La nuova Hollywood «I tredici anni intercorsi tra ‘Gangster Story’ del 1967 e ‘I cancelli del cielo’ del 1980 furono l’ultimo periodo in cui fu un’esperienza veramente entusiasmante fare film a Hollywood; fu l’ultima volta che si poté andare orgogliosi dei film prodotti; l’ultima volta che l’intera comunità della gente del cinema contribuì alla qualità; l’ultima volta che ci fu un pubblico in grado di sostenerla». Peter Biskind, Easy Riders, Raging Bulls: How the Sex– Drugs–and–Rock’n’ Roll Generation Saved Hollywood. Rinascimento hollywoodiano. Alla fine degli anni ’60 e per tutto il decennio successivo, ad Hollywood si realizzano un numero considerevole di film innovativi, molto distanti dalle convenzioni stilistiche e di contenuto cui gli Studios avevano abituato il proprio pubblico. Sono film ispirati (spesso in maniera esplicita) al cinema d’autore europeo e, più nello specifico, alla Nouvelle Vague francese. I registi che firmano questa rinascita sono debitori dell’arte di Claude Chabrol, di François Truffaut, di Jean Luc Godard, di Robert Bresson. Il cinema hollywoodiano -commerciale e di massa fin dagli esordi – attraverso il lavoro di alcuni giovani e talentuosi cineasti prova ad affrancarsi dai lacci di un’industria sempre più ingombrante, dominata dagli incassi al box office e da una rappresentazione “rassicurante”del mondo e dei personaggi che lo abitano. Esso aspira ad un cinema verità, al racconto sincero e disincantato di un’epoca turbolenta e di una generazione inquieta. Il film viene costruito come un diario che documenta la realtà nel suo farsi. “Si tratta solo di prestiti superficiali, simboli della modernità e della moda del tempo per compiacere gli stessi cineasti e il gruppo relativamente ristretto di spettatori in grado di cogliere le citazioni? O c’è una posta più importante in gioco? Forse un po’ entrambe le cose. Deviazioni dagli stilemi dominanti o ‘classici’ hollywoodiani contengono un impegnativo potenziale di rottura.” Geoff King, La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Settanta all’era dei blockbuster, 2002. La Hollywood Renaissance è un fenomeno complesso che solo in parte può essere giustificato dalla serie di sconvolgimenti sociali avvenuti negli Stati Uniti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. È il risultato di una fortunata sovrapposizione di più fattori : storici industriali formali Nel 1946 il pubblico cinematografico in America era di quasi 90 milioni. Già nel 1950 era sceso a 60 milioni e dieci anni dopo a 40 milioni, fino a toccare il suo minimo storico, 17 milioni di spettatori nei primi anni Settanta. All’indomani della Seconda Guerra mondiale, il cinema non era più la forma culturale dominante della società statunitense. Le ragioni di un simile crollo furono naturalmente molteplici. Il contesto socio – culturale. Gli Stati Uniti escono dal secondo conflitto mondiale in condizioni di prosperità economica, nonostante persistano in alcuni strati della società condizioni di estrema povertà e disuguaglianza. Negli anni Cinquanta, comunque, molti americani vivono in condizioni migliori rispetto al passato, grazie a salari più alti e ad una diminuzione delle ore di lavoro settimanali. Si assiste ad un massiccio spostamento della popolazione verso i sobborghi e le neonate zone residenziali ai margini della città. Proprio in quegli anni, inoltre, si registra un aumento importante delle nascite tanto da parlare di un vero e proprio baby boom. Questo cambiamento nel tessuto sociale incide in maniera significativa sul calo degli spettatori. Innanzitutto, perché le periferie sono in quegli anni in buona parte sprovviste di sale cinematografiche, mentre i cinema più prestigiosi rimangono nel centro città,oramai difficile da raggiungere per le famiglie numerose che si sono trasferite in periferia. In secondo luogo, si diffondono altre forme di tempo libero più ‘comode’, come ad esempio