UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MACERATA
Dipartimento di studi su mutamento sociale, istituzioni giuridiche e comunicazione
CORSO DI DOTTORATO DI RICERCA IN
Teoria dell’informazione e della comunicazione
CICLO XXIV
La voce limpida di Dolores Prato.
Mito e antimito di Roma capitale
TUTOR
Chiar.mo Prof. Paola Magnarelli
DOTTORANDO
Dott. Valentina Polci
COORDINATORE
Chiar.mo Prof. Hans-Georg Grüning
ANNO 2011
1
INDICE
Capitolo uno
Dolores Prato, donna e intellettuale tra Otto e Novecento
I.
II.
III.
IV.
Una donna del secolo scorso……………………………………………………………p. 1
La ricerca di un credo tra cattolicesimo e comunismo………………………………….p. 10
Dolores: “piccola e coraggiosa donna degli anni Trenta” in lotta con il Fascismo……..p. 20
Dolores Prato e Rina Faccio/Sibilla Aleramo: un confronto……………………………p. 31
Capitolo due
Giornalista a Roma
I.
II.
III.
IV.
L’innamorata dei luoghi e delle parole………………………………………………….p. 47
Storia di una pubblicista: la collaborazione a “Paese Sera”…………………………….p. 56
Gli articoli, “il ventre di Roma”: Dolores Prato e Matilde Serao……………………….p. 64
Articoli editi, inediti e rari: una bibliografia…………………………………………….p. 78
Capitolo tre
Voce fuori coro: il libro su Roma mai pubblicato
I.
II.
III.
IV.
Il progetto iniziale e la vicenda editoriale…………………………………………….p. 100
Un testo in costruzione: la struttura e il pensiero……………………………………..p. 105
Una scrittura del frammento: il materiale del Gabinetto Vieusseux………………….p. 113
Voce fuori coro: per un inizio di lettura………………………………………………p. 117
Capitolo quattro
Mito e antimito di una capitale
I.
II.
III.
IV.
V.
Roma capitale: una cruciale storia risorgimentale……………………………………p. 148
“L’Unità d’Italia: un assassinio per Roma”. Sul filo di Voce fuori coro………….....p. 161
“Quando gli italiani entrorno a Roma…”. Dagli articoli la voce limpida di Dolores..p. 170
Il Fascismo, il mito di Roma e l’implacabile piccone risanatore……………………..p. 182
Anniversari, centenari e altre storie di un antimito…………………………………...p. 194
Appendice
Raccolta degli articoli di Dolores Prato: editi, inediti e rari…………………………………p. 203
Bibliografia…………………………………………………………………………………….p. 373
2
Capitolo uno
Dolores Prato, donna e intellettuale tra Otto e Novecento
I - Una donna del secolo scorso
Non è facile associare Dolores Prato a una certa idea di Novecento, forse perché non è possibile
collocare questa donna, scrittrice, giornalista, in una qualunque casella preconfezionata. Non è stata
fra le protagoniste della rivoluzione femminile, ma ne è stata un esempio; ha trasgredito al suo
destino, ma con un atto inconsapevole; non ha vissuto in maniera estrema la sua vita privata e
sessuale, ma lo strappo con il modello donna-moglie-madre, tipico dei questo passaggio fra
diciannovesimo e ventesimo secolo, è indiscutibile. Nessuna figura culturale, più o meno nota, o
studiata, del secolo scorso, è assimilabile a Prato. Non lo sono Maria Montessori, Sibilla Aleramo,
Matilde Serao e neanche Armida Barelli o Lina Merlin, pur avendo tutte queste “ribelli” del
Novecento uno o più tratti importanti in comune con Dolores Prato.
La parabola esistenziale di quest’ultima ha avuto un andamento che potrebbe sembrare tipico di chi
ha vissuto gli anni dell’emancipazione femminile, ma ha delle caratteristiche che la rendono
inusuale: è cominciata con un abbandono duro, come può esserlo quello di una madre che all’inizio
non vuole riconoscere una figlia e poi l’affida alle cure di due cugini; ha attraversato una fase di
profonda vicinanza con la fede, tra un convento-collegio e una frequentazione assidua con
l’ambiente cattolico dei gesuiti; ha raggiunto il suo culmine, cambiando direzione, quando Dolores
ha preso a vivere tra cultura e salotti intellettuali romani, con un’anima sempre in bilico tra
cattolicesimo e comunismo. Ma la cattolicità, spesso intransigente e radicale, è la chiave nascosta
3
che forse permette di leggere e interpretare nella giusta prospettiva tutte le prese di posizione di
Dolores di fronte agli eventi e ai momenti storici: il suo essere antifascista, più che una derivazione
della vicinanza al comunismo, probabilmente è da intendersi come rifiuto di un culto e di un credo
diversi da quello cristiano cattolico; il piccone mussoliniano, che si abbatté su Roma
distruggendone alcuni tratti, alcuni monumenti, alcuni scorci, intaccandone l’integrità, era
deplorevole in quanto corruttore di un universalismo religioso sancito dalla Storia. Così come, ad
esempio, l’odio vero di Prato nei confronti dei “Piemontesi” e dei Savoia era sì frutto del suo essere
antimonarchica, ma soprattutto era il sentimento di rifiuto e opposizione di chi vedeva
nell’annessione di Roma e delle Marche al Regno d’Italia la causa della devastazione di un mondo,
fisico e valoriale, puro, “popolare”, universale.
Anche la sua scrittura, sempre in evoluzione e alla ricerca di una forma definita, poi seguì una
direzione contraria rispetto a quella canonica, conquistando una propria identità forte solo nel
momento in cui tornò all’immediatezza e alla verità, quasi alla purezza, del mondo infantile.
Affrontare Dolores Prato è una questione complessa, che richiede digressioni nella storia di Otto e
Novecento, dall’Unità d’Italia all’erezione di Roma a capitale; dal Fascismo, con le sue numerose
implicazioni sociali, all’antifascismo, fino al referendum tra monarchia e repubblica e oltre, e che
implica anche uno sguardo critico e d’insieme sulle trasformazioni della società italiana lungo tutto
un secolo, con i suoi protagonisti, le sue rivoluzioni, le sue contraddizioni. Non ultimo, come si
accennava, quella di Dolores Prato è una storia connotata dal genere, di una donna che, partita da
una condizione sociale di costrizione (a otto anni era entrata in un Educandato salesiano per giovani
fanciulle di famiglie nobili, in una piccola cittadina dell’entroterra maceratese, e lì era rimasta fino
ai 18 anni), ha poi proseguito su una delle strade femminili “secondo natura” in quella parte di
secolo, quella cioè della formazione all’insegnamento, con l’iscrizione al Magistero di Roma, e poi,
all’improvviso, con un moto dell’anima forse inconsapevole, rientrando in possesso di una propria
libertà, peraltro mai vissuta prima, anche sentimentale, fino a conquistare un ruolo da protagonista,
in qualche modo, della Roma della seconda metà del Novecento. E questa emancipazione è stata
anche il fil rouge della sua storia di scrittrice: liberata dalle briglie linguistiche di un’adolescenza
vissuta fra le mura di un convento in cui le parole erano “disinfettate”, in balia di un italiano aulico
e toscaneggiante, passato da filtri clericali, è approdata al successo quando è tornata alla sua natura
primordiale, peraltro in totale autonomia rispetto alla categoria, molto diffusa in quegli anni, di
scrittura “femminile” o rivoluzionaria.
Intellettuale dal carattere particolarissimo, vivace e sagace osservatrice del mondo, esasperata negli
anni dal groviglio di solitudine, egocentrismo, ristrettezze economiche e sensibilità che era la sua
vita, rispondendo a un questionario propostole da un gruppo di Sarzana (Liguria) che stava
4
preparando una pubblicazione, Dolores Prato si presentava così:
Dunque io sono Dolores Prato (per la gente del mio mondo sono più semplicemente Dolores),
nata nella romanissima via di Parione e passata a balia nell’agro romano, in una famiglia di
butteri dove parve che dovessi anche restare; ma poi fui trapiantata nelle Marche, in una zona
delle più nascoste e più genuine. Sono insegnante di lettere e pubblicista […] “Esperienze che
condussero all’esordio della carriera”. Debbo capovolgere il vostro quesito. Esperienze che mi
condussero al blocco della carriera…La principale il Fascismo sotto il quale non potei né
insegnare, né scrivere…tanto meno far di conto! Chiedete anche le circostanze in cui si svolse
la mia carriera…la mia non è stata una “carriera” ma una lotta per sopravvivere […] Le mie
collaborazioni sono giornalistiche varie. “Opere in corso”…Tante!!! Se trovassi un editore ne
potrei sfornare anche tre all’anno e tutte caratterizzate da una personalissima originalità;
nessuna improvvisata, giacché esse sono state pensate e ripensate nei lunghi anni di una
difficilissima attesa il cui compimento non fu che il principio di altre difficoltà1.
Leggere Dolores, di qualunque scritto si tratti, dai romanzi agli articoli di giornale, dai sogni agli
infiniti appunti e frammenti, dà subito il senso di una donna dalla doppia anima: autoironica e
depressa, forte e divorata dalla solitudine, combattiva e sconfitta. Le riflessioni estemporanee, così
come le pagine rielaborate e corrette in modo quasi maniacale, restituiscono una brillantezza, una
puntualità e un acume fuori dal comune. Come in questa lettera a Luciano Moretti2:
La depressione è stato sempre il mio stato normale (nonostante che sia sempre apparsae appaia
tuttora come una specie di energia atomica) […] Il giorno è un’agonia solitaria, la notte una
morte paurosa. Tu che conosci i telai delle donne marchigiane puoi capire questa mia immagine
che semplifica l’idea. La mia vita è stata intessuta su un ordito di dolore. A forza di sogni, di
buona volontà, ho intessuto su quell’ordito una trama tristissima sì, ma che era pur simile alla
vita. Da qualche tempo non tramo più, l’ordito è solo e sta formando la frangia della vita,
basterà che io tagli quei fili3.
Dolores Prato ha vissuto aderendo alla vita, con un senso profondo, autentico, ma nel suo
atteggiamento sono sempre percepibili, seppur latenti, uno sguardo infantile e un difficile contatto
con il mondo adulto, l’“esterno”.
Come se la sua esistenza fosse stata percorsa dall’eco continua del suo incipit: “Sono nata sotto un
tavolino”4. E’ questo l’inizio del capolavoro di Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, il punto di
1
Lettera del 21.8.1969, Archivio contemporaneo “Alessandro Bonsanti”, Gabinetto Vieusseux, Firenze (d’ora
in poi ACGV), Fondo Prato, Corrispondenza, Pd 74, in Stefania Severi, Dolores Prato. Voce fuori coro, il
lavoro editoriale, Ancona 2007, pp. 7-8.
2
studente, allievo di Dolores a San Ginesio, che fu amico della scrittrice per tutta la vita.
3
in Stefania Severi, L’essenza della solitudine. Vita di Dolores Prato, Sovera Multimedia, Roma 2002, p. 106.
4
Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, Quodlibet, Macerata 2009, p. 3.
5
partenza della perfetta riproduzione del micromondo di Treia, protagonista e sfondo dell’infanzia
della scrittrice, e anche momento in cui iniziano i ricordi e la coscienza, quando, abbandonata dalla
madre “meccanica”5, Dolores viene affidata agli zii Domenico e Paolina Ciaramponi. “Il primo
fatto storico della mia vita, intreccio di paura e meraviglia, fu sotto quel tavolino”.
Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto:
“Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?”.
Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun significato,
ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire
mettermi fuori del portone e richiuderlo […] Sedevo sui mattoni. Molliche indurite mi si
conficcavano nella pelle come sassolini. Quel primo pezzetto di mondo immagazzinato dalla
mia memoria lo vedo come adesso vedo la mia mano che scrive. Mattoni rettangolari color
crosta di pane, uno coricato, uno dritto, facevano un tessuto a spina6.
Inevitabile il collegamento con un altro “ricordo sotto il tavolo”, quello di Virginia Woolf, che,
proprio come Prato, mette in atto un procedimento della memoria in cui al ricordo si affianca la
ricostruzione della visione – in una sorta di itinerario dello sguardo – di cui fa parte anche ciò che
non si vede:
Ricordo, poi, la vastità e il mistero della landa buia sotto il tavolo della stanza dei giochi, dove
sembrava in corso un’avventura senza fine, benché il tempo passato là sotto fosse in realtà così
breve. Là mi imbattei in tua madre7, nella penombra circoscritta per fortuna dalla luce del
camino, e popolata di gambe e di sottane. Galleggiavamo insieme come navi su un oceano
immenso, quando lei mi chiese se i gatti neri avessero la coda. Risposi che no, non l’avevano,
dopo una pausa in cui la sua domanda parve cadere echeggiando giù per vasti abissi prima
immoti. Più avanti ci fu tra noi qualche consapevolezza delle potenzialità dell’altra8.
Dolores nacque a Roma, da una relazione fra Maria Prato e un avvocato calabrese. Venne registrata
all’anagrafe il 12 aprile 1892 come Dolores Olei, nata il 10 aprile da “madre che non consente di
essere nominata”: dopo pochi giorni la madre ci ripensò e diede alla bambina il proprio cognome,
ma alla fine del mese la mise a balia da due contadini di Sezze, in Ciociaria, e, infine, l’affidò ai
suoi due cugini di Treia, Domenico, sacerdote, e sua sorella.
Questo senso di abbandono, di solitudine, di assenza, è stata la cifra dell’esistenza di Dolores, ed è
diventata anche quella del suo scrivere. Scrive Niva Lorenzini nel suo saggio critico La scrittura in
5
Ivi, p. 21.
Ivi, p. 3.
7
sua sorella vanessa, madre di Julian, cui Woolf dedica questo pezzo del 1907.
8
Virginia Woolf, Reminiscenze, in Momenti di essere. Scritti autobiografici, la Tartaruga edizioni, Milano 1977, (trad.
it. di A. Bottini), p. 37.
6
6
conclusa di Dolores Prato9:
Dolores non cerca compatimento: la sua solitudine è caparbia, persino irritante, nella sua
radicalità. Il microcosmo che descrive, trasferito in invenzione linguistica, eccede i termini della
commiserazione o del compianto: è arte pura, impegno di una riedificazione totale del proprio
margine di esistenza, costruita con una tensione e un vigore intellettuali mai affievoliti.
E, in effetti, anche se chiunque l’abbia conosciuta parla di Dolores come di una donna sempre
affetta da vittimismo esagerato, a volte con motivazioni frutto della sua stessa immaginazione,
dall’altra parte non ha potuto fare a meno di rilevarne anche la grande forza, forse anche derivante
da una voglia di riscatto privato.
La vita di Dolores potrebbe vedersi, infatti, come un “documento di storia sociale”, di cui fa parte,
in un primo momento, il destino sacrificale della protagonista, connaturato alla condizione
femminile e con le deprivazioni ad essa associate, non ultime quelle della perdita della parola e
della cancellazione dell’identità: emblematico, in questo senso, il periodo di reclusione
nell’educandato salesiano delle suore della Visitazione di Treia, luogo in cui crescevano e si
istruivano le fanciulle dell’aristocrazia locale (e non solo), e in cui Dolores riuscì ad entrare nel
1902 per volontà della zia Paolina che fece valere gli antenati nobili della piccola “Dolò” (i conti
Duranti, i marchesi Torelli, i conti Bosdari, gli Sciava, e i Castracane10).
Proprio quel collegio, che privò Dolores delle sue “parole” e della sua identità, lasciò un segno
indelebile nella scrittrice: un segno che si trasformò da negativo a positivo quando, in tarda età,
arrivò per Prato l’illuminazione, il momento della riappropriazione di sé stessa e della propria
lingua. L’educandato fu anche il luogo in cui Dolores prese atto della sua diversità, non solo
rispetto alle altre educande, ma, più in generale, forse, rispetto al mondo. Affido al passo dedicato
alla “brocca” (che ogni educanda portava con sé in collegio), del libro Le Ore, il pensiero di Prato
su questo argomento:
Se la mia brocca doveva essere io, io com’ero? Era l’unica brocca diversa da tutte: secca, dritta,
senza pancia, alta tanto che non poteva stare nel supporto del lavamano […] Percorrendo il
dormitorio dove ogni comò aveva a fianco due lavamani, s’incontrava quella brocca fuori posto:
una nota caduta dal pentagramma, una stecca nel coro […] Dove la comperò [lo zio] forse
quella brocca era unica, tutte le altre con poche differenze erano uguali tra loro, ma lui scelse
quella perché quella brocca ero io: diversa da tutte e vergognosa di esserlo11.
9
In AA.VV., Il timbro a fuoco della parola. Voci in dialogo con Dolores Prato, Edizioni Città di Treia, Treia 2000, p.
28.
10
cfr. Dolores Prato, Le Ore, a cura di Giorgio Zampa, Adelphi, Milano 1994, p. 20.
11
Ivi, p. 136.
7
Dolores di certo era una donna non convenzionale. Non convenzionale, e straordinaria. Era
convinta che “le vite trascorse senza grandi scosse, senza tormenti, senza pianti inconsolabili, senza
drammi spirituali, debbano essere vite pallide, scialbe, capaci di poco…Il terreno rende tanto più
profondamente è spezzato dall’aratro”12.
Dopo la clausura, uscita dal collegio, si trasferì a Roma per frequentare il Magistero: fu questo il
periodo della vicinanza a diversi padri spirituali, in una sorta di prosecuzione in direzione del
destino che conduceva a un mondo fra cattolicesimo e insegnamento (era sua idea di farsi suora e
tornare a Treia per prendere in mano le sorti dell’Educandato). Dopo la laurea prese ad insegnare
lettere in alcune scuole statali: a Sansepolcro, in Toscana, poi a San Ginesio e Macerata, nelle
Marche. Dolores nella vita quotidiana aveva una sorta di distacco aristocratico che le derivava dal
suo prediligere frequentazioni altolocate, sia socialmente che intellettualmente, ma anche dal suo
considerarsi fortemente provata dalla vita. Proprio questo atteggiamento élitario la fece essere
insegnante esemplare per alcuni, ma non per tutti. Non amava la massa e, per sua stessa
ammissione, considerava questo un “difetto pedagogico”: si dedicava con molto trasporto e
passione agli allievi più ricettivi e promettenti trascurando gli altri.
Dopo San Ginesio se ne andò a Milano, per insegnare nella Scuola di cultura e d’arte di Vincenzo
Cento, ma anche per seguire l’avvocato Domenico Capocaccia, le cui idee comuniste iniziarono ad
insinuarsi in Dolores per non lasciarla più. Il loro era un rapporto sentimentale niente affatto
equilibrato: lei era innamorata, lui no. Ma anche Prato, in fondo, aborriva l’idea dell’uomo e della
donna comuni, così come quella di un rapporto “normale”: anche questo, forse, le impedì di avere
legami sentimentali che facessero intravedere la possibilità di una concreta risoluzione, ad esempio
nel matrimonio. Così finirono male l’amore con Paolo Toschi (che praticamente neppure iniziò),
quello con Capocaccia, e, soprattutto, andò a male il rapporto – sempre in bilico tra il morboso e il
sentimentale - con Andrea Gaggero. Un rapporto, quest’ultimo, che ha dominato i sentimenti di
Dolores per molti anni – e di cui parleremo più approfonditamente in seguito -, toccando le più
varie sfaccettature, dalla disperata rincorsa all’amore madre-figlio, dalla passione (di lei verso lui)
all’odio.
Le sue resistenze ad aderire al Fascismo, così come la politica stessa del Regime nei confronti delle
donne, avevano poi portato a un allontanamento di Prato dalle scuole pubbliche. Collaborava con
l’“Enciclopedia italiana”, ma non guadagnava abbastanza da viverci. Faceva lavori di traduzione
(conosceva l’inglese e il tedesco) e di editoria per la SEI, che, però, non sempre accettava. Era
rimasta senza occupazione fissa, finché, nei primi anni Trenta, aveva preso ad occuparsi di
12
Lettera a Maria Paoli, in Severi, L’essenza della solitudine, cit., p. 71.
8
Andreina Brusa, una ragazza torinese afflitta da gravi problemi mentali e che i genitori vollero
affidare alle cure di un medico romano. Raggiunta così una parziale stabilità economica, Dolores
riprese a coltivare assiduamente le sue amicizie.
Fin da ragazza fu circondata da figure, soprattutto femminili, di grande personalità, a partire dalla
Madrina del collegio di Treia, suor Margherita Maria Masi (tra l’altro, grande amica del Gran
maestro della massoneria Adriano Lemmi), con cui il rapporto continuò per molti anni anche dopo
l’uscita dall’Educandato. Tra le sue compagne del collegio c’erano Antonietta e Olga Manzoni, e
tra quelle del Magistero Luigia Tincani13 (per Dolores, “Gina”), che nel 1939 fonderà con padre
Ludovico Fanfani l’Istituto pareggiato di Magistero “Maria Santissima Assunta” per le religiose,
oggi Lumsa, e Bianca Torriglia, madre del senatore e ministro Adriano Ossicini. Amiche della
Dolores adulta saranno Elsa Paccagnella, membro del Partito d’azione e poi dell’Udi (Unione
donne italiane), Lina Brusa Arese, la giornalista Giuliana Galimberti, moglie di Renato Mieli (e
madre di Paolo), Jutta Bruto, moglie dello scrittore Stefano D’Arrigo.
Le frequentazioni, comunque, di uomini e donne, segnarono profondamente la sua esistenza. Nel
corso della sua lunga vita, Prato ha tessuto una tela fatta di decennali corrispondenze, nella maggior
parte dei casi con letterati, filosofi, poeti, teologi, uomini politici, artisti, giornalisti, padri spirituali.
Voleva lavori che non le rubassero il tempo per leggere giornali, fare i suoi studi, tenere una fitta
corrispondenza, incontrare intellettuali e artisti. Tra le sue frequentazioni ci sono stati l’editore
Alberto Anodo e il giornalista, letterato e critico d’arte Arturo Lancellotti; lo scrittore cattolico
Giuseppe Urbani ed Ernesto Bonaiuti, che era diventato lo storico ufficiale del modernismo
italiano; ancora, il pittore marchigiano Arnoldo Ciarrocchi e l’attore Alessandro Moissi.
Dolores amava starsene a Roma, in casa, e ricevere. A cena da lei, con un piatto di pasta fumante,
nella seconda metà del secolo, si incontravano Concetto Marchesi, Igino Giordani14, Mario
Vinciguerra, Libero Bigiaretti: era un vero e proprio salotto culturale, dove si riunivano letterati e
politici di ogni partito.
Dolores, però, nonostante la rete vastissima di contatti con il mondo “fuori”, viveva spesso ripiegata
su sé stessa: “soffriva di narcisismo, escludeva il mondo: non aveva visto i morti durante la
guerra”15. Il suo era un carattere difficile, senza dubbio, una sorta di strano connubio di purezza e
morbosità, di slanci affettivi ed egoismo. Comunque, lei, la sua vita, le sue disgrazie, vere, presunte
13
Luigia Tincani, fondatrice della congregazione delle Missionarie della scuola e della Libera Università Maria
Santissima Assunta (Lumsa) di Roma, morì a Roma nel 1976. Nel 1987 la Santa Sede ha dato il via al suo processo di
beatificazione; il 27 giugno 2011 papa Benedetto XVI le ha attribuito il titolo di Venerabile, perché ha vissuto il
Vangelo in maniera eroica e ha scelto il cammino della santità. Dolores aveva già intuito la sua santità in una lettera
dell’ 8.7.1969.
14
Igino Giordani, direttore de “La Via”, era uno dei pensatori cattolici, esponente del Partito popolare italiano e
cofondatore dei Focolarini, che Prato continuò a frequentare nonostante la sua svolta “a sinistra”.
15
1925-1927 Il racconto di Padre Paolo Silva, in Severi, L’essenza della solitudine, cit., p. 75.
9
o ingigantite, erano al centro della sua attenzione, e non di rado pretendeva che lo fossero anche di
quella degli altri.
Abbandonando la Dolores intima e privata, prima di addentrarci nelle parti più specifiche di questo
lavoro, relative a Prato giornalista, è indispensabile compiere un rapido excursus sulla produzione
della scrittrice, tanto originale quanto sfortunata a livello editoriale.
Innanzitutto, il genere letterario in cui possiamo collocare tutti i lavori di Prato, almeno quelli editi
fino ad oggi, è l’autobiografia, “specifico” femminile nell’Italia del Novecento: se Philippe Lejeune
parla, in generale, di autobiografia come “atto di identità attraverso il quale si dà forma e significato
alla propria vita”16, l’autoanalisi, le strategie di rappresentazione del rimosso connotano in modo
macroscopico una scrittura subalterna come quella femminile, che deve fare i conti con i fluttuanti
confini tra rimosso, rimovente e censura sociale e individuale17.
Sia che si tratti di memorie private, apparentemente non destinate alla pubblicazione, sia che si tratti
di atti pubblici di testimonianza di sé, l’atto della scrittura, nelle donne più che mai, si connette con
la costruzione della personalità; non a caso la letteratura femminile del secolo XX in Italia si apre
con il romanzo autobiografico Una donna di Sibilla Aleramo (1906) e con Una giovinezza del
secolo XIX , memorie di Neera del 1917, per proseguire intorno ai nomi di Fausta Cialente, Gianna
Manzini, Anna Banti, Alba De Céspedes, scrittrici tutte di forte impronta soggettiva, e, nella
generazione successiva, con Paola Masino, Natalia Ginzburg, Lalla Romano, e ancora Dacia
Maraini, Rosetta Loy, Francesca Sanvitale, Francesca Duranti, Elisabetta Rasy. Sarebbe, a mio
avviso, atto di ingiustizia quello di continuare a lasciare nell’ombra, in questo contesto, il nome e
l’opera di Dolores Prato: da Scottature (1965) a Le Ore (1994), da Giù la piazza non c’è nessuno
(1997) a Campane a Sangiocondo (2009) fino all’ultimo pubblicato, Sogni (2010), siamo di fronte a
pagine fra le più significative del secolo scorso, che hanno alla base un “genio” diverso ma di pari,
se non superiore, rilevanza e interesse se confrontato con gli altri nomi del panorama letterario
novecentesco.
Giù la piazza e Le Ore possono definirsi due capitoli, seppur differenti nello stile e nel ritmo, di un
unico grande romanzo su Treia: il primo relativo agli anni dell’infanzia, tra le mura di casa degli zii,
le strade e le piazze, in un’esistenza con pochi affetti e molti personaggi; il secondo relativo
all’adolescenza nel collegio della suore della Visitazione e a quella vita “apparente”. Campane a
Sangiocondo (una pseudoautobiografia) è il romanzo su San Ginesio, piccolo paese dell’entroterra
maceratese in cui Dolores insegnò dal 1922 al 1927: una storia, in parte inventata, ma ricca di
tradizioni, aneddoti, luoghi, personaggi della realtà. Sogni, infine è il risultato di un laboratorio che
16
Philippe Lejeune, Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna 1986, p. 9.
cfr. Virginia Woolf, Le donne e la scrittura, a cura di Michèle Barrett, La Tartaruga edizioni, Milano 1990, (trad. it.
di A. Bottini) e Id., Ore in biblioteca e altri saggi, a cura di Paola Splendore, La Tartaruga edizioni, Milano 1991.
17
10
raccoglie quarant’anni di sogni di Prato. Non è tutto, perché tracce di autobiografismo, quando non
protagoniste, sono presenti anche in moltissimi dei suoi articoli: Dolores, pur scrivendo per decenni,
a partire dal 1950, su pagine nazionali come quelle di “Paese Sera”, non era una giornalista pura,
tutt’altro, e il suo commento o la sua idea sui fatti diventava, in effetti, il senso e la particolarità
dell’articolo stesso.
Parlando degli scritti di Prato si approda alle sfortunate vicende editoriali che hanno investito ogni
suo lavoro, senza eccezioni, e che hanno contribuito, purtroppo, a una non conoscenza di Prato
scrittrice quasi fino al 2009, anno in cui, con la riedizione di Giù la piazza, la critica italiana ha
acceso finalmente la luce su questa autrice. Giù la piazza uscì per la prima volta nel 1980, per i tipi
di Einaudi, quando Dolores aveva ottantasette anni: le millecinquecento cartelle dattiloscritte
originali furono tagliate da Natalia Ginzburg per esigenze editoriali, e la versione che ne uscì fu un
terzo del manoscritto pratiano. Fu una vera ferita per l’autrice, che non vide mai portato alla luce il
suo libro così come lei lo aveva scritto. Nel 1997, grazie al lavoro di Giorgio Zampa, il romanzo
venne pubblicato per intero da Mondadori e nel 2009, in un nuova edizione, da Quodlibet. Le altre
due uniche pubblicazioni che Dolores poté toccare con mano, in vita, furono Scottature, un racconto
lungo che le valse anche il Premio Stradanova nel 1965, e Sangiocondo (questo il primo titolo con
cui uscì il romanzo su San Ginesio nel 1963): entrambi in autoedizione, e per questo vissuti in
modo ostile dall’autrice, che riteneva nota di demerito il non aver trovato un editore disponibile a
pubblicare.
Tutta la vita di Dolores fu, in fondo, un lungo processo di scrittura, tanto da riempire una incredibile
mole di fogli, foglietti, carte, oggi in gran parte conservate per volontà della scrittrice, e grazie
all’aiuto dei suoi amici Giorgio Zampa, Fausto Coen, Ines e Filippo Ferrari, nell’archivio
contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux di Firenze.
I miei manoscritti sono tanti che oramai tutta la casa è solo un cassetto. Che cosa siano io non lo
so; il li chiamo “narrazioni”. Scrivo dove mi capita, anche ai margini dei giornali; comodissimi
quelli dell’Osservatore Romano; una sigla in un angolo per distinguere a quale lavoro andranno
aggregati e poi tutto alla rinfusa. In questo periodo che tento di recuperare il materiale per il
libro sull’adolescenza, la mia casa pare un magazzino di carta straccia. […] Tutti questi
manoscritti sono l’attaccamento e lo strazio della mia vita. Perché non siano buttati dopo la mia
morte, dove, a chi lasciarli?18
Una domanda cui è stata data una risposta.
18
Lettera del 1979 a Giuseppe Longo, direttore de “L’Osservatore politico-letterario”, in E. Frontaloni (a cura di),
Cronologia, in D. Prato, Sogni, Quodlibet, Macerata 2010, p. XXXVIII.
11
II - La ricerca di un credo tra cattolicesimo e comunismo
L’oscillazione continua tra istanze cattoliche e pensiero laico di impostazione comunista fa di
Dolores una antesignana dei “cattocomunismi”; del resto non poteva essere né
incondizionatamente cattolica né profondamente comunista, perché si sentiva “diversa”19.
E’ molto controverso il pensiero di Prato su Chiesa e Comunismo, e più in generale su politica e
religione. La doppia anima di Dolores, cattolica e comunista, è dovuta alla sua vita e alle figure
principali che l’hanno abitata.
La formazione infantile e adolescenziale della scrittrice fu profondamente cattolica, sebbene
segnata da due impronte assai differenti. I primi rudimenti culturali, infatti, li ricevette dallo zio
prete, Domenico Ciaramponi, da lei affettuosamente chiamato Zizì, amante della scienza e della
medicina. Un sacerdote del tutto particolare, soprattutto se se ne ricostruisce un ritratto, tra il reale e
il misterioso, seguendo il filo di Giù la piazza: erudito, frequentatore dei territori della
galvanoplastica, Domenico si faceva da sé i liquori e restaurò con la foglia d’oro tutto il soffitto
della chiesa di San Francesco a Treia. Studiava la cabala e il lotto, realizzò un autoritratto per
l’Accademia Georgica e, nel 1900, partito per l’Argentina in cerca di fortuna dopo la rottura con la
curia, creò un marchio, il “Balsamo Ciaramponi”, un unguento a base di erbe naturali contro i
reumatismi, la sciatica e le contusioni20.
Dopo i primi anni, felici, per Prato arrivarono, invece, i lunghi anni nell’educandato delle suore
della Visitazione di Treia, collegio salesiano dove la formazione era affidata a suor Maria
Margherita Masi, la Madrina: qui l’esistenza era fondata sull’osservanza obbligata di precetti
religiosi, e le stagioni si susseguivano per avvicendare cerimonie liturgiche e pratiche di vita
quotidiana reiterate. L’annullamento di Dolores in quel “non luogo”, “la distruzione che fu mia”21,
nacque con un urlo, e un pettine spezzato.
Quando la zia cominciò a lisciarmi i capelli per portarmici e tornare a casa sola, con un urlo di
belva pugnalata le strappai di mano il pettine e lo spezzai, spezzata io stessa da quell’imminenza
che distruggeva ogni dubbio. La furia con cui spezzai il pettine avrebbe spezzato una trave.
Spezzavo me stessa con un urlo diabolico e gesto infernale, dato che spezzarmi bisognava, poi
tutto cadde nel niente per me. Gli altri videro un automa silenzioso e calmo22.
19
S. Severi, Dolores Prato.Voce fuori coro. Carteggi di una intellettuale del Novecento, il lavoro editoriale, Ancona
2007, p. 17.
20
cfr. E. Frontaloni, Glossario dei personaggi, in D. Prato, Sogni, cit., p. 760.
21
D. Prato, Le Ore, cit., p. 327.
22
Ivi, p. 15.
12
Di fronte alla ferma volontà della zia di far entrare Dolores nel collegio (“quell’inutile incubatrice
di adolescenti”, come lo definì Prato) per farle avere un’educazione da vera signora, la piccola
Lolita non poté nulla, se non abbandonarsi a uno scatto di rabbia. “Il mio primo atto di violenza
concluse la lunga infanzia, se l’infanzia può mai concludersi”23.
In fondo fu un grande cambiamento di parole, per il resto, un peggioramento, piantarono nella
mia coscienza scrupoli, paure, ossessioni, che Zizì, prete, non aveva mai sognato. Rovinarono la
mia vita24.
Non potevo più essere quella che ancora non aveva spezzato il pettine25.
Per le educande ospitate nel collegio non esistevano sviluppo, crescita, evoluzione individuale, se
non nella rinuncia di sé.
Come se varcando quella soglia solenne, misteriosa, semibuia, per me paurosa,
automaticamente qualcosa in me si capovolgesse, per un segno di mortificata vergogna, Zizì, il
mio Zizì meraviglioso che non faceva prediche, che sapeva tutto, che sorrideva sempre con un
sorriso dove c'era moto, arguzia, intelligenza, un sorriso mai ritrovato sulla terra, il mio Zizì lo
nascosi dietro la fredda parola di “zio”, anzi “lo zio”. E mamma Paolina diventò zia, anzi “la
zia”. [...] Nascosi i nomi coi quali li avevo chiamati dal giorno che mi avevano raccattata,
nascosi il bene che mi legava a quei due vecchi, nascosi la pena di averli lasciati, nascosi tutto
quello che era stato fino allora e cominciai ad essere quell’altra, quella delle parole diverse26.
Gli anni dell’educandato determinarono, inoltre, un peculiarissimo plurilinguismo pratiano, di cui
parleremo in modo più approfondito in seguito: a fianco del doppio registro, dialetto trejese-lingua
bassa/italiano alto, si fece spazio l’italiano selettivo e toscaneggiante, legato alle origini lucchesi
della Madrina. La figura di suor Margherita Maria Masi fu centrale nella vita di Dolores: con lei
Prato instaurò un rapporto, tra il morboso e il venerante, che durò moltissimi anni; un rapporto che
portò la scrittrice a pensare per lungo tempo di prendere i voti, per poter poi succedere alla Madrina
nella direzione dell’Educandato di Treia.
A questi anni in collegio l’autrice farà risalire, nelle riflessioni dell’età matura, la sua
“deformazione religiosa”.
23
Ivi, p. 16.
Ivi, pp. 330-331.
25
Ivi, p. 21.
26
Ivi, p. 333-334.
24
13
La formazione giovanile proseguì nello stesso universo di valori. Nell’ottobre del 1912 Dolores
sostenne l’esame di ammissione alla facoltà di Magistero a Roma: si trasferì, insieme alla zia
Paolina, dapprima dalla sorella di sua madre, poi in pensionati per lo più retti da suore. In questo
periodo si rafforzò la sua granitica, e a tratti intransigente, identità cattolica. Gli anni del Magistero,
fondamentali per la sua preparazione (tra i suoi docenti Luigi Pirandello, Giustino Ferri, Giuseppe
Manacorda), furono anche gli anni degli incontri con Gina Tincani, le Missionarie della scuola, e
Bianca Torriglia (poi Ossicini). Con Tincani, da ferventi cattoliche, si scambiavano lettere in cui
parlavano della loro partecipazione a cerimonie religiose, a incontri di preghiera, a conferenze, a
visite alle chiese per visitare le tombe dei martiri27. In un bigliettino datato 1914, Gina faceva
riferimento a un “triplice patto” stretto tra lei e Dolores: presumibilmente, questo consisteva nella
reciproca assistenza, nel riunirsi in una comunità spirituale, e nella consacrazione a Dio nella
castità28.
E’ evidente, anche in questo rapporto, la forza e la preponderanza del credo cattolico nella vita della
giovane Dolores, che aveva sempre in mente l’idea di un futuro nell’Educandato di Treia. Risale a
questi anni anche la sua frequentazione dell’ambiente dei Gesuiti. Dolores ebbe numerosi padri
spirituali: padre Paolo Silva, che era anche giornalista e redattore de “La civiltà cattolica”; padre
Guido Mattiussi, e padre Cesare Goretti dei conti Miniati, questi ultimi due docenti nell’Università
Gregoriana. A queste figure la giovane Prato chiedeva consigli su molte questioni esistenziali, e
anche consigli sull’argomento della sua tesi: alla fine Dolores seguì la strada indicata da padre
Goretti e scrisse una tesi sul carteggio intercorso tra don Antonio Bartolini, un letterato casentinese,
e i puristi Pietro Fanfani e Prospero Viani. Il suo fervore religioso la rendeva spesso intransigente,
tanto che i suoi amici la definivano “più nera del papa nero” (così veniva chiamato popolarmente il
generale dei Gesuiti). Non è escluso che Dolores, proprio negli anni Venti, fosse venuta in contatto
anche con don Giuseppe De Luca, una delle personalità culturali e religiose più ricche e complesse
del Novecento29: in quel periodo, infatti, De Luca, di sei anni più giovane di Dolores, e quindi
appena ventiduenne, strinse amicizia con Giovanni Papini (che poi divenne amico anche di Prato) e
cominciò a collaborare con la terza pagina de “Il Popolo”, chiamato da don Luigi Sturzo. Tra
l’altro, De Luca collaborò con l’“Enciclopedia italiana” e all’“Osservatore Romano”, pagine che
ospitarono anche la firma di Dolores, ed ebbe tra i suoi amici più cari don Ennio Francia, originario
di San Ginesio, che anche Prato conosceva bene. Don Ennio Francia stesso collaborava con
l’“Osservatore Romano”, per la critica d’arte e la cronaca politica, e anche con l’“Avvenire” (più
27
cfr. S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 122.
Ivi, p. 125.
29
Nel 1941 De Luca fondò la casa editrice Edizioni di storia e letteratura, dedicata a edizioni specialistiche in ambito
storico, filologico e letterario.
28
14
tardi fu ospitato dall’organo della Democrazia Cristiana, “Il Popolo”, diretto da Giordani, sulle
pagine della cultura): il sacerdote, uomo conservatore ma antifascista, nel periodo della dittatura
scrisse alcuni editoriali che fecero sequestrare quattro volte i due quotidiani della Chiesa, non
sottoposti a censura preventiva30.
Un cambiamento radicale, per Prato, avvenne nel 1927, quando scelse di andare a vivere a Milano
per insegnare all’Accademia Libera di cultura e arte del pedagogista Vincenzo Cento, fratello di
Fernando Cento, vescovo di Macerata, e per seguire l‘avvocato Domenico Capocaccia, di cui si era
innamorata, e con cui ebbe una relazione. L’incontro con Capocaccia, membro del Pci, fu
determinante per la sua conversione dall’area cattolica a quella comunista.
Attraverso Vincenzo Cento, Dolores aveva conosciuto Ernesto Bonaiuti, presbitero, storico,
teologo, antifascista, che fu scomunicato dalla Chiesa per aver difeso il movimento modernista:
Bonaiuti fu prima esonerato dalle attività didattiche, sulla base dei Patti Lateranensi, fu privato della
cattedra universitaria per essersi rifiutato di giurare fedeltà al Fascismo31. Forse proprio lui fu la
causa di una rilettura critica di Prato della sua incondizionata adesione alle posizioni cattoliche.
Oltre a Bonaiuti, facevano parte della cerchia di amici Dolores anche lo scrittore cattolico Giuseppe
Urbani e il pittore marchigiano Arnoldo Ciarrocchi, di cui Luciano Moretti scriveva: “Lui stava con
i comunisti cattolici, un gruppo di giovani che Dolores definiva d’intelligenza, cultura ed esperienza
mostruose. Un gruppo in cui lei si trovava bene”32.
Prato non fece mai dichiarazione di voto, e di certo era più legata alle persone che ai partiti, ma di
sicuro fu antifascista. “La sua fervida fantasia e il suo atteggiamento vittimistico l’indussero in
seguito ad affermare che era stata perseguitata in quanto ebrea”33.
La storia della persecuzione antisemita venne fuori nel 1946, quando Capocaccia, ormai funzionario
del Partito Comunista, commissario governativo del “Corriere d’Informazione” di Milano (poi
divenuto “Corriere della Sera”) e collaboratore dell’Ansa, si interessò al ritorno di Prato
all’insegnamento: chiese a Dolores un promemoria della sua situazione di ex insegnante, in cui
mettesse in evidenza i motivi per cui avrebbe avuto diritto di rientrare in ruolo, e lei “inventò”
questa “bugia”34.
30
Durante l’occupazione tedesca di Roma del 1943-44 don Ennio si impegnò per proteggere ebrei e comunisti dalle
persecuzioni. Il suo essere uomo di fede, di cultura e d’arte sfociò, nel 1941, nell’istituzione della Messa degli Artisti (a
cui partecipavano, tra gli altri, l’architetto Enrico Del Debbio, gli attori Alberto Sordi, Vittorio Gassman, Rossela Falk,
gli scrittori Giovanni Papini, Giuseppe Ungaretti, Maria Bellonci), che nel 1953 trovò sede nella chiesa di Santa Maria
in Montesanto a piazza del Popolo.
31
Cfr. Giorgio Boatti, Preferirei di no. Le storie dei dodici professori che si opposero a Mussolini, Einaudi, Torino
2001 e Helmut Goetz, Il giuramento rifiutato. I docenti universitari e il regime fascista, La Nuova Italia, Milano 2000.
32
in S. Severi, L’essenza della solitudine, cit., p. 99.
33
S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 13.
34
Il racconto di Luciano Moretti. 1943-1950, in S. Severi, L’essenza della solitudine, cit., p. 101.
15
E’ tuttora controversa e misteriosa la questione delle sue origini ebraiche. Il cognome Prato, da un
lato, le confermerebbe, così come i tratti somatici della scrittrice: il colore della pelle, i capelli
corvini, il naso e i lineamenti marcati. Ma con uno sguardo all’albero genealogico, risalendo fino ai
nonni di Dolores, si arriva a Carlo Emanuele Prato, nonno materno, che secondo la testimonianza
diretta di Ines e Filippo Ferrari fu Governatore di Narni e, soprattutto, ricevette onorificenze dal
Vaticano. Elementi, questi, che difficilmente sarebbero compatibili con radici ebraiche.
Tuttavia Prato insistette sempre su questo punto. Nell’articolo Rivivendo con Vinciguerra scriveva
nell’attacco: “Tra perseguitati e accantonati dal regime ci si cercava per sentirci meno soli”; in
Italiana spaesata in Italia continua: “Io sono di origine ebraica e senza religione”. E così via, in
moltissimi dei suoi scritti, comprese le lettere. Si legge in una lettera a Enzo Golino del 16.9.1980:
Pieno di inesattezze il pezzo: dice che prima di questo lavoro (il riferimento è a Giù la piazza,
appena pubblicato), oltre al libro pubblicato in Polonia, io avrei scritto solo “qualche elzeviro”.
Non qualche, ma tanti, cominciando naturalmente dopo la guerra, prima m’era precluso per il
Fascio e per Sion35.
Ma la verità sulle sue origini è probabilmente quella riportata in un pro-memoria scritto da Prato
stessa, riportato per intero nel prossimo paragrafo, in cui Dolores afferma: “Bench’io non sia di
razza ebraica, per il mio nome che appartiene anche a gente israelita, ebbi seccature e noie”.
Comunque, la lucidità dei suoi giudizi sulla contemporaneità, e nello specifico sul Regime, sempre
accompagnati da un velo di pessimismo, era una costante. Scriveva nel 1944, alla fine della guerra,
a Luciano Moretti:
Mi hanno definita [i clandestini scrittori-partigiani] “la donna più antifascista” non se sia vero,
so che ho sempre visto e ora a cose sfasciate mi meraviglio di quella vista come d’un miracolo
del quale non m’ero accorta. Ma non andiamo mica bene ora…e non andremo bene per chissà
quanto tempo! Però per consolarmi mi dico: almeno non c’è più via Tasso…non abbiamo più
paura delle perquisizioni, delle razzie36.
Nel 1947, all’indomani della vittoria della repubblica sulla monarchia, scriveva sempre a Moretti:
Io mi sono appartata dal mio vecchio mondo da che vedo che i nostri crocifissori di oltre 20
anni, tornano tutti ad esserlo e noi pochi (che in periodo fascista ci credevamo tanti) si fanno
concessioni (io no) e compromessi perché il fascismo il male più grande non l’ha fatto con la
rovina materiale nostra e del paese, ma con l’inquinare la mentalità italiana già di per sé portata
35
36
ACGV, Fondo Prato, Pd 237, in S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 113.
S. Severi, Voce fuori coro, p. 46.
16
alle vuote esaltazioni patriottarde e pagliaccesche. Tuttavia quel poco filo che ancora lega me
alla gente è con gente di sinistra37.
Quando ci fu il referendum monarchia-repubblica si dimostrò accesa repubblicana. Ce l’aveva a
morte con la monarchia, “tra Mussolini e la Monarchia avrebbe salvato Mussolini”38. Il perché del
suo odio non si basava sulla cattiva condotta del re, ma su precedenti storici: la monarchia si era
annessa le Marche e Roma. “Questa fu l’unificazione dell’Italia sotto la monarchia che livellò,
coartò, distrusse le nostre caratteristiche regionali sotto l’ideale casermistico”39. Il meglio, secondo
Prato, sarebbe stato rimanere sotto il governo del papato.
Sembra importante riportare qui il testo di un articolo-sfogo, sicuramente mai pubblicato, che Prato
ha conservato tra i suoi materiali, riguardante proprio la sua avversione ai Savoia.
Non siamo abbastanza antimonarchici perché anche i giornali che sono per la repubblica
portarono senza nessun commento la notizia che essendo la moglie di Umberto Carignano
(Maria José) a villeggiare a Castel Porziano, nell’incendio di parte di quel bosco, restò separata
dai figli che erano a giocare sulla spiaggia finché i pompieri non glieli ebbero ricondotti.
Una madre che soffre per i figli è sempre rispettabile, sia pur una Carignano, ma che la stampa
italiana non abbia sentito che la notizia andava taciuta o commentata, è stata una mancanza
d’intuito per il dolore del nostro popolo. Mentre i bimbi d’Italia (esclusi i figli dei ricchi e degli
arricchiti che nella totalità sono un’esigua minoranza) non conoscono più villeggiature, né al
mare, né al monte, né al piano, i figli di chi volle la guerra, togliendo così ai nostri bimbi non
solo gli svaghi dei campi o dei mari, ma il pane e le vesti, passano da una villeggiatura ad
un’altra, giocano sulla spiaggia “loro”, godono indisturbati i beni dell’Italia.
Li hanno salvati, va bene, ma che non ce ne parlino per non farci sentire raddoppiato il cruccio
per i nostri poveri bimbi vittime del padre, del nonno, del “cugino” del nonno, di tutti gli
antenati di quei tre o quattro Carignano che giocano sulla spiaggia “loro”.
(m’accorgo ora di non saper con sicurezza quanti siano i figli del luogotenente e…me ne
rallegro!)40
37
S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 47.
Ivi, pp. 100-101.
39
Ivi, p. 100.
40
Fondo Ferri Ferrari (Sant’Angelo in Vado).
38
17
Dopo la fine della guerra, Dolores pensò di intraprendere una sua rivoluzione e di iscriversi al
Partito Comunista, e ne fece carico a Capocaccia, che però tergiversò:
Ci tengo a dirti che la tua “iscrizione” non è affatto in pericolo. Le cose dovranno maturarsi
secondo il mio inesorabile proposito. Ho paura che la tua rivoluzione social-religiosa non si
possa facilmente effettuare in Italia. E’ già tanto difficile quella a solo contenuto sociale;
figurarsi se ci si dovesse aggiungere anche un pizzico di religione! Proprio perché gli italiani
non sono religiosi. Ma può essere che io mi inganni41.
In Dolores c’è sempre stata, comunque, una grande ribellione verso tutti gli schemi precostituiti,
compresi quelli politici. Scriveva, infatti, contemporaneamente per “Paese Sera” e per
l’”Osservatore Romano”, oltre che per altri giornali cattolici. Dichiarava di aver trovato la rovina
della sua vita nell’educazione religiosa, poi però, a volte, riemergevano le intransigenze cattoliche
che avevano caratterizzato la sua gioventù, fino a mostrarla vicina al cattolicesimo conservatore di
Lefebvre. Come in una lettera alla principessa Elvina Pallavicini, a cui Prato scrisse nel 1977 in
occasione di un omaggio che la principessa tributò a monsignor Lefebvre:
L’omaggio che si renderà a Monsignor Lefebvre è la voce di tutti noi che non accettiamo di
essere eretici perché non crediamo che la Chiesa ci abbia potuto ingannare per tanti secoli. […]
Proprio adesso che dal monolito comunista esce l’incrinante nocetta di pluralismo, perché la
Chiesa vuole imporre a tutti quelle spesso ridicole ammodernature di cui si può avere
ripugnanza come io l’ho della nuova Messa? A parte il latino, che è cosa discutibile: è meglio
che la gente capisca qualche parola in più o che resti raccolta nell’emozione di quel mistero
linguistico col quale, pregando col prete, deve rivolgersi a Dio? Tanto Dio è solo mistero;
inutile voler capire. Del resto quei laici che si alternano avanti a un trespolo in funzione di
piccolo podio e leggono il loro pezzetto, fanno pietà con quel “Preghiamo” attaccato a ciò che
hanno letto come se ne fosse il punto. L’“Oremus” della nostra Messa era un’apertura di
silenziosa preghiera, non era una conclusione. […] Dicono che il nostro è aristocratico distacco.
No. E’ una più semplice interpretazione. Adesso tutto è teatro. Il teatro ha inquinato il Vaticano
II42.
Ancora una volta, torna l’adesione di Prato ai valori cattolici su cui aveva costruito la sua identità
fino agli anni del Magistero.
Dolores coltivava l’amicizia con il senatore del Pci, Umberto Terracini, e, allo stesso tempo, quella
col democristiano Arnaldo Forlani. Anche se si era rivoltata contro la Chiesa, il cristianesimo lo
portava sempre dentro, e anche se si sentiva sempre più “compagna” non disdegnava di portare
avanti le amicizie con ferventi cattolici, come quelle con Luigia Tincani, Maria Benedetta Salvati,
41
42
Lettera del 1 marzo 1946 (fondo ferri-Ferrari), in S. Severi, L’essenza della solitudine, cit., p. 101.
ACGV, Fondo Prato, Pd 173, in Severi, Voce fuori coro, cit., pp. 84-86.
18
Igino Giordani o col magistrato Torquato Ferrari. Ancora Capocaccia le scriveva in proposito:
Ammiro il tuo candido zelo per mettere d’accordo Marchesi con Giordani – la Democrazia
Cristiana col Comunismo…Io credo a un’intesa fra le due correnti come a un fenomeno
d’assorbimento. Ci sarà domani un comunista dotato di pensiero cristiano43.
Questo dualismo fu costantemente presente in Dolores, e per lei assolutamente naturale. Coltivava
sempre le sue amicizie, che inglobavano personaggi e personalità molto diversi: oltre a Giordani e
Concetto Marchesi, c’erano Paolo ed Ebe Toschi, Adriano Tilgher, Agostino e Lori Turla. E
nonostante la sua vicinanza al Pci, era sempre capace di prendere le distanze dal comunismo
quando non ne approvava scelte e indirizzi. Un esempio di questo atteggiamento si ritrova in una
lettera a Coen del 1971, in cui Prato spingeva l’amico a fare i primi passi per un giornale tutto suo
(la “Voce”):
Non ti rendi conto di quello che tu hai dato al partito? “Paese Sera” è tuo e tu l’hai messo in
mano a tutti. Tu hai fatto in modo che la gente incontrasse su quelle pagine non la bestia
comunista che vedeva altrove, ma un amico che la pensa un po’ diversamente. Tu sì, hai dato al
Comunismo un volto umano. Tu hai fatto per il Comunismo quello che non hanno fatto i suoi
dirigenti tutti insieme…Sono loro che non potranno mai ricompensarti anche se sapessero
farlo44.
Il rapporto della scrittrice con la sinistra fu ulteriormente alimentato dalla sua relazione con Andrea
Gaggero, don Gaggero, della congregazione dei Filippini. Gaggero, conosciuto negli anni ’50 al
Collegio Cultorum Martyrum, dove Dolores si recava spesso alla ricerca di materiale su Roma
antica e moderna (così come al Te Roma Sequor e all’Istituto di studi romani sull’Aventino) fu
determinante nella vita di Prato. Quella che doveva esser una relazione amicale assunse negli anni
le più varie sfaccettature: lei lo chiamava “figlio“, ma si trattò di amore, in qualche modo, e questa
relazione fu importante per lei anche sotto il profilo della sua coscienza di scrittrice. Le idee
cattocomuniste di Dolores, già rilevate da Capocaccia, trovavano in Gaggero quasi la perfetta
incarnazione. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, infatti, la sua chiesa dei Filippini, a Genova, era
diventata base di appoggio dell’attività partigiana. Arrestato il 6 giugno del 1944 dalla polizia
repubblichina, a seguito di una perquisizione dell’oratorio, Gaggero fu torturato e deportato, prima
nel campo di concentramento di Gries (Bolzano), e poi nel lager di Mauthausen. Liberato nel
maggio del 1945, riprese il suo impegno sacerdotale e diede il suo sostegno al Partito della Sinistra
43
44
S. Severi, L’essenza della solitudine, cit., p. 102.
Ivi, p. 129.
19
Cristiana; quando, nel 1950, partecipò al II congresso mondiale dei Partigiani per la pace e lesse il
suo discorso, arrivò il richiamo ufficiale del Sant’Uffizio, che poi, nel 1953, lo sospese “a divinis”.
Fu Dolores ad accogliere Gaggero nel suo appartamento di Roma, in via Fracassini 4, quando
questo era in attesa di giudizio da parte della Santa Sede, e da quel momento iniziò una relazione
complicata, complessa, che segnò e ossessionò Dolores per molto tempo.
Tramite Gaggero, Premio Stalin per la pace nel 1954, Prato conobbe Palmiro Togliatti e Aldo
Capitini, il “Gandhi italiano”, promotore insieme a lui della marcia per la Pace Perugia-Assisi nel
1961.
In questo periodo Dolores prese a frequentare la “Casa Rossa” dello scultore Giuseppe Mazzullo,
docente dell’Accademia di belle arti di Roma. La casa-studio di via Sabazio, non lontano da piazza
Istria, era un punto di incontro per intellettuali di sinistra, un vero e proprio salotto frequentato da
artisti e scrittori, fra cui Giuseppe Ungaretti, Leonardo Sinisgalli, Renato Guttuso, Nino Cordio,
Stefano D’Arrigo e Jutta Bruto.
Anche l’idea di universalismo e nonviolenza fu sempre presente nel pensiero della scrittrice, e
questo si evidenzia nella posizione filoaraba assunta nel conflitto israelo-palestinese. Sul rapporto
fra Dolores, il comunismo e la pace, è indicativa, infatti, la lettera inviata a Fausto Coen il 6
gennaio 1968:
E’ chiaro che il mio dissenso, irriducibile, senza concessione alcuna, è per la posizione presa dal
partito comunista riguardo alla questione ebraica.
Premetto che concetto Marchesi, quando gli capitava di mettersi a tessere i miei elogi,
raccogliendo le ragioni del suo peana, finiva sempre con queste parole: “e soprattutto perché
non capisce niente di politica”.
Dunque convinti tutti, cominciando da me, che io non capisco niente di politica. Però quando
fui a Mosca con Andrea, per quasi due mesi, riportai l’impressione che gli ebrei non fossero
amati. E si che in quel tempo m’era difficile (per non dire impossibile) ammettere che il
comunismo potesse avere dei torti; allora il bello su quel terreno io lo facevo nascere anche
dove proprio non c’era. Però che l’antisemitismo fosse incluso nel comunismo, facevo fatica a
nasconderlo a me stessa […] Vedevo tante cose che non capivo dove l’unica cosa chiara era il
torbido.
Questo torbido, pensavo, sarà la politica, io di politica non m’intendo; quindi potevo anche non
aver capito nulla sulla questione ebraica.
Ma che il comunismo lassù covasse ostilità contro gli ebrei, un giorno ne ebbi una tale conferma
che il dubbio non fu più possibile.
Me ne tornai qui con quella pena; però ero convinta che i sovietici avrebbero capito e corretto
quell’errore che li legava proprio ai nazisti. Invece non è stato così. E qui da noi i dirigenti
comunisti neppure in questo hanno saputo prendere una posizione indipendente. Chiamano
“sporca” la guerra del Vietnam, e lo è, ma allora come si dovrebbe chiamare la loro ostilità
contro Israele? Lurida, per lo meno.
Mettersi contro Israele è mettersi contro il diritto umano.
Parlano d’Israele come se fossero passati duemila anni dall’ultima strage e invece è proprio il
muro del pianto ad avere duemila anni.
E ieri sera Enzo Siciliano viene a “distinguere” […] gli Ebrei da quelli di Tel Aviv. Ma faccia il
20
favore, allora porti la distinzione anche tra quelli che nei lager sono morti e quelli che sono
tornati; quanti ce ne sono tra questi che sono vivi perché si sono nutriti della morte degli altri?
Qualcuno criticabile tra questi tornati, c’è. E con questo? Il campo di sterminio resta l’orrore
finora insuperato.
[…] Mille volte sono stata sul punto di chiederti la spiegazione di quello spaventoso
atteggiamento comunista (perché dove il comunismo prenderà piede, se la dura così, non sarà
una bella vita per gli Ebrei). Forse tu mi risponderesti che è la politica e allora dedurrei che la
politica è “sporca” perché questa è guerra, altro che pace! Il pacifismo e le sue dimostrazioni
non hanno niente a che fare con la PACE.
Pur avendo vissuto ogni momento della sua esistenza nella tensione verso un insieme di valori in
cui credere e in cui identificarsi, sicuramente fu l’assoluta indipendenza intellettuale di Prato la dote
migliore di questa donna così originale.
21
III - Dolores: “piccola e coraggiosa donna degli anni Trenta” in lotta con il
Fascismo
Vale la pena soffermarsi su Dolores insegnante e antifascista, perché un’osservazione più a fuoco su
questi punti conduce a documenti rari e importanti, fra cui un preziosissimo, e inedito, “testamento
ideologico” pratiano, e, oltretutto, permette di approfondire il legame di questa donna con la
provincia di Macerata.
Nel dicembre 1918, superati gli esami di licenza al Magistero, Prato, grazie all’interessamento di
padre Cesare Goretti Miniati, ottenne un posto da insegnante a San Sepolcro, nel Regio Educatorio
Istituto di San Bartolomeo: nella cittadina toscana visse uno strano “idillio” con Paolo Toschi, un
amore vissuto in modo asincrono – prima si innamorò lui, poi lei, ma a quel punto lui si era
avvicinato alla sua futura moglie, Ebe Palazzeschi - che fece soffrire molto Dolores, e che creò un
nugolo di chiacchiere che, nel 1921, portarono all’allontanamento di Prato dalla scuola. Nel 1922
Dolores arrivò a Macerata, dove le venne assegnata una supplenza. Qui iniziarono i contatti con il
vescovo della città, Ferdinando Cento, e, quando nel 1922 morì la Madrina, dell’educandato di
Treia, Dolores chiese subito di poter tornare nel collegio per insegnare. L’esperienza durò solo
cinque mesi, per profondi contrasti su temi didattici e di fede con la nuova superiora del collegio.
Nell’estate di quello stesso anno, Prato ricevette l’incarico di insegnare italiano e storia nella Regia
Scuola Promiscua Matteo Gentili di San Ginesio, un piccolo borgo medievale dell’entroterra
maceratese.
Ricorda Febo Allevi nel suo Liberty e Belle Epoque da un angolo visuale di provincia, peraltro
unico scritto in cui si parla di Dolores nel suo passaggio ginesino:
Scomparsa da circa una dozzina di anni, chi scrive la rivede come attraverso una cortina di
vetro, seduta in cattedra al posto del maestro titolare nella sua quarta (o quinta) classe
elementare, circondata dai suoi giovani allievi, presenti alla lezione di tirocinio, la cui ritmica
successione non comportava alcun disagio pratico, perché l’ampio ex convento agostiniano
ospitava (ed ha continuato ad ospitare fino a circa un trentennio fa) con le Normali (odierne
Istituto magistrale) le tre classi inferiori preparatorie e le elementari medesime45.
L’esperienza ginesina di Prato durò in tutto cinque anni, dal 1922 al 1927: erano gli anni dell’ascesa
45
Febo Allevi, Liberty e Belle Epoque da un angolo visuale di provincia, in Atti del XXXI Convegno del Centro Studi
Storici Maceratesi “Vita quotidiana e tradizioni popolari nel maceratese”, Abbadia di Fiastra 18-19 novembre 1995,
Macerata 1997, p. 147.
22
del Fascismo. Le scuole Normali, che dopo la riforma Gentile del 1923 divennero Istituti
Magistrali46, erano le scuole per la formazione dei maestri, e avevano un ruolo cruciale nei primi
decenni del Novecento: proprio l’insegnamento elementare, infatti, costituiva un importante canale
di mobilità ascendente, più per gli uomini che per le donne. Era una professione che permetteva di
far progredire il proprio status sociale, senza che per questo fosse richiesto il possesso di un titolo di
studio accademico (bastava una Scuola Tecnica o Complementare più la Normale). L’ingresso nella
scuola Normale era il trionfo di una famiglia intera, fiera di vedere uno dei propri membri uscire da
una condizione inferiore; trionfo del maestro, che consigliando questo orientamento aveva visto
gusto; a volte, era anche il trionfo di un paese intero, dell’alunno, candidato onorevole che arrivava
alla Normale attraverso strade difficili47.
La scuola ginesina era mista, per maschi e femmine, con alcuni allievi più vecchi di Dolores,
sposati e con figli, e queste erano cose che a Prato non piacevano. Il direttore, professor Sartori,
stimava molto questa insegnante che si faceva apprezzare per le sue lezioni vivaci e appassionate,
soprattutto se riguardavano Dante e la Divina Commedia48; i ragazzi e le ragazze le volevano bene.
In particolare, le si affezionò un allievo, Luciano Moretti, con cui restò in contatto, e amica, per
tutta la vita. Moretti, nato a Ripe San Ginesio nel 1906, frequentò fin dai primi anni di vita il pittore
Guglielmo Ciarlantini e il suo maestro, Adolfo De Carolis. A San Ginesio conobbe Dolores, e il
loro legame, sempre privilegiato e speciale, si trasformò, negli anni, da rapporto tra alunno e
insegnante a fraterna complicità elettiva. Il carteggio tra i due durò più di trent’anni. Dolores gli fu
vicina nel matrimonio con Olga Spinosi, nella nascita dei due figli Paolo e Marco, e lo introdusse,
nella capitale, nel suo gruppo di amici (Coen, Marchesi, D’Arrigo, Mazzullo). Luciano fu vicino
alla scrittrice quando questa iniziò a sistemare l’enorme mole di appunti e materiali che sarebbero
diventati il romanzo della sua infanzia: Giù la piazza non c’è nessuno49.
A San Ginesio, Dolores andò a pensione presso la famiglia Barbi, cui versava 300 lire al mese (lo
stipendio era di circa 7 mila lire annue). Di questo periodo della vita di Dolores Prato non si hanno
testimonianze importanti, oltre la corrispondenza con don Pacifico Ciabocco50, e qualche lettera a
46
Con Regio decreto del 6 maggio 1923 il corso di studi aumentò da 6 a 7 anni: i primi quattro anni costituivano il
Corso inferiore, gli ultimi tre il Corso superiore. Cfr. Perry Willson, Italiane. Biografia del Novecento, Editori Laterza,
Roma-Bari 2011, pp. 122-136. Delle 153 Scuole Normali esistenti nelle Marche prima del ’23, ne furono soppresse 66,
ma quella di San Ginesio restò (ed è attiva anche oggi come liceo Sociopsicopedagogico). Cfr. Antonietta Langiu e
Liduina Durpetti, Maestre & Maestri in Italia fra le due guerre, in “Quaderni del consiglio regionale delle Marche”,
anno IX, n. 54, Ancona 2004, p. 115, e Augusta Palombarini, Storie magistrali. Maestre marchigiane tra Otto e
Novecento, Edizioni università di macerata, Macerata 2009.
47
A. Langiu e L. Durpetti, op. cit., p. 102.
48
In questo periodo Dolores Prato iniziò a imbastire una serie di saggi e profili su questo argomento. Cfr. Elena
Frontaloni, Cronologia, in Dolores Prato, Sogni, a cura di Elena Frontaloni, Quodlibet, Macerata 2010, p. XXXI.
49
Cfr. E. Frontaloni, Glossario dei personaggi, in D. Prato, Sogni, cit., pp. 792-793.
50
Conservata nell’Archivio contemporaneo “Bonsanti” del Vieusseux, Fondo Prato, serie Pd, e anche nel fondo Ferri-
23
Oscar Piatti51, maestro e appassionato di storia e cultura locali: questi, in effetti, furono due dei
pochissimi amici che Dolores frequentò a San Ginesio in maniera assidua, perché, per il resto, le
sue relazioni sociali potevano definirsi rare, quasi inesistenti.
Le sue frequentazioni si limitarono a due ambienti: la chiesa e la scuola, dal momento che non
aveva una famiglia. Prato aveva, come è noto, e come si può dedurre dal romanzo su San Ginesio,
Campane a Sangiocondo, un rapporto molto stretto con don Pacifico e la sua famiglia, e conosceva,
anche se in maniera più superficiale, tutti gli altri sacerdoti che operavano in quella piccola
comunità. Fra i suoi amici, oltre a Piatti, poi, si possono annoverare sicuramente Alceste Murri
compositore e musicista, i coniugi Alfredo Salvucci e Bice Lami, suoi colleghi alla scuola Normale:
di fatto, proprio grazie a loro, Dolores Prato conobbe e vide per la prima volta Domenico
Capocaccia (entrambi erano stati padrini di battesimo di Maria, la figlia dei Salvucci); inoltre, tra gli
amici di questa stessa famiglia c’era anche il pedagogista Vincenzo Cento52, direttore di
quell’Accademia Libera di Cultura e Arte dove Prato andò ad insegnare, a Milano (città dove
Dolores visse il suo amore per Capocaccia e si “convertì”, in qualche modo, al comunismo).
Se si esclude questo sparuto circolo di persone, Dolores può dirsi una presenza mai integrata nella
vita vera del paese. Fedele alla sua indole selettiva e un po’ snob, che in parte coincideva anche con
l’isolamento voluto, in generale, in quel periodo storico, dalla classe degli insegnanti, portati a
rinchiudersi in piccole cerchie di persone “per bene” e al di sopra della “massa”53, Prato non amava
frequentare la piazza e le strade del paese come luoghi di aggregazione: per lei erano importanti i
luoghi più delle persone, e quello che la appassionava veramente erano la storia e le tradizioni
locali, di cui divenne peraltro profonda conoscitrice.
Questo suo distacco creò un velo di ostilità da parte dei ginesini, che, probabilmente non vedevano
di buon occhio la presenza di una donna indipendente e vulnerabile, colta, che presentava gli
atteggiamenti “antifascisti”, tipici dei cattolici puristi che non accettavano che una politica si
trasformasse in religione54. Fu così che Dolores, che a differenza di molti insegnanti e insegnanti
cattolici, non accettava la liturgizzazione della politica, avvertendo il cerimoniale come offensivo
rispetto alla Chiesa, finì nel mirino di un giornale cittadino, dai toni caustici e umoristici, dal titolo
“Padre Lavinio”55. Fondato e diretto da un personaggio originale quale era il capitano Quintilio
Ferrari.
51
Le lettere fra Dolores e Piatti sono state donate dalla famiglia Piatti all’Accademia Georgica del Comune di Treia.
52
Cfr. “voce” (a cura di Francesco Muzzioli), in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 23, Edizioni dell’Istituto
dell’Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 1979.
53
Langiu e Durpetti, op.cit., p. 262.
54
Cfr. E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1994.
55
Il titolo era ispirato alla figura di padre Lavinio, ben descritta da Allevi nel suo Liberty e Belle Epoque (cit., p. 90):
“Nelle parrocchie rurali non mancava poi il curato semplicione o per difetto di raziocinio o di dottrina. […] Nei parlari
di tutti ricorreva allora la dabbenaggine di un certo Padre Lavì, il quale appunto con la sua insipienza grossolana ne
aveva combinate molte di baggianate esilaranti in varie chiese della vallata del Fiastra, dove svolgeva il suo servizio
24
Clementini, il giornaletto ginesino (equivalente dei foglietti, anche parrocchiali, che circolavano in
quel periodo in molti altre piccole e medie realtà) era stampato nello stabilimento tipografico
Affede di Macerata e uscì saltuariamente tra gli anni Venti e Trenta, anche se qualche numero fu
stampato anche dopo la Seconda guerra mondiale.
Una pubblicazione assolutamente originale, di cui oggi, purtroppo, restano pochissime copie
(probabilmente si contano sulle dita di una mano)56, ma in cui, forse non a caso, troviamo
riferimenti a Dolores Prato.
Sono cinque i numeri rintracciati, di cui tre corrispondenti al periodo in cui Prato visse a San
Ginesio57. Riportiamo qui di seguito l’intestazione dei fogli:
1. Padre Lavinio del 29 luglio 1923
Viserba-Rimini – Numero unico – Costa baiocchi 4, col cambio b. 8
TITOLO: “Padre Lavinio al mare. Giornale umoristico nomade”.
Esce quando può, a seconda dei fondi. Direzione, amministrazione presso l’Hotel “Bologna”.
“O donne mie devote,/ vestite con decenza/ oprate con coscienza,/ nel nome di gesù”. P. Lavì
(moralista)
2. Padre Lavinio dell’8 giugno 1924
Sanginesio – Numero unico – costa cent. 40
TITOLO: “Padre Lavinio. Umoristico – idrofobo – felino”.
“O populu devotu,/ ve faccio reverenzia,/ daciateme ‘dienza/ che parlo de Jesù”. P. Lavinio.
Direzione e amministrazione presso il caffè Corradini.
In questo numero si legge un tagliente attacco proprio a Dolores, in cui ritroviamo palesato
proprio il ritratto, per quanto “strabico”, della Dolores antifascista:
religioso, ed in seno ai suoi parrocchiani. Es. Di fronte ai fedeli commossi fino alle lacrime nell’ascolto della Passione
di Cristo, Padre Lavì invitava ad asciugarsi le lacrime e a non pensarci più, perché tutto risaliva a un tempo così lontano
da confondersi con la leggenda o la favola: “E’ tanto che è stato, chi lo sa se è vero!?”.
56
Conservate nella biblioteca comunale Mozzi-Borgetti di Macerata e nella biblioteca privata del prof. Febo Allevi,
anche questa a Macerata. Introvabili, invece, nelle case ginesine.
57
Gli altri due numeri sono uno del 1936 e l’altro del 1951, quindi relativi a periodi non di nostro interesse.
25
SUPPOSIZIONI ATROCI
“Ci viene riferito che una certa signorina Dolores è nemica aperta del fascismo, dei fascisti e di
questo Giornale (che ci ha niente a che vedere). Perché?
Per quanto abbiamo pensato, ponzato, riflettuto, considerato, indagato, domandato, supposto,
ritenuto, sospettato, annusato, non ci risulta la ragione vera, plausibile, possibile, giusta,
ammissibile, attendibile, imprescindibile, inconfutabile, inalienabile, palpabile, bevibile,
digeribile…ecc. di tanta verbosa contrarietà.
Da informazioni assunte cautamente e direttamente presso i capri responsabili, possiamo
solennemente, sicuramente, indefecabilmente, e con la massima garanzia di serietà, affermare
che nessuno dei componenti il fascio maschile ginesino, nasconde delle animosità contro la
succitata signorina, anzi da qualche indiscrezione trapelata c’è stato facile intuire che quei cari
giovanotti non solo non la disprezzano, ma la vedono con piacere e con maggior piacere la
vedrebbero più frequentemente se Ella concedendosi qualche lasso di tempo tra una mistica
funzione e l’altra si offrisse agli sguardi furiosamente inutili che continuamente frugano la
piazza ov’Ella fugacemente e raramente appare.
E chi sa che in qualche turgido cuore non battano già i sei cilindri possenti di una passione
incipiente, che infine rompendo inutili lacci si scagli alla conquista fortunosa della Sfinge
ermetica e antifascista?
Noi brancoliamo nel mistero perché quanto sopra si riferisce a quei cari giovanotti, ma chissà
però che Ella non abbia dei solidi argomenti che anche impugnati la pongano sotto la luce più
fulgida della Ragione, spiegando così tutta la bellezza recondita di quest’Anima umile ed
incompresa che vive nell’ascetica attesa di un avvenire sempre più…grande, glorioso e
trionfante per non mai più morire e così sia!...
Con me poi francamente non ce se la doveva prendere. Se cominciamo a farci del male tra noi
riligiosi!...
(P. Lavinio)
Nello stesso numero appare un trafiletto, con ogni probabilità apocrifo, firmato da Prato nel ruolo di
direttrice della regia Scuola Normale. Dolores annuncerebbe addirittura la sua volontà di recarsi
direttamente a Roma, al ministero di Giustizia e Affari di Culto, e da don Luigi Sturzo, per
protestare contro l’imposizione fatta alla scuola dal “fascio invadente” di partecipare a una
manifestazione.
26
LETTERA APERTA ALL’ILL.MO SIGNOR SINDACO DI SANGINESIO
Protestiamo col relativo timore di Dio e dei SS. Nostri Patroni contro la penetrazione invadente
del fascio di questa Città (secondo il Conte Morichelli) il quale irriverentemente s’è creduto
autorizzato invitarci (o imporci) o partecipare con Questa timoratissima scolaresca ad un corteo
per una ricorrenza che non ha niente a che vedere con la nostra santa Religione inconcussa o col
P.P.
Intanto per Sua norma Io - dolores…amente – partirò quanto prima per Roma per elevare al
Ministro dei Culti Grazia ecc – e forse anche a don Sturzo – la espressione della nostra
indignazione.
Con i sensi ed i controsensi della nostra stima La ossequiamo.
F.ti: LA DIRETTRICE
UN PROFESSORE
P.C.C Il Segretario
PA Targa.
3. Padre Lavinio del 30 agosto 1926
TITOLO: “Padre Lavinio. Organo ufficiale dei cultori del riso. (Senza fissa dimora)”
Anche in questo numero ecco apparire poche righe che, sarcasticamente, vogliono provocare la
scrittrice. Si legge nella terza pagina:
ANNUNZI ECONOMICI MATRIMONIALI
“Mistica fanciulla, bruna, formosa, serafica, cerca anima gemella disposta a sgranare seco lei il
rosario della vita”. (Dolores – casella S. Antonio)
27
Importante, per la nostra riflessione, il pezzo comparso sul secondo fascicolo. Era firmato “la
direttrice”, perché a un certo punto fu proposto a Prato di assumere temporaneamente la direzione
della scuola di San Ginesio.
Che far da direttrice non fosse facile lo sperimentò sulla sua pelle, infatti fu travolta nello
scandalo di un documento contraffatto da un alunno. Ci fu un’inchiesta e il giovane fu
denunciato all’autorità giudiziaria e al Ministero. Lei dovette rispondere d’aver lasciato i timbri
in luoghi non sicuri, rischiò anche di perdere l’insegnamento58.
Che ci fosse stato, realmente, un problema con dei timbri incustoditi sottratti da uno studente è fatto
provato, ma la bacchettata da parte del Ministero a Dolores sembra attribuibile anche, e forse in
misura maggiore, alla renitenza di questa a prendere la tessera fascista e ai suoi tentativi di
circoscrivere, grazie al suo ruolo, le pretese del regime59.
Nell’ottobre del 1925, infatti, la distruzione di ogni indipendenza delle istituzioni scolastiche veniva
compiuta con provvedimenti approvati dal Gran Consiglio, insieme alla soppressione del diritto di
sciopero e allo scioglimento di tutti i partiti politici, tranne quello fascista. Con i “Provvedimenti
per la difesa dello Stato”, nel novembre del 1926, una delle cosiddette “leggi fascistissime”, fu
approvata e resa legale a persecuzione di chi non accettava il regime. A proposito della scuola, il
discorso del duce pronunciato il 22 giugno 1925 fu esplicito:
Il governo esige che la scuola si ispiri alla idealità del fascismo, esige che la scuola non sia, non
dico ostile, ma nemmeno estranea al fascismo o agnostica di fronte al fascismo; esige che tutta
la scuola, in tutti i suoi gradi e in tutti i suoi insegnamenti, educhi la gioventù italiana a
comprendere il fascismo e a rinnovarsi nel fascismo e a vivere nel clima storico creato dalla
civiltà fascista60.
La saldatura fra ideologia, Stato, partito e sindacato corporativo, che determinò la morte del libero
associazionismo dei docenti, era già iniziata con la pratica imposizione di una Corporazione
nazionale della scuola, trasformata, dopo tre anni, nel 1926, in Associazione nazionale insegnanti
fascisti (Anif) e, nel 1931, in Associazione fascista della scuola, soggetto che riuniva docenti di tutti
gli ordini, primario, secondario e universitario61.
58
S. Severi, L’essenza della solitudine. Vita di Dolores Prato, Sovera Editore, Roma 2002, p. 71.
Cfr. E. Frontaloni, Cronologia, in D. Prato, Sogni, cit., p. XXXIII.
60
B. Mussolini, Scritti e discorsi, Hoepli, Milano 1934, vol. V, p. 217 e cfr. Katia Colombo, La pedagogia filosofica di
Giovanni Gentile, Franco Angeli, Milano 2004, p. 162; inoltre vedi Mario Isnenghi, L’educazione dell’italiano. Il
fascismo e l’organizzazione della cultura, Cappelli, Bologna 1973.
61
Jurgen Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), La Nuova Italia, Firenze 1996,
pp. 293-303.
59
28
Tornando a Prato, e al suo rapporto con il regime fascista, possiamo affermare che la sua esperienza
fu diversa da quella della maggior parte degli insegnanti italiani, che, nel complesso, si adattò senza
grosse resistenze alle direttive del regime, anche se la fascistizzazione fu spesso superficiale. Molti
insegnanti, formatisi nel clima culturale della guerra, continuarono a svolgere il loro lavoro come
avevano sempre fatto, senza concedere al Fascismo niente di più che un’adesione generica.
Favorevoli o meno al Regime, avevano comunque, in gran parte, un giudizio positivo sull’attività
dell’Opera Nazionale Balilla (ONB) e della Gioventù Italiana del Littorio (GIL). Diverse erano,
invece, le sfumature di giudizio sul Fascismo nel suo complesso: alcuni, le donne soprattutto, erano
affascinati dalla personalità dell’“Uomo” che aveva saputo restaurare l’ordine e la disciplina. Il
concetto di Fascismo, per loro, coincideva con quelli di Ordine, Patria e Nazione, e in nome di
questo nazionalismo sarebbero state accettate le guerre di espansione. Pochissimi le condannavano.
Non mancavano, inoltre, coloro che, o per tradizione familiare o per convinzione acquisita, avevano
subito visto i lati negativi del Fascismo, ma non erano riusciti a non rimanerne coinvolti.
Dolores, invece, non nascose mai la sua avversione per il Fascismo, che, anzi, manifestò nei fatti,
con “azioncelle piccole piccole”, come lei stessa le definisce, o “pazzie”.
Un documento inedito, fra i tanti rintracciati durante la ricerca tra i materiali e gli scritti di Prato, a
mio avviso un “testamento ideologico” di rara fattura, forse una delle pagine più significative e
nascoste della scrittrice, ci svela una Dolores tenace e forte contro il potere, una donna che non ha
mai fatto concessioni, e non ha mai smesso di lottare per seguire i suoi ideali.
Vista l’importanza e la profondità delle riflessioni e dell’argomento, si riporta qui il testo integrale,
conservato dai coniugi Ferri Ferrari.
Comunicazione del dottor Fausto Coen contenente un pro-memoria di Dolores Prato
Caro Zampa, se avessi potuto, come avrei tanto desiderato, unirmi a voi nel ricordo di Dolores
Prato, mi sarei limitato a leggere questo breve pro-memoria trovato tra le carte che, insieme agli
amici Ferrari, abbiamo salvato per affidarle al Vieusseux. Ti sarò grato se lo farai tu. Si tratta di
un appunto che Dolores Prato aveva buttato giù alla caduta del fascismo, sollecitata,
probabilmente, da amici che volevano aiutarla a trovare finalmente un lavoro all’altezza delle
sue capacità. In questo appunto Dolores Prato racconta la sua pertinace ostilità al fascismo; è la
modesta, oscura lotta di una piccola e coraggiosa donna degli anni Trenta. Oggi sembrano, tutto
sommato, cose di poco conto, ma non lo so e ci aiutano, forse, anche a capire alcuni dei misteri
della nostra cara amica scomparsa. Ti prego, leggilo tu, è breve.
29
“Carissimi, questo è il compito più difficile che faccio da che cominciai ad andare a scuola,
perché confessare le proprie colpe è facile e fa bene all’anima, ma confessare i propri meriti
avvilisce, tanto più quando i cosiddetti meriti sono azioncelle piccole piccole; io non so ciò che
valgano, perciò racconto, più che per dire fatti da includere in un pro-memoria, perché voi
conosciate una parte della mia anima.
Incominciai l’insegnamento alle scuole medie superiori con l’avvento del fascismo e insieme
cominciò la mia ostentata avversione per il fascismo. La scuola offriva un mezzo efficace e
facile per fare quotidiana opera di raddrizzamento di idee, di critica, di condanna e per non
lasciar morire il ricordo e la fede nella libertà. Ne approfittai in tutte le maniere, con presidi, con
presidi consezienti e con presidi ostili. Nei due anni in cui ebbi l’incarico ministeriale, avendo
in mano ogni mezzo per la nostra battaglia, con intima soddisfazione posso dire che non ne
lasciai inoperoso alcuno: rifiuto di esporre la bandiera per i loro diversi annuali, rifiuto di
mandare la scolaresca ad ingrossare i loro cortei, rifiuto di presenziare con la mia presenza le
loro funeree commemorazioni, rifiuto di obbligare la scolaresca ad acquistare la loro stampa.
Dopo due anni di incarico, ripresi l’insegnamento come supplente, continuando una lotta
sempre più difficile per l’aumentata diffusione del morbo fascista.
Dovetti aggiungere armi nuove alle vecchie, fu la volta dell’umorismo, della presa in giro, per
esempio, un certificato medico comprovante un ascesso all’ascella destra per evitare il saluto
fascista nell’occasione della visita del Ministro della Scuola. La vita nella scuola mi fu resa
sempre più difficile, ma, finalmente, un concorso mi riuscì, mi riuscì splendidamente per
esplicita dichiarazione della commissione esaminatrice, nel salutarmi alla fine della prova,
confermata dalla prima stesura della graduatoria, ma, quando uscì il bollettino ufficiale, io
risultavo in coda, neppure fra gli idonei. Il mistero lo svelò un impiegato del telegrafo, un fedele
delle nostre idee, che, credendo di potermi salvare con la sua indiscrezione, mostrò la copia del
telegramma che da Macerata era stato spedito a Roma perché la commissione esaminatrice fosse
avvertita dei demeriti fascisti della candidata Dolores Prato. Altri anni di dolorosi tentativi per
trovare un lavoro che non richiedesse un impossibile asservimento.
Non seppi fare o non fui fortunata; non posso giudicare io, mi fa velo la miseria, la fame, non
metaforica, il pianto, l’abbandono di tanti anni che non cerco di contare per rabbrividire, di anni
del lavoro, della vita, assassinati. Al colmo della stanchezza non cercai più, mi adattai a fare
l’infermiera a un’inferma di mente; non mi sarebbe mancato il vitto e l’alloggio e intanto mi
illudevo di poter preparare dei lavori da pubblicare, a fascismo caduto, e non sapevo che,
vivendo sola, a contatto continuo con una pazza lucida, è un’utopia pensare di lavorare; è già
tanto se non si impazzisce. Da tredici anni io vivo così, eppure sono riuscita anche ad abbozzare
dei lavori, a coordinarli certo no, e ad aspettare la liberazione. E anche in questi lunghi anni non
ho cessato un istante di resistere al fascismo e di offenderlo come potevo.
30
Il bisogno di guadagnare e il desiderio di uscire da questa vita deprimente non mi hanno mai
spinto a pubblicare un lavoraccio per ragazzi che avrebbe avuto successo, solo perché, dovendo
operare alcuni tagli, ne sarebbe derivata una certa simpatia per la monarchia; eppure avevo tanto
bisogno di guadagnare. Lasciai pure cadere la proposta di un giro nella Spagna, perché gli
articoli avrebbero dovuto comparire sul quotidiano “regime fascista” di Farinacci. Incontrata per
caso una persona vicinissima a Mussolini, che si mise a mia disposizione per tutto ciò che io
volessi, invitandomi insistentemente a Palazzo Venezia, io mai risposi, benché la gente ben
pensante mi dicesse che, così sola e povera com’ero, disprezzare simile occasione era pazzia.
Ebbene, io commisi infinite volte di queste pazzie. In questi ventidue anni di passione, ho avuto
minacce di olio di ricino, di manganello e pericolo, miracolosamente sventato, di perquisizione;
bench’io non sia di razza ebraica, per il mio nome che appartiene anche a gente israelita, ebbi
seccature e noie. Neppure una volta ho fatto il saluto fascista, anche se incontravo quei loro
minacciosi cortei impennacchiati dalle funebri banderuole; mai un applauso, anche se capitavo
per caso in mezzo a frenetici applaudenti; mai una volta, neppure per curiosità, ho ingrossato,
con la mia persona, le loro incoscienti adunate. Ma, sempre, con commenti, con ostentate
espressioni di disprezzo, col chiaro e tondo voltar le spalle, cercavo di distinguermi dai servi,
rispondevo con sferzate se mi davano del voi, dopo che questo fu comandato.
Da famiglie ben pensanti fui radiata perché non mi rassegnavo a evitare la risata o la frecciata
antifascista; la paura della gente crebbe tanto che io avevo cominciato con lo scrivere sui muri,
dato che parlare non si poteva proprio più.
E’ poco, lo so, ma concessioni non ne ho fatte; non potevo lottare che così”.
Concessioni, Dolores Prato non ne ha fatte a nessuno, non soltanto al fascismo che
visceralmente odiava, ma nemmeno a tutto ciò di cui non era persuasa, nei principi come nei
gusti o nelle mode, nelle cose grosse e nelle piccole.
Credo che il suo “cattivo carattere”, insieme alle sue doti naturali di vera scrittrice, vada oggi
ricordato; si dice cattivo carattere per la riluttanza ad ammettere che una persona ha
semplicemente carattere. E’ un aggettivo che tradisce il dispetto di dovere ammettere negli altri
questa rara e preziosa qualità.
Il breve pro-memoria della Prato è un pezzo di tristissima storia patria. C’è un antifascismo con
l’a maiuscola, entrato ormai nei libri di storia, rievocato dal cinema e dalla televisione, che si
esprime negli illustri nomi di coloro che seppero dire di no e abbandonarono l’Italia, ma c’è
anche un antifascismo piccolo, modesto, sconosciuto, che, chi ha vissuto quegli anni, sa che non
è meno eroico, perché non aveva nemmeno il conforto della notorietà.
Il pro-memoria di Prato ci aiuta, forse, a spiegare anche i lunghi anni che hanno inaridito un felice
31
estro narrativo in una ossessionante inattività coatta, che hanno fatto perdere occasioni importanti e
disperdere energie, impedendo il realizzarsi di quello che, solo molto più tardi, si è potuto realizzare
e che, forse, le hanno fatto intraprendere, per molto tempo, strade diverse da quelle che, così
sicuramente, in un Paese libero e civile, Dolores Prato avrebbe potuto imboccare.
E questo documento offre anche la “soluzione” dell’enigma che ancora caratterizza la figura di
Dolores Prato, riguardante le sue origini. Prato ebrea o no? Verità o finzione? “In questi ventidue
anni di passione, ho avuto minacce di olio di ricino, di manganello e pericolo, miracolosamente
sventato, di perquisizione; bench’io non sia di razza ebraica, per il mio nome che appartiene anche a
gente israelita, ebbi seccature e noie”, si legge nel documento appena riportato. E l’enigma è
definitivamente sciolto.
Significativo, per concludere compiutamente questo excursus sulla lotta di Prato contro il Fascismo,
può essere anche il passo di una lettera che Dolores scrisse a Capocaccia nel febbraio del 1945
riportato, e contestualizzato, da Elena Frontaloni nella dettagliata Cronologia che introduce i Sogni
di Dolores, in cui la scrittrice esprime il suo aspro giudizio sugli intellettuali fascisti riciclatisi, tra
Liberazione e immediato dopoguerra, al nuovo clima politico:
Crederò al rinnovamento intellettuale della nostra povera gente solo quando non sentirò più i
vecchi nomi, e ne sentirò dei nuovi … Purtroppo però i vecchi nomi sono ancora ricercati
perché la mentalità piccoloborghese degli italiani è un fatto costituzionale e si ha paura del
nome nuovo … Sta attento, Doni, chiudi il cuore e apri solo il cervello. E’ doloroso, lo so, ma
questo dobbiamo fare se vogliamo sopravvivere dopo la nostra agonia lunga come il centro
della nostra vita, altrimenti rivivranno questi uomini che vissero allora, vivono ora, solo perché
non soffrirono mai come noi soffrimmo! E questo è vero anche se qualcuno di loro può
presentare una piccola persecuzioncella, un partigiano ospitato, un silenzio subito. Allora
bisogna chiedere: la data! 1939…1940…1941…1942…troppo tardi signori! Allora era facile
essere antifascista!62
62
in D. Prato, Sogni, cit., p. XXXIV.
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IV - Dolores Prato e Rina Faccio/Sibilla Aleramo: un confronto
Per completare il quadro d’insieme sulla vita di Dolores Prato e la formazione della sua personalità
e del suo pensiero, può essere interessante tentare un paragone con una scrittrice che ha avuto
maggiore fortuna e notorietà: Sibilla Aleramo.
Perché Prato e Aleramo? Perché come tratto di comune via all’emancipazione hanno quello di
essere state giornaliste, anche se in tempi e modo diversi, e perché hanno avuto un legame cruciale
con le Marche e la provincia di Macerata. Perché sono state entrambe scrittrici, ma anche
giornaliste, e simboli diversi, assolutamente significativi, di quel viaggio lento, difficile e
probabilmente incompiuto, ma sicuramente “magico”, che è stata le storia delle donne nel passaggio
tra Otto e Novecento63. E’ in quest’ottica inedita, infatti, che la presente ricerca si propone di
ripercorrere, e in qualche modo comparare, la vita di queste due donne.
Due donne che si sono sempre sentite “diverse”, segnate, l’una consciamente (Sibilla), l’altra forse
a livello inconsapevole (Dolores), dal doloroso processo dell’emancipazione femminile, che ha
come spezzato in due le loro esistenze: da giovanissime, intrappolate in una gabbia sociale in cui, a
cavallo fra i due secoli della contemporaneità, si entrava inermi, quasi fosse un’adesione “secondo
natura”, a donne che si rivoltano alle rispettive condizioni. Sibilla Aleramo anche fisicamente,
lasciando marito, figlio, e la città in cui era prigioniera (Porto Civitanova) alla ricerca della libertà
personale e artistica; Dolores Prato prendendo in mano la sua formazione intellettuale e politica
dopo aver conosciuto un uomo del Partito comunista italiano, l’avvocato Domenico Capocaccia, ed
essersi trasferita a Milano, da San Ginesio, per seguirlo, oltre che per andare a insegnare
all’Accademia Libera di Cultura e Arte del pedagogista Vincenzo Cento.
Entrambe hanno vissuto credendo profondamente nel pacifismo, entrambe sono state antifasciste
(Dolores tutta la vita, e convintamene; Sibilla no, tanto che, negli anni del regime, arrivò a chiedere
più volte aiuto a Mussolini per le sue difficoltà economiche, e a iscriversi all’Associazione
nazionale fascista donne artiste e letterate), e alla fine entrambe si sono riconosciute, seppure in
modo diverso, e con una diversa consapevolezza, nel Partito comunista italiano.
Ad avvicinare i due profili anche un livello intimo-familiare marcato dalla solitudine: Dolores,
come abbiamo visto, non conobbe mai l’affetto e la presenza di una famiglia, neanche quella di
origine, e non costruì mai una relazione stabile con nessuno; Sibilla, con alle spalle una famiglia di
quattro figli, segnata dall’adulterio del padre e dall’internamento della madre (poi suicida) nel
63
Cfr. Anna Bravo, Margherita Pelaja, Alessandra Pescarolo, Lucetta Scaraffia, Storia sociale delle donne nell’Italia
contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2001.
33
manicomio di Macerata, cercò comunque di restare nei ranghi delle convenzioni sociali di fine
‘800, e di una realtà piccola e di provincia come quella di Porto Civitanova, sposandosi e
diventando madre. Ma alla fine decise di seguire la sua natura libera, andandosene e allontanandosi
dal figlio. E sebbene la sua vita sia poi stata costellata di relazioni sentimentali, passioni, amori,
morì sola.
Queste due donne, insomma, che in prima analisi potrebbero sembrare due universi fra i più
distanti, in effetti potrebbero dirsi unite dall’aver affrontato i delicati e rivoluzionari passaggi
culturali, sociali, politici di Otto e Novecento con una tenacia fuori dal comune, ciascuna vivendo
come due vite, con un confine segnato da una rottura ben definita.
Ma partiamo dal tratto “territoriale”, maceratese, e d’origine. Il legame tra Prato e Treia e San
Ginesio, come abbiamo visto, era viscerale, sentimentale e “reale”, nel senso di fortemente ancorato
alle cose materiali, alle strade, alle piazze, ai panorami, alle case, alle pietre. Era un rapporto
simbiotico privilegiato, che prescindeva dalle persone, in cui esse intervenivano, anzi, quasi in
modo superficiale. Talmente questi due paesi segnarono la sua esistenza, che la scrittrice ne fece i
protagonisti degli unici romanzi compiuti e pubblicati mentre era in vita, seppure con tutti gli
incidenti, i tagli e le insoddisfazioni, differenti (ma sempre presenti) da caso a caso. Ovviamente,
uno squilibrio di “amorosi sensi” rendeva Prato molto più vicina a Treia rispetto a San Ginesio, ma
di queste relazioni fra Dolores e i luoghi parleremo in dettaglio più avanti. Quanto alla realtà
familiare di Prato, il suo sentirsi “bastarda integrale”64, anche in senso proprio, non avendo né un
padre né una madre riconoscibili in quel ruolo, e la sua solitudine derivante dall’abbandono,
permearono tutta la sua vita e la sua produzione scritta e, forse, furono anche la causa più o meno
conscia della infelice vita sentimentale della donna. Dolores non solo non si sposò e non ebbe figli,
ma non visse mai relazioni amorose chiare, serie, tanto che è difficile sapere e capire quali siano
stati in realtà gli uomini che hanno condiviso con lei qualche tratto di vita, e in che modo l’abbiano
fatto: Capocaccia, Gaggero, Toschi, sono stati storie insolute, vissute in modo totale da Dolores,
con gradi di profondità diversi, in nessun caso ricambiate con la stessa intensità.
Diversa l’inferenza dei luoghi nella vita della giovane Rina Faccio. Arrivò in treno da Milano a
Porto Civitanova nel luglio del 1888, quando aveva 12 anni, e con lei arrivarono suo padre
Ambrogio, ingegnere, e sua madre Ernesta Cottimo, casalinga, le sorelle Jolanda e Corinna e il
fratello Aldo. L’armonia del paesaggio del luogo in cui stava andando ad abitare la incantò:
Sole, sole! Quanto sole abbagliante! Tutto scintillava, nel paese dove io giungevo: il mare era
una grande fascia argentea, il cielo un infinito riso sul mio capo, un’infinita carezza azzurra allo
64
D. Prato, Giù la piazza, cit., p. 687.
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sguardo che per la prima volta aveva la rivelazione della bellezza del mondo. Che cos’erano i
prati verdi della Brianza e del Piemonte, le valli e le Alpi intraviste ne’ miei primi anni, e i dolci
laghi ed i bei giardini, in confronto di quella campagna così soffusa di luce, di quello spazio
senza limite sopra e dinanzi a me, quell’ampio e portentoso respiro dell’acqua e dell’aria?65
Ma da subito Rina si accorse di essere arrivata in un piccolo borgo, una “cittaduzza” che l’avrebbe
presto soffocata. Se la vita sociale ed economica di Civitanova e del Porto aveva una sua vivacità,
infatti, le attività culturali sembravano del tutto assenti, e non c’erano scuole al di sopra delle
elementari.
