello delle fonti. Essa vuole, da un lato, offrire uno spaccato
quotidiano delle idee e delle immagini più o meno stereotipate relative all’Africa e circolanti
durante il Ventennio attraverso mezzi di ampia divulgazione, quali: riviste illustrate, utili sia per il
reperimento di notizie scritte, attraverso gli articoli, che per le fonti grafiche, rappresentate da tavole
illustrate e vignette satiriche44; testi letterari a tematica coloniale, quali romanzi o volumi di ricordi
di viaggio; grafica pubblicitaria, rappresentata da manifesti, figurine e materiale promozionale in
genere; la grafica dedicata all’infanzia, come quella realizzata per le copertine dei quaderni di
scuola45. La seconda direttrice della ricerca, connessa all’ambito iconografico a statuto nobile, mira
invece a dare una visione d’insieme, non priva tuttavia di approfondimenti, di un filone di studi
storico-artistici ancora non ampiamente indagato e strettamente connesso alle vicende coloniali del
Ventennio, ossia quello dell’operato degli artisti africanisti e dei pittori di guerra italiani, le cui
vicende possono essere poste a confronto, per certi versi, con quelle dei pittori orientalisti e degli
artisti-viaggiatori ottocenteschi. Attraverso lo spoglio di riviste d’epoca 46 e di cataloghi editi,
nonché tramite contatti con il mercato collezionistico e con eredi degli artisti stessi, si cercherà di
ottenere un consistente numero di opere pittoriche e scultoree che, in fase di analisi e lettura
comparata anche con le altre tipologie di fonti visivo - letterarie, diverranno un serbatoio
44
Un esempio è certamente quello de “La Domenica del Corriere”, i risultati del cui spoglio sono stati sinteticamente
presentati in una relazione dal titolo L’Italia del Ventennio e il “mondo poco noto”: considerazioni sulla diffusione
degli stereotipi coloniali in ambito italiano attraverso l’analisi di fonti visive e articoli tratti da “La Domenica del
Corriere” (1922-1943), tenuta in occasione del Seminario nazionale Sissco 2012 “Colonialismo e identità nazionale.
L’Oltremare tra fascismo e Repubblica”, Cagliari 25-27 settembre 2013. Altri periodici simili sono “Illustrazione del
Popolo” e “Il Mattino Illustrato”.
45
In proposito è stato consultato il materiale conservato presso l’Archivio Storico INDIRE di Firenze, nel Fondo
Materiali Scolastici, nonché quanto presente nel catalogo cumulativo nazionale dei fondi storici di quaderni ed elaborati
didattici, reperibile on line all’indirizzo http://www.fisqed.it/index.php.
46
Per esempio: “L’Illustrazione italiana”, “L’Italia coloniale”, “L’Oltremare”, la “Rivista delle Colonie Italiane”, edita
dal 1927 al 1934, poi divenuta “Rivista delle Colonie, L’Oltremare” per il biennio 1935-1936 (fino ad agosto), e infine
trasformata in “Rivista delle Colonie: rassegna dei possedimenti italiani e stranieri d’oltremare”, dal 1936 al 1943.
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iconografico in cui identificare i presunti nuclei tematici di cui si è detto, e sul quale verificare la
presenza o meno di un’influenza delle teorie razziali e delle idee discriminatorie diffuse all’epoca
dalla propaganda coloniale o, al contrario, di esempi di quello sguardo d’artista che coglie l’umanità
e la nobiltà del soggetto, al di là dei limiti della comune percezione.
Struttura della tesi
Alla luce di quanto detto, si prevede di strutturare l’elaborato finale in maniera bipartita; dopo una
premessa introduttiva che riassuma le questioni inerenti al tema derivate dagli studi storici e di
genere, si intende dedicare il primo capitolo all’analisi del corpus iconografico a statuto basso,
destinando una parte a quanto emerso dalle riviste, e un’altra, assai più breve, ad un excursus sulla
grafica pubblicitaria e sulla grafica per l’infanzia. Il secondo capitolo, invece, verrà dedicato al
niger alter ego delle immagini a statuto nobile: dopo una breve parte relativa ai precedenti artistici
tardo ottocenteschi e primo novecenteschi, si tratterà il periodo fascista e la questione dell’impegno
istituzionale per un cultura coloniale, in arte massimamente concretizzatasi nelle Mostre d’arte
coloniale del 1931 e del 1934 e nell’allestimento della Mostra Triennale delle terre italiane
d’Oltremare del 1940; la terzultima parte del secondo capitolo tratterà infine le opere d’arte, i loro
autori e le varie iconografie che emergeranno dal corpus pittorico-scultoreo. Si prevedono poi
un’appendice, con l’indice delle tavole e degli articoli relativi al tema suddivisi per riviste, la parte
dedicata alla bibliografia e la sezione destinata all’apparato visivo.
