Marino Berengo La crisi dell’arte della stampa veneziana alla fine del XVIII secolo estratto da “Studi in onore di Armando Sapori” Lo sviluppo che nella seconda metà del ‘700 la grande industria privata ha assunto nello Stato veneto, trasformando quei settori della produzione che più richiedono l’apporto di forti capitali e di attrezzature moderne, imprime un particolare significato alla discussione degli scrittori e degli uomini di governo sulla natura delle arti e sulla necessità di mantenerle in vita nella loro integrità, o di attenuarne i privilegi, o di spegnerne infine totalmente l’esistenza per lasciar libero il passo all’avvento delle nuove forme economiche1. Se seguire i temi di questo dibattito consente di caratterizzare qualche aspetto della politica economica e sociale della Repubblica aristocratica, e di individuare anche talune tendenze del pensiero “riformatore”, un breve esame della vita di una di queste arti, e di quella che sino ed allora si era forse meno scostata dalla primitiva fisionomia artigianale, gioverà a chiarire la natura che verso la fine del secolo presentava il regime corporativo veneziano, là dove esso si sforzava di mantenersi intatto e di resistere alla mutata struttura del mercato internazionale. Costituitasi in arte solo nel 15482, e sfuggita per tutto il XVI secolo ad una troppo soffocante pressione della censura in materia religiosa, la stamperia veneziana aveva trovato negli opuscoli e nelle opere di non piena ortodossia − e talora anche nelle (*) Nella presente nota si sono adottate le seguenti sigle archivistiche: A.S.V. = ARCHIVIO DI STATO, VENEZIA; Rif. = Riformatori dello studio di Padova; Arti = Archivio delle arti. Libreri e stampatori; Inq. = Inquisitore alle arti; B.Q. = BIBLIOTECA QUERINI STAMPALIA, VENEZIA; B.M. = BIBLIOTECA NAZIONALE MARCIANA, VENEZIA; Donà = MUSEO CORRER, VENEZIA, mss. Donà Dalle Rose. 1 Per la letteratura contemporanea, e per le discussioni legislative sul problema delle arti, e sull’industria libera e corporativa, cfr. L. DAL PANE, Il tramonto delle corporazioni in Italia (secoli XVIII e XIX), Milano, (1940), pp. 25-27; M. PETROCCHI, Il tramonto della Repubblica di Venezia e l’assolutismo illuminato, Venezia, 1950, pp. 105-108; M. BERENGO, La società veneta alla fine del ‘700, Firenze, 1956, pp. 49-56, e bibliografia ivi citata. 2 H. F. BROWN, The Venetian printing press, London, 1891, pp. 80 e segg.: cfr. anche A. S. V. Arti, vol. 164, 16 maggio 1772. apertamente eterodosse − un sicuro campo di produzione, attivando così con Francia, Germania ed Olanda un traffico librario dei più intensi. Ma quando, al termine di annose tergiversazioni, nel 1595 si dovette severamente applicare l’indice dei libri proibiti, l’arte vide 80 dei suoi 125 torchi fermarsi nel giro di quattro mesi, e rimanere privi di lavoro3: colpo durissimo (che si accompagnava ad una naturale “crisi” del gusto e della preferenza culturale italiana) dal quale − nonostante la parziale ripresa in seguito verificatasi − essa rimarrà poi sempre indebolita. Solo di raro, e per breve tempo, si potè rasentare o raggiungere il centinaio di torchi attivi, mentre per i due secoli successivi la loro media si può, molto approssimativamente e con ampie oscillazioni, indicare intorno ai 704 : livello questo certo più ridotto, ma pur sempre elevato, data l’agile organizzazione di vendita dei librai veneziani, e la loro ormai consolidata fama in tutti i mercati d’Europa. Sebbene intorno alla metà del ‘700 non si registri un particolare aumento del numero delle edizioni veneziane, e non si abbia quindi un’ascesa del numero dei torchi attivi, tuttavia l’arte si trova in una posizione di grande rilievo. Mentre essa mantiene intatto il suo predominio nella produzione delle opere teologico-religiose (e vedremo come si tratti, per lo più, di ristampe), la straordinaria mitezza della disattenta e bonaria censura (disattenta e bonaria, però, sino a quel preciso momento in cui il più pallido accenno di una critica alle istituzioni aristocratiche si lasciasse anche indirettamente avvertire) le consente di venire incontro ai mutati interessi culturali, ed a far largo posto alle opere illuminate, giurisdizionalistiche e, in genere, riformistiche. Se si eccettua un 3 Per tutto il problema dell’introduzione della censura e dell’indice sui libri religiosi a Venezia nel ‘500, cfr. la diffusa narrazione di H. F. BROWN, op. cit., pp. 105-157 e la importante relazione 16 marzo 1765 dei Riformatori dello studio di Padova, ivi, pp. 342-349, e specialmente pp. 342-343. Utili elementi per gli inizi della controversia tra Venezia e Roma in materia di stampe, nel documentatissimo G. SFORZA, Gli inizi della Controriforma nella Repubblica- di Venezia, in “Archivio storico italiano”, 1935, vol. I, pp. 5-34, 189-216; vol. II, pp. 25-52, 173-186. Del brusco regresso dell’arte della stampa veneziana alla fine del ‘500 fan poi parola quasi tutte le numerosissime relazioni settecentesche che tracciano e riprendono la storia dell’arte. 4 I torchi veneziani erano 94 nel 1735, 56 nel 1752, 58 nel 1781, 59 nel 1790, 55 nel 1792, 57 nel 1793 secondo C. MASSA, Stampe e libri a Venezia nel secolo XVIII, in “Il Bibliofilo”, 1886, p. 80. Di 88 torchi attivi (di cui specifica la distribuzione) parla invece una dichiarazione del priore dell’arte, inserta alla terminazione 4 settembre 1793, A. S. V., Rif., filza 60. determinato gruppo di opere 5, di cui è vietata anche l’importazione dall’estero, ogni altro libro può essere impunemente stampato e ristampato, così che il meglio della produzione europea è, pochi mesi dopo la sua comparsa sui mercati di Londra e di Parigi, della Germania e dell’Olanda, tradotto e diffuso da tutte le botteghe della Dominante. A Venezia, scriveva il Grosley “on imprime tous le jours, avec approbation et permission, des traductions d’ouvrages frangois, qui, à Paris meme, n’osent paroitre que sous une permission tacite”6 E, a sopire eventuali proteste romane (di cui non si teneva però mai eccessivo conto e che lasciavano per lo più il tempo che avevano trovato) o di altri Principi che potessero sentirsi feriti da qualche critica od accenno d’irrispettosa polemica, si provvedeva concedendo − con apposita licenza e su scala piuttosto ampia − la facoltà di apporre sul frontespizio un falso luogo di stampa7. Ad aggiungere vigore all’arte veneziana − rendendole possibile di trar giovamento dalle fortunate congiunture in cui essa si era venuta a trovare, operava un fitto regime protezionistico che, se da un lato costituiva la base della sua forza, provocava però dall’altro feroci ed inestinguibili contrasti tra i vari librai. Punto centrale della legislazione veneziana in materia di stampe, erano i privilegi: quando un libraio pubblicava un’opera, ne poteva ottenere la privativa in tutto lo stato per la durata di 20 anni se si trattava di un manoscritto, di 10 se era già stata edita in precedenza. Questo provvedimento sarebbe però riuscito dal tutto inefficace se non lo avesse reso operante una clausola integrativa, in virtù della quale non potevano essere introdotte edizioni straniere di libri privilegiati, pena il sequestro di tutte le copie8. Questa 5 Per il carattere della censura veneta, come per le opere illuministiche stampate a Venezia, di cui si dirà più oltre, si rimanda direttamente a M. BERENGO, op. cit., pp. 134-151. 