Fabio Massimo Cestelli / Brigida Testa il Cattolicesimo politico dal Risorgimento ai giorni nostri Prefazione di Publio Fiori Introduzione di Alessandro d’Avack ARACNE Copyright © MMV ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 a/b 00173 Roma (06) 93781065 fax (06) 72678427 ISBN 88–548–0125-9 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: luglio 2005 A mio padre F.M.C. A mamma e papà con infinito amore B.T. Indice Prefazione .................................................................................. 9 Introduzione ............................................................................... 11 Premessa ................................................................................... 15 1. Il Risorgimento ...................................................................... 17 2. Il Non Expedit ........................................................................ 29 3. La Dottrina Sociale della Chiesa ............................................. 41 4. Tra due secoli ......................................................................... 47 5. Cattolici e Fascismo ............................................................... 67 6. De Gasperi e la Dc ................................................................. 87 7. Ieri e oggi ............................................................................... 99 Bibliografia ................................................................................ 111 7 Prefazione Passato e presente si fondono inscindibilmente nelle riflessioni che suscita questo saggio di Fabio Cestelli e Brigida Testa sulla storia del cattolicesimo politico in Italia. Un passato ingombrante, problematico, conflittuale, che ha segnato in profondità il cammino del nostro Paese negli ultimi due secoli e la sua evoluzione storica, sociale e culturale. Un presente che sembra riproporre, in certi suoi scenari politici, mutatis mutandi, la (falsa) dialettica risorgimentale fra progresso e reazione, fede e ragione, oscurantismo clericale e illuminismo elitario. La storiografia più aggiornata e consapevole, ha ormai ribaltato certi cliché, frutto di una stagione di intense passioni civili, ma poco rispondenti all’autentico sviluppo degli avvenimenti. Il popolo italiano, d’altronde, ha a sua volta ampiamente metabolizzato i contrasti di un tempo e i settantacinque anni che ci separano dalla Conciliazione — largamente e legittimamente valorizzata nel testo, quale momento–chiave — hanno visto una sempre più ampia compenetrazione e collaborazione fra Chiesa e società italiane, ancora oggi percepibili, nonostante il processo di secolarizzazione. Merito di questo risultato spetta senz’altro ai più intelligenti ed aperti esponenti delle classi dirigenti del Paese, che l’hanno promosso e favorito. Ma largo merito va anche, e soprattutto, tributato proprio al cattolicesimo politico italiano, del quale istanze, uomini e percorsi sono attentamente colti e illustrati nelle pagine seguenti. L’opera culturale di alcuni grandi italiani, a me particolarmente cari — come Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini — che tentarono di coniugare le aspettative risorgimentali con le tradizioni religiose e morali del popolo italiano; l’azione svolta dalla dottrina sociale della Chiesa e da quei gruppi e personaggi che operarono per applicarla nella quotidianità politica; il ruolo svolto dalla Democrazia Cristiana nel secondo dopoguerra, e in modo particolare negli anni della ricostruzione e del boom: questi sono, a mio avviso, i momenti principali di 9 10 Prefazione una vicenda che costituisce una sorta di spina dorsale dell’intera storia nazionale contemporanea. Cestelli e Testa hanno avuto la capacità di sintetizzare un’enorme mole di dati storiografici, presentandoli in un’attenta sintesi di facile e scorrevole lettura, ma di indubbio valore scientifico, che non si perita di compiere incursioni nella storia internazionale e diplomatica e nella politologia, offrendo pertanto uno strumento di cultura di grande interesse e valore, per chiunque si cimenti in un qualsiasi tema attinente la politica, la società, la cultura dell’Italia di oggi. Ché questo, in definitiva, è il nodo essenziale che soggiace all’intera storia del cattolicesimo politico italiano: il suo ruolo di protagonista, la sua funzione potrei dire paradigmatica, quale chiave di interpretazione della dinamica storica degli ultimi duecento anni e pure della nostra quotidianità. In tale ultima dimensione, da me particolarmente sentita, visti il mio ruolo e il mio impegno in ambito politico e istituzionale, occorre infine calarsi, per cogliere il senso più vero e profondo di quella storia. Oggi, infatti, mentre la società viaggia celermente verso un futuro incerto e contraddittorio, fatto di progresso ma anche di barbarie, e pare farlo dimentica delle sue radici e dei suoi presupposti civili e morali, le istanze del cattolicesimo politico risultano più che mai attuali. Antidoto a pericolose derive di