Spedizione in abbonamento postale Roma, conto corrente postale n. 649004 Copia € 1,00 Copia arretrata € 2,00 L’OSSERVATORE ROMANO POLITICO RELIGIOSO GIORNALE QUOTIDIANO Non praevalebunt Unicuique suum Anno CLII n. 66 (46.012) Città del Vaticano domenica 18 marzo 2012 . Due esplosioni colpiscono sedi istituzionali A cinquant’anni dalla morte di Giuseppe De Luca Terrore a Damasco L’intelligenza e la salvezza dell’anima Kofi Annan cerca una soluzione politica della crisi DAMASCO, 17. Non si placano le violenze in Siria. Due esplosioni hanno colpito questa mattina Damasco, la capitale del Paese arabo, provocando ventisette vittime e circa cento feriti. Stando alle prime ricostruzioni ufficiali, due autobombe hanno colpito il quartiere di Al Qasaa, lungo Boulevard Baghdad, e la zona di Duwar Al Jamalek. Nessuna rivendicazione, al momento. Secondo le autorità e i media ufficiali siriani, le due esplosioni volevano colpire le sedi dei servizi di sicurezza dell’Aeronautica e della Sicurezza criminale, dipendente dal Ministero degli Interni e che si occupa tradizionalmente dei criminali comuni. L’agenzia ufficiale Sana riferisce che le due autobombe, parcheggiate nei pressi dei due edifici, sono esplose intorno alle 7:30 ora locale. La televisione di Stato parla di «attentati terroristici». La Cnn parla anche di una terza esplosione avvenuta su un autobus, notizia che però non è stata confermata dal Governo. Sul piano diplomatico, Kofi Annan, inviato dell’Onu e della Lega araba per la Siria, ha parlato ieri ai quindici membri del Consiglio di Sicurezza, chiedendo loro di «raggiungere una posizione unica». Annan ha annunciato che presto invierà in Siria alcuni consiglieri per colloqui con le autorità al fine di valutare la possibilità di far arrivare successivamente osservatori internazionali. Damasco ha già detto di considerare positivamente l’ipotesi. La crisi siriana — ha spiegato Annan — deve essere «gestita con molta cautela: ogni errore di calcolo che conduce a un’escalation avrebbe un impatto sulla regione, sarebbe estremamente difficile da controllare». La Francia ha ribadito che «al momento non c’è un’opzione militare: è escluso — ha spiegato il ministro degli Esteri, Alain Juppé — che ci si lanci in una tale operazione senza un mandato delle Nazioni Unite». L’Unione europea ha reso nota l’intenzione di mantenere la sua delegazione diplomatica a Damasco, nonostante alcuni Stati Ue abbiano deciso di chiudere le ambasciate: Lo ha ribadito il portavoce dell’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Catherine Ashton. In una lettera al Consiglio di Sicurezza, il Governo siriano ha ribadito che le operazioni delle forze di sicurezza e dell’esercito sono dirette a «proteggere i cittadini e disarmare i terroristi». A questi ultimi, infatti, Damasco attribuisce la responsabilità delle violenze. Intanto, sul terreno le violenze nelle città proseguono. Secondo quanto riportano gli attivisti, ieri si sarebbero verificati numerosi scontri in diverse località. Almeno quattordici persone — hanno riportato alcune fonti dei Comitati di coordinamento locali — sono state uccise a Raqqa, a est di Aleppo, finora mai stata toccata dai combattimenti. Una proposta concreta è stata formulata dalla Turchia. Secondo quanto dichiarato dal primo ministro Recep Tayyip Erdogan, Ankara sta valutando la creazione di una «zona cuscinetto» al confine con la Siria. Ha infatti raggiunto quota 16.000, con un salto di circa 900 persone rispetto a soli due giorni fa, il numero di profughi siriani accolti al momento Giorgio Napolitano chiude le celebrazioni per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia Un risveglio di coscienze Il presidente ringrazia la Santa Sede, «L’Osservatore Romano» e la Cei Giorgio Napolitano durante la cerimonia al Quirinale ROMA, 17. I bambini cantano in coro l’inno di Mameli mentre su un grande schermo scorrono le immagini di un anno di celebrazioni. È cominciata così oggi al Quirinale, alla presenza del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, la cerimonia che ha concluso il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia. Presentando il bilancio e il significato della ricorrenza e offrendo al presidente della Repubblica l’occasione per un giro d’orizzonte sulla congiuntura politica italiana. Nel trarre a inizio ottobre le prime conclusioni dell’esperienza del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, ha detto Napolitano, «scrissi che si era prodotto un risveglio di coscienza unitaria e na- zionale». E, ha aggiunto, «quei frutti li stiamo raccogliendo anche e in particolare nella fase speciale e cruciale che la vita pubblica italiana ha imboccato tre mesi fa». Fase dalla quale è emerso un atteggiamento di «nuova consapevolezza e responsabilità condivisa». Pensando al clima in cui si è svolta a novembre la difficile crisi politica, ha affermato il presidente, tutto sarebbe stato più arduo se in precedenza «non si fosse ritrovato e potenziato quel senso di interesse generale da far prevalere sull’interesse particolare, il senso e valore della coesione nazionale e sociale come leva per superare — oggi al pari di ieri — sfide e prove ineludibili». Il sostegno delle forze politiche al Governo y(7HA3J1*QSSKKM( +$!z!%!#!{ Per la festa di san Giuseppe In questa raffigurazione popolare san Giuseppe porta tra le sue braccia il piccolo Gesù. A sua volta il bambino lo accarezza e lo sostiene, con la croce in mano e sotto lo sguardo amoroso e protettivo della Vergine. È un’immagine ingenua e nello stesso tempo molto espressiva con la quale «L’O sservatore Romano» rivolge al Papa, che con il nome del patrono della Chiesa universale è stato battezzato, gli auguri più cordiali per la sua festa onomastica. Auguri che il giornale esprime da parte dei suoi lettori, unendosi a quelli di tantissime donne e di tantissimi uomini che in tutto il mondo guardano al Pontefice con attenzione, affetto e ammirazione. Anche Benedetto XVI, come il suo santo protettore, mostra Gesù — sul quale proprio in questi giorni sta completando un’opera che resterà — ed è da lui sorretto, sotto lo sguardo di Maria, figlia di Israele e immagine della Chiesa. (g.m.v.) 4 l 19 marzo 1962 moriva, nell’ospedale dei Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina, don Giuseppe De Luca, prete romano. Giunto quasi alla soglia dei sessantaquattro anni, stava vivendo momenti entusiasmanti e terribili. Il felice rapporto stabilito con Giovanni XXIII sembrava insperatamente riscattare il periodo difficile del pontificato di Pio XII, in cui si era sentito ignorato e incompreso da chi doveva aiutarlo; ma proprio quella relazione nuova e diretta col Papa metteva in crisi i suoi storici legami con gli antichi maestri e colleghi del seminario romano, Domenico Tardini e Alfredo Ottaviani, mentre si profilavano le prime tensioni intorno al Vaticano II che stava per incominciare. Ma chi è stato veramente De Luca? E cosa significa ricordarlo oggi, a mezzo secolo dalla scomparsa, in un mondo e in una Chiesa vertiginosamente mutati? Di De Luca girano molte, forse troppe immagini. L’amico dei letterati e degli artisti, il generoso sostegno di storici e filologi, il suscitatore di un’ideale accademia di dotti con un’editrice così paradossalmente antieconomica, le Edizioni di Storia e Letteratura, da essere sempre sull’orlo del naufragio e del fallimento; oppure il confidente, l’ispiratore e il ghost writer di politici di vari schieramenti, da Giuseppe Bottai a Luigi Sturzo, da Alcide De Gasperi a Palmiro Togliatti, da Franco Rodano ad Adriano Ossicini. Oppure ancora lo scopritore di una «scienza nuova», la storia della pietà, di quello stato in cui l’uomo sente presente Dio per consuetudine d’amore e lo esprime nelle forme più diverse, dalle poesie raffinate di un Petrarca alle canzoncine spirituali, alle umili devozioni del popolo cristiano. Quasi contemporaneamente alla scuola francese delle «Annales», De Luca proponeva e operava una rivoluzione storiografica ancora più audace: non la mentalità o la lunga durata al posto della storia-battaglia e della grande politica, ma la pietà come vera essenza dell’uomo, al centro di un’antropologia rinnovata. Per questa «storia della pietà» valeva la pena creare un «Archivio», una rivista — davvero il sogno della sua vita — che ne raccogliesse le infinite tracce nelle direzioni più imprevedibili, anche nelle espressioni dell’empietà che, a modo suo, gli appariva una forma di pietà a rovescio, comunque un grido, un’implorazione, un’invocazione. De Luca, certo, è stato tutto questo e altro ancora, in una personalità incredibilmente complessa e non priva di contraddizioni. Eppure De Luca è innanzitutto altro: un prete che ha fatto del suo rapporto con Gesù Cristo nella Chiesa il senso della sua esistenza; e in nome di questo rapporto ha trasformato la vita sua e di molti altri (da Giuseppe Sandri a Romana Guar- I nieri, a Giovanni Antonazzi) che lo hanno incontrato. Vivendo in mezzo alla gente (i vecchietti delle Piccole Suore della Carità a San Pietro in Vincoli o i letterati del «Frontespizio» e della Morcelliana), immerso in una vasta e ramificata famiglia meridionale, ai margini di una Curia romana che conosceva come pochi. Ma al tempo stesso da perpetuo outsider, da isolato, da cane sciolto che si paragonava a Benedetto Giuseppe Labre, sicuro di morire sui gradini di una chiesa, però tutto teso a professare una sola certezza che, nelle apparenti variazioni di superficie, lo ha sempre animato con indefettibile coerenza. «Tu hai visto — scriveva all’amico Giovanni Battista Montini il 9 gennaio 1952 — che il mio tentativo era di riscattare il clero italiano da una cultura di echeggiamento e traduzione, e ricondurlo a una dottrina d’iniziativa e di coordinazione. Essere fedeli sino all’estremo della vita, ed essere larghi sino al limite della verità che ha i limiti molto in là (se pure li ha, sinonimo di Dio). Dimostrare, nell’umile fatto, che si può essere con l’erudizione più spinta, con la poesia più nuova, ed essere con Cristo e con la Chiesa: ecco il sogno nel quale ogni giorno cerco di tramutare la mia vita». E sei mesi prima, il 13 giugno 1951, sempre a Montini confidava quale era la sua «mèta vera, la più lontana in apparenza, la più vicina in affetto: l’amore di Cristo, ma insieme con tutta la scienza e con tutta l’arte. Pazzo desiderio, ma necessario, se Lo amiamo davvero. Tutto è suo, ma perché sta nelle mani de’ suoi nemici? Dobbiamo riscattarlo». Ecco il segreto della sua missione in partibus infidelium, ai confini del Regno: una fede veramente cattolica, larga quanto i confini della verità, amica dell’intelligenza, e per questo capace di parlare con i più lontani. «Ci siamo dimenticati — ricordava De Luca al Comitato Cattolici Docenti Universitari a San Giovanni a Porta Latina il 9 dicembre 1956 — che l’anima non la salviamo, senza impegnare a fondo l’intelligenza. Tutta l’intelligenza. È l’intelligenza una cosa che o c’è o non c’è, ma insomma lei sola dà legna all’amore». Per una Chiesa fedele, consapevole e orgogliosa della sua storia, che è sempre, alla fine dei conti, una mirabile sequela del Maestro. Insomma, ci sono tanti motivi per non dimenticare, a cinquant’anni dalla morte, don Giuseppe De Luca, e per tornare a leggerlo e studiarlo. Perché «l’anima non la salviamo, senza impegnare a fondo l’intelligenza». Scrittore e letterato ma soprattutto sacerdote Prete romano VINCENZO PAGLIA A PAGINA 5 NOSTRE INFORMAZIONI Il cardinale Bertone alla messa per i cinquant’anni dell’Oftal Non c’è dolore inutile Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, ha celebrato sabato mattina, 17 marzo, la messa nella basilica Vaticana per l’O pera federativa trasporto ammalati a Lourdes (Oftal) che ha festeggiato l’ottantesimo compleanno. Donaci il silenzio A PAGINA Monti, ha continuato Napolitano, «non mortifica la politica, ma contribuisce a rivalutarla, a riaccreditarla nella sua missione più autentica di espressione dell’interesse generale e di rafforzamento della compagine nazionale». Secondo il capo dello Stato, gli italiani hanno dimostrato una maturità sorprendente e sono stati stimolati dal recupero dei valori nazionali e morali. «Né possiamo dimenticare — ha sottolineato il capo dello Stato — la presenza della Santa Sede anche attraverso la partecipazione alla cerimonia commemorativa del 20 settembre 1870 a Porta Pia, la voce del Pontefice per la celebrazione del 17 marzo e l’attenzione dell’Osservatore Romano, le iniziative della Cei: tutti contributi spontanei, impegnativi e di indubbio significato». Tra i presenti, il nunzio apostolico in Italia, arcivescovo Adriano Bernardini, e l’arcivescovo di Perugia - Città della Pieve, Gualtiero Bassetti, vicepresidente della Conferenza episcopale italiana. Il Santo Padre ha ricevuto nel pomeriggio di venerdì 16 Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale William Joseph Levada, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Il santo visto da Paul Claudel INOS BIFFI di PAOLO VIAN in territorio turco. Lo ha riferito il vice premier turco, Besir Atalay, come riporta l’agenzia Anadolu. «Non vogliamo un guerra civile, nessuna divisione, né alcun intervento militare straniero» ha detto Atalay aggiungendo che «i problemi regionali dovrebbero essere risolti dai Paesi della regione». (secolo XIX, «Sacra Famiglia» pittura su vetro, Centro studi devozioni popolari, Canicattini Bagni, Siracusa) PAGINA 8 Il Santo Padre ha ricevuto questa mattina in udienza: le Loro Eminenze Reverendissime i Signori Cardinali: — Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i Vescovi; — Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova (Italia), Presidente della Conferenza Episcopale Italiana; Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Guy Bagnard, Vescovo di Belley-Ars (Francia). Il Santo Padre ha nominato Nunzio Apostolico in Lesotho Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Mario Roberto Cassari, Arcivescovo titolare di Tronto, Nunzio Apostolico in Sud Africa, Botswana, Namibia e Swaziland. Nomina di Amministratore Apostolico Il Santo Padre ha nominato Amministratore Apostolico «sede vacante et ad nutum Sanctae Sedis» della Diocesi di Faisalabad (Pakistan) l’Eccellentissimo Monsignore Rufin Anthony, Vescovo della Diocesi di Islamabad-Rawalpindi. In occasione della solennità di san Giuseppe il nostro giornale non uscirà. La pubblicazione riprenderà con la data 20-21 marzo. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 2 domenica 18 marzo 2012 In vista del prossimo vertice Ue a Copenaghen Intervento della Santa Sede Merkel apre al rafforzamento del fondo salva-Stati Per arginare la violenza sui bambini BERLINO, 17. Con il Portogallo che rischia il secondo salvataggio e la Grecia che potrebbe aver bisogno del terzo, l’eurozona ha bisogno di rafforzare il suo fondo salva-Stati in fretta. Questo il messaggio lanciato ieri dal cancelliere tedesco, Angela Merkel. «Continueremo a discutere per valutare la possibilità di un uso combinato dell’Efsf e dell’Esm» ha detto Merkel, mettendo fine alla sua intransigenza sull’aumento delle difese europee contro il contagio della crisi dei debiti, le uniche in grado di rassicurare i mercati. Merkel ha quindi spiegato che i ministri delle Finanze hanno già discusso dell’ipotesi e torneranno sulla questione nella riunione informale di fine mese a Copenaghen. Per allora, con la posizione della Germania più aperta al dialogo, potrebbero anche prendere una prima decisione sull’utilizzo combinato dei due fondi, quello temporaneo Efsf che scade a giugno 2013 e quello permanente Esm che entra in vigore a luglio 2012. Insieme, darebbero vita a un firewall di 750 miliardi di euro, ovvero la somma dell’Esm da 500 miliardi e di quello che resta dell’Efsf, cioè 250 miliardi. Ma questa è considerata a Bruxelles l’ipotesi più «ambiziosa»: secondo fonti vicine al dossier, si punterebbe invece a un compromesso al ribasso, per cui all’Esm verrebbero sommati soltanto i 192 miliardi di Pubblichiamo la traduzione italiana dell’intervento svolto l’8 marzo dall’arcivescovo Silvano M. Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni Specializzate a Ginevra, durante la 19ª sessione ordinaria del Consiglio dei diritti dell’uomo. Il cancelliere tedesco (Afp) euro che l’Efsf ha già bloccato per Grecia, Irlanda e Portogallo. Questo aumento consentirebbe di evitare che a luglio sia il solo salva-Stati permanente a farsi carico dei salvataggi decisi finora, riducendo la sua capacità da 500 miliardi a 308. Il compromesso al ribasso, che secondo diverse fonti sarà discusso a Copenaghen a fine mese, vedrebbe quindi una capacità complessiva del firewall di salire a 692 miliardi di Nuovi arrivi al vertice di Deutsche Bank BERLINO, 17. Nuovi ingressi nel management board di Deutsche Bank. I nomi sono tutti legati al prossimo arrivo di Jürgen Fitschen e Anshu Jain al vertice della banca tedesca. Tra i nuovi membri del management board, tutti quarantenni, accanto a Stephan Leithner e a Henry Ritchotte, compare anche Stuart Lewis, nominato chief risk officer del gruppo. Stuart Lewis — dicono fonti di stampa — è anche membro del consiglio di sorveglianza di Deutsche Bank in Italia, guidata da Flavio Valeri. Salgono così a due i consiglieri del management board che siedono nel consiglio di amministrazione dell’istituto in Italia, presieduto da Jürgen Fitschen. Deutsche Bank è attualmente guidata dallo svizzero Josef Ackermann, che ricopre inoltre la carica di presidente dell’Associazione internazionale delle banche. Chevron sospende l’attività in Brasile SAN PAOLO, 17. La Chevron, gigante petrolifero americano, ha chiesto all’Agenzia nazionale del petrolio (Anp) di poter sospendere temporaneamente la sua attività in Brasile «per studiarne meglio la sua situazione geologica». Lo ha reso noto la stessa compagnia in un comunicato diffuso dopo che, nella piattaforma petrolifera di Frade, 370 chilometri a nordest della costa di Rio de Janeiro, è stata individuata una nuova fuoriuscita di greggio dopo quella di quattro mesi fa. L’Anp non ha dato informazioni specifiche sulla consistenza della nuova perdita di petrolio, limitandosi a dire che «non dovrebbe essere grande». La precedente, nella stessa area, era di 3.000 barili. La Chevron, che è stata multata severamente per la perdita di petrolio avvenuta lo scorso novembre, ha invece assicurato al quotidiano «Folha» che «sono già state adottate le misure per arginarla». L’OSSERVATORE ROMANO GIORNALE QUOTIDIANO Unicuique suum POLITICO RELIGIOSO Non praevalebunt euro. I 250 miliardi restanti dell’Efsf sarebbero riassorbiti dagli Stati o potrebbero restare a disposizione fino a nuovo ordine dei ministri. Il fronte del no all’ipotesi ambiziosa da 750 miliardi di euro è guidato comunque dalla Germania, che non vuole dare l’impressione di creare una sorta di parafuoco troppo potente, perché bisognerebbe poi assicurarne la sopravvivenza in modo permanente. Signora Presidente, la Delegazione della Santa Sede desidera ribadire la sua profonda preoccupazione, espressa anche da altre delegazioni, per la piaga dei bambini innocenti, gravemente feriti nel loro benessere fisico, emotivo e spirituale dalle violenze alle quali sono stati sottoposti. Come ha osservato il Segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon nel suo discorso in occasione dell’evento speciale per incoraggiare la ratifica di Protocolli Opzionali della Convenzione sui Diritti del Fanciullo, «l’infanzia è un tempo di innocenza e di apprendimento, un tempo per formare il carattere e trovare una via sicura verso l’età adulta. La triste verità, però, è che troppi bambini nel mondo di oggi subiscono terribili abusi» (Osservazioni del Segretario Generale delle Nazioni Unite, 27 maggio 2010). Mentre la Rappresentante speciale del Segretario generale per la violenza sui minori ha riferito di sviluppi positivi in diverse regioni del mondo, ha anche illustrato molte Non verranno più richieste le autorizzazioni per manifestare Cambia la strategia dell’opposizione russa MOSCA, 17. L’opposizione russa, dopo tre mesi di manifestazioni anti Putin infrantesi contro la valanga di voti raccolti dal futuro presidente nelle elezioni del 4 marzo, ha deciso di cambiare strategia. Come racconta il quotidiano «Nezavisimaja Gazeta», una parte della divisa opposizione ha in programma di continuare a scendere in piazza a Mosca, senza però più concordare i raduni con le autorità cittadine. Il primo appuntamento previsto è per oggi in piazza Pushkin, già teatro di una delle ultime manifestazioni contro i risultati delle presidenziali, finita il 5 marzo con il fermo di 250 persone — tra cui il blogger Alexei Navalny — che avevano tentato di rimanere in piazza oltre l’orario previsto. Obiettivo della protesta odierna è anche il reportage dell’emittente statale Ntv che due sere fa ha dipinto i dimostranti come gente prezzolata al servizio degli Stati Uniti per destabilizzare il Paese, come ha accusato più volte lo stesso Putin. Intanto, è stato scarcerato ieri sera il capo del Fronte di sinistra Serghiei Udaltsov, uno dei leader della protesta anti Putin, condannato l’altro ieri a 10 giorni di reclusione per una marcia non autorizzata: la sua pena è stata commutata in una multa di 1000 rubli (25 euro). Udaltsov aveva iniziato uno sciopero della fame e della sete. L’arresto di una manifestante a San Pietroburgo (LaPresse/Ap) La Moldova elegge dopo tre anni il presidente della Repubblica CHISINAU, 17. Dopo tre anni di stallo istituzionale, il Parlamento della Moldova ha eletto il nuovo presidente della Repubblica. Con 62 voti su 101, l’Assemblea di Chisinau ha infatti nominato ieri Nicolae Timofti, dal 2010 a capo del Consiglio supremo della magistratura. Per il nuovo presidente — rilevano gli analisti — si tratta della prima esperienza in politica, dopo trentasei anni di carriera giudiziaria. Timofti, sostenuto dal partito Alleanza per l’integrazione europea, era l’unico candidato alla carica. Ha superato il quorum necessario per esser eletto (61 voti) grazie all’appoggio di tre parlamentari socialisti. I trentanove deputati del Partito dei comunisti — informano le agenzie di stampa internazionali — hanno invece votato contro. Timofti è il quarto presidente del Paese dalla sua indipendenza dall’Unione sovietica, nel 1991. D opo l’elezione, il nuovo presidente della Moldova (uno dei Paesi più poveri d’Europa) ha affermato di sostenere con forza le aspirazioni del Governo di centro del primo ministro, Vlad Filat, di entrare in Europa, ma allo stesso tempo ha garantito che sarà un capo dello Stato apolitico. GIOVANNI MARIA VIAN don Sergio Pellini S.D.B. Carlo Di Cicco Segreteria di redazione direttore responsabile vicedirettore 00120 Città del Vaticano [email protected] Antonio Chilà http://www.osservatoreromano.va TIPO GRAFIA VATICANA EDITRICE «L’OSSERVATORE ROMANO» Piero Di Domenicantonio redattore capo redattore capo grafico direttore generale telefono 06 698 83461, 06 698 84442 fax 06 698 83675 [email protected] Gaetano Vallini segretario di redazione sfide persistenti che occorre affrontare per assicurare la sicurezza e il benessere dei bambini in ogni settore e circostanza della vita e del benessere sociale. Circa 300.000 bambini sono coinvolti in oltre 30 conflitti nel mondo, venendo utilizzati come combattenti, messaggeri, facchini, cuochi e vittime di rapporti sessuali forzati. La maggior parte di loro viene reclutata in modo brutale. Circa 115 dei 215 milioni di bambini lavoratori nel mondo sono impiegati in lavori pericolosi. Purtroppo, alcuni studi hanno dimostrato che la violenza contro i bambini può verificarsi in diversi ambienti: a casa, a scuola o in altri ambiti educativi, negli istituti o in altre strutture di assistenza residenziale per bambini i cui genitori non possono dare loro cure adeguate e appropriate, nel luogo di lavoro, nelle carceri o in altri tipi di centro di detenzione. A questi rischi tradizionali di abuso si aggiungono le nuove tecnologie che, come dimostra una ricerca basata su dati concreti, spesso bombardano i bambini con immagini e informazioni dannose e spaventose, o li spingono a partecipare ingenuamente a fori manipolati da persone interessate a predare questi bambini per ragioni egoistiche e lesive (cfr. Lost in Cyber World – a project explaining the dangers harbored by the Internet – Information for parents and educators, Progetto In Via, Rete sociale dell’Arcidiocesi di Berlino, settembre 2011). La violenza sessuale nei confronti dei bambini è particolarmente ripugnante ed esige maggiore attenzione da parte non solo dei governi nazionali e degli enti preposti a fare rispettare la legge, ma anche di ciascun componente della società, poiché la responsabilità di proteggere i nostri figli deve essere condivisa da tutti i membri della famiglia umana, aiutandoli a godere della dignità umana donata da Dio e accompagnandoli nella loro maturazione in modo attento e sano. Signora Presidente, questa Delegazione è acutamente consapevole delle azioni assai deplorevoli commesse da alcuni ministri religiosi, i quali hanno tradito i valori stessi che predicano in nome delle loro rispettive tradizioni di fede, commettendo atti aberranti di abuso sessuale nei confronti di minori. La mia Delegazione desidera precisare che la Chiesa cattolica ha continuato a sviluppare e ad adottare misure decisive, volte a monitorare con attenzione i provvedimenti presi dalle strutture collegate alla Chiesa per evitare che in futuro si verifichino nuovi casi di abuso sessuale nei confronti di minori in ambito religioso. Di fatto, in diverse occasioni la Chiesa ha affermato che, senza pregiudicare il foro interno sacramentale, le norme del diritto civile che impongono di denunciare questi crimini alle autorità preposte devono essere sempre rispettate (cfr. Lettera circolare per aiutare le Conferenze episcopali nel preparare linee guida per il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici, 3 maggio 2011). Nel corso di un recente incontro di alto livello che si è tenuto a Roma su questo tema è stato lanciato un nuovo «Centro per la protezione dell’infanzia», basato su internet, al fine di aiutare le istituzioni collegate alla Chiesa cattolica a formare il clero e altro personale legato alla Chiesa nella prevenzione degli abusi su minori (cfr. http://elearning-childprotection.com). In un recente discorso ai vescovi degli Stati Uniti d’America, Papa Benedetto XVI ha «voluto riconoscere personalmente la sofferenza inflitta alle vittime [degli abusi sessuali] e gli sforzi onesti compiuti per garantire l’incolumità dei nostri bambini e per affrontare in modo appropriato e trasparente le accuse quando vengono mosse». Il Santo Padre ha inoltre espresso l’auspicio «che gli sforzi coscienziosi della Chiesa per affrontare questa realtà aiuteranno tutta la comunità a riconoscere le cause, la vera portata e le conseguenze devastanti dell’abuso sessuale e a rispondere con efficacia a questa piaga che affligge tutti i livelli della società», osservando che «come la Chiesa si attiene giustamente a parametri precisi a questo proposito, tutte le altre istituzioni, senza eccezioni, dovrebbero attenersi agli stessi criteri» (Discorso di Papa Benedetto XVI ai presuli della Conferenza dei Vescovi cattolici degli Stati Uniti d’America in visita ad Limina, 26 novembre 2011). Signora Presidente, questo Consiglio, e la società nel suo insieme, non devono ingannarsi pensando che gli abusi sessuali nei confronti di minori sono limitati ad alcune istituzioni. Permeano in modo insidioso tutti gli elementi della società, e nella maggior parte dei casi si verificano in famiglia, nel vicinato e nell’ambito sociale diretto del bambino. Devono essere riconosciuti con onestà e prevenuti con efficacia al fine di tutelare la sicurezza e la salute fisica ed emotiva dei bambini che, a loro volta, costituiscono il futuro della società. Accordo in Africa contro il lavoro minorile DAKAR, 17. La lotta al lavoro minorile nella zona occidentale dell’Africa riceverà un nuovo impulso in seguito all’accordo raggiunto ieri tra la Comunità economica degli Stati africani occidentale (Ecowas) e l’Ufficio internazionale del Lavoro (Ilo). In base all’intesa, siglata nel corso di colloqui cui hanno partecipato rappresentanti delle due organizzazioni, l’Ecowas si assumerà il compito di coordinare e gestire i vari piani di contrasto al lavoro minorile messi a punto dai vari Paesi della regione. Il lavoro minorile è ritenuto una delle piaghe più dolorose dell’Africa occidentale e viene usato soprattutto nelle piantagioni di cacao di Costa d’Avorio, Ghana e Nigeria, Paesi che da soli producono il 70 per cento del cacao immesso annualmente sul mercato mondiale. Arenato il dialogo di riconciliazione tra Serbia e Kosovo BELGRAD O, 17. L’Unione europea e il Kosovo hanno ribadito la ferma opposizione alla decisione di Belgrado di organizzare anche in territorio kosovaro le elezioni legislative serbe del prossimo 6 maggio. Una presa di posizione — ha detto il rappresentante speciale dell’Ue in Kosovo, Samuel Žbogar — che non favorisce il dialogo in atto fra Belgrado e Pristina, né può risolvere i problemi esistenti. L’Ue, ha aggiunto Žbogar, non ha il potere di impedire la tenuta di elezioni, anche se nessun problema può essere risolto con misure unilaterali, ma solo con il dialogo e il negoziato. La contra- Servizio vaticano: [email protected] Servizio internazionale: [email protected] Servizio culturale: [email protected] Servizio religioso: [email protected] Servizio fotografico: telefono 06 698 84797, fax 06 698 84998 [email protected] www.photo.va rietà della Ue riguardo alle elezioni serbe in Kosovo è stata espressa anche dall’alto rappresentante della Politica estera, Catherine Ashton. «Si tratta di una decisione in contrasto con le leggi e la costituzione della Repubblica del Kosovo, e in totale contraddizione anche con la risoluzione 1.244 del consiglio di sicurezza dell’Onu e con le altre norme internazionali, che hanno sancito l’indipendenza del Kosovo», ha subito detto il premier kosovaro, Hashim Thaçi. La decisione di Belgrado ha subito provocato il blocco del dialogo con il Kosovo, condizione necessaria per l’avvio del nego- Tariffe di abbonamento Vaticano e Italia: semestrale € 99; annuale € 198 Europa: € 410; $ 605 Africa, Asia, America Latina: € 450; $ 665 America Nord, Oceania: € 500; $ 740 Ufficio diffusione: telefono 06 698 99470, fax 06 698 82818, [email protected] Ufficio abbonamenti (dalle 8 alle 15.30): telefono 06 698 99480, fax 06 698 85164, [email protected] Necrologie: telefono 06 698 83461, fax 06 698 83675 ziato di adesione della Serbia alla Ue. Riguardo alle legislative in Serbia, i partiti dovranno presentare le proprie liste entro il 21 aprile, corredate da almeno 10.000 firme di persone che appoggiano la formazione politica. Gli elettori sono poco più di sette milioni, chiamati a rinnovare i 250 seggi del Parlamento unicamerale. La soglia di sbarramento per l’ingresso dei partiti in Parlamento è fissata al 5 per cento. Il 6 maggio si voterà anche per le elezioni municipali e per quelle regionali in Voivodina, la parte più ricca e sviluppata nel nord della Serbia, al confine con l’Ungheria Concessionaria di pubblicità Il Sole 24 Ore S.p.A System Comunicazione Pubblicitaria Gianni Vallardi, direttore generale Romano Ruosi, vice direttore generale Sede legale Via Monte Rosa, 91 - 20149 Milano telefono 02 30221/3003, fax 02 30223214 [email protected] Aziende promotrici della diffusione de «L’Osservatore Romano» Intesa San Paolo Ospedale Pediatrico Bambino Gesù Banca Carige Società Cattolica di Assicurazione Credito Valtellinese Assicurazioni Generali S.p.A. L’OSSERVATORE ROMANO domenica 18 marzo 2012 pagina 3 Si conclude il Forum di Marsiglia La crisi alimentare mette a repentaglio la vita di milioni di persone Luci e ombre sull’acqua Emergenza siccità sempre più grave nel Sahel di PIERLUIGI NATALIA Ha mostrato qualche nuova luce, ma anche ombre persistenti, la sesta edizione del Forum mondiale dell’acqua, che si avvia in queste ore a conclusione a Marsiglia, dopo una settimana di confronto tra ventimila delegati, in rappresentanza di organizzazioni internazionali, Governi, enti locali, organizzazioni non governative e aziende. Nonostante importanti dichiarazioni di principio, anche questa edizione ha confermato la lentezza del cammino verso la piena affermazione del diritto all’acqua potabile come diritto umano fondamentale, uno dei più importanti obiettivi da tempo indicati dalle Nazioni Unite. Non c’è stata, cioè, l’accelerazione da molti auspicata dell’impegno a rendere concreto e applicato il principio, sancito dalle Nazioni Unite stesse nel 2010, che l’acqua appartiene ai beni collettivi la cui salvaguardia non può essere affidata ai meccanismi di mercato. Una dichiarazione ministeriale approvata a Marsiglia per consenso dai delegati dei 130 Stati partecipanti, impegna garantire maggiore tutela del diritto universale all’accesso all’acqua potabile — che ancora tre anni fa, nella quinta edizione del Forum nel 2009 a Istanbul, alcune delegazioni non riconoscevano — ma il contrasto strutturale tra servizio pubblico e società private non è stato ancora sciolto. Nella dichiarazione, comunque, si sottolineano le «interconnessioni tra acqua, sicurezza alimentare e energia» e si chiedono «politiche coerenti tese allo sviluppo dell’economia verde e alla tutela degli ecosistemi, generatrici di una crescita sostenibile e di occupazione». È emersa anche, da alcune parti, la richiesta di un tribunale internazionale dell’acqua, presso il quale le popolazioni vittime di violazioni di questo diritto possano fare ricorso. Per esempio, il premio Nobel per la pace Mikhail Gorbaciov, ultimo presidente della disciolta Unione Sovietica, si è detto «personalmente molto favorevole alla creazione di un tribunale internazionale incarica- Nel 2050 inquinamento raddoppiato BRUXELLES, 17. Nel 2050 le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera saranno del 50 per cento superiori a quelle attuali. A denunciarlo è l’O rganizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), in un rapporto pubblicato a Bruxelles. «A meno che non intervengano cambiamenti globali nel mix energetico i combustibili fossili soddisferanno circa l’85 per cento della domanda di energia nel 2050, il che implica un aumento del 50 per cento delle emissioni di gas a effetto serra e il peggioramento dell’inquinamento dell’aria urbana». Secondo l’Ocse, l’economia globale nel 2050 sarà quattro volte più grande di oggi e il fabbisogno energetico crescerà dell’80 per cento. I combustibili fossili, petrolio, carbone e gas costituiscono l’85 per cento delle fonti energetiche attuali mentre le rinnovabili, tra cui i biocarburanti, coprono il 10 per cento del fabbisogno energetico e il nucleare il restante 5 per cento. «A causa della dipendenza dai combustibili fossili, prosegue il rapporto, le emissioni di anidride carbonica cresceranno del 70 per cento e questo contribuirà a fare salire la temperatura globale di 3/6 gradi entro i prossimi 90 anni. Nel 2010 le emissioni globali di biossido di carbonio hanno raggiunto il massimo storico di 30,6 miliardi di tonnellate. Ma il rapporto dell’Ocse non si limita a queste previsioni e lo scenario è quello di un futuro catastrofico, con un aumento delle morti provocate dall’inquinamento fino a 3,6 milioni l’anno, una crescita della domanda di acqua del 55 per cento con una diminuzione delle specie vegetali ed animali del 10 per cento. to di giudicare coloro che sono colpevoli di crimini ecologici, che si tratti di leader di aziende o di capi di Stato o di Governo». Del resto, il contrasto tra diritti generali e interessi particolari trova su questo tema una delle sue maggiori evidenze e ostacola gli sforzi di dare soluzioni concrete a quella che resta una delle massime emergenze mondiali. Lo confermano, nonostante alcuni successi registrati negli ultimi anni, i dati sui quali ci si è confrontati a Marsiglia. Circa ottocento milioni di persone nel mondo, secondo le stime più caute, vivono ancora senza acqua potabile, ma applicando parametri meno restrittivi tale cifra si moltiplica, con quasi due miliardi di esseri umani che hanno a disposizione solo risorse idriche insalubri e tre miliardi e mezzo, la metà della popolazioni mondiale, che usano sia pure saltuariamente acqua non sicura. A questo si aggiunge che mancano adeguati servizi igienici per due miliardi e mezzo di persone, il che costituisce la prima causa di malattie. Come in molti altri aspetti della convivenza internazionale, anche su questo c’è forte disparità tra le diverse parti del mondo, con l’Africa subsahariana nella condizione peggiore, dato che i suoi abitanti e senza accesso all’acqua potabile sono più del 40 per cento del totale. La situazione minaccia di peggiorare, in assenza di soluzioni concrete, come potrebbero essere quelle delineate nel documento messo a punto dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, come contributo della Santa Sede alla sesta edizione del Forum. Secondo l’O rganizzazione per la cooperazione e la sviluppo economico (Ocse), la domanda mondiale di acqua aumenterà del 55 per cento da qui al 2050, a causa della crescita demografica e dell’incremento dell’urbanizzazione. L’Ocse sostiene quindi che è necessario elaborare al più presto un modo di «utilizzare l’acqua in un modo razionale, oltre che fissare tariffe adeguate per scoraggiare gli sprechi». Ma il punto cruciale, come sottolineato anche dal documento del Pontificio Consiglio, è quello di una vera governance internazionale dell’acqua. Il che non significa ovviamente prevaricare sulle iniziative locali o statali, ma svolgere un’azione di coordinamento e di orientamento per una valorizzazione e un uso armoniosi e sostenibili dell’ambiente e delle risorse naturali in vista della realizzazione del bene comune mondiale. Proprio il Pontificio Consiglio ricorda come occorra un assetto di istituzioni che garantisca a tutti e ovunque un accesso all’acqua regolare e adeguato, indicando standard qualitativi e quantitativi, offrendo criteri che aiutino a promuovere legislazioni nazionali compatibili con il diritto all’acqua riconosciuto internazionalmente, monitorando le iniziative degli Stati per il rispetto degli impegni. In sintesi, serve una governance che garantisca il primato della politica sull’economia e la finanza, per perseguire l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Presidenziali a Timor Orientale DILI, 17. Dopo una giornata di sostanziale calma, si sono chiuse oggi le urne a Timor Orientale, a nord dell’Australia (1,1 milioni di abitanti) per le terze elezioni presidenziali del Paese nei suoi dieci anni di indipendenza dall’Indonesia. Lo spoglio dei voti è cominciato subito, ma i risultati non si conosceranno prima della prossima settimana. Per la prima volta, sono state le autorità timoresi e non l’Onu a gestire le elezioni, che costituiscono un banco di prova per testare la stabilità del più giovane e più povero Paese dell’Asia. Presenti anche numerosi osservatori internazionali. L’attuale presidente, José Ramos-Horta, premio Nobel per la pace nel 1996 per il lavoro diplomatico nell’ottenere l’indipendenza da Jakarta, si candida per un secondo mandato di 5 anni, ma si confronta con un nutrito campo di altri 9 candidati. Distribuzione di cibo in un campo profughi (LaPresse/Ap) Anche la Cina esprime preoccupazione per l’annuncio delle autorità nordcoreane Ban Ki-moon invita Pyongyang a desistere da esperimenti missilistici NEW YORK, 17. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, si dice «seriamente preoccupato» per l’annuncio della Corea del Nord del quarto lancio di un missile balistico o di un satellite. In una nota, resa nota dal Palazzo di Vetro, il segretario Ban Ki-moon invita il regime comunista di Pyongyang ad attenersi alla risoluzioni 1874 delle Nazioni Unite che proibisce il lancio di satelliti mediante tecnologia mis- silistica balistica, e quindi a ripensare la propria decisione. Anche la Cina ha mostrato preoccupazione per l’annuncio della Corea del Nord di lanciare ad aprile un missile a lunga gittata per mettere in orbita un satellite in occasione del centenario della nascita del suo fondatore Kim Il Sung. Il vice ministro degli Esteri, Zhang Zhijun, secondo quanto riporta l’agenzia Xinhua, si è incontrato Obama e Karzai confermano il ritiro delle truppe Isaf nel 2014 WASHINGTON, 17. Il presidente statunitense, Barack Obama, e quello afghano, Hamid Karzai, hanno confermato che il ritiro delle forze internazionali dall’Afgahanistan avverrà nel 2014, come previsto. Lo ha reso noto ieri sera la Casa Bianca, spiegando che la riconferma è avvenuta durante una telefonata di Obama a Karzai. I due leader «hanno riconfermato l’impegno condiviso» verso l’intesa in base alla quale «le forze afghane completeranno il processo di transizione e assumeranno la piena responsabilità della sicurezza in tutto il Paese entro la fine del 2014», rende noto la Casa Bianca. Karzai aveva detto di voler anticipare il ritiro della forza multinazionale dopo le forti tensioni causate dal rogo di copie del Corano in una base americana e l’uccisione di 16 civili afghani da parte di un soldato statunitense. E a proposito del dibattito su un eventuale ritiro anticipato delle truppe dell’Isaf dall’Afghanistan, il ministro tedesco della Difesa, Thomas de Maiziere, ha spiegato che una proposta di Berlino sull’argomento arriverà verso settembre e non prima del vertice Nato di Chicago. con l’ambasciatore in Cina di Pyongyang, Ji Jae Ryong, esprimendogli la preoccupazione di Pechino, secondo quanto riporta un comunicato del ministero cinese. La decisione della Corea del Nord ha già ricevuto condanne da tutto il mondo. Preoccupazione è stata espressa ieri oltre che dal Giappone — ha chiesto a Pyongyang di usare «moderazione ed astenersi» dai suoi propositi — e dalla Corea del Sud, anche dalla Russia, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Gli Stati Uniti hanno avvertito la Corea del Nord che gli aiuti alimentari promessi «difficilmente» saranno consegnati se verrà effettivamente lanciato un satellite con un missile a lungo raggio. «Questo creerà ovviamente tensione e renderà piuttosto difficile l’attuazione di qualsiasi accordo alimentare», ha dichiarato il portavoce del dipartimento di Stato americano, Victoria Nuland. L’azione del regime nordcoreano, ha aggiunto, «costituirà una minaccia alla sicurezza regionale e sarebbe inoltre incoerente rispetto al recente impegno preso dalle autorità di Pyongyang a evitare test missilistici a lungo raggio». Solo 16 giorni fa, infatti, il regime comunista di Pyongyang aveva annunciato di voler riprendere i colloqui sul suo controverso programma nucleare e sospendere le attività missilistiche. Confronto tra il partito di maggioranza del Congresso I e l’opposizione comunista Elezioni nello Stato indiano del Kerala Manifesti elettorali nella città di Piravom (Ansa) NEW DELHI, 17. Sullo sfondo della vicenda dei marò italiani, si sono aperte oggi le urne nel collegio elettorale di Piravom, nei pressi di Kochi, per un’elezione suppletiva ritenuta cruciale per la tenuta del Governo dello Stato indiano del Kerala. Un test elettorale, rilevano gli analisti, che sarà cruciale per lo Stato meridionale, che dovrà riconfermare la leadership del governatore, Oommen Chandy, esponente del Partito del Congresso I, di Sonia Gandhi. Per garantire la massima sicurezza e trasparenza, le operazioni nei seggi elettorali sono riprese da telecamere a circuito chiuso. Gli elettori sono chiamati a scegliere tra il partito di maggioranza del Congresso e l’opposizione dei comunisti. La tenuta è molto importante per il Congresso che, senza Piravom, perderebbe tre seggi nell’Assemblea parlamentare dello Stato. NIAMEY, 17. Con l’imminente arrivo della stagione secca, rischia di aggravarsi la siccità nella regione saheliana dell’Africa occidentale, che provocherà una forte situazione di disagio per milioni di persone, per lo più bambini sotto i cinque anni di età. La Fao ha lanciato un appello per la raccolta di fondi addizionali per scongiurare la crisi alimentare. L’appello pone come obiettivo minimo la raccolta di fondi pari a circa 70 milioni di euro, con i quali assistere 790.000 famiglie di agricoltori e allevatori della zona. Dai recenti studi computi dalla Fao, si stima che siano almeno 15 milioni le persone a rischio nel Sahel (Niger, mali, Burkina Faso, Ciad, senegal, Gambia e Mauritania), in parte a causa del calo della produzione nel settore agropastorale. E, come sempre accade, sono i bambini a essere maggiormente colpiti. Il dato è impressionante. L’organizzazione umanitaria Save the Children ha infatti detto che oltre 2,6 milioni di bambini sono a forte rischio perché non hanno accesso ai nutrienti fondamentali. E se l’esito della carenza di cibo in alcuni casi non è mortale, l’inadeguata e insufficiente alimentazione può tuttavia procurare danni permanenti, sia fisici che mentali. Save the Children ha rilevato come siano almeno 170 milioni — pari a un bambino ogni quattro — quelli che soffrono di rachitismo, numero che salirà a 450 milioni entro il 2015 se non ci saranno interventi adeguati e incisivi. Sono dati, sottolinea l’organizzazione, che rischiano di crescere a causa delle gravi crisi alimentari che stanno flagellando la zona del Sahel e del Corno d’Africa. Anche l’Unicef ha chiesto alla comunità internazionale di agire subito, affinché in Africa non si consumi una nuova tragedia. «Una catastrofe senza precedenti sta inseguendo i bambini nel Sahel e ci aspettiamo che nei prossimi sei mesi, più di un milione di bambini dovranno essere inseriti in centri nutrizionali perché colpiti da malnutrizione acuta e grave», ha dichiarato il direttore regionale dell’Unicef. Villaggio cristiano attaccato in Nigeria ABUJA, 17. Ancora un attacco contro i cristiani nel nord della Nigeria. Almeno dieci persone sono rimaste uccise durante alcuni raid compiuti oggi da uomini armati in un villaggio a maggioranza cristiana nella Nigeria settentrionale. Lo riferisce la polizia in una nota ripresa dall’agenzia France Press. «Non meno di dieci persone sono morte nell’attacco a Nayi da parte di sconosciuti armati», ha precisato alla stampa il portavoce della polizia dello Stato nigeriano di Kaduna. Quattro le persone rimaste ferite. Gli assalitori, ha spiegato ancora il portavoce delle forze dell’ordine del Kaduna, sono andati direttamente nelle case delle loro vittime. Tra le vittime — informa l’agenzia Ansa — c’è anche un pastore protestante. Cinque morti su un barcone a Lampedusa ROMA, 17. Ancora una tragedia dell’immigrazione irregolare nel Mediterraneo. Un barcone con almeno una sessantina di migranti è stato soccorso oggi dalle motovedette della Guardia Costiera e della Guardia di Finanza italiana, a circa settanta miglia a sud dell’isola di Lampedusa. Sul barcone, che nella notte aveva lanciato l’allarme, sono stati trovati cinque cadaveri. I sopravvissuti sono apparsi tutti fortemente debilitati per la lunga permanenza in mare; i più gravi sono stati trasbordati sull’isola. Ieri erano sbarcati a Lampedusa, direttamente in porto, 54 migranti, tra cui quattro bambini. Altri cinque profughi erano stati salvati dalla Guardia Costiera davanti alla costa di Marsala, dopo essere rimasti per ore in mare aggrappati a una boa. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 4 domenica 18 marzo 2012 Il san Giuseppe di Paul Claudel Religiosità e tradizioni popolari nelle celebrazioni siciliane e pugliesi in onore dello sposo di Maria D onaci il silenzio La festa e i falò di INOS BIFFI atriarca interiore», così è chiamato san Giuseppe da Paul Claudel in Feuilles de saints — il santorale di Corona benignitatis anni Dei — dedito, come già da ragazzo dopo le fatiche quotidiane, alla preghiera e alla Sapienza. Secondo la visione evocata dalle ampie e lente sequenze del Poeta, che offrirebbero materia per l’affresco di un gran pittore: «Quando gli attrezzi sono rimessi al loro posto e il lavoro della giornata è terminato»; «quando dal Carmelo al Giordano Israele dorme nel grano e nella notte, come già quand’era un giovanotto e incominciava a fare troppo buio per darsi alla lettura, Giuseppe entra, con un gran sospiro, nella conversazione con Dio», facendo, così, la scelta preferenziale della Sapienza, la stessa «che le viene condotta perché la prenda come sposa». Il poeta è specialmente impressionato dall’intima tranquillità che regna nell’anima di Giuseppe e dalla profusione dei doni che lo ricolmano: «Egli è silenzioso come la terra nell’ora della rugiada»; «Egli è nell’abbondanza e nella notte; egli è con la gioia; egli è con la verità». Ed ecco nella solitudine di Giuseppe l’ingresso di Maria, tutta circondata dal suo abbraccio: «Maria è in suo possesso ed egli la recinge da ogni lato. Non in un solo giorno ha imparato a non essere più solo». Essa ha conquistato ogni fibra «di questo cuore adesso saggio e paterno». Ed è come se la Genesi si riavverasse: Giuseppe, lo sposo, è «nuovamente nel Paradiso in compagnia di Eva!», che in segno di devota tenerezza piega verso «P Oltre cento sodalizi giuseppini che tra luminarie, poesie e pani merlettati esprimono la fede del popolo di lui il proprio volto. «Questo volto di cui tutti gli uomini han bisogno si volge con amore e sottomissione verso Giuseppe». Ora «egli sente, quasi fosse un improvviso braccio gentile, il sostegno di questo essere profondo e innocente»: e la sua preghiera non è più la stessa; né la stessa è l’antica attesa. E «non c’è più la nuda Fede nella notte; è l’amore che spiega e opera», l’amore che nel Padre ha la sua sorgente. «Giuseppe è con Maria e Maria è con il Padre». Ma anche noi siamo chiamati a prender parte al loro mistero. Il canto, così, prosegue sotto forma di un’appassionata preghiera affidata all’intercessione di Giuseppe. «Patriarca interiore, Giuseppe, otteneteci il silenzio»: «Perché, alla fine, sia aperto il varco a Dio, le cui opere oltrepassano la nostra ragione»; «Perché la Sua luce non sia spenta dalla nostra lampada e la Sua parola dal rumore che noi facciamo»; «Perché cessi l’uomo, e venga il Vostro Regno e si compia la Vostra Volontà»; «Perché ritroviamo l’origine con le sue profonde delizie»; «Perché il mare si plachi e incominci Maria, colei che possiede la parte migliore e scioglie la riluttanza dell’antico Israele». Chiediamo il dono dell’interiorità e dell’operosità serena e silenziosa, che sono i tratti che secondo Claudel hanno contrassegnato la vita e la santità di Giuseppe, nota solo a Dio. Di lui non ci è tramandata nemmeno una parola, eppure dalla sua paterna sollecitudine il Figlio di Dio e di Maria è stato custodito e salvaguardato. Per questa custodia e salvaguardia non occorre parlare. Bisogna fare. Anzi bisogna lasciar fare a Dio e non intralciare con iniziative nostre il suo disegno. di TARCISIO STRAMARE «Finito di stampare nel mese di marzo 2012». Si tratta di una coincidenza voluta, perché il volume che presentiamo è dedicato proprio a La festa di san Giuseppe, dalla Sicilia alla Puglia, a cura di