Impiegata fin da giovanissima nella fabbrica di bottiglie del padre, Rina venne a contatto
personalmente con il mondo operaio, e lasciò gli studi, riprendendoli poi da autodidatta. La sua
formazione afferiva al mondo del lavoro, con la particolare venatura positivistica e anticonformista
che derivava da una famiglia in cui il padre era un professore di chimica e scienze un po’ fuori dalle
righe:
Mio padre, scienziato ed ateo, aveva ereditato da mio nonno, mazziniano, alcuni concetti
morali, sincerità, lealtà, onestà, libertà […] E ad essi uniformava la propria esistenza, e dai miei
primissimi anni me li trasmise, come una specie di religione, umana religione, unitamente a un
senso panteistico e commosso di tutte le cose66.
La madre aveva lasciato in lei un altro tipo di impronta:
Mi veniva da lei quella pavida sensibilità tutta femminea, gelosa e quasi morbosa,
quell’inclinazione al sogno alla chimera al mito, quel segreto anelito al ritmo, quell’istinto
profondo di dedizione, per i quali, fin d’allora, fanciulletta […] io ero un fremente embrione
della donna che poi son stata e ancora sono67.
Questi erano i tratti della giovane donna che tentò di iscriversi alla Società del tiro a segno
civitanovese, ma che il prefetto, con decreto, non accettò in quanto minorenne (e tacitamente in
quanto donna), e che praticava il nuoto per sentire quel senso di autonomia e di libertà che esaltava
la sua persona, in un’epoca in cui le ragazze si limitavano a bagnarsi appena sulla riva del mare.
65
Sibilla Aleramo, Una donna, Gruppo Editoriale L’Espresso, Milano 2003, p. 16.
Sibilla Aleramo, Un amore insolito. Diario 1940-1944, Feltrinelli, Milano 1977, p. 43.
67
Sibilla Aleramo, Esperienze d’una scrittrice, in Andando e stando, a cura di R. Guerricchio, Feltrinelli, Milano 1997,
p. 3.
66
35
Facendomi cullare dall’onda per ore ed ore sotto il sole ardente, sfidando il pericolo
coll’allontanarmi a nuoto dalla riva fino a non esser più visibile, io mi unificavo con la natura e
68
sfogavo insieme l’esuberanza del mio organismo .
Ma proprio nella città della costa maceratese Rina, a soli 17 anni, sposò Ulderico Pierangeli,
dipendente nella sua stessa fabbrica, l’uomo che l’aveva violentata: un matrimonio riparatore della
“tragedia silenziosa” che l’aveva vista protagonista. Subito dopo aveva lasciato il posto nella
vetreria, ottenendo dal padre una modesta rendita e continuando a svolgere, in casa, piccoli lavori di
contabilità per la ditta. Rina aveva poi dovuto affrontare il trauma del tentato suicidio della madre,
che, una mattina del 1890, si era lasciata cadere da un balcone; aveva rotto il rapporto con il padre
quando aveva scoperto che questo aveva un’amante, ed era stata cacciata dalla fabbrica perché lo
aveva giudicato. Ma questa stessa donna aveva una concezione moderna della famiglia, e rimase
letteralmente impressionata alla messinscena del dolore da parte dei familiari quando il 25 marzo
1895, otto giorni prima che nascesse suo figlio, morì il suocero: “appresi la retorica del lutto”69.
“Nel paese regnava una grande ipocrisia”70. In questo punto profondo è il solco che divide Faccio
da Prato: per Dolores, infatti, i gesti, i rituali, le “retoriche paesane” erano simbolo del mondo della
sua infanzia felice, del mondo che a lei piaceva e a cui si sentì legata fino alla fine.
Ma torniamo a Porto Civitanova, dove il 2 aprile 1895 nacque Walter. Rina, a poco a poco, prese
coscienza del fatto che la maternità stava spegnendo in lei ogni progettualità, le stava procurando
“un’incapacità sempre maggiore di vedere, di volere, di vivere”.
Era la deficienza fondamentale della mia vita che si faceva sentire. In me la madre non
s’integrava con la donna: e le gioie e le pene purissime in essenza che mi venivano da quella
cosa palpitante e rosea, contrastavano con un’instabilità, un’alterazione di languori e di
esaltamenti, di desiderii e di sconforti, di cui non conoscevo l’origine e che mi facevano
giudicare da me stessa un essere squilibrato e incompleto71.
Importante questo difficile rapporto con la maternità - altro passaggio cruciale tra Otto e Novecento
- vissuto da entrambe le scrittrici-giornaliste.
Per quanto riguarda Faccio/Aleramo si tratta di un nodo indagato più e più volte, sia da lei stessa, a
partire dal romanzo-manifesto Una donna72, sia dalla critica a lei contemporanea e successiva.
Quando lasciò dietro di sé il figlio di sei anni, Rina conosceva la legge, e sapeva che difficilmente
68
S. Aleramo, Una donna, cit., p. 29.
Ivi, p. 56.
70
Ivi, p. 56.
71
Ivi, p. 63.
72
pubblicato nel 1906 dalla Sten (società tipografico-editrice nazionale) di Torino, dopo essere stato rifiutato sia da
Treves che da Baldini & Castoldi.
69
36
avrebbe potuto riaverlo, ma non voleva continuare a vivere con un uomo che non amava e che non
stimava (e che l’aveva stuprata) in nome del figlio.
Le pagine del suo libro, fin da subito un caso letterario, sollecitavano la riflessione proprio su temi
cruciali come il valore sociale della maternità, il contrasto ragione-sentimenti, il rapporto con
l’uomo e la sessualità, la dipendenza economica nel matrimonio, la prostituzione dell’anima e
quella del corpo, il diritto alla felicità. La scelta di abbandonare la casa coniugale, correndo il
rischio di perdere il figlio veniva presentata, nel libro, come una difesa della dignità della donna e
della madre, una doverosa ribellione in nome del diritto alla felicità e alla libertà personale.
Rina rimase povera: dopo che il marito le aveva negato l’autorizzazione a ricevere un’eredità,
poteva contare solo su collaborazioni saltuarie a riviste e giornali. Aveva dalla sua fascino,
intelligenza, nonchalance verso le difficoltà materiali, grandi capacità di scrittura, coraggio.
Attraverso questa lunga iniziazione Faccio si preparava a diventare Sibilla Aleramo. Con il figlio,
spesso invocato nella scrittura e spesso rimpianto, non riuscì mai a ricucire il filo interrotto. Morì
sola, sorretta dall’idea di una fratellanza con gli sfruttati mediata dall’adesione al Partito comunista.
In Dolores Prato, il rapporto con la maternità è un’acquisizione nuova, che nel presente lavoro
prende spunto da uno stralcio di una lettera che Prato scrisse a Luciano Moretti, suo allievo
prediletto a San Ginesio, nel 1941, in occasione della nascita di Paolo, primogenito di questi.
Se un giorno l’agio di tante ore serene che ci lasciassero vicini mi portasse a dire il fondo di
quella mia tragedia della quale in genere dico solo qualche episodio esteriore, dovrei
confessarvi che tutto il mio fallimento, tutto il mio disumano dolore hanno la loro causa nel non
aver avuto un figlio. Quando ho capito che era necessaria questa rinuncia se non volevo dare a
lui la vita che altri ha dato a me, vita fuori legge, bella come dono in sé perché frutto di un
grande incontro primitivo e naturale, ma orribile nella serie infinita delle contingenze quali la
società ce le impone, allora io credo che veramente fui finita. E odiai tutti i bimbi che vedo e
che non conosco, adorai tutti quelli che corteggiavano un poco la mia vita. Sono ancora
abbastanza intelligente per non capire che quell’odio è amore andato a male73.
Altro brevissimo accenno si trova in una lettera al magistrato Torquato Ferrari:
La gioia profonda me la dà solo la creazione. Me l’avrebbe data un figlio, ma un figlio mio, non
uno trovato74.
Dolores non parlava mai della sua mancata maternità, dei figli che non aveva avuto. E per questo
sembrano ancora più preziosi i manoscritti – poche pagine – che Ines Ferri e Filippo Ferrari hanno
selezionato, proprio per questo lavoro, sull’argomento. In un primo stralcio, che Prato stessa aveva
73
Lettera del fondo Ferri-Ferrari.
Il riferimento è a Andrea Gaggero, e al loro strano multiforme rapporto, che prevedeva anche una declinazione
madre-figlio.
74
37
intitolato Figli, è riportata proprio la lettera a Moretti, ma con l’aggiunta di un’introduzione
altrettanto importante:
Quassù, a Monte Cavo, mi è venuta la buona novella…Olga e Luciano aspettano un bimbo.
Anche io l’ho tanto aspettato!!! Ecco alcune parti della lettera che, stamani, appena giorno, ho
scritto a Olga…(se la leggesse chi mi sente sempre dire male dei bimbi…chi mi vede voltar la
testa dall’altra parte per non guardarli!)75
Un altro foglio, invece, contiene una riflessione che vede protagonista Doni (come Dolores
chiamava Domenico Capocaccia), e che rivela anche come la relazione con l’avvocato fosse
importante per lei, tanto da farle pensare a un figlio.
Quando ancora sognavo di avere un figlio pensavo sempre che nel periodo di “attesa” avrei
parlato in plurale
- Doni, ti prego, vieni tu vicino perché noi non possiamo muoverci.
- Noi abbiamo sete
- Noi ti amiamo tanto
E avrei preteso che gli altri mi avessero dato del “voi”
- Volete questo fiore?
- Se non vi disturbo ecc.
Unico caso in cui dare del “voi” è giusto. Unico caso in cui parlare col “noi” è giusto. Difatti
quando mi sento dire col “voi” mi pare di essere doppia.
In calce, nella stessa pagina, Dolores scriveva anche, alludendo a un progetto di scrittura in cui,
probabilmente, avrebbe voluto affrontare il periodo di maturità della sua vita (dopo l’infanzia e
l’adolescenza trattate in Giù la piazza e in Le Ore):
Nel mio lavoro introdurre questo atteggiamento creando con grazia una scena di finzione nel
tempo in cui amavo in cui immagino di essere incinta e recito la parte del noi e del voi.
Considerazioni estemporanee, con le quali non è possibile tratteggiare un pensiero pratiano nei
confronti di un argomento tanto importante, quale è quello dei figli e della maternità, che invece
Sibilla Aleramo ha indagato in profondità, pur se dolorosamente, e lungo tutto il corso della sua
vita. Unica sfumatura che si potrebbe azzardare, pensando a Prato, è che il fatto stesso che la
scrittrice non abbia mai affrontato la questione, così importante nella vita di una donna, in
qualunque modo la si pensi, è un sintomo di quell’atteggiamento ingenuo, quasi infantile, che ha
caratterizzato il suo modo di affrontare le relazioni sentimentali e, in generale, i rapporti con gli
altri. Forse è il segno di una Dolores mai cresciuta, in realtà, nel modo di relazionarsi con le
75
Fondo Ferri-Ferrari.
38
persone, a fronte di un atteggiamento contrario quando si trattava di osservare il mondo, la società,
la storia e i cambiamenti: uno sguardo acuto, curioso, profondo, mai banale, preparato, unico.
Sicuramente Prato e Aleramo hanno vissuto ponendo un’attenzione particolare ai loro sentimenti non per forza storie sentimentali – e ricercando e inseguendo un proprio credo, religioso, politico o
estetico che sia. A proposito di Rina/Sibilla:
La sofferta convivenza con il marito non le aveva impedito di dedicarsi ai suoi interessi culturali
di cimentarsi con la scrittura di articoli e novelle. Nel 1898 era una giovane promessa del
giornalismo e del femminismo. Dopo essersi separata dal marito e dal figlio nel 1902, Rina
iniziò una convivenza con il poeta Giovanni Cena. Nel 1906 pubblicò un libro che fece
scalpore, Una donna: vi difendeva, in nome di tutte le donne, il diritto di seguire la propria
vocazione, di essere autonoma e padrona di sé, anche a costo di rinunciare al figlio. Quel libro
rappresentò l’inizio di una nuova vita, l’assunzione di una nuova identità, quella di Sibilla
Aleramo, lo pseudonimo con cui aveva firmato la sua opera. Alla ricerca della libertà sia
personale sia artistica, spesso vissuta all’insegna dell’eccesso e della trasgressione, rimase
fedele tutta la vita76.
Gli amori di Sibilla non furono mai tenuti nascosti, neanche quando la passione fu per una giovane
intellettuale ravennate, Lina Paoletti77, o per l’attrice Eleonora Duse, o quando furono brevi, come
quelli, tra gli altri, con Vincenzo Cardarelli, Giovanni Papini, Giovanni Boine, Umberto Boccioni,
Salvatore Quasimodo, Julius Evola78.
La realtà è questa: ch’io ero nata per ascoltare e per tradurre certe voci dello spirito; ero nata per
un’opera che mi trascendeva, obiettiva quanto può esserla l’opera poetica.79
E con la stessa chiave di lettura, quella che parte dalla consapevolezza di essere di fronte a una
donna “nata per tradurre certe voci dello spirito”, “nata per un’opera” che la “trascendeva”, si può
ricostruire la continua ricerca di un credo, laico, di Aleramo.
Il percorso del pensiero politico di Sibilla, se di qualcosa di simile si può parlare, ha un tracciato
impervio e spesso contraddittorio: femminista, pacifista, fascista, ma subito dopo il 1945 convinta
comunista, iscritta al Pci, impegnata attivamente nel partito e collaboratrice dell’“Unità”.
Nonostante la sua adesione al Futurismo, che in politica finì per pappoggiare correnti
76
E. Scaramuzza, La santa e la spudorata. Alessandrina Ravizza e Sibilla Aleramo. Amicizia, politica e scrittura,
Liguori Editore, Napoli 2007, pp. 4-5.
77
In seguito diventata l’amante di Eleonora Duse.
78
Da due delle sue storie sono anche nati due romanzi epistolari: l’amore per Giulio Parise, condirettore della rivista
“Ur”, è descritto nella raccolta di lettere Amo dunque sono (Mondadori, 1927), mentre quello tormentato e passionale
vissuto con il poeta Dino Campana è stato pubblicato nel 2000, da Feltrinelli, nel libro Un viaggio chiamato amore.
Lettere 1916-1918.
79
Conti Bruna, Morino Alba (a cura di), Sibilla Aleramo e il suo tempo. Vita raccontata e illustrata, Feltrinelli, Milano
1981, pp. 85-86.
39
nazionalistiche ed interventiste, Sibilla dimostrò di non abbandonare mai il suo credo femminista e
il pacifismo che ne derivava. Molti furono gli articoli, come quelli scritti in occasione della guerra
di Libia o della prima guerra mondiale, in cui rese nota la sua voglia di estraneità ai conflitti,
additando gli uomini come unici colpevoli, poiché incapaci di mettere a tacere il proprio istinto di
conquista e l’odio verso le altre razze80. Il fervore femminista, la sua militanza, intanto, si
addolcivano: prendeva forma la donna letterata che si ergeva a paladina delle donne. Quando venne
il regime fascista, Sibilla sembrò avvicinarsi all’antifascismo, firmando il Manifesto degli
intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, ma in realtà, negli anni tra le due guerre, si trovò in più
occasioni a chiedere aiuto al duce in persona, e, avendo ottenuto un vitalizio, a rendere omaggio al
regime (ad esempio con le poesie Visita a Littoria e Sabaudia, nel 1934).
Di fatto, però, la sua attenzione ai problemi sociali e al femminismo nasceva da un senso personale
di giustizia maturato sin dalla gioventù, e la denuncia dell’oppressione non corrispondeva a una
reale maturazione e coerenza politica81: soltanto nel secondo dopoguerra si iscrisse al Pci,
dedicandosi poi a un impegno politico e sociale sempre più intenso, che la portò a fare lunghi viaggi
nei Paesi dell’Est, a collaborare con le Case del popolo e i circoli ricreativi legati al partito. Negli
ultimi anni della sua vita, Sibilla affermava di sentirsi finalmente libera di errare, di vivere come se
fosse possibile tutto ciò che era impossibile, e di sentirsi sollevata dalla necessità dell’amore82.
Tutto questo si sublimava nella militanza nel partito:
Ora sono libera per sempre dall’amore, amore per un singolo, ma vivo, come allora, per
un’idea83.
La mia adesione mi vien dettata dalla coscienza di compiere un dovere, e insieme rappresenta
per me come il coronamento della mia vita di scrittrice e di donna. Tutta la mia opera di
quarant’anni è stata ispirata dalla fede in un più giusto e più umano avvenire della nostra specie:
della nostra specie tutta quanta, uomini e donne di tutta la terra. Ho lavorato fin dalla prima
giovinezza, non soltanto per la redenzione della femminilità, per l’affermazione di un’autonoma
spiritualità femminile, ma anche perché il popolo venisse elevato a un’esistenza degna (…) Ed
io, poeta e donna desidero di far parte di questa grande comunità84, che mi conferma la mia
visione antica di un mondo in cui ogni persona viva e operosa sarà in grado di sentire l’esistenza
e lo stesso lavoro sotto specie di poesia85.
Sibilla, sebbene lontana dalla riflessione politica capace di elaborare soluzioni valide e concrete,
ma, piuttosto, legata a un certo idealismo, visse comunque un impegno politico e una vicinanza al
80
cfr. Piera Forni, Sibilla e Rina: l’Aleramo tra giornalismo e letteratura, Centro Editoriale Toscano, Firenze 2005, p.
10.
81
Ivi, p. 11.
82
Ivi, p. 73.
83
Alba Morino (a cura di), Diario di una donna. Inediti 1945-1960, Feltrinelli, Milano 1978, p. 229.
84
quella del partito.
85
In A. Morino, Diario, cit., pp. 74-75.
40
Pci a cui Dolores non arrivò mai, tanto che, nonostante avesse richiesto la tessera più volte,
l’iscrizione non le venne mai concessa. Al contrario, Sibilla venne iscritta nel febbraio del 1946, e
in seguito si legò molto a Palmiro Togliatti, ma anche a Giancarlo Pajetta, Umberto Terracini,
Pietro Ingrao, Nilde Jotti e Concetto Marchesi, e incontrò Italo Calvino, Cesare Pavese, Giorgio
Bassani, e ancora Cesare Zavattini, Elio Vittorini, Ada Gobetti, Natalia Ginzburg.
Proprio fra le amicizie si cela un contatto tra Prato e Aleramo. Il primo biglietto di Dolores a
Concetto Marchesi, ad esempio, cui seguì una corrispondenza subito confidenziale tra il 1948 e il
1950, è datato giugno 194786, dunque negli stessi anni in cui Marchesi era in contatto con Sibilla.
Anche la conoscenza da parte di Dolores di Umberto Terracini, senatore del Pci, sua moglie
Marialaura e il figlio Massimo Luca, avvenuta tramite Andrea Gaggero, risale al 195487, e, quindi,
verosimilmente nello stesso periodo in cui esisteva una frequentazione fra il senatore e Sibilla.
Il fatto poi che Aiutatemi a dire, libro di poesie di Sibilla, presentasse una prefazione di Concetto
Marchesi e due disegni di Renato Guttuso88, entrambi nella cerchia di amici di Prato (Guttuso
frequentava, come Dolores, la “Casa Rossa” dello scultore Giuseppe Mazzullo, ritrovo di molti
intellettuali romani), apre un’altra possibilità di incontro fra le due. Di sicuro Dolores aveva
incontrato Sibilla nel salotto letterario di Paolo e Ebe Toschi, a metà degli anni ’50, e ne scrisse al
suo amico Torquato Ferrari:
Io l’ho sempre disprezzata, tanto che ho rifiutato di darle la mano. Si atteggiava a sinistra, ma in
realtà era mantenuta dagli industriali. E’ stata per anni ospite di Pirelli: esibiva le pellicce
regalatele e che poi vendeva; e di casa Savoia: sosteneva di dover scrivere un libro, il che le
consentiva di passare mesi e mesi a capri a loro spese. Con Franco Matacotta89 aveva, accanto a
dei formidabili litigi, trasporti estatici persino ridicoli, specie nel periodo in cui vissero a via
Margutta. Mi raccontò Pino90 una volta andando a trovarli nella stanzona che dividevano sopra i
tetti, dopo che si erano riappacificati e dopo una delle loro fragorose rotture, fu accolto dai loro
sorrisi beati e da queste parole: “Peccato che non c’eri al tramonto: avessi visto che volo di
colombi nel cielo”. Volo di colombi! Erano Piccioni di sicuro, quegli stessi che gli cacavano
nella stanza91.
Dunque anche se universi molto distanti, quelli di Sibilla e Dolores si sono sfiorati: le due hanno
vissuto a Roma contemporaneamente, frequentato entrambe uomini (a volte gli stessi), di spicco
della politica e della cultura nella capitale degli anni Quaranta e Cinquanta (Aleramo, oltretutto,
aveva un rapporto di amicizia con la mondana Berenice, al secolo Jolena Baldini, giornalista di
86
S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 40.
Ivi, p. 64.
88
Edizioni di cultura sociale, Roma 1951.
89
Poeta, giornalista e insegnante di italiano.
90
Pino Brunamontini che, come Matacotta, era originario di Fermo.
91
S. Severi, L’essenza della solitudine, cit., p. 116.
87
41
“Paese Sera”, collega di Dolores).
Altra considerazione nuova che si può fare, stabilendo un contatto tra Dolores Prato e Sibilla
Aleramo, è quella relativa al loro ruolo nella società del Novecento in quanto giornaliste. Se, infatti,
l’attività di Aleramo giornalista è in qualche modo conosciuta e studiata, quella di Prato è stata
completamente dimenticata fino ad oggi, tanto che non esistono tracce e studi sulla sua produzione
giornalistica, seppur significativa.
Dolores Prato è stata soffocata da infelici vicende editoriali, tanto che fu una scrittrice “emergente”
a quasi novant’anni. Ma dalla fine della seconda guerra mondiale fu anche giornalista, pubblicista,
collaboratrice di importanti testate nazionali e periodici locali. I suoi articoli furono ospitati
prevalentemente dalle pagine di “Paese Sera”, ma alcuni pezzi uscirono anche su “L’Osservatore
Romano”, “Il giornale d’Italia”, “Il Globo”, “Nuova Repubblica”, “Il Quotidiano”, organo
dell’Azione Cattolica, e dal settimanale cattolico “La Via”.
Sibilla Aleramo, nota più che altro come scrittrice e poeta, cela un percorso giornalistico molto
interessante, quello che da fervente femminista la trasforma in femminile e altro. Per la conquista del
successo nel giornalismo Rina Faccio dovette attendere i primi mesi del 1899, quando le fu affidato
il compito di organizzare l’Inchiesta sul femminismo, promossa dall’avvocato Guglielmo
Gambarotta, convinto sostenitore dell’importanza del femminismo nella riforma del diritto da lui
auspicata.
La sua carriera di giornalista l’avrebbe condotta ad essere direttore del settimanale milanese “Italia
femminile”, e in seguito a collaborazioni importanti con “l’Unità” e “Noi donne”, con “Vita
moderna” e “il Marzocco” di Firenze, dopo essere passata anche sulle pagine di periodici fascisti. I
suoi primi articoli femministi erano comparsi su “Cordelia”, giornale di un moderato
emancipazionismo, “Cronache del Rinascimento etico-sociale”, foglio mensile dell’Unione Morale,
“Vita Internazionale”.
Nei primi anni trascorsi a Civitanova, Rina si era gettata nella lettura, e a sedici anni vide pubblicato
il suo primo articolo su “L’Ordine” di Ancona, il 26-27 luglio 189292. Era una “cronaca mondana”
della “colonia bagnante” da Porto Civitanova, che aveva come modello di riferimento gli articoli
che D’Annunzio andava pubblicando in quegli anni sulla “Tribuna” di Roma. Uscirono poi su “La
Sentinella” di Osimo i primi racconti pubblicati da Rina: Reseda: Leggendo (18 agosto 1892) e
Reseda: Dall’album di una vecchia signora (1 settembre 1892)93. In autunno Rina inviò delle
“scenette di famiglia” all’editore Treves di Milano, ma la pubblicazione venne rifiutata. Nel luglio
92
Sul ritaglio originale, conservato presso l’Archivio dell’Istituto Gramsci, compare scritto di pugno dalla Aleramo “il
mio primo articolo”.
93
A queste prime prove narrative di Aleramo ha dedicato un’esauriente analisi critica Rina Guerricchio nella sua Storia
di Sibilla, Nistri-Lischi, Pisa 1974.
42
del 1893 uscirono altri articoli di Faccio su “La Sentinella”: Beata solitudo sola beatitudo, il 5
luglio, firmato Nira, e Sulla spiaggia marchigiana, il 13 luglio94, in prima pagina, non firmato ma
riconducibile a lei, con cui invita signore e signorine romane (“care luminose stelle della vita”) a
trascorrere qualche giorno a Porto Civitanova in riva al mare, come l’anno prima, e magari negli
stabilimenti balneari di “due buoni vecchietti”: da Sante e da Ferraretto. Rina scrive con pseudonimi
di Nira o Reseda. La rivelazione dello pseudonimo di Rina, così come quello di suo marito Ulderico
Pierangeli (Rico) viene fatta da Giuseppe Natalucci sulla “Sentinella” del 26 gennaio 1893 proprio
in occasione del matrimonio dei due (che si erano sposati il 21 gennaio):
Fa freddo e nevica […] Chi di questi giorni se ne sta realmente bene è il nostro amico e collega
in giornalismo Rico (al secolo Ulderico Pierangeli) il quale univasi jeri (l’articolo è datato 22
gennaio) in matrimonio con la gentile, colta e leggiadra Sig.a Rina Faccio, anche essa
collaboratrice della Sentinella sotto lo pseudonimo di Reseda. Al ritorno della coppia nuziale
dal Municipio, ebbe luogo un delizioso luncheon in casa dell’Ing. Faccio: poscia col treno delle
7,14 pom., gli sposi, accompagnati dai nostri migliori auguri, partirono per Torino95.
Nel 1894 Rina giornalista valicò i confini provinciali attraverso la pubblicazione di due articoli sul
giornale torinese “La Gazzetta del popolo della domenica”: il 22 luglio uscì Piccole poste, in cui
Rina descriveva la sua passione per la rubrica omonima, e il 18 novembre Amiche perdute –
(Fantasia), riflessione sulle amicizie del passato ormai finite e sui ricordi di questi legami che
spesso provocano sofferenza. Impossibile non leggere tra le righe la solitudine della giovane Faccio
a Porto Civitanova.
Nel 1898, dopo la “presa di coscienza”, i contenuti di Rina giornalista assumono un’altra
profondità, e lasciano intravedere i primi tratti di un nuovo profilo, quello di Sibilla Aleramo.
Escono tre articoli importanti: Club femminile, in “Gazzetta letteraria” (26 marzo), Visioni di pace,
in “Presente e avvenire” (1 luglio), e Marca negletta (La Regione di Giacomo Leopardi), in “La
Vita internazionale” (5 luglio). Il primo cita l’opera di Scipio Sighele Donna nova, studio sul
movimento femminile in Inghilterra e Scandinavia in cui si trova la parola “emancipazione”; gli
ultimi due, invece, fanno riferimento a L’Europa giovane96 di Guglielmo Ferrero, intellettuale,
storico e sociologo che dedicò un capitolo al “terzo sesso”, quello delle spinters, le donne nubili
(“zitelle”) che svolgevano un ruolo molto attivo nella società inglese di fine secolo soprattutto nei
campi dell’istruzione femminile e dei diritti politici delle donne.
Nella società inglese […] la donna restata nubile non è condannata alla schiavitù sinché la sua
94
Cfr. Pier Luigi Cavalieri, Sibilla Aleramo. Gli anni di Una donna. Porto Civitanova 1888-1902, Cattedrale, Ancona
2009, pp. 136-137.
95
Ivi, p. 126.
96
Guglielmo Ferrero, L’Europa giovane. Studi e viaggi nei Paesi del Nord (nuova edizione), Garzanti, Milano 1946.
43
bellezza sia interamente sfiorita: essa può avere tutta la sua libertà, può guadagnarsi la vita,
agire, viaggiare, godere il mondo e la vita in tutta la sua vastità. Tante attrattive rieccitano
l’innato egoismo della donna – infinitamente superiore all’egoismo mascolino – e la donna
deliberatamente rifiuta di compiere i suoi doveri verso la specie. Perché contrarre matrimonio?
Il matrimonio significa l’alienazione, a profitto di un uomo, dimezza la propria libertà; il
contratto è cattivo e molte donne rifiutano di firmarlo, poco curandosi dei piaceri a cui
rinunciano; quelle che verso questi piaceri siano portate, possono tanto più variamente e
liberamente soddisfarsi, restando libere.97
Fin dai primi articoli si delineò in lei un certo interesse per la questione femminile, anche se il suo
periodo femminista, cioè propriamente attivo nel movimento delle donne, può essere datato dal
1897 al 1910, esattamente gli anni in cui, grazie alla numerosa presenza delle donne in fabbrica, la
questione femminile si confrontava con quella operaia98.
Nei primi articoli da “vera” giornalista (il suo lavoro come pubblicista si colloca dal 1898 al 1952
circa), in particolare, si esprimeva con toni rivendicativi per spingere le donne ad avviare la
formazione di una propria autocoscienza in grado di liberarle dal controllo maschile e di portarle
verso un’auspicata rivendicazione dei propri diritti, sia politici che sociali99. In questo senso va
anche interpretata anche la sua breve collaborazione con “L’Italia Femminile” (ottobre 1899gennaio 1900) con la rubrica In Salotto, fortemente criticata e poi soppressa dallo stesso editore,
Lamberto Mondaini, a cui non piaceva il taglio femminista di Faccio100.
Rina era una femminista nuova, le sue interlocutrici privilegiate erano le giovani, in base alla
convinzione che da loro, quindi anche da se stessa, partisse la spinta al progresso e alla
rigenerazione sociale: “elevarsi, imporsi beneficamente, fecondare luce, pace, progresso,
diventando educatrici della società, rigeneratrici della coscienza umana”101. Altra sua
preoccupazione, una costante dell’emancipazionismo italiano fin dall’epoca risorgimentale, era
quella di farsi ascoltare dagli uomini, convincerli della serietà e del valore intellettuale delle donne,
dimostrare che la richiesta di un lavoro extradomestico retribuito non aveva nulla a che fare con la
leggerezza, ma con la dignità umana.
Il successo nel giornalismo iniziò, abbiamo detto, nel 1899, con l’Inchiesta sul femminismo
promosso da Gambarotta, per la quale Rina organizzò un Comitato promotore a Roma. Grazie a
quell’inchiesta Faccio divenne la nuova direttrice de “L’Italia femminile”: fu l’investitura ufficiale
97
Ferrero, op. cit., pp. 341-342
Cfr Piera Forni, Sibilla e Rina: l’Aleramo tra giornalismo e letteratura, Centro editoriale toscano, Firenze 2005, p.13;
per una storia di genere cfr. A. Bravo, M. Pelaja, A. Pescarolo, L. Scaraffia, Storia sociale delle donne nell’Italia
contemporanea, cit.
99
Cfr. Annarita Buttafuoco e Marina Zancan, Svelamento: una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano 1988.
100
Cfr. P.L. Cavalieri, op. cit., e Daniela Zanetti, Istantanee allo specchio. Bibliografia di Sibilla Aleramo giornalista,
in «IG. Informazioni», II, n. 4, 1991.
101
Rina Faccio, Il femminismo in Italia, in Sibilla Aleramo, La donna e il femminismo. Scritti 1897-1910, Editori
Riuniti, Roma 1978, p. 61.
98
44
a erede delle emancipazioniste della generazione precedente, e l’occasione per allargare la rete delle
sue conoscenze e stabilire contatti che si riveleranno determinanti nella sua vita.
Rassicurata dalla possibilità di guadagnarsi da vivere con l’attività giornalistica, alla fine del
febbraio 1902, Rina lasciò definitivamente le Marche e si trasferì a Roma, sperando in una
separazione consensuale dal marito, con l’affido del figlio Walter. Ma il bambino andò in collegio,
e non gli fu consentito di incontrare la madre, che rivide soltanto da adulto.
La separazione dal marito fu vissuta da Rina come una progressiva liberazione: dopo anni di lotta e
di negazione si era riconquistata il diritto all’amore, e con il poeta Giovanni Cena ebbe la
convinzione di poter realizzare quel rapporto alla pari vagheggiato da fanciulla. Ma nel 1910 Sibilla
lasciò il suo compagno, e il 1911 segnò una fase nuova: il 9 aprile uscì sul “Marzocco” il suo saggio
più famoso, Apologia dello spirito femminile102, in cui puntava il dito contro la subordinazione
intellettuale delle donne e denunciava la mancanza nella scrittura femminile di quell’“impronta tutta
speciale” che avrebbe dovuto caratterizzarla103. Da femminista, dunque, Aleramo volle diventare
una scrittrice “femminile”, affermando la necessità che le scrittrici sprigionassero la loro energia
femminile, mettendo sensualità nelle parole, come stavano iniziando a fare, in Italia, Annie Vivanti
e, in Francia, Madame de Noailles e Colette Willy104. Nello stesso anno Sibilla si avvicinò a “La
Voce”105, vivace periodico culturale fiorentino fondato da Giuseppe Prezzolini.
Nel 1913 Sibilla tornò a Roma, avendo deciso di aderire al Futurismo dopo aver contattato
Marinetti, poi l’anno dopo, a Milano, assunse la direzione della rivista “La Grande Illustrazione”
per la parte letteraria106. Durante il primo conflitto mondiale, i suoi articoli si destreggiavano tra
l’esaltante retorica interventista e il dissenso contro la guerra che nasceva dalle sue idee femministe,
ma la sua produzione si concentrò soprattutto sulla poesia.
Nel 1924, su proposta di Adriano Tilgher e Giovanni Amendola, Aleramo fu tra i firmatari del
Manifesto degli intellettuali antifascisti. Sempre assillata da problemi economici (sorte che
l’accomunava a Dolores Prato), cercava aiuto ovunque, e chiese insistentemente di poter
collaborare con “Il Corriere della Sera”, prima a Luigi Albertini, poi a Pietro Croci: nell’ottobre del
1928 Sibilla andò persino da D’Annunzio, a Gardone, ma, nonostante un’attesa di un mese e mezzo,
non riuscì a realizzare quell’intervista al Vate che avrebbe potuto aprirle le porte al “Corriere”,
probabilmente anche perché D’Annunzio stesso non aveva gradito la sua sottoscrizione al
Manifesto di Croce. Sfumò così anche la speranza di una collaborazione fissa al quotidiano, il cui
102
in S. Aleramo, Andando e stando, cit.
cfr. E. Scaramuzza, op. cit., pp. 213-214.
104
Ivi, p. 215.
105
Tra i collaboratori c’erano Giovanni Papini, Gaetano Salvemini, Giovanni Amendola, Benedetto Croce, Giovanni
Boine.
106
E. Scaramuzza, op. cit., p. 244.
103
45
direttore, Maffio Maffii, le era ostile. Dagli appunti e dalle letture di quei giorni nacque comunque
un articolo, che uscì il 7 dicembre su tre testate: la “Fiera Letteraria”, “Il Secolo XIX”, “Il Mattino”.
Ospite di D’Annunzio, questo il titolo, era un insieme dei pezzi del repertorio romantico di
Aleramo, un misto di vecchie utopie e vecchie illusioni. Su tutte, quella della vita come opera o di
un capolavoro di vita equivalente a un capolavoro d’arte.
Il millenovecentotrenta si apre per le lettrici italiane con un colpo secco di forbici. L’anno è
quello in cui quotidiani e rotocalchi ammanniscono in salsa rosa al pubblico femminile il piatto
prelibato delle nozze di Edda Mussolini, primogenita del Duce, con Galeazzo Ciano. E’ anche
l’anno in cui “Critica Fascista” propone come modello ideale alle fidanzate e alle mogli della
nazione una donna che sappia diventare “tre, cinque, dieci volte mamma”, e che soprattutto si
mostri “poco elegante, non troppo bella, di corporatura normale, poco accurata”.
Le forbici, affilatissime e lucenti, sono quelle di Attilio, principe dei parrucchieri romani. Con
un gesto irrevocabile, appena il tempo di un “brivido”, recidono di netto “la chioma lunga” e
“gloriosa” di Sibilla Aleramo, che all’evento si affretta a dedicare una prosa pubblicata in
febbraio su “Novelle Novecentesche”, mensile di racconti per signore e signorine107.
E’ Margherita Ghilardi, in un saggio sulle giornaliste degli anni ‘30-’50, a regalarci questa potente
immagine che, in qualche modo, inquadra il momento cardine del percorso complesso compiuto
dalle donne per il pieno e diretto accesso al diritto di cittadinanza. Un cammino che, in Italia,
dall’Ottocento si è protratto fino alla caduta del Fascismo e alla ricostruzione repubblicana, e che ha
visto nella stampa politica delle donne un luogo di importanti slanci innovatori.
Sibilla Aleramo rinunciò al “ricco, dolce nodo”, strumento di seduzione e romanzesco simbolo del
piacere, per scelta: una scelta di ribellione, una forma di emancipazione. Non era una perdita,
piuttosto una “conquista della civiltà”.
Il pezzo di costume scivola nell’articolo di fondo, il resoconto in apparenza frivolo e svagato di
una piccola avventura personale si trasforma riga dopo riga in rflessione accorata intorno alla
condizione della donna e a quel futuro ormai prossimo in cui avrà finalmente acquisito una
“coscienza il più possibile chiara della diversità tra la sua compagine intellettuale e quella virile,
e, in luogo d’averne onta”, saprà “metterla in valore e farla accettare all’uomo” quale “elemento
non già inimico ma integratore”108.
L’approdo finale del lungo viaggio di Sibilla Aleramo attraverso il giornalismo italiano fu al
quotidiano “l’Unità”, nel febbraio del 1948. Una collaborazione che per lei risultò problematica
perché aveva la sensazione di esprimersi “propagandisticamente”:
107
Sibilla Aleramo, Capelli corti, in “Novelle Novecentesche”, febbraio 1930, n.9, pp. 3-5, in Ghilardi Margherita,
Tempo di svolte. Scrittrici e giornali in Italia dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, in Franchini Silvia, Soldani
Simonetta (a cura di), Donne e giornalismo. Percorsi e presenze di una storia di genere, Franco Angeli, Milano 2004,
p. 154.
108
Ivi, p.155 e cfr. S. Aleramo, Andando e stando, cit.
46
Non concepisco più una pagina d’arte, di poesia […] Questo lavoro tra giornalistico e politico,
mi costa uno sforzo inenarrabile: e non mi rende il minimo indispensabile per vivere109.
Qualche anno più tardi le fu affidata la rubrica Sibilla risponde, titolo poi trasformato in I colloqui
di Sibilla Aleramo. Nell’articolo di apertura, intitolato L’Unità delle donne, Sibilla spiegava gli
obiettivi di questo spazio: doveva essere un campo di studio e di dibattito per permettere alle donne
di prendere confidenza con il proprio modo di pensare, per tirar fuori la propria sensibilità e
abituarsi al confronto con gli altri110. Della partecipazione di Aleramo alla questione “femminile”,
anche negli ultimi anni di vita, è testimone la sua stessa biografia: le colonne dell’“Unità” da lei
gestite erano un angolo dedicato alle donne e alla loro diversità di pensiero e dell’anima rispetto
agli uomini; dal 1947, poi, importante fu la sua presenza nell’Unione Donne in Italia, la cui
presidente era Rita Montagnana, moglie di Palmiro Togliatti, e che approdò alla sua nomina, nel
1949, nel comitato direttivo nazionale.
Questa panoramica su Aleramo giornalista – quanto a Prato, un’indagine approfondita sarà al centro
del prossimo capitolo – è utile per abbozzare qualche considerazione comparativa.
Per Sibilla il giornalismo fu un istinto giovanile e un mezzo per sviluppare e diffondere il proprio
modo di pensare la società, e il ruolo della donna in particolare: era il veicolo del suo credo,
femminista prima, femminile poi. Nella vita di Dolores, invece, il giornalismo arrivò tardi, negli
anni Cinquanta, quando aveva quasi sessanta anni, e non aveva niente a che fare con l’impegno
politico o con un’idea da trasmettere. Dolores giornalista era una critica attenta e arguta sul mondo
contemporaneo, anche se la realtà di riferimento dei suoi articoli aveva principalmente i confini
geografici di Roma e gli argomenti riguardavano la storia e le architetture della città, dei suoi
quartieri, o le tradizioni, in specie religiose. Quelli di Dolores erano articoli che spesso esulavano
dalla cronaca, o comunque ne traevano spunto per parlare d’altro: erano, sono, digressioni pratiane
sulla romanità e su Roma, città distrutta nel suo carattere universale innanzitutto dall’Annessione,
dal suo divenire capitale d’Italia, ma anche dal Fascismo e dalla tendenza alla “globalizzazione”
della società contemporanea. Mentre in Aleramo fortissimo è l’idealismo, che resta nella
dimensione del pensiero (femminista e non), della poetica, dell’estetica della vita, in Prato, al
contrario, gli articoli parlano di muri e di pietre, di palazzi e vecchie storie di strada, di taxi e di
ghirlande natalizie. Se Sibilla ricerca una scrittura femminile, tratteggiandone anche i tratti
109
110
In A. Morino (a cura di), Diario di una donna, cit., p. 80.
Cfr. P. Forni, op. cit., p.80.
47
essenziali, Dolores è scrittrice dell’immediatezza, e ignora completamente il problema della
differenza di genere, nella scrittura come nella vita. Entrambe, e questo le accomuna, scrivono per
giornali vicini al Pci: Sibilla per l’organo ufficiale, “l’Unità”, Dolores per il secondo quotidiano per
importanza, “Paese Sera”, ma la prima lo fa per adesione al partito, la seconda più per l’amicizia
con Fausto Coen e l’attaccamento a quelle pagine che per una questione politica.
Due giornalismi, insomma, profondamente diversi, nelle forme e nelle motivazioni, ma due
giornaliste che in comune hanno la forza, la personalità dirompente, un acume critico del tutto
speciale e riconoscibile. Caratteristiche, queste, che hanno le loro radici nella storia personale delle
due donne. Una storia complessa, fatta di traumi, mancanze e ricerche, una storia intrisa di
Novecento.
48
Capitolo due
Giornalista a Roma
I – L’innamorata dei luoghi e delle parole
I luoghi che più hanno influito su di me sono: uno stretto e lungo paese marchigiano pigramente
disteso sul crinale di una collina addormentata; Roma immensa e profonda nei suoi tre millenni
di vita presenti in quei minuti particolari che sfuggono alla distruzione e alla coreografia, Roma,
tutta, con la terra, lo spazio, la luce dove essa sorge. Io sento i luoghi più della persona
umana111.
Dolores Prato è “l’innamorata dei nomi”112, e anche l’innamorata dei luoghi. Tutti i suoi viaggi,
ogni spostamento, ogni cambio di casa (da Treia, a Roma, San Sepolcro, San Ginesio, Macerata, poi
Milano e ancora, e definitivamente, Roma) creavano in lei “nuove comunioni e amicizie
ambientali”. Instaurava, ogni volta, “corrispondenze” con i paesaggi, la loro storia, la loro eternità,
e trasferiva tutto sulla carta, sui suoi innumerevoli biglietti, nei manoscritti, negli articoli per i
giornali. Non è un caso che i suoi romanzi abbiano come protagoniste le sue città dell’anima.
Dire Dolores Prato, e Giù la piazza non c’è nessuno, è dire Treia, con i suoi luoghi, i suoi
personaggi, i suoi abitanti, la sua lingua; è il tempo dell’infanzia della scrittrice, affidata alle cure
dello zio prete, Zizì, e di sua sorella Paolina. La scansione interna del libro è marcata, più che dalla
memoria cronologica degli avvenimenti, da quella dei luoghi: dal tavolino menzionato nell’incipit,
alle stanze della casa degli zii, fino alle strade, agli edifici, agli interni delle case visitate nel corso
111
S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 8.
D. Prato, Le Ore, cit., p. 330. L’innamorata dei nomi è anche il titolo del bel saggio di Franco Brevini sull’opera
autobiografica di Dolores Prato, pubblicato nel 1989 dalle edizioni Città di Treia.
112
49
dell’infanzia. Gli eventi, ovviamente, non mancano, ma affiorano a poco a poco, in ordine
cronologico, quasi come se fossero un corollario della metafora spaziale del percorso “domestico,
cittadino, paesaggistico”113.
Le Ore, romanzo incompiuto, in qualche modo séguito di Giù la piazza, è il racconto degli anni di
Prato nell’educandato salesiano delle suore della Visitazione114, sempre a Treia: sono gli anni della
formazione e della clausura, anni di una vita apparente115, in cui il tempo è escluso e tutto passa in
assenza di vicende e sentimenti. “A Treia, c’erano strade, case, mobili, persone. In Convento
corridoi, cappelle, celle, dormitori, monache e parole, parole, parole da non finire”116.
Dolores sembra come navigare in una vita sospesa, che nulla ha in comune con quella lasciata al di
là del portone del convento, a partire dal dover dare del “lei” alle sue compagne. E il distacco è
marchiato a fuoco dal fatto che nulla trapela dalla vita di fuori. In collegio, si cerca di eliminare il
passato e ogni legame che ricorda la piccola cittadina di Treia: si tenta di farlo, e in parte ci si
riesce. “Io niente seppi più, niente vidi più, non ci fu più il tempo, non ci furono più i luoghi, non ci
fu più nulla, neppure l’assenza del mio Zizì”117.
Anche lo spazio perde la sua normale dimensione: quello del monastero è un mondo a parte, “un
mondo che confinava solo con l’aldilà; stava al confine fra Dio e la terra [...] Un grosso pallone
frenato ancorato da Dio in quel punto del paese”118.
La sua Treia divenne, in qualche modo, un non-luogo; ma l’amore per il paese al di là del muro
rimaneva intatto.
Treia: meraviglioso il legame di Dolores con questo paese. In una lettera del 18.11.1976 a Giovanni
Spadolini, che Prato non conosceva personalmente, ma che contattò alla vigilia di un viaggio di
questi proprio a Treia, con la scusa che “tra i pochissimi vantaggi della vecchiaia c’è una maggiore
libertà nell’abbordare celebri personaggi”, si legge:
Treja non l’ho più rivista da quando eravamo bambine insieme [...] Quel luogo è per me il luogo
mitico che forse tutti hanno nella vita [...] Scrivo di volata perché lei si porti dentro il mio nome
e zitto zitto, da solo, lo dica a Treja, alla sua aria, al grande cielo di lassù, da quelle finestre di
dove lo guarderà se gliene lasceranno il tempo. Dica a Treja che l’amo come non amerò il
Paradiso. Mentre lei starà là io lavorerò (a Giù la piazza) unita attraverso di lei a quel paese che
ha la più bella piazza del mondo [...] Allora “oriundo” lei, “adottiva” io, uniamoci in spirito nel
113
Cfr. L’antibiografia di Dolores Prato, in Oltrecanone. Per una cartografia della scrittura femminile, a cura di A.M.
Crispino, Manifestolibri, Roma 2003, pp. 33-46.
114
Cfr. Augusta Palombarini, Lo scandalo dell’alfabeto. Educazione e istruzione femminile nelle Marche tra Otto e
Novecento, Affinità Elettive Edizioni, Ancona 2004.
115
Questa è la definizione che Giorgio Zampa dà della vita di Dolores Prato dopo l’ingresso in collegio, cfr. D. Prato,
Le Ore, cit., p. 341.
116
D. Prato, Le Ore, cit., p. 253.
117
Ivi, p. 15.
118
Ivi, p. 12.
50
nome di Treja scritto come si pronuncia119.
E poi San Ginesio, dove Dolores Prato ha insegnato Lettere dal 1922 al 1927, con una breve pausa a
Macerata, che è la sua Sangiocondo. Ne parla così, Dolores, al parroco ginesino protagonista “metà
vero metà inventato” del romanzo, don Pacifico Ciabocco (don Pacì) annunciando il suo imminente
arrivo a San Ginesio insieme ai coniugi Ferrari e D’Arrigo120:
Voglio vedere solo voi, Tullia e tutto il paese mio bello; voglio andare sul colle almeno due
volte, a ore diverse per ritrovare certe luci lontane viste solo a San Ginesio. Andremo nella
Collegiata, perché quella resta tua, a San Gregorio, sul piazzale della scuola e per me sarà
un’emozione così forte che non so se mi farà bene o male121.
Campane a Sangiocondo122, è un travagliato e sofferto racconto a soggetto cinematografico che ha
come protagonisti il paese (San Ginesio) e il suo parroco, don Pacì. Nei pochi anni di permanenza
Dolores si era appassionata alla storia del paese, ne aveva letto le fonti, intuito e assorbito
tradizioni, manie, profili e orizzonti: le pagine di Sangiocondo sono un altro esempio fulgido delle
corrispondenze-comunioni ambientali che Prato instaurava con i luoghi, e della sua curiosità.
Questo il parere dell’amico scrittore Agostino Turla sul dattiloscritto di Campane a Sangiocondo
che Dolores gli inviò::
Il tuo paese, così reale con le sue montagne e le sue valli, le sue abitudini e le sue stagioni, si
trasforma a poco a poco in un leggendario paese di fiaba [...] L’artista che sei è presente con
tutta la sua forza creatrice [...] Un’opera nella quale hai trasfusa tutta la luce dei tuoi occhi
assassini123.
E così Concetto Marchesi, in una lettera del 30.8.1948:
Dunque fino a che il protagonista è il paese, con le sue case, le sue chiese, le sue storie, le sue
fiabe, i suoi personaggi d’ambiente, tutto procede di sorpresa in sorpresa in una continuata e
rinnovata felicità di immagine e di espressione [...] Questo tuo manoscritto mi ha rivelato quale
sarà il tuo libro, il libro veramente tuo, che non avrà rivali [...] e darà vita alle cose che sanno
parlare a te così argute e profonde. Sarà la “Roma dell’Anno Santo“124.
119
S. Severi, Voce fuori coro, cit., pp. 25-26.
Viaggio che poi non ci fu.
121
S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 71.
122
Prato, Campane a Sangiocondo, a cura e con un saggio di Noemi Paolini Giachery, Avagliano Editore, Roma 2009,
rimasto inedito fino al marzo del 2009 (se si esclude l’edizione Pax, in polacco, del 1965 e la pubblicazione
Sangiocondo, poi La rosa muscosa, delle edizioni Campana di Roma, del 1963, entrambe autofinanziate),
123
S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 89.
124
Ivi, p. 88.
120
51
Importante notare questo passaggio su Roma: fu l’unico luogo che Prato amò profondamente
e sul quale non scrisse nessun romanzo.
Per accostare criticamente, e in modo compiuto, l’opera giornalistica di Dolores Prato, occorre
soffermarsi su un altro suo “amore”, quello per i nomi, per le parole, forse ereditato dallo zio
Domenico e dal muoversi di Dolores, dalla nascita fino agli anni del Magistero, in ambienti
religiosi, dove fondamentale è l’importanza del Verbo. La particolarissima sensibilità linguistica di
Prato, la sua originalità, sono un elemento imprescindibile dai suoi scritti. Nel 1987 e 1988 escono
presso l’editore Scheiwiller, in due volumi e a cura di Giorgio Zampa,
Le Ore e Le Ore II –
Parole, due testi poi riuniti in un unico romanzo da Adelphi nel 1994.
Parole, straordinaria autobiografia linguistica della scrittrice, raccoglie schede scritte da Prato lungo
il corso degli anni. Vi si leggono appunti di vocaboli usati a casa degli zii, appartenenti alla
borghesia romagnola (un italiano alto, ma non astratto), quelli usati per le strade di Treia ma proibiti
in casa (il dialetto: lingua bassa, plebea, concretissima), e le trasformazioni che questi avevano
subito all’interno delle mura del collegio, con le sfumature lucchesi e toscaneggianti imposte dalla
Madrina. “Alcune parole non avevano varcato la clausura, sicché per allora caddero nel buco nero
[...] In genere erano cose pratiche, reali”
125
.
Gli appunti di Prato sono divisi in quattordici sezioni, ognuna con un titolo, come ad esempio
Parole perdute, Le stesse cose a casa/in collegio, In paese e lì dentro, e ogni scheda è una
dichiarazione di insostituibilità di ciascun termine.
Le mie cerase grosse, rosse, lucide, così belle quando erano a coppia Zizì me le metteva a
cavalcioni sulle orecchie, in collegio divennero ciliegie, ed erano piccole, pallide, opache, a
stento ne trovai due unite. Di nascosto me le mettevo sulle orecchie, ma sapevo di non essere
provocante con quelle cerase false126.
In paese era sempre zinale, diventava parananza quando era bianco e colorato, di tessuto grosso
messo solo per le fatiche grosse, bucato, conserve, pulizie grosse. In collegio fu grembiule e
basta. La parananza la portavano le monache cuciniere ma come la chiamassero non so127.
“Un piccolo museo iconografico”, come la definisce splendidamente, a mio avviso, Toni
125
D. Prato, Le Ore, cit., p. 266.
Ivi, p. 258.
127
Ivi, p. 321.
126
52
Maraini128, che continua:
Dolores parla a immagini; la descrizione è naturalista, talvolta iperrealista nella maniera in cui
la cosa designata viene enfatizzata e isolata; ma il “verismo” naturalista vibra con inquietante
intensità. Potremmo pensare alla maniera di isolare gli oggetti operata da Moranti – ma in realtà
siamo più vicini a Magritte. La distanza che separa “forcelle” da “forcine” è favolosa,
enigmatica e senza scampo. Si appartiene all’una o all’altra sponda linguistica, ma resta mistero
il perché129.
Sull’aspetto linguistico pratiano, fino ad oggi la critica ha sottolineato l’esigenza, in Dolores adulta
- un bisogno sia morale che psicologico, fisico - di recuperare la “sua” lingua, la lingua di Treia,
dopo che l’esperienza nell’educandato delle Visitandine aveva “disinfettato”130 il suo vocabolario
rendendolo convenzionale, letterario, toscaneggiante e passato, oltretutto, da un filtro clericale.
La mia trasformazione avveniva attraverso le parole. [...] Come se varcando quella soglia
solenne, misteriosa, semibuia, per me paurosa, automaticamente qualcosa in me si capovolgesse
[...] nascosi tutto quello che era stato fino allora e cominciai ad essere quell'altra, quella delle
parole diverse”131.
“Una vita sballottata, travestita, camuffata dalle parole”132, definisce Prato stessa i suoi anni
nell’educandato.
Gli anni del collegio sono anni in cui è strettissimo il nesso fra espropriazione linguistica e
delegittimazione in senso psicologico, insicurezza. E questo senso di incertezza, diversità, di forte
inappartenenza a luoghi, persone, oggetti, eventi, iniziato con l’abbandono da parte della madre e
dal non avere un padre, fu una costante di tutta la sua esistenza, tanto che Dolores stessa si definì
una “bastarda integrale”133.
Ma nonostante le costrizioni esteriori, e interiori se pensiamo proprio al linguaggio, la memoria
dell’infanzia continuò ad agire in Dolores Prato, in modo più o meno cosciente, lungo tutto il corso
della sua vita, fino alla liberazione finale, quasi una rivelazione: il momento in cui, ottantenne,
cominciò a lavorare sulla mole enorme di materiale linguistico scritto e raccolto negli anni, sui
fogliettini, gli appunti, le pagine compiute, i frammenti, e recuperò le sue parole, tornando ad essere
l’altra, e abbandonando “quella delle parole diverse”.
128
T. Maraini, La struggente sutura, in AA.VV., Il timbro a fuoco, cit., p. 87.
Ivi, p. 87.
130
“Lì dentro entravano solo parole disinfettate”, scrive Dolores in Le Ore, cit., p. 278.
131
Ivi, p. 333-334.
132
Ivi, p. 284.
133
D. Prato, Giù la piazza, cit., p. 687.
129
53
La spinta narrativa, che portò Prato alla conclusione del suo capolavoro, Giù la piazza, e alla
stesura, quasi completa, del romanzo sui suoi anni di formazione, Le Ore, nasce proprio dal
linguaggio, dal recupero dall'evocazione di quelle parole che aveva modificato, perduto,
abbandonato. Dolores Prato iniziò a scrivere del suo passato nel momento in cui la memoria
sollecitata rigettò nel presente tutta la ricchezza e la complessità del triplice vocabolario
dell'infanzia e dell'adolescenza, legato al dialetto di Treia, alla parlata settentrionale degli zii,
all'universo lessicale del convento. La scrittrice, a un certo punto della sua esistenza, sentì la
necessità di ritrovare le proprie radici e sé stessa: lo fece ridando vitalità a una lingua logorata e
svuotata dall'uso, impoverita dalla consuetudine, al suo peculiare idioma che il tempo aveva reso
scontato, per ricongiungersi con il primo sguardo aperto sulle cose, quello dell'infanzia e
dell’adolescenza.
Ebbene, secondo gli studiosi (pochi) che finora si sono occupati di Dolores Prato, la rivelazione
pratiana arriva in tarda età, con il recupero di quella “Dolò ‘ndo stai? Viè qqui...sta commé”134,
ritornando “a quell’età piccola, che non invecchia”, con il ritorno alla fase germinale del linguaggio,
e della vita, quando si identificano le parole con le cose.
Io abito ancora a Treia pur non avendola mai più vista da quell’età piccola che non invecchia. Io
amo dire Affrica come lì si diceva135.
Stiamo parlando di una donna, poi insegnante, giornalista e scrittrice, che percepisce la lingua, i
nomi, come “l’anima delle cose e delle persone”: per Dolores Prato le parole sono la realtà.
Potremmo parlare, per Prato, di una sorta di neoplatonismo: i nomi, per lei, sono saturi di un’età e
di una realtà identificatissime, ben oltre il normale concetto semiotico.
Mizzau e Lorenzini parlano di “realismo” pratiano, in fondo una sintesi fra l’innamoramento per i
luoghi e le cose e quello per le parole. La prima, in particolare, definisce Dolores Prato come
“antesignana della école du regard136 del nouveau roman. Un realismo, quello di Prato, difficile da
definire, a tratti spoglio, a tratti carico di valenze emozionali, e che si affida alla forza icastica delle
parole, che appena pronunciate si fanno immagine visiva. Anche l’uso delle parole è frutto
dell’amore per i luoghi: l’insistere sul dettaglio, l’accumulazione, caratteristiche specifiche di
Dolores, non sono virtuosismi, ma volontà di restituire la sostanza e la consistenza dell’ambiente.
134
Ivi, p. 45.
D. Prato, Le Ore, cit., p. 249.
136
M. Mizzau, Dolores Prato: assenze e presenze, in AA. VV., Il timbro a fuoco della parola, cit., p. 14.
135
54
Per me Roma fu tartaruga, bicchiere di fragole, gita sott’acqua137.
Questa rieducazione, questa autoanalisi che andava di pari passo con la critica nei confronti di una
pedagogia e una cultura postunitaria gravate (a suo avviso) dallo stesso vizio, quello, cioè, di
uniformare la lingua sul livello dell’italiano alto, impegnò, dunque, tutta l’esistenza di Dolores,
tanto che Giorgio Zampa138 scrive:
L’aspetto più singolare, nel caso di Dolores, è rappresentato dalla sua evoluzione. Ritengo che
pochi, neppure dopo lunghe, laboriose analisi, potrebbero trovare in quanto lei ha lasciato una
originalità sua propria prima del 1972, quando aveva superato gli ottanta. I manoscritti
superstiti, quelli almeno di carattere narrativo, non solo non fanno intravedere la vitalità
dell’autrice, ma alimentano il dubbio di trovarsi di fronte a tentativi modesti, per non dire
maldestri139.
Il fatto che Zampa specifichi “quelli almeno di carattere narrativo”, potrebbe far pensare che anche
il primo curatore dell’opera di Prato, nonché suo grande amico, avesse intravisto qualcosa di
diverso nella produzione giornalistica di Dolores.
A mio avviso, infatti, non è troppo azzardato affermare che il percorso esistenziale e linguistico di
Prato, che condusse infine alla mirabile scrittrice che conosciamo oggi, trovò nel giornalismo il
terreno dove svilupparsi: non è forse proprio del giornalismo usare parole vere di tutti i giorni,
aderire ai fatti, chiamare le cose con il loro nome, e farlo in modo che tutti comprendano il
linguaggio che si sta utilizzando?
Forse proprio il giornalismo restituì a Dolores il meccanismo di riappropriazione della realtà che era
venuto meno durante gli anni di formazione nel collegio treiese: i suoi articoli, scritti prima del
1972, d’altra parte, sono scritti in una lingua tutt’altro che letteraria, “apparente”, alta. Leggere i
pezzi di Prato è vivere o rivivere un’esperienza che ha il sapore della quotidianità, un sapore che è
dato dai colori, dai toni, dallo stile quasi parlato. I suoi articoli, a volte, sembrano chiacchiere
ascoltate per strada dalla vicina di casa, o racconti fra amici, o spiegazioni-illustrazioni di Roma
dispensate durante una visita guidata non strutturata.
Il carattere degli articoli ha molto a che fare con l’autobiografismo, basti pensare al grande utilizzo
della prima persona o al riferimento esplicito a sé stessa, anche nei titoli (Verdi mi pacciono di più,
137
D. Prato, Giù la piazza, cit., p. 23.
Giorgio Zampa (San Severino Marche 1921-2008) è stato critico letterario, giornalista e traduttore. Esperto d’arte, di
Montale e di letteratura tedesca, è stato redattore del “Mondo”, condirettore di “Letteratura”, collaboratore del
“Corriere della sera” e “La Stampa”. Appassionato ammiratore di Dolores Prato (che in un certo senso può essere
considerata una sua creatura), fu lui a curare la pubblicazione de Le Ore e Le Ore II. Parole, e fu sempre lui, nel 1997,
a restituire per intero l’universo ricco di luoghi, parole e sentimenti di Giù la piazza non c’è nessuno, per Mondadori.
139
G. Zampa, Introduzione, in D. Prato, Giù la piazza, cit., p. X.
138
55
Italiana spaesata in Italia, Non siamo abbastanza antimonarchici); è poi un fiume in piena,
Dolores, nei suoi articoli, quanto a suggestioni, emozioni, sensazioni e riflessioni personali. Tutti
elementi, questi, che si discostano nettamente dal giornalismo puro.
Questo atteggiamento, mai distaccato dalle cose e dagli eventi, risponde in maniera naturale al
pensiero di Prato, secondo cui, come scriveva all’amica Lina Brusa Arese il tre dicembre 1977:
Io credo che ogni scrittore è autobiografico, a meno che non sia politicamente o socialmente
impegnato, benché è dubbio allora che sia scrittore e se o è l’autobiografismo non esula neppure
di lì. Persone sufficientemente poco sincere possono nascondere l’autobiografismo, non lo
potranno mai gli schietti come te e come me140.
La sua cifra giornalistica seguiva in qualche modo l’istinto: Dolores prendeva spunto da una data,
da una circostanza, da un avvenimento, da uno scorcio, e cominciava a divagarci intorno,
mescolando notizie storiche e impressioni personali.
In Prato, e nella sua scrittura, tutto cambiò quando si convinse che la verità è immediatezza141. Il
passaggio sarà molto evidente, più avanti, quando andremo ad analizzare più in dettaglio i contenuti
e la forma dei suoi articoli. Ma intanto, a sostegno della tesi che anche il giornalismo rappresentò,
per Dolores, una tappa fondamentale in questo processo di riconquista di sé e della sua lingua,
riportiamo una straordinaria pagina di Giù la piazza, in cui si percepisce con chiarezza come Roma
(città di Prato giornalista) e Treia (città di Prato scrittrice) fossero in uno stesso luogo profondo
dell’anima di Dolores. Soprattutto, è interessante notare come, in questo brano, si ripresenti uno
schema peculiare degli articoli pratiani che parlano della città, fatto di dettaglio-epifaniaricordo/racconto/storia. Ancora una volta, l’esperienza giornalistica mostra i segni della sua
influenza sul modo di scrivere-percepire-raccontare la vita della scrittrice matura, quella di
indiscusso valore, che merita un posto di prim’ordine nel panorama letterario italiano del
Novecento.
Ma dal collegio esplosi a Roma e qui di colpo, quando in un labirinto della vecchia città lessi
“Piazza dell’Olmo di Treja”, uscì fuori tutta la tenerezza fascinosa di quel paese che m’ero
portata dentro senza saperlo. Fu la prima delle tante epifanie.
Ho ricercato quella piazza, non l’ho più trovata. Forse non c’è, forse non c’è ma stata. Ma io la
vidi quella targa di un’epoca in cui vicoli, strade, piazze, avevano il nome della loro essenza
popolare; vidi il piccolo capriccioso slargo; l’albero non avrebbe potuto trovarci il suo centro,
stava dove stava, l’olmo di Treja; non lo toccai. Ero fissa sul nome Treja: copriva tutta Roma.
Ma se il nome Treja non è stato mai piantato a Roma come albero, c’è disperso come cenere: a
Campo de’ Fiori fu arso vivo Pomponio Rustici, prete di Treja. Questo è sicuro come è sicuro
che Treja scorre da sempre nelle acque del Tevere [...]
Roma e Treja hanno in comune il mistero del nome. Roma nome-maschera, quello che
140
141
Ivi, p. XIX.
Come scrisse su un appunto all’inizio della sua opera in fieri Voce fuori coro.
56
nascondeva il suo vero; come non sapremo mai quale fu questo nome, così non sapremo mai
quale nume stravolto o mascherato dette il nome a Treja. Etimologia esatta non c’è: qualcosa
s’intravvede attraverso un velo fluttuante e scompare. Da un irrecuperabile mistero nacque Treja
le cui lettere furono sempre su per giù quelle della terra.
Io la chiamerò paese, ma essa è città. La restituì alla dignità civica un papa che ne riscosse un
monumento librato nell’aria; in bronzo il suo ritratto a mezzo busto; il resto pietra, slancio, luce;
sta alto nello spazio come un gigantesco ostensorio e per fondo non potrà mai avere che il
cielo142.
142
D. Prato, Giù la piazza, cit., p. 5.
57
II – Storia di una pubblicista: la collaborazione a “Paese Sera”
Dolores Prato restituì comunque la sua Roma, ma solo ai suoi contemporanei, attraverso il
giornalismo. La maggior parte dei suoi articoli, pubblicati soprattutto su “Paese Sera” negli anni
Cinquanta-Settanta, sono su Roma e i suoi monumenti, i suoi misteri, le sue strade, le sue tradizioni,
la sua storia.
Dolores iniziò a scrivere sulle pagine di questo giornale fin dagli esordi: “Paese Sera”, edizione
pomeridiana del “Paese”, infatti, nacque il 6 dicembre 1949 su iniziativa del Partito comunista
italiano, che lo sostituì a “Repubblica” come voce legata al partito, e il primo articolo di Prato su
questa testata, rinvenuto in questo lavoro di ricerca, è datato 19 maggio 1950. La formula di questo
nuovo giornale, elaborata dal suo direttore “di fatto”143, Fausto Coen, che instaurerà un rapporto di
grande amicizia (e che durò tutta la vita) con Dolores, era cucita addosso al pubblico romano:
sfruttava le notizie di cronaca nera, era flessibile nelle valutazioni riguardanti le sinistre e,
naturalmente, aveva un forte piglio polemico verso i gruppi di potere. Il decollo fu lento, ma lo
spirito sarcastico e di protesta che circolava fra i titoli e i corsivi di “Paese Sera”, che talvolta
diventava “qualunquismo di sinistra”144, piaceva ai romani, borghesi o proletari che fossero. Nel
1956, quando la pubblicazione in Occidente del rapporto segreto di Krusciov sui crimini di Stalin e
sul culto della personalità scosse il movimento comunista, creando un vero e proprio trauma nelle
file della sinistra, il Pci poteva contare su una notevole forza nel campo editoriale-giornalistico.
All’“Unità” si andava infatti affiancando il successo di “Paese Sera”, che intanto si era affermato
come il più diffuso giornale romano della sera, staccando nettamente i due concorrenti, “Il Giornale
d’Italia” e “Momento sera”145.
Delle ragioni di questo successo offre una bella lettura Piero Ottone: “Un giornale, per avere
successo, deve avere una sua personalità, una sua fisionomia, un suo carattere. E poi bisogna che la
personalità sia una personalità vincente; che si presenti nel momento giusto, e che piaccia”146.
“Paese Sera” ebbe una sua personalità, e per questo si affermò. Aveva una natura composita, perché
nasceva come giornale di partito, sia pure in posizione appartata rispetto all’organo ufficiale che era
“l’Unità” (con cui visse sempre una feroce concorrenza), ma la sua anima giornalistica, distinta da
143
Direttore era allora Tomaso Smith, di cui Coen era il braccio destro.
Paolo Murialdi, Dalla Liberazione al centrosinistra, in Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia (a cura di), La
stampa italiana dalla Resistenza agli anni Sessanta, Editori Laterza, Roma-Bari 1980, p. 248.
145
Sull’importanza che andava assumendo il giornale si ricordi che sulle denunce di Krusciov contro Stalin “l’Unità”,
in un primo momento, tacque, “Paese Sera”, invece, decise di riportare i brani principali del rapporto per non lasciare
campo libero ai giornali borghesi. Cfr. Paolo Murialdi, La stampa italiana dalla liberazione alla crisi di fine secolo,
Laterza, Roma-Bari 2003, p. 127.
146
In Edo Parpaglioni, C’era una volta “Paese Sera”, Editori Riuniti, Roma 1998, p. XI.
144
58
quella politica, di battaglia, era molto importante. “Paese Sera” presentava l’aspetto più civile del
comunismo italiano, e per questo poteva lavorarci tranquillamente anche chi comunista non era, e il
caso di Dolores Prato, personalità sempre contrastata per quanto riguarda un “credo”, che si sentiva
assolutamente libera nei giudizi, ne è una prova. “”Non era un giornale obiettivo, ma un giornale
compiuto – continua Ottone – un giornale con una faccia riconoscibile, che piaceva. Paese Sera
aveva uno stile. Aveva inoltre una coscienza, che lo induceva a schierarsi dalla parte giusta, quando
il partito si schierava dalla parte sbagliata”147.
In questo contesto, ben si collocava la voce nitida di Dolores Prato, con i suoi elzeviri particolari,
mai banali, coinvolgenti. Nel 1960 Prato partecipò al concorso internazionale Premio “Città di
Roma”, che sarebbe stato assegnato a un gruppo di articoli sulla città, con quattro pezzi pubblicati
proprio su “Paese Sera”, che le valsero il secondo posto. Questa la motivazione della giuria:
Nei quattro elzeviri di Dolores Prato la scrittrice unisce alla finezza delle notazioni una
moderna, libera, indagine di costume e una bella consapevolezza urbanistica. Nella sua prosa di
qualità la storia di illustri monumenti e di vecchi rioni romani si affianca a quella dei nuovi
quartieri in un sentimento di contemporaneità, di notevole efficacia148.
Ebbe a che dire sul fatto di essere arrivata seconda e non prima, la combattiva Prato, che ritenne di
non aver vinto “solo perché i miei elzeviri erano pubblicati su un giornale di sinistra”. Tutti i
componenti della giuria, sosteneva, erano convinti che fosse lei a meritare il primo premio, ma
altrettanto convinti “che non si poteva fare questa cosa sgradita ai clerico-conservatori di assegnare
il “primo” primo premio a una collaboratrice dei sovversivi”149.
L’Archivio contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux, che raccoglie alcuni
articoli pubblicati di Dolores Prato insieme a molti di quelli inediti che la stessa scrittrice
conservava nel suo appartamento-archivio di via Fracassini 4, a Roma, nella serie “Articoli” (Pg 1143), contiene ventiquattro pagine di quotidiani corrispondenti ad altrettanti elzeviri firmati,
ciascuno corredato da una o più versioni dattiloscritte della giornalista.
Gli articoli furono pubblicati in larga parte su “Paese sera”, ma sono presenti anche altre testate,
quali “La Via”, “Il Quotidiano”, “Il Globo”.
Gli argomenti trattati sono i monumenti, i misteri, le tradizioni, i rioni di Roma, le ricorrenze
religiose, il Tevere.
I titoli Dolores Prato li decideva da sola, completi di occhiello e sommario, e, nei rari casi in cui
147
Ivi, p. XII.
In S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 9.
149
Lettera del 20.11.1960 a Fausto Coen, in S. Severi, Voce fuori coro, cit., pp. 18-19.
148
59
venivano cambiati, partiva immediatamente la lettera di lamentela al direttore del giornale. Come
accadde, ad esempio, il 18 gennaio 1960:
Carissimo Coen150 […] Nell’ultimo articolo pubblicato il vostro “Vecchia Roma” oltre ad essere
usato e strausato, non risponde al mio scritto, dove se mai si finisce col parlare non della Roma
vecchia, ma antica. Il mio “Resistenza di Roma” abbracciava tutto l’articolo riassumendolo con
una parola. Roma che resiste ai guastatori come può. Con un albero, con un sasso, magari
sottoterra151.
A volte capitava che il fastidio per l’aver visto pubblicato un titolo diverso veniva evidenziato con
un appunto direttamente sulla pagina del quotidiano che conservava, come nel caso di Due millenni
di storia… in cui Prato aggiunse a penna: “(titolo vero) Torni l’Augusteo al suo posto. Questo
“sarcofago” è del giornale”. Anche per quel che riguarda la lunghezza dei pezzi Dolores era una
giornalista poco incline alle regole: faceva fatica a restare nei limiti assegnati, e spesso provava a
mandare qualche riga in più.
Carissimo Coen, eccoti l’articolo per il 21 aprile. C’era tanto da dire che ho fatto fatica a
contenerlo nei limiti che tu richiedi. M’era venuto in mente di farne due articoli, ma non
sapendo che cosa tu ne avresti pensato, ho finito con ridurre e farne uno solo….però passando i
limiti stabiliti di un dieci righe. Dato che è per il natale di Roma, me lo perdoni? In avvenire
non lo farò più152.
L’autocritica era un’attività quotidiana e costante per Dolores, e questa attitudine si riproponeva
anche nell’attività giornalistica. Con la limpidezza che le era connaturata, giudicava i suoi pezzi,
anche nelle sue lettere al direttore:
Carissimo Coen, eccoti un articolo che ti può servire per sabato, dato che domenica 29 è S.
Pietro. Leggilo sino alla conclusione; credo che ti piacerà. Grazie per aver pubblicato Il piccolo
Repubblicano che, a confronto con gli altri miei articoli, risultava un po’ scadente. Questo è
degno di te e di me (stavo per aggiungere: “e del pontificato nostro”!) almeno così mi pare153.
Qualche esempio, poche righe, un assaggio significativo per comprendere alcune sfumature
caratteriali e professionali di Prato. Ma torniamo alle origini, al rapporto fra Dolores Prato e il
giornalismo, completamente dimenticato dalla letteratura e dai pochi saggi di critica disponibili ad
150
Fausto Coen, all’epoca direttore di “Paese Sera”. Dolores Prato aveva conosciuto Coen nei primi anni ’50, quando
lui era già direttore di “Paese Sera”: Coen ricoprì questo ruolo fino al 1967, quando diventò direttore editoriale del
quotidiano romano. Nel 1972 passò a “Il Globo” come consulente editoriale e lì restò fino al 1975.
151
In S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 17.
152
Lettera del 18 aprile 1959. Fondo Ferri-Ferrari.
153
In S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 165.
60
oggi154, e che bisogna recuperare.
Se, infatti, in questi ultimi anni si sta cercando di riportare alla luce l’opera letteraria sommersa di
quella che più di qualcuno ha definito una delle più interessanti protagoniste della letteratura del
secolo scorso, quale fu Prato, grazie al lavoro congiunto di Giorgio Zampa, Franco Brevini,
Stefania Severi, Elena Frontaloni155, Niva Lorenzini, Grazia Livi, Fiammetta Cirilli, Antonella
Maraini, Marina Mizzau, Marina Zancan, insieme ad altri studiosi, e al contributo fondamentale di
Ines Ferri e suo marito Filippo Ferrari, amici di Dolores e custodi nel loro fondo privato di Roma di
molte delle lettere e delle carte della scrittrice, oltre che della sua memoria, poco o niente si è fatto
per indagarne l’estro giornalistico.
Del mondo del giornalismo Dolores Prato ha sempre fatto parte, e quel mondo ha sempre guardato
con attenzione. Sono molti i riconoscimenti attribuiti alla giornalista, tra questi il secondo premio
(mezzo milione di lire) al concorso internazionale “Città di Roma”, nel 1960 - come abbiamo visto e il secondo al concorso giornalistico Pallavicini, nel 1972, con Il Tevere ex-biondo un amico da
salvare, pubblicato su “Il Globo”. Che essere giornalista, per lei, fosse un aspetto fondamentale
della sua vita, tanto da “identificarla” (“sono insegnante e pubblicista”156), lo conferma anche una
lettera destinata al giornalista Enzo Golino, in cui esprime la sua rabbia per un articolo di Marialivia
Serini uscito su “l’Espresso” subito dopo la pubblicazione di Giù la piazza:
Pieno di inesattezze il pezzo: dice che prima di questo lavoro, oltre al libro pubblicato in
Polonia, io avrei scritto solo “qualche elzeviro”. Non qualche, ma tanti, cominciando
naturalmente da dopo la guerra, prima m’era precluso per il Fascio e per Sion. Cominciai a
pubblicare su quotidiani e riviste, ma ben presto, incontrato Fausto Coen, imboccai la sua scia e
da allora ci furono solo Paese Sera e Globo con un solo tradimento per Pacciardi.157
Spediva spesso i suoi articoli migliori agli amici, per un giudizio, ed era un’abitudine quella di
conservare pezzi di altri che riteneva interessanti, perché riguardanti qualche suo amico o perché,
magari, si sarebbero potuti rivelare utili per la sua futura (mai avvenuta) pubblicazione su Roma.
Prato seguiva, con passione, e scrupolosamente, la sorte dei suoi articoli, dai tagli, ai titoli, alla
collocazione nella pagina e nel giornale. Tuttavia, di questo rapporto Prato-giornalismo gli studiosi
che di lei si sono occupati finora, si sono fatti un’idea: per Dolores, “poligrafa, tessitrice di
innumerevoli rapporti epistolari, decisa, a un certo punto, ad affermarsi sul piano narrativo”158,
scrivere articoli sarebbe stato un “ripiego” rispetto alla sua vocazione letteraria, una incombenza
154
Per lo più pubblicati nelle edizioni Città di Treia, con scarsa diffusione.
Di recente pubblicazione, nel 2011, la raccolta Sogni, di Dolores Prato, a cura di Elena Frontaloni, Quodlibet,
Macerata 2010.
156
vedi nota n. 1.
157
ACGV, Fondo Prato, Pd 237, in S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 113.
158
G. Zampa, Introduzione, in D. Prato, Giù la piazza, cit., p. X.
155
61
necessaria per far fronte ai bisogni economici dopo che il rifiuto ad allinearsi con il regime fascista
la costrinse ad abbandonare la scuola, unico mezzo di sostentamento. Il mio lavoro cercherà di
smentire quella certezza, che ritengo frutto di un’analisi del tutto superficiale su questo fronte
d’indagine.
Inappellabile il suo attaccamento alla professione se leggiamo la lettera del 6.3.1967 a Coen:
Fausto, stanno facendo la revisione nell’albo dei pubblicisti, dovrei mandare, già da molto
tempo, la dichiarazione del Direttore del giornale dove collaboro. Me la fai, per favore? Se
perdo quell’iscrizione perdo l’unica cosa che mi permetta un viaggio, l’unico modo di evadere,
almeno una volta all’anno, dal sepolcro di pena che è questa casa in rovina con me159.
Inoltre Dolores così scriveva a Giorgina Morbidelli, insegnante elementare e sindaco di Treia dal
1970 al 1975, pochi anni prima di morire:
Di roba pubblicata ho poco: un volume in polacco tradotto da Campane a Sangiocondo e molti
elzeviri. Questi sì sono belli. Molti vorrebbero riunirli in un volume, ma io non ho la forza di
rivederli, non per correggerli ché non ne hanno bisogno, ma per togliere il motivo per cui furono
pubblicati160.
E ancora, in una lettera a Coen del 21 dicembre 1970:
Avevo bisogno di dirti quanto il tuo giornale mi ha fatto male rifiutando quella serie di articoli
sul centenario […] Non avevo mai collaborato al giornale con tanta tenacia, ma questa era la
volta buona perché un materiale ricchissimo e originale era lì pronto, diviso per articoli, quasi
tutti già stesi, bastava volta per volta una revisione. Ero contenta per me, ma anche per te: finora
fra tutto quello che è uscito sul centenario niente è trattato dal mio punto di vista; più o meno è
il solito fritto misto.
Tu mi suggeristi di farne un libro. L’idea era giusta, ma dove trovare l’editore? E’ difficile fare
un lavoro senza quell’appoggio, sai già che resterà nel tradizionale cassetto anche se io non ce
lo metto.
La vita d’una donna vecchia e sola è orribile; di più con le mie difficoltà visive e uditive, ogni
azione, ogni gesto sono faticosi. La desolazione è assoluta. Solo nel lavoro ritroverei la gioia161.
Riunire quegli articoli in una raccolta è stato uno dei principali intenti della ricerca, che ha avuto,
fin dal primo momento, l’intenzione di risarcire, in qualche modo, la scrittrice di un’altra parte,
159
In S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 167.
Dolores Prato, Le mura di Treia e altri frammenti, a cura di G. Zampa, edizioni Città di Treia, Treia 1992, p. 117.
161
Fondo Ferri-Ferrari. Le sottolineature sono nell’originale.
160
62
ricca e pregevole, della sua produzione “sospesa”: quella giornalistica, appunto, che Prato difendeva
e portava avanti con fortissima convinzione anche a ottant’anni.
In un’altra lettera all’amico Coen, datata 24 marzo 1970, di commento alle sorti di un suo pezzo sul
colore dei taxi (Verdi mi piacciono di più) “tagliato benché fosse corto, apparso e subito ritirato.
L’elemosina che si fa a una seccatrice”, Dolores sottolinea, ancora una volta il suo amore per questo
mestiere, evidentemente molto più che un ripiego:
In una giornata un po’ morta come il lunedì è apparso il mio pezzo. Apparizione, nel significato
della parola, apparso e scomparso, come un fantasma..
I tassinari che la pensano come me, sarebbero stati contenti di leggerlo. Non ne hanno avuto il
tempo.
Oramai non ho più dubbi: la mia firma non è gradita al giornale. Ci ho messo a convincermene!
L’amavo quel giornale che mai mi ha amata. Avevo confuso il giornale con te e ho sbagliato.
Di fatti provanti che io non piacevo al giornale ne ho una catena. Ma lo sentivo anche se i fatti
mancavano, come sentono le persone ferite.
Per questo la mia collaborazione è stata così rara. Dovevo ogni volta riacquistare fiducia,
credere che i miei giudizi e le mie sensazioni fossero sbagliati.
Ma di cose scritte per il giornale che confondevo con te, ne ho a mucchi. Spunti, pagine intere,
asterischi, frammenti.
Sto facendo una pratica notarile per il lascito dei miei manoscritti; alcuni amici disporranno dei
pochissimi soldi, del valore della mia biblioteca che ne ha assai, dei mobili e oggetti
trasformabili in denaro, per la loro pubblicazione.
Ebbene, non so ora esattamente quanti saranno, ma un buon volume uscirà fuori di sicuro con
quel che ho scritto per il tuo giornale e che non ho mai mandato. Avrà anche valore retroattivo,
te l’assicuro162.
Nonostante la sua notevole capacità di scrittura e il suo rapporto di fiducia con Fausto Coen; e
nonostante che lo stesso Coen, in una lettera del quattro settembre 1970 diretta a Dario Paccino163 in
cui chiedeva di pubblicare un “servizio foto-descrittivo su Cortona” di Dolores, la definisse “una
nostra ottima collaboratrice da tanti anni”, “una persona studiosa e veramente competente”, Prato
non fu mai considerata una delle firme di “Paese Sera”, né annoverata tra i collaboratori di spicco.
Forse a torto, e probabilmente anche per il fatto di non essere mai stata considerata, in vita, un nome
importante della letteratura italiana. Il giornale non le affidò mai neanche uno spazio fisso, una
rubrica, che pure Dolores bramò a lungo, in diverse occasioni, e con diverse proposte, come si può
leggere in questo passaggio, uno dei tanti in cui Prato sottopone a Coen il suo sconforto per la
marginalità cui “Paese Sera” sembrava relegarla:
Tante volte ti buttai là l’idea di qualche rubrica. Mai sono stata spinta a farlo; una risposta
dubbiosa ha spento sempre nel dirla la mia proposta. Potevi provare, eri sempre in tempo a
162
163
Fondo Ferri-Ferrari. Le sottolineature sono nell’originale.
Giornalista che si occupava delle riviste del Touring Club. La lettera proviene dal fondo Ferri-Ferrari.
63
rifiutarla164.
Con ogni probabilità Dolores avrebbe voluto ricavarsi, sulle pagine di “Paese Sera”, uno spazio
analogo a quello, passato ormai alla storia, della “treccia di Berenice”: la rubrica “Settevolante”,
firmata da Berenice, al secolo Jolena Baldini. Pubblicata tutti i giorni, la rubrica aveva come logo
una lunga treccia (da qui il nome) disegnata, nell’ordine, da Renato Guttuso, Renzo Vespignani e
Corrado Cagli.
C’era di tutto in quelle novanta righe: la mostra di pittura, l’intervista all’attore del momento,
l’uscita di un libro, storie di cani gatti e canarini, il dialogo con un tassista, l’annuncio di un
premio letterario, le frivolezze e le maldicenze del generone stravaccato nei ristoranti di Roma o
in bella mostra al circolo del tennis Paioli. Un capitoletto di quella rubrica, “Cocktail”, era un
bazar di notizie: amori finiti o sbocciati, furti di bici, auto e moto, ricette culinarie, ricevimenti
nelle ambasciate, tutte le curiosità e i fatti del variopinto mondo della celluloide e della tivvù, i
cambi di casa, gli acquisti e le vendite delle ville al mare o in montagna, il colore del pigiama di
un politico, il prezzo dei gioielli di Bulgari, le disavventure di un critico teatrale, il
conseguimento di una laurea, l’ultimo disco di successo165.
Quando arrivò a “Paese Sera”, nel 1949, Berenice scriveva piccole notizie che raccoglieva fra i
galleristi di via del Babuino. Era molto amica di Sibilla Aleramo, e frequentava il Club degli artisti
in cui circolavano Ungaretti, Mafai, Moravia. Aveva libero accesso agli studi più esclusivi: Guttuso,
Levi, Mazzacurati, Mafai, Attardi Schifano, Treccani, De Chirico. Due vite, due carriere, quelle di
Berenice di Dolores, evidentemente parallele, destinate a non incontrarsi, né socialmente né
umanamente. Nel 1955 fu proprio Fausto Coen a voler trasformare il materiale raccolto da Berenice
in rubrica fissa, inventandosi il nome della rubrica e lo pseudonimo della giornalista. Per Dolores, al
contrario, uno spazio riservato non arrivò mai, così come non arrivò mai il successo come
pubblicista, certo più per motivi legati al suo carattere che per capacità: consegnava in ritardo,
scriveva articoli spesso troppo lunghi, chiedeva di poter intervenire su articoli già inviati, aveva
scarsa capacità di adattamento, nel lavoro come nella vita.
A volte, l’originalità della trattazione andava di pari passo con la complessità dei pezzi, e questo
rendeva i suoi articoli non accessibili al vasto pubblico del giornale; la totale libertà di giudizio di
Dolores, inoltre, le impediva di valutare se i contenuti fossero più o meno adatti alle pagine di un
quotidiano. Ma proprio in questo risiede, in fondo, l’unicità di Prato come figura del giornalismo
italiano, femminile e non.
164
165
Lettera del 24 marzo 1970, fondo Ferri-Ferrari.
E. Parpaglioni, op. cit., p. 50.
64
“Paese Sera”, in crisi anche per la forte concorrenza di nuovi quotidiani come “la Repubblica” e
“Reporter”, fu chiuso d’ufficio, e all’improvviso, il 3 aprile 1983 dalla Impredit, società che lo
aveva acquistato da Amerigo Terenzi. Grazie all’intervento del presidente della Repubblica Sandro
Pertini, che ricevette al Quirinale una delegazione di operai e tipografi in rivolta, a una
sottoscrizione di lettori, e alla battaglia in tribunale condotta dai giornalisti superstiti, il primo
dicembre dello stesso anno il giornale tornò in edicola. Quando però, nel 1987, Claudio Fracassi
lasciò la direzione per fondare il settimanale “Avvenimenti” iniziò un lunga agonia fatta di
interruzioni e riprese, fino alla chiusura nel novembre del 1989. Un ultimo tentativo di risuscitarlo,
nel novembre 1993, durò poco: nel luglio del 1994, il direttore Renzo Foa annunciò la cessazione
definitiva delle stampe.
65
III – Gli articoli, “il ventre di Roma”: Dolores Prato e Matilde Serao
Sembra interessante, in questa sede, tentare un’analisi più approfondita riguardo ai contenuti degli
articoli di Dolores Prato raccolti in questo lavoro. Gli eventi che più immediatamente contano, per
la giornalista come per la scrittrice, sono i riti religiosi, i cibi preparati nelle festività, i rituali della
tradizione, come le ghirlande del Natale, o i cambiamenti sociali, anche piccoli, minuti, come la
diversità nel linguaggio contemporaneo rispetto al passato, l’utilizzo di vocaboli stranieri e le
“odiose importazioni”166 provenienti dall’America, l’aver uniformato il colore dei taxi a quello delle
altre città europee (Verdi mi piacciono di più), il cambio dei nomi degli autobus (Piccolo funerale).
Particolarmente a cuore stanno a Dolores i santi, il martirologio, tanto che aveva anche proposto a
“Paese Sera” una rubrica con il santo del giorno. Impossibile non risentire, in questa propensione,
l’eco degli anni trascorsi nel collegio della Visitazione di Treia, dove la lettura del martirologio –
come in tutti i conventi - era un rito quotidiano167. Basta citare alcuni titoli: Santi, beati e parenti di
oggi, 25 giugno, San Pietro pescatore, La nuova chiesa di Sant’Eugenio, S. Francesco di Sales e
Angelica Arnaud, Il santo bisestile, Il nostro protettore.
Di certo, quello che si manifesta immediatamente è la forte presenza di Roma e della sua storia, che
si tratti di monumenti, urbanistica, architetture, rioni, tradizioni. Roma e la sua essenza, il suo
essere, nel profondo e per nascita, la capitale universale del cattolicesimo e del suo “popolo”.
A Roma si arriva, da Roma si può anche partire se non ci si resta, ma per Roma non si transita.
Roma è una meta, non è una strada.
Forse per questo ogni sua espressione, materiale o spirituale, simbolica o storica, assume il
significato della strada. Ne deriva che le strade a Roma sono di tutti i generi e le genti che
questo hanno capito, verso di lei, o contro di lei, hanno sempre camminato. Anticamente nel
Foro era segnato il centro della città che rappresentava anche il centro ideale del mondo
gravitante verso quel punto.
[…]
Strada semovente fu il trionfo pagano prima, e la processione cristiana poi.
Strada di purificazione il millenario pellegrinare dell’umanità a questa mèta. Strada d’interiore
elevazione l’affluire qui dei grandi spiriti del mondo. Strada d’arte vitale quella degli ertisti che
costituiscono un ininterrotto pellegrinaggio senza punte giubilari.
I secoli hanno portato a Roma pellegrini di tutte le specie: della fede, della curiosità, dell’arte,
166
167
In Per favore!, pezzo contro l’uscita in fascicoli della “gloriosa storia americana, sia pure sotto costo”.
Cfr. D. Prato, Le Ore, cit.
66
del lavoro. Tutto questo pellegrinare del mondo verso Roma conferma la ricchezza intuita di
strade d’ogni genere: della morale e del pensiero, dell’arte e della vita, del cuore e della fede,
strade invisibili lanciate di qui all’assalto del cielo. (Una strada di Roma)
Protagonisti di molti articoli e approfondimenti sono il Tevere e Trastevere, un fiume e un rione che
Prato aveva studiato nelle loro trasformazioni, che sentiva profondamente romani e rappresentativi
della sua Roma, un quartiere e due sponde in cui amava perdersi passeggiando, tanto che troviamo
un articolo di ben venti cartelle intitolato Divagazioni tiberine, insieme a Terminata la Festa de
noantri Trastevere torna ai trasteverini, Trastevere: terra dove ogni leggenda è vera, Trastevere
misterioso, o, come abbiamo visto, il paginone dedicato sul “Globo”, Il Tevere ex-biondo un amico
che dobbiamo salvare.
“Ora incomincio il tuo inno di lode, o Trastevere!” Per lo spazio di un secondo, tanto da
stendere la mano per prendere la penna, ho creduto che avrei scritto così. Una di quelle tante
pulviscolari condizioni, brevi più di un respiro, che si avvertono come vere e nell’immediato
finire sono già false.
Sciogliere un inno di lode a Trastevere! E’ semplicemente ridicolo.
Trastevere si dice. Nel dirlo qual è il suo massimo elogio, e nel riconoscere l’impossibilità di
farlo compiutamente è la confessione della sua grandezza.
Trastevere tutto fatto di terra color d’ora. Di terra color d’oro il monte, di terra color d’oro la
pianura che si abbassa sotto l’acqua a reggere il passaggio del fiume che porta sciolto quel
colore. […] Trastevere, estremo ramo di gente etrusca che si fermò sulla sponda destra del
fiume a guardare la grandezza nascente della gente latina all’opposta sponda. Roma crescente lo
fissava sospesa e non volle col Trastevere risoluto ponti duraturi; ne bastava uno solo e purché
fosse di legno, materia soggetta all’ascia e al fuoco.
Trastevere che è poi stato sempre un poco una piccola Etruria, che è tuttora una piccola Roma
nella grossa Roma come il giallo di un fiore è il cuore di un fiore.
Trastevere che di fronte alla Roma dei sette colli, fu e restò la Roma di un solo colle, ma del più
alto, Trastevere è stato sempre temuto.; è troppo dignitoso e fiero.
Trastevere, terra dove forse la leggenda è vera tanto essa è umana, e dove la verità è leggendaria
tanto essa è bella. Bella come l’aspetto statuario della sua gente, di quella poca che ci resta
veramente trasteverina. […]
Qualunque ne sia la ragione, è bello che Trastevere abbia una strada chiamata Roma Libera.
Tutto il mondo è pieno di sepolcri e dappertutto ci sono tombe con un angelo o un genio
67
nell’atto di spegnere la falce, simbolo della vita, capovolgendola contro terra, ma solo a
Trastevere in una tomba così, fu scolpito: “Buona notte, mastro Jacopo”. Io sostengo che
bisogna amare Trastevere anche per quel “buona notte”.
Bisogna amare Trastevere per lo zelo con cui la sua farmacia, la seconda di tutta Roma, si
occupò di diffondere farmaci per sedare gli isterismi femminili.
Bisogna amare Trastevere che fu sempre in prevalenza terra di lavoratori, tanto che S.
Benedetto di lì portò via il suo “prega e lavora”. Bisogna amare Trastevere perché S. Francesco
lo scelse per sua dimora e per quella del suo primo convento romano; tutti sappiamo quali erano
i suoi criteri di scelta. Dobbiamo amarlo perché il Petrarca fu incoronato poeta da un
trasteverino; perché sul Granicolo trovò l’estremo rifugio il Tasso; perché qui Raffaello incontrò
la gioia viva della sua vita.
Capita di divagare così col pensiero, vagando per Trastevere; capita di pensare a queste e a tante
altre cose perché la ricchezza del rione è inesauribile tanto che si possono anche incontrare
frammenti di vita simili a pensieri.
[…]
Inutile dire, inutile fare, lo spirito di Trastevere fu e resta “naturaliter popularis”, naturalmente
repubblicano.
(Trastevere: terra dove ogni leggenda è vera)
Soprattutto, Dolores voleva restituire, con i suoi “elzeviri”, come lei stessa li definisce in diverse
occasioni, il sapore della Roma antica, “vera”, con il suo colore, la sua anima e, perché no, il suo
ventre.
Per ventre, in Prato, potremmo intendere sia la parte popolare, verace, originale di Roma - la pancia,
in qualche modo - ma anche ciò che si trova nella Roma sottoterra, in ciò che è nascosto; e,
allargando il concetto, nella Roma antica che è sempre più nascosta a un primo sguardo, ma che
spunta ogni tanto, qua e là, restituendo il sapore della Roma universale.