tipo tecnocratico e relativista, contravveleno rispetto alle tossine nichiliste che attanagliano la cultura contemporanea — elitaria o popolare che sia —, esso rimane come l’unica, grande corrente politica e dottrinale del Novecento ancora in grado di proporre soluzioni e rimedi validi, rispetto ai mali moderni e, al tempo stesso, di condurre la società verso un domani migliore, coniugando i grandi doni della modernità con i valori superiori che fondano la dignità della persona umana. Publio Fiori Vicepresidente della Camera dei Deputati Introduzione Fabio Massimo Cestelli, già allievo del prof. Piero Bellini, è attualmente professore a contratto presso le cattedre di Diritto canonico ed ecclesiastico della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cassino. Brigida Testa si è da quasi due anni laureata in Diritto ecclesiastico, cattedra con la quale attualmente collabora, con una tesi dal titolo Esegesi storica e analisi del Trattato del 1929 tra il Regno d’Italia e la Santa Sede. Filo conduttore dello studio, che da una parte segue con estrema attenzione l’evolversi storico della situazione politica e sociale italiana con riferimento ai vari partiti e ai diversi governi e dall’altra non trascura la posizione e i dettati della Santa Sede, è l’atteggiamento politico dei cattolici dalla metà del XIX secolo ai giorni nostri. In estrema sintesi accenno ai tratti che ritengo di maggiore interesse. Il punto di partenza è il Regno di Sardegna e la politica ecclesiastica di Camillo Benso, conte di Cavour, in sostanza un’anticipazione delle c.d. “leggi eversive”. I capisaldi della politica ecclesiastica di Cavour erano la necessità di un programma liberale che prevedesse l’assoluta separazione fra Chiesa e Stato e la necessità dell’unificazione dell’Italia con Roma capitale per una serie di ragioni ideologiche, logistiche e storiche. L’occupazione di Roma e il successivo trasferimento della capitale da Firenze a Roma, portarono negli anni a seguire alla c.d. “Questione Romana”, un argomento che divenne strumento in mano alle potenze straniere e che, come vera spada di Damocle, pesò per moltissimi anni sulla testa del neonato Regno d’Italia e ne influenzò non poco tutto il successivo percorso storico. E, a proposito delle potenze straniere, si osserva come in tutto il testo non manchino riferimenti alle stesse e ai vari movimenti cattolici esteri, rapportati ai singoli momenti storici. Presa Roma, con il Pontefice “prigioniero” nel Vaticano, i cattolici 11 12 Introduzione tendevano ad estraniarsi dalla vita nazionale, anche perché nel mese di marzo del 1871 alla domanda se i cattolici potevano partecipare alla vita politica, la S. Penitenzieria Apostolica rispose “non expedit”, cioè non è conveniente. Altro problema preso in esame è la c.d. “rivoluzione industriale” con bassi salari, orari di lavoro eccessivi, lo sfruttamento indiscriminato di donne e bambini… mali ai quali la Chiesa rispose con la Rerum Novarum di Leone XIII, Enciclica nella quale il Pontefice indicava i difetti sociali del capitalismo. Il nuovo secolo vide la nascita di grandi movimenti politici, primo fra tutti il Socialismo che venne subito demonizzato dalla Chiesa come il mostro rosso da sconfiggere ad ogni costo. Questa avversione ebbe un forte impatto nelle scelte politiche degli italiani. Notevole influenza nei rapporti fra Stato e Chiesa ebbe la “Grande Guerra”, caratterizzata da continui spunti anticlericali. Subito dopo (1919) venne abolito il “non expedit” e venne fondato il Partito Popolare Italiano di Don Sturzo. Il ventennio fascista fu un evento di grande importanza anche per i cattolici. Mussolini, anche se sciolse tutte le associazioni cattoliche e pose grossi limiti agli “Esploratori cattolici”, il tutto con il benevolo silenzio del Pontefice Pio XI, ebbe l’indubbio pregio di saper sfruttare a proprio favore il precedente malcontento in cui versava la Chiesa a proposito della c.d. legge delle “Guarentigie”, legge unilaterale in quanto proveniente solo dallo Stato e dallo stesso modificabile o revocabile ad libitum, tanto è vero che si era pensato di sospenderla durante la Grande Guerra; cosa che però non avvenne. Con i Patti Lateranensi pose fine alla Questione Romana, dando una sistemazione definitiva, all’interno della città di Roma, con la creazione di un nuovo Stato sotto la sovranità del Pontefice. Anche se i Patti generarono perplessità nelle file degli stessi cattolici, proprio perché la Chiesa si era accordata con un governo autoritario e antidemocratico, la firma degli stessi rappresentò per Mussolini un vero e proprio trionfo politico: ebbe l’appoggio se non proprio di tutti i cattolici, sicuramente di buona parte di essi e il plauso delle potenze straniere. Con la Seconda guerra mondiale e il dissolversi del regime fascista vi è un risveglio del cattolicesimo politico in Italia: la fondazione della Introduzione 13 Democrazia Cristiana, partito per dieci lustri al centro del panorama politico italiano e