Vincenza Musardo Talò (Manduria, Talmus-Art, pagine 208, euro 54,60). Un’edizione di lusso con sovracoperta a colori raffigurante un delicato san Giuseppe in adorazione, opera di Filippo Lippi, e con la presentazione di Vittorio Sgarbi. Statua processionale in cartapesta (1771, Noci, Bari) Grande varietà di toni per la figura paterna che resta sempre attuale in libreria A ciascuno di suo di ISABELLA FARINELLI «Questa non è una sedia» direbbe Magritte osservando la copertina del libro di Flavio Insinna Neanche con un morso all’orecchio (Milano, Mondadori, 2012, pagine 212, euro 16). Niente di surreale qui però: la vecchia sedia di legno è lo strumento di cui, date le ridotte dimensioni dell’ascensore, si son dovuti servire per trasportare d’urgenza suo padre e caricarlo nell’ambulanza. Ma l’oggetto domestico, abbandonato in strada accanto al semaforo, diventa il simbolo di «migliaia di colazioni, di caffè, di forza che facciamo tardi a scuola» e, per associazione, il segno di ogni intimità violata. La sedia viene dunque riportata con cura nell’androne. Si affollano in libreria nello scaffale delle novità proprio in questi giorni — quando molti Paesi a tradizione cattolica associano festa di san Giuseppe e festa del padre — titoli nei quali la figura paterna è chiamata in causa in una varietà di toni, dalla nostalgia al conflitto alla parodia, che non necessariamente si escludono: la peculiarità comune a queste storie, pur attraverso la gamma di sfaccettature dall’autobiografia al paradosso, è il desiderio di un confronto autentico. Il romanzo più recente della cosmopolita Amélie Nothomb («franponese» come si definisce per la doppia matrice linguistica franco-nipponica) si intitola Uccidere il padre (Roma, Voland, 2011, pagine 91, euro 9) ma, al di là di quel che sembra promettere, descrive un lungo e appassionato cercarsi di padre e figlio, non solo reciproco ma anche identitario. Il contesto altamente simbolico della giocoleria, nel quale la storia si situa, serve alla Nothomb per giocare a sua volta sullo scambio delle parti. A Reno, nel Nevada, il quattordicenne Joe, abilissimo nei giochi di carte, viene messo urbanamente alla porta dalla madre perché troppo sincero col nuovo compagno di lei, che ironicamente si chiama anche lui Joe. Trova però un padre e un maestro in Norman, che lo accoglie in casa insieme alla compagna Christina, fire dancer. I tre formano un nucleo compatto fino al debutto di Joe al Burning Man, il festival nel Black Rock Desert dove, per una settimana all’anno, un grande insediamento sorge e scompare senza lasciar tracce, culminando nell’incendio di una immensa sagoma. Su quella sabbia «di una finezza e di una dolcezza quasi insopportabili» si consumano sia l’iniziazione del giovane ormai diciottenne alle droghe pesanti sia quella che sembra a tutta prima una rivisitazione del mito di Edipo. Quanto sia profondo il colpo psicologico inferto al padre si misura però solo nelle ultime sconvolgenti pagine, perché «i figli che non vengono riconosciuti dal proprio padre ne soffrono, ma esiste una sofferenza più grande: quella di un padre che non viene riconosciuto dal proprio figlio». Almeno dai tempi di James George Frazer e del suo Ramo d’oro, non v’è chi non senta il fascino dei cicli di vitamorte-rinascita espressi dal patrimonio mitico e rituale di tante culture, con un “passaggio” attraverso grandi sofferenze che impegnano insieme la terra e gli uomini. Vi si ricorre talora anche nel sottolineare la collocazione (almeno millenaria) della festa di san Giuseppe alle soglie della primavera, con la tradizione agricola dei falò per bruciare, non senza valore simbolico, i residui del passato. Meno frequentemente accade di sentir ricordare Leone XIII e la Quamquam pluries, l’enciclica del 15 agosto 1889 ripresa da Giovanni Paolo II un secolo dopo nella Redemptoris custos, ma sono numerosi gli interventi magisteriali sul tema, come quelli di Pio XII culminati nel 1955 nell’istituzione della festa liturgica di san Giuseppe artigiano il primo maggio. Leone XIII ripercorse le antichissime origini e al tempo stesso pose le basi moderne della considerazione di Giuseppe (già patrono della Chiesa cattolica con Pio IX) come «custode della casa» familiare ed ecclesiale e «tutore dell’onestà» proponendolo, pertanto, a modello dei padri. Papa Leone rafforzava questa figura come baluardo alla terra desolata di valori che lasciava intravvedere sullo sfondo; pochi anni più tardi, dopo la Grande guerra, la poetica eliottiana — Thomas Stearns Eliot, Il sermone del fuoco, a cura di Massimo Bacigalupo (Milano, Rcs 2012, pagine 231, euro 7,90) — portava all’estremo, incluso il marciume, i riti e i miti della fertilità, frantumando deliberatamente capisaldi della classicità “occidentale”. Nel percorso eliottiano, mimato su quello dantesco, si tende a individuare la risalita dagli inferi nel delicato ricongiungersi di passato e futuro dei Quattro quartetti («i bambini nel melo / non intesi, perché inattesi»), ma anche la «post-cultura», diagnosticata da George Steiner nel 1970 rileggendo Notes towards the Definition of Culture (cui Eliot lavorò all’indomani della seconda guerra mondiale), sembra mostrare il lato di recuperata fertilità proprio sul rovescio di ogni possibile retorica del passato, incluso quello personale e familiare. «Mio padre non amava la musica»: la frase di apertura del romanzo autobiografico di Edoardo Albinati Vita e morte di un ingegnere (Milano, Mondadori, 2012, pagine 150, euro 18) sembra Si va dall’autobiografia al paradosso Ma il tratto comune resta sempre lo stesso Il desiderio di un confronto autentico un’eco latente al malcelato, celeberrimo ossimoro che apre La terra desolata: «Aprile è il mese più crudele». È la tonalità delle successive, lancinanti frasi di Albinati: «Mio padre era un uomo allegro» — sì ma, per contrappasso, il figlio adulto si sottrarrà ai tentativi paterni di instaurare una complicità giocosa, salvo sospettare nell’espressione degli affetti «un terribile equivoco» quando si manifesta la caducità. «Mio padre si è ammalato ed è morto nel giro di nove mesi»: da qui in poi, il travaglio di Albinati è quello di ogni uomo che arriva in prima linea nel confronto con la morte e la vita. «È già morto? mi chiedevo tenendo la mano di mio padre come davanti a mio figlio mi ero chiesto, è nato?». Le ultime pagine di Albinati hanno il ritmo di un battito cardiaco che si arresta e riprende, del padre e del figlio dinanzi allo stesso mistero che finalmente, sincronicamente, li unisce. Il confronto senza veli con la verità diventa esplicitamente spietato verso ogni narcisismo e finzione transitoria: Albinati scrittore guarda con distacco le frasi e le immagini con le quali già prevede di descrivere la vicenda, «come se da tutto quel dolore non dovesse uscire che una pagina». Ma l’uomo Edoardo incontra, sulla via del ritorno, un simbolo non premeditato: una coppia di arcobaleni che sembrano l’uno figlio dell’altro e gli infondono «una curiosa felicità». Tanta sontuosità, inconsueta per la figura nascosta del nostro santo, potrebbe far pensare a una ricercata captatio benevolentiae del lettore, se non fosse che lo stesso Sgarbi dimostra non solo la sua personale sensibilità verso san Giuseppe nel testo a lui dedicato («Iconografia giuseppina nell’arte colta»), ma anche il suo coinvolgimento emotivo, maturato a Salemi, la città dove è stato sindaco fino al 15 febbraio 2012 e nella quale si celebra una delle più belle feste italiane di san Giuseppe. Diciamo subito che il volume è non solo da leggere, ma soprattutto da “vedere”. Coloro che vi hanno collaborato, infatti, si soffermano nella descrizione accurata dell’argomento prescelto, sviluppandone tutti i dettagli, ma offrono contemporaneamente allo sguardo numerosissime immagini, da essi ritenute indispensabili ed efficaci per documentare quanto affermato e rendere visibile quanto sarebbe difficile immaginare. Essi stessi si sentono coinvolti nelle cose che hanno “veduto” e desiderano farle vedere. Oggetto della ricerca sono la Sicilia («Terra di san Giuseppe») e la Puglia («Omaggio a san Giuseppe»), regioni di consolidata devozione verso il grande patriarca. I sodalizi giuseppini in Puglia e in Sicilia sono infatti oltre il centinaio e sovrastano congiuntamente quelli delle altre regioni della penisola italiana. Una raccolta sistematica e documentata della loro storia e attività potrebbe essere oggetto di un’ampia pubblicazione. «San Giuseppe è il santo più festeggiato in Sicilia e la sua ricorrenza liturgica non è confinata solo al 19 marzo, ma anche alla domenica successiva e per i due mesi successivi». Giusto un esempio, su quarantadue comuni dell’agrigentino, otto lo festeggiano esclusivamente in chiesa, undici lo festeggiano per le strade, e i rimanenti ventitré traslano la ricorrenza tra maggio e agosto. Il santo è il protettore di quarantacinque comuni dell’isola, dislocati nelle nove province. Sono almeno una decina i soprannomi dati al santo ricorda Claudio Paterna. In Sicilia sedici comuni hanno eletto san Giuseppe a patrono principale e ventisei a loro compatrono; in Puglia sono sei i comuni posti sotto il suo patrocinio e molto attive le confraternite che ne portano il nome. Sotto il titolo «Asterischi» incontriamo, a chiusura del volume, altri contributi: quello già ricordato di Vittorio Sgarbi, e poi quelli di Vincenza Musardo Talò («Dalla Sicilia alla Puglia: le confraternite di san Giuseppe custodi della religiosità popolare»), Stefania Colafranceschi («“A te, o beato Giuseppe”: il culto di san Giuseppe nei santini»). Nulla è tralasciato. Si passa dai falò (denominati in cento modi diversi) alle spettacolari luminarie, dai colori dei fiori al loro fantasioso ornamento, dalle grandiose processioni alle cavalcate (Scicli) e drammatizzazioni (Assoro), dalle forme poetiche (Cantate, Parti di san Giuseppe) alle semplici invocazioni, dalle preziose statue all’umile strumento dei santini. Molto spazio è dato alla preparazione dei cibi secondo determinate regole, ma ciò che colpisce maggiormente è la simbiosi tra la devozione e il pane, presente in molteplici espressioni (tavolate, mense, cene, altari). Nel “pane quotidiano” si realizza il passaggio della semplice fede del popolo alle opere caritative più immediate. L’umile condizione della santa Famiglia e le sue vicissitudini, che avevano richiesto la concretezza della solidarietà, parlano direttamente al cuore, traducendosi in un richiamo sempre attuale, ieri come oggi, di soccorrere in modo concreto chi è nel bisogno. La festa di san Giuseppe diventa così «una festa di chiesa, di piazza e di casa», chiara dimostrazione di una fede vissuta. Musardo Talò, curatrice dell’opera, considerando i tanti rituali delle feste giuseppine, «artari, ammìtu, cene, tavolate, e così via», li definisce in modo espressivo «liturgia della mensa dei santi», sostanzialmente originati dallo spirito di carità, mossa, è vero, da esigenze e motivazioni di devozione personale, ma con generosa ricaduta nelle opere di misericordia spirituale e materiale a vantaggio del prossimo. Le confraternite non sono in nessun modo un residuo storico del passato, da sostituire semplicemente con forme più moderne di aggregazione; nate e sviluppate in un tessuto sociale che si ripete continuamente e ovunque, esse hanno la funzione di fornire a quanto ha il merito di essere “umanitario”, da qualunque parte esso venga, quell’humus spirituale, che lo alimenta senza esaurirsi mai. Pani merlettati a Salemi Dall’estasi all’adorazione Dal libro qui presentato pubblichiamo alcuni stralci del saggio «Iconografia giuseppina nell’arte colta». di VITTORIO SGARBI n uno dei palazzi della piazza, a Guastalla, io la vidi quasi trent’anni fa: una tavola, cosa rara per un pittore del Settecento come Piazzetta, un San Giuseppe con il Bambino. Il dipinto, in verità, non era né pubbicato né conosciuto, né confermato come Piazzetta da nessuno oltre alle persone che, con sensibilità, lo avevano visto come me negli anni precedenti. Dunque venne conosciuto e pubblicato per la prima volta da me. Decisi di acquistarlo e così divenne mio del tutto. Il dipinto è stato restaurato da Gianfranco Migliardi e venne concesso quasi subito in prestito al Museo della città di Guastalla. Il destino mi ha condotto, nel corso degli anni, ad acquistare anche un bellissimo disegno di Piazzetta con il medesimo soggetto: il San Giuseppe con il Bambino della collezione Alverà di Venezia, un disegno notificato. Piazzetta è uno dei grandi pittori del Settecento Veneziano, meno conosciuto di Tiepolo. È pittore di grandi pale d’altare e di soffitti di chiese, e coltiva una pittura di genere con soggetti popolari che ha determinato una scuola con artisti notevoli come Maggiotto, Nogari, Angeli, Giulia Lama. È certamente un grande maestro. Ma i suoi temi più frequenti restano quelli religiosi, in una particolare interpretazione, retorica e scenografica, del naturalismo. La sua esperienza è maturata in ambito emiliano, vicino a I Il disegno a carboncino Giuseppe Maria Crespi, in una tradizione realistica — benché egli non sia un pittore realista — che ha la sua ascendenza nel naturalismo di Caravaggio. Rimane sempre in Piazzetta un fondo scuro, un effetto di penombra, di contrasto, di chiaroscuro che è la sua caratteristica. Dal punto di vista del disegno e della felicità pittorica egli è esattamente come Tiepolo, ma mentre Tiepolo è portato verso i chiari e verso la natura e la luce del giorno, Piazzetta è portato verso la notte, verso gli interni, verso gli scuri. Entrambi sono grandi disegnatori. Notevole testimonianza delle capacità del Piazzetta, anche nel breve sviluppo, con una sintesi più risoluta di quella del Tiepolo, è la felicissima composizione del San Giuseppe con il Bambino, in un originalissimo scorcio che mostra la testa del santo di sotto in su, con lo sguardo volto al cielo in una suprema visione divina (formidabile la velocità dello sguardo rapito, col bianco lampo negli occhi). La tavola di Guastalla Il Bambino si proietta verso di noi non solo con la concentrazione dello sguardo felino, come contornato da una maschera disegnata dall’ombra e inarcata sul naso emergente alla luce, ma con tutto il suo corpo plastico e morbido, dalle carni premute dalla mano energica del padre. Ne sentiamo l’elastica consistenza, sulla quale emerge il braccio tornito dalla luce, di densa pasta pittorica, con un perfetto chiaroscuro. In tutto il dipinto la pittura è vibrante, con rapidi guizzi, veloci sottolineature, fino al grumo bianco del panneggio increspato. Tutta la superficie dipinta è in tensione, vibra, e restituisce volumi pieni, compatti, elastici. Nella prospettiva di una pubblicazione di questo dipinto, il Piazzetta assume quasi il ruolo di un patrono, di un testimone, di una mascotte. Infatti è mascotte questo bellissimo Bambino che rappresenta, ancora in chiave caravaggesca, il divertimento di Piazzetta, con il potente contrasto e con il chiaroscuro che offusca il volto dispettoso di questo Gesù, esaltandone lo sguardo penetrante. Il tema di Giuseppe con il Bambino poi dovette appassionare il Piazzetta, che lo affrontò anche in un grande disegno già in collezione Alverà, a Venezia. Un foglio imperiale in cui si indaga diversamente il rapporto fra il padre e il Bambino: san Giuseppe vigila, con paterna, amorosa attenzione sul Bambino disteso e dormiente, agli antipodi di quello sveglissimo e spiritato della tavola. San Giuseppe passa dall’estasi, nella quale pare inebriato, alla contemplazione, all’adorazione. L’OSSERVATORE ROMANO domenica 18 marzo 2012 pagina 5 Il 19 marzo di cinquant’anni fa moriva Giuseppe De Luca, scrittore, letterato ma soprattutto sacerdote Prete romano di VINCENZO PAGLIA icordo con nitidezza il 19 marzo 1962. All’inizio dell’ultima ora, nella seconda liceo del Seminario Romano Minore, il professore di italiano, don Antonio Pongelli, iniziò dicendoci che era morto «un grande prete romano, un grande scrittore e letterato, ed era un ex-alunno del Seminario». Capii poco allora, ma già l’anno successivo, un amico di don De Luca, monsignor Domenico Dottarelli, venne a parlarci con passione di questo prete romano. A cinquanta anni dalla morte, dobbiamo cogliere ancora la ricchezza della sua opera. Per parte mia vorrei offrire solo qualche breve riflessione, dal sapore della testimonianza, su don Giuseppe “prete romano”, un appellativo a lui carissimo, che getta non poca luce sull’intera sua esistenza e di tanta parte del clero che a Roma si è formato e vissuto. Intendiamoci, sarebbe sufficiente l’appellativo “prete”, come del resto lo stesso De Luca ha più volte sottolineato. Egli era un sostenitore, persino fanatico, del “prete prete”, ossia del prete senza aggettivi: «Il prete o è o non è, e quando è ha da esser prete» (Annuario, p. 289). E prete per lui significava «dir messa, amministrare i sacramenti, istruire il popolo cristiano, consolare i malati, far la dottrina. E far la dottrina non è fare della cosiddetta cultura religiosa; far la dottrina è dare il pane, far della