E di questa ricerca pratiana troviamo esempi in diversi articoli, di cui qui riportiamo alcuni passi fra
i più significativi:
La chiesa proprio bella non è, anzi qualcuno dice senz’altro che è brutta. Ma brutta o bella che
sia, porta almeno sui suoi muri e sugli edifici annessi, il colore di Roma. Oramai sono così rare
le costruzioni nuove che ripetono quel nostro colore di terra arrossata cotta dal sole, che quando
ne sorge qualcuna che non sia color pisellino o bianco-calce, ma di quella tinta calda, intensa,
suggerita dal nostro orizzonte e dal nostro clima, si è disposti ad assolvere anche più di una
68
stonatura architettonica. Se in S. Eugenio stonature ci sono, il colore le assolve (La nuova
chiesa di S. Eugenio)
Svelare il ventre, come si è detto, è anche, per Dolores Prato, raccontare quello che non si vede, la
Roma invisibile alla luce del sole, che però, a volte, per uno studio particolare o per un incontro
casuale, può all’improvviso manifestarsi: come l’identità della Cecilia sepolta nel Cemetero di
Callisto, accanto alla cripta dei papi, partendo da alcuni scritti dell’archeologo Belvederi; o come la
scoperta di una basilica sotterranea sotto una villa ai Parioli, compiuta seguendo i passi di alcune
persone incontrate per strada.
Catacombe: sepolcreti sotterranei, stretti, lunghi, tortuosi, umidi, bui, dove mai penetrò il sole,
parrebbe dovessero accogliere tutto ciò che è negazione di luce e di vita, tutte le tenebre e tutte
le morti di questo povero mondo.
Invece, sulla faccia della terra, non c’è luogo da cui emani tanta luce come dal buio di quelle
sotterranee gallerie mortuarie. Luce di vita; luce di martirio; luce di fede; luce di dottrina; luce
di poesia, luce di sicure speranze; luce di miriadi di piccole lucerne; luce di nomi che illuminano
ancora di vita quelle caverne, dove la morte non entrò neppure con un segno, con un grafito, con
una parola, con un simbolo.
“Lucina” è uno di questi nomi luminosi, forse il più luminoso: quello che ripetendosi con
insistente uniformità attraverso i primi secoli cristiani, li costella di tanta luce, come se a ogni
poco s’accendesse una lampada viva nell’ombra sotterranea delle catacombe. […]
La “Cecilia”, dormente nel Cemetero di Callisto, accanto alla Cripta dei Vescovi di Roma,
potrebbe essere quella stessa matrona “Lucina” del III secolo: attiva, coraggiosa, pietosa, di cui
si è accennato. […]
Questa “Cecilia-Lucina”, sarebbe assai più grande e più vera di quella, che la leggenda ci
tramandò come “Cecilia martire”.
Lucina viva solo per una formidabile forza operosa, acquista un volto nell’orante della Cripta di
“Cecilia”; attenua la lucentezza del suo nome, perché noi vi possiamo scorgere attraverso la
nobile figura di una donna dei “Cecili”.
In questa nostra epoca devastata materialmente e spiritualmente, l’archeologo puro, che
freddamente esamina muri e scavi; che matematicamente stabilisce misure, nomi e date, non
trova più posto nelle nostre folle cieche ed affamate, che chiedono solo pane per il corpo e luce
per l’anima.
Ma un archeologo come il Belvedere, dalle cui parole e dai cui scritti io ho inteso attingere
69
questa luce, che ho cercato di riflettere, in cui l’archeologia ha accentuato e approfondito il suo
carattere sacerdotale, deve essere benedetto per la luce di vita, che trae da quegli oscuri
sepolcreti, per offrirla alla nostra morta “cecità”. E nel suggerirci l’ipotesi della identità delle
due donne, dà a noi il conforto di riallacciare la nostra fatica e il nostro patire quotidiani a quelli
di “Cecilia-Lucina”, che, come noi, visse la sua vita, superata però da una carità, che noi non
conosciamo più.
(Da Cecilia a Lucina)
E, ancora, da Il mondo sottoterra:
Il quartiere dei Parioli, uno dei più moderni, che passa per aristocratico per la gente ricca che
l’abita, è uno dei più antipatici di tutta Roma. Un quartiere che potrebbe appartenere a qualsiasi
città privo com’è di ogni carattere romano. Non ha neppure un rudero, neppure una colonna
antica, neppure una facciata barocca, neppure il colore di Roma perché quassù le case sono di
tutte le tinte esclusa quella tipica della città.
Per ritrovare Roma in questo quartiere bisogna sforzarsi a pensare che una di queste strade
banali, segue il tracciato della Salaria Vetus, ma è troppo poco […]
Pochi giorni fa passando per una di quelle strade dove le ville son più grandi e più folto il verde,
dove i massicci cancelli stanno sempre chiusi, vidi gente silenziosa che infilava uno di quei
cancelli semiaperto, si inoltrava per un viale, prendeva a sinistra un sentiero bordato di limoni
che scendeva lentamente, voltava, scompariva. Non poteva certo andare tutta dai signori della
villa anche perché quella gente era popolo. Voglio dire che c’erano giovani e vecchi, poveri e
ricchi, operai e preti, gente che veniva da tutte le classi, da tutte le condizioni, da tutte le età.
Sfilava silenziosa, rapida, sicura, entrava, procedeva, voltava, scompariva.
Passai anch’io il cancello, percorsi il viale di mimose, scesi per il sentiero di limoni, voltai e mi
ritrovai in un piazzale con una fontana nel mezzo, prospiciente la villa che dal di fuori non si
immaginava così grande. Intorno a un tavolo di ferro c’erano delle seggiole a sdraio che erano
state piegate e raccolte, vigilate tuttavia da un domestico.
Ma quella gente non guardava intorno, andava dritta verso una porticina quasi nascosta nel
fianco della villa, la varcava, ne era inghiottita.
“Catacombe”, dissi tra me. Ed era curioso che la gente di oggi, avviata alle catacombe, avesse
quell’andatura furtiva, rapida, silenziosa, come quella che attribuiamo ai primi cristiani quando
nascostamente si riunivano laggiù dove seppellivano i loro martiri.
Varcai la soglia della piccola porta ed ecco subito l’umido e il buio catacombale. Una scala a
chiocciola s’inabissava sotto terra, i gradini corrosi mostravano grafiti e lettere; sui muri,
70
rischiarati da candele, epigrafi tronche, pezzi di marmo coi noti segni cemeteriali. E la scala
scendeva quanto non avrei supposto, pareva di dover arrivare al centro della terra. Un lontano
canto corale cominciò a sentirsi, si avvicinò, il chiarore di candele non viste rischiarò le tenebre,
un Kyrie poderoso esplose al termine della scaletta, ed io mi trovai in una ampia altissima
basilica sotterranea.
Un vescovo, dei celebranti, dei sacerdoti addetti al servizio, un gruppo di chierici cantori. Tutti
indossavano i paramenti all’antica, morbidi, fluttuanti, cadenti, raccolti in ampie pieghe. Il
calice, la pisside, il turibolo uguali a quelli che si usavano nei primi secoli. Il sacerdote che
dirigeva il coro voltava le spalle, ma le mani che si alzavano e abbassavano, spiccavano brune
dal bianco della cotta. Nel gruppo dei cantori erano rappresentate tutte le razze. Un piccolissimo
cinese dalla voce così limpida che quando si elevava sola dava più sensazione di luce che di
suono. Un giovanissimo negro dal ciuffo crespo sulla fronte sprigionava una voce così cupa che
pareva fosse il riflesso sonoro del suo colore. Due giapponesi con gli immancabili occhiali, un
indiano alto e potente, un rhodesiano, due o tre sudanesi, tutta l’Africa, tutta l’Asia erano
rappresentate in quel complesso corale, nonché l’Europa e l’America. Il celebrante era
australiano, il diacono malese. Quando, leggendo il vangelo disse le parole: “Amen, amen, dico
vobis” sentii quanto era bello questo ritorno di verità. La chiesa di Roma è andata per il mondo
annunziando a tutti “In verità, in verità vi dico”, ed ecco che dalle più lontane regioni del mondo
delle creature che hanno appresa da noi la buona novella, vengono e ce la ripetono, così come
fanno i fratelli quando sono buoni, che fra di loro si ripetono i racconti che hanno imparato dai
grandi.
Un sacerdote nero come l’ebano fasciato da un ampio drappo di seta bianca, reggeva la mitria
del vescovo. Coreografia, se volete, ma oltre a questa c’è un simbolo, oltre a questo c’è una
sostanza, il mondo intero affratellato in un’idea che è partita da Roma, il mondo intero che nel
rivolgersi a Dio prega e canta nella lingua di Roma. Quella folla che avevo visto sfilare
silenziosa stava lì, ammassata, in piedi, raccolta, tuffata in una penombra satura di incenso.
Potremmo quindi parlare, per Dolores Prato e i suoi articoli, del “ventre di Roma”? Crediamo di sì.
In letteratura, la parola “ventre”, nel titolo, appare due volte, in due volumi molto diversi: Il ventre
di Parigi, di Emile Zola, e Il ventre di Napoli, di Matilde Serao. Il primo, scritto nel 1873, era il
terzo libro del ciclo dei Rougon-Macquart168; il secondo, del 1884, era la raccolta di alcuni articoli
pubblicati, in seguito alla devastazione di Napoli causata dell’ennesima ondata di colera, sulle
168
Il ciclo dei Rougon-Macquart è la storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero, un’opera di venti
romanzi, pubblicati da Zola tra il 1871 e il 1893, che si estende su cinque generazioni e che comprende ben 1200
personaggi.
71
pagine di “Capitan Fracassa”169, che ai tempi occupava un posto rilevante come espressione di un
giornalismo polemico e brillante. Il ventre, dunque, è qualcosa che fa riferimento agli aspetti
collegati in qualche modo alla pancia, alle viscere, alla parte meno nobile dell’essere umano, al suo
essere “animale”, preda degli istinti bassi, carnali.
In Zola, il ventre di Parigi erano le Halles Centrales, i mercati generali, dove il popolo trovava il
cibo, anche se talvolta cibo andato a male. Lo scrittore, fedele al suo realismo-naturalismo, rende al
lettore la più dettagliata panoramica sui diversi generi alimentari presenti alle Halles, dalle
variazioni di colore, agli odori, alle tipologie. Ma il ventre della città era anche il luogo meno nobile
socialmente, più basso e becero: lì viveva e circolava il popolo minuto, lì il protagonista, Florent,
oppositore del governo di Napoleone III, si ritroverà schiacciato dalla meschinità e dagli intrighi
dell’ambiente dei piccoli negozianti, e finirà arrestato e deportato170.
In Serao, il ventre di Napoli è la parte malata, malconcia, fetida, ma anche povera, misera, di quella
miseria che ispira pietà e rabbia. Anche qui, il richiamo è agli stessi concetti di “bassezza”, sociale e
morale, si potrebbe dire, rapportati alla vita più “esteriore” e alle osservazioni più superficiali
relative alla città.
Efficace la frase, Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto,
perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo,
certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via
Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti
del tramonto: tutta questa retorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già
fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria
che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di
pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere
l’altra parte; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a
cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli settori di polizia, dei delegati; il governo a
cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma
in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo
così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore; quanti mendichi non possano
entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e
quanti commercianti vi siano; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto
s’impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest’altra parte, questo ventre di Napoli, se
non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono
buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci
cista tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto
provvede, perché siete ministro?
[…]
Sventrare Napoli? Credete che basterà? Vi lusingate che basteranno tre, quattro strade,
attraverso i quartieri popolari, per salvarli? Vedrete, vedrete, quando gli studi, per questa santa
169
Tra i suoi collaboratori, “Il Capitan Fracassa” annoverava Gabriele D’Annunzio, Edmondo De amicis, Eduardo
Scarfoglio, Cesare Pascarella, Luigi Lodi. Vedi Valerio Castronovo e Nicola Tranfaglia (a cura di), La stampa italiana
nell’età liberale, Editori Laterza, Roma-Bari 1979.
170
E. Zola, Le ventre de Paris, Fasquelle, Paris 1997.
72
opera di redenzione, saranno compiuti, quale verità fulgidissima risulterà: bisogna rifare.
Voi non potrete sicuramente lasciare in piedi le case che si sono lesionate dalla umidità, dove al
pianterreno vi è il fango e all’ultimo piano si brucia nell’estate e si gela nell’inverno; dove le
strade sono ricettacoli d’immondizie, nei cui pozzi, da cui si attinge acqua così penosamente,
vanno a cadere tutti i rifiuti umani e tutti gli animali morti; e che hanno tutte un pot-bouille, una
cosiddetta vinella, una corticina interna in cui le serve buttano tutto; il cui sistema di latrine,
quando ci sono, resiste a qualunque disinfezione
[...] Voi non potete lasciare in piedi certe case dove al primo piano è un’agenzia di pegni, al
secondo si affittano camere a studenti, al terzo si fabbricano fuochi artificiali: certe altre dove al
pianterreno vi è un bigliardo, al primo piano un albergo dove si pagano tre soldi per notte, al
secondo una raccolta di poverette, al terzo un deposito di cenci.
Per distruggere la corruzione materiale e quella morale, per rifare la salute e la coscienza a
quella povera gente, per insegnare loro come si vive – essi sanno morire, come avete visto! –
per dir loro che essi sono fratelli nostri, che noi li amiamo efficacemente, che vogliamo salvarli,
non basta sventrare Napoli: bisogna quasi tutta rifarla171.
E’ difficile leggere queste righe da Il ventre di Napoli, di Matilde Serao, e non creare
immediatamente un collegamento con Dolores Prato e i suoi scritti su Roma. Certo, le epoche erano
diverse, i motivi che muovevano la scrittura anche, ma i toni, i modi diretti e decisi con cui le due
donne giornaliste si rivolgevano ai detentori del potere, la denuncia insita in poche righe,
l’attaccamento “amoroso” alla città e la conoscenza profonda di questa, non possono passare
inosservati. Il ventre di Napoli, prima di essere stampato da Treves (Milano 1884), comparve come
inchiesta giornalistica: “un’inchiesta concitata, nervosa, del tutto moderna”172, scrive Banti nella
sua monografia su “Donna Matilde”. Pagine scritte per la rabbia e la pietà che Serao provava nel
vedere lo scempio della sua amata città devastata dal colera, e anche per rispondere, in qualche
modo, ad Agostino Depretis che, inorridito per le condizioni igieniche di Napoli, aveva affermato:
“Bisogna sventrare Napoli”.
Serao, nei suoi articoli, descriveva in maniera molto accurata e dettagliata la condizione edilizia e
umana della vecchia città. Da ognuno di questi, che via via approfondivano un particolare aspetto di
Napoli (Bisogna sventrare Napoli, Quello che guadagnano, Quello che mangiano, Gli altarini, Il
lotto, Ancora il lotto, L’usura, Il pittoresco, La pietà173) emergeva l’anima antica, calda, viva, e
nello stesso tempo immutabile, di ogni abitante della città. Certi personaggi, come quelli presenti
nei capitoli dedicati all’usura e al lotto; certi quartieri, come quelli descritti nel capitolo sul
pittoresco, si colorano e si ravvivano della partecipazione accorata dell’autrice che, mentre
denuncia mali e vizi conclamati, ad essi si lega con il filo della sua napoletanità. L’occhio
indagatore di Serao, dunque, non è quello del cronista sceso a Napoli per raccontare al proprio
lettore le suggestioni che lo hanno colpito, ma è l’occhio scrupoloso e implacabile di una sua
171
Matilde Serao, Il ventre di Napoli e altre storie, Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma 2005, pp. 11-16.
Anna Banti, Matilde Serao, Utet, Torino 1956, p. 95.
173
Questi i capitoli della prima parte del libro, denominata Venti anni fa.
172
73
cittadina che ne conosce i segreti, e dal pittoresco e variegato mondo che l’ha nutrita sa estrarre
l’essenza di una natura portentosa, che si perpetua e si rinnova, ma sempre nel dolore.
Come Dolores conosceva tutto di Roma, Matilde conosceva tutto di Napoli: il disegno delle
straducole di Porto con i loro infimi mestieri, via dei Mercanti, via di Mezzocannone la Vicaria, la
Sezione Mercato, il Lavinaio. Tutti i quartieri fatiscenti e luridi dove si annidava e brulicava la
povera gente. Il ventre di Napoli
mostrava con passione, finezza di osservazione e senza
indulgenze, i problemi della città, verso cui Serao aveva dimostrato un’attenzione costante, come
testimoniano molti articoli del “Piccolo”, del “Giornale di Napoli”, della “Domenica letteraria”.
E il rimedio, secondo Serao, non poteva essere far passare per questi quartieri tre o quattro grandi
strade, distruggendo le tane di chi non aveva altro riparo: bisognava “rifare”.
La seconda parte del libro, intitolata Adesso e scritta nel 1904, nacque come constatazione, a venti
anni di distanza, di ciò che era stato fatto per Napoli. Il giudizio di Serao questa volta è spietato,
cioè privo della pietà che aveva ispirato la prima parte. C’erano strade che continuavano a essere
frequentate da ladri che sbucavano dai vicoli e aggredivano passanti, e perfino carrozze, lungo il
nuovo Rettifilo, il quale avrebbe dovuto rappresentare la rinascita, il risanamento, la redenzione di
una città che ora contava seicentomila abitanti. Alcuni vizi e deformità parevano insanabili, ma
Serao non voleva più sopportarli, e condannava coloro che si erano limitati a costruire bei palazzi,
spendendovi molto del denaro destinato al risanamento, e trascurando i quartieri più poveri, dove il
degrado era rimasto immutato. “Da quanti anni non viene, qui, un sindaco, un assessore?”174. E, in
una certa misura, la stessa appassionata denuncia sembra essere lanciata da Dolores Prato nei suoi
articoli, e anche nel suo Voce fuori coro, come avremo occasione di approfondire in seguito.
Anche nelle vite da giornaliste delle due donne, pur nella profonda diversità, anche di ruoli – Serao
ebbe sempre un posto di prim’ordine, fino a fondare e dirigere quotidiani importanti come “Il
Mattino” e “Il Giorno” – possiamo riscontrare un trait d’union. Innanzitutto nella lunga durata,
quarantennale per Prato, cinquantennale per Serao: donne che scrissero su giornali di rilievo del
Novecento, voci critiche, taglienti, limpide, che ritraevano con occhio fuori dal comune Roma e
Napoli. Poi nell’essere entrambe giornaliste della capitale: Dolores sempre, Matilde per un breve
periodo (nel quale, comunque, fondò il “Corriere di Roma” dopo aver sposato Edoardo Scarfoglio).
Entrambe, da sottolineare, con un’idea precisa, sebbene per certi aspetti molto diversa l’una
dall’altra, su Roma, grande capitale.
Se dell’idea di Dolores abbiamo accennato, e parleremo approfonditamente nell’ultimo capitolo,
174
M. Serao, op. cit., p. 88.
74
presentando mito e antimito di Roma capitale, di Serao riportiamo un significativo passaggio, tratto
dall’articolo La conquista di Roma, pubblicato sul “Fanfulla della Domenica” del 12 luglio 1885,
che ben sintetizza il suo punto di vista:
Roma è stata e sarà sempre la città della forza, della politica e degli affari [...]; anche nell’ultima
incarnazione non l’hanno potuta prendere che le armi, e non la conquisteranno che i milioni [...],
uscite per un momento dai vostri sogni mistici e guardate l’immensa trasformazione che i
milioni vanno inducendo nella forma e nello spirito di Roma [...]. Figuratevi Roma fra dieci
anni [...]. Ciò che la terrà sotto il piede conquistatore sarà qualche potentissimo istituto di
credito, ove clericali e liberali sederanno fraternamente intorno alla medesima cassa. E siate pur
certo che anche l’archeologia verrà a patti coi milioni, se non vorrà vedere i suoi domini
scomparire sotto l’invasione delle società edificatrici175.
Serao, con questo articolo, rispondeva al collega Giulio Salvadori, giornalista di “Cronaca
Bizantina”, che aveva affermato che Roma sarebbe stata conquistata solo dall’“Ideale” e si sarebbe
data solo a chi poteva assicurarle una terza volta la conquista del mondo. E lo faceva scevra di ogni
ottimismo, contrastando quell’idea di Roma protesa alla riacquisizione di un primato e
all’affermazione di un destino di potenza, civiltà e cultura, che Angelo Sommaruga , editore audace
e moderno che aveva fondato “Cronaca Bizantina” e molte altre riviste letterarie con sede nella
capitale, portava avanti con convinzione. E questo nonostante che avesse fatto emergere, al
contempo, la complessità di Roma: sede del Parlamento, della corte e del Vaticano, aggredita dalla
speculazione edilizia e da loschi traffici, conquistata dai “buzzurri”, contesa dalla “parassitaria
nobiltà nera”, “specchio della degradazione e corruzione degli ideali risorgimentali”176.
Matilde Serao, si è detto, ebbe un rapporto molto speciale, intenso, prolungato con il giornalismo
italiano, e, soprattutto, con quello napoletano, negli anni in cui Napoli viveva il crepuscolo della sua
vicenda di capitale di un Regno e stentava a inserirsi in un discorso nazionale di produttività
economica e nuova coscienza civica.
Per lei, il giornalismo era il modo più moderno e costruttivo per entrare in contatto,
quotidianamente, con il suo pubblico. Serao scrisse per “Giornale di Napoli”, “Roma Capitale”,
“Fanfulla della domenica”, “Nuova antologia”, “Cronaca Bizantina”. Nel “Capitan Fracassa”, si
mostrò attenta ai nuclei tematici che l’accompagneranno per tutta la vita e nei cinquant’anni di
giornalismo. Restarono salde e consolidate le sue idee politiche, letterarie e sociali: Matilde Serao
“non ha svolgimento, non ha storia, tutto quello che è a vent’anni, lo è a cinquanta, a sessanta”177.
Fu sempre in aperta polemica con il femminismo e il movimento di emancipazione della donna, si
175
Wanda De Nunzio Schilardi, Matilde Serao giornalista, Edizioni Micella, Lecce 1986, p. 45.
Ivi, p. 45.
177
Ivi, p. 36.
176
75
oppose al divorzio, fu fedele alla monarchia, interpretò sempre e con grande sensibilità i bisogni
delle classi umili, ma rimase una fervente oppositrice del socialismo e delle forze di sinistra.
Negava idee politiche alle donne, capaci, a suo avviso, solo di sentimenti (Alla lega della
democrazia, “Il Piccolo”, 26 aprile 1880) e contestava al genere femminile il diritto di voto
(Votazione femminile, “Il Piccolo”, 2 settembre 1878)178. Scrisse sull’Esposizione universale di
Torino, sui rapporti franco-russi, sui veglioni del carnevale romano, sull’urbanistica umbertina,
sulla pittura napoletana.
E il giornalismo scandì anche le tappe della sua vita di donna. Il 28 febbraio 1885 sposò infatti il
grande giornalista Edoardo Scarfoglio, cinico, ironico, mordace, dissacratorio, amico degli
intellettuali meridionali più in vista quali Gabriele D’Annunzio, il pittore Francesco Paolo Michetti,
lo scultore Costantino Barbella. Con lui fondò il “Corriere di Roma”, in cui scrivevano, tra gli altri,
Giovanni Verga, Antonio Fogazzaro, Giuseppe Giacosa; l’intento era quello di farlo diventare il
nuovo “messia giornalistico”, che potesse svolgere la missione dell’incivilimento della società
come era nei programmi degli intellettuali post-risorgimentali. Serao appoggiò l’impresa con
passione ed entusiasmo, inaugurò la famosa rubrica Api, Mosconi e Vespe, che rimase costante in
tutti i giornali in cui lavorerà in seguito, firmandosi “gibus”, pseudonimo aristocratico e parigino
(gibus era un cappello a cilindro nato in Francia), indicativo del fatto che quello era uno spazio
riservato a cronaca modana, note di costume, articoli di saper vivere. I coniugi Serao-Scarfoglio
tornarono poi a Napoli, e con il “Corriere di Napoli”, fondato nel 1888, portarono nella città
partenopea il giornalismo moderno, la pagina della cultura, quella letteraria, la prosa del romanzo, i
servizi dall’estero. Ancora, aprirono “Il Mattino” (lui direttore, lei condirettrice), in cui Serao
dedicò molti pezzi alla sua amica Eleonora Duse: il matrimonio e la collaborazione col giornale
finirono nel 1902. Forte delle passate esperienze, e ormai famosa, Serao fondò, da sola, prima la
rivista letteraria “Il settimanale” e poi, nel 1904, “Il Giorno”: con questo quotidiano iniziò una
guerra aperta al “Mattino”. “Il Giorno” era l’emanazione della volontà, del cervello e dei gusti di
Matilde Serao, non più sopraffatta dalla personalità del marito; aveva ambizioni grandi, ma non
riuscì a diventare un grande giornale di informazione, né un giornale politico, né fu capace di essere
stimolo morale e intellettuale, ma ebbe grande successo, pur nella sua tendenza a commentare
moralisticamente e sentimentalmente gli avvenimenti. La linea politica del giornale, che era quella
di Serao, può essere così riassunta: fede monarchica, opposizione ai movimenti e ai partiti di
sinistra, antibellicismo e antifascismo179.
178
Ivi, p. 28.
Cfr. Wanda De Nunzio Schilardi, “Il Giorno” e il fascismo (con inediti), in AA.VV., Matilde Serao tra giornalismo
e letteratura, a cura di Gianni Infusino, Guida editori, Napoli 1981, pp. 73-102.
179
76
Quanto allo stile, Serao ebbe chiare le scelte letterarie da operare fin dagli esordi: rifiutava il
realismo, troppo materiale. Era una riserva ideologica, filosofica quasi. Scriveva a Gaetano
Bonavenia: “Non mando nulla a “La Farfalla”: il loro esclusivo realismo non è il mio. Io intendo
per realismo la vita tutta, con la sua poesia altissima e la sua modesta prosa, con i suoi slanci
generosi e le sue meschinità reali – intendo la passione tumultuosa e gli amori soavi -. Noi vediamo
questi giovani in preda ad uno strano delirio: vogliono un solo lato, lo sporco, come i romantici ne
volevano solo il poetico”180. Serao preferiva il bozzetto, una rappresentazione, cioè, del tessuto
sociale e delle storie individuali attraverso una descrizione volutamente esteriore, accompagnato da
una prosa copiosa e colorita, a volte anche con qualche eccesso e forzatura. Rievocava aspetti,
ambienti, figure, della più gremita e misera vita napoletana, con sicura intuizione della psicologia
individuale e collettiva, specie femminile181.
In conclusione, se Anna Banti, nella sua monografia, afferma che per Matilde Serao il giornalismo
era stato un modo si procurarsi di che vivere, una facile scorciatoia verso il benessere, dannoso per
la sua attività di romanziera (considerazione applicata dai più anche alla carriera giornalistica di
Dolores Prato), sembra invece chiaro che per Serao il giornalismo ebbe tutt’altra importanza, fino a
considerarlo la sua più antica vocazione182.
“Matilde Serao coincide con il ritratto della città, il ritratto segreto e commosso, trepidante e acceso,
vibrante e straziato di una città che esprime la sua grandezza non già attraverso l'opulenza ed il
sorriso, ma con la miseria ed il pianto183”. L’ispirazione ai problemi, alle condizioni di vita e ai
sentimenti del popolo restò un momento determinante e centrale in alcuni libri fra i più importanti
di Serao.
La sua frenesia sul lavoro, la sua straordinaria professionalità come giornalista e direttrice del
“Giorno”, il quotidiano da lei fondato nel 1904, capace di scrivere sul tamburo qualsiasi pezzo
fosse necessario per completare ogni giorno l’edizione del giornale, su qualsiasi argomento, la
resero una presenza ingombrante ma leggendaria, di indiscussa autorevolezza, a Napoli (e non
solo a Napoli) negli anni fra Ottocento e Novecento. Eccentrica e determinata, nonostante il suo
irritante antifemminismo teorico (spesso in contrasto con i caratteri delle protagoniste delle sue
storie), è un personaggio di sconcertante modernità, che, in buona sostanza, costituì per le donne
italiane un modello di riferimento a lungo ineguagliato.
E’ un modello che si basa soprattutto su una personalità aggressiva e capace di affermarsi in
qualsiasi ambiente, da quello tutto maschile, sprezzante e difficile per le donne, del giornalismo
professionista, in cui “Matildella” seppe imporsi con la sua studiata camaraderie e la celebre,
contagiosa risata, che faceva dimenticare ai suoi colleghi la sua caparbia tenacia sul lavoro, a
quello dei salotti aristocratici, dove si imponeva invece, a dispetto della sua apparenza fisica
180
Ivi, p. 29.
In Enciclopedia bibliografica universale, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma 2007, v. 17, p. 559.
182
In W. De Nunzio Schilardi, Serao giornalista, cit., p. 21.
183
Mario Stefanile, Labirinto napoletano: studi e saggi letterari su scrittori di ieri e di oggi, ESI, Napoli 1958, p. 44.
181
77
inelegante e goffa, con la forza magnetica della sua personalità184.
Una donna, una giornalista, che ha dei tratti comuni con Dolores Prato non secondari e che, come
Prato, ci ha restituito un ritratto-bozzetto della sua città particolare, diverso, in qualche modo unico.
Gli articoli di Matilde Serao, e poi il libro, tempestivamente pubblicato, ebbero un immediato
successo, sancito poi dal giudizio di Benedetto Croce:
Tutto ciò che la Serao aveva notato sulla vita e il carattere della plebe napoletana, e che le aveva
porto argomento di bozzetti [...] venne fuori nel 1884, nell’occasione del terribile colera che
infierì nella città e dopo la visita del re Umberto alle luride strade e case dove abitava la plebe,
quando il ministro Depretis che aveva accompagnato il re e per la prima volta fatto conoscenza
di quell’orrido cumulo di miserie, uscì nella frase, divenuta per qualche tempo celebre:
“Bisogna sventrare Napoli”. E la Serao scrisse una serie di articoli col titolo Il ventre di Napoli:
pagine tirate d’un fiato, descrizioni rapide, aneddoti narrati con semplicità, calorosa
eloquentissima perorazione a pro del popolo napoletano, piena di quell’affetto materno del
quale ella possiede il segreto [...] E io confesso di preferire i bozzetti e le novelle, e fin gli
articoli del Ventre di Napoli, scorretti e quasi improvvisati ma spontanei, al quadro sapiente,
ch’è troppo sapiente, del Paese della cuccagna185.
Le pagine tirate d’un fiato, le descrizioni rapide, gli aneddoti narrati con semplicità potrebbero
essere quelle di Dolores Prato su Roma, senza dover ricorrere ad ulteriori aggettivazioni, con la sola
differenza, evidente, che in Prato manca completamente il “calore materno” verso la gente, le
persone, che viene sostituito con un amore profondo per l’architettura della città.
Ad accomunare le due scrittrici giornaliste, sicuramente, l’attitudine all’osservazione che diventa
motore narrativo, una percezione visiva fortissima, che si fa quasi fisica, e che trasforma le scrittrici
in testimoni e protagoniste di un’esperienza della città.
Se esiste una componente “femminile” nelle due scritture, la si può cercare proprio nello sguardo
che si mette al livello dei dettagli, e quasi soppesa gli oggetti, in modo di strappare la descrizione
all’astrattezza attraverso un rapporto carnale con le cose, le case, i monumenti, Roma (per Dolores),
Napoli (per Matilde).
All’unisono, infine, la denuncia verso lo “sventramento” che avrebbe dovuto, in entrambi i casi,
“guarire” la città e che si era invece rivelato, in molti casi, un’operazione politica che truccava e
mascherava contraddizioni profonde. Molti i punti in comune fra i due approcci giornalistici di
fronte alla propria città, dunque, che potrebbero anche far pensare a una lettura di Matilde Serao da
parte di Dolores, che sicuramente avrebbe apprezzato e condiviso tanto realismo e tanta passione, e
soprattutto, avrebbe notato il coraggio di una donna che un giorno, di fronte alla propria città ferita,
184
185
Antonia Arslan, Introduzione, in M. Serao, op. cit., p. IX.
Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, vol. III, Laterza, Bari 1915, p. 165.
78
decise di puntare il dito contro il primo ministro.
79
IV – Articoli editi, inediti e rari: una bibliografia
Per ognuno di questi pezzi, che la stessa Dolores Prato conservò in raccolte chiamate Articoli,
riporto qui i passi più significativi, per avere un assaggio di ciò che di veramente particolare,
originale, a tratti sagace, sicuramente notevole anche dal punto di vista giornalistico-letterario,
questa ricerca vuole far riemergere.
D’altra parte, anche gli articoli pubblicati sono ormai perle rare, praticamente sconosciute a tutti, e
meritano di ritrovare spazio.
A) EDITI E RARI, con foglio di giornale (ACGV, Pg 1-143; fondo Ferri-Ferrari)
1.
Da Cecilia a Lucina, in “Il Quotidiano”, 2 dicembre 1945, p. 2;
occhiello: Peregrinazioni romane;
impaginazione: apertura della pagina “Cronaca di Roma”;
collocazione dattiloscritto: Pg 1-3.
L’articolo è una riflessione storica, e morale, che prende spunto dagli scritti dell’archeologo
Giulio Belvederi sull’identità della Cecilia sepolta nella zona più sacra del cimetero di San
Callisto, accanto alla cripta dei Papi. Una Cecilia “di cui nulla si sa con certezza, e che forse non
patì neppure il martirio”, ma che nel V secolo divenne “martire” (Santa Cecilia), forse “per un
martirio della vita non meno doloroso” di quello di sangue. L’ipotesi è che Cecilia sia la Lucina,
donna patrizia caritatevole, che nel III secolo donò un suo campo sull’Appia, che diventerà poi
il cimetero di Callisto, ma che non viene neanche nominata nella sua catacomba.
2. I gatti insidiano l’eternità di Roma, in “Paese Sera”, 19 maggio 1950, p. 3;
impaginazione: taglio centrale;
collocazione: Pg 4.
Particolarissima considerazione a proposito di Roma, dove eternità è “sopravveste di
continuità”, dove tutti i caratteri della vecchia-antica Roma “sopravvivono nella nuova con la
longevità delle sue statue che, spezzate e mutilate, fanno ancora di essa una strana città abitata
da gente viva e da gente di pietra”. Ma questa eternità edilizia, religiosa, linguistica, è incrinata
dal gatto: unico elemento nuovo – introdotto in città solo dopo il Mille, nonostante fosse
conosciuto dai tempi dell’antico Egitto – di Roma, “immigrato, invasore, diabolico, e
antiromano”, per il suo non essere mai diventato Roma, restando gatto.
80
3. Una strada di Roma, in “La Via”, 20 maggio 1950, p. 3;
impaginazione: taglio centrale;
collocazione: Pg 5-8.
“A Roma si arriva, da Roma si può anche partire se non ci si resta, ma per Roma non si transita.
Roma è una meta, non è una strada. Forse per questo ogni sua espressione, materiale o
spirituale, simbolica o storica, assume il significato della strada”. I secoli hanno portato a Roma
pellegrini di tutte le specie, segno, per Prato, “della ricchezza inaudita di strade d’ogni genere:
della morale e del pensiero, dell’arte e della vita, del cuore e della fede”. La strada di cui si parla
nel pezzo è però la strada luminosa, la “vera Via dei Pellegrini”, che si forma intorno a
mezzogiorno all’interno della chiesa della Trinità dei Pellegrini, dove nel Giubileo del 1550 San
Filippo Neri ospitava chi veniva a Roma attraverso le strade del mondo.
4. La Repubblica sta sul Quirinale tra le antiche memorie e le bugie, in “Paese Sera”, 3
giugno 1950, p. 3;
occhiello: Da quattro anni abita in un luogo ricco di suggestioni e di storia; sommario: Il colle più
alto di Roma e il più salubre – Un minestrone ad arco che illumina soltanto uno sgabuzzino da cui si
affacciavano i papi e i re – Il panorama più bello della città minacciato dai palazzi che sorgono con
troppa fretta e con troppa ingordigia d’altezza;
impaginazione: apertura;
collocazione: Pg 9-11.
Storia e suggestioni storiche del colle più alto di Roma, che attraverso lente e continue
trasformazioni è diventato ora “un poco bugiardo”: c’è la bugia della scritta sul piedistallo dei
due colossi attribuiti a Fidia e Prassitele, le bugie architettoniche delle facciate dei palazzi e dei
finestroni che si affacciano su piccoli spogliatoi, delle porte finte, della balconata sul alto della
piazza che si affaccia ormai sui palazzi. “Da tutto questo che si può dedurre per la nostra
Repubblica che risiede lassù, il luogo è fasto o nefasto?”
5. Terminata la Festa de noantri Trastevere torna ai trasteverini, in “Paese Sera”, 2 agosto
1950, p. 4;
sommario: I misteriosi caratteri del popolare rione scompaiono d’un colpo una volta l’anno quando
il pubblico vi si riversa da ogni parte della città;
impaginazione: taglio basso;
collocazione: Pg 12-14.
81
Scorcio su Trastevere, “rione misterioso”, e sul popolo trasteverino, che “galleggia sulla
banalità”, ma “singolare e inconfondibile”. “Trastevere è una terra di mistero per certe sue
indeterminate promesse spesso chiuse in una parola come quella che sta dentro il nome delle
carceri”: “Regina Coeli” era il convento dove le suore, ogni 4 ore, suonavano a festa e
cantavano l’antifona della letizia (“Regina Coeli laetare, alleluia!”). Ora, “scomparsi il convento
e la chiesetta, resta un nome (del carcere) promettente letizia”.
6. Una bella funzione, in “Paese Sera”, 27 febbraio 1951, p. 3;
occhiello: La cerimonia al liceo Visconti;
impaginazione: taglio basso;
collocazione: Pg 15-17.
Al centro dell’articolo la commemorazione del IV centenario della fondazione del Collegio.
“Una bella funzione” è un modo di commentare tipico dei romani, “che, a forza di vedere
spettacoli di tutti i generi, sono indifferenti a tutti”. Prato è spietata contro un funzione sì, “bella
no”, “servita per fare in una scuola laica l’esaltazione dell’insegnamento clericale”, conclusasi
con la distribuzione “né giusta né di buon gusto” di un opuscolo del ’40 con “le rituali
esaltazioni fasciste”, in cui si leggeva: “Camerati, evviva Pio XII”.
7. La nuova chiesa di S. Eugenio, in “Paese Sera”, 6 giugno 1951, p. 3
impaginazione: taglio basso;
collocazione: Pg 18-19.
Pezzo sull’apertura della nuova chiesa dedicata allo “sconosciuto” Sant’Eugenio, offerta in
dono al regnate Papa Pio XII, battezzato col nome di Eugenio. Chiesa “che proprio bella non è,
anzi qualcuno dice senz’altro che è brutta, ma porta almeno sui suoi muri e sugli edifici annessi,
il colore di Roma”. “Colore di terra arrossata cotta dal sole […], di quella tinta calda, intensa,
suggerita dal nostro orizzonte e dal nostro clima che fa assolvere anche più di una stonatura
architettonica”.
8. Trastevere: terra dove ogni leggenda è vera, in “Paese Sera”, 1 settembre 1951 p. 3;
impaginazione: taglio basso;
collocazione: Pg 20-22.
Vero inno a Trastevere, “estremo ramo di gente etrusca che si fermò sulla sponda destra del
fiume a guardare la grandezza nascente della gente latina all’opposta sponda”, “una piccola
Roma nella grossa Roma come il giallo di un fiore è il cuore del fiore, “terra dove forse la
leggenda è vera tanto essa è umana, e dove la verità è leggendaria tanto essa è bella”.
Trastevere, allo spirito “naturaliter popularis, naturalmente repubblicano”.
82
9.
La via di tutti i popoli, in “La Via”, 15 novembre 1952, p. 4;
impaginazione: apertura;
collocazione: Pg 23-27.
“Strada di tutti i popoli” è il nome che Prato suggerisce in sostituzione di “via della
Conciliazione”, “l’enorme vuoto che strada non è, piazza nemmeno” risultato della distruzione
della “Spina”, la fila di case che divideva quella strada di Roma in “due corridoi tra case,
palazzi, chiese, fontane e tante botteghe strette una addosso all’altra perché ci volevano stare
tutte […] Due strade strette e soffocate che preparavano gli animi per meglio avvertire quelle
due immensità”: la piazza e il tempio di San Pietro. Oltre a ripercorrere la storia della Spina e di
quella visuale rovinata (“lo scempio”) Dolores propone di dar seguito all’idea dell’amico
Torquato (Ferrari?), e “nobilitare il qualche modo quella banale composizione” di panchine e
portalampade innalzando al posto dei sedili le statue dei santi protettori di tutte le nazioni del
mondo. Da cui il nome “via di tutti i popoli”.
10. Le ghirlande, in “Paese Sera”, 25 dicembre 1956, p. 4;
impaginazione: spalla sinistra;
collocazione: Pg 28-30.
La ghirlanda, corona fatta di fiori e fronde, “miracolo di Roma che aveva resistito al tempo,
ebbe il suo colpo fatale con l’annessione”. Dolores Prato, prendendo spunto dal fatto che la
tradizione delle ghirlande natalizie non esisteva più, ormai, manifesta in questo articolo la sua
contrarietà a Roma capitale d’Italia. “La città che era stata per secoli un meraviglioso paese
universale, ridotta a capitale di uno stato particolare, perdette pian piano ciò che dell’antichità
classica era sopravvissuto per oltre due millenni. Da nord a sud affluì su Roma gente che
l’invase, ne distrusse le piccole e grandi tradizioni che erano il suo meraviglioso patrimonio, la
sua attività, unica al mondo, la trasformò in città simile a tutte le altre. E così fu distrutta anche l
ghirlanda che era sopravvissuta proprio per indicare il Natale”.
11. Chi aveva ragione?, in “Paese Sera”, 29-30 gennaio 1957, p. 3;
impaginazione: spalla sinistra;
collocazione: Pg 31-32.
Storia della disaccordo sorto tra San Francesco di Sales, vescovo-principe di Ginevra, e la santa
baronessa di Chantal a proposito di Angelica Arnaud, abbadessa di Port Royal che chiedeva
negli ultimi anni della sua vita di essere accolta tra le “visitandine”, ultima tra le ultime. San
Francesco non volle farla entrare nel suo convento della Visitazione, la baronessa avrebbe
voluto che questo accadesse. Chi aveva ragione? “Lo vedremo in paradiso”, rispondeva
Francesco di Sales alla stessa Chantal.
83
12. Ricordo (“Incontro con Marchesi”), in “Paese Sera”, 19-20 marzo 1957, p. (non leggibile);
impaginazione: spalla sinistra;
collocazione: Pg 33-36.
Un ricordo in ricordo di Concetto Marchesi, grande umanista e amico di Dolores. Non un
coccodrillo, ma una riflessione sul funerale partecipatissimo di Marchesi: in apparenza
“l’opposto del piccolo funerale che (Marchesi) desiderò quella sera” in cui con Dolores si mise
a seguire il baldacchino di un uomo diretto al cimitero dei poveri a Prima Porta; “quella sera del
piccolo funerale egli non credette di turbare il viaggio di quel morto col seguirlo tenendo me per
mano: eravamo unità; unità col sentimento e con la speranza della povera gente. Il giorno che
Marchesi se ne andò a me pareva che buttasse a tutti una speranza e un invito all’unione e che la
folla lo raccogliesse. Solo in apparenza, Marchesi, non ebbe il funerale che desiderava quella
sera, perché quella folla che lo seguiva era anch’essa unità”. Aveva un’anima sola, quella del
comunismo
13. Un Natale e una Pasqua quest’anno si sovrappongono, in “Paese Sera”, 20-21 aprile
1957, p. 2;
occhiello: Una singolare congiunzione di feste; sommario: Un incontro che avviene una volta ogni
molti anni – Il significato delle pagane Palilie – Parabola del 21 aprile;
impaginazione: apertura;
collocazione: Pg 37-38.
Il 21 aprile 1957 si sovrappongono nello stesso giorno il “Natale di Roma”, festa antichissima in
cui a ogni cittadino era fatto obbligo di coronarsi di fiori, e la pasqua di risurrezione. Prato
ripercorre le origini e la storia di questi riti pagani e cristiani.
14. Neve d’agosto, in “Paese Sera”, 6-7 agosto 1957, p. 3;
impaginazione: spalla sinistra;
collocazione: Pg 39-42.
Articolo sulla storia dell’Esquilino e sulla leggenda della neve caduta sul “monte” in un 5
agosto della seconda metà del quarto secolo: evento straordinario che portò all’erezione della
chiesa di Santa Maria Maggiore (ad nives) e che ogni anno viene commemorato con una
cerimonia floreale (neve di petali di fiori che scende dal soffitto).
15. San Pietro pescatore, in “Paese Sera”, 28-29 giugno1958, p. 3;
impaginazione: spalla sinistra;
collocazione: Pg 43-49.
84
Vedi articolo San Pietro.
16. Vecchia Roma, in “Paese Sera”, 13 gennaio 1960, p. 3;
impaginazione: spalla sinistra;
collocazione: Pg 50-51.
Il titolo che Prato aveva scelto per questo articolo era, in realtà, Resistenza romana o Resistenza
di Roma. Un titolo che venne poi cambiato, non senza ribellione della giornalista, che esprimeva
il senso dello scritto: “La vera Roma è ridotta simile al corpo di un martire: spezzata, dispersa,
esposta a frantumi sotto forma di reliquia”. Dolores sostiene che la vera vecchia Roma resiste
ancora in qualche piccola strada, scorciatoia, certi pini, qualche muro del colore naturale della
città. E racconta del giorno in cui, per caso, seguendo un brulicare di gente, scoprì una basilica
(di San Giacinto) sotto una villa dei Parioli. “Nel profondo della terra, un uomo, continuando
nel modo e nello spirito l’antichissima figura del fessore, parlava così e il canto di un gruppo
cosmopolita riempiva di voci latine le volte di una insospettata basilica. Pareva che Roma,
perseguitata all’esterno dalla speculazione edilizia, anche monastica, si rifugiasse sottoterra
come gli antichi cristiani”.
17. La spina, in “Paese Sera”, 22-23 gennaio 1960, p. 3;
occhiello: “Una Roma dimenticata”;
impaginazione: spalla sinistra;
collocazione: Pg 52-54.
L’articolo ripercorre di nuovo (vedi La via di tutti i popoli) la storia e la distruzione della Spina,
strada doppia e angusta che conduceva all’immensità di piazza San Pietro, oggi sostituita da via
della Conciliazione.
18. Due millenni di storia sul sarcofago di Augusto, in “Paese Sera”, 30-31 gennaio 1960, p.
3;
occhiello: “Il fregoli degli edifici storici romani”; sommario: “Nacque tra due strade vitali, la
Flaminia e il Tevere, e per parecchi secoli conobbe gli splendori pagani della vita e della morte,
dominando il traffico terrestre e fluviale della capitale. Da sepolcro a fortezza”;
impaginazione: apertura;
collocazione: Pg 55-57.
Vite e morti del mausoleo di Augusto, che da sepolcro si trasformò in “Mons Augustus”
(quando nel Medioevo venne ricoperto da una coltre di terra), e che dopo il mille divenne
fortezza. Poi ancora distruzione, divenne vigne e terra, e in seguito anfiteatro per i giochi (“Il
Corea”), magazzino e, ancora, sala concerti: l’Augusteo. “Un tempio dell’arte e tutto il mondo
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ce lo invidiò. Ma arrivò anche l’ultimo concerto […] Il fatidico piccone, simbolo di un’epoca,
cominciò l’opera sua […] vide il sepolcro vuoto e repellente come una cassa da morto usata
Finita la sistemazione della zona, quel povero rudero gareggiò in miseria e bruttezza con
l’antesignana di tutto lo scatolame nazionale, la scatola dell’Ara Pacis”. Dolores Prato richiede
di nuovo una sala, un auditorium, con l’antico nome di “Augusteo”.
19. Il santo bisestile, in “Paese Sera”, 1 maggio 1960, p. 3;
occhiello: S. Giusto torna ogni quattro anni; sommario: Come nacque febbraio col suo giorno
bisesto – Il Martirologio romano segue l’uso del calendario giuliano – Le regole del lunario –
Duecento chiese dedicate alla Madonna e cinquanta al Salvatore;
impaginazione: taglio basso;
collocazione: Pg 58-60.
Pensieri intorno a San Giusto, il santo festeggiato il 29 febbraio, e perciò ogni quattro anni.
Un’“ingiustizia” del martirologio cui “corrisponde” – ravvisa Prato – un’“ingiustizia romana”:
nella città delle mille e mille chiese non ce n’è neanche una dedicata a quel santo, anche se tra la
decina di Giusti esistenti “alcuni avrebbero meritato almeno una chiesetta”.
20. Il Pantheon: il più enigmatico monumento romano, PRIMA PARTE, in “Paese sera”, 16
gennaio 1965, p. 3
occhiello: “Itinerari misteriosi nel tempo”; sommario: “Non si è mai saputo di certo come, quando,
perché sorse – La sorte di questo edificio segue molto da vicino quella del suo eterno abitatore: il
gatto”;
impaginazione: spalla destra;
collocazione: Pg 64-66.
Alla scoperta del Pantheon, misterioso e simile al gatto. “Rutture e rabberci, demolizioni e
ricostruzioni, forature e rattoppi, deturpato e restaurato, più volte soffocato da case e stambugi e
più volte liberato, esso non ha mai svelato il mistero delle sue origini. Qualunque cosa sia
venuta alla luce, ha complicato l’enigma”. Chi ci dirà mai cosa fece veramente Agrippa? Il
Pantheon “è simile a quelle creature umane che all’anagrafe sono segnate come figli di
nessuno”, e poi, essendoci dentro tutti gli dei, è impossibile dare a uno di loro un posto
preminente. Ma “l’epoca in cui questo misterioso olimpo sarebbe sorto coincide con quella in
cui il gatto, animale sacro e misterioso, per la prima volta posò le sue zampe sul suolo romano
(quando Augusto assoggettò l’Egitto) e il suolo dove le posò è proprio lì”. “Pantheon e gatti
sono contemporanei, apparvero insieme gli uni vicino all’altro e insieme sono rimasti e si
assomigliano. Difficili da capire loro, difficile da capire lui”.
21. Il primo tempio pagano che diventò Basilica – SECONDA PARTE, in “Paese Sera”, 31
86
gennaio 1965, p.3;
occhiello: Itinerari misteriosi nel tempo: il Pantheon; sommario: Un compromesso fra l’illegale
imperatore bizantino Foca e il Senato di Roma – Un nome popolaresco e affettuoso Maria Rotonda;
impaginazione: apertura;
collocazione: Pg 61-63.
Focus sul Pantheon, primo tempio pagano trasformato in chiesa cristiana. Fu ceduto al Papa con
un compromesso che ne permise la riapertura, dopo due secoli, nel primo decennio del VII
secolo. Venne dedicato alla Madonna e a tutti i martiri, poi fu chiamato “Maria Rotonda”, nome
che gli rimase per circa un millennio, “finché col trasporto qui della capitale diventando tutti
dotti e retorici, si perse l’affettuosa confidenza che avevamo con i nostri monumenti e
restaurammo il Pantheon senza dimenticare l’acca”.
22. Oggi la festa della patrona degli automobilisti, in “Paese Sera”, 9 marzo 1967, p.7;
occhiello: Santa Francesca Romana;
impaginazione: spalla destra;
collocazione: Pg 67-68.
Storia di “Ceccolella”, nome familiare romano per santa Francesca Romana, patrona degli
automobilisti (romani), bastonata sia dagli angeli che dai demoni.
23. S. Francesco di Sales, in “l’Osservatore Romano”, data: 1967, p. 3;
impaginazione: spalla destra;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
Vedi Il nostro protettore
24. Italiana spaesata in Italia, in “Paese Sera”, 19 marzo1968, p. ?;
occhiello: E’ obbligatorio sapere l’inglese?
collocazione dattiloscritto: Pg 112;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
Vera e propria protesta di Dolores Prato “contro l’abuso di parole e frasi anglosassoni nei
giornali […] Inutili stupidi e servili esotismi che pronunciamo spesso in modo ridicolo”. E
commenta: “E’ assurdo che anche la stampa di sinistra ci abitui alla lingua di quelli per i quali
essa non ha eccessiva simpatia. Dunque anche essa si piega ad una confusa sudditanza
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colonialista, altrimenti si farebbe obbligo di adoperare le parole della lingua dei lavoratori
italiani”. “Io sono di origine ebraica e senza religione, all’infuori di uno stupefatto timore
avanti al mistero che la scienza sposta, ma non spiega, però sono profondamente,
orgogliosamente italiana”.
25. Verdi mi piacciono di più, in “Paese sera”, 23 marzo 1970, (uscito tagliato), p ?;
occhiello: Nel colore di Roma il colore dei Taxì;
collocazione dattiloscritto: Pg 121;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
“Ce li avevano promessi, cominciano ad arrivare e ce li terremo i brutti taxì gialli”. Inizia così
un articolo che è una bellissima parentesi sul colore di Roma, “quello rossiccio dei mattoni cotti
da secoli di sole, quello dei muri del Campidoglio di Ostia all’ora del tramonto, crosta di pane
contadino cotto al forno”, ma è anche una denuncia sulle scelte degli architetti in merito ai
colori dei nuovi palazzi (la “distruzione coloristica”). E sul giallo dei taxi, in sostituzione del
verde: “lo paventavo quel brutto colore […] Prima quel colore aveva una sua bruttezza in
potenza, ora l’aveva in atto: brutto senza condizionale”.
26. 1971, l’anno dei centenari, in “Paese Sera”, 10 gennaio 1972, p. (non leggibile);
collocazione manoscritto: Pg 72;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
“Nella stampa di allora la presa di Roma era spesso una notiziola in fondo, prima dei rebus e
degli indovinelli.
Del resto i contemporanei avevano poco da rallegrarsi: Roma, da città originale e unica, stava
decadendo a capitale del Regno Sabaudo. Con l’avvento della Repubblica, se l’avessero epurata,
un centesimo di quel che era si sarebbe salvato, invece fu mantenuta nel suo ufficio
riconoscendole anche gli anni di anzianità. Per questo il 1970 fu l’anno del “Centenario” e forse
per reazione il 1971 è stato l’anno dei centenari”. Da qui si apre un lungo elenco ricco di
curiosità e commenti: Marcel Proust avrebbe cento anni, così come Paul Valéry, Grazia
Deledda, don Luigi Sturzo, Luigi Albertini, Trilussa, “quel che Proust faceva con la fiumana
della Recherche, su la francese società bene di allora, lo faceva lui, con minore curiosità e
maggiore pena, sulla borghesuccia società della piccola Italia unitaria”, e ancora l’attore
Ruggero Ruggeri, il pittore Giacomo Balla, il poeta Francesco Chiesa, della legge delle
Guarentigie, delle Folies Bergéres, dell’arrivo a Roma della regina Margherita e dell’Aida di
Verdi.
Il 27 novembre, poi, ricorreva il centenario del Parlamento, che si era riunito a Roma per la
prima volta cento anni prima. “Aveva titubato nella scelta del locale, poi decise per la Curia
Innocenziana, l’odierno Montecitorio, e fece bene, il luogo è abituato alle lotterie”.
27. Il Tevere ex-biondo un amico che dobbiamo salvare, in “Speciale Il Globo”, 29 giugno
1972, p. 9;
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occhiello: E’ stato per secoli veicolo di traffici, luogo di svago e di bellezza. I muraglioni costruiti
cento anni fa per difenderci dalle alluvioni lo hanno trasformato in un corso d’acqua fetido e
inutile;
impaginazione: paginone speciale sul Tevere;
collocazione: Pg 69-70.
Il Tevere e i suoi porti, fulcro della vita e dei commerci romani. “Sempre capriccioso, girò qua e
là coprendo o scoprendo: presso ponte Cavour coprì un pezzo di Roma, lì sotto ci sono strade e
case, e nel 1575 perse addirittura la testa, cambiò percorso e si mangiò un pezzo di Ostia antica
[…] Un rimedio per questi straripamenti era necessario, ma bisognava studiarne un altro, quello
dei muraglioni è brutto senza discussione […] La campagna allora scorreva dentro la città
insieme col fiume […] Senza margini la vita scivolava sino all’acqua […] Quelle due sponde si
rifecero con la più ottusa e brutale uniformità. Tanta varietà di bellezza sostituita d un monotono
nulla”. Poi un lungo e dettagliato elenco delle altre “distruzioni” e degli “atterramenti” per
mano di “Re Piccone”. “Ci avevano tolto il fiume con i muraglioni, ce ne avevano resa difficile
la vita arginando il lungotevere con muri […] Il Tevere che è una realtà, ce l’hanno resa un
sogno […] Se lo amiamo dobbiamo salvarlo”.
28. Rivivendo con Vinciguerra, in “Nuova Repubblica”, 17 dicembre 1972, pp. 4-5;
collocazione: Pg 113;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
Articolo sulla prigionia e la morte di Mario Vinciguerra, nel trigesimo della morte, in cui si
legge anche dell’amicizia di Prato con Adriano Tilgher. “Tra perseguitati e accantonati dal
regime ci si cercava per sentirci meno soli”. Del suo amico Vinciguerra Dolores ricorda:
“L’onestà portata a quella esasperazione poteva anche essere antipatica, quella rigidezza poteva
anche essere scambiata per superbia, era invece involontaria denuncia della sconfinata disonestà
in cui viviamo”, ma anche “la gattofilia, non quella di moda, ma quella pensierosa avanti al
mistero dell’animale, l’avevamo in comune” (si parla nel pezzo dei loro due gatti: Minou, di
Dolores, e Sniff, di Vinciguerra), e gli oggetti di carta, piccoli piccoli, che faceva in prigione.
“Capanne, casette, uccellini e fiori, organetti e farfalle, pipistrelli e stelle”, lui, “leggero come i
suoi giochetti”.
29. S. Francesco di Sales e Angelica Arnaud, in “L’Osservatore Romano”, 11 agosto (?), p. ?;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
Vedi Chi aveva ragione?
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B) DA RINTRACCIARE
In questa sezione riporto gli articoli di cui è possibile ipotizzare un periodo di pubblicazione, per
l’oggetto a cui si riferiscono o in base ad alcuni indizi presenti nelle corrispondenze che Dolores
teneva, soprattutto con Fausto Coen, e anche gli articoli che, per misure e tematiche affrontate,
possono far pensare a un’avvenuta pubblicazione. Tuttavia, la chiusura della sede di “Paese Sera”, e
l’assenza di un archivio del giornale stesso, ne rendono molto difficoltosa la ricerca. Del quotidiano,
per di più, si hanno archivi, ma microfilmati, nelle due Biblioteche nazionali di Roma e Firenze, e il
tipo di supporto rende alquanto ardua la reperibilità dei pezzi.
30. Un sogno di Shakespeare realizzato da Reinhardt – Il film è del 1933, potrebbe essere un
raro pezzo di Prato pubblicato in qualche testata minore;
collocazione: Pg 105.
Recensione della versione cinematografica del “Sogno di una notte di mezza estate” di
Shakespeare realizzata dal regista Max Reinhardt. “Dopo averla vista possiamo supporre che il
cinema trionferà ormai d’ogni più superba fantasia”.
31. Il figliuol prodigo – Il film è del 1934, anche questo potrebbe essere stato scritto per la
stessa testata minore del pezzo su Sogno di Reinhardt;
collocazione: Pg 106.
Recensione del film di Luis Trenker “Figliuol prodigo”, “un film che arriva alla nostra anima
direttamente come il canto del poeta detto da lui stesso”. “Luis Trenker ci aiuta ad essere più
buoni e a pregare. Quando sullo schermo non ci sono che due nubi tra le quali s’apre un
ventaglio di luce che rischiara le cime bianche dei monti, e la musica del maestro Becce prende
un’andatura mistico-corale, chi non ha sentito che quel quadro era un atto di fede e la musica
una preghiera?”.
32. Piccolo repubblicano – uscito su “Paese Sera” nel giugno 1958. Scriveva Prato in una
lettera a Coen del 26.6.1958: “Grazie per aver pubblicato il Piccolo repubblicano”186;
collocazione: fondo Ferri-Ferrari.
186
In S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 165.
90
Le celebrazioni per i diversi fatti che costituirono la formazione e l’affermazione della nostra
costituzione repubblicana, sono così modeste, così timide che forse non stona la piccola
celebrazione di un piccolo repubblicano di quel tempo in cui con tanta speranza si preparava la
nostra Repubblica”. Episodio che si svolge tra Dolores e Stefano, cinque anni, figlio di una sua
amica. “Per Favore, non mi chiamare più piccolo Repubblicano perché a me il re non piace
neppure lì […] Se mai dimmi ‘piccolo pubblicano”.
33. Piccolo funerale – risale agli anni tra il 1950 e il 1960: in alcune foto storiche di Roma,
infatti, compaiono autobus con i numeri al posto delle lettere già dal 1960;
collocazione: Pg 95;
“Oggi accompagniamo alla sepoltura le tabelle degli autobus con le ultime lettere. Addio ST,
addio FL, addio NT, addio MP, addio CP, con voi muoiono tanti piccoli pezzetti di Roma […]
Ci tolgono quelle coppie di lettere in cima agli autobus e le sostituiscono coi numeri […] Per i
più la lettera, oltre al suono, ha una facciata, un nome, un colore, un’antipatia o una simpatia”.
“E perché Roma non assomiglia che a se stessa, poteva ben permettersi il lusso di avere delle
indicazioni autofilotranviarie diverse da quelle di Milano, di Berlino, di Parigi”.
34. Una nonna tutta da scoprire – probabilmente pubblicato: Dolores aveva scritto una serie di
reportage da Cortona (non rinvenuti) che Coen, nel settembre del 1970, aveva sponsorizzato
presso il suo amico Paccino del Touring Club italino. Nella stessa lettera del 4 settembre
(fondo Ferri-Ferrari) scriveva: “Su Paese Sera probabilmente pubblicheremo alcuni articoli
veri e propri”;
collocazione: fondo Ferri-Ferrari.
Breve fotografia storica della città di Cortona “che, stando all’anagrafe leggendaria, sarebbe la
nonna di Roma”: Dardano partì da Cortona, sua patria, per andarsene a fondare Troia; da Troia
partì Enea per andare nel Lazio e gettare i presupposti per la futura Roma. “Cortona, città che si
gusta in ogni angolo, in ogni prospettiva […] allontana da sé il nome di nonna: ma se proprio lo
è, allora bisogna riconoscere che è la Marlene Dietrich delle città”.
35. 1970 finestre – probabilmente pubblicato su “Paese Sera” (in una lettera a Bruno Fiore del 5
novembre 1973 Dolores Prato dice che con questo articolo vuole partecipare al concorso
giornalistico “Luigi Vanvitelli” di Caserta);
collocazione: Pg 73-75.
In questo articolo sul bicentenario della morte di Luigi Vanvitelli, in cui si ripercorrono le
maggiori opere dell’architetto, tra cui ovviamente la Reggia di Caserta (ma anche la “deliziosa
chiesetta della Misericordia di Macerata”), Prato non perde l’occasione di scrivere anche del
“nefasto centenario di Roma capitale d’Italia”, caduto tre anni prima, in cui “intervennero anche
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i preti, non per celebrare le esequie, ma per assolverne la rovina”. “Nel 1970 invece di quel
disgraziato ricordo di Roma, sarebbe stato meglio celebrare le 1970 finestre di Caserta, una
coincidenza che non si ripeterà più”.
36. Il lenzuolo piegato – pubblicato sul “Globo” nel novembre del 1973, come si deduce da
una lettera del fondo Ferri-Ferrari che il direttore del quotidiano, Antonio Ghirelli, scrisse a
Prato il 12 novembre 1973;
collocazione: Pg 102.
La Sacra Sindone viene qui indagata nei suoi più piccoli particolari da una Prato che si e ci pone
diversi interrogativi sulla reliquia conservata a Torino. “Mettersi sulla strada dei pro e dei contro
è interessante anche per i dubbi che camminano affiancati a loro”. E poi “in tante ipotesi
passate, presenti e future, il fatto meno ipotetico, anzi l’unico certo e che smentisce tutta
l’iconografia cristiana, è il segno delle stimmate […] Di qualunque natura esse siano, false lo
sono sempre, lo dice la Sindone con l’impronta che ci lasciò un uomo sicuramente crocifisso
con chiodi. Un corpo umano non può sostenersi appeso a due chiodi infilati nel metacarpo, vale
a dire, tra le dita non ancora divise; la carne si straccerebbe […] Perché invece gli stigmatizzati
hanno tutti queste ferite delle mani fuori posto? […] Che se in questi fenomeni ci fosse qualcosa
che trascende la patologia umana, bisogna dire che con i nostri errori Iddio ci si diverte”.
37. Un po’ dei tanti centenari (addio al 1974) – tipico pezzo di Prato di fine/inizio anno;
probabilmente pubblicato su “Paese Sera”;
collocazione: Pg 79.
Elenco dei centenari di eventi e personaggi celebri e importanti. “ma per i romani c’è anche il
centenario di una loro bottega di carta, oggetti di cancelleria e piccola stamperia […] In quella
cartoleria, la cui romanità nobilita anche le banali sacchette di plastica, si riflette quella che fu la
sorte della città e del papato dopo l’annessione: sceso il Piemonte per distruggere e assorbire, fu
assorbito e niente distrusse, neppure il potere temporale”.
38. Divagando per Trastevere – probabilmente pubblicato su “Paese Sera”;
collocazione: Pg 94.
“Ora incomincio il tuo inno di lode, o Trastevere!” Per lo spazio di un secondo, tanto da
stendere la mano per prendere la penna, ho creduto che avrei scritto così. Una di quelle tante
pulviscolari convinzioni, brevi più di un respiro, che si avvertono come vere e nell’immediato
finire sono già false. Sciogliere un inno di lode a Trastevere! E’ semplicemente ridicolo.
Trastevere si dice. Nel dirlo qual è, è il suo massimo elogio, e nel riconoscere l’impossibilità di
farlo compiutamente è la confessione della sua grandezza. Trastevere tutto fatto di terra color
d’oro. Di terra color d’oro il monte, di terra color d’oro la pianura che si abbassa sotto l’acqua a
reggere il passaggio del fiume che porta sciolto quel colore.
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39. 11 febbraio 1626 – probabilmente pubblicato per un anniversario di uno dei concordati;
collocazione: Pg 111.
La data indica il giorno in cui fu ratificato il “concordato” fra l’Etiopia e Roma, fra il Negus
Seltàn Sagàd e Papa Urbano VIII, con cui il negus abiurò l’eresia e giurò fedeltà alla chiesa di
Roma. Prato spera nel giorno in cui “si ridarà fede all’antico patto”, considerando anche la data,
11 febbraio (nel 1929 giorno dei Patti Lateranensi), significativa in questo senso per la Chiesa
italiana.
40. Per favore! – impossibile datarlo, ma probabilmente pubblicato in concomitanza con
l’uscita di fascicoli sulla storia americana;
collocazione: Pg 114.
Pezzo contro l’uscita in fascicoli “della gloriosa storia americana, sia pure sotto costo”, una
delle tante “odiose importazioni” provenienti dall’America. “In democrazia anche i paesi
coloniali hanno diritto di esprimere un loro desiderio, tanto più quelli che lo sono appena […]
Se importare si deve, importiamo qualcosa che ci serva. Proprio di storia non sappiamo che
farcene. Ce ne abbiamo tanta che potremmo riempirne i mercati del mondo!”. “per cortesia,
risparmiateci la diffusione che ci state promettendo”.
41. Il nome segreto – probabilmente pubblicato. Il manoscritto è della lunghezza standard e di
tema affine agli altri pezzi che Dolores scriveva per “Paese Sera”:
collocazione: Pg 116.
“Chi è Roma, come si chiama, noi non lo sappiamo, né mai lo sapremo. “Roma” è un nomemaschera, quello sovrapposto al vero, messo per essere visto, per essere detto e soprattutto per
nascondere l’altro”. Perché in realtà, sostiene Prato, anche per Roma, come per le altre città
dell’antichità, fu necessario tenere segreto il nome perché se i nemici fossero arrivati a
conoscerlo avrebbero evocato la divinità protettrice conducendola in un altro luogo; e la città,
priva di quella protezione, cadeva in arbitrio del nemico. Dolores parla di alcune ipotesi di
nome: l’arcano Bona o Ope Consiva, Angerone, dea del silenzio, oppure Flora o Venere, che nel
culto segreto era invocata come Amor. “Dato che i preromani leggevano all’inverso, il nome
volgare potrebbe derivare dalla stessa parola: Amor letto al rovescio”.
42. Il rione di cui si parla oppure Trastevere misterioso – probabilmente pubblicato su “Paese
Sera” – deducibile da lunghezza e argomento;
Collocazione: Pg 120.
93
Ancora un ripercorrere la storia di Trastevere e dei suoi abitanti, delle sue chiese e dei Santi che
passarono di là. “Il mondo ha sempre guardato con simpatia o con timore a questo forte e leale
rione che nell’evolversi della storia ha costantemente preceduto, mai seguito […], come fecero
le monache di Regina Coeli che cantarono all’infinito quel “laetare” che tutto il mondo brama di
poter presto ripetere in un necessario avvento di giustizia e di pace, perché proprio non ne può
più”.
43. Roma, non altro – appunto in calce: “dice Luciani: E’ di una gentilezza che non perdona”,
quindi probabilmente pubblicato;
collocazione: Pg 122.
Pezzo aspro e polemico sull’Anno Santo, il Giubileo, che porterà a Roma “turisti-pellegrini che
non dovranno neppure faticare a cercare un ufficio postale, gireranno in autobussetti per
raccogliere lettere e cartoline mentre le nostre vanno al macero”. “Si suggerisce di cominciare
ad ispezionare i nostri servizi igienici. Chi ispezionerà la gente in arrivo che può portarci
infezioni più seriamente delle cozze di Napoli? […] Riguardo a Roma quella splendida fusione
di arte arcorea ed edilizia, può essere distrutta, ma, per carità, che non lo vedano i turistipellegrini”. “SI sventra, si sopraeleva, atei e religiosi allargano, modificano, sempre in vista
dell’Anno Santo e Roma, un pezzetto alla volta sta finendo di andarsene. Cominciò a finire
quando non fu più Roma, ma Capitale; da 105 anni la stanno distruggendo e l’Anno Santo le
darà la sua scoppola”.
44. Dal presepio al mondo – probabilmente pubblicato su “Paese Sera” a Natale di qualche
anno;
collocazione: Pg 124.
Il tema è ancora quello della ghirlande natalizie, “corone di mortella”, che appese fuori dai
portoni di Roma segnalavano che all’interno di quella casa c’era un presepe da vedere. Segue
una difesa del presepe (contro l’albero di Natale), “espressione collettiva di vita”, “il più antico
partigiano della pace”.
45. Il mondo sottoterra – probabilmente, in questa versione, uscì su “Paese Sera”, tanto che una
versione per Giordani subì piccole modifiche (vedi sotto);
collocazione: Pg 125.
E’ il racconto della scoperta della basilica sotterranea, sotto una villa dei Parioli. Il pezzo è stato
poi ripreso quasi interamente nell’articolo “Vecchia Roma”, pubblicato su “Paese Sera”, già
citato. Questa è una versione più marcatamente polemica contro i Parioli, il quartiere “più
antipatico” di Roma.
94
46. Il mondo sottoterra – appunto: “questo rivisto per Giordani”, quindi pubblicato
probabilmente su “La Via”;
collocazione: Pg 143.
Rivisitazione focalizzata sulla varietà delle etnie che si era presentata agli occhi di Prato in quel
“mondo sottoterra”, ai Parioli, “il più insignificante dei quartieri che passa per aristocratico
perché lo abita molta gente ricca. Privo d’ogni carattere romano, potrebbe appartenere a
qualsiasi città”.
C) INEDITI
47. Come era Roma – Il titolo è stato dedotto da un appunto di Prato: “forse vale per Come era
Roma – dunque probabilmente INEDITO;
Collocazione Pg.117
“Roma che cosa era prima che dal nord le venisse appioppata la funzione di capitale d’Italia?
Politicamente era il capoluogo della Comarca, ma questo nessuno lo sapeva. Essa per se stessa
era una piccola città addormentata in un verde secolare con un suo strano carattere di
immensità. Piccola ed immensa”. A Roma “solo l’universale aveva diritto di cittadinanza”, per
la sua luce, la forma del suo spazio, il suo cielo, e “forse per la coincidenza di un particolare
punto astrologico con uno magnetico”. A Roma si riversava il fior fiore dell’intelligenza
internazionale. “Soprattutto era una città voluttuosa. Il “carpe diem” se non fosse nato qui forse
non sarebbe nato altrove, perché Roma ti dà la bellezza delle sue luci e delle sue notti diffusa
nel senso eterno del suo non essere”.
48. Divagazioni tiberine – INEDITO in questa versione integrale ma pubblicato “in pezzi”;
collocazione: Pg 118.
E’ il testo unico da cui sono stati tratti gli articoli “Il Tevere ex-biondo” e “Trastevere dove ogni
leggenda è vera”, pubblicati, come citato sopra. E’ una dettagliata e lunghissima (circa 20
cartelle) “divagazione” su Tevere, Trastevere e gli “sventramenti” e la cementificazione che li
hanno trasformati per sempre.
49. Il nostro protettore – INEDITO - non viene pubblicato, come scrive Coen in una lettera del
18.3.1952 (fondo Ferri-Ferrari), perché la maggioranza dei lettori di “Paese Sera” “avrebbe
95
avuto la sorpresa di sentir parlare su un giornale che non ha odore d’incenso, a lungo e
troppo benevolmente, di santi e di miracoli”.
collocazione: Pg 119
E’ uno dei pezzi sui Santi del giorno che Dolores amava scrivere. Chi è Francesco di Sales
vescovo-principe di Ginevra, nostro patrono. Il pezzo è una sintesi biografica del Santo, la
descrizione di un uomo, disinvolta e priva della tradizionale impronta agiografica. Perché, dice
Prato, “E’ uno di noi, può essere il nostro protettore […] Quest’uomo che fondava un ordine
religioso dove si insegnava che tutte le cose devono restare nella loro pace, che anche le porte
vanno chiuse con dolcezza, quest’uomo, su qualunque sponda noi si sia, può essere nostro
amico giacché egli volle essere ponte che supera e unisce”.
50. Distruzioni autorizzate – E’ un articolo scritto il giorno dopo che una frana di tufo si è
verificata alle pendici dei Parioli; difficilmente Prato riusciva a uscire nei tempi imposti
dalla cronaca: probabilmente INEDITO;
collocazione: Pg 127.
Commento a un fatto di cronaca: la frana di tufo che si è verificata il giorno prima alle pendici
dei monti Parioli su viale Tiziano. Prato qui accusa la società Shell, che ha scavato per
“allargare la sua piazza”. Lo chiama “fatto doloso”, e ripercorre le tappe nella storia che hanno
manomesso questo punto della città.
51. Santi, beati e parenti di oggi, 25 giugno – non abbastanza strutturato per essere un articolo:
probabilmente INEDITO;
collocazione: Pg 76-78.
Elenco dei santi celebrati il 25 giugno.
52. Una giornata di Dolores Prato – INEDITO - appunto: “Accomodando un poco, spiegando
qualcosa. Un bell’articolo per rivista”;
collocazione: Pg 80.
Cronaca del 21 settembre 1978, San Matteo. Dolores racconta della sua visita alla mostra
fotografica della galleria di piazza Rondanini, dove vuole vedere “solo le foto marchigiane”. Poi
si fa condurre in giro per le stanze di quel palazzo, dove lei era stata in collegio, in cerca della
sua camera e di quella delle sue amiche. Scopre che la sua guida è di Penna San Giovanni. E
ricorda un po’ le Marche, un po’ i suoi giorni di studentessa.
96
53. Un falso miracoloso – INEDITO - Questo dovrebbe essere l’articolo non inviato da “Paese
Sera”. Scriveva Dolores a Coen il 24.3.1970: “Avevo già pronto un altro pezzo che avrebbe
suscitato interesse, groviglio grottesco, misterioso, patetico, in anni come i nostri, le
stimmate di p. Pio, della sua fedele ecc. ecc e in ultimo una domanda a scienziati che
nessuno ha ancora fatto. Ma non manderò più nulla”187;
collocazione: fondo Ferri-Ferrari.
54. Non ci sono più ghirlande per il Natale – INEDITO - Prima versione, più lunga, da cui è
stato tratto l’articolo “Ghirlande”, già citato. Prato stessa ha appuntato accanto al titolo “da
prenderci notizie per un lavoro più grande su Roma - come articolo l’ho tutto tagliato”;
collocazione: Pg 107-108.
55. Ringraziamento a Giovanni XXIII – INEDITO – E’ del 1959; COen scriveva in una lettera
del 27.4 1959: “Carissima, l’articolo sui nomi di Pio e Giovanni non va bene perché è un
nuovo duro attacco a Pio XII (che non c’è più) e un inno al nuovo Papa (nei confronti del
quale è bene procedere con una certa cautela)”188;
collocazione: Pg 109-110.
“Con papa Pacelli si è chiusa la dozzina dei papi autonominatisi Pii, e non sappiamo se questo
nome voleva rappresentare un proposito, una affermazione, o una semplice imitazione affettiva.
Pio è un nome brutto e freddo, è senza colore, senza passione, senza musicalità, è un nome
monotono e tisico”. Segue il racconto di tutti i Pii. “Sia benedetto Papa Giovanni che ci ha dato
un nome largo, disteso, un nome che Cristo sicuramente amò perché sempre si amano i nomi
degli amici prediletti […] Per grazia di Papa Roncalli venne Giovanni, un nome vasto e
riposante, un nome che sa di cascina e di Ultima Cena”.
D) da INES FERRI – Sant’Angelo in Vado - INEDITI
Secondo Ines Ferri, questi articoli, raccolti in una cartellina dalla stessa Dolores, non pubblicati,
andrebbero datati dal 1930 al 1950, e sarebbero comunque antecedenti agli altri.
187
188
In S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 173.
Ivi, p. 166.
97
56. Una piantina di cicoria – INEDITO
E’ un racconto autobiografico sull’innamoramento di Dolores verso il poeta Paolo Toschi: lui,
“un cipresso alto e solo su una cima”; lei, la “piccola piantina di cicoria” ai suoi piedi, che non
avrebbe dato alcun disturbo. Un rapporto che inizia e finisce, per lui, con un bacio. Perché poi
l’amore scoppia tra Toschi e un’amica di Dolores, Ebe Palazzeschi (il nome è svelato da un
appunto di Ines Ferri, che scrive anche che il paesaggio è quello dei dintorni di Sansepolcro,
dove Prato e Toschi insegnavano).
57. Il fiore dell’uomo – INEDITO
Racconto della prima volta – almeno così scrive la scrittrice - in cui Dolores, per uno scherzo
del destino, vede “il fiore dell’uomo”, il membro maschile, di un conoscente che le sedeva di
fronte in treno. “Per l’impertinenza di un bottone che sfilò la testa dal cappio dell’asola, per il
complice disordine della biancheria sottostante, mi si mostrò, da un pertugio, il fiore
dell’uomo”.
58. Un coltello - INEDITO
Dolores racconta un fatto di cronaca nera (due ragazze che avevano ucciso a coltellate un’amica
e il figlio piccolo per rubare una volpe), e lo collega a una storia di “povera gente”, storia come
tante nell’Italia del dopoguerra, attraverso un oggetto: lo stesso coltello usato per uccidere, e
abbandonato su un muretto, diventa un prezioso oggetto per la signora povera che lo trova per
strada, perché con quella punta può pulire bene il palombo, pesce che costa poco e che piace ai
suoi figli. Alla fine, il marito legge sul giornale i fatti di cronaca e restituisce il coltello alla
questura. “La dignitosa povertà di quella famiglia dove, per caso, entrò lo strumento del delitto,
direi che è superiore alla bassezza del delitto stesso. Questo, pur nel suo orrore, si spiega nelle
sue origini con cause contingenti, con colpe nostre ed altrui, l’elevatezza di quella povera gente
non ha cause, non è un’eccezione, è l’onestà innata di gran parte del popolo italiano”.
59. Quel giorno e quella notte (25 luglio 1945) - INEDITO
“Il fascismo è caduto, Mussolini è finito, la radio ne darà la notizia alle 9 e mazza di stasera.
Guai a te se lo dici a qualcuno”. A rivelare in anticipo la caduta del Fascismo a Dolores è
Torquato Ferrari, amico magistrato (suocero di Ines Ferri): questo pezzo è la cronaca del 25
luglio 1945 di Dolores.
60. Così parlò un santo (versione bozza)
Vedi sotto.
98
61. Non siamo abbastanza antimonarchici - INEDITO
L’articolo è riportato integralmente nel testo.
E) INEDITI - “AMORE PER” – (ACGV Pg 1-143 e fondo Ferri-Ferrari)
Anche questi scritti sono stati conservati, come indicato da Prato, fra gli Articoli. In realtà credo di
non sbagliare nell’affermare che ci troviamo di fronte a una sorta di piccola raccolta sull’”amore”
universalmente inteso: è la stessa Dolores a sottotitolare ogni pezzo con “amore per …” o “amore
di…”.
Dal lavoro di ricerca sono emersi ben otto testi, tutti inediti, non particolarmente brillanti però a
livello di scrittura. Sono raccontini autobiografici, spunti per riflessioni sulla natura, sul genere
umano e sulle diverse forme di amore che abitano la nostra esistenza. Forse uno andò in stampa: in
calce a “Suturazioni”, infatti, Prato scrisse “come non pubblicato”.
62. Lievità – amore del reale
collocazione: fondo Ferri-Ferrari e Pg 83.
Un episodio, tra sogno e realtà, sulla spiaggia, un giorno di sole. “Sentii me stessa come una
piccolissima creatura abbandonata alla terra, con le braccia larghe, a croce, le mani piene di sole
e il vento sul corpo steso come un tiepido velo fluttuante che mi copriva tutta. Vivevo in uno di
quei momenti in cui pare di essere sollevati in un senso strano di lievità”. Poi, dove l’acqua
viene e va, arriva una tartaruga, con gli occhi “tormentati dalla sabbia”, ma la bagnina accorsa
non si affretta nel portarla sotto la doccia per sciacquarli. Ne seguono riflessioni sulle tragedie
umane, le “assenze di Dio”, “i suoi ritardi”.
“Smarrita in mezzo a tanta fluttuante lievità la pesantezza del tuo corpo tozzo e duro mi ha
ributtata con un tonfo nel senso del reale delle cose che così come sono superano in bellezza
tutta la bellezza sognata. Tu non capisci ed è meglio, ma io ho fatto con te come l’ubriaco che
guarda con simpatia chi lo rimette sulla strada giusta”.
63. Una tragedia sulla spiaggia – amore per il dolore del creato
collocazione: fondo Ferri-Ferrari e Pg 89.
“La spiaggia non era deserta. Era popolata come sempre; solo che al posto della gente grossa,
nuda e sciocca, c’era una piccola gente, ma altrettanto numerosa, di grosse formiche alate
portate dalla tempesta della notte”. Formiche con ali con cui non potevano volare, perché le
99
formiche da riproduzione hanno “ali per un solo volo, quello nuziale”. Sbattuta dall’acqua,
stordita, “ognuna di quelle formiche avrà creduto alla inevitabilità del suo dolore così come noi
[…] Certo era convinta che le ali sono fatte per rimanere appiccicati sulla terra”. Mentre poi un
esercito di formiche le sale addosso pungendola, Prato immagina di essere parte di una catena di
mondi, di cui il più grande osserva il più piccolo, e dove i meccanismi, corporei e non, si
riproducono e si innescano identici. “Mi alzai di scatto, mi scrollai di dosso le povere bestiole, e
me ne andai come se ne va quella gente seminuda che continuava a pestare le formiche senza
vederle. Me ne andai urtata con me stessa, e con l’universo intero, trascinandomi dietro tanta
melanconica vergogna”.
64. Giù per i Tiratori – amore del mistero
collocazione: fondo Ferri-Ferrari e Pg 86-88.
Un passeggiata lungo una strada di San Ginesio, detta “i Tiratori”, si rivela per Dolores
un’intensa esperienza di comunione con la natura, quasi un matrimonio.
65. Così parlò un santo – amore dell’amore
collocazione: Pg 85.
Il santo di cui si parla è Padre Cesare, “un santo un poco disubbidiente perché non riusciva a
contenere la sua carità dentro i confini dell’orario conventuale”: “certo che agli occhi dei piccoli
legulei della morale ipocrita, egli appariva come un ribelle, un rivoluzionario”. Dolores racconta
la storia di Maria, giovane donna rimasta incinta prima del matrimonio, che Padre Cesare non
condannò affatto per l’amore e il suo frutto: “Le imponevo di vivere e vincere la paura del
mondo accettando una vita che non sarebbe stata, né facile, né lieta. Le promettevo do sfidare
con lei il mondo per la sacra legge della vita. Molte altre cose le dissi e, infine, la benedissi”.
66. Il grande nevrastenico – amore della potenza
Collocazione: Pg 81.
Racconto del mare, “il grande nevrastenico”, elemento con cui Dolores ebbe sempre un rapporto
molto stretto e particolare lungo tutto il corso della sua vita. “Sia come vuole, il mare però
continua imperterrito a brontolare e a schiaffeggiare la terra. E io crederò alla potenza umana
quando verrà un uomo che saprà costringerlo a tacere”.
67. Illusioni – amore di ciò che non è
collocazione: Pg 84.
Dolores nuota in un tratto di mare non sicuro per le correnti, rincorrendo quella che, sul pelo
dell’acqua, sembra una lunga grossa perla. Ma quando raggiunge e stringe nella mano il suo
tesoro scopre che si tratta di una fialetta per iniezioni con una goccia d’acqua sporca dentro.
100
68. Tra poveri – amore della vita oppure Mezzo uovo di cioccolato
collocazione: fondo Ferri-Ferrari e Pg 82.
Povera Dolores, povera la sua amica di tanti anni prima, “Cia”, Lucia …., che ha il marito in
carcere. Mezzo uovo di cioccolato è la condivisione tra poveri.
69. Suturazioni (Rimarginare) – amore scanzonato
collocazione: fondo Ferri-Ferrari.
Storia, quasi breve saga familiare, di Rosa e Pippetto: “La signora Rosa sapeva bene che il suo
sangue era buono e perciò le sue ferite si cicatrizzavano senza morire e lo sapeva pure il signor
Pippetto, un uomo lungo, secco allampanato che pareva la carestia accanto alla rossa
abbondanza della signora Rosa”. “Lei, suo marito e la loro vita rappresentavano proprio una di
quelle bizzarre rimarginature che solo il destino sa compiere”.
101
Capitolo tre
Voce fuori coro: il libro su Roma mai pubblicato
I – Il progetto iniziale e la vicenda editoriale
C’è un altro modo di leggere Roma, sempre guidati da osservazioni, descrizioni, riflessioni, tutte
nel prepotente e schietto corsivo pratiano, ma è necessario ricorrere a migliaia di fogli di appunti
autografi, tutti raccolti nella serie Pm del Fondo Dolores Prato dell’Archivio contemporaneo
“Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux di Firenze: quattro faldoni, una serie suddivisa in
41 cartelle, in cui vengono custoditi tutti gli appunti preparatori per la stesura di Voce fuori coro, il
pamphlet sulla distruzione di Roma, inziata con l’elezione della città a capitale d’Italia che la
scrittrice aveva pensato per il centenario del 1970.
Che il libro fosse in progetto e in costruzione lo rivela subito un appunto scritto da Dolores su un
cartoncino:
Osservazioni per chi legge:
da “extra corum cantare” degli antifonari ho dedotto il titolo:
“VOCE FUORI CORO”189
Il titolo, dunque, era già stato deciso, e con esso, in modo del tutto evidente, il senso che quella
189
Autografo, Archivio contemporaneo “Bonsanti” del Gabinetto G. P. Vieusseux, Firenze, Fondo Prato, Pm 20.
102
pubblicazione avrebbe dovuto avere: Prato voleva parlare di Roma, della sua Roma, come mai
nessuno aveva fatto. Senza allinearsi con i governanti di turno, né con la Chiesa, ma in piena
autonomia e libertà, in modo crudo, appassionato, parziale. Senza diplomazia, una meravigliosa e
intensa voce fuori coro.
Dice Carlo Bo: “La verità è l’immediatezza, tutto qui”.
Verissimo. Abbandonarmi alla mia immediatezza per essere più efficace190.
Questo libro sarà originale per arretratezza191.
Ragione di questo libro è che un velo bugiardo è su tutte le commemorazioni. Noi altri facciamo
un lamento perché noi pensiamo solo a Roma città costruita e città vivente192.
Per Prato significava assecondare l’impulso, che, come vedremo, sentiva in modo particolarmente
forte, di andare controcorrente rispetto alle commemorazioni tradizionali, alle pubblicazioni che
sarebbero nate in occasione del centenario, alle rappresentazioni che, insomma, si sarebbero date di
quella data così significativa nella storia del Risorgimento italiano. Su un ritaglio di giornale
Dolores appuntava: “Ma è indubbio che se esiste occasione per dare agli avvenimenti storici una
luce falsa, questa si presenta inevitabilmente nelle rievocazioni celebrative”193.
Ma ricostruiamo il lungo e impervio percorso che Voce fuori coro dovette affrontare, prima di
naufragare definitivamente tra il rifiuto di case editrici e il mancato spazio nelle pagine dei
quotidiani. Alla fine degli anni Sessanta, in previsione delle celebrazioni del centenario di Roma
capitale, dunque, Dolores prese a lavorare a un testo su Roma e i piemontesi, I piemontesi a Roma,
che poi rielaborò per realizzare un pamphlet. Preparò uno schema del libro, e lo inviò a Federico
Alessandrini, vicedirettore dell’“Osservatore Romano”, il quale così le rispose il 28 giugno 1969:
Gentile Signora,
con grande ritardo le restituisco il dattiloscritto che, tanto gentilmente, a suo tempo volle
inviarmi. Per noi e personalmente per me, questo è un momento di lavoro intensissimo ed
190
ACGV, Fondo Prato, Pm 1
ACGV, Fondo Prato, Pm 1
192
ACGV, Fondo Prato, Pm 1
193
ACGV, Fondo Prato, Pm 1
191
103
esigente. Mi perdoni. Ho letto lo schema; se, come sembra, il suo intento è quello di scrivere un
“pamphlet”, debbo dire che il disegno è pienamente riuscito. Il libro, peraltro, avrà un effetto
traumatico sul senso comune che da oltre un secolo la mitologia scolastica viene alimentando
negli italiani, sia pure con angolazioni diverse, a seconda dei tempi, delle stagioni, dei venti.
Alla mitologia di destra, infatti, corrisponde quella di sinistra.
Quanto all’editore possibile non saprei cosa dirle perché le mie relazioni con quel mondo sono
quasi inesistenti: ci vorrebbe qualcuno che non avesse paura di tirare i sassi in piccionaia.
Torno a scusarmi e la saluto con viva cordialità.
F. Alessandrini194
Quello schema, a celebrazioni terminate, arrivò nelle stanze di una casa editrice, che amò l’idea e
fissò il termine di consegna del dattiloscritto. Prato non riuscì a rispettarlo, e mandò le prime cento
pagine: l’editore alla fine si rifiutò di pubblicare perché l’opera venne ritenuta “troppo di destra”.
Non so, io mi sono attenuta a quella verità che la retorica ha velata e deturpata. Un esempio: nel
1870 a Roma c’erano sette palazzotti divisi in tanti appartamenti ognuno dei quali era dato
gratis a una vedova. Perché deve essere giudicato retrogrado se uno dice che il “deprecato”
governo pontificio lasciò sette di queste istituzioni e dopo cento anni di “illuminato” governo
laico non ce n’è neppure una? Lo sforzo non indifferente che ho fatto per mettere insieme quel
lavoro è stato inutile195
Dolores continuò a pensare al libro anche a celebrazioni terminate. “Un pamphlet sulla distruzione
in tutti i sensi che ha subito Roma per averla costretta a diventare capitale d’Italia”. Inviò lo schema
a un’altra casa editrice (non meglio identificata), che lo apprezzò, ma che, dopo aver letto le prime
cento pagine, decise di non pubblicare.
Avevo avuto delle noie per una pubblicazione giudicata troppo di destra, il mio lavoro secondo
loro lo era di più. Non so, io mi sono attenuta a quella verità che la retorica ha velata e
deturpata196.
La stessa idea fu lanciata da Dolores in veste giornalistica. Nel settembre del ’69 propose a Fausto
Coen una sorta di rubrica settimanale “tutta orientata su Roma. Risorgimento, unità, capitalato (!)
194
ACGV, Fondo Prato, Corrispondenze, Pd 99, in S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 20.
Lettera del 25.4.1972 a Ettore Della Riccia, Fondo Ferri-Ferrari, in S. Severi, op. cit, p. 20.
196
S. Severi, op. cit., p. 20.
195
104
romano sempre sotto il punto di vista di Roma”197, con cui avrebbe voluto accompagnare l’anno del
centenario di Roma capitale:
Questo pezzo è una casuale anticipazione del lavoro che ti proporrò a voce. Per tutto l’anno
centenario di Roma Capitale d’Italia una serie di articoli contestatari. Sono tanti che si potrebbe
cominciare a buttarli fuori da questo scorcio del ’69. Ma ne parleremo a voce. Cercherò anche
di racimolare più appunti che posso: “da dire a Fausto, da domandare a Coen perché, che ne
dice lui di questo?”198 […]
“Paese Sera” rifiutò la proposta. Qualche mese dopo Prato tornava a proporre la rubrica:
Aspetto, aspetto, aspetto, per mesi. E intanto molti giornali hanno cominciato a farlo, nella
Stampa, Vittorio Gorresio ecc. ecc. Molto più ricca la documentazione mia; senza paragone
l’originalità e l’umorismo199.
Non se ne fece nulla, e fu una grande delusione per Dolores, che con la solita schiettezza, in
proposito scrisse all’amico Coen il 21 dicembre 1970200:
Avevo bisogno di dirti quanto il tuo giornale mi ha fatto male rifiutando quella serie di articoli
sul centenario […] Non avevo mai collaborato al giornale con tanta tenacia, ma questa era la
volta buona perché un materiale ricchissimo e originale era lì pronto, diviso per articoli, quasi
tutti già stesi, bastava volta per volta una revisione. Ero contenta per me, ma anche per te: finora
fra tutto quello che è uscito sul centenario niente è trattato dal mio punto di vista; più o meno è
il solito fritto misto.
Ma Dolores non si scoraggiava e continuava a promuovere il suo progetto anche due anni dopo.
Scriveva, infatti, sempre a Coen, nel gennaio 1971:
Non ho potuto cercare gli appunti che ti avrebbero spiegato che cosa intendo dire con quei brevi
interventi contestatari. Trafiletti, qualche volta una semplice battuta come un “per finire”. Uno
era, me lo ricordo, “sull’equilibrismo” di Berengario che io non so neppure chi sia201.
Non arrivò mai una risposta positiva, né per il libro, né per la serie di articoli, né per la rubrica, e
tutti gli appunti e le riflessioni di Dolores sono rimasti soltanto nei foglietti, sulle pagine di giornali,
197
Ivi, p. 172.
Fondo Ferri-Ferrari, in Severi, op. cit., p. 171.
199
Ivi, p. 172.
200
Fondo Ferri-Ferrari.
201
Ivi, p. 174.
198
105
nel retro dei cartoncini delle partecipazioni matrimoniali ora conservate al Vieusseux. Tutto,
comunque, ad oggi interamente inedito.
106
II – Un testo in costruzione: la struttura e il pensiero
Del pamphlet Voce fuori coro, che dovrebbe essere stato completato da Prato a celebrazioni
terminate, non resta che uno schema dell’impianto, qualche nota sul metodo da utilizzare per la
composizione finale di tutto il materiale, e una straordinaria, per quantità e qualità, mole di scritti
autografi. Di seguito riportiamo alcuni stralci contenuti nella serie Pm, cartella 1:
tagliare, tagliare tagliare
tagliare
finché rimane solo, ma chiara e forte, la struttura del libro, ciò che voglio dire
Se sarà difficile trovare un editore non dimenticare la casa editrice Adelphi che pubblica cose
originali. Questo libro sarà originale per arretratezza.
In generale
Le notizie polemiche non metterle insieme, ma scaglionarle secondo i tempi della distruzione e
della trasformazione di Roma. Esempio:
Le ridicole notizie sui discorsi alla breccia del 20 sett. metterli quando c’è da dire uno scempio
distruttivo o costruttivo.
Tenere a mente
- Non esagerare con la presa in giro. Questa riservarla soprattutto a Roma.
- Non includere nella retorica Carducci – certo amor patrio, anche se roboante, era sacro.
- Sempre Roma – solo Roma.
Capitalismo
- Breccia e di tutto un po’ lungo il primo anno di annessione che sarà il prototipo degli altri
107
Papato – popolo romano – monarchia sabaudi e buzzurri – sguardo d’insieme sulle diversità
delle due cose
- Distruzioni in generale – Esquilino distruzioni e brutture – città piemontese
- Distruzioni nella città e relative brutture – Ponte – Regola – Trevi ecc ecc.
- I Prati di castello – città piemontese addomesticata
- Le celebrazioni annuali. La prima del 25imo (?). Quel che non c’è più, le ville e altre cose –
quel che c’è di brutto
- In particolare il Monumentaccio e il Palazzaccio
- Poi il discorso procede di celebrazione in celebrazione, cinquantenari, 75enni ecc. Ognuno è
uno sguardo sugli ulteriori danni e sulle brutture. Le celebrazioni inoltre ospiteranno in
maggiore quantità le buffonate retoriche.
