EL CAMPANÒ DE SAN GIUSEPPE Rivista di storia, letteratura, arte e curiosità a cura della Biblioteca intercomunale “Luigi Dal Ri” di Mori 2009 In copertina: Rosina e Giulia Montanari in una foto del 1901. (per gentile concessione del Museo Civico del Risorgimento di Bologna). Redazione presso: Biblioteca intercomunale “Luigi Dal Ri” di Mori Via Scuole n. 7 - Tel. 0464 916260 Fax 0464 910684 e-mail: [email protected] In redazione: Edoardo Tomasi Marco Torboli «El Campanò de San Giuseppe» Anno XXIV - 2009 Aut. Tribunale di Rovereto n. 122 del 3.4.1986 Direttore responsabile: Marco Torboli Fotocomposizione, fotolito e stampa: La Grafica Srl - Mori (Tn) Copertina: Lorenzo Manfredi Finito di stampare nel mese di settembre 2009 Tiratura n. 800 copie Per i numeri arretrati rivolgersi alla Biblioteca “Luigi Dal Ri” di Mori È aperta a tutti la collaborazione gratuita. La Redazione lascia agli Autori la responsabilità delle opinioni e dei giudizi espressi. È fatto divieto di riprodurre, anche parzialmente, articoli ed illustrazioni senza riferimento alla rivista e agli Autori. II PRESENTAZIONE Per il secondo anno El Campanò de San Giuseppe ritorna ad incontrare la comunità di Mori in stretta simbiosi con gli eventi della Ganzega d’Autunno. Non si tratta di una combinazione casuale ma di una scelta ben precisa che la Pro Loco Mori Val di Gresta, che ne cura la pubblicazione unitamente al prezioso apporto del Comitato di Redazione e della Biblioteca Luigi Dal Ri ha ritenuto opportuno compiere. Se, come scrisse Oscar Wilde, “la tradizione è la migliore innovazione” a buon diritto i nostri luoghi, il nostro territorio, la nostra gente, in questi anni anche attraverso le proposte della Ganzega, hanno saputo darsi una identità nel proporre le tradizioni di un popolo, quello trentino, la sua storia, l’importante bagaglio delle generazioni passate, come patrimonio per interpretare le grandi sfide del presente. L’edizione 2009 del Campanò de San Giuseppe, arricchita nei contenuti che un Comitato di Redazione attento ed appassionato ha saputo proporre, farà da retroterra storico agli eventi della Ganzega d’Autunno ma più ancora avvicinerà il lettore al nostro vissuto quotidiano, al “valore uomo” con il suo patrimonio di vita e ai luoghi della memoria. III Il grazie della Pro Loco Mori Val di Gresta va a tutti coloro che hanno contribuito all’edizione 2009 del Campanò, al Comitato di Redazione, alla Biblioteca Luigi Dal Ri, agli operatori economici e ai redattori dei contenuti che ogni anno con passione ci propongono quei pezzi della nostra storia altrimenti destinati a perdersi nel tempo. Il Presidente Flavio Bianchi Pro Loco Mori Val di Gresta Consiglio di Amministrazione Presidente Vicepresidente Segretaria Tesoriere Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere e Assessore al Turismo Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere Consigliere Bianchi Flavio Bertolini Cristian Caliari Romina Angelini Giorgio Angeli Katia Bisoffi Marco Chizzola Carlo Comper Gino Dall’Alda Giampaolo Ferrari Lucia Gazzini Valter Girardelli Lucio Manica Giampaolo Marzari Fiorenzo Stimpfl Verena Zenatti Mirko IV EDITORIALE Vista la positiva esperienza dell’anno scorso, con la stampa di un numero speciale de El Campanò de San Giuseppe in occasione della Ganzega d’autunno, si conferma anche in questa edizione l’abbinamento Campanò-Ganzega. Lo slittamento della pubblicazione dalla Festa di primavera all’autunno è il risultato di un lungo percorso che ha portato prima il Comitato Turistico Locale ed ora la Pro Loco a valorizzare ed investire sulla Ganzega. Il Campanò rimane comunque il naturale compagno di viaggio di una festa che porta per le vie di Mori la storia e la cultura della nostra borgata. Un “contenitore” che da oltre trent’anni si affianca alle varie proposte turistico-culturali offerte ai residenti ed ai graditi ospiti della manifestazione, cercando sempre nuovi argomenti e spunti di riflessione tra le pieghe di un passato davvero ricco di storia. In questo numero, torna, dopo sei anni di assenza, l’agenda moriana con una carrellata di fatti salienti del 2008. Per molti sarà una sorpresa sapere che pure a Mori c’era un “ghetto” ebraico e che le caratteristiche “fratte” furono ricavate dagli erti fianchi della montagna utilizzando anche degli esplosivi: ce lo racconta un “inviato nel tempo” davvero speciale, Guido Boninsegna (1923-1984) storico corrispondente del giornale Alto Adige nel secondo dopoguerra, di cui riproponiamo un colorito “inno” a Ravazzone, scritto più di cinquanta anni fa. Ci accompagnerà nella lettura anche la nostra affezionata collaboratrice, quasi centenaria, Ione Benedetti. Questa edizione è particolarmente tinta di rosa, con una rubrica al femminile dedicata a due donne contemporanee ed V altre due, entrambe di nome Giulia, la cui storia personale si è intrecciata con quella della borgata nei secoli scorsi. Ci è parso doveroso ricordare Paolo Orsi nel 150° anniversario dalla nascita, mentre spiace rilevare che non sarà più possibile fare altrettanto sulla tomba di un nostro valido artista, Antonio Mayer, scomparsa di recente dal cimitero di San Marco a Rovereto. E poi tante curiosità e aneddoti di storia e personaggi locali: un unguento ritenuto miracoloso, un fortuito ritrovamento archeologico che ci farà fare un salto indietro nel tempo di 500 anni, la trascrizione di una biografia ottocentesca di Gustavo Modena, le nozze del conte Giuseppe Scipione di Castelbarco con Costanza Visconti, il trentesimo anniversario della Scuola dell’infanzia “Il Girasole” di Tierno. Senz’altro più tecnico l’articolo di Marta Villa che analizza i classici giochi da tavolo, rivolti sì ai ragazzi ma con intenti non proprio pedagogici… Per accompagnare gli ospiti della Ganzega in questo viaggio a ritroso, ci saranno vari interventi riferiti ai tempi della Grande guerra, al lodevole lavoro di ripristino sul Nagià Grom, alla mostra documentaria sui Volontari Ciclisti Automobilisti realizzata per l’occasione a Mori da Pierluigi Faré, al fortunato acquisto del collezionista Ivan Damin su una bancarella. Nel concludere la breve panoramica di questo nuovo numero del Campanò approfittiamo dell’occasione per porgere un caro saluto agli amici ed ospiti di Lugo e per ringraziare la Pro Loco Mori Val di Gresta per la grande disponibilità dimostrata nel sostenere il nostro lavoro di Redazione. Infine, un ringraziamento particolare a Edoardo Tomasi, responsabile della Biblioteca comunale, che svolge il suo impagabile ruolo di coordinatore di redazione del Campanò con professionalità e soprattutto con passione. Il Direttore responsabile Marco Torboli VI IN QUESTO NUMERO AGENDA MORIANA a cura di Michele Comper pag 1 Le immagini raccontano la Prima guerra mondiale sul fronte Monte Baldo - Val di Gresta di Ivan Damin pag. 13 Una cucina da campo con vista sulla valle del Cameras. Le sorprese degli scavi sul Nagià Grom di Marco Torboli pag. 22 V.C.A. (Volontari Ciclisti Automobilisti). Il battaglione lombardo, i futuristi, Dosso Casina di Pierluigi Faré pag. 34 I miei ricordi della Grande guerra di Jone Benedetti pag. 41 Omaggio a Giulia Montanari, gentildonna romagnola a cura di Edoardo Tomasi pag. 51 La merenda del signore di Marco Avanzini pag. 70 Il “ghetto”: sua storia e caratteristiche di Guido Boninsegna pag. 74 Il matrimonio tra il leone e la biscia: le nozze tra Giuseppe Scipione Castelbarco e Costanza Visconti del 29 aprile 1696 di Sergio Beato pag. 77 Troppo tardi! La scomparsa della lastra sepolcrale di Antonio Mayer segnalazione di Edoardo Tomasi pag. 88 GRANDE GUERRA E DINTORNI STORIA LOCALE VII PERSONAGGI - CURIOSITÀ Gustavo Modena visto dai suoi contemporanei di Pier Ambrogio Curti pag. 92 Giulia Calame - Modena di Eugenio Comba pag. 107 L’attività archeologica di Paolo Orsi nel nostro comune di Guido Boninsegna pag. 112 Quando un pezzo di pane ed un vecchio cappotto significavano tutto di Luigi Zoller pag. 115 L’unguento “miracoloso” detto “ont Battistìn” di Gianna Gentili pag. 119 Le “fratte”: laboriosità dei nostri contadini di Guido Boninsegna pag. 122 Il volto e la storia di Ravazzone di Guido Boninsegna pag. 126 E giocavamo alla guerra! Bambini, giochi e propaganda tra le due guerre mondiali. Una lettura socio-culturale di Marta Villa pag. 130 ANNIVERSARI Ricordare come occasione di riflessione di Loredana Michellini pag. 139 I primi trent’anni della Scuola dell’infanzia “Il girasole” di Mori-Tierno a cura del Comitato di Gestione pag. 143 AMARCORD VIII PAGINE IN ROSA Alcune storie di donne moriane: Jone Benedetti Elsa Zambotti di Letizia Galvagni e Marcello Benedetti pag. pag. 148 158 In quinta elementare nel 1938 di Renato Bianchi pag. 162 Mori in una inedita poesia dialettale del maestro Deflorian pag. 165 SPAZIO POESIA IX X AGENDA MORIANA a cura di Michele Comper Gennaio • Il 2008 moriano si apre con una delibera della Giunta provinciale che chiude una lunga lotta di due comunità grestane, quella moriana di Valle San Felice e quella di Ronzo Chienis, in merito all’accorpamento delle rispettive scuole elementari. Una «battaglia» che per mesi ha animato la vita della valle di Gresta e della borgata, e riempito pagine di giornali. La vera svolta, tuttavia, c’è stata già in precedenza, all’inizio dell’anno scolastico, quando molti genitori di Valle San Felice hanno scelto di iscrivere i propri figli nella scuola di Ronzo. Risultato: il piccolo plesso scolastico del paesino grestano è chiuso per mancanza del numero minimo d’iscrizioni. La battaglia però prosegue: la preoccupazione riguarda il diritto al trasporto dei giovani studenti, che parrebbe garantito solo nel caso di scelta verso la scuola di Ronzo, e non nell’eventualità della scelta di quella di Mori. Infine, in aprile, arriva in Comune una lettera che porta in calce la firma di Lorenzo Dellai: il trasporto degli alunni da Valle San Felice verso Mori sarà assicurato per l’intero corso di studio elementare agli alunni iscritti alla prima classe dall’anno scolastico 2008/2009, ovvero per i successivi cinque anni. • Una bella, singolare notizia arriva da Ferrara: il racconto vincitore assoluto del primo concorso indetto dal Comune 1 di quella città, ispirato alla «ferraresità», è stato scritto da una giovane moriana. Si chiama Sara Passerini e il suo «Mura di nebbia», assieme ad altri quattro racconti ritenuti meritevoli di stampa, ha dato vita ad una piccola raccolta, «Nuove storie ferraresi», in ricordo delle «Cinque storie ferraresi» di Giorgio Bassani. • Con l’inizio 2008 torna il battagliero, creativo comitato «Vivi Loppio» e tornano i suoi caratteristici cartelloni di protesta, stavolta anche in lingua tedesca: la richiesta è di un attraversamento viario del paese che garantisca sicurezza e vivibilità. La proposta: l’interramento della Gardesana per l’intero tratto all’interno del paese, per una lunghezza di un chilometro circa. Febbraio • Con febbraio è ancora il sistema scolastico ad andare in crisi, stavolta con la scuola materna «Girasole» di Tierno, dove si verifica una mega spaccatura tra comitato di gestione e genitori, seguita ad una contestata modifica all’orario. S’arriva addirittura alle dimissioni delle tre rappresentanti degli insegnanti e del rappresentante degli ausiliari dal comitato di gestione, un clamoroso atto di protesta cui il comitato di gestione risponde mantenendo ferma la propria posizione: l’orario (quello al centro della polemica) non si tocca. Ma a breve un secondo problema: il calo del numero di iscritti a favore dell’asilo di via Scuole, che alcuni attribuiscono in parte al nuovo orario, meno gradito ai genitori. Il rischio - poi evitato - è di perdere la quinta sezione, dopo che la sesta già è venuta meno l’anno precedente. 2 Marzo • La casa di soggiorno «Cesare Benedetti» lancia un grido d’allarme, un’accorata richiesta d’aiuto all’amministrazione comunale e a tutta la comunità. Il presidente Gianni Pizzini è in Consiglio comunale a spiegare che se già sarà arduo chiudere il bilancio 2007 in pareggio, il 2008 sarà un anno di tensioni. I costi aumentano, la scelta di un servizio di qualità vuol dire pagare 68 dipendenti (per 87 ospiti) anziché i 47 riconosciuti (e finanziati) dalla Provincia; ma le rette non si possono adeguare. L’assessore provinciale in carica, Remo Andreolli, promette di finanziare una piccola palestra da gestire in convenzione con l’Azienda sanitaria, ma la grossa novità è il progetto di un nuovo hospice, una struttura di cure palliative per malati terminali. • Una buona notizia riguarda il teatro «Gustavo Modena», uno dei più antichi del Trentino: l’accordo firmato il sindaco Mario Gurlini con il proprietario del cortile sul quale si trova l’uscita di emergenza, infatti, mette fine ad un problema che si trascina da anni. L’uscita di sicurezza, prevista dalle normative, si trova infatti su suolo privato, quindi inagibile. Ma ecco la novità: l’accordo con il proprietario del cortile consente di rendere agibile l’uscita di sicurezza e il teatro (in precedenza si poteva riempire solo parzialmente). L’accordo costa al Comune cinquemila euro all’anno (più 400 euro per la stipula del contratto), la validità è di quattro anni (poi si vedrà). 3 Aprile • Una novità tecnologica d’estremo interesse viene dalla cantina Mori-Colli Zugna: è perfezionato e funzionante, infatti, il Gis, il sistema informativo geografico che consente di produrre, gestire e analizzare dati spaziali associando a ciascun elemento geografico una o più descrizioni alfanumeriche. In parole povere, un software per gestire in modo rapido e pratico la mole di dati che le cantine hanno a disposizione e di cui hanno esigenza di servirsi, mettendoli in relazione alle particelle catastali in cui sono suddivise le campagne. Una sorta di grande anagrafe dei campi da cui è possibile ricavare numerosissime elaborazione dati. Maggio • La primavera porta in borgata una nascita storica: sulle ceneri gloriose del Comitato turistico locale nasce la nuova Pro loco Mori Val di Gresta. L’assemblea costituente, nella serata del 15 maggio, vanta già un record: quello della partecipazione. Nella borgata delle 80 e più associazioni, l’ente turistico è il parto di oltre 120 soci fondatori: quasi l’uno e mezzo per cento della popolazione. Una nascita programmata da lungo tempo e nei dettagli: alla nuova Pro loco si lavora dal 2005 e ogni passo del delicato passaggio - in un mondo fatto di volontariato e dunque di sensibilità da rispettare, di storie da valorizzare - è stato attentamente disegnato. Così, all’assemblea costituente la “Mori che si dà da fare” c’è tutta e sottoscrive il canovaccio scritto a molte mani in mesi di lavoro, incontri e confronti: la designazione del consiglio d’amministrazione, come 4 voluto fortemente da tutti, avviene per acclamazione dei 14 membri proposti dal comitato promotore, cui s’aggiunge il membro di designazione comunale. «Passato» all’unanimità lo statuto, e confermati i nomi del comitato promotore anche per il collegio sindacale (Luigi Bertolini, Antonino Ruggeri ed Emanuela Zorer) e per il collegio dei probiviri (Giorgio Benoni, Armando Busolli e Filippo Tranquillini). All’inizio di giugno l’elezione del direttivo: all’unanimità Flavio Bianchi è presidente. In un clima di ampia condivisione, il neo eletto cda, alla sua prima seduta, elegge all’unanimità pure il vice presidente Cristian Bertolini, la segretaria Verena Stimpfl e il tesoriere Giorgio Angelini. • Mezzo secolo: un lungo passato, tanti ricordi, ma lo sguardo è al futuro e alla nuova mega sede ipogea da oltre 20 milioni di euro. Il 16 maggio nella palestra della scuola media la grande festa per i cinquant’anni di vita della Mori-Colli Zugna. In realtà, due compleanni accorpati: le date di nascita della cantina di Mori e di quella di Serravalle, la Colli Zugna, sono rispettivamente il 1957 e il 1959. E così il super compleanno s’è scelto di festeggiarlo «a metà strada», nel 2008, rinforzando ancora una volta la scelta della fusione. Una festa in pompa magna, per la cantina e per la cooperazione.Una festa che rende omaggio ai tanti protagonisti di un’avventura che viaggia su binari ben diritti, ma che iniziò tra mille difficoltà: a partire dalla gelata primaverile che distrusse i due terzi dell’uva, nella prima vendemmia del 1958. Alla celebrazione sono presenti molti dei soci fondatori, dieci per la cantina di Mori e cinque per quella di Serravalle • La soglia-choc dei 10 mila abitanti, la borgata che s’avvia a meritare lo status di città, la supererà ben prima delle 5 previsioni statistiche - che la danno al 2015 - cioè nel giro di pochissimi anni. Il dato del 30 aprile 2008: 9.213 moriani residenti; la crescita annua che supera le 150 unità; ma soprattutto le corpose lottizzazioni in corso a Terranera e nel Pgz9: tutto fa ritenere che Mori potrebbe spiccare il grande salto addirittura prima del 2010. Il che vuol dire che presto serviranno i servizi del caso: asili nido, scuole, punti di ritrovo, viabilità. E perfino la rete degli acquedotti potrebbe entrare in crisi. Ma per tutto questo, i soldi chi ce li ha? • La previsione e l’allarme sono dell’architetto Enzo Siligardi, il consulente del Comune che in Consiglio comunale presenta il documento preliminare del nuovo Prg, approvato in un clima di ampia condivisione. «Abbiamo fatto 17 incontri pubblici - dice il sindaco Mario Gurlini - coi quali tutta la comunità ha contribuito a scrivere questo piano. Adesso faremo la gara per affidare la stesura definitiva: che dovrà necessariamente seguire le indicazioni guida di questo documento». Vincitore della gara sarà lo stesso architetto Siligardi. • Verrà dal successo del Natale moriano la tanto sperata rinascita del centro storico e in generale dei negozi, delle piccole attività e dei locali pubblici della borgata? Oltre 70 persone riempiono la sala conferenze della Cassa Rurale in occasione della prima uscita pubblica informativa del nascente centro commerciale naturale; più precisamente dell’organismo di marketing locale proposto dal gruppo di operatori capitanati da Gigi Bertolini e sostenuti dall’assessore Franco Sandrinelli: «Centriamo Mori». Il cui logo stacca con un diverso colore «Centri» e «amo», con chiaro significato. Un incontro al quale gli operatori economici si presentano già uniti, forti dell’esperienza nata 6 nel dicembre 2007, quando decisero - anziché di andare in Comune a chiedere - di far da sé, addobbando il centro storico e le vetrine e proponendo eventi e animazione. Un’esperienza di svolta da cui è nata la consapevolezza che, davvero, l’unione fa la forza. • Il mese di maggio si conclude con una polemica che guadagna ampio spazio sui giornali: si tratta di trilli, canzonette e marce trionfali che troppo spesso irrompono all’improvviso in Consiglio comunale. Sono le suonerie dei telefoni cellulari, dei consiglieri come del pubblico, che invariabilmente ad ogni seduta, di quando in quando saltano fuori da non si sa dove. Un fenomeno epocale, un dato di folklore della contemporaneità tecnocratica che ultimamente, però, nel Consiglio comunale moriano ha raggiunto livelli di guardia. Al punto che Leonardo Zanfei (Uniti per Mori) ha deciso di passare all’azione e di proporre una mozione in Consiglio comunale per “far rispettare la norma di buon comportamento di spegnere i cellulari (o quantomeno di metterli in vibrazione silenziosa) al pubblico presente in aula ed ai signori consiglieri”. Giugno • A livello politico, è da registrare lo «sbarco» in Consiglio comunale dell’Unione per il Trentino, il nuovo partito post-Margherita nato a Miola di Pinè. Mori è il primo Comune ad ufficializzare il passaggio. • Alla fine del mese si tiene anche la prima assemblea del Partito democratico del Trentino: l’ordine del giorno prevede vari punti di discussione e confronto, ma il momento centrale è quello dedicato alla prospettiva di costituzione di un circolo Mori-Ronzo Chienis. 7 Luglio • Primavera del 2011 con le nuvole a specchiarsi nuovamente, dopo oltre mezzo secolo, nelle acque ritrovate del lago di Loppio? La data è ufficiale e ad indicarla è il Servizio Bacini Montani della Provincia che dà per completato in meno di tre anni l’impegnativo, delicato e controverso progetto che vuol riportare in vita il lago scomparso negli anni Cinquanta a causa dei lavori di costruzione della galleria «Adige-Garda». Il bando d’asta indica un costo complessivo che sfiora i tre milioni di euro (di cui circa due a base d’asta) relativo alla prima fase del progetto: lo scavo di una galleria drenante di 850 metri circa, chiamata ad intercettare le acque che ancora circolano nell’ammasso carbonatico occidentale, prima che siano intercettate dalla galleria Adige-Garda. Le acque così captate saranno convogliate nell’alveo dell’ex lago. Agosto • Una vera svolta per il gruppo di lavoro che da anni va raccogliendo, con mille difficoltà e con risultati non sempre all’altezza dello slancio e della fatica, testimonianze e informazioni sulla seconda guerra mondiale in borgata: il Comune, impegnato nel riallestimento dell’archivio comunale nella nuova sede di via Terranera, ha offerto il proprio sostegno, affidando ad un dipendente comunale il compito di collaborare nella ricerca documentale. Una novità che per la prima volta consente di accedere ad una grande quantità di documenti. • È partito l’iter che darà alla borgata l’opera pubblica più attesa: la nuova scuola media da 15 milioni di euro. 8 La giunta Gurlini ha dato incarico all’architetto Daniela Salvetti di Avio di approntare il progetto preliminare, funzionale alla richiesta di finanziamento da inoltrare alla giunta provinciale, nella successiva primavera. Per l’amministrazione comunale, in tutti i casi si preannuncia un impegno notevolissimo, attorno ai 5 milioni di euro. Settembre • Grande impressione e cordoglio in borgata e in valle di Gresta per l’improvvisa scomparsa di Mauro Maggiani, apprezzato consigliere comunale e instancabile portavoce delle istanze grestane, in Consiglio dal 2004. • Nella mattina del 2 settembre il Comune di Mori è invitato a partecipare alla cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Firenze a Ingrid Betancourt, la donna politica colombiana militante nella difesa dei diritti umani, rapita il 23 febbraio 2002 dalla guerriglia delle Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, e liberata dalla prigionia dopo 6 anni, il 2 luglio 2008. Questo prestigioso traguardo è conseguente alla mozione, votata dal Consiglio comunale di Mori nel lontano 2003, che esprime una ferma condanna per il rapimento e chiede al Governo l’attivazione di tutti i canali diplomatici per la liberazione della Betancourt. • Ultimi giorni di settembre: si presenta un nuovo numero dell’enciclopedia moriana della storia minore, ovvero il Campanò, annuale raccolta di studi storici, vicende umane, documenti e varie curiosità, arrivata alla 23ª edizione. Per la prima volta l’uscita della rivista non è abbinata alla tradizionale Festa di primavera (com’è sempre stato in 9 passato), ma in concomitanza con quel grande contenitore storico che è la Ganzèga. Il numero del 2008 è dedicato quasi esclusivamente al tema dell’emigrazione trentina. Con le oltre duemila pagine stampate finora, il Campanò sta diventando oggetto da collezionisti. Ottobre • Mezzo milione di euro: di tanto è lievitato il costo del Parco dei sapori di Loppio. Così, il Consiglio comunale dice sì all’integrazione della progettazione esecutiva - firmata dagli architetti Carlotta e Francesco Cocco - da 3,5 a 4,3 milioni di euro. La causa del rincaro sta tutta nel tempo trascorso invano: in particolare, il notevole ritardo di questo progetto è legato al fallimento della prima localizzazione, fermata dal ricorso vincente al Tar del proprietario del terreno soggetto ad esproprio. La delibera del Consiglio, dunque, modifica il programma generale delle opere pubbliche e il protocollo d’intesa coi Comuni partner, Isera e Ronzo Chienis, e apre la strada all’iter di costruzione del centro di valorizzazione dei sapori trentini, e della valle di Gresta in particolare: alle prese - come si sa - con una crisi profonda, cui il «Parco» promette di dare risposte. • Parte dal teatro intitolato a Gustavo Modena - di cui nel 2011 ricorrerà il 150° della scomparsa - il grande esperimento della Provincia per dare brio e promuovere una «vera» frequentazione ai tanti palazzi e luoghi pubblici dedicati alla cultura, ma troppo spesso vuoti e silenziosi. Un progetto pilota, presentato nel teatro della borgata, che mette insieme il Comune di Mori, il Centro servizi culturali Santa Chiara, la compagnia «Teatrincorso» e le associazioni culturali moriane, con il sostegno dell’As- 10 sessorato provinciale alla cultura e della Cassa Rurale di Mori-Val di Gresta. Primo risultato concreto, la scrittura e messa in scena dello spettacolo “Amare foglie” dedicato al duro lavoro delle donne addette al trattamento delle foglie di tabacco, dal campo aperto all’essiccatoio. La Biblioteca realizza una mostra fotografica con tanto di catalogo su questo specifico argomento, già oggetto in passato di vari approfondimenti. Novembre • Dalla culla direttamente al «part time»: dopo il «rodaggio» di un anno sperimentale, è ufficialmente in funzione la nuova sezione a tempo parziale dell’asilo nido «La formica». Il taglio del nastro della nuova sezione - di cui si occupano in prima persona i mini utenti - è alla presenza di una folla di bambini, genitori e amministratori comunali. All’amministrazione Gurlini è costato quasi 200 mila euro recuperare gli spazi necessari, nella palazzina che fino al 1975 già fu sede dell’Onmi (l’Opera Nazione per la protezione della Maternità e dell’Infanzia), e per ristrutturare lo spazio esterno, con un nuovo piccolo parco giochi su via Scuole. La nuova sezione a tempo parziale (orario 7.30-12.30) è ricavata al piano terra dell’edificio. • Per Flavio Chizzola un vero plebiscito: 384 voti a fronte di 330 presenti, 90 deleghe e qualche decina di schede nulle. In una delle assemblee più partecipate degli ultimi anni, in un auditorium comunale stracolmo (ci sono pure i neo rieletti consiglieri provinciali Tiziano Mellarini e Franco Panizza, oltre al presidente di Cavit Adriano Orsi), la cantina Mori-Colli Zugna assegna il secondo mandato al successore dell’indimenticato Francesco Sartori, scomparso 11 nel 2005. C’è poi la notizia che con la nuova sede ipogea da oltre 20 milioni di euro si parte: i primi sbancamenti sono previsti a giorni, mentre il 9 dicembre si chiude la gara d’appalto per le opere edili: 30 le ditte che partecipano alla selezione e che si contendono una partita da 9 milioni. A breve anche l’appalto per le attrezzature. Dicembre • C’è voluta una lunga estate di piogge, seguita da un autunno dal maltempo particolarmente robusto, ma il lago di Loppio infine è tornato: silenziosamente, ha anticipato gli esiti - attesi ma non certi - del famoso, complesso progetto di rinvaso della Provincia. • L’anno si chiude con una“grana” che riguarda la telefonia mobile: il Comune decide di ricorrere in appello presso il Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar che ha dato ragione a Omnitel-Vodafone, consentendo - contro il volere del Comune che possiede un apposito sito attrezzato, costruito di recente - l’installazione di un ripetitore nell’immediata vicinanza del centro storico, in via Marconi, vicino alla Famiglia cooperativa e non lontano dalla scuola media. È l’ultimo colpo di scena nella lunghissima lotta «contro le antenne», ovvero contro le compagnie di gestione della telefonia mobile e i loro progetti d’installazione di ripetitori sul territorio moriano, che in questo caso si sposta a Roma e diventa scontro aperto con il Tribunale amministrativo regionale di Trento. 12 LE IMMAGINI RACCONTANO LA PRIMA GUERRA MONDIALE SUL FRONTE MONTE BALDO – VAL DI GRESTA di Ivan Damin UNA FOTO INEDITA DEL CAPITELLO DI SANTA BARBARA Nel pur vasto campo del collezionismo, è ancora possibile trovare ai nostri giorni delle vere e proprie “chicche” rimaste nascoste per quasi un secolo in chissà quali e quanti cassetti. Cartolina viaggiata entro busta, datata 19 agosto 1960 (Grigolfoto, Mori). 13 Per gli appassionati collezionisti, poi, i mercatini d’antiquariato offrono spesso abbondante scelta di materiali della Grande guerra cartoline, fotografie, documenti, divise, decorazioni, medaglie, cartine geografiche, ecc. ecc.). In uno di questi mercatini, su una bancarella che esponeva cartoline e giornali d’epoca, trovai una fotografia che attirò subito la mia attenzione. Si trattava di un’istantanea scattata durante la Grande guerra in Val di Gresta. La foto ritrae alcuni ufficiali austro-ungarici davanti al caratteristico capitello di Santa Barbara, costruito da Alois Pichler di Bressanone nel 1915. Presumibilmente la foto fu fatta durante la visita al fronte dell’Arciduca Leopold Salvator. L’Arciduca è il primo seduto a sinistra con l’impermeabile. Gli altri ufficiali nella foto sono i vari comandanti della zona e parte dello Stato maggiore, al seguito dell’Arciduca. 14 È interessante confrontare questa immagine con quelle delle pagine 47-49 pubblicate nel 2004 dalla Biblioteca comunale Dal Ri nel settimo volume della collana Neroverde, a cura di Alessio Less ed Oswald Mederle1 e con la bella cartolina edita da Giovita Grigolli (Grigolfoto) probabilmente alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. UNA BARACCA MILITARE SULLE BALZE DEL MONTE FAÉ Esistono, ovviamente, molte altre fotografie riguardanti la Val di Gresta durante la Grande guerra, ma sono piuttosto rare quelle relative al Monte Faé. Ricordi di guerra in Val di Gresta, a Nago e alla Rocchetta 1915-1918, con testo in italiano ed in tedesco. 