EL CAMPANÒ
DE SAN GIUSEPPE
Rivista di storia, letteratura, arte e curiosità
a cura della
Biblioteca intercomunale “Luigi Dal Ri” di Mori
2009
In copertina: Rosina e Giulia Montanari in una foto del 1901.
(per gentile concessione del Museo Civico del Risorgimento di Bologna).
Redazione presso:
Biblioteca intercomunale “Luigi Dal Ri” di Mori
Via Scuole n. 7 - Tel. 0464 916260 Fax 0464 910684
e-mail: [email protected]
In redazione:
Edoardo Tomasi
Marco Torboli
«El Campanò de San Giuseppe»
Anno XXIV - 2009
Aut. Tribunale di Rovereto n. 122 del 3.4.1986
Direttore responsabile:
Marco Torboli
Fotocomposizione, fotolito e stampa:
La Grafica Srl - Mori (Tn)
Copertina: Lorenzo Manfredi
Finito di stampare nel mese di settembre 2009
Tiratura n. 800 copie
Per i numeri arretrati rivolgersi alla
Biblioteca “Luigi Dal Ri” di Mori
È aperta a tutti la collaborazione gratuita. La Redazione lascia agli Autori la
responsabilità delle opinioni e dei giudizi espressi. È fatto divieto di riprodurre, anche
parzialmente, articoli ed illustrazioni senza riferimento alla rivista e agli Autori.
II
PRESENTAZIONE
Per il secondo anno El Campanò de San Giuseppe ritorna
ad incontrare la comunità di Mori in stretta simbiosi con gli
eventi della Ganzega d’Autunno.
Non si tratta di una combinazione casuale ma di una
scelta ben precisa che la Pro Loco Mori Val di Gresta, che
ne cura la pubblicazione unitamente al prezioso apporto del
Comitato di Redazione e della Biblioteca Luigi Dal Ri ha
ritenuto opportuno compiere.
Se, come scrisse Oscar Wilde, “la tradizione è la migliore
innovazione” a buon diritto i nostri luoghi, il nostro territorio,
la nostra gente, in questi anni anche attraverso le proposte
della Ganzega, hanno saputo darsi una identità nel proporre
le tradizioni di un popolo, quello trentino, la sua storia, l’importante bagaglio delle generazioni passate, come patrimonio
per interpretare le grandi sfide del presente.
L’edizione 2009 del Campanò de San Giuseppe, arricchita nei contenuti che un Comitato di Redazione attento ed
appassionato ha saputo proporre, farà da retroterra storico
agli eventi della Ganzega d’Autunno ma più ancora avvicinerà
il lettore al nostro vissuto quotidiano, al “valore uomo” con il
suo patrimonio di vita e ai luoghi della memoria.
III
Il grazie della Pro Loco Mori Val di Gresta va a tutti
coloro che hanno contribuito all’edizione 2009 del Campanò,
al Comitato di Redazione, alla Biblioteca Luigi Dal Ri, agli
operatori economici e ai redattori dei contenuti che ogni anno
con passione ci propongono quei pezzi della nostra storia
altrimenti destinati a perdersi nel tempo.
Il Presidente
Flavio Bianchi
Pro Loco Mori Val di Gresta
Consiglio di Amministrazione
Presidente
Vicepresidente
Segretaria
Tesoriere
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Consigliere
e Assessore al Turismo
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Consigliere
Bianchi Flavio
Bertolini Cristian
Caliari Romina
Angelini Giorgio
Angeli Katia
Bisoffi Marco
Chizzola Carlo
Comper Gino
Dall’Alda Giampaolo
Ferrari Lucia
Gazzini Valter
Girardelli Lucio
Manica Giampaolo
Marzari Fiorenzo
Stimpfl Verena
Zenatti Mirko
IV
EDITORIALE
Vista la positiva esperienza dell’anno scorso, con la stampa di un numero speciale de El Campanò de San Giuseppe
in occasione della Ganzega d’autunno, si conferma anche in
questa edizione l’abbinamento Campanò-Ganzega.
Lo slittamento della pubblicazione dalla Festa di primavera all’autunno è il risultato di un lungo percorso che
ha portato prima il Comitato Turistico Locale ed ora la Pro
Loco a valorizzare ed investire sulla Ganzega. Il Campanò
rimane comunque il naturale compagno di viaggio di una festa
che porta per le vie di Mori la storia e la cultura della nostra
borgata. Un “contenitore” che da oltre trent’anni si affianca
alle varie proposte turistico-culturali offerte ai residenti ed
ai graditi ospiti della manifestazione, cercando sempre nuovi
argomenti e spunti di riflessione tra le pieghe di un passato
davvero ricco di storia.
In questo numero, torna, dopo sei anni di assenza, l’agenda
moriana con una carrellata di fatti salienti del 2008. Per molti
sarà una sorpresa sapere che pure a Mori c’era un “ghetto”
ebraico e che le caratteristiche “fratte” furono ricavate dagli
erti fianchi della montagna utilizzando anche degli esplosivi:
ce lo racconta un “inviato nel tempo” davvero speciale, Guido
Boninsegna (1923-1984) storico corrispondente del giornale
Alto Adige nel secondo dopoguerra, di cui riproponiamo un
colorito “inno” a Ravazzone, scritto più di cinquanta anni fa.
Ci accompagnerà nella lettura anche la nostra affezionata
collaboratrice, quasi centenaria, Ione Benedetti.
Questa edizione è particolarmente tinta di rosa, con una
rubrica al femminile dedicata a due donne contemporanee ed
V
altre due, entrambe di nome Giulia, la cui storia personale si
è intrecciata con quella della borgata nei secoli scorsi.
Ci è parso doveroso ricordare Paolo Orsi nel 150° anniversario
dalla nascita, mentre spiace rilevare che non sarà più possibile
fare altrettanto sulla tomba di un nostro valido artista, Antonio Mayer, scomparsa di recente dal cimitero di San Marco a
Rovereto.
E poi tante curiosità e aneddoti di storia e personaggi locali:
un unguento ritenuto miracoloso, un fortuito ritrovamento archeologico che ci farà fare un salto indietro nel tempo di 500
anni, la trascrizione di una biografia ottocentesca di Gustavo
Modena, le nozze del conte Giuseppe Scipione di Castelbarco
con Costanza Visconti, il trentesimo anniversario della Scuola dell’infanzia “Il Girasole” di Tierno. Senz’altro più tecnico
l’articolo di Marta Villa che analizza i classici giochi da tavolo,
rivolti sì ai ragazzi ma con intenti non proprio pedagogici…
Per accompagnare gli ospiti della Ganzega in questo viaggio a
ritroso, ci saranno vari interventi riferiti ai tempi della Grande
guerra, al lodevole lavoro di ripristino sul Nagià Grom, alla
mostra documentaria sui Volontari Ciclisti Automobilisti realizzata per l’occasione a Mori da Pierluigi Faré, al fortunato
acquisto del collezionista Ivan Damin su una bancarella.
Nel concludere la breve panoramica di questo nuovo numero del Campanò approfittiamo dell’occasione per porgere un
caro saluto agli amici ed ospiti di Lugo e per ringraziare la Pro
Loco Mori Val di Gresta per la grande disponibilità dimostrata nel sostenere il nostro lavoro di Redazione.
Infine, un ringraziamento particolare a Edoardo Tomasi,
responsabile della Biblioteca comunale, che svolge il suo
impagabile ruolo di coordinatore di redazione del Campanò
con professionalità e soprattutto con passione.
Il Direttore responsabile
Marco Torboli
VI
IN QUESTO NUMERO
AGENDA MORIANA
a cura di Michele Comper
pag
1
Le immagini raccontano la Prima guerra mondiale sul fronte
Monte Baldo - Val di Gresta
di Ivan Damin
pag.
13
Una cucina da campo con vista sulla valle del Cameras.
Le sorprese degli scavi sul Nagià Grom
di Marco Torboli
pag.
22
V.C.A. (Volontari Ciclisti Automobilisti).
Il battaglione lombardo, i futuristi, Dosso Casina
di Pierluigi Faré
pag.
34
I miei ricordi della Grande guerra
di Jone Benedetti
pag.
41
Omaggio a Giulia Montanari, gentildonna romagnola
a cura di Edoardo Tomasi
pag.
51
La merenda del signore
di Marco Avanzini
pag.
70
Il “ghetto”: sua storia e caratteristiche
di Guido Boninsegna
pag.
74
Il matrimonio tra il leone e la biscia: le nozze tra Giuseppe Scipione
Castelbarco e Costanza Visconti del 29 aprile 1696
di Sergio Beato
pag.
77
Troppo tardi! La scomparsa della lastra sepolcrale di Antonio
Mayer
segnalazione di Edoardo Tomasi
pag.
88
GRANDE GUERRA E DINTORNI
STORIA LOCALE
VII
PERSONAGGI - CURIOSITÀ
Gustavo Modena visto dai suoi contemporanei
di Pier Ambrogio Curti
pag.
92
Giulia Calame - Modena
di Eugenio Comba
pag.
107
L’attività archeologica di Paolo Orsi nel nostro comune
di Guido Boninsegna
pag.
112
Quando un pezzo di pane ed un vecchio cappotto
significavano tutto
di Luigi Zoller
pag.
115
L’unguento “miracoloso” detto “ont Battistìn”
di Gianna Gentili
pag.
119
Le “fratte”: laboriosità dei nostri contadini
di Guido Boninsegna
pag.
122
Il volto e la storia di Ravazzone
di Guido Boninsegna
pag.
126
E giocavamo alla guerra! Bambini, giochi e propaganda
tra le due guerre mondiali. Una lettura socio-culturale
di Marta Villa
pag.
130
ANNIVERSARI
Ricordare come occasione di riflessione
di Loredana Michellini
pag.
139
I primi trent’anni della Scuola dell’infanzia
“Il girasole” di Mori-Tierno
a cura del Comitato di Gestione
pag.
143
AMARCORD
VIII
PAGINE IN ROSA
Alcune storie di donne moriane:
Jone Benedetti
Elsa Zambotti
di Letizia Galvagni e Marcello Benedetti
pag.
pag.
148
158
In quinta elementare nel 1938
di Renato Bianchi
pag.
162
Mori in una inedita poesia dialettale del maestro Deflorian
pag.
165
SPAZIO POESIA
IX
X
AGENDA MORIANA
a cura di Michele Comper
Gennaio
• Il 2008 moriano si apre con una delibera della Giunta
provinciale che chiude una lunga lotta di due comunità
grestane, quella moriana di Valle San Felice e quella di
Ronzo Chienis, in merito all’accorpamento delle rispettive
scuole elementari. Una «battaglia» che per mesi ha animato la vita della valle di Gresta e della borgata, e riempito
pagine di giornali. La vera svolta, tuttavia, c’è stata già
in precedenza, all’inizio dell’anno scolastico, quando molti
genitori di Valle San Felice hanno scelto di iscrivere i propri figli nella scuola di Ronzo. Risultato: il piccolo plesso
scolastico del paesino grestano è chiuso per mancanza
del numero minimo d’iscrizioni. La battaglia però prosegue: la preoccupazione riguarda il diritto al trasporto dei
giovani studenti, che parrebbe garantito solo nel caso di
scelta verso la scuola di Ronzo, e non nell’eventualità della
scelta di quella di Mori. Infine, in aprile, arriva in Comune
una lettera che porta in calce la firma di Lorenzo Dellai:
il trasporto degli alunni da Valle San Felice verso Mori
sarà assicurato per l’intero corso di studio elementare
agli alunni iscritti alla prima classe dall’anno scolastico
2008/2009, ovvero per i successivi cinque anni.
• Una bella, singolare notizia arriva da Ferrara: il racconto
vincitore assoluto del primo concorso indetto dal Comune
1
di quella città, ispirato alla «ferraresità», è stato scritto
da una giovane moriana. Si chiama Sara Passerini e il
suo «Mura di nebbia», assieme ad altri quattro racconti
ritenuti meritevoli di stampa, ha dato vita ad una piccola
raccolta, «Nuove storie ferraresi», in ricordo delle «Cinque storie ferraresi» di Giorgio Bassani.
• Con l’inizio 2008 torna il battagliero, creativo comitato
«Vivi Loppio» e tornano i suoi caratteristici cartelloni
di protesta, stavolta anche in lingua tedesca: la richiesta
è di un attraversamento viario del paese che garantisca
sicurezza e vivibilità. La proposta: l’interramento della
Gardesana per l’intero tratto all’interno del paese, per
una lunghezza di un chilometro circa.
Febbraio
• Con febbraio è ancora il sistema scolastico ad andare in
crisi, stavolta con la scuola materna «Girasole» di Tierno, dove si verifica una mega spaccatura tra comitato di
gestione e genitori, seguita ad una contestata modifica
all’orario. S’arriva addirittura alle dimissioni delle tre
rappresentanti degli insegnanti e del rappresentante degli ausiliari dal comitato di gestione, un clamoroso atto di
protesta cui il comitato di gestione risponde mantenendo
ferma la propria posizione: l’orario (quello al centro della
polemica) non si tocca. Ma a breve un secondo problema: il
calo del numero di iscritti a favore dell’asilo di via Scuole,
che alcuni attribuiscono in parte al nuovo orario, meno
gradito ai genitori. Il rischio - poi evitato - è di perdere
la quinta sezione, dopo che la sesta già è venuta meno
l’anno precedente.
2
Marzo
• La casa di soggiorno «Cesare Benedetti» lancia un grido
d’allarme, un’accorata richiesta d’aiuto all’amministrazione comunale e a tutta la comunità. Il presidente Gianni
Pizzini è in Consiglio comunale a spiegare che se già
sarà arduo chiudere il bilancio 2007 in pareggio, il 2008
sarà un anno di tensioni. I costi aumentano, la scelta
di un servizio di qualità vuol dire pagare 68 dipendenti
(per 87 ospiti) anziché i 47 riconosciuti (e finanziati) dalla
Provincia; ma le rette non si possono adeguare. L’assessore provinciale in carica, Remo Andreolli, promette di
finanziare una piccola palestra da gestire in convenzione
con l’Azienda sanitaria, ma la grossa novità è il progetto
di un nuovo hospice, una struttura di cure palliative per
malati terminali.
• Una buona notizia riguarda il teatro «Gustavo Modena»,
uno dei più antichi del Trentino: l’accordo firmato il sindaco Mario Gurlini con il proprietario del cortile sul quale
si trova l’uscita di emergenza, infatti, mette fine ad un
problema che si trascina da anni. L’uscita di sicurezza,
prevista dalle normative, si trova infatti su suolo privato,
quindi inagibile. Ma ecco la novità: l’accordo con il proprietario del cortile consente di rendere agibile l’uscita
di sicurezza e il teatro (in precedenza si poteva riempire
solo parzialmente). L’accordo costa al Comune cinquemila
euro all’anno (più 400 euro per la stipula del contratto),
la validità è di quattro anni (poi si vedrà).
3
Aprile
• Una novità tecnologica d’estremo interesse viene dalla
cantina Mori-Colli Zugna: è perfezionato e funzionante, infatti, il Gis, il sistema informativo geografico che
consente di produrre, gestire e analizzare dati spaziali
associando a ciascun elemento geografico una o più descrizioni alfanumeriche. In parole povere, un software
per gestire in modo rapido e pratico la mole di dati che
le cantine hanno a disposizione e di cui hanno esigenza di
servirsi, mettendoli in relazione alle particelle catastali
in cui sono suddivise le campagne. Una sorta di grande
anagrafe dei campi da cui è possibile ricavare numerosissime elaborazione dati.
Maggio
• La primavera porta in borgata una nascita storica: sulle
ceneri gloriose del Comitato turistico locale nasce la nuova
Pro loco Mori Val di Gresta. L’assemblea costituente, nella serata del 15 maggio, vanta già un record: quello della
partecipazione. Nella borgata delle 80 e più associazioni,
l’ente turistico è il parto di oltre 120 soci fondatori: quasi
l’uno e mezzo per cento della popolazione. Una nascita
programmata da lungo tempo e nei dettagli: alla nuova
Pro loco si lavora dal 2005 e ogni passo del delicato passaggio - in un mondo fatto di volontariato e dunque di
sensibilità da rispettare, di storie da valorizzare - è stato
attentamente disegnato. Così, all’assemblea costituente la
“Mori che si dà da fare” c’è tutta e sottoscrive il canovaccio
scritto a molte mani in mesi di lavoro, incontri e confronti:
la designazione del consiglio d’amministrazione, come
4
voluto fortemente da tutti, avviene per acclamazione dei
14 membri proposti dal comitato promotore, cui s’aggiunge il membro di designazione comunale. «Passato»
all’unanimità lo statuto, e confermati i nomi del comitato
promotore anche per il collegio sindacale (Luigi Bertolini,
Antonino Ruggeri ed Emanuela Zorer) e per il collegio
dei probiviri (Giorgio Benoni, Armando Busolli e Filippo
Tranquillini). All’inizio di giugno l’elezione del direttivo:
all’unanimità Flavio Bianchi è presidente. In un clima
di ampia condivisione, il neo eletto cda, alla sua prima
seduta, elegge all’unanimità pure il vice presidente Cristian Bertolini, la segretaria Verena Stimpfl e il tesoriere
Giorgio Angelini.
• Mezzo secolo: un lungo passato, tanti ricordi, ma lo sguardo è al futuro e alla nuova mega sede ipogea da oltre 20
milioni di euro. Il 16 maggio nella palestra della scuola
media la grande festa per i cinquant’anni di vita della
Mori-Colli Zugna. In realtà, due compleanni accorpati:
le date di nascita della cantina di Mori e di quella di Serravalle, la Colli Zugna, sono rispettivamente il 1957 e il
1959. E così il super compleanno s’è scelto di festeggiarlo
«a metà strada», nel 2008, rinforzando ancora una volta
la scelta della fusione. Una festa in pompa magna, per
la cantina e per la cooperazione.Una festa che rende
omaggio ai tanti protagonisti di un’avventura che viaggia
su binari ben diritti, ma che iniziò tra mille difficoltà: a
partire dalla gelata primaverile che distrusse i due terzi
dell’uva, nella prima vendemmia del 1958. Alla celebrazione sono presenti molti dei soci fondatori, dieci per la
cantina di Mori e cinque per quella di Serravalle
• La soglia-choc dei 10 mila abitanti, la borgata che s’avvia
a meritare lo status di città, la supererà ben prima delle
5
previsioni statistiche - che la danno al 2015 - cioè nel giro
di pochissimi anni. Il dato del 30 aprile 2008: 9.213 moriani
residenti; la crescita annua che supera le 150 unità; ma
soprattutto le corpose lottizzazioni in corso a Terranera
e nel Pgz9: tutto fa ritenere che Mori potrebbe spiccare
il grande salto addirittura prima del 2010. Il che vuol
dire che presto serviranno i servizi del caso: asili nido,
scuole, punti di ritrovo, viabilità. E perfino la rete degli
acquedotti potrebbe entrare in crisi. Ma per tutto questo,
i soldi chi ce li ha?
• La previsione e l’allarme sono dell’architetto Enzo Siligardi, il consulente del Comune che in Consiglio comunale
presenta il documento preliminare del nuovo Prg, approvato in un clima di ampia condivisione. «Abbiamo fatto 17
incontri pubblici - dice il sindaco Mario Gurlini - coi quali
tutta la comunità ha contribuito a scrivere questo piano.
Adesso faremo la gara per affidare la stesura definitiva:
che dovrà necessariamente seguire le indicazioni guida
di questo documento». Vincitore della gara sarà lo stesso
architetto Siligardi.
• Verrà dal successo del Natale moriano la tanto sperata
rinascita del centro storico e in generale dei negozi, delle
piccole attività e dei locali pubblici della borgata? Oltre 70
persone riempiono la sala conferenze della Cassa Rurale
in occasione della prima uscita pubblica informativa del
nascente centro commerciale naturale; più precisamente
dell’organismo di marketing locale proposto dal gruppo di
operatori capitanati da Gigi Bertolini e sostenuti dall’assessore Franco Sandrinelli: «Centriamo Mori». Il cui
logo stacca con un diverso colore «Centri» e «amo», con
chiaro significato. Un incontro al quale gli operatori economici si presentano già uniti, forti dell’esperienza nata
6
nel dicembre 2007, quando decisero - anziché di andare
in Comune a chiedere - di far da sé, addobbando il centro
storico e le vetrine e proponendo eventi e animazione.
Un’esperienza di svolta da cui è nata la consapevolezza
che, davvero, l’unione fa la forza.
• Il mese di maggio si conclude con una polemica che guadagna ampio spazio sui giornali: si tratta di trilli, canzonette
e marce trionfali che troppo spesso irrompono all’improvviso in Consiglio comunale. Sono le suonerie dei telefoni
cellulari, dei consiglieri come del pubblico, che invariabilmente ad ogni seduta, di quando in quando saltano fuori
da non si sa dove. Un fenomeno epocale, un dato di folklore della contemporaneità tecnocratica che ultimamente,
però, nel Consiglio comunale moriano ha raggiunto livelli
di guardia. Al punto che Leonardo Zanfei (Uniti per Mori)
ha deciso di passare all’azione e di proporre una mozione
in Consiglio comunale per “far rispettare la norma di buon
comportamento di spegnere i cellulari (o quantomeno di
metterli in vibrazione silenziosa) al pubblico presente in
aula ed ai signori consiglieri”.
Giugno
• A livello politico, è da registrare lo «sbarco» in Consiglio
comunale dell’Unione per il Trentino, il nuovo partito
post-Margherita nato a Miola di Pinè. Mori è il primo
Comune ad ufficializzare il passaggio.
• Alla fine del mese si tiene anche la prima assemblea del
Partito democratico del Trentino: l’ordine del giorno prevede vari punti di discussione e confronto, ma il momento
centrale è quello dedicato alla prospettiva di costituzione
di un circolo Mori-Ronzo Chienis.
7
Luglio
• Primavera del 2011 con le nuvole a specchiarsi nuovamente, dopo oltre mezzo secolo, nelle acque ritrovate del lago
di Loppio? La data è ufficiale e ad indicarla è il Servizio
Bacini Montani della Provincia che dà per completato in
meno di tre anni l’impegnativo, delicato e controverso
progetto che vuol riportare in vita il lago scomparso negli anni Cinquanta a causa dei lavori di costruzione della
galleria «Adige-Garda». Il bando d’asta indica un costo
complessivo che sfiora i tre milioni di euro (di cui circa
due a base d’asta) relativo alla prima fase del progetto: lo
scavo di una galleria drenante di 850 metri circa, chiamata
ad intercettare le acque che ancora circolano nell’ammasso carbonatico occidentale, prima che siano intercettate
dalla galleria Adige-Garda. Le acque così captate saranno
convogliate nell’alveo dell’ex lago.
Agosto
• Una vera svolta per il gruppo di lavoro che da anni va
raccogliendo, con mille difficoltà e con risultati non sempre all’altezza dello slancio e della fatica, testimonianze
e informazioni sulla seconda guerra mondiale in borgata:
il Comune, impegnato nel riallestimento dell’archivio
comunale nella nuova sede di via Terranera, ha offerto il
proprio sostegno, affidando ad un dipendente comunale
il compito di collaborare nella ricerca documentale. Una
novità che per la prima volta consente di accedere ad una
grande quantità di documenti.
• È partito l’iter che darà alla borgata l’opera pubblica
più attesa: la nuova scuola media da 15 milioni di euro.
8
La giunta Gurlini ha dato incarico all’architetto Daniela
Salvetti di Avio di approntare il progetto preliminare,
funzionale alla richiesta di finanziamento da inoltrare
alla giunta provinciale, nella successiva primavera. Per
l’amministrazione comunale, in tutti i casi si preannuncia
un impegno notevolissimo, attorno ai 5 milioni di euro.
Settembre
• Grande impressione e cordoglio in borgata e in valle di
Gresta per l’improvvisa scomparsa di Mauro Maggiani,
apprezzato consigliere comunale e instancabile portavoce
delle istanze grestane, in Consiglio dal 2004.
• Nella mattina del 2 settembre il Comune di Mori è invitato a partecipare alla cerimonia di conferimento della
cittadinanza onoraria di Firenze a Ingrid Betancourt, la
donna politica colombiana militante nella difesa dei diritti
umani, rapita il 23 febbraio 2002 dalla guerriglia delle
Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, e
liberata dalla prigionia dopo 6 anni, il 2 luglio 2008. Questo
prestigioso traguardo è conseguente alla mozione, votata dal Consiglio comunale di Mori nel lontano 2003, che
esprime una ferma condanna per il rapimento e chiede
al Governo l’attivazione di tutti i canali diplomatici per la
liberazione della Betancourt.
• Ultimi giorni di settembre: si presenta un nuovo numero
dell’enciclopedia moriana della storia minore, ovvero il
Campanò, annuale raccolta di studi storici, vicende umane, documenti e varie curiosità, arrivata alla 23ª edizione.
Per la prima volta l’uscita della rivista non è abbinata alla
tradizionale Festa di primavera (com’è sempre stato in
9
passato), ma in concomitanza con quel grande contenitore
storico che è la Ganzèga. Il numero del 2008 è dedicato
quasi esclusivamente al tema dell’emigrazione trentina.
Con le oltre duemila pagine stampate finora, il Campanò
sta diventando oggetto da collezionisti.
Ottobre
• Mezzo milione di euro: di tanto è lievitato il costo del Parco
dei sapori di Loppio. Così, il Consiglio comunale dice sì
all’integrazione della progettazione esecutiva - firmata
dagli architetti Carlotta e Francesco Cocco - da 3,5 a 4,3
milioni di euro. La causa del rincaro sta tutta nel tempo
trascorso invano: in particolare, il notevole ritardo di questo progetto è legato al fallimento della prima localizzazione, fermata dal ricorso vincente al Tar del proprietario del
terreno soggetto ad esproprio. La delibera del Consiglio,
dunque, modifica il programma generale delle opere pubbliche e il protocollo d’intesa coi Comuni partner, Isera e
Ronzo Chienis, e apre la strada all’iter di costruzione del
centro di valorizzazione dei sapori trentini, e della valle
di Gresta in particolare: alle prese - come si sa - con una
crisi profonda, cui il «Parco» promette di dare risposte.
• Parte dal teatro intitolato a Gustavo Modena - di cui nel
2011 ricorrerà il 150° della scomparsa - il grande esperimento della Provincia per dare brio e promuovere una
«vera» frequentazione ai tanti palazzi e luoghi pubblici
dedicati alla cultura, ma troppo spesso vuoti e silenziosi.
Un progetto pilota, presentato nel teatro della borgata,
che mette insieme il Comune di Mori, il Centro servizi
culturali Santa Chiara, la compagnia «Teatrincorso» e
le associazioni culturali moriane, con il sostegno dell’As-
10
sessorato provinciale alla cultura e della Cassa Rurale di
Mori-Val di Gresta. Primo risultato concreto, la scrittura
e messa in scena dello spettacolo “Amare foglie” dedicato
al duro lavoro delle donne addette al trattamento delle
foglie di tabacco, dal campo aperto all’essiccatoio. La
Biblioteca realizza una mostra fotografica con tanto di
catalogo su questo specifico argomento, già oggetto in
passato di vari approfondimenti.
Novembre
• Dalla culla direttamente al «part time»: dopo il «rodaggio»
di un anno sperimentale, è ufficialmente in funzione la
nuova sezione a tempo parziale dell’asilo nido «La formica». Il taglio del nastro della nuova sezione - di cui si
occupano in prima persona i mini utenti - è alla presenza
di una folla di bambini, genitori e amministratori comunali. All’amministrazione Gurlini è costato quasi 200 mila
euro recuperare gli spazi necessari, nella palazzina che
fino al 1975 già fu sede dell’Onmi (l’Opera Nazione per la
protezione della Maternità e dell’Infanzia), e per ristrutturare lo spazio esterno, con un nuovo piccolo parco giochi
su via Scuole. La nuova sezione a tempo parziale (orario
7.30-12.30) è ricavata al piano terra dell’edificio.
• Per Flavio Chizzola un vero plebiscito: 384 voti a fronte di
330 presenti, 90 deleghe e qualche decina di schede nulle.
In una delle assemblee più partecipate degli ultimi anni,
in un auditorium comunale stracolmo (ci sono pure i neo
rieletti consiglieri provinciali Tiziano Mellarini e Franco
Panizza, oltre al presidente di Cavit Adriano Orsi), la cantina Mori-Colli Zugna assegna il secondo mandato al successore dell’indimenticato Francesco Sartori, scomparso
11
nel 2005. C’è poi la notizia che con la nuova sede ipogea da
oltre 20 milioni di euro si parte: i primi sbancamenti sono
previsti a giorni, mentre il 9 dicembre si chiude la gara
d’appalto per le opere edili: 30 le ditte che partecipano
alla selezione e che si contendono una partita da 9 milioni.
A breve anche l’appalto per le attrezzature.
Dicembre
• C’è voluta una lunga estate di piogge, seguita da un autunno dal maltempo particolarmente robusto, ma il lago di
Loppio infine è tornato: silenziosamente, ha anticipato gli
esiti - attesi ma non certi - del famoso, complesso progetto
di rinvaso della Provincia.
• L’anno si chiude con una“grana” che riguarda la telefonia
mobile: il Comune decide di ricorrere in appello presso
il Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar che ha
dato ragione a Omnitel-Vodafone, consentendo - contro
il volere del Comune che possiede un apposito sito attrezzato, costruito di recente - l’installazione di un ripetitore
nell’immediata vicinanza del centro storico, in via Marconi, vicino alla Famiglia cooperativa e non lontano dalla
scuola media. È l’ultimo colpo di scena nella lunghissima
lotta «contro le antenne», ovvero contro le compagnie di
gestione della telefonia mobile e i loro progetti d’installazione di ripetitori sul territorio moriano, che in questo
caso si sposta a Roma e diventa scontro aperto con il
Tribunale amministrativo regionale di Trento.
12
LE IMMAGINI RACCONTANO
LA PRIMA GUERRA MONDIALE
SUL FRONTE
MONTE BALDO – VAL DI GRESTA
di Ivan Damin
UNA FOTO INEDITA DEL CAPITELLO DI SANTA BARBARA
Nel pur vasto campo del collezionismo, è ancora possibile trovare ai nostri giorni delle vere e proprie “chicche”
rimaste nascoste per quasi un secolo in chissà quali e quanti
cassetti.
Cartolina viaggiata entro busta, datata 19 agosto 1960 (Grigolfoto, Mori).
13
Per gli appassionati collezionisti, poi, i mercatini d’antiquariato offrono spesso abbondante scelta di materiali
della Grande guerra cartoline, fotografie, documenti, divise,
decorazioni, medaglie, cartine geografiche, ecc. ecc.).
In uno di questi mercatini, su una bancarella che esponeva
cartoline e giornali d’epoca, trovai una fotografia che attirò
subito la mia attenzione.
Si trattava di un’istantanea scattata durante la Grande
guerra in Val di Gresta.
La foto ritrae alcuni ufficiali austro-ungarici davanti al
caratteristico capitello di Santa Barbara, costruito da Alois
Pichler di Bressanone nel 1915. Presumibilmente la foto
fu fatta durante la visita al fronte dell’Arciduca Leopold
Salvator. L’Arciduca è il primo seduto a sinistra con l’impermeabile.
Gli altri ufficiali nella foto sono i vari comandanti della
zona e parte dello Stato maggiore, al seguito dell’Arciduca.
14
È interessante confrontare questa immagine con quelle
delle pagine 47-49 pubblicate nel 2004 dalla Biblioteca
comunale Dal Ri nel settimo volume della collana Neroverde,
a cura di Alessio Less ed Oswald Mederle1 e con la bella
cartolina edita da Giovita Grigolli (Grigolfoto) probabilmente
alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso.
UNA BARACCA MILITARE SULLE BALZE DEL MONTE FAÉ
Esistono, ovviamente,
molte altre fotografie riguardanti la Val di Gresta
durante la Grande guerra,
ma sono piuttosto rare quelle relative al Monte Faé.
Ricordi di guerra in Val di Gresta, a Nago e alla Rocchetta 1915-1918, con testo
in italiano ed in tedesco.