- Questi riepiloghi venticinquennali incontreranno l’epoca littoria – seguita dalla guerra
- La ripresa con la ripresa di tutto- distruzioni e brutture
- Siamo arrivati a oggi, si guarda indietro. Che cosa poteva essere fatto per evitare o almeno
limitare la distruzione di Roma?
- La sua salvezza assoluta sarebbe stata una costituzione diversa. Niente annessione. Città libera
sede del papato.
O ancora, si trova un altro abbozzo di impianto generale:
1° parte
1 - Dalla Breccia in su, divagando tra sabaudi, distruzione, cose ridicole
2 - Richiamando al punto giusto che cosa era il popolo romano
3 - Che cosa era il papato
4 - Riprendere all’interruzione del numero 1 e proseguire sino alla guerra del ‘15
5 - Guerra fino al 1920 circa ridimensionando il re soldato
2° parte
1- La fine vera di Roma, il concordato – abbandonata alla sua piccola missione
2 - Riprendere l’opera del fascismo sin dal principio e proseguire nei suoi guai per Roma
3 - La guerra – Italia distrutta a metà – Roma violata anche lei
108
4 - La Repubblica non attenua i guai romani, li accresce come un cancro nel suo incontrollato
sviluppo
3° parte
1 - L’unità – un guaio per tutto il paese è un assassinio per Roma
2 - L’unità possibile per l’Italia era la federativa
3 - E per Roma? Che si poteva fare?
4 - Lasciarla com’era, costruire a monte o a valle un’altra città. Un male meno grosso del
presente
5 - Unica salvezza era lasciarla al Papa
6 - E ora? Ora non c’è più niente da fare. Il poco rimasto si salverebbe solo trasportando la
capitale
Dunque Prato aveva ben chiara la mappatura mentale sottesa a questo progetto, e aveva pronti
moltissimi scritti suddivisi per argomento, con un appunto o una sigla in cima al foglio che
conteneva le sue “istantanee” di volta in volta: era, come la stessa scrittrice ripete in diverse
corrispondenze, una riscrittura della storia di Roma “dalla parte di Roma”. Una visione delle
devastazioni, delle distruzioni che mutarono l’essenza della città: quando questa divenne
capitale, finendo nelle mani dei Savoia e dei piemontesi; quando subì il piccone di Mussolini
e le retorica fascista; quando la Chiesa perse il potere temporale; quando arrivò la guerra;
quando si affermò il capitalismo industriale.
Dolores voleva dedicare una parentesi ai Savoia, che lei letteralmente odiava perché avevano
distrutto l’universalità di Roma in seguito all’Annessione, e ne avevano deturpato il colore e il
calore originario con il loro grigio ideale casermistico, con la loro mentalità così diversa,
riducendo Roma a capitale di un piccolo Stato, quando invece Roma – secondo Prato - era per
sua natura universale.
Sabaudi
Parlarne un poco
1 - alla venuta
2 - alla morte di Vittorio 1878
109
3 - al venticinquesimo
4 - all’avviarsi della 1° guerra
5 - alla vergognosa fine
Seguendo proprio questo piccolo schema, riportiamo piccoli frammenti inediti di questa voce
fuori coro, tratti dalla serie Pm 3:
Distruzione
Attraverso la breccia, “il buco” come lo chiamarono i milanesi, entrò in Roma la distruzione
totale.
I bersaglieri correvano, i profittatori anche.
Con un plebiscito talmente unanime in cui votarono anche i morti, Roma e la comarca furono
annesse e l’unità raggiunta.
1911
Crearono un mondo di cartapesta, un pezzetto per ogni regione del mondo, un pezzetto per ogni
regione italiana, e la coppia reale, lui più piccolo di sempre perché lei con i grandi cappelli di
quell’epoca era più alta mezzo metro, su e giù, ogni giorno un pezzetto ad inaugurare
quell’immenso presepio al vero.
E parlando di anni caratterizzati dall’erezione di molti monumenti e dalla “retorica”, Prato non
perdeva occasione per lanciare velenose stoccate anti Savoia202:
E aggiungere tutti i principi sabaudi, una pletora in Piemonte, ma lì era giusto.
202
Su Prato anti Savoia è in corso di pubblicazione un articolo di Fiammetta Cirilli, “Il ritorno degli italiani a Roma”.
Aspetti di una polemica antisabauda nelle pagine di Dolores Prato, in Pre-sentimenti dell’Unità d’Italia dal Duecento
all’Ottocento, Atti del Convegno di studi (Roma, Casa di Dante, 24-27 ottobre 2011), Salerno editrice, Roma (uscita
prevista primo semestre 2012). Nell’articolo Cirilli fa anche menzione di una versione di Voce fuori coro, conservata
nell’Archivio contemporaneo del Vieusseux, nella serie Prose, Pf 7, composto da sette capitoli (Buco, Non voleva
essere liberato, L’alluvione trascina anche un re, Primi passi del nuovo stato, Se ne vanno insieme, Fondata sui
conventi) per un totale di 136 cartelle, ma si tratta di un esperimento di scrittura molto embrionale rispetto al materiale
contenuto nella serie Pm studiata nel presente lavoro di ricerca.
110
Certo che in questa profluvia di monumenti l’essere più monumentato era il cavallo, destinato
con le sue mirabili linee a dare nobiltà e grandezza alla figura umana, anche alle altezze203.
retorica
E c’era un fascio di miti: il coraggio, la virilità, l’eroismo, legati dalla gloria con un bel fiocco
liberty
retorica
Aveva invaso la zona della tragedia “morto per il re e per la patria”. Per la patria passi, ma per il
re! A quella gente che moriva lasciando qualcosa del suo re, non veniva in mente che questo il
giorno dopo continuava il suo mestiere, prime pietre inaugurazioni, lettura di discorsi preparati
dal maestro, ricevimenti per genetliaci?204
Una quantità discreta di appunti fanno capo alla figura e al pensiero di Carlo Cattaneo:
Dolores ne sintetizza alcune idee centrali, condividendole, ritaglia alcuni stralci di giornali
che ne illustrano la tesi federalista, lo commenta.
unità o confederazione
A 20 anni dal compimento della famosa unità che, secondo loro unità non era senza Roma, lo
stato accentrato aveva già palesato la sua enorme insufficienza, ma chi la denunciava la cosa
pareva eretico tanto avevano mescolato le due idee unità e centralizzazione. Senza un centro, il
palo dei tendoni da circo, come si reggerebbe il tutto?
confederazione
L’Italia è un paese di piccole repubbliche
una verità lapalissiana che nessuno riconosce205
Cerchiato un articolo su Cattaneo, Prato commenta a fianco: “L’Italia non è serva degli stranieri ma
dei suoi”; su un foglietto scrive:
203
ACGV, Fondo Prato, Pm 3.
ACGV, Fondo Prato, Pm 6.
205
ACGV, Fondo Prato, Pm 7.
204
111
Cattaneo che camminava “sempre sulla via dei fatti” era per la federazione. Egli teneva conto
dei caratteri delle singole regioni perché sosteneva essere un errore “il divorzio fra intelligenza
e natura”. Con l’unità come fu fatta questo errore fu compiuto.
Dolores è anche contraria all’ingresso del capitalismo a Roma: non vuole, o non avrebbe voluto,
l’industrializzazione della città, e aveva previsto per il suo libro un capitolo Industria. Capitalismo.
La programmazione prevede per Roma un maggior sviluppo industriale, perché Roma essendo
la capitale deve avere la capacità di essere al livello produttivo dell’Italia d’oggi!!
Su questo argomento non so proprio nulla. Leggo, non vado alla ricerca della verità. E quel che
leggo è un gioco a mosca cieca.
Quello piange perché Roma non è città industriale e auspica capannoni e ciminiere, quell’altro è
soddisfatto perché da quel che già c’è è chiaro Roma è già e lo sarà sempre di più città
industriale. Io non ne voglio sapere. Così come non vorrei vedere uno schifoso bubbone che
puzzasse sul mio corpo206.
Oltre all’unificazione, altre parti dell’opera riguardano l’Anno Santo, il Fascismo, le sue distruzioni,
la sua retorica, le due guerre mondiali, insomma, tutte le tappe principali della storia contemporanea
della capitale.
Originali sono la tesi sostenuta da Dolores Prato - ovvero l’unica salvezza per Roma, per evitare la
sua “distruzione”, sarebbe stata “una costituzione diversa, niente annessione, una città libera sede
del papato” - e anche lo stile e la lingua utilizzati, una sorta di “scrittura del frammento”, fatta di
abbozzi, aneddoti, memorie, che risponde a una spinta all’accumulazione conservativa. In Voce
fuori coro Dolores delinea un antimito che si contrappone, e a volte si confonde, con il mito di
Roma proposto da politica e letteratura. Il taglio particolare degli scritti di Prato su Roma, definibile
come “papista” in quanto nostalgico della città come capitale universale del cattolicesimo – si
tratta, del resto, di una posizione condivisa da illustri predecessori favorevoli alla causa dell’unità
italiana, come lo storico tedesco Ferdinand Gregorovius – spiega la difficoltà, della quale l’autrice
si duole amaramente nel suo epistolario, che testate progressiste come “Paese Sera” ebbero, a metà
206
ACGV, Fondo Prato, Pm 16-20.
112
del XX secolo, ad accettare gli articoli, e dunque anche l’alta percentuale di inediti in un corpus di
rara qualità letteraria. Scriveva Dolores, ad esempio:
Roma al papa
Non è esatto: Roma città libera.
Moltissimi la consideravano una soluzione giusta che non avrebbe scombussolato i cattolici di
tutto il mondo, e che, aggiungiamo noi centenari posteri, avrebbe conservato Roma.
Roma lasciata al papa.
Il capitalismo non politico, ma economico è stata la seconda causa della distruzione di Roma.
Gli uomini non contano, tanto meno il carattere e la bellezza di una città, quel che conta è
l’interesse delle società prima fra tutte quella immobiliare. Su una Roma papalina quella
speculazione avrebbe attecchito molto meno.
Roma al papa
Con Roma restata al papa, sarebbe rimasto tanto del suo colore. I preti qui non sarebbero corsi a
mettersi in calzoni, avrebbero continuato a sventolare le loro tonache, le loro faraglioline, i preti
rossi del germanico avrebbero ancora chiazzato la città come un passaggio di papaveri.
Forse S. Pietro verrebbe incendiata come una volta dalla luce accesa dai sampietrini invece che
da manovre di commutatori elettrici
Con Roma lasciata sola per se stessa, si sarebbe evitato in parte il malanno del turismo. Ci
sarebbero stati i pellegrini, ma questi sono diversi dai turisti, non producono servilismo, se mai
sopportazione207.
E, in una frase, Prato era capace di fissare la sintesi del suo pensiero complesso intorno a Roma
capitale. Un pensiero che può essere condiviso o meno, ma che senza dubbio è ancora
incredibilmente attuale:
207
ACGV, Fondo Prato, Pm 8.
113
Lasciando Roma al papa si conservava quella unica, inarrivabile, piccola, immensa città che era
allora Roma e tutta Italia non sarebbe stata del papa (oppure dei preti) (come è ora). Si
conservava a questa città quella sua universalità spirituale sostituita ora da una grottesca
universalità cinematografica fatta di semiprostituzione, di miserabili scandalucci, universalità di
intimità coniugali che come in una lanterna magica si fanno e disfanno, e tutti ne parlano, tutti
ne scrivono, nella città ritornata al papa perché intorno non vedono altro208.
208
ACGV, Fondo Prato, Pm 8.
114
III – Una scrittura del frammento: il materiale del Gabinetto Vieusseux
Probabilmente risulterebbe azzardato parlare, per Dolores Prato, di una scrittura del frammento,
stante comunque il presupposto che questa definizione, associata a Prato, non vuole far riferimento
all’esperienza di ricerca di nuove forme d’espressione che, nell’Italia dei primi del Novecento, vide
nelle pagine della rivista “La Voce”, sotto la direzione di Giuseppe De Robertis, uno dei terreni più
fecondi: i vociani Scipio Slataper, Giovanni Boine, Camillo Sbarbaro, Piero Jahier, infatti,
ricercavano un’autentica verità esistenziale attraverso il rinnovamento del linguaggio letterario,
superando la tradizionale distinzione fra poesia e prosa, prediligendo il frammento lirico.
Ma di certo tutta l’esperienza linguistico-letteraria di Prato si è fondata sull’accumulazione
conservativa di abbozzi, annotazioni, appunti, pensieri estemporanei, e questo non solo come
premessa all’esercizio autobiografico, che si è poi concretizzato nella ri-costruzione dell’infanzia
per Giù la piazza non c’è nessuno e dell’adolescenza per il libro sul collegio, Le Ore, ma anche
nella preparazione del libro su Roma. Gran parte delle carte di Dolores, conservate nell’Archivio
“Bonsanti” del Vieusseux e suddivise in serie che per lo più rispettano una classificazione per
argomenti (Corrispondenza, Prose letterarie, Appunti, Articoli, Raccolta di sogni, Materiale su
Roma capitale d’Italia…), si connota per la presenza predominante di frammenti (“Ma 300, forse
400 sogni; centinaia, forse migliaia di aforismi; materiale per almeno 5 libri su Roma, poco meno
si dante; materiale biografico in abbondanza; una grande quantità di piccoli saggi, brevissimi, ma
originali piacevoli e interessanti anche se tristi”209).
Scriveva Dolores alla sua amica Lina Brusa Arese il 6 gennaio 1980:
Tu sai come ho fatto sempre (per alcuni lavori da decenni, per altri dalla prima giovinezza in
su). Scrivere quel che mi viene in mente; un accenno per non dimenticare un fatto; un’immagine
nuova; una nuova riflessione, ora di un lavoro ora di un altro; mettere in alto la sigla di quel tale
lavoro e giù nel calderone. Mezzi metri cubi di carte di tutte le dimensioni, sino ai margini di
giornali; di lì bisogna dividere […] Per fortuna da qualche tempo ho cercato di rimediare […]
sicché ora una certa divisione c’è, ma ci sono ancora scatole e scatole mai aperte210.
L’accumulo, la conservazione per anni, la sedimentazione dei materiali, per lo più frammenti
appunto, erano il modus operandi di Prato: la scrittura era un processo finale di sintesi, tormentato,
209
Lettera a Alessandro Bonsanti del febbraio-marzo 1983, quando la donazione degli scritti di Dolores si stava
perfezionando, in S. Severi, Voce fuori coro, cit., p. 179.
210
In G. Zampa, Cronaca della vita apparente, in D. Prato, Le Ore, cit., p. 355.
115
complesso, difficile. E in questo sta, anche, l’anomalia pratiana, se messa a confronto con l’officina
creativa di altre voci del Novecento letterario211.
I miei lavori che sono rimasti aperti per tutta la vita senza mai concluderli, si sono
elefanticamente arricchiti di materiale. Ora tutto quel materiale è un guaio serio, esige una fatica
improba, ma voglio farla anche se continuo a non poter far nulla212.
Tra le serie archivistiche del Fondo Prato, ricchissima, in questo senso, è quella riservata agli
Appunti, che contiene un laboratorio di scrittura allo stato primordiale, a struttura aperta, che
ingloba i nuclei generativi di alcune opere poi portate a termine ma, soprattutto, è una
dimostrazione visiva e tattile del metodo di lavoro di Dolores, e anche delle ragioni che l’hanno
portata, negli anni, ad intraprendere alcuni percorsi narrativi, autobiografici, o letterari in senso
ampio.
Se, invece, andiamo ad analizzare la materia spesso minima, disorganica, eterogenea, che ha poi
trovato una forma nei romanzi autobiografici di Prato, capiamo che la scrittura di questa donna
ultraottantenne è stato un processo di recupero insieme intellettuale e psicologico, che, in fondo, ha
consegnato allo stesso destino di irresolutezza l’opera e la vita stessa. Forse per Parole, seconda
parte del libro Le Ore, invece, potremmo osare un accostamento con la poetica del frammento più
propriamente intesa.
Questo testo, emblema del plurilinguismo di Dolores, si compone di schede: e se alcune, come
abbiamo detto in precedenza, sono una dichiarazione di insostituibilità di un termine, altre, invece,
descrivono il sentimento di trasformazione attraverso le parole dell’identità stessa di Dolores, nel
passaggio dal fuori al dentro dell’educandato. Molte raggiungono un tale livello di ricercatezza, di
brillantezza di stile, che sembra possibile un accostamento – con tutte le dovute cautele - con il
frammento lirico più propriamente inteso.
A casa avevo sempre detto: niente, in convento imparai a dire nulla. Questa paroletta mi dette
veramente il senso di avere acquistato signorilità, aristocrazia. Era così elegante quel nulla! Mi
pareva ovale come la forma di un cammeo213.
Ritrovai un nome di donna che era anche di fiore. In convento era solo di fiori. Ma quei fiori io
non li ricordo più.
Ricordo: Bisogna ancora innaffiare le artemisie.
…In quel mazzo manca l’artemisia.
211
Sull’andamento frammentario/cumulativo della scrittura di Prato cfr. Fiammetta Cirilli, Per una lettura di “Giù la
piazza non c’è nessuno” di Dolores Prato, 11 giugno 2011, in www.puntocritico.eu.
212
Lettera del 20 gennaio 1980 a Lina Brusa Arese, in D. Prato, Le Ore, cit., p. 355.
213
D. Prato, Le Ore, cit., p. 300.
116
Com’era? Forse violacea come una vedova o come le vecchie signore eleganti che amano il
viola214.
Cambiavano le parole
le cose restavano le stesse,
cambiava la vita
più che all’esterno dentro.
Cambiava il sentimento (oppure)
Ci si sentiva cambiate215.
Ma se il frammentismo investiva, tradizionalmente, la sfera intima, dell’analisi dei sentimenti e
degli aspetti morali della vita, o l’autobiografia, per Dolores Prato anche la rilettura della storia di
Roma, dei centodieci anni dall’unità d’Italia fino al 1970, poteva essere affidata a quelli che lei
definiva “aforismi”, “trafiletti”, “semplici battute” in qualche modo compiuti. In effetti, il materiale
del Vieusseux comprende sia stralci di quello che doveva essere il pamphlet originale, a volte
dattiloscritti, quindi abbastanza lunghi, sia, a mio avviso, i frammenti che avrebbero sostituito il
progetto originario del libro andando a costituire la “rubrica” pensata (da lei) per “Paese Sera”.
La sensazione, di fronte a quell’ingente mole di fogli e scritti pratiani, è che alcuni siano nati per
restare frammenti, unici quanto a brillantezza, acume, incisività.
La serie Roma capitale d’Italia, nel Fondo Prato denominata Pm, comprende, dicevamo, 41
cartelle, ciascuna delle quali raccoglie materiale omogeneo per argomento. In questa sede, essendo
il lavoro di ricerca principalmente incentrato sull’attività giornalistica di Prato, abbiamo tentato un
primo approccio al lavoro su Roma, procedendo per affinità di atteggiamento: la Dolores che
traspare, in maniera un po’ filtrata, senza spigoli vivi, negli articoli su Roma, è la scrittrice che,
contemporaneamente, si dedicava a Voce fuori coro per creare qualcosa di estremamente diverso
dalle pubblicazioni uscite in occasione del centenario: voleva distinguersi per originalità e
arretratezza, e ci riuscì, ma non trovò nessuno – per dirla con Alessandrini - che non avesse paura di
tirare sassi in piccionaia.
Lo studio e la trascrizione sono stati limitati, ad oggi, alle prime nove cartelle, vale a dire fino al
1929 e ai Patti Lateranensi, che per Prato segnarono un punto di non ritorno (per le altre è stata
possibile soltanto una lettura d’insieme, con focus sulle parti dedicate alle “distruzioni”):
11febbraio 1929
214
215
Ivi, p. 263.
Ivi, p. 328.
117
Roma è definitivamente abbandonata allo Stato che la distrugge. Il suo antico sovrano, che
finora l’aveva reclamata, sia pure accademicamente, come fanno i re che non mollano i loro
presunti diritti per generazioni e secoli, il Papa, dopo soli 59 anni la riconosce proprietà di altri.
I sovrani veri non fanno così anche se sanno d’essere ridicoli.
Era nell’idea di Dolores suddividere il lavoro su Roma capitale in due parti: la prima doveva finire
cronologicamente nel 1928, con Roma non ancora riconosciuta capitale dai papi; la seconda doveva
iniziare, infatti, con il riconoscimento da parte del Vaticano dell’Italia unita e di Roma come
legittima capitale.
Nello specifico, il materiale corrispondente a quest’idea si presenta, al Vieusseux – su indicazione
della stessa Prato, così diviso:
Pm 1: Cose da fare lungo la stesura;
Pm 2: Appunti: capitalismo romano/Roma capitale d’Italia. 1879-1888;
Pm 3: Appunti: capitalismo romano/Roma capitale d’Italia. I trentennio. Dopo il regicidio fine I
trentennio e fino alla I guerra;
Pm 4: Riassunto I periodo. I trentennio;
Pm 5: II parte dopo la I guerra;
Pm 6: Fascio – guerra dopo;
Pm 7: Federazione;
Pm 8: Roma al Papa;
Pm 9: Roma capitale.
118
IV – Voce fuori coro: per un inizio di lettura
In questo paragrafo riportiamo le trascrizioni della serie Pm effettuate fino ad ora. Per non inficiare
la completezza dell’opera, seppure in fieri, e per non togliere al lettore la possibilità di uno sguardo
d’insieme, riportiamo anche le parti che sono state già citate e quelle che verranno riportate nel
capitolo quattro, funzionali alla ricostruzione del mito e antimito di Roma capitale tratteggiato da
Dolores Prato, cuore e tesi di questo lavoro di ricerca.
119
Osservazioni per chi legge
Da “extra corum cantare” degli antifonari ho dedotto il titolo:
“VOCE FUORI CORO”
Dice Carlo Bo: “La verità è l’immediatezza, tutto qui”.
Verissimo. Abbandonarmi alla mia immediatezza per essere più efficace.
120
Pm 1
Cose da fare lungo la stesura
(ISTRUZIONI)
Se sarà difficile trovare un editore non dimenticare la casa editrice Adelphi che pubblica cose originali.
Questo libro sarà originale per arretratezza.
In generale
Le notizie polemiche non metterle insieme, ma scaglionarle secondo i tempi della distruzione e della
trasformazione di Roma. Esempio:
Le ridicole notizie sui discorsi alla breccia del 20 sett. metterli quando c’è da dire uno scempio distruttivo o
costruttivo.
Dovrei avere assolutamente Hermann Grimm – Le distruzioni di Roma – Firenze 1886 – traduttore C. V.
Giusti (+ vedi p. 6)
Tenere a mente
- Non esagerare con la presa in giro. Questa riservarla soprattutto a Roma.
- Non includere nella retorica Carducci – certo amor patrio, anche se roboante, era sacro.
- Sempre Roma – solo Roma.
Capitolone
Che cosa era Roma prima di quel nefasto buco sulle Aureliane?
-----Descrivere sorvolando Roma edilizia. Le strade – il colore – la vi (cancellata)
-----E intorno le ville, gi…
Per questo dentro il cassetto fascicolo a parte
Capitalismo
- Breccia e di tutto un po’ lungo il primo anno di annessione che sarà il prototipo degli altri
Papato – popolo romano – monarchia sabaudi e buzzurri – sguardo d’insieme sulle diversità delle due cose
- Distruzioni in generale – Esquilino distruzioni e brutture – città piemontese
- Distruzioni nella città e relative brutture – Ponte – Regola – Trevi ecc ecc.
- I Prati di castello – città piemontese addomesticata
- Le celebrazioni annuali. La prima del 25imo (?). Quel che non c’è più, le ville e altre cose – quel che c’è di
brutto
- In particolare il Monumentaccio e il Palazzaccio
- Poi il discorso procede di celebrazione in celebrazione, cinquantenari, 75enni ecc. Ognuno è uno sguardo
sugli ulteriori danni e sulle brutture. Le celebrazioni inoltre ospiteranno in maggiore quantità le buffonate
retoriche.
- Questi riepiloghi venticinquennali incontreranno l’epoca littoria – seguita dalla guerra
121
- La ripresa con la ripresa di tutto- distruzioni e brutture
- Siamo arrivati a oggi, si guarda indietro. Che cosa poteva essere fatto per evitare o almeno limitare la
distruzione di Roma?
- La sua salvezza assoluta sarebbe stata una costituzione diversa. Niente annessione. Città libera sede del
papato.
1881
La frenesia delle costruzioni prese un po’ tutti. Roma era o non era capitale? Dunque doveva essere grande,
popolosa come Parigi, perciò case, case, case perché la gente vi proliferasse. E dove?
Ma più vicini possibile alla Vecchia Roma; Esquilino, Termini, Prati, Macao, Sant’Agnese, S. Lorenzo.
Roma nella fantasia frenetica d’allora, va oltre, diventa immensa, si comperano vigne, orti, terreni da pascolo
a prezzi di terreni fabbricabili, si rivendono, si spezzettano, si passano di mano in mano, e intanto si atterrano
gli alberi per costruirvi quelle case, quelle fabbriche che vi cominceranno a sorgere mezzo secolo più tardi.
Diventavano tutti costruttori. Il capomastro poteva essere l’architetto e l’ingegnere di se stesso, e così
sorgevano case immense, brutte e mal fatte.
1886
-
Sul posto del convento di Santa cecilia in Trastevere sorge la scuola “regina Margherita”
Si inaugura un tratto di via Palermo, di fronte alla galleria Margherita in via Depretis
Si demolisce il palazzotto Sciarpa per allargare via delle Muratte
Si continua a demolire e costruire per formare il corso Vittorio
Continuano il polverone e il sorgere di bruttissime costruzioni
Con la scusa dell’igiene si svolgeva una catena d’interessi, e Roma cambiava faccia
A Santa Marta la fanteria
Teatri
A tempo di Pio IX
-
Il Pallacorda che poi diventò Metastasio aveva già dai primi anni del secolo un duplice macchinario,
per burattini e per attori, che era il migliore d’Europa
L’Apollo, già Tordinone (?)
Il Valle
Il Capranica
Il Fiano, l’Ornani, e la Fenice erano solo per burattini
Il Pace
Teatro Alibert
L’Argentina
Il Quirino (?)
Teatro degli Imperiti (?)
Teatro del Pavone
Il teatro del Fico, poi delle Muse
Il naufragio
Il Valletto
Il Goldoni (Vaudeville)
Il Goldoni
Lo Sferisterio
Il Mazzini (?)
La Renella
122
Capitalismo
tagliare, tagliare tagliare
tagliare
finché rimane solo, ma chiara e forte, la struttura del libro, ciò che voglio dire
1887 anno di Dogali
1896 Adua
1911 Libia
1935 Etiopia
Spagna
1915
1940
Settarismo
La corona offerta dalla massoneria nel 1907 al monumento di Garibaldi porta questa dedica: “Al Gran
Maestro Giuseppe Garibaldi nel centenario della sua nascita”
Vederlo il monumento da vicino. Troverò altri spunti. Vedere da che parte è “O Roma o morte”
Cap
Si stampa spesso “legge delle garanzie” invece di guarentigie con cui è diventata storica.
Io adoperare l’una e l’altra.
Cap
Ragione di questo libro è che un velo bugiardo è su tutte le commemorazioni. Noi altri facciamo un lamento
perché noi pensiamo solo a Roma città costruita e città vivente.
(su ritaglio di giornale) “Ma è indubbio che se esiste occasione per dare agli avvenimenti storici una luce
falsa, questa si presenta inevitabilmente nelle rievocazioni celebrative. Basterebbe, per rendersene conto,
andarsi a rileggere molto di quello che è stato scritto qualche mese fa nel nostro Paese, in occasione del
centenario di Porta Pia.
chiamarlo sempre Patrimonio di San Pietro, il piccolo statarello piegato dalle eroiche truppe italiane.
capitalismo
Tenersi sempre sul tono, e che appaia, che nell’annessione hanno ragione quelli che ci tramandarono
l’incontenibile entusiasmo, e quelli che attestano la disapprovazione, la freddezza, l’ostinata avversione.
C’erano tutte e due le cose.
Vedere il casino dell’Aurora e “palazzo grande” della Villa Ludovisi, ora sepolto dalle nuove costruzioni.
La storia dei tentativi di sopprimere i gesuiti, dell’abolizione degli ordini, se serve si può vedere a pag. 31
123
l’Universo illustrato del 1872, forse 73.
Papato
2 libri necessari per poter dire bene la condizione di Roma all’epoca della presa: Collezione Roma Cristiana
– diretta da Galassi Palazzi
1°) Antonio Martini – Arti, mestieri e fede nella Roma dei papi – Cappelli – 1965
2°) Vincenzo Monachino – La carità cristiana in Roma – 1968
Papato
La storia, in un capitolo di Carducci, c’è tutta in breve, se ne avessi bisogno per qualche chiarimento
Illustrazione Italiana 1895 pag. 156 vol. 2
Pio IX fece la prima comunione il 2 febbraio (Purificazione) 1803 quanti anni aveva?
1° parte
1 - Dalla Breccia in su, divagando tra sabaudi, distruzione, cose ridicole
2 - Richiamando al punto giusto che cosa era il popolo romano
3 - Che cosa era il papato
4 - Riprendere all’interruzione del numero 1 e proseguire sino alla guerra del ‘15
5 - Guerra fino al 1920 circa ridimensionando il re soldato
2° parte
1- La fine vera di Roma, il concordato – abbandonata alla sua piccola missione
2 - Riprendere l’opera del fascismo sin dal principio e proseguire nei suoi guai per Roma
3 - La guerra – Italia distrutta a metà – Roma violata anche lei
4 - La Repubblica non attenua i guai romani, li accresce come un cancro nel suo incontrollato sviluppo
3° parte
1 - L’unità – un guaio per tutto il paese è un assassinio per Roma
2 - L’unità possibile per l’Italia era la federativa
3 - E per Roma? Che si poteva fare?
4 - Lasciarla com’era, costruire a monte o a valle un’altra città. Un male meno grosso del presente
5 - Unica salvezza era lasciarla al Papa
6 - E ora? Ora non c’è più niente da fare. Il poco rimasto si salverebbe solo trasportando la capitale
Titolo suggerito da don Gabriele
Voce fuori coro
“extra corum cantare”
Sabaudi
Parlarne un poco
124
1.
2.
3.
4.
5.
alla venuta
alla morte di Vittorio 1878
al venticinquesimo
all’avviarsi della 1° guerra
alla vergognosa fine
125
Pm 2
Appunti: capitalismo romano/Roma capitale d’Italia.
1879-1888
1881
Il Vaticano chiede il permesso di poter trasportare, nella notte tra il 12 e il 13 luglio, la salma di Pio IX dal
sepolcro provvisorio in S. Pietro a quello definitivo a S. Lorenzo fuori le mura.
Per prudenza da una parte e dall’altra si scelse la notte. Ma la passione valica ogni prudenza e intorno a quel
morto scoppia una indegna gazzarra. I cattolici con fiaccole accese si univano al breve corteo formandone
via via uno più imponente, l’altra folla non aveva da seguire un proprio morto, ma accorse numerosa per
spezzare quell’accompagno.
Si gridò !a fiume, a fiume” ed era certo un grido d’odio questo; gli altri gridavano “viva il papa re” ed era un
grido stupido questo.
Quella cassa con dentro un morto andava alla pace del sepolcro in una mischia deplorevole, finché per
salvarla fu scaricata su un carretto spinto in furia fin dentro la basilica di S. Lorenzo della quale si chiusero le
porte come in un tempestoso assedio.
Questo dopo 11 anni di quella famosa breccia della quale raccontavano che appena caduta si sentì come un
ruggito l’urrà del popolo romano.
Una retorica e una falsatura più intelligente avrebbe reso meno ridicola quella breccia che si apre con gli urrà
come la parete ultima di un traforo alpino.
Settarismo
Il segreto postale non era sempre rispettato, nelle cose più delicate a curia si serviva o di criptografia (?) o di
comunicazioni orali.
1889 un’incursione della polizia mise a soqquadro a Bologna l’Opera dei Congressi.
In Piemonte dal 1850 abrogato il foro ecclesiastico – pazienza – ma nessun ente morale poteva vendere o
comperare – protesta del vescovo – sua detenzione per un mese, di nuovo arrestato poi esiliato.
1885 – soppressione delle corporazioni religiose.
Queste leggi piemontesi furono estese all’Italia.
Nel 1866 istituzione matrimonio civile, tolto ogni valore legale a quello religioso.
Stesso anno i beni delle associazioni religiose se li prende lo Stato.
Stesso anno – tolte molte feste religiose
Nel periodo – vescovi costretti all’estero, processati, impediti di entrare nelle loro diocesi
1887 monumenti-retorica
Una discussione, di quelle che piacciono tanto per come doveva essere il monumento ai caduti di Dogali,
aveva l’aria di non finire, quando intervenne un romano, don Leopoldo Torlonia, stufo dei tanti monumenti
che già popolavano la Roma monarchica.
S’era trovato in uno sterro, pochi mesi addietro, un obelisco egiziano. Era un trofeo delle vittorie romane in
Africa, innalziamo quello per una sconfitta, è africana anche questa.
Tutti contenti, si alzò l’obelisco e Roma ebbe qualche pupo di meno
(ritaglio di giornale – Anticlericalismo, dal Messaggero 1881)
126
1884
Non c’era possibilità d’intesa. Zuffa, dentro e fuori della chiesa con carabinieri e delegato con la sciarpa,
altro che urrà di romani quando fecero quel buco sulle mura Aureliane!
La stampa liberale offendeva la religione, i romani fecero un triduo di riparazione alla Minerva chiuso col
grido “Viva Maria”, i liberali che erano entrati in chiesa fischiavano, gli altri allora gridarono “viva il papa
re!”.
In piazza Colonna più tardi altri squilli contro gli schiamazzi degli anticlericali.
Monarchia
Della traballante monarchia quel colle del Vaticinio era il tormento, quel che faceva lo faceva sempre in ista
del papato. Ed ecco che per dare una sede all’accademia dei Lincei non si scelse il palazzo Corsini alla
Lungara perché era bello e degno di una sede culturale, ma per la sua “ubicazione, al di là del Tevere in vista
e in prossimità del Vaticano”. La luce della cultura di fronte all’oscurantismo.
Ma all’inaugurazione, presenti le loro maestà (1886) il Lanciani invece di adulare e gioire, denunciò le
distruzioni che si stavano facendo a Roma.
Cap
Il nuovo regno dietro la sua trionfalistica retorica aveva anche la sua paura. Per paura che manovre
internazionali portassero a ripristinare un governo pontificio, si mise con i tedeschi.
Due Kaiser e in mezzo un reuccio nuovo di zecca.
Cap – monarchia
1887 (17 novembre domenica)
Attentato di Passamonte a Napoli
“Cairoli salvi il Re” grida la regina a …???, come lo sono spesso le donne: “La poesia di casa Savoia è
distrutta”. Forse non era mai esistita, ma lei era scusabile se lo ignorava.
Bombe e tumulti altrove, specialmente nelle ex legazioni pontificie dove è sempre vivo il sentimento
repubblicano.
Non si può proprio dire che la monarchia sia unitariamente amata.
1882
Il governo propone di aprire un Foro Vittorio Emanuele dietro il Pantheon.
1882 – Disordini
A Caprera il 2 giugno muore Garibaldi.
Alcuni giorni dopo nel grande corte di cordoglio che dal Popolo si mosse per il Campidoglio, avvennero
strane cose. La folla per le strade fu presa dal panico, fuggiva impazzita, spezzava le vetrine per rifugiarsi nei
negozi. Un subbuglio che intralciò il corteo con statue ed ????, arrivò tardi in Campidoglio e quasi nessuno
l’aveva visto. Pareva una rivendicazione di papa Mastai.
Cap – 1880
Demolito Palazzo Piombino, il principe costruì il palazzo di via Veneto, dove poi abitò la regina Margherita.
I Savoia a Roma furono costretti ad abitare a casa d’altri.
127
1881 Politica estera
L’Italia che si era incoronata da sé come Napoleone, mettendosi sulla testa la gloria di Porta Pia, sul campo
internazionale soffriva di una certa solitudine.
Aveva rispettato Roma come luogo sacro, forse avrebbe migliorato le amicizie che cercava con tanto
desiderio
128
Pm 3
Appunti: capitalismo romano/Roma capitale d’Italia
I trentennio
dopo il 900 esposizione
Restò galleria d’arte moderna coperta di ornati. Ogni tanto nelle ripuliture le hanno tolto qualche aggeggio
ornamentale, ogni tanto un pezzetto di più di muro liscio. Ne aveva troppi, d’accordo, ma siccome brutto lo
è, era meglio un brutto originale. Almeno segnava un’epoca.
Papato - questa e le simili in principio di questo periodo, vale a dire dopo il regicidio.
Nel grigiore di quell’Italietta brillava la grandezza di Leone XIII. Il governo italiano lo considerava
repubblicano e socialista, certo era il più giovane nell’Italia di quel tempo, coi suoi tanti anni. Quel vecchio
che nel centenario di Cristoforo Colombo gli dedica un’enciclica esaltandolo come uomo, non come santo
uomo, e fa di lui la più intelligente commemorazione di tutta Italia che pur si sbracciava a farne.
dal 70 al 900 - Esposizioni
Che epoca curiosa, se non ci fosse stata la Prussia fagocitatrice (?) di fratelli e origini tedeschi, il dramma
della Francia, la caduta del potere temporale dei papi, si sarebbe potuta distinguere come epoca delle
esposizioni; si succedono in ogni parte del mondo, le grandi, pullulano le piccole in ogni città. Anche in
Italia, a considerare quante ce n’erano si sarebbe detto che non aveva altri problemi. Invece per mangiare la
gente partiva per l’estero coi fagotti di stracci e offriva braccia e intelligenza.
1911
Tutto a rilento andava, anche alle feste per il cinquantenario dell’unità ci arrivarono col cuore in gola e tutto
fu inaugurato senza essere finito. Ma la guerra no, la guerra fu subito inaugurata e proprio per l’anniversario
della freccia. Come un lampo scoppiò la guerra alla Turchia per la Tripolitania. La guerra sbocciò in mezzo a
quel mondo di cartapesta.
1911
Crearono un mondo di cartapesta, un pezzetto per ogni ragione del mondo, un pezzetto per ogni regione
italiana, e la coppia reale, lui più piccolo di sempre perché lei con i grandi cappelli di quell’epoca era più alta
mezzo metro, su e giù, ogni giorno un pezzetto ad inaugurare quell’immenso presepio al vero. Di cartapesta
era anche un baraccone a piazza Colonna, nel posto dove avevano abbattuto il palazzo Piombino. Se si fosse
trovato quanto avrebbero fatto prima a costruire inutile mondo.
1911
La guerra continuò, ma bastò metterci i piedi per annettere quella parte d’Africa. Le annessioni erano una
epidemia dell’epoca.
Un paio di mesi di guerra e insieme agli effetti delle nostre artiglierie “ecco che resta della fastosa resistenzeresidenza...ecc” a mutilati felici a file d’impiccati a partenze euforiche si parla già delle nuove terre italiane.
Son già italiane, anzi lo erano sempre state perché Roma le aveva dominate quelle terre, quindi annessioni,
129
per celebrare il 50° di queste altre annessioni che fecero l’unità. Tripoli, Bengasi, Tobruk ??? gente che
fugge, gente che applaude - conquiste di cartapesta come l’esposizione etnografica.
A palazzo Venezia: merli guelfi e finestre crociate. Demolito il palazzo Torlonia, gli contrapposero con le
assicurazioni l’affermazione ghibellina: merli a coda di rondine e finestre bifore. Con questi scherzucci si
creava la terza Roma.
E’ la retorica, il fine politico, non esclusi i libri scolastici di storia Patria che aumentano a dismisura le
misure reali anche notevoli di certi personaggi. Quando avveniva quella perquisizione armata in cui perse la
vita Giuditta Gaviani, i contemporanei parlavano di quella scaramuccia con morti e feriti. Null’altro. Poi di
tra quei morti s’alzò altissima la figura di Giuditta.
Era anche commovente quella retorica che diventava forza quando si ripeteva con comparse travestite da
romani, le feste palilie. Cortei, carri, cocchi, bighe, senatori, consoli, e una folla in vesticciola corta. Bastava
quella e due bande laterali ed era fatto romano. La serietà con cui si ponevano avanti all’obiettivo prova che
si sentivano trasformati da quella mascheratura.
retorica-monumenti
Erano tanti che la stampa s’era fatta una sua frase introduttiva come “ma procediamo con ordine” nei fatti di
cronaca. Diceva “Ancora un monumento” e spesso la critica era per la sua posizione. Marniani (o Mamiani),
per esempio, che era uomo d’azione e d’impeto, non doveva essere monumentato seduto in poltrona con
addosso la pelliccia, ma in piedi, magari inalberante un pugno chiuso, se allora fosse stato di moda.
(seguito?) e sui piedistalli degli uomini monumentati, sedute o in piedi una pleiade di Italie, col turbante di
torri, ma tutte vistosamente poppute.
Altrettanto popputa è la legge di Quintino Sella, ma per distinguerla dall’Italia ha dietro la testa un’aureola di
raggi come gli spilloni di Lucia Mondella (forse non è vero dei raggi, forse erano solo nel bozzetto - vedere)
da aggiungere tutti i principi sabaudi, una pletora in piemonte, ma lì era giusto.
Certo che in questa profluvia di monumenti l’essere più monumentato era il cavallo, destinato con le sue
mirabili linee a dare nobiltà e grandezza alla figura umana, anche alle altezze.
Ma i monumenti non spuntavano solo a Roma, tutte le città italiane diventavano fungaie di Garibaldi, di
Vittori e altri personaggi bianchi o bronzei.
retorica
E c’era un fascio di miti: il coraggio, la virilità, l’eroismo, legati dalla gloria con un bel fiocco liberty
(trovare un’altra cosa)
retorica
s’ingabbiarono aquile e lupe. A Roma erano stati solo elementi decorativi, architettonici. Perché i romani
non odiano nessun animale, ma amano solo il gatto. Di aquile e lupe non se ne fanno nulla.
130
Pm 4
Riassunto I periodo
I trentennio
La famiglia Savoia Carignano si affannava a stringere relazioni con le case regnanti estere, ma succedeva
anche che alcuni regnanti nel restituire le loro visite si rifiutassero di venire a Roma, ma scegliessero o
Venezia o Milano. La presenza del papa disturbava non poco i primi passi dell’Italia monarchica.
L’alluvione dei protestanti fu un guaio non per questioni teologiche, dogmatiche, rituali, no, ma per il
carattere della città che essi offersero e guastarono impiantando le loro chiese di stile esotico in punti nei
quail la loro presenza ci sta come il famoso cavolo a merenda.
Pm 6
Fascio – Guerra dopo
Retorica
Aveva invaso la zona della tragedia “morto per il re e per la patria”. Per la patria passi, ma per il re! A quella
gente che moriva lasciando qualcosa del suo re, non veniva in mente che questo il giorno dopo continuava il
suo mestiere, prime pietre inaugurazioni, lettura di discorsi preparati dal maestro, ricevimenti per genetliaci?
Distruzioni epoca fascista
Li chiamavano “risanamenti”…
Fascismo
I fascisti che morivano con cristiana e retorica rassegnazione dentro la camicia nera, portavano la stessa
confusione e la stessa tetraggine nelle loro costruzioni.
1860 fascismo
Garibaldi aveva tentato di abolire il titolo di eccellenza, Mussolini non lo abolì, ma lo raddrizzò come un
fioretto puntato al cuore. Prima si diceva “sua eccellenza”, si girava al largo, quasi timorosi di accostarsi
direttamente, Mussolini fece dire all’Italia l’Eccellenza, Noi Eccellenza.
1922
“Maestà io vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”.
Con questa frase entrò (oppure: questa frase fu la porta per la quale la colossale imperiale retorica ci rese
tanto ridicoli).
131
La pazzia fascista – capitalismo
Che cosa non ha sofferto Roma in quel periodo? Basta ricordare il facciatone che si sovrappose alla facciata
del palazzo delle esposizioni con quelle 4 enormi scuri che certo ebbero il vanto di essere allora e sempre per
i secoli futuri le più colossali scuri sporgenti dai più colossali fasci littori.
Montagnola su cui lo fanno correre – fascismo – capitale
Quel bersagliere che ha tolto una luce unica, era in certe ore, al di là dei fornici una corsia di luce, l’alta
semita pareva deificata. Il bersagliere è e sarà sempre un elemento simpaticissimo della nostra compagine
nazionale, ma invece di issarlo su quell’alto massiccio piedistallo dove non si sa come faccia a correre così,
l’avessero messo in terra, era più vero e la visione di quella luce restava perché non è il bersagliere a
nasconderla ma quella.
Testaccio – distruzioni
Già i contemporanei, quelli che avevano il senso di Roma, chiamavano “ignobili” le costruzioni di Testaccio.
Quando poi diventammo impero e il re savoiardo divenne imperatore etiopico, la frenesia distruttiva ecc.
ecc.
Portarono su il Leone di Giuda (?) e lo misero ai piedi dell’obelischetto di …??. Deve essere scappato perché
non c’è più. Mentre alla passeggiata archeologica c’è sempre quella ridicola stonatura dell’obelisco di Axum.
Fascio
1900-1932 manomesso esternamente, internamente il Palazzo Artolli (?). Demolito, tagliato, saloni distrutti,
portali asportati non è più lui.
Fascismo
La via di S. Gregorio, una delle più suggestive di Roma era chiusa in fondo dall’Arco immenso di
Costantino. Giù, largo, spazio per le quadrate legioni, la via fu slabbrata, in fondo il piccolo arco pare un
souvenir.
Demolizioni – i fascisti
Questi si facevano vanto di demolire senza pietà. Buttarono giù tra piazza Barberini e S. Bernardo, buttarono
giù all’Argentina per isolare i templi, buttato giù a piazza dell’Ara Coeli, così furono distrutti non solo gli
edifici, ma anche la piazza.
La via dell’Impero (ora dei fori imperiali) fu una distruzione di quanto i secoli vi avevano accumulato e di
quanto, in una zona così ricca, veniva alla luce durante gli scavi. Se mantenere un monumento scoperto con
gli scavi serviva alla sua demagogica esaltazione, tutto di guadagnato, ma sulla via dell’Impero era la via che
importava per i prossimi trionfi, il passo dell’Oca non sopporta sassi nel suo cammino, sicché addosso anche
ai vecchi monumenti se stavano nel percorso di quella fatidica strada. Sventramenti per l’augusteum (il
pavimento che ci vidi).
132
Postfacista
La repubblica a cui siamo arrivati con tante guerre perdute dalla monarchia, la dissero fondata sul lavoro.
Perché? Che vuol dire lavoro? Lavoratori siamo tutti dal Papa, al presidente della Repubblica, all’uomo che
raccoglie la carta straccia. E allora? Non era meglio fondata sulla legge?
Temperature varie
In questa nostra Italia centro-meridionale così duramente provata dalla guerra, in cui tanto ci si rallegrò che
l’Italia settentrionale avesse sofferto minori distruzioni, le cosa stanno com’erano un anno e mezzo fa – dove
l’iniziativa privata non si è sostituita al governo –
Paesi distrutti, campi cosparsi di mine, uomini e bestie che muoiono nel tentativo di riordinare la terra
sconquassata. Gente che morì assiderata lo scorso inverno come altra ne morrà nel prossimo. Uomini e
greggi che cominciano a scendere per i tratturi chiedendo l’elemosina di un tetto a qualcuno meno
sfortunato.
Alcune zone si presentano così morte da dare l’impressione che la vita non vi possa più risorgere.
Ogni tanto arriva qui qualcuno che, appoggiato a un muro, racconta con parola monotona e lo sguardo spento
avventure orribili.
Relitti umani che l’onda della miseria sbatte qui come a un porto.
E in questo porto si raccolgono le miserie e i dolori atoni della nostra popolazione e di quella che vi
affluisce.
Di fronte a casa mia s’allunga il Monte Parioli che ospita il quartiere dei ricchi, ma i fianchi rocciosi della
collina ogni giorno presentano un buco che ieri non c’era.
E’ una nuova grotta aperta alla gente più miserabile, quella che non reclama, che s’è adattata al suo destino.
Il monte è tutto un dedalo di cavità naturali e di catacombe, tra poco diventerà una città cavernosa di
trogloditi.
----Vittorio Emanuele Carignano dalla sua villa a Marechiaro, scende in mare la mattina e pesca per 6 ore; poi
pranza, legge i giornali e ritorna a pescare. La sua vecchia moglie pesca anche essa, ma lei con la figlia più
matura va a pescare alla spiaggia di Coroglio, di fronte a Nisida.
Invece la nuora preferisce la spiaggia riservata che costeggia la tenuta di Castel Porziano. Spiagge diverse,
ma sempre spiagge, l’aria del mare fa bene!
---La vedova di un avvocato che lotta come una leonessa per difendere la vita d’oggi e quella di domani dei
suoi cinque figli e per risolvere gli innumerevoli problemi che si chiamano: libri per la scuola, scarpe,
cappottini per l’inverno, anemia della ragazza dodicenne, occhiali per il piccino al quale si sta già
sviluppando un grave inconveniente alla vista, parlava pochi giorni fa calma, melanconica, assorta, accorata
via via che frugava nella sua pena:
- Il tormento maggiore, diceva, è quello di dovere essere parziale coi miei figli. Parziale per essere giusta.
Non si possono comperare le uova per tutti, ma Graziella ne ha assoluto bisogno; avrebbe avuto bisogno di
supernutrizione, del mare, della campagna, invece chiusa qui dentro e col mangiare razionato dalla mia
severità…Ogni tanto l’uovo a lei lo devo dare e guardando gli altri io urlerei di pena.
Il pane lo tolgo spesso ai più piccoli, specialmente se vedo che sono stati quieti e hanno sprecato meno
energie, per darlo al più grande che studia il doppio per saltare un anno e dà ripetizioni per guadagnare
qualche cosa. Io tolgo ad uno per dare ad un altro dopo aver riflettuto quale ha più bisogno di questa cosa e
quale può farne a meno, ma le assicuro che il non poter dare a tutti i figli la stessa vita è un dolore tale che se
mi si aprisse il cuore lo si vedrebbe sanguinare.
----
133
Una giovane contadina mette al mondo un figlio illegittimo che per fortuna nasce morto. Non fa nulla,
bisogna farlo sparire lo stesso. Suo padre e sua madre l’aiutano, ma sono sospettati e arrestati.
Finiscono col confessare. Stavano facendo il sapone, buttarono nella caldaia il cadaverino. Mezzo infallibile
per non lasciar tracce.
- E poi avrete venduto quel sapone, non è vero? Chiede il giudice
I tre imputati scattano offesi.
- Per chi ci prende, signor giudice? Noi non facciamo mercato nero; il sapone l’abbiamo adoperato per usi
familiari!
---Si apre apposta una chiesa per i poveri dei dormitori pubblici, per quelli che non hanno neppure quel tetto
provvisorio; un sacerdote celebra proprio per loro, parla solo per loro. Professori e studenti, signore e
ragazze, servono quei poveri, li ripuliscono, li forniscono di quei indumenti che durante la settimana hanno
raccolto e preparato.
Non danno, lasciano prendere. La roba è lì sugli scaffali della sagrestia, ognuno prende quello che gli serve.
Una grande cesta è nel mezzo colma di pane, ognuno prende quello che gli manca. Si cerca di dare a questi
poveri la sensazione che essi hanno diritto a prendere quello di cui hanno bisogno, non è un’elemosina, e
coloro che li servono hanno l’umile fraternità di chi vuol farsi perdonare d’essere meno povero.
Una donna dal viso emaciato, ma bello, dall’espressione più tragica che dura, con un bimbo scalzo in
braccio, s’aggira avanti a quei scaffali e guarda senza prendere nulla, forse non trova. Una signora nota che
con una mano ogni tanto stringe i piedini nudi del suo bimbo come per riscaldarli, le si avvicina e
indicandole un paio di scarpine le dice:
- Mi pare che quelle gli andrebbero bene.
La donna guarda le scarpine, e i piedi del suo pupo come se gliele misurasse con gli occhi, poi, senza mutare
d’espressione, risponde severa:
- Il mio può farne a meno, noi un buco per ripararci ce l’abbiamo, quella là invece sta in una baracca
sconquassata sul fiume, non c’è rimasta più che la lamiera del tetto, le faccia prendere a quella.
E s’allontana mentre s’avvicina la donna del fiume con in braccio un bimbo che non si sa se sia morto o
vivo.
Dolores Prato
“Con questi episodi concludere il libro sulla guerra Minore.
Dopo una tempesta il rio scorre torbido per fango e pietre finché pian piano si rischiara.
La vita sarà così?
Oppure: La guerra rimescola il fondo torbido dell’umanità.
Non è ancora decantata”.
Acqua Acetosa
Quadro: emergeva l’abside a metà quasi come ora. Gli uomini portavano ciuffi di fiaschi appesi a un bastone
appoggiato sulle spalle. A sinistra un gran casale con torre.
Anche qui c’era la pace immensa di Roma: mucche accasciate, donne sonnecchianti sedute in terra, uomini
in piedi solenni com’era solenne il luogo; terra abbandonata che preannunciava la solitudine dell’Agro;
acqua che si rilasciava sulla terra come fanno ora le signore sul divano quando si rilasciano.
134
Citazioni - Capitale
“Il mito imperiale romano è sempre ricomparso nelle epoche di servitù enfatica e barocca, nel XVII, nel
fascismo. L’identificazione dell’Italia e della moderna Roma con Roma antica, il culto dei moderni, ha
sempre gravato sull’anima italiana come un’istanza di senilità”.
“Il risorgimento, questo eroico tentativo di una minoranza, si staccò da quell’eredità”.
“In Italia, specialmente, nell’ultimo ventennio, la donna è stata tenuta ad un livello sociale ben basso. Già
prima che l’Italia fosse unificata, la donna italiana aveva goduto in alcuni stati del voto amministrativo e nel
Lombardo Veneto anche della eleggibilità.
Con l’unità d’Italia perdette simili diritti” (Ines Zaccheo, “Risveglio”, anno I n. 3)
“Il Medioevo è come spazzato via dal vento, con tutto lo spirito storico del passato”. Così scriveva
Gregorovius (I, IX) ritornato a Roma dopo che questa era stata annessa al Piemonte, dichiarava che Roma
aveva perduto il suo incanto…se l’avesse vista nel fascismo, povero Lui!
Epoca fascista
I cancelli attirarono spesso l’attenzione del governo a Roma.
Un papa una volta li fece mettere sulle porte delle osterie perché chi voleva bere bevesse di fuori, in piedi,
per evitare la corte nell’interno e le risse che ne seguivano.
I Piemontesi misero cancelli ai monumenti e alle fontane.
Mussolini, il liberatore, li tolse per fare cannoni, che non bastarono lo stesso.
Il fascismo ci ha tolto tutto. Anche l’“est locanda” che aveva resistito alle immissioni barbariche dei
piemontesi, si trasformò nel banale “affittasi” e poi non ci fu più bisogno neppure di quello per le fortunate
guerre.
Distruzioni fascismo
All’epoca della liberazione del mausoleo d’Augusto, capato come si capa un torso di broccolo, e
dell’incassettamento dell’Ara pacis…tra le altre cose fu demolita una casa che non aveva in sé nessun
interesse tolto che il proprietario ci si era sbizzarrito a decorarla con formule chimiche perché l’aveva
costruita con i soldi che aveva ricavato da una sua fortunata formula. Lì dov’era quella casa c’è un vuoto che
gli altri non vedono, ma io sì perché salii un giorno sulla terrazza di casa. Spesso torno lassù; nulla mi
sostiene, ma vedo quel che allora vidi come se qualche acido di quella formula avesse inciso la lastra della
mia memoria.
Distruzioni fasciste – argentina
Era un piccolo cortile in una delle più piccole case in quel silenzio che dalla piazzetta di San Nicola di
Cesarini si diluiva tuttintorno.
C’erano delle colonne, si diceva che fossero del tempio d’Ercole, che di lì partivano i vaticini, che la
colossale statua prima trafugata e poi ritrovata fosse stato il simulacro di quel tempio, nei muri del cortiletto
era visibile un portico medioevale, in un angolo c’era un pesco.
Gli amanti delle antichità, i forestieri, giravano per quelle straducce alla ricerca del cortiletto, quando
l’avevano trovato e le colonne “di Ercole” erano davanti agli occhi, era un tuffo di emozione specialmente
se in un angolo del portichetto medioevale il pesco era in fiore.
Ora a chi importano più quelle colonne nude, anche se hanno ritrovato il loro nome vero, lì all’aria aperta,
come due scheletri?
135
Fascisti - argentina
Per fare una inaugurazione strombazzata per il 21 aprile 1929 si sacrificò l’integrità di quei resti antichi che
erano riapparsi col sacrificio di un pezzo della città.
Non era l’archeologia in sé ad animarli, era la possibilità di acquistarsi meriti.
Sotto alla chiesa di San Nicola de’ Cesarini si ritrovarono i resti (abside) dell’antico tempio medioevale
Distruzioni, epoca fascista – per la via dell’Impero
Cacciate le persone per abbattere le case, restarono i gatti, il foro …iano(?) ne era pieno, anche loro
sterminati.
Epoca fascista
9 novembre 1926. Il partito popolare è sciolto. Gli atti e documenti di sua pertinenza sono sequestrati ed il
numerario confiscato.
Le dittature a fondo splendido come la napoleonica, o splendido fasullo come la fascista, si compiacciono di
nomi classici, ritornano a una classicità della quale pretendono di essere i veri continuatori.
Così per Napoleone la Toscana era tornata l’Etruria, per il fascismo…
Fascio
La gente a cui si demoliva la casa fu deportata fuori, in lontani agglomerati che non ebbero neppure il nome
di Borgo, ma furono chiamate borgate.
Isolata quella gente non trovava più lavoro, splendide dimore degne del grandissimo popolo italiano,
risultarono peggiori in tutto di quelle da dove erano stati cacciati. E a quelle borgate affluirono gli abusivi, i
non controllati, i “non sono nessuno”.
Roma vide anche lo sconcio di quei motti, assiomi scritti/posti come fastigi.
Distruzioni – fascismo
Riprende, come all’epoca dell’annessione, la furia degli sventramenti di quel che di storico era rimasto nel
centro della città. Si distrusse come allora, e mentre allora si costruiva borghese, ora si costruisce littorio,
grande, imponente, monumentale, rosso e bianco, e statue nerborute.
Secondo Mussolini all’Augusteo “liberato” sarebbero arrivate tutte le genti d’Italia e tutti i popoli del mondo.
Ebbe tempo anche lui per convincersi che se prima, visto e non visto, scoperto a pezzetti tra le case,
desuntane l’immensità in quel cerchio altissimo dentro il quale risuonò la più bella musica del mondo, aveva
ancora un fascino, ridotto a quel torsolo che è nessuno lo guarda più in faccia.
Il 22 ottobre 1934 numerosi gesti storici, primo colpo di piccone, primo scoperchiamento di tegole/coppi,
prima palata di melma per incominciare l’isolamento dell’Augusteum che deve essere compiuto per il
bimillenario di Augusto nel 1937.
Poi vennero i primi colpi di piccone. Li dava lui ed erano celebrati come un rito eroico.
“Cedo la parola al piccone” disse Mussolini dopo aver inaugurato la distruzione della zona augustea.
La meta sudante (dire che era, come era) abbattuta perché “le quadrate legioni” reduci da conquistati imperi,
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potessero il giorno del trionfo sfilare col marziale passo dell’oca senza aprire le file avanti a quell’ostacolo.
Fu abbattuta, ma sul piano dell’asfalto fu segnato un grande cerchio. C’è tuttora. Era la circonferenza della
vasca dentro la quale la fontana versava le sue acque.
Il ministerione delle finanze era arretrato sulla via XX settembre, l’edilizia fascista che aveva il culto del
dritto e del vasto pensò di tagliare su quel filo quanto sporgeva dopo il ministero sino allo slargo di santa
Susanna.
Tra gli edifici c’era quello del granaio, interessante opera secentesca, e la fontana del Mosè. Mentre
discutevano dove questa sarebbe andata a finire il sacro piccone demolitore abbatté i granai, ormai
orfanotrofio, mentre continuava la discussione per il Mosè arrivò la guerra e la fontana restò dov’è.
Inaugurata nel 1902 la via dell’Impero essa risultò un vuoto retorico per il quale erano state distrutti tanti
isolati di case di tutte le epoche e tutte le chiese che erano sul cammino di questo vuoto furono distrutte.
Troppe cose non furono capite. Fra le tante quella che isolare un monumento è rimpicciolirlo; Fontana di
Trevi deve il suo successo spettacolare non solo a se stessa, ma anche al piccolo ambiente dove è raccolta.
Fascismo
Tra le tante conciliazioni ci fu quella per antonomasia. La Chiesa diceva bravo al fascismo.
In realtà nella chiesa era come nel resto del paese: più gli antifascisti che i fascisti, però come il paese pareva
tutto fascista perché il re così pareva, la chiesa perché il Papa aveva trovato nel suo capo l’uomo della
provvidenza. Ma per la Chiesa durò assai meno. Papa Ratti morì alla vigilia del giorno in cui avrebbe dovuto
scoppiare il suo fulmine sul fascismo, fulmine … da un lungo brontolare di …
Quella “via dell’Impero” che, declamavano, aveva scoperto e messo in luce i fori imperiali, in realtà non li
aveva che scavalcati, distruggendoli e sotterrandoli, lasciando in vita di qua e di là quel che rimaneva.
Distrutta così anche quella suggestione che emanava da quei resti affiorati dai muri, tra finestre e case, dalle
svolte delle strade. Ora isolati così hanno l’arido della pomice cariata non c’è più l’humus della vita.
Chiamare, come fu chiamato, “passo romano” lo stecchito “passo dell’oca” proprio dei tedeschi è puerile.
E il legittimo, non è quasi sempre forzosamente legittimo?
Comunque il Savoia aveva firmato fedeltà allo Statuto
Se il 22 ottobre il Carignano non fu spergiuro, meglio per lui, ma che con la Costituzione pasticciò sempre
chi può negarlo?
La tirannide può anche essere necessaria, ma allora chi ha giurato la libertà si ritira e lascia decidere il
popolo.
Capitale
La divisione ci fu e fu profonda e durò a lungo. Per più di mezzo secolo la bandiera tricolore non riuscì ad
entrare in chiesa, neppure per funerali speciali.
Portate alte e fluttuanti fino alla soglia della chiesa lì venivano abbassate e appoggiate al muro come una
fascina tricolore.
Fascismo
Sotto i tedeschi in pratica ritornò in vigore il diritto d’asilo.
E non dimenticare che conventi, sia maschili che femminili, erano pieni di rifugiati, le parrocchie, le chiese,
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persino i campanili erano stipati di gente nascosta.
Capitale o papato
Lo sfacelo, Roma non fu più capitale, le capitali erano altre due: Brindisi a sud, Salò a nord.
Roma nel dolore, nella fame, nell’eccidio, nell’abbandono di chi l’aveva tolta a se stessa, tornò ad essere di
se stessa protetta dal Papa.
Capitale
Dal balconcino di Palazzo Venezia il 9 maggio 1936 Mussolini annunziò al mondo che era “riapparso
l’impero sui colli fatali di Roma” così come si può riaprire un grande magazzino.
Palazzo Venezia pensò che fosse ritornato il carnevale di una volta. Ma il 10 giugno 1940 dallo stesso
balconcino proclama la guerra. Palazzo Venezia freme. Ora ci faranno anche per distruggere Roma.
E continuarono per decenni, finché durò quella piatta retorica patriottarda (intanto sopraggiungerà quella
esagitata di D’Annunzio) a chiamarla “la Roma degli italiani” senza che li trattenesse il pensiero che quella
povera italiana era una delle regine del mondo.
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Pm 7
Federazione
unità o confederazione
A 20 anni dal compimento della famosa unità che, secondo loro unità non era senza Roma, lo stato
accentrato aveva già palesato la sua enorme insufficienza, ma chi la denunciava la cosa pareva eretico tanto
avevano mescolato le due idee unità e centralizzazione. Senza un centro, il palo dei tendoni da circo, come si
reggerebbe il tutto?
confederazione
L’Italia è un paese di piccole repubbliche.
una verità lapalissiana che nessuno riconosce [in rosso]
cerchiato un articolo su Cattaneo
“L’Italia non è serva degli stranieri ma dei suoi”
Cattaneo che camminava “sempre sulla via dei fatti” era per la federazione. Egli teneva conto dei caratteri
delle singole regioni perché sosteneva essere un errore “il divorzio fra intelligenza e natura”. Con l’unità
come fu fatta questo errore fu compiuto.
Pm 8
Roma al Papa
Roma al Papa
Roma e il papato, prosecutore di forme, alcune sostanziali, dell’impero romano, avevano fatto da secoli
corpo unico.
Il popolo non stava peggio di come stava altrove, per molte cose stava meglio.
Non capiva perché Roma dovesse essere “restituita” all’Italia, Roma non le era mai appartenuta. L’Italia,
semmai, era appartenuta a lei.
Attraverso la breccia, “il buco” come lo chiamarono i milanesi, entrò in Roma la distruzione totale.
I bersaglieri correvano, i profittatori anche.
Con un plebiscito talmente unanime in cui votarono anche i morti, Roma e la comarca furono annesse e
l’unità raggiunta.
Lagrime e retorica del tempo.
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Lo straripamento del Tevere portò a Roma anche il re, ma ce lo depositò per poco; non era pronta la casa e
lui del resto non aveva ancora finito di passar sopra alla sua coscienza religiosa.
A Roma ogni palazzo aristocratico era una reggia, ma nessuno gliela offerse. Si dovette prendere un palazzo
del papa, quello di Montecavallo.
Roma al papa
Non è esatto: Roma città libera.
Moltissimi la consideravano una soluzione giusta che non avrebbe scombussolato i cattolici di tutto il
mondo, e che, aggiungiamo noi centenari posteri, avrebbe conservato Roma.
Roma lasciata al papa
Il capitalismo non politico, ma economico è stata la seconda causa della distruzione di Roma. Gli uomini non
contano, tanto meno il carattere e la bellezza di una città, quel che conta è l'interesse delle società prima fra
tutte quella immobiliare. Su una Roma papalina quella speculazione avrebbe attecchito molto meno.
Roma al papa
Una città che si è autocostruita in tutto il mondo allora conosciuto, non doveva ridursi ad appartenere a uno
stato. Doveva essere libera e sola.
oppure
che non si è costruita solo qui, ma in tutto il mondo, solo del mondo doveva restare.
Roma al papa
Con Roma restata al papa, sarebbe rimasto tanto del suo colore. I preti qui non sarebbero corsi a mettersi in
calzoni, avrebbero continuato a sventolare le loro tonache, le loro faraglioline, i preti rossi del germanico
avrebbero ancora chiazzato la città come un passaggio di papaveri.
Forse S. Pietro verrebbe incendiata come una volta dalla luce accesa dai sampietrini invece che da manovre
di commutatori elettrici.
Con Roma lasciata sola per se stessa, si sarebbe evitato in parte il malanno del turismo. Ci sarebbero stati i
pellegrini, ma questi sono diversi dai turisti, non producono servilismo, se mai sopportazione.
Lasciando Roma al papa si conservava quella unica, inarrivabile, piccola, immensa città che era allora Roma
e tutta Italia non sarebbe stata del papa (oppure dei preti) (come è ora). Si riservava a questa città quella sua
universalità spirituale sostituita ora da una grottesca universalità cinematografica fatta di semiprostituzione,
di miserabili scandalucci, universalità di intimità coniugali che come in una lanterna magica si fanno e
disfanno, e tutti ne parlano, tutti ne scrivono, nella città ritornata al papa perché intorno non vedono altro.
140
Pm 9
Roma capitale
dividere il lavoro in due parti.
Finire la prima al 1928 - Roma ancora non riconosciuta capitale dai papi.
2° - dal 1929 - il vaticano riconosce lo stato d’Italia e Roma sua legittima capitale.
11 febbraio 1929
Roma è definitivamente abbandonata allo Stato che la distrugge. Il suo antico sovrano, che finora l’aveva
reclamata, sia pure accademicamente, come fanno i re che non mollano i loro presunti diritti per generazioni
e secoli, il Papa, dopo soli 59 anni la riconosce proprietà di altri. I sovrani veri non fanno così anche se sanno
d’essere ridicoli.
La seconda parte comincerà dopo che si è conclusa la chiacchierata sui sabaudi, sulle distruzioni, dopo
l’intermezzo di l’unità e i suoi guai. L’unità può stare anche alla fine prima della conclusione.
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da Pm 16 -20
Esquilino
La capitale ha decolorato Roma. Una città che era tutta, anche se piccola, colore di crosta di pane ben cotta,
colore di sole al tramonto su tela grezza, colore di caldo e i mattone cotto, come poteva essere capita dai
nordici piemontesi che venivano giù con nel cuore e nel cervello i colori grigi delle loro città porticate per
rendere anche più grigia l’aria dove l’uomo cammina? Ed ecco Piazza Vittorio esempio di grigio e di
criptoportico, ecco i quartieri umbertini dove pure qualche volta il colore di Roma fa macchia tra il grigiore
delle altre cose/case. Certo su quella casa nel suo nascere spirò l’alito amoroso di un qualche romano.
Incameramenti - verso la fine della prima parte
Uno stato che veniva a manomettere i religiosi, che ne prendeva case ed averi, ma non aveva neppure la
fantasia di trovare nomi nuovi. Così il carcere femminile continuò a chiamarsi “Le Mantellate” come se
dentro vi si aggirassero pudiche vergini. E a uno dei più brutti carceri, un edificio che è la realizzazione di un
incubo, dettero uno dei più dolci nomi che sia possibile dare “Regina coeli” solo perché lì c’era una chiesina,
e prima un convento anche con quel nome che non se l’erano dato le religiose, ma il popolo l’aveva dato a
loro. Perché non erano monache il cui umore assecondasse i tempi dell’anno liturgico che alterna lutto e
gioia, attesa e sollievo, obbedienza e festa. Quelle suore erano sempre in festa, esse onoravano la madonna
perpetuando il tripudio che comincia con la Pasqua, finisce con l’incanto dell’Ascensione per passare al
raccoglimento e all’azione della Pentecoste. E’ il periodo in cui la chiesa tripudia ripetendo Alleluja, alleluja
e si rivolge alla Madonna: “Regina coeli cantare, alleluja, resurrescit, sicut discit, alleluja. Regina coeli
laetare, alleluja”. Questa antifona che è solo del tempo pasquale, esse la ripetevano tutto l’anno, tutto l’anno
allelujavano; scendevano in chiesa più volte al giorno e cantavano Regina coeli laetare alleluia,
interrompevano il sonno della notte per cantare ancora Regina coeli, laetare alleluia. Le persone che
entravano in quella chiesina facilmente s’imbattevano nel coro squillante di voci argentine del Regina coeli.
* E Regina coeli fu il nome che diventò delle monache e del luogo.
*Le parole sono cose vive, le parole diventano anima nostra, nostro sorriso e nostro pianto. Le suore che
davano la vita nella ripetizione di quel canto allelujante assorbivano per forza un po’ della sua letizia.
Quel luogo fu scelto per costruire il tetro carcere, come sempre mancò la fantasia per scegliere un nome,
lasciarono quello al carcere. Battezzavano tutto col nome del loro re, potevano chiamarlo Reale carcere
Vittorio Emanuele II. Era suo, il suo governo l’aveva costruito, il nome gli spettava, invece no, lo dettero alla
magnifica biblioteca dei gesuiti per la quale lui non aveva fatto altro che rubarla (se è troppo dire
incamerarla).
Tevere
Si dice sempre che il fiume fu incarcerato dai muraglioni. Nessuno dice che tutta la città che confluiva al
Tevere fu imprigionata. Era una città fluviale da quella parte, scendeva dolce verso l’acqua, nelle strade che
vi sboccavano si avvertiva il chiarore dell’acqua assolata Avanti a questa città fluviale furono alzati gli argini
che la chiusero come le muraglie i cortili delle carceri. I lungotevere a sinistra del fiume, quelli che hanno
incarcerato Roma fiumarola, sembrano belli perché non guardiamo più la Roma del seminterrato. A San
Rocco, in linea d’aria, gli camminiamo a metà facciata, e via Giulia, le scuole dei Fiorentini, (cercare le vie
prima e dopo S. Rocco) tutte strade semisepolte dai bastioni.
Tevere
Quei muraglioni qualcosa hanno fatto, ma non per questo sono meno brutti. Se avessero visto com’era bella
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quella Roma che lambiva le acque e anche quando ci si specchiava, in cui il fiume era parte viva della città
come la gente che vi scendeva. Quell’acqua era a livello delle case, vivevano insieme. Del fiume hanno fatto
un pozzo profondo, un canale.
Potevano arrivare allo stesso scopo con altri mezzi.
Ma si sa, i lavori dei governi moderni sono politica, utilità pubblica, è una cosa per conquistare approvazioni.
Bisognava decidere di fare quei muraglioni al più presto, così si poteva dire: Romani, quello che i papi non
vi hanno fatto in tanti secoli, ve lo fa subito re Vittorio, lo scomunicato.
E così via il suggestivo porto di Ripetta alla cui guardia stavano due chiese. Una corsa di pochi passi e
dall’acqua si stava in chiesa. Ora quelle chiese stanno giù sprofondate e la gente che cammina sul
lungotevere, le guarda dall’alto.
capit
Tutto si restrinse in Roma divenendo capitale d’Italia, materialmente e spiritualmente.
Il Tevere reso non più atto alla navigazione ne è un simbolo.
Grande chiavicone a cielo aperto.
Tevere
Roma non è più una città fiumarola, è una città divisa da un canale che potrebbe anche chiamarsi fogna
scoperta, come lo era la cloaca massima quando attraversava il foro prima che la coprissero.
Parte 1
Roma si è allargata, non è più una città, è una marea di cose. Ma è difficile che in qualsiasi punto si scavi
non ritorni alla luce qualcosa, statua o frammento, colonna o capitello, arco o muro (commento a lavori che
si stanno facendo in tutta Roma nel 1890, 1885 e 1915…)
Archeologia - Distruzione delle rovine – Colosseo. 74 e anche prima
Finora le rovine vivevano insieme col popolo romano. Quell’esedra abbracciava una casetta, quell’arco ne
ricopriva un’altra, quella colonna entrava dentro una casa e ne reggeva il crocifisso in cima al letto, il vaso di
mentuccia stava sopra un capitello, e il simulacro di Minerva custodiva la porta di un forno.
Con quella valanga di furiosi e incoscienti innovatori incominciò subito la rovina delle nostre rovine che
dura tuttora in un processo ormai inarrestabile. Solo l’abbandono di Roma come capitale riuscirebbe a
salvare quello che è ancora salvabile. Perché è proprio l’abbandono che le conserva. Il cemento che le unisce
alla vita, è la loro conservazione, e la terra. La terra le custodisce, l’aria le sgretola.
Incominciò subito quell’opera di isolamento, che riduce le rovine a scheletri. E siccome l’entusiasmo dei
buzzurri era poderoso, si cominciò dal Colosseo. Prima di tutti gli estirpatori: via le erbacce e gli arbusti che
macchiano di verde il caldo colore romano. Le radici, è vero, dilatano, ma cementano anche. Non era
comunque necessaria la Scolastica per distinguerle. Comunque il Colosseo fu tosato e sbarbato mentre i
guastatori demolivano i tabernacoli della via Crucis lungo l’arena e le cappellette nascoste in qualche angolo
di quel gigantesco labirinto di volte e di archi. Alcune di quelle oscure cappellette erano assai più suggestive
della grotta di Massabielle.
La gente vi riposava, ci chiacchierava e pregava anche.
E nonostante le ripetute e molteplici e ostentate proteste di rispetto alla religione, la grande croce che
s’innalzava nel mezzo dell’anfiteatro fu abbattuta.
Nelle chiese si facevano tridui per la salvezza del Colosseo, per riparazione della sua profanazione. Arrivò
anche un pellegrinaggio di protesta e devozione. La gente baciava quella terra bagnata dal sangue dei martiri.
Che importa che fosse terra di riporto giacché ci avevano pensato i secoli e i frangipane a buttare per aria la
vera arena? La devozione fa a meno della storia e dell’archeologia, ma non della tradizione. (Vedi Parfum de
Rome di Veuillot)
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La sofferenza per questa distruzione non era tanto dei romani che guardavano i fatti della loro città come chi
legge un libro di storia su fatti che già conosce, con acutezza di giudizio, ma senza meraviglia, senza
emozione.
,Ma erano i cattolici stranieri a ribellarsi e a soffrire di più. Essi venivano a Roma come a un prolungamento
spirituale della loro patria, e trovavano che era diventata un’altra cosa, una patria anch’essa sua straniera alla
loro.
E con quella furia distruttiva dei nuovi venuti essi trovavano Roma come chi torna a casa e la trova sconvolta
dai ladri.
Appunti
Roma febbraio 1964
Non si parla che del ritrovamento della ragazza mummificata a Grotta rossa, ma nessuno dice che il
sarcofago fu sventrato da una escavatrice meccanica. Un sarcofago spezzato, se non si può fare a meno, si
deve vedere…ma le altre piccole cose distrutte? Che progresso!!!
Articoli vari sulla distruzione della Roma sotterranea per colpa del Metrò
(“Le date sono a servizio elettorale. Ma presto o tardi la cosa si farà. Roma restata popolana non aveva
bisogno i distruggere il nostro patrimonio archeologico sotterraneo” - Capitalismo)
Fine
San Marino compie quest’anno (1971) i suoi 1671 anni, della sua vita repubblicana sul Titano.
“Sessantadue chilometri quadrati di roccia diciottomila abitanti”.
Nel 1870 alla presa di Roma aveva compiuto, essa li compie il 3 settembre, 1570 dunque fu nel 300 – S.
Marino celebrava i suoi 1570 anni di vita repubblicana.
_
Se proprio Roma doveva essere capitale d’Italia, la si doveva lasciare com’era e costruire a parte la città
nuova, magari verso il mare. Tutte quelle paratie di cemento che circondano Roma per chilometri, spinte
tutte verso una sola direzione.
La capitale d’Italia ora sarebbe nel mare e Roma non sarebbe stata distrutta.
Quel che poteva essere fatto – Capitalismo
Se l’Italia unificata aveva lasciato Roma intatta e intangibile, come una città dello spirito, avendo già lasciata
intatta S. Marino, la città della libertà, si sarebbe fatta erigere nella sua compagine due eccezionali
monumenti che l’avrebbero resa eccelsa ed unica più assai del Colosseo nazionalizzato
Chi l’ha detto che una capitale deve essere sovrappopolata? Non potrebbe essere solo capitale, solo uffici e
rappresentanza?
Quel che si poteva fare
Quella dolce minuscola chiesina della Madonna del Riposo, il riposo che offriva sostando da lei chi
percorreva la campagna prossima a Roma, è incarcerata in un coacervo (adopero questa parola brutta che
risponde alle affastellate costruzioni moderne) di brutture. Non si vede più. Per vederla bisogna cercarla.
Dietro la sovrasta un immane orrendo caseggiato. Se invece di quel caseggiato lì, le si fosse lasciato alle
spalle uno sazio alberato, avrebbe costituito un punto di bellezza romana tra le brutture italiane, dato che il
colore di Roma, per fortuna, glielo hanno mantenuto.
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Non è necessario che il governo risieda nella capitale. Si creava la città burocratica, ministeriale, e si
soddisfaceva la fregola (è volgare) di quelli che morivano se non avevano come capitale la prestigiosa Roma,
facendola capitale, ma lasciandola com’era.
Quel che poteva essere fatto - minimo – finale
Costruendo in prossimità di un monumento o edificio ragguardevole per arte o per storia, tenere una certa
distanza e nelle proporzioni regolarsi su quello del medesimo. Esempio: la torre degli Anguillara che
potentemente emergeva nello spazio per chi andava verso Trastevere, ora è un aggeggio davanti a un enorme
casone che la sovrasta.
La chiesina della Madonna del riposo quella che era una felice pausa nel cammino dei piedi e nell’ansia
dell’anima, campagnola, ma graziosa, ora è una specie di baracchetta davanti agli edifici che le sorgono
giganteschi non solo ai lati delle due strade che da lei divergono, ma alle sue spalle. Essa poggia su quei
casoni. Se si fosse lasciato un po’ di spazio alberato dietro di lei, in modo che la sua rustica grazia risaltasse,
anche la zona, bruttissima, ne avrebbe guadagnato. Ora essa è un nome per indicare una fermata degli
autobus.
Quel che si potrebbe fare
La pubblicità che obbliga a guardare se stessa, sottrae lo sguardo a quel poco di architettura visibile al
disopra del garage pubblico.
Non capitale, cascherebbe molta pubblicità, si svuoterebbe un po’ il garage e Roma un poco riapparirebbe.
Quel che si doveva fare – Capitalismo
Un anello di terra intorno alla città, come ora ci sono le mura vaticane, grande quel tanto che permettesse a
Roma di sedere regina nel suo agio solenne più di un tempio.
Genericamente capitolo Industria. Capitalismo
La programmazione prevede per Roma un maggior sviluppo industriale, perché Roma essendo la capitale
deve avere la capacità di essere al livello produttivo dell’Italia d’oggi!!
Su questo argomento non so proprio nulla. Leggo, non vado alla ricerca della verità. E quel che leggo è un
gioco a mosca cieca.
Quello piange perché Roma non è città industriale e auspica capannoni e ciminiere, quell’altro è soddisfatto
perché da quel che già c’è è chiaro Roma è già e lo sarà sempre di più città industriale. Io non ne voglio
sapere. Così come non vorrei vedere uno schifoso bubbone che puzzasse sul mio corpo.
Si lamentano che Roma non sia una città industriale, e lo è già troppo, il lamento ha qualcosa di stanti, in
un’epoca in cui i segni stanchezza dell’industrializzazione non mancano. Necessaria lo sarà, ma bella no,
sana no, e allora perché non lasciare immune una città come Roma?
Roma così, sola in se stessa, meta di tutto il mondo non avrebbe avuto bisogno dell’industria che è bruttezza,
ciminiere, capannoni, fumo, smog.
Non discuto su nulla io, figuriamoci sull’industrializzazione! Se il mondo ha infilato quella svolta è segno
che la sua strada è quella. Ma che essa distrugga la bellezza è indiscutibile (sicuro).
Avere salvato una città come Roma dall’industria non sarebbe stato un gran male. C’è tanto posto al mondo
per quei brutti agglomerati, e tante città che li reclamano.
Le città industriali stanno tutte diventando delle cappe mortali per i morbosi idrocarburi aromatici policlici
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dovuti alla combustione della benzina del carbone e della nafta.
E Roma la vorrebbero ancora più industriale.
Una donna bella colta voluttuosa, può anche non saper cucire a macchina.
Industrie - ci vogliono per sfamare la gente che arriva. Ma sarebbe molto difficile dire: lavoro sì, ma altrove.
Lasciamo almeno l’aria pulita a Roma, gli avete tolto il suo incommensurabile verde, lasciatele l’aria.
L’industria sarà necessaria, io non discuto, io divago, necessaria forse, sicuramente crudele. Si toglie l’acqua
agli uomini per darla agli stabilimenti industriali.
Necessaria, forse, ma brutta: con i suoi capannoni, con le sue ciminiere rovina qualunque bel paesaggio.
Necessaria, forse, ma fagocitatrice di bellezza, non solo abbatte alberi che non ricresceranno mai più, ma
polverizza le gemme (pietre preziose) che non risplenderanno mai più. (accanto a articolo su mancanza
d’acqua, ndr)
Dal mostro industriale si sarebbe salvata Roma. Che i piccioni nuocciano è fuor di dubbio, ma che si voglia
dire che guastano più loro delle industrie è ridicolo perché in questo articolo si diceva questo, ma vedi chi
parla? (accanto ad articolo su Venezia, ndr)
Per la conservazione di una città le industrie sono deleterie.
Il Papa non le avrebbe certo avute e Roma non ne sarebbe stata deturpata.
Genericamente capitolo Distruzioni
Sventramenti – Il martirio di Roma sventrata è paragonabile solo al martirio dei cani infissi su una tavola e
spaccati; sventrati da vivi dopo aver tagliato le corde vocali perché gli ululati disturberebbero il lavoro di
sventramento.
1876 sventrata la città per aprire il cosiddetto corso Vittorio Emanuele.
Le torri che non furono distrutte furono strette fra case più alte di loro, come averle distrutte.
Distruzioni costruzioni - La Roma nuova è un incubo. Percorrerla è tentare di uscire dall’incubo senza
riuscirci.
Distrutta anche la conoscenza della città. Il popolo prima la conosceva come il proprio corpo. Adesso se si
invita a una funzione o un funerale a Santa Maria sopra Minerva si aggiungerà “Piazza della Minerva”, se a
San Lorenzo in Lucina, “Piazza S. Lorenzo in Lucina” Proprio come si fa con i minorati psichici.
La cupola aveva bisogno di uno spazio adeguato alla sua grandezza. Da Piazza Risorgimento, da viale delle
Milizie non la si doveva scorgere, come adesso, emergere da un monte di case.
Sono innamorata delle porte, maghi (?) di portoncini, che scompaiono a vista d’occhio e bisognerebbe di
ognuno fare il disegno. Se lo tento, ma io non so disegnare, sono tutti diversi, ognuno con la propria
fisionomia, come gli uomini, possono essere simili, assomiglianti, uguali mai.
Ce n’è uno dietro Regina Coeli l’ho disegnato e stracciato. Se buttano giù Regina Coeli come pare, addio
portoncino.
“distrutto” Distrutto il linguaggio che era schietto e forte.
Ora è un romanesco italiano, lingua cinematografara ridicola e smidollata.
Distruzioni di prospettiva senza nulla demolire
Un esempio: All’epoca dei papi in fondo alla scalinata di Trinità dei monti non c’erano quelle verticali
bancarelle di fiori che ci sono ora che spezzano e fermano la discesa molleggiante delle scale. La scala
arrivava dolce al piano stradale risollevandosi appena un poco con la barcaccia, perché allora chiesa obelisco
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balaustra scale fontana facevano una cosa sola all’occhio. Le pareti fiorite e fronzute spezzano interrompono
quell’unità.
I fiori sono parte viva di Piazza di Spagna, verissimo; tanto vero che c’erano anche al tempo dei papi. Le
ciociare stavano sedute sui scalini, o passeggiavano su e giù offrendo mazzetti di fiori. Qualche canestro
posato sullo scalino, era il rifornimento.
Si trovò la piccola mummia di una ragazza appartenente alla famiglia degli Scipioni, aveva ancora accanto la
pupa che era stata seppellita con lei. Si osannò al ritrovamento, ma non si dette nessun peso che la ruspa
aveva già frantumato una parte del sarcofago, non si chiese nulla della grande quantità che avrà distrutto
prima di fermarsi avanti a quel ritrovamento.
Come per la ragazza degli Scipioni ora che sta su alle Terme, così per tutto il resto.
A Roma c’erano i ragazzini e i regazzini, i bambini, pochi, erano di fuori. Ora ci sono solo i bambini, i
regazzini sono morti.
Distrutte furono le vecchie opere di beneficienza e di carità che costellavano Roma come gli orti e i giardini.
Distrutte o incamerate, falsate, sbattezzate. Ai nomi della loro nascita sovrapposti i nomi.
Roma è stata distrutta. E pensare che continuano ancora a chiamarla “la città eterna”.
I resti lasciati sepolti hanno spesso più fascino di quando sono portati alla luce, e stanno più sicuri anche.
Esempio lampante le navi del lago di Nemi, si sapeva che c’erano, se ne portava su ogni tanto un pezzo, si
sapeva tutto di loro ma stavano sott’acqua, si portarono su (…….???), non ci sono più (ma è vero proprio che
non ci sono più?)
Le distruzioni operate dall’edilizia che avanza nella campagna sono incredibili se non fossero documentate:
torri, acquedotti, resti di ville imperiali, mausolei, catacombe, archi, sepolcreti, strade lastricate duemila anni
fa, tutto viene distrutto.
La villa di Livia/o, quella villa che aveva il verde dei canneti e dell’erba, il colore dei fiori anche sulle pareti,
è rovinata; il sepolcro dei Nasoni rovistato come un sacco. La località ad Saxa Rubra, carica di storia,
splendida per bellezza naturale, manomessa. La via Nomentana perché si chiama così? Perché porta a
Nomentum, di Nomentum c’erano i resti come di Roma l’abbiamo al Foro, e lì sopra hanno costruito una
borgata e c’è da ringraziare la strafottente ignoranza se non le hanno appiccato il nome di nuova Nomentum.
Anche sulla Collateria, il luogo di Collatia che andava custodito e studiato, sepolto da una borgata. La Villa
dei Gordiani, immensa, troppo spazio occupava, l’hanno costretta alla coabitazione, tra i ruderi e le casacce
nuove.
Anche Fidenae, la stessa sorte, una borgata sopra, gli avanzi della villa ad duas lauros sgretolati con tale
lentezza da dare l’idea di sadismo edilizio, perché questo procede distruggendo quello.
I borghi medioevali sventrati, torri abbattute come se fossero erbaccia, e quel che non si può distruggere
incapsulato tra le casacce, oppresso dalle caserme umane. Così sono finite molte teorie di acquedotti che
erano il simbolo mondiale del fascino delle campagne romane, se sono in piedi fanno da spartitraffico nelle
strade.
I sepolcri che lungo le strade consolari ne punteggiavano il percorso distrutti o sventrati in quantità. Ed è
meglio distogliere lo sguardo dalla via Appia, quel sogno di strada romana concessa alle dive, ai divi, ai
miliardari perché stiano un poco, ma solo un poco dentro il filo stradale.
Quella strada che è stata asfaltata per il comodo delle macchine. Quella via Appia che aveva sempre il suono
dell’alba, dove le pecore tintinnando passavano su quei selci dove da duemila anni passavano. Quella via
Appia dove si procedeva fermandosi e parlando sottovoce. Quella via Appia che s’imboccava per andare a
Callisto dove non era penetrata ancora la modernità salesiana, di dove si veniva via carichi della religiosità
che senza parole conferivano i Trappisti che ti avevano anche rifocillato con latte e cioccolata, il latte delle
loro mucche che tra palme e rose qualche volta si intravvedevano.
Direi che è meno doloroso lo scempio delle altre vie consolari, brutale e banale, di questo mascherato e
ipocrita/ Più su, qualche parola insistente sui sepolcri, sui santuari, esempio quello profanato dai fratelli
Arvali.
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Importantissimo per le distruzioni
Le catacombe, una rete fitta e intricata a più piani, molte sono nate e ci si può scendere, si possono ammirare
e studiare, ci si può meditare, molte sono ignorate o si sa a un pressappoco che lì ci sono. La ruspa le
scoperchia, tombe le (?) sono risparmiate, la terra fu portata via duemila anni fa.
Si tace, si butta giù ferro e cemento e su quel suolo sacro all’asta e alla frode ecco il casone con le bagnarole
alle finestre.
Distruzioni
L’incongruenza non solo dei fatti, ma anche delle parole che qualche volta irritano di più cominciò con
l’annessione e dura tuttora. Una foto, didascalia: “Il palatino liberato dalle costruzioni che lo nascondevano”.
…è liberato quel passo che resta da un mare di distruzioni. Però sotto a una foto del Campidoglio non
troverete mai la didascalia: “Il Campidoglio nascosto dal monumento che gli abbiamo costruito accanto”.
Per fortuna non fecero in tempo a realizzare tutte le pazzie che venivano in mente ai non romani calati
quaggiù dopo l’annessione.
Prova di pazzia sarebbe stata più assai del monumentaccio, la sistemazione di Piazza Navona, uno sguardo
alla foto di quel bozzetto e ogni dubbio di sanità mentale scompare.
Tutto senza giudizio, sventramenti e costruzioni. Buttate fondamenta poderose a casaccio, seppellite, chiuse
vene d’acqua che prima defluivano al Tevere e ora stagnano e crescono sotto la città che comincia ad
affondare. Non è giusto dire che in tutto questo mercimonio di capitali, di politica, di sfruttamenti, di
speculazione, quella che ne è vittima deturpata e ormai morente, è solo Roma?
Costruzioni edilizia – Roma
Non bastavano i corvi italiani a precipitarsi a beccare pezzi di Roma, ma anche branchi di corvi stranieri si
mescolarono con gli italiani, in generale erano banchieri che spuntavano qui per il buon affare.
Una capitale da mettere insieme in fretta e furia non è occasione che capiti tutti i giorni.
Distruzioni
Un giro di parole, sempre quello, a ogni scoperta fatta e non potuta nascondere denuncia l’assassinio della
città: “…venuta in luce sotto…”
Dunque prima ci hanno fabbricato sopra, dopo le cose vengono alla luce. Il sopra di quel “sotto” è spesso un
casone della mole della sede dell’Inps.
Sepolcreti ricchissimi di ritratti in marmo, di epitaffi, di statue venivano svuotati e il materiale venduto
all’estero andava ad arricchire musei e collezioni private.
Il disastro cominciò subito con la calata degli architetti torinesi subito dietro ai bersaglieri, alle prostitute e ai
più furbi speculatori. Buona gente, innamorata a ragione della Torino, ma che non capì nulla di Roma.
Torino era bella? Sì, e tanto anche! Dunque bisognava fare che Roma assomigliasse il più possibile a Torino.
Strade parallele intersecate da strade parallele, una scacchiera, una salina se volete, ma Torino è bella così, è
il resto di un castro, nacque caserma, Torino, il piano ce l’ha le strade possono andar dritte. Roma no, Roma
è già fabbricata, Roma è scoscendimento, Roma è sorpresa, strade a gomito, a giravolte, a curve. Che
scandalo per i torinesi, tanto lo scandalo delle strade storte li accecò che non s’avvidero che Roma ne aveva
già tante di strade dritte, aveva la sistina, le quattro fontane, la viminale che pur salendo e scendendo dai tre
colli, dritte lo sono e proprio per quelle prospettive di sali e scendi, una meraviglia inimitabile; Roma aveva
la lungara, la lunga retta e la lungarina che la precedevano, aveva via Giulia, vie, dritte e belle così Torino
forse non ne ha. E le tre strade che dal popolo si aprono a ventaglio non sono forse dritte? Dall’obelisco del
Popolo non se n’erano accorti che si vedeva il Campidoglio? Forse no, tanto è vero che poco dopo la
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coprirono col più brutto dei monumenti della terza Roma.
E lo stradone di San Giovanni, non va dritto? Dal Colosseo puntava su San Giovanni senza una grinza. Ce
n’erano tante di strade dritte, ma lo scandalo di quelle storte li accecò, non le videro e giudicarono che questa
nuova capitale dovesse avere almeno un quartiere a scacchiera e i portici. Questi romani - solo quello,
immenso, ma inutile di San Pietro che per andare a casa al riparo non serve, per i negozi neppure.
Anche quelle avvenute in Vaticano sono imputabili al fatto di avere destinato Roma capitale dello Stato
italiano. Santa Marta, era la chiesa della confraternita dei domestici del Vaticano, stava là, accanto
all’ospedale dello stesso nome (o di San Carlo) – distrutta nel 1930.
Tritone
Beata vergine de Stria, una chiesetta che era intonata alla sua strada, ora è un parente povero seduto fianco a
fianco con quelli che si son rifatti, soffocato dai gomiti dei vicini che profittano del frontone più stretto della
facciata sottostante e si allargano sulle sue desime (?): due pezzi della facciata affittati a una società
pubblicitaria – sotto la baracchina per la vendita a catena dei biglietti della lotteria nazionali. Del resto chi
passa di là chi guarda la chiesa? Di fuori non possono guardarla neppure quelli che c’entrano.
Tra queste una delle più insopportabili è la distruzione dell’armonia qualche volta, bene o male, conservata.
Un esempio, l’Albergo Bernini, avanti a quella fontana si erge come un villano fiero del suo corpaccione,
avanti al suo signore.
Carcerati gli acquedotti abbattuti i pini. Sorgerà il quartiere dell’Appia nuovo brutto come di più non sarebbe
possibile.
Demolizioni
Per avere un’idea di quel che è stato distrutto, pensare a Trastevere. A destra e a sinistra del vialone c’è
ancora qualche pezzo di Trastevere, benché manomesso in gran parte. Quel vialone che lo spacca in due,
bisogna svuotarlo degli alberi e del traffico, e allora si che lo spazio di quanto fu distrutto (però vedere la
pianta prima). Quel vuoto è un esempio delle distruzioni perpetrate dall’Italia.
Distruzioni
1875 Demolito il palazzo Piombino per far posto alla galleria mutanda.
Le buffonate intorno a Porta Pia bisogna vederle in Bonetti pag. 296.
Una città improvvisata sulle rovine di secolari edifici.
1878 A gennaio comincia la manomissione del Pantheon - si seppellisce provvisoriamente Vittorio
Emanuele tra l’altare maggiore e quello di S. Anastasio – Per seppellire bisogna demolire.
1877
- Cominciano le espropriazioni per i lavori del Tevere. Una delle prime un pezzo di giardino della Farnesina
- Abbattuti i due torrioni di porta del Popolo per aprire i fornici laterali
- Si terminava il palazzone delle Finanze
- Per fare la via del Quirinale si dovette alterare S. Silvestro – per finire via Nazari (Ma in realtà via
Nazionale) i muraglioni Aldobrandini e Rospigliosi, sostenevano i giardini.