“Storie in Corso –IX edizione”: riflessioni a posteriori
Ringraziando primariamente il Professor Massimo Zaccaria, i cui commenti sono stati certamente
utili e forieri di nuovi spunti per un ampliamento di vedute sull’evoluzione degli studi iconografici a
tematica coloniale47, espongo qui di seguito una serie di riflessioni e notizie aggiuntive scaturite
dalle considerazioni del mio discussant e di altri uditori.
Come ricordato durante il seminario, l’avvio della riflessione sull’immaginario coloniale italiano ha
trovato la sua più intensa stagione sul finire degli anni Novanta, producendo vari case studies e
curatele, ma raramente volumi di più ampio respiro. Se già nel 1984 Adolfo Mignemi aveva
47
Oltre a farmi riflettere sul proseguo del lavoro, tale incontro mi ha arricchito di utilissime indicazioni bibliografiche
per una eventuale apertura a un confronto con gli studi stranieri sulla pittura orientalista e africanista; in particolare,
oltre ad alcuni volumi sui vari filoni di pittura orientalista generatasi in paesi europei ed extraeuropei, si sono rivelati di
sicuro interesse il volume di Thornton L., Les Africanistes: peintres voyagers, 1860-1960, Courbevoie (Paris) 1990, e il
volume di De Rycke J. P., Africanisme et modernisme: la peinture et la photographie d’inspiration coloniale en Afrique
centrale (1920-1940), Bruxelles 2010.
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impostato la questione in Immagine coordinata per un impero: Etiopia 1935-1936, opera che
ancora adesso, sottolinea Zaccaria, stupisce per attualità e intelligenza, è nel 1998 che si vede
maturare la ricerca in Italia con la mostra itinerante “Immagini e Colonie”, progetto elaborato dal
Centro di documentazione del Tamburo Parlante di Montone, in Umbria, e curato dall’antropologo
Enrico Castelli. Il titolo dell’iniziativa riecheggia quello della mostra francese Images et Colonies
(1880-1962) del 1993, da cui prende forma un catalogo curato da Pascal Blanchard, Nicolas Bancel
e Laurent Gervereau48. Memoria dell’esposizione umbra rimane in un piccolo volume49 contenente
alcuni saggi di Del Boca, Surdich, Mignemi e Laurenzi, nonché una guida alla mostra, ove si legge
che il percorso espositivo intende presentare immagini prodotte in Italia durante il periodo che va
dal compimento dell’Unità nazionale fino agli ultimi residui del colonialismo, coprendo dunque
l’arco di tempo tra il 1870 e il 196050. Sfogliando la parte dedicata alla guida, si nota come già
vengano considerati, seppur a livello embrionale, i settori di ricerca più ricchi di fonti visive,
identificando quali “veicoli delle immagini” le categorie di “cartoline”, “cultura popolare” 51 ,
“esposizioni coloniali”, “fotografia”, “francobolli”, “fumetti”, “libri illustrati”, “pittura”, “pubblicità”
e “riviste illustrate”; ugualmente il testo presenta i cosiddetti temi dell’immaginario, quali per
esempio la “barbarie”, la “caccia grossa”, il “cannibalismo”, l’ “eros nero”, lo “stregone”, l’
“esotismo”, l’ “igiene”, l’ “istruzione”, il “mito della razza e razzismo”. Lo stesso Enrico Castelli,
insieme a David Laurenzi, cura nel 2000 il volume Permanenze e metamorfosi dell’immaginario
coloniale in Italia, ove si trovano raccolti brevi saggi, taluni dei quali dedicati a tipologie di fonti
visive rientranti nelle categorie delineate in occasione di “Immagini e Colonie” e trattanti i temi lì
individuati52.
Dell’iniziativa “Immagini e Colonie”, declinata poi nelle sue varianti bolognese e torinese, è da
sottolineare, come ricorda Zaccaria, la volontà di stimolare, attraverso la formula itinerante,
un’indagine sulle tracce locali lasciate dal colonialismo. Tali scopi di valorizzazione delle
48
Images et colonies: iconographie et propagande coloniale sur l'Afrique française de 1880 à 1962, sous la direction
de N. Bancel, P. Blanchard et L. Gervereau, Nanterre-Paris 1993.
49
Immagini e colonie, a cura di E. Castelli, Perugia 1998. Con la presentazione della mostra a Bologna, nel 1998, e poi
a Torino, nel 1999, vengono ugualmente realizzati due volumi connessi all’esposizione, rispettivamente L’Africa in
giardino. Appunti sulla costruzione dell’immaginario coloniale, a cura di G. Gabrielli, Bologna 1998; L’Africa in
Piemonte tra ‘800 e ‘900, a cura di C. Pennacini, Torino 1999.
50
Immagini e colonie, a cura di E. Castelli, Perugia 1998, p. 101.
51
Interessante in questa sezione appare la menzione delle immagini di Mori nei teatrini dei pupi siciliani, cfr. Immagini
e colonie, cit., pp. 113-14.
