Numero
Athene Noctua
VI
I nostri Saggi
L’assente nella percezione
Di
Giorgio Astone
1
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Di Giorgio Astone
2
Indice
Prefazione…………………………………………………………………………………………….. 4
La profondità come assente dell'arte antica: Alois Riegl………………………………………… 5
La «sottrazione dell'illuminante» come processo neurologico……………………………………9
La legalità generale dei fatti della percezione………………………………………………….... 13
Limiti del pensiero scientifico nell'Occhio e lo Spirito di Merleau-Ponty……………………....16
Il concetto d'incarnazione e l'analisi della pittura di Cézanne …………………………………21
La profondità come esperienza della reversibilità ed il chiasma del Visibile e dell'Invisibile.. 27
Bibliografia…………………………………………………………………………………………...29
3
Prefazione
Che cos'è lo spazio? Parola di incredibile portata filosofica (e in alcuni sistemi sufficiente, con il
“Tempo”, per tenere insieme l'ontologia più profonda de “l'Essere”), ciò che non può essere trascurato di
questo termine è il suo rapporto col percepito: spazio è quell'ambiente fisico entro il quale la vita
ontogenetica si aggrappa e che sorregge, in dinamiche fisiologiche e rapporti cinestetici, lo sviluppo della
conoscenza; spazio è allo stesso tempo quello che l'artista riproduce nella sua opera, più strettamente una
distanza, a volte misurabile in scala, a volte caotica o lasciata volutamente “indefinita”, fra uno o più
elementi dell'opera stessa, come in una fotografia o in un dipinto.
Lo spazio è infatti, prima di qualsiasi ricerca speculativa di carattere metafisico, un campo dell'esistente
che coinvolge i sensi: si percepisce uno spazio entro il quale il corpo si muove e lo si esplora tramite i
sensi.
Un percorso, apparentemente paradossale, che è possibile seguire fra più scienze, riguarda quell'aspetto
della spazialità a cui accediamo attraverso i sensi ma che non viene direttamente esperito; lo spazio,
potremmo dire, che “viene accennato”. Cosa dire, per esempio, di un oggetto che osserviamo
frontalmente ma del quale non possiamo vedere il lato posteriore o l'ombra? Come nascono, e che
esigenze portano alla nascita di, fenomeni pittorici come “lo scorcio”, la “prospettiva”, il “punto di fuga”?
Esistono degli spazi immaginativi nella storia delle arti, costrutti che attraverso quelle che potremmo
definire illusioni sensibili ci facilitano un lavoro di tipo associativo e creativo assolutamente necessario
per l'affinarsi e l'espandersi delle proprietà intellettuali del soggetto-osservatore.
Figura 1 - Kazimir Malevič, sezione
di “Dipinto suprematista” (1915)
L'arte mette in evidenza soltanto ciò è sotto gli occhi di tutti nell'esperienza quotidiana: la possibilità
concreta d'immaginare il non-visto e di considerarlo parte dei nostri ragionamenti. Al giorno d'oggi teorie
estetiche di primaria importanza, come quella di K. Walton, vedono non soltanto nelle opere d'arte ma
4
anche negli oggetti che tangono i nostri sensi dei «props1» (supporti) per la nostra immaginazione. È
attraverso un'integrazione di mondo immaginativo e mondo evidente ai sensi che costruiamo l'immagine
del “Reale”: se osserviamo la Figura 1, nel quadro di Kazimir Malevič vedremo delle zone dove diverse
figure geometriche si sovrappongo ad altre, pur non essendovi nell'opera effetti tali da renderci un senso
di tridimensionalità; nonostante ciò, quasi spontaneamente presupponiamo l'esistenza delle figure che
vengono coperte anche dove non possiamo seguire i loro contorni: ciò crea in qualche modo, nell'opera,
un «mondo di finzione2» che dobbiamo riconoscere3. Cosa ci impedisce, a questo punto, di riconoscere
anche nella visione reale, in ciò che non possiamo vedere ma che sostituiamo con la nostra
immaginazione, una più profonda σύνϑεσις rispetto alla sommatoria delle ricezioni degli apparati
sensoriali?
Ciò che di assente vi è nella percezione, quindi, ciò che la percezione di un qualcosa suggerisce ma che
non è possibile allo stesso tempo compitare, toccare, mostrare, indicare. Una rapida analisi di quattro
opere di studiosi di prim'ordine ci permetterà di capire come in discipline disparate, la storia dell'arte, la
neurofisiologia e la riflessione filosofica, si ponga in maniera evidente l'accento sulla comprensione della
spazialità che trascende il percepito: l'orientamento che le tre discipline condividono è quello del lavoro
inconscio che lo spettatore-cervello-artista deve fare nella ricostruzione di qualcosa; la “Riproduzione”
del mondo presente, categoria abbandonata dall'arte del XX secolo a favore di una nuova “Presentazione”
del reale, non può sussistere neanche nell'apparato conoscitivo per eccellenza all'interno del nostro corpo,
il cervello.
1 - La profondità come assente dell'arte antica: Alois Riegl
Anche nella storia dell'arte vi sono dei “revisionisti”; Alois Riegl, insieme al predecessore Franz Wickhoff
nella cosiddetta “scuola di Vienna”, è stato considerato in questo senso un grande autore della
rivalutazione dell'arte romana (in particolare tardo-romana) nelle sue specificità ed innovazioni. Nella sua
opera più nota, “Die spätrömische Kunstindustrie” (1901), lo storico viennese interpretava elementi tipici
dell'arte tardo-romana come l'espandersi dei rilievi, la preferenza del curvilineo, della volta e della cupola
nell'architettonico, l'ammassarsi delle figure nel piano, ma anche la traforazione nella metallurgia o
l'utilizzo del mosaico, come forme nuove non semplicemente per la teoria dell'integrazione di influenze
diverse, barbare e “classiche” (Riegl polemizzò su ciò con Strzygowski), ma per una, in qualche modo
consapevole, “intenzionalità artistica” o Kunstwollen.
Il termine Kunstwollen, che continua ad avere svariati utilizzi anche in epoca contemporanea, si
ricollegava al concetto, espresso dallo storico già nel titolo della sua opera, di “Industria artistica”: ogni
epoca, in qualsiasi ramo del suo modo di esternare e di esprimersi, deve avere delle caratteristiche
1 Kendall L. Walton, Mimesi come far finta. Sui fondamenti delle arti rappresentazionali, Mimesis, Milano, 2011.
(Mimesis as Make-Believe, 1990).
2 Ivi, pagina 82. «La funzione di una rappresentazione è quella di essere usata come un supporto in certi generi di
giochi. Funzione in questo caso si potrebbe concepire come questione di esserci delle regole o convenzioni riguardo
al modo in cui si debba far uso dell'opera. I fruitori sono tenuti a praticare con l'opera certi generi di giochi. E questi
sono giochi in cui i giocatori sono soggetti a prescrizioni, derivanti dalle regole dei giochi e dalla natura dell'opera,
di immaginare certe proposizioni – quelle che sono fittizie nell'opera. Così possiamo dire che ciò che è fittizio in
un'opera è ciò che i suoi fruitori (in qualità di suoi fruitori) devono immaginare. […] In generale, una proposizione è
fittizia se vi è una prescrizione che stabilisce che debba essere immaginata. […] Nel caso delle rappresentazioni, le
prescrizioni sono fissate in modo perfino meno diretto; ci sono meta-regole, che costituiscono le funzioni delle
opere, che prescrivono di praticare certi generi di giochi […]», pagina 85.
3 «In Dipinto suprematista (1915) di Kazimir Malevich noi “vediamo”, nella parte superiore della tela, una forma
rettangolare gialla posizionata diagonalmente davanti a una linea verde orizzontale (o rettangolo sottile e allungato),
la quale è a sua volta davanti a un ampio trapezoide nero orientato sulla diagonale opposta. Questo è il modo in cui
vediamo il dipinto, non come è. In realtà il giallo, il verde e il nero sono tutti (virtualmente) sullo stesso piano». Ivi,
pagina 79.
5
stilistiche dipendenti dalla Weltanschauung propria del tempo. Nel parlare di “spazialità” e della sua parte
eternamente assente, quest'opera ci interessa profondamente proprio perché Riegl finisce per farne quasi
una storia concettuale: il fil rouge dell'arte antica è la lotta alla profondità, alla tridimensionalità «che noi
siamo soliti considerare come la dimensione dello spazio nel senso più stretto4».
Il rapporto fra lo spettatore e l'opera d'arte viene influenzato dal rapporto che intercorre fra il soggetto e
l'oggetto, dal modo in cui il soggetto vuole vedere ciò che gli sta di fronte. Nella tripartizione che viene
ripresa nell'intero lavoro di Riegl vi sono tre fasi che riguardano la distanza fra lo spettatore (ma anche
l'artista stesso, primo e più vivo spettatore) e l'opera: la prima è una Nähsicht, visione ravvicinata, dove la
profondità dell'oggetto viene negata attraverso l'utilizzo della riproduzione nel piano; forma tipica
dell'arte egizia e legata ad osservanze di carattere religioso, la visione ravvicinata in realtà utilizza il tatto
più che la vista nella ricostruzione delle cose; per questo Riegl la chiamerà spesso “tattile” (vedremo
meglio questo concetto). L'emergere della figura dal piano avviene con l'arte greca: si ha finalmente la
percezione, nella figura, della sua ombra e della sua profondità (Normalsicht); tuttavia nell'arte greca,
creatrice perciò della “plasticità” modernamente intesa, vi è ancora una forma di resistenza, di pudicizia e
negazione. Lo spazio è un male necessario. Sarà dunque solo l'arte tardo-romana, con un vero e proprio
illusionismo5, a ribaltare la situazione: nell'architettura, nella scultura e in tutte le produzioni artistiche si
assiste alla diffusione del senso di profondità, al rapporto manifesto fra il creato e la sua ombra: anche per
esprimere il rilievo « la materialità tattile delle cose lascia posto ad una visione colorata6» dell'emerso
(bianco) e dell'ombra residua (nera), causando un allontanamento dell'osservatore, una Fernsicht.
L'affastellarsi delle figure sostituisce lo “sfondo”, il piano, che perde significato e al quale si preferisce il
groviglio, il σύμπλεγμα7.
Affinché si possa sperimentare la terza dimensione bisogna, dunque, vincere una resistenza. Questo
bisogno del piano nella rappresentazione è probabilmente dovuto ad un'esigenza di chiarezza, di nitidezza
che avvalora il procedimento mimetico dell'artista antico; isolare la forma, renderla evidente e non
sovrapposta e intersecantesi ad altre, nobiliterà una disposizione più chiara di quella reale. Così nell'arte
egizia abbiamo, ad esempio, la linea del contorno che assume un'importanza centrale; vi sono pure degli
artifici tecnici, come la raffigurazione del profilo in assenza della frontalità o l'innaturale torsione del
busto delle figure in movimento, elementi in linea con una configurazione che non necessita quella
lontananza dello spettatore, e prossemica e mentale. Nelle parole di Riegl:
«Lo spazio riempito con aria atmosferica, per cui le singole cose esterne per l'ingenua
osservazione dei sensi sembrano essere separate l'una dall'altra, non è appunto per tale
modo di osservare una individualità materiale, anzi è la negazione della materia e perciò
un niente. [...] Ma l'arte antica doveva andare ancora più innanzi […] essa doveva negare
e sopprimere deliberatamente l'esistenza dello spazio perché era svantaggiosa per la
chiara visione dell'individualità dell'oggetto esterno, unitario in modo assoluto8» .
Nel paragone a cui prima accennavamo, fra soggetto percettivo e artista (potremmo dire che ogni
soggetto, in rapporto alla percezione di un oggetto, diventa artefice di una sua rappresentazione, che se
esternata diventa elemento artistico in senso lato), anche l'artista si deve perciò rapportare in modo
4
Alois Riegl, Industria artistica tardoromana, Sansoni, Firenze, 1953. (Die spätrömische Kunstindustrie nach
den Funden in Österreich, 1901), pagina 27.
5 Il concetto di «illusionismo» dell'arte romana, soprattutto per quanto riguarda il periodo medio-romano (ad esempio
nel lasso di tempo fra il 69 e il 96 d.C.), è stato il cavallo di battaglia dell'altro grande “revisionista” a cui abbiamo
accennato, Franz Wickhoff. Per una trattazione riassuntiva dell'opera di Wickhoff si veda Sergio Bettini, L'arte alla
fine del mondo antico, Testo&Immagine, Torino, 1996. In particolare “Lo stile illusionistico” (pagina 25) e “Lo stile
storico-narrativo-continuo” (pagina 31).
