la Biblioteca di via Senato mensile, anno vi Milano n.2 – febbraio 2014 BIBLIOFILIA Un industriale, un mecenate di giancarlo petrella NOVECENTO Gli interventisti e la I Guerra Mondiale marco cimmino SPECIALE EMO Andrea Emo o della filosofia futura di giovanni sessa e sandro giovannini NOVECENTO Il risotto alla milanese di Carlo Emilio Gadda di massimo gatta L’ALTRO SCAFFALE Bisanzio, la notte e la musica di ogni tempo di alberto cesare ambesi Si ringraziano le Aziende che sostengono questa Rivista con la loro comunicazione la Biblioteca di via Senato – Milano MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO VI – N.2/48 – MILANO, FEBBRAIO 2014 Sommario 6 Bibliofilia UN INDUSTRIALE, UN MECENATE di Giancarlo Petrella 14 Speciale Emo ANDREA EMO O DELLA FILOSOFIA FUTURA di Giovanni Sessa e Sandro Giovannini 54 BvS: Fondo Novecento GLI INTERVENTISTI E LA I GUERRA MONDIALE di Marco Cimmino 58 BvS: Fondo Letteratura ’900 IL RISOTTO ALLA MILANESE DI CARLO EMILIO GADDA di Massimo Gatta 25 Speciale Emo MASSIMO DONÀ: «DIO È NULLA, IL MONDO È» di Giovanni Sessa 63 L’Altro Scaffale BISANZIO, LA NOTTE E LA MUSICA DI OGNI TEMPO di Alberto Cesare Ambesi 28 Speciale Emo ROMANO GASPAROTTI: «DIO CREA MORENDO» di Giovanni Sessa 66 Filosofia delle parole e delle cose IL LIMITE ASSOLUTO E LA MANCANZA RELATIVA di Daniele Gigli 33 IN SEDICESIMO – Le rubriche LE MOSTRE – IL RICORDO a cura di Luca Pietro Nicoletti e Gianfranco de Turris 70 BvS: il ristoro del buon lettore I GRANDI PIATTI DI MA.RI.NA di Gianluca Montinaro 50 Punture di penna CONSIGLI INTELLETTUALI PER IL VERO MAÎTRE À PENSER di Luigi Mascheroni 72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO Fondazione Biblioteca di via Senato Biblioteca di via Senato – Mostre Biblioteca di via Senato – Edizioni Presidente Marcello Dell’Utri - Mostra del Libro Antico - Salone del Libro Usato Consiglio di Amministrazione Marcello Dell’Utri Giuliano Adreani Fedele Confalonieri Ennio Doris Fabio Pierotti Cei Fulvio Pravadelli Carlo Tognoli Organizzazione Ines Lattuada Margherita Savarese Redazione Via Senato 14 - 20122 Milano Tel. 02 76215318 - Fax 02 798567 [email protected] [email protected] www.bibliotecadiviasenato.it Ufficio Stampa Ex Libris Comunicazione Direttore responsabile Gianluca Montinaro Servizi Generali Gaudio Saracino Segretario Generale Angelo de Tomasi Coordinamento pubblicità Margherita Savarese Collegio dei Revisori dei conti Presidente Achille Frattini Revisori Gianfranco Polerani Francesco Antonio Giampaolo Progetto grafico Elena Buffa Fotolito e stampa Galli Thierry, Milano Referenze fotografiche Saporetti Immagine d’Arte - Milano Immagine di copertina Ritratto fotografico di Carlo Emilio Gadda con una sua dedica al critico Giancarlo Vigorelli (Milano, Biblioteca di via Senato) Stampato in Italia © 2014 – Biblioteca di via Senato Edizioni – Tutti i diritti riservati Reg. Trib. di Milano n. 104 del 11/03/2009 L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per immagini o testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte Editoriale C ento anni dall’attentato di Sarajevo, nel quale veniva assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo. Cent’anni quindi dallo scoppio della I Guerra Mondiale, evento, e chiave di volte, essenziale all’interpretazione del «Secolo breve». Il conflitto, che attraversò tutta l’Europa, prendendo forma in una snervante e sanguinosa guerra di trincea, segnò da una parte la fine degli Imperi, dall’altra avviò quella «guerra civile europea» (secondo una nota definizione di Ernst Nolte) fra i “rottami” del mondo borghese ottocentesco e le masse operaio agitate dagli echi di rivoluzione, che solo si sarebbe conclusa con la caduta di Berlino nel maggio del 1945. Prende il via da questo numero della rivista una serie di articoli dedicati a questi avvenimenti (il dibattito fra interventisti e non interventisti; l’impresa fiumana di d’Annunzio, lo scontro ideologico fra conservatori, fascisti, socialisti e comunisti) ispirati anche dai tanti volumi, pubblicazioni e riviste di quegli anni che la Biblioteca di via Senato conserva nel suo patrimonio. Postillando, a distanza di tanto tempo, si può ormai dire - senza paura di esprimere un pensiero “anticonformista” - come l’evento della I Guerra (ancora messo in falsa luce dalla storiografia di sinistra) fu ciò che più contribuì a creare il nostro sentimento nazionale, in un’Italia ancora troppo giovane e con tante questioni aperte (il Meridione, i rapporti con la Chiesa, le masse operaie). Gianluca Montinaro febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 7 Bibliofilia UN INDUSTRIALE, UN MECENATE Giacinto Ubaldo Lanfranchi, capitano d’impresa e bibliofilo GIANCARLO PETRELLA «M ultos in vinculis tenes, qui si forsan erumperent et loqui possent ad iudicium te privati carceris evocarent». Nel De remediis Petrarca se la prende con la categoria, evidentemente già all’epoca assai diffusa, di quei gretti bibliofili gelosi della propria collezione al punto da tenere quasi in catene i libri «quibus multi egeant studiosi». A questa schiera non si può certo dire appartenesse Giacinto Ubaldo Lanfranchi da Palazzolo sull’Oglio (1889-1971), capitano d’impresa tenace e rigoroso per decenni alla guida, assieme ai fratelli, della Lanfranchi, leader mondiale nel settore dei bottoni e poi delle chiusure lampo per intenderci, coinvolto in prima persona nella cosa pubblica e in numerose associazioni di tipo assistenziale, ma con la vocazione, autentica e illuminata, per la cultura e il collezionismo, non soltanto librario.1 Un industriale mecenate d’altri tempi. Bisogna cominciare dalla Sopra: Erasmo, Enchiridion dalla lingua latina nella volgare tradotto, Brescia, Ludovico Britannici, 1531: frontespizio. Accanto: Antonio Meli, Libro della vita contemplativa, Brescia, I.A. Morandi, 1527 fine della storia per rendersene conto. Palazzolo è una cittadina della provincia bresciana, ai più giustamente poco nota, eppure per chi si occupi di storia del libro del Rinascimento non è infrequente imbattersi nella segnalazione di un’edizione di estrema rarità conservata, appunto, presso la Biblioteca Civica oggi dedicata al suo illustre benefattore. Bisogna infatti sapere che il lavoro in ditta non esauriva le energie del Lanfranchi. L’amore per i libri, coltivato fin dalla giovane età, era l’altra faccia dell’imprenditore. Vi si dedicò per tutta la vita, con notevole investimento di tempo e risorse finanziarie, allestendo una superba collezione che alla fine raggiunse la cifra assai ragguardevole di circa 7000 volumi, oltre a un piccolo nucleo di una ventina di manoscritti. L’attenzione maggiore va, inevitabilmente, alla porzione più antica: 277 incunaboli e quasi cinquecento esemplari del XVI secolo.2 Fino al 1966 la collezione era ubicata a palazzo Tasso, residenza privata del Lanfranchi; poi fu temporaneamente allocata presso il Municipio di Palazzolo. Nel frattempo l’imprenditore-bibliofilo già pensava a una possibile destinazione pubblica per preservarla dalla dispersione ed evitarle quel triste 8 destino di frammentazione sul mercato antiquario toccato in sorte ad altre simili collezioni (alludo a esempio all’altrettanto preziosa raccolta del ferrarese Bonfiglioli che né la città di Ferrara né l’Italia seppero a suo tempo salvaguardare di cui spero presto di potermi occupare). Si fece avanti la Biblioteca Angelo Mai di Bergamo, che avrebbe così potuto incrementare un fondo antico già di inestimabile valore. Alla fine, caritate patriae, prevalsero i legami con la cittadina d’origine e il Lanfranchi scelse di destinare la propria raccolta ai suoi concittadini. Quali erano stati gli interessi e i propositi che avevano guidato negli anni la politica degli acquisti? L’ispirazione, ancora una volta, venne dalla sua terra. Se Palazzolo aveva dato i natali ai Bertani, meglio noti col nome umanisticamente atteggiato di Britannici, una delle più rinomate dinastie di tipografi, editori e umanisti, attiva a Brescia dagli anni Settanta del XV secolo alla metà del Seicento,3 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 spettava ora al palazzolese Lanfranchi cercare e accostare ogni tessera di questa secolare storia di humanae litterae e tipografia. Né la ricerca poteva restare chiusa nell’angusto recinto di Palazzolo, dal momento che i Britannici avevano esercitato la loro arte a Brescia e finito con l’esportare i loro prodotti (esattamente come l’imprenditore) in tutta Europa. Il fondo Lanfranchi è pertanto una delle fonti oggi insostituibili soprattutto per lo studio della stampa bresciana del Rinascimento. Bastino un po’ di cifre, certificate da Ennio Sandal, massimo studioso dei Britannici, in limine al catalogo del fondo antico compilato qualche anno fa da Rosa Zilioli Faden: 41 edizioni quattrocentesche sottoscritte da Angelo e Iacopo Britannici (oltre il 55% della loro produzione incunabolistica); 52 edizioni cinquecentesche, pari al 18% della produzione bresciana della prima metà del Cinquecento, con un tasso di rappresentatività persino superiore alla British Li- febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano brary. Giacinto Ubaldo riuscì persino a realizzare il sogno di ogni bibliofilo, vale a dire mettere le mani su alcuni pezzi unici, a cominciare dal Breviarium romanum sottoscritto Brescia, Iacobus Britannicus de Pallazolo, 7 dicembre 1489 («Jacobus Britanicus de pallazzolo … in nobilissima atque amoenissima civitate Brixie labente anno 1489 die septimo Decembris») della cui esistenza addirittura non si aveva alcuna notizia.4 L’esemplare, pur mutilo di alcune carte interne, conserva legatura coeva in pergamena, marginalia manoscritti coevi, ma non offre alcun segno che confessi particolari sulla sua storia antecedente. Il Lanfranchi poteva inoltre vantare di possedere l’unico esemplare noto anche per una decina di edizioni del Cinquecento, tra cui le Regulae grammaticales del Perotti nell’edizione Brescia, Ludovico Britannici, 1551;5 addirittura tre edizioni della diffusa grammatica latina di Donato con i Distica Catonis, uno dei più usuali manualetti scolastici «perquam commodus pueris ingredientibus ad prima grammatices rudimenta» (rispettivamente Brescia, Ludovico Britannici, 1527 e 1548; Brescia, Damiano Turlino, 1541);6 La legenda divota del romito di Bernardo Giambullari sine anno (ma «in Bressa per Lodouico Britannico e li fratelli»);7 la godibilissima Opera amorosa che insegna a componer lettere e a rispondere a persone d’amor ferite over in amor viventi di Giovanni Antonio Tagliente (Brescia, Damiano e Iacopo Filippo Turlino, 1535), vero e proprio antesignano dell’ottocentesco prontuario di lettere d’amore noto col titolo di ‘segretario galante’;8 o ancora l’Opera nuova nella quale si contiene … una stanza sopra la distruttione di Gierusalem et il nome de tutte le famose città licenziata a Brescia nel 1546 da Damiano Turlino per un misterioso Giovan Pelegrino detto el Spagnoletto, forse un cantimbanco di passaggio in città.9 Anche se la qualifica di raro, soprattutto se assegnata da un libraio antiquario, finisce con l’inquietare parecchio i collezionisti (spesso a dire il vero a ragione), è possibile attribuire la patente di rarità anche ad altre edi- 9 Nella pagina accanto: Antonio Meli, Libro della vita contemplativa, Brescia, I.A. Morandi, 1527. Sopra dall’alto:Scriptores astronomici, Venezia, Aldo Manuzio, 1499: colophon; colophon dell’edizione di Firmicus Maternus contenuta in apertura della raccolta degli Scriptores astronomici, Venezia, Aldo Manuzio, 1499; Erasmo, Enchiridion dalla lingua latina nella volgare tradotto, Brescia, Ludovico Britannici, 1531: colophon 10 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 Sopra da sinistra: silografie raffiguranti i segni della Vergine e dei Gemelli dall’edizione degli Astronomicon libri di Manilius negli Scriptores astronomici, Venezia, Aldo Manuzio, 1499; marca tipografica con le iniziali di Angelo Britannici zioni ottenute a suo tempo dal Lanfranchi. L’edizione incunabola della Bibbia latina stampata a Norimberga da Anton Koberger nel 1482 è nota in Italia solo tramite altre tre copie, due delle quali della Biblioteca Vaticana.10 Alcune note manoscritte attestano che il volume, ancora con legatura monastica originale in pelle di scrofa con impressioni a secco (tipica dell’area tedesca), appartenne a inizio Seicento a un Sebastianus Hueber e fu poi donata da questi (forse per lascito testamentario) alla biblioteca del convento dei Cappuccini di Schlanders (Bolzano): «Loci Capucinorum Schlanders ex dono Sebastiani Hueber capellani ad Sanctum Spiritum Schlanders». Dell’edizione giuridica Bartolus de Saxoferrato, Super prima parte Infortiati sottoscritta a Venezia il 9 febbraio 1471 da Vindelino da Spira, titolare della prima tipografia attiva in Laguna, addirittura non si conosce in Italia che l’esemplare già Lanfranchi.11 Come per l’edizione incunabola s. Ambrosius, De officiis, Paris, Guy Marchant, 14 gennaio 1494 che confessa un pedigree di tutto ri- spetto: prima di giungere all’imprenditore di Palazzolo, come suggerisce il timbro al frontespizio, faceva infatti parte della superba collezione poi dispersa (qualche frammento ancora occasionalmente riemerge sul mercato antiquario) di Walter Ashburner (1864-1936), bibliofilo e co-fondatore del British Institute di Firenze.12 Accerto che il Lanfranchi riuscì a mettere le mani su qualche altro lacerto della collezione ashburneriana. Ben nove incunaboli rivelano l’inconfondibile timbro con stemma e dicitura «Walter Ashburner Firenze»: tra questi l’edizione illustrata della Commedia con commento di Cristoforo Landino stampata a Venezia da Matteo Codecà nel 1493; gli affascinanti Commentaria super opera diversorum auctorum de antiquitatibus loquentium dell’enigmatico frate domenicano Annio da Viterbo nella princeps Roma, Eucarius Silber, 1498; l’edizione dei Trionfi di Petrarca Venezia, Pietro di Piasi, 1490; un sontuoso e ingombrante Graduale con testo e musica edito a Venezia da Johann Emerich per Lu- 12 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 Dante Alighieri, Commedia con commento di Cristoforo Landino, Venezia, Matteo Codecà, 1493: silografia a piena pagina e incipit del I canto dell’Inferno cantonio Giunta (1499-1500), sino alla bellissima edizione degli Scriptores astronomici licenziata da Aldo Manuzio nel 1499.13 Ma tornando al tema della rarità, sul fronte delle edizioni cinquecentesche, segnalo qui almeno i Proverbi di Antonio Cornazzano nell’edizione «per Ludovico Britanico, 1530 del mese di Luio» di cui non si conosce che una seconda copia presso la Biblioteca della Fondazione Ugo Da Como di Lonato del Garda, che a sua volta custodisce lo strepitoso scrigno librario (oltre 400 incunaboli!) appartenuto al se- natore bibliofilo Ugo Da Como (1869-1941).14 Anche della prima edizione dell’Enchiridion di Erasmo tradotto in volgare (Brescia, Ludovico Britannici, 1531) e delle Heroides ovidiane ancora Brescia, Ludovico Britannico, 1538 non si conoscono che pochissime altre copie in biblioteche italiane.15 A questo punto bisogna far parlare i libri, alcuni dei quali custodiscono note di possesso anche di altissimo lignaggio in grado di spalancare improvvisi squarci su uomini e libri del Rinasci- febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano mento. Qualche ghiotto assaggio: il Lattanzio Venezia, G. da Colonia e J. Manthen, 1478 appartenne a Benedetto Capilupi (1461-1518), stimato segretario di Isabella d’Este, che vi vergò di proprio pugno la nota «Benedicti Capilupi codex».16 Lo Stazio Venezia, B. Zani, 1494 era il libro di testo di un tale Eusebio da Vespolate che nel 1503 seguiva a Milano presso le Scuole Palatine il corso tenuto dal celebre Aulo Giano Parrasio proprio sulle Silvae di Stazio come informa, a distanza di oltre cinquecento anni, l’annotazione «Finis expositionum ac emendationum Silvarum Statii Papinii quas publice professus est Ianus Parrhasius lector in millesimo quingentesimo tertio et finivit septimo mensis augusti eumque ego Eusebius de Vespolatis audivi».17 Di quel corso rimangono inoltre i diligenti appunti presi da Eusebio lungo i margini del volume, dai quali si apprende che un NOTE 1 Un breve profilo in apertura del recente Uomini di lettere e uomini di libri. I Britannico di Palazzolo (1469-1650). Saggio storico di Ennio Sandal, Annali tipografici di Rosa Zilioli Faden, presentazione di Giuseppe Frasso, Firenze, Olschki, 2012, pp. 7-8. 2 Catalogo del fondo Lanfranchi della Biblioteca Civica di Palazzolo sull’Oglio, a cura di Rosa Zilioli Faden, I, Gli incunaboli e i manoscritti, Milano, Regione Lombardia, 1996; II, Le cinquecentine, Milano, Regione Lomabrdia, 2001. 3 ANGELO BRUMANA, Per i Britannico, «Italia medioevale e umanistica», XLVIII, 2007, pp. 113-218; SIMONE SIGNAROLI, Maestri e tipografi a Brescia (1471-1519). L’impresa editoriale dei Britannici fra istituzioni civili e cultura umanistica nell’Occidente della Serenissima, Travagliato-Brescia, Edizioni Torre d’Ercole, 2009; Uomini di lettere e uo- 13 altro dei testi necessari per seguire il corso era l’edizione dell’Achilleide di Stazio col commento di Giovanni Britannico. La Pharsalia di Lucano nell’edizione Brescia, Iacopo Britannici, 1486 proviene direttamente dalla biblioteca personale di un celebre umanista, il veneziano Raffaele Regio (c. 1440-1520), come accerta la nota di possesso alla prima carta «Raphaelis Regis et amicorum».18 L’opera fu attentamente meditata, a giudicare dai fitti notabilia in latino e greco stipati lungo i margini. Si scova persino qualche isolata lettrice: l’edizione lionese 1556 del Furioso appartenne alla riserva personale della sorella di Napoleone, la principessa Elisa Bonaparte Baciocchi, mentre il Libro della vita contemplativa di Antonio Meli (Brescia, I.A. Morandi, 1527), assai più umilmente, era «a uso delle sore de S. Clara de Crema per legere alla mensa comune».19 mini di libri. I Britannico di Palazzolo (14691650). Saggio storico di Ennio Sandal, Annali tipografici di Rosa Zilioli Faden, presentazione di Giuseppe Frasso, Firenze, Olschki, 2012. 4 Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 54 (ISTC ib01112920). 5 EDIT16 CNCE 58360; Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine, n° 297. 6 Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine, n° 146-148. 7 Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine, n° 172. 8 Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine, n° 369. 9 Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine, n° 295. 10 ISTC ib00575000; Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 41. 11 ISTC ib00231000; Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 30. 12 ISTC ia00561300; Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 6. 13 ISTC id00034000; ia00748000; ip00386000; ig00332000; if00191000. Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 4, 10; 169; 102; 191. 14 EDIT16 CNCE 1528. Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine, n° 128. 15 EDIT16 CNCE 57726; 23248. Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine, n° 153, 280. 16 Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 128. 17 Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 196. 18 Catalogo del fondo Lanfranchi, I, Incunaboli e manoscritti, n° 135. 19 Catalogo del fondo Lanfranchi, II, Le cinquecentine, n° 29, 256. 14 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 SPECIALE EMO ANDREA EMO O DELLA FILOSOFIA FUTURA Appunti critici tra ermeneutica e filosofia dell’espressione GIOVANNI SESSA A bbia preliminare conmediatamente folgorato dall’etezza il lettore di queste thos che si rilevava dalla scrittura brevi note, delle motidel filosofo. Quello che l’amica vazioni che le hanno determinadi penna della sua vita, Cristina te. I nostri appunti critici sulla Campo, chiamò il tratto delfilosofia di Andrea Emo, vogliol’imperdonabilità1. Esso fa si che Emo possa essere definito, utino semplicemente essere una lizzando l’espressione coniata spiegazione sintetica e a posteda Cacciari, non semplicemente riori delle ragioni profonde che inattuale, ma addirittura uomo ci hanno indotto ad occuparci di postumo: «L’uomo postumo non questo straordinario personagè soltanto l’uomo che sopravvigio e del suo pensare estremo. Il ve alla fine del Soggetto. E’ annostro interesse per il filosofo che l’uomo che inizia l’ascolto ed aristocratico patavino-veneziano, dura da anni: più precisa- Alberto Savinio (1891-1952), Ritratto di dell’Abgrund».2 In cosa è da individuarsi l’imperdonabilità del mente da quando la sua opera ha Andrea Emo (1941), collezione privata filosofo veneto? In un tratto ariavuto la sua seconda nascita, quella pubblica, grazie all’intercessione di Massi- stocratico ineliminabile, che egli ha ereditato dal mo Cacciari e alla cura editoriale di Massimo Do- lignaggio degli Emo e dei Capodilista, gentes che, nà e Romano Gasparotti. Nel 1989, infatti, per i non casualmente, ricoprirono ruoli di primo piatipi della Marsilio di Venezia, vide la luce la prima no nella Serenissima: il protendersi alla continua antologia degli scritti del filosofo, Il dio negativo. ricerca della perfezione e della bellezza3. E’ esatScritti teoretici 1925-1981. Fino ad allora la testi- tamente quanto Emo fece per tutta la vita, nel simonianza del pensare scrivendo, di cui Emo stesso lenzio della sua biblioteca, nella convinzione, ben dice nei 398 quaderni per computisteria che, con espressa da Carlo Michelstaedter: «Qui io vivo certosina pazienza compilò nel corso di un’intera una vita che non si può vivere, ma nasce una granvita, era, con sorte tipicamente novecentesca e de opera».4 Un’opera la cui pubblicazione è ancopessoana, rimasta chiusa in un baule della avita ra in fieri, anche se il sagace lavoro dei curatori ha villa Emo di Rivella, nei pressi di Padova. Impe- prodotto ormai molti volumi, come il lettore può gnato nella prima lettura dei testi emiani, fui im- constare dal box bibliografico che accompagna febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano questo pezzo. La produzione emiana è segnata, nel profondo, da un’intuizione fondamentale che, ossessivamente, viene riproposta e scandagliata in ogni aforisma ed utilizzata quale strumento ermeneutico nei diversi ambiti dello scibile umano, dalla teoresi pura alla teologia, dall’arte alla politica. Quale è questa intuizione? Così, semplicemente, la presenta Gasparotti, uno degli esegeti più accorti delle pagine del filosofo: «Se è vero che non si può non pensare l’Origine… essa necessariamente va pensata come lo stesso negarsi in quanto tale… l’originario ed immediato auto negarsi».5 Emo costringe gli studiosi, alla luce di questo suo pensiero di fondo, a ridisegnare la mappatura teoretica della filosofia italiana ed europea del Novecento. Infatti, ponen- 15 dosi oltre lo schema contrappositivo-escludente, proprio dell’intera logica occidentale centrata sul principio d’identità, scavalca la stessa valenza della grundfrage heideggeriana. La domanda: “Perché l’essere e non il nulla”, dalla quale secondo il filosofo svevo sarebbe dovuta ripartire l’originaria interrogazione ontologica dell’Occidente, è nella prospettiva emiana fuorviante e mal posta, in quanto l’essere è il nulla. Quello che si presenta nelle pagine dell’aristocratico veneto è davvero un recupero in toto del senso originario, etimologico, della filo-sofia, da intendersi come il sapere che più di ogni altro pone l’uomo, animale non solo parlante e politico, ma fondamentalmente erotico, nell’apertura interrogante6. Filo-sofare allude all’esperire un tentativo di riconnessione con l’Origine, con il Principio, muovendo dalla presenza, dalla determinazione, dall’atto, dalla sua 16 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 lacerazione e distinzione. Ciò rende meramente simbolico, nella sua aporeticità, nella sua inconcludenza socratica, il tentativo della riconnessione stessa. Chimera e Fenice, metafore mitiche di questo tentativo, hanno comunque un valore in sé. Rappresentano il significato implicito del percorso ex-sistenziale di conoscenza e corrispondono alla Realtà stessa, portano con sé, al medesimo tempo, supremazia e maledizione. In questo senso, un grande antecedente di Emo è Hölderlin che, nella lirica Come un giorno di festa, scrisse, riferendosi al Sacro, all’Originario: «…prossimo, ma difficile a cogliersi». Sacra è la vivente immediatezza che, in quanto tale, resta inaccessibile e conserva la propria natura infinitamente sfuggente. Alla luce di tale assunto, Emo sostenne che la sua scrittura segreta avrebbe avuto un senso solo qualora si fosse trasformata in fuoco eracliteo, capace di far luce e di aderire alla metamorfosi vita-morte-vita, se il fuoco del suo pensiero fosse divenuto un unicum con l’oscurità sovra luminosa del Principio, talmente ridondante da rendere ciechi. Egli colse pienamente nella scrittura la duplicità e la costitutiva ambiguità che la caratterizzano. In essa, involucro sensibile, affiora l’indicibile, il nondetto, il testo esoterico. Essa si fa, allora, atto liberatorio, necessità vitale per il filo-sofo, pharmakon, scrittura transitiva che non “sosta” mai, non trova pace e assolutezza positiva. Al contempo essa, il più delle volte, induce false certezze, si pre- LA VITA. Andrea Emo, brevi note biografiche acque a Battaglia Terme il 14 ottobre 1901. Fu il primo di tre figli, assieme a Gabriele e Maria. Questa, ancora bambina, contrasse una forma di meningite che la condusse a prematura morte. Suo padre, Angelo Emo Capodilista, discendeva da un’antica casata patrizia veneziana-patavina, sua madre Emilia Barracco, apparteneva ad una altrettanto nobile famiglia calabro-napoletana. La madre morì nel 1905 a causa di una polmonite. Gli Emo Capodilista appartenevano all’aristocrazia della Serenissima, la loro importanza trova riscontro anche nella letteratura italiana. Di Angelo Emo, Capitano generale della Repubblica di San Marco, vissuto nella seconda metà del ‘700, fa menzione Ippolito Nievo, in Le Confessioni di un italiano. Gli Emo trascorrevano il periodo N estivo nella villa di Battaglia Terme, e quello invernale a Roma. Qui Andrea frequentò il liceo Torquato Tasso e, nel 1918, si iscrisse alla facoltà di Filosofia dove seguì, con ammirazione, le lezioni di Giovanni Gentile, che dette una prima significativa impronta alla sua formazione. Chiamato a prestare servizio militare di leva, dopo il congedo decise non proseguire più con gli studi universitari, avendo ormai individuato un proprio percorso di ricerca. Aderì al fascismo partecipando alla Marcia su Padova, ma soprattutto dette avvio al suo esercizio quotidiano di scrittura, ritirandosi nella ricca biblioteca, che aggiornò fino agli ultimi giorni della sua vita. Poliglotta, leggeva in diverse lingue. Nel 1938 si sposò con Giuseppina Pignatelli dei principi di Monteroduni che gli donò la gioia di due figlie, Marina ed Emilia. Fu amico di Benedetto Gentile, Ugo Spirito, Alberto Arbasino, Enrico Castelli di Zubiena. Conobbe e fu in contatto epistolare anche con la scrittrice Cristina Campo, che molto stimava. Schivo e riservato, visse appartato, intento ai suoi studi. Nel 1953 si candidò alla Camera dei Deputati nelle liste del MSI: risultò il primo dei non eletti in Veneto. Lettore e studioso appassionato di teologia, filosofa e letterature, scrisse i suoi aforismi su 398 quaderni per computisteria, che solo dopo la morte, avvenuta a Roma l’11 dicembre 1983, per intercessione dell’amico musicista Ernesto Rubin de Cervin, furono proposti in lettura a Massimo Cacciari. Questi immediatamente comprese l’importanza del lavoro di Emo e dette incarico a Massimo Donà e Romano Gasparotti di curarne la pubblicazione. Il lavoro di pubblicazione degli inediti è ancora in corso. 18 senta con i tratti del non interrogabile, del definitivo, incoraggia false forme di idolatria verso il “già detto” e copre il ri-presentarsi della domanda abissale. Diviene intransitiva, rettorica, non testimonia più il fuoco del pensiero e della vita, le loro infinite metamorfosi. Ecco, Emo è rimasto sempre fedele alla transitività dello scrivere, fedele al pensare scrivendo quale autentico esercizio teoretico, fedele al Nulla-Essere. Per questo, in vita, non ha mai voluto pubblicare alcunché di suo. La filosofia emiana è, innanzi tutto, una filosofia dell’interpretazione, modello di ermeneutica in senso pareysoniano, che ha inevitabilmente in sé, come portato veritativo, la riscoperta del Tragico. Del resto, l’unica via d’accesso possibile al vero è la libertà: «Il pensiero ermeneutico, nel momento in cui si richiama a un’ontologia della libertà, è strettamente connesso con il pensiero tragico… porre la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 la libertà al centro del reale… significa supporre sempre un fondamento che si nega come fondamento e puntare sull’inseparabilità di positività e negazione».7 E’ questo contesto speculativo che ci rende edotti di come il pensiero di Emo anticipi ciò che Giorgio Colli ha qualificato con il termine di filosofia dell’espressione.8 L’atto-presenza-determinazione, il qui, l’apollineo, manifesta ed esprime lo sfondo originario, il Principio indeterminato. La contaminazione del positivo col negativo è, in Emo, equivalente all’equilibrio di dionisiaco e apollineo, equilibrio eternamente in fieri. Il filosofo, sotto il profilo storico, realizzò un percorso a ritroso, che lo condusse, come ammise, da Hegel a Plotino. Lungo questo itinerario incontrò e si confrontò febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 19 con l’attualismo di Gentile, con il suo tentativo di riforma della dialettica hegeliana. La cosa storicamente era inevitabile, in quanto l’attualismo fu l’unico serio tentativo di effettiva creazione di una cultura della Nazione, che la generazione post bellica (prima guerra mondiale) incontrò sulla sua strada. Ma Emo non rimase a lungo irretito dalla malia teoretica del Maestro di Castelvetrano. Infatti, ben presto, recuperò il tema schellinghiano del Subjekt, alla luce del quale l’Origine si presenta essenzialmente con i tratti della negazione di ogni determinazione, è nulla di ente, ni-ente appunto9. L’esperienza speculativa emiana è segnata in termini transattualistici. La revisione della dialettica gentiliana, nella quale il veneziano spese il meglio della sua vita di studioso, implicò la ripresa di temi e suggestioni propri della Romantik, meglio di quel Romanticismo fiorito ad Heidelberg con le produzioni di Görres, Bachofen, Creuzer, alle quali non fu estraneo lo stesso Schelling, il cui portato maggiore si è mostrato nella tesi della vigenza del mito, dell’originario nel tempo e nella storia, mentre dall’altro si poneva in termini oppositivi rispetto agli esiti soggettivistici e di filosofia della storia dell’idealismo jenese. Gli stimoli che si irradiarono da tale milieu, trovarono un’intensa e partecipata accoglienza intellettuale nei Cosmici Monacensi e in Stefan George e il suo Circolo. Per altri aspetti, nel transattualismo emiano trova il suo momento apicale un movimento di pensiero tutto italiano, che ha avuto, a partire da Leopardi, uno sviluppo lineare nelle esperienze di Michelstaedter, Tilgher, Rensi, Martinetti e Julius Evola, autore impegnato nel superamento del gentilianesimo. Pensatori molto diversi, certo. Alcuni tra loro rappresentano, e ciò li accomuna, sotto il profilo filosofico-politico, il momento scettico dell’ideologia italiana10. Emo era fermamente convinto che solo il cristianesi- mo, in Occidente, si fosse fatto latore di una concezione teologica fondata sulla contaminazione di essere e nulla. Il suo cristianesimo non-cattolico è un cristianesimo tragico, un cristianesimo del “dio che muore e risorge”, che libera dalla stessa idea e dalla stessa necessità della salvezza. Una visione del mondo che, in contrapposizione alla rigidità del monoteismo ebraico, recuperava i misteri e gli antichi culti agrari. Il suo percorso è connotato da una sorta di dionisismo gnosico, non meramente naturalistico, che emerge in particolare nella significativa lettura di Giordano Bruno e del Rinascimento. Su questo terreno incrociò, negli anni Venti, il pensiero originale, radicale e anti-guelfo di Julius Evola. Questi era impegnato a definire l’idealismo magico in termini di filosofia della pratica e della Libertà-Potenza, una via atta a superare lo 20 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 scacco gnoseologico dell’attualismo. I loro, furono tentativi di costruire filosofie del divino e dell’ordine, capaci di portarsi oltre la linea del nichilismo, attraverso la riscoperta della meraviglia classica. In Emo la filosofia, in questo bisogno di corrispondere eroticamente al Principio, fa della poiesis umana il luogo del darsi del Vero. Ma Emo non elaborò mai un’estetica in senso proprio, anzi il suo messaggio è anti-estetico. Fu tra i primi a demistificare ogni idolatria dell’oggetto artistico e ogni superstizione del concetto artistico, negando qualsiasi ruolo di rilievo alla critica d’arte, totalmente assoggettata alle logiche mercantili, la quale si dedica non all’arte in opera, ma alla mera dimensione cosale ed escrementale della produ- zione. L’ergon dell’arte non sta mai tutto nell’oggetto, ma è futuribile, ad-veniente, è pulsione ed eros che, come l’autentico pensiero religioso e la filosofia pura, ci salva dal desiderio della salvezza, dai sordi e sordidi richiami della brama di vivere. Emo fu pensatore autentico che si confrontò, in modo serrato e drammatico, con il proprio tempo. Attento ai fenomeni politici e ai mutamenti epocali vissuti dall’Europa del Novecento, aderì al fascismo. Il suo è un caso di impoliticità manniana, fondata su un antimodernismo che ha al proprio centro una concezione sferica della temporalità, e che pertanto non si riduce mai ad atteggiamenti sic et simpliciter contro-rivoluzionari. Non filosofò, per usare un’espressione di Gó- I LIBRI. Scritti di Andrea Emo editi postumi • Il Dio negativo. Scritti teoretici • • • 1925/1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, prefazione di M. Cacciari, Marsilio, Venezia 1989; tradotto in lingua tedesca con il titolo Metamorphose des Nichts. Philosophische Fragmente 1925/1981, a cura di C. von Wolzogen, Zürich 1997. Le voci delle Muse. Scritti sulla religione e sull’arte 1918/1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, prefazione di M. Cacciari, Marsilio, Venezia 1992. Supremazia e maledizione. Diario filosofico 1973, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Raffaello Cortina editore, Milano 1998. Il monoteismo democratico. Religione, politica e filosofia nei quaderni del 1953, a cura di L. Sanò, prefazione di M. Donà, Bruno Mondadori, Milano 2003. • Quaderni di metafisica, • • • • 1927/1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, prefazione di M. Cacciari, Bompiani, Milano 2006. Qui anche, Prisca contaminatio (Selezione di frammenti inediti a cura di M. Donà), pp. 1549/1544. Aforismi per vivere. Tutte le parole non dette si ricordano di noi, a cura di R. Toffolo, postfazione di M. Donà, con foto della famiglia Emo, Mimesis, Milano 2007. La voce incomparabile del silenzio. Dai taccuini, a cura di M. Donà e R. Toffolo, Gallucci, 2013. Una inesplicabile necessità, a cura di M. Donà, “Anfione Zeto”, 2/3, 1989, pp. 199/203. Cette chanson d’amour qui toujours recommence, a cura di M. Donà, “Paradosso”, 5, 1993, pp. 53/92. • Arte e bellezza…“ecce mysterium”, • • • • • a cura di M. Donà, “Qnst. Il giornale degli artisti”, 1, 1992, p. 3. In principio era il Verbo, poi venne la conversazione, a cura di R. Gasparotti, “Itinerari filosofici”, 6/7, 1993, pp. 149/159. La Chiesa è cortigiana della storia, “la Repubblica” (“Mercurio” n. 20), 22 Luglio 1989, pp. 14/15. Dio è morto con i conforti religiosi (Una lettera invita a Ennio Flaiano il 18 Luglio 1970); “la Repubblica” (“Mercurio”, n. 20), 22 Luglio 1989, pp. 14/15. Tre lettere di Andrea Emo a Cristina Campo, a cura di G. Fozzer, “Città di vita”, 55 (2000), n. 2, Marzo/Aprile, pp. 207/218. Andrea Emo: Lettere a Cristina Campo 1972/1976, a cura di G. Fozzer, “In forma di parole”, n. 3. 2001. febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano Villa Emo, nei pressi di Fanzolo, a Vedelago (Treviso) mez Dávila, semplicemente al fine di costruire un “ricovero saldo” contro l’inclemenza, esistenziale e spirituale, del tempo presente. Come Evola, seppe leggere da vero profeta i limiti intrinseci del sistema politico delle democrazie borghesi che si affermò al termine del secondo conflitto mondiale, così come di ogni altra espressione politica della modernità. Comprese il carattere epi-demico, in senso etimologico, delle democrazie liberali che oggi ha assunto il volto transnazionale, concertativo ed espropriatore di libertà, partecipazione e tradizioni del Nuovo Regime, la governance. Le sue pagine politiche sono un invito pressante a lasciarsi alle spalle le insufficienti categorie dicotomiche del politico, quelle di destra e sinistra, ritenute inadeguate a spiegare la realtà attuale. Le culture che hanno dominato la seconda metà del Novecento si dibattono in una crisi irreversibile, a causa dell’incapacità di interpretare il contemporaneo, in questa situazione versano le diverse famiglie liberali, quelle socialdemocratiche, il neo marxismo ed il pensiero cattolico. In considerazione di ciò le pagine di Emo possono suggerire, a quanti non abbiano an- 21 cora perso la speranza di una vita altra ed alta, vie inusitate. A cominciare dal richiamo all’Europa, Terra del Tramonto, esperita dal filosofo quale laboratorio inesauribile ed inesausto di patrimonio ideale. Quella emiana è, pertanto, filosofia futura, in quanto il suo guardare l’Immemoriale ritornare dell’Origine nel simile della presenza, delle determinazioni, la apre e la impone al domani. La nostra è al medesimo tempo, una constatazione filologica e un auspicio.11 INTORNO ALLO STUDIO DI EMO di Sandro Giovannini I l lavoro interpretativo di Sessa su Emo è di grande importanza filosofica. Infatti organicamente ci possiamo affacciare, con consapevolezza di molte delle poste in gioco, sull’universo complesso del pensatore veneto, di cui si sta compiendo, dagli anni ‘80 fino ad ora l’imponente e magnifica opera postuma di pubblicazione progressiva degli autografi, a cura di Donà e Gasparotti. Il lavoro critico che accompagna i testi fino ad ora pubblicati è un esempio di come seriamente si possa trattare un complesso pensiero che è assimilabile, per ampiezza insondabile e profon- 22 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 dità sconcertante, al lascito pessoano, richiamando suggestivamente alcune grandiose anomalie, pur nella differenza profonda di testo e contesto. Giovanni Sessa ora, con questa monografia, (La meraviglia del Nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Milano, Bietti, 2014) fa il punto sul contesto storico-filosofico e lancia coraggiosamente alcune chiare ipotesi interpretative: il transattualismo, la NOTE 1 Cfr. C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987. 