IL BARONETTO VAGABONDO (None Other Gods) di Robert Hugh Benson *** Indice NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA Dedica dell’Autore PARTE PRIMA Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI PARTE SECONDA Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI PARTE TERZA Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII Riferimenti 1/233 NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA Robert Hugh Benson, il figlio del Primate anglicano di Canterbury, convertito e sacerdote cattolico, Predicatore e romanziere, morto a 43 anni nel 1914, è già noto in Italia. Parecchie sono ormai le traduzioni delle sue opere: dal primo romanzo apocalittico, “Il Dominatore del Mondo”, che Vallecchi puntualmente (e significativamente) ha pubblicato nei due dopoguerra, a l'ultimo “Tamigi insanguinato” testè uscito pei tipi della S.A.S.; e, frammezzo, l'altro romanzo storico, “Con quale autorità?”, e, tra le opere di carattere religioso, “I paradossi del Cattolicismo”, “Cristo nella Chiesa”, “L'amicizia di Cristo”. Tutti i suoi libri (scritti nei dodici anni della sua professione cattolica, salvo due o tre che appartengono all’ultimo periodo in cui l'aspirazione profonda dell'anima lottava ancora per il distacco dalla chiesa del padre), riflettono limpidamente il travaglio e le elevazioni dell’anima sua, creati come furono, quasi senza lavoro di lima, nell'ardore di un apostolato breve ma intensissimo. Prezioso, per conoscere le tappe del suo cammino, è il breve volume “Confessions of a Convert”, che supera un romanzo ed è più efficace di un trattato di apologetica: lo vedremmo volentieri pubblicato in italiano. Ma in esso è l'inevitabile ritegno di chi parla di sé a sorvolare sugli aspetti più intimi e delicati. Questi possono invece essere espressi in maniera più spontanea quando sono attribuiti a creature di fantasia, che si muovono in tempi magari distanziati di secoli, ma spiritualmente identici. Così nei romanzi storici - tutti del periodo in cui s'è consumato il divorzio tra l'Isola dei Santi e la Cattedra di Roma - riviviamo il tormentoso problema che assilla il Benson, e con lui tanti sinceri anglicani: quello della rottura dell'unità della Chiesa universale, che essi si sforzano invano, coi più sottili accorgimenti dialettici, di ritenere tuttora operante. Significativo tra essi il già citato “Con quale autorità?”, per l'angoscia stessa del titolo, e perché il Nostro cominciò a scriverlo durante l'ultima e più penosa crisi della sua rinascita; ed esso, dall'indagine sempre più approfondita delle ragioni e delle circostanze delle scisma anglicano, si conclude, per il protagonista come per l'autore, nell'accettazione piena seppur dolorante della disciplina di Roma. Così nei romanzi escatologici. Nel “Dominatore del Mondo”, “grido profondo di un'anima che ha paura”, il Benson sviluppa i sintomi apparenti della società moderna, fino al trionfo dell'Anticristo e all’oppressione della cristianità superstite; e conclude con la tempesta di fuoco che annulla la gloria di questo mondo, mentre la gloria dell'eterno si annuncia con l'eco del Pange Lingua. Quasi a controbilanciare l'impressione del primo, il Benson scrive poi un 2/233 altro romanzo profetico, “The dawn of all”, nel quale invece la Chiesa conquista il mondo. Uguale per l'artificio logico, è un sogno mirabile, che ha pagine di vivissima efficacia, ma, meno consono allo spirito dell''autore, paradossale. Specialmente nel terzo gruppo di romanzi, quelli che sono stati definiti mistici, affiora immediata la personalità del Benson. Sono parabole con le quali egli intende raggiungere un'efficacia più vasta e più duratura che con le prediche ammirate, per esprimere delle verità dimenticate e confuse. I suoi personaggi sono spesso giovani che accettano il Cristianesimo soltanto come una espressione di “buon gusto” che non conviene esagerare, e al quale danno poco posto nella propria vita; giovani che con aspirazioni graduali e tormentate conquistano la Fede. Le vicende sono spesso drammi segreti, che per una via dolorosa conducono dal tesoro parzialmente posseduto nella Chiesa anglicana a quello pienamente elargito dalla Chiesa cattolica. Sono le delusioni, le aridità, le consolazioni, le elevazioni; l'ammirazione dubbiosa e lo sprezzo aperto; la carità dei fratelli abbandonati e l'incomprensione dei nuovi fratelli. Nei suoi romanzi insomma il Benson riflette e illustra sotto punti di vista sempre nuovi gli episodi e le fasi che nelle “Confessions of a Convert” accenna soltanto o addirittura tace. Fra tutti, l'opera forse prediletta dal Nostro, forse la migliore, è questo “None other gods” (è il primo dei Comandamenti: Non avrai altro Dio fuori che Me). Avventura straordinaria, collana di episodi, “variati come la vita, sconcertanti come il caso”. Non per semplice coincidenza è la storia di uno studente di Cambridge. A Cambridge il Benson visse a lungo, come studente e come cappellano, confidente e consigliere di studenti, e gli studenti presceglie spesso a personaggi dei suoi romanzi. Qui egli parla di quel che conosce, del Trinity Collegie del cortile su cui porgeva la sua camera, simile a quella di Frank Guiseley; delle campagne e delle strade e dei borghi che aveva percorso nelle sue predicazioni anglicane e cattoliche, che ritrovava attorno al suo rifugio di Hare Street House; del monastero e delle funzioni sacre che lo avevano, commosso a Caldey Abbey (1): del sobborgo di Hackney Wick, ove nel gennaio 1895 egli aveva iniziato il suo apostolato di diacono anglicano. E non ci è discaro immaginare che in Frank Guiseley, assieme a qualche tocco autobiografico, egli rifletta reminiscenze di giovani che ha conosciuti e consigliati, tanto sa rendercene simpatica la figura. Ma qualche lettore può trovarsi forse più sconcertato dalla stravaganza della vicenda, che incantato e persuaso dell'intima verità delle singole situazioni, che attratto dal significato nascosto. È stato detto che i romanzi del Benson sono l'apoteosi del sacrificio, celebrano la Comunione dei Santi. Nella storia di Frank Guiseley è 3/233 evidente il primo carattere; più difficile è vedervi un'espressione dell'insondabile dogma, quando il sacrificio appare così assolutamente sprecato, il fallimento così completo. Egli muore per redimere la insignificante Gertie, la cui perseveranza appare già dubbia nelle pagine stesse del libro. Attorno al letto di morte sono Jack Kirkby e Dick Guiseley, ed ambedue paiono privi di ansie religiose e troppo legati ai beni della terra, ma qualcosa d'impercettibile ha messo anche in loro un fermento d'inquietudine. L'ultima parola di Frank è per il dottor Whitty, per il vecchio scienziato chiuso in un materialismo assoluto, che pare non possa essere scalfito da alcuna idea di soprannaturale. Forse la stessa purezza del suo quasi infantile dogmatismo non le renderà più fragile all'urto della misteriosa potenza della Grazia? E di fianco al letto v'è anche il pastore anglicano di HackneyWick: che sente attorno all'agonizzante una presenza misteriosa, una pace immensa, inesplicabile, e ne rimane turbato. Non seguirà costui, che nella missione e nel luogo stesso del suo ministero ripete le esperienze del giovane Robert Hugh Benson, anche il suo ulteriore cammino fino alla Città sulla Montagna? E il piccolo Jimmie? g. d. n. (1) L'abbazia dell'isola di Caldey, abbandonata dall'epoca della Riforma, era stata ricostituita da una comunità di ritualisti anglicani. Ma i nuovi Benedettini, nella ricerca dello spirito antico, finirono col sottomettersi a Roma. 4/233 Dedica dell’Autore Mio caro Jack Kirkby, a chi potrei dedicare questo libro se non a voi, che foste non soltanto il miglior amico dell'uomo di cui ho scritto, ma anche quell'unico, senza il quale il libro non avrebbe potuto esser scritto affatto? A voi praticamente debbo tutti i materiali occorrenti per l'opera; a voi Frank lasciò la maggior parte del suo diario, così com'era (ed io spero di avere rettamente seguito le vostre istruzioni nell'uso che ne ho fatto); voi vi assumeste il compito di identificare i luoghi da lui attraversati; e, soprattutto, voi mi deste un'impressione così viva di Frank, da farmi sembrare che io debbo averlo in qualche modo conosciuto intimamente, quantunque non lo abbia incontrato mai. Mi pare di dover dire che è questo senso di intimità, questa, per dir così, straordinaria accessibilità interiore di Frank, che fece di lui (come voi ed io ambedue riteniamo) press'a poco la persona più degna di essere amata fra quante ne abbiamo conosciute. In lui si svolsero naturalmente delle "fasi" veramente straordinarie (e mi pare che non si possano definir meglio, anche con tutta la nostra psicologia moderna, che coi vecchi nomi mistici: Purgazione, Illuminazione, Unione); ma, come i teologi stessi ci dicono, quella cosa misteriosa che i cattolici chiamano Grazia di Dio, non cancella, ma piuttosto corrobora e trasfigura le caratteristiche naturali di ogni uomo sul quale agisce con la sua potenza. In Frank, a me pare, era lo stesso elemento, - lo stesso principio fondamentale, almeno - che gli fece compiere cose così assurde come l'affare del pane e burro o del treno, che gli fece abbandonare Cambridge sfidando ogni criterio di senso comune e di normale ragionevolezza; che lo tenne legato in quel deplorevole viaggio coi due vagabondi, e che infine lo condusse alla morte. Voglio dire che fu una stessa sorta di irragionevole osare e volere fino in fondo, quantunque si sia manifestato in azioni svariatissime e fosse ispirato da motivi del tutto diversi. Comunque, non val la pena di discutere Frank in pubblico in tal modo. Coloro che leggeranno la storia della sua vita - o meglio, dei sei mesi di essa che sono narrati in questo libro - dovranno formarsene da sé una propria opinione. Molti probabilmente lo diranno una specie di pazzo. Altri lo riterranno soltanto ostinato e fastidioso. Quanto a me, amo l'ostinazione di questo genere, e non lo trovo fastidioso. Ognuno deve formarsi la propria idea; io ho il diritto di formarmi la mia, e son contento di sapere che essa coincide con la vostra. Dopo tutto, voi lo conosceste meglio di chiunque altro. Andai a vedere Gertie, come mi avevate suggerito, ma non ne potei ottenere nulla di utile. Direi che essa è la persona più tipica dei sobborghi che io abbia mai conosciuta. Ella non seppe dirmi assolutamente nulla di nuovo su Frank: poté soltanto corroborare 5/233 quel che mi avevate dette voi, e quel che contenevano il diario e le altre carte. Non rimasi molto con lei. Ed ora, caro amico, debbo chiedervi di accettare questo libro, e di prenderne quanto meglio potrete. Molte cose, si capisce, ebbi da indovinarle, anche più ebbi da ricamare; ma non v'ho messo nulla più che ricamo. Non ho toccato il canovaccio che mi poneste in mano, e chiunque voglia sfilare i fili che vi ho inserito potrà farlo, senza temere che tutto vada in pezzi. Debbo ringraziarvi per molte ore dense di piacere ed anche di emozione. L'offerta che vi faccio è l'unica cosa che posso darvi in ricambio. Mi dico sinceramente sempre vostro Robert Hugh Benson P.S. - Abbiamo tappezzato una nuova stanza da quando non siete più stato ad Hare Street House. Venite presto a vederla e a dormirvi. Sentiamo un gran bisogno. di voi. Ed io debbo parlarvi molto di Frank. P.P.S. - Sento che Lady Talgarth è tornata a vivere con suo padre. Provò a stare alla Dover House nel Westmoreland, ma pare che l'abbia trovata troppo solitaria. Sarà vero? Sarà una situazione piuttosto difficile per Dick, non vi pare? 6/233 PARTE PRIMA Capitolo I - Dico che ti comporti come un perfetto idiota - esclamò Jack Kirkby indignato. Frank ridacchiò compiaciuto, e mise anche il piede destro accanto al sinistro, sul largo davanzale. I due giovani sedevano in uno dei posti più belli in cui in tutto il mondo, ci si possa sedere in una sera d'estate. Era una stanza a pianterreno, che porgeva sulla Gran Corte del Trinity College di Cambridge, in quel breve spazio di tempo, tra le sei e le sette, in cui la Gran Corte è di norma deserta. Gli atleti e i perdigiorno non sono ancora tornati dai campi e dal fiume; i Fellows e le altre persone, che pensano che una sera di estate sia creata apposta per la lettura, non sono ancora emerse dai loro rifugi. Uno o due cuochi con grembiali bianchi attraversano gli spazi acciottolati coi vassoi sulla testa; un garzone esce dalla porta d'angolo; uno o due gatti si stirano sull'erba. Ma, quanto al resto, la corte giace nell'ampia luce del sole; l'ombra s'allunga verso oriente, e il gocciolar della fontana nella pozzanghera sopraffà il garbato mormorio di Trinity Street. All'interno, la stanza era press'a poco come tutte le altre del pianterreno; soltanto, le pareti erano rivestite di abete tinto di bianco; di tre porte, due davano rispettivamente in una piccola camera da letto, e in una sala da pranzo più piccola ancora; la terza in un corridoio che conduceva alla sala di lettura. Frank la trovava convenientissima; perché gli dava la possibilità, ad ogni ora del mattino, quando si interrompevano le lezioni, di avere la miglior scusa possibile per chiacchierare dalla finestra con gli amici. La stanza era ammobiliata molto bene. Sopra l'attaccapanni, presso cui stava un servizio da fumatori e una grossa scatola d'argento per le sigarette, pendeva, in una goffa cornice dorata, un ritratto che, si sarebbe detto di un antenato, un uomo anziano con un collare a cannoncini, acquistato per una ghinea; v'era un sofà e una serie di seggiole rivestite di bel damasco, un pianoforte Broadwood nero, un gran tavolo ovale, uno scrittoio, scaffali pieni di libri di svariatissimi generi: libri di legge, romanzi, edizioni Bahminton, riviste, e antiche edizioni scolastiche dei classici; una libreria di mogano con sportelli a vetri piena di volumi di apparenza estetica: libri di poesia rilegati in verde con etichetta bianca, vecchi tomi in pelle, e tutto l'assortimento adatto a una persona che voglia darsi l'aria di letterato. Attorno alle pareti poi vi erano incisioni bene incorniciate; dal soffitto pendeva una lampada di ferro battuta fornita di lampadine elettriche; vi era un paio di cassapanche di quercia scolpite; sul pavimento macchiato eran distesi tre o quattro tappeti 7/233 morbidi, e i davanzali erano rallegrati da gerani. Gli avanzi del tè stavano su una poltrona vicino alla porta. Anche Frank Guiseley era piacevole a guardarsi, sdraiato nella poltrona, in camicia di seta bianca sbottonata alla gola, coi calzoni di flanella grigia, e con una sola scarpa bianca. Aveva i capelli neri e ricciuti come quelli di un napoletano, una bocca sorridente e ironica, gli occhi neri scintillanti di una straordinaria vivacità. il volto rasato, già bruno di natura, reso più bruno ancora dalla salubre esposizione al sole - durante gli ultimi due mesi egli aveva giocato forte a “tennis” - sembrava quello di un ragazzo, salvo per la bocca di taglio deciso e per il naso corto e diritto. Era di statura un po’ inferiore alla media, ben tagliato e robusto, e quantunque a rigor di termini non si potesse dire bello, a guardarlo si provava un piacere inconsueto. Jack Kirkby, che sedeva in una poltrona a un passo di distanza, e che era vestito in modo uguale - a parte il fatto che aveva tutt'e due le scarpe ai piedi, e che portava la camicia da gioco del Trinity College era un tipo del tutto contrastante. Frank aveva nell'aspetto qualcosa del mezzogiorno dell'Europa; Jack era il tipo perfetta dell'inglese; guance rosee, capelli biondi, baffetti che rassomigliavano a seta filata. Eppoi, una statura di quasi sei piedi. In quel momento egli era proprio ansioso, e sembrava piuttosto contrariato. Ogni volta che la sigaretta glielo permetteva, tormentava con le dita i finissimi peli dei baffi, e fissava decisamente il pavimento a distanza di Frank. Da una settimana non aveva fatto che parlar dell'affare, fino dall'annuncio sensazionale; ed era giunto alla conclusione che, ancora una volta, nel suo assurdo programma, Frank intendeva davvero quel che diceva. Frank aveva un modo terribile di intendere quel che diceva. V'era stato l'affare del pane e burro, di tre anni fa, prima che ambedue avessero imparato come comportarsi. S'era trattato di fasciare in carta scura innumerevoli pezzi di pane imburrato, di mettervi l'indirizzo del Reverendo Decano Junior (il quale aveva rotto le scatole a Frank in diversi modi), e di lasciare i pacchetti quasi in ogni angolo di Cambridge, nelle vetture, sui sedili, sul banco dei negozi; sul selciato - col risultato che per due o tre giorni una processione di fattorini e di disoccupati salì la scala del Decano per restituire gli oggetti apparentemente smarriti. Poi v'era stata l'impresa di sventolare un fazzoletto rosso nel mezzo delle rotaie davanti al diretto del Nord, per accertare se davvero il treno si sarebbe fermato, seguita da una rapida fuga in bicicletta appena s'era visto che così era infatti. E quell'altra del Principe tedesco che viaggiava in incognito, nella quale era caduto perfino il Sindaco; e quella della monaca che fumava una pipetta nera in mezzo alla Gran Corte del collegio poco prima di mezzanotte, e che poi, alzando le sottane, era scomparsa senza rumore su scarpe di 8/233 gomma dietro al quartiere delle cucine nel bagliore di Neville's Court, mentre il portiere atterrito usciva dal suo casotto. Ora, molti cervelli avrebbero potuto concepire pazzie simili; un minor numero di persone avrebbe manifestato l'idea di realizzarle; ma pochissime avrebbero saputo portarle davvero a termine: anzi, Jack rifletteva, - di quanti conosceva Frank Guiseley era probabilmente il solo che ne sarebbe stato capace. Ed egli le aveva fatte sotto la sua sola responsabilità. Ricordava anche certi incidenti della stessa natura ad Eton. V'era stato il maestro che, quando per la quarta o quinta volta nella settimana Frank era giunto un po’ in ritardo alla lezione delle cinque, aveva inconsideratamente domandato, con profondo sarcasmo, se “a Guiseley non sarebbe piaciuto prendere il tè prima di proseguire lo studio”. Frank, con un sorriso radiante di gratitudine, e con straordinaria prontezza, aveva risposto che gli sarebbe piaciuto davvero, ed era scomparso dalla porta ancora socchiusa, prima che il maestro potesse pronunciare una sola parola, ritornando con una faccia d'infantile innocenza verso le sei meno venticinque minuti. - Please, Sir - aveva mormorato - mi pareva che m'aveste detto che potevo andare. - E avete preso il tè? - Ma certo, signore: da Webber. Jack era un po’ sconcertato, ora, a ricordare tutte queste imprese. In verità, le imprese in se stesse erano state ammirevolmente immaginate e fedelmente eseguite, ma a Jack pareva che dimostrassero che Frank compiva davvero quello che altra gente si limitava a dire - specialmente quando annunciava in anticipo che intendeva compierlo. Perciò gli faceva spavento il pensare che all'arrivo della famosa lettera di Lord Talgarth, il padre di Frank, fin da sei giorni prima - lettera nella quale ricorrevano tutte le frasi tradizionali, come “più nulla da fare”, “disgrazia di famiglia”, “tetto paterno”, eccetera, Frank aveva annunciato che si proponeva di prendere suo padre alla lettera, di vendere le sue cose, e di partire, come un principe della favola, a tentar la fortuna. Jack aveva discusso fino a non poterne più, e senza alcun risultato. Frank aveva una parata per ogni botta. Perché non attendere un po', finché il genitore avesse il tempo di raffreddar la sua ira? perché il genitore doveva imparare, presto o tardi, che le parole avevano un significato concreto, e che lui - Frank - non voleva metterlo in dubbio nemmeno per un istante. - Perché non andava a casa sua e non rimaneva a Barham finché non giungessero nuove notizie? Sarebbero stati tutti contenti d'averlo con loro. Distava soltanto dieci miglia da Merefield, e forse... - Perché Frank non intendeva vivere alle spalle degli amici; e nemmeno intendeva appiattarsi così vicino 9/233 a casa. - Allora, se era tanto ostinato, perché non andava alla City - o magari al tribunale? - Perché, primo, non aveva denaro; e, secondo, perché preferiva assai fare il vagabondo che sedere sopra uno sgabello. - E allora, perché non si arruolava, come un gentleman? Frank osò dire che avrebbe finito col farlo, ma che prima voleva fare un po’ a modo suo, e vedere il mondo. - Fammi vedere ancora la lettera - disse finalmente Jack. - Dov'è? Frank rifletté. - Mi pare che sia nella scatola delle sigarette, dietro la tua testa. No, non c'è. È nella borsa da tabacco, sul pavimento. So che era in qualche cosa da fumare. E, a proposito, dammi una sigaretta. Jack gli porse la scatola, aprì la borsa, prese la lettera, e la rilesse lentamente. “Merefield Court”, “presso Harrogate” “28 maggio, giovedì” “Io mi vergogno di voi, signore. Quando mi comunicaste per la prima volta la vostra intenzione, io vi avvertii di quel che sarebbe avvenuto se aveste persistito, e lo ripeto adesso. Poiché avete deliberatamente scelto, nonostante tutto quello che ho detto, di seguire la vostra strada e di farvi Papista, io non avrò più nulla da fare con voi. Da questo momento voi cessate d'essere mio figlio. Finché io vivrò, non verrete più alla mia porta né dormirete sotto il mio tetto. Io non dico nulla di quello che avete avuto da me nel passato - l'educazione e il resto. E, dal momento che non voglio essere severo con voi più del necessario, vi consento di tenere il resto del vostro assegno fino a luglio, e il mobilio delle vostre stanze. Ma, dopo questo, non avrete da me neppure più un soldo. Potete andare dai vostri preti e farvi mantenere da loro. “Soltanto ringrazio il Cielo che a vostra madre sia stato risparmiato questo colpo.” T. Terminata la lettura, Jack brontolò leggermente. Frank rise forte. - Un anatema in regola, non è vero? - osservò spassionatamente. - Se fosse stato il mio genitore;.. - cominciò lento Jack. - Mio caro, non è il tuo genitore, è il mio. Ed io mi stupirei se al mondo vi fosse un altro uomo che, oggi, sapesse scrivere una lettera simile. È... è troppo vittoriana - vittoriana dei primi tempi. Si potrebbe appena sopportarla a teatro. Io avrei saputo combinarla molto meglio... Povero vecchio genitore! - Gli hai risposto? - Io? Me ne sono dimenticato. So che avrei dovuto farlo... no, non l'ho fatto. Ci penso adesso. Non potrò farlo finché non abbia finito 10/233 tutto. - Scriverò io, allora. Frank si voltò di scatto - Se lo farai - disse con aspra gravità improvvisa - non ti parlerò mai più. Parola d'onore. È affar mio, e mi regolerò a mio modo. - Ma... - È così. Suvvia, dammi la tua parola d'onore. - Io... - La tua parola d'onore, subito, o vattene da questa stanza! Vi fu una pausa. Poi: - Sta bene - disse Jack. Allora si rifece il silenzio. Le voci cominciarono a circolare dopo l'asta che Frank tenne delle sue cose un paio di giorni dopo. Egli fece tutto da sé, senza l'aiuto di nessuno, neppure di Jack. Per prima cosa, la sera prima della vendita, proprio all'ora in cui la folla degli studenti e delle loro amichette, dopo aver preso il tè o il gelato, cominciava la passeggiata, comparve in tutta Cambridge una quantità di uomini-sandwich, che portavano, davanti e di dietro, il seguente avviso: Trinity College, Cambridge L'on. Frank Guiseley ha il piacere di annunciare che il giorno 7 giugno (sabato) alle 10,30 antimeridiane precise nella Stanza N. l, lettera J, Great Court, Trinity College, saranno realmente posti in VENDITA ALL'ASTA le masserizie, il mobilio, i libri, ecc. dell'on. Frank Guiseley, comprendenti: un pianoforte Broadwood (leggermente stonato); un magnifico complesso di mobilio per sala di lettura, rivestito in damasco (il sofà soltanto leggermente macchiato di tè); una tavola di quercia; altra tavola; un letto; un cassettone (imitazione noce, piuttosto mediocre); una libreria di mogano con cristalli, contenente una serie di volumi di bell'apparenza, rilegati in colori assortiti, con etichetta bianca; quattro cuscini orientali; un ritratto di gentiluomo (antenato rispettabile garantito); sala da pranzo (seggiole assortite); numerose incisioni di luoghi interessanti e di case nobiliari; “una scatola d'argento, contenente quindici sigarette (Melachrino e americane miste)”; un orologio col cuculo (senza cuculo); cinque canne da passeggio; numerosi abiti completi (uno adatto per scopi caritatevoli); libri diversi (tutti “molto curiosi”), comprendenti le opere di un eminente professore di Cambridge e di altri luminari scolastici, ed altri articoli diversi. 11/233 “Alle 10,30 precise” Sono invitati tutti gli amici e gli estranei. “Nessun prezzo minimo di vendita” L'annunzio servì magnificamente, perché le dieci erano appena passate, e già una folla considerevole cominciava a radunarsi; e fu soltanto dopo una seria conversazione col Decano che la vendita poté avere inizio. Ma ebbe luogo alla precisa condizione che fosse presente un usciere del Collegio; che non si permettesse alcun atto indisciplinato; che la vendita fosse effettiva; e che Mr. Guiseley tornasse dal Decano per dargli ulteriori spiegazioni prima di lasciare Cambridge. La scena in sé fu interessantissima. Frank, su una cattedra che assomigliava a quella di un agente di aste, presiedeva con straordinaria gravità, in cappa e berretto da baccelliere, col martello in mano. Davanti a lui la stanza era affollata di gente, maschi e femmine, tutta di ottimo umore. I prezzi raggiunti furono più che ragionevoli. Non venne data alcuna spiegazione pubblica circa la necessità della vendita e Jack nel più, profondo sgomento, tornò nel pomeriggio, verso l'ora di pranzo, e trovò la stanza completamente spoglia e Frank perfettamente allegro, ancora in cappa e tocco, seduto sul davanzale a fumare una sigaretta. - Entra - egli disse, - e fammi il piacere di invitarmi a pranzo. L'ultimo facchino è uscito appena adesso. Jack lo fissò. Egli sembrava straordinariamente naturale, quantunque appena un po’ rosso, e quell'aria di dramma che era attorno a lui era senza dubbio voluta. - Benissimo, vieni a pranzo - disse Jack. - E a cenare e a dormire, dove andrai? - Cenerò nella Hall, e dormirò in un'amaca. Va a vedere la mia camera. Jack fece due passi sul pavimento nudo, e guardò. V'era un'amaca appesa a un paio di ganci, e sotto ad essa una valigetta. Un catino sopra una cassetta rovesciata e un secchia completavano l'arredamento. - Che somaro! - esclamò Jack. - E questo è tutto quel che ti è rimasto? - Sicuro. E penso di lasciarti gli abiti che ho indosso, e l'amaca, che potrai prendere quando sarò partito. - Quando conti di partire? - Il signor Guiseley avrà la sua ultima udienza dal Decano per ottenere l’“exeat” questa sera alle sei e mezzo. Egli si propone di lasciare Cambridge domattina di buon'ora. - Ma non lo farai! 12/233 - Certo, lo farò. - Che cosa ti metterai? Frank distese le gambe rivestite di flanella e terminanti in un paio di scarpe robuste. - Queste, una camicia di flanella, senza cravatta, e una giacca grigia. Jack si rifece silenzioso, guardandolo. - Quanto hai ricavato dall'asta? - Oh, non ha importanza. Eppoi, l'ho dimenticato. L'importante è che quando avrò saldato i miei conti, avrò tredici sterline, undici scellini e otto pence. - Quanto? - Tredici sterline, undici scellini e otto pence Jack scoppiò in una risata senza allegria. - Bene, vieni a pranzo - disse. Pareva a Jack di muoversi in un sogno penoso, mentre quel pomeriggio andava con Frank da una bottega all'altra, a pagare i conti. Quando uscirono, le tasche di Frank erano abbastanza gonfie e squillanti - egli aveva ritirato quanto gli rimaneva in banca in monete d'oro e d'argento - ed erano parecchio meno gonfie e squillanti quando rientrarono per il tè, a Jesus Lane. Qui, sulla tavola, egli rovesciò le sue monete. Aveva comperato un po’ di tabacco, due o tre altre cosucce, e il suo capitale era ora soltanto di dodici sterline, diciannove scellini e quattro pence. - Diciamo tredici sterline, - concluse Frank.- Vi sono molti poveri... - Non far lo scemo! - troncò Jack. - Sono soltanto prudente - rispose Frank. - Un cuore soddisfatto... Jack gli cacciò davanti una tazza di tè e dei panini imburrati. Frank e Jack erano, si può dire, fratelli in tutto meno che nel sangue. Le loro case distavano meno di dieci miglia l'una dall'altra; essi erano andati assieme alla stessa scuola privata, poi a Eton e al Trinity College. Nelle vacanze avevano cavalcato, cacciato, pattinato, fatto i bagni, oziato, fatto tutto assieme. Erano ben più fratelli l'uno per l'altro che Frank e Archie, l'autentico fratello maggiore, conosciuto nel mondo come Visconte di Merefield. In linea di massima Jack non approvava i modi di fare di Archie: lo riteneva un somaro pretenzioso, e all'occasione glielo diceva. Per Frank invece aveva un'affezione straordinaria, anche se non avrebbe voluto dichiararlo per nulla al mondo, neanche a se stesso, ed una reale ammirazione, d'un genere assolutamente indefinibile. Era impossibile dire perché lo ammirasse. Frank non faceva nulla benissimo, ma tutto piuttosto bene: giocava a rugby tanto bene da essere appena scartato dalla squadra rappresentativa del collegio; aveva fatto parte dell'anno di riserva a Eton, e in quello di quaresima al primo anno di Cambridge; poi aveva lasciato il remo, e aveva giocato a tennis nell'estate e nel torneo di quaresima, proprio bene 13/233 abbastanza da fare una partita vivace e interessante. Non era affatto un erudito. Aveva raggiunto i Primi Cento a Eton, e a Cambridge s'era iscritto a giurisprudenza - cioè a quel conveniente ramo di studi che in massima colma il vuoto per le persone intelligenti che non hanno alcuna inclinazione particolare e che sono stufe dei classici; ed aveva conseguito un diploma di terza classe, e, uno o due giorni prima, la laurea. Insomma, era un uomo sulla media; eppure v'era in lui qualcosa che costringeva Jack ad ammirarlo. Io suppongo che sia quello che si può ben definire “carattere”. Certo è che chiunque veniva in rapporto con lui aveva in qualche misura la stessa sensazione. La sua conversione al cattolicesimo era stata un colpo che aveva sorpreso Jack, il quale aveva sempre pensato che Frank, come lui, avesse l'ordinario sensato criterio inglese in fatto di religione: essere miscredente dichiarato era forma scorretta - come essere Little Englander o radicale - essere pio era ugualmente forma scorretta come una forma di fanatismo per l'Union Jack. No, la religione per Jack (e fino allora egli aveva creduto anche per Frank) era uno scompartimento della vita sul quale non si dovevano esprimere idee particolari; dire le preghiere più o meno regolarmente, andare alla cappella nei momenti opportuni; andare di tanto in tanto, se si amava la musica, alla King's Chapel nel pomeriggio della domenica; in campagna recarsi in chiesa al mattino della domenica, come dopo il pranzo si faceva il giro delle scuderie; e null'altro, o press'a poco. Inoltre, Frank era stato estremamente riservato in tutto l'affare. Una mattina, circa quindici giorni prima, era entrato nella camera di Jack. - Vuoi venire a messa alla chiesa cattolica? - Ma perché? - aveva cominciato Jack. - Io debbo andarvi. Sono cattolico... - Cosa?! - ... dalla settimana scorsa. Jack lo aveva guardato fisso, convinto che uno di loro due dovesse essere pazzo. Quando si accertò che la cosa era vera; che Frank aveva cominciato l'istruzione tre mesi prima; che si era confessato - si era confessato! - il venerdì precedente, e che era stato battezzato sotto condizione; quando fu sicuro di tutte queste cose, e poté ritrovare un linguaggio coerente, chiese a Frank perché lo avesse fatto. - Perché è la religione vera - aveva risposto Frank. - Dunque, ci vieni a messa, o non ci vieni? Jack era andato, ed era ritornato più perplesso che mai, su tutto quello che quel passo poteva significare. Aveva tentato di fare qualche domanda, ma Frank aveva dato aria, ed aveva ripetuto che non v'era dubbio che la religione cattolica fosse la vera, e che egli non voleva essere seccato. Ed ora si trovavano a prendere il tè in 14/233 Jesus Lane per l'ultima volta. È naturale che anche da parte di Frank vi fosse un po’ di eccitazione contenuta. Bevette tre tazze di tè, e prese l'ultima tazza (e il penultimo panino) senza chiedere scusa, e parlò un bel pezzo, piuttosto concitato. Pareva che non avesse davvero alcun progetto preciso su quel che avrebbe fatto uscendo da Cambridge col suo fagotto, il domani di buon mattino. Intendeva proprio, egli disse, di andare avanti, e vedere quel che sarebbe capitato. S'era fatto fare una cintura, che gli piaceva assai, nella quale poteva riporre il denaro (durante il tè era stata posata sul tavolino), e naturalmente si proponeva di spendere meno che gli fosse possibile di quel denaro... Ma non voleva accettare nulla da Jack: sarebbe stato semplicemente scandaloso se egli - allievo delle scuole pubbliche e dell'Università, non avesse saputo cavarsela col proprio lavoro. Adesso, - pensava c'era la fienagione, e la raccolta della frutta, e tanti piccoli lavori nei campi. Sarebbe andato avanti, prendendo quel che capitava. Eppoi, v'erano sempre lavori occasionali, - non è vero? - se tutto fosse andato al peggio; e avrebbe potuto incontrare altri, che lo avrebbero potuto mettere sulla buona via, Oh! se la sarebbe cavata benissimo. Se sarebbe venuto a Barham? Ecco, se capitava durante il lavoro quotidiano, sì. Sarebbe certamente rimasto molto obbligato se le sue lettere avessero potuto essergli mandate là, ed egli avesse potuto richiederle a suo piacere, o ritirarle, se, come aveva detto, il suo lavoro lo portava là. Che cosa avrebbe fatto nell'inverno? Non ne aveva la minima idea. Quel che facevano tutti gli altri, pensava. Forse per allora avrebbe trovato un posto - da guardiacaccia, magari - gli sarebbe piaciuto fare il guardiacaccia. A questo punto Jack, mentalmente, strisciò la verdina. - Ma intendi davvero fare come dici? Frank spalancò gli occhi. - Ma sicuro, Santo cielo! pensavi che facessi per scherzo? - Ma.. ma è una pazzia! perché non potresti cercare di sistemarti adeguatamente in qualche posto come agente terriero, o qualche cosa di simile? - Mio caro - disse Frank - quel che accadrà, accadrà perché io voglio fare precisamente quello che sto per fare. No, sono perfettamente serio. Ho pensato molte volte che in qualche modo abbiamo torto tutti quanti. Siamo così bestialmente artificiosi. Non voglio predicare, voglio provare da me. La mia religione mi dice... S'interruppe, - No, è sciocco dire così. Lo faccio perché lo faccio. E voglio farlo davvero. Non voglio essere un dilettante. Vedrò le cose, da me. - Ma per le strade... - lamentò Jack. 15/233 - Appunto, proprio così. Tornare alla terra. Jack s'alzò. - Santo cielo! - esclamò, - Ecco, non ci avevo pensato! - A che cosa? - È tua nonna che torna. Frank lo guardò. - Mia nonna? - Sì, la vecchia signora Kelly. Frank rise forte. - Perbacco! Direi anch'io. La nonna Kelly! Essa era una zingara, appunto. Forse hai detto giusto, Jack. Vediamo. Essa era la seconda moglie di mio nonno, non è vero? Jack assentì. - Ed egli la prese sulle strade dei suoi domini. In contravvenzione, o qualcosa del genere? Jack assentì ancora. - Già - ed egli era magistrato, e avrebbe dovuto farla arrestare. E invece l'ha sposata. Era una ragazza che viaggiava coi genitori. Frank sedette sorridendo, di buon umore. - È proprio così. Allora riuscirò di sicuro. E prese un'altra sigaretta. Allora un altro pensiero venne a Jack. Egli aveva già deciso di farne uso, se necessario, e pareva che fosse questo il momento. - E Jenny Launton? - disse - Suppongo che avrai pensato a lei. Uno sguardo curioso comparve negli occhi di Frank; uno sguardo di grande gravità e tenerezza, e il sorriso scomparve. Per un momento egli non disse nulla; poi trasse di tasca una lettera in una busta, e la tese verso Jack. - Gliene parlo qui. L'imposterò stassera, dopo che sarò stato dal Decano. Jack vi diede un'occhiata. L'indirizzo diceva: “Miss Launton The Rectory MEREFIELD, York”. La voltò dall'altra parte. Era chiusa e sigillata. - Le ho detto che dovremo attendere un pochino - aggiunse Frank - e che le scriverò nuovamente fra qualche settimana. Jack rimaneva silenzioso. - E pensi che sia giusto, verso di lei? - chiese infine deciso. - Questo dovrà dirlo lei. E a dir la verità, io non ho nessuna paura. - Ma moglie di un guardiacaccia! e cattolico, per giunta! - Ah, tu non conosci Jenny - disse Frank sorridendo. - Jenny ed io ci comprendiamo perfettamente. - Ma è giusto? 16/233 - Santo cielo! - sbottò Frank alzandosi di colpo. - Giusto! Ma che cosa importa! Tu non sai che tutto è giusto, in certe circostanze? Io m'infischio di questo putrido convenzionalismo. Noi siamo tutti marci... marci, ti dico. Ed io voglio ricominciare daccapo. E Jenny pure. Per favore, non parlare di quel che non capisci. Si alzò, stirandosi. Poi gettò via il mozzicone della sigaretta. - Debbo andare dal Decano; è quasi l'ora. Il Reverendo James Mackintosh era un eccellente funzionario del suo collegio, e adempiva ai suoi doveri con cura scrupolosa. Si alzava ogni mattina verso le sette e mezzo, beveva una tazza di tè e andava in cappella. Poi faceva colazione, al martedì e al giovedì, con due studenti del primo anno, scelti in ordine alfabetico, seduti alla sua tavola; negli altri giorni, da solo. Alle dieci, una conferenza, di solito su una delle Epistole di San Paolo. Su questo argomento egli possedeva un taccuino pieno di note di qualunque genere fosse possibile raccogliere - grammaticali, filologiche, topografiche, economiche, sociali, biografiche - con qualche cenno sulla fauna, la flora, i commerci, le caratteristiche e la configurazione geologica dei paesi ai quali le epistole erano indirizzate, o di quelli in cui erano composte. Queste note, le quali assicuravano ad ogni studente che ne fosse davvero padrone, la via del successo ed anche della distinzione negli esami, erano il risultato di tutta una vita di appassionato lavoro, e un giorno, senza dubbio, sarebbero state pubblicate nella nitida copertina azzurra della “Cambridge Bible for Schools”. Dalle undici alle dodici egli faceva lezione sulla storia della Chiesa nei primi cinque secoli - dopo il quale periodo, come tutti gli studiosi sanno, la storia della Chiesa praticamente ha termine. All'una pranzava; dalle due alle quattro faceva una rapida passeggiata (talvolta in compagnia di qualche serio studente di teologia) lungo la Grantchester Grind o fino a Coton. Alle quattro prendeva il tè; alle cinque amministrava la disciplina del Collegio, chiamando e rimproverando quegli allievi che avevano mancato nell'osservanza delle varie regole. Alle sette e mezzo pranzava nella “hall” - placido, rasato, occhialuto, seduto tra un filosofo miscredente e un socialista; poi, nella “Combination Room”, beveva un unico bicchiere di vino, fumava una sigaretta, e si ritirava nella sua stanza per scrivere lettere ai genitori degli allievi - se necessario - e rivedete i suoi appunti per il giorno dopo. Ed egli faceva così, con le consuete leggere variazioni della vita universitaria, per tutti i giorni della settimana, e per i due terzi dell'anno. L'altro terzo, lo passava in parte in Svizzera vestito di un lindo abito di Norfolk grigio, coi calzoni corti, e il resto con amici ecclesiastici del suo tipo accademico. Era per lui la cosa solenne pensare quanto grandi fossero le sue responsabilità e quale 17/233 privilegio fosse vivere nell'ambiente turbinoso e tumultuoso di uno dei centri intellettuali d'Inghilterra. Frank Guiseley era per Mr. Mackintosh un gravissimo enigma. Egli certamente era stato insubordinato il primo anno (Mr. Mackintosh aveva avuto gravi sospetti su di lui per l'affare del pane e burro, che aveva recato tanto fastidio al collega), ma senza dubbio d'allora in poi era stato molto serio ed anche pieno di deferenza (Per esempio, si toglieva il cappello quando incontrava lui, Mr. Mackintosh, con grande compitezza). Non era regolarissimo in cappella, è vero, e non pranzava nella “hall” così spesso come Mr. Mackintosh avrebbe desiderato (non è forse parte dell'ideale universitario che gli uomini di tutti i gradi della società si incontrino come uguali sotto i tetti del Collegio?). Ma d'altra parte egli non era mai stato richiamato per alcuna grave ò spiacevole violazione delle regole, e non era mai stato insolente o offensivo verso alcuno degli studenti. Infine, proveniva da una famiglia distintissima, e Mr. Mackintosh conservava il più vivo ricordo dell'unica intervista avuta tre anni prima col Marchese di Talgarth. Mr. Mackintosh si domandava. quindi che cosa avrebbe dovuto dire a Mr. Guiseley, e che cosa Mr. Guiseley avrebbe avuto da dirgli... Egli pensava che se realmente il giovanotto avesse avuto bisogno di denaro, come aveva sentito dire alla mattina, era suo dovere dire solo poche parole prudenti sulla responsabilità e sulla coerenza. Quell'asta ridicola doveva servirgli come esperienza. Quando sentì bussare alla porta, Mr. Mackintosh attese un istante, come di solito, prima di dire “avanti!”. (Immagino che egli pensasse che ciò contribuiva a creare una certa impressione di importanza). Poi, disse la parola; le Frank entrò. - Buona sera, Mr. Guiseley... si sedete. Mi avete detto stamattina che desideravate il vostro “exeat”. - Se non vi spiace - disse Frank. - Appunto - riprese Mr. Mackintosh traendo a sé il libro degli “exeat”, somigliante a un blocco di assegni. - E partirete domani? - Appunto. - Andrete a casa? - mormorò il Decano, scrivendo il nome di Frank con la sua calligrafia nitida e minuta. - No. - No?... a Londra, forse? - No - non esattamente - disse Frank. - Almeno, non per ora. Mr. Mackintosh sgorbiò accuratamente la firma, staccò l’“exeat” e lo spinse garbatamente verso Frank. - E dell'asta - disse, sorridendo con indulgenza. - Vorrei che me ne diceste qualcosa. È una cosa addirittura inconsueta, ed io mi chiedevo... Ma sono lieto di sapere che non v'è stato inconveniente di 18/233 sorta... Potreste dirmi perché avete scelto proprio quella forma di... di... - Avevo bisogno di mettere assieme più denaro che potessi - rispose Frank. - Davvero?.. Sì... e... e ci siete riuscito? - Ho pagato tutti i miei debiti, almeno - disse Frank serenamente. Credo che questo sia molto importante. Mr. Mackintosh sorrise di nuovo. Senza dubbio questo giovanotto era assai educato e deferente. - Bene, questa è una soddisfazione. Ed ora, contate di andare al Tribunale? Se mi permettete, Mr. Guiseley, ancora adesso io direi che un terzo corso potrebbe giovarvi. Ma certo il vostro tutore approva la vostra decisione... - Sì, credo, - Bene, allora, un po’ più di applicazione e di energia adesso può forse supplire al tempo perduto. Suppongo che andrete al Tribunale in ottobre... Frank lo guardò soprapensiero un momento. - No, Mr. Mackintosh - disse ad un tratto. - Io farò il vagabondo. Proprio così, sul serio. Mio padre mi ha disconosciuto. Io domani partirò per fare da me la mia vita. Vi fu un istante di silenzio di morte. Poi la faccia del Decano fu sconvolta quasi d'orrore. Eppure Frank s'avvide che egli non si era ancora reso conto della realtà. - Sì, è proprio come ho detto. E vi pregherei di non farmi osservazioni. Sono perfettamente deciso. - Vostro padre... Lord Talgarth... vagabondo... la vostra vita... le autorità del Collegio... la responsabilità...! Parole sconnesse di questa sorta uscirono dalle labbra di Mr. Mackintosh. - Già. E il motivo è che mi sono fatto cattolico! Credo che lo abbiate saputo, signore. Mr. Mackintosh si gettò indietro (seppure una parola così energica può essere usata per una mossa così dolce), si gettò indietro sulla seggiola. - Mr. Guiseley, per favore, ditemi tutto. Non ne ho sentito una parola… neppure una parola. Frank, facendo un grande sforzo, raccontò con tutta l'esattezza e l'educazione possibile, la sua storia. Descrisse come meglio seppe le sue convinzioni, i vari passi compiuti, il tono della lettera di suo padre. Poi si raccolse in sé per ascoltare quel che sarebbe stato detto, o piuttosto, si concentrò in se stesso, e per così dire, chiuse la porta e abbassò la saracinesca. Mr. Mackintosh disse esattamente tutto quello che Frank si 19/233 aspettava ch'egli dicesse. Accennò all'impazienza di un padre affettuoso, alla giovinezza e all'impetuosità del figlio, al colpo ad una antica famiglia, alla responsabilità di chi faceva parte di tale famiglia, al pericolo delle decisioni precipitate, e finalmente, agli errori evidenti della Chiesa di Roma. Cominciò diverse argomentazioni con le parole: “Nessun pensatore dei nostri tempi... ”. A dire il vero, Mr. Mackintosh, appena ripresosi dal primo colpo, era stato straordinariamente ragionevole e sensato. Aveva detto tutte le cose opportune, tutte le cose suggerite dall'equilibrio, dal buon senso e dalla ragione; e le aveva dette non con tono sprezzante e offensivo, ma con tatto e persuasione; e vi aveva messo tutta la sua personalità: aveva perfino citato San Paolo. Sudava un pochino, con garbo, verso la fine; così si tolse gli occhiali, e li ripulì, guardando ancora con un sorriso gentile dei suoi occhi miopi, il giovane che sedeva così immobile. Perché Frank era tanto tranquillo, che il Decano pensò che egli fosse già a metà persuaso. Poi, quando si fu rimesso gli occhiali, riassunse con efficacia, e leggerezza le sue argomentazioni; e terminò con un accenno prudente, che Frank sarebbe stato ragionevole, che avrebbe scritto ancora una volta a suo padre, che avrebbe atteso almeno una settimana... Giunse perfino a chiamarlo “mio caro ragazzo”! - Grazie davvero - disse Frank. - Allora ci ripenserete tranquillamente, mio caro ragazzo. Vi ho dato l’“exeat”, ma non occorre che ne facciate uso. Tornate domani sera, dopo pranzo. Frank si alzò. - Grazie davvero, Mr. Mackintosh. - Io... io certamente ricorderò quello che mi avete detto. Prese l’“exeat”, come meccanicamente. - Dunque, potete lasciarlo qua, per ora - disse il Decano sorridendo. Potrò farvene un altro. Frank lo posò subito. - Oh, certo... - Bene, buona notte, Mr. Guiseley... Io... io non posso dirvi quanto sia contento che vi siate confidato con me. I giovani sono qualche volta un po’ avventati e impetuosi, lo sapete. Buona notte, buona notte... Vi aspetto domani sera. Frank, giunto nel cortile, stette un momento a guardare. Poi, mentre un aperto sorriso gli illuminava il volto, si affrettò a un corridoio dal lato opposto, trovò aperta la porta di un amico, ed entrò. La stanza era vuota. L'attraversò, si affacciò alla finestra opposta, che guardava sul cortile di Mr. Mackintosh. Fu ricompensato quasi subito. Stava ancora assestandosi nel vano della finestra, che vide una figura nera, con la tonaca che gli si gonfiava di dietro, e frettolosamente scivolava attraverso all'archivolta che dava sulla strada. Le concedette venti secondi, poi scavalcò la finestra per inseguirla. A metà della strada lo avvistò di 20/233 nuovo, e seguendolo cautamente in punta di piedi, con un fazzoletto sulla faccia, fece a tempo a vedere Mr. Mackintosh che spariva nel piccolo ufficio telegrafico alla sinistra di Trinity Street. - Tutto fatto, dunque - osservò Frank quasi a voce alta. - Povero Jack! Temo, dopo tutto, che non potrò far colazione con lui. Erano appena suonate le quattro, il mattino dopo, quando un poliziotto, il quale camminava a passi lenti e piatti lungo il vicolo che conduce da Trinity Hall a Trinity College, e camminando sbadigliava del tutto incurante della divina aria mattinale, frizzante come il vino e limpida come l'acqua, assistette ad uno spettacolo degno di nota. Dapprima, gettato improvvisamente sulle punte del cancello, comparve una specie di strapuntino, che pendette da ambo i lati della formidabile armatura di aculei. Sopra questo, da una mano sempre invisibile, fu posta con più cautela una vecchissima sella senza staffe. Il poliziotto si soffermò, schiacciandosi - relativamente parlando contro la parete. E si rifece silenzio. D'un tratto, senza che nulla lo annunciasse, cadde sul selciato un fardello pesante, che poi risultò un piccolo sacco da viaggio, pieno da scoppiare; poi, ancora un momento più tardi, comparvero due mani che si afferrarono con cura estrema alla sbarra centrale del cancello. Il poliziotto, ancora, non fece alcun segno. Scivolò soltanto un passo o due più vicino, e stette a guardare. E vide che un giovane gentiluomo, in calzoni di flanella, giacchetta grigia ed un vecchio cappello duro, era seduto a cavalcioni della sella, rivolgendogli la schiena. Una pausa, durante la quale il giovanotto guardò da una parte e dall'altra; infine, con agile volteggio, scavalcò la parete e si trovò sul marciapiede, piedi e mani a terra. - Buon giorno, brigadiere! - disse il giovanotto, alzandosi e spolverandosi le mani. - Tutto bene, non è vero? Volete vedere il mio “exeat”? O forse meglio una mezza corona?... Verso le sei, Jack Kirkby si destò d'un tratto nella sua camera a Jesus Lane. Era una cosa del tutto insolita, ed egli si chiese che cosa fosse accaduto, Pensò a Frank quasi subito, con una scossa, ma, dopo aver guardato l'orologio, si voltò e cercò di riaddormentarsi. Il tentativo fu inutile: v'erano troppe cose a cui pensare, ed egli cominciò ad architettare tanti bei discorsi, che a colazione avrebbe ripetuti con forza convincente all'amico traviato. Alle sette pensò che avrebbe fatto bene ad alzarsi, sorprendere Frank nel bagno, e far colazione con lui alle otto e mezzo anziché alle nove. Così avrebbe avuto più tempo per i suoi discorsi. Saltò dal letto, alzò le imposte, e la vista 21/233 della torre del Sidney Sussex College, dorata dal sole, lo decise del tutto. È naturale che chi, a Cambridge, fa il bagno prima di colazione, si metta addosso meno indumenti che sia possibile, e che - anche se altre volte le dice - abolisca le preghiere del mattino. Così Jack indossò un accappatoio, calzoni, calze, pantofole, e una camicia da tennis, e scese le scale coperte di tela incerata. Quando aprì la porta, s'avvide che sulla soglia era stata posta una cosa bianca, e la raccolse. Era un biglietto indirizzato a lui, con la calligrafia di Frank. Ritto sui gradini, lo lesse; e sentì una stretta al cuore. V'è un abisso tra il sapere che una catastrofe deve avvenire, e il sapere che è avvenuta. Jack sapeva - almeno col suo essere raziocinante - che Frank avrebbe lasciato Cambridge nell'assurda maniera progettata, dopo aver fatto colazione con lui; e in parte proprio per questa conoscenza s'era alzato più presto per passare un'ora di più con Frank, prima della definitiva separazione. Pure v'era qualcosa in lui - la stessa cosa che poco fa, a letto, lo aveva fatto rimuginare tanti piccoli discorsi - che gli diceva che fin a quando non fosse effettivamente avvenuto non era avvenuto, e poteva non avvenire affatto. Egli non aveva idea del quanto questo filo di speranza fosse forte in lui, (né, in altri termini, quanto profondi e quasi romantici fossero i vincoli che lo legavano a Frank), finché non si sentì martellare la gola e la testa divenir vuota nel leggere il biglietto fin troppo chiaro nell'aria fresca del mattino di Jesus Lane. Ecco diceva così: “Caro Jack, “Mi spiace, debbo filar via più presto. Quella bestia di Mackintosh è andato subito a telegrafare ai miei appena io l'ho lasciato. E succederà un finimondo se non taglio la corda. Così non posso venire a colazione. Me ne dispiace. Tuo F. G. P.S. - A proposito, potresti cercar quell'ometto e vedere se puoi tenerlo tranquillo. Digli che se fa del chiasso, sarà uno scandalo per il Trinity College. Forse questo lo terrà in freno. E potresti vedere di ricuperare la mia sella dal portiere. È probabile che a quest'ora l'abbia presa lui.” Tre minuti dopo, una figura in accappatoio, calzoni grigi, pantofole e camicia da tennis, e senza berretto, stava sfiatata alla porta del Decano senior, chiedendo ad una cameriera scandalizzata di vedere il funzionario in parola. - Ma è a letto, signore! - ripeteva la vecchia. - Allora dovrà alzarsi - insistette Jack. 22/233 - .. sì... cioè... è già sceso da letto,.. - Può rimanerci, se non è sceso... Vi dico... Jack non stette più a discutere. Con due braccia robuste prese la vecchia per le spalle, e la collocò sulla soglia del salotto; poi salì alla porta della camera da letto. Un leggero sciacquio cessò. - Che c'è?... Non... - Sono io, signore, Kirkby! Mi spiace disturbarvi, ma... - Non entrate! - gridò una voce agitata, con un altro sciacquio d'acqua, come se qualcuno fosse uscito dal bagno in furia. Jack girò cautamente la maniglia, e aprì uno spiraglio. Un grido di angoscia rispose alla sua mossa, seguito da un fruscio di panni. - Entro, signore - disse Jack, lottando tra l'agitazione e le risa. Dai rumori si capiva che il clergyman era tornato a letto, bagnato e come Dio lo aveva fatto. Non vi fu risposta. Jack aprì la porta ed entrò. Era come egli aveva pensato. Il suo ospite involontario s'era precipitato in letto con tutta la premura possibile, e s'era tirato le coperte, in gran disordine, fino al mento. Una faccia, coi capelli bagnati, che senza occhiali sembrava strana e fanciullesca, e lo fissava con lo sguardo di chi vede commettere un sacrilegio. Uno lunga camicia da notte di flanella giaceva sul pavimento, tra il letto e il bagno fumante, e una gran quantità d'acqua era sparsa in laghetti e in pedate. - Posso chiedervi il motivo di questa incomprensibile... - Scusatemi, signore, ma Frank Guiseley ha preso il volo. Ho appena appena ricevuto questo biglietto. - Nel porgere il biglietto a un braccio nudo, pudicamente proteso dal groviglio delle lenzuola, non gli venne in mente che proprio quell'autorità del Collegio vi era definita con gli epiteti di “bestia” e di “ometto”. Quel poco della sua attenzione che non era occupata dal pensiero di Frank, era fisso sulla sorprendente scoperta che i Decani avevano un corpo e usavano veri bagni come tutta l'altra gente. Si può dire che prima non ci avesse pensato mai. Non li aveva mai immaginati se non in correttissimi abiti neri e lini bianchi. La sua scoperta pareva che in certo qual modo gli rendesse Mr. Mackintosh più umano. Il Decano lesse il biglietto con tutta la modestia possibile, tenendolo vicinissimo al naso, perché non poteva giungere agli occhiali con un braccio di cui non si vedeva più che il polso. Una o due volte fece l'atto di inghiottire, come se assaggiasse qualcosa con le labbra; era sua abitudine. - È terribile! - disse poi - Avete nessuna idea... - Sapevo che sarebbe partito oggi, e sapevo che anche voi sapevate. - Ma io non ho alcuna idea... - Avete mandato un telegramma, non è vero, signore? - Certo... Sì, a Lord Talgarth. Era mio dovere. Ma... - Bene: egli se ne è accorto. Questo è tutto. Ed ora è partito. Che cosa 23/233 si deve fare? Mr. Mackintosh rimase un momento o due in pensiero. Jack fece un movimento d'impazienza. - Debbo telegrafare di nuovo - disse il Decano, con l'aria di uno che ha esaurito tutte le risorse della civiltà. - Ma, santo Cielo! Signore... - Sì, debbo telegrafare di nuovo. Appena mi sarò vestito. O forse vorreste... - L'ufficio non si apre che alle otto. È inutile. A quell'ora Frank sarà a parecchie miglia di qua. - È l'unica cosa che si possa fare - disse il Decano con improvvisa energia. - Io vi proibisco di fare qualunque altro passo, signor Kirkby. Io sono responsabile... - Ma... - Non dobbiamo fare uno scandalo. Che cosa d'altro proporreste? - Oh... cinquanta cose. Un'automobile. La polizia... - No, senz'altro. Non dobbiamo assolutamente fare uno scandalo, come... come dice bene lui. (Il Decano inghiottì nuovamente. Jack pensò più tardi che doveva essere il ricordo di certe locuzioni della lettera). Così, se farete il favore di lasciarmi subito solo, Mr. Kirkby, io finirò di vestirmi e di trattar la questione. Jack fece dietro fronte, e uscì dalla stanza. Fu una triste colazione quella di Jack, una mezz'ora più tardi. ancora in flanella e senza aver fatto il bagno. Era apparecchiato anche per Frank, secondo le istruzioni date la sera prima alla padrona di casa, e Jack non ebbe il cuore di togliere il coperto. V'erano sogliole per due, quattro uova sode; caffè e marmellata; biscotti e panini e frutta. E il confortevole aspetto della tavola pareva irridente. Jack aveva avuto delle idee molto confuse sui possibili modi di ritrovare Frank: una visione generica di venti automobili, ciascuno con un autista attento e un poliziotto osservatore, era tutto quello che s'era presentato alla sua fantasia. Ma poi aveva cominciato a pensare che, dopo tutto, non si può arrestare un giovane che non ha commesso delitto alcuno, e riportarlo contro la sua volontà sia pure a Cambridge! Né il Decano di Trinity College né un padre posseggono tale illimitato potere sulla libertà di un alunno o di un figlio. E, in fondo, Frank non aveva fatto altro che prendere alla lettera quanto gli aveva scritto suo padre! Queste considerazioni tuttavia non miglioravano la situazione, e Jack sentiva che, in teoria, occorreva far qualche cosa di più che mandare qualche telegramma; l'unica difficoltà era il trovare questo qualche cosa. Aveva avuto la vaga idea di noleggiare egli stesso un automobile e perlustrare le strade e la campagna attorno a 24/233 Cambridge. Ma neppur questo progetto reggeva alla critica. Se non gli era riuscito di persuadere Frank a rimanere a Cambridge, era improbabile che gli riuscisse di persuaderlo a ritornare, anche se l'avesse trovato. Eppoi, otto strade importanti uscivano da Cambridge, ed egli non aveva la più lontana idea di quale Frank avesse potuto scegliere. Forse non ne aveva presa nessuna, per camminare, invece, attraverso la campagna. Anzi, questo sarebbe stato tipico di Frank. Terminò in maniera lugubre la colazione, soffiò in una pipa vuota, guardando prima di riempirla dalla finestra verso la parete del Sidney Sussex per due o tre minuti. Ora che Frank non v'era più, Cambridge pareva un luogo piatto e comune. In realtà, non vi aveva nulla da fare. Per lui era diventato quasi un regolare impegno andare alla Gran Corte verso le undici, per vedere quel che v'era da fare. Talvolta Frank suggeriva il tennis, talvolta un po’ di voga sul Backs, ad ogni modo si trattava di pranzare o cenare assieme. E anche se no, Frank, ad ogni modo, c'era. Egli cercò di figurarsi quel che Frank stava facendo; ebbe la visione di una strada soleggiata che attraversava le brughiere, con una persona in marcia; di una piccola osteria, nella cui ombra beveva la birra. Ma sembra un inutile spreco che quella persona fosse sempre sola. Perché non gli aveva proposto di andare con lui? Non sapeva: sapeva solo che, certamente, non sarebbe stato accettato. Eppure avrebbero potuto essere due mesi magnifici; e dopo due mesi, senza dubbio, anche Frank ne avrebbe avuto abbastanza! Ma, ancora, ne avrebbe avuto abbastanza davvero? Pareva che Frank fosse veramente sincero. nella sua decisione di guadagnarsi d'ora innanzi la vita; e quando Frank diceva di voler fare una cosa, di solito la faceva; e Jack Kirkby non se la sentiva di abbandonare la madre e le sorelle indefinitamente, finché Frank non fosse rinsavito. Infine, accese la pipa; poi ricordò la commissione relativa alla sella, qualunque cosa essa volesse significare. Fra poco sarebbe andato a cercare il portiere... Anzi, sarebbe andato subito; e intanto avrebbe dato ancora un'occhiata alla stanza di Frank. V'era anche da ritirare l'amaca. Ma fu una visita triste. Girò per la stanza, con le mani sprofondate nelle tasche, cercando di fischiettare fra i denti e fumare; ma dovette, contro le regole, tener la pipa in mano, mentre parlava col dignitoso Mr. Hoppet nel portone del Collegio. Mr. Hoppet non sapeva nulla della sella - almeno, non per informazione pubblica ma la sua aria di profondo e diplomatico sospetto smentiva le sue parole. - Va bene - disse Jack con tono allegro. - In quella fuga, io non c'entro. Il Decano sa tutto. - Io non ne so nulla - sentenziò Mr. Hoppet. 25/233 - Allora, non avete trovato la sella? - No, signore. La stanza di Frank era aperta, quando Jack venne alla scala familiare, e il suo cuore balzò suo malgrado quand'egli entrò e sentì dei passi nella stanza da letto. Ma fu la donna di servizio, con una scopa e uno sguardo di disapprovazione che venne a guardare chi giungesse. - È partito, Mrs. Jillings - disse Jack. Mrs. Jillings soffiò nel naso. Ella aveva sentito parlare dell'asta, e pensava che fosse una cosa che un giovane gentiluomo. così simpatico non avrebbe dovuto fare. - Sì, signore. - Non v'è qua una sella, per caso? - Una sella? No, signore. Che ci starebbe a fare una sella? - Sta bene - fece Jack vagamente. - Ad ogni modo, debbo portar via l'amaca. Le stanze avevano un aspetto desolato. Anche i tappeti erano stati portati via, e il pavimento, non macchiato nel mezzo, pareva che suggerisse una malinconia anche maggiore. Era proprio difficile pensare che in queste stanze egli aveva passato tante belle ore con Frank - partite a bridge, pranzi, assurdi scherzi teatrali, nei quali Frank, con estrema rapidità e con l'aiuto solo dì un belletto e di un turacciolo bruciato, e tre o quattro ciuffi di capelli di varie tinte, aveva sostenuto la parte di quasi tutte le eminenze dell'Università di Cambridge. Erano lunghe storie, che Frank inventava lì per lì, per rivelare i lati più oscuri della vita dei più rispettabili membri del Senato - storie che nascevano come leggende, un episodio dopo l'altro, e nelle quali si succedevano le azioni più disparate. Il Master di Trinity College, per esempio, passava in queste saghe attraverso straordinarie avventure d'amore, o scopriva il Polo Nord, o faceva una conferenza con esperimenti pratici sull'arte del volo; oppure il Prevosto del King's College cospirava col Presidente del Queen's College per assassinare il Vice Cancelliere ed usurparne la carica. E queste storie erano rappresentate con stupefacente realismo, soprattutto da Frank stesso, con l'aiuto di uno o due zelantissimi amici, contenti di obbedire. Ed ora tutto era finito; e proprio questa era la porta attraverso la quale il Vice Cancelliere si sottraeva ai suoi assassini! Jack sospirò ancora. Attraversò la porta, raccolse il pacco di abiti nel vano della finestra, sganciò l'amaca nella quale Frank aveva dormito la notte scorsa (osservò i mozziconi di tre sigarette gettati nel coperchio di una scatola di gallettine), ed uscì che pareva un reziario. Mrs. Jillings soffiò nuovamente nel naso, guardandolo passar nel cortile. Ella non capiva affatto questi giovani signori, e lo diceva spesso. 26/233 Alle sei e mezzo di quello stesso mattino, all'ora in cui Jack si svegliava a Cambridge, John Harris, operaio, sonnacchioso e intontito, perché la sera prima era rimasto fin tardi all'osteria del “Cane macchiato”, metteva il naso fuori da una casetta sulla strada di Ely, nel mezzo della Grunty Fen. Egli guardava attorno, chiedendosi se era proprio tardi come voleva dirgli il gallo, ed, osservando il sole, ora scandalosamente alto nell'enorme cupola del cielo d'estate, che stava sulla terra paludosa come un coperchio sul piatto. E mentre si voltava verso mezzogiorno, s'accorse di un giovane gentiluomo che portava un sacco da viaggio in una mano, e una giacchetta grigia sull'altro braccio, e veniva verso di lui, a meno di venti passi di distanza. Quando egli giunse più vicino, Mr. Harris vide che aveva il volto ammaccato come per un pugno. - Buon giorno - disse il giovanotto. - Caldo, per lavorare... John Harris grugnì un'osservazione. - Vorrei qualche lavoro da fare - continuò il giovanotto, sorvolando sull'osservazione. - Ho voglia e capacità. Sapete che ve ne sia? Che mi paghino, s'intende. O almeno, che mi diano da mangiare, per cominciare. John Harris guardò il giovine signore in silenzio. 27/233 Capitolo II Marefield Court, come i turisti sanno tutti quanti, può essere visitato dalle 10 alle 17 del martedì e del giovedì, quando i proprietari sono assenti; e al martedì soltanto, dalle 14 alle 16, quando vi sono. Perciò una descrizione minuta sarebbe superflua. L'edificio sta quasi sulla vetta della collina, protetto dai boschi contro i venti di tramontana, e le Sue torri e i suoi pinnacoli si vedono nella valle da dieci miglia di distanza. Dal lato architettonico esso è costruito nella forma, singolarissima, di una corte triangolare irregolare, col vecchio barbacane al lato inferiore; l'ala della cappella al lato opposto; sulla sinistra le rovine del vecchio castello ed il torrione. La casa nuova, attualmente abitata, è sulla destra. La costruzione appartiene ad ogni epoca concepibile (il maggiordomo ne sa illustrare tutti i particolari), dal terrapieno britanno sul quale è fondato il torrione, fino alla “smoking room” georgiana, costruita dal nonno dell'attuale signore; ma il corpo principale della casa, che ci riguarda particolarmente - il lungo edificio grigio, orientato a sud verso il lago e a nord verso il cortile - è stile Giacomo I fino nel minimo particolare, e di ottima fattura. Alla sua estremità il tredicesimo marchese, il quindicesimo barone, e il quattordicesimo visconte (un uomo solo, non tre), ritenne opportuno di costruire una specie di sala palladiana di arenaria rossa, portata con spese enormi attraverso metà dell'Inghilterra. Per fortuna, l'edera si è incaricata di coprire la maggior parte delle pareti esterne. Fu in questa stanza - usata anche come sala da bigliardo - che Archie Guiseley (Visconte Merefield) e Dick Guiseley, suo cugino primo, ebbero le prime notizie sui progetti di Frank. Erano ambedue vestiti per il pranzo, e da dieci minuti giocherellavano con le palle, attendendo il “gong” e parlando nel modo incoerente, caratteristico dei giocatori di bigliardo. - Il Genitore è nuovamente un po’ giù - disse Archie - e il medico non vuol lasciarlo andare in città. Ecco perché sono qui. Dick fallì una difficile carambola (era appena arrivato da Londra col treno delle 18,17), e cominciò a dare il talco alla stecca con la massima cura. - Non v'è nulla da fare - continuò Archie. - Così t'ho avvertito. Dick aprì la bocca per parlare, e la richiuse, torcendo il labbro, proprio come se si rivolgesse nuovamente alla palla; e questa volta il colpo fu magistrale. - E poi ce l'ha terribilmente con Frank. Sai tutto? Dick fece un cenno affermativo. - E giura che non lo vuol più vedere in casa, e che vada al diavolo. Dick corrugò le sopracciglia, in tono interrogativo. -... non lo pensa, si capisce... ma la gotta, si sa, e tutto questo. Io 28/233 penso che Frank farà meglio a stare fuor dei piedi, per un po'. Oh, a proposito, il Rettore e Jenny verranno a pranzo stassera. - E Jenny, che cosa dice? - chiese Dick quasi sottovoce. - Oh! Jenny ride. Questi due giovanotti - perché Archie aveva soltanto venticinque anni, e Dick uno o due di più si assomigliavano assai nei modi e nel portamento generale. Ambedue, pur diversissimi in volto, si comportavano secondo la stessa moda. Ambedue avevano uno sguardo mezzo nascosto, un po’ insolente eppur simpatico. Ambedue si muovevano allo stesso modo, lento e deciso; ambedue parlavano nello stesso modo calmo e in tono piuttosto basso, e usavano meno parole che fosse possibile. Ambedue, proprio ora, portavano una giacca da pranzo di taglio identico. Quanto al resto, erano opposti addirittura. Archie era rasato, di taglia media, con un gran mento, e costruito un po’ all'ingrosso. Dick portava una barbetta a punta ed era sottile e snello. Nessuno dei due aveva da fare qualcosa di preciso. Archie era più o meno legato a suo padre, salvo nell'autunno; Dick viveva in città, in un appartamentino, con seicento sterline all'anno, lasciategli da sua madre, e si diceva che fosse una specie di procuratore. Si vedevano molto spesso, però, e andavano meglio d'accordo che la maggior parte dei fratelli; certo meglio che Archie e Frank. Molta brava gente trovava spiacevole che essi fossero soltanto cugini. Ora, mentre essi chiacchieravano tranquillamente, la porta si aprì ad un tratto, e una fanciulla entrò. Era rimarchevole davvero, e la sua bellezza era accresciuta proprio ora dall'ovvia eccitazione ben contenuta. Biondissima e alta, per il suo portamento altero sembrava anche più alta di quel che fosse in realtà. Gli occhi, ora particolarmente brillanti, erano d'un azzurro vivo, grandi e ben tagliati; la bocca forte e sensitiva; e in tutta la persona aveva un'aria magnifica di calma e di salute. Era in abito da sera, e portava un mantello leggero sulle spalle bianche. - Mi spiace interrompervi - ella disse. - Oh, buona sera, Mr. Dick! Ma c'è qualcosa che non va. Clarkson è uscito per dirci che Lord Talgarth... c'è un telegramma, o qualcosa del genere. Mio padre m'ha mandato ad avvertirvi. Archie la guardò un istante; poi scomparve, svelto, ma senza fretta. La ragazza si volse a Dick. - Temo che sia qualcosa che riguarda Frank. Ho sentito che Clarkson lo nominava. Vi sono altre notizie? Dick depose la stecca attraverso il bigliardo. - Sono arrivato un'ora fa. Archie stava informandomi. Jenny andò verso la poltrona, si tolse il mantello e sedette. - Lord Talgarth è... bene, se fosse mio padre, direi che ha i nervi. Ho 29/233 sentito la sua voce... - Ella fece una risatina. Dick si appoggiò alla tavola, guardandola. - Povero Frank! - disse. Ella rise di nuovo, più liberamente. - Sì, povero, caro Frank! È sempre negli impicci, non è vero? - Temo che questa volta si tratti di una cosa seria - osservò Dick. Ma per qual motivo si è fatto cattolico? - Oh, Frank fa sempre le cose più impensate! - Sì, lo so; ma questa è proprio l'ultima cosa... Ella lo guardò ironicamente. - Sapete, prima che Frank si facesse cattolico, non m'ero mai accorta che Lord Talgarth fosse così profondamente religioso. - Già, ma è proprio la sua unica ossessione. Frank doveva saperlo. - Ed io non ho il minimo dubbio, che questo sia stato per lui un motivo di più per farlo. - Ed ora, che cosa accadrà? Ella crollò il capo. - Oh, passerà, vedrete. Frank si ravvederà, e allora saremo per sempre felici. - Ma intanto? - Oh, Frank per un mese o due si farà ospitare da qualche amico; dai Kirkby, immagino, ed io potrò andarlo a vedere. - E se facesse qualche gesto violento? Ne è capacissimo. - Gli parlerò io. Andrà tutto bene. Io ho molto buon senso, lo sapete. Tutti gli amici me lo dicono. Dick rimase silenzioso. - Non lo pensate anche voi? - Che cosa? - Che io ho molto buon senso. Dick fece un piccolo movimento col capo. - Oh, immagino di sì; già, lo direi anch'io... E supponiamo che mio zio lo scacci davvero di casa, dandogli soltanto uno scellino? ne è capacissimo. È un padre assai rigido, lo sapete. - Non lo farà. Eppoi, gli parlerò io. - Sì, ma supponiamo che lo faccia? Ella gli gettò un'occhiata fulminea. - Ebbene, Frank appenderà lo scellino alla catena dell'orologio, dopo averlo messo in mostra con gli altri doni di nozze. A proposito, che cosa mi regalerete voi, Mr. Dick? - Vi disegnerò un gioiello simbolico - disse Dick, con molta gravità. E quando sarà il matrimonio? - Non è stato ancora deciso. Lord Talgarth non vi si adatterebbe ancora. Credo nella prossima estate. - Miss Jenny... - Sì?... 30/233 - Ditemi - proprio sul serio - che cosa fareste se vi fosse una vera rottura, permanente, voglio dire, tra Frank e mio zio? - Caro Mr. Dick, non dite simili sciocchezze. Vi ripeto che non vi sarà rottura. Ci penserò io stessa. - Ma supponendo che vi sia?.. Jenny si alzò bruscamente. - V'ho detto che sono una persona di buon senso, e non mi fermo a fantasticare cose assurde. Che cosa volete che dica? Volete che prenda una posa teatrale, e che parli di amore nella capanna? - Questa potrebbe essere una risposta. - Allora, va bene. Basta così, non è vero? Potete tenerlo per detto... Io starò a vedere quel che accadrà. Ma mentre ella si avviava alla porta, si sentirono avvicinarsi dal di fuori rumori di passi e voci, e un istante dopo la porta si aprì, e Lord Talgarth, seguito dal figlio e dal Rettore, fece ingresso nella stanza. Mi spiace molto il dirlo, ma il tredicesimo marchese di Talgarth era esattamente come un personaggio da romanzo - ed anche da romanzo non di prim'ordine. La sua figura era, per così dire, ritagliata nel cartone - cartone rigido, colorato a tinte vivaci, con le dorature agli orli che scintillavano qua e là. È stato anche detto che egli assomigliava a un nobile sul palco dell'Adelphi. Aveva un bel volto rubicondo, naso aquilino e sopracciglia bianche che s'alzavano e si abbassavano, e tutte le caratteristiche del personaggio; era alto e grosso, soffriva di gotta, e in casa portava un bastone nero col puntale di gomma. Costruite un padre rigido da teatro, di nobile famiglia, ed avrete Lord Talgarth al vivo. Vi sono davvero al mondo persone come questa, della quale si può profetare, con relativa sicurezza, come si comporterà in qualunque determinata situazione. Certo Lord Talgarth stava ora comportandosi come voleva il “tipo”. Egli aveva ricevuto il telegramma del placido Mr. Mackintosh, un telegramma di parecchi fogli, che lo informava che suo figlio aveva venduto all'asta i suoi averi, e si era proposto di darsi alla strada; e che inoltre chiedeva istruzioni sul modo di provvedere. E l'allusione alla sfida ostinata di Frank - il fatto, voglio dire, di aver preso suo padre alla lettera - aveva gettato questo padre in un accesso anche più forte di eccitazione. Jenny, entrando nella “hall”, lo aveva sentito mormorare e borbottare con rabbia (il telegramma gli era stato consegnato proprio allora), ed ancora adesso i servi, un po’ pallidi, stavano scambiandosi strizzatine d'occhi fuori della sala; mentre Clarkson, il suo cameriere, e il maggiordomo, stavano un po’ più lontani, in solenne e rispettosa conversazione. Quello che Lord Talgarth avrebbe voluto, era che Frank gli avesse scritto una lettera sottomessa - disubbidiente, magari - in cui dicesse di non poter passare sopra alle proprie convinzioni, e si preparasse 31/233 ad assumere il ruolo di un martire cristiano. Egli ci avrebbe fatto un sogghigno beffardo, e dopo una conveniente penitenza avrebbe più o meno perdonato. Si capisce che non aveva inteso, neppure per un istante, che le sue minacce dovessero essere realmente mantenute; ma la situazione, per un uomo del temperamento di Lord Talgarth, esigeva che le minacce fossero fatte, e che Frank fingesse di esserne schiacciato. Che il figlio si fosse comportato a quel modo, metteva invece nell'affare una realtà passionale - realtà che sconcertava e infuriava - come per un attore che s'accorga in scena che l'avversario è armato di una spada autentica. Non v'era ormai che una possibilità sola - e ad essa Lord Talgarth s'aggrappava più per istinto che per coscienza - e cioè che un'accresciuta furia da parte sua riportasse la realtà a un livello melodrammatico, e lasciasse lui, il padre, padrone tanto della situazione quanto del suo sconcertante figliolo. Già una o due volte, in cose di minore importanza, Frank s'era condotto così, e Lord Talgarth ne era sempre uscito vincitore. In fondo, gli accessori erano tutti in mano sua. Quando furono fatti tutti i discorsi del caso - Frank cacciato con uno scellino in tasca, partito per le Colonie, ritornato in patria e finalmente affamato alla porta paterna - Lord Talgarth si trovò disteso in una poltrona, con Jenny seduta di fronte, mentre gli altri erano andati a cena. Egli non si rendeva perfettamente conto del come ciò fosse avvenuto, né per quali disposizioni di lì a poco giungessero una zuppiera e un piatto di pesce, e Jenny e lui cenassero assieme, da soli. Tuttavia si rifece un po’ coraggio, e ricominciò ad usare frasi a riguardo del “figlio snaturato”, come “villanzone”, “ non avrà un soldo” e simili (occorre tener presente che egli era arrabbiato sul serio). Allora Jenny cominciò a parlare. - Io penso, scusate - disse con tutta calma - che in quest'affare non abbiate seguito la via giusta. (Sono impertinente, non è vero?, ma avete detto proprio ora che volevate sentire quello ch'io penso). - Ma certo, ma certo. Voi siete una ragazza di buon senso, mia cara. Io l'ho sempre detto. Ma quanto a questo ragazzaccio... - Bene, lasciatemi dire quel che penso. Sì, posate qua la zuppiera. Va bene, Lord Talgarth? - Ella attese che il cameriere se ne fosse andato e il vecchio avesse preso il cucchiaio. Allora, prese anch'ella il suo. Bene, io penso che abbiate fatto proprio quello che ci voleva perché Frank s'ostinasse di più. Lo conosco molto bene. Se voi vi foste soltanto messo a ridere, e, per così dire, fin dal principio gli aveste dato due manate sulla spalla, dicendogli che pensavate che fosse un'ottima cosa per un ragazzo del suo carattere, che ha bisogno di essere sorvegliato... 