6 Riegl, Industria artistica tardoromana , pagina 111.
7 Bettini riconduce, a differenza di Riegl, meno filosoficamente e più storicamente il tema del σύμπλεγμα nell'arte
romana alle influenze siniche tramite contatti e scambi con gli Unni. Si veda in particolare Bettini, Opera citata,
pagina 72 e seguenti, “Oriente, Occidente, barbarie”.
8 Riegl, Industria artistica tardoromana, pagina 25.
6
adeguato all'oggetto nella ricezione della sua fase creativa. Ai prodromi dell'estetica, nelle riflessioni
sull'arte della filosofia antica, il termine che troviamo più frequentemente per esprimere questo modo di
rapportarsi, dell'artista al mondo, è μίμησις (in latino imitatio): la terminologia ci può aiutare ad
immaginare un rapporto che, oltre ad escludere l'immaginativo ricostruibile tramite la coscienza spirituale
dell'osservatore (questa sorta di Unterwelt9) anche con determinati procedimenti tecnici, si deve inoltre
difendere dalle incursioni della soggettività, da un'interpretazione delle cose che non abbia a che fare
esclusivamente con una pretesa scientifico-oggettiva10.
Evitare inquinamenti soggettivi e fugare le ombre delle illusioni: per fare ciò abbiamo parlato di “visione
ravvicinata”. In realtà il vedere avvicinandosi, o, potremmo dire meglio, il vedere che non ha accettato
ancora pienamente la sua dimensione di lontananza, è un'azione più filosoficamente e fisiologicamente
vicina al tatto; un'estensione del tatto. L'occhio è platonicamente un ingannatore, le apparenze visive
hanno il rischio più alto d'ingannarci: questo senso «ci mostra le cose puramente come superfici colorate e
non come individualità materiali impenetrabili; appunto la percezione ottica è quella che ci fa apparire le
cose del mondo esterno in una mescolanza caotica11».
Il tatto è quindi il senso oggettivo par excellence perché la mano delimita, segue il bordo dell'oggetto.
Dev'essere sembrata una meta essenziale per le culture primitive, ancor prima di quella egizia, scandire la
forma geometrica nella sua “individualità materiale”, nella sua separabilità ed autonomia rispetto alla
serie, al flusso: il contorno è impenetrabile e delimita in maniera univoca la figura. Niente di più lontano,
suggerirà Riegl, dall'impressionismo della seconda metà del XIX secolo: dove, per l'appunto, sono le
figure che ci sembrano secondarie, anche quando sono presenti, rispetto all'amalgamarsi dei contorni con
lo spazio, con gli effetti del movimento e del colore.
Un ulteriore spunto per il nostro percorso è il processo, ormai potremmo dire “tattile”, attraverso cui
viene a crearsi questo tipo di possesso cognitivo dell'oggetto. Lo storico dilegua i riferimenti concreti e si
ha l'impressione d'avere innanzi agli occhi una vera e propria teoria della percezione. Ne è un esempio la
descrizione della percezione tattile; vi è una superficie del nostro corpo che viene a contatto con un
singolo punto dell'oggetto, ma il processo di identificazione (così come nei ciechi) avviene attraverso una
combinazione, più o meno ampia, di questi punti d'intersezione:
«Solo se le percezioni di punti impenetrabili sullo stesso elemento materiale si ripetono
rapidamente una appresso all'altra, noi riusciamo a rappresentarci la superficie distesa con
le sue due dimensioni dell'altezza e della larghezza. Questa rappresentazione è perciò
ottenuta non più mediante una diretta percezione del tatto, ma mediante una
combinazione di parecchie di tali percezioni che costituiscono di necessità l'intermediario
del processo soggettivo del pensiero12».
Non si può evitare un elemento “soggettivo”: ma non si tratta, qui, del gusto personale dell'artista, bensì
di una proprietà essenziale della sintesi cerebrale cognitiva. In questo caso, la memoria, il ricordo, che
interviene già quando tracciamo uno schema figurativo puramente tattile.
Vi sono, quindi, due contraddizioni che stanno alla base sia dell'arte ai suoi albori sia della percezione
sensoriale. La prima ha a che fare con la genesi e lo sviluppo del “rilievo” (e con questo termine ci si
riferisce anche alla pittura, ma soprattutto alla scultura e l'architettura): la «latenten Widerspruch13»
(latente contraddizione) della riproduzione è dovuta al fatto che per esprimere l'esistenza di una qualsiasi
figura in un piano, checché si decida di usare un determinato stile o no, vi è bisogno di darle una sua
9 Un “mondo dietro il mondo”, termine significativamente usato da Nietzsche per indicare la metafisica.
10 «Anzitutto ci si studiò di concepire l'unità individuale delle cose come pura percezione per mezzo dei sensi,
escludendo completamente ogni rappresentazione derivante dalla esperienza. Infatti finché si partì dal presupposto
che le cose esterne sono veramente oggetti da noi indipendenti, ogni intromissione della coscienza soggettiva fu
istintivamente evitata come motivo di disturbo per l'oggetto preso in considerazione». Riegl, pagina 25.
11 Ibidem.
12 Ibidem.
13 Ivi, pagina 26.
7
dimensione: ciò non si può ottenere senza un accenno alla profondità di questa entro il “mondo di
finzione” dell'opera ed è solo il tipo espressivo che si usa che ne determina o meno consapevolezza
(pensiamo alla torsione del busto appiattito della sagoma dell'arte egizia a cui accennavamo prima).
Difatti «come si può far risaltare l'individualità corporea nel piano quando sia pur per pochissimo essa si
stacchi dal piano? Di qui la necessità di un certo riconoscimento dato fin da principio anche alla
dimensione in profondità14».
Due sensi vengono impiegati nella ricezione delle opere (e degli oggetti), vista e tatto; e vi sono due modi
diversi di rappresentazione del visto-toccato: il piano, che è propriamente l'unica vera astrazione umana, e
la profondità. Ne conseguirebbe logicamente che il tatto e tutti i meccanismi della ricezione legati ad esso
fossero stati impiegati nelle opere raffiguranti la profondità delle cose e all'occhio, invece, nella
presentazione d'esse sullo stesso piano, sarebbe spettato fin dall'inizio il ruolo di “giudice del colore”.
Nell'interpretazione di Riegl, invece, avendo l'arte del piano piena consapevolezza dell'esistenza della
profondità ma volendola negare, se così possiamo esprimerci, si ha un richiamo al tattile che la esprime
ed una visione necessariamente ravvicinata. Di contro all'emergere della profondità come elemento
consapevole della visione si accompagna, invece, una valorizzazione dell'occhio: l'anello di congiunzione
è l'immaginazione dell'assente nella percezione. Abbiamo dunque, usando un'espressione retorica, un
chiasmo fra questi quattro elementi: occhio, tatto, piano e profondità.
Perché l'occhio e la visione “da lontano” assumono una primaria importanza con il sovrapporsi,
l'intrecciarsi e il susseguirsi dei rilievi della Spätantike? Perché nelle opere basate sul senso del
tridimensionale la fruizione avviene principalmente da lontano e con un lavoro prettamente ottico?
Se immaginassimo due figure geometriche, ad esempio due quadrati, potremmo pensare che se fossimo
“di fronte” al primo quadrato e sapessimo che dietro di esso si cela il secondo, potremmo accettare con
fede dogmatica tale asserzione o tentare di girare intorno al primo dei due (se si trattasse di un solido) per
constatarne la veridicità. Ma nel momento in cui i due quadrati non fossero più perfettamente sovrapposti
ma disposti in un piano in maniera tale da permetterci di vedere chiaramente parte della figura del
secondo quadrato, avremmo degli elementi (la prima esperienza “tattile-ravvicinata”, essendovi un segno
visivo, non avrebbe bisogno d'una reiterazione) per non doverci obbligatoriamente avvicinare ad essi:
potremmo accettare anche da una certa distanza la verità che nel piano sono presenti più figure autonome
al di là della loro sovrapposizione (pensiamo al Dipinto suprematista di Malevič). La sensazione della
profondità come dimensione sensoriale e non come illusione nascerà perciò da una verifica tattile, da
un'osservazione ravvicinata ripetuta a mo' di esperimento, ma, nel momento in cui la vista la riconoscerà
nella sua verità da lontano, diverrà indipendente dal tatto. Allora avrà raggiunto piena fermezza
concettuale nelle rappresentazioni visive e nella cognizione fisiologica per analogo.
Quanto più ci accompagna un riconoscimento della profondità “a colpo d'occhio”, tanto più si dev'essere
stanziata nella nostra coscienza una forma di legittimazione immediata ed è probabile che un processo del
genere abbia ampi riscontri nella prospettiva filogenetica della specie: la profondità non solo non è
collegata ad un senso specifico del corpo, ma «va anche considerata come un grado molto più sviluppato
del processo del pensiero15». Tranne casi volutamente contrari al senso comune o artisti alla ricerca della
riscoperta della proprietà del piano in quanto astrazione (pensiamo appunto all'Espressionismo astratto
americano o al Neoplasticismo mondriano), per la percezione di questa spazialità (la tridimensionalità è la
spazialità in senso stretto) abbiamo una forma di collaborazione essenziale fra continuità tattile e distanza
visiva, fra memoria ed immaginazione: tatto e vista sono «le funzioni completive più importanti16» e solo
dalla loro combinazione usciamo fuori dal binomio parmenideo di piano indistinto e spazio profondo al
contatto. La tridimensionalità è quindi una proprietà degli oggetti del mondo nella realtà ma diventa una
dimensione artificiale nel normale funzionamento della visione cognitiva dell'uomo.
L'allenamento della percezione produce la profondità nell'arte come elemento nuovo e centrale, la
coscienza spirituale viene coinvolta ad un livello maggiore perché «l'aumento della spazialità nell'opera
14 Ivi, pagina 29.
15 Ivi, pagina 27.
16 Ivi, pagina 112
8
d'arte e la tridimensionalità della figura ha portato ad una sempre crescente smaterializzazione17».
L'aspetto speculativo dell'indagine storica di Riegl ci appare quindi inerente al nostro argomento: lo
storico collegherà l'esigenza di questa percezione del non-visto delle opere romane ed il pieno sviluppo
dell'illusionismo ad un'esigenza di nuova spiritualità dell'epoca e ad un Kunstwollen più impegnativo18;
ciò non toglie che le linee tracciate finora ci offrono un quadro dove l'oggettività mimetica della
rappresentazione è minata non più, superficialmente, dalla fantasia degli autori ma da un elemento che sta
alla base della ricostruzione cerebrale del percepito: la profondità percepibile agli occhi è una delle
astrazioni più importanti di questo procedere sintetico ma non la sola.
2 - La «sottrazione dell'illuminante» come processo neurologico
Abbiamo visto come uno storico dell'arte autorevole come Alois Riegl abbia interpretato un'intera radice
dell'esistente percepibile, la spazialità, come un risultato di più “funzioni completive”. C'è dunque, in
mezzo a questo rapporto fra soggetto e percepito, indipendentemente dalle fasi diverse del processo che a
livello neurologico non abbiamo ancora analizzato, un allontanamento da quello che il senso comune
identifica come “riproduzione” del reale: l'immagine (lasciamo questo termine in un'indeterminazione che
necessita chiarezza) che ci facciamo delle cose presenta una mescolanza, una distorsione che è sì
soggettiva ma non influenzabile arbitrariamente da parte del singolo individuo. È un'altra forma di
“soggettività“ che emerge rispetto alla pretesa di oggettività scientifica (e strumentale): se volessimo
usare binomi paradossali ma semplificanti, una “soggettività collettiva” o “di specie”; un modo di
guardare le cose che è umano.
Questa sintesi passa indubbiamente attraverso il cervello e fin qui abbiamo fatto a meno di fare
riferimenti ad esso, attenendoci ad una pura prospettiva fenomenologica. Se dovessimo parlare non della
tridimensionalità ma di un altro aspetto, in un certo senso del polo opposto nella ricostruzione di Riegl,
del piano e del colore, potremmo agevolmente seguire uno dei pionieri della disciplina battezzata come
Neuroestetica, Semir Zeki, per trovare nuove tracce che aiutano nell'indagine attorno al nostro tema di
assenza nel percepito, trascinandoci nei tortuosi sentieri della neurologia.
