VERSO UNA LENTA METAMORFOSI. DALLE SPERIMENTAZIONI AGRONOMICHE SETECENTESCHE ALL’AVVIO DELLE COLTURE INDUSTRIALI Claudio Bargelli Dipartimento di Economia, Università di Parma Via Kennedy 6, I-43100 Parma, Italy WP ST01/2014 Serie: Storia Economica 1 VERSO UNA LENTA METAMORFOSI. DALLE SPERIMENTAZIONI AGRONOMICHE SETECENTESCHE ALL’AVVIO DELLE COLTURE INDUSTRIALI Le inchieste agrarie del secolo dei Lumi: il lungo torpore del mondo dei campi La desolazione e il rassegnato fatalismo che avvolgono le campagne parmensi durante l’era moderna emergono nitidamente dal “teatro di agricoltura” delineato dalla lucida penna dell’abate Gianbattista Guatteri, incaricato dalle autorità ducali di descrivere un quadro realistico dello stato del settore primario, indicando altresì i possibili sentieri della modernizzazione. Ancora nel primo scorcio dell’Ottocento, durante gli anni della dominazione francese, l’amministratore generale Moreau de Saint-Méry deve prendere atto del perpetuarsi, anno dopo anno, di un immutabile “Empire de l’habitude”1, non ancora sfiorato, ad eccezione di poche, isolate voci che si perdono nel silenzio del tradizionalismo – dall’ansia riformistica che pervade altri campi del sapere. Per quasi tutto l'Ottocento l'agire dell'uomo dei campi permane orientato dalle fonti della saggezza popolare che, nel consacrare l'autorità della tradizione2 - un retroterra millenario intriso di culti animistici e pagani -, riflettono una mentalità fossilizzata nelle consuetudini ed improntata ad una supina sudditanza a precetti agronomici ereditati dalla notte dei tempi. Nel disegno armonioso della natura, illuminato dalla mano della provvidenza, il “tempo magico del contadino”, il respiro stesso dell’universo rurale è ciclico, rituale, scandito dall’avvicendarsi delle albe e dei tramonti, dal ritmo lento e incerto delle stagioni, unica dimensione esistenziale in cui si muovono da sempre uomini e cose3. La generalizzata apatia dell’aristocrazia terriera4, disinteressata a gestire la terra - mero 1 L’espressione è tratta da Archivio di Stato di Parma (d’ora in poi, A.S.P.), Carte Moreau de Saint-Méry, b. 17, fasc. 4, Memorie inedite a S.A. sull’economia rurale nel Piacentino e nel Parmigiano (1803-1805), c. 4. 2 Il persistente retaggio del tradizionalismo è in parte riconducibile agli stessi caratteri intrinseci e ai precari equilibri delle società rurali. Come è stato giustamente osservato con riferimento alla “famiglia-impresa contadina” del passato, infatti, “comportamenti apparentemente irrazionali hanno favorito in realtà un adattamento ottimale e razionale alle condizioni ambientali e alla loro variabilità nel tempo. Considerati i rischi elevati dell’attività agricola, dipendenti dalle incertezze sulla produzione e sul rapporto fra braccia e bocche sia nel breve che nel lungo periodo, l’innovazione può avere effetti drammatici nel funzionamento dell’impresa. I sentieri già tracciati e sperimentati da generazioni sono quasi sempre quelli che meglio salvaguardano il rapporto fra bisogni di sussistenza e disponibilità presenti e future. […] Le regole della tradizione sono rese più solide dal collegamento della singola azienda domestica alla rete delle consuetudini delle altre case contadine”. Cfr. P. MALANIMA, Tipi di impresa prima della crescita moderna, in “Annali di storia dell’impresa”, 14, 2003, pp. 159-176. 3 Cfr. P. CAMPORESI, La ruota del tempo, in G. ADANI – G. TAMAGNINI (a cura di), Strutture rurali e vita contadina, Milano, Silvana, 1977, pp. 36-38. 4 Mentre gli aristocratici affollavano i caffè – luminescenti templi della modernità celebrati dai lumi (cfr. C. BARGELLI, Dal necessario al superfluo. Le arti alimentari parmensi tra medioevo ed età moderna, Milano, Franco Angeli, 2013, pp. 200-206) – un anonimo osservatore coevo denunziava, con crudo realismo, come per il contadino “il tavolino [fosse] l’aratro; il caffè i suoi sudori e la fatica continua”. Cfr. P. L. SPAGGIARI (a cura di), Insegnamenti di agricoltura parmigiana del XVIII secolo, Parma, Silva, 1964, p. 266. Ancora nel pieno dell’Ottocento, del resto, i nobili 2 serbatoio di rendite - secondo criteri di efficienza aziendale, l’oggettiva indigenza dei coltivatori e la stessa rigidità dei contratti agrari – che, ben lungi dall’incoraggiare migliorie, tramandavano pedissequamente lo statu quo5 -, tutto contribuiva a perpetuare antiquate tecniche colturali, inchiodando decisamente verso il basso la produttività prediale6. La profonda arretratezza in cui versano le campagne emerge altresì dall’inchiesta agraria organizzata, negli ultimi decenni del XVIII secolo, dal Du Tillot, finalizzata alla presa di coscienza dei gravi problemi che affliggono il settore primario. Permeato dello spirito statistico dell'epoca, nell’ultimo anno del suo governo, il ministro francese intraprende una vasta indagine sullo stato dell'agricoltura nei territori ducali7. Animate da apprezzabili intenti ed elaborate sulla base di un cospicuo seppure eterogeneo materiale documentario, le Relazioni sull'agricoltura offrono di fatto una significativa descrizione dei difformi caratteri pedologici8 ma, a parte la progressiva diffusione del granturco, il quadro complessivo non presenta sostanziali novità rispetto all'età farnesiana9. Si perpetua il dominio incontrastato delle graminacee (in primis, il grano), delle leguminose (soprattutto la fava) e della vite. Le rese cerealicole appaiono alquanto oscillanti, sebbene decisamente assestate verso il basso10: il rapporto seme-raccolto raggiunge il valore di 6-8 soltanto nei più fertili appezzamenti di pianura, mentre scende a 3-4 nella maggior parte dei terreni, per declinare su rendimenti ancor più possidenti, “anche quando amanti della campagna, vi villeggiavano, le trascorrevano sopra come Gesù sulle acque, erano gente prestata dalla città agli spazi verdi per qualche mese all’anno. Le loro radici erano inequivocabilmente urbane”. Cfr. C. BARBERIS, Le campagne italiane dall’Ottocento a oggi, Bari, Laterza, 1999, p. 90. 5 Al riguardo, è stato sottolineato il condizionamento esercitato dai tradizionali patti agrari, “tendenti a perpetuare un’agricoltura a carattere quasi sussistenziale, basata sulla triade produttiva mais-vino-frumento, con basse rese per unità di superficie”. Cfr. F. BOF, Concimi chimici e modernizzazione: l’Unione Cattolica agricola del Veneto (18931898), in “Storia economica”, 2-3, 2002, p. 372. 