1
15
Grazie ad un recente acquisto su e-bay, è possibile
mostrare anche due immagini di una baracca militare austroungarica costruita nei boschi di quella zona.
Sul retro sono indicati la data del 4 marzo 1918 ed i
cognomi dei graduati ritratti: purtroppo non sappiamo che
fine abbiano fatto quei giovani sorridenti. Come migliaia e
migliaia di loro coetanei, dall’una e dall’altra parte del fronte,
un destino tragico li aveva costretti a sacrificare gli anni più
belli della loro vita al demone della guerra.
Ora tra quelle rocce non risuonano più i colpi secchi dei
fucili o il rombo del cannone: le fortificazioni, i camminamenti,
le trincee, grazie al lavoro di alcuni volontari, vengono
restaurati e recuperati per poter essere visitati da tutti,
dall’esperto escursionista alla scolaresca in gita.
Con l’augurio che la riscoperta di questi manufatti faccia
riflettere i visitatori sull’inutilità della guerra.
16
LA CALDA ESTATE DEL 1918 SUL DOSS ALTO
Il Doss Alto di Nago si trova lungo le pendici nord
occidentali del monte Altissimo a poca distanza dal confine
del comune di Mori ad est e di Nago verso ovest. Dalla sua
posizione a quota 703 metri si domina la valle di Loppio ed
anche parte della piana di Mori. Allo scoppio delle ostilità tra
l’Italia e l’impero austro-ungarico nel maggio 1915, il Doss
Alto ed il massiccio dell’Altissimo furono abbandonati dagli
austriaci, che si ritirarono sulle posizioni di Malga Zures –
passo S. Giovanni – Nago e verso la Val di Gresta; questa
zona venne subito occupata dalle truppe italiane.
Da quel luogo gli italiani dominavano le prime linee
austro-ungariche, da Malga Zures al passo di S. Giovanni, la
parte terminale del lago di Loppio, le prime linee di Castel
Verde, osservando le posizioni delle artiglierie austriache
Doss Alto in una recente fotografia.
17
dislocate presso Castel Gresta e controllando il paese di
Loppio.
Con questa breve introduzione ed osservando la fotografia, si ha un’idea di come fosse importante e strategica la
posizione di Doss Alto per il dominio che aveva sulla valle di
Loppio, principale via di accesso per il lago di Garda.
Ora analizzeremo due importanti battaglie per il possesso
del Doss Alto di Nago: quella del 15 giugno 1918, con la
conquista austriaca della posizione, e quella del 3 agosto 1918,
con la riconquista del Doss Alto da parte italiana.
L’ATTACCO AUSTRO-UNGARICO
Il 15 giugno 1918, mentre sul Piave l’esercito austroungarico iniziava l’offensiva contro le truppe italiane (la
cosiddetta “battaglia del solstizio”), in Vallagarina le truppe
austriache attaccavano le posizioni italiane sul Doss Alto.
Verso le 3 di notte l’artiglieria austro-ungarica della valle
di Gresta iniziò il tiro sulle posizioni italiane di quota 703 di
Doss Alto.
Poi il tiro delle artiglierie si allungò anche verso le
retrovie, sui camminamenti e le mulattiere. Altri colpi furono
sparati sulle linee telefoniche provocando la rottura delle
stesse, così che le truppe italiane non potevano comunicare
con i loro comandi.
Le truppe d’assalto austro-ungariche avanzarono durante il tiro della propria artiglieria, superarono i reticolati ed
eliminarono le poche vedette italiane superstiti, e procedendo
nei camminamenti, arrivarono nei pressi di Doss Alto.
Alle 4 e 30 gli austro-ungarici fecero irruzione sulla
posizione ed entrarono nelle caverne ricovero, catturando i
soldati italiani e facendoli loro prigionieri. Verso le 5 il tiro
dell’artiglieria austro-ungarica diminuiva d’intensità e poi
18
Telefono da campo austro-ungarico. Con questi rudimentali apparecchi
telefonici si tenevano le comunicazioni tra trincee e posto comando
(collezione Damin).
verso le 6 cessò definitivamente. Verso le 7 – 7 e 30, quota
703 di Doss Alto era in mano austriaca.
Il giorno seguente, il 16 giugno, il bollettino di guerra
austro-ungarico annotava:
“Si comunica ufficialmente che nel settore di Riva e nel
settore dell’arciduca Massimiliano, abbiamo strappato agli
italiani il Doss Alto nella regione di M. Baldo, facendo 100
prigionieri e catturando 3 cannoni”.
In questa battaglia le perdite italiane furono di circa 18
19
uomini di truppa ed un ufficiale morti, e circa 70 prigionieri.
Le perdite austriache erano di circa 5 o 6 soldati.
LA RICONQUISTA ITALIANA
Il mattino del 3 agosto verso mezzogiorno, senza alcuna
preparazione d’artiglieria, il 29° battaglione d’assalto degli
Arditi italiani muoveva contro le posizioni di Doss Alto. L’ora
per l’attacco e l’assenza di fuoco di copertura furono voluti
Ufficiali e soldati italiani nella zona del Doss Alto (collezione Damin).
20
dal comando italiano, primo per non allarmare gli osservatori
austriaci, poi perché a quell’ora vi era la distribuzione del
rancio, e le vedette austro-ungariche spesso e volentieri si
abbandonavano ad un certo rilassamento nelle ore diurne.
Conquistata la posizione, con grande slancio da parte degli
Arditi, verso le 13 le artiglierie austriache aprirono il fuoco
sulla posizione, lanciando alcune unità al contrattacco. Ma
anche le artiglierie italiane del monte Baldo iniziarono il
tiro contro le truppe nemiche, le quali si ritirarono verso la
loro linea. Verso le 15 il Doss Alto era interamente in mano
alle truppe italiane. Essi catturarono 172 soldati e 6 ufficiali
austro-ungarici e si impadronirono di 8 mitragliatrici, un
lanciafiamme, un proiettore a luce elettrica, 2 apparati
telefonici, e diversi fucili, pistole e materiale sanitario. Le
perdite di questa battaglia furono di 20 soldati ed un ufficiale
per gli austro-ungarici, mentre gli italiani lamentarono la
perdita di 2 ufficiali e circa 10 uomini di truppa.
Dopo questa azione Doss Alto rimase fino alla fine della
grande guerra in mano italiana.
21
UNA CUCINA DA CAMPO CON
VISTA SULLA VALLE
DEL CAMERAS.
LE SORPRESE DEGLI SCAVI
SUL NAGIÀ GROM
di Marco Torboli
Durante la prima guerra mondiale la Valle del Cameras
e le montagne che la costeggiano a nord e a sud furono
aspramente contese dagli schieramenti italiani da una parte
Il paese di Valle San Felice da una postazione per mitragliatrice.
22
ed austroungarici dall’altra, ed oggetto di uno speculare,
immenso lavoro di scavo per realizzare dei campi trincerati,
delle postazioni per mitragliatrici o d’artiglieria di tutti i
calibri, avvalendosi in modo davvero ingegnoso della naturale
conformazione del terreno. Più che una guerra fatta di grandi
battaglie, lungo l’asse del Cameras si combatté una guerra di
logoramento, con nutriti scambi di artiglieria che miravano
principalmente a distruggere le vie di comunicazioni e creare
i maggiori danni possibili al nemico.
A guerra finita, le trincee abbandonate divennero infatti
un’inestimabile risorsa per tutti coloro che, ritornati alle
proprie case, le avevano trovate saccheggiate oppure distrutte.
Legittimati da annose sofferenze e pesanti danneggiamenti
subìti, gli abitanti delle nostre valli svuotarono di ogni bene
Osservatorio in cemento armato con vista sul paese di Mori.
23
baraccamenti e casematte, le smontarono, utilizzando quello
stesso materiale per ricostruire le proprie abitazioni. Anche
dalle trincee e dai camminamenti fu prelevato ogni pezzo di
metallo e di legno, mentre i “recuperanti” si muovevamo per
i campi di battaglia nel pericolosissimo lavoro di raccogliere
i pezzi di ordini esplosi ed inesplosi, al fine di scomporli e
venderli.
Col passare del tempo le trincee furono soggette a
cedimenti dei muri a secco e, di conseguenza, andarono
quasi a scomparire sommerse da cumuli di detriti e dalla
vegetazione.
Nonostante siano passati oltre novant’anni da allora,
ancora oggi si possono scorgere dei frammenti di questa
gigantesca ragnatela di morte che avviluppava tutta la valle
e le pendici delle nostre montagne. In parte hanno resistito,
oltre che all’inevitabile logorio del tempo, anche al selvaggio
assalto dei “recuperanti”.
Chi frequenta il monte Altissimo ha avuto sicuramente
occasione di visitare sia i camminamenti che ne solcano la
cima e che videro per i tre anni di guerra il costante passaggio
delle vedette degli alpini, sia le postazioni create per i pezzi
di artiglieria che lanciavano verso le postazioni austriache
in Val di Gresta.
Ed è per riportare alla memoria questi ultimi luoghi che
proprio gli alpini del Gruppo ANA (Associazione Nazionale
Alpini) “Remo Rizzardi” di Mori nel 2001 hanno iniziato un
impegnativo lavoro di ripristino del fitto complesso di strade,
sentieri, trincee e manufatti del monte Nagià Grom in Val
di Gresta, di cui abbiamo già scritto ampiamente su questa
stessa rivista nel 2004.1
TORBOLI, M., Il Monte Nagià Grom, tra presente e passato, STA ne: El Campanò
de San Giuseppe, A. 19 (2004), pp. 13-23.
1
24
Lavori di scavo e rifacimento dei muri a secco di una trincea.
Allora riportammo che i lavori sarebbero terminati quello
stesso anno, eppure è passato un lustro e quel promontorio
che domina Mori e Valle San Felice è ancora oggetto dei
lavori degli alpini.
“Quest’anno dovremmo finire”, mi assicurano l’ex
capogruppo Spartaco Avanzini ed il segretario Francesco
Silli. Ed infatti ad inizio agosto 2009, quando compio la mia
visita al Nagià Grom, è concluso il ripristino di gran parte
delle trincee. Qui e là però mi vengono mostrate delle linee in
mezzo al bosco: “Sotto i nostri piedi passa un camminamento.
Vedi: unisce questa trincea a quella sotto”. E già intuisco che
i lavori non sono ancora terminati, ecco nascere un nuovo
progetto cui si dedicheranno con passione.
In questi otto anni di lavori gli alpini hanno speso oltre
12.000 ore/uomo sul Nagià Grom; sono stati disboscati e ripuliti
1200 metri di strade, 2100 metri di sentieri e mulattiere, 3000
metri di trincee e camminamenti con rifacimento dei muri a sec-
25
co, 5 manufatti, 7 caverne cannoniere. Sono state inoltre poste
6 tavole con panche, 6 bacheche e 25 tabelle segnaletiche.
Ci mettono il cuore gli alpini qui sul Nagià Grom. Ti
accolgono sulla veranda del loro bel deposito attrezzi e, tra un
panino ed un bicchiere di vino, capisci che a loro piace proprio
quello che stanno facendo e che il loro lavoro non terminerà
con lo scavo di tutte le fortificazioni, bensì continuerà anche
con la loro manutenzione e soprattutto con la divulgazione
di quanto è stato ripristinato. Sfogliando il libro firme si
leggono le dediche di chi, accompagnato dagli alpini e da
un operatore del Museo Storico Italiano della Guerra di
Rovereto, quest’anno ha visitato il Nagià Grom: 25 scuole e
gruppi da tutta Italia, soprattutto tra aprile e maggio, cui
ne seguiranno un’altra decina quest’autunno. Poi i turisti
inviati dall’APT in collaborazione con il gruppo Albora, gli
Il deposito attrezzi, base logistica degli alpini sul Nagià Grom.
26
ospiti abruzzesi della SAT di Mori e tutti i turisti giunti anche
grazie alle indicazioni fornite dall’info point della Pro Loco
a Loppio. In pochi mesi sono saliti più di mille tra ragazzi
ed adulti, che già fanno del Nagià Grom una delle maggiori
attrazioni turistiche del Comune di Mori.
Arrivare in zona infatti è semplice: si può partire, per
un giro completo, da Valle San Felice, dove si lascia l’auto
nei pressi del cimitero, prendendo poi la forestale per la Val
Piole. In alternativa, salendo in auto da Valle San Felice verso
Nomesino, ci si può incamminare dal bivio per Manzano.
Tutti i percorsi sono ben segnalati, sia da singoli cartelli che
da bacheche, le quali mostrano una panoramica sull’intera
area e ne raccontano la storia. I gruppi che giungono in
pullmann possono raggiungere agevolmente il Nagià Grom
esclusivamente da Valle San Felice, poiché la strada verso
La “cannoniera”, postazione scavata per artiglieria di grosso calibro.
27
Manzano è troppo stretta per consentire il passaggio degli
autobus. Da qualsiasi parte si salga si possono raggiungere,
percorrendo trincee oppure mulattiere e sentieri, le opere
ripristinate dagli alpini: la cisterna, la piazzola per il generatore, la grande cannoniera scavata nella roccia, le postazioni
per mitragliatrice. Alcune trincee sono abbastanza strette e
venivano probabilmente percorse solo in un senso; altre sono
più larghe, soprattutto nei punti ove vi erano le postazioni di
tiro o i punti di osservazione.
Sulla cima, al posto della vecchia croce di legno, ne è stata
installata una assemblata da Franco Bertolini di Manzano con
putrelle d’epoca recuperate in una casa demolita e portata
in loco con una teleferica costruita appositamente.
Presso il sito sono visitabili anche due interessanti osservatori. Uno, che punta verso il monte Altissimo, è costituito da una
fossa in cemento alla quale recentemente è stato ricostruita,
prendendo spunto da fotografie dell’epoca, la copertura in
legno. Il secondo, di cemento armato, guarda verso Mori ed è
stato messo in sicurezza coprendolo con una griglia metallica
al fine di consentirne il passaggio nel livello superiore.
Da pochi mesi sono state posizionate anche due piccole
croci, entrambe donate dal brissinese Bruno Dorigatti:
la prima guarda verso Valle San Felice e risale alla fine
dell’Ottocento; è stata restaurata dalla “Schwarzes Kreuz
Tirol”, che ha donato anche la targa con la scritta, in italiano
e tedesco, “Ricordatevi di quelli che su questi fronti diedero
la vita per la patria”.
La seconda, del 1886, è posizionata più verso Mori ed
è accompagnata da una targa che ricorda i giovani Vettori
Luigi, Bertolini Valerio e Bertolini Vito periti il primo nel
1921 ed gli altri nel 1935 a causa dell’esplosione di ordini
bellici della prima guerra mondiale.
Purtroppo, entrambe le croci sono state oggetto recente-
28
L’osservatorio con la copertura in legno ripristinata dagli alpini.
mente di inqualificabili atti vandalici alla fine di agosto 20092,
ma sono state prontamente ripristinate dagli alpini.
Il sito più interessante e sorprendente, però, è di recente
scoperta. Dal pendio, tra gli arbusti, spuntava un piccolo
manufatto di cemento, che agli occhi attenti degli alpini
è parso essere la parte terminale di un comignolo. Dopo
uno scavo lungo ed impegnativo sono ritornate alla luce le
cucine che servivano i 160 soldati della compagnia austriaca
in servizio sul Nagià Grom. Le cucine erano dotate anche di
un deposito di acqua, che veniva pompata direttamente dalla
cisterna principale.
Interrate per novanta anni, le strutture in cemento della
cucina si sono conservate in buono stato, ma ora gli alpini
stanno pensando ad una idonea copertura.
Lungo le mura perimetrali delle cucine sono stati ritrovati i
Cfr l’articolo pubblicato ne L’Adige del 31 agosto 2009, Le croci della Guerra in
mano ai vandali.
2
29
La croce restaurata dalla “Schwarzes Kreuz Tirol”.
resti di un altro manufatto, probabilmente la mensa ufficiali.
Questo è quanto concluso fino ad ora, ma come detto
rimarrebbe ancora molto da fare, poiché nel periodo bellico
il Nagià Grom era una piccola e ben organizzata cittadina,
che ora sta tornando alla luce un po’ alla volta. È probabile
che nei prossimi anni si continuerà a migliorare alcuni tratti
di trincea, ma soprattutto si ripristineranno i collegamenti
dalla Val Piole e dal fondo valle.
30
La croce a ricordo dei tre bambini morti per lo scoppio di ordigni bellici.
Dalla Lasta, a Mori Vecchio, fino alle porte di Manzano si
inerpicano infatti prima una strada e poi un camminamento
che sono già stati resi percorribili ma che necessitano ora di
un fine lavoro di ripristino.
Per questi ultimi interventi ci si avvarrà probabilmente della
manodopera degli operai della Provincia Autonoma di Trento.
Va precisato che tutti gli interventi finora compiuti sono
stati possibili grazie al volontariato degli alpini e di quelli che
31
La cucina emersa dagli scavi.
Riferimento bellico lungo il camminamento dalla Lasta a Manzano.
32
loro definiscono “gli amici degli alpini” e al finanziamento
del Comune di Mori e, per quanto riguarda il deposito degli
attrezzi, della locale Cassa Rurale.
L’inaugurazione del settembre 2009 sembra essere non la
conclusione, ma solamente una importante tappa dell’intenso
lavoro degli alpini. Consigliamo a tutti salire sul Nagià Grom:
nell’assoluta tranquillità del luogo, godendo della vista sulla
Valle del Cameras e sul Baldo, si potrà rivivere l’esperienza
di chi, novant’anni fa, combatteva proprio in quei luoghi una
insensata Grande guerra.
La croce di ferro sul Nagià Grom.
33
V.C.A. (VOLONTARI CICLISTI
AUTOMOBILISTI).
IL BATTAGLIONE LOMBARDO,
I FUTURISTI, DOSSO CASINA
di Pierluigi Faré
Premessa: l’articolo che segue vuole solo introdurre
l’argomento V.C.A. che sarà oggetto di una specifica mostra
temporanea, a cura dello scrivente in collaborazione con la
Biblioteca comunale di Mori, in occasione della Ganzéga
d’autunno 2009. Saranno esposti, oltre alle biciclette dell’epoca, alcune fotografie, cartoline, giberne, spillette, coccarde,
distintivi, una rara medaglia, una fascia da braccio, ecc.:
tutto materiale originale, frutto di una ricerca che dura da
diversi anni e prosegue tuttora.
Per gli orari e la sede dell’esposizione si rinvia al
programma ufficiale delle manifestazioni.
All’alba del 1901 nasce un primo saggio di volontariato
ciclistico a fini militari,organizzato dal Touring Club di
Bologna.
Nel 1904 viene effettuato un esperimento di vaste
proporzioni in Lombardia: in collaborazione con reparti di
Bersaglieri ciclisti, l’esercitazione aveva come scopo la difesa
della sponda occidentale del lago di Garda. Si dava così
inizio al primo tentativo di addestramento militare, facendo
sorgere parecchi reparti di ciclisti Volontari in diverse città
d’Italia.
Al riconoscimento ufficiale dell’Associazione, avvenuto
34
Un drappello di V.C.A. in posa per il fotografo in un’immagine d’epoca.
nel febbraio 1905, i componenti di ogni gruppo, muniti della
propria bicicletta, dotati di armamento concesso dalle società
del tiro a segno, hanno un unico segno di riconoscimento: un
bracciale tricolore con stampata la sigla V.C.A. (Volontari
Ciclisti Automobilisti).
Dal 1905 in poi, la preparazione e l’addestramento dei
V.C.A. si fanno sempre più intensi, e con legge del 16 febbraio
del 1908 si istituisce il Corpo Nazionale di Volontari Ciclisti
Automobilisti, sottoposto alla vigilanza del Ministero della
Guerra, il quale ne approva lo statuto.
Ai V.C.A. viene consegnata l’uniforme di panno grigioverde corredata da un copricapo a forma tondeggiante con
visiera in cuoio nero.
L’armamento è costituito da una rivoltella per gli uffi-
35
ciali, per i volontari e graduati un moschetto con baionetta
e relativi accessori e buffetterie.
L’ammissione al Corpo comporta un’età non inferiore ai
16 anni. Nel febbraio 1915 il ministro Zuppelli sottoscrive
l’istruzione per l’impiego di guerra delle milizie volontarie
con particolare riferimento all’impiego dei V.C.A.
Nel maggio 1915 l’Italia entrò in guerra e i futuristi si
riconobbero subito nelle motivazioni di questo conflitto.
I primi ad arruolarsi volontari furono Umberto Boccioni,
Anselmo Bucci, il giovane architetto Antonio Sant’Elia e lo
scrittore Filippo Tommaso Marinetti, raggiunti poco dopo
da altri artisti: i pittori Mario Sironi, Achille Funi, Carlo
Erba, Ugo Piatti e il musicista e pittore Luigi Russolo, tutti
appartenenti al Gruppo Futurista, movimento letterario e
artistico basato sul culto della modernità e della tecnica, il
superamento e la sopraffazione del vecchio, l’ultranazionalismo, l’azione violenta. Lo scontro era un dinamismo sociale
innovativo. Nel celebre “Manifesto del futurismo”, apparso
in francese su Le Figaro di Parigi il 20 febbraio 1909 e
contemporaneamente diffuso in Italia e all’estero mediante
volantini bilingue (in italiano e francese), Marinetti afferma
che
Il coraggio, l’audacia, la ribellione saranno elementi
essenziali della nostra poesia;
e poco oltre:
Un automobile da corsa è più bello della Vittoria di
Samotracia;
Noi vogliamo glorificare la guerra – la sola igiene del
mondo – il militarismo, il patriottismo ….
Dopo un periodo di addestramento a Gallarate, il
Battaglione Lombardo dei V.C.A. (22 ufficiali, 2 medici, 500
biciclette, 20 moto e 4 camion) nel luglio 1915 attraversa
le vie di Milano per raggiungere la zona di guerra sulla
36
sponda orientale del Lago di Garda, nelle retrovie del fronte
trentino.
Col Battaglione Lombardo dei V.C.A. i futuristi parteciparono alla battaglia di Dosso Casina, dove il 24 ottobre
1915 fu conquistata un’importante posizione nei pressi del
monte Altissimo.
Fotomontaggio della copertina originale della Domenica del Corriere n.
46 del 14-21 novembre 1915 (disegno di A. Beltrame). Titolo: I Volontari
Ciclisti al fuoco, l’incontro con gli alpini, alla conquista di Dosso Casina e
Dosso Remit (collezione Faré).
37
Il 7 dicembre 1915 il Comando Supremo dispone lo
scioglimento di tutte le Milizie Volontarie.
Quali siano stati i motivi di tale provvedimento (che i
diretti interessati, amareggiati e delusi, attribuirono ad
una persistente ostilità verso i Volontari da parte di alcuni
influenti elementi dello Stato Maggiore Generale) rimane
pure la lodevole prova guerresca da essi fornita, anche in
condizioni che non rispondevano alle caratteristiche della
loro preparazione.
Quelli che ebbero l’onore di battersi, si comportarono
bene, come era logico attendersi da essi.
I V.C.A. NEI BOLLETTINI DI GUERRA1
17 ottobre 1915
Con ardita e ben condotta operazione le nostre truppe
hanno espugnato la forte e munita posizione di Pregasina,
importante punto avanzato del gruppo fortificato di Riva,
nell’aspra zona montuosa ad occidente del Garda. L’azione
venne iniziata la notte sul 13. Mentre sulla sponda orientale
delle balze dell’Altissimo nostri reparti avanzavano dimostrativamente, su quella occidentale le truppe destinate
all’attacco muovevano risolutamente verso Pregasina e,
nonostante le difficoltà del terreno, le avverse condizioni
atmosferiche e il violento fuoco delle batterie delle opere di
difesa di Riva, riuscirono a portarsi fin sotto ai trinceramenti
nemici.
Firmato Cadorna
I testi sono tratti da quelli pubblicati a Milano verso la fine degli anni Cinquanta dello
scorso secolo in un raro libro edito dall’Associazione nazionale ex V.C.A., intitolato:
“Cenni storici del Corpo Nazionale Volontari Ciclisti Automobilisti”
1
38
25 ottobre 1915
Nella zona tra Garda e Adige le nostre truppe, scendendo
dal Monte Altissimo di Nago sotto i fuochi incrociati delle
artiglierie nemiche dal Biaena e dalle opere di Riva, espugnarono il giorno 24 le posizioni di Dosso Casina e Dosso
Remit completando così, con le alture conquistate il 18 e il
19 a nord di Brentonico e di Crosano, il dominio sulla strada
da Nago a Mori. Nei trinceramenti nemici trovammo armi,
munizioni, bombe a mano, casse di cottura, scudi, riflettori
ed altro materiale da guerra.
Firmato Cadorna
25 ottobre 1915
Contro i Dossi Casina e Dosso Remit, a sud della depressione di Loppio, conquistata il 24, il nemico eseguì ieri un
intenso fuoco di artiglieria dal monte Creino e dalle opere di
Riva, senza riuscire a scuotere la resistenza dei nostri, forti
in quelle posizioni.
Firmato Cadorna
Vignola, 26 ottobre 1915 - Comando della terza
Brigata Alpina
Al comando del Battaglione V.C.A.
Ringrazio codesto Comando per la valida cooperazione
data dal Battaglione V.C.A. Lombardo nelle operazioni svoltesi nei giorni 22, 23 e 24 c.m. per l’occupazione, felicitamene
riuscita delle posizioni nemiche dei dossi Casina e Remit.
Il Maggiore Generale Comandante del Sottosettore M.Raffa
39
Cartolina a colori di un militare V.C.A.,
pubblicata a Milano da Sacchetti e C. (collezione Faré).
40
I MIEI RICORDI
DELLA GRANDE GUERRA
di Jone Benedetti
Quando scoppiò la prima guerra mondiale avevo tre anni
e mezzo e mia sorella solamente un anno e nove mesi. La mia
famiglia, assieme a tutte le altre della zona, fu obbligata a
lasciare l’abitazione e portarsi, a piedi, alla stazione ferroviaria di Rovereto con direzione nord. Della partenza quindi
non ricordo nulla e non c’è più nessuno dei miei: racconterò
quindi quanto ho sentito dire o letto poi sui libri. Abitavo a
Mori in largo Villanuova al numero 10, in una casa dei miei
zii “Ragnòti”, fra casa Dalbosco e la “Meneghella”, di fronte
a casa Salvadori.
Dal 23 maggio 1915 il Regno d’Italia intimò guerra
all’Impero Austro Ungarico. Faccio menzione al telegramma
del Comando Militare inviato al Comune di evacuare tutte
le case entro 24 ore:
“COMANDO SUPREMO MILITARE ha ordinato
evacuazione totale di codesto Comune. Ognuno prenderà
seco solo valigietta con strettamente il necessario: coperta di lana e vettovaglie per 5 giorni. Abitanti verranno
poi instradati con ferrovia oltre INNSBRUCK. Animali
saranno da condursi per intanto a Rovereto e da munirsi
alle corna con biglietto del nome del proprietario.”
F.to CAPITANATO
Il dolore della fuga dalla propria casa, era reso più
straziante dal terrore dell’esilio in terra straniera, lontana
41
e sconosciuta, fra gente ostile, di altra lingua e di differenti
costumi. L’ordine venne pubblicato alle 9 di sera e già alle
10 del mattino successivo tutti gli abitanti di Mori, in lunga
schiera, procedevano a piedi alla volta di Rovereto, per la via
di Isera - Sacco, dato che il ponte di Ravazzone sull’Adige
era già stato fatto saltare e quindi non restava altra via. A
Rovereto, tutta questa popolazione fu caricata, stipata in
carri bestiame e portata nell’Austria Inferiore, in Moravia,
Boemia, Braunau, Mitterndorf e parte nell’Austria superiore. Gli uomini dai 18 ai 50 anni erano già stati arruolati
nell’Esercito nel 1914 e molti di loro erano caduti sui campi
della Galizia (Polonia) e altri giacevano feriti negli Ospedali
militari; il resto sparpagliato in varie guarnigioni.
Prendo lo spunto da ciò per ricordare che mio zio Giorgio Benedetti, morì in Galizia l’8 settembre 1914, lasciando due bambini
Jone tiene lezione di storia in Biblioteca a Mori
in occasione dell’ottantesimo anniversario della
fine della Grande guerra
42
piccoli: Ierta di circa 4 anni e Lino di 1 anno e mezzo che avevano
appena conosciuto il loro papà e nemmeno io lo ricordo.
Col 26 maggio 1915 a Mori erano tutti evacuati ed anche
il Giudizio Distrettuale ha sospeso l’attività dal 1915 al primo
luglio 1919, quando riprese il lavoro dopo aver riordinato le
carte (cioè gli atti) che erano state portate in salvo a Trento
dal 1916 in poi. Paesi non soggetti all’evacuazione: Patone,
Brancolino, Pomarolo, Castellano, Sasso, Villalagarina e altri
del Distretto di Villa.
Faccio notare che la contessa Maria Bossi Fedrigotti allestì un piccolo ospedale con 53 posti letto nella sua residenza
di campagna a S. Antonio di Pomarolo, per l’assistenza di
anziani ed ammalati, con 6 suore e 2 sacerdoti (tra cui don
Eugenio Bernardi di Trento, cooperatore a Sacco).
Ancora la prima sera del 25 maggio 1915 ebbe luogo un
lieto evento, in treno al Brennero: la nascita della cugina
Agnese Degiampietro, la quarta figlia di Giovanni e Rosina,
che abitavano nel casone a Mori Stazione. Per fortuna sul
treno c’era un medico, che si sarà preso cura del caso insolito.
Non oso immaginare come sia avvenuta questa nascita in
treno, con tutta la gente pigiata di donne e bambini!!!!
Non comprendo come mai dal passaporto di mia madre,
fatto a Rovereto in data 23 giugno 1915, rilasciato dall’I.R.
Capitanato Distrettuale, in nome di S. Maestà Francesco
Giuseppe I, Imperatore d’Austria, Re di Boemia, ecc. ecc. per
recarsi all’interno della Monarchia Austroungarica e valevole
3 anni, figurano anche due Kinder, cioè bambini, quando noi
siamo partite in treno da Rovereto il 25 maggio 1915, come
tutti gli altri moriani ed assieme a due zie, sorelle di mio
padre, siamo scese a Vipiteno, dove abbiamo alloggiato fino
al 2 ottobre 1915 nella Villa Schönblick, dove abitavano anche
altri miei parenti. Alcune zie con bambini piccoli sono rimaste
lì tutta la guerra. Invece noi abbiamo seguito mio padre, che
43
essendo un giudice (ora si direbbe un magistrato) era stato
nominato responsabile di un Ospedale da campo, dapprima a
Dornbirn fino al 1916 e poi a Bregenz sul Lago di Costanza,
nel Voralberg (Austria Inferiore), un posto molto bello e
tranquillo, dove siamo rimaste fino alla fine della guerra, in
Via Steinebach, 12/I, mentre mio padre era stato trasferito
in Romania (che lui chiamava Rumenia) a Ghergita. In una
foto del 1917, fatta con altre cinque persone, cioè due medici,
il curato, un farmacista e un professore, si nota una mazza
appoggiata al muro: serviva per difendersi dai lupi. Poi è
stato mandato a Fiume, fino alla fine della guerra.
Da questi luoghi ci inviava ogni due, tre giorni delle cartoline postali da campo, già stampigliate in varie lingue, con
la scritta: “SONO SANO E STO BENE!” Mia madre, avendo
per fortuna studiato alle Magistrali presso le Suore del Sacro
Cuore di Trento, mi ha insegnato a leggere e scrivere per
la prima e la seconda classe: tengo ancora i quaderni con le
aste, le paroline, i pensieri; poi la matematica su un quaderno
a quadretti e mi metteva alla fine solo una “V”, cioè visto,
ma mai un voto. Conservo ancora il sillabario in tedesco, che
serviva per apprendere un po’ la lingua.
Ricordo solo una parola in romeno, cioè “mamaliga”, che
sarebbe “la polenta” e quando qualche immigrato mi dice di
essere della Romania, per vedere se dice la verità, gli chiedo:
“Sai che cosa è la mamaliga?” e lui non sapendo la parola
polenta, fa il movimento del mestolo con le braccia.