Se osserviamo una figura parzialmente “nascosta” da un'altra abbiamo bisogno d'una interazione di
“senso tattile” e “senso visivo”, uniti in una facoltà superiore come quella immaginativa, per
raccapezzarci della sua concretezza e completezza. Ma se osserviamo un piano colorato, che reazioni ci
permettono di non avere dubbi sui colori che osserviamo? Cosa sono per noi e per il nostro cervello, i
colori? Difatti, lungi dal definire solamente come eccellenza d'un meccanismo fisiologico perfettamente
funzionante l'immediatezza dei processi cerebrali, che ci permetteno di non dubitare del nostro mondo
percettivo, qui dobbiamo discernere i diversi procedimenti che si susseguono nella cattura d'una
percezione visiva istantanea: tale dev'essere la sensazione per valere come «meccanismo biologico di
segnalazione19».
Dev'esserci anche qui uno scatto virtuale, potenziale, che ci aiuti ad orientarci nel sentire: altrimenti ogni
verde per noi sarebbe un verde diverso da un altro, un cremisi non ci sembrerebbe una tonalità distinta di
17 Ibidem.
18 «Questo sforzo spirituale però non può essere di tutto un intero popolo, ma soltanto di quelli che possiedono un
certo grado di cultura; da ciò ha origine la netta separazione, che si fa sempre più chiara, dell'arte popolare (di cui fa
parte l'arte religiosa, imitatrice dei tipi antichi greci) dall'arte di moda (per i bisogni raffinati dei ceti più alti della
società)». Ivi, pagina 113.
19 Semir Zeki, La visione dall'interno, Bollati Boringhieri, Torino, 2010 (Inner Vision. An Exploration of Art and the
Brain, 1999), pagina 211. L'immediatezza della comprensione del percepito vale soprattutto nel mondo animale,
dove il feedback può determinare la sopravvivenza dell'esemplare. Si potrebbe obiettare che per la mera
sopravvivenza del genere umano i sistemi alfabetici e le segnalazioni iconiche risparmiano in maniera sempre più
significativa una certa formazione naturale.
9
rosso rispetto al porpora ma qualcosa di qualitativamente diverso; il bandolo della matassa che dobbiamo
trovare è forse questo, ossia che cosa ci permette di identificare i colori: vi è, come abbiamo visto nel caso
del tatto, un processo associativo che mette in campo la memoria o abbiamo anche qui, prima
dell'elaborazione mnemonica, qualcosa di assente ma immanente nella percezione stessa? Qualcosa che
rende la percezione un lavoro inconscio? Qualcosa di nascosto?
Negli studi sulla percezione del colore, Zeki traccia una storia particolarmente schematica ove è possibile
individuare tre “categorie” diverse di studiosi che trattano gli stessi argomenti in maniera differente: i
fisici, i neurologi e gli artisti. Nella sua fase iniziale, «lo studio del colore è stato in larga misura dominato
dalla fisica20»: il riferimento principale dal quale partono le ricerche dei fisici sul colore è Newton, con i
suoi geniali esperimenti a Cambridge sulla scomposizione della luce solare tramite un prisma. Se i colori
vengono determinati dalle diverse lunghezze d'onda, la materialità dei colori è automaticamente annullata
nel senso più profondo e si inizia ad «ipotizzare che un oggetto assuma il colore della lunghezza d'onda
che esso riflette in maggiore quantità21».
Questo modo di concepire la percezione del colore si presta soprattutto all'analisi di un punto del campo
percettivo: nel momento in cui il punto preso in considerazione riflette una maggiore quantità di luce di
una determinata lunghezza d'onda, assume ai nostri occhi un colore; si tratta anche d'una somma, quando
l'oggetto riflette più lunghezze d'onda, fra di esse: in questo caso il colore sarà determinato «dall'eccesso
di una lunghezza d'onda sulle altre22».
Gli studi fisici sulla realtà del colore e sulla sua datità misurabile si scontravano con il senso comune
dell'arte e principalmente con il potere di "combinazione" della pittura, dove la realtà di un colore è
necessariamente condizionata e determinata da quelli circostanti. Se riflettiamo attentamente, ci
accorgeremo che il modo fisico di pensare il colore non può dare ancora la rilevanza meritata ai rapporti
fra colori e all'immediatezza fisiologica necessaria all'orientamento: da una parte, soprattutto gli artisti e
gli artigiani del colore avanzano pretese sugli effetti delle combinazioni e della visione, dall'altra manca
la comprensione di quel fenomeno che ci permette d'identificare oggetti che in determinate condizioni (ad
esempio il cambiamento d'illuminazione nell'arco del giorno sotto la luce solare) riflettono una quantità di
luce con una lunghezza d'onda completamente diversa rispetto a quella che ci aspettiamo e percepiamo.
Abbiamo, quindi, le lenti della fisica che riescono a farci vedere dei "codici" e ad ogni codice può
corrispondere un colore e viceversa: bastano queste lenti e l'operazione crittografica a spiegare il nostro
modo di vedere? Nelle parole di Zeki:
«Il colore di una superficie è determinato unicamente dalla realtà fisica esterna. In questo
contesto si suppone che il colore abbia un codice, il cui segreto è la lunghezza d'onda
predominante nella luce riflessa complessivamente dall'oggetto. Tutto ciò che il cervello
deve fare è decodificare il messaggio: una volta che ha potuto decodificare il fatto che un
oggetto riflette più luce di lunghezza d'onda media, che isolatamente esso appare verde,
esso gli assegnerà il colore verde23».
Se l'esperienza ha bisogno di costanti, una soluzione abbastanza intuitiva sarebbe quella di far entrare in
gioco la memoria, risolvendo il problema dell'identificazione degli oggetti con illuminazioni diverse e
dell'attribuzione di un colore permanente a questi in un confronto continuo fra i ricordi immagazzinati nel
cervello, se così possiamo semplificare; ma di fronte ad un'esperienza senza precedenti e all'esigenza
d'una risposta immediata, «il cervello sarebbe in balia di ogni cambiamento che modifichi il codice24».
Il bisogno di cambiare prospettiva e di estendere l'analisi all'equilibrio fra più punti, all'area visiva
20
21
22
23
24
Ivi, pagina 209.
Ivi, pagina 210.
Ibidem.
Ivi, pagina 211.
Ivi, pagina 212.
10
dell'intero campo percettivo umano, ha portato una risposta che inerisce ad entrambi i problemi sopra
sollevati: la continua variazione dell'illuminante comporta una ricerca di costanza da parte del cervello;
tale costanza si ottiene attraverso un raffronto nel campo percettivo fra il colore dell'oggetto o dell'area
osservata e quello delle zone circostanti. È il fenomeno della "costanza cromatica" (color costancy) che
ha rivalutato il sapere pragmatico degli artisti e decisivi per questa scoperta sono stati gli esperimenti di
Edwin Land.
Figura 2 - uno dei pannelli
"Mondrian" usati da Land.
L'imprenditore statunitense, inventore della Polaroid e dei filtri polarizzanti, fece degli esperimenti
fondamentali sulla percezione visiva che ci permettono di scorgere meglio la complessità di processi
"inconsci" e fondamentali dell'ottica. Land usò dei pannelli, che chiamò "Mondrian" (Figura 2) per la
somiglianza con le opere del famoso pittore olandese, suddivisi in vari riquadri colorati. I Mondrian
contenevano, dunque, riquadri di diverso colore e proprio di fronte ad essi venivano posti tre proiettori di
luce diversa: rossa, verde e blu (lunghezza d'onda lunga, media e corta); vi erano degli osservatori, dei
misuratori artificiali posti in determinati punti della superficie che potevano indicare con esattezza la
quantità di luce riflessa ed era anche possibile cambiare l'intensità della luce dei tre proiettori. Gli
esperimenti di Land ebbero come scopo fondamentale la dimostrazione che alterando la quantità di luce
proiettata su riquadri di un preciso colore fino al punto da notare negli strumenti una quantità di luce
riflessa completamente diversa, per lunghezza d'onda, rispetto a quella naturale del pannello, gli
osservatori continuavano a vederli, come nelle loro aspettative, con la colorazione originaria: difatti,
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cambiando il rapporto dell'intensità di luce emessa fra i tre proiettori su un riquadro, anche i riquadri
circostanti dello stesso pannello riflettevano in misura maggiore la lunghezza d'onda del proiettore che si
voleva predominante, lasciando costante il rapporto fra la luce emessa sull'intera superficie25.
La scoperta e lo studio della costanza cromatica ci presenta un effetto che allontana di molto l'osservatore
umano e il misuratore strumentale-elettronico; l'autore di questa distorsione (non l'unica, in realtà,
riguardante la vista umana) che ci permette di mantenere costante il rapporto fra i colori del nostro mondo
percettivo è il cervello; era necessario, quindi, che gli esperimenti di Land venissero rielaborati ed estesi
dai neurologi. Il cervello attua un «meccanismo di comparazione cromatica26» che conferisce un ruolo
fondamentale al rapporto fra la zona osservata e quelle circostanti e solo il risultato di questo confronto è
quello che recepiamo. Il colore, quindi,
«[...] è il risultato dell'operazione che il cervello esegue sull'informazione che riceve; esso
è in realtà una proprietà del cervello, e non del mondo esterno, anche se dipende dalla
realtà fisica del mondo. L'affermazione di Newton: «A rigore, i raggi non hanno colore. In
essi non c'è altro che la capacità e predisposizione a generare la sensazione di questo o
quel colore» ha bisogno di una correzione, poiché conferisce alla realtà fisica, e non al
cervello, il potere sovrano di determinare il colore».
Il cambiamento di direzione avvicina perciò la percezione più ad un'elaborazione fatta ad arte (è proprio
questo uno dei compiti della Neuroestetica, scovare analogie fra la creazione dell'artista e quella
immanente del cervello) rispetto ad un risultato computativo27 delle proprietà fisiche, attuato dagli
strumenti artificiali. Con altri termini la costanza cromatica come processo neurologico era stata già
preannunciata dal fisico e fisiologo Hermann von Helmholtz, nella formula della «sottrazione
dell'illuminante», sostituendo al termine "cervello" un più generico "giudizio":
«Helmholtz, accentuando l'importanza dell'apprendimento, della conoscenza e del
giudizio, scrisse: «Vedendo oggetti con diverse illuminazioni, nonostante la differenza di
luce, noi impariamo a formarci un'idea corretta del colore dei corpi, cioè a giudicare
quale aspetto avrebbero con una luce bianca»; e aggiunse che il colore è «il risultato non
di un'operazione dei sensi ma di un atto di giudizio28».
Cervello o giudizio, l'ipotesi della sintesi nuova, profondamente filtrata dalle caratteristiche del nostro
corpo, si avvicina sempre di più; cosa vedremmo se fossimo simili a delle macchine in grado di rilevare
perfettamente le varie lunghezze d'onda? Indubbiamente il confronto fra le capacità umane e quella della
macchina costituisce uno dei filoni più proficui della filosofia contemporanea (teorizzato e portato avanti
con convinzione dalla corrente funzionalista e dal primo Putnam); Zeki porta esempi di diversi stati
patologici dove il meccanismo della comparazione cromatica non funziona e ci rende partecipi di questa
suggestiva analogia con la macchina. Il caso, ad esempio, dell'avvelenamento da monossido di carbonio:
pur lasciando l'avvelenato in stato di ipovedenza, egli è in grado di distinguere i colori; unica differenza
rispetto ad una percezione normale è che, nel caso della luce riflessa che cambia (o «illuminante»),
25 Ivi, da pagina 212 a pagina 215.
26 Ivi, pagina 215.
27 In realtà la suddivisione del cervello in varie aree predisposte a diversi aspetti della visione ci permette di dire che vi
sono delle zone che in ogni caso registrano lo stato presente della luce riflessa (la zona V1 ad esempio), mentre nelle
zone adatte alla vera e propria comprensione del colore (la zona V4) si attua meccanismo di comparazione. Ma lo
stesso Zeki sottolinea come tutto il processo della costanza cromatica non abbia bisogno di ricorrere alla memoria (e
alla zona cerebrale che più si attiva nel ricordare, l'ippocampo); il corso della visione non ha bisogno di confluire in
quello della memoria.
28 Ivi, pagina 226. L'opera di Helmholtz citata da Zeki è l'Handbuch der physiologischen Optik.
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cambia anche la visione del colore, ad un punto tale che il paziente afflitto da questo disturbo non riesce a
descrivere bene cosa vede (possiamo immaginarci un pericoloso mutamento continuo del visto). «In
breve la sua visione del colore era quella di un congegno che in qualche modo misura la lunghezza d'onda
e basta, ed è incapace di «sottrarre l'illuminante»: gli mancavano insomma i meccanismi di confronto che
sono alla base di questa notevole abilità29».