1 15 Grazie ad un recente acquisto su e-bay, è possibile mostrare anche due immagini di una baracca militare austroungarica costruita nei boschi di quella zona. Sul retro sono indicati la data del 4 marzo 1918 ed i cognomi dei graduati ritratti: purtroppo non sappiamo che fine abbiano fatto quei giovani sorridenti. Come migliaia e migliaia di loro coetanei, dall’una e dall’altra parte del fronte, un destino tragico li aveva costretti a sacrificare gli anni più belli della loro vita al demone della guerra. Ora tra quelle rocce non risuonano più i colpi secchi dei fucili o il rombo del cannone: le fortificazioni, i camminamenti, le trincee, grazie al lavoro di alcuni volontari, vengono restaurati e recuperati per poter essere visitati da tutti, dall’esperto escursionista alla scolaresca in gita. Con l’augurio che la riscoperta di questi manufatti faccia riflettere i visitatori sull’inutilità della guerra. 16 LA CALDA ESTATE DEL 1918 SUL DOSS ALTO Il Doss Alto di Nago si trova lungo le pendici nord occidentali del monte Altissimo a poca distanza dal confine del comune di Mori ad est e di Nago verso ovest. Dalla sua posizione a quota 703 metri si domina la valle di Loppio ed anche parte della piana di Mori. Allo scoppio delle ostilità tra l’Italia e l’impero austro-ungarico nel maggio 1915, il Doss Alto ed il massiccio dell’Altissimo furono abbandonati dagli austriaci, che si ritirarono sulle posizioni di Malga Zures – passo S. Giovanni – Nago e verso la Val di Gresta; questa zona venne subito occupata dalle truppe italiane. Da quel luogo gli italiani dominavano le prime linee austro-ungariche, da Malga Zures al passo di S. Giovanni, la parte terminale del lago di Loppio, le prime linee di Castel Verde, osservando le posizioni delle artiglierie austriache Doss Alto in una recente fotografia. 17 dislocate presso Castel Gresta e controllando il paese di Loppio. Con questa breve introduzione ed osservando la fotografia, si ha un’idea di come fosse importante e strategica la posizione di Doss Alto per il dominio che aveva sulla valle di Loppio, principale via di accesso per il lago di Garda. Ora analizzeremo due importanti battaglie per il possesso del Doss Alto di Nago: quella del 15 giugno 1918, con la conquista austriaca della posizione, e quella del 3 agosto 1918, con la riconquista del Doss Alto da parte italiana. L’ATTACCO AUSTRO-UNGARICO Il 15 giugno 1918, mentre sul Piave l’esercito austroungarico iniziava l’offensiva contro le truppe italiane (la cosiddetta “battaglia del solstizio”), in Vallagarina le truppe austriache attaccavano le posizioni italiane sul Doss Alto. Verso le 3 di notte l’artiglieria austro-ungarica della valle di Gresta iniziò il tiro sulle posizioni italiane di quota 703 di Doss Alto. Poi il tiro delle artiglierie si allungò anche verso le retrovie, sui camminamenti e le mulattiere. Altri colpi furono sparati sulle linee telefoniche provocando la rottura delle stesse, così che le truppe italiane non potevano comunicare con i loro comandi. Le truppe d’assalto austro-ungariche avanzarono durante il tiro della propria artiglieria, superarono i reticolati ed eliminarono le poche vedette italiane superstiti, e procedendo nei camminamenti, arrivarono nei pressi di Doss Alto. Alle 4 e 30 gli austro-ungarici fecero irruzione sulla posizione ed entrarono nelle caverne ricovero, catturando i soldati italiani e facendoli loro prigionieri. Verso le 5 il tiro dell’artiglieria austro-ungarica diminuiva d’intensità e poi 18 Telefono da campo austro-ungarico. Con questi rudimentali apparecchi telefonici si tenevano le comunicazioni tra trincee e posto comando (collezione Damin). verso le 6 cessò definitivamente. Verso le 7 – 7 e 30, quota 703 di Doss Alto era in mano austriaca. Il giorno seguente, il 16 giugno, il bollettino di guerra austro-ungarico annotava: “Si comunica ufficialmente che nel settore di Riva e nel settore dell’arciduca Massimiliano, abbiamo strappato agli italiani il Doss Alto nella regione di M. Baldo, facendo 100 prigionieri e catturando 3 cannoni”. In questa battaglia le perdite italiane furono di circa 18 19 uomini di truppa ed un ufficiale morti, e circa 70 prigionieri. Le perdite austriache erano di circa 5 o 6 soldati. LA RICONQUISTA ITALIANA Il mattino del 3 agosto verso mezzogiorno, senza alcuna preparazione d’artiglieria, il 29° battaglione d’assalto degli Arditi italiani muoveva contro le posizioni di Doss Alto. L’ora per l’attacco e l’assenza di fuoco di copertura furono voluti Ufficiali e soldati italiani nella zona del Doss Alto (collezione Damin). 20 dal comando italiano, primo per non allarmare gli osservatori austriaci, poi perché a quell’ora vi era la distribuzione del rancio, e le vedette austro-ungariche spesso e volentieri si abbandonavano ad un certo rilassamento nelle ore diurne. Conquistata la posizione, con grande slancio da parte degli Arditi, verso le 13 le artiglierie austriache aprirono il fuoco sulla posizione, lanciando alcune unità al contrattacco. Ma anche le artiglierie italiane del monte Baldo iniziarono il tiro contro le truppe nemiche, le quali si ritirarono verso la loro linea. Verso le 15 il Doss Alto era interamente in mano alle truppe italiane. Essi catturarono 172 soldati e 6 ufficiali austro-ungarici e si impadronirono di 8 mitragliatrici, un lanciafiamme, un proiettore a luce elettrica, 2 apparati telefonici, e diversi fucili, pistole e materiale sanitario. Le perdite di questa battaglia furono di 20 soldati ed un ufficiale per gli austro-ungarici, mentre gli italiani lamentarono la perdita di 2 ufficiali e circa 10 uomini di truppa. Dopo questa azione Doss Alto rimase fino alla fine della grande guerra in mano italiana. 21 UNA CUCINA DA CAMPO CON VISTA SULLA VALLE DEL CAMERAS. LE SORPRESE DEGLI SCAVI SUL NAGIÀ GROM di Marco Torboli Durante la prima guerra mondiale la Valle del Cameras e le montagne che la costeggiano a nord e a sud furono aspramente contese dagli schieramenti italiani da una parte Il paese di Valle San Felice da una postazione per mitragliatrice. 22 ed austroungarici dall’altra, ed oggetto di uno speculare, immenso lavoro di scavo per realizzare dei campi trincerati, delle postazioni per mitragliatrici o d’artiglieria di tutti i calibri, avvalendosi in modo davvero ingegnoso della naturale conformazione del terreno. Più che una guerra fatta di grandi battaglie, lungo l’asse del Cameras si combatté una guerra di logoramento, con nutriti scambi di artiglieria che miravano principalmente a distruggere le vie di comunicazioni e creare i maggiori danni possibili al nemico. A guerra finita, le trincee abbandonate divennero infatti un’inestimabile risorsa per tutti coloro che, ritornati alle proprie case, le avevano trovate saccheggiate oppure distrutte. Legittimati da annose sofferenze e pesanti danneggiamenti subìti, gli abitanti delle nostre valli svuotarono di ogni bene Osservatorio in cemento armato con vista sul paese di Mori. 23 baraccamenti e casematte, le smontarono, utilizzando quello stesso materiale per ricostruire le proprie abitazioni. Anche dalle trincee e dai camminamenti fu prelevato ogni pezzo di metallo e di legno, mentre i “recuperanti” si muovevamo per i campi di battaglia nel pericolosissimo lavoro di raccogliere i pezzi di ordini esplosi ed inesplosi, al fine di scomporli e venderli. Col passare del tempo le trincee furono soggette a cedimenti dei muri a secco e, di conseguenza, andarono quasi a scomparire sommerse da cumuli di detriti e dalla vegetazione. Nonostante siano passati oltre novant’anni da allora, ancora oggi si possono scorgere dei frammenti di questa gigantesca ragnatela di morte che avviluppava tutta la valle e le pendici delle nostre montagne. In parte hanno resistito, oltre che all’inevitabile logorio del tempo, anche al selvaggio assalto dei “recuperanti”. Chi frequenta il monte Altissimo ha avuto sicuramente occasione di visitare sia i camminamenti che ne solcano la cima e che videro per i tre anni di guerra il costante passaggio delle vedette degli alpini, sia le postazioni create per i pezzi di artiglieria che lanciavano verso le postazioni austriache in Val di Gresta. Ed è per riportare alla memoria questi ultimi luoghi che proprio gli alpini del Gruppo ANA (Associazione Nazionale Alpini) “Remo Rizzardi” di Mori nel 2001 hanno iniziato un impegnativo lavoro di ripristino del fitto complesso di strade, sentieri, trincee e manufatti del monte Nagià Grom in Val di Gresta, di cui abbiamo già scritto ampiamente su questa stessa rivista nel 2004.1 TORBOLI, M., Il Monte Nagià Grom, tra presente e passato, STA ne: El Campanò de San Giuseppe, A. 19 (2004), pp. 13-23. 1 24 Lavori di scavo e rifacimento dei muri a secco di una trincea. Allora riportammo che i lavori sarebbero terminati quello stesso anno, eppure è passato un lustro e quel promontorio che domina Mori e Valle San Felice è ancora oggetto dei lavori degli alpini. “Quest’anno dovremmo finire”, mi assicurano l’ex capogruppo Spartaco Avanzini ed il segretario Francesco Silli. Ed infatti ad inizio agosto 2009, quando compio la mia visita al Nagià Grom, è concluso il ripristino di gran parte delle trincee. Qui e là però mi vengono mostrate delle linee in mezzo al bosco: “Sotto i nostri piedi passa un camminamento. Vedi: unisce questa trincea a quella sotto”. E già intuisco che i lavori non sono ancora terminati, ecco nascere un nuovo progetto cui si dedicheranno con passione. In questi otto anni di lavori gli alpini hanno speso oltre 12.000 ore/uomo sul Nagià Grom; sono stati disboscati e ripuliti 1200 metri di strade, 2100 metri di sentieri e mulattiere, 3000 metri di trincee e camminamenti con rifacimento dei muri a sec- 25 co, 5 manufatti, 7 caverne cannoniere. Sono state inoltre poste 6 tavole con panche, 6 bacheche e 25 tabelle segnaletiche. Ci mettono il cuore gli alpini qui sul Nagià Grom. Ti accolgono sulla veranda del loro bel deposito attrezzi e, tra un panino ed un bicchiere di vino, capisci che a loro piace proprio quello che stanno facendo e che il loro lavoro non terminerà con lo scavo di tutte le fortificazioni, bensì continuerà anche con la loro manutenzione e soprattutto con la divulgazione di quanto è stato ripristinato. Sfogliando il libro firme si leggono le dediche di chi, accompagnato dagli alpini e da un operatore del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, quest’anno ha visitato il Nagià Grom: 25 scuole e gruppi da tutta Italia, soprattutto tra aprile e maggio, cui ne seguiranno un’altra decina quest’autunno. Poi i turisti inviati dall’APT in collaborazione con il gruppo Albora, gli Il deposito attrezzi, base logistica degli alpini sul Nagià Grom. 26 ospiti abruzzesi della SAT di Mori e tutti i turisti giunti anche grazie alle indicazioni fornite dall’info point della Pro Loco a Loppio. In pochi mesi sono saliti più di mille tra ragazzi ed adulti, che già fanno del Nagià Grom una delle maggiori attrazioni turistiche del Comune di Mori. Arrivare in zona infatti è semplice: si può partire, per un giro completo, da Valle San Felice, dove si lascia l’auto nei pressi del cimitero, prendendo poi la forestale per la Val Piole. In alternativa, salendo in auto da Valle San Felice verso Nomesino, ci si può incamminare dal bivio per Manzano. Tutti i percorsi sono ben segnalati, sia da singoli cartelli che da bacheche, le quali mostrano una panoramica sull’intera area e ne raccontano la storia. I gruppi che giungono in pullmann possono raggiungere agevolmente il Nagià Grom esclusivamente da Valle San Felice, poiché la strada verso La “cannoniera”, postazione scavata per artiglieria di grosso calibro. 27 Manzano è troppo stretta per consentire il passaggio degli autobus. Da qualsiasi parte si salga si possono raggiungere, percorrendo trincee oppure mulattiere e sentieri, le opere ripristinate dagli alpini: la cisterna, la piazzola per il generatore, la grande cannoniera scavata nella roccia, le postazioni per mitragliatrice. Alcune trincee sono abbastanza strette e venivano probabilmente percorse solo in un senso; altre sono più larghe, soprattutto nei punti ove vi erano le postazioni di tiro o i punti di osservazione. Sulla cima, al posto della vecchia croce di legno, ne è stata installata una assemblata da Franco Bertolini di Manzano con putrelle d’epoca recuperate in una casa demolita e portata in loco con una teleferica costruita appositamente. Presso il sito sono visitabili anche due interessanti osservatori. Uno, che punta verso il monte Altissimo, è costituito da una fossa in cemento alla quale recentemente è stato ricostruita, prendendo spunto da fotografie dell’epoca, la copertura in legno. Il secondo, di cemento armato, guarda verso Mori ed è stato messo in sicurezza coprendolo con una griglia metallica al fine di consentirne il passaggio nel livello superiore. Da pochi mesi sono state posizionate anche due piccole croci, entrambe donate dal brissinese Bruno Dorigatti: la prima guarda verso Valle San Felice e risale alla fine dell’Ottocento; è stata restaurata dalla “Schwarzes Kreuz Tirol”, che ha donato anche la targa con la scritta, in italiano e tedesco, “Ricordatevi di quelli che su questi fronti diedero la vita per la patria”. La seconda, del 1886, è posizionata più verso Mori ed è accompagnata da una targa che ricorda i giovani Vettori Luigi, Bertolini Valerio e Bertolini Vito periti il primo nel 1921 ed gli altri nel 1935 a causa dell’esplosione di ordini bellici della prima guerra mondiale. Purtroppo, entrambe le croci sono state oggetto recente- 28 L’osservatorio con la copertura in legno ripristinata dagli alpini. mente di inqualificabili atti vandalici alla fine di agosto 20092, ma sono state prontamente ripristinate dagli alpini. Il sito più interessante e sorprendente, però, è di recente scoperta. Dal pendio, tra gli arbusti, spuntava un piccolo manufatto di cemento, che agli occhi attenti degli alpini è parso essere la parte terminale di un comignolo. Dopo uno scavo lungo ed impegnativo sono ritornate alla luce le cucine che servivano i 160 soldati della compagnia austriaca in servizio sul Nagià Grom. Le cucine erano dotate anche di un deposito di acqua, che veniva pompata direttamente dalla cisterna principale. Interrate per novanta anni, le strutture in cemento della cucina si sono conservate in buono stato, ma ora gli alpini stanno pensando ad una idonea copertura. Lungo le mura perimetrali delle cucine sono stati ritrovati i Cfr l’articolo pubblicato ne L’Adige del 31 agosto 2009, Le croci della Guerra in mano ai vandali. 2 29 La croce restaurata dalla “Schwarzes Kreuz Tirol”. resti di un altro manufatto, probabilmente la mensa ufficiali. Questo è quanto concluso fino ad ora, ma come detto rimarrebbe ancora molto da fare, poiché nel periodo bellico il Nagià Grom era una piccola e ben organizzata cittadina, che ora sta tornando alla luce un po’ alla volta. È probabile che nei prossimi anni si continuerà a migliorare alcuni tratti di trincea, ma soprattutto si ripristineranno i collegamenti dalla Val Piole e dal fondo valle. 30 La croce a ricordo dei tre bambini morti per lo scoppio di ordigni bellici. Dalla Lasta, a Mori Vecchio, fino alle porte di Manzano si inerpicano infatti prima una strada e poi un camminamento che sono già stati resi percorribili ma che necessitano ora di un fine lavoro di ripristino. Per questi ultimi interventi ci si avvarrà probabilmente della manodopera degli operai della Provincia Autonoma di Trento. Va precisato che tutti gli interventi finora compiuti sono stati possibili grazie al volontariato degli alpini e di quelli che 31 La cucina emersa dagli scavi. Riferimento bellico lungo il camminamento dalla Lasta a Manzano. 32 loro definiscono “gli amici degli alpini” e al finanziamento del Comune di Mori e, per quanto riguarda il deposito degli attrezzi, della locale Cassa Rurale. L’inaugurazione del settembre 2009 sembra essere non la conclusione, ma solamente una importante tappa dell’intenso lavoro degli alpini. Consigliamo a tutti salire sul Nagià Grom: nell’assoluta tranquillità del luogo, godendo della vista sulla Valle del Cameras e sul Baldo, si potrà rivivere l’esperienza di chi, novant’anni fa, combatteva proprio in quei luoghi una insensata Grande guerra. La croce di ferro sul Nagià Grom. 33 V.C.A. (VOLONTARI CICLISTI AUTOMOBILISTI). IL BATTAGLIONE LOMBARDO, I FUTURISTI, DOSSO CASINA di Pierluigi Faré Premessa: l’articolo che segue vuole solo introdurre l’argomento V.C.A. che sarà oggetto di una specifica mostra temporanea, a cura dello scrivente in collaborazione con la Biblioteca comunale di Mori, in occasione della Ganzéga d’autunno 2009. Saranno esposti, oltre alle biciclette dell’epoca, alcune fotografie, cartoline, giberne, spillette, coccarde, distintivi, una rara medaglia, una fascia da braccio, ecc.: tutto materiale originale, frutto di una ricerca che dura da diversi anni e prosegue tuttora. Per gli orari e la sede dell’esposizione si rinvia al programma ufficiale delle manifestazioni. All’alba del 1901 nasce un primo saggio di volontariato ciclistico a fini militari,organizzato dal Touring Club di Bologna. Nel 1904 viene effettuato un esperimento di vaste proporzioni in Lombardia: in collaborazione con reparti di Bersaglieri ciclisti, l’esercitazione aveva come scopo la difesa della sponda occidentale del lago di Garda. Si dava così inizio al primo tentativo di addestramento militare, facendo sorgere parecchi reparti di ciclisti Volontari in diverse città d’Italia. Al riconoscimento ufficiale dell’Associazione, avvenuto 34 Un drappello di V.C.A. in posa per il fotografo in un’immagine d’epoca. nel febbraio 1905, i componenti di ogni gruppo, muniti della propria bicicletta, dotati di armamento concesso dalle società del tiro a segno, hanno un unico segno di riconoscimento: un bracciale tricolore con stampata la sigla V.C.A. (Volontari Ciclisti Automobilisti). Dal 1905 in poi, la preparazione e l’addestramento dei V.C.A. si fanno sempre più intensi, e con legge del 16 febbraio del 1908 si istituisce il Corpo Nazionale di Volontari Ciclisti Automobilisti, sottoposto alla vigilanza del Ministero della Guerra, il quale ne approva lo statuto. Ai V.C.A. viene consegnata l’uniforme di panno grigioverde corredata da un copricapo a forma tondeggiante con visiera in cuoio nero. L’armamento è costituito da una rivoltella per gli uffi- 35 ciali, per i volontari e graduati un moschetto con baionetta e relativi accessori e buffetterie. L’ammissione al Corpo comporta un’età non inferiore ai 16 anni. Nel febbraio 1915 il ministro Zuppelli sottoscrive l’istruzione per l’impiego di guerra delle milizie volontarie con particolare riferimento all’impiego dei V.C.A. Nel maggio 1915 l’Italia entrò in guerra e i futuristi si riconobbero subito nelle motivazioni di questo conflitto. I primi ad arruolarsi volontari furono Umberto Boccioni, Anselmo Bucci, il giovane architetto Antonio Sant’Elia e lo scrittore Filippo Tommaso Marinetti, raggiunti poco dopo da altri artisti: i pittori Mario Sironi, Achille Funi, Carlo Erba, Ugo Piatti e il musicista e pittore Luigi Russolo, tutti appartenenti al Gruppo Futurista, movimento letterario e artistico basato sul culto della modernità e della tecnica, il superamento e la sopraffazione del vecchio, l’ultranazionalismo, l’azione violenta. Lo scontro era un dinamismo sociale innovativo. Nel celebre “Manifesto del futurismo”, apparso in francese su Le Figaro di Parigi il 20 febbraio 1909 e contemporaneamente diffuso in Italia e all’estero mediante volantini bilingue (in italiano e francese), Marinetti afferma che Il coraggio, l’audacia, la ribellione saranno elementi essenziali della nostra poesia; e poco oltre: Un automobile da corsa è più bello della Vittoria di Samotracia; Noi vogliamo glorificare la guerra – la sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo …. Dopo un periodo di addestramento a Gallarate, il Battaglione Lombardo dei V.C.A. (22 ufficiali, 2 medici, 500 biciclette, 20 moto e 4 camion) nel luglio 1915 attraversa le vie di Milano per raggiungere la zona di guerra sulla 36 sponda orientale del Lago di Garda, nelle retrovie del fronte trentino. Col Battaglione Lombardo dei V.C.A. i futuristi parteciparono alla battaglia di Dosso Casina, dove il 24 ottobre 1915 fu conquistata un’importante posizione nei pressi del monte Altissimo. Fotomontaggio della copertina originale della Domenica del Corriere n. 46 del 14-21 novembre 1915 (disegno di A. Beltrame). Titolo: I Volontari Ciclisti al fuoco, l’incontro con gli alpini, alla conquista di Dosso Casina e Dosso Remit (collezione Faré). 37 Il 7 dicembre 1915 il Comando Supremo dispone lo scioglimento di tutte le Milizie Volontarie. Quali siano stati i motivi di tale provvedimento (che i diretti interessati, amareggiati e delusi, attribuirono ad una persistente ostilità verso i Volontari da parte di alcuni influenti elementi dello Stato Maggiore Generale) rimane pure la lodevole prova guerresca da essi fornita, anche in condizioni che non rispondevano alle caratteristiche della loro preparazione. Quelli che ebbero l’onore di battersi, si comportarono bene, come era logico attendersi da essi. I V.C.A. NEI BOLLETTINI DI GUERRA1 17 ottobre 1915 Con ardita e ben condotta operazione le nostre truppe hanno espugnato la forte e munita posizione di Pregasina, importante punto avanzato del gruppo fortificato di Riva, nell’aspra zona montuosa ad occidente del Garda. L’azione venne iniziata la notte sul 13. Mentre sulla sponda orientale delle balze dell’Altissimo nostri reparti avanzavano dimostrativamente, su quella occidentale le truppe destinate all’attacco muovevano risolutamente verso Pregasina e, nonostante le difficoltà del terreno, le avverse condizioni atmosferiche e il violento fuoco delle batterie delle opere di difesa di Riva, riuscirono a portarsi fin sotto ai trinceramenti nemici. Firmato Cadorna I testi sono tratti da quelli pubblicati a Milano verso la fine degli anni Cinquanta dello scorso secolo in un raro libro edito dall’Associazione nazionale ex V.C.A., intitolato: “Cenni storici del Corpo Nazionale Volontari Ciclisti Automobilisti” 1 38 25 ottobre 1915 Nella zona tra Garda e Adige le nostre truppe, scendendo dal Monte Altissimo di Nago sotto i fuochi incrociati delle artiglierie nemiche dal Biaena e dalle opere di Riva, espugnarono il giorno 24 le posizioni di Dosso Casina e Dosso Remit completando così, con le alture conquistate il 18 e il 19 a nord di Brentonico e di Crosano, il dominio sulla strada da Nago a Mori. Nei trinceramenti nemici trovammo armi, munizioni, bombe a mano, casse di cottura, scudi, riflettori ed altro materiale da guerra. Firmato Cadorna 25 ottobre 1915 Contro i Dossi Casina e Dosso Remit, a sud della depressione di Loppio, conquistata il 24, il nemico eseguì ieri un intenso fuoco di artiglieria dal monte Creino e dalle opere di Riva, senza riuscire a scuotere la resistenza dei nostri, forti in quelle posizioni. Firmato Cadorna Vignola, 26 ottobre 1915 - Comando della terza Brigata Alpina Al comando del Battaglione V.C.A. Ringrazio codesto Comando per la valida cooperazione data dal Battaglione V.C.A. Lombardo nelle operazioni svoltesi nei giorni 22, 23 e 24 c.m. per l’occupazione, felicitamene riuscita delle posizioni nemiche dei dossi Casina e Remit. Il Maggiore Generale Comandante del Sottosettore M.Raffa 39 Cartolina a colori di un militare V.C.A., pubblicata a Milano da Sacchetti e C. (collezione Faré). 40 I MIEI RICORDI DELLA GRANDE GUERRA di Jone Benedetti Quando scoppiò la prima guerra mondiale avevo tre anni e mezzo e mia sorella solamente un anno e nove mesi. La mia famiglia, assieme a tutte le altre della zona, fu obbligata a lasciare l’abitazione e portarsi, a piedi, alla stazione ferroviaria di Rovereto con direzione nord. Della partenza quindi non ricordo nulla e non c’è più nessuno dei miei: racconterò quindi quanto ho sentito dire o letto poi sui libri. Abitavo a Mori in largo Villanuova al numero 10, in una casa dei miei zii “Ragnòti”, fra casa Dalbosco e la “Meneghella”, di fronte a casa Salvadori. Dal 23 maggio 1915 il Regno d’Italia intimò guerra all’Impero Austro Ungarico. Faccio menzione al telegramma del Comando Militare inviato al Comune di evacuare tutte le case entro 24 ore: “COMANDO SUPREMO MILITARE ha ordinato evacuazione totale di codesto Comune. Ognuno prenderà seco solo valigietta con strettamente il necessario: coperta di lana e vettovaglie per 5 giorni. Abitanti verranno poi instradati con ferrovia oltre INNSBRUCK. Animali saranno da condursi per intanto a Rovereto e da munirsi alle corna con biglietto del nome del proprietario.” F.to CAPITANATO Il dolore della fuga dalla propria casa, era reso più straziante dal terrore dell’esilio in terra straniera, lontana 41 e sconosciuta, fra gente ostile, di altra lingua e di differenti costumi. L’ordine venne pubblicato alle 9 di sera e già alle 10 del mattino successivo tutti gli abitanti di Mori, in lunga schiera, procedevano a piedi alla volta di Rovereto, per la via di Isera - Sacco, dato che il ponte di Ravazzone sull’Adige era già stato fatto saltare e quindi non restava altra via. A Rovereto, tutta questa popolazione fu caricata, stipata in carri bestiame e portata nell’Austria Inferiore, in Moravia, Boemia, Braunau, Mitterndorf e parte nell’Austria superiore. Gli uomini dai 18 ai 50 anni erano già stati arruolati nell’Esercito nel 1914 e molti di loro erano caduti sui campi della Galizia (Polonia) e altri giacevano feriti negli Ospedali militari; il resto sparpagliato in varie guarnigioni. Prendo lo spunto da ciò per ricordare che mio zio Giorgio Benedetti, morì in Galizia l’8 settembre 1914, lasciando due bambini Jone tiene lezione di storia in Biblioteca a Mori in occasione dell’ottantesimo anniversario della fine della Grande guerra 42 piccoli: Ierta di circa 4 anni e Lino di 1 anno e mezzo che avevano appena conosciuto il loro papà e nemmeno io lo ricordo. Col 26 maggio 1915 a Mori erano tutti evacuati ed anche il Giudizio Distrettuale ha sospeso l’attività dal 1915 al primo luglio 1919, quando riprese il lavoro dopo aver riordinato le carte (cioè gli atti) che erano state portate in salvo a Trento dal 1916 in poi. Paesi non soggetti all’evacuazione: Patone, Brancolino, Pomarolo, Castellano, Sasso, Villalagarina e altri del Distretto di Villa. Faccio notare che la contessa Maria Bossi Fedrigotti allestì un piccolo ospedale con 53 posti letto nella sua residenza di campagna a S. Antonio di Pomarolo, per l’assistenza di anziani ed ammalati, con 6 suore e 2 sacerdoti (tra cui don Eugenio Bernardi di Trento, cooperatore a Sacco). Ancora la prima sera del 25 maggio 1915 ebbe luogo un lieto evento, in treno al Brennero: la nascita della cugina Agnese Degiampietro, la quarta figlia di Giovanni e Rosina, che abitavano nel casone a Mori Stazione. Per fortuna sul treno c’era un medico, che si sarà preso cura del caso insolito. Non oso immaginare come sia avvenuta questa nascita in treno, con tutta la gente pigiata di donne e bambini!!!! Non comprendo come mai dal passaporto di mia madre, fatto a Rovereto in data 23 giugno 1915, rilasciato dall’I.R. Capitanato Distrettuale, in nome di S. Maestà Francesco Giuseppe I, Imperatore d’Austria, Re di Boemia, ecc. ecc. per recarsi all’interno della Monarchia Austroungarica e valevole 3 anni, figurano anche due Kinder, cioè bambini, quando noi siamo partite in treno da Rovereto il 25 maggio 1915, come tutti gli altri moriani ed assieme a due zie, sorelle di mio padre, siamo scese a Vipiteno, dove abbiamo alloggiato fino al 2 ottobre 1915 nella Villa Schönblick, dove abitavano anche altri miei parenti. Alcune zie con bambini piccoli sono rimaste lì tutta la guerra. Invece noi abbiamo seguito mio padre, che 43 essendo un giudice (ora si direbbe un magistrato) era stato nominato responsabile di un Ospedale da campo, dapprima a Dornbirn fino al 1916 e poi a Bregenz sul Lago di Costanza, nel Voralberg (Austria Inferiore), un posto molto bello e tranquillo, dove siamo rimaste fino alla fine della guerra, in Via Steinebach, 12/I, mentre mio padre era stato trasferito in Romania (che lui chiamava Rumenia) a Ghergita. In una foto del 1917, fatta con altre cinque persone, cioè due medici, il curato, un farmacista e un professore, si nota una mazza appoggiata al muro: serviva per difendersi dai lupi. Poi è stato mandato a Fiume, fino alla fine della guerra. Da questi luoghi ci inviava ogni due, tre giorni delle cartoline postali da campo, già stampigliate in varie lingue, con la scritta: “SONO SANO E STO BENE!” Mia madre, avendo per fortuna studiato alle Magistrali presso le Suore del Sacro Cuore di Trento, mi ha insegnato a leggere e scrivere per la prima e la seconda classe: tengo ancora i quaderni con le aste, le paroline, i pensieri; poi la matematica su un quaderno a quadretti e mi metteva alla fine solo una “V”, cioè visto, ma mai un voto. Conservo ancora il sillabario in tedesco, che serviva per apprendere un po’ la lingua. Ricordo solo una parola in romeno, cioè “mamaliga”, che sarebbe “la polenta” e quando qualche immigrato mi dice di essere della Romania, per vedere se dice la verità, gli chiedo: “Sai che cosa è la mamaliga?” e lui non sapendo la parola polenta, fa il movimento del mestolo con le braccia. Alla fine di novembre 1918 siamo ritornate nella Venezia Tridentina e ci siamo fermate tre giorni a Trento, in attesa dell’arrivo del carro merci con la nostra mobilia e biancheria comperata “dai tedeschi”: a mangiare si andava dai miei zii, che abitavano in Via Rosmini ed a dormire in una delle tre casette rurali che si trovavano nel piazzale erboso, davanti al Cimitero di Trento. Anni fa sono andata a curiosare in Via Rosmini ed ho 44 trovato la casa dove abitavano gli zii, uguale, color rosa antico; invece al posto del piazzale sono sorti palazzi e condomini. Dato che la casa di Mori, in Largo Villanuova era da sistemare, causa la guerra, siamo andate a Nomi, casa Perghem, a destra del Municipio, e si entrava direttamente nel cortile, con delle scale in legno scuro, per la vetustà. Ricordo che sono andata a scuola, forse in seconda elementare, con il maestro Antonio Beghella, assieme alla figlia Carla, pure lei del 1911. A Nomi, dato che mio papà era un uomo di legge, lo hanno incaricato di sovrintendere per la consegna agli ex profughi più indigenti di alcuni generi alimentari (farina gialla e bianca, fagioli, zucchero e galletta). Ricordo come fosse oggi, la fila di gente seduta sui gradini, in paziente attesa del proprio turno. Poi finalmente siamo ritornate a Mori ed abbiamo trovato dei mobili nascosti in un locale a piano terra, vicino all’atrio, sotto una grande terrazza. Erano state tolte le maniglie dei cassetti, e le vetrate, rotto un vetro della vetrina del salotto ed anche il marmo della stessa, sparita tutta la biancheria. A Mori ho frequentato la terza classe con l’insegnante Nicolini, poi sono passata in quarta con la maestra Maria Villi ed in quinta con la maestra Domenica Girardelli: la classe era stata trasferita all’ex Molino Piccoli, dove c’era la sala per le riunioni a piano terra. Possiedo un raro libro, intitolato “Donne trentine” (con dedica dell’Autore, Ernesto Tarditi, datata 5 agosto 1919), che tratta dell’irredentismo trentino e della partecipazione femminile tra il 1914 ed il 1918. E racconta che mia zia ed altre signore di Trento (diverse delle quali le ho conosciute anch’io) hanno preparato di nascosto il “gagliardetto”, raccogliendo offerte. Questo vessillo è stato consegnato all’avanguardia dell’Esercito italiano nel giorno del trigesimo della liberazione “ai soldati d’Italia”, il simbolo della riconoscenza trentina. 