Alla fine di novembre 1918 siamo ritornate nella Venezia
Tridentina e ci siamo fermate tre giorni a Trento, in attesa
dell’arrivo del carro merci con la nostra mobilia e biancheria
comperata “dai tedeschi”: a mangiare si andava dai miei zii, che
abitavano in Via Rosmini ed a dormire in una delle tre casette
rurali che si trovavano nel piazzale erboso, davanti al Cimitero
di Trento. Anni fa sono andata a curiosare in Via Rosmini ed ho
44
trovato la casa dove abitavano gli zii, uguale, color rosa antico;
invece al posto del piazzale sono sorti palazzi e condomini.
Dato che la casa di Mori, in Largo Villanuova era da
sistemare, causa la guerra, siamo andate a Nomi, casa Perghem, a destra del Municipio, e si entrava direttamente nel
cortile, con delle scale in legno scuro, per la vetustà. Ricordo
che sono andata a scuola, forse in seconda elementare, con il
maestro Antonio Beghella, assieme alla figlia Carla, pure lei
del 1911. A Nomi, dato che mio papà era un uomo di legge,
lo hanno incaricato di sovrintendere per la consegna agli
ex profughi più indigenti di alcuni generi alimentari (farina
gialla e bianca, fagioli, zucchero e galletta). Ricordo come
fosse oggi, la fila di gente seduta sui gradini, in paziente
attesa del proprio turno.
Poi finalmente siamo ritornate a Mori ed abbiamo trovato
dei mobili nascosti in un locale a piano terra, vicino all’atrio,
sotto una grande terrazza. Erano state tolte le maniglie dei
cassetti, e le vetrate, rotto un vetro della vetrina del salotto
ed anche il marmo della stessa, sparita tutta la biancheria.
A Mori ho frequentato la terza classe con l’insegnante
Nicolini, poi sono passata in quarta con la maestra Maria Villi
ed in quinta con la maestra Domenica Girardelli: la classe
era stata trasferita all’ex Molino Piccoli, dove c’era la sala
per le riunioni a piano terra.
Possiedo un raro libro, intitolato “Donne trentine” (con
dedica dell’Autore, Ernesto Tarditi, datata 5 agosto 1919),
che tratta dell’irredentismo trentino e della partecipazione
femminile tra il 1914 ed il 1918. E racconta che mia zia ed altre
signore di Trento (diverse delle quali le ho conosciute anch’io)
hanno preparato di nascosto il “gagliardetto”, raccogliendo
offerte. Questo vessillo è stato consegnato all’avanguardia
dell’Esercito italiano nel giorno del trigesimo della liberazione “ai soldati d’Italia”, il simbolo della riconoscenza trentina.
45
Con voce commossa la Signora Larcher Masotti pronunciò
le seguenti parole:
“Questa santa bandiera della Patria, nata e cresciuta
nell’ombra, fra i costringimenti della tirannide, fra
le carezze della speranza, baciata ora dal sole della
precipite vittoria, le Donne di Trento compiendo il
voto nel trigesimo della conquistata libertà, affidano
all’onore dei Cavalleggeri di Alessandria, antesignani
dell’eroica milizia d’Italia, simbolo di redenzione, pegno
di gratitudine, augurio di grandezza”.
Faccio presente che il 3 novembre 1918 il capitano Piero
Calamandrei ed il tenente Ciarlantini, a bordo del sidecar
di Riccardo Bandini, con un’azione pazzesca passavano in
mezzo alle colonne austriache in ritirata e raggiungevano
Trento, primissimi ad entrare nella città, in attesa della
redenzione.
Per il Cinquantenario della Liberazione di Trento, il 3
novembre 1968 vennero fatte solenni onoranze nella Città
del Concilio, alla presenza delle più alte cariche dello Stato:
il Presidente della Repubblica on. Giuseppe Saragat, il
Presidente della Camera on. Sandro Pertini, il Presidente del
Consiglio dei Ministri on. Leone, il Vice Presidente del Senato
Spataro, Ministri, sottosegretari, parlamentari e le massime
autorità della Regione Trentino Alto-Adige, Livia Battisti (la
figlia di Cesare Battisti) con il fratello, la vedova Calamandrei
ed altri, tra cui i soldati che presero parte alla Liberazione
di Trento. Ne furono invitati ben 600, altri, impossibilitati a
partecipare alla cerimonia, scrissero lettere molto commuoventi. Fu realizzata per l’occasione una medaglia ricordo che
fu consegnata ai presenti, assieme ad un attestato, dal Sindaco
di allora, che era mio fratello Edo Benedetti, oriundo di Mori;
46
c’era pure un altro moriano il dr. Giorgio Grigolli, all’epoca
Presidente della Giunta Regionale.
Nonostante fosse una giornata piovosa, la città era piena
di gente festante e di bandiere. Ci fu un incontro in Municipio,
al Castello del Buon Consiglio, nella fossa dei Martiri.
Il 2 novembre 1918, a poche ore dall’entrata dell’Esercito
Italiano un gendarme austriaco, forse l’ultimo in ritirata,
fece saltare il ponte di Sacco, sull’Adige, già minato, per
motivi strategici ancora all’inizio della guerra, creando grossi
inconvenienti agli abitanti della Destra Adige, specie pendolari della Manifattura Tabacchi, che ogni giorno dovevano
passare l’Adige a Villalagarina o a Ravazzone, facendo doppio
percorso. Il Genio Militare risolse il problema, gettando un
ponte di barche un po’ più a valle, con sovrastante piano
viabile, costituito da un robusto assito che permetteva il
transito pure ai carri. Il lavoro fu impegnativo, ma abbastanza
rapido per eliminare l’inconveniente in tempi rapidi.
Ricordo, che anche al ponte di Ravazzone fu fatta la stessa
cosa e quando si passava con la “Littorina” del Pola di Mori
si traballava, come andare in gondoletta.
Al Castello di Rovereto tra i preziosi cimeli si conserva
la tromba con la quale l’Esercito Austriaco chiese l’Armistizio.
In Piazza Podestà, in un angolo abbiamo un cannone,
ricordo della Prima guerra mondiale, mentre in via Rialto,
in una piazzetta c’è una grande bomba: tutti tristi ricordi per
noi anziani, che abbiamo vissuto diverse guerre.
Altra opera che ricorda i defunti di tutte le guerre, per
iniziativa di don Antonio Rossaro di Rovereto c’è la monumentale Campana dei Caduti, arrivata da Trento a Rovereto il 23
maggio 1925, con un camion che si è fermato il pomeriggio e
la notte vicino alla Chiesa dei Frati Francescani di S. Rocco
e dato che ho abitato per 7/8 mesi di fronte a quella chiesa,
47
“I Parlamentari Austriaci davanti alle linee di Serravalle
all’Adige (29 ottobre 1918”).
La cartolina fa parte della serie “Guerra italo-austriaca 1915-18”
stampata a Milano dall’editore Duval.
l’ho vista arrivare e ripartire il 24 maggio per Piazza Rosmini,
per la inaugurazione e benedizione. Poi è stata collocata
sul Bastione Malipiero del Castello del Museo storico della
guerra, dove è rimasta fino al 1965 e trasferita da lì sopra a
Castel Dante. Da allora noi del centro città non la sentiamo
più. Ricordo ancora che dopo la guerra era sorto sul colle di
Castel Dante un grande Cimitero, che aveva raccolto le salme
sui vari campi di battaglia e ricordo una croce, con davanti la
statua di una bambina1, molto commovente: con la scuola si
andava quasi tutti gli anni a ricordare i cari defunti.
Poi, verso la metà degli anni Trenta, su quel colle panoramico fu costruito il Sacrario dei caduti di Castel Dante, che
Jone si riferisce alla scritta incisa ai piedi della croce eretta sulla tomba del soldato
Angelo Buttazzi, che recitava così: Signore dai tanti tanti baci al mio babbo caro
ch’è morto per la patria e digli che gli ho portato tante belle rose, e alla mamma
mia dille che non pianga più perché il mio babbo è in paradiso [ndr].
1
48
per i roveretani è semplicemente l’Ossario.
Dalla rivista del 1928, pubblicata a Rovereto, intitolata
“El Campanóm” ricavo quest’altra notizia: il 25 aprile 1927
sul Bastione Malipiero del Castello di Rovereto, ai piedi
della monumentale Campana dei Caduti, davanti a una folla
di autorità, ci fu la benedizione di 7 Campane marinare, cioè
furono fatti degli esemplari uguali nella riproduzione delle
decorazioni e di squisito suono, di dimensioni molto minori,
cioè 40 x 40 cm. perché fossero collocate sulle principali
navi da guerra, perché ogni sera nel silenzio degli oceani,
ricordassero i nostri gloriosi eroi. Ognuna ebbe il suo padrino
e madrina, tutti ragazzi roveretani e ogni campana il suo
nome. Dopo la benedizione i padrini accompagnarono in auto
le campane alla stazione ferroviaria, donde presero il volo
per gli Oceani del mondo.
Rammento che anche a Besagno fu inaugurato un
monumento ai 22 caduti in guerra o in terra d’esilio il 14
settembre 1924, mentre il 21 novembre 1924 fu inaugurato
un monumento ai caduti, con 13 nominativi, nel cimitero di
Valle S. Felice. Così nel Cimitero di Pannone, una lapide
- monumento con 20 nominativi di caduti di Pannone e di
Varano.
Un ultimo accenno all’opera generosa del Comune di
Lugo che dal 22 aprile 1919, per 5 mesi, fornì giornalmente,
ai più poveri degli ex profughi di Mori, 500 razioni di cibo
nutriente, a mezzo di una cucina pubblica, situata in una
casetta di legno nel piazzale a sinistra dell’ex Mulino Piccoli,
che ricordo molto bene, perché era di fronte alla nostra scuola
elementare. Un Comitato di Lugo, presieduto da Giulia
Montanari, contribuì pure con capi di biancheria (50 camicie
e calze di ogni misura in lana, fatte a mano). A ottant’anni di
distanza, il 3 ottobre 1999 arrivò a Mori un pullman con 50
persone da Lugo, per ricordare quell’evento: si passarono
49
assieme alcune ore con pranzo presso la “Vecchia Mori” in
Piazza Cal di Ponte, a cui partecipai come ospite d’onore, in
rappresentanza di chi aveva vissuto quel periodo difficile. Al
mattino vi furono i discorsi delle autorità e al pomeriggio,
durante il pranzo lessi una mia poesia a ricordo e ringraziamento a nome degli anziani di allora ed ex profughi. Era
stata ricostruita la casetta con la scritta “Cucina di Lugo”,
posizionata però in via Teatro.
Questi sono alcuni dei miei ricordi - a quasi 98 anni d’età
- di quanto ho vissuto, udito e letto circa la Grande guerra e
quanto è successo dopo, in varie evenienze storiche.
Jone Benedetti
La fiola del Giudize Ragnoto
50
OMAGGIO A GIULIA MONTANARI,
GENTILDONNA ROMAGNOLA
piacevole nel conversare,
liberale nel soccorrere, attenta agli studi
a cura di Edoardo Tomasi
In occasione del gradito ritorno a Mori degli amici di
Lugo di Romagna - 10 anni dopo la loro visita avvenuta in
concomitanza della terza edizione della Ganzèga d’autunno - ci è parso doveroso ricordare nella nostra rivista la
nobile figura di Giulia Montanari, dinamica Presidente
del Comitato Donne Emiliane - Romagnole di Bologna
all’epoca della Grande guerra.
Fu grazie alla sua caparbia e tenace azione di raccolta di
fondi che si avviò un flusso di aiuti costanti e concreti rivolti
alle fasce più bisognose della gente trentina, sintetizzati
nella installazione qui a Mori della “Cucina economica
Città di Lugo1” ma che, come vedremo, ebbe risvolti positivi
anche in altri comuni limitrofi.
E.T.
Cfr. La cucina economica di Lugo tra «le macerie e la miseria» di Mori (1919)
a cura di A. MIORELLI, opuscolo edito nel 1999 dal Comitato Turistico Locale e
dalla Biblioteca comunale di Mori. Alle notizie colà pubblicate aggiungeremo altre
informazioni finora poco note in Trentino, rese disponibili grazie alla proficua collaborazione instaurata con i colleghi della Biblioteca comunale F. Trisi di Lugo (in
particolare il Direttore, prof. Igino Poggiali e la funzionaria Ivana Pagani) e con
la dr.ssa Mirtide Gavelli del Museo Civico del Risorgimento di Bologna. Senza il
loro aiuto, non avremmo mai potuto offrire questo pur modesto e tardivo tributo
di riconoscenza a donna Giulia: grazie inoltre alla Direzione del Museo Civico bolognese per averci segnalato e consentito (con autorizzazione del 2 settembre 2009)
di pubblicare le immagini dei documenti qui riprodotti.
1
51
Copertina di un calendarietto di tipo propagandistico, tascabile
(formato cm 10,7 x 6,3), commissionato dal Comitato Dame Emiliane
– Romagnole e venduto “pro militari”. (Museo Civico del Risorgimento,
Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-377).
52
“Sei libera, sii grande” è il motto che compare sulla
copertina2 di un calendarietto tascabile pubblicato nel 1918
dal Comitato Dame Emiliane – Romagnole per i doni ai
combattenti.
Era distribuito a simpatizzanti e sostenitori, ed il ricavato
della vendita serviva a finanziare le molteplici attività del
Comitato stesso. Chissà se a questo motto si era ispirata la
Presidente del Comitato nel decidere cosa fare della sua vita.
Libera non sappiamo quanto, ma grande certamente sì, Giulia
Montanari può dire di esserlo stato, e vedremo perché.
Nata il 5 aprile 1862 a Meldola, città distante una ventina
di chilometri ad ovest di Cesena, ha una sorella maggiore,
di nome Maria. Il padre Antonio (1811-1898), di modesta
estrazione sociale, con duro lavoro e costante studio è riuscito
a costruirsi una solida carriera sia professionale che politica.
Letterato, filosofo, statista, ritenuto “uno dei più illustri e
benemeriti figli della Romagna”, docente universitario a
Bologna fin dal 1847, reggente della medesima Università dal
1859 al 1868, prima deputato all’Assemblea delle Romagne
e nominato poi senatore del Regno dal 1860 fino al 1871, a
lungo sindaco di Meldola, è dunque persona molto stimata.
Nonostante i prevedibili, molteplici impegni, non trascura
affatto la famiglia e con l’aiuto della moglie Rosina, sua ex
allieva, il senatore dedica la massima cura all’educazione delle
figlie, cui instilla un fiero senso del dovere ed un ardente
patriottismo. Sia Maria che Giulia ricambiano con sincero
affetto filiale gli anziani genitori, mantenendo sempre un
fortissimo legame con loro.
L’immagine del tondo è opera di Cesare Maccari (1840-1919), artista che decorò
la sala che ora porta il suo nome a Palazzo Madama a Roma. Il motto “Sei libera, sii
grande” è riferito all’Italia e, nella decorazione originale di Palazzo Madama, queste
parole sono scritte a corona intorno all’immagine stessa. Ringrazio la dr.ssa Gavelli per
le preziose informazioni fornite al riguardo e la generosa collaborazione prestata.
2
53
Antonio e Rosina Montanari con le figlie Giulia e Maria.
(Museo Civico del Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-371).
Giulia si diploma nell’anno scolastico 1907-’08 alle Scuole
normali di Bologna, e si iscrive nel 1909 alla scuola di perfezionamento, pagando le tasse per sostenere gli esami di Igiene
e Psicologia. Non abbiamo notizie precise sulla sua carriera
scolastica, ma in questa sede la questione è di scarsa importanza. Cerchiamo invece di sapere qualcosa sulla sua vita, e
lo faremo usando le parole di chi la conobbe personalmente.
Il 9 giugno 1938 Paolo Mastri tenne una commemorazione
pubblica nel Teatro comunale di Meldola. Il testo originale,
marcatamente agiografico, scritto in piena epoca fascista, è
stato ripubblicato, con qualche comprensibile “adattamento”,
54
Rosina Montanari con la figlia Giulia in un intenso ritratto
datato 29 luglio 1901. (Museo Civico del Risorgimento,
Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-366).
da Angelo Santi3 nel 1961: …Nell’ambiente famigliare
Meldolese a datare dal 1870, sotto la guida sollecita degli
amorosi e illustri genitori, la nostra Giulia venne, via via,
affinando il naturale intelletto all’amore del sapere, al
godimento delle cose belle e leggiadre e più al sentimento
del dovere, all’amore per la Patria grande, al culto di Dio,
prima ragione del tutto e ultimo nostro fine.
SANTI, A., Paolo Mastri e la sua Storia di Meldola unificata ed aggiornata
(Milano, Gastaldi, 1961), pp. 203-213.
3
55
E crebbe in tal modo compiuta di tutte quelle virtù che
a giovinetta bene si addicono. Piacevole nel conversare,
liberale nel soccorrere, attenta agli studi…
La poesia tentò primamente l’animo gentile e la naturale
disposizione della giovane Giulia… Giulia divideva le sue
giornate laboriose, tutta attorno al babbo adorato, del quale
era sempre in timore per l’età grave; fra i lavori, che non
disdegnava, della casa; la lettura dei suoi poeti preferiti,
la pratica dei suoi doveri cristiani, senza, per altro, mai
dimenticarsi di chi soffriva.
Di profonda fede religiosa, dunque, Giulia si convince ben
presto che il privilegio di essere nata in una famiglia benestante,
non la può esentare dall’offrire aiuto a chi ne ha bisogno, ed al
principio di carità cristiana ispirerà la sua esistenza, dedicando
tutta la sua vita al prossimo. Lo attesta anche Paolo Mastri a
pag. 206, e seguente, del citato volume di Angelo Santi:
L’esercizio della privata beneficenza, che richiede tanta
delicatezza e riserbo di forma, fu in lei continuo. Non v’era,
poi, iniziativa di cittadini che non potesse fare sicuro assegnamento sulla sua larga cooperazione; non v’era cosa che
tornasse di utilità o decoro alla sua Meldola, alla quale essa,
invitata, non concorresse... Fece parte del primo Patronato
per gli alunni poveri qui sorto nel febbraio del 1898 e della
Filodrammatica diretta da Lucio Mario, che onorò le platee
italiane per più anni…
Allo scoppio della guerra italo-turca Giulia si attiva per
far giungere, ai soldati italiani impiegati sul fronte libico, dei
ricambi di biancheria ed altri generi di conforto, tutta merce
preziosa in tempo di guerra e particolarmente gradita ai
combattenti. Non esita, per dare la massima diffusione alla
raccolta di fondi, a pubblicare appelli sui giornali, oppure
a rivolgersi personalmente a conoscenti ed amici, spesso
persone influenti, esortandoli in tutti i modi a contribuire
56
Foto di gruppo datata 1901. Sono ritratti (da sinistra a destra) Maria
Montanari col marito Enrico Foschini, Rosina Maccarelli vedova
Montanari con la figlia Giulia. (Museo Civico del Risorgimento,
Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-372).
a quella che ritiene essere una giusta causa. Lo farà anche
qualche anno dopo, per le truppe impegnate sui vari fronti
della prima guerra mondiale.
Presso il Museo Civico del Risorgimento di Bologna
sono conservati interessanti documenti al riguardo, mentre
dalla Biblioteca comunale di Trento sono state acquisite
di recente due lettere di Giulia indirizzate ad una giovane
signora trentina, Maria Mazzi Kargruber (1874-1968), nota
per essere particolarmente vicina alle idee irredentiste. Le
pubblichiamo per la prima volta su questa rivista.
57
Una lettera autografa di Giulia Montanari, datata 23 settembre 1915.
(Museo Civico del Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-320).
58
DUE LETTERE INEDITE DI GIULIA MONTANARI CONSERVATE
PRESSO LA BIBLIOTECA COMUNALE DI TRENTO
[Lettera 1, datata Bologna 31 marzo 1912]
Egregia e gentil Signorina4
le care giovinette Gnudi mi han detto quanto Ella sia
generosa di animo ed eletta di mente; quanto e come, dal
suo Trentino costassù, Ella volga il cuore alla gran madre
Italia… Non so! Ma fra il forte caldo sentire delle romagnole, ed i fervidi possenti affetti delle donne di Trento si ha
qualcosa di comune, forse … Certo in quest’ora che i nostri
soldati, elevando sé medesimi ne’ travagli di guerra e di
morte, elevano la coscienza del popolo italiano; noi italiane
– non sol di Romagna ma delle Regioni tutte – sappiamo
di aver delle sorelle costà fra gli aspri dirupi, fra i monti
austeri e possenti. – Sorelle che pregano, invocano, fan
voti con noi, per loro!! Ed ecco, io Le mando copia di due
articoletti di cronaca, che parlano di una gran lavorazione
di calzettini pei soldati di Derna5, pensata e iniziata già,
dalle romagnole.
Vorran le Trentine corrispondere all’invito che i sei Comitati
delle sei città di Romagna fanno alle gentili e pietose di ogni altra
Regione, di lavorar con loro – pei cari figliuoli là?! Lo spero.
Oh, sarebbe anche bello potere, inviando a maggio il
Questa lettera e la seguente sono indirizzate a Maria Mazzi Kargruber, figlia del
tenore trentino Giuseppe Mazzi. Visse a Trento ove strinse amicizia con illustri esponenti del mondo musicale e letterario locale. Di chiari sentimenti irredentisti, diede
ospitalità e sostegno a nobili ed intellettuali dello stesso orientamento politico, non
mancando di collaborare anche con chi, come Giulia Montanari, le chiedeva aiuti (sia
in denaro che in materiale d’uso) per i soldati italiani impegnati all’epoca sul fronte
libico nella guerra italo-turca (1911-1912). Ringrazio il collega dr. Giovanni Delama
della Biblioteca comunale di Trento per la fattiva e solerte collaborazione prestata
nella pubblicazione delle due interessanti lettere (collocazione BCT 48-2.1).
4
5
Porto nella Cirenaica, occupato dagli italiani nel 1911.
59
nostro lavoro in Africa unirvi il lavoro delle Trentine;
nelle casse che li chiudono, trovassero essi buon numero di
calzettini, con su fronde e fronde de’ boschi di Trento … E
che gioia sarebbe per loro, cui ogni attestato d’affetto della
Patria lontana, è sprone, conforto e dolcezza!!
Mia Signorina! Se io fossi nativa di Trento, trascriverei
pel giornale locale (l’Adige se non erro?) l’articoletto delle
romagnole che è sul giornale del Mattino, o dell’Avvenire,
e … vorrei che giovani donne mie amiche, aggiungessero
altre poche parole: così a un dipresso:
“Noi fanciulle del Trentino, custodi gelose di sentimenti
patri, nel fare pubblicamente noto quassù nei nostri monti,
il pensiero e l’opera delle donne romagnole, domandiamo
alle donne trentine di rispondere anch’esse all’appello volto
alle italiane tutte. Domandiamo di lavorar per loro, con loro
… E i calzettini spediti di Romagna, non portino soltanto,
fra le oasi del deserto, un dolce rimembrare di ubertosi
colli pascheggianti, di casette native, di voci materne; né
l’affettuoso augurio delle romagnole soltanto: ma l’eco delle
nostre cascate, lo stormire de’ nostri frassini austeri …
che dicono il sospiro, la preghiera, i voti delle trentine pei
valorosi amati fratelli lontani”.
E qui potrebbe seguire un bel numero di firme di
giovinette di Trento.
Che ne dice Ella mia signorina?
E … mi perdona dell’essere stata io così ardita ad esprimerle un pensiero natomi nella mente così …mentreché Le
scrivevo? L’affetto al nostro bel tricolore e ai valorosi che
lo difendono eroicamente mi ottengan venia … Mi ottengano – da Lei, e da quanti senton con Lei costassù, lavoro
e lavoro! Da aggiungere a quello che stiam facendo, e che
60
ci viene da ogni parte – lavoro che (comunque annunziato)
porti a Derna il saluto di Romagna; affratellato col saluto
di Trento. Nel santo nome d’Italia, cui Dio sorrise nel suo
cielo e nelle sue glorie - io Le stringo da lungi la mano.
Di Lei, signorina egregia
Devotissima e affettuosissima Giulia Montanari
Figliuola del senator Antonio Montanari, antico e caldo
patriota – che fu.
P.S. Ove il giornale delle città mettesse la nuova della
lavorazione che si sta facendo – e l’appello delle giovinette
trentine a tutti i trentini, sarebbe ben fatto assai, mandarne
delle copie a Derna. E chissà quale commozione pei nostri
soldati! Non crede?! G.M.
[Lettera 2 (non datata)]
Mia buona e mia brava [amica]
Gli è tempo che direttamente e da cuore a cuore, io
La ringrazi. Ella ha risposto alla mia lettera, scrittale in
una notte de’ primi dell’andato aprile6, come una trentina
dall’anima fervida d’amor di patria, poteva rispondere
ad una romagnola; in cui pur ferve il santo culto d’Italia
nostra!! Ella ha risposto operando: lavorando e facendo
lavorare pei soldati di Derna … E il lavoro coperto dai
rami d’alloro e dall’olivo che san le bufere delle Alpi insormontabili, e san l’affetto delle fanciulle trentine pei soldati
d’Italia – lor cari fratelli – sarà carissimo ai loro fratelli
lontani!! – Io penso commossa, e volli scriverlo sui giornali
di Bologna, l’aggradimento dei valorosi soldati di Derna,
del vostro patriottico invio, care donne di Trento!!
6
La lettera precedente è però datata 31 marzo 1912.
61
Oh! Venga il giorno che quel che Prati7 (il poeta tirolese)
cantò sia per voi, generose e gentili!
E voi udiate le mute squille
suonare a gloria per le vostre ville
E la spada e il palvese italiano
Coprire i varchi del vostro paese!
Intanto la vostra tenerezza di sorelle sia ispirazione conforto e orgoglio ai cari combattenti di Derna!! Dal Carlino8
qui unito Ella vedrà che non oltre il 15 giugno noi faremo
un ultimo invio di calze e quadrati. Io non oso più chiedervi
né quadrati di vecchia tela de’ vostri lenzuoli scartati; non
oso domandarvi altre calze ancora (sebbene il numero da
noi sognato di 80.000 paia fra calze e quadrati sia rimasto
un … sogno!!) ma poiché i nostri soldati instantemente pregano, mandiam loro polvere insetticida (razzia9), vuol Ella
invitare le sue trentine a raccogliercene un po’ costassù? E
volgendosi ai grossisti droghieri e farmacisti italiani, se
ve ne sono! …e … quotandovi voi – carissime nostre - per
acquistarcene un buon po’ o per mandarci il danaro acché
noi la acquistiamo per voi.
Giovanni Prati (1814-1884) nativo di Campo Maggiore nel Lomaso. I versi citati
da Giulia nella sua lettera si richiamano a quelli della poesia intitolata “Patria”, di
cui riportiamo l’incipit (Non sonora abbastanza è la tua onda, o padre Adige) e le
prime strofe:
Sin che al mio verde Tirolo è tolto
Veder l’arrivo delle tue squadre,
E con letizia di figlio in volto
Mia dolce Italia, baciar la madre
Sin ch’io non odo le mute squille
Suonare a gloria per le mie ville,
Né la tua spada, né il tuo palvese
Protegge i varchi del mio paese…
7
8
Evidentemente si riferisce al noto quotidiano bolognese “Il Resto del Carlino”.
“Razzia” era una marca di insetticida, pubblicizzato quale migliore dell’epoca.
Veniva commercializzato in caratteristici barattoli cilindrici in latta.
9
62
Da brave!! Que’ cari nostri soffrono per lo schifoso
tormento: prepariamo loro la grata sorpresa di trovare fra
le calze e i quadrati che ancor spediremo i pacchettini di
razzia che li liberi un po’ dal tormentoso supplizio. È a nome
di queste Dame della Croce–Rossa e quale rappresentante i
Comitati romagnoli che Le domando razzia e razzia!!
Sua aff.ma Giulia Montanari
P.S Se l’acquistarla e il farla poi portare in Italia
Le costa preoccupazioni, mandi il danaro raccolto: noi
compereremo la razzia per voi - brave trentine! E su la
cassettina del vostro dono provvidenziale le metteremo de’
vostri biglietti se ce li mandate!! Va bene?
UN FORTE LEGAME COL TRENTINO
È forse grazie a questo breve ma significativo scambio
epistolare che Giulia impara a conoscere ed apprezzare la
gente trentina? Non lo sappiamo con certezza, ma l’infaticabile Presidente del Comitato Donne Emiliane – Romagnole
dimostra subito la sua vicinanza ai nostri profughi all’indomani della fine della Grande guerra, visitando di persona e
tra mille disagi le zone più devastate dal conflitto.
Di sicuro fa tappa a Mori, come attesta nel numero di
ottobre 1919 il mensile “La Campana di Monte Albano”, a
cura del Sotto Comitato Profughi di Mori:
Era l’inverno freddo e malinconico. Tra le cupe rovine
della Borgata la popolazione trascorreva i suoi giorni come
trasognata e assiderata nella contemplazione delle sue
grandi sventure materiali. Passò, allora, tra noi una di
quelle anime ardenti, generose, appassionate nell’intento
di realizzare le più alte opere di umana carità, la nobile
benefattrice Giulia Montanari, che impietosita dalla povere
condizioni dei nostri bambini, delle nostre donne, dei nostri
63
vecchi, volle confortarli tutti con un tangibile e munifico
segno di fraterna solidarietà.
Il mesto pellegrinaggio di Giulia però non si limita al
fondovalle, ma si spinge su su fin nei più sperduti villaggi
aggrappati alle pendici del Pasubio. Lo prova anche una
recente testimonianza di Italo Maule (classe 1928) pubblicata
nel pregevole volume intitolato “Pozzacchio, la sua gente, il
suo Forte” (AlcionEdizioni, 2009). A pagina 334 si legge tra
l’altro:
…Nel 1919-’20, una signora di Cesena di passaggio, non
si sa per quale motivo, impressionata dalla grande povertà
del paese [di Pozzacchio], ha regalato alle famiglie una quarantina di capre. La scuola di Pozzacchio è stata intitolata
poi in segno di riconoscimento alla Città di Cesena.
Siamo convinti che questa anonima, misteriosa benefattrice “di Cesena” fosse proprio Giulia Montanari. La sua
opera è talmente apprezzata che Ottone Brentari le indirizza
dalle colonne de L’Arena del 16 ottobre 1919 una “lettera
aperta” colma di riconoscenza:
Gentilissima Signora,
non ho mai avuto l’ambito onore di esserle presentato;
io non La ho mai vista neppure da lontano; ma La ammiro
e La venero da un pezzo, per tutto il bene pratico e serio che
Ella ha fatto e sta facendo al mio povero Trentino, andando
a cercare (e non è difficile) i bisogni veri nelle località dove
più si soffre, lungi dalle linee ferroviarie, e magari anche
dalle comode strade automobilistiche, e senza farsi precedere
né da trombe né da tamburi, e senza la speranza di vedersi
incontrata da fusciacche e da valletti.
Così mi ero figurato che dovessero essere le donne
italiane in questo momento; questo ideale lo vedo realizzato
in Lei; ed a Lei oso dirigere questa mia, anche col rischio
64
di urtare la di Lei modestia, e nella fiducia che l’opera sua
possa servire di esempio.
E come mi sono indotto a far ciò? Anch’io, gentile
signora, ho corrispondenti numerosi, segreti, fidati, i quali
mi riferiscono quanto avviene e quanto occorre nella zona
devastata del Trentino; ed uno di essi mi scrive proprio oggi
da Trambilleno: “Mi affretto a comunicarle che è stata qui
nelle frazioni di Pozzacchio e di Boccaldo, la signora Giulia
Montanari, presidentessa del Comitato Dame Bolognesi e
Romagnole, quella stessa la quale, fra l’altro, ha fatto avere
vacche alla povera valle di Gresta e capre a Loppio. Essa
ha promesso di mandare quassù capre lattifere, galline e
qualche maiale.”