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Capitolo quattro
Mito e antimito di una capitale
I - Roma capitale: una cruciale storia risorgimentale
In questo percorso di ricerca, sviluppato nei difficoltosi meandri degli scritti prevalentemente inediti
di Dolores Prato, è obbligatorio ripercorrere le tappe storiche e capire le cause che portarono a
stabilire proprio qui la capitale dell’Italia uscita dal Risorgimento nazionale.
Attraverso la puntualizzazione di determinati argomenti – dalla questione edilizia a quella del
Tevere, dalle vicende dei cattolici al rapporto con il Nord e il Sud – si può comprendere meglio il
posto che Roma assunse nell’insieme della società nazionale e dello Stato.
Non una capitale accentratrice e potente, cervello del paese, ma un centro economicamente e
socialmente arretrato, che ben si prestava a quei compromessi su cui la classe dirigente erigeva
la sua costruzione. La stessa politica dei governanti, seppure ammantata di frasi sui valori
patriottici e morali di Roma, fu tale da impedire in realtà un adeguato progresso della città in
senso moderno. L’Italia non ebbe mai in Roma la sua forza propulsiva, la sua guida, il suo cuore
pulsante216.
La classe dirigente risorgimentale, via via che cominciò a prendere coscienza di sé e dei propri
compiti nazionali e liberali, andò orientandosi intorno all’aspirazione di Roma capitale. E ciò
accadde, seppure in forme diverse, tanto tra i cattolici che tra i liberali, tanto tra i federalisti che tra
216
Alberto Caracciolo, Roma Capitale, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 21.
150
gli unitari accentratori, lasciando solo a piccoli gruppi di sostenere qua e là posizioni diverse.
La stessa esistenza materiale di Roma come nucleo urbano era legata fondamentalmente al ruolo di
capitale della cattolicità. Roma pontificia era stata sede dei più stridenti contrasti, dove allo sfarzo e
alla potenza di capitale del mondo cattolico si opponeva la miseria infinita, materiale e civile, del
popolino, dei mendicanti, dei guitti del contado, come luogo dove la tradizione culturale e artistica
del passato annegavano nella desolante immobilità e grettezza del presente.
“Roma deve tutto al papa, dicevano i difensori della Curia: se perdesse il papa e passasse all’Italia,
osservava Casoni217, essa “vedrebbe allora che differenza passa fra l’essere capitale del Regno
d’Italia e l’essere la metropoli del mondo intero”. “Roma deve ai papi la sua miseria, la sua
ignoranza - replicavano dalla parte opposta – I papi per averla soggetta l’hanno voluta mendicante,
codarda e l’hanno perciò condannata all’odio e alla superstizione”218.
Roma era un agglomerato popoloso, cresciuto rapidamente: da 130 mila abitanti della
Restaurazione a 220 mila censiti subito dopo l’unione all’Italia. Ma non poteva reggere il confronto,
come dimensioni e come intima costituzione, con le ricche metropoli europee, da Parigi a Londra,
da Bruxelles ad Amburgo. In più Roma era parassitaria, consumava e non produceva. Lo stato delle
industrie era deplorevole, e anche quella di qualche rilievo, la tessile, si svolgeva in piccolissimi
opifici a gestione familiare o in istituti caritativi.: la lana prodotta nell’Agro romano non bastava a
far fronte alla concorrenza straniera. Lo stesso valeva per le industrie meccaniche e metallurgiche
Ragioni di una capitale
Roma fu prima di tutto, nel movimento nazionale, una forza unificatrice di straordinaria importanza
morale. Se una tradizione comune si poteva trovare a tutta la Penisola, questa tradizione si
chiamava Roma. La potenza di Roma antica e l’autorità di Roma papale sono gli elementi
caratteristici, che determinano e quasi riempiono di sé la storia italiana di due millenni.
Come sede del Pontefice Roma imponeva direttamente in una vasta regione il suo dominio statale, e
in varia misura esercitava la propria influenza anche nel resto d’Italia, su corti sovrane, ambienti di
cultura, strati di proprietà fondiaria e clero.
Le antiche tradizioni neoguelfa e ghibellina di Roma conservavano immutato il loro peso retorico e
culturale: il problema della Chiesa romana era sempre in piedi.
Mazzini (e con lui la maggior parte della democrazia e della massoneria italiana) era tra coloro che
proponevano la lotta a fondo. Roma papale era per lui un peso (abusi, vergogne, oscurantismo) e un
217
218
Giambattista Casoni, Roma e Parigi. Impressioni e memorie, Bologna 1862, cfr. Caracciolo, op. cit., p. 29.
Luigi Pianciani, La Roma dei Papi, Edgardo Perino, Roma 1892, cfr. Caracciolo, op. cit., p. 29.
151
ostacolo decisivo, non c’era altra soluzione che di rovesciarla. La lotta degli italiani “non sarà in
favore, ma contro la costituzione attuale della Chiesa romana”219. “Quando la nazione italiana si
sveglierà quel nodo sarà, dovrà essere tagliato”220. Qui dovrà sorgere un potere politico
radicalmente innovatore, che si esprima nella Costituente italiana.
Diverge nettamente l’idea neoguelfa, soprattutto quella di Gioberti: il papato non va distrutto ma
attirato o quantomeno neutralizzato in modo da garantire l’avvicinamento al fronte patriottico di
larghi strati religiosi o politicamente prudenti che seguono la Chiesa. Roma deve avere un posto
nella futura costruzione nazionale come centro della Lega italica (della stessa idea di centralità di
Roma Torelli, Balbo, d’Azeglio). Gioberti diventa l’interprete dell’opinione moderata, vuole far
entrare nel contenuto della fede tutta la civiltà liberale: cerca di portare alla lotta tutta la borghesia,
anche le sue parti più arretrate, lanciando il manifesto Del primato morale e civile degli italiani
(1843). Il progetto giobertiano è una confederazione con un supremo centro politico e ideale che è
Roma (accanto alla cattolicità c’è sempre il richiamo all’“antichità imperiale”).
Per Gioberti l’idea e il prestigio di Roma concorreranno in modo decisivo a completare la potenza
politico-militare del Piemonte, e insiste nel voler creare un asse Piemonte-Roma, che si divida i
compiti di propulsione politico-militare e ideologico-religioso221.
Dopo il 1849, Gioberti rivendica la necessità di una nuova Roma (estende la condanna che prima
infliggeva al solo gesuitismo), e anche Mazzini dice che “dopo la Roma degli imperatori, dopo la
Roma dei papi, verrà la Roma del popolo”222: Gioberti e Mazzini, l’uno neoguelfo e l’altro
democratico, concorrono nell’indirizzare profondamente l’opinione pubblica a vedere in Roma il
simbolo e il compimento delle aspirazioni nazionali. Anche dopo l’episodio della fallita Repubblica
romana del ’49, resta la rivendicazione di Roma come centro e capitale d’Italia, che anzi da questo
infelice ma glorioso episodio esce rafforzata.
Fra tanto parlare di idealità, di tradizione, di mito, anche per la Destra storica, i cui esponenti erano
molto concreti nella scelta dei mezzi di lotta, la pretesa su Roma si fondava su considerazioni
pratiche e realistiche: Roma era l’unica capace di apparire “neutrale” fra tutte le città italiane.
Neutrale geograficamente, per la posizione abbastanza distante dalle estremità della penisola;
neutrale politicamente, perché priva di una classe dirigente locale capace di entrare in concorrenza
con quella del nucleo piemontese; neutrale economicamente, per la sua debolezza produttiva, che
rappresentava un buon motivo per preferirla ad altre più minacciose dal punto di vista
219
The Pope and the Italian Question, Londra, 1846-47, in Edizione nazionale degli scritti di Giuseppe Mazzini,
Cooperativa Tipografico-Editrice Paolo Galeati, Imola 1906-1912, p. 252.
220
Ivi, p. 291.
221
Cfr. Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi,
Torino 1975, III, Quaderno 19 (Risorgimento italiano), pp. 1957-2078.
222
Discorso all’Assemblea costituente della Repubblica romana, 6 marzo 1849, in
www.senato.it/documenti/repository/relazioni/biblioteca/scaffale_memoria/Mazzini_a_roma.
152
egemonico223.
Nonostante la volontà della classe dirigente liberale, l’affermazione del principio di Roma capitale
avvenne dopo una lunga lotta, di Cavour contro gruppi e personalità dello stesso moderatismo, fino
alla solenne affermazione del 25 marzo 1861, nel primo discorso dopo la proclamazione del regno
d’Italia:
La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali. E’ il sentimento dei popoli che
decide le questioni ad essa relative. Ora, o signori, in Roma concorrono tutte le circostanze
storiche, intellettuali, morali, che devono determinare le condizioni della capitale di un grande
stato. Roma è la sola città d’Italia che non abbia memorie esclusivamente municipali, tutta la
storia di Roma, dal tempo dei Cesari al giorno d’oggi, è la storia di una città la cui importanza si
estende infinitamente al di là del suo territorio, di una città, cioè, destinata ad essere la capitale
di un rande stato. Convinto, profondamente convinto, di questa verità, io mi credo in obbligo di
proclamarlo nel modo più solenne davanti a voi, davanti alla nazione, e mi tengo in obbligo di
fare in questa circostanza appello al patriottismo di tutti i cittadini d’Italia e dei rappresentanti
delle più illustri delle sue città, onde cessi ogni discussione in proposito, affinché noi Possiamo
dichiarare all’Europa, affinché chi ha l’onore di rappresentare questo paese a fronte alle potenze
estere, possa dire: la necessità di avere Roma per capitale è riconosciuta e proclamata dall’intera
nazione. […]
Ho detto, o signori, e affermo ancora una volta che Roma, Roma sola, deve essere la capitale
d'Italia. […] Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni, noi dobbiamo andarvi di
concerto con la Francia, inoltre senza che la riunione di questa città al resto d’Italia possa essere
interpretata dai cattolici. in Italia e fuori, come il segnale della servitù della Chiesa. Noi
dobbiamo, cioè, andare a Roma, senza che perciò l’indipendenza vera del Pontefice venga a
menomarsi. Noi dobbiamo andare a Roma senza che l’autorità civile estenda il suo potere
sull’ordine spirituale.
Ecco le due condizioni che debbono verificarsi perché noi possiamo andare a Roma senza
mettere in pericolo le sorti d’Italia224.
Le resistenze più forti e pericolose erano quelle dei cattolici, preoccupati dell’offesa alla Chiesa e al
Pontefice nel dover convivere nello stesso luogo con la monarchia liberale: concetti che, pochi anni
più tardi, avrebbe sviluppato Stefano Jacini mettendosi a capo dei clerico-conservatori
“antiromani”.
Massimo d’Azeglio, nel ’60, parlava dell’ambiente malsano di Roma, tradizionalmente esposto a
tirannidi, violenze e pressioni extra legali e proponeva Firenze capitale. Cavour, invece, e con lui
larga parte della classe dirigente piemontese e nazionale, sentiva forte l’esigenza di Roma capitale,
soprattutto per scongiurare il rischio di tendenze municipalistiche e di uno spezzarsi particolaristico
e regionale del movimento unitario.
223
Cfr. A. Caracciolo, op. cit., p .41.
In Discorsi parlamentari del conte Camillo di Cavour: raccolti e pubblicati per ordine della Camera dei Deputati,
1863-1872, v. 11, in www.fondazionefeltrinelli.it.
224
153
Si giunse quasi unanimi al voto del 27 marzo 1861 alla Camera, che fissava ormai l’istanza di
Roma capitale e che fu seguito di lì a poco da un analogo pronunciamento del Senato. “L’Italia ha
bisogno di Roma”, divenne la parola d’ordine.
Roma, lo Stato pontificio, la scelta della capitale d’Italia furono grandi problemi per le sorti della
nazione italiana, ma grandi e scottanti anche per l’assetto dell’Europa intera. Qui, in ogni momento,
potevano scontrarsi rivoluzione e reazione, libero pensiero e cattolicità. Qui si decidevano le sorti
politiche della Penisola italiana, con i conseguenti inevitabili spostamenti dell’equilibrio europeo.
Nella questione romana si impegnavano il prestigio e l’influenza di grandi potenze come la Francia,
l’Austria, l’Impero britannico.
La politica francese nasceva dall’esigenza dell’imperatore Napoleone III di bilanciarsi tra le
correnti democratiche e quelle cattoliche del proprio Paese. Un antico interesse consigliava di non
creare nella Penisola un rivale pericoloso e potente, bensì soltanto un satellite: la resistenza nel
concedere Roma al Piemonte era connessa a queste preoccupazioni di un’Italia troppo forte. Finché
il papa possedeva la sovranità su un territorio, la cui esistenza o la cui devoluzione alla vicina
monarchia dipendevano da Parigi, si poteva mercanteggiare tra Italia e Santa Sede; a partita chiusa,
l’Italia non avrebbe più dovuto chiedere niente alla Francia. In quest’ottica si inserì il progetto
napoleonico di una confederazione italiana con Roma sede di un papa presidente.
Diversa la posizione inglese: più aperto il riconoscimento del diritto su Roma, più decisa la
condanna del regime pontificio. Questo sia perché l’Inghilterra liberale era tradizionalmente critica
verso la Curia romana, sia per intralciare la supremazia della Francia: far uscire il Regno sabaudo
dall’impasse avrebbe riequilibrato i poteri nel Mediterraneo. Roma capitale avrebbe voluto dire un
colpo ai francesi “protettori del papa” e un aiuto a rendere l’Italia più indipendente e forte nella
politica europea.
In Italia il contrasto tra “francesi” e “antifrancesi” fu profondo e durevole, con la Sinistra che
accusava la Destra di servilismo verso Napoleone e l’Impero. Roma capitale era l’ultima e
definitiva sanzione del Risorgimento, il suggello all’Italia una, indipendente, libera.
Gli anni fino al 1870 furono pieni di esitazioni e contrasti, finché nel ’70, quasi inaspettatamente, si
andò a Roma e lì si trasportò senza eccessive resistenze la capitale politica e amministrativa del
Regno.
Roma italiana, opposta a Torino piemontese, a Firenze del compromesso, alla corte del papa,
era per molti sinonimo di rinnovamento e di rivoluzione. Al Partito d’azione, ai repubblicani,
pareva ancor sempre che da lì dovessero prendere inizio le nuove sorti politiche d’Italia. La
“Roma del popolo” di Mazzini era la città santa repubblicana, nella quale ora, come vent’anni
154
prima, si voleva vedere adunata la Costituente della nazione.
Il Campidoglio era anche un simbolo di riforma religiosa e morale. La fierezza nazionale e gli
impulsi rivoluzionari facevano sognare la missione mondiale di una metropoli non più sede del
prete, ma banditrice del pensiero libero e della moderna civiltà. Non poteva esistere altro luogo
capace di sostituire Roma in questo compito di riforma spirituale225.
Roma era una rivendicazione popolare nonostante le limitazioni della cittadinanza, ma era una
soluzione avversata dai cattolici e probabilmente da una parte delle masse contadine, peraltro del
tutto ininfluenti politicamente. Tuttavia, la posizione anticonformista di Dolores Prato sulla
questione può dipendere dall’eco di una antica fedeltà rimasta, anche e forse soprattutto a livello
popolare, negli ex-territori dello Stato pontificio.
Fra Nord e Sud
Il 20 settembre 1870 si chiude un periodo storico: un sistema di fini a lungo perseguiti (l’unità
nazionale, la costruzione di uno Stato liberale) si è attuato. Da quel momento, però, emergono più
chiaramente la “questione sociale” e l’embrione della “questione meridionale” (è scoppiato un
movimento antistatale e contadinesco di massa noto come “brigantaggio”); la legge per
l’alienazione dei beni ecclesiastici ha scosso il sistema della proprietà terriera; mutano i termini
della “questione romana”, con la presa di Roma e il Papa ridotto in Vaticano; nasce la necessità di
una conciliazione e il problema del posto che deve spettare a Roma.
Roma, che non è stata la forza motrice essenziale del Risorgimento, ad eccezione dell’esperienza
“troppo” democratica della Repubblica del ’49, non potrà allo stesso
modo essere il centro
propulsivo del nuovo Stato. “Ci si rendeva conto adesso, nell’atto di trasferire la capitale, che l’asse
del paese si sarebbe in qualche modo spostato”226. “La postura di Firenze concilia mirabilmente le
esigenze dell’Italia settentrionale con quella meridionale, mentre Roma s’accosta troppo al
Mezzogiorno”, diceva Jacini227 in un discorso al Senato.
Subito dopo la breccia di Porta Pia sembrava a molti che Roma fosse caduta nelle mani piuttosto dei
piemontesi che degli italiani. “Piemontesi” erano chiamati con disprezzo i nuovi venuti dai clericali.
Da Torino venivano i principali personaggi del nuovo Stato, e anche buona parte degli istituti e dei
gruppi finanziari che, fin dall’inizio, accorsero ad investire i loro capitali nell’economia romana. La
225
A. Caracciolo, op. cit., pp. 53-54.
Ivi, p. 63.
227
Ivi, p. 63.
226
155
Servadio, impegnatissima nell’espansione edilizia a Roma, faceva capo alla Banca di Torino e alla
Sconti e sete, così come il grande complesso delle costruzioni dell’Esquilino, condotto dall’impresa
omonima, era sostenuto per metà da genovesi – la Banca italiana costruzioni e la Compagnia
commerciale italiana - per metà dalla Compagnia fondiaria italiana, con azioni appartenenti per un
terzi a un gruppo subalpino.
Gli immigrati settentrionali e toscani prevalevano non solo per importanza, ma anche per numero.
Subito dopo il ’70, i provenienti dalle province del vecchio Regno sardo e i toscani superavano, in
percentuale, tutti gli altri immigrati, e già dieci anni dopo i non romani e gli stranieri erano più degli
abitanti nati nella città (166.311 contro 134.156)228.
Il trasporto della capitale divenne forza attrattiva sia per tutti gli impiegati dello Stato che da Torino
si erano trasferiti a Firenze e ora confluivano a Roma, sia di una moltitudine di persone in cerca di
fortuna, provenienti prevalentemente dal Mezzogiorno: una moltitudine “rumorosa, irrequieta,
procacciante e, nonostante le apparenze etniche, meno omogenea all’antica popolazione romana
del toscano o del piemontese infiorentinato”229. Con il passare del tempo la “meridionalizzazione”,
prima avvertita come pericolo, divenne realtà: dal Sud salirono borghesi senza futuro, contadini,
popolani, ma anche un ceto burocratico fatto di napoletani, siciliani, calabresi, o piccoli
commercianti e artigiani dell’Abruzzo e della Campania. La fusione delle persone e dei costumi fu
ardua.
La scossa del 20 settembre creò un diaframma tra i “caccialepre” o “neri” (così venivano chiamati
gli amici del regime pontificio) e gli “usurpati”, i “conquistatori” (come venivano definiti i nuovi
venuti), e questa divisione partiva dai vertici, Quirinale e Vaticano, per scendere fino agli strati del
popolo.
Se questi mutamenti […] colpivano le classi elevate, la popolazione romana degli altri ceti
restava impressionata da altri fatti. In primo luogo, il diluvio di giornali dai quali era stata
sommersa Roma. In pochi mesi comparvero centinaia di testate di giornali umoristici, politici,
letterari. Essi agitavano confusamente le idee di libertà e dell’avvenire di Roma e del nuovo
stato, condendo il tutto con accese polemiche verso l’antico regime pontificio e con tutte le salse
dell’anticlericalismo. Da parte cattolica, usufruendo delle libertà, fra cui quella di stampa,
garantite dal governo italiano, non si esitava a rispondere per le rime, e altrettanto si faceva dai
pulpiti delle chiese più frequentate.
Ma anche alle altre novità portate dallo Stato italiano i romani fecero presto l’abitudine, con
quel tanto di sufficienza, di ironia e di scetticismo che deriva loro dalla lunga frequenza con la
storia. Erano arrivati, infatti, i “buzzurri”, come li chiamarono, cioè i funzionari del nord che
subito si fecero costruire un quartiere a immagine di Torino (la zona di piazza Vittorio) e
introdussero nuove abitudini e nuovi costumi230.
228
Comune di Roma, Annuario statistico di Roma, Roma 1885, v. II, cfr. A. Caracciolo, op. cit., p. 66.
A. Caracciolo, op. cit., p. 67.
230
in Roma Capitale d’Italia. Nel primo centenario, a cura del Ministero della Pubblica Istruzione, Arnoldo Mondadori
Editore, Verona 1971, p. 186.
229
156
Carovita e caro alloggi resero in breve gravissima la situazione degli strati popolari, e il problema
delle abitazioni cresceva con lo scatenarsi della speculazione edilizia connessa con l’incremento
repentino della popolazione. Allo stesso tempo, c’era anche chi poté avvantaggiarsi
immediatamente del regime sopravvenuto: i “poteri forti” legati al mondo della finanza. Ma, nel
passaggio dal vecchio al nuovo, si creò nello stesso popolo romano una divisione netta tra coloro
che ormai affiancavano le proprie sorti a quelle della nazione italiana, capeggiati da gran parte della
borghesia ricca e degli intellettuali, e quanti speravano nella restaurazione, avendo in odio i
“piemontesi”, e si legavano sempre più alla Curia e al clero. Tra i “neri” anche numerose schiere del
popolino, in particolare di donne, che avevano vissuto degli impieghi e delle elemosine della Chiesa
e dei signori della corte pontificia.
Fin dal primo giorno i clericali si presentarono come difensori dell’autentico animo di Roma. Da
subito, in Vaticano e negli ambienti cattolici si cominciò a parlare di stranieri e di piemontesi
opposti al genuino popolo di Roma; si revocò tutto quanto era possibile delle tradizioni del “buon
tempo antico”; si cercò di confondere feste religiose e popolari dei romani. Quotidiani intransigenti
si chiamavano “Moniteur de Rome”, “Giornale di Roma”, “Corriere di Roma”, “Romano di Roma”.
Nel frattempo, l’amministrazione comunale diventava il luogo più tipico e adatto per la collusione
sul terreno economico per la presenza di clericali, principi romani, mercanti di campagna e
rappresentanti della finanza e degli intellettuali settentrionali.
L’avvenire della città: verso l’ampliamento urbano
All’indomani della scelta della capitale, tutto il partito liberale concordava sul fatto che la
superiorità del nuovo regime sul vecchio doveva apparire nel volto stesso della città: bisognava
dunque liberarla dalle brutture e dalle piaghe tradizionali perché diventasse più bella e più grande
dell’antica. Un programma che piaceva a tutti i patrioti, ai potenti della finanza e alla classe
dominante nazionale, ma che trovava esitazione nei gruppi della borghesia e del conservatorismo
romano, che non concepivano le colossali opere di trasformazione e gli immensi investimenti
proposti dalla grande finanza settentrionale.
Sta di fatto che tutto quello che era speculazione sulle aree, grandi profitti e improvvisi crolli, caro
alloggi, espansione urbana, si sarebbe poi sviluppato sulle basi gettate nei primi anni e nei primi
mesi: l’arrivo di amministrazioni centrali, corpi militari, attività giornalistiche, culturali, associative,
l’afflusso di intere famiglie da altre regioni, provocarono crescente richiesta di locali di ogni tipo. In
157
questo quadro, corporazioni religiose ed enti ecclesiastici si affrettarono a vendere tutto quello che
poterono, prima di essere colpiti dalle leggi eversive in preparazione. Famiglie nobili si disfecero di
ville e palazzi, che prima sembravano intoccabili per ragioni di prestigio. I profitti furono insperati.
In pochi mesi il suolo edificabile di Roma subì un vasto trasferimento di proprietà: anche i
proprietari delle ville, i “vignaroli” e gli ordini religiosi che traevano dalle terre le loro rendite
avevano venduto tutto a una cerchia ristretta di gruppi finanziari, come la Compagnia fondiaria
italiana, la Italo-germanica, la Banca di credito romano, la Banca generale di Roma.
Il futuro della città era in mano a questi pochi gruppi capitalistico-finanziari. La trasformazione
edilizia della città non la dominavano lo Stato o il Comune, ma i privati e gli speculatori.
Per Quintino Sella231, Roma avrebbe dovuto essere il luogo della scienza e del dibattito intellettuale,
dei poteri di governo, dell’amministrazione, dei poli essenziali della giustizia, dell’istruzione e della
ricerca scientifica. Un atteggiamento politico, questo, particolarmente moderno e avanzato, che però
era affiancato da un elemento in controtendenza con le aspirazioni locali. Sella, infatti, respingeva
l’idea che a Roma si spostasse anche il centro di gravità dell’economia nazionale: a Roma non
poteva stabilirsi il nucleo industriale, commerciale e produttivo del Paese.
L’idea della Destra per lo sviluppo della città era che si edificasse all’interno delle mura, verso la
zona alta, verso l’Esquilino. Al contrario, per gli ambienti della Sinistra la direttiva per la nuova
città era quella di costruire quartieri lungo il Tevere, a Testaccio e ai Prati di Castello, fuori dalla
cinta della Roma dei papi. A rappresentare questa seconda idea di Roma è Luigi Pianciani, figura di
grande rilievo in quegli anni, vecchio patriota del Partito d’azione: nei suoi discorsi esalta la “nuova
Roma”, la “terza Roma”, la “Roma del popolo” e protesta contro il “prete”. La sua volontà, subito
abbracciata dalle maggiori società imprenditrici, è di realizzare opere monumentali e di quartieri
nuovi al di là delle vecchie mura. In questo modo si sanciva che le mura della Roma pontificia non
segnavano più i confini della città. Questo progetto fu anche visto come tentativo di accerchiare il
Vaticano, soprattutto in ambienti clericali232.
Due modi di vedere il futuro della capitale che, a grandi linee, mostrano due concezioni politiche
antitetiche: Sella diventò di fatto il punto di convergenza delle forze più retrive – vecchia proprietà
fondiaria nobiliare ed ecclesiastica, gruppi monopolistici settentrionali – che avevano un visione
comune di una Roma stagnante e “tranquilla”; l’espansione verso i Prati e il Tevere, invece, era cara
ai democratici e a quanti volevano rompere con il passato, sognando una città ricca di industrie e
con quartieri per operai, commercianti e imprenditori.
231
Quintino Sella (Mosso, 7 luglio 1827 – Biella, 14 marzo 1884) fu scienziato, economista, politico. Fu ministro delle
Finanze nei governi Rattazzi, La Marmora e Lanza, e raggiunse in pochi anni il pareggio del bilancio.
232
Cfr. Alberto Caracciolo, I sindaci di Roma, Donzelli, Roma 1993.
158
Proprio da questi contrasti interni alla classe dirigente derivò il carattere disorganico, anarchico e
saltuario dello sviluppo urbano della capitale.
L’inondazione del Tevere del dicembre 1870 colpì l’immaginazione dei contemporanei oltre misura
e valse l’arrivo di re Vittorio Emanuele II, per la prima volta a Roma capitale d’Italia. Il problema
dell’arginamento e della sistemazione del fiume, e anche del suo rapporto con l’agglomerato
urbano, diventò una delle questioni fondamentali, e lo restò per anni. C’era chi proponeva soltanto
la sistemazione del corso attuale con modesti lavori di arginamento tramite l’elevazione di
muraglioni, e chi, invece, voleva deviare l’alveo furori città. Tra questi ultimi c’era anche Garibaldi,
cui non sfuggì il significato della battaglia intrapresa per il Tevere, e che sapeva che le sue proposte
suonavano come sfida al partito di potere. Il progetto Garibaldi-Baccarini233 venne presentato alla
Camera nel 1875, dove fu approvato all’unanimità. Venne varata la legge, ma il consiglio dei lavori
pubblici si dichiarò contrario: per Garibaldi, che si era ritirato a Caprera, fu un grave colpo. I grandi
costi dei lavori e gli interessi particolaristici bloccarono i lavori per lungo tempo. Qualche
prospettiva sembrò offrire la salita al governo della Sinistra, con Depretis e Crispi: ma l’impresa di
Garibaldi era troppo lontana dalle forze e dalla mentalità della nuova classe dirigente.
Questioni insolute e sempre ricorrenti furono anche la bonifica dell’Agro romano e il porto di
Roma, che sarebbe dovuto nascere lungo un Tevere navigabile e utilizzabile per lo sviluppo
commerciale.
Le ragioni dell’insuccesso nell’impresa del porto di Roma sono in fondo le stesse che segnano il
fallimento di ogni tentativo per l’industrializzazione della capitale. Lo sbocco al mare non è
concepibile altro che nel quadro di una città produttrice ed economicamente progredita. I gruppi
pi o meno grandi che di volta in volta si battono per questa prospettiva sono invece
ripetutamente sconfitti e prevale sempre, come vedremo ancora, il concetto di “capitale
tranquilla”, senza grandi industrie o agglomeramenti operai234.
La città di Roma nella questione romana
In uno studio su Roma capitale necessariamente ha grandissima importanza la questione del papato,
della Chiesa, del mondo cattolico che lì risiedevano. La storia di Roma capitale d’Italia è piena di
urti e di attriti, di accomodamenti fra i due poteri che si trovavano domiciliati sulle due rive del
233
234
Alfredo Baccarini, ingegnere e politico di ispirazione liberale.
A. Caracciolo, Roma capitale, cit., p. 128.
159
Tevere.
Eppure, di fronte alle parate dell’anticlericalismo, che faceva della città eterna il simbolo dei propri
principi, e alle accese manifestazioni religiose (politiche anch’esse) con cui rispondeva il partito
clericale, i governanti italiani riuscirono ad operare in modo da attutire i motivi di frizione e
alimentare quelli di convergenza.
Con la caduta del dominio temporale della Chiesa, il venti settembre 1870, Roma perse però anche
una tradizionale risorsa di vita e vaste categorie lavoratrici e di mondo minuto rimasero colpite, ma
il vero cataclisma fu per la Santa Sede, il patriziato romano, le istituzioni religiose. Nel ’70, con la
perdita delle rendite dai possedimenti territoriali, il Vaticano si trovò, impreparato, ad affrontare i
nuovi drammatici problemi di bilancio. La Chiesa, non volendo apparire mantenuta da un regime
che l’aveva spogliata dei propri averi, tentò di vivere ancora con i redditi delle sue proprietà e con la
carità dei fedeli, ma le leggi eversive, che dall’Italia si erano estese anche alla provincia romana,
colpirono anche queste fonti tradizionali. Per di più, l’Obolo di San Pietro era sempre più
insufficiente e la Santa Sede rischiava anche di rimanere sotto scacco delle comunità nazionali (vedi
quella francese), le uniche capaci di salvarla dalla bancarotta. Iniziò così la tendenza a investire in
banche italiane ed estere, e specialmente in quelle interessate alle attività economiche di Roma. In
Parlamento, parallelamente, i sostenitori della soppressione dei privilegi ecclesiastici si scontravano
con i più prudenti, che non volevano approfondire il solco con l’ambiente cattolico e, soprattutto,
temevano reazioni di natura internazionale.
Un colpo decisivo venne assestato, con legge del 27 maggio 1873, alla manomorta ecclesiastica,
che “doveva cessare”. Un’apposita giunta liquidatrice dell’Asse ecclesiastico della città di Roma,
inoltre, dopo poco più di un anno (1875) aveva venduto oltre un terzo del patrimonio immobiliare e
mobiliare, facendo scendere i prezzi degli immobili sul mercato romani con sempre meno
circolazione di capitale locale. Compratori di beni ecclesiastici erano famiglie patrizie, di cui molte
legate al Vaticano, e della stessa cerchia erano i nomi delle grandi famiglie che misero in vendita
palazzi, ville e vigne entro le mura cittadine: le ricchezze ricavate vennero poi affidate alle
istituzioni di credito, che convogliarono nelle imprese di ingrandimento della città, finché via via
questo genere di affari risultò gestito direttamente da molti esponenti dell’antica aristocrazia.
Compromesse le tradizionali fonti di reddito, Vaticano, corporazioni religiose e magnati
cattolici romani si rivolgono dunque sempre più verso investimenti d’altra natura. Ogni
qualvolta un ente ecclesiastico entra nel giro del mercato delle aree fabbricabili, la concretezza
dei fatti e del denaro lo induce a dimenticare l’abitudine della manomorta, a superare i
pregiudizi, per godere gli insospettati vantaggi del libero commercio235. […] La presenza dei
cattolici nelle imprese speculative fiorenti a Roma diventa più frequente, più noncurante di
235
Ivi, p. 146.
160
affiancarsi a liberali e governativi, fino a divenire aperta e massiccia236.
Rivolta all’inserimento dei cattolici nella struttura intima della società romana, nella vita associata e
nell’apparato amministrativo della capitale fu l’Unione romana, fondata sul finire del 1871 per le
elezioni amministrative. L’Unione raccoglieva simpatie di più d’uno in campo liberale: era vista
come il partito conservatore del domani. Contraltare alla Primaria società romana e al partito più
intransigente, appariva come un’organizzazione autorizzata e rappresentativa della Chiesa. Il suo
indirizzo moderato, già caratteristico sotto Pio IX, e favorito ancor di più da Leone XIII, portò
l’Unione a presentarsi unita con i liberali conservatori, nel desiderio che “onesti e abili
amministratori siano mandati a seder nei consigli del comune”237: una grande alleanza tra
conservatori di idee cattoliche e di idee liberali.
L’Unione romana, anche se non vantava la maggioranza, diresse la cosa pubblica in comune e alla
provincia ininterrottamente fino al blocco Nathan. Essa rappresentava, in sostanza, un mondo di
interessi che sempre più venivano a coincidere con quelli dell’alta finanza e della borghesia italiana.
Interessi che segnavano il passo del programma amministrativo dei cattolici.
La febbre edilizia che investì Roma per sette-otto anni dopo il 1880 non aveva precedenti, in nessun
luogo: frenesia di affari e corsa all’investimento in terreni e case alimentavano speculazioni che
attiravano imprenditori da ogni parte d’Italia, e che creavano fortune immense atterrandone
rapidamente altre. Tutto lasciava prevedere la crisi. In ogni parte della città, edifici e strade
incompiute testimoniavano una situazione pesante nel mercato immobiliare, dal futuro incerto.
La legge speciale sul concorso dello Stato nelle opere edilizie della capitale fu carica di
conseguenza sullo sviluppo della città, e rappresentò la premessa a tutto il periodo della “febbre
edilizia”.
Tra le maggiori opere pubbliche il Palazzo di giustizia, il Policlinico, caserme, ponti sul Tevere, la
continuazione di via Nazionale, la demolizione del ghetto.
Con il nuovo piano regolatore del 1883 (cui ne sarebbero seguiti altri due fino alla prima guerra
mondiale), poi, si generò un fenomeno di inurbamento irregolare e di anarchia edilizia: le banche,
infatti, trovata difficile la speculazione nell’orbita del piano regolatore per il valore acquistato dai
terreni fabbricabili, che esse stesse avevano contribuito a elevare, cercarono di spostare l’indirizzo
volgendo lo sguardo al suburbio. Quasi all’improvviso si tracciarono dieci quartieri suburbani fuori
236
237
Ivi, p. 148.
cfr. Ivi, p. 158.
161
le porte Pia, Salaria, San Lorenzo, Pinciana, Portese, San Giovanni, Flaminia, Trionfale: una
superficie di 898 mila metri quadri ai quali si aggiungevano i 2 milioni 800 mila metri quadrati del
comune. Fu dunque sotto la spinta degli interessi di alcuni potenti e di grandi banche che cambiò la
fisionomia della città, al di fuori di qualsiasi previsione. E il comune rimase travolto.
Questo piano fu fatale per lo sviluppo urbanistico, perché esso, più che orientarsi verso un
ampliamento della città prevalentemente in una singola direzione, in modo da limitare le
funzioni del vecchio centro, contemplava l’adattamento e la trasformazione di tutta la città, e
costruzioni nuove in ogni direzione. Si costruì dunque caoticamente, ma specialmente si sventrò
in profondità. Il caso più clamoroso fu via Nazionale che, anziché limitarsi a collegare il
vecchio centro alla stazione Termini, diventò l’asse di attraversamento dell’intera città.
Altre opere vennero intraprese sotto l’assillo delle necessità igieniche. Venne così distrutto il
ghetto e venne rasa al suolo la zona dell’Arenula; indubbiamente erano opere indispensabili
sotto il profilo della profilassi contro il colera che, a quell’epoca, costituiva una minaccia
permanente. Tuttavia si deve lamentare che tali opere non siano state eseguite con maggior
cautela, bonificando, ripulendo, sfoltendo, senza demolire interi quartieri. Cominciò invece la
sistematica distruzione della Roma medioevale che sarebbe stata completata sotto il fascismo.
Una specie di frenesia sembrava aver preso tutti238.
238
Roma capitale d’Italia, cit., p. 204.
162
II - “L’unità d’Italia: un assassinio per Roma”. Sul filo di Voce fuori coro
1881
La frenesia delle costruzioni prese un po’ tutti. Roma era o non era capitale? Dunque doveva
essere grande, popolosa come Parigi, perciò case, case, case perché la gente vi proliferasse. E
dove?
Ma più vicini possibile alla Vecchia Roma; Esquilino, Termini, Prati, Macao, Sant’Agnese, S.
Lorenzo.
Roma nella fantasia frenetica d’allora, va oltre, diventa immensa, si comperano vigne, orti,
terreni da pascolo a prezzi di terreni fabbricabili, si rivendono, si spezzettano, si passano di
mano in mano, e intanto si atterrano gli alberi per costruirvi quelle case, quelle fabbriche che vi
cominceranno a sorgere mezzo secolo più tardi.
Diventavano tutti costruttori. Il capomastro poteva essere l’architetto e l’ingegnere di se stesso,
e così sorgevano case immense, brutte e mal fatte.
Comincia così la lunga traversata nella storia di Roma raccontata, in qualche modo, da una Dolores
Prato senza freni né filtri, volutamente schierata dalla parte dei nostalgici di Roma com’era: una
città di piccoli miracoli nascosti fra scoscendimenti, curve e vicoli, una città del popolo, ma anche
del papa, una città nata per essere capitale non di uno Stato particolare ma per sua natura universale.
Dal Risorgimento alla breccia di Porta Pia, passando per il ventennio fascista e le due guerre
mondiali, fino all’“oggi” di una brillante intellettuale intenta a scrivere un pamphlet di rottura con
la storiografia classica dominante, una carrellata di immagini e racconti restituiscono una realtà
diretta e comprensibile a tutti. Alla base, però, una minuziosa ricostruzione della cronologia degli
interventi distruttivi-costruttivi che cambiarono radicalmente l’aspetto di Roma a partire dal 1870.
Per Dolores Prato, l’annessione di Roma e la sua trasformazione in capitale rappresentarono “un
assassinio”, la “distruzione” di una “città del popolo”: “La Roma nuova è un incubo. Percorrerla è
tentare di uscire dall’incubo senza riuscirci”.
163
Tutto si restrinse in Roma divenendo capitale d’Italia, materialmente e spiritualmente.
Il Tevere reso non più atto alla navigazione ne è un simbolo.
Grande chiavicone a cielo aperto.
[…]
La capitale ha decolorato Roma. Una città che era tutta, anche se piccola, colore di crosta di
pane ben cotta, colore di sole al tramonto su tela grezza, colore di caldo e di mattone cotto,
come poteva essere capita dai nordici piemontesi che venivano giù con nel cuore e nel cervello i
colori grigi delle loro città porticate per rendere anche più grigia l’aria dove l’uomo cammina?
Ed ecco Piazza Vittorio esempio di grigio e di criptoportico, ecco i quartieri umbertini dove
pure qualche volta il colore di Roma fa macchia tra il grigiore delle altre case239.
La colpa di tutto era dei “piemontesi”, e dei Savoia.
Il disastro cominciò subito con la calata degli architetti torinesi subito dietro ai bersaglieri, alle
prostitute e ai più furbi speculatori. Buona gente, innamorata a ragione della Torino, ma che non
capì nulla di Roma. Torino era bella? Sì, e tanto anche! Dunque bisognava fare che Roma
assomigliasse il più possibile a Torino. Strade parallele intersecate da strade parallele, una
scacchiera, una salina se volete, ma Torino è bella così, è il resto di un castro, nacque caserma,
Torino, il piano ce l’ha le strade possono andar dritte.
Roma no, Roma è già fabbricata, Roma è scoscendimento, Roma è sorpresa, strade a gomito, a
giravolte, a curve. Che scandalo per i torinesi, tanto lo scandalo delle strade storte li accecò che
non s’avvidero che Roma ne aveva già tante di strade dritte, aveva la sistina, le quattro fontane,
la viminale che pur salendo e scendendo dai tre colli, dritte lo sono e proprio per quelle
prospettive di Sali e scendi, una meraviglia inimitabile; Roma aveva la lungara, la lunga retta e
la lungarina che la precedevano, aveva via Giulia, vie, dritte e belle così Torino forse non ne ha.
E le tre strade che dal popolo si aprono a ventaglio non sono forse dritte? Dall’obelisco del
Popolo non se n’erano accorti che si vedeva il Campidoglio? Forse no, tanto è vero che poco
dopo la coprirono col più brutto dei monumenti della terza Roma.
E lo stradone di San Giovanni, non va dritto? Dal Colosseo puntava su San Giovanni senza una
grinza. Ce n’erano tante di strade dritte, ma lo scandalo di quelle storte li accecò, non le videro e
giudicarono che questa nuova capitale dovesse avere almeno un quartiere a scacchiera e i
portici240.
239
240
ACGV, Fondo Prato, Pm 16.
ACGV, Fondo Prato, Pm 16-20.
164
E ancora:
Uno stato che veniva a manomettere i religiosi, che ne prendeva case ed averi, ma non aveva
neppure la fantasia di trovare nomi nuovi.
Così il carcere femminile continuò a chiamarsi “Le Mantellate” come se dentro vi si aggirassero
pudiche vergini. E a uno dei più brutti carceri, un edificio che è la realizzazione di un incubo,
dettero uno dei più dolci nomi che sia possibile dare “Regina coeli” solo perché lì c’era una
chiesina, e prima un convento anche con quel nome che non se l’erano dato le religiose, ma il
popolo l’aveva dato a loro. Perché non erano monache il cui umore assecondasse i tempi
dell’anno liturgico che alterna lutto e gioia, attesa e sollievo, obbedienza e festa. Quelle suore
erano sempre in festa, esse onoravano la Madonna perpetuando il tripudio che comincia con la
Pasqua, finisce con l’incanto dell’Ascensione per passare al raccoglimento e all’azione della
Pentecoste. E’ il periodo in cui la chiesa tripudia ripetendo “Alleluja, alleluia” e si rivolge alla
Madonna: “Regina coeli cantare, alleluja, resurrescit, sicut discit, alleluja. Regina coeli laetare,
alleluja”. Questa antifona che è solo del tempo pasquale, esse la ripetevano tutto l’anno, tutto
l’anno allelujavano; scendevano in chiesa più volte al giorno e cantavano “Regina coeli laetare
alleluia”, interrompevano il sonno della notte per cantare ancora “Regina coeli, laetare alleluia”.
Le persone che entravano in quella chiesina facilmente s’imbattevano nel coro squillante di voci
argentine del Regina coeli. E Regina coeli fu il nome che diventò delle monache e del luogo.
Le parole sono cose vive, le parole diventano anima nostra, nostro sorriso e nostro pianto. Le
suore che davano la vita nella ripetizione di quel canto allelujante assorbivano per forza un po’
della sua letizia.
Quel luogo fu scelto per costruire il tetro carcere, come sempre mancò la fantasia per scegliere
un nome, lasciarono quello al carcere. Battezzavano tutto col nome del loro re, potevano
chiamarlo Reale carcere Vittorio Emanuele II. Era suo, il suo governo l’aveva costruito, il nome
gli spettava, invece no, lo dettero alla magnifica biblioteca dei gesuiti per la quale lui non aveva
fatto altro che rubarla (se è troppo dire incamerarla)241.
L’opera di trasformazione della città, nel lessico di Prato, diventa “distruzione”, “sventramento”
(questi sono anche i titoli da lei scelti per i capitoli del suo libro). Di tutto ciò che fu abbattuto, degli
scavi, delle costruzioni, la scrittrice fa un elenco infinito e dettagliatissimo, con tanto di
documentazione storica datata.
241
ACGV, Fondo Prato, Pm 16.
165
Finora le rovine vivevano insieme col popolo romano. Quell’esedra abbracciava una casetta,
quell’arco ne ricopriva un’altra, quella colonna entrava dentro una casa e ne reggeva il
crocifisso in cima al letto, il vaso di mentuccia stava sopra un capitello, e il simulacro di
Minerva custodiva la porta di un forno.
Con quella valanga di furiosi e incoscienti innovatori incominciò subito la rovina delle nostre
rovine che dura tuttora in un processo ormai inarrestabile. Solo l’abbandono di Roma come
capitale riuscirebbe a salvare quello che è ancora salvabile. Perché è proprio l’abbandono che le
conserva. Il cemento che le unisce alla vita, è la loro conservazione, e la terra. La terra le
custodisce, l’aria le sgretola.
Incominciò subito quell’opera di isolamento, che riduce le rovine a scheletri. E siccome
l’entusiasmo dei buzzurri era poderoso, si cominciò dal Colosseo.
[…] Via le erbacce e gli arbusti che macchiano di verde il caldo colore romano. Le radici, è
vero, dilatano, ma cementano anche. […] Comunque il Colosseo fu tosato e sbarbato mentre i
guastatori demolivano i tabernacoli della via Crucis lungo l’arena e le cappellette nascoste in
qualche angolo di quel gigantesco labirinto di volte e di archi. Alcune di quelle oscure
cappellette erano assai più suggestive della grotta di Massabielle.
La gente vi riposava, ci chiacchierava e pregava anche.
E nonostante le ripetute e molteplici e ostentate proteste di rispetto alla religione, la grande
croce che s’innalzava nel mezzo dell’anfiteatro fu abbattuta.
Nelle chiese si facevano tridui per la salvezza del Colosseo, per riparazione della sua
profanazione. Arrivò anche un pellegrinaggio di protesta e devozione […]
La sofferenza per questa distruzione non era tanto dei romani che guardavano i fatti della loro
città come chi legge un libro di storia su fatti che già conosce, con acutezza di giudizio, ma
senza meraviglia, senza emozione.
Ma erano i cattolici stranieri a ribellarsi e a soffrire di più. Essi venivano a Roma come a un
prolungamento spirituale della loro patria, e trovavano che era diventata un’altra cosa, una
patria anch’essa sua straniera alla loro.
E con quella furia distruttiva dei nuovi venuti essi trovavano Roma come chi torna a casa e la
trova sconvolta dai ladri242.
O ancora:
L’incongruenza non solo dei fatti, ma anche delle parole che qualche volta irritano di più
242
ACGV, Fondo Prato, Pm 16-20.
166
cominciò con l’annessione e dura tuttora. Una foto, didascalia: “Il palatino liberato dalle
costruzioni che lo nascondevano”.
…è liberato quel passo che resta da un mare di distruzioni. Però sotto a una foto del
Campidoglio non troverete mai la didascalia: “Il Campidoglio nascosto dal monumento che gli
abbiamo costruito accanto”.
Per fortuna non fecero in tempo a realizzare tutte le pazzie che venivano in mente ai non romani
calati quaggiù dopo l’annessione.
Prova di pazzia sarebbe stata più assai (?) del monumentaccio, la sistemazione di Piazza
Navona, uno sguardo alla foto di quel bozzetto e ogni dubbio di sanità mentale scompare.
Tutto senza giudizio, sventramenti e costruzioni. Buttate fondamenta poderose a casaccio,
seppellite, chiuse vene d’acqua che prima defluivano al Tevere e ora stagnano e crescono sotto
la città che comincia ad affondare. Non è giusto dire che in tutto questo mercimonio di capitali,
di politica, di sfruttamenti, di speculazione, quella ch ne è vittima deturpata e ormai morente, è
solo Roma?
Particolare, quasi viscerale, è il legame della scrittrice-giornalista con il Tevere. Del fiume conosce
la storia, le storie che lo avevano attraversato, il colore e l’odore, il profondo valore simbolico ed
economico che aveva rappresentato. Nelle sue parole è vivo il rapporto fra il Tevere e i romani, il
significato di “Roma fumarola”. In particolare, Dolores non accetta la costruzione dei muraglioni
come soluzione al problema delle esondazioni.
Si dice sempre che il fiume fu incarcerato dai muraglioni. Nessuno dice che tutta la città che
confluiva al Tevere fu imprigionata. Era una città fluviale da quella parte, scendeva dolce verso
l’acqua, nelle strade che vi sboccavano si avvertiva il chiarore dell’acqua assolata Avanti a
questa città fluviale furono alzati gli argini che la chiusero come le muraglie i cortili delle
carceri. I lungotevere a sinistra del fiume, quelli che hanno incarcerato Roma fiumarola,
sembrano belli perché non guardiamo più la Roma del seminterrato. A San Rocco, in linea
d’aria, gli camminiamo a metà facciata, e via Giulia, le scuole dei Fiorentini, (cercare le vie
prima e dopo S. Rocco) tutte strade semisepolte dai bastioni.
Quei muraglioni qualcosa hanno fatto, ma non per questo sono meno brutti. Se avessero visto
com’era bella quella Roma che lambiva le acque e anche quando ci si specchiava, in cui il fiume
era parte viva della città come la gente che vi scendeva. Quell’acqua era a livello delle case,
vivevano insieme. Del fiume hanno fatto un pozzo profondo, un canale.
167
Potevano arrivare allo stesso scopo con altri mezzi.
Ma si sa, i lavori dei governi moderni sono politica, utilità pubblica, è una cosa per conquistare
approvazioni.
Bisognava decidere di fare quei muraglioni al più presto, così si poteva dire: Romani, quello che
i papi non vi hanno fatto in tanti secoli, ve lo fa subito re Vittorio, lo scomunicato.
E così via il suggestivo porto di Ripetta alla cui guardia stavano due chiese. Una corsa di pochi
passi e dall’acqua si stava in chiesa. Ora quelle chiese stanno giù sprofondate e la gente che
cammina sul lungotevere, le guarda dall’alto.
Dolores non si esimeva da giudizi taglienti sulla monarchia e il nuovo assetto politico in cui si
muoveva l’Italia appena nata:
Il nuovo regno dietro la sua trionfalistica retorica aveva anche la sua paura. Per paura che
manovre internazionali portassero a ripristinare un governo pontificio, si mise con i tedeschi.
Due Kaiser e in mezzo un reuccio nuovo di zecca243.
Ed era sua intenzione scrivere anche capitoli su Quel che poteva essere fatto.
Costruendo in prossimità di un monumento o edificio ragguardevole per arte o per storia, tenere
una certa distanza e nelle proporzioni regolarsi su quello del medesimo. Esempio: la torre degli
Anguillara che potentemente emergeva nello spazio per chi andava verso Trastevere, ora è un
aggeggio davanti a un enorme casone che la sovrasta.
La chiesina della Madonna del riposo quella che era una felice pausa nel cammino dei piedi e
nell’ansia dell’anima, campagnola, ma graziosa, ora è una specie di baracchetta davanti agli
edifici che le sorgono giganteschi non solo ai lati delle due strade che da lei divergono, ma alle
sue spalle. Essa poggia su quei casoni. Se si fosse lasciato un po’ di spazio alberato dietro di lei,
in modo che la sua rustica grazia risaltasse, anche la zona, bruttissima, ne avrebbe guadagnato.
Ora essa è un nome per indicare una fermata degli autobus244.
Un altro tema molto caro a Dolores è l’industrializzazione di Roma, nonostante lei stessa dichiari:
“Di questo argomento non so proprio nulla. Leggo, non vado alla ricerca della verità. E quel che
leggo è un gioco a mosca cieca. Quello piange perché Roma non è città industriale e auspica
243
244
ACGV, Fondo Prato, Pm 2.
ACGV, Fondo Prato, Pm 16-20.
168
capannoni e ciminiere, quell’altro è soddisfatto perché da quel che già c’è è chiaro, Roma è già e lo
sarà sempre di più città industriale”245.
E in effetti, la questione che si pose ai governanti all’indomani dello spostamento della capitale a
Roma riguardo al carattere industriale o meno che la città avrebbe dovuto avere, sull’esempio delle
altre capitali, è un argomento controverso e dalle molte sfaccettature.
Anche a trenta o quaranta anni dal venti settembre, se andiamo a leggere la storia di Roma capitale,
non troveremo la costruzione di nuove industrie, se non di poche, e che ebbero breve vita. Ma le
motivazioni dietro al mancato decollo industriale della città non sono soltanto economiche.
Le attività di lucro connesse allo sviluppo di Roma, è vero, distraevano i capitali che avrebbero
potuto essere impegnati nell’attività produttiva. La speculazione edilizia creava enormi profitti, e
questo andava inevitabilmente a scapito di altri settori di investimento. In particolare i capitali più
propriamente romani, che in gran parte avevano legami con il Vaticano, e la stessa Santa Sede non
vedevano buone ragioni per abbandonare pubblici servizi, costruzione di case, compravendita di
terreni e per dedicarsi alla creazione di opifici, anche perché questo li avrebbe messi faccia a faccia
con il proletariato, i suoi scioperi, le sue organizzazioni. E non si sarebbe potuto chiedere neanche a
gruppi industriali e finanziari ormai radicati in altre regioni di promuovere lo sviluppo industriale di
Roma, che poi sarebbe diventata diretta concorrente delle fabbriche madri.
Roma, dunque, si differenziava sempre più nella sua struttura economica dalla grandi metropoli
industriali e progredite dei principali Paesi europei e di altre regioni italiane. Roma non viveva di
vita propria, ma si muoveva e si disponeva intorno alle sopravvivenze della sua tradizione di città
turistica e di centro religioso, e soprattutto intorno alle attività amministrative di capitale dello Stato
unitario.
La scelta di fare di Roma una “capitale tranquilla” fu solo una scelta economica dovuta alla
mancanza di capitali, o fu anche espressione di un preciso disegno e intervento politico?
Una tradizione antica, anteriore persino alla liberazione di Roma dallo Stato pontificio, come
abbiamo visto, rendeva la classe dirigente italiana preoccupata che non si creasse nella capitale un
centro troppo importante. Per la Destra, essere contrari a Roma città economicamente avanzata era
un fatto di “formazione”. Oltre ai riferimenti espliciti di Quintino Sella, su cui ci siamo soffermati
precedentemente, chiare sono anche le parole del ministro Finali in occasione della distribuzione
dei premi agli alunni dell’Ospizio di San Michele il 30 ottobre 1875:
Non è mica che io creda che Roma sia per trasformarsi in una grande città industriale, ché anzi
neppure lo desidero. Io non desidero che qui sorgano quelle grandi officine, nelle quali
dell’operaio non si richiede intelligenza ed arte, ma poco più di una forza meccanica. Non so
poi neppure immaginare che si innalzino le camminiere delle officine accanto agli obelischi ed
245
ACGV, Fondo Prato, Pm 16-20.
169
alle colonne di questa monumentale città; e che i vortici di fumo si avvolgano intorno alle sue
cupole246.
Ma questi timori, in fondo, sono gli stessi anche nella Sinistra, sia nel periodo di opposizione che in
quello di governo. Senza limitazioni di partito, sorgevano gli “adoratori del passato” che ritenevano
“la mancanza di industrie provvidenziale e desiderabile in Roma, appunto perché le agglomerazioni
operaie minaccerebbero la tranquillità, contaminerebbero la contemplazione del Foro romano”247.
Trascorso il periodo di stagnazione che seguì la grande crisi edilizia nei primi del Novecento, le
discussioni per Roma fanno trapelare nuove esplicite resistenze di governo contro
l’industrializzazione. E lo sviluppo di Roma, in questo senso, resta un’illusione anche con Giolitti,
nonostante le molte speranze che i contemporanei riponevano in quest’uomo dalla mentalità più
agile e moderna dei suoi timorosi predecessori. Neanche l’amministrazione di Ernesto Nathan, col
suo disegno di una “Terza Roma” (popolare, anticlericale, democratica, istruita), voleva una città
industriale, e neppure una capitale dominante e accentratrice.
Ci vuol altro prima che Roma scenda alla lotta industriale con Biella, Schio ed altri centri, dotati
d’energia in abbondanza, di mano d’opera abile e a buon mercato, di facili comunicazioni, di
regioni attigue agiate, densamente popolate, che assicurano l’esito di buona parte del prodotto.
L’industriale che si cacciasse nella mischia a Roma, vada a San Paolo, vada a Testaccio,
andrebbe presto colle ossa rotte248.
Dolores Prato, in merito all’industrializzazione di Roma, non ha dubbi, né se si parla di periodo
post-unitario né in seguito:
Si lamentano che Roma non sia una città industriale, e lo è già troppo, il lamento ha qualcosa di
stanti, in un’epoca in cui i segni stanchezza dell’industrializzazione non mancano. Necessaria lo
sarà, ma bella no, sana no, e allora perché non lasciare immune una città come Roma?
Roma così, sola in se stessa, meta di tutto il mondo non avrebbe avuto bisogno dell’industria
che è bruttezza, ciminiere, capannoni, fumo, smog.
Non discuto su nulla io, figuriamoci sull’industrializzazione! Se il mondo ha infilato quella
svolta è segno che la sua strada è quella. Ma che essa distrugga la bellezza è indiscutibile
246
cfr. A. Caracciolo, Roma capitale, cit., p. 248.
Ivi, p. 248.
248
E. Nathan, La terza Roma, in Nuova antologia, 1 agosto 1916.
247
170
(sicuro).
Avere salvato una città come Roma dall’industria non sarebbe stato un gran male. C’è tanto
posto al mondo per quei brutti agglomerati, e tante città che li reclamano.
Una donna bella colta voluttuosa, può anche non saper cucire a macchina.
Dal mostro industriale si sarebbe salvata Roma. Il Papa non le avrebbe certo avute e Roma non
ne sarebbe stata deturpata249.
249
ACGV, Fondo Prato, Pm 16-20.
171
III – “Quando gli italiani entrorno a Roma…”. Dagli articoli la voce limpida di
Dolores
Come era Roma250
Un sessantenne di oggi domandava spesso a suo nonno che gli raccontasse della breccia di porta
Pia e del governo Subalpino dato che egli sapeva tante cose che i libri di scuola ignoravano.
Prima di andare a scuola era la nonna a raccontare e cominciava sempre con “c’era una volta”;
adesso era il nonno e incominciava sempre: “Quando gli italiani entrorno a Roma…” e un
giorno non poté farne a meno, lo interruppe:
- Scusa, sai, ma voialtri che eravate?
Si drizzò il vecchio, parve raccogliersi in dignità e rispose come se incidesse una pietra:
- Noantri erimo romani!
Questi i romani, ma Roma che cosa era prima che dal nord le venisse appioppata la funzione di
capitale d’Italia?
Politicamente era il capoluogo della Comarca, ma questo nessuno lo sapeva. Essa per se stessa
era una piccola città addormentata in un verde secolare con uno strano carattere di immensità.
Piccola e immensa. Piccola nel raccolto del suo abitato. Piccola nel nucleo, diffusa nella
continuità spaziosa delle sue ville, dei suoi orti, dei suoi giardini, delle sue vigne, delle sue
rovine distese al sole tra alberi erba e cespugli in larghi spazi piani o scoscesi parlanti di
immensità.
I broccoli, l’insalata, i cavoli, i pomodori, il rosmarino insieme con le rose, i giaggioli e il
glicine, crescevano fianco a fianco di rovine e monumenti noti in tutto il mondo.
Roma era inimmaginabile per chi non l’aveva vista, superiore all’aspettativa per chi l’aveva
sentita raccontare: sfuggiva a qualunque schema, era Roma.
Qualcuno dice che era un grosso paesotto fatto di basiliche, di chiese, di antichi monumenti, di
palazzi, di conventi, di ville di rovine di giardini, di fontane, che nella sua campagna aveva
chiese come san Giovanni, santa Balbina, i santi Quattro san Pancrazio, nelle cui piazze
periferiche, come la Barberini, potevano anche flettersi e riposare i buoi scesi dall’olmata dei
Cappuccini, dove nelle casupole le porte delle botteghe si spalancavano all’esterno come
persiane, una piazza rurale che aveva nel mezzo la fontana del Tritone, a un lato la fontanella
delle api sulla conchiglia e dall’alto guardava in giù un palazzo superbo. Un grosso paesotto, ma
fatto di sorprese uniche nel mondo a cominciare dalla gente. C’era già la stazione, lassù a
250
ACGV, Fondo Prato, Pg 118.
172
Termini tra campi ville e solenni rovine; dentro le rovine una delle più belle chiese del mondo;
di fronte all’esedra che faceva da facciata a questa chiesa, monsignor De Merode stava
tracciando quella strada che sarà detta poi via Nazionale; una serie di sorprese e di meraviglie,
di umili e umane armonie librate in quella sua inconfondibile immensità.
Da che cosa era data quella sua immensità nella quale solo l’universale aveva diritto di
cittadinanza? Dalla forma del suo spazio, certo, dalla sua luce, dal suo cielo, certissimo, ma ci
doveva essere qualche altra cosa. Potrebbe essere forse la coincidenza di un particolare punto
astrologico con uno magnetico ugualmente particolare a fare di questa città che vi è germinata
una città unica destinata ad essere sola come è solo chi sta sul trono o sulla croce.
Dolores Prato giornalista è sicuramente da annoverare tra i nostalgici della “vecchia Roma”, quelli
che, di fronte alle distruzioni, alle edificazioni, agli sventramenti della città avvenuti a partire
dall’annessione fino al ventennio fascista per costruire una capitale e perpetuare il mito di Roma, la
“città eterna”, hanno sempre cercato fra i viottoli, nelle vie immense, nei giardini, dietro alle svolte
di una strada e nelle facciate dei palazzi quella “Roma sparita” che rimane custodita, come memoria
unica, negli acquarelli di Ettore Roesler Franz (Roma, 1845-1907).
Centoventi vedute di Roma, suddivise in quattro parti, che fissavano sulla tela la città condannata
irreparabilmente a sparire, di cui la prima serie da 40 venne fatta conoscere per la prima volta
all’Esposizione di belle arti, a Roma, nel 1883, per inaugurare il palazzo eretto in via Nazionale da
Pio Piacentini: tanto furono ritenuti preziosi questi acquarelli che furono acquistati subito dal
Comune di Roma per 18 mila lire. In essi si potevano ritrovare il ghetto, le mura romane e
medievali, quelle di Aureliano, la chiesa della Morte, i ponti Cestio e Fabricio, la torre di Belisario,
la torre della Contessa Matilde, quella degli Anguillara, la tomba di Caio Sulplicio, la chiesa di San
Bartolomeo, i giardini della Farnesina con gli ultimi scavi fatti, la basilica medievale di Santa
Crispina e molto della Roma che già nel 1883 non esisteva più o che, di lì a poco, sarebbe
scomparsa in seguito alla trasformazione della città. Prima dell’esposizione “internazionale”, però,
Franz aveva già fermato con le sue opere il Tevere e il suo divenire in 16 acquarelli “privati”. “Il
sig. E. Roesler-Franz – scriveva Luigi Bellinzoni in suo articolo sul “Popolo Romano” del 20 marzo
1881 – un acquerellista giovane, che ha abbandonato le vie del commercio nelle quali era già ben
inoltrato, per votarsi col fervore del neofita alla esistenza burrascosa dell’artista, ha compreso che la
sua città natale andava a perdere per le esigenze della vita moderna e de’ suoi nuovi destini, la
caratteristica sua più impressa di romanticismo, caratteristica che, oltre al formare l’incanto dei
touristes ed adescare le voglie del pittore, serve di dilucidazione storica ai tempi bui del medio-
173
evo”251.
Roesler-Franz anticipava l’opera dei demolitori della vecchia Roma anche di poche settimane, per
poter fermare nel colore le immagini che sarebbero poi scomparse per sempre. Cancellate, sparite,
distrutte. Per lui era “un vero piacere poter gareggiare in velocità con i demolitori”.
La Roma che egli amò e ci ha tramandato non è quella dei monumenti insigni, dei palazzi
principeschi, ma quella delle umili e povere case mescolate e confuse con qualche dimora
baronale; la città degli intimi giardinetti, dei balconcini fioriti, dei freschi pergolati lungo le rive
del fiume, dei tetti bassi e sconnessi cui spesso sovrasta l’elegante cupola di una chiesa del
seicento e la torre medioevale del barone, talvolta alta, superba, poderosa, tal’altra mozza,
misero avanzo e testimonio delle lotte baronali e di quelle tra nobili e popolo.
Una Roma con ritmi di esistenza ancora primordiali, ma straordinariamente umana, “offerta”
all’uomo. Pur con le sue impressionanti carenze nel meccanismo sociale, nell’evoluzione civile.
Una città tutta orti, vigne, ville e campagna, mestieri e piccolo artigianato, ambulanti, carri e
carretti. E l’impianto medioevale di certe abitazioni, poste all’ombra della maestà
rinascimentale, dell’eccelso capriccio barocco. Con il fiume protagonista e onnipresente, bello
di una bellezza che non ritroveremo mai più.
Questa è dunque la Roma riflessa nelle famose, o, secondo altri, troppo famose vedute. Una
Roma di cui riportava fedelmente, sempre, i muri screziati, macchiati, tassellati dal tempo. Ma
talvolta si compiaceva pure di atmosfere piovose, per far risultare lucente il selciato e riflettere
nelle pozzanghere lembi di cielo. E quando lo fa riconferma ancora una volta i caratteri di una
Roma sempiterna252.
In Dolores Prato, nei suoi articoli per “Paese Sera”, così come abbiamo visto in Voce fuori coro,
troviamo le stesse sensazioni di sgomento, turbamento e sconcerto di fronte alle rapide e febbrili
trasformazioni che Roma subì a seguito del suo nuovo status di capitale del Regno d'Italia.
Sensazioni che, ai tempi, animarono i romani e alcuni artisti e intellettuali europei: in molti casi le
trasformazioni furono percepite come delle vere e proprie distruzioni, sia ad esempio dallo storico
dell'arte tedesco Herman Grimm, che nel 1886 diede alle stampe il pamphlet La distruzione di
Roma253, sia da un artista come Ernest Hébert, che a questo tema dedicò il dipinto “Roma sdegnata”
per rendere omaggio a questa per lui perduta Roma. La città mutata, caratterizzata da una nuova e
straordinaria vitalità, aveva provocato in molti un amaro e aspro rimpianto della città silente che
avevano conosciuto ed amato, di quel luogo incantato dove le vestigia del passato e la grande
tradizione classica avevano rappresentato una inesauribile fonte di ispirazione.
Appena un mese dopo la breccia di Porta Pia, il 30 ottobre 1870, Ferdinand Gregorovius, grande
storico della Roma del Medioevo, commentava l’avvenuta annessione di Roma scrivendo nei suoi
Diari: “Roma perderà l’aria di repubblica mondiale, che ho respirato diciotto anni. Essa discende al
251
Livio Jannattoni, Roma sparita negli acquarelli di Ettore Roesler Franz, Newton Compton editori, Roma 1981, p. 8.
Ivi, p. 15.
253
Herman Grimm, La distruzione di Roma, tradotta da C.V. Giusti, Loescher, Torino-Roma-Firenze1886.
252
174
grado di capitale degli italiani […] Il medio evo è stato spazzato via dalla tramontana con tutto lo
spirito storico del passato. Roma ha perduto il suo incanto”254.
Dolores giornalista è unita a questi grandi intellettuali di fine Ottocento da un comune sentire, del
tutto evidente in questo passaggio dall’articolo Le Ghirlande (“Paese Sera”, 25 dicembre 1956)
Ma questo miracolo romano che aveva resistito al tempo, ebbe il suo colpo fatale
dall’annessione.
La città che era stata per secoli un meraviglioso paese universale, ridotta a capitale di uno stato
particolare, perdette pian piano ciò che dell’antichità classica era sopravvissuto per oltre due
millenni. Da nord e da sud affluì su Roma gente che l’invase, ne distrusse le piccole e grandi
tradizioni che erano il suo meraviglioso patrimonio, la sua attività, unica al mondo, la trasformò
in città simile a tutte le altre.
E quando subito dopo, nello stesso articolo, richiama:
Quell’epoca favolosa in cui Roma era dei romani che vi abitavano e del mondo intero che vi
passava.
La distruzione per mano dei “Piemontesi”, come tema dominante, ricorre come filo rosso in tutta la
sua produzione giornalistica, a volte scritta con toni sprezzanti direttamente sulla pagina, nero su
bianco, altre come leit motiv percepibile, anche nella rievocazione nostalgica di una Roma che non
esiste più. Fisicamente, nelle architetture e nelle strade, nei monumenti e nelle piazze, o nelle sue
tradizioni e nei suoi antichi costumi e valori.
Quel pianoro in vetta all’Esquilino dove prima dell’annessione di Roma all’Italia, la grande
basilica s’alzava solitaria tra vigne, ville, e campi e dove i piemontesi precipitati quaggiù dopo il
1870, distruggendo secolari bellezze, costruirono il loro orribile quartiere, un casellario di
caserme civili ( in Neve d’agosto, “Paese Sera”, 6-7 agosto 1957)
Senza sconti è la descrizione della nuova Roma in confronto alla città “autentica” del passato in
254
Ferdinand Gregorovius, Diari Romani. 1852-1874, a cura di A. M. Arpino, Avanzini e Torraca, Roma 1967, p. 528.
175
Vecchia Roma (“Paese Sera”, 13 gennaio 1960):
La vera Roma è ridotta simile al corpo di un martire: spezzata, dispersa, esposta a frantumi sotto
forma di reliquia. Ci sono ormai, dentro e fuori le mura, quartieri interi così significanti e
standardizzati che potrebbero essere trasferiti in qualunque altra città, senza togliere nulla a
Roma.
Eppure a guardar bene qualche suo residuo si insinua tra quegli agglomerati di case e di casoni,
perché il suo carattere è così prepotente che a volte basta un albero e qualche sasso a legittimare
il bastardume dilagante.
Il quartiere dei Parioli sta tra quelli che per il cattivo gusto edilizio e coloristico non hanno
neppure l’attenuante della povertà, di cui si valgono gli orribili casamenti di certe zone
periferiche.
Eccone una strada: via Denza, che sale ondulando su per quelle aristocratiche alture; il suo
movimento in ascesa è già Roma; è già Roma la luce che ne consegue; è già Roma la scorciatoia
a scaletta che a un tratto sbuca dal fondo, in mezzo ai cipressi; certi alberi superstiti delle
vecchie vigne, certi pini vasti come nuvole, benché prigionieri tra i muri, sono sensibilmente
vecchia Roma; qualche muricciolo di cinta è tinteggiato con quello che fu il naturale colore
della città; un superstite portale campagnolo, grande e semplice come un gigante si volge un
poco di lato quasi vergognoso della sua mole, quasi pauroso d’esser notato, sta lì come un
vecchio e decaduto proprietario, ospitato per forza di contratto dai nuovi compratori sempre in
attesa di un appiglio che ne autorizzi lo sfratto.
La strada sinuosa e lenta, sulla sommità dell’altura cambia nome e pendenza e prosegue su di un
falso piano tra piccole ville che si affacciano presuntuose sulla strada, tra grandi ville che,
superbiose, se ne allontanano, tra piccoli parchi che, stretti dai nuovi palazzi, lustri come servizi
igienici, paiono immensi.
Lo stesso articolo si chiude così:
Pareva che Roma, perseguitata all’esterno dalla speculazione edilizia, anche monastica, si
rifugiasse sotto terra come gli antichi cristiani.
La devastazione del trapasso è ben sintetizzata anche in un altro notevole articolo, probabilmente
rimasto inedito, Roma, non altro, che inizia così:
Politica o religione, quella che ci rimette sempre è Roma, non quale entità amministrativa e
176
presidenziale della Nazione, ma ROMA come entità a sé stante: le sue case, i suoi monumenti,
le sue strade, i suoi alberi, la sua luce, la sua anima.
Più avanti, nell’esplicitare il movimento – non gradito – che il Giubileo sta procurando alla sua città
Dolores continua:
Spariscono prati, chiamiamoli praticelli (per chi non ha la lira il soldo è bono), per stenderci il
tappeto d’asfalto necessario per le ruote gommate. Si costruisce dove era proibito, in forma
provvisoria, dicono, per l’Anno Santo: che cosa è il provvisorio e quanto sia benedetto, ognuno
lo sa. Si sventra, si sopraeleva, atei e religiosi allargano, modificano, sempre in vista dell’Anno
Santo e Roma, un pezzetto alla volta sta finendo di andarsene. Cominciò a finire quando non fu
più Roma, ma Capitale; da 105 anni la stanno distruggendo e l’Anno Santo le darà la sua
scoppola; solo per questo duole.
Il linguaggio vaticano è un velluto sempre soffice, anche le cose dure le dice con tono
armonioso; a me piace, tempera la durezza della nostra società. Ma “le perplessità”, le
“inquietudini” che esprime per l’occasione, tratte fuori dall’armonia, sono pretese logistiche
belle e buone.
Per difendere Roma dovrebbe ripetersi la Resistenza, una resistenza alle pretese dell’Anno
Santo e all’interessata collaborazione dei veri lucratori.
Sferzante e irriverente, verso i “Piemontesi”, i potenti, la Chiesa, Dolores Prato lo è spesso nei suoi
articoli. Come in questo passaggio in Il primo tempio pagano che diventò basilica – Itinerari
misteriosi nel tempo: il Pantheon (“Paese Sera”, 31 gennaio 1965)
L’edificio cristiano aveva assunto un altro nome: Maria Rotonda. Per un millennio più qualche
secolo fu il suo, finché col trasporto qui della capitale diventando tutti dotti e retorici, si perse
l’affettuosa confidenza che avevamo con i nostri monumenti e restaurammo il Pantheon senza
dimenticare l’acca.
O ancora in 1971, l’anno dei centenari (“Paese Sera”, 10 gennaio 1972)
Nel 1871 fu fatto il primo censimento della popolazione italiana. Appena l’ebbero
ammucchiata, vollero contarla. Quest’anno, forse, per celebrare il centenario di quel pastorizio
avvenimento, si è ripetuta la conta.
177
E nello stesso articolo prosegue:
Però nel 1871 anche Roma ebbe la sua piccola Folies-Bergères, fu l’arrivo della regina
Margherita, ancora principessa, ma già carica di perle a niagara, già ottima professionista del
sorriso.
In una città come Roma, dove al vertice per secoli e secoli non c’erano state che tonache, piviali
e mozzette, quella donna fece colpo. Essa fu l’unica cosa accetta a molti, non a tutti
naturalmente, perché la resistenza all’annessione si spense lentamente e anche ora, isolato e
latente, qualche piccolo focolaio dura. L’apparizione a Roma di Margherita, grifagna nei
lineamenti, mascherata però da uno splendido sorriso, compie anche essa i suoi 100 anni. Per la
prima volta per le strade dell’Urbe, dove il Papa passava disegnando crocette nell’aria, passava
ora una sovrana ingioiellata che piegando la testa di qua e di là accennava lievi saluti rubacuori.
Per comprendere la particolarità della voce di Dolores rispetto alle voci ufficiali, riportiamo un
passo proprio sull’arrivo a Roma della principessa Margherita tratto da Roma capitale d’Italia. Nel
primo centenario, libro che nel 1971 veniva distribuito gratuitamente dai centri di Lettura e
Informazione, a cura del ministero della Pubblica Istruzione – direzione generale per l’Educazione
popolare.
Ben presto, anche se la corte doveva tardare a trasferirsi, i romani ebbero una specie di vicecorte perché il principe ereditario Umberto ebbe il comando delle truppe dislocate a Roma e con
lui si trasferì la sua giovanissima consorte, la principessa Margherita.
Questa donna aggraziata, collocata al vertice della vita mondana, divenne il simbolo e il centro
della profonda trasformazione psicologica cui venne sottoposta la città. Costituì una lieta
sorpresa per i romani trovarsi di fronte, dopo tanta consuetudine di sottane prelatizie,
un’autentica sottana femminile. Non era disgiunto nella principessa un sorriso luminoso,
accompagnato da un’istintiva capacità di accattivarsi sia gli umili che gli uomini di cultura e le
dame della aristocrazia.
Quando poi, dopo l’effettivo trasferimento del governo e della corte, all’inizio di luglio del ’71,
la giovane coppia principesca cominciò ad aprire i salotti del Quirinale – dai quali peraltro
preferiva tenersi il più possibile lontano re Vittorio, più amante di residenze campestri e di
riserve di caccia che non di appartamenti ex-pontifici – si ebbe la sensazione di un vero e
proprio cambiamento di costume.
Nella corte del Quirinale cominciarono ad affluire la vecchia aristocrazia romana (ad eccezione
di quella che il 20 settembre aveva chiuso i portoni dei palazzi, in segno di protesta, e si era
isolata in atteggiamento sdegnoso) e l’aristocrazia discesa coi Savoia da altre regioni; ma anche
altri salotti si aprirono in varie case patrizie attorno a grandi dame che gareggiavano con la
principessa255.
255
in Roma Capitale d’Italia, cit., pp. 182-184
178
Altro esempio di ironia tagliente in Un po’ dei tanti centenari (addio al 1974):
Ma per i romani c’è anche il centenario della loro bottega di carta, oggetti di cancelleria e
piccola stamperia.
Dietro i bersaglieri di Porta Pia scesero i piemontesi: “assumevano” tutto quello che toglievano;
tra gli assunti anche le cartiere tanto più che erano “meridionali” quindi bisognose di luce
nordica. Assunsero e si “stabilirono” con un vasto “negozio” in via Frattina.
Ma cosa provinciale non può assorbire cosa universale; il senso dell’universale a Roma era
anche nei robivecchi. Appena tre anni e il vasto negozio in mano ai Zampini fu romano. Lo
scoppio del consumismo li sloggiò da Via Frattina, entrarono più a dentro, nel cuore della
vecchia Roma.
In quella cartoleria, la cui romanità nobilita anche le banali sacchette di plastica, si riflette quella
che fu la sorte della città e del papato dopo l’annessione: sceso il Piemonte per distruggere e
assorbire, fu assorbito e niente distrusse, neppure il potere temporale.
Dolores Prato, inoltre, ha fatto in qualche modo per il Tevere, con carta e penna, quello che Roesler
Franz fece con i suoi pennelli. Una serie di articoli ci restituiscono la sua storia, e la storia di
Trastevere, con minuziosa dovizia di particolari, con descrizioni-ritratti degli stessi paesaggi, delle
stesse atmosfere. Un esempio è l’articolo Il Tevere ex-biondo un amico che dobbiamo salvare, in “Il
Globo”, 29 giugno 1972, che ci sembra utile riportare in gran parte:
Un rimedio per questi straripamenti era necessario, ma bisognava studiarne un altro, quello dei
muraglioni è brutto senza discussione e più brutto è stato che per fare simile bruttura si sia
mutilata la città in quel suo dolce scivolare verso l’acqua alla quale era unita per sempre.
Case si specchiavano sull’acqua e terrazze e giardini sempre verdi e chiese e teatri e palazzi. Tra
siepi di rose, arbusti d’aranci, spalliere di mortella e pergolati, s’affacciavano sul fiume osterie
che magari si autoproclamavano “ orti Aureliani”.
San Giovanni dei Fiorentini sorgeva dalle onde del fiume, di là dell’acqua, altri campanili, altre
case, a fianco la fuga della via Giulia che andava a tuffarsi nel Tevere: Sull’altra sponda si
alzava il Palazzo Salviati, poi cominciavano le case della Lungara, lungo il fiume, luminosa e
vivace diventata ora un melanconico seminterrato.
La campagna allora scorreva dentro la città insieme col fiume. Si mescolava ai giardini, alle
179
rovine, cedeva il posto alle case, sosteneva le terrazze, piegava i suoi alberi nell’acqua come se
volesse sciacquarceli. I muraglioni la seppellirono sotto uno strato di terra, di pietre, di mattoni.
Erano strette le une alle altre le case che sorgevano sul muro della cinta aureliana che dal
Popolo piegava sul fiume, dopo quel tratto, sorgevano sempre dall’acqua, ma più vicine o più
lontane dalla riva. Senza margini la vita scivolava fino all’acqua; piccolo mercati di pesce
intorno a una cesta; passarelle ad archi digradanti che portavano dentro il fiume; barche,
colonne spezzate, e piccole spiaggette con gente stesa al sole. La Renella, la più grande, il nome
è rimasto, era una confluenza di luce e di vita perché il popolo aveva lì anche il teatrino
dell’Impero celeste, marionette meccaniche, maschere specialmente, delizia dei bambini, riposo
dei grandi. Tutto distrutto.
La passeggiata di Ripetta, o passeggiata del Tevere perché il fiume la sciacquettava e luccicava
accanto un’assolata passeggiata ombreggiata dalle piante; sfiorata al tramonto dall’ombra delle
vele che passavano sul fiume, si chiama ancora passeggiata ma ci si sguscia solo e a fatica, chi
l’attraversa lo fa a suo rischio e pericolo.
E quel casone lungo e desolato che ora tenta di guardare il fiume da un fosso, l’apostolico
ospizio di San Michele, cittadella della libertà del lavoro, era vivo e lieto con gli alberi davanti e
poco più in là i velieri e i barconi che stavano in porto.
E i due porti più grandi quello di Ripetta e di Ripagrande dove la gente si affacciava a guardare
le navi ormai a vapore che scendevano da Nord o risalivano da Sud? Uno spettacolo
caratteristicamente portuale che il Tevere non vedrà mai più.
Via di Ripetta e il Tevere, erano due strade a livello, uno d’acqua l’altra di selci. Sulla
distruzione dello splendido porto di Ripetta piangeva persino la stampa governativa.
Qualcosa che scaricasse il Tevere a monte quando ci fossero le piene, questo ci sarebbe voluto e
il bel fiume continuerebbe ancora a scorrere tra le sorprese delle due sponde che erano
inesauribili. I muraglioni dovevano superare l’altezza di quella piena che aveva battezzata Roma
capitale d’Italia: In un certo senso voleva dire rendere stabile quella piena nel tratto cittadino.
Nella piena il fiume s’annulla, in fondo ai muraglioni si nasconde.
Quelle due sponde si rifecero con la più ottusa e brutale uniformità. Tanta varietà di bellezza
sostituita da un monotono nulla.
Gli ingegneri che li progettavano pur riconoscendo che non c’era fiume più navigabile del
Tevere, lo resero malamente utile solo a convogliare le fogne.
Quell’imprigionamento del fiume non andava a genio quasi a nessuno. La legge alla camera fu
votata con 150 palle bianche e 108 nere e al Parlamento i romani erano ben pochi.
L’appalto per l’inalveamento del fiume veniva ogni tanto ripetuto; ognuno traeva
al suo
profitto, i muraglioni alle prime piene cedevano. La caduta di un pezzo suggeriva i rimedi per
tutto il resto; provando e riprovando costarono tanto che i governativi spiegavano ai romani che
180
erano degni di Roma antica. Un’antichità si paga: centocinque milioni di allora costò
imprigionare quel fiume sovrano che ora si muove tra i muri come i carcerati che prendono aria.
E ringraziamo il regio governo che non ci tolse l’isola Tiberina, il progetto di “ toglierla di
mezzo” c’era. La proposta fu bocciata perché ebbe paura delle “opinioni volgari” e di quelle
degli archeologi.
Accenno di distruzioni, non elenco, per carità!
Distrutti la chiesa di S. Giustino e Giovita, ospizio e ospedale annessi, l’arco dei Bresciani,
Palazzo Gaetani, poi dei Cestini, palazzo Castellani il cui portico era uno dei più belli di Roma.
Demolita la torre degli Stefaneschi e quella degli Albertazzi. Demolito l’ospedale dei Pazzarelli
sopra l’Acqua Lanciana che finì di essere fontana di sorgente viva, ridotta ad un rubinetto
uscente da un muro. Demolito il vecchio ospedale di Santo Spirito.
Ponte Sisto pareva tenuto su da due braccia di Roma che si protendevano nell’acqua, isolato e
tutto demolito intorno anche se erano costruzioni del ‘300, giù l’orologio, giù il fontanone,
immagazzinati i pezzi, ricercati poi per ricostruirlo dall’altra parte, non tutti ritrovati,
trasformato il ponte con l’aggiunta di due marciapiedi protetti da un’orribile balaustra in ghisa.
Rovinati ponte e Catello Sant’Angelo. Due bastioni e lo splendido camminamento in pietra,
“empiamente distrutti” diceva la stampa contemporanea, affreschi, pietre diamantate, sculture,
al magazzino. Demolite le due testate di ponte Sant’Angelo che avevano resistito 17 secoli, gli
archi centrali lasciati soli in mezzo alla corrente stavano per crollare.
Pio IX aveva costruito quel ponte sospeso di ferro, arioso e bello chiamato dei Fiorentini che,
privo di arcate, non ostacolava il flutto del fiume. Era stato un lavoro di tale perfezione che il
mondo lo considerò una gloria del suo pontificato. Egli ne aveva seguito i lavori, approvate le
modifiche, accettati i miglioramenti come un competente e un innamorato. Sopravvisse ai
muraglioni funzionando a meraviglia: fu abbattuto lo stesso.
Demoliti il teatro Apollo, il primo costruito in Roma dopo gli antichi, il Politeama e
l’Ahlambra.
Altra irreparabile distruzione fu quella del palazzo Altoviti di fronte a Castello. Era una
costruzione cinquecentesca: la loggia a colonne sul fiume, dipinta dal vasari, un quadro
indimenticabile per chi una volta sola l’aveva vista. Roma, quella consenziente all’annessione e
quella contraria, unite nella stessa pena, supplicava il ministero della Pubblica Istruzione di non
fare atterrare il palazzo, di salvare le sue parti più interessanti per lo meno, per lo meno il
portico a specchio del Tevere. Niente da fare. Atterrare, tutto! Il popolo e Pasquino parlavano di
Re Piccone.
Gli allagamenti cessarono dopo i muraglioni?
Nella Roma bassa sì, ci fu miglioramento, lì ogni piccola piena allagava, ma se il Tevere cresce
davvero una parte di Roma si allaga lo stesso.
Quando le piene sono state di quelle grosse è capitato che un pezzo di muraglione sia caduto
181
trascinando alberi e fanali.
Nel 1915 per andare a San Pietro ci volle la barca. La piena del 1870, quella che battezzò
l’annesione e portò il re, raggiunse i metri 17,22. Quella del 1938 che la superò di 33 centimetri,
non fu molto disastrosa per il centro, per l’isola moltissimo, ma allagò tutto il nord di Roma
facendone un lago.
Circoli, ritrovi, tennis, ministeriali o sociali, hanno bloccato per loro solo quel pendio al fiume
che avrebbe dovuto essere di tutti, ci tirano su costruzioni che coprono la vista dell’acqua, ma
queste anche se lunghe ad un certo punto finiscono e si ritroverebbe quel paesaggio per il quale
si va a spasso, invece ne occludono la vista con muri di siepi.
Eppure il rispetto al paesaggio dovrebbe essere un paragrafo del rispetto del codice del
cittadino. Il cittadino ha il diritto di godere di quel paesaggio, si può invocare la Costituzione
per difendere un particolare panoramico. Ma chi si ribella? Forse qualche povero funzionario
che cammina senza riuscire a vedere di là, l’altra sponda del fiume.
Ci avevano tolto il fiume con i muraglioni, ce ne avevano resa difficile la vista arginando i
lungotevere con muri invece di balaustre, come i ponti, muri non balaustre e spesso arrivati nel
mezzo, di dove si amerebbe guardare giù perché parrebbe di essere sospesi sull’acqua, eccoti
davanti una parete massiccia.
Muri, muri, sempre muri, anche se ipocritamente sono fatti con innocenti alberelli. Il Tevere che
è una realtà, ce l’hanno resa un sogno. Ma nessuno si ribella.
Passo bellissimo, in cui è racchiuso tutto l’amore di Dolores Prato per la sua Roma, che non è
quella in cui cammina negli anni ’50-’70 (in cui principalmente svolge la sua professione di
giornalista), ma quella del passato; una città che non torna, ma che non potrà mai essere
cancellata in via definitiva da nessun intervento, seppur nefasto, dell’uomo e dei governi che
si succederanno.
Le forme e i colori di Roma hanno ispirato gli artisti di tutti i secoli. Guardando quei quadri del
sei, del sette, del primo ottocento, cadi in balia di una struggente meraviglia. Ma se davvero
c’erano quelle cose, Roma era troppo bella.
E allora si vorrebbe conoscere di più quell’altro genere di bellezza, quello dei secoli di mezzo,
che la celebrarono miracolosa anche per la sua bellezza. Roma fu per quell’epoca la città
miracolosa in cui avvengono i fenomeni più strani; città i cui edifici hanno migliaia di porte;
città la cui folla è fatta di statue; città tutta di marmo e d’oro. Fantasie che provengono non da
un popolo solo, ma da razze diverse, che perciò nascono dalla stupefatta meraviglia di chi la
vide e la racconta. Queste fantasie provano la magnificenza di questa città e il culto che di lei
182
restò anche nei secoli cosiddetti bui.
Roma è stata sempre una città del mondo fuori del mondo.
Questa sua strana unicità la fece un punto, un centro di attrazione.
Nella prima metà dell’ottocento c’era in Roma una società cosmopolita meravigliosa: Dame che
sanno di greco e di latino, di arte e di storia, di pittura e di musica, che cantano e suonano in
scelti concerti e in gite campagnole con la chitarra. Spiritose e interessanti nella conversazione.
Perché era il fior fiore dell’intelligenza internazionale che si riversava a Roma.
Storici, archeologi, pittori, musicisti, filosofi, scultori ogni parte del mondo risiedevano a Roma
e attendevano alle loro opere come nel proprio paese.
A leggere le cronache di oggi e quelle di ieri, pare che allora i trasporti fossero supersonici e che
adesso ci si muova con la posta a cavalli.
Quell’andirivieni di re, regine, imperatori, imperatrici, regnanti o in esilio, quel correre qui di
principi dinastici di ogni parte del mondo, e quella fiumana di duchi, di marchesi, di conti, che
affluiva e defluiva, par gente che voli; mentre le rare visite di oggi sono concertate un ano
prima, e il programma ci è noto sei mesi prima, e se ne viene uno quest’anno, passeranno forse
altri anni prima che ne ritorni un altro.
Per il clima, per lo spazio, per il temperamento della gente, per il fascino delle sue rovine, per
quel governo unico al mondo in cui l’edito si mescolava al canto gregoriano e all’odor
d’incenso, per quella melanconia dei funerali notturni e quegli scoppi trionfali della polifonia,
Roma era soprattutto una città voluttuosa.
Il “carpe diem” se non fosse nato qui forse non sarebbe nato altrove, perché Roma ti dà la
bellezza delle sue luci e delle sue notti diffusa nel senso eterno del suo non essere.
(Come era Roma)
183
IV - Il Fascismo, il mito di Roma e l’implacabile “piccone risanatore”
L’importanza simbolica di Roma raggiunse il suo culmine durante il Fascismo, quando la città
divenne centro propulsivo della “nuova Italia” voluta da Mussolini e subì determinanti politiche
urbanistiche e sociali256.
Il mito di Roma entrò stabilmente a far parte dell’immaginario politico del regime, rappresentando
l’orizzonte di valori a cui doveva ispirarsi l’“uomo nuovo”: l’adozione di riti e simboli mutuati da
un’originale interpretazione dell’antichità romana permise di presentare l’ideologia della
“romanità” (con il principio della subordinazione dell’individuo alla collettività nella famiglia, nella
religione, nell’educazione militare, nelle leggi) come tratto identitario della nazione.
Le dittature a fondo splendido come la napoleonica, o splendido fasullo come la fascista, si
compiacciono di nomi classici, ritornano a una classicità della quale pretendono di essere i veri
continuatori. (Dolores Prato, Voce fuori coro)
Nell’universo ideologico fascista lo stesso evento della presa del potere, la marcia su Roma, si
caricò di significato. Era la conquista della capitale da parte delle nuove forze rivoluzionarie contro
il logoro Stato liberale che ne aveva svilito il prestigio, ma anche l’ideale ritorno in città dei
legittimi eredi spirituali della grandezza e dei fasti della Roma imperiale. Nacque il “Natale
dell’Urbe”, 21 aprile, che addirittura nel 1924 divenne festa nazionale. Durante la prima
celebrazione ufficiale del Natale di Roma, Mussolini pronunciò un famoso discorso, citato in tutti
gli studi sulla Roma fascista, in cui delineava le linee da seguire nel procedere al ridisegno della
città:
I problemi di Roma, la Roma del XX secolo, mi piace dividerli in due categorie: i problemi
della necessità e i problemi della grandezza. Non si possono affrontare questi ultimi se i primi
non siano stati risoluti. I problemi della necessità sgorgano dallo sviluppo di Roma e si
racchiudono in questo binomio: case e comunicazioni. I problemi della grandezza sono di altra
specie: bisogna liberare dalle deturpazioni mediocri tutta la Roma antica, ma accanto all’antica
e alla medioevale bisogna creare la monumentale Roma del XX secolo. Roma non può, non
deve essere soltanto una città moderna, nel senso ormai banale della parola, deve essere una
città degna della sua gloria e questa gloria deve rinnovare incessantemente per tramandarla,
256
Cfr. Italo Insolera Italo, Roma fascista nelle fotografie dell’Istituto Luce, (con alcuni scritti di Antonio Cederna),
Editori Riuniti-Istituto Luce, Roma 2001.
184
come retaggio dell’età fascista, alle generazioni che verranno257.
Nelle celebrazioni di questa data, e di quella dell’avvento del Fascismo, raramente mancavano
solenni inaugurazioni di interventi urbanistici voluti dal Duce. Parte integrante della politica di
rilancio del mito di Roma fu infatti la definizione di un nuovo spazio pubblico che fosse simbolo di
una cultura politica, dalla toponomastica alla connotazione forte degli edifici fascisti, da piazza
Venezia al Vittoriano al Foro Mussolini: il Fascismo aspirava a conquistare, come la “Roma
dell’impero” e la “Roma dei papi”258, un suo frammento di eternità, consegnando alla storia la
“Roma di Mussolini”259. Alla città andava restituita l’antica grandezza, cancellando ciò che secoli di
decadenza avevano oscurato. Nella mitologia fascista era autenticamente romano soltanto ciò che
riguardava il passato imperiale della città.
Fra cinque anni Roma deve apparire meravigliosa a tutte le genti del mondo: vasta, ordinata,
potente come fu ai tempi del primo impero di Augusto. Voi continuerete a liberare il tronco
della grande quercia da tutto ciò che ancora l’aduggia. Farete largo intorno all’Augusteo, al
Teatro di Marcello, al Campidoglio, al Pantheon. Tutto ciò che vi crebbe attorno nei secoli della
decadenza deve scomparire. Entro cinque anni da Piazza Colonna per un grande varco deve
essere visibile la mole del Pantheon. Voi libererete anche dalle costruzioni parassitarie e profane
i templi maestosi della Roma Cristiana. I monumenti millenari della nostra storia devono
giganteggiare nella necessaria solitudine260.
La trasformazione monumentale del centro storico di Roma cambiò il volto della capitale. Gli
sventramenti fascisti sono stati interpretati dalla critica come una vistosa manifestazione di quella
generale “incultura” urbanistica italiana affermatasi dopo l’Unità, frutto della vanità e del delirio
personale di Mussolini, o, alternativamente, in un’ottica di maggiore complessità, come in stretta
relazione con l’importanza assunta dal modello di Roma nell’ideologia fascista.
Roma di Mussolini: non è una frase convenzionale per indicare dal nome del Duce la Roma del
tempo fascista. […] Quando noi parliamo della Roma di Mussolini, adoperiamo una frase che
corrisponde alla realtà nel senso più stretto e letterale. Nella grande opera di trasformazione di
Roma, che da dodici anni si va compiendo sotto i nostri occhi, nella formazione del nuovo volto
che l’Urbe Eterna va assumendo, la volontà di Benito Mussolini agisce in pieno; è quella che
vigila, consiglia, comanda261
257
E. D. Susmel (a cura di), Opera omnia di B. Mussolini, La Fenice, Firenze 1951-1963, v. XX, p. 235.
Cfr. Luigi Fiorani, Adriano Prosperi (a cura di), Roma, la città del papa: vita civile e religiosa del giubileo di
Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtyla, Einaudi, Torino 2000.
259
E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 150
260
Discorso di Mussolini in occasione dell’insediamento ufficiale del Governatorato, 31 dicembre 1925, in Susmel, op.
cit., vol. XXII, p. 48.
261
A. Munoz, Roma di Mussolini, Roma 1935, pp. 9-10.
258
185
In ogni caso, la politica di trasformazione monumentale di intere aree del centro cittadino,
nonostante l’assenza di un progetto unitario, affermò per la prima volta un’idea di capitale univoca
e ben definita: una città-guida emergente, in uno Stato fortemente accentrato. L’annullamento di
ogni parvenza di autonomia locale, con il processo nazionale dell’accentramento dei poteri, si
completò nel 1925 con l’istituzione del Governatorato (guidato da Filippo Cremonesi), che realizzò
la “fascistizzazione” dello Stato.
Il duce era il principale ispiratore, l’ideatore, il realizzatore degli interventi che avrebbero cambiato
il volto di Roma, e il clima fu di generale approvazione nei confronti dei programmi di
rinnovamento, anche tra architetti e esponenti della cultura. Anche uno dei protagonisti di questa
trasformazione, Marcello Piacentini, il più influente degli architetti romani, era partito da posizioni
critiche nei confronti degli sventramenti post-unitari, ma poi, nel 1916, rielaborando l’idea di
Quintino Sella, aveva proposto la creazione di un nuovo centro ad est della città storica per
alleggerire l’area dei vecchi rioni dalle funzioni direzionali, favorendo così la conservazione della
“vecchia Roma”. Secondo Piacentini, non era la città in generale ad essere intangibile, ma la sua
bellezza. Dove questa non esisteva, bisognava crearla. Fu così che nacque il tema delle due città:
una Roma “nuova”, moderna metropoli, con il baricentro a Termini, e una “vecchia” Roma, in cui
si doveva valorizzare la solenne e aristocratica tranquillità.