dissoltosi con l’implosione dell’Unione Sovietica, quando cioè era venuto meno il pericolo comunista. Caduto il muro di Berlino e iniziata tangentopoli l’atteggiamento politico dei cattolici è radicalmente cambiato: si impegnano non più in un solo partito politico, ma sono convinti di trovare una propria dimensione anche all’interno di partiti diversi. In sostanza non è un autunno del cattolicesimo politico, ma una primavera di tempi e idee nuove. Alessandro d’Avack Professore di Diritto ecclesiastico e canonico Università di Cassino Premessa Accostare i cattolici alla politica è stato un problema che ha per lungo tempo logorato le coscienze religiose degli italiani, per la grande maggioranza credenti negli insegnamenti della Chiesa Romana. Fino a quando il Papa fu detentore non solo del potere spirituale ma anche di quello temporale su tutta la Terra, il problema di una vita politica dei cattolici non aveva ragione di porsi, fu solo dopo il sorgere delle istanze illuministiche, dei profondi cambiamenti che la vita subì in presenza di esse e dunque della nuova visione del mondo che ne conseguì, che i cattolici cominciarono ad avvicinarsi all’idea di una politica che rispettasse sì i dettami della religione per quanto questa influiva sulla vita sociale, ma che fosse separata dall’esercizio della religione vera e propria. Il trono temporale del Papato cominciò a vacillare e di conseguenza sorsero una serie di conflitti sia a livello etico–morale che a livello puramente politico, conflitti che condizionarono per lungo tempo la vita italiana, impedendo la formazione di un pensiero politico che si sentisse realmente libero dai lacci del cattolicesimo ed influenzando per questa via il corso storico del nostro paese, a cominciare dal momento della unità nazionale e della scelta della stessa capitale. Fu infatti in pieno Risorgimento, con la raggiunta unità d’Italia e la conseguente necessità di debellare ciò che restava dello Stato Pontificio, con l’esigenza di stabilire a Roma la capitale dell’unificato Regno d’Italia, che le prime istanze politiche contrarie alla detenzione del potere temporale dei papi raggiunsero il loro obiettivo. Dalla perdita del potere temporale la Chiesa assunse un atteggiamento di chiusura verso tutto ciò che era politica e che disconosceva il suo antico potere, un atteggiamento che celava la speranza di ripristinare il potere temporale in mano al papato; speranza che fu però disattesa dal corso che ebbero i successivi eventi, determinati anche dal mutato sentire la posizione della Chiesa stessa, in seno ai credenti. Era ormai opinione diffusa che i due poteri dovessero restare separati e 15 16 Premessa che questo avrebbe permesso alla Chiesa di riavvicinarsi alla sua purezza iniziale: più povera, ma sicuramente più vicina ai veri dettami religiosi ed etici da essa stessa predicati. Ci vollero molti anni perché i cattolici si sentissero liberi dal peso del rimorso per aver contravvenuto alle indicazioni della Chiesa, rimorso che continuò a pesare sulle loro coscienze fino a quando non fu eliminato il non expedit attraverso il quale la Chiesa aveva condannato alla scomunica qualunque cattolico avesse preso parte attiva alla vita politica del proprio paese. Anche dopo la sua abolizione fu necessario il trascorrere di molto tempo perché i cattolici trovassero una propria dimensione politica, una concezione dello stato che gli permettesse di realizzare la propria visione di civiltà nel pieno rispetto delle istanze cattoliche, pur senza assumere toni non concilianti nei riguardi di chi cattolico non fosse. Fu solo grazie all’opera di grandi uomini del passato che tutto ciò fu realizzato e che i cattolici possono oggi affrontare la vita politica con estrema serenità, collaborando al progresso civile del proprio paese. Fabio Massimo Cestelli Brigida Testa 1. Il Risorgimento Il termine Risorgimento fu usato, per la prima volta da Saverio Bettinelli nel 1775 e poi da altri scrittori italiani, in senso letterario– culturale, come sinonimo di “rinascimento”: inizialmente stette dunque a indicare il grandioso movimento intellettuale sviluppatosi tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, scaturito dalla rinascita della coscienza politica italiana e destinato a rinnovare a fondo la comunità nazionale. Le manifestazioni più appariscenti si ebbero soprattutto nel campo della letteratura, tuttavia non senza un certo risveglio economico e scientifico. Il tema dominante della letteratura italiana fu l’incitamento agli Italiani, attraverso la rievocazione delle passate glorie, affinché si liberassero del giogo straniero. Alimentato da questo movimento intellettuale e intimamente legato ad esso, sorse e si sviluppò nel secondo venticinquennio del XIX secolo, il movimento politico che condusse l’Italia nel concerto delle nazioni europee come potenza libera e indipendente, costituita in uno stato unitario nazionale. Parallelamente al primitivo significato si affermò quello per cui il Risorgimento