4 - Trieste Artecultura - giugno 2014
Uno sguardo all’opera letteraria dell’autore triestino
L’ARTE DI ALOJZ REBULA
di Marija Pirjevec
Alojz Rebula, una delle voci più inquiete e originali della letteratura slovena contemporanea, autore di oltre
una quarantina di novelle, racconti,
romanzi, testi teatrali, diari e saggi,
scritti in un lasso di tempo che va
dalla metà del Novecento ad oggi, è
tuttora quasi sconosciuto al pubblico
italiano. Le traduzioni di alcuni dei
suoi romanzi - Nel vento della Sibilla,
La peonia del Carso, Notturo sull’Isonzo, nonché della raccolta di novelle
intitolata La vigna dell’imperatrice romana - offrono al lettore italiano l’occasione di conoscere solo una piccola
parte dell’ampia opera di quest’autore
complesso, che si distingue per la sua
eccezionale esperienza spirituale, per
il suo solido bagaglio culturale, per
il suo vivo interesse per l’uomo e la
natura, nonché per il suo virtuosismo
stilistico: uno scrittore intimamente
legato al microcosmo sloveno del Litorale, ma capace al tempo stesso di superarlo, aprendosi alle problematiche
esistenziali dell’uomo del nostro tempo, smarrito nel vortice di ideologie
diverse e nel caos delle correnti del
pensiero contemporaneo.
Nato nel 1924 in una zona di frontiera, sull’altopiano carsico, in quel
territorio abitato dagli sloveni che
dopo la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico, fu assegnato all’Italia,
anche Rebula, come Boris Pahor, visse
negli anni giovanili un trauma destinato a lasciare traccia profonda nella
sua opera: quello del divieto fascista
d’esprimersi nella propria lingua. Proprio questa lacerante esperienza, legata alla sua giovinezza, durante la quale ebbe modo di provare sulla propria
pelle la barbarie dell’ideologia totalitaria generò nell’autore quell’appassionata dedizione alla madrelingua, tratto, questo, che contraddistingue tutta
la sua opera.
I componimenti giovanili di Rebula, anche quelli segnati dalle incertezze del principiante, preannunciano
alcuni aspetti fondamentali delle sue
successive fatiche letterarie, che trove-
ranno matura espressione in una serie
di romanzi d’ampio respiro. Uno dei
punti cardinali della sua produzione è,
fin dagli esordi, quel conflitto tra il
particolare e l’universale che rappresenta, come scrive Claudio Magris a
proposito del romanzo Nel vento della
Sibilla - «il conflitto del nostro tempo
e al contempo una questione di specifico rilievo nell'ambito delle lettere
slovene». Va inoltre sottolineato che
l'autore, legato alla tradizione classica, slovena ed europea (Prešeren,
Župančič, Kocbek, Dante, Goethe, Dostoevskij, Tolstoj, Nietzsche, Claudel,
Proust ecc.), innamorato della cultura
greco-latina, non ha mai accettato il
postmodernismo e le sue teorizzazioni
sulla scomparsa dell’io, la morte del
grande racconto e della metafisica,
l’indebolimento del concetto di storicità. Fin dal principio, la sua narrativa
è infatti ancorata alla storia recente
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del microcosmo a lui più vicino: del
Carso, che gli ha dato i natali, e della
città di Trieste, alla quale lo lega un
rapporto psicologicamente complesso,
ma, a livello creativo, ricchissimo di
spunti - a detta sua - «un rapporto di
odio-amore, d’identità e d’estraneità,
di provincialismo ed europeismo».
Nella sua opera giovanile, l’autore
passa al vaglio soprattutto il calvario
degli sloveni del Litorale durante la
repressione del regime fascista. Il
trauma causatogli dall’atteggiamento
sprezzante nei confronti degli s'ciavi
anche da parte di italiani colti è testimoniato in modo particolarmente suggestivo dal racconto breve La donna
delle zucchine. Anche nel decennio del
primo dopoguerra Rebula si sentiva
intimamente coinvolto nella questione
di Trieste, con tutte le problematiche
etniche, politiche e culturali ad essa
- continua nella pagina seguente in basso
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I 90 anni dello scrittore di San Pelagio
DELLA PAROLA E DELL’IDENTITà
di Sergey Pipan
Alojz Rebula è nato il 21 luglio
1924 a San Pelagio (Šempolaj), presso
Aurisina. La sua infanzia fu profondamente segnata dal divieto imposto dal
regime fascista di esprimersi nella sua
madrelingua slovena. Proprio nel 1924
il governo italiano iniziò una capillare
operazione volta a cancellare la lingua
e la cultura slovene nei territori adriatici occupati al termine della Prima
guerra mondiale. Il piccolo Alojz fu
quindi una delle prime vittime, privato a un tempo della propria lingua
e della propria identità. Solo qualche
anno dopo, appena quindicenne, fu accolto nel ginnasio-liceo del Seminario
arcivescovile di Gorizia, dove iniziò un
lento e incerto recupero della lingua
di origine.