45 Con voce commossa la Signora Larcher Masotti pronunciò le seguenti parole: “Questa santa bandiera della Patria, nata e cresciuta nell’ombra, fra i costringimenti della tirannide, fra le carezze della speranza, baciata ora dal sole della precipite vittoria, le Donne di Trento compiendo il voto nel trigesimo della conquistata libertà, affidano all’onore dei Cavalleggeri di Alessandria, antesignani dell’eroica milizia d’Italia, simbolo di redenzione, pegno di gratitudine, augurio di grandezza”. Faccio presente che il 3 novembre 1918 il capitano Piero Calamandrei ed il tenente Ciarlantini, a bordo del sidecar di Riccardo Bandini, con un’azione pazzesca passavano in mezzo alle colonne austriache in ritirata e raggiungevano Trento, primissimi ad entrare nella città, in attesa della redenzione. Per il Cinquantenario della Liberazione di Trento, il 3 novembre 1968 vennero fatte solenni onoranze nella Città del Concilio, alla presenza delle più alte cariche dello Stato: il Presidente della Repubblica on. Giuseppe Saragat, il Presidente della Camera on. Sandro Pertini, il Presidente del Consiglio dei Ministri on. Leone, il Vice Presidente del Senato Spataro, Ministri, sottosegretari, parlamentari e le massime autorità della Regione Trentino Alto-Adige, Livia Battisti (la figlia di Cesare Battisti) con il fratello, la vedova Calamandrei ed altri, tra cui i soldati che presero parte alla Liberazione di Trento. Ne furono invitati ben 600, altri, impossibilitati a partecipare alla cerimonia, scrissero lettere molto commuoventi. Fu realizzata per l’occasione una medaglia ricordo che fu consegnata ai presenti, assieme ad un attestato, dal Sindaco di allora, che era mio fratello Edo Benedetti, oriundo di Mori; 46 c’era pure un altro moriano il dr. Giorgio Grigolli, all’epoca Presidente della Giunta Regionale. Nonostante fosse una giornata piovosa, la città era piena di gente festante e di bandiere. Ci fu un incontro in Municipio, al Castello del Buon Consiglio, nella fossa dei Martiri. Il 2 novembre 1918, a poche ore dall’entrata dell’Esercito Italiano un gendarme austriaco, forse l’ultimo in ritirata, fece saltare il ponte di Sacco, sull’Adige, già minato, per motivi strategici ancora all’inizio della guerra, creando grossi inconvenienti agli abitanti della Destra Adige, specie pendolari della Manifattura Tabacchi, che ogni giorno dovevano passare l’Adige a Villalagarina o a Ravazzone, facendo doppio percorso. Il Genio Militare risolse il problema, gettando un ponte di barche un po’ più a valle, con sovrastante piano viabile, costituito da un robusto assito che permetteva il transito pure ai carri. Il lavoro fu impegnativo, ma abbastanza rapido per eliminare l’inconveniente in tempi rapidi. Ricordo, che anche al ponte di Ravazzone fu fatta la stessa cosa e quando si passava con la “Littorina” del Pola di Mori si traballava, come andare in gondoletta. Al Castello di Rovereto tra i preziosi cimeli si conserva la tromba con la quale l’Esercito Austriaco chiese l’Armistizio. In Piazza Podestà, in un angolo abbiamo un cannone, ricordo della Prima guerra mondiale, mentre in via Rialto, in una piazzetta c’è una grande bomba: tutti tristi ricordi per noi anziani, che abbiamo vissuto diverse guerre. Altra opera che ricorda i defunti di tutte le guerre, per iniziativa di don Antonio Rossaro di Rovereto c’è la monumentale Campana dei Caduti, arrivata da Trento a Rovereto il 23 maggio 1925, con un camion che si è fermato il pomeriggio e la notte vicino alla Chiesa dei Frati Francescani di S. Rocco e dato che ho abitato per 7/8 mesi di fronte a quella chiesa, 47 “I Parlamentari Austriaci davanti alle linee di Serravalle all’Adige (29 ottobre 1918”). La cartolina fa parte della serie “Guerra italo-austriaca 1915-18” stampata a Milano dall’editore Duval. l’ho vista arrivare e ripartire il 24 maggio per Piazza Rosmini, per la inaugurazione e benedizione. Poi è stata collocata sul Bastione Malipiero del Castello del Museo storico della guerra, dove è rimasta fino al 1965 e trasferita da lì sopra a Castel Dante. Da allora noi del centro città non la sentiamo più. Ricordo ancora che dopo la guerra era sorto sul colle di Castel Dante un grande Cimitero, che aveva raccolto le salme sui vari campi di battaglia e ricordo una croce, con davanti la statua di una bambina1, molto commovente: con la scuola si andava quasi tutti gli anni a ricordare i cari defunti. Poi, verso la metà degli anni Trenta, su quel colle panoramico fu costruito il Sacrario dei caduti di Castel Dante, che Jone si riferisce alla scritta incisa ai piedi della croce eretta sulla tomba del soldato Angelo Buttazzi, che recitava così: Signore dai tanti tanti baci al mio babbo caro ch’è morto per la patria e digli che gli ho portato tante belle rose, e alla mamma mia dille che non pianga più perché il mio babbo è in paradiso [ndr]. 1 48 per i roveretani è semplicemente l’Ossario. Dalla rivista del 1928, pubblicata a Rovereto, intitolata “El Campanóm” ricavo quest’altra notizia: il 25 aprile 1927 sul Bastione Malipiero del Castello di Rovereto, ai piedi della monumentale Campana dei Caduti, davanti a una folla di autorità, ci fu la benedizione di 7 Campane marinare, cioè furono fatti degli esemplari uguali nella riproduzione delle decorazioni e di squisito suono, di dimensioni molto minori, cioè 40 x 40 cm. perché fossero collocate sulle principali navi da guerra, perché ogni sera nel silenzio degli oceani, ricordassero i nostri gloriosi eroi. Ognuna ebbe il suo padrino e madrina, tutti ragazzi roveretani e ogni campana il suo nome. Dopo la benedizione i padrini accompagnarono in auto le campane alla stazione ferroviaria, donde presero il volo per gli Oceani del mondo. Rammento che anche a Besagno fu inaugurato un monumento ai 22 caduti in guerra o in terra d’esilio il 14 settembre 1924, mentre il 21 novembre 1924 fu inaugurato un monumento ai caduti, con 13 nominativi, nel cimitero di Valle S. Felice. Così nel Cimitero di Pannone, una lapide - monumento con 20 nominativi di caduti di Pannone e di Varano. Un ultimo accenno all’opera generosa del Comune di Lugo che dal 22 aprile 1919, per 5 mesi, fornì giornalmente, ai più poveri degli ex profughi di Mori, 500 razioni di cibo nutriente, a mezzo di una cucina pubblica, situata in una casetta di legno nel piazzale a sinistra dell’ex Mulino Piccoli, che ricordo molto bene, perché era di fronte alla nostra scuola elementare. Un Comitato di Lugo, presieduto da Giulia Montanari, contribuì pure con capi di biancheria (50 camicie e calze di ogni misura in lana, fatte a mano). A ottant’anni di distanza, il 3 ottobre 1999 arrivò a Mori un pullman con 50 persone da Lugo, per ricordare quell’evento: si passarono 49 assieme alcune ore con pranzo presso la “Vecchia Mori” in Piazza Cal di Ponte, a cui partecipai come ospite d’onore, in rappresentanza di chi aveva vissuto quel periodo difficile. Al mattino vi furono i discorsi delle autorità e al pomeriggio, durante il pranzo lessi una mia poesia a ricordo e ringraziamento a nome degli anziani di allora ed ex profughi. Era stata ricostruita la casetta con la scritta “Cucina di Lugo”, posizionata però in via Teatro. Questi sono alcuni dei miei ricordi - a quasi 98 anni d’età - di quanto ho vissuto, udito e letto circa la Grande guerra e quanto è successo dopo, in varie evenienze storiche. Jone Benedetti La fiola del Giudize Ragnoto 50 OMAGGIO A GIULIA MONTANARI, GENTILDONNA ROMAGNOLA piacevole nel conversare, liberale nel soccorrere, attenta agli studi a cura di Edoardo Tomasi In occasione del gradito ritorno a Mori degli amici di Lugo di Romagna - 10 anni dopo la loro visita avvenuta in concomitanza della terza edizione della Ganzèga d’autunno - ci è parso doveroso ricordare nella nostra rivista la nobile figura di Giulia Montanari, dinamica Presidente del Comitato Donne Emiliane - Romagnole di Bologna all’epoca della Grande guerra. Fu grazie alla sua caparbia e tenace azione di raccolta di fondi che si avviò un flusso di aiuti costanti e concreti rivolti alle fasce più bisognose della gente trentina, sintetizzati nella installazione qui a Mori della “Cucina economica Città di Lugo1” ma che, come vedremo, ebbe risvolti positivi anche in altri comuni limitrofi. E.T. Cfr. La cucina economica di Lugo tra «le macerie e la miseria» di Mori (1919) a cura di A. MIORELLI, opuscolo edito nel 1999 dal Comitato Turistico Locale e dalla Biblioteca comunale di Mori. Alle notizie colà pubblicate aggiungeremo altre informazioni finora poco note in Trentino, rese disponibili grazie alla proficua collaborazione instaurata con i colleghi della Biblioteca comunale F. Trisi di Lugo (in particolare il Direttore, prof. Igino Poggiali e la funzionaria Ivana Pagani) e con la dr.ssa Mirtide Gavelli del Museo Civico del Risorgimento di Bologna. Senza il loro aiuto, non avremmo mai potuto offrire questo pur modesto e tardivo tributo di riconoscenza a donna Giulia: grazie inoltre alla Direzione del Museo Civico bolognese per averci segnalato e consentito (con autorizzazione del 2 settembre 2009) di pubblicare le immagini dei documenti qui riprodotti. 1 51 Copertina di un calendarietto di tipo propagandistico, tascabile (formato cm 10,7 x 6,3), commissionato dal Comitato Dame Emiliane – Romagnole e venduto “pro militari”. (Museo Civico del Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-377). 52 “Sei libera, sii grande” è il motto che compare sulla copertina2 di un calendarietto tascabile pubblicato nel 1918 dal Comitato Dame Emiliane – Romagnole per i doni ai combattenti. Era distribuito a simpatizzanti e sostenitori, ed il ricavato della vendita serviva a finanziare le molteplici attività del Comitato stesso. Chissà se a questo motto si era ispirata la Presidente del Comitato nel decidere cosa fare della sua vita. Libera non sappiamo quanto, ma grande certamente sì, Giulia Montanari può dire di esserlo stato, e vedremo perché. Nata il 5 aprile 1862 a Meldola, città distante una ventina di chilometri ad ovest di Cesena, ha una sorella maggiore, di nome Maria. Il padre Antonio (1811-1898), di modesta estrazione sociale, con duro lavoro e costante studio è riuscito a costruirsi una solida carriera sia professionale che politica. Letterato, filosofo, statista, ritenuto “uno dei più illustri e benemeriti figli della Romagna”, docente universitario a Bologna fin dal 1847, reggente della medesima Università dal 1859 al 1868, prima deputato all’Assemblea delle Romagne e nominato poi senatore del Regno dal 1860 fino al 1871, a lungo sindaco di Meldola, è dunque persona molto stimata. Nonostante i prevedibili, molteplici impegni, non trascura affatto la famiglia e con l’aiuto della moglie Rosina, sua ex allieva, il senatore dedica la massima cura all’educazione delle figlie, cui instilla un fiero senso del dovere ed un ardente patriottismo. Sia Maria che Giulia ricambiano con sincero affetto filiale gli anziani genitori, mantenendo sempre un fortissimo legame con loro. L’immagine del tondo è opera di Cesare Maccari (1840-1919), artista che decorò la sala che ora porta il suo nome a Palazzo Madama a Roma. Il motto “Sei libera, sii grande” è riferito all’Italia e, nella decorazione originale di Palazzo Madama, queste parole sono scritte a corona intorno all’immagine stessa. Ringrazio la dr.ssa Gavelli per le preziose informazioni fornite al riguardo e la generosa collaborazione prestata. 2 53 Antonio e Rosina Montanari con le figlie Giulia e Maria. (Museo Civico del Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-371). Giulia si diploma nell’anno scolastico 1907-’08 alle Scuole normali di Bologna, e si iscrive nel 1909 alla scuola di perfezionamento, pagando le tasse per sostenere gli esami di Igiene e Psicologia. Non abbiamo notizie precise sulla sua carriera scolastica, ma in questa sede la questione è di scarsa importanza. Cerchiamo invece di sapere qualcosa sulla sua vita, e lo faremo usando le parole di chi la conobbe personalmente. Il 9 giugno 1938 Paolo Mastri tenne una commemorazione pubblica nel Teatro comunale di Meldola. Il testo originale, marcatamente agiografico, scritto in piena epoca fascista, è stato ripubblicato, con qualche comprensibile “adattamento”, 54 Rosina Montanari con la figlia Giulia in un intenso ritratto datato 29 luglio 1901. (Museo Civico del Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-366). da Angelo Santi3 nel 1961: …Nell’ambiente famigliare Meldolese a datare dal 1870, sotto la guida sollecita degli amorosi e illustri genitori, la nostra Giulia venne, via via, affinando il naturale intelletto all’amore del sapere, al godimento delle cose belle e leggiadre e più al sentimento del dovere, all’amore per la Patria grande, al culto di Dio, prima ragione del tutto e ultimo nostro fine. SANTI, A., Paolo Mastri e la sua Storia di Meldola unificata ed aggiornata (Milano, Gastaldi, 1961), pp. 203-213. 3 55 E crebbe in tal modo compiuta di tutte quelle virtù che a giovinetta bene si addicono. Piacevole nel conversare, liberale nel soccorrere, attenta agli studi… La poesia tentò primamente l’animo gentile e la naturale disposizione della giovane Giulia… Giulia divideva le sue giornate laboriose, tutta attorno al babbo adorato, del quale era sempre in timore per l’età grave; fra i lavori, che non disdegnava, della casa; la lettura dei suoi poeti preferiti, la pratica dei suoi doveri cristiani, senza, per altro, mai dimenticarsi di chi soffriva. Di profonda fede religiosa, dunque, Giulia si convince ben presto che il privilegio di essere nata in una famiglia benestante, non la può esentare dall’offrire aiuto a chi ne ha bisogno, ed al principio di carità cristiana ispirerà la sua esistenza, dedicando tutta la sua vita al prossimo. Lo attesta anche Paolo Mastri a pag. 206, e seguente, del citato volume di Angelo Santi: L’esercizio della privata beneficenza, che richiede tanta delicatezza e riserbo di forma, fu in lei continuo. Non v’era, poi, iniziativa di cittadini che non potesse fare sicuro assegnamento sulla sua larga cooperazione; non v’era cosa che tornasse di utilità o decoro alla sua Meldola, alla quale essa, invitata, non concorresse... Fece parte del primo Patronato per gli alunni poveri qui sorto nel febbraio del 1898 e della Filodrammatica diretta da Lucio Mario, che onorò le platee italiane per più anni… Allo scoppio della guerra italo-turca Giulia si attiva per far giungere, ai soldati italiani impiegati sul fronte libico, dei ricambi di biancheria ed altri generi di conforto, tutta merce preziosa in tempo di guerra e particolarmente gradita ai combattenti. Non esita, per dare la massima diffusione alla raccolta di fondi, a pubblicare appelli sui giornali, oppure a rivolgersi personalmente a conoscenti ed amici, spesso persone influenti, esortandoli in tutti i modi a contribuire 56 Foto di gruppo datata 1901. Sono ritratti (da sinistra a destra) Maria Montanari col marito Enrico Foschini, Rosina Maccarelli vedova Montanari con la figlia Giulia. (Museo Civico del Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-372). a quella che ritiene essere una giusta causa. Lo farà anche qualche anno dopo, per le truppe impegnate sui vari fronti della prima guerra mondiale. Presso il Museo Civico del Risorgimento di Bologna sono conservati interessanti documenti al riguardo, mentre dalla Biblioteca comunale di Trento sono state acquisite di recente due lettere di Giulia indirizzate ad una giovane signora trentina, Maria Mazzi Kargruber (1874-1968), nota per essere particolarmente vicina alle idee irredentiste. Le pubblichiamo per la prima volta su questa rivista. 57 Una lettera autografa di Giulia Montanari, datata 23 settembre 1915. (Museo Civico del Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-320). 58 DUE LETTERE INEDITE DI GIULIA MONTANARI CONSERVATE PRESSO LA BIBLIOTECA COMUNALE DI TRENTO [Lettera 1, datata Bologna 31 marzo 1912] Egregia e gentil Signorina4 le care giovinette Gnudi mi han detto quanto Ella sia generosa di animo ed eletta di mente; quanto e come, dal suo Trentino costassù, Ella volga il cuore alla gran madre Italia… Non so! Ma fra il forte caldo sentire delle romagnole, ed i fervidi possenti affetti delle donne di Trento si ha qualcosa di comune, forse … Certo in quest’ora che i nostri soldati, elevando sé medesimi ne’ travagli di guerra e di morte, elevano la coscienza del popolo italiano; noi italiane – non sol di Romagna ma delle Regioni tutte – sappiamo di aver delle sorelle costà fra gli aspri dirupi, fra i monti austeri e possenti. – Sorelle che pregano, invocano, fan voti con noi, per loro!! Ed ecco, io Le mando copia di due articoletti di cronaca, che parlano di una gran lavorazione di calzettini pei soldati di Derna5, pensata e iniziata già, dalle romagnole. Vorran le Trentine corrispondere all’invito che i sei Comitati delle sei città di Romagna fanno alle gentili e pietose di ogni altra Regione, di lavorar con loro – pei cari figliuoli là?! Lo spero. Oh, sarebbe anche bello potere, inviando a maggio il Questa lettera e la seguente sono indirizzate a Maria Mazzi Kargruber, figlia del tenore trentino Giuseppe Mazzi. Visse a Trento ove strinse amicizia con illustri esponenti del mondo musicale e letterario locale. Di chiari sentimenti irredentisti, diede ospitalità e sostegno a nobili ed intellettuali dello stesso orientamento politico, non mancando di collaborare anche con chi, come Giulia Montanari, le chiedeva aiuti (sia in denaro che in materiale d’uso) per i soldati italiani impegnati all’epoca sul fronte libico nella guerra italo-turca (1911-1912). Ringrazio il collega dr. Giovanni Delama della Biblioteca comunale di Trento per la fattiva e solerte collaborazione prestata nella pubblicazione delle due interessanti lettere (collocazione BCT 48-2.1). 4 5 Porto nella Cirenaica, occupato dagli italiani nel 1911. 59 nostro lavoro in Africa unirvi il lavoro delle Trentine; nelle casse che li chiudono, trovassero essi buon numero di calzettini, con su fronde e fronde de’ boschi di Trento … E che gioia sarebbe per loro, cui ogni attestato d’affetto della Patria lontana, è sprone, conforto e dolcezza!! Mia Signorina! Se io fossi nativa di Trento, trascriverei pel giornale locale (l’Adige se non erro?) l’articoletto delle romagnole che è sul giornale del Mattino, o dell’Avvenire, e … vorrei che giovani donne mie amiche, aggiungessero altre poche parole: così a un dipresso: “Noi fanciulle del Trentino, custodi gelose di sentimenti patri, nel fare pubblicamente noto quassù nei nostri monti, il pensiero e l’opera delle donne romagnole, domandiamo alle donne trentine di rispondere anch’esse all’appello volto alle italiane tutte. Domandiamo di lavorar per loro, con loro … E i calzettini spediti di Romagna, non portino soltanto, fra le oasi del deserto, un dolce rimembrare di ubertosi colli pascheggianti, di casette native, di voci materne; né l’affettuoso augurio delle romagnole soltanto: ma l’eco delle nostre cascate, lo stormire de’ nostri frassini austeri … che dicono il sospiro, la preghiera, i voti delle trentine pei valorosi amati fratelli lontani”. E qui potrebbe seguire un bel numero di firme di giovinette di Trento. Che ne dice Ella mia signorina? E … mi perdona dell’essere stata io così ardita ad esprimerle un pensiero natomi nella mente così …mentreché Le scrivevo? L’affetto al nostro bel tricolore e ai valorosi che lo difendono eroicamente mi ottengan venia … Mi ottengano – da Lei, e da quanti senton con Lei costassù, lavoro e lavoro! Da aggiungere a quello che stiam facendo, e che 60 ci viene da ogni parte – lavoro che (comunque annunziato) porti a Derna il saluto di Romagna; affratellato col saluto di Trento. Nel santo nome d’Italia, cui Dio sorrise nel suo cielo e nelle sue glorie - io Le stringo da lungi la mano. Di Lei, signorina egregia Devotissima e affettuosissima Giulia Montanari Figliuola del senator Antonio Montanari, antico e caldo patriota – che fu. P.S. Ove il giornale delle città mettesse la nuova della lavorazione che si sta facendo – e l’appello delle giovinette trentine a tutti i trentini, sarebbe ben fatto assai, mandarne delle copie a Derna. E chissà quale commozione pei nostri soldati! Non crede?! G.M. [Lettera 2 (non datata)] Mia buona e mia brava [amica] Gli è tempo che direttamente e da cuore a cuore, io La ringrazi. Ella ha risposto alla mia lettera, scrittale in una notte de’ primi dell’andato aprile6, come una trentina dall’anima fervida d’amor di patria, poteva rispondere ad una romagnola; in cui pur ferve il santo culto d’Italia nostra!! Ella ha risposto operando: lavorando e facendo lavorare pei soldati di Derna … E il lavoro coperto dai rami d’alloro e dall’olivo che san le bufere delle Alpi insormontabili, e san l’affetto delle fanciulle trentine pei soldati d’Italia – lor cari fratelli – sarà carissimo ai loro fratelli lontani!! – Io penso commossa, e volli scriverlo sui giornali di Bologna, l’aggradimento dei valorosi soldati di Derna, del vostro patriottico invio, care donne di Trento!! 6 La lettera precedente è però datata 31 marzo 1912. 61 Oh! Venga il giorno che quel che Prati7 (il poeta tirolese) cantò sia per voi, generose e gentili! E voi udiate le mute squille suonare a gloria per le vostre ville E la spada e il palvese italiano Coprire i varchi del vostro paese! Intanto la vostra tenerezza di sorelle sia ispirazione conforto e orgoglio ai cari combattenti di Derna!! Dal Carlino8 qui unito Ella vedrà che non oltre il 15 giugno noi faremo un ultimo invio di calze e quadrati. Io non oso più chiedervi né quadrati di vecchia tela de’ vostri lenzuoli scartati; non oso domandarvi altre calze ancora (sebbene il numero da noi sognato di 80.000 paia fra calze e quadrati sia rimasto un … sogno!!) ma poiché i nostri soldati instantemente pregano, mandiam loro polvere insetticida (razzia9), vuol Ella invitare le sue trentine a raccogliercene un po’ costassù? E volgendosi ai grossisti droghieri e farmacisti italiani, se ve ne sono! …e … quotandovi voi – carissime nostre - per acquistarcene un buon po’ o per mandarci il danaro acché noi la acquistiamo per voi. Giovanni Prati (1814-1884) nativo di Campo Maggiore nel Lomaso. I versi citati da Giulia nella sua lettera si richiamano a quelli della poesia intitolata “Patria”, di cui riportiamo l’incipit (Non sonora abbastanza è la tua onda, o padre Adige) e le prime strofe: Sin che al mio verde Tirolo è tolto Veder l’arrivo delle tue squadre, E con letizia di figlio in volto Mia dolce Italia, baciar la madre Sin ch’io non odo le mute squille Suonare a gloria per le mie ville, Né la tua spada, né il tuo palvese Protegge i varchi del mio paese… 7 8 Evidentemente si riferisce al noto quotidiano bolognese “Il Resto del Carlino”. “Razzia” era una marca di insetticida, pubblicizzato quale migliore dell’epoca. Veniva commercializzato in caratteristici barattoli cilindrici in latta. 9 62 Da brave!! Que’ cari nostri soffrono per lo schifoso tormento: prepariamo loro la grata sorpresa di trovare fra le calze e i quadrati che ancor spediremo i pacchettini di razzia che li liberi un po’ dal tormentoso supplizio. È a nome di queste Dame della Croce–Rossa e quale rappresentante i Comitati romagnoli che Le domando razzia e razzia!! Sua aff.ma Giulia Montanari P.S Se l’acquistarla e il farla poi portare in Italia Le costa preoccupazioni, mandi il danaro raccolto: noi compereremo la razzia per voi - brave trentine! E su la cassettina del vostro dono provvidenziale le metteremo de’ vostri biglietti se ce li mandate!! Va bene? UN FORTE LEGAME COL TRENTINO È forse grazie a questo breve ma significativo scambio epistolare che Giulia impara a conoscere ed apprezzare la gente trentina? Non lo sappiamo con certezza, ma l’infaticabile Presidente del Comitato Donne Emiliane – Romagnole dimostra subito la sua vicinanza ai nostri profughi all’indomani della fine della Grande guerra, visitando di persona e tra mille disagi le zone più devastate dal conflitto. Di sicuro fa tappa a Mori, come attesta nel numero di ottobre 1919 il mensile “La Campana di Monte Albano”, a cura del Sotto Comitato Profughi di Mori: Era l’inverno freddo e malinconico. Tra le cupe rovine della Borgata la popolazione trascorreva i suoi giorni come trasognata e assiderata nella contemplazione delle sue grandi sventure materiali. Passò, allora, tra noi una di quelle anime ardenti, generose, appassionate nell’intento di realizzare le più alte opere di umana carità, la nobile benefattrice Giulia Montanari, che impietosita dalla povere condizioni dei nostri bambini, delle nostre donne, dei nostri 63 vecchi, volle confortarli tutti con un tangibile e munifico segno di fraterna solidarietà. Il mesto pellegrinaggio di Giulia però non si limita al fondovalle, ma si spinge su su fin nei più sperduti villaggi aggrappati alle pendici del Pasubio. Lo prova anche una recente testimonianza di Italo Maule (classe 1928) pubblicata nel pregevole volume intitolato “Pozzacchio, la sua gente, il suo Forte” (AlcionEdizioni, 2009). A pagina 334 si legge tra l’altro: …Nel 1919-’20, una signora di Cesena di passaggio, non si sa per quale motivo, impressionata dalla grande povertà del paese [di Pozzacchio], ha regalato alle famiglie una quarantina di capre. La scuola di Pozzacchio è stata intitolata poi in segno di riconoscimento alla Città di Cesena. Siamo convinti che questa anonima, misteriosa benefattrice “di Cesena” fosse proprio Giulia Montanari. La sua opera è talmente apprezzata che Ottone Brentari le indirizza dalle colonne de L’Arena del 16 ottobre 1919 una “lettera aperta” colma di riconoscenza: Gentilissima Signora, non ho mai avuto l’ambito onore di esserle presentato; io non La ho mai vista neppure da lontano; ma La ammiro e La venero da un pezzo, per tutto il bene pratico e serio che Ella ha fatto e sta facendo al mio povero Trentino, andando a cercare (e non è difficile) i bisogni veri nelle località dove più si soffre, lungi dalle linee ferroviarie, e magari anche dalle comode strade automobilistiche, e senza farsi precedere né da trombe né da tamburi, e senza la speranza di vedersi incontrata da fusciacche e da valletti. Così mi ero figurato che dovessero essere le donne italiane in questo momento; questo ideale lo vedo realizzato in Lei; ed a Lei oso dirigere questa mia, anche col rischio 64 di urtare la di Lei modestia, e nella fiducia che l’opera sua possa servire di esempio. E come mi sono indotto a far ciò? Anch’io, gentile signora, ho corrispondenti numerosi, segreti, fidati, i quali mi riferiscono quanto avviene e quanto occorre nella zona devastata del Trentino; ed uno di essi mi scrive proprio oggi da Trambilleno: “Mi affretto a comunicarle che è stata qui nelle frazioni di Pozzacchio e di Boccaldo, la signora Giulia Montanari, presidentessa del Comitato Dame Bolognesi e Romagnole, quella stessa la quale, fra l’altro, ha fatto avere vacche alla povera valle di Gresta e capre a Loppio. Essa ha promesso di mandare quassù capre lattifere, galline e qualche maiale.” Nel leggere questa notizia, che annuncia intenzioni così aliene dalla retorica di moda, e così vicine alla vita pratica, io mi sentii commosso, avrei voluto esserle vicino per poter baciarle la mano … Dopo aver descritto sommariamente i luoghi e citato qualche episodio bellico avvenuto tra quelle balze insanguinate, Brentari prosegue: Così questo povero Comune, che non ebbe neppur il piacere di veder il suo nome portato per il mondo, fu fracassato dagli uni (Austriaci) e dagli altri (Italiani); e basti il dire che delle sue 438 case, 230 furono totalmente distrutte, 156 demolite per tre quarti, 6 per metà, 16 per un quarto, e le altre 30 tutte più o meno gravemente danneggiate. È inutile aggiungere che delle case non totalmente demolite non solo furono portati via, interamente, o distrutti, mobili, biancheria, stoviglie, ma anche strappati i pavimenti, i soffitti, le imposte, gli infissi, ed in gran parte le travature dei tetti; ed Ella può immaginarsi, gentile signora, come la popolazione, dopo quasi quattro anni di assenza, trovò i suoi paeselli quando vi fece ritorno nello 65 scorso inverno! … Dei 1640 abitanti che c’erano prima della guerra (853 uomini e 787 donne) ne sono tornati 1528; ma appena saranno aperti i passi, più di 300 uomini (cioè tutte le forze valide) emigreranno, o provvisoriamente per i lavori di muratore, o stabilmente per la Romania e per l’America; e non è improbabile che comincino ad emigrare anche le donne. Ella vede adunque, gentile Signora, che Trambilleno meritava bene la di Lei pietosa attenzione, e l’aiuto delle egregie signore che a Lei fanno capo. Pur troppo le persone che passano per queste vie desolate sono poche; ma fra esse è Lei, gentile Signora; e Dio la benedica!10 Torniamo all’accorato discorso commemorativo tenuto da Paolo Mastri presso il Teatro comunale di Meldola nel giugno del 1938. Ma questo, pur nobile affetto, in un momento eccezionale, non bastò alla sua grande anima, elevata al culto del più puro patriottismo. Sentì che in certe ore fatidiche, quando la patria grande ha bisogno del concorso fattivo di tutti i suoi figli, Ella, pure se fragile creatura, non poteva, né doveva rimanersi inoperosa … corse a Bologna, nella sua città d’adozione, e per quasi un decennio, lungo e gloriosissimo, mentre si veniva maturando il destino della Patria in armi, dessa fu Presidente del Comitato lavoratore pei doni ai soldati. Sotto la sua solerte guida fu dato raccogliere offerte nell’Emilia e nella Romagna per la confezione di indumenti e per la ricezione di quelli già lavorati: polsi, fasce di lana, berretti in numero di 28.218 per un importo di oltre 80.000 lire, inviate in Libia in tre successive spedizioni. Lo stesso Versione rielaborata e ridotta del capitolo Galline, capre e maiali a Trabilleno, pubblicato alle pp. 85-92 del volume Lettere dal Trentino di O. BRENTARI (Trento : Edizioni Marcello Disertori, 1919). 