Tullio D’Aponte
Terre di vulcani
Miti, linguaggi,
paure, rischi
Atti del Convegno Internazionale
di Studi italo–francese
Parte II
Sezione territorio e ambiente
ARACNE
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ISBN 88–548–0142–9
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
I edizione: aprile 2005
In copertina: Fontana Spinacorona, restauro e riattivazione funzionale,
maggio 2004 (foto G. Pignatelli, 2005)
Tra antiche fabbriche ecclesiastiche degli ordini monastici, circondate da nobili
dimore, da uno slargo isolato, inaspettatamente, appare una splendida fontana, ben
presto battezzata dal popolo “funtan ‘e zizze”. Ci si trova in un quadrilatero chiuso da
Mezzocannone, Spaccanapoli, via Duomo e l’attuale Corso Umberto, proprio a ridosso dell’edificio principale della Federico II, a pochi passi dall’ingresso della Facoltà di
Scienze Politiche.
È una delle tante, spesso dimenticate e poco curate, “fontane di Napoli” che già
nell’Ottocento, il D’Ambra (Napoli antica, 1889) indica come Spinacorona, dal nome
attribuito alla Santa Maria al cui culto è dedicata una chiesa del XIV secolo eretta in
quel modesto slargo che si apre sulla via Guacci Nobile, ai margini dell’insediamento
ebraico che sorse intorno alla limitrofa Portanuova.
Non è ben certa l’epoca della costruzione, sebbene qualche storico la vorrebbe far
risalire al XII secolo, mentre le uniche notizie certe ricorrono in seguito al restauro
disposto da don Pedro de Toledo, viceré di Napoli, nella prima metà del XVI.
L’ing. Leone Gasparini, straordinario gentiluomo di nascita piemontese che a
“compensazione” del suo impegno professionale di manager del comparto elettrico, in
ragione del quale viveva nella nostra città, volle coltivare, con passione e competenza,
interessi artistico–letterari, nella sua opera “Antiche Fontane di Napoli” (Società editrice napoletana, 1979) fornisce elementi che suggeriscono interessanti considerazioni
sul significato simbolico e, forse, per riflesso, sulla databilità dell’opera.
Dice, appunto, il Gasparini “La statuina di Partenope è posta su un altorilievo avente la forma del Vesuvio (è un motivo naturalistico che anticipa analoghi effetti barocchi) sulle cui pareti sono scolpiti un violino e lingue di fiamme”.
L’elemento caratterizzante, a nostro avviso, resta la chiara composizione naturalista che, riprendendo motivi classici raffigura Partenope, metà donna e metà uccello,
dal cui seno vitale sgorga, in forma di purissima acqua, l’energia che spegne il “fuoco” del vulcano.
Nell’espressione artistica, il vigore distruttivo del vulcano, forza incontenibile,
modellatrice primaria del paesaggio, è contrapposto proprio all’acqua, simbolo di purezza e di ricchezza, sicché: “dum vesevi syrena incendia mulcet” come ammoniva
l’iscrizione originariamente incisa nel bianco marmo della fontana.
Coincidenza casuale, oppure implicita conferma di una essenzialità geografica da
interpretare attraverso la perenne interazione uomo–natura, simbolo straordinario di
un positivismo incentrato sulla fattività dell’umano intelletto?
Qual sia la risposta al nostro interrogativo, resta la consapevolezza di uno stimolante intrigo che accomuna lo splendore del sito all’evocazione del rischio in una prospettiva positivista evoca attraverso la forza vitale di Partenope le ragioni di una vivacità culturale insopprimibile.
T.D.
INDICE
Introduzione
9
Il “rischio vulcanico” tra approccio scientifico e suggestione
artistica
di Tullio D’Aponte
19
Rischio, paura, informazione
di Ugo Leone
Il Mito
31
Vulcani, paesaggio e richiami archeologici nelle carte
d’autore tra Settecento e Ottocento
di Anna Carrabetta
41
Il fenomeno vulcanico in alcuni scrittori, cartografi e vedutisti dei secoli XVII-XIX
di Simonetta Conti
61
Fuochi minori: mito, uso e abuso dei vulcani tra Napoli e
dintorni
di Elio Manzi
75
Il Grand Tour ai vulcani del Sud: iconografia e geologia nella riscoperta del mondo classico
di Ernesto Mazzetti
Il Vesuvio e l’Etna
93
Connessioni ambientali e specificità territoriali: la centralità
del Vesuvio nella rete ecologica del sistema regionale campano
di Maria Ronza
7
8
Indice
117
Il Vesuvio: quando il bello non coincide con il buono
di Lucio Lirer, Paola Petrosino, Mihaela Chirosca, Marino
Grimaldi e Giuliana Coslovich
133
“Là dove si sente il vento”. I vulcani, le Eolie, la Sicilia
di Giuseppe Campione
147
L’Etna: un percorso attraverso l’immaginario, la consapevolezza del rischio e la gestione del territorio
di Caterina Cirelli, Elena Di Blasi e Carmelo Maria Porto
Il Vesuvio e la costa
209
Il Vesuvio tra mito e paura nella percezione turistica
di Italo Talia
215
Dinamiche demografiche e tendenze insediative nell’area vesuviana
di Maria Laura Gasparini
229
La “montagna urbana di fuoco”: vulnerabilità, pianificazione
e gestione del rischio
di Daniela La Foresta
257
Oltre il vulcano. La Terra delle Sirene nel Piano Territoriale
di Coordinamento Napoletano
di Viviana D’Aponte
283
L’idea di un Parco “aperto”: proposizioni operative
all’ombra del Vesuvio
di Barbara Delle Donne
295
Il Parco Letterario del Vesuvio
di Stefania Palmentieri
303
L’importanza delle esercitazioni nella pianificazione
d’emergenza: i casi di Somma Vesuviana, Trecase e Portici
di Cristiano Pesaresi
INTRODUZIONE
Il “rischio vulcanico”
tra approccio scientifico e suggestione artistica
Tullio D’Aponte∗
Il tema che insieme ai miei Colleghi abbiamo scelto per questo
incontro di studio è allo stesso tempo argomento di carattere generale, di ampia prospezione concettuale, e problema d’interesse regionale, in quanto dalla presenza della costruzione vulcanica scaturiscono
fondamentali conseguenze sul piano degli assetti insediativi, da un
lato, del controllo e governo del “rischio”, dall’altro.