Del trauma subìto vi è una traccia
profonda nelle sue opere. Rebula è autore di circa una quarantina di libri:
romanzi, novelle, saggi, testi teatrali,
pagine di diario. Egli si è impegnato
nella ricerca del senso dell’esistenza
e della trascendenza cristiana, com’è
evidente già nel suo primo romanzo Il
ballo delle ombre (Senčni ples, 1960) e
nel romanzo storico Nel vento della Sibilla (V Sibilinem vetru, 1968), ambientato nella Roma imperiale agli inizi
del Cristianesimo: Marbod, giovanetto
che i legionari romani strappano da
un villaggio sulle sponde del Danubio
e portano schiavo a Roma, diventerà
Nemesiano e scoprirà il mondo e se
stesso attraverso un’odissea fisica e
spirituale. Il personaggio è lo stesso
Rebula, cui erano stati tolti la parola
e l’identità slovena, che però alla fine
riconquisterà sul Carso, vicino al Timavo, il fiume che emblematicamente
risorge dalle viscere della terra. E il
Carso straordinario e pietroso diventerà per lo scrittore il luogo dell’anima e
della memoria.
Nel 1949 Rebula si diplomò in Filologia classica all’Università di Lubiana
con una tesi su La lingua di Properzio,
e nel 1960 conseguì il dottorato alla
Sapienza di Roma con una dissertazione sulla Divina Commedia nelle traduzioni slovene. Ha insegnato per lungo
tempo Lettere classiche nelle scuole
superiori slovene di Trieste. Per le sue
opere ha ottenuto numerosi riconoscimenti letterari, a cominciare dal Premio France Prešeren (1969).
Nel 1975 pubblicò con Boris Pahor
l’opuscolo Edvard Kocbek: un testimone del nostro tempo, in cui veniva sollevata la questione dell’eccidio di circa
diecimila domobranci (collaborazionisti sloveni, in gran parte cattolici e
anticomunisti); essi si erano rifugiati
in Carinzia a guerra ormai finita, tra
l’11 e il 12 maggio 1945, per sfuggire
all’esercito jugoslavo che aveva liberato la Slovenia dai fascisti e dai nazisti.
Gli Inglesi li disarmarono e li tennero prigionieri nel campo di Viktring,
ma dal 24 al 31 maggio li rispedirono
con l’inganno in Slovenia, insieme alle
loro famiglie: furono consegnati ai reparti jugoslavi e la loro sorte fu così
segnata. La tragedia si consumò brutalmente nei dintorni di Kočevje. Lo
scrittore e poeta Edvard Kocbek, che
era stato il massimo rappresentante dei cristiano-sociali all’interno del
Fronte di Liberazione del Popolo sloveno, ebbe il coraggio di chiedere conto
dell’eccidio alla dirigenza comunista al
potere in Slovenia, e per tale motivo
venne a lungo emarginato dalla scena
politica e letteraria. Gli stessi Rebula
e Boris Pahor subirono ritorsioni dalle
autorità jugoslave.
In tutta l’opera letteraria e diaristica dello scrittore confluiscono i motivi
ispiratori della sua inesausta ricerca,
come quelli della sua rasserenata contemplazione della realtà, della soluzione tenace della fede religiosa, che ha
ragione del dubbio e della tentazione
di inanità dell’esistere, della sua slovenità, conseguita come un traguardo,
considerando le vessazioni che storicamente l’avevano conculcata.
legate (La vigna dell'imperatrice romana, Vuoto è il Carso). L'intento
dell'autore non era tuttavia unicamente quello di rappresentare il disagio
e la rabbia repressa di una comunità
condannata all'emarginazione etnica e
sociale: a interessarlo maggiormente
furono infatti fin dall'inizio gli aspetti
umani più profondi, le questioni eterne dell'uomo - quelle della libertà e
della schiavitù, della paura e del coraggio, della vita e della morte, del
Senso e del Nulla. Tutti questi elementi confluiscono in una sinesi organica
nel primo romanzo di Rebula La danza delle ombre in cui i problemi esi-
stenziali e nazionali trovano un centro
focale nel protagonista Silvan Kandor,
un intellettuale sloveno di Trieste, di
umili origini, che dopo un grave lutto
familiare è in cerca di un baricentro
che dia senso alla sua vita. Alla fine
egli accetta supinamente il proprio destino senza far ricorso alla fede cristiana cui Rebula sarebbe approdato più
tardi, dopo un periodo di angosciosa
ricerca che mise a repentaglio la sua
stessa salute mentale. Parallelamente
all’affinarsi della sua arte di scrittore
egli comincia ad affrontare la questione dell’umanesimo ontologico, fecondato dalla trascendenza cristiana che
assume un posto di sempre maggiore
rilievo nella scala dei valori dell’autore. Nel romanzo storico Nel vento
della Sibilla al suo protagonista, un
prigioniero barbaro romanizzato, cui
vennero tolti identità e patria, quando
riesce a riconquistare l’una e l’altra,
fa dire parole che ribadiscono questa
tesi: «Alla fine anche per me la libertà
come la patria, non furono altro che
dei mezzi. Il fine ultimo era uno solo:
essere uomo, uomo il più possibile»
(A. Rebula, Nel vento della Sibilla,
Prefazione di F. Folkel, Traduzione
Diomira Fabjan Bajc, Editoriale Stampa Triestina, Trieste 1992, p. 562).
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