52
Permanenze e metamorfosi dell’immaginario coloniale in Italia, a cura di E. Castelli e D. Laurenzi, Napoli 2000. Si
vedano in particolare gli interventi di Beranger E. M., L’incontro con l’Africa attraverso diverse fonti documentarie: le
figurine, le fotografie dei soldati esposte come ex voto a Sofra (Frosinone) ed uno stendardo devozionale di Civitella
Roveto (L’Aquila), Delvecchio C., Pittori africanisti: una generazione di italiani alla ricerca dell’esotico, Santucci D.,
L’immagine dell’Africa negli opuscoli di medicina etiopica, Bettini L., Immagini e immaginario coloniale nell’Italia di
fine Ottocento: le dispense illustrate di Maffio Savelli, Angelucci M., Lo sguardo missionario: le copertine de “La
Nigrizia” dal 1935 al 1945.
12
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particolari esperienze coloniali sono stati poi perseguiti, soprattutto attraverso il recupero delle
memorie fotografiche private, con progetti come “Modena-Addis Abeba andata e ritorno”, da cui è
derivato il volume Sognando l’impero: Modena Addis-Abeba (1935-1941) 53 , e con il recente
L’impero nel cassetto54. La stessa attenzione non sembra invece esser stata data a indagini locali
espressamente dedicate alla produzione artistica direttamente connessa alla percezione italiana
dell’Africa coloniale e, soprattutto, dei suoi abitanti: di vari autori55 è stato indagato il cosiddetto
periodo africano all’interno di monografie ad essi dedicate, ma non sono stati realizzati volumi che
invertano le modalità di analisi, ponendo come punto centrale della ricerca la ritrattistica e l’arte
italiana a soggetto africano considerata attraverso l’opera di molteplici autori. A tale proposito,
parlando della parte della mia ricerca dedicata alle immagini a “statuto nobile”, vorrei cogliere
l’occasione per sottolineare alcune questioni che, forse, vanno meglio chiarite per comprendere in
che direzione si orienti il progetto. Prima di tutto vorrei rimarcare che in questo studio iconografico
il soggetto artistico indagato è l’elemento umano dell’Africa Nera, fatto che pone la blackness quale
caratteristica principale e imprescindibile affinché un documento visivo possa rientrare nel corpus
da analizzare. Ciò premesso, è da dire che la ricerca prende certamente le mosse dall’ambito della
pittura italiana di matrice orientalista, trattata da Caroline Juler sul finire degli anni Ottanta in un
ampio volume56 e in mostre a tema, con relativo catalogo, come quelle curate da Rossana Bossaglia
nel 1998 e da Emanuela Angiuli e Anna Villari nel 201157; tuttavia, la parte orientalista funge solo
da base di partenza, essendo tale filone artistico connesso a scene di stampo più arabeggiante, da
“mille e una notte”, ove l’elemento africano di colore non sempre è presente e, se lo è, non spicca
come soggetto a sé stante, risultando comunque inserito in un contesto per l’appunto orientale, e
non specificamente subsahariano, in scene complesse e articolate o in scorci paesaggistici,
trasformandosi spesso in una figura di contorno58. Il filone artistico che questa ricerca vorrebbe
53
Bertella Farnetti P., Sognando l’impero: Modena Addis-Abeba (1935-1941), Milano 2007.
L' impero nel cassetto: l'Italia coloniale tra album privati e archivi pubblici, a cura di P. Bertella Farnetti, A.
Mignemi, A. Triulzi, Udine 2013.
55
Si veda per esempio il folto gruppo degli artisti sardi quali Giuseppe Biasi, Melkiorre Melis, Cesare Cabras, Eugenio
Tavolara.
56
Juler C., Les Orientalistes de l’école italienne, Courbevoie (Paris) 1987.
57
Vedi nota 41.
58
Si vedano, solo per fare degli esempi, alcune opere presentate nei volumi della Juler e della Bossaglia. In Le Harem
di Giuseppe Aureli (cfr. Juler C., Les Orientalistes de l’école italienne, cit., p. 20) donne di colore compaiono nella
parte sinistra della scena come suonatrici, mentre il ruolo di protagonista è lasciato alla figura femminile bianca che,
sdraiata su un letto, domina il centro della scena. In Jongleuse dans un harem di Filippo Baratti (cfr. Juler C., Les
Orientalistes de l’école italienne, cit., p. 28), datato 1889, una singola figura di colore si distingue nel gruppo di
musicisti posto sulla destra, in secondo piano. In Scena araba di Eugenio Zampighi, datato 1882 (cfr. Gli orientalisti
italiani: cento anni di esotismo 1830-1940, cit., p. 146) la protagonista è nuovamente una donna distesa, il cui candore
della pelle viene ad assommarsi alla bianchezza opalescente dell’abito e a contrastare con la pelle scura di un suonatore
nero, seduto a terra nella parte destra dell’opera. Seduti a terra a gambe incrociate, ai piedi di un signore orientale, sono
anche gli uomini africani vestiti con pelle di leopardo e turbante che presenziano alla Danza della circassa di Mario
Moretti Foggia, del 1915 ( cfr. Gli orientalisti italiani: cento anni di esotismo 1830-1940, cit., p. 220).