6 Annose carenze strutturali come le arature poco profonde, le rotazioni biennali e il diffuso ricorso al maggese, la scarsa concimazione conseguente alla conclamata insufficienza del patrimonio bovino – il cui potenziamento risulta frenato dagli elevati costi e dalla falcidia delle epizoozie - , unitamente all’assenza di idonei sistemi irrigui e di adeguate infrastrutture poderali, ben rispecchiano gli anacronismi e le inefficienze che affliggevano da secoli il settore primario parmense. La “visione ancestrale del benessere e della ricchezza legati al grano sembrava inattaccabile, malgrado gli evidenti benefici che avrebbero potuto offrire gli investimenti in zootecnia”. Cfr. M. ZANNONI, Napoleone Bonaparte a Parma nel 1805, Parma, MUP, 2006, p. 17. 7 Nella fattispecie, incaricato del reperimento delle informazioni è il collaboratore François Treillard. A sottolineare il rapporto di fiducia che legava Treillard a Du Tillot, una satira del 1771, "immaginando una statua dell'uomo che si voleva abbattere, [fece] di Treillard uno degli occhi del Du Tillot; l'altro era Joseph Garnier". Cfr. H. BEDARIDA, Parme et la France de 1748 à 1789, Champion, Paris 1928 [trad. it. Parma e la Francia (1748-1789), trad. di S. Della Vedova, introd. di G. Cusatelli, I, Parma, Segea, 1986, p. 169]. Ribaltando il giudizio favorevole del Cipelli - che identificava nel Treillard un esperto di dottrine economiche –, il Benassi così denigrava il collaboratore del ministro transalpino: "francese ex soldato, poi favorito di don Filippo, [...] non [diede] alcuna prova di essere competente per quel che riguarda l'agricoltura [...], più abile a riempire la propria borsa che ad arricchire le terre del Ducato". Ivi, p. 170. 8 Per quanto concerne la natura dei terreni, si fa riferimento alla distinzione dei suoli in quattro classi - "ladini, forti, gretosi e argillosi" -, riproponendo sostanzialmente il criterio di suddivisione presentato nei citati Insegnamenti di agricoltura parmigiana (Ivi, pp. 31-53), Trattato dei terreni, in cui emerge la rilevante presenza di sterili terreni sassosi, corresponsabili dei modesti rendimenti. A.S.P., Fondo Du Tillot, b. A. 42-50, fasc. 42/2. 9 In proposito, rimando a M. A. ROMANI, Nella spirale di una crisi. Popolazione, mercato e prezzi a Parma tra Cinque e Seicento, Milano, Giuffrè, 1975, in particolare pp. 161-189. 10 Sugli yield ratios che caratterizzano la cerealicoltura emiliana in età moderna, cfr. G. L. BASINI, Rendimenti e produttività nell'agricoltura emiliano-romagnola dal XVI al XVIII secolo, Siena, Monte dei Paschi, 1979. 3 modesti nelle terre di montagna ove, quasi sempre, si raccoglie poco più del seminato e soltanto negli anni migliori si raddoppia a malapena la semente11. Al di là dell’iniziativa in questione, senz’altro degna di rilievo, è opportuno sottolineare gli aspetti positivi della politica del Du Tillot, ancor più rilevanti in un contesto dominato da un’aristocrazia terriera indolente e riottosa. Se è vero, infatti, che il ministro d’azienda si sforza soprattutto di incoraggiare la produzione delle materie prime necessarie alle manifatture – in particolare il gelso, la canapa e il lino -, egli non trascura comunque, in accordo con lo spirito riformatore dell’epoca, l’introduzione di nuove coltivazioni, pur senza conseguire risultati di rilievo. D’altra parte, le modeste dimensioni del ducato impongono – conformemente ai canoni di politica economica imperanti nell’ancien régime – una rigida politica annonaria finalizzata al controllo delle derrate alimentari, con grave pregiudizio dello stesso settore primario, vincolato dalla priorità assegnata alla cerealicoltura. Quasi un ventennio dopo, in seguito ai gravi danni cagionati dal rigidissimo inverno del 1788-8912, le autorità ducali affidano all'abate Giambattista Guatteri - docente di Botanica all'università di Parma13 - il compito di organizzare una nuova indagine agraria14. Rispetto alla precedente rilevazione emerge un panorama più articolato, comprendente un'importante risorsa come l'allevamento. Negli ambiziosi propositi del curatore - consapevole che la modernizzazione del settore primario costituisse l'imprescindibile presupposto per lo sviluppo economico - i dati raccolti avrebbero dovuto confluire in un più ampio studio che, trascendendo i ristretti confini ducali, avrebbe assicurato un valido supporto conoscitivo "a favore di qualsiasi Stato che fosse geloso di far fiorire e perfezionare questa arte necessaria [agricoltura]"15. L'esito della rilevazione è ancora una volta sconfortante, forse al di là delle più pessimistiche aspettative. [Le] campagne squallide e spopolate, i pochi [coltivatori] rimasti abbandonati a se stessi dall'incuria e svogliatezza dei proprietari, senza direzione, privi di mezzi, scarsi di bestiame, alcuni sprovvisti persino degli attrezzi rurali, vinti dallo scoraggiamento e dal torpore si limitano a richiedere alla terra quel minimo che basti per non morire di fame [...]. La vita di miseria influisce sulla stessa natalità, perché il contadino è ridotto a misurare il numero dei figli sulle scarse possibilità delle sue risorse16. 11 Per le ricorrenti carestie nelle terre alte, rimando a C. BARGELLI, “Terre ove spira miseria”. Povertà e annona nella montagna parmense nel secolo dei Lumi, in “Rivista di storia economica”, XXVII, 3, 2011, spec. pp. 370-373. 12 "Morirono molte piante; morirono tutte le fave vernacce; soffrirono anco li frumenti e li prati, per conseguenza fu carestia di invernaglie per il bestiame. Mancò pure l'abbondante raccolto del frumentone ossia Mays, per l'asciutto delle state. Il prezzo del frumento arrivò a lire 42 lo staio, della fava a lire 36, del Mays a lire 25". Cfr. F. LANZONI, Una inchiesta agraria nei Ducati (estate 1789), in “Archivio storico per le province parmensi” (d'ora in poi, A.S.P.P.), 4, 1939, p. 123. 13 Fondatore e direttore dell'Orto Botanico di Parma, il Guatteri (1739-1793) ricoprì importanti cariche pubbliche. Fu, tra l’altro, Ispettore delle Miniere e consulente della Casa ducale nelle questioni di ordine naturalistico. Cfr. F. LANZONI, Il fondatore dell'Orto Botanico di Parma, in “Aurea Parma”, 11, 1927, pp. 77-85. Per gli aspetti strettamente biografici, si veda R. LASAGNI, Dizionario biografico dei parmigiani, III, Parma, Palatina Editrice, 1999, pp. 87-89. 14 Sulle modalità organizzative dell'inchiesta si sofferma F. LANZONI, Un'inchiesta agraria, cit., pp. 124-125. I quesiti, “espressi in forma semplice e piana, hanno per oggetto sempre un particolare determinato e di facile rilievo per gli esperti". Le risposte sono suddivise in quattro sezioni, corrispondenti, rispettivamente, al territorio parmigiano, a quello di Calestano, al Guastallese e al Piacentino. Ivi, p. 124. 15 Ivi, p. 125. 16 Ivi, p. 126. 