10 66 Annuncio funebre di Giulia Montanari. (Museo Civico del Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-356). Comitato intraprese, allo scoppio della guerra di redenzione, un nuovo più duro e fecondo lavoro; e dalla fucina di via Brocchindosso di Bologna, dove Giulia Montanari risiedeva e presiedeva, uscirono, di lana o di cotone, camicie, mutande, ventriere, pettorali, corazze, calze, calzettini, polsini, guanti, sciarpe, cappucci, pezze da piedi e altre non meno utili e pratiche cose. Tutto poi era inviato al fronte pel tramite del Comando del VI Corpo d’Armata di Bologna. A guerra finita, prosegue Mastri, … le autorità militari, alle quali non erano certo sfuggiti 67 la prova offerta di completa dedizione alla Patria, lo spontaneo e generoso sacrificio personale, l’opera singolare ed eroica, l’azione, utile e santa, spiegata in ogni luogo dalla gentile nostra concittadina, furono altamente liete di provocare dal Ministro della Guerra, la concessione della Croce al merito di Guerra a Giulia Montanari. Il riconoscimento ufficiale venne accompagnato dalla seguente lettera del Prefetto di Forlì: “Adempio al gradito dovere di comunicarLe che S.E. il Ministro Bonomi Le ha concesso la croce al merito di guerra. Nell’inviarLe l’onorifica distinzione, insieme al relativo brevetto, Le esprimo i sensi più vivi del mio particolare riconoscimento. La Croce di guerra sul petto di una donna d’Italia ha un altissimo significato che servirà di ammaestramento e di esempio. Ella, brava ed intrepida Signora, l’ha meritata, l’ha santamente conquistata con l’opera fervente svolta per tutta la lunga guerra a beneficio dei nostri soldati e che svolge tuttora per l’assistenza delle popolazioni bisognose dei paesi, già invasi e redenti. Animo gentile, ispirato alle più pure idealità patriottiche, cuore nobilissimo e sensibile a tutti i dolori, a tutte le sofferenze; Ella non ha mai arretrato di fronte alle difficoltà che per forza di cose, e talora per mal volere degli uomini, Le hanno attraversato la meta e né per disagi e pericoli, né per la vastità immane del compito, ha mai ceduto un istante alla stanchezza e allo scoraggiamento. Vada, quindi, orgogliosa di sé, della sua opera che tutti i buoni cittadini ammirano con vera gratitudine.” Giulia però non è tipo da dormire sugli allori: è intenzionata a fondare un istituto che si occupi delle vittime più indifese della guerra, mettendo a disposizione gratuitamente il terreno su cui costruire la struttura e preoccupandosi addirittura di 68 reperire dei fondi mediante una lotteria nazionale allo scopo di erigere a Meldola un “Istituto per le bambine derelitte di guerra” che avrebbe intitolato alla memoria degli adorati genitori. Nonostante si dedicasse anima e corpo a questa nuova sfida, purtroppo Giulia non potrà mai vedere coronato questo suo sogno, in quanto la morte la rapì prima. Il primo gennaio 1935 il suo cuore si fermò per sempre, ma il ricordo della sua grande generosità merita ben più di un semplice articolo come questo. Ora che conosciamo qualcosa in più sulla benemerita “signora di Cesena”, passata dunque non per caso tra le macerie fumanti di Trambileno, Loppio, Mori ed altri paesi distrutti dalla Grande guerra, auspichiamo che il suo nobile gesto venga riconosciuto in modo adeguato e tramandato a futura memoria. Annuncio funebre edito nel trigesimo della morte di Giulia Montanari. (Museo Civico del Risorgimento, Bologna, fondo Paolo Mastri, busta 14-364). 69 LA MERENDA DEL SIGNORE di Marco Avanzini È un caldo pomeriggio di fine settembre. Il sole è ancora alto sopra Bordina e, ai piedi del vecchio torrione di Castel Corno, i contadini staccano con i loro piccoli falcetti i grappoli maturi dalla vigna. Indubbiamente strappare questa terra all’acqua dei torrentelli che fino a pochi anni prima scendevano da Sano ristagnando sotto il Monte Giovo in una palude malsana, era stato un duro lavoro, ma, da un paio di stagioni, i nuovi filari stavano cominciando a dare buoni frutti. Vicino al ruscello ai margini del vigneto due ragazzi trattengono i buoi attaccati ai carri carichi d’uva in attesa che il padrone venga a controllare il loro lavoro. Messer Nicolò arriva poco dopo accompagnato dal suo fido mezzadro. Una piccola tavola è preparata all’ombra di un gelso, il pane è appoggiato sul fondo di una scodella di terracotta e il vino è gia versato in un bel bicchiere di vetro azzurro. Nicolò assaggia qualche acino e non può che essere d’accordo con il suo commensale: è un buon raccolto, questo del 1543. Fino a pochi mesi fa la vasta spianata ai piedi di Corno, compresa tra la Cantina sociale di Mori e l’imbocco della strada che porta a Sano, ci appariva come una ampia conca pianeggiante coperta di campagne e vigneti. Oggi vi si apre un grande scavo che ha messo in luce strati di sabbie e ghiaie sepolte sotto il terreno agrario. Questi strati ci raccontano di un tempo lontano quando qui arrivavano le piene dell’Adige che scorreva più in alto del suo corso attuale. Quando il fiume si ritirò in Valle dell’Adige, lasciando dietro di se una vasta distesa di sabbia, Mori ancora 70 non esisteva. Piccoli insediamenti si stavano formando alla Corte (Colombo), a Monte Albano e al Bersaglio. La piana era a quel tempo (circa 5000 anni fa) una distesa acquitrinosa percorsa da piccoli torrenti che, scendendo da Sano e Castione, incidevano le sabbie e vi lasciavano sottili livelli di ghiaie nerastre. Il paesaggio rimase simile per migliaia di anni. Nel 1200 i signori di Castel Corno vedevano dalla loro torre una distesa di canne e acquitrini e i veneziani, che nei primi mesi del 1439 vi fecero transitare le loro grandi imbarcazioni, dovettero combattere con il terreno cedevole e intriso d’acqua di questi luoghi. Solo all’inizio del 1500 un sistema di drenaggi e una idrografia più matura portò al progressivo arretramento verso il Palù delle aree acquitrinose e le piane più vicine all’abitato cominciarono ad essere coltivate. Proprio in questi campi, prossimi ai ruderi di Castel Corno, sul margine di un ruscello interrato messo in luce dai Frammento di un bicchiere detto Krautstrunk databile tra il 1400 e il 1500. 71 Bicchiere detto Krautstrunk tipico dell’area germanica. recenti scavi, sono stati trovati un piccolo pezzo di ceramica e un frammento di vetro. Il frammento di vetro è quello che rimane di un bicchiere azzuro-verdastro decorato a grosse e fitte gocce appiattite che andava di moda in area germanica tra il 1400 e il 1500. Tale recipiente, detto Krautstrunk (stelo di cavolo) è comune nei rinvenimenti che si effettuano nei castelli della regione e la sua presenza è documentata anche nei castelli Frammento del fondo di una scodella nella quale si intravede la fronte di un angioletto incorniciato da riccioli biondi (databile tra 1500 e 1600). 72 Scodella veronese dell’inizio del 1600. della Val Lagarina. Nel 1400 la richiesta di Krautstrunk era così grande che ne venivano prodotti in quantità perfino a Murano, da dove erano inviati ben imballati in alghe secche ai “marchadanti teutonici”. Il frammento di ceramica apparteneva ad una larga scodella decorata con incisioni sottili e dipinta a pennellate di ossidi di ferro e rame. Sul fondo era raffigurato il volto di un angioletto del quale ci sono rimasti solo un pezzo della fronte incorniciata da riccioli biondi. È una decorazione tipica delle scodelle e dei piatti di area veneta tra 1500 e 1600. È strano che due reperti così diversi si siano conservati uno vicino all’altro per 500 anni. Forse si tratta solo di un caso: le acque di un antico temporale potrebbe averli trasportati fin qui dalla discarica del castello dove erano stati usati, oppure potrebbero essere arrivati nei campi assieme al letame e ai rifiuti domestici della cucina di qualche signore. Qualsiasi sia la loro origine essi hanno comunque il potere di portarci indietro nel tempo, in una Mori di metà 1500 dove vivevano ricchi signori che potevano permettersi ceramiche decorate e bicchieri d’importazione. 73 IL “GHETTO” SUA STORIA E CARATTERISTICHE1 di Guido Boninsegna Chi, dipartendosi dalla piazzetta Cesare Battisti, si dirige verso il largo Villanuova, inforcando il proseguimento terminale di Via Teatro, fatti pochi passi si imbatte in un’erta e sassosa stradicciola che porta in sommità ad una piccola gibbosità terrazzata, alta 6-7 metri sopra il livello stradale normale. Sulla microscopica altura ha sede un sudicio agglomerato di casupole agresti e mugghianti: ivi trovano asilo diverse famiglie, per la maggior parte contadine. Attingendo alle remote origini storiche, il volgo, questa località, la chiama giustamente “il Ghetto” anche se, in contrasto stridentissimo con la realtà, ufficialmente si nomi pomposamente Via Mirabella. Per la verità, se non qualche riposto fondaco, o farraginoso e scrostato avvolto da rigattiere, o di antico trafficante eterogeneo non vi è più nulla che riguardi la passata presenza degli ebrei: le guerre a ripetizione, e specialmente quella del 1915-’18 hanno demolito tutto e le successive ricostruzioni, improntate su basi cosiddette moderne e rispondenti all’andamento dei tempi ed alle esigenze dei popoli, hanno cancellato il resto. Il sito, comunque, conserva ancora una sua spiccata, dedaleggiante caratteristica che non sfugge ad un osservatore un pochino arguto e indagatore. Case fitte e scure, viottoli fangosi, atmosfera cupa, greve, soffocante quasi. Persino le 1 Pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 3 febbraio 1951. 74 numerose oche che starnazzavano malvolentieri e gli altri razzolanti volatili sono seri e circospetti. La gente invece è abbastanza vivace e ciarliera e, almeno esteriormente, sembra contenta ed affabile anche se non manca di un certo cinismo. Una volta, il rione era il piccolo regno di un gruppo di ebrei della più pura razza, maestri nel trafficare, capitati chissà da dove. Essi posero costì la loro dimora presumibilmente prima del 1200. A quei tempi a Mori i commerci erano molto sviluppati e favoriti dal fatto che la borgata si trovava sulla via più facile e breve tra l’Adige e il Garda, nel 1188 Morfino del fu Rambaldo ed altri paesani furono investiti dal Vescovo di Trento della navigazione sull’Adige fino a Bolzano; il che, è innegabile, contribuì a rafforzare il prestigio ed il movimento dell’antico porto, il quale aveva i moli e le banchine d’attracco ubicate nei pressi di Rivazzone (oggi Ravazzone). Questo complesso di fattori fu certamente determinante: Mori divenne uno scalo di smistamento e sbarco molto importante e frequentatissimo altresì dalle ciurme di passaggio sul fiume e dai carrettieri e trasportatori terrestri diretti o provenienti dal Garda. Ciò, è ovvio, assicurò notevoli possibilità di guadagno alla popolazione che dai soli campi poteva trarre ben gramo sostentamento. In un posto così nevralgico e redditizio, la calata degli ebrei non poteva non avvenire. Si sa come i continuamente perseguitati discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe, nel commercio siano degli autentici scaltri volponi. Essi non trovarono quindi soverchie difficoltà per fare degli ottimi affari e vistosi guadagni. Cosicché anche gli indigeni trascorsero parecchi secoli di prospera floridezza. 75 Molto probabilmente gli ebrei non furono cacciati a furor di popolo come si potrebbe, in un primo tempo, essere tentati a credere. Più verosimilmente essi abbandonarono spontaneamente il loro quartiere allorché Mori perse gran parte delle sue possibilità economiche in seguito al progressivo decadimento della navigazione fluviale e lacustre; decadimento inevitabile per il continuo evolversi delle comunicazioni stradali. Dietro Israele, anche a distanza di tempo, non è rimasto che un nome: “il Ghetto” … ed il tempo galantuomo ha cancellato tutto: cose buone e cattive, fatti e misfatti. Per completare le notizie di G. Boninsegna, accenniamo brevemente alla difficile coabitazione degli abitanti di Mori con la colonia ebrea del “ghetto”. In occasione della visita pastorale del 1581, una rappresentanza di moriani si presentò davanti ai delegati vescovili per denunciare quanto segue: gli ebrei non rispettavano il divieto di rimanere nelle loro case dopo il coprifuoco, non portavano il distintivo di riconoscimento, erano ritenuti “colpevoli di tutti i furti finora perpetrati in Val Lagarina”, di adescare le ragazze e corrompere i “cristiani” trattenendoli in bische clandestine, ove erano abilissimi a “spennare” i malcapitati che accettavano di giocare d’azzardo. Il personaggio più autorevole della comunità ebrea di Mori, di nome Leone, fu citato a comparire innanzi ai delegati vescovili per verificare se le accuse mosse alla sua comunità fossero fondate. Ovviamente, Leone negò ogni addebito e circa la mancata ostensione del distintivo, obiettò che si trattava di una scelta obbligata, per evitare di essere aggrediti: in passato, suo fratello era stato ucciso per il solo fatto di recare quel contrassegno. Ciononostante, fu imposto di indossare il distintivo, pena il pagamento di 10 ragnesi di multa. 76 IL MATRIMONIO TRA IL LEONE E LA BISCIA Le nozze tra Giuseppe Scipione Castelbarco e Costanza Visconti del 29 aprile 1696 di Sergio Beato All’ingresso del giardino comunale Castelbarco a Cislago in provincia di Varese, sopra il pilastro di destra c’è un leone in pietra che regge uno scudo su cui è scolpito uno stemma nobiliare. Il blasone inquarta due elementi araldici: un leone rampante con la doppia coda intrecciata e il classico biscione che ingoia un putto, al centro nel cuore dello stemma è raffigurata l’aquila imperiale asburgica, pende dallo scudo il collare dell’ordine del Toson d’oro, insigne onorificenza cavalleresca concessa dagli Asburgo. Lo stemma traduce nel linguaggio convenzionale dell’araldica l’unione di due famiglie avvenuta tramite un vincolo nuziale, precisamente il matrimonio tra il conte Giuseppe Scipione di Castelbarco e la contessina Costanza Visconti dei marchesi di Cislago, ultima erede sopravissuta della casata dei Visconti di Cislago, alla fine del XVII secolo. Nel blasone vennero inquartati il leone con doppia coda dei Castelbarco e il biscione dei Visconti. Costanza era figlia del marchese Cesare III Visconti e della sua prima moglie Teresa Serra di Cassano, considerato il rischio dell’estinzione, nell’eventualità di una prematura scomparsa dell’unica erede, si procedette con un matrimonio 77 Cislago - Giardino Castelbarco. Leone reggi scudo con (a destra) il dettaglio dell’insegna. dal quale si auspicava che nascessero nuovi discendenti dei feudatari cislaghesi. La nobiltà e l’antico lignaggio della famiglia era fuori discussione: Cesare II, bisnonno di Costanza, era il restauratore delle fortune cislaghesi della famiglia, egli aveva incrementato la distinzione aristocratica del casato quando l’imperatore Ferdinando III d’Asburgo lo aveva nominato marchese dell’impero nel 1649 con l’uso dell’aquila nello stemma.1 Lo storico legame tra i Visconti e la terra di Cislago è ben documentato.2 Il segno più evidente è la presenza, nel centro del paese, dell’omonimo e antico castello che fu quasi interamente distrutto degli svizzeri del cardinale Matteo Schinner nel 1510 durante l’invasione del ducato di Milano. Dopo quasi un secolo di abbandono dei ruderi, nel 1620 Cesare 1 L. Mondini, Cislago terra di poveri, terra di furbi, Lomazzo 1982, p. 78. Cfr.Tini Castelbarco, Vita a Cislago, s.d. Saronno; L. Mondini, Cislago terra di poveri,… op. cit.; L. Mondini, Cislago oltre le curiosità, Milano 1994. 2 78 II Visconti, dei signori di Somma Lombardo, che possedeva già un consistente patrimonio fondiario in paese, acquistava dalla Camera ducale il feudo di Cislago, per 12.000 lire. Insediatosi come nuovo signore del borgo, Cesare procedeva alla ricostruzione del castello trasformandolo in un palazzo signorile che fosse la degna dimora della sua famiglia. La riedificazione continuò sotto il figlio Teobaldo e fu completata dal nipote Cesare III, padre di Costanza. L’edificio raggiunse così le forme che conserva ancora oggi; ne fa memoria una lapide, con il busto di Cesare II, collocata sulla parete di destra sotto il portico del castello. Tre possenti corpi di fabbrica chiudono a levante il cortile d’onore ingentilito al piano terra da un portico a tre archi impostati su colonne binate; la facciata a ponente, che si apre sul giardino alla francese, è contenuta dalla due torri laterali ricostruite sulle fondamenta dell’antico maniero medievale. Le glorie e gli onori della casata dei Visconti di Cislago si erano ulteriormente incrementati con l’acquisto del feudo di Gallarate, la concessione dell’Ordine del Toson d’oro e nella persona di Cesare III anche del grandato di Spagna, ambita distinzione per gli aristocratici lombardi durante il dominio spagnolo.3 Il problema della discendenza e della successione era vitale per una famiglia nobile, pena la dispersione del patrimonio di famiglia fra diversi eredi e parenti collaterali. Nel caso di Cesare III Visconti la questione si era fatta quanto mai critica perché l’unico figlio maschio, il marchesino Teobaldo, aveva pronunciato i voti come frate professo nell’ordine dei Cappuccini, così pure tre figlie femmine erano entrate G. Oltrona Visconti, Cesare Visconti conte di Gallarate e il titolo di Grande di Spagna, in Rassegna Gallaratese di storia e arte a. 12° (1953), n. 3 pp. 3 –11. 3 79 Cislago – Castello Castelbarco Visconti (sec. XVII-XVIII). in convento.4 Della prole delle prime nozze restava solo Costanza nubile e quindi disponibile per un matrimonio che scongiurasse l’estinzione della casata. Non abbiamo elementi per sapere come mai la scelta per lo sposo di Costanza cadesse su un membro della famiglia dei conti di Castelbarco, antica famiglia nobile del Trentino, certo nel corso dei secoli i Visconti di Cislago si erano sempre destreggiati con scaltrezza e intuito politico tra i favori degli Asburgo di Spagna e la casa imperiale degli Asburgo d’Austria. Alla fine del XVII secolo, quando fu celebrato il matrimonio di Giuseppe Scipione e Costanza, il territorio del ducato milanese era ancora provincia spagnola, ma di lì a 4 T. Castelbarco, Vita a Cislago, … p. 163. 80 pochi anni il quadro politico sarebbe cambiato radicalmente in seguito alla guerra di successione spagnola che avrebbe assegnato il milanese proprio al dominio austriaco: a Milano non si sarebbe più guardato a Madrid bensì a Vienna. In tale prospettiva uno sposo di origine trentina, territorio e nobiltà più vicina all’Austria si rivelò, con il senno di poi, assai più promettente di altri partiti. La cerimonia delle nozze fu celebrata il 29 aprile 1696, ma non nella parrocchiale di Cislago, come attesta una recente ricognizione del registro dei matrimoni dell’archivio della parrocchia, che non riporta, per l’anno 1696, alcun matrimonio di componenti della casa Visconti a Cislago. La celebrazione avvenne invece a Milano, nella parrocchia di S. Pietro alla vigna. Infatti, come molte famiglie nobili, i Visconti oltre alla dimora di Cislago avevano palazzo anche nella capitale del ducato. La data invece è certa su base documentaria, verificata in modo incrociato da una fonte diretta, il registro dei matrimoni della chiesa milanese e da una fonte indiretta, cioè dall’archivio dei Visconti di Modrone, oggi conservato in deposito presso la facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano. Non è un caso unico che le notizie relative a un argomento, in questa circostanza le carte di una famiglia nobile, si trovino conservate, magari in copia, anche in un altro repertorio che sembra non avere apparentemente nessun legame con il primo. Nel caso specifico i Visconti di Modrone ebbero una parte assai esigua nelle vicende della storia di Cislago per via di alcune proprietà immobiliari che successivamente furono cedute ad altri.5 La fonte più importante del fatto in questione resta però l’atto di matrimonio, inedito, ritrovato durante la ricognizione d’archivio finalizzata a questa ricerca. 5 L. Mondini, Cislago terra… p. 319 e segg. 81 Come si è detto le nozze vennero celebrate nella chiesa milanese di S. Pietro alla vigna. Tale parrocchia fu in seguito soppressa e i documenti furono trasferiti nel vicino archivio della importante basilica di S. Ambrogio, dove ho potuto ritrovare il prezioso documento che ha rivelato altre notizie assai interessanti sul fatto in questione e le sue conseguenze. Mi è parso utile trascrivere il testo dell’atto di nozze che recita: “Mille seicento novantasei, Addì ventinove Aprile. Illustrissimo Sig. Conte Giuseppe Scipione di Castelbarco , Barone dei quattro vicariati, Signore di Gresta, consigliere aulico imperiale di Sua M.tà Cesarea, consigliere della chiave d’oro di S. M.tà Re dei Romani, figlio dell’Ecc. mo Sig. Conte Fran.co Co. Di Castelbarco e Consigliere di Stato e Ministro di Sua M.tà Cesarea della città di Vienna d’Austria, con il suo stato libero ha contratto matrimonio con l’Ill.ma Sig.ra March.sa Donna Costanza Serra Visconti, figlia dell’Ecc.mo Sig. March.se D. Cesare Grande di Castiglia e dell’Insigne ordine del Toson d’oro, e Generale della milizia Foranea dello Stato di Milano et hanno contratto per verba de presenti, allo presenza di me P. Fran.co Maria Rivolta C.to di S. Pietro alla vigna, et a mia interrogazione in sua cura omissis omnibus denunziationibus con facoltà speciale di Monsig.re Vicario G.rale. Testimoni furono Ill.mi Sigri il sig. Conte Nicolò Visconte, il Sig. Conte Ottavio Pietrasanta, il Sig. D. Antonio Crivelli”.6 Mi paiono utili alcune osservazioni: il marchese Cesare è detto grande di Castiglia, inesattezza del parroco, perché si è già ricordato che il titolo era grande di Spagna; nella 6 Archivio della cessata parrocchia di S. Pietro alla vigna in Milano, depositato presso l’archivio della Basilica di S. Ambrogio, registro dei Battesimi, Cresime, Matrimoni, Morti dal 1690 al 1765, p. 78 verso. 82 casa d’Austria il re dei romani era l’erede designato alla successione, nel nostro caso Giuseppe Scipione era consigliere aulico dell’imperatore Leopoldo I e consigliere della chiave d’oro del principe Giuseppe d’Asburgo eletto appunto re dei romani e poi imperatore primo del suo nome; per Costanza si evidenzia la stranezza che è segnato prima il cognome della madre (Serra) e poi quello paterno Visconti. Pur non potendo spiegare la presenza di tante notizie relative ai Visconti di Cislago, il fondo archivistico Visconti di Modrone si è rivelato una fonte importantissima per ricostruire alcune vicende relative alla famiglia dei feudatari del castello tra le quali appunto anche il matrimonio tra Giuseppe Scipione di Castelbarco e Costanza Visconti. La data del 29 aprile 1696 è certa come risulta dalla copia del sommarione dell’istrumento datale compilato per il matrimonio tra Costanza e il suo sposo trentino7, in calce al documento compaiono anche le indicazioni delle firme trascritte che rimandano a quelle effettive contenute nel testo originale del documento con i nomi degli sposi e dei testimoni che presenziarono all’evento, in ordine sono: Costanza Visconti, il marchese Cesare, padre della sposa, lo sposo Giuseppe Scipione di Castelbarco, Francesco Visconti per procura, Sigismondo Carlo di Castelbarco, Antonio Crivelli, Nicolò Maria Visconti e il conte Ottavio Pietrasanta . Si può qui ricordare che Sigismondo Carlo, fratello minore dello sposo, in seguito, fu nominato vescovo. Altre notizie interessanti ritrovate tra i fogli dell’Archivio Visconti di Modrone sono uno stralcio di albero genealogico dei Visconti di Cislago nel quale compare il nome di Costanza da cui apprendiamo ulteriori informazioni davvero Archivio Visconti di Modrone (Fac. di Economia, Università Cattolica Milano) sez. I materia matrimoni 31, busta 2. 7 83 sorprendenti: “Donna Constantia nupta (sposata) Com: Ios: a CastroBarco cum dote scudi 27 m. anno 1696, premorta Matri et Patri anno 1705”.8 La sposa aveva portato in dote la considerevole cifra di 27.000 scudi, ma la notizia sorprendente è apprendere che la giovane sposa morì nel 1705, precedendo sia il padre che la madre. A questo punto la situazione successoria era davvero drammatica per i Visconti di Cislago se si considera che il 26 febbraio 1701, all’età di diciotto anni si era spento nel convento dei Cappuccini di Genova il fratello Teobaldo, di cui si conserva il panegirico funebre stampato a Milano subito dopo il decesso che recita nel frontespizio: “Distinta Relazione del felicissimo e meraviglioso passaggio fatto da questa Vita all’Eternità di Gloria dell’Ecc.mo Signore il Sig. D. TEOBALDO MARIA VISCONTI marchese di Cislago, figlio unico dell’Ecc.mo Signore DON CESARE VISCONTI marchese di Cislago e conte di Gallarate, cavagliere dell’Insigne Ordine del Toson d’Oro e Grande di Spagna ecc. e dell’ecc.ma sig.ra marchesa D. TERESA SERRA VISCONTI”.9 La salma del giovane Teobaldo fu trasportata a Milano e tumulata nel Convento dell’Immacolata Concezione dei Cappuccini di questa città. In calce al testo compare il nome dell’autore che risulta essere lo stesso curato della parrocchia di S. Pietro alla vigna, cioè Francesco Maria Rivolta che, nel 1696, era stato il celebrante del matrimonio della sorella Costanza. Il futuro della famiglia sembrava davvero compromesso, ma dal matrimonio di Giuseppe Scipione e Costanza nacque il sospirato erede Carlo Francesco Ercole. 8 Ibidem, Sez. I materia Araldica 118. 9 Ibidem, Sez. I 105 busta 10 “Visconti L – Z, f. 6. 84 Il registro conservato in S. Ambrogio ha rivelato, per la verità, molte notizie sulla progenie Castelbarco Visconti: da quell’unione nacquero ben cinque figli: nel 1698 la primogenita Maria Giuseppina Elisabetta, che venne battezzata il quattro ottobre ed ebbe per padrino il re dei romani principe Giuseppe d’Asburgo e per madrina l’arciduchessa Maria Elisabetta; nel 1700 venne alla luce il fatidico maschio che garantì la discendenza del casato, ed il bimbo fu battezzato il venti dicembre 1700 dal parroco della cattedrale di Trento Bartolomeo Lodrone; nel 1703 nacque Elena Giuseppina Maria, battezzata il cinque gennaio; nel 1704 Maria Teresa Sigismonda che fu battezzata il cinque gennaio; ultima nel 1705 nacque Maria Eleonora Giuseppina che fu battezzata il quindici settembre, ma quell’anno segna anche il decesso della povera Costanza, forse prostrata nel fisico, se si considerano le cinque gravidanze in sette anni. Gli atti di battesimo menzionati non sono registrati in originale ma in copia, come si premurò di annotare lo zelante curato Rivolta che scrive: “ Ecc.mo Sig. Marchese Don Cesare Visconti conte di Gallarate e Grande di Spagna sotto il dì venticinque ottobre, mille settecento sei, ha ottenuto Decreto da Monsig.re Ginesio Calchi provicario G.rale di registrare al libro di questa Parrocchiale San Pietro alla vigna l’infrascritti cinque battesimi dei suoi Nipoti Figli dell’Ecc.mo Sig.re Conte Giuseppe di Castelbarco e della fu Ecc.ma Sig.ra Donna Costanza Figlia dell’Ecc.mo Sig.re Marchese Cesare già jugali. Quali Nipoti furono battezzati per rispetto delle Femmine in Salisburgo, e per rispetto del Maschio in Trento; e perché detti Signori sono stati condotti a Milano per quivi averne Domicilio suo proprio, però per facilitarne in caso di bisogno le fedi de loro rispettivi Battesimi, sono state esibite l’attestazioni originali in questa Curia Archiepiscopale di 85 detti Battesimi le quali esistono appresso di me P. Fran.co Maria Rivolta Cur° di San Pietro alla vigna…”.10 Questa trascrizione è estremamente interessante perché rivela delle notizie finora ignorate, che cioè la coppia di sposi dopo il matrimonio milanese si era verosimilmente trasferita in Trentino presso l’avita dimora dei Castelbarco, che i cinque figlioli non erano nati a Milano, che le quattro fanciulle erano state battezzate addirittura a Salisburgo, mentre invece l’erede Carlo Francesco Ercole era stato battezzato a Trento, quasi a sottolineare il radicamento nella terra degli antenati paterni, e da ultimo che dopo la scomparsa della madre, indicata come già deceduta nella registrazione riportata sopra, il padre e i figli erano tornati a Milano per prendere possesso dell’eredità Visconti che si perpetuava nel giovane Carlo Francesco Ercole. Nel 1707 moriva la madre di Costanza, Teresa Serra di Cassano, nello stesso anno il nobile feudatario cislaghese convolava a nuove nozze con la contessa Camilla Mezzabarba ved. Avogadro, originaria di Pavia; la parabola terrena del marchese Cesare III si concludeva il 6 gennaio 1716 , ma la dinastia era salva.11 Il conte Giuseppe Scipione di Castelbarco godeva della simpatia degli imperatori d’Austria che gli conferirono diversi incarichi di prestigio, come ambasciatore presso i Savoia o come riportato nell’atto di matrimonio il titolo di consigliere imperiale, ma il decreto sovrano, che poneva termine alle angustie ereditarie della famiglia Visconti di Cislago con cui l’aristocratico trentino si era unito, giunse Archivio della cessata parrocchia di S. Pietro alla vigna in Milano (S. Ambrogio), registro dei Battesimi, Cresime, Matrimoni, Morti dal 1690 al 1765. p. 10 verso e p. 11. 