54
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approfondire è invece quello della pittura africanista italiana, che si distacca dal più vago e generale
concetto di arte orientalista di matrice romantica, presentando quale soggetto l’Africa coloniale
subsahariana e le popolazioni in essa presenti o da essa provenienti. Interessano dunque per questo
lavoro opere realizzate da artisti italiani e aventi come soggetto l’alterità nera e le iconografie
esemplificative della sua stereotipizzazione attraverso l’ottica colonialista; sono dunque presi in
considerazione sia la ritrattistica a soggetto africano sia lavori in cui esso è posto in relazione con la
figura del colonizzatore bianco, al fine di mettere in evidenza certi temi iconografici generati dal
rapporto tra le due opposte alterità. A tale proposito è bene chiarire alcune questioni: prima di tutto,
è da dire che trattare l’arte africanista italiana non significa considerare solamente opere di autori
che si sono recati nelle colonie della madrepatria, esistendo infatti artisti italiani che hanno trovato i
loro modelli nelle colonie francesi, belghe e inglesi; parimenti, è da tenere in considerazione la
presenza di soggetti africani anche nelle opere di artisti che hanno lavorato nelle colonie che si
affacciano sul Mediterraneo, dove l’elemento nero è comunque presente in maniera rilevante per
migrazioni e spostamenti forzati causati dall’antica pratica della schiavitù. Tengo poi a sottolineare
che, pur consapevole dell’eterogeneità antropologica e delle cosiddette gerarchie etniche instaurate
tra le diverse popolazioni nelle varie colonie durante il periodo trattato 59, la ricerca ha come scopo
principale l’identificazione di un corpus di opere in cui la caratteristica prima dei soggetti sia la
negritudine: con ciò non si vuole operare una banalizzazione e una sminuente omologazione dei
tratti salienti e caratterizzanti della multiforme realtà africana, ma solamente dare un punto fermo e
dei confini alla ricerca. Infatti, ritengo che se il lavoro venisse impostato nei termini di una indagine
che voglia tener conto in maniera sistematica delle specificità e identificare a livello etnologico tutti
i soggetti raffigurati, rischierebbe di richiedere eccessivo tempo e dunque di veder ridotti i risultati
in termini di ampiezza del corpus visivo e di ricerca e analisi storico-artistica, obbiettivi
imprescindibili del mio progetto, trattandosi quest’ultimo di un lavoro dedicato in primis
all’iconografia e allo studio storico-critico delle arti visive 60. Con tali considerazioni ho cercato di
spiegare, in seguito alle critiche mossemi in sede di dibattito, la scelta del sottotitolo del progetto,
59
Come giustamente ricordava Zaccaria in sede di dibattito, è noto che i vari sistemi coloniali fossero basati sull’uso
diffuso di categorie e sull’inquadramento delle varie popolazioni in una gerarchia. Essa era basata su presunti crismi che
conducevano all’inserimento di una data etnia o popolo in una scala con diversi gradi di civiltà, cosa che doveva
favorire i governi coloniali in una gestione e in una capacità amministrativa più appropriata del territorio e dei suoi
abitanti.
60
Con ciò non si vuole escludere aprioristicamente qualsiasi approfondimento in relazione alle specificità etniche, cosa
che certamente, almeno in parte, dovrà essere affrontata; ad esempio, un’indagine di questo tipo potrà essere fatta in
occasione della citazione di specifiche popolazioni locali all’interno dei titoli di alcune opere, essendo ciò rilevante
poiché in questo caso è l’artista a porre in evidenza tale specificità. D’altro canto, è anche vero che spesso i titoli
(originali o attribuiti che siano) si limitano a parlare di “testa”, “nudo”, “africano”, “africana” oppure descrivono
l’impressione generale della scena utilizzando sostantivi che mettono in luce l’azione compiuta dai soggetti; a tale
proposito, si vedano per esempio alcuni titoli delle opere di Giuseppe Biasi, quali i vari Studio di testa e Scena di danza,
nonché Negre al fiume, Negra nuda sul verde, Danza selvaggia, Danzatore nero, Danzatore e musicanti, solo per
citarne alcuni (cfr. le opere in Altea G., Magnani M., Giuseppe Biasi, Sassari 1998).
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che parla appunto di “popolazione coloniale africana nell’Italia del Ventennio”, prediligendo l’uso
del singolare proprio per i motivi sopra menzionati.