Le ragioni che spiegano lo straordinario interesse per uno studio
“geografico” degli ambiti locali interessati da fenomeni di vulcanismo attivo è estremamente chiaro: bisogna conoscere in tutti i suoi
aspetti l’organizzazione reale del territorio, analizzare i fattori della
struttura del paesaggio, interpretarne le dinamiche con una finalità
esplicita: impostare le linee direttrici dell’azione di “governement”
che si rende necessaria a salvaguardia delle risorse locali e della stessa esistenza delle comunità insediate in queste particolari regioni geografiche del Paese.
Il motivo per il quale si ritiene che proprio l’approccio “geografico” aiuti a meglio comprendere come intervenire per “organizzare il
territorio a rischio” risiede nella specifica ottica che tale scienza ha
assunto a proprio metodo di studio. Nella concezione “geografica”
del paesaggio, infatti, al fattore “naturale” viene attribuita rilevanza
pari al fattore “umano”, in quanto si ritiene che la costruzione dei
singoli scenari sia il risultato di un processo d’interazione che, col
suo svolgersi, determina, appunto, le dinamiche che producono le
stratificazioni degli assetti evolutivi dello spazio-territorio. E, tuttavia, in nessun caso, il concetto di pari rilevanza va inteso come equilibrio di forze né pari incidenza dimensionale di ordine fattoriale,
bensì come esplicita affermazione di natura concettuale la cui valenza deriva dall’adesione al principio storicistico della funzione modellatrice svolta dal gruppo umano attraverso il tempo.
∗
Ordinario di Organizzazione e Pianificazione del Territorio, Preside Facoltà
Scienze Politiche, Università di Napoli Federico II.
11
12
Tullio D’Aponte
Questa esplicita consapevolezza, ormai, traspare negli stessi studi
che seguendo il metodo geografico affrontano il tema della pianificazione in termini di innovazione territoriale. In tale prospettiva è intuitivo comprendere come l’“interpretazione geografica” degli effetti
delle politiche regionali fornisca un utile contributo alla conoscenza
delle interazioni che si producono con il substrato fisico destinatario
degli interventi di cui ci si propone di valutare le prevedibili proiezioni, sia rispetto alle modificazioni degli equilibri fisici, sia in funzione dell’organizzazione territoriale.
È del tutto evidente come quello che si propone di porre in essere
non sia altro che un esercizio di “lettura” delle dinamiche che ciascun
processo di pianificazione pone in essere nella puntuale individuazione degli effetti che le trasformazioni introdotte determinano sulla
modificazione dell’organismo territoriale; lettura non semplice, proprio perché le molteplici interazioni tra i fattori in campo rivelano caratteri di indubbia complessità: analisi tanto più ardua
nell’interpretazione dei “rischi” relativi, quanto più diffusa si rivela
la presenza di fattori fisici sensibili all’interno dell’area d’intervento.
Sono queste le ragioni che spiegano l’esigenza di una stretta collaborazione inter e infra disciplinare nella fase di predisposizione
tecnica del piano, allorché le singole professionalità specialistiche e
le specificazioni applicative infra-disciplinari sono chiamate a tradurre in processi le scelte politiche definite nelle sedi competenti.
La “costruzione” di un processo di pianificazione presuppone geometrie ad assetto “variabile” in cui un sistema di equazioni non
ammette affatto una soluzione univoca, bensì prevede soluzioni alternative in rapporto alla variabilità dell’obiettivo progettuale, la cui
determinazione dipende dalla verifica dell’assenso partecipativo da
parte del contesto sociale. In tal senso, la fase di concezione iniziale
esige la possibilità di obiettivi alternativi, sicché la formulazione del
piano possa “adattare” le opzioni tecniche ai “vincoli” politici del
progetto complessivo.
Del resto, la confusione che sovente travolge ogni corretta distinzione tra concettualizzazione e prassi operativa nello svolgimento
delle singole fasi in cui si articola il processo di piano, si traduce in
una sottovalutazione della complessità, fideisticamente affrontata attraverso il troppo diffuso ricorso a modelli astratti, da cui deriva un
tecnicismo esasperato che, quasi sempre, si rivela fallace nel mediolungo periodo. La principale causa di tale inadeguatezza dello strumento modellistico deriva, per l’appunto, proprio dalla poco attenta
Il “rischio vulcanico” tra approccio scientifico e suggestione artistica
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considerazione preventiva delle proiezioni territoriali degli interventi
da attuare. In tal caso, è semplice convenire che quanto si riveli maggiormente carente sia proprio l’analisi “geografica” degli effetti del
processo di pianificazione, trascurata o, quanto meno, oscurata dalla
ridondante eco del paradigma tecnicistico. Ovvero, in molti casi,
emarginata dalla ferma determinazione politica di realizzazione
dell’intervento; opzione del tutto pragmatica, in quanto tale, inevitabilmente caratterizzata da esigenze di “immediatezza”, capaci, cioè,
di convogliare il consenso intorno ad una soluzione, poco importa
quanto razionale.
Il che non deve affatto interpretarsi come incauta pretesa di un
improponibile primato dell’opzione geopolitica, non inficiando affatto l’esigenza conoscitiva che deve sostanziare ogni progetto di innovazione dell’assetto del territorio, quella ineludibile legittimazione
politica che, in ogni caso, deve scaturire da una esplicita esposizione
degli effetti culturali complessivi prodotti dalle possibili soluzioni
alternative, tra le quali la collettività dovrà poter scegliere le soluzioni maggiormente rispondenti agli interessi “collettivi” in termini di
assoluta trasparenza. Ne consegue che la “conoscenza” rappresenti il
principale strumento della democrazia partecipativa e che il maggior
livello di approfondimento possibile, unitamente ai diversi aspetti
settoriali che intervengono nella composizione del processo, assumano rilievo assoluto, in quanto momento insostituibile di un corretto
confronto partecipativo tra i diversi attori sociali.
Ma, se tutto ciò che ho appena sostenuto può trovare condivisione
tra gli studiosi che sono cortesemente convenuti da tante sedi universitarie, ciò che ho il dovere di chiarire è un ulteriore aspetto “singolare” di questo nostro incontro.
L’idea che mi ha spinto ad accogliere le sollecitazioni delle colleghe “francesiste” di discutere tra studiosi di discipline, apparentemente, così lontane tra di loro – linguistica e scienze territoriali – un
tema di straordinaria evidenza nell’agenda politica regionale,
l’assetto territoriale delle aree a rischio vulcanico, si presta bene ad
una interpretazioni alla luce delle considerazione appena svolte.