10 Cfr. i documenti citati alle note 8 e 9. e V. Spreti,Enciclopedia Storico Nobiliare Italiana, Milano 1930 , vol. 8°, p. 575. 11 86 proprio nel 1716 alla morte di Cesare III. Il sospirato erede doveva fondere la denominazione e i titoli delle due famiglie d’origine garantendo così il perpetuarsi della stirpe e degli storici cognomi che si unificavano in Carlo Francesco Ercole Castelbarco Visconti, marchese di Cislago, conte di Gallarate, barone di Gresta e dei quattro Vicariati, cavaliere del Toson d’Oro, Grande di Spagna di prima classe ecc.12 Non a caso per le questioni genealogiche si usa il termine “albero” per indicare l’articolato intreccio che si può determinare con legami familiari e successioni ereditarie. Quello dei Castelbarco Visconti, originato dal matrimonio di Giuseppe Scipione e Costanza nel 1696, è uno davvero assai esteso e ramificato e giunge fino ai discendenti che vivono, ancora oggi, nel castello di Cislago.13 Cislago – Castello Castelbarco Visconti. Stemma Castelbarco visibile sull’ala di sinistra. L. Tittoni, F. Saladini, Teatro Araldico, Milano 1887 , vol. 4°, tomo II; V. Spreti, Enciclopedia Storico… vol. 4° p.361, L. Mondini, Cislago terra… p. 82. 12 Ringrazio cordialmente mons. Biagio Pizzi, arciprete della Basilica di S. Ambrogio in Milano, che ha gentilmente favorito la consultazione d’archivio. 13 87 TROPPO TARDI! LA SCOMPARSA DELLA LASTRA SEPOLCRALE DI ANTONIO MAYER Segnalazione di Edoardo Tomasi Nel 1910 Antonio Mayer1 era l’unico pittore professionista a Rovereto: nato a Mori nel febbraio del 1862, poteva vantare una solida preparazione artistica. Aveva seguito con profitto uno specifico corso di studi all’Accademia di Brera, meritandosi la gran medaglia d’argento e due di bronzo. Come testimonia Simone Weber2 nel suo datato ma ancora valido repertorio dal titolo “Artisti trentini e artisti che operarono nel Trentino” Più che valente ritrattista era riconosciuto e ricercato quale abilissimo ristoratore e riparatore di vecchi dipinti e di antichi affreschi. Tali lavori erano da lui condotti con molta intelligenza e abilità, rispettando sempre tutto l’antico, e limitandosi il più possibile alla sola opera di consolidamento e di pulitura. Dipinse la chiesa di Mori, due sue opere originali si trovano nella chiesa dei Francescani di S. Rocco a Rovereto. Fu collaboratore efficacissimo di Augusto Sezanne, Per uniformità, preferisco usare questa forma del cognome dell’Artista, anche se nei vari documenti consultati si trova spesso scritto Meyer, Majer, Maier e perfino Mayr. Nonostante sulla tomba i familiari avessero scelto di utilizzare il cognome Majer, l’Artista era solito firmare appunto come Antonio Mayer. 1 La prima edizione risale al 1933, la seconda (compiuta in manoscritto) al 1944, fu pubblicata a stampa dalla casa editrice G.B. Monauni di Trento nel 1977, avvalendosi della supervisione e cura del prof. Nicolò Rasmo. La citazione si trova alle p. 220-221 di quest’ultima edizione. 2 88 nei lavori di ristauro e decorazione del palazzo della cassa di Risparmio e di quello del Municipio di Rovereto. Prestò l’opera sua nella conservazione degli affreschi scoperti sopra antichi fabbricati di quella città, e di quelli del castello di Sabbionara … Negli ultimi anni si dedicò tutto ai ristauri di S. Marco a Rovereto, dove l’opera del prof. Cavenaghi aveva subito notevoli guasti per causa della guerra. A Mori lo si ricorda per via dei lavori di ripristino della pittura in stile veneziano della facciata della canonica in Piazza Cal di Ponte e lo strappo del pregevole affresco di fine Quattrocento che adornava una casetta veneta proprio dirimpetto alla canonica stessa. Entrambi gli interventi risalgono al 1913 e sono già stati oggetto in passato di specifici approfondimenti da parte dello scrivente3. Nel 1890, secondo il prof. Luigi Dal Ri, aveva dipinto l’enorme volta della chiesa arcipretale di Santo Stefano, purtroppo gravemente danneggiata dalle granate durante la prima guerra mondiale. In questa rivista4 abbiamo pubblicato nel numero del 1994 una sorta di necrologio stilato da Gustavo Chiesa pochi giorni dopo la morte del Mayer, avvenuta il giorno di Natale del 1921. Nel catalogo di una mostra retrospettiva postuma dedicatagli nel 1922 a Rovereto, si poteva leggere quanto segue: É doveroso ricordare che per la cortesia del signor Giovanni Giovannini, ben noto amatore d’arte della nostra città, è stato possibile offrire ai visitatori l’occasione di TOMASI E., Polvere d’archivio, ovvero, La canonica restaurata, un palazzo scomparso e i due Camerasi nei documenti conservati presso l’Archivio comunale di Mori : ricerca, STA ne “I Quattro Vicariati e le zone limitrofe”, A. 37, n. 73, gennaio 1993, pp. 94-99; TOMASI E., La “meditata rifabbrica”, ovvero, Noterelle d’archivio sulla casetta veneta in Piazza Cal di Ponte a Mori e sull’affresco quattrocentesco che l’adornava fino al 1913 : ricerca, STA ne “I Quattro Vicariati e le zone limitrofe”, A. 42, n. 83, giugno 1998, pp. 21-46. 3 CHIESA G., Antonio Mayer, STA ne “El campanò de San Giuseppe”, A. 9 (1994), pp. 19-21. 4 89 vedere e di rivedere alcune opere del defunto professore Antonio Mayer, nobile e modesta figura di pittore nostrano. Valga la piccola opera nostra a rievocare la figura dell’uomo e dell’artista semplice e buono. Ne torniamo a parlare ora per via della scomparsa dalla sua sede primitiva della lastra tombale del Nostro, avvenuta – evidentemente a norma delle vigenti leggi di settore – qualche anno fa dal Cimitero di San Marco a Rovereto. É stato purtroppo applicato alla lettera quanto previsto all’art. 39 del “Regolamento comunale di polizia mortuaria e per i servizi funebri e cimiteriali” del Comune di Rovereto, che consente, alla scadenza delle concessioni, la rimozione e l’eventuale successiva distruzione dei manufatti rimasti per qualche tempo – e senza che nessuno degli aventi diritto si presenti per reclamarne la proprietà – in deposito. In questa occasione non ci è stato possibile intervenire per tempo. Per ironia della sorte, qualche anno prima, eravamo riusciti a salvaguardare la tomba di un altro nostro artista, lo scultore Andrea Malfatti, nato a Mori nel 1832 e morto a Trento nel 1917. I suoi resti mortali riposavano presso il Cimitero di Trento e, per lo stesso motivo del Mayer, stavano per essere rimossi. Pur essendo un monumento funebre non banale, realizzato nel 1942 dal suo amico e collega scultore Ermete Bonapace, la tomba di Malfatti era anch’essa destinata ad una brutta fine. Grazie alla tempestiva e provvidenziale segnalazione di Antonella Premate - che all’epoca stava terminando la sua tesi di laurea5 sull’artista - il Comune di Mori si attivò subito, mettendosi in contatto con quello di Trento, ed ottenendo in breve tempo il risultato di spostare Pubblicata nel 2003 per i tipi delle edizioni Stella di Rovereto, col titolo Andrea Malfatti di Mori : uno scultore irredentista fra Trento e Milano. 5 90 la lapide nel famedio del Cimitero monumentale di Trento. Nel caso di Antonio Mayer purtroppo non è andata altrettanto bene: la sua tomba è attualmente irreperibile. Come magra consolazione, disponiamo di una fotografia della lapide, rimossa dal loculo n. 195 e portata prima in deposito e poi chissà dove, forse distrutta per sempre. Siamo davvero spiacenti di non poter dare maggiori informazioni al riguardo e di non aver potuto fare nulla per evitare ad Antonio Mayer quest’ultima umiliazione terrena. Suonano quasi beffarde le parole scritte sulla sua tomba e confermate dai suoi contemporanei, concordi nel rilevare la grande umanità dell’artista unita alla modestia di un galantuomo d’altri tempi. Lo attesta anche il già citato Simone Weber: Il Mayer era natura di artista che alla bontà d’animo univa un’onesta senza pari. In attesa di un miracolo – la ricomparsa della lastra “sparita” – speriamo almeno che si possano presto vedere le tele del Mayer esposte nella nuova Quadreria comunale di Rovereto. 91 GUSTAVO MODENA VISTO DAI SUOI CONTEMPORANEI Il genio è nemico naturalmente di pace di Pier Ambrogio Curti Il testo a seguire è una libera riduzione di un lungo articolo, intitolato semplicemente “Gustavo Modena”, pubblicato da p. 9 a p. 16 su di una rivista non identificabile, in quanto mancante delle pagine iniziali. Abbiamo mantenuto e rispettato lo stile dell’Autore, evidenziando solo, con l’inserimento di titoletti esplicativi, la sequenza dei capitoli che compongono il testo stesso. La versione originale fu stampata circa verso il 1858 dalla tipografia milanese di Giuseppe Radaelli per conto di Carlo Viviani (compilatore ed editore responsabile): una copia è stata donata recentemente alla Biblioteca comunale di Mori e fa parte del Fondo Modena colà custodito [ndr]. [...] Havvi un solo attore in Italia che il voto universale ha collocato sopra tutti gli altri, che ognun saluta riformatore dell’arte comica fra noi, maestro e insuperabile, che veramente puossi dir grande. [...] Questi è il Gustavo Modena. Ed a favellare della sua vita, mi volli schiudere con le premesse cose la strada: perocchè io creda necessario il parlare di lui meglio che di ogni altro, non essendo possibile nella storia dell’arte a’ tempi nostri di obbliare il suo nome o di ragionarne alla spiccia; poich’egli, a non dubitarne, è la più onorevole rappresentazione della stessa. 92 L’AVOLO, MONTANARO DI MORI Gustavo Modena non ripete il lustro dagli avi, ma si l’amor dell’arte dal padre. L’avolo suo montanaro di Mori, piccola terra del Tirolo italiano, vivevasi alla buona colà su pe’ suoi greppi; e il genitore, di nome Giacomo, fino a’ quindici anni modesto sartorello del suo paese, entratogli il gricciolo di recitare al teatro, e tormentato da questa smania, abbandonato l’ago e le cesoje, collo sparuto peculio di una lira e cinquanta centesimi in saccoccia, pellegrinava a Verona, ove sì frequenti convengono tuttavia i suoi compaesani a ricercarvi lavoro e pane. Di là si conduceva a Venezia, che era a que’ dì la città centrale del teatro italiano, come in Francia sarebbe oggidì Parigi pel teatro francese, nell’intento determinato d’entrare in qualche drammatica compagnia. Quivi ancor meglio si appassionò pel teatro e meglio vi si dispose studiando indefessamente ed erudendo lo spirito; comechè d’un tratto Un raro ritratto di Giacomo Modena (1757-1841). 93 vedesse non essere assolutamente possibile tendere a grande riuscita e conseguirla, senza la cultura dell’ingegno. Apprese le lingue e si rese famigliare la patria letteratura; e così potè in breve aver fama di bravo attore, e venir quindi senza contrasto giudicato il primo attore tragico italiano. Né si creda fosse facile lode codesta; perocchè non è vero, come vorrebbe l’odierna albagia, che in passato non avessimo di buoni attori e sulle scene non contassimo che manierismo e convenzione. [...] E di Modena, il padre, assicurano tuttavia molti che nella drammatica sono assai intelligenti, e della storia del teatro nostri esperti, che nessuno pur oggidì sappia recitare il verso come lo sapeva lui, senza quelle altitonanti cadenze di scuola, senza cantarlo, ma secondo la verità del concetto, e che nessuno seppe rendere piacevole quanto lui il verso martelliano onde allora dettavasi la commedia, e comportabili e naturali i versetti prefino de’ melodrammi di Metastasio. Di siffatta maestria, che da tutti gli veniva riconosciuta, Vincenzo Monti [...] gliene diè, del suo vivente, ampissimo encomio. Il nostro Gustavo gli nacque, trovandosi in Venezia, nell’anno 18041, primo frutto di sue ben assortite nozze con Luigia Lancetti, prima attrice anch’ella di non volgar nome e valore. Venuto appena alla luce questo loro bambino, fu tenuto per morto; ma il chirurgo Zulian che lo curò, gli donava alla vita. Le prime impressioni, i primi amori furono certo teatrali, perché dovevano naturalmente risentire di quella società cui apparteneva il padre, il quale però lo volle applicare a regolari studi, vagheggiando invece di cavarne di lui un buon avvocato. 1 Probabile errore di stampa: la data esatta è il 1803 [ndr]. 94 FIN D’ALLORA DI PRONTISSIMO INGEGNO E Gustavo fin d’allora di prontissimo ingegno, studiava e si munì di ricca suppellettile letteraria, per modo ch’egli sia, se non la sola, certo fra le poche eccezioni de’ nostri comici, per la più parte sforniti di coltura. Egli ne uscì buon letterato e lo attestano i suoi scritti sì di politica che di arte, che venne poi pubblicando, in cui alla aggiustatezza e bontà del concetto accoppiò sempre una dizione propria e disinvolta. Trattò anche non infelicemente il verso, e ne fa fede la recente versione della tragedia Maometto2 da lui tradotta dal francese di Voltaire. Gli studj compì nel liceo di Verona, dove la rettorica gli fu appresa da quello svegliato e sodo ingegno del padre Ilario Casarotti, uomo di buona critica e squisitissimo gusto. [...] Da Verona il nostro Gustavo fece passaggio a Padova, dove a quell’Università attese a studiar diritto. Ma non vi si soffermò che i primi due anni, forse a cagione delle gravi collisioni che regnavano fra studenti e borghesia, e per le quali poco mancò non rimanesse vittima. Perocchè passeggiando egli a diporto una notte pel Prato della Valle, insieme al condiscepolo Quaglio di Rovigo, venne da sconosciuti popolani aggresso e ferito mortalmente, cadendogli ucciso al fianco il compagno. Al Quaglio si fecero solennissimi funerali, a cui parve la scolaresca tutta quanta intervenire, per ritemprarvi feroci propositi di vendetta; e così infatti vennero poscia sospinte le animosità, che, d’ordine del Governo, venne per quell’anno chiusa l’Università. Intanto agitavasi pel nostro Stampata a Torino nel 1857, il titolo dell’opera originale era: “Il fanatismo, o sia, Maometto profeta: tragedia”. Per una strana coincidenza, questa stessa opera aveva attirato l’attenzione di un altro noto personaggio locale. Infatti, era già stata tradotta e “recata in versi italiani” a cura del conte Cesare Castelbarco, che l’aveva pubblicata a sue spese a Milano nel 1820 per i tipi di Bernardoni. Non sappiamo se Gustavo Modena conoscesse questa traduzione [ndr]. 2 95 Gustavo d’amputargli un braccio per la ricevuta ferita, e la facoltà medica ne era tutta quanta dell’avviso, e se non fosse stato il chirurgo Ruggieri, la fatale operazione avrebbe avuto anche luogo. Questi propose che si aspettasse alquanto, e poco dopo infatti la ferita pigliò buona piega e Modena non andò mutilato, ma riserbato a migliori destini. Risanato, compì gli studj all’Università di Bologna, ed a soli diciassette anni si laureò in legge. Intenzionato infin allora a correre questa carriera, entrò nello studio dell’avvocato giudice Vicini (lo stesso che nella rivoluzione del 1831 fu acclamato presidente del potere esecutivo), e vi incominciò la pratica forense. Recavasi di là a non molto, in Roma a proseguirla; ma dopo sei mesi se ne ripartiva per far ritorno a Bologna, dove nel 1823 passò avvocato a quella Corte d’Appello. Contuttociò poco amore egli aveva a’ garbugli legali ed a ribellarlo affatto al foro capitarono gli sconvolgimenti giudiziarj operati da Leone XII. Ecco allora entrargli pensiero di mutar mestiere, e mentre stava mulinando a qual’acqua buttarsi, gli giungeva, come un’ispirazione dal cielo, lettera del capo-comico Fabbrichesi, il quale lo invitava ad entrare quale primo attor giovane nella sua compagnia … Fabbrichesi non operava per istinto, o per irragionevole simpatia; ma aveva di Gustavo Modena udito già ripetere meravigliose cose, dietro alcune poche recite da lui fatte co’ dilettanti di Bologna; e però confidava accaparrarsi un soggetto eccellente alle sue viste. Il giovane aveva bella presenza, bella voce, non ancor guasta da malattia al naso e meglio che tutto ciò, coltura, intelligenza e passione: ove rinvenire qualità migliori? Gustavo non volle contuttociò abbandonarsi ciecamente a questa ispirazione, e se da una parte gli sorrise la nuova professione, campo di più lusinghieri trionfi; accettando l’offerta, volle però vincolarla al patto dell’esperimento di 96 sei mesi, ne’ quali ove si fosse accorto mancargli vocazione e possibilità a riuscire più che mediocre artista, rimanesse in sua facoltà di rescindere il contratto e ritornarsene alle Pandette. LE NOMADI E ZINGARESCHE PEREGRINAZIONI In onta a questo patto, ben la risoluzione significava già vocazione gagliarda; perocchè dov’essa non fosse stata , dove in sé non avesse Gustavo sentita la potenza di poggiare a sublime altezza , il capriccio non avrebbe certo bastato a persuadere l’avvocato di lasciare il certo per l’incerto, le grasse parcelle pei mingherlini emolumenti, la vita comoda e tranquilla per le nomadi e zingaresche peregrinazioni. Il contratto lo chiamò primamente a Venezia (1825), la città che gli aveva dato i natali; e per lui dovevasi derogare al vecchio adagio che nessuno abbia ad essere profeta in patria. Prodottosi colla parte di David nel Saul d’Alfieri [...] il pubblico gli fe’ le più liete accoglienze, ragione non lieve di onore, allorchè si pensi che quella compagnia tutti comprendesse i più lieti artisti di quel tempo. [...] Con sì splendido esordio non attese egli che trascorressero tampoco i sei mesi di prova, e come Fernando Cortes per non riedere in Europa aveva bruciato i suoi vascelli, Gustavo Modena a tôrsi perfino la possibilità del ritorno al Foro, regalò codici e trattati legali agli amici, risoluto a tutto quind’innanzi consacrarsi all’arte sua. Compiuta la stagione a Venezia, in quello stesso anno passò colla sua compagnia a Milano, dove d’un tratto si rapì le simpatie del pubblico, che mai non gli vennero poi meno, e i giornali della nostra città ripeterono per le stampe i meritati encomj al giovane attore. Più entusiastici forse gli vennero fatti in Roma, dove si recò di poi; [...]. 97 Improba e inutil fatica sarebbe il seguitarlo a tutte le scene italiane su cui si produsse in quegli anni che seguirono e notare i progressi che ei vi veniva facendo a mano a mano che si addimesticava all’arte, e che l’esperienza li guidava allo studio: meglio importa conchiudere, asserendo come dappertutto egli rivelasse una potenza d’ingegno fuor del volgare ed accennasse a tal riuscita che a pochi privilegiati è dato d’arrivare. [...] Ma di rado interviene che la vita di un grande artista, come di qualunque altro intelletto scosso da gagliarde passioni, non s’avvicendi pure di altre peripezie e di sventure. GIOVANE ATTORE, DAI BOLLENTI SPIRITI … Son noti i gravi avvenimenti a’ quali la Penisola nostra si turbò nel 1831 e per cui gli Austriaci occuparono Bologna. Era quasi impossibile che a questo giovane attore, dai bollenti spiriti e dall’elevato ingegno, non s’apprendesse quel fuoco che pur in tanta gioventù s’era di subito propagato. Epperò balzato egli dalla scena, via gittato socco e coturno e impugnato il fucile, marciava animoso colla colonna del general Zucchi in Romagna. Dopo la capitolazione d’Ancona, fu imbarcato prigioniero su di un trabaccolo che nelle acque di Brindisi e di Messina gli fu poi per trentasei giorni di prigione; perocchè sempre veniva lasciato nell’angoscioso pensiero di vedersi dannato a morir di capestro o di fucilazione. Finalmente potè andar libero a Marsiglia. Ma la terra d’Italia gli stava sempre nel cuore e nel 1832 riapparve a Bologna; ma ricaduta questa nelle mani de’ papalini, dopo gli avvenimenti di Cesena, il cardinale Albani ne lo esigliò. Rivide allora il suolo di Francia, dove per avventura aveva contato stabilire la sua dimora in aspettazione di giorni migliori pel suo paese; ma Thiers che era a que’ di ministro 98 di re Luigi Filippo, venne a turbargli anche questa pace dolorosa, cacciandolo pure di là: moneta che alla sua volta il vindice tempo doveva rendere a quel potente ad usura! Un inusuale ritratto di Gustavo, pubblicato originariamente in calce all’articolo qui riproposto. Gustavo allora visitò Svizzera e Belgio, e ramingando sette anni allo straniero, ebbe casi ed eventi da romanzo, che ben sarebbero pieni d’interesse e che assumerebbero vita ed interesse grandissimo, sotto la colta penna di lui medesimo, se gli venisse il buon pensiero di scriverne le memorie, e su cui però trasvolo, poiché men propri al cómpito mio, traendo in lunghezze non convenienti ad una semplice biografia. Giova però ricordare com’egli desse per campare la vita all’estero, lezioni di lingua e di letteratura, fosse correttore di stampe nel grande stabilimento tipografico brussellese “Meline, Cans, e compagno”; negoziasse ben anco in maccheroni di Napoli, in cacio lodigiano, e servisse una volta perfin da mediatore a un vetturale fiorentino, da cui s’ebbe il beveraggio d’una decina di franchi. 99 UNA GIOVANE E LEGGIADRA DONNA … Fu in questo tempo che una giovane e leggiadra donna, di altissimi sensi e nobilissime virtù e degna però del cuore dell’esule italiano, figliola di un notaio di Berna, ebbe ad innamorarsi di lui, com’egli di lei. Consentirono essi sposarsi e furono marito e moglie. La bella e brava donna3 fu da quel giorno l’angelo della sua vita, compagnia nel gaudio e nel dolore, a parte de’ suoi affetti di patria e di arte, felice di dividere i suoi stenti al suo fianco ne’ giorni del cimento, corona sempre de’ suoi artistici trionfi. Ma quando i giorni dell’esilio volgevano al loro termine, ritrovandosi a Londra, gli era entrato il pensiero di declamare a quel King’s Theatre la Divina Commedia di Dante. E il bel progetto non tardò a portare ad esecuzione. Solo chi lo ebbe a intendere, o colà o anche in Italia di poi, può ridire a sé stesso quanto sia la maestria e la potenza di Gustavo Modena nel porgere declamando i varj episodj del divino poema. Conviene essere ben addentro negli studj ed essere ben forte letterato per farne, di quella forma e con tanta chiarezza, intendere la recondita bellezza di que’ concetti e di que’ versi, per renderne ora tutta la terribilità, ora tutta la dolcezza, ora la verità della descrizione e della similitudine, ora la gravità e divinità della sentenza. E che? Udite Modena declamar Dante, né vi sarà più mestieri ricorrere a’ commentatori per chiarirvi del senso di que’ versi che son sì spesso di colore oscuro. Colla voce, col gesto, colla giustezza de’ suoi riposi, del suo dire, colle inflessioni or piane ed or forti, col colorito che vi presta, egli vi supplisce più de’ gramatici, più de’ postillatori, i quali vi traggono spesso sì lontano dal vero; l’Allighieri vi diventa facile e chiaro, e voi lo Si tratta di Giulia Calame, oggetto di uno specifico articolo pubblicato su questo numero della rivista [ndr]. 3 100 comprendete meravigliosamente. Immagini adunque ognuno quanto effetto sortisse l’esperimento al King’s Theatre; esso fu una rara rivelazione e per l’artista che conobbe quanto partito avrebbe potuto cavarne, e per il pubblico che solo allora per la più parte s’accorse di comprendere il poema sacro. Il fortunatissimo successo avrebbe lusingato l’artista, che forse più non sarebbe tornato in Italia, se qui la voce non lo avesse richiamato de’ suoi vecchi genitori, desolati allora per la morte del loro minor figliolo, Ercole, che s’era dato alle matematiche. E giustizia esige si dica come costoro fossero sempre stati al loro figliol tenerissimi, come a lui fossero sempre stati sempre esemplari di virtù; l’amore quindi e la reverenza per essi dovevano essere in Gustavo necessaria conseguenza. Ecco pertanto Gustavo Modena ritornare nel 1839 in Italia: eccolo far ritorno a’ suoi primi amori, all’arte, e ridarvi prima i suoi passi in Milano. DEL LANGUORE IN CUI TROVAVASI IL TEATRO Fra noi principalmente lagnavansi gli intelligenti del languore in cui trovavasi il teatro. [...] Gustavo Modena però non appena toccò il suolo d’Italia, che tutta abbracciò la miserevole condizione dell’arte comica, e si propose incontanente di redimerla dalla imminente rovina, poiché a tanto ben egli si sentisse capace. E questi suoi intendimenti a cui prontamente si accinse onde recare ad effetto, fanno sì che la biografia tocchi a quella seconda parte della vita del grande attore, che si può dire a lui più gloriosa, perché gli attribuisce la lode di vero riformatore dell’arte comica in Italia. [...] E se in Londra aveva conseguito clamoroso successo, fra noi l’ammirazione, com’era ben naturale, arrivò incontanente 101 all’entusiasmo. [...] Quivi [al Teatro Re, ndr] la sua maniera suscitò la generale sorpresa: tanto aveva saputo mostrarsi libero da vite convenzioni, vero e naturale, ed introdotto un genere affatto diverso e nuovo da quello stesso che in addietro aveva egli medesimo seguitato. Principalmente nel Saul, che è per avventura la più potente creazione di Alfieri, quindi nell’Orosmane e nel sargente Guglielmo egli parve un altr’uomo, avendo deliberatamente trasformato sé stesso, emancipandosi dalle vecchie maniere, per seguir naturalezza e immedesimarsi de’ caratteri che toglieva a rappresentare. Costume, movimenti, attitudini, color al viso ed alle mani, a tutti insomma quegli accessorj che valgono a più fedelmente rappresentare un tipo storico, mostrò col proprio diligente esempio come debba esser dall’attore curato. A queste secondarie cose che pur contribuiscono tanto all’effetto, non erasi in Italia accostumati prima ch’egli non le importasse. Massimamente nel Saul poi di tal forma rappresentò la grande figura biblica e riprodusse la grande passione, che ben si disse essersi il Modena col pensiero e colla espressione elevato fino all’altezza del poeta. Ma non legato ancor stabilmente per durevole contratto con alcuna compagnia drammatica e trovatosi libero, nel 1841 andò per suo diporto a visitare la capitale austriaca. Trovavasi impresario a quel teatro di porta Carinzia, Bartolomeo Merelli [...] il Modena fu da lui invitato a recitarvi, certo di offerire a’ Viennesi una squisita novità. Troppo memore della parte avuta dall’italiano attore ne’ politici rivolgimenti passati d’Italia, Sedlintzky, che allor teneva l’Autorità suprema di Polizia, avvalorandosi d’un decreto di Maria Teresa il quale vietava la recitazione ne’ viennesi teatri in lingua straniera, mandò a vuoto il buon intendimento del Merelli e il piacere del Modena, con sommo rincrescimento dei molti che del nostro attore avevano 102 sentito ripetere le maraviglie; differendo per tal modo in quella colta città l’introduzione della commedia italiana, che soltanto vi s’affacciò di poi nel 1855 colla Ristori, riportando un completo trionfo. [...] Ricondottosi Modena a Milano, a più sollecitamente incarnare il proprio divisamento di rinnovare la povera arte drammatica, immaginò ordinare intorno a sé una compagnia di giovanetti che avessero vocazione vera al teatro; e Milano ricorda tuttavia con vera soddisfatto i nomi di costoro, i quali formano pur adesso l’ornamento migliore della scena italiana. [...] Avrebbe egli voluto fondare allora con siffatti elementi una vera istituzione drammatica, la quale preservasse, anche per il seguito, l’arte dalla caduta e preparasse di continuo de’ buoni attori; immaginò discipline al proposito, e lusingato da quelle festevoli accoglienze di cui non ebbe tra noi difetto giammai, mandò in giro tra’ signori di Milano una sottoscrizione. Non parrà vero però a chi conosce la mia città, che sempre fu pronta a sorreggere del patrocinio suo le utili istituzioni, non parrà vero che questa del Modena non trovasse tre firme. [...] Non meno coraggioso tuttavia procedette Gustavo Modena nella sua strada e in altre produzioni, oltre le già ricordate del Saul, de’ Due Sergenti e dell’Orosmane […] Fu sempre studio sommo di Modena il conformare il proprio esteriore a quel carattere che la storia assegna a quegli uomini da lui fatti rivivere sulla scena, e curò il costume non solo dei tempi, ma perfino que’ tratti caratteristici della persona e della fisionomia […] POSSIEDE ALTRESÌ QUEL GENIO RETROSPETTIVO … “Modena [scrive il critico drammatico Stefano Arago sul giornale torinese Il Diritto, ndr], l’aspetto di cui è imponente e che comanda l’interesse a