6 Citato da M. PETROCCHI, op. cit., p. 51. 7 Cfr. C. MASSA, Edizioni venete con falsa data di stampa, in “Il Bibliofilo”, 1886, pp. 161-162. I permessi di stampa con data di luogo estero sono raccolti, per l’ultimo trentennio della Repubblica, in A.S.V., Rif., filze 337, 338, 339. Così lo Storti, su rinunzia del Formaleoni, ottiene la facoltà di. Stampare le opere di Federico II con la data di Berlino (licenza 31 dicembre 1788); il Bassi l’Elogio della follia, Berna (licenza 28 settembre 1786); Graziosi Lo spirito delle leggi, Amsterdam (licenza 11 marzo 1773). Durante la Rivoluzione; poi, la pubblicazione della maggior parte degli scritti che ne descrive e commenta gli eventi, viene autorizzata coll’indicazione di luogo estero: ad es. le Riflessioni del Burke in italiano, Londra (licenza allo Storti, 16 giugno 1790), Mémoire de M. Calonne contre le decret rendu le 14 fevrier 1791... Londra, in francese (licenza allo Zatta 22 marzo 1791). 8 “…le leggi di V. S. ordinarono nel 1653 che il libro stampato in esteri luoghi, non si metta in città a danno di qualche veneta edizione privilegiata, e stabilirono le debite pene a’ contraffacenti.” G. COZZI, Stato attuale misura, applicata col massimo rigore per l’attenta sorveglianza dagli stessi librai, trovava la sua ragione d’esistere non solo nell’usuale tendenza protezionistica della legislazione veneziana, ma anche in quella mancanza di accordi internazionali, che aveva sempre fatto del commercio librario un campo aperto alle più ardite speculazioni. Si comprende così facilmente come il sistema protezionistico dovesse finire coll’assumere uno sviluppo imponente, e come poche opere rimanessero di libero accesso a tutti gli stampatori, ed escluse dal privilegio. Ma il sistema non andava certo esente da inconvenienti numerosi e gravi, sì che veniva violato di continuo e senza rimedio. Il privilegio rappresentava infatti una salda garanzia per i capitali investiti in un’edizione, giacchè il produttore si trovava al riparo dalle insidie della concorrenza, ed aveva forti probabilità di vendere la maggior parte delle copie impresse; così le stamperie veneziane erano in grado di cimentarsi in imprese di grande impegno e di fortissima spesa. Ma gli inconvenienti sorgevano immediati e numerosi a sminuire ed annullare questi vantaggi: dato che la vendita delle edizioni privilegiate era scontata in partenza perché sul mercato non esistevano altri esemplari di quella determinata opera, non c’era più motivo di sacrificare troppe cure e denari nella stampa. Così i volumi con grandi incisioni, con carta pregiata e resistente che non assorbisse gli inchiostri, con caratteri nitidi, con larghi spazi marginali, con ornamenti alle lettere iniziali, con tutti, insomma, quegli accorgimenti e quelle cure che fanno la bellezza di un’edizione, erano destinati al declino9. Inoltre, il mantenimento incondizionato ed illimitato dei privilegi riduceva l’arte a monopolio di pochi grandi librai, che tendevano a scalzare le piccole stamperie artigiane provviste solo di mezzo o di un torchio. D’altronde, anche il sistema opposto non andava immune da difetti e, seppur riusciva ad evitarne taluno, non sfuggiva però ad altri non meno gravi. Quando infatti si cercava di attenuare il vincolo dei privilegi con varie clausole che ne indebolissero la rigidità o ne dell’arte degli stampatori e librai nello Stato veneto dopo la metà del secolo XVIII, in “Scritti... ordinati da N. TOMMASEO”, Firenze, 1849, vol. Il, p. 404. Il testo, edito dal Tommaseo senza alcuna indicazione cronologica è del 1767 (come risulta a p. 398), e si tratta di una relazione presentata al Senato dai Riformatori. I libri che venivano sequestrati alle dogane -e quasi ogni mese si verificavano alcuni fermi- erano, a giudizio del deputato, o respinti al mittente, o consegnati al prefetto della Marciana, o molto di rado, e solo a titolo d’esempio, bruciati. 9 Sono, naturalmente, le opere dedicate al mercato interno, e le edite per la prima volta, quelle che più facilmente vengono stampate con trascuratezza: per l’esportazione si impongono edizioni eleganti e corrette. riducessero la durata, il vespaio che insorgeva nell’arte era indescrivibile. Infatti tutti i librai, nel tentativo dì sottrarsi a vicenda le edizioni più richieste e di arricchire il proprio repertorio, cercavano di raggiungere dei prezzi più bassi di quelli stabiliti dai propri competitori, e perciò moltiplicavano a ritmo vertiginoso le ristampe di una medesima opera, deteriorandone sempre più la qualità. Così un numero immenso di copie restava invenduto nei magazzini e, quando non finiva addirittura col prendere la via del macero, doveva essere immesso ad un prezzo irrisorio sul mercato dei libri vecchi. In tal modo lo stampatore, danneggiato da un rivale più accorto, perdeva buona parte dei suoi capitali e si trovava costretto a limitare i suoi futuri investimenti mentre l’opera, ormai diffusa in migliaia di pessime copie che screditavano l’arte tipografica veneziana, cessava per sempre di costituire una fonte di lucro. Così, pur oscillando tra i due opposti principi del regime libero e di quello privilegiato, l’industria libraria veneziana si era sempre mantenuta rigorosamente nell’ambito del piccolo e del medio artigianato. Ma sarà appunto il primo e durevole assalto di una concorrenza a tipo apertamente capitalistico che − associandosi ad una trasformazione generale di tutto il mercato librario europeo − modificherà profondamente la fisionomia dell’arte, incriminandone il sino ad allora intangibile integralismo corporativo. In questo periodo le vicende dell’arte sono seguite da un osservatore d’eccezione, il conte Gasparo Gozzi, che i Riformatori dello Studio di Padova avevano chiamato alla carica di Sovraintendente alle stampe e che, preparando relazioni e stendendo pareri, cercava di por riparo ai disastri arrecati al patrimonio familiare dai cani e dai cavalli del padre e dalle stravaganze poetiche della moglie. La sua sottile e sarcastica intelligenza, che non apprezzava altra forma letteraria da quella smaliziata ed evanescente della ciancia, s’impegna qui, in queste scritture d’ufficio, in uno stile tutto cose e tutto fatti, pieno di un semplice e combattivo buon senso, provvisto di una logica precisa e diretta che, nelle pagine dell’Osservatore