In quale misura la letteratura, la poesia, l’arte, in breve, la cultura
umanistica, possono contribuire ad aiutare la collettività nel non facile compito di valutazione delle prospettive legate alle proiezioni territoriali degli interventi di pianificazione? In particolare, poi, quanto
questo apporto incide in una situazione in cui un ambiente decisa-
14
Tullio D’Aponte
mente “esposto” e, quindi, “sensibile” esprime elevati livelli di “rischio”?
Una risposta complessiva è semplice fornirla ove si consideri come l’ambito geografico sul quale ci si propone di offrire un contributo di conoscenza all’interpretazione delle dinamiche in atto rappresenta un’area in cui la stratificazione storica e le persistenze naturalistiche assumono caratteri di estrema complessità che giustificano un
ampio spettro di segmentazione analitica, tale da coinvolgere esperienze e sensibilità scientifiche estremamente articolate.
Del resto, chi non ricorda:
Paurosamente gemette, ne urlò tutta intorno la roccia, atterriti balzarono
indietro ed egli il tizzone strappò dall’occhio, grondante di sangue, e lo scagliò lontano da sé agitando le braccia e i Ciclopi chiamava gridando che in giro vivevano nelle spelonche e sulle cime ventose.
(Omero, Odissea l. IX, vv. 395-400)
Dove il mito del ciclope non è altro che la trasposizione poetica
dell’immagine del vulcano, immane, minaccioso gigante che sprigiona fuoco attraverso un occhio/cratere che “gronda sangue” e che il
navigatore non può per nessuna ragione ignorare, se vuole la nave e
l’equipaggio salvi, sicché la prudenza lo deve spingere a dirigere la
prua al largo, il più lontano possibile da un tale rischio.
Così come, già in versi precedenti, proprio alludendo alla costa
partenopea, il poeta usando un’altra perifrasi:
Qui presto vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, ferma la
nave a sentire la nostra voce. Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave
nera, se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce, poi pieno
di gioia riparte e conoscendo più cose
(Omero, Odissea l. XII, vv. 184-189)
non aveva rinunciato a tramandare nei secoli altro pericolo d’incauto
accosto.
Chiaro e diretto l’ammonimento: le suggestioni di un paesaggio
particolarmente ameno costituiscono un pericolo nella misura in cui
al fascino che spinge ad avvicinarsi alla costa si contrappone la pericolosità di fondali insicuri e improvvise secche scogliose.
La tradizione orale, che così efficacemente tramanda antichi “avvisi ai naviganti”, sia evocando le sirene ammaliatrici che popolano
una costa incantata, sia l’improvviso fuoco tra Eolie ed Etna, è uno
strumento poetico di estrema attualità in termini di richiamo sollecito
Il “rischio vulcanico” tra approccio scientifico e suggestione artistica
15
ad una consapevolezza del rischio che fattori “irrazionali” potrebbero
offuscare impedendone la più attenta considerazione.
Per quali inspiegabili ragioni, ci si potrebbe chiedere,
l’irrazionalità dei comportamenti ha potuto offuscare la consapevolezza del rischio?
Da un lato, per molti versi, nonostante taluni non dissimulati “segni” d’intensa attività vulcanica manifestatisi, ancora di recente – sia
negli anni Quaranta, sia negli anni Ottanta – dal dopoguerra sino ad
un decennio addietro, il territorio vesuviano ha continuato a dare
luogo ad irragionevoli fenomeni di conurbazione con il capoluogo
campano e a contemporanei incrementi della trama insediativa, sia
con andamento parallelo alla linea di costa, sia in direzione delle falde del vulcano, vera e propria montagna “urbanizzata”, sempre più
coinvolta nel processo di antropizzazione di questo territorio. Questo
comportamento “distratto” degli abitatori dell’area vesuviana, in
buona misura persino incoraggiato o, comunque, per lungo tempo,
affatto contrastato, da una classe politica parimenti “disattenta” al
corretto governo del territorio, ha determinato situazioni di esposizione al rischio vulcanico sempre più gravi e incontrollate. La confusione edilizia da cui è arduo dipanare la trama insediativa, non è soltanto uno degli effetti dell’antica origine del popolamento che ne ha
disegnato l’originaria configurazione, quanto la conseguenza di un
processo “spontaneo” animato da quello straordinario mix di fattori
di “centralità” geografica che hanno reso intensamente attrattiva tutta
l’area orientale del Golfo partenopeo. Questo spazio geografico, nei
cui confini operiamo e che quotidianamente riempie l’immaginario
del nostro domani, è uno spazio decisamente antropizzato e, tuttavia,
imponentemente segnato da quella che gli antichi ritenevano la più
esplicita e violenta espressione del dominio della natura: il fenomeno
vulcanico, la montagna che nasce dalle viscere più profonde della
madre Terra e che, a differenza di ogni altra costruzione ignea, resta
legata ad essa da un cordone ombelicale che è un condotto di fuoco
le cui manifestazioni di parossismo, sia pure allorché blande, non
possono non essere interpretate come una costante ammonizione, un
richiamo vigile a un pericolo in perenne agguato.
Ma, se il Vesuvio tuttora appare regolato da una fase sia pur precaria e di incerta durata, di equilibrio, come mai di fronte ad un’Etna
ripetutamente sotto la spinta di un’intensa condizione di parossismo,
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Tullio D’Aponte
l’insipienza dei governanti non è riuscita a frenare la cupidigia della
speculazione urbana?
Nessuna memoria di un “mito” possente. Nessuna titubanza, neppure di fronte alla quotidianità di un rischio tutt’altro che sopito, affatto consegnato al monito letterario e poetico.
Ma, contemporaneamente, quale espressione più evidente di pregnante fisicità, quale segno possente, ineludibile, di consapevolezza
del rischio, quale più esplicito severo richiamo al rigore dell’azione
di piano in aree geografiche così esplicitamente “sensibili”?
Alla poetica e alla letteratura va attribuito un ruolo importante nel
processo di sensibilizzazione popolare: l’attitudine a mantenere vivo
il ricordo, la straordinaria capacità evocativa della poesia che tramanda sentimenti forti quali la paura e lo sgomento di fronte alla catastrofe, la insostituibile propensione della letteratura ad interagire
con la storia, per custodire la memoria di eventi e situazioni prodotte
dal manifestarsi del vulcanesimo acuto.