Nel leggere questa notizia, che annuncia intenzioni così
aliene dalla retorica di moda, e così vicine alla vita pratica,
io mi sentii commosso, avrei voluto esserle vicino per poter
baciarle la mano …
Dopo aver descritto sommariamente i luoghi e citato
qualche episodio bellico avvenuto tra quelle balze insanguinate, Brentari prosegue:
Così questo povero Comune, che non ebbe neppur il piacere di veder il suo nome portato per il mondo, fu fracassato
dagli uni (Austriaci) e dagli altri (Italiani); e basti il dire
che delle sue 438 case, 230 furono totalmente distrutte, 156
demolite per tre quarti, 6 per metà, 16 per un quarto, e le
altre 30 tutte più o meno gravemente danneggiate.
È inutile aggiungere che delle case non totalmente
demolite non solo furono portati via, interamente, o distrutti, mobili, biancheria, stoviglie, ma anche strappati i
pavimenti, i soffitti, le imposte, gli infissi, ed in gran parte
le travature dei tetti; ed Ella può immaginarsi, gentile
signora, come la popolazione, dopo quasi quattro anni di
assenza, trovò i suoi paeselli quando vi fece ritorno nello
65
scorso inverno! …
Dei 1640 abitanti che c’erano prima della guerra (853
uomini e 787 donne) ne sono tornati 1528; ma appena
saranno aperti i passi, più di 300 uomini (cioè tutte le forze
valide) emigreranno, o provvisoriamente per i lavori di
muratore, o stabilmente per la Romania e per l’America;
e non è improbabile che comincino ad emigrare anche le
donne.
Ella vede adunque, gentile Signora, che Trambilleno
meritava bene la di Lei pietosa attenzione, e l’aiuto delle
egregie signore che a Lei fanno capo. Pur troppo le persone
che passano per queste vie desolate sono poche; ma fra esse
è Lei, gentile Signora; e Dio la benedica!10
Torniamo all’accorato discorso commemorativo tenuto
da Paolo Mastri presso il Teatro comunale di Meldola nel
giugno del 1938.
Ma questo, pur nobile affetto, in un momento eccezionale, non bastò alla sua grande anima, elevata al culto del più
puro patriottismo. Sentì che in certe ore fatidiche, quando la
patria grande ha bisogno del concorso fattivo di tutti i suoi
figli, Ella, pure se fragile creatura, non poteva, né doveva
rimanersi inoperosa … corse a Bologna, nella sua città
d’adozione, e per quasi un decennio, lungo e gloriosissimo,
mentre si veniva maturando il destino della Patria in armi,
dessa fu Presidente del Comitato lavoratore pei doni ai
soldati. Sotto la sua solerte guida fu dato raccogliere offerte
nell’Emilia e nella Romagna per la confezione di indumenti
e per la ricezione di quelli già lavorati: polsi, fasce di lana,
berretti in numero di 28.218 per un importo di oltre 80.000
lire, inviate in Libia in tre successive spedizioni. Lo stesso
Versione rielaborata e ridotta del capitolo Galline, capre e maiali a Trabilleno,
pubblicato alle pp. 85-92 del volume Lettere dal Trentino di O. BRENTARI (Trento
: Edizioni Marcello Disertori, 1919).
10
66
Annuncio funebre di Giulia Montanari. (Museo Civico del
Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-356).
Comitato intraprese, allo scoppio della guerra di redenzione,
un nuovo più duro e fecondo lavoro; e dalla fucina di via
Brocchindosso di Bologna, dove Giulia Montanari risiedeva
e presiedeva, uscirono, di lana o di cotone, camicie, mutande,
ventriere, pettorali, corazze, calze, calzettini, polsini, guanti,
sciarpe, cappucci, pezze da piedi e altre non meno utili e
pratiche cose. Tutto poi era inviato al fronte pel tramite del
Comando del VI Corpo d’Armata di Bologna.
A guerra finita, prosegue Mastri,
… le autorità militari, alle quali non erano certo sfuggiti
67
la prova offerta di completa dedizione alla Patria, lo spontaneo
e generoso sacrificio personale, l’opera singolare ed eroica,
l’azione, utile e santa, spiegata in ogni luogo dalla gentile
nostra concittadina, furono altamente liete di provocare dal
Ministro della Guerra, la concessione della Croce al merito di
Guerra a Giulia Montanari. Il riconoscimento ufficiale venne
accompagnato dalla seguente lettera del Prefetto di Forlì:
“Adempio al gradito dovere di comunicarLe che S.E.
il Ministro Bonomi Le ha concesso la croce al merito
di guerra. Nell’inviarLe l’onorifica distinzione, insieme
al relativo brevetto, Le esprimo i sensi più vivi del mio
particolare riconoscimento.
La Croce di guerra sul petto di una donna d’Italia ha un
altissimo significato che servirà di ammaestramento e di
esempio. Ella, brava ed intrepida Signora, l’ha meritata,
l’ha santamente conquistata con l’opera fervente svolta
per tutta la lunga guerra a beneficio dei nostri soldati
e che svolge tuttora per l’assistenza delle popolazioni
bisognose dei paesi, già invasi e redenti.
Animo gentile, ispirato alle più pure idealità patriottiche,
cuore nobilissimo e sensibile a tutti i dolori, a tutte le
sofferenze; Ella non ha mai arretrato di fronte alle difficoltà che per forza di cose, e talora per mal volere degli
uomini, Le hanno attraversato la meta e né per disagi
e pericoli, né per la vastità immane del compito, ha mai
ceduto un istante alla stanchezza e allo scoraggiamento.
Vada, quindi, orgogliosa di sé, della sua opera che tutti i
buoni cittadini ammirano con vera gratitudine.”
Giulia però non è tipo da dormire sugli allori: è intenzionata a
fondare un istituto che si occupi delle vittime più indifese della guerra, mettendo a disposizione gratuitamente il terreno
su cui costruire la struttura e preoccupandosi addirittura di
68
reperire dei fondi mediante una lotteria nazionale allo scopo
di erigere a Meldola un “Istituto per le bambine derelitte di
guerra” che avrebbe intitolato alla memoria degli adorati
genitori. Nonostante si dedicasse anima e corpo a questa
nuova sfida, purtroppo Giulia non potrà mai vedere coronato
questo suo sogno, in quanto la morte la rapì prima.
Il primo gennaio 1935 il suo cuore si fermò per sempre,
ma il ricordo della sua grande generosità merita ben più di
un semplice articolo come questo.
Ora che conosciamo qualcosa in più sulla benemerita
“signora di Cesena”, passata dunque non per caso tra le
macerie fumanti di Trambileno, Loppio, Mori ed altri paesi
distrutti dalla Grande guerra, auspichiamo che il suo nobile
gesto venga riconosciuto in modo adeguato e tramandato a
futura memoria.
Annuncio funebre edito nel trigesimo della morte di Giulia Montanari.
(Museo Civico del Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-364).
69
LA MERENDA DEL SIGNORE
di Marco Avanzini
È un caldo pomeriggio di fine settembre. Il sole è ancora
alto sopra Bordina e, ai piedi del vecchio torrione di Castel
Corno, i contadini staccano con i loro piccoli falcetti i grappoli
maturi dalla vigna. Indubbiamente strappare questa terra
all’acqua dei torrentelli che fino a pochi anni prima scendevano da Sano ristagnando sotto il Monte Giovo in una palude
malsana, era stato un duro lavoro, ma, da un paio di stagioni,
i nuovi filari stavano cominciando a dare buoni frutti. Vicino
al ruscello ai margini del vigneto due ragazzi trattengono i
buoi attaccati ai carri carichi d’uva in attesa che il padrone
venga a controllare il loro lavoro. Messer Nicolò arriva poco
dopo accompagnato dal suo fido mezzadro. Una piccola tavola
è preparata all’ombra di un gelso, il pane è appoggiato sul
fondo di una scodella di terracotta e il vino è gia versato in
un bel bicchiere di vetro azzurro. Nicolò assaggia qualche
acino e non può che essere d’accordo con il suo commensale:
è un buon raccolto, questo del 1543.
Fino a pochi mesi fa la vasta spianata ai piedi di Corno,
compresa tra la Cantina sociale di Mori e l’imbocco della
strada che porta a Sano, ci appariva come una ampia conca
pianeggiante coperta di campagne e vigneti. Oggi vi si apre
un grande scavo che ha messo in luce strati di sabbie e ghiaie
sepolte sotto il terreno agrario.
Questi strati ci raccontano di un tempo lontano quando
qui arrivavano le piene dell’Adige che scorreva più in alto del
suo corso attuale. Quando il fiume si ritirò in Valle dell’Adige,
lasciando dietro di se una vasta distesa di sabbia, Mori ancora
70
non esisteva. Piccoli insediamenti si stavano formando alla
Corte (Colombo), a Monte Albano e al Bersaglio. La piana
era a quel tempo (circa 5000 anni fa) una distesa acquitrinosa percorsa da piccoli torrenti che, scendendo da Sano e
Castione, incidevano le sabbie e vi lasciavano sottili livelli di
ghiaie nerastre.
Il paesaggio rimase simile per migliaia di anni. Nel 1200 i
signori di Castel Corno vedevano dalla loro torre una distesa
di canne e acquitrini e i veneziani, che nei primi mesi del 1439
vi fecero transitare le loro grandi imbarcazioni, dovettero
combattere con il terreno cedevole e intriso d’acqua di questi
luoghi.
Solo all’inizio del 1500 un sistema di drenaggi e una
idrografia più matura portò al progressivo arretramento
verso il Palù delle aree acquitrinose e le piane più vicine
all’abitato cominciarono ad essere coltivate.
Proprio in questi campi, prossimi ai ruderi di Castel
Corno, sul margine di un ruscello interrato messo in luce dai
Frammento di un bicchiere detto
Krautstrunk databile tra il 1400
e il 1500.
71
Bicchiere detto Krautstrunk tipico
dell’area germanica.
recenti scavi, sono stati trovati un piccolo pezzo di ceramica
e un frammento di vetro.
Il frammento di vetro è quello che rimane di un bicchiere
azzuro-verdastro decorato a grosse e fitte gocce appiattite
che andava di moda in area germanica tra il 1400 e il 1500.
Tale recipiente, detto Krautstrunk (stelo di cavolo) è
comune nei rinvenimenti che si effettuano nei castelli della
regione e la sua presenza è documentata anche nei castelli
Frammento del fondo di
una scodella nella quale si
intravede la fronte di un
angioletto incorniciato da
riccioli biondi (databile tra
1500 e 1600).
72
Scodella veronese
dell’inizio del 1600.
della Val Lagarina. Nel 1400 la richiesta di Krautstrunk era
così grande che ne venivano prodotti in quantità perfino a
Murano, da dove erano inviati ben imballati in alghe secche
ai “marchadanti teutonici”.
Il frammento di ceramica apparteneva ad una larga
scodella decorata con incisioni sottili e dipinta a pennellate di
ossidi di ferro e rame. Sul fondo era raffigurato il volto di un
angioletto del quale ci sono rimasti solo un pezzo della fronte
incorniciata da riccioli biondi. È una decorazione tipica delle
scodelle e dei piatti di area veneta tra 1500 e 1600.
È strano che due reperti così diversi si siano conservati
uno vicino all’altro per 500 anni. Forse si tratta solo di un caso:
le acque di un antico temporale potrebbe averli trasportati fin
qui dalla discarica del castello dove erano stati usati, oppure
potrebbero essere arrivati nei campi assieme al letame e ai
rifiuti domestici della cucina di qualche signore.
Qualsiasi sia la loro origine essi hanno comunque il potere
di portarci indietro nel tempo, in una Mori di metà 1500 dove
vivevano ricchi signori che potevano permettersi ceramiche
decorate e bicchieri d’importazione.
73
IL “GHETTO”
SUA STORIA E CARATTERISTICHE1
di Guido Boninsegna
Chi, dipartendosi dalla piazzetta Cesare Battisti, si
dirige verso il largo Villanuova, inforcando il proseguimento
terminale di Via Teatro, fatti pochi passi si imbatte in un’erta
e sassosa stradicciola che porta in sommità ad una piccola
gibbosità terrazzata, alta 6-7 metri sopra il livello stradale
normale. Sulla microscopica altura ha sede un sudicio
agglomerato di casupole agresti e mugghianti: ivi trovano
asilo diverse famiglie, per la maggior parte contadine.
Attingendo alle remote origini storiche, il volgo, questa
località, la chiama giustamente “il Ghetto” anche se, in
contrasto stridentissimo con la realtà, ufficialmente si nomi
pomposamente Via Mirabella.
Per la verità, se non qualche riposto fondaco, o farraginoso e scrostato avvolto da rigattiere, o di antico trafficante eterogeneo non vi è più nulla che riguardi la passata
presenza degli ebrei: le guerre a ripetizione, e specialmente
quella del 1915-’18 hanno demolito tutto e le successive
ricostruzioni, improntate su basi cosiddette moderne e
rispondenti all’andamento dei tempi ed alle esigenze dei
popoli, hanno cancellato il resto.
Il sito, comunque, conserva ancora una sua spiccata,
dedaleggiante caratteristica che non sfugge ad un osservatore
un pochino arguto e indagatore. Case fitte e scure, viottoli
fangosi, atmosfera cupa, greve, soffocante quasi. Persino le
1
Pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 3 febbraio 1951.
74
numerose oche che starnazzavano malvolentieri e gli altri
razzolanti volatili sono seri e circospetti. La gente invece
è abbastanza vivace e ciarliera e, almeno esteriormente,
sembra contenta ed affabile anche se non manca di un certo
cinismo.
Una volta, il rione era il piccolo regno di un gruppo di
ebrei della più pura razza, maestri nel trafficare, capitati
chissà da dove. Essi posero costì la loro dimora presumibilmente prima del 1200.
A quei tempi a Mori i commerci erano molto sviluppati
e favoriti dal fatto che la borgata si trovava sulla via più
facile e breve tra l’Adige e il Garda, nel 1188 Morfino del
fu Rambaldo ed altri paesani furono investiti dal Vescovo
di Trento della navigazione sull’Adige fino a Bolzano;
il che, è innegabile, contribuì a rafforzare il prestigio ed
il movimento dell’antico porto, il quale aveva i moli e le
banchine d’attracco ubicate nei pressi di Rivazzone (oggi
Ravazzone).
Questo complesso di fattori fu certamente determinante: Mori divenne uno scalo di smistamento e sbarco
molto importante e frequentatissimo altresì dalle ciurme
di passaggio sul fiume e dai carrettieri e trasportatori
terrestri diretti o provenienti dal Garda. Ciò, è ovvio,
assicurò notevoli possibilità di guadagno alla popolazione
che dai soli campi poteva trarre ben gramo sostentamento.
In un posto così nevralgico e redditizio, la calata degli
ebrei non poteva non avvenire. Si sa come i continuamente
perseguitati discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe, nel
commercio siano degli autentici scaltri volponi. Essi non
trovarono quindi soverchie difficoltà per fare degli ottimi
affari e vistosi guadagni.
Cosicché anche gli indigeni trascorsero parecchi secoli
di prospera floridezza.
75
Molto probabilmente gli ebrei non furono cacciati a
furor di popolo come si potrebbe, in un primo tempo, essere
tentati a credere. Più verosimilmente essi abbandonarono
spontaneamente il loro quartiere allorché Mori perse
gran parte delle sue possibilità economiche in seguito al
progressivo decadimento della navigazione fluviale e
lacustre; decadimento inevitabile per il continuo evolversi
delle comunicazioni stradali.
Dietro Israele, anche a distanza di tempo, non è rimasto
che un nome: “il Ghetto” … ed il tempo galantuomo ha
cancellato tutto: cose buone e cattive, fatti e misfatti.
Per completare le notizie di G. Boninsegna, accenniamo
brevemente alla difficile coabitazione degli abitanti di Mori
con la colonia ebrea del “ghetto”. In occasione della visita
pastorale del 1581, una rappresentanza di moriani si presentò
davanti ai delegati vescovili per denunciare quanto segue:
gli ebrei non rispettavano il divieto di rimanere nelle
loro case dopo il coprifuoco, non portavano il distintivo di
riconoscimento, erano ritenuti “colpevoli di tutti i furti finora
perpetrati in Val Lagarina”, di adescare le ragazze e corrompere i “cristiani” trattenendoli in bische clandestine, ove
erano abilissimi a “spennare” i malcapitati che accettavano
di giocare d’azzardo. Il personaggio più autorevole della
comunità ebrea di Mori, di nome Leone, fu citato a comparire
innanzi ai delegati vescovili per verificare se le accuse mosse
alla sua comunità fossero fondate. Ovviamente, Leone negò
ogni addebito e circa la mancata ostensione del distintivo,
obiettò che si trattava di una scelta obbligata, per evitare di
essere aggrediti: in passato, suo fratello era stato ucciso per
il solo fatto di recare quel contrassegno.
Ciononostante, fu imposto di indossare il distintivo, pena
il pagamento di 10 ragnesi di multa.
76
IL MATRIMONIO TRA IL LEONE
E LA BISCIA
Le nozze tra Giuseppe Scipione Castelbarco e
Costanza Visconti del 29 aprile 1696
di Sergio Beato
All’ingresso del giardino comunale Castelbarco a Cislago
in provincia di Varese, sopra il pilastro di destra c’è un leone
in pietra che regge uno scudo su cui è scolpito uno stemma
nobiliare.
Il blasone inquarta due elementi araldici: un leone
rampante con la doppia coda intrecciata e il classico biscione
che ingoia un putto, al centro nel cuore dello stemma è
raffigurata l’aquila imperiale asburgica, pende dallo scudo
il collare dell’ordine del Toson d’oro, insigne onorificenza
cavalleresca concessa dagli Asburgo.
Lo stemma traduce nel linguaggio convenzionale
dell’araldica l’unione di due famiglie avvenuta tramite un vincolo nuziale, precisamente il matrimonio tra il conte Giuseppe
Scipione di Castelbarco e la contessina Costanza Visconti dei
marchesi di Cislago, ultima erede sopravissuta della casata
dei Visconti di Cislago, alla fine del XVII secolo.
Nel blasone vennero inquartati il leone con doppia coda
dei Castelbarco e il biscione dei Visconti.
Costanza era figlia del marchese Cesare III Visconti e
della sua prima moglie Teresa Serra di Cassano, considerato
il rischio dell’estinzione, nell’eventualità di una prematura
scomparsa dell’unica erede, si procedette con un matrimonio
77
Cislago - Giardino Castelbarco.
Leone reggi scudo con (a destra) il dettaglio dell’insegna.
dal quale si auspicava che nascessero nuovi discendenti dei
feudatari cislaghesi.
La nobiltà e l’antico lignaggio della famiglia era fuori
discussione: Cesare II, bisnonno di Costanza, era il restauratore delle fortune cislaghesi della famiglia, egli aveva
incrementato la distinzione aristocratica del casato quando
l’imperatore Ferdinando III d’Asburgo lo aveva nominato
marchese dell’impero nel 1649 con l’uso dell’aquila nello
stemma.1
Lo storico legame tra i Visconti e la terra di Cislago è
ben documentato.2 Il segno più evidente è la presenza, nel
centro del paese, dell’omonimo e antico castello che fu quasi
interamente distrutto degli svizzeri del cardinale Matteo
Schinner nel 1510 durante l’invasione del ducato di Milano.
Dopo quasi un secolo di abbandono dei ruderi, nel 1620 Cesare
1
L. Mondini, Cislago terra di poveri, terra di furbi, Lomazzo 1982, p. 78.
Cfr.Tini Castelbarco, Vita a Cislago, s.d. Saronno; L. Mondini, Cislago terra di
poveri,… op. cit.; L. Mondini, Cislago oltre le curiosità, Milano 1994.
2
78
II Visconti, dei signori di Somma Lombardo, che possedeva già
un consistente patrimonio fondiario in paese, acquistava dalla
Camera ducale il feudo di Cislago, per 12.000 lire.
Insediatosi come nuovo signore del borgo, Cesare
procedeva alla ricostruzione del castello trasformandolo
in un palazzo signorile che fosse la degna dimora della sua
famiglia. La riedificazione continuò sotto il figlio Teobaldo
e fu completata dal nipote Cesare III, padre di Costanza.
L’edificio raggiunse così le forme che conserva ancora oggi;
ne fa memoria una lapide, con il busto di Cesare II, collocata
sulla parete di destra sotto il portico del castello.
Tre possenti corpi di fabbrica chiudono a levante il
cortile d’onore ingentilito al piano terra da un portico a tre
archi impostati su colonne binate; la facciata a ponente,
che si apre sul giardino alla francese, è contenuta dalla due
torri laterali ricostruite sulle fondamenta dell’antico maniero
medievale.
Le glorie e gli onori della casata dei Visconti di Cislago
si erano ulteriormente incrementati con l’acquisto del feudo
di Gallarate, la concessione dell’Ordine del Toson d’oro e
nella persona di Cesare III anche del grandato di Spagna,
ambita distinzione per gli aristocratici lombardi durante il
dominio spagnolo.3
Il problema della discendenza e della successione era vitale per una famiglia nobile, pena la dispersione del patrimonio
di famiglia fra diversi eredi e parenti collaterali. Nel caso
di Cesare III Visconti la questione si era fatta quanto mai
critica perché l’unico figlio maschio, il marchesino Teobaldo,
aveva pronunciato i voti come frate professo nell’ordine
dei Cappuccini, così pure tre figlie femmine erano entrate
G. Oltrona Visconti, Cesare Visconti conte di Gallarate e il titolo di Grande di
Spagna, in Rassegna Gallaratese di storia e arte a. 12° (1953), n. 3 pp. 3 –11.
3
79
Cislago – Castello Castelbarco Visconti (sec. XVII-XVIII).
in convento.4 Della prole delle prime nozze restava solo
Costanza nubile e quindi disponibile per un matrimonio che
scongiurasse l’estinzione della casata.
Non abbiamo elementi per sapere come mai la scelta per
lo sposo di Costanza cadesse su un membro della famiglia
dei conti di Castelbarco, antica famiglia nobile del Trentino,
certo nel corso dei secoli i Visconti di Cislago si erano sempre
destreggiati con scaltrezza e intuito politico tra i favori
degli Asburgo di Spagna e la casa imperiale degli Asburgo
d’Austria.
Alla fine del XVII secolo, quando fu celebrato il matrimonio di Giuseppe Scipione e Costanza, il territorio del
ducato milanese era ancora provincia spagnola, ma di lì a
4
T. Castelbarco, Vita a Cislago, … p. 163.
80
pochi anni il quadro politico sarebbe cambiato radicalmente
in seguito alla guerra di successione spagnola che avrebbe
assegnato il milanese proprio al dominio austriaco: a Milano
non si sarebbe più guardato a Madrid bensì a Vienna. In tale
prospettiva uno sposo di origine trentina, territorio e nobiltà
più vicina all’Austria si rivelò, con il senno di poi, assai più
promettente di altri partiti.
La cerimonia delle nozze fu celebrata il 29 aprile 1696, ma
non nella parrocchiale di Cislago, come attesta una recente
ricognizione del registro dei matrimoni dell’archivio della
parrocchia, che non riporta, per l’anno 1696, alcun matrimonio di componenti della casa Visconti a Cislago.
La celebrazione avvenne invece a Milano, nella parrocchia
di S. Pietro alla vigna. Infatti, come molte famiglie nobili, i
Visconti oltre alla dimora di Cislago avevano palazzo anche
nella capitale del ducato. La data invece è certa su base
documentaria, verificata in modo incrociato da una fonte
diretta, il registro dei matrimoni della chiesa milanese e da
una fonte indiretta, cioè dall’archivio dei Visconti di Modrone,
oggi conservato in deposito presso la facoltà di Economia
dell’Università Cattolica di Milano. Non è un caso unico che
le notizie relative a un argomento, in questa circostanza le
carte di una famiglia nobile, si trovino conservate, magari
in copia, anche in un altro repertorio che sembra non avere
apparentemente nessun legame con il primo. Nel caso
specifico i Visconti di Modrone ebbero una parte assai esigua
nelle vicende della storia di Cislago per via di alcune proprietà
immobiliari che successivamente furono cedute ad altri.5
La fonte più importante del fatto in questione resta però
l’atto di matrimonio, inedito, ritrovato durante la ricognizione
d’archivio finalizzata a questa ricerca.
5
L. Mondini, Cislago terra… p. 319 e segg.
81
Come si è detto le nozze vennero celebrate nella chiesa
milanese di S. Pietro alla vigna. Tale parrocchia fu in seguito
soppressa e i documenti furono trasferiti nel vicino archivio
della importante basilica di S. Ambrogio, dove ho potuto ritrovare il prezioso documento che ha rivelato altre notizie assai
interessanti sul fatto in questione e le sue conseguenze.
Mi è parso utile trascrivere il testo dell’atto di nozze che
recita:
“Mille seicento novantasei, Addì ventinove Aprile.
Illustrissimo Sig. Conte Giuseppe Scipione di Castelbarco , Barone dei quattro vicariati, Signore di Gresta, consigliere aulico imperiale di Sua M.tà Cesarea, consigliere
della chiave d’oro di S. M.tà Re dei Romani, figlio dell’Ecc.
mo Sig. Conte Fran.co Co. Di Castelbarco e Consigliere di
Stato e Ministro di Sua M.tà Cesarea della città di Vienna
d’Austria, con il suo stato libero ha contratto matrimonio
con l’Ill.ma Sig.ra March.sa Donna Costanza Serra Visconti,
figlia dell’Ecc.mo Sig. March.se D. Cesare Grande di Castiglia e dell’Insigne ordine del Toson d’oro, e Generale della
milizia Foranea dello Stato di Milano et hanno contratto
per verba de presenti, allo presenza di me P. Fran.co Maria
Rivolta C.to di S. Pietro alla vigna, et a mia interrogazione
in sua cura omissis omnibus denunziationibus con facoltà
speciale di Monsig.re Vicario G.rale.
Testimoni furono Ill.mi Sigri il sig. Conte Nicolò Visconte, il Sig. Conte Ottavio Pietrasanta, il Sig. D. Antonio
Crivelli”.6
Mi paiono utili alcune osservazioni: il marchese Cesare
è detto grande di Castiglia, inesattezza del parroco, perché
si è già ricordato che il titolo era grande di Spagna; nella
6
Archivio della cessata parrocchia di S. Pietro alla vigna in Milano, depositato presso
l’archivio della Basilica di S. Ambrogio, registro dei Battesimi, Cresime, Matrimoni,
Morti dal 1690 al 1765, p. 78 verso.
82
casa d’Austria il re dei romani era l’erede designato alla successione, nel nostro caso Giuseppe Scipione era consigliere
aulico dell’imperatore Leopoldo I e consigliere della chiave
d’oro del principe Giuseppe d’Asburgo eletto appunto re dei
romani e poi imperatore primo del suo nome; per Costanza si
evidenzia la stranezza che è segnato prima il cognome della
madre (Serra) e poi quello paterno Visconti.
Pur non potendo spiegare la presenza di tante notizie
relative ai Visconti di Cislago, il fondo archivistico Visconti
di Modrone si è rivelato una fonte importantissima per ricostruire alcune vicende relative alla famiglia dei feudatari del
castello tra le quali appunto anche il matrimonio tra Giuseppe
Scipione di Castelbarco e Costanza Visconti. La data del 29
aprile 1696 è certa come risulta dalla copia del sommarione
dell’istrumento datale compilato per il matrimonio tra
Costanza e il suo sposo trentino7, in calce al documento
compaiono anche le indicazioni delle firme trascritte che
rimandano a quelle effettive contenute nel testo originale
del documento con i nomi degli sposi e dei testimoni che
presenziarono all’evento, in ordine sono: Costanza Visconti,
il marchese Cesare, padre della sposa, lo sposo Giuseppe
Scipione di Castelbarco, Francesco Visconti per procura,
Sigismondo Carlo di Castelbarco, Antonio Crivelli, Nicolò
Maria Visconti e il conte Ottavio Pietrasanta .
Si può qui ricordare che Sigismondo Carlo, fratello
minore dello sposo, in seguito, fu nominato vescovo.
Altre notizie interessanti ritrovate tra i fogli dell’Archivio
Visconti di Modrone sono uno stralcio di albero genealogico
dei Visconti di Cislago nel quale compare il nome di Costanza da cui apprendiamo ulteriori informazioni davvero
Archivio Visconti di Modrone (Fac. di Economia, Università Cattolica Milano) sez.
I materia matrimoni 31, busta 2.
7
83
sorprendenti: “Donna Constantia nupta (sposata) Com: Ios:
a CastroBarco cum dote scudi 27 m. anno 1696, premorta
Matri et Patri anno 1705”.8
La sposa aveva portato in dote la considerevole cifra
di 27.000 scudi, ma la notizia sorprendente è apprendere
che la giovane sposa morì nel 1705, precedendo sia il padre
che la madre. A questo punto la situazione successoria era
davvero drammatica per i Visconti di Cislago se si considera
che il 26 febbraio 1701, all’età di diciotto anni si era spento
nel convento dei Cappuccini di Genova il fratello Teobaldo,
di cui si conserva il panegirico funebre stampato a Milano
subito dopo il decesso che recita nel frontespizio: “Distinta
Relazione del felicissimo e meraviglioso passaggio fatto
da questa Vita all’Eternità di Gloria dell’Ecc.mo Signore
il Sig. D. TEOBALDO MARIA VISCONTI marchese di
Cislago, figlio unico dell’Ecc.mo Signore DON CESARE
VISCONTI marchese di Cislago e conte di Gallarate,
cavagliere dell’Insigne Ordine del Toson d’Oro e Grande
di Spagna ecc. e dell’ecc.ma sig.ra marchesa D. TERESA
SERRA VISCONTI”.9
La salma del giovane Teobaldo fu trasportata a Milano
e tumulata nel Convento dell’Immacolata Concezione dei
Cappuccini di questa città.
In calce al testo compare il nome dell’autore che risulta
essere lo stesso curato della parrocchia di S. Pietro alla
vigna, cioè Francesco Maria Rivolta che, nel 1696, era stato
il celebrante del matrimonio della sorella Costanza.
Il futuro della famiglia sembrava davvero compromesso,
ma dal matrimonio di Giuseppe Scipione e Costanza nacque
il sospirato erede Carlo Francesco Ercole.
8
Ibidem, Sez. I materia Araldica 118.
9
Ibidem, Sez. I 105 busta 10 “Visconti L – Z, f. 6.
84
Il registro conservato in S. Ambrogio ha rivelato, per la
verità, molte notizie sulla progenie Castelbarco Visconti: da
quell’unione nacquero ben cinque figli: nel 1698 la primogenita Maria Giuseppina Elisabetta, che venne battezzata il
quattro ottobre ed ebbe per padrino il re dei romani principe
Giuseppe d’Asburgo e per madrina l’arciduchessa Maria
Elisabetta; nel 1700 venne alla luce il fatidico maschio che
garantì la discendenza del casato, ed il bimbo fu battezzato
il venti dicembre 1700 dal parroco della cattedrale di Trento
Bartolomeo Lodrone; nel 1703 nacque Elena Giuseppina
Maria, battezzata il cinque gennaio; nel 1704 Maria Teresa
Sigismonda che fu battezzata il cinque gennaio; ultima nel
1705 nacque Maria Eleonora Giuseppina che fu battezzata
il quindici settembre, ma quell’anno segna anche il decesso
della povera Costanza, forse prostrata nel fisico, se si considerano le cinque gravidanze in sette anni.
Gli atti di battesimo menzionati non sono registrati in
originale ma in copia, come si premurò di annotare lo zelante
curato Rivolta che scrive: “ Ecc.mo Sig. Marchese Don
Cesare Visconti conte di Gallarate e Grande di Spagna sotto
il dì venticinque ottobre, mille settecento sei, ha ottenuto
Decreto da Monsig.re Ginesio Calchi provicario G.rale di
registrare al libro di questa Parrocchiale San Pietro alla
vigna l’infrascritti cinque battesimi dei suoi Nipoti Figli
dell’Ecc.mo Sig.re Conte Giuseppe di Castelbarco e della fu
Ecc.ma Sig.ra Donna Costanza Figlia dell’Ecc.mo Sig.re
Marchese Cesare già jugali.