e nelle altre sue innumerevoli, è dissimulata e quasi schernita10. Al Cozzi, ormai vecchio, succede dopo 10 Sul Cozzi, funzionario dei Riformatori, cfr. C. MASSA, Gasparo Gozzi censore, in “Fanfulla della domenica”, 5 marzo 1882. Il suo compito di censore gli pesava molto. In una lettera del 18 giugno 1771 (edita da C. LOZZI, Gaspare Gozzi revisore di stampe a Venezia..., in “Il Bibliofilo”, 1888, p. 49) parlando delle sue mansioni, scriveva “sono alla catena tutto il giorno, non so quando verrò liberato da Dio. Sia come si vuole, sono a tutto apparecchiato. La sola mia mortificazione è il dovere far l’uomo serio per forza ma, perdio, qualche volta voglio l’80 il conte friulano Antonio Di Prata, temperamento di funzionario più che di letterato, ma egli pure uomo colto e di gusto. Dai loro rapporti esce chiara la nuova situazione in cui, sul tramonto del XVIII secolo versa l’arte tipografica veneziana, mentre le istanze, i pro-memoria, gli esposti degli stampatori ci aiutano validamente nella ricostruzione. Se il sistema dei privilegi sembrava dunque garantire il perfetto equilibrio tra i membri dell’arte, esso finiva però coll’aprire una profonda breccia nell’apparente eguaglianza e garanzia reciproca di essi, e col consentire che proprio per quella via si potesse profilare la concreta possibilità di una trasformazione capitalistica. Allo scadere del privilegio rimanevano infatti spesso numerose copie ancora da esitare, specie di opere destinate ad uno smercio sicuro ma lento, come le enciclopedie, i repertori, i dizionari, le storie erudite, di cui va tanto ricca la letteratura settecentesca. Ma, non appena giungeva il termine di scadenza, gli altri librai,che avevano attentamente seguito il buon esito dell’impresa, si precipitavano a ristampare l’opera divenuta “libera”, e, facendone edizioni estremamente andanti, le esitavano a prezzi ridotti ed in gran fretta: essi rientravano nelle spese, ed il primo editore ci rimetteva un patrimonio. Per effettuare però su scala veramente ampia questo gioco pericoloso che, se protratto a lungo e con intenti sistematici, avrebbe finito con lo sfibbrare la resistenza dei concorrenti, occorreva una disponibilità di capitali che sino alla metà del ‘700 l’arte della stampa veneziana non aveva mai conosciuto. Fu solo assumendo veste corporativa, ed introducendosi con abili espedienti all’interno dell’arte, che un’impresa capitalistica privata potè condurre a fondo la sua azione, veramente eversiva e ridere ancora”. Le relazioni e le scritture del Cozzi furono in parte edite dal Tommaseo, e parte occasionalmente, ma la maggior parte di esse rimane inedita non solo al Museo Correr ed alle Biblioteche Marciana e Queriní (cfr. le notizie offerte da E. PASTORELLO, Bibliografia storico-analitica dell’arte della stampa di Venezia, Venezia, 1933, ad vocem), ma sovratutto in A.S.V., ove sono disseminate in gran numero di filze del fondo Rif. Da notarsi per questi testi (come per la maggior parte di quelli utilizzati per la presente nota) il gran numero di copie esistenti, per lo più identiche, ma talora discordanti e con molte varianti; in qualche caso non mi è stato possibile risalire all’autografo, ma è probabile che il Cozzi stesso si sia spesso servito di scrivani e non abbia presentato un originale di suo pugno. La grande abbondanza di copie è motivata dal divampare dei contrasti tra i librai, che trascrivevano ed allegavano via via i documenti utili alle loro suppliche e vertenze; per le scritture del Cozzi, inoltre, può aver avuto un certo peso anche il nome dell’estensore. Di questi testi gozziani è augurabile un’edizione completa. rivoluzionaria, entro quel turbolento, ma pur sempre statico e lento, mondo artigianale. Nel 1750 dunque, la ditta bassanese Remondini − esercitando pressioni sui Riformatori, e sborsando indennizzi e compensi di modesta entità11 − otteneva l’immatricolazione nell’arte, pur conservando la stamperia in Bassano. Non era questo il primo caso in cui si era concesso ad un nuovo “confratello” di mantenere i torchi in terraferma, col doppio beneficio delle privative e dei privilegi propri alle industrie della capitale, e dell’assai minor costo di produzione consentito in provincia dal diverso mercato del lavoro, e dalle assai più ridotte spese per i trasporti12. Ma il caso del Remondini era affatto diverso dai precedenti e − come i librai, veneziani si erano subito avveduti − rappresentava una minaccia gravissima al loro usuale regime di lavoro. I Remondini costituiscono un tipico esempio di quelle famiglie mercantili che nella seconda metà del XVII secolo e nei primi decenni del XVIII erano riuscite a trasformare le loro piccole aziende in grossi complessi industriali, perfettamente attrezzati sia per gli strumenti di produzione, e per l’ampia rete commerciale dei loro affari, sia anche per i privilegi che si erano saputi assicurare dal protezionismo governativo. Preso l’avvio da una piccola tipografia e calcografia che aveva rilevata in condizioni fallimentari, e mantenutala per un quarantennio nel modesto ma lucrativo lavoro per le parrocchie e per il clero di campagna (libri di devozione, immagini sacre, calendarietti, preghiere, ecc.)13, Giannantonio Remondini aveva alternata la sua incipiente attività libraria con il commercio dei panni e delle sete, realizzando lucri 11 Donà, filza 341. Accordo 4 ottobre 1750 tra i deputati dell’arte e Giambattista Remondini. Sull’intricata questione dei rapporti tra arte della Dominante e stamperie di terraferma cfr. G. GOZZI, Scritti ecc., cit., vol. II, pp. 408-410, e particolarmente p. 415. Continue le proposte dei librai veneziani contro gli stampatori sudditi, che pure rimangono praticamente indifesi nel settore dei privilegi: A.S.V., Arti, vol. 164, 7 maggio 1767. A.S.V., Inq., filza 55, esposto dell’Università dei librai, non datato (che lamenta la riproduzione dei libri “comuni” stampati anche a Venezia). Il Gozzi, nella relazione ult. cit., si rivela contrario all’istituzione di nuove stamperie veneziane con torchi in terraferma, ma suggerisce di mantenere le già esistenti; queste erano Manfré e Conzatti a Padova, Remondini a Bassano, Ramazzini a Verona, Veronese a Vicenza. Nel gennaio 1786 i confratelli veneziani che si trovavano ancora in questa condizione erano il Remondini, il Conzatti, il Veronese, e il Manfré. A.S.V., Rif.,filza 48, inserte al 6 gennaio 1785 m. v. 13 Oltre che con queste pubblicazioni minori e con le incisioni, Giannantonio Remondini realizzò forti guadagni col Vocabolario latino di Cesare Calderini, cfr. G. B. BASEGGIO, Della calcografia in Bassano e dei calcografi bassanesi, in G. I. FERRAZZI, Di Bassano e dei bassanesi illustri, Bassano, 1847, p. 166. 