2 Cfr. M. Cacciari, Dallo Steinohf. Prospettive viennesi del primo Novecento, Adelphi, Milano 1980, p. 17. 3 Su questo tema, così C. Campo: «E’ un carattere aristocratico, anzi è in sé la suprema aristocrazia. Della natura, della specie, dell’idea…Offeso oggi tutto questo, anzi rinnegato, distrutto, irritrovabile e pure presente sempre, come la spina avvelenata sotto l’unghia, l’uomo ha dovuto convertirlo in oggetto di orrore sacro». Op. cit., p. 76. 4 Questo motto fu scritto dal filosofo compresenza Cristo/Dioniso, la vigenza dell’origine che lo avvicina a Evola, la centralità come pulsione e come azzardo del momento estetico e non certo come produzione mercantile surrogatoria e nevrotizzata nell’era ineliminabile del tragico, il tempo sferico del semprepossibile, l’antimodernismo non come astrazione ideologica ma come anti/disorganicità che si attua nel presente eterno e la goriziano a margine di un suo disegno a lapis, che ritraeva la soffitta dell’amico Nino Paternolli. Qui, con il padrone di casa e con l’altro protagonista del Dialogo della salute, Enrico Mreule, Michelstaedter era solito ritirarsi per studiare, scrivere e discutere con i due amici del pensiero di Schopenhauer e dei tragici greci. Cfr. C. Michelstaedter, Dialogo della salute, Adelphi, Milano 1988, a cura di S. Campailla. 5 Cfr. R. Gasparotti, Note sul pensiero di A. Emo, in A. Emo, Quaderni di Metafisica, Bompiani, Milano 2006, p. 1388. 6 Per l’interpretazione dell’uomo come animale erotico rinviamo a R. Gaspa- rotti, Filosofia dell’eros. L’uomo, l’animale erotico, Bollati Boringhieri, Torino 2007, ma anche a J. Evola, Metafisica del sesso, Edizioni Mediterranee, Roma 1994, con un saggio introduttivo di F. Antonini, a cura di G. de Turris. 7 Cfr. L. Pareyson, Pensiero ermeneutico e pensiero tragico, in Aa. Vv., Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 137. 8 E’ bene ricordare che Massimo Cacciari, finora, è stato l’unico esegeta che abbia tentato di compiere un passo oltre l’espressione di Colli nel suo studio Della cosa ultima, Adelphi, Milano 2004. Il problema dell’espressione è gnoseologico, febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano concezione di un’attiva distanza rammemorante che è spirituale ed intellettuale assieme, in questo Tempo ed in questa Patria. Queste determinazioni appena indicate sono solo poi tracce perseguibili di una complessità originaria - oltreché originale - che rimanda ad una sorta di rottura epistemologica con tutto il pensiero del negativo nel momento stesso in cui affronta vertiginosamente l’esser fuori dalla negazione logica ma essere nell’affermazione costante della negazione stessa, (basti leggere le considerazioni di Donà nell’intervista di Sessa a proposito del concetto di tempo in Emo, o l’icastica risposta di Gasparotti alla terza domanda di Sessa, per avvicinarsi a comprenderlo). Tutte tesi ove l’arké non è solo, appunto, “complessità originaria” - e già sarebbe avvicinarsi oltre misura - ma il luogo che non è più e non è ancora, perché è nel suo sempiterno ricercabile e transitabile nulla in essere, ovvero la chimera utopica che può dimorare in noi autenticamente come traccia, orma, prova, del vacuo in destino e non com’illusione evasionista e ci legato alla rappresentazione: «…rappresentare è sempre un rievocare…il rievocare accenna a qualcosa che sta prima della mediazione rappresentativa operata dal conoscere: a un im-mediato…ma l’immediato non è mai sostanza…nei termini della determinatezza dell’ente…La rappresentazione non può perciò definire l’immediato che presuppone come proprio fondamento, ma soltanto esprimerlo». Ivi, p. 449. Proseguire nell’esegesi dell’espressione è uno dei compiti ineludibili cui Emo ci rinvia. Cfr. G. Colli, Filosofia dell’espressione, Adelphi, Milano 1969, e G. Colli, Apollineo e dionisiaco, Adelphi, Milano 2010. 9 23 costruisce - con una sorta di sorridente levitas metafisica - (l’impossibile in atto), a cui corrisponde uno spaurente avvitamento, la potenzialità di più che viri nella finalità gloriosa. Ma su tutto si ripete follemente e genialmente il vero e proprio sciogliersi (nella lettura sopra citata) del sedicente nodo o principio di non contraddizione, non tagliato quindi, ma sciolto nel suo darsi ed affermare la differenza in uno con l’autonegarsi, in una visione del tutto dialetticamente tradizionale anche se filosoficamente eterodossa, e sempre oltre un nihilismo di maniera, anche se sulla linea dell’ineliminabile consapevolezza ciclica. Conoscendo il lavoro di Sessa su Emo esprimiamo ora, nella collana opuscoli/pagillari della Heliopolis edizioni un’edizione pregiata in tiratura limitata, nell’ormai storica serie del paraeditoriale Heliopolis, che tratta “VII punti” o plessi da me scelti dal libro maggiore di Sessa, risolvendosi in un omaggio puntuale, in un dialogo amicale ed in una segnalazione formale e contenutistica…12 Con la filosofia di Emo esce definitivamente di scena un luogo comune della storiografia filosofica post-bellica del nostro paese, alla luce della quale l’attualismo avrebbe significativamente contribuito a rendere, sotto il profilo culturale, “provinciale” l’Italia, a chiuderla alle vive voci del pensiero europeo. E’vero esattamente il contrario, come il “caso” Emo dimostra: nell’attualismo erano presenti tematiche e prospettive, che la filosofia europea scoprirà molto più tardi. 10 Cfr. M. Veneziani, La Rivoluzione conservatrice in Italia. Dalla nascita dell’ideologia italiana alla fine del berlusconismo, Sugarco, Milano 2012. 11 Data la complessità del pensiero emiano, le considerazioni rapsodiche che abbiamo presentato non possono avere che carattere di “appunti”. Per la presentazione organica del suo pensiero e la contestualizzazione storica del personaggio, ci permettiamo di rinviare al nostro, G. Sessa, La meraviglia del Nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, Milano 2014, prefazione di R. Gasparotti, che contiene in Appendice un Quaderno emiano del 1951. 12 Sandro Giovannini, Nel presente eterno, la felicità delle cose… VII Note al testo di Giovanni Sessa su Emo, Pesaro, Heliopolis edizioni, 2014. Mindshare Italia Assago (MI) Viale del Mulino, 4 Roma Via C.Colombo, 163 Verona Via Leoncino, 16 +39 02480541 +39 06518391 +39 0458057211 www.mindshare.it www.mindshareworld.com febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 25 SPECIALE EMO MASSIMO DONÀ: «DIO È NULLA, IL MONDO È» Il pensiero di Andrea Emo oltre le filosofie della verità GIOVANNI SESSA rof. Donà, da anni lei lavora sui Quaderni di Andrea Emo come curatore, prefatore ed esegeta. È da poco nelle librerie una nuova raccolta di aforismi emiani, da lei curata assieme a R. Toffolo (A. Emo, La voce incomparabile del silenzio, Gallucci, Roma 2013). A più riprese, nei suoi scritti tematici sul pensiero emiano ha sostenuto che il filosofo veneto, con la sua idea di negatività, ha messo in discussione i concetti di verità e di apparire così come sono stati tematizzati nella tradizione speculativa occidentale, ponendosi sia oltre il modello di verità di provenienza parmenidea, sia oltre quello di provenienza eraclitea. Può sinteticamente introdurci a questa specifica e qualificante tematica della filosofia di Emo? Sicuramente, quella disegnata da Andrea Emo, nei molti anni della sua tenace, caparbia e talvolta addirittura ossessiva, riflessione metafisico-ontologica, è una prospettiva che, pur riconoscendosi erede di una formidabile e prestigiosa tradizione speculativa, riesce a farsi promotrice di un progetto davvero originale, che, sin da subito, chiama in causa – come Lei ha detto bene – un’idea di “negatività” sicuramente non riconducibile alla tradizione della cosiddetta, sia pur nobile, teologia apofatica. Per Emo, cioè, il “negativo” di Dio ha ben poco a che fare con il semplice riconoscimento del fatto P Massimo Donà insegna Metafisica e Ontologia dell’arte presso la Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È curatore, con Romano Gasparotti, dell’opera postuma di Andrea Emo. Fra i suoi libri si ricordano: Le forme del fare, con Massimo Cacciari e Romano Gasparotti (Liguori, Napoli 1987); Sull’assoluto. Per una reinterpretazione dell’idealismo hegeliano (Einaudi, Torino 1992); Aporia del fondamento (La Città del Sole, Napoli 2000); Aporie platoniche. Saggio sul ‘Parmenide’ (Città Nuova, Roma 2003); Filosofia del vino (Bompiani, Milano 2003); Magia e filosofia (Bompiani, Milano 2004); L’aporia del fondamento (Mimesis, Milano 2008); Filosofia dell’errore. Le forme dell’inciampo (Bompiani, Milano 2012); Misterio grande. Filosofia di G. Leopardi (Bompiani, Milano 2013) 26 Caravaggio (1571-1610), Sant’Agostino, collezione privata che, di Lui, nulla saremmo autorizzati a dire “in positivo”… in ragione di una finitezza e di una imperfezione che ci renderebbero costitutivamente incapaci di aver a che fare con la sua assolutezza. Per il filosofo veneto, infatti, il “negativo” di Dio non solo si dice in ogni espressione evidentemente finita dell’esperienza, ma vi si dice perfettamente proprio in quanto la sua assoluta negatività è tale da torcersi, ab origine e in primis, su se medesima; facendo di Dio un nulla che è tale in primis nei propri confronti. Insomma, Dio è nulla, perciò il mondo è. È proprio a partire da un tale assunto che il nostro filosofo cerca in tutti i modi di riconoscere gli effetti di questa paradossale nullificazione in ogni “modalità” dell’esistere. Nessun “nichilismo” di maniera viene dunque evocato dal poderoso pensiero emiano; perché “nulla” sono per lui non tanto i valori e le idee della metafisica, o le forme del positivo, quanto piuttosto il nulla medesimo. D’altronde, Emo ha capito alla perfezione come già nel principio di non contraddizione tematizzato da Aristotele sia custodita la condizione di possibilità del suo destinale e im- la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 mediato naufragio; perché, se l’essere può determinarsi solo distinguendosi dal nulla, allora va anche riconosciuto che è proprio in quanto altro dall’essere, che il nulla non riesce a stare nella propria nullità. Perché il nulla, in ogni caso, “è”. Da cui l’originario negarsi dell’essere medesimo. Che non è, neppure esso, mai tale (ossia, ‘essere’), ma si presenta sempre e solamente nelle infinite determinatezze di cui è fatto il mondo; che “sono”, proprio perché il nulla si autonega (si nullifica, infatti, proprio essendo). Le cose, i valori, il positivo… che appaiono, sono dunque tutte mirabili espressioni di un nulla che, proprio nullificandosi, costringerebbe l’essere a negarsi… e a farsi sempre “altro” da un altro. Ossia, a “determinarsi”. Insomma, secondo Emo non è affatto vero che le cose “siano” in quanto non contraddittoriamente altre dal Nulla. Per lui, infatti, esse sono tutte vere e proprie, nonché immediate, espressioni del suo (del Nulla) stesso originario negarsi. Per questo, agli occhi del filosofo veneto non si può dire né che l’essere “sarebbe” in ragione del non essere del nulla (come avrebbe voluto Parmenide) - stante che, come abbiamo appena visto, è proprio in ragione dell’essere del nulla, che il nulla si nullifica in quanto nulla, e l’essere, anche, si nega, - e neppure (come avrebbe voluto invece il discorso eracliteo) che il nulla e l’essere si contrapporrebbero tenendo ben nascosta la propria originaria identità (comunque riconoscibile, secondo Eraclito, ascoltando il logos) -, se non altro perché quell’identità appare tutta, di là da qualsivoglia equivoco, nel semplice non riuscire ad opporsi da parte degli assolutamente opposti… e dunque, innanzitutto, dell’essere e del nulla. La filosofia di Emo recupera al Novecento filosofico europeo, nel suo superamento dell’attualismo di provenienza, quello che lei ha definito l’altro pensiero della negazione (M. Donà, Sulla negazione, Bompiani, Milano 2004). Vale a dire una filosofia centrata concettualmente sul negativo, ma che non rinuncia a pen- febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano sare e a dire l’Infinito. Quali i referenti e gli antecedenti di questo aspetto particolare della filosofia emiana? I referenti del pensiero emiano sono molti e anche esplicitamente dichiarati dal nostro. Potremmo cominciare a citare Giordano Bruno, e potremmo continuare riferendoci ad un grande Padre della Chiesa come Agostino. Già per Agostino, infatti, ad apparire, nelle cose presenti, in quelle passate e in quelle future, è sempre il medesimo “presente”; ossia ciò che dice il non essere ancora del futuro e il non essere più del passato. Stante che il passato e il futuro altro non sono che figure di quella “negatività” che si esprime appunto nell’immediato, o meglio originario, negarsi dell’uno e dell’altro in quanto determinazioni di una evidentemente intrascendibile presenza – che poi è quella che, sola, del passato può dirci e mostrarci che non è più, e del futuro, che non è ancora. Ma potremmo anche citare il suo amato Shakespeare; e lo Jago che ci dice, apertis verbis, di “non essere quello che è” (I’m not what I am). Per Emo, comunque, ad emergere, in queste figure e nelle prospettive ad esse connesse, non è affatto l’illusorietà del mondo presente. Ma piuttosto la sua costitutiva e stupefacente “ambivalenza”; il suo trionfo e il suo naufragio, in-uno; la sua divinità e la sua mortalità. Quanto può esserci cioè restituito solo da una messa in scena che sappia essere insieme tragica e comica. Perciò, ai suoi occhi, la morte non ci attende, ma ci accompagna in ogni istante della vita. Perciò, così come la vita vive della propria continua morte, anche la morte muore in una vita che, sola, sembra poterla rendere davvero pregnante e in qualche modo esperibile. Perciò il “suo” secolo è il Barocco; e i riferimenti alle sue fantasmagoriche espressioni, tanto letterarie quanto, più in generale, artistiche, si sprecano. Un altro imprescindibile riferimento del suo densissimo orizzonte speculativo è poi costituito dal pensiero hegeliano, prima ancora che da quello del suo maestro Gentile. Nella ‘dialettica’ del filosofo tedesco, infatti, Emo riconosce, già operante, un principio che 27 Il filosofo greco Parmenide, in una vignetta acquerellata del XVI secolo egli si impegna a portare ancora più a fondo; sì da liberarlo dalle incrostazioni che ancora impedivano ad Hegel di affidare al “negativo” un ruolo non più semplicemente ancillare rispetto ad una già da sempre risolta ‘eternità’. Perciò in Emo non si sarebbe giunti a fare, del movimento e del divenire, delle semplici figure o espressioni dell’eterno, quanto, piuttosto, si sarebbe messo a tema il valore costitutivamente “imaginale” dell’eterno medesimo – esso, sì, valevole appunto come simulacro di qualcosa che, in verità, sarebbe già da sempre altro da quel che è. E perciò mai pacificato ‘con se stesso’. Insomma, se da Platone il tempo veniva inteso come mera parvenza dell’eternità, e dunque del sempre uguale a sé, da Emo è piuttosto l’identico “con cui abbiamo sempre a che fare” a venire riconsegnato alla costitutiva inquietudine caratterizzante la “differenza” – una “differenza”, dunque, non più riconducibile alla potenza armonizzatrice dell’identico. Altri riferimenti essenziali della mai esausta ricerca emiana sono poi i grandi miti greci, e soprattutto la sovrumana vicenda della morte di Gesù. 28 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 SPECIALE EMO ROMANO GASPAROTTI: «DIO CREA MORENDO» Logos ed Eros nella filosofia di Andrea Emo GIOVANNI SESSA P rof. Gasparotti lei è, con Massimo Donà, curatore dell’Opera di Andrea Emo. Peraltro, nel 2013, ricorrendo il trentennale della scomparsa del filosofo e aristocratico veneto, sono stati pubblicati nuovi inediti del pensatore. Vanno ora, inoltre, in libreria, due studi sul filosofo, impreziositi da sue prefazioni (G. Sessa, La Meraviglia del Nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, Milano 2014, con in Appendice il Quaderno n. 122 e Nel presente eterno, la felicità delle cose… VII Note di S. Giovannini al testo di G. Sessa su Emo, Heliopolis, Pesaro 2014). Come è noto, la speculazione emiana muove da una revisione critica dell’attualismo di Gentile. Al riguardo, lei ha sostenuto che Emo coglie l’attualismo: “…come la più compiuta liberazione dell’idealismo da ogni residuo di idea di fondamento, da ogni positività della figura moder- na del soggetto”. Può spiegare, in sintesi, la potenza teoretica e la rilevanza speculativa del superamento emiano del gentilianesimo? Quella dei rapporti tra il pensiero di Andrea Emo e la filosofia attualistica di Giovanni Gentile è una questione aperta e dibattuta. Già tra i primissimi esegeti del testo emiano, si va da chi sostiene che la sua riflessione Romano Gasparotti insegna Fenomenologia dell’immagine presso l’Accademia delle Belle Arti di Brera e Ontologia fondamentale presso la Facoltà di Filosofia dell’Università VitaSalute San Raffaele di Milano. Ha pubblicato numerosi libri e articoli di carattere filosofico ed estetico, sulla filosofia antica, sulla filosofia della politica. Fra essi si segnalano: Le forme del fare, con M. Cacciari e M. Donà (Liguori, Napoli 1987); Movimento e sostanza. Saggio sulla teologia platonico-aritotelica (Guerini, Milano,1995); Aristotele: La natura. Lettura della “Fisica” (Colonna, Milano, 1995); I miti della globalizzazione. “Guerra preventiva” e logica delle immunità (Dedalo, Bari, 2003); Filosofia dell’Eros. L’uomo, l’animale erotico (Bollati Boringhieri, Torino, 2007); L’inganno di Proteo. La filosofia come arte delle Muse (Moretti & Vitali, Bergamo, 2010). febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano si sia sviluppata interamente nell’alveo dell’attualismo gentiliano, a chi, invece, ritiene che, dell’attualismo gentiliano, Emo