32/233 Lord Talgarth la guardò. Egli respirava ancora piuttosto rumorosamente... - Ma come potrei dir queste cose, quando penso... - Oh, non potete più dirlo adesso, si capisce; è troppo tardi. Non servirebbe a nulla. Ora dovete insistere; soltanto, non dovete arrabbiarvi davvero. Perché non provare un po’ di fredda severità? Ella mostrava tanto fascino e tanto spirito, che il vecchio cominciò a smontarsi alquanto. Le diede un'occhiata o due di sotto le folte sopracciglia. - Mi domando che cosa farete - disse con una specie di ruvidità quando v'accorgerete di dover sposare un disperato. - Io non sposerò un disperato - disse Jenny - Non converrebbe a nessuno dei due. - Oh, contate su quelle ottocento sterline all'anno, ancora? Jenny lasciò che una leggera freddezza le apparisse sul viso. Va bene il sarcasmo, ma purché non esageri. (In segreto, ella si permetteva qualche volta di ammettere che quel vecchio avesse nel suo carattere alcunché di volgare). - Questo è affar mio. E di Frank - ribatté. Lord Talgarth arrossì un pochino. - E le ottocento sterline, sono affar mio. Jenny posò il cucchiaio, mentre il servo riappariva col pesce e la lista. Egli giungeva proprio al momento opportuno. E mentre l'ospite stava meditando qual pietanza scegliere, ella ponderava la nuova mossa da fare. Jenny, come s'è detto, era una ragazza di eccezionale buon senso. Era cresciuta nella Rettoria, alle porte del parco; e fino dalla morte della madre, avvenuta tre anni prima, aveva governato la casa del padre - padre compreso - con gran successo. Aveva poi cominciato, negli ultimi due anni, ad estendere la sua influenza sullo stesso formidabile signore del castello, e, come s'è visto, s'era fidanzata con suo figlio. Il suo giudizio era di solito molto chiaro e sano, e i due cugini, col Rettore, avevano avuto perfettamente ragione nel lasciare il vecchio alle sue cure per un'ora o due. Se qualcuno poteva calmarlo, era proprio questa ragazza: senza timore, piena di dignità, capace di sostener la propria tesi. E suo padre s'accorse che ella ne era soddisfatta. Quando il cameriere se ne fu andato, ella riprese: - Bene, lasciamo correre per un giorno o due. Non v'è fretta, e... - Ma io debbo rispondere a questo... a questo telegramma - brontolò Lord Talgarth. - Che cosa debbo dire a quel pretonzolo? - Ditegli che segua la sua discrezione, e che voi avete completa fiducia... - Ma... - Sì, lo so anch'io che in realtà non ne avete affatto; ma non ne verrà 33/233 alcun danno, ed egli avrà l'impressione di contar qualcosa. - E se il ragazzo si mette davvero per le strade? - Faccia pure - disse Jenny fredda fredda. - Non ne morirà. Egli la fissò di nuovo in silenzio. Jenny, dal canto suo, era tutt'altro che soddisfatta, quantunque avvertisse un certo compiacimento per la considerazione in cui era tenuta. Ella aveva visto spesso questo vecchio in preda ad accessi d'ira, ma mai per un motivo reale. Nessuno lo contraddiceva mai. Egli decideva perfino che cura il medico dovesse prescrivergli, e in quale stagione, e in qual mese, e per quanto tempo. Jenny così non era del tutto sicura di quel che sarebbe avvenuto, perché conosceva abbastanza Frank per sapere che egli intendeva quel che diceva. Tuttavia, ella rifletteva, quel che importava di più per il momento era smussare gli angoli; poi, avrebbe potuto trarre una conclusione. - Quello che non riesco a capire - brontolò dopo un pochino il vecchio - è che abbiate potuto consentire a sposare uno sventato simile! - Oh, quanto a questo... - disse Jenny. La serata era deliziosa, e i tre uomini, dopo cena, uscirono a passeggiare sulla grande spianata che correva lungo il lato maggiore della casa, sopra il lago. Finché i servi erano rimasti nella sala, essi non avevano avuto possibilità di parlare della situazione come avrebbero desiderato, e non sapevano quando Lord Talgarth e Jenny avrebbero potuto ricomparire. Così sedettero ad una piccola tavola di pietra, all'estremità della spianata, e Dick ed Archie accesero la sigaretta. Sul Rettore non v'è molto da dire. La cosa più importante è che egli era il padre di Jenny. Egli era la tradizione. Suo padre e suo nonno, ambedue secondogeniti come lui, prima di lui avevano adempiuto le mansioni di Rettore nello stesso modo tradizionale e perfettamente rispettabile. Egli era un uomo tranquillo di mezza età, tutto rasato, salvo due basettoni; portava una cravatta bianca, e un bottoncino d'oro sul davanti della camicia bianca. Era in ottimi rapporti col castello, in una forma correttissima, senza intimità: ogni quindici giorni circa v'era invitato a cena, senza che dicesse o ascoltasse nulla di particolare interesse. Era rimasto lusingato in segreto per il fidanzamento della figlia, ed aveva dato il suo consenso con cordialità riservata e gentile. Era un “Tory”, non precisamente per scelta propria, ma - così come apparteneva alla Chiesa d'Inghilterra soltanto perché era incapace in ogni sua intima fibra di pensar qualche cosa di diverso. Naturalmente, Lord Talgarth era il personaggio principale del suo mondo, per il semplice fatto che era Lord Talgarth e il proprietario di quasi tutta la sua parrocchia e di due terzi di quella contigua. Egli guardava la figlia col massimo 34/233 rispetto, e lasciava nelle sue mani tutto quello che poteva decentemente lasciare. E, per renderle giustizia, Jenny era un despota tanto benevolo quanto capace. A farla breve, il Rettore non ha in questo dramma altra parte che quella discreta d'un coro greco, piuttosto silenzioso, e di carattere irreprensibile. Egli disapprovava, si capisce, che Frank avesse cambiato religione, ma lo disapprovava con la stessa parte del suo animo che approvava Lord Talgarth. Gli pareva che il cattolicesimo, nel futuro marito di sua figlia, fosse un ostacolo d'un genere analogo a una gamba di legno o a una spiacevole abitudine di tirar nel naso; un ostacolo, sì, ma non insuperabile. E sarebbe stato molto sollevato se l'ostacolo si fosse potuto rimuovere. I tre uomini rimasero seduti per un pezzo, mentre la brezza serale andava cadendo, il cielo rosato impallidiva, e le stelle apparivano ad una ad una, come diamanti nello smalto azzurro. Dicevano, naturalmente, tutte le frasi del caso, e Dick imparò parecchie cose che non sapeva ancora. Dick, quando si trovava a Merefield, aveva sempre la sensazione di un indistinto risentimento, quasi impersonale, contro il destino. Gli pareva ovvio che la posizione di erede fosse l'unica che sarebbe perfettamente convenuta ai suoi gusti e al suo temperamento. Si compiaceva moltissimo di appartenere alla famiglia - che, dal lato storico, era una famiglia eccezionale: dalla conquista normanna in poi, era stata presente in quasi tutte le catastrofi, e sempre, meno una volta, dal lato del vincitore. Ma era difficile gustare questa distinzione quanto essa meritava, vivendo, come viveva lui, in un appartamentino da solo, a Londra. Quando si pronunciava il suo nome davanti a uno straniero bene informato, gli era sempre fatta la domanda se apparteneva ai Guiseley di Merefield, e gli pareva singolarmente seccante di poter rispondere soltanto: “Cugino primo”. Archie, quello, era un erede di soddisfazione; non v'era dubbio alcuno. Per i suoi modi, apparteneva alla stessa categoria di Dick; ma sembrava quasi un'offesa che Frank, con le sue convinzioni violente, e le sue scappate, fosse l'unico fratello di Archie. In lui vi era ben poco di quella compostezza che occorre a un Guiseley. Saranno state circa le nove e mezzo quando il rumore di una porta che s'apriva e delle voci all'estremità opposta della spianata li avvertirono che la conferenza era terminata, ed essi si alzarono mentre Jenny, diritta e pallida nel crepuscolo, venne verso di loro con l'ospite al fianco. Dick s'accorse che il sigaro dello zio era consumato fino all'estremo, e ne prese buon auspicio. Il braccio del vecchio era in quello della ragazza, ed egli si appoggiava dall'altra parte, zoppicando, al bastone nero. Sedette con un grugnito, e posò il bastone verso alla tavola. - Bene, ragazzi, abbiamo sistemato tutto - disse - Jenny scriverà il telegramma. 35/233 - Non c'è più motivo di ansietà - aggiunse Jenny imperturbabile. Lord Talgarth è ancora molto adirato - ed ha tutti i motivi di esserlo - e lascia, che, se gli piace, Frank faccia il vagabondo. In deferente silenzio, il Rettore attese una conferma. - Jenny è una ragazza di molto buon senso - osservò Lord Talgarth e quel che dice è giustissimo. - Non vorreste dire... - cominciò Archie. Il vecchio si voltò accigliato. - Tutto quel che ho detto mantengo. Frank si è scelto il suo letto; se lo goda. Io l'ho avvertito. Anche Jenny è d'accordo. Archie diede un'occhiata alla ragazza, e Dick la fissò duramente in viso. Ma non vi trovò alcun segno di turbamento. Certo, ella appariva bianca, nel crepuscolo che incupiva, ma i suoi occhi erano allegri e fermi, e la sua voce del tutto naturale. - È così che abbiamo sistemato ogni cosa - ella disse - e se sono soddisfatta io, penso che debbano esserlo anche gli altri. Per parte mia, scriverò a Frank una lunga lettera affettuosa. Venite, babbo, dobbiamo andare. Lord Talgarth non sta bene, e non dobbiamo tenerlo ancora alzato. Terminata l'ultima partita di bigliardo, e bevuto l'ultimo “whisky”, Archie prese la candela. Dick rimase immobile, con la sua candela in mano. - Non vieni? - chiese Archie. Dick attese un momento. - Fumo ancora una sigaretta sulla spianata. È una serata magnifica, e voglio togliermi d'addosso l'odor del treno. - Benissimo, allora. Ti spiace chiudere, quando rientri? Era, davvero, una notte stupenda. Dietro a lui, seduto alla tavola dove avevano preso il caffè, il castello si stagliava pallido nel cielo estivo, interrotto qua da una linea o due di luce gialla che trapelava dalle finestre chiuse, là dal grande riquadro splendente della finestra della “hall”, completamente illuminata (doveva ricordarsi, pensò, di spegnere le luci prima di andare a letto). E, attorno a lui, v'era la grande oscurità morbida e profumata, limitata soltanto dalla volta del cielo cosparso di stelle; e sotto, nella vallata, egli poteva distinguere il luccichio del lago, e contro di esso, la massa cupa dei pini e dei cipressi. Fu là, allora e in quelle circostanze, che Dick confessò a se stesso, francamente e apertamente per la prima volta, di essere innamorato di Jenny Launton. Egli la conosceva da anni, in casa e fuori casa, e l'aveva considerata una bella ragazza e una piacevole compagna. Aveva pattinato con lei, cavalcato con lei, danzato con lei, e soltanto sei mesi fa, con un senso di urto leggero, al tempo del fidanzamento con Frank, aveva compreso che ella aveva ormai l'età per diventare la moglie di 36/233 qualcuno. Questo era stato il principio di un processo che culminava quella notte, egli lo comprendeva perfettamente. Il passo successivo era stato quello di una vaga meraviglia perché non se ne fosse innamorato Archie stesso; e l'aveva spiegato dicendo che Archie aveva un senso troppo preciso della propria importanza per permettersi di sposare la figlia di un Rettore che aveva di suo appena un duecento sterline all'anno (ed io ritengo che questa spiegazione fosse esatta). Poi, aveva cominciato a pensare parecchio a lei - piuttosto sotto un aspetto drammatico che realistico - chiedendosi se gli sarebbe piaciuto essere lui stesso il fidanzato. Se un cadetto poteva sposarla, avrebbe potuto sposarla anche un cugino primo, sia pure dei Guiseley. Così, era andato avanti a poco a poco. Dick aveva danzato con lei, qua, a Natale - proprio dopo il fidanzamento - e s'era fermato una settimana più di quanto aveva deciso. Era ritornato a Pasqua, e ancora a Pentecoste, quantunque protestasse sempre ai suoi amici che non v'era nulla da fare a Merefield nella primavera. Ed ora era ancora qua, e il colpo di scena era avvenuto. Dapprincipio, cercò di analizzare i suoi sentimenti verso Frank. Egli non sempre aveva approvato Frank: non gli piacevano le sue bizzarrie; la sua reputazione a Merefield era press'a poca quella che era a Cambridge. Faceva cose ridicole e mancava di dignità. Da bambino aveva combattuto nel villaggio almeno tre battaglie campali, e questa non era cosa degna di un Guiseley. Gli piaceva andare coi guardiacaccia ad inseguire i cacciatori di frodo, e Dick giustamente si chiedeva che cosa ci fossero a fare i guardia caccia se non per fare queste cose per conto dei padroni. V'era stata una gran confusione, diciotto mesi prima: qualcosa per un cavallo bastonato, riguardo al quale Frank aveva assunto un atteggiamento assurdo e ridicolo, riscaldandosi e arrabbiandosi, fino a maltrattare un servo, o qualche cosa di simile, con le proprie mani; e terminando in sconvenienti discussioni con un poliziotto e in minacce di azioni per violenza. Infine, s'era innamorato, s'era dichiarato, e s'era fidanzato, proprio con Jenny Launton. Questa era una cosa che un figlio cadetto non doveva fare, alla sua età per lo meno, e Dick ora comprendeva che il fatto che Jenny era Jenny aggravava cento volte l'offesa. E, ultima cosa, s'era fatto cattolico: un atto di entusiasmo che Dick riteneva senz'altro volgare. In complesso dunque Frank non era una persona soddisfacente, e non gli avrebbe fatto male subir davvero una piccola penitenza... I rintocchi di mezzanotte dall'orologio delle scuderie risvegliarono Dick dal suo sognare, e gli permisero di accorgersi che non aveva raggiunto nessuna conclusione su nulla, salvo che Frank era un somaro, che Jenny era... bene, era Jenny; e che lui, Dick, non era fortunato come avrebbe dovuto essere. 37/233 Anche se potessi non mi piacerebbe riportare tutte le considerazioni che erano passate per la mente di Dick dalle undici e un quarto in poi, semplicemente perché il solo enunciarle potrebbe dare un'impressione non corrispondente alla realtà. Dick non era un birbone, e non si ingannava su se stesso più di quanto faccia ciascuno di noi. Pure egli aveva considerato sia pure platonicamente una serie di punti, che, a rigore, non avrebbe dovuto considerare affatto. S'era chiesto se Frank non avrebbe potuto morire; s'era chiesto, in caso diverso, se Lord Talgarth avrebbe davvero mantenuto la sua parola; e, se sì, che effetto ciò avrebbe avuto su Jenny; infine, s'era chiesto, con una buona dose di applicazione intellettuale, che cosa avesse effettivamente voluto dire Jenny quando aveva fatto quella dichiarazione sul telegramma che avrebbe scritto in nome di Lord Talgarth, e sulla lettera che avrebbe mandato per conto proprio. (Lo aveva chiesto ad Archie, poco fa, nella sala da fumo, ed anch'egli aveva confessato di non capirci nulla, ma di essere soltanto sicuro che Jenny sarebbe riuscita nel suo intento, ed avrebbe ottenuto il perdono per Frank). Eppoi, nel corso di quei tre quarti d'ora, aveva considerato, forse per la millesima volta da quando aveva raggiunto l'uso di ragione, che cosa significassero esattamente tre vite tra un uomo e un titolo. Lord Talgarth era vecchio e gottoso; Archie era celibe, e non dava indizio di voler prendere moglie; e Frank - ebbene, Frank era sempre nelle avventure e nei pasticci. Insomma, io ho elencato questi punti. Ma non si deve pensare che il “gentleman” con la barbetta a punta e gli occhi pensierosi, che a mezzanotte e cinque minuti saliva i gradini della sala di fumo e chiudeva la porta, come gli era stato detto, prendeva la candela e andava a letto, vi andasse con una coscienza turbata, e che comunque fosse in qualunque modo un miserabile. 38/233 Capitolo III Il primo luogo del pellegrinaggio di Frank che io sia riuscito ad identificare e a visitare in modo da potermi formare un quadro della sua avventura, più o meno completo in tutte le sue parti, sta a circa dieci miglia a nord-ovest di Doncaster, in una valletta dove, per strana coincidenza, un altro pellegrino chiamato Riccardo visse per un certo tempo quasi seicento anni fa. Fino al momento in cui Frank giunse là, nella stagione del fieno, risultano della sua avventura innumeri piccoli incidenti, vivaci ma frammentari, tanto che non riescono a fondersi nella mia mente in un coerente complesso. Credo di comprendere fino a un certo limite il processo per il quale egli riuscì ad abituarsi all'ordinaria durezza della vita fisica, l'iniziazione della quale cominciò con una serie di notti quasi del tutto insonni, e di giorni appesantiti dal sonno accumulato. La notte, nelle cascine, sotto le biche di fieno, in stanzette opprimenti, nelle stalle, gli era troppo inusitata perché da principio potesse dormire facilmente, e durante le marce, e all'ora dei pasti, o quando cercava lavoro, nel calore del sole, egli cadeva nella profondità di quel riposo che è come il mare, abissi luccicanti, illuminati da lampi di consapevolezza dell'erba sotto la guancia, o del cinguettio degli uccelli, nei boschi che si distendevano in un'oscurità profonda e assoluta. Del come i piccoli avvenimenti di ogni giorno si fondessero in un tutto coerente, e modificassero, non certo lui, ma i suoi modi di vita, la sua conoscenza e la sua esperienza, io non posso affatto rendere un quadro reale. Il primo di questi episodi avvenne a meno di dieci miglia da Cambridge, nel primo mattino, e il risultato ne fu l'ammaccatura sul viso che Mr. Harris aveva notata; si trattava di un intervento contro atti di brutalità verso un cane... (Frank era straordinariamente tenero verso gli animali). Poi egli dovette imparare come si cerca lavoro, e cosa più importante ancora, come il lavoro si eseguisce. Il dilettante, come Frank poté concludere più tardi, comincia con troppo vigore, e si esaurisce presto. Il professionista parte con la stessa decisione con la quale termina, Non ci si deve precipitare sulla vanga o sulla zappa o su qualsiasi altro arnese. Si deve invece esercitare un noioso controllo di sé: dare un'occhiata al lavoro da compiere; voltarsi lentamente; sputarsi in mano, e dopo una pausa cominciare, ricordando che l'alacrità deve essere identica se il lavoro dev'essere ripreso il domani, fino al momento di partire. Poi bisognava abituarsi ad un genere di vitto assolutamente inconsueto, e a mangiarlo in circostanze inconsuete. Bisognava imparare a lavarsi gli indumenti - mi pare ora di vedere Frank vicino a qualche ruscello, nudo fino alla cintola, attendere che la camicia 39/233 asciughi, fumando una sigaretta male arrotolata, e facendo nel tempo stesso attenzione al guardiacaccia. Soprattutto, bisognava imparare una immensa quantità di cose - o piuttosto bisognava rieducare l'istinto - sulla natura degli uomini: conoscere il tipo di gente che può dare lavoro; il tipo di gente che pensa quel che dice, o che dice il rovescio; il tipo delle donne che minacciano di chiamare la polizia se si chiede del pane - Frank imparò assai presto a questuare - e il tipo delle donne che aggiungono una moneta ed avvertono di svignarsela subito; e il tipo delle donne che, dopo una pausa e un attento esame, rifiutano di proposito un bicchier di acqua. Poi, bisognava imparare a conoscere l'atmosfera delle piccole città, l'intollerabile stanchezza dei lastricati, la paziente tenacia dei poliziotti che non permettono di sedersi. Egli scoprì anche, durante i suoi pellegrinaggi, il fatto universale che i poliziotti di solito hanno buon cuore, ma sono sprovvisti del minimo senso di “humour”; lo scoprì dopo vari tentativi di fingere che il poliziotto fosse soltanto un uomo mascherato, senza alcun autorità. Scoprì pure che tutti i delitti impallidiscono di fronte a quello di “resistenza alla forza pubblica nell'esercizio delle sue funzioni”. Poi, dovette pure imparare in che modo vanno avvicinati gli altri vagabondi, i silenzi necessari, le domande inutili, gli scherzi per i quali bisogna ridere e quelli che non si possono tollerare. Tutto questo è assolutamente superiore alle mie possibilità. Era anche superiore alla capacità di descrizione di Frank stesso. Un ragazzo che per la prima volta viene a casa per le vacanze, non sa spiegare alla mamma e nemmeno a se stesso, che cosa abbia tanto profondamente cambiato il suo modo di vedere le cose familiari. Così per Frank. Egli poteva buttar giù innumerevoli schizzi delle sue esperienze e delle sue emozioni - la particolare sensazione, per esempio, destata dal vedere attraverso una cancellata della gente allegra che prendeva il tè su un prato - le porcellane, gli argenti, gli abiti, la rete del tennis - mentre egli passava coi legacci stretti alle ginocchia e con un calcagno infierito; o l'emozione di essere sorpassato da un ragazzo e da una fanciulla a cavallo; l’indescrivibile catena d'idee destata dal camminare per mezza giornata lungo lo steccato di tronchi di quercia spaccati d'un gran parco, interrotto qua e là dai cancelli, ascoltando il tubar delle tortore, e vedendo di tanto in tanto, lontano tra gli alberi, la casa padronale, tra i prati e le aiuole di gerani. Ma quello che egli non poteva descrivere né comprendere era l'intima alchimia per la quale queste nuove relazioni tra le cose modificavano la sua anima e gli davano un punto di vista del tutto nuovo e sorprendente. È curioso tuttavia (o almeno lo pare a me) che egli non abbia mai considerato la possibilità di abbandonare questo modo di vita, e di capitolare a suo padre. Una quantità di cose, io 40/233 suppongo, inconcepibili per me, contribuivano a questo fine: il suo sangue zingaresco, la sua straordinaria passione per il romantico, l'attrazione per una cosa soltanto perché era ardita e inconsueta, infine una volontà tanto eccezionalmente forte che, per conto mio, la chiamerei ostinazione. Il silenzio - per quel che riguarda il suo vecchio mondo - era assoluto e inviolato. Egli sapeva perfettamente che a casa di Jack lo aspettavano ormai numerose lettere e telegrammi, compresa almeno una, e probabilmente una dozzina, di Jenny. Ma quanto a Jenny, egli sapeva che ella avrebbe compreso, e quanto al resto, onestamente non gliene importava nulla. Le aveva mandato una o due cartoline illustrate - da Ely, da Peterborough, da Sleaford e da Newark - città in cui s'era fermato per una domenica (ho visto la stanzetta in cui egli dormì per due notti), ed era contento. Non faceva piani particolari per il futuro; supponeva che qualcosa sarebbe successo; e aveva deciso in sé, con quella stessa volontà a cui ho accennato poc’anzi, di non precipitare alcuna conclusione prima di giungere a Barham al principio dell'autunno queste settimane. Per la morale, almeno in un punto particolare, egli aveva formulato la dottrina che quando aveva davvero fame, la selvaggina nobile non poteva essere toccata, ma che poteva concedersi conigli e uccelli, se riusciva a catturarli con laccioli al margine delle strade. Egli divenne esperto in quest'arte, e Jack mi descrisse come aveva spiegato Frank a lui, alcune astuzie che io ignoravo completamente. Frank aveva marciato per un paio di giorni con un guardiacaccia disoccupato, il quale gli aveva insegnato queste cose, oltre ad alcuni semplici modi di cucinare all'aperto. Quanto alla religione, penso che sia meglio non dire molto per ora. Curiosissime influenze operavano in lui. Io posso dire soltanto che Frank stesso descrisse più d'una volta, quando poté essere indotto a parlare, la straordinaria, addirittura indescrivibile sensazione con la quale gli capitava di rivedere qua o là, nelle città o in campagna, un sacerdote coi paramenti salire all'altare, perché la Messa egli la sentiva quando poteva. Questo è tutto quello che posso dire delle esperienze ch'egli ebbe fino al momento in cui, una sera aI tramonto, uscì a lavoro finito da uno dei campi di Hampole ove aveva falciato il fieno per tutto il giorno, e in cui incontrò per la prima volta il Maggiore e Gertie Trustcott. In piedi, col sole alle spalle, avvolti quasi nell'aureola della sua luce, essi erano due figure un po’ sospette, come se ne vedono a migliaia lungo le strade d'Inghilterra durante l'estate. Il Maggiore era un uomo magro, con dei baffoni grossi che stavano diventando grigi, con gli occhi stretti, incavati, iniettati di sangue, col mento e la 41/233 mascella tagliati a squadra e rasati forse due giorni prima. Aveva in testa un berretto da “cricket”, i calzoni stretti da legacci, come Frank, ed una di quelle giubbe giallastre, tagliate in quadro, con grandi tasche laterali, come potevano portarle i guardiacaccia vent'anni fa. Una delle sue scarpe era sfondata, e pareva che egli appoggiasse di preferenza sull'altro piede. Non faceva certo una buona impressione, ma Frank vide, con la sua fresca esperienza, che era diverso da tutti gli altri vagabondi. Diede un'occhiata alla ragazza, e vide che anch'essa non era del solito tipo, quantunque meno caratteristica del compagno. E s'accorse anche, con un ovvio colpo al cuore, che ella aveva talune caratteristiche comuni con Jenny. Era meno alta di lei, ma aveva i capelli dello stesso colore, sotto un berretto da sole d'un bianco sudicio, e la stessa specie di occhi azzurri; ma il suo viso ovale era patito e piuttosto degno di pietà. L'uno e l'altra erano arsi dal sole. Frank aveva ormai imparato la discrezione delle strade, e non fece altro che piegar la testa quasi impercettibilmente nel passare. Egli si proponeva di tornare alla fattoria per prendervi i suoi averi già scemati, perché il lavoro era finito, e poi proseguire per alcune miglia verso nord prima di notte. Tuttavia nell'andare sentì che l'uomo s'era voltato e lo guardava; ma non fece alcun segno. Non aveva alcun desiderio di compagnia. Poi, sapeva per istinto, praticamente con certezza, che quei due non erano marito e moglie; né padre e figlia. Il tipo era ovvio. - Dico, signore! Frank si voltò più idillicamente che poté. - Dico, signore - potreste indicare un alloggio a me e a questa signora? Frank aveva cercato di abituarsi ad un genere di voce bassa e senza carattere, come quella di un servo o di un cameriere disoccupato. Sapeva che non sarebbe mai riuscito ad acquistare l'accento del suo nuovo ambiente. - Dipende da che genere di alloggio volete, signore. - Quel che va bene per voi, va bene per noi - disse il Maggiore, lasciando cadere il “signore”. - Io proseguo il cammino, signore - disse Frank. - Il mio lavoro qua è finito. Il Maggiore si volse alla ragazza, e Frank afferrò le parole: “Che cosa ne dici, Gertie?” Dopo un momento, l'uomo si rivolse nuovamente a lui. - Se non avete nulla in contrario, signore, noi verremmo con voi. La mia signora può farcela ancora per un miglio o due, dice, e ci farebbe piacere un po’ di compagnia. Frank esitava. Per conto suo non desiderava compagnia di sorta. Diede un'altra occhiata alla ragazza. 42/233 - Benissimo, signore - disse infine. - Se volete attendermi, sarò di ritorno tra cinque minuti. Vado a prendere le mie cose - ed accennò ai bassi edifici della fattoria, nella valletta sotto il villaggio. - Vi aspettiamo qua, signore - disse il Maggiore con degnazione lisciandosi i mustacchi. Quando Frank risalì il viottolo pochi minuti dopo, aveva deciso quel che doveva dire o fare. Era il primo vagabondo gentiluomo che incontrava, ed era ovvio che in tali circostanze doveva mostrarsi altrettanto gentiluomo egli stesso. Ma era perfettamente deciso di tacere il suo nome. Nessuno dei suoi indumenti aveva altro che le iniziali, ed egli decise perciò di usare il nome che aveva già dato più d'una volta. Probabilmente non sarebbero andati lontano assieme; ma era meglio mettersi al sicuro. Si avvicinò ai due che sedevano fianco a fianco, coi piedi nella cunetta. - Eccomi pronto, signore. - Vengo dall'Università e sono stato allievo di scuole pubbliche disse il Maggiore senza muoversi. - Eton e Cambridge - rispose Frank. Il Maggiore s'alzò. - Harrow e l'Esercito. Qua la mano. - Poi chiese: - Il nome? Frank fece una smorfia. - Non ho il biglietto. Frank Gregory, diciamo. - Capisco... e, per me, “il Maggiore” basterà. Ha il vantaggio di essere vero. E questa signora? bene, la diremo mia moglie. Frank s'inchinò. S'accorgeva di agire in una specie di sogno ridicolo: ma il suo senso di umorismo lo salvò. La ragazza fece un piccolo inchino goffo ed abbassò gli occhi. Certo ella era somigliantissima a Jenny, e diversissima. - E un nome? Un nome ci vuole, in caso di difficoltà. Il Maggiore pensò alquanto. - Che ne direste di Trustcott? - chiese. - Può andare? - Perfettamente. Il Maggiore e la signora Trustcott... Bene, ci incamminiamo? Frank non aveva intenzioni particolari né riguardo all'alloggio né riguardo alla strada, purché la direzione fosse più o meno quella del nord. Egli si dirigeva, all'ingrosso, verso Selby e York; e pareva che questa direzione convenisse al Maggiore quanto qualunque altra. V'è, io credo, una specie di “routine ” nei vagabondi, e verso quel periodo dell'anno la maggior parte di essi erra per la campagna alla maggior distanza dai suoi quartieri d'inverno. Il Maggiore e la signora Trustcott, com'egli venne presto a sapere, erano meridionali, ma non contavano di tornare verso il sud per altri tre mesi almeno. Quanto a lui, non aveva alcuna idea, salvo una vaga intenzione di raggiungere Barham nell'autunno, prima che Jack tornasse a 43/233 Cambridge per l'inizio del quart'anno. - La campagna, qua, non è straordinaria - osservò dopo un pochino il Maggiore. - Hampole fa eccezione. Frank diede un'occhiata a ritroso alla vallata che stava lasciando. Essa aveva, infatti, un aspetto solitario e rurale: era una striscia di terreno fertile limitata e circoscritta, e la ferrovia che la percorreva era l'unico segno del progresso. Ma l'aria trasparente era un po’ offuscata di fumo; e già dal punto in cui essi erano pervenuti si cominciavano a vedere alti fumaioli che frastagliavano l'orizzonte. - Siete già stato qua prima d'ora? - Ma certo, l'anno scorso, circa a quest'epoca. Non è vero, Gertie? Si dice che una volta ci vivesse un eremita. - Un eremita può quasi rifugiarcisi anche oggi - osservò Frank. - Avete ragione - rispose il Maggiore. Frank cominciò a chiedersi mentre camminava per quale motivo quell'uomo era per le strade. Cosa abbastanza curiosa, egli prestava fede alla sua dichiarazione di aver fatto parte dell'esercito. Ne aveva l'aria. Un capitano della territoriale sarebbe stato più fanfarone; un completo impostore avrebbe dato maggiori particolari. Frank cominciò ad andare a caccia di informazioni. - È da molto che siete per le strade? Parve che il Maggiore non lo avesse sentito. - È da molto che siete per le strade? - insistette Frank. L'altro gli diede un'occhiata di sbieco, e piuttosto insolente. - Prima il più giovane, per favore. Frank sorrise. - Avete ragione. Ecco, io ho lasciato Cambridge soltanto alla fine di giugno. - Ah! qualche disgrazia? - Non mi credereste, suppongo, se vi dicessi “no”? - Oh, non saprei perché. - Bene, allora. No. - E posso chiedervi?... - Altro che! Sono stato cacciato da mio padre, non occorre che scenda a particolari. Ho venduto le mie cose, e sono venuto via. Ecco tutto. - E intendete perseverare? - Certo... almeno per un anno o due. - “All right ”. Tocca a me. Maggiore... come abbiamo detto? Trustcott? Ah, sì, Trustcott. Si potrebbe aggiungere “dell'Undicesimo Ussari”. È press'a poco la verità. La catastrofe finale, mi pare, fu il gioco. Non che io abbia barato, capitemi bene. Non permetterei ad alcuno di dirlo. Ma è stato detto. Un gentiluomo di spirito, lo comprendete, non può rimanere in un reggimento quando si dicono di lui certe cose. Poi continuai a precipitare; e sono in queste 44/233 condizioni da quattro anni. E credetemi, signore, potrebbe esser peggio! Frank assentì. Si capisce che egli non prese per oro di coppella questa piccola storia limpida, e fu certissimo che se davvero c'entravano le carte, il Maggiore aveva barato. Così prese la storia, e per così dire la mise da parte. Capiva benissimo che essa aveva lo scopo di formare la piattaforma su cui stare assieme. Poi cominciò ad interessarsi della ragazza. Il Maggiore fornì ben presto una piattaforma anche per lei. - E Mrs. Trustcott? Bene, essa è venuta con me, diciamo, poco più di un anno e mezzo fa. Tuttavia ci conoscevamo fin da prima: da quando io avevo consentito a servir da cameriere da... da un contabile ebreo nella City. I genitori di Mrs. Trustcott vivono a Londra. La ragazza che si trascinava pazientemente un passo o due dietro di loro, a questo punto alzò gli occhi su Frank e li abbassò di nuovo. Egli si chiese quale atteggiamento avrebbe preso di fronte a quelle affermazioni. Ma ella non disse una parola. - E ora ci conosciamo a vicenda - concluse il Maggiore in tono soddisfatto: così, dove ci conducete, signor... signor Gregory? Quella sera, essi furono fortunati. La parte del Yorshire che stavano attraversando è sparsa soprattutto di innumerevoli casette, riunite per la maggior parte attorno alle miniere di carbone. Si ha l'impressione - almeno dall'automobile che non vi siano che villaggi. Ma non è così. Vi sono tratti di strada del tutto solitari a certe ore; ed in uno di questi essi videro poco dopo una casetta, a meno di venti metri dalla strada che una volta formava parte di una fila di casette uguali, ora diroccate. Anche questa era prossima alla rovina, e certamente disabitata. Attraverso la porta principale erano inchiodati degli assi, che in origine erano forse stati messi per sbarrarla, ed ora servivano per tenerla in piedi. Il Maggiore e Gertie rimasero a vigilare sulla strada, mentre Frank entrava varcando il cancelletto. Un minuto dopo egli chiamò sottovoce. Aveva forzato la porta posteriore. Nel buio scoprirono una piccola cucina, spogliata di tutto: tavola, mobili, perfino le griglie dei fornelli. Il Maggiore, nel buio, diede un calcio a qualcosa, e bestemmiò sottovoce; poi annunciò di aver trovato una pentola. Tutti dichiararono che meglio non poteva andare. I vagabondi non hanno grandi bisogni, e i nostri furono pienamente soddisfatti quando ebbero acceso un focherello, smorzandolo con delle zolle perché non facesse fumo, e fatta bollire un po’ d'acqua per preparare il tè, mangiarono quel che avevano. Il Maggiore contribuì al pasto comune con una scatola di sardine vuota a metà e un pane raffermo. Il Maggiore dichiarò che avrebbe preparato un 45/233 manicaretto, e infatti col formaggio disteso sul pane e le sardine sul formaggio se la cavò ottimamente. Gertie si muoveva in silenzio, e Frank, negli intervalli di una conversazione piuttosto, tronca col Maggiore, si accorse che i suoi occhi la seguivano mentre ella traeva fuori la sua povera roba, saliva le scale o ricompariva. Sì, ella assomigliava molto a Jenny, anche in piccoli particolari - la linea delle ciglia, l'angolo del mento, e così via - forse più in questi particolari che in altro. Cominciò a fantasticare un po’ su di lei, a immaginarsi il suo passato; a prevedere il suo avvenire. Pareva tutto piuttosto volgare. Infine ella sparì senza una parola; egli la senti camminare di sopra, poi silenzio. Egli dovette rimanere ancora un po’ ad ascoltare il Maggiore. - Era abbastanza facile riconoscere il vostro carattere - disse quel gentiluomo. - E come? - Evvia, non foss'altro che per i vostri abiti. - Non sono frusti abbastanza? Il Maggiore lo fissò con le palpebre socchiuse, alla luce del mozzicone della candela fissato con la sua stessa cera. - Frusti abbastanza, sì, ma di tipo non adatto. Prima di tutto, il taglio, quantunque questo non basti. Ma i calzoni sono di flanella grigia, per esempio, e la giacca non è abbastanza larga. - Potrebbero essermi stati regalati, - disse Frank ridendo. - Vi vengono troppo bene per questo. - Li cambierò alla prima occasione. - Sarà meglio - concluse il Maggiore. In un modo o in un altro, il senso di sordidezza che dippoi cominciò a produrre un cambiamento tanto profondo in Frank, discese su di lui per la prima volta da quella sera. Finora, per il fatto di essere stato solo, aveva cercato di sfuggirvi. Finora gli era stato possibile sostenere una specie di prova: di immaginare l'avventura nella luce di un “pic nic” realistico e prolungato. Ma con questo compagno non era più possibile. Era cosa tollerabile lavarsi le calze; ma non vedere le calze di un altro pendere da un gancio a un palmo dalla faccia, e vedere due piedi sporchi, che non erano i propri, emergere dalle scarpe rotte. Il Maggiore poi, quando prese a piagnucolare sulle proprie disgrazie, cominciò a chiamarlo “Frankie” e “ragazzo mio”, e questo contava qualcosa per un uomo che aveva i precedenti del Maggiore. Frank la prima volta si trattenne appena a tempo per non dargli una rispostaccia, ma mostrarsene urtato non serviva a nulla; Eppure, ci si dovette abituare; e divenne per lui più facile quando gli avvenne di guardare il Maggiore come oggetto di studio. Era anche interessante sentirlo confidarsi pur con una certa pomposa apparenza di rispetto di sé, e raccontare il suo primo incontro con Gertie. 46/233 L'uomo era, in realtà, esattamente quello che Frank nei suoi giorni prosperi avrebbe definito un “bounder”. Egli aveva una quantità di piccoli atti insignificanti, un modo di passar la mano sui mustacchi, un modo di fissare negli occhi con uno sguardo di velata insolenza; v'erano argomenti dai quali non sapeva trattenersi: fra essi la scuola di Harrow, l'Università (che egli diceva 'Varsity), il reggimento al quale aveva appartenuto, e un certo genere di avventure di donne e di vino. E sotto tutta la scorza di quel che il Maggiore pretendeva che fosse educazione, si rivelava compassionevolmente un carattere debole, vendicativo e piuttosto villano. Diventava sempre più evidente che l'incidente di gioco - o piuttosto l'accusa, come egli persisteva a dire - era soltanto l'ultimo gradino della sua caduta, e che questa era stata la conseguenza del substrato di una volontà fragile e senza principi, piuttosto che di un qualunque vizio particolare. Anche adesso, pareva che egli considerasse il proprio vagabondare con una donna che non era sua moglie come il residuo di uno splendore perduto, come un uomo che conservasse una posata d'argento dalla rovina della sua casa. - Vi raccomando di pigliarvene una - disse il Maggiore. - Ve ne sono tante che ci starebbero, se sapete scegliere. - Grazie mille - rispose Frank - ma non fa per me. Anche il mattino fu un po’ penoso. Frank aveva passato una notte discreta. Il Maggiore si era ritirato verso le dieci, prendendosi le calze probabilmente per dormire con esse, e per un minuto o due Frank aveva sentito l'impiantito scricchiolare sotto i suoi passi. Poi, due tonfi delle scarpe scaraventate lontano; un altro rumore più forte, un parlottare evidentemente il Maggiore aveva svegliato Gertie per farle qualche osservazione - e poi silenzio. Per più di mezz'ora Frank non s'era addormentato. Pensava, con un po’ di depressione, al seccante imbroglio al quale era stato iniziato, del Maggiore e di Gertie, per cui egli cominciava a sentire pena. Non pensava che il Maggiore la maltrattasse: probabilmente lo aveva fatto abbastanza prima d'ora - ella era senza dubbio quieta e sottomessa - o forse lo ammirava davvero e pensava che fosse un onore andare in giro con un ex ufficiale. Comunque, la cosa era deplorevole. Quando Frank si svegliò la mattina dopo, la depressione lo schiacciava ancora; e non la fece svanire la comparsa di Gertie, la quale, con un corpetto straordinariamente sudicio e le braccia nude, una spessa treccia di capelli cadente sulle spalle, cercava di riaccendere la fiamma nel focolare. Frank balzò in piedi; era in maniche di camicia. - Lasciate fare a me disse. 47/233 - Posso farlo io - rispose Gertie con indifferenza. Il Maggiore discese dieci minuti dopo, parecchio peggiorato dal riposo notturno. Ieri aveva la barba di due giorni: ora l'aveva di tre, e i fili d'argento più visibili la facevano parer bagnata. Anche gli occhi erano rossi e infossati, ed egli cominciò subito a parlare di bere. Frank resistette per qualche minuto, poi comprese e capitolò. - Ve ne pago un bicchierino - disse - se mi fornite due pacchetti di Cinderellas. - A che serve? - disse il Maggiore. - Le liquorerie non sono ancora aperte. Sono appena le cinque. - Allora, dovrete aspettare - ribatté secco Frank. Dopo un po', il Maggiore cominciò ad investire Gertie. Le chiese che diavolo fosse capace di fare, se non sapeva accendere meglio il fuoco. L'allontanò col gomito e si mise lui a fare quel lavoro. Ella non disse nulla. Era perfettamente inutile che Frank intervenisse, e difatti non intervenne. Anche il cibo pareva disgustoso, quel mattino, e nuovamente Frank si rese conto del come sia diverso una specie di gioco fatto per sé, e una realtà in cui sono legate altre due persone. V'era stato qualcosa di quasi piacevole, i giorni precedenti, a trarre di tasca i cibi e mangiarli, crudi o cotti, da solo; ma v'era qualcosa di ripugnante nell'osservare le sardine che erano diventate proprietà comune, poste in un giornale unto, un pezzo di pane che ognuno sbocconcellava con le dita, e una tazza di latta piena di cacao tepido dalla quale ciascuno a turno beveva un sorso. Il cacao era una contribuzione del Maggiore e di Mrs. Trustcott, e sarebbe stato sconveniente rifiutarlo. Eppoi, il Maggiore era torvo e permaloso quella mattina, e investì Gertie più d'una volta. Anche il tempo pareva avverso, quando uscirono verso le sei. Era piovuto nella notte, ma minacciava di piovere ancora. V'erano nubi basse, che si mescolavano col fumo delle ciminiere. Le siepi parevano nere nonostante il verde delle foglie; il sentiero coperto di scorie su cui camminavano era deprimente; le strade bagnate, anche più. Oltrepassarono una dozzina di uomini che si recavano ai pozzi, i quali fecero qualche osservazione sui tre vagabondi, e la rappresaglia era ovvia. Fu molto sconcertante per Frank avvertire tutte le differenze che nascevano dalla nuova situazione; eppure egli non pensò seriamente di modificarla. Gli pareva quasi, nel modo strano con cui quei sentimenti erano venuti, che tutto fosse preordinato, e che la compagnia con la quale si trovava fosse ineluttabilmente la sua almeno per ora - come la famiglia in cui un bambino nasce. E v'era, si capisce, un certo elemento di sollievo nel non sentirsi più solo del tutto; e v'era anche, come Frank disse più tardi, un curioso senso di attrazione per Gertie, e di compassione per lei. 48/233 Alla prima osteria che trovò aperta, il Maggiore si fermò. - Posso prendervi le vostre Cinderellas, se volete - disse. Questa non era stata l'idea di Frank, ma egli difficilmente esitava. - Sta bene. Ecco quattro pence. Il Maggiore entrò mentre stava uscendo un minatore, e una vampata di odore dolciastro e disgustoso - birra, alcool, tabacco - giunse nell'aria fresca, e s'intravide nell'interno il pavimento coperto di segatura e di sputi. Frank guardò Gertie, che s'era fermata come un asino paziente, e, come un asino prudente, aveva subito deposto il suo fagotto vicino a quello del Maggiore. - Ne volete uno? Ella crollò il capo. - Per me no... - e null'altro. In due minuti il Maggiore uscì. - Ce n'era un pacchetto solo - disse, e con un'aria di estrema meticolosità e di magnanimità rimise un penny in mano a Frank. Ci teneva ad insistere sulle piccole onestà della vita. Emanava un leggero odore d'alcool, e gli occhi erano un po’ meno infossati. Poi porse le sigarette. - Volete offrirmene una? Frank gliela diede prima di accendere la propria. - Siete un tipo simpatico - disse il Maggiore. - Vorrei potervi dare un sigaro di quelli che regalavo agli amici... - Oh, bene, quando tornerà il vostro bastimento... - osservò Frank gettando il fiammifero. Il Maggiore chinò il capo con un'aria di grandezza decaduta. - Bene - “Vorwarts” - che significa “avanti”, mia cara - spiegò a Gertie. Gertie non disse nulla. Raccolsero i fagotti e partirono. Fu soltanto una settimana più tardi che Gertie fece ciò che doveva aver tanta influenza su Frank: gli fece le sue confidenze. La settimana era stata piena di quei minuti episodi che si potevano aspettare; piccole avventure trascurabili: lavoro; il Maggiore e Frank lavoravano fianco a fianco. Un giorno come sterratori, un altro a trasportare fieno affumicato; poi a pulire i viali nel giardino di un mercante a riposo, il quale per tutto il tempo li aveva sorvegliati dalla veranda della sua casetta rossa, col sigaro tra i denti, e che infine aveva dato loro nove pence fra tutti e due. Avevano dormito alla ventura, una volta, perfino, data la pioggia, in un vero albergo, un'altra volta sotto una bica di fieno. Frank parlava appena con Gertie, e faceva poco più che ascoltare il Maggiore, il quale cominciava a ripetersi; ma s'era accorto che la ragazza lo guardava. La crisi avvenne nelle circostanze prevedibili, una sera di domenica piuttosto sentimentale, in un villaggio tra Selby e York di cui mi sfugge il nome (forse era Escrick). Frank al mattino era andato da 49/233 solo, per sentir Messa. Poi avevano fatto un buon pranzo, con prosciutto freddo e fagioli, e nel pomeriggio avevano fatto qualche miglio di cammino, giungendo al villaggio poco dopo le sei. Il Maggiore, per una vescichetta a un piede che aveva mostrato almeno quattro volte ai compagni, aveva rifiutato di proseguire ancora; e quando giunsero ai margini del villaggio, si offerse di andare a cercare un ricovero, purché lo attendessero ad uno steccato che attraverso i campi si congiungeva con la vecchia chiesa, La scena era quella del finale d'un melodramma popolare sul teatro di quella parte del Surrey, l'atto nel quale l'eroina offesa coi figli cade svenuta, mentre la gente va alla chiesa del villaggio, fra gli alberi, nella luce d'una sera di giugno, con effetti di luna e di folla. Non v'era l'orchestra per l'accompagnamento del finale, ma v'erano le campane, e dopo un po’ esse intenerirono il cuore di Gertie. Quando il Maggiore scomparve zoppicando, i due scavalcarono lo steccato e sedettero coi fagotti sotto il ciglio, ma ben presto si accorsero di essere in un punto di grande passaggio. Si cominciarono a sentir delle voci, che si fecero sempre più forti. La gente s'avvicinava, scavalcava lo steccato, e poi per il sentiero nel prato proseguiva verso la chiesa. I primi furono un giovane e una ragazza, che si strinsero subito e s'allontanarono, senza vedere i due vagabondi. Le loro teste erano vicinissime. Poi vennero delle coppie, giovani e vecchie, e due terzetti: uno, di due giovani vestiti di nero, che scodinzolavano ai lati di una calma ragazza in bianco; l'altro di due ragazze che discorrevano e ridevano, camminando tre passi dietro a un giovanotto col cappello in mano, che ci teneva a che gli parlassero e si dava l'aria di essere assorto nei suoi pensieri. Poi vennero dei bambini, e una famiglia: babbo, con aria seria, a sé, con un cappello di seta; mamma, grassa e rossa, in mezzo alla nidiata. Infine dei vecchi Taddeo e Veneranda, che con molte esclamazioni dialettali si aiutarono a scavalcare lo steccato, e proseguirono a testa china brontolando affettuosamente a vicenda. Quando questi ultimi giunsero al punto in cui il sentiero spariva nel campo di grano, le campane cominciarono a suonare e Gertie scoppiò a piangere. Frank non aveva fatto caso di lei in particolare. Per parte sua era cupo. La situazione non aveva più novità per lui; il Maggiore stava diventando intollerabile, e le emozioni religiose di Frank cominciavano a declinare. Da questo punto di vista la messa della mattina era stata una delusione. Frank aveva avuto un posto scomodo, in una panca di legno, in una chiesetta col tetto di lamiera e con un organo americano; il sacerdote, giovanissimo, era stato noioso e antipatico... Nonostante tutti i suoi sforzi, Frank era rimasto stanco e seccato: la chiesina era un forno, e non c'era nessun piacere a vedersi fissare dall'alto in basso da un grosso mercante all'uscire nel sole. 50/233 Proprio ora egli s'era indugiato a guardare con una specie di risentimento le persone che scavalcavano lo steccato, si raggruppavano, e si allontanavano scomparendo lentamente in mezzo al grano. Questa gente aveva trovato la propria vita; egli la cercava ancora. Egli guardava pure l'apparenza stranamente irreale dei campi illuminati dal sole, delle lunghe ombre, della luce dorata e fumosa, del campanile eretto tra i cipressi a mezzo miglio di distanza, ma senza rendersene bene conto. Non aveva detto una parola a Gertie, né essa a lui e fu colto completamente di sorpresa, quando, dopo il primo dolce rintocco delle campane per la funzione della sera, ella si gettò improvvisamente con la faccia tra l'erba e scoppiò in singhiozzi. - Oh, ragazza cara, - disse Frank - che cosa avete? Poi si fermò. Per fortuna la processione dei fedeli era terminata e i due vagabondi erano soli. Frank sedeva senza saper che cosa dire. Pensava che forse Gertie si sentisse male... doveva correre a cercare il Maggiore o un medico?.. Poi, quando dopo un minuto o due di violenti singhiozzi, ella mormorò poche parole incoerenti, egli comprese. - Oh, io sono una ragazza perduta... una ragazza perduta... è tutto così bello... le campane... mia madre! Frank comprese allora che cosa aveva precipitato la crisi e spezzato il riserbo della ragazza. Era lo stesso sentimento che tiene il loggione col fiato e le lacrime sospese all'ultimo atto del melodramma, la combinazione della calma domenicale, del tramonto, delle campane, delle relazioni umane; e l'animuccia suburbana di Gertie vi aveva risposto come una campana alla corda. Tutte queste cose, che per lei rappresentavano la santità, la pace, la purezza, le avevano toccato il cuore. E Frank comprendeva anche che era stata la sua presenza a permetterle di cedere a quei sentimenti. Frank sentiva un groppo in gola mentre guardava, disperato, prima i campi pieni della pace domenicale, poi la persona snella e mal vestita di Gertie, agitata dalla sofferenza... Non sapeva che cosa fare. Sperava che il Maggiore non tornasse subito. Allora capì che doveva dire qualche cosa, - Non piangete - disse. - Il Maggiore... Gertie si rizzò con costernazione improvvisa, col volto bello, triste, arso dal sole, tutto bagnato di lacrime, ma al momento infuocato per il timore. - No, no - disse Frank - non viene ancora, ma... Ella s'accasciò nuovamente gemendo e parlando. - Oh! io.. io sono una cattiva figliola... mia madre... e non avevo mai pensato che sarei arrivata a questo punto! - E allora, perché non lo lasciate? - chiese, pratico, Frank. - Non posso... non posso... io... io lo amo! Questa non era apparsa un'eventualità possibile al giovane, che 51/233 rimase zitto. Le campane continuavano a squillare; il sole si abbassava all'orizzonte; Gertie singhiozzava sempre più piano; e la mente di Frank turbinava come un mulino e faceva cento piani. Infine Gertie si quietò, rimase immobile, e quando una campana sola diede i rintocchi finali si rizzò. Si terse gli occhi con una manciata d'erba, vi passò sopra la manica, e cominciò a parlare. - Io... io sono sciocca davvero, Frank... Ma non posso farci nulla. Adesso sto meglio. Ma non dite nulla a Giorgio! - Non dirò nulla sicuro! - esclamò Frank indignato. - Siete un gentiluomo anche voi - disse Gertie (Frank sentì un certo rimescolìo nell'intimo, a quel “anche voi”). - Vedo che siete gentile con una signora. Eppure non so come abbia potuto parlarvi. Ma è così, e danno non ce n'è stato. - Perché non lo lasciate? - tornò a dire Frank con coraggio. Una piccola onda di sentimento le salì al viso. - È un gentiluomo - rispose. - No, non posso lasciarlo. Ma ci si sente oppressi, qualche volta, non è vero? - (Il suo volto tornò ad ondeggiare). - Sono state quelle campane, quella gente, tutto... - Dove stanno i vostri parenti? - Dalle parti di Londra... ma non c'è più nulla da fare. Ho scelto la mia strada, e... - Parlatemi francamente: vi maltratta? - Non si può dire. Mi ha dato uno schiaffo una volta, ma poi non più. - Se lo fa nuovamente, ditemelo. Negli occhi di lei comparve un piccolo e timido sguardo d'ammirazione. - Vedremo - ella disse. Frank avvertiva un certo senso di disillusione. La cosa era stata quasi commovente poco fa, quando il riserbo s'era spezzato, ma ora gli pareva che si fosse rivelata soltanto una povera animuccia (e non avvertiva ancora che proprio questo rendeva la cosa più commovente) . Non riusciva a vedere che cosa avrebbe dovuto fare. Era abbastanza cristiano per essere turbato dal complesso delle cose; ma era abbastanza aristocratico nella sua schifiltosità per pensare in quel momento che forse per gente di quel genere tutte quelle cose non importavano gran che. Forse era l'ideale più alto che persone come il Maggiore e Gertie potessero concepire. Ma l'osservazione che ella fece subito dopo infranse la sua soddisfazione di sé. - Voi siete cattolico - ella disse. - Dicono che voi cattolici non fate caso a cose di questo genere: di me e del Maggiore, ecco. V'era in questa osservazione un tono odioso di timido suggerimento che lo irritò. Egli scattò, con l'amarezza dell'orgoglio ferito. - Mia cara ragazza, i cattolici queste cose le condannano, senz'altro. E, quanto a me, credo che siano cosa da bestie. 52/233 - Sì... ma io... - Io credo che sia da bestie - insistette Frank in tono cattedratico. Una buona figliola come voi, ben educata, con buoni genitori, una bella casa, religiosa... e invece - (concluse in uno scoppio di amarezza ironica) - ve ne andate con un... - (indugiò alquanto) - con un uomo che non è vostro marito. perché non lo sposate? - Non posso - gemette Gertie, d'un subito colpita da rimorso. - Sua moglie vive. Frank trasalì come non gli era ancor successo. Eppure, come era caratteristico del Maggiore. - Bene... allora, lasciatelo. Non posso! - gridò la povera Gertie. - Non posso, non posso! 53/233 Capitolo IV Frank si svegliò di soprassalto ed aprì gli occhi; ma era ancora buio e non poté vedere nulla. Così si voltò dall'altra parte e cercò di riaddormentarsi. I tre compagni erano giunti a questa cittaduzza la sera prima, dopo due o tre giorni di lavoro regolare. Avevano messo assieme un po’ di denaro, avevano un programma fatto per un giorno o due; e, dato il genere di vita a cui Frank aveva imparato ad adattarsi, non v'era alcun motivo plausibile per spiegare il terrore che ricadde su di lui. Io, posso soltanto supporre che l'origine ne fosse dentro la sua personalità, non fuori. Il turbamento cominciò col senso che da un lato egli era realmente stanco, e che dall'altro non poteva prender sonno. E per soprammercato, sapeva che una marcia di venti miglia lo attendeva. Cominciò a dirsi che il sonno era una semplice questione di volontà di volontà che deliberatamente allenta l'attenzione. Si aggiustò un pochino, raddrizzò un piede, si adagiò un po’ meglio nel letto, infilò una mano sotto il guanciale, e cercò di abbandonarsi. Allora, la processione dei suoi pensieri cominciò, ordinata come a un segnale. Quasi subito, dopo aver enumerato tutti i minori motivi fisici del disagio, - i piedi che gli dolevano, il materasso che era pieno di nodi, la camera senz'aria che divideva con gli altri due, il Maggiore che russava; si trovò a considerare se ci fosse qualcosa di savio nella sua situazione. Era questo un punto che non aveva ancor considerato con coscienza, dal giorno in cui aveva lasciato Cambridge. L'impeto del suo primo impulso e l'estrema forza della sua decisione, assieme alla novità della cosa, lo avevano fino allora sostenuto. Si capisce che questo momento, presto o tardi, avrebbe dovuto venire. Ma pare un po’ duro che egli fosse costretto ad affrontarlo in quella chiarezza di mente particolarmente fredda che hanno le persone insonni un'ora o due prima dell'alba. Perché, come lo guardava ora, egli vedeva il problema come l'avrebbe visto un estraneo, non più dal punto di vista della propria personalità. Egli vedeva un giovanotto, capace e di eccellenti speranze, il quale sacrificava tutto a, un'idea che cadeva a pezzi al primo contatto. Egli la toccava ora con un dito critico, ed essa, in realtà, si frantumava. In essa, si vedeva, non c'era nulla. Era stato un impulso sciocco d'orgoglio, di ostinazione romantica, che non concludeva a nulla. V'era Merefield che lo attendeva, perché egli sapeva benissimo che un accordo sarebbe stato trovato. V'erano tutti quei comodi, quelle distinzioni senza pensieri in cui era cresciuto, e che sapeva bene come usare; v'era Jenny, v'era il suo cane, v'era il suo cavallo... v'era, insomma, tutto quel che Merefield 54/233 rappresentava. Ora egli vedeva tutto ciò, distinto e limpido nel buio; ed egli aveva cambiato tutto ciò, ecco, per questa stanza, per la compagnia del Maggiore... e senza ragione alcuna. Ruminò tutto questo per un bel pezzo; con gli occhi chiusi, avvolto nel buio, con ogni particolare nitido ed insistente come se fosse visto nella fredda luce del mattino, prima che i colori tornino a riaffermarsi e a comporre il tutto in un complesso ragionevole... - ... bisogna proprio che dorma! - si disse, e strinse gli occhi. Allora, naturalmente, venne la reazione, ed egli si rivolse alla sua religione. Cercò a tastoni la corona sotto il guanciale, si propose di meditare (secondo le istruzioni di quel libriccino) il mistero dell'Annunciazione di Maria, e cominciò il Pater Noster. A metà del Pater ricominciò a pensare a Cambridge, a Merefield, a Jack Kirkby, all'asta, all'ultimo pranzo, al disegno del “menu”, alla sciocchezza che aveva commesso; e quando il suo pensiero tornò al rosario, s'accorse di tener tra le dita il terz'ultimo grano della quinta decina. Aveva ripetuto quasi cinquanta avemarie senza la minima apparenza di attenzione. Terminò sconsolato, e poi selvaggiamente ricacciò la corona sotto il guanciale, si rivoltò ancora, desiderò che il Maggiore imparasse a dormire come un “gentleman”, e cominciò a pensare alla religione in se stessa. Dopo tutto - cominciò a dirsi - quale prova v'era, prova scientifica, che fosse proprio la religione vera? Certo, in essa v'erano molte cose davvero convincenti, v'era il curioso cerchio di affermazioni e di confidenza, v'era tutto il suo carattere, composto (come quello d'una persona) d'innumeri tocchi troppo esili per poter essere definiti; v'era la precisa evidenza addotta dalla storia, dalla filosofia e dal resto. Ma sotto tutto questo v'era al mondo, infine, una qualunque evidenza umana sufficiente per stabilire i dogmi stupefacenti che stavano alle radici? Era concepibile che una qualunque evidenza del genere potesse essere prodotta? Egli procedette a considerare la serie degli antichi dilemmi che, io penso, si sono presentati una volta o l'altra ad ogni essere ragionevole: libero arbitrio e predestinazione; amore e dolore; prescienza e peccato; eccetera eccetera. E, in quell'umore freddo e senza emozione, quando pare che la personalità rabbrividisca, nuda, alla presenza di forze mostruose e ripugnanti, gli sembrava che la sua religione, quanto qualunque altra, fosse del tutto impotente di fronte a loro. Andò più oltre. Cominciò a riflettere sulle innumeri devozioncelle concrete che aveva recentemente imparato - la ripetizione di certe parole, il compimento di certe azioni - il rosario, per esempio, e cominciò a chiedersi come fosse credibile che esse potessero avere la minima influenza sulle conclusioni eterne. Queste cose non s'erano ancora circondate dell'atmosfera 55/233 dell'esperienza e dell'associazione, ed avevano perduto il fascino della novità; stavano davanti a lui staccate, per dir così, e senza capacità di convincere. Non intendo affermare che durante quest'ora Frank in coscienza non credesse; egli onestamente cercava di rispondere a quelle domande; si appoggiò all'autorità e cercò di rassicurarsi riflettendo che cervelli di gran lunga più acuti del suo non avevano trovato in quei dilemmi un ostacolo definitivo per la fede; si pose al riparo della Chiesa, e cercò ciecamente di credere quello che Essa credeva. Ma, in un certo senso, egli era impotente; la spada dell'avversario era più pronta della sua; la sua volontà era quasi addormentata; il suo cuore era del tutto in letargo, e il suo intelletto era limpido fino a un certo punto, e straordinariamente rapido... Mezz'ora dopo egli si trovava in uno stato compassionevole, e aveva cominciato a chiedersi se Jenny gli fosse fedele. S'era rivolto al pensiero di lei come ultimo scampo per calmarsi e rassicurarsi, ed ora, nella freschezza dell'alba, anch'ella sembrava senza sostanza. Cominciò col pensare che Jenny non avrebbe vissuto per sempre; anzi, ella avrebbe potuto morire ben presto; e poteva morire lui; e terminò col domandarsi, prima, che cosa valesse l'amore umano, e poi, se egli possedesse quello di Jenny. Capiva ora, con assoluta certezza, che non v'era nulla in lui che potesse avere importanza per qualcuno; tutto era stato un errore, non tanto da parte sua quanto da parte di Jenny. Ella aveva creduto che egli fosse qualcosa che poi non era. Forse rimpiangeva già il fidanzamento; probabilmente non l'avrebbe mantenuto. E come, del resto, poteva ella curarsi di chi era stato tanto pazzo da rinunciare a Merefield, alle sue prospettive, al suo passato, alle sue possibilità, per gettarsi in un'avventura così assurda e fanciullesca? Così, ancora una volta, completò il cerchio, e la sua infelicità fu completa. Si mise a sedere sul letto con un movimento improvviso, mentre il filo dei suoi pensieri si ritorceva sul suo inizio. Intrecciò le mani attorno alle ginocchia e guardò attorno alla stanza. Adesso la finestra appariva un pallido rettangolo grigio, sotto il quale il Maggiore russava, e certi oggetti si cominciavano a vedere freddi e oscuri. Egli distingueva la seggiola con lo schienale rotto sulla quale erano ammonticchiati i suoi indumenti - meno la camicia di flanella che aveva indosso - e un'ombra di bianco dove la camicetta di Gertie era appesa a prender aria. Quasi s'attendeva che, a star seduto sul letto, le cose gli apparissero più tinte di speranza. Ma no. La vista della stanza qual era portò anche più il concreto e il materiale a pesar su di lui: quelle cose grosse che sono dette “il fatto”. E gli pareva che oltre ad esse non ci fossero altri fatti. Queste erano le ossa dell'Universo: una stanza mefitica, un abito di flanella ruvida, un'alba fredda, un russare nel 56/233 buio, e tre corpi, grevi di stanchezza... Una volta c'erano stati altri fatti; una volta erano esistiti Merefield, Cambridge, Eton; una volta Jenny era stata una persona viva che lo amava; una volta c'era stata una cosa chiamata Religione. Ma tutto questo non esisteva più. Frank, finalmente, aveva toccato la realtà. Tirò un sospiro lungo e sconsolato; si distese; ora conosceva il peggio, e in cinque minuti s'addormentò. Naturalmente a metà della giornata le cose avevano ripreso il loro corso, e s'erano raggiustate. Ma l'effetto rimaneva come un rumore sotto la superficie. Frank sapeva che una volta gli era stato possibile dubitare del valore di ogni cosa; sapeva che v'era una certa condizione di spirito nella quale sembra che nulla abbia valore. Era praticamente la sua prima esperienza del genere, ed egli non la comprese. Ma essa compiva la sua opera; ed io faccio partire da questo giorno un certo aumento di ostinazione, che si mostrava anche più chiara nel suo carattere. Due cose possono essere l'effetto di una condizione di spirito nella quale - anche se soltanto per un'ora o due - tutto ciò che non sia materiale assume un'apparenza di illusione: o lo spirito è abbassato, e queste cose sono leggermente trattate come dubbie; o la volontà stringe i denti e decide di vivere in conformità ad esse, siano o non siano dubbie. E questa io ritengo che sia la forma di fede più completa. Verso mezzogiorno lo spago che legava la bisaccia di Frank si spezzò, e parecchi oggetti caddero sulla strada. Egli represse un violento senso di irritazione e si voltò per raccoglierli. Il Maggiore e Gertie d'istinto si diressero ad un cancello nella siepe, posarono i loro fagotti e si appoggiarono. Frank raccolse le cose cadute - una camicia, un paio di scarpe più morbide, un rasoio, un pennello, una scatola di carne in conserva, un rosario, uno specchietto rotto -, e li rimise nel sacco sul margine della strada. Poi provò il legaccio, lo annodò, lo tirò, e lo strappò di nuovo. La scatola di carne, come un animaletto intelligente, rotolò frettolosa fuori dal sentiero e si tuffò nel rigagnolo. Il Maggiore scoppiò in una breve risata ed anche Gertie sorrise. Frank non disse nulla. Si distese sulla strada, immerse il braccio nell’acqua e ripescò la scatola, impiastricciata d'una fanghiglia spiacevolmente viscida. La ripulì nella manica della camicia e si pentì subito d'averlo fatto. Nuovamente impaccò le sue cose, nuovamente strinse la corda, e nuovamente questa si strappò. - Santo cielo! Tirate troppo forte. Frank alzò gli occhi con una specie di pazienza furiosa. Il suo istinto gli suggeriva di gettare a calci gli oggetti sparsi davanti a lui più lontano che fosse possibile. 