4 Dalla testimonianza in oggetto emerge una sconfortante realtà, dominata da una grossolana ignoranza e dai più ostinati pregiudizi alla base di secolari quanto fallaci consuetudini17: uno stretto connubio tra religiosità e superstizione che sembra permeare il respiro stesso del mondo dei campi. Domina ancora il sistema del maggese e le rotazioni, per lo più biennali, alternano frumento e granturco. L'aratura è superficiale ed eseguita con strumenti antiquati, le sementi sono raramente calcinate, i fossi e gli scoli abbandonati all'incuria. Anche l'allevamento è generalmente trascurato e gli animali pascolano su prati naturali. Nel persistere dell'atteggiamento parassitario dei proprietari terrieri - appagati dalla mera riscossione dei pesanti gravami di ascendenza feudale -, la miseria regna ovunque sovrana, tanto che non pochi contadini abbandonano le campagne per andare a rinfoltire le fila dei mendicanti cittadini. Preso atto delle precarie condizioni in cui si dibatte il settore primario e individuata nell’ignoranza la principale causa dell’arretratezza, il Guatteri pone l’accento sulla necessità dell’alfabetizzazione – non solo di base, ma soprattutto agronomica – delle masse rurali, da affidarsi sia ai parroci di campagna sia a nuove ”scuole teoriche e pratiche di agricoltura” decentrate capillarmente sul territorio18. Convinto della validità delle proposte avanzate ma altrettanto consapevole della forza d’inerzia delle consuetudini, l’abate parmense propone ai singoli comuni di destinare a prove sperimentali una parte dei terreni, procedendo successivamente a significative comparazioni in termini di redditività. Strascinato dal mio zelo per il bene del pubblico, desidererei che si stabilissero scuole teoriche e pratiche di agricoltura; ma siccome non si può distruggere l’uso, figlio nello stesso tempo dell’ignoranza e dell’infingardaggine, che presentando all’uomo testardo dei suoi usi delle prove evidenti delli vantaggi che devono risultare da tutt’altro metodo, desidererei, dico, che ciascun comune destinasse per questo una certa estensione di terreno di diversa qualità o facendone acquisto o prendendola in affitto; la metà si coltivasse secondo l’uso stabilito, e l’altra [fosse] impiegata alle prove. La spesa e i prodotti fossero tenuti in registro per confrontare ogni uno o due anni la porzione che non avrà avuto che l’uso per maestro con quella coltivata secondo i migliori metodi. 19 17 Consapevoli del pregiudizio derivante dal perpetuarsi di antiquate pratiche colturali, gli agronomi coevi pongono l'accento sulla dannosa prassi "di conformarsi a ciò che veggono fare o che sanno essere stato fatto dagli altri, a guisa appunto delle pecorelle insensate". Cfr. U. MONTELATICI, Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura, in S. ZANINELLI (a cura di), Scritti teorici e tecnici di agricoltura, II, Dal Settecento agli inizi dell’Ottocento, Milano, Il Polifilo, 1989, p. 32. 18 Durante il XVIII secolo, l’esigenza di alfabetizzazione è ormai avvertita quasi ovunque. A giudizio dell’agronomo fiorentino Ubaldo Montelatici, i contadini dovrebbero “apprendere nelle comunità (dove scuola si tiene) l’arte che loro è propria quale è questa di coltivare un poco meglio il terreno”, onde “dissipare dall’intelletto di costoro le folte tenebre della loro dannevolissima cecità per via di luminose lezioni d’agricoltura”. Ivi, p. 39. 19 Cfr. F. LANZONI, Un’inchiesta agraria, cit, pp. 131-132. “Ogni persona potrebbe seguire le operazioni di questo nuovo teatro d’agricoltura e istruirsi per i suoi progressi. Uno capirebbe che si fertilizza la terra per mezzo di buoni lavori ripetuti e fatti a tempo e che non bisogna seminare due anni consecutivi dello stesso grano; l’altro saprebbe che i solchi non hanno di sovente che la apparenza ingannatrice di una buona cultura, che ci maschera la negligenza del lavoratore”. Ivi, p. 132. 5 A giudizio dell’autore, il processo di modernizzazione non può, inoltre, prescindere dal frazionamento della proprietà pubblica coltivata in modo estensivo20, dalla diffusione del credito agrario e dalla liberalizzazione del commercio dei grani, con il conseguente affrancamento dell’economia ducale dal rigido e controproducente vincolismo annonario21. E’ interessante osservare come il “Teatro d’agricoltura” auspicato dal Guatteri preconizzi, per certi aspetti, il podere modello o sperimentale che troverà attuazione circa un secolo dopo grazie alle iniziative promosse da Antonio Bizzozero, instancabile direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura22. Al declinare del XVIII secolo soltanto le menti più lungimiranti sono in grado di scorgere all’orizzonte, tra le nebbie del pregiudizio, le vie che condurranno al rinnovamento agricolo. Le innovative proposte del botanico parmense, decisamente in anticipo sui tempi, rimarranno perciò inascoltate: il Rifiorimento dello Stato di Parma proposto nel miglioramento di sua agricoltura e commercio – benaugurante titolo della sua relazione – non troverà mai realizzazione in quanto la rinascita del settore primario sarà posteriore di alcuni decenni all’annessione al Regno d’Italia. Soffi di novità nell’Empire de l’Habitude Malgrado il quadro statico sopra delineato, già durante il XVIII secolo ma specialmente in età napoleonica, si assiste alla contrastata introduzione di nuove coltivazioni che, ancora negli anni a cavallo tra Sette e Ottocento, incontrano non poche difficoltà a far breccia nel misoneistico regno dell’abitudine e del tradizionalismo. Tra le principali sperimentazioni agronomiche risalenti al periodo preunitario occorre annoverare anzitutto la patata, le cui tormentate vicende appaiono emblematiche della radicata diffidenza verso qualsivoglia innovazione colturale. Introdotta nel Parmense attorno alla metà del Settecento dal capitano irlandese Gugliemo Power – a quel tempo, governatore di Borgotaro23 –, la patata si diffuse abbastanza velocemente nell’alta Valtaro24 ma, 20 “I terreni dovrebbero essere frazionati, recinti con siepi ed affidati alle cure di singoli coloni per una lunga durata od in enfiteusi; i pascoli pubblici aboliti, negata la pretesa di passaggio al bestiame. Bisognerebbe in questi vasti terreni costruire comode abitazioni [nonché] mettere al lavoro le terre incolte nella maggiore estensione possibile”. Ivi, pp. 129-130. E’ significativo rimarcare come una quindicina di anni dopo, il “Giornale economico-agrario” proporrà soluzioni del tutto analoghe: la messa a coltura delle terre incolte e la concessione in enfiteusi di piccoli poderi ai coloni. Cfr. “Giornale economico-agrario”, 1, 5 maggio 1804, Della necessità, e mezzi di migliorare la nostra agricoltura. 