cultura religiosa è parlar del pane» (Ivi). Il resto per un prete è accidente. E don Giuseppe non voleva vanificare l’essenza con gli accidenti. Del resto, le qualità menzionate, sono tutte del soggetto. Essere prete romano, no. La qualifica viene da fuori, da quella Roma che impregna la mente e il cuore di chi si lascia formare da quella Chiesa che presiede alla carità. De Luca ne era consapevole. Appare chiaramente nei capitoli II e III della monografia che dedicò al cardinale Bonaventura Cerretti, intitolati al Seminarista e al Prete a Roma. Mentre racconta di Cerretti, De Luca parla anche di sé. Come Cerretti, aveva partecipato pure lui da ragazzo alle celebrazioni papali in San Pietro: «Quei ragazzi, giunti appena dal contado e con la pelle bruciata dai soli e dai geli delle scoperte campagne e della montagna alta, entrati che fossero al Seminario Vaticano, con la loro tonachina indosso “paonazza”, e suvvi una cotta bianca riccia e in capo una berretta nera, avevano il diritto di assistere alle funzioni papali, come clero della basilica vaticana, ed erano uno dei numeri del Solennissimo Corteo. Facevano parte del gran rito. E bisognava essere venuti da famiglia di piccola provincia, e aver preso parte a quegli sfilamenti — con gli occhi bassi, ma non tanto da non vedere gli occhi di invidia della gente pigiata intorno, o la fierezza dei parenti venuti a veder più noi che il Papa — bisogna avervi preso parte per comprendere quale grande lezione sia, pel cuore di un giovinetto, il solo assistervi. Bisogna aver visto sorridere su di voi seminaristi (...) il vecchio Pontefice, dall’alto della sedia gestatoria, traballante come sull’ondeggiare della folla, nel pallore della esaltazione trionfale, per non nutrire poi verso il resto del mondo che una benevola commiserazione, ma niente altro» (De Luca, Cerretti, pp. 34-35). R In un inedito e incompiuto scritto del 1945, intitolato Prete, De Luca rievoca quel mondo vaticano nel cui grembo era cresciuto, scrutandolo ben oltre quel che appariva e che non mancava anche di criticare: «Bisogna essere volgari assai, ottusi e faziosi, per non sentire la meraviglia umana del Vaticano e dei suoi abitatori. Nessun fatto eguale, nella storia dell’uomo. Nessun luogo simile, su tutta la faccia della terra. Di qualsivoglia idea, di qualsiasi religione, di ogni più crudele sentimento si sia impregnati, entrando in vaticano si entra in un incantamento. (...) Un posto, anche quello, di uomini e uomini anormalissimi, cioè preti; intricato di pettegolezzi e amarezze e, chi se ne scandalizzerà? Schifezze abominevoli. Pur tuttavia, che posto! (...) Sorge, a un tratto, un’occasione, e tu vedi quel mondo, quegli uomini trasfigurarsi come per un incantesimo, e temi e tremi: veramente par che allora scenda tra essi e lì l’Eterno, aleggi fermo l’Invisibile. Quando il Papa discende, vivo o morto, in San Pietro, e tutto il suo mondo lo precede e lo segue, tu te ne stai in un canto a guardare e a sentire: questi uomini, pensi, sono della misura di quelle architetture, e camminano, non come noi negli anni, ma come la sola dinastia degna che li scandisca, nei secoli» (Guarnieri, Don Giuseppe, p. 63). Torna in mente l’altra pagina straordinaria sulla sua messa a Trastevere: «Da qualche giorno dico messa la mattina a Santa Maria in Trastevere. E se per caso il sole nascente riesce, anche lui ma lui dalle finestre, a entrare in quella chiesa e per quell’ora, io non vi dico, amici, che incendio, diventa il mosaico dell’abside: una cosa tutta di fuoco e di luce, come avrebbe potuta vederla in visione soltanto un san Giovanni a Patmos». Parla poi di don Wilmart, vissuto per anni accanto alla basilica e dei suoi studi su di essa che riprendeva in mano. E aggiunge che vuole leggerli per «intonarsi alla chiesa della sua messa». È una frase che mi ha sempre impressionato. Credo si possa dire che il prete romano è, appunto, un prete che s’in- Convegno all’Istituto Sturzo Nel testo qui pubblicato anticipiamo stralci dell’intervento che il vescovo di Terni-Narni-Amelia terrà il 19 marzo a Roma, all’Istituto Luigi Sturzo, organizzato dall’Associazione don Giuseppe De Luca, dalle Edizioni di Storia e Letteratura e dallo stesso istituto, in occasione del cinquantenario della morte di don De Luca. Interverranno, tra gli altri, Adriano Prosperi e Lucetta Scaraffia, con testimonianze di Adriano Ossicini e Marisa Rodano. L’ultimo pensiero del sabato sera Per «L’Osservatore Romano» Giuseppe De Luca scrisse numerosi articoli e curò diverse rubriche, la più famosa delle quali è «“Bailamme” ovverosia pensieri del sabato sera» — di cui pubblichiamo l’ultimo frammento, uscito sul giornale del 18 marzo 1962. La rubrica fu poi raccolta in un volumetto postumo del 1963. Bisogna ricordare inoltre «I commenti al Vangelo» (a partire dal 1951 ma già anticipati da «La parola eterna», dal 1936 fino al 1942), le rubriche «Libri» e «Fra i libri» tutte sempre siglate. Per il settimanale, di taglio più popolare, «L’Osservatore della Domenica» il prete lucano curò sotto pseudonimi come “Il cameriere di turno” o “Il dito nell’occhio” rubriche quali «Olio e aceto» (tra il 1934 e il 1936), «Per conoscenza» (tra il 1947 e il 1948), «Favole vecchie moralità eterna» e «Favole per modo di dire» (ambedue tra il 1950 e il 1952). di GIUSEPPE DE LUCA Quando noi ci accostiamo all’altare per celebrare la santa Messa, oppure entriamo in un confessionale, o ci prepariamo ad amministrare un sacramento, il battesimo per esempio oppure l’estrema unzione, nessun dubbio potrebbe passarci per la testa che noi siamo sul punto di compiere un’azione la quale appartiene, totalmente, vale a dire nella sua fonte, nella sua sostanza, nel suo fine, in tutte insomma le sue cause, al mondo soprannaturale. Ci vorrebbe una iniquità, diabolica propriamente, a far servire una di codeste azioni a uno scopo terrestre di vanità, di lucro, di potenza. Quando invece rivolgiamo la parola al popolo, molto spesso noi pensiamo più alla parola nostra che non alla parola di Dio. Ci preoccupiamo più vivamente, allora, di quello che diremo e a come lo diremo, della parte che spetta a noi: che figura si farà, come ce la caveremo, che cosa diranno, che nome ne uscirà tra i colleghi, che stima ne godrò coi superiori, quanto mi daranno di retribuzione, e così via. Se il prete è letterato, c’entrerà anche la letteratura; se è sociologo, la sociologia. Se è, e può anche essere (metaphisice non repugnat) un poltrone e uno scansafatiche, non penserà a nulla e a nessuno, nemmeno a se stesso, tanto meno a Dio; salirà sul pulpito, aprirà bocca e a finché ha fiato lui, la predica dura. L’abitudine e la sfacciataggine vengono sempre in soccorso. Di fronte e contro questo quadro, sta la consapevolezza, perché non dire la coscienza, che un prete non potrà mai né evitare né attenuare che il predicare la parola di Dio è un atto di vita soprannaturale, come dare la comunione. Egli sa benissimo che deve dire e dare la parola di Dio, la quale non si disprezza e maltratta senza qualcosa d’un sacrilegio, come a disprezzare le sacre specie. Quale raccoglimento, quale attenzione sacra, quale (diciamolo pure) quale terrore lo domina, nell’atto di parlare? Sente che chi parla per il suo labbro è Colui stesso, in nome del quale egli dice: Ego te absolvo; e dice, non meno prodigiosamente, Hoc est corpus meum?, e sente che non solo chi parla è il Padre, o il suo Figliuolo Unigenito, che è poi il suo Verbo eterno fattosi carne e nostro Primogenito, ma coloro che ascoltano sono i nostri fratelli, figli adottivi di Dio al pari di noi, ai quali siamo tenuti a spezzare il pane quotidiano della parola di Dio, così come somministriamo il pane eucaristico? La predicazione, o è questo, e non è altro, o è una maschera sul nostro volto, sul volto dei nostri fratelli, sul volto (se fosse ancora possibile velarlo ancora così, come i soldati fecero nel cortile di Pilato) sul volto di Gesù. tona a Roma, alle sue chiese, alla sua pietà, alla sua secolare storia civile e soprattutto religiosa: è come una linea infuocata che traversa il cristianesimo dell’antichità e quello del medioevo, quello della riforma e del Cinquecento romano con lo straordinario coetus sanctorum, e poi la Roma a cavallo tra Ottocento e Novecento e quella del dopoguerra. La storia del clero romano deve trovare ancora una sua sintesi, sebbene non manchino studi di non poco interesse per i diversi periodi. Come pure manca una storia della Curia Romana che De Luca aveva più volte auspicato. Dai diversi studi emerge tuttavia una dimensione complessa che lega strettamente il prete romano alla storia di questa Chiesa, una storia lunga e complessa, straordinariamente ricca e mescolata anche a peccati e tradimenti. In estrema sintesi — prendendo in prestito le parole stesse di don Giuseppe — si potrebbe dire che essere preti romani vuol dire essere «intonati» alla «pietà romana» come si è manifestata nei secoli e che comunque trova alimento nel legare Gesù, la Chiesa, Maria e il Papa. Al termine della sua vita don Giuseppe sembra sintetizzarla nel biglietto scritto a monsignor Capovilla: «Sono stato un peccatore e un outsider, ma ho amato Gesù, la Chiesa, il mio sacerdozio e, me lo lasci dire, il Papa» (Mater Dei, p. XXI). Don De Luca è stato senza dubbio un prete romano, appunto un outsider o, come disse altra volta, «prete randagio». E fin dal Seminario. La sua predilezione per la letteratura insinuò dubbi nei superiori sulla genuinità della sua vocazione. È Dottarelli a raccontarlo: «De Luca — scrive l’allora vicerettore — nella sera del febbraio del 1921, nella quale, studente del quarto anno di teologia aveva dovuto assistere all’ordinazione sacerdotale dei suoi compagni di studi, era venuto a piangere nella stanza del Vicerettore. Singhiozzando, con parole commoventi e rare in un seminarista, si stava tormentando perché era stato escluso dall’ordinazione sacerdotale». Terminò dicendo: «Se non mi si vorrà prete, rimarrò laico; ma sarò un infelice» (Mater Dei, p. VIII). In verità, nell’ottobre dello stesso anno venne ordinato prete. E fu fedele a questa scelta sino alla fine. Più avanti, all’amico Minelli, scriverà: «prete a Roma, rinunciai alla carriera; cristiano e prete, tuttavia rinunciai alle agevoli propagande e spacconate del corrente ministero sacerdotale; uomo d’un certo ingegno, e forse con lustro di talento, non mi posi per nessuna via battuta d’insegnamento superiore o di ufficiale e ufficiosa autorevolezza giornalistica. Lasciai marcire tante ambite cose, innanzi a me (...) e cinsi di una dolorosa bohème il travaglio mio, in vista d’essere e fare qualcosa» (De Luca Minelli, Carteggio, p. 499). Don Giuseppe poggiava il suo sacerdozio in una visione spirituale, soprannaturale. Ed è ciò che lo teneva saldo nella molteplicità e diversità dei rapporti che ha intessuto negli anni. Il letterato sapeva di dover anzitutto ascoltare e meditare la parola. In uno dei commenti ai vangeli della domenica scrive: «Gesù amò la parola, amò il silenzio. Il miglior padre e custode della parola è il silenzio. A noi, molto spesso, accade il contrario. (...) La parola, assai spesso, è bisogno di vanità, e degenera in cicaleccio o in cultura, cioè, in ambedue i casi, in perditempo. Chi fa cultura, una cultura a se stante, crea uno schermo all’efficacia vera della parola divina: la irretisce in una ragnatela discorsiva e discettante, e non la fa scendere sull’anima» (De Luca, Commenti al vangelo festivo, 1969, pp. 231-232). Dopo aver stigmatizzato l’errore di aver trasformato «il pane di vita in oggetto di studio e non più che oggetto di studio», afferma: «La Sacra Scrittura stessa, che era nella mani della Chiesa come pane che essa spezzava ai figliuoli, la si è voluta dare nelle mani degli specialisti (cosiddetti), i quali Dio solo sa quello che ne hanno fatto». Accorato era il suo appello ai parroci italiani perché tenessero in gran cura la predica, che per lui era l’essenza della vita cristiana: «Cristo non è venuto e non è vissuto e non è morto per altro; e tuttavia per i cristiani conta così poco» (De Luca, Prefazione a N. Monterisi. Trent’anni di episcopato, 1950, p. IX). Si comprende l’accorato appello ai parroci italiani: «Preparate intanto la predica. Quei preti sbrodoloni, che aprono bocca e le danno fiato, e si parCon Jean Leclercq all’eremo di Frascati in una foto dei primi anni Cinquanta lano addosso come un bambino che mangia la minestra in brodo, si comportano Di don Giuseppe si possono e si debbono malissimo. Sono inescusabili. (...) Nessuno ha dire molte cose, anche perché moltissimi soil diritto, mai, di porgere la parola di Dio in no i suoi meriti, conosciuti e non, e altretvestaglia: peggio ancora, non lavati, non tanto importanti le sue relazioni e realizzasbarbati, non vestiti» (Annuario del Parroco, zioni. Non è caso che ricorre costante nei ri1961, p. 584). Chi parlava così della parola di- cordi di chi lo ebbe vicino il suo essere previna e sentiva di doverla presentare integra, te: Riccardo Del Giudice riporta il suo connon amava salire sui pulpiti, odiava la facile tinuo ripetere «lasciatemi fare il prete»; Aloratoria tinta di retorica, ma sapeva che era do Ferrabino, esaminando la sua Storia della urgente nutrire in maniera più profonda la Pietà, ne parla come «Il prete spietato»; Rocultura del clero per sfuggire alla trappola di dolfo Paoli ne sintetizza la molteplice attiviun devozionismo vuoto e pericoloso. Pochi tà: «Un erudito, un prete, un amico»; monerano i preti persuasi di dover uscire nel cam- signor Giovanni Fallani lo ricorda «Sacerdopo aperto della cultura e del confronto con la te e amico degli artisti»; Togliatti riconosce società. L’esser prete, e prete romano, da par- la sua distanza nella differenza: «Lui sacerte di don De Luca è la testimonianza di come dote, io non credente»; e Mario Praz le raccoglie tutte: «Il vero sacerdote». servire la Chiesa e il mondo. Carmelitane e Menorah Candelabri viventi Anticipiamo uno degli interventi previsti il 19 marzo nell’ambito del convegno «I carismi degli Ordini nel dialogo interreligioso oggi» che si svolgerà dal 18 al 20 marzo presso l’abbazia di San Pietro a Salisburgo. di CRISTIANA D OBNER L’antica Regola del Carmelo, nata nei primi decenni del XIII secolo, è un mirabile pezzo d’antiquariato oppure un dono, semprevivo, da cui possono sbocciare risposte odierne e legate strettamente Marc Chagall, «Menorah» al sentire con la Chiesa? E questo non in un fare che prospetti incontri, convegni, giornate di studio, ma in un quadro di semplice esperienza radicata nella quotidianità, che viva il mistero d’Israele e il mistero dell’unità della Chiesa. Noi carmelitani siamo nati nella Terra promessa, sul Monte Carmelo. Il maestro di Israele André Neher sostiene che la Terra è un soggetto che parla, che Don Divo Barsotti nei ricordi del cardinale Carlo Caffarra Lo starets di Settignano «Nei suoi diari — risponde il cardinale Carlo Caffarra a Camillo Langone che lo ha intervistato sulla figura e l’opera di don Divo Barsotti (su «Il Foglio» del 17 marzo) morto a Settignano (Firenze) nel 2006 — scrive che se non ci si sente partecipi del peccato di ogni persona non si è ancora incontrato Cristo». E continua: «Qui si sente l’influsso della spiritualità russa. Uno dei suoi meriti è stato quello di aver cominciato a far conoscere all’occidente i mistici orientali come san Serafino di Sarov, sulla cui tomba è andato a pregare, e Silvano del Monte Athos, l’asceta che diceva “Tu devi stare all’inferno con i peccatori senza disperare: questa è la posizione del cristiano”». «In tempi di sobrietà obbligatoria e impoverimento forzato — scrive Langone — mi è piaciuto molto questo passaggio: “La povertà e il distacco hanno un valore solo in quanto sono condizione per seguire Gesù. Chi è povero e non segue Gesù è più misero e più lontano da Cristo di colui che non ha rinunciato ai suoi beni”». Concorda Caffarra: «Don Divo pur vivendo la povertà, non ha mai avuto il culto della povertà. Diceva che la povertà assoluta è impossibile per l’uomo, che deve possedere qualcosa altrimenti non può vivere. Più che di povertà amava parlare di umiltà e diceva che questo è il vero messaggio di Francesco d’Assisi, non il pauperismo». (silvia guidi) può divenire, se lo si sa ascoltare, l’orizzonte della storia intera. Sgorga allora il fremito della speranza e si fonda la vita monastica pensata come il risvolto interiore di quel pellegrinaggio esteriore che tanto segnò e segna la vita della Chiesa. La stessa vita carmelitana può essere pensata come un radicamento in Gerusalemme. Propongo perciò una lettura della Regola nel simbolo, così da poter riconoscere e costruire una “teologia della presenza” che suggerisca e spinga oltre, a vivere e a donarsi in pienezza. Presenza nel simbolo che si trova espressa nella Menorah, il candelabro a sette bracci. Prendiamo le mosse dalla tradizione rabbinica: il volto della persona ha sette aperture, e la persona diventa una menorah vivente che arde se il suo cuore arde ricevendo la Luce, ed è spenta invece quando non l’accoglie e si lascia intristire dalle tenebre. L’espressione del volto e degli occhi infatti comunica quanto viene vissuto interiormente. Chi sale il Monte Carmelo e fa sua la Regola, desidera “permanere”, dimorare in una comunione di vita con la Trinità. L’esistenza diventa così “logica”, non secondo la logica dell’informatica, della filosofia, ma secondo il Lògos, cioè il Figlio che per noi si è fatto Uomo. Da qui il dimorare giorno e notte nella Parola del Signore. Nel Tempio a Gerusalemme ardeva sempre la luce perenne, che, come spiegano i maestri, «offriva alle genti la testimonianza che la Presenza divina dimorava su Israele». Così la vita carmelitana, vita orientata dalla Parola e alla Parola rivolta, in una creazione continua. Edith Stein lo colse sinteticamente: «Meditare la legge del Signore può essere una forma di preghiera, quando assumiamo la preghiera nel suo ampio significato abituale. Pensiamo però al “vigilare nella preghiera” come all’inabissarci in Dio, proprio della contemplazione, allora la meditazione ne è solo una via». Se si ritorna al volto, si scopre che l’incontro è la relazione di amicizia, di favore e benevolenza, mentre se il volto si ritira subentra la triste situazione di sfavore. Quella menorah simbolica che è il volto di chi vive nel Carmelo anela proprio all’incontro pieno e luminoso. La menorah risale all’esperienza del deserto del popolo di Israele ed è il simbolo della luce che si dona a quella menorah simbolica che è il volto della persona, cioè al popolo d’Israele e chi «appartiene al cammino» (Atti, 9, 2), cioè ai cristiani che guardano, con il cuore unito e purificato al Signore stesso. Cristo è quella Luce da cui si attinge la luce per accendere ogni giorno un braccio della menorah, e i sette bracci sono i doni dello Spirito Santo. Cristo è il centro della Regola e per chi vive in Cristo i doni dello Spirito si sviluppano e si dilatano. Ogni carmelitano può essere la fiamma riaccesa dalla Luce e accendere tutte le altre luci, con una vita in cui fede e preghiera ne siano i cardini, per non camminare nella luce degli uomini ma nella Luce di Dio. Per noi significa divenire, nell’esilio terreno e nel dimorare nel deserto, nell’esodo continuo, una menorah vivente e palpitante, un volto acceso. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 6 domenica 18 marzo 2012 Le nozze possono essere celebrate solo per sancire l’unione tra uomo e donna La comunità cattolica sollecita aiuti umanitari I vescovi anglicani inglesi e il matrimonio Incontro alla sofferenza nel tunnel siriano LONDRA, 17. Il significato tradizionale del matrimonio, come unione istituzionalizzata tra un uomo e una donna, non può essere cambiato e il progetto del Governo di Londra per consentire a persone dello stesso sesso di celebrare le nozze va contro le convinzioni fondamentali dell’attuale società: è la chiara prima risposta data dai vescovi anglicani inglesi al primo ministro David Cameron che vorrebbe proporre ai membri del Parlamento alcune modifiche alle norme che regolano l’istituzione del matrimonio per consentire, in un prossimo futuro, a coppie di persone dello stesso sesso di celebrare le nozze. Sul sito in rete della Church of England si precisa che dopo che il Governo ha annunciato una consultazione sulla possibilità di ridefinire il significato di matrimonio in modo di dare la possibilità anche a due persone dello stesso sesso di contrarre questo patto, si è ora in attesa di una risposta ufficiale da parte del Consiglio dei vescovi anglicani inglesi a questa consultazione, ma, nel frattempo, vengono pubblicate una serie di recenti prese di posizione sul tema da parte dei membri più rappresentativi del clero. A novembre la seconda edizione del Meeting Cairo IL CAIRO, 17. È stata annunciata nella capitale egiziana la prossima edizione del Meeting Cairo, manifestazione svoltasi per la prima volta, sulle orme del Meeting di Rimini per l’amicizia tra i popoli, in Egitto nel 2010 e sostenuta dal lavoro di 150 volontari cristiani e musulmani. La seconda edizione si svolgerà dal 2 al 4 novembre prossimi con il tema: «Educazione alla libertà». Per Wael Farouq, docente all’American University e fondatore del Meeting Cairo questo «è un momento storico per noi, quella che è stata un’avventura nel 2010 diventa oggi un vero e proprio soggetto civile della società egiziana». Infatti, è stata costituita la fondazione Meeting Cairo, la prima fondazione che nasce dopo la rivoluzione in Egitto, da coloro che nel 2010 avevano promosso l’evento: alcuni giuristi musulmani desiderosi di portare nel loro Paese l’esperienza di dialogo e amicizia vissuta al Meeting di Rimini. La manifestazione sarà promossa dalla Fondazione stessa, in collaborazione con il Meeting di Rimini. «Con noi — ha aggiunto Wael Farouq — ci saranno oltre cento volontari egiziani e in tanti ci stanno chiedendo di partecipare dagli Stati Uniti e dall’Europa». Sostengono l’evento anche le Chiese copto ortodossa, copto cattolica e l’università di Al Azhar. Nel corso di un intervento svolto il 28 febbraio a Ginevra, Svizzera, davanti ai dirigenti del World Council of Churches, Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury e primate dell’Anglican Communion, ha affermato che «le leggi cambiano in conseguenza della maggiore coscienza da parte di intere società su quello che sono e che vorrebbero divenire». Per l’arcivescovo di Canterbury «quando si dice che la mancata legalizzazione del suicidio assistito o, addirittura, del matrimonio fra due persone dello stesso sesso perpetua la stigmatizzazione e l’emarginazione di alcune persone, ritengo che sia un dovere sottolineare che stigma ed emarginazione vanno comunque affrontati su un piano culturale piuttosto che su quello della legge». In un’intervista rilasciata al «Daily Telegraph» il 27 gennaio, l’arcivescovo di York, John Sentamu, ha affermato che «non dobbiamo torturare la lingua inglese. Il matrimonio è una relazione tra un uomo e una donna. Noi vescovi nella Camera dei Lord abbiamo sostenuto la possibilità di riconoscere a livello civile le convivenze, perché crediamo che le amicizie siano comunque buone per tutti. Ma poi, trasformare una convivenza domestica registrata in un matrimonio, non è il ruolo del Governo che non può creare istituzioni che non sono di sua competenza. Non credo che sia il ruolo dello Stato definire che cosa è il matrimonio. Questa definizione si trova nella tradizione e nella storia, e non può essere cambiata nel corso di una notte, non importa quanto sia potente chi vuole cambiarla. Abbiamo visto dittatori farlo in contesti diversi ma io non voglio che siano ridefinite quelle che io chiamo in modo molto chiaro fondamenta sociali che esistono da molto tempo». I vescovi anglicani hanno anche sottolineato che il Governo di Londra, nel caso che voglia consentire a coppie dello stesso sesso di sposarsi, dovrebbe prima risolvere il problema che riguarda l’istituzione giuridica del matrimonio che «coinvolge, su un piano di assoluta parità, sia le coppie che scelgono di celebrare la cerimonia in chiesa sia quelle che invece preferiscono il rito civile». Per i presuli, la proposta di distinguere il matrimonio religioso e quello civile rischia di creare confusione tra cerimonia e istituzione. DAMASCO, 17. I cristiani assistono impotenti alla sofferenza del popolo siriano. Per questo, «la missione umanitaria è una iniziativa benedetta, che incoraggiamo con forza». È quanto ha detto l’arcivescovo Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, commentando l’annuncio di una imminente missione umanitaria. Operazione congiunta fra emissari del Governo siriano, esperti dell’Onu e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica. Per il presule «c’è bisogno di uno sforzo urgente: anche se non abbiamo ancora i particolari sul suo svolgimento, è un intervento apprezzabile e tanto atteso. Speriamo che, nel campo dell’assistenza umanitaria, si attivino sforzi e interventi sempre maggiori». Quanto ai profughi che continuano a lasciare il Paese verso il Libano e la Turchia, il presule sottolinea all’agenzia Fides come «l’esodo preoccupa noi tutti in Siria. L’uscita forzata dalla propria Patria, in queste condizioni di sofferenza, muove a compassione: soffriamo insieme con loro. Sono povere famiglie che lasciano in fretta e furia la propria vita, la casa, gli affetti, verso un futuro ignoto di precarietà. Nell’insieme, la gente soffre ed è stanca per il lungo conflitto» che dura ormai da un anno. In Siria, insomma, la Primavera araba «tarda ad arrivare, mentre le speranze della gente si affievoliscono». Infatti, «la situazione è davvero complicata, ma la questione più grave è che non si vede la fine del tunnel». Di «vicolo cieco» parla anche l’arcivescovo di Damasco dei Maroniti, Samir Nassar, il quale esprime sentimenti di riconoscenza nei confronti del Papa. «La sofferenza che viviamo è grande. Stiamo assistendo impotenti al dramma. Per fortuna il Santo Padre Benedetto XVI colma il vuoto chiedendo pace, giustizia, dialogo e riconciliazione». Il presule maronita, a un anno dall’inizio della rivolta e della violenza nel Paese, ricorda che «quella che era iniziata come una piccola manifestazione nella parte meridionale della Siria, il 15 marzo 2011, si è ora trasformata in una crisi che inghiotte ogni città del Paese. Di fronte a una crisi che, in un anno, è cresciuta dal livello locale a proporzioni regionali, la Siria è diventata una zona di conflitto internazionale, in cui la posta in gioco, che è politica, militare ed economica, sta plasmando il futuro del Paese». In particolare, monsignor Nassar registra che «il conflitto è in un vicolo cieco: da un lato, un forte po- tere centralizzato che rifiuta di farsi da parte; dall’altro, una sollevazione popolare che non accenna ad arrendersi, nonostante l’intensità della violenza. Questo conflitto, che sta paralizzando il Paese, ha portato sanzioni economiche, inflazione, svalutazione della moneta locale (60 per cento), aumento della disoccupazione, distruzione, popolazioni sfollate e vittime a migliaia». La gente «è sottoposta a pressioni enormi e intensa sofferenza, che cresce col passare del tempo. Odio, divisioni e miseria aumentano, in assenza di atti di compassione e di aiuti umanitari. La Siria sembra stretta nella morsa di una impasse mortale». Quanto alla condizione dei cristiani, l’arcivescovo maronita sottolinea come «l’attuale situazione di stallo sta alimentando l’angoscia dei fedeli che, alla fine di ogni messa, si salutano con un addio, avvertendo così incerto il loro futuro. La chiusura delle ambasciate a Damasco ha reso impossibile ottenere i visti, in modo da limitare notevolmente la possibilità di lasciare il Paese». In tale contesto «di grande tormento e divisione la famiglia diventa l’unico rifugio per le vittime della crisi. La famiglia agisce come uno scudo che garantisce la sopravvivenza della società e della Chiesa. Per questo motivo, di fronte a tale tragedia, la Chiesa ha scelto di focalizzare la propria attenzione e pre- In un libro gli articoli di Egidio Picucci scritti per «L’Osservatore Romano» L’ospite degli umili Anticipiamo, qui di seguito, quasi per intero, la prefazione al libro L’ospite degli umili (Todi, Tau Editrice, 2012, pagine 193, euro 14) che raccoglie gli articoli del cappuccino Egidio Picucci scritti per il nostro giornale e per il supplemento settimanale pubblicato tra il 1979 e il 2007. di RAFFAELE ALESSANDRINI Raccogliere articoli e pubblicarli in un libro espone sempre l’autore a correre qualche rischio, poiché, in genere, un pezzo giornalistico è stato scritto per un giorno o al massimo per una settimana. Sorgono in tal caso forti dubbi se l’argomentazione proposta fosse pertinente alle ragioni di quando fu scritto. Al contrario se quello stesso articolo seppe rispondere, più o meno esaurientemente alle esigenze di allora, come non pensare che oggi non sia inesorabilmente datato? Ma per i testi raccolti in questo volume il ragionamento fin qui abborracciato, non regge. Non solo perché sono opera di un giornalista di razza, quale Egidio Picucci è senza ombra di dubbio, ma perché a modesto avviso di chi scrive, queste pagine possono sfidare impunemente tanto la dimensione sincronica che quella diacronica poiché vantano una dote che se ne ride tranquillamente del passato e del futuro. Una dote, o meglio un carisma, che san Paolo chiama profezia. E, al contrario di ciò che si potrebbe credere, il profeta vive sempre nel presente e quanto dice è una chiamata provvidenziale non per domani, ma già per oggi. «Noi ci ricor- diamo di quello che viene» diceva san Giovanni Crisostomo. Ricercare la verità dovrebbe essere un dovere per tutti; saperla comunicare senza inseguire successi e affermazioni personali, è prerogativa di pochi. Padre Egidio Picucci è un missionario che ha sempre viaggiato da povero tra i poveri di mezzo mondo; e neppure oggi riesce a starsene fermo. Di tanto in tanto si rimette in moto, si guarda in giro e poi ritorna, per raccontare quanto ha visto, chiamando ogni cosa col suo nome, con garbo ed equilibrio innati, e senza curarsi del politicamente corretto. Il Vangelo è la sola lampada, e il solo criterio, che guida il suo cammino. Se poi consideriamo che si tratta di un cammino francescano e per giunta cappuccino («che — pedibus calcantibus — va piano e va lontano» come cantava Ugo Piazza – Puf, il medico-poeta amico di Paolo VI, nella poesia d’angolo dell’«O sservatore della Domenica» del 17 luglio 1966 parlando proprio di un giovanissimo padre Egidio allora fresco autore di una raccolta di Nuovi Fioretti france- scani), abbiamo già una prima indicazione di fondo. Padre Picucci ci parla della realtà delle persone, piccole e grandi, illustri o umili, ricordando che c’è amore e c’è speranza per ognuno; anche nelle circostanze apparentemente più oscure e senza via d’uscita. La fame, la sete, la lebbra, i bambini-soldato, le ingiustizie e le crudeltà, le morti patite dai tanti giusti e innocenti che incontriamo in queste pagine sono di quelle che spingono alla rabbia e ribellione. Ma «se Gesù è morto perdonando non è più possibile odiare» come dice un uomo nell’Albania degli anni Novanta, al quale nelle settimane prima di Pasqua hanno ucciso il figlio, finché il venerdì santo egli rinuncia alla vendetta e decide di consegnare il kalashnikov al prete che lo è andato a trovare. In queste pagine si coglie anche un costante richiamo al magistero autorevole della Chiesa che affonda le sue radici nella Tradizione e nella Parola di Dio; ciò che sorprende è scoprirne poi i riscontri più inaspettati nella sapienza e dalla testimonianza degli umili e dei poveri. La pace allora comincia spesso con un sacrificio scaturito da un atto di carità e di accoglienza gratuita verso i nemici, o i fratelli apparentemente lontani. Al di là delle molte parole comunemente dette e scritte dagli uomini dell’informazione, per le speranze del mondo, alla fine resta un fatto decisivo e incontrovertibile che risalta in questi scritti di padre Egidio: il Verbo non si è fatto “carta”, ma “carne” e i suoi fratelli più piccoli continuano a darne testimonianza. ghiera per le famiglie, fornendo loro tutto l’aiuto e il sostegno possibile». Ma, intanto, «la crisi non sembra volgere al termine. Piuttosto, la tempesta è sempre più forte e non si vede la fine del tunnel. Dove andrà e che fine farà la Siria?». Con tale preoccupazione, i cristiani vivono la Quaresima, «in silenzio, con il cuore pesante e gli occhi rivolti a Cristo Risorto, che guida i nostri passi sulla via del perdono e della pace». Sulle chiese in Kuwait Il gran mufti d’Arabia Saudita non cambia idea KUWAIT CITY, 17. Eliminare tutte le chiese cristiane. In Kuwait si riaccende la polemica sulla proposta avanzata nelle scorse settimane da un gruppo parlamentare islamista che ha annunciato una proposta di legge per vietare nel piccolo emirato la costruzione di chiese e altri luoghi di culto non islamici. Ad alimentarla, in queste ore — secondo quanto riferiscono diverse fonti d’informazione — è la dichiarazione del gran mufti dell’Arabia Saudita, lo sceicco Abdul Aziz Al-Asheikh, per il quale «è necessario distruggere tutte le chiese». Un’affermazione che la più alta autorità legislativa del Paese sunnita — dove ogni religione non islamica è fuori legge — ha fatto incontrando una delegazione kuwaitiana, che lo ha appunto sollecitato sull’interpretazione della sharia riguardo alla presenza di luoghi di culto non islamici. Salvo poi chiarire che le sue parole si riferivano alle sole «chiese presenti nella regione», poiché «non ci possono essere due religioni in Arabia». Una presa di posizione che, come accennato, in Kuwait si innesta alle polemiche suscitate dalla proposta di legge del gruppo parlamentare islamista AlAdala Bloc (Gruppo della giustizia) che intende vietare la costruzione di chiese e altri luoghi di culto non islamici. Una proposta che — come riferisce l’agenzia Fides — ha incontrato vasti dissensi nella società civile. Il parlamentare Nabeel Al Fadhel ha rilevato che «la Costituzione stabilisce chiaramente la libertà religiosa e il diritto di tutte le persone a praticare le proprie credenze religiose». E per l’organizzazione Kuwait Human Rights Society si tratta di una proposta «irresponsabile che diffonde tensione e odio tra i cittadini». † Il Comandante e il Corpo della Guardia Svizzera Pontificia partecipano al dolore della famiglia per la scomparsa dell’ex vice comandante GREGOR VOLKEN tenente colonnello assicurando un ricordo nella preghiera. L’OSSERVATORE ROMANO domenica 18 marzo 2012 pagina 7 Il cardinale Bagnasco alla veglia per le vittime delle mafie I vescovi chiedono al Governo di Dublino d’istituire un ministero per i cittadini che lavorano all’estero Educazione alla legalità La ricorrenza di san Patrizio in Irlanda dedicata a quanti devono emigrare GENOVA, 17. Contro «la violenza e il male» generati dalle mafie occorre soprattutto puntare «sull’educazione e la formazione dei nostri ragazzi, dei nostri giovani al bene, alla verità, alla giustizia e alla legalità». È l’indicazione che il cardinale arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), Angelo Bagnasco, ha offerto, nella serata di ieri, in occasione della celebrazione nella cattedrale della città della «Veglia ecumenica in memoria di tutte le vittime innocenti delle mafie», organizzata dall’associazione Libera di don Luigi Ciotti. Parlando di fronte a oltre cinquecento familiari di vittime delle attività criminali, il porporato ha esortato «a non arretrare di fronte alla violenza e al male anche se la tentazione sarebbe forte» e di «continuare a tenere vivo un fuoco di memoria, di preghiera, di speranza, di fede in Dio e nei valori di solidarietà». E, rivolgendosi ai fedeli che hanno gremito la cattedrale, il presidente della Cei ha affermato: «Voi siete una testimonianza viva di quella che è l’anima più profonda del nostro popolo, della nostra gente. Il Vangelo ci ricorda di non temere, di non avere paura e voi, questa sera, come sempre, siete la testimonianza del coraggio, della forza, del credere al futuro, di credere di poter vivere insieme in modo più sicuro e più giusto». La veglia è stata organizzata dall’associazione Libera nel capoluogo ligure, dove oggi si svolge la XVII Giornata del ricordo e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie, caratterizzata da una lunga marcia lungo le strade della città. Un momento di profonda commo- zione ha suscitato durante la veglia, la lettura dei nomi delle vittime di lunghi anni di odio e di violenza che hanno caratterizzato la storia del Paese. Un lungo elenco di nomi che sono risuonati all’interno della chiesa, accompagnati da preghiere al «Dio della speranza» affinché «asciughi tutte le lacrime». Tantissimi i giovani presenti nella cattedrale, nati in particolare tra gli anni Ottanta e Novanta, quando l’attività della mafia culminò con una serie di stragi. E proprio con uno sguardo privilegiato alle presenti e future generazioni, il cardinale Bagnasco ha voluto indicare la necessità di puntare sulla formazione. Per superare la mafia, ha evidenziato il porporato, servono «l’educazione e la formazione dei nostri ragazzi, dei nostri giovani al bene, alla verità, alla giustizia e alla legalità» e, ha aggiunto, «di quanto ci sia bisogno di tutto questo, è sotto gli occhi di tutti, non soltanto in riferimento a certe “piovre” che ben sono conosciute nel nostro Paese, come in altre parti del mondo, ma per qualunque altra situazione». Per questo, ha proseguito il cardinale, «è quanto mai necessario recuperare l’educazione alla verità e ai valori autentici che la cultura contemporanea, sotto la spinta di interessi di diversa natura vuole distruggere». Perché nel contrasto alla criminalità, ha concluso il presidente della Cei, anche «le forze dell’ordine sono insufficienti senza l’educazione che deve iniziare nelle famiglie, cuore dello Stato e nella scuola. È la strada giusta che prende il male alla radice e lo trasforma in bene». DUBLINO, 17. I vescovi irlandesi hanno chiesto al Governo di Dublino l’istituzione di un ministero per gli emigrati. La richiesta, formulata nei giorni scorsi da monsignor John Kirby, vescovo della diocesi di Clonfert e direttore del Consiglio episcopale irlandese per gli emigrati, è motivata dalla constatazione che negli ultimi anni, a causa della crisi economica e della conseguente povertà, è aumentato il numero di irlandesi che decide di cercare lavoro all’estero. In un comunicato riportato dall’agenzia Sir, il vescovo John Kirby ha sottolineato che «non è certamente esagerato dire che il flagello dell’immigrazione colpisce ogni famiglia irlandese. Perciò serve dare una risposta politica che si dimostri tangibile». Per il presule è necessario che «il Governo prenda in considerazione l’istituzione di un ministero con specifiche responsabilità nei confronti dei nostri emigrati». Il responsabile del Consiglio episcopale ha inoltre precisato che l’istituzione del nuovo dicastero «avrebbero un duplice beneficio: in Irlanda, potremo essere aggiornati con più frequenza sulle situazioni che sperimentano i nostri emigrati. E loro saranno rassicurati perché consapevoli del nostro sostegno». Secondo l‘ufficio centrale di statistica a Dublino, nei primi quattro mesi del 2011 sono emigrati oltre quarantamila cittadini irlandesi, un aumento del 45 per cento rispetto all’anno 2010. Nei giorni precedenti alla festa nazionale di san Patrizio, che si celebra oggi sabato 17, i vescovi irlandesi avevano annunciato che per l’occasione erano stati messi in programma incontri con alcune delegazioni di emigrati e i responsabili delle cappellanie all’estero. La richiesta di questi incontri era stata avanzata sempre dal direttore del Consiglio episcopale irlandese per gli emigrati, il vescovo Kirby, che ha a più riprese sottolineato gli effetti della crisi economica nel corso degli ultimi anni. Il Consiglio episcopale irlandese per gli emigrati ha preparato una cartella informativa per gli emigrati che viene distribuita oggi in occasione della festa di san Patrizio. La cartella è stata voluta per dotare gli emigrati di informazioni che permetteranno a loro di prende- re decisioni che saranno utili per sostenerli nella loro nuova vita all’estero. Questa cartella include una ricerca sulla realtà dell’emigrazione con la storia degli emigrati irlandesi. Inoltre, vengono riportate alcune delle loro esperienze personali e le storie di coloro che lavorano per sostenere le comunità degli irlandesi all’estero. Negli opuscoli vi sono anche indicazioni per aiutare nelle scelte coloro che desiderano emigrare. Tra queste, vi sono dettagliate istruzioni su come devono essere elencati nelle domande d’emigrazione i necessari requisiti per ottenere il visto e le informazioni, nazione per nazione, sui costi medi degli affitti degli alloggi, sulle possibilità di trovare velocemente un’occupazione, sulle norme da rispettate per essere coperti anche all’estero dall’assicurazione sanitaria. Nella cartella è anche presente un libretto di preghiere per ricordare a chi si trova all’estero che la fede in Dio non deve mai essere dimenticata. Tra le varie orazioni, c’è quella appositamente dedicata ai migranti. I dati di un’analisi condotta negli Stati Uniti Video per i giovani realizzato dalla Conferenza episcopale spagnola Comunità religiose sempre più tecnologiche YouTube e vocazioni sacerdotali WASHINGTON, 17. L’utilizzo delle moderne tecnologie di comunicazione da parte delle comunità religiose negli Stati Uniti appare in costante aumento. Il ruolo che i cosiddetti social network e, internet in generale, hanno assunto nell’ambito delle attività di sviluppo di istituti e organizzazioni, non soltanto cattolici, ma anche di altre confessioni cristiane e di altre religioni, è divenuto vitale. È la “fotografia” che emerge da un’analisi dal titolo «Virtually Religious: Technology and Internet Use in American Congregation». Si tratta di uno studio che prende in esame sostanzialmente un decennio di riferimento, mostrando come nel tempo le comunità abbiano sviluppato un forte orientamento verso nuove strategie comunicative. Un dato su tutti rende significativa la trasformazione: secondo lo studio nel 1998 soltanto il 22 per cento delle comunità, incluse anche le parrocchie cattoliche, si servivano del sistema di posta elettronica (email) per curare e sviluppare i contatti con i fedeli e più in generale le persone residenti nel proprio territorio o altrove. Nel 2010, la percentuale è salita in maniera notevole fino a sfiorare il 90 per cento. Inoltre, anche l’utilizzo in generale di altri strumenti di comunicazione, come ad esempio facebook, ha ottenuto una sempre più crescente attenzione. Sempre nel 2010, a tale riguardo, è risultato che circa i due terzi delle comunità religiose hanno fatto ampio ricorso alla posta elettronica e all’ampia consultazione della rete per rendersi sempre più «aperte» agli ambienti esterni. A presentare l’analisi — di cui riferisce l’agenzia Catholic News — è stato nei giorni scorsi un docente presso l’Hartford Institute for Religion Research dell’Hartford Seminary, un istituto educativo di studi inerenti i rapporti tra le varie comunità religiose, situato nello Stato del Connecticut. Il docente, Scott Thumma, ha spiegato che, mettendo assieme tutte le tecnologie comunicative, si è concluso che un quarto di tutte le comunità religiose ne fanno un uso fondamentale, mentre soltanto un terzo appaiono considerarle poco importanti. Soprattutto l’ampio utilizzo delle nuove tecnologie comunicative risponde all’esigenza di confrontarsi con lo sviluppo delle stesse comunità, che hanno necessità di raggiungere fedeli spesso sparsi in località lontane e acces- sibili con difficoltà. Secondo Thumma, «se si hanno dimensioni occorre anche servirsi della tecnologia». A tale riguardo si citano come esempio le comunità religiose composte da oltre 250 fedeli, di cui il 46 per cento ricorrono essenzialmente a internet per comunicare. Dimensioni delle comunità religiose, ma anche spazi territoriali assai vasti, visto che si tratta degli Stati Uniti, sono dunque considerate le caratteristiche determinanti che concorrono a determinare lo sviluppo dell’utilizzo delle nuove tecnologie. Il ricorso alla posta elettronica, per esempio, è considerato pertanto uno strumento di sviluppo per le stesse comunità. Per il docente «se una comunità si avvale di e-mail o di blog ha più canali per promuovere se stessa». Anche l’utilizzo dei blog appare gradualmente più diffuso: almeno il 3 per cento delle comunità ne fanno uso. Così come anche l’utilizzo degli archivi informatici per conservare in maniera sempre più efficiente i dati. L’indagine dell’associazione webmaster cattolici italiani Preti su Facebook ROMA, 17. In Italia, un sacerdote su cinque è iscritto a Facebook. Percentuale che sale fino al 59,7 per cento nel caso dei seminaristi. Lo rileva uno studio condotto dal Centro di ricerca sull’educazione ai media all’informazione e alla tecnologia (Cremit) dell’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano e dal dipartimento istituzioni e società dell’università di Perugia che hanno indagato per conto dell’Associazione webmaster cattolici italiani (WeCa) sull’uso di Facebook da parte di sacerdoti, religiosi e seminaristi. Dai dati emerge che il 20 per cento dei preti diocesani e religiosi ha un profilo su Facebook, una percentuale ele- vata se la si confronta con il dato più generale dei cittadini italiani. Secondo la ricerca, inoltre, si registrano «una differenza numerica di presenza da parte delle religiose rispetto ai religiosi e differenze tra nord e sud del Paese: è il sud in questo caso che appare come l’universo maggiormente digitalizzato rispetto a un nord che invece sembra essere meno incline all’uso dei media sociali e partecipativi». Infine, l’associazione WeCa, all’interno dei quindicimila siti cattolici italiani, ha assegnato un premio a padre Antonio Spadaro, direttore di «Civiltà Cattolica», per la categoria «siti personali» (www.cyberteologia.it). MADRID, 17. «Non ti prometto un grande stipendio, ti prometto un lavoro fisso» e «una vita appassionante»: la Chiesa spagnola, in deficit di vocazioni, si rivolge anche a YouTube per stimolare i giovani a scoprire la vocazione sacerdotale. In occasione della celebrazione della giornata del seminario, che si svolge nella maggior parte delle diocesi il 19 marzo, la Conferenza episcopale spagnola (Cee) ha realizzato e pubblicato un video, della durata di due minuti e mezzo. Il filmato, diffuso attraverso YouTube e diverse reti sociali come Facebook e Twitter, ha lo stesso obiettivo della campagna avviata per le vocazioni sacerdotali: la sensibilizzazione della società e in particolare della comunità cristiana «sul tema delle vocazioni e del servizio sacerdotale per l’evangelizzazione e la promozione umana». Nel video — che comprende immagini girate in occasione della Giornata mondiale della gioventù di Madrid — nove giovani sacerdoti diocesani lanciano un messaggio coraggioso, gioioso, suadente, ma soprattutto rendono un’originale testimonianza di fede proponendo una scommessa forte per vivere «una vita appassionata». Si rivolgono ai coetanei che sentono di avere la vocazione a farsi avanti e chiedono loro: «Quante promesse hai ricevuto che non sono poi state mantenute?». Per poi elencare — sottotitolate in inglese — le proprie: «Non ti prometto che ciò che dirai verrà ascoltato, ma che vorrai ripeterlo più volte»; ed ancora: «Non ti prometto una vita di avventure, ma una vita appassionante»; «Non ti prometto la comprensione di chi ti circonda, ti prometto che sapranno che hai fatto la cosa giusta», aggiunge un altro. E un altro ancora: «Non ti prometto una decisione facile, ti prometto che non te ne pentirai mai». Il video, pur nella sua sua sinteticità, riesce in modo efficace e attrente a lasciare intuire «la grandezza del sacerdozio che si fonda sulla testimonianza di Gesù Cristo», sull’incontro con una persona che salva e fa liberi. Infatti il video si conclude con l’immagine del volto di Cristo e con una voce ferma, suadente che afferma: «Non prometto una vita di avventura, prometto una vita appassionata». Il testo del video è stato preparato attraverso le risposte date da più di cento sacerdoti diocesani di tutta la Spagna, intervistati sul tema della carenza delle vocazioni sacerdotali in un contesto storico come l’attuale segnato dalla secolarizzazione e dal materialismo, ove sembra sempre più affievolirsi il senso di Dio. Una situazione a cui si aggiungono le conseguenze della generalizzata crisi economica e finanziaria che sta investendo l’Europa e i mercati internazionali. La disoccupazione nel Paese ha raggiunto il livello record nell’Ue del 22,85 per cento a fine 2011, e del 49,9 per cento fra i meno di 25 anni. Pur in un contesto così difficile, tuttavia, si profilano all’orizzonte «segni di speranza». Secondo i dati resi noti dalla stessa Conferenza episcopale il numero di sacerdoti è au- mentato del 4,2 per cento nell’ultimo anno: sono attualmente 1.278 contro però il 1.738 del 2002. La Conferenza episcopale spagnola con il video sulle vocazioni sacerdotali, realizzato di concerto con la Commissioni episcopali per i seminari e per le università e con l’Ufficio Cee delle comunicazioni sociali ha inteso offrire «una comunicazione innovativa», una sorta di «scommessa appassionata» per il futuro, specialmente dei giovani spagnoli. Non a caso la campagna per le vocazioni sacerdotali ha quest’anno come motto generale: «Passione per il Vangelo» e come poster i giovani che innalzano la croce, quando Benedetto XVI ha chiuso la Giornata mondiale della gioventù di Madrid nell’agosto del 2011. L’OSSERVATORE ROMANO pagina 8 domenica 18 marzo 2012 A colloquio con il cardinale Santos Abril y Castelló, arciprete della basilica papale di Santa Maria Maggiore Messa del cardinale Bertone per gli ottant’anni dell’O ftal Al servizio della Chiesa tra diplomazia e pastorale Non c’è dolore inutile di NICOLA GORI Alle spalle ha una lunga carriera diplomatica il cardinale Santos Abril y Castelló, arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore. Un impegno che l’ha portato a servire la Santa Sede in molti Paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America del Sud, ma è stato in Europa che ha dovuto affrontare le sfide più impegnative e drammatiche, come la guerra del Kosovo. Era infatti nunzio apostolico nella Repubblica Federale di Jugoslavia quando iniziarono i bombardamenti Nato su Belgrado. Scelse di rimanere sul posto per affrontare la crisi con equilibrio e coraggio limitando i danni non solo alle rappresentanze diplomatiche, che lo avevano eletto loro portavoce — caso unico in tempo di guerra per un nunzio apostolico — ma anche alla Chiesa. In questa intervista al nostro giornale ripercorre con grande partecipazione il periodo di permanenza nella nunziatura del Paese balcanico e anticipa alcuni progetti che ha in animo per il suo nuovo incarico nella basilica liberiana. garante della sicurezza di tutte le missioni anche di quelle