57/233 - Avete un'altra corda? - domandò. - No. Mettetevi la roba in tasca, e partiamo. Frank non diede risposta. Si avvicinò alla siepe, tagliò un lungo ramoscello di nocciolo, lo liberò delle foglie, e con esso tentò ancora una volta di legare il suo pacco. Ma lo spigolo era troppo acuto, e proprio quando il legaccio stringeva in modo soddisfacente il ramoscello si spaccò, e questa volta il rasoio scivolò sulla strada, nell'unica pozzanghera che vi fosse. Il Maggiore sbuffò in allegra impazienza. - Ma... - Lasciatemi solo - disse Frank glaciale. - Dev'essere così, o nulla. Raccolse il rasoio nella pozzanghera, lo aprì ed asciugò la lama sulla manica. Intanto Gertie si mosse improvvisamente ed egli guardò in su. Quando riabbassò gli occhi s'accorse di aver fatto un taglio netto nella stoffa della giacca. Rimase immobile per un momento. Poi sedette sul margine, ed esaminò ancora lo spago. Il Maggiore cominciò a fare dei piccoli commenti offensivi. Frank alzò gli occhi. - Andate all'inferno! - brontolò a mezza voce - o dove più vi piace. Il pacco, lo faccio come voglio io, e non come volete voi. *** Ora, questa è una specie di parabola. È cosa realmente avvenuta, perché fu riferita da Frank a un testimonio esattamente come io l'ho raccontata, e mi pare che sia un piccolo simbolo magnifico del suo stato d'animo. Non si può giustificare, d'accordo - soprattutto - il deplorevole linguaggio che chiuse l'episodio. Ma a me pare che essa dia un'esatta visione, per dire così, in spaccato, del carattere di Frank. Le cose dovevano andare in una certa maniera; egli non vedeva alcun motivo per cambiare questa maniera, e, alla fine, naturalmente, lo spago tenne. Dev'essere stata per lui una grande soddisfazione. Pare che a Frank dovesse essere concesso allora di saggiare diverse condizioni di spirito, perché un giorno o due dopo egli ebbe un risveglio del tutto diverso. Erano giunti a un punto della campagna che io non sono stato capace di identificare, e avevano deciso di passare la notte all'aperto. V'era un boschetto a un centinaio di passi dalla strada, e nel boschetto due capannuccie, costruite, probabilmente, per la caccia al piccione. Il Maggiore e Gertie presero possesso di una, Frank dell'altra, dopo aver cenato al buio sotto le betulle. Frank dormì sodo e a lungo, risvegliandosi però una volta, in quello strano momento della notte in cui la terra gira e sospira nel suo 58/233 sonno, quando ogni mucca si alza e torna a coricarsi. Egli ebbe la sensazione di un canto acuto e sottile come un corno da caccia, che provenisse da qualche fattoria fuor di vista; poi si voltò dall'altra parte e si riaddormentò. Quando si risvegliò era chiaro. Rimase disteso, guardando l'intreccio dei ramoscelli sul suo capo, le foglie delle betulle, il cielo visibile solo a sprazzi, sentendosi proprio sveglio e proprio contento. Quando si mosse era un po’ intirizzito, è vero, ma quella specie di letizia interiore faceva parer ciò senza importanza. Dopo un minuto o due egli si alzò a sedere, cercò le scarpe, le infilò. Poi sciolse la sciarpa dal collo, e uscì all'aperto. Era in quella pausa strana che precede l'alba, quando la luce è diventata tanto intensa da far svanire le stelle, e da analizzare i colori della terra in fredde tinte decise. Attorno a lui ogni cosa era assolutamente immota, ed egli, di sotto agli alberi uscì sull'ampio prato del parco, di cui il boschetto era una specie di orlo. La rugiada bagnava i pendii erbosi, ma non v'era ancora luce sufficiente per farla brillare. Ovunque, punteggiando il verde, v'erano centinaia di conigli, i più vicini a meno di venti passi da lui. Il silenzio e la solennità della scena gli parvero straordinari. Non v'era una foglia che si muovesse; tutte pendevano come se fossero state tagliate nell'acciaio. Non v'era un uccello che cinguettasse, né un gallo che cantasse in distanza. I conigli lo fissavano senza paura in quell'ora di tregua. Gli pareva di esser giunto inaspettatamente davanti a un immenso palcoscenico. Sul dramma del giorno prima era calato il sipario, il cambiamento notturno della scena era stato compiuto, ma gli attori del nuovo ed eterno dramma non erano ancora giunti. Di qui a un'ora ci sarebbero tutti; i suoni sarebbero ricominciati, gli uomini avrebbero nuovamente percorso i sentieri dei campi, gli uccelli si sarebbero affaccendati, il vento si sarebbe risvegliato e l'incessante mormorio delle foglie avrebbe risposto al suo richiamo. Ma ora la scena era sgombra, spazzata, lavata, pulita, silenziosa. Era soprattutto la solennità che impressionava Frank, la solennità e un'aria di attesa. Pure non era attesa soltanto. V'era come un suggerimento di quel che è fondamentale ed essenziale, come se, forse, il suono e il movimento non fossero, intendo, altro che interruzioni; come se questo equilibrio immoto della natura fosse qualcosa di completo in se stesso; come se questi alberi lasciassero pendere le loro foglie per ascoltare qualcosa che essi potevano realmente udire, come se queste creature immobili del sottobosco guardassero qualcosa che esse potevano realmente vedere; come se vi fosse qualche grande segreto che nel silenzio assoluto e nell'invisibilità fosse realmente presente e palese soltanto per coloro che avevano i sensi necessari per percepirlo. 59/233 Era cosa strana guardare la vita da questo punto di vista: riguardare indietro ai giorni e agli avvenimenti che erano passati, guardare avanti ai giorni e agli avvenimenti che erano futuri. Era ancora possibile per Frank guardare a queste cose come un estraneo e con deliberata critica, come aveva fatto nella camera puzzolente dell'albergo in città. Pure adesso - quantunque fosse nuovamente estraneo, quantunque fosse nuovamente fuori del turbine della vita reale, - gli pareva di guardar le cose - fissando, così, quasi senza vederli, i pendii erbosi che gli si stendevano davanti, - proprio dal punto di vista opposto. Allora, le cose fisiche e tangibili gli erano apparse come le sole cose reali, e tutte le altre, illusioni. Ora, erano le cose fisiche a parere illusorie, e qualcosa d'altro ad essere reale. Ancora una volta i due elementi della vita erano dissociati: la materia e lo spirito; ma ora era ovviamente lo spirito a palesarsi la realtà, come lo era stata la materia un giorno o due innanzi. Era manifestamente assurdo considerare queste cose esteriori che egli vedeva se non come una cornice a qualcosa di completamente diverso: esse erano troppo silenziose, troppo immote, troppo limitate, per essere complete in se stesse. Esse celavano qualche cosa di sostanziale. Così, allora, egli guardava e ruminava, a mala pena accorgendosi che stava pensando, tanto intensamente era consapevole di quel che pensava. Non che comprendesse qualcosa di ciò che guardava: egli avvertiva soltanto che v'era qualcosa da comprendere. E gli alberi rimanevano rigidi davanti a lui, ed oltre ad essi stava il cielo azzurro, chiaro e immobile come un sasso, non ancora palpitante per l'alba imminente; e l'erba stava davanti a lui contratta dal freddo, pareva; con ogni filo bagnato di rugiada; e il silenzio era profondo. Allora un gallo cantò, un miglio distante, un chicchiricchì sottile e sfrontato. Un coniglio si rizzò, poi si raccolse, e saltò via, e l'incanto svanì come la nebbia. Frank si volse e tornò sotto gli alberi, per vedere se il Maggiore era sveglio. 60/233 Capitolo V Siamo giunti ora ad uno di quei pochi avvenimenti deplorevoli nella carriera di Frank, per i quali non v'è nessuna giustificazione. E quel che fa pena, è che non pare che Frank pensasse neppure che una giustificazione fosse necessaria. Nel suo diario egli non accenna ad alcun pentimento; eppure i moralisti sono concordi nel dirci che non dobbiamo mai fare il male perché ne venga il bene. L'incidente può fare il paio soltanto con la sua avventata azione di lasciare Cambridge sfidando i consigli e il buon senso; a tal punto, occorre aggiungere, quanto un atto legalmente permissibile per quanto pazzesco può esser messo a pari con un autentico delitto. I moralisti, probabilmente, ci direbbero infatti che il primo conduce inevitabilmente al secondo. Avvenne così. Una o due volte egli era stato tormentato dal bruciante sospetto che questo o quell'altro contributo portato dal Maggiore alla mensa comune. non fosse di provenienza legittima. Quando un gentiluomo, del quale si sa che non ha in tasca più di mezzo scellino, e al quale piace bere, lascia il ricovero di un boschetto, supponiamo, alle sette di sera, e ricompare quaranta minuti dopo piuttosto ansante, con un pollo appena spennato, o magari con un pollo non spennato affatto e ancor caldo; o con una mezza dozzina di uova; e per di più esce nuovamente in serata e ritorna con un forte odore di alcool e con gli occhi lacrimosi, può sembrare alquanto dubbio che egli sia stato scrupolosamente onesto. In casi del genere Frank perseverava a cercare qualche scusa per non partecipare al festino; se lo poneva come punto d'orgoglio. Ma è difficile comprendere che si trattasse soltanto d'orgoglio in un giovane che non si faceva scrupolo di mendicare in caso di necessità. Pure, era così, e anche il Maggiore, che cominciava col protestare, finiva con l'adattarsi. Quando il fatto avvenne, si trovavano nelle vicinanze di Market Weighton; io non sono in grado di identificare la località precisa. La situazione era questa. Per l'alloggio della notte avevano trovato una eccellente cascina di fianco alla strada, all'uscita di un villaggio. Dietro v'erano gli edifici della fattoria, e i familiari del contadino erano andati a letto. Il sole era tramontato ed era buio. Avevano cenato parcamente, per forza di cose, ed avevano terminato fin l'ultimo boccone (Frank anzi s'era trovato a raccogliere meccanicamente le briciole col dito inumidito). Era stata una settimana cattiva. Il grano non era ancora pronto per la mietitura, e pareva che nessuno avesse lavoro per uomini onesti. L'umore del Maggiore era diventato terribile, egli aveva perfino fatto osservazioni sul dilemma di un asilo per i poveri e di un rasoio. Dopo la cena si era alzato, aveva rovesciato le tasche del panciotto per 61/233 ricuperare fin l'ultimo frammento di tabacco, ed aveva fumato un quarto di pipa di questa polvere senza dire una parola. Poi ne aveva brontolato una serie, aveva preso il cappello ed era scomparso. Anche Frank era più stanco e depresso del solito. Gli ultimi fili di romanticismo avevano lasciato la sua avventura da un pezzo; eppure la sua ostinazione rimaneva ferma. Ma non si sentiva di parlare. Guardava irrequieto Gertie; che irrequieta anch'essa, cominciava a distendere degli indumenti non precisati per preparare un letto nell'angolo. Egli non le diceva parola, né lei a lui. Cominciava a sentire il sonno, quando udì dei passi piuttosto affrettati, come di uno che cercasse di camminare in punta di piedi, venendo dal prato; un istante dopo il Maggiore si precipitò dentro. - Spegnete questa maledetta luce! – stridette sottovoce. Il mozzicone di candela sparì con la rapidità del pensiero. - Che c'è? - chiese Frank alzandosi. Aveva intravisto uno sguardo energico nel volto del compagno, che lo interessava. Vi fu un silenzio di tomba. Gertie sembrava congelata immobile nel suo angolo, come se avesse esperienza di casi analoghi. Frank ascoltò a tutt'orecchi. Era inutile guardare nel buio; qua nella cascina l'oscurità era completa. Dapprincipio non si senti alcun rumore, salvo di tanto in tanto il leggerissimo strascicare di una scarpa chiodata, che lasciava capire che il Maggiore cercava di nascondere qualche cosa. Poi, tanto improvvisamente che egli trasalì, Frank sentì una mano sul braccio, e un respiro puzzolente di tabacco. (Ahimè, quella sera non c'era stato nulla da bere). - Vedete, Frank, ragazzo mio... Io... ho la cosa con me... che posso farne?.. buttarla via sarebbe inutile: la troverebbero. - Avete, che cosa?... - mormorò Frank. - C'era una bambina, per la strada... aveva una scatola... non so neppure che cosa sia... e... e ha gridato, e qualcuno è venuto fuori. Ma non hanno potuto riconoscermi. Era troppo scuro. - Zitto! - bisbigliò secco Frank, stringendogli il braccio. Ma era soltanto un topo. - Ebbene? - riprese. - Frankie... se la prendeste voi, e... ve ne andaste... Ci potremmo rivedere dopo. Io ho paura che qualcuno, prima, ci abbia visto attraversare il villaggio assieme. Ci cercheranno... ci cercheranno di sicuro. - Ai vostri affari, pensateci voi - mormorò pronto Frank. - Frankie, ragazzo mio... non siate duro con un povero diavolo... Io... io non posso lasciare Gertie. - Nascondete la scatola, allora. - È inutile, la troverebbero... Santo cielo! Tacque a un tratto, perché una luce, appena distinta e subito scomparsa, brillò attraverso una fessura della parete. Poi si udì un 62/233 mormorio di voci. Frank sentì che l'uomo accovacciato al suo fianco si alzava, senza rumore, e in quell'istante la sua decisione fu presa. - Datemi qua. Sentì una cosa liscia, piatta e circolare che gli veniva messa in mano, con un bisbiglio che non riuscì a comprendere, e al tempo stesso udì un rumore di passi all'esterno. Ebbe appena il tempo di cacciare la cosa nella giacca e rotolarcisi sopra, come se fosse addormentato, quando la porta si spalancò, e tre o quattro uomini, con un poliziotto alla testa, irruppero nella cascina. È atto di carità, io penso, tacere il nome della cittadina dove il processo ebbe luogo. Gli eccellenti magistrati che lo presiedettero fecero certamente del loro meglio, in circostanze assai difficili. Che cosa si può fare infatti se un uomo accusato di furto apertamente si dichiara colpevole? Eppure essi si sentirebbero turbati al sapere di aver commesso un autentico errore giudiziario. Alle dieci del venerdì cominciarono a giungere le vetture: l'automobile dello Squire, il carrozzino del Rettore, il “brougham” del Generale in pensione. Presiedeva il Generale. L'aula non era più tetra di quel che siano di solito le aule giudiziarie. Quando la visitai nel piccolo pellegrinaggio intrapreso pochi mesi fa, era stata imbiancata, e le parti di legno verniciate a noce. Anche così, non era allegra. A un'estremità, sotto una delle finestre, sopra una pedana, davanti a una lunga tavola coperta di panno, erano schierati cinque seggioloni. Poi, a un livello più basso, stava la tavola del Pubblico Ministero e dei cancellieri. Una ringhiera li separava dalla folla che si assiepava, calda ed eccitata, per vedere i criminali ed assistere all'amministrazione della giustizia. Prima fu una causa originata da antiche rivalità famigliari, le quali avevano finito con esplodere in un delitto: una signora, come battuta finale di un vivace dialogo tenuto sulla porta di casa, aveva scagliato uno zoccolo sulla testa di un'altra; la mira era stata ben presa, e la vittima era adesso comparsa per fare la sua deposizione con una gran benda bianca sotto il berretto. Il fatto aveva eccitato la folla oltre il consueto, perché ambedue le signore erano ben note in società. Il Generale era un vecchio dall'aspetto simpatico (Frank ne riconobbe il nome appena fu pronunciato, quantunque non l'avesse mai visto di persona), e conversava lietamente coi magistrati suoi colleghi mentre stavano occupando i loro posti. Il Rettore era... ecco, come gli altri Rettori, e lo 'Squire come gli altri signorotti. Si giunse alle undici e tre quarti prima che la faccenda delle signore fosse sistemata. Esse furono ambedue paternamente ammonite e 63/233 rimandate alle loro faccende, dato che era risultata dubbia la evidenza se la signora con la benda avesse o no provocato l'attacco, non soltanto col suo linguaggio, ma anche col gettare una buccia di banana alla signora senza benda. Ad esse venne fatto un predicozzo, ai loro mariti venne imposto di tenerle a freno, e se n'andarono tutt'e due, un po’ mogie, a discutere tutto sopra una pinta di birra. Vi fu ora un certo movimento nell'uditorio. Un poliziotto che, senza elmo, pareva singolarmente umano, si avanzò dalla porta e prese posto di fianco alla ringhiera. I magistrati, i cancellieri, il Pubblico Ministero conferirono alquanto assieme e diedero alcuni ordini. Poi la porta vicino alla Corte, che conduceva alla cella della polizia, si aprì, e Frank venne avanti fino al banco degli accusati, seguito da un altro poliziotto, che chiuse la barriera dietro al prigioniero e rimase in piedi, attendendo, come Rhadamanthus. Attraverso la cancellata, tra la folla, comparivano in prima fila le facce del Maggiore e di Gertie. Non abbiamo da preoccuparci dei preliminari - a dire il vero, non ricordo come si siano svolti - Frank disse il nome: Frank Gregory; l'età: ventidue anni; l'occupazione: lavoratore occasionale; il domicilio: senza fissa dimora. Gli fu letta l'accusa. Secondo la quale, egli, la sera del martedì ventitre corrente, nel villaggio... (di cui tacerei il nome, anche se lo conoscessi), aveva carpito a Maggie Cooper, dell'età di anni nove, una scatola di salmone a scopo di furto. La domanda fatta al prigioniero fu questa: “Si confessava colpevole, o no?” - Mi confesso colpevole, signore - disse Frank, senza tremare. Egli era stato in cella due giorni interi, e ciò non aveva migliorato il suo aspetto. Era sempre abbronzato dal sole, ma un po’ pallido sotto gli occhi, e con la barba lunga. Poi s'era deliberatamente arruffato i capelli, e messo gli abiti in modo di parere il più trasandato possibile. Rispose con una voce bassa, in modo di attrarre meno che fosse possibile l'attenzione. Entrando aveva dato una rapida occhiata ai Magistrati, per assicurarsi di non averli mai incontrati a pranzo o a caccia e s'era sentito profondamente sollevato nel trovarli del tutto sconosciuti. - Vi confessate colpevole, dunque? - chiese il Generale. Frank accennò di si col capo. - Bene, bene! Sentiamo tutta la storia. Dov'è la parte lesa? Una bimbetta pallida e spaventata comparve in un piccolo palco di fronte a Frank. Una virtuosa madre vestita di seta nera la seguiva. Risultò che la bimba stava andando da una zia - suo padre era pizzicagnolo - per portarle una scatola di salmone che era stata promessa e dimenticata. Per questo la bimba era uscita così tardi? All'angolo di Parker Lane un uomo le era saltato addosso e le aveva strappato la scatola. (No, egli non aveva usato altra violenza). Ella 64/233 aveva strillato con tutta la sua voce, e Mrs. Jennings aveva aperto la porta. Allora l'uomo era scappato. - Avete visto bene l'uomo? - No, non lo aveva visto affatto. Aveva visto soltanto che era un uomo. A questo punto la teste lanciò a Frank un'occhiata indignata, quasi vendicativa. Seguirono pochi testimoni, che confermarono la deposizione. Mrs. Jennings, una vedova che curava la casa del fratello, capo operaio a Marks’Yard, ratificò la dichiarazione circa l'apertura della porta. Ella stava per chiudere per la notte, quando aveva udito la bimba strillare. Suo fratello, un uomo con la barba nera, dall'aspetto severo, terminò la storia. Egli aveva udito la chiamata della sorella mentre stava togliendosi le scarpe, in fondo alla scala; era corso coi lacci sciolti in tempo per vedere l'uomo che scompariva dietro il municipio, a cinquanta passi di distanza. No, neppure lui aveva visto distintamente l'uomo, ma lo aveva visto prima, in compagnia di un altro. Essi erano venuti nel pomeriggio alla sua fabbrica per chiedere lavoro, che era stato rifiutato, perché non occorreva mano d'opera. - Bene, e poi, che cosa avvenne? Mr. Jennings, correndo, aveva bussato a due e tre porte, fra le altre a quella dell'agente di polizia, ed era giunto in tempo a sentire i passi dell'imputato nella strada che conduceva alla cascina. Allora s'era fermato, perché non aveva più fiato e perché l'uomo s'era cacciato in trappola, non essendovi uscita dalla strada se non attraverso la fattoria di Mr. Patten. E là c'erano i cani. Infine il poliziotto corroborò tutta la storia, ed aggiunse che egli, assieme a Mr. Jennings e a due altri, era immediatamente “proceduto” alla cascina, e là aveva trovato il prigioniero che si fingeva addormentato, con la scatola di salmone (presentata in giudizio e deposta sulla tavola) nascosta nella giacca. Egli l'aveva sequestrata. - V'era qualcun altro nella cascina? - Sì, v'erano due persone, che avevano dato il nome di George e Gertie Trustcott. Costoro, se i magistrati lo consentivano, erano disposti a testimoniare sull'identità del prigioniero, e sul fatto che la sera in questione egli s'era allontanato ed era tornato alla cascina... Sì, essi erano presenti nell'aula. Il Generale cominciava a diventare stizzoso. Pareva che fosse un magistrato a cui piaceva mostrarsi paterno, e che il linguaggio oltremodo corretto del poliziotto lo facesse impazientire. Egli si rivolse a Frank - e parve che avesse del tutto dimenticato i due testimoni non ancora sentiti - e parlò piuttosto rude: - E voi, non negate tutto questo? Vi confessate colpevole, eh? - Sì, signore - disse Frank fissando il salmone roseo che decorava la scatola. - perché lo avete fatto? 65/233 - Avevo fame, signore. - Avete fame, eh? Un giovanotto robusto come voi? Non potreste lavorare? - Quando trovo lavoro, signore. - Eh?.. Eh... Già, può anche essere vero. Quel giorno, almeno, non l'avevate trovato. Ce l'ha detto il signor... Come si chiama... - Sì, signore. A questo punto il Rettore si sporse avanti con gran spavento di Frank. - Voi parlate come un uomo istruito. - Vi pare, signore? Mi fa piacere sentirlo. Nella Corte vi fu un leggero rider sotto i baffi. - Dove siete stato educato? - insisté il Rettore. - Debbo anche incriminarmi, signore? - Incriminarvi? - fece il Generale, d'un tratto interessato. - Eh? Eh già, dopo una buona educazione. Capisco. No, non v'incriminate, ragazzo mio. - Grazie, signore. - E vi confessate colpevole? E vorreste che il giudizio fosse pronunciato senz'altro? - Se non vi spiace, signore. Il cancelliere si alzò dal suo posto, e cominciò a bisbigliare coi magistrati. Frank comprese perfettamente quel che avveniva; capì che era dubbio se il suo caso potesse o non essere definito in questa sede. Dentro di sé esplose in violente invettive contro le supreme autorità, mentre il Generale tornava a sedersi. - Sciocchezze, sciocchezze! Non si tratta affatto di rapina sulle pubbliche strade, nello stretto significato del termine. Pronunceremo noi il giudizio, non è vero, signori? Vi fu ancora un po’ di mormorio, e finalmente il Generale si accomodò sul seggiolone e prese una penna d'oca. - Bene, pronunceremo subito la sentenza, ragazzo mio, come desiderate. Mi spiace vedere un giovanotto come voi in questa situazione - specialmente se avete avuto una buona educazione, come pare. Cosa vile, lo comprendete, aggredire così una bambina, non è vero? anche se avevate fame, Dovreste sapervi dominare di più, non vi pare? un giovanottone come voi... e non lasciarvi trascinare da un po’ di fame, Ragazzi come voi dovrebbero arruolarsi: diventerebbero subito uomini. Ma no... io vi conosco, Voi preferite fare il Michelaccio e prender quel che capita, piuttosto che servire Sua Maestà, Bene, bene, non vi costringe nessuno - non ancora... ma dovreste pensarci. Venite a trovarmi, se volete, quando avrete finito la pena, e vedremo quel che si potrà fare, Non sarebbe meglio che vagabondar per le strade e rubare scatole di salmone, eh? Bene, non ho altro da aggiungere. Ma voi pensateci. E intanto, vi diamo quattordici giorni. 66/233 Poi, nell'allontanarsi, Frank vide che i tre magistrati avevano ripreso la conversazione. Trovo difficile da spiegare, anche a me stesso, la straordinaria depressione che gravò su Frank durante quelle due settimane. Dopo di allora egli a malapena ne poteva parlare, e nel suo diario vi sono soltanto due o tre righe misuratissime anch'esse. A quanto pare non gli dava alcuna soddisfazione sapere che la prova era dipesa soltanto da lui, e che era stato il pensiero di Gertie a indurlo, in un primo momento, a prendere la scatola dalle mani del Maggiore, Ad ogni modo non pare che provasse alcun senso di aver commesso una colpa o almeno un errore. Si sarebbe detta cosa ottima per tutti, e in particolare per Gertie, che il Maggiore fosse stato tenuto in prigione per un po’ di tempo. A lui non avrebbe fatto male, e sarebbe stata un'ottima occasione per liberare Gertie dalla sua compagnia. Frank poi non ammetteva di aver fatto male a dichiararsi colpevole. Egli si difendeva (debbo ammetterlo, con una certa abilità), dicendo che è pacifico che la dichiarazione di essere innocente è puramente formale, e che essa non lega alcuno, in nessun modo, alla sua intrinseca verità (e qui almeno egli ha ragione, almeno secondo la Teologia morale e secondo il senso comune): e perciò, secondo lui, anche l'affermazione opposta è puramente formale. Eppure, in quei quattordici giorni, egli fu depresso fino all'estremo limite della malinconia. Vi contribuivano parecchie cause. Prima, v'era l'estrema ignominia di tutte le circostanze, dal paterno predicozzo nella Corte, alla presenza di pizzicagnoli e di dame che si gettavano gli zoccoli, all'increscioso viaggio in ferrovia con le manette ai polsi, alla gente che si affollava a guardare e a ridere, fino alla vita di prigione. Non è piacevole per una persona pulita essere sospettato di sporcizia, esser condotto al bagno ed esaminato da un uomo che evidentemente soffre di una specie di eczema; non è piacevole sentirsi dare ordini perentori da gente in uniforme, che tre mesi prima si sarebbe affrettata a togliersi il cappello, e dover fare senza indugio né esitazione questo e quest'altro, per il semplice motivo che qualcuno lo ordina. Poi, v'era l'improvviso cambiamento di vita: la dieta, la clausura. Infine, v'era il pensiero, tanto più terribile perché non v'era mezzo di verificarne il fondamento, della differenza che tutto ciò avrebbe portato nei rapporti dei suoi amici verso di lui, non solo, ma anche di lui stesso verso di sé. L'innocenza di una colpa non può astrarre del tutto dall'angoscia e dal marchio d'infamia che deriva dalla sua punizione. Egli si immaginava di dirlo a Jenny: cercava di vederla ridere, e non sempre ci riusciva. La situazione era completamente disforme da tutto ciò che egli 67/233 sapeva di lei; eppure qualche volta, in quelle notti quando le ore si trascinavano insonni, gli pareva di vederla che lo guardava con una sfumatura di sprezzo. “Ad ogni modo”, gli pareva di sentirla dire, “se anche non l'hai fatto tu, ti sei fatto amico d'un uomo che lo ha fatto. E in prigione ci sei stato”. Oh, vi sono mille eccellenti spiegazioni della sua depressione, davvero terribile: eppure non mi pare che siano affatto in armonia con quanto so di Frank, per pensare che la spieghino realmente. Preferisco credere, con un certo prete che incontreremo nel racconto, che si trattasse soltanto di uno stadio in un processo che doveva compiersi, e che se non fosse avvenuto così avrebbe dovuto avvenire in un altro modo. Quanto alla sua religione, pareva che ogni elemento emozionale di essa scomparisse definitivamente al contatto della realtà ignominiosa. Egli continuava a riconoscere le ragioni intellettuali per le quali s'era fatto cattolico, ma la religione sembrava tanto distante da lui, quanto, per dirne una, la conoscenza delle leggi acquistata a Cambridge, o l'abilità che aveva avuto al “tennis”. Certo non gli dava nessuna consolazione riflettere alle sofferenze dei martiri cristiani! Venne dimesso la sera del venerdì, e per scongiurare ogni pericolo di essere identificato, fece di corsa la strada fin oltre l'edificio della prigione. Aveva avuto un breve colloquio col Governatore - un uomo di coscienza e di fede, che si faceva scrupolo di dire ad ogni carcerato, prima del rilascio, ciò che chiamava “poche sentite parole”. Ma, come era da attendersi, esse furono straordinariamente fuor di proposito. Era del tutto inutile per Frank sentirsi invitare a cercare un modo di vivere onesto: era quel che egli aveva cercato di fare ogni giorno - dal giugno in poi - e di non andare in giro derubando le bimbe innocenti di cose come scatole di salmone: e questa era proprio l'ultima cosa che egli avesse mai pensato di fare. Frank aveva avuto anche alcuni colloqui col cappellano della Chiesa Stabilita, in conseguenza del suo risoluto diniego di riconoscersi appartenente a un determinato corpo religioso (egli aveva deciso di eludere anche questo possibile appiglio per la sua identificazione); e questi colloqui non erano stati di utilità alcuna. A che serve essere intrattenuti sull'opportunità di voltare la pagina quando non si vede alcun motivo per farlo? e gli opuscoli lasciati con tatto nella cella allo stesso scopo erano stati inutili del pari. Frank li aveva letti avidamente da capo a fondo. Poi non li aveva presi a calci, perché sarebbe stato offensivo per le eccellenti intenzioni del reverendo signore... Non ho alcun desiderio di dipingere Frank quale era quando s'allontanò correndo dalla prigione. È un contrasto davvero drastico con la gaiezza con la quale aveva cominciato il suo pellegrinaggio. 68/233 *** Durante quei quindici giorni, Frank aveva avuto il tempo di pensare ai suoi progetti, e si diresse difilato all'ufficio postale. Il Governatore gli aveva dato mezza corona per ricominciare la vita, ed egli si proponeva di scialare immediatamente quattro pence in due francobolli, due fogli di carta e due buste. La prima lettera doveva essere per Jack; la seconda per il Maggiore Trustcott, che gli aveva dato l'indirizzo presso cui sarebbe stato reperibile verso quella data. Ma sopraggiunsero subito due o tre difficoltà. Frank giunse all'ufficio postale, salì i gradini e varcò la porta. L'ambiente era stato decorato da poco, con un bancone di mogano, e leggere griglie di ottone, dietro le quali due signorine, che ci tenevano ad apparire aristocratiche, erano occupate in conversazione; esse, come Frank apprese dalle poche frasi sentite prima che si azzardasse, ad interrompere un così alto colloquio, erano Miss Mills e Miss Jamieson. Dopo una rispettosa pausa, Frank osò fare la sua domanda: - Due francobolli, due fogli di carta e due buste, per favore... Miss (egli disse così). Miss Mills continuò la sua conversazione. - ... Così le dissi che non poteva andare, che certo Harold l'avrebbe spuntata, e che allora... Frank strisciò un po’ il piede. Miss Mills gli diede un'occhiata. - Sarà un gran pasticcio, vi dico io, Miss Jamieson. - Avete fatto benissimo, cara. - Due francobolli, due fogli di carta e due buste, per favore, Miss ripeté Frank picchiando con la moneta sul banco. Miss Mills si alzò lentamente dal suo.. posto, fece un passo o due e prese un grosso libro. Frank le diede un'occhiata piena di gratitudine. Poi ella prese una penna e cominciò a registrarvi delle cifre. - Due francobolli, due fogli di carta e due buste, per favore. La voce di Frank aveva vibrato un pochino di rabbia. Egli non aveva ancora imparato la lezione. Miss Mills terminò la sua registrazione: guardò Frank con suprema degnazione, e finalmente prese un foglio di francobolli. - Da un pence? - chiese bruscamente. - Sì, per favore. Due francobolli da un pence furono gettati di sotto la griglia, e due monete da un pence ritirate. - Ed ora, due fogli di carta e due buste, per favore, Miss - proseguì Frank incoraggiato. Pensava d'esser stato sciocco ad arrabbiarsi. Miss Jamieson fece una risatina e guardò Miss Mills. Miss Mills 69/233 strinse le labbra e riprese la penna. - Vorreste essere tanto gentile da darmi quel che ho chiesto, per favore? Tutto Frank; s'accese in questa piccola frase. Ma Miss Mills non gli fu inferiore. - Dovreste far altro, invece di venire a chiedere qua queste cose! Perdere il tempo a questo modo! - Non ne avete? Miss Mills grugnì leggermente. Miss Jamieson ridacchiò. - La carta si cerca dai cartolai. Questo è un ufficio postale. Le parole non possono riprodurre tutta la superba dignità dell'alta educazione espressa con questa frase. Frank avrebbe dovuto capire di essersi reso colpevole di una grave impertinenza nel chiedere simili cose a Miss Mills: l'aveva trattata quasi come una commessa di negozio! Ma ormai era arrabbiato davvero. - Allora, perché non avete avuto la cortesia di dirmelo subito? Miss Jamieson depose un lavoretto che stava agucchiando. - Attento, giovanotto, non venite a fare il gradasso e a minacciare qua dentro. Dovrei chiamare il poliziotto... Ero al processo venerdì scorso, sapete.... Frank rimase per un istante immobile, furibondo. Poi il coraggio gli mancò, e uscì senza aggiungere una parola. Finalmente le lettere vennero scritte, quella sera sul tardi, nella sala posteriore di una piccola locanda ove Frank aveva fissato un letto. Mentre scrivo ho davanti agli occhi quella inviata a Jack, e la copio tale e quale. È senza indirizzo e senza data. “Caro Jack”, “Ho bisogno del tuo aiuto. Vorrei che tu andassi a Merefield, e che vedessi prima Jenny e poi mio padre; e che a lei dicessi chiaro e tondo che io sono stato in prigione per quindici giorni. Bisogna che Jenny lo sappia per la prima, per vedere quel che si deve dire a mio padre. Il motivo per cui sono stato dentro è che mi sono confessato colpevole di aver rubato una scatola di salmone a una bambina, certa Mary Coopero Il resoconto del processo puoi leggerlo sulla “County Gazette” di sabato scorso, 27. Quello che ho fatto in realtà è soltanto di aver ricevuto la scatola da un compagno di viaggio. Me lo ha chiesto lui. “Poi, vorrei che mandassi le lettere che possono esserti giunte per me all'indirizzo scritto sul foglietto che accludo.. Per favore, distruggilo subito. Ma a Jenny puoi mostrare questa lettera e dirle che l'amo. Tu non devi venirmi a vedere. Se non verrai, verrò io da te, forse presto. “Le cose, per ora, sono andate malissimo, ma me la sono sempre cavata. 70/233 Tuo F. P.S. - Beninteso, indirizzami al nome di Frank Gregory. Di qui si vede che egli era più ostinato che mai. I fastidi di Frank in conseguenza della condanna non erano affatto terminati con la sua umiliante conversazione con la signorina dell'ufficio postale. Il seguente gli capitò al primo mattino della domenica, quando partiva dalla piccola città. Aveva appena svoltato dalla via principale e stava salendo per un tranquillo viottolo che pareva conducesse alla strada di York, quando passando davanti all'imboccatura di uno stretto vicolo chiuso, avvertì una spiacevole scena. Un giovane alto e dinoccolato, in abito da lavoro, evidentemente un po’ eccitato dall'alcool, aveva preso un miserabile vecchio per il colletto con una mano, e con l'altra lo stava schiaffeggiando. Ora, io non vorrei rappresentare Frank come una specie di cavaliere errante, ma il fatto sta che se una persona che abbia sensi di umanità e di dignità si fa vagabondo (lo so dalla bocca di persone che ne hanno esperienza), deve ben presto acconciarsi a fare il raddrizzatore di torti, o ad essere opportunamente miope. Frank non aveva ancora esperienza bastante per aver imparato la saggezza della seconda alternativa. Egli penetrò senz'altro nel vicolo, e senza far parole colpì il giovanotto con quanta forza aveva sotto l'orecchio che gli era più vicino. Pare che vi sia stato un momento di silenziosa sorpresa. Il giovane, lasciando il vecchio. che fuggì nel cortile; si rivolse a Frank, che parò. Al tempo stesso una donna cominciò a strillare, mentre le finestre e le porte si popolavano di facce nuove. È curioso come i costumi del Medio Evo, al pari di talune delle sue imprecazioni, sembra che siano discesi nei lombi del lavoratore britannico. Nei tempi antichi, come nelle risse di oggi, era cosa normale assalire l'avversario con pugni con insulti. Così avvenne ora. Il giovanotto, con un torrente di contumelie, domandò chi Frank pensasse che egli fosse; chiese da dove veniva; pretese dalla società in genere una spiegazione sull'intervento di un estraneo negli affari di un figlio di un padre qualificato. Vi fu un mormorio di approvazione e di dissenso, e Frank rispose, con poche espressioni addomesticate che aveva imparato ad usare come una specie di maschera verbale, che s'infischiava di quanti padri e figli fossero in questione; che non voleva vedere dei prepotenti di una certa risma maltrattare dei vecchi e che sarebbe stato contento di prendere il posto della vittima... Allora la battaglia cominciò. 71/233 Frank aveva imparato il pugilato a Cambridge, in una palestra di Market Street, e sapeva perfettamente come difendersi. Ricevette, proprio sulla mammella sinistra, metà soltanto della forza di un colpo violentissimo, prima di riscaldarsi nel suo lavoro; ma poi fu lui a darle, e il giovane dinoccolato a prenderle. Frank era anche scientifico: si batteva alla maniera americana, abbassando con le due braccia mezze distese (e pare che questo abbia completamente. disorientato l'avversario), e non faceva alcuno sforzo per toccarlo in volto. Lo colpì proprio sotto al punto ove si dividono le costole, e dove - a quel che mi dice un medico - è situato un centro nervoso conosciuto come “salar plexus”. Poi girò con considerevole agilità attorno al suo avversario. e a poco a poco condusse la battaglia sempre più, vicina allo sbocco del vicolo. Ormai conosceva abbastanza la cavalleria dei bassifondi, per sapere che se ci fosse stato un compare o un sicofante del giovanotto, egli avrebbe potuto benissimo (se l'amico ne avesse avuto il coraggio) cadere d'un tratto per un colpo sul collo che lo avrebbe posto fuori combattimento. Eppoi, non era sicuro se nella questione c'entrasse o no una donna; in questo caso, il colpo sarebbe stato vibrato con una bottiglia rotta, maneggiata come un pugnale. Per questo desiderava avere attorno a sé più spazio di quel che il vicolo concedesse. Ma non vi fu bisogno di precauzioni. Il giovanotto cominciava a sembrar piuttosto malconcio sotto gli occhi; e aveva singhiozzato già tre o quattro volte in modo penoso. quando improvvisamente il clamore attorno alla lotta cessò. Frank avvertì una voce acuta di vecchio, che gridava qualcosa alle sue spalle; e l'istante successivo, mentre l'avversario lasciava cader le mani, si sentì afferrare di dietro le braccia, e, contorcendosi per il dolore, distinse una manica turchina e una mano inguantata che lo teneva. - Ehi, che avviene? - disse una voce al suo orecchio. Vi fu un coro di spiegazioni, che dichiaravano che “Alb” era stato attaccato senza provocazione. V'era una donna eccezionalmente loquace, che con le braccia rosse e con modo assai persuasivo si avanzò sulla soglia di un uscio, e descrisse l'incidente dal suo punto di vista. Ella stava distendendo i panni dei bambini, cominciò, e così di seguito e Frank fu dichiarato l'aggressore, e “Alb” la vittima innocente. Poi il coro riprese, e “Alb”, dopo un altro attacco di singhiozzi, corroborò la testimonianza con una voce rotta e pateticamente indignata. Frank sciolse un braccio dalla stretta, e, sempre tenuto per l'altro, riuscì a voltarsi. - Sta bene. Non voglio scappare... Ecco questa è una menzogna. Egli picchiava questo vecchio. Dov'è andato? Venite qua, zio, e diteci 72/233 tutto. Il vecchio si fece avanti, torcendo la bocca sdentata in una emozione inesplicabile, e confermò quello che avevano detto la donna rossa e il coro in genere, con una verbosità e un'enfasi da sbalordire. - Ma siete matto?!... - disse Frank laconico. - Di che cosa avete paura? Ma dite la verità, dunque: non stava battendovi? - He, he, he - ridacchiò il vecchio, lacerato tra il desiderio di mettersi al sicuro, da un lato, e, speriamo, da un desiderio di giustizia dall'altro. - Non è che mi battesse... è mio figlio... “Alb” è... stavamo proprio... - Via! levatevi di qua! - interruppe il poliziotto, lasciando Frank con uno spintone. Non abbiamo bisogno di gente come voi, qua. Venire a portare il disordine... Già, ragazzo mio: non dovete guardarmi così. Vi conosco! - A chi parlate dei due? - troncò Frank. - So benissimo a chi sto parlando - sentenziò il poliziotto. - Frank Gregory, non mi sbaglio. Ora levatevi dai piedi, se non volete tornar nei pasticci. V'era qualcosa di vagamente cortese nei modi dell'uomo, e Frank comprese che egli sapeva quanto basta da che parte stesse la verità, ma che desiderava impedire ulteriori disordini. Soffocò la sua ira; altre parole sarebbero state inutili; ma il senso dell'ingiustizia universale era amaro davvero, E volse le spalle. E Frank, risalendo la strada, sentì quel zelante funzionario che arringava la folla con notevole energia, Ma ciò gli era di ben scarso conforto, Si allontanò dalla città con l'ira e il risentimento ancora ribollenti nel cuore, Per l'indegnità di tutto l'affare. Al pomeriggio della domenica Frank aveva fatto un bel po’ di strada verso York. Era un giorno di sole caldo e pesante, ma le nubi si accumulavano basse sull'orizzonte, ed egli si sentiva stanco e depresso, quando finalmente, verso le due passate, giunse sulla strada di un villaggio, di cui, ancora una volta, taccio il nome. I suoi averi erano adesso assai ridotti. Il denaro era sfumato a poco a poco, durante il viaggio col Maggiore, e delle altre cose egli aveva conservato soltanto una camicia di flanella, un paio di calze grosse, e un tegamino comperato per via. La mezza corona del Governatore era stata tutta spesa, meno quattro pence, ed egli voleva giungere con almeno questa somma in tasca fino a York, dove avrebbe dovuto ritrovare il Maggiore. Con due pence avrebbe pagato il letto, con gli altri due la cena. Verso la metà della strada si fermò bruscamente. Di fronte gli stava una piccola chiesa di mattoni, discosta dalla cancellata per pochi metri di piazzale attraversato da un sentiero. Un cartello avvertiva 73/233 che in quella chiesa del Sacro Cuore la Messa era celebrata la domenica alle undici, le altre feste di precetto alle nove, e i giorni feriali alle otto e mezzo. Le confessioni alla sera del sabato e del giovedì precedente il primo venerdì del mese, dalle otto alle nove. Il catechismo la domenica alle tre; e rosario, predica e benedizione alle sette. Un gattone grasso, che sembrava morto, giaceva disteso sotto il cartello. Il cancello era aperto, e Frank pensò un momento, guardando la casa vicina. Essa era senza dubbio il presbiterio. Non aveva ancor mai chiesto l'elemosina a un prete, ed ora esitò un pochino. Poi attraversò la strada entrando nella zona d'ombra al lato opposto, si appoggiò al muricciolo e guardò. La strada era deserta e tranquilla, e tutto era avvolto dall'aria calda dell'estate e dalla luce del sole. V'era un altro gatto su una soglia a quattro passi, ed egli si domandò come fosse possibile che un essere vivente, con quel caldo, stesse così arrotolato con la testa tra i piedi e la coda proprio sul naso. Un gallo sognante cantava a perdifiato chissà dove, e una leggera brezza torrida sollevava una bava di polvere in mezzo alla strada e la lasciava ricadere. Anche il presbiterio aveva un aspetto invitante, in un giorno come questo. Frank aveva camminato per più di venticinque miglia, e il pensiero di una stanza buia e fresca era delizioso. Era una casetta d'aspetto riservato, di mattoni come la chiesa, serrata tra la chiesa e una gran drogheria con un'insegna sgargiante sulle imposte chiuse. Tutte le finestre erano aperte; all'interno pendevano cortine di merletto a buon mercato, protette da schermi per la polvere. Egli si figurò i cibi freddi che probabilmente erano deposti all'interno, e la sua immaginazione gli fece comparire un'altra caraffa trasparente, piena di qualcosa come chiaretto, ancora piena a metà. Quel giorno, Frank non aveva pranzato. Allora coraggiosamente attraversò zoppicando la strada, alzò il battente ed attese, Non accadde nulla. Dopo un po’ il gatto che era sotto il cartello comparve all'angolo, sogguardò sospettoso Frank, decise che non era una persona pericolosa, proseguì con passi leggeri, salì all'estremità della scala di mattoni, e cominciò a inarcarsi e a fregar la schiena contro l'angolo della porta, Frank picchiò un'altra volta, interrompendo il gatto per un istante, e poi si chinò per fargli il solletico sotto la gola, Il gatto ronfò contento. Nella casa risuonarono dei passi: il gatto cessò di stirarsi, e appena la porta si aprì s'infilò in casa, senza rumore, con la coda eretta, dietro la donna che teneva la porta ostilmente chiusa a metà. La donna aveva un viso sottile, e occhi neri e vivaci. - Che cosa volete? - chiese brusca, guardando con sospetto la 74/233 persona di Frank, dall'alto in basso. Il suo sguardo si fermò un momento sull'ecchimosi alla mascella. - Vorrei vedere il Reverendo, per favore - disse Frank. - Non è possibile. - Mi spiace molto, ma debbo vederlo. - Venite a mendicare! - esclamò la donna con asprezza. - Io avrei vergogna! Levatevi dai piedi! Frank si sentì un momento ferito nella sua dignità. - Non mi parlate con quel tono, per favore. Io sono cattolico, e debbo vedere il Reverendo, La donna rise forte: ma prima che potesse parlare, s'udì il rumore d'una porta che s'apriva, e di un passo rapido sul linoleum del corridoio. - Che c'è? - chiese una voce, mentre la donna si faceva da parte. Era un giovanotto grosso e fiorente, coi capelli gialli, rosso come se avesse dormito: gli occhi erano lucidi e parevano stanchi, e il collare era sbottonato. Anche la sottana era sbottonata alla gola, e il prete teneva in mano un fazzolettone rosso. Era chiaro che un momento prima l'aveva sulla faccia: Ora io non ho alcuna intenzione di biasimare questo prete. Egli aveva cantato la messa tardi - cosa che non gli garbava mai - e affamato com'era aveva mangiato due piatti interi d'arrosto, con “pudding” del Yorkshire, e aveva bevuto un bicchiere e mezzo di buona birra. Poi s'era immerso in un sonno profondo, prima del catechismo, quando i passi e le voci lo avevano risvegliato. Inoltre, qualunque vagabondo cattolico che passava per questa strada gli faceva una visita, ed egli non aveva ancora trovato un caso di vero bisogno. Appena giunto qua, aveva dapprincipio soccorso i mendicanti con larga generosità, quantunque vivesse con uno stipendio di novanta sterline all'anno (e ne dava quindici alla domestica). - Che volete? - chiese. - Potrei parlarvi, padre? - disse Frank. - Certo. Ditemi quel che desiderate. - Vorreste aiutarmi con mezzo scellino, padre? Il prete era silenzioso, mentre fissava da vicino Frank. - Siete cattolico? - Sì, padre. - Non vi ho visto alla messa, stamattina. - Stamattina non ero qua. Ero in cammino. - Dove l'avete sentita? - Non l'ho sentita affatto, padre. Ero in cammino. - Che occupazione avete? - Non ne ho. - E perché. Frank crollò un poco le spalle. 75/233 - Lavoro quando ne trovo - disse. - Parlate come una persona istruita. - Sono stato educato benissimo. Il prete rise un pochino. - Che cosa è quella contusione sulla guancia? - È stata una baruffa per la strada, ieri mattina, padre. - Oh, questa è bella! Da dove venite adesso? Frank tacque un momento. Era assai accaldato e stanco. Poi parlò. - Sono stato in prigione fino a venerdì scorso - disse. Mi hanno condannato a quindici giorni per un furto a una bambina, il giorno, ventisei. Mi sono confessato colpevole. Potete aiutarmi, padre? Se il prete non fosse stato ancora un po’ istupidito dal sonno, e non fosse stato investito in pieno dal sole abbagliante. avrebbe potuto essere impressionato da quest'ultima frase. Ma egli si trovava in quelle condizioni svantaggiose, e non vide in essa altro che insolenza. Rise di nuovo, con un riso secco e arrabbiato. - Mi meraviglio della vostra faccia! - disse - No, no di sicuro. E dovreste imparare l'educazione, prima di mendicare. Poi sbatté la porta. Dopo dieci minuti si destò da un pisolino, definitivamente sveglio e si guardò attorno. Sul tavolino accanto stava un formaggio d'Olanda un grosso pezzo di pane croccante, e del morbido burro in una salsiera. V'era anche un buon bicchiere di birra - non di chiaretto, -, in una caraffa di vetro, proprio come se l'era figurata Frank. S'alzò e andò alla porta della strada, facendosi riparo agli occhi contro il sole. Ma la strada, rovente e polverosa nella luce del pomeriggio, era deserta da un estremo all'altro, se non si conta un gatto, avvolto col naso nella coda, sul gradino della drogheria. Poi vide due bambini, in grembiule bianco, che comparivano da un angolo, e ricordò che era quasi l'ora della dottrina. 76/233 Capitolo VI Press'a poco nel momento in cui Frank entrava nel villaggio del prete, Jenny, avendo finito di pranzare col padre, aveva preso un libro, due sigarette, una scatola di fiammiferi e un ventaglio giapponese, ed era uscita in giardino. Non aveva nulla da fare per quel pomeriggio: aveva suonato benissimo l'organo nel servizio del mattino, e l'avrebbe suonato altrettanto bene in quello della sera. Le devozioni pomeridiane nella piccola e calda scuola domenicale - così ella aveva deciso con suo padre un anno o due fa - e la cura dei bambini, erano assai meglio affidate alle mani professionali delle maestrine. Uscì dalla porta del salottino, spalancata e ombreggiata da tende, e, attraversato il prato, andò al sedile sotto i vecchi tassi. Vi si adagiò, con un piede alzato, accese una sigaretta, gettò il fiammifero e cominciò a leggere. Ella non aveva ricevuto nulla da Frank da quasi tre settimane, da quando era giunta una cartolina illustrata da Selby Abbey, con l'iniziale “F” ben tracciata soltanto. Aveva scritto le sue lettere, come aveva promesso, e aveva saputo da Jack Kirkby, alla cura del quale ella le aveva affidate, che egli non aveva idea alcuna di dove Frank fosse o fosse andato, e che gli avrebbe fatto proseguire le lettere quando ne avesse saputo di più. Ella supponeva che Frank avrebbe nuovamente comunicato con lei appena l'avesse ritenuto opportuno. Altre circostanze che debbono essere notate, sono che Dick era andato in città un po’ di tempo prima, ma che sarebbe ritornato quasi subito, per la caccia alle anatre; che Archie e Lord Talgarth si trovavano ambedue al castello - anzi proprio quella mattina ella li aveva scorti tra le cortine rosse, nel banco del coro, e aveva scambiato alcune parole con essi dopo il servizio, - e che sotto tutti gli altri aspetti le cose erano tali e quali come due mesi avanti. Il Decano del Trinity College aveva telegrafato con gran sgomento la mattina dopo il suo primo messaggio, che Frank era partito, e che nessuno aveva la minima idea di dove si fosse diretto; aveva chiesto se doveva far seguire le sue tracce da qualche “detective”, e in risposta era stato pregato, con tatto ma con fermezza, di pensare ai casi suoi e di lasciare che Lord Talgarth pensasse a quelli di suo figlio. Era un pomeriggio sonnolento, anche qua tra le colline, e Jenny non lesse molte pagine prima di accorgersene. Il giardino della Rettoria era un luogo quasi perfetto per un pisolino. I tassi facevano attorno a Jenny un'ombra gradevole, e i tigli alle spalle rinfrescavano anche più l'aria, e quando la brezza si risvegliava, pareva che mormorasse attorno una pioggerella cortese, come se qualcuno cantasse la ninnananna. L'aria era limpida e scintillante d'insetti; dai tigli, dalle aiuole 77/233 di gerani, dal frutteto, a cinquanta passi di distanza, veniva il calmo ronzio delle api... Jenny si risvegliò dopo venti minuti con un soprassalto, e vide qualcuno ritto quasi sopra a lei. Posò il piede a terra, ancora turbata dall'improvvisa novità e dalla luce a cui aveva aperto gli occhi, e vide che era Jack Kirkby, il quale appariva impolverato e accaldato. - Mi spiace - si scusò Jack - ma mi hanno detto che eravate qui fuori... Ella non conosceva perfettamente Jack, quantunque lo conoscesse da molto tempo. Lo considerava un ragazzo piacevole, che talvolta le capitava di incontrare alle gare di “tennis” e alle mostre dei fiori, o in occasioni del genere; ed ella sapeva a meraviglia come parlare ai giovanotti. - Come siete stato gentile a venire - disse. - In bicicletta? Volete bere qualcosa? Gli fece posto sul sedile, e gli porse la sua seconda sigaretta. - È l'ultima che avete - disse Jack. - Ne ho in casa quante ne voglio. Ella lo guardava accendere la sigaretta, e mentre le ultime tracce di sonno svanivano, fece le domande necessarie. - Avete notizie di Frank? Jack gettò il fiammifero e tirò due o tre boccate di fumo prima di rispondere. - Sì - disse. - Dov'è? - M'ha dato un indirizzo di York, quantunque non fosse là quando mi scrisse. Gli ho mandato la vostra lettera ieri. - Oh! E ha detto qualcosa di sé? Jack la fissò. - Ecco, sì, sono venuto appunto per questo. Non è molto piacevole. - È ammalato? - chiese Jenny bruscamente. - Oh, no, niente affatto. Almeno, non lo dice. - Allora, che cosa c'è? Jack si frugò in tasca, e trasse una lettera, che trattenne un momento, prima di spiegare. - Credo che sia meglio che leggiate voi quel che scrive, Miss Launton. Non è piacevole, ma adesso è finito tutto. Credo che sia meglio dirvelo per prima cosa. Jenny tese la mano senza parlare. Jack le diede la lettera, e volse le sue cure alla sigaretta. Queste cose non gli piacevano affatto; avrebbe preferito che Frank non gli avesse dato commissioni così incresciose. Ma, naturalmente, bisognava farle. Guardò il prato, la casa addormentata, ma senza veder altro che la ragazza vestita di bianco con la lettera in mano. Quando l'ebbe terminata, ella la rivoltò e la lesse daccapo. Poi rimase immobile, 78/233 tenendo la lettera sulle ginocchia. - Povero, caro ragazzo! - disse d'un tratto, tranquillissima. Un'immensa ondata di sollievo si alzò e avvolse Jack. Egli s'era sentito straordinariamente a disagio quella mattina, fin da quando la lettera gli era giunta. Il suo primo impulso era stato quello di partire subito dopo la colazione; poi aveva rinviato fino al “lunch”; infine, dopo aver mangiato un po’ di carne fredda verso le dodici e mezzo, era partito. S'era detto che doveva concedere a Jenny tutto il tempo necessario perché ella potesse scrivere in tempo per la posta serale della domenica. Jack non aveva precisamente dubitato di Jenny; la confidenza di Frank era troppo sicura e troppo contagiosa. Ma aveva riflettuto che non era un'ambasciata del tutto piacevole quella di informare una ragazza che il suo fidanzato era stato in prigione per quindici giorni. Ma il tono con cui ella aveva subito pronunciato quelle tre parole era tanto sereno e tanto compassionevole, che egli era stato rassicurato appieno. Jenny era proprio una creatura stupenda, disse a se stesso. - Sono proprio contento che la prendiate così - disse. Jenny lo guardò coi suoi occhi chiari e diritti. - Non pensavate mica che lo avrei maltrattato, vero?... è proprio una delle sue! Suppongo che lo abbia fatto per salvare qualche briccone. - Credo anch'io. - Povero, caro ragazzo! - ella ripeté. Vi fu un momento di silenzio; poi Jack riprese: - Ecco, debbo andare a dirlo a Lord Talgarth, Miss Launton, e vorrei che veniste con me. Poi potremo scrivere tutt'e due con la posta di stasera. Per un istante Jenny non disse nulla. Poi: - Penso anch'io. Andiamo subito? credo che lo troveremo in giardino. Jack trasalì un poco. Jenny gli sorrise apertamente. - Meglio finirla, Mr. Jack. Lo so anch'io, è come andar dal dentista. Ma non può essere brutto come vi immaginate. Eppoi, io potrò tenervi mano in qualche modo, per così dire. - Spero che non mi toccherà gridare - osservò Jack. - Sì, è meglio andar subito, se non vi spiace. Si alzò ed attese. Jenny si alzò subito anch'essa. - Prendo un cappello. Mi attendete qua? A mio padre non dico nulla fino a stasera. Il parco sembrava delizioso, mentre essi camminavano lentamente sull'erba all'ombra degli alberi. I grandi faggi e gli olmi si alzavano in masse torreggianti, a gruppi, nella prospettiva; sotto al più vicino un gran cervo, circondato da 79/233 una mezza dozzina di cerbiatte, guardava i viandanti. L'aria era immota. Soltanto da oltre la collina giungeva il suono di una campana solitaria, con la quale qualche “clergyman” zelante cercava di radunare gli agnelli del suo gregge per l'istruzione nella religione cristiana. - Che bellezza! - disse Jack, muovendo una mano languida verso il cervo. - Avete mai sentito parlare della baruffa tra me e Frank, quand'eravamo ragazzi? Jenny sorrise. Ella non aveva detto una parola da quando aveva lasciato la casa del Rettore. - Sì, parecchio. Cos'era stato? Jack raccontò una storia di pellirosse e di imboscate, di archi e di frecce, che terminava con la fuga di un cervo infuriato sopra la palizzata e tra le aiuole del giardino. Era, anche allora, un pomeriggio di domenica. - Ricordo che Frank fu bastonato dal maggiordomo, per ordine esplicito di Lord Talgarth. È certo che lo aveva meritato. Io me la cavai, perché ero ospite. - Quanti anni avevate? - Eravamo tutti e due sugli undici anni, mi pare. - Frank mi fa l'impressione, ancor adesso, di avere dodici anni soltanto - osservò Jenny. - Per certe cose, avete ragione - ammise Jack. - Santo cielo! come fa caldo! - e si fece vento col cappello. Non v'era segno di vita quando entrarono nella corte e attraversarono il portico. E infine quando il maggiordomo comparve, lo stato irregolare del suo colletto dimostrava ch'egli s'era infilato la giubba proprio in quel momento. (Doveva essere circa il momento in cui Frank lasciava il villaggio dopo il colloquio col prete). Sì, pareva probabile che Lord Talgarth fosse in giardino. E se sì, quasi certamente nel piazzale sotto i tassi, in fondo alla spianata superiore. Sua Signoria di solito andava là nelle giornate calde. Volevano, Miss Launton e Mr. Kirkby, passar da questo viale? No, non doveva disturbarsi. Avrebbero trovato da sé la strada. Alla spianata superiore? - Alla spianata superiore, Miss. La spianata superiore era l'unica parte del vecchio giardino dei tempi di Elisabetta che fosse rimasta del tutto immutata. Da ogni lato si alzava una gigantesca parete di tassi, simile al bastione di un castello, spessa almeno dieci piedi. Fra le due pareti, correva, fino alla meridiana, un largo viale inghiaiato, fiancheggiato a destra e a sinistra da vasti letti erbosi. che risplendevano dei colori dell'estate morente. In due o tre punti erano attraversati da sentieri, che per pochi metri di tappeto erboso conducevano a finestre tagliate nella 80/233 siepe per aprire una vista sul lago sottostante, lungo e luccicante. Un altro viale inghiaiato, parallelo al primo, conduceva a un piccolo quadrato di tassi posto all'estremo ciglio della collina. Le due persone che, mute, uscivano dalla casa per la porta del giardino svoltarono sul viale, percorsero il viale dei tassi, e finalmente svoltarono sul viale inghiaiato e si fermarono sconcertate. Sua Signoria c'era davvero! In un angolo, di fronte a loro, v'era una poltrona di vimini, in posizione tale che il movimento del sole non avrebbe toccato l'ombra deliziosa in cui essa era collocata. A fianco v'era un tavolino, e sul tavolino il “Times” spiegazzato, una scatola di sigari, una caraffa iridescente di liquore, un sifone e un bicchierino con un po’ di ghiaccio. Nella poltrona di vimini, con la bocca spalancata, stava Lord Talgarth. - Santo cielo - mormorò Jenny. Vi fu un istante di silenzio, e poi, come un tuono lontano, un basso russare meditativo. Non era un oggetto di bellezza e di dignità quello che essi contemplavano! - Un momento, e scoppio a ridere... - dichiarò Jenny, sussurrando ancora con prudenza. - Penso che faremo meglio... - cominciò Jack, e si fermò pietrificato, al vedere che un occhio vendicativo s'era aperto e lo fissava, si sarebbe detto, con un'espressione di malignità. Poi anche l'altro occhio si aprì, la bocca si chiuse di colpo, Lord Talgarth si alzò. - Dio mi benedica! Il vecchio girò gli occhi attorno, mentre riprendeva coscienza. - Non dovete vergognarvi - disse Jenny. - Mr. Jack Kirkby ha sorpreso me allo stesso modo, mezz'ora fa. Sua Signoria non era ancora tornato nel pieno possesso dei suoi sensi. Egli fissava ancora i due giovani innocentemente come un bambino, raschiò una o due volte la gola, e finalmente s'alzò. - Jack Kirkby, già. Come state Jack e Jenny? - Siamo qua - disse Jenny. - Siete del tutto a posto? - A posto?.. Eh!... - (fece una risatina) - Sedete. Ci dev'essere qualche seggiola. Jack ne trasse fuori un paio, che erano riposte, piegate, contro la bassa siepe di tassi che limitava la finestra, e le distese. - Sigaro, Jack? - No, grazie. Essi erano in buoni rapporti. Jack era un ottimo tiratore, ed era elegante e deferente. Lord Talgarth non chiedeva di più a un giovanotto. - Bene... che cosa c'è? Jack pensò bene di lasciare a Jenny il compito di iniziare la 81/233 campagna. Ed ella lo fece con molto tatto. - Mr. Jack è venuto da me - ella disse - ed io ho pensato che non avrei potuto trattar meglio la cosa che conducendolo da voi. Non avreste una sigaretta, Lord Talgarth? Egli si cercò in tasca, ne trasse un astuccio e lo porse attraverso la tavola. - Grazie - disse Jenny; e poi, senza il minimo cambiamento di tono: Abbiamo notizie di Frank, finalmente. - Di Frank, eh?.. avete notizie? E che cosa fa adesso, quel ragazzaccio? - È nei pasticci, come al solito, povero ragazzo - notò allegramente Jenny. - Sta bene, grazie, e vi manda i suoi saluti. Lord Talgarth le lanciò un'occhiata piena di interrogativi. - Bene, se anche non l'ha fatto, son certa che ne aveva l'intenzione, proseguì Jenny - ma credo che l'abbia dimenticato. Il fatto è che è stato in prigione. Il vecchio la trafisse con una tale occhiata, che anche a lei per un istante mancarono i nervi. Jack vide che ella si portò la sigaretta alle labbra con la mano che tremava, sia pure leggerissimamente. Eppure, prima che il vecchio avesse potuto dire una parola, ella si era ripresa. - Lasciatemi dire tutto per filo e per segno, prima. No, non mi interrompete! Mr. Jack mi diede la lettera... oh, eccola! - La trasse fuori, e cominciò a spiegarla, mentre continuava a parlare con stupefacente calma e dominio di sé. - Ve ne leggerò le parti importanti. È scritta a Mr. Kirkby. L'ha ricevuta stamattina, è stato tanto gentile da portarla subito qua. Jack stava guardando come un “terrier”. Da una parte vedeva emozioni tanto furiose e contrastanti che non riuscivano a trovare espressione, dall'altra un ritegno e una personalità così completa e così dominatrice che tenevano assolutamente il campo e non permettevano alcuno sfogo. La voce di lei era fredda, alta e naturale... Allora egli s'accorse che Jenny gli dava un'occhiata di fianco, e pure perfettamente intelligibile. Egli si alzò. - Sì, fate pure due passi, Mr. Kirkby... tornate tra dieci minuti. E mentre egli ripassava sotto l'arco dei tassi, udì che ella cominciava a leggere la lettera, con un tono di voce incredibilmente normale. “Caro Jack... ”. Allora cominciò a chiedersi, come motivo interessante, quale sarebbe stata la prima reazione di Lord Talgarth. Ma sentì che poteva lasciare a Jenny il compito di domarlo. Jenny era una ragazza di straordinaria sanità e buon senso. Jack si trovava all'estremità della spianata, quando l'orologio delle scuderie batté per la seconda volta il quarto. Egli calcolò che 82/233 dovevano essere circa diciassette minuti, e si volse riluttante per tener fede all'appuntamento. Ma non aveva ancor fatto trenta passi, quando vide comparire una figura bianca, con un gran cappello bianco. Jenny gli fece un cenno col capo, ed egli la seguì sulla gradinata. Quando l'ebbe raggiunto, ella gli diede un'occhiata come per rassicurarlo, ma non disse una parola, né buona né cattiva, finché non ebbero oltrepassato la casa e non furono per un pezzo avanti nel galoppatoio. - Ebbene? - chiese Jack. Jenny esitò un momento. - Immagino che chiunque altro lo avrebbe definito un violento rispose. - Povero caro vecchio! Ma a me, tutto considerato, pare che si sia comportato piuttosto bene. - E che cosa intende fare? - Se si volesse prendere sul serio anche una parte soltanto di quello che ha detto, si dovrebbe credere che egli intenda frustare Frank colle sue mani, cacciarlo a pedate su per la scala, e ricacciarlo in basso, e finalmente farlo annegare nel lago con una pietra al collo. Il programma, press'a poco, è questo. - Ma... - Oh, non c'è da spaventarsi - disse Jenny. - Ma se mi chiedete quel che farà davvero, io non ne ho la più lontana idea. - Gli avete suggerito nulla? - Egli sa quali sono le mie idee. - E sarebbero? - Ecco: dargli un assegno decente, e lasciare che si arrangi. - Non lo farà - esclamò Jack. - Sarebbe una cosa troppo sensata! - Credete? - Già, risolverebbe senz'altro il problema, - proseguì Jack - il matrimonio e tutto il resto. Suppongo che potrebbero essere un ottocento sterline all'anno. E Talgarth deve averne almeno trentamila. - Oh, anche più - disse Jenny. - A Mr. Dick ne passa milleduecento. Vi fu una pausa. Jack non sapeva che cosa pensare, soltanto, era sicuro che le cose sarebbero andate molto peggio, se avesse voluto fare da sé. - E allora, che cosa debbo dire a Frank? Jenny fece un'altra pausa. - Mi pare che la cosa migliore che possiate fare sia di non scriver gli affatto. Gli scriverò io stessa questa sera, se volete darmi il suo indirizzo, e gli spiegherò tutto. - Non posso - disse Jack. - Mi spiace molto, ma... - Non potete darmi l'indirizzo? - No, temo. Avete visto, Frank è molto preciso nella sua lettera. - Allora, come faccio a scrivergli? Mr. Kirkby, voi siete davvero... - Perbacco, è semplice. Se non vi spiace che attenda alla Rettoria, potreste scrivergli subito, e dare a me la lettera da impostare. Partirà 83/233 presto lo stesso, da Barham. Egli le diede un'occhiata incerta. La risposta lo rassicurò. - Va benissimo. Se non dispiace a voi attendere. Quando vi ritornarono. il giardino del Rettore dava ancor più l'impressione d'un porto di rifugio. Il sole era adesso più basso e tutto il prato era in ombra. Giunta alla porta Jenny si fermò - Credo che sarà meglio che vada subito a scrivere. A mio padre parlerò quando sarete partito. Volete attendere qua? - e indicò il sedile su cui erano già stati assieme. Ma passò quasi un'ora prima che ella ricomparisse, e intanto una servetta linda, in grembiule e cuffia, era venuta discretamente col necessario per il tè, l'aveva deposto sulla tavola e s'era ritirata. Jack aveva rimuginato centomila pensieri, che tutti giravano attorno ad un solo soggetto, Frank. Era stato per lui un vero colpo, quel mattino. Gli era intollerabile pensare a Frank in prigione, perché poteva figurarsi fin troppo bene che cosa ciò significasse per lui; e il tono della lettera era stato così profondamente dissimile dal consueto... Egli si sarebbe atteso un torrente ribollente di osservazioni - sagge e sciocche - pieno di descrizioni personali e di pennellate impertinenti. E invece, v'era stata quella sobria narrazione dei fatti e quella domanda... Ma v'era in tutto un profondo sollievo; che vi fosse una ragazza come Jenny, la quale era il cuore della situazione. Se ella fosse stata minimamente turbata, chi poteva dire che cosa ciò avrebbe significato per Frank? perché Frank, lo sapeva benissimo, aveva un cuore sensibile quanto mai, e vi teneva Jenny come in un santuario. Ogni ondeggiamento, ogni esitazione da parte di lei sarebbe stata una sventura per il suo amico. Ma ora era tutto a posto, Jack rifletteva; e infatti, dopo tutto, non importava gran che quello che Lord Talgarth avrebbe detto e fatto. Frank agiva liberamente, era capace d'amore e degno d'amore; forse non sarebbe passato molto tempo, e qualcosa sarebbe cambiata, e allora col denaro di Jenny i due avrebbero potuto andare avanti benissimo. E Lord Talgarth non poteva vivere in eterno; ed Archie avrebbe provveduto secondo giustizia, anche se non lo avesse fatto suo padre. Giunsero le quattro e mezzo prima che Jack alzasse gli occhi a un qualcosa di bianco e vedesse Jenny ritta sulla porta del salottino. Ella rimase un istante là, con la lettera in mano, poi varcò la soglia e venne verso di lui, sull'erba, serena e dignitosa e graziosa. Aveva la testa scoperta, e l'onda dei suoi capelli s'accese d'un tratto, investita dal lungo raggio orizzontale del sole al tramonto. - Eccola - disse. - Volete metterci l'indirizzo? Jack fece cenno di sì, dicendo: - Benissimo. La spedirò stasera. Le diede un'occhiata, e s'accorse che ella lo guardava con la più pensosa malinconia. Si disse che la comprendeva perfettamente: ella 84/233 si sentiva un po’ infelice per non poter mandare la lettera ella stessa. Che brava ragazza era mai! - Volete ancora un po’ di tè, prima di partire? - Grazie, è meglio che vada. Saranno preoccupati per me, ora. Stringendole la mano, cercò di mettere nello sguardo un po’ della sua simpatia. Sapeva esattamente quello che ella sentiva, e la giudicava splendidamente coraggiosa. Ma Jenny incontrò appena i suoi occhi, ed ancora egli comprese il perché. Quando aprì il cancello del giardino, egli si volse ancora a salutare. Ma Jenny stava raccogliendo il servizio da tè, e una figura nera le si avvicinava dal lato della casa in cui v'era lo studio del Rettore. 