abbia mantenuto solo il lessico fondamentale, declinandolo all’interno di una filosofia del tutto originale. L’idea che mi sono fatto io è che a partire dall’impostazione gentiliana, secondo la quale l’atto è un “farsi” perennemente all’opera e ogni teoria è sempre una pratica da sperimentare, Andrea Emo mette all’opera, non già semplicemente teorizza, un’originale prassi di pensiero quale intrascendibile “fede” (secondo un’accezione prossima al senso luterano del credere, ma non a quello cattolico). Una fede nell’infinita potenza del dio negativo, del dio che crea continuamente morendo. Non si tratta, quindi, né di un “superamento”, né di un “oltrepassamento” (Überwindung) della filosofia di Gentile, bensì semmai di un suo “inveramento” tutto giocato sul versante, potremmo dire, pratico-teologico e non onto-teo-logico. Ricordo che la fede, per Emo, è quella “forza misteriosa che materialmente ci fa stare in piedi e in equilibrio” (1948), la quale consiste nel “credere nella possibilità di creare mediante la rinuncia” (1938), ovvero passando attraverso la necessaria mediazione del nulla. Per essere introdotti nell’universo emiano è necessario far riferimento alla diffidenza del pensatore veneto nei confronti della scrittura. Infatti, l’atto dello scrivere, corre sempre il rischio di trasformarsi in immagine intransitiva, positiva, autoreferenziale. Eppure, se si dovesse ridurre ad una definizione l’esercizio di pensiero al quale si è sottoposto Emo, per un’intera vita, potremmo usare, con un certo grado di veridicità, l’espressione pensare scrivendo. Peraltro, il filosofo ebbe come Blanchot ben chiara la presenza, in ogni scritto, di due testi: uno esplicito e l’altro segreto. Può aiutarci ad entrare più analiticamente in questo tipo di problematica? Come lei ha giustamente ricordato, ogni 29 opera di scrittura si esplica nell’intima tensione tra due inseparabili dimensioni, il testo “in chiaro” e la sua dimensione nascosta. A questo proposito, se Aristotele aveva sostenuto che i segni scritti sono immagine di ciò che “è nella voce”, Platone, come ha rilevato anche Derrida, aveva presentato il discorso orale come ripercussione di una inattingibile archi-scrittura al di qua della voce sensibile, a prescindere dai misteriosi movimenti della quale nessuna voce potrebbe mai risuonare e nessuna scrittura potrebbe fissare e articolare i suoi segni significanti, per quanto quest’ultima non sia affatto l’esteriorizzazione dell’irriproducibile archiécriture. La scrittura apparente non può che agire quale “comunicazione del comunicabile”, come disse W. Benjamin, ossia quale trasmissione e pubblicizzazione di significati attraverso i suoi segni e, in ciò, può giungere ad obliare e occultare 30 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 volle pubblicare mai nulla, ma la sua quotidiana pratica di filosofo quale uomo della fede non avrebbe mai potuto esimerlo dal cimentarsi con la scrittura, irresistibilmente attratto dall’abissale profondità delle sue pieghe, in una sorta di ossessiva coazione a ripetere, onde corrispondere ai richiami chimerici della sua danza nascosta. “Io ho passato la vita inseguendo le Chimere e me ne congratulo” scrisse di sé Andrea Emo nel 1973 … all’estremo il suo segreto ipo-dis-corso inesteso, privo di segni e senza tempo. Ma non sino al punto di cancellarlo, perché lo presuppone. Perciò, se da un lato, il discorso manifesto non potrebbe comunicare pubblicamente i suoi messaggi, se non si fosse già attivata la misteriosa danza dell’invisibile archiscrittura, dall’altro, ogni ricercante ad-tendere verso il mistero di quella danza nascosta non può che mettersi in atto attraverso l’opera delle parole e della scrittura esteriore. Con la differenza che mentre verba volant, solo la scrittura può garantire stabilità e continuità all’esercizio di questa ricerca. Sicché scrivendo è possibile tenere aperta la domanda sull’invisibile, nella fede che la scrittura esteriore possa essere, alla lettera, ri-velazione dei segreti ritmi di quella kata-fisica danza, che, prendendo in prestito le parole del musicologo e mitologo M. Schneider “ fa vibrare il Nulla e, propagandosi, crea lo spazio”. Insomma, per non restare prigioniero nella gabbia della comunicazione pubblica, A. Emo non Mi pare che la sua esegesi del pensiero di Emo sia connotata da due acquisizioni “forti”, l’una di carattere teoretico e l’altra di carattere storico-filosofico. Partiamo dalla prima. A suo dire, la filosofia di Emo pur essendo centrata su una problematizzazione del Nulla, non è, sic et simpliciter, nichilista. Ce ne spiega la ragione di fondo? A questa domanda si potrebbe risponde lapidariamente. Emo non è nichilista per il semplice fatto che, per il suo pensiero, il nulla non è ciò che si oppone originariamente all’essere, il nulla non è la negazione - nel senso onto-logico classico - dell’essere, ma ‘nulla’ non è che il nome della presenza di tutto ciò che si fa presente. Il nulla è l’esserci di ogni essente, in quanto si fa presente nel suo apparire-sparente. Al di fuori e a prescindere da ogni negazione logica. Perciò se, per nichilismo, si intende la sostituzione di ciò che è con il nulla, oppure l’identificazione degli assolutamente non identificabili - perché incontrovertibilmente opposti ab origine - ovvero dell’essente e del niente, la filosofia di Emo non è affatto nichilista. Per quanto attiene al secondo punto fermo della sua esegesi di Emo, è necessario ricordare che per lei la scoperta di questa filosofia: «impone di ridisegnare il paesaggio non solo della filosofia italiana del ‘900, ma anche di quella europea». Può fornirci le motivazioni della centralità del pensiero emiano nel panorama europeo e della sua straordinaria at- febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 31 Paolo Veronese, Platone, 1560 circa, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana tualità-inattuale, anche in riferimento al particolare antimodernismo politico di Emo? Emo, in tutto il corso della sua pratica filosofica, dal 1918 al 1981, dialogò ininterrottamente non solo con i classici, ma anche con i contemporanei, di modo che il suo pensar scrivendo si intreccia e interagisce con le riflessioni dei principali autori novecenteschi (filosofi e non), per quanto la fitta rete di tali relazioni attenda ancora di essere analiticamente approfondita dagli storici. Sulla presunta “inattualità” di Emo, io non insisterei; l’inattualità è stata una sorta di mito e di feticcio, per un certo periodo, all’interno di certi ambienti culturali, mentre la filosofia di Emo, per quanto, anzi, proprio perché mirante ad inabissarsi nel senza-fondo dell’origine, è un pensare al presente nel presente. Piuttosto parlerei di antimodernismo politico, come lei opportunamente suggerisce. Sin dalla seconda metà degli anni ‘60, Emo denunciava i rischi esiziali di un’unificazione dell’Europa appiattita sul piano economicofinanziario e, nel contempo, non vedeva affatto come alternativa credibile un’Europa fondata sui Valori, dal momento che, per Emo, i valori non sono altro che universali astrattamente affermativi - i quali si sono separati dal nulla, ossia dalla sola possibilità che avrebbero per rendersi presenti e attuali capaci solo di alimentare superstiziose forme di idolatrico fondamentalismo. L’unica salvezza di Europa è vista nella fede nel risorgere della sua originaria vocazione occidentale, ovvero di essere “terra del tramonto”. Una proposta che, evidentemente, la cultura e la ratio tecno-politica dominante non sarebbero mai disposte ad accettare! Per finire, l’argomento che probabilmente Le sta più a cuore. Il ruolo che Emo attribuisce alla creazione artistica intesa quale icona del Nulla può rappresentare, a Suo parere, un esempio di ri-scoperta della destinazione e del- la vocazione musaica della filosofia? In altri termini, il ripresentarsi di un sapere in grado di ricongiungere Logos ed Eros, momenti di una inesausta ricerca umana, il cui destino aporetico e archetipico lei ha individuato in Proteo? Sì, questo è uno dei temi che più mi stanno a cuore. Per dirla in breve, se, per Emo, atto indica un “farsi” perennemente all’opera e la filosofia una prassi, la barriera che ha separato la filosofia dalle altre manifestazioni delle Muse è stata abbattuta, purché le stesse arti siano intese quali prassi pensanti o “pensiero somigliante” (come diceva il pittore Magritte) all’opera, al di là dell’ipostatizzazione dei loro prodotti. Se l’arte dà luogo al rendersi visibile di immagini influenti, la potenza iconoclastica - che, per Emo, è insita in ogni immagine in quanto tale rende ogni opera operata essenzialmente autonegativa e perciò tale da non poter essere identificata né alla determinatezza dei significati ad essa attribuibili, né alla mera datità dei suoi oggetti. febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 33 inSEDICESIMO LE MOSTRE – IL RICORDO LA MOSTRA/1 GIORGIO CASTELFRANCO NELL’ITALIA DEL FASCISMO Una mostra a Firenze a cura di luca pietro nicoletti ata dalla collaborazione tra la Regione Toscana e il Centro di Studi sul Rinascimento Italiano dell’Università di Harvard di Villa I Tatti di Firenze, la mostra è dedicata alla figura di Giorgio Castelfranco (1896-1978), storico dell’arte, autore di importanti studi su artisti del Rinascimento come Donatello e Leonardo, nonché critico d’arte contemporanea, noto soprattutto per gli stretti rapporti culturali con Giorgio De Chirico e Alberto Savinio. La mostra, curata da Emanuele Greco e Francesca Guarducci, presenta il fondo N GIORGIO CASTELFRANCO DA LEONARDO A DE CHIRICO. LE CARTE DI UN INTELLETTUALE EBREO NELL’ITALIA DEL FASCISMO a cura di Emanuele Greco e Francesca Guarducci FIRENZE, MUSEO CASA RODOLFO SIVIERO, LUNGARNO SERRISTORI 1, FIRENZE 25 gennaio - 31 marzo 2014 www.museocasasiviero.it archivistico dello studioso, composto prevalentemente da carte autografe, lettere e fotografie, che è stato recentemente inventariato dagli stessi curatori della mostra. Il fondo è depositato presso la Biblioteca Berenson di Villa I Tatti, dove il 27 gennaio si inaugurerà la seconda sezione della mostra, dedicata all’interesse di Castelfranco per l’opera di Leonardo da Vinci, curata da Ilaria Della Monica. La scelta delle due sedi espositive non è casuale; entrambe sono legate alla figura di Castelfranco. In particolare l’attuale Museo Casa CASTELFRANCO E LEONARDO DA VINCI a cura di Ilaria Della Monica THE HARVARD UNIVERSITY CENTER FOR ITALIAN RENAISSANCE STUDIES VILLA I TATTI VIA DI VINCIGLIATA 6, FIRENZE 27 gennaio - 31 marzo 2014 itatti.harvard.edu G. De Chirico, Le Muse Inquietanti, 1916-18 (già collezione Castelfranco), particolare Siviero, lasciato in eredità con i suoi arredi e la sua raccolta d’arte alla Regione Toscana da Siviero, è stato per lungo tempo l’abitazione dei Castelfranco. Proprio in questa casa, infatti, Giorgio Castelfranco ha ospitato ripetutamente, tra gli anni Venti e Trenta, Giorgio De Chirico e Alberto Savinio, dei quali oltre che amico fu anche critico, collezionista, mecenate e promotore. Nell’abitazione era conservata una straordinaria raccolta di dipinti dei due artisti, e specialmente di Giorgio De Chirico, dispersa in seguito all’introduzione delle leggi razziali. Alle pareti di casa Castelfranco erano presenti soprattutto opere dipinte da De Chirico tra il 1919 e la prima metà degli anni Venti – quando il pittore “ritorna al mestiere” riscoprendo la lezione dei maestri 34 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 Sopra da sinistra: G. De Chirico, Ritratto di Giorgio e Matilde Castelfranco, 1924 (già collezione Castelfranco) e Autoritratto con busto di Mercurio, 1923 (già collezione Castelfranco). A destra: G. Castelfranco, La Pittura Moderna, 1934 antichi –, come l’Autoritratto con busto di Minerva (1919), Rocce romane (1921), Cocomeri e corazze (1922), Autoritratto con busto di Mercurio (1923), Villa romana con cavalieri (1923), Ritratto di Alfredo Casella (1924). Nella collezione Castelfranco, però, era presente anche uno dei più importanti dipinti metafisici di De Chirico, ovvero Le Muse Inquietanti (1916-18). La vicenda della famiglia Castelfranco, di origine ebraica, è emblematica del dramma delle leggi razziali e pertanto la mostra si inserisce nel programma delle manifestazioni del “Giorno della Memoria”. Sebbene nessun membro della famiglia abbia perso la vita durante le persecuzioni, la legislazione introdotta nel ‘38 colpì duramente i Castelfranco. Giorgio, allora direttore dei Musei di Palazzo Pitti, già allontanato da Firenze in occasione della visita di Hitler, fu licenziato nel febbraio del 1939. Per sopravvivere e per mettere in salvo la famiglia facendola emigrare negli Stati Uniti, fu costretto a vendere, tra il 1939 e il 1941, la sua importante raccolta d’arte alle gallerie Barbaroux e Il Milione. La mostra permette di conoscere meglio alcuni aspetti della vita di Giorgio Castelfranco, come per esempio i suoi rapporti con Giorgio De Chirico e Alberto Savinio, la sua collezione di opere d’arte disposte nelle stanze dell’abitazione, fino alla dispersione della raccolta in seguito alle leggi razziali. (Emanuele Greco) febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 35 LA MOSTRA/2 IL MONDO DI IRENE BRIN A ROMA Fra arte, giornalismo e mondanità Accademia Costume e Moda di Roma ospiterà, dal 26 gennaio al 21 febbraio, la mostra documentaria “Il mondo di Irene Brin”, curata da Claudia Palma, Direttore dell’Archivio bioiconografico e Fondi storici della Galleria nazionale d’arte moderna. In calce, l’invito scaricabile in pdf. L’esposizione, organizzata in occasione della Settimana dell’Alta Moda di Roma, vuole ricordare Irene Brin, scrittrice, giornalista di costume, ripercorrendone la vita, il lavoro e gli interessi attraverso fotografie, documenti, opere d’arte, vestiti e accessori provenienti dai fondi archivistici della Galleria nazionale d’arte moderna e dall’Associazione Irene Brin di Sasso di Bordighera. Figura poliedrica e dalle mille sfaccettature, scrittrice, gallerista insieme al marito Gaspero del Corso, è stata anche Rome editor per la rivista americana Harper’s Bazaar. Attenta ai cambiamenti dell’Italia post bellica, ha raccontato nei suoi numerosissimi articoli i mutamenti di costume di un L’ IL MONDO DI IRENE BRIN a cura di Claudia Palma ROMA, ACCADEMIA COSTUME & MODA VIA DELLA RONDINELLA 2 26 gennaio – 21 febbraio 2014 paese “affascinato” dal modello americano. Saranno esposte fotografie che ritraggono Irene e i familiari, alcune di autori quali Avedon e Leslie Gill; fotografie dei vernissage, in cui gli artisti posano accanto alle proprie opere negli spazi espositivi della Galleria L’Obelisco, fondata da Irene e Sopra: Alberto Burri tra le sue opere il giorno dell’inaugurazione della sua personale “Neri e Muffe” alla Galleria L’Obelisco, Roma, 3 gennaio 1952, Fotografie proprietà della GNAM. Sotto: Irene Brin e Gaspero del Corso nella Galleria L’Obelisco, Roma, 1946 36 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 Sopra da sinistra: L’attrice Maggi McNellis indossa l’estroso cappello “Midnight In Venice” della Collezione autunno-inverno “Romance In Venice-1953” di John P. John Fotografia, proprietà della GNAM; l’attrice Irene Dunn indossa un abito da gran sera di Casa Fontana, Roma, anni Cinquanta. Fotografia, proprietà della GNAM. Accanto: Irene Brin e Gaspero del Corso all’inaugurazione della prima mostra italiana di Alexander Calder a L’Obelisco Roma, 14 marzo 1956. Fotografia, proprietà della GNAM Gaspero del Corso nel 1946, prima galleria ad aprire a Roma nel secondo dopoguerra e promotrice del Surrealismo, dell’Informale, dell’Op e di artisti internazionali quali Calder e Rauschenberg. Una parte del materiale fotografico e documentario sarà dedicato al rapporto di Irene con la Moda. Diverse fotografie, ritraggono attrici americane e italiane che indossano vestiti e accessori prodotti dalle case di moda italiane, di cui la Brin fu sostenitrice all’estero: Fontana, Carosa, Simonetta, Gattinoni, Fabiani, Capucci, Lancetti. Con questa mostra si vuole sottolineare la capacità di Irene di far dialogare il proprio interesse per l’arte con la moda e viceversa: saranno presenti le illustrazioni di Brunetta Mateldi, le immagini di moda il cui set è la stessa Galleria L’Obelisco, la dama optical di Filippo Panseca accanto alla fotografia di un cappotto bianco e nero di Capucci. Oltre al vestito Fabiani di Irene Brin, verrà esposto quello realizzato su disegno di Giacomo Balla, artista prediletto dai coniugi del Corso, presentato già durante la serie di mostre che L’Obelisco gli dedicò nell’intero anno 1968. 38 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 LA MOSTRA/3 CARLO SARACENI A ROMA Un caravaggesco “sofisticato” i direbbe che la mostra di Palazzo Venezia punti a restituire un’immagine inaspettata di Carlo Saraceni, mettendone in luce una radice classicheggiante, un po’ manierista, diversa, tutto sommato, dal pittore restituito da Roberto Longhi. È questa, almeno, l’impressione un po’ sorprendente che si ha di fronte alla riproduzione su manifesti e catalogo del piccolo rame con Venere e Marte della collezione Thyssen-Bornemiza: un quadretto di una stesura smagliante, quasi porcellanosa, che difficilmente farebbe pensare a un pittore caravaggesco, se non per alcuni dettagli, come nei panni freschi di bucato, ricchi di pieghe e di ombre, con cui si intrattiene il putto di spalle in primo piano, nella parte bassa del S Sopra: Carlo Saraceni, San Francesco d’Assisi riceve le stimmate, Lanzo Torinese, Chiesa di San Pietro, olio su tela, cm 328 x 176 Sotto: Carlo Saraceni, Venere e Marte, Madrid, Carmen Thyssen - Bornemisza Collection, on loan Thyssen – Bornemisza Museum, Olio su rame, cm 39,5 x 55 CARLO SARACENI 1579-1620. UN VENEZIANO TRA ROMA E L’EUROPA A cura di Maria Giulia Aurigemma ROMA, PALAZZO DI VENEZIA 29 novembre 2013 2 marzo 2014 dipinto. La mostra mette in luce infatti una doppia “anima” del pittore veneziano trapiantato a Roma sotto il pontificato di Clemente VII Aldobrandini: un pittore classico di quadri profani, e un pittore caravaggesco, di lume intenso ma di smaltato nitore, per le grandi pale sacre. Eppure i due piani interagiscono fra loro più del previsto. Nel piccolo Seppellimento di Icaro di Capodimonte, un altro rame del 1605-1608, si troverà infatti un prelievo evidente dal noto Seppellimento di Cristo di Caravaggio oggi ai Musei Vaticani. E allo stesso modo, nella Caduta di Icaro della medesima serie, il corpo del giovane in caduta libera ripropone uno scorcio analogo a quello del putto bendato di Giovanni Baglione nel Marte che punisce Cupido, qui trasformato in un avvitamento del corpo su se stesso. Ma Saraceni viene anche chiamato a sostituire una tela di Caravaggio, quando a questi viene rifiutata la famosa Morte della Vergine. E la sua tela ha anche un grande successo, tanto da venire replicata in più versioni, febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano su tele più piccole o su rame, per il collezionismo privato. È tipico infatti del “saraceniana methodus” rimeditare su proprie opere, replicare le soluzioni compositive più richieste o reinventare su piccoli rami grandi scene che aveva già realizzato in affresco. Anche da questo ci si rende cotno della prensilità ad ampio raggio di questo pittore, che attinge a modello cinquecenteschi veneziani, ma non solo. Non si può tuttavia che rimanere commossi, ancora una volta, rivedendo il San Bennone che ritrova le chiavi della città di Meissen nelle interiora di un pesce, anche se in mostra è certo attenuata quella impressione di stupore che se ne riceve vedendolo apparire in Santa Maria dell’anima. Il Caravaggio più vicino a un quadro del genere è quello della prima Conversione di San Paolo: il più netto e smagliante di materie e di riflessi di luce, che si ritrova nella lucentezza e mobilità di modellato della fronte lucida e perlata di San Bennone, sulle gote piene e un po’ stanche, ma di soda compattezza. La stessa qualità che si ritrova nel Martirio di San Lamberto, sempre di Saraceni e proveniente dalla stessa chiesa, che gli è posto accanto, anche se qui i volti più scavati e rugosi sembrano squagliarsi come cera scaldata sotto il pennello. Ma rimane bellissima quella esattezza metallica, tipica di Saraceni, dei panneggi colorati. La mostra, infine, avanza una novità storiografica, proponendo l’attribuzione al Saraceni della Negazione di San Pietro su cui Longhi, nel 1939, aveva ricostruito il gruppo stilistico di un anonimo pittore che ribattezzò “Pensionante del Saraceni”. In 39 Carlo Saraceni, Transito della Vergine, New York, Collezione Richard L. Feigen, olio su rame questa tela, tuttavia, trovo alcune idee, come il pieno controluce del volto di San Pietro, e la pittura mi sembra più spessa, il chiaroscuro più ruvido rispetto al Saraceni: un gran bel quadro in ogni caso, ma bello proprio per un modo più rustico rispetto al sofisticato Saraceni restituito dalla mostra, pur nel gran ventaglio di modi che si squaderna nel suo catalogo. Attribuirgli anche un’espressione più calda, come questa, mi pare però un po’ troppo. 