21 Sull’argomento rimando a C. BARGELLI, Fra “utopia annonaria” e interesse privato. I movimenti dei grani a Parma durante il secolo dei Lumi, in “Nuova Rivista Storica”, 1, 1998, pp. 17-48 e 2, 1998, pp. 255-308. 22 Cfr. A. BIZZOZERO, Azione svolta dalla Cattedra Ambulante di Agricoltura in 36 anni di vita nei riguardi dell’economia rurale, Parma, Donati, 1930. Più in generale, C. BARGELLI, Dall’empirismo alla scienza. L’agricoltura parmense dall’età dei lumi al primo conflitto mondiale,Trieste, Edizioni Goliardiche, 2004, pp. 251-265. 23 Costui “si procacciò dalla Savoia diciotto tuberi di patate e, coltivabili, avendo dopo alcuni anni potuto raccoglierne alcuni ettolitri, prese a distribuirli ai parroci di quel circondario, raccomandando loro che persuadessero i proprii parrocchiani a propagarli e farne uso e consumo”. Cfr. C. ROGNONI, Sull’antica agricoltura parmense, Parma, Ferrari e Figli, 1897, p. 98. 24 Nel 1804 il capitano Boccia riferiva di “averla vista coltivata quasi dappertutto a Tarsogno, più che altrove”. Ibidem. 6 almeno inizialmente, non riscosse uguale favore in altre zone malgrado l’incoraggiamento profuso dapprima dal Du Tillot25 e, successivamente, dal Moreau de Saint-Méry26. Nonostante gli agronomi del tempo ne avessero tessuto ampiamente le lodi, la nuova pianta (avversata da antiche superstizioni popolari27) rimase a lungo confinata negli orti botanici e nei giardini aristocratici, apprezzata soltanto da coloro che amavano ostentare sul proprio desco un genere esotico peraltro già ben conosciuto Oltralpe28. Le gravi carestie del 1816 e del 1846, nell’evidenziare una volta di più la vulnerabilità della tradizionale cerealicoltura, appalesarono pienamente, anche in area mediterranea, i pregi del disdegnato “pomo di terra” che, oltre all’elevato rendimento29, risultava molto più resistente ai rigori del clima, potendo dunque essere coltivato con successo anche laddove erano più avari i raccolti di grano. Il più autorevole promotore della sua diffusione fu il docente di Agricoltura Pratica Ragionata Giuseppe Gialdi, autore di una dissertazione in cui ne enfatizzava i vantaggi, sia in termini strettamente agronomici sia sotto il profilo alimentare30. Sfumata gradualmente l’originaria riluttanza, nei decenni seguenti si estesero gli impieghi della provvidenziale solanacea, utilizzata fra l’altro nelle tecniche enologiche e persino nel campo della medicina31. 25 Su suggerimento dello stesso Power, il ministro francese promosse la pubblicazione di un opuscolo divulgativo teso ad illustrarne i caratteri e gli intrinseci pregi. Ivi, pp. 98-99. 26 Lo stesso Moreau riferiva che don Ferdinando Oddi, fondatore dell’Ospizio delle Arti, “abitava nel 1802 alcune stanze del Palazzo Ducale esistente nel Pubblico Giardino della nostra città, insieme coi fanciulli poveri da lui ricoverati allo scopo di educarli ed avviarli a qualche arte, [facendo] coltivare nello stesso giardino pomi da terra che a loro servivano di cibo sano ed economico. Ma nemmeno tale esempio giovò ad indurre i campagnoli a coltivarli nelle proprie terre […]”. Ivi, p. 99. 27 Frutto demoniaco partorito dalle viscere della terra, la cui forma bitorzoluta evocava le terribili eruzioni della lebbra, attorno alla patata si creò un alone sinistro, alla base di forme di esorcismo e condanne al rogo per i sacchi dei disprezzati tuberi. 28 “L’affermazione della patata avvenne a nord di una linea che va dall’Austria alla Svizzera, alla Francia settentrionale e che comprende tutta l’Inghilterra”. Cfr. P. MALANIMA, Uomini, risorse e tecniche nell’economia europea dal X al XIX secolo, Milano, B. Mondadori, 2003, p. 209. La diffusa riluttanza dell’Europa mediterranea verso la nuova coltura era in parte riconducibile alla “cattiva qualità e alla scarsa appetibilità dei prodotti che venivano proposti: poco e male selezionati, i tuberi delle prime generazioni davano una polpa spesso acida e acquosa, in certi casi tossica. Inoltre è da tener presente che per molto tempo le patate furono consigliate ai contadini come un prodotto adatto alla panificazione […]. Anche la fallacia di questi suggerimenti, la constatazione di una effettiva inadeguatezza della patata a fare il pane, avrà dissuaso molti dall’usarla. Per convincerli si ricorse ad ogni mezzo: in Italia, perfino alla collaborazione dei parroci […]. Né mancarono forme di coercizione giuridica, come l’inserimento nei patti agrari di una clausola che obbligava il nuovo conduttore di un fondo a riservare una parte del terreno alla coltivazione delle patate”. Cfr. M. MONTANARI, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 173. 29 “Il prodotto di cento ari di terreno [seminato a patate] è bastante a mantenere una famiglia di 18 individui, mentre che seminato il medesimo suolo a frumento non rende che il necessario per mantenere solo 8 persone”. Cfr. “Il Facchino”, 42, 19 ottobre 1839, articolo di Ser Gottardo, La patata, p. 333. 30 Il docente dell’ateneo parmense insisteva sugli intrinseci pregi: miglioramento del terreno, resistenza alle avversità climatiche, elevato rendimento, alimento sano e nutriente, non solo per l’uomo, ma anche per gli animali domestici e per il bestiame. Cfr. G. GIALDI, Della coltivazione dei Pomi di Terra, loro uso e loro utilità, Parma, Blanchon, 1817, pp. 9-11. 31 La patata “serve al nutrimento dell’uomo e degli animali, alla fabbricazione della fevula per il sciroppo di zucchero, che s’impiega per migliorare i vini, il sidro e la birra, dando anche una buonissima acquavite […]. Nella medicina è poi utilissima in tutti i casi in cui si voglia dare ad individui delicati un nutrimento dolce e ristorante sotto piccolo volume, e nelle malattie di sfinimento”. Cfr. “Il facchino”, 42, 1839, cit., p. 332. 