12 ingenti: il suo testamento del 29 ottobre 1711 rivela la formazione di un patrimonio veramente cospicuo ove alla stamperie ed alle fabbriche della lana e seta, si sono già affiancati una tenuta di 909 campi, molti stabili, e liquidi ammontanti alla bella cifra di ducati 74.49614. Si tratta di un complesso patrimoniale di prim’ordine, quale molti patrizi della Dominante, e non dei più poveri, avrebbero invidiato al fortunato mercante che mezzo secolo prima era giunto a Bassano “con pochissime facoltà”, lasciando a Padova un piccolo traffico di droghe e ferro. Lo spirito mercantile del padre si trasfuse nei suoi eredi i quali consolidarono ed accrebbero rapidamente la già salda posizione da cui erano partiti. Giuseppe, Giambattista e Giuseppe in discendenza diretta, ressero per un secolo, e con crescente fortuna, le sorti dell’azienda. Una grande cartiera, attrezzata anche nella produzione di carte pregiate (dorate, disegnate ecc.) che nel 1762 dava lavoro ad 800 operai15, si aggiunse ben presto alla tipografia ed alla calcografia, rendendo il complesso industriale Remondini di gran lunga il più solido ed attrezzato che, in quel particolare settore, esistesse nello Stato veneto. Il costo di produzione era necessariamente ridotto per i librai di Bassano che, servendosi di carta propria, potevano usufruire di mano d’opera estranea all’organizzazione corporativa, e quindi retribuibile con bassissimi salari e reclutabile con estrema facilità in una zona così endemicamente afflitta dalla disoccupazione, come per tutto il corso del secolo è il Vicentino. Ci troviamo così di fronte ad una di quelle grandi aziende private che cominciano a pullulare nelle province venete, e che incontrano nel regime corporativo una sempre più debole resistenza: se, invece che di tessili, di ceramiche o di cuoi, si trattava ora di carta e di libri, questa diversità non ci deve far perdere di vista la comune origine di questa e delle altre imprese industriali. La moltitudine dei librai veneziani che Giambattista Remondini si trovava di fronte, costituiva però un assai più fragile ostacolo alla sua espansione di quanto non potessero opporre ai fabbricanti di Schio, per fare un esempio soltanto, gli indeboliti certamente, ma pur sempre grandi mercanti dell’arte della lana padovana. La tattica di cui il nuovo “confratello” si servì, e le reazioni suscitate nei suoi competitori, ci danno la misura di uno di questi conflitti tra industria libera e corporativa. 14 Per queste, e le seguenti notizie patrimoniali sui Remondini, O. BRENTARI, La casa Remondini e la corte di Spagna, Bassano, 1882, pp. 20-23. 15 M. PETROCCHI, op. cit., p. 185. Il vecchio sistema, dunque, di cogliere alla loro “uscita di privilegio” le opere di sicuro smercio e di riprodurle in edizioni di minor pregio di quella originale, per conquistare il completo dominio del mercato con una rapida e ben organizzata diffusione a prezzi assai inferiori (ché specie per i testi scolastici e di divulgazione, questa manovra dava buoni e ben sperimentati effetti) fu adottato dal Remondini su scala vastissima ed organizzata: i librai veneziani dovevano così assistere all’autentico saccheggio dei loro cataloghi e, non appena usciti dal prudente recinto dei privilegi per avventurarsi forzatamente nel campo aperto della libera concorrenza, essi si trovavano tosto sopraffatti dal loro rivale. Questi aveva infatti in sua mano tali e così ben affilati strumenti di lotta, da non temere contrasti: carta infatti a buon mercato perché di produzione propria, mano d’opera abbondante e scarsamente retribuita, rischi nessuno perché si stampavano solo opere di sicuro successo. Nel giro di qualche anno il cumulo delle proteste e delle suppliche che si affastellavano sul tavolo del segretario dei Riformatori, venne assumendo proporzioni imponenti: ma il Remondini era nel suo pieno diritto, nessuna delle innumerevoli norme statutarie esistenti era stata da lui violata, e certo i magistrati veneziani erano poco inclini ad anteporre gli interessi delle botteghe artigiane allo sviluppo della grande industria privata. Dello stato d’animo degli stampatori veneziani queste carte ci rendono viva e curiosa testimonianza. Una supplica non datata, ma con ogni probabilità attribuibile al 1770, presenta la comparsa dei Remondini come una catastrofe, che ha paralizzato il commercio librario col “trasformare ad un tratto il negozio suo in un sicuro emporeo di capi estimabili, e quel che è più, di sicuro esito e d’infallibile occorrenza a’ veneti ed esteri librari, prendendo crudelmente per mano li negozi più cospicui de’ quali sapeva non potersi sperare corrispondenza, e andò a invadere Baglioni, Pezzana, e Manfré, Tommaso Bettinelli, Simone Occhi, Recurti e molti altri nelle parti più essenziali de’ negozii loro e ne succhiò il sangue più puro, talché se non li lasciò ad un tratto estinti, ne ridusse alcuni smuti, altri agonizzanti, ed egli solo trionfante”16. Ma dopo l’iniziale irrigidimento di tutti i librai veneziani in un concorde fronte d’opposizione al Remondini, l’arte tornò ben presto a dividersi nelle sue molteplici “fazioni” e nel gioco di queste il nuovo venuto seppe inserirsi sapientemente. Assumiamo ad esempio i contrasti insorti a proposito degli scambi. Si era dunque stabilita la consuetudine che ogni libraio ottenesse le opere stampate da un confratello 16 Domà, filza 341. cedendogli in cambio quelle di produzione propria per un valore corrispondente, in modo da non dover intaccare il proprio, spesso tenue, circolante. Questo sistema andava però a tutto vantaggio dei piccoli librai ed a scapito dei grandi che, provvisti di scelta più vasta, e spesso di capi di maggior pregio, si trovavano costretti ad accettare in cambio opere più scadenti, ed a perdere il beneficio della vendita diretta nella propria bottega dei loro più richiesti volumi17. Per questo appunto nel 176218 vediamo costituirsi un’intesa tra quattro grandi librai, che da un lato tentano di sbarrare il passo al Remondini, e dall’altro effettuano lo scambio solo tra loro, escludendone i confratelli minori: alla loro testa è il Baglioni, che possiede la più grossa stamperia della città, dotata di 14 torchi, 10 dei quali risultano attivi nel 1764, e con lui è il Pezzana, che lo segue nella graduatoria con 7 torchi, tutti attivi19. Di fronte a questa situazione, l’isolamento del Remondini doveva finire con lo spezzarsi20, ed egli col trovare ottimo gioco, ora negando ora concedendo gli scambi, schierandosi ora coi grandi, ora coi piccoli, e soffiando sempre nel fuoco delle loro inimicizie. Così mutevole e complessa è infatti la situazione, che riesce praticamente impossibile fissare una linea ben definita per distinguere un gruppo dall’altro, gli amici dai nemici del Remondini, gli avversari dai fautori della rigidità dei privilegi, i grandi dai piccoli. Gli spostamenti si succedono senza tregue, alimentati da contrasti personali, da vantaggi di indole contingente