Quali Nipoti furono battezzati per rispetto delle Femmine in Salisburgo, e per rispetto del Maschio in Trento; e
perché detti Signori sono stati condotti a Milano per quivi
averne Domicilio suo proprio, però per facilitarne in caso di
bisogno le fedi de loro rispettivi Battesimi, sono state esibite
l’attestazioni originali in questa Curia Archiepiscopale di
85
detti Battesimi le quali esistono appresso di me P. Fran.co
Maria Rivolta Cur° di San Pietro alla vigna…”.10
Questa trascrizione è estremamente interessante perché
rivela delle notizie finora ignorate, che cioè la coppia di sposi
dopo il matrimonio milanese si era verosimilmente trasferita
in Trentino presso l’avita dimora dei Castelbarco, che i cinque
figlioli non erano nati a Milano, che le quattro fanciulle erano
state battezzate addirittura a Salisburgo, mentre invece
l’erede Carlo Francesco Ercole era stato battezzato a Trento,
quasi a sottolineare il radicamento nella terra degli antenati
paterni, e da ultimo che dopo la scomparsa della madre,
indicata come già deceduta nella registrazione riportata
sopra, il padre e i figli erano tornati a Milano per prendere
possesso dell’eredità Visconti che si perpetuava nel giovane
Carlo Francesco Ercole.
Nel 1707 moriva la madre di Costanza, Teresa Serra di
Cassano, nello stesso anno il nobile feudatario cislaghese
convolava a nuove nozze con la contessa Camilla Mezzabarba
ved. Avogadro, originaria di Pavia; la parabola terrena del
marchese Cesare III si concludeva il 6 gennaio 1716 , ma la
dinastia era salva.11
Il conte Giuseppe Scipione di Castelbarco godeva
della simpatia degli imperatori d’Austria che gli conferirono
diversi incarichi di prestigio, come ambasciatore presso i
Savoia o come riportato nell’atto di matrimonio il titolo di
consigliere imperiale, ma il decreto sovrano, che poneva
termine alle angustie ereditarie della famiglia Visconti di
Cislago con cui l’aristocratico trentino si era unito, giunse
Archivio della cessata parrocchia di S. Pietro alla vigna in Milano (S. Ambrogio),
registro dei Battesimi, Cresime, Matrimoni, Morti dal 1690 al 1765. p. 10 verso e
p. 11.
10
Cfr. i documenti citati alle note 8 e 9. e V. Spreti,Enciclopedia Storico Nobiliare
Italiana, Milano 1930 , vol. 8°, p. 575.
11
86
proprio nel 1716 alla morte di Cesare III. Il sospirato erede
doveva fondere la denominazione e i titoli delle due famiglie
d’origine garantendo così il perpetuarsi della stirpe e degli
storici cognomi che si unificavano in Carlo Francesco Ercole
Castelbarco Visconti, marchese di Cislago, conte di Gallarate,
barone di Gresta e dei quattro Vicariati, cavaliere del Toson
d’Oro, Grande di Spagna di prima classe ecc.12
Non a caso per le questioni genealogiche si usa il termine
“albero” per indicare l’articolato intreccio che si può determinare con legami familiari e successioni ereditarie. Quello dei
Castelbarco Visconti, originato dal matrimonio di Giuseppe
Scipione e Costanza nel 1696, è uno davvero assai esteso e
ramificato e giunge fino ai discendenti che vivono, ancora
oggi, nel castello di Cislago.13
Cislago – Castello Castelbarco Visconti. Stemma Castelbarco
visibile sull’ala di sinistra.
L. Tittoni, F. Saladini, Teatro Araldico, Milano 1887 , vol. 4°, tomo II; V. Spreti,
Enciclopedia Storico… vol. 4° p.361, L. Mondini, Cislago terra… p. 82.
12
Ringrazio cordialmente mons. Biagio Pizzi, arciprete della Basilica di S. Ambrogio
in Milano, che ha gentilmente favorito la consultazione d’archivio.
13
87
TROPPO TARDI!
LA SCOMPARSA DELLA LASTRA
SEPOLCRALE
DI ANTONIO MAYER
Segnalazione di Edoardo Tomasi
Nel 1910 Antonio Mayer1 era l’unico pittore professionista a Rovereto: nato a Mori nel febbraio del 1862, poteva
vantare una solida preparazione artistica. Aveva seguito con
profitto uno specifico corso di studi all’Accademia di Brera,
meritandosi la gran medaglia d’argento e due di bronzo.
Come testimonia Simone Weber2 nel suo datato ma ancora
valido repertorio dal titolo “Artisti trentini e artisti che
operarono nel Trentino”
Più che valente ritrattista era riconosciuto e ricercato
quale abilissimo ristoratore e riparatore di vecchi dipinti e di
antichi affreschi. Tali lavori erano da lui condotti con molta
intelligenza e abilità, rispettando sempre tutto l’antico, e
limitandosi il più possibile alla sola opera di consolidamento
e di pulitura. Dipinse la chiesa di Mori, due sue opere originali si trovano nella chiesa dei Francescani di S. Rocco a
Rovereto. Fu collaboratore efficacissimo di Augusto Sezanne,
Per uniformità, preferisco usare questa forma del cognome dell’Artista, anche se
nei vari documenti consultati si trova spesso scritto Meyer, Majer, Maier e perfino
Mayr. Nonostante sulla tomba i familiari avessero scelto di utilizzare il cognome
Majer, l’Artista era solito firmare appunto come Antonio Mayer.
1
La prima edizione risale al 1933, la seconda (compiuta in manoscritto) al 1944, fu
pubblicata a stampa dalla casa editrice G.B. Monauni di Trento nel 1977, avvalendosi
della supervisione e cura del prof. Nicolò Rasmo. La citazione si trova alle p. 220-221
di quest’ultima edizione.
2
88
nei lavori di ristauro e decorazione del palazzo della cassa
di Risparmio e di quello del Municipio di Rovereto. Prestò
l’opera sua nella conservazione degli affreschi scoperti sopra
antichi fabbricati di quella città, e di quelli del castello di
Sabbionara … Negli ultimi anni si dedicò tutto ai ristauri di
S. Marco a Rovereto, dove l’opera del prof. Cavenaghi aveva
subito notevoli guasti per causa della guerra.
A Mori lo si ricorda per via dei lavori di ripristino della
pittura in stile veneziano della facciata della canonica in
Piazza Cal di Ponte e lo strappo del pregevole affresco di
fine Quattrocento che adornava una casetta veneta proprio
dirimpetto alla canonica stessa. Entrambi gli interventi
risalgono al 1913 e sono già stati oggetto in passato di specifici
approfondimenti da parte dello scrivente3. Nel 1890, secondo
il prof. Luigi Dal Ri, aveva dipinto l’enorme volta della chiesa
arcipretale di Santo Stefano, purtroppo gravemente danneggiata dalle granate durante la prima guerra mondiale.
In questa rivista4 abbiamo pubblicato nel numero del 1994
una sorta di necrologio stilato da Gustavo Chiesa pochi giorni
dopo la morte del Mayer, avvenuta il giorno di Natale del 1921.
Nel catalogo di una mostra retrospettiva postuma dedicatagli
nel 1922 a Rovereto, si poteva leggere quanto segue:
É doveroso ricordare che per la cortesia del signor
Giovanni Giovannini, ben noto amatore d’arte della nostra
città, è stato possibile offrire ai visitatori l’occasione di
TOMASI E., Polvere d’archivio, ovvero, La canonica restaurata, un palazzo scomparso e i due Camerasi nei documenti conservati presso l’Archivio comunale di
Mori : ricerca, STA ne “I Quattro Vicariati e le zone limitrofe”, A. 37, n. 73, gennaio
1993, pp. 94-99; TOMASI E., La “meditata rifabbrica”, ovvero, Noterelle d’archivio
sulla casetta veneta in Piazza Cal di Ponte a Mori e sull’affresco quattrocentesco
che l’adornava fino al 1913 : ricerca, STA ne “I Quattro Vicariati e le zone limitrofe”,
A. 42, n. 83, giugno 1998, pp. 21-46.
3
CHIESA G., Antonio Mayer, STA ne “El campanò de San Giuseppe”, A. 9 (1994),
pp. 19-21.
4
89
vedere e di rivedere alcune opere del defunto professore
Antonio Mayer, nobile e modesta figura di pittore nostrano.
Valga la piccola opera nostra a rievocare la figura dell’uomo
e dell’artista semplice e buono.
Ne torniamo a parlare ora per via della scomparsa dalla
sua sede primitiva della lastra tombale del Nostro, avvenuta
– evidentemente a norma delle vigenti leggi di settore –
qualche anno fa dal Cimitero di San Marco a Rovereto. É
stato purtroppo applicato alla lettera quanto previsto all’art.
39 del “Regolamento comunale di polizia mortuaria e per i
servizi funebri e cimiteriali” del Comune di Rovereto, che
consente, alla scadenza delle concessioni, la rimozione e
l’eventuale successiva distruzione dei manufatti rimasti per
qualche tempo – e senza che nessuno degli aventi diritto si
presenti per reclamarne la proprietà – in deposito.
In questa occasione non ci è stato possibile intervenire
per tempo.
Per ironia della sorte, qualche anno prima, eravamo
riusciti a salvaguardare la tomba di un altro nostro artista,
lo scultore Andrea Malfatti, nato a Mori nel 1832 e morto
a Trento nel 1917. I suoi resti mortali riposavano presso il
Cimitero di Trento e, per lo stesso motivo del Mayer, stavano
per essere rimossi. Pur essendo un monumento funebre non
banale, realizzato nel 1942 dal suo amico e collega scultore
Ermete Bonapace, la tomba di Malfatti era anch’essa destinata ad una brutta fine. Grazie alla tempestiva e provvidenziale
segnalazione di Antonella Premate - che all’epoca stava
terminando la sua tesi di laurea5 sull’artista - il Comune di
Mori si attivò subito, mettendosi in contatto con quello di
Trento, ed ottenendo in breve tempo il risultato di spostare
Pubblicata nel 2003 per i tipi delle edizioni Stella di Rovereto, col titolo Andrea
Malfatti di Mori : uno scultore irredentista fra Trento e Milano.
5
90
la lapide nel famedio del Cimitero monumentale di Trento.
Nel caso di Antonio Mayer purtroppo non è andata
altrettanto bene: la sua tomba è attualmente irreperibile.
Come magra consolazione, disponiamo di una fotografia della
lapide, rimossa dal loculo n. 195 e portata prima in deposito
e poi chissà dove, forse distrutta per sempre.
Siamo davvero spiacenti di non poter dare maggiori informazioni al riguardo e di non aver potuto fare nulla per evitare
ad Antonio Mayer quest’ultima umiliazione terrena.
Suonano quasi beffarde le parole scritte sulla sua tomba
e confermate dai suoi contemporanei, concordi nel rilevare
la grande umanità dell’artista unita alla modestia di un
galantuomo d’altri tempi. Lo attesta anche il già citato
Simone Weber:
Il Mayer era natura di artista che alla bontà d’animo
univa un’onesta senza pari.
In attesa di un miracolo – la ricomparsa della lastra “sparita” – speriamo almeno che si possano presto vedere le tele del
Mayer esposte nella nuova Quadreria comunale di Rovereto.
91
GUSTAVO MODENA VISTO DAI
SUOI CONTEMPORANEI
Il genio è nemico naturalmente di pace
di Pier Ambrogio Curti
Il testo a seguire è una libera riduzione di un lungo
articolo, intitolato semplicemente “Gustavo Modena”,
pubblicato da p. 9 a p. 16 su di una rivista non identificabile, in quanto mancante delle pagine iniziali. Abbiamo
mantenuto e rispettato lo stile dell’Autore, evidenziando
solo, con l’inserimento di titoletti esplicativi, la sequenza
dei capitoli che compongono il testo stesso. La versione
originale fu stampata circa verso il 1858 dalla tipografia
milanese di Giuseppe Radaelli per conto di Carlo Viviani
(compilatore ed editore responsabile): una copia è stata
donata recentemente alla Biblioteca comunale di Mori e fa
parte del Fondo Modena colà custodito [ndr].
[...] Havvi un solo attore in Italia che il voto universale ha
collocato sopra tutti gli altri, che ognun saluta riformatore
dell’arte comica fra noi, maestro e insuperabile, che veramente puossi dir grande. [...] Questi è il Gustavo Modena. Ed a
favellare della sua vita, mi volli schiudere con le premesse
cose la strada: perocchè io creda necessario il parlare di lui
meglio che di ogni altro, non essendo possibile nella storia
dell’arte a’ tempi nostri di obbliare il suo nome o di ragionarne
alla spiccia; poich’egli, a non dubitarne, è la più onorevole
rappresentazione della stessa.
92
L’AVOLO, MONTANARO DI MORI
Gustavo Modena non ripete il lustro dagli avi, ma si l’amor
dell’arte dal padre. L’avolo suo montanaro di Mori, piccola
terra del Tirolo italiano, vivevasi alla buona colà su pe’ suoi
greppi; e il genitore, di nome Giacomo, fino a’ quindici anni
modesto sartorello del suo paese, entratogli il gricciolo di recitare al teatro, e tormentato da questa smania, abbandonato
l’ago e le cesoje, collo sparuto peculio di una lira e cinquanta
centesimi in saccoccia, pellegrinava a Verona, ove sì frequenti
convengono tuttavia i suoi compaesani a ricercarvi lavoro e
pane. Di là si conduceva a Venezia, che era a que’ dì la città
centrale del teatro italiano, come in Francia sarebbe oggidì
Parigi pel teatro francese, nell’intento determinato d’entrare
in qualche drammatica compagnia. Quivi ancor meglio
si appassionò pel teatro e meglio vi si dispose studiando
indefessamente ed erudendo lo spirito; comechè d’un tratto
Un raro ritratto di Giacomo
Modena (1757-1841).
93
vedesse non essere assolutamente possibile tendere a grande
riuscita e conseguirla, senza la cultura dell’ingegno.
Apprese le lingue e si rese famigliare la patria letteratura;
e così potè in breve aver fama di bravo attore, e venir quindi
senza contrasto giudicato il primo attore tragico italiano. Né
si creda fosse facile lode codesta; perocchè non è vero, come
vorrebbe l’odierna albagia, che in passato non avessimo di
buoni attori e sulle scene non contassimo che manierismo e
convenzione. [...] E di Modena, il padre, assicurano tuttavia
molti che nella drammatica sono assai intelligenti, e della
storia del teatro nostri esperti, che nessuno pur oggidì sappia
recitare il verso come lo sapeva lui, senza quelle altitonanti
cadenze di scuola, senza cantarlo, ma secondo la verità del
concetto, e che nessuno seppe rendere piacevole quanto lui
il verso martelliano onde allora dettavasi la commedia, e
comportabili e naturali i versetti prefino de’ melodrammi
di Metastasio. Di siffatta maestria, che da tutti gli veniva
riconosciuta, Vincenzo Monti [...] gliene diè, del suo vivente,
ampissimo encomio.
Il nostro Gustavo gli nacque, trovandosi in Venezia,
nell’anno 18041, primo frutto di sue ben assortite nozze con
Luigia Lancetti, prima attrice anch’ella di non volgar nome
e valore. Venuto appena alla luce questo loro bambino, fu
tenuto per morto; ma il chirurgo Zulian che lo curò, gli
donava alla vita. Le prime impressioni, i primi amori furono
certo teatrali, perché dovevano naturalmente risentire di
quella società cui apparteneva il padre, il quale però lo volle
applicare a regolari studi, vagheggiando invece di cavarne
di lui un buon avvocato.
1
Probabile errore di stampa: la data esatta è il 1803 [ndr].
94
FIN D’ALLORA DI PRONTISSIMO INGEGNO
E Gustavo fin d’allora di prontissimo ingegno, studiava
e si munì di ricca suppellettile letteraria, per modo ch’egli
sia, se non la sola, certo fra le poche eccezioni de’ nostri
comici, per la più parte sforniti di coltura. Egli ne uscì buon
letterato e lo attestano i suoi scritti sì di politica che di arte,
che venne poi pubblicando, in cui alla aggiustatezza e bontà
del concetto accoppiò sempre una dizione propria e disinvolta.
Trattò anche non infelicemente il verso, e ne fa fede la recente
versione della tragedia Maometto2 da lui tradotta dal francese
di Voltaire.
Gli studj compì nel liceo di Verona, dove la rettorica gli fu
appresa da quello svegliato e sodo ingegno del padre Ilario
Casarotti, uomo di buona critica e squisitissimo gusto. [...]
Da Verona il nostro Gustavo fece passaggio a Padova,
dove a quell’Università attese a studiar diritto. Ma non vi si
soffermò che i primi due anni, forse a cagione delle gravi collisioni che regnavano fra studenti e borghesia, e per le quali
poco mancò non rimanesse vittima. Perocchè passeggiando
egli a diporto una notte pel Prato della Valle, insieme al
condiscepolo Quaglio di Rovigo, venne da sconosciuti popolani
aggresso e ferito mortalmente, cadendogli ucciso al fianco il
compagno. Al Quaglio si fecero solennissimi funerali, a cui
parve la scolaresca tutta quanta intervenire, per ritemprarvi
feroci propositi di vendetta; e così infatti vennero poscia
sospinte le animosità, che, d’ordine del Governo, venne per
quell’anno chiusa l’Università. Intanto agitavasi pel nostro
Stampata a Torino nel 1857, il titolo dell’opera originale era: “Il fanatismo, o sia,
Maometto profeta: tragedia”. Per una strana coincidenza, questa stessa opera
aveva attirato l’attenzione di un altro noto personaggio locale. Infatti, era già stata
tradotta e “recata in versi italiani” a cura del conte Cesare Castelbarco, che l’aveva
pubblicata a sue spese a Milano nel 1820 per i tipi di Bernardoni. Non sappiamo se
Gustavo Modena conoscesse questa traduzione [ndr].
2
95
Gustavo d’amputargli un braccio per la ricevuta ferita, e la
facoltà medica ne era tutta quanta dell’avviso, e se non fosse
stato il chirurgo Ruggieri, la fatale operazione avrebbe avuto
anche luogo. Questi propose che si aspettasse alquanto, e
poco dopo infatti la ferita pigliò buona piega e Modena non
andò mutilato, ma riserbato a migliori destini. Risanato,
compì gli studj all’Università di Bologna, ed a soli diciassette
anni si laureò in legge.
Intenzionato infin allora a correre questa carriera,
entrò nello studio dell’avvocato giudice Vicini (lo stesso che
nella rivoluzione del 1831 fu acclamato presidente del potere
esecutivo), e vi incominciò la pratica forense. Recavasi di
là a non molto, in Roma a proseguirla; ma dopo sei mesi se
ne ripartiva per far ritorno a Bologna, dove nel 1823 passò
avvocato a quella Corte d’Appello. Contuttociò poco amore
egli aveva a’ garbugli legali ed a ribellarlo affatto al foro capitarono gli sconvolgimenti giudiziarj operati da Leone XII.
Ecco allora entrargli pensiero di mutar mestiere, e mentre
stava mulinando a qual’acqua buttarsi, gli giungeva, come
un’ispirazione dal cielo, lettera del capo-comico Fabbrichesi,
il quale lo invitava ad entrare quale primo attor giovane
nella sua compagnia … Fabbrichesi non operava per istinto,
o per irragionevole simpatia; ma aveva di Gustavo Modena
udito già ripetere meravigliose cose, dietro alcune poche
recite da lui fatte co’ dilettanti di Bologna; e però confidava
accaparrarsi un soggetto eccellente alle sue viste.
Il giovane aveva bella presenza, bella voce, non ancor
guasta da malattia al naso e meglio che tutto ciò, coltura,
intelligenza e passione: ove rinvenire qualità migliori?
Gustavo non volle contuttociò abbandonarsi ciecamente a
questa ispirazione, e se da una parte gli sorrise la nuova
professione, campo di più lusinghieri trionfi; accettando
l’offerta, volle però vincolarla al patto dell’esperimento di
96
sei mesi, ne’ quali ove si fosse accorto mancargli vocazione
e possibilità a riuscire più che mediocre artista, rimanesse
in sua facoltà di rescindere il contratto e ritornarsene alle
Pandette.
LE NOMADI E ZINGARESCHE PEREGRINAZIONI
In onta a questo patto, ben la risoluzione significava
già vocazione gagliarda; perocchè dov’essa non fosse stata ,
dove in sé non avesse Gustavo sentita la potenza di poggiare
a sublime altezza , il capriccio non avrebbe certo bastato a
persuadere l’avvocato di lasciare il certo per l’incerto, le
grasse parcelle pei mingherlini emolumenti, la vita comoda
e tranquilla per le nomadi e zingaresche peregrinazioni.
Il contratto lo chiamò primamente a Venezia (1825), la
città che gli aveva dato i natali; e per lui dovevasi derogare
al vecchio adagio che nessuno abbia ad essere profeta in
patria. Prodottosi colla parte di David nel Saul d’Alfieri
[...] il pubblico gli fe’ le più liete accoglienze, ragione non
lieve di onore, allorchè si pensi che quella compagnia tutti
comprendesse i più lieti artisti di quel tempo. [...]
Con sì splendido esordio non attese egli che trascorressero tampoco i sei mesi di prova, e come Fernando Cortes
per non riedere in Europa aveva bruciato i suoi vascelli,
Gustavo Modena a tôrsi perfino la possibilità del ritorno al
Foro, regalò codici e trattati legali agli amici, risoluto a tutto
quind’innanzi consacrarsi all’arte sua.
Compiuta la stagione a Venezia, in quello stesso anno
passò colla sua compagnia a Milano, dove d’un tratto si rapì
le simpatie del pubblico, che mai non gli vennero poi meno, e i
giornali della nostra città ripeterono per le stampe i meritati
encomj al giovane attore. Più entusiastici forse gli vennero
fatti in Roma, dove si recò di poi; [...].
97
Improba e inutil fatica sarebbe il seguitarlo a tutte le
scene italiane su cui si produsse in quegli anni che seguirono
e notare i progressi che ei vi veniva facendo a mano a mano
che si addimesticava all’arte, e che l’esperienza li guidava
allo studio: meglio importa conchiudere, asserendo come
dappertutto egli rivelasse una potenza d’ingegno fuor del
volgare ed accennasse a tal riuscita che a pochi privilegiati
è dato d’arrivare. [...]
Ma di rado interviene che la vita di un grande artista,
come di qualunque altro intelletto scosso da gagliarde passioni, non s’avvicendi pure di altre peripezie e di sventure.
GIOVANE ATTORE, DAI BOLLENTI SPIRITI …
Son noti i gravi avvenimenti a’ quali la Penisola nostra
si turbò nel 1831 e per cui gli Austriaci occuparono Bologna.
Era quasi impossibile che a questo giovane attore, dai bollenti
spiriti e dall’elevato ingegno, non s’apprendesse quel fuoco
che pur in tanta gioventù s’era di subito propagato. Epperò
balzato egli dalla scena, via gittato socco e coturno e impugnato il fucile, marciava animoso colla colonna del general Zucchi
in Romagna. Dopo la capitolazione d’Ancona, fu imbarcato
prigioniero su di un trabaccolo che nelle acque di Brindisi e di
Messina gli fu poi per trentasei giorni di prigione; perocchè
sempre veniva lasciato nell’angoscioso pensiero di vedersi
dannato a morir di capestro o di fucilazione. Finalmente potè
andar libero a Marsiglia.
Ma la terra d’Italia gli stava sempre nel cuore e nel 1832
riapparve a Bologna; ma ricaduta questa nelle mani de’ papalini, dopo gli avvenimenti di Cesena, il cardinale Albani ne lo
esigliò. Rivide allora il suolo di Francia, dove per avventura
aveva contato stabilire la sua dimora in aspettazione di giorni
migliori pel suo paese; ma Thiers che era a que’ di ministro
98
di re Luigi Filippo, venne a turbargli anche questa pace
dolorosa, cacciandolo pure di là: moneta che alla sua volta il
vindice tempo doveva rendere a quel potente ad usura!
Un inusuale ritratto
di Gustavo, pubblicato
originariamente in calce
all’articolo qui riproposto.
Gustavo allora visitò Svizzera e Belgio, e ramingando
sette anni allo straniero, ebbe casi ed eventi da romanzo, che
ben sarebbero pieni d’interesse e che assumerebbero vita ed
interesse grandissimo, sotto la colta penna di lui medesimo,
se gli venisse il buon pensiero di scriverne le memorie, e su
cui però trasvolo, poiché men propri al cómpito mio, traendo
in lunghezze non convenienti ad una semplice biografia.
Giova però ricordare com’egli desse per campare la vita
all’estero, lezioni di lingua e di letteratura, fosse correttore
di stampe nel grande stabilimento tipografico brussellese
“Meline, Cans, e compagno”; negoziasse ben anco in maccheroni di Napoli, in cacio lodigiano, e servisse una volta
perfin da mediatore a un vetturale fiorentino, da cui s’ebbe
il beveraggio d’una decina di franchi.
99
UNA GIOVANE E LEGGIADRA DONNA …
Fu in questo tempo che una giovane e leggiadra donna,
di altissimi sensi e nobilissime virtù e degna però del cuore
dell’esule italiano, figliola di un notaio di Berna, ebbe ad
innamorarsi di lui, com’egli di lei. Consentirono essi sposarsi
e furono marito e moglie. La bella e brava donna3 fu da quel
giorno l’angelo della sua vita, compagnia nel gaudio e nel
dolore, a parte de’ suoi affetti di patria e di arte, felice di
dividere i suoi stenti al suo fianco ne’ giorni del cimento,
corona sempre de’ suoi artistici trionfi.
Ma quando i giorni dell’esilio volgevano al loro termine,
ritrovandosi a Londra, gli era entrato il pensiero di declamare
a quel King’s Theatre la Divina Commedia di Dante. E il
bel progetto non tardò a portare ad esecuzione. Solo chi lo
ebbe a intendere, o colà o anche in Italia di poi, può ridire
a sé stesso quanto sia la maestria e la potenza di Gustavo
Modena nel porgere declamando i varj episodj del divino
poema. Conviene essere ben addentro negli studj ed essere
ben forte letterato per farne, di quella forma e con tanta
chiarezza, intendere la recondita bellezza di que’ concetti e
di que’ versi, per renderne ora tutta la terribilità, ora tutta
la dolcezza, ora la verità della descrizione e della similitudine, ora la gravità e divinità della sentenza. E che? Udite
Modena declamar Dante, né vi sarà più mestieri ricorrere a’
commentatori per chiarirvi del senso di que’ versi che son sì
spesso di colore oscuro. Colla voce, col gesto, colla giustezza
de’ suoi riposi, del suo dire, colle inflessioni or piane ed
or forti, col colorito che vi presta, egli vi supplisce più de’
gramatici, più de’ postillatori, i quali vi traggono spesso sì
lontano dal vero; l’Allighieri vi diventa facile e chiaro, e voi lo
Si tratta di Giulia Calame, oggetto di uno specifico articolo pubblicato su questo
numero della rivista [ndr].
3
100
comprendete meravigliosamente. Immagini adunque ognuno
quanto effetto sortisse l’esperimento al King’s Theatre; esso
fu una rara rivelazione e per l’artista che conobbe quanto
partito avrebbe potuto cavarne, e per il pubblico che solo
allora per la più parte s’accorse di comprendere il poema
sacro. Il fortunatissimo successo avrebbe lusingato l’artista,
che forse più non sarebbe tornato in Italia, se qui la voce non
lo avesse richiamato de’ suoi vecchi genitori, desolati allora
per la morte del loro minor figliolo, Ercole, che s’era dato
alle matematiche.
E giustizia esige si dica come costoro fossero sempre
stati al loro figliol tenerissimi, come a lui fossero sempre stati
sempre esemplari di virtù; l’amore quindi e la reverenza per
essi dovevano essere in Gustavo necessaria conseguenza.
Ecco pertanto Gustavo Modena ritornare nel 1839 in
Italia: eccolo far ritorno a’ suoi primi amori, all’arte, e ridarvi
prima i suoi passi in Milano.
DEL LANGUORE IN CUI TROVAVASI IL TEATRO
Fra noi principalmente lagnavansi gli intelligenti del
languore in cui trovavasi il teatro. [...] Gustavo Modena
però non appena toccò il suolo d’Italia, che tutta abbracciò
la miserevole condizione dell’arte comica, e si propose
incontanente di redimerla dalla imminente rovina, poiché a
tanto ben egli si sentisse capace. E questi suoi intendimenti
a cui prontamente si accinse onde recare ad effetto, fanno
sì che la biografia tocchi a quella seconda parte della vita
del grande attore, che si può dire a lui più gloriosa, perché
gli attribuisce la lode di vero riformatore dell’arte comica in
Italia. [...]
E se in Londra aveva conseguito clamoroso successo, fra
noi l’ammirazione, com’era ben naturale, arrivò incontanente
101
all’entusiasmo. [...] Quivi [al Teatro Re, ndr] la sua maniera
suscitò la generale sorpresa: tanto aveva saputo mostrarsi
libero da vite convenzioni, vero e naturale, ed introdotto
un genere affatto diverso e nuovo da quello stesso che in
addietro aveva egli medesimo seguitato. Principalmente nel
Saul, che è per avventura la più potente creazione di Alfieri,
quindi nell’Orosmane e nel sargente Guglielmo egli parve
un altr’uomo, avendo deliberatamente trasformato sé stesso,
emancipandosi dalle vecchie maniere, per seguir naturalezza
e immedesimarsi de’ caratteri che toglieva a rappresentare.
Costume, movimenti, attitudini, color al viso ed alle mani, a
tutti insomma quegli accessorj che valgono a più fedelmente
rappresentare un tipo storico, mostrò col proprio diligente
esempio come debba esser dall’attore curato. A queste
secondarie cose che pur contribuiscono tanto all’effetto, non
erasi in Italia accostumati prima ch’egli non le importasse.
Massimamente nel Saul poi di tal forma rappresentò la
grande figura biblica e riprodusse la grande passione, che
ben si disse essersi il Modena col pensiero e colla espressione
elevato fino all’altezza del poeta.
Ma non legato ancor stabilmente per durevole contratto
con alcuna compagnia drammatica e trovatosi libero, nel 1841
andò per suo diporto a visitare la capitale austriaca. Trovavasi impresario a quel teatro di porta Carinzia, Bartolomeo
Merelli [...] il Modena fu da lui invitato a recitarvi, certo di
offerire a’ Viennesi una squisita novità.
Troppo memore della parte avuta dall’italiano attore ne’
politici rivolgimenti passati d’Italia, Sedlintzky, che allor
teneva l’Autorità suprema di Polizia, avvalorandosi d’un
decreto di Maria Teresa il quale vietava la recitazione ne’
viennesi teatri in lingua straniera, mandò a vuoto il buon
intendimento del Merelli e il piacere del Modena, con sommo
rincrescimento dei molti che del nostro attore avevano
102
sentito ripetere le maraviglie; differendo per tal modo in
quella colta città l’introduzione della commedia italiana, che
soltanto vi s’affacciò di poi nel 1855 colla Ristori, riportando
un completo trionfo. [...] Ricondottosi Modena a Milano, a più
sollecitamente incarnare il proprio divisamento di rinnovare
la povera arte drammatica, immaginò ordinare intorno a sé
una compagnia di giovanetti che avessero vocazione vera al
teatro; e Milano ricorda tuttavia con vera soddisfatto i nomi
di costoro, i quali formano pur adesso l’ornamento migliore
della scena italiana. [...] Avrebbe egli voluto fondare allora
con siffatti elementi una vera istituzione drammatica, la
quale preservasse, anche per il seguito, l’arte dalla caduta e
preparasse di continuo de’ buoni attori; immaginò discipline
al proposito, e lusingato da quelle festevoli accoglienze di cui
non ebbe tra noi difetto giammai, mandò in giro tra’ signori
di Milano una sottoscrizione. Non parrà vero però a chi
conosce la mia città, che sempre fu pronta a sorreggere del
patrocinio suo le utili istituzioni, non parrà vero che questa
del Modena non trovasse tre firme. [...] Non meno coraggioso
tuttavia procedette Gustavo Modena nella sua strada e in
altre produzioni, oltre le già ricordate del Saul, de’ Due
Sergenti e dell’Orosmane […] Fu sempre studio sommo di
Modena il conformare il proprio esteriore a quel carattere
che la storia assegna a quegli uomini da lui fatti rivivere sulla
scena, e curò il costume non solo dei tempi, ma perfino que’
tratti caratteristici della persona e della fisionomia […]
POSSIEDE ALTRESÌ QUEL GENIO RETROSPETTIVO …
“Modena [scrive il critico drammatico Stefano Arago sul
giornale torinese Il Diritto, ndr], l’aspetto di cui è imponente
e che comanda l’interesse a prima giunta, … possiede altresì
quel genio retrospettivo che strappa alle passate età i loro
103
più reconditi segreti, egli insomma ha l’intelligenza del tempi
andati; ma se ricostruisce lo scheletro degli eroi, se li anima
del soffio che già li faceva vivere, ei non li veste contuttociò
colla medesima cura? Perché una tal negligenza? [...]