A fianco della proposta di Piacentini, si mise in evidenza quella di Gustavo Giovannoni, principale
teorico del “diradamento edilizio”. Per Giovannoni, i problemi della viabilità e del risanamento
igienico-sanitario nel centro storico non andavano affrontati con sommari e indiscriminati
sventramenti, che avrebbero allontanato gli abitanti, ma con mirate e limitate demolizioni che però
avrebbero permesso notevole libertà d’azione262. Un principio, quello del diradamento, che fu
formalmente accolto dalla commissione incaricata di redigere la variante al piano regolatore del
1909, ma che non si adattava ai propositi di grandiosità monumentale e al carattere rappresentativo
dell’edilizia fascista, e fu quindi sostanzialmente ignorato.
L’idea prevalente era che, per esaltare al meglio le qualità artistiche di un monumento, fosse
necessario isolarlo, e, inoltre, rimaneva in vigore la pratica haussmaniana di aprire grandi assi viari
nel tessuto urbano delle capitali. Un altro elemento che contribuì ad accrescere il consenso
internazionale nei confronti della politica urbanistica del regime fu il ruolo centrale attribuito
all’opera di scoprimento dei resti archeologici. La “redenzione” delle testimonianze sommerse della
262
Leonardo Di Mauro e Maria Teresa Perone, Gli interventi nei centri storici: le direttive di Mussolini e le
responsabilità della cultura, in Silvia Danesi e Luciano Patetta (a cura di), Il razionalismo e l’architettura in Italia
durante il fascismo, Electa, Milano 1994, pp. 38-42.
186
Roma antica fu salutata con entusiasmo da alcuni dei massimi rappresentanti della cultura
archeologica e del classicismo europeo, che esternarono una vera e propria infatuazione per il
Fascismo e per il suo capo. L’opera dell’“implacabile piccone risanatore” iniziò nel 1924 con la
demolizione delle case tra la salita del Grillo e il Vittoriano: il problema impellente era il rapporto
del monumento a Vittorio Emanuele II con il resto del nuovo centro costituito da piazza Venezia, e
portare alla luce i Mercati Traianei e il Foro di Augusto. Negli sventramenti, all’importanza degli
interessi archeologici, funzionali soprattutto alla politica propagandistica e simbolica del regime, si
univa la necessità della modernizzazione della città, in particolare riguardo alla mobilità263.
Emblematica la sintesi di questo concetto, che Dolores Prato chiude in tre righe di Voci fuori coro:
Fascisti - argentina
Per fare una inaugurazione strombazzata per il 21 aprile 1929 si sacrificò l’integrità di quei resti
antichi che erano riapparsi col sacrificio di un pezzo della città.
Non era l’archeologia in sé ad animarli, era la possibilità di acquistarsi meriti.
Gli interventi più massicci (e che hanno fatto più discutere architetti, archeologi, giornalisti,
polemisti, per lo più antifascisti) furono quelli per la realizzazione di via dei Fori Imperiali264
(“Inaugurata nel 1902 la via dell’Impero essa risultò un vuoto retorico per il quale erano state
distrutti tanti isolati di case di tutte le epoche e tutte le chiese”265), via del Mare, via della
Conciliazione, e una serie di sistemazioni come quella di piazza Augusto Imperatore.
Quella “via dell’Impero” che, declamavano, aveva scoperto e messo in luce i fori imperiali, in
realtà non li aveva che scavalcati, distruggendoli e sotterrandoli, lasciando in vita di qua e di là
quel che rimaneva. Distrutta così anche quella suggestione che emanava da quei resti affiorati
dai muri, tra finestre e case, dalle svolte delle strade. Ora isolati così hanno l’arido della pomice
cariata non c’è più l’humus della vita. (Voce fuori coro)
In particolare, per realizzare via della Conciliazione fu demolita la “spina di Borgo”: un atroce
263
Giuseppe Cuccia, Urbanistica, edilizia, infrastrutture di Roma Capitale 1870-1990. Una Cronologia, Laterza, Bari
1991, p. 114.
264
A. Conti, Storia di una distruzione, in Liliana Barroero, Alessandro Conti, Anna Maria Racheli, Mario Serio, Via dei
Fori Imperiali. La zona archeologica di Roma: urbanistica, beni artistici e politica culturale, Marsilio editore, Venezia
1983, pp. 40-42.
265
ACGV, Fondo Prato, Pm 6.
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intervento che uccideva l’effetto sorpresa progettato da Bernini per piazza San Pietro e,
contemporaneamente, ossequiava la Chiesa celebrando la stipula dei Patti Lateranensi.
Notevoli gli articoli di Dolores Prato che ricordano questa distruzione: La via di tutti i popoli, in
“La Via”, 15 novembre 1952, e La Spina, in “Paese Sera”, 23 gennaio 1960. Riportare
integralmente il testo di quest’ultimo, che a Dolores valse anche il Premio Città di Roma, può
essere utile per capire il grado di approfondimento storico e di senso critico che accompagnava la
giornalista nei suoi appassionati pezzi su Roma.
“Non c’è rosa senza spine”, si dice; difatti la rosa più sbocciata di Roma, la piazza S. Pietro,
aveva la sua spina.
Era come un lungo aculeo, come un sottile ed acuminato aculeo di fabbricati che si insinuava tra
un folto di altri edifici risultandone due stridette come due corridoi che si facevano largo a fatica
tra case e casucce, palazzi e palazzetti, chiese e cappelle, fontane ed edicole e tante tante
botteghe, uno addosso all’altra con caparbietà di chi vuole assolutamente stare in quel posto e
non in un altro.
C’era per quelle due strade il brusio del paese e quello del mondo, giacché la gente di qualunque
terra e di qualunque colore che veniva a Roma, percorreva quei lunghi corridoi per sfociare in
una immensità circoscritta, che era una piazza, per trovarsi di fronte a una montagna di granito
fatta di colonne, pilastri, porte, logge, trabeazioni, fregi e cupole tra cui emergeva, come una
immanenza, “er cupolone”.
Dapprima gli occhi tentavano di misurare l’immensità della piazza, poi era il tempo a misurarla;
il tempo che ci voleva per arrivare, un passo avanti l’altro, sino alla scalinata che portava
all’ingresso di un’altra immensità, al tempio.
Erano proprio quelle due stradine strette e soffocate a preparare gli animi per meglio avvertire le
due immensità. Si chiamavano “Borghi” così come erano detti i raggruppamenti di case fuori
della città, lungo una strada o attorno a un castello.
In quel luogo, un tempo arido e malsano, gli imperatori avevano costruito giardini, circhi,
mausolei. La via Cornelia andava proprio nel senso di questi Borghi, in direzione del luogo ove
era la Basilica che le fu costruita sopra per includervi il sepolcro di un uomo povero e
condannato che in quella campagna brutta e scoscesa, seminata di sepolture plebee e di modesti
mausolei, si diceva fosse stato in fretta sepolto e nascosto.
Su quel sepolcro ci fu eretta prima una “memoria”, poi una basilica il cui baldacchino si alzò
sopra la memoria, finché su tutto si gonfiò, profonda come un cielo, la cupola michelangiolesca.
Intorno alla primitiva basilica si erano raggruppati oratori, cappelle, monasteri e case, separati
da strade, straducce e sentieri, ma la principale via ebbe sempre il tracciato della Cornelia.
Nel Medio Evo essa era una strada coperta da un portico che dal ponte S. Angelo andava
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all’ingresso della basilica. I pellegrini, nella vicinanza del luogo sacro, non erano disturbati, né
dal sole, né dalla pioggia; il portico li raccoglieva materialmente e spiritualmente. . Esso durò
parecchi secoli, poi pian piano qua e là si scoperchiò, qua e là crollò; venne l’epoca in cui esso
scomparve e la terra ridiventò campagna; ci si coltivarono gli orti; sorse tra essi qualche
casolare e lentamente la vita riprese.
Il primo anno santo, ottima trovata spirituale e turistica di Bonifacio VIII, dette il via a un più
rapido impulso costruttivo. Il tracciato della via Cornelia, già coperto dal portico, fu
fiancheggiato da povere casupole, bottegucce e locande, poi il tempo e gli uomini, come sempre
fanno, continuarono a distruggere e costruire, a migliorare e cambiare. Si tracciarono strade, si
fiancheggiarono di case che si serravano l’una all’altra per dar posto a tutte. Tra costruzioni e
abbattimenti, nella direzione dell’antica Cornelia, della medioevale “Portica”, risultarono due
strade divise da una fila di case, che si chiamarono successivamente: Via Recta, Carriera Santa,
Carriera dei Martiri, Via Beata, Via Pontificum, Via Alessandrina, Borgo Vecchio, Borgo
Nuovo, e le costruzioni che le dividevano costituirono “la Spina” fino ai nostri giorni, quando
furono abbattute e si fece quell’enorme vuoto che strada non è, piazza nemmeno, ma si chiama
via della Conciliazione.
La Spina divideva l’afflusso ei pellegrini a S. Pietro e, se tra bei palazzi e discreti palazzetti,
aveva anche case povere e forse brutte, il tempo le aveva colorate, patinate e rese amiche. Cadde
con la Spina un apporto secolare di vita.
Cadde (una tra le tante case suggestive che caddero) quella cappelletta chiusa da un cancello,
dove dentro ardevano dei ceri e tra le sbarre c’erano sempre dei fiori intrecciati. Si diceva che
un papa avesse chiuso con quella cappella lo sbocco di un violetto tra i due Borghi, corto come
un nano, per ammenda a una Madonna contro cui erano state gettate scorze di melone. Si
abbatterono i confini di quella piazza Scossacavalli che il gorgoglio di una fontana bastava per
riempire, mentre certe finestre che vi si affacciavano, ripetevano con la scritta dei loro
architravi: Soli Deo, Soli Deo, Soli Deo. Si raccontava che su quella piazzetta, nel punto preciso
dove sorgeva una chiesa, i cavalli che portavano la pietra di Isacco, si erano fermati e non era
stato possibile farli più proseguire. Per diverso tempo la chiesa chiamò S. Salvatore in
Bordonia, per i bastoni dei pellegrini, poi prese altri nomi, ci fiorirono altre leggende, altre
poesie e ora non c’è più nulla, nemmeno il nome. Si poteva sanare quell’agglomerato di
costruzioni e invece si abbatté tutto e si fece il vuoto che è nulla.
La Spina, obbligando a vedere la piazza solo quando si era giunti a una sua estremità, ne
scopriva di colpo tutta l’enorme vastità, mentre ora, per il fatto che essa è concava, la
lontananza la restringe.
Erano due vie strette sì, ma la vita vi brulicava e ferveva e, come tutte le cose che sono
esageratamente se stesse, se concentrate, erano straordinariamente vitali. Quelle due strade
anguste concentravano la vita e l’afflusso dei viandanti accompagnandoli allo sbocco.
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Dal fitto delle case si usciva in quella grandezza sonante di acque, di spazio, di vuoto;
nell’insospettabile slargo la vita si diluiva e placava, restava sola l’immensa meraviglia.
Con l’apertura del chiuso pare che gran parte di queste cose siano fuggite. Nello spazio
risultante dalle demolizioni si poteva erigere qualcosa che conservasse un poco di quella
immensa sorpresa emotiva. Invece la soluzione è quella che è già da tanti anni senza riuscire a
convincere, senza riuscire a perdere nulla della sua muta freddezza: una processione di
obelischetti con il lampione sulla testa, che in quell’enorme spazio rammentano i birilli, e tante
panchine, utilissime per apparecchiarci sopra uno spuntino. Birilli e sedili, non c’è da illudersi,
non diventeranno mai suggestivi. Ma in quel vuoto di cose e di emozioni, il sogno ha un teatro
vastissimo per esercitarsi. Anche un sogno fatto per riposo e per divertimento, è capace di
mettere idee in quel vuoto di idee.
E il sogno rialza e distende l’antico Portico, gli dà la quadruplice berniniana fila di colossali
colonne, lo allarga sullo spazio che era occupato dalla Spina. Invece di una sola spropositata
strada, il sogno ne vede tre: due ai lati, scoperte, per i veicoli, una nel mezzo per i viandanti,
folta di colonne e coperta di volte, oltre la quale sarebbe veramente l’ingresso alla piazza del
Paradiso. E non potendo più vedere S. Pietro in lontananza, esso non ricorderebbe più un
“souvenir”, ma tornerebbe ad essere quella montagna che è, sorgente da un cielo rovesciato in
terra.
Ma un sogno ha la forza di una piuma che voglia rimuovere la pietra: il sogno allora scompare.
Resta la freddezza semivuota di quella strada che è nuda come i gambi delle rose ottenute
scientificamente: alte, fredde, dure, senza odore e senza spine.
A uccidere la stratificazione storica in nome della sola propaganda fu la realizzazione di piazza
Augusto Imperatore (1927-29). Nel 1934, quando si iniziò a demolire per scoprire e isolare il
mausoleo di Augusto, che dopo varie trasformazioni era divenuto, nel 1908, l’auditorium cittadino,
le demolizioni raggiunsero un picco: per realizzare questo intervento furono abbattuti circa
centoventi fabbricati in via dei Pontefici, via delle Colonnette, vicolo Soderini, via e vicolo degli
Schiavoni e vicolo del Grottino. Il mausoleo restaurato, la cui resa scenografica risultava molto
inferiore alle attese, fu inaugurato nel 1938, in concomitanza con la conclusione delle celebrazioni
per il bimillenario di Augusto. E non è un caso, a questo punto, che insieme all’articolo sulla spina
di Borgo, a far conquistare il Premio Città di Roma a Dolores Prato fosse proprio il pezzo Due
millenni di storia sul sarcofago di Augusto (“Paese Sera, 30-31 gennaio 1960), che raccontava e
ripercorreva la storia del mausoleo.
Significativo il riferimento all’arrivo del “fatidico piccone, simbolo di un’epoca”.
190
Il sepolcro del primo imperatore era il solo magazzino capace di ospitare il cavallone del
monumento all’ultimo primo re d’Italia; due decenni di umiliante vigilia e il magazzino diventa
la più suggestiva sala di concerti che il mondo abbia conosciuto, prende trionfante il nome di
Augusto e fu l’apoteosi!
Il mausoleo aveva conosciuto preci e bestemmie guerresche, colpi di piccone e di zappa, vigneti
e fiori, folle tumultuose e incendi favolosi, polvere e sole, conobbe allora la grande quiete
devota, sotto una cupola gonfia di musica, con una folla religiosa e muta; fu davvero un tempio
dell’arte e tutto il mondo ce lo invidiò.
Ma arrivò anche l’ultimo concerto, giacché era stato deciso di sradicare tutta la vita che si era
abbarbicata addosso al monumento, e di restituirlo alla morte. Vi fu un pieno inverosimile; la
commozione che tramava in ogni cuore traboccava nell’aria, diventato tutt’uno con le ultime
armonie: musica fatta commozione, commozione fatta musica e l’immensa sala ne fu colma.
Alla fine del concerto non “scrosciò” l’applauso, fu un battimento lento, intenso, uguale, parve
non dovesse finire più.
Era un dolore che applaudiva per manifestarsi era la appassionata protesta per un delitto vicino
al compimento.
L’orchestra, che doveva essere l’applaudita, applaudiva anche essa e la gente non si staccava di
lì; era in piedi, seria, triste, e batteva le mani. Pareva che qualcuno dovesse parlare, ma nessuno
parlò; nessuno usciva da quelle porte, tra le quali erano soliti sgusciare frettolosi all’accenno
degli ultimi accordi. Per i romani una cosa tanto amata, moriva; le si dava così un addio
accorato.
Il fatidico piccone, simbolo di un’epoca, cominciò presto l’opera sua: lunghi mesi di polverone,
di terriccio, di pena e tutto intorno la grande opera fu compiuta. Apparve un torsolo nudo,
brutto, inespressivo, quasi osceno come lo diventano, sotto la luce, le cose fatte per essere
coperte. Si vide il sepolcro vuoto e repellente come una cassa da morto usata.
Le mura sbrecciate e smozzicate furono pareggiate, perché le rovine dovevano presentarsi con
l’uniforme in ordine; una rovina capricciosa non era permessa.
Finita la sistemazione della zona, quel povero rudero gareggiò in miseria e bruttezza con
l’antesignana di tutto lo scatolame nazionale, la scatola dell’Ara Pacis.
Son passati tanti anni e quel mozzicone imperiale non rivive, resta sempre un sepolcro
affossato, diventato lui stesso il morto.
Sullo stesso monumento Dolores scrive, in Voce fuori coro, con la schiettezza tipica di quel
pamphlet:
Riprende, come all’epoca dell’annessione, la furia degli sventramenti di quel che di storico era
rimasto nel centro della città. Si distrusse come allora, e mentre allora si costruiva borghese, ora
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si costruisce littorio, grande, imponente, monumentale, rosso e bianco, e statue nerborute.
Secondo Mussolini all’Augusteo “liberato” sarebbero arrivate tutte le genti d’Italia e tutti i
popoli del mondo.
Ebbe tempo anche lui per convincersi che se prima, visto e non visto, scoperto a pezzetti tra le
case, desuntane l’immensità in quel cerchio altissimo dentro il quale risuonò la più bella musica
del mondo, aveva ancora un fascino, ridotto a quel torsolo che è nessuno lo guarda più in faccia.
Sulla ricostruzione delle demolizioni fasciste Dolores Prato è accurata anche in Voce fuori coro:
Questi si facevano vanto di demolire senza pietà. Buttarono giù tra piazza Barberini e S.
Bernardo, buttarono giù all’Argentina per isolare i templi, buttato giù a piazza dell’Ara coeli,
così furono distrutti non solo gli edifici, ma anche la piazza.
La via dell’Impero (ora dei fori imperiali) fu una distruzione di quanto i secoli vi avevano
accumulato e di quanto, in una zona così ricca, veniva alla luce durante gli scavi. Se mantenere
un monumento scoperto con gli scavi serviva alla sua demagogica esaltazione, tutto di
guadagnato, ma sulla via dell’Impero era la via che importava per i prossimi trionfi, il passo
dell’Oca non sopporta sassi nel suo cammino, sicché addosso anche ai vecchi monumenti se
stavano nel percorso di quella fatidica strada.
E ancora:
All’epoca della liberazione del mausoleo d’Augusto, capato come si capa un torso di broccolo, e
dell’incassettamento dell’Ara pacis….tra le altre cose fu demolita una casa che non aveva in sé
nessun interesse tolto che il proprietario ci si era sbizzarrito a decorarla con formule chimiche
perché l’aveva costruita con i soldi che aveva ricavato da una sua fortunata formula. Lì dov’era
quella casa c’è un vuoto che gli altri non vedono, ma io sì perché salii un giorno sulla terrazza di
casa. Spesso torno lassù; nulla mi sostiene, ma vedo quel che allora vidi come se qualche acido
di quella formula avesse inciso la lastra della mia memoria.
Distruzioni fasciste – argentina
Era un piccolo cortile in una delle più piccole case in quel silenzio che dalla piazzetta di San
Nicola di Cesarini si diluiva tuttintorno.
C’erano delle colonne, si diceva che fossero del tempio d’Ercole, che di lì partivano i vaticini,
che la colossale statua prima trafugata e poi ritrovata fosse stato il simulacro di quel tempio, nei
muri del cortiletto era visibile un portico medioevale, in un angolo c’era un pesco.
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Gli amanti delle antichità, i forestieri, giravano per quelle straducce alla ricerca del cortiletto,
quando l’avevano trovato e le colonne “di Ercole” erano davanti agli occhi, era un tuffo di
emozione specialmente se in un angolo del portichetto medioevale il pesco era in fiore.
Ora a chi importano più quelle colonne nude, anche se hanno ritrovato il loro nome vero, lì
all’aria aperta, come due scheletri?
Non lesinava critiche pungenti:
La gente a cui si demoliva la casa fu deportata fuori, in lontani agglomerati che non ebbero
neppure il nome di Borgo, ma furono chiamate borgate.
Isolata quella gente non trovava più lavoro, splendide dimore degne del grandissimo popolo
italiano, risultarono peggiori in tutto di quelle da dove erano stati cacciati. E a quelle borgate
affluirono gli abusivi, i non controllati, i “non sono nessuno”.
Roma vide anche lo sconcio di quei motti, assiomi scritti /posti come fastigi
Ma, oltre alle devastazioni urbanistiche e architettoniche, Dolores Prato è spietata nei confronti
della retorica fascista, dei suoi riti e rituali “ridicoli”, segno di un imbarbarimento civico, civile e
sociale.
Lo vediamo, ad esempio, in Un Natale e una Pasqua quest’anno si sovrappongono (“Paese Sera”,
20-21 aprile 1957)
Poi venne l’epoca della “Giovinezza” che viveva di riesumazioni e tra queste non poteva
mancare il Natale di Roma. Rubandola al 1 maggio gli fu messa la casacca del lavoratore
debitamente tinta in nero e il popolo, diviso a schiere a seconda dell’età, fu obbligato non a
coronarsi di fiori, ma a marciare e a gridare.
Adesso è una festa senza entusiasmo, ma anche senza ridicolo.
La condanna al Fascismo, e alla sua pomposa retorica, è ancora più evidente in Voce fuori
coro
Distruzioni epoca fascista
Li chiamavano “risanamenti”…
Fascismo
193
I fascisti che morivano con cristiana e retorica rassegnazione dentro la camicia nera, portavano
la stessa confusione e la stessa tetraggine nelle loro costruzioni.
1860 fascismo
Garibaldi aveva tentato di abolire il titolo di eccellenza, Mussolini non lo abolì, ma lo raddrizzò
come un fioretto puntato al cuore. Prima si diceva “sua eccellenza”, si girava al largo, quasi
timorosi di accostarsi direttamente, Mussolini fece dire all’Italia l’Eccellenza, Noi Eccellenza.
1922
“Maestà io vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”.
Con questa frase entrò (oppure: questa frase fu la porta per la quale la colossale imperiale
retorica ci rese tanto ridicoli).
La pazzia fascista – capitalismo
Che cosa non ha sofferto Roma in quel periodo? Basta ricordare il facciatone che si sovrappose
alla facciata del palazzo delle esposizioni con quelle 4 enormi scuri che certo ebbero il vanto di
essere allora e sempre per i secoli futuri le più colossali scuri sporgenti dai più colossali fasci
littori.
Oppure
“Il mito imperiale romano è sempre ricomparso nelle epoche di servitù enfatica e barocca, nel
XVII, nel fascismo. L’identificazione dell’Italia e della moderna Roma con Roma antica, il
culto dei moderni, ha sempre gravato sull’anima italiana come un’istanza di senilità”.
“Il Medioevo è come spazzato via dal vento, con tutto lo spirito storico del passato”. Così
scriveva Gregorovius (I, IX) ritornato a Roma dopo che questa era stata annessa al Piemonte,
dichiarava che Roma aveva perduto il suo incanto…se l’avesse vista nel fascismo, povero Lui!
Il fascismo ci ha tolto tutto. Anche l’“est locanda” che aveva resistito alle immissioni barbariche
194
dei piemontesi, si trasformò nel banale “affittasi”.
E sul Fascismo, e la sua influenza su Roma, chiudiamo con Dolores:
Dal balconcino di Palazzo Venezia il 9 maggio 1936 Mussolini annunziò al mondo che era
“riapparso l’impero sui colli fatali di Roma” così come si può riaprire un grande magazzino.
195
V – Anniversari, cinquantenari e un centenario: presagi di un antimito
Sono quattro le date da osservare, se si vuol provare a vedere nelle celebrazioni degli
anniversari di Roma capitale l’ombra di un mito più retorico che reale, e se si vogliono
portare allo scoperto i segnali – forse nascosti – di un antimito, che Dolores Prato colse,
mettendoli nero su bianco nei suoi articoli e nel progetto di Voce fuori coro. Nel 1895, 1911,
1920 e 1971 si rievocò solennemente la Roma italiana: il 1895 e il 1920 rappresentavano i
venticinque e i cinquant’anni dal 20 settembre; il 1911 era il cinquantesimo dell’acclamazione
di Roma capitale nel primo Parlamento del Regno; il 1971 era il centenario della
proclamazione a capitale.
Venticinque anni dopo l’Unità d’Italia, il desiderio di celebrazioni nasceva più che altro dalla
volontà di contrastare un grigiore diffuso, una stagnazione, che attanagliava sia l’atmosfera
della nazione in generale, sia la situazione economica di Roma, oppressa dalla crisi edilizia e
dagli scandali finanziari. La “Gazzetta di Parma”, il 15 aprile 1895, commentava: “Morta
l’industria, morto il commercio, rovinata l’agricoltura dalle malattie e dalle tasse, è naturale
che anche la capitale, ed anzi specialmente la capitale, risenta di questa tristissima condizione
di cose e molto più gravemente che le altre città”266. Proprio da questo languore scaturì il
disegno di rianimare Roma con manifestazioni solenni, in concomitanza con il
venticinquesimo dalla liberazione. A battersi più di ogni altro fu il ministro Guido Baccelli,
alla guida della Società per il bene economico di Roma, a forte presenza massonica, che
avrebbe voluto realizzare, fra il novembre 1895 e il giugno 1896, una grande esposizione
nazionale dell’Italia industriale e produttiva. Il progetto, però, seppur approvato dal consiglio
comunale, naufragò in Parlamento al momento della richiesta di un contributo finanziario. Ma
la macchina organizzativa delle celebrazioni romane andava avanti, in particolare grazie al
Comitato generale per solennizzare il XXV anniversario della liberazione di Roma, formato
su iniziativa del sindaco Emanuele Ruspoli. Due i motivi di tanto movimento:
Il primo è l'interesse del sindaco e degli amministratori capitolini, il ceto dirigente locale, ad
assecondare - pur senza alterare gli equilibri politici locali condizionati dalla forte presenza
cattolica in Campidoglio - l'iniziativa dei ceti economici e politici «progressisti» cittadini che
nelle celebrazioni avrebbero voluta esaltata l'immagine di Roma capitale e centro propulsivo
dello Stato nazionale, per il vantaggio che ne sarebbe derivato, in termini di consenso nazionale,
ai temi della politica municipale, sempre ispirata alla necessità del sostegno finanziario dello
Stato a favore dello sviluppo della Capitale. Il secondo è l'intendimento del governo, di suscitare
una forte adesione di popolo, sottraendo terreno alle estreme, incanalando e disciplinando le
266
Cfr. A. Caracciolo, op. cit., p. 288.
196
manifestazioni «spontanee» di gruppi ed associazioni, il “paese reale”, nella grande festa
nazional-popolare di sostegno alla monarchia: le celebrazioni negli intendimenti di Crispi in
particolare sarebbero state un momento forte di rappresentazione della coesione del l'organismo
statale postrisorgimentale, una dimostrazione del consenso di tutte le sue componenti sociali,
nell'identificazione con la Monarchia, simbolo e garante della solidità e dello sviluppo dello
Stato nazionale267.
Il principe Ruspoli, per il suo comitato, voleva rappresentanti delle associazioni militari e dei
reduci, degli istituti culturali e scientifici: i congressi di questi ultimi sarebbero dovuti essere
centrali nelle manifestazioni del XXV°, rivitalizzando il vecchio mito di Roma italiana, capitale di
arte e di cultura caro a Quintino Sella. Ma soprattutto, a far parte del comitato, furono chiamati tutti
gli uomini delle istituzioni, dai consiglieri comunali ai sindaci delle maggiori città italiane, oltre che
deputati e senatori, e anche i direttori dei maggiori quotidiani cittadini di area liberale, in
rappresentanza del potere della stampa: lo scopo era quello di portare a Roma, per il venti
settembre, il maggior numero di associazioni italiane, di qualunque natura, e per accrescere il “culto
della Patria e la fede alle istituzioni”268.
Ma se l’esposizione non andò in porto, molte altre furono le manifestazioni celebrative, soprattutto
di natura politica, che provocarono contrasti fra i partiti e risentimenti nella cattolicità. Ad
accendere il dibattito, nel luglio 1895, la proposta che il 20 settembre diventasse festività civile: a
favore una larga maggioranza alla Camera (249 contro 26), fatta di radicali, repubblicani e gran
parte dei liberali capeggiati da Crispi. Contrarie erano, invece, alcune società operaie, perché
“Roma non è la capitale di un libero regno, ma l’asilo inviolato e sacro dei maestatori politici, dei
loschi affaristi, dei banchieri, dei ministri corrotti e corruttori; è la Mecca della burocrazia pedante e
assorbente; la cuccagna dei clienti e di tutti coloro che vivono aggrappati alla cassa dei fondi
segreti”269. Il panorama era frastagliato: i socialisti volevano celebrare la ricorrenza del 20
settembre, principio, a loro avviso, di un’era nuova; la sacra Penitenzieria arrivò addirittura a
vietare ai fedeli, salvo quelli costretti da incarichi pubblici, di prendere parte ai festeggiamenti;
l’Estrema sinistra radicale voleva dare al tutto un tono di acceso anticlericalismo.
Il Governo cercò di dare alle cerimonie un carattere puramente patriottico: si svolse una gara
nazionale di tiro a segno, si formò un corteo a Porta Pia, di fronte ai reali, venne inaugurato sul
Gianicolo il monumento a Garibaldi, con un discorso di Crispi ai sindaci di tutta Italia e al popolo. I
partiti di sinistra e la massoneria organizzarono, in autonomia, conferenze e adunanze con accenti
che volevano ferire il Papa.
267
L. Francescangeli, Il Comitato generale per solennizzare il XXV anniversario della liberazione di Roma ed il suo
archivio, in “Mélanges de l'Ecole française de Rome. Italie et Méditerranée”, T. 109, n°1, 1997, p. 187.
268
Ivi, p. 201.
269
Così in un articolo del “Corriere dell’Isola”, di Palermo, in A. M. Bonetti, Venticinque anni di Roma capitale
d’Italia e suoi precedenti, Roma 1896, v. II, p. 395, cfr. A. Caracciolo, op. cit., p. 289.
197
Ma, tutto sommato, le celebrazioni del 1895 scorsero via senza grandi moti dell’animo, in
un’atmosfera di ordine e di relativo entusiasmo, con “l’impressione che il 20 settembre oltre che
una ricorrenza nazionale, fosse ancora, e soprattutto, un segno di contraddizione”270.
Più maestoso il cinquantenario del Regno, nel 1911, il “Giubileo della Patria”. L’Italia era più
moderna, più ricca e ambiziosa; Roma mostrò, ancora una volta, il suo ritardo: era sicuramente la
capitale politica, sede degli organi dello Stato, ma non il centro economico, il cuore della nazione.
Un’evidenza, lampante, se si guarda alle esposizioni internazionali, questa volta sì, allestite per le
celebrazioni, a Roma e Torino. In precedenza, nello stesso anno, una minore fu organizzata anche a
Firenze, in quanto ex-capitale.
Le due esposizioni erano molto diverse tra loro, a partire dai temi: in Piemonte l’attenzione degli
espositori era dedicata al lavoro e all’industria, primati del Nord; Roma era concentrata sull’arte,
sulla storia patria e su una nuova emergente disciplina, l’etnografia.
Torino, capitale del progresso italiano e snodo cruciale verso la Francia, ospitò l’Esposizione
Internazionale dell’Industria e del Lavoro, con protagonisti il mito del progresso e l’elettricità.
Roma, invece, fece da palcoscenico per le esposizioni di natura più umanistica: venne allestito il
nucleo centrale di quello che sarebbe poi diventato il Museo del Risorgimento romano. Ma la natura
“romana” dell’esposizione e l’impronta democratica e anticlericale voluta dalla giunta Nathan,
anche per rimarcare il ruolo di nemico svolto dal Vaticano nel processo unitario, portarono a uno
scarso successo della mostra. Di natura più “unitaria”, ma comunque con scarsi risultati di pubblico,
le altre iniziative, come la Mostra internazionale di Arte, a Valle Giulia, l’inaugurazione del Museo
medievale alla Mole Adriana e il Museo Romano alle Terme di Diocleziano. Più frequentata,
invece, la Mostra etnografica che, sviluppandosi in decine di padiglioni d’arte e di folklore
regionale, risultò maggiormente coinvolgente. Nei mesi di festeggiamenti furono molte le
cerimonie, i discorsi, nei quali si esaltarono le glorie passate e future dell’Italia unita e di Roma
capitale, e si inaugurò, alla presenza dei sindaci di ogni regione, il monumento a Vittorio Emanuele
II. A ricordo permanente delle celebrazioni rimasero anche il ponte Risorgimento e il ponte Vittorio
Emanuele, il quartiere poi intitolato a Mazzini (luogo dell’esposizione), lo stadio nazionale, il
giardino zoologico, la Galleria nazionale d’arte moderna a Valle Giulia.
E’ dunque l’apoteosi dell’“Italia del popolo”, della “terza Roma”, come il Nathan crede? Non si
tratta di questo. E’ solo la rassegna orgogliosa, e forse un po’ pacchiana, di un’Italia liberale che
sta vivendo gli ultimi tempi del suo progresso e del suo vigore. E che del nome e della
tradizione di Roma vuol servirsi per apparire più maestosa e degna di rispetto271.
270
271
G. Arnaldi, Il Venti settembre 1895, in Studi romani, 1955, n. 5, p. 579, e cfr. A. Caracciolo, op. cit., p. 290.
A. Caracciolo, op. cit., p. 292.
198
Sempre originali e interessanti sono le riflessioni di Prato sui più disparati argomenti e momenti
relativi alle trasformazioni di Roma, e lo sono anche quelli relativi proprio alle esposizioni scritti
per Voce fuori coro:
dopo il 900 esposizione
Restò galleria d’arte moderna coperta di ornati. Ogni tanto nelle ripuliture le hanno tolto
qualche aggeggio ornamentale, ogni tanto un pezzetto di più di muro liscio. Ne aveva troppi,
d’accordo, ma siccome brutto lo è, era meglio un brutto originale. Almeno segnava un’epoca.
dal 70 al 900 - Esposizioni
Che epoca curiosa, se non ci fosse stata la Prussia fagocitatrice (?) di fratelli e origini tedeschi, il
dramma della Francia, la caduta del potere temporale dei papi, si sarebbe potuta distinguere
come epoca delle esposizioni; si succedono in ogni parte del mondo, le grandi, pullulano le
piccole in ogni città. Anche in Italia, a considerare quante ce n’erano si sarebbe detto che non
aveva altri problemi. Invece per mangiare la gente partiva per l’estero coi fagotti di stracci e
offriva braccia e intelligenza272.
Il Giubileo della Patria, di fatto, mostrò due volti dell’Italia unita: il progresso e la tradizione. Per
quanto riguarda il primo, di matrice più internazionale, lo scettro era in mano a Torino,
industrializzata e con una posizione più favorevole rispetto agli stati dell’Europa continentale. In
qualche modo, queste caratteristiche, nonostante che la volontà degli organizzatori fosse ben altra,
fecero sì che l’ex capitale si mostrasse come il vero centro propulsore dell’immagine che l’Italia
voleva trasmettere all’esterno: progredita, grande potenza, industrializzata e all’avanguardia. Roma,
sfavorita dalla posizione e dalle tematiche più simbolico-culturali delle proprie esposizioni, finì per
catalizzare meno l’attenzione dei visitatori internazionali, spesso industriali, chiudendo con poco
più della metà dei visitatori di Torino.
L’intonazione data ai festeggiamenti non riuscì a commuovere l’Italia del 1911. Non era ancora
nata quella “terza Roma” cara a Mazzini.
Le celebrazioni per il cinquantenario di Roma capitale, nel 1920, furono in linea con un Paese
stremato dalla guerra, in grande difficoltà materiale. Il momento non era adatto a cerimonie: i partiti
si stavano preparando alle elezioni amministrative con la forza richiesta da una delle battaglie
decisive del dopoguerra; ovunque divampava una violenta lotta di classe. Gli operai romani
272
ACGV, Fondo Prato, Pm 3.
199
avevano stabilito i loro picchetti intorno alle fabbriche: l’Italia, per dirla con Gramsci273, si trovava
alla vigilia della presa del potere politico da parte del proletariato, oppure di una tremenda reazione
da parte della classe proprietaria. In pochi si accorsero delle celebrazioni del cinquantenario. Dei
festeggiamenti si occuparono soltanto il Governo e quel che restava dell’apparato statale: tutto si
risolse con l’istituzione delle Biennali Romane d’Arte (le cui uniche tre edizioni si svolsero dal
1921 al 1925), una seduta solenne in Campidoglio, un telegramma del sovrano, il tradizionale
corteo con comizio a Porta Pia. Commemorazioni sbiadite, per un dissidio fra Stato e Chiesa che si
era molto attenuato e, anzi, iniziava a trasformasi in convergenza.
In cinquanta anni di capitale, colpiva il profondo divario fra l’esaltazione dell’idea di Roma e le
concrete iniziative nei confronti della città da parte del ceto politico. L’avvenire di Roma, anzi,
veniva determinato da convenienze e necessità contingenti: si era contro l’industrializzazione della
città per timore di una futura concentrazione proletaria; con una consuetudine di omertà e ossequio,
la burocrazia qui concentrata doveva essere docile e rispondere alle volontà di ministri, funzionari,
governo; l’esaltazione del nome, del fascino, della tradizione di Roma, doveva servire a esaltare
l’orgoglio nazionale e favorire l’unità formale del Paese, ma alla capitale non si concedeva nulla
che potesse trasformarla in vero centro di gravità nazionale. Questo solco tra parole splendide
pronunciate nelle grandi occasioni e condotta concreta dei governi diventò abissale con il fascismo.
Roma, la romanità, i destini romani d’Italia, erano il leit-motiv della fraseologia mussoliniana: il
Duce era alla ricerca di un mito. “Roma – diceva – è il nostro punto di partenza e di riferimento; è il
nostro simbolo o, se si vuole, il nostro Mito”274. Ma, invece di progredire economicamente e
culturalmente insieme al resto d’Italia, Roma si differenzia in modo sempre più accentuato: Milano
era diventata l’effettivo capoluogo dell’Italia economica, Torino era la capitale industriale
e
proletaria, Roma rimaneva città che regna e non governa.
Mentre si trasformava in popolosa metropoli, era sempre vivo il contrasto fra l’idea, l’immagine che
di essa si cercava di rappresentare agli italiani, e la realtà che i suoi uomini e le sue donne
incontravano ogni giorno.
Un divario fra quello che Roma credeva di essere e quello che in realtà era.
Per i cento anni di Roma capitale, nel 1970, si ripropose lo schema ufficiale di commemorazioni
governative, senza più la forza della spinta anticlericale dei primi anni. Le celebrazioni portarono
anche a coniare una moneta per l’occasione, le mille lire “Roma capitale”, con da un lato la
pavimentazione progettata da Michelangelo per piazza del Campidoglio, e dall’altro il volto della
Dea Concordia. Venne emesso un francobollo che raffigurava tre monumenti all’interno dello
273
274
A. Gramsci, L’Ordine nuovo, Einaudi, Torino 1954, p. 117.
Passato e avvenire, in “Il Popolo d’Italia”, 21 aprile 1922, cfr. A. Caracciolo, op. cit., p. 297.
200
“stivale”, quelli di Roma, Torino e Firenze, con la scritta “Ho detto e affermo ancora una volta che
Roma Roma sola deve essere la capitale d’Italia. Cavour”: un francobollo che, emblematicamente,
rappresentava la storia, con le tre capitali, ma in cui, forse, si poteva ancora leggere la mancata
centralità di Roma nello sviluppo e nell’economia del Paese, anche cento anni dopo la sua elezione
a capitale. Numerosi, infine, furono gli eventi culturali pensati per l’occasione, e non mancò un
fiorire di pubblicazioni, anche locali, con poesie, poemetti, racconti, memorie, per esaltare la
memoria di Roma e la sua “eternità”.
Come abbiamo avuto modo di approfondire nel terzo capitolo, anche Dolores Prato voleva con
forza partecipare a queste celebrazioni. Ma voleva farlo a modo suo, in controtendenza con il
pensiero ufficiale che esaltava il 20 settembre e la proclamazione di Roma capitale. Dolores
scriveva apertamente, nell’abbozzo di Voce fuori coro:
Ragione di questo libro è che un velo bugiardo è su tutte le commemorazioni. Noi altri facciamo
un lamento perché noi pensiamo solo a Roma città costruita e città vivente275.
E ancora, scritto su un ritaglio di giornale276:
Ma è indubbio che se esiste occasione per dare agli avvenimenti storici una luce falsa, questa si
presenta inevitabilmente nelle rievocazioni celebrative. Basterebbe, per rendersene conto,
andarsi a rileggere molto di quello che è stato scritto qualche mese fa nel nostro Paese, in
occasione del centenario di Porta Pia.
Impietosa, nel suo schema di Voce fuori coro, Dolores appunta:
Poi il discorso procede di celebrazione in celebrazione, cinquantenari, 75enni ecc. Ognuno è
uno sguardo sugli ulteriori danni e sulle brutture. Le celebrazioni inoltre ospiteranno in
maggiore quantità le buffonate retoriche277.
275
ACGV, Fondo Prato, Pm 1.
ACGV, Fondo Prato, Pm 1.
277
ACGV, Fondo Prato, Pm 1.
276
201
Ma terminiamo questo capitolo sulla storia dell’Unità d’Italia, su Roma capitale e le
celebrazioni che ne seguirono, con un articolo di Dolores Prato che tutto racchiude: la sua
accurata ricerca storica, l’attenzione per i dettagli, la sua mirabile capacità descrittiva,
l’acutezza delle considerazioni e delle intuizioni. Leggiamo, con chiarezza, la voce limpida di
chi racconta l’antimito di Roma capitale, nel suo primo centenario, e queste parole possano
anche servire di congedo alla multiforme personalità di una scrittrice del Novecento della
quale abbiamo cercato – anche se il lavoro è solo agli inizi – di recuperare la voce troppo
spesso messa a tacere, dagli eventi o da un’instancabile aspirazione alla perfezione.
1970 finestre278
Tre anni fa si celebrò il nefasto centenario di Roma capitale d’Italia. Intervennero anche i preti, non per
celebrare le esequie di una città barbaramente distrutta, ma per assolverne la rovina.
La ricorrenza bicentenaria della morte di Luigi Vanvitelli che concepì, disegnò, in parte attuò una capitale
libera da condizionamenti ambientali, edilizi e storici, esistente di per sé, non appiccicata come una maschera
sul volto di Roma che era la capitale del mondo, ravviva la pena per quello che poteva essere fatto e non fu
fatto per salvarla. Bastava fare quello che già avevano fatto i Borboni: lasciando intatta la città, costruire,
vicine ma staccate, quelle sedi rappresentative e burocratiche necessarie a una capitale.
Perché questa condanna di diventare capitale toccasse proprio a Roma è un mistero che per spiegarlo non
basta la sua millenaria grandezza e la necessità di far dispetto al Papa, dato che Roma aveva tutto il
necessario per esserne esclusa.
L’Italia è la terra delle tante splendide città, è una lunga chiesa illuminata da candelabri uno diverso
dall’altro, ogni città grande o piccola, un candelabro prezioso; le più grandi erano tutte capitali, avevano tutte
la reggia le nostre più grandi città, anche se si chiamavano palazzo Ducale o palazzo Pitti.
C’era da scegliere. Scartando la millenaria fastosa città di Palermo troppo lontana per uno stato accentratore
e pauroso, c’era Bologna che sta nell’Italia come il cuore nel petto degli uomini. C’era Milano che non sta
“come” il cervello perché lo è e lo sarebbe stato nella formazione del nuovo stato che molto non ne aveva.
C’era Torino piemontese e sabauda; restando lì la capitale avrebbe risparmiato la grande rovina di Firenze e
la distruzione di Roma.
C’era Napoli, soprattutto, lasciata in ultimo come nelle processioni solo alla fine sotto al baldacchino avanza
il mistero sacro.
Napoli era già capitale da otto secoli e per di più “regia”, quel regia che tanto inteneriva i Carignano. L’unità
d’Italia in gran parte consistette in quell’aggettivo appiccicato a edifici, a istituzioni preesistenti da secoli,
278
probabilmente pubblicato su “Paese Sera”
202
alle rivendite dei tabacchi, al lotto che era un giochetto proprio da governo papalino.
Napoli era una delle più splendide capitali d’Europa. I Savoia risparmiandosi l’umiliazione di strapparsi un
alloggio con la forza, vi avrebbero trovato non una ma diverse regge, e tra le più belle al mondo.
Ne aveva una aperta sul più bel panorama d’Italia, un’altra a Portici, più amena perché più piccola. Nel ‘700
dalla grandezza, dall’arte, dalla magnificenza, dalla ricchezza, dalla natura, era nato l’immenso stupore che è
la reggia di Caserta. Carlo III pensava che la capitale sarebbe stata più libera e sicura all’interno, riparata
dalla violenza di qualunque genere fosse, dell’acqua, dell’ambiente, della società. Ne parlò a Luigi Vanvitelli
che sull’idea del Borbone innestò il suo miracolo. Alla proposta mastodontica Vanvitelli esplose come un
fenomeno della natura. Era sangue nordico il suo nel quale il sole meridionale funzionava da esaltante
energetico.
[…]
In questa città di regge Carlo III ne volle una tanto grande che tutte le comprendesse, lontana dalla città, al
riparo da turbamenti causati dalla violenza, di qualunque natura essa sia. Non s’ispirò a palazzo carignano,
mirò a Versailles. Una Versailles in mezzo alle meraviglie della terra campana.
Più di questa reggia ai Carignano importò più punzecchiare il papa occupando una sua casa con la forza
come fanno qualche volta i baraccati, umiliando se stessi e condannando a morte Roma.
La reggia c’era ed era una delle più belle del mondo se non la più bella perché cascate come quelle che il
Vanvitelli costruì difficile trovarle. Una reggia fatta con mattoni, pietre, marmi, metalli, erba,alberi, acqua,
popolata da statue di animali, di ninfe, di eroi, di apparizioni. Altro non sono che apparizioni certi scorci,
certe lontananze, certe sorprese. Ha alleggerito mattoni, pietre e marmo creandosi ariosi labirinti di colonne,
di gallerie che non si chiudono mai, dando l’illusione di un gioco di specchi come nella gloria di certi presepi
che a forza di essere riflessa pare infinita. Introducendoci nella sua creazione ci introduce in una esplosione
di sogni. Non è solo sogno, è canto. In questa vastissima opera paesistica si passa come in un poema dalle
molteplici cantiche a tutti i toni del lirismo. Monumenti di pietra ed acqua, questo sono le fontane profuse da
chi poteva contare sul suo inesauribile genio creativo. Acqua pigra, acqua rapida, acqua a cascate, ad archi, a
zampilli, sgorga copiosa, gioca con l’erba, si nasconde sotto di essa, riappare per giocare con l’aria e
balaustre, scogli, grotte per contrapporre il gioco raccolto a quelli affidati allo spazio e alla lontananza.
La reggia di Caserta è appoggiata a un’opera della potenza di quelle romane, all’acquedotto carolino che
percorre chilometri e chilometri, attraversa colline, valica le valli con superbi viadotti. Creatore, tecnico,
artista, un uomo solo e tutto in pochi anni. E anche la città intorno alla reggia immaginò e disegnò, città che
rimane a mezzo, la capitale solo capitale. Quello che avrebbero dovuto fare i Savoia se fossero stati
all’altezza dei Borboni. La città progettata dal Vanvitelli aveva le caratteristiche che solo ora si cominciano a
proporre come necessarie alla moderna urbanistica.
I Borboni e questo popolo terrone bistrattati da una parte dell’Italia unita, pare che sapessero scegliere i loro
architetti, pare che sapessero farli i loro sogni preveggenti.
[…]
Quella superba reggia ebbe vicina una comunità basata sull’uguaglianza e sulla libertà, autonoma e
203
autosufficiente con diritto all’assistenza sanitaria e all’istruzione, poteva essere la prima di tante altre che
avrebbero potuto fare della Campania la serra della libertà e del progresso. Ma i fermenti che preparavano
l’unità italiana si sovrapposero provocando reazioni che tanto fecero comodo ai piemontesi. La Napoli che
ha profuso la felicità della sua terra, il pensiero dei suoi uomini, la genialità del suo popolo e il suo saper
soffrire, che prima dell’annessione al regno italiano aveva conosciuto splendori culturali a livello europeo,
oggi tra cozze e ciminiere continua la sua via crucis. Può venire il dubbio che invece di opera unitaria si sia
fatta della vivisezione.
Ma la reggia creata da Vanvitelli resta, è un sogno realizzato come non lo fu quello di Francesco d’Assisi.
Volandoci sopra, priva com’è delle 4 torri angolari e della cupola centrale progettate dal Vanvitelli, la reggia
pare un’immensa finestra crociata appoggiata per terra. Una finestra coricata, traforata nel suo spessore da
1970 finestre. Inutile contarle, si ricomincia sempre daccapo. Tre anni fa quando si celebrò il centenario
dell’unità raggiunta con l’annessione di Roma (che per concludere davvero ci vollero altre guerre), una unità
che volle dare tinta unica a quello che era un fiorire di varietà, nel 1970 invece di quel disgraziato ricordo di
Roma, sarebbe stato meglio celebrare le 1970 finestre di Caserta, una coincidenza che non si ripeterà mai
più.
204
Appendice
Raccolta degli articoli di Dolores Prato: editi, inediti e rari
205
A) EDITI E RARI, con foglio di giornale (ACGV, Pg 1-143; fondo Ferri-Ferrari)
Il Quotidiano, 2 dicembre 1945
PEREGRINAZIONI ROMANE
Da Cecilia a Lucina
collocazione dattiloscritto: Pg 1-3.
Catacombe: sepolcreti sotterranei, stretti, lunghi, tortuosi, umidi, bui, dove mai penetrò il sole, parrebbe
dovessero accogliere tutto ciò che è negazione di luce e di vita, tutte le tenebre e tutte le morti di questo
povero mondo.
Invece, sulla faccia della terra, non c’è luogo da cui emani tanta luce come dal buio di quelle sotterranee
gallerie mortuarie. Luce di vita; luce di martirio; luce di fede; luce di dottrina; luce di poesia, luce di sicure
speranze; luce di miriadi di piccole lucerne; luce di nomi che illuminano ancora di vita quelle caverne, dove
la morte non entrò neppure con un segno, con un grafito, con una parola, con un simbolo.
“Lucina” è uno di questi nomi luminosi, forse il più luminoso: quello che ripetendosi con insistente
uniformità attraverso i primi secoli cristiani, li costella di tanta luce, come se a ogni poco s’accendesse una
lampada viva nell’ombra sotterranea delle catacombe.
In quasi tutte le storie dei martiri incontriamo una matrona che li assiste, ne raccoglie il corpo e lo seppellisce
in un suo possedimento. Questa ricca patrizia si chiama sempre “Lucina”. E’ un nome tipicamente cristiano.
Il battesimo cacciava dalle tenebre dello spirito; gli iniziati entravano nella luce. Di una cristiana che si fosse
distinta per opere di eccezionale pietà, veniva tramandata la memoria, ma senza preoccuparsi del suo nome
gentilizio. Che fosse della gente “Cornella” o “Emilia”, o “Cecilia”, che importava? Essa era una
“illuminata”; questa sì, valeva. E diventava “Lucina”, come quella, che della luce del battesimo, più ne
prese; più ne portò; più ne diffuse.
Una emanatrice di luce che è vita; di vita che è opera, di opra, che sola vale; che sola resta, oltre il nome di
quaggiù, che non ha valore.
Tante “Lucine”, dunque, che non si chiamavano “Lucina”: donne imprecisate, vere solo come fede e come
azione; donne misteriose, che col loro nome simbolico illuminano, più delle lucerne, le oscure profondità
sotterranee. Simbolico il nome; vere certamente le donne, che in esso venivano velate; vere e continue come
la Carità, da che Cristo l’insegnò.
Volete una donna più vera e più di quella “Lucina”, che nel II secolo offre alla comunità cristiana un suo
campo sull’Appia che diventerà il Cemetero di Callisto, il più venerato e più ricco (la ricchezza di quei tempi
206
era la carità e il martirio); di quella donna che, secondo un’ipotesi, alla quale mi piace aderire, ha tanta
autorità da consigliare il Pontefice Cornelio a togliere dalle malsicure sepolture pagane i corpi di SS. Pietro e
Paolo; che ha tanta energia da attuare il trasferimento; che è così pietosa da raccogliere a decine i corpi dei
fratelli martiri e religiosamente seppellirli, aiutata dalla notte e dai pochi fedeli?
Eppure di questa “Lucina”, che darà solenne sepoltura anche al Papa Cornelio, nessuna memoria diretta nella
sua catacomba.
Invece, nello stesso Cemetro, distinta da un arcosolio, nella zona più sacra, proprio accanto alla Cripta dei
Papi, ebbe la sua sepoltura una “Cecilia”, di cui nulla si sa con certezza, e che forse non patì neppure il
martirio.
Nella Cripta è dipinta la sua immagine; una donna aureolata e sorridente; riccamente vestita e ornata; con gli
occhi grandi piene di luce; circondata da fiori; che allarga le braccia, levando in alto le mani in attitudine
orante.
Ma perché tanta distinzione per una donna della gente “Cecilia”, se nel secolo V, quando l’era dei martiri era
chiusa da un pezzo, la Chiesa credette bene di lasciare che i cristiani manifestasserola loro crescente
decozione per lei, conferendole il titolo di “martire”? E’ evidente che la sua vita dovette essere tale da
renderla “testimonio” e “confessore” di Cristo per mezzo delle opere che uguagliarono in merito le
testimonianze offerte col sangue. Se il periodo delle persecuzioni era chiuso, non per questo era cessata la
lotta per il cristiano; sicché, dovette ben presto sorgere l’idea, che oltre al martirio del sangue, c’è un martirio
della vita non meno doloroso, sempre più lungo. Se è così, S. Cecilia, anche se non martire fu la protomartire del nostro tipo di martirio.
E, allora, si fa più vivo il desiderio di trarla dal suo secolare mistero, dal quale sta uscendo con una
esplosione di luce, come solo dalle catacombe può erompere. La “Cecilia”, dormente nel Cemetero di
Callisto, accanto alla Cripta dei Vescovi di Roma, potrebbe essere quella stessa matrona “Lucina” del III
secolo: attiva, coraggiosa, pietosa, di cui si è accennato.
Una donna, che, forse, non fu chiamata dagli altri col simbolico nome, ma che da sé potrebbe essersi
nominata “Lucina”, a testimoniare la luce dalla quale fu assorbita all’atto del battesimo sulla scalia della
nuova vita. Poteva averlo fatto anche per la ragione che, appartenendo alla gente “Cecilia” essa portava nel
suo nome stesso il ricordo della “cecità” delle tenebre. “Cecilia”, ora che la luce di Dio l’ha illuminata?
“Cecilia” quella che non vedeva, perché in tenebre non c’è più; ora c’è quella, che vede perché in luce c’è
“Lucina”.
Che in questa identificazione di “Cecilia” con “Lucina” cada la leggenda della sposa di Valeriano, non ha
valore. Ciò che avrebbe ottenuto S. Cecilia dal suo sposo, infinite altre cristiane lo ottennero. Che cada la
tradizione delle ferite che la lasciarono viva nel dolore per tre giorni; della testimonianza resa all’unità e
trinità divina con le dita, non potendolo più con le parole, non conta. Che cada l’immagine di una “Cecilia”,
traente dalla tastiera celesti armonie, non ha valore.
Dalle catacombe prorompe sotto forma di luce, di acqua di fiori di simboli, un’esultanza tale di vita, da
superare il più grandioso corale che abbia mai scosso la terra.
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Questa “Cecilia-Lucina”, sarebbe assai più grande e più vera di quella, che la leggenda ci tramandò come
“Cecilia martire”.
Lucina viva solo per una formidabile forza operosa, acquista un volto nell’orante della Cripta di “Cecilia”;
attenua la lucentezza del suo nome, perché noi vi possiamo scorgere attraverso la nobile figura di una donna
dei “Cecili”.
In questa nostra epoca devastata materialmente e spiritualmente, l’archeologo puro, che freddamente
esamina muri e scavi; che matematicamente stabilisce misure, nomi e date, non trova più posto nelle nostre
folle cieche ed affamate, che chiedono solo pane per il corpo e luce per l’anima.
Ma un archeologo come il Belvedere, dalle cui parole e dai cui scritti io ho inteso attingere questa luce, che
ho cercato di riflettere, in cui l’archeologia ha accentuato e approfondito il suo carattere sacerdotale, deve
essere benedetto per la luce di vita, che trae da quegli oscuri sepolcreti, per offrirla alla nostra morta “cecità”.
E nel suggerirci l’ipotesi della identità delle due donne, dà a noi il conforto di riallacciare la nostra fatica e il
nostro patire quotidiani a quelli di “Cecilia-Lucina”, che, come noi, visse la sua vita, superata però da una
carità, che noi non conosciamo più.
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Paese Sera, 19 maggio 1950
I gatti insidiano l’eternità di Roma
collocazione: Pg 4.
Di qua e di là delle strade di Roma, che spesso si svolgono sopra quelle antiche, sorgono templi,
s’ammucchiano case di poveri, si stendono palazzi di ricchi, come duemila anni fa e più. I templi hanno
cambiato divinità, ma quando quello di oggi sorge sulle fondamenta di uno di allora, il nuovo titolare assume
il cognome dell’antico come fa la donna entrando nella casa del marito. L’interno odora, sempre d’incenso, e
il sacrificio di adesso è annunciato col suono del campanello come quello antico. Il capo dei sacerdoti
conserva il nome di quello di allora: molte parole del rituale pagano sono passate nel nuovo. La fastosità
delle antiche parate rivive nelle cerimonie d’oggi. Quelle imperiali si trasformano in quelle pontificali, così
come all’università politica succede quella religiosa.
La notte tra il 23 e il 24 giugno era a quei tempi una festa di chiasso, di letizia e di conviti; attraverso i secoli
il chiasso di quella notte si è ripetuto e garofani e spighetta sono creature festeggiate anche adesso. Così per
tutte le feste seminate lungo l’anno. Alcune, come quella della Purificazione in febbraio, sono rimaste quali
colonne superstiti di un grande tempio distrutto. La grandezza e la solennità degli edifici antichi non è caduta
con loro, è passata, tutt’altro che diminuita, sulle loro rovine.
Se non ci fosse tanta scarsezza di abitazioni, sulle porte di oggi ci sarebbe ancora l’est locanda. I caratteri
della vecchia Roma sopravvivono nella nuova con la longevità delle sue statue che, spezzate e mutilate,
fanno ancora di esse una strana città abitata da gente viva e da gente di pietra.
Eternità è dunque, in questo caso, sopravveste di continuità e, siccome la parola ha assunto anche qualcosa di
superbo, di indifferente, di statuario, proprio del popolo romano, adoperiamola pure.
Però questo blocco, fatto di continuità edilizia, religiosa, etnica, giuridica, linguistica, che diventa il mito
della sua eternità, è incrinato dal gatto.
Questo animale notturno è l’unico elemento nuovo di Roma. Nuovo per modo di dire, perché da un
millennio ormai egli si è trasferito qui trovando confacente al suo carattere sacro quello grandioso dell’urbe.
In una città che sotto tanti riguardi è sacra, il gatto, che si adagia su un cuscino come su un soffice trono, che
si mette fra i piedi di una seggiola come all’ombra di un arco di trionfo, che nell’incedere conserva il ricordo
atavico del baldacchino, che ha dell’idolo anche se malato e sperduto: questo animale sta bene a Roma.
Tanto ci sta bene che si parla dei gatti romani come del Colosseo. Eppure il gatto a Roma è un immigrato, un
invasore se si vuole, uno però che non è diventato Roma, ma che è stato pur sempre gatto e, sotto certi
aspetti, antiromano. Ha cambiato faccia alla notte che, se non fosse per lui, sarebbe anch’essa, come le
cerimonie, quella che era duemila anni fa, a parte le orge di alcuni patrizi come i sonnambulismi di alcuni da
marosi di oggi. Ma adesso nella notte scappano fuori tutti i gatti e passeggiano, esplorano, bisticciano,
amano, incontrano gli amici benestanti o randagi, filosofi o archeologi.
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Roma antica ebbe il cane col solito collare, pappagalli e scimmie, ma non ebbe il gatto. Eppure il popolo
romano venendo a contato con quello egizio, oltre alle piramidi conobbe certamente anche il gatto, ma forse
ne ebbe paura come di un essere misterioso capace di scardinare il suo prestigio. Era accaduto che un
cittadino romano – e come tale sacro quasi quanto il gatto in Egitto – fosse condannato a morte per averne
ammazzato uno, senza che tutta l’autorità di Roma riuscisse a salvarlo. I romani si guardarono bene dal
riportare gatti dall’Egitto come invece riportarono gli obelischi tanto più difficili a trasportare.
Quel complesso di templi egiziani che si ergevano dove ora è via Piè di Marmo e adiacenze, era adorno di
molte statue di gatti, che, rovinate coi templi, riaffiorano lungo i secoli insieme coi leoni e gli obelischi. Una
non s’è allontanata da quei paraggi; sta sull’angolo di un cornicione a mezza altezza di un palazzo e la strada
sotto si chiamò “della gatta”.
Gli egizi portavano manifesti segni di lutto per la morte di un gatto, nel pericolo lo salvavano come gli altri
popoli salvavano i loro idoli, come noi moderni salviamo la cassetta dei soldi e forse avranno fatto anche qui
quei loro pellegrinaggi annuali portando in processione statuette e mummiette di gatti morti. Può darsi anche
che la colonia abbia posseduto qualche gatto vivo, ma se questo accadde, non lo lasciarono certo bazzicare
con un popolo profano. Roma, comunque, superò tutti i primi secoli dell’era volgare senza gatti e solamente
dopo il mille essi assunsero la cittadinanza romana.
Non scelsero un periodo buono. In quei secoli carichi di eretici, di demoni, di stregoni, furono ritenuti
diabolici anche loro e come tali perseguitati, processati, farsi vivi. Un santo, a cui sua madre aveva
raccontato di averlo sognato prima che nascesse come un cane bianco e nero a guardia di Dio, immaginò,
addirittura il demonio con le sembianze di un gatto.
Forse oggi i gatti randagi preferiscono adunarsi intorno al Pantheon per una specie di rivincita. Se ne stanno
ora intorno al tempio come gente ritornata a casa propria ed è strano che, pur avendola lì a due passi, non si
avvicinino mai alla Minerva.
210
Paese Sera, 20 maggio 1950
Una strada di Roma
collocazione: Pg 5-8.
A Roma si arriva, da Roma si può anche partire se non ci si resta, ma per Roma non si transita. Roma è una
meta, non è una strada.
Forse per questo ogni sua espressione, materiale o spirituale, simbolica o storica, assume il significato della
strada. Ne deriva che le strade a Roma sono di tutti i generi e le genti che questo hanno capito, verso di lei, o
contro di lei, hanno sempre camminato. Anticamente nel Foro era segnato il centro della città che
rappresentava anche il centro ideale del mondo gravitante verso quel punto.
Accanto c’era una colonna dove erano scritti in oro i nomi delle strade che simbolicamente partivano da quel
centro, e la loro lunghezza in miglia. Forse apparve come il superstite rullo da cui s’erano svolte quelle
strisce di pietra avanzanti a raggiera sino ai confini del mondo. E insieme con quelle strade procedevano
quelle che era allora la civiltà di Roma, quella che era allora la sua lingua; regolarmente ne ritornavano oro,
schiavitù, cultura.
Il suo fiume prima di essere gonfio di leggenda e di storia prima ancora di essere dio, certo fu strada e strada
rimase anche quando non fu più dio.
Le acque che arrivano a Roma sono pellegrine fragorose camminanti sulle arcuate strade aeree, insinuantesi
per quelle sotterranee grandi come criptoportici. Le cloache sono strade sepolte protette da un cielo di
travertino, per l’andare nascosto di ciò che di sopra avanza alla vita.
Il Diritto fu una strada aperta e battuta attraverso la foresta dell’arbitrio per un cammino meno storto della
giustizia. Strada semovente fu il trionfo pagano prima, e la processione cristiana poi.
Strada di purificazione il millenario pellegrinare dell’umanità a questa mèta. Strada d’interiore elevazione
l’affluire qui dei grandi spiriti del mondo. Strada d’arte vitale quella degli ertisti che costituiscono un
ininterrotto pellegrinaggio senza punte giubilari.
I secoli hanno portato a Roma pellegrini di tutte le specie: della fede, della curiosità, dell’arte, del lavoro.
Tutto questo pellegrinare del mondo verso Roma conferma la ricchezza intuita di strade d’ogni genere: della
morale e del pensiero, dell’arte e della vita, del cuore e della fede, strade invisibili lanciate di qui all’assalto
del cielo.
A Roma ci sono una piazza a una via intitolate ai pellegrini; ma di vie ce n’è un’altra, per quanto non sia una
strada comune perché sta dentro una chiesa. La chiesa si chiama Trinità dei Pellegrini ed ha accanto una casa
dove quattro secoli fa, esattamente nel Giubileo del 1550, San Filippo Neri aperse un ospizio per quei
pellegrini che, dopo essere arrivati qui attraverso le strade del mondo, non trovando posto altrove,
rischiavano di pernottare nel proseguimento cittadino di quelle strade. A giubileo finito la casa continuò ad
essere per i pellegrini, ma d’altro genere: per i reduci dalle prigioni che per anni e anni avevano percorso la
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strada dura dell’espiazione; bisognava considerarli malati di stanchezza per il pesante viaggio, e quella
diventò come una casa di convalescenza.
La via dunque è dentro la chiesa, ma non c’è a tutte le ore.
Appare intorno al mezzogiorno, quando il sole batte contro una finestra e con la forma di questa, entra nella
chiesa, ne attraversa obliquamente la penombra e si schiaccia sul pavimento come una lastra di luce. Di
questi raggi, aeree strade luminose, le chiese di Roma sono ricche. S. Pietro, dove non c’è ora di sole senza
gloria di raggi, naturalmente, ne detiene il primato. Ma questo della Trinità dei Pellegrini è diverso; è un
raggio più solido e non è solo il fumo dell’incenso, raccolto nella minore ampiezza dell’ambiente, a dargli
maggiore consistenza; la consistenza ce l’ha in sé. Forse la scala del sogno di Giacobbe assomigliava a
questo raggio meridiano perché ad andargli vicino, dove poggia in terra, pare di potercisi innalzare ed
evadere.
Di dove però se la finestra è, sì, altissima, ma chiusa?
Comunque, quel raggio è sicuramente il segno luminoso della strada ; è la vera Via dei Pellegrini, non
limitando il termine ai calmieri e ai romei, ma allargandolo sino alla comprensione di tutti i viandanti della
vita.
La strada unisce; e quella della Trinità dei Pellegrini è unita essa stessa, nella sua forma perfetta senza
divergenze e sbavature, fatta solo di tremore di luce. Per la sua salita può andare il pensiero e anche il cuore
che è più pesante, ma non lo potrebbe la divisione che va sempre armata e le armi, di qualunque genere,
spirituale o materiale, precipitano, non salgono. Affondano nella terra, nella carne degli uomini, nella loro
anima, scavano la buca immane di un inutile dolore. Inutile perché evitabile.
Per questa strada solare attraversante la chiesa dei viandanti probabilmente passò l’anima di Mameli che
morì nell’ospizio di Filippo Neri. E perché era poeta, forse quella strada inconsistente sopportò il ricordo
della guerra, aiutandola a salire anche con quel peso.
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Paese Sera, 3 giugno 1950
DA QUATTRO ANNI ABITA IN UN LUOGO RICCO DI SUGGESTIONI E DI STORIA
La Repubblica sta sul Quirinale tra le antiche memorie e le bugie
Il colle più alto di Roma e il più salubre – Un minestrone ad arco che illumina soltanto uno sgabuzzino da
cui si affacciavano i papi e i re – Il panorama più bello della città minacciato dai palazzi che sorgono con
troppa fretta e troppa ingordigia d’altezza
collocazione: Pg 9-11.
Per i bambini e i provinciali semplici, immaginare dove stia il Governo è difficile, mentre è facile sapere
dove sta la Repubblica. Sta sul Quirinale, dove stava la Monarchia, e prima ancora, il Papa-re. Da quattro
anni la Repubblica sta lassù anche se, per un po’ di tempo, si appartò a palazzo Giustiniani.
Monte Cavallo è un colle un po’ difficile a capire anche lui, è contraddittorio, sotto alcuni aspetti persino
equilibrista, ma nonostante tutto simpatico, per quella sua aria segregata, quasi separatista. Un colle che fu
così paganamente savio nei tempi antichi che il nuovo paganesimo rinascimentale risbucò fuori di lì.
Era il colle più alto di Roma, per conseguenza il più salubre, ma prese ugualmente le sue precauzioni
nonostante l’immunità altimetrica, e provvide ad elevare un tempio alla Febbre nel suo punto più alto, perché
al malanno dello stesso nome fu interdetto l’arrampicarsi lassù dove Venere, tra i tanti suoi appellativi, era
onorata con quello più pratico ed universale di “felice”.
Roma aveva già da un pezzo il suo tempio alla Pudicizia Patricia, quando, con un senso di simpatica
equanimità o di calcolata prudenza, sul Quirinale fu elevato quello alla Pudicizia Plebeia. Nell’aristocratico
colle pareva che avesse dovuto meglio trovar posto l’altro che invece era al Foro Boario. E anche uno dei
massimi templi del colle, quello al dio Quirino, dalle cui rovine si preleveranno i marmi per la scalinata di
Ara Coeli, presenta lo stesso dubbio per due piante di mirto che si coltivavano avanti al suo ingresso: una
dedicata ai plebei, l’altra ai patrizi. Pare che le due piante prosperassero o intristissero ognuna d’accordo col
montare o col decadere della rispettiva classe. Però della morte di quella patrizia, qualche ricordo c’è,
dell’altra nulla si sa; forse fu trapiantata e visse, forse vive ancora.
Tra templi simpatici e altri un poco ambigui, abitò gente simile. Tra quella simpatica emerge Marziale che,
soffrendo per la sua condizione di cliente, viveva solo, al terzo piano di quella insula dove il frastuono
dell’acqua che scrosciava lì presso, gli dava ai nervi, acuendogli il desiderio che almeno un poco ne salisse
fino a casa sua. Ma essa serviva per usi aristocratici.
In un certo senso assomigliava a Marziale, Pomponio Leto che abitò lassù tanti secoli dopo, quando il colle
era già passato dallo splendore imperiale all’abbandono dell’alto Medio Evo; dal periodo in cui tra le sue
rovine solitarie si nascondevano gli eremiti, a quello in cui i primi conventi avevano riportato un cenno di
vita tra le boscaglie e i ruderi.
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Pomponio Leto che sdegnò la sua ricca parentela, che restò per la vita il fedele innamorato di ogni sasso
antico, di ogni parola antica, che raccoglieva le parole e le spiegava in quella sua scuola dove arrivava prima
dell’alba con la lanterna in mano; che raccoglieva i sassi nella sua casa e nel suo giardino come facevano
anche gli altri umanisti che s’erano isolati lassù dove le loro case e i loro giardini furono i primi musei
dell’età nuova.
Pomponio aveva certo sussultato quando scoperse che la sua casa sorgeva proprio sul luogo dove era stata
quella di un altro Pomponio, l’Attico, il simpatico e geniale amico di Cicerone che viveva accanto al tempio
della Salute. Per lui quei luoghi si ridestavano dal sonno dei secoli.
Vicino a quella di Pomponio era la casa del Platina, intorno a loro si raccoglievano tutti gli amanti del
passato. Pomponio coltivava un boschetto di lauri per incoronare i poeti dell’Accademia.
In quel periodo il colle, coperto di orti scoscesi, carico di imponenti rovine, dove ancora le terme
Costantiniane non erano state abbattute per far posto al palazzo Rospigliosi, fu veramente simpatico. Ma
quei benedetti umanisti facevano tanto chiasso intorno al loro rinato paganesimo, che la curia, per quanto a
malincuore, dovette vigilarli e quando Pomponio chiamò il Platina “Pater Sanctissimus”, trovò che c’era
materia sufficiente per sospettarli eretici. Il sospetto diminuì la pace di quegli strani uomini, poveri e ricchi
nello stesso tempo, che risuscitavano il passato per amore.
Come mecenate aveva desiderato un po’ d’acqua, Pomponio aveva sognato di essere sepolto sull’Appia.
Morì invece all’ospedale così povero che una povera sepoltura dovettero pagagliela gli amici.
Gli umanisti s’erano insinuati al Quirinale tra i conventi e le vigne, nel luogo dove s’era già sgretolata una
fortezza dei Crescenzi, poco prima che il colle cominciasse a subire la più grande delle sue trasformazioni;
quando ville e palazzi principeschi se ne impossessarono, facendo delle antiche costruzioni ripiani e
terrapieni per i loro giardini pensili che colonne e statue ornavano insieme con gli alberi e i fiori; quando le
antichità che ostacolavano le nuove costruzioni venivano abbattute senza rimpianto. Ormai esse non erano
altro che un complemento del fasto. Gli umanisti che alle rovine chiedevano testimonianza di una vita
passata, erano morti e sulle loro case abbattute si costruirono le stalle per il palazzo che era già sorto, tanto
grande da poter assumere addirittura il nome del colle. Dopo qualche tempo le stalle non si chiamarono più
così, ma rimesse. Costituirono quel fabbricato basso che è tuttora di fronte al palazzo del Quirinale.
Attraverso lente, ma continue trasformazioni, il colle è arrivato allo stato attuale con un carattere un poco
bugiardo. La bugia più nota è quella scritta sul piedistallo dei due colossi che li indica come opera di Fidia e
di Prassitele. Ma nel gruppo c’è una bugia che si potrebbe chiamare costituzionale: i due uomini risultano
molto più grandi dei cavalli. E pensare che proprio su quelle due statue sorse la leggenda dei due giovani che
si erano presentati completamente nudi a Tiberio che ne aveva chiesto il motivo. “Perché noi conosciamo la
verità delle cose”, avevano risposto e gliene fornirono la prova. Si patteggiò allora tra l’imperatore e i due:
questi avrebbero taciuto ciò che di lui sapevano, egli avrebbe innalzato a loto un monumento. E ora da secoli
stanno piantati lì, nudi, sì, ma dritti proprio su una bugia.
E anche la grande loggia sopra il portone del palazzo, alla quale guardano torcendo la testa agli Apostoli, è
pure una bella bugia. Un minestrone ad arco, ampio, slanciato, aperto di fronte al sole nella vastità
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dell’altezza, deve inondare di luce un salone immenso. Niente affatto. Dietro a quella loggia c’è un piccolo
vano come uno spogliatoio. Lo sgabello che c’era una volta per conferire altezza e maestà alle persone che si
sporgevano di lassù per l’ostensione delle loro facce, pareva quasi un mobile troppo grande per l’ambiente.
Del resto quel palazzo espresse anche bugie psicologiche oltre alle architettoniche. Di lì, in un pomeriggio
autunnale, dopo che i cardinali travestiti erano fuggiti, uscì anche Pio IX travestito da prete. Un uomo
travestito è una bugia vivente. Bisogna tuttavia convenire che questa fu la più innocente che uscì di lì..
Scendendo per la via 24 Maggio, s’incontra una facciata alta con cinque finestre chiuse tra due portoni di cui
uno solo è aperto. Questo muro con le sue inutili finestre non è che il paravento che nasconde un palazzo; tra
i due c’è un vasto spazio dove si raccolgono irrequieti e stridenti tanti uccelli che non oltrepassano mai quel
finto frontespizio tinto però del più schietto colore romano.
Dio fronte c’è la porta e la facciata della chiesa di S. Silvestro che sono una grossa bugia. La porta, tinta in
verde, è finta; non c’è neppure accennata la divisione dei battenti, non c’è serratura, non ci sono cardini; la
facciata è finta perché dietro non ha la chiesa che invece le sta arrampicata sulle spalle, restata lassù dov’era
quando la strada non era stata ingentilita dal livellamento. Ma lo strano è che questa bugia attuale sta sul
luogo dove anticamente c’era il tempio a un dio nominato col suo aggettivo: Santo, e come santo per
eccellenza, veniva anche chiamato Dius Fidius, dio della fede, della verità, della giustizia, della semplicità.
Difatti lì dentro era venerata anche una statua muliebre in atto di filare.
Da tutto questo che si può dedurre per la nostra Repubblica che risiede lassù, il luogo è fasto o nefasto?
Forse l’espressione vera di questo colle la dette un suo tempio a una curiosa divinità, Euelpis, che era
qualcosa più della Speranza e qualcosa meno della Fortuna. Librata così a mezz’aria potrebbe significare la
volontà umana. Se fosse così ci sarebbe da sperare nonostante che su quel colle la bugia lentamente
progredisca. Adesso è diventata anche visiva.
Da quella splendida balconata che forma un lato della piazza, è fama che si veda una delle più suggestive
inquadrature del panorama romano.
Comincia ad essere una bugia. Subito al di là della balaustra, si sono lasciate fare delle sopraelevazioni che
hanno sfacciatamente tamponato gran parte della visione. Se si continua così ci si affaccerà di lì per guardare
giù, la discesa della Dataria, come si guarda un fosso.
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Paese Sera, 2 agosto 1950
Terminata la “Festa de Noantri” Trastevere torna ai trasteverini
I misteriosi caratteri del popolare rione scompaiono d’un colpo una volta l’anno quando il pubblico vi si
riversa da ogni parte della città
collocazione: Pg 12-14.
Tratevere è un rione piuttosto misterioso, ma una volta all’anno, durante la Festa de Noantri, pare che il
mistero s’allontani, rendendolo un luogo comune di festa. Dipende, forse, dal fatto che la festa non è più
monopolio dei trasteverini, ma composta, impastata, cotta e sfornata da un collegio di organizzatori tanto
distante dalla vecchia festa, come la processione di ora lo è da quella “delli Bucaletti”. Benché, a guardar
bene, nonostante lo sforzo dei medesimi di farne una fiera standardizzata, la singolarità del popolo
trasteverino, come l’olio sull’acqua, galleggia sulla banalità.
Ma chiuso ieri il periodo feriale col ritorno della Madonna trasteverina alla sua chiesa abituale, le vecchie
strade del rione tornano ad offrire al passeggero attento i misteriosi caratteri millenari della gente e della
terra trasteverina. Ha cominciato la Madonna che, rientrata a casa, spenti i lumi, riappare quella Madonna
misteriosa che, galleggiando sul mare, arrivò sino a Ostia dove i marinai la pescarono affidandola ai
trasteverini, quasi che in mezzo a loro, viventi su una strana terra di dune color oro, la pellegrina marinara,
potesse trovare un ricordo del mare.
Salutata la Madonna anche i trasteverini ritorneranno trasteverini.
Capire perché essi stanno singolari e inconfondibili, è difficile, forse impossibile. Si pensa agli Etruschi che
nel Trastevere furono forti, che di lì alzarono orgogliosi la fronte contro l’altra sponda, che qualcosa dei loro
caratteri e dei loro lineamenti certo lasciarono al popolo trasteverino. Ma su quei lineamenti si ritrova anche
l’antica statuaria romana e non è raro incontrare lì il volto delle linee classiche complicate col sorriso
dell’Apollo di Veio.
Certo che il popolo trasteverino fu sempre una comunità distinta anche nel suo carattere romano che in lui
ebbe il risalto di una scultura.
Roma antica aveva due limiti cittadini: le Mura e il Pomerio. Quelle costituite da massicciate e torrioni,
erano una barriera strategica; questo, segnato solo da cippi tanto distanziati da conservargli il suo carattere
simbolico, era un limite religioso, puramente sacro; al di qua i templi, i tribunali, le case, la gente, al di là gli
accampamenti militari e i sepolcri. I Trasteverini furono gente raccolta al di là e in mezzo a loro potevano
sorgere i sepolcri. Quel monumento funebre e ricostruito dentro le Terme di Domiziano, era qui, accanto al
fiume, dove il Pomerio non aveva incluso quella terra di plebei che vivevano insieme con gli Ebrei
esercitando i mestieri meno graditi.
Lì c’erano i conciatori, i vasai, pescivendoli, i barcaioli, gli scaricatori di porto, i lanaioli, i molinari gli
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incettatori di roba usata e di stracci, gli antichi capostipiti dei robivecchi. Ebrei e lavoratori erano un popolo
vivente in povertà dentro a casupole spesso di lego, privo di quel conforto igienico che cominciava ad
abbondare al popolo al di là del Tevere. E privo continuò ad esserlo anche quando alcune famiglie patrizie
cominciarono a frequentare i loro “prata” trasteverini; anche quando Cesare vi creò i suoi famosi giardini,
attenuandosi solo un poco quando ville patrizie ed imperiali si distesero lungo i fianchi dei mmonti
trasteverini. Però, per il dilagare delle ville la povera gente si ammassò sempre di più in confini sempre più
limitati.
La distribuzione edilizia è presso a poco quella che era. Sul pendio dei monti Gianicolense e Vaticano, ville e
giardini freschi e riposant, nella pianura lungo il Tevere, povere, povere case, officine, agglomerato di gente
che suda e lavora.
Nelle incursioni barbariche il Trastevere fu di nuovo abbandonato, ma la povera gente continuò a vivere lì,
mentre le ville rovinarono e i giardini diventarono orti. Anche di lì, lungo il corso dei secoli, la terra ha
restituito molte statue che emigrarono un po’ dappertutto.
Quando il Medio Evo svolgeva la corsa dei suoi secoli e delle sue lotte, il popolo trasteverino si tramandava
imperturbabile quei suoi caratteri che lo rende angusto senza l’ausilio di paludamenti. Eppure, siccome era
operaio e operaio di mestieri così detti bassi, fu escluso dalle alte cariche, nessun trasteverino poté mai essere
senatore. E proprio il Medio Evo trovò in quei popolani tenuti in disparte i difensori di tutte le giustizie e di
tutte le libertà. Restarono nei secoli battistrada nel progresso della giustizia, magari a costo di essere quasi
sempre la spina dei governi, perché nelle loro strade si tumulava, nelle loro case si congiurava e si moriva.
Trastevere è una terra di mistero per certe sue indeterminate promesse spesso chiuse in una parola come
quella che sta dentro il nome delle carceri. Nell’antichità questo luogo invaso spesso dalle acque del fiume,
era piuttosto malsano, perciò fu scelto per raccogliervi i prigionieri di guerra, per trasferirci la gente dai paesi
vinti. In epoca moderna si ritornò all’antico: Trastevere luogo per i carcerati. Il reclusorio sorse sul luogo di
uno strano convento a cui il popolo aveva dato il nome di “Regina Coeli” perché quelle suore ogni quattro
ore suonavano la campana in tono festoso per annunciare che scendevano in chiesa a cantare l’antifona della
letizia: “Regina Coeli laetare, alleluia!”. Invece di richiamare ogni tanto il pensiero del peccato o della
morte, esse richiamavano quello della letizia. Gli abitanti del rione se entravano in chiesa facilmente erano
accolti dall’alleluiare delle suore, che stavano in casa, li veniva a trovare il suono festoso della campana.
Sono scomparse le religiose, scomparsi il convento e la chiesetta, ma resta un nome promettente letizia.
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Paese Sera, 27 febbraio 1951
LA CERIMONIA AL LICEO “VISCONTI”
Una bella funzione
collocazione: Pg 15-17.
C’è uno che dice di ricordare il giudizio universale come se fosse già avvenuto e racconta che, a operazione
ultimata, dopo che giudici e giudicati avevano sgombrato il cosmico tribunale, quando le piante dei piedi
delle ultime pattuglie dei beati sparivano tra le nuvole altissime e tutti i dannati erano già precipitati nelle
tenebre dell’abisso, per lo spazio vuoto e spento passò un piccolo gruppo di ritardatari che se ne andavano
chiacchierando, lenti e tranquilli, verso l’abisso che impazientemente aspettava di potersi richiudere per
l’eternità. Ma quella gente non aveva né fretta, né paura e quando fu vicina a quello spettatore che ricorda
ciò che sarà, uno della comitiva disse:
-
Tutto sommato, però, è stata una bella funzione!
-
Ho capito, sono romani – pensò lo spettatore.
-
Giacché è noto che essi, a forza di vedere spettacoli di tutti i generi, sono indifferenti a tutti e tutti li
accomunano nel nome di quelli che sono più usuali.
“E’ stata una gran bella funzione!” Si sentiva dire venerdì mattina tra la folla che usciva dal Liceo “Visconti”
dopo la “solenne commemorazione del IV centenario della fondazione del Collegio Romano”.
La differenza tra il Giudizio Universale e la cerimonia del “Visconti” stava nel fatto che per questo
l’aggettivo era ironico, ma l’appellativo no. Bella, no, di certo, ma funzione, di sicuro!
Doveva venire il Ministro Gonnella e, quasi per istintiva delega, tonache ecclesiastiche, fratesche e monacali
riempirono l’Istituto.
L’oratore ufficiale è stato il fratello di Padre Lombardi suscitando il sospetto che anche lui fosse un delegato,
giacché dovendo la commemorazione consistere nell’esaltazione dell’opera dei gesuiti, non sarebbe stato di
buon gusto che la medesima venisse snocciolata direttamente da un gesuita.
Già il tono introduttivo del Preside Piersanti e del suo lungo latino, ci aveva posti in una aria di arcaica
riesumazione, staccata da oggi. E l’oratore ci spinse subito indietro, nel cuore del ‘500, naturalmente in un
solo limitato settore ecclesiastico del tempo, nel quale non trapela un cenno della vita di fuori. Egli non
riesce a tirarci fuori da quell’aria stagnante neppure quando ci mette in evidenza che la fondazione
dell’Istituto avveniva 60 dopo la scoperta dell’America!
Nomi di Pontefici e di Cardinali, tanti! Benemerenze della Compagnia di Gesù, tante! E tutto questo sarebbe
stato giusto se non fosse stato indubbio il tono di rivendicazione delle glorie clericali dimenticando tutte le
altre. Nella parola di quell’oratore non era il passato che si trasfondeva nel presente, ma era il presente che
veniva respinto nel passato e annullato. Quando pur dovette accostarsi ai tempi moderni, sorvolò sul “fatale”
’70 giustificandolo col 1929!
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Nessun ricordo degli studenti che, usciti di lì in questa prima metà del secolo, hanno occupato con onore
posti di altissima responsabilità; nessun ricordo di quelli che hanno raggiunto meritata fama nel campo delle
arti, delle lettere, delle scienze; nessun ricordo per i martiri della liberazione e delle Cave Ardeatine; anzi si
avvertì una apprensione che qualcuno li ricordasse. Dalle parole dell’oratore parrebbe che in quel glorioso
liceo nulla si sia fatto più da quando fuggì dalle mani dei Gesuiti, salvo che un po’ di comune esercitazione
scolastica. Si parla del “Massimo” piuttosto e non potendo rimanere a lungo lì, si tornerebbe volentieri a
parlare di Gesuiti, di Innocenza, di Gregari. Ma, per fortuna, anche nel suo periodo laico il Liceo “Visconti”
offre qualcosa su cui il fratello di P. Lombardi si può trattenere. E’ il giovinetto Eugenio Pacelli, il futuro Pio
XII che frequentò l’Istituto.
Giustissimo parlare di questo, gloriarsi di questo, ma allora deve anche essere ricordata l’anima santa di quel
grande dotto che fu don Primo Vannutelli. Non perché fosse dotto (di dotti, di uomini di gran valore, di
presidi emeriti dei quali non s’è fatto cenno, il Visconti ne ha avuti tanti!), ma perché don Primo Vannutelli è
passato tra noi imitando Cristo.
In conclusione questa cerimonia è servita per fare in una scuola laica l’esaltazione dell’insegnamento
clericale. Tutto è stato disposto in funzione clericale , persino la banda dei carabinieri che ha aperto la
celebrazione non con l’inno nazionale, come si suole, ma con una neutra sinfonia. Però alla fine, dopo che i
prelati erano riusciti, è stato suonato l’inno di Mameli. Alla fine, invece che al principio, quando i pezzi
grossi se ne erano andati e non quando entravano.
Io mi sono divertita a guardare una donna che s’era messa sui capelli un fazzoletto da naso come si fa in
chiesa quando non si ha altro copricapo, ma non ho capito se l’aveva fatto per ingenuità o per ironia.
La conferenza del fratello di P. Lombardi si chiuse con una massima di S. Ignazio, e anche questo è stato
giusto, come giusta e bella è stata la conclusione con il “Te Deum” cantato in S. Ignazio. E’ una delle chiese
più romane di Roma e in quella sua meravigliosa chiarità silente, il canto della folla, larga e bassa sotto
l’altezza tranquilla del tempio, pareva il sospiro dell’erba verso il sole.
Ma non è stata giusta, né di buon gusto la distribuzione che è stata fatta di un opuscolo stampato nel ’40, con
le rituali esaltazioni fasciste, i ridicoli saluti al re-imperatore e al duce, conclusi con la chiamata finale:
“Camerati, evviva Pio XII!”
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Paese Sera, 6 giugno 1951
La nuova chiesa di S. Eugenio
collocazione: Pg 18-19.
E’ stata costruita, consacrata ed aperta al pubblico una chiesa dedicata a S. Eugenio e offerta in dono al
regnante Pontefice Pio XII che fu battezzato col nome di Eugenio.
Succede spesso, quando si erige una chiesa in omaggio a un Papa, che la si dedichi proprio a quel santo il cui
nome egli abbandonò nell’ascendere al Pontificato. Sarebbe una specie di risarcimento di danno. Così sorse
S. Gioacchino, così è sorta S. Eugenio.
S. Eugenio, chiede la gente, e chi lo conosce? Chi ha mai sentito il bisogno di pregare S. S. Eugenio? I santi
del martirologio sono migliaia, ma quelli usuali non tanti; assai meno dei 365 che ogni lunario applica a ogni
giornata. S. Eugenio è sì tra questi, ma tra gli sconosciuti. Quando cade quel nome lo sa solo chi ci si chiama
e i suoi prossimi parenti ed amici, il resto della gente lo ignora.
Per quanto un altro S. Eugenio che non si trova sui calendari, quello cartaginese, faccia più simpatia per la
sua aspirazione all’unità e per aver consumata la vita per le strade tribolatissime degli esili, anche questo S.
Eugenio, di cui il 2 giugno è il dies natalis, come la Chiesa chiama splendidamente il giorno della morte, non
dispiace affatto. Forse perché fu romano di nascita e di sepoltura, forse perché s spera un poco nel suo aiuto
per il raggiungimento d’una stabile pace nel mondo intero, dato che sopra alla porta di questo tempio che
certo egli non s’aspettava c’è una sentenza: Opus justitiae pax. E’ bella ed è vera; sul suo significato siamo
tutti d’accordo; però adesso si tratta di lasciare sul serio che la giustizia operi. S. Eugenio, che da noi
comincia ora la sua carriera di santo officiato, potrebbe, con lo zelo che accompagna sempre l’assunzione di
una carica, aiutarci davvero a stabilire la giustizia tra di noi.
La chiesa proprio bella non è, anzi qualcuno dice senz’altro che è brutta. Ma brutta o bella che sia, porta
almeno sui suoi muri e sugli edifici annessi, il colore di Roma. Oramai sono così rare le costruzioni nuove
che ripetono quel nostro colore di terra arrossata cotta dal sole, che quando ne sorge qualcuna che non sia
color pisellino o bianco-calce, ma di quella tinta calda, intensa, suggerita dal nostro orizzonte e dal nostro
clima, si è disposti ad assolvere anche più di una stonatura architettonica. Se in S. Eugenio stonature ci sono,
il colore le assolve, ma certo esso non arriva ad assolvere la cupola.
Alla chiesa costruita nell’ambito dell’E 42, misero sopra qualche cosa che, data l’epoca in cui sorse, parve
una specie di elmo chiodato. A questa, forse in omaggio all’Anno Santo, nel quale doveva essere dedicata.
Anno Santo caratterizzato dai preti in basco, hanno messo sopra un qualche cosa che comincia come berretta
e finisce come basco.
Però l’interno è accogliente. Vista di dentro si capisce che è una chiesa dove si potrà pregare. E una chiesa
solo così raggiunge il suo fine. Certo lo raggiungerebbe meglio se l’aiutasse il suono delle campane che
invece perde di fervore meccanizzato com’è.
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Intorno a questa chiesa, come a tutte le cose nuove, s’intreccia un mormorio di pareri contrastanti, c’è chi
dice che la sua erezione sia stata opportuna e chi no. Questi sostengono che quando il Papa accettò il dono
che il popolo cristiano chiedeva di potergli offrire, avrebbe fatto meglio a cambiarne la forma: invece che per
una chiesa, devolvere gli stessi capitali per una borgatella intitolata a S. Eugenio dove avrebbe trovato un
minimo di casa quella gente che, proprio in vista del tempo, vive nei buchi dei Monti Paioli. Il Santo sarebbe
stato onorato lo stesso e il popolo lo avrebbe conosciuto sotto un aspetto più simpatic, trasferendo rigogliosa
in Lui quella speranza che ora cresce stentata intorno ai nomi di Aldisio e di Fanfani.
Gli uni dicono che il Papa deve pensare prima alla gloria di Dio e alla salute delle anime; gli altri ribattono
che è giusto, ma che in quella zona non v’è penuria di chiese; oltre a S. Croce v’è la deliziosa chiesetta di S.
Andrea, non lontana quella di piazza Euclide e del gruppo non indifferente del Popolo, 3 sulla piazza e 2
all’estremità del Corso dove chi ha fretta trova Messe tutti i quarti d’ora. Che la gente di questo quartiere sia
eccezionalmente pigra? Ma se la si contenta troppo finirà col volere il servizio dei Sacramenti a domicilio,
giacché la fretta che invade tutta la vita, non risparmia la religione, diventata per i più un dovere da sbrigare
come con le bollette della luce e del gas.
Questi scontenti per costituzione, per poter essere scontenti, non vogliono pensare che il Papa possa saper
meglio di loro se e dove porre le sue chiese. D’altronde, dicono gli altri, prima di fare delle critiche in nome
di una solidarietà, spesso retorica, per i cavernicoli, per i senzatetto, per gli accampati, bisognerebbe vedere
quanti di loro affluiti qui, al paese d’origine invece di una grotta o di una baracca, potrebbero trovare una
casa se non ce l’hanno già. E concludono che l’erezione di una nuova parrocchia era inderogabile. Tra gli
infausti e i rancidi un rimandarsi di colpi come al gioco del tamburello, a base di “la merita”, “non la merita”
e ognuno si fortilizza dietro un suo motivo che è poi il suo punto di vista.
Vi è chi dice che non è adatta una chiesa a chi non rifiutò per la sua famiglia successivi graduali titoli
nobiliari, per cui sarebbe stata più conforme l’offerta di un palazzo gentilizio. Vi è insomma chi vorrebbe i
Pontefici, sotto certi aspetti, tutti simili a Pio X e a Benedetto XV. Questo gli rimprovera un peccato contro
l’unità attribuendogli una certa frase intorno alla divisione del mondo. Quell’altro brontola perché, secondo
lui, una volta avrebbe ringraziato il Signore di aver stabilito i ricchi. Tutti i mormorii a vuoto perché nel
discorso di un Papa spesso c’è tutto; pare un dire poliedrico e ognuno vede la faccia che per il suo punto di
vista è in luce.
Non condivido queste critiche, però sono tra quelli che dicono come questa chiesa, per quanto mediocre, a
Pio XII non si confacesse; ma il mio punto di vista è in un campo estetico-sentimentale e s’appunta proprio
nel nome, in quel bellissimo nome di Eugenio.
S. Santità si chiamava Eugenio quando fu eletto al Sommo Pontificato.
Eugenio significa nato bene, c’è in quella parola un senso di nobiltà e di sanità. Egli nqcque un due marzo e
si chiamò Eugenio. Sessantatre anni dopo, lo stesso giorno, uscì dal conclave Sommo Pontefice, qualcuno
vociferò che fosse avvenuto anche alla stessa ora in cui era nato. E perché, data la meravigliosa coincidenza,
per la quale quel nome veniva ad acquistare interamente e supremamente il suo significato, perché Egli non
lo conservò? Sarebbe stato Papa Eugenio V.
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Tutti e quattro i papi di quel nome sono stati eccezionalmente attaccati a Roma, due di essi furono romani.
Egli sarebbe stato il terzo romano tra cinque Eugeni.
Eugenio I, il santo, era stato deposto proprio nella basilica vaticana, forse c’è ancora e gli sarebbe stato
vicino. Eugenio III, il beato abbellì, amò, vagheggiò la Basilica di S. Maria Maggiore dove Egli disse la sua
prima Messa. Eugenio IV, il protettore del Colosseo, degli umanisti, delle università, degli artisti, il
restauratore del Pantheon e del Laterano, il propugnatore della unità della Chiesa, ebbe la persona alta,
macilenta, grave, ascetica, proprio come quella di Eugenio Pacelli. Perché non conservò quel bellissimo
nome?
Oggi la chiesa di S. Eugenio, invece di suggerire il senso di una riparazione, squillerebbe le note di un
duplice trionfo.