85/233 Capitolo VII Nelle ultime due settimane la vita era stata un po’ difficile per il Maggiore. Non che gli mancasse l'aiuto materiale e morale di Frank; ma sempre più desiderava che tornasse, data l'estrema sragionevolezza di Gertie. Parecchie volte, e sempre con maggiore energia, egli le aveva spiegato quanto poco egoismo avesse sempre mosso le sue azioni, e come, nella sua recente condotta, tutte le sue preoccupazioni fossero state per lei. Non avrebbe voluto a nessun costo - spiegava con pazienza - lasciare sulle spalle di un giovanotto come Frank la responsabilità di una giovane come Gertie, mentre lui (il Maggiore) passava due settimane altrove. E anzi, dal lato della convenienza economica, egli aveva agito per il meglio, perché se fosse stato accusato lui dell'affare, non sarebbero stati soltanto quindici giorni, ma due mesi almeno, durante i quali la piccola comunità sarebbe stata privata del suo lavoro. Egli le rammentò che fino ad allora Frank aveva la fedina penale in bianco... Ma le spiegazioni erano state infruttuose. Gertie continuava a minacciare di rivelare i fatti del processo alla più prossima stazione di polizia, ed il Maggiore era stato costretto ad usare con lei una tattica più virile. Non aveva adoperato il bastone: le mani gli erano servite a perfezione, e nel corso dei suoi argomenti, egli aveva fatto sui mutui rapporti di Frank e di Gertie alcune osservazioni insincere, che la ragazza ricordava ancora. Il Maggiore aveva trovato un piccolo alloggio modesto in una delle straducole di York, lungo il fiume; anzi, proprio affacciato ad esso; e, per caso strano, un lavoro regolare di cinque giorni, per scaricare una serie di barche. I cinque giorni terminavano al sabato, ed egli aveva ancora in tasca alcuni scellini quando giunse la lettera con cui Frank annunciava che sperava di essere nuovamente con loro la domenica sera e il lunedì mattina. La domenica erano giunte altre due lettere per l'amico, una con una calligrafia femminile e l'indirizzo rifatto da altra mano, con un timbro vecchio di giugno, e un'altra del giorno prima. Al riceverla, il Maggiore l'aveva guardata contro luce e tastata fra le dita; la prima, senza dubbio era una fattura. Un timbro era di Cambridge, l'altro di Barham. Egli decise di tenerle ambedue intatte. Del resto, Gertie era presente quand'erano state consegnate. Il Maggiore passò in complesso una buona domenica. Rimase a letto fin dopo mezzogiorno, con una copia di seconda mano dello “Sporting Times”, e con una latta di tabacco. Pranzarono verso il tocco; era riuscito a procurarsi un po’ di grappa da bere con la carne. Nel pomeriggio aveva fatto una passeggiata con Gertie piuttosto breve, ma in modo da sembrare che avesse camminato per sette miglia. Avevano bevuto il tè verso le sei, ed avevano mangiato 86/233 un'aringa affumicata e un po’ di crescione. Poi, verso le sette, Frank era entrato improvvisamente e s'era seduto. - Datemi qualcosa da mangiare e da bere - aveva detto. S'era seduto sopra una cassetta vicino al caminetto, e sembrava stanchissimo, sfinito. Spiegò, dopo un pochino, quando Gertie ebbe fatto cuocere un'altra aringa ed egli ebbe bevuto una gran tazza di tè, che aveva camminato senza prender cibo dal mattino, ma non disse nulla del prete. Il Maggiore, con un'aria di gran precisione, misurò un dito di “whisky” ed insistette, con l'aria di un medico paterno, che lo bevesse immediatamente. - Ed ora una sigaretta, per amor di Dio - disse Frank. - A proposito, ho del lavoro per domani. - “All right”, ragazzo mio - disse il Maggiore - Io ho lavorato questa settimana. Frank trasse fuori la sua moneta da quattro pence e la pose sull'angolo della tavola. - Questa è per la cena e per il letto di stanotte. - Sciocchezze, ragazzo mio. Rimettetela in tasca. - Favorite prenderla - ribatté Frank. - Potrete aggiungere qualcosa per la colazione, domattina, se volete. Poi raccontò le sue avventure - sempre tacendo quella del prete - e descrisse come, attraversando York, avesse incontrato un uomo al cancello di un cantiere di costruzioni, il quale gli aveva promesso una giornata di lavoro, e, se risultava soddisfacente, ancora dell'altro. Il Maggiore e Gertie non avevano molto da dire. Avevano lasciato subito la cittadina del processo, e tutto poi era andato benissimo. Erano giunti a York dieci giorni prima. A malapena accennarono alla detenzione di Frank, quantunque egli vedesse che Gertie lo aveva guardato una o due volte in un modo timido, e comprendesse quel che passava per la sua mente. Ma almeno per decenza bisognò che infine il Maggiore dicesse qualcosa. - Si capisce, ragazzo mio, che io non dimenticherò mai quello che avete fatto per me e per la mia donnina. Io non sono un uomo di molte parole, ma... - Oh, non è il caso - disse Frank sonnacchioso - Voi farete altrettanto per me, all'occasione. Il Maggiore assentì con fervore e con gli occhi umidi. Non fu se non quando Frank si alzò per andare a letto che qualcuno rammentò le lettere. - A proposito, sono arrivate due lettere per voi - disse il Maggiore, cercando nel cassetto della tavola. - Dove sono? - Eccole. Egli le guardò attentamente, cercando di decifrarne il timbro, le 87/233 voltò e le rivoltò, ma non fece cenno d'aprirle. - Dove debbo dormire? - disse d'un tratto - E avreste mica un mozzicone di candela? (E quando salì al piano superiore, doveva essere circa il momento in cui la cassetta di Barham era svuotata per la spedizione serale della posta). Frank quella notte rimase a lungo sveglio nel buio, stringendo la lettera che Jenny gli aveva scritto in giugno. Il biglietto non s'era neanche curato di aprirlo. Perché la lettera diceva esattamente e perfettamente tutte quelle cose che egli più desiderava di sentire, e nel modo in cui egli desiderava sentirle. Rideva di lui cortese e benevola; lo chiamava un ragazzo straordinariamente assurdo; diceva che la sua partenza da Cambridge, e soprattutto il modo della partenza - Frank aveva aggiunto un poscritto all'ultimo minuto, descrivendo la sua avventura col poliziotto - erano proprio quel che la scrivente si sarebbe attesa da lui; faceva riflessioni deliziose e argute sulla necessità che Frank voltasse la pagina - v'era quasi un foglio di buoni consigli; e finalmente gli dava una gustosa descrizione - ma non oltre la linea del rispetto dovuto - del modo con cui suo padre aveva ricevuto la notizia, con citazione delle frasi più notevoli pronunciate in quella memorabile occasione. La lettera occupava quattro pagine fitte, e v'era in essa, serpeggiante sotto tutto, proprio un misurato accenno di ansietà, lealmente nascosta - ecco - che faceva la lettera non meno gradita. Io non ho molto da dire di quel che Jenny significasse per Frank, proprio perché egli stesso parla tanto poco di lei. Ella era, in concreto, quasi l'unico elemento della sua vita multicolore, sul quale non avesse l'abitudine di rovesciare un torrente di commenti e di osservazioni; suo padre ed Archie non erano davvero risparmiati nelle sue conversazioni con gli amici più intimi, i quali anzi più d'una volta lo avevano visto, in un cerchio sceltissimo a Cambridge, sviluppare degli immaginari dialoghi tra quei due a proprio riguardo; e il cugino Dick più d'una volta era stato riprodotto fedelmente davanti al bigliardo. Ma Jenny non l'aveva nominata mai; non aveva neppure una fotografia di lei sul tavolino. E ben presto fra i suoi amici, quando Jack lasciò trapelare la notizia del fidanzamento, si seppe che non se ne doveva parlare in presenza dell'interessato. Egli, bisogna ricordarlo, aveva manifestato la stessa reticenza per la sua religione. E così Frank s'addormentò finalmente nel suo letto di ferro, proprio pensando che se Jack aveva compiuto subito la sua commissione domani avrebbe potuto avere un'altra lettera da lei. Ma non l'attendeva fino a martedì. 88/233 La mattina dopo Gertie s'alzò presto, appena dopo le cinque, per preparare la colazione ai suoi uomini; perché il Maggiore aveva annunciato che sarebbe andato con Frank per vedere se gli fosse stato possibile trovare anch'egli del lavoro. Ed appena se ne furono andati, giustamente se ne tornò a letto. Gertie aveva molto da fare, a dispetto dell'opinione spesso espressa dal Maggiore che le donne non hanno idea di quel che sia il lavoro. Perché, per prima cosa, v'era la fatica quasi senza fine di trovare il cibo e di cucinarlo nel miglior modo possibile; poi v'era l'occupazione quasi senza sosta di lavare e rammendare gli indumenti; v'erano da fare importanti discussioni su numerosi argomenti, se possibile in termini di relativa eguaglianza, con le padrone di casa e le mogli dei contadini. Gertie portava sempre una fede di ottone, e qualche volta la mostrava con una certa ostentazione: e, infine, quando la compagnia era in marcia, era più che giusto che a lei toccasse portare la parte più pesante del bagaglio, per compensare la sua vita di lusso e di agi negli altri momenti. E allora, Gertie finiva con l'essere stanca come un cane, e si addormentava ovunque le capitasse. Non si risvegliò che verso le otto; quando sentì un violento picchiare alla porta. Quando aprì, vide che era la padrona di casa, la quale esaminava con grande attenzione una lettera (l'aveva già tenuta contro la luce alla finestra della cucina). - È per uno dei vostri, mi pare, signora. Gertie la prese. Era scritta su carta finissima, e l'indirizzo era scritto da mano maschile, a Mr. Gregory. - Grazie, signora. - disse Gertie. Poi ritornò nella stanza, ripose accuratamente la lettera nel cassetto della tavola, e si mise alle sue faccende. Verso le undici uscì per un piccolo rinfresco. Ella aveva, si capisce, un piccolo peculio privato, tutto suo, che ammontava di solito a pochi soldi, e di cui il Maggiore ignorava l'esistenza. Non le pareva che non fosse una cosa giusta. Soltanto talvolta si meravigliava timidamente dell'ingenuità maschile, che non ammette la necessaria esistenza di un simile sotterfugio. Attaccò discorso con alcune signore più anziane, uscite anch'esse per un rinfresco, e a un certo punto ebbe modo di posar la mano sul banco per far vedere l'anello. Così fu soltanto un po’ dopo le dodici che rammentò che il tempo passava, e corse via. Non aspettava gli uomini a casa per il pranzo: infatti, aveva fasciato le provviste per loro in un pezzo dello “Sporting Times” del Maggiore prima che uscissero; ma era meglio trovarsi a casa. Non si sa mai. Mentre entrava nella stanza, il cuore le diede un balzo. C'era soltanto Frank. - Che cosa c'è? - domandò. 89/233 - Mandato via - disse Frank laconico. Egli stava seduto davanti alla tavola, con aria abbattuta e con le mani in tasca. - Mandato via? Frank fece cenno di sì. - Ma perché? - “Tecs” - disse Frank. La bocca di Gertie si aprì un pochino. - Uno di loro mi vide entrare e telegrafò per avere istruzioni. Aveva seguito il processo sul notiziario di polizia, e gli pareva che io corrispondessi alla descrizione. Poi ritornò alle undici, e lo disse al capomastro. - E... - Già. Vi fu una pausa. - E George? - Oh! lui era in regola - disse Frank con un po’ d'amarezza. - Non c'è nulla a suo carico... Nulla da mangiare, Gertie? Ma io non posso pagare... cioè, sì: qua c'è mezza giornata (Fece saltellare nove pence sulla tavola; una moneta rotolò per terra, ma egli non fece alcun movimento per raccoglierla). Gertie lo guardò un momento. - Bene... - cominciò con enfasi. Poi si curvò per raccogliere la moneta. Frank sospirò. - O non parliamone... siete una buona ragazza. Mi sono detto tutto, e quanto basta, v'assicuro. La bocca di Gertie s'aprì un'altra volta. Ella pose la moneta sulla tavola. - Voglio dire che non v'è nulla da dire - spiegò Frank. - La questione è... che cosa bisogna fare? Gertie non aveva nulla da suggerire. Cominciò a raschiare la padella in cui aveva fatto cuocere le aringhe la sera prima. - V'è una lettera per voi - disse a un tratto. Frank si rizzò. - Dov'è? - Lì, nel cassetto... vicino alla vostra mano, Frank... . Frank afferrò la maniglia, che si staccò. Proruppe in una breve esclamazione. Poi, con magistrale abilità, riprese la maniglia, ne avvolse la vite con un ritaglio dello “Sporting Times”, e aprì il cassetto. Quando vide là calligrafia, mutò d'un tratto in viso. - Può aspettare - brontolò, - e gettò la lettera rovesciata sulla tavola. - Frankie... - riprese la ragazza, sempre intenta alla sua padella. - Ebbene? - È tutto per colpa mia.. - disse ella a voce bassa. - Colpa vostra! E come fate a dirlo? - Se non fosse stato per me, non avreste preso la scatola da George e... 90/233 - Santo cielo! - disse Frank - ricominciamo ancora?... e se non fosse stato per George, egli non avrebbe preso la scatola; e se non fosse stato per Maggie Cooper, la scatola non ci sarebbe neppur stata; e se non fosse stato per la sorella del padre di Maggie, Maggie non sarebbe andata a prenderla. La colpa è tutta della sorella del padre di Maggie, mia cara! Voi non c'entrate per nulla. Le parole erano abbastanza vivaci, ma il tono con cui erano pronunciate era pesante. Come quello d'un bambino che ripeta la lezione. - Questo va bene - ricominciò Gertie - ma... - Cara la mia ragazza, non ricominciate a seccarmi con queste storie. Non potreste lasciar perdere? L'importante è sapere quel che accadrà. Io non posso continuare a vivere alle spalle di voi e del Maggiore. Gertie arrossì sotto la pelle abbronzata. - Se voi ci lasciate... io... - Ebbene? - Io... io... non lascerò mai George. Frank rimase per un momento, perplesso. Pareva un “non sequitur”. - Vorreste dire... - Ho degli occhi anch'io - disse Gertie con enfasi - e so quel che pensate, quantunque non parliate molto. E ci ho pensato anch'io. Frank sentì un lieve calore alzarglisi in petto. - Volete dire che avete pensato a quel che v'ho detto l'altro giorno? Gertie sì curvò ancora di più sulla padella, e la raschiò più forte che mai. - Piantatela un momento con quel fracasso! - sbottò Frank. Il rumore cessò d'un tratto. Gertie guardò in su, e poi in giù di nuovo. Poi ricominciò con più calma. - Così va meglio - disse Frank. - Bene, spero che abbiate pensato proseguì con tono paterno. - Voi siete una buona ragazza, Gertie, e sapete far di meglio. Continuate a pensarci, e quando avrete deciso qualche cosa, ditemelo. Quando sarà pronto il pranzo? - Tra mezz'ora. - Bene, esco un momento e torno subito. Prese la lettera con noncuranza, e uscì. Quando passò davanti alla finestra, Gertie lo guardò con la coda dell'occhio. Poi, sempre con la padella in mano, corse all'angolo, e lo guardò allontanarsi sulla banchina. Un opportunissimo barile era posto all'estremo orlo della banchina, con un altro al fianco, e Frank vi si diresse senz'altro. Gertie lo vide sedersi sul primo, e porre la lettera ancora chiusa sulla sommità del secondo; poi rovistarsi un poco nelle tasche, e infine una piccola nube di fumo azzurrino si alzò come incenso. Gertie lo guardò 91/233 ancora un momento, ma egli non si mosse. Allora tornò alla sua padella. Venti minuti dopo il pranzo era quasi pronto. Gertie aveva disteso sulla tavola, con gran cura, uno dei fazzoletti bianchi del Maggiore. Egli ci teneva a conservarli, e a farli lavare di tanto in tanto, e Gertie comprendeva un po’ il motivo di questa giusta esigenza, perché nell'angolo di ciascuno era ricamato un monogramma, che non era formato dalle lettere G. T. Ma che lettere fossero, non era mai riuscita a decifrare. Su questa tovaglia aveva posto, da una parte, una forchetta col manico nero e con due denti soli, e un coltello dello stesso tipo (questo era per Frank); dall'altra parte un cucchiaino di stagno e un coltello che aveva perduto il manico (questo era per lei). Poi v'era un bicchiere da denti per Frank e una tazzina da tè - senza manico, ma con un fiore dorato nel mezzo - per lei. Nel centro pose una brocca di maiolica di York-minster, con un disegno color malva in cui si vedeva una nube temporalesca, e davanti alla nube una dama e un gentiluomo con un bambino che faceva correre il cerchio. Questa brocca era tutta la ricchezza della padrona di casa, ed era a metà piena di birra. V'erano poi due piatti, uno d'un freddo colore turchino, col ritratto del Principe Consorte in scopettoni e cilindro, in un piccolo medaglione al centro, e l'altro bianco, con la raffigurazione delle cascate di Lodore. Non era possibile ingannarsi sui soggetti dipinti su queste stoviglie, perché il titolo v'era nitidamente stampato, in caratteri assortiti. Gertie guardò questo arredamento piegando un po’ il capo da una parte. Non capitava spesso di pranzare con tanto lusso. Le sarebbe piaciuto avere un fiore da porre nel mezzo... Allora mescolò il contenuto della padella con un cucchiaio di ferro, e tornò alla finestra. Il giovanotto sul barile non s'era mosso. Ma Gertie lo vide stendere la mano alla lettera. Lo guardò. Lo vide infilare un dito nella busta, e gettare la busta oltre il ciglio della banchina. Poi lo vide spiegare il foglio e rimanere assorto. Non andava così. Gertie aveva l'idea che per leggere una lettera accorressero almeno alcuni minuti; così s'affrettò ad andare alla porta e a chiamarlo. Lo chiamò. Egli non volse la testa, e neppure rispose. Lo chiamò una seconda volta. La lettera che Frank leggeva sta anch'essa, con poche altre carte, davanti a me mentre scrivo. Essa dice così: “Mio caro Frank, 92/233 “So che non vi farà piacere quel che debbo dirvi. Ma deve essere detto. Credetemi, costa altrettanto a me scriverlo quanto a voi leggerlo, o forse più. “Ed è questo: il nostro fidanzamento dev'essere troncato. “Voi avete perfettamente ragione di chiedermene i motivi, ed io ve li dirò senz'altro, perché non desidero ritornare sull'argomento. Non servirebbe a nulla. La mia decisione è assolutamente presa. “La mia ragione principale è questa: quando mi fidanzai con voi non vi conoscevo abbastanza. Pensavo che sotto tutte le vostre pazzie eccetera, vi fosse una personalità vera. Accennai a questo, se vi ricordate, nella mia prima lettera che suppongo avrete ricevuto proprio prima di questa. Ed ora, semplicemente non posso pensarlo più. “Non intendo affatto biasimarvi se siete quel che siete; non è più affare che mi riguarda. Ma debbo dire questo: che un uomo il quale può fare quel che voi avete fatto, non soltanto per una settimana o due, come pensavo dapprincipio, come una specie di gioco, ma per quasi tre mesi; e che durante tutto questo tempo può lasciarmi con tre o quattro cartoline illustrate soltanto e senza nessuna notizia; soprattutto un uomo che può cacciarsi in tanti imbrogli e in tanta abbiezione, e finire addirittura in carcere, eppur sembrare di non farne caso, bene, non è questo che avevo pensato di voi. “Vedete, è tutto un complesso di cose: non queste o quelle; è tutto l'assieme. “Prima, vi siete fatto cattolico senza dirmene una parola fino alla vigilia. Non mi fece piacere, è naturale, ma non dissi nulla. Non è bello che marito e moglie siano di religione diversa. Poi fuggiste da Cambridge; poi vi metteste in compagnia di quell'individuo di cui parlate nella lettera a Jack; e dovete essergli ben affezionato, a quanto pare, se siete andato in prigione per lui, come suppongo. E ancora, dopo tutto questo, devo credere che siate andato a York per riunirvi a lui. Eppoi, v'è il fatto innegabile della prigione. “Come vedete, sono tutte queste cose, una dopo l'altra, una assieme all'altra. Vi ho sempre difeso di fronte a vostro padre; non ho mai permesso che alcuno sparlasse di voi senza giustificarvi; ma in realtà la cosa è andata troppo oltre. Voi sapete che nell'altra lettera vi ho dato un mezzo avvertimento. So che non avete potuto riceverla prima d'ora. La colpa non è mia. E la lettera mostra quel ch'io pensavo, anche tre mesi fa. “Non siate arrabbiato con me, Frank. Vi voglio ancora molto bene, e vi difenderò tutte le volte che potrò. E vi prego di non rispondere in alcun modo a questa mia. Jack Kirkby non risponde neppure alla vostra. Glie l'ho chiesto io, quantunque egli non sappia neppure il perché. “Vostro padre manda ai giornali la notizia che il fidanzamento è 93/233 rotto. “Vostra sinceramente Jenny Launten”. 94/233 PARTE SECONDA Capitolo I Barham, nello Yorkshire, come tutti sanno, giace al fondo di una lunga vallata, dove essa emerge nel distretto più piatto attorno ad Harrowgate. Essa ha una ferrovia tutta per sé, che non va più oltre, perché la città è chiusa al nord dalle alte colline e dalla brughiera. È una città quasi interamente agricola, e possiede un curioso ponte a schiena d'asino, dove la gente si ferma nei giorni di mercato a discutere il prezzo dei giovenchi. Ha due chiese: una, non più officiata, sul culmine d'un precipitoso sperone che sovrasta la città, circondata da un camposanto irregolarissimo, pieno alla lettera. (I Kirkby vi giacciono, da generazioni e generazioni, sotto tombe pompose). L'altra chiesa è un obbrobrioso edificio rettangolare, con le pareti piatte e sottili, e le finestre di un finto gotico. Era ritenuta bellissima quando fu costruita, una quarantina d'anni fa. La città stessa è irregolare e pittoresca, con la strada principale ripida e tortuosa, e si penserebbe che un certo numero di case siano state gettate a casaccio in quest'angolo delle colline, lasciando che rimanessero nel punto dov'erano cadute. La gran casa nella quale i Kirkby avevano vissuto sino dalla metà del secolo decimosettimo è vicina alla città, come è giusto che sia la casa del signorotto, e il cancello del parco si apre proprio all'estremità settentrionale del vecchio ponte. Nella casa non v'è nulla di grande interesse (mi pare che le guide facciano cenno solo d'un vecchio portale nella cantina), perché fu ricostruita press'a poco al tempo in cui fu costruita la chiesa nuova. Non è che una casa grande, comoda, calda, fresca, ombrosa, con una grande sala e una bella scala di quercia, circondata da prati e da macchie, che digradano a ovest nel parco e si perdono dagli altri lati nella brughiera che si stende fino all'orizzonte. V'è, in tutto, una piacevole aria feudale: feudale, in un modo discreto e da buon vicinato. Il padre di Jack era morto appena un anno prima ch'egli diventasse maggiorenne, e Jack, circondato da sorelle e da un'ottima madre dedita alla beneficenza, era succeduto in tutti gli immemorabili diritti e poteri, scritti e non scritti, dello “Squire” di Barham. Egli m'intrattenne piacevolmente per tre o quattro giorni, qualche mese fa, quando viaggiavo sulle orme di Frank, ed io m'accorsi con piacere quando passeggiavamo per le vie della città che a malapena v'era persona che egli non salutasse o che non salutasse lui. Jack mi condusse per prima cosa al ponte, e mi spinse alla metà di esso, per indicarmi un piccolo recesso, sopra il pilone centrale, che senza dubbio era stato fatto per dare riparo ai pedoni nel caso che 95/233 passasse un veicolo troppo largo, prima che il ponte fosse ingrandito. - Ecco - mi disse - il punto dove vidi Frank quando venne qua. Proseguimmo verso la città, e ai piedi della salita quasi precipitosa che conduceva alla chiesa semi diroccata, scendemmo, lasciando il carrozzino in consegna al cocchiere. Ci arrampicammo lentamente per la salita, perché era una giornata calda, mentre ad intervalli Jack rammentava qualche episodio (molti di essi li ho riportati in queste pagine), e ci voltammo al cancello del cimitero. E questo è il posto dove gli dissi addio. Era il 25 settembre, un lunedì, e Jack sedeva nella sala da pranzo, in giacchetta di Norfolk e uose, bevendo il tè il più presto possibile. Era stato tutto, il giorno in brughiera, ed era stato tanto raffinatamente sensuale da fumare apposta una sigaretta prima di assaggiare il tè, per portar la sete a un punto acuto. Poi, finito di bere, cercò di nuovo la scatola, perché quella doveva essere la miglior sigaretta di tutta la giornata, ma s'accorse che la sua raffinatezza sensuale questa volta lo aveva tradito, perché non ve n'era rimasta neppure una. Strinse la scatola d'argento col cuore che gli mancava, perché ricordò d'averla vuotata del tutto la mattina per riempire il portasigarette. E non ve n'era un'altra in tutta la casa. Era una disgrazia. Egli pensò che se avesse mandato qualcuno a comperarne, non sarebbe riuscito ad averne prima di venti minuti. (Non seppe mai spiegarsi perché un ragazzo sano dovesse impiegare venti minuti per fare un tratto di strada che non né richiedeva otto). Così riprese il cappello e tornò ad uscire. Stava già facendosi scuro quando varcò il cancello. Il sole era scomparso da un'ora dietro la collina, ma il crepuscolo cominciava appena adesso. Jack era quasi giunto alla sua méta, e mentre affrontava la ripida salita del ponte, sbirciò al di sopra del parapetto, almeno con gli occhi dell'immaginazione, la bottega del tabaccaio - la prima a sinistra - dove un provvista delle “sigarette di Mr. Jack” era sempre a portata di mano. E intanto, nel piccolo recesso a metà del ponte, di cui ho parlato poco fa, vide un uomo che si appoggiava coi gomiti sul parapetto, che guardava la corrente del fiume e, più in su, la brughiera che il tramonto tingeva di porpora, e il cielo glorioso di luce. Quando giunse alla sua altezza, si domandò vagamente chi fosse e se lo conoscesse. Poi, quando gli fu proprio di fronte, si fermò, col cuore stretto. È naturale che il pensiero di Frank non fosse mai lontano per Jack proprio allora, fin da quando cioè aveva saputo la notizia da una lettera assai discreta del reverendo James Launton. (Non ho da dire che egli rispose a questa lettera scrivendo non al padre ma alla figlia, 96/233 e che non ne ebbe risposta). Aveva scritto anche una lettera a Frank stesso ma questa era stata respinta per irreperibilità del destinatario. E da allora aveva guardato tutti i vagabondi che incontrava, con un'attenzione che qualche volta provocava un saluto, e qualche volta un'osservazione sgarbata. La persona di cui ora egli vedeva la schiena non somigliava davvero molto a Frank. Eppure gli somigliava parecchio. La giacchetta e i calzoni erano tanto macchiati di polvere e di umidità, da non aver più un colore proprio; e così il berretto di panno. Un fagotto legato in un fazzoletto rosso, e un bastone pesante erano appoggiati in un angolo del recesso. Jack raschiò la gola piuttosto forte, pronto a darsi l'aria di essere assorto nella contemplazione del panorama in caso di necessità. La persona voltò un occhio di sopra la spalla, poi si girò completamente di fronte: ed era Frank Guiseley. Per il primo istante, Jack non disse nulla, ma rimase impalato, con la bocca un po’ aperta e gli occhi spalancati. Il viso di Frank era arso dal sole tanto da non conoscersi più, i capelli erano tagliati più corti del consueto, e la luce gli era alle spalle. Poi Jack si riprese. - Oh, mio caro - disse - perché... Gli afferrò le mani e le tenne, fissandolo. - Sì, sono proprio io - disse Frank. - Stavo appunto domandandomi... - Vieni, andiamo subito... Cielo, debbo andare dal tabaccaio: è proprio qui. Non v'è una sigaretta in tutta la casa. Vieni con me? - T'attendo qua. - Sì? Non c'impiego un secondo. Infatti, un minuto non era passato che Jack fu di ritorno. Era balzato dentro, aveva afferrato una scatola sullo scaffale, ed era scomparso, gridando che gliela “mettessero in conto”. Trovò che Frank s'era di nuovo voltato a guardare l'acqua e il cielo e la brughiera. Afferrò il fagotto e il bastone dell'amico. - Andiamo, - disse, - avremo un'ora o due prima di cena, Frank, in silenzio, gli tolse dalle mani il fagotto e il bastone, fermo e irresistibile, e non parlarono più finché non furono fuor di vista dalla casa del portiere. Poi, Jack cominciò, afferrando il braccio di Frank - un'abitudine per la quale era stato spesso ripreso. - Oh, mio caro! Io... io non posso dire quel che sento. So tutto, si capisce, e ho fatto sapere a Miss Jenny, chiaro e tondo, quel che penso. - Sì? - E a tuo padre. Non hanno risposto né l'una né l'altro, e naturalmente io non ho detto più nulla. A proposito, Dick è stato laggiù. 97/233 Frank non fece alcun commento. - Fai semplicemente paura, vecchio mio - proseguì Jack allegramente. - Dove mai sei stato in questo mese? t'ho scritto a York, ma la lettera è stata respinta. - Oh, qua e là, sono stato - disse Frank, impassibile. - Con la gente con cui eri prima... con quell'Uomo? - No, per ora li ho lasciati. Ma probabilmente mi riunirò a loro più tardi. - Riunirti con loro!... - cominciò l'altro sbigottito. - Certo! quest'affare è appena cominciato - rispose Frank, sempre con la sua strana apatia - La parte peggiore l'abbiamo vista, credo. - Ma io non voglio che tu ci torni ancora! Ecco, è ridicolo! Frank si fermò. Erano in vista della casa, ora, e le sue luci brillavano invitanti. - A proposito, Jack, dimenticavo. Devi farmi il piacere di promettermi che non farai nessuno sforzo per trattenermi quando vorrò andarmene, altrimenti non farò un passo avanti. - Ma, mio caro... - Prometti subito, per favore. - Oh, sì, ti prometto tutto quello che vuoi, ma... - Allora, va bene - disse Frank, e si mosse. - Ecco - disse Jack quando giunsero alla porta della “hall”. - Vuoi parlare adesso, o vuoi cambiarti, o che cosa? - Farei volentieri un bagno caldo, per prima cosa. A proposito, hai ospiti in casa? - Nessuno. E della famiglia, due sorelle soltanto. E mia madre, si capisce. - E per il vestito? - Vedremo. Andiamo alla porta della “smokingroom ”. Poi cercherò Jackson e gli spiegherò. Immagino che non t'importi che si sappia il tuo nome. Comunque, probabilmente ti riconoscerebbe. - Purché mi lascino stare, non m'importa nulla. Appena entrati nella “smoking-room” Jack suonò il campanello, e Frank sedette in una profonda poltrona. Poi venne il maggiordomo, il quale gettò una lunga occhiata alla straordinaria persona seduta. - Oh! hmm... Jackson, questo è il signor Frank Guiseley. Si ferma qua. Ha bisogno di abiti e di biancheria. Mi pare che ci sia qualcuno dei miei vestiti che potrebbe andare. Vorrei che cercaste un poco - Scusate, signore? - Questo è il signor Frank Guiseley, di Merefield. È così, proprio davvero! Ma non bisogna che la gente parli più del necessario. Capito? Vi prego di non dir nulla di lui, se non che egli compie un giro turistico. E vi prego di avvertire la cameriera di preparare la camera azzurra, e di aprire l'acqua calda nel bagno. Ecco tutto, Jackson... e gli abiti, avete capito? 98/233 - Sì, signore. - E prendete in camera mia l'“eau de lutin” e mettetela nel bagno. Oh, sì, anche la coppa del sapone. - I miei abiti non debbono essere gettati via, per favore, Jackson disse gravemente Frank dalla poltrona. - Ne avrò nuovamente bisogno. - Sì, signore. - Ecco tutto - disse Jack. Mr. Jackson fece un rigido dietro fronte e uscì. - Tutto a posto - disse Jack. - Ti ricorderai, del vecchio Jackson. Egli non dirà una parola. Per fortuna nessuno ci ha visto entrare. - Non importa gran che, non ti pare? Vi fu una pausa. - Ed ora, Frank, quando vorrai dirmi... - Risponderò a tutte le tue domande dopo cena. Adesso non mi sento di parlare. La cena fu una cosa difficile quella sera. Jack aveva sottoposto la signora Kirkby ad una conferenza durante la mezz'ora in cui ella avrebbe dovuto vestirsi, per farle entrar bene in testa che Frank - che ella aveva conosciuto fin da quand'era ragazzo - stava facendo puramente e semplicemente un giro a piedi tutto da solo. Ella comprese benissimo la situazione in un minuto e mezzo (era una donna assai avveduta, che non parlava molto). Ma Jack non era contento, e continuava a gironzolare per la stanza, toccando le fotografie e le spazzole d'argento, spiegando e rispiegando come fosse importante che Frank si trovasse a suo agio e che a Fanny e a Jill (che erano appunto tanto grandi da venire a cena in vesti bianche accollate, con le trecce alle spalle) non doveva essere permesso di infastidirlo. La signora Kirkby disse: “Sì, capisco” almeno centotrenta volte, guardando l'orologio. Stette con un dito sul bottone elettrico per almeno cinque minuti prima di azzardarsi a chiamare la cameriera, e fu soltanto il discreto picchiar di questa, alle otto meno un minuto che finalmente cacciò Jack fuori dalla stanza. Egli trovò Frank a metà del suo abbigliamento, vide con sollievo che un suo abito smesso gli si adattava passabilmente, ed andò a vestirsi a sua volta. Scese alla “draving-room” sette minuti dopo il “gong” con le orecchie rosse e i capelli a ciuffo, per trovare Frank che parlava con sua madre con la maggior naturalezza del mondo, mentre era osservato di straforo dalle sue sorelle, le quali fingevano di guardare delle fotografie. Ma la cena in sé fu scabrosa. Era ovvio parlare del “giro turistico” di Frank, e appunto questo Jack non osava fare. Le condizioni della brughiera e i danni fatti tra i giovani galli di montagna dalle prime piogge li occuparono fino alla fine del pesce; ai galli di montagna succedettero i vitelli; ai vitelli le pecore, e, per una connessione di 99/233 idee ovvia - ovvia per tutti quelli che conoscevano quel gentiluomo dalle pecore al nuovo pastore. Ma proprio prima del “soufflé” di cioccolato vi fu una pausa, e Jill, la più giovane delle due sorelle, si affrettò a colmare il vuoto. - Avete fatto un bel giro, Mr. Guiseley? Frank si volse educatamente il lei. - Sì, molto bello, tutto considerato. - E siete stato sempre solo? - continuò Jill, consapevole del suo successo in società. - Oh, no, - disse Frank. - Ho viaggiato con un... ecco, con un uomo che è stato ufficiale dell'Esercito. Egli era Maggiore. - E voi... - Basta, Jill - disse con fermezza sua madre. - Non infastidire Mr. Guiseley. Egli è stanco del viaggio. I due giovani rimasero tranquilli un minuto o due dopo che le signore ebbero lasciato la stanza. Poi Jack parlò. - Ebbene? - disse. Frank alzò gli occhi. V'era in essi uno sguardo singolare e paziente, che commosse profondamente Jack. Fino allora Frank non era stato conosciuto per la sua sottomissione. - Oh, un po’ più tardi, se non ti spiace. Potremo parlare nella “smoking-room”. - Bene, ti dirò tutto come mi pare di capirlo - cominciò Frank, quando la porta si richiuse alle spalle di Jackson, il quale aveva portato il “whisky” e le candele. - E poi risponderò a tutte le domande che vorrai. Si sprofondò nella poltrona, distendendo le gambe e intrecciando le mani dietro la nuca. Jack lo vedeva bene, e poteva distinguere le proprie impressioni, quantunque in seguito trovasse difficoltà a tradurle in parole. I termini che egli scelse infine furono quelli di “sottomesso” e “paziente”; eppure difficilmente due aggettivi sarebbero stati meno applicabili a Frank tre mesi prima. Al tempo stesso la virilità di lui era più evidente che mai. Egli aveva in sé, diceva Jack, qualcosa dell'aria di un ottimo domestico, un aspetto rigido e acuto, per quanto non senza gentilezza, che rivelava una grande capacità e nel tempo stesso un grande dominio di sé. Non appariva in lui alcuna debolezza sentimentale, il suo dolore non aveva preso quella forma. - Bene, non ho molto da dire dell'ultima lettera di Jenny e di quello che accadde dopo. V'ero assolutamente impreparato, questo si capisce. Non avevo la minima idea... ecco, ella era l'unica persona su cui io non avessi assolutamente alcun dubbio! anzi, rimasi senza leggere la lettera per qualche minuto (l'indirizzo sulla busta era 100/233 scritto da te, lo sai), perché dovevo pensare a quello che avrei dovuto far dopo. La polizia mi aveva fatto cacciare da un cantiere di costruzioni... Jack emise un breve sospiro. Egli fissava Frank con gli occhi spalancati. - Sì: è il loro sistema - disse Frank. - Bene, quando l'ho letta, per un po’ non m'è riuscito nemmeno di pensare. La ragazza con cui viaggiavamo - quella che s’era attaccata all'uomo che m'ha messo negli impicci - la ragazza mi chiamò a pranzo, me lo disse dopo. Io non sentivo nulla, tanto che infine venne a toccarmi, e io mi risvegliai. Ma non potevo dir nulla. Essi non sanno neppure adesso quello che sia stato. Me ne andai quel pomeriggio. Non potei aspettare nemmeno il ritorno del Maggiore. - Eh? - Il Maggiore... oh! è così che si fa chiamare quell'individuo. Del resto, non credo che menta. Soltanto, allora non potevo sopportarlo un minuto di più. Ma gli ho mandato una cartolina stasera; non ricordo neppur più da dove. E... non hai mica nessuna lettera per me, per caso? - Uno o due biglietti. - Bene, vedremo. Debbo riunirmi con loro tra un giorno o due. Debbono essere da queste parti, per quel che so. - E tu, che hai fatto? Frank pensò. - Non lo so di sicuro. So di aver camminato molto. La gente era proprio buona con me. Una signora fermò la sua automobile, ed io non avevo neppur chiesto... - Tu! mendicato! - Santo cielo! ma sì; molte volte... bene, ella mi diede qualcosa, ed io non la ringraziai neppure; e ho continuato così per parecchio, e ho lavorato un po', qua e là. - Ma insomma, che cosa hai fatto? - Ho camminato. Non potevo sopportare le città e la gente, e nulla. Infine giunsi dalle parti di Ripon, e mi diressi verso la brughiera. Trovai una vecchia capanna di pastori, per otto o dieci giorni... - E tu... - Se ho vissuto là? Ma sì. L'ho aggiustata completamente prima di venirmene via. E poi ho pensato, ho pensato che avrei potuto venire qua. - Che cosa facevi sul ponte? - Attendevo che si facesse scuro. Poi avrei chiesto al portinaio se tu eri in casa. - E se non ci fossi stato? - Sarei andato altrove, immagino. Jack cercò di versarsi un bicchiere di “whisky” e soda, ma la soda gli 101/233 si rovesciò addosso ed egli fu costretto a mormorare una piccola osservazione. Poi ne fece un'altra. - E la prigione? Frank sorrise. - Oh, me ne sono quasi dimenticato. Eppure, allora, ero proprio imbestialito. - E... il Maggiore? E il lavoro? Santo Cielo! Frank, tu racconti male le tue storie. Frank sorrise di nuovo più franco. - Sono troppo occupato “dentro” - disse. - Queste cose, ad ogni modo, non mi pare che importino gran che. Jack fece un piccolo gesto d'implorazione. - Ecco, questo è press'a poco tutto, Jack. - Già. - È una cosa che non riesco a spiegare, ma ho un grande interesse a sapere quel che avverrà poi; “dentro”, voglio dire. Almeno, qualche volta. In altri momenti invece non me ne importa nulla. Jack sembrava sconvolto, e lo disse apertamente. Frank si curvò un poco avanti. - Vedi, è proprio così. Qualcosa o Qualcuno mi ha preso in mano. Sa il Cielo se io capisco che cosa sia. Tutte queste cose non procedono una dall'altra solo per gioco del caso. Vi dev'essere un filo che si svolge, e che cosa sia io non so. E suppongo che qualcosa avverrà presto. - Per amor del Cielo, spiega quel che vuoi dire! - Non posso più di così. Ti assicuro che non lo so. Vorrei che qualcuno lo dicesse a me. - Ma che importa tutto questo? Che farai adesso? - Oh, questo lo so benissimo. Raggiungerò nuovamente il Maggiore e Gertie. - Frank! - Ebbene?.. No, non una parola di più, per favore. Me lo hai promesso. Li raggiungerò nuovamente, e starò a vedere quel che accadrà. - Ma perché? - perché il mio compito è questo. Questo lo so. Intendo far tornare quella ragazza dai suoi. Non è moglie del Maggiore, l'hai capito. - Ma che t'importa... - A me pare che importi molto. Oh, lei è una ragazza sciocca, e lui un uomo volgare. Ma questo non conta. Bisogna farlo; o piuttosto, io voglio provare a farlo. Ho paura che non riuscirò, ma, ancora, questo non conta. lo devo compiere la mia missione, e poi vedremo, Jack alzò le mani. - Tu sei impazzito! - Può darsi - disse Frank con solennità. 102/233 Vi fu una pausa. Pareva a Jack che tutto dovesse essere un sogno. Questo non era Frank. Gli balenò l'idea assurda che l'uomo che sedeva davanti a lui, nell'aspetto di Frank, non fosse Frank. Mentalmente si scosse. - E di Jenny? - disse. Frank rimase del tutto silenzioso e immobile per un istante. Poi parlò senza calore. - Non sono sicuro. Qualche momento mi piacerebbe... ecco, dirle tre parole su quel che ha fatto; e qualche volta vorrei trascinarmi fino a lei e baciarle i piedi... ma, sia una cosa che l'altra, mi avvengono quando mi sento male. In complesso, io penso, quantunque non ne sia certo, che non mi riguarda più. Anzi, ne sono sicuro. È un aspetto di tutto l'assieme, e non dipende da me. È inutile parlarne ancora, te ne prego, Jack. - Una domanda? - Dì pure. - Le hai scritto o non le hai fatto saper nulla? - No. - Ed io debbo dire un'altra cosa. Non credo che sia contraria al patto. - Ebbene? - Prenderesti cinquecento sterline per andare in Colonia? Frank lo guardò con un sorriso divertito. - No, mai più... grazie... Sono in disgrazia fino a questo punto, dunque? - Tu sai che non intendo questo - disse Jack tranquillamente. - No, amico mio; non avrei dovuto parlare a questo modo. Mi spiace. Jack agitò la mano. - Pensavo che odiassi l'Inghilterra, e avresti voluto... E non sembra che l'orgoglio ti faccia scoppiare, adesso. - Per dire il vero, lo dico anch'io - rispose Frank. - Ma in Inghilterra ci sto benissimo; e poi vi sono quei due. Ma ti dirò una cosa che potresti fare per me. - Cioè? - Pagare questi conti. Non credo che sia molto. - Senz'altro. E intendi davvero continuare su questa strada? - Ma sì, di sicuro. Fin dal dodici d'agosto la brughiera era stata perlustrata dai cacciatori, tuttavia i due amici trascorsero due giornate piacevoli, facendo un discreto bottino. Erano usciti con un guardiacaccia e una mezza dozzina di battitori. Frank aveva indossato un vecchio vestito di fustagno di Jack, e i suoi scarponi robusti. Vi fu un momento drammatico, mi disse Jack, quando s'accorsero che il “luncheon” era stato preparato in un punto elevato della collina, dal quale la gran massa grigia di Merefield e lo scintillio del lago erano nettamente 103/233 visibili, alla distanza di otto miglia. Eppoi, anche la bandiera sventolava sull'asta del vecchio torrione. indicando, secondo una vecchia usanza, che Lord Talgarth si trovava al castello. Frank guardò laggiù per un minuto o due con aperto interesse, e Jack si domandò s'egli avesse avvertito, come lui, che si poteva distinguere anche il tetto della casa del Rettore, proprio a lato del campanile, ai piedi della collina. Nessuno disse una parola, ma quando il servo alla fine del “luncheon” venne a prendere ordini, egli con tatto osservò che v'era una vista meravigliosa su Merefield. - Sì - rispose Frank. - Con un cannocchiale si potrebbe quasi distinguere le persone. I due amici camminavano assieme, soli, quando discesero, un'ora prima del tramonto, all'estremità superiore di Barham. L'uno e l'altro erano galvanizzati per l'aria stupenda e per il moto, e si trovavano proprio in quello stato di stanchezza che è quasi un autentico godimento fisico per un pensatore fantasioso che pregusta un bagno caldo, una tazza di tè e una lunga serata in una soffice poltrona. Frank conservava ancora il suo atteggiamento impassibile verso le cose in generale, ma Jack s'accorgeva con lieto piacere che pareva un po’ meno sulle sue, ed anche che camminava con un passo più sciolto che non quella prima sera quando s'era trascinato con lui su per la salita. La loro strada li condusse dietro il cancello del vecchio cimitero, e mentre s'avvicinavano posando sempre più rapidamente il piede per la ripida discesa, Jack si accorse di due persone - un uomo e una donna - che sedevano ai margini della strada, coi piedi nella cunetta. Stava passando alle loro spalle, osservando che l'uomo aveva una faccia piuttosto antipatica con dei baffi ruvidi, e che la ragazza era bruciata dal sole, bionda e belloccia, quando avvertì che Frank s'era messo dietro a lui. Un istante dopo vide che Frank stava parlando con loro, e il suo umore precipitò a zero. - Benissimo - sentì che Frank diceva - vi aspettavo. Questa sera, allora... Oh, Jack! Jack si voltò. - Jack, questi sono il Maggiore e la signora Trustcott, di cui ti ho parlato. Questo è il mio amico, Mr... er... Mr. Jack. Jack accennò un saluto col capo, oppresso dal disgusto. - Felicissimo di fare la vostra conoscenza, signore - disse il Maggiore irrigidendosi alla militare. - La mia signora ed io stavamo riposandoci un momento qua. Un sito stupendo! - Sono contento che vi piaccia - disse Jack. - Allora, questa sera, disse un'altra volta Frank. - Potete aspettarmi un'ora o due? - Certo, ragazzo mio - rispose il Maggiore. - Il tempo non conta per noi, lo sapete. (Jack comprese che questo era detto per lui, per 104/233 dimostrare la famigliarità di cui quell'uomo godeva col suo amico). - Alle nove sarà troppo tardi? - Andrà benissimo alle nove. - E qua? - Qua. - Alle nove, dunque, - disse Frank. - Oh, a proposito... - egli s'appressò ancora a quell'orribile coppia, e Jack, rimasto a distanza, udì il mormorìo di una o due frasi e poi un tintinnio di monete. - Alle nove, dunque, - ripeté Frank. - Andiamo, Jack, dobbiamo affrettarci. - Buona sera, signore - gridò il Maggiore, ma Jack non diede risposta. - Frank, non vorrai dirmi che quei due sono la gente... - Sono il Maggiore e Gertie, appunto. - E che cosa dicevate di stassera? - Debbo partire, Jack. Mi spiace, ma te l'avevo detto che non potevo fermarmi più di due giorni. Jack rimase zitto, ma era una dura prova. - A proposito, come possiamo fare? - proseguì Frank. - Non passo partire vestito così, lo capisci, e d'altra parte non posso farmi vedere uscire da casa tua coi miei stracci. - Fa come ti pare - mugolò Jack. - Suvvia, vecchio mio, non farmi il muso. Cosa diresti se prendessi una valigia e mi cambiassi in questo cimitero? Dopo il tramonto è chiuso, non è vero? - Sì. - E tu ne hai la chiave, immagino? - Sì. - Bene, allora facciamo così. Io poi lascerò la valigia e la chiave sul muricciolo. Jack rimaneva zitto. Jack si padroneggiò lealmente quella sera, ma non riuscì a parlare molto. Consentì a spiegare a sua madre che Frank doveva partire dopo cena, e andò anche alla dispensa per farsi fare un fagottino, non più grosso di una coscia di montone, che conteneva due bottigliette che tintinnavano assieme. Lo fece fasciare in carta scura, e v'introdusse anche un biglietto da cinque sterline (sapeva che Frank non avrebbe accettato di più) e pose tutto nella valigia in cui erano già i cenci di Frank. Per il resto della serata rimase quasi sempre silenzioso, in una poltrona, cercando di non guardare Frank seduto in un'altra. Fingeva di leggere, ma cercava di rappresentare alla propria immaginazione che cosa avrebbe provato egli stesso se avesse dovuto raggiungere il Maggiore e Gertie alle nove nel cimitero... Ma Frank rimase tranquillo tutta la sera a leggere vecchie annate del 105/233 “Punch”. Pranzarono alle sette e mezzo, Frank ancora col vestito di fustagno. Fanny e Jill furono piuttosto difficili. Pareva loro una cosa assai romantica che questo giovanotto abbronzato, dagli occhi neri, col quale avevano giocato a “golf” il giorno prima, dovesse realmente continuare il suo giro podistico in compagnia di due amici, alle nove di quella stessa sera. Esse si domandavano innocentemente perché i due amici non fossero stati invitati anch'essi a cena. Era anche cosa straordinaria e interessante che il giovanotto fosse venuto a cena con un vecchio vestito di fustagno. Fecero una quantità di domande. Dove Mr. Guiseley intendeva andare? Frank non sapeva esattamente. Dove avrebbe dormito questa notte? Frank non sapeva affatto: avrebbe cercato. Quando sarebbe terminato il giro turistico? Frank non sapeva. Gli piaceva davvero? Oh, certo, Frank pensava che fosse una buona cosa proseguire il giro turistico, anche se qualche volta c'era qualche disagio. Il congedo avvenne senza emozioni. Prima di cena, Jack aveva annunciato improvvisamente ad alta voce che avrebbe accompagnato Frank fino al cimitero. Frank aveva protestato, ma aveva ceduto. Gli altri lo avevano salutato nella “hall”. e alle nove meno un quarto i due giovani scomparvero nel buio. Era una chiara notte d'autunno, - una “meravigliosa notte stellata” e il cielo brillava dolce sul capo fino alla massa scura della brughiera che circondava Barham. Era anche perfettamente calma, il vento era cessato, e mentre i due camminavano nel parco l'unico rumore era il mormorio dell'acqua sulle pietre oltre la cintura degli alberi a cinquanta metri. Jack aveva il cuore stretto: ma anche così, egli mi dice, sentiva che il silenzio di Frank era di un genere particolare. Sentiva come se il suo amico si avviasse a qualche gran sacrificio nel quale egli dovesse soffrire, e ne fosse solo in parte consapevole, o almeno, fosse a tal punto sorretto da una specie di esaltazione o di fanatismo da non comprendere quello che faceva. (Egli mi rammentava quel sogno che molti fanno di tanto in tanto, di accompagnare un amico alla morte: l'amico va avanti, silenzioso ed esultante, e noi non possiamo trattenerlo né spiegargli nulla). - I miei sentimenti erano questi, press'a poco - mi diceva Jack debolmente. Jack ebbe la triste soddisfazione di portare la valigia nella quale, per così dire, il coltello e la vittima erano celati. Cambiò d'umore una dozzina di volte anche in quel percorso d'un quarto d'ora attraverso la città. Ora la cosa gli sembrava orribile, come un incubo: ora assurdamente illogica; ora piuttosto bella; ora perfettamente ordinaria e comune. Dopo tutto - Jack ragionava tra sé - vagabondi 106/233 ce ne sono, vivi e sani. perché non doveva sopravvivere Frank? Per di più, egli aveva sangue di zingari. Di che cosa si spaventava dunque lui, Jack? - Ricordi quando parlavamo di tua nonna? - disse a un tratto mentre s'avvicinavano alla casa del portiere. - Sì. Perché? - Oh, perché stavo pensando a qualche cosa di diverso. Uno dei tuoi antenati non fu giustiziato sotto la regina Elisabetta? - Perbacco, hai ragione. Me n'ero dimenticato. Una volta tanto, era dalla parte di chi perde. - Come.., dalla parte di chi perde? V'era un tono d'allegria nella voce di Frank, quando rispose. - Fu per la religione - egli disse. - Era un papista. Tutti gli altri s'erano affrettati a conformarsi. Erano gente molto adattabile. Cambiarono ogni volta senza fare difficoltà. Ricordo che il genitore una volta ce ne parlava. Egli pensava che fossero molto di buon senso. E lo erano infatti, perbacco, da un certo punto di vista almeno! - E in quel che fai, la tua religione c'entra per qualcosa? - Oh, direi di sì - rispose Frank con aria indifferente. V'erano molte porte aperte nella High Street mentre i due giovani la percorsero, e Jack salutò meccanicamente una dozzina di persone che s'erano toccato il cappello mentre egli passava nella luce davanti alle case. - Che effetto fa essere uno “squire”? - Oh, non saprei - disse Jack. - Piuttosto gradevole, sto per dire - sentenziò Frank. Si avvicinavano alla parte più ripida della salita, quando l'orologio della chiesa batté le nove. - Un po’ in ritardo - disse Frank. - Quando tornerai? - chiese l'altro a un tratto - Io rimango qua per altri quindici giorni, e poi tornerò per Natale. Vieni per Natale, se puoi. - Oh, non so dove mi troverò allora! Tanti saluti a Cambridge da parte mia. - Frank! - Ebbene? - Non potrei dire quello che penso? - No! Oh! ecco il tetto della vecchia chiesa che si stagliava contro le stelle, e non si poteva discorrere più. Ad ogni momento potevano incontrare quegli altri due, ormai. Fecero ancora cinque passi, e là, nell'ombra del cancello, videro un puntino rosso di fuoco, che si alzò in una fiammella quand'essi guardarono, illuminando per un istante gli occhi grossi del Maggiore con la pipa in bocca. 107/233 - Buona sera, signore - s'udì la voce militaresca, e la ragazza s'alzò in piedi al suo fianco - Siete proprio puntuali. - Buona sera - disse Jack di cattivo umore. - Abbiamo passato una bellissima sera quassù, Mr. Kirkby, dopo essere scesi in città a prendere un boccone alla “Corona”. - Immagino che ve l'abbiano detto là il mio nome - disse Jack. - Appunto, signore. - Dammi la chiave - disse brusco Frank. Poi aprì il cancello e lo spinse sulla soglia muscosa. - Vuoi attendermi qui, Jack? - Entro anch'io. Ti faccio vedere dove puoi cambiarti. Venti passi di un sentiero irregolare e contorto, nel quale inciamparono due o tre volte, li condussero a una porticina rovinata all'estremità occidentale della vecchia chiesa. Il padre di Jack l'aveva ammirevolmente restaurata, per quanto il restauro era possibile, ed ora la vecchia torre si alzava forte come non mai, tutta rifatta nel tetto e nei pavimenti, elevandosi oltre le quattro pareti senza tetto tra le quali correva la doppia fila delle basi delle colonne scomparse. Jack, sfregò un fiammifero, accese un fanale da bicicletta. che aveva portato con sé, e mostrò la via. - Vieni di qua - disse. Frank lo seguì nella stanza alla base della torre e guardò intorno. - Magnifico! Era una chiesa cattolica, un tempo, immagino. - Sì, e il pastore dice che questa era la vecchia sacrestia. Hanno trovato degli oggetti, qua, mi pare: delle coppe murate nelle pareti, o cose del genere. - Proprio quello che ci voleva. Sarò pronto in meno di cinque minuti. Jack uscì senza pronunciar parola. Sentiva che era troppo attendersi da lui che assistesse Frank mentre si cambiava di abiti, e indossava quelli del sacrificio (lo colpì quasi una scossa piacevole, considerando questa metafora, che egli stesso aveva condotto Frank nella vecchia sacristia). Sedette sul muro basso, costruito per impedire che il cimitero franasse sul fianco della collina, e guardò alla cittadina sottostante. Di qua, si vedeva meglio il cielo. Si aveva la sensazione precisa dell'enorme volta silenziosa, affollata delle stelle immote, fredde e lontane; e, sotto, della piccola città, febbrile di scintille e di luci rosse sparse che la punteggiavano, là dove gli uomini disputavano e contrattavano e facevano progetti, e concludevano i piccoli affari della loro piccola vita, con tanto accanimento. Era tutt'altro che filosofo, Jack, di solito: ma è un fatto che egli rimase assorto in meditazioni di tal natura per un minuto o due, mentre sedeva ad attendere Frank, e sentiva le voci che parlottavano sul prato fuori del cancello. Per un istante gli venne perfino in mente che l'affermazione che Frank aveva fatto poco fa avesse un 108/233 fondamento di realtà, che cioè un qualche cosa davvero lo tenesse in mano, e che un piano e un risultato definito davvero dovessero emergere da tutte queste cose assurde e donchiosciottesche e deplorevoli. (Suppongo che il contrasto tra le stelle e le luci umane possa aver contribuito a suggerirgli pensieri di questa sorta). Poi si diede a funeree considerazioni d'un genere più particolare. Egli udì Frank che usciva, e si volse per vederlo nella luce smorta, col sacco in mano, vestito nuovamente com'era tre giorni prima. In capo aveva di nuovo quell'indescrivibile berretto; indosso quegli indescrivibili abiti; ai piedi portava gli scarponi coi quali aveva percorso la brughiera quel giorno stesso (come pareva ora lontano quel pomeriggio, e l'allegra merenda al sole sulla collina!) - Eccomi, Jack. Allora ogni promessa andò in fumo. Jack si alzò e fece un passo verso di lui. - Frank, ti scongiuro, abbandona questa follia. T'ho chiesto di non farla a Cambridge, te lo chiedo ancora adesso. Non m'importa di quel che ho promesso. È una pazzia, e... Frank s'era voltato senza una parola ed era a metà strada dal cancello. Jack incespicava per tenergli dietro: ma l'altro aveva già attraversato la soglia, s'era unito al Maggiore e a Gertie prima che Jack potesse raggiungerlo. - E così, pensate che la direzione giusta sia questa? - Frank stava dicendo. - Ho avuto qualche biglietto al “Corona” - disse il Maggiore. - Lassù vi sono alcune fattorie, dove... - Frank, posso parlarti un minuto? - No... Va bene, Maggiore. Se siete pronto, lo sono anch'io. Si volse verso Jack. - A proposito - disse - che cosa c'è in questo pacco? - Qualcosa da mangiare e da bere. - Oh... non ne ho bisogno, grazie davvero! Qui v'è la valigia con gli abiti. Ti sono proprio grato; vecchio mio, per tutta la tua gentilezza. Mi spiace proprio d'averti dato disturbo... - Sentite, Frankie... - s'intromise la voce odiosa al suo fianco - posso incaricarmi io di questo pacchetto, se non serve a voi. - Prendetelo, allora - disse Frank. - Vi faccia pro, se lo portate. Siete pronta, Gertie? La ragazza mormorò qualche cosa di impercettibile. Come al loro primo incontro, ella non aveva detto nulla. Il Maggiore sollevò un fagotto dalle profondità della cunetta, l'appese al bastone e stette ritto, in attesa, col volto nuovamente illuminato dal riflesso della pipa. Aveva porto il nuovo pacco a Gertie, senza dir parola. - Bene, addio ancora, amico - disse Frank, tendendo la mano. Jack poté vedere che anch'egli aveva il suo fagottino, avvolto nel 109/233 fazzoletto rosso, come quando s'erano incontrati sul ponte. Gli prese la mano e la strinse. Ma non riuscì a dire nulla. Poi i tre si volsero e s'avviarono alla salita. Egli li poteva vedere allontanarsi assieme, in silenzio, sempre più confusi contro la siepe oscura, i due uomini fianco a fianco, la ragazza due passi indietro. Poi, voltarono l'angolo e scomparvero. Ma Jack stava ancora dove Frank lo aveva lasciato, in ascolto, anche quando il rumore dei loro passi era svanito da un pezzo. Jack quella notte fece un orribile sogno. Gli pareva di vagare col fucile in mano, a caccia dei galli di montagna, solo nell'alta brughiera. Era uno di quei giorni pesanti, così comuni nei sogni, in cui la luce è tanto fosca che si può distinguere ben poco. S'accorgeva d'avere attorno a sé innumeri vette di colline e vallate che digradavano nel buio profondo, dove si potevano discernere soltanto le luci delle case lontane. Il suo sport era quello delle fantasticherie del sonno. Uccelli enormi, più grandi di struzzi, s'alzavano di tanto in tanto a uno o due per volta, con rapidità incredibile, e si libravano come palloni contro il cielo pesante e pieno di bagliori. Egli aveva sparato e aveva visto svolazzar delle piume, ma nessun uccello era caduto. Una volta il colpo aveva prodotto una ferita indescrivibile... ma l'uccello aveva traversato fulmine o il cielo, cancellandone metà, strillando. Poi, quando l'urlo stava svanendo, s'era accorto che v'era in esso una nota umana, e che Frank gli gridava qualcosa, da un punto al di là dei confini del mondo e l'orrore che ad ogni sparo s'era approfondito giunse a un culmine intollerabile. Cominciò allora uno dei consueti sviluppi degli incubi. L'urlo diventava sempre più debole, Jack s'era messo a correre: egli non poteva più veder la sua strada nel buio; s'arrampicava sui cumuli di pietra, cadeva nelle pozzanghere e ne traeva i piedi con infinito dolore; il fucile gli diventava un peso sempre più insopportabile, eppure egli non osava gettarlo. Sapeva che avrebbe potuto essergli necessario di lì a poco. L'urlo adesso era cessato, eppure egli non osava fermarsi. Frank era in qualche pericolo imminente, ed egli sapeva che non sarebbe stato ancora troppo tardi, se gli fosse riuscito di trovarlo subito. E correva e correva: adesso affondava fino al ginocchio nelle piume che erano cadute agli uccelli feriti. Era più scuro che mai, pure egli avanzava disperatamente, seguendo la direzione dalla quale gli pareva che il grido fosse venuto, e finalmente giunse al culmine d'una collina. L'urlo riprese, acuto e terrificante, vicinissimo, e l'istante dopo egli vide nella vallata sottostante, a cento metri di distanza, quello per cui aveva corso tanto. Correndo attraverso il pendio, ad angolo retto con la sua direzione, veniva Frank, vestito degli abiti che gli aveva prestati; aveva le mani distese, il volto bianco di cenere, e urlava correndo. Lo 110/233 inseguiva una folla di persone, di cui egli non poteva scorgere il volto; correvano come cani, mormorando un gemito terrificante. Allora Jack comprese che poteva salvare Frank: portò il fucile alla spalla, mirò al folto degli inseguitori e premette il grilletto. Seguì uno scatto, ed egli s'accorse che il fucile era scarico. Afferrò la cartucciera, e la trovò vuota. Si frugò nelle tasche, e trovò finalmente una cartuccia; e mentre la spingeva nel serbatoio aperto, il fucile si spaccò in due. Simultaneamente il fuggiasco scomparve oltre il ciglio della collina, e la muta lo seguì, e il più vicino degli inseguitori non era neppure a dodici passi da lui. Jack era rimasto là, impotente, impazzito. Poi aveva scagliato i pezzi del fucile spaccato sotto i piedi degli ultimi corridori; era caduto nel buio, ed era precipitato in quell'incubo singhiozzante che spezza il cuore e che mostra che i limiti sono raggiunti. Si svegliò, singhiozzando ancora, con la certezza che Frank si trovava in pericolo di morte, se anche non era già morto, e passarono parecchi minuti prima che osasse, distendersi nuovamente per dormire. 111/233 Capitolo II Il giardino della Rettoria a Merefield era, è chiaro, il posto più adatto per passarvi la maggior parte del giorno nell'estate. Certo, la Casa era fresca, era uno di quegli edifici lunghi, bassi, coperti di rampicanti, che in qualche modo richiamano Guglielmo IV e le crinoline (se è un fatto che queste due istituzioni siano fiorite assieme, come penso), con grandi stanze semibuie, ampie scale comode, e finestre tranquille, attraverso le quali comparivano le rose. Ma l'ombra dei tigli e dei tassi era ancora più fresca. In quei lunghi e caldi giorni d'estate una tavola stava quasi in permanenza nell'angolo ove Dick s'era seduto con Jenny, e qui il Rettore e sua figlia facevano colazione, merenda e cena per un periodo lunghissimo. Jenny poi viveva in giardino anche più di suo padre. Fatta colazione sbrigava le sue faccende in casa il più presto possibile, e usciva a far tutte quelle cosucce che poteva nel resto della mattinata. Scriveva qualche lettera, leggeva qualche libro, cuciva un po', e, nel complesso, presentava un quadretto simpaticamente domestico. Due o tre giorni alla settimana dedicava un'oretta a visitare i Poveri. Di tanto in tanto, quando Lord Talgarth stava abbastanza bene, dopo il tè usciva a cavallo con lui e con suo padre; qualche volta usciva con Lord Talgarth solo. A proposito di Frank, non le rimordeva affatto la coscienza. Le sue lettere erano state perfettamente sincere, ed ella era persuasa di essere stata più che di buon senso. (Forse, può osservare qualcuno, credersi di buon senso è una delle cose più pericolose che vi siano: e anche più pericoloso è il sentirselo dire). Il peggio è che ella aveva ragione. Era chiarissimo che lei e Frank non erano adatti l'una per l'altro; che ella aveva considerato quell'aspetto del carattere di lui, che si era rivelato nell'affare del pane e burro, nella partenza da Cambridge, nell'andare in prigione, e così via, come accidentale, mentre era essenziale. Certamente per lei era l'apoteosi del buon senso il riconoscere tutto ciò, e per conseguenza il rompere il fidanzamento. Naturalmente, ella aveva momenti che io chiamerei “di grazia”, e che ella avrebbe detto d'insania, quando si domandava se l'essere di buon senso fosse la cosa più alta nella vita; e a queste crisi ella reagiva come avrebbe reagito a una tentazione di qualunque altro genere. Essere di buon senso, secondo lei, era aver successo; essere altrimenti significava fallire... Contenta lei, allora... Al principio di settembre Dick Guiseley venne a Merefield per la caccia ai galli di montagna. Come mi pare d'aver accennato, questa selvaggina era in ritardo quell'anno, e, dopo la cerimonia 112/233 dell'apertura, quasi per un avvertimento ufficiale, al dodici d'agosto, venne lasciata in pace. La caccia doveva cominciare al tre di settembre, e la sera del due Dick era arrivato. Egli si aprì sull'argomento che sopra tutti ora occupava la sua mente con Archie la sera stessa, quando Lord Talgarth era andato a letto. Erano seduti nello “smoking-room” con la porta esterna spalancata per lasciar entrare l'aria tepida della sera. Avevano già discusso tutte le possibilità della caccia del domani, con tutta la solennità che l'argomento meritava, ed Archie aveva enumerato le persone che vi avrebbero preso parte. Il Rettore sarebbe venuto al mattino, e Jenny li avrebbe raggiunti a cavallo, al “lunch”. Poi Archie fece un largo sbadiglio, vuotò il bicchiere e prese la candela. - Oh! viene anche lei, dunque? - fece Dick con aria pensosa. Archie sfregò un fiammifero. - E di Frank, che notizie ci sono? - proseguì Dick. - Non ne so nulla. - Povero diavolo! Dov'è'? - Non ne ho idea. Dick fece una risatina monosillabica. - E lei, che cosa fa? - Jenny? Oh, proprio il suo solito. È una ragazza di buon senso, e sa quel che fa. Dick rifletté un momento. - Me ne vado a letto. - disse Archie - Occorre aver l'occhio desto, domattina. - Oh, siedi ancora un momento... debbo parlarti. Archie, quasi per compromesso, si appoggiò alla spalliera di una poltrona. - Lei, dunque, non lo rimpiange? - seguitò Dick. - Lei, no. Non avrebbe dovuto pensarci mai. - Dico anch'io - confermò Dick con calore. Gli faceva proprio piacere che in quest'affare il cuore e la testa si trovassero d'accordo. - Ma talvolta, lo sai, le donne rimpiangono le cose di questo genere. Piace loro non aver un buon senso assoluto. - Jenny non è così - disse Archie. Dick alzò il bicchiere che aveva riempito una terza volta di “whisky” e soda, appena cinque minuti prima, e ne bevette la metà. Si succhiò i baffi, e in quell'istante sentì che il suo cuore era portato alla confidenza. - Bene, bisogna che tenti il mio colpo - disse. - Che cosa? - Che tenti il mio colpo. Al massimo, lei potrà dirmi di no. La calma estrema di Archie scomparve per un istante. - Ma, santo Cielo! non avevo la minima idea... 113/233 - Lo so, che non l'avevi. Ma l'avevo io, da molto tempo... Che cosa ne pensi, Archie? - Caro mio... - Sì, lo so. Lasciamo perdere, e vediamo le cose come sono. Che cosa avverrà? Archie lo fissò un momento. - Che cosa vuoi dire? Vuoi dire che io approvo? - Ecco, non intendo questo - ammise Dick. - Intendo, che cosa è meglio ch'io faccia? Il viso di Archie si raggelò leggermente. (Bisogna ricordare che Jack Kirkby lo considerava un po’ superbo). - Devi seguire la tua via - disse. - Mi spiace, vecchio mio - disse Dick. - Non volevo essere rude. Archie, lasciando la poltrona, si rizzò. - È una sorpresa completa - disse. - Non mi era mai passato per il capo. Ci debbo pensare. - Buona notte. Spegni le luci, quando esci. - Archie, vecchio mio, t'ho fatto dispiacere? - No, no, hai fatto benissimo. E questo fu ciò che, in verità, accadde quella sera tra i due cugini a proposito di Jenny. Soffiava una piacevole brezza sulle colline quando Jenny, verso il mezzogiorno del dì seguente, le saliva lentamente a cavallo. La campagna di quella parte del Yorkshire è una curiosa mescolanza: chilometri di brughiera desolata e semplice e bella come può essere la brughiera, e a tratti, in vallette sparse, visioni di villaggi civili e anche di una o due cittadine frastagliate di tetti e campanili, e perfino qua e là, quasi sinistre, di macchie di fumo che impennacchiavano alte ciminiere. Jenny, cavalcando da sola, era pensierosa. E’ assai difficile non esserlo quando s'è attraversata una notevole crisi, e si prevede di doverne attraversare un'altra serie, specialmente se non si è ancora decisa la migliore linea d'azione. Essere di buon senso è una bellissima cosa, ma certe volte è difficile decidere quale di due o tre direttive sia più in armonia col buon senso. Essere impulsivi qualche volta condurrà a fastidi, ma qualche volta li risparmia. Jenny appariva bella. Indossava un delizioso abito verde; portava un cappello piumato; cavalcava una cavallina quasi perfetta appartenente a Lord Talgarth, e i suoi occhi azzurri e vivaci guardavano attorno, mentre ella procedeva, senza veder nulla. Infatti, fu la cavallina quasi perfetta che diede il primo cenno della vicinanza dei cacciatori, sussultando violentemente al rumore d'uno schioppo sparato a circa mezzo miglio di distanza. Jenny la trattenne, la calmò, e guardò tra le sue orecchie contratte e nervose. 114/233 Sotto di lei, distante da lei, convergendo lentamente verso l'alto, si muoveva una linea di punti di colore esattamente identico (Lord Talgarth ci teneva moltissimo, si capisce, all'uniforme dei suoi battitori), e a fianco di ogni punto si muoveva una macchietta rossa, che Jenny comprese essere una bandiera. Il punto verso cui erano diretti era il cucuzzolo di una collina bassa, rotonda, e sotto il cucuzzolo, a semicerchio, si vedeva una serie di bassi ripari, simili a fortificazioni, che dominavano la fronte e i fianchi del pendio. Questa era sempre l’ultima battuta prima del “lunch”, e il “lunch” stesso, Jenny lo sapeva, stava attendendo al versante opposto della collina. Di tanto in tanto, aguzzando l'occhio, ella vedeva un leggero movimento dietro un solco; null'altro. L'unico indizio di esseri umani, oltre ai battitori, stava nella tenue corona di fumo quasi del tutto invisibile che seguiva le detonazioni, che si facevano sempre più frequenti man mano che i galli di montagna si spaventavano. Una volta, con un fracasso simile a quello d'un razzo male acceso, una cosa bruna volante le sfrecciò davanti agli occhi, e urlando di terrore, starnazzò a trenta passi dalla sua testa e svanì nel silenzio. (La cavallina piegò un orecchio per sentire se il razzo tornasse indietro). Le meditazioni di Jenny si facevano sempre più filosofiche mentre guardava. Ella si domandava quanta libertà di scelta i cedroni - se fossero stati capaci di filosofare - avrebbero creduto di possedere di fronte all'insidia di quella morte rumorosa. Considerava come ogni filo d'istinto e di esperienza che albergava in ognuna di quelle testoline impaurite avvertiva il proprietario di volar via più lesto e più diritto che fosse possibile, lontano da quegli orribili individui verde e argento, che agitavano bandiere rosse, su verso quel tranquillo pendio da cui, tutt'al più, venivano di tanto in tanto dei rumori improvvisi. Un cedrone riflessivo avrebbe potuto forse pensare (e due o tre lo fecero) che sarebbe stato possibile fuggire più presto e nascondersi meglio dagli uomini verdi con le bandiere rosse volando per traverso nelle vallate laterali. Ma - Jenny osservava anche questa possibilità era prevista dai nemici umani, e dei cacciatori, come angeli con le spade, dominavano quelle vie di scampo. Era ovvio dunque che per quanto grandi potessero essere le illusioni di libertà nella scelta, in realtà non ve n'era alcuna. Gli uccelli erano traditi proprio dall'istinto che intendeva salvarli; il buon senso pratico, in questo caso almeno, li conduceva diritti nelle fauci della morte. Un po’ di stranezza e di impulsività li avrebbe resi immortali, almeno per la morte di fucile... Sì, ma ve n'era uno che era stato originale, che aveva preferito volar proprio davanti a un mostro in verde sopra una cavallina grigia, piuttosto che affrontare il pendio silenzioso ma mortale, s'era 115/233 salvato. Ma senza dubbio era un'eccezione. L'originalità nei cedroni... A questo punto la cavallina trasse un sospiro lento e sprezzante, e avanzò con impazienza un piede delicato, essendosi resa conto che il pericolo non era più imminente; e Jenny s'accorse che stava pensando delle sciocchezze. Al “lunch” v'era un certo numero di persone insignificanti ma ben vestite, e Jenny le conosceva quasi tutte. Sdraiate sul prato, esse dicevano una dopo l'altra le solite frasi più opportune, e tutto cominciò con lunghe bevute e tutto finì con abbondanti mangiate. V'erano anche due donne, che ella conosceva appena; giunte un'ora o due prima. Tutto era inappuntabile, fino ai cedroni arrostiti sui vassoi d'argento, e al caffè caldo versato dai “thermos”. Jenny fece delle domande intelligenti e si rese piacevole. Alla fine del “lunch”, chissà come, si trovò seduta sopra un sasso al fianco di Dick. Lord Talgarth era a venti passi di distanza, seduto con le gambe larghe, che guardava la campagna e parlava col guardiacaccia. Suo padre esaminava le canne del fucile piuttosto innocuo, ed Archie, con tre o quattro uomini e due donne, moglie e sorella dei cacciatori, fumava con la schiena appoggiata a una roccia. - Sarete in casa domani? - chiese Dick come per caso. Jenny fece una breve pausa. - Credo di sì - disse poi. - Ho alcune cose da fare. - Potrei venire? Avrei da parlarvi di qualche cosa. - Non continuerete la caccia? - No, non sono un gran cacciatore, e mi riposerò. - Jenny rimase silenziosa. - Verso che ora? - proseguì Dick. Jenny si alzò con un piccolo soprassalto. Ella fissava un punto al di là della collina, e si domandava se fosse la chiesa di Barham quella che si poteva appena distinguere contro l'orizzonte. - Oh, qualunque momento prima del “lunch” - disse vagamente. Dick si alzò con aria soddisfatta, stiracchiandosi. Pareva un uomo completo e a posto, pensò Jenny, dal berretto piatto alle scarpe da caccia. (Valeva almeno milleduecento sterline all'anno, non è vero?) - Bene, mi pare che stiamo per partire - disse Dick. Un battitore venne conducendo la cavallina proprio un momento prima della partenza. - Benissimo, potete lasciarla qua, - disse Jenny. - Non monto ancora. Legatela da qualche parte. Era uno spettacolo piacevole e pittoresco, quello dei battitori, simili a una fila di cacciatori medievali, che s'allontanavano rimpicciolendo in una linea di verde e argento, seguiti dopo cinque minuti dai cacciatori in un'altra direzione. Sembrava una misteriosa manovra militare in piccola scala, e nuovamente Jenny meditò sull'illusione 116/233 della libertà di scelta goduta dai cedroni i quali, forse a due miglia di distanza, si accoccolavano tra le eriche nei fossi. Eppure, in realtà, non v'era alcuna scelta... Lady Richard, moglie di uno dei cacciatori, troncò i suoi pensieri con una voce affettata. - Bello, non è vero? Jenny annuì cordialmente. (Eppure ella odiava quella donna, senza saperne il perché. Diceva a se stessa che era a motivo della pronuncia affettata, dell'insolenza degli occhi freddi, dell'aria sprezzante, e soltanto a metà ammetteva che fosse a motivo delle belle linee dell'abito e della persona, e della sicura posizione sociale). - Partiamo - proseguì la signora. - Voi non venite? - Sì. - La cavallina di Lord Talgarth, non è vero? Mi pare di riconoscerla. - Sì. Io non posseggo cavalli, lo sapete - disse Jenny secca. Intanto, improvvisamente, Jenny sentì che il suo odio diventava quasi furioso. - Debbo andare - disse. - Debbo passare da una vecchia che sta morendo. Capite bene, la figlia del Rettore... - Ah, già. Poi Jenny montò in sella servendosi d'un masso (Lady Richard tenne la testa della cavallina e le aggiustò l'abito), e a cavallo discese lentamente la collina. Il mattino dopo, un po’ prima di mezzogiorno, Dick s'avvicinava alla casa del Rettore con un'inconsueta eccitazione in cuore. Dick è un buon ragazzo: io non posso dir nulla a suo carico, se non, forse, che teneva troppo a precisare che il fatto di essere un Guiseley, di avere milleseicento sterline all'anno e di vivere in un appartamento a St. James, di possedere una barbetta bruna, dei malinconici occhi scuri e dei modi riposanti lo sollevavano da qualunque altro sforzo. Eppure gli farei torto; egli aveva fatto sforzi immensi per diventare un ottimo giocatore di bigliardo, e v'era riuscito: e, fin dal suo ultimo mutamento di fortuna, s'era addossato con piena coscienza responsabilità maggiori. Beninteso, fin da prima era innamorato, in un certo senso. Ma ora la cosa era del tutto diversa. Desiderava proprio tanto di sposare Jenny... che ella fosse tanto assennata, che fosse bella e sapesse così bene presentarsi, naturalmente facilitava la cosa. Ma, se comprendo bene la situazione, non erano questi i soli elementi in causa. Era proprio la cosa in sé. Egli non sapeva come avrebbe affrontato il futuro se fosse stato respinto, ed aveva bastante umiltà per essere dubbioso. La servetta gli disse alla porta che aveva avuto istruzioni di farlo 117/233 attendere in giardino... No, Miss Launtoll era in sala, ma l'avrebbe subito avvertita. Così Dick attraversò il prato e sedette alla tavola sotto i tigli. Egli guardava la casa solenne e assonnata nella luce del sole dell'estate cadente. Vide che un pettirosso era sbucato da un tiglio, guardandolo di straforo; poi un altro pettirosso che era sbucato da un altro tiglio aveva condotto via il primo. Poi si accorse di un velo di polvere sulla scarpa sinistra, e lo spazzò col fazzoletto. Infine, mentre stava riponendo il fazzoletto, vide Jenny che usciva. Ella sembrava davvero bellissima mentre veniva lentamente verso di lui, ed egli s'alzò per salutarla. Ella aveva la testa scoperta, ma la fronte era ombreggiata dalle folte trecce. Indossava un vestito semplicissimo, di taglio perfetto, e aveva un portamento superbo. Gli parve appena un po’ più pallida di ieri, e nei suoi occhi v'era una specie di domanda molto riservata. (Mi spiace di essere costretto a ripetere cose di questo genere a riguardo di Jenny tutte le volte che ella viene sulla scena, ma sono le cose che ognuno non può far a meno di osservare ogni volta che ella compare). - Ho tante cose da dirvi - cominciò Dick dopo un minuto, quando furono seduti. - Posso cominciare dal principio? - Ma sicuro - rispose Jenny. Dick si distese e accavalciò le gambe. I suoi modi erano perfetti almeno, erano proprio quel che desiderava che fossero, e li mantenne per tutta la durata del discorso. Erano misuratissimi, estremamente educati, e per nulla artificiosi. Era il suo modo di presentare un fatto - il fatto di essere realmente innamorato di quella ragazza - v'era leggerezza di tocco in quel suo metodo, ma soltanto in superficie. - Non è forse corretto ch'io vi venga a parlare così presto, ma non ho potuto farne a meno. So che avete avuto molte preoccupazioni il mese scorso, e quello precedente; anche prima, immagino, ma questo non so. E comincio con lo scusarmi se sto facendo quello che forse non dovrei fare. Il fatto è che... ecco, che non oso rischiare un'attesa. Egli non guardava Jenny, ma osservava il pettirosso che da quando Jenny era comparsa svolazzava avanti e indietro. Ma s'era accorto che alla sua prima frase Jenny s'era a un tratto bloccata in una immobilità completa. E si domandava se questo fosse un buon auspicio o no. - Ed ora - proseguì - permettete che cominci col dire qualche cosa di me. Ho appena compiuto i trentun anni; ho quattrocento sterline di mio, e me ne passa Lord Talgarth altre milleduecento. Poi ho altre prospettive, come si dice. Lo zio mi ha fatto capire che l'assegno mi è assicurato nel suo testamento; e sono l'erede di mia zia, Lady Simon, che voi probabilmente conoscete. Dico questo per mostrarvi che non 118/233 sono uno spiantato... - Mr. Guiseley... - cominciò Jenny. - Attendete, per favore, non ho ancora finito. Comprendete? Io sono un uomo serio. Non sono senza macchia, ma risponderò a qualunque domanda vi piaccia fare... a vostro padre. Non ho alcuna professione, quantunque si dica che sono avvocato; ma ho l'intenzione di mettermi a lavorare se... è desiderato, o di darmi alla politica, o di fare qualunque cosa del genere. Non s'è vista, finora, nessuna ragione perché io dovessi lavorare. Ecco tutto. E penso che ora voi conosciate che genere di persona io sia. “Ed ora veniamo al punto. - (Dick esitò una frazione di secondo. Era commosso davvero). - Il punto è che io sono innamorato di voi, e lo sono da tempo. Io... non posso spiegarlo più chiaramente... Un momento, per favore, ho quasi finito... Non posso pensare a null'altro. Non ho potuto, da due o tre mesi almeno. Io... io... sono spiacente davvero per il povero Frank: gli voglio molto bene, lo sapete, ma non potei fare a meno di provare uno straordinario sollievo quando seppi la notizia. Ed ora sono venuto a chiedervi, senza perifrasi, se acconsentite a diventare mia moglie. Dick la guardò per la prima volta da quando aveva cominciato a parlare. Ella sedeva ancora perfettamente tranquilla (non s'era mossa neppure quando egli aveva pronunciato quelle due parole), ma era diventata ancora più pallida. La sua bocca era in riposo, senza tremito né movimento alcuno, e i suoi begli occhi fissavano il prato. Ella non disse nulla. - Se non mi potete dare una risposta subito - riprese Dick dopo un istante - posso benissimo... Ella si volse e lo fissò coraggiosamente in viso. - Non posso dirvi “sì” - disse. - Sarebbe assurdo... Voi siete stato schietto con me, ed io debbo essere schietta con voi. È questo che volete, non è vero? Dick chinò il capo. Il cuore gli batteva furiosamente per l'esultanza, a dispetto delle parole di lei. - Allora quel che dico è questo: voi dovrete attendere a lungo. Se aveste insistito per una risposta immediata, avrei dovuto dirvi “no”. Mi spiace tenervi in sospeso, specialmente pensando che con tutta probabilità alla fine sarà un “no”. Ma siccome non ne sono del tutto sicura, e siccome voi siete stato perfettamente onesto e cortese, se davvero lo desiderate non dirò “no” subito. Va bene? - Come volete... - Non dovete dimenticare che fui fidanzata con Frank fino a poco tempo fa. Non vi rendete conto come questo fatto renda il giudizio dubbioso? Non posso giudicare, adesso, e so di non potere... Volete attendere, allora? Anche se vi dico che credo che sarà un “no”? 