improvvisamente ottenuti e presto smarriti, che vengono a capovolgere l’atteggiamento iniziale, e ancora dalle pressioni esercitate dai più potenti 17 Sui cambi è sovratutto notevole la scrittura 30 marzo 1764, probabilmente dell’ex-priore dell’arte, Giambattista Novelli, in A.S.V., Arti, vol. 164, che ne sostiene l’uso illimitato. Molto meno favorevole è il Cozzi, che vi ravvisa un pretesto dei piccoli per raggirare i grandi: “ognuno che stampa qualche libro di quindici o venti fogli che sia nuovo, gli mette un prezzo a suo capriccio di due, e anche tre lire, e con un capitale che in sostanza non è più che, di soldi quindici, porta via dalle botteghe a cambio del suo, valutato le tre lire, due volte, e talora più, di quello ch’è il suo capitale, onde può vendere ad un prezzo assai vile il libro acquistato con poco. In tal guisa fa perdere il debito al bottegaio, che non può metterlo in commercio ad un prezzo così basso, e viene rimproverato da’ suoi corrispondenti”. A.S.V., Rif., filza 43, rel. Cozzi 14 maggio 1780, inserta alla terminazione 30 luglio 1780. 18 Per questa vertenza, G. GOZZI, Scritti, ecc., cit., vol. II, pp. 445-447. 19 A.S.V., Arti, vol. 164, 24 gennaio 1764 m. v. 20 “I poveri librai trovatisi a tale estremità, hanno suscitato Napoli, Parma e altre città a ristampare i libri di questi negozi: ma più di tutti hanno sollecitato il Remondini; il quale, come uomo di polso, vedendosi principalmente da’ Baglioni negato il cambio, intraprese tali ristampe”. G. Cozzi, Scritti, ecc., cit., vol. II, p. 445. nelle assemblee elettorali dell’arte (e sarà appunto agitando lo spettro della corruzione che nel 1781 essi riusciranno a spogliare i più poveri da qualunque parvenza di potere21. Così, quando le linee dei diversi schieramenti finiscono col confondersi, e a pochi anni di distanza troviamo i medesimi uomini assai lontani da dove li avevamo lasciati, abbiamo la sensazione precisa della durissima lotta che si veniva combattendo nel vecchio organismo corporativo. La fase decisiva del conflitto sui privilegi − dal quale praticamente dipendeva la vita dell’arte − fu raggiunta nel 1780 allorchè l’impulso impresso dal Remondini all’alterno gioco delle ristampe, facendo crollare sempre più in basso i prezzi di vendita ed il livello di produzione, provocò uno squilibrio gravissimo nella bilancia commerciale dell’arte, che male poteva reggere alla concorrenza straniera. Si avverta poi che al progressivo peggioramento tecnico ed estetico delle edizioni non faceva riscontro quella benefica diffusione del libro popolare che si potrà dire raggiunta o, quanto meno, vigorosamente iniziata solo un cinquantennio più tardi dalle “serie portatili” e dalle “biblioteche universali” del Bettoni a Brescia, dell’Antonelli a Venezia e − più tardi − del Pomba a Torino. Qui non s’imprimono a grandi tirature ed a prezzi minimi, onde renderli accessibili a chiunque, solo i libri d’interesse generale ed i testi dei classici e dei grandi autori contemporanei, ma si fa precipitare ad un livello bassissimo la stampa di qualunque opera (anche se dedicata ad un pubblico specializzato) cospargendone il testo di errori, tagliandone larghi brani, ricorrendo a traduzioni spesso incomprensibili22. Fu in questa situazione che, al termine di furiosi conflitti − di 21 Della terminazione 19 febbraio 1781 si dirà più oltre. Di questo fluttuare e confondersi dei gruppi, scrive lucidamente il Gozzi: “Tre qualità di librai si trovano: ricchi, mezzani, poveri. I litigi per lo più insorgono fra ricchi; se nascon fra gli altri, presto si spengono. Quando sono tra’ primi, fanno sètte co’ poveri i quali, per le larghe promesse, aderiscono all’una o all’altra parte. Terminata la contenzione, i poveri restano sempre abbandonati”. Ivi, p. 447. Giambattista Novelli riferiva ai Riformatori -in una sua acuta scrittura priva di data, ma da ascriversi al decennio 1760-1770, e probabilmente al 1764 (Donà, filza 341)- di aver rilevato durante un suo soggiorno a Parigi la grande specializzazione della produzione dei librai francesi, che impediva loro di sottrarsi a vicenda le edizioni, e di venire quindi a quei furiosi contrasti che costituivano la debolezza dell’arte veneziana. 22 Interessanti elementi di giudizio si possono trarre dal Catalogus amplissimus librorum omnium qui a prelis typographorum venetorum exierunt. Anno 1774. B. M., cod. it., classe VII, 2099-8298: indicazione alfabetica delle opere coi loro prezzi. Interessante il raffronto tra il prezzo d’una prima edizione, e quello della ristampa fatta dal Remondini; per citare solo un esempio i Versi sciolti di tre eccellentissimi autori..., ossia cui la nostra documentazione serba appena una traccia confusa − i Riformatori adottarono un provvedimento di eccezionale gravità. Preceduta da una relazione del Gozzi che, uomo di cultura e di gusto − al di là di qualunque considerazione economica − mal poteva tollerare lo scadimento tipografico e culturale delle edizioni venete, veniva varata la terminazione 30 luglio 1780 che consacrava il trionfo del più stretto protezionismo corporativo. L’articolo VI del nuovo provvedimento sanciva infatti “l’unità del privilegio”, e cioè riservava il diritto di rinnovo soltanto al primo editore privilegiato23: erano così radicalmente appagate le richieste di quanti vedevano nella speculazione sulle ristampe la radice di tutti i mali che l’arte aveva incontrato negli ultimi decenni. L’estrema drasticità della legge non colpiva però più il Remondini soltanto, ma tutte quelle più solide case librarie che tendevano ad accentrare su di sè il monopolio delle stampe, togliendolo ai piccoli e piccolissimi confratelli. E qui, alleati al libraio bassanese, troviamo alcuni degli uomini che più aspramente gli avevano sino ad allora conteso il passo, e che ora assieme a lui ricorrono ai Riformatori, tentano di scagionarlo dalle accuse e chiedono il ritorno alla precedente legislazione. Ma nemmeno questa volta è lecito raggruppare i grandi ed i piccoli nei due opposti partiti, ché l’aver ottenuto alla vigilia della terminazione un forte gruppo di privilegi particolarmente vantaggiosi, può aver indotto taluno dei minori librai ad appoggiare il nuovo provvedimento, come l’essere rimasti esclusi da quel beneficio può avere suggerito ai grandi un opposto atteggiamento. Fatto si è che dodici “famiglie” si rivolgevano ai Riformatori con un lungo ed assai abile memoriale, dove il priore dell’arte ed i suoi “consorti” venivano smentiti, e la colpa del declino della stamperia veneziana veniva distolta dalle assai larghe spalle del Remondini, ed addossata alla concorrenza straniera. Appassionata è la difesa della grande iniziativa bassanese contro l’incerto e meschino commercio dei piccoli librai che non sanno uscire dal ringhioso recinto delle loro privative, e che vorrebbero affondare l’arte in un pantano di beghe e d’intrighi. “Se l’assidua e onorata applicazione d’un suddito per estendere in tutti i Frugoni, Algarotti e Bettinelli, sono segnati lire 12 nell’elenco del Pasquali, e lire due in quello del Remondini. 