3 - La legalità generale dei fatti della percezione
Abbiamo visto come una certa educazione visiva, in grado di ammettere la profondità e la
tridimensionalità, sia data come presupposta nella fruizione di una qualsiasi opera d'arte e come il colore
necessiti di un continuo confronto percettivo con le superfici circostanti per un'immediata risposta
biologica: entrambi i processi ci allontanano dal calcolo di proprietà negli elementi fisici osservati,
meccanismi biologici e cerebrali ci fanno notare come il percepito (il presente) non basti al nostro
orientamento. Ci serve, adesso, una prospettiva d'insieme che leghi questi due percorsi: può venirci in
aiuto proprio il teorico della sottrazione dell'illuminante, Hermann von Helmholtz. Fisiologo e fisico, von
Helmholtz dedica un piccolo opuscolo, “I fatti della percezione”, a quello che egli stesso definisce il
«problema gnoseologico30» fondamentale della conoscenza. Che cosa ne è della verdicità delle nostre
percezioni di fronte alla scoperta d'una realtà adattata, manipolata dal nostro stesso cervello e a “misura
d'uomo”? Le domande essenziali di Locke e Kant sulla distanza antropologica fra il mondo e la coscienza
vengono riprese (con riferimenti precisi ai suoi predecessori) dallo scienziato, che riconosce la portata
fondamentale dell'approccio filosofico al tema delle percezioni come indagine della «vera e propria
attività dello spirito» (oggi diremmo fenomenologica). La scienza della natura, in quanto scienza pratica,
è quella che fa paradossalmente maggiore uso del processo astrattivo; per il suo intento sono molto più
affidabili gli strumenti artificiali, costruiti ad hoc, nel tentativo di «ottenere un residuo che appartiene a
quel mondo reale, di cui essa indaga le leggi31». La possibilità è che non vi sia, o almeno non è necessario
che vi sia, nessun rapporto di somiglianza fra le nostre percezioni e la realtà fisica presente; lo stesso
Helmholtz, che pur avventurandosi nella speculazione filosofica rimane sempre ancorato alla fisiologia, si
ritrova costretto in una posizione biosemiotica onnicomprensiva:
«Nella misura in cui la qualità della nostra sensazione ci dà notizia del fattore esterno, dal
quale è stata suscitata, essa può valere come un segno, ma non certo come un'immagine di
quel fattore. Da un'immagine si desidera, infatti, una somiglianza con l'oggetto raffigurato
[...] Un segno, invece, non deve avere alcuna somiglianza con ciò, di cui è segno. Il
rapporto fra i due termini si limita al fatto che un uguale oggetto, agendo in circostanze
uguali, evoca lo stesso segno, e che segni diversi corrispondono, dunque, sempre ad
azioni diverse32».
La normalità di un apparato fisiologico e organico perfettamente funzionante non si potrà misurare in
base alla somiglianza fra il percepito e il realmente esistente (anche perché è veramente difficile anche
solo poter immaginare qualcosa solo sulla base strumentale-artificiale, prescindendo da qualsiasi
29 Ivi, pagina 219.
30 Hermann von Helmholtz, I fatti della percezione in Opere di Hermann von Helmholtz, UTET, Torino, 1967 (Die
Tatsachen in der Wahrnehmung, 1878), pagina 596.
31 Ibidem.
32 Ivi, pagina 601.
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sensazione) ma dalla costanza e dalla regolarità dei rapporti fra i nostri segni e ciò che avviene,
dell'evenemenziale. Helmholtz parla di «una legalità [...] generale e comprensiva33», intendendo con
legge appunto questa sincronia regolare: non c'è bisogno di ammettere una forma di ομουσία. Viviamo
immersi in un mondo di segni, a partire dall'astrazione compiuta in ogni istante nel classificare un colore,
nell'immaginare la profondità accennata nell'equilibrio fra più figure e in molti altri aspetti; l'importante è
che vi sia una regolarità e un'immediatezza34 "naturale", «alla stregua d'un esperimento, con cui
dimostriamo di aver correttamente concepito le leggi che presiedono quei fenomeni, ossia il loro presunto
sussistere in un determinato ordine spaziale35».
Abbiamo visto, parlando del processo della sottrazione dell'illuminante, come non sia sempre necessario
ricorrere alla memoria, ad un'attribuzione posteriore dell'esperienza, per spiegare la sicurezza con cui
l'uomo si approccia al mondo esterno; lo stesso ipotizzavamo, filogeneticamente, per la comprensione
della profondità in assenza di tatto.
Nel testo di Helmholtz che stiamo prendendo in esame vi è un Gedankenexperiment abbastanza
significativo che si riallaccia al nostro non ricorrere alla memoria: ipotizziamo l'esistenza di «un uomo
privo di ogni esperienza36». Con questa formula intendiamo in realtà una persona incapace di
immagazzinare quanto appreso ma con un apparato fisiologico-percettivo perfettamente funzionante:
quello che Helmholtz vuole farci immaginare è una sorta di eterno presente percettivo, ove non sia
necessario ricorrere alla comprensione di un fenomeno ricollegandosi a quelli precedentemente esperiti. Il
soggetto immaginario non avrà ancora una coscienza temporale, abiterà un puro spazio di oggetti
immobili; nonostante ciò, qualsiasi piccola azione egli possa compiere nel campo percettivo, anche
soltanto un movimento dei bulbi oculari, comporterà in lui la comprensione che sarà possibile opporgli
un'azione esattamente contraria per tornare indietro e ristabilire lo status quo. Vi saranno, dunque, per il
nostro soggetto, due ordini di cose esistenti: quelle presenti e quelle presentabili. I percetti presentabili
sono quelli che in qualche modo si realizzano (e diventano presenti) a seguito di impulsi volitivi: dinnanzi
agli oggetti, il nostro soggetto privo di memoria capirà in ogni caso che una determinata azione, un
movimento preciso del suo corpo, gli renderà presentabile una determinata situazione (campo della
potenzialità); avrà dinnanzi a lui diverse possibilità di presentabili quante sono le innumerevoli
combinazioni delle potenzialità del suo organismo. Tale dicotomia spaziale, fra oggetti fissi ed immobili e
atti volitivi del corpo, non solo è alla base di qualsiasi sviluppo della coscienza percettiva, è
imprenscindibile anche per il delinearsi del concetto di simultaneità: possiamo pensare che nonostante
ogni "presenza" sia in rapporto ad una "presentabilità", ossia al nostro intento di analizzare un oggetto
della percezione più o meno consciamente (ricordiamo la definizione di "esperimento" per ogni
percezione a cui prima accennavamo), la costanza del mondo reale rispetto alle illimitate possibilità degli
atti volitivi del corpo ci aiuta a formarci un concetto di «reale», una costante (eterna) necessaria, un
«durevole esistere di cose diverse l'una accanto all'altra simultaneamente».
33 Ivi, pagina 624.
34 Un paragone frequente nel testo di Helmholtz è quello fra le rappresentazioni sensoriali e la lingua, soprattutto per
quanto riguarda l'immediatezza e la naturalezza con la quale entrambe diventano canali di orientamento
nell'approcciarsi alla realtà nelle prime fasi della vita. «A un'ulteriore riflessione ci si presentano, poi, molti casi, i
quali mostrano che la sicurezza e la rapidità con cui certe rappresentazioni subentrano a certi impressioni, può essere
ottenuta anche quando tale nesso non sia affatto dato dalla natura. Uno degli esempi, che più colpiscono, è la
comprensione della nostra lingua materna»; pagina 612.
35 Ivi, pagina 618.
36 Ivi, pagina 604.
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Non possiamo trascurare l'importanza della volontà umana nella percezione delle cose; il nostro corpo
vuole conoscere in maniera meno ingenua di quanto possiamo pensare. Il corrispettivo fisiologico
dell'input a qualsiasi tipo di conoscenza empirica è quello che Helmholtz chiama «innervamento»: dietro
ogni impressione vi è necessariamente un rapporto spaziale fra il nostro corpo e la realtà circostante nel
quale i nervi e il corpo in sè assumono delle posizioni, combinano diverse abilità, si muovono in una certa
maniera: «solo la fisiologia c'insegna che noi poniamo in stato d'eccitamento, ovvero innerviamo, i nervi
motori37».
La logica della percezione come esperimento e gli atti volitivi ed indagatori del nostro corpo alla scoperta
della realtà ci permettono di superare, nell'orizzonte di quella che abbiamo definito «legalità» dei fatti
della percezione, l'impasse dell'esperienza nuova, della prima volta che il circolo mnemonico non era in
grado di superare. L'impiego di atti fisiologici volitivi, onnipresenti nella quotidianità, è particolarmente
evidente nell'acquisizione di conoscenze nuove, nella fase dell'apprendimento. Helmholtz fa diversi
esempi, fra i quali l'incontro con una lingua straniera, nella quale tentiamo di centrare la giusta pronuncia
col movimento della lingua, l'articolazione della voce e la giusta correlazione semiotica e concettuale:
«Ancora in età adulta possiamo imparare a indurre uno stato di eccitamento in quei nervi,
che agiscono quando si devono pronunziare le lettere di una lingua straniera, e si deve
impostare una determinata voce nel canto [...] La difficoltà di riuscire in quest'intento
consiste nel fatto che noi dobbiamo cercare di scoprire, mediante tentativi, le induzioni
ancora ignote dell'eccitamento nervoso, che sono necessarie per poter effetturare
movimenti, finora mai eseguiti».
Inoltre il fisiologo, nell'attribuire una crescente importanza agli atti volitivi, si spinge ancora più avanti,
definendo come «tipo fondamentale38» del vedere lo sguardo in movimento. Sappiamo, infatti, che anche
quando focalizziamo la vista su un punto determinato del campo visivo, nel nostro occhio vengono
eseguiti dei rapidissimi movimenti (saccadi) aventi la funzione di migliorare la posizione complessiva
dell'occhio in modo tale da far coincidere frontalmente il punto osservato e la fovea, la zona retinica
centrale a massima acuità visiva. Ma oltre ciò, il fissare un punto fermo non costituisce un'azione così
frequente nella nostra abitudine sensoriale: è molto più consueto che il nostro sguardo faccia un percorso
sull'oggetto, soprattutto sull'oggetto nuovo, che ne segua le forme come una sonda (in forte analogia col
tatto):
«Siamo, infatti, tanto abituati a lasciare che lo sguardo si muova sugli oggetti, che
riteniamo d'aver bisogno di non poco esercizio, prima di riuscire a tener lo sguardo fisso
su un punto senza oscillazioni, come richiedono le ricerche sull'ottica fisiologica».
Nel quadro che abbiamo tracciato il nostro sguardo si muove fra gli oggetti sconosciuti, li percorre e si
stabilizza soltanto quando l'esperimento ha dato come risultato la scoperta di una certa legge, di una
stabilità fatta di costanti che solo allora ci permette di orientarci immediatamente nel nostro presente.
37 Ivi, pagina 602. Cfr. Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, pag. 22-23: «in ogni volere c'è, in primo luogo
una molteplicità di sensazioni, vale a dire la sensazione dello stato da cui ci si vorrebbe allontanare, la sensazione
dello stato a cui ci si vorrebbe avvicinare, la sensazione di questo stesso «allontanarsi» e «tendere», quindi anche
una concomitante sensazione muscolare, la quale, pur senza che si metta in movimento, «braccia e gambe»,
comincia il suo giuoco mercé una specie di abitudine, non appena noi «vogliamo». Friedrich Nietzsche, Al di là del
bene e del male, Adelphi, Milano, 2004 (Jenseits von Gut und Böse, 1886).
38 Hermann von Helmholtz, I fatti della percezione, pagina 614.
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4.1 - Limiti del pensiero scientifico nell'Occhio e lo Spirito di Merleau-Ponty
Ciò che nella speculazione storici, neurologi e fisiologici esplorano, tendendo a formare una teoria
generale della conoscenza e della percezione, si riscontra parallelamente e in maniera più coesa
nell'indagine filosofica. In particolare, la disciplina fenomenologica in quanto tale offre numerosi spunti
per estrinsecare (senza risolvere) la progressiva differenziazione di approcci fra “scienza” degli strumenti
e conoscenza umana che abbiamo scoperto en passant nel trattare il nostro tema.