che non hanno relazioni con noi». Pur trattandosi di un periodo difficile è stato possibile salvare vite umane e risolvere molte cose a livello diplomatico e di interesse per la Chiesa. Ci racconta la sua esperienza di insegnante di spagnolo di Giovanni Paolo II? Nel 1978, l’anno in cui è stato eletto Giovanni Paolo II, ero a capo della sezione di lingua spagnola della Segreteria di Stato. All’udienza generale del mercoledì leggevo l’elenco dei gruppi spagnoli presenti. Un giorno, dopo l’udienza, Giovanni Paolo II mi chiese quante persone nel mondo parlassero spagnolo. E quando gli dissi che erano quasi la Maria Maggiore. Come intende svolgere questo ruolo? Il nome stesso indica che è il più importante tempio dedicato alla Madonna, anche se non è stato il primo a essere costruito: quello di Efeso è anteriore. Data questa importanza, molte chiese mariane hanno avuto l’onore di venire affiliate a Santa Maria Maggiore, godendo così di alcuni privilegi e indulgenze concesse alla basilica liberiana. Sono ben cosciente dell’importanza di questo tempio per la pastorale e per la devozione alla Madonna. Per questo, penso di dedicare tutte le mie energie per mantenere tutto quello di bene che è stato fatto fino a ora e se possibile intraprendere qualche nuova iniziativa che possa aiutare di più la pietà dei fedeli per promuovere la Nella sua carriera diplomatica ci sono degli episodi che le sono rimasti impressi in maniera particolare? Ho svolto un lungo servizio diplomatico. Ho iniziato, infatti, la mia carriera diplomatica nel 1967, e ho girato diversi Paesi per rappresentare la Santa Sede. Il ricordo più vivo di questi anni è legato al mio incarico nella Repubblica Federale di Jugoslavia. Ero appena arrivato, nel febbraio 1996, e mi sono trovato ad affrontare una difficile crisi: la guerra del Kosovo che sconvolse la regione. Belgrado era sotto i bombardamenti notturni della Nato. L’ho vissuta direttamente l’esperienza di quel conflitto. A Belgrado, il nunzio apostolico non era il decano del Corpo diplomatico, ma visto che il decano era quasi sempre assente, gli ambasciatori vollero eleggere un coordinatore e un portavoce che difendesse le missioni diplomatiche. Scelsero me, all’unanimità. Non fu un compito facile da interpretare. Ho dovuto prendere delle decisioni non semplici e proporre al governo dei cambiamenti radicali per far rispettare le missioni diplomatiche. Come ha affrontato quei momenti? Ho avuto degli incontri con alcuni esponenti governativi durante i quali ho ribadito certe esigenze assolute. Devo dire con risultati positivi. Ci può fare qualche esempio? Ricordo che, tanto per dirne una, avevano vietato ai i diplomatici di riunirsi tra di loro. Mi sono opposto molto energicamente e ho avvertito che avremmo comunque continuato ad esercitare un nostro diritto in quanto diplomatici. Sono stato oggetto di intimidazioni e minacce, ma alla fine hanno dovuto rispettare la nostra decisione. Altra criticità fu quando venne bombardata l’ambasciata cinese. Ci riunimmo e decidemmo di inviare una formale protesta alla Nato per chiedere la protezione delle missioni diplomatiche. Scrissi personalmente all’allora segretario della Nato. L’ambasciatore cinese apprezzò molto e a crisi conclusa mi disse: «Vediamo come la Santa Sede sa agire rispettando i diritti di tutti e come il decano sa anche essere indipendente per rendersi Catechesi attraverso l’arte alla Gmg di Rio Una «catechesi per immagini»: è questo il senso della mostra sul volto di Cristo, che sarà allestita in occasione della XXVIII Giornata mondiale della gioventù a Rio de Janeiro nel 2013. Organizzata dalla Fondazione Giovanni Paolo II del Pontificio Consiglio per i Laici, l’esposizione si terrà presso il Museo di Belle Arti della capitale carioca e sarà articolata in cinque sezioni («Il volto di Cristo», «La chiamata degli Apostoli», «Le parabole della vita cristiana», «I santi seguaci di Cristo», «Maria via maestra verso Cristo»), che presenteranno altrettanti capolavori dell’arte visiva europea. vità dell’arciprete. Ho notato che esiste la buona volontà di operare per il bene pastorale della basilica, affinché svolga adeguatamente la sua missione. Nella basilica si conservano numerose opere d’arte inestimabili. Come pensate di valorizzare questo patrimonio e renderlo fruibile ai fedeli e al pubblico? Le opere d’arte sono effettivamente tante in questa basilica. Conservarle e restaurarle per mantenerle nello splendore originario implica diverse responsabilità, da quella dei servizi tecnici del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, per esempio, a quella dei Musei Vaticani. È opportuno perciò continuare a promuovere questa buona intesa esistente. È mia intenzione fare il possibile perché queste opere siano disponibili per la visita dei fedeli e servano per far riflettere sui testimoni di fede del passato e sulle radici cristiane della nostra società. Pensiamo per esempio all’icona della Salus Populi Romani. Le visite organizzate, ma anche i singoli pellegrini e non solo romani, che passano per la basilica si soffermano a vedere questa icona che ha una tradizione antichissima. L’immagine è collocata in un posto di rilievo all’interno della cappella paolina e credo che identifichi la basilica. È mia intenzione valorizzarla al massimo, perché Maria offre la possibilità di avvicinarsi a Dio. La stessa cosa si può dire della reliquia della culla e del presepe di Arnolfo di Cambio. Avere una reliquia come questa significa ravvivare nella coscienza dei fedeli il ricordo dell’umiltà della nascita di Gesù. Durante la solennità del Natale al momento del Gloria in excelsis Deo si va processionalmente davanti a essa per ricordare il canto degli angeli. Da spagnolo come vive il particolare legame che unisce questa basilica al re Juan Carlos? La basilica di Santa Maria Maggiore in un’antica stampa metà della Chiesa, esclamò: «allora un Papa non può non saper parlare lo spagnolo». In quel momento non avrei mai immaginato che di lì a poco mi avrebbe chiesto di insegnargli la mia lingua. Rimasi molto sorpreso e quasi in imbarazzo. Il Papa mi mise però subito a mio agio. Andavo da lui tutti i giorni appena aveva un po’ di tempo, perché si stava preparando il viaggio in Messico, voleva imparare in fretta. È stata un’esperienza molto bella e conservo bei ricordi sulla sua capacità straordinaria di imparare e del suo buon umore. Nel novembre scorso il Papa l’ha nominata arciprete della basilica di Santa devozione alla Madonna. La mia intenzione è di far sì che la basilica diventi anche un centro di irradiazione del magistero del Papa in tutti i campi. Il suo magistero deve essere non solo ascoltato, ma promosso, insegnato, ripetuto in maniera tale che i fedeli si nutrano di quel ricchissimo insegnamento. Quali sono i compiti dell’arciprete della basilica? I compiti sono quelli di guidare e coordinare la vita della basilica in collaborazione con il capitolo. È proprio il capitolo, composto da vescovi e sacerdoti, che sostiene l’atti- Ho avuto un piacere particolare nell’essere nominato arciprete della basilica non solo per l’affetto a Maria, ma per il legame che questa chiesa ha con la mia patria. In molte occasioni i reali spagnoli hanno beneficato la basilica. Basti per tutti ricordare che il primo oro che arrivò dall’America fu offerto per dorare il tetto della basilica. Un fatto che, sembra sia storicamente accertato. I reali, poi, sono intervenuti molte volte nel corso dei secoli per abbellire e decorare la basilica. A memoria di questo legame storico, è conservata una statua di Filippo IV, il re che ha fondato l’opera pia spagnola, un’istituzione che si incarica di aiutare i pellegrini che si recano a Roma e in Terra Santa. L’opera è ancora attiva ed è molto legata all’ambasciata di Spagna presso la Santa Sede. Ogni re che sale sul trono spagnolo è protocanonico del capitolo liberiano. Un angolo di paradiso è già qui sulla terra, proprio dove l’amore riesce a dare significato alla sofferenza. È una prospettiva di speranza quella che il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, ha riaffidato sabato mattina, 17 marzo, all’Opera federativa trasporto ammalati a Lourdes (Oftal) che, con una messa celebrata nella basilica Vaticana, ha festeggiato l’ottantesimo compleanno. Una storia di servizio ecclesiale sempre in prima linea, ha sottolineato il cardinale nell’omelia, con una priorità indiscussa: le persone malate. È «soprattutto a loro», e a quanti li assistono, che il segretario di Stato ha portato «il beneaugurante saluto e la paterna benedizione del Santo Padre, che si unisce spiritualmente a noi in questo momento così carico di fede». I malati, ha assicurato, non sono mai soli. La Chiesa è con loro e l’Oftal lo testimonia. Partendo da questa certezza, il cardinale ha spiegato che «in ogni vostro pellegrinaggio a Lourdes o in altri santuari mariani, vi viene ridonato l’amore di Cristo. E rinasce tra voi un legame, un vincolo di amicizia, un patto, che non termina dopo quei giorni di intensa spiritualità, di grande comunione e di profonda fede. Continuate a vedervi, ad amarvi, a stare gli uni vicini agli altri, mediante la preghiera e le visite reciproche. Questo significa prendere l’altro a casa propria, come Giovanni fece con Maria. In un mondo dove la solitudine appare come una legge ferrea e inesorabile, e dove chi è debole viene emarginato e dichiarato inutile, noi cristiani, che sotto la croce siamo stati affidati a Maria, viviamo e portiamo l’amore». «Ciascuno di noi — ha detto il porporato — non importa se sano o malato, non importa se giovane o anziano, fa parte di quella famiglia che rinasce dalla Croce. È la famiglia dei figli di Dio. E questo è già il paradiso, la stupenda realtà di cui ci ha parlato san Paolo, dove né tribolazione né angoscia, né persecuzione né pericolo possono mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù. L’amore del divino Maestro infatti ci fa vivere e gustare già da ora un po’ di paradiso». È Maria, ha aggiunto, il riferimento più sicuro per quanti vivono l’esperienza della sofferenza. Ha quindi ricordato ai presenti l’importanza del provenire «da tante città e paesi diversi, con tante storie differenti. Ciascuno di voi ha comunque una preghiera nel cuore e un desiderio spirituale da presentare a Gesù per mezzo dell’intercessione di sua Madre. Nel vostro peregrinare a Lourdes, dopo il primo pellegrinaggio di monsignor Alessandro Rastelli cento anni fa, e nella vostra consuetudine orante con la Vergine Immacolata, voi avete compreso che Maria accoglie tutte le preghiere dei suoi figli; nessuna nostra parola, nessun nostro desiderio è perduto; nessuna nostra sofferenza, nessuna nostra pena è inutile; tutto e tutti Maria raccoglie e anche presenta oggi all’altare del cielo». Infine il segretario di Stato ha commentato il brano del Vangelo che descrive la scena ai piedi della croce di Gesù. «Anche noi, spiritualmente, riviviamo quell’esperienza — ha concluso — assieme a Maria e al giovane discepolo Giovanni; noi sani e malati; in modo particolare voi, malati, che portate sul corpo i segni della malattia come Gesù portava i segni della croce. Oggi ancora una volta contempliamo quel Crocifisso. In verità, quella croce non era la fine, anzi era la sconfitta del male, la sconfitta dell’egoismo. In Gesù crocifisso vinceva l’amore per Dio e per gli altri». Tra i concelebranti il presidente generale dell’Oftal, monsignor Angelino e i monsignori Piechota e Lucchini della segreteria particolare del cardinale. Il rito è stato diretto da monsignor Karcher, cerimoniere pontificio, assistito dai monsignori Sanchirico e Kwambamba. L’arcivescovo Fisichella a un convegno sulla nuova evangelizzazione Per una testimonianza cristiana convincente «Oggi più di ieri la Chiesa dev’essere testimone della salvezza» e «saper creare nuovi segni» capaci di convincere anche ai nostri giorni «quanto il Vangelo sia un’ancora in grado di radicare il senso dell’esistenza». E questa è anche una delle maggiori sfide che interpellano il Pontificio Consiglio per la promozione della Nuova Evangelizzazione, secondo quanto affermato dal suo presidente, l’arcivescovo Rino Fisichella, in occasione di un convegno svoltosi lunedì 12 marzo, alla Pontificia Università della Santa Croce, in vista dell’anno della Fede e del prossimo Sinodo dei vescovi. Approfondendo il tema dei lavori «Comunicazione della fede e testimonianza cristiana», il presule è partito dal presupposto che «la testimonianza rappresenta l’ultima parola» pronunciata dal cristiano «per dare credibilità alla sua fede, consapevole che essa equivale a offrire in dono la propria vita per amore». Perché — ha aggiunto «i discorsi e la dialettica delle parole potranno spesso vincere l’altro; la testimonianza, al contrario, sarà in grado di convincere». Dopo aver ricostruito il significato storico, giuridico e semantico del termine testimonianza, monsignor Fisichella ne ha individuato i tre elementi fondamentali: anzitutto il fatto riferito, poi il soggetto che lo afferma e, infine, i destinatari. «Spesso — ha avvertito — si è portati a dare maggior importanza al contenuto, senza considerare la responsabilità di chi riferisce. Il valore della testimonianza, invece, si specifica proprio in questa relazione che la differenzia da altre forme di comunica- zione. Il contenuto testimoniato non può prescindere dal considerare il testimone. Nella testimonianza non esiste delega». Del resto — ha proseguito nella sua riflessione il presidente del dicastero per la Nuova Evangelizzazione — la Sacra Scrittura utilizza la categoria della testimonianza in maniera ricca e pluriforme, soprattutto nel Vangelo di Giovanni, dove «Cristo è il testimone perfetto e fedele del Padre» ed «è nello stesso tempo testimone e testimonianza, perché in Lui l’essere rivelazione e rivelatore s’identificano». Di questo «sono testimoni privilegiati gli apostoli che hanno vissuto in intimità di vita con Lui; loro stessi sono inviati nel mondo come testimoni di ciò che Egli ha compiuto». Quindi monsignor Fisichella ha elencato alcune caratteristiche della testimonianza, così come emergono dalla Scrittura e soprattutto dai Vangeli. Primo: il testimone non è una persona qualsiasi, al contrario è depositario di una chiamata che lo abilita alla missione della testimonianza. Quest’ultima non è concepita come un’attestazione per se stessi; piuttosto, è realizzata per essere recepita e giudicata da altri. Essa, poi, rappresenta un forte impegno di vita, anzi è la vita stessa che testimonia. Infine la testimonianza non è da considerare come un’iniziativa dell’uomo, piuttosto è dono gratuito di Dio, che sceglie, elegge e abilita. Infine nell’ultima parte del suo intervento l’arcivescovo ha messo in luce le implicazioni della testimonianza per questo la nuova evangelizzazione. Dal concilio Vaticano II in poi, tutto il magistero della Chiesa ha mostrato quanto i testimoni siano «insostituibili e necessari» per la nuova evangelizzazione e quanto la testimonianza sia «vitale per la Chiesa nello svolgimento della sua missione nel mondo»; anzi essa «è la prima via da percorrere. L’annuncio del Vangelo di Gesù richiede testimoni convinti, capaci di mettere la propria esistenza a servizio della verità di un annuncio che può essere accolto solo tramite loro». Poi, «una volta colto il valore della testimonianza, si è introdotti in una personale ricerca di verità, che possiede tappe che devono essere percorse. Il testimone fa da apripista, ma la sua opera continua. La vita della comunità e la vita sacramentale sono spazi di nuova evangelizzazione mediante i quali si fa di nuovo appello alla conversione e alla fede». In secondo luogo — ha proseguito il presule — «la testimonianza crea una relazione tra i soggetti. Quando il testimone annuncia i contenuti della fede gioca in prima persona la sua credibilità. Nell’annunciare, infatti, egli deve essere in grado di far percepire la verità dei contenuti e la convinzione dell’avere trovato un senso alla sua vita. Quando il testimone è veritiero diventa immediatamente degno di fede e per questo credibile». E «non sfugge da questo orizzonte neppure chi riceve la testimonianza. Egli, infatti, non solo percepisce la credibilità del testimone, ma è chiamato anche a giudicare il grado di sincerità che questi esprime. Solo in questo modo potrà seguirlo». Da qui per il relatore «l’assunzione del testimone come nuovo evangelizzatore» acquista «un valore peculiare», soprattutto «in un periodo come il nostro, con un tasso di individualismo mai sperimentato prima». In definitiva — ha concluso — «la vita del nuovo evangelizzatore dovrà essere trasparente con il messaggio che porta con sé, pena la non percezione della verità del Vangelo», in quanto «la nuova evangelizzazione ha bisogno di testimoni capaci di evidenziare come la potenza dello Spirito sia ancora oggi capace di trasformare il cuore dando coraggio e passione per la verità», anche «in un contesto di estesa indifferenza che porta inevitabilmente verso forme di agnosticismo e mancanza di fede».