si identifica con il processo storico politico che portò all’unificazione e all’indipendenza della nazione italiana. All’interno di tale processo occorre distinguere le iniziative autoctone dall’azione a carattere nazionale svolta dal governo piemontese, diretta appunto al fine specifico della ricostruzione di una nazione italiana indipendente. I prodromi del movimento risalgono al 1820: gli anni seguenti furono caratterizzati da congiure, moti, agitazioni a carattere locale, soprattutto ad opera di sètte e associazioni segrete, quali la Carboneria e più tardi la Giovine Italia mazziniana. Non sempre tuttavia accanto all’ideale della libertà fu presente quello dell’unità, questo cominciò ad affermarsi solo col Mazzini, mentre qualche anno più tardi si delinearono altre correnti politiche quali la repubblicana–federalista (Cattaneo, Ferrari); la federalista neo–guelfa (Gioberti), che all’idea unitaria mazziniana opponeva il 17 18 Capitolo 1 concetto di una federazione italiana sotto l’ègida del papato; la corrente democratica le cui aspirazioni erano indipendenza e repubblica (unitaria o federale); la corrente moderata formata da quanti, in opposizione ai democratici, ricercavano la soluzione del problema italiano attraverso graduali riforme, rifuggendo dal ricorso a metodi violenti. Verso il 1848 l’idea di un’Italia unitaria e indipendente cominciò a farsi strada soprattutto nel Nord della penisola: col verificarsi della rivoluzione del Lombardo–Veneto, con le famose Cinque Giornate di Milano, con la contemporanea insurrezione di Venezia contro gli Austriaci, con le rivolte di Parma e Modena e infine con l’intervento del Piemonte e degli altri Stati Italiani in quella che fu la prima delle cosiddette Guerre d’Indipendenza. In quegli anni, soprattutto ad opera dei mazziniani, si registrarono in varie parti d’Italia tentativi di instaurare governi repubblicani: sorsero e scomparvero in pochi mesi la Repubblica Romana e la Repubblica Veneta. Si affermarono frattanto nuovi personaggi sulla scena politica italiana: Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Cavour. In soli tre anni con l’uso delle armi e con lo svolgimento di plebisciti, si realizzò, attraverso il progressivo ingrandimento del Regno di Sardegna, la riunione dell’intera penisola italica in un solo unico Stato. L’artefice principale di ciò fu il Cavour. Egli, sfruttando la presenza d’un movimento democratico, individuò le forze fondamentali che spingevano all’unificazione della penisola, ne interpretò gli interessi concreti e le aspirazioni spirituali ed ebbe la felice intuizione che il problema italiano andava visto nel quadro dell’equilibrio europeo. Il presupposto dell’unificazione italiana fu l’esistenza nella penisola di uno Stato costituzionale guidato da un partito moderato che rappresentava una garanzia contro il pericolo di soluzioni rivoluzionarie, pericolo del resto tenue nell’Italia dell’Ottocento in cui le forze democratiche erano confinate nell’ala estrema della borghesia intellettuale e non esercitavano una presa diretta sugli strati più vasti della popolazione. La situazione e le strutture economico–sociali italiane non consentirono altra soluzione che quella moderata, le classi operaie infatti non ebbero la forza di far sentire il loro peso e furono costrette a pagare il costo principale dell’industrializzazione del Paese. Dopo gli avvenimenti del 1848–49, il regno di Sardegna (ovvero il Piemonte) fu l’unico Stato Italiano in cui venne mantenuta la Costitu- Il Risorgimento 19 zione. Il nuovo re Vittorio Emanuele II, pur non essendo incline, né per educazione né per temperamento, al ruolo di sovrano costituzionale, intuì prontamente che questo era il solo ruolo possibile per far vivere la monarchia sabauda in un ambito più vasto del “municipalismo subalpino”. Il Piemonte necessitava di riforme per realizzare la propria modernizzazione e le riforme arrivarono, prima con le leggi Siccardi e poi con l’esordio in politica di un uomo animato da una potente personalità e da uno spiccato senso di diplomazia, un uomo che diventò presto il centro di tutto il sistema politico dell’Italia del Risorgimento: Camillo Benso conte di Cavour. Il Cavour ebbe una formazione intellettuale di larghi orizzonti, fin da giovane fu a contatto con gli ambienti politici del tempo e crebbe con l’occhio aperto e attento ai problemi europei. Come tutti i figli di famiglie aristocratiche, viaggiò in Francia e in Inghilterra studiando le strutture del Parlamento e dell’Amministrazione di quei paesi e interessandosi ai nuovi aspetti dell’economia. La sua fu una formazione più tecnica che umanistica, un’educazione incline alla concretezza: il suo liberalismo non ebbe nulla di “romantico”. La libertà era per lui un ideale altissimo e un metodo creativo e costruttivo assieme ed egli concepì il Parlamento come la migliore arma politica dell’uomo di stato; fu un liberale moderato, un uomo del “giusto mezzo”. Dopo il 1848 il suo obiettivo fu quello di