Se è vero che il modo d'avvertire la profondità e la tridimensionalità di un'opera plastica necessita una
capacità da affinare e da accettare come storicamente sviluppata, e tutto ciò ci allontana dalla semplice
definizione geometrica della natura di queste proprietà, e se è vero che la percezione dei colori è
determinata da un continuo processo di confronto fra diverse zone del campo visivo, diverso da quello di
giustapposizione di sommatorie di strumenti dedicati alla misurazione delle lunghezze d'onda, non rimane
che inferire una forma di specificità nella percezione della coscienza umana rispetto alla misurazione
scientifica che finora è stata spesso applicata a fenomeni condivisi (dalla macchina e dagli organismi
viventi).
La creazione della fenomenologia di matrice husserliana in quanto tecnica39 da applicare alla conoscenza
(e non scienza chiusa e con pretese sistematiche) ha fin dall'inizio avuto l'intento di un confronto diretto
con la “coscienza”, di una liberazione dal complesso reticolato delle grandezze astratte, degli standards e
dell'ambiente asettico del grande laboratorio del misurabile, per la riscoperta (periodica e sempre da
ripetersi) di un accesso diretto al mondo della vita (Lebenswelt). Un'attenta analisi fenomenologica dove
si possono auscultare molteplici assonanze con vari concetti sopra indagati (in primis, come vedremo, i
presentabili e la percezione come esperimento in Helmholtz e la visione tattile in Riegl) è stata compiuta
da Maurice Merleau-Ponty; abbiamo scelto di concentrare la nostra attenzione in particolare su quella che
viene considerata “l'opera-testamento” del filosofo, “L'Œil et L'Esprit40”.
Il modello scientifico che misura lo spazio e lo incapsula nella forma della conoscenza riproducibile, che
lo semplifica e ne rende disponibile una forma di possesso cognitivo, è un «pensiero operatorio41»: il reale
non è seguito nel suo vivo muoversi, non si cerca l'adeguarsi al suo movimento ed il mutuo rapporto
sensoriale con esso finisce con l'essere relegato ad una condizione di approccio pre-storico e prescientifico; agire tramite un'operazione vuol dire allo stesso tempo astrarre da e tener fermo qualcosa,
mettersi su due piani diversi, tentare di riprodurre un processo e verificarne la costanza (la «legalità
generale» di Helmholtz). Ciò-che-corrisponde diventa propriamente il reale, il naturale, o quantomeno lo
scibile del mondo sensibile: è una tecnica di «presa o captazione42» necessaria. Il metodo sperimentale
non potrebbe mai escludere il confronto con i percetti ma di certo non vive di questa osmosi come il
corpo, realtà nella Realtà che in maniera primordiale continua un processo di scoperta radicalmente
39 Per una breve introduzione alla fenomenologia in Husserl si veda: Luca Baldazzi, “Le correnti del 900 –
Introduzione alla fenomenologia di Husserl” su www.athenenoctua.it.
40 Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, SE, Milano, 1989. (L'Œil et L'Esprit, 1964). Vi è una peculiare
atmosfera che aleggia attorno a questo lavoro: nella sua ultima estate, Merleau-Ponty prese in affitto un alloggio di
proprietà d'un pittore, ben addentrato nella campagna provenzale. Come suggerisce Claude Lefort nella sua fortunata
postfazione, quella che fu indubiamente la creazione di Merlau-Ponty più concentrata sul mondo della pittura e con
numerosi riferimenti all'opera di Cézanne, venne alla luce nelle stesse terre ove il celebre pittore immortalò la
ventennale serie di paesaggi dedicati alla montagna Sainte-Victoire.
41 Ivi, pagina 14. «Il pensiero «operatorio» diviene una sorta di artificialismo assoluto, come si vede nell'ideologia
cibernetica, in cui le creazioni umane vengono fatte derivare da un processo naturale d'informazione, ma a sua volta
concepito sul modello delle macchine umane. […] allora l'uomo diviene realmente il manipulandum che pensa di
essere, e si entra in un regime di cultura in cui non più non esistono né vero né falso riguardanti l'uomo e la storia, in
un sonno o incubo da cui non esiste risveglio».
42 Ivi, pagina 13.
16
diverso:
«La scienza manipola le cose e rinuncia ad abitarle. Se ne costruisce dei modelli interni e,
operando su questi indici o variabili le trasformazioni consentite dalla loro definizione, si
confronta solo di quando in quando con il mondo effettuale».
Per giungere allo stato tanto agognato in cui lo spazio si dispiega dinnanzi a noi creaimo un'astrazione ex
novo e quando ne abbiamo una forma d'intuizione scientifica progettiamo automaticamente ci abituiamo
ad un nuovo concetto di spazialità, che verrà compreso ed esperito in maniera totalmente diverso da
quello vissuto. Nell'approccio (o ritorno) fenomenologico alla percezione del corpo è contenuta tutta la
tensione filosofica dell'artificialità del pensiero, dell'adaequatio rei et intellectus, dell'esigenza, per la
scienza, di una «costante falsificazione del mondo»43. Il pensiero merleau-pontiniano rivendica quella
comunanza di natura che fa partecipare il corpo ed il percepito dal corpo all'organico, al vivo: chi può
porsi al di fuori del reale per misurarlo, chi può osservare, quasi sorvolando44 dall'alto, è una creatura nata
dalle nostre mani, una «macchina dell'informazione45» nostra serva che ci restituisce un'esperienza
digerita, dati di un Essere manipulandum46.
Come si può ritrovare un contatto diretto, che sorpassi l'ostacolo di questa astrazione e ci porti
direttamente alla realtà? Esistono dei canali d'accesso al mondo che superano e scavalcano un tanto
sublime ostacolo, come può essere lo schema scientifico, e ci permettono di «riancorarci alle cose
stesse47»? Il filosofo compie un passo audace, indica l'Arte come vera e propria conoscenza diretta del
reale, accanto alla quale la Scienza è una sorella indubbiamente ritenuta più affidabile ma dallo sguardo
meno acuto ed attento. La filosofia, per Merleau-Ponty, è quello che tornerebbe ad essere una scienza
imperniata sull'effettività, una disciplina che trasforma ancora la scoperta in un cibo dello spirito ed un
risultato ottenuto in un passo avanti o indietro all'interno dell'autcomprensione di sè dell'animale uomo:
l'arte il campo d'indagine, la catalogazione più attendibile di ciò che esiste. In una serie d'icastiche
perifrasi, alla musica viene affibiata, ad esempio, una raffigurazione delle «intelaiature dell'Essere48», alla
pittura una sorta di «ruminazione del mondo49». Il linguaggio della pittura va continuamente ricreato, non
è identico alla percezione ma la segue, la imita e la filtra con dei precisi fini conoscitivi, a differenza della
misurazione scientifica che non può imitare ma deve isolare e recidere la radice sensistica. È così che
l'ideale della conoscenza scientifica si può sempre spingere ad una forma di sistematizzazione, ad una
totalizzazione dove un certo numero di coordinate (che possono complicarsi o essere modificate),
43 L'espressione «costante falsificazione del mondo» è di Nietzsche, che teorizza in maniera schietta e perspicua in
questo celebre paragrafo di Al di là del bene e del male l'obbligatorietà, simultaneamente utile alla sopravvivenza e
alle capacità evolutive, del modello scientifico costruito dagli esseri umani: «La falsità di un giudizio non è ancora,
per noi, un'obiezione contro di esso; è qui che il nostro linguaggio ha forse un suono quanto mai inusitato. La
questione è fino a che punto questo giudizio promuova e conservi la vita, conservi la specie e forse addirittura
concorra al suo sviluppo; e noi siamo fondamentalmente propensi ad affermare che i giudizi più falsi (ai quali
appartengono i giudizi sintetici a priori) sono per noi i più indispensabili, e che senza mantenere in vigore le finzioni
logiche, senza una misurazione della realtà alla stregua del mondo, puramente inventato, dell'assoluto, dell'eguale-ase-stesso, senza una costante falsificazione del mondo mediante il numero, l'uomo non potrebbe vivere - che
rinunciare ai giudizi falsi sarebbe un rinunciare alla vita, una negazione della vita. Ammettere la non verità come
condizione della vita: ciò indubbiamente significa metterci pericolosamente in contrasto con i consueti sentimenti di
valore: e una filosofia che osa questo si pone, già soltanto per ciò, al di là del bene e del male». Opera citata, pagine
9-10.
44 Maurice Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, pagina 37: «Qualcosa, nello spazio, sfugge ai nostri tentativi di
sorvolo».
45 Ivi, pagina 15. Possiamo pensare al satellite e all'esplorazione spaziale: caso significativo dove non v'è altro che
l'esperienza artificiale.
46 Di conseguenza anche l'uomo stesso, in una prospettiva di questo tipo, verrà scomposto in unità e compreso come
una creazione permanente, sulla quale si può agire. Sul concetto di manipulandum, Cfr. la nota 41.
47 Ibidem.
48 Ivi, pagina 16.
49 Ibidem.
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combinate fra loro, deve riuscire a spiegare una totalità di fenomeni. La riproduzione artistica, o meglio,
la presentazione e la sensazione artistica, sullo stesso piano della percezione viva studiata e approfondita,
non circoscrive il vivente, non si esaurisce in una forma di categorizzazione:
«L'idea di una pittura universale, di una totalizzazione della pittura, di una pittura
totalmente realizzata, è un'idea senza senso. Durasse ancora milioni d'anni, il mondo, per
i pittori, se ne resteranno, sarà ancora da dipingere, finirà senza essere stato
conquistato50».
L'arte maestra di una vera percezione e gli artisti ancorati al mondo dell'essere, la scienza creatrice di
modelli artificiali e disposta ad abbandonare il mondo reale per crearne un clone: le suggestioni che
nascono da una tale polarità sono numerose ma esistono dei casi paradigmatici nella storia e del pensiero
scientifico e della teoria-prassi artistica che ci possono permettere di schematizzare meglio tale questione
in rapporto alla percezione? Un riferimento certamente essenziale nell'opera del filosofo francese che
stiamo analizzando è Descartes. Le sue meditazioni filosofiche di stampo metafisico verranno studiate e
approfondite in altre opere di Merleau-Ponty: qui è essenziale il Descartes scienziato e meccanicista, la
ricostruzione del mondo fisico che quest'ultimo attua per il corpo umano ne “L'Homme” e per la natura
fisica della luce e la sua analogia col tatto nella “Dioptrique”. L'opera di riconversione complessiva del
mondo dei fenomeni alla geometria, al calcolo e la netta divisione fra il mondo delle cose (res extensa) e
del pensiero (res cogitans) fanno della produzione cartesiana «il breviario di un pensiero che non vuole
più abitare il visibile e decide di ricostruirlo secondo il modello che se ne crea51».
Nella “Diottrica” in particolare lo spazio viene ricostruito in tutto e per tutto come realtà fisica misurabile
e alla vista vengono attribuite le stesse proprietà del tatto; la vista è una forma di tatto lato sensu in quanto
la luce diviene un passaggio nella materia e il corpo umano riesce a ricopiare questo “stampo” sul
cristallino in maniera fedele e meccanica attraverso i fasci di nervi collegati al cervello. La riproduzione
geometrica della retina stimolata per contatto dai raggi di luce ed il passaggio di questi stimoli attraverso i
fasci nervosi funziona perfettamente, come quella di una macchina, ma l'intero processo oblia la forma
meccanica nell'imo della struttura cerebrale: nella ghiandola pineale risiede l'anima ed è lì che l'immagine
recepita entra nell'ontologicamente diverso regno del pensiero. Sono celebri i paragoni che Descartes usa
nel primo dei dieci libri della diottrica: il funzionamento del nostro vedere è in primis paragonato a quello
dei bastoni di supporto per un non-vedente52 (l'occhio è il bastone, la zona sensibile della mano la retina,
l'aggiustamento posturale del corpo ciò che avviene nella trasmissione nervosa quando l'immagine
capovolta del cristallino viene “raddrizzata”, Figura 3), la luce è come un vino all'interno di un tino
«pieno di uva semipigiata53», che grazie alla sua sottigliezza riesce a passare nei pori della materia e
segue precisamente le leggi geometriche nelle sue traiettorie verso il basso; ultimo esempio, ma forse il
più importante vista la centralità del meccanismo di rifrazione nelle analisi degli altri volumi, è quello
della palla che rimbalza: tale rimbalzo può essere previsto, preventivato in base ad una serie di dati come
50 Ivi, pagina 62.
51 Ivi, pagina 29.
52 «Qualche volta, procedendo di notte, senza torcia, per luoghi un po' malagevoli, vi sarà certamente accaduto, per
sapere dove mettere i piedi, di dovervi aiutare con un bastone: allora, avrete potuto notare che percepivate, per
l'interposizione di questo bastone, i vari oggetti che vi circondavano e che potevate perfino distinguere se erano
alberi, pietre, sabbia, acqua, erba, fango o altre cose di questo genere. È vero che questa specie di sensazione, per chi
non ne abbia una lunga consuetudine, risulta un po' confusa ed oscura, ma consideratela in quelli che, nati ciechi, se
ne son serviti per tutta la loro vita e in essi la troverete così perfetta ed esatta da poter quasi dire che vedono con le
mani o che il bastone che usano è l'organo di qualche sesto senso concesso loro al posto della vista. Per trarre da ciò
un paragone, desidero che pensiate che la luce, nei corpi che si dicono luminosi, altro non sia che un certo
movimento o azione rapidissima e vivissima che si trasmette ai nostri occhi attraverso l'aria ed altri corpi trasparenti,
nello stesso modo in cui il movimento o la resistenza dei corpi, che incontra quel cieco, si trasmetterebbe alla sua
mano attraverso il bastone». René Descartes, La Diottrica in Opere scientifiche, UTET, Torino, 1983, pagina 191192.