40 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 LA MOSTRA/4 LA LUCE DEL “PICTOR URBIS” Antoniazzo Romano a Palazzo Barberini ntonio detto Antoniazzo romano, […] dei migliori che fussero allora in Roma», è la definizione di questo pittore, la cui fortuna nelle moderne sintesi di storia dell’arte non corrisponde, a torto, al ruolo da questi ricoperto nella Roma di metà Quattrocento (1435 circa-1508). Pur senza essersi mai mosso dall’Urbe, infatti, egli ha avuto una delle botteghe più attive e più contese del suo tempo, «A ANTONIAZZO ROMANO “PICTOR URBIS” a cura di Anna Cavallaro ROMA, PALAZZO BARBERINI 1 novembre 2013 2 marzo 2014 con committenze di prestigio, dal conte onorato Caetani all’incarico di realizzare, nel 1464, gli apparati per l’elezione di papa Paolo II. È il momento Subiaco, chiesa di San Francesco, Madonna con il Bambino e i santi Francesco e Antonio, trittico, 158x63 (tavola centrale), 142x41 (laterali) di esordio per lui, in un rapido movimento che lo avvicina ai modi del linearismo fiorentino, che rimarranno costanti, ma che lo conduce ben oltre. Già nel Trittico di Fondi, infatti, la luce tersa dà volume alle figure con sfumato lieve ma preciso, graduato ma esatto, e sostenuto da disegno di linea. Ma la linea fiorentina, pure persistente, è interpretata con un bagno di luce delicato, ma con più intelligenza rispetto alle “bambole” di Perugino, con cui pure fu in contatto. Antoniazzo non lascia mai Roma, ma questo non gli impedisce di aggiornarsi sulle novità che da tuta Italia arrivano nella città papalina, da Benozzo Gozzoli a Piero della Francesca e Ghirlandaio. A questo, poi, si devono aggiungere le collaborazioni documentate con Melozzo da Forlì, Piermatteo d’Amelia e il già ricordato Perugino. Vengono da qui le sue Madonne col Bambino gentili e devote, e da cui si arriva alla straordinaria Pala di Montefalco, dipinta in origine per la cappella del cardinale portoghese Giorgio Costa in Santa Maria del Popolo a Roma: qui Antoniazzo ha raggiunto una misura soave e solenne. È il momento di maggior contatto con Melozzo. Visitando la bella mostra romana, è possibile chiarire i modi di lavoro del pittore e della sua bottega. Si possono anzi riconoscere dei modi fisionomici ricorrenti. Per le figure maschili, un viso triangolare dai lineamente marcati da un piano d’ombra dalla mascella alla guancia e limitato da zigomi pronunciati, e una corona di capelli tonsurati a delimitare la fronte (come nel San Vincenzo Ferrer del Museo di Santa Sabina a Roma o in varie versioni febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 41 Sotto: Rieti, Museo Civico, Antoniazzo Romano, San Francesco, tavola, 173x61,5 A destra: Civita Castellana, Episcopio, Antoniazzo Romano, Natività, tavola, 130x79 di San Francesco). Oppure una barba folta e lunga che pare trascinare in basso gli zigomi, fronte ampia e tondeggiante, una pronunciata calvizie e un trattamento volumetrico sferico avanzato (come il San Girolamo della camera di Santa Caterina). I modi fiorentini, però, tornano ciclicamente a farsi sentire, come nella Natività con San Lorenzo e Sant’Andrea di Palazzo Barberini: la capanna in rovina sembra una visione assonometrica di quella di Ghirlandaio per la cappella di Palazzo Medici-Riccardi. È una componente costante, anche se reinterpretata con un misto di levità e nervosi scatti di movimento, come dei guizzi, e una luce meridiana. Una maniera che avrebbe fatto scuola: stava nascendo un asse di scambi, tutto centroitaliano, verso Rieti e verso l’Abruzzo. NO QUALCU INA C CHE CU UO? T O AL POST POC O PER C TEMPO UCIN ARE? cucina per te ogni giorno i buoni piatti della cucina italiana Cukò cucina in autonomia risotti, paste e vellutate, grazie a 3 programmi automatici, e ti guida passo per passo nella preparazione di menu completi, dall’antipasto al dolce. Tante funzioni in un unico prodotto: cuoce, mescola, trita, frulla, bolle, VRƩULJJHFXRFHDYDSRUHHPXOVLRQDDPDOJDPDHLPSDVWDWRUWH Con Cukò, cucinare diventa facile e veloce per tutti. 100 ricette da chef dall’antipasto al dolce subito pronte con Cukò Ricettario incluso www.imetec.com CON PROGRAMMI AUTOMATICI PER RISOTTI - PASTE VELLUTATE febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 43 IL RICORDO Oreste del Buono. Un’intellettuale scomodo e una ricorrenza (stranamente) dimenticata di gianfranco de turris anto ricordato al momento della sua scomparsa, il 30 settembre 2003 a poco più di 80 anni, con un profluvio di articoli elogiativi ma sostanzialmente tutti uguali, quanto semi ignorato un decennio dopo: l’anniversario della morte di Oreste del Buono, OdB, è stata pressoché dimenticato. Destino comune a moltissimi, ma sorprende che un nome del mainstream italiano, ancorché del tutto eterodosso e certe volte al limite dell’anarchia, abbia subito la sorte di tanti altri. Ovviamente Linus, il mensile che diresse in due occasioni, gli ha dedicato un numero speciale a settembre, e per fortuna in qualche intervento sono finalmente emerse un po’ delle caratteristiche che rendevano del Buono un unicum nella cultura del T Belpaese, lui quel Mezzo Toscano (così si definiva autoironicamente, quasi come Amintore Fanfani, a causa del suo essere “diversamente alto”, come oggi i buontemponi del politicamente corretto amerebbero dire) umorale e imprevedibile. In realtà, la definizione che più gli si attaglia la diede dieci anni fa Giovanni Raboni, il compianto poeta e francesista, che lo qualificò sul «Corriere della Sera», “Jekyll e Hyde”, il capolavoro che fra l’altro del Buono aveva tradotto da par suo. In che senso? Non tanto nel senso letterario cui faceva riferimento Raboni, quanto piuttosto di una personalità che ne celava altre insospettate al conformismo generale e di conseguenza non tutte ben viste dell’establishment da lui frequentato sin dopo la guerra, e che oggi si tende volentieri a dimenticare. Intendendo queste molteplici personalità non soltanto con riferimento al loro variegato esprimersi: fu autore di molti romanzi e racconti, traduttore dal francese e dall’inglese, critico poliedrico (letterario, cinematografico, sportivo, televisivo, di fumetti, di pubblicità), esperto di narrativa popolare (giallo, fantascienza, western), giornalista di molteplici e importanti testate, direttore di riviste e collane, famoso (e orgoglioso) dall’aver dato dozzine di dimissioni pur di tutelare la propria autonomia e le proprie idee (si vantava di essersi dimesso un centinaio di volte, se ricordo bene). Ma OdB era così bravo, aveva idee così originali, era un vero talent scout, che non aveva problemi a farsi sempre accettare e a prendere decisioni o posizioni che, nonostante il loro essere controcorrente, riusciva a far accogliere proprio per il suo none e la sua fama. Cosa che ad altri sulla sua stessa sponda (non parliamo se su sponde opposte!) non sarebbe mai riuscita. Ma Oreste de Buono (1923-2003) 44 forse,è stato notato sul citato fascicolo di «Linus», proprio questa sua indipendenza, questa sua nonorganicità, rimane nella memoria dell’establishment conformista e alla fine si paga: i suoi libri non più ristampati, il ricordo messo da parte. Nonostante, si deve dire, la sua sia stata una attività multiforme, la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 incessante, quasi frenetica, contemporaneamente su vari fronti, che del Buono poteva permettersi in quanto ha sempre sofferto di insonnia, o forse aveva un fisico cui erano necessarie pochissime ore di sonno senza risentirne: quattro ore, addirittura solo due ricorda la figlia Nicoletta… Peccato quindi che alcuni risvolti del carattere e delle idee di OdB nessuno li abbia messi nella dovuta evidenza, non li abbia approfonditi a dovere. Forse soltanto perché (non voglio essere cattivo) non si conoscevano bene, o magari perché li si è voluti rimuovere. Certe caratteristiche di del Buono sono state solo sfiorate, accennate, sorvolate , un po’ meno oggi. Vero, OdB poteva essere proprio un Jekyll & Hyde, ma nel senso più profondo di carattere, idee, modo di pensare e comportarsi. Per parlare di lui, però, sono costretto a parlare anche di me e del rapporto intermittente ma profondo che ho avuto con OdB cui devo una esperienza che ancora rammento con piacere e soddisfazione, anche se negli annali ufficiali del ricordo è come se non fosse mai esistita. Forse la sopravvaluto e non fu che poca cosa, forse mi sembra significativa soltanto perché ne ero partecipe e invece fu una banalità se vista con gli occhi degli altri. Non saprei. Il nostro primo contatto fu telefonico nel 1980: allora ero disoccupato, dato che il quotidiano di cui ero redattore aveva chiuso i battenti, e collaboravo a diverse pubblicazioni, fra esse «Prospettive nel mondo» di Giampaolo Cresci per cui mi occupavo delle novità editoriali. Un’inchiesta mi condusse a lui, e a quanto pare mi trovò simpatico probabilmente per i miei vari ed eterodossi interessi, coincidenti anche con i suoi, al punto da invitarmi poi a scrivere su «Linus» alcuni articoli in replica ad altri apparsi su quelle pagine febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano che uscirono nell’aprile e luglio 1981 firmati con Sebastiano Fusco. Perché m’invitò? In realtà vari anni prima avevo già pubblicato sul mensile alcuni articoli-interviste con J.C. Forest e Jacovitti, ma non fu per questo. Esplicitamente perché esponessi un punto di vista “diverso” ai lettori della rivista che in genere erano “di sinistra”. Una specie di provocazione gestita. Un punto di vista non certamente politico, ma culturale e d’interpretazione culturale, in modo da allargare loro gli orizzonti con riferimenti ad autori e metodi di analisi spesso tabù. Così avvenne e così scrissi senza alcuna censura da parte sua né da parte di chi lo sostituì (Fulvia Serra) dopo le dimissioni di del Buono quando scoppiò lo scandalo P2 che coinvolse Angelo Rizzoli. Sulle pagine di «Linus» e su quelle di «Alter» potei dire sino alla fine del 1983 cose che anche oggi (e forse soprattutto oggi: quale rivista “di sinistra” si comporterebbe più così? nemmeno lo stesso «Linus». Si vede che trent’anni sono passati inutilmente…) possono sembrare incredibili. Ma forse, azzardo, allargai veramente certi orizzonti manichei. Non senza proteste da parte di qualche lettore e qualche collaboratore della testata, come si può leggere nel libretto dal titolo provocatorio in cui ho riunito quella mia bella esperienza (Camerata Linus, Settimo Sigillo, 1986). Che forse riuscii a raggiungere quello scopo lo testimonia a contrario un allarmatissimo intervento del prof. Alessandro Portelli, un americanista, che in un convegno svoltosi in quel di Cuneo dedicato a “Nuova Destra e cultura reazionaria negli Anni Ottanta” (novembre 1982), affermò in sostanza che il sottoscritto stava traviando gli ingenui e sprovveduti lettori del mensile... Un onore dal mio punto di vista,che non mi sarei mai aspettato… (ed ecco perché intitolai il libretto di cui sopra in quel modo). Questo il Jekyll-Hyde-OdB, quello vero e tuttora rimosso: nonostante fosse un “uomo di sinistra” dare spazio alle idee diverse, purché serie e motivate, per un confronto utile a tutti, senza anatemi, ostracismi preconcetti e urla scomposte (è la prassi attuale).Questa la mia impressione all’epoca, e mi fa piacere vederla confermata in un bel ricordo del padre, scritto con penna capace e una certa ironia, dalla figlia Nicoletta sul citato fascicolo di Linus, ma ripresa dal un volume dedicato nel 2010 alla narrativa 1945-1965 di OdB che l’editore Isbn ha intitolato L’antimeridiano in chiara polemica con chi dedica i prestigiosi Meridiani ad autori assai meno significativi e degni del nonJulius Evola (1898-1974) 45 conformista Oreste del Buono, là dove afferma: «Era un suo punto d’orgoglio voltairiano interessarsi di chi e a chi la pensasse diversamente, dargli uno spazio per esprimersi, aiutarlo quando era in difficoltà. L’ha fatto con Guareschi, con Brancher, con Jacovitti e chissà con quanti altri ci cui non so». Uno di questi sconosciuti è il sottoscritto, anche se credo che più che uno spirito seguace del famoso detto attribuito a Voltaire, in OdB ci fossero due componenti: quella del toscano sino in fondo e quindi “bastian contrario” rispetto all’andazzo generale della intellighenzia italiana, e quello delle sue radici giovanili mai dimenticate o rinnegate, quel suo essere, come si dirà poi, “fasciocomunista”. Nonostante avessi criticato aspramente «Linus» per i suoi atteggiamenti politici ed anche censori verso fumetti non allineati in una serie di articoli apparsi su «L’Italiano» negli anni Settanta (ora riuniti in La dittatura occulta, Sveva, 1997), accettai la sua proposta proprio in quanto mi consentiva di dire quel che pensavo liberamente in un ambiente nuovo. I tempi erano un po’ cambiati rispetto agli anni della “contestazione”. Come del resto sono assai cambiati quelli di oggi rispetto agli anni Ottanta. La conoscenza con OdB divenne anche diretta per alcuni miei viaggi a Milano, dove a casa sua in Via Maggiolini 2 si parlò di molte cose oltre che dei suoi mille acciacchi, delle sue abitudini mattutine che lo portavo a comprare per primo i quotidiani quando il giornalaio apriva alle 5 o a essere il primo a fare colazione quando MOMENTACT_168x216.indd 1 15/05/13 11:11 febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano i bar alzavano le saracinesche anch’essi intorno a quell’ora. Si parlò anche della sua giovinezza, del “mito di Teseo Tesei” (fratello della madre, ideatore con Elios Toschi del Siluro a Lenta Corsa, il “maiale”, che morì a 32 anni durante un attacco al porto maltse di La Valletta nel 1941 meritandosi la medaglia d’oro al valor militare) e delle sue letture di quell’epoca. Fra esse, appresi con stupore, pure Rivolta contro il mondo moderno (1934) di Julius Evola, che lui aveva apprezzato. Questo m’indusse alcuni anni dopo, quando ero entrato alla Rai, a coinvolgerlo in una mia iniziativa tra l’ingenuo e il temerario: preparai nel 1984 un servizio per il decennale della morte del filosofo, intervistandolo insieme a Massimo Cacciari e Stanislao Nievo. Ma il direttore liberale della Direzione Servizi Giornalistici per l’Estero (quella che poi sarebbe stata denominata Rai International) non lo era a tal punto da farmelo mandare in onda dopo averlo ascoltato. Non sprecai il lavoro, trascrissi quelle tre risposte e (ovviamente con il consenso degli interessati) le inserii nella seconda edizione del mio Testimonianze su Evola (Edizioni Mediterranee, 1985). Vale la pena riportare alcune sue parole che faranno scandalo presso, ieri come oggi ripeto, i sepolcri imbiancati di destra e di sinistra: “Per quel che mi riguarda parlare di Evola vuol dire ricordare, ad esempio, la lettura di un libro che per me è stato fondamentale, un libro che mi dette da leggere quando ero ancora ragazzo mio zio Teseo Tesei e che mi aprì alla comprensione di quello che sarebbe avvenuto dopo. Era un libro in cui si parlava dell’inevitabilità dei sue blocchi, del blocco americano e del blocco russo, e che mi ha aiutato molto a capire le cose che sono successe poi. Era Rivolta contro il mondo moderno. E parlare adesso di Evola vuol dire anche dimostrare di avere nei riguardi della cultura un altro rispetto, indipendentemente da quelle che possono essere le passioni di parte”. OdB non si vergognava certo del suo passato come molti facevano e fanno. Stupefacente, vero? Soprattutto 47 oggi che le “passioni di parte” nonché la paura di parte sono diventate nuovamente egemoni al punto da offuscare il buon senso e la razionalità critica. Questo forse spiega il motivo per cui in due occasioni negli anni Novanta - a Enzo Magrì de «il Giornale» e a Fabio Andriola de «L’Italia settimanale», la rivista fondata e diretta da Marcello Veneziani, disse di considerarsi un “fasciocomunista” (termine che in seguito è diventato il titolo di un picaresco romanzo di Antonio Pennacchi, edito da Mondadori nel 2003, proprio l’anno della morte di OdB). Al che, sulle stesse pagine, gli proposi di pubblicare nella collana tascabile che dirigeva per Einaudi, insieme le Lettere dei condannati a morte della resistenza e le Lettere dei caduti della RSI da leggere appaiati, per dimostrare come eroi e amor di patria fossero comuni e non esistessero poi quegli angeli e quei dèmoni che la vulgata resistenziale ancora ci presenta. Mi disse che ci avrebbe provato. Non ci riuscì o non volle? Benché avesse letto ed apprezzato 48 Evola era stato comunista prima ortodosso, poi eretico e del tutto individualista. Negli ultimi anni, attraverso la rubrica della “posta dei lettori” che teneva quotidianamente su «La Stampa» aveva assunto posizioni via via sempre più antiberlusconiane: che si potrebbero definire forse da “fascista