esplicare tutta la ricchezza di cui era capace il liberalismo, dare splendore e fondatezza al regime costituzionale in Piemonte esercitando una forza d’attrazione sulle altre regioni d’Italia. La sua politica interna fu rivolta alla modernizzazione: creò le infrastrutture necessarie, stipulò trattati di libero scambio con Francia, Inghilterra e Belgio, cercò per questa via di realizzare quel progresso e quell’espansione del benessere che furono per lui sinonimo di liberalismo. Innovativa fu anche la sua politica ecclesiastica, con la riduzione del numero degli ordini religiosi negli stati sardi; l’incameramento dei beni di quelli soppressi e la loro destinazione alla beneficenza e all’insegnamento; la privazione della personalità giuridica alle congregazioni religiose. Fu proprio per tale politica ecclesiastica che si verificò la prima crisi di governo nel 1855, crisi la cui soluzione riportò Cavour alla testa del Ministero e provocò la rottura definitiva fra Vittorio Emanuele II e i clericali. 20 Capitolo 1 Nel 1859, col trattato di Zurigo, l’Austria cedette la Lombardia alla Francia, che a sua volta la cedette al Piemonte in cambio di Nizza e Savoia; nel 1860 si ebbe l’annessione dell’Emilia e della Toscana, comprese le legazioni pontificie di Ferrara e Bologna. Tale annessione costò al Piemonte la seconda scomunica da parte di Pio IX dopo quella relativa all’emanazione della legge del 25 maggio 1855. Alla fine del 1860 si aggiunsero le Marche, il Napoletano e la Sicilia: l’unità era ormai realtà. Con la legge n. 4671 del 17 marzo 1861 si costituì il nuovo stato come “Regno d’Italia” e Vittorio Emanuele II assunse il titolo di Re d’Italia. Con le discussioni del 25–27 marzo 1861, nelle aule di quel Parlamento che solo da pochissimi giorni poteva dirsi “italiano”, fu chiaramente rappresentata la posizione del liberalismo italiano e del governo di fronte al problema del potere temporale e di Roma capitale. Già l’11 ottobre 1860, il Cavour in un discorso alla Camera dei Deputati aveva affrontato il problema di Roma definendola capitale necessaria al Regno d’Italia e confermando i due capisaldi della sua politica ecclesiastica: 1) la necessità di un programma liberale che prevedesse l’assoluta separazione della Chiesa e dello Stato; 2) la necessità dell’unificazione d’Italia con Roma capitale del nuovo Regno. Nell’aspirazione a Roma capitale, confluirono sentimenti diversi: l’eco e l’ascendente delle grandi memorie del passato e del nome di Roma, l’odio verso il papato, il desiderio che la Chiesa tornasse alla semplicità di un tempo attraverso l’abbandono del potere temporale, la certezza che solo la scelta di Roma avrebbe evitato inutili e dannose gelosie regionali. Cavour rimase sempre fedele al suo programma e desiderò sempre risolvere la questione di Roma con le “forze morali”, più di una volta asserì che a Roma bisognava arrivare d’accordo col papa e col consenso della Francia. In questa direzione egli operò alcuni tentativi a partire dal 1859 a mezzo dell’abate Stellardi prima e del barone de Roussy poi. Più complesso ma ugualmente infruttuoso, fu il tentativo fatto attraverso il medico Pantaleoni e l’ex gesuita padre Passaglia: in questa occasione le trattative sembrarono giungere quasi a buon fine, quando Il Risorgimento 21 improvvisamente il card. Antonelli (Segretario di Stato), mutò atteggiamento rivolgendosi all’ambasciatore spagnolo perché promovesse un intervento delle potenze cattoliche a favore del potere temporale e sfrattando lo stesso Pantaleoni dallo Stato Pontificio. Le trattative furono irrimediabilmente interrotte dall’allocuzione concistoriale del 18 marzo 1861, alla quale il Cavour rispose con i celebri discorsi del 25 e 27 marzo, ritenuti il suo testamento politico, nel secondo dei quali enunciò la famosa formula “libera Chiesa in libero Stato”. Intanto, contemporaneamente alle trattative Pantaleoni–Passaglia, il Cavour, volendo assicurarsi l’appoggio di Napoleone III, cercò di stipulare una convenzione per il ritiro delle truppe francesi dallo Stato Pontificio, ribadendo nel contempo che l’Italia non intendeva rinunciare a Roma perché questa era indispensabile alla costituzione del Regno Italiano. La Convenzione che conteneva anche il riconoscimento del Regno da parte del governo imperiale, era quasi conclusa quando, il 6 giugno, la morte di Cavour sopraggiunse prematura e inattesa. Fu una grave perdita per la politica del nuovo Regno, anche in considerazione del fatto che i successori del Cavour, dimostratisi meno abili e privi della fiducia che il conte godeva presso Napoleone, non seppero sfruttare l’occasione. Il barone toscano Bettino Ricasoli, successore di Cavour al Governo, era un uomo politico dal carattere intransigente, privo dell’abile duttilità che aveva caratterizzato il suo predecessore, un credente entusiasta per il quale la riforma interiore della Chiesa aveva la stessa importanza del problema di Roma capitale. In lui riviveva il giansenismo toscano settecentesco, era