Per quanto riguarda invece il suggerimento relativo al fatto di ampliare i termini cronologici della
ricerca sino agli anni Cinquanta del Novecento, al fine di verificare la persistenza del soggetto
africano e di molti stereotipi ad esso collegati anche nel periodo post-coloniale, non posso che
trovarmi d’accordo sulle interessanti prospettive di analisi che un tale ampliamento potrebbe recare,
anche in considerazione del fatto che per esempio alcuni artisti, che avevano vissuto in prima
persona nelle colonie il conflitto italo-etiopico e poi la seconda guerra mondiale, hanno continuato a
risiedere in quei territori o comunque ad avere stretti contatti con le ex-colonie, riproponendo nei
loro lavori soggetti africani anche dopo la conclusione dell’imperialismo fascista 61 . Tuttavia,
sempre per motivi pratici connessi alla necessità di porre dei limiti che rendessero gestibile la
ricerca, che altrimenti sarebbe risultata troppo onerosa per un triennio dottorale, mi sono vista
costretta ad optare per la scelta di un arco cronologico più ristretto, arrivando dunque ai primissimi
anni Quaranta, coincidenti con la fine del sogno imperiale italiano e dell’era fascista.
Concordo ugualmente sull’osservazione circa l’esistenza di un centro di produzione di stereotipi
sull’Africa contemporaneo e alternativo a quello del regime, vale a dire l’azione missionaria, la
propaganda e le varie attività connesse all’operato ecclesiastico. Anche in questo caso, pur
consapevole dell’importanza e del peso rivestito da tale secondo polo culturale nell’ambito della
creazione di immagini e stereotipi coloniali, ho dovuto operare una scelta che fosse in linea con le
necessità e soprattutto con i tempi del progetto, prediligendo la parte di fonti generata dal versante
laico, visto che, come già notato in precedenza da altri, “cercando di orientarsi nella vastissima
produzione visuale missionaria (fotografie, cartoline, riviste illustrate, libri), il problema maggiore è
quello di riuscire a definire un campo di ricerca che sia allo stesso tempo limitato, in modo da
permettere un maggior approfondimento, e rappresentativo, che raccolga quindi in sé tutti gli aspetti
propri dello ‘sguardo missionario’” 62 . Tuttavia, si è deciso di dare comunque una voce, seppur
minima, a tale contesto attraverso lo spoglio della “Rivista Illustrata della Esposizione Missionaria
Vaticana”, edita tra il dicembre 1924 e il dicembre 1925, reperendo i testi specificamente dedicati al
continente africano63.
61
Cito qui gli esempi di Ersilia Cavaciocchi Giunta, Aldo Pagliacci e Nenne Sanguineti Poggi.
Angelucci M., Lo sguardo missionario: le copertine de “La Nigrizia” dal 1935 al 1945, in Permanenze e
metamorfosi dell’immaginario coloniale in Italia, cit., pp. 289-307.
63
Per un’analisi più ampia e approfondita relativa al fenomeno delle esposizioni missionarie in connessione alla politica
coloniale di vari stati, sia europei che americani, si veda Sánchez-Gómez L. A., Dominación, fe y espectáculo. Las
exposiciones misionales y coloniales en la era del imperialismo moderno (1851-1958), Madrid 2013.
62
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Un aspetto del mio progetto che, in sede di dibattito, è stato ritenuto “problematico” riguarda invece
la gestione della struttura bipartita della tesi, il peso che ciascuna delle due parti rivestirà e le
modalità di interrelazione e comparazione tra di esse. A tale proposito, è stato sottolineato che il
materiale trattato nella prima parte, dedicata alle immagini popolari, richiederebbe uno “sforzo
titanico” e un più ampio spazio per essere gestito; tuttavia, tengo a precisare nuovamente che delle
varie tipologie di fonti a “statuto basso”, dedicate alla diffusione di massa, è stata effettuata una
selezione rappresentativa, comprendente riviste, materiale pubblicitario e grafica per l’infanzia, al
fine di renderne appunto più pratica la gestione e l’analisi; sono state per esempio escluse le
cartoline illustrate64, materiale troppo vasto e a cui si dovrebbe dedicare uno studio a sé stante, cosa
in parte avviata da Gabriele Zorzetto che, nel volume Cartoline coloniali: catalogo per immagini,
raccoglie numerosi esemplari aventi come soggetto i reparti coloniali di colore65.
Sulla scelta di strutturare l’elaborato in maniera bipartita, sottolineo nuovamente come tale
impostazione sia stata preferita, sin da principio, guardando alle riflessioni già poste da Laura
Malvano66, ritenendo che una simile divisione non escluda la possibilità di un proficuo dialogo tra
le due sezioni, ma anzi apra alla scoperta di interessanti punti di contatto. La base su cui poggia tale
possibilità di scambio dialettico tra le parti è, ancora una volta, il dato iconografico: richiami,
influenze, citazioni più o meno consapevoli si ritrovano infatti confrontando le varie fonti,
constatando di tanto in tanto come non solo le immagini di massa guardino alle cosiddette arti
maggiori, ma come anche queste ultime possano risultare fortemente debitrici nei riguardi delle
fonti visive più diffuse. A tale proposito porto qui come esempio un curioso caso di citazione
trasfigurata, ove è l’artista a guardare all’ambito delle fonti popolari: l’eclettico Fortunato Depero,
creatore d’arte del Futurismo postbellico tra l’altro notoriamente legato al mondo della grafica
pubblicitaria 67 , realizza un disegno a carboncino intitolato Profili abissini, opera certamente
connessa al conflitto italo-etiopico
68
; il lavoro presenta, secondo i consueti giochi di
compenetrazioni tra oggetti e figure ereditati dal Futurismo, un gruppo di tre teste, poste variamente
di profilo e immerse in un insieme di fasci di luce chiaroscurali e di oggetti vari, apparentemente dei
64
Con l’eventuale eccezione di quegli esemplari che possano risultare interessanti perché riproducono grafiche o opere
pittoriche d’autore.