7 Pur raggiungendo raramente l’esito auspicato, il governo francese aveva tenacemente caldeggiato le innovazioni colturali. Del tutto infruttuosi furono, ad esempio, gli sforzi profusi per la diffusione del cotone che, dopo un effimero successo iniziale, in mancanza di idonee condizioni climatiche, scomparve definitivamente dalle terre parmensi32. Analoghe vicende interessarono il guado, una pianta crucifera dalle cui foglie e radici veniva estratto un colorante azzurro simile all’indaco, utilizzato principalmente nella tintura dei tessuti. L’emanazione del Blocco Continentale napoleonico, nel precludere l’afflusso dei prodotti coloniali lavorati dalle manifatture europee – tra questi, un ruolo non secondario occupava l’indaco, impiegato nell’industria tintoria – indusse la Francia ad incentivare questa coltivazione nei territori occupati. Convinto che il “suolo del Dipartimento del Taro [fosse] più che atto a produrre una gran quantità di questa sì utile pianta”33, il governo francese tentò invano di diffonderne la coltura, sulla base di idonee prove sperimentali volte a pubblicizzarne le tecniche agronomiche34. Coltivato fin dal Cinquecento da alcuni monaci per le decantate virtù medicinali, il tabacco si diffuse rapidamente nel Parmense a partire dal secolo seguente, durante la parentesi di governo di Odoardo Farnese. La vendita divenne privativa ducale, concessa successivamente in appalto e sottoposta ad una scrupolosa regolamentazione. La manifattura in questione35 produceva inizialmente tabacco da fiuto e soltanto a partire dalla fine dell’Ottocento iniziò la fabbricazione di sigari. Originariamente le foglie venivano importate dall’Ungheria e dall’America, in quanto all’epoca si riteneva che questa coltivazione fosse incompatibile con le caratteristiche pedologiche 32 L’abbondante raccolto del 1811 era, infatti, riconducibile ad insolite condizioni climatiche, nella fattispecie un autunno “eccezionalmente caldo e asciutto”. Non a caso, l’anno successivo, in cui “si ebbe una primavera umida e fredda, piovosissimo l’ottobre, codeste prove fallirono interamente. Da 11 ettari dell’agro parmense si raccolsero 717 chilogrammi di cotone, da 12 del borghigiano solo 292. Invano nel 1813 si distribuirono gratuitamente i semi, fatti venire appositamente dalla Macedonia e dalle Calabrie; invano si propose agli agricoltori una lira di premio per ogni chilogrammo di bambagia raccolta nei loro poderi. Essi avevano riconosciuto che il cotone non era pianta atta a prosperare nella nostra provincia”. Cfr. C. ROGNONI, Sull’antica agricoltura, cit., p. 59. 33 Cfr. “Giornale del Taro”, 5, 19 marzo 1811, pp. 31-32. Osservava, al riguardo, il prefetto Dupont Delporte: “la prima condizione […] è la scelta del terreno. Secondo le osservazioni fatte, il suolo che più conviene a questa pianta è il terreno di buona qualità, leggero, mescolato di minuta ghiaia, e di piccole pietre calcari, profondamente coltivato, esposto al sole e senza alberi. Le terre troppo grasse e fertili, e le terre troppo magre e sabbiose non debbono essere seminate a Guado. Il tempo della sua seminagione è sulla fine della luna di Marzo e in autunno. I semi violetti sono da preferirsi ai gialli […]”. Ibidem. 34 “Affinché a Parma si potesse più facilmente apprenderla, [si] dispose che nel giardino del Rosario, là dove ora sorge il teatro Reinach, il guado fosse coltivato pubblicamente. Così chiunque voleva poteva impararvi a raccoglierne, nei debiti tempi e modi, le foglie, ridurle in pasta e, facendole fermentare, estrarne la materia colorante […]. Quattrocento erano i chilogrammi che di tale materia adopravansi annualmente nelle due province di Parma e Piacenza. Da cinque ari a guado se ne poteva ottenere un chilogrammo, del valore dalle 36 alle 48 lire, secondo la qualità”. Cfr. C. ROGNONI, Sull’antica agricoltura, cit., p. 58. 35 Originariamente situata presso i “Mulini Bassi”, nelle adiacenze della città, in seguito alla rovinosa inondazione del torrente Parma nell’ottobre 1777, la manifattura dei tabacchi venne trasferita alla Certosa, nei locali di un monastero soppresso dal Du Tillot dieci anni prima. Ivi, p. 62. 8 delle terre parmensi36. La presunta incompatibilità non trovò tuttavia conferma negli anni successivi, tanto che la tabacchicoltura andò progressivamente estendendosi alle terre migliori della provincia. Tra il 1808 e il 1809 alcune disposizioni imperiali ne subordinarono la coltivazione ad una dettagliata descrizione dell’estensione e dei caratteri dei terreni interessati, disciplinandone altresì l’aspetto fiscale e le condizioni di vendita allo Stato37. I risultati furono eccellenti38 e, nel 1814, al termine della dominazione francese, il governo provvisorio, nel riconoscere la coltivazione “utilissima e perciò conveniente di proseguirla”39, la concentrò sui terreni più adatti del Parmense e del Guastallese, aggiornandone la regolamentazione commerciale40. Ciononostante, a partire dal 1816, in coincidenza con l’introduzione della “Ferma mista” - deputata alla riscossione delle contribuzioni indirette - gli interessi fiscali presero gradualmente il sopravvento e, nel novembre 1820, un decreto ducale ne proibì la coltivazione, inaridendo così una cospicua fonte di entrata per gli agricoltori41. Tra la nuove coltivazioni di maggior successo va sicuramente annoverata la barbabietola da zucchero. Introdotta anch’essa nei territori coinvolti dal Blocco Continentale, fu tosto incoraggiata dal governo francese che, per incentivarne la coltivazione, fornì gratuitamente – come per il guado – le sementi e le relative istruzioni42. Nel 1812 il prefetto Dupont Delporte constatava, con una punta di compiacimento, come la lavorazione della barbabietola avesse raggiunto “tout le succès que l’on pouvoir désirer”43, successo che subì una momentanea battuta d’arresto in seguito all’abolizione delle misure protezionistiche napoleoniche. Pur tuttavia, sussistendo nelle terre 36 Lo stesso Moreau de Saint-Méry riportava l’esperienza negativa di un appaltatore che aveva sperimentato senza successo questa coltura nel vasto orto della Certosa, ottenendo una produzione di “si mauvaise qualité qu’on regard comme certain qu’il ne peut reussir dan les États de Parme”. Cit. in Ibidem. 37 A seconda della qualità, il prezzo pagato dallo Stato oscillava tra le 60 e le 120 lire al quintale. Ibidem. Per un dettagliato elenco – riferito al 1814 - dei prezzi del tabacco di differente qualità, rimando a “Giornale del Taro”, 7, 22 gennaio 1814, p. 29. 38 Nel 1813 il tabacco occupava 560 ettari del suolo coltivabile della provincia. Cfr. C. ROGNONI, Sull’antica agricoltura, cit., p. 62. 39 Ivi, p. 63. “Dans les environs de Parma on a commencé à cultivar le tabac avec un grand succès”. Ivi, nota 85 p. 120. 40 “Le foglie della varietà distinte coi nomi di Spadone, Virginia, Brasile dovevano vendersi alla Certosa a prezzi varianti dalle lire 50 alle 120 per quintale con un premio, per sopraggiunta, di lire 10 a chi avesse presentato foglie della varietà denominata Albania. Quanto poi alla raccolta del 1814, sappiamo da una relazione del 23 marzo 1815, dei signori Lucio Bolla, Bartolomeo Nicoli e Nicola Oranger, che fu di buona qualità, ma scarsa, non avendo prodotto per biolca che 43 pesi, ossia circa quintali 11,44 per ettaro”. Ivi, p. 63. 