53 Ivi, pagina 197.
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l'angolazione del lancio e la superficie d'impatto. Lo stesso potrà farsi con la luce in base ai colori che la
rifletteranno (con le loro proprietà intrinseche) e al tipo di corpo che la devierà e la rifrangerà.
La ricostruzione cartesiana ebbe subito una fortuna immensa nel campo scientifico e rappresentò un punto
di riferimento per tutti gli studi ottici del XVII secolo, soprattutto per la presenza di numerosi esperimenti
illustrati nel testo e la confacente analogia con la camera oscura nella spiegazione della parete retinica.
Anche il numero delle critiche e delle risposte attestano la divulgazione del testo; importanti intuizioni
come quelle di George Berkeley nel suo “Saggio per una nuova teoria della visione54” ci dimostrano
come il meccanicismo fisiologico fosse divenuto il modello dominante, identificato a tal punto con
l'empiria in sé da non accettare, ad esempio, il ricorso alla categoria dell'abitudine o della predisposizione
genetica dell'uomo per la spiegazione delle più palesi anomalie percettive (come nella percezione di
enormi distanze e l'impossibilità del calcolo delle suddette).
Figura 3 - Illustrazione
presente nell'edizione
originale del 1637 della
Dioptrique raffigurante il
cieco ed il meccanismo dei
due bastoni a croce che gli
permettono di orientarsi.
Il tentativo di ricostruzione del mondo percettivo entro gli schemi geometrici viene paradigmatizzato da
Merleau-Ponty come agguato (necessario per lo sviluppo del pensiero) a quello che lui stesso definisce
«l'enigma della visione»:
«La cosa migliore è pensare la luce come un'azione per contatto, simile a quella delle
cose sul bastone del cieco. I ciechi, dice Cartesio, «vedono con le mani». Il modello
cartesiano della visione è il tatto. Cartesio ci sbarazza subito dell'azione a distanza e di
54 George Berkeley, Saggio per una nuova teoria della visione, UTET, Torino, 1996 (An essay towards a new theory of
vision, 1709). Berkeley analizza in particolare la definizione di distanza che si era venuta ad affermare, su basi
geometriche, applicata all'ottica; in base alla teoria dei seguaci di Cartesio la triangolazione costituentesi fra il punto
osservato e i due occhi avrebbe reso possibili in ogni circostanza dei calcoli adatti a determinare la distanza
dell'oggetto: il "cervello" avrebbe dedotto, ad esempio, una maggiore lontanza nell'aumento della convergenza degli
assi ottici (angolo acuto) ed una minore nella diminuizione della stessa (angolo ottuso). La risposta di Berkely, dopo
aver fatto riferimento ai paradossi delle distanze enormi e alla cosiddetta "illusione lunare", è che l'abitudine ed il
confronto con gli altri oggetti del campo percepittivo ci permettono di avere una qualche nozione di distanza e non
una sorta di geometria innata di conio razionalista.
19
quell'ubiquità in cui consiste tutto l'enigma della visione (e insieme tutto il suo potere)»55.
Il rapporto fra il fenomeno e il soggetto conoscente è un rapporto di proiezione, di speculum; nella res
extensa trionfa in ogni caso il principio di causalità. Ma il ruolo di Descartes è più complesso di quello
che sembra nell'insieme della fenomenologia merleau-pontiniana: difatti a Descartes spetta anche un
grande merito, quello di aver ricondotto la comprensione della percezione al cervello e l'essenza del
processo unicamente alle possibilità umane. Proprio Descartes aveva, a sua volta, un intento polemico
nella sua ricostruzione: rivelare come infondate le teorie di origine tomistico-stoica sulle Species
Intentionales. Secondo tale teoria ogni sostanza doveva avere una sua forma essenziale in sé ed era
necessario un rapporto di trasmissione fra la cosa e l'occhio, simile ad un sigillo nella cera o ad un calco,
per la rappresentazione cosciente dell'oggetto. C'era, insomma, una forma di eteronomia che coinvolgeva
le sostanze esterne, una credenza magica che doveva essere spazzata via dal subentrante razionalismo
cartesiano: facendo iniziare e finire il processo percettivo nell'orizzonte umano e dandogli completa
autonomia Descartes crea un terreno che nei secoli diverrà fertile e farà sbocciare la stessa
fenomenologia. Ciò a cui Descartes non riconosce la giusta dignità non è il “pensiero del visto” ma la
visione stessa: ciò che a priori è un mero processo meccanico diventa a posteriori una base cognitiva
essenziale della riflessione. La visione:
«non è la metamorfosi delle cose stesse [...] non è la doppia appartenenza delle cose al
grande mondo e a un piccolo mondo privato. È un pensiero che decifra rigorosamente i
segni dati nel corpo56».
Come abbiamo avuto modo di vedere, è la stessa neurologia (nella sua nuova applicazione neuroestetica)
che tende a rifiutare l'approccio troppo limitativo del cartesianesimo: siamo di nuovo ad un punto in cui le
«macchine dell'informazione», gli strumenti, ci danno un'idea della percezione come “rappresentazione”
o “ricostruzione”, dinnanzi ad una “presentazione” viva ed incarnata. È per questo che il creatore del
cogito fa pochi riferimenti all'arte, non gli dà un valore conoscitivo come farà Merleau-Ponty: «la pittura
è allora solo un artificio che presenta ai nostri occhi una proiezione simile a quella che le cose stesse vi
iscriverebbero, e vi iscrivono, nella percezione comune57».
Chiusa la lunga parentesi cartesiana, Merleau-Ponty ricorre ad un ulteriore esempio che denota la
differente prospettiva fra fenomenologia e scienza applicata, questa volta rifacendosi unicamente ad un
confronto fra artisti. Riprendendo infatti un'osservazione polemica dello scultore Rodin, riguardante il
cinema, la cronofotografia e la fotografia in sé («è l'artista ad esser veritiero, e la foto bugiarda, perché,
nella realtà, il tempo non si ferma»), si ritorna sul concetto fondamentale (che già contiene in nuce quello
di «incarnazione») di percezione risultato. La cronofotografia di Marey e Muybridge (Figura 4) indaga
sulla natura dell'attimo, sulla sua esistenza come elemento primo, mattone del Tempo: dov'è esattamente?
È possibile individuarlo, farlo uscire allo scoperto? Attraverso la velocità degli scatti, la chiusura e
l'apertura ad intermittenza dell'obiettivo e lo studio del movimento dei modelli, le serie di cronofotografie
cercano di rispondere a tali quesiti; a Rodin (e di conseguenza a Merleau-Ponty che lo sostiene) sembra
un percorso sbagliato, perché il soggetto che veramente si muove, o più correttamente che sembra
muoversi e ci trasmette questa sensazione, ha un piede in un istante e uno nell'altro58:
55
56
57
58
Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, pagina 29.
Ivi, pagina 31.
Ivi, pagina 33.
«La fotografia mantiene aperti gli istanti che la spinta del tempo richiude subito, distrugge il superamento e lo
sconfinamento, la «metamorfosi» del tempo, che la pittura invece rende visibile, perché i cavalli hanno dentro di sé
il «partire di qui, andare di là», perché hanno un piede in ogni istante». Ivi, pagina 56.
20
Figura 4 - Donna che scende le scale, serie cronofotografica di Muybridge
«Quel che dà il movimento, dice Rodin, è un'immagine in cui le braccia, le gambe, il
tronco e la testa sono presi ognuno in un istante diverso, che dunque raffigura il corpo in
un atteggiamento che esso non ha mai avuto in alcun momento, e impone fra le sue parti
dei raccordi fittizi, come se tale raffronto d'incompossibili potesse, esso solo, far sgorgare
nel bronzo e sulla tela la transizione e la durata. Le uniche istantanee ben riuscite di un
movimento sono quelle che si avvicinano a questa composizione paradossale, quando per
esempio l'uomo che marcia è stato colto nel momento in cui entrambi i piedi toccavano il
suolo: in questo caso otteniamo quasi l'ubiquità temporale del corpo, che fa sì che l'uomo
scavalchi lo spazio59».
Ci siamo avvicinati a comprendere la differenza fra la sensazione di un movimento e la sua mera
riproduzione su una lastra, analogamente alla percezione di un corpo vivo rispetto alla sua ricostruzione
geometrica (e cartesiana). L'unico caso dove il procedimento vivo dell'approccio al reale viene esposto e
valorizzato è la tradizione artistica, in particolare sarà la pittura la forma che Merleau-Ponty utilizzerà per
proseguire con la pars costruens della sua analisi.
4.2 – Il concetto d'incarnazione e l'analisi della pittura di Cézanne.
Nella nostra disamina abbiamo delimitato l'accezione di «percezione» alla vista; con Helmholtz lo
sguardo «si muoveva» sugli oggetti: dobbiamo indagare meglio questa espressione prima di procedere
oltre. Difatti nel senso comune e nella consueta partizione delle facoltà percettive rimane una cortina
divisoria fra l'opera compiuta del vedere, il visto o la visione, e quella che può essere la risultante di
determinate sensazioni tattili o motorie (così ben miscelate in una visione storico-antropologica legata
all'arte come quella del Riegl). La visione, nel nostro modo d'intenderla e comprenderla, cerca di
mascherarsi come qualcosa di compiuto e finalmente fisso. Tendiamo troppo spesso a dimenticare che c'è
qualcuno che vede e che l'influenza del voyeur dev'essere determinante se l'azione varia in maniera
radicale, ad esempio, da specie a specie naturale, da soggetto a soggetto. Ogni atto conoscitivo è,
pertanto, un esperimento ed anche il vedere reinterpretato in termini biologici sarà una potenziale “Wille
59 Ivi, pagine 54-55.
21
zur Macht”. Descartes riconosce la massima autorità all'atto del pensare, sussumendo sotto la sua ala ogni
conseguenza carica di senso dei risultati umani. Una fenomenologia del corpo, invece, esplorazione del
mondo sensoriale e delle sue potenzialità come quella di Merleau-Ponty, ricorrerà alla visione e all'atto
del vedere per rintracciare un legame istantaneo, immanente e già di per sé sufficiente fra il conoscente ed
il conosciuto.
Il trait d'union sta in particolar modo proprio nell'atto del movimento: l'occhio aggiusta la sua posizione
per capire e mettere a fuoco, vedere meglio è inevitabilmente legato ad un cambio di prospettiva ed una
profonda sinergia che riguarda la brama e la necessità di conoscere è radicata in maniera genetica tanto
più nell'essere maggiormente evoluto della natura, l'Uomo. Non esiste un “punto 0” della conoscenza; la
scienza più obiettiva e disinteressata sarà sempre scienza dell'uomo. E così lo sguardo: sguardo sempre di
un corpo, che con i suoi meccanismi non è estraneo a ciò che vede, che quando insegue qualcosa di vivo o
la ricostruisce è nello stesso tempo vivo e ricostruito dalle restanti forze in campo: «Io dico che una cosa è
mossa, ma il mio corpo si muove, il mio movimento si dispiega; non avviene nell'ignoranza di sé, non è
cieco a se stesso, s'irradia da un sé60».