119/233 - Come vorrete - ripeté Dick. - E non posso ringraziarvi di non avere detto subito no? Un leggerissimo sguardo di dolore comparve negli occhi della ragazza. - Preferirei di no. Mi spiace che abbiate detto così. - Mi spiace - disse il povero Dick. Vi fu una pausa. - Un'altra cosa - disse Jenny. - Vi spiacerebbe non accennar di nulla con mio padre? Non vorrei che si crucciasse ancora. Avete detto a nessun altro che voi... - Sì - rispose Dick coraggiosamente - l'ho detto ad Archie. - Me ne rincresce. Allora potete ripetergli esattamente quello che v'ho detto io. Esattamente, capite? Che io pensavo che sarebbe un no, ma che non l'ho detto subito soltanto perché voi l'avete desiderato. - Sta bene - disse Dick. Passò circa un minuto prima che uno dei due parlasse. Jenny possedeva quel dono prezioso e carezzevole che impedisce che i silenzi siano vuoti. È lo stesso dono, in altra forma, di quello che rende i suoi possessori capaci di porre la gente a suo agio. (È, suppongo, uno degli elementi del tatto). Pareva a Dick di stare ancora parlando gentilmente e ragionevolmente, quantunque non potesse comprendere tutto quello che Jenny intendeva. Ella interruppe il silenzio con una frase improvvisa. - Mi domando se è giusto. Sapete che ne sono tutt'altro che certa. Soltanto non lo dico perché... - Non dite altro - troncò Dick. - Il rischio è mio, non è vero? Quando finalmente egli l'ebbe lasciata sola, Jenny rimase a sedere immobile allo stesso posto. Il pettirosso se n'era andato deluso. Questa creatura umana non s'era messa a raspare i sentieri del giardino, come faceva qualche volta facendo comparire vermi gustosi e piccole larve grasse. Ma invece era uscito un gatto, il quale passeggiava con le zampe rigide, la testa bassa e la coda tesa, attraverso l'erba solatia, preoccupandosi di dare la impressione di essere immerso in qualche suo remotissimo affare. Egli si soffermò sulla linea dell'ombra e diede alla ragazza un'occhiata maligna. - Mao! - disse il gatto. Nessuna risposta. - Maoo! - disse il gatto. - Mah! - disse Jenny pensosa. - Mao! - disse il gatto, avanzando, -Mah! - disse Jenny pensosa. Di nuovo vi fu un lungo silenzio. 120/233 - Mah! - disse Jenny indignata. Il gatto abbassò la testa piegandola da un lato, mentre s'avviava attraverso il sentiero, ma non disse nulla. Attendeva un'altra battuta, ma Jenny non gli prestava più attenzione. Quando entrò nella siepe di tassi si volse ancora una volta. - Mao! - disse il gatto, quasi sottovoce. Ma Jenny non diede risposta. Il gatto le gettò uno sguardo sdegnato e scomparve. *** Poi uscì un cane - un animaletto nero e bruno - saldo sulle gambe, fermo e indipendente d'aspetto e di modi. Egli era prole illegittima di un fox-terrier. Veniva dall'orto, trottando in linea diagonale dietro a Jenny. Nel traversare la traccia del gatto si fermò, annusò e la seguì per un metro o due, finché accertò che proveniva da una persona nota; allora si volse per riprendere il suo cammino. Il movimento attrasse l'attenzione della ragazza. - Lama! - chiamò Jenny con voce imperiosa. - Vieni qua subito! Lama piegò la testa da un lato, le sorrise con indulgenza, e continuò a trottare per la sua strada. Ah, povera me! - disse Jenny, sospirando forte. 121/233 Capitolo III Viveva (e vive ancora, ch'io sappia) nel piccolo villaggio di Tarfield, nel Yorkshire, un medico pensionato, che abita tutto solo, salvo i domestici, in una grande casa. Era una casa di bell'aspetto, soltanto, quando vi sostai non molto tempo fa, mi parve che il dottore non sapesse come usarne. È collocata in mezzo a un terreno di due o tre acri, a destra di chi vada verso il nord, separata dalla strada del villaggio da una fila di tigli svettati, e vi si accede - o piuttosto vi si dovrebbe accedere - da un cancello di ferro battuto stile Carlo II. Dico “piuttosto vi si dovrebbe accedere”, perché il cancello è invariabilmente tenuto chiuso, e si può giungere alla casa soltanto dalla porta laterale, per il cortile delle scuderie. Quando vi passai, il giardino era vergognosamente trascurato; l'erba invadeva tutti i viali, e gli amaranti crescevano ovunque tra i fiori del tardo autunno. Anche la casa aveva un aspetto triste. Ai lati della piccola sala d'ingresso v'erano due grandi stanze: l'una era la sala da pranzo, l'altra una specie di salotto; ed ambedue parevano abbandonate. Nell'una il dottore qualche volta pranzava, nell'altra non entrava mai, a meno che qualche visitatore non venisse a cercarlo; la stanzetta che avrebbe dovuto essere uno studio, ai piedi della scala che dalla sala interna conduceva alla cucina, era a malapena migliore. Io fui là, come ho detto, l'autunno scorso, e le condizioni dell'ambiente dovevano essere tali e quali quando Frank venne a Tarfield nell'ottobre. Perché bisogna dire che il dottore - il quale possedeva una discreta ricchezza - dedicava tutta la sua fortuna, tutta la sua attenzione e tutta la sua vita allo studio delle tossine, al piano superiore della casa. Le tossine, da quel che ho capito, hanno qualcosa di comune coi microbi. Il loro studio richiede, oggi almeno, una gran quantità di piccoli animali, come topi rane bisce porcellini d'India e conigli, ai quali vengono iniettate diverse malattie per poi essere studiati con amorosa attenzione. Io vidi il serraglio del dottore quando andai a visitarlo a proposito di Frank. Gli animaletti erano allogati in una grande stanza sopra la cucina, comunicante con la camera del dottore per mezzo di un piccolo spogliatoio con due porte, e l'odore era indescrivibile. File di gabbie e di cassette si alzavano fino al soffitto, e nel mezzo della stanza v'era un gran tavolo da cucina con vari aggeggi. Vidi anche la camera del dottore, in un terribile disordine, che senza dubbio era teatro di una grande attività. V'erano pile di libri e di riviste intonsi negli angoli e sulla tavola, e un mucchio di quaderni. Un assortimento di tubi di vetro e di bottiglie variopinte stava sotto la finestra, assieme a un microscopio e a molte scatolette di legno. E v'era anche un qualche cosa che mi pare ch'egli 122/233 chiamasse incubatore: un arnese di metallo, sostenuto da quattro gambe sottili, da cui emergevano un certo numero di tubi di vetro, accuratamente chiusi con batuffoli di cotone, e un termometro piantato in un angolo. Un grado realmente alto di specializzazione su un qualunque soggetto particolare porta invariabilmente all'atrofia in altri campi. Un uomo il quale mangia e respira e sogna tossine, per esempio; il quale, vive tanto nelle tossine da corrispondere quotidianamente con tedeschi dotti e incomprensibili; il quale sa tante cose sulle tossine che quando entra, col vestito liso e una valigetta, nel gabinetto di un rinomato specialista di Harley Street, vede quasi in sogno lo specialista alzarsi e fargli un inchino; il quale, quando giunge ad essere persuaso a collaborare con un articolo brevissimo ed irto di dati tecnici a una rivista medica riceve a giro di posta un assegno di venticinque ghinee; un uomo di questo genere è particolarmente soggetto al pericolo di pensare che ogni cosa che non possa essere espressa in termini di tossine sia una sciocchezza trascurabile. È il pericolo caratteristico della specializzazione in qualunque ramo del sapere; neppure i teologi ne sono immuni. Così era nel caso del Dottor Whitty (mi sfuggono le iniziali di tutti i titoli che dovrebbero seguire il suo illustre nome). Egli non aveva mai preso moglie, non faceva mai dello sport; talvolta, quando la temperatura d'una rana si avvicinava al punto critico, dormiva vestito, e dimenticava di cambiarsi al mattino. Ed era la disperazione del zelante vicario. Era perfettamente convinto che dal momento che la forza che regola la produzione delle tossine può compir tante cose, essa potrebbe certo compiere tutto. Se gli si fosse dato il tempo, egli avrebbe potuto ridurre le sue rose, la propria complessione, l'erba del giardino, la pelle delle rane e delle bisce, la tovaglia della tavola di cucina, in termini di tossine. Perciò - argomentava il dottor Whitty - avrebbe potuto, avendo ancora dell'altro tempo, ridurre ogni altra cosa agli stessi ordini. Per lui, si capisce, una cosa come l'anima non esisteva - era soltanto la manifestazione di una combinazione di tossine (o di antitossine, quali non ricordo); Dio non esisteva - l'idea di Dio era il risultato di un'altra combinazione di tossine. Parlando all'ingrosso, io penso che la sua idea generale era che siccome le tossine sono una secrezione di microbi (di questa frase per lo meno sono certo), così il pensiero, le esperienze spirituali, eccetera, sono una secrezione del cervello. Io so che anche per le altre cose egli aveva altrettanta brillante sicurezza che non ammetteva obbiezioni. Non che si pigliasse mai la pena di dirlo. Aveva un interesse troppo profondo per le cose che conosceva già, o per quelle che stava per scoprire, per poter trattare di queste ramificazioni del suo argomento, complicate e stravaganti. Quand'egli fosse giunto a conoscere come realmente si comportavano i suoi topi e i suoi 123/233 pipistrelli, sarebbe forse stato possibile richiamare la sua attenzione ad altre cose. Per ora, sarebbe stata fatica sprecata. Così egli viveva con un uomo a tuttofare, e la moglie di quest'uomo, e di giorno in giorno approfondiva la sua conoscenza delle tossine. Fu a questa casa che si avvicinò nel mese di ottobre un piccolo e funereo corteo di tre persone. Un mattino, appena dopo colazione, il dottore fu richiamato una prima volta al senso di quanto avveniva, mentre attraversava lo spogliatoio portando in mano il cadavere di un topo che, senza alcun senso di opportunità, aveva dovuto soccombere a un severo attacco d'un ibrido della lebbra. Mentre stava guardando nel microscopio, s'accorse che nel sottostante cortile avveniva un alterco. - Vi dico che non è un dottore sul serio - sentì che il servo stava spiegando. - Egli non sa nulla di queste cose. - Caro il mio uomo - cominciò una voce sonora e autoritaria, fuor della vista; ma il dottor Whitty tornò ad assorbirsi nel suo esame, sentendo il più alto disgusto possibile per la razza umana. Il tempo non aveva alcun significato per lui, quando era intento al suo lavoro. Quindi poteva essere un'ora o due dopo, come dieci minuti, quando sentì battere alla porta. Emise un grugnito senza muovere gli occhi, e la porta si aprì. - Mi spiace molto, signore - disse il suo uomo - ma v'è della gente nel cortile che non vuole... Il dottore alzò la mano per chiedere silenzio, diede ancora qualche occhiata, frugò due o tre volte in qualche piccolo oggetto ributtante, sospirò, e si raddrizzò. - Eh? - V'è gente nel cortile, signore, vogliono un medico. (Cose del genere erano avvenute altre volte), - Ditegli che se ne vadano - rispose secco. Non era un uomo scortese, ma non ammetteva questi casi. - Ditegli di andare dal dottor Forster. - Glie l'ho detto, signore. - Diteglielo ancora. - Glie l'ho ripetuto. Una mezza dozzina di volte. Il dottore sospirò. Non faceva attenzione a nulla, praticamente, questo si capisce. Il topo lebbroso era stato una delusione; ecco tutto. - Se voleste scendere giù, signore, un momento... Il dottore fu strappato dal suo universo di tossine. - Sciocchezze - rispose aspro. - Dite che non faccio il medico. Che cosa vogliono? - Ecco, signore, è un giovane che s'è intossicato un piede, dice. E sembra malissimo, e... - Cosa? Intossicato? 124/233 - Sì, signore. Il dottore parve riflettere un momento (quel topo, capite bene...) poi si riprese. - Vengo subito - disse quasi meccanicamente. - Fateli entrare nello studio. Il dottor Whitty non riuscì a spiegare nemmeno a me, quando ci si provò, il motivo esatto per cui egli aveva fatto un'eccezione in quel caso particolare. Io, beninteso, lo capisco perfettamente; ma quanto a lui, tutto quel che poté dire fu che la parola “intossicazione” gli andò a genio. Egli aveva appena appena finito onestamente l'affare del topo; non aveva sottomano alcun altro caso tipico, e pensò che avrebbe ben potuto studiare un momento il caso del giovanotto, prima di rispedirlo al dottor Forster, sei miglia più oltre. Quando dieci minuti dopo entrò nello studio, trovò gli stranieri schierati ad attenderlo. Una ragazza stava seduta su una cassa nell'angolo della finestra, e si alzò. Un giovanotto era disteso su una poltrona Windsor, senza una scarpa, e sussultava spasmodicamente; un uomo alto, magro, di un aspetto piuttosto indisponente, era curvo sopra di lui con un'aria d'immensa sollecitudine. Si vedeva che tutti e tre appartenevano alla classe dei vagabondi. Quello che essi videro - Frank escluso, io penso, perché era troppo fuori di sé per accorgersi di qualunque cosa - fu un vecchio d'aspetto benevolo, molto trasandato, con una giubba d'alpacca, un berretto frusto di velluto in capo, e degli occhi miopi che brillavano dietro le lenti rotonde. Questa figura apparve sulla soglia, si férmò a guardarli un momento, come se fosse sorpreso che essi o lui stesso si trovassero in quel luogo; e poi, con un movimento frettoloso, attraversò la stanza e s'inginocchiò. Il colloquio seguente ebbe luogo appena l'ultima striscia di garza cadde sul pavimento, e il piede di Frank fu sfasciato. - Quanto avete camminato? - chiese secco il dottore, tenendo con cura tra le mani il piede pallidissimo. - Ecco, signore - disse il Maggiore, riflettendo - egli cominciò a zoppicare circa... vediamo... CIrca due giorni fa. Noi venivamo... Il dottore, fissando curiosamene il volto di Frank (lo spasimo per ora era cessato) interruppe il Maggiore con una domanda al paziente. - E ora, ragazzo mio, come vi sentite? Le labbra di Frank si mossero; parve che egli cercasse di leccarsele. Ma non disse nulla; gli occhi gli si chiusero, ed egli fece una o due volte un ghigno, quasi sardonico. - E questi spasimi, quando cominciarono? - proseguì bruscamente il dottore, rivolgendosi un'altra volta al Maggiore. - Ecco, signore; se intendete queste smorfie... Frank cominciò a farle circa mezz'ora fa, quando c'eravamo seduti un momento. Ma aveva 125/233 un aspetto strano fin da colazione. E non pareva che fosse capace di mangiar bene. - Cosa volete dire? Forse che non poteva aprire la bocca? - Appunto, signore, qualcosa del genere. Il dottore cominciò a far rapidi commenti sottovoce, come parlando a se stesso. Premette una o due volte la mano sullo stomaco di Frank, prese le bende sudice e le esaminò. Poi guardò la scarpa. - Dov'è la calza? - chiese brusco. Gertie la trasse fuori da un fagotto. Egli la guardò accuratamente, poi ricominciò a borbottare. Infine si alzò in piedi. - Come va, dottore? - chiese il Maggiore, cercando di darsi un'aria preoccupata. - Tetano - disse il dottore. Poi proseguì: - Voi chi siete? Un parente? - No, signore... sono un amico. - Ah! allora dovete lasciare il vostro amico alle mie cure. Lo guarirò in una settimana al massimo. Il Maggiore era silenzioso. - Ebbene? - proruppe il dottore. - Ho capito dal vostro servo... - Voi parlate come una persona istruita. - Sono una persona istruita. - Oh! bene, è affare che non mi riguarda. Che cosa stavate dicendo? - Ho capito dal vostro servo, che voi non esercitate la professione. E allora... Lo specialista gli diede un'occhiata torva. Prese un libro da una pila sulla tavola, lo aprì al frontespizio, e glie lo mise sotto il naso. Leggete qua, signore... È proprio il mio argomento. Andate a chiederlo al dottor Forster, se credete... No, signore, il vostro amico debbo trattenerlo. È un magnifico caso. Il Maggiore lesse il frontespizio in modo superiore. Constatò che il libro era di James Whitty, e il nome era seguito da una filza di titoli e di iniziali, che io ho dimenticato. Le prime erano F.R.S. - Il mio nome - disse il dottore. Il Maggiore restituì il libro con un inchino. - Sono lieto di fare la vostra conoscenza, dottor Whitty. Ho sentito parlare di voi. Posso presentarvi la signor Trustcott? Gertie sembrava confusa. Il dottore fece un rigido inchino. Poi tornò ad animarsi in volto. - Dobbiamo portare il vostro amico di sopra - disse. - Se mi aiutate, Mr. Trustcott, chiamo il mio servo. Erano circa le nove e mezzo di quella sera, quando il dottore, che aveva suonato la campanella nella stanza di riserva, trattenne il domestico sulla soglia. - Stanotte dormirò in questa stanza - disse. 126/233 - Voi potete andare a letto. Portatemi il materasso, per favore. L'uomo guardò in faccia il padrone. (“Aveva un aspetto strano”, disse più tardi Thomas alla moglie). - Spero che il giovane stia bene, nevvero? Uno spasimo comparve sul viso del dottore. - Il giovane più straordinario del mondo... - disse. Poi sbottò: Portate subito il materasso, Thomas. E poi andate pure a letto. Tornò indietro e chiuse la porta. Di rado prima d'allora Thomas aveva visto il suo padrone così turbato per un essere umano, e si domandava che cosa mai ci fosse sotto. Durante i pochi minuti che rimase nella stanza, guardò curiosamente il malato, e s'accorse che anche il dottore lo guardava continuamente. Thomas mi descrisse l'aspetto di Frank. Era molto rosso, disse, con gli occhi lucidi, e parlava senza posa. Senza dubbio era questo parlar nel delirio che aveva sconvolto il dottore. Io cercai di cavar dal dottor Whitty quel che Frank aveva detto, ma il dottore chiuse la faccia a chiave, e non volle dir nulla. Thomas fu più comunicativo, per quanto lungi dall'essere adeguato. - Parlava della religione - diss'egli - della religione... e fu in sostanza tutto quello che poté riferire. Thomas quella notte si svegliò verso l'una e ancora col senso di disagio che aveva provato nella serata discese dal letto senza disturbare la moglie, si mise le pantofole e la vestaglia e scese nell'attico. La luna di ottobre era alta, e brillando attraverso il lucernario della scala gli lasciò vedere la porta della stanza di riserva con una linea di luce. Di dietro alla porta giungeva il continuo mormorio di una voce... Ora, Thomas aveva i nervi forti. Era un ometto magro, asciutto e svelto, di quasi cinquant'anni, da sedici anni ormai viveva con questo padrone, e coi suoi topi e le bisce e le ampolle ripugnanti; e prima era stato infermiere in un manicomio. Pure qua vi era qualcosa - mi disse più tardi - che lo aggavignò d'un tratto, mentre era a metà della scala, e lo tenne in un'agonia che non seppe in alcun modo descrivere, ma che era connessa con quel che avveniva dietro la porta illuminata. Non che egli temesse per il suo padrone, né per Frank. Era qualcosa di assolutamente diverso. (Che peccato che il nostro sistema di educazione non ci insegni né ad analizzarci né ad esprimerci!). Egli rimase là - mi disse - forse per dieci minuti, incapace di salire o di scendere, ascoltando, sempre ascoltando la voce che s'alzava e s'abbassava, e di tanto in tanto taceva in silenzi che erano peggio di tutto, e dicendosi rigorosamente che non aveva paura. Uno scricchiolio in qualche angolo della vecchia casa lo disturbò e troncò il filo sottile che pareva paralizzargli l'anima: e ancora in una specie di terrore, quantunque non più nella stessa immota agonia, 127/233 egli discese i tre o quattro gradini, afferrò la maniglia della porta, la girò ed entrò. Per quanto egli poteva vedere, Frank giaceva tranquillo. Un lumino da notte ardeva tra le ampolle e le siringhe sul tavolo ai piedi del letto e quantunque fosse schermato per non colpire il viso del giovane, diffondeva ancora una luce sufficiente perché Thomas potesse distinguere la figura giacente e il suo padrone, seduto dall'altra parte del letto, vicinissimo, ancora vestito - anzi, ancora col berretto di velluto - che col mento in mano, del tutto assorto e attento, fissava il paziente. Nulla v'era di particolarmente allarmante in tutto ciò, eppure nella stanza v'era quel che una volta ancora afferrò l'uomo al cuore e lo tenne là, rigido, atterrito, e soprattutto inesprimibilmente stupito. (Almeno, è così che io ho potuto interpretare la sua descrizione). Mi disse che non era affatto la stanza di riserva, come la conosceva d'ordinario (e infatti quando la vidi io era una stanza comune, senza camino, quantunque di discreta ampiezza). Era come una stanza del tutto diversa, disse Thomas. Cercò di ascoltare quello che Frank diceva, ed io immagino che lo abbia sentito distintamente; pure, ancora una volta, tutto quello che poté dire in seguito fu che parlava della religione... della religione... Rimase là, finché s'accorse che il dottore lo guardava con l'eloquenza del volto corrugato. Comprese di doversene andare. Chiuse la porta senza far rumore, e, dopo un'altra pausa, salì di sopra. Quando Frank si risvegliò a normale conoscenza, rimase immobile. chiedendosi che cosa vi fosse attorno a lui. Vide una tavola ai piedi del letto, e su di essa una scatoletta di pelle, due ampolle verdi col tappo di gomma, e una scodella coperta che pareva contener del brodo. Estese la sua esplorazione anche più lontano, e scoprì un guardaroba hannoveriano contro la parete di sinistra, un filtrar di luce (ben presto distinse che si trattava di una finestra), una tappezzeria sbiadita, e infine una porta. Quando giunse a questo punto, la porta si aprì, e un vecchio con una papalina di velluto, gli occhiali, e un volto rugoso e gentile entrò e si fermò accanto a lui. - Bene? - disse il vecchio. - Mi sento un po’ duro, - rispose Frank. - Avete fame? - Direi di sì. - Oh, state benissimo, allora, se questa è una soddisfazione per voi fece il dottore, osservandolo con aria dubbiosa. Frank non disse nulla. Il dottore sedette su una poltrona di fianco al letto, che Frank notò allora per la prima volta. - Bene - riprese il dottore - suppongo che desideriate conoscere i 128/233 fatti. Eccoli qua. Il mio nome è Whitty; sono medico. Questa è la mia casa. Oggi è mercoledì, pomeriggio. I vostri amici vi hanno portato qui iermattina, Ho dato loro qualcosa da fare in giardino. Voi eravate malato ieri, ma oggi state bene. - Di che cosa si trattava? - Non vi preoccupate dei nomi, - disse il dottore con una gentile bruscheria. - È stata una vescichetta che scoppiò e divenne una piaga; poi la calza sporca che portavate l'intossicò. Ecco tutto. - Cosa c'è in quella bottiglia? - chiese languido Frank (egli si sentiva debole e sciocco in maniera impressionante). - Ah, è un'antitossina - rispose il dottore. - Ciò non vi dice molto, non è vero? - No. A proposito - aggiunse Frank - chi vi pagherà, dottore? Io non posso. Il volto del dottore si aggrinzò. (Frank desiderò che egli non fosse seduto con le spalle alla luce). - Non ve ne preoccupate, ragazzo mio. Voi siete un “caso”; ecco quel che siete. Frank tentò un sorriso di educazione. - E ora, cosa direste di un po’ di brodo, prima di rimettervi a dormire? Frank assentì. Non fu che al mattino del giovedì che le cose cominciarono a scorrere realmente chiare nella mente di Frank. Egli cercò il suo rosario sotto il guanciale, e non ve lo trovò. Allora percosse sul pavimento con un bastone che gli era stato messo al fianco, ricordandosi che in qualche precedente esistenza gli era stato detto di fare così. Un ometto magro apparve sulla porta a quel che pareva, con la rapidità del pensiero. - Il mio rosario, per favore - disse Frank. - È una corona di grani. Dev'essere nella tasca dei miei calzoni. L'uomo lo guardò con una straordinaria attenzione, e sparì. Poi comparve il dottore, tenendo il rosario. - È questo che volete? - disse. - Precisamente. Grazie. - Siete cattolico? - proseguì l'altro, nel porgerglielo. - Sì. Il dottore sedette. - L'immaginavo. Frank si chiese il perché. Poi un pensiero gli attraversò il cervello. - Ho parlato, forse? Suppongo di essere stato in delirio. Il dottore per un momento non diede risposta: lo guardava fisso. Poi si rizzò. - Sì, avete parlato. 129/233 Frank parve piuttosto a disagio. - Spero di non aver detto nulla che non avrei dovuto. Il vecchio fece una risatina breve e arcigna. - Oh, no; tutt'altro. Almeno, i vostri amici non lo direbbero. - Di che cosa ho parlato? - Ne parleremo dopo, se non vi spiace, - disse il dottore. - Ora vorrei che vi alzaste un po', dopo aver mangiato qualcosa. Fu con una stranissima sensazione che il giorno dopo Frank si trovò nel giardino, in un angolo riparato, seduto in una poltrona di vimini, nella quale, con l'aiuto di aste di bambù, egli era stato portato abbasso dal Maggiore e da Thomas, mentre il dottore indicava la strada e il modo di svoltare gli angoli. La poltrona fu portata fuori attraverso un cortiletto irregolare dietro la casa, e deposta nel tepido meriggio autunnale contro una vecchia parete, davanti alla quale si stendeva un orto tremendamente trascurato. A poca distanza fumavano i falò che distruggevano i mucchi di erbacce fatti dal Maggiore e da Gertie nei tre giorni passati. Frank vide due o tre volte Gertie in distanza, con un berretto da sole chiaro, che andava per le sue faccende, ma che non gli fece segno alcuno. L'odore delle erbacce che bruciavano gli dava alla bocca un gusto asprigno e piacevole. - Ed ora - disse il dottore - possiamo discorrere un pochino. - E sedette su un'altra poltrona, vicino a lui. Frank si sentiva un po’ nervoso, e a malapena ne sapeva il perché. Gli pareva che sarebbe stato assai meglio non alludere affatto al passato. E gli pareva una cosa un po’ insolita che il dottore ne fosse ansioso. Due o tre volte dal giorno prima questo vecchio aveva cominciato a fargli una domanda e si era fermato. Ed ora v'era in lui un'ansia assai curiosa. - Vi sono assai grato di tutto - disse Frank - V'è qualcosa di speciale che desiderate conoscere? Suppongo di aver parlato dei miei. Il dottore agitò la mano rugosa. - No, no, nemmeno una parola. Avete parlato di una ragazza, un pochino, si capisce, lo fanno tutti, ma non molto. No, non è questo. Frank si sentì sollevato. Egli non aveva ansietà per null'altro. - Ne sono contento. A proposito, posso fumare? Il dottore estrasse un portasigarette di pelle, e gliela porse. - Prendete una di queste. - Perché - continuò Frank - temo di non dover parlare dei miei, adesso. Il nome che mi sono dato adesso è Gregory, lo sapete. Accese la sigaretta, osservando che le dita gli tremavano ancora, e gettò il fiammifero. No, non si tratta di questo - disse il dottore. - Non si tratta di questo. Frank lo guardò, stupito dei suoi modi. - Bene, allora...? - cominciò. 130/233 - Voglio sapere, prima di tutto - disse il dottore lentamente - dove siete andato a prendere tutte quelle idee. Nella mia vita non ho mai sentito un guazzabuglio simile. Lo so che eravate in delirio, ma... ma tutto si ricollega a qualcosa; e questo qualcosa sembrava molto più reale per voi che qualunque altra cosa. - Che cosa ho detto? - chiese Frank a disagio. Il dottore per un momento non diede risposta. Guardò quieto attraverso il giardino inselvatichito, con il suo ricco splendore di fiori campestri e di foglie autunnali, e il fogliame che ingialliva al di là del muro, e più oltre la brughiera tutta trasfigurata nella luce del sole di ottobre. Il fumo delle erbacce che bruciavano disegnava linee e volute azzurrine di eterei ricami commisti di splendori e di foschia. - Bene, - disse infine. - Tutto. Voi sapete che io ho ascoltato centinaia e centinaia di persone... - s'interruppe nuovamente - ...e so che cosa la gente chiama religione, quassù, e tutte le sciocchezze del genere... - ancora una volta si volse improvvisamente a Frank. - Da dove avete preso tutte le vostre idee? - Intendete sulla religione cattolica? - disse Frank. - Bah! Non la chiamate così, lo so che essa è... Frank lo interruppe. - Bene, essa è la mia religione - disse. - Non ne ho altra. - Ma... ma il modo con cui vi siete giunto - gridò l'altro. - Il dominio... il dominio che essa ha su di voi. Ecco quel che conta. Vorreste dirmi... - Voglio dirvi che al mondo non c'è altro che conti per me - riprese Frank, stimolato da un improvviso entusiasmo. - Ma... ma voi non siete pazzo. Siete un ragazzo di gran giudizio! Non vorrete dirmi che credete davvero tutte queste cose... tutte queste storie, sul dolore, eccetera? Noi dottori sappiamo perfettamente che cosa è. È una reazione della Natura... un avvertimento a vigilare... spesso è semplicemente l'effetto di una secrezione. E voi cominciate a pensare... Ah! questo non v'interessa! Ascoltatemi! Io sono quel che si dice uno specialista - un investigatore. Io posso dirvi, senza vanità, che probabilmente so tutto quello che si può conoscere sopra un certo argomento. Bene, posso dirvi, come un'autorità in materia... Frank alzò un pochino la testa. S'interessava vivamente del calore col quale quest'altro entusiasta parlava. - Credo che lo possiate - disse - e credo che sia tutto perfettamente vero. Ma tutto questo a che cosa ha concluso? quale è il suo significato? Ora io... - Zitto, zitto! - fece il dottore. - Non vi dovete eccitare. Non vi fa bene. Si fermò e tornò a guardar oltre con aria lugubre. - Vorrei che poteste dirmelo davvero - riprese più lentamente. - Ma questo è proprio ciò che non potete fare. Io lo so. È una cosa personale. 131/233 - Ma, mio caro dottore... - Basta - interruppe Whitty. - Ero pazzo a crederlo possibile. (Egli era conscio di una straordinaria chiarezza mentale che viene talvolta ai convalescenti, ed improvvisamente percepì che v'era qualcosa dietro a tutto questo che non aveva ancora fatto la sua comparsa). - Voi avete qualche motivo per chiedere tutto ciò - disse. - Vorrei che mi diceste esattamente quel che avete in mente. Il vecchio si volse e lo guardò con una specie di fissità dubbiosa. - Perché dite così, ragazzo mio? - Persone come voi - disse Frank sorridendo - non si eccitano per gente del mio genere, a meno che non vi sia qualcosa... Sono stato a Cambridge, lo sapete. Conosco i professori di laggiù e... - Bene, ve lo dirò - fece il dottore. traendo un sospiro. - Non ne avevo l'intenzione. So che è soltanto una sciocchezza; ma... - Si fermò un istante, e poi chiamò ad alta voce: - Thomas! Thomas! La testa magra di Thomas si affacciò, come quella di un uccello, da una finestra della cucina. - Venite un momento qua. Thomas venne e stette davanti a loro con un pezzo di pelle in una mano e un cucchiaio d'argento nell'altra. - Ho bisogno che diciate a questo signore - disse il dottore con tono deciso - quello che avete detto a me mercoledì mattina. Thomas vagò dubbioso con lo sguardo sui due uomini. - Erano idee mie, signore... - Non ve ne preoccupate. Ripetetecele pure. - Ebbene, signore. non mi piace. Mi è sembrato, quando entrai nella stanza... (-Entrò a metà della notte - spiegò il dottore. - Bene, avanti, Thomas). - Mi è sembrato che vi fosse qualche cosa di strano. - Eppoi? - fece il dottore incoraggiante. - Qualche cosa di strano... - ripeté Thomas meditabondo - ...ed ora mi scuserete, signore, debbo andar di là... Il dottore agitò la mano con aria disperata, mentre Thomas se la svignò senz'altre parole. - È inutile - disse - è inutile. Eppure me lo disse in modo chiarissimo... Frank rideva tra sé tranquillamente. - Non ridete - disse semplicemente il vecchio. - Guardate qua, ragazzo mio, non c'è nulla da ridere. Vi dico che io non posso pensare a null'altra. È una cosa che mi turba. - Ma... Il dottore fece un gesto con la mano. - Oh, non posso spiegarlo meglio. Era tutto l'assieme: il modo con cui guardavate, il modo con cui parlavate. Era del tutto inconsueto. Ma mi colpì, - mi colpì egualmente. E pensavo che forse avreste 132/233 potuto spiegarmi... Non fu che al pomeriggio del lunedì che Frank persuase il dottore a lasciarlo partire. Il dottor Whitty disse tutto, quello che era possibile dire, con le sue maniere enfatiche, circa il rischio di rimettersi a camminare tanto presto. E vi fu una scena, che si svolse proprio nel serraglio - e fu l'unica occasione in cui il dottore nominò i parenti di Frank durante la quale egli scongiurò il giovanotto ad avere giudizio, e permettergli di comunicare con la sua famiglia. Frank rifiutò recisamente senza dirne i motivi. Il dottore sembrava straordinariamente schivo ad alludere ancora alla conversazione del giardino: e da parte sua anche Frank rimase chiuso come una tomba. Pareva che ognuno dei due rendesse l'altro estremamente perplesso sul proprio conto, come avviene talvolta a gente di tal sorta. Erano come due persone, intelligenti e ragionatrici, interamente separate dall'assenza di un qualunque linguaggio comune, o anche di un simbolo comune. Le parole che l'uno usava avevano per l'altro un significato diverso. Qualche volta mi viene fatto di pensare che la maledizione di Babele sia stata una cosa molto più profonda di quel che appare a prima vista. Il Maggiore e Gertie frattanto erano a Bengodi. Il dottore non aveva idea di quel che potessero valere sei ore di lavoro manuale, e in compenso di queste sei ore concedeva, ai due la casetta disabitata del giardiniere, il letto, i pasti, ed uno scellino al giorno. Era bello vedere con quanta sollecitudine il Maggiore insisteva perché Frank non riprendesse il cammino prima di esser certo di poterlo fare senza danno; ma Frank aveva acquistato un modo piuttosto deciso e reciso di trattare col compagno, ed annunciò che la sera del lunedì non doveva più trovarli in quel luogo. La partenza - per quel che ne ho potuto sapere - fu commovente piuttosto più del prevedibile. Il dottore prese Frank in disparte nello studio ove l'aveva veduto la prima volta, ed ebbe con lui una breve conversazione durante la quale una sovrana passò finalmente dal medico al cliente. Io ho cercato spesso di figurarmi quali elementi vi fossero esattamente in Frank per produrre un simile effetto su quel vecchio sapiente e positivo. La sua visita sotto molti aspetti era stata una rivoluzione. Egli aveva distratto il suo benefattore da un importantissimo topo morto di lebbra; aveva scombussolato l'orario di lavoro; aveva, per così dire, sovvertito la casa. Peggio di tutto, aveva - non dirò modificato le teorie del dottore - questa sarebbe una frase troppo forte - ma era partito lancia in resta contro di esse; e finalmente, che è il colmo, lo aveva fatto proprio nella sua roccaforte. Per spiegare le osservazioni fatte da Frank durante il delirio v'erano tutti gli elementi necessari: si trattava di un individuo affetto da 133/233 mania religiosa, avvelenato da una tossina e trattato con un'antitossina. Che cos'altro v'era da attendersi, se non sentirlo farneticare nei modi più fantastici, e manifestare tutte le idee sballate e paradossali che il suo io soggettivo conteneva? Quanto all'assurda fantasia del dottore e del suo servo che vi fosse “qualcosa di strano” nella stanza, più egli vi pensava e meno le dava valore. Senza dubbio era il risultato di una particolare combinazione di condizioni psicologiche, proprio come le condizioni psicologiche erano il risultato di una oscura combinazione di forze, di tossine e antitossine. Pure, nonostante tutto, per quanto vi si possa arzigogolare, rimaneva il fatto che la personalità di Frank avesse esercitato un'influenza così strabiliante su quest'uomo di scienza arido e misantropo (si vedrà più oltre nella storia di Frank che l'effetto era stato duraturo). Per me ancora più notevole fu la fortissima affezione che Frank concepì per il dottore. (Non c'è nessun mistero nascosto: non scoprirete alla fine del libro che il dottore fosse il padre di Frank in incognito: l'onore della paternità spetta sempre a Lord Talgarth). Ma il diario di Frank rivela che egli fu attratto da quest'uomo anziano da sentimenti molto simili a quelli che può avere un figlio. Eppure sarebbe difficile concepire due caratteri che avessero meno di comune. Il dottore era materialista dogmatico - e lo rimase ancora -, Frank era cattolico. Il dottore era scientifico fino alle unghie delle dita, Frank romantico fino alle stesse estremità. Il dottore era un vecchio sedentario impenitente, Frank giovane, e zingaro incorreggibile. Pure era così. Per conto mio, ho certe idee, ma è inutile che le esponga, se non con l'accennare che forse ognuno riconosceva nell'altro - solo nel subcosciente, dato che ognuno si dichiarava assolutamente incapace di simpatizzare nel minimo grado con le idee dell'altro - una certa fissità di devozione che per ambedue era la forza motrice della vita. Certo alla superficie non vi sono due teorie meno antitetiche di quella che trova la soluzione di ogni cosa nelle tossine, e dell'altra che la trova in Dio. Ma forse v'è tra esse una riconciliazione, chissà dove. Il Maggiore e Gertie stavano attendendo nel cortile della scuderia quando i due uomini comparvero. Proprio in quel momento il Maggiore stava aggiungendo al carico di Gertie un gran sacco di mele, dategli da Thomas per ordine del dottore. Frank lo prese senza una parola, e lo pose sulla propria bisaccia. Il dottore rimase un momento abbagliato dalla viva luce del sole. - Bene, addio, ragazzo mio - disse - buona fortuna. Ricordatevi che se mai tornerete da queste parti... - Addio, signore - disse Frank. E porse la mano libera. Allora avvenne una cosa strabiliante. Il dottore prese la mano, poi la 134/233 lasciò andare: gettò le braccia attorno al collo del giovane, lo baciò sulle due guance, e scappò attraverso il cancello del giardino, sbatacchiandolo. Ed io immagino che sia corso subito di sopra, a vedere come stessero i topi. Bene, l'episodio è tutto qui. I due uomini non si rividero più, ch'io sappia. E a malapena so perché l'abbia incluso nel libro. Ma m'era riuscito a metterlo assieme con varie testimonianze, di scritti o di persone, e m'è sembrato un peccato lasciarlo fuori. 135/233 Capitolo IV Un'immensa stanchezza fisica aveva preso Frank, una settimana più tardi, mentre verso sera si trascinava silenziosamente col Maggiore. Egli aveva lavorato tutto il giorno precedente in una fattoria a carrettar letame e cose del genere; e quantunque fosse perfettamente guarito, qualche molla dei suoi muscoli si era allentata durante la settimana di riposo. Avevano camminato fino dall'alba, dopo una notte trascorsa a disagio in una cascina, arrancando quasi in silenzio; un miglio dopo l'altro, contro l'umido vento del sud, per una strada scoraggiante che scendeva e saliva e scendeva ancora, e pareva che non conducesse mai ad una meta. È vero che Frank non era più tanto depresso come prima. Un processo del tutto diverso aveva operato in lui negli ultimi due o tre mesi, e fra poco si vedrà come; ma le membra gli parevano di piombo, e la rigidezza delle spalle e delle reni gli rendeva più difficile il camminare. Erano tutti stanchi del pari. Non parlavano molto tra di loro. In realtà, avevano detto tutto quello che v'era da dire già da due mesi, ed erano ridotti - come son sempre ridotti gli uomini quando sono giunti a un certo punto - a parlar solo delle più elementari cose corporali, come il cibo, il tabacco, il sonno. Il Maggiore di tanto in tanto ripeteva le stesse frasi, rievocando le grandezze dei giorni passati, di case vere, di veri pranzi, di veri sigari. Frank gli rispondeva. Gertie non diceva nulla. Ella troncò la marcia, quando appena s'era fatto buio, lasciandosi quasi improvvisamente cadere sul ciglio della strada, e dichiarando che sarebbe morta se non avesse potuto riposarsi un po'. Il Maggiore fece le solite osservazioni, ed ella non diede risposta. Frank s'interpose a un tratto. - Smettetela! Non possiamo fermar ci qua. Andrò io avanti un poco e vedrò che cosa si può fare. E, mentre si allontanava nel buio, lasciando il suo fagotto a terra, sentì la voce che ricominciava a brontolare, ma su un tono più basso, finché, egli lo sapeva, si sarebbe affievolita in un grugnito spento dalla pipa. Frank non aveva idea della strada che gli stava davanti. Quel pomeriggio avevano attraversato alcuni villaggi, i cui nomi non gli dicevano nulla. Non sapeva neppure perché seguissero quella strada. Andavano verso sud, in direzione di Londra - su questo erano d'accordo - e si proponevano di giungervi tra un mese o due. Ma il paese gli era estraneo e la gente gli pareva goffa e malcontenta. Due volte in quel pomeriggio era stato loro rifiutato un riparo per la notte, in una tettoia. Pareva una strada deserta. Non v'erano luci di case, fin dove poteva 136/233 giungere l'occhio, e le quattro miglia che all'ultima fermata era stato detto loro che li separavano dal prossimo villaggio sembravano già diventate cinque o sei. Fra tutti e tre avevano due o tre scellini: non c'era per ora l'assoluta necessità di un ricovero di beneficenza, ma naturalmente desideravano di spendere il meno possibile. A un tratto Frank percepì una luce che brillava chissà dove, e che compariva e spariva mentre egli avanzava. Dopo cinquanta metri giunse a un largo piazzale, con due pilastri e un cancello sbarrato, e una casetta alla destra. Questo fu ciò che egli poté distinguere a malapena nell'oscurità della notte di novembre; e mentre stava là esitante, gli parve di vedere più in basso alcune luci che brillavano attraverso la massa degli alberi spogli, tra cui scendeva la strada. Frank sapeva benissimo per esperienza che i locandieri, presi nel complesso, sono la classe meno simpatica dell'umanità, (Essi vivono, mi comprendete, proprio sulle strade, e vedono la natura umana nei suoi aspetti più duri e più ostili e più disonesti). I servi alla porta posteriore sono di regola infinitamente più benevoli; e siccome questo era senza dubbio l'ingresso di qualche grande casa di campagna, la cosa più opportuna sarebbe stata quella di sgusciare senza rumore dietro l'albergo e cercar la fortuna tra gli alberi. Pure egli esitava: la casa poteva essere distante mezzo miglio, per quel che ne sapeva; e certo, dietro il cancello chiuso, c'era da attendersi una buona ospitalità. Un'improvvisa raffica di vento gli soffiò alle spalle, carica di umidità... Egli si volse, andò alla porta della locanda e bussò. Poté sentire che qualcuno si muoveva all'interno, e proprio quando cominciava a chiedersi se il suo duplice colpo fosse stato udito, la porta si aprì e lasciò distinguere una donna in grembiule. - Potreste gentilmente indicarmi... - cominciò Frank. La donna spinse la testa in direzione della casa. - Dritto giù per la discesa - disse. - Questi sono gli ordini. - Ma... Fu inutile. La porta gli fu chiusa in faccia, ed egli rimase solo al buio. Tutto questo era affatto inconsueto. I portieri di solito non ricevono “ordini” per mandare i vagabondi senza credenziali alla casa padronale che si suppone dovrebbero custodire. Questo cancello dunque doveva essere stato lasciato aperto a bella posta. Ad ogni modo era chiaro che egli doveva fare come la donna aveva detto. E, nell'avviarsi, cominciò a formulare ipotesi. Colui che abitava laggiù, era probabilmente un fanatico, e gli piaceva figurarselo come una vecchia signora eccentrica, con qualche mania e molti cagnolini. Mentre s'avvicinava, si stupì ancora di più, perché man mano che si diradava il folto dei rami, poté distinguere delle luci a tanta distanza l'una dall'altra che l'edificio pareva piuttosto un villaggio che una 137/233 casa. Davanti a lui risplendeva una fila di rettangoli luminosi, in alto, come sospesi nell'aria, digradanti in prospettiva, finché li interrompeva una massa nera che sembrava un tetto. Lontano, a sinistra, v'era una specie di cancellata illuminata, e a destra una o due finestre brillavano quasi sotto ai suoi piedi. Quello che vide dopo aver fatto altri cinquanta passi sul sentiero serpeggiante gli fece seriamente dubitare se tutto fosse realtà; perché ora, soltanto pochi metri più avanti e ancor più basso del livello a cui stava, vide una portineria come quella d'un gran collegio. V'era un archivolto Tudor, con stanze sopra e ai fianchi; una lampada pendente dal soffitto illuminava il pavimento di pietra, e all'altra estremità della cancellata chiudevano ogni altra vista. Assomigliava all'ingresso di un gran castello feudale, ed egli pensò che se vi abitava davvero una signora eccentrica, doveva essere eccentrica sul serio. Cominciò a chiedersi se di lì a poco sarebbe comparso un siniscalco con le chiavi appese alla cintura, e se avrebbe soffiato in un corno per avvertire i castellani. Quando infine bussò a una porticina interna, anch'essa foderata e sbarrata, di ferro, e la porta si aprì, la figura che comparve lo stupì appena meno che se fosse stato davvero un siniscalco medievale. perché dinanzi, come ritagliato da una rivista di Natale, gli stava la figura di un monaco, alto, magro, brizzolato, rasato, con un par d'occhi allegri e modi spicci. Portava una gran cinghia di cuoio attorno al saio nero, in cui affondava la mano libera. Il monaco fece un sospiro profondo. - Ancor uno - disse. - Ebbene, giovanotto? - Per favore, Padre... Il monaco chiuse gli occhi, come rassegnato. - Oh, non vi preoccupate... Eppoi, io non sono un padre; sono un fratello. Potete ricordarvene? Frank sorrise. - Benissimo, Fratello. Sono cattolico anch'io. - Oh, già - sospirò il monaco. - Lo dicono tutti quanti. Sapete recitare le Lodi Divine? Sapete che cosa sono?... Per quanto, questo non importi. - Ma le so, Fratello. “Dio sia benedetto. Benedetto il Suo santo Nome...”. - Ma non siete irlandese? - No, che mi consti. Ma... - Siete una persona istruita? Per quanto, questo non importi. Che cosa posso fare per voi, signore? Pareva che il monaco s'interessasse un po’ più di lui, e Frank prese coraggio. - Sì, sono un uomo istruito. Mi chiamo Frank Gregory. Ho lasciato indietro, per la strada, due amici: un uomo e una donna. Il loro 138/233 nome è Trustcott, e la donna... - Inutile, inutile - fece il monaco - Donne, nessuna. - Ma, Fratello, essa non può assolutamente proseguire. Mi spiace molto, ma proprio non abbiamo ricovero. Ci restano ancora due o tre scellini se è necessario... - Oh, vi restano, vi restano? - disse il monaco pungente. - Questa è proprio nuova. E quando avete mangiato per l'ultima volta? Ieri mattina? Non giurate, non è necessario. - Abbiamo mangiato oggi, verso mezzogiorno: fagioli e prosciutto freddo - disse Frank deciso. - Abbiamo intenzione di pagare il cibo e l'alloggio se dobbiamo farlo. Ma, naturalmente, non ci teniamo. Il monaco lo guardò ironico davvero per un minuto o due senza parlare. Questo pareva un tipo nuovo. - Entrate e sedetevi un momento - disse. - Chiamo il padre ospitaliere. Era una stanzetta semplicemente arredata, quella in cui Frank sedeva, e pareva fatta a proposito per non indurre in tentazione i ladruncoli. V'era una tavola, due seggiole, una statua di gesso colorato di un uomo con la barba grigia, con un pastorale in mano, collocata sopra una mensola, un libro di pietà, molto frusto, giaceva aperto coi fogli in basso sulla tavola, vicino al lume ad olio. V'era un'altra porta, attraverso la quale il monaco era scomparso. E questo era assolutamente tutto. Non v'erano tende né tappeti, ma un focherello bruciava lieto, e due finestre guardavano una sulla strada, e l'altra, di fronte, in una specie di cortile. Circa dieci minuti passarono senza che avvenisse nulla. Frank sentì più di una raffica di vento carico di pioggia contro la finestra sbarrata al sud, e si domandò come stessero i suoi amici. Sapeva che il Maggiore, almeno, si sarebbe arrangiato per tenersi asciutto. Poi cominciò a pensare al luogo in cui si trovava, e fu sorpreso di non essere rimasto sorpreso a capitare in un luogo simile nel buio. Non sapeva nulla dei monasteri - a mala pena sapeva che ne esistevano in Inghilterra (bisogna rammentare che da cinque mesi soltanto egli era cattolico) eppure in qualche modo, ora che si trovava qua, tutto gli pareva inevitabile. (Io non potrei dirlo meglio di così: è lui stesso che lo scrive nel suo diario). Poi, mentre stava meditando, la porta si aprì, ed entrò un vecchio smilzo, dall'aspetto ardente, vestito come il fratello che lo seguiva, salvo che sopra la tonaca portava una larga striscia di panno nero, una specie di lungo grembiale volante, che gli pendeva dalla gola ai piedi, e aveva la testa avviluppata in un cappuccio nero. Frank si alzò e s'inchinò con una certa difficoltà. Cominciava a sentirsi intirizzito. - Bene - disse il prete brusco, con gli occhi grigi brillanti raggrinziti agli angoli, che percorrevano tutta la persona di Frank dai capelli 139/233 alle scarpe infangate. - Fratel Giovanni mi ha detto che desideravate vedermi. - È Fratel Giovanni che lo ha detto, Padre. - Che cosa volete? - Ho due amici sulla strada a cui occorre riparo: un uomo e una donna. Pagheremo, se occorre, ma... - Questo non occorre - interruppe brusco il prete. - Voi, chi siete? - Il nome che portate, eh?.. Dove siete stato educato? - Eton e Cambridge. - E come è che siete vagabondo? - È una storia lunga, Padre. - Avete fatto nulla che non avreste dovuto? - No. Ma sono stato in prigione. - E il vostro nome è Frank Gregory... F. G., nevvero? Frank si volse come per uscire. Aveva compreso di essere stato riconosciuto. - Bene... buona notte, Padre. Il monaco si volse con una mano alzata. - Fratel Giovanni, per favore, attendete di fuori. Poi proseguì, quando la porta fu rinchiusa: - Non occorre che ve ne andiate, signore... Gregory. Il vostro nome non sarà pronunciato con essere vivente senza il vostro permesso. - Voi sapete di me?.. - Ma certo che so... Ora abbiate giudizio, mio caro figliolo. Andate a cercare i vostri amici. In qualche modo li alloggeremo. - Alzò la voce, e picchiò sulla tavola. - Fratel Giovanni.. andate con Mr. Gregory all'alloggio del portiere. Vedete di mettere la donna in qualche posto, laggiù o nella casa del giardiniere. Poi conducete qua l'uomo... il suo nome? - Trustcott - disse Frank. - E quando tornerete, io sarò qua ad aspettare. Frank dichiara nel suo diario che uno straordinario senso d'essere in famiglia discese su di lui quando, mezz'ora più tardi, la porta di una cella si chiuse alle spalle di Don Ildebrando Maple, ed egli si trovò in una stanza con un fuoco che ardeva allegramente, con un abito che lo attendeva, una brocca d'acqua calda, un catino e un lettino di ferro. Io credo di comprendere quello che egli vuol dire. In certo senso un monastero bene ordinato rappresenta il minimo comune multiplo delle case piacevoli. Ha la vastità e l'ampiezza di un castello, e la semplicità della povertà dignitosa. Non ha nulla della teatralità che gli attribuiscono, nulla del sentimentalismo di cui lo dotano i protestanti. Frank era appena passato attraverso un labirinto di scale, di archi, di 140/233 vestiboli e di anditi, e poi lungo due immensi corridoi con finestra da un lato e porte chiuse dall'altro. Ovunque lo stesso calore, dignità e semplicità - tavole senza tappeto, pochi quadri ad olio nel corridoio inferiore, un'immagine o due alle estremità e in capo alle scale; una semplice illuminazione a gas, e le sole persone incontrate erano due o tre monaci incappucciati (essi avevano leggermente alzato il cappuccio in segno di saluto mentre egli passava), e ognuno d'essi andava per le sue faccende, rapido e silenzioso. All'estremità di uno dei corridoi sentì anche un piacevole odore di cucina, e poté intravedere due o tre fratelli laici in grembiule, affaccendati alla luce di un grande focolare, sopra grandi pignatte di rame. Il senso di famiglia, allora, è perfettamente comprensibile. Il visitatore di un monastero, in realtà, penetra in una vita piena e bene ordinata, ma gli rimane aria e spazio e silenzio per conservare la propria personalità. Appena lavato e vestito, Frank sedette davanti al fuoco, ma quasi immediatamente sentì bussare alla porta, e comparve la faccia un po’ infiammata del Maggiore. - Frankie? - mormorò, e, rassicurato, entrò e si chiuse la porta alle spalle. (Aveva un aspetto piccolo e senza importanza, pensò Frank. Forse per il vestito nero che gli era stato prestato). - Perbacco, Frank... come ci trattano bene! - sussurrò, ancora apparentemente sotto l'impressione di essere quasi in chiesa. - Ve ne sono degli altri, sapete, di vagabondi, ma alloggiano da qualche altra parte... - (S'interruppe, poi continuò). - Nella mia stanza c'è un santo così bello... Ah! ne avete uno anche voi! S'avvicinò per esaminare la statuetta di gesso d'un santo posta sopra l'inginocchiatoio. - È quel che ci vuole, non vi pare? - disse Frank sonnacchioso. - E c'è il nome di un altro santo sulla porta. Il Reverendo Sant'Agostino, mi pare. S'avvicinò in punta di piedi al fuoco, alzò le falde dell'abito e stette a scaldarsi con un sorriso di compiacenza, ma nervoso. (Frank lo guardava meravigliato). - Che cosa fanno qua tutti questi Johnnies? - chiese dopo un po’ il Maggiore. - Se la passano bene, immagino. Qui sotto debbono avere delle cantine come va. Proprio come quei grassoni delle caricature, non è vero? (Frank decise che era inutile tentar di spiegare). Il Maggiore continuò a ciarlare ancora qualche minuto, senza chiedere risposta, e di tanto in tanto scoprendo con gli occhi qualche nuova meraviglia. Toccò un ramoscello di tasso che era fissato a un crocefisso in capo al letto. (Sarà una vecchia reliquia - mormorò una delle loro fandonie...). Spiritosamente vestì la statuetta del santo col fazzoletto, e disse: - Preghiamo - e bisbigliò sottovoce, tenendo 141/233 un occhio alla porta, e con l'impressione che se avesse parlato forte e fatto qualche rumore percettibile sarebbe stato cacciato fuori. Stava appunto cominciando alcuni passi di una danza silenziosa, quando si sentì bussare alla porta, ed egli cadde in un atteggiamento di ossequente umiltà. Dom Hildebrand entrò. - Se siete pronti - disse - potremmo scendere a cena. Frank riferisce nel suo diario che di ogni altra cosa nel monastero, salvo la chiesa, quella che lo impressionò di più fu il refettorio e i suoi modi (come è facile descriverlo, quando se ne sono viste una volta le cerimonie!). Egli sedeva ad una tavola centrale, col Maggiore di fronte (che sembrava più piccolo che mai), davanti a una tovaglia, con coltello, cucchiaio e forchetta. Sopra una bassa pedana, tutt'attorno alle pareti, e col dorso appoggiato ad esse, sedeva una fila di forse quaranta monaci, di ogni età, genere e condizione. Le tavole erano di legno nudo, e su di esse stavano soltanto le posate e un tovagliolo ad ogni posto. Al lato di fronte alla porta, tutto solo ad una tavola, sedeva un uomo grande, maestoso, dal volto gentile, di un aspetto straordinariamente paterno, rasato, coi capelli grigi, e bei lineamenti. Quello era l'Abate. Sopra di lui pendeva un crocifisso, con un'unica parola: SITIO, su una tavoletta nera. Il pasto cominciò con la cerimonia del rendimento di grazie. I monaci, curvi, stavano in due file, e ognuno aveva il cappuccio sollevato e teneva le mani nascoste sotto lo scapolare. Un monaco, solo, stava in mezzo, di fronte all'Abate. I monaci intonarono, colle voci fuse all'unisono, la benedizione, il responsorio, la colletta, il salmo e il resto. (Frank non seppe astenersi dal dare un'occhiata al Maggiore, la cui faccia di compunzione sembrava quella di un uccello in compagnia di gatti per un momento acquietati). Poi ognuno andò al suo posto, e il pasto cominciò e continuò, ordinato e senza rumore, mentre da un ambone costruito sulla parete un monaco leggeva, prima un brano del Vangelo, poi di una storia. Tutti erano serviti da fratelli laici, cinti di grembiule; quasi ogni movimento, quantunque del tutto naturale, pareva ordinato dall'abitudine e dalla consuetudine, ed era contraddistinto da una specie di cortesia che una volta tanto rendeva l'apparire del cibo una cerimonia realmente bella, augusta e quasi sacramentale. Inoltre la grande sala, con la volta acuta, il pavimento di mattoni, le tavole gregge di legno bianco, le alte finestre aureola te, sembrava davvero l'ambiente adatto, una specie di santuario secolare. Il cibo era semplice ed abbondante: minestra, carne, formaggio e frutta; ed ognuno dei due ospiti aveva una piccola caraffa di vino rosso, una forma di pane e un tovagliolo. I monaci bevevano birra e acqua. Poi fu fatto un nuovo ringraziamento, con le stesse cerimonie di prima. 142/233 Quando questo fu finito, Frank si volse per vedere dove fosse Dom Hildebrand, supponendo che tutti sarebbero tornati alla propria cella; ma quando si volse, vide l'Abate che veniva in giù solo. Avanzava, quest'uomo grande, con la stessa aria larga e paterna, ma quando passò davanti ai due ospiti s'inchinò leggermente verso di loro, e Frank, con un'occhiata per avvertire il Maggiore che dovevano seguirlo, si mosse dal suo posto e passò tra le file dei monaci, ancora in silenzio. L'Abate proseguì, voltò a destra, e mentre incedeva lungo il chiostro, cominciò dietro un basso canto sonoro. Così avanzarono, per il lungo corridoio illuminato, una porta dopo l'altra, come in una processione di chiesa. Eppure tutto era naturalissimo e famigliare. Finalmente voltarono sotto un'arcata a sinistra, attraversarono un vestibolo, davanti alla gran statua di pietra di una Donna coronata con un Bimbo nelle braccia, e nell'entrare in chiesa l'Abate intinse il dito nell'acquasantiera e lo presentò a Frank. Frank toccò la goccia d'acqua, si fece il segno della croce, e presentò a sua volta il dito umido al Maggiore, che lo guardava con occhi stupiti. L'Abate indicò la prima fila di panche nella navata, e Frank vi andò, guardando la processione che proseguiva, saliva i gradini, e spariva nella doppia serie di grandi stalli che correva attorno al coro. Poi vi fu ancora silenzio, ed un silenzio prolungato, finché Frank comprese... A poco a poco i suoi occhi si abituarono alla penombra, ed egli cominciò a distinguere la magnificenza del luogo. Dietro a lui si stendeva l'immensa navata, colle volte e le colonne che si perdevano nel buio, e i fianchi debolmente illuminati dal brillare di solitarie lampade ad olio ognuna in una piccola cappella riparata. Ma di fronte a lui stava il maggior splendore. Da parte a parte, attraverso l'accesso al coro, correva la cancellata, una vasta costruzione di quercia scura e di ferro nero, sormontata da un ballatoio dal quale brillavano i riflessi argentei delle canne dell'organo. Ancor più in alto, nell'ombra profonda, si potevano distinguere tre figure gigantesche, quella di mezzo inchiodata a una croce. Dietro alla cancellata cominciavano gli stalli, scuri e maestosi, intramezzati da sculture: teste di re e di sacerdoti protese in fuori come per respirare nel magnetismo di quell'immenso silenzio vivente generato da quaranta uomini in preghiera. All'estremità brillava debolmente la magnificenza dell'Altar Maggiore, quasi luminoso, pareva, nel chiarore dell'unica fiammella rossa che gli pendeva davanti. Frank poté distinguere dopo un po’ le figure dorate che stavano fra i candelieri, il trono e il crocifisso, le misteriose cortine che velavano il Tabernacolo... Infine, in mezzo al coro, v'era una costruzione che egli non seppe comprendere. 143/233 Una straordinaria pace parve discendere ed avvolgerlo mentre guardava; una specie di coronamento e di culmine delle varie esperienze interiori che ora stavano svolgendosi in lui, dalle ultime settimane. (È inutile dirlo con altre parole. Io spero di fare del mio meglio citando le parole stesse di Frank). V'era una sensazione di un ritorno a casa; v'era una sensazione di sanità sorprendente; v'era la sensazione di un'immensa pace obbiettiva, che incontrava e ratificava quella pace interiore che cominciava ad essere sua. In qualche modo gli sembrava come se per la prima volta esperimentasse fuori di sé quel che finora soprattutto aveva trovato in sé. Certo, anche prima v'erano stati momenti di tale esperienza non soltanto emozionali, mi comprendete - in cui il cuore e la mente rimangono acquietati dalla loro lotta, e la volontà riposata in un'Altra Volontà. Ma questo era l'apice, che riassumeva in sé tutto quello che egli aveva imparato negli ultimi mesi; esso guariva le ultime cicatrici, scioglieva le sue difficoltà, spiegava le sue esperienze, e soprattutto le poneva in relazione tra loro. Senza dubbio era l'atmosfera fisica come quella spirituale di questo luogo, i corridoi tranquilli, il calore, la semplicità, la solidità, anche l'augusto ringraziamento del refettorio, tutte queste cose cooperavano a creare la sensazione. Pure, se vi è possibile crederci, questi non erano nulla più che i canali per i quali il celeste fluido scorreva; canali, piuttosto, che contenevano un po’ di quell'abbondanza che qua sgorgava come in una fontana... Frank trasalì alquanto ad una voce nell'orecchio. - Che cosa sta succedendo? - aveva sussurrato il Maggiore, con una voce rauca e piena di apprensione. Una figura s'era staccata dopo un pochino dalla scura massa degli stalli ed era scesa dov'essi stavano seduti. Frank vide che era Dom Hildebrand... - Canteremo il Mattutino dei Defunti, tra poco, - disse il monaco a voce bassa. - È la sera della festa dei Santi. Volete rimanere, o debbo ricondurvi alla vostra stanza? Il Maggiore si alzò con vivacità. - Io rimango, se posso - disse Frank. - Benissimo. Allora io condurrò Mr. Trustcott di sopra. Mezz'ora dopo la cerimonia cominciò. Questa, dispero senz'altro di potervela descrivere. Io so qualche cosa di quello che Frank vide e comprese, perché io stesso ho assistito a funzioni simili in case religiose. Ma non pretendo di poterne scrivere. Prima, tuttavia, vi fu la funzione esterna, visibile, percettibile. Il catafalco, una costruzione a forma di bara, tutto nero e giallo, circondato da fiamme gialle su torcie gialle - i movimenti gravi, le 144/233 figure quasi mostruose, il ritmo dei riti, il lamento della musica di quaranta voci che cantavano come fossero una sola - tutto questo si può comprendere... Ma l'aspetto intimo di queste cose, il senso di cui tutte queste cose sono soltanto il rozzo canovaccio, la sostanza di cui queste cose sono un'ombra, questo è ciò che supera le parole e trascende le impressioni. Pareva comunque a Frank che una sezione di quell'immensa verità alla quale egli s'era afferrato quasi ciecamente quando aveva fatto la sottomissione alla Chiesa - una camera in questa Casa della Vita fosse ora spalancata davanti a lui; ed egli vedeva in essa gli uomini come alberi che camminavano. Egli era stanco ed eccitato, si capisce. Ma vi sono delle esperienze che un rialzo di temperatura non può spiegare e che l'immaginazione non può originare... Perché gli pareva che qui egli venisse ad accorgersi di un incommensurabile bisogno al quale questi riti erano indirizzati, e questo complesso era innumerabile nella sua unità e acclamante nel suo silenzio. Era come se un uomo potesse vedere rotolar via i muri della sua stanza, oltre i quali egli aveva pensato che fosse soltanto la notte, e discernere invece una massa affollata di volti che piangono chiedendo aiuto, addossandosi a lui, premendo, eppure tutti senza suoni e parole. Frank tenta nel suo diario di usar delle frasi per dire tutto ciò; parla di un pozzo in cui non v'è acqua, di forme e di ombre che si superano e si disperdono, d'una luce di specchio mista col fuoco; e poi di una ineluttabilità, di una Giustizia con la quale non si può discutere e di una Forza alla quale non si può resistere. E dall'altro lato, v'era questo aiuto dato da uomini di come ed ossa come lui - che usavano cerimonie e gesti e strane parole risonanti. Il tutto era come un'immensa orchestra - v'era il lamento da un lato, la risposta dall'altro - v'erano arsi e tesi, passaggi dolci, eppure il risultato era un complesso vasto e armonioso. Gli pareva che fosse il catafalco la porta velata di quell'altro mondo che così gli si manifestava - visto come egli lo vedeva nella luce delle candele gialle; - era come il portale pieno di mistero della morte stessa; sotto quella coltre pesante giaceva non tanto un Corpo dell'Umanità ancor moritura, ma piuttosto un'Anima dell'Umanità vivente oltre la morte, viva eppur immota nel dolore. E quelle persone che si muovevano attorno, con turibolo e aspersorio, erano come angeli per dignità e tenerezza e indubbia potenza. Essi erano uomini come lui, eppure erano molto di più: ed anch'essi un giorno, come lui, sarebbero passati sotto questo drappo funebre, ed avrebbero avuto bisogno di altri che a loro volta li avrebbero seguiti... Questo è appena un accenno approssimativo di quello che Frank provò; che andava e veniva a ondate, e pure sembra che egli abbia sentito che in tutto ciò v'era una porta per giungere a quel gran 145/233 mondo che guardava dall'al-di-là; che qui, in quello che il mondo suppone essere la gretta costrizione della religione, v'era una libertà e una visione della realtà quale solo di rado le strade aperte e la natura possono dare. Ma, quanto a me, non sono in grado di seguirlo oltre, più che non possa scrivere la passione dell'amante o l'estasi del mistico. Se queste cose potessero essere espresse con parole, sarebbero state dette da gran tempo. Ma almeno era lungo questa linea di percezione che Frank procedeva: una linea che non faceva che proseguire la via lungo la quale egli era venuto con tanto sicura prontezza fin dal momento in cui s'era caricato dei suoi dolori e li aveva cambiati d'amaro in dolce. Qualche frase che egli ha scritto non ha per me alcun significato... Soltanto questo io vedo chiaramente, sia dai miei discorsi con il Padre Hildebrand, sia dal diario che Frank sviluppò a sua richiesta: che Frank aveva raggiunta la fine di una seconda tappa del suo viaggio, e che la terza stava per cominciare. 