41 Il decreto del 18 novembre 1820 stabiliva, a carico dei contravventori, una multa pari a 200 lire, unitamente alla perdita totale del raccolto. In tal modo, “spariva dalle nostre terre una pianta che potrebbe ritornarvi con grandissimo beneficio dei coltivatori. Imperciocché nelle diciannove province nelle quali oggigiorno in Italia è dato di coltivare tabacco, esso frutta una rendita netta che ragguaglia in media le lire 800, e che, giusta recenti statistiche ministeriali, va dalle 300 alle 4000 lire per ettaro”. Ivi, p. 63. 42 La “Bietola-rapa felicemente riesce nei terreni naturalmente facili ma, se il suolo è compatto, bisogna lavorarlo profondamente e sminuzzarlo a tutto passo. Più la terra sarà concimata, più le radici saranno belle. Il mezzo più economico di coltivare questa pianta è di seminarla in solchi fatti con l’aratro e di sarchiarla spesso con la zappa […]. Se tal pianta coltivasi in grande, giova raccogliere le radici coll’aratro, ivi passando cioè questo strumento lungo i solchi seminati. Le radici raccolte e monde dalla terra si grattugiano per ridurle in polpa […]”. Cfr. “Giornale del Taro”, 14, 20 aprile 1811, pp. 78-79. 43 Cfr. C. ROGNONI, Sull’antica agricoltura, cit., p. 60. 9 parmensi idonee condizioni pedologiche, nei decenni successivi venne destinato crescente spazio a questa coltivazione. A partire dal 1868, in ottemperanza alle disposizioni del Ministero d’Agricoltura, il Comizio Agrario avviò la sperimentazione della barbabietola da zucchero ma, nonostante la periodica pubblicazione di opuscoli divulgativi, l’iniziativa non ebbe, almeno inizialmente, seguito44. Soltanto nell’ultimo scorcio del secolo, grazie al decisivo intervento di Bizzozero, venne messo a punto un organico programma di potenziamento dell’importante coltura saccarifera. Tra il 1897 e il 1898, la “Società Ligure-Lombarda” presentò un progetto per la costruzione di uno zuccherificio a Parma, progetto subordinato alla preventiva messa a coltura di almeno 900 ettari a barbabietola. All’ambizioso programma partecipò attivamente la Cattedra Ambulante che predispose venti campi sperimentali, divulgando le più moderne tecniche di coltivazione. Una superficie così estesa richiedeva, ad evidenza, il coinvolgimento di un considerevole numero di coltivatori, la cui abituale ritrosia verso l’innovazione ne rendeva difficoltosa la realizzazione45. Convinto assertore della validità del progetto, lo stesso Bizzozero accettò anche le più modeste sottoscrizioni, nella speranza che la bieticoltura, “questa grande maestra di agricoltura pratica, penetrasse un po’ dappertutto e aiutasse a spingere il progresso”46. Relativamente alle difficoltà di diffusione – la nuova coltivazione non superò mai il sesto dell’aratorio, non incidendo sostanzialmente sul ciclo di rotazione -, il direttore della Cattedra avanzò una duplice spiegazione. La gran lotta che si fece alla barbabietola si fece dai contadini per la paura ch’essi hanno di rimanere senza polenta. E poi c’è un’altra ragione, ed è questa: che la melica si divide col proprietario in natura, mentre la barbabietola bisogna venderla e non si può che venderla alla fabbrica dello zucchero, la quale rilascia le bollette col peso verificato e manda in pagamento un vaglia alla Banca d’Italia47. 44 Si veda, per tutti, “Bollettino del Comizio Agrario Parmense”, 9, settembre 1871, Esperimenti sulle barbabietole da zucchero, p. 143. 45 L’estensione fu successivamente ridotta a 500 ettari e la durata del contratto, inizialmente stabilita in un decennio, venne dimezzata. La società appaltatrice aveva, inoltre, collaborato per l’attribuzione alla Cattedra di dieci premi da 50 lire ciascuno destinati ai prodotti migliori. Cfr. “L’avvenire agricolo”, 11, novembre 1898, La coltivazione della barbabietola da zucchero è assicurata, p. 281. Il risultato ottenuto fu di 342 sottoscrizioni provenienti da 31 comuni per complessivi 485 ettari coltivati, anche se i contratti di un certo peso furono soltanto sei, tanto che il direttore della Cattedra si rammaricò che a Montepulciano, dove era stato aperto uno zuccherificio nello stesso anno, ben 750 ettari fossero stati sottoscritti da soli 77 proprietari. Ricordiamo che, nel 1898, lo zuccherificio parmense di rifornì di barbabietole coltivate su 745 ettari, di cui 500 nella provincia di Parma, 120 in quella di Reggio, 55 nel Mantovano, 30 nel Cremonese, 30 nel Vicentino e 10 nel Piacentino. Cfr. A. BIZZOZERO, Il primo anno della coltivazione della barbabietola da zucchero nel Parmigiano, Parma, Rossi-Ubaldi, 1899, pp. 4-6. 46 Ivi, p. 6. 47 Ivi, p. 20. Vale la pena di rilevare come, forse per la prima volta, grazie ai peculiari meccanismi di distribuzione del prodotto, coloro che aderirono all’iniziativa furono costretti ad avventurarsi nei circuiti economici e commerciali e, valicando gli angusti confini dell’autoconsumo, presero gradualmente dimestichezza con i moderni mezzi di pagamento. Siccome la Società Ligure-Lombarda pagava le barbabietole mediante vaglia della Banca d’Italia, era “avvenuto che parecchi piccoli coltivatori ricevessero, per la prima volta nella loro vita, una simile carta ed era un chiedere spiegazioni a destra e a sinistra sul modo, sull’epoca, sul luogo della riscossione e così si diffondevano anche tra gli umili cognizioni necessarie e da sapersi da tutti”. Ivi, p. 26. 10 I violenti attacchi del Comizio Agrario costituirono un ulteriore deterrente all’espansione della bieticoltura. A giudizio del presidente Carlo Rognoni, infatti, i patti contrattuali vigenti risultano assai svantaggiosi per i bieticoltori: oltre all’eccessiva durata del vincolo contrattuale (fissato in un quinquennio), le bietole erano infatti pagate in base all’effettivo contenuto di zucchero48. Tale netta presa di posizione, che metteva fortemente in dubbio il reale beneficio economico della nuova pianta, suscitò una sdegnata reazione, innescando un’aspra querelle tra le due maggiori istituzioni agrarie provinciali. Da parte sua, Bizzozero, dopo averne vivamente caldeggiato la diffusione illustrandone i relativi vantaggi economici, individuando nella nuova coltura una concreta opportunità di miglioramento del settore primario, rispose con un velenoso opuscolo teso a destituire di ogni fondamento la tesi della controparte49. Dopo un vivace scambio di opinioni, la polemica andò lentamente spegnendosi e, il 21 agosto 1899, il nuovo zuccherificio poté finalmente iniziare l’attività, innalzando “dall’alto fumaiolo l’incenso del lavoro industriale”50. L’estensione colturale raggiunse una punta massima di 905 ettari nel triennio 1903-1905 ma, in seguito al crescente favore incontrato dal pomodoro, iniziò poi una fase di progressiva contrazione – nel 1912 la superficie coltivata si ridusse a soli 185 ettari51 – che si ripercosse negativamente sull’attività saccarifera52. La Società Ligure-Lombarda, che dava lavoro a 400 operai, minacciò allora il trasferimento degli impianti nel Modenese e nel Piacentino, laddove i maggiori livelli 48 Cfr. “Bollettino del Comizio Agrario Parmense”, 11, novembre 1898, Al Signor Direttore della Cattedra Ambulante, p. 163. 