Si tratta di recuperare una forma d'empatia e di sensibilità quasi primitiva, «l'indivisa comunione del
senziente e del sentito». Il soggetto, elemento cardine di tutte le congetture basate sulla positività
scientifica, è già stato decostruito ampiamente nell'ambito stesso del pensiero ed il ritorno al
cartesianesimo di autori come Husserl si fa forza di quella comunanza di dubbio che si supera
nell'operatività stessa dei processi dell'Io, di un Io che si sente da sé così come il cogito, reinterpretato
nella modernità in quanto voce interiore. Nell'ambito del senso, del percepito, lo spettro di fenomeni di
cui ci stiamo occupando, ci si renderà conto che anche la chimera del soggetto conoscente svanirà senza
ammettere la continua volontarietà inscritta in ogni atto percettivo. Il movimento evidenzia questo potere,
questo disporre di sé: è soltanto un rapporto di gradualità e di scomposizione temporale quello che lo
allontana apparentemente dal “movimento-vista”. Nel Gedankenexperiment del fisiologo Helmholtz i
presentabili erano quei micromovimenti che il soggetto senza memoria si accorge di dover fare per poter
rinnegare i presenti come unico risultato possibile, dimostrando una comunione d'intenti, a modo delle
«funzioni completive» nell'arte plastica, fra l'intenzionalità motoria e quella oculare61. Nelle parole di
Merleau-Ponty:
«Il mio corpo mobile rientra nel mondo visibile, ne fa parte, ecco perché posso dirigerlo
nel visibile. D'altra parte è vero anche che la visione è sospesa al movimento. Vediamo
solamente quel che guardiamo. Che cosa sarebbe la visione senza il movimento degli
occhi, e come potrebbe questo movimento non confondere le cose, se fosse lui stesso
riflesso o cieco, se non avesse le sue antenne, la sua chiaroveggenza, se la visione non
fosse già prefigurata in lui?62».
Vedere e muoversi nello spazio sono riuniti sotto l'egida degli stessi istinti, che, seguendo la scia
suggestiva d'un noto aforisma di Darwin, non sono altro che «ragioni dimenticate». La visione umana è
sempre da riconsiderarsi nietzschianamente come «Menschliches, Allzumenschliches63» e sarà
60
61
62
63
Ivi, pagina 18.
«Il mondo visibile e quello dei miei progetti motori sono parti totali del medesimo Essere». Ivi, pagina 17.
Ibidem.
Sull'influenza del pensiero di Nietzsche sulla fenomenologia applicata al sensoriale si può rileggere uno dei più
celebri passi della Genealogia della morale, ove è presente una formulazione del “prospettivismo nietzschiano”:
«qui si pretende sempre di pensare un occhio che non può affatto venir pensato, un occhio che non deve avere
assolutamente direzione, in cui devono essere troncate le forze attive e interpretative, mediante le quali soltanto
vedere diventa un vedere qualcosa; qui dunque viene sempre preteso un controsenso e un non-concetto di occhio.
Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un «conoscere prospettico»; e quanti più affetti lasciamo parlare sopra
una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi, sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più
completo sarà il nostro «concetto» di essa, la nostra «obiettività». Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale,
Adelphi, Milano, 2011, pagina 113.
22
responsabilità della fenomenologia scriverlo nel suo memorandum per bloccare l'avanzata d'un Pensiero
Unico, più che scientifico, tecnocratico (in quanto il rischio potrebbe essere quello di vedere la
ricostruzione artificiale del reale, finalmente liberatasi delle sfumature adattive della specie, come quella
più attendibile e sul quale pre-vedere il futuro). Il soggetto non è un corpo adamantino, a cominciare dal
fatto che la stessa proprietà tridimensionale che egli attribuisce alla realtà è biologicamente determinata
dalla binocularità particolare del suo sistema ottico64: il soggetto è incarnato e non è al di fuori del
Mondo, è una parte di esso (riecheggia in questi ragionamenti la concezione stoica dell'universo come
essere vivente) che pone attenzione sul tutto o sulle restanti parti. Il tessuto del mondo è il tessuto della
vita:
«Visibile e mobile, il mio corpo è annoverabile fra le cose, è una di esse, è preso nel
tessuto del mondo e la sua coesione è quella di una cosa. Ma poiché vede e si muove,
tiene le cose in cerchio intorno a sé, le cose sono un suo annesso e un suo prolungamento,
sono incrostate nella sua carne, fanno parte della sua piena definizione, e il mondo è fatto
della medesima stoffa del corpo65».
In questo orizzonte filosofico-biologico, dove il corpo è una cosa fra le cose, un essere fra gli esseri, e non
esiste di conseguenza niente di totalmente a-corporale ed inorganico per distanziarsi dall'Essere e da
isolare, la profondità dell'osservazione è analoga alla ricettività. Si devono portare alla luce i collegamenti
fra gli enti, i loro rapporti e la loro materialità: nell'evoluzione naturale alcuni sensi si sviluppano più di
altri in base ad un contesto dove è necessario sopravvivere, nella riproduzione artistica la ricerca è di
volta in volta tesa a seguire un percorso, un tracciato di quella membrana del vivente utile a delle esigenze
d'indagine66. La similitudine fra soggetto percettivo ed artista viene finalmente resa palese: la posizione
del filosofo nei riguardi dell'arte sembra essere quella di chi vi ci riconosce una ricerca ontologica e della
verità prescientifica; dal punto di vista concettuale, perciò, «ogni teoria della pittura è una metafisica67».
La critica all'idea di «ambiente unico», di a-priori della conoscenza, ci riporta a quel momento in cui il
pensiero del biologo estone Jakob von Uexsküll, anticipando i fondamenti dell'attuale ecologia
(l'ecosistema in particolare), teorizzava la sua Umwelt o «universo soggettivo»: per l'adattamento naturale
ogni organismo filtra i dati sensoriali, vede e percepisce in maniera radicalmente diversa e soprattutto
funzionale alla sua conservazione. La riflessione fenomenologica di Merleau-Ponty, che ha in comune
molteplici riferimenti alla fisiologia, non trae le stesse conclusioni, in quanto permane nel fondale
dell'esistenza una possibilità onnicomprensiva di intelligibilità dovuta ai meccanismi comuni di ogni tipo
di corpo verso altri corpi. C'è, dunque, un'attenzione decisiva sulla specificità dell'uomo nell'ambiente
naturale, ma anche la capacità dell'artista in quanto senziente par excellence68 (da voyeur a voyant) di
cogliere «i rapporti costitutivi delle cose69». Se ammettessimo che l'artista coglie «ciò che è» saremmo di
nuovo intrappolati nel gioco della percezione astratta e senza soggetto, avremmo saltato quella rete di
64 Sulla binocularità: «Se i nostri occhi fossero fatti in modo che nessuna parte del nostro corpo potesse cadere sotto il
nostro sguardo, o se un maligno meccanismo, pur lasciandoci liberi di muovere le mani sulle cose, ci impedisse di
toccare il nostro corpo – o semplicemente se, come certi animali, avessimo occhi laterali, senza intersezione dei
campi visivi – allora questo corpo che non si rifletterebbe, che non si sentirebbe, questo corpo quasi adamantino, che
non sarebbe completamente carne, non sarebbe neppure un corpo d'uomo, e non esisterebbe umanità». Maurice
Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, pagina 17.
65 Ivi, pagina 19.
66 Ancora una volta un'assonanza con Nietzsche: «Che l'artista stimi maggiormente l'apparenza della realtà, non è
un'obiezione contro questa proposizione. Infatti «l'apparenza» significa, in questo caso, ancora una volta la realtà,
nell'ambito, però, di una scelta, di un rafforzamento, di una correzione». Friedrich Nietzsche, Crepuscolo degli idoli,
Adelphi, Milano, 2007, pagina 45.
67 Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, pagina 32.
68 Sulla proverbiale “ispirazione” artistica: «Quel che si definisce ispirazione dovrebbe venir preso alla lettera: c'è
realmente inspirazione ed espirazione dell'Essere, respirazione dell'Essere, azione e passione così poco distinguibili
che non si sa più chi vede e chi viene visto, chi dipinge e chi viene dipinto». Ivi, pagina 26.
69 Ivi, pagina 22.
23
volontà ed “evolutività” filogenetica che abbiamo toccato con le nostre mani; in realtà, egli più degli altri
è in grado di ricostruire «la struttura immaginaria del reale», cogliere all'interno di ogni visione «ciò che
la fodera interiormente70». In altri termini, l'artista non è nient'altro che un soggetto percipiente
consapevole delle possibilità dei suoi mezzi, un auscultatore del Reale allo stesso modo in cui lo può
essere lo scienziato o il passante. La profonda differenza è che egli accoglie, che si presta a ricevere: «è
prestando il suo corpo al mondo che il pittore trasforma il mondo in pittura71». La sua più grande fortuna,
la sua principale dote, è la semplice ricettività, l'abilità di far parlare le cose attraverso di sé
ripercorrendole (e la capacità di riesaminarle non si ha, come vorrebbe il razionalista, nella memoria o a
posteriori bensì in quella forma osmotica che si raggiunge fra vivente e vivente, una sorta di
compenetrazione e mutua comunicazione fra l'uomo e il mondo tipica delle filosofie orientali e delle loro
prassi meditative).
Non vi saranno mai grandi artisti con una forte intenzionalità personale, se così possiamo esprimerci, per
il semplice motivo che qualsiasi tipo di arte coglie ciò che è sotto gli occhi di tutti, che esterna senza
intromettersi; da questo punto di vista un pittore è un oracolo. Commentando alcune dichiarazioni di
Cézanne, preso a modello dell'espressione naturalistica, come «la natura è all'interno», per il filosofo
consegue che «qualità, luce, colore, profondità, che sono laggiù davanti a noi, sono là soltanto perché
risveglino un'eco nel nostro corpo, perché esso li accolga72». Sembrerebbe conseguente poter dire che non
è l'arte che decide di mostrare le cose con una deliberazione. La sua spontaneità rovescerebbe la natura
del mostrare, il mito della creatio ex nihilo: in qualche modo l'uomo diviene uno strumento, si lascia
possedere ed abbandonare nell'atto della comprensione. In caso contrario i suoi schemi tornerebbero ad
imporsi anche sulla sensazione nuova, assimilandola a quella precedente o al già conosciuto.
La lettura che Merleau-Ponty dà dell'arte realista e naturalista nel suo senso più profondo di indagine
ermeneutica del reale non ci sembra tanto distante da quella che diede Martin Heidegger nel saggio
(pubblicato nel 1950 ma del quale il nucleo centrale venne concepito e reso noto già in una conferenza del
1935) “L'origine dell'opera d'arte73”. L'intento di trovare una definizione per la categoria «opera d'arte»
portava immediatamente la mente filosofica alla teoria del segno, ad indagare il manufatto artistico come
designante un qualcosa di esistente nella realtà, un “qui pro quo”. Ma questo sentiero risulta
impraticabile, sostiene Heidegger, in quanto la natura della «cosa» ci risulta anch'essa celata. Eppure
dovrebbe essere più semplice comprendere qualcosa che è sgorgato dalle nostre mani, dalla nostra vis
creativa; facendo riferimento in primis ad un'opera di Van Gogh del 1886, intitolata “Un paio di scarpe”
(Figura 5) Heidegger sostiene che non sarà la cosa designata a far luce su che cos'è l'opera d'arte ma
quest'ultima a farci comprendere, almeno attraverso i sensi, cos'è un oggetto reale.
Il felice accostamento al quadro di Van Gogh è dovuto anche alla lettura interpretativa del filosofo sul
tema specifico: le scarpe sono l'oggetto più vicino alla terra, esprimono il più possibile, nella loro
consunzione, la vita contadina in quanto sforzo ed usura stigmatizzata in qualcosa. A colpire il fruitore
dell'opera è la loro «opaca materialità», la «terrestrità74». Vi è indubbiamente, sia in Cézanne che in Van
Gogh, una componente storica che non dev'essere tralasciata (sarà questa la critica che farà un noto
storico dell'arte, Meyer Schapiro, al filosofo tedesco); nel quadro di Van Gogh in particolare ci troviamo
di fronte a un determinato tipo di scarpe, di una determinata classe sociale e legate ad un tempo e uno
spazio geografico. La nottola di Minerva, la filosofia, per Hegel iniziava «il suo volo sul far del
crepuscolo», riconosceva con una differita i tratti distintivi di un'epoca e dello spirito di essa; l'arte
potrebbe anch'essa scoprire qualcosa di ben profondo ma inevitabilmente storicizzato. Tuttavia questa
obiezione non le toglie in alcun modo il carattere che Heidegger (e Merleau-Ponty) le vuole riconoscere,
70
71
72
73
Ibidem. Corsivi miei.
Ivi, pagina 17.
Ivi, pagina 20.
Per la sezione su Heidegger: Stefano Velotti, La filosofia e le arti. Sentire, pensare, immaginare, Laterza, Bari, 2012.
In particolare il capitolo "Un paio di scarpe e altri enigmi", pagine 3-18.