23 La terminazione è edita in H. F. BROWN, op. cit., pp. 302-306; la relazione cit. del Gozzi ai Riformatori, 14 maggio 1780, e la relazione dei Riformatori al Senato, sono inserte alla terminazione 30 luglio in A. S. V., Rif., filza 43. modi possibili questo ramo d’esterno commercio, se il lungo impiego delle sue sostanze, invece di un ozioso consumo, tutte rivolte all’ingrandimento di questo traffico; se lo spingere senza esempio, e col proprio effettivo contante un’intiera popolazione in tutte le parti della terra a diffonder le venete stampe; se il dare il movimento agli edifizi e alle fabbriche di carta, e d’altri generi inservienti a questo negozio, ritraendo la materia prima dall’estero; se il dar la sussistenza a un migliaio di sudditi del Principato, e propagare lo spirito d’attività e d’industria in tutta una suddita città con avvantaggio delle pubbliche regalie; se questo, Principe adorato, se questo è danno di nazione, se questo può esser delitto per un suddito, sono ben meritate le invettive, che con tanta veemenza furono scagliate contro questa suddita onorata famiglia”24. In effetti, per quanto nessuna delle ditte librarie veneziane avesse assunto una struttura capitalistica, tuttavia in quei decenni di lotte, il chiuso carattere della bottega artigiana si era molto attenuato nelle più vitali di esse, ed un rinnovamento di tutta la loro attività, sia tipografica, che commerciale, si veniva rendendo possibile. Il provvedimento del 1780, che la sua stessa natura rendeva provvisorio, veniva praticamente abrogato nove anni più tardi, con la terminazione 1° maggio 1789, per cui tutti i libri usciti di privilegio tornavano di pubblica proprietà25. Il libraio bassanese non costituiva però certo l’unica forza che sospingesse l’arte verso una nuova strada, dove la piccola bottega artigiana avrebbe trovato la sua fine, e tutto un nuovo rapporto di lavoro si sarebbe venuto stabilendo. Infatti, come si è prima accennato, a questo contrasto interno e locale, si erano intrecciate nuove difficoltà 24 B. Q., cod. 607, f. 64 v. Altra copia di questa istanza, 28 marzo 1781 (che è sottoscritta dalle ditte Pezzana, da Remondini, Zatta, Pasquali ecc.) inserta in A. S. V., Rif., filza 44, l° aprile 1781. In una lunga supplica (ivi, inserta al 18 settembre 1781, ff. 98-101) il gruppo favorevole all’unità dei privilegi, capeggiato dal priore Manfré ribadiva nei consueti termini polemici che “dacché Remondini attendendo al varco e spesse volte prevenendo il termine del privilegio prescritto, si avventò sui libri altrui, egli si può dire fatto despota della stampa, sicuro per la costituzione sua in Bassan, e per le, altre direzioni, di vincere li veneti stampatori nella concorrenza. Da questo e non da altro principiò, la decadenza de’ torchi veneti”. La Stampa Pezzana e consorti, che riproduce vari documenti per questa controversia, ivi; cfr. pure Donà, filza 343, inserta 3: anche in questo manoscritto esistono copie e documenti originali sull’argomento. 25 G. CASTELLANI, I privilegii di stampa e la proprietà letteraria in Venezia..., in “Archivio veneto”, XXXVI (1888) p. 138. La legge 1° maggio 1789 è edita in H. F. BROWN, op. cit., pp. 320-324, e cfr. ivi, p. 194. Un’energica difesa dell’“unità dei privilegi” era stata sostenuta dal Prata nella relazione 15 luglio 1784, con grande ampiezza di argomentazioni, A. S. V., Rif., filza 47, ff. 43-47. che, prodotte dal mutato orientamento della cultura europea, ponevano l’arte di fronte a difficili problemi. Il nucleo centrale dell’attività editoria veneziana si era dunque sempre basato sulle ristampe delle opere pubblicate all’estero, poichè la troppo esigua produzione degli autori sudditi non avrebbe da un lato offerto sufficiente lavoro all’attività dei torchi, e la pubblicazione degli inediti, costituiva, d’altro canto, una forte spesa e un grosso rischio (a meno, si intende, che non fosse compiuta per commissione o col concorso finanziario dell’autore). “I librai di Venezia, i quali hanno poco polso di danari, aborriscono d’impiegarne mai in originali manoscritti nuovi. Gli spaventa l’incertezza dell’esito”26. L’arte si era perciò particolarmente specializzata nella ristampa di opere teologiche latine la cui vendita era assicurata in partenza dai monasteri, dai seminari e dai collegi religiosi, che erano sempre stati i suoi clienti più fedeli e sicuri. Questo genere d’attività offriva poi, tra gli altri molti, un enorme vantaggio poiché per i volumi di argomento teologico e religioso si manteneva intatto il testo latino, mentre la ristampa di tutte le altre opere edite al di là delle Alpi, e di cui si fosse dimostrata sicura la vendita, imponeva sempre le spese di traduzione. Si trattava dunque di riprodurre semplicemente le edizioni straniere così com’erano, senza alcuna fatica e con pochissimo rischio: lavoro pigro e tranquillo che manteneva in vita la piccola azienda e consentiva alle grandi di trarne il guadagno indispensabile per cimentarsi poi in imprese di maggior impegno. Ma, intorno al 1770, e poi sempre più col trascorrere degli anni, la situazione muta completamente: entro i confini dello Stato le soppressioni eliminano buona parte delle mani-morte, e le librerie dei conventi vengono incorporate dalle pubbliche biblioteche, mentre il numero dei clienti fissi cala bruscamente. Su tutta Europa si propaga la bufera giurisdizionalistica che scuote dalle sue basi la cultura ecclesiastica e ne fa scemare la penetrazione ed il significato: “la variabile fortuna ha fatto sì − scriveva già nel ‘67 il Gozzi − che l’opere de’ padri gesuiti, cioè quasi un terzo delle teologiche ed ascetiche, componenti la massa più esitabile nel veneto commercio, sieno da’ due regni di Portogallo e Spagna affatto escluse: anzi dal primo sbanditi fino i libri scolastici, che portino in fronte il nome d’autore della detta Compagnia”27. Quando poi la Società di Gesù fu radicalmente soppressa, e si spense così anche l’annosa polemica 26 27 Relazione Gozzi 4 agosto 1766, Donà, filza 341. G. Gozzi, Scritti, ecc., cit., vol. II, p. 400 tra giansenisti e gesuiti, i torchi veneti conobbero una fase di pesante inoperosità: non giungevano più commissioni e le giacenze rimanevano invendute, mentre tutta la produzione letteraria si modellava sull’impronta francese. Così, per vari anni, i libri religiosi costituirono un deposito di magazzino che non si riuscì più a smaltire, e finirono venduti a peso. “Gli studi, cambiando moda come i vestiti, vanno uno con l’altro distruggendosi con una serie continua di variazioni”, scriveva malinconicamente il Prata28. Ma, per adeguarsi