di sinistra”. Forse. Lo sentii ovviamente diverse altre volte, proprio come giornalista radiofonico intervistandolo sui suoi libri, ma anche come amico per avere suoi pareri e commenti pubblici e privati (ad esempio aveva una sua personalissima idea del perché Primo Levi si fosse suicidato nel 1987). Una volta fu dopo l’uscita del numero di «Linus» per il trentennale della rivista 1965-1995: tra le moltissime cose che vi venivano ricordate la mia collaborazione triennale ma soprattutto il suo specifico senso con l’idea dei racconti che lessi e selezionai per «Alter», erano stati completamente dimenticati. Divenuto di nuovo direttore del mensile, disse che aveva fatto tutto la sua “redazione femminile”. Oggi che è direttrice una ex giovane redattrice di allora non è che sia cambiato molto. Forse mi presumo troppo? Non lo so come ho già detto, ma ritengo che la mia idea all’epoca accettata di pubblicare racconti fantastici dei lettori sotto l’insegna a me carissima de “La Biblioteca di Babele” ebbe successo, fu apprezzata, ospitò storie curiose e originali, promosse il fantastico italiano su una rivista diffusissima in contemporanea con il Premio Tolkien dell’editore Solfanelli nato nel 1980, e la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 mi costò molta fatica, devo dire con l’avallo e la collaborazione della “redazione femminile” che però poi evidentemente si stufò: lessi un centinaio di storie e per ognuna di esse redassi una scheda critica (mi pare 70 esatte) che poi venivano trasmesse ai lettori/autori (fra essi il giovane Sergio Valzania, poi direttore di Radio 2 e Radio 3).Una cosa unica nel suo genere e nella storia stessa della rivista che accettò la novità. Non credo che altri mai si sia sottoposto a questa corvée, ma era (ed è ancora) una mia fissazione: proporre a certe testate specializzate cui collaboravo di ospitare narrativa italiana “di genere” come oggi si dice. Da quelle scientifiche a quelle politiche a quella appunto a fumetti, perché pensavo che solo in questo modo, normale negli Stati Uniti, ignorato in Italia, si potesse promuovere questo tipo di letteratura popolare scritta da autori nazionali (fantascienza, fantastico, orrore). Che sia riuscito o meno nell’intento non tocca a me dirlo. Comunque, proseguii l’esperienza pari pari su L’Eternauta di Rinaldo Traini per ben sette anni (19881995) e anche qui ho raccolto quei miei innumerevoli interventi in un libro, Cronache del fantastico (Coniglio, 2009). Poi lo intervistai per la nuova collana che ideò per la Baldini & Castoldi, di suo nipote Alessandro Dalai: la intitolò “I Nani” (ogni riferimento alla sua altezza era puramente casuale): parlò della sua inesauribile curiosità per cercare di fare cose nuove e imboccare nuove vie in un panorama editoriale piatto. Voce che ho poi riportato nel ricordo radiofonico che gli ho dedicato quando morì. Questo era il vero del BuonoJeckyll-Hyde. E per questo mi è particolarmente caro. Certo era umorale, drastico e imprevedibile nelle sue decisioni: a parte le dimissioni a catena, è noto che decise di non far uscire un suo romanzo di cui non era più soddisfatto o del tutto convinto poco prima che l’editore lo distribuisse: pagò l’intera tiratura e la distrusse! A volte brusco e sbrigativo, a volte affabile e “in buona” e allora ti teneva mezz’ora al telefono, ma non aveva pregiudizi, sapeva apprezzare anche chi non la pensava esattamente come lui, purché dicesse cose per lui originali e interessanti. Caro OdB, sei stato un grande al di là della statura fisica, altri ce ne sarebbero voluti e ce ne vorrebbero come te, soprattutto oggi che cultura, originalità e disponibilità sono scomparse sostituite da menefreghismo, oscurantismo e faziosità allo stato puro. 50 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 Punture di penna Consigli intellettuali per il vero Maître à penser Ovvero: come furoreggiare nei salotti – parte quarta LUIGI MASCHERONI PENSIERO C’è quello de- bole, quello breve, quello lungo, il Va’ Pensiero, i pensieri alti, i pensieri bassi, i pensieri impuri, gli spensierati, i pensierosi, i benpensanti, quelli che a pensar male si fa peccato ma ci si azzecca... E quelli che è un peccato che pensino. E sono in tanti, ma tanti… iconico. Il dito di Cattelan davanti alla Borsa, per esempio, è iconico. E anche un po’ comico in verità. BIBLIOTECA Quella del ESTETICA Spesso la si scambia per etica. Ed è pericolosissimo. ETICA Spesso la si scambia per estetica. Ed è peggio. AMBIZIONI Se sono degli altri, quasi sempre non ne sono all’altezza. INFORMAZIONE/1 Da pensare senza dirlo: “Ce n’è troppa”. INFORMAZIONE/2 Da dire senza pensarlo: “Non ce n’é mai abbastanza”. GIORNALI DI CARTA Obbligatorio piangerne la lenta ICONICO Aggettivo molto Sopra: Luigi Mascheroni. Nella pagina accanto: Giuseppe De Nittis (1846-1884), Il salotto della principessa Matilde, 1883, Musée Joseph Denais Beaufort-en-Vallé scomparsa. Facoltativo leggerli. BUON GIORNALISMO E’ quando le idee comandano sulle parole, e non viceversa. Anche se quasi sempre avviene il contrario. ARTE Eccellente risorsa per fare propaganda politica. POLITICA Imbattibile nello strumentalizzare l’arte. vero intellettuale si caratterizza per i testi che deve avere (i classici antichi, la Recherche nella traduzione di Giovanni Raboni, tutto Sheakspeare dell’Einaudi, tutti gli Adelphi, tutti i Sellerio di Cammilleri…) ma soprattutto per i testi che non deve avere. Ad esempio: i romanzi di Volo, quelli della Mazzantini, i vecchi libri di Biagi che non servono più (però si possono tenere quelli di Bruno Vespa, che magari vi invita a Porta a Porta), i Grisham, Dan Brown e Alberto Angela, e soprattutto il culturame dozzinale di Destra, cioè i Papini, i Longanesi, i Cecchi, i Guareschi, Del Noce, Evola, De Felice… Tutte cose che fanno troppo cheap. L’esatto vostro contrario. INSTANT BOOK Di solito sono sempre delle cazzate. febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 51 TWITTER Come per la tv: parlarne malissimo, ma abusarne. ORIENTAMENTI Utilissimi per perdersi. MERCATO LIBRARIO Urlare: “I libri non sono una merce!!!”. ZAPPING Il vero intellet- tuale vive di zapping, abitudine che riserva anche ai libri: una pagina qui, una là… MULTI-TASKING Signi- fica fare un sacco di cose, in genere tutte male. CRITICI INUTILI Oggi si preferiscono - a ragione, peraltro - blogger, testimonial, tifosi, fan, haters, acquirenti… I critici, comunque, sono sempre interessati, invidiosi, noiosi. Attaccarli senza pietà. Citare Gian Paolo Serino che è stato definito (da se stesso) il più graffiante critico italiano. ATTENZIONE Per legge- E-BOOK/2 Non ha futuro. re un libro non serve, e neppure per scrivere. Più che altro la si ri- GIORNALISTI Hanno la “PALADINI DELLA VE- LETTORI Hanno la presunzione di essere meglio dei giornalisti. RITÀ” Espressione che definisce una curiosa e ancora diffusa specie di intellettuali e artisti i quali sommano in sé due tratti caratteristici fondamentali: l’essere fieramente antiberlusconiani e l’essere distribuiti da Medusa e/o pubblicati da Mondadori-Einaudi e/o nel cartellone del teatro Manzoni e/o a libro paga di Mediaset… Una specie, purtroppo, destinata all’estinzione. chiede per sé: “I miei libri non hanno mai la giusta attenzione dei media”. “Credo davvero che il mio progetto meriti maggiore attenzione…”. “Certi critici non mi concedono mai attenzione…”. “Attenzione, che se mi incazzo io …” PIAZZA Se è piena di amici, è la democrazia. Se di nemici, indignarsi: “Anche Hitler riempiva le piazze!”. E-BOOK/1 E’ il futuro del libro. presunzione di essere letti. SINTASSI Non preoccuparsene troppo, è soltanto un pregiudizio borghese. TOTEM Abbatterli, tutti. DEMOCRAT Sinonimo di buono, bello, giusto, moralmente esemplare. “Vorrei un mondo più democrat!”. “Anche no”. 52 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 Pietro Longhi (1701-1785), La lezione di Geografia, 1752, Fondazione Querini Stampalia, Venezia santi”, “teste d’uovo”, “La testa più lucida della sua generazione…”, “Testori sì che era un vero intellettuale”. A volte sono dei “testoni”, altre è soltanto gente che “testa” qualcosa (i famosi romanzi sperimentali), altre che “tasta” qualcuno (le stagiste nei giornali o nelle case editrici, ad esempio), altre ancora che de-testa, molto più spesso che è de-testata. Ma soprattutto sono delle grande “teste di…”. AUTOIRONIA La cosa, in assoluto, che serve di meno a un intellettuale. L’intellettuale in quanto tale deve prendersi sempre sul serio, anche quando scherza. THRILLER Inevitabilmente “mozzafiato”. anche tu al festival…?”. “Soltanto di passaggio…”. UMORISMO Ricordarsi, come diceva Mark Twain, che è la nostra salvezza. Forse l’unica. BIBLIOFILIA Il vero intellettuale è un bibliofilo sì, ma a modo suo. Fra la prima edizione dei Canti Orfici di Dino Campana e l’introvabile calendario Pirelli del 1966, sceglie la prima, ma poi sfoglia il secondo. PASSAGGI Termine di passaggio. “Si è sempre in un passaggio epocale”. Ma anche “Non ci si rende mai conto che si è in un passaggio epocale finché questo non è avvenuto”. Oppure: “Questo libro segna davvero un passaggio cruciale”. Stare attenti ai passaggi a livello, soprattutto se si legge in macchina mentre si guida. “Ciao, PROFESSIONALITÀ Ormai è talmente utile da diventare superflua. BRAY, MASSIMO “Bravo. Ma sembra il vice-ministro di se stesso”. TESTA Sineddoche propria dell’intellettuale, da cui le note espressioni: “Teste pen- VERITÀ Concetto intercambiabile. Si veda ad esempio la verità di una qualsiasi delle seguenti frasi: “Nel Novecento l’individuo è finalmente libero” o “L’individuo è definitivamente prigioniero” o “L’individuo è prigioniero proprio perché è libero”. Applicabile anche a libri e/o film: “E’ un’opera che racconta la grande epica nazionale”. “E’ un’opera che racconta la piccola epopea familiare”. “E’ un’opera che racconta l’epica dell’individuo”. “E’ un’opera che racconta l’antiepica dell’individuo”. “Sì, ma non ho capito che opera è?”. “Questione di sfumature”. SFUMATURE Irrilevanti 54 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 BvS: Fondo Novecento Gli interventisti e la I Guerra Mondiale Gli intellettuali italiani e il richiamo delle armi MARCO CIMMINO I l brodo di coltura da cui scaturì la Grande Guerra funzionava già da decenni, quando le pistolettate di Gavrilo Prinzip scatenarono il conflitto: scaramucce coloniali1 e revanscismo2, indebolimento degli imperi sovranazionali e potenziamento dell’industria, avevano già segnato il cammino verso la catastrofe. Eppure, in Europa, ben pochi avrebbero creduto nel suicidio di una civiltà: questo è il dato che balza per primo agli occhi. Va detto anche che, per l’Italia, una guerra europea avrebbe avuto ben altro significato, rispetto a tutte le altre potenze continentali: fin dalla guerra di Crimea (1855-56), i Savoia avevano interpretato le guerre internazionali come un’occasione per loro di incrementare il proprio dominio sulla Penisola3. La guerra austro-prussiana (1866) aveva permesso di aggiungere al neonato Regno d’Italia la Venezia Euganea, nonostante gli imbarazzanti disastri di Custoza e Lissa, così come quella franco- Lacerba, Periodico quindicinale. Anno I, n. 5. Firenze, 1 marzo 1913 prussiana del 1870 aveva distolto i Francesi dalla loro caparbia difesa del Santo Padre, permettendo ai soldati di Raffaele Cadorna di entrare a Roma da Porta Pia. Va da sé che, alla vigilia di una nuova guerra, inevitabilmente, negli ambienti vicini alla Corte, si sentisse odore di acquisizioni territoriali. Quando venne il momento per l’Italia di decidere se partecipare o meno al conflitto, la guerra non era un’eventualità astratta: era già scoppiata. In questo contesto bisogna giudicare l’assoluta specificità dei fenomeni, tutti italiani, dell’Interventismo e del Neutralismo, che animarono la pubblicistica dei mesi che precedettero il 24 maggio 1915. Una ricognizione nel fondo del Novecento della Biblioteca di via Senato (che conserva molti dei periodici e delle pubblicazioni dell’epoca) può essere utile per comprendere il clima culturale dell’epoca. Si deve infatti tener conto che, per molti Italiani, quella guerra non era la prima guerra mondiale, ma la quarta guerra d’indipendenza. Di qui discendono i giudizi, diversissimi tra loro, circa la necessità o meno di una nostra entrata in guerra. D’altronde, se c’era chi vedeva nella guerra l’ostetrica della rivoluzione, come i sindacalisti rivoluzionari di discendenza soreliana, vi era anche chi, come, ad esempio, Enrico Corradini, già direttore del giornale febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano nazionalista Il Regno, giudicava il conflitto un’arma straordinaria per arginare proprio il socialismo e garantire un ritorno all’ordine pubblico, oltre che una manifestazione della “coscienza guerresca da opporre alla coscienza pacifista”4. A ciò si aggiungano le sirene formidabili, rappresentate da Trento e Trieste, irredente e viste quasi in un alone mistico-mitologico da molti intellettuali5, per capire che il quadro, alla vigilia del “maggio radioso” era tutt’altro che monocromo. Già nel 1909, il creatore del Futurismo, Filippo Tommaso Marinetti, proclamava Trieste: “Faccia purpurea e violenta dell’Italia, rivolta verso il nemico (...) nostra unica polveriera!”, scagliandosi contro tutti coloro che riteneva essere d’ostacolo al naturale espandersi delle razze: passatisti, avveniristi e internazionalisti. Il violentissimo e bellicoso linguaggio antiaustriaco di Marinetti lasciò il segno, e fu il modello, insieme a quello di Gabriele D’Annunzio, della pubblicistica interventista. Questo richiamo alla guerra come turbine ed accelerazione della storia, contrapposto alla staticità di una società liberale, inchiodata ai propri principi, dettati, in sostanza, dalla vigliaccheria, animò il pensiero di molti pensatori di quegli anni, e fiorì in gran parte sulle pagine di quelle riviste nuove, come La Voce di Giuseppe Prezzolini (che la Bi- blioteca di via Senato conserva nei suoi fondi), su cui un filosofo del calibro di Giovanni Amendola ebbe a scrivere: “Ma gli uomini, nonostante sappiano che dalla guerra non avranno vantaggi materiali, continuano a prepararsi alla guerra, e c’è da prevedere, senza esser profeti, che si combatteranno per l’avvenire, come si son combattuti per il passato. Ciò vuol dire che gli uomini preferiscono i mali della lotta, e il rischio, e il dolore, ed anche la morte, a quello stato di pace in cui tutta la vita fosse dominata da motivi economici e regolata saggiamente in base al tornaconto...”6. Come si può vedere, era largamente diffuso, ne- 55 gli anni che precedettero la guerra, un sentimento di ribellione per quelle regole di vita che il Positivismo aveva introdotto, e che venivano considerate come espressione di materialità e, infine, di panciafichismo. Non a caso, allo scoppio delle ostilità, Amendola avrebbe lasciato l’università di Pisa, per partire volontario, insieme a moltissimi altri intellettuali come lui. D’altra parte, era ben chiaro a molti il fatto che questa guerra non sarebbe stata come tutte le altre: che avrebbe rappresentato una cesura netta tra il vecchio mondo nato dal congresso di Vienna e un mondo nuovo, misterioso e terribile, ma anche straordinariamente affa- Giornalisti italiani in Libia: Marinetti, Ezio Maria Gray, Enrico Corradini, Castellini, da L’Illustrazione italiana n° 48 del 26 novembre 1911 56 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 Accanto da sinistra: Giovanni Papini (1881-1956) e Giuseppe Prezzolini (1882-1982). A destra: Giovanni Amendola (1882-1926) scinante. E non parteciparvi avrebbe significato perdere una grande occasione per plasmare il futuro dell’umanità. Giuseppe Prezzolini, scrisse su La Voce del 26 agosto 1914 (si noti la data) parole fondamentali per comprendere questo punto: “Il mistero della generazione di un nuovo mondo europeo si compie (...) ed il parto avviene tra rivi mostruosi di sangue e gemiti che fanno fremere. (...) Ci darà la guerra quello che molti delle nostre generazioni hanno atteso da una rivoluzione?”. Eppure, nelle stesse pagine, proprio Prezzolini postula l’esistenza di un’ulteriore possibile vigliaccheria: l’entrata in guerra per comodità, in linea con quanto abbiamo scritto poco sopra, a proposito della tendenza sabauda ad approfittare delle contingenze per fare il proprio interesse. Questo rispecchia perfettamente un certo atteggiamento incline al mer- canteggiare, che caratterizzò l’attività diplomatica italiana di quei mesi, tra Intesa ed Alleanza, in una sorta di asta sulla nostra entrata in guerra con l’Intesa o sulla neutralità, che avrebbe avvantaggiato gli Imperi Centrali. Ebbene, Prezzolini rifiuta le ragioni della convenienza: “Andiamo con l’idea che è dovere andare, non con l’idea che mette conto andare. Siamo guerrieri e non mercanti...”. Quindi, anche all’interno dello schieramento interventista, sono necessari numerosi distinguo: da un lato potremmo collocare le ragioni della mente e dello stomaco, che vedevano nella guerra la possibilità concreta di ottenere (anche solo restando neutrali) consistenti cessioni territoriali dall’AustriaUngheria. Dall’altro, però, vi era una fortissima tensione eroica, che nasceva da una generazione allevata nel culto degli ideali risorgi- mentali, ma che non aveva mai avuto l’occasione di mettersi alla prova. Per costoro, la Grande Guerra divenne un palcoscenico formidabile: un’incudine su cui temprarsi o bruciare. D’Annunzio, tra i primi, salutò lo scoppio delle ostilità come una liberazione. L’occasione era venuta. Finalmente, la guerra!7 Proprio così salutò il conflitto immane Giovanni Papini, in una pagina de Lacerba, dell’autunno 1914: “Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. (...) E’ finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria.”