49 Cfr. A. BIZZOZERO, Contro la pubblicazione del Comizio di Parma a proposito della barbabietola da zucchero. Lettera aperta al signor Presidente del Comizio Agrario, Parma, Adorni, 1898. Egli dimostrò come il prezzo corrisposto scaturisse in realtà da una media aritmetica e rappresentasse, in ultima analisi, il sistema più pratico, mentre relativamente alla contestata durata quinquennale oppose valide ragioni d’ammortamento economico. “E non può ancora quell’agricoltore andare dalla Società e dire: ‘sentite, amici, io non ce la cavo; se vi è possibile, liberatemi dall’obbligo che ho contratto presso di voi?’ Come si può ammettere che una società faccia un impianto che costa qualche milione, se non è ben sicura che la materia prima non le verrà a mancare, ossia che gli agricoltori avranno un bel vantaggio coltivando la barbabietola? Se non fosse così, dopo 5 anni sarebbe costretta a chiudere la fabbrica e in 5 anni non si ammortizzano i capitali spesi nei fabbricati, nelle macchine, nella ricerca dell’acqua. La parte piana della nostra provincia comprende 90mila ettari: è possibile che non se ne possano trovare mille perfettamente adatti alla barbabietola?”. Ivi, p. 26. 50 Ivi, p. 40. Lo stesso “Avvenire agricolo” riportava con enfasi l’avvenimento: “Il grandioso opificio paragonabile nell’insieme al fantastico mostro dai cento ventri e dalle mille braccia, mangiava e digeriva nel primo giorno di lavoro 2000 quintali di barbabietole […]. Mangia facendo prima pulizia dell’alimento, masticandolo poi con tagliatrici, digerendolo nei diffusori e caldaie, elaborandolo e trasferendolo in apposite macchine, filtri, turbine, ecc. Il cuore di tale mostro è la sala delle potenti caldaie, le vene e le arterie sono le intricate e variopinte tubature, lo stomaco è rappresentato dai diffusori e caldaie, i muscoli trovano riscontro nei potenti motori…tutto può paragonarsi ad un essere animale e ciò mostra la perfezione dell’insieme dell’opificio […]”. Cfr. G. MORI, Come si ricava lo zucchero dalla barbabietola, in “L’avvenire agricolo”, 7, luglio 1899, p. 290. 51 Tale regresso non era certo casuale: l’annata 1910 segnò “un altro passo indietro nella lavorazione delle bietole, perché gli agricoltori della provincia di Parma, attratti dalla maggior convenienza, [abbandonarono] man mano questa coltura per intensificare quella del pomodoro”. C.C.I.A.A.P., Qualche notizia sull’andamento dell’agricoltura, delle industrie e del commercio in provincia di Parma nel 1910, Parma, Camera di Commercio, 1911, p. 31. 52 A testimonianza del brusco ridimensionamento dell’attività saccarifera, alla fine del primo decennio del Novecento, nel giro di un triennio, tra il 1908 e il 1910, la quantità di bietole lavorate si ridusse da 410.000 a 280.000 quintali, mentre la produzione di zucchero scese da 45.000 a 30.000 quintali. Ibidem. 11 produttivi avrebbero assicurato la proficua prosecuzione dell’attività. Gli anni immediatamente precedenti la Grande Guerra evidenziano, peraltro, una netta ripresa, scandita dal ragguardevole incremento nelle rese e nel contenuto zuccherino (cfr. tab. 1). Tab. 1 – Produzione e produttività della barbabietola da zucchero nel Parmense (1899-1914) Anno 1899 1900 1901 1902 1903 1904 1905 1906 1907 1908 1909 1910 1911 1912 1913 1914 Superficie coltivata 485 520 539 596 905 900 905 474 462 611 534 378 288 185 534 570 Produzione totale (in q.li) 106.700 130.520 147.686 159.132 281.455 182.700 209.960 99.540 122.430 163.137 102.528 102.816 61.632 48.655 213.600 192.230 Produzione per ettaro (in q.li) 220 251 274 267 311 203 232 210 265 267 192 272 214 263 400 339 Zucchero % Bietole 13,84 12,57 10,98 14,44 14,61 13,61 13,32 14,24 14,93 14.01 15,03 13,85 13,88 15,28 15,23 15,75 (Fonte: AA.VV., Agricoltura parmense, numero speciale dell’”Avvenire Agricolo”, a cura dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura e del Consorzio agrario cooperativo, maggio 1937, Parma, Fresching, 1937, p. 111) Un’altra coltura vivamente caldeggiata dalla Cattedra Ambulante e che giungerà a rivestire un ruolo fondamentale nell’economia parmense è quella del pomodoro. Originaria dell’America meridionale e per secoli confinata nei giardini a scopo puramente ornamentale, la solanacea rossa cominciò gradualmente a diffondersi nel Parmense attorno al 184053, quando i più intraprendenti coltivatori iniziarono a fabbricare la cosiddetta “conserva nera” – ottenuta dalla cottura del succo di pomodoro in caldaie a cielo aperto e dal successivo essiccamento in tavole disposte al sole54 – ma si espanse decisamente soltanto a partire dagli anni ’70 dell’Ottocento55. Il ciclo produttivo56, concentrato soprattutto durante i mesi estivi, impegnava solitamente un’intera unità familiare, sulla base di un contratto a cottimo sostanzialmente simile a quello di mezzadria, sia per tipologia di 53 In realtà, il pomodoro era conosciuto fin dal Settecento, epoca in cui veniva citato con il nome dialettale di “tomaca”. In proposito, si veda P. L. SPAGGIARI, Insegnamenti, cit., Lavori che si fanno dalli ortolani a mese per mese, p. 122. 54 Cfr. C. SAMOGGIA, Il pomodoro e la sua industria, in AA.VV., Agricoltura parmense, numero speciale de “L’avvenire agricolo”, a cura dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura e del Consorzio cooperativo, Parma, Fresching, 1937, p. 113. 55 Il pomodoro “crebbe notevolmente in questi ultimi anni nella nostra pianura ma più specialmente nel circondario di Parma, nei terreni lungo la via Emilia dotati di irrigazione. Oltre al forte consumo che se fa presso ogni classe di cittadini, se ne esporta anche al di fuori, senza contare la grande quantità che viene cotta e ridotta in conserve”. Cfr. F. BARBUTI, Monografia dell’agricoltura parmense compilata per incarico della giunta parlamentare per l’Inchiesta Agraria e sulle condizioni della classe agricola in Italia, Parma, Ferrari, 1880, p. 41. 56 Questa coltura soffriva le gelate e prediligeva i climi caldo-temperati e, proprio per questo, “il seme si fa nascere precocemente in letti caldi composti di terra e concime. Le giovani pianticelle si collocano a dimora fissa in filari equidistanti m 1,70 circa, lasciando tra un gambo e l’altro uno spazio di 0,70. Vengono sostenute da un’impalcatura di paletti e pertiche o filo di ferro, né subiscono alcuna cimatura o castrazione. Rendono sino a 250 quintali per ettaro”. Ivi, p. 41. 