146/233 Capitolo V Vi sono certe condizioni di spirito in cui talvolta cade la mente, molto stanca o molto concentrata, e nelle quali le cose più trascurabili assumono un'apparenza di grande significato. Un uomo in grande ansietà, per esempio, guarderà come auspici o avvertimenti il suono di una campana, il volo di un uccello, e simili. Io ho sentito persone che si pretendevano superiori difendere decisamente questo processo. Ho sentito dichiarare che tali condizioni di intensa concentrazione sono, nella loro realtà, stati dell'anima, nei quali le facoltà mistiche ed intuitive operano con grande facilità, e che in tali momenti si percepiscono connessioni e correlazioni tra le cose che in altri momenti rimangono inavvertite. Gli eventi del mondo allora sono, da questa gente, riguardati come se formassero anelli di una catena definita; anche eventi che per l'uomo pratico sono soltanto l'effetto del caso. È del tutto impossibile, dice l'uomo pratico, che il suono di una campana o l'accostarsi delle foglioline del tè, o il momento particolare in cui un quadro cade da una parete, siano altro che fortuiti; ed è segno di una mente debole o superstiziosa considerarli diversamente. Non vi può essere scopo o conseguenza se non nelle cose in cui possiamo percepire scopo e conseguenza. Si capisce che l'uomo pratico deve avere ragione; lo ammettiamo a priori, dal momento che lo chiamiamo pratico, ed io perciò debbo deplorare che Frank in diverse occasioni sia caduto in un modo superstizioso di considerare le cose. La prova è evidentissima dal suo diario, - non che egli interpreti i piccoli eventi che registra, ma si prende tanta pena di scriverli - eventi, poi, che per tutta la gente di buon senso sono quasi manifestamente senza importanza e senza significato. Ho da ricordare due di tali incidenti, tra la partenza dei viaggiatori dal Monastero benedettino e il loro arrivo a Londra, in dicembre. Il Maggiore e Gertie probabilmente hanno dimenticato da lungo tempo quello di cui essi stessi sono stati testimoni, e, in realtà, non c'è motivo particolare perché debbano ricordarsene. Dell'altro, pare che Frank non abbia loro detto nulla. L'uno e l'altro, comunque, sono del tutto insignificanti; essi riguardano, rispettivamente, solo pochi invisibili cantori e una coppia di ordinarissimi esseri umani. Nel diario di Frank sono descritti con una ricchezza di particolari assolutamente inutile, quantunque non vi siano commenti, ed io li trascrivo per questa ragione, e per questa ragione soltanto. Il primo è il seguente. Essi si avvicinavano a una città cattedrale, a meno di cento miglia da Londra, e poiché la sera era chiara e asciutta, quantunque fredda, ed essi erano a corto di denaro, decisero di passare la notte in una 147/233 baracca di mattoni, a mezzo miglio dalla città. Con l'aiuto di un filo di ferro ritorto, il Maggiore aveva aperto la porta della baracca. Cenarono, facendo cuocere una zuppa sopra un focherello che potevano accendere senza rischio, e si distesero a dormire dopo una o due fumatine. I vagabondi vanno presto a dormire quando hanno lavoro, e non poteva esser più tardi delle undici quando Frank si svegliò con l'impressione di aver dormito a lungo. Gli pareva di esser rimasto coricato, abbastanza contento e tranquillo, a guardar gli ultimi carboni che si estinguevano nel braciere dove avevano acceso il fuoco. Dopo un pochino sentì qualcuno muoversi all'estremo angolo della baracca, sfregare un fiammifero, e, dal suo guanciale improvvisato, vide la faccia del Maggiore illuminata a un tratto dalla fiammella che ancora una volta accendeva la pipa. Per alcuni secondi osservò quella faccia con una specie di interesse artistico: le ombre profonde, gli occhi incavati, la barriera d'ombra che i mustacchi tracciavano attraverso il volto. Nella luce ondeggiante dal basso, pareva il muso di una bestia vendicativa. Poi il Maggiore sussurrò, tra una boccata e l'altra: - Frankie? - Eh? - Oh, siete sveglio anche voi? - Sì. Un minuto dopo, quantunque avessero parlato soltanto sottovoce, Gertie, dal suo angolo, trasse un lungo sospiro, e i due uomini poterono udire che anch'ella s'era levata a sedere e si raschiava la gola. - Bene, proprio quel che ci vuole - disse giovialmente il Maggiore Che cosa facciamo? Frank non disse nulla. Rimase immobile, con un senso di straordinaria contentezza, e sentì che dopo un po’ Gertie tornava a distendersi. Il Maggiore fumava. Poi, il canto cominciò. Era una notte calmissima, bloccata dal gelo e immota. Era tardi abbastanza perché i rumori della città fossero svaniti (le città cattedrali vanno presto a letto e si alzano tardi), e anzi, quasi gli unici suoni che Frank aveva sentito, anche due o tre ore prima, erano stati l'accordo di alcune campane, come se un uomo meditativo avesse d'un tratto pronunciato ad alta voce due o tre parole. Ora, tutto era assoluto silenzio. Probabilmente le ore erano suonate proprio prima che essi si svegliassero, dato che Frank osserva che pareva che fosse molto tempo da quando aveva sentito i rintocchi. Il canto giunse prima come sensazione che come suono, tanto era lontano. E non fu subito che Frank si rese conto del senso di piacere 148/233 che provava nel dirsi che qualcuno stava cantando. Dapprincipio, si fece sentire una voce sola: un tenore di una straordinaria chiarezza. L'aria gli era sconosciuta, ma aveva il carattere dell'antichità: v'era una certa piacevole melanconia: conteneva piccoli trilli e fioriture, come quelle che - prima che l'armonia si sviluppasse nel senso moderno - probabilmente supplivano alla mancanza di accordi. Non v'era vento che alzasse o smorzasse il suono, il volume del quale, da un filo proveniente dalla lontananza, cresceva fino a un nitido canto non più distante d'un quarto di miglio. Dopo un po', il Maggiore brontolò qualcosa sulla sua pipa; ma Frank non poté dir nulla. Stava quasi trattenendo il respiro, tant'era il suo piacere... L'aria, quasi a malincuore, digradò come un ruscello che si avvicina a un'invisibile diga; e poi, quando l'ultima nota fu raggiunta, un accordo di voci proruppe in una specie di coro. Le voci erano quelle di un quartetto di uomini, e si fondevano, con una dolcezza contenuta che doveva essere il risultato di un'accuratissima educazione. Ripetevano la stessa aria, ma mancavano le fioriture, e le quattro voci, un accordo dopo l'altro, le sostituivano con l'armonia. Era impossibile dire quale fosse il soggetto del canto, o anche se esso fosse sacro o profano, perché era di quel periodo - almeno, io congetturo così - in cui i due mondi erano uno solo, quando gli uomini corteggiavano l'innamorata e adoravano Dio nello stesso modo. Soltanto tutto era pervaso da quell'aria di dolce e austera melanconia, come se musica terrena non potesse far più che accennare a quel che il cuoce desiderava esprimere... Frank ascoltava in una specie di estasi. La musica era ora più vicina, e proveniva da quella stessa direzione dalla quale i tre viaggiatori erano venuti. Dopo un po', dall'apparente diminuendo, fu chiaro che i cantori erano passati e che andavano verso la città, osservò il Maggiore, quando, qualche minuto dopo riuscì a farsi ascoltare da Frank, quando tutto era finito; ma v'erano sentieri campestri che correvano in tutte le direzioni, e v'erano larghi margini erbosi di fianco alla strada, sicché i cantori avrebbero potuto camminare sul terreno soffice (questi dati sono spassionatamente annotati sul diario). Il coro si faceva ora più debole; ancora una volta si udirono le ultime onde della melodia: quel digradar nell'aria che indicava il silenzio imminente. Poi, ancora una volta, per un istante, vi fu silenzio, finché di nuovo, forse a un quarto di miglio di distanza, la voce solitaria del tenore cominciò da capo (in italiano nel testo) l'ultima cosa che Frank udì, un momento prima che suonasse il quarto, e, per quanto dolce fosse, il rintocco battesse l'aria e lasciasse l'orecchio 149/233 incapace di riprendere i tenui fili del canto, fu ancora una volta l'instancabile quartetto che riprendeva la melodia, lontana nell'oscurità silenziosa. A me pare che fosse un avvenimento piccolo e curioso - questo passare di quattro cantori nella notte; come se ai nostri viaggiatori quasi per fortuna fosse stato concesso di trasentire le cose di un mondo diverso dal loro - e tanto più curioso perché pare che Frank ne sia rimasto tanto assorto. Naturalmente, da un punto di vista pratico, la spiegazione ne è quasi penosamente ovvia. Dev'essere stato un quartetto del coro della cattedrale, che ritornava da qualche festa nei sobborghi, e che, per caso, sia pur camminando sull'erba, aveva seguito la stessa strada che Frank aveva percorso quella sera. Il secondo avvenimento è anche più ordinario, e ancora una volta debbo dichiarare che non l'avrei trascritto in questa storia, se non fosse stato descritto minuziosamente in quella specie di giornale di bordo in cui talvolta degenera il diario di Frank. Si trovavano a poche miglia da Londra, e il dicembre era succeduto al novembre. Avevano fatto una o due giornate di lavoro in qualche fattoria (non m'è riuscito di identificare i luoghi), e s'erano uniti scambiando perfino qualche parola, con due o tre gruppi di vagabondi, diretti anch'essi a Londra. L'agricoltore per il quale avevano lavorato aveva dato loro temporaneo alloggio in un solaio sopra la stalla, e questa stalla si trovava in un cortile all'estremità della strada per il villaggio, con cancelli che rimanevano aperti tutto il giorno, perché l'aia era sorvegliata dalle finestre della casa del fattore, e anche perché non v'era nulla da rubare. Avevano terminato il loro lavoro (penso che si trattasse della raccolta delle barbabietole da foraggio, o di qualcosa di simile); erano tornati all'alloggio; avevano ricevuto la paga, preso il loro fagotto, e avevano già raggiunto il villaggio in direzione di Londra, quando Frank s'era accorto di aver dimenticato un paio di calze. Non poteva lasciarle perdere. Le calze costano denaro, e non averle significa farsi venire le bolle ai piedi e stancarsi; così disse al Maggiore e a Gertie di procedere lentamente, mentre egli tornava indietro. Li avrebbe raggiunti, disse, prima che avessero percorso un mezzo miglio. Nascose il fagotto sotto una siepe - ogni piccolo peso si sentiva, dopo una giornata di lavoro - e partì. Quando entrò nel cortile era proprio il momento tra il giorno e la notte: tra le quattro e le cinque. Andò diritto al cancello aperto, guardandosi attorno, per spiegar le cose al fattore se occorreva. Non vedendolo, salì la scala sgangherata, entrò brancolando nel solaio, prese le calze dal chiodo a cui le aveva appese la sera prima, e ridiscese. 150/233 Mentre stava per uscire, sentì qualcosa che si muoveva nella stalla e pensando che fosse il fattore e che fosse opportuno dargli una spiegazione, guardò dentro. Dapprima non vide nulla, quantunque sentisse un cavallo che si muoveva nell'angolo. Poi vide un filo di luce sotto la porta che conduceva al cortile interno della fattoria, e l'istante successivo la porta si aprì, ed entrò un uomo con una lanterna evidentemente appena accesa, perché la fiamma non ardeva ancor bene, e si fermò con lo sguardo mezzo spaventato al vedere Frank. Ma non disse nulla. Frank a sua volta era proprio sul punto di dare una spiegazione, quando anch'egli si fermò, immobile e sorpreso. Gli pareva d'essere stato là già prima, proprio nelle identiche circostanze: cercò poi di ricordarsi quello che avvenne dopo, ma non riuscì... L'uomo che teneva la lanterna e che lo guardava in silenzio, con un'aria quasi di deprecazione, era un uomo di mezza età, con la barba e con la testa scoperta. Aveva sulle spalle un sacco che gli pendeva quasi come un mantello. Il lume che portava gettava nella stalla cupe ombre ondeggianti, e Frank vide che una cavalla da tiro protendeva la grossa testa attraverso la griglia dello stallo, come per indagare chi fossero i due estranei, e che cosa volessero. Poi, sempre senza parlare, Frank lasciò che i suoi occhi si volgessero attorno, e si fermassero improvvisamente alla vista di un altro essere vivente. Vicino alla cavalla v'era un altro stallo vuoto; e là, seduta su una cassa, con la schiena alla mangiatoia e un braccio disteso per sostenersi, vi era una ragazza. La testa, avvolta in un vecchio scialle, era appoggiata al braccio, e un volto bianchissimo e stanco, assolutamente immobile, lo guardava. Aveva degli occhi grandi, sottolineati dall'ombra, e le labbra semiaperte. Al suo fianco v'era il solito fagotto dei vagabondi. Frank la fissò per un momento, poi tornò a guardare l'uomo, che ancora non s'era mosso né aveva parlato. La brezza soffiava dalla porta aperta e agitava la fiamma della lanterna, e il cavallo respirò forte e a lungo nell'ombra del suo angolo. Ancora una volta Frank guardò la ragazza: ella aveva abbassato il braccio e ora pareva che lo guardasse con un'attenzione e un'attesa curiosa. Non v'era nulla da dire. Frank lo dice espressamente nel diario. Egli non parlò con quei due, né essi con lui; né vi fu alcuna spiegazione da una parte o dall'altra. Egli uscì in silenzio, attraversò il cortile senza vedere il fattore, sentendo un piano che cominciava a suonare oltre le finestre illuminate che egli poteva intravedere oltre il basso muro che separava il cortile dal giardino. Percorse rapidamente la strada del villaggio, e raggiunse i compagni, come aveva detto, a mezzo miglio di distanza. Non disse loro nulla della sua avventura e, del resto, che cosa c'era da dire? - ma deve averla scritta quella 151/233 sera stessa, al primo riposo, e scritta anche con quella minuzia di particolari che mi sorprese tanto, quando la lessi per la prima volta. Perché la spiegazione di tutto è così scioccamente ovvia, come quella del canto che i tre avevano sentito nei sobborghi di Paterborough. Era chiaro che una coppia di vagabondi era venuta a cercar riparo in quella stalla. Forse la ragazza era la figlia di quell'uomo, forse era sua moglie; forse non era né una cosa né l'altra. Certamente non avevano diritto di andar là - e questo spiegherebbe il loro silenzio imbarazzato. Essi sapevano di essere intrusi, e temevano di esserne cacciati Forse erano già stati cacciati dall'albergo del villaggio. Ma la ragazza era evidentemente sfinita, e l'uomo aveva deciso di affrontare il rischio. Questo dunque era tutto: una cosa comunissima e alquanto volgare. Eppure Frank aveva pensato che valesse la pena di riportarla nel suo diario! 152/233 Capitolo VI Estratto autorizzato di alcune pagine del diario di Frank Guiseley. Queste pagine furono scritte per incoraggiamento di Dom Hildebrand Maple O.S.B., e gli furono inviate più tardi a sua richiesta. “Egli mi disse molte cose che mi sorpresero. Per esempio, pareva che conoscesse certe idee che avevo avute, prima che glie le dicessi, e disse che non ero responsabile, e scelse una o due altre cose che io avevo detto, e mi disse che queste erano più gravi... “Andai a confessarmi da lui il venerdì mattina in chiesa. Egli allora non disse gran che, ma mi chiese se volessi andar dopo a parlargli. Io dissi di sì, e andai da lui in parlatorio nel pomeriggio. Per prima cosa egli mi chiese di esporgli il più semplicemente possibile quel che m'era avvenuto - nell'anima, voglio dire - fin da quando avevo lasciato Cambridge. “Io dissi che dapprincipio tutto era andato benissimo nella mia anima, e che erano state soltanto le cose materiali a tormentarmi. Come la stanchezza spaventosa, la scomodità, il mangiare, il dormire, e così via. Poi, appena superato questo stadio, avevo incontrato il Maggiore e Gertie. Avevo un po’ paura a dire quello che sentivo al loro riguardo, ma egli mi incoraggiò, ed io gli dissi come qualche volta mi pareva di odiarli oltre misura, come mi sentivo quasi male quando di tanto in tanto il Maggiore mi parlava e mi raccontava le sue storie... Quello che pareva che mi tormentasse di più in quel periodo era il contrasto tra Cambridge e Merefield, e questa gente, e la compagnia di questa coppia; e l'unico sollievo era il sapere che avrei potuto piantarli quando avessi voluto e tornarmene a casa. Ma questo sollievo mi fu tolto non appena compresi che dovevo rimanere con loro e far del mio meglio per separarli, perché è chiaro che io dovevo una volta o l'altra restituire Gertie ai suoi, e finché non l'avessi fatto era inutile pensare ad altro. “Tuttavia dopo un po’- penso che fosse proprio prima che avessi da fare con la polizia - comincio a vedere che ero un asino calzato e vestito a odiare tanto il Maggiore. Era assurdo, mi dicevo, che mi dessi tante arie, quando la differenza tra me e lui consisteva solo nel fatto che io ero stato educato a un modo e lui a un altro. Io odiavo le cose che egli faceva o diceva, non perché fossero cattive, ma perché erano quel che io dicevo sconvenienti. In fondo, era tutto qui. Poi vidi anche di più, e me ne sentii spregevole. Pensavo prima che fosse una mia buona qualità l'esser gentile con le bestie, e i bambini, ma cominciai a vedere che era semplicemente che ero fatto così. Non c'era alcuno sforzo in me, soltanto vedevo rosso quando mi imbattevo in qualche crudeltà. E compresi che non avevo merito 153/233 alcuno. “Poi cominciai a vedere che non avevo fatto proprio nulla di bene che nulla mi era realmente costato qualcosa; e che le cose di cui ero orgoglioso erano soltanto egoismo - la mia partenza da Cambridge e tutto il resto. Erano gesti teatrali o romantici; non v'era alcun sacrificio reale. Avrei fatto molto meglio a non compierli. E cominciai ad accorgermi di essere straordinariamente piccino. “Poi cominciò tutta quella serie di fatti che mi buttò giù del tutto. “Prima venne l'affare della prigione. Successe così: “Avevo appena cominciato a vedere di aver torto col Maggiore, vedevo che era male tanto per lui come per me lasciar liberi i miei sentimenti a suo riguardo (non voglio dire che li abbia mostrati, ma questo fu soltanto perché mi pareva più dignitoso non farlo!), e che io dovevo far qualcosa a cui tutta la mia anima ripugnasse, se volevo fargli qualcosa di bene. Capitò allora quel minuto nella cascina, quando capii che la polizia era sulle nostre piste, e che non v'era alcuna speranza di sfuggirle. Il motivo particolare che mi decise fu Gertie. Mi pareva di comprendere che non potevo lasciare che il Maggiore andasse in prigione mentre essa era in giro. Eppoi vidi che questa era proprio la cosa che avrei dovuto fare, e della quale non avrei mai potuto inorgoglirmi perché era tutto così sciatto e volgare. Bene, lo feci, e me ne venne un gran bene. Avevo il senso di esser davvero rotolato nel fango, e l'episodio dell'ufficio postale, dippoi, me lo approfondì. Vidi quanto fossi pieno di vanità a pensare come pensavo, e a darmi l'aria di gentiluomo. “Poi venne il prete che rifiutò di soccorrermi. Per un po’ ne fui addirittura furioso, perché m'ero detto che i cattolici, e in particolare i preti, avrebbero sempre saputo comprendere. Ma prima di giungere a York vidi che avevo agito da sciocco. Il prete aveva perfettamente ragione (lo compresi prima di aver fatto dieci passi, quantunque rifiutassi di ammetterlo ancora per cinque miglia). Io ero un vagabondo stracciato, e parlavo con la sfacciataggine d'un pazzo (e avevo pensato che la mia franchezza con lui fosse stata bella e virile!). Bene, questo mi rese ancor più piccino. “Poi mi prese una specie di disperazione, quando a York la polizia mi cacciò dal lavoro. Lo so, non era che una piccola cosa (quantunque la ritenessi ingiusta), ma era come un sassolino che s'infili nella scarpa quanto si zoppica già per qualcos'altro. “E venne allora la lettera di Jenny (debbo parlarne piuttosto accuratamente). “Ho detto poco su che mi sentivo sempre più piccino, ma non sarei stato vinto. “Ora v'erano due cose su cui m'ero appoggiato in tutto questo tempo: la mia religione, e Jenny. Davo loro il turno, per così dire, per quanto Jenny non fosse mai assente. Quando le cose della religione mi 154/233 parevano piatte, dubbie o vuote, io pensavo a Jenny. Quando le cose andavano meglio, quando traversai quei due o tre periodi di cui parlai a Padre Hildebrand (...), pensavo ancora a Jenny, e immaginavo che splendida cosa sarebbe stata quando fossimo ambedue cattolici sposati. Ma non sognai mai che Jenny sarebbe stata irata o delusa. Non volevo parlar di lei a nessuno, perché ero assolutamente sicuro di lei. Sapevo, penso, che tutto il mondo avrebbe potuto crollare, ma che Jenny avrebbe sempre capito tutto, fino in fondo, e che io e lei saremmo rimasti... “E allora, giunse la sua lettera... “A dire il vero, non so che cosa sia avvenuto in me per una o due settimane. Solo, ogni cosa era cambiata. Non dubitai neppure un istante che Jenny non pensasse quello che scriveva, e fu come se non vi fosse più né il cielo né il sole né la luna. Fu come se mi fossi ammalato. La vita continuava attorno a me: io mangiavo, bevevo, camminavo, ma l'unica cosa di cui sentissi bisogno era di andarmene, di richiudermi in me, di nascondermi. Non riesco a comprendere quel che la gente intenda per “consolazioni della religione”, non mi pare che la religione possa essere una cosa come l'arte o la musica, in cui ci si possa rifugiare. O essa avvolge tutto, o non è religione. Essa - non so se abbia torto - non mi è mai sembrata una cosa come le altre, che si può cambiare e a cui si può ritornare... O forma lo sfondo e il prospetto di tutta la vita, oppure è una specie di gioco. O è una cosa reale, o è una maschera. “Bene, quel che era avvenuto in certo qual modo mi insegnò che essa era assolutamente vera. Se non lo fosse stata, le cose non avrebbero avuto un legame logico. Ma non era affatto una consolazione. Per un po’ mi parve che fosse orribile che fosse vera; che fosse spaventoso pensare che Dio potesse essere così, da permettere che fosse avvenuto quest'affare di Jenny. Ma tutto questo non lo sentivo allora con piena coscienza. Mi pareva di essere ammalato, di potere soltanto giacere immobile e guardare, di essere all'inferno. Una cosa tuttavia che parve a Padre Hildebrand assai importante (e me ne chiese in particolare), fu che io non provai alcun risentimento né contro Dio né contro Jenny. Era stata una cosa spaventosa, ma era vera, e io dovevo soltanto restar passivo e meditarla. Padre Hildebrand mi dice che questo dimostra che la prima fase del “processo”, come egli lo chiama, era finita (egli la disse la “via della purgazione”). E io debbo dire che quello che accadde poi ci si inquadrò piuttosto bene. “Il nuovo processo cominciò del tutto improvviso, quando mi svegliai un mattino nella capanna del pastore a Ripon. Lo compresi al momento stesso del risveglio. Era assai di buon'ora - proprio prima che sorgesse il sole, ma v'era un boschetto alle mie spalle, e gli uccelli cominciavano a cinguettare. 155/233 “È difficilissimo descriverlo in parole, ma la prima cosa da dire è che io, proprio allora, non ero esattamente felice, ma assolutamente contento. Mi pare che potrei dire così: che vidi d'un tratto che quel che non andava in me era l'aver fatto di me stesso il centro di tutte le cose, e di Dio una specie di circonferenza. Quando Egli faceva o permetteva qualcosa, io dicevo: “Perché Egli fa questo dal mio punto di vista. Vale a dire, io mi formavo le mie idee di giustizia, di amore, e simili, e poi misuravo le Sue alle mie, e non le mie alle Sue. E d'un tratto vidi - o piuttosto lo sapevo già quando mi svegliai - che questo era semplicemente sciocco. Neppur ora riesco a immaginare come non l'abbia visto prima. Avevo sentito, beninteso, gente che lo aveva detto - in prediche o in libri - ma non vi avevo dato un significato. (Padre Hildebrand dice che l'avevo visto con l'intelletto, ma che non l'avevo abbracciato con la volontà), perché quando s'è realmente visto una volta, non v'è più perplessità su nulla. Non si può mai più dire “perché?” La cosa è finita. “Ora questo “processo”, come Padre Hildebrand lo chiama, ha progredito d'allora in poi in modo straordinario. Quella prima intuizione di Ripon fu come l'aprire una porta su un altro paese, e io da allora ho sempre camminato e veduto cose nuove. Tutte quelle cose che avevo creduto come cattolico - le cose, cioè, alle quali consentivo solo perché la Chiesa le affermava - venivano, per così dire, alla superficie, si mostravano nell'intimo. Non ne posso scrivere, perché queste cose non si possono scrivere, e neppure enunciare intelligibilmente a se stessi. Soltanto si vede che sono così. Per esempio, un mattino a messa - a un tratto - io vidi come la sostanza del pane fosse cambiata, e come nostro Signore sia unito all'anima nella Comunione - naturalmente, è un mistero (questo è ciò che intendo quando dico che non si può scrivere). Ma io lo vidi in un lampo, e posso in certo modo vederlo ancora. Poi un altro giorno quando il Maggiore stava chiacchierando (mi pare che parlasse del Club in Piccadilly di cui pretendeva aver fatto parte) io compresi la Madonna, e come Ella sia proprio tutto da ogni punto di vista. E così via. Fatti del genere si ripeterono parecchie volte quando ero dal dottor Whitty, specialmente quando stavo migliorando. Potevo parlare con lui tutto il tempo, magari, o contare le maniglie del guardaroba, o ascoltare il Maggiore e Gertie che lavoravano nel giardino, eppure continuavo tutto il tempo a “vedere”. Sapevo che parlare molto col dottor Whitty non serviva a nulla, quantunque non possa immaginare come un uomo come quello non veda tutto da sé... “Mi sembra ora straordinarissimo che possa mai aver avuto altri pensieri che quelli che ho riferito a Padre H. - voglio dire sul peccato, e sul chiedermi se, in fondo, la Chiesa fosse realmente vera. In certo modo, si capisce, questi pensieri mi tornavano ancora, e io so benissimo che debbo stare in guardia: ma è cosa diversa. 156/233 “Bene” Padre H. chiama tutto questo la “via dell'illuminazione”, e io credo di capire quello che egli vuol intendere. Giunse quasi a un acme la vigilia dei Morti, nel Monastero. Allora, per un momento o due, io vidi, “tutto”, e non solo il Purgatorio. Ma ne scriverò più tardi. E’ Padre Hildebrand mi dice che debba attendermi un nuovo “processo” - quello che egli chiama la “via dell'Unione”. Io non comprendo molto quello che egli intende con ciò. Non vedo che cosa mi potrà accadere ancora. Sono assolutamente e interamente felice, quantunque debba dire che era succeduta una specie di calma per gli ultimi due o tre giorni - precisamente, dal giorno dei Morti. Forse qualcosa sta per accadere. A ogni modo, tutto va bene. Mi pare naturalissimo che i preti conoscano perfettamente queste cose. Ma mi pare anche di essere stata la prima persona a sentire proprio così. “Debbo aggiungere una cosa. Padre H. mi disse che da tutto quello che poteva vedere io l'avevo, e che la mia venuta al Monastero era semplicemente provvidenziale. “Bene, io ero d'accordo con lui, e glielo dissi. Io, non ho la minima idea di quello che avverrà adesso: ma so, con assoluta certezza, che debbo proseguire col Maggiore e con Gertie fino a East London. Gertie dovrà in qualche modo essere separata dal Maggiore, e finché questo scopo non sia raggiunto io non debbo fare altro. “Ho scritto tutto questo più semplicemente che ho potuto, perché l'avevo promesso a Padre Hildebrand ”. 157/233 PARTE TERZA Capitolo I Verso il tramonto, Mrs. Partington stava sulla porta di casa, ad attendere che i bambini tornassero dalla scuola. La casa si trova in quella che è forse la strada meno piacevole Turner Road - del distretto forse meno piacevole di East London, Hackney Wick. È un distretto spiacevole, perché non ha nulla di particolare, né la tragica gaiezza di Whitechapel, né la relativa raffinatezza di Clapton. È un gran pezzo triangolare di terra, che copre in tutto forse un miglio quadrato, o poco più. A sud lambisce il viadotto della Great Eastern Railway, e dagli altri due lati è delimitato in parte dal fiume Lea - un sudicio canale infossato - e in parte dalle Hackney Marshes, distesa piatta e arida di prati paludosi, inutili come aree da costruzione, e utili solo al sabato per la caccia al coniglio e per il football. La sua tristezza è superiore a ogni descrizione. Gelato d'inverno e d'estate caldo e infestato dalle zanzare; la sua orribile vegetazione fa pensare solo per contrasto ai veri prati e alla vera erba. Si calcola che la popolazione del distretto si rinnovi completamente nel ciclo di tre anni, e ciò non mi sorprende affatto. Vi sono due importanti edifici oltre le scuole, una gran fabbrica di prosciutto, e la chiesa con la canonica della Eton Mission. Turner Road è forse la strada più disperata della dozzina e mezza di strade del quartiere. (Sulla pianta di Mrs. Booth è segnata in nero, si capisce). È lunga circa un quarto di miglio, perfettamente diritta, intersecata a un certo punto da un'altra via, e è composta di alte case scure, con la facciata liscia, di forse sei o sette piani. Di solito è abbastanza silenziosa e vuota, ed è abitata dai membri più caratteristici della comunità di Hackney Wick - uomini lenti e pallidi, donne sparute, sporche, con la lingua tagliente, e innumerevoli bambini superintelligenti, - tutti della classe che di rado rimane a lungo in un luogo, tutti del materiale da cui fioriscono gli autentici criminali. Non vi, sono botteghe né casotti; solo alla sera del sabato vi echeggiano, come in un pozzo foderato di pietra, le grida e i cigolii della via principale affollata, a cento metri oltre l'angolo. La strada, in complesso, ha un'aria di dignità miserabile e orgogliosa; qua non v'è traccia di giardini o di fiori, come in Mortimer Road, o di piazze lastricate; null'altro che le case alte e lisce, il selciato, i fanali, lo scalpiccio dei passanti e il silenzio. Il visitatore ha la sensazione che nulla possa accadervi, e che nessuno potrebbe esservi più savio. V'è attorno a queste case un'aria di orribile discrezione. Mrs. Partington era - o piuttosto è, perché fui a vederla non più di 158/233 due mesi or sono - di un tipo perfettamente definito. Ella dev'essere stata una bella operaia, bruna, snella, e capacissima di provvedere a sé, con braccia sottili e muscolose, di solito scoperte fino al gomito, colle mani dure, con folti capelli piuttosto sporchi, con la lingua di un oratore velenoso, e una quantità di sentimenti domestici e patriottici di marca inferiore. Era diventata una donna di mezza età; sporca, dritta e forte, senza alcun sentimento, ma in cambio con molta conoscenza pratica degli uomini. Non aveva illusioni, né su questo mondo né sull'altro. Aveva avuto nove figli, dei quali tre viventi. Suo marito era quasi ininterrottamente disoccupato. Pure la famiglia era prospera (per Turner Road), e s'era arrangiata, finora, a tener la casa in piedi. Il tramonto era cominciato nello splendore di un'aureola fumosa all'estremità della strada che Mrs. Partington fissava, come se un riflettore corrucciato cacciasse il sole dal cielo. La strada era ancora tranquilla, ma già dalla direzione della Boardschool venivano grida sottili e acute, mentre la massa dei fanciulli sciamava in ogni direzione. Mrs. Partington attendeva i suoi bambini (almeno così avrebbe detto), Jimmie, Maggie e Erb, e sulla tavola spoglia erano poste tre grosse fette di pane con prosciutto nero; in realtà, essa attendeva i suoi inquilini, che avrebbero dovuto essere giunti da mezzogiorno. Li vide arrivare, avanzando per la strada disposti “en échelon”. Due li conosceva già, avevano già alloggiato da lei altre volte. Ma il terzo doveva essere uno straniero, e ciò la interessava. Il Maggiore aveva accennato a misteri meravigliosi... Così ella si fece schermo agli occhi contro il bagliore freddo, e li guardò con attenzione, con la stessa faccia ferma e risoluta con cui guardava tutto il mondo; e anche quando poco dopo scambiò col Maggiore e con Gertie un rapido e silenzioso cenno di riconoscimento, continuò a scrutare il giovanotto bruno, male in arnese, che veniva per ultimo, portando il suo fagotto e zoppicando un pochino. - Siete in ritardo - osservò bruscamente. Il Maggiore cominciò a dare spiegazioni, ma ella lo interruppe e li introdusse in casa. Mi è assai difficile descrivere convenientemente l'impressione che Frank fece a Mrs. Partington: ma che l'impressione fosse profonda e definita mi risultò chiarissimo dalla sua conversazione. Frank parlava appena, ella disse, e prima di andare al lavoro nella fabbrica di prosciutto usciva per lunghe passeggiate solitarie nei prati. A quanto pare egli dormiva in una stanza col Maggiore, e Gertie in un'altra, con Mrs. Partington e i bambini (a quel tempo, il signor Partington era lontano per una delle sue lunghe assenze). Ai pasti Frank era sempre tranquillo e composto, ma senza ostentazione. 159/233 Mrs. Partington da questo lato non gli trovava alcun difetto. Egli parlava un po’ ai bambini prima che andassero a scuola, qualche volta s'incontrava con loro al ritorno, e tutti e tre concepirono per lui un'adorazione immensa e indescrivibile. Tutto questo, peraltro, sarebbe troppo lungo a volerlo descrivere, nei particolari. Pare che vi sia stata una cert'aria di pathos che Mrs. Partington stessa gli aveva messo attorno, e che la colpiva moltissimo; e io immagino che i suoi sentimenti siano stati in largo senso materni. Vi era tuttavia un altro elemento evidente, che in chiunque altro che non fosse stato Mrs. Partington io avrei chiamato reverenza... Ella mi disse che non sapeva rendersi conto del perché Frank viaggiasse col Maggiore e con Gertie, mostrando così di comprendere almeno qualcosa dell'abisso che vi era fra loro. Così cominciò la prima settimana, portandoci fino alla metà di dicembre. Il venerdì sera Frank giunse con l'annuncio che il lunedì mattina avrebbe preso lavoro alla fabbrica di prosciutto. V'era un gran da fare si capisce, per l'avvicinarsi del Natale. A Frank, in coppia con un altro, sarebbe stato affidato un carretto. Pareva che il lavoro sarebbe durato per una settimana o due. - Dovrete stare attento alla vostra pronuncia - disse il Maggiore giocosamente. (Egli era seduto nella stanza dove si faceva cucina, e dove, a proposito, dormiva tutta la compagnia, salvo i due uomini; e in questo momento, egli teneva i piedi sul basso caminetto, tra una casseruola e il berretto di Jimmy). - Eh? - fece Frank. - Guai a parlare, laggiù. Sono severissimi. Frank si tolse il berretto e sedette sul letto. - Dov'è Gertie? - domandò. - (Sì, vieni qua, Jimmie). Jimmie balzò al suo fianco, guardandolo con gli occhioni neri pieni di reverenza. Poi si appoggiò a lui con un sorriso giocondo e chiuse gli occhi. Frank circondò col braccio il fanciullo, come per sorreggerlo. - Oh, Gertie è andata a far visita ad amici - disse il Maggiore, - Avete bisogno di lei? Frank non disse nulla, e Mrs. Partington guardò rapidamente dall'uno all'altro. Mrs. Partington durante quei giorni aveva raccolto un po’ di materiale per le sue considerazioni. Le era risultato evidente che la ragazza era innamorata sul serio di questo giovanotto, e che mentre questo giovanotto ne era, o fingeva di esserne, ignaro, il Maggiore non lo era affatto. Gertie aveva strani silenzi quando Frank entrava nella stanza, e volubilità più strane ancora; e Mrs. Partington non era del tutto sicura dell'atteggiamento del Maggiore. Quest'ufficiale e suo marito in passato avevano avuto assieme affari di una natura che 160/233 io non posso precisare (anzi, la figura del signor Partington è ancora per me un mistero e un mistero piuttosto formidabile); e ne deduco che Mrs. Partington abbia saputo da suo marito che il Maggiore non era persona da buttarsi via. Ella lo conosceva per un furfante, ma pare che fosse incerta sul genere di questa furfanteria: se fosse del tipo forte o di quello debole. Perciò rimaneva un po’ a disagio per definire il vero significato di Gertie; e s'era già chiesta più d'una volta se ella dovesse dire o no una parola materna al giovanotto. Mentre Mrs. Partington stava stirando un colletto di Jimmie sulla tavola della sala da pranzo, dalla strada venne il rumore d'un passo, ed ella posò il ferro quando sentì bussare alla porta. Il Maggiore prese la pipa e cominciò a riempirla mentre la donna andava a vedere chi bussava. - Oh, buona sera, Mrs. Partington - risuonò una voce chiara e ben educata dalla porta di casa. - Posso entrare per un minuto o due? Ho sentito che avete degli ospiti, e penso che forse... - Oh, signore, siamo piuttosto all'aria, in questo momento, e... - Non vi disturberò per più di un minuto - riprese l'altra voce. Si sentirono due passi nel corridoio, e poi, dietro all'ospite ritrosa, comparve nella luce della lampada della cucina, un giovane “clergyman” dal colorito fresco, che portava un cappello di seta. Frank si alzò immediatamente, e il Maggiore si degnò di posare il piede a terra. Poi anch'egli si alzò. - Buona sera! - disse il “clergyman”. - Posso entrare per due minuti? Ho sentito che siete venuti, e siccome è il mio distretto... posso sedere, Mrs. Partington? Mrs. Partington, con le labbra strettamente saldate, tolse una tazza da tè, una calza, un pettine, un'altra tazza e un piatto scrostato dall'unica seggiola libera, e la collocò un po’ più avanti verso il fuoco. A suo criterio, i “clergymen” erano una di quelle cose misteriose che il mondo offre senza che vi sia un'adeguata spiegazione, come i poliziotti, i giochi degli uomini e le corse dei cavalli. C'erano, e non c'era altro da dire. Erano utili fino a un certo punto per far divertire i fanciulli e portarli nel Southend, e, in casi di assoluta necessità, per chieder loro un buono per qualche pasto o anche una mezza corona: ma la gran chiesa misteriosa, con la cancellata dorata, i curiosi vetri variopinti, la piccola cappella bianca laterale, la grande canonica, le signore, il giornaletto parrocchiale, eccetera eccetera, queste erano cose semplicemente inesplicabili. Inesplicabile soprattutto era la passione delle visite al distretto - lo strano impulso che per cinque giorni alla settimana spingeva quattro giovanotti assai istruiti, vestiti di talari nere e di cappelli alti e di ridicoli collarini, a battere le porte una dopo l'altra in tutto il distretto, e a condurre conversazioni con 161/233 belle maniere, che mettevano in soggezione madri di famiglia soltanto ben educate. Erano di quei fenomeni che dovevano essere accettati come tali. Mrs. Partington supponeva che rappresentassero qualche cosa. di superiore di là della sua comprensione. - Ho pensato che dovevo venire a far la vostra conoscenza - disse il “clergyman”, accarezzando il suo cappello e sorridendo alla compagnia. (Anch'egli, talvolta, condivideva i dubbi di Mrs. Partington sullo scopo di quel che faceva; ma anch'egli vi si sottometteva come a una parte del sistema). - Contentissimo di vedere un “clergyman” - disse quasi sottovoce il Maggiore. - Permettete che fumi, signore? - Ma certo. Fumo anch'io. E se Mrs. Partington lo permette... - e il “clergyman” trasse di tasca un pacchetto rosso e oro di “Cinderellas” (credo che egli pensasse che fumare “Cinderellas” lo avvicinasse vagamente al popolo). - Oh, per me, signore... - fece Mrs. Partington, ancora un po’ arcigna. (Ella era ancora segretamente infastidita di quella visita alle sei e mezzo. Di solito, dopo le cinque si è immuni da quelle seccature). - Così ho pensato di venirvi a trovare - spiegò ancora il “clergyman” e dirvi che noi, comprendete bene, il clero, la chiesa, e il resto... Era un giovanotto assai coscienzioso, questo Mr. Parham-Carter: un allievo di Eton, è da immaginarsi, ora alla sua prima cura. Lo stupiva ancora questa grande e splendida istituzione, l'imponente chiesa di Bodley, col “Magnificat” in lettere gotiche sotto la volta, la canonica ben costruita e arredata, la casa delle dame, lo zelo, la devozione, il meccanismo parrocchiale, la banda della Speranza, i circoli degli uomini e dei giovani, e sopra tutto lo zelo delle visite alle famiglie del distretto. Naturalmente, tutte queste cose portavano a buoni risultati, tenevano alto il livello della decenza e della civiltà e di ogni ideale; erano un peso sulla bilancia dalla parte del diritto e del ben vivere; i circoli tenevano fino a un certo punto gli uomini lontani dalle osterie, e facevano sì che i ragazzi avessero qualche possibilità a loro favore. Pure egli si domandava, in qualche attacco di scoraggiamento, se in qualche punto non vi fosse qualcosa che non andava bene... Ma accettava tutto. Era il metodo approvato, ed egli stesso era uno che doveva imparare, non giudicare. - Troppo gentile, signore - disse il Maggiore, rimettendo il piede sul caminetto. - E a che ora sono le funzioni della domenica? Il “clergyman” sobbalzò. Non era abituato a domande del genere. - Io... - cominciò. - Io in chiesa ci vado spesso - riprese il Maggiore - e se anche non ci andassi, bisogna dare un esempio, capite. Sarò magari di idee strette, ma ci tengo a tutte queste cose. Sarò da voi domenica prossima. - E fece un cenno rassicurante a Mr. Parham-Carter. - Bene, la funzione del mattino è alle dieci e mezza, e la Sacra 162/233 Eucaristia alle undici, e, si capisce, alle otto. - Senza paramenti, spero? - disse brusco il Maggiore. Mr. Parham-Carter esitò un momentino. I paramenti non erano in uso, ma con suo rincrescimento. - Ecco, noi non usiamo paramenti, ma... Il Maggiore riprese la pipa con aria soddisfatta. - Benissimo, così. Ecco. Io non sono bigotto. Questo mio amico è cattolico romano, ma... Il “clergyman” alzò lo sguardo, e per la prima volta avvertì concretamente la presenza del secondo uomo. Frank era tornato a sedere sul letto, con Jimmy al fianco, e osservava la scena tranquillo e in silenzio. Il “clergyman” incontrò in pieno i suoi occhi. Un vago brivido lo scosse. Il bruno volto rasato di Frank gli sembrava in qualche modo famigliare, o v'era qualcosa d'altro? Mr. Parham-Carter considerò per un pochino la cosa in silenzio, ascoltando solo a metà il Maggiore che stava esponendo le sue idee sulla Chiesa stabilita e sulle sue istituzioni. Frank non diceva nulla, e nel “clergyman” cresceva il desiderio di udire la sua voce. Infine ne provocò l'occasione. - Sì, capisco - disse al Maggiore - e voi... io non conosco il vostro nome. - Gregory, sir - disse Frank. E di nuovo un piccolo brivido scosse Mr. Parham-Carter. La voce era proprio quella che si attendeva da quel volto. Fu circa dieci minuti dopo che il “clergyman” pensò che era tempo di andarsene. Egli aveva la promessa positiva del Maggiore di assistere almeno alla funzione serale della prossima domenica (e non pareva che glie ne importasse gran che), ma non aveva fatto alcun progresso con Frank. Strinse la mano a tutti, disse a Jimmie di non mancare alla scuola domenicale, elogiò pubblicamente Maggie per il modo con cui aveva recitato la sera prima al Gruppo della Speranza; e poi uscì, accompagnato fino alla porta da Mrs. Partington, sempre silenziosa. Ma proprio mentre varcava la soglia, qualcuno spinse da parte la donna e scese sulla strada. - Posso parlarvi un minuto? - disse lo strano giovanotto, senza aggiungere il “sir” - Se non vi spiace, vi accompagno fino alla canonica. Quand'ebbero perso di vista la casa, Frank cominciò: - Voi siete Parham-Carter, non è vero? di Hles. L'altro assentì. (Il problema cominciava a risolversi). - Bene, dammi la parola di non dire ad anima vivente che io sono qua, e ti dirò chi sono. Vedo che mi hai dimenticato. Ma temo che ti possa ricordare. Capisci? - “All right”. - Sono Guiseley, di Drew's. Una volta eravamo nella stessa 163/233 divisione... fino a Rawlins. Ricordi? - Santo Cielo! Ma... - Sì, lo so. Ma non è questo. Io non ho fatto nulla che non avrei dovuto fare. Non è questo il motivo per cui sono in questo stato. È venuto da sé. E vi è qualcosa d'altro di cui voglio parlarti. Quando posso venire per dir due parole in privato? Domani vado a lavorare alla fabbrica di prosciutto. L'altro, tutto sbalordito, cercò di rispondere: - Stasera... alle dieci. Va bene? - “All right”. Che cosa dovrò dire... suonando alla porta? - Chiedi soltanto di me. Ti faranno salire senz'altro alla mia stanza. - “All right”, ripeté Frank, e scomparve. La stanza che Mr. Parham-Carter aveva nella canonica era del tipo normale: assai comoda e piacevole all'occhio, come dev'essere quella di un giovanotto occupato in simile lavoro: senza eccessivo lusso, pia e virile. Le pareti erano a tempera rosea, calda e dolce, e da esse, al di sopra dei bassi scaffali di quercia, pendevano gruppi fotografici di scuola e di famiglia, discrete incisioni sportive, un fastoso interno di cattedrale, e, sul camino, la Madonna Sistina. Lungo una parete era sospeso un remo che aveva dipinto sulla lama lo stemma di un Collegio di Oxford. V'era un mobile sormontato da un crocifisso di Ober-Ammergau; v'era uno scrittoio di mogano con una poltroncina girevole; v'era un paio di poltrone imbottite; un portapipe; una fila di fotografie: sua madre, in abito da sera; due sorelle e altri parenti dall'aspetto prosperoso. Nel complesso, con le tende tirate e il fuoco sfavillante, era la camera tipica che un giovane tipico di quella classe doveva avere nell'East London. Frank stava in piedi sul tappeto quando Mr. Parham-Carter entrò, uno o due minuti dopo le dieci portando un piccolo vassoio con un boccale coperto, due tazze e un piatto di dolci. - Ancora buona sera - disse il “clergyman”. - Un po’ di cacao? Di solito lo prendo qua. Siedi. Mettiti comodo. Frank non disse nulla. Sedette, posò il berretto sul pavimento di fianco alla seggiola e si appoggiò allo schienale. L'altro, con un movimento piuttosto nervoso, gli accostò una tazza fumante e un portasigarette d'argento, fiammiferi e portacenere. Poi sedette anch'egli, bevve un lungo sorso di cacao, e attese con una certa apprensione. - Chi c'è d'altri? - chiese Frank a un tratto. Il “clergyman” disse due o tre nomi, con una breve biografia di ciascuno. Frank chinò il capo, finalmente rassicurato. - Benissimo. Tutti più anziani di me, non è vero? Potrebbero entrare, no? - Oh, no. Ho detto loro di no, e... 164/233 - Bene, veniamo alla questione - disse Frank. - Si tratta di una ragazza. Hai visto oggi quell'uomo? Capito il tipo? Bene, c'è poco da cavarne. E s'è preso una ragazza, che va con lui e non è sua moglie. Io intendo riportarla ai suoi. - Sì? - Puoi far nulla? (non dir di sì, se non puoi, per favore...) Ella viene da Chiswick. Ti darò l'indirizzo prima d'andarmene. Ma non voglio pasticci, m'intendi. Il “clergyman” si raschiò la gola. Aveva ricevuto gli ordini da diciotto mesi appena, e la crudezza e il realismo della situazione lo turbavano alquanto. - Posso provare... posso dirlo alle Dame. Ma, si capisce, io non posso... - Vedo bene. Ma pensi che vi sia una probabilità ragionevole? Se no, è meglio che tenti un'altra volta io. - Hai già provato, dunque? - Io, sì, una mezza dozzina di volte. L'ultima, quindici giorni fa, e pensavo che davvero... - Ma io non capisco. Questa gente, sono tuoi amici, o che cosa? - Ho girato il mondo con loro da luglio in poi. Essi mi appartengono, per quanto appartengono a ciascuno. Io sono cattolico, lo sai... - Davvero?! ma... - Convertito. A giugno. Non discutiamo, mio caro, non è il momento. Mr. Parham-Carter sospirò. C'è un proverbio che parla di testa e di calcagni. E nessun'altra frase potrebbe meglio descrivere le condizioni di spirito del giovane. Soltanto, non dall'azzurro, ma ciò che è ancora più sorprendente, proprio dal cielo fangoso di Hackney Wick (anzi, di Turner Road!) gli era capitato addosso quello straordinario individuo, dagli occhi penetranti, dalla faccia bruna, muscoloso, che era poi un suo compagno di scuola, e un compagno di scuola del quale, nelle tre ore dacché l'aveva lasciato, aveva rammentato rapidamente, punto per punto, tutta la straordinaria reputazione: Guiseley di Drew's - il ragazzo che s'era tolta la giacca alla lezione del mattino e s'era mostrato senza camicia - che in una certa mattina d'inverno aveva fatto scomparire quattro scopini su sei, e che era rimasto a discorrere affabilmente col Capo nel cortile della scuola, con le estremità degli scopini che spuntavano dalle falde del soprabito - che il quattro di giugno era stato scoperto, con un'aria di reverenziale innocenza, a rivestire la statua di bronzo del re Enrico VI con una cotta, in onore della ricorrenza. Ed ora si trovava qua, e dall'abito che portava e dalla casa in cui alloggiava doveva essere catalogato tra gli ultimi dei pezzenti, e pure parlava, con un'aria di completa confidenza, ed eguaglianza, di una ragazza screditata, sua compagna, che doveva essere liberata da un compagno più screditato ancora e 165/233 restituita ai genitori, a Chiswick. E questo non era tutto - perché, come mi disse Mr. Parham-Carter stesso - durante quel colloquio s'era impressa in lui una curiosissima sensazione che egli a malapena riuscì, anche dopo averci meditato, ad esprimere con parole - una sensazione che riguardava la personalità di quel giovanotto, - dicendo che la sua presenza lo faceva sentire quasi come un pesce fuor d'acqua, Pare che sia stato verso questo punto che egli comprese chiaramente Frank, distinguendolo cioè dall'atmosfera strana e sensazionale che lo circondava. E lo fissò in silenzio per un momento o due. Qui era seduto Guiseley appoggiato alla poltrona di cuoio rosso - con la tazza di cacao ancora intatta: Aveva un vestito miserabile che un tempo, probabilmente, era stato turchino. La giacca era abbottonata fino al mento, e una sciarpa sudicia gli circondava il collo. I calzoni di parecchio troppo corti, lasciavano vedere sopra una calza gialla, sulla gamba più vicina a lui, circa quattro dita di pelle scura. Le scarpe grosse senza traccia di spazzola, erano rappezzate, e una addirittura aperta sulla punta. Frank teneva le mani affondate in tasca, come se sentisse freddo anche in quella stanza riscaldata. Non v'era insomma in lui nulla che si facesse notare. Era la figura tipica e poco soddisfacente dei vagabondi, candidati al circolo degli uomini. Eppure attorno a lui v'era quell'aria che fermava l'attenzione e sconcertava... Era una specie di serenità elettrica - se ben comprendo Mr. ParhamCarter - una zona di energia perfettamente immota, come il calore e il freddo pungente, come una molla caricata: era come una persona reale, immobile in mezzo a un quadro. (Mr. Parham-Carter, naturalmente, non usò similitudini come queste; egli impiegò il linguaggio solito degli uomini che sono stati educati in una scuola pubblica e in un'università, mezzo gergo e mezzo infantilismo; ma agitò le mani verso di me, fece delle smorfie, e produsse, nel complesso, l'impressione che io ho cercato di esprimere). Frank, poi, sembrava tanto fuor di posto in quella stanza perfetta e regolare quanto un principe indiano a Buckingham Palace; o, se lo preferite, quanto un nobiluomo inglese (con gli scopettoni) a Dehli. Era proprio diverso da tutto: non aveva nulla di comune con l'ambiente; e non tanto per i suoi modi (giacché vi stava in agio perfetto), quanto per quel che significava. Egli era come un simbolo straniero in un linguaggio familiare. L'effetto che egli produsse su Mr. Parham-Carter fu chiarissimo e forte. Il “clergyman” per esempio mi citò il fatto che egli non aveva detto nulla a Frank della sua anima; confessò di non aver neppure pensato ad invitarlo alla funzione serale della domenica successiva. Naturalmente, non gli piaceva che Frank fosse cattolico romano; e tutto il suo essere intellettuale gli diceva che Frank aveva lasciato la 166/233 Chiesa d'Inghilterra perché non l'aveva mai conosciuta. (Mr. Parham-Carter stesso aveva imparato quale fosse la vera natura della Chiesa soltanto alla Pusey House di Oxford). Ma vi sono certe situazioni nelle quali le convinzioni intellettuali hanno una importanza relativa, e questa era una. Così qui c'erano due giovanotti che sedevano e si guardavano, o meglio, Mr. ParhamCarter guardava Frank, e Frank non guardava nulla in particolare. - Non hai ancor bevuto il cacao - disse a un tratto il “clergyman”. Frank si volse bruscamente, prese la tazza e ne bevette il contenuto in un sorso. - E una sigaretta? Frank prese una sigaretta e la mise in bocca. - A proposito - disse, togliendosela - quando manderai le tue dame? è meglio al mattino, quando noi siamo fuori. - Sta bene, - Allora mi pare che non ci sia altro. - ... Caro il mio ragazzo - disse Parham-Carter - vorrei che mi dicessi che cos'è tutto quest'affare... perché fai questa vita, ecco. Non vorrei essere indiscreto, ma... Frank ebbe un sorriso improvviso e vivace. - Oh, non v'è nulla da dire. Non è questo il punto. Ho fatto di mia testa, ecco. T'assicuro, non v'è nulla da dire per nessuno. - Ma, la tua famiglia... - Oh, nulla da dire. Non c'è nulla con essa... scusami, debbo proprio andarmene. S'alzò, e parve, mentre s'alzava, che qualcosa scoppiasse nell'aria. - Eppoi, domattina debbo esser presto al lavoro. - Ah!... che cosa hai fatto?!... - Che cosa ho fatto? Cosa vuoi dire? - Quando ti sei alzato... hai detto qualcosa?.. Frank lo guardò perplesso - Non so cosa voglia dire. Mr. Parham-Carter non sapeva neppur lui che cosa volesse dire. Era una sensazione ch'era venuta e svanita in un istante, quando Frank s'era mosso... una sensazione che io suppongo che qualcuno avrebbe chiamato “psichica”, la sensazione di un colpo vibrato per un istante attraverso ogni parte del suo essere e della stanzetta tiepida in cui stava seduto. Guardò l'amico, come abbagliato, per uno o due secondi, ma non avvertì nulla. Quei due occhi neri lo fissavano con un'espressione un tantino canzonatoria... S'alzò anche lui. - Oh, nulla - disse. - Mi pare che mi venga sonno. Porse la mano. - Buona notte. Aspetta, t'accompagno fino al cancello. Frank lo guardò un secondo. - Scusa - disse - immagino che non avrai mai pensato a farti 167/233 cattolico? - Caro ragazzo mio... - No? “All right...” Non disturbarti a venire fino al cancello. - Vengo. Potrebbe essere chiuso. Mr. Parham-Carter rimase a guardare anche quando la figura di Frank ebbe oltrepassato le scure facciate dei negozi e stava svoltando l'angolo di Turner Road, scomparendo poi nell'ombra. Era una notte fredda e piovigginosa, ed egli aveva la testa scoperta. Sentiva le gocciole scendergli dalla fronte, ma non gli pareva che lo bagnassero. Alla sua destra si ergeva il salone parrocchiale, più in là il fianco della gran chiesa. adesso buia e vuota. Egli sentiva le sbarre umide del cancello, che le sue dita stringevano. Non sapeva quello che gli stava succedendo, ma ogni cosa gli sembrava diversa. Cento pensieri gli erano passati per la mente nell'ultima mezz'ora. Aveva pensato che avrebbe dovuto proporre a Guiseley di venire alle canonica e alloggiarvi per un po’ mentre si sarebbero discusse le cose: che avrebbe dovuto, con tatto, offrirgli del denaro, provvederlo di un abito, dargli dei consigli per un'occupazione più adatta che quella nella fabbrica di prosciutto; tutti quei suggerimenti opportuni, filantropici e prudenti che un “clergyman” che avesse avuto veramente buon senso avrebbe fatto. Eppure non solo non lo aveva fatto, ma, pensandoci, gli pareva ovvio ed evidente che forse non avrebbe potuto esser fatto. Guiseley (di Drew) non ne aveva bisogno, era completamente sopra un altro piano... e quale era questo piano? Mr. Parham Carter rimase appoggiato al cancello per cinque buoni minuti, pensando a tutto questo. Ma non giunse a conclusione alcuna. 168/233 Capitolo II Il Rettore di Merefield tornava da una breve visita del suo ministero verso il cadere d'un giorno del principio di novembre. Il suo metodo e i suoi fini erano caratteristici di lui, ed egli apparteneva a quella numerosa classe di persone, che, piene nell'intimo di autentico orgoglio, manifestano una apparenza di estrema e quasi timida umiltà. Quantunque egli neppur si rendesse conto del fatto, le sue visite tendevano ad incoraggiare la gente a rimanere aderenti alla loro posizione nella vita (ciò che, in fondo, è un modo di adempiere ai doveri verso il prossimo), e il suo metodo consisteva nel fare conversazioni generiche sulle cose comuni. In questo modo poteva raccogliere informazioni sulle abitudini e sulle azioni del paziente; trapelava, per esempio, se questi fosse stato o no in chiesa, se fosse o no in lite con qualcuno, e, se sì, chi fosse l'avversario e quale il motivo. Oggi, il Rettore era stato giustamente soddisfatto. Aveva avuto buone scuse per l'assenza di due bambini dalla scuola diurna, e di un ragazzo dalla “schola cantorum”; aveva letto un brano della Scrittura a un vecchio, i cui commenti lo avevano edificato. Non erano cose soprannaturali, certo, ma anche il naturale ha la sua parte nella vita, e, senza dubbio, egli aveva oggi adempiuto a taluni dei doveri per cui occupava la posizione di rettore a Merefield, senza urtare nessuno. Quelle che egli detestava di più al mondo erano i disordini di qualunque genere, le cose precipitate e inattese, ed aveva nel villaggio una forte riputazione di essere un uomo di pace. È difficile parlare di un uomo così coscienzioso, ma alla sua mente un ordine sociale ben mantenuto era forse la cosa più vicina alla costituzione del Regno dei Cieli sulla terra. Che ognuno mantenesse la propria posizione, lui compreso, ed egli non s'attendeva che altri volesse sottrarsi al proprio stato più che egli stesso non desiderasse sottrarsi al suo. Ammetteva, è logico, due divisioni principali, quella della gente di buona nascita e quella no; e la distinzione era netta, come quella dei sessi. Ma v'erano nell'una e nell'altra delle infinite gradazioni, che egli riguardava con lo stesso rispetto delle Gerarchie celesti: le Dominazioni potevano o no essere buone quanto le Potenze, ma erano certamente diverse, per decreto divino. Sarebbe stata perciò una specie di bestemmia umana se egli non si fosse alzato alla presenza di Lord Talgarth, o se un villico non si fosse toccato il cappello davanti a Miss Jenny. Qualcuno direbbe che questo è snobismo, ma non v'è nulla di comune fra le due cose. È soltanto una forma marcata di “torysmo”. Era un piacevole pomeriggio d'autunno, ed egli si tolse il cappello mentre svoltava dietro il cancello del parco, per sentire l'aria fresca, dato che nella passeggiata s'era un po’ accaldato. Si sentiva proprio 169/233 contento di tutto: nella parrocchia non vi erano questioni, egli godeva una salute eccellente, il suo lavoro era appena terminato. In realtà, le visite pastorali non gli andavano a genio. Egli era un timido, ma si era posto delle regole e le osservava, perché soprattutto era un uomo coscienzioso. Era tanto coscienzioso che probabilmente non si rendeva conto che proprio quel lavoro gli dispiacesse. Appunto mentre egli giungeva di fronte al cancello - una grand'opera di ferro con aquile rampanti che s'appoggiava alla casetta gotica del portiere, tutta rivestita d'edera - il valletto uscì correndo e cominciò ad aprirlo dopo aver frettolosamente salutato il Rettore. E il Rettore, voltandosi, vide uno spettacolo che accrebbe la sua compiacenza. Era Jenny che tornava a cavallo con Lord Talgarth, come egli sapeva che doveva fare quel pomeriggio. I due cavalieri componevano una “coppia” bella ed elegante, una specie di “padre e figlia” visti da un artista romantico. La grossa persona di Lord Talgarth stava salda e proporzionata sul cavallo nero, e Jenny appariva deliziosa sulla cavallina bianca, nel suo abito verde scuro. Un servo li seguiva a venti passi di distanza. Alla vista del Rettore Lord Talgarth aprì il volto in una specie di sorriso. Pareva d'umore eccellente. Jenny era un po’ arrossata dall'esercizio, e sorrise a suo padre con una dignità tranquilla e cordiale. - Ho ricondotto la signorina a casa - disse il vecchio... - Già, è una bella giornata, non è vero? Il Rettore li seguì con lo sguardo, soddisfatto in cuor suo. Di solito, Jenny veniva a casa sola col servo che doveva ricondurre la cavallina alla stalla. Era la prima volta, per quel che ricordava, che Lord Talgarth si era preso la pena di accompagnarla lui stesso fin qua. Era una cosa lusinghiera, e che testimoniava a favore del tatto di Jenny, che le relazioni fossero così cordiali. E domani, poi, dovevano pranzare al castello. L'ordine sociale di Merefield non poteva essere più perfetto. Anche Lord Talgarth - così parve al portiere quando dieci minuti più tardi tornò ad aprire il cancello per accogliere il suo signore - era d'un buonumore straordinario (e, bisogna dire, quest'uomo sapeva essere pieno di cordialità, allo stesso modo con cui sapeva andare su tutte le furie: di solito è così nei temperamenti esplosivi). Egli giunse perfino a frenare il cavallo, e ad informarsi della “consorte” con una certa ricchezza di parole; eppure pochi giorni prima le aveva fatto una rampogna violenta, proprio perché essa non era stata pronta abbastanza ad avvertire il marito, che stava zappando i cavoli dietro la casa e non aveva sentito il rumore della cavalcatura, di correre ad aprire il cancello. 170/233 A quanto pare, la “consorte” era anche adesso occupata in casa (in realtà, suo marito con la coda dell'occhio al disopra della spalla di Lord Talgarth ne aveva visto il volto pallido che dava una occhiata e si ritraeva con apprensione dietro le tende di mussolina). - “All right” - brontolò cordialmente Sua Signoria, e procedette oltre. Il portiere scambiò una strizzatina d'occhio col valletto, e rimase a guardare la grossa persona eretta sulla sella, mentre il cavallone nero posava i piedi sul “turf” e guardava la stalla. Era un fatto che Lord Talgarth era contento di sé e del mondo, oggi, perché non fece osservazioni al servo che scivolò e a malapena non perdette l'equilibrio, nel portare il tè nella “readingroom”. - Tienti su! - esclamò il nobiluomo. Il servo fece un sorriso cortese e cauto, al modo di un dipendente, e nel tinello riferì ai compagni l'incidente con gusto caustico. Dopo il tè, Lord Talgarth s'era affondato nella poltrona e pareva che meditasse, come osservò il valletto che era venuto ad attizzare il fuoco. E stava ancora meditando, quantunque vi fosse ora nell'aria l'aromatico profumo del tabacco, quando il suo cameriere personale venne ad avvertirlo che era tempo di vestirsi. Era una stanza ideale per chi volesse meditare in poltrona. V'erano alti scaffali, scrivanie di mogano, ciascuna con la sua lampada elettrica; il tappeto era profondo come un prato d'estate; e nell'ampio camino i ceppi si consumavano in un silenzio quasi deferente. V'era qualunque cosa si potesse desiderare, collocata al posto più opportuno. Pareva che nessun ordine potesse esservi scompigliato, che qualunque desiderio potesse esservi soddisfatto; l'oggettivo mondo fisico vi si raggruppava così obbediente alla volontà dell'uomo che era quasi impossibile immaginare uno stato di cose in cui non fosse così. La grande casa era mirabilmente ordinata: non v'era rumore che non vi dovesse essere: né colpi, né scricchiolii. né ronzii. Tutto si muoveva come una macchina ben lubrificata; il “gong”, suonato nella grande “hall”, dava inviti piuttosto che comandi. Tutto era fatto senza fretta, in modo perfetto e irreprensibile. È sempre più difficile condursi bene sotto l'avversa fortuna per gente come questa, che per quella che vive in case dove alle undici del mattino si sente l'odore della cucina, e dove le porte non chiudono bene, e dove magari la cena deve essere combinata alla peggio. Questo forse aiuta a spiegare come il proprietario avesse ceduto all'estrema violenza del suo temperamento in occasione della rivolta del figlio. Era intollerabile per un uomo che vedeva attorno a sé ogni cosa muoversi come un orologio, essere apertamente disubbidito da quella persona per la quale l'obbedienza avrebbe dovuto essere il primo dovere: trovare disordine e ribellione proprio nella molla dell'orologio. 171/233 Fors'anche, in quella sera, fra il tè e il pranzo, il piccolo progetto che stava maturando nella mente di Lord Talgarth contribuiva a restaurare il suo buon umore. Perché, appena il pensiero venne concepito, apparve chiaro che esso poteva realizzarsi con successo. Egli osservò al suo cameriere in tono cordiale: - Ah! è l'ora, non è vero? - e si alzò dalla poltrona con inconsueta prontezza. Il vecchio tornò a passare una lunga serata nella “reading-room”, da solo. Archie era assente. Dopo aver cenato da solo con tutto il consueto apparato, comandò che il caffè gli fosse portato dove andava lui. Il maggiordomo lo trovò, cinque minuti dopo, inginocchiato dinanzi a un alto cassettone, che provava varie chiavi di un mazzo, e quando il cameriere venne a portargli il “whisky” e a prender la tazza del caffè, lo trovò affondato nella poltrona, con un tavolino carico di carte a destra e uno a sinistra, e con un cassetto sulle ginocchia. - Potete rimettere a posto quelli lì - disse al cameriere, indicando una piccola torre di quattro cassetti sul tappeto. E guardò pensoso il giovanotto mentre prendeva i cassetti. - Non a quel modo, sciocco! Non avete gli occhi?.. quello di cima in cima! Ma lo disse senza asprezza, quasi in contemplazione. E quando, qualche momento dopo, il maggiordomo venne a vedere se tutto fosse in ordine, vide il padrone che ricominciava a leggere le sue carte. - Buona notte - disse Lord Talgarth. - Buona notte, “mylord” - disse il maggiordomo. Si discusse molto, quella sera, nel tinello degli uomini, sul significato di questi fatti, con piena franchezza. Mr. Merton, il maggiordomo, si era ritirato nelle sue stanze, e Mr. Clarkson, il cameriere, era nello spogliatoio del padrone. Così gli uomini parlavano liberamente. Eran tutti d'accordo che vi fossero due spiegazioni soltanto per lo straordinario buon umore: o che Mr. Frank stava per ritornare, o che Lord Talgarth cominciava a cedere. Frank era sempre stato assai popolare tra la servitù, e tutti speravano che la prima spiegazione fosse quella vera. Ma forse bisognava ricorrere a tutt'e due. Anche Mr. Clarkson era grandemente “intrigué” quella sera. Egli dovette sbadigliare attorno allo spogliatoio fino ad un'ora insolitamente tarda. Di solito Lord Talgarth si ritirava a riposare tra le dieci e le dieci e mezzo. Ma stassera si giunse alle dodici meno venti prima che il cameriere balzasse dal sofà al rumore dei passi nel corridoio attiguo. Il vecchio entrò, con un fascio di carte in una mano e una candela nell'altra, e con la stessa scintilla di buon umore negli occhi che aveva avuto tutta la sera. 172/233 - Dammi il cofanetto dei documenti - disse - quello nella cassa di cuoio. - Quando l'ebbe, vi collocò accuratamente le carte. Mr. Clarkson osservò che parevano documenti legali, piegati in lungo, con iscrizioni in grosse lettere. Poi il cofanetto fu chiuso, e posto sopra una scrivania che “mylord” usava talvolta quando era indisposto. - Ricordami domani di chiamare Mr. Morrow - (Mr. Morrov era l'avvocato). Prepararsi per la notte quella sera fu un affare quasi sensazionale, e Mr. Clarkson dovette tendere tutte le sue facoltà per rispondere con sufficiente prontezza alle sortite del padrone. Di solito era una cerimonia molto tetra, con una buona quantità di gemiti e di brontolii. Ma quella sera fu lieta quant'era possibile. I misteri di tutta la cerimonia sono troppo grandi perché io mi possa provare a penetrarli; ma è davvero incredibile quante operazioni siano necessarie prima che un vecchio, un po’ testardo e un po’ invalido, e del tutto egocentrico, possa distendersi a dormire. Occorre preparare e bere pozioni strane, compiere strane manipolazioni, osservare particolari cerimonie, ciascuna al momento opportuno. Quella sera ognuna era accompagnata da qualche commento allegro. L'infuso di senna, che era stata messa nell'acqua calda fino dalle sette pomeridiane, fu bevuto quasi con l'aria di un brindisi. Il massaggio delle anche e dei piedi - inventato da Lord Talgarth in persona - parve quasi la preparazione a una danza. Finalmente il vecchio si alzò, con la persona eretta, in veste da notte imbottita e pigiama, davanti al fuoco, mentre il cameriere gli porgeva le pantofole per il breve viaggio fino alla stanza attigua. - Mi pare di star meglio stassera, Clarkson - disse. - Vostra signoria ha davvero un bell'aspetto - mormorò diplomaticamente Clarkson. - Quanti anni mi date, Clarkson? Clarkson conosceva perfettamente la sua età, ma ritenne meglio far un confuso mormorio complimentoso. - Ah, che diamine,! Non sono gli anni che contano... mi sento giovane abbastanza - osservò Sua Signoria dignitosamente ritta davanti al camino. Poi, si mosse per l'ultima processione; spalancata la doppia porta, accesa la luce elettrica, Lord Talgarth avanzò verso il gran letto a quattro colonne che stava in mezzo alla stanza, e si trovò sotto le coltri, con appena un grugnito, quasi prima che lo svelto Mr. Clarkson potesse trovarsi al suo fianco ad aiutarlo. Era là, col volto roseo che faceva bel contrasto col grigio dei capelli e col bianco del guanciale, mentre Clarkson celebrava le cerimonie finali. Bisognava far scorrere un tavolino fino ad una certa altezza di fianco al letto, 173/233 porre l'interruttore della lampada elettrica a un certo punto, tra il libro e un vassoio sul quale stavano alcuni altri specialissimi beveraggi per il caso che il signore avesse sete. - Chiamatemi un quarto d'ora prima del solito - mormorò la faccia sul guanciale. - Voglio fare una passeggiatina prima di colazione. - Sì, “mylord”. - Che cosa v'ho detto di rammentarmi di fare dopo colazione? - Mandare a cercare Mr. Morrow, “mylord”. - Benissimo. Buona notte, Clarkson. - Buona notte, “mylord”. Dopo la solita occhiata discreta attorno alla stanza per vedere se tutto era in ordine, la porta dello spogliatoio si chiuse impercettibilmente dietro la schiena piegata di Mr. Clarkson. 