Modena, il cui talento sì è sviluppato durante l’effervescenza romantica, dovette giorno per giorno essere alle
prese col febbrile e col grottesco. A vero dire, io tremava
prima di udirlo: ma quanto fui dolcemente sorpreso riconoscendo com’ei non avesse mai adorato alcuno di que’
mostri schifosi della Creta che ottennero pure il loro tempio
nell’antica Roma degenerata. Il dramma dei boulevarts di
Parigi, troppo abitualmente è tradotto sui teatri italiani e
troppo frequentemente imitato dai vostri autori nazionali;
le esagerazioni di questa Melpomene scapigliata, che ama
piuttosto calzar pappuccie che sandali e le mani di cui hanno
ricusato il pugnale per armarsi d’un coltello di cucina; tutto
questo genere falso e spurio non ha né imbastardito il talento
di Modena né falsato il suo genio. [...] Gloria dunque a Modena
che ha saputo attraversare il pantano drammatico senza pur
inzaccherarsi la falda estrema del suo mantello”.
… QUEL CIALTRONE DI ALESSANDRO DUMAS
Dopo ciò, come curarsi del recente giudizio di quel
cialtrone di Alessandro Dumas?
Travagliato il Modena, per comune sciagura, da frequenti
malattie, dovette separarsi da’ suoi diletti allievi; ma perché
non avesse ad andar perduto il frutto delle fatiche che era
venuto sostenendo, ne fe’ cessione a Giacinto Battaglia.
Meglio a lui, - egli pensava, - meglio a lui che a tutt’altri,
da che sapendolo autore d’una Luisa Strozzi, d’un Filippo
Maria Visconti e di tal altro buon dramma, ed appassionato
dell’arte, avrebbe curato il miglior proseguimento della
104
giovane compagnia.
Poco tempo durarono le redini di essa nelle mani dello
scrittore, al quale parimente riuscì vano il tentativo di recare
ad effetto il divisamento del Modena, di fondare una istituzione drammatica [...]
Ma in questa ne fu sopra l’anno 1848 con tutti i suoi
fortunosi avvenimenti, e che nella storia d’Europa lo farà
a tremendi e indelebili caratteri memorato. Non fu solo il
Modena che fra gli alunni di Roscio venisse travolto nel
turbine di quegli eventi. La guerra che ne’ dintorni di Treviso
ebbe frequenti fazioni in quell’anno gli devastò un suo podere
che si aveva in quelle parti, di cui anche dopo non gli fu più
concesso fruire, caduto pur sotto la legge che colpiva di
sequestro i beni degli emigrati politici. […]
S’INERPICA SU PER LA MONTAGNA …
Dopo la disputata resa di Roma, nel 1849, Gustavo
Modena, combattuta l’anima fra questo e quel luogo a scelta
del suo esiglio, corse co’ suoi fratelli di ventura in Piemonte,
a Torino.
Recitò qualche tempo allora su’ teatri del Piemonte;
spesso adoperandosi a profitto di que’ miseri che, perduta
la terra natale, popolarono quel suolo; e par tale opera di
carità, ebbe trionfali ovazioni in Genova a’ 25 di maggio del
1856, quando, dopo aver rappresentato il Luigi XI, ed essere
stato onorato da un vigoroso canto di Luigi Mercantini,
all’uscir dal teatro venne da una deputazione di uomini e di
signore presentato s’una bandiera e d’una corona d’alloro,
ricordando que’ bei tempi in cui l’arte e la bellezza fatte
gemelle creavano, sotto il nostro bellissimo cielo, miracoli
di fantasia e d’intelletto. - Pur nondimeno, fastidito forse
dalle cose che l’attorniavano, un bel giorno involandosi a
105
tutti, s’inerpica su per la montagna4 e si fa eremita. E vi
rimase buon tempo, sordo alle recriminazioni, alle preghiere
degli amici, degli ammiratori. Scriveva di là essere fradicio,
nauseato dell’umanità, dell’arte, del teatro, di tutto: smagato,
allentato e consolarsi ridendo di ogni cosa, ma ridere un po’
colla milza, un po’ col fegato ed occupando il suo tempo nel
seguitare, come direbbe Shakespeare, la sua ombra al sole.
IL GENIO È NEMICO NATURALMENTE DI PACE
Ma io non credeva a queste parole, a cotali proponimenti;
il genio è nemico naturalmente di pace, flagella, martirizza:
uopo è alla fine il cedergli e Gustavo Modena cedette.
La notizia è buona: egli in questi ultimi mesi è riapparso
sulle scene: egli colla sua possente scintilla ha elettrizzato i
pubblici piemontesi. [...] Una voce poi corse e fu ripetuta da’
periodici nostri, che possa il Modena peregrinar dall’Italia
e cercar prode rimote: noi tutti no’l vorremmo certamente,
noi che, avendolo ora nel vicino Piemonte, non possiamo
affatto abbandonare la speranza di rivederlo calcare le scene
milanesi.
Sia pure che una spada di fuoco si levi contro lui e gli
contenda di qui venire: sia pure che tutti, e i grandi uomini
singolarmente aver debbano cura del proprio nome e della
propria dignità; ma ben mi ricorda che David e Talma, queste
due fulgide stelle del moderno teatro francese, esuli dalla
Francia dopo il 1815, in Francia vennero con ogni maniera
di onorificenze richiamati, perché per essi aveva la città di
Parigi da Luigi XVIII il ritorno.
E perché non potrebbe per Gustavo Modena fare altrettanto la Città di Milano?
Precisamente a Torre Lucerna, oggi Torre Pellice (516 slm) in provincia di Torino,
vicino al confine francese [ndr].
4
106
GIULIA CALAME - MODENA
di Eugenio Comba
Il testo che segue è tratto da una raccolta1, pubblicata nella
seconda metà dell’Ottocento da Eugenio Comba - prolifico
scrittore di testi scolastici all’epoca molto apprezzati e diffusi
- il quale intendeva così facendo decantare le figure femminili
più nobili e rappresentative della storia italiana.
Tra queste eroine, Comba non esita ad inserire anche
la moglie di Gustavo Modena, svizzera di nascita ma legata
indissolubilmente al grande attore per l’intera vita ed oltre.
Leggiamo cosa scriveva in proposito:
Giulia Calame è stata il grande amore di quell’anima
irrequieta e ardente, continuamente divisa fra la patria
e l’arte in una battaglia perenne contro tutto ciò che non
rispondesse all’ideale di patriottismo, di Gustavo Modena,
il grande attor tragico dell’Italia risorta, immortalato dalla
storia del teatro nazionale.
Giulia Calame fu assimilata ad Anita Garibaldi, perché,
come la gagliarda compagna dell’Eroe dei due Mondi, fu
per l’uomo amato, pronta ad ogni sacrifizio, a lui si votò con
tutta l’anima, sfidando avversità di ogni maniera, stenti e
pericoli gravissimi.
Era figlia del conte Calame di Berna, e Gustavo Modena
Dal titolo Donne illustri italiane proposte ad esempio alle giovinette, stampato
per la prima volta a Torino nel 1872. Il volume incontrò un buon riscontro tra il
pubblico, tanto che ne furono pubblicate diverse edizioni in rapida successione.
Presso il fondo antico della Biblioteca “Luigi Dal Ri” di Mori è conservata la prima
ristampa notevolmente accresciuta della sesta edizione illustrata (Paravia, 1920),
ed il testo qui riportato si trova alle pp 178-180 di questa versione.
1
107
la conobbe durante gli anni dell’esilio cui era stato costretto
per gli accesi suoi ideali patriottici.
La conobbe e la sposò – narrò G. Deabate – vincendo
ogni ostacolo, ogni opposizione di parentela. Ma sono
da poco sposati che vengono espulsi dalla Svizzera. Che
fare? A piedi, fra mille fatiche, essi raggiungono il Belgio.
Gustavo fa il correttore di stampe e Giulia lavora di cucito e
presta servizi in casa altrui; Gustavo fabbrica maccheroni,
e la sposa gira il mercato per venderli. A tutto, a tutto si
adattano, anche al più umile mestiere, per vivere!
Poi il grande errante artista vien bandito anche dal
Belgio, ed è costretto a riparare a Londra. Ed è qui che
rifulge in tutta la grandezza quell’intermezzo, così splendido
per l’arte nostra, che fu la declamazione di Dante, fatta dal
Modena, della “Divina Commedia”, di cui Ugo Foscolo
aveva fatto nascere negli inglesi il desiderio ardente di
apprendere sempre più.
E sempre, sempre, in ogni luogo, fra gli stenti o fra le
vittorie, nella miseria o nell’agiatezza: mirabile compagna
di quella vita errabonda, travagliata, febbrile, Giulia
Calame diede prove di raro coraggio e di esemplare fedeltà;
cospiratrice e battagliera nelle ore della lotta, consolatrice
adorabile nella ambulanze della fortezza di Palmanova.
Onde, fu ben detto che, nel bacio della sua Giulia, Gustavo
Modena sentiva non solo l’alito amoroso della sposa, ma il
sospiro dell’arte, che anelava alla verità, il singulto della
patria che fremeva alla libertà!
E pure il nome di Giulia Modena non è conosciuto
quanto lo dovrebbe! Ai giovani ed alle giovanette soprattutto
non è abbastanza ricordata questa donna magnanima, che
fu esempio di sacrificio e di eroismo non comuni, che fu la
compagna elettissima di uno fra i più grandi atleti dell’arte
che abbia visto la scena.
108
La giovane sposa che trasporta sopra le sue gagliarde
spalle il suo Gustavo, febbricitante, di monte in monte, fra gli
aspri gioghi dell’Oberland, per fuggire i segugi polizieschi;
che ne consola le ore desolate di Londra, quando la fame
batte alle porte del loro ricovero; che si curva in faticata sui
feriti di Palmanova e di Roma, a medicarli e confortarli
amorosamente, non fu essa tale donna meritevole da essere
additata alle nostre fanciulle, quando loro si parla di figure
muliebri che illustrarono il loro sesso, di donne e di cittadine
esemplari?
Quando a Mazzini fu noto il fidanzamento di Gustavo
Modena con Giulia Calame, il grande maestro volle donare,
quale pegno di amicizia intima, al compagno, cospiratore
artista, che gli era sì caro, una trecciolina finissima di capelli. Quei capelli erano stati recisi alla madre del Mazzini,
la signora Maria. E Gustavo Modena, raccoltili gelosamente
entro una specie di piccola teca e formatone un braccialetto
d’oro, li offriva a sua volta alla sposa. Nel giro interno del
braccialetto erano incisi questi tre versi:
Questi capei, pegno d’eterno amore,
Di lei, cui fur recisi, e di me sempre,
O gentile, favellino al tuo cuore!
E quando la Giulia morì, otto anni dopo il grande
attore, il piccolo gioiello – che era valso, chi sa quante volte,
a ricordarle il suo passato di amore e di dolore – fu trovato
sotto il suo capezzale. Vi era scritto vicino il nome di Janet
Nathan-Rosselli, l’amica direttissima dei suoi ultimi anni,
a cui la Giulia lo destinava quale ricordo.
Nel camposanto di Torino riposano le ossa di questa
eccelsa donna che fu esempio mirabile di virtù, di eroismo
patrio fra le donne italiane.
109
Si tenga presente che Eugenio Comba scrive in un epoca
storica ben precisa, con l’Italia che tentava faticosamente di
costruirsi una coscienza nazionale: gli perdoniamo pertanto
lo stile pomposo, ma, tanto per confermare di che pasta fosse
fatta Giulia Calame, riportiamo qualche stralcio della sua
corrispondenza epistolare. A dei suoi amici, scrive da Torino
il 7 aprile 1860:
Avrete forse letto nei giornali che Gustavo è stato
nominato dal governo toscano professore di alta declamazione a Firenze. Ha rifiutato e ne sono assai contenta.
Largo onorario, quattro mesi di vacanza all’anno, un bel
soggiorno come Firenza, ma … preferiamo la paglia alla
biada della greppia governativa. Mentre tanti fanno ressa
intorno al mangiatoio è bene che qualcuno mostri un po’ di
dignità. Intanto, danno a Gustavo del matto e del cittadino
indegno!
Alla cara sorella Emilia aveva confidato, in una lettera
del 18 agosto l853:
… è destino che questa vita debba essere una continua
agitazione; ebbene, prendiamola com’è! Di’ alla mia buona
mamma che si abbia riguardo, povera vecchia! Dille che la
nostra salute è buona, che il coraggio non manca e che Iddio
ci aiuterà come ci ha aiutato fino adesso.
Dalla risposta scritta in data 11 marzo 1865 a Giovanni
Guerzoni, in merito ad “dettato sul mio Gustavo”, veniamo
a sapere alcuni particolari interessanti:
[L’epistolario di Gustavo] sarà però sempre una cosa
incompleta. Tutte le lettere dirette a sua madre, ora morta,
con cui fu per quasi trent’anni in corrispondenza attiva,
furono, dietro desiderio espresso da essa, richiuse nella di
lei tomba. Pochi figli amarono la loro madre quanto l’amò
Gustavo e nessuno l’amò di più. E tutte le lettere [indirizzate]
a me del 1834 e 35, prima d’essere maritata, furono per una
110
fatale pruderie, sacrificate in un auto-da-fè da persona a me
congiunta. Eppure erano tesoro di detti d’un’anima eletta
che, come maestro, mi rivelava la vita avvenire e più che i
diritti me ne additava i doveri. Ed altre ancora scrittemi
nel ’43 in Isvizzera ove ero corsa per la morte di mio padre e
che lasciai, come balsamo, alla mia madre derelitta … Essa
morì, e le lettere andarono smarrite; sicché non ho una sol
riga del mio Gustavo a me. Non so troppo cosa mi faccia nel
scrivervi tutto questo. Mi valga per scusa la certezza che,
se aveste conosciuto il mio Gustavo, lo avreste amato tanto
che ogni atto suo vi sarebbe gradito.
Anche per Giulia Modena, come per l’omonima Giulia
Montanari, auspichiamo che sia dedicata maggiore attenzione
da parte delle nuove generazioni.
111
L’ATTIVITÀ ARCHEOLOGICA
DI PAOLO ORSI
NEL NOSTRO COMUNE1
di Guido Boninsegna
È di questi giorni l’attesa notizia che verrà prossimamente inaugurato a Rovereto, molto probabilmente dal ministro
Gonella, un monumento al sommo archeologo trentino Paolo
Orsi, la cui attività nel campo delle ricerche e degli scavi fu
veramente sbalorditiva.
Francamente è da compiacersi di questa lodevole iniziativa, voluta e patrocinata da un solerte comitato roveretano,
appoggiato nella sua azione dal comune stesso, affinché tutto
arrivasse a felice compimento, e l’illustre figlio della operosa
città fosse immortalato e la sua gloria imperitura trasmessa
ai posteri.
Per quello che direttamente ci riguarda, cogliamo l’occasione, alla vigilia ormai della manifestazione, per ricordare
che l’Orsi fu conosciuto e si rese benemerito anche a Mori,
dove effettuò alcuni proficui scavi in località Castello ed al
Colombo, ove rinvenne, catalogandoli, oggetti dell’epoca
neolitica. Anche fra la frazione di Tierno e il ponte di Marco,
l’Orsi rinvenne frammenti di stoviglie, lame di pugnali (età
del bronzo), selci lavorate, ed altre reliquie di genti primitive
che vissero nella valle presumibilmente non molto tempo
dopo la scomparsa del ghiacciaio. Anche a Monte Albano,
sotto la guida del grande archeologo, furono tratti alla luce
numerosi oggetti risalenti all’età della pietra.
1
Pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 29 ottobre 1950.
112
113
Paolo Orsi vuol far derivare il nome di Mori (dal calendario ecclesiastico Murius) da un Vicus Murius che darebbe
la menzionata località “Castello”, dal nome della famiglia
romana Murius. Egli dunque riuscì per primo a ricostruire
con rispondenza e dati di fatto, parte della sconosciuta e
misteriosa epoca preistorica della nostra conca, e i suoi meriti
e le sue fatiche trovano tuttora, almeno fra gli intellettuali
ed amatori dell’archeologia e della storia, un vivo e riconoscente ricordo che, pur attraverso gli anni, non s’è per nulla
smorzato.
Paolo Orsi (1859-1935)
114
QUANDO UN PEZZO DI PANE
ED UN VECCHIO CAPPOTTO
SIGNIFICAVANO TUTTO1
di Luigi Zoller
Dal mio diario di guerra, o meglio di prigionia, ho tirato
fuori questo episodio vissuto in prima persona con un compagno di sventura. Un ragazzo di Ravazzone, Giovanni Bianchi,
la cui mamma era di Fontechel, era partito militare assieme a
me nell’autunno del ‘39. Avevo dormito a casa loro per poter
prendere il treno al mattino presto per Bolzano, dove dovevamo “consegnarci” per essere arruolati nei carabinieri.
Prima di partire la mamma di Giovanni ci fece le solite
raccomandazioni: “Fate i bravi ragazzi, cercate di stare in
una buona compagnia, pregate e andate a Messa quando
potete...”. Mi è rimasta impressa questa povera donna
anche perché mia madre era morta da pochi mesi, e me
la ricordava poiché anche lei mi faceva sempre le stesse
raccomandazioni.
Con Giovanni siamo sempre stati assieme a Torino per
tutto il tempo della scuola allievi carabinieri, poi ci siamo
divisi: lui a Bologna, io a Catanzaro. Ci siamo scritti per un
po’ di tempo, poi con la guerra in atto ci siamo persi di vista.
Io in Albania, lui nelle isole del mare Egeo.
Arrivati all’8 settembre del 1943, cioè all’armistizio
dell’Italia con gli alleati, i tedeschi ci fanno prigionieri e
Articolo precedentemente pubblicato su: Voci dell’Altopiano, bollettino delle
Comunità cristiane dell’Altopiano di Brentonico, Anno XI – n. 2 (estate 2003). Si
ringraziano l’Autore e l’editore per la gentile concessione.
1
115
ci portano in Germania. Centinaia di migliaia di soldati
provenienti da tutte le parti dei Balcani vengono convogliati
a Bitola, in Grecia, o Bulgaria (infatti erano bulgari i soldati
che ci sorvegliavano).
In mezzo a tutti questi prigionieri salta fuori Giovanni.
Subito abbandona il suo reparto e si aggiunge al mio. Anche
lui si sentiva sollevato, come del resto io, per il fatto di poter
stare assieme ad un vecchio amico, e affrontare in compagnia,
in quella baraonda, l’ignoto che ci attendeva. Io avevo un po’
di sigarette portatemi dietro dall’Albania e barattandole
riuscivamo a procurarci un po’ da mangiare.
Dopo alcuni giorni di sosta al campo-base arriva il nostro
turno di partenza. Stavamo sempre vicini per paura di essere
divisi e così avevamo anche il tempo di raccontarci le nostre
vicissitudini di guerra, anche se la nostra preoccupazione principale era quella di pensare a come riempire lo stomaco.
Così verso la fine di settembre si parte con il treno per il
Nord Europa. Non si sa dove si va. I vagoni sono stracolmi di
soldati, e ogni qual tratto il treno si ferma in aperta campagna
per dare la possibilità a tutta questa gente di sgranchirsi le
gambe, fare i propri bisogni e cercare qualcosa da mettere
sotto i denti. Per lo più c’erano bambini del posto che in cambio di qualche sigaretta o qualche vestito stracciato ci davano
del pane... Poi il fischietto delle guardie e si riparte.
Così, giorno dopo giorno, arriviamo in Ungheria, quindi
in Austria ed infine in Germania, dove si sale verso nord. A
Brema si scende e si prende un altro treno: i ragazzi delle
scuole, con i loro maestri, ci aspettano ad ogni varco, ci sputano addosso gridando “Traditori!”, le guardie ci incalzano con
il frustino in mano o con il calcio del fucile per farci camminare
svelti: nessuno parla più anche se non era proibito.
Finalmente arriviamo a Bremerford in un campo di
baracche messe su alla svelta, tanto che alcune avevano solo
116
il tetto. Ci buttiamo per terra come eravamo, qualcuno si è
addormentato perfino con le scarpe ai piedi. Era novembre e
la temperatura già cominciava a scendere sotto zero. Avevamo solo una coperta da campo e il cappotto per ripararci dal
freddo. A Giovanni il paltò lo avevano rubato lungo la strada e
così, con la sola coperta per ripararsi, si era preso una brutta
tosse che non lo faceva dormire di notte. Un giorno mi disse:
“C’è un soldato in una baracca vicina che vuole vendere il
suo cappotto perché gli è troppo grande”. “Compralo – gli
dissi – se non hai abbastanza soldi te li presto io”. “Soldi
non ne vuole – mi rispose Giovanni – vuole solo due gallette
(grosso pezzo di pane essiccato di circa due etti e mezzo)
per farsi una bella mangiata. Io ne ho una che ho sempre
tenuto per i bisogni, ma lui ne vuole due”. Anche io ne avevo
una nascosta tra i miei stracci e, con tutta quella fame che si
pativa, mi dispiaceva un po’ dargliela. Stetti zitto.
La notte successiva fu ancora più fredda, tanto che
tutti, nella mia baracca, passeggiavano invece di dormire.
Io pensavo sempre a quella galletta che avevo nascosta e
che in un minuto avrei mangiata, per poi, dieci minuti dopo,
avere ancora più fame di prima, mentre se l’avessi data al
mio compagno avrei fatto certamente un’opera di bene: non
poteva passare tutto l’inverno con la sola coperta! Decisi così
di dargliela, con l’impegno che acquistasse il paltò.
Al mattino mi alzai e chiamai Giovanni: “Vai a comperare
il cappotto, la galletta che ti manca ce l’ho io.” “Tu, possibile?”
“Eccola.” Giovanni saltò in piedi, sembrava avesse vinto alla
Sisal, e corse a cercare il soldato in questione. Affare fatto!
Tutto contento tornò a farmi vedere l’acquisto. “Per merito
tuo guarda qui, sono un signore!”
Era veramente un bel pastrano. Gli stava a pennello:
era un cappotto ancora dei Kaiserjäger della prima guerra
mondiale, verde scuro, con due fila di bottoni argentati.
117
Credo lo abbia portato a casa come ricordo inestimabile e
ogni volta che lo indossava mi ripeteva: “Guarda Gino che
figura faccio!”
Ebbene, siamo rimasti in questo campo per circa un mese.
Si mangiava una volta al giorno, solo alla sera, mentre durante
il giorno c’erano sempre riunioni per cercare di convincerci
a tornare a combattere al fianco dei tedeschi. Ci davano un
mattone di pane di circa un chilo e mezzo ogni cinque soldati,
dunque tre etti di pane a testa, quindi un dado di margarina,
una manciata di crauti o due patate lesse. Io trangugiavo tutto
in un fiato. Giovanni mangiava metà razione del pane mentre
l’altra metà la incartava e la metteva in tasca. Al mattino
quando ci alzavamo tirava fuori il pane, mi chiamava e lo
divideva a metà. Io non lo volevo ma me lo strofinava sotto
il naso e se non faceva presto a tirar via la mano... Pensate
che era un uomo alto più di un metro e ottanta. Dopo questo
periodo siamo stati trasferiti ad Amburgo e lì si lavorava in
una fabbrica di sommergibili e, insomma, lì si aveva un vitto
discreto. Ma ogni occasione era buona per accennarmi al suo
paltò e al piacere che gli avevo fatto.
Anche dopo la guerra ci incontravamo spesso. Veniva
dagli zii a Fontechel, o a qualche festa dei carabinieri in
congedo; era vicepresidente dell’associazione di Rovereto.
Diceva: “Con questo compagno spartivamo anche le scorze
di patate!” Ricordo che assieme ogni tanto si andava assieme
dai suoi zii Giovanni e Santina Andreolli (Tola). La zia Santina
ripeteva sempre: “Voialtri almeno avete portato a casa la
pelle. Io il mio Italo non lo vedrò più.”
Diventando vecchio penso sempre più a questo triste passato. Eravamo partiti pieni di entusiasmo, siamo rientrati uno
alla volta pieni di stracci e pidocchi. E da Fontechel non sono
più rientrati in sette. Questa è la triste realtà della guerra.
118
L’UNGUENTO “MIRACOLOSO”
detto “ont Battistìn”
di Gianna Gentili
Parlare dei propri cari per elogiarli, non è cosa facile,
ma penso che un pensiero di ringraziamento a mia madre,
Gentili Amelia nata Girardelli (1891-1968), sia doveroso,
anche perché nel 2008 è ricorso il quarantesimo anniversario
dalla morte.
In sua memoria vorrei ricordare il suo generoso dono
fatto alla comunità di Valle di S. Felice e poi a tutti coloro
che ne apprezzarono la bontà: l’unguento miracoloso, come
lo chiamava lei.
Negli anni 1918-1920, si diffuse l’uso di questo unguento
per la sua efficacia contro infezioni e infiammazioni. Successivamente venne chiamato anche “ont Battistìn” dal
soprannome della famiglia di origine di mia madre, o “ont
nero” dal suo colore scuro.
Amelia Gentili
nata Girardelli.
119
La miseria nelle famiglie, reduci dalla Boemia, ed anche
nel periodo tra le due guerre mondiali era tanta ed avere
a disposizione un rimedio tale per curare le varie infezioni
senza dover ricorrere al medico voleva dire salvare la famiglia
economicamente.
La storia di questo unguento inizia nel 1919 quando
Amelia si recò in Istria, a Lanischie (Pola) per aiutare in
casa il proprio fratello Erminio, maestro, (che poi morì nelle
foibe istriane), dove insegnava nella scuola elementare di
quel paese.
Abitando in affitto nell’appartamento del farmacista,
ebbe modo di fare la sua conoscenza ed alla fine lui se ne
innamorò, ma mia madre essendo già promessa a mio padre,
Attilio Gentili, rifiutò gentilmente. Il farmacista allora le
disse che le avrebbe fatto un dono così grande che non
l’avrebbe mai più dimenticato e le insegnò a preparare con
le dovute istruzioni detto unguento, raccomandandole di
usarlo con generosità.
I suoi ingredienti per una dose sono questi:
gr. 280 olio di oliva
gr. 105 minio rosso
gr. 43,5 trementina solida
gr. 35 cera vergine
gr. 25,5 canfora
gr. 25,5 sapone neutro a scaglie
Mia madre lo donò a tutti coloro che ne richiedevano l’uso,
diffondendolo in tutta la valle di Gresta e circondario, senza
essere gelosa della ricetta, come a volte succede. Il suo uso
si diffuse rapidamente nella cura di ascessi, mastiti, infezioni
varie, ferite, abrasioni, dolori articolari, ecc. non solo per le
persone ma anche per animali.
120
La gente della valle imparò ad amare e usare tale unguento, suscitando anche la gelosia di qualche farmacista.
Negli anni ’40 del secolo scorso le mie sorelle Carla e
Tullia, che lavoravano presso la Manifattura Tabacchi di
Borgo Sacco, lo fecero conoscere anche alle loro colleghe
zigherane e così rapidamente si estese in tutta la Vallagarina,
tanto che poi venne chiamato “ont dell’Amelia”.
La sua diffusione fu tale che ora è presente in tante parti
del mondo (Germania, Canada, Argentina, Francia, Svizzera,
ecc.) portato dagli emigranti, dagli eredi o conoscenti delle
famiglie che ne hanno conosciuto l’efficacia. Alcuni missionari
locali che conoscevano la nostra famiglia lo portarono con sé
in Brasile, Bolivia, Kenia, Sudan, ecc. per lenire le piaghe
causate dalla lebbra o altre malattie locali.
Anche a Mori si usa questo unguento, diffuso generosamente da mia sorella Carla1. Pure i medici condotti, dottor
Enrico Less e dottor Amedeo Bettini, ai loro pazienti a volte
ne consigliavano l’uso invitandoli a richiederlo all’Amelia o
a noi figlie.
Questo unguento ha potuto essere conosciuto da tutti
per la bontà e generosità di Amelia, donna stimata da tutto
il paese ed il suo ricordo dovrebbe essere presente in ogni
dose che si prepara di “ont Batistìn”.
Di recente, tutte le fasi della preparazione dell’unguento sono state riprese ed immortalate a futura memoria da una troupe del Museo Civico di Rovereto, coordinata
da Fabrizio Zara, su segnalazione della Biblioteca comunale di Mori che, tramite
Carmen Borzatti e Ilda Bertolini, ne era venuta casualmente a conoscenza. Il filmato
è visibile presso la mostra “Semplici di natura: erbe e preparazioni medicinali in
farmacia ieri e oggi” attualmente ospitata a Palazzo Baisi a Brentonico (per maggiori informazioni e gli orari di apertura si rinvia al sito: http://www.museocivico.
rovereto.tn.it/orto_brentonico)
1
121
LE “FRATTE”
LABORIOSITÀ DEI NOSTRI
CONTADINI1
di Guido Boninsegna
Non sfuggirà certamente agli sguardi del forestiero che
si ferma o del turista che transita dalle nostre parti quella
lunghissima fascia di terreni, sistemati a terrazza, che si
snoda ininterrottamente e copre per parecchi chilometri la
prima erta balza del Biaena che con la sua glabra, ferrignorossastra mole ripara il borgo dai venti di tramontana.
Quei piccoli fazzoletti di campagna, strappati a prezzo di
estenuanti fatiche ed a furia di dinamite alla roccia avara, nel
dolce ed armonioso vernacolo nostro si chiamano le “fratte”.
Esse, sostenute da solide massicciate “a secco”, s’arrampicano ardite per 100, 200 e più metri su per il poderoso fianco
della silvestre montagna raggiungendo e perfino scavalcando
l’aspra strada a mezza costa che conduce a Monte Albano. La
terra è poca: qualche palmo; magra, sottile, ghiaiosa per cui
le coltivazioni erbacee offrono una produttività limitata, se
non addirittura nulla quando il barbaglio cocente del sole non
viene mitigato da qualche precipitazione atmosferica. Solo
una pianta vi alligna bene, una pianta vigorosa che s’adatta
si può dire a tutti i terreni e che in Italia vediamo crescere
in tutti gli angoli: la vite.
L’unica risorsa che compensa in certo qual modo le
immani fatiche dei nostri meravigliosi contadini è dunque,
1
Articolo pubblicato originariamente sul quotidiano Alto Adige del 10 agosto 1951
122
sulle “fratte”, l’uva e, conseguentemente, il vino; un vino
gagliardo e gradevole che scaccia ogni preoccupazione e fa
resuscitare i morti.
Vino buono sì, ma per guadagnarlo ce ne vogliono dei
sacrifici. Basti pensare che gran parte delle “fratte” è
raggiungibile solo dopo una estenuante seppur breve marcia
battendo sentieri impervi e scivolosi che mettono a dura
prova occhi e garretti anche di chi li affronta liberamente.
Figurarsi lo sforzo che devono produrre i proprietari del
fondo che sono chiamati a fare la scalata con sulla schiena
bigonce colme od altri rimarchevoli pesi.