dotato di una serietà e di un impegno morale che lo portavano a concepire lo Stato come uno dei mezzi da adoperare per quel rinnovamento della Chiesa cui egli fortemente aspirava. Ricasoli mirò a una soluzione del problema di Roma che assicurasse al pontefice la più ampia libertà nell’esercizio delle sue funzioni di capo religioso e garantisse alla Chiesa un’ampia indipendenza. In un indirizzo a Pio IX redatto nel settembre del 1861 egli riassunse il suo pensiero in questi termini: Il concetto cristiano del potere sociale, siccome non comporta l’oppressione da individuo a individuo, così non la comporta da nazione a nazione. Né la conqui- 22 Capitolo 1 sta può mai legittimare la signoria di una nazione sopra un’altra […] gli Italiani pertanto, rivendicando i loro diritti di nazione e costituendosi in regno, non hanno contravvenuto ad alcun principio religioso o civile […]. Intanto questo deplorabile conflitto arreca le più tristi conseguenze non meno per l’Italia che per la Chiesa […]. La Chiesa ha bisogno di essere libera e noi le renderemo la sua libertà […] ma per essere libera è necessario che ella si sciolga dai lacci della politica pei quali finora ella fu strumento contro di noi in mano or dell’uno or dell’altro dei potentati […]. Se volete essere maggiore dei re della Terra, spogliatevi delle miserie del regno che vi agguaglia a loro. L’Italia vi darà sede sicura, libertà intera, grandezza nuova, […] ella vuol rimanere cattolica, ma vuol essere libera e indipendente nazione. Frutto della sua elaborazione fu un Capitolato (o Convenzione) di 12 articoli che, insieme a due lettere del 10 settembre 1861 per il papa e per il card. Antonelli, avrebbe dovuto essere trasmesso a Roma tramite Napoleone III, la cui intermediazione fu richiesta dallo stesso Ricasoli a mezzo del Ministro del re a Parigi, Costantino Nigra. La Convenzione in questione si discostava da quella cavouriana per una maggiore indeterminatezza, per una più ampia liberalità di concessioni e per il previsto concorso delle potenze cattoliche nella dotazione da assegnare alla Santa Sede: tanto bastò perché la Francia la ritenesse inaccettabile. Frattanto i rapporti fra l’Italia e la Santa Sede andarono peggiorando anche a causa della pubblicazione di un opuscolo con il quale padre Passaglia, celandosi dietro l’anonimato, tentò di sollevare il basso contro l’alto clero. La pubblicazione, che fu incoraggiata dallo stesso Ricasoli, suscitò molto scandalo e l’opuscolo fu messo all’Indice. Caduto il Ricasoli gli succedette il Rattazzi e sotto il suo Governo si verificò il triste episodio di Aspromonte: Garibaldi, a capo del partito d’azione, premeva per l’immediata conquista di Roma, a tal fine mosse con una nuova spedizione in Sicilia, passò lo stretto al grido di “Roma o morte” e in quella direzione marciò audacemente fino ad arrivare in Aspromonte dove i volontari garibaldini si scontrarono con le truppe regolari, furono rapidamente dispersi e il loro capo fu catturato, ferito a un piede. Questi episodi allontanarono ancora di più la possibilità di una soluzione. Caduto il Rattazzi, le redini del governo furono assunte dal Farini prima e dal Minghetti poi, quest’ultimo negoziò con la Francia una Convenzione che fu firmata nel settembre del 1864, con essa la Francia si Il Risorgimento 23 impegnava a ritirare il proprio presidio da Roma in due anni, l’Italia si impegnava a non portare alcun attacco allo Stato Pontificio e a impedire ogni azione contro di esso che partisse dal suo territorio, la capitale del regno d’Italia inoltre, veniva trasferita da Torino a Firenze. La Convenzione era in realtà in vari punti equivoca: non prevedeva il caso di insurrezione dall’interno dello Stato Pontificio e il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, poteva essere interpretato come rinunzia a Roma o come tappa di avvicinamento ad essa. La Convenzione lasciò veramente soddisfatta solo la Francia che credette così di aver conciliato i suoi interessi con quelli del papato mentre ai clericali sembrò che Napoleone III avesse abbandonato il pontefice alla mercé dell’Italia tanto che, alla fine del 1864, Pio IX pronunciò il formale divorzio della Chiesa dalla civiltà liberale e moderna emanando il Sillabo: raggelante risposta all’isolamento politico e ideale in cui la Chiesa era costretta. L’8 dicembre 1864, infatti, fu pubblicata l’enciclica Quanta cura alla quale seguiva il Sillabo, una raccolta dei principali errori dell’epoca che non lasciava alcun adito alla possibilità di una conciliazione tra Chiesa, liberalismo e democrazia. Il trasferimento della capitale a Firenze sembrò, a gran parte dell’opinione pubblica, offensivo della dignità nazionale in quanto era stato pattuito in un trattato internazionale, l’animo dei piemontesi ne fu profondamente ferito e la reazione fu data dai violenti tumulti di Piazza San Carlo a Torino. In seguito a tali sanguinosi eventi il re fu costretto a licenziare il Minghetti che fu sostituito dal La Marmora. Giunti