174/233 Capitolo III L'inverno a Merefield Rectory è delizioso quasi quanto l'estate, sebbene in modo completamente diverso. Il fatto è che nella Rettoria s'è raggiunto il perfetto compromesso inglese. Nell'estate, con le finestre e le porte spalancate, coi rampicanti folti, coi prati attorno alla casa, con l'aria tepida che soffia sui pavimenti lisci e lucidi e solleva le leggere tappezzerie, coll'incessante cinguettio degli uccelli, sembra una casa estiva. E nell'inverno, quando sono distesi i pesanti tappeti, e le tende spesse, i pavimenti lucidi, così freschi nell'estate, sembrano fatti apposta per rifrangere il calore e la luce delle candele e del caminetto, e i libri sembrano offrirsi con tono di protezione, e il basso soffitto di travi sembra proteggere e assicurare la comodità interiore, il centro di gravità è cambiato quasi impercettibilmente. In estate, la Rettoria è un giardino con una casa in mezzo; in inverno, è una casa circondata dalle piante. Lo studio da un lato e la “morning room” dall'altro sono i perni della casa. Lo studio è una stanzetta tappezzata a pianterreno, che guarda l'ultimo dei grandi tassi del prato; la “morning room” è la sola stanza rivestita di legno al primo piano, in facciata. E attorno a queste due stanze le due sezioni della vita domestica si svolgono tranquillamente. In una il Rettore segue gli affari della parrocchia, scrive i suoi sermoni, riceve gli amici maschi (non molti), e legge i suoi libri. Nell'altra, Jenny dirige la vita domestica, discute con la cuoca, e si occupa dei suoi affari. Sono due campi rivali, ma in piena armonia. Negli ultimi tempi (parlo ora del principio di novembre) non v'erano state tra i due campi tante comunicazioni come al solito. Jenny non faceva tanto spesso visita a suo padre dieci minuti dopo colazione, per esempio, o prima del “lunch” - e quand'egli andava da lei, gli pareva di trovarla, in generale con un'aria piuttosto preoccupata, spesso seduta davanti al grande arco del camino, con le mani intrecciate dietro alla testa, a fissare i ceppi accesi. Egli era un buon uomo, come sappiamo, e non se ne preoccupava gran che. Conosceva abbastanza il mondo per comprendere che una ragazza bella come Jenny, che viveva in quei rapporti col castello - e un castello in cui v'erano sempre giovanotti che andavano e venivano, e coi quali essa andava anche fuori a partite di “tennis” e a balli - non può sfuggire del tutto a qualche complicazione. Ma era abbastanza ragionevole per comprendere che un padre non è il confidente migliore, ed aveva una suprema fiducia nel giudizio di Jenny. Io suppongo che egli avesse i suoi sogni. Non sarebbe stato umano che non ne avesse, ed egli era molto umano. L'abbandono di Frank gli aveva portato emozioni confuse, ma egli non era stato consultato 175/233 né al principio né alla fine del fidanzamento, e s'era limitato a prenderne atto. Dell'affare di Dick non sapeva nulla. Questa, dunque, era la situazione quando la bomba esplose. Ed esplose così. Il Rettore stava nel suo studio una mattina - per essere precisi, era il primo sabato di novembre, due giorni dopo gli avvenimenti dell'ultimo capitolo - e si preparava a comporre il sermone per il giorno seguente. La sera prima avevano cenato al castello in piena tranquillità, con Lord Talgarth e con Archie, appena arrivato. Aveva scelto con gran cura il testo del Vangelo del giorno, quando la porta si aprì ad un tratto ed entrò Jenny. Questa era una cosa straordinaria, perché si sapeva che al sabato mattina egli stava preparando il sermone. Ma l'espressione leggermente secca del suo viso venne completamente spazzata via quando contemplò il volto della figlia. Ella era pallidissima - non proprio come se avesse ricevuto un colpo - ma come se si fosse decisa a qualche cosa. Non v'era traccia di tremore in quel volto. Al contrario, ella sembrava assolutamente decisa, ma i suoi occhi cercavano quelli del padre. - Mi spiace moltissimo interromperti, babbo, ma potrei parlarti per qualche minuto? Non attese la risposta, ma venne diritta a sedersi nella poltrona di lui. Egli posò la penna e si voltò alquanto per esserle di fronte. - Ma certo, cara. Cosa c'è? Nulla di brutto? - (S'era accorto che ella aveva un biglietto in mano). - No, nulla di brutto... - Jenny esitava. - Ma è importante. - Ebbene? Ella diede un'occhiata al biglietto. Poi guardò nuovamente il padre. - Babbo, suppongo che tu abbia pensato che un giorno o l'altro avrei potuto sposarmi, nonostante Frank? - Eh? - Cosa diresti se io sposassi un uomo più vecchio di me... parecchio più vecchio, voglio dire? Egli la guardò in silenzio. Due o tre nomi gli passarono per la mente, ma non riusciva ad indovinare. - Babbo, sono nell'incertezza. Proprio così. Non m'aspettavo... La sua voce s'abbassò. Egli vide che la figlia trovava davvero difficoltà a parlare. Una piccola onda di tenerezza gli passò nel cuore. Non era nella natura di lei esser così commossa. S'alzò e le si avvicinò. - Cosa c'è, cara? Dimmelo. Per un istante ella rimase perfettamente immobile. Poi gli porse il biglietto, e al tempo stesso s'alzò, gli passò rapidamente dietro le spalle e uscì dalla stanza. Egli udì il fruscio della veste sulla scala, e poi il chiudersi d'una porta. Ma a malapena vi badò. Stava leggendo il biglietto. Era una breve, correttissima proposta di matrimonio che 176/233 Lord Talgarth faceva alla figlia del pastore. - Babbo, caro, - disse Jenny - vorrei che mi lasciassi parlare senza interrompermi. Il Rettore chinò il capo. Erano seduti, la sera di quello stesso giorno, davanti alle tazze del tè, nello studio. Dal mattino egli non aveva visto un momento la figlia da sola. Ella aveva rifiutato di aprirgli la porta quando era salito dopo aver letto il biglietto; al “lunch” aveva accusato un mal di testa, e non s'era lasciata vedere per tutto il pomeriggio. Poi, all'ora del tè, era discesa, un po’ pallida, ma perfettamente naturale, perfettamente se stessa, ed anche piuttosto di buon umore. Aveva detto di aver fatto portare il tè nello studio perché voleva parlare a lungo. Aveva versato il tè parlando sempre, e rifiutando, pareva, di incontrar lo sguardo del padre. Quand'ebbe finito, gli versò una terza tazza, e poi spinse la propria poltrona tanto indietro che egli non potesse vederle il volto. Allora aveva avuto inizio il colloquio. Dire che il pover'uomo era stato sorpreso sarebbe stato un modo assai misero per descrivere il suo stato. La cosa semplicemente non gli era mai passata per il cervello. Aveva sognato, in momenti di pazzia, Archie; aveva certamente fantasticato Dick; ma Lord Talgarth in persona, gottoso e sessantacinquenne!... Eppure, non era rimasto indignato. L’indignazione non soltanto non andava con Jenny, ma era impossibile. Ad essere del tutto sinceri, il Rettore aveva paura di sua figlia. Sapeva che alla fine ella avrebbe fatto di testa sua, e non come avesse voluto lui. E il suo estremo disagio al pensiero che quel vecchio sposasse sua figlia era in parte contro bilanciato dal pensiero di chi fosse quel vecchio. Infine, occorre ricordare che Jenny era una ragazza di giudizio, e suo padre lo sapeva benissimo. Jenny tornò a distendersi sulla poltrona, e cominciò. - Babbo caro, bisogna che in quest'affare usi tutto il mio giudizio. E per tutto il giorno sono stata proprio goffa e pazza. Non posso proprio capire come mi sia condotta così. Non è il caso di prendersela, se Lord Talgarth è stato tanto gentile da farmi questo onore. Perché è un onore, lo sai, qualunque cose se ne possa pensare, che qualcuno chieda a una donna di diventare sua moglie. Bene, occorre che io dica prima tutto quel che ho da dire, e poi occorre che tu dica esattamente quello che pensi. Io vi ho pensato e ripensato, e così non sarò molto lunga. Il Rettore posò la tazza senza far rumore, come in presenza di un malato. Era ansioso di non perdere né una parola né un'inflessione. - Prima di tutto, vediamo gli argomenti contrari. Egli è un vecchio. Non dobbiamo dimenticarlo nemmeno un minuto. Questo è un 177/233 argomento fortissimo; qualcuno lo direbbe definitivo, ma io credo che sarebbe da sciocchi. Secondo, non m'era passato per il cervello nemmeno per un istante - (Jenny disse questo con piena decisione, quasi con reverenza). - Adesso, si capisce, comprendo che egli vi aveva alluso assai spesso, ma io non l'avevo mai capito. Avevo sempre pensato a lui come a una specie di - ecco - una specie di zio. E questo è un altro forte argomento contrario. Se fosse una cosa buona da farsi, non avrebbe dovuto venire in mente anche a me? Di questo, non sono sicura. Terzo, è sconveniente per parecchie ragioni. Farà parlar la gente. Io sono stata per del tempo fidanzata di Frank, e ho rotto il fidanzamento. Puoi immaginare come questo sarà interpretato, ora? Suppongo che non dovrei curarmi di quel che dirà la gente, ma ho paura di farlo. Poi, io sono la figlia del Rettore... e ho sempre continuato ad andare e venire dal castello... a pranzo con loro, in “téte-à-tète” con lui solo. Non puoi immaginare quel che certa gente - Lady Richard, per esempio - sarà capace di arzigogolarci su... Io sarò un'avventuriera, eccetera eccetera. Questo non è un argomento che valga, ma è un... una considerazione. Bisogna guardar le cose in faccia, e pensare al futuro. Quarto, Lord Talgarth probabilmente non vivrà moltissimo... - (Jenny fece una pausa, e poi, con straordinaria solennità, continuò) - E questo, si capisce, è forse l'argomento più forte di tutti. Se io potessi essergli veramente utile... - Si fermò di nuovo. Il Rettore si distese un po’ sulla sua poltrona. Gli era impossibile nasconder più a lungo a se stesso il fatto che fino ad ora egli si era atteso che Jenny accettasse la proposta. Ma adesso era un po’ perplesso per l'ammirevole schiera di argomenti che ella aveva opposto al matrimonio. Ella aveva appunto espresso le idee sensate di cui egli aveva soltanto un'impressione confusa; aveva analizzato, in ognuna delle sue componenti, quella sensazione generale che lo aveva turbato tutto il giorno: che la cosa era realmente abbominevole. Questa sensazione adesso era dominante. Egli trasse un sospiro. - Bene, mia cara - cominciò, e nella sua voce si sentiva il sollievo. Ma Jenny lo interruppe. - Un momento, babbo, per favore! Per esser giusti verso... verso tutti, io debbo esporre l'altro aspetto. Io suppongo che, in fondo, la questione fondamentale sia questa: Gli voglio bene? tanto abbastanza, voglio dire, da sposarlo... perché, si capisce, bene gli voglio: egli è stato sempre tanto gentile... Io suppongo che questa sia l'unica cosa da considerare. Se gli volessi bene abbastanza, penso che tutti gli argomenti in contrario non conterebbero nulla. Non è così?.. Sì; mi occorre che tu dica quello che pensi. Il Rettore attese. Ancora non aveva potuto intuir nulla dal volto di lei, quantunque una o due volte avesse dato un'occhiata al disopra 178/233 della tazza del tè. - Mia cara, io non so che cosa dire. Io... - Babbo caro, è proprio quello che voglio da te. Pensi che una considerazione qualunque potrebbe essere di ostacolo, se io fossi... non dico neppure un momento di esserlo... ma se fossi... ecco, davvero innamorata di lui? Mi spiace dover parlare così sfacciato, ma non serve nulla esser ambigui. Egli inghiottì una o due volte la saliva. - Se tu fossi davvero innamorata di lui... io penso... io penso che nessuna considerazione del genere di quelle che hai fatto dovrebbe... dovrebbe esserti di ostacolo. - Grazie, babbo - disse Jenny dolcemente. - Quando ci hai pensato? Jenny fece una pausa. - Credo di aver compreso che egli stava per chiedermi due giorni fa... il giorno che ci hai visti a cavallo, ecco. Vi fu un lungo silenzio. Essi avevano già discusso, al tempo del fidanzamento con Frank, tutti i particolari secondari. La sorella del Rettore doveva prendere il posto di Jenny. Ora non v'era da ripensare a queste cose. Ora si trovavano tutti e due di fronte alla cosa essenziale, e tutti e due lo sapevano. La mente del Rettore turbinava come un mulino: un mulino che giri a vuoto. Egli era completamente all'oscuro di quel che intendesse Jenny. Percepiva, come in una serie di incisioni, un certo numero di eventi ipotetici, da un lato e dall'altro, ma essi non conducevano nella sua mente a conclusione alcuna. Egli attendeva soltanto che la volontà di sua figlia si manifestasse. Jenny ruppe il silenzio con una piccola osservazione in un altro tono di voce. - Babbo caro, v'è ancor qualcosa che ti debbo dire. Non avevo visto la necessità di dartene pensiero prima. È questa: Mr. Dick Guiseley mi fece la stessa proposta quando venne qua per la caccia. Ella tacque, ma suo padre non disse nulla. - Io gli dissi che doveva attendere... che io non lo sapevo con certezza, ma che ero quasi sicura. Se avesse insistito per una risposta, avrei detto: No. Ecco, pensavo proprio ieri che non era giusto tenerlo ancora in sospeso. Perché... perché è no, adesso per lo meno. Il Rettore non riusciva ancora a parlare. Era proprio una cosa sconcertante. Ma a quanto pareva, Jenny non aveva bisogno di alcun commento. - Così stando le cose - proseguì ella serenamente, - la mia coscienza è chiara. E non debbo lasciarmi influenzare da quel che possa pensare, che Mr. Dick pensi o dica di me... per lo meno non più che dalle altre considerazioni. Non ti pare? - Jenny, che cosa intendi fare?.. dimmelo! 179/233 - Babbo caro! - rispose ma con tono stupefatto - Io non lo so. Non lo so affatto. Ci debbo pensare. Credi che abbia già deciso? Perché? Come avrei potuto? Naturalmente, se dovessi rispondere adesso, dovrei risponder di no. - Io... - cominciò il Rettore, e si fermò. Comprendeva che la situazione poteva facilmente imbrogliarsi. - Debbo pensarci tranquillamente - proseguì la ragazza. - E debbo scrivere un biglietto per dirgli così... Babbo... Egli la guardò. - Babbo, quanto al voler bene a un uomo... dovrebbe essere, ecco, come volevo bene a Frank? Non credo che Lord Talgarth possa aspettarselo, non ti pare? Ma se... ecco, ci si sente perfettamente a proprio agio con un uomo, se si comprende, se si può stare al suo fianco senza dargli fastidio... e... prendersi cura di lui, davvero, io intendo, in modo tale da esser contentissima di star con lui e di curarlo in tutti i modi (mi spiace proprio di dover parlare così, ma con chi potrei parlare, babbo caro?). Bene, se io trovo che mi posso curare di Lord Talgarth in questo modo - come una specie di figlia, o di nipote, o più ancora - questo sarebbe... - Io non so - interruppe il Rettore, alzandosi a un tratto - io non so. Tu non devi chiedere a me. Devi decidere da sola. Ella lo guardò, stupita, a quanto pareva, dal suo cambiamento. - Babbo, caro... - cominciò, proprio con la sfumatura più tenue di patetico rimprovero nella voce. Ma egli non ne parve commosso. - Devi decidere tu. Tu hai tutti gli elementi. Io non li ho. Io... Si mosse verso la porta - Quando avrai deciso, dimmelo - concluse, e uscì. Lama, il cagnolino bruno che in un precedente capitolo aveva attraversato il prato, e che da poco era stato ammesso all'onore di dormire sul letto di Jenny, si svegliò a un tratto quella notte e brontolò una sommessa protesta. Aveva ricevuto un calcio inatteso di sotto le coperte. - Va via, bestiaccia - disse una voce al buio. Lama si riaggiustò con un brontolio, mezzo di conforto e mezzo di lamento. - Va via! - ripeté la voce, e di nuovo sentì un calcio nelle costole. Il cane pensò un istante. poi scivolò vicino alla parete, ancor cieco di sonno; ma il piede lo seguì ed egli si svegliò infine con la convinzione che vicino al fuoco sarebbe stato più comodo. Là - rifletteva - v'era una pelliccia di capra bianca. Quando finalmente raggiunse il pavimento, sentì nell'angolo un fruscio, e, subito attento, ficcò il naso, come un turacciolo di gomma, nel piccolo buco che un topo aveva fatto nell'assito, e cominciò a soffiare lunghi respiri rumorosi nel buio delizioso e profumato. - Oh, sta fermo! - venne una voce dal letto. Lama continuò senza turbarsi la sua investigazione, e quando, dopo 180/233 un lungo soffio finale, si persuase che non avrebbe trovato là alcun divertimento, tornò alla pelle di capra con quell'aria di brusca indipendenza che gli era caratteristica. Adesso era completamente desto, e stava a guardare il letto, considerando la possibilità che la sua padrona si fosse riaddormentata, e che con un salto leggero e garbato... Ma a un tratto un fiammifero si accese, ed egli si distese a guardare con quel lampo così vivo negli occhi che gli animali hanno sempre di notte, la sua padrona inquieta. Egli non riusciva a comprendere che cosa accadesse. Prima ella accese una candela, prese un libro dal tavolino da notte, e cominciò a leggere risolutamente. Questo continuò finché gli occhi di Lama cominciarono a socchiudersi alla fiamma della candela, ed allora egli si accorse d'un tratto che la candela era stata spenta e il libro chiuso, e che tutto era ricaduto nei chiari toni grigi che gli uomini chiamano buio. Posò la testa sulle zampe, ma di tanto in tanto alzava le ciglia guardando il letto. Poi, dopo un certo tempo, la candela venne riaccesa, ma questa volta il libro non venne toccato. Invece, la padrona trasse le braccia dalle coperte e le intrecciò dietro la nuca, fissando il soffitto. Era una cosa seccante, perché la luce gli dava negli occhi, e perché il corpo era tanto intorpidito dal sonno da rifiutarsi a qualunque sforzo. Tuttavia a poco a poco le palpebre caddero, e rimasero giù, e gli occhi si chiusero. Si destò a un nuovo rumore. La candela ardeva ancora, ma la padrona s'era voltata sul fianco, e pareva che parlasse sottovoce con se stessa. Poi si voltò nuovamente dalla sua parte, e un istante dopo camminava silenziosaménte avanti e indietro sul tappeto. La guardava con interesse, e i suoi occhi seguivano soltanto lei. Non era ancora riuscito a comprender bene questo misterioso cambiamento che avveniva tutte le notti - il leggero abito bianco, la testa trasformata, e, più misteriose di tutto, le due cose bianche che dovevano essere piedi, ma che non erano più nere e dure. Una volta s'era provato a leccarne uno, e l'aveva sentito raggrinzirsi a un tratto; in alto v'era stato un suono come di dolore, e su di lui era sceso un rapido schiaffo. Egli stava osservando queste cose, - qua e là, qua e là - e i suoi occhi si muovevano con esse. Dopo un certo tempo il movimento si arrestò. Ella si fermò davanti a uno scaffale scolpito una volta vi aveva scoperto un topo - e vi rimase così a lungo che gli occhi del cane ricominciavano a chiudersi. Poi vi fu un rumore di carta lacerata che ridestò la sua attenzione. Forse, fra un pochino, una pallottola di carta sarebbe stata gettata per terra, e lui... Ella s'avvicinò camminando sul tappeto, ed egli si alzò, guardandole 181/233 le mani, e agitando tre o quattro volte il mozzicone di coda, come a invito. Ma fu inutile. La palla fu gettata tra i ceppi ardenti. Fece un “womp” nel fuoco e s'alzò la fiamma. Il cane la guardò con la testa piegata, e tornò ad accovacciarsi. La padrona era nuovamente immobile, e lo guardava anch'essa. Poi, quando la fiamma s'abbassò, si volse di scatto, andò diritta al letto, vi salì, si tirò addosso le coperte, e spense la candela. Dopo esser rimasto per qualche momento a fissare il fuoco, il cane s'accorse che una parte della palla era rotolata fuori senz'essersi bruciata, fin sulla lastra di pietra. La guardò per un tratto, chiedendosi se valesse la pena di alzarsi, perché il tepore era delizioso e la pelle di capra squisitamente morbida. Dal letto non veniva alcun rumore: un silenzio completo era succeduto a tanta inquietudine. Finalmente, egli concluse che era impossibile rimanere più a lungo disteso a guardare una simile pallottola di carta senza lacerarla coi denti. S'alzò, s'avvicinò al fuoco, trasse a sé la pallottola con un fruscio leggero. Udì un sospiro dal letto e si fermò. Poi prese la palla, tornò alla cuccia tepida, si sdraiò tenendo la palla ben ferma con la zampa, e cominciò a lacerarne dei frammenti coi denti bianchi. - Oh, sta un po’ fermo! - sentì una voce stanca dal letto. Si fermò, pensando: poi lacerò altri due pezzetti, ma senza trovarvi il gusto che avrebbe voluto. Era dura e troppo secca. S'alzò, fece quattro giri, e tornò a sdraiarsi con un mugolio soffocato. Al mattino dopo la servetta scopando le ceneri scopò anche quei pezzetti di carta. C'era un frammento d'una cartolina illustrata, con la parola “Selby” stampata nell'angolo. Ella la gettò, con le ceneri, nella pattumiera. 182/233 Capitolo IV Mrs. Partington e Gertie facevano molte di quelle conversazioni misteriose, comuni alle donne del loro genere, piene di “lui” e di, “lei”, di cenni del capo, di allusioni, di frasi interrotte, che sono pienamente incomprensibili per gli estranei, ma colme di interesse per chi le fa. Il Maggiore, Mr. Partington (il quale era sempre assente), e Frank formavano l'argomento di discussioni continue ed esaurienti, che non trascuravano il particolare più insignificante. Naturalmente Gertie passava sempre, ufficialmente, come la signora Trustcott. Ma due giorni dopo che Frank aveva cominciato il suo lavoro alla fabbrica di prosciutti, Mrs. Partington, la quale s'era trattenuta per un'oretta all'angolo a chiacchierare con un'amica, trovò Gertie furibonda. Era adirata a modo suo: bianca come un lenzuolo, mormorava frasi ironiche e incomprensibili nelle quali era ripetuto il nome di Frank, e dopo un po’ si comprese che una delle dame della Missione era stata ad impicciarsi degli affari della gente, e che Gertie aveva ringraziato quella signora pregandola di tener per sé le sue arie e i suoi consigli. Ora Mrs. Partington sapeva che Gertie non era la moglie del Maggiore, e Gertie sapeva che ella lo sapeva, e Mrs. Partington sapeva che Gertie sapeva che ella lo sapeva. Pure, ufficialmente, tutto era correttissimo. Gertie portava la fede nuziale e non era stata fatta allusione che non avesse il diritto di portarla. Perciò Mrs. Partington non poteva osservare ad alta voce che comprendeva perfettamente di che cosa avesse parlato la dama della Missione. Non disse nulla, strinse le labbra, e lasciò Gertie sola. Quella mattina la conversazione consistette in lunghi monologhi di Gertie intramezzati da lunghi silenzi. Fu un pomeriggio di burrascoso silenzio. Il Maggiore era nel West End per qualche affare misterioso; i bambini erano a scuola, e ciascuna delle due donne si muoveva, sapendo che cosa c'era nella mente dell'altra, eppur risoluta a conservar le apparenze. Alle cinque e mezzo entrò inatteso Frank, che chiese una tazza di tè, e fu Mrs. Partington a dargliela, senza dir parola. (Gertie era di sopra, e la si sentiva muoversi in silenzio). Mrs. Partington fece due o tre osservazioni banali, osservando Frank quando egli non la guardava. Ma Frank parlò assai poco. Sedette sulla tavola, bevette due tazze di tè versandosele dal bricco smaltato e scheggiato, poi tornò a lavorare alla sua aringa. A questo punto Mrs. Partington lasciò la stanza, come per caso, e dopo un minuto Gertie discese. Ella entrò con un'aria indescrivibile di dignità, piuttosto bianca in viso, col piccolo mento in fuori e con le palpebre abbassate. Era una posa che di solito ammirava nelle cameriere dei caffè, aristocratiche 183/233 e intellettuali. Frank la salutò con un cenno e con due o tre parole. Ella non disse nulla: andò alla finestra, portando una camicetta bianca che aveva appena lavata, e l'appese alla fune. Poi, fingendo sempre d'essere occupata, lanciò la sua prima frecciata, voltandogli le spalle. - Vi sarò grata se non v'impiccerete dei miei affari... (Frank si mise in bocca un altro pezzo di aringa). - ... e se non mi manderete più attorno di quelle vostre gatte rognose - aggiunse Gertie dopo una pausa. Silenzio da parte di Frank. - Ebbene? - sbottò Gertie. - Come osate parlare a quel modo? - disse Frank, tranquillissimo. Aveva parlato a voce tanto bassa, che Gertie comprese male il sua atteggiamento, e, appoggiando le mani sulla tavola, lasciò straripare il torrente che s'era accumulato, in lei, fin da quando la dama della Missione se n'era andata alle undici di quella mattina. La dama non aveva avuto tatto. Uscita da poco da un collegio, era quasi novizia a quel lavoro, ed aveva detto molto di più di quel che avrebbe dovuto, con un sorriso serio sul volto che credeva fosse conciliante e persuasivo. Gertie ora era leale verso di lei; la dipingeva come credeva che fosse: tracciava i suoi motivi e il suo atteggiamento di fronte alla vita con una straordinaria ricchezza di particolari; indugiava a descrivere la sua persona, e dichiarava con estrema franchezza la propria opinione su persone che aveva pensato fossero amiche, e che scopriva ora essere solo ipocrite maschere dei preti. Sfortunatamente io non ho l'abilità di trascrivere in pieno il suo discorso, e poi vi sono altre ragioni per cui è meglio che non riporti le sue esatte parole: esse erano troppo pittoresche. Frank continuò tranquillo a mangiare finché non ebbe terminato l'aringa, poi bevve un'ultima tazza di tè, e volse un poco la seggiola verso il fuoco. Diede un'occhiata all'orologio, osservando che aveva ancora dieci minuti, proprio quando Gertie tacque e si rizzò, pallida e fremente. - Avete detto tutto? Parve di no, perché Gertie riprese, questa volta su una nota leggermente più alta, e con un po’ di colore in volto. Frank attese, semplicemente e senza ostentazione. Ella terminò. Dopo un istante di pausa, Frank rispose: - Io non so che cosa vogliate. Vi ho parlato io stesso, e non m'avete ascoltato. Così ho pensato che forse una donna avrebbe potuto far meglio. - Io sono stata a sentire... - Scusate - interruppe Frank - ho detto male. Voi avete ascoltato, e con molta pazienza. Volevo dire che non avete voluto fare quel ch'io vi dicevo. E così ho pensato... 184/233 Gertie scoppiò un'altra volta contro le gatte ipocrite striscianti, ma nei suoi modi non v'era più lo stesso veleno. - Benissimo - disse Frank - allora tornerò a commettere lo stesso errore. Mi spiace molto, non d'essermi immischiato nelle cose vostre, intendiamoci, ma di non aver tentato di nuovo io stesso (prese il berretto) -. Cederete presto, Gertie, lo sapete. Non lo credete anche voi? Gertie lo guardò in silenzio. - Voi comprendete, naturalmente, che io non posso parlare a voi quando il Maggiore è qua. Ma la prossima volta che mi capiterà l'occasione... La porta, non chiusa, fu spalancata di colpo, e il Maggiore entrò. Vi fu per un momento una pausa penosa. È assai dubbio, anche ora, quanto il Maggiore abbia esattamente udito: ma egli deve aver udito qualche cosa, e, data la sua mentalità, la situazione in cui era venuto a trovarsi dev'essergli apparsa estremamente sospetta. Gertie, che ora era arrossita, con l'emozione palese negli occhi accesi, era in piedi, e guardava Frank il quale pareva un po’ sconcertato. Sarebbe stato quasi un miracolo che il Maggiore non avesse avuto la convinzione di avere interrotto un piccolo colloquio d'amore. È piuttosto difficile analizzare l'atteggiamento del Maggiore verso Gertie; ma certo è che l'idea che un'altra persona qualunque le facesse la corte gli era intollerabile. Egli non la trattava con troppa cavalleria, davvero; la faceva sfacchinare coi fardelli più pesanti, non aveva di lei eccessivo rispetto, ne parlava liberamente con gli amici tra un bicchiere e l'altro. Ma la considerava proprietà sua - sua e di nessun altro. - Già prima aveva avuto dei sospetti; poi era stato intenzionalmente in silenzio, e s'era proprio trovato dinanzi quella scenetta. Li guardò entrambi senza dir parola. Poi piegò le labbra ad un ghigno come quelle d'un cane. - Vogliate scusarmi - disse con estrema cortesia - a quanto pare, interrompo una conversazione privata. Nessuno disse nulla. Frank appoggiò il gomito all'attaccapanni. - Era privata, allora? - proseguì il Maggiore con tutta la velenosa cortesia di cui poteva disporre. - Sì, era privata - rispose secco Frank. Il Maggiore volle posare sulla tavola il suo cappello. - Gertie, cara - disse - vorresti, per cortesia, lasciarci soli per un momento? Non vorrei darti fastidi. Per uno o due minuti, Gertie accelerò il respiro. L'accaduto non le dispiaceva del tutto. Capiva perfettamente la situazione, e si sentiva alquanto lusingata che due uomini vi si trovassero a motivo di lei. Capiva che più tardi l'avrebbe dovuta pagare, ma per un particolare 185/233 genere di temperamento femminile com'era il suo, anche i probabili maltrattamenti non sarebbero stati del tutto penosi, e il dramma volgare in cui si trovava coinvolta le pareva attraente. Dopo un momento di pausa, gettò a Frank un'occhiata che avrebbe voluto essere “orgogliosa”, ed uscì. - Se avete molte cose da dire - disse Frank mentre la porta si chiudeva - fareste meglio a rimandarle a stasera. Io debbo essere via tra... tra due minuti. - Due minuti basteranno - sussurrò il Maggiore. Frank attese. - Quando io trovo un amico - proseguì l'altro - impegnato in una conversazione che pare eccitante, e che egli mi dichiara privata, con una persona che si trova nella posizione di mia moglie; e specialmente poi quando afferro una o due frasi che senza dubbio non sono destinate alle mie orecchie, io non chiedo quale fosse l'argomento della conversazione, ma... - Mio caro -,... interruppe Frank - spiegatevi più semplicemente. Il Maggiore fu, per così dire, colpito nel viso. Il suo volto si contrasse dall'ira. Lanciò un'imprecazione. - Se vi ci prendo un'altra volta, avrete da pentirvene! Andate al diavolo! - Può darsi. - rispose Frank. Il Maggiore aveva appunto bevuto un bicchierino più del necessario, e si trovava in quel tono espansivo d'umore che cambia con grande rapidità. - Potete dirmi che non stavate cercando di allontanarla da me? gridò con voce quasi commossa. Questo era appunto quel che Frank stava cercando di fare. - Non potete negarlo!.. Allora vi dirò questo, caro signor Frankie - (il Maggiore si rizzò) - che se le dite ancora una parola su questo argomento... ebbene... vedrete! Mi capite. - Protese il volto, fin quasi a sfiorare quello di Frank. Quel volto spesso era spiacevole, ma adesso era orribile addirittura. Le labbra arrovesciate, soffiava la puzza calda dell'alcool nelle narici di Frank, il quale si voltò e lo guardò negli occhi - Vi capisco perfettamente. Non occorre che aggiungiate altro. Ed ora, scusatemi, ma debbo andare al lavoro. Prese il berretto, e uscì. Il Maggiore, come è già stato detto, aveva bevuto un bicchierino di più del necessario, e per conseguenza aveva messo in parole anche quello che nei momenti più sospettosi intendeva tenere per sé. Si deve dire, inoltre, che aveva messo in parole quello che in realtà non pensava. Ma, come tanti altri, per il bene e per il male egli era un caratteraccio, e gli capitava benissimo di credere e non credere al tempo stesso una stessa idea. Dipendeva dallo stato in cui si trovava 186/233 al momento il suo centro di gravità. Una gran parte del Maggiore sapeva benissimo che ogni gelosia verso Frank era semplicemente ridicola - la cosa era assurda; e un'altra parte, non così grande, ma dieci volte più intensa, giudicava Frank dal livello in cui si svolgeva la propria vita. Per la gente che vive a quel livello, far l'amore con Gertie, in quelle circostanze, sarebbe stata una cosa normalissima, e proprio allora il Maggiore optò per classificare Frank fra i suoi pari. Il Maggiore stesso non si rendeva conto di queste distinzioni psicologiche, e mentre stava sprofondato nella poltrona, ruminando, si convinse che i suoi sospetti erano giustificati. Gli pareva ora che innumerevoli particolari del passato si adattassero, con l'esattezza di un gioco di pazienza, nella cornice di questo pensiero. V'era, prima di tutto, il fatto che Frank era rimasto in loro compagnia, a dispetto delle occasioni che aveva avute di migliorare la propria posizione. A Barham, dal dottor Whitty, al Monastero, le occasioni gli si erano offerte ed egli non le aveva afferrate. Poi v'erano piccoli atti di cortesia, come quelle due o tre volte che aveva portato il fardello di Gertie. Infine, v'era un certo cambiamento nei modi di Gertie stessa, una certa stizza silenziosa verso di lui, un'aria curiosa che di tanto in tanto la prendeva quando parlava di Frank o lo guardava. E così via. Era un processo straordinariamente convincente, concluso ora dalla scenetta che egli aveva interrotto. E proprio l'irregolarità dei suoi legami con Gertie contribuiva ad avvelenare la situazione. V'erano, beninteso, altre considerazioni, o piuttosto, ve n'era una: che Frank, era chiaro, non era del genere di quegli uomini che sono attratti da donne del genere di Gertie. Ma era una considerazione composta di indicazioni infinitamente più tenui, e non aveva consistenza. Era un'ombra. Da un lato v'erano argomenti solidi e precisi; dall'altro una vaga impressione... Così il Maggiore sedeva fissando il fuoco, con la luce della candela che cadeva sulle sue guance incavate e sulle setole del mento, povera personalità decaduta e che purtuttavia conservava l'ombra di un'ombra, di un ideale, che poteva ancora renderlo pericoloso. Dopo un pochino egli s'alzò con un movimento rapido e andò in cerca di Gertie. Non vi sono librerie pubbliche ad Hackney Wick; la munificenza di Carnegie non è ancora penetrata fino a quel distretto, e, a dire il vero, l'idea d'una libreria di qualunque genere ad Hackney Wick sembra un po’ fuor di luogo. Ma ve n'è una a Homerton, e durante l'ora del pasto, il giorno seguente, Frank ne salì i gradini, ne aprì la porta a vetri, e dopo essersi fatto dare un foglio, una busta e un francobollo da un “penny”, entrò in una specie di sala di scrittura 187/233 ove si mise a scrivere una lettera. L'immagine che mi sono dipinto in mente di Frank in questo periodo di tempo può essere forse inesatta in qualche particolare, ma non ho dubbio che sia vera nelle sue linee generali e nel complesso sia assolutamente viva. Io lo vedo entrare, tranquillo e senza ostentazione, in pieno suo agio, eppure inconsueto in quell'ambiente. Sento un vecchio signore che soffia e sposta un po’ la seggiola quando questo individuo, vestito d'un abito turchino ultralogoro, col bavero rialzato, con una sciarpa al collo e delle scarpacce ai piedi, gli si siede accanto. Vedo una signorina seria, probabilmente una dattilografa che vuol migliorare la sua cultura, che lo guarda a lungo di sopra al margine d'un volume di Emerson e fa le sue osservazioni sul nuovo venuto. Anche il commesso lo guarda attento e sospettoso, mentre gli vien chiesto il foglio di carta, e prima di dargli il francobollo attende che i tre “pence” siano effettivamente posati sul banco. Queste circostanze possono essere inesatte. ma io non ho dubbi sulla “forma mentis” di Frank. Egli non si preoccupa più del come la gente lo tratta. Ha superato queste cose da un pezzo. Non deve affatto essere commiserato. L'unica cosa che gli importi è di avere la carta e il francobollo, e di poter scrivere e impostare la lettera. perché Frank è giunto a questo piano - non so quale altra parola usare, quantunque questa mi dispiaccia - in cui le cose esterne non contano più. Tutti qualche volta giungiamo a questo piano, di solito in circostanze di forte eccitazione mentale, di piacere o di dolore che sia, o magari di noia. Chi ha un violento mal di denti, o chi si è appena fidanzato, non si preoccupa davvero di quel che la gente pensi di lui. Frank, per quanto per ragioni del tutto diverse, vi è giunto completamente. Ho la lettera che scrisse allora. Eccola: è brevissima, in tono d'affari “Caro Jack, debbo dirti dove sono, o meglio, dove posso essere trovato in caso di necessità. Sono in East London, per ora, ed uno dei curati di qui sa dove abito (egli era ad Eton con me). Ecco l'indirizzo: Rev. E. Parham-Carter, Eton Mission, Hackney Wick, London N.E. La ragione per cui ti scrivo è questa; ricordi il Maggiore Trustcott e Gertie? Finora non m'è riuscito di far tornare Gertie dai suoi, e il peggio è che il Maggiore sa che c'è qualche cosa in aria e ci arzigogola tutte le peggiori costruzioni possibili. Parham-Carter sa tutto anche lui - gli ho appunto lasciato un biglietto con tutte le istruzioni. - Ora io non so affatto quel che succederà, ma in caso che accada qualcosa che mi impedisca di portare a buon fine l'affare di Gertie, voglio che venga tu e faccia quello che puoi. Parham-Carter ti scriverà se sarà necessario. “Questa è una cosa. Ed ecco l'altra. Mi piacerebbe aver qualche 188/233 notizia dei miei, e far loro sapere (se interessa loro saperlo - vedi tu) che io sto benissimo. Non ho saputo più nulla di loro dall'agosto scorso. So che non può essere avvenuto nulla di particolare, perché guardo sempre i giornali - ma mi piacerebbe saper quel che succede in genere. “Mi pare che non ci sia altro. Quanto a me, sto benissimo, e così spero di te. Temo che non mi sarà possibile venire costì a Natale. Immagino che ora sarai già tornato a casa. Sempre tuo F. G. P.S. Naturalmente, non dire nulla di quello che t'ho scritto, né dove mi trovo adesso”. Ora, questa lettera mi sembra, dal lato psicologico, piuttosto interessante. Ha la forma strettamente d'affari, ma è del tutto impratica. Frank espone quel che vuole, ma quel che vuole è impossibile e assurdo. Io voglio molto bene a Jack Kirkby, ma non posso immaginarmelo a ricondurre alla famiglia una ragazza sviata. Secondo me, l'unica scusa per Frank è che egli non sapeva a quale altra persona scrivere. È anche interessante notare il suo desiderio di saper qualche cosa di quel che avveniva a casa sua; si direbbe che abbia avuto qualche vaga intuizione che qualche cosa di importante stava per accadere, e val la pena di osservarlo in vista di quel che si verificò subito dopo. Frank fece l'indirizzo alla lettera, vi applicò il francobollo, e la imbucò nella cassetta che si trovava nel vestibolo della libreria. Poi uscì e s'avviò diritto da Mr. Parham-Carter. - “Hullò!” - disse il “clergyman”, impallidendo alquanto. - “Hullò!” - fece Frank; e poi: - Che cosa c'è? - Dove vai? - Torno alla fabbrica. - Posso accompagnarti? - Certo, se non ti spiace che mangi camminando. Il “clergyman” si mise al suo fianco, mentre Frank trasse di tasca una grossa fetta di pane e formaggio, avvolta nel foglio degli annunci del “Daily Mail”, e cominciò a sbocconcellarla. - Hai mica avuto notizie da casa? Frank si voltò leggermente verso il compagno. - No - rispose (brusco), dopo una pausa. Mr. Parham-Carter si leccò il labbro. - Bene... no, non sono cattive notizie. Ma io mi domandavo se... - Che cosa c'è? - Il tuo genitore s'è sposato un'altra volta. Ieri. Ho pensato che forse non lo sapevi. Vi fu un istante di silenzio di tomba. - No, non lo sapevo - disse Frank. - Chi ha sposato? 189/233 - Una che non ho mai sentito nominare. Mi domando se tu la possa conoscere. - Come si chiama? - Aspetta un momento - disse l'altro, frugando sotto il soprabito per giungere alla tasca del panciotto. - Ecco la partecipazione. L'ho ritagliata dalla “Morning Post”. L'ho vista soltanto mezz'ora fa. Volevo venir da te questa sera. Gli porse una striscia di carta stampata. Frank rimase per un momento immobile, appoggiandosi contro un'inferriata, (si trovavano ora nel distretto di Victoria Park Road) e lesse il trafiletto. Il “clergyman” lo guardava con curiosità. Gli pareva una situazione notevole l'esser a Victoria Park Road, a dare a un figlio la notizia del matrimonio del padre; e si domandava, ma solo in seconda linea, quale effetto gli avrebbe fatto la notizia. Frank gli restituì il foglietto senza tremare. - Grazie. No, non lo sapevo. Poi ripresero a camminare. - E lei, la conoscevi? - Sì, la conosco. È la figlia del Rettore. - Cosa? di Merefield? allora dovevi conoscerla benissimo. - Oh, sì. La conosco benissimo. Di nuovo si fece silenzio. Poi Parham-Carter proruppe: - Senti, vorrei che mi lasciassi fare qualcosa. Mi pare orribile... - Mio caro - interruppe Frank, - non puoi fare assolutamente nulla... Hai visto il mio biglietto? Il “clergyman” fece cenno di sì. - È per il caso che mi ammali, o per qualcosa del genere, ecco. Jack è un mio ottimo amico. Ed è bene che qualcuno dei miei amici possa trovarmi dove sono. Ho scritto anche a lui poco fa, come dicevo nel biglietto. Ma tu non devi dare il mio indirizzo se non in caso di vera necessità. - Sta bene. Ma sei sicuro... - Sicurissimo... Oh, a proposito: quella dama che hai mandato non ha combinato nulla di bene. Immagino che te l'avrà detto. - Sì, m'ha detto che non ha mai trovato un caso tanto difficile. - Bene, dovrò provare ancora io stesso... Debbo voltar di qua. Addio! 190/233 Gertie, quella sera, verso le nove, era sola nella cucina, sola, perché non si può considerare un testimonio il piccolo Erb, che dormiva in una branda ai piedi del letto di sua madre, quasi nascosto da una pila di vestiti. Mrs. Partington con gli altri due figli era andata a fare una lunga visita a Mortimer Road, e il Maggiore, per conto suo, stava sproloquiando nel bar della “Queer's Arm” di fronte alla Eton Mission. Gertie, in complesso, era soddisfatta di sé. È vero che la sera prima il Maggiore le aveva fatto sentir la mano pesante, ma ella aveva una natura tale da farle preferire una sensazione qualsiasi a nessuna sensazione. In realtà, la situazione era piena di emozione. La lusingava assai occupare una posizione simile tra due uomini, e sopra tutto, tra due “gentleman”. I suoi sentimenti verso il Maggiore erano del genere più semplice e primitivo: egli era il suo uomo, che la batteva, la disprezzava e la trascinava per il mondo; ed ella non poteva dimenticare che era stato ufficiale dell'esercito. Anche i suoi schiaffi (che, a dire il vero, non erano molto frequenti, e che comunque erano amministrati quasi a ragion veduta), portavano in sé un certo marchio di solennità. Frank, d'altra parte, non era meno eccitante. Gertie lo considerava un buon giovanotto, quasi romantico, anzi, nella sua bontà, come una specie di Sir Galahad. E, da qualunque motivo fosse mosso (Gertie era assai perplessa quando ci pensava), si trovava in una specie di rivalità di fronte al Maggiore; e la causa della contesa era lei. Le piaceva sentirsi palleggiata da due simili personalità, essere oggetto di contrasto tra due tipi così forti e opposti. Era per lei una sensazione vaga; ma assai viva e attraente; e quantunque proprio ora ella si stimasse assai miserabile, san persuaso che godesse immensamente di tutto. Era assai donna, e la scenetta della sera prima aveva portato la situazione ad un punto estremo. Ora ella stava piangendo un pochino, timidamente, tra sé. La porta si aprì, Frank entrò, posò il berretto e sedette al suo posto sulla panca accanto al fuoco. - Sono usciti tutti? - chiese. Gertie fece un segno affermativo. - Benissimo. Allora posso parlarvi. Gertie s'asciugò una lacrimuzza, e si preparò ad ascoltare con un piccolo piacere morboso. Le pareva bello farsi trovare a piangere sul fuoco. Frank, almeno, avrebbe saputo apprezzarlo. -- Ora - disse Frank - avete un'altra volta la possibilità di scegliere, ed io ve lo dimostro in due parole. Se non fate quello che voglio questa volta, dovrò vedere se qualcun altro vi saprà persuadere. Ella lo guardò, un po' sorpresa. - Ecco, riprese Frank. Io non intendo darmi pensiero di quest'affare. 191/233 Voi rimaneste parecchio sconvolta ieri, quando venne quella signora, e lo sarete ancora di più prima che la faccenda sia terminata. Per parte mia, non vi parlerò più. Pare che non v'importi affatto di quel che vi dico. Anzi, io penso di levarmi di qua dopo Natale. Così ora potrete scegliere. Fece una pausa. -- Da una parte avete il Maggiore. Lo conoscete. Conoscete il modo con cui vi tratta. Ma non è questa la ragione per cui voglio che lo lasciate. Voglio che lo lasciate perché penso che in fondo abbiate quanto occorre per essere una donna onesta... - Non ce l'ho, io... - piagnucolò Gertie appassionata. - Io credo invece di sì. Voi siete molto paziente, siete industriosa, e, dato che vi prendete cura di quest'uomo, per lui fareste, semplicemente, qualunque cosa. Ecco, questo è una cosa bellissima. Questo mostra che avete una base. Ma non avete mai pensato a quel che sarà di qui a cinque anni? -- Sarò morta - piagnucolò ancora Gertie. - Vorrei esser morta fin d'ora. - E quando foste morta? Vi fu un istante di silenzio. Poi Frank riprese il discorso. (Finora egli aveva fatto esattamente quanto s'era proposto: aveva lasciato cadere nel cuore di lei due piccole idee: speranza e timore). - Ora ho qualcosa da dirvi. Ricordate l'ultima volta che vi parlai? Bene, ho pensato quale fosse la cosa migliore da farsi, e pochi giorni dopo ho trovato l'occasione e l'ho afferrata. In fondo alla vostra borsa avete un libretto di preghiere, non è vero? Bene, io l'ho visto (voi non lasciate che lo veda nessuno...) e l'ho sfogliato. Sapete che c'è scritto il vostro indirizzo? Non ero sicuro che lo fosse, debbo dirvi, finché... . Gertie s'alzò, pallida di rabbia. - Avete rovistato nelle mie cose? Frank la fissò in volto. - Non mi parlate così. Aspettate che abbia finito. Bene, ho scritto all'indirizzo, e ne ho avuto risposta. Poi scrissi nuovamente, e ne ebbi un'altra risposta e una lettera per voi. L'ho ritirata stamattina all'ufficio postale. Gertie lo guardò, ancora pallida, con le labbra semiaperte. - Datemi la lettera - mormorò. - Appena avrò finito di parlare. Prima dovete ascoltarmi. Io sapevo quel che avreste detto: avreste detto che i vostri non vi avrebbero voluto più. E sapevo perfettamente, dalle piccole cose che avevate detto di loro, che essi vi avrebbero invece accolta. Ma scrissi per accertarmene... Gertie, sapete che stanno penando per voi?.. che non desiderano altro al mondo se non il vostro ritorno?... - Datemi la lettera! 192/233 - Anche voi avete un buon cuore, Gertie: lo so benissimo. Pensateci bene prima che vi dia la lettera. Che cosa è meglio: il Maggiore, e una vita come questa, e... e...; bene, voi sapete che cos'è l'anima, e Dio, non è vero?... Oppure, tornare a casa, e... La faccia di lei per un momento fu tutta stravolta. - Datemi la lettera - piagnucolò a un tratto. Allora Frank glie la diede. - Ma io non posso tornare a casa così... - sussurrò Gertie, agitata, mezz'ora più tardi, nel corridoio, perché il Maggiore era tornato. - Santo cielo! -- bisbigliò Frank - che cosa andate a pensare... . - Non m'importa. Non posso e non voglio. Frank diede un'occhiata alla porta, oltre la quale il Maggiore sonnecchiava davanti al fuoco. - Bene, che cosa vi occorre? - Mi occorre un altro vestito, e una quantità di cose... Frank la guardò rassegnato. - Quanto ci vorrà in tutto? - Non saprei. Due sterline... due sterline e mezza. - Vediamo. Oggi ne abbiamo venti. Bisogna che prima di Natale siate a casa. Se ve le farò avere domani, basterà? domani sera... Ella fece cenno di sì, si sentì un rumore dietro alla porta, ed ella fuggì. Non saprei dire esattamente come Frank abbia potuto procurarsi le due sterline e mezza, ma so che le ebbe, e senza chiedere l'elemosina a nessuno. So che s'arrangiò in modo di aver la paga della settimana con due giorni di anticipo, e, quanto al resto, penso che sia andato dal rigattiere. Certo è che quando i suoi amici poterono far l'inventario delle sue cose, poco tempo dopo, la lista era questa: una giacca, una camicia, una sciarpa, un paio di calzoni, un paio di calze, un paio di scarpe, un berretto, uno spazzolino da denti e un rosario. Non v'era assolutamente altro. Anche il rasoio era scomparso. Perciò le cose andavano malissimo per lui al mattino del 22 dicembre. Immagino che egli possedesse ancora qualche soldo, ma con quei pochi soldi doveva pagare il viaggio per sé e per Gertie fino a Chiswick, e mantenersi per un'altra settimana almeno. Dev'esser in Kengsington High Street che egli ebbe la prima idea che si può avere il cibo gratis, perché, quantunque mi riesca impossibile seguire tutti i suoi movimenti di quei giorni, è certissimo che in quel mattino egli divise l'ospitalità dei frati carmelitani. E ne fece cenno, con evidente piacere, nel suo diario. È uno spettacolo curioso e che sa di medioevo questo dar da mangiare ai poveri nel profondo corridoio, che corre lungo il chiostro del convento in Church Street. Vi s'accede da una porta che dà sul vicolo, e ogni mattina dell'anno a una cert'ora è affollato da 193/233 una estremità all'altra dalla collezione di esseri umani più straordinaria e più compassionevole che si possa vedere a Londra. Ve ne sono di tutte le stature e di tutte le età, dai diciassette ai settanta, e l'unica cosa che tutti abbiano in comune sono gli stracci e l'estrema miseria. Quando s'apre una certa porta la folla si gonfia ondeggiando verso un uomo con la barba, in tonaca bruna, con un gran grembiule, e dopo cinque minuti il silenzio profondo è interrotto soltanto dal rumore dei cucchiai e delle mascelle. Tutta quella gente sta là, in piedi, mentre di sopra risuona il rumore di Londra, il fragore delle vetture, il brusio di innumerevoli piedi, e la pioggia - almeno quella mattina - che cade tetra. Sono due o trecento uomini, smunti, deboli, eppure voraci, che inghiottiscono la zuppa calda e il pane, somiglianti a un'orda di prigionieri laceri rinchiusi tra le alte pareti. Qui, dunque, Frank stette in mezzo a questa gente a divorar la sua zuppa. Il carretto e il cavallo, nonostante gli ordini avuti, erano rimasti in Church Street, sotto la vigilanza d'un passante, al quale pare che Frank abbia chiesto il favore, con parole semplici, per amor di Dio. È forse una scena amara in cui dipingere Frank, eppure a me piace. Piace pensarlo, ora per la seconda volta in poche settimane, e tutto entro i primi sei mesi della sua vita cattolica, a dipendere dalla sua Chiesa per i bisogni del corpo come per quelli dell'anima. Non v'era nulla che potesse distinguerlo da tutti gli altri; anch'egli aveva qualcosa di quell'aspetto sparuto che è così caratteristico di quella folla, e anche l'abito vi s'intonava perfettamente. Egli non parlò con alcuno: prese la scodella in silenzio, la restituì in silenzio; poi si pulì la bocca sulla manica ed uscì ristorato. 194/233 Capitolo V Finita la colazione, Dick Guiseley sedeva nella sua stanza di Oxford Street, assorto nella lettura d'un giornale locale del Yorkshire vecchio di due giorni. La casa aveva la sua caratteristica. Cinque stanze - una sala da pranzo, due camere da letto, due salottini divisi da cortine - e una piccola sala d'entrata che s'apriva sul pianerottolo. Le stanze erano arredate in uno stile particolarmente misurato, tanto, che era quasi impossibile ricordare quel che ci fosse. Si aveva l'impressione che tutto fosse conveniente e comodo all'estremo. Nulla v'era che arrestasse l'attenzione o che colpisse l'occhio in particolare, salvo qua e là uno spazio o un pezzo di parete di cui Dick non si era ancora occupato. Era là da due anni, è vero, ma non aveva ancor terminato l'arredamento. Di tanto in tanto compariva un mobile nuovo o un quadro nuovo - sempre squisito nel suo genere, e spesso di valore. Eppure il gusto di Dick era tanto eccellente, che appena la cosa era a posto, quel tono di eccezione (per così dire) svaniva nel calore dell'ambiente, e pareva che la cosa vi fosse sempre stata. I colori erano scelti con la stessa perizia sopraffina; presi a sé, erano assai vivaci, o almeno notevoli (i soffitti, per esempio, erano d'un ricco giallo ranuncolo). Nel complesso, non risaltavano nell'accordo. Ed io penso che una stanza così ordinata sia quanto vi può esser di meglio. La tavola della colazione era un buon esempio del suo gusto. Il vassoio d'argento era pregevole davvero. In mezzo v'era un delizioso boccale “Caroline”, postovi per il solo piacere di, vederlo. V'era una grossa mucca d'argento con un coperchio sul dorso; v'erano quattro cucchiai di poco prezzo, ma di disegno brillante. La teiera e la lattiera erano georgiane antiche, con caratteristiche particolari. Ma questi oggetti rimanevano ora nascosti sotto il giornale spiegato. V'erano quattro crisantemi in quattro diversi vasi d'un vetro speciale. Parrebbero cose incongruenti, lo so, ma l'effetto non era incongruente, quantunque io non sappia dire il perché. Anche da esse nasceva la sensazione della freschezza, della comodità e della perfezione. Ma Dick quella mattina non prendeva in tutto questo alcun piacere. Egli si sentiva quasi fisicamente ammalato, e il piattino d'argento di Kidneys sulla credenza “Queen Anna” non era toccato. Aveva rotto la punta a un uovo, ma lasciava che si raffreddasse, e che nella tazza si formasse una pellicola lieve di latte, come un ghiaccio sottile. E tuttavia leggeva. La colonnina che stava leggendo descriveva il matrimonio di suo zio con Miss Jenny Launton, e il giornalista aveva superato se stesso. V'era un brano solo sull'aspetto di gentiluomo inglese dei vecchi tempi che aveva lo sposo, il quale, si leggeva, s'era sposato in “frack195/233 coat” nero e calzoni grigi, con scopettoni bianchi, e con un crisantemo all'occhiello (Dick gettò un'occhiata quasi velenosa sul magnifico fiore che spuntava dietro il giornale), e sulla bella giovanile dignità della sposa, “tanto popolare tra gli umili abitanti del villaggio”. Il padre della sposa, a quanto pare, aveva officiato al matrimonio nella tozza chiesa antica, assistito dal Rev. Mathieson, ed era rimasto assai commosso. Il matrimonio, si diceva, era stato insolitamente tranquillo, ed era stato celebrato con una dispensa speciale. Pochi erano i familiari presenti, “a motivo - diceva il discreto cronista - del desiderio espresso dagli sposi”. (Dick pensava sardonicamente al suo tempestivo attacco d'influenza, dal quale era ora già del tutto ristabilito). Poi v'era un brano assai lungo, sull'antica casa dei Guiseley, e sull'aristocratico aspetto del Visconte di Merefield, il giovane e popolare erede della contea, che aveva assistito alla cerimonia anch'egli in “frack-coat” nero. Testimonio era stato il generale Mainwaring. Infine, v'era una breve descrizione dei regali che lo sposo aveva fatto alla sposa, e che comprendevano una collana di ametiste, ecc. Dick lesse tutto fino alla conclusione enfatica, fino ai rintocchi festosi delle campane e fino alle danze della sera. Mangiò alcuni biscotti, rapidamente con la mano sinistra, e poi bevette il caffè in un sorso. S'alzò, sempre col giornale in mano, sedette sulla poltrona vicino al fuoco, e rilesse tutto quanto. Finalmente lasciò cadere il giornale sulle ginocchia e s'appoggiò allo schienale. Occorrerebbe un trattato di psicologia completo per analizzare adeguatamente tutte le emozioni che egli aveva attraversato in questi ultimi tempi, emozioni che erano state, per così dire, sviluppate e fissate nell'articolo letto or ora. Egli si vantava segretamente della prontezza con la quale sapeva affrontare ogni nuova svolta della fortuna, e della correttezza dell'atteggiamento che assumeva. Forse sarebbe stato giusto dire che si sforzava di attuare un ideale artistico-stoico. Ma questa volta le emozioni non riuscivano ad armonizzare con esso. V'erano tutte: furia, indignazione, disprezzo, orgoglio ferito, rassegnazione, compassione - non se ne poteva aggiungere o sottrarre alcuna -; ognuna aveva il suo posto, il suo oggetto, eppure non poteva fondersi con le altre. Ora la furia contro lo zio, ora la compassione per se stesso, ora una specie di velenoso disprezzo per Jenny. O ancora, una specie di primitivo desiderio di Jenny, un disdegno per suo zio, una vergogna di sé. Le emozioni turbinavano e si contorcevano, ed egli sedeva immobile, con gli occhi socchiusi, a contemplarle. Ma un'altra emozione, completamente inattesa, aveva fatto la sua comparsa appena la notizia gli era giunta, ed ora questa emozione, con sua grande sorpresa, stava prendendo un posto notevole tra le altre: era un senso di affezione straordinariamente calda per Frank. 196/233 V'entrava della compassione, e v'entrava un inesplicabile senso di rispetto, per il quale egli non riusciva a concepire ragione alcuna. Era curioso - pensò più tardi - che proprio questa figura si fosse fatta strada in primo piano proprio adesso, quando suo zio e Jenny, e, in seconda linea, il Rettore (così visibilmente commosso per la cerimonia) avrebbero dovuto occupare tutto il campo. Frank non aveva mai contato molto per Dick; aveva scelto delle cose sguaiate e delle fanciullaggini, in mezzo a tutti quegli altri elementi dignitosi di cui Merefield, e, a dir vero, ogni vita veramente ammirevole è composta. Eppure questa figura spiccava adesso davanti a lui con straordinario rilievo. Prima v'era il fatto che tanto Frank quanto lui avevano sofferto crudelmente a motivo della stessa donna, quantunque Frank incomparabilmente più di lui. Dick aveva tanta onestà da confessare che almeno Jenny con lui non aveva mancato di parola; ma vedeva con altrettanta chiarezza che la conclusione era la stessa. Egli sapeva, con quella certezza che non richiede né cerca prove, che Jenny lo avrebbe certamente accettato se Lord Talgarth non fosse già comparso sul suo orizzonte, e che ella lo aveva soltanto messo in disparte per un po' per vedere se questo sole più vecchio si sarebbe levato più alto nel cielo. Era la stessa considerazione, senza dubbio, che le aveva suggerito di abbandonare Frank uno o due mesi prima. Ma Lord Talgarth in tasca valeva due cadetti in mano. Era qui che il suo “giudizio” s'era fatto avanti, e certo l'aveva servita appuntino. L'attenzione di Dick era stata attratta su Frank da questa comunanza dell'offesa; ed una volta attratta, s'era indugiata su altri aspetti della sua personalità. Lo stoicismo artistico è un ideale soddisfacente finché le cose vanno abbastanza bene: esso fornisce una buona protezione contro disgrazie del genere di quella di non essere apprezzato, o di perdere denaro, o di avere una posizione secondaria; contro tutti quei mali che toccano le convenienze del corpo e della mente. Ma quando è toccato il cuore, lo stoicismo artistico casca come un'armatura rugginosa. Durante gli ultimi giorni, Dick aveva cominciato a considerare sul serio se l'opposto esatto dello stoicismo artistico (chiamiamolo “impulsività naturale”) non fosse un sistema quasi altrettanto buono. Egli cominciava a vedere qualcosa di ammirevole nell'atteggiamento di Frank di fronte alla vita, e più lo considerava e più gli pareva da ammirare. Frank perciò aveva cominciato a suggerirgli. qualcosa di patetico e di commovente. Jack Kirkby gli aveva dato qualche notizia, dalla quale aveva intuito qualcosa di ciò che Frank stava attraversando, e il suo “io” estremamente artificioso cominciava ad esserne toccato. Diede una o due occhiate attorno alla stanza, chiedendosi se valesse la pena di vivere per tutte queste cose. In quella stanza egli aveva messo tutta la sua anima - v'era quella incisione “jacobean” con le 197/233 teste grottesche - quanto tempo vi aveva agonizzato sopra, nella bottega di King Road, a Chelsea, chiedendosi se fosse o no quella che gli occorreva per quello spazio tra le due porte! V'era quella statuetta di dama “Tudor”, con la pettinatura quadrata, comperata ad Oxford: egli aveva impiegato una settimana almeno per stabilire esattamente da qual punto dovesse sorridergli; v'era quella cortina nuova che divideva le due stanze: s'era fatto mandare una dozzina di campioni, e li aveva gradualmente eliminati due a due, disponendoli per dieci giorni sullo schienale d'una poltrona, prima di potersi decidere (come pareva simpatica, a proposito, proprio ora, con quella macchia che la dolce luce del sole di Londra disegnava tra le pieghe!). Ma tutto questo valeva qualche cosa?.. Egli discusse tra sé l'argomento quasi passivamente, tormentandosi pensieroso la barbetta bruna; ma il fatto stesso che poteva argomentarci sopra mostrava che le fondamenta della sua filosofia erano scosse. Bene, allora... Frank. Cosa ne era di lui? dove era? Verso le undici, dopo aver bussato alla porta esterna, un fattorino correttissimo entrò e porse un telegramma. Dick stava scrivendo ad Hamilton's, in Berners Street, di certi strapuntini grigi per la stanza di riserva. Prese il telegramma, lacerò la busta con aria preoccupata. Poi proruppe in una piccola esclamazione, - Nessuna risposta, signore! - No. Sì... aspetta un momento. Prese un modulo di telegramma con una fretta quasi indecorosa, vi fece l'indirizzo di Jack Kirkby, Barham, Yorks, e scrisse sotto: “Certamente. Attendovi cenare e dormire. Richard Guiseley. Poi, quando il ragazzo se ne fu andato, rilesse il telegramma che aveva ricevuto. “Ricevuta lettera da Frank. Potrò forse scoprire indirizzo venendo città. Potete alloggiarmi stanotte? Jack Kirkby, Barham”. Rimase qualche minuto in meditazione. Poi terminò il suo biglietto a Hamilton's, ma in maniera distratta. S'alzò e camminò per parecchi minuti su e giù per la stanza, con le mani nelle tasche della giacca, in profondi pensieri. Rifletteva sul fatto d'aver ricevuto notizie di Frank proprio in quel momento, e si domandava quale sarebbe stata la prossima mossa della Provvidenza. Il resto della giornata Dick lo passò nella sua maniera più caratteristica: ed io, considerando gli altri personaggi di questa storia e le loro occupazioni, ho quasi una specie di piacere drammatico nel descriverlo. 198/233 Egli si recò al “lunch” da una distinta dama di sua conoscenza, e che non aveva meno di settant'anni - il nome preferisco tacerlo. - I due rimasero fin quasi alle quattro a tagliare i panni addosso ai loro conoscenti, ed anche il caso Talgarth fu sviscerato da tutti i punti di vista. Dick fu franco circa la sua parte nella faccenda. Egli conosceva benissimo la vecchia signora, e la vecchia signora conosceva benissimo lui. Sagace al massimo e ai grande esperienza, ella aveva aiutato assai Dick in parecchi intricati imbrogli, e Dick, d'altra parte, come giovanotto ben informato, le era di utilità quasi equivalente. Ella si trovava proprio in quel lembo del mondo che sta perdendo il contatto con le cose - a settant'anni non si può fare tutto - e Dick l'aiutava a conservar le relazioni. Quando era a Londra, pranzava da lei almeno una volta alla settimana. Alle quattro egli andò al Bath Club, ordinò tè, toasts e sigarette, e sedette poi, col cappello sugli occhi, sul balcone a guardare i nuotatori. V'era un ragazzo di sedici anni che faceva dei tuffi meravigliosi, e Dick provava tutto il piacere possibile nell'osservarlo. V'era anche un grassone di sua conoscenza, che tentava da mesi di attraversar la piscina con una nuotata di stile, e che invariabilmente alla quarta bracciata, se non alla terza, annaspava e beveva. Ed anche questa persona gli procurava un piacere appena inferiore. Alle sei, dopo aver sfogliato i giornali illustrati, uscì per prendere il soprabito, e ben presto fu preso nel calore di una discussione con un consigliere del Club, a proposito di un tappeto nuovo da porre nella “hall” di fronte. Non era adatto - disse Dick, usando un'iperbole neppure per il salottino del Cecil. Questa discussione gli fece perdere più tempo che non intendesse, e quando entrò nell'ascensore, il portiere lo informò, col fare distaccato dei portieri, che il signor Kirkby di cui gli era stato detto, era giunto, che lo attendeva nelle sue stanze. Poco prima di mezzanotte, Dick tentò di riassumere la situazione. Avevano parlato di Frank, si può dire, senza sosta, da quando il cameriere alle nove aveva posto il caffè sulla tavola, ed ambedue avevano saputo cose nuove. - Bene, allora, per prima cosa, - disse Dick - domattina andremo da quest'uomo Parham-Carter, dopo colazione. Sapete nulla della Eton Mission? - Nulla. - Dove si va? - Oh, si piglia il treno a Broad Street. Ho già guardato. La stazione è quella di Victoria Park. Dick aspirò le ultime due o tre boccate di fumo, e posò il mozzicone della sigaretta in un piccolo portacenere d'argento. (Il portacenere gli era stato donato dalla vecchia signora con la quale aveva pranzato 199/233 quel giorno). - Tutto quel che m'avete riferito è straordinariamente interessante disse. - È proprio per trar dall'imbroglio quella ragazza che egli si è fermato così a lungo? - Credo che questo ce lo dirà lui stesso. Questo è il motivo apparente, starei per dire. Ma si tratta soprattutto di una specie di ostinazione. Aveva detto di voler fare il vagabondo, e l'ha fatto. - Mi pare una cosa piuttosto simpatica, fare quel che si dice, lo sapete. Jack sbuffò. - Già, è meglio che dir di fare una cosa e poi non farla. Ma perché dirla? - Mah! qualcosa bisogna fare - rispose Dick - Almeno, alcuni sembra che la pensino così. Ed io, quasi, li invidio. Lo sapete. Quanto a me, temo che non ne sarei capace. - Capace, a far che? - A far qualcosa. A meno che non chiamiate far qualcosa occuparsi di questa roba... - e fece girare lentamente la mano attorno alla stanza perfettamente arredata. Jack non disse nulla. Ci teneva ad avere una sua attività, in qualche modo, ed aveva sempre avvertito un'ombra di fastidio per l'estrema oziosità del compagno. - Vedo che siamo d'accordo - proseguì Dick. - Bene, dobbiamo vedere che cosa dobbiamo fare. S'alzò sorridendo, e si mise davanti al fuoco ad allargare e stringere le dita. - Se ci riuscisse di portar via Frank, - mormorò Jack - sarebbe abbastanza per ora. - E che cosa proporreste di fame, poi? - Oh, Dio! nulla: che vada in giro per il mondo, se gli piace. Che venga a stare con me. - E se pensasse di essere un po' troppo vicino a... a Lady Talgarth? Queste parole ricondussero Jack a un pensiero che quella sera lo aveva già tormentato per un'ora. - Già, questo è il lato peggiore. È certo che egli non sa nulla. Chi mai avrebbe potuto dirglielo? E come la prenderà? - Sapete - rispose Dick - che non è questo, in fondo, che mi faccia paura? Tutto quel che mi avete detto di lui, mi fa pensare che egli si comporterà benissimo. Non vi par strano che voi lo conosciate tanto meglio di me? lo non ho mai pensato che in lui ci fossero tante cose. - Oh, ce ne sono!... ma non sempre si sa che cosa ci sia. - Pensate che sia la sua religione, che lo fa così? - Credo che, per lui, lo sia stata, - disse Jack lentamente. - Ci ho pensato parecchio. Credo che sia, una cosa precisa, per così dire... Esitò. Non era esperto in analisi psicologica. Dick venne in suo aiuto. - Esattamente - disse - Cioè, senza dubbio. Essa gli ha dato un 200/233 centro... un perno per la ruota. - Eh? - È... è che in lui tutto si congiunge in un punto solo. Egli sarà più pazzo e più ostinato che non sia mai stato prima. Ha raggiunto un centro, adesso... penso che la religione ci sia proprio per questo aggiunse pensieroso. Questo era greco per Jack, che guardò con l'aria di non comprenderlo. Dick si volse, e fissò la fiamma, continuando a stringere e ad allargare la dita. - È una cosa buffa, questa religione - disse infine - Io non posso comprenderla. - E di Archie, che cosa ne dite? - chiese Jack, improvvisamente. (Egli non aveva una continuità di pensiero). Dick portò le sue meditazioni a una conclusione con prontezza uguale, perché altrimenti non sarebbe forse stato tanto caustico verso il cugino. - Oh! Archie è un asino. Non val neppure la pena che ne parliamo. Jack cambiò ancora argomento. Adesso egli aveva compreso la situazione, col risultato che tutte le sue idee, a un modo o all'altro, crollavano. - Sono stato tremendamente preoccupato - disse. - Sì? E in che modo particolare? Jack accavalciò una gamba sull'altra. Fino a poco fa, con Dick, egli non aveva esaminato alcun elemento della situazione, ma essa era stata ribollente in lui per settimane intere, ed era stata portata all'acme dalla lettera di Frank ricevuta al mattino. Ed ora la curiosa intimità con la quale s'era venuto a trovare con Dick cominciava a riscaldarlo. - Penserete che sia un asino anch'io - disse - e penso che sia vero. Ma non posso farne a meno. Dick gli fece un sorriso incoraggiante. (Certamente, pensò Jack; quest'uomo vale più che non avessi pensato prima). - Bene, è vero... - disse a un tratto - Ma è tremendamente difficile esprimerlo con parole. Ricordate quel che v'ho detto, di quando Frank venne a trovarmi a Barham? - Sì. - Bene, fu allora che disse qualcosa che mi lasciò turbato. E continua a farmi turbato sempre di più... - Fece un'altra pausa - Bene, è questo. Egli disse che sentiva che c'era qualche cosa che procedeva, che egli non poteva comprendere; una specie di Piano, diceva, in cui egli aveva da prendere parte; una specie di schema da svolgere, ecco. Suppongo che egli intendesse Dio - spiegò sottovoce. Dick lo guardò con aria interrogativa. - Oh, non so esprimerlo a parole! - disse Jack disperato. E con precisione, del resto, nemmeno Dick. Ma l'idea, in complesso, 201/233 era questa. Una sorta di Fato. Jack diceva di esserne certissimo... e v'erano tante piccole cose che vi s'adattavano perfettamente. - Si cambiò d'abiti nella vecchia sacrestia, sapete, nella vecchia chiesa. Sembrava una specie di sacrificio, ecco. E poi, quella notte, io ebbi un sogno terribile. E vi fu qualcosa che disse mia madre... ed ora v'è questa lettera: quella che vi ho mostrato a pranzo, su qualcosa che gli deve succedere... oh, sono proprio una bestia, non vi pare? Seguì un silenzio prolungato. Jack guardò in su, quasi vergognoso, e vide Dick ritto e immobile, sempre con la schiena rivolta al fuoco, lo sguardo fisso fuori della stanza. Dall'esterno saliva il mormorio della strada, il rotolar delle ruote, il tintinnar dei campanelli, le voci della gente. E quasi in vergogna egli rimase ad attendere le parole di Dick. Prima d'allora non gli era mai avvenuto di porre tutti questi sentimenti in forma concreta, neppure per se stesso, ed essi gli apparivano anche più fantastici di quel che li avesse pensati. Attendeva quindi il verdetto di quell'uomo calmo, che fino allora aveva giudicato un po' come un pazzo, perché non si curava d'altro che di biliardi e di quel che si chiamava Arte. (Jack odiava l'Arte). Il verdetto venne in una forma inattesa. Ma egli lo comprese perfettamente. - Bene, se andassimo a letto? - aveva detto Dick tranquillo. Al mattino del 24 dicembre Mr. Parham-Carter fu avvertito dalla linda domestica della canonica che due gentiluomini lo desideravano. Su un vassoio argentato ella porgeva due biglietti coi nomi di Richard Guiseley e di John B. Kirkby. Egli saltò in piedi e scese la scala di corsa. Un minuto dopo li introduceva nel salottino e chiudeva la porta. - Sedete - disse - Non potete immaginare quanto sono lieto che siate venuti. Io... io sono proprio impensierito da tutte queste cose, e non so davvero che fare. - E adesso, dov'è? - chiese Jack Kirkby. Il “clergyman” fece una faccia sconcertata. - Ho promesso di non dirlo a nessun costo, e voi sapete... - Ma è ridicolo! Noi siamo venuti con lo scopo preciso di condurlo via. Non può continuare così. Per questo non abbiamo scritto. Io mandai la lettera di Frank a Mr. Guiseley (a proposito, è cugino di Frank), ed egli mi invitò a venire in città. Sono giunto ieri sera, e stamattina eccoci qua. Mr. Parham-Carter guardò l'uomo distinto e malinconico che gli sedeva di fronte. - Ma voi sapete che io ho promesso... - Già - scoppiò Jack - Ma non c'è obbligo di mantenere le promesse fatte ai pazzi. E... - Ma Frank è tutt'altro che pazzo. Egli è... 202/233 - Ebbene? - Stavo per dire che a me pare che egli sia più sano di chiunque altro - disse il giovane. - So che pare assurdo, ma... Dick Guiseley approvò con tale calore che egli si fermò. - So quel che volete dire - disse Dick nella sua pronuncia strascicata. - E capisco perfettamente. - Ma andiamo! - scoppiò Jack. - Egli dev'essere pazzo. Voi non conoscete Frank come lo conosco io; nessuno di voi due. E poi v'è quest'altro affare, il matrimonio di suo padre, ecco... e... S'interruppe e guardò Dick. - Dite pure - fece Dick. - Non vi preoccupate di me. - Bene, noi non sappiamo se egli lo sappia o no. Ma lo saprà, presto o tardi. E allora... - Lo sa già - interruppe il “clergyman”. - Gli mostrai l'articolo io stesso. - Lo sa! E sa tutto? - Certo! E m'ha detto che conosce la ragazza, la figlia del Rettore, non è vero? - Conoscere la ragazza! Ma se era stata la sua fidanzata! - Cosa?! - Sì. Non ve l'ha detto? - Nulla. Nemmeno il minimo accenno. - E che cosa ha fatto? Che cosa ha detto? - Mr. Parham-Carter rimase un momento in silenzio. - Che cosa ha detto? - ripeté Jack impaziente. - Oh, nulla. Disse soltanto che conosceva la ragazza, quando glielo chiesi. - Santo Cielo! - borbottò Jack. Poi un silenzio, interrotto da Dick. - Mi pare che ci troviamo piuttosto in un imbroglio. - Ma è una cosa assurda! - scoppiò ancora Jack. - Qua c'è il povero Frank, che deve avere il cuore spezzato, e ci siamo noi, pronti a fare tutto quel che possiamo... perché quel poveretto deve trovarsi in un inferno! - Vediamo, Mr. Parham-Carter - disse Dick con calma. - Non sarebbe il caso che andaste a casa sua, e vedeste se c'è e che cosa intende fare oggi? - Egli sarà alla fabbrica fino a questa sera. - Alla fabbrica? - Sì. È occupato in una fabbrica di prosciutto. Jack s'accese di furia e di sdegno. - Bene - proseguì Dick - (posso prendere una sigaretta, a proposito?). Se andassimo un po' in ricognizione, a tastare il terreno? Poi Kirkby ed io potremmo stare un po' a far la posta e saltargli addosso; purché ci diate qualche lume, beninteso. L'altro lo guardò un momento. 