il giardinaggio, il bricolage, le partite di baseball alla domenica, il barbecue in giardino con i vicini del quartiere o l’appena nata televisione. Tra il 1947 e il 1957 in America la diminuzione del pubblico cinematografico è pari al 74%, mentre dal 1951 al 1955 il numero dei televisori cresce esponenzialmente, passando da 3,1 a 32,8 milioni in tutta la nazione. La tv diventa molto presto il mezzo di comunicazione per famiglie borghesi. È l’intrattenimento quotidiano scelto dalla middle class, la compagna ideale delle casalinghe, l’occasione per riunirsi con i figli dopo una giornata di lavoro in città. La fine dello Studio System Le ragioni che conducono all’affermazione del nuovo modello artistico e produttivo denominato Hollywood Renaissance vanno poi ricercate all’interno della stessa fabbrica dei sogni, nei mutamenti che colpiscono soprattutto gli Studios e che ne decretano dopo trent’anni la fine. Nel 1938 il Ministero della Giustizia intenta una lunga causa contro le Big Five (Warner, MGM, Paramount, Twentieth Century Fox, RKO) e le Little Three (Columbia, Universal, United Artists) per violazione delle leggi anti trust. Dieci anni più tardi, dopo diverse sentenze, appelli e rinvii anche a causa della guerra, la Corte Suprema delibera che le otto majors costituiscono un oligopolio illegale. Nel 1948, con la celebre sentenza che prende il nome dall’ultima major rimasta attiva nel processo, la Paramount, ha fine lo Studio System. Nei fatti, la sentenza del 1948 stabilisce soprattutto: •L’obbligo da parte degli Studios di vendere le sale cinematografiche di proprietà, un onere questo che stravolge la fisionomia dell’intero sistema produttivo. È sufficiente , infatti, considerare che durante gli anni Trenta e Quaranta il 94% degli investimenti delle majors era vincolato nella proprietà delle sale di prima visione nelle quali si realizzavano quasi il 70% degli incassi al botteghino (Douglas Gomery, The Hollywood Studio System, 1986). •L’ illegalità della pratica della prenotazione in blocco (il block booking) che assicurava la proiezione anche dei film meno riusciti. Il sistema verticistico che aveva regnato dalla fine degli anni Dieci viene smantellato radicalmente, aprendo il mercato a società indipendenti e liberando gli attori e i registi da contratti decennali . “Gli studios rimasero potenti centri di produzione (…) Ma i film non erano più soltanto prodotti da poche gigantesche macchine sotto il controllo di un numero ristretto di dirigenti. L’intero sistema era più aperto. Naturalmente, si doveva trovare un accordo sui finanziamenti (…) Ma in questo modo fare film poteva essere molto meno costoso (…) non doveva sobbarcarsi le spese generali di un grande stabilimento permanente. Ci volle un po’ di tempo prima che ci si rendesse conto della libertà potenziale di questo nuovo sistema. Fino alla metà degli anni Sessanta gli studios rimasero saldamente in pugno a una generazione di anziani (…) figure che sembravano sempre più incapaci di comunicare con i molti rappresentanti della generazione del baby boom che in quel decennio raggiungevano la maggiore età.” G. King, 2002 Paura rossa. Hollywood subisce in quegli stessi anni l’attacco sconsiderato della House UnAmerican Activities Commettee (HUAC) e del senatore repubblicano Joseph McCarthy intenzionato a costruire la propria carriera politica manipolando e cavalcando le ansie di un’opinione pubblica spaventata dalla possibilità di un’invasione comunista. La politica di contenimento dell’influenza sovietica si trasforma in breve tempo in un clima di sospetto e isteria collettiva contro gruppi e persone ritenute sovversive, pur in assenza di prove valide. Nella blacklist di McCarthy finiscono impiegati del governo federale, ma anche giornalisti, scrittori, attori e registi progressisti accusati di filocomunismo e di attività antiamericane. Hollywood costruita da immigrati europei, alcuni dei quali