E anche la cristianità sarebbe stata rincorata da un nome nuovo.
E’ un po’ stufa di quel “Pio” che, bello nel significato, ma brutto nel suono, pigola da troppo tempo nella sua
vita. In appena un secolo e mezzo Pio VI, Pio VII, Pio VIII, Pio IX, Pio X, Pio XI, Pio XII; si compiva sì la
dozzina, ma oramai erano troppi. Un nome nuovo avrebbe anche data la speranza nuova a questa povera
umanità che passa da un dolore nuovo all’altro. Avremmo visto, è vero, interrompere la consuetudine
dell’assunzione di un altro nome nell’ascendere al Sommo Sacerdozio, ma l’interruzione di una consuetudine
a volte è benefica, come per le medicine di cui ogni tanto si interrompe l’uso perché giovino meglio.
E la cristianità che nel 1939 presentiva l’orrore di quel che poi successe, nel vedere alzarsi sull’alto trono
papale l’alta figura di Eugenio V il Papa che non rinunziava al Suo nome perché il nome era bello, perché
Cristo l’aveva chiamato a rappresentarlo sulla terra nel chiudersi esatto del cielo solare che conta gli anni
della sua vita, confermando vero ciò che il nome significava, la cristianità avrebbe trovato in questo fatto uno
dei tanti appigli a cui si aggrappa per non affogare.
Ma se avvenisse che Egli diventasse ora tramite tra S. Eugenio e noi per darci la pace e l’unità, allora tutti
troveremo che anche il nome di Pio non è brutto e che la Sua rinunzia ad Eugenio ha contribuito a
preservarci dalla guerra.
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Paese Sera, 1 settembre 1951
Trastevere: terra dove ogni leggenda è vera
collocazione: Pg 20-22.
“Ora incomincio il tuo inno di lode, o Trastevere!” Per lo spazio di un secondo, tanto da stendere la mano per
prendere la penna, ho creduto che avrei scritto così. Una di quelle tante pulviscolari condizioni, brevi più di
un respiro, che si avvertono come vere e nell’immediato finire sono già false.
Sciogliere un inno di lode a Trastevere! E’ semplicemente ridicolo.
Trastevere si dice. Nel dirlo qual è il suo massimo elogio, e nel riconoscere l’impossibilità di farlo
compiutamente è la confessione della sua grandezza.
Trastevere tutto fatto di terra color d’ora. Di terra color d’oro il monte, di terra color d’oro la pianura che si
abbassa sotto l’acqua a reggere il passaggio del fiume che porta sciolto quel colore. Il S. Pietro trasteverino
sta su un monte d’oro, “in montorio”. I santi Cosma e Damiano di Trastevere, riuniti per amore di brevità
popolana in San Cosimato, sono detti “in mica aurea” e così altre chiese e anche un piccolo cimitero dove i
morti dormono in mica aurea.
Trastevere, estremo ramo di gente etrusca che si fermò sulla sponda destra del fiume a guardare la grandezza
nascente della gente latina all’opposta sponda. Roma crescente lo fissava sospesa e non volle col Trastevere
risoluto ponti duraturi; ne bastava uno solo e purché fosse di legno, materia soggetta all’ascia e al fuoco.
Trastevere che è poi stato sempre un poco una piccola Etruria, che è tuttora una piccola Roma nella grossa
Roma come il giallo di un fiore è il cuore di un fiore.
Trastevere che di fronte alla Roma dei sette colli, fu e restò la Roma di un solo colle, ma del più alto,
Trastevere è stato sempre temuto.; è troppo dignitoso e fiero.
Trastevere, terra dove forse la leggenda è vera tanto essa è umana, e dove la verità è leggendaria tanto essa è
bella. Bella come l’aspetto statuario della sua gente, di quella poca che ci resta veramente trasteverina.
Trastevere, dove ha le fondamenta e i muri la casa Cecilia e dove aleggia la musica della sua storia. Storia
che forse è confusa con la leggenda, ma dove c’è un dato così reale che si può toccare: l’atteggiamento
squisitamente penoso della martire.
Così come potrebbe non essere leggendaria la pietra su cui si inginocchiarono gli angioli avanti a S. Pietro
morente, proprio perché è una pietra senza orme miracolose; l’orma sarebbe un falso perché gli angioli non
ne lasciano.
Trastevere, terra da cui scaturì la fonte pacifica dell’olio, “fons olei” c’è scritto nel punto dove sgorgò
quando il re della pace stava per apparire sulla terra. Quel punto sta dentro S. Maria, una delle più belle
chiese del mondo, proprio dalla parte del campanile che ostenta l’unica campana ribelle di tutta Roma, la
sola che sia uscita fuori dalla sua cella. E’ una campana trasteverina, all’occasione sarebbe una specie di
Giuditta Tafani Arcuati.
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Trastevere che, come solleva oggi una campana al di sopra di un campanile, sollevò, tempo addietro, sulla
sommità di una torre la grotta del Presepio. Era mezzo rovinata allora la torre degli Anguillara, non era
pareggiata e lustrata come lo è oggi, ma proprio per questo poteva con più verità portare una grotta verso il
cielo. E il cielo, i colli laziali, tutto il movimentato e largo panorama romano, facevano da ambiente vero alla
grotta finta.
Trastevere si fa amare anche per i nomi delle sue strade e per i miracoli che, sparsi per il rione, vi lasciarono
nomi e monumenti. Per questo tra Merangoli, Polveraccio, Fienaroli, Botticella, Moro, Fico, troviamo Luce,
Scala, Orto.
Una casupola s’accese di luce come un sole per la impaurita preghiera di un cieco, ecco la Luce. Una
ostinata e muta Madonna di un sottoscala, dovette rispondere alla trasteverina che la rimproverava seccata di
aver chiesto invano: “Eppure se tu chiedessi a me un favore, io te lo farei subito!” e la Madonna per non
essere da meno, le raddrizzò il figlio, cosa che era la sostanza del favore richiesto, e venne la Scala. In via di
Monte Fiore, è il ricordo di tanti giardini fioriti sulle rovine della caserma romana e forse solo ora non si
narrerà più della bella Frola (Flora) che stava in mezzo a quei giardini. Qualunque ne sia la ragione, è bello
che Trastevere abbia una strada chiamata Roma Libera.
Tutto il mondo è pieno di sepolcri e dappertutto ci sono tombe con un angelo o un genio nell’atto di spegnere
la falce, simbolo della vita, capovolgendola contro terra, ma solo a Trastevere in una tomba così, fu scolpito:
“Buona notte, mastro Jacopo”. Io sostengo che bisogna amare Trastevere anche per quel “buona notte”.
Bisogna amare Trastevere per lo zelo con cui la sua farmacia, la seconda di tutta Roma, si occupò di
diffondere farmaci per sedare gli isterismi femminili.
Bisogna amare Trastevere che fu sempre in prevalenza terra di lavoratori, tanto che S. Benedetto di lì portò
via il suo “prega e lavora”. Bisogna amare Trastevere perché S. Francesco lo scelse per sua dimora e per
quella del suo primo convento romano; tutti sappiamo quali erano i suoi criteri di scelta. Dobbiamo amarlo
perché il Petrarca fu incoronato poeta da un trasteverino; perché sul Granicolo trovò l’estremo rifugio il
Tasso; perché qui Raffaello incontrò la gioia viva della sua vita.
Capita di divagare così col pensiero, vagando per Trastevere; capita di pensare a queste e a tante altre cose
perché la ricchezza del rione è inesauribile tanto che si possono anche incontrare frammenti di vita simili a
pensieri.
Può capitare, per esempio, di fermarsi in piazza S. Apollonia, dove s’alza la facciata di S. Margherita e di
pensare che è giusto che la piazza si chiami così, perché S. Margherita c’è e ognuno la vede, ma S. Apollonia
non c’è più e vive solo nel ricordo dove si rifugiò la Fornarina dopo la sua avventura semidivina. E può
capitare che riaffiori d’aver sentito dire che da quelle parti doveva esserci murata una lapide a ricordo di un
abbraccio. Sì, l’abbraccio di Garibaldi con quella gente che aveva votato per lui allora che vivo, come pare
che continui a fare ora che è morto. Capita di guardare tutto intorno i muri delle case per ritrovare la lapide e
nel vedere solo una scrostatura regolare sul rivestimento di un muro, di cadere subito nella colpa del giudizio
temerario “l’hanno tolta!”. Capita di rivolgersi a un uomo che sta dritto sotto l’arco di una porta e di
chiedergli: “Stava lì, è vero, la lapide dell’abbraccio di Garibaldi?” E di sentirsi rispondere che la lapide non
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sta fuori, ma dentro casa, che non ci è stata portata, che è stata sempre dentro, perché il comizio dove
avvenne l’incontro tra Garibaldi e il suo Trastevere, fu in un teatrino che ora è un magazzino, che la lapide
c’è tuttora, ma non si vede più perché tutte le paret sono state scialbate. Capita di entrare col cortese
informatore in un grande magazzino pieno di casse e di mastelletti di marmellata di disturbare un gruppo di
uomini che stanno evidentemente discutendo di affari, per farsi dire dove è la lapide, di guardare fisso nel
punto indicato e di non vedere nulla, altro che del muro come tutto l resto; il salire allora su di una seggiola e
di ritrovare con i polpastrelli delle dita, come nella lettura della scrittura Braille, le lettere dell’iscrizione.
Capita che gli uomini attirati dal nome di Garibaldi interrompano il loro lavoro, si avvicinino e leggano
correntemente in criptografia, come se vedessero le parole, rendendo quasi inutile la proposta avanzata e
caldeggiata di togliere lo scialbo e di ridare l’inchiostro alle lettere incise, perché è vero che la lapide è
nascosta dall’intonaco, ma è vero anche che quegli uomini la sapevano tutti a memoria.
Inutile dire, inutile fare, lo spirito di Trastevere fu e resta “naturaliter popularis”, naturalmente repubblicano.
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La Via, 15 novembre 1952
La via di tutti i popoli
collocazione: Pg 23-27.
C’era una strada a Roma divisa in due nel senso della lunghezza da una fila di case che proprio per questo si
chiamava “Spina”. Ne risultavano due stradine come due corridoi tra case, palazzi, chiese, fontane e tante
botteghe strette una addosso all’altra perché ci volevano stare tutte.
C’era per quelle strade il brusio del paese e quello del mondo perché la gente di qualunque terra e di
qualunque colore veniva a Roma, andava lungo quei due corridoi per sfociare in una immensità che era una
piazza, per trovarsi di fronte ad una montagna di granito fatta di colonne, di porte, di finestre, di logge, di
trabeazioni, di fregi e di cupole tra cui troneggiava “er cupolone”. Prima gli occhi tentavano di misurare la
immensità di quella piazza, poi era il tempo a misurarla, il tempo che ci voleva per arrivare, un piede avanti
all’altro, sino alla scalinata che portava all’ingresso di un’altra immensità, al tempio. Erano proprio quelle
due strade strette e soffocate a preparare gli animi per meglio avvertire quelle due immensità. Si chiamavano
“Borghi” così come erano dette le case raggruppate attorno ai castelli. Le aveva tracciate la prima gente
cristiana che s’era incamminata in quella direzione per arrivare sulla fossa di un uomo povero e condannato
che sul declivio di una campagna brutta e scoscesa seminata di sepolture vere e di modesti mausolei, era
stato in fretta sepolto e nascosto.
Prima ci si eresse sopra una memoria simile ad un altare, poi una basilica il cui baldacchino s’alzò sopra la
memoria, finché ci si gonfiò su tutto, grande come un cielo, la cupola michelangiolesca. Come intorno alla
povera fossa s’erano accumulati i sepolcri per riposare il più possibile vicino a S. Pietro, così intorno alla
basilica si aggrupparono oratori, monasteri, cappelle e case separati da strade, straducce, sentieri, ma la
principale ebbe sempre su per giù il tracciato di quella via divisa in due. Nel Medio Evo fu una strada
coperta da un portico che dal ponte sul fiume andava all’ingresso della basilica. I pellegrini nella vicinanza
del luogo sacro non erano disturbati né dal sole, né dalla pioggia; il portico li raccoglieva e ne facilitava il
raccoglimento.
Poi venne l’epoca in cui il portico scomparve e la terra ridiventò campagna; ci si coltivarono gli orti fra i
quali ogni tanto sorgeva un casolare e la vita riprese. Si tracciarono strade, si fiancheggiarono di case che
gentilmente si stringevano per far posto alle altre. Ne risultarono le due strade divise da una fila di case e si
chiamarono successivamente Carriera Santa, Carriera dei Martiri, Via Beata, Via Pontificum, Via
Alessandrina, Borgo Vecchio, Borgo Nuovo e le costruzioni che le dividevano furono la Spina fino ai nostri
giorni quando furono abbattute e si fece quell’enorme vuoto che strada non è, piazza nemmeno, ma si
chiama via della Conciliazione.
La Spina divideva l’afflusso dei pellegrini a S. Pietro e se tra bellissimi palazzi, discreti palazzetti aveva
anche case povere e forse brutte, il tempo e il colore le avevano rese simpatiche. Cadde con la Spina un
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apporto secolare di vita. Cadde quella cappelletta chiusa da un cancello, dove dentro ardevano sempre dei
ceri e tra le sbarre c’erano sempre dei fiori intrecciati. Si diceva che un papa avesse chiuso con quella
cappelletta lo sbocco di un vicolo per ammenda a una Madonna contro cui erano state gettate bucce di
melone.
Si abbatterono i confini di quella Piazza Scossacavalli che il gorgoglio di una fontana bastava per riempire
mentre certe finestre che ci si affacciavano ripetevano: Soli Deo, soli deo, soli deo. Si racconta che in quel
punto i cavalli che portavano la pietra di Isacco e quella della Circoncisione, si fermarono e non vollero più
proseguire. Ci si fece una chiesa che a un certo punto si chiamò S. Salvatore in Bordonia per i bastoni dei
pellegrini, poi prese altri nomi, ci crebbero altre memorie, altre leggende, altre poesie e or non c’è più nulla,
nemmeno il nome.
Si poteva sanare quell’agglomerato di costruzioni e invece si abbatté tutto e si fece il vuoto che è nulla. La
Spina permettendo di vedere la piazza che è concava, solo quando si era giunti alla sua estremità più alta, ne
scopriva di colpo tutta l’estensione mentre ora di lontano la parte più bassa affonda e la piazza pare larga
solo per quanto emerge a livello della visuale.
Erano vie strette sì, ma la vita vi brulicava e ferveva come tutte e cose sono esageratamente se stesse se
concentrate. Quelle vie strette concentravano la vita e la portavano allo sbocco; dal fitto delle case si usciva
in quella grandezza sonante di acque di spazio vuoto; nell’insospettabile slargo la vita si diluiva e si placava,
restava solo l’immensa meraviglia. Con l’apertura del chiuso pare che gran parte di queste cose siano
fuggite.
Molti ritengono che lo scempio si sarebbe riparato solo costruendo nello stile del Bernini un portico lungo al
posto della Spina. Invece la soluzione scelta è quella che è: una fila di portalampade e tante panchine che non
servono per il riposo dei vinadanti ormai tutti motorizzati, ma solo per apparecchiarci sopra la colazione.
Ecco perché mi parve ottima l’idea di un nostro amico che col suo gran cuore riesce ad avere visioni
veramente cristiane, di nobilitare in qualche modo quella banale composizione, di mettere una idea in quel
vuoto di idee, di mescolare un significato spirituale con quel monotono gioco di fredda pietra. Perché non
innalzare al posto dei sedili le statue dei santi protettori di tutte le nazioni del mondo? Per quella strada i
tedeschi incontrerebbero S. Bonifazio, i danesi S. Villibrando, gli irlandesi S. Patrizio, i boemi San Martino,
i britanni S. Agostino, i moravi S, Cirillo, gli indiani S. Francesco Saverio, gli svedesi S. Ascanio, i bulgari
San Metodo, gli ungheresi S. Stefano, i peruviani Santa Rosa, i francesi S. Remigio, S. Luigi e così ogni
piccolo o grande popolo incontrerebbe qui il suo santo. Questa idea dell’amico Torquato pare un sogno
capace di dissipare un incubo.
Questi santi che hanno camminato dal centro alla periferia, che hanno percorso il mondo per strade che
partono da Roma e che così tornerebbero a Roma fermandosi avanti a quel centro da cui partirono,
aspettando ognuno i proprio pellegrini, testimonierebbero l’unità della famiglia umana. E ogni gente che
viene a Roma ritroverebbe per questa strada il santo che parla la sua lingua.
Senza dire che con questa teoria di santi automaticamente si cambierebbe nome a quella strada che convoglia
una universalità verso un centro e che con la parola “conciliazione” richiama per forza una piccola bega di
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famiglia, tiene presente una questione transeunte di un piccolo stato con una entità spirituale ed ecumenica.
Umoristicamente poi quel nome pare lo sforzo fatto dai guastatori dopo aver abbattuta la Spina, di conciliare
lo squarcio con l’armonia, lo stile di un palazzo con l’altro, lo sforzo di ridare con quell’accenno di
interrompimento che deriva dalla processione degli obelischetti un po’ di prospettiva alla piazza, tutto uno
sforzo conciliativo, anche le panchine.
Con la processione dei santi di tutte le terre del mondo forse sboccerebbe naturale un altro nome, un nome
che sia di tutti i popoli, un nome che ricordi l’Epifania, la manifestazione, la luce, l’universalità, magari più
semplicemente un nome che sarebbe certo il nome più vero di quella via: Strada i tutti i popoli.
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Paese Sera, 25 dicembre 1956
Le ghirlande
collocazione: Pg 28-30.
Intorno all’uomo che acquistava conoscenza di sé, il sole, l’acqua, il fulmine, tutto parve mistero perciò
divino. Quando egli staccò dall’albero sacro un ramoscello e se lo girò intorno al capo, con quel gesto aveva
creato la corona e il suo significato sacro e ornamentale. Crescendo la conoscenza della vita ne crescevano le
paure e le speranze e anche la corona moltiplicò i suoi significati: fu offerta agli dei per impetrazione e
ringraziamento, fu complemento di gioia e segno di lutto.
Dal favoloso e misterioso oriente essa che era passata nel costume dei popoli mediterranei (l’Egitto che ci ha
restituito corone intrecciate oltre duemila anni prima di Cristo), trovò il suo trionfo nel mondo pagano grecoromano che della vita ebbe un concetto meno deformato di tutte le altre civiltà.
Ogni dio aveva la pianta a lui sacra dei cui rami si facevano corone per i suoi simulacri, per i sacerdoti e i
fedeli. Negli ex voto le coroncine avevano la preponderanza sugli altri, come ora i cuori l’hanno su altri
pezzi del corpo umano. Nei ludi, circensi o scenici, si offrivano corone ai vincitori come ora si offrono quei
bicchieri metallici inchiodati su un piedistallo. Col tempo si diffuse l’uso di offrire la corona a magistrati e
altri cittadini per speciali benemerenze e si passò a darle anche a corporazioni e città come ora si concedono
medaglie.
A Roma, per il grande uso che si faceva di corone, erano sorte industrie adeguate. Fiorai e fioraie, coronarii e
rosarie, vendevano ghirlande di fiori freschi nella buona stagione, nella cattiva di fronde e di amaranto secco,
che riprendeva i suoi colori bagnandolo. C’era l’industria delle corone d’oro, d’argento, di rame che,
lucidato, pareva d’oro. Le corone militari, dalla graminea alla trionfale, erano esse stesse una legione, alcune
più numerose delle nostre croci di guerra.
Ma dove la corona diventò tripudio e mestizia, al di sopra del suo simbolismo sacro, politico e civile, fu
nell’accompagnarsi agli scopi esuberanti della vita, esaltandoli, fu nel seguirne i mesti ripiegamenti verso la
morte.
I fiori, con la loro breve vita, facilmente ci allacciano all’idea della morte o al guizzo della giovinezza: ed
ecco le danzatrici coronate di rose, in quelle famose feste dove ognuno, incoronato, tra musiche e libagioni
tentava di gustare l’attimo fuggente della gioia. Ai morti invece che, per non essere più vivi, diventavano
quasi eroi, gli offrivano corone d’oro che si chiudevano con loro nel sepolcro. In alcune feste annuali,
specialmente nelle più licenziose, il popolo inghirlandava se stesso e tutto ciò che era intorno a lui.
Ma venne il cristianesimo a soffocare quanto era possibile a soffocare di quella vita pagana, ad accettare
quanto non lo era, svuotandolo però dei significati antichi per riempirlo con altri simiglianti. Le figure
effigiate nelle catacombe offrono corone di oro gemme e smalti dei papi e degli imperatori, quelle metalliche
che dondolavano nelle chiese attaccate a catenelle e quella diventava lampadario sospesa davanti agli altari.
230
La corona apparteneva solo ai santi del cielo e ai potenti della terra.
Quando ricominciò a diffondersi era spesso confusa con l’elmo e il cappello: confusione che dovette restare
nell’araldica ecclesiastica dove tuttora vediamo gli stemmi cardinalizi sormontati da un cappello invece che
da una corona.
Ma dopo il mille, in quel felice ritorno di umana vitalità, anche la corona ritornò elemento di vita: le donne
ornarono i capelli di coroncine e diademi, sui vestiti si ricamavano ghirlandette, la grazia femminile
assomigliava a quella del suo serto. Poi le araldiche si moltiplicarono soffocando le vere, quelle che pulsano
con la nostra vita seguendone la caducità, caduche anch’esse.
Ma proprio a Roma, dove le corone ufficiali erano le tre della tiara pontificia e quelle principesche create per
i vari nipoti, proprio qui era sopravvissuta a tutte le vicende, la corona viva fatta con fiori e fronde. Perché
questo era il miracolo di Roma: tener vive nella vita le espressioni che erano state sue nell’antichità classica
e fare questo semplicemente la natura come fa la natura coi miracoli suoi. Ma questo miracolo romano che
aveva resistito al tempo, ebbe il suo colpo fatale dall’annessione.
La città che era stata per secoli un meraviglioso paese universale, ridotta a capitale di uno stato particolare,
perdette pian piano ciò che dell’antichità classica era sopravvissuto per oltre due millenni. Da nord e da sud
affluì su Roma gente che l’invase, ne distrusse le piccole e grandi tradizioni che erano il suo meraviglioso
patrimonio, la sua attività, unica al mondo, la trasformò in città simile a tutte le altre.
E così fu distrutta anche la ghirlanda che era sopravvissuta proprio per indicare il Natale.
In quell’epoca favolosa in cui Roma era dei romani che vi abitavano e del mondo intero che vi passava, chi
in questi giorni girava per le sue strade, ogni tanto vedeva una porta su cui era stata appesa una grossa corona
di mortella. Era la trasposizione di un rito pagano: appendere alla porta una ghirlanda di mirto fu l’uso antico
delle feste floreali, quando tutto doveva essere fiorito e inghirlandato, teste, vestiti, pozzi, archi, templi, case
e porte di case, perché la festa di Flora coincideva col risveglio della natura. La corona di mortella durata
fino ai tempi moderni era restata espressione di risveglio, anzi del risveglio assoluto, quello della nascita.
Chi faceva il presepio, o perché presumesse che il suo fosse degno di essere visto, o perché animato da zelo
religioso ed ospitale, su un battente del portoncino appendeva una corona lasciando socchiuso l’altro
battente. Quella corona voleva dire al passante che nella casa c’era un presepio, che, se voleva, poteva salire
a vederlo.
Dive c’era una corona verde c’era una famiglia che ripeteva il gesto dei primi cristiani che aprivano le loro
case, trasformate in oratori, a tutti i fedeli.
Per il presepio con i fedeli salivano i pifferari che sin dall’avvento avevano cominciato a scendere a Roma
(non fasulli come quelli di adesso), costellandolo di ninne nanne e di pastorali.
La ghirlanda sulla porta era una specie di muto “venite ad oremus” e la gente saliva, pregava, ammirava,
forse chiacchierava, avevano tutti gli stessi atavici gusti.
Quell’unica corona viva che era rimasta attraverso i secoli, è scomparsa.
Sono rimaste solo quelle politiche con le pallottole di stagnola e quelle funebri; ma queste, trasformate in un
cavalletto triangolare di bastoni sostenente due agglomerati di fiori, come ancora si possono chiamare
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corone?
La corona è un’altra cosa e non c’è più.
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Paese Sera, 29-30 gennaio 1957
Chi aveva ragione?
collocazione: Pg 31-32.
(Lo stesso articolo è stato pubblicato su “L’Osservatore romano”, l’11 agosto di un anno non noto, col titolo
S. Francesco di Sales e Angelica Arnaud - collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari)
Per fortuna i santi non vanno sempre d’accordo tra di loro; nel disaccordo, più che nell’armonia a tutti i costi,
è visibile il fermento di vita e di libertà. Interessante per noi è quello sorto tra San Francesco di Sales,
vescovo-principe di Ginevra e la santa baronessa di Chantal, a proposito di Angelica Arnauld, abbadessa di
Port Royal.
Si era nel 1619, il vescovo si trovava a Parigi, quando, come un turbine impetuoso, come un incendio
indomato, entrò nella sua vita Angelica Arnauld.
Angelica in realtà era Jacqueline, di quella famiglia Arnauld così celebre nella storia dei solitari di Port
Royal e del giansenismo.
A Port Royal, antichissima abbazia cistercense, di costumi rilassati, povera e malsana per la vicinanza di uno
stagno da cui esalava la febbre perpetua, a otto anni fu rinchiusa Jacqueline destinata sin dalla nascita ad
essere monaca.
Quando ne ebbe undici, morì l’abbadessa. Avendo la bimba nomina di coadiutrice con diritto di successione,
automaticamente diventò abbadessa. Ma per ottenere la conferma da Roma, precedentemente negata per la
sua tenera età, si creò l’atto di nascita di una immaginaria suora diciassettenne di nome Angelica.
Il giorno in cui prese possesso dell’abbadia prendendo nelle sue piccole mani il pastorale, fece anche la sua
prima comunione.
Ma quando ebbe veramente diciassette anni, dopo aver superato la tentazione di liberarsi da obblighi non
liberamente assunti, dopo averli invece coscientemente accettati, pensò di riformare quella rilassatissima
comunità.
La sua riforma andò alle radici: cominciò con l’imporre la comunione dei beni, l’astinenza perpetua, la
clausura. Rigida, ardente, forte, bramosa di sacrificio, aliena dalle mezze misure, si accinse a una lotta nella
quale fu sola contro tutti.
Il giorno che i suoi genitori e i fratelli, alleati delle monache, la sfidarono a proibire l’accesso al convento,
essa ne sbarrò le porte e una drammatica discussione si svolse tra lei e la sua famiglia attraverso una
finestrella chiusa da una grata. Fu la famosa “giornata dello sportello”. Dopo aver rimproverato ai suoi di
averla messa in religione per forza e di adoperare ancora la forza per imporle di continuare in una vita
rilassata, essa acdde svenuta. Quel giorno vinse la resistenza della famiglia e delle monache.
Continuò a vincere nell’opera difficilissima della riforma, usando ogni rigore contro la sua natura indomita e
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ogni bontà con le suore, di cui comprendeva l’insofferenza per essere state costrette alla rinunzia.
Trasformato Port Royal, si accinse a una più difficile riforma, quella dell’abbazia di Maubisson a Parigi.
Aveva 28 anni, era nel fulgore della giovinezza e a Parigi predicava Francesco di Sales.
Angelica riuscì ad attirarlo a Maubisson e fu immediatamente soggiogata dal fascino che emanava da
quell’uomo. Essa non vide in lui la dolcezza immensa, ma la forza inflessibile che piegava la sua altera
volontà.
In Francesco di Sales la forza non era certo inferiore alla soavità, ma Angelica vide uno solo dei due aspetti
e, naturalmente, quello che rispondeva di più al suo temperamento. La forza, causa prima della dolcezza del
Sales, fu quella che portò l’ardente abbadessa ad abbandonarsi interamente alla sua direzione.
Due cose erano veramente profonde in lei: la religione e la libertà; ma questa le fu tolta imponendole quella.
DI qui la sua tragedia intima che si placò nella illuminata serenità di Francesco dal quale imparò che la
misura dell’amore è di amare senza misura, che lo spirito di libertà è da Dio e toglie timori, scrupoli,
agitazioni. Ci volevano questi sconfinamenti per quell’anima esuberante ed inquieta a cui mancava la pace
interna.
Ma un giorno anche la pace apparve. La vide in quel povero convento della Visitazione fondato qualche
anno prima dal vescovo di Ginevra e dalla baronessa di Chantal. Essa avrebbe abbandonato il grande sogno
della riforma, avrebbe deposto il pastorale che sapeva maneggiare con tanta abilità e sarebbe entrata umile
novizia in quel convento. Questa era la pace.
Con la fermezza della decisione già presa, espose il suo pensiero al vescovo che ascoltò in silenzio e rispose
con un sorriso. Nel sorriso c’era già il rifiuto.
Angelica credendo di non essersi spiegata, scrisse, Francesco non rispose; insistette tanto finché arrivò una
risposta evasiva: “La Visitazione è poca cosa”.
Angelica allora cercò un’alleata nella eroica e forte Chantal che simpatizzò subito con lei. Erano due anime
umanamente simili: la stessa grandezza, la stessa energia, le stesse impazienze, lo stesso bisogno degli
estremi, solo che la Chantal, più anziana, aveva già affinato e smussato questa natura, Angelica aveva ancora
tutte le asprezze della gioventù.
La Chantal approvò il suo desiderio di umiltà, credette che un simile acquisto giovasse alla nascente
Visitazione e che si potesse fare una grande donna.
In questo senso parlò al vescovo, lo pregò, insistette, ma egli restò fermo nel suo rifiuto.
Negli ultimi anni di sua vita, tra lui e la Chantal si eresse costantemente la figura di Angelica Arnauld
chiedente di essere accolta tra le ultime delle visitandone.
La baronessa, con la sua parola rude ed incisiva, ripeteva che sarebbe stato un bene per tutti accogliere la
Arnauld e Francesco, spesso tacendo, affermava che sarebbe stato un male per tutti.
Eppure nulla allora faceva sospettare l’errore in cui Angelica sarebbe caduta e il vescovo continuava con
zelo ad assistere “quel cuore straordinario” al quale però non volle mai aprire le porte della sua umile
Visitazione.
Egli morì fermo nel suo rifiuto e la Chantal non ebbe certo l’ardire di aprire lei quella porta che lui aveva
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voluta inesorabilmente chiusa per Angelica. Eppure il suo giudizio su lei non era cambiato; continuava a
vederla e a scriverle.
Un anno dopo la morte di Francesco di Sales, Angelica conobbe il Saint-Cyran; la rigidità di lei collimò
perfettamente con quella di lui ed essa lo seguì fino alla morte. Ma dal momento in cui il Saint-Cyran entrò
nella sua vita, Angelica riperdette la pace.
Questa creatura nata per la libertà, in cui la libertà era stata offesa, finì per negare la libertà. Questa donna in
cui l’amore era onnipotente, finì per avere paura di Dio.
Quale di questi due santi che hanno qualcosa della nostra complicazione moderna, ebbe ragione in questo
affare dell’Arnauld?
Forse Francesco di Sales presentì l’errore in cui essa sarebbe caduta e volle salvare dall’eresia il chiuso del
suo convento nascente.
La Chantal invece credeva che una simile anima incanalata nella vita semplice della Visitazione, avrebbe
dato frutti preziosi per se stessa e per l’ordine. Secondo lei non bisogna aver paura delle anime affocate, ma
delle tiepide. E forse si sentì anche un poco responsabile dell’errore di Angelica Arnauld per averla lasciata
indifesa dietro la porta.
Si racconta che un giorno la Chantal, dopo una vana perorazione in favore di Angelica, chiedesse al
Vescovo:
- Monsignore, chi di noi due avrà ragione?
E che Francesco di Sales rispondesse sorridendo:
- Lo vedremo in paradiso.
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Paese Sera, 19-20 marzo 1957
INCONTRO CON MARCHESI
Ricordo
collocazione: Pg 33-36.
Nel pomeriggio ci sarebbe stata una solenne riunione dell’Accademia dei Lincei; in mattinata avevo tanta
voglia di andarci e telefonai a Marchesi.
- Ti lascio il biglietto di invito nella portineria dell’Accademia – mi disse.
Era una giornata tutta sole; il fresco e il tepore primaverili sfioravano il volto senza mescolarsi.
Nel pomeriggio non ebbi più voglia di andare a chiudermi in una sala con tanta gente uno che parla. Però mi
dispiaceva che Marchesi ritrovasse in portineria la sua busta con l’invito calorosamente sollecitato.
Se non lo avessi ritrovato lì giacente avrebbe creduto che io fossi andata e uscita come sovente accade, senza
salutar nessuno.
Dovevo arrivare alla Farnesina, prenderlo e tornarmene indietro.
Questo semplice programma diventò fantastico come tutte le cose che si fanno col trepido senso vitale che ci
coglie a primavera. Col passo riposante di chi non ha timore di far tardi, avrei goduto due ore di sole e di
solitudine in compagnia del fiume che la concilia.
Me ne andavo quasi sollevata da quell’aria nuova per il lungotevere di sinistra; ma a un ponte volli passare
su quello di destra: la Farnesina è di là. Lo percorsi avendone a manca la spalletta , guardando in giù l’acqua
bassa.
All’estremità del ponte, nel momento che stavo voltando per riprendere a costeggiare il fiume, un
formidabile scontro della mia spalla destra con la spalla di qualcuno che non avevo visto. In forza dell’urto
ognuno fa mezzo giro su se stesso e siamo di fronte. Due facce indignate pronte a scambiarsi qualche
improperio. Invece un simultaneo “Tu?” e una risata.
Era Marchesi che dal lungotevere piegava sul ponte, guardando in alto alla sua sinistra.
-
Dove vai? – mi chiese.
-
Andavo a ritirare il biglietto che tu mi hai lasciato perché non ti accorgessi che non ero venuta.
-
Hai fatto bene a non venire. Io non ne potevo più e sono uscito. Giacché ci siamo scontrati,
andiamocene un po’ in giro. Guidami in qualche parte della tua Roma.
-
Volentieri. Dove ti piacerebbe?
-
Nella Roma pontificia.
Non eravamo lontani da San Pietro e dai suoi Borghi, ci dirigemmo da quella parte.
Ci inoltravamo per strade e vicoli; ogni tanto di scorcio appariva qualcosa di immenso: la facciata, la piazza,
la cupola, il colonnato.
Io gli raccontavo le piccole storie che sapevo: ci fermavamo sotto un balconcino; bevemmo l’acqua di una
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fontanella; sostammo avanti ai portoncini chiusi che lo commovevano; fiancheggiammo conventi che nei
grossi muri riducevano al minimo l’apertura delle rare finestrelle; indugiammo non so più quanto tempo
seduti sulle sbarre di ferro che, tra un pilastro e l’altro, chiudono la barriera intorno alla “guglia”.
Chiamavamo così l’obelisco per sentirci più attinenti a quella Roma papale che io gli stavo raccontando e
che egli tanto amava.
Riprendemmo a camminare senza mète precise per le strade dell’altro borgo. Nel sole incominciava a
insinuarsi la dolcezza del tramonto quando ci fermammo avanti a un arco cieco da cui sporgeva un piccolo
edificio, che nella forma e nelle dimensioni ha dell’edicola e del confessionale. Coperto da una breve tettoia,
è fatto per tenere una grata di ferro che ha nel mezzo uno spazio libero, rotondo, limitato da un cerchio, come
un oblò.
Dietro l’inferriata c’è una “ruota”, di quelle che nei conventi di clausura servono per introdurre le provviste
senza aprire la porta e restando invisibili l’uno all’altro: chi mette e chi prende. Da una parte sporge il
sostegno della campana.
- Vedi, Marchesi, qui avanti si liberava in fretta il bambino dagli scialli e strettamente fasciato, come usava
allora, lo si infilava attraverso il cerchio, deponendolo nella ruota; una spinta per farla girare verso l’interno;
una strappata alla corda e via! Dall’altra parte, avvertito dalla campana, qualcuno correva; sapeva che cosa
avrebbe trovato.
E gli indicai la pietra lavorata e consunta dove si legge: “Elemosina per li poveri. Proietti”.
- Proietti…qui venivano gettati! – disse lui sottovoce come si parla in chiesa.
Rimanemmo in silenzio a guardare, poi lentamente ce ne ritornammo sul lungotevere, passando dall’altra
parte, dove c’era ancora tutto l’oro del tramonto con le ombre lunghe lunghe. Anche noi due, per terra,
eravamo alti come pinnacoli.
Nella strada deserta vidi qualcosa che avanzava.
- Guarda, guarda, Marchesi!
Stava passando il più piccolo funerale che io abbia mai visto; c’era il cavallo, il carro nero con un suo
traballante baldacchino, il cocchiere e un lumino acceso dentro uno dei fanali; l’altro forse era stato spento.
Quel lumino era l’unica cosa che attestasse la presenza del morto nella cassa. Erano diretti al cimitero dei
poveri, a Prima Porta.
Senza neppure dire “andiamo”, Marchesi mi prese per mano e ci mettemmo dietro il carro.
In pochi minuti avevamo congiunto due estremi della miseria: la ruota degli esposti e quel trasporto più
simile a uno sgombero, che a un funerale.
A un tratto il cocchiere, come se risovvenisse, di qualche cosa, frustò il cavallo, che prese un trotto leggero e
allegro, lasciando noi due sempre più lontani. Ci fermammo, seguimmo con gli occhi quel carretto che
portava al definitivo deposito un uomo che era stato vivo.
Marchesi mi disse:
- Io vorrei un funerale così.
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E’ appena un mese e una folla di bandiere e di gente seguiva il carro che portava lui al cimitero: bandiere sue
e gente sua. Ma con questa tanta altra gente che, avanti a Marchesi, si piegò come bandiera che rende
omaggio all’avversario. Gruppi che si affollavano negli sbocchi delle strade trasversali, sulle piazze, sui
marciapiedi, guardavano muti e rispettosi l’interminabile sfilata di popolo: silenzio nell’una e nell’altra parte.
Il funerale di Marchesi, fu l’opposto del piccolo funerale che desiderò quella sera.
Quello che mancò proprio fu il sole. Io credevo che per un umanista come Marchesi, avrebbe dovuto farsi
largo fra le nuvole, per salutarlo; anche perché egli stesso era solare.
Quella sera del piccolo funerale egli non credette di turbare il viaggio di quel morto col seguirlo tenendo me
per mano: eravamo unità, unità con la miseria di chi nasce e di chi muore; unità col sentimento e con la
speranza della povera gente.
Il giorno che Marchesi se ne andò a me pareva che buttasse a tutti una speranza e un invito all’unione e che
la folla lo raccogliesse.
Solo in apparenza, Marchesi, non ebbe il funerale che desiderava quella sera, perché quella folla che lo
seguiva era anch’essa unità.
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Paese Sera, 20-21 aprile 1957
UNA SINGOLARE CONGIUNZIONE DI FESTE
Un Natale e una Pasqua quest’anno si sovrappongono
Un incontro che avviene una volta ogni molti anni – Il significato delle pagane Palilie – Parabola del 21
aprile
collocazione: Pg 37-38.
Quest’anno un Natale e una Pasqua si sovrappongono nello stesso giorno: Natale di Roma, Pasqua di
resurrezione.
L’incontro tra queste due feste avviene una volta ogni tanti anni e tutte traggono aspetti rituali dalla
congiunzione di altre celebrazioni.
Il Natale di Roma si congiunse con le feste Palilie, così come le Parilie si erano congiunte con quelle. Tre
celebrazioni che si cumulavano assurgendo insieme al trionfo della vita sulla morte, come poi lo sarà, in
senso compiuto ed assoluto, la Pasqua.
Le Palilie avevano carattere di purificazione e di propiziazione. I pastori purificavano con acque lustrali le
stalle e il gregge; appuntavano un ramo di alloro alle porte; facevano fumigazioni bruciando erbe sabine,
rosmarino, piante resinose insieme con lo zolfo. Era anche naturale disinfezione, come ora le pulizie di
Pasqua.
Spontaneamente alle Palilie si congiunsero le Parilie, feste del partorire, dell’apertura, della nascita.
Romolo doveva aprire il solco per innalzare il muro della nuova città in un giorno fausto, nessuno più
indicato di quello consacrato a Pale, dea della pastorizia. Ma coincise bene anche con le Parilie; nel solco c’è
apertura della terra, un principio, un avvenire.
Le feste propiziatorie per gli animali per i frutti della terra, per il nuovo ciclo annuale fecero tutt’uno con il
Natale di Roma.
Festa solennissima, in cui era fatto obbligo a ogni cittadino di coronarsi di fiori, festa che cominciava con la
purificazione delle cose e continuava con preghiere per la remissione delle colpe commesse nell’anno.
La bontà non è completa senza la comunione ed ecco tutta questa gente coronata di fiori che sfocia nelle
campagne vicine per banchettare come una sola famiglia, consumando gli agnelli dell’olocausto, uniti tutti
nel contatto con la nuda terra. L’usanza rimarrà nella pasqua cristiana, ma trasferendola al lunedì.
Per secoli i romani celebrarono quella nascita come una cosa viva, vera, popolare. Ma il Natale di Roma era
legato alla sua leggenda e alla sua prosperità. In epoche difficili la leggenda si addormenta, la prosperità cede
il posto alla miseria. Senza sogno e senza benessere le feste non vivono.
Nel secolo XV risorse perché tutto dell’antichità classica risorgeva con gli umanisti. Pompolio Leto con i
suoi accademici la ripristinò, aprendola la mattina del 21 aprile 1483.
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Quella festa che era abituata a vedere per tutta la giornata tutto il popolo coronato di fiori, certo non
riconobbe se stessa.
Nell’ottocento per opera della pontificia accademia di archeologia, la festa si rialzò, ma più ibrida di prima.
Però a metà di questa sua esistenza dottocardinalizia ebbe un ritorno di vita come una esplosione tra due
lunghi silenzi. Durante la breve gloriosa repubblica, capitò il 21 aprile 1849: il Natale di Roma fu celebrato
con la commozione e l’esaltazione di chi sente in atto, con la propria liberazione, la sua rinascita.
Nel Colosseo, dove si fecero illuminazioni fantastiche a bengala e a fiaccole, la gente cantava gli inni
risorgimentali.
Quattro giorni dopo a Civitavecchia sbarcava il generale Oudinot; a fine mese la battaglia del Granicolo. Con
tante altre cose cadde anche quella festa che per una volta tanto era ritornata celebrazione di popolo.
Vivacchiò ancora tra dotti e prelati, finché si riadagiò nel sepolcro.
Poi venne l’epoca della “Giovinezza” che viveva di riesumazioni e tra queste non poteva mancare il Natale
di Roma. Rubandola al 1 maggio gli fu messa la casacca del lavoratore debitamente tinta in nero e il popolo,
diviso a schiere a seconda dell’età, fu obbligato non a coronarsi di fiori, ma a marciare e a gridare.
Adesso è una festa senza entusiasmo, ma anche senza ridicolo. Però quest’anno essendo congiunta con la
Pasqua se ne ravvivano colori e significati, risaltano quelle somiglianze di preci e di riti che legano queste
feste pagane con la celebrazione pasquale ebraica e cristiana.
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Paese Sera, 6-7 agosto 1957
Neve d’agosto
collocazione: Pg 39-42.
Nelle famiglie della vecchia Roma, quasi quanto quella di Cappuccetto Rosso, è nota la storia della neve
caduta in piena estate sulla più alta vetta dell’Esquilino.
In quella antichità che riusciva ancora a vedere le cose con l’amplificazione che poi restò solo all’infanzia, il
colle era detto “super aves” a significare che si alzava tanto da superare il volo degli uccelli.
E’ vero anche che i romani sono stati sempre particolarmente esagerati parlando dei loro colli che hanno
costantemente chiamato “Monti”, così come chiamano monte ogni rialzo di terreno dovuto a edifici
diroccati, o a terra di scarico. Ma il Monte Esquillino nei primi secoli di Roma era davvero più monte degli
altri; assai più scosceso di quello che non lo sia ora, le sue cime erano ardue, le sue valli profonde, ma in
alto, come adesso, s’allargava un vastissimo piano, quello che va da S. Maria Maggiore a Piazza Vittorio.
Fu su questo pianoro che in una notte d’agosto nevicò tanto abbondantemente che la neve restò come resta su
un buon campo da sci.
Noi ormai abituati ai capricci e alle bizzarrie di una atmosfera innervosita per qualcosa che turba il suo
quieto vivere, siamo meno disposti a meravigliarci di quella nevicata estiva.
Ma i romani sono stati sempre così poco abituati alla neve che quando d’inevrno ne cadeva una spolverata
come il formaggio sulla minestra, ne parlavano commossi agitati esaltati insospettiti come di un avvenimento
eccezionale che proprio non sarebbe dovuto accadere.
Figurarsi che cosa capitò quella mattina di agosto quando al luce del giorno rivelò l’alto monte coperto di
spessa neve. La notizia si diramò, il popolo scese incredulo dagli altri colli, risalì le valli, si affollò lassù
curioso e attonito.
Si era nella seconda metà del secolo quarto quando, essendo ancora vicina l’epoca in cui il cristianesimo, con
l’appoggio civile, era riuscito a superare e a fiaccare il contrastante paganesimo, i fedeli del nuovo credo
vivevano nel loro periodo euforico.
Tra questi c’era un patrizio che non sapeva come impiegare le sue ricchezze. Quella notte aveva sognato la
Madonna che gli consigliava di impegnarle nella costruzione di un grande tempio a lei stessa dedicato; il
luogo scelto era quello dove la mattina seguente si fosse trovata la neve.
Il papa Liberio aveva sognato anche egli la Madonna che gli ordinava di erigerle una basilica sul terreno
dove nella notte avesse nevicato.
Tutti e due si ritrovarono lassù col popolo radunato. Il papa tracciò sulla neve la piana del tempio e il ricco
patrizio fece voto di finanziare la costruzione.
La chiesa sorse e, perché indicata dalla neve, si chiamò “ad nives”, ma siccome risultò pure la più bella di
quelle dedicate alla Madonna, finì con l’essere chiamata Santa Maria Maggiore. Però, quando neppure un
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secolo dopo Sisto III ricostruì il tempio, lo dedicò alla Plebe di Dio, “Xystus episcopus sanctae plebi Dei”.
Le sue vicende furono complicatissime: storia e leggenda si intrecciano, si accavallano, si confondono, ma
l’elemento umano vi domina sempre, come se quel tempo appartenesse veramente al popolo, che mescola i
suoi errori con la sua sofferenza.
Della leggendaria nevicata si continua a tramandare la memoria: il 5 agosto di ogni anno dentro il tempio
cade dall’alto di una cupola simbolica neve formata da candidi fiori. Sono gelsomini che nel loro piccolo
calice raccolgono il profumo della notte, sono petali carnosi di tuberose grasse di odore, sono rose sfogliate
già stanche di essere vive, emananti il profumo del tramonto. Cade la neve molle e odorosa sui preti carichi
di seta e di oro come idoli, sulla plebe di Dio che ignora di esserlo, che assiste allo spettacolo attratta e
incuriosita dalla sua ingenua semplicità.
La leggenda della neve e la cerimonia floreale che ogni anno la commemora hanno un antefatto che non è
leggenda, ma storia, che non fu fenomeno passeggero, ma durò per secoli.
Quel pianoro in vetta all’Esquilino dove prima dell’annessione di Roma all’Italia, la grande basilica s’alzava
solitaria tra vigne, ville, e campi e dove i piemontesi precipitati quaggiù dopo il 1870, distruggendo secolari
bellezze, costruirono il loro orribile quartiere, un casellario di caserme civili, quel campus esquilinus era un
immenso sepolcreto per la gente povera e per le bestie.
La plebe che non possedeva mausolei, né terra per farveli sorgere, dopo morte veniva portata lassù e buttata
in fosse comuni. Mucchi di cadaveri e di carogne malamente coperti. A perdita d’occhio era un
biancheggiare di ossa affioranti dalla terra come oggi a monte Testaccio affiorano i cocci delle anfore
spezzate. Stuoli di corvi piovevano su quello spazio e torme di cani affamati lo frugavano e sconvolgevano.
Le sentenze capitali spesso si eseguivano lassù risparmiando il trasporto del cadavere per la sepoltura,
giacché il condannato arrivava coi suoi piedi sino alla fossa.
E come ora si vedono ogni tanto sui muri della vecchia Roma, negli angoli delle piazzette o nella stretta
rientranza di un edificio, quelle lapidi con le quali Monsignore proibiva “di fare mondezzaio” in quel luogo,
così lassù, al limite dell’orrendo sepolcreto c’era una lapide con la proibizione di gettare roba immonda su
quell’immondo carname.
La proibizione è conferma di una abitudine acquisita, tuttavia quella fu l’unico riguardo che si richiese per il
cimitero del popolaccio.
E’ chiaro che un luogo colmo di rinnovata materia in processo di una putrefazione favorita dalla pioggia e
dal sole, dovesse diffondere intorno miasmi insopportabili. Per contenerli un poco, per ostacolare alquanto il
vento carico di quegli effluvi, il sepolcreto fu circondato con una fitta corona di alberi dei boschetti, alcuni
dei quali diventarono sacri a divinità confacentesi al triste luogo, come Mefite e Libitinia, dee dell’aria
corrotta e della morte.
Dentro questo orrendo campo le streghe celebravano riti notturni, gente disperata ed illusa compiva sortilegi
ripugnanti, maghi prezzolati procedevano ad evocazioni paurose. Com’era proibito l’apporto di sudicerie
estranee al campo mortuario, così erano proibite queste cerimonie, deformazioni mostruose dello spirito e del
sentimento. Ma nonostante i divieti e i sacri boschetti, il cimitero delle bestie della plebe e degli schiavi
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continuò ad essere luogo sozzo e malfamato fino a che Mecenate non lo trasformò: i morti furono finalmente
coperti da un’alta coltre di terra, su questa crebbero alberi, dilagarono fiori, scaturirono fontane, corsero
ruscelli, scrosciarono cascate, si aprirono ninfei, sorsero ville, s’alzarono torri solo per reggere terrazzi da cui
ammirare con uno sguardo tanta bellezza.
La parte più abietta della città fu trasformata nella più deliziosa, e intorno alla villa di Mecenate affluirono i
poeti. Altre ville si accostarono a quella, i patrizi risalirono la Suburra, i plebei li seguirono e tra villa e villa
sorsero alte e stipate le case d’affitto, le Esquilie diventarono di colpo il luogo più delizioso e più popoloso di
Roma.
Tutto si trasformò lassù. La plebe che aveva avuto lì il suo ripugnante cimitero ebbe sullo stesso luogo il
tempio a lei dedicato, tutto colore di mosaici e splendore d’oro; il biancheggiare arido delle ossa sconvolte si
trasformò nel candore della neve; a quella bassa nuvola di miasmi, ragione vera per cui gli uccelli non
volavano su quel monte, si contrappose la profumata pioggia di fiori.
Persino le carogne degli animali, buttate a marcire in quel sepolcreto, pare abbiano avuto la loro rivincita.
Lustrati e infiocchettati,cavalli, cani, gatti, uccelli salgono lassù in un giorno dell’anno, quando un prete esce
dalla chiesa di S. Eusebio e, fermandosi sull’alta scalinata, stende il braccio a benedirli; unico giorno in cui
la chiesa pare ricordarsi che tra le creature sofferenti del mondo ci sono anche le bestie.
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Paese Sera, 28-29 giugno 1958
San Pietro pescatore
collocazione: Pg 43-49.
Per la solennità del 29 giugno in S. Pietro c’è qualche cosa che non è di tutti i giorni.
La festa, che, come tutte le altre, liturgicamente si apre la vigilia al tramonto del sole per chiudersi al
tramonto del giorno successivo, è limitata e contenuta da un canto singolare.
E’ un inno che ricorda Orazio e il suo famoso Carmen Saeculare, nel quale il poeta latino si augurava che il
sole non potesse mai vedere nulla più grande di Roma: nei primi e nei secondi vespri di questa festa l’aria
della Basilica vibra per le note squillanti della musica di “o Roma felix...tu superi in bellezza tutte le città del
mondo”.
Ecco il voto di Orazio cantato come realtà, ma per cause ben diverse; non perché Roma aveva assoggettato il
mondo, ma perché essa era stata bagnata dal sangue dei due Apostoli oggi celebrati.
La chiesa non distrusse la civiltà pagana, ma la smontò, ne prese i pezzi che le servivanmo e, sostituendone
nomi e significato, se li incorporò.
Per questa festa la famosa statua bronzea di S. Pietro, che nei secoli passati si era sostituita nella funzione al
classico Palladio, viene coperta col manto pontificale e incoronata con la tiara.
Questa statua è l’unica cosa che in S. Pietro sia ferma, dura, senza atmosfera, mentre lì dentro tutto è
movimento e aria: dai papi gesticolanti sui loro sepolcri alle fiammelle tremule della Confessione,
dall’altezza celeste della cupola ai raggi di sole che la traversano come meridiane astrali.
Quella sua espressione di ostentata autorità sotto i paramenti pomposi, è lì ormai da secoli a testimoniare una
potenza che non è soltanto spirituale.
La cosa veramente originale che si può vedere a S. Pietro in questa occasione è uno strano oggetto appeso
all’entrata della Basilica: un grosso pallone ovoidale traforato come se fosse fatto di una rete a larghe maglie,
coperto di rami di bosso.
E’ una delle poche antichissime usanze, che ancora restano, tanto antica che se n’è smarrito il preciso
significato; la gente per quel cesto s’è tramandato un nome, che a prima vista non pare gli sia appropriato: la
rete del pescatore.
Un frammento di pietra catacombale mostra scalfito tra gli altri segni pescatori anche un disegno di
quell’oggetto.
A me è sembrato sempre la forma del suono che nasce dalla vastità della Basilica e non si sa di che cosa sia
fatto.
A volte è come se venisse dal fluttuare della folla che lì dentro pare abbia perduto ogni possibilità di statica:
va, viene, gira, torna, parte, non si sa di dove arriva, non si sa dove tornerà; folla quasi sempre dissipata,
costretta a passare di lì per un perché, per tanti perché, per nessun perché. Ne viene un mormorio indistinto,
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ma incessante, giacché quasi tutti parlano e pochi pregano; è uno scalpiccio, un brusio, uno strofinio che pare
eterno come l’ansare del mare. E’ il rumore di tanti piedi che non ristanno, di tante voci che solo in questo
tempio escono nel loro volume naturale, senza temperamento di tono.
Il rumore di S. Pietro è simile all’altare cavernoso di un grosso incendio.
Nel Medio Evo i pellegrini poggiavano lumi e candele sugli altari, sugli sporti, sulle mensole, sulle basi delle
colonne, sui sarcofaghi, nell’atrio, nei portici, per le scale, sì che tutto il vecchio edificio ardeva di
fiammelle.
Tutte le fiamme che arsero per secoli nell’antica Basilica sembrano trasformate in suono nella nuova.
Quel rumore è simile un poco a quello del mare, un poco a quello del vento tra le querce, però nessun rumore
che non sia delle forze di natura gli assomiglia.
S. Pietro è un’immensa conchiglia, dove il mormorio è perenne come lo scorrere del tempo.
Se un moscerino penetra i una conchiglia, quel rumore di aria in cerchio, che noi avvertiamo solo
accostandocela all’orecchio, deve essere per l’insetto uguale a quello che ci avvolge quando penetriamo in S.
Pietro: un frusciare di suono, espressione di tempo fluente e di eterno presente.
Quello strano oggetto che pende oggi all’ingresso della Basilica, è a forma di quel suono: suono senza
angoli, senza rifrazioni, suono che gira come la terra, come il cielo, come l’aria dentro la conchiglia.
Tutte sensazioni che si avvertono senza poterle definire.
La definizione ci fa rientrare nella realtà: è la rete del pescatore.
---
In un tratto del mare di Roma, oltre Ostia, oltre ogni segno di strada, dove l’acqua e il vento giocavano
liberamente, formando quei monticellli di sabbia che moltiplicano la solitudine spezzandola, un giorno
ritrovai quell’oggetto che ogni anno il 29 giugno pene all’ingreso di S. Pietro; era solo scheletro di vimini,
abbandonato sul confine mobile dell’acqua e ondulava come cosa viva.
Lo strano oggetto ornato di bosso doveva dunque ricordare di sicuro uno strumento piscatorio, giacché era lì,
non quale simbolo, come sulla porta della Basilica e nella pietra catacombale, ma come realtà.
A Roma è facile incontrarsi in questi anelli che legano tra loro i secoli e i millenni, dando quell’impressione
di immanenza come la dà il suono che riempie S. Pietro.
L’incontro con quel cesto ovale fu come una rivelazione che non spiega mai se stessa.
Dune, acqua, solitudine e quello strano oggetto.
Da dietro un monticello di sabbia uscì un uomo come un complemento della rivelazione. Parve lontano e non
lo era.
Io chiesi ed egli rispose.
Sulle rive romane si adopera quell’arnese per conservare vivo nell’acqua il pesce catturato.
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Paese Sera, 13 gennaio 1960
Vecchia Roma
collocazione: Pg 50-51.
La vera Roma è ridotta simile al corpo di un martire: spezzata, dispersa, esposta a frantumi sotto forma di
reliquia. Ci sono ormai, dentro e fuori le mura, quartieri interi così significanti e standardizzati che
potrebbero essere trasferiti in qualunque altra città, senza togliere nulla a Roma.
Eppure a guardar bene qualche suo residuo si insinua tra quegli agglomerati di case e di casoni, perché il suo
carattere è così prepotente che a volte basta un albero e qualche sasso a legittimare il bastardume dilagante.
Il quartiere dei Parioli sta tra quelli che per il cattivo gusto edilizio e coloristico non hanno neppure
l’attenuante della povertà, di cui si valgono gli orribili casamenti di certe zone periferiche.
Eccone una strada: via Denza, che sale ondulando su per quelle aristocratiche alture; il suo movimento in
ascesa è già Roma; è già Roma la luce che ne consegue; è già Roma la scorciatoia a scaletta che a un tratto
sbuca dal fondo, in mezzo ai cipressi; certi alberi superstiti delle vecchie vigne, certi pini vasti come nuvole,
benché prigionieri tra i muri, sono sensibilmente vecchia Roma; qualche muricciolo di cinta è tinteggiato con
quello che fu il naturale colore della città; un superstite portale campagnolo, grande e semplice come un
gigante si volge un poco di lato quasi vergognoso della sua mole, quasi pauroso d’esser notato, sta lì come
un vecchio e decaduto proprietario, ospitato per forza di contratto dai nuovi compratori sempre in attesa di
un appiglio che ne autorizzi lo sfratto.
La strada sinuosa e lenta, sulla sommità dell’altura cambia nome e pendenza e prosegue su di un falso piano
tra piccole ville che si affacciano presuntuose sulla strada, tra grandi ville che, superbiose, se ne allontanano,
tra piccoli parchi che, stretti dai nuovi palazzi, lustri come servizi igienici, paiono immensi.
Il tracciato della Salaria Vetus, che si divideva dalla Salaria Nova presso la cinta cittadina, creando l’enigma
di due vie del sale che si erano scambiato l’aggettivo custodendone gelosamente il motivo, si svolge sotto a
questa strada moderna percorsa da molte macchine e pedoni.
Un giorno ci fu un po’ più di gente per quei marciapiedi e quella gente era popolo, voglio dire che c’erano
uomini e donne, poveri e benestanti, lavoratori e preti; camminavano silenziosi, rapidi, in fila spezzata; forse
per questo parevano avere nella loro andatura un qualche cosa di furtivo che suscitava un ricordo
catacombale.
Uno di quei massicci cancelli che stanno sempre chiusi, custodendo le ville che si coprono con gli alberi, era
semiaperto; arrivata là, la gente entrava e scompariva. Oltre il cancello un viale fiancheggiato da mimose
scendeva dolcemente, in fondo faceva un largo gomito e sfociava in un piazzale avanti alla villa che dal di
fuori non si sarebbe supposta così grande. Intorno a un tavolino di ferro erano state piegate ed appoggiate
delle seggiole a sdraio; un cameriere con la giacca a righino le vigilava. Ma quella gente non era curiosa del
luogo, né mostrava di averne confidenza; andava dritta verso una porticina, aperta in un fianco rientrante
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della villa, come le formiche: ognuna guidata da quella che la precedeva.
La porticina era così sottile che faceva pensare a quella strettissima del purgatorio dantesco; ci passava una
persona alla volta e non troppo comodamente. Oltre la soglia incominciava subito l’umido e il buio
catacombale. Una minuscola scala a chiocciola s’inabissava sotto terra: pareva un trapano che stesse
scavando. Sui gradini corrosi graffiti e lettere; sui muri rischiarati a macchia da rare candele, pezzi di marmo
con epigrafi tronche e i noti segni cemeteriali pieni di vita e di speranza.
La scala continuava monotona, insistente e s’avvertiva un lontanissimo canto corale salire dal profondo. I
fosfori avevano ornato la terra umida scavata dalla spirale che scendeva, con rami di mortella e foglie di
palme. Le candele si facevano più rare; pareva che la scala volesse arrivare al centro del mondo.
Intanto il canto si spogliava sempre più di lontananza; fu appena velato da qualche cosa che poteva essere
una parete o un gomito d’aria ed esplose in un poderoso Kyrie, mentre il chiarore sommato di tante candele
non viste, rischiarò le tenebre e avanti alla strettoia dell’ultimo scalino si spalancò un’ampia altissima
basilica sotterranea.
Nulla di simile si può vedere nelle catacombe di prammatica turistica nelle quali le cappelle, in genere, sono
formate dall’intersecarsi, o dal confluire di più gallerie; questa è una vera basilica in muratura con l’altissima
volta e in fondo la grande abside nel mezzo della quale anticamente sedeva il vescovo. C’è ancora in essa
l’incavo dove era infisso il trono marmoreo. Ed eccolo lì il vescovo moderno a lato dell’altare, ecco i
celebranti, ecco il gruppo dei chierici cantori; indossano tutti i paramenti all’antica, morbidi e fluttuanti. Il
giovane che dirige il coro è di spalle, ma le mani che si alzano e si abbassano, spiccano nere come l’ebano
sul candore della cotta. In prima fila c’è un piccolissimo cinese con una voce così limpida che quando si
espande sola dà l’impressione di luce, mentre dietro un negro gigantesco sprigiona una voce così cupa che
pare il riflesso sonoro del suo colore.
Quel complesso corale era un campionario umano che, sotto di Roma, cantava nella lingua di Roma.
In piedi, nella penombra satura d’incenso stava la piccola folla che dalle strade asfaltate del soprassuolo era
discesa nella profondità di quella invisibile basilica senza facciata, senza tetto, senza campanile, tutta scavata
sotto terra.
In fondo a un umido, stretto ambulacro, giuncato di fogli e di lauro, dove il canto ridiventava sotterraneo, nel
centro di un basso arcsolio, un’epigrafe di due parole “Yacinthus Martyr”. Un vecchio fossore era lì e
parlava di cose antichissime quasi ne fosse stato testimonio. “Quando si credeva che non ci fosse più nessun
corpo di martire nelle catacombe, fu trovato quello di Giacinto. Erano poche ossa bruciate avvolte in un
drappo intessuto con fili d’oro. I brandelli di quella stoffa emanavano ancora un sottile profumo”.
Sotto una villa parolina, nel profondo della terra, un uomo, continuando nel mondo dello spirito
l’antichissima figura del fossore, parlava così e il canto di un gruppo cosmopolita riempiva di voci latine le
volte di una insospettata basilica.
Pareva che Roma, perseguitata all’esterno dalla speculazione edilizia, anche monastica, si rifugiasse sotto
terra come gli antichi cristiani.
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Paese Sera, 23 gennaio 1960
UNA ROMA DIMENTICATA
La Spina
collocazione: Pg 52-54.
“Non c’è rosa senza spine”, si dice; difatti la rosa più sbocciata di Roma, la piazza S. Pietro, aveva la sua
spina.
Era come un lungo aculeo, come un sottile ed acuminato aculeo di fabbricati che si insinuava tra un folto di
altri edifici risultandone due stridette come due corridoi che si facevano largo a fatica tra case e casucce,
palazzi e palazzetti, chiese e cappelle, fontane ed edicole e tante tante botteghe, uno addosso all’altra con
caparbietà di chi vuole assolutamente stare in quel posto e non in un altro.
C’era per quelle due strade il brusio del paese e quello del mondo, giacché la gente di qualunque terra e di
qualunque colore che veniva a Roma, percorreva quei lunghi corridoi per sfociare in una immensità
circoscritta, che era una piazza, per trovarsi di fronte a una montagna di granito fatta di colonne, pilastri,
porte, logge, trabeazioni, fregi e cupole tra cui emergeva, come una immanenza, “er cupolone”.
Dapprima gli occhi tentavano di misurare l’immensità della piazza, poi era il tempo a misurarla; il tempo che
ci voleva per arrivare, un passo avanti l’altro, sino alla scalinata che portava all’ingresso di un’altra
immensità, al tempio.
Erano proprio quelle due stradine strette e soffocate a preparare gli animi per meglio avvertire le due
immensità. Si chiamavano “Borghi” così come erano detti i raggruppamenti di case fuori della città, lungo
una strada o attorno a un castello.
In quel luogo, un tempo arido e malsano, gli imperatori avevano costruito giardini, circhi, mausolei. La via
Cornelia andava proprio nel senso di questi Borghi, in direzione del luogo ove era la Basilica che le fu
costruita sopra per includervi il sepolcro di un uomo povero e condannato che in quella campagna brutta e
scoscesa, seminata di sepolture plebee e di modesti mausolei, si diceva fosse stato in fretta sepolto e
nascosto.
Su quel sepolcro ci fu eretta prima una “memoria”, poi una basilica il cui baldacchino si alzò sopra la
memoria, finché su tutto si gonfiò, profonda come un cielo, la cupola michelangiolesca.
Intorno alla primitiva basilica si erano raggruppati oratori, cappelle, monasteri e case, separati da strade,
straducce e sentieri, ma la principale via ebbe sempre il tracciato della Cornelia.
Nel Medio Evo essa era una strada coperta da un portico che dal ponte S. Angelo andava all’ingresso della
basilica. I pellegrini, nella vicinanza del luogo sacro, non erano disturbati, né dal sole, né dalla pioggia; il
portico li raccoglieva materialmente e spiritualmente. . Esso durò parecchi secoli, poi pian piano qua e là si
scoperchiò, qua e là crollò; venne l’epoca in cui esso scomparve e la terra ridiventò campagna; ci si
coltivarono gli orti; sorse tra essi qualche casolare e lentamente la vita riprese.
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Il primo anno santo, ottima trovata spirituale e turistica di Bonifacio VIII, dette il via a un più rapido impulso
costruttivo. Il tracciato della via Cornelia, già coperto dal portico, fu fiancheggiato da povere casupole,
bottegucce e locande, poi il tempo e gli uomini, come sempre fanno, continuarono a distruggere e costruire, a
migliorare e cambiare. Si tracciarono strade, si fiancheggiarono di case che si serravano l’una all’altra per
dar posto a tutte. Tra costruzioni e abbattimenti, nella direzione dell’antica Cornelia, della medioevale
“Portica”, risultarono due strade divise da una fila di case, che si chiamarono successivamente: Via Recta,
Carriera Santa, Carriera dei Martiri, Via Beata, Via Pontificum, Via Alessandrina, Borgo Vecchio, Borgo
Nuovo, e le costruzioni che le dividevano costituirono “la Spina” fino ai nostri giorni, quando furono
abbattute e si fece quell’enorme vuoto che strada non è, piazza nemmeno, ma si chiama via della
Conciliazione.
La Spina divideva l’afflusso dei pellegrini a S. Pietro e, se tra bei palazzi e discreti palazzetti, aveva anche
case povere e forse brutte, il tempo le aveva colorate, patinate e rese amiche. Cadde con la Spina un apporto
secolare di vita.
Cadde (una tra le tante case suggestive che caddero) quella cappelletta chiusa da un cancello, dove dentro
ardevano dei ceri e tra le sbarre c’erano sempre dei fiori intrecciati. Si diceva che un papa avesse chiuso con
quella cappella lo sbocco di un violetto tra i due Borghi, corto come un nano, per ammenda a una Madonna
contro cui erano state gettate scorze di melone. Si abbatterono i confini di quella piazza Scossacavalli che il
gorgoglio di una fontana bastava per riempire, mentre certe finestre che vi si affacciavano, ripetevano con la
scritta dei loro architravi: Soli Deo, Soli Deo, Soli Deo. Si raccontava che su quella piazzetta, nel punto
preciso dove sorgeva una chiesa, i cavalli che portavano la pietra di Isacco, si erano fermati e non era stato
possibile farli più proseguire. Per diverso tempo la chiesa chiamò S. Salvatore in Bordonia, per i bastoni dei
pellegrini, poi prese altri nomi, ci fiorirono altre leggende, altre poesie e ora non c’è più nulla, nemmeno il
nome. Si poteva sanare quell’agglomerato di costruzioni e invece si abbatté tutto e si fece il vuoto che è
nulla.
La Spina, obbligando a vedere la piazza solo quando si era giunti a una sua estremità, ne scopriva di colpo
tutta l’enorme vastità, mentre ora, per il fatto che essa è concava, la lontananza la restringe.
Erano due vie strette sì, ma la vita vi brulicava e ferveva e, come tutte le cose che sono esageratamente se
stesse, se concentrate, erano straordinariamente vitali. Quelle due strade anguste concentravano la vita e
l’afflusso dei viandanti accompagnandoli allo sbocco.
Dal fitto delle case si usciva in quella grandezza sonante di acque, di spazio, di vuoto; nell’insospettabile
slargo la vita si diluiva e placava, restava sola l’immensa meraviglia.
Con l’apertura del chiuso pare che gran parte di queste cose siano fuggite. Nello spazio risultante dalle
demolizioni si poteva erigere qualcosa che conservasse un poco di quella immensa sorpresa emotiva. Invece
la soluzione è quella che è già da tanti anni senza riuscire a convincere, senza riuscire a perdere nulla della
sua muta freddezza: una processione di obelischetti con il lampione sulla testa, che in quell’enorme spazio
rammentano i birilli, e tante panchine, utilissime per apparecchiarci sopra uno spuntino. Birilli e sedili, non
c’è da illudersi, non diventeranno mai suggestivi. Ma in quel vuoto di cose e di emozioni, il sogno ha un
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teatro vastissimo per esercitarsi. Anche un sogno fatto per riposo e per divertimento, è capace di mettere idee
in quel vuoto di idee.
E il sogno rialza e distende l’antico Portico, gli dà la quadruplice berniniana fila di colossali colonne, lo
allarga sullo spazio che era occupato dalla Spina. Invece di una sola spropositata strada, il sogno ne vede tre:
due ai lati, scoperte, per i veicoli, una nel mezzo per i viandanti, folta di colonne e coperta di volte, oltre la
quale sarebbe veramente l’ingresso alla piazza del Paradiso. E non potendo più vedere S. Pietro in
lontananza, esso non ricorderebbe più un “souvenir”, ma tornerebbe ad essere quella montagna che è,
sorgente da un cielo rovesciato in terra.
Ma un sogno ha la forza di una piuma che voglia rimuovere la pietra: il sogno allora scompare. Resta la
freddezza semivuota di quella strada che è nuda come i gambi delle rose ottenute scientificamente: alte,
fredde, dure, senza odore e senza spine.
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Paese Sera, 30-31 gennaio 1960
IL FREGOLI DEGLI EDIFICI STORICI ROMANI
Due millenni di storia sul sarcofago di Augusto
Nacque tra due strade vitali, la Flaminia e il Tevere, e per parecchi secoli conobbe gli splendori pagani
della vita e della morte, dominando il traffico terrestre e fluviale della capitale. Da sepolcro a fortezza
collocazione: Pg 55-57.
C’era a Roma un sepolcro, che in epoca non lontana, avrebbe potuto assurgere a simbolo della “itala gente
dalle molte vite”, tante volte esso era risorto, tanti aspetti diversi aveva assunto, tanti svariati mestieri
esercitati. Era il Fregoli degli edifici storici: sempre in scena, sempre diverso, sempre amato dalla folla.
Di una trentina d’anni più anziano di Cristo, il mausoleo di Augusto nacque già col segno della vita, pur
essendo destinato alla morte.
Sorse tra due strade vitali, la Flaminia e il Tevere, a fianco di giardini tanto belli che una chiesetta, costruita
di fronte a uno dei loro ingressi, si chiama tutt’ora “sancta Maria in Porta Paradisi”.
Per parecchi secoli il mausoleo conobbe gli splendori pagani della vita e della morte. La statua di Augusto,
altissima sul pilone centrale, dominava lì intorno il traffico terrestre e fluviale, i sontuosi edifici e gli ombrosi
giardini, gli alti pioppi, che facevano bosco intorno.
Poi le ondate barbariche si fransero anche contro il mausoleo, dove la ricchezza diminuiva il rispetto per la
morte: devastazioni e trasformazioni cominciarono.
Venne il silenzio del Medio Evo, che stese una coltre di terra sopra il gigantesco sepolcro, trasformandolo in
uno dei tanti monti artificiali di Roma, il Mons Augustus. “In suo cacumine” sorse una chiesetta; tra le
rovine delle vecchie costruzioni la gente rabberciò la sua dimora.
Il Mons Augustus restò quieto nella paurosa attesa del misterioso anno mille, che passò come tutti gli altri;
poi nel rozzo ritorno di vita si trasformò in una fortezza, “l’Agosta”. Dentro i signori, fuori il popolo, e
attacchi, difese, espugnazioni su quel sepolcro, che era tanto grande perché più solenne fosse il sonno della
morte.
Anche la fortezza si sgretolò come il sepolcro, e la terra di nuovo ricoperse tutto e su tutto si piantò una
vigna. Qua e là, addossate o vicine case e case, chiese e chiese, che tutte prendevano indicazioni da questa
tomba: “…prope Mons Augustus; …non longe a monte qui Augustus dicitur…”. Intanto per l’azione delle
piogge e della coltivazione affiorarono colonne e statue, metope e triglifi, i vecchi ambulacri diventati grotte
danno urne, sarcofaghi, epigrafi. Il monte è una cava di marmi per alimentare le vicine calcare, che da essi
trarranno la calce per tirar su catapecchie e case. Quel che restava del mausoleo di Augusto fu sconvolto e
frugato finché parve esaurito.
Il secolo d’oro, che stendeva giardini dove poteva, ne stese uno anche sul terrapieno del mausoleo; esso fu
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tra i più affascinanti giardini all’italiana, allora di gran moda.
Ma nel roboante secolo successivo il giardino scompare e al suo posto c’è una arena per giostre con bufale e
vaccine. Gare di destrezza e tornei si alternano con fantastiche feste notturne, e fino alla metà dell’800 il
sepolcro di Augusto fu incoronato da pazze girandole, da razzi che foravano il cielo, da portentose piogge
d’oro, da soli roteanti, da effimere inesauribili costruzioni di fuoco.
Intanto esso perdeva il suo nome, diventava il “Corea”, perché ridotto ad anfiteatro dagli ultimi proprietari, i
Correa, che i romani pronunciavano “Corea” come ancora dicono “tera” invece di terra.
Continuano però i circhi, le giostre, le notturne orge di giochi pirici e in più ci si danno rappresentazioni
teatrali. Diventò per breve tempo, quasi profetico accenno, teatro stabile per musica popolare, finché,
ricoperta l’arena con un lucernario, furono possibili anche le rappresentazioni serali. I più grandi artisti
dell’epoca passarono per il Corea, che a un tratto diventò magazzino.
Il sepolcro del primo imperatore era il solo magazzino capace di ospitare il cavallone del monumento
all’ultimo primo re d’Italia; due decenni di umiliante vigilia e il magazzino diventa la più suggestiva sala di
concerti che il mondo abbia conosciuto, prende trionfante il nome di Augusto e fu l’apoteosi!
Il mausoleo aveva conosciuto preci e bestemmie guerresche, colpi di piccone e di zappa, vigneti e fiori, folle
tumultuose e incendi favolosi, polvere e sole, conobbe allora la grande quiete devota, sotto una cupola gonfia
di musica, con una folla religiosa e muta; fu davvero un tempio dell’arte e tutto il mondo ce lo invidiò.
Ma arrivò anche l’ultimo concerto, giacché era stato deciso di sradicare tutta la vita che si era abbarbicata
addosso al monumento, e di restituirlo alla morte. Vi fu un pieno inverosimile; la commozione che tramava
in ogni cuore traboccava nell’aria, diventato tutt’uno con le ultime armonie: musica fatta commozione,
commozione fatta musica e l’immensa sala ne fu colma. Alla fine del concerto non “scrosciò” l’applauso, fu
un battimento lento, intenso, uguale, parve non dovesse finire più.
Era un dolore che applaudiva per manifestarsi era la appassionata protesta per un delitto vicino al
compimento.
L’orchestra, che doveva essere l’applaudita, applaudiva anche essa e la gente non si staccava di lì; era in
piedi, seria, triste, e batteva le mani. Pareva che qualcuno dovesse parlare, ma nessuno parlò; nessuno usciva
da quelle porte, tra le quali erano soliti sgusciare frettolosi all’accenno degli ultimi accordi. Per i romani una
cosa tanto amata, moriva; le si dava così un addio accorato.
Il fatidico piccone, simbolo di un’epoca, cominciò presto l’opera sua: lunghi mesi di polverone, di terriccio,
di pena e tutto intorno la grande opera fu compiuta. Apparve un torsolo nudo, brutto, inespressivo, quasi
osceno come lo diventano, sotto la luce, le cose fatte per essere coperte. Si vide il sepolcro vuoto e repellente
come una cassa da morto usata.
Le mura sbrecciate e smozzicate furono pareggiate, perché le rovine dovevano presentarsi con l’uniforme in
ordine; una rovina capricciosa non era permessa.
Finita la sistemazione della zona, quel povero rudero gareggiò in miseria e bruttezza con l’antesignana di
tutto lo scatolame nazionale, la scatola dell’Ara Pacis.
Son passati tanti anni e quel mozzicone imperiale non rivive, resta sempre un sepolcro affossato, diventato
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lui stesso il morto.
In tutto questo tempo si è parlato di un auditorium, che sempre sarà e mai non è, quasi fosse trattenuto da un
malocchio; forse quel sepolcro denudato agisce da Tutanchamen. Per placarlo rendiamogli la sua sana ed
asciutta calotta al posto di quella di terriccio, umida e disgregatrice.
Dalla distruzione ad oggi il tempo è punteggiato dalle proposte di ricostruire la sala lassù.
Si potrebbe far qualcosa sul tipo del “Palazzetto dello Sport”; non nasconderebbe nulla e le rampe di
sostegno potrebbero diventare scale per il rapido sfollamento.
Riprenderebbe l’originale nome di Augusto; il mondo è pieno di “auditorium”; a Roma stessa ce n’è uno, se
lo son fatto i preti e qualche volta, gentilmente ce lo prestano. E’ uno stanzone rettangolare, forse
tecnicamente adatto, ma brutto. Il nostro avrebbe la forma perfetta del circolo e, alto, su quel centralissimo
rudero, sarebbe almeno un poco pagano.
Durante i concerti dell’Augusteo, a una certa ora, le campane di S. Rocco disturbavano l’attenzione coi loro
rintocchi. Quelle campane erano le scocciatrici fisse, come le questuanti per beneficenza; nessuno le amava.
Adesso però, se si trattasse davvero di riavere l’Augusteo, la gente farebbe festa anche alle campane di S.
Rocco.
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Paese Sera, 1 maggio 1960
S. GIUSTO TORNA OGNI QUATTRO ANNI
Il santo bisestile
Come nacque febbraio col suo giorno bisesto – Il Martirologio romano segue l’uso del calendario giuliano –
Le regole del lunario – Duecento chiese dedicate alla Madonna e cinquanta al Salvatore
collocazione: Pg 58-60.
Febbraio col suo giorno bisesto è bello e finito. Ma prima di staccare e buttare il relativo foglio del lunario
diamo un saluto a S.Giusto, per quattro anni non lo incontreremo più.
Tre volte “febbraietto corto e maledetto” finirà con S. Romani, il giorno 28, poi tornerà ancora S. Giusto
nell’anno bisestile, col giorno 29. Pare una congiura dei lunari popolari contro di lui.
Il Martirologio romano, seguendo l’uso del calendario giuliano, negli anni bisestili ripete un giorno tra il 24 e
il 25 febbraio, quello che nel computo romano, che come si sa andava a ritroso, era il “sexto kalendas
martias” e che per venire annunziato due volte diventava “bis sexto kalendas martias”, da cui il nome
“bisesto”.
Passati poi ad indicare i giorni con un numero progressivo cominciando dalle calende, il 1°, cioè di ogni
mese, negli anni bisestili febbraio risultò di 29 giorni, e il giorno appunto parve essere l’ultimo.
I lunari attingono i loro santi dal Martirologio Romano, e se in questo la commemorazione di san Giusto
cade tutti gli anni, o al 28, o al 29 febbraio, perché essi, tra i tanti santi del giorno, perché proprio a s. Giusto
riservarono un ricordo così limitato? Ma la cosa più curiosa è che la stessa ingiustizia che i lunari hanno per
S. Giusto, ce l’ha avuta anche Roma.
Questa nostra città, capricciosa come le belle donne, è la città delle mille e mille chiese. Non si intende
riferirsi alle chiese che ci sono oggi, ma a tutte quelle che nella sua non lunghissima vita cristiana, sorsero,
durarono, caddero: a tutte quelle chiese che respirarono nella sua atmosfera, che spesso lasciarono un segno
del loro passaggio, qualche volta con meno di niente, col ricordo di un nome estroso a una località, a un
edificio.
Se le chiese che Roma ha elevate, consumate e distrutte, potessero ad un tratto riapparire tutte, accanto a
quelle esistenti, noi ci aggireremmo in una immensa città di santuari dai nomi più curiosi, le cui sorprese ci
spingerebbero a una straordinaria esplorazione.
In questo mondo mescolato di esistenze reali con esistenze evocate, noi troveremmo chiese dedicate ai Sette
Santi Dormienti, ai Santi Caio, Portogallo, Zotico, Anigro, Passera, Macuto, Simmetrio, Stratonico, alle
sante Degna e Emerita. C’è anche un allarmante S. Siluro, una Indola, “nome di santa sconosciuta” dice
Carlo Cecchelli, il mago delle chiese che furono.
Alla curiosità dei titoli corrisponde quella del numero delle chiese che lo stesso santo spesso possedeva.
254
Le chiese dedicate alla Madonna superano quelle dedicate al Salvatore, neppure cinquanta per lui, più di
duecento per lei. I santi Giovanni, Lorenzo, Stefano, Nicolò, Andrea ne hanno chi poco meno chi poco più,
una trentina ciascuno. Santi inesistenti perché il loro nome provenne da strani accoppiamenti o da corruzioni
di parole, ne hanno più di una, come S. Abaciro che ne ha tre senza contare qualche oratorio in coabitazione
con altri santi.
Tra queste migliaia di chiese esistenti o esistite, se ne cercherebbe invano una dedicata a S. Giusto.
Eppure tra una decina e più di santi Giusti che registra il martirologio romano, ce ne sono alcuni che
avrebbero meritato di avere in Roma almeno una chiesetta.
C’è quello che partì proprio di qui per andare ad evangelizzare l’Inghilterra: c’è il soldato che folgorato da
una improvvisa conversione fece appena in tempo a distribuire ai poveri tutte le sue sostanze, che, calcatogli
sul capo un elmo,infuocato, fu torturato, bruciato e finito con la spada, perché i martiri spesso resistevano al
fuoco ma non resistevano mai alla spada.
C’è il vescovo Giusto, dotato di spirito profetico, che rinunciò alla carica e se ne partì col suo “lettore” dove
visse in vita “quasi evangelica”, dice il Martirologio e poi passò a ricevere “ la corona della giustizia”. Un
piccolo oratorio per questo santo sarebbe stato un ottimo memorandum.
C’ è un S. Giusto bambino che fu decapitato: neppure i teneri nostalgici dell’infanzia pensarono mai a
costruirgli un’edicola.
C’è uno studente di lettere che un giorno, col fratello, gettò nella scuola le tavolette e si presentò
spontaneamente per ottenere il martirio. Tutti e due furono portati subito fuori porta e accontentati. , ma qui
non fu eretta per loro neppure una memoria.
Questa specie di congiura del silenzio di Roma e dei lunari intorno ad un nome, è certo dovuta al caso, ma a
noi strappa un sorriso. Come se ad un tratto in essa noi scoprissimo quello che oggi sta affiorando: la
stanchezza delle parole. Su fatto antico delle chiese, sul fatto vecchio dei lunari, si sovrappone il fatto nuovo,
quello che è nostro.
Noi ci siamo nutriti di grosse parole come: democrazia, libertà, giustizia. Abbiamo esagerato nel nutrimento
e ne siamo intossicati.
Quelle parole così difficilmente sane, così spesso gonfie e vuote, ci hanno fatto male, noi ne siamo ammalati.
Ne siamo intontiti perché guerreggiamo con esse buttandocele scambievolmente contro la testa.
Siamo arrestati nell’azione da queste parole idropiche che vogliono dir tutto e possono dire nulla. Ma c’è
anche chi ne sta guarendo e ha per le parole grosse la nausea che resta per un cibo che ci fece male.
Se proprio non vogliamo fare come Roma che escluse addirittura qualsiasi Giusto dalla congerie dei suoi
santi, facciamo almeno come i lunari: una volta ogni tanto, ma non troppo spesso.
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Paese Sera, 30-31 gennaio 1965
ITINERARI MISTERIOSI NEL TEMPO
Il Pantheon: il più enigmatico monumento romano
Non si è mai saputo di certo come, quando, perché sorse – La sorte di questo edificio segue molto da vicino
quella del suo eterno abitatore: il gatto
collocazione: Pg 64-66.
Che cosa sia il Pantheon i dotti certo lo sanno, ma noi che leggiamo i dotti non ci capiamo nulla. Come
sorse? Non lo sappiamo. Una cosa sola è certa che esso sorse sull’acqua.
L’unico edificio dell’antichità classica restato intero concreto e stabile come un personaggio corpulento in
una folla di fantasmi, il più sicuro nella sua forma, così solido nonostante il tempo, i terremoti, il fuoco i
fulmini e gli uomini che ci si sono sempre arrampicati intorno per studiarlo, accomodarlo, sfruttarlo,
vincolarlo, liberarlo, sgretolandolo come potevano, che sta lì potente quasi roccia naturale, nelle sue origini è
incerto e fluttuante come un liquido che si adatta a tutti i recipienti. Rientra in ogni processo costruttivo e ne
sfugge. Dubbio e mistero, questo è il Pantheon, ma che sorse dall’acqua è sicuro.
L’acqua stagnava in quel basso da quando si formarono le colline sulle quali sarebbe sorta Roma. Per quanti
millenni in quel punto furono soli l’acqua, la terra, la melma, la vegetazione lacustre? Poi l’uomo cominciò a
passare da quelle parti perché le sue bestie ci trovavano qualcosa da brucare, poi, come uno scoppio, la città
che sulle alture vicino era sorta e stava assoggettando il mondo, vuole sottomessa anche quella zona
paludosa. “Io a settentrione, tu a meridione” – deve aver detto Augusto ad Agrippa.
Incanalate le acque fino al Tevere, prosciugata e bonificata la zona, eccola coperta di giardini, mausolei,
terme, portici, obelischi, templi; diventa la più bella di Roma.
Vispanio Agrippa sanava e costruiva dove erano stati gli acquitrini, Mecenate faceva altrettanto su un fasto
colle cimiteriale dove si buttavano le carogne degli animali e i cdaveri dei poveri.
Allora il Pantheon è di Agrippa? Un po’ sì, un po’ no. Ma la dedica che tutt’ora si legge sul frontone? Non è
la sua, è di uno che lealmente volle restituirgliela, ma poi di nuovo gli scappa di mano. E allora chi lo
dedicò, chi lo restaurò, chi lo rifece, chi lo rimaneggiò, e chi soprattutto gli dette questa perfetta forma
circolare? E il portico è stato fatto prima della rotonda? Dopo? Insieme? No, prima lui. No, prima lei. No,
pari età. E poi ne sappiamo quanto ne sapevamo prima.
Sì, ma la calotta però è ciò che era, la calotta è quella. Quella, d’accordo, ma di quando? Anche essa sorge
dal mistero. Fu girata con sistema empirico, dice uno. No, assicura l’altro, essa è un prodigio di sapienza
architettonica. E la cupola resta muta come un cielo immobile, gonfio di aria in penombra.
Tutti gli imperatori più attivi in edilizia lo restaurarono, lo ritirarono su quando per vecchiezza cadeva e non
avrebbe dovuto essere vecchio se le storie precedenti erano vere. L’età e il fuoco, le mutevoli usanze e i
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capricci del gusto, tutto lavora per pasticciare quell’edificio che è il solo a scavalcare intero i secoli.
Rutture e rabberci, demolizioni e ricostruzioni, forature e rattoppi, deturpato e restaurato, più volte soffocato
da case e stambugi e più volte liberato, esso non ha mai svelato il mistero delle sue origini. Qualunque cosa
sia venuta alla luce, ha complicato l’enigma. Si scopre un pavimento molto più basso di quello attuale?
Potrebbe essere quello di Agrippa. Nossignori, è di molto dopo. Chi ci dirà mai che cosa fece veramente
Agrippa? Il suo tempio era solo un pezzetto di questo odierno? Forse sì, forse no.
Si scoprono mattoni con tanto di data impressa? Dunque, eccola la data del rifacimento. Adagio, potrebbe
essere stato adoperato materiale scaduto, mattone non è medicina, è buono lo stesso! Domandare qualcosa di
sicuro al Pantheon vuol dire snaturarlo, è simile a quelle creature umane che all’anagrafe sono segnate come
figli di nessuno. Peggio esso ha oscuro anche il nome oltre il patronimico.
Era definito così come al dire il tutto santo, il tutto divino?? O fu detto cosa divina, cosa celeste per la sua
forma rotonda, per il suo immenso tolo emisferico come il cielo? Quella cupola era la forma del cielo sulla
terra e il suo nome diceva questo? L’ipotesi già si faceva quando il tempio era nel suo massimo splendore e i
cristiani erano conosciuti come una delle tante sette che sbarcavano a Roma da tutti i punti cardinali. O fu
sacro alle sette divinità planetarie per le quali il cerchio è moto, essenza e forma? Oppure fu dedicato a tante
divinità, prima fra tutte la coppia progenitrice della gente Giulia, Marte e Venere? Parrebbe così se si pensa
ad Augusto, il discendente, che avrebbe rifiutato l’onore di porre il suo simulacro nell’interno del tempio,
lasciandolo fuori dalla porta in una delle due nicchie laterali; nell’altra ci sarebbe stato Agrippa, parente
d’acquisto della gente Giulia.
Certo che quel nome facilmente lascia supporre un’accolta di statue di divinità, di tante, di tutte. E così
mettendocele tutte siamo trasportati da un’idea piena di malìa e d’ironia. Se davvero ci fossero stati tutti gli
dei, essendoci tutti, non ce n’era nessuno; c’era l’idea frantumata della divinità. Nella sua forma circolare,
nei nicchioni ricavati simmetricamente, ognuno uguale all’altro, nelle edicole che si ripetono tutt’intorno, c’è
l’impossibilità di dare a un dio un posto preminente. Un momento! Il tempio non è tutto uguale: c’è un
grande arco che prospetta quello di ingresso; una simmetria architettonica, o un posto riservato, un trono, un
tabernacolo? Se lì c’era un dio, quello era il maggiore. E allora potrebbe essere vero che il tempio fosse stato
dedicato a Cibale e che il simulacro della gran madre fosse lì. Sul colle capitolino c’era un tempio dov’erano
raccolte le statue delle province dell’impero. A ogni statua corrispondeva un campanello; se nella provincia,
anche lontana quanto i confini del mondo, scoppiava una sedizione, il campanello suonava. Quello della
Persia aveva squillato a lungo, si dette ad Agrippa l’incarico di domare l’insurrezione, ma Agrippa ne fu
turbato. Ed ecco che una notte gli appare una donna alla quale egli confessa le sue preoccupazioni. Come
tutte le madonne che appaiono, in cambio del suo aiuto chiese un tempio del quale aveva anche preparato il
disegno e perché non si sbagliasse gli disse di essere Cibele e scomparve.. Mantennero la parola tutti e due e
Agrippa innalzò il Pantheon. Siccome nei templi pagani trasformati in cristiani, c’è sempre una analogia tra
il vecchio titolare pagano e quello nuovo sostituito dai cristiani, il fatto che la dedica cristiana fosse fatta alla
Madonna e a tutti i martiri potrebbe essere una prova che quella pagana fu fatta alla Magna Madre di tutti gli
dei.
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Comunque se il Panteon veramente rappresentò sulla terra un olimpo, bisogna dire che proprio come un
olimpo è misterioso, discusso sempre di fronte a un collegio arbitrale.
L’epoca in cui questo misterioso olimpo sarebbe sorto coincide con quella in cui il gatto, animale sacro e
misterioso, per la prima volta posò le sue zampe sul suolo romano e il suolo dove le posò è proprio lì; di
fianco al Pantheon dove gli egiziani ebbero il loro quartiere. Assoggettato l’Egitto da Augusto proprio in
quell’epoca, per quella specie di simbiosi politica che Roma attuava, una colonia romana si stabilì in Egitto,
una colonia egizia si stabilì a Roma. Ogni colonia arrivava nel paese non suo con i propri bagagli culturali e
religiosi. L’Egitto arrivò col gatto: Roma lo incontrò per la prima volta proprio in quei paraggi. Lo vide
idolatrato da vivo e da morto; assisté attonita ai funerali della piccola mummia a quattro zampe; imparò a
caro prezzo che il gatto non si tocca. E tra l’Iseo e il Perapeo, in quella foresta di sfingi di obelischi di
fontane, certo c’erano anche statue di gatti se una sta ancora lassù, in pizzo alla prima cornice di palazzo
Graziali.
Pantheon e gatti sono contemporanei, apparvero insieme gli uni vicino all’altro e insieme sono rimasti e si
assomigliano. Difficili da capire loro, difficile da capire lui.
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Paese Sera, 31 gennaio 1965 (seconda parte: la prima era già stata pubblicata anche il 16 gennaio 1965)
ITINERARI MISTERIOSI NEL TEMPO: IL PANTHEON
Il primo tempio pagano che diventò basilica
Un compromesso fra l’illegale imperatore bizantino Foca e il Senato di Roma – Un nome popolaresco e
affettuoso Maria Rotonda
collocazione: Pg 61-63.
Ormai si conosceva tutto di Roma; chi andava vedeva, chi tornava raccontava o scriveva; chi restava
ascoltava o leggeva.
Del Pantheon non si sapeva solamente che era un tempio splendido come un Olimpo in terra, che gli si
apriva davanti una piazza fiancheggiata dai portici, che alle spalle aveva terme lussuose dove bastava entrare
per incontrarci mezzo mondo, ma si sapeva pure che aveva vicina l’“insula” più alta di tutta Roma,
quell’insula che, se ci fosse stata la parola, sarebbe stato il grattacielo dell’impero. Nelle case d’affitto i
poveri si ammucchiavano all’insù, verso il cielo, mentre i ricchi, con le loro “domus”, si distendevano in
superficie.
La gente che veniva dalle province frequentava quelle terme più delle altre proprio per la vicinanza di quel
tempio che era un po’ di tutti. La religione di Roma, rituale propiziatorio o antropomorfismo, sempre
identificata con lo Stato, aveva dovuto sostenere l’assalto dei misteri di Oriente e s’era difesa prima
ostacolando, infine accogliendo. Purché non sia disturbato il culto statale Roma dà il diritto di cittadinanza a
tutte le religioni. Forse esse simbolicamente vennero davvero accolte in quel tempio la cui architettura dice
“unità”. Non ci sono linee spezzate, c’è il cerchio che raccoglie, unifica, concentra; non ci sono finestre che
frazionano, ma un’unica sorgente di luce che scende dall’alto della cupola non conclusa e illumina
ugualmente ogni punto del tempio.
A tutte le religioni Roma poté restare indifferente, ma a quella cristiana no perché fondendo essa etrre e
popoli in un’unica chiesa, era troppo simile al suo impero. Paura giustificata? So interroghiamo il Pantheon
al solito esso ci risponde sì e no. Però essendo riuscita a imporre il suo “segno” al posto delle “signa
militaria”, gli imperatori diventati cristiani emanarono gli editti di chiusura di tutti i templi pagani.
La quasi inamovibile porta del Pantheon fu serrata e al di là restò abbandonato muto e impenetrabile
quell’enorme spazio nel quale per due secoli nessun romano mise più piede. Se si pensa a quante generazioni
occorrono per riempire due secoli, si resta sbalorditi a vederle passare per duecento anni avanti a una porta
chiusa. Forse questo fu possibile perché sulla vecchiezza del popolo romano si stendeva lentamente un’età
che, essendo un passaggio, era vecchia e infantile. I due estremi si raccontavano le favole tra di loro e quelle
del medioevo, si sa, erano tutte confezionate con miracoli e demoni mescolati insieme. Il demonio, simile a
Dio, era in ogni luogo, poteva nascondersi in ogni cosa o persona e pare che facesse proseliti dappertutto se è
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vero che anche due papi si dedicarono al suo servizio.