prima giunta, … possiede altresì quel genio retrospettivo che strappa alle passate età i loro 103 più reconditi segreti, egli insomma ha l’intelligenza del tempi andati; ma se ricostruisce lo scheletro degli eroi, se li anima del soffio che già li faceva vivere, ei non li veste contuttociò colla medesima cura? Perché una tal negligenza? [...] Modena, il cui talento sì è sviluppato durante l’effervescenza romantica, dovette giorno per giorno essere alle prese col febbrile e col grottesco. A vero dire, io tremava prima di udirlo: ma quanto fui dolcemente sorpreso riconoscendo com’ei non avesse mai adorato alcuno di que’ mostri schifosi della Creta che ottennero pure il loro tempio nell’antica Roma degenerata. Il dramma dei boulevarts di Parigi, troppo abitualmente è tradotto sui teatri italiani e troppo frequentemente imitato dai vostri autori nazionali; le esagerazioni di questa Melpomene scapigliata, che ama piuttosto calzar pappuccie che sandali e le mani di cui hanno ricusato il pugnale per armarsi d’un coltello di cucina; tutto questo genere falso e spurio non ha né imbastardito il talento di Modena né falsato il suo genio. [...] Gloria dunque a Modena che ha saputo attraversare il pantano drammatico senza pur inzaccherarsi la falda estrema del suo mantello”. … QUEL CIALTRONE DI ALESSANDRO DUMAS Dopo ciò, come curarsi del recente giudizio di quel cialtrone di Alessandro Dumas? Travagliato il Modena, per comune sciagura, da frequenti malattie, dovette separarsi da’ suoi diletti allievi; ma perché non avesse ad andar perduto il frutto delle fatiche che era venuto sostenendo, ne fe’ cessione a Giacinto Battaglia. Meglio a lui, - egli pensava, - meglio a lui che a tutt’altri, da che sapendolo autore d’una Luisa Strozzi, d’un Filippo Maria Visconti e di tal altro buon dramma, ed appassionato dell’arte, avrebbe curato il miglior proseguimento della 104 giovane compagnia. Poco tempo durarono le redini di essa nelle mani dello scrittore, al quale parimente riuscì vano il tentativo di recare ad effetto il divisamento del Modena, di fondare una istituzione drammatica [...] Ma in questa ne fu sopra l’anno 1848 con tutti i suoi fortunosi avvenimenti, e che nella storia d’Europa lo farà a tremendi e indelebili caratteri memorato. Non fu solo il Modena che fra gli alunni di Roscio venisse travolto nel turbine di quegli eventi. La guerra che ne’ dintorni di Treviso ebbe frequenti fazioni in quell’anno gli devastò un suo podere che si aveva in quelle parti, di cui anche dopo non gli fu più concesso fruire, caduto pur sotto la legge che colpiva di sequestro i beni degli emigrati politici. […] S’INERPICA SU PER LA MONTAGNA … Dopo la disputata resa di Roma, nel 1849, Gustavo Modena, combattuta l’anima fra questo e quel luogo a scelta del suo esiglio, corse co’ suoi fratelli di ventura in Piemonte, a Torino. Recitò qualche tempo allora su’ teatri del Piemonte; spesso adoperandosi a profitto di que’ miseri che, perduta la terra natale, popolarono quel suolo; e par tale opera di carità, ebbe trionfali ovazioni in Genova a’ 25 di maggio del 1856, quando, dopo aver rappresentato il Luigi XI, ed essere stato onorato da un vigoroso canto di Luigi Mercantini, all’uscir dal teatro venne da una deputazione di uomini e di signore presentato s’una bandiera e d’una corona d’alloro, ricordando que’ bei tempi in cui l’arte e la bellezza fatte gemelle creavano, sotto il nostro bellissimo cielo, miracoli di fantasia e d’intelletto. - Pur nondimeno, fastidito forse dalle cose che l’attorniavano, un bel giorno involandosi a 105 tutti, s’inerpica su per la montagna4 e si fa eremita. E vi rimase buon tempo, sordo alle recriminazioni, alle preghiere degli amici, degli ammiratori. Scriveva di là essere fradicio, nauseato dell’umanità, dell’arte, del teatro, di tutto: smagato, allentato e consolarsi ridendo di ogni cosa, ma ridere un po’ colla milza, un po’ col fegato ed occupando il suo tempo nel seguitare, come direbbe Shakespeare, la sua ombra al sole. IL GENIO È NEMICO NATURALMENTE DI PACE Ma io non credeva a queste parole, a cotali proponimenti; il genio è nemico naturalmente di pace, flagella, martirizza: uopo è alla fine il cedergli e Gustavo Modena cedette. La notizia è buona: egli in questi ultimi mesi è riapparso sulle scene: egli colla sua possente scintilla ha elettrizzato i pubblici piemontesi. [...] Una voce poi corse e fu ripetuta da’ periodici nostri, che possa il Modena peregrinar dall’Italia e cercar prode rimote: noi tutti no’l vorremmo certamente, noi che, avendolo ora nel vicino Piemonte, non possiamo affatto abbandonare la speranza di rivederlo calcare le scene milanesi. Sia pure che una spada di fuoco si levi contro lui e gli contenda di qui venire: sia pure che tutti, e i grandi uomini singolarmente aver debbano cura del proprio nome e della propria dignità; ma ben mi ricorda che David e Talma, queste due fulgide stelle del moderno teatro francese, esuli dalla Francia dopo il 1815, in Francia vennero con ogni maniera di onorificenze richiamati, perché per essi aveva la città di Parigi da Luigi XVIII il ritorno. E perché non potrebbe per Gustavo Modena fare altrettanto la Città di Milano? Precisamente a Torre Lucerna, oggi Torre Pellice (516 slm) in provincia di Torino, vicino al confine francese [ndr]. 4 106 GIULIA CALAME - MODENA di Eugenio Comba Il testo che segue è tratto da una raccolta1, pubblicata nella seconda metà dell’Ottocento da Eugenio Comba - prolifico scrittore di testi scolastici all’epoca molto apprezzati e diffusi - il quale intendeva così facendo decantare le figure femminili più nobili e rappresentative della storia italiana. Tra queste eroine, Comba non esita ad inserire anche la moglie di Gustavo Modena, svizzera di nascita ma legata indissolubilmente al grande attore per l’intera vita ed oltre. Leggiamo cosa scriveva in proposito: Giulia Calame è stata il grande amore di quell’anima irrequieta e ardente, continuamente divisa fra la patria e l’arte in una battaglia perenne contro tutto ciò che non rispondesse all’ideale di patriottismo, di Gustavo Modena, il grande attor tragico dell’Italia risorta, immortalato dalla storia del teatro nazionale. Giulia Calame fu assimilata ad Anita Garibaldi, perché, come la gagliarda compagna dell’Eroe dei due Mondi, fu per l’uomo amato, pronta ad ogni sacrifizio, a lui si votò con tutta l’anima, sfidando avversità di ogni maniera, stenti e pericoli gravissimi. Era figlia del conte Calame di Berna, e Gustavo Modena Dal titolo Donne illustri italiane proposte ad esempio alle giovinette, stampato per la prima volta a Torino nel 1872. Il volume incontrò un buon riscontro tra il pubblico, tanto che ne furono pubblicate diverse edizioni in rapida successione. Presso il fondo antico della Biblioteca “Luigi Dal Ri” di Mori è conservata la prima ristampa notevolmente accresciuta della sesta edizione illustrata (Paravia, 1920), ed il testo qui riportato si trova alle pp 178-180 di questa versione. 1 107 la conobbe durante gli anni dell’esilio cui era stato costretto per gli accesi suoi ideali patriottici. La conobbe e la sposò – narrò G. Deabate – vincendo ogni ostacolo, ogni opposizione di parentela. Ma sono da poco sposati che vengono espulsi dalla Svizzera. Che fare? A piedi, fra mille fatiche, essi raggiungono il Belgio. Gustavo fa il correttore di stampe e Giulia lavora di cucito e presta servizi in casa altrui; Gustavo fabbrica maccheroni, e la sposa gira il mercato per venderli. A tutto, a tutto si adattano, anche al più umile mestiere, per vivere! Poi il grande errante artista vien bandito anche dal Belgio, ed è costretto a riparare a Londra. Ed è qui che rifulge in tutta la grandezza quell’intermezzo, così splendido per l’arte nostra, che fu la declamazione di Dante, fatta dal Modena, della “Divina Commedia”, di cui Ugo Foscolo aveva fatto nascere negli inglesi il desiderio ardente di apprendere sempre più. E sempre, sempre, in ogni luogo, fra gli stenti o fra le vittorie, nella miseria o nell’agiatezza: mirabile compagna di quella vita errabonda, travagliata, febbrile, Giulia Calame diede prove di raro coraggio e di esemplare fedeltà; cospiratrice e battagliera nelle ore della lotta, consolatrice adorabile nella ambulanze della fortezza di Palmanova. Onde, fu ben detto che, nel bacio della sua Giulia, Gustavo Modena sentiva non solo l’alito amoroso della sposa, ma il sospiro dell’arte, che anelava alla verità, il singulto della patria che fremeva alla libertà! E pure il nome di Giulia Modena non è conosciuto quanto lo dovrebbe! Ai giovani ed alle giovanette soprattutto non è abbastanza ricordata questa donna magnanima, che fu esempio di sacrificio e di eroismo non comuni, che fu la compagna elettissima di uno fra i più grandi atleti dell’arte che abbia visto la scena. 108 La giovane sposa che trasporta sopra le sue gagliarde spalle il suo Gustavo, febbricitante, di monte in monte, fra gli aspri gioghi dell’Oberland, per fuggire i segugi polizieschi; che ne consola le ore desolate di Londra, quando la fame batte alle porte del loro ricovero; che si curva in faticata sui feriti di Palmanova e di Roma, a medicarli e confortarli amorosamente, non fu essa tale donna meritevole da essere additata alle nostre fanciulle, quando loro si parla di figure muliebri che illustrarono il loro sesso, di donne e di cittadine esemplari? Quando a Mazzini fu noto il fidanzamento di Gustavo Modena con Giulia Calame, il grande maestro volle donare, quale pegno di amicizia intima, al compagno, cospiratore artista, che gli era sì caro, una trecciolina finissima di capelli. Quei capelli erano stati recisi alla madre del Mazzini, la signora Maria. E Gustavo Modena, raccoltili gelosamente entro una specie di piccola teca e formatone un braccialetto d’oro, li offriva a sua volta alla sposa. Nel giro interno del braccialetto erano incisi questi tre versi: Questi capei, pegno d’eterno amore, Di lei, cui fur recisi, e di me sempre, O gentile, favellino al tuo cuore! E quando la Giulia morì, otto anni dopo il grande attore, il piccolo gioiello – che era valso, chi sa quante volte, a ricordarle il suo passato di amore e di dolore – fu trovato sotto il suo capezzale. Vi era scritto vicino il nome di Janet Nathan-Rosselli, l’amica direttissima dei suoi ultimi anni, a cui la Giulia lo destinava quale ricordo. Nel camposanto di Torino riposano le ossa di questa eccelsa donna che fu esempio mirabile di virtù, di eroismo patrio fra le donne italiane. 109 Si tenga presente che Eugenio Comba scrive in un epoca storica ben precisa, con l’Italia che tentava faticosamente di costruirsi una coscienza nazionale: gli perdoniamo pertanto lo stile pomposo, ma, tanto per confermare di che pasta fosse fatta Giulia Calame, riportiamo qualche stralcio della sua corrispondenza epistolare. A dei suoi amici, scrive da Torino il 7 aprile 1860: Avrete forse letto nei giornali che Gustavo è stato nominato dal governo toscano professore di alta declamazione a Firenze. Ha rifiutato e ne sono assai contenta. Largo onorario, quattro mesi di vacanza all’anno, un bel soggiorno come Firenza, ma … preferiamo la paglia alla biada della greppia governativa. Mentre tanti fanno ressa intorno al mangiatoio è bene che qualcuno mostri un po’ di dignità. Intanto, danno a Gustavo del matto e del cittadino indegno! Alla cara sorella Emilia aveva confidato, in una lettera del 18 agosto l853: … è destino che questa vita debba essere una continua agitazione; ebbene, prendiamola com’è! Di’ alla mia buona mamma che si abbia riguardo, povera vecchia! Dille che la nostra salute è buona, che il coraggio non manca e che Iddio ci aiuterà come ci ha aiutato fino adesso. Dalla risposta scritta in data 11 marzo 1865 a Giovanni Guerzoni, in merito ad “dettato sul mio Gustavo”, veniamo a sapere alcuni particolari interessanti: [L’epistolario di Gustavo] sarà però sempre una cosa incompleta. Tutte le lettere dirette a sua madre, ora morta, con cui fu per quasi trent’anni in corrispondenza attiva, furono, dietro desiderio espresso da essa, richiuse nella di lei tomba. Pochi figli amarono la loro madre quanto l’amò Gustavo e nessuno l’amò di più. E tutte le lettere [indirizzate] a me del 1834 e 35, prima d’essere maritata, furono per una 110 fatale pruderie, sacrificate in un auto-da-fè da persona a me congiunta. Eppure erano tesoro di detti d’un’anima eletta che, come maestro, mi rivelava la vita avvenire e più che i diritti me ne additava i doveri. Ed altre ancora scrittemi nel ’43 in Isvizzera ove ero corsa per la morte di mio padre e che lasciai, come balsamo, alla mia madre derelitta … Essa morì, e le lettere andarono smarrite; sicché non ho una sol riga del mio Gustavo a me. Non so troppo cosa mi faccia nel scrivervi tutto questo. Mi valga per scusa la certezza che, se aveste conosciuto il mio Gustavo, lo avreste amato tanto che ogni atto suo vi sarebbe gradito. Anche per Giulia Modena, come per l’omonima Giulia Montanari, auspichiamo che sia dedicata maggiore attenzione da parte delle nuove generazioni. 111 L’ATTIVITÀ ARCHEOLOGICA DI PAOLO ORSI NEL NOSTRO COMUNE1 di Guido Boninsegna È di questi giorni l’attesa notizia che verrà prossimamente inaugurato a Rovereto, molto probabilmente dal ministro Gonella, un monumento al sommo archeologo trentino Paolo Orsi, la cui attività nel campo delle ricerche e degli scavi fu veramente sbalorditiva. Francamente è da compiacersi di questa lodevole iniziativa, voluta e patrocinata da un solerte comitato roveretano, appoggiato nella sua azione dal comune stesso, affinché tutto arrivasse a felice compimento, e l’illustre figlio della operosa città fosse immortalato e la sua gloria imperitura trasmessa ai posteri. Per quello che direttamente ci riguarda, cogliamo l’occasione, alla vigilia ormai della manifestazione, per ricordare che l’Orsi fu conosciuto e si rese benemerito anche a Mori, dove effettuò alcuni proficui scavi in località Castello ed al Colombo, ove rinvenne, catalogandoli, oggetti dell’epoca neolitica. Anche fra la frazione di Tierno e il ponte di Marco, l’Orsi rinvenne frammenti di stoviglie, lame di pugnali (età del bronzo), selci lavorate, ed altre reliquie di genti primitive che vissero nella valle presumibilmente non molto tempo dopo la scomparsa del ghiacciaio. Anche a Monte Albano, sotto la guida del grande archeologo, furono tratti alla luce numerosi oggetti risalenti all’età della pietra. 1 Pubblicato sul quotidiano Alto Adige del 29 ottobre 1950. 112 113 Paolo Orsi vuol far derivare il nome di Mori (dal calendario ecclesiastico Murius) da un Vicus Murius che darebbe la menzionata località “Castello”, dal nome della famiglia romana Murius. Egli dunque riuscì per primo a ricostruire con rispondenza e dati di fatto, parte della sconosciuta e misteriosa epoca preistorica della nostra conca, e i suoi meriti e le sue fatiche trovano tuttora, almeno fra gli intellettuali ed amatori dell’archeologia e della storia, un vivo e riconoscente ricordo che, pur attraverso gli anni, non s’è per nulla smorzato. Paolo Orsi (1859-1935) 114 QUANDO UN PEZZO DI PANE ED UN VECCHIO CAPPOTTO SIGNIFICAVANO TUTTO1 di Luigi Zoller Dal mio diario di guerra, o meglio di prigionia, ho tirato fuori questo episodio vissuto in prima persona con un compagno di sventura. Un ragazzo di Ravazzone, Giovanni Bianchi, la cui mamma era di Fontechel, era partito militare assieme a me nell’autunno del ‘39. Avevo dormito a casa loro per poter prendere il treno al mattino presto per Bolzano, dove dovevamo “consegnarci” per essere arruolati nei carabinieri. Prima di partire la mamma di Giovanni ci fece le solite raccomandazioni: “Fate i bravi ragazzi, cercate di stare in una buona compagnia, pregate e andate a Messa quando potete...”. Mi è rimasta impressa questa povera donna anche perché mia madre era morta da pochi mesi, e me la ricordava poiché anche lei mi faceva sempre le stesse raccomandazioni. Con Giovanni siamo sempre stati assieme a Torino per tutto il tempo della scuola allievi carabinieri, poi ci siamo divisi: lui a Bologna, io a Catanzaro. Ci siamo scritti per un po’ di tempo, poi con la guerra in atto ci siamo persi di vista. Io in Albania, lui nelle isole del mare Egeo. Arrivati all’8 settembre del 1943, cioè all’armistizio dell’Italia con gli alleati, i tedeschi ci fanno prigionieri e Articolo precedentemente pubblicato su: Voci dell’Altopiano, bollettino delle Comunità cristiane dell’Altopiano di Brentonico, Anno XI – n. 2 (estate 2003). Si ringraziano l’Autore e l’editore per la gentile concessione. 1 115 ci portano in Germania. Centinaia di migliaia di soldati provenienti da tutte le parti dei Balcani vengono convogliati a Bitola, in Grecia, o Bulgaria (infatti erano bulgari i soldati che ci sorvegliavano). In mezzo a tutti questi prigionieri salta fuori Giovanni. Subito abbandona il suo reparto e si aggiunge al mio. Anche lui si sentiva sollevato, come del resto io, per il fatto di poter stare assieme ad un vecchio amico, e affrontare in compagnia, in quella baraonda, l’ignoto che ci attendeva. Io avevo un po’ di sigarette portatemi dietro dall’Albania e barattandole riuscivamo a procurarci un po’ da mangiare. Dopo alcuni giorni di sosta al campo-base arriva il nostro turno di partenza. Stavamo sempre vicini per paura di essere divisi e così avevamo anche il tempo di raccontarci le nostre vicissitudini di guerra, anche se la nostra preoccupazione principale era quella di pensare a come riempire lo stomaco. Così verso la fine di settembre si parte con il treno per il Nord Europa. Non si sa dove si va. I vagoni sono stracolmi di soldati, e ogni qual tratto il treno si ferma in aperta campagna per dare la possibilità a tutta questa gente di sgranchirsi le gambe, fare i propri bisogni e cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Per lo più c’erano bambini del posto che in cambio di qualche sigaretta o qualche vestito stracciato ci davano del pane... Poi il fischietto delle guardie e si riparte. Così, giorno dopo giorno, arriviamo in Ungheria, quindi in Austria ed infine in Germania, dove si sale verso nord. A Brema si scende e si prende un altro treno: i ragazzi delle scuole, con i loro maestri, ci aspettano ad ogni varco, ci sputano addosso gridando “Traditori!”, le guardie ci incalzano con il frustino in mano o con il calcio del fucile per farci camminare svelti: nessuno parla più anche se non era proibito. Finalmente arriviamo a Bremerford in un campo di baracche messe su alla svelta, tanto che alcune avevano solo 116 il tetto. Ci buttiamo per terra come eravamo, qualcuno si è addormentato perfino con le scarpe ai piedi. Era novembre e la temperatura già cominciava a scendere sotto zero. Avevamo solo una coperta da campo e il cappotto per ripararci dal freddo. A Giovanni il paltò lo avevano rubato lungo la strada e così, con la sola coperta per ripararsi, si era preso una brutta tosse che non lo faceva dormire di notte. Un giorno mi disse: “C’è un soldato in una baracca vicina che vuole vendere il suo cappotto perché gli è troppo grande”. “Compralo – gli dissi – se non hai abbastanza soldi te li presto io”. “Soldi non ne vuole – mi rispose Giovanni – vuole solo due gallette (grosso pezzo di pane essiccato di circa due etti e mezzo) per farsi una bella mangiata. Io ne ho una che ho sempre tenuto per i bisogni, ma lui ne vuole due”. Anche io ne avevo una nascosta tra i miei stracci e, con tutta quella fame che si pativa, mi dispiaceva un po’ dargliela. Stetti zitto. La notte successiva fu ancora più fredda, tanto che tutti, nella mia baracca, passeggiavano invece di dormire. Io pensavo sempre a quella galletta che avevo nascosta e che in un minuto avrei mangiata, per poi, dieci minuti dopo, avere ancora più fame di prima, mentre se l’avessi data al mio compagno avrei fatto certamente un’opera di bene: non poteva passare tutto l’inverno con la sola coperta! Decisi così di dargliela, con l’impegno che acquistasse il paltò. Al mattino mi alzai e chiamai Giovanni: “Vai a comperare il cappotto, la galletta che ti manca ce l’ho io.” “Tu, possibile?” “Eccola.” Giovanni saltò in piedi, sembrava avesse vinto alla Sisal, e corse a cercare il soldato in questione. Affare fatto! Tutto contento tornò a farmi vedere l’acquisto. “Per merito tuo guarda qui, sono un signore!” Era veramente un bel pastrano. Gli stava a pennello: era un cappotto ancora dei Kaiserjäger della prima guerra mondiale, verde scuro, con due fila di bottoni argentati. 117 Credo lo abbia portato a casa come ricordo inestimabile e ogni volta che lo indossava mi ripeteva: “Guarda Gino che figura faccio!” Ebbene, siamo rimasti in questo campo per circa un mese. Si mangiava una volta al giorno, solo alla sera, mentre durante il giorno c’erano sempre riunioni per cercare di convincerci a tornare a combattere al fianco dei tedeschi. Ci davano un mattone di pane di circa un chilo e mezzo ogni cinque soldati, dunque tre etti di pane a testa, quindi un dado di margarina, una manciata di crauti o due patate lesse. Io trangugiavo tutto in un fiato. Giovanni mangiava metà razione del pane mentre l’altra metà la incartava e la metteva in tasca. Al mattino quando ci alzavamo tirava fuori il pane, mi chiamava e lo divideva a metà. Io non lo volevo ma me lo strofinava sotto il naso e se non faceva presto a tirar via la mano... Pensate che era un uomo alto più di un metro e ottanta. Dopo questo periodo siamo stati trasferiti ad Amburgo e lì si lavorava in una fabbrica di sommergibili e, insomma, lì si aveva un vitto discreto. Ma ogni occasione era buona per accennarmi al suo paltò e al piacere che gli avevo fatto. Anche dopo la guerra ci incontravamo spesso. Veniva dagli zii a Fontechel, o a qualche festa dei carabinieri in congedo; era vicepresidente dell’associazione di Rovereto. Diceva: “Con questo compagno spartivamo anche le scorze di patate!” Ricordo che assieme ogni tanto si andava assieme dai suoi zii Giovanni e Santina Andreolli (Tola). La zia Santina ripeteva sempre: “Voialtri almeno avete portato a casa la pelle. Io il mio Italo non lo vedrò più.” Diventando vecchio penso sempre più a questo triste passato. Eravamo partiti pieni di entusiasmo, siamo rientrati uno alla volta pieni di stracci e pidocchi. E da Fontechel non sono più rientrati in sette. Questa è la triste realtà della guerra. 118 L’UNGUENTO “MIRACOLOSO” detto “ont Battistìn” di Gianna Gentili Parlare dei propri cari per elogiarli, non è cosa facile, ma penso che un pensiero di ringraziamento a mia madre, Gentili Amelia nata Girardelli (1891-1968), sia doveroso, anche perché nel 2008 è ricorso il quarantesimo anniversario dalla morte. In sua memoria vorrei ricordare il suo generoso dono fatto alla comunità di Valle di S. Felice e poi a tutti coloro che ne apprezzarono la bontà: l’unguento miracoloso, come lo chiamava lei. Negli anni 1918-1920, si diffuse l’uso di questo unguento per la sua efficacia contro infezioni e infiammazioni. Successivamente venne chiamato anche “ont Battistìn” dal soprannome della famiglia di origine di mia madre, o “ont nero” dal suo colore scuro. Amelia Gentili nata Girardelli. 119 La miseria nelle famiglie, reduci dalla Boemia, ed anche nel periodo tra le due guerre mondiali era tanta ed avere a disposizione un rimedio tale per curare le varie infezioni senza dover ricorrere al medico voleva dire salvare la famiglia economicamente. La storia di questo unguento inizia nel 1919 quando Amelia si recò in Istria, a Lanischie (Pola) per aiutare in casa il proprio fratello Erminio, maestro, (che poi morì nelle foibe istriane), dove insegnava nella scuola elementare di quel paese. Abitando in affitto nell’appartamento del farmacista, ebbe modo di fare la sua conoscenza ed alla fine lui se ne innamorò, ma mia madre essendo già promessa a mio padre, Attilio Gentili, rifiutò gentilmente. Il farmacista allora le disse che le avrebbe fatto un dono così grande che non l’avrebbe mai più dimenticato e le insegnò a preparare con le dovute istruzioni detto unguento, raccomandandole di usarlo con generosità. I suoi ingredienti per una dose sono questi: gr. 280 olio di oliva gr. 105 minio rosso gr. 43,5 trementina solida gr. 35 cera vergine gr. 25,5 canfora gr. 25,5 sapone neutro a scaglie Mia madre lo donò a tutti coloro che ne richiedevano l’uso, diffondendolo in tutta la valle di Gresta e circondario, senza essere gelosa della ricetta, come a volte succede. Il suo uso si diffuse rapidamente nella cura di ascessi, mastiti, infezioni varie, ferite, abrasioni, dolori articolari, ecc. non solo per le persone ma anche per animali. 120 La gente della valle imparò ad amare e usare tale unguento, suscitando anche la gelosia di qualche farmacista. Negli anni ’40 del secolo scorso le mie sorelle Carla e Tullia, che lavoravano presso la Manifattura Tabacchi di Borgo Sacco, lo fecero conoscere anche alle loro colleghe zigherane e così rapidamente si estese in tutta la Vallagarina, tanto che poi venne chiamato “ont dell’Amelia”. La sua diffusione fu tale che ora è presente in tante parti del mondo (Germania, Canada, Argentina, Francia, Svizzera, ecc.) portato dagli emigranti, dagli eredi o conoscenti delle famiglie che ne hanno conosciuto l’efficacia. Alcuni missionari locali che conoscevano la nostra famiglia lo portarono con sé in Brasile, Bolivia, Kenia, Sudan, ecc. per lenire le piaghe causate dalla lebbra o altre malattie locali. Anche a Mori si usa questo unguento, diffuso generosamente da mia sorella Carla1. Pure i medici condotti, dottor Enrico Less e dottor Amedeo Bettini, ai loro pazienti a volte ne consigliavano l’uso invitandoli a richiederlo all’Amelia o a noi figlie. Questo unguento ha potuto essere conosciuto da tutti per la bontà e generosità di Amelia, donna stimata da tutto il paese ed il suo ricordo dovrebbe essere presente in ogni dose che si prepara di “ont Batistìn”. Di recente, tutte le fasi della preparazione dell’unguento sono state riprese ed immortalate a futura memoria da una troupe del Museo Civico di Rovereto, coordinata da Fabrizio Zara, su segnalazione della Biblioteca comunale di Mori che, tramite Carmen Borzatti e Ilda Bertolini, ne era venuta casualmente a conoscenza. Il filmato è visibile presso la mostra “Semplici di natura: erbe e preparazioni medicinali in farmacia ieri e oggi” attualmente ospitata a Palazzo Baisi a Brentonico (per maggiori informazioni e gli orari di apertura si rinvia al sito: http://www.museocivico. rovereto.tn.it/orto_brentonico) 1 121 LE “FRATTE” LABORIOSITÀ DEI NOSTRI CONTADINI1 di Guido Boninsegna Non sfuggirà certamente agli sguardi del forestiero che si ferma o del turista che transita dalle nostre parti quella lunghissima fascia di terreni, sistemati a terrazza, che si snoda ininterrottamente e copre per parecchi chilometri la prima erta balza del Biaena che con la sua glabra, ferrignorossastra mole ripara il borgo dai venti di tramontana. Quei piccoli fazzoletti di campagna, strappati a prezzo di estenuanti fatiche ed a furia di dinamite alla roccia avara, nel dolce ed armonioso vernacolo nostro si chiamano le “fratte”. Esse, sostenute da solide massicciate “a secco”, s’arrampicano ardite per 100, 200 e più metri su per il poderoso fianco della silvestre montagna raggiungendo e perfino scavalcando l’aspra strada a mezza costa che conduce a Monte Albano. La terra è poca: qualche palmo; magra, sottile, ghiaiosa per cui le coltivazioni erbacee offrono una produttività limitata, se non addirittura nulla quando il barbaglio cocente del sole non viene mitigato da qualche precipitazione atmosferica. Solo una pianta vi alligna bene, una pianta vigorosa che s’adatta si può dire a tutti i terreni e che in Italia vediamo crescere in tutti gli angoli: la vite. L’unica risorsa che compensa in certo qual modo le immani fatiche dei nostri meravigliosi contadini è dunque, 1 Articolo pubblicato originariamente sul quotidiano Alto Adige del 10 agosto 1951 122 sulle “fratte”, l’uva e, conseguentemente, il vino; un vino gagliardo e gradevole che scaccia ogni preoccupazione e fa resuscitare i morti. Vino buono sì, ma per guadagnarlo ce ne vogliono dei sacrifici. Basti pensare che gran parte delle “fratte” è raggiungibile solo dopo una estenuante seppur breve marcia battendo sentieri impervi e scivolosi che mettono a dura prova occhi e garretti anche di chi li affronta liberamente. Figurarsi lo sforzo che devono produrre i proprietari del fondo che sono chiamati a fare la scalata con sulla schiena bigonce colme od altri rimarchevoli pesi. Però, nonostante le difficoltà, la fatica ed i vantaggi poco remunerativi, l’attaccamento dei contadini locali alle loro “fratte” è sempre stato tradizionale. Una tradizione annosa ed ormai radicatissima anche se, oggigiorno, viene talvolta irrisa… Quelle “fratte” a molti di noi, abituati a vederle, o al turista distratto di passaggio forse non dicono nulla. Esse invece valgono a dimostrare in maniera solare quanto sia grande la laboriosità dei nostri contadini e di quale inflessibile tempra d’acciaio siano dotati. Pugnaci ed instancabili da secoli ogni inverno, ora l’uno ora l’altro, armati di picchi [picconi, ndr], badili, miccia e dinamite attaccano la granitica montagna e la dominano; e scavano, scavano, da mane a sera, imperterriti, sotto la sferza del vento gelido e tagliente o fra il turbinare del nevischio che acceca; innalzano muri, trasportano terriccio; ad una “fratta” ne aggiungono in primavera un’altra e poi, con gli anni altre ancora. Sforzo titanico, sublime, commovente. Sforzo inteso al massimo sfruttamento di ogni anche piccola, insignificante risorsa che contribuisca a migliorare le condizioni economiche e sociali… Le “fratte”: concreta ed ultrasufficiente risposta a tante sterili chiacchiere di gente inerte, incapace di fare e di produrre. 