L’arte, la letteratura, nelle loro diverse espressioni, alimentano la
memoria e trasmettono sensazioni che ci coinvolgono nel più profondo, sia pure allorché estranei agli eventi evocati, in tal senso, la
cultura rappresenta il “ponte” che congiunge passato e presente. Parimenti, l’analisi scientifica della composizione degli assetti prodotti
dalle diverse opzioni di intervento sul territorio, svolge un ruolo ancora più incisivo: consente di aggiungere l’elemento proiettivo, la
considerazione degli effetti territoriali delle dinamiche evolutive,
consentendo di aggiungere un insostituibile elemento di valutazione
alla rappresentazione dei diversi scenari innovativi.
Il progetto che ci ha visto impegnati nell’organizzazione di questo
incontro prevede una stretta integrazione tra diversi approcci e specificità disciplinari, integrazione che emerge dalla stessa presentazione
dei contributi.
Nell’articolazione delle giornate di studio quella “vicinanza” tra
arte, letteratura e indagine scientifica a cui si è fatto ampio riferimento è costantemente in evidenza. L’attenzione e l’interesse scientifico
per i vulcani perdura, ed è particolarmente vivace, durante il periodo
dei viaggi in Italia, quando molte escursioni furono appositamente
compiute per studiare direttamente i fenomeni eruttivi. Su questa
traccia si sviluppano contributi quali quello del Mazzetti e della Conti (E. Mazzetti, Il Grand Tour ai vulcani del Sud: iconografia e geo-
Il “rischio vulcanico” tra approccio scientifico e suggestione artistica
17
logia nella riscoperta del mondo classico, S. Conti, Il fenomeno vulcanico in alcuni scrittori, cartografi e vedutisi dei secoli XVII-XIX).
Nello stesso tempo, la citazione letteraria dei vulcani ricorre frequentemente sia in opere poetiche che in altri saggi aventi una più
esplicita caratterizzazione scientifica (G. Campione, “Là dove si sente il vento”. I vulcani, le Eolie, la Sicilia; I. Talia, Il Vesuvio tra mito
e paura nella percezione turistica), dove vengono sviluppate riflessioni, che in termini di “geografia attiva” meritano qualche approfondimento, quanto meno, per un contributo al dibattito
sull’intervento pianificatorio nelle aree vulcaniche.
Del resto, come si è detto, intorno ai vulcani sono frequentemente
nati ingenti insediamenti abitativi che, per nulla scoraggiati dalla particolare pericolosità del sito, si sono distribuiti alle falde dei rilievi
usufruendo delle particolari e felici condizioni di fertilità del terreno,
degli acclivi poco impervi e facilmente destinabili a strutture antropiche, sicché si verifica che, a differenza delle più impervie montagne,
i vulcani, troppo spesso, non presentano analoghi limiti
all’insediamento e vengono quindi scelti come luogo di elezione per
l’inurbamento (M. L. Gasparini, Dinamiche demografiche e tendenze
insediative nell’area vesuviana). Nel caso dei vulcani italiani, inoltre,
raramente si registrano i particolari fattori climatici che contraddistinguono i nostri rilievi alpini ed appenninici, e tale fenomeno è
probabilmente da ascriversi alla particolare distribuzione costiera degli stessi che, nonostante l’entità dell’altitudine raggiunta, risentono
costantemente della azione mitigatrice del mare.
L’idea stessa di “montagna vulcanica” quando confrontata con
quella simbolica di “montagna urbana”, non può non evocare l’idea
di “pericolo”, “rischio” e, per tanto, la conseguente ’esigenza di attente riflessioni intorno alla necessità di “vincoli”, “interventi di salvaguardia”, “protezione” e “controllo, mitigazione e gestione
dell’emergenza” (C. Girelli, E. Di Blasi, C. M. Porto, L’Etna: un
percorso attraverso l’immaginario, la consapevolezza del rischio e
la gestione del territorio).
La gestione del rischio e/o il rischio controllato presuppone la
puntuale conoscenza dei fattori che lo determinano e degli elementi
che ne amplificano gli effetti: da ciò l’esigenza di rigorosi strumenti
di pianificazione del territorio che prevedendo specifici interventi
preventivi consentano il superamento del semplice criterio della gestione ex post dell’evento disastroso.
18
Tullio D’Aponte
Su tali aspetti il Piano Territoriale di Coordinamento della Provincia di Napoli si sofferma ampiamente, consapevole della necessità
di intervenire sulle “gravissime manomissioni ambientali” che nel
tempo si sono succedute in tutta l’area vesuviana, anche a causa di
una percezione del rischio decisamente labile, in quanto connessa ad
una memoria storica piuttosto lontana nel tempo.
Il rischio strettamente connesso alle attività antropiche può quindi
essere ridotto agendo non tanto sui fenomeni naturali, peraltro difficilmente controllabili, quanto sulla conoscenza e su di un uso oculato
e razionale del territorio. Da tale punto di vista nella pianificazione
dello sviluppo turistico dell’area orientale il nesso con la realtà ricettiva della Penisola Sorrentina, area immediatamente al margine del
Vesuvio, si rivela del tutto degno di attenzione, come traspare dalle
indicazioni del recente strumento di indirizzo della pianificazione a
scala provinciale (V. D’Aponte, Oltre il vulcano. La Terra delle Sirene nel Piano Territoriale di Coordinamento Napoletano). Nello
stesso tempo, riflettendo sulle condizioni naturalistiche dell’area e
sull’esigenza di tempestivi e puntuali strumenti informativi di straordinaria rilevanza si dimostrano le opportunità offerte dai Sistemi Informativi Geografici (D. La Foresta, La “montagna urbana di fuoco”: vulnerabilità, pianificazione e gestione del rischio).
Gli eventi disastrosi non possono essere né evitati né, in alcuni casi preventivati con largo anticipo, tuttavia il loro impatto può essere
contenuto attraverso un processo appropriato e corretto di informazione alla popolazione che spieghi, anche, i comportamenti da assumere (U. Leone, Rischio, paura, informazione) e le conseguenze pratiche degli interventi di salvaguardia (C. Pesaresi, L’importanza delle
esercitazioni nella pianificazione d’emergenza: i casi di Somma Vesuviana, Trecase e Portici).
Intorno a questi temi, durante i due giorni dei nostri lavori, si
svolgerà la sezione territoriale del colloquio, alla quale farà seguito la
sezione diretta dall’insigne Collega Giovanni Dotoli che coordina il
nutrito gruppo di francesisti del nostro Ateneo e dell’Università di
Clermont Ferrant.