Però, nonostante le difficoltà, la fatica ed i vantaggi poco
remunerativi, l’attaccamento dei contadini locali alle loro
“fratte” è sempre stato tradizionale. Una tradizione annosa
ed ormai radicatissima anche se, oggigiorno, viene talvolta
irrisa… Quelle “fratte” a molti di noi, abituati a vederle, o al
turista distratto di passaggio forse non dicono nulla. Esse
invece valgono a dimostrare in maniera solare quanto sia
grande la laboriosità dei nostri contadini e di quale inflessibile
tempra d’acciaio siano dotati.
Pugnaci ed instancabili da secoli ogni inverno, ora l’uno
ora l’altro, armati di picchi [picconi, ndr], badili, miccia e
dinamite attaccano la granitica montagna e la dominano; e
scavano, scavano, da mane a sera, imperterriti, sotto la sferza
del vento gelido e tagliente o fra il turbinare del nevischio che
acceca; innalzano muri, trasportano terriccio; ad una “fratta”
ne aggiungono in primavera un’altra e poi, con gli anni altre
ancora. Sforzo titanico, sublime, commovente. Sforzo inteso
al massimo sfruttamento di ogni anche piccola, insignificante
risorsa che contribuisca a migliorare le condizioni economiche
e sociali… Le “fratte”: concreta ed ultrasufficiente risposta
a tante sterili chiacchiere di gente inerte, incapace di fare e
di produrre.
123
Le “fratte” in una cartolina di inizio Novecento.
124
Le “fratte” in una foto di Florio Badocchi (2009)
125
IL VOLTO E LA STORIA DI
RAVAZZONE2
di Guido Boninsegna
Ravazzone è una linda frazione appollaiata su un’erta
breve balza protetta a nord dal “Camànghen” irto sperone
del patrio Biaena. Chi proviene da Rovereto, oltrepassato il
mastodontico ponte di ferro sull’Adige, se la vede nettamente
dinanzi: un gruppetto di agresti casette ammassate all’ombra
di un minuscolo campanilino rutilante e civettuolo. Quel
microscopico raggruppamento di case è abitato da genti tra
le più simpatiche e piacevoli e civili di tutto il caleidoscopio
umano che forma e popola il vasto comune di Mori. Parecchi
sono gli elementi che caratterizzano la frazione e che confermano ed avvalorano la veridicità della nostra precedente
asserzione. Ci basta elencarne alcuni che risaltano e predominano: l’onesta laboriosità, l’altruismo peraltro scevro da
ogni convenevole di prammatica, la cortese e calda affabilità
che subito traspare dai volti e sgorga spontanea dai cuori.
I cittadini di Ravazzone oltre ad essere longamini ed
aperti con il prossimo, conosciuto o sconosciuto che sia,
hanno anche, ripetiamo, una particolare venerazione per il
lavoro e difficile è trovare da quelle parti uomini validi fermi
od inoperosi: l’ozio è stato messo al bando od addirittura
cancellato dal dizionario. Persino i più grossi possidenti che
potrebbero, volendolo, starsene beatamente con l’adipe al
sole, non disdegnano di adoperare l’acuminata vanga e di
accudire, nelle stalle, al governo del bestiame.
Trascrizione parziale di un articolo pubblicato originariamente sul quotidiano Alto
Adige del 25 agosto 1951
2
126
Dall’alba all’occaso ed oltre, ovverossia “dalle stelle alle
stelle”, i contadini sono nei campi per strappare all’avarizia
di quest’ultimi il sostentamento cotidiano ...
E le donne? Oh! Le donne non sono certamente inferiori
dei loro instancabili mariti, padri e fratelli. Anche loro hanno
le mani ruvide per il gravoso lavoro in casa, alla macera o,
d’inverno, devastate dai geloni per il troppo frequente e lungo
contatto con l’acqua diaccia della comune fontana ubicata nel
bel mezzo del sagrato. […]
I ravazzonesi dunque sono soprattutto laboriosi, intelligenti anche, vivaci; vedono e ponderano le cose con chiaro,
semplice realismo progressista. E possiamo ben dirlo questo.
Infatti nel settore agricolo, che è quello che più direttamente
li riguarda, essi seguono con costanza e senza paura di salti
nel buio il continuo sviluppo della moderna tecnica che vuole
il massimo sfruttamento della terra. […]
Una volta la piccola frazione, che si chiamava Rivazzone,
Cartolina illustrata (non viaggiata) edita da Bernardino Sani ai primi del
Novecento. Si nota sulla destra l’ingresso del paese dalla strada del Mossano.
127
aveva una non trascurabile importanza per il fatto che nella
vicina località “il porto” era stato costruito un vero e proprio
porto fluviale che rapidamente crebbe tanto da divenire,
specialmente dopo che Morfino del fu Rambaldo nel 1188 fu
investito dal vescovo di Trento della navigazione sull’Adige
fino a Bolzano, uno scalo di primissimo piano. A Rivazzone
attraccavano i legni carichi di merci dirette verso il Garda e
sostavano anche per i rifornimenti o per gozzovigliare altre
ciurme di passaggio.
È facile capire che benché i traffici fossero in massima
parte controllati dagli ebrei del Ghetto anche per i ravazzonesi erano aperte molte porte e possibilità di fare cospicui
guadagni.
Presumibilmente, l’armamento della stessa base fluviale
servì ai veneziani per trarre dall’Adige le loro imbarcazioni
inviate poi, per via terra, verso il lago di Garda dove furono
calate in sul finire del 1438. La piccola armata lacuale vene-
Bella panoramica di Ravazzone allungato ai piedi del Camànghen in
una cartolina FOTOCINE di Trento, viaggiata nel 1965.
128
ziana (6 galee e 25 barche armate) comandata da un certo
Pietro Zeno aveva lo scopo di forzare il blocco costituito dalla
flotta dei Visconti e giungere successivamente, attraverso
un varco da aprirsi a vettovagliare Brescia assediata, fedele
alla Serenissima. Nel Garda avvennero parecchi scontri tra
i quali memorabile quello del 10 aprile del 1440 conclusosi il
20 maggio con la presa di Riva.
L’evolversi delle comunicazioni stradali e dei mezzi
terrestri di trasporto determinò un parallelo decadimento
della fiorente stazione.
Poi, piano, piano, la base venne disarmata e cadde completamente in disuso. Certo gli è che dopo il 1600 l’economia
di Ravazzone poggiò esclusivamente sull’agricoltura ed ancor
oggi, immensamente più sviluppata, l’agricoltura è il pilastro
base e la fonte principale di vita dei censiti, come del resto
l’ostinato attaccamento al lavoro è una atavica incancellabile
tradizione.
129
E GIOCAVAMO ALLA GUERRA!
Bambini, giochi e propaganda
tra le due guerre mondiali.
Una lettura socio-culturale
di Marta Villa
Maturità dell’uomo: aver ritrovato
la serietà che da bambini si metteva nel gioco.
F. Nietzsche
Nella cultura materiale umana si è accumulato uno
straordinario repertorio di oggetti per il gioco che gli storici
considerano ormai come documento di primario interesse per
la ricostruzione di mentalità, vita e costumi. L’atto del gioco,
come ricorda lo storico Huizinga nel suo Homo ludens, è più
antico della cultura, perché “il concetto di cultura, per quanto
possa essere definito insufficientemente, presuppone in ogni
modo convivenza umana, e gli animali non hanno aspettato
che gli uomini insegnassero loro a giocare”1.
Diversi autori hanno cercato di dare un senso alla pratica
del giocare, in particolare analizzando l’istinto innato nei
bambini: c’è chi sostiene lo sbarazzarsi del superfluo di forza
vitale, chi è convinto che sia un atto imitativo, chi pensa possa
essere una pratica necessariamente rilassante oppure un
momento atto ad apprendere il senso del lavoro e della fatica,
chi ancora dichiara che possa essere un allenamento per il
proprio autocontrollo2. Il gioco serve anche per imparare a
1
HUIZINGA J., Homo ludens, Einaudi, Torino, 1973, p. 3.
Cfr. ZONDERVAN H., Het Spel, bij Dieren, Kinderen en Volwassen Menschen,
Amsterdam, 1928.
2
130
relazionarsi, a dominare, a concorrere, a espellere gli istinti
nocivi o appagare desideri inappagabili nella realtà. Huizinga
sostiene invece che tutte le grandi attività originali della società umana sono già intessute di gioco, addirittura partendo
dal linguaggio, dalla sua funzione e dalla sua nascita.
Uno dei luoghi comuni più frequenti è la non serietà del
gioco: tuttavia è necessario ammettere che ad esempio i
bambini, gli scacchisti o i calciatori giocano con la massima
serietà senza la minima tendenza a ridere. Alcuni giochi non
sono affatto comici3 né per i giocatori, né per gli spettatori,
anzi si gioca spesso per il proprio diletto e questa caratteristica determina anche l’atto di libera volontà interno al gioco
stesso. Sempre Huizinga individua le peculiarità del giocare:
essere libero, innanzitutto, essere una attività temporanea
disinteressata con finalità proprie entro uno spazio determinato, essere trasmissibile4. Non dobbiamo dimenticare che il
gioco inoltre ha delle regole che non appena trasgredite fanno
crollare il suo mondo, perché l’atto ludico crea una situazione
eccezionale, importante e fascinosa e a volte avvolta nella
segretezza, non è la vita reale e ordinaria. Presso la maggior
parte delle culture umane, come testimonia l’antropologia,
durante le feste d’iniziazione con cui i giovani, sia maschi
che femmine, sono accolti nella comunità degli adulti non
solo gli iniziandi sono sciolti da regole e leggi quotidiane,
ma per tutti i membri della tribù cessano ostilità e vendette,
vengono sospese momentaneamente le attività sociali per
Il comico è legato strettamente alla follia, ma il gioco non è folle, è situato al di
fuori del contrasto tra saggezza e follia anche se durante il medioevo era uso comune
questa espressione folie et sens che coincideva all’incirca con la distinzione attuale
di gioco e serietà.
3
La trasmissibilità del gioco è molto importante: il gioco si fissa subito come forma
di cultura, giocato una volta rimane ne ricordo come un tesoro e può essere ripetuto
in qualsiasi momento e questa capacità di ripresa è un qualità intrinseca al gioco.
4
131
entrare nella stagione sacra dei ludi: saturnali, nel passato,
carnevale, nel folklore, o goliardia riguardano da vicino
questa pratica.
Dopo questa generale premessa sull’atto ludico, poniamo
ora l’attenzione alla strumentalizzazione del gioco, ossia il suo
utilizzo per fare propaganda, e ci interessa la testimonianza
materiale dei giochi pubblicati in Italia durante la fine del
1800 e i primi decenni del 1900, in un periodo storico che si
preparava ad una Grande Guerra e successivamente vedeva
per l’Italia un avanzamento della politica colonialistica e
imperialistica. Proprio attorno all’inizio del secolo nascono
i primi giornalini per i ragazzi: è del 1906 “Il Giornalino
della Domenica”5 di Luigi Bertelli, noto come Vamba ed
edito da Bemporad, del 1908 “Il Corriere dei Piccoli” e del
1912 “Lo Scolaro” edito dall’entourage culturale cattolicotradizionalista genovese
Tra gli infiniti giochi, quello dell’oca, o di percorso, è molto
interessante perché antico e capace di assumere forme diverse e adattarsi completamente al proprio momento storico.
Questi giochi di tracciato hanno origini assai lontane, ma si
trova documentazione apprezzabile dal 1600 in poi, epoca in
cui comparvero i primi tavolieri con percorsi a caselle spiraliformi che si diffusero ampiamente in tutta Europa perché
facili da riprodurre, dalle regole semplici e chiara metafora
Il caso del Giornalino del Bertelli è significativo: tale documento editoriale evidenzia
il superamento della dimensione deamicisiana del “singhiozzo pedagogico” e invita
alla concretezza e all’azione. Ecco cosa si leggeva nelle sue pagine nel numero 12 del
1906: “L’Italia è bella, libera e una. Questo lo sanno tutti i bravi lettori del Giornalino.
Ma certo solo alcuno di essi sa che qualche lembo di terra italiana rimase e rimane
ancora sotto altro governo (il Trentino e l’Alto-Adige, NdA). Non che i grandi cuori
e i valorosi eroi che combatterono per l’indipendenza italiana non abbiano versato
sangue anche per queste terre! Tutt’altro! E avrò a riparlarvi di ciò un’altra volta.
Fu la politica, una cosa di cui voi ed io ci intendiamo pochino – e ci guarderemo bene
dal parlarne – fu la politica quella che mandò a male ogni cosa”.
5
132
della durata della vita, simbolicamente rappresentata dalle
caselle di pericoli, imprevisti, fortuna…
Fino alla Seconda Guerra Mondiale in Italia si producevano ogni anno decine di diverse tavole con tracciati
da percorrere: a volte erano corredati di dadi e pedine,
altrimenti erano semplici fogli stampati e allegati a riviste,
scatole di prodotti alimentari o di svariati generi per pubblicizzarne l’acquisto. In Italia a fianco delle case produttrici più
conosciute, specializzate in giochi su carta, come la celebre
“Marca stella”, troviamo tavole provenienti dalle più svariate
ditte: in tutte veniva riprodotto il gioco classico dell’oca. Il
numero di caselle varia da 63 a 90 con ostacoli quasi sempre
al 58 (il numero della morte), ponti o passaggi al 6, case
nel 52; tuttavia le variazioni sono numerose atte a meglio
espletare la funzione dell’argomento specifico del percorso.
Numerosi sono i “Giri d’Italia in Bici” con Bartali e Coppi e
le altre glorie del passato, oppure le passeggiate nei giardini
zoologici, i viaggi in Italia o nel mondo.
La diffusione e il gradimento di questi giochi era tale
che fin da subito vennero utilizzati con scopi diversi rispetto
al solo e puro divertimento: intenti pedagogici e formativi,
sviluppo di buona educazione e moralità, fino a giungere alla
propaganda politica vera e propria. In epoca Ottocentesca
i protagonisti dei percorsi sono i vizi e le virtù e le scene di
vita famigliare dove impera il galateo, la sobrietà, il decoro
e il senso religioso così da aiutare i giovani ad imparare
comportamenti giusti e sani principi. Quasi tutte le nazioni
coloniali, poi, hanno in circolazione giochi dove bravi missionari superano mille difficoltà e pericoli per cristianizzare
gli indigeni, il più delle volte neri africani.
Ma si deve arrivare al periodo dei prodromi della Prima
guerra mondiale per trovare veri e propri giochi propagandistici: un foglio stampato negli anni del governo giolittiano
133
Le glorie italiane. Gioco di percorso a 79 caselle, spirale, antiorario, centripeto, inventato da Gallizioli ed edito nel 1915. Il gioco si riferisce alla guerra in
Libia (1911-1912). Cromolitografia 46x63 in carta incollata su cartone.
La guerra d’Etiopia e la super-gara Santagostino. Gioco di percorso a 86
caselle numerate, associato alla Supergara Santagostino indetta dall’omonima Ditta nel 60° anniversario dalla fondazione (1876-1936).
Cromolitografia dello Stab. Grafico Ripalta Milano 48,5x68,5 cm in carta.
134
ricorda e celebra le “glorie italiane”, i successivi lasciano
posto all’esaltazione delle capacità militari e degli intenti
bellicistici e imperialistici6.
La guerra, secondo Gibelli7, comprende il carattere di
avventura affascinante per l’immaginario adolescenziale, e
la sua simulazione o la sua preparazione costituiscono una
sicura attrattiva.
Quando però dopo il 1918 diventa essenziale l’attivazione
del consenso, iI gioco dell’oca offre per la diffusione, la
semplicità, le potenzialità figurative che lo caratterizzano,
possibilità assai ampie, tanto che il fascismo le sfrutterà intensamente. Sulle pagine del “Corriere dei Piccoli” fa la sua
comparsa la guerra a fumetti di un gagliardo bersagliere,
Gian Saetta, a suo agio nel deserto libico alle prese con goffi
nemici, e il piccolo marinaio che tenta di imbarcarsi per la
costa africana sempre rispedito indietro perché troppo piccolo anche se impaziente di fare la guerra. Il piccolo Balilla
negli anni successivi è presente in tantissimi giochi e compie
avventure stupefacenti e gloriose8: molto spesso vengono
reclamizzati diversi prodotti commerciali. La battaglia nella
Anche la guerra coloniale fa la parte del leone negli argomenti dei percorsi, l’entrata
di Badoglio in Addis Abeba è preceduta da un lungo percorso dove si alternano scene
di battaglia e inviti all’acquisto dei “supercalzini” della Santagostino. Si ricorda però
che “chi arriva al numero 56 deve, prima che il giuocatore successivo getti i dadi,
gridare SAVOIA, se si dimentica retrocede al numero 43”. Il Tonergil “Erba”, un
ricostituente, sostiene gli sforzi dei giocatori lungo un serpentone tricolore che si
snoda da Asmara ad Addis Abeba.
6
7
GIBELLI A., Il popolo bambino, Einaudi Torino 2005.
Nel 1928, ad esempio, viene stampato un bel gioco programmaticamente intitolato
“Tutte le strade conducono a Roma”, un incrocio tra il “Risiko” e il tradizionale
gioco di percorso. I concorrenti devono, secondo le spiegazioni a lato, raggiungere,
tirando i dadi, la città eterna. Curiosa è l’associazione tra “sponsor”, nel caso le ditte
Talmone e Venchi di Torino, e iconografia di regime, che dà origine ad una cornicetta
dove si alternano caramelle, biscotti, i classici vecchietti che bevono cioccolato con
fasci del littorio.
8
135
La conquista dell’Abissinia.
Omaggio della Fabbrica
Prodotti Chimici Tecnici
A.Sutter-Genova.
Gioco di percorso a 68
caselle, pubblicitario e propagandistico delle conquiste in
terra d’Africa.
Stampato e distribuito nel
1936. Cromolitografia 45x37
cm in carta.
Il giro dell'Africa orientale. Gioco di percorso a 48 caselle della Marca Stella,
propagandistico delle conquiste in Africa orientale.
Cromolitografia 45x37 cm in carta.
136
giungla, ad esempio, vede quattro esploratori confrontarsi
con quattro malesi ritratti con la tipica espressione poco
rassicurante. L’Africa è il territorio oggetto dell’ondata di
esplorazione e conquista coloniale italiana e viene definita il
continente nero dove l’idea di alterità e mistero si mescolano
nel nome stesso.
Così accade anche per l’itinerario di Panterino, prima
personaggio animalesco, poi durante il regime antropizzato
e disegnato come bianchissimo italiano che sfida nella foresta
temibili ed enormi indigeni. Questi infatti è un magnifico
gioco di percorso edito dalla Taurinia, difficile da trovare
perché non venduto direttamente ma allegato ai libri dei
compiti della vacanze. È stato disegnato da Nava e passa in
rassegna tutti i possibili pericoli che l’eroe deve affrontare
sulla sua strada: cannibali feroci, tigri e caimani, leoni e cobra,
pellerossa e addirittura pirati. Anche nelle copertine dei
quaderni l’Africa ricorre spessissimo: con una progressione
sempre più crescente cammelli, indigeni, schiave di colore,
e soprattutto soldati coloniali in marcia e combattimenti
vittoriosi abbondano componendo un immaginario africano
diversificato e carico di avventura e curiosità sempre tenendo
ben salda la superiorità bianca e l’orgoglio del regime.
Altro affascinante gioco è l’assalto al castello che nel
1915 passa dalla tipica ambientazione settecentesca a
quella chiaramente propagandistica: i soldati italiani devono
conquistare il Castello del Buonconsiglio di Trento. La
guerra è protagonista di diversi giochi sempre di percorso:
è del 1937 il Gioco della Guerra che preannuncia scenari
futuri ma imminenti e del 1944 invece il Gioco della Borsa
Nera dove si affrontano menu per pranzi e cene, ci sono
passeggiate igieniche nei parchi, Spacci Autorizzati, Casse
comuni, carte annonarie. Da notare infine in un gioco che
ha come tema il Giro d’Italia in bicicletta la carta in alto a
137
destra dove è rappresentata la penisola con le diverse regioni:
manca il Trentino Alto-Adige e ciò testimonia che il gioco è
antecedente alla Prima Guerra Mondiale.
Scrive Umberto Eco nel suo “La misteriosa fiamma della
regina Loana”:
I miei giocattoli di un tempo erano di legno e di latta.
Sciabole, fucilino a tappo, un piccolo casco coloniale del
tempo della conquista dell’Etiopia, una intera armata
di soldatini di piombo, e altri più grandi di materiale
friabile, chi ormai senza testa, chi senza un braccio,
col solo spuntone di fil di ferro attorno a cui si reggeva
quella sorta di creta verniciata. Dovrei aver vissuto con
quei fucilini e quegli eroi mutilati giorno per giorno, in
preda a furori guerreschi. Per forza, a quell’epoca un
bambino doveva essere educato al culto della guerra.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Ringrazio Fabio Oss, collezionista di Trento, che ha messo a disposizione tutta
la sua vastissima collezione di giochi di percorso, fumetti d’epoca, giornalini
d’infanzia. Senza il suo contributo questo articolo non sarebbe stato così esemplificativo.
ANGELINI S., I 33 giochi del Mitelli, s.e. s.l. 1976.
BERTI G., La vite e il vino. Carte da gioco e giochi di carta, Edigraf Roma 1999.
[Catalogo della mostra] Costume e società nei giochi a stampa di Giuseppe
Maria Mitelli, Electa Milano 1988.
DOSSENA G., Enciclopedia dei giochi, UTET Torino 1999.
DOSSENA G., Giochi da tavolo, Mondadori Milano 1984.
GELLI J., Giochi e passatempi, Hoepli Milano 1989.
GIBELLI A., Il popolo bambino, Einaudi Torino 2005
HUIZINGA J., Homo ludens, Einaudi Torino 1973
LISE G., I giochi di carte, Milano 1988.
MASCHERONI S., Il gioco dell’oca: un libro da leggere, da guardare, da
giocare, Bompiani Milano 1984.
MEZZATOSTA M.T., Il regime fascista tra educazione e propaganda, Bologna
1978.
ZONDERVAN H., Het Spel, bij Dieren, Kinderen en Volwassen Menschen,
Amsterdam, 1928.
138
SCUOLA DELL’INFANZIA “IL
GIRASOLE “ DI MORI-TIERNO
Ricordare come occasione di riflessione.
di Loredana Michellini1
In questi tempi, dove la velocità, il correre, l’essere
sempre comunque efficienti si affermano sui valori quali
“la lentezza” o “il fermarsi” per incontrare altre persone
e altri pensieri, non dobbiamo mancare all’appuntamento
con la riflessione, per guardare come eravamo e trarne
insegnamento.
Questo invito a un viaggio nel tempo permette di rileggere insieme il percorso di cambiamento che la scuola ha
compiuto in questo ultimo trentennio. Le diverse condizioni
sociali, i mutamenti dei modelli educativi hanno influenzato
le i dee di bambino e di scuola e l’hanno trasformata.
Senza andare troppo indietro nel tempo e guardare
gli “asili di carità” nati sul finire dell’1800 come risposta
assistenziale, possiamo rivedere le linee educative proposte
dai programmi statali della scuola del 1958: erano Orientamenti didattici che per la prima volta presentavano confini
psico - pedagogici più netti e profondi.
Il bambino descritto in questi Orientamenti era molto
simile a quello descritto da Rosa Agazzi e viveva in un
terreno sociale prevalentemente agricolo, la maestra era
definita come una “chioccia” che governa “i pulcini” della sua
sezione, unico interlocutore esterno era la famiglia. In quel
Coordinatrice pedagogica della scuola di Mori Tierno. Servizio scuole dell’infanzia
Provincia autonoma di Trento.
1
139
periodo il confronto e la programmazione delle attività non
erano ancora generalizzati e i metodi educativi si traducevano
con il “lasciar fare” o attraverso un rigido autoritarismo. Lo
stesso rapporto numerico: un’insegnante per 40 o 50 bambini
confermava la necessità di esercitare uno stretto controllo
sui bambini e di impostare rigidamente tempi e attività.
La legge 444 del 1968 e gli Orientamenti del 1969
rappresentano un vero e proprio spartiacque tra l’asilo
dotato di programmi ma ancorato ai metodi assistenzialistici
140
del passato e la scuola materna che, nel ridefinire alcuni
bisogni fondamentali del bambino, ribadisce la libertà e
responsabilità didattica dell’insegnante. Da quel momento
le attività si caratterizzano in singole forme di esperienza
scolastica e si suddividono in religiosa, affettiva morale e
sociale, gioco e attività costruttive, intellettuale, linguistica,
grafico-pittorico-plastica, musicale, fisica, sanitaria.
Nel nostro territorio è la legge n. 13 del 1977 e la n. 34 del
1988 che hanno riordinato il settore della scuola materna e
comportato per la Provincia autonoma di Trento la completa
assunzione di responsabilità nella gestione nel coordinamento
e finanziamento del servizio prescolare, riconoscendo tuttavia
il valore dell’impegno dei privati, delle comunità di vallata
prevedendo un finanziamento alle scuole autonome.
In particolare l’art. 3 della Legge provinciale cita le
finalità e indica chiaramente la direzione che va oltre il modello assistenziale, viene riconosciuta come inequivocabile la
funzione educativa della scuola materna, assicura lo sviluppo
della personalità dei bambini, si offre come occasione di
eguaglianza di opportunità educative e come realtà che opera
un de-condizionamento da fattori sociali, il superamento di
ogni tipo di discriminazione per un’armonica preparazione
alla scuola dell’obbligo.
Gli Orientamenti dell’attività educativa della scuola
dell’infanzia (DPGP n.5-19/leg.1995) offrono infine le
linee pedagogiche che conducono definitivamente la scuola
materna verso la scuola dell’infanzia con l’idea di un bambino
attivo e competente e un’idea di scuola che progetta in base
ad un’interazione dinamica tra bambino, scuola, famiglia,
comunità e cultura.
Il percorso fatto dalla scuola dell’infanzia di Mori Tierno
parte da questi presupposti gli insegnanti, i genitori e la
comunità tutta intendono procedere tenendo conto dei
141
cambiamenti che la società di oggi richiede e lavorano con
impegno per una scuola attenta ai bisogni dei bambini, senza
perdere mai di vista i cambiamenti del contesto sociale, le
sollecitazioni provenienti da altre culture, le risposte alle
domande che sempre più spesso i genitori pongono per far
crescer il proprio figlio.
Il lavoro fatto in questi ultimi anni e la ricerca di nuove
forme di collegamento con il territorio ribadiscono l’importanza di una realtà dove osservare il comportamento del
bambino, a casa e a scuola, diventa un prezioso contributo
alla conoscenza della personalità infantile in evoluzione.
Le esperienze attivate e raccontate nella mostra si sono
basate sulla collaborazione tra gli adulti per realizzare una
scuola attiva a misura di bambino, dove professionalità e
affettività si intrecciano con le conoscenze e le emozioni
dell’essere genitore e insegnante.
Rovereto, 2 settembre 2009
142
I PRIMI TRENT’ANNI DELLA
SCUOLA DELL’INFANZIA
“IL GIRASOLE “ DI MORI-TIERNO
a cura del Comitato di Gestione
Ricorre quest’anno il trentesimo anniversario di un’importante realtà educativa della nostra comunità: la scuola
dell’infanzia di Tierno.
Per celebrare questo traguardo la scuola a giugno, in
occasione della festa di chiusura dell’anno, ha realizzato una
piccola mostra per presentare quelle che sono state le tappe
fondamentali di quest’impresa.
I primi sentori dell’esigenza di questa nuova realtà formativa risalgono già al 1965, ma è nel 1973 che viene presentato
un progetto vero e proprio. Il 13 settembre di quell’anno
viene pubblicato un articolo di giornale che presenta la proposta di una nuova scuola materna che possa accogliere sei
sezioni e che preveda un eventuale ampliamento. La scuola
“servirà per accogliere i bambini delle zone di Tierno, via
Terranera, Linar, Molina, Seghe prime e seconde, Besagno,
Loppio, Sano, Loppio ecc…, consentirà così di alleggerire
l’affollamento sopportato a quella di via Benedetti, che al
tempo ospitava circa 300 bambini in sei sezioni.”2
Le problematiche da risolvere per questa importante
realizzazione sono molte: a livello logistico bisogna stabilire
chi deve spostarsi dalla scuola Peratoner e come gestire le
future nuove sezioni. Per questo nella primavera del 1978
viene fatto un sondaggio per capire quante e quali famiglie
2
A Tierno il nuovo asilo. Ora si pensa al progetto, ne L’Adige del 13 settembre 1973.
143
sono disponibili a cambiare sede, e viene fatta una votazione
per decidere in riguardo alla provincializzazione o meno delle
nuove sezioni da spostare a Tierno (la vittoria è nettamente
dei favorevoli). Alle votazioni seguono assemblee dei genitori
ai quali, in questa fase di importanti cambiamenti, è bene
chiarire ogni minimo dettaglio e illustrare i criteri di gestione
delle due scuole, nelle quali confluiranno circa un centinaio
di bambini ciascuna.
Il bacino d’utenza di questa nuova scuola viene individuato
nella zona “periferica” del paese, nello specifico nella parte
che va dalla strada statale verso Besagno. Questa immaginaria linea di demarcazione, tuttora esistente per il trasporto,
era stata tracciata per poter creare un servizio adeguato alle
esigenze delle famiglie più lontane dal centro.
Conclusa la fase preliminare e a lavori ormai terminati, il
28 ottobre 1978 davanti alle autorità e alla presenza dell’On.
Senatore Gaetano Stammati, Ministro dei lavori pubblici, si
tiene l’inaugurazione della nuova scuola provinciale dell’infanzia di Mori-Tierno. L’entusiasmo non manca, le presenze
neanche. Il primo anno la Scuola ospita infatti 159 bambini,
suddivisi in sei sezioni e accuditi da 8 maestre (4 di ruolo e 4
incaricate) e 6 inservienti.
La prima coordinatrice è la dott.ssa Giacomina Cammelli, mentre la prima presidente del comitato di gestione
è Carla Delaiti Silli. Le difficoltà iniziali non sono di certo
mancate, ma è grazie a chi ha creduto e continua ancora a
credere nell’importanza della scuola materna, che si è potuto
raggiungere il traguardo dei 30 anni.
Durante questo tempo le iniziative svolte per rendere
la scuola sempre più parte integrante della comunità sono
state numerose. La collocazione decentrata dell’edificio
ha fin dall’inizio portato ad avere una costante ricerca di
contatti con le altre realtà educative e associative presenti
144
sul territorio moriano. Molte le gite a carattere educativo:
alla scuola elementare, alla biblioteca, alla cantina, dai
vigili del fuoco e vigili urbani, al comune, all’asilo nido, alla
casa di riposo e per le vie del centro; e molte anche quelle
a livello ludico: la caccia del tesoro con i genitori, le gite
a Castel Palt, a Malga Mortigola, all’aereoporto, a Castel
Beseno e al castello di Sabbionara, al Museo delle palafitte
a Molina di Ledro, al Museo di Scienze Naturali di Trento,
e poi qui ultimamente presso il Mart, il Museo Civico e altri
centri di formazione locale con la collaborazione di operatori
ambientali e forestali. Fra i tanti momenti di integrazione
con la comunità, il Gran Carnevale di Tierno è stato, ed è,
certamente uno dei più divertenti tra le iniziative proposte a
carattere locale. Per alcuni anni addirittura, grazie all’aiuto
dei genitori sono stati realizzati anche dei carri allegorici che
sfilavano per il paese.
Soprattutto durante i primi anni, il supporto e il coinvolgimento di genitori e nonni è stato fondamentale; il loro
apporto non è stato solo morale ma anche pratico. Quando le
leggi riguardanti la sicurezza ancora lo permettevano hanno
realizzato numerosi giochi e arredi per rendere l’asilo sempre
più accogliente e piacevole. Librerie, mensole, piccoli giochi,
tavoli per la farina, sono la testimonianza concreta della
loro partecipazione. Oltre all’attenzione nei confronti della
comunità circostante, la scuola dell’infanzia di Tierno nel
corso di questi anni ha voluto e saputo aprire i suoi orizzonti
a realtà meno fortunate della nostra. A questo fine sono stati
portati avanti dei progetti di solidarietà, raccolte di fondi
per dare aiuto ai bambini di quelle comunità. In particolare
un progetto mirava alla sensibilizzazione nei confronti dei
bambini non vedenti dell’Istituto Comboniano del Cuore di
Gesù (M.C.C.J.) di Padre Fabio Gilli, prete comboniano e
trentino divenuto cieco e figura fondamentale per la nascita
145
dell’istituto stesso di “Kekeli Neva” di Togoville (Togo) in
Africa occidentale per il quale i bambini hanno realizzato dei
portacandele-salvadanai per raccogliere soldi e per donare
un po’ di luce e speranza ai loro amici.