simpatizzanti delle sinistre, è proprio il luogo ideale per questa “caccia alle streghe”. Nomi celebri come Charlie Chaplin, Gary Cooper, Marilyn Monroe e John Huston vengono sospettati di essere comunisti e per questo costretti all’esilio o a lavorare non accreditati. Alcuni cineasti per timore della scomunica collaborano con la HUAC, denunciando altri colleghi, come accade a Walt Disney e ad Elia Kazan. “A fronte di questo clima politico, tuttavia, emergono istanze di opposizione e di lotta per i diritti civili, con una spinta destinata a crescere fino alla rivoluzione del 1968. Se ne trova eco nella produzione cinematografica che, in generale, accoglie nuove tematiche o rivede le tradizionali impalcature dei generi, dimostrando complessivamente una maggiore attenzione ai problemi sociali o a drammi dai risvolti realistici, mettendo sostanzialmente in crisi il sogno hollywoodiano.” G. Carluccio, Il cinema americano classico, 1930-1960 in P. Bertetto (a cura di), Introduzione alla storia del cinema,2008 Hollywood è morta, evviva Hollywood! Tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1960, il sistema di produzione cambia radicalmente sotto i colpi dell’HUAC e delle leggi antitrust, ma anche in risposta al successo del mezzo televisivo. In un assetto industriale meno centralizzato, per fermare l’emorragia di spettatori Hollywood comincia a guardare al pubblico dei “giovani” (sempre più crescente) e, insieme, ad un mercato di “adulti” con contenuti espliciti e scabrosi, lasciando alla tv il vasto pubblico delle famiglie. Il codice di autoregolamentazione comincia a scricchiolare a causa del successo di due film controversi, che mettono in scena piaceri proibiti e contenuti provocatori, come la seduzione esplicita, l’adulterio, la droga, la prostituzione e, persino, le relazioni sessuali interraziali. La vergine sotto il tetto (1953) e l’Uomo dal braccio d’oro (1956), entrambi diretti da Otto Preminger, conquistano il pubblico anche per merito delle polemiche che suscitano. È l’inizio della fine. Nel 1968, infatti, il Codice viene messo completamente da parte a favore di un sistema di valutazione che istituzionalizzò la realizzazione di film rivolti a gruppi particolari di spettatori, per fasce di età. “Si ampliarono i confini espressivi con il rischio, tuttavia, di restringere la fascia di pubblico.”. Elia Kazan (1909 – 2003) Nicholas Ray (1911 – 1979) Entrambi questi autori contribuiscono significativamente al “tentativo di rinnovamento ideologico e narrativo del cinema hollywoodiano dal suo interno, riflettendo la crisi di una società, ma anche la fine di quell’orizzonte produttivo cinematografico americano che poteva essere definito come ‘fabbrica dei sogni’.” La revisione stilistica e tematica avviene attingendo alla letteratura moderna (autori come Tennessee Williams, Budd Schulberg, Francis Scott Fitzgerald) e, soprattutto, al teatro, con l’intento di trasferire sullo schermo l’intensità della messa in scena e la drammaturgia dell’attore. Nella filmografia di Nicholas Ray ed Elia Kazan dominano eroi negativi, incompresi e malinconici, uomini sconfitti in una lotta impari contro le ingiustizie e la violenza del sistema. Fronte del porto Il film del 1954, vincitore di 7 premi Oscar, è tratto da un romanzo di Budd Schulberg che cura anche la sceneggiatura ed è la storia di redenzione e riscatto sociale di un operaio portuale, ex pugile, Terry Malloy alle prese con la corruzione morale all’interno del sindacato portuale di New York. Fronte del porto riflette, attraverso la crisi di coscienza e la spavalderia del protagonista, il disagio morale , il rimorso e il desiderio di auto giustificazione del regista, Elia Kazan, che nel 1952 aveva accusato di militanza comunista davanti ai membri dell’HUAC undici colleghi, tra cui l’attrice Kim Hunter, protagonista della sua pellicola Un tram che si chiama desiderio (1951). Gioventù bruciata