Un ringraziamento, tutt’altro che rituale, devo agli Enti,
l’Università Federico II che ci ospita in questa suggestiva cornice, la
Giunta Regionale della Campania, l’Amministrazione Provinciale di
Napoli, l’Ente Parco del Vesuvio e l’Azienda di Soggiorno, Cura e
Turismo di Napoli per la generosa ospitalità e la dimostrazione di
convinta adesione al nostro lavoro che ci testimonia attraverso la par-
Il “rischio vulcanico” tra approccio scientifico e suggestione artistica
19
tecipazione di insigni Rappresentanti di tali Istituzioni. Più di tutti,
però, sento il bisogno di ringraziare tre Colleghe, attive, quanto pazienti e benevole verso un “inafferrabile” Responsabile Scientifico.
Sono Gabriella Fabbricino e Annalisa Aruta che per prime mi hanno
“stretto” intorno ad un impegno fattivo e Daniela La Foresta che, per
“sodalizio” disciplinare mi ha ampiamente supportato, consentendomi, così, di superare non pochi ostacoli e incertezze. Se l’incontro avrà successo il merito è, indubbiamente loro. Ma, se, malauguratamente, rileverete errori e insipienze, sin d’ora sappiate che ogni responsabilità è esclusivamente mia.
Rischio, paura, informazione
Ugo Leone∗
1. Rischio e paura
Terremoti ed eruzioni vulcaniche sono fenomeni che hanno sempre
colpito l’immaginazione dei loro osservatori.
Durante il periodo dei viaggi in Italia, i due fenomeni fecero registrare il meglio di sé e la storia di quegli anni è ricchissima di cronache su terremoti ed eruzioni.
Intorno ad esse, soprattutto con riguardo alle eruzioni – dell’Etna e,
ancor più, del Vesuvio – si è sviluppato un materiale iconografico di
eccezionale valore che fornisce una quasi “fotografica” documentazione degli eventi. E per studiare questi fenomeni molti viaggi furono
appositamente compiuti da studiosi come Horace-Bénédict de Saussurre verso la fine del Settecento, Alexander von Humboldt, Leopold
von Buch, Louis-Joseph Gay-Lussac, poi.
Un geografo francese, Abraham Du Bois, sottolineò in pochi significativi tratti la complessità della situazione quando nel 1736 scrisse:
Se l’Italia è un paese gradevole e delizioso, che ha meritato il nome di Paradiso terrestre, e Giardino dell’Europa, essa ha pure i suoi grandi incomodi;
perché oltre le due montagne che vomitano fuoco, il Vesuvio e l’Etna, ( le
quali non danneggiano che quanti sono loro vicini, il primo nel Regno di Napoli, ed il secondo in Sicilia), essa è anche assai soggetta ai terremoti, che
causano grandi distruzioni.
Come ha scritto Carlo Alberto Anzuini, «l’esistenza dell’individuo
é sempre stata caratterizzata dalla presenza degli elementi naturali ai
quali la filosofia empedoclea imputava la generazione di tutti i corpi e
a cui si collegavano i miti che presiedevano alla vita stessa
dell’uomo».
Un vulcano, in particolare,
punto di raccordo tra i quattro elementi naturali si presenta come l’artefice
della vita dell’individuo, influisce sulle sue aspettative, richiama alla mente il
senso della vita che si genera, ma anche della morte e del mistero,
∗
Ordinario di Politica dell’Ambiente, Direttore DADAT.
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22
Ugo Leone
dell’abbondanza e della distruzione. A questa eterna dicotomia si lega il Vesuvio -Besubios, Besbios, Vesvio, Vesevo- esso stesso per antonomasia etimologica favilla, facella, scintilla a cui ab immemorabili é legata la vita, la
storia e la cultura partenopea.
(C.A.Anzuini, Il Vesuvio nella letteratura di viaggi e nell’iconografia artistica, in “Viaggio in Italia”, n. 10, 1985, p. 39)
La “scoperta” di Pompei ed Ercolano nel ’700 fece considerare in
modo ancor più approfondito il Vesuvio, che cominciò con regolarità
ad essere meta obbligata dei viaggi e oggetto di resoconti accurati e
ispiratore di una florida produzione artistica.
Scrive Pietro Colletta (Storia del reame di Napoli, Torino, 1852,
vol. I, p. 79)
Annovero fra le opere più fortunate di Carlo gli scavi di Ercolano e di
Pompei, e poiché dovrò dire di città distrutte dal vicino volcano, accennerò
prima le due più grandi eruzioni avvenute sotto quel re, e le magnanime sue
provvidenze a soccorrere le travagliate genti. La prima eruzione fu nell’anno
1758, disastrosa per abbondanti ceneri vomitate dal monte, alzate in forma di
pino sino alle nuvole, trasportate dal vento in paesi lontani, là discese, e per
pioggie e propria natura assodate e impietrite. La fertilità di ampie regioni fu
mutata in deserti; e più devastate le città delle Due Torri, Sarno, Palma, Ottaiano, Nola, Avellino, Ariano. L’altra eruzione, dell’anno 1750, più fiera per
tremuoti e distruggimenti, coprì di lava borghi, villaggi, terreni feracissimi e
colti. Il re, l’una e l’altra volta, rimise i tributi delle terre danneggiate o gli
scemò; diede soccorsi, fece doni. Nel tempo della eruzione del ‘58, agitandosi
le quistioni giurisdizionali tra’l re e’l papa, i frati e i preti della città sussurravano agli orecchi del popolo, quel flagello essere messaggio di Dio ai ministri
di Carlo, acciò desistessero dal tribolare la Chiesa e i sacerdoti. Ma il volcano
quietò, serenò il cielo, i timori svanirono, le contese col papa seguitarono.
Nella lunga storia di eruzioni, dalla “pliniana” del 79 d.C.
all’ultima del 1944 il Vesuvio si è ben guadagnato l’appellativo di
sterminatore affibbiatogli da Matilde Serao. In realtà non tutte le eruzioni hanno fatto stermini, ma é certo che il vulcano é sempre stato
considerato con timore e la sua presenza ha non poco inciso sulla qualità della vita dei napoletani.