65
Zorzetto G., Cartoline coloniali: catalogo per immagini, Vicenza 2007.
66
Malvano L., Fascismo e politica dell’immagine, cit.
67
Si vedano in proposito DeperoPubblicitario: dall’auto-réclame all’architettura pubblicitaria, catalogo della mostra
(Rovereto, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, 13 ottobre 2007-3 febbraio 2008), a cura di G.
Belli, B. Avanzi, Milano 2007; Scudiero M., Depero futurista: grafica&pubblicità, Milano 1989. Uno dei casi più
conosciuti è la sua attività per Campari, per la quale si veda Depero per Campari, a cura di M. Scudiero, Milano 1989.
68
L’opera è pubblicata in Fortunato Depero nelle opere e nella vita, Rovereto 1940; più di recente, è stata riproposta e
riprodotta nel catalogo della già citata mostra sugli orientalisti italiani curata da Bossaglia (cfr. Gli orientalisti italiani:
cento anni di esotismo 1830-1940, cit., p. 296; scheda n. 205, a cura di P. Lodola, p. 319). Nel volume del 1940 è
pubblicata con il titolo Profili abissini, mentre nel catalogo del 1998 è riportato il titolo Profili etiopici, con data 1936,
anche se in verità l’opera è datata dall’autore con “XIV”, ossia l’anno dell’era fascista.
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vasi, degli scettri cerimoniali e delle aste, forse lance. Nella scheda relativa al disegno presente nel
catalogo sugli orientalisti italiani si dice che “l’opera, caratterizzata da una spiccata sintesi plastica,
si riconduce per certi versi alla grafica pubblicitaria dell’artista e alle sue costruzioni in legno e
cartone”69; tuttavia, a mio parere, è forse più interessante notare come Depero in questo lavoro
riproponga, seppur con alcune variazioni, un disegno tratto da una fonte destinata all’ampia
diffusione, ossia una figurina pubblicitaria della nota ditta Liebig. Il profilo in alto a destra è infatti
una palese ripresa della testa del “Capo Massai” presente nella sesta figurina della serie Liebig del
1934 relativa all’Estetica del corpo presso i popoli primitivi; tale figurina è divisa in due porzioni,
al pari delle altre cinque della serie, ed è dedicata, nello specifico, all’illustrazione della pratica
della mutilazione delle orecchie, di cui presenta due esempi. Secondo un uso ormai consolidato
all’epoca gli illustratori realizzavano molte delle loro grafiche, come è noto, sulla base di modelli
fotografici70 ; anche la testa del “Capo Massai” è stata evidentemente ripresa da una fotografia,
diffusa in forma di cartolina, di cui ho reperito copia sul mercato collezionistico. Appare stimolante
in questa sede proporre una lettura comparata tra le tre differenti fonti [Figg. 1-2-3], al fine di
mostrare attraverso questo piccolo case study non solo le interrelazioni tra i diversi documenti visivi,
ma soprattutto porre in evidenza alcuni passaggi attraverso i quali il soggetto africano, di volta in
volta, viene trasfigurato per essere adattato al contesto e al pubblico a cui la specifica immagine è
rivolta. Per quel che riguarda la fotografia riprodotta in cartolina, ove appare stampata proprio la
scritta “Un Capo Massai”, si nota come essa sia stata realizzata secondo canoni molto simili a quelli
della fotografia antropometrica utilizzata dagli studiosi dell’epoca: il soggetto è ritratto a
mezzobusto e di profilo, al fine di coglierne i tratti salienti della fisionomia e alcune peculiarità
quali ornamenti e acconciatura. Per motivi pratici, dovendo porre in uno spazio ridotto due figure, la
grafica Liebig si limita invece a presentare il soggetto ritraendolo sino all’altezza della spalla, al
pari di quanto farà Depero nel suo disegno due anni più tardi, cosa che lo condurrà ad un’errata e
arbitraria reinterpretazione di taluni particolari invece ben distinguibili nel documento fotografico,
fatto che avvalora l’idea che l’artista abbia tratto questo suo profilo abissino proprio della figurina, e
non dal reale soggetto fotografato. Ciò sarebbe a mio parere deducibile dal confronto di alcuni
elementi della figura, ossia l’acconciatura e gli ornamenti del collo; il grafico della Liebig infatti,
rimanendo abbastanza fedele al dato reale e disponendo del soggetto fotografato a mezzo busto, può
interpretare e riportare correttamente la parte terminale dell’acconciatura, chiusa in uno stretto
elemento cilindrico di corda vegetale, mentre Depero, evidentemente privo della fonte fotografica
che contestualizzava e facilitava la lettura di tale particolare permettendone una resa esatta,
69
Lodola P., scheda n. 205, in Gli orientalisti italiani: cento anni di esotismo 1830-1940, cit., p. 319.