alle nuove condizioni del mercato, e conservare l’antica primazia, l’editoria veneziana doveva ad un tratto mutare natura e trasformarsi rapidamente: impresa ardua e costosa, che fu possibile attuare solo in parte. Si nota, anzitutto, la tendenza alla produzione specializzata da parte di alcune stamperie che in un campo determinato si tengono perfettamente al corrente, mentre si astengono spesso dall’intervenire in altre materie, o vi compaiono appena, con saltuarie ristampe o con piccoli volumetti di scarso impegno: tener d’occhio il mercato internazionale, e quindi tutto il mercato europeo, non si poteva se non limitando il proprio campo d’azione. Gli studi d’agraria, ad esempio, che tanto posto occupano nel mondo culturale veneto del ‘700, si trovano principalmente rappresentati dal Milocco e dal Perlini, che traducono i manuali stranieri e stampano le opere venete con assoluta serietà ed in buone edizioni: se si eccettua il Fenzo, ed in qualche caso lo Zatta, il meglio ed il più degli studi d’agricoltura passa per le loro mani. Altri prediligono le grandi storie erudite, e quelle delle città e degli ordini monastici (Pasquali, Curti), o rimangono ancora fedeli alla letteratura teologico-ecclesiastica (Pezzana), od alle opere di medicina (Savioni), di legge (Lovisa), ecc. I più arditi, con l’infaticabile Zatta alla testa, tengono lo sguardo rivolto al nuovo pensiero europeo: i teorici delle riforme ed i giurisdizionalisti prima, una schiera d’illuministi francesi poi, compaiono in edizione veneta pochi mesi dopo la loro prima comparsa nelle librerie straniere. La indulgenza della censura veneta è da ritenersi come una vera porta aperta all’influsso ed alla circolazione di questi testi, cui molti governi − anche più avanzati di quello aristocratico per molti aspetti della loro politica − non concedevano certo diritto di cittadinanza nei loro stati. E sono appunto queste “opere di maggior polso” che 28 Relazione Prata 15 luglio 1784 cit., con notizie della ripercussione sull’arte della offensiva giurisdizionalistica. costituiscono il nerbo della stamperia veneziana verso la fine del secolo, e più ne sostengono il livello e l’espansione commerciale. In questi anni, poi, una massa vastissima di stampati si orienta verso la tipica letteratura settecentesca d’occasione: epistole, satire, libelli, dissertazioni in prosa ed in versi e − di continuo − opuscoli per celebrare nozze, nomine e matrimoni. È un immenso mare di stampati che ancor oggi attrae la nostra attenzione per la grazia tipografica e per l’abbondanza delle incisioni. Ormai, come diceva il Gozzi, del Cannocchiale aristotelico e della Filosofia morale del Tesauro non ne voleva sapere più nessuno29; occorrevano opere di quel tono didascalico-moraleggiante ch’era tanto caro al gusto del secolo. I libri di viaggi destavano un’immensa curiosità, come la destavano le storie della Grecia antica e quelle degli usi e dei costumi dei popoli selvaggi od ormai estinti, perchè vi prendeva espressione polemica l’amore per il primitivo e la critica alla rigidità della morale “civilizzata”. Negli ultimi otto anni della Repubblica assistiamo poi ad una vera invasione di prospetti, cronache, relazioni sugli eventi rivoluzionari e sulla guerra che dilaga per tutta l’Europa; ma le preoccupazioni poliziesche del governo renderanno precaria ed incerta la vita a questo genere d’attività editoriale. Se la crisi di trasformazione interna, che tende ad accentrare il volume degli affari nelle aziende più importanti, si congiunge ed intreccia con l’evolversi della richiesta internazionale, e sotto la pressione di questi due fattori tutta l’arte si rivela in via di assestamento e di sviluppo, il rinvigorirsi però della concorrenza straniera imprime a questo processo evolutivo un ritmo ancor più rapido ed imperioso. Date dunque la mediocre fortuna che il libro italiano incontra al di là delle Alpi nel XVIII secolo, e la ridotta richiesta delle opere teologiche e religiose dopo la scomparsa dei Gesuiti, verso la fine del secolo l’editoria veneta ha ormai ristretto entro la penisola i suoi maggiori e più sicuri clienti. Proprio in questo periodo, però, una formidabile concorrenza viene a tagliarle anche questa via di sbocco: Napoli, Parma, Roma, Firenze, Torino seguono ora il sistema che ha tanto giovato a Venezia. Non solo le opere d’Oltralpe sono ristampate direttamente nelle varie città, ma lo stesso libro veneziano, pochi giorni dopo ch’è comparso nelle vetrine dello Zatta, del Pasquali o del Remondini, esce in edizione toscana o romana, così che l’originale veneto viene fermato alle dogane dei vari stati e − in virtù del privilegio degli stampatori locali − 29 G. Gozzi, Tre relazioni inedite..., Venezia, 1867, p. 17. respinto al mittente o confiscato. Inoltre, per quanto i garzoni, i torcoleri e compositori, e tutti i lavoranti dell’arte veneziana, conducano una vita ben grama30, pubblicare un libro nella Dominante costa sempre parecchio, anche se la grande attrezzatura consente di economizzare su varie spese. Così, città dove la mano d’opera sia retribuita con mercedi bassissime, possono sostenere la più temibile concorrenza, come fa Napoli “che per l’abbondante sua popolazione, contenta di lavorare a piccioli prezzi, grandemente s’accosta al buon mercato delle stampe nostre; e quel che è peggio, maligna sempre l’opere migliori di Venezia, le ristampa e s’alleggerisce in molte anche dal peso della traduzione, che trova pagato dalla città nostra nelle prime edizioni”31. Il primato veneziano correva così in tutti i suoi settori dei pericoli mortali: edizioni di tipo corrente ed economico, come quelle del Remondini o del Graziosi, uscivano in gran numero dai torchi napoletani, mentre volumi di pregio e di gusto sicuro, uso Zatta e Pasquali, non avevano certo nulla da guadagnare in confronto con le superbe bodoniane. Ma l’organizzazione veneziana non era tale da resistere sfociando solo su di un piccolo mercato interno, che era subito saturo: se voleva sopravvivere, doveva mantenersi padrona delle grandi piazze italiane del Centro e del Meridione. Non restava dunque altro sistema che snellire la propria organizzazione, e con velocità veramente fulminea, i più forti tra gli editori veneziani s’impadroniscono delle opere francesi, inglesi e tedesche appena uscite, le traducono, le ristampano, e di carriera le immettono nell’esportazione. E poichè non si poteva più tenere in mano il commercio librario italiano con l’edizione monumentale di Alfonso de’ Liguori e col vocabolario latino del Pasini, occorreva il “nuovo” ed il “curioso”: quei libri appunto del riformismo e dell’illuminismo europeo che tanto lavoro fornivano ai torchi della Dominante. Così si assiste ad una modernizzazione della stampa veneziana ch’è assai più rapida e più radicale di quella avvenuta nella cultura e nello spirito pubblico del paese, poichè in questa seconda metà del XVIII° secolo, l’eco delle grandi conquiste 30 M. BERENGO, op. cit., p. 53. Numerose le testimonianze sul tremendo sfruttamento dei lavoranti -anche ed abusivamente reclutati al di fuori del regime corporativo- da parte dei padroni delle stamperie e delle botteghe; cfr. ad es. la perizia di quattordici periti (“professori”) per stabilire le mercedi: “la tirania e la total distruzione fatta al povero operaro ha suplito a tutto sino ad ora”. A. S. V., Artì, vol. 164, scrittura non datata (ma giugnoagosto 1767). Gli operai sono costretti a lavorare sino a 15 ore al giorno “fiaccandosi le forze dal lungo lavoro”: ivi, 6 giugno 1766. Inoltre, A. S. V., Rif., filza 60, relazione Prata 2 settembre 1793, inserta in 4 settembre. 