74 Ivi, pagina 6.
24
quello di disvelatrice e «messa in opera della verità75». La verità da riconsiderare, come concepita da
Heidegger/Merleau-Ponty, è «αλήθεια», un dischiudere, un rivelare.
Figura 5 – Vincent Van Gogh, "Un paio di
scarpe" (1886)
Van Gogh fece una serie di quadri dedicati al tema delle scarpe, così come per i girasoli: diversi anni,
diversi soggetti ma anche variazioni sugli stessi. La ragion d'essere d'una serie per un pittore non può
essere unicamente una miglioria, ognuna di queste opere è a suo modo completa: si tratta di cogliere
qualcos'altro, di scoprire un fondo di comunicazione continuamente sussurrante da parte della realtà.
Cézanne impegnò più di 20 anni della sua attività per ritornare sullo stessa tema, la montagna SainteVictoire (Figura 6).
Figura 6 - Tre quadri di Paul Cézanne dedicati alla montagna Sainte-Victoire. (Rispettivamente del
1890, 1887 e 1904)
Al di là delle importanti variazioni stilistiche, quello che colpisce maggiormente Merleau-Ponty è
l'intento conoscitivo della percezione costante che Cézanne stesso non smette di rendere noto nei suoi
commenti; specialmente quella sensazione del pittore di non essere lui a guardare la montagna ma
d'esserne guardato:
75 Ibidem.
25
«È la montagna stessa che, di laggiù, si fa vedere da lui, è lei che il pittore interroga a
partire dal proprio sguardo. Che cosa le chiede precisamente? Di rivelare i mezzi, i mezzi
visibili e nient'altro, con i quali essa si fa montagna sotto i nostri occhi. Luce,
illuminazione, ombre, riflessi, colore, tutti questi oggetti della ricerca non sono esseri
propriamente reali; hanno solo un'esistenza visiva, come i fantasmi. Stanno sulla soglia
della visione profana: generalmente non vengono visti76».
Analizziamo due dei termini messi in gioco dal filosofo nella sua esegesi dell'opera: A) vi sono dei
φαντάσματα simili a dei riflessi, hanno un'esistenza soltanto visiva ed è l'essere visti che gli permette di
emergere; B) abbiamo una visione «profana», la visione che non sa aspettare, che non sa cogliere né ciò
che emerge per essere visto o sentito né, dunque, i rapporti costitutivi fra le cose.
Il pittore77 come “tipo” conoscitore, la visione artistica libera dagli schematismi scientifici, l'unica che si
distanza da quella profana non per mancanza di nozioni ma per una maggiore capacità di ascolto: sembra
che solo la fenomenologia e l'attenzione che essa vuol dare a tutta la conoscenza riflessa dall'interno possa
lentamente dare un valore positivo e costruttivo alla categoria della “sensibilità”, da tempi immemori
qualità prevalentemente passiva dell'intelletto e del corpo. Dipingere una montagna potrebbe voler dire
cogliere sempre più dettagli, l'approfondimento di Cézanne potrebbe essere meramente una questione di
quantità (quantità di tele, quantità di angolazioni): ma se anche fosse così, nell'indagine pittorica e nella
sua teorizzazione da parte degli stessi artisti, anche la natura morta, il tema dello specchio o il fulcro
essenziale della costruzione delle immagini come sintesi (determinante nel cubismo e nell'espressionismo
del '900) non sono altro che indagini sulla rivelazione, sulla manifestazione, sull'apparire della vita in sé.
Un esempio che Merleau-Ponty aggiunge a quelli già raccolti è l'uso che dello schizzo faceva il luminare
Leonardo Da Vinci:
«Leonardo Da Vinci nel suo Trattato della pittura parlava di «scoprire in ogni oggetto...
la maniera particolare in cui una certa linea flessuosa, che è per così dire il suo asse
generatore, si dirige attraverso la sua estensione». […] Si supponeva che le linee
circoscrivessero la mela o la prateria, ma in realtà la mela o la prateria «si formano» da
sé78».
Questo assente che sfugge ad una percezione poco attenta non si cela soltanto dietro alla velocità del
quotidiano o al soggetto in movimento, che non si riesce a seguire o che possiede troppe sfumature da
immortalare: si tratta anche dell'essere organico nel suo sviluppo, che può essere un bambino o una mela
(o un carattere psicologico?): cardine dello studio è questa ricerca di un “asse generatore”, di una linea
che ha formato e di una forma che ad un certo momento è nata da un'altra. La morfogenesi come tipo
d'indagine interiore sembra essere un concetto comune alla gnoseologia in quanto tale, di filosofica
autorità ma d'empirico rinnovamento.
76 Merleau-Ponty, L'occhio e lo spirito, pagina 24.
77 In realtà non v'è ne “L'occhio e lo spirito” una posizione predominante della forma pittorica. Sembra che il filosofo
faccia dei cenni en passant anche alla musica, come abbiamo visto sopra, per ribadire che si tratta di una forma di
«ricettività» comune. Sulla scultura possiamo leggere: «A pensarci, è sorprendente che spesso un buon pittore faccia
anche del buon disegno o della buona scultura. Dato che né i rispettivi mezzi d'espressione, né i gesti sono
paragonabili, ciò prova che esiste un sistema di equivalenze, un Logos delle linee, delle luci, dei colori, dei rilievi,
delle masse, una presentazione aconcettuale dell'Essere universale». Ivi, pagina 50.
78 Ibidem.
26
5 – La profondità come esperienza della reversibilità ed il chiasma del Visibile e dell'Invisibile
Esisterebbero dunque due spazi? Uno spazio vivo, palpitante, che l'arte sente come può un predatore che
fiuta la sua preda, o la preda che da lontano sente un fruscio nel cespuglio, ed uno spazio geometrico,
calcolato, lo spazio del piano cartesiano che permetterà i futuri calcoli, le future analisi, le pre-visioni?
All'inizio del nostro saggio abbiamo mostrato un dipinto suprematista di Malevič. Nell'espressionismo
astratto due figure geometriche sono disposte in modo tale che una copra l'altra: senza nessun effetto di
tridimensionalità o profondità noi riusciamo, come per abitudine, a continuare il “percorso con lo
sguardo” (Helmholtz) della linea che viene interrotta e coperta, a completare qualcosa che non è
geometricamente presente nel disegnato. Questa nostra “abilità” non è forse una bizzarra stranezza per la
spazialità geometrica? Non è inverosimile che l'intento di Malevič e di molta pittura astratta successiva (o
surreale come quella di Magritte) fosse proprio questo: rilevare il vicolo cieco della concezione spaziale
assuefatta alla prospettiva. Perciò avevamo ascoltato Riegl: per renderci conto di come sin dall'arte preellenica il concetto di profondità fosse visto come qualcosa di inquietante e da evitare; con l'arte plastica
si accenna ad una tale esistenza e si cerca di contenerla, con la tarda antichità si assiste ad un'esplosione
«caotica» di piani intersecantesi. L'intenzionalità artistica (Kunstwollen) cambia e cambia la differenza di
gusto fra gli spettatori: chi non ha accettato la sfida, chi non ha quella capacità di stare al gioco ed
immaginare, rimane nell'ignoranza del contemporaneo.
Ma se volessimo estendere l'arco di questa “storia dello spazio” ci accorgeremmo che la tensione fra
razionalizzazione della profondità e sua “liberazione” permane nel corso dei secoli: il metodo
raffigurativo ha nell'invenzione delle leggi prospettiche la sua maggiore arma, il baricentro logico della
composizione d'ogni quadro. E l'arte della prospettiva è quella che condivide le leggi geometriche, che
ispira il piano cartesiano; in una raffigurazione della profondità geometrica tradizionale cos'è esattamente
la terza dimensione se non un'illusione? Il cubo è un quadrato al quale si estendono le diagonali, la figura
geometrica “solida” è fatta delle stesse componenti (linee, colori, angoli) che combinate fra loro creano
l'illusione della coesistenza di più piani. Di fronte ad una rappresentazione geometrica, ad una
ricostruzione adatta allo scopo della scienza pratica, lo spazio ci sta di fronte: eccolo ridotto, dinnanzi ai
nostri occhi, ad un gioco.
Questa, tuttavia, non è che un compromesso arbitrario molto lontano dal corpo e dai sensi. Noi
galleggiamo nello spazio, ne siamo immersi e siamo spazio: non può mai, lo spazio vivo, starci
completamente difronte: «Dopotutto, il mondo è intorno a me, non di fronte a me79».
Indagando sulla profondità pura, priva di ricostruzione, ci accorgiamo di come essa entri in maniera più
incisiva nel nostro apparato sensoriale con diverse categorie: negli infiniti piani della percezione reale
qualcosa appare davanti a qualcos'altro, la copre e soltanto coprendo e rendendo qualcosa estraneo alla
nostra vista si rende a sua volta visibile. Ma il coperto, l'ignoto, il lontano, non smette in quell'istante
d'esistere: la paradossalità della terza dimensione, l'enigma della profondità, è quello di non essere una
dimensione in senso stretto (da de-mensus, misurato) ma un rapporto vivo fra gli oggetti, una
“interscambiabilità” o reversibilità. La profondità:
«non è una dimensione, almeno nel significato abituale di un determinato rapporto in
base al quale si misura. La profondità […] è piuttosto l'esperienza della reversibilità delle
dimensioni, di una «località» globale in cui tutto è contemporaneamente, e da cui
vengono astratte altezza, larghezza e distanza, di una voluminosità che si esprime, in una
parola, dicendo che una cosa è là. Quando Cézanne cerca la profondità, è questa
deflagrazione dell'Essere che cerca, ed essa si trova in tutte le modalità dello spazio, come
anche nella forma».
Questo complesso concetto dell'immanenza, della profondità come immanenza, ha bisogno per essere
compreso di una rottura radicale con la precedente catalogazione geometrica della stessa all'interno degli
79 Ivi,pagina 42.
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schemi «operativi» della storia della scienza. Ogni cosa, pertanto anche l'oggetto inanimato e privo di
movimento, può diventare visibile soltanto nascondendo un altro elemento e questa esperienza elementare
ma incredibilmente necessaria del nostro mondo fenomenico ci porta a rintracciare quel concetto di
simultaneità spaziale e ubiquità temporale senza il quale non sarebbe possibile percepire la realtà.
Quella che nella geometria è soltanto un'illusione che permette di calcolare le distanze e le proprietà dei
corpi diventa nella storia filogenetica dei sensi e nelle scoperte più o meno consapevoli degli artisti la
comprensione, innanzitutto, del visibile come realtà non esauriente ed unica, del visto come transeunte
superficie sotto il quale non si nasconde di certo il trascendente o il mistero ma l'altro del Visibile o
“Invisibile”. Tutto ciò rientra nel modus operandi dell'artista (e del filosofo?), che nel reale deve
necessariamente vedere soltanto una possibilità realizzata, una visibilità che è emersa sopra ad altre
potenzialità. Nella fisiologia della percezione e nel quadro naturalista non possiamo avere un resoconto
completo della qualità degli oggetti, alla stregua di una sommatoria, ma un accenno che ha il suo valore
di rinvio e d'apertura al di là di quello che la «visione profana» necessariamente si ritaglia: «l'essenza
propria del visibile è di avere un doppio di invisibile in senso stretto, che il visibile manifesta sotto forma
di una certa assenza80».
Il convincente “candore” e l'abissale distanza dell'approccio diretto della fenomenologia di Merlau-Ponty
rispetto ai concetti tradizionale di spazio, visibile e profondità si cristallizza in questa dicotomia
conclusiva negli ultimi anni della produzione del filosofo francese. Ne “Il Visibile e l'Invisibile” viene
ribadita la polarità dei due aspetti del visto-vivente e la loro complementarità utilizzando il concetto di
«chiasma», incrocio, aderenza delle due dimensioni. L'accostamento significativo fra il possibile e
l'invisibile (che si attiva allo sguardo) era già stato, nondimeno, ampiamente anticipato anche nelle opere
precedenti; un esempio si ritrova in “Segni” (1960):
«Nessuna cosa, nessun lato della cosa si mostra se non nascondendo attivamente gli altri,
denunciandone l'esistenza nell'atto di nasconderli. Vedere è, per principio, vedere più di
quanto si veda, accedere a un essere di latenza. L'invisibile è il rilievo e la profondità del
visibile, e il visibile non comporta positività pura più dell'invisibile81».
80 Ivi, pagina 59.
81 Citato in Maurice Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, Bompiani, Bergamo, 1993, pagina 11.
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L`assente nella percezione