12 conduzione che per obblighi contrattuali57. La prima sperimentazione all’interno di un ciclo di rotazione agraria avvenne per iniziativa di Carlo Rognoni – dal 1875 docente di Contabilità rurale e agronomia al Regio Istituto Tecnico di Parma – che, nel 1887, in occasione del Concorso Agrario Regionale, diede alle stampe un opuscolo in cui illustrava i soddisfacenti risultati ottenuti58. Inserita nell’avvicendamento agrario, la solanacea rossa era inoltre in grado di incrementare notevolmente la resa delle coltivazioni successive: su un ettaro di terra precedentemente coltivata a pomodoro, si potevano infatti raccogliere circa 22,5 ettolitri di frumento a fronte di una semina di 1,5 ettolitri, con un rapporto seme/raccolto pari a 15 e, dunque, ben superiori alle medie del periodo. Considerata l’elevata redditività59 – nonostante le oscillazioni stagionali, la nuova coltura assicurava un profitto netto annuo del 40% -, non sorprende quindi la sua progressiva espansione a scapito del granturco, rispetto al quale poteva vantare un rendimento quasi triplo (cfr. tab. 2). Tab. 2 – Rendiconto sintetico di un podere di 84 acri coltivato per metà a granturco e per metà a pomodoro a Parma nel 1887 Prodotto Spese Ricavi Utile complessivo Utile per ettaro Granturco 332,5 422,0 89,5 106,5 Pomodoro 305,0 561,0 256,0 304,0 (Fonte: elaborazione da “Bollettino del Comizio Agrario Parmense”, n. 6, giugno 1877, Il granturco e il pomodoro, p. 91) Gli accertati pregi economici indussero le principali istituzioni agrarie – dapprima il Consorzio Agrario e, successivamente, la Cattedra Ambulante – ad incoraggiarne la coltura, tramite la divulgazione di opuscoli a stampa contenenti suggerimenti funzionali ad una produzione ottimale. A partire dal 1894, lo stesso Bizzozero diede l’avvio ad una vasta campagna antiparassitaria, finalizzata a combattere una delle più temute malattie: la peronospora60. 57 In forza di questo contratto, il proprietario “affida al cottimino la terra già preparata e disposta ‘a cavalli’ pronta a ricevere le piantine. Il lavoratore deve sostenere tutte le spese per la coltivazione e la raccolta del prodotto, che viene poi diviso a metà fra questi e il proprietario”. Cfr. I. PERGREFFI, L’industria del pomodoro a Parma tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, Reggio Emilia, Tecnograf, 1994, p. 47. 58 “Da circa vent’anni questa pianta ortense, nella rotazione quadriennale di un mio podere, situato a Panocchia (Comune di Vigatto) tiene il posto del granturco, che nelle terre a strato attivo poco profondo e a sottosuolo ghiaioso di quel Comune, raramente paga le spese della sua coltivazione. A render nota siffatta innovazione, nel settembre 1876 presentai al Concorso regionale di Reggio Emilia un saggio dei frutti di pomodoro da me raccolti, insieme coi documenti comprovanti l’utilità, nelle terre adatta a questa pianta, di avvicendarla al frumento, facendola così entrare in una delle rotazioni campestri di questa provincia”. Cfr. C. ROGNONI, La coltivazione del pomodoro nel podere sperimentale dei Regio Istituto Tecnico di Parma al Concorso Regionale dell’XI Circoscrizione agraria, Parma, Ferrari e Figli, 1887, p. 1. 59 Nel 1876 il podere sperimentale del Rognoni produceva da 200 a 300 quintali di pomodori per ettaro, con un ricavo oscillante tra le 1000 e le 1500 lire, “senza tener conto delle patate e dell’aglio ricavabili dagli interfilari”. Cfr. I. PERGREFFI, L’industria del pomodoro, cit., p. 43. Con questa coltivazione, il Rognoni vinse la medaglia d’argento al Concorso Regionale nella categoria “Coltivazioni speciali”. Ibidem. 60 Al riguardo, si consigliava di irrorare le piante con una miscela composta da due chilogrammi di calce ed altrettanti di solfato di rame, disciolti in cento litri di acqua. Cfr. C. COLOMBI, Malattie delle piante agrarie riscontrate nella provincia di Parma nel 1894, in “L’Avvenire agricolo”, 11, 1894, p. 253. Ricordiamo che la campagna antiparassitaria condotta dalla Cattedra si protrarrà fino ai primi anni del secolo successivo. 13 Pur in assenza di dati quantitativi sulle produzioni, il rilevante incremento del numero dei fabbricanti di conserva tra il 1893 e il 1905 rispecchia chiaramente lo slancio produttivo del periodo (cfr. tab. 3). Tab. 3 – Evoluzione del numero di fabbricanti di conserva di pomodoro a Parma (1893-1905) Comuni Vigatto Felino San Pancrazio Langhirano Collecchio Noceto Sala Baganza Golese Parma Totale provincia 1893 --2 1 ----1 4 1894 1 -2 1 ----1 5 1895 1 -2 1 1 ---2 7 1896 1 2 2 2 2 ---2 11 1897 1 3 3 2 2 ---2 13 1898 1 4 3 2 2 ---2 14 1899 1 4 3 2 3 --1 2 16 1900 1 3 2 3 3 --1 2 15 1901 1 4 1 3 3 ---2 14 1902 1 3 1 3 2 -1 1 2 14 1903 1 3 2 3 2 1 1 1 2 16 1904 1 6 2 3 2 1 1 --16 1905 1 6 2 2 3 1 1 --16 (Fonte: I. PERGREFFI, L’industria del pomodoro a Parma tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, Reggio Emilia, Tecnograf, 1994, p. 64) La notevole impennata dei volumi produttivi – più accentuata a Parma che altrove – subirà un inevitabile calo negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale61. Già sul finire del 1911, del resto, Bizzozero aveva intravisto i rischi connessi all’eccessiva espansione, paventando un pesante eccesso di offerta sul mercato. Francamente mi pare si vada all’esagerazione perché non si vede che il pomodoro […]. Molti si improvvisano commercianti e industriali credendo sia la cosa più facile di questo mondo, e tutti allargano la coltivazione di questa pianta della cuccagna […]. La richiesta sempre maggiore di frutto ne fa aumentare il prezzo, il quale è ormai giunto a limiti che l’industria non può sopportare e si corre il rischio di uccidere la gallina dalle uova d’oro62. Ancora una volta il “Professore” aveva visto giusto e, a distanza di un paio d’anni, la dissennata corsa all’”oro rosso” culminerà in una rovinosa saturazione del mercato. Ma il sentiero era già tracciato. Dopo le prime, ingenue sperimentazioni agronomiche dell’età ducale, l’economia parmense potrà incamminarsi, con rinnovata fiducia, verso l’orizzonte che, diversi decenni dopo, culminerà nei celebrati scenari della Food Valley, uno dei più dinamici e competitivi poli agroalimentari a livello mondiale. 61 62 Cfr. I. PERGREFFI, L’industria del pomodoro, cit., p. 80. Cfr. A. BIZZOZERO, L’industria della conserva di pomodoro, in “L’avvenire agricolo”, 12, 1911, p. 461. 14