123 Le “fratte” in una cartolina di inizio Novecento. 124 Le “fratte” in una foto di Florio Badocchi (2009) 125 IL VOLTO E LA STORIA DI RAVAZZONE2 di Guido Boninsegna Ravazzone è una linda frazione appollaiata su un’erta breve balza protetta a nord dal “Camànghen” irto sperone del patrio Biaena. Chi proviene da Rovereto, oltrepassato il mastodontico ponte di ferro sull’Adige, se la vede nettamente dinanzi: un gruppetto di agresti casette ammassate all’ombra di un minuscolo campanilino rutilante e civettuolo. Quel microscopico raggruppamento di case è abitato da genti tra le più simpatiche e piacevoli e civili di tutto il caleidoscopio umano che forma e popola il vasto comune di Mori. Parecchi sono gli elementi che caratterizzano la frazione e che confermano ed avvalorano la veridicità della nostra precedente asserzione. Ci basta elencarne alcuni che risaltano e predominano: l’onesta laboriosità, l’altruismo peraltro scevro da ogni convenevole di prammatica, la cortese e calda affabilità che subito traspare dai volti e sgorga spontanea dai cuori. I cittadini di Ravazzone oltre ad essere longamini ed aperti con il prossimo, conosciuto o sconosciuto che sia, hanno anche, ripetiamo, una particolare venerazione per il lavoro e difficile è trovare da quelle parti uomini validi fermi od inoperosi: l’ozio è stato messo al bando od addirittura cancellato dal dizionario. Persino i più grossi possidenti che potrebbero, volendolo, starsene beatamente con l’adipe al sole, non disdegnano di adoperare l’acuminata vanga e di accudire, nelle stalle, al governo del bestiame. Trascrizione parziale di un articolo pubblicato originariamente sul quotidiano Alto Adige del 25 agosto 1951 2 126 Dall’alba all’occaso ed oltre, ovverossia “dalle stelle alle stelle”, i contadini sono nei campi per strappare all’avarizia di quest’ultimi il sostentamento cotidiano ... E le donne? Oh! Le donne non sono certamente inferiori dei loro instancabili mariti, padri e fratelli. Anche loro hanno le mani ruvide per il gravoso lavoro in casa, alla macera o, d’inverno, devastate dai geloni per il troppo frequente e lungo contatto con l’acqua diaccia della comune fontana ubicata nel bel mezzo del sagrato. […] I ravazzonesi dunque sono soprattutto laboriosi, intelligenti anche, vivaci; vedono e ponderano le cose con chiaro, semplice realismo progressista. E possiamo ben dirlo questo. Infatti nel settore agricolo, che è quello che più direttamente li riguarda, essi seguono con costanza e senza paura di salti nel buio il continuo sviluppo della moderna tecnica che vuole il massimo sfruttamento della terra. […] Una volta la piccola frazione, che si chiamava Rivazzone, Cartolina illustrata (non viaggiata) edita da Bernardino Sani ai primi del Novecento. Si nota sulla destra l’ingresso del paese dalla strada del Mossano. 127 aveva una non trascurabile importanza per il fatto che nella vicina località “il porto” era stato costruito un vero e proprio porto fluviale che rapidamente crebbe tanto da divenire, specialmente dopo che Morfino del fu Rambaldo nel 1188 fu investito dal vescovo di Trento della navigazione sull’Adige fino a Bolzano, uno scalo di primissimo piano. A Rivazzone attraccavano i legni carichi di merci dirette verso il Garda e sostavano anche per i rifornimenti o per gozzovigliare altre ciurme di passaggio. È facile capire che benché i traffici fossero in massima parte controllati dagli ebrei del Ghetto anche per i ravazzonesi erano aperte molte porte e possibilità di fare cospicui guadagni. Presumibilmente, l’armamento della stessa base fluviale servì ai veneziani per trarre dall’Adige le loro imbarcazioni inviate poi, per via terra, verso il lago di Garda dove furono calate in sul finire del 1438. La piccola armata lacuale vene- Bella panoramica di Ravazzone allungato ai piedi del Camànghen in una cartolina FOTOCINE di Trento, viaggiata nel 1965. 128 ziana (6 galee e 25 barche armate) comandata da un certo Pietro Zeno aveva lo scopo di forzare il blocco costituito dalla flotta dei Visconti e giungere successivamente, attraverso un varco da aprirsi a vettovagliare Brescia assediata, fedele alla Serenissima. Nel Garda avvennero parecchi scontri tra i quali memorabile quello del 10 aprile del 1440 conclusosi il 20 maggio con la presa di Riva. L’evolversi delle comunicazioni stradali e dei mezzi terrestri di trasporto determinò un parallelo decadimento della fiorente stazione. Poi, piano, piano, la base venne disarmata e cadde completamente in disuso. Certo gli è che dopo il 1600 l’economia di Ravazzone poggiò esclusivamente sull’agricoltura ed ancor oggi, immensamente più sviluppata, l’agricoltura è il pilastro base e la fonte principale di vita dei censiti, come del resto l’ostinato attaccamento al lavoro è una atavica incancellabile tradizione. 129 E GIOCAVAMO ALLA GUERRA! Bambini, giochi e propaganda tra le due guerre mondiali. Una lettura socio-culturale di Marta Villa Maturità dell’uomo: aver ritrovato la serietà che da bambini si metteva nel gioco. F. Nietzsche Nella cultura materiale umana si è accumulato uno straordinario repertorio di oggetti per il gioco che gli storici considerano ormai come documento di primario interesse per la ricostruzione di mentalità, vita e costumi. L’atto del gioco, come ricorda lo storico Huizinga nel suo Homo ludens, è più antico della cultura, perché “il concetto di cultura, per quanto possa essere definito insufficientemente, presuppone in ogni modo convivenza umana, e gli animali non hanno aspettato che gli uomini insegnassero loro a giocare”1. Diversi autori hanno cercato di dare un senso alla pratica del giocare, in particolare analizzando l’istinto innato nei bambini: c’è chi sostiene lo sbarazzarsi del superfluo di forza vitale, chi è convinto che sia un atto imitativo, chi pensa possa essere una pratica necessariamente rilassante oppure un momento atto ad apprendere il senso del lavoro e della fatica, chi ancora dichiara che possa essere un allenamento per il proprio autocontrollo2. Il gioco serve anche per imparare a 1 HUIZINGA J., Homo ludens, Einaudi, Torino, 1973, p. 3. Cfr. ZONDERVAN H., Het Spel, bij Dieren, Kinderen en Volwassen Menschen, Amsterdam, 1928. 2 130 relazionarsi, a dominare, a concorrere, a espellere gli istinti nocivi o appagare desideri inappagabili nella realtà. Huizinga sostiene invece che tutte le grandi attività originali della società umana sono già intessute di gioco, addirittura partendo dal linguaggio, dalla sua funzione e dalla sua nascita. Uno dei luoghi comuni più frequenti è la non serietà del gioco: tuttavia è necessario ammettere che ad esempio i bambini, gli scacchisti o i calciatori giocano con la massima serietà senza la minima tendenza a ridere. Alcuni giochi non sono affatto comici3 né per i giocatori, né per gli spettatori, anzi si gioca spesso per il proprio diletto e questa caratteristica determina anche l’atto di libera volontà interno al gioco stesso. Sempre Huizinga individua le peculiarità del giocare: essere libero, innanzitutto, essere una attività temporanea disinteressata con finalità proprie entro uno spazio determinato, essere trasmissibile4. Non dobbiamo dimenticare che il gioco inoltre ha delle regole che non appena trasgredite fanno crollare il suo mondo, perché l’atto ludico crea una situazione eccezionale, importante e fascinosa e a volte avvolta nella segretezza, non è la vita reale e ordinaria. Presso la maggior parte delle culture umane, come testimonia l’antropologia, durante le feste d’iniziazione con cui i giovani, sia maschi che femmine, sono accolti nella comunità degli adulti non solo gli iniziandi sono sciolti da regole e leggi quotidiane, ma per tutti i membri della tribù cessano ostilità e vendette, vengono sospese momentaneamente le attività sociali per Il comico è legato strettamente alla follia, ma il gioco non è folle, è situato al di fuori del contrasto tra saggezza e follia anche se durante il medioevo era uso comune questa espressione folie et sens che coincideva all’incirca con la distinzione attuale di gioco e serietà. 3 La trasmissibilità del gioco è molto importante: il gioco si fissa subito come forma di cultura, giocato una volta rimane ne ricordo come un tesoro e può essere ripetuto in qualsiasi momento e questa capacità di ripresa è un qualità intrinseca al gioco. 4 131 entrare nella stagione sacra dei ludi: saturnali, nel passato, carnevale, nel folklore, o goliardia riguardano da vicino questa pratica. Dopo questa generale premessa sull’atto ludico, poniamo ora l’attenzione alla strumentalizzazione del gioco, ossia il suo utilizzo per fare propaganda, e ci interessa la testimonianza materiale dei giochi pubblicati in Italia durante la fine del 1800 e i primi decenni del 1900, in un periodo storico che si preparava ad una Grande Guerra e successivamente vedeva per l’Italia un avanzamento della politica colonialistica e imperialistica. Proprio attorno all’inizio del secolo nascono i primi giornalini per i ragazzi: è del 1906 “Il Giornalino della Domenica”5 di Luigi Bertelli, noto come Vamba ed edito da Bemporad, del 1908 “Il Corriere dei Piccoli” e del 1912 “Lo Scolaro” edito dall’entourage culturale cattolicotradizionalista genovese Tra gli infiniti giochi, quello dell’oca, o di percorso, è molto interessante perché antico e capace di assumere forme diverse e adattarsi completamente al proprio momento storico. Questi giochi di tracciato hanno origini assai lontane, ma si trova documentazione apprezzabile dal 1600 in poi, epoca in cui comparvero i primi tavolieri con percorsi a caselle spiraliformi che si diffusero ampiamente in tutta Europa perché facili da riprodurre, dalle regole semplici e chiara metafora Il caso del Giornalino del Bertelli è significativo: tale documento editoriale evidenzia il superamento della dimensione deamicisiana del “singhiozzo pedagogico” e invita alla concretezza e all’azione. Ecco cosa si leggeva nelle sue pagine nel numero 12 del 1906: “L’Italia è bella, libera e una. Questo lo sanno tutti i bravi lettori del Giornalino. Ma certo solo alcuno di essi sa che qualche lembo di terra italiana rimase e rimane ancora sotto altro governo (il Trentino e l’Alto-Adige, NdA). Non che i grandi cuori e i valorosi eroi che combatterono per l’indipendenza italiana non abbiano versato sangue anche per queste terre! Tutt’altro! E avrò a riparlarvi di ciò un’altra volta. Fu la politica, una cosa di cui voi ed io ci intendiamo pochino – e ci guarderemo bene dal parlarne – fu la politica quella che mandò a male ogni cosa”. 5 132 della durata della vita, simbolicamente rappresentata dalle caselle di pericoli, imprevisti, fortuna… Fino alla Seconda Guerra Mondiale in Italia si producevano ogni anno decine di diverse tavole con tracciati da percorrere: a volte erano corredati di dadi e pedine, altrimenti erano semplici fogli stampati e allegati a riviste, scatole di prodotti alimentari o di svariati generi per pubblicizzarne l’acquisto. In Italia a fianco delle case produttrici più conosciute, specializzate in giochi su carta, come la celebre “Marca stella”, troviamo tavole provenienti dalle più svariate ditte: in tutte veniva riprodotto il gioco classico dell’oca. Il numero di caselle varia da 63 a 90 con ostacoli quasi sempre al 58 (il numero della morte), ponti o passaggi al 6, case nel 52; tuttavia le variazioni sono numerose atte a meglio espletare la funzione dell’argomento specifico del percorso. Numerosi sono i “Giri d’Italia in Bici” con Bartali e Coppi e le altre glorie del passato, oppure le passeggiate nei giardini zoologici, i viaggi in Italia o nel mondo. La diffusione e il gradimento di questi giochi era tale che fin da subito vennero utilizzati con scopi diversi rispetto al solo e puro divertimento: intenti pedagogici e formativi, sviluppo di buona educazione e moralità, fino a giungere alla propaganda politica vera e propria. In epoca Ottocentesca i protagonisti dei percorsi sono i vizi e le virtù e le scene di vita famigliare dove impera il galateo, la sobrietà, il decoro e il senso religioso così da aiutare i giovani ad imparare comportamenti giusti e sani principi. Quasi tutte le nazioni coloniali, poi, hanno in circolazione giochi dove bravi missionari superano mille difficoltà e pericoli per cristianizzare gli indigeni, il più delle volte neri africani. Ma si deve arrivare al periodo dei prodromi della Prima guerra mondiale per trovare veri e propri giochi propagandistici: un foglio stampato negli anni del governo giolittiano 133 Le glorie italiane. Gioco di percorso a 79 caselle, spirale, antiorario, centripeto, inventato da Gallizioli ed edito nel 1915. Il gioco si riferisce alla guerra in Libia (1911-1912). Cromolitografia 46x63 in carta incollata su cartone. La guerra d’Etiopia e la super-gara Santagostino. Gioco di percorso a 86 caselle numerate, associato alla Supergara Santagostino indetta dall’omonima Ditta nel 60° anniversario dalla fondazione (1876-1936). Cromolitografia dello Stab. Grafico Ripalta Milano 48,5x68,5 cm in carta. 134 ricorda e celebra le “glorie italiane”, i successivi lasciano posto all’esaltazione delle capacità militari e degli intenti bellicistici e imperialistici6. La guerra, secondo Gibelli7, comprende il carattere di avventura affascinante per l’immaginario adolescenziale, e la sua simulazione o la sua preparazione costituiscono una sicura attrattiva. Quando però dopo il 1918 diventa essenziale l’attivazione del consenso, iI gioco dell’oca offre per la diffusione, la semplicità, le potenzialità figurative che lo caratterizzano, possibilità assai ampie, tanto che il fascismo le sfrutterà intensamente. Sulle pagine del “Corriere dei Piccoli” fa la sua comparsa la guerra a fumetti di un gagliardo bersagliere, Gian Saetta, a suo agio nel deserto libico alle prese con goffi nemici, e il piccolo marinaio che tenta di imbarcarsi per la costa africana sempre rispedito indietro perché troppo piccolo anche se impaziente di fare la guerra. Il piccolo Balilla negli anni successivi è presente in tantissimi giochi e compie avventure stupefacenti e gloriose8: molto spesso vengono reclamizzati diversi prodotti commerciali. La battaglia nella Anche la guerra coloniale fa la parte del leone negli argomenti dei percorsi, l’entrata di Badoglio in Addis Abeba è preceduta da un lungo percorso dove si alternano scene di battaglia e inviti all’acquisto dei “supercalzini” della Santagostino. Si ricorda però che “chi arriva al numero 56 deve, prima che il giuocatore successivo getti i dadi, gridare SAVOIA, se si dimentica retrocede al numero 43”. Il Tonergil “Erba”, un ricostituente, sostiene gli sforzi dei giocatori lungo un serpentone tricolore che si snoda da Asmara ad Addis Abeba. 6 7 GIBELLI A., Il popolo bambino, Einaudi Torino 2005. Nel 1928, ad esempio, viene stampato un bel gioco programmaticamente intitolato “Tutte le strade conducono a Roma”, un incrocio tra il “Risiko” e il tradizionale gioco di percorso. I concorrenti devono, secondo le spiegazioni a lato, raggiungere, tirando i dadi, la città eterna. Curiosa è l’associazione tra “sponsor”, nel caso le ditte Talmone e Venchi di Torino, e iconografia di regime, che dà origine ad una cornicetta dove si alternano caramelle, biscotti, i classici vecchietti che bevono cioccolato con fasci del littorio. 8 135 La conquista dell’Abissinia. Omaggio della Fabbrica Prodotti Chimici Tecnici A.Sutter-Genova. Gioco di percorso a 68 caselle, pubblicitario e propagandistico delle conquiste in terra d’Africa. Stampato e distribuito nel 1936. Cromolitografia 45x37 cm in carta. Il giro dell'Africa orientale. Gioco di percorso a 48 caselle della Marca Stella, propagandistico delle conquiste in Africa orientale. Cromolitografia 45x37 cm in carta. 136 giungla, ad esempio, vede quattro esploratori confrontarsi con quattro malesi ritratti con la tipica espressione poco rassicurante. L’Africa è il territorio oggetto dell’ondata di esplorazione e conquista coloniale italiana e viene definita il continente nero dove l’idea di alterità e mistero si mescolano nel nome stesso. Così accade anche per l’itinerario di Panterino, prima personaggio animalesco, poi durante il regime antropizzato e disegnato come bianchissimo italiano che sfida nella foresta temibili ed enormi indigeni. Questi infatti è un magnifico gioco di percorso edito dalla Taurinia, difficile da trovare perché non venduto direttamente ma allegato ai libri dei compiti della vacanze. È stato disegnato da Nava e passa in rassegna tutti i possibili pericoli che l’eroe deve affrontare sulla sua strada: cannibali feroci, tigri e caimani, leoni e cobra, pellerossa e addirittura pirati. Anche nelle copertine dei quaderni l’Africa ricorre spessissimo: con una progressione sempre più crescente cammelli, indigeni, schiave di colore, e soprattutto soldati coloniali in marcia e combattimenti vittoriosi abbondano componendo un immaginario africano diversificato e carico di avventura e curiosità sempre tenendo ben salda la superiorità bianca e l’orgoglio del regime. Altro affascinante gioco è l’assalto al castello che nel 1915 passa dalla tipica ambientazione settecentesca a quella chiaramente propagandistica: i soldati italiani devono conquistare il Castello del Buonconsiglio di Trento. La guerra è protagonista di diversi giochi sempre di percorso: è del 1937 il Gioco della Guerra che preannuncia scenari futuri ma imminenti e del 1944 invece il Gioco della Borsa Nera dove si affrontano menu per pranzi e cene, ci sono passeggiate igieniche nei parchi, Spacci Autorizzati, Casse comuni, carte annonarie. Da notare infine in un gioco che ha come tema il Giro d’Italia in bicicletta la carta in alto a 137 destra dove è rappresentata la penisola con le diverse regioni: manca il Trentino Alto-Adige e ciò testimonia che il gioco è antecedente alla Prima Guerra Mondiale. Scrive Umberto Eco nel suo “La misteriosa fiamma della regina Loana”: I miei giocattoli di un tempo erano di legno e di latta. Sciabole, fucilino a tappo, un piccolo casco coloniale del tempo della conquista dell’Etiopia, una intera armata di soldatini di piombo, e altri più grandi di materiale friabile, chi ormai senza testa, chi senza un braccio, col solo spuntone di fil di ferro attorno a cui si reggeva quella sorta di creta verniciata. Dovrei aver vissuto con quei fucilini e quegli eroi mutilati giorno per giorno, in preda a furori guerreschi. Per forza, a quell’epoca un bambino doveva essere educato al culto della guerra. NOTA BIBLIOGRAFICA Ringrazio Fabio Oss, collezionista di Trento, che ha messo a disposizione tutta la sua vastissima collezione di giochi di percorso, fumetti d’epoca, giornalini d’infanzia. Senza il suo contributo questo articolo non sarebbe stato così esemplificativo. ANGELINI S., I 33 giochi del Mitelli, s.e. s.l. 1976. BERTI G., La vite e il vino. Carte da gioco e giochi di carta, Edigraf Roma 1999. [Catalogo della mostra] Costume e società nei giochi a stampa di Giuseppe Maria Mitelli, Electa Milano 1988. DOSSENA G., Enciclopedia dei giochi, UTET Torino 1999. DOSSENA G., Giochi da tavolo, Mondadori Milano 1984. GELLI J., Giochi e passatempi, Hoepli Milano 1989. GIBELLI A., Il popolo bambino, Einaudi Torino 2005 HUIZINGA J., Homo ludens, Einaudi Torino 1973 LISE G., I giochi di carte, Milano 1988. MASCHERONI S., Il gioco dell’oca: un libro da leggere, da guardare, da giocare, Bompiani Milano 1984. MEZZATOSTA M.T., Il regime fascista tra educazione e propaganda, Bologna 1978. ZONDERVAN H., Het Spel, bij Dieren, Kinderen en Volwassen Menschen, Amsterdam, 1928. 138 SCUOLA DELL’INFANZIA “IL GIRASOLE “ DI MORI-TIERNO Ricordare come occasione di riflessione. di Loredana Michellini1 In questi tempi, dove la velocità, il correre, l’essere sempre comunque efficienti si affermano sui valori quali “la lentezza” o “il fermarsi” per incontrare altre persone e altri pensieri, non dobbiamo mancare all’appuntamento con la riflessione, per guardare come eravamo e trarne insegnamento. Questo invito a un viaggio nel tempo permette di rileggere insieme il percorso di cambiamento che la scuola ha compiuto in questo ultimo trentennio. Le diverse condizioni sociali, i mutamenti dei modelli educativi hanno influenzato le i dee di bambino e di scuola e l’hanno trasformata. Senza andare troppo indietro nel tempo e guardare gli “asili di carità” nati sul finire dell’1800 come risposta assistenziale, possiamo rivedere le linee educative proposte dai programmi statali della scuola del 1958: erano Orientamenti didattici che per la prima volta presentavano confini psico - pedagogici più netti e profondi. Il bambino descritto in questi Orientamenti era molto simile a quello descritto da Rosa Agazzi e viveva in un terreno sociale prevalentemente agricolo, la maestra era definita come una “chioccia” che governa “i pulcini” della sua sezione, unico interlocutore esterno era la famiglia. In quel Coordinatrice pedagogica della scuola di Mori Tierno. Servizio scuole dell’infanzia Provincia autonoma di Trento. 1 139 periodo il confronto e la programmazione delle attività non erano ancora generalizzati e i metodi educativi si traducevano con il “lasciar fare” o attraverso un rigido autoritarismo. Lo stesso rapporto numerico: un’insegnante per 40 o 50 bambini confermava la necessità di esercitare uno stretto controllo sui bambini e di impostare rigidamente tempi e attività. La legge 444 del 1968 e gli Orientamenti del 1969 rappresentano un vero e proprio spartiacque tra l’asilo dotato di programmi ma ancorato ai metodi assistenzialistici 140 del passato e la scuola materna che, nel ridefinire alcuni bisogni fondamentali del bambino, ribadisce la libertà e responsabilità didattica dell’insegnante. Da quel momento le attività si caratterizzano in singole forme di esperienza scolastica e si suddividono in religiosa, affettiva morale e sociale, gioco e attività costruttive, intellettuale, linguistica, grafico-pittorico-plastica, musicale, fisica, sanitaria. Nel nostro territorio è la legge n. 13 del 1977 e la n. 34 del 1988 che hanno riordinato il settore della scuola materna e comportato per la Provincia autonoma di Trento la completa assunzione di responsabilità nella gestione nel coordinamento e finanziamento del servizio prescolare, riconoscendo tuttavia il valore dell’impegno dei privati, delle comunità di vallata prevedendo un finanziamento alle scuole autonome. In particolare l’art. 3 della Legge provinciale cita le finalità e indica chiaramente la direzione che va oltre il modello assistenziale, viene riconosciuta come inequivocabile la funzione educativa della scuola materna, assicura lo sviluppo della personalità dei bambini, si offre come occasione di eguaglianza di opportunità educative e come realtà che opera un de-condizionamento da fattori sociali, il superamento di ogni tipo di discriminazione per un’armonica preparazione alla scuola dell’obbligo. Gli Orientamenti dell’attività educativa della scuola dell’infanzia (DPGP n.5-19/leg.1995) offrono infine le linee pedagogiche che conducono definitivamente la scuola materna verso la scuola dell’infanzia con l’idea di un bambino attivo e competente e un’idea di scuola che progetta in base ad un’interazione dinamica tra bambino, scuola, famiglia, comunità e cultura. Il percorso fatto dalla scuola dell’infanzia di Mori Tierno parte da questi presupposti gli insegnanti, i genitori e la comunità tutta intendono procedere tenendo conto dei 141 cambiamenti che la società di oggi richiede e lavorano con impegno per una scuola attenta ai bisogni dei bambini, senza perdere mai di vista i cambiamenti del contesto sociale, le sollecitazioni provenienti da altre culture, le risposte alle domande che sempre più spesso i genitori pongono per far crescer il proprio figlio. Il lavoro fatto in questi ultimi anni e la ricerca di nuove forme di collegamento con il territorio ribadiscono l’importanza di una realtà dove osservare il comportamento del bambino, a casa e a scuola, diventa un prezioso contributo alla conoscenza della personalità infantile in evoluzione. Le esperienze attivate e raccontate nella mostra si sono basate sulla collaborazione tra gli adulti per realizzare una scuola attiva a misura di bambino, dove professionalità e affettività si intrecciano con le conoscenze e le emozioni dell’essere genitore e insegnante. Rovereto, 2 settembre 2009 142 I PRIMI TRENT’ANNI DELLA SCUOLA DELL’INFANZIA “IL GIRASOLE “ DI MORI-TIERNO a cura del Comitato di Gestione Ricorre quest’anno il trentesimo anniversario di un’importante realtà educativa della nostra comunità: la scuola dell’infanzia di Tierno. Per celebrare questo traguardo la scuola a giugno, in occasione della festa di chiusura dell’anno, ha realizzato una piccola mostra per presentare quelle che sono state le tappe fondamentali di quest’impresa. I primi sentori dell’esigenza di questa nuova realtà formativa risalgono già al 1965, ma è nel 1973 che viene presentato un progetto vero e proprio. Il 13 settembre di quell’anno viene pubblicato un articolo di giornale che presenta la proposta di una nuova scuola materna che possa accogliere sei sezioni e che preveda un eventuale ampliamento. La scuola “servirà per accogliere i bambini delle zone di Tierno, via Terranera, Linar, Molina, Seghe prime e seconde, Besagno, Loppio, Sano, Loppio ecc…, consentirà così di alleggerire l’affollamento sopportato a quella di via Benedetti, che al tempo ospitava circa 300 bambini in sei sezioni.”2 Le problematiche da risolvere per questa importante realizzazione sono molte: a livello logistico bisogna stabilire chi deve spostarsi dalla scuola Peratoner e come gestire le future nuove sezioni. Per questo nella primavera del 1978 viene fatto un sondaggio per capire quante e quali famiglie 2 A Tierno il nuovo asilo. Ora si pensa al progetto, ne L’Adige del 13 settembre 1973. 143 sono disponibili a cambiare sede, e viene fatta una votazione per decidere in riguardo alla provincializzazione o meno delle nuove sezioni da spostare a Tierno (la vittoria è nettamente dei favorevoli). Alle votazioni seguono assemblee dei genitori ai quali, in questa fase di importanti cambiamenti, è bene chiarire ogni minimo dettaglio e illustrare i criteri di gestione delle due scuole, nelle quali confluiranno circa un centinaio di bambini ciascuna. Il bacino d’utenza di questa nuova scuola viene individuato nella zona “periferica” del paese, nello specifico nella parte che va dalla strada statale verso Besagno. Questa immaginaria linea di demarcazione, tuttora esistente per il trasporto, era stata tracciata per poter creare un servizio adeguato alle esigenze delle famiglie più lontane dal centro. Conclusa la fase preliminare e a lavori ormai terminati, il 28 ottobre 1978 davanti alle autorità e alla presenza dell’On. Senatore Gaetano Stammati, Ministro dei lavori pubblici, si tiene l’inaugurazione della nuova scuola provinciale dell’infanzia di Mori-Tierno. L’entusiasmo non manca, le presenze neanche. Il primo anno la Scuola ospita infatti 159 bambini, suddivisi in sei sezioni e accuditi da 8 maestre (4 di ruolo e 4 incaricate) e 6 inservienti. La prima coordinatrice è la dott.ssa Giacomina Cammelli, mentre la prima presidente del comitato di gestione è Carla Delaiti Silli. Le difficoltà iniziali non sono di certo mancate, ma è grazie a chi ha creduto e continua ancora a credere nell’importanza della scuola materna, che si è potuto raggiungere il traguardo dei 30 anni. Durante questo tempo le iniziative svolte per rendere la scuola sempre più parte integrante della comunità sono state numerose. La collocazione decentrata dell’edificio ha fin dall’inizio portato ad avere una costante ricerca di contatti con le altre realtà educative e associative presenti 144 sul territorio moriano. Molte le gite a carattere educativo: alla scuola elementare, alla biblioteca, alla cantina, dai vigili del fuoco e vigili urbani, al comune, all’asilo nido, alla casa di riposo e per le vie del centro; e molte anche quelle a livello ludico: la caccia del tesoro con i genitori, le gite a Castel Palt, a Malga Mortigola, all’aereoporto, a Castel Beseno e al castello di Sabbionara, al Museo delle palafitte a Molina di Ledro, al Museo di Scienze Naturali di Trento, e poi qui ultimamente presso il Mart, il Museo Civico e altri centri di formazione locale con la collaborazione di operatori ambientali e forestali. Fra i tanti momenti di integrazione con la comunità, il Gran Carnevale di Tierno è stato, ed è, certamente uno dei più divertenti tra le iniziative proposte a carattere locale. Per alcuni anni addirittura, grazie all’aiuto dei genitori sono stati realizzati anche dei carri allegorici che sfilavano per il paese. Soprattutto durante i primi anni, il supporto e il coinvolgimento di genitori e nonni è stato fondamentale; il loro apporto non è stato solo morale ma anche pratico. Quando le leggi riguardanti la sicurezza ancora lo permettevano hanno realizzato numerosi giochi e arredi per rendere l’asilo sempre più accogliente e piacevole. Librerie, mensole, piccoli giochi, tavoli per la farina, sono la testimonianza concreta della loro partecipazione. Oltre all’attenzione nei confronti della comunità circostante, la scuola dell’infanzia di Tierno nel corso di questi anni ha voluto e saputo aprire i suoi orizzonti a realtà meno fortunate della nostra. A questo fine sono stati portati avanti dei progetti di solidarietà, raccolte di fondi per dare aiuto ai bambini di quelle comunità. In particolare un progetto mirava alla sensibilizzazione nei confronti dei bambini non vedenti dell’Istituto Comboniano del Cuore di Gesù (M.C.C.J.) di Padre Fabio Gilli, prete comboniano e trentino divenuto cieco e figura fondamentale per la nascita 145 dell’istituto stesso di “Kekeli Neva” di Togoville (Togo) in Africa occidentale per il quale i bambini hanno realizzato dei portacandele-salvadanai per raccogliere soldi e per donare un po’ di luce e speranza ai loro amici. Inoltre la scuola ha collaborato con l’associazione Kusaidia di Mori per far conoscere ai bambini la realtà dei loro coetanei dell’Africa per la realizzazione di una scuola materna a Lyamuluki della parrocchia di Makambako. In quest’occasione i nostri bambini assieme ai bambini della scuola materna Peratoner hanno realizzato una mostra che è stata esposta alla Festa dei Popoli svolta presso l’Oratorio parrocchiale. Oltre a questo, l’asilo è spesso stato vicino ai bambini africani imparando le loro canzoni e raccogliendo dei fondi e del materiale per aiutare alcune scuole in Tanzania tramite la referente del nostro paese Silvana Gobbi. La scuola dell’infanzia nel tempo è diventa una realtà educativa sempre più significativa per molti all’interno della comunità locale e quindi era diventato necessario e fondamentale che potesse avere un’identità definita anche da un nome. Negli anni 1990-1992 il collegio delle insegnanti ha svolto un progetto educativo sull’importanza del nome proprio e della propria identità e di conseguenza del nome da attribuire al primo luogo sociale di riferimento per un bambino. La scelta fatta insieme ai bambini è caduta su un fiore come IL GIRASOLE - fiore sempre pronto a girare la sua corolla verso la luce - ecco dunque la decisione di chiamare la nostra scuola dell’infanzia con questo bellissimo nome. Da alcuni anni a questa parte nella nostra scuola dell’infanzia cresce la presenza di bambini provenienti da nazioni e culture diverse, evidente segnale della continua evoluzione della comunità moriana. Le insegnanti hanno sempre risposto puntualmente con progetti educativi mirati e adeguati alla realtà presente aiutando i bambini nella co- 146 noscenza reciproca e nella collaborazione usando racconti e giochi anche provenienti da altre culture. I progetti erano orientati a iniziative rivolte al dialogo e allo scambio per fare in modo che diventassero occasione di crescita per tutti. La festa del Natale, momento dell’anno scolastico di particolare rilievo nella scuola, è sempre stata organizzata in modo tale da far vivere a tutte le famiglie un’esperienza di gioia e aggregazione, ponendo particolare attenzione e sensibilità ai messaggi di pace, fratellanza, rispetto dell’altro e dialogo con il diverso. Durante questi trent’anni i bambini e le persone che sono passate per le aule dell’asilo sono tantissime, e sono proprio loro che hanno mantenuto questa istituzione viva. Per far sì che nulla vada dimenticato, stiamo cercando di creare un piccolo archivio fatto di documenti, aneddoti, nomi e fotografie. Chi ne fosse in possesso e volesse condividerli, può portarli alla scuola o consegnarli ai componenti del Comitato di gestione. 