. Erano dunque completamente impazziti, tutti questi scrittori, che inneggiarono entusiasticamente al massacro e alla battaglia? In un certo senso, sarebbe meno inquietante per noi pensare ad una sorta di follia collettiva: e, leggendo certe espressioni di Papini, come quelle sui vantaggi per l’agricoltura derivanti dalla concimazione coi cadaveri dei campi, verrebbe da pensarlo. Eppure, a parte i paradossi e le provocazioni, dobbiamo ammettere che vi fu, nell’amore per la guerra dei cantori dell’intervento, soprattutto una reazione feroce e, a volte, scomposta, ad una vita febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano senza eroismo. Crediamo che la sciagurata frase di Bertolt Brecht sul bisogno di eroi sia una delle peggiori idiozie che mai letterato abbia concepito (e Dio sa se ne hanno concepite!). Una Nazione non può vivere a lungo senza eroi: ne ha bisogno per riconoscersi e per sentirsi viva. E gli eroi più sacri e più disinteressati non possono che essere i martiri guerrieri: altrimenti, si cerca di fabbricarsene di deteriori, e si arriva a definire eroe un calciatore o un fotomodello. Dunque, gli interventisti arrabbiati non erano pazzi. Semmai erano invasati: ed è cosa affatto diversa. Nessuno si sognerebbe di dire che Leonida fosse matto come un cavallo: perché lo si dovrebbe pensare di Marinetti o di Prezzolini? A questo si aggiungano le spiegazioni razionali, fornite dal filosofo Giovanni Gentile, neoidealista e, naturalmente, favorevole alla guerra, che, in una conferenza palermitana dell’ottobre 1914, così si espresse a proposito della guerra come atto assoluto: “La guerra non è il conflitto di un NOTE 1 Gli incidenti di Fascioda (la cosiddetta “guerra di Fascioda” 1898-1906) tra Gran Bretagna e Francia e di Agadir (1911) tra Francia e Germania 2 Si chiamò così lo spirito di rivincita (“revanche”) radicatissimo in Francia dopo la sconfitta del 1870 e la perdita di Alsazia e Lorena) certo numero di Stati. Questo è bensì un carattere necessario, ma uno solo dei caratteri di essa; e non è né anche l’urto di due tendenze o forze della politica mondiale (...) Non è adunque, soltanto, una crisi economica, giuridica e politica (...) Si tratta, si badi, come sempre, di uno sforzo in cui tutto, il Tutto, è impegnato: di un atto assoluto. (...) Il nostro supremo e in questo senso il nostro unico interesse.”. Gentile non si limitò a descrivere l’essenza della guerra, ma affrontò, nella medesima circo- 3 Dopo gli accordi segreti di Plombières (1858), Napoleone III affiancò il Piemonte nella seconda guerra d’indipendenza 4 Parole pronunciate in un discorso a Savona, nel dicembre 1913 5 Si tenga presente l’enorme amplificazione propagandistica del fenomeno irredentista, che ebbe, viceversa, propor- 57 stanza, il problema cardinale per un intellettuale di quegli anni: “E dobbiamo noi, uomini di pensiero e di studio, gridare guerra o pace ai popoli, supposto che questi possano ascoltare la nostra voce?”. La prima cosa che il filosofo disse essere il dovere di un pensatore è “tacere”: porsi umilmente di fronte alla grandezza degli avvenimenti e non unire la propria voce al coro schiamazzante dei soloni da quattro soldi, sempre pronti a spiegare quale sia il bene della Patria. La seconda è accettare la necessità ineluttabile della guerra e guardare al nemico senza odio, come ad un fratello che condivida con noi il compimento di un dovere supremo, cui tutti, intellettuali in testa, devono concorrere. E gli intellettuali interventisti concorsero ampiamente al compimento di questo dovere, facendo, anzi, a gara per chi raggiungesse il fronte per primo. Insieme a loro, paradossalmente, partirono volontari anche molti neutralisti: ma questa è una storia diversa. zioni piuttosto modeste, sia in Tirolo che nella Venezia Giulia 6 2 marzo 1911, nella recensione del libro di N. Angell The great illusion 7 Je ne suis plus en terre d’exil,/je ne suis plus l’étranger à la face blême,/je ne suis plus le banni sans arme ni laurier. 58 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 BvS: Fondo Letteratura ’900 Il risotto alla milanese di Carlo Emilio Gadda Un viaggio tra petrolio, letteratura e gatti selvatici MASSIMO GATTA N on t’inganni il titolo, caro lettore e cultore del Carloemilio nazionale; abbiamo voluto prenderci, come suol dirsi, una certa libertà espressiva, simbolica e centripeta per ragionare insieme intorno ad un piccolo classico gastronomico-letterario del nostro secondo Novecento, con al centro appunto il Carloemilio, scrittore di universale fama e prestigio, e una sua ricetta, o rècipe com’egli amava indicarla, tipicamente milanese. Ragionamento che parte da un suo libro (tra l’altro impreziosito da una dedica al critico Giancarlo Vigorelli) conservato presso la Biblioteca di via Senato, la raccolta Verso la Certosa (stampata nel 1961 da Riccardo Ricciardi), che contiene questa ricetta. Ma che c’entra quindi il petrolio? sento chiedere a voce bassa da più parti. C’entra, c’entra eccome. Petrolio non come condimento minerale ed esiziale nel suo nerume untuoso e repellente, viscido prodotto e scaturigine dell’industrializzazione più arrogante, alimento principe di macchine, motori e meccanismi perfetti, untume mellifluo produttore di ricchezze. No, il petrolio c’entra ma per altre vie, altri percorsi mentali e letterari. C’entra come scaturigine, avvio, abbrivio dell’intera gaddiana rècipe gastronomica. Quel Petrolio, infatti, è anche immagine riflessa che filtra comunque nella nostra breve disanima; s’insinua prepotente perché quel Petrolio è il titolo dell’ultimo, tragico e incompiuto libro1 che Pier Paolo Pasolini stava scrivendo prima d’essere assassinato all’idroscalo di Ostia nel ‘75, e qui convocato perché anch’esso scaturito dalla medesima radice industriale, da cui prese l’abbrivio la ricetta gaddiana, che andiamo a rievocare anche per la sua straordinaria valenza letteraria. Radice industriale che ha un nome e cognome, Enrico Mattei e la sua creatura: l’Eni, l’ente nazionale idrocarburi che ebbe il grande merito di avere aperto le sue porte blindate a tanti scrittori, artisti e intellettuali che per esso scrissero e operarono a livello culturale cercando, e riuscendovi, di coniugare le “due culture”, di cui in quegli stessi anni aveva scritto Snow. E nel libro di Pasolini la figura e la tragica morte di Mattei ritorna con tutta una serie di ipotesi che il poeta andava tessendo intorno all’ambigua figura di Cefis, sul quale si era ampiamente documento attraverso un raro volume di Giorgio Steimetz2, le cui fotocopie gli erano state rega- febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 59 Da sinistra: ritratto di Carlo Emilio Gadda contenuto nel volume Verso la Certosa (Milano, Biblioteca di via Senato), opera di Leonetta Cecchi Pieraccini; prima pagina con dedica di Carlo Emilio Gadda al critico Giancarlo Vigorelli late dallo psicanalista Elio Fachinelli. E sento altre voci soffuse che chiedono ancora Ma cosa c’entra Enrico Mattei, presidente dell’Eni anch’egli assassinato in circostanze misteriose, con il risotto del Carloemilio e con il libro di PPP? C’entra, c’entra eccome amico lettore, ma abbi un poco di pazienza e cercherò di collegare i fili per tessere una piccola storia, con al centro la prosa barocca e succosa di umori del grande milanese, e ai bordi i tanti risvolti industriali che fecero da corollario a questa e ad altre vicende letterarie. Dunque veniamo al risotto, che è poi il fulcro del nostro articoletto. Carlo Emilio Gadda era notoriamente un amante di fornelli, cotture e cibi; di ingredienti e piatti tipici, ma anche di una sontuosa ritualità nel descrivere tempi e modi, forme e sapori, cotture, ingredienti, tipologie, amalgamando il tutto come mantecando quello stesso riso protagonista della nostra piccola storia. Tutto nasce nel gran teatro allestito da Enrico Mattei per dotare l’Eni di un supporto letterario, che fosse però anche veicolo informativo delle scelte e degli obiettivi aziendali. Quello che in gergo è l’house organ di una azienda lui lo volle però popolare, leggibile, destinato a tutti gli operai, non solo ad una élite com’era ad esempio l’house organ della Esso Standard Oil: levigato, sontuoso, elitario, inaccessibile alle classi meno abbienti. Mattei, al contrario, volle un periodico che fosse insieme elegante e popolare, accessibile e documentato, ricco e letterario senza essere esornativo, decadente, blasé. Pensò quindi, altra sua eccellente intuizione, di affidarne la direzione non a un freddo dirigente, a un tecnico, ma un poeta, a un grande poeta come 60 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 Da sinistra: copertina della raccolta di Carlo Emilio Gadda, Verso la Certosa, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1961 (Milano, Biblioteca di via Senato); Incipit di Risotto Patrio. Recipe (p. 124 di Verso la Certosa); altra pagina di Risotto Patrio. Recipe, dal volume Verso la Certosa Attilio Bertolucci, padre dell’altrettanto noto Bernardo, regista di Ultimo tango a Parigi. E lo stesso Attilio Bertolucci racconterà la nascita e lo sviluppo di questo straordinario periodico dell’Eni il 28 gennaio del 1989 all’Archivio storico Eni.3 Il nome scelto, “Il Gatto Selvatico”, riprendeva il termine anglosassone “Wildcat” che, in ambito petrolifero, indica il pozzo esplorativo. Il periodico dell’Eni si inseriva in un lungo e affascinante filone di editoria aziendale nel quale erano presenti altri importanti periodici di analoga finalità, come “Civiltà delle Macchine”, “Comunità”, “Pirelli”, “La botte e il violino”, tutte espressioni di aziende attente non solo ai bisogni industriali, tecnologici e di marketing, ma anche a quelli culturali: Olivetti, Iri, Pirelli, Finmeccanica. Lo scritto di Gadda di cui parliamo, Risotto alla milanese, venne infatti pubblicato sul n. 10 de “Il Gatto Selvatico” dell’ ottobre del 1959 (anno V, p. 16)4; rappresentando quasi una liturgia linguistico-gastronomica dove gli ingredienti, i tempi, le modalità e gli oggetti cucinieri interagiscono, rilucendo in una prosa barocca di perfetta armonia letteraria, e offrendo al lettore uno degli esiti più alti della prosa gastronomico-narrativa del nostro Novecento, dove i libri di Gadda, come ben sottolineato da Pietro Citati, “[…] sono delle immense costruzioni, che raccontano di tutto, parlano di tutto, si estendono da tutte le parti, sfidano ogni limite; e poi, improvvisamente, la costruzione si interrompe, e ri- mangono delle grandiose rovine”.5 Fortunatamente lo scritto gaddiano è stato di recente ristampato dall’Eni in una elegante raccolta, insieme ad altri dieci racconti pubblicati su “Il Gatto Selvatico”6, mentre una bella antologia di scritti della rivista, curata da Paolo Di Stefano, ha ulteriormente focalizzato l’attenzione su questa esperienza letterario-aziendale durata ben 9 anni fino al 1964, a partire dal primo numero del luglio del 1955.7 Gadda in molti dei suoi capolavori, da La cognizione del dolore a Quel pasticciaccio brutto de via Merulana, dall’Adalgisa fino a Le meraviglie d’Italia (dove venne appunto ristampato Risotto alla milanese), si è intrattenuto con i cibi, le ricette8 (milanesi e romane), le preparazioni, le dosi, i pia- febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano ceri della tavola e del ventre, la liturgia insieme magica e onirica del cucinare. Il grande Aldo Buzzi, nel capitolo Piccione ripieno di quel capolavoro assoluto che è il suo L’uovo alla kok9, ricordava le continue incursioni Carloemilio gaddiane nei mondi insieme numinosi e ctonii del cibo e della cottura, degli ingredienti e delle dosi. A proposito di dosi, infatti, Buzzi riteneva che la dose di zafferano prescritta da Gadda nella sua ricetta fosse eccessiva, e così NOTE 1 Pier Paolo Pasolini, Petrolio, Torino, Einaudi, 1992; ultima edizione, a cura di Silvia De Laude e una nota filologica di Aurelio Roncaglia, Milano, Mondadori, 2008 [Oscar narrativa, 1900]. 2 Giorgio Steimetz, Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente, Milano, AMI, 1972; ristampato da Effigie, Milano 2010. 3 Attilio Bertolucci racconta “Il Gatto Selvatico” all’Archivio storico Eni 28 gennaio 1989, ora in Inedita Energia, Roma, Eni, 2008. 4 Cfr. Rino Pensato e Antonio Tolo, Lo scaffale del gusto. Guida alla formazione di una raccolta di gastronomia italiana (1891-2011) per le biblioteche, contributi di Tullio Gregory e Massimo Montanari, Bologna, Editrice Compositori, 2011, p. 154, scheda n. 528; cfr. anche Viaggio in Italia. Un ritratto del paese nei racconti del “Gatto Selvatico” (1955-1964), prefazione di Paolo Di Stefano, Milano, BUR Rizzoli, 2011, p. 25. La ricetta gaddiana verrà poi ristampata nell’Agenda Vallec- 61 scriveva: “[…] due cucchiaini da caffè per otto persone; ridotta poi, “per stomaci timorati”, a due cucchiaini rasi”.10 Ricordiamo infine che la ricetta del Carloemilio è stata analizzata e paragonata alla corrispondente dell’Artusi, in un dettagliato studio a cura del Seminario di italiano dell’Università di Friburgo in Svizzera, poi pubblicato nel 1975 dalla Juris Verlag di Zurigo11. In esso veniva giustamente sottolineato che in Gadda “[…] la preparazio- ne del risotto non è prescritta, è narrata”, parole alle quali Aldo Buzzi faceva seguire questo commento: “[…] lì sta la fondamentale differenza”.12 Una ricetta, quindi, diventata un’autonoma operetta narrativa, e di recente ricordata anche da Gianluca Montinaro a proposito della trattoria “Fulmine” di Trescore Cremasco (CR), dove il profumo e il ricordo gaddiano aleggiano nell’aria e nelle pietanze di questo sopraffino luogo gastronomico. chi (31 gennaio 1961), quindi nella raccolta Verso la Certosa (Milano, Ricciardi, 1961, per la quale vedi Gioia Sebastiani, Catalogo delle edizioni di Carlo Emilio Gadda, con un saggio di Giulio Ungarelli e una piccola antologia “editoriale” gaddiana, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1993, pp. 28-29, scheda A XVI; ultima ristampa della ricetta in Verso la Certosa, a cura di Liliana Orlando, Milano, Adelphi, 2013) ma con il titolo Risotto patrio. Rècipe, e infine in Carlo Emilio Gadda, Le meraviglie d’Italia. Gli anni, Torino, Einaudi, 1964, ultima edizione con nota ai testi di Liliana Orlando, Milano, Garzanti, 2003. 5 Pietro Citati, Nel pentolone magico di Gadda, «Corriere della Sera», 31 dicembre 2012, pp. 28-29. Nell’articolo del grande critico viene ristampato parte dello scritto Risotto alla milanese. Cfr. anche Cristina Battocletti, Il risotto e i marron di Gadda, «Il Sole 24 Ore», 4 settembre 2011, p. 34. 6 Carlo Emilio Gadda, Risotto alla milanese, in Inedita Energia, Roma, Eni, 2008. 7 Cfr. Viaggio in Italia. Un ritratto del paese nei racconti del “Gatto Selvatico” (1955-1964), prefazione di Paolo Di Stefano, Milano, BUR Rizzoli, 2011. Scritti di Banti, Bassani, Berto, Bevilacqua, Caproni, Cassola, Comisso, De Angelis, Dessì, Gadda, Gatto, Ginzburg, La Capria, Manzini, Parise, Sciascia, Soldati. 8 Cfr. Massimo Novelli, La gran fiera magnara. Le ricette di Carlo Emilio Gadda, Torino, Il leone verde, 2003. Il volume è censito nell’ottimo studio di Rino Pensato e Antonio Tolo, Lo scaffale del gusto. Guida alla formazione di una raccolta di gastronomia italiana (1891-2011) per le biblioteche, cit., p. 132, scheda n. 452. 9 Si cita dalla nuova edizione riveduta e ampliata, Milano, Adelphi, 2002. 10 Aldo Buzzi, Piccione ripieno, in Id., L’uovo alla kok, cit, p. 66, nota 3. 11 Cfr. Una dozzina di analisi di testo all’indirizzo dei docenti ticinesi del settore medio, Zurigo, Juris Verlag, 1975, pp. 7288. Ringrazio il prof. Uberto Motta dell’Università di Friburgo, per avermi messo a disposizione il testo. 12 Aldo Buzzi, Piccione ripieno, in Id., L’uovo alla kok, cit., p.66. febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 63 L’Altro Scaffale Bisanzio, la notte e la musica di ogni tempo Piccole ma preziose proposte di collezionismo ALBERTO CESARE AMBESI U na quindicina di giorni addietro mi domandai: «Volendo trovare qualche inconsueta preziosità musicale, cosa potrebbe offrire l’antiquariato librario, a un prezzo ragionevole?». Risposta forse sorprendente: «Più di quanto ci si potrebbe attendere e da luoghi anche non specialistici, inaspettati». A Milano, per esempio, opera da tempo, in diversi settori del collezionismo, “Di Mano in Mano”. Ebbene, fra le sue offerte più recenti, svetta una terna di opere di diversa sostanza musicologica, ma che merita una concordante segnalazione, poiché in grado di suscitare l’interesse, in tutto o in parte, sia dello specialista sia del cultore degli studi umanistici ed estetici. Per un’opera come L’Antica Melurgia Bizantina dello Jeromonaco basiliano padre Lorenzo Tardo (1883-1967), potrebbe dirsi, a tutta prima, un testo di nicchia. Molto di nicchia, tanto più che si tratta di un volume di 402 pagine scritto con puntuale Ludwig van Beethoven (1770 – 1827) erudizione. Eppure, esso riflette una polemica che ancora non si è spenta e che potrebbe coinvolgere più di un’intelligenza, sia laicale sia religiosa. Si tratta di questo: volendo ricomporre in modo vitale la documentazione della civiltà musicale greco costantinopolitana, quanto valore storico si dovrà riconoscere alla tradizione orale che si è tramandata nell’area siculo-albanese che è tuttora praticata, qua e là, nell’al- veo liturgico? Oppure: non sarà piuttosto il caso di volgersi allo studio dei coevi studi teorici, come vorrebbero molti studiosi mitteleuropei, a cominciare dai severi cultori della cosiddetta “Scuola di Copenaghen”? Propendere per l’una o per l’altra soluzione non è questione di lana caprina, giacché, nel primo caso, assumerebbe un ruolo d’indispensabile punto di riferimento la Scuola Melurgica della Badia greca di Grottaferrata, fondata da Lorenzo Tardo alla scopo, per l’appunto, di registrare e sanzionare la validità, dottrinaria ed estetica, di una affascinante pratica corale che ha avuto la forza di giungere fino al nostro tempo pressoché intatta, cioè senza rilevanti compromissioni con altre, concomitanti esperienze musicali di genere sacro, o profano. Qualora, invece, si cercasse di trovare nell’antica trattatistica bizantina la sicura interpretazione di quella civiltà musicale, indubbiamente si riuscirebbe a sciogliere ogni dubbio a proposi- 64 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 Pellés et Mélisande, (1902), atto IV, bozzetto di scena di Eugène Ronsin to di certe intonazioni, sia di dettaglio sia a proposito del concretarsi di talune modalità sintattiche. Ma c’è un ma che si è perpetuato fino ad oggi: il genere di ricerche ora menzionato non è riuscito a decifrare la notazione exfonetica, pur trattandosi di un genere di scrittura che si prolungò fino al XV secolo. Lacuna per certi versi inspiegabile, poiché la parallela notazione paleobizantina, perpetuatasi fino al XIII secolo, bene o male, ha dovuto rivelare la propria struttura. Non resta, allora, che riapprendere certi studi comparativi. A partire, per esempio, proprio dal volume cartonato basiliano, risalente al 1938 e arricchito, nel testo, da immagini in bianco/nero. L’esemplare offerto in vendita è integro in ogni parte, ha pagine ingiallite ed è offerto al costo, più che ragionevole, di 300 euro. Di nuovo 300 euro è il prezzo richiesto dalla citata libreria milanese per un’opera musicale di tutt’altro carattere e di più remota pubblicazione: la Partition pour chant et piano del 1902 di Pellés et Mélisande, il dramma lirico, in cinque atti e 13 quadri, composto da Claude Debussy (18621918) su testo del poeta e scrittore simbolista Maurice Maeterlinck (1862-1949). Perché si segnala questo spartito? Perché edito subito dopo la prima rappresentazione dell’opera avvenuta al Théatre national de l’Opera Comique di Parigi, il 30 aprile 1902. Si tratta, dunque, di un’autentica preziosità, sia sotto il profilo editoriale (formato antico in 4°, edizione di A.Durand & Fils éditeurs) sia per quanto può concernere lo studio di un linguag- gio compositivo che fu attento a compenetrare la parola poetica e il suono in