Ma vi era anche chi, come Melisurgo, nel fare una sorta di analisi
costi e benefici dei guasti del Vesuvio, riteneva che esso “ampiamente
compensa i piccioli e passeggeri nostri terrori collo spettacolo magnifico e sublime delle sue eruzioni, i guasti parziali colla fertilità che
spande ad esso d’intorno, l’aspetto minaccioso di pochi istanti colle
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perenni sue bellezze e colle contemplazioni che fa nascere nel filosofo”.
Anche l’abate Galiani si pose il problema di esorcizzare questa malefica presenza. E per farlo pubblicò un gustosissimo volumetto già
significativo sin dal titolo: Spaventosissima descrizione dello spaventoso spavento che ci spaventò tutti coll’eruzione del Vesuvio la sera
degli otto d’Agosto 1779, ma (per grazia di Dio) durò poco. In realtà,
come confessa lo stesso Galiani, quella eruzione non fu spaventosissima: “non é vero niente affatto. Nelli paesi attorno alla montagna le
genti fuggirono non per quello che era stato, ma per paura di quello
che poteva venire”.
Malgrado il rischio e la paura, il Vesuvio é sempre stato anche motivo di attrazione per viaggiatori ed uomini di scienze.
In una delle nove lettere che costituiscono Napoli ad occhio nudo,
il 29 maggio 1877 Renato Fucini scriveva:
Togliete a Napoli il Vesuvio, e la voce incantata della sirena avrà perduto
per voi le sue più dolci armonie... il Vesuvio é il cuore, é l’anima, é il sunto di
tutti gli splendori del Golfo...Egli possiede il fascino della ferocia tranquilla,
le attrattive della bellezza ruvidamente accoppiata alla modestia; é il gran delinquente dalle bellissime forme che tutti ammirano perché é feroce, che tutti
amano perché é bello.
Tuttavia “Vesuvio” non é solo natura e scienza e paura; non è solo
un vulcano; è anche un eccezionale insieme di beni naturali e di prodotti della cultura materiale che fanno del “comprensorio vesuviano”
un bene culturale unico al mondo nel quale emergono almeno tre punti
rilevanti di cui il Vesuvio costituisce il comune denominatore: il vulcano, gli scavi archeologici, le ville settecentesche del Miglio d’oro.
Ma non è tutto oro o, come pure si dice, rose e fiori. Quest’area –
la parte più popolosa e più densamente popolata della Campania – è
anche un formidabile carico di inquinamento e di rischio.
Già nel 1902, osservando la “serie ininterrotta di case che da Napoli a Torre del Greco assume nomi di paesi differenti”, Francesco Saverio Nitti la definiva “una vera corona di spine”.
Quella corona di spine oggi si spinge sino a Castellammare di Stabia e costituisce un enorme addensamento edilizio e demografico frutto di gravissime manomissioni ambientali. Tanto più gravi in quanto
avvenute in aree di straordinario interesse naturalistico e di eccezionale addensamento di prodotti della cultura materiale sedimentati e accumulati in oltre 2000 anni di civiltà.
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È questo carico di considerazioni che dà un particolare connotato al
rischio-Vesuvio che incombe su una popolazione di oltre 500.000.
Dunque, il “gran delinquente” non é il vulcano, ma è l’uomo la cui
ferocia devastante è stata ed è di forza non inferiore a quella del Vesuvio riuscendo, così, ad agire da amplificatore delle cause del rischio.
Dopo l’ultima eruzione del 1944, la memoria storica sembra essersi
persa e, con essa, la percezione del rischio. È perciò che l’espansione
edilizia degli anni cinquanta e sessanta ha prodotto una smisurata espansione degli antichi centri abitati che non ha risparmiato, nella sua
aggressione, la parte alta del vulcano. In tal modo si è formata una
barriera di costruzioni, una moderna “corona di spine”.
Né il rischio vulcanico si esaurisce qui; esso continua negli ardenti
Campi Flegrei, dove prosegue quella ideale “linea del fuoco” che cinge Napoli da Ovest ad Est. È un rischio, peraltro, ben diverso, più limitato e, quindi, minor motivo di paura e con minore impatto sulla
qualità della vita.
Goethe (1°marzo 1787, sera) sembra avere piena coscienza del pericolo:
Una gita in barca sino a Pozzuoli, brevi gite in carrozza, liete escursioni
attraverso la regione più meravigliosa del mondo. Sotto il cielo più sereno, il
terreno più infido. Rovine di un’imponenza appena credibile, maledette e tristi. Acque bollenti, grotte che emanano vapori di zolfo, montagne di scorie
negate ad ogni vegetazione, zone nude e malinconiche, ma poi, in fine, una
vegetazione lussureggiante che ammanta tutto e dovunque le è possibile, si
innalza su le cose morte, intorno ai laghi ed ai ruscelli, sì, sino a prender possesso di una splendida foresta di querce cresciute sui pendii di un vulcano
spento.
(3 marzo, Vesuvio)
2. La risposta: S.Gennaro
...ma – (per grazia di Dio) – durò poco, si ricorderà è la parte finale del lungo titolo del divertente opuscolo scritto dall’abate Galiani.
Quella parentesi la dice lunga. Era la risposta alla paura. Una risposta
che, generalmente, passava attraverso la fondamentale mediazione di
San Gennaro.
Il 2 agosto 1707 – ha scritto Egon Corti – mentre era in corso la pomposa
cerimonia d’insediamento del viceré davanti al Castelnuovo, una pioggia di
ceneri si abbatté su Napoli che alle tre del pomeriggio si trovò immersa nelle
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tenebre. Uno strato di polvere bianca alto parecchi centimetri ricoprì la città, e
il viceré ordinò di tenere una processione solenne, alla quale volle partecipare
di persona. Alzando al cielo il busto di San Gennaro, proprio dirimpetto al
Vesuvio, la folla supplicò il santo di por fine al flagello, e il giorno seguente i
suoi voti furono esauditi. Il conte Martinitz tuttavia non riuscì a dissipare nei
Napoletani l’impressione che l’eruzione fosse un segno di corruccio del Cielo
per la nuova occupazione straniera. Dal 1631 non si era più avuta una manifestazione vulcanica così grave, né la sinistra colonna di fumo a forma di pino
era riapparsa sulla vetta del monte.
E, infatti, Napoli, come hanno scritto René Bouvier e André Laffargue, “aveva anche un altro padrone, imparentato questo con Vulcano e con il diavolo, il Vesuvio. Quando si adirava, la popolazione correva ad implorare San Gennaro perché proteggesse la città dai furori
delle divinità infernali”.