Liberamente ispirato all’omonimo libro dello psichiatra Robert Lidner, il film del 1955 diretto da Nicholas Ray racconta la ribellione interiore dei giovani contro il mondo immobile degli adulti, contro l’autorità nelle sue diverse forme (la legge, la famiglia, la scuola), esprime l’incomunicabilità tra padri e figli e la fragilità adolescenziale nascosta dietro la parvenza dei bulli “senza causa”. Il film contribuisce a diffondere nel mondo il mito di James Dean, che muore a soli 24 anni il 30 settembre di quello stesso anno, diventando così un’icona culturale e la trasfigurazione perfetta della contestazione giovanile. L’ Actor’s Studio I film di questi anni introducono uno stile recitativo unico, che rende eterni i loro protagonisti. Si sperimentano, infatti, le tecniche della recitazione naturalistica e psicologistica debitrice del Metodo Stanislavskij, messo a punto dal regista russo Konstantin Stanislavskij nei primi anni del ‘900. Il Metodo si basa sull'approfondimento psicologico del personaggio e sulla ricerca di relazione tra il mondo interiore del personaggio e quello dell‘interprete. In altri termini, si fonda sulla esternazione delle emozioni più intime e private attraverso la loro interpretazione e rielaborazione. L’Actor’s Studio nasce a New York nel 1948 per volere dei registi Elia Kazan, Cheryl Crowford e Lee Strasberg, come evoluzione delle sperimentazioni del Group Theater nato nel 1931, fondato proprio da Cheryl Crawford, Lee Strasberg insieme a Harold Clurman. Lee Strasberg (1901 – 1982) Il metodo di recitazione dell’Actor’s Studio richiede all’attore una totale disponibilità psicologica, un lavoro profondo sul proprio inconscio e sui conflitti interiori. Esso si allontana, quindi, dalle teorie brechtiane della «distanziazione» e soprattutto dal classicismo hollywoodiano del periodo precedente. «Le interpretazioni degli attori dello Studio vanno molto al di là della trasparenza classica, con forti connotazioni nevrotiche e accentuazioni drammatiche che modificano profondamente la drammaturgia dell’attore dal dopoguerra in poi. I più significativi interpreti del metodo sono attori come Marlon Brando e James Dean (…) insieme a Paul Newman, Marilyn Monroe, fino a Ben Gazzara e Robert De Niro, fondando in buona misura caratteristiche e fisionomia del divismo americano moderno.» G. Carluccio, Il cinema americano classico, 1930-1960 Dalla controcultura allo scandalo Watergate: dove nasce il nuovo. La Hollywood Renaissance è stata, in qualche modo, il prodotto di un particolare contesto sociale e storico, segnato soprattutto dal radicalismo e dalla controcultura giovanile. «Stabilire dei collegamenti tra i film di Hollywood e i tempi in cui escono non è un’operazione così semplice (…) A volte, tuttavia, non è possibile sbagliarsi; i tempi si impongono con forza alla nostra coscienza, invadendo in modo inconfondibile il terreno dell’intrattenimento popolare come il cinema hollywoodiano. La fine degli anni ’60 e i primi anni ‘70 hanno proprio queste caratteristiche.» In quegli anni, il numero degli avvenimenti e delle fratture in seno alla società, come il movimento hippy e quello per i diritti civili, la guerra in Vietnam e le rivolte razziali, l’assassinio di John e Robert Kennedy fino allo scandalo che coinvolse Nixon, finirono per intaccare seriamente l’immagine degli Stati Uniti come il luogo di libertà e democrazia e misero in discussione i valori e i principi di fondo degli americani. Tutto questo si rispecchia inevitabilmente nei contenuti e nelle forme del nuovo cinema. È New York, bellezza! Ad un contesto produttivo profondamente cambiato, più elastico che nel passato, in cui si diffonde la nozione di «autore cinematografico» e in cui cineasti come Woody Allen, Martin Scorsese e Michael Cimino godono di una libertà impensabile ai tempi di John Ford, si aggiunge per la prima volta negli anni Sessanta un vero e proprio centro di