Cfr. Pulini I., Dal mondo in figurina al catalogo degli umani, in People. Il catalogo degli umani tra ‘800 e ‘900, cit.,
pp. 31-34.
70
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semplifica e trasforma l’elemento riproponendolo come un lungo cono tronco chiaroscurato che si
unisce senza troppa convinzione alla parte terminale della capigliatura dell’indigeno. Da notare poi
come le lucide curve dell’acconciatura, già meno naturali e più schematizzate nella figurina,
appaiano in Depero ancor più rigide, quasi una stilizzazione della stilizzazione. Ugualmente, nella
resa degli ornamenti del collo è percepibile lo stesso meccanismo di graduale e arbitraria
semplificazione: se dalla fotografia si evince che le collane sono di molteplici tipologie e materiali,
nella grafica Liebig esse vengono invece ridotte a due, e mentre quella bianca e rossa ripropone in
maniera simile ma non uguale parte di una più lunga collana bicolore indossata dal masai
dell’immagine scattata, l’altra, che nella fotografia appare come un sottile filo a cui è probabilmente
appeso qualcosa, diviene un semplice ma più grosso cordino stretto alla gola, che potrebbe sembrare
un anello metallico se non fosse per la tonalità del colore, più simile a quella del cilindro di fibre
vegetali utilizzato per l’acconciatura che non al giallo dorato utilizzato per la resa dei ninnoli che
ornano l’orecchio della figura. Tuttavia l’idea del cerchio metallico sembra farsi strada e prevalere
nella personale elaborazione che Depero fa di questo particolare: il collo del suo profilo appare
infatti stretto da tre anelli di eguale raggio e spessore, che ben si accordano alla più complessa
collana di cerchi concentrici indossata dal secondo dei tre Profili abissini, con molte probabilità
un’aggressiva versione mascolinizzata di una donna masai, per altro ridicolizzata e imbarbarita dal
particolare di una stilizzata forchetta appesa a mo’ di orecchino al lobo sinistro, in sostituzione del
più comune monile pendente terminante anch’esso con una piccola serie di cerchietti concentrici 71.
Anche altri particolari del primo profilo vengono modificati dall’artista, come la parte anteriore
dell’acconciatura, privata del cilindretto che raccoglie sulla fronte una ciocca di capelli, e la resa
dell’orecchio, non deformato dal peso dei suoi ornamenti, che risultano mutati nella forma e ridotti
per grandezza e numero o definitivamente eliminati, come accade per quello che nella figurina, al
pari di quanto si vede nella fotografia, compare appeso sulla zona cartilaginea superiore
dell’orecchio. Parimenti, Depero elimina la scriminatura che divide la parte anteriore della
capigliatura da quella posteriore, congiungendo le due zone in un unico fascio di linee curve sul
quale mantiene giustapposto l’altro cilindretto che, nella figurina, risultava ancora chiaramente
necessario a contenere una seconda ciocca di capelli. Tuttavia l’artista trentino, nel mantenere tale
71
A proposito della donna masai e dei suoi ornamenti si legga quanto riferito in un articolo de “La Domenica del
Corriere” del 1934 e si confronti la relativa fotografia, presente nel corredo visivo dello stesso: “E cosa si direbbe di una
donna Masai (Kenia e Tanganica) che non avvolgesse il proprio collo in una rete concentrica di filo metallico pesante,
solido, resistente? Certamente verrebbe accusata di mollezza. Da non dimenticare poi che la ottima reputazione di una
signora Masai riposa anche sui lobi delle sue orecchie: una sposa Masai bene educata non si toglierà mai dalle orecchie,
finché il proprio marito è in vita, quanto questi con nobile pensiero vi ha appeso” (cfr. L’esploratore, Fra la più strana
gente. La moda e la donna nel Continente Nero, in “La Domenica del Corriere”, a. XXXVI, n. 21, 27 maggio 1934, p.
13). Per quel che riguarda la più consueta forma circolare del pendente dell’orecchino, è da notare come comunque
Depero ne dia accenno ponendo la testa della forchetta entro un cerchio.
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particolare, lo stilizza, rielaborandolo in un più grosso cilindretto dal quale non fuoriescono le punte
dei capelli in esso raccolti, come invece appare nelle altre immagini, cosa che lo trasforma in una
sorta di cavicchio72.