31 G. GOZZI, Scritti, ecc., cit., vol. II, p. 399. europee non penetra in profondità nel mondo veneto, ancora assorto nel più fermo tradizionalismo. Ma, per resistere in una gara di rapidità e di diffusione editoriale, occorrevano ditte forti ed attrezzate: le piccole stamperie dovevano perciò ricorrere ad altri sistemi per reggersi in vita. Una mediocre soluzione era offerta dai libri “comuni”: certi volumetti di nessun pregio, come almanacchi, abbecedari, catechismi, guide per i forestieri, erano esclusi dal privilegio e, ad un prezzo minimo, potevano essere stampati da chiunque. Era una produzione però che − secondo il termine commerciale contemporaneo − non costituiva “un fondo di magazzino”: o si riusciva a esitarla subito, o finiva al macero. Ma, per i piccoli e i medi stampatori, c’era un altro tipo di lavoro, da cui si ricavava un guadagno molto modesto, ma sicuro. Si trattava di stampare “a partito”, ossia per commissione, consegnando poi tutta l’edizione ai librai capitalisti che l’avevano ordinata: l’uno metteva il lavoro, gli altri s’incaricavano della vendita ed avevano un margine di lucro assai maggiore32. Si attuava così quella separazione tra editore e tipografo che sarà destinata a divenire pressoché assoluta nel corso del secolo successivo, e di cui già ora troviamo proposto il riconoscimento in forma statutaria33. Ma, in questa fase iniziale il “partitante” è giugulato dal commissionario, perché gli viene pagato solo un terzo del prezzo di copertina del libro, ed egli vi deve far rientrare tutte le spese di carta e di stampa, sicché, scrive il Prata, “il guadagno sarebbe meschinissimo, per non dire la perdita certa”34. Dunque, per por riparo agli svantaggi che erano loro imposti, i piccoli librai trovarono la via di una contraffazione tanto ingegnosa, quanto deleteria per l’arte. Accettarono commissioni di “partiti” dall’estero, e principalmente da Napoli, dietro compensi più elevati: così il libro si stampava a Venezia, il frontespizio a Napoli, il “partitante” ne traeva un piccolo ma bastevole guadagno, e l’edizione veneta era esclusa per sempre dal regno borbonico in virtù del privilegio di cui godeva il libraio partenopeo35! Era un espediente che salvava il piccolo artigiano fornito di mezzo o di un torchio, mentre recava un danno gravissimo alla grande ditta libraria, dotata di un largo giro d’affari. 32 Rel. Riformatori 30 luglio 1784 cit., A. S. V., Rif., filza 44. Donà, filza 342, filza 10, inserta 2, doc. 7, memoria non datata in 2 ff. 34 A. S. V., Rif., filza 51, rel. Prata, 10 aprile 1787 ins. in 31 maggio. 35 Rel. Gozzi 14 maggio 1780 cit. 33 Ed anche qui la rigida tutela del protezionismo corporativo si manifestava inattuabile, e divenuta chiaro strumento dei più grandi mercanti: solo torcendo e piegando in ogni modo il senso dei capitoli statutari, solo appigliandosi ai piccoli e sempre meno remunerativi espedienti che erano concessi loro dai vecchi privilegi, i piccoli librai si reggevano ancora. Se modesto era sempre stato il loro peso nell’arte − ove costituivano un fluido ed incerto corpo elettorale, capace dei più inattesi spostamenti, ma mai in grado di esercitare una durevole influenza − con la terminazione dei Riformatori 19 febbraio 1780 more veneto, la maggior parte di essi (e specie quei confratelli che a tutti gli effetti erano subordinati ai grandi) perdeva, assieme ad diritto di voto, anche l’eleggibilità alle cariche36: sanzione formale e giuridica di un’effettiva esclusione dall’esercizio dei poteri corporativi, che negli ultimi tre decenni si era ormai resa limpida e manifesta. Quando, attraverso le mille istanze, le proteste, le carte innumerevoli che di loro di sono rimaste, cerchiamo di ravvisare il volto ed il carattere di questi librai veneziani, non ci si profila dinnanzi la figura dell’editore di ampia ed aperta cultura, quale la tradizione umanistica aveva saputo creare: mentre mai, o troppo di raro, si avverte la consapevolezza di partecipare coi propri torchi e con la propria opera ad una battaglia per l’affermarsi di questo o di quell’indirizzo, di questa o di quella tendenza culturale, tenue si rivela ancora l’affievolirsi della mentalità corporativa, del viver chiusi nell’alta e complicatissima torre dei privilegi e delle privative. Depressa dai suoi violenti conflitti interni, minacciata dalla concorrenza straniera, e da un evolversi del clima culturale europeo alle cui conseguenze solo in parte essa poteva ovviare, l’arte conobbe veramente sullo scorcio del XVIII° secolo un periodo di crisi 36 Il decreto del Senato e la terminazione dei Riformatori in H. F. BROWN, op. cit., pp. 311-314. Divisi i membri dell’arte in due categorie, “l’una di capitalisti, e l’altra d’individui affatto sprovisti di beni d’industria”, il cap. VI della terminazione stabiliva “che li matricolati d’essa seconda categoria saranno esclusi dal capitolo, dalla voce attiva e passiva, e dalle cariche ed uffizi d’ogni sorte, sino a tanto che siano in grado di poter pretendere d’essere ammessi alla prima categoria, avendo eretta o una stamperia corrispondente al capitale di ducati 500 almeno, o una aperta bottega in piedi col loro proprio nome, o negozio in casa che contenghi almeno il capitale di ducati 2000”. Una petizione degli esclusi che suscitò una risposta dei grandi venne respinta: A. S. V. Rif. filza 44, 1° maggio 1781 (i decreti del Senato su tale questione in H. F. BROWN, op. cit., pp. 314-315). L’esclusione dei piccoli dal governo dell’ arte era stata sempre auspicata e predisposta in ogni modo dai grandi. Significativa ad es. A. S. V., Arti, vol. 167, supplica non datata (1760) a firma eredi Baglioni, Niccolò Pezzana, Giovanni Manfré, e altri. profonda. Ma, nel non aver ceduto alla violenza di essa, nell’aver saputo spesso reagire ed imboccare vie in gran parte nuove, la vecchia tradizione artigianale rivelava anche la sua secolare saldezza, e l’esistenza di una vitalità e di un senso dell’iniziativa che molte, o quasi tutte le altre corporazioni, veneziane avevano ormai perduto.