alla fine del 1866 le milizie francesi, in esecuzione della convenzione di settembre, dopo 18 anni di occupazione lasciarono Roma e Napoleone III colse l’occasione per ricordare all’Italia l’impegno che questa aveva assunto per rispettare e far rispettare lo Stato Pontificio. Nel 1867 tornò al governo per la seconda volta il Rattazzi: di nuovo la sua politica fu improntata all’ambiguità e ancora una volta Garibaldi tornò alla ribalta: ossessionato dall’idea di marciare su Roma, tuonante contro il pontefice e fiducioso di ripetere le imprese del 1860. Si è detto che la Convenzione di settembre non contemplava il caso di insurrezione interna allo Stato Pontificio: Rattazzi e il partito d’azione tentarono di sfruttare tale lacuna ordendo trame per far scoppiare una rivolta, ma i romani non ebbero la reazione da essi sperata. 24 Capitolo 1 Intanto Garibaldi, nonostante fosse stato tratto in arresto e posto sotto sorveglianza a Caprera, riuscì a fuggire e a raggiungere il figlio Menotti alla frontiera pontificia, con questi si spinse fino a Monterotondo e il 3 novembre affrontò le forze del papa a Mentana battendole. Subito dopo però, fu sopraffatto da un contingente di francesi dotato di moderni fucili a retrocarica che Napoleone III aveva inviato a difesa del papa: Garibaldi fu costretto a tornare a Caprera. Mentana fu il momento culminante della carriera garibaldina, ma anche il punto critico dell’amicizia italo–francese, la sconfitta di Mentana infatti dette occasione di sfogo all’ira francese contro l’Italia e contro i garibaldini e fu anche l’inizio di un ultimo tentativo di ripresa del papato temporalista: Pio IX, cercando di riconquistare un terreno che era tuttavia irrimediabilmente perduto, convocò per il 1869 un Concilio Ecumenico durante il quale fu sancita l’infallibilità del pontefice in materia di fede anche senza l’assistenza del concilio, realizzando così un processo plurisecolare di centralizzazione della Chiesa e di progressiva restrizione pratica del potere dei vescovi. Con lo scoppio della guerra franco–prussiana (19 luglio 1870) Napoleone III, dopo le prime sconfitte, dispose il ritiro delle sue milizie da Roma poiché queste si rendevano necessarie altrove, e si affidò alla lealtà del Governo Italiano per il rispetto della Convenzione, lealtà confermata dal Ministro degli esteri Venosta che assicurò l’Imperatore che il governo del re si sarebbe uniformato agli obblighi risultanti dalle stipulazioni del 1864. Dopo la sconfitta subita dai francesi a Sedan (1° settembre 1870) e la fine del II Impero, il Governo Italiano presieduto dal Lanza, denunciò la Convenzione di Settembre e, cogliendo l’occasione dell’isolamento in cui la Santa Sede era venuta a trovarsi dopo la proclamazione dell’infallibilità pontificia, fece occupare Roma da un corpo di truppe regolari, non senza aver prima tentato una pacifica trattativa dichiarandosi pronto a entrare in colloqui con le altre potenze cattoliche. Di fronte all’indifferenza di tali potenze, che chiaramente mostrarono di preferire che fosse l’Italia ad accollarsi tutto l’onere e la responsabilità di una soluzione, il Lanza ruppe gli indugi. L’11 settembre il generale Cadorna, rassicurò con un proclama le province romane, il proclama fu lanciato alla vigilia del passaggio del confine, da Terni: Il Risorgimento 25 Voi saprete provare all’Europa come l’esercizio di tutti i vostri diritti possa congiungersi col rispetto alla dignità e all’autorità spirituale del Sommo Pontefice. La Santa Sede rimarrà inviolabile in mezzo alle libertà cittadine, meglio che non sia mai stata sotto la protezione degli interventi stranieri. Il giorno successivo il generale, con un corpo di truppe regolari, invase il territorio pontificio e il 19 fu sotto le mura della città. Il 20 settembre le truppe entrarono in Roma attraverso la breccia di Porta Pia col minimo spargimento di sangue possibile. La capitolazione stipulata a Villa Albani il 20 settembre 1870 tra il gen. Cadorna e il gen. Kanzler pose fine alle ostilità e il 2 ottobre un plebiscito sanzionò l’unione di Roma all’Italia Il risultato del plebiscito fu ufficializzato col R.D. del 9 ottobre col quale si annunciava esplicitamente la futura emanazione di una legge che risolvesse la situazione del pontefice. La necessità di accordare guarentigie al Sommo Pontefice era intimamente collegata all’abolizione del potere temporale; dopo aver occupato Roma con la forza fu necessario rendere possibile la convivenza, nella stessa città, del Capo della Chiesa Cattolica e del Re d’Italia. Il governo del momento si trovò in una non facile situazione di fronte alla necessità di mantenere stretti rapporti diplomatici con gli altri governi, sia per giustificare l’avvenuta occupazione, sia per concretizzare le assicurazioni di libertà e indipendenza del Sommo Pontefice. Fu necessario un lungo e abile lavoro di diplomazia al fine di preparare l’opinione pubblica delle altre potenze cattoliche europee ed evitare così il crearsi