Lo aveva notato anche Goethe (1789) quando aveva scritto che i
napoletani “vanno e vengono tutto il giorno in un paradiso... e quando
la bocca dell’inferno loro vicino minaccia di montar sulle furie, ricorrono a San Gennaro e al suo sangue”.
Ancora oggi, San Gennaro mio fa’ tu, nun ne pozzo proprio cchiù.
La speranza è la mia fede, tutta sta riposta in te è una delle giaculatorie che vengono recitate in occasione soprattutto delle ricorrenze di
maggio e settembre durante le quali si verifica il miracolo dello scioglimento del sangue del Santo.
Ma è anche il modo con cui tradizionalmente il napoletano “di
massa” si è posto di fronte alla paura e al pericolo. Anche di fronte al
pericolo-Vesuvio come sta, tra l’altro ma molto emblematicamente a
dimostrare la statua di San Gennaro che all’ingresso orientale di Napoli con la mano protesa verso il Vesuvio ferma l’avanzata della lava.
San Gennaro, scrive Giuseppe Porcaro è il grande protettore di Napoli, la quale “nella sua illimitata fiducia, sa che San Gennaro non
l’abbandona mai e la salverà sempre, come l’ha tante volte salvata dal
fuoco dello Sterminatore, dalle epidemie, dalle carestie, dai tremendi
flagelli che in tutte le stagioni dell’anno e in tutti i tempi devastano
l’umanità, seminando morte e sventure”. E lo scrittore svizzero Adrian
Wolfgang Martin:
San Gennaro protegge Napoli contro la peste, contro i terremoti, contro le
eruzioni del Vesuvio ed altre tribolazioni. Le circostanze esterne in cui, due
volte l’anno avviene la liquefazione del suo sangue, costituiscono l’oracolo
per il prossimo futuro. È infatti difficile trovare, nella storia della Cristianità,
un altro santo cui venga imposta una così totale responsabilità, quale i napoletani la pretendono da San Gennaro.
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3. Conoscenza e informazione
In realtà, almeno per chi ha fede, sino a pochi decenni fa non
c’erano alternative. Oggi il discorso è potenzialmente diverso. Perché
da anni ormai, la “cultura del rischio” si esercita nel modo migliore
attraverso i filoni della previsione e della prevenzione di fenomeni naturali calamitosi nel tentativo di realizzare concretamente l’obiettivo
della convivenza col rischio che è condizione necessaria, anche se non
sufficiente, per realizzare una buona qualità della vita.
Ma per realizzare correttamente questo obiettivo occorre essere
correttamente informati sulla entità del rischio, sulle cause e sui comportamenti da tenere.
Le cose non vanno sempre in questo verso.
Il mese scorso il “Sunday Times”, anticipando – e anche un po’ travisando – i risultati di uno studio del CNR di Napoli, rendeva noto al
mondo che l’intero arco costiero napoletano correrebbe il rischio di
essere sommerso da un violento maremoto provocato da un collasso
del Vesuvio.
Poco più di duecento anni fa l’abate Ferdinando Galiani pubblicava
a Napoli il volumetto che ricordavo poco prima e avvertiva:
Per non restare con scrupolo alla coscienza devo nel concludere confessare il mio peccato e colle lagrime agli occhi cercarne perdono alli miei cari benefattori e lettori. Io ho messo nel titolo dell’opera che questa eruzione fu
spaventosissima, e non è vero niente affatto. Nelli paesi attorno alla montagna
le genti fuggirono non per quello che era stato, ma per paura di quello che poteva venire. A Napoli poi nessuno ebbe spavento, né del passato, né del presente, né del futuro: e veramente la cosa non lo meritava. Ma io l’ho fatto per
dar concetto al mio libro, movere la curiosità, e così venderne più; e non sono
stato solo a far così, perché gli altri pure hanno detto mirabilia di questa eruzione, ma in coscienza da sacerdote indegno che sono, per la verità l’eruzione
fu poca cosa, e chi si ricorda quella del 1737 dirà che c’è la differenza, che c’è
tra una cannonata e uno stronzillo di polvere sparato incoppa a un astrico. E
così si è verificato il detto antico: sono assai più le vuce che le nuce.
Mi sembrano questi – tra i tanti passati e presenti che avrei potuto
ricordare – due esempi significativi di un modo di fare informazione
sul rischio che tende a privilegiare l’effetto sulla notizia scientificamente corretta, magari “per movere la curiosità e così venderne più”.
Ma perché si muove la curiosità e si vende di più dando spaventosissime notizie?
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È in qualche modo la domanda che si pone Borges nel Prologo del
suo Finimondi pubblicato da Franco Maria Ricci nel 1997:
Perché ci attrae la fine delle cose? Perché più nessuno canta l’aurora, e
non v’è chi non canti l’occaso? Perché ci attrae più la fine di Troia che le vicissitudini degli Achei? Perché preferiamo l’Inferno della Commedia al Paradiso?…Perché la morte possiede una dignità che la nascita dell’uomo non
possiede?…. Perché la tragedia gode di un rispetto che la commedia non ottiene? Perché sentiamo che il lieto fine è sempre fittizio?...
Insomma, perché ci attraggono le Apocalissi?
La rivista internazionale di teologia «Concilium» ha dedicato un
intero numero (il n. 4 del 1998 Il mondo va verso la fine?) a questo
argomento e ha dato variegate risposte al quesito affrontandolo da più
versanti.
Anche J. Maddox si era posto un quesito del genere in una tavola
rotonda al Salone di Torino del maggio 1990 sulle responsabilità della
stampa nella divulgazione scientifica. E dopo essersi chiesto “perché
le storie apocalittiche fanno aggio su più meditate e caute rappresentazioni del futuribile?” rispondeva che “svanito o quasi lo spettro
dell’olocausto nucleare, l’umanità è in cerca di un nuovo Moloch da
venerare e temere, e sembra trovarlo nella minaccia ambientale, nella
catastrofe globale che il nuovo millenarismo ecologico paventa come
imminente”.
Torna dunque il problema dell’informazione e torna con un altro
quesito: i mezzi di informazione devono assecondare e cavalcare queste tendenze, magari per fare audience e venderne di più, o non anche
tentare di educare i lettori e gli ascoltatori ad approcci più realistici e
scientificamente più corretti?