Inoltre la scuola ha collaborato con l’associazione
Kusaidia di Mori per far conoscere ai bambini la realtà dei
loro coetanei dell’Africa per la realizzazione di una scuola
materna a Lyamuluki della parrocchia di Makambako. In
quest’occasione i nostri bambini assieme ai bambini della
scuola materna Peratoner hanno realizzato una mostra che
è stata esposta alla Festa dei Popoli svolta presso l’Oratorio
parrocchiale. Oltre a questo, l’asilo è spesso stato vicino ai
bambini africani imparando le loro canzoni e raccogliendo dei
fondi e del materiale per aiutare alcune scuole in Tanzania
tramite la referente del nostro paese Silvana Gobbi.
La scuola dell’infanzia nel tempo è diventa una realtà
educativa sempre più significativa per molti all’interno
della comunità locale e quindi era diventato necessario e
fondamentale che potesse avere un’identità definita anche
da un nome. Negli anni 1990-1992 il collegio delle insegnanti
ha svolto un progetto educativo sull’importanza del nome
proprio e della propria identità e di conseguenza del nome
da attribuire al primo luogo sociale di riferimento per un
bambino. La scelta fatta insieme ai bambini è caduta su un
fiore come IL GIRASOLE - fiore sempre pronto a girare
la sua corolla verso la luce - ecco dunque la decisione di
chiamare la nostra scuola dell’infanzia con questo bellissimo
nome. Da alcuni anni a questa parte nella nostra scuola
dell’infanzia cresce la presenza di bambini provenienti da
nazioni e culture diverse, evidente segnale della continua
evoluzione della comunità moriana. Le insegnanti hanno
sempre risposto puntualmente con progetti educativi mirati
e adeguati alla realtà presente aiutando i bambini nella co-
146
noscenza reciproca e nella collaborazione usando racconti e
giochi anche provenienti da altre culture. I progetti erano
orientati a iniziative rivolte al dialogo e allo scambio per fare
in modo che diventassero occasione di crescita per tutti. La
festa del Natale, momento dell’anno scolastico di particolare
rilievo nella scuola, è sempre stata organizzata in modo
tale da far vivere a tutte le famiglie un’esperienza di gioia e
aggregazione, ponendo particolare attenzione e sensibilità
ai messaggi di pace, fratellanza, rispetto dell’altro e dialogo
con il diverso.
Durante questi trent’anni i bambini e le persone che
sono passate per le aule dell’asilo sono tantissime, e sono
proprio loro che hanno mantenuto questa istituzione viva.
Per far sì che nulla vada dimenticato, stiamo cercando di
creare un piccolo archivio fatto di documenti, aneddoti, nomi
e fotografie. Chi ne fosse in possesso e volesse condividerli,
può portarli alla scuola o consegnarli ai componenti del
Comitato di gestione.
147
ALCUNE STORIE DI DONNE
MORIANE
raccolte da Letizia Galvagni e Marcello Benedetti.
Proseguiamo con le testimonianze, iniziate l’anno
scorso, di alcune donne moriane che in vario modo si sono
distinte nella nostra Comunità: una specie di “rassegna
rosa”, che ha lo scopo di conoscere il ruolo da loro svolto
e nel contempo, riflettendo sul loro esempio, riscoprire un
importante pezzo di vita della nostra Comunità nel recente
passato.
Quest’anno presentiamo la corposa testimonianza di
Jone Benedetti e quella di Elsa Zambotti, che abbiamo
ricostruito grazie ai ricordi di una sua allieva alla scuola
di cucito e ricamo.
JONE BENEDETTI
Jone Benedetti è la persona che più è stata al servizio
della nostra Comunità con le Acli (Associazioni Cristiane
Lavoratori Italiani) ed il suo patronato. È figlia del giudice
Augusto Benedetti, stimato per la sua saggezza e disponibilità ad aiutare i moriani che si rivolgevano a lui anche
per intricatissime pratiche di successione o di divisione dei
beni. È sorella del dr. Edo Benedetti, attuale presidente
onorario del Gruppo ITAS, già sindaco di Trento, che è stato
coprotagonista assieme ad altri moriani alla Giornata della
Memoria 2007 all’auditorium comunale, la cui testimonianza
sarà pubblicata sulla seconda edizione di “Mori e la seconda
148
Guerra mondiale”. A Jone abbiamo chiesto anche di dire qualcosa ai giovani di oggi, intervento che riportiamo sotto forma
di appello ai nostri giovani, in calce a questo articolo.
“Sono nata nel 1911, profuga nell’Austria Inferiore,
venuta a Mori nel 1919, a Brunico in collegio per il perfezionamento delle lingue tedesca e francese dal 1928 al 1930. Dal
1932 al 1936 a Trento ho frequentato la Scuola Magistrale,
dal ‘36 al ‘42 presso l’Università Cattolica di Milano ho fatto
l’impiegata all’Ufficio Amici. Sono tornata a Rovereto per i
bombardamenti e per il Pippo che disturbava la notte.
Nel 1945, nel clima di riconquistata libertà e democrazia
dopo la seconda guerra mondiale, sorsero diverse associazioni
tra cui le Acli. Vennero costituite nel 1944 a Roma, dopo
la sua liberazione; nel Trentino alla fine del 1945, prima a
Trento e poi a Rovereto il nel 1946. Dapprima sotto forma
di Circoli per le riunioni e poi come Segretariati del Popolo
Acli. Dei primi dirigenti sono la sola ancora vivente. Rimasi a
Rovereto fino al 1961. Nel frattempo avevo iniziato a Mori. Mi
risulta che il Segretariato del Popolo di Mori ha avuto inizio
nel settembre 1947 fino al 1949 con Stefano Tranquillini e
Maria Marchiori; nel 1950 non so se c’era un referente; dal
1951 al 1952 c’era Emanuele (non ricordo il cognome); dal
1953 al 1960 Carmen Filagrana; dal 1960 al gennaio 1993
la sottoscritta cui subentrò Anna Maria Regolini che aveva
collaborato con me dall’inizio del 1988.
Anche la sede del Segretariato di Mori è cambiata più
volte; fino al 30 settembre 1964 presso il Bar Giardini Boschetti in Via Teatro; fino al novembre del 1965 nel Campanile
dell’Arcipretale, con entrata esterna, che dava su un poggiolo
(nel 1991 la scaletta è stata levata); dal 1965 all’agosto 1976
presso la ex Caserma degli Alpini, dove c’è ora la Cassa
Rurale. Quindi presso la biblioteca parrocchiale in Piazza Cal
di Ponte dal ’76 fino al 1993. Breve trasferimento nell’agosto-
149
settembre 1988 presso la ex sede degli Anziani, nell’ex Molino
Piccoli. Infine in Via G. Battisti (ex Comprensorio) con altri
uffici e Patronato Acli.
L’orario di apertura era il lunedì pomeriggio ed il giovedì
mattina; con la nuova sede il servizio venne esteso anche
al venerdì mattina. Le pratiche di pensione si portavano
ogni fine mese al Patronato Acli di Trento. Per rispettare
i termini di presentazione all’INPS o all’INAIL, quando
la documentazione ci veniva portata in ritardo, si lavorava
intensamente, talvolta anche di notte. Nel 1984 l’INPS
istituì un centro operativo in Via Bezzi, a Rovereto; da quel
momento il Segretariato di Rovereto diventò Patronato Acli
zonale e iniziammo a portarvi anche le nostre pratiche.
Col primo gennaio 1996 il Patronato Acli di Mori diventò
di zona, con la possibilità di una maggiore autonomia operativa.
Molte persone mi hanno aiutato, specie nella preparazione
delle dichiarazioni dei redditi, ne ricordo qualcuna: Brunetta,
postina, che veniva nelle ore libere; uno studente, Carlo,
che ora è professore; un ragioniere, Marco, che ha iniziato
con noi, è stato assunto da una Cassa Rurale, come cassiere
e poi faceva le dichiarazioni gratis per i soci della Cassa;
poi Anna Maria, Livia, Serena, Sergio, Giorgio ed Edda.
Uno degli allievi, Erminio Lorenzini, mi ha sostituita per
due anni a Rovereto e poi si è dedicato all’impegno politico,
diventando prima Assessore Comunale alle Attività Sociali
e poi Assessore Provinciale alla Sanità.
Tra i ricordi di intenso lavoro ho ancora in mente un
martedì pomeriggio del maggio 1957 a Rovereto, quando
ascoltai ben 58 persone.
Per tenerci aggiornati sulle varie normative che uscivano,
partecipavamo ad incontri formativi, tenuti da specialisti, a
Trento o a Rovereto, o a Serrada, dove avevamo una casa
150
Alpina, a S. Nicolò. I corsi erano molto interessanti perché
il metodo era colloquiale e si potevano fare domande con
risposte precise sui punti che ci risultavano meno chiari.
L’assicurazione obbligatoria all’INPS per i lavoratori
dipendenti in Trentino ha avuto inizio il primo marzo 1926,
mentre in Italia (nelle altre parti del Regno, come si diceva
allora) era entrata in vigore il primo luglio 1920. Per colmare
questa disparità fu approvata la Legge 35 del 1/2/1962 che
dava la possibilità di riscattare in modo totale o parziale i
periodi di lavoro prestati e retribuiti, durante detto periodo,
nelle Province della Venezia Tridentina (Trento e Bolzano) e
della Venezia Giulia (Fiume, Gorizia, Pola, Trieste e Zara).
Per ottenere il riscatto previdenziale le persone di ambo i
sessi, di età tra i 15 e i 65 anni (esclusi gli impiegati con retribuzione superiore a Lire 350 mensili dal ‘20 al ‘22) dovevano
presentare documentazione probatoria dei datori di lavoro.
Molti trentini poterono così avere la pensione di vecchiaia o
di invalidità (pagando un anno di volontaria) oppure, pagando
la volontaria per gli anni mancanti, ottenere la pensione
di vecchiaia (con i quindici anni di contribuzione). Per far
fruire del provvedimento tutti gli aventi diritto, ricordo che
il Patronato Acli di Trento chiese alle Parrocchie le liste dei
nati dalla fine del 1800 ai primi anni del 1900, che vennero
personalmente informati dell’opportunità che si presentava
loro. Noi andavamo nei paesi e frazioni a raccogliere le
domande, per aiutare tanta povera gente e, tramite i parenti
trentini, abbiamo messo al corrente della cosa anche gli
emigrati all’estero (es. Argentina, Francia, ecc…). Penso che
per i Trentini, specie i più giovani, sia importante conoscere
questi fatti, che hanno contribuito ad alleviare il duro vivere
di quegli anni della nostra gente.
Ricordo che anch’io ho fatto la dichiarazione, a nome
dei miei genitori, defunti da poco, per una colf di Besagno
151
che avevamo assunto per alcuni anni, dopo la nascita di mio
fratello; oltre all’importo parziale del riscatto, ha pagato la
volontaria ed ha poi fatto domanda di pensione di invalidità,
che ha avuto esito positivo, data anche l’età.
Nel 1966 ho maturato il diritto alla pensione di vecchiaia,
dopo 19 anni di assicurazione obbligatoria e poi ho lavorato
come volontaria. È venuto ben due volte l’Ispettore Perugini
dell’Ispettorato del Lavoro, a vedere per quale motivo non venivano più pagati i contributi assicurativi: ero volontaria!!!
Quando veniva promulgata qualche nuova legge in
materia previdenziale, oltre agli incontri di aggiornamento
a Trento, si informava la gente nei paesi, tramite le varie
addette sociali. Molte persone si sono rivolte nel tempo al
nostro Ufficio di Mori, per risolvere pratiche di pensione:
VO (= vecchiaia), IO (= invalidità) e SO (= reversibilità),
di assicurazione volontaria, di assegni famigliari. Facevamo
dei solleciti a Roma , alla sede centrale dell’INPS, tramite
l’on. Veronesi che era un aclista, per le Pensioni di Guerra,
che erano ferme da anni. Preparavo tre foglietti intestati alla
Camera dei Deputati (uno restava a noi e due a lui) e lui si
recava di persona nei vari uffici; scriveva a mano sul foglietto
la risposta che riceveva, ce la restituiva ed a nostra volta la
comunicavamo all’interessato.
Ricordo la premiazione, il primo maggio 1969, festa del
Lavoro a Trento, con la consegna da parte del Presidente
del Patronato Dott. Massimo Mattevi delle medaglie d’oro
e del diploma di benemerenza per il lungo servizio prestato
a dieci addetti sociali, tra cui la sottoscritta.
All’inizio del dicembre 1990 festeggiammo i trent’anni
delle Acli di Mori: storia, vita e volontariato che curai in un
articolo pubblicato sul giornale L’Adige.
152
Jone Benedetti con l’immancabile borsetta.
Nel 1996 fui invitata dalle Acli di Trento per festeggiare il
cinquantesimo e fui la prima chiamata sul palco, perché avevo
iniziato per prima il lavoro del Patronato, sia per l’età.
Quello stesso anno ci trovammo con le addette di Rovereto
e i dirigenti di Mori, alle Grazie di Arco, per la S. Messa e poi
il pranzo, in cui mi fu donato un quadro ricordo raffigurante
il santuario di Monte Albano, per i trent’anni di lavoro a Mori
ed un cesto di fiori ad Anna Maria Giacomolli, addetta Sociale
di Brentonico, mia collaboratrice in diverse occasioni.
153
Per i sessanta anni delle Acli della Vallagarina il 18
marzo 2006 fui premiata con molti altri che avevano lavorato
per tanti anni. Nel giugno del 1996 festeggiammo a Mori il
cinquantesimo delle Acli; per l’occasione preparai una poesia
con tutta la storia della nostra attività.
Un aneddoto desidero ricordare di quando era al Segretariato di Rovereto: nel giugno 1955 la Scuola Assistenti
Sociali di Trento mi manda due letterine per chiedere se due
studentesse roveretane del secondo anno potessero venire
da noi a fare un po’ di pratica sull’assistenza sociale rivolta
alle persone, specie anziane (ora si direbbe a fare un periodo
di stage). Rimasero per un mese, al termine del quale ci fu
richiesta dalla scuola una valutazione, che serviva per il voto
finale di diploma. Era un modo per integrare la preparazione
teorica con un po’ di pratica sul campo; molta gente veniva
nei nostri uffici convinta di poter aver diritto alle prestazioni
pensionistiche ma molte volte appuravamo che non possedevano i requisiti previsti dalla legge. Abbiamo svolto con
piacere questo servizio in collaborazione con la Scuola, di
integrazione studio-lavoro, orgogliosi per la considerazione
di cui godeva il nostro Ufficio ed il nostro lavoro.
Jone conclude: Ecco quanto ricordo ed ho trovato riassunto nel mio quadernetto delle memorie, del mio lavoro
nelle Acli. Amen !!!
APPELLO AI GIOVANI
Quello che qui di seguito avrete modo di leggere è quanto
mai singolare: per l’idea che è sottesa, per il modo con cui
viene espressa, per i suoi contenuti, certamente non nuovi,
ma presentati come attuali perché escono da una lunghissima
esperienza di vita e da un vivissimo desiderio di raggiungere
154
la mente e il cuore dei giovani.1 Potrebbero essere consigli
di una madre, di una nonna, di un’educatrice: in ogni caso
sempre spinte utili per chi nella vita non vuole fallire, anzi
impegnarsi nel bene della comunità in cui vive. C’è un po’
di tutto: noi rispetteremo il più possibile il susseguirsi dei
consigli così come sono stati redatti, anche a costo di non rispettare un certo ordine logico. Jone Benedetti, novantasette
anni compiuti, per un cinquantennio impegnata con le Acli
nel lavoro sociale, non è preoccupata di questo, ma del bene
che si prefigge di raggiungere.
(In corsivo si trascrivono le sue espressioni, mentre con
il carattere normale si scrive quanto è il frutto della rielaborazione, sempre nel rispetto dello scritto originale).
Siate sportivi e atleti, come lo sono stata io da studente:
è il primo consiglio motivato dalla preoccupazione della salute
per chi tende alla vita comoda e troppo sedentaria; non disdegnare l’atletica, proprio come lei l’aveva fatto, partecipando
a corse di staffetta, e per questo anche premiata2.
Fate le scale a piedi e non sempre con l’ascensore:
per tenere i muscoli in esercizio. Non adoperate sempre le
macchinette per fare dei semplici calcoli matematici: è la
preoccupazione per una mente vigile e per la memoria che
può impigrirsi e arrugginirsi.
Occupatevi del “Campo Sociale” tenendovi aggiornati
sulle leggi che sentite alla televisione o apprendete dalla
stampa per poter essere utili ai vostri familiari, amici
e conoscenti nel momento del bisogno. Per chi ha lavoTestimonianza raccolta da Marcello Benedetti con il contributo di don Lucio
Depretto.
1
In questo consiglio viene fuori la cultura della sua famiglia; suo fratello Edo è
stato presidente della Quercia e del CSI ed ora dell’ITAS volley e comunque sempre impegnato nel mondo dello sport. Per conoscere altri interessanti aspetti della
sua intensa vita, nello specifico, la lucida testimonianza di combattente durante la
seconda guerra mondiale, si rinvia al sito www.marcellobenedetti.eu.
2
155
rato per più di cinquant’anni nel campo sociale e conosce
l’importanza della legislazione, in continua evoluzione
e aggiornamento il consiglio è più che pertinente e sta
a dimostrare la mantenuta sensibilità per il bene della
comunità.
Jone passa poi a parlare delle fasce più deboli dei cittadini, soprattutto degli anziani costretti a lasciare il loro ambito
familiare e ritirarsi nelle case di riposo: vogliate bene agli
anziani, andate a trovarli in casa o nelle case di riposo o di
soggiorno: fate loro compagnia con parole di amicizia e di
conforto, specie verso coloro che non hanno parenti o amici
che non li vanno a trovare.
Un particolare accento viene dato per l’apprendimento
delle lingue, tedesco e francese soprattutto. Questo interesse
per queste due lingue, più che per l’inglese, è comprensibile
per una impiegata che si è trovata a dover aiutare, nella
traduzione di lettere o compilare questionari, ex immigrati
o vedove provenienti dai luoghi di provenienza. Jone ricorda
quante volte in corriera o in negozi ha potuto essere di aiuto
a tedeschi in transito che non riuscivano a farsi capire con il
bigliettaio o con i commessi.
Non solo leggi o lingue, ma anche le arti nobili hanno
determinato la sua formazione umana: Jone parla di musica
dimostrando conoscenza e competenza: Bach, Beethoven,
Listz, Strauss, Brahms, Puccini, Verdi, ecc. hanno accompagnato la sua vita, senza peraltro disdegnare la musica
moderna: Partecipate volentieri a qualche concerto: questo
vi dico perché sono amante della musica e ho imparato a
suonare sia il pianoforte che il mandolino.
Si passa poi a dei consigli pratici indirizzati alle giovani,
alle quali si raccomanda di partecipare a qualche corso di
taglio e cucito, di ricamo e di rammendo, di economia
domestica, per apprendere tante cose utili per la vita di
156
famiglia, per risparmiare e non usare il sistema “usa e
getta” che rende difficile arrivare alla fine del mese. Occorre
un po’ di economia, come si usava un tempo.
Colei che ha speso molto del suo tempo nel volontariato
senza puntare sulla ricompensa ha le carte in regola per
delle raccomandazioni e riflessioni estremamente attuali in
cui il lavoro diventa più precario ed è, anche giustamente,
sempre più visto come mezzo di personale realizzazione o
come missione: pensate a quelli che non hanno un lavoro o
sono disoccupati o malati.
Molti dei suoi consigli sono poi finalizzati a quella bella
espressione che sta purtroppo cadendo di moda: “educazione”.
E qui spazia dal comportamento sulle strade raccomandando
di evitare gli schiamazzi, le scritte o gli imbrattamenti sugli
edifici, il corretto comportamento nelle compagnie senza
fare “i cretinetti”. C’è un pressante invito alla vera gioia,
alla lotta alla musoneria, la droga, l’alcool come salvaguardia
del dono della vita e della sua integrità. E, dulcis in fundo,
un invito al rispetto per i familiari che troppe volte sono in
ansia per il ritorno del figlio che tarda troppo a ritornare,
specie il sabato sera.
Scusate se vi ho annoiato, ma l’ho fatto per vostro bene!
Jone Benedetti
157
ELSA ZAMBOTTI3
Vivono tuttora nella borgata, in piena discrezione,
persone ritirate in casa per la loro età, ma che per il loro
passato straordinario, meritano di essere non solo ricordate, ma pure ringraziate per ciò che hanno concretamente
fatto e lasciato dietro di loro. Persone che non hanno mai
suonato la grancassa, che non hanno mai avuto titoli sui
giornali, ma che proprio per questo meritano di avere
almeno una volta uno spazio fra i tanti, troppi, richiami
della stampa.
Per questo è particolarmente grato parlare di Elsa,
richiamare qualche tratto della sua vita, soprattutto in
relazione a quello che è stato il suo costante impegno di
educazione e formazione a favore delle ragazze di Mori, in
periodi non sempre facili né favorevoli.
Quanto qui viene presentato è il frutto dei ricordi particolari di due sue allieve e da qualche colloquio concesso da Elsa.
Certamente ci saranno lacune perché qualcosa non vuole
essere portato a conoscenza (perché fa parte di quell’angolo
segreto che ognuno di noi gelosamente custodisce), qualcosa il
tempo l’ha fatto dimenticare, e molto fa parte di quel passato
che ormai troppe persone hanno portato con sé nell’al di là.
La vita di Elsa fu tutto “cucito e ricamo” In questo eccelse
per la sua innata abilità e per la capacità di trasmettere alle
ragazze la sua arte e, attraverso questa, formazione alla vita.
Aveva cominciato ancora nel lontano 1936, la sera, a Mori, nella vecchia sede delle scuole elementari, in contemporanea con
Saccone, Castione, Marco e Loppio. In queste sedi dislocate,
su quelle strade sconnesse e polverose, vi si recava a piedi
o in bicicletta, provando un senso di compensazione quando
Testimonianza raccolta da Letizia Galvagni, con il contributo di Marcello Benedetti
e don Lucio Depretto.
3
158
Elsa Zambotti posa fiera tra alcune sue giovani allieve. Alle loro spalle,
il risultato delle sue lezioni di cucito e ricamo (aprile 1999).
incrociava, su quei medesimi percorsi, i lavoratori che, come
lei, a piedi o in bicicletta, andavano o venivano dal lavoro della
Montecatini. Presto fu invitata a lasciare le sedi periferiche e
a dedicare tutto il suo tempo alle ragazze di Mori.
Nel frattempo, su sollecitazione dell’allora Superiora
dell’Asilo Peratoner, suor Carmelina Fondriest, affrontava
a Roma gli esami di Stato, superati brillantemente, con lo
scopo di avere le carte in regola per l’insegnamento.
Il luogo della scuola di cucito passò da una sede all’altra,
sempre però in ambienti decorosi che ben si adattavano a quel
genere di attività. Dall’attuale aula del consiglio comunale si
traslocò nell’aula di disegno delle vecchie scuole elementari,
poi in quelle nuove, per far ritorno in un’aula del vecchio
edificio delle scuole elementari nel frattempo diventato sede
del Municipio di Mori.
I corsi di insegnamento proseguirono fino al 2001, sempre
159
accompagnati dalla passione per il cucito e il ricamo della sua
maestra e dall’amore per la formazione umana e spirituale
delle allieve. Puro volontariato, solo disturbato da qualche
“mancia” che le partecipanti ai corsi costringevano Elsa, suo
malgrado, ad accettare. Molte allieve hanno messo a frutto
gli insegnamenti della maestra, in servizio delle proprie
famiglie, e pure intraprendendo delle vere e proprie carriere
professionali.
Anche durante la calda stagione il corso non veniva
sospeso: i grandi esodi estivi che caratterizzano il tempo
attuale non erano allora semplicemente pensabili. Le
giornate di vacanza dalla scuola erano opportunamente
riempite da questi lavori femminili che occupavano le lunghe
giornate estive e insieme insegnavano cose utili alla vita.
Evidentemente le aule venivano abbandonate e i tavolini
da lavoro si trasferivano ai giardini di piazza Cal di Ponte,
alla frescura dei folti alberi e al mormorio del Cameras non
ancora coperto dai lavori di sistemazione della piazza. A mezzogiorno si correva a casa per il pranzo, poi si ritornava fino
alle 16.30. Il gioco non era escluso: la località Corno invitava
a qualche fuori-programma. Le ragazze cresciute, ormai con
un occhio puntato a un futuro di spose, ne approfittavano
per prepararsi il corredo: si comprava il metraggio di stoffa
necessario, si iniziava con l’orlo e avanti con i ricami; ma
insieme si imparava a conoscersi e a fare gruppo.
Mentre si ricamava c’era pure il tempo di un momento
di preghiera, magari il santo Rosario, e poi qualche bel
canto. Su una cosa Elsa era intransigente: quello di non fare
pettegolezzi (non sappiamo onestamente fino a che punto la
censura riusciva a funzionare!).
Nel suo lavoro Elsa era perfetta, precisa, pignola. E
questo lo pretendeva anche dalle alunne. Un punto fatto
male doveva essere disfatto e rifatto, fino a quando andava
160
bene. I lavori depositati negli armadi venivano controllati,
e in mancanza di qualcuna assente per malattia, continuati
dalla stessa maestra. Era il ricamo la specialità di Elsa, senza
disdegnare il lavoro a maglia e uncinetto.
In primavera arrivava il momento di concludere: mostra
dei lavori e gita in pullman per un momento di divertimento.
Questi ricordi sparsi e le notizie raccolte, ci accorgiamo,
danno solo un’idea della ricchezza interiore di Elsa che ha
fatto delle sue peculiari doti naturali e della sua formazione
un mezzo per aiutare una fetta della sua generazione a
crescere ed entrare preparata nella vita.
***
E noi ringraziamo di cuore Jone ed Elsa per il loro prezioso servizio che hanno svolto, per tanti anni e con impegno
e passione, a favore della nostra Comunità.
161
IN QUINTA ELEMENTARE
NEL 1938
di Renato Bianchi
Un’aula disadorna, ma con grandi finestre che fan passar tanta luce
dietro la cattedra, sul muro, i ritratti del Re Imperatore e del Duce.
Con i calamai pieni d’inchiostro
tre file di banchi a due posti in legno vetusto
in cui stan, scomodi, circa trenta irrequieti scolari,
pochi i bravini, molti i mediocri e alcuni ri-ripetenti proprio somari
tenuti benissimo a freno con le parole e le … mani
dall’unico, bravissimo, mitico maestro Beltrami
che con grande intuito, pazienza stimoli e gradualità
Alunne al lavoro nell’aula scolastica nel corso integrativo tenutosi a Mori
(Fotografia Roner & Parziani, conservata presso la Biblioteca comunale).
162
di ognuno sapeva far emergere le latenti personali capacità.
Niente zainetti, astucci, diari e capi griffati,
ma indumenti cuciti in casa e spesso rattoppati
così come la borsa di tela da portare a tracolla,
che era di pochi poter avere, di finta pelle, una cartella
il cui contenuto è ben presto elencato:
il sussidiario, il libro di lettura, due o tre quaderni di piccolo formato
e, in un semplice astuccio o una scatoletta di legno,
l’asticciola con i pennini, la matita nº 2 per il disegno
e, non per tutti, poche altre matite colorate
ridotte ben presto a mozziconi nelle tonalità più usate.
Poche ed essenziali le materie d’insegnamento:
la grammatica per saper parlare bene e corretto, fare di conto,
scienze naturali, geografia e storia
e, per allenare la mente, tante poesie da mandare a memoria
ma, soprattutto, si insegnava la buona educazione,
il rispetto per le cose, le persone e i simboli della Patria e della religione.
Corso di cucina scolastica (anni Trenta del secolo scorso)
(Fotografia Roner & Parziani, conservata presso la Biblioteca comunale).
163
Merita un ricordo l’unico bidello, Domizio il suo inconsueto nome,
un simpatico uomo piccoletto che, ancora mi domando come,
pur con il parziale aiuto della moglie Celestina,
riusciva a tenere in ordine tutte le aule (circa una ventina)
nonché corridoi e scale e, nella stagione invernale,
ad alimentare a legna le altrettante stufe ad olle.
Questo ho nella memoria delle elementari di Mori,
una scuola povera di mezzi, ma ricca di valori
che, insieme a quelli inculcatici dai nostri genitori
come sobrietà, ubbidienza, osservanza dei doveri,
accumulati come un piccolo prezioso capitale umano,
ben ci aiutarono in un tempo ahimè poco lontano
ad affrontare temprati pericoli, disagi, rinunce, privazioni e lutti
conseguenti al divampar del tragico conflitto che ci coinvolse tutti.
164
MORI IN UNA INEDITA POESIA
DIALETTALE DEL MAESTRO
DEFLORIAN1
Tutti a Mori conoscono, od avranno avuto occasione di
indirettamente apprezzare quell’intraprendente e volitivo
maestro Mario Deflorian, originario della valle di Fiemme2,
di professione insegnante di scuola elementare. Il tempo che
quivi il Deflorian dimorò fu piuttosto breve3, sufficiente però
perché i censiti individuassero in lui un uomo capace di fare
e di creare. Di alta statura morale, dotato di notevole estro
realizzativo, di servizievole entusiasmo per tutte le cose belle
e gentili, l’insigne maestro emerse quasi subito dalla massa
amorfa.
E certo è che le sue poesie sentimentali e romantiche, le
sue canzoni nostalgiche, le sue realistiche cartoline disegnate
a mano e certamente migliori di certi picassiani ghirigori,
valsero ad aumentare a Mori e nel Trentino la sua fama ed
il suo ascendente.
Egli scrisse, in dialetto, una poesia anche sulla nostra
borgata che forse nessuno conosce. È una inedita primizia
che ci affrettiamo a pubblicare certi di fare cosa gradita ai
lettori.
Trattasi di una poesia semplice e lineare, senza pretese
liriche; la si ponderi bene però perché essa, nella sua saporosa
e quasi ingenua sostanza, dice molte, moltissime cose.
Articolo attribuibile a Guido Boninsegna, pubblicato originariamente senza nome
dell’autore sul quotidiano Alto Adige del 26 agosto 1951.
1
2
Nato il 1903, morì nel 1968 (ndr).
3
A Loppio dal 1946 al 1948, ed a Mori per i sei anni successivi (ndr).
165
Una delle caratteristiche cartoline disegnate ed autoprodotte dal
maestro Deflorian all’indomani del secondo dopoguerra. La serie
completa dovrebbe essere composta di sei diversi soggetti.
166
Dopo il titolo “Mori” l’autore così continua:
L’è ‘n bel paes al sol, lonc
na mez’ora
En fianc a l’Ades, propi al
prinzipiar
De la val che per Lopi e
Nac ven fora
Da Riva e Arc. Nesun sa
ricordar
Quando ‘l sia nat; l’è vecio
de sicura,
Ordegni è sta scavà e antichi
arnesi
Doprai za e mili ani, e gh’è
scritura
Che de la val l’è ‘n tra i primi paesi.
Tra ‘l Zugna e ‘n lac, ai pai
del Stif e ‘l Baldo
Na guera ‘l l’ à spianà, l’è
nat pu saldo,
El gà: vigne tebac fruti e
moreri,
Seghe marmi colori
cree fereri,
Masere, conzapel, sasi e molini
bestiam cantine SCAC
Montecatini;
L’à dat scienziati artisti e
gran guerieri,
Toca a noi farlo ades più bel
de ieri.
167
Scarica

Documento (File "Campaný_2009