203/233 - Ecco, forse posso farlo - disse dubbioso - Ma che cosa... - Santo Cielo! Ma voi mantenete la vostra promessa, così. Dopo tutto, è più che naturale che noi si sia venuti qua dopo la sua lettera, ed è da aspettarsi che lo si voglia trovare... andate subito, per favore. Noi vi attendiamo qua. Un quarto d'ora dopo Mr. Parham-Carter rientrò nella stanza e chiuse la porta. - Sì, è alla fabbrica. O almeno non è in casa. E non rientra prima di buio. - Ebbene? - C'è qualcosa per aria. È partita anche la ragazza... (no, essa non va alla fabbrica). Ho paura che vi saranno dei pasticci. 204/233 Capitolo VI Il treno elettrico rallentò e si fermò al capolinea di Hammersmith, Si formò la solita corrente verso l'uscita. - Venite, Gertie - disse il giovanotto. - Siamo giunti. La ragazza rimase perfettamente immobile, nascondendo la faccia. La folla era enorme quella vigilia di Natale, e la gente, per la maggior parte carica di pacchi, si rovesciava a ondate sulla piattaforma ed ogni edicola, abbagliante di luce (perché erano passate le sette), era il centro di una specie di gorgo. V'erano notizie sensazionali nei giornali della sera, e tutti erano ansiosi di conoscere nei minuti particolari i fatti che ne tentavano la curiosità dai titoli sommari dei tabelloni. Tutti volevano conoscere esattamente chi fossero le persone e quale lo svolgimento del dramma. Era una magnifica tragedia per la festa di Natale. - Venite - disse nuovamente il giovanotto - sono usciti quasi tutti. - Non posso - piagnucolò la ragazza. Frank la prese risolutamente per il braccio. - Venite! Allora ella si mosse, e i due fendettero assieme la folla che si accalcava all'entrata. - Dovremo affrettarci. Mi spiace, ma occorre che giungiamo a casa. Ella chinò la testa e non disse nulla. Gertie quella sera aveva un aspetto del tutto inconsueto. Aveva saputo spender bene le due sterline e mezza. Aveva un abito decorosissimo, scuro con una striscia rossa; aveva un cappello largo e una specie di boa attorno al collo; portava anche un ombrello da poco prezzo con un manico d'argento falso, e una borsetta con un fazzoletto nell'interno. Secondo la sua idea, senza dubbio, ella era la perfetta figura della penitente ideale: rispettabile ed anche dall'aspetto fiorente, eppur dignitosamente riserbata. Doveva pensare che nulla in lei manifestasse insolenza, e neppure, all'esterno, vergogna. Sua madre, fra poco, avrebbe potuto immaginare che ella non era tornata per semplice bontà di cuore, né tanto meno perché la sua scappata fosse stata un fallimento. Ella avrebbe potuto ancora parlar del “Maggiore” con un certo sussiego, e far capire di essere sempre stata trattata da lui come una signora. (Quando, pochi mesi fa, io andai a trovarla, la trovai dignitosissima e sostenuta, eccessivamente raffinata e vagamente memore di perduti splendori; e sua madre mi disse in privato che ella aveva ricominciato ad essere irrequieta e a parlare di darsi al “Music-hall” o al teatro). E non rientra prima di buio. Ma v'è una cosa che mi costa assai a perdonare: ed è che mentre andavano assieme sotto le luci incandescenti di Chiswick High Street, ella si volse un po' nervosamente a Frank, e gli chiese se non gli dispiacesse di camminare due o tre passi dietro a lei. (Vogliate 205/233 rammentare, tuttavia, come circostanza attenuante, che la nuova posa di Gertie era quella della Signorina Superiore). - Non mi piace di essere veduta... - mormorò questa rispettabile persona. - Oh, ma sicuro! - disse Frank. S'erano incontrati mezz'ora prima, secondo quanto avevano convenuto, all'ingresso della stazione sotterranea di Victoria Street. Frank aveva calcolato che il suo giro con la carretta lo avrebbe portato là verso le sei e mezza, e a rigore contro gli ordini dei superiori, ma abilmente, e con la connivenza del compagno di lavoro, aveva combinato che il suo posto venisse preso per il resto della giornata da un conoscente del compagno, ora disoccupato, per la somma di uno scellino, da pagarsi entro la settimana. Era deciso a non lasciar nuovamente sola Gertie, una volta che il viaggio per Chiswick fosse cominciato, finché non l'avesse vista al sicuro nella sua casa. Anche il luogo del convegno era andato a genio a Gertie. Ella aveva lasciato Turner Road senza dir parola, l'istante stesso in cui aveva visto la schiena del Maggiore scomparire dietro la porta del Queen's Arms per il consueto corroborante mattinale. Poi s'era soprattutto occupata di spender bene le due sterline e mezza di Frank, acquistando tutte le sue cose, e di indossarle. Oltre ai pochi scellini che s'era riservata sul totale, ella aveva risparmiato tre “pence”, e li aveva spesi al cinematografo di Victoria Street. Vi aveva visto una commovente serie di quadri sulla “Vecchia casa in campagna”, e sulla mungitura delle mucche in un'atmosfera patetica di rose e di campane, e più d'una volta s'era sciolta in lacrime e aveva pianto silenziosamente nel fazzoletto nuovo. Ma era stata puntualissima a raggiungere Frank, perché, in realtà, aveva bruciato tutti i vascelli alle sue spalle, e non le rimaneva altro da fare. All'imbocco di Chiswick High Street un altro pensiero luminoso la colpì. Si fermò perché Frank potesse raggiungerla. - Frankie - disse - vi spiacerebbe non dir nulla delle due sterline e mezza? Non vorrei che pensassero... - Ma no, è naturale - rispose Frank gravemente, e, dopo un momento, accorgendosi che ella lo guardava di nuovo a disagio, comprese, e si ritirò obbediente a due passi di distanza. Circa un quarto di miglio più in là, Gertie cominciò a rallentare il passo. Frank la osservava con molta attenzione. Non era del tutto sicuro di lei neppur ora. Ella attraversò la strada tra due tram e Frank la seguì. Poi si voltò come per tornare ad Hammersmith. In un istante Frankie fu al suo fianco. - Sbagliate strada - le disse Gertie si fermò irresoluta, e dovette lasciare il passo a due o tre viandanti. 206/233 - Oh, Frankie! Non posso! - lamentò sottovoce. - Avanti! - disse Frank, - e la prese ancora una volta per il braccio. Cinque minuti più tardi si trovavano alla metà d'una lunga strada che svolta da Chiswick High Street a sinistra, e là, per la prima volta, parve che ella fosse spaventata davvero. La strada era deserta: tutta la popolazione era a passeggiare su e giù per il corso illuminato, un centinaio di passi alle loro spalle, o febbrilmente occupata negli acquisti d'ogni genere. Le lampade erano scarse in questa strada, e tutto era relativamente tranquillo. - Oh, Frankie! - ella piagnucolò ancora. - Non posso! Non posso!... Non oso! S'appoggiò al vano di una finestra. Pure, io credo che anche allora ella, anziché no, si compiacesse di se stessa. Era tutto così simile a quella specie di drammi che le facevano colar le lacrime. Il ritorno del figliol prodigo! e la vigilia di Natale! Mancava soltanto un po' di neve che scendesse dal cielo, e un bambino che le piangesse al seno... Io mi domando che cosa Frank ne abbia concluso. Egli doveva ormai aver conosciuto a fondo Gertie, e certo non vi sarebbe stato un uomo tra mille che non si sarebbe irritato della situazione. Ma io dubito che Frank vi abbia fatto molta attenzione - Dov'è la vostra casa? - domandò. Guardò il numero della porta presso la quale Gertie s'erano fermati. Poi disse: - Dev'essere una dozzina di porte più in là. - È l'ultima casa di questa fila - mormorò Gertie con voce flebile. Chissà se mio padre guarda fuori. Andate a vedere... - Mia cara ragazza - disse Frank - non fate la sciocca. Ricordate la lettera di vostra madre. Allora ella si volse d'un tratto a lui, e se mai fu sincera, lo fu in quel momento. - Frank - mormorò - perché non mi portate via voi? Oh, portami via! portami via! Egli la fissò negli occhi per un istante, e in quell'istante intravide nuovamente quel lampo che gli ricordava Jenny. - Portami via! vivrò con te come vorrai! - Ella lo afferrò al bavero della sua povera giacchetta logora. - Tu puoi aggiustarti facilmente, e io non chiedo... Allora Frank staccò le dita di lei dalla giacca, e la prese gentilmente per il braccio. - Venite con me - disse. - No, non dite una parola di più. Assieme, in silenzio, fecero i pochi passi che li separavano dalla casa. V'era un giardinetto davanti, coi bordi abominevoli di ciottoli e di conchiglie. Al cancello Gertie esitò ancora una volta, ma Frank alzò il chiavistello e la spinse dentro. - Oh, i miei guanti! - mormorò Gertie, in un amaro tono di 207/233 costernazione. - Li ho lasciati nel negozio vicino all'A.B.C., in Wilton Road! Frank chinò il capo. Poi, spingendola, la condusse fino alla porta, e bussò. Si sentì un rumore di passi. - Dio vi benedica, Gertie. Siate una buona ragazza. Io attenderò sulla strada per dieci minuti. Mi chiamerete se sarà necessario. Quando la porta si aprì, egli era scomparso. La successiva comparsa in pubblico di cui sono riuscito a trovar traccia fu nella cattedrale di Westminster. Ora, interrompere il viaggio da Hammersmith a Broad Street costa almeno un “penny” di più, e penso che Frank non lo avrebbe fatto, dopo quello che aveva detto a Gertie sulla difficoltà di prendere un omnibus, se non avesse avuto qualche ragione precisa, cosicché è possibile concludere che egli abbia interrotto il viaggio a Victoria per cercar di ricuperare quei guanti. Par quasi impossibile che Gertie abbia potuto parlare dei guanti in quel momento, ma avvenne proprio così. Me lo disse lei stessa. E, ripensandoci, a me pare che sia abbastanza secondo la sua linea (quantunque forse la linea sia prolungata in modo inconsueto), con quanto ho potuto mettere assieme sul suo carattere. Il fatto è che i guanti, proprio allora, erano importantissimi per lei. Ella stava per comparire sulla scena della vita di famiglia, ed aveva già formato uno schema perfetto della sua parte. I guanti erano una parte essenziale nel suo costume, erano la prova definitiva di una specie di raffinatezza e di opulenza; perciò, per quanto non potesse credere di riaverli proprio allora, era perfettamente naturale che li nominasse. Non si deve pensare che Gertie fosse insincera; ella non lo era: era drammatica. Ed è un fatto che cinque minuti dopo il suo arrivo ella stava in ginocchio davanti alla madre, col volto nascosto nel suo grembo, e piangeva da spezzare il cuore. Quando si rammentò di Frank e corse sulla strada, egli se n'era andato da più di venti minuti. Uno dei sacerdoti addetti alla cattedrale di Westminster uscì per caso dal confessionale verso le nove e mezza. V'era rimasto senza interruzione dalle sei, era stanchissimo, ed aveva le ginocchia intorpidite. Durante qualche intervallo s'era letto l'ufficio, e pensava di far due passi per la navata meridionale per sgranchirsi le gambe. Così aprì la porticina del confessionale, lasciando la luce accesa nel caso che giungesse qualcuno, si tolse la stola e uscì. L'intera navata pareva deserta, quantunque vi fosse ancora qualcuno nella navata a settentrione, proprio oltre il grande spazio del transetto, ed egli ne percorse tutta la lunghezza, fino all'estremità, per dare un'occhiata a tutta la chiesa. Rimase là a guardare per due o tre minuti. Sul suo capo incombeva la grande volta di mattoni, perduta nel buio, 208/233 incredibilmente vasta e misteriosa, dalla quale emergevano qua e là in una tenue luminosità il tamburo di una cupola o la linea di un architrave, come dogmi di un impenetrabile mistero. Davanti a lui si stendeva l'immensa navata, in cui le sedie erano già ordinate e pronte per la Messa di mezzanotte, e che ai suoi occhi stanchi parevano quasi le schiene ricurve di una immensa folla china in assoluto silenzio di adorazione. Ma non v'era ancor nulla da adorare, salvo lassù, verso sinistra, dove una pallida fiammella si rifletteva tra le ombre sul marmo lucido, davanti alla cappella del Santissimo. V'era un'altra eccezione, perché sul capo, contro l'abside a metà illuminato, dove un sacrestano ritardatario, un'ombra egli stesso, si aggirava ancora, affaccendato negli ultimi preparativi dell'Altar maggiore, là s'intravedeva l'immenso profilo della croce pensile, così scura che non si poteva distinguere il Cristo torturato che v'era dipinto... Ma era giusto che fosse così quella sera, perché chi, di tutti coloro che fra poco sarebbero venuti ad adorare il Bimbo della Gioia, avrebbe pensato all'Uomo dei Dolori? Il suo tempo era distante ancora tre mesi... Mentre il prete stava là, guardando e pensando, con quella strana chiarezza di mente che alcune ore di confessionale danno anche al cervello più tardo, s'accorse che la figura di un uomo si staccava da uno dei confessionali illuminati alla sinistra, e s'avvicinava, camminando svelto e leggero. Con sua sorpresa quest'uomo, invece di uscire dalla porta di nord-ovest, si volse e venne verso di lui. Egli lo notò in modo particolare, e più tardi rammentò il suo vestito. Era un abito turchino assai logoro, macchiato dal fango delle strade di Natale, con le borse alle ginocchia; la giacca era abbottonata strettamente, attorno a una sciarpa che forse una volta era stata bianca, e le grosse scarpe facevano un notevole rumore mentre egli si avvicinava. Il prete ebbe un subitaneo impulso quando, il giovane gli passò davanti. - Buon Natale - disse. Il giovane si fermò un momento, e tutto il suo volto s'illuminò di un sorriso, e il prete notò in quel volto una straordinaria serenità, e questo quantunque fosse il volto di un Povero, con le guance infossate e le rughe agli angoli della bocca. - Grazie, Padre - egli disse - Altrettanto a voi. Poi proseguì, facendo più che mai fracasso con le scarpe, e si diresse all'estremità meridionale. Finalmente il rumore delle scarpe cessò. Il prete rimase ancora qualche momento a guardare e a pensare, e gli fece un certo piacere che il giovanotto, quantunque appartenesse senza dubbio alla categoria più reietta, non aveva neppure esitato a rispondere, e meno ancora avesse detto una sola parola nella speranza d'aver qualche cosa per Natale. Eppoi, egli aveva 209/233 certamente parlato con la voce di un uomo educato. Il prete prese a un tratto uno straordinario interesse alla cosa - e non sapeva il perché - e l'impressione fattagli da quella semplice occhiata a una persona si approfondiva ogni momento di più... Che cosa mai stava facendo quel giovanotto?... che cosa cercava in quella navata deserta?.. chi era?.. cosa c'era attorno a lui?... Pensò che avrebbe potuto cercarlo e vedere: del resto, si avviava alla canonica. Ma quando raggiunse l'angolo della navata, e poté vederla tutta, gli parve che non vi fosse nessuno. Cominciò a risalirla, più che mai perplesso, poi d'un tratto vide una persona inginocchiata sul gradino più basso della cappella di destra, ora chiusa da tende, ove il Presepe era pronto per essere esposto al pubblico due ore più tardi. Tutto sembrava strano. Egli non poteva comprendere perché qualcuno volesse pregare davanti a una cortina chiusa. Quando fu vicino s'accorse che era appunto il suo amico. Le scarpe erano inconfondibili. Il giovanotto era inginocchiato sul gradino, ritto e immoto, col berretto in mano, volto alla cortina dietro la quale, senza dubbio, stava il presepe nella grotta, coi tre Personaggi, un vecchio, una Vergine, un Bimbo appena nato. Ma anche il loro tempo non era ancora venuto. Mancavano ancora due ore. I preti di solito non vanno a guardare in faccia la gente che sta dicendo le sue preghiere: sono abituati a queste cose. Ma questo prete (me lo disse lui) non seppe resistere. E passando, col suo passo silenzioso, accorgendosi che la lampada del confessionale illuminava in pieno il giovanotto, si volse e lo guardò in faccia. Ora io non capisco che cosa fu che egli vide: non lo capisce neppure lui: ma pare che vi fosse alcunché che gli fece più impressione che qualunque altra cosa egli avesse mai visto prima. Gli occhi del giovanotto erano aperti e le labbra chiuse. Non un muscolo del volto si muoveva. Questo per i fatti fisici. Ma era un caso in cui i fatti fisici erano supremamente irrilevanti... ad ogni modo, il prete poteva ricordarli solo con sforzo. Quel che contava era che v'era là qualche cosa di ultra fisico (quanto a me, lo chiamerei soprannaturale) che trafiggeva il cuore di chi osservava a fondo con un'angoscia prepotente... Quando il prete raggiunse la cappella della Madonna, ancor tremando un poco, concentrò tutta la sua attenzione negli orecchi, deciso a sentire il primo movimento che la persona inginocchiata avrebbe fatto dietro di lui. Rimase seduto così un minuto dopo l'altro. La cattedrale era piena di echi, mormorii riflessi del rumore delle strade, diluiti e addolciti in lunghi toni morbidi è strascinati, sui quali si staccava di tanto in tanto l'improvviso calpestio di qualcuno che entrava o usciva da un confessionale, il breve fruscio d'una seggiola spostata, una volta il rumore improvviso della 210/233 porticina d'un confessionale che veniva aperta e lo scatto dell'interruttore di una lampadina. Ed era anche piena di ombre: un profilo mostruoso attraversava e riattraversava l'abside dietro all'altar maggiore, mentre il sagrestano andava e veniva. Una volta una mano come quella d'un gigante rimase per un istante posata sulla parete su qualcosa accanto al Trono. Pareva al prete, stanco e chiaroveggente, com'era, di sedere in qualche luogo d'attesa, in qualche grande caverna dove si muovessero e passassero delle cose misteriose, in preparazione per una catastrofe. Tutto era soffocato e confuso, eppur vivo: e le ombre scure sarebbero svanite di lì a poco nello splendore della Messa di mezzanotte. Il prete sapeva a malapena che cosa lo tenesse là, e questo non era quello che egli attendeva. Egli pensava alla sala comune illuminata in fondo al lungo corridoio dietro la sacrestia. Si domandava chi ci fosse. Forse uno o due colleghi, a giocare al biliardo o a fumare. Avevano avuto una giornata faticosa, e difficilmente avrebbero potuto andare a letto prima delle tre. Eppure egli rimaneva seduto qua, stanco e in stato di supertensione, ad attendere ancora, ad attendere un giovanotto dall'aspetto poco rispettabile, con un vestito e una scarpa sporca e delle scarpe grosse, che continuava a pregare davanti a una cortina chiusa in una navata deserta. Un'ombra girò senza fracasso l'angolo dietro a lui. Era il prete che egli aveva udito lasciare il confessionale. - Non avete ancora finito? mormorò il neovenuto, soffermandosi dietro la sua seggiola. - Vengo tra qualche minuto - rispose. L'ombra passò. Poi si sentì una porta che sbatteva come un tuono ammorzato verso la sacrestia, e simultaneamente un paio di scarpe che scendeva lungo la navata. S'alzò immediatamente, e con lunghi passi silenziosi s'avviò anch'egli per la navata. La figura aveva girato un pilone ed era scomparsa. Egli corse in punta di piedi, e fece a tempo a vederla che si voltava dall'acquasantiera di fianco alla porta; la seguì con tanta rapidità, che la porta vibrava ancora quando ne afferrò la maniglia. Uscì con più cautela nel vano d'ingresso, e si trovò sui gradini in tempo per vedere il giovanotto, cinque passi più avanti, che s'avviava nella direzione di Victoria Street. Ma qui qualcosa lo fermò. Uno strillone veniva correndo sul selciato dal deposito della Art and Book Company, urlando qualcosa, con un cartello che pendeva da un braccio e un fascio di giornali sotto l'altro. Il prete non poté afferrare quel che egli diceva, ma vide il giovanotto che si fermava d'un tratto, si voltava bruscamente verso il ragazzo, e dopo aver frugato in tasca, porgeva una moneta e afferrava il giornale. Poi era rimasto là, immobile sul selciato, col giornale spiegato e gonfiata dal burrascoso vento notturno. - Giornale, signore! - strillò il ragazzo, sostando sulla strada. 211/233 Orribile! Il prete non pensava gran che al giornale, ma porse il soldo. Il giornale gli fu posto in mano, ed egli non vi fece attenzione. Stava sempre osservando la figura immobile sul selciato, Circa tre minuti passarono, Poi il giovanotto all'improvviso piegò il giornale, lo ripiègò e lo cacciò in tasca, Poi si mosse, e un momento dopo era scomparso all'angolo di Victoria Street. Il prete non pensava più al giornale quando si volse per tornare alla cattedrale, ma pensava ancora a quel che aveva veduto… La sala comune era vuota quando v'entrò, ed egli distese il giornale sulla tavola e si piegò per vedere che ci fosse di sensazionale, Non v'era dubbio: la notizia era quella: i titoli erano alti quasi un terzo di colonna i ma a lui parve che come notizia d'interesse generale avesse scarsa importanza: non aveva mai sentito nominare i protagonisti. Pareva che un ricco Pari che viveva nel nord dell'Inghilterra e che solo da poco tempo s'era sposato per la seconda volta, fosse rimasto ucciso col figlio maggiore in un incidente automobilistico, L'autista se l'era cavata con la frattura della clavicola. Il nome del Pari era Lord Talgarth. 212/233 Capitolo VII Il mattino del 24 dicembre un piccolo incidente curioso era avvenuto - e ne ricavo la notizia dai registri della polizia - in una osteriucola ai margini di South London. È evidente che si tratta di una coincidenza puramente casuale. V'erano quattro uomini che bevevano assieme un bicchiere di birra da buoni amici; tornando al lavoro dopo la colazione. Il loro zelo religioso doveva esser particolarmente sentito, giacché dichiaravano apertamente che stavano festeggiando la ricorrenza del Natale, ed io ne deduco che essi bevessero birra piuttosto di rado. Tuttavia, mentre stavano per separarsi, lì raggiunse un quinto, stanco e sporco dal viaggio, che sedette e chiese qualcosa di più eccitante. Gli altri quattro conoscevano il nuovo venuto, perché ne pronunciarono il nome e ne indicarono il domicilio, Hackney Wick. Era un ometto mobile, silenzioso e pallido. Pareva che avesse avuto qualcosa di misterioso anche nella reputazione dei suoi amici, e che dovesse essere considerato pericoloso trovarsi con lui. Egli tuttavia non fece mistero né donde venisse né dove intendesse andare. Veniva dal Kent, disse, e spiritosamente aggiunse che era stato a raccogliere luppolo, e andava a passare il Natale con la moglie e i figli. Aggiunse anche che la moglie gli aveva scritto di avere degli inquilini. I quattro uomini, naturalmente, si soffermarono ancora per sentir tutte le notizie e celebrare ancora una volta il Natale, ma poco dopo dovettero andarsene. Il piccolo incidente avvenne quando il primo di essi stava andando (pare che il suo caposquadra fosse di temperamento tirannico). - Oh - disse Bill - (dei cinque compagni tre pare che si chiamassero Bill). - Bill, le vostre scarpe sono sporche. Il Bill in questione fece qualche osservazione caustica. Disse che sarebbe stato strano che non lo fossero con un tempo come quello. Ma l'altro insistette dicendo che non era fango. Dopo un'ispezione generale, l'opinione della maggioranza fu che Bill doveva aver messo il piede nel sangue. Lo stesso Bill faceva parte della maggioranza, quantunque cercasse invano di immaginare una spiegazione qualsiasi. Due uomini tuttavia dichiararono che, secondo loro, si trattava soltanto di terra rossa. (A questo punto appare una certa oscurità nelle deposizioni, probabilmente a causa dell'abitudine a certi riempitivi che hanno nel parlare gli operai inglesi). Sull'argomento vi fu una calda discussione, e il Bill che aveva le scarpe sotto inchiesta parve l'unico che ragionasse. Egli spiegò con gran buon senso, che se le macchie erano di sangue, egli doveva aver calpestato del sangue, forse lo scolo di un mattatoio; e se non erano di sangue, doveva aver calpestato qualche cosa d'altro. Gli dissero 213/233 che era meglio che le lavasse, e pare che infine egli abbia seguito il consiglio, sebbene senza entusiasmo. Poi i quattro uomini se ne andarono. La testimonianza della padrona è concorde. Ella dichiara che il nuovo venuto, il cui nome le era prima ignoto, quantunque lo conoscesse di vista, s'era fermato ancora, perfettamente tranquillo, per una o due ore, e aveva fatto colazione con uova e prosciutto. Pareva che avesse denaro in abbondanza, ella disse. Finalmente se n'era andato, zoppicando un poco, in direzione di tramontana. Ora, questo incidente non ha importanza. Io lo cito soltanto, perché nel leggere più tardi le testimonianze mi venne in mente un incidente analogo, nella storia di un processo famoso, nel quale qualcosa di assomigliante a sangue era stato visto sulla mano del giudice. Il giudice si chiamava Ayloff, e il fatto era avvenuto nel sedicesimo secolo. Mrs. Partington ebbe una sorpresa - non del tutto gradita - quella vigilia di Natale. Perché alle tre e mezza, proprio quando il crepuscolo cominciava a calare su Londra, suo marito entrò nella cucina. Ella non ne aveva saputo nulla per sei settimane, e se l'era cavata benissimo senza di lui. Io non sono sicuro neppure adesso se ella conoscesse o no quali fossero le occupazioni del marito durante le sue assenze - ritengo che sia possibilissimo che ella, onestamente, non ne sapesse nulla - e confesso di non averne idea alcuna neppur io. Pareva tuttavia che questa volta fossero state fruttuose. Egli era di ottimo umore, era abbastanza ben vestito, e prima che fossero passati dieci minuti aveva mostrato un pugno di scellini. Ne diede subito cinque alla moglie per le spese natalizie, ed altri dieci a Maggie con istruzioni esplicite sul modo di spenderli. Mentre egli si toglieva le scarpe, la moglie gli diede le notizie, prima, dell'arrivo della piccola compagnia, e poi della sua dispersione, avvenuta proprio quello stesso giorno. - Chissà come se la prenderà, quando saprà che il giovanotto è scappato con la ragazza! - osservò Mrs. Partington. Il marito commentò con un grugnito; - E lui, è mezzo matto - soggiunse lei. - Saranno guai se riuscirà a prenderlo. Il signor Partington osservò, col suo caratteristico vocabolario, che le intenzioni del Maggiore erano vane, perché il giovanotto non sarebbe certo stato tanto pazzo da tornare. E la signora Partington fu d'accordo con lui. (Invero, questo pensiero era stato tutto il giorno quello che l'aveva confortata. Perché a lei pareva, con le sue idee franche e naturali, che nel complesso Frank e Gertie avessero fatto le cose più opportune. Le piaceva anche pensare di aver avuto ragione 214/233 nelle sue supposizioni sull'atteggiamento di Gertie verso Frank. Perché, è chiaro, ella non aveva dubitato neppure un istante che i due se la fossero svignata assieme al modo consueto, per quanto probabilmente senza alcuna intenzione di sposarsi). Il signor Partington dopo un po' chiese dove fosse il Maggiore, e gli fu risposto che, naturalmente, egli era al Queen's Arm. V'era rimasto infatti senza interruzione - salvo per una rapida corsa a casa per chiedere se vi fosse nessuna notizia del fuggiaschi - fin dalle undici e mezza del mattino. Era una situazione che chiedeva conforto. La signora Partington aggiunse alcuni commenti, poi si mise il berretto e uscì per completare i preparativi per Natale coi cinque scellini inattesi, lasciando il marito a dormicchiare nella poltrona di Windsor, con la pipa che gli pendeva dalla bocca. Era venuto a piedi dal Kent quella mattina, aveva detto. Ella tornò in tempo per preparare il tè, portando con sé diverse ghiottonerie, e trovò che la situazione si era alquanto sviluppata dalla sua partenza. Il Maggiore aveva fatto un'altra delle sue comparse infuriate, e s'era confidato a lungo col vecchio amico Partington, raccontando della straordinaria benevolenza che aveva sempre dimostrato a Frank, e della confidenza che aveva riposto in lui. Lo aveva raccolto, si sarebbe detto, che stava quasi per morire di fame, gli era poi sempre stato padre e amico. Ed esserne ricompensato In questo modo! La signora Partington si accorse che con la sua eloquenza gli era riuscito di conquistarsi la simpatia del marito, dopo di che era nuovamente uscito, dichiarando che andava a perlustrare il vicinato, ma, più probabilmente, per cercar di annegare ancora i suoi sentimenti addolorati e feriti. La signora Partington chiuse le labbra sottili e non disse nulla. S'era accorta anche; apparecchiando la tavola, che sul pavimento c'erano parecchie bottiglie vuote, due delle quali con l'etichetta gialla - erano il risultato della commissione di Maggie - e si preparò ad affrontare una serata burrascosa. Ma il Natale, ella rifletté per sua consolazione, viene una volta all'anno soltanto. Eran quasi le nove quando i coniugi Partington e il Maggiore si sedettero per la cena. I ragazzi, come al solito, erano stati messi a letto, dopo che Jimmie aveva informato la madre che il “clergyman” era comparso almeno tre volte dalle quattro in poi per saper qualche cosa dell'ospite scomparso. Aveva pianto un po' per esser stato messo a letto così presto, perché Mr. Parham-Carter gli aveva promesso, a quanto pare, nientemeno che mezzo scellino se fosse venuto ad avvertirlo alla Canonica non più tardi di cinque minuti da quando Frank fosse ricomparso, e non era evidentemente possibile attraversar la strada in camicia. La madre gli disse che eran tutte sciocchezze; che Frank non sarebbe tornato affatto - che non era un giovane rispettabile, perché era 215/233 scappato senza pagarle la pensione. - Questo peggiorò la situazione più che mai, perché Jimmie protestò con violenza contro questa profanazione del suo ideale, e sua madre dovette imporsi un tono di severità per mascherare i propri sentimenti, che, malgrado tutto, erano di tenerezza. Ma anch'ella, quantunque considerasse la fuga dei due perfettamente normale, avvertiva un leggero senso di disappunto, che fosse stato proprio quel giovanotto a fuggire. Poi ella salì nuovamente per la cena. Pare che la Great Eastern Railway abbia costruito apposta il grande sottopassaggio dal quale si accede al distretto di Hackney Wick perché, specie nelle giornate di pioggia, vi si possano sistemare i fannulloni che desiderano vedere chi entra o chi esce dal quartiere. Beninteso, è possibile entrare a Hackney Wick anche da altre strade, dalla parte delle paludi, e, credo, da un altro sottopassaggio posto a mezzo miglio più a levante. Ma chi venga da Londra non passa certamente da quelle strade. Si arriva alla stazione di Victoria Park, si svolta a destra e si segue il marciapiede, lasciando il parco a sinistra fino a raggiungere il sottopassaggio dove la strada si unisce con quella che viene da Homerton. Si può quindi essere perfettamente sicuri che, a meno di aver da fare con criminali in allarme, attendendo abbastanza a lungo sotto l'archivolto, la persona che deve venire a Hackney Wick passerà a meno di dieci passi. Mr. Parham-Carter sapeva benissimo queste cose, e le aveva comunicate agli altri due nelle prime ore del pomeriggio. Per conseguenza avevano predisposto un elaborato sistema di guardia, per cui dalle tre in poi, uno dei tre si sarebbe continuamente trovato di sentinella. A Jack era toccato il privilegio - ma non sapeva che fosse tale - di vedere Mr. Partington che tornava al focolare domestico; a Dick, che aveva montato la guardia verso le cinque, quello di vedere il Maggiore - o piuttosto, quello che per lui era soltanto uno straccione eccitato - uscirne e rientrare alla Queen's Arm. È naturale che dopo il colpo e la sorpresa della notizia dell'incidente occorso a Lord Talgarth e ad Archie, le precauzioni fossero raddoppiate. Era stato il “clergyman” a comprare per primo il giornale, verso le cinque, ed entro pochi minuti anche gli altri erano stati informati. È inutile cercar di descrivere l'effetto che la notizia ebbe sulla loro mente, oltre il dire che essa li decise più che mai ad impedire con qualunque mezzo che Frank potesse loro sfuggire. A malapena essi comprendevano tutta la drammaticità della situazione, quantunque venissero man mano rendendosene conto, durante l'attesa, due nella sala del Men's Club all'angolo, e il terzo, rabbrividendo e pestando i piedi, sotto l'archivolto. (Un disoccupato, conoscente del 216/233 “clergyman”, era stato collocato come sentinella aggiunta sui gradini del Men's Club, col compito, quando dal sottopassaggio fosse stato dato il segnale convenuto per indicare che Frank era in vista, di avvertirne subito gli altri due nell'interno). Inoltre, come s'è già detto, dalle quattro in poi il “clergyman” era già stato tre volte a Turner Road ed aveva assoldato anche Jimmie. La situazione era in realtà piuttosto strana anche per l'imperturbabile Dick. Questo giovanotto, verso il quale durante gli ultimi mesi egli aveva cominciato a provare una strana tenerezza, e che ora vagabondava per le vie di Londra (e trascinando un carretto) vestito nei panni vecchi e miserabili descritti dal “clergyman”, in questo momento era nientemeno che il nuovo Lord Talgarth, con tutto ciò che questo titolo comportava. Merefield era suo; il palazzo di Buckley Square era suo; la tenuta in Scozia... era un assoluto capovolgimento della situazione: era come un colpo fortunato al “whist”: ogni carta aveva cambiato valore... Bene, egli ebbe tutto il tempo che volle, prima quando montò la guardia alle sette, e poi quando raggiunse il “clergyman” al Men's Club, per esaminare i fatti e le loro conseguenze. Verso le dieci e mezza i tre tennero consiglio sotto l'archivolto, mentre i treni rombavano sul loro capo. Essi attraevano ben poco l'attenzione; il sottopassaggio è buio e deserto, ed essi erano imbacuccati fino agli occhi, e di solito v'è una quantità di gente che vi si mette al riparo nelle sere di pioggia. Essi si appoggiarono alla parete per parlare. Da quando s'erano consultati avevano fatto altri passi. Mr. ParhamCarter era andato alla fabbrica di prosciutto, ed aveva saputo che il carretto era tornato con uno solo dei conducenti, e che perciò l'altro, un certo Gregory - quello di cui Mr. Parham-Carter chiedeva sarebbe stato licenziato. Il “clergyman” s'era fatto dare l'indirizzo del conducente, che ora era fuori per servizio, ed aveva intenzione di andarlo a cercare a casa sua, verso Homerton, il mattino dopo, se Frank non fosse ancora ricomparso. Ora, v'erano due punti da esaminare. Primo, si doveva informare la polizia? secondo, era probabile che Frank avesse appreso la notizia? E allora era da pensare che fosse andato direttamente dove lo chiamavano le circostanze, dal legale o addirittura a Merefield? Dick ricordava perfettamente il nome del legale. Doveva telegrafargli? Ma Jack rilevò che se fosse stato così, tutto era come doveva essere. E questa riflessione diede loro un notevole conforto. Eppure, rimanevano uno o due “se”. Era probabile che Frank non conoscesse ancora la notizia. Egli si trovava notoriamente in cattive condizioni, il nome di Talgarth non era finora comparso su alcun 217/233 cartellone. Pure, poteva avere raccolto un giornale, o averlo avuto da qualcuno... e allora... Così la discussione proseguì, senza che se ne potesse concludere molto. La decisione finale fu questa: che si dovesse continuare a montar la guardia, come prima, fino a mezzanotte; che a quell'ora si lasciasse l'archivolto per visitare, tutti assieme, due posti: Turner Road e la stazione di polizia; e che le persone di ambedue questi posti fossero informate dei fatti. E poi tutti e tre sarebbero andati a letto. Alle undici e dieci Dick si alzò dal caminetto del Men's Club, dove era rimasto a scaldarsi dopo il suo turno di guardia, e cominciò a camminare avanti e indietro. Egli non sapeva rendersi conto del perché si sentisse tanto a disagio, e decise di mettersi a far qualcosa per rinfrancarsi. (Il “clergyman” cominciava a sonnecchiare, alquanto vicino al fuoco, perché il circolo era stato chiuso, e le sale erano vuote). Si capisce che non era una cosa piacevole aver da dire a un giovane che suo padre e suo fratello erano morti (Dick stesso ne aveva sentito un colpo), ma certo la situazione era, nel complesso, assai migliorata. La mattina, Frank era un disperato; la sera, era un milionario, e pari del regno. La mattina, i suoi amici non avevano nulla su cui basare il loro appello, se non il buon senso, e l'affetto; e Frank di buon senso ne aveva pochissimo, e dell'affetto, a giudicar dalle apparenze, si faceva un concetto tutto suo. Eppoi, tutto quell'affare di Jenny, era una questione piuttosto grave (neppur ora Dick osava pensar troppo a lei, e tanto meno parlarne), ma Frank l'avrebbe superato. Allora, sempre camminando avanti e indietro e onestamente rassicurato da buone - ragioni, cominciò a pensare qual parte Jenny avrebbe sostenuto nell'avvenire. Era una situazione curiosa, curiosissima anzi (il preciso e misurato Dick usò un'espressione anche più forte). Si trattava di una ragazza che aveva giocato col figlio e aveva sposato il padre, senza dubbio per motivi di ambizione, e che ora si trovava quasi subito nella posizione di una vedova in condizioni assai precarie, col figlio giocato che regnava al posto del marito. E che cosa sarebbe poi avvenuto? Prima il gioco era stato di denari; ora pareva che dovesse essere di cuori. E che razza di groviglio combinavano questi cuori! Ma per tornare a Frank... ...e in questo momento Dick udì un rumore alla porta, e mentre il “clergyman” si destava dal suo sonnellino, vide la testa incappucciata del disoccupato e la sua mano che faceva cenni violenti, e udì la sua voce aspra che gridava di far presto. Il “gentleman” sotto l'archivolto, diceva, faceva segnali. 218/233 La scena fu completa quando, mezzo minuto dopo, i due giunsero all'archivolto, col disoccupato che li seguiva. Jack s'era trovato proprio di fronte a Frank, sul marciapiede opposto e l'aveva fermato. - Oh, mio caro! - stava dicendo - t'abbiamo dato la caccia tutto il giorno. Grazie a Dio, sei venuto... Frank aveva un aspetto pietoso, pensò Dick, che per la prima volta lo vedeva nel costume descritto con tanta minuzia da Mr. ParhamCarter. Stava quasi sotto la lampada, che gli segnava il volto di ombre profonde. Pareva invecchiato di cinque anni da quando Dick l'aveva visto l'ultima volta - da Pasqua. Ma la sua voce era abbastanza fidente e sicura. - Mio caro Jack - stava dicendo - non mi devi interrompere. Io ho appena... - poi s'interruppe egli stesso, riconoscendo gli altri. - Così, in conclusione, mi avete tradito? - disse con una certa severità al “clergyman”. - Niente affatto - rispose con semplicità l'interrogato. - Sono giunti stamattina, senza che li attendessi. - E voi avete detto loro che avrebbero potuto pescarmi qua - disse Frank. - Bene, non importa. Io proseguo. Ciao, Dick. - Aspetta - disse Dick. - Si tratta di cosa seria. Hai sentito... - la sua voce si spezzò. - L'ho saputo - rispose Frank - ma per stanotte non cambia nulla. - Ma, mio caro! - gridò Jack, afferrandolo per il lembo della giacca è ridicolo. Siamo venuti qua apposta... tu ti vuoi ammazzare... - Un momento. Ditemi quel che volete esattamente. Dick si fece avanti. - Che li pianti, i tuoi compagni... ecco quel che vogliamo, Frank. Vogliamo che tu venga alla Canonica per stanotte. Domattina per prima cosa tu ed io andremo dall'avvocato, e poi a Merefield col treno del pomeriggio. Mi spiace, ma ti tocca far così. Sei tu il capo della famiglia, adesso. Laggiù tutti attendono te, e non possono far senza di te. I giornali non debbono parlare. Fortunatamente nessuno sa nulla ancora, ma non si tarderebbe a sapere, se aspettassi ancora mezz'ora. Su, vieni con noi. - Un momento - disse Frank. - Son d'accordo su quasi tutto quello che hai detto: - tacque un istante - che il capo della famiglia dovrebbe essere a Merefield domani sera. Ma per questa sera, voialtri tre andrete alla canonica ed aspetterete. Bisogna che completi la mia impresa... - Che impresa? - chiesero due voci contemporaneamente. Frank s'appoggiò al muro e cacciò le mani in tasca. ..... - Non posso spiegarvi tutto adesso. Mi ci vorrebbe un'ora… Ma due di voi conoscono la maggior parte dell'affare. Eccola in venti parole. Ho riportato a casa una ragazza, ed ora vado ad avvertire l'uomo e a 219/233 dirgli, al tempo stesso, qualche cosetta. Ecco tutto. Ora andatevene, per favore. Vi sono molto grato, lo sapete, ma vi sarò obbligatissimo se mi lascerete terminar tutto prima di cominciar qualunque altra cosa. Vi fu silenzio. Pareva cosa abbastanza ragionevole, posta in questo modo, almeno, in quanto fosse messa in relazione con quella che ai tre sembrava l'estrema irragionevolezza di tutto il procedere di Frank. Esitarono, e furono perduti. - Vuoi giurare di non svignartela da Hackney Wick prima di averci riveduto? - chiese aspro Jack. Frank chinò il capo: - Sì, ve lo prometto. Il “clergyman” e Dick si stavano consultando a bassa voce. Jack li guardava, con uno sguardo d'invocazione. Egli era completamente sottosopra, e attendeva un aiuto. Ma non ne venne. - Vuoi giurare... - ricominciò. Frank pose la mano sulla spalla dell'amico. - Vediamo, vecchio mio. Ho quasi finito, davvero. Penso che potresti lasciarmi andare senza più... - “All right”, d'accordo - disse Dick a un tratto. - E... - Benissimo - rispose Frank - allora non c'è proprio più altro... - e si volse come per andarsene. - Frank, Frank! - gridò Jack. Frank si volse, lo guardò, e poi proseguì. - Buona notte - gridò. E così lo lasciarono partire. Lo guardarono, silenziosi, attraversare la strada, all'altezza del Queen's Arm e salire sul marciapiedi di sinistra. Quando s'avvicinava a una lampada, l'ombra, alle sue spalle, s'accorciava, svaniva, e gli ricompariva davanti. Dopo la terza lampada lo persero di vista, e s'avvidero che pochi passi più in là avrebbe svoltato in Turner Road. Fu così che lo lasciarono andare. La camera di Mr. Parham-Carter parve loro calda e famigliare, dopo il disagio della strada buia e umida. Sappiamo già com'era: la Madonna, le incisioni, le librerie basse, le cortine, le pareti rosate, il caminetto allegro, e la lampada elettrica. Fu anche, dapprincipio, rassicurante - sicura e riparata com'era - e sedettero contenti. Un vassoio con della carne fredda e del formaggio era posato sul tavolino accanto al caminetto, e il cacao stava scaldandosi in un bricco bruno. Al Men's Club avevano preso qualche rinfresco irregolare, ed ora avevano fame... Dopo un po' cominciarono a discorrere, ed era sorprendente vedere come la vista e il contatto di Frank li avesse rallegrati. Mi confessarono che gran parte dell'ansietà era stata causata dalla sua 220/233 semplice assenza, e dal pensiero dei mille possibili incidenti di strada. Sarebbe stata una tremenda ironia se egli fosse stato travolto proprio il giorno in cui era diventato Lord Talgarth. Fecero anche i loro piccoli piani per il giorno dopo. Dick ci aveva ripensato. Lui, Jack e Frank avrebbero dovuto andare all'ufficio del legale, in Lincoln's Inn Field, e lasciare un messaggio, visto che, naturalmente, l'ufficio sarebbe stato chiuso, appena il vagabondo si fosse rivestito decentemente con un abito comprato fatto. Poi avrebbero preso il primo treno del pomeriggio per giungere a Merefield in serata. Il funerale forse non avrebbe potuto esser fatto prima di qualche giorno: ci sarebbe stata un'inchiesta. Rilessero la narrazione del disastro sulla “Star” edizione straordinaria. Pareva che non fosse stata colpa di nessuno. Lo sterzo, in una discesa ripida, non aveva funzionato. La macchina aveva urtato in un muricciolo; l'autista era stato sbalzato al di là; i due passeggeri erano stati travolti sotto la macchina. Lord Talgarth era morto sul colpo; Archie era morto cinque minuti dopo esser stato tratto dai rottami. Così ora parlavano a voce bassa, con un'ovvia eccitazione di sollievo. Faceva un grande piacere - ora che consideravano le cose nel benessere conferito dal cibo e dal caldo - sapere che Frank era distante meno d'un quarto di miglio in un ambiente miserabile, è vero, ma per l'ultima volta. Il domani l'avrebbe visto restituito alla vita normale, costretto da irresistibili circostanze a metter da parte le delusioni e i capricci, e a prendere il futuro nelle sue mani. La mezzanotte li trovò che discorrevano ancora, desti e lieti; ma si fece un po' di silenzio quando si udirono i rintocchi delle campane. - Natale! - disse il “clergyman” - Buon Natale! Si strinsero la mano, sorridendo timidamente, come è abitudine degli inglesi. - E pensare che quello sciocco di Frank... - mormorò a mezza voce Jack - Vi ho detto, Guiseley, di quando venne da me nell'autunno? Negli ultimi tempi egli aveva pensato molto a quella visita, e a quello che Frank gli aveva detto di sé: dell'idea che aveva di qualcuno che agisse dietro la scena sulla quale egli doveva rappresentare passivamente la sua parte; della sua osservazione del come dovesse essere piacevole essere uno “squire”. Bene, pareva che la rappresentazione fosse giunta all'epilogo: ora sarebbe seguita davvero la vita del signorotto. Era curioso pensare che Frank fosse, proprio in questo momento, Lord Talgarth! Dick scosse il capo, sorridendo tra i baffi. In un modo o in un altro, il giro che avevano preso le cose aveva per il momento sommerso in lui la coscienza della tragedia di Merefield e i suoi crucci personali e la memoria di Jenny. Jack ripeté brevemente tutto, sottolineò la figura del Maggiore e la 221/233 repulsione che ispirava, e la comparsa di Gertie, e l'incredibile ostinazione di Frank. - E pensare che egli è andato a fondo, come voleva, e che ha ricondotto la ragazza in famiglia!... Bene, grazie a Dio, questo è finito. Cose del genere non ce ne saranno più. Dick s'alzò e cominciò a muoversi, guardando i quadri e i libri. - E se andassimo a letto? - fece il “clergyman”. - Giusto, tanto più che dovremo alzarci presto. Il “Clergyman” si alzò. - Temo che avrete una stanza scomoda. Siamo al completo. E voi, Mr. Kirkby? - Vi attenderò fino al ritorno. I due uscirono, dopo avergli augurato la buona, notte, e Jack rimase a fissare il fuoco. Egli si sentiva perfettamente sveglio, ed ascoltava soddisfatto i rumori che venivano dalla strada. Chissà dove, in questo sciamare di gente, era Frank. Faceva piacere pensarlo. Durante i mesi scorsi la personalità di Frank era stata persistente davanti a lui. Non che egli pretendesse di comprenderla, ma comprendeva adesso abbastanza per sentire che in tutto ciò v'era qualcosa di ammirevole davvero. Era pazzo e donchisciottesco e assurdo, ma aveva una luce di nobiltà. Si capisce, sarebbe stato un disastro se tutti quanti avessero agito così: la società non potrebbe andare avanti se tutti sposassero la causa degli infelici e dei traviati, e si vestissero di stracci, e si addossassero la some degli altri. Ma, nonostante questo, non era spiacevole pensare che proprio il suo amico avesse fatto tutte queste cose, a dispetto di tutte le convenzioni. V'era in questo una pennellata di delicatezza. Ed ora era finito tutto, grazie a Dio... Come se la sarebbero passata bene, nel Nord! Udì dall'esterno un cancello sbattuto. Il suono s'era appena distinto dal mormorio della notte. Poi un treno passò cigolando sul terrapieno dietro la casa, dirigendosi con rumore di ferraglia alla Victoria Park Station e tornò a distrarlo. - Siete pronto, Mr. Kirkby? - chiese il “clergyman” entrando. Jack s'alzò, stirandosi. A metà del movimento si fermò. - Che cos'è questo rumore? - disse. Stettero in ascolto. Nuovamente s'udì l'acuto e prolungato tintinnio d'un campanello elettrico, seguito, da alcuni colpi alla porta terrena. Jack, guardando l'altro in volto, lo vide impallidire leggermente sotto gli occhi. - V'è qualcuno alla porta - disse Mr. ParhamCarter. - Andiamo a vedere. E Jack, rimasto là, immoto e senza respiro, non poté sentire altro 222/233 che il rapido martellare del suo cuore alla base della gola. 223/233 Capitolo VIII Alle undici e mezza Mrs. Partington salì alla stanza dove i due uomini stavano ancora bevendo, per suggerire ancora una volta che era tempo di andare a letto. Era una stanzetta cupa, in facciata del primo piano, dove Frank e il Maggiore avevano dormito la notte scorsa in un gran letto matrimoniale. Il letto era ora spinto. verso la parete, ancora da rifare, con le lenzuola sottosopra, e con vari oggetti posati su di esso come sopra una tavola. Una seggiola senza spalliera stava tra il letto e la finestra. La tavola alla quale i due uomini sedevano era spinta vicino al fuoco, acceso parte in onore di Mr. Partington e parte in onore del Natale, ed era coperta da un guazzabuglio di piatti, di bicchieri, di tabacco, di bottiglie. In mezzo v'era un barattolo da marmellata, che conteneva un ramo di agrifoglio regalato dal macellaio. V'era pochissimo mobilio nella stanza: un cassettone tinto di giallo di fronte alla porta, carico anch'esso di un reggimento di bottiglie; una grande oleografia della Regina Vittoria pendeva sul letto, e, per ragioni imperscrutabili, era perfino concesso che sul camino pendesse una iscrizione, tracciata in lettere gotiche e confusa in una profusione di fiori di melo, dipinti a colori stridenti, per proclamare che “Il Signore è misericordioso e paziente”. Dall'altra parte del camino v'era un lavabo con un secchio di zinco, e col cappello del Maggiore gettato nel catino. V'era un pezzo di tappeto sotto la tavola, e una specie di materasso di lana, calpestato in due o tre punti, di fianco al letto. Mrs. Partington tossì entrando, tanto era acre il tanfo per il fumo del tabacco, della paraffina e dell'alcool. - Benedetti uomini: - esclamò, e tossì una seconda volta. Ella sentiva un considerevole sollievo per il fatto che Frank non fosse tornato, quantunque in verità al suo ritorno non avesse creduto neppure un istante. Ma non desiderava più fastidi né litigi, e nel guardare il Maggiore, che al suo entrare s'era voltato, si sentì ancor più sollevata. Egli non aveva un aspetto rassicurante. Aveva bevuto forte tutto il giorno per annegare il dolore, ed aveva pranzato, da uomo d'affari, col padrone di casa. Quattro bottiglie di birra vuote e una di “whisky” vuota anch'essa erano sparse sul tavolo e sul pavimento, e un'altra bottiglia di “whisky” vuota a metà stava tra i due uomini sul tavolo. E mentre guardava il Maggiore, con la sua completa esperienza dei sintomi dell'ubriachezza, ella comprese immediatamente quale stadio egli avesse raggiunto. Ora il Maggiore era senza dubbio un ubriacone, questo dev'essere sottinteso: egli beveva tutte le volte che poteva. Ma un vagabondo non ha i mezzi per bere oltre una data misura. Egli è perpetuamente 224/233 in cammino e perpetuamente povero. Ma questa era un'occasione speciale: era Natale; egli si trovava a Londra, quasi a casa; il suo ospite era tornato ed egli aveva perduto Gertie. Aveva raggiunto ora quello stadio pericoloso in cui l'alcool, dopo aver riscaldato eccitato e confuso il cervello, se ne ritrae in una certa misura, lasciandolo limpido e risoluto e indifferente e interamente conscio di qualunque idea venga in quel momento ad essere dominante (almeno, questo è l'effetto su alcuni temperamenti). Lo stato ebete era superato da un pezzo, al principio del pasto, quando il Maggiore s'era curvato sul piatto e aveva pianto sull'ingratitudine dell'uomo, e sulla particolare amarezza della dimostrazione che ne aveva dato “il vecchio Frankie”. Era succeduto uno stadio rumoroso, ed ora una tranquillità di morte. Egli era pallido in volto; aveva gli occhi infossati, ma lucidissimi, e fumava con furia. - Ora dunque - disse Mrs. Partington con allegria - è tempo di andare a letto. Il marito le fece un sogghigno, che era la sua massima approssimazione di una risata. Ad ogni modo egli era un uomo tranquillo. Il Maggiore non disse nulla. - Ecco, c'è Erb che è di nuovo sveglio! - disse la madre. nell'udire un lamento dalla scala. - Tornerò tra un minuto - e scomparve un'altra volta. Due bambini erano svegli. Jimmie era disteso accanto al fratello, con gli occhi neri spalancati, e guardò riflessivo la madre che entrava. Egli pensava ancora ai sei “pence” che avrebbero potuto forse essere suoi. I lamenti di Erb cessarono quando la madre entrò, e andò per prima cosa alla tavola, per abbassare il lume, Era una buona madre, molto più tenera di quel che volesse apparire, ed Erb lo sapeva fin troppo. Ma la rispettava abbastanza per cessar di piangere quand'ella entrò. - Ma dunque... - disse essa con rudezza materna - io non posso... Si fermò ad un tratto. Aveva udito dei passi sul selciato mentre entrava nella stanza, ed ora sentì la maniglia della porta di casa che cigolava e qualcuno che entrava nell'andito. Rimase perplessa per un istante, e in questo istante ella perdette l'occasione, perché il rumore dei passi oltrepassò subito la porta e cominciò a salire. Si poteva pensare, è evidente, che fosse uno degli inquilini del primo piano, eppure ella sapeva che non lo era. Balzò alla porta un istante dopo, ma era troppo tardi, e fu appena in tempo per vedere la figura ben nota svoltar l'angolo della scala che conduceva al primo piano. - È Frankie? - chiese Jimmie, rizzandosi sul letto. - Oh, mamma, lasciami... - Sta fermo! - disse stizzosa la donna, e stette ad ascoltare, con le 225/233 labbra aperte. Pare che Mrs. Partington abbia potuto da quel punto seguire assai da vicino quel che dev'essere avvenuto al piano di sopra. Era una notte calmissima, in Turner Road. La gente allegra era nelle strade meglio illuminate, e la gente sobria era chiusa in casa. E non v'era rumor di passi sul selciato a confondere il piccolo dramma di suoni che discendeva a lei attraverso le tavole sconnesse del soffitto. Ella non seppe spiegare più tardi perché non fosse intervenuta. Immagino che abbia sperato contro ogni speranza di interpretare male quel che udiva, e anche che cominciò ad essere presa da una specie di terrore che non le riuscì di cacciare. Dapprima, si sentì la porta che veniva aperta e richiusa, poi due o tre passi, e silenzio di morte. Poi ella udì parlare, prima una voce, poi un crescendo, come se tre persone urlassero assieme. Infine, ancora una voce sola (e le fu impossibile, da distante, distinguere di chi fosse). Così, per un minuto o due. Di tanto in tanto v'era un crescendo, e una o due volte una voce si levava sulle altre quasi in un grido. Poi, senza che nulla l'annunciasse, vi fu uno strascinar di piedi, e un tonfo, come d'una seggiola rovesciata; e, quasi più forte che il rumore, Erb fece un lamento prolungato. - Sta zitto! - fece la donna bruscamente. I rumori proseguivano: ora era il calpestio d'un piede, ora un colpo di tono diverso, e intanto una o due voci in esclamazioni cupe e concitate, e poi ancora completo silenzio. Erb ora singhiozzava facendo meno rumore che poteva, atterrito dall'espressione della madre, e Jimmie s'era alzato e stava in camicia sul pavimento, ascoltando come sua madre. Maggie dormiva ancora profondamente all'opposta estremità del letto. La donna s'avvicinò in punta di piedi alla porta, l'aprì e guardò incerta. Ma la scala svaniva nel buio, senz'altra luce che quella che trapelava dalla porta su cui ella stava... Adesso si sentiva una voce che si alzava e cadeva, ed ella sentì che questa voce era di tanto in tanto spezzata da qualcosa che rassomigliava a un ghigno. Chissà perché, questo fatto la spaventò più di ogni altro: le pareva la voce di suo marito. Rinculò nella stanza, e mentre lo faceva, venne il rumore d'un colpo e d'un calpestio, ed ella comprese, in un modo che non sapeva spiegare, che non v'era più lotta. Avrebbe dato tutto il mondo per potersi muovere, per correre alla porta di casa e chiamare aiuto: ma le ginocchia le tremavano e il cuore le martellava come se volesse scoppiare. Jimmie s'era afferrato a lei, e la stringeva, scosso dal terrore, e mormorava qualcosa ch'ella non riusciva a comprendere. Tutta la sua attenzione era rivolta al piano di sopra. Ella si domandava per quanto la cosa sarebbe andata 226/233 avanti. Doveva essere trascorsa la mezzanotte adesso, e le strade parevano immobili come la morte. Ma sopra v'era ancora del movimento, e del rumore di colpi, e poi d'un tratto venne la fine. Vi fu ancora un crescendo di rumori - due voci si alzarono in disputa: una quasi acuta, per ira o per scongiuro; poi ancora un rumore improvviso e pesante, come il colpo di una caduta, e il silenzio. La prima cosa che Mrs. Partington poté ricordare dopo questa, fu che si trovò in piedi sul pianerottolo del primo piano, ad ascoltare, eppur timorosa di muoversi. Dentro v'era quasi silenzio: appena un parlar sottovoce, e il suono di qualcosa che veniva spostato. Ella distinse la voce di suo marito. Alle sue spalle la scala saliva, ed ella s'accorse che adesso anche qualcun altro stava a vedere. Una testa sudicia di donna s'avanzò sulla ringhiera, e una candela le illuminò il volto: La testa sogghignava. Poi un bisbiglio acuto dal sommo della scala chiese che cosa succedesse. Mrs. Partington indicò col dito la porta chiusa, e fece un cenno rassicurandola. Comprendeva di dover essere naturale a qualunque costo. La donna si sporse ancora un istante dalla ringhiera, poi scomparve. Jimmie era salito anche lui, ora, sempre in camicia, zitto, con la faccia bianca come la carta. Fissava gli occhioni sul volto della madre. Poi a un tratto ella non poté più sopportare l'attesa. S'avvicinò alla porta, sempre in punta di piedi, sempre ascoltando, e pose le dita sulla maniglia. Ora dall'interno si sentivano movimenti più garbati, il rumore di un catino e dell'acqua (ella udì distintamente il tintinnio della porcellana), ma nemmeno una parola. Girò risolutamente la maniglia e guardò. Il Maggiore era ritto nell'angolo vicino alla finestra, con le mani in tasca, e fissava il letto con un volto stupido, bianco, sprezzante. La lampada sul camino lo illuminava in pieno. Inginocchiato a fianco del letto v'era suo marito, che le voltava le spalle, tenendo un catino sul letto e qualcosa di scuro che vi pendeva sopra. Allora ella vide Frank. Era lui che era coricato sul letto, quasi bocconi: una scarpa penzolava da questa parte, ed era la testa di lui che Mr. Partington teneva sollevata. Ella guardò un momento terrorizzata... poi i suoi occhi si abbassarono sul pavimento, dove, tra i frammenti di un bicchiere spezzato e foglie del caprifoglio, una pozza di liquido scuro si allargava lentamente. E a questa vista il suo istinto si riprese. Venne avanti; e prese per le spalle il marito, che volse la faccia e si ritrasse un po' verso di lei. Ella lo spinse da parte, gli prese un catino e la testa del giovane... 227/233 - Levatevi di qua - sussurrò rauca. - Presto, vi dico! tu e il Maggiore!... Jimmie!... - Il bambino le fu subito al fianco, tremando tutto, ma perfettamente padrone di sé. - Jimmie, vestiti e corri alla Canonica. Suona e chiedi di Mr. Carter. Fallo venire subito con te. La testa di Frank le sfuggì alquanto dalle mani, ed ella si alzò un po' per sostenerla meglio. Quand'ebbe finito e si guardò nuovamente attorno, la stanza era vuota. Dalle scale venne un'improvvisa corrente e la fiamma oscillò nella lampada. E allora, ancora una volta senza freno, s'alzò il pianto di Erb. Un po' dopo l'alba di quella mattina di Natale, Mr. Parham-Carter sedeva solitario nella cucina. I bambini erano stati spediti da una vicina qualche ora prima, ed egli stesso era andato avanti e indietro tutta la notte, ed era sfinito - alla casa del prete cattolico a Homerton, dal medico e dall'infermiera della parrocchia. Era stato fatto tutto quel che era opportuno. Frank era stato unto dal prete, bendato dal medico e collocato dall'infermiera nel mezzo di un gran letto. Non aveva ancora ripreso, conoscenza. Ora erano di sopra Jack, Dick e l'infermiera; il prete e il medico avevano promesso una visita per prima delle nove - non avevano nulla da fare per ora, avevano detto - e Mrs. Partington in questo momento era fuori a cercar qualche cosa al dispensario. Il “clergyman” aveva ascoltato la sua narrazione durante uno degli intervalli nel corso della notte, e gli pareva di avere un'idea abbastanza chiara di tutta la tragedia, se per dir così, l'interpretazione data dalla donna ai rumori che aveva sentito era esatta. Il Maggiore doveva aver fatto un attacco inatteso, probabilmente con un calcio, rendendo momentaneamente inabile Frank, e poi, con l'approvazione divertita quantunque astratta di Mr. Partington, doveva aver proceduto ad infliggere la punizione a Frank che giaceva per terra. Doveva aver continuato per un pezzo. A quanto pareva, Frank era stato duramente colpito in tutto il corpo. E la cosa doveva esser finita con un improvviso attacco incontrollato da parte del Maggiore, non solo con le scarpe, ma almeno con una bottiglia: La testa del giovane aveva dei tagli profondi, come fatti col vetro, e la punizione doveva esser stata conclusa con tre o quattro calci sulla testa, prima che Mrs. Partington avesse potuto intervenire. L'opinione del medico corroborava questa interpretazione dell'avvenimento. Era impossibile, si capisce, sapere se Frank avesse avuto tempo o volontà di opporre alcuna resistenza. La polizia era stata avvertita, ma dei due uomini non s'erano ancora avute notizie. Era una di quelle aurore fredde, tristi, che non hanno alcuna bellezza di tepore o di serenità - almeno così pareva in Turner Road. Sopra la striscia di merletto lacero e sporco che copriva la parte più bassa 228/233 della finestra, torreggiavano contro il cielo d'acciaio le facciate nere dei casoni. Era tutto straordinariamente tranquillo. Di tanto in tanto echeggiava e svaniva il passo di qualche viandante all'estremità di una strada: ma non v'era ancora mormorio di voci, né gruppi alle porte, come senza dubbio vi sarebbero stati quando la notizia fosse diffusa. La stanza era triste anch'essa. Il fuoco era spento da un pezzo. Il letto dei bambini era disfatto, e la lampada a paraffina s'era spenta fumando per mezz'ora. Di sopra, il “clergyman” poteva sentire di tanto in tanto un passo smorzato, e questo era tutto. Egli era esausto per l'eccitazione e per una specie di terrore; e gli avvenimenti prendevano per lui lo stesso profilo netto e duro che avevano gli oggetti materiali in quella fredda luce dell'alba. Aveva attraversato una dozzina di stati di spirito diversi: un'ira furiosa per il crimine insensato, per lo spreco disperato e miserabile di una vita; una compassione opprimente e un rimprovero di sé assolutamente ingiustificato per non aver previsto il pericolo la sera prima. Gli eran venuti anche altri pensieri - dubbi se il significato intimo di tutte queste cose avesse una relazione qualunque con gli avvenimenti esterni; se, in fondo, tutto il dramma non fosse forse nel suo aspetto più intimo, un evento completo e perfetto - per essere esatti, un successo mirabile di una natura che egli non poteva comprendere. Certo, dal lato esterno, non poteva essere concepito uno spreco e un fallimento più lamentevole. Era stato sacrificato un complesso tale di valori - nascita, ricchezza, educazione, doti, posizione - e per un bene così eccezionalmente piccolo e dubbio, che, a quanto pareva, non sarebbe stato possibile aggiungere alcun dato per spiegare la situazione. Eppure non era possibile che simili dati esistessero, chissà dove, e che un'altra azione preziosa e perfetta si fosse compiuta - che, insomma, non vi fosse stato né uno spreco né un fallimento? Ma questi pensieri gli venivano come lampi; ora egli era esausto dall'emozione e dalla riflessione. Considerava i fatti spietati con un'attenzione succube e senza energia, e si domandava se sarebbe stato ancora chiamato di sopra. Si sentì di fuori un passo esitante; poi la porta s'aperse e il passo avanzò fino all'uscio della stanza, e una piccola faccia, paonazza dal freddo, con gli occhi ardenti, lo guardò. - Entra, Jimmie - mormorò il “clergyman”. E così rimasero a sedere, l'uno appoggiato contro l'altro, e l'uomo sentiva di tanto in tanto un brivido che non era di freddo scuotere il piccolo corpo al suo fianco. Dopo dieci minuti si sentì un passo che scendeva la scala, un po' affrettato, anche se in punta di piedi: e Mrs. Partington, col volto marcato dall'insonnia e dall'emozione, e colle labbra strette, gli fece 229/233 un cenno. Egli comprese, e salì la scala stretta, seguito dal fanciullo. Poi sentì la porta esterna che si chiudeva, mentre la donna usciva di casa. Nell'entrar nella stanza gli parve di passare addirittura da un mondo a un altro: e questa sensazione fu così brusca e improvvisa che ristette un momento sulla soglia, come stupito del cambiamento. Dapprima, fu l'assoluta immobilità della stanza che lo impressionò, tanto dominava in ogni elemento. V'erano delle persone, in quella stanza, ma erano come statue. Dall'altro lato del letto, ora decente e ordinato, posto nel mezzo della stanza, erano inginocchiati i due uomini, Jack Kirkby e Dick Guiseley, ma né l'uno né l'altro alzarono gli occhi né lasciarono capire che si fossero accorti della sua presenza quando egli era entrato. I loro volti erano in ombra: dietro a loro era la luce fredda della finestra, e un mozzicone di candela quasi del tutto consumato stava sul tavolino nell'angolo, con uno o due vasi e alcuni strumenti coperti. L'infermiera s'inginocchiò al fianco del letto, con un braccio sotto il guanciale e l'altro sulla coperta. E poi, v'era, Frank. Era perfettamente immobile, coricato sul dorso, con le mani incrociate sul petto, e anche le mani erano fasciate. La testa era rialzata da tre o quattro guanciali, e una specie di casco gli nascondeva completamente i capelli e gli orecchi. Solo il suo profilo si mostrava preciso e distinto contro il bagliore dell'angolo. Aveva il viso del tutto tranquillo, pallido come l'avorio, e le labbra chiuse. Solo gli occhi erano vivi... Poi gli occhi si volsero alquanto, e l'uomo ritto alla porta, comprendendo lo sguardo, venne avanti e s'inginocchiò anch'egli di fianco al letto. Allora, a poco a poco, egli cominciò, in quella viva immobilità, a comprender meglio quello a cui assisteva. Non era che vi fosse nulla di fisico nella stanza, oltre alle cose che i suoi sensi gli rivelavano: v'era soltanto il mobilio squallido, il letto bianco, ora augusto di una strana dignità come quella d'un altare, e le quattro persone oltre a lui stesso - anzi cinque, perché Jimmie era al suo fianco. Ma che quello fisico non fosse il piano del quale quelle cinque persone erano ora soprattutto consapevoli, era la cosa più evidente di tutte... v'era attorno a loro non una Presenza, non un'atmosfera, non una dolcezza o una musica, eppure è solo con queste negazioni che la realtà poteva essere espressa... E così essi stavano in ginocchio e attendevano. - Oh, Jack... L'atmosfera di attesa fu rotta come dal rintocco d'una campana, eppure era stato soltanto un sussurro. L'uomo che gli era più vicino 230/233 dal lato opposto scattò con un unico movimento spasmodico e posò leggermente le dita sulle mani fasciate. E poi per un lungo tratto non vi fu più né movimento né suono. - Rosario!... - disse Frank a un tratto, ancora con un soffio - corona... Jack si mosse fulmineo sulle ginocchia, prese una corona dal tavolo su cui era stata posta la notte precedente, e glie la pose tra le dita immobili. Poi vi appoggiò nuovamente la sua mano. Ancora una lunga pausa. Di fuori, dalla strada, si sentì un passo che veniva dalla direzione di Mortimer Road, si faceva netto e pesante sul selciato, e andava morendo sulla strada che conduce alle paludi. E, a parte questo, non vi fu alcun rumore per un pezzo: un carro cigolò all'estremità della strada, e si rifece silenzio. Ma il silenzio nella stanza era d'un genere diverso, o piuttosto il mondo sembrava silenzioso perché lo era questa stanza, e non viceversa. Il centro era qui, dove un uomo stava morendo, e da questo centro irradiava la Gran Pace. Non v'era nulla di sprecato, dunque, dopo tutto! questa vita di strana irragionevolezza che terminava in questo acme di inutilità, proprio quando le cose ordinariamente utili stavano per cominciare. Poteva essere sprecato quello che terminava così? - Prete - sussurrò la voce dal letto. Allora Dick si curvò in avanti. - È già stato qui - disse piano e distinto. - C'è stato alle due. Ha fatto... quel che doveva fare. E torna adesso, subito. Gli occhi si chiusero in segno di assentimento, e si riaprirono. Pareva che egli non guardasse a nulla in particolare, come in meditazione. Era come un uomo che attende a suo agio qualche piccolo avvenimento piacevole che stia per svolgersi. Non pareva che fosse in estasi, né in pena, né in attesa dolorosa: era semplicemente a suo agio, e aspettava. Era contento, qualunque potesse essere il sentimento degli altri. Un istante passò per la mente del giovane “clergyman” di dover pregare ad alta voce, ma l'idea venne subito abbandonata. Gli parve una cosa insensata e inopportuna. Non questo occorreva. Il suo compito era di guardare, non di agire. Così, a poco a poco, cessò di pensare attivamente, cessò di considerare questo e quello. Dapprincipio s'era chiesto quanto ci sarebbe voluto prima che giungessero il medico e il prete (la donna era andata a cercarli). Aveva desiderato che tacessero presto... S'era chiesto che cosa provassero gli altri, e come avrebbe potuto far la relazione al Vicario. Ora, a poco a poco, tutto questo cessava, e la pace cresceva di dentro e di fuori, finché raggiunse un perfetto pareggio; e la sua attenzione poté considerare ogni cosa nell'equilibrio completo. 231/233 Ancora non si presentava alcuna analogia né alcun simbolo. Non era neppure per negazioni che egli pensava. V'era precisamente un solo elemento positivo che comprendeva tutto: il tempo pareva che non significasse nulla, i battiti dell'orologio erano a malapena susseguenti; era tutto una cosa sola e quel che era distante era nulla, e quello che era vicino era nulla... perfino quel viso così vicino che moriva sui guanciali... E fu così che qualcosa almeno dello stato nel quale Frank era passato si comunicò ad uno almeno di quelli che lo videro morire. Dopo un po' di mezz'ora Frank parlò un'altra volta. - Caro Whitty... il diario... ditegli... Tornava il ricordo del medico materialista, che l'aveva pietosamente curato. La fine venne pochi minuti prima delle nove, e pare sia venuta naturalmente come la vita. Non vi fu dramma, non gesti, neppure una parola. Quelli che erano là, lo videro muoversi così leggermente nel letto e alzare un pochino il capo. Poi il capo ricadde, e il Fallimento fu completo. FINE 232/233 Riferimenti Questo eBook è pubblicato dai curatori del sito www.LaParola.it da dove può essere scaricata liberamente. L’opera non ha un prezzo, tuttavia ha un costo! Se trovi quest’opera di un certo interesse, considera la possibilità di inviarci una donazione. Per maggiori informazioni, visita la pagina web: www.laparola.it/ebooks.php Grazie, e arrivederci! 233/233