maniera che avessero una voce, parimenti enigmatica, tanto i personaggi umani, quanto gli elementi scenici, paesaggistici e architettonici. L’esemplare posto in vendita ha 283 pagine, come previsto. E’ in buono stato, ma ha una rilegatura scollata al dorso e strappo alla cerniera e al piatto anteriore. Difetti facilmente rimediabili con un’accurata opera d’incollatura, o - meglio ancora - con una robusta rilegatura. Che dire, infine, di un’opera di 4389 pagine, risalente al 1968, opportunamente divisa in tre volumi, e per la quale “Di Mano in Mano” richiede 200 euro? Risposta facile: si tratta di una realizzazione editoriale non da poco e di certo contenente più di un testo. Sotto il titolo di Catalogo tematico beethoveniano vi sono infatti racchiusi il ragguardevole schedario che ha dato origine alla titolazione complessiva, nonché i Quaderni di conversazione e Le Lettere del Compositore. Una terna dunque di preziose e varie testimonianze, musicali e biografiche, difficile da trovarsi insieme, radunate e commentate con somma cura da Giovanni Biamonte, Georg Schuenemann, e Emily Anderson. Editore: la ILTE di Torino. L’esemplare è in buono stato di conservazione, ed è posto in vendita nel cofanetto e con la legatura originali, in carto- febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano nato grigio. Da ricordarsi che in ognuno dei tre volumi sono presenti illustrazioni nel testo e tavole fuori testo, in bianco/nero, anch’esse ben conservate. Da Torino a Firenze il passo è lungo e breve, come suol dirsi in casi del genere. La Libreria Antiquaria Gonnelli, infatti, interviene spesso, nel settore musicale, con proposte in grado di suscitare interessi tanto strettamente filologici quanto inerenti la storia teatrale, anche di là dal melodramma, quando opportuno. Ne sono eloquente testimonianza una coppia di opere separate, all’incirca, da due secoli e scritte con intenzioni alquanto dissimili. La prima, pubblicata tra il 1774 e il 1775, recita fra l’altro, nel compendio seguente alla prefazione: «Niuno sarà mai perfetto Compositore di Musica senza un pieno possesso dell’Arte di Contrappunto,siccome niuno sarà mai perfetto Pittore senza possesso perfetto del Disegno». Esortazione di una sorprendente attualità e che sarebbe conveniente proporre in tutte le scuole d’indirizzo musicale e/o artistico, in quanto l’autorità del suo ideatore è fuori di discussione: il reverendo padre Giovanni Battista Martini (1706-1784), fermo avversario del contemporaneo “stile galante” e, come tale, geniale codificatore della tradizione polifonica barocca con diverse partiture, sacre e profane, e con la prima e unica edizione del ce- leberrimo trattato che qui si segnala: Esemplare o sia saggio fondamentale pratico di contrapppunto sopra il canto fermo (…). Parte prima (e seconda), stampato a Bologna, alla data indicata, da Lelio dalla Volpe “impressore dell’Istituto delle Scienze”. Si tratta, per la precisione, di un’opera in due tomi in-folio piccolo (mm. 290x210) contenente molti esempi musicali nel testo, più una tavola ripiegata nel secondo volume, contenente una Tavola per la modulazione che suggerirà non poche soluzioni future ai compositori dei tempi posteriori. Mozart compreso. La copia in vendita presenta una legatura coeva, in piena pergamena e può dirsi facilmente leggibile dal principio fino all’ultima riga. Il prezzo di vendita è stato fissato in 1500 euro. Altri, come ovvio, completamente altri i motivi d’interesse di un manoscritto musicale autografo, datato luglio 1963, conteINDIRIZZO E RECAPITI LIBRERIA DI MANO IN MANO Viale Espinasse, 99 20156 Milano Tel. 02.33400800 www.dimanoinmano.it GONNELLI LIBRERIA ANTIQUARIA Via Ricasoli, 6 50122 Firenze Tel. 055.216835 www.gonnelli.it 65 nente Quattro preludi e musiche di scena per “Fiaccola sotto il moggio” di Gabriele D’Annunzio, spartito per flauto, voce e partitura d’orchestra di Adriano Lualdi (18871971), musicista molto discusso sotto il profilo politico (era stato deputato al parlamento dal 1929 al 1943), ma compositore non privo di qualche merito, per quanto irrigidito in un estremo accademismo. Forse più nel genere operistico che nella musica strumentale. In questo lavoro, comunque, sembra mostrarsi emulo talentuoso del suo maestro, Wolf- Ferrari, e non di rado attento a cesellare pagine perfettamente adeguate al testo del Vate. Doveroso sottolineare che questo manoscritto di 44 pagine numerate e altre di sintesi, fu adoperato nell’agosto 1963 a Pescara, al Teatro Gabriele D’Annunzio, in occasione della rappresentazione della Tragedia, nel centenario della nascita del Poeta. Materialmente, l’opera presenta interessanti correzioni e cancellature. È scritta con inchiostro nero e rosso, nonché con matita grigia, rossa e blu. Ogni pagina include fino a 18 pentagrammi e la conservazione di tutti i fogli è affidata a una legatura in pelle marrone; sul piatto anteriore si trova scritta la completa titolazione dell’opera. Testimonianza di un certo valore, nella storia dello spettacolo in Italia. Il prezzo: 600 euro, senz’altro equo. 66 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 Filosofia delle parole e delle cose Il limite assoluto e la mancanza relativa Come amare se non da una forma? DANIELE GIGLI «I am you and you are me/ why’s that such a mistery» (Believe, in Are you gonna go my way, 1993). Se lo dice persino Lenny Kravitz, qualcosa di vero ci sarà. Nel fatto che io sono io e tu sei tu, ma quando ti incontro e mi incendio tutto di me vorrebbe essere te, annullare i confini, impastare ogni grano di quel che io sono con quel che tu sei. È un desiderio sacro, in cui venerazione della cosa amata e la deificazione di sé si rincorrono e intrecciano fino a confondersi. Lo illustra con una Maurizio Gallo (1963), Mnemosine, 2011, collezione privata semplicità disarmante il Pavese dei Dialoghi con Leucò, quando nel punto culminante de Le muse l’ingenuo e appassionato Esiodo invidia alla dea Mnemosine il dono di essere ciò che si ama, semplicemente nominandolo: «Quando parlo con te mi è difficile resisterti. Tu hai veduto le cose all’inizio. Tu sei l’ulivo, l’occhiata e la nube. Dici un nome, e la cosa è per sempre» (Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, 1947). È forse anche perciò, per questa esperienza sempre risorgente e sempre frustrata di volerci unire all’oggetto del nostro desiderio – di poter amare semplicemente chiamando e creare semplicemente amando – che sempre più noi uomini del ventunesimo secolo tendiamo a rifuggire e odiare la nostra condizione di esseri limitati. Pensiamo un istante ai nostri giorni, all’umiliazione bruciante che avvertiamo ogni qualvolta ci scopriamo a non saper fare, a sbagliare, a mancare, e ha voglia il poeta sa- 68 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 febbraio 2014 – la Biblioteca di via Senato Milano 69 A sinistra: Mnemosine, II sec. d.C., Museo Archeologico di Tarragona. A destra: Busto di Esiodo (II sec. a. C.), Londra, British Museum; ritratto di Cesare Pavese cro a ricordarci come il venir meno sia connaturale all’uomo, come anzi «chi rifiuta la correzione, disprezza se stesso». Troppa realtà per poterla accettare, troppa realtà per l’illusoria somma di illusorie perfezioni umane con cui al nostro mondo postprotestante piace descriversi. Perché sempre di una descrizione si tratta, nel pensare il nostro vivere; e mal ce ne incoglie, in questo pensarci, l’uso bloccato e perciò confusionario che facciamo delle parole ereditate. Per quanto possa sembrarci una questione di sole parole, infatti, di giochi per enigmisti, si tratta sempre, invece, di parole e cose, di cose e carne, di carne e sangue. Perché il limite e la mancanza non sono la stessa cosa. Né lo sono pienamente la mancanza e il difetto. E se io uso queste parole come intercambiabili, come perfettamente sinonimiche, se le uso così oggi, così domani, così il terzo giorno, alla fine le subirò come vuoti involucri, vuote convenzioni da riempire di caso in caso con l’urto del sentimento. Ma le parole, come ognuno in fondo sa, non sono involucri appesi agli oggetti o ai concetti. Ne sono parte. Pensiamo al difetto, che ci indica qualcosa di de-factum, cioè di mancante, di non compiuto. E si capisce allora perché ci umili l’idea di avere dei difetti. Quando il tostapane funziona male, infatti, non diciamo che è limitato, ma che è difettoso: non indichiamo, cioè, un normale stato delle cose (certo che il tostapane è limitato, ha delle dimensioni ben precise), ma sottolineiamo, accusandolo, qualcosa che non è come dovrebbe essere. Com’è diverso, invece, il concetto di limite! Se chiediamo alla storia della parola, scopriamo che limite viene da limes, che porta cioè addosso il senso di confine naturale, essendo a sua volta legato a limus (obliquo). E qui ritroviamo Lenny Kravitz e, con lui, la nostra esperienza quotidiana. Chi siamo quando amiamo? E che cosa amiamo? Se l’oggetto che l’amore ci svela misteriosamente infinito non fosse a un tempo così limitato, confinato, circoscritto, che cosa ameremmo noi? Senza una forma finita, per chi o per che cosa bruceremmo di passione? Lo dice Violaine a Pietro di Craôn: «Se aveste fatto di me a vostra voglia […] sarei io ancora la stessa Violaine che amavate?» (Paul Claudel, L’annuncio a Maria, 1913). «Non quella, no, ma un’altra», risponde Pietro. Che porta addosso il peso dei propri limiti, del non saperla amare come vorrebbe. E che però ha da chiedersi, come noi tutti: ma senza questo limite, senza il confine e la forma che sono, da dove potrebbe venire, verso che cosa potrebbe andare questo mio desiderio dell’oltre? Senza il meschino qui e ora che io sono, di quale amore potrei essere soggetto? Per quale altrove potrei bruciare di nostalgia? 70 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 BvS: il ristoro del buon lettore I grandi piatti di Ma.Ri.Na In viaggio per 20 mila leghe con Pino Possoni GIANLUCA MONTINARO «L e grandi profondità degli oceani ci sono sconosciute: nessuna sonda ha mai potuto raggiungerle. Che succede in quegli abissi remoti? Quali esseri abitano e hanno la possibilità di sopravvivere a venticinque o a trenta chilometri sotto la superficie del mare?». Questi gli interrogativi di Pierre Aronnax, protagonista del celebre romanzo di Jules Verne (pubblicato nel 1870): Ventimila leghe sotto i mari (libro che la Biblioteca di via Senato conserva anche nella “Scala d’Oro”). Naturalista e oceanologo, Aronnax non immagina neppure a quali meravigliose avventure sarebbe andato incontro accettando l’imbarco sulla “Abraham Lincoln”. A caccia di un inquietante mostro marino avrebbe di lì a poco incontrato l’enigmatico Capitano Nemo e il suo sottomarino: il “Nautilus”. Al fianco di Nemo (uomo dal vasto sapere) vive un’esperienza straordinaria. Solcando gli oceani sul “Nautilus” comprende finalmente il mare e i suoi abitanti. Anche a Olgiate Olona c’è un “Nautilus”; anche a Olgiate Olona c’è un Capitano Nemo: Pino Possoni, da decenni alla guida del Ma.Ri.Na Piazza San Gregorio, 11 Olgiate Olona (Va) Tel. 0331/640463 Ma.Ri.Na, sosta imperdibile per tutti coloro che amano la cucina di mare ad alto livello e desiderano penetrarne il significato. Una sala raffinata e calda. E «una tavola riccamente imbadita», come quella che Nemo offre ad Aronnax, accoglie gli ospiti. Eppoi Pino che, come Nemo, «usa senza esitazione le parole giuste» per narrare dei suoi piatti e del suo ristorante. Ci si deve abbandonare, come Aronnax a Nemo, sicuri che dalla cucina arriveranno presto «piatti squisiti, ognuno ricoperto dalla propria campana d’argento». «Tra le vivande che ci furono servite riconobbi diverse qualità di pesci cucinati accurata- mente», ricorda Aronnax. Così anche al Ma.Ri.Na ove i tanti piatti raccontano storie di mare e di onde. Con grazia si muovono fra il semplice e il complesso. Alfa e omega possono essere quindi gli scampi semicrudi serviti su sassi bollenti al leggero aroma di menta e il polipo con trippa su passata di ceci, con burrata e pecorino di fossa (un tripudio di aromi e sapori che riempie la bocca). Oltre che la sontuosa aragosta cruda con pomodorini secchi e capperi e i magistrali gnocchi di ricotta con carciofi, crostacei e tartufo bianco. Ma si segnalano anche, per gli amanti della cacciagione, succulente pietanze a base di tordi, frosoni, beccacce e fagiani. Non si beveva vino sul “Nautilus”. Solo acqua. Ma al Ma.Ri.Na non è altrettanto. Davide (figlio di Pino) potrà consigliare un grande Champagne, magari il Brut Initiale di Jacques Selosse, complesso e dalla lunga scia minerale. Seduti al tavolo, intenti a comprendere Nemo e il suo mondo, si potrà anche riflettere che «rinunciare agli insopportabili obblighi della terra, che gli uomini credono sia libertà, non è poi così penoso». MAL DI GOLA? PUOI PROVARE ZERINOL GOLA. IL PRIMO IN PASTIGLIE A FARSI IN DUE. Mal di gola? Eccomi qui. Sono Zerinol, Zerinol Gola. Sono nato per svolgere due azioni contemporaneamente, infatti sono il primo in pastiglie a doppio effetto, anestetico e antinfiammatorio: rapido addormento il dolore e, nello stesso tempo, combatto l’infiammazione. E da oggi puoi trovarmi anche ai nuovi aromi limone e ribes nero. Insomma, quando hai bisogno puoi contare pure su di me. RAPIDO SOLLIEVO DAL MAL DI GOLA. È un medicinale per il mal di gola a base di Ambroxol, leggere attentamente il foglio illustrativo. Autorizzazione del 18/07/2013 72 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2014 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO ALBERTO C. AMBESI MARCO CIMMINO GIANFRANCO DE TURRIS MASSIMO GATTA SANDRO GIOVANNINI Alberto Cesare Ambesi (1931), scrittore e saggista, ha insegnato storia dell’arte e semiotica all’International College of Sciences and Arts e all’Istituto Europeo del Design. Fra le sue opere si ricordano qui: Oceanic Art (1970), L’enigma dei Rosacroce (1990), Atlantide e Le Società esoteriche (1994), Il panteismo (2000), Scienze, Arti e Alchimia (riedizione ampliata e rinnovata di un precedente saggio, Hermatena, Riola, 2007) e le particolari monografie Nella luce di Mani (2007) e Il Labirinto (2008). È stato critico musicale del quotidiano «L’Italia» e ha collaborato alle pagine culturali de «La Stampa». Marco Cimmino (Bergamo, 1960). Storico, membro della Società Italiana di Storia Militare e socio accademico del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, si occupa prevalentemente di Grande Guerra. Collaboratore Rai, scrive su molte testate. Membro del comitato scientifico del Festival Internazionale della Storia di Gorizia, è uno dei responsabili del progetto èStoriabus. Tra i suoi saggi più recenti: La conquista dell’Adamello (2009), Da Yalta all’11 settembre (2010) e La conquista del Sabotino (2012), finalista al premio Acqui Storia 2013. Gianfranco de Turris ha lavorato in Rai dal 1983 al 2009, come vice-caporedattore dei servizi culturali del Giornale Radio. Ha ideato e condotto la trasmissione di approfondimento culturale L'Argonauta, con cui ha vinto nel 2004 il Premio Saint-Vincent di giornalismo. Si occupa di politica culturale da un lato e di letteratura dell'Immaginario dall'altro, scrivendo di questi argomenti su quotidiani, settimanali e mensili, nonché su enciclopedie e dizionari, dirigendo riviste e collane, curando l' edizione e l'introduzione di centinaia fra romanzi e saggi, e pubblicando una quindicina di libri. È direttore responsabile della rivista «Antares». Massimo Gatta (1959) ricopre l’incarico, dal 2001, di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris). Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri” (books about books), e fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri». Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli. Sandro Giovannini (1947), poeta e saggista, collabora a vari quotidiani e riviste. Con il Centro Studi Heliopolis (costituito nel 1985) porta avanti un’esperienza d’indagine sulle tecniche dell’antico confrontandole, in chiave creativa, con le logiche di ricerca contemporanea (poesia concreta, poesia visiva, mail-art, istallazione, performance). È stato fondatore e redattore della rivista «Letteratura-Tradizione». Fra le sue pubblicazioni: Atemporale (1985); Carme si-no (1986); Il piano inclinato (1995); L’armonioso fine (2005); Poesie complete (1960-2006). ...come vacuità e destino (2013). LUIGI MASCHERONI GIANCARLO PETRELLA GIOVANNI SESSA DANIELE GIGLI GIANLUCA MONTINARO Luigi Mascheroni ha lavorato per «Il Sole24 Ore», «Il Foglio» e, dal 2001, per «il Giornale». Scrive soprattutto di Cultura, Spettacoli e Costume. Ha una cattedra di Teoria e tecnica dell’informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Fra i suoi libri, il pamphlet Manuale della cultura italiana (2010) e Scegliere i libri è un’arte. Collezionarli una follia (2012). Sta lavorando a un saggio sui plagi letterari e giornalistici. È fra i fondatori del blog “Dcult” (difendere la cultura): http://www.dcult.it/. Dal 2011 ha un videoblog, primo in Italia, di videorecensioni: http://blog.ilgiornale.it/mascheroni. Giancarlo Petrella insegna discipline del libro presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Si occupa di letteratura geografico-antiquaria fra Medioevo e Rinascimento (L’officina del geografo. La Descrittione di tutta Italia di Leandro Alberti e gli studi geografico-antiquari tra Quattro e Cinquecento, 2004) e di storia del libro a stampa fra Quattro e Cinquecento in numerosi articoli e monografie (fra cui l’ultimo L’oro di Dongo ovvero per una storia del patrimonio librario del convento dei Frati Minori di Santa Maria del Fiume, 2012). Collabora con il «Giornale di Brescia» e con la «Domenica del Sole 24 ore». Giovanni Sessa (1957), è docente di filosofia e storia nei licei, già assistente presso la cattedra di Filosofia politica della facoltà di Scienze Politiche della Sapienza di Roma e già docente a contratto di Storia delle idee presso l’Università di Cassino. Numerosi sono i suoi scritti, alcuni dei quali apparsi sulle riviste «Letteratura-Tradizione»; «Palomar» e «il Borghese». Fra i suoi volumi si ricordano: Trascendenza e gnosticismo inE. Voegelin, Caratteri gnostici della moderna politica economica e sociale; Il maestro della Tradizione. Dialoghi su Julius Evola. Daniele Gigli (Torino, 1978) lavora nella conservazione dei beni culturali. Studioso di T.S. Eliot, ne ha curato alcune traduzioni, tra cui quelle di The Hollow Men (2010) e Ash-Wednesday, di imminente uscita. Ha pubblicato le plaquette Fisiognomica (2003) e Presenze (2008) e sta attualmente lavorando al libro Fuoco unanime. Gianluca Montinaro (Milano, 1979) è docente a contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000); Il carteggio di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006); Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero (2013). LUCA PIETRO NICOLETTI Luca Pietro Nicoletti, storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore italiano a Parigi (Macerata 2013).