E’ infine interessante notare l’evoluzione che la fisionomia del volto subisce da un’immagine
all’altra: se nella figurina l’accentuazione del prognatismo è lieve e mitigata da un andamento
regolare e curvilineo dei tratti, nonché dall’aggiunta di una lieve smorfia di sorriso data dalla piega
ascendente del labbro superiore, nel disegno dell’artista trentino il profilo viene notevolmente
stravolto; l’arcata sopraccigliare è infatti fortemente marcata e crea un accentuato chiaroscuro, la
linea del naso non è più curva, ma spezzata, trasmettendo l’idea di una punta ampia e schiacciata, la
linea del labbro superiore è parimenti segmentata, cosa che insieme al resto conferisce alla figura
una certa durezza d’espressione. Infatti, mentre la figurina Liebig, in virtù della sua essenza
reclamistica, doveva illustrare in maniera accattivante le curiose stranezze di un’alterità lontana,
l’opera di Depero è frutto di quella retorica propagandista che, durante il periodo del conflitto,
dipingeva gli etiopi come esseri dai tratti primitivi e dall’indole barbara e feroce, caratteristica,
quest’ultima, incarnata qui soprattutto dalla figura identificabile come donna masai; proprio per
sottolineare tali elementi morali e caratteriali, la propaganda utilizzava, talvolta accentuandoli, i
luoghi comuni del razzismo basati sugli studi etno-antropologici e fisiognomici, al fine di dare
forma visiva all’alterità73 che desiderava stigmatizzare in quanto nemica.
Da questo piccolo esempio di lettura comparata delle immagini spero di essere riuscita a far
emergere il tipo di ricerca che sto conducendo, ossia un lavoro che, attraverso un’operazione di
reperimento, analisi e confronto di fonti più e meno note, tenti di ricostruire e porre nuova luce sulle
72
La resa di tale particolare è forse una memoria degli assemblaggi lignei dei suoi burattini, o forse, ma questa è
certamente un’assai più suggestiva ipotesi, uno scherzoso accenno di trasformazione dell’abissino in una versione
africana di quello che, proprio nella prima metà degli anni Trenta, era stato rilanciato sugli schermi cinematografici
come l’alterità mostruosa per eccellenza, ossia Frankenstein, nota creatura letteraria ottocentesca di Mary Shelley. Il
presunto cavicchio ricorda infatti gli elettrodi, inseriti però nel collo del mostro, così come apparivano nell’articolato
trucco di scena del suo interprete, l’attore Boris Karloff; tale particolare, sommato all’esagerazione di altri tratti come la
prominenza dell’arcata sopraccigliare e le palpebre grandi e socchiuse, ricordano infatti vagamente i tratti della
“creatura”, così come riproposta nei due film diretti da James Whale negli anni Trenta, ossia Frankenstein e il suo
sequel The Bride of Frankenstein, rispettivamente del 1931 e del 1935. Il Frankenstein del 1931 viene presentato nel
1932 alla I Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia ed entra in circuito in Italia tre anni dopo (cfr.
Grandi manifesti del cinema, testi a cura di D. Turconi e A. Scacchi, Novara 1984, p. 64). Probabilmente è solo una mia
suggestione, anche se è da dire che, in alcuni volumi dedicati ad una rilettura del racconto di Shelley e delle sue
successive messe in scena e influenze, è stata sottolineata la relazione triangolare tra animalità, mostruosità e
negritudine che, insieme all’allora contemporaneo dibattito sulla razza, sarebbe alla base dell’invenzione del
personaggio (si vedano per esempio Malchow H. L., Gothic Images of Race in Nineteenth-Century Britain, United State
of America 1996, pp. 9-40; Idem, Frankenstein’s Monster and Images of Race in Nineteenth-Century Britain, in Mary
Shelley’s Frankenstein, edited by H. Bloom, New York 2007, pp. 61-94; Young E., Black Frankenstein: the making of
an American metaphor, United States of America 2008). Per un confronto si vedano i particolari delle figure 1, 2, 3 e
l’immagine 4, poste a corredo del presente testo.
73
A tale proposito si veda il testo di Bindman D., Ape to Apollo: aesthetics and the idea of race in the 18. Century,
London 2002; inoltre, per il concetto di “deformazione” futurista, associato alla raffigurazione dell’elemento nero e
connesso al pregiudizio razziale, si veda per esempio Strożek P., Futurist Responses to African American Culture, in
Afromodernisms: Paris, Harlem and the Avant-Garde, edited by F. Sweeney and K. Marsh, Edinburgh 2013.
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scelte creative e iconografiche di vari materiali visivi, sulle opere a tematica africanista e sulle
vicende storico-artistiche dei loro autori.
Figg. 1-2-3, da sinistra: Un Capo Massai, cartolina, [ante 1934]; Estetica del corpo presso i popoli primitivi, 1934.
Pubblicità Liebig. Serie di 6 figurine, edizione italiana. Figurina n. 6, La mutilazione delle orecchie; Fortunato Depero,
Profili etiopici (già Profili abissini), 1936 ca., pubblicato in Gli orientalisti italiani: cento anni di esotismo 1830-1940,
catalogo della mostra (Torino 1998), a cura di R. Bossaglia, Venezia 1998, p. 296.
Figg. 1-2-3, particolari.
Fig. 4 Boris Karloff in The Bride of Frankenstein, foto d’epoca, [1935].
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Niger Alter Ego: dagli strascichi dell`esotismo ottocentesco