produzione alternativo a quello californiano: New York. «A partire dall’esperienza del New American Cinema, New York, sofisticata capitale culturale degli Stati Uniti, agli antipodi – sul piano del costume e dei valori, oltre che su quello geografico – di Los Angeles, si impone come l’anti Hollywood, culla naturale di tutte le tendenze di cinema indipendente, da Jonas Mekas a Jim Jarmush.» (Giaime Alonge) New American Cinema Group. « Non vogliamo film mistificatori, ben fatti, persuasivi, ma grezzi e mal fatti, purché vitali. Siamo contro il cinema roseo, siamo per il cinema rosso sangue... Oggi la nostra ribellione contro il vecchio, l’ufficiale, il corrotto è innanzitutto di carattere etico... Siamo interessati all’uomo. Siamo interessati a quel che succede nell’uomo.» Jonas Mekas Dall’esperienza dei primi filmmaker sperimentali, troppo imbevuti dell’ottimismo roosveltiano del New Deal, e dal fermento provocatorio e disturbante della Beat generation nasceva un gruppo di cineasti indipendenti che andarono a formare l’NACG, ovvero il New American Cinema Group. Era un gruppo di artisti assai eterogeneo: autori di cinema narrativo come John Cassavetes e Shirley Clarke, artisti di cinema diretto come Donn A. Pennebaker e, infine, la galassia del cinema underground in cui confluiscono, tra le altre, le opere di Kenneth Anger, Jonas Mekas, Jack Smith e Andy Warhol. A questa complessità, tuttavia, fa da controparte una medesima peculiarità: la totale estraneità al sistema produttivo mainstream, rappresentato prima dallo Studio System e in seguito dalle tante “piccole Hollywood” nate dal suo disfacimento. L’obiettivo comune è legato al rifiuto di ogni controllo intellettuale, del professionismo e dalla pretenziosità dei costi elevati come filtro alla realizzabilità di un’opera; non solo, ma esso si lega anche alla piena accettazione dei principi beat come l’improvvisazione, l’a-logicità e l’incoerenza. È un cinema - inteso come linguaggio - che in qualche misura ritorna ad essere cinematografo, tecnica, strumento che diviene nuovamente codice. Tra tutte, la cinematografia di Cassavetes sembra esprimere al meglio questa inclinazione alla dissonanza. John Cassavetes «Il film di John Cassavetes, Ombre, è la prova che si possono fare film con 15.000 dollari (…) un film da 15.000 dollari è finanziariamente imbattibile. La televisione non può ucciderlo. L’apatia del pubblico non può ucciderlo. I distributori non possono ucciderlo. Esso è libero. Quindi, è ora di aggiornare il nostro cinema. I film di Hollywood (e intendo le Hollywood di tutto il mondo) ci arrivano bell’e morti. Sono fatti con soldi, macchine da presa e giuntatrici, invece che di entusiasmo, passione e immaginazione (…) E non c’è altro modo di rompere il terreno gelato del cinema, se non con un totale sconvolgimento dei sensi del cinema ufficiale.» Jonas Mekas, A Call for a New Generation of Film Makers” in Film Culture, n. 19, aprile 1959 John Cassavetes debutta nel 1959 con il film Ombre girato in 16 mm, con un budget ridotto, attori di colore non professionisti ed un canovaccio al posto di una sceneggiatura vera e propria. Un’opera questa che per le sue caratteristiche stilistiche viene paragonata alla Nouvelle Vague; il film, infatti, viene realizzato per le strade di New York, con uno stile che ricorda quello del cinema diretto francese o neorealista. Il cinema di Cassavetes è, tuttavia, meno sperimentale di quello di Warhol o di Anger, per quanto anti – hollywoodiano va, dunque, considerato all’interno del cinema narrativo. Da Mariti (1970) a Gloria (1980), Cassavetes lavora prevalentemente nella Grande Mela con un gruppo di attori e collaboratori di fiducia tra cui Ben Gazzara, Peter Falk e la moglie Gena Rowlands. I suoi film sono il risultato di un connubio, non sempre facile, tra l’idea, specificamente europea, del regista come auteur e il tradizionale apparato industriale di Hollywood.