È un problema importante perché – come credo senza dubbi, magari anche un po’ enfatizzando – la prima protezione dal rischio sta nella
informazione mirata a rendere la popolazione correttamente consapevole della reale entità del rischio e dei comportamenti da tenere nel
caso del suo manifestarsi.
Ma chi la fa l’informazione?
Come ha scritto Antonio Cianciullo, un giornalista esperto di problemi dell’ambiente, “un messaggio ha bisogno di un sistema di trasmissione e chi frequenta i giornali sa che la ‘complessità’ (un concetto spesso riassunto dalla formula ‘un battito d’ali di farfalla a Tokyo
può causare un ciclone alle Azzorre’) deve passare sotto le forche
caudine delle esigenze della comunicazione”; in più la legge che mo-
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della il codice genetico del giornalista è quella secondo la quale “il
cane che morde l’uomo non fa notizia, l’uomo che morde il cane, sì”.
Questa mi sembra un’annotazione di cui va tenuto doverosamente
conto perché è alla base della montante babele dell’informazione e
perché è impensabile avviare a soluzione i problemi del rischio ambientale in tutte le sue componenti, in presenza di un’informazione
che privilegi l’effetto rispetto alla notizia e al fatto.
Io credo che gli strumenti propri di tutte le scienze per “trasferire”
le conoscenze sono potenzialmente tali da consentire almeno di colmare i vuoti di una politica dell’ambiente e del territorio in termini di
difesa dai possibili danni di fenomeni naturali che, per comodità, si
continua a definire “calamità naturali”.
Un bambino di sette anni ha scritto: “Dio ha creato la terra, gli alberi, i fiori, i frutti, i vecchi, i bambini, il cielo, le nuvole, il mondo, le
malattie, le mosche, le zanzare, lo squalo, le eruzioni, i terremoti.
Quando ha creato le montagne, ci ha lasciato dei vuoti sotto. Perciò le
montagne si muovono e succedono i terremoti. Tutti possono sbagliare. Adesso non può rimediare”.
In questa semplice osservazione c’è quell’ “adesso non può rimediare”che mi sembra estremamente significativo di un modo – proprio
degli adulti – di subire i fenomeni naturali e il danno cui molto spesso
gli stessi sono collegati, che ha caratterizzato sino a pochi decenni fa
l’atteggiamento dell’opinione pubblica.
Ciò fino a quando la stessa opinione pubblica non ha scoperto –
anche per merito dei mezzi di informazione – che molto spesso i danni
e le vittime lamentate “si potevano evitare”. Da allora il passaggio dalla filosofia dell’imprevedibile calamità naturale a quella della catastrofe “annunciata” e che “si poteva evitare” è stato rapido. Rapido, spesso realistico, talaltra semplicistico: raramente scientificamente corretto.
Si propone, dunque, un altro problema: è importante
l’informazione, ma è anche importante, preventivamente la formazione degli informatori.
In questo senso anche la comunità scientifica ha le sue responsabilità.
Lo scienziato, istituzionalmente, fa ricerca. Quando i risultati della
sua ricerca devono arrivare al grosso pubblico non può prescindere
dalla intermediazione dei mezzi di comunicazione di massa. È a questo punto che lo scienziato ha il compito di formare gli informatori:
non solo nel senso di fornire notizie chiare e puntuali sui fenomeni,
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ma anche nel senso di combattere con ogni mezzo le interpretazioni
strumentalmente scorrette e la diffusione di notizie “false e tendenziose” generate, magari dalle stesse motivazioni confessate dall’Abate
Galiani.
Infine, non va trascurato il ruolo importante del linguaggio.
Esiste un comune modo di intendere il problema rischio e la terminologia stessa che ne caratterizza i dati essenziali?
Certamente no. Anzi il linguaggio in questa materia risulta notevolmente inflazionato; molti termini risultano “corrotti” nei loro originari significati e c’è il pericolo che uno stesso termine evochi immagini e contenuti diversi anche tra gli addetti ai lavori oltre che, soprattutto, nell’opinione pubblica. Così si parla indistintamente di disastro,
catastrofe, calamità naturale, rischio per indicare gli eventi naturali estremi
Gli scienziati discutono sul significato di rischio, lo definiscono in
modo diverso, distinguono tra rischio e hazard e via discorrendo. E
tutto ciò alimenta una importante e dotta saggistica, ma credo nel far
ciò non si debba mai perdere di vista gli interlocutori, i destinatari dei
messaggi e delle informazioni ai quali bisogna rivolgersi con un linguaggio chiaro e possibilmente omogeneo.
Io in questi giorni sto sviluppando in puntate successive per i miei
studenti di Politica dell’ambiente un seminario sul rischio ambientale.
All’atto dell’iscrizione ho proposto a tutti di definire il rischio in
poche righe, senza particolari riflessioni e consultazione di libri; di
proporre, cioè, la loro idea di rischio.
Ebbene quasi tutti hanno associato rischio ad incertezza, ma, soprattutto, la schiacciante maggioranza dei partecipanti ha individuato
il rischio nelle azioni umane contro l’ambiente, cioè nel rischio umano
e tecnologico.
Una definizione le sintetizza tutte: “il rischio ambientale, secondo
me è stato creato dall’uomo”.
Non me l’aspettavo e penso che alla base di questa scelta degli studenti vi sia stato il mio modo “superficiale” di proporre l’espressione
“rischio ambientale”. Poiché l’ambiente oggi si considera degradato,
inquinato e pericoloso e poiché tutto ciò viene attribuito a responsabilità umane, è possibile che se ne sia tratta la conseguenza che dicevo.
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Bibliografia
ANZUINI C.A., Il Vesuvio nella letteratura di viaggi e
nell’iconografia artistica, in “Viaggio in Italia”, n. 10, 1985, p. 39.
BOUVIER R. e LAFFARGUE A., Vita napoletana, p. 50.
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MARTIN A.W., Janus von Neapel, Frauenfeld, 1966.
MELISURGO G., Igiene omicida e odori di Napoli, 1882.
PORCARO G., Feste e tradizioni popolari in Campania, Roma,
1990, p. 215.
RICHARD Abbé J.J., Description historique et critique de l’Italie,
ou noveaux mèmoires sur l’ètat actuel de son governement, des sciences et des arts, du commerce, de la population et de l’histoire naturelle, Paris-Dijon, 1766, vol. IV, pp. 424-425.
SCARAMELLINI G., Vulcani e terremoti, in AA.VV., Viaggiatori del
Gran Tour in Italia, TCI, 1987, p. 58.
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