147 ALCUNE STORIE DI DONNE MORIANE raccolte da Letizia Galvagni e Marcello Benedetti. Proseguiamo con le testimonianze, iniziate l’anno scorso, di alcune donne moriane che in vario modo si sono distinte nella nostra Comunità: una specie di “rassegna rosa”, che ha lo scopo di conoscere il ruolo da loro svolto e nel contempo, riflettendo sul loro esempio, riscoprire un importante pezzo di vita della nostra Comunità nel recente passato. Quest’anno presentiamo la corposa testimonianza di Jone Benedetti e quella di Elsa Zambotti, che abbiamo ricostruito grazie ai ricordi di una sua allieva alla scuola di cucito e ricamo. JONE BENEDETTI Jone Benedetti è la persona che più è stata al servizio della nostra Comunità con le Acli (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani) ed il suo patronato. È figlia del giudice Augusto Benedetti, stimato per la sua saggezza e disponibilità ad aiutare i moriani che si rivolgevano a lui anche per intricatissime pratiche di successione o di divisione dei beni. È sorella del dr. Edo Benedetti, attuale presidente onorario del Gruppo ITAS, già sindaco di Trento, che è stato coprotagonista assieme ad altri moriani alla Giornata della Memoria 2007 all’auditorium comunale, la cui testimonianza sarà pubblicata sulla seconda edizione di “Mori e la seconda 148 Guerra mondiale”. A Jone abbiamo chiesto anche di dire qualcosa ai giovani di oggi, intervento che riportiamo sotto forma di appello ai nostri giovani, in calce a questo articolo. “Sono nata nel 1911, profuga nell’Austria Inferiore, venuta a Mori nel 1919, a Brunico in collegio per il perfezionamento delle lingue tedesca e francese dal 1928 al 1930. Dal 1932 al 1936 a Trento ho frequentato la Scuola Magistrale, dal ‘36 al ‘42 presso l’Università Cattolica di Milano ho fatto l’impiegata all’Ufficio Amici. Sono tornata a Rovereto per i bombardamenti e per il Pippo che disturbava la notte. Nel 1945, nel clima di riconquistata libertà e democrazia dopo la seconda guerra mondiale, sorsero diverse associazioni tra cui le Acli. Vennero costituite nel 1944 a Roma, dopo la sua liberazione; nel Trentino alla fine del 1945, prima a Trento e poi a Rovereto il nel 1946. Dapprima sotto forma di Circoli per le riunioni e poi come Segretariati del Popolo Acli. Dei primi dirigenti sono la sola ancora vivente. Rimasi a Rovereto fino al 1961. Nel frattempo avevo iniziato a Mori. Mi risulta che il Segretariato del Popolo di Mori ha avuto inizio nel settembre 1947 fino al 1949 con Stefano Tranquillini e Maria Marchiori; nel 1950 non so se c’era un referente; dal 1951 al 1952 c’era Emanuele (non ricordo il cognome); dal 1953 al 1960 Carmen Filagrana; dal 1960 al gennaio 1993 la sottoscritta cui subentrò Anna Maria Regolini che aveva collaborato con me dall’inizio del 1988. Anche la sede del Segretariato di Mori è cambiata più volte; fino al 30 settembre 1964 presso il Bar Giardini Boschetti in Via Teatro; fino al novembre del 1965 nel Campanile dell’Arcipretale, con entrata esterna, che dava su un poggiolo (nel 1991 la scaletta è stata levata); dal 1965 all’agosto 1976 presso la ex Caserma degli Alpini, dove c’è ora la Cassa Rurale. Quindi presso la biblioteca parrocchiale in Piazza Cal di Ponte dal ’76 fino al 1993. Breve trasferimento nell’agosto- 149 settembre 1988 presso la ex sede degli Anziani, nell’ex Molino Piccoli. Infine in Via G. Battisti (ex Comprensorio) con altri uffici e Patronato Acli. L’orario di apertura era il lunedì pomeriggio ed il giovedì mattina; con la nuova sede il servizio venne esteso anche al venerdì mattina. Le pratiche di pensione si portavano ogni fine mese al Patronato Acli di Trento. Per rispettare i termini di presentazione all’INPS o all’INAIL, quando la documentazione ci veniva portata in ritardo, si lavorava intensamente, talvolta anche di notte. Nel 1984 l’INPS istituì un centro operativo in Via Bezzi, a Rovereto; da quel momento il Segretariato di Rovereto diventò Patronato Acli zonale e iniziammo a portarvi anche le nostre pratiche. Col primo gennaio 1996 il Patronato Acli di Mori diventò di zona, con la possibilità di una maggiore autonomia operativa. Molte persone mi hanno aiutato, specie nella preparazione delle dichiarazioni dei redditi, ne ricordo qualcuna: Brunetta, postina, che veniva nelle ore libere; uno studente, Carlo, che ora è professore; un ragioniere, Marco, che ha iniziato con noi, è stato assunto da una Cassa Rurale, come cassiere e poi faceva le dichiarazioni gratis per i soci della Cassa; poi Anna Maria, Livia, Serena, Sergio, Giorgio ed Edda. Uno degli allievi, Erminio Lorenzini, mi ha sostituita per due anni a Rovereto e poi si è dedicato all’impegno politico, diventando prima Assessore Comunale alle Attività Sociali e poi Assessore Provinciale alla Sanità. Tra i ricordi di intenso lavoro ho ancora in mente un martedì pomeriggio del maggio 1957 a Rovereto, quando ascoltai ben 58 persone. Per tenerci aggiornati sulle varie normative che uscivano, partecipavamo ad incontri formativi, tenuti da specialisti, a Trento o a Rovereto, o a Serrada, dove avevamo una casa 150 Alpina, a S. Nicolò. I corsi erano molto interessanti perché il metodo era colloquiale e si potevano fare domande con risposte precise sui punti che ci risultavano meno chiari. L’assicurazione obbligatoria all’INPS per i lavoratori dipendenti in Trentino ha avuto inizio il primo marzo 1926, mentre in Italia (nelle altre parti del Regno, come si diceva allora) era entrata in vigore il primo luglio 1920. Per colmare questa disparità fu approvata la Legge 35 del 1/2/1962 che dava la possibilità di riscattare in modo totale o parziale i periodi di lavoro prestati e retribuiti, durante detto periodo, nelle Province della Venezia Tridentina (Trento e Bolzano) e della Venezia Giulia (Fiume, Gorizia, Pola, Trieste e Zara). Per ottenere il riscatto previdenziale le persone di ambo i sessi, di età tra i 15 e i 65 anni (esclusi gli impiegati con retribuzione superiore a Lire 350 mensili dal ‘20 al ‘22) dovevano presentare documentazione probatoria dei datori di lavoro. Molti trentini poterono così avere la pensione di vecchiaia o di invalidità (pagando un anno di volontaria) oppure, pagando la volontaria per gli anni mancanti, ottenere la pensione di vecchiaia (con i quindici anni di contribuzione). Per far fruire del provvedimento tutti gli aventi diritto, ricordo che il Patronato Acli di Trento chiese alle Parrocchie le liste dei nati dalla fine del 1800 ai primi anni del 1900, che vennero personalmente informati dell’opportunità che si presentava loro. Noi andavamo nei paesi e frazioni a raccogliere le domande, per aiutare tanta povera gente e, tramite i parenti trentini, abbiamo messo al corrente della cosa anche gli emigrati all’estero (es. Argentina, Francia, ecc…). Penso che per i Trentini, specie i più giovani, sia importante conoscere questi fatti, che hanno contribuito ad alleviare il duro vivere di quegli anni della nostra gente. Ricordo che anch’io ho fatto la dichiarazione, a nome dei miei genitori, defunti da poco, per una colf di Besagno 151 che avevamo assunto per alcuni anni, dopo la nascita di mio fratello; oltre all’importo parziale del riscatto, ha pagato la volontaria ed ha poi fatto domanda di pensione di invalidità, che ha avuto esito positivo, data anche l’età. Nel 1966 ho maturato il diritto alla pensione di vecchiaia, dopo 19 anni di assicurazione obbligatoria e poi ho lavorato come volontaria. È venuto ben due volte l’Ispettore Perugini dell’Ispettorato del Lavoro, a vedere per quale motivo non venivano più pagati i contributi assicurativi: ero volontaria!!! Quando veniva promulgata qualche nuova legge in materia previdenziale, oltre agli incontri di aggiornamento a Trento, si informava la gente nei paesi, tramite le varie addette sociali. Molte persone si sono rivolte nel tempo al nostro Ufficio di Mori, per risolvere pratiche di pensione: VO (= vecchiaia), IO (= invalidità) e SO (= reversibilità), di assicurazione volontaria, di assegni famigliari. Facevamo dei solleciti a Roma , alla sede centrale dell’INPS, tramite l’on. Veronesi che era un aclista, per le Pensioni di Guerra, che erano ferme da anni. Preparavo tre foglietti intestati alla Camera dei Deputati (uno restava a noi e due a lui) e lui si recava di persona nei vari uffici; scriveva a mano sul foglietto la risposta che riceveva, ce la restituiva ed a nostra volta la comunicavamo all’interessato. Ricordo la premiazione, il primo maggio 1969, festa del Lavoro a Trento, con la consegna da parte del Presidente del Patronato Dott. Massimo Mattevi delle medaglie d’oro e del diploma di benemerenza per il lungo servizio prestato a dieci addetti sociali, tra cui la sottoscritta. All’inizio del dicembre 1990 festeggiammo i trent’anni delle Acli di Mori: storia, vita e volontariato che curai in un articolo pubblicato sul giornale L’Adige. 152 Jone Benedetti con l’immancabile borsetta. Nel 1996 fui invitata dalle Acli di Trento per festeggiare il cinquantesimo e fui la prima chiamata sul palco, perché avevo iniziato per prima il lavoro del Patronato, sia per l’età. Quello stesso anno ci trovammo con le addette di Rovereto e i dirigenti di Mori, alle Grazie di Arco, per la S. Messa e poi il pranzo, in cui mi fu donato un quadro ricordo raffigurante il santuario di Monte Albano, per i trent’anni di lavoro a Mori ed un cesto di fiori ad Anna Maria Giacomolli, addetta Sociale di Brentonico, mia collaboratrice in diverse occasioni. 153 Per i sessanta anni delle Acli della Vallagarina il 18 marzo 2006 fui premiata con molti altri che avevano lavorato per tanti anni. Nel giugno del 1996 festeggiammo a Mori il cinquantesimo delle Acli; per l’occasione preparai una poesia con tutta la storia della nostra attività. Un aneddoto desidero ricordare di quando era al Segretariato di Rovereto: nel giugno 1955 la Scuola Assistenti Sociali di Trento mi manda due letterine per chiedere se due studentesse roveretane del secondo anno potessero venire da noi a fare un po’ di pratica sull’assistenza sociale rivolta alle persone, specie anziane (ora si direbbe a fare un periodo di stage). Rimasero per un mese, al termine del quale ci fu richiesta dalla scuola una valutazione, che serviva per il voto finale di diploma. Era un modo per integrare la preparazione teorica con un po’ di pratica sul campo; molta gente veniva nei nostri uffici convinta di poter aver diritto alle prestazioni pensionistiche ma molte volte appuravamo che non possedevano i requisiti previsti dalla legge. Abbiamo svolto con piacere questo servizio in collaborazione con la Scuola, di integrazione studio-lavoro, orgogliosi per la considerazione di cui godeva il nostro Ufficio ed il nostro lavoro. Jone conclude: Ecco quanto ricordo ed ho trovato riassunto nel mio quadernetto delle memorie, del mio lavoro nelle Acli. Amen !!! APPELLO AI GIOVANI Quello che qui di seguito avrete modo di leggere è quanto mai singolare: per l’idea che è sottesa, per il modo con cui viene espressa, per i suoi contenuti, certamente non nuovi, ma presentati come attuali perché escono da una lunghissima esperienza di vita e da un vivissimo desiderio di raggiungere 154 la mente e il cuore dei giovani.1 Potrebbero essere consigli di una madre, di una nonna, di un’educatrice: in ogni caso sempre spinte utili per chi nella vita non vuole fallire, anzi impegnarsi nel bene della comunità in cui vive. C’è un po’ di tutto: noi rispetteremo il più possibile il susseguirsi dei consigli così come sono stati redatti, anche a costo di non rispettare un certo ordine logico. Jone Benedetti, novantasette anni compiuti, per un cinquantennio impegnata con le Acli nel lavoro sociale, non è preoccupata di questo, ma del bene che si prefigge di raggiungere. (In corsivo si trascrivono le sue espressioni, mentre con il carattere normale si scrive quanto è il frutto della rielaborazione, sempre nel rispetto dello scritto originale). Siate sportivi e atleti, come lo sono stata io da studente: è il primo consiglio motivato dalla preoccupazione della salute per chi tende alla vita comoda e troppo sedentaria; non disdegnare l’atletica, proprio come lei l’aveva fatto, partecipando a corse di staffetta, e per questo anche premiata2. Fate le scale a piedi e non sempre con l’ascensore: per tenere i muscoli in esercizio. Non adoperate sempre le macchinette per fare dei semplici calcoli matematici: è la preoccupazione per una mente vigile e per la memoria che può impigrirsi e arrugginirsi. Occupatevi del “Campo Sociale” tenendovi aggiornati sulle leggi che sentite alla televisione o apprendete dalla stampa per poter essere utili ai vostri familiari, amici e conoscenti nel momento del bisogno. Per chi ha lavoTestimonianza raccolta da Marcello Benedetti con il contributo di don Lucio Depretto. 1 In questo consiglio viene fuori la cultura della sua famiglia; suo fratello Edo è stato presidente della Quercia e del CSI ed ora dell’ITAS volley e comunque sempre impegnato nel mondo dello sport. Per conoscere altri interessanti aspetti della sua intensa vita, nello specifico, la lucida testimonianza di combattente durante la seconda guerra mondiale, si rinvia al sito www.marcellobenedetti.eu. 2 155 rato per più di cinquant’anni nel campo sociale e conosce l’importanza della legislazione, in continua evoluzione e aggiornamento il consiglio è più che pertinente e sta a dimostrare la mantenuta sensibilità per il bene della comunità. Jone passa poi a parlare delle fasce più deboli dei cittadini, soprattutto degli anziani costretti a lasciare il loro ambito familiare e ritirarsi nelle case di riposo: vogliate bene agli anziani, andate a trovarli in casa o nelle case di riposo o di soggiorno: fate loro compagnia con parole di amicizia e di conforto, specie verso coloro che non hanno parenti o amici che non li vanno a trovare. Un particolare accento viene dato per l’apprendimento delle lingue, tedesco e francese soprattutto. Questo interesse per queste due lingue, più che per l’inglese, è comprensibile per una impiegata che si è trovata a dover aiutare, nella traduzione di lettere o compilare questionari, ex immigrati o vedove provenienti dai luoghi di provenienza. Jone ricorda quante volte in corriera o in negozi ha potuto essere di aiuto a tedeschi in transito che non riuscivano a farsi capire con il bigliettaio o con i commessi. Non solo leggi o lingue, ma anche le arti nobili hanno determinato la sua formazione umana: Jone parla di musica dimostrando conoscenza e competenza: Bach, Beethoven, Listz, Strauss, Brahms, Puccini, Verdi, ecc. hanno accompagnato la sua vita, senza peraltro disdegnare la musica moderna: Partecipate volentieri a qualche concerto: questo vi dico perché sono amante della musica e ho imparato a suonare sia il pianoforte che il mandolino. Si passa poi a dei consigli pratici indirizzati alle giovani, alle quali si raccomanda di partecipare a qualche corso di taglio e cucito, di ricamo e di rammendo, di economia domestica, per apprendere tante cose utili per la vita di 156 famiglia, per risparmiare e non usare il sistema “usa e getta” che rende difficile arrivare alla fine del mese. Occorre un po’ di economia, come si usava un tempo. Colei che ha speso molto del suo tempo nel volontariato senza puntare sulla ricompensa ha le carte in regola per delle raccomandazioni e riflessioni estremamente attuali in cui il lavoro diventa più precario ed è, anche giustamente, sempre più visto come mezzo di personale realizzazione o come missione: pensate a quelli che non hanno un lavoro o sono disoccupati o malati. Molti dei suoi consigli sono poi finalizzati a quella bella espressione che sta purtroppo cadendo di moda: “educazione”. E qui spazia dal comportamento sulle strade raccomandando di evitare gli schiamazzi, le scritte o gli imbrattamenti sugli edifici, il corretto comportamento nelle compagnie senza fare “i cretinetti”. C’è un pressante invito alla vera gioia, alla lotta alla musoneria, la droga, l’alcool come salvaguardia del dono della vita e della sua integrità. E, dulcis in fundo, un invito al rispetto per i familiari che troppe volte sono in ansia per il ritorno del figlio che tarda troppo a ritornare, specie il sabato sera. Scusate se vi ho annoiato, ma l’ho fatto per vostro bene! Jone Benedetti 157 ELSA ZAMBOTTI3 Vivono tuttora nella borgata, in piena discrezione, persone ritirate in casa per la loro età, ma che per il loro passato straordinario, meritano di essere non solo ricordate, ma pure ringraziate per ciò che hanno concretamente fatto e lasciato dietro di loro. Persone che non hanno mai suonato la grancassa, che non hanno mai avuto titoli sui giornali, ma che proprio per questo meritano di avere almeno una volta uno spazio fra i tanti, troppi, richiami della stampa. Per questo è particolarmente grato parlare di Elsa, richiamare qualche tratto della sua vita, soprattutto in relazione a quello che è stato il suo costante impegno di educazione e formazione a favore delle ragazze di Mori, in periodi non sempre facili né favorevoli. Quanto qui viene presentato è il frutto dei ricordi particolari di due sue allieve e da qualche colloquio concesso da Elsa. Certamente ci saranno lacune perché qualcosa non vuole essere portato a conoscenza (perché fa parte di quell’angolo segreto che ognuno di noi gelosamente custodisce), qualcosa il tempo l’ha fatto dimenticare, e molto fa parte di quel passato che ormai troppe persone hanno portato con sé nell’al di là. La vita di Elsa fu tutto “cucito e ricamo” In questo eccelse per la sua innata abilità e per la capacità di trasmettere alle ragazze la sua arte e, attraverso questa, formazione alla vita. Aveva cominciato ancora nel lontano 1936, la sera, a Mori, nella vecchia sede delle scuole elementari, in contemporanea con Saccone, Castione, Marco e Loppio. In queste sedi dislocate, su quelle strade sconnesse e polverose, vi si recava a piedi o in bicicletta, provando un senso di compensazione quando Testimonianza raccolta da Letizia Galvagni, con il contributo di Marcello Benedetti e don Lucio Depretto. 3 158 Elsa Zambotti posa fiera tra alcune sue giovani allieve. Alle loro spalle, il risultato delle sue lezioni di cucito e ricamo (aprile 1999). incrociava, su quei medesimi percorsi, i lavoratori che, come lei, a piedi o in bicicletta, andavano o venivano dal lavoro della Montecatini. Presto fu invitata a lasciare le sedi periferiche e a dedicare tutto il suo tempo alle ragazze di Mori. Nel frattempo, su sollecitazione dell’allora Superiora dell’Asilo Peratoner, suor Carmelina Fondriest, affrontava a Roma gli esami di Stato, superati brillantemente, con lo scopo di avere le carte in regola per l’insegnamento. Il luogo della scuola di cucito passò da una sede all’altra, sempre però in ambienti decorosi che ben si adattavano a quel genere di attività. Dall’attuale aula del consiglio comunale si traslocò nell’aula di disegno delle vecchie scuole elementari, poi in quelle nuove, per far ritorno in un’aula del vecchio edificio delle scuole elementari nel frattempo diventato sede del Municipio di Mori. I corsi di insegnamento proseguirono fino al 2001, sempre 159 accompagnati dalla passione per il cucito e il ricamo della sua maestra e dall’amore per la formazione umana e spirituale delle allieve. Puro volontariato, solo disturbato da qualche “mancia” che le partecipanti ai corsi costringevano Elsa, suo malgrado, ad accettare. Molte allieve hanno messo a frutto gli insegnamenti della maestra, in servizio delle proprie famiglie, e pure intraprendendo delle vere e proprie carriere professionali. Anche durante la calda stagione il corso non veniva sospeso: i grandi esodi estivi che caratterizzano il tempo attuale non erano allora semplicemente pensabili. Le giornate di vacanza dalla scuola erano opportunamente riempite da questi lavori femminili che occupavano le lunghe giornate estive e insieme insegnavano cose utili alla vita. Evidentemente le aule venivano abbandonate e i tavolini da lavoro si trasferivano ai giardini di piazza Cal di Ponte, alla frescura dei folti alberi e al mormorio del Cameras non ancora coperto dai lavori di sistemazione della piazza. A mezzogiorno si correva a casa per il pranzo, poi si ritornava fino alle 16.30. Il gioco non era escluso: la località Corno invitava a qualche fuori-programma. Le ragazze cresciute, ormai con un occhio puntato a un futuro di spose, ne approfittavano per prepararsi il corredo: si comprava il metraggio di stoffa necessario, si iniziava con l’orlo e avanti con i ricami; ma insieme si imparava a conoscersi e a fare gruppo. Mentre si ricamava c’era pure il tempo di un momento di preghiera, magari il santo Rosario, e poi qualche bel canto. Su una cosa Elsa era intransigente: quello di non fare pettegolezzi (non sappiamo onestamente fino a che punto la censura riusciva a funzionare!). Nel suo lavoro Elsa era perfetta, precisa, pignola. E questo lo pretendeva anche dalle alunne. Un punto fatto male doveva essere disfatto e rifatto, fino a quando andava 160 bene. I lavori depositati negli armadi venivano controllati, e in mancanza di qualcuna assente per malattia, continuati dalla stessa maestra. Era il ricamo la specialità di Elsa, senza disdegnare il lavoro a maglia e uncinetto. In primavera arrivava il momento di concludere: mostra dei lavori e gita in pullman per un momento di divertimento. Questi ricordi sparsi e le notizie raccolte, ci accorgiamo, danno solo un’idea della ricchezza interiore di Elsa che ha fatto delle sue peculiari doti naturali e della sua formazione un mezzo per aiutare una fetta della sua generazione a crescere ed entrare preparata nella vita. *** E noi ringraziamo di cuore Jone ed Elsa per il loro prezioso servizio che hanno svolto, per tanti anni e con impegno e passione, a favore della nostra Comunità. 161 IN QUINTA ELEMENTARE NEL 1938 di Renato Bianchi Un’aula disadorna, ma con grandi finestre che fan passar tanta luce dietro la cattedra, sul muro, i ritratti del Re Imperatore e del Duce. Con i calamai pieni d’inchiostro tre file di banchi a due posti in legno vetusto in cui stan, scomodi, circa trenta irrequieti scolari, pochi i bravini, molti i mediocri e alcuni ri-ripetenti proprio somari tenuti benissimo a freno con le parole e le … mani dall’unico, bravissimo, mitico maestro Beltrami che con grande intuito, pazienza stimoli e gradualità Alunne al lavoro nell’aula scolastica nel corso integrativo tenutosi a Mori (Fotografia Roner & Parziani, conservata presso la Biblioteca comunale). 162 di ognuno sapeva far emergere le latenti personali capacità. Niente zainetti, astucci, diari e capi griffati, ma indumenti cuciti in casa e spesso rattoppati così come la borsa di tela da portare a tracolla, che era di pochi poter avere, di finta pelle, una cartella il cui contenuto è ben presto elencato: il sussidiario, il libro di lettura, due o tre quaderni di piccolo formato e, in un semplice astuccio o una scatoletta di legno, l’asticciola con i pennini, la matita nº 2 per il disegno e, non per tutti, poche altre matite colorate ridotte ben presto a mozziconi nelle tonalità più usate. Poche ed essenziali le materie d’insegnamento: la grammatica per saper parlare bene e corretto, fare di conto, scienze naturali, geografia e storia e, per allenare la mente, tante poesie da mandare a memoria ma, soprattutto, si insegnava la buona educazione, il rispetto per le cose, le persone e i simboli della Patria e della religione. Corso di cucina scolastica (anni Trenta del secolo scorso) (Fotografia Roner & Parziani, conservata presso la Biblioteca comunale). 163 Merita un ricordo l’unico bidello, Domizio il suo inconsueto nome, un simpatico uomo piccoletto che, ancora mi domando come, pur con il parziale aiuto della moglie Celestina, riusciva a tenere in ordine tutte le aule (circa una ventina) nonché corridoi e scale e, nella stagione invernale, ad alimentare a legna le altrettante stufe ad olle. Questo ho nella memoria delle elementari di Mori, una scuola povera di mezzi, ma ricca di valori che, insieme a quelli inculcatici dai nostri genitori come sobrietà, ubbidienza, osservanza dei doveri, accumulati come un piccolo prezioso capitale umano, ben ci aiutarono in un tempo ahimè poco lontano ad affrontare temprati pericoli, disagi, rinunce, privazioni e lutti conseguenti al divampar del tragico conflitto che ci coinvolse tutti. 164 MORI IN UNA INEDITA POESIA DIALETTALE DEL MAESTRO DEFLORIAN1 Tutti a Mori conoscono, od avranno avuto occasione di indirettamente apprezzare quell’intraprendente e volitivo maestro Mario Deflorian, originario della valle di Fiemme2, di professione insegnante di scuola elementare. Il tempo che quivi il Deflorian dimorò fu piuttosto breve3, sufficiente però perché i censiti individuassero in lui un uomo capace di fare e di creare. Di alta statura morale, dotato di notevole estro realizzativo, di servizievole entusiasmo per tutte le cose belle e gentili, l’insigne maestro emerse quasi subito dalla massa amorfa. E certo è che le sue poesie sentimentali e romantiche, le sue canzoni nostalgiche, le sue realistiche cartoline disegnate a mano e certamente migliori di certi picassiani ghirigori, valsero ad aumentare a Mori e nel Trentino la sua fama ed il suo ascendente. Egli scrisse, in dialetto, una poesia anche sulla nostra borgata che forse nessuno conosce. È una inedita primizia che ci affrettiamo a pubblicare certi di fare cosa gradita ai lettori. Trattasi di una poesia semplice e lineare, senza pretese liriche; la si ponderi bene però perché essa, nella sua saporosa e quasi ingenua sostanza, dice molte, moltissime cose. Articolo attribuibile a Guido Boninsegna, pubblicato originariamente senza nome dell’autore sul quotidiano Alto Adige del 26 agosto 1951. 1 2 Nato il 1903, morì nel 1968 (ndr). 3 A Loppio dal 1946 al 1948, ed a Mori per i sei anni successivi (ndr). 165 Una delle caratteristiche cartoline disegnate ed autoprodotte dal maestro Deflorian all’indomani del secondo dopoguerra. La serie completa dovrebbe essere composta di sei diversi soggetti. 166 Dopo il titolo “Mori” l’autore così continua: L’è ‘n bel paes al sol, lonc na mez’ora En fianc a l’Ades, propi al prinzipiar De la val che per Lopi e Nac ven fora Da Riva e Arc. Nesun sa ricordar Quando ‘l sia nat; l’è vecio de sicura, Ordegni è sta scavà e antichi arnesi Doprai za e mili ani, e gh’è scritura Che de la val l’è ‘n tra i primi paesi. Tra ‘l Zugna e ‘n lac, ai pai del Stif e ‘l Baldo Na guera ‘l l’ à spianà, l’è nat pu saldo, El gà: vigne tebac fruti e moreri, Seghe marmi colori cree fereri, Masere, conzapel, sasi e molini bestiam cantine SCAC Montecatini; L’à dat scienziati artisti e gran guerieri, Toca a noi farlo ades più bel de ieri. 167