di complicazioni internazionali. Tuttavia dalla corrispondenza diplomatica risulta che il nostro Ministero prevedeva ostacoli maggiori di quelli che realmente si trovò ad affrontare, promise più di quanto esso stesso credètte poi di dover realizzare e concesse più di quanto fosse necessario. Quando i documenti diplomatici furono presentati alla Camera, per la Sinistra fu evidente che le condizioni politiche estere erano più rosee del previsto e quindi sospettò che esistessero accordi e conversazioni segrete o confidenziali, non riusciva a comprendere il motivo per cui si concedevano tante prerogative alla Chiesa a discapito dei diritti dello Stato, se il governo non subiva nessuna pressione in questo senso: in realtà il Ministero aveva commesso un errore nel valutare la gravità degli ostacoli che avrebbe incontrato. 26 Capitolo 1 Il 9 ottobre, il 19 ottobre e il 29 novembre, furono emanati R.D. in materia di pubblica sicurezza, di stampa, di punibilità di reati contro la persona del pontefice, decreti che erano i precedenti immediati della legge delle Guarentigie. Il 9 dicembre del 1870, il presidente del Consiglio Lanza, presentò alla Camera il primo progetto di legge, seguì la relazione della Giunta con le modifiche proposte. Il testo risultante fu discusso alla Camera per circa due mesi e approvato con 185 voti favorevoli e 106 contrari. Il passaggio al Senato impegnò sei giorni per approdare al testo definitivo con larghissima maggioranza: 105 voti favorevoli e 20 contrari. La discussione della legge fu lunga e molto vivace a causa dei contrasti di tendenze religiose, politiche e giuridiche. La necessità delle guarentigie era evidente a tutti, ma le divergenze sorsero numerose quando si trattò di determinare le prerogative del pontefice e della Santa Sede. La maggioranza dovette sconfiggere la resistenza dei giurisdizionalisti che volevano che lo Stato conservasse parte delle sue vecchie armi di difesa contro la Chiesa. Molti deputati della Sinistra vedevano nel clero un nemico e temevano che le immunità concesse ai palazzi apostolici trasformassero questi luoghi in asilo per i malfattori. Il 13 maggio del 1871, con l’emanazione della legge n. 214, lo Stato Italiano poneva una soluzione unilaterale alla Questione Romana, attraverso la cosiddetta “legge delle Guarentigie” infatti, riuscì ad attuare il proposito di unire Roma all’Italia senza il consenso del papa conciliandolo con l’esigenza di rispettare, più o meno largamente, le libertà della Santa Sede; lo scopo fu di assicurare la libertà e l’indipendenza della Santa Sede, in sostituzione del potere temporale ormai soppresso. L’obiettivo fu raggiunto attraverso la previsione per il papa di prerogative tipiche della sovranità, l’inserimento di disposizioni che permettessero al pontefice di esercitare liberamente la sua missione spirituale e concessioni di natura economica; il tutto accompagnato dall’estinzione, per debellatio, dello Stato Pontificio. La legge delle Guarentigie però non fu mai accettata dalla Santa Sede proprio a causa della sua unilateralità e riprova ne fu il fatto che Pio IX non accettò mai la dotazione economica che la legge stessa prevedeva a favore della persona giuridica Santa Sede. L’occupazione di Roma, la sua destinazione a capitale del Regno e l’emanazione della legge delle Guarentigie, resero insanabile il con- Il Risorgimento 27 trasto tra l’Italia e la Santa Sede. La protesta per l’occupazione di Roma fu immediata ed energica: il 20 ottobre il papa sospese il Concilio Ecumenico e dopo una breve lotta diplomatica a suon di note, Pio IX riassunse le sue solenni proteste nell’enciclica Respicientes ea omne de invasione imperii pontificii del 1° novembre 1870, con cui lanciò la scomunica latae sententiae. Le proteste non mancarono ovviamente anche proprio contro la legge delle Guarentigie, proteste contenute nell’enciclica del 15 maggio 1871 Ubi nos arcano Dei. La storia doveva fare il suo corso e nonostante le continue lamentele della Santa Sede e la continua ingerenza delle potenze straniere (che vedevano nella condizione del pontefice lo strumento ideale per esercitare pressione politica sul nostro governo), la legge restò in vigore. In realtà non mancarono occasioni per acuire i dissapori e dar luogo a nuove proteste della Santa Sede: in occasione della visita del re Vittorio Emanuele per l’inondazione del Tevere, durante il Carnevale del 1870 per le rappresentazioni pubbliche in cui si parodiavano le cerimonie cattoliche, per le rappresentazioni “oscene e immorali” durante l’estate del 1872. Il papa non cessava di rinnovare le proteste per la sua insostenibile situazione sub hostili dominatione, e tali proteste si ripercuotevano penosamente nella coscienza cattolica del popolo italiano, turbandone la vita politica. Ciò spiega l’interesse a che il dibattito tra Stato e Chiesa fosse superato e si giungesse a una conciliazione in grado di riportare tranquillità nelle coscienze e quindi nuovi impulsi alla vita italiana.