Nel secolare periodo in cui, per legge, i templi pagani restarono chiusi, tutti i demoni dislocati nella città
eterna, si erano asserragliati nel Pantheon do dove ogni tanto uscivano per bastonare i cristiani che passavano
di lì.
Un tempio così ambiguo era campo connaturale per una lotta tra Dio e il demonio, il male e il bene, il
paradiso e l’inferno. E la tenzone fu possibile per un compromesso tra il barbaro ed illegale imperatore
bizantino Foca e il Senato Romano che ne accolse l’immagine. L’imperatore cedeva il tempio pagano al
papa, il papa innalzava a lui nel foro una colonna onorifica. Scambio di omaggi, scambio di epoche.
I due grandi battenti della porta si spalancano e, dopo gli esorcismi, allo squillo del “gloria!” che risvegliò
l’eco sonora del tempio, tutti videro uno sciame di atterriti demoni che fuggirono “spertugiando”
dall’apertura della cupola.
Così, nel compimento del primo decennio del secolo VII, nel mese di maggio, proprio in quei giorni in cui
l’antichità romana celebrava la festa della fioritura, toccava proprio a lui la sorte d’essere il primo tempio
pagano trasformato in chiesa cristiana. Pochi anni dopo toccherà anche alla Curia, il palazzo Madama
dell’antichità, ma la sua trasformazione riuscì bene, mentre il Pantheon, per quanto si cercasse di
mascherarlo, restò sempre pagano. Pagano e sempre in piedi, così come mai completamente interrata restò la
colonna onorifica per Foca. Emerse sempre da quel foro che diventerà il Campo Vaccino, così sola che il
cavalier Vasi nella seconda metà del ‘700 scriveva che se ne stava appartata e nessuno poteva indovinare di
dove fosse venuta. Era difficile indovinarlo; la sua carta d’identità, scolpita sulla base, era interrata con essa
da secoli.
Forse per analogia alla vecchia dedicazione pagana, Bonifacio IV lo dedicò alla Madonna e a tutti i martiri.
Per questo furono trasportati 28 carri di ossa dei medesimi raccolti nei cimiteri cristiani. Non è vero perché
allora le catacombe non si manomettevano, ma il passaggio da una folla di dei iracondi, arditi, gioiosi,
vendicativi, ma sempre esprimenti vita, a questa ondata di trucidati, di rinunciatari alla vita, è melanconico lo
stesso. Ma tra le due dedicazioni c’erano secoli, non decenni.
Invece qualche decennio dopo l’imperatore Costante venne a Roma ne ammirò tutto, anche le tegole di
bronzo dorato a forma di scaglie che brillavano al sole caduto sulla terra, ammirò e manomise la cupola
portandosi le tegole in Oriente. Togliendo le tegole di bronzo dorato ruppe una unità che non fu ritrovata con
tutte le diverse coperture e rabberciature di piombo che si fecero nei secoli. La rottura di quella unità preparò
le crepe per i fichi che al posto dei lauri e dei cipressi incoronarono quell’edificio che poteva ora apparire
come il mausoleo del paganesimo.
La fantasia dell’epoca che appioppava origini miracolose a tutto quello che non capiva, ne dette una anche
all’occhialone. Chi poteva aver fatto una cosa simile? Solo il miracolo e lo aveva fatto un papa che,
prigioniero lì dentro, con quella porta fortemente serrata, sotto quella volta senza finestre, scampo non
vedeva; fece un segno di croce e lassù s’aperse quel vuoto dal quale il papa “spertugiò”. Più tardi, non per
miracolo, ma per complesso meccanico, un simulacro di Madonna s’innalzava tra nubi e angeli
“spertugiando” di lassù per rappresentare la sua assunzione in cielo. Invece nella domenica “della Rosa”
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durante la messa del papa, da quel vuoto si faceva cadere sul popolo una pioggia di rose. Intanto tra fantasie
e cose vere, l’edificio cristiano aveva assunto un altro nome: Maria Rotonda. Per un millennio più qualche
secolo fu il suo, finché col trasporto qui della capitale diventando tutti dotti e retorici, si perse l’affettuosa
confidenza che avevamo con i nostri monumenti e restaurammo il Pantheon senza dimenticare l’acca.
Maria Rotonda era tanto amata dai romani che il senatore, assumendo la carica, giurava di conservare al papa
S. Pietro, caste S. Angelo, la città di Roma, aggiungendo “et Mariam Rotundam”. Era lui a pronunciare le
parole, ma era il popolo a volere la cosa. Difatti Maria Rotonda fu rispettata anche quando toccò a lei pure di
essere trasformata in fortilizio dai rivoluzionari di allora che ci si asserragliarono; per non attaccare Maria
Rotonda si patteggiò con apparente disonore.
Maria Rotonda diventò poi la Rotonda, o la Ritonna, a seconda del parlare più o meno civile.
Anche i papi mostravano di prediligerla conservando in essa una delle più importanti reliquie, il Volto Santo.
Era tenuta in una cassa con 13 serrature, le rispettive chiavi affidate a 13 ex caporioni del luogo; per rubarla
ci sarebbe voluta l’unanimità.
Se il Pantheon non fosse stato trasformato in chiesa, lo sarebbe stato il castello e allora ci rimarrebbero solo
ruderi anche se poderosi. Ma restò sempre una chiesa incerta in cui il vecchio non moriva e il nuovo non
attecchiva, restò senza dirci mai chiaro che cosa era. Aveva vicina la strada “ad duos amantes”, ma anche il
tribunale della Inquisizione che lavorando non solo intorno a questioni di eresia, ma anche di magia, vi
coinvolse i gatti aiutanti delle streghe.
Dei gatti in tutto questo periodo poco sappiamo, ma che la loro condizione fosse terribilmente decaduta da
quando nel tempio della dea Luna, occulta e misteriosa, vivevano incensati dai sacerdoti che da loro traevano
auspici, questo è sicuro. Se il cristianesimo aveva esagerato chiamando demoni gli antichi idoli, anche
l’Inquisizione esagerò. La gente accoppiò i gatti con le streghe, li perseguitò, li torturò, li impiccò, li bruciò
vivi. Solo i gatti divisero con l’uomo la condanna al rogo. Il gatto, l’animale che non conobbe il sacrificio,
ma il martirio.
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Paese Sera, 9 marzo 1967
SANTA FRANCESCA ROMANA
Oggi la festa della patrona degli automobilisti
collocazione: Pg 67-68.
Stamani, in occasione della festa di Santa Francesca Romana che fu proclamata da Pio XII patrona degli
automobilisti, l’Amministrazione comunale, rinnovando un’antica tradizione, renderà omaggio alla
“compatrona” di Roma nel tempio a lei dedicato sul Foro Romano.
Alle 10, nel corso di una breve cerimonia, sarà deposto un cuscino di fiori intrecciato con nastri dai colori
cittadini sulla tomba nella quale riposano le spoglie mortali della santa alla quale i romani, che familiarmente
la chiamavano “Ceccolella” hanno sempre tributato affetto e venerazione.
Questa la storia di “Ceccolella”.
Tutti sappiamo che sul Campidoglio, in epoca romana, sorgevano con altri edifici, il Tabularium, il Tempio
di Giunone Moneta, quello trino di Giove che, come una cattedrale, si ripeterà in tutte le città Romane. Ma
nel medioevo quando il colle era ridotta ad una impervia altura dove si arrampicavano le capre, tanto che
cambiò il vecchio glorioso nome con quello di Monte Caprino (il Foro sarà il Campo Vaccino), la fantasia
calda di quei lunghi secoli di mezzo favoleggiava, come se fosse storia, delle grandezze antiche di quel
luogo. Un muro altissimo rivestito di vetro, d’argento, d’oro ed ornato di intarsi preziosi, cingeva il colle.
Dentro c’era un palazzo ornato d’oro e di pietre preziose: templi di pietre colorate e troni e archi e colonne e
pergolati d’oro. Il Campidoglio era chiamato “aureo” perché splendeva sul mondo intero. E c’era una torre
altissima che indirizzava i navigatori verso Roma, di giorno con lo scintillio dell’oro di cui era coperta, di
notte con una poderosa lampada ardente: sulla torre c’era uno specchio magico dentro al quale si poteva
vedere tutto quello che succedeva nelle più lontane province dell’impero e , in caso di sollevazioni, correre a
sedarle. Si chiamava “la Torre degli specchi”.
Poi la torre fu demolita ma restò il suo nome ad una strada stretta ai piedi del Campidoglio: quando la si
allargò distruggendone un lato ,le si tolse il nome, e diventò Via del teatro di Marcello. A ricordarci questa
leggenda c’è ancor oggi, attaccato al grande edificio che guarda la Rupe Tarpea, il monastero delle nobili
Oblate di Tor de’ Specchi. Poche cose a Roma sono romane come questo monastero. Oramai le
congregazioni religiose costituiscono catene come gli alberghi: la proliferazione è la loro gloria maggiore:
questa congregazione invece è composta di quella casa sola che conserva il nome di Tor de’ Specchi e
proprio nel non voler modificarsi, nel voler essere e restare solamente romana, la sua gloria più bella.
Di famiglia romana la fondatrice. Francesca venne al mondo pochi anni dopo che Cola di Rienzo aveva fatto
uno scavo di romanità nella coscienza addormentata del popolo, a Parione presso Piazza Navona: entrò sposa
nella romanissima famiglia dei Ponziani, visse a Trastevere in quella piazza che si chiama ancora
così:Raccolse a Campitelli, accanto alla torre che ancora era in piedi, la congregazione delle sue oblate.
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Seguendo la vita di questa santa che non stava mai ferma si gira tutta Roma. Si ritrovano antiche vestigia,
vecchie chiese, nobili palazzi con le loro virtù e le loro miserie, si va per i vicoli brulicanti di popolo con i
suoi mestieri e la sua povertà. Scorrendo quella vita si è presi nel complesso aggrovigliato di quella storia
politica e religiosa che per una donna dei Ponziani era quello che è per noi la cronaca, i fatti del giorno.
Perché lei non si estraniava dagli avvenimenti pubblici ma ad esse dava la sua collaborazione. Essa si
tuffava, per alleviarle, nelle miserie materiali e morali che erano tante in tutti i campi.
La canonizzazione fissò il nome di Francesca, il popolo ci aggiunse Romana e fu Santa Francesca Romana:
ma quella che oggi è chiamata così nella vita era “donna Ceccolella”.
Sono circa 15 anni che questa romanissima santa è stata dichiarata patrona degli automobilisti, ma, a quanto
pare, il campo della sua tutela è limitato a Roma. “Ceccolella” ebbe la vita travagliata dai demoni e difesa
dagli angeli. I demoni la straziavano con ferro e fuoco, la flagellavano con i serpenti, la lasciavano tramortita
per i maltrattamenti.
Ma c’era l’angelo, un piccolo angelo bambino vestito da grande con camice bianco e tonacella da sudiacono
che interveniva quando i monaci la torturavano: bastava che egli scotesse la testina e quelli scappavano. Il
solo affiorare di quei riccioli d’oro metteva in fuga mezzo inferno.
Il piccolo angelo che lei sola vedeva, qualche volta si nascondeva per avvertirla di un difetto che incrinava la
sua azione. Ma altre volte l’avvertimento era più energico: la schiaffeggiava, la buttava a terra e la batteva. I
presenti sentivano i colpi ma non vedevano chi li somministrava. Era bastonata da angeli e da demoni,
dunque e lei distingueva benissimo chi era a dargliele.
Pochi anni prima della sua morte Dio richiamò il piccolo angelo vestito da suddiacono e lo sostituì con un
arcangelo vestito di luce molto più importante, più forte, più grande dell’altro: per mettere in fuga le forze
infernali non occorreva neppure che scuotesse la testa, bastava un suo sguardo. Ceccolella sentì l’aumento
del suo apporto anche nella parte “istruttiva”: la schiaffeggiava e la percuoteva più rapidamente.
Quest’angelo si esprimeva coi fiori e con il lavoro: tesseva filava aggomitolava fili sottilissimi d’oro da
interminabili matasse e ogni tanto offriva mazzi di rose rosse, di rose bianche, di violette.
Quando mancavano 190 giorni alla morte di Ceccolella egli incominciò una nuova tela, le disse che sarebbe
stata di 100 fili, poi ne avrebbe fatta una seconda di 60 e una terza di 30. Mentre “Ceccolella” agonizzava
vide che si apprestava a finirla. Essa con la luce dell’angelo aveva potuto leggere di notte e girare nei grandi
complicati edifici di allora senza lucerna. Anche i santi del paradiso le facevano avere mazzi di fiori perché li
passasse al suo angioletto.
Alle donne insegna prima i doveri della casa, poi quelli della pietà. “Prima di andare a messa, o donna,
guarda se hai rifatto il letto”.
A questa Santa, dunque, già Advocate Urbis, è stato affidato il compito di sorvegliare le automobili. Il
simbolo di questa protezione calza. E’ come la compagnia dell’angelo che aveva due compiti: protezione e
ammonizione. Che “Ceccolella” li protegga sì,ma che li ammonisca e, se necessario, li punisca come faceva
l’angelo con lei. Quel che è necessario è una guida al cervello egli automobilisti.
A questa figura spiccatamente medievale e decisamente moderna è stata commessa la protezione degli
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automobilisti romani.
E, dati i fatti abnormi che continuano a distruggere Roma coprendone le rovine con un ammasso informe che
Roma non è, ma ne usurpa il bel nome, possiamo riprendere a favoleggiare e raccontare che da Tor de’
Specchi usciva una forza che piegava gli automobilisti al rispetto della strada.
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L’Osservatore Romano, 1967
S. Francesco di Sales
impaginazione: spalla destra;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
(lo stesso articolo, con il titolo Il nostro protettore, fu proposto a “Paese Sera” nel 1952 ma non fu
pubblicato - collocazione: Pg 119)
Si conclude il 4° centenario della nascita di Francesco di Sales Vescovo-principe di Ginevra, da diverso
tempo protettore dei giornalisti.
Anticamente la questione dei protettori era un fatto naturale: una santa accecata diventava patrona della vista,
un santo ciabattino, patrono dei calzolai, ma quelli erano tempi semplici; in questa nostra èra stranamente
composita, si dovette trovare un protettore per tante cose che prima non c’erano e ora ci sono. Fu una corsa
nel campo agiografico alla scoperta di una analogia che giustificasse l’elezione di quel tale santo a protettore
di quella tale cosa. In mancanza di santi si ricorse agli Arcangeli la cui biografia non è certo ricca.
L’operazione non è ancora finita e ogni tanto capita lassù nel cielo che a un santo, immerso nella sua
letificante beatitudine, arrivi dalla terra il conferimento di un protettorato. Veramente non è sempre chiara la
relazione tra il santo e l’ufficio al quale lo si nomina. Ma quello conferito a Francesco di Sales vescovoprincipe di Ginevra è uno dei pochi pienamente giustificato; specialmente per noi italiani, che abbiamo con
lui un legame goliardico: prima di farsi prete egli si era laureato in diritto; dove, alla Sorbonne? No, a
Padova. A Parigi aveva studiato retorica e filosofia, ma per laurearsi in giurisprudenza scelse Padova, celebre
in tutta Europa per il suo Studio. Aveva venti anni; nel 1591 gli fu solennemente conferita la corona e il
berretto di dottore in utroque. La sua vita di studente universitario la passò tra di noi e nei suoi scritti la
ricorda spesso come si ricorda il fervore e il sole della giovinezza.
Si può anche supporre che la nomina a nostro protettore sia stata da lui accettata e ratificata con vera
cordialità. Non sembrino irriverenti queste parole; proprio lui ammetteva che in paradiso si possa sorridere di
noi, così come noi adulti sorridiamo dei bambini.
E’ lecito anche arguire che, per quel che dipende da lui, la pratica non sarà archiviata, perché pare (almeno
così ho sentito dire da chi se ne intende) che in paradiso si perfezioni, senza mutarlo, il temperamento che si
ebbe sulla terra, e Francesco di Sales da carattere fermo, forte e soavissimo, fu uomo che amò gli uomini e
s’interessò alla loro vita e ai loro problemi.
Egli dette il suo tempo all’azione più che alle questioni dottrinarie; cercò gli uomini avvicinando chiunque,
principi e plebei, cattolici ed eretici; conquistava con la forza dell’amore e legava con la concordia; riusciva
quasi sempre; quando falliva, taceva, rispettoso della libertà e del travaglio dell’anima altrui.
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In quest’uomo nulla di soprannaturale. La parola fu lo strumento della sua azione pacifica. Si era allora in
piena lotta calvinista e grande era il turbamento delle coscienze; egli andava di città in città a predicare che le
controversie si superano con la comprensione e la fraternità; che la pace si crea con la pace e non con la
guerra, altrimenti si fa come quegli uscieri che urlano di far silenzio. La similitudine è sua.
Era l’uomo dal parlare figurato, dalle immagini argute perchè egli non chiudeva gli occhi sulle bellezze della
terra, non si straniava dalla vita; dalla osservazione delle piccole cose sgorgava la colorita poesia del suo
dire. Dai particolari più minuti risaliva con naturalezza ai problemi universali. I fiori, i ruscelli, gli uccelli, la
luce, gli oggetti che ci sono intorno, i nostri difetti e le nostre debolezze, tutto serviva a lui per dire agli
uomini cose piane o difficili, in maniera accettabile.
Egli volle farsi ascoltare e parlò tanto, in pubblico e in privato; riusciva a predicare anche tre volte il giorno.
Ma la parola, più che pronunciata, la diffuse scritta. Scritta o detta egli fermamente credeva di dover dare
alla parola un contenuto e una finalità.
E scrisse senza sosta: scrisse libri, scrisse opuscoli, scrisse lettere.
Arrivò a scrivere anche trenta lettere il giorno. Passò gran parte della vita con la penna in mano, come molti
giornalisti quando non c’era la macchina da scrivere.
Oggi avrebbe fatto lo stesso e avrebbe ripetuto che l’uomo deve operare per la giustizia, che la violenza,
quella dell’azione o quella dello spirito, quella della parola e quella dell’immagine, non opera per la
giustizia. Oggi continuerebbe a fare quello che faceva allora che prendeva quel tanto di spirito di libertà che
il concilio di Trento lasciava sussistere, lo passava attraverso il suo cuore, restituendolo agli uomini nella sua
interezza.
E’ dunque uno di noi, può essere il nostro protettore.
Questo uomo che conobbe in sé e negli altri l’esitazione e il dubbio della scelta, che da un pulpito di Parigi,
con la forza dell’amore piegava l’anima ardente e torturata di Angelica Arnaud, che fondava un ordine
religioso dove si insegnava che tutte le cose devono restare nella loro pace, che anche le porte vanno chiuse
con dolcezza, quest’uomo, su qualunque sponda noi si sia, può essere nostro amico giacché egli volle essere
ponte che supera e unisce.
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Paese Sera, 19 marzo 1968
E’ OBBLIGATORIO SAPERE L’INGLESE?
Italiana spaesata in Italia
collocazione dattiloscritto: Pg 112;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
Dopo un articolo di Fausto Coen sul “linguaggio chiaro e oscuro in giornalismo” suggeritogli dal benemerito
“Piccolo prontuario della lingua italiana” di Sergio Lepri, mi domandai come mai non sorga una protesta
contro l’abuso di parole e frasi anglosassoni nei giornali.
Io sono di origine ebraica e senza religione, all’infuori di uno stupefatto timore davanti al mistero che la
scienza sposta, ma non spiega, però sono profondamente, orgogliosamente italiana. Come tale vorrei poter
leggere i giornali che compero perché sono in lingua italiana, senza dover subire quegli arresti provocati da
una seminagione di parole che non appartengono alla mia lingua. Perché devo essere costretta al vocabolario,
o a lasciare una lacuna nella comprensione di ciò che stavo leggendo? E forse non sono la sola a ignorare la
lingua inglese.
Prima che ci americanizzassero, l’inglese di chi non l’aveva studiato si limitava ai nomi dei cani, Dick,
Black, Blitz; al “Time” del di dietro le sveglie col suo fratello “Alarm”; al nome di un dolce, il “plum cake”
che scherzosamente si pronunciava all’italiana; soprattutto a quel “Made in Italy” che faceva tanto inglese.
Adesso l’inglesume dilaga, scritto, parlato, ostentato. I giornali sono pieni di stress, recital, cover-girl, party,
team, breakfast, happening, strip tease, talent scouts, count-down, press agents, big, producers, shopping,
tetra pak, full time, boss, inutili stupidi e servili esotismi che pronunciamo spesso in modo ridicolo. Ma
perhé devo essere obbligata a sapere che cosa vogliono dire quei graffi fonetici? Perché devo essere costretta
ad aggiungere “spray” ad ogni prodotto che compero sistemato in contenitori a spruzzo? Forse che uno
schizzo è diverso se lo chiamo spray? Non vi piace né schizzo, né spruzzo? C’è il più spirituale
vaporizzatore. Ora tutto è spray e allora cominciamo col dire che anche la vita è spray. Da tutte le parti
scappano fuori show, show show, mi pare d’essere diventata una gallina.
Non c’è proprio la possibilità di dire stress e il resto in italiano? E’ diventata così povera la nostra lingua?
Lo steward, chi è costui? Mi chiedevo quando scappò fuori, poi capii, è una specie di cameriere viaggiante,
volante, ad essere più precisi, ma come si pronuncia non lo imparerò mai e continuerò a chiamare
accompagnatrici le hostess che infine sono delle eleganti cameriere.
Il gioco dei birilli vecchio da quando l’uomo trovò sulla terra zeppi e sassi, ora diventa il bowling. Ti sforzi
di leggere l’editoriale per capire qualcosa in quella politica dove non capisci nulla e ti può capitare di leggere
frasi come questa: “per immergerci nel daily life, nella vie quotidienne o, se vogliamo, nella vita quotidiana”,
ci siamo arrivati, ma che sforzo! “Sono sepolti vivi”, leggo; chi? “5 space men”; non me ne importa più. Stai
leggendo una commossa rievocazione dell’assassinio di Kennedy e “questo senso di longing and loss” ti
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ferma di colpo. Segui con interesse la descrizione di un carattere ed ecco certi happy few a crearti una
fastidiosa soluzione di continuità.
Un esame diagnostico è un “check up”, come se fosse una merce importata con un proprio nome
intraducibile. Un articolo m’insegna come curare la pelle, ne ho bisogno, vediamo: “peeling, lifting”, basta,
per sapere come curare la pelle devo studiare l’inglese. Fanno un’inchiesta su Roma che disturba i romanacci
veri coinvolti in un giudizio che non appartiene a loro perché Roma non è più la loro e devono anche urtarsi
contro il “commuting” laziale, con il “soft on communism”. Interessa sempre quella lontana rimozione di
Krusciov, c’è un chiarimento e ti trovi il “background”, non sai che cosa è, ma lo senti, è un respingente che
ha frenato il tuo slancio.
Che “doping” abbondi nelle cronache sportive non meraviglia, lo sport è l’ibrido per forza, ma che
all’Accademia dei Lincei manche un “public relation man”, infastidisce. Come il “designer” che avanza; in
casa nostra c’è stato sempre il disegnatore industriale, è l’americanismo che avanza. I nostri bar sono tutti
diventati “snack”; ti si para davanti un “cities service” e sulla bottega d’ogni guantaio spicca “gloves”. I
nostri negozi parlano prima di tutto agli anglosassoni che nei loro paesi non si preoccupano di certo di
piantare “guanti” dove vendono i gloves. Ci capita di vedere scritte alte un metro con una esse volante alla
fine del nome che pare la piccola enne esponente dell’ennesima potenza.
Ma torniamo ai giornali. Quello ci dice che hanno raggiunto il “point of no return”, quell’altro che è
imminente lo “Showdown”, uno ci butta avanti “under statement”, l’altro “high lives”, invece di prendere il
vocabolario preferisco buttarli. Ma li riprendo, sempre. “La festa sarà caratterizzata da un no stop dance;
sentiremo la voce dei boss”. Passo a Purificato e mi dicono che la sua pittura ha come “background”,
traducete, per favore. Invece raramente se ne dà con umiltà la traduzione. “La showmanship, l’arte di dare
spettacolo di sé”, non era risparmio di tempo, di carta, d’inchiostro, dirlo in italiano? “Sposarlo o non
sposarlo?”, chiede una. “That is the question”, risponde l’altra. E io mi domando: quando gli stranieri
vedranno scritti come questi, è possibile che non ci disprezzino?
Si dà il caso d’incontrare, in un pezzo solo, sixties, fifties, main streets, brain power, new left, get America
moving again; è troppo per un giornale italiano; il giornalista scrive anche per chi non conosce l’americano.
Ma l’assurdo diventa grottesco quando quelle stesse parole vengono sparse a piene ani nelle pagine letterarie
come se lo scrittore italiano si sentisse un arretrato provinciale se non le adopera. E ci dicono che il “matter
of fact” di Bontempelli è ancora valido, ma io non so che cosa è questo “matter” ancora valido. D’accordo
che anche lo scrittore si sente coinvolto, spinto, trascinato dalla nuova realtà industriale, ma questa realtà
parla tutte le lingue, perché allora invece di incontrarci solo con “l’high fidelity”, col “bull-doyer” non
incontriamo anche parole francesi, tedesche, russe? Invece in quelle pagine letterarie poeti e scrittori usano
“happy few”, “do it yourself”, “non fiction novel”, “action painting e action writing”, mentre noi eravamo
interessati al loro discorso; critici che ci divcono come quel tale romanzo sia “work in progress”, mentre
l’altro è “hold hat”. Meglio allora quella rivista che parlandoci di Joyce ci riporta frasi intere col suo
linguaggio, così si butta prima.
Lacune pozzanghere buche sono per me quelle frasi, sempre, ma nelle pagine letterarie mi offendono perché
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proprio da chi sa che non lo è, la nostra lingua è trattata da deficiente. Quella lingua la cui purezza fu
preziosa per i nostri vecchi scrittori. Pirandello offeso e scandalizzato per la mostra di un camiciaio con tanto
di “Chemiserie”, la leggeva con disprezzo all’italiana: “che miserie!”. Siamo certi che avesse torto?
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Paese Sera, 23 marzo 1970
NEL COLORE DI ROMA IL COLORE DEI TAXI
Verdi mi piacciono di più
collocazione dattiloscritto: Pg 121;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
Ce li avevano promessi, cominciano ad arrivare e ce li terremo i brutti taxi gialli. Milano, dicono, li ha gialli,
Firenze pure. E con ciò? Per quale ragione li deve avere gialli anche Roma? In epoca di forzata
massificazione è proprio obbligatorio massificarsi dove si può farne a meno? La gente che gira il mondo
sarebbe così poco svelta da avere bisogno di un dato colore per distinguere le vetture pubbliche? Il colore
giallo, freddo e stridente non combina con Roma. Si vedono meglio di notte, dicono. Ma per vederle nessuno
guarda al colore. Se fosse così, le tante macchine private della stessa tinta riceverebbero continui segni di
fermata. Di giorno e di notte basta quella crestina luminosa che le distingue come una volta la crestina bianca
distingueva la persona di servizio, un segno di lavoro inalberato con grazia.
E perché giallo proprio ora che i patiti dell’automobile seminano per tutte le corsie macchine di quel colore?
Viste dall’alto, in mezzo alle altre, sembrano le scarpe gialle del tempo di Matilde Serao. Il giallo vernice
metallica è un colore brutto, più brutto del bianco, perché se questo non dice nulla, quello dice marcio. Giallo
è il colore dell’allontanamento. Con quel colore gli ebrei erano obbligati a distinguersi dai cristiani.
L’itterizia, la febbre gialla, la morte sono intonazioni di quella tinta. Il girasole ha diritto di essere insieme
giallo e bello. Il giallo è gradito in una sua luce naturale come nei fiori e nell’oro delle casseforti, che poi non
è giallo, ma oro; dire giallo l’oro è improprio; l’oro ha una sua iride di colore fissata in luce per secoli. Nelle
tavole dei primitivi, dove le figure stanno su fondo di oro, quella luce diventa suono che scoppia in sinfonia
se ci batte il sole.
Il giallo è bello nel canarino, che neppure lui è giallo, ma color canarino; nella mimosa, nei tulipani; nei
bottoni d’oro che brillano sui prati, ma nella vernice automobilistica fa pensare ai pannolini dei neonati con
disturbi intestinali. Diventa il giallo nel suo senso di dileggio; è tutt’altra cosa. Il colore deve correggere la
bruttezza, non aumentarla. Anche i bruchi nascondono la propria bruttezza sotto bei colori; i pochi che sono
gialli fanno più ribrezzo. Non bastavano i libri gialli, ci vogliono anche i taxi che stoneranno tanto con
Roma. E’ vero che di questa stonatura se ne accorgeranno solo i compenetrati di Roma per i quali essa non è
solo Circo Agonale, Trinità dei Monti, Colosseo, Cupolone, ma è anche aria, luce, colore e il colore di
Roma, non c’è niente da fare, non s’accorda con il giallo.
Il colore di Roma è quello rossiccio dei mattoni cotti da secoli di sole; è quello dei muri del Campidoglio, di
Ostia all’ora del tramonto. E’ crosta di pane contadino cotto al forno; di travertino vecchio, di oro brunito dal
tempo. Il colore di Roma è un colore che si fonde mirabilmente col sole che diventa romano anche per il
colore della città. Il colore di Roma è quello che la sera, quando comincia l’ombra, resta aggrappato ai fastigi
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delle chiese e dei palazzi. Il sole è impastato nel colore di Roma anche nelle giornate grigie. Il colore di
Roma è quello necessario per il risalto di una città monumentale. Gli ordinatori di musei di scultura mettono
i pezzi migliori su pareti tinte con quel colore. Ma da un secolo, da quando fu fatta diventare capitale d’Italia,
Roma viene, non sistematicamente, ma rabbiosamente distrutta, in tutto, anche nel suo colore. Colore che
resiste, sia pure a continuità spezzata, nel centro o in qualche superstite casolare della periferia: questo
perché non interessa, quello perché è impossibile distruggerlo tutto. A sbiadirlo ci pensa l’illuminazione
fluorescente. Ma nella grossa, informe terza Roma, il forte colore romano, sopravvivenza del pompeiano, ha
ceduto del tutto alle svenevolezze dei teneri colorini.
Verrà il sole a correggere, a cancellare, a brunire, a indorare, certo, ma a noi che importa? La sua azione è
troppo lenta per una vita umana, che, corta com’è, non corre, precipita. Non è romanticismo gustare il valore
lirico del colore negli immobili e anche nei mobili a quattro ruote; niente deve stonare con le quinte e i
fondali di cui Roma offre una varietà ininterrotta di sorprese. Lo scenario romano non sopporta il giallo.
Quando per i mezzi pubblici fu scelto quel colore che ancora possiamo vedere, gli immigrati o gli importati
non se ne accorsero, come non si accorgeranno oggi del giallo, ma i romani dissero: “Meno male, tra tanto
verde abbattuto, un po’ di verde circolante”. Quel verde si intona a Roma. Sotto il sole, su un ponte lontano, i
nostri bus fanno colore, fanno paesaggio, fanno anche un po’ silenzio per l’anima perché il silenzio è verde;
giallo è lo strillo; tra le vocali la “i” puntigliosa e pungente, è gialla.
Un ammasso di giganteschi coleotteri di tutti i colori sono le automobili che distruggono le nostre piazze; in
un cantuccio, come cetonie verdi i nostri taxi sono meno brutti. La cetonia sta bene con tutto, anche con i
colori svenevoli, ma il giallo-taxì sta male con tutto, anche con se stesso. Però presto saranno tutti color
marcio e invece della fettuccia dai colori capitolini, arancione e amaranto, che li consacra romani, avranno
due file di quadratini. Perché? Per distinguerli? Ma se c’è quel pugno sugli occhi del colore, i quadratini, un
segno così infantile, a che serve? Anche a Mosca i taxì hanno quel segno, ma almeno è una scacchiera così
grossa che mette voglia di giocarci.
In tanta distruzione coloristica questa dei taxi è certo una piccolezza, ma ogni cosa è fatta delle sue
piccolezze. Lo paventavo, quel brutto colore, e proprio davanti a me venne a stazionare il primo, in uno di
quei posteggi dove il Comune ha stabilito che debbano nascondersi i taxì in attesa di clienti. Prima quel
colore aveva una sua bruttezza in potenza, ora l’aveva in atto: brutto senza condizionale.
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Paese Sera, 10 gennaio 1972
1971, l’anno dei centenari
collocazione manoscritto: Pg 72;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
Con titoli strillati sopra a testi che ripetevano cose sapute e risapute, la stampa italiana celebrò il
“Centenario” per antonomasia, dicendo poco e titolando molto. Certo che se la confrontiamo con quella
contemporanea agli avvenimenti la nostra sta all’altra come la girandola del Pincio può stare a un mortaretto.
Nella stampa di allora la presa di Roma era spesso una notiziola in fondo, prima dei rebus e degli indovinelli.
Del resto i contemporanei avevano poco da rallegrarsi: Roma, città originale e unica, stava decadendo a
capitale del Regno Sabaudo. Con l’avvento della Repubblica, se l’avessero epurata, un centesimo di quel che
era si sarebbe salvato, invece fu mantenuta nel suo ufficio riconoscendole anche gli anni di anzianità. Per
questo il 1970 fu l’anno del “Centenario” e forse per reazione il 1971 è stato l’anno dei centenari.
Ecco, Marcel Proust, raffinato e pietoso, grande artista, genio del pettegolezzo e, come tutti i chiacchieroni,
qualche volta un po’ noioso, avrebbe ora cento anni.
Paul Valery. Lo celebriamo, non lo celebriamo, marita, non merita, si, no, no, si. Logico, era una
contraddizione lui stesso: padre francese, madre italiana, era nato già in bilico, ci restò. Ma intanto, fra
esaltazioni e denigrazioni, abbiamo imparato che se fosse vivo oggi avrebbe cento anni.
Grazia Deledda, anche lei avrebbe cento anni, cioè 96 perché 4 se li toglieva, ed è uno dei suoi aspetti più
simpatici, se ne fosse tolti un po’ di più era meglio, perché quel misero 4 è tanto timido che dà fastidio, quasi
quanto il suo modo di scrivere: una pagina al giorno, alla fine dell’anno 300 e più, il libro è fatto. Con lei, il
Nobel premiò una brava donna e una bravissima artigiana.
Come avranno celebrato il centenario di don Luigi Sturzo quelle care suore vestite color tabacco che non
hanno avuto bisogno di rammodernarsi perché vestite già da vecchie signore di metà Ottocento? Laggiù nella
piana fuori di porta S. Giovanni, nella loro anonima casa di quell’anonimo quartiere, aveva trovato il suo
ultimo rifugio l’ottimo prete, l’acuto politico, il dilettante musicista, don Sturzo. Piccolo, nasuto, ai suoi
tempi, così nuovo allora, era stato portato in trionfo per le strade di Roma; la celebrazione del suo centenario,
seria e mondiale,pare avere fissato nella storia il suo trionfo.
Luigi Albertini, il padre del giornale moderno, anche lui, un secolo avrebbe. Lo avrebbe anche
quell’altissimo uomo, melanconico e pessimista che la gente credeva ridesse sempre, mentre invece era
immerso nel sogno, o nella nostalgia. Quel che Proust faceva con la fiumana della Récherche, su la francese
civiltà bene di allora, lo faceva lui, con minore curiosità e maggiore pena, sulla borghesoccia società della
piccola Italia unitaria, con la sua spezzettata opera, lui, il nostro Trilussa, il prototipo degli scapoli.
Ed è il centenario anche di un uomo che fu la sua voce e il sentimento della sua voce: Ruggero Ruggeri,
attore senza radici. Gesto, trucco, teatro, erano superflui per lui, gli bastava quella sua voce eccezionale, una
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voce di sogno che poteva anche struccare; schiavo della sua voce per forza ci finì, e diventò prezioso. Non
so, può darsi che fosse più dicitore che artista.
Di un altro è il centenario, artista autentico questo, che mai si ascoltò, mai ricercò se stesso, ma solo l’arte, il
colore, la linea, il moto, la luce, il moto che diventa luce come l’elica. Egli dava; dava un quadro come se
desse solo un fiore, ed era tanto povero di soldi. Dico di Giacomo Balla, nelle cui opere è il genio e nel
sorriso l’innocenza della bontà. Personalissimo, sincero, lirico e reale, fortissimo e dolce, profondo nella
ricerca e nella tecnica, audace distinto, inquieto, sensibile, ricevette sempre dolore e incomprensione. Adesso
che non c’è, tutti lo sbandierano. Sinceramente? La mostra tuttora in atto lascia perplessi.
Ed ecco un centenario che non lo è perché è compleanno, quello del poeta ticinese Francesco Chiesa, ha
compiuto i cento anni con la gravità, l’armonia e la nobiltà della sua poesia. Chiesa ha consumato la serie
degli anni a due cifre, ha cominciato quella di tre, ad multos!
Nel 1871 fu fatto il primo censimento della popolazione italiana. Appena l’ebbero ammucchiata, vollero
contarla. Quest’anno, forse, per celebrare il centenario di quel pastorizio avvenimento, si è ripetuta la conta.
Con la differenza che i risultati del censimento di 100 anni fa furono regolarmente comunicati a fine anno; i
risultati del nostro, affidati all’elettronica che deve essere cosa divina se ci legge nel cervello, non si sa
quando arriveranno.
Il 27 novembre scorso è stato celebrato il centenario del nostro Parlamento. Per la prima volta, in quel
giorno, il Parlamento italiano si era riunito a Roma. Aveva titubato nella scelta del locale, poi decise per la
Curia Innocenziana, l’odierno Montecitorio, e fece bene, il luogo è abituato alle lotterie. Anticamente
l’impresa del gioco del lotto aveva sede accanto alla Curia, ma i numeri venivano tirati, letti e gridati dalla
loggia sopra il portone del Parlamento.
Quest’anno è stato il centenario della promulgazione della legge delle Guarentigie, ovverosia: concordato a
una voce sola che diventerà duetto nel 1929, quando il Vaticano romperà il salvadanaio nel quale lo Stato
aveva accumulato le quote stabilite nel suo solitario impegno.
A Parigi un centenario che riguarda un po’ tutti, quello delle Folies-Bergères che per tanto tempo hanno
eccitato fantasia e sensi del turismo mondiale con frenesie di tutù, di gambe, di lustrini di belle donne;
lampeggiò allora quel nome che ancora balla e diverte. Però nel 1871 anche Roma ebbe la sua piccola
Folies-Bergères, fu l’arrivo della regina Margherita, ancora principessa, ma già carica di perle a niagara, già
ottima professionista del sorriso.
In una città come Roma, dove al vertice per secoli e secoli non c’erano state che tonache, piviali e mozzette,
quella donna fece colpo. Essa fu l’unica cosa accetta a molti, non a tutti naturalmente, perché la resistenza
all’annessione si spense lentamente e anche ora, isolato e latente, qualche piccolo focolaio dura.
L’apparizione a Roma di Margherita, grifagna nei lineamenti, mascherata però da uno splendido sorriso,
compie anche essa i suoi 100 anni. Per la prima volta per le strade dell’Urbe, dove il Papa passava
disegnando crocette nell’aria, passava ora una sovrana ingioiellata che piegando la testa di qua e di là
accennava lievi saluti rubacuori.
Tra tanti centenari ce n’è uno che tutti li amalgama e corona. Un secolo fa in Egitto, vicino al Nilo, trionfava
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per la prima volta l’Aida di verdi. Se l’unità italiana era ancora fresca di vernice, e quella musica veniva da
un filone dell’Italia particolare, non significa nulla. Tutto il mondo seppe il trionfo dell’opera di un italiano.
Questo centenario, come quello di Francesco Chiesa, celebra una continuità di vita. Se Caracalla vuole aprire
trionfalmente, apre con Aida. Le parole fanno ridere? Non significa nulla. E’ la musica che è immensa, una
musica che è la voce del nostro Mediterraneo, voce nostra perché nel Mediterraneo noi ci stiamo immersi.
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Il Globo, 29 giugno 1972
Il Tevere ex-biondo un amico che dobbiamo salvare
Via di Ripetta e il Tevere, erano due strade a livello. E’ stato per secoli veicolo di traffici, luogo di svago e
di bellezza. I muraglioni costruiti cento anni fa per difenderci dalle alluvioni lo hanno trasformato in un
corso d’acqua fetido ed inutile
collocazione: Pg 69-70.
Se l’Egitto è un dono del Nilo, il Lazio non lo è del Tevere, neppure Roma: Roma se mai è un suo
involontario prodotto. Involontario perché nel Tevere non c’è generosità. Le sue inondazioni non erano
feconde come quelle del Nilo, ma distruttive come un moto tellurgico.
La letteratura antica e moderna gli ha appiccicato l’aggettivo flavus, biondo Tevere che a volte era
veramente biondo prima che fosse ridotto a fogna cittadina, biondo per la rena delle sue dune. San Pietro in
Montorio (Monte d’oro), deve il nome a quella rena che in città si spargeva in uno spesso strato per le strade
dove doveva svolgersi un pomposo corteo o un solenne funerale. Le ruote delle carrozze giravano silenziose
sopra quel tappeto dorato, raffinata distinzione che Roma offriva rubandola al fiume.
Nonostante che nell’alta antichità la navigazione del Tevere fosse piuttosto difficile, il fiume era la più
diretta strada per merci e vettovaglie che dall’Etruria scendevano quaggiù. Dove la linea dei trasporti fluviali
incrociava quella dei trasporti terrestri che dai colli albani, via terra, risaliva, dove le due strade
s’incontravano non poteva non svilupparsi un mercato, l’isola tiberina pareva messa lì apposta
E nel posto più atto a sfruttare economicamente le due strade sorse Roma.
Attività commerciale sempre in aumento, fu necessaria Ostia, porta del fiume, porta di Roma, porte a delle
terre fin dove poteva arrivare per via fluviale tutto quello che veniva dal mare. Poi si scavò il canale di
Fiumicino: con due foci il turbolento fiume dette maggior pace e incremento al commercio. Poi Claudio
costruì il porto e il commercio marittimo entrò decisamente nella sua splendida fase.
Da Ostia e da Porto, all’altro capo del Tevere, tutto quello che poteva arrivare direttamente a Roma per
acqua, arrivava all’Emporium, o Ripa. Arrivava grano, olio, legumi, legno, lana, avorio, piombo, datteri,
stagno, rame, argento, oro, marmi, papiri, vetri, stoffe, incenso, spezie, coralli ed era l’Egitto, l’oriente,
l’Arabia, la Spagna, l’Africa, la Gallia, la Grecia a mandare tutta questa roba.
Con la caduta dell’impero romano molte cose decaddero, anche il meraviglioso commercio mondiale di
questo piccolo fiume subì un declino, ma non cessò mai del tutto anche se la sua attività pareva quella di uno
che non ce la fa più. Ma siccome morto non era e di pontefici illuminati ce n’erano, ogni tanti riprendeva vita
finché alla fine del ‘600 ritornò allo splendore imperiale.
Al porto di Ripagrande arrivavano bastimenti provenienti dal mare mentre a quello di Ripetta arrivavano
barche, barconi, navicelli,che scendevano dall’Umbria, dalla sabina, uno scalo per merci che scendevano dal
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nord come quello di Ripagrande lo era per quelle che venivano dal mare.
Ripagrande era adesso la succursale di Civitavecchia; del porto vero aveva i caratteristici magazzini e le
osterie. Santa Maria della Torre del Buon Viaggio raccoglieva gli umili voti dei naviganti che sono i migliori
fornitori di ex voto.
Siamo abituati noi posteri a pensare solo ai due porti di Ripagrande e di Ripetta perché i nomi sono rimasti,
ma ce n’erano altri, quello della Traspontina, per esempio. Dove sbarcò tutto il travertino che diventerà il
colonato di San Pietro. Era una strada d’acqua il Tevere, serviva molto bene e i papi aumentavano sempre
questi porticcioli, l’ultimo nel 1827, il porto Leonino, di fronte all’abside di San Giovanni dei Fiorentini,
aveva la sua piazzola, la sua fontana, le sue due rampe di strade fino all’approdo delle barche, era anche
bello.
Per secoli su questo fiume, ora morto, arrivavano, si fermavano, ripartivano come dice la leggenda di una
stampa del ‘600: 2 navi di mercante, barche, tartane e altri vascelli et legni di mercanti e robbe commestibili
navigate per mare per Tevere, condotte a Roma da tutte le parti”. Tor di Nona (corruzione d’Annona), stava
lì sulla riva del Tevere perché sin dall’antichità romana le vettovaglie lì si accumulavano.
Nella prima metà dell’ottocento vennero portate per fiume le colonne della ricostruendo basilica di S. Paolo
e dall’Egitto i tronchi d’alabastro. Il nostro fiume, ormai solcato da bastimenti a vapore aveva la capacità di
legarsi col Nilo.
Quando arrivò il regio esercito per liberare Roma i piroscafi riempivano il porto di Ripagrande. Ma il
governo che arrivò con lui, imprigionò, asfissiò, svilirizzò questo fiume che Plinio chiamava: “ Placidissimo
mercante di tutte le cose che nascono al mondo”.
Che cosa non fu buttato in questo fiume? Oro, argento, armi, viveri, documenti persone ed effigi di persone
per una simbolica condanna, effigi di cortigiane soprattutto, le condannavano così perché era tanto belle
lasciarle vivere.
Da Ponte Sisto furono giustiziati i cappelli cardinalizi: tolti dalle botteghe di via Cappellari li buttarono a
fiume.
Nell’antichità vide giochi e feste che culminavano con fiere di mercanzie nell’isola. Vide gli spettacoli
storici molto cari ai papi. Vide giochi e spettacoli fluviali che si protraevano fino a notte quando l’allegria
poteva inasprirsi ai gridi di “Viva li Monti – viva Trastevere”. Vide corse di barchette, feste di cocomeri,
regate e girandole.
I vaporetti facevano gite di piacere, c’erano traghetti e barchette per passare sull’altra sponda, sui Prati di
castello pieni di osterie e di giochi di bocce.
Questo fiume ha convogliato storia e leggenda. Ancora nel ‘700 si poteva scrivere che le sue acque erano
gialle per il grande oro che si trovava nel fondo: statue, monete, diademi, monili, tutte le ricchezze che i
romani gettavano nel Tevere all’avvicinarsi dei barbari, galee naufragate cariche d’oro a cui si erano aggiunti
il candelabro del Tempio e le chiavi di san Pietro buttate a fiume da Giulio II e il vasellame di oro che i
Chigi gettavano in acqua dopo i banchetti.
Piatti e anfore d’oro non ne ha restituiti, forse erano riportati su dalle reti del banchiere.
276
Il Tevere fu sempre capriccioso, girò qua e là coprendo e scoprendo: presso ponte Cavour coprì un pezzo di
Roma, lì sotto ci sono strade e case, e nel 1575 perse addirittura la testa, cambiò percorso e si mangiò un
pezzo di Ostia antica, che per causa sua non potrà più mai essere scoperta, a meno che non gli venga il
capriccio di ritornare nel vecchio letto.
Un rimedio per questi straripamenti era necessario, ma bisognava studiarne un altro, quello dei muraglioni è
brutto senza discussione e più brutto è stato che per fare simile bruttura si sia mutilata la città in quel suo
dolce scivolare verso l’acqua alla quale era unita per sempre.
Case si specchiavano sull’acqua e terrazze e giardini sempre verdi e chiese e teatri e palazzi. Tra siepi di
rose, arbusti d’aranci, spalliere di mortella e pergolati, s’affacciavano sul fiume osterie che magari si
autoproclamavano “ orti Aureliani”.
San Giovanni dei Fiorentini sorgeva dalle onde del fiume, di là dell’acqua, altri campanili, altre case, a
fianco la fuga della via Giulia che andava a tuffarsi nel Tevere: Sull’altra sponda si alzava il Palazzo Salviati,
poi cominciavano le case della Lungara, lungo il fiume, luminosa e vivace diventata ora un melanconico
seminterrato.
La campagna allora scorreva dentro la città insieme col fiume. Si mescolava ai giardini, alle rovine, cedeva il
posto alle case, sosteneva le terrazze, piegava i suoi alberi nell’acqua come se volesse sciacquarceli. I
muraglioni la seppellirono sotto uno strato di terra, di pietre, di mattoni.
Erano strette le une alle altre le case che sorgevano sul muro della cinta aureliana che dal Popolo piegava sul
fiume, dopo quel tratto, sorgevano sempre dall’acqua, ma più vicine o più lontane dalla riva. Senza margini
la vita scivolava fino all’acqua; piccolo mercati di pesce intorno a una cesta; passarelle ad archi digradanti
che portavano dentro il fiume; barche, colonne spezzate, e piccole spiaggette con gente stesa al sole.La
Renella, la più grande, il nome è rimasto, era una confluenza di luce e di vita perché il popolo aveva lì anche
il teatrino dell’Impero celeste, marionette meccaniche, maschere specialmente, delizia dei bambini, riposo
dei grandi. Tutto distrutto.
La passeggiata di Ripetta, o passeggiata del Tevere perché il fiume la sciacquettava e luccicava accanto
un’assolata passeggiata ombreggiata dalle piante; sfiorata al tramonto dall’ombra delle vele che passavano
sul fiume, si chiama ancora passeggiata ma ci si sguscia solo e a fatica, chi l’attraversa lo fa a suo rischio e
pericolo.
E quel casone lungo e desolato che ora tenta di guardare il fiume da un fosso, l’apostolico ospizio di San
michele, cittadella della libertà del lavoro, era vivo e lieto con gli alberi davanti e poco più in là i velieri e i
barconi che stavano in porto.
E i due porti più grandi quello di Ripetta e di Ripagrande dove la gente si affacciava a guardare le navi ormai
a vapore che scendevano da Nord o risalivano da Sud? Uno spettacolo caratteristicamente portuale che il
Tevere non vedrà mai più.
Via di Ripetta e il Tevere, erano due strade a livello , uno d’acqua l’altra di selci. Sulla distruzione dello
splendido porto di Ripetta piangeva persino la stampa governativa.
277
Qualcosa che scaricasse il Tevere a monte quando ci fossero le piene, questo ci sarebbe voluto e il bel fiume
continuerebbe ancora a scorrere tra le sorprese delle due sponde che erano inesauribili. I muraglioni
dovevano superare l’altezza di quella piena che aveva battezzata Roma capitale d’Italia: In un certo senso
voleva dire rendere stabile quella piena nel tratto cittadino. Nella piena il fiume s’annulla, in fondo ai
muraglioni si nasconde.
Quelle due sponde si rifecero con la più ottusa e brutale uniformità. Tanta varietà di bellezza sostituita da un
monotono nulla.
Gli ingegneri che li progettavano pur riconoscendo che non c’era fiume più navigabile del Tevere, lo resero
malamente utile solo a convogliare le fogne.
Quell’imprigionamento del fiume non andava a genio quasi a nessuno. La legge alla camera fu votata con
150 palle bianche e 108 nere e al Parlamento i romani erano ben pochi.
L’appalto per l’inalveamento del fiume veniva ogni tanto ripetuto; ognuno traeva
al suo profitto, i
muraglioni alle prime piene cedevano. La caduta di un pezzo suggeriva i rimedi per tutto il resto; provando e
riprovando costarono tanto che i governativi spiegavano ai romani che erano degi di Roma antica.
Un’antichità si paga: Centocinque milioni di allora costò imprigionare quel fiume sovrano che ora si muove
tra i muri come i carcerati che prendono aria.
E ringraziamo il regio governo che non ci tolse l’isola Tiberina, il progetto di “ toglierla di mezzo2 c’era. La
proposta fu bocciata perché ebbe paura delle “ opinioni volgari” e di quelle degli archeologi.
Accenno di distruzioni, non elenco, per carità!
Distrutti la chiesa di S. Giustino e Giovita, ospizio e ospedale annessi, l’arco dei Bresciani, Palazzo Gaetani,
poi dei Cestini, palazzo Castellani il cui portico era uno dei più belli di Roma. Demolita la torre degli
Stefaneschi e quella degli Albertazzi. Demolito l’ospedale dei Pazzarelli sopra l’Acqua Lanciana che finì di
essere fontana di sorgente viva, ridotta ad un rubinetto uscente da un muro. Demolito il vecchio ospedale di
Santo Spirito.
Ponte Sisto pareva tenuto su da due braccia di Roma che si protendevano nell’acqua, isolato e tutto demolito
intorno anche se erano costruzioni del ‘300, giù l’orologio, giù il fontanone, immagazzinati i pezzi, ricercati
poi per ricostruirlo dall’altra parte, non tutti ritrovati, trasformato il ponte con l’aggiunta di due marciapiedi
protetti da un’orribile balaustra in ghisa.
Rovinati ponte e Catello Sant’Angelo. Due bastioni e lo splendido camminamento in pietra, “ empiamente
distrutti”diceva la stampa contemporanea, affreschi, pietre diamantate, sculture, al magazzino: Demolite le
due testate di ponte Sant’Angelo che avevano resistito 17 secoli, gli archi centrali lasciati soli in mezzo alla
corrente stavano per crollare.
Pio IX aveva costruito quel ponte sospeso di ferro, arioso e bello chiamato dei Fiorentini che, privo di arcate,
non ostacolava il flutto del fiume. Era stato un lavoro di tale perfezione che il mondo lo considerò una gloria
del suo pontificato. Egli ne aveva seguito i lavori, approvate le modifiche, accettati i miglioramenti ome un
competente e un innamorato. Sopravvisse ai muraglioni funzionando a meraviglia: fu abbattuto lo stesso.
278
Demoliti il teatro Apollo, il primo costruito in Roma dopo gli antichi, il Politeama e l’Ahlambra.
Altra irreparabile distruzione fu quella del palazzo Altoviti di fronte a Castello. Era una costruzione
cinquecentesca: la loggia a colonne sul fiume, dipinta dal vasari, un quadro indimenticabile per chi una volta
sola l’aveva vista. Roma, quella consenziente all’annessione e quella contraria, unite nella stessa pena,
supplicava il ministero della Pubblica Istruzione di non fare atterrare il palazzo, di salvare le sue parti più
interessanti per lo meno, per lo meno il portico a specchio del Tevere. Niente da fare. Atterrare, tutto! Il
popolo e Pasquino parlavano di Re Piccone.
Gli allagamenti cessarono dopo i muraglioni?
Nella Roma bassa sì, ci fu miglioramento, lì ogni piccola piena allagava, ma se il Tevere cresce davvero una
parte di Roma si allaga lo stesso.
Quando le piene sono state di quelle grosse è capitato che un pezzo di muraglione sia caduto trascinando
alberi e fanali.
Nel 1915 per andare a San Pietro ci volle la barca. La piena del 1870, quella che battezzò l’annessione e
portò il re, raggiunse i metri 17,22. Quella del 1938 che la superò di 33 centimetri, non fu molto disastrosa
per il centro, per l’isola moltissimo, ma allagò tutto il nord di Roma facendone un lago.
Circoli, ritrovi, tennis, ministeriali o sociali, hanno bloccato per loro solo quel pendio al fiume che avrebbe
dovuto essere di tutti, ci tirano su costruzioni che coprono la vista dell’acqua, ma queste anche se lunghe ad
un certo punto finiscono e si ritroverebbe quel paesaggio per il quale si va a spasso, invece ne occludono la
vista con muri di siepi.
Eppure il rispetto al paesaggio dovrebbe essere un paragrafo del rispetto del codice del cittadino. Il cittadino
ha il diritto di godere di quel paesaggio, si può invocare la Costituzione per difendere un particolare
panoramico. Ma chi si ribella. Forse qualche povero funzionario che cammina senza riuscire a vedere di là,
l’altra sponda del fiume.
Ci avevano tolto il fiume con i muraglioni,ce ne avevano resa difficile la vista arginando i lungotevere con
muri invece di balaustre, come i ponti, muri non balaustre e spesso arrivati nel mezzo, di dove si amerebbe
guardare giù perché parrebbe di essere sospesi sull’acqua, eccoti davanti una parete massiccia.
Muri, muri, sempre muri, anche se ipocritamente sono fatti con innocenti alberelli. Il Tevere che è una realtà,
ce l’hanno resa un sogno. Ma nessuno si ribella. E allora? E allora l’avvenire si presenta brutto perché manca
l’amore. Chi non riscatta non ama. E’ anche vero però che non si può amare quello che non si conosce e che
si è fatto del tutto perché i cittadini romani ignorino il loro fiume.
Ci si può scaricare veleni e materia le indistruttibile, si può lasciare che i suoi pesci arrivino a una morìa
crudele; nella tragedia ogni tanto risuona un grido d’allarme, e poi tutto continua come prima: Speriamo in
qualche cosa che porti ad un ravvedimento,che non si finisca di avvelenare questo povero carcerato.
Andiamo a vederlo a monte, lontano dai muraglioni, lo ameremo perché è bello. Se lo amiamo dobbiamo
salvarlo. La speranza è il sogno di domani e l’ossigeno di oggi.
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Nuova Repubblica, 17 dicembre 1972
NEL TRIGESIMO DELLA MORTE
Rivivendo con Vinciguerra
collocazione: Pg 113;
collocazione foglio di giornale: fondo Ferri-Ferrari.
Tra perseguitati e accantonati dal regime ci si cercava per sentirci meno soli. Veramente io non cercavo
nessuno, la giovinezza mi impediva di accusare il colpo, erano quelli che si rendevano conto di tutto a
rimandarmi dall’uno all’altro come una pallina di ping-pong ed io, leggera come quella, qualche volta mi
divertivo a sbalzare qui o là.
Da Milano venivo a Roma: Vincenzo cento, una ingiusta dimenticanza pesa su di lui, m’incaricò di andare
da Adriano Tilgher.
Da tanto tempo avevo abbandonato l’uso del cappello; tutte le donne lo portavano ancora, io facevo macchia,
non me ne importava. Ma per andare da Tilgher me lo misi. Era un cappello larghissimo, sotto il suo
immenso alone mi pareva di essere tanto bella, ma quando fui nel microscopico studiolo avvertii che era
troppo ingombrante per quel luogo e mi pesò come certo pesano all’Italia le sue torri.
Il campanello della porta suonò, Tilgher andò ad aprire. Nell’angusto ingressetto largo quanto la porta digià
piccola, lungo quanto il battente ribaltato, uno scoppio di accoglienze festose. Abbracciati e sorridenti
entrarono nello studiolo. Tilgher e Cecil Sprigg; presentazione come tra congiurati; clandestino era lo scopo
di quella venuta. Apparentemente era venuto per questo e questo, cose importanti, culturali e politiche, che
rotolavano avanti alla mia silenziosa ammirazione. Ma non era vero niente, aveva creato questi motivi per
poter entrare in Italia, era venuto solo per sapere di Vinciguerra, voleva la conferma della sua liberazione.
Aveva smosso forze diplomatiche e governative, italiane e inglesi, gliel’avevano assicurata, il duce aveva
detto sì; veniva per riabbracciarlo.
-
Dov’è?
-
Sempre là, in prigione.
Vedo ancora il gesto di rabbia di Sprigg. L’espressione di Tilgher che diceva senza parole “te lo dovevi
immaginare”.
Il silenzio durò a lungo. Mi sentivo a disagio in mezzo a quei due, anche per quel cappello che assumeva
proporzioni cosmiche; feci per andarmene.
- Resta, questo è un momento storico, devi esserne testimone.
L’unico comando che io abbia avuto da Tilgher. Sprigg con uno sguardo, un sorriso, un cenno del capo e
della mano, lo cambiò in preghiera.
Se fossi stata proprio attenta a quel dialogo, se avessi avuto quella memoria che sin d’allora non avevo, se
fossi stata meno anacronistica, avrei captato meglio quello che stava succedendo in quei cinque o sei metri
280
quadrati di superficie terrestre, e ora potrei dire quello che nessun altro sentì.
Quel giorno cominciò la mia consuetudine con Tilgher che durò sino alla morte.
***
Vinciguerra emerse per me dall’ombra di un carcere attraverso le parole di Tilgher, fatto d’ombra come un
fantasma e intorno un alone di luce che crebbe quando lo conobbi di persona, che è diventato sole nel
trapasso. Goethe morì chiedendo più luce, Mario Vinciguerra è morto nella luce, non l’ha detto, l’ha ripetuto.
Sulla tomba è stato scritto: “Cercò sempre la verità – non indulse a miti – non ebbe paura di restar solo – ora
possiede la verità”. Pare che dica tutto, eppure è al di sotto della verità, perciò verità più vera non ci potrebbe
essere.
***
Turbinio di guerra spaventosa che diventa turbinio di speranza appena sulla carta hanno scritto che la
finivano.
A un tratto seppi, vidi, sentii, come vi piace, che Vinciguerra era Presidente della Società Autori ed Editori.
Chi me l’aveva detto? Nessuno. Dove l’avevo letto? Da nessuna parte, lo sapevo e basta; così scrissi subito
ad Agostino. Agostino era Agostino Turla, un funzionario della società che si era ritirato per la guerra in una
sua campagna e non voleva più tornare “a fare l’impiegato”. Stava tanto bene lassù col suo S. Paolo al quale
lavorava, su quella piccola terra naturaliter repubblicana, “la Repubblica di Cospaia”. C’era stata, è vero,
l’unificazione italiana e monarchica per di più, quelle zolle, però, quei sentieri, quegli alberi, quel campanile
erano Repubblica di Cospaia, Agostino non voleva più muoversi di lì. Ma io scrissi di tornare subito perché
il Presidente della ricostituenda società era Vinciguerra; con lui “l’impiegato” non esisteva, con lui c’era il
partecipare a un grande lavoro affine, cugino se vuoi, del tuo S. Paolo, vieni, la società ora ha un’anima.
E Agostino venne. Era lungo, si piegò su di me minaccioso come la Garisenda col cielo nuvoloso, “Ma dove
te lo sei sognato che Vinciguerra è Presidente della Società? Non è vero manco per niente”. Che potevo sire?
C’era un fossato nero avanti a me e nessun ponte levatoio per una scappatoia. “Non lo so, lo sapevo”.
Agostino voleva ripartire, ma non fece in tempo. Alto sul cielo coperto, scoppiò il sole. “Agostino, lo vedi?”
Mario Vinciguerra era Presidente della Siae.
Tanti anni dopo, proprio per la dolorosa morte di Agostino, usufruii per l’unica volta della macchina che la
Società metteva a disposizione del suo Presidente. Vinciguerra venne a prendermi quel giorno e insieme
andammo ai funerali.
E’ cosa notoria che Vinciguerra adoperava quella macchina solo per gli spostamenti strettamente legati al
suo ufficio, una cosa che a me dava fastidio. Succedeva che se dalla Società veniva direttamente da me,
adoperava quella macchina, ma la rimandava anche se sapeva di trattenersi poco e tornava con i mezzi
pubblici. Era un’esagerazione e glielo dicevo. “Invece di andare a casa son venuto qui, ora basta!” E alzava
281
quella sua piccola mano inflessibile come lui.
Esagerato nello scrupolo certo lo era. L’onestà portata a quella esasperazione poteva anche essere antipatica,
quella rigidezza poteva anche essere scambiata per superbia, era invece una involontaria denuncia della
sconfinata disonestà in cui viviamo. E’ questione d’equilibrio: se il braccio sinistro è tirato giù da un grosso
peso, il destro si alza. E’ questione d’ottica: più il fondo è scuro, più bianco appare il bianco. Il candore di
Vinciguerra era luminoso.
E poi anche il santo è un esagerato; santità non è, se non è esagerazione. Vinciguerra era il prototipo d’una
laica santità umana.
***
Dalle trattorie dove qualche volta andavamo a cena, soli o no, con i resti che generosamente abbandonavamo
sui piatti, ci facevamo fare due pacchettini, lui lo portava alla sua Sniff, io al mio Minou. Era la Sniff una
gatta vanitosa, ebbe una collana che rimase per me un mistero. Eravamo in tempo di euforica ripresa, le
stupidaggini che ci venivano dall’America ci parevano meraviglie, anche la collana della Sniff. Chicchi più
grossi delle nocciole, di tutti i colori, si univano senza filo, la collana si chiudeva senza fermaglio: bastava
accostare un chicco all’altro. Una volta che le fu messa al collo la difendeva a graffi, nessuno gliela poté più
togliere, e quando s’aggirava tra i ruderi dei mercati di Traiano i gatti l’ammiravano, ma non potevano
avvicinarla. Il mio Minou invece non sopportava nulla addosso, accettava solo il guinzaglio perché con
quello poteva venire in giro per Roma con me. La gattofilia, non quella di moda, ma quella pensierosa avanti
al mistero dell’animale, l’avevamo in comune.
***
Ti ricordi, Vinci, quando accanto a me scoprivi certe cose di Roma che la tua partenopea laicità ignorava,
cose davanti alle quali la tua profondità ammutoliva in una commozione più espressiva di qualunque parola?
Ti ricordi, Vinci, la sera degli aspergilli? Tutto t’avevo raccontato sotto il sole: in nessuna parte del mondo si
può fare questa funzione, solo a Roma e a Roma solo in S. Pietro; sentirai nell’aria del tempio l’odore del
vino come in una mescita; se facciamo presto lo so io un posto dove possiamo salire quando la versano dalle
grosse anfore sull’altare, lo bagna tutto, arriva sulla predella, a rivoletti scorre sui gradini, comincia la sfilata
degli aspergilli, da quelli grossi dei cardinali a quelli minuscoli dei chierichetti, una sfilata che dura un’ora,
ognuno sale e fa l’atto di asciugare la mensa con l’aspergillo che questa volta invece di aspergere ha la
funzione di assorbire, ma è simbolica anche questa; poi giù di corsa a vedere la lotta del mondo turistico per
appropriarsi di un aspergilo e poi…Al crepuscolo fummo in S. Pietro, il testo era finito, cominciava
l’illustrazione. Quella sera S. Pietro era veramente immensa, conteneva in pace anche la tua laicità.
***
282
Con un sorrisetto e qualche smorzato squittio ridimensionava uomini e fatti, ma aveva la pazienza
dell’ascolto. Ha perduto ore e ore a sentire i miei sfoghi durante certe crisi lunghe come quaresime d’altri
tempi. Quando s’accorgeva che il mio fazzoletto era zuppo, mi passava il suo. In una di queste crisi mi morì
il gatto, egli lasciò a mezzo una seduta e corse da me. Non so se adoperò la macchina della Società. Passò
prima da un antiquario per una stampa che aveva già adocchiata: era di un luogo che io avevo interpretato a
modo mio. Il gatto lo seppellimmo nella rupe delle catacombe di S. Valentino. Un santo canonizzabile mi
avrebbe redarguita “vergogna! Piangere tanto per un gatto, è irragionevole!” Quest’altro santo laico parlava
con le sue pazienti premure, mi diceva: “Che tu pianga per il gatto lo capisco, ne hai tutte le ragioni, ma per
quell’altro no, smettila!”
Poi ci fu una caduta nell’amicizia di Vinciguerra per me. Egli giudicava storto il mio soffrire per una
persona, voleva che ne capissi l’assurdità. “Sgombrati la tua strada, l’hai tenuta sempre ingombra di persone
sbagliate”. Verissimo, non ho fatto che inciampare e cadere, ma sgombrare non ho saputo. “Hai qualcosa di
storto nella testa – finì per dirmi – ho fatto tanto per raddrizzarlo, non ci sono riuscito, sono vecchio, non
posso più perdere il tempo a raddrizzare ciò che non si riaddrizza”.
Quel marchingegno che non si riaddrizzava non era nella testa perché io ho sempre capito che Vinciguerra
aveva ragione, che era assurdo patire per una persona che non lo meritava, non l’ho capito ora che è morto,
lo capivo mentre me lo diceva. Ma un marchingegno puoi raddrizzarlo, un sentimento come lo riaddrizzi?
Mica sta nel cervello; anche se la sua possibilità è lì, la sua obiettività lì non c’è proprio, lì è assente; un
sentimento è in tutto il resto del corpo e finché non si esaurisce da sé non c’è niente da fare. E così se n’è
andato inquieto con me senza che ne sapessi proprio il perché, non poteva essere solo quel marchingegno un
po’ storto. Mi capita che qualcuno mi condanni senza che io sappia per quale colpa, passo la vita a
domandarmene perché e non trovo. Anche questa volta è andata così, invece è stato peggio di così. Adesso
un amico mi dice che non molto tempo fa gli aveva chiesto di me con la tristezza di chi si allontanava dalla
vita “Non la sento più, non si fa più viva”.
No, Mario, io ero sempre vicina a te con la tenerezza d’un affetto che niente poteva velare, facevo fatica a
non scriverti “ho avuto torto, perdonami!”, mi trattenevo perché credevo che tu volessi questo. E invece
appena hai rivisto quel comune amico che non vedevi da forse dodici anni, la prima parola che gli hai detto è
stato il mio nome carico d’un intenso punto interrogativo. Ma perché quell’amico non corse a dirmelo?
Perché doveva essere così affinché rientrasse nell’altra mia condanna: lasciar morire gli amici in un
apparente abbandono, per pigrizia, per trascuratezza? Non lo so, per qualcosa che mi trattiene di dire il bene
di cui sono carica, l’amico se ne va, io resto oppressa dal rimorso e dal rimpianto.
Era meglio che avessi continuato a ignorare la cosa, avrei creduto che fosse la sua volontà a creare il
silenzio, non la mia titubanza. Ma parliamo di altro.
***
283
Un tavolino mezzo incassato tra due sporgenze del muro stava in prigione con Vinciguerra. La gente non
pensa alle cose, alla loro vita, al loro destino. Quel tavolino condannato a vivere in prigione fu però fortunato
per tanti anni, quando visse con Vinciguerra che non strapazzava le cose, ma le amava. Su quel tavolino
puntava i gomiti nelle sue letture, su quel tavolino scriveva, forse qualche volta ci piegò il capo nel pensiero
o nella stanchezza, certo su quel tavolino giocò, questo lo so di sicuro.
Chi è che non sa fare una barchetta di carta, una scatola, un cappello da carabiniere? Anche Vinciguerra in
prigione li faceva appoggiando il foglio su quel tavolino per ben segnarlo nelle piegature: li faceva piccoli
piccoli per non sprecare la carta e perché gli piacevano le cose minute. Forse cominciò col fare scatoline e
barchette, ma progredì tanto che dalle sue dita uscirono cose che nessuno è mai riuscito a fare con la carta:
capanne e casette, uccellini e fiori, organetti e farfalle, pipistrelli e stelle. Di stelle e a tutto volume, una
varietà infinita. Me li rifece tutti i suoi giochetti della prigione; cominciò per insegnarmene qualcuno,
continuò perché il ricordo lo aveva afferrato.
In una scatola li posai uno sull’altro con la delicatezza con cui avrei posato una sull’altra tante farfalle che
fossero morte con le ali alzate. Così io posi sull’altro quelle farfalle, quegli uccellini, quei fiori di carta, tutte
quelle cosine inventate da una mente eccezionale nei momenti di sosta del pensiero, tanto per non impazzire.
Questa parola è mia, mai Vinciguerra ha dato senso tragico alla sua prigionia.
Moralmente profondo e robusto, fisicamente minuto e leggero come i suoi giochetti, ora ha conosciuto
anche la pesantezza della morte.
284
B) (INEDITI e RARI) DA RINTRACCIARE
Un sogno di Shakespeare realizzato da Reinhardt
Collocazione: Pg 105.
“Sogno di una notte di mezza estate” è un lavoro della giovinezza di Shakespeare, fresco, colorito, poetico,
pieno di festività e di forza gioconda. Ci sono reminiscenze delle sue prime letture di Plutarco, dei poemi
cavallereschi di Boiardo e dell’Ariosto, avvivate da una scapigliata fantasia.
Il centro del dramma è la celebrazione delle nozze di Teseo duca d’Atene con Ippolita regina delle
Amazzoni. Mentre Teseo informa la sposa delle feste che si preparano per lei, Egeo, padre di Ermia, chiede
al duca che dia corso alla legge ateniese che punisce la figlia che non vuole sposare l’uomo scelto dal padre.
Egli l’ha promessa a Demetrio che l'ama adesso come prima amava Elena che invece gli è rimasta fedele. Ma
Ermia e Lisandro s’amano così follemente che quando il duca sentenzia che se la giovane persisterà nel
rifiuto sarà chiusa come vestale del culto di Diana, essi decidono di fuggire in casa d’una parente partendo da
un bosco vicino ad Atene dove si danno appuntamento. Ermia confida il disegno all’amica Elena la quale lo
dice a Demetrio che, disperato, corre al bosco ed Elena lo segue per distornarlo da Ermia.
Tra quegli alberi hanno preso stanza Oberon re dei geni e Titania regina delle fate sua moglie: anche fra loro
vi è discordia per gelosia di un fanciullo che Oberon vuole a suo servizio e Titania gli rifiuta. Il re per
vendetta chiama il suo fedel servo Puck e gli insegna a conoscere un misterioso fiore il cui succo spremuto
sugli occhi di chi sta dormendo, al suo svegliarsi lo fa innamorare perdutamente della prima persona che
vede. Puck trova il fiore e lo porta ad Oberon che comincia a bagnarne gli occhi di Titania per riempirle il
cervello di strane visioni; poi ordina a Puck di scoprire dove sia Demetrio e che gli bagni gli occhi perché
torni ad innamorarsi di Elena. Puck girando pel bosco trova qua e là dormenti sull’erba Ermia, Lisandro,
Elena, Demetrio e, scambiando l’uno per l’altro, rovescia le sorti bagnando gli occhi di Lisandro che veduta
Elena invece di Ermia s’innamora di lei. Così nasce una delle più stravaganti confusioni fra i quattro amanti
imbizzarriti l’uno con l’altro, e anche anche la regina Titania s’incapriccia di un commediante a cui Puck ha
messo una testa di ciuco.
Finalmente Oberon, col succo di un altro fiore mette termine a questa frenesia, ognuno torna a essere quello
che è e a vedere le cose come sono, allora l’azione riprende alle feste per le nozze di Teseo; gli artigianicommedianti che erano rimasti anche essi confusi nell’incantesimo del bosco, re citano la commedia di
Piramo e Tisbe e le quattro coppie degli umani e dei geni, nell’affetto riconquistato e riordinato riacquistano
pace e giocondità.
Si potrebbe osservare che alla composizione, per quanto arricchita di episodi dal poeta, rimane sempre il
carattere e vuoto del regno delle fiabe, che il suo contenuto passionale ha poco interesse, che gli artifizi di
magia si ripetono troppo, che è irragionevole vedere la libera volontà umana sottomessa al capriccio di un
285
folletto malizioso che va spargendo a caso i suoi filtri, e sarebbero osservazioni giustissime, ma avremmo
dimenticato che è una fiaba sognata, dunque due volte irreale. Del resto la realtà che trionfa sul sogno
abbiamo vista quale sia.
Ma quello che più conta in questo lavoro non è il pensiero, ma la sua rappresentazione cinematografica, è la
realizzazione di questo sogno shakespeariano ottenuta da Max Reinhardt in modo tale che dopo averla vista
possiamo supporre che il cinema trionferà ormai d’ogni più superba fantasia. Il grande regista ce ne ha data
una prova.
Il poema si svolge su tre piani diversi, quello umano, ignorante, grottesco, ma ingenuo, pieno di
immaginazione (gli artieri che per l’occasione diventano attori), il piano della fantasia dove un nuvolo di
fate, di elfi, di genietti sono così reali nella loro natura fantastica come quelli presi dal modello della vita. Tra
i due piani estremi quello intermedio dell’umano nobile, eroico, colto. Questo è forse il meno riuscito,
naturalmente a confronto degli altri due che sorpassano ognuno nel loro carattere, quei limiti oltre i quali si
entra nel capolavoro. La parodia della compagnia dei commedianti è di un grottesco irraggiungibile. La
fantasia delle fate e degli elfi al chiaro di luna nel bosco incantato sono così leggere e trasparenti che si
dimentica assolutamente il volume corporeo di chi le eseguì.
Il volo ritmico delle fate per la strada di luce che sale attorta a spirale su per il vecchio abete; il perdersi della
fata nel cielo stellato assorbita lentamente dall’azzurro notturno; i voli di fate e di elfi più lievi di qualsiasi
volo naturale, non sono solo miracoli di tecnica. Lì c’è il poeta che ha sentito il poeta. E Puck, lo spiritello
stordito pieno di leggerezza e di malizia che ride di coloro che travia: “Signore! Come sono pazzi questi
mortali!” potrà essere dimenticato? Il riso sgorga a fiotti dal piccolo indemoniato che è portato dal vento
come il polline delle piante. Ma è riso di simpatia e di benevolenza perché benché egli si diverta a fare mille
scherzi dispettosi, in fine è lui, quando “ogni vigna ha ritrovato il suo palo”, che dà il segnale alle fate e ai
geni perché vengano a confermare nell’amore che durerà per tutta la vita le coppie dei mortali.
E’ vero che questo lavoro ha per meta la bellezza, perché anche la virtù qui è intesa come grazia e come
gioia. Tutto il sogno fiabesco nell’incantato bosco della fata Titania con le sue magie, coi suoi errori, è bello
perché conduce al ristabilimento dell’ordine nel senso che tanto gli uomini, come gli esseri fantastici,
disorientati nei loro affetti, ritrovano la retta via e in essa la pace e la felicità.
286
Il figliuol prodigo
collocazione: Pg 106.
Luis Trenker che noi ricordiamo nel film “La tragedia di Pizzo Palù”, scrittore, campione di sci, innamorato
della montagna ci dà con questo “figliuol prodigo” un film che arriva alla nostra anima direttamente come il
canto del poeta detto da lui stesso, perché Trenker ne è stato l’autore, il regista e l’attore. Tra il racconto e
l’interpretazione non ci sono le interferenze dovute al regista e all’attore, tra l’opera dello scrittore e la sua
realizzazione cinematografica. Questa maggiore individualità del lavoro è una delle cause, non ultima, del
suo interesse.
Che il fatto non sia originale, come qualcuno ha osservato, è una critica superficiale, che l’autore stesso già
previene col titolo, scelto tra tanti altri che potevano essere ugualmente appropriati. Egli ha proprio voluto
ripetere l’eterna storia del giovane che si sente soggiogatore della vita, e abbandona la sua terra, per seguire
la magnifica illusione, che presto dileguerà cacciata dalla realtà, chiusa nell’angustia del binomio: famemiseria.
Ma questa realtà lo purificherà, restituendolo semplice e buono alla sua terra! Nella parabola evangelica
questo giovane, che è di tutti i tempi e di tutti i luoghi, trovò il suo nome e Trenker non ha voluto
cambiarglielo, anche per conservare alla vicenda quella religiosità che è parte sostanziale del film.
La prima visione è un Crocifisso di montagna che, poco a poco, appare tra le nubi; l’ultima è la Madonna che
scompare lentamente nelle nuvole. Tra le due visioni, l’uomo che s’allontana dalla sua terra e dalla sua fede
e, all’una e all’altra, provvidenzialmente ritornerà.
Nel film ci sono due protagonisti: “il figliuol prodigo” e il paesaggio; la parola di ambedue è la musica, detta
dal maestro Becce, in modo mirabile! Basta ricordare la sinfonia degli spaccalegna e quei canti religiosi che
accompagnano il pianto dell’uomo e la sua gioia. Becce ha dato il suono a quei sentimenti ai quali Trenker
ha dato un’espressione plastica, che non sarà superata facilmente.
Tonio Fuersinger, tra gli altri contadini-marinari, è l’espressione più bella e più forte della terra comune; un
villaggio che pare un altare, tra le candide guglie di una magnifica cerchia montana.
Nel gruppo dei tagliatori d’alberi, sembra che da Tonio venga quel ritmo gonfio di forza e di lavoro. Quando
in un ultimo scorcio della giornata egli ancora fresco di volontà e di energia, sostituisce il padre nell’aratura
del campo, nel momento che con l’usato grido tratta i buoi e affonda il vomere nella terra è come se questa si
piegasse sotto la sua forza. Una forza addolcita dall’amore per Maria, figlia di Oudauner, vecchio
intagliatore in legno, e da un’interiore melanconia, che in lui prende il significato d’inappagato, come se il
villaggio, le sue montagne, il suo lavoro e la sua gente costituissero una barriera alla sue aspirazioni! E non è
che la melanconia di coloro a cui la natura ha dato un’anima diversa dalle comuni, che fatalmente li isola,
facendone dei sognatori. Sono coloro che cadono nei più grandi errori dai quali, quasi sempre, ritornano col
sogno stemperato dal pianto! Ma ritornano! Tonio cerca di calmare la sua insoddisfazione chiedendo al
vecchio maestro notizie del mondo che non conosce. Il maestro insegna ed è pago di questo; invece nello
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scolaro che ascolta la febbre di conquista si fa sempre più cocente. La forza e l’inesperienza, animata dal
sogno, fanno parere tutto facile al giovane montanaro, guardando col maestro il globo terrestre, ne varca
l’oceano col dito, mentre col sicuro sorriso proclama: “di qui e lì che cosa c’è? Appena questo spazio: ma qui
la montagna è sempre la stessa, là, là c’è vita con le sue infinite possibilità!”
Intanto egli vince una gara di sci, nella quale si disputa il premio offerto da un ricco americano, Mr.
Williams che, viaggiando con la figlia Lilian, s’é fermato qualche tempo in paese. La giovane americana, la
sera in cui si festeggia il vincitore, è presa dal fascino rude del montanaro e gli propone di accompagnarla in
una ascensione. Tonio sceglie il Pizzo Bianco,non ancora raggiunto e parte con l’amico Giorgio e la
giovane.
E’ la notte in cui il villaggio elegge il “re del sole” che, nel prossimo solstizio d’inverno, nella “santa notte”
sceglierà la sua sposa.
Tonio è il prescelto e nella sua casa viene portata la maschera del sole, una vecchia maschera d’oro
circondata da raggi della quale il maestro intagliatore ha fatto una copia per l’americano che se ne era
invaghito; la festa ha una lontana tradizione pagana (nella notte misteriosa risorgono gli antichi geni della
foresta, del fuoco, delle acque per solennizzare il riavvicinarsi del sole) alla quale s’è aggiunta, senza
guastarla, quella cristiana dell’Epifania. La mitica terra e la nuova fede fanno tutt’uno.
Nell’ascensione avviene un incidente nel quale Giorgio perde la vita. Ora la montagna pare una nemica a
Tonio; se non gli avesse ucciso l’amico forse non sarebbe riuscito ad evadere.
E parte con un biglietto che gli avevano dato i ricchi americani con l’indirizzo della loro residenza di New
York. Quei piccoli inutili pezzetti di carta di cui si fornisce il povero come di bastoni sui quali puntarsi nel
salto del pantano. Con quel biglietto e col suo sogno ingenuo e forte, Tonio lascia la buona terra madre, la
buona semplice gente del suo villaggio, l’amore rustico della sua Maria e sbarca a New York.
Picchia alla porta del milionario.
“I signori sono in viaggio”.
La prima porta si chiude sulla prima speranza e la prima ombra di delusione scende sul volto del montanaro.
Poi è l’agenzia di collocamento con le sue metodiche fredde negazioni. La terra straniera non ha pane per
l’emigrato. Poi è la vendita della valigetta con le sue poche robe.
Sullo schermo continuano a vivere i due soli protagonisti del film: il figliuol prodigo e il paesaggio.
Montagne di cemento armato ora diritte e levigate forate come un setaccio, nubi dense di fumo e binari aerei
sui quali le macchine strisciano, fischiano ricordando pietosamente la grande corrente del suo fiume, il
rumore degli spaccalegna e i tronchi striscianti sull’acqua spumosa. Tonio guarda e s’illude di credere in
questa terra, ma non è vero.
Nel paesaggio ritorna come un lamento la panchina dei giardini pubblici, la seggiola dei poveri, il letto dei
senza casa. Con nessun altro elemento che la panchina sulla quale è seduto di sera, un po’ di nebbia intorno e
lontano i rutilanti lumi della città, egli ha saputo creare intorno a se il silenzio isolato e disperato degli
sperduti.
Una mattina incontrerà nel giardino che si ridesta un disoccupato americano che lo aiuterà a trovare un po’ di
288
lavoro che durerà assai poco perché l’amico sarà imprigionato e lui licenziato.
La seconda parte s’inizia con un simbolo, come la prima, ma non è più il Cristo dalle braccia aperte sul
mondo, è la statua della libertà di New York. L’obbiettivo lentamente scorre giù per il colossale monumento
lungo le pietre dell’enorme basamento, e si fissa ai piedi, in una panchina dove è seduto un uomo solo, finito
dalla fame e dalla miseria. Da questo momento il film (che è sempre pochissimo parlato) diventa muto fino
al ritorno dell’amico e quel silenzio è l’espressione profonda della smarrita solitudine dell’emigrante. Credo
che la folla non si accorga molto di questo silenzio perché la maschera di Luis Trenker dice quello che non
potrebbero mai dire le parole. Domina sempre il paesaggio ed è di una New York sporca, con negozi
d’infimo ordine, con poveri stesi in terra lungo i vecchi casamenti agglomerati tra loro come gli
innumerevoli cenci stesi alle finestre. Nessuno ci aveva fatto vedere sin’ora una New York così, l’avevamo
sentita dire solamente dai nostri poveri emigrati.
E comincia la via crucis avanti alle vetrine dei negozi di generi alimentari. Si è tentati di domandare a
Trenker se egli le ha fatte davvero quelle affamate soste davanti ai buoni formaggi, ai prosciutti, a tutte le
appetitose cose che torturano il desiderio dell’affamato; e se egli non ha sofferto quella tortura, è grande e
buono come se l’avesse patita perché ha saputo sentirla riflessa in sé dagli altri mille che la patirono così.
Quei leggeri movimenti di deglutizione della saliva, quell’occhio che ormai è tutto fame senz’altro sogno che
di un po’ di pane e di una fetta di carne, non si dimenticheranno più. Lo sguardo vinto e avido insieme che
fissa il colare del caffelatte dal bricco nella tazza, e la tazza che s’allontana dal suo desiderio senza vedersi la
mano che la porta, è un tratto di passione così vera e intensa che basterebbe da solo a dar gloria a Luis
Trenker. Come l’episodio del pane rubato e mangiato sotto il ponte. Come la fila degli affamati davanti alle
donne dell’esercito della salute che cantando religiosamente distribuiscono una scodella di minestra, un
cucchiaio, e una fetta di pane.
Nella fila c’è anche l’illuso montanaro col viso scavato e l’anima spenta. Mentre la processione dei vinti
avanza egli rivede la processione della sua terra: c’è la Madonna, ci sono le ragazze con la corona in testa, ci
sono i montanari che rispondono in coro alle orazioni e Tonio piange. Anche Maria nella lontana Germania
piange e i due volti si sovrappongono. Quel pianto non s’è visto mai sulla schermo; è un pianto inestetico,
ma il pianto è così.
Il parallelo tra la vita che il contadino ha lasciato e quella che trova nella città del suo sogno, sfugge da
qualsiasi banalità nella quale poteva facilmente incappare. L’una è simile all’altra come due strofe d’uno
stesso canto.
Nella sua terra c’era il lavoro facile e libero, in terra straniera strappa a fatica brandelli di lavoro duro e
controllato. Là c’erano parentesi d’allegria e d’amore, qua parentesi infinite di miseria e di fame. Nella
piccola comunità del suo villaggio egli non era mai solo, e qui, nella più grande città del mondo, è solo come
una bestia morente.
Là c’era la buona zuppa di latte nella casa paterna, qui c’è un pane rubato. Là le giovanette della sua terra
fresche, chiare e limpide come il loro cielo, qui le incuffiate fanatiche dell’esercito della salute. Là rompeva
la terra, qua l’asfalto,là scalava le montagne, qua i grattacieli; là nelle ascensioni con la sua fune compieva
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prodezze e salvataggi, ora con la fune solleva travi di ferro. Era giovane là, qui è vecchio, ma tornerà
giovane appena ritroverà la sua terra.
Ritorna intanto l’amico e con lui la possibilità di un po’ di lavoro. Fanno da inservienti in una società
sportiva dove un pugno di Tonio che atterra il pugile lo porta di colpo al trionfo, alla notorietà, al guadagno.
Tra gli spettatori c’è Lilian che lo ritrova e ora che può entrarci in abito da società la casa dell’americana è
aperta. Una casa dove le statue mutilate, portate dal vecchio mondo, paiono poveri emigrati di pietra fuor di
posto anche loro. Lilian è ripresa dal fascino dell’uomo e gli chiede di non lasciarla più e mentre egli si china
a baciarla nella tacita adesione, i suoi occhi incontrano la maschera del sole. E’ il supremo grido della sua
terra che lo richiama.
E Tonio ritorna nella santa notte. Le feste notturne in cui escono i geni della foresta e del fiume, in cui il re
del sole avrebbe dovuto scegliere la sua sposa. Avanzano anche i re magi dietro alla stella luminosa. E anche
il re del sole è tornato per consolare il pianto della sua Maria.
Tenendosi per mano i due sposi vanno sulla nave per assistere alla messa di notte, ma la porta della chiesetta
è chiusa, Tonio la scuote inutilmente, potrà rientrarci, si, ma a processione finita, mescolandosi con la sua
gente.
Avanti all’altare Tonio e Maria sciolte le mani le piegano nel gesto della preghiera guardando la Madonna
sull’altare velata da volubili nubi di incenso che pian piano s’infittiscono fino a nasconderla, si spezzano e
mostrano il cielo.
Ancora una sinfonia di nubi leggere e luminose tra le quali il canto del poeta, la preghiera del credente
dileguano dolcemente.
Ci si dilunga forse troppo nel parlare di questo film e pare poco perché non c’è nulla da scartare; sarebbe
come togliere qua e là delle note da una musica, dei versi in un poema.
Ci sono piccole cose comuni dalle quali Trenker trae significati profondi. Basta ricordare la maschera d’oro
del sole portata a casa del vecchio Fuersinger ed appesa ad un chiodo sulla trave che puntella il soffitto; un
gioco d’ombre e di luce riempie il vuoto degli occhi e della bocca sì che il dondolio della maschera appesa
diventa movimento di vita quasi che il vecchio idolo cercasse l’assente per il quale è venuto.
Ci sono dei gesti semplici sui quali indugia con un effetto significativo pienamente riuscito. Per esempio nel
ballo che segue la gara di sci quando il protagonista non visto è presente negli occhi delle due donne Maria e
l’americana, che diversamente lo desiderano.
Altri gesti semplici appena accennati come quello della mano che passa e ripassa sul braccio nel brusco
risveglio del giardino, è il movimento del povero che ha dormito scomodo e freddo.
Si potrebbe osservare che abusa un poco della visione presa attraverso i vetri degli sportelli delle automobili,
ma è pur vero che quell’abuso ci dà la sensazione del traffico che inceppa i nostri passi e la nostra vista
specialmente quando vogliamo seguire qualcuno. Così nel film per seguire il protagonista che ha un
movimento veramente felice quando svanito com’è sta per essere investito da una macchina. E’ così vero che
ci si domanda se l’episodio non sia stato involontario.
290
Altri potrà trovare retorica certe figure secondarie,di facile effetto certi passi, forse sono coloro che hanno
guardato il film alla superficie perché chi lo ha sentito in profondità non può non esserne commosso e
ringraziare Trenker d’avercelo dato.
Del resto questo “figliuol prodigo” è in certo senso superiore a quello evangelico perché quello ritorna alla
sua terra spinto dalla miseria,questo rinunciando a un sicuro successo.
Luis Trenker ci aiuta ad essere più buoni e a pregare.
Quando sullo schermo non ci sono che due nubi tra le quali s’apre un ventaglio di luce che rischiara le cime
bianche di monti,e la musica del maestro Becce prende un’andatura mistico-corale, chi non ha sentito che
quel quadro era un atto di fede e la musica una preghiera?
291
Paese Sera, giugno 1958
Piccolo repubblicano
collocazione: fondo Ferri-Ferrari.
Le celebrazioni per i diversi fatti che costituirono la formazione e l’affermazione della nostra costituzione
repubblicana, sono modeste, così timide che forse non stona la piccola celebrazione di un piccolo
repubblicano di quel tempo in cui con tanta speranza si preparava la nostra Repubblica.
Si chiamava Stefano, non aveva ancora cinque anni ed era il fratello di Mariolina. Adesso lui fa il ginnasio e
la sorella il liceo; vivono con i genitori che confondono la loro giovinezza con quella dei figli. La loro casa
pare sempre limpida e calda per la pace e la vitalità che la riempiono. Giochi, scherzi, allegrie, amarezze,
dolori, difficoltà sono vissuti insieme da quei quattro con un tale calore affettivo da offrire l’esempio visibile
della perfetta comunione. Entrando in casa loro si è accolti con tanta festosità da avere l’impressione che
anche i mobili esultino.
Dieci anni fa, dunque Stefano era il più piccolo repubblicano d’Italia e repubblicano lo era sempre stato. Si
sarebbe potuto consacrare piccolo lama della repubblica, il suo sacerdote nato.
Quando aveva tre anni sua madre aveva dovuto uscire in fretta da un ufficio perché il piccolo indirizzava a
voce spiegata epiteti piuttosto insolenti a un ritratto reale che allora dominava ancora la parete.
E quando gli capitò di scorgere un’altra effigie del genere sopra i disordinati scaffali del suo fruttarolo, si
ribellò talmente da radunare la folla intorno a lui che pretendeva l’immediata detronizzazione del quadro.
Fu in quell’epoca che io cominciai a chiamarlo “piccolo repubblicano” e lui mi rispondeva naturalmente
come se questo fosse il suo nome.
Nella casa di Stefano dove il luogo comune non entra né come forma di vita, né come espressione, i
giocattoli dei ragazzi furono sempre costruiti dal babbo nelle poche ore lasciategli libere dal suo alto ufficio.
Per la tirannia del tempo e l’urgenza dell’ispirazione avveniva che per la loro costruzione egli sfilasse le assi
degli armadi, che staccasse le catenelle di sicurezza delle finestre, che togliesse le stecche degli ombrelli.
Ma intanto Mariolina e Stefano avevano sempre giocattoli straordinari e unici al mondo, molto più spiritosi
di quelli ispirati dalla caccia agli indiani. La mamma, che per la costruzione di Biancaneve e i sette nani
aveva visto scomparire molti dei suoi indumenti, rideva con quella sua voce di festosa musicalità e offriva al
marito ciò che egli non osava ancora sottrarre.
L’anno in cui nacque la nostra costituzione repubblicana, il babbo aveva costruito ai ragazzi un presepio
straordinario che dentro una meravigliosa notte lunare, raccoglieva tutto quello che di bello c’è nel
mondo:cascate d’acqua luccicanti, zampilli che quasi raggiungevano gli angeli sospesi tra la terra e le stelle,
strade che parevano percorse dal genere umano, colline con case dove non si dormiva perché le finestre
erano illuminate, ruote di mulini che giravano vicino al fiume, palme, muschio, luci e pecore, galline, asini,
anitre, piccioni tutti desti nella notte perché dentro alla grotta anche il Bambino era sveglio e stava con le
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braccine aperte.
Quel presepio era un sogno e Stefano viveva librato in una sua atmosfera di beatitudine.
Veniva gente a vedere quello straordinario presepio ed egli silenzioso e sorridente si metteva di lato e i suoi
occhi brillanti e immensi si colmavano di soddisfazione. Eccettuate le parentesi dei pasti e del sonno da
Natale a Epifania Stefano era vissuto nel suo mondo fantastico. Per il giorno della befana non aveva chiesto
né desiderato nulla, il presepio lo assorbiva. Eppure i doni arrivarono portati da una vecchia zia sempre
sentita nominare e mai vista.
Ero con loro quel giorno e ce ne stavamo in salotto noi donne e Stefano; il babbo si era chiuso nella stanza
del presepio con Mariolina.
Stefano stava appoggiato alla poltrona di quella zia meravigliosa che era arrivata carica di regali e di moine e
la guardava tributandole con l’espressione affetto e ammirazione.
La zia parlava. Che diceva? Discorreva di tutto. Dei parenti, dei vivi dei morti, della guerra dei partigiani,
dei salti nel buio della repubblica, della monarchia, di quei poveretti esuli, di Dio e del demonio. Da tante
chiacchiere non era difficile neppure per un bambino capire che essa dentro di sé portava un lutto stretto per
la monarchia. Stefano cominciò con lo smorzare il suo abituale sorriso, poi, lentamente, si staccò dalla
poltrona della zia, retrocesse fino a quella della mamma e puntando l’indice a braccio teso contro la zia
gridò:
- Mamma, mandala via, quella è monarchica.
- Ma Stefano, che dici? Che fai?
Il ragazzo raccoglieva i doni della zia e glieli buttava in grembo. In quel momento s’aperse la porta e il
babbo disse:
- Venite, sono arrivati i re Magi!
Dalla stanza del presepio veniva un sommesso e lontano suono di zampogne e odore di incenso. Il babbo
aveva messo il disco in modo che parevano proprio i zampognai di coccio a tirare fuori il suono dai loro otri.
Pastori, pifferai, contadini, tutti si erano ritirati in disparte per far posto al corteo dei re magi coi cavalli i
valletti e i doni.
- Non dovevano arrivare per l’Epifania? Eccoli, sono arrivati! Stefano, guarda la stella che li ha guidati!
Ma il piccolo non si muoveva stava in un angolo e piangeva.
- Stefano, perché! Che cos’hai? Vieni a vedere.
- No! Ci sono i re.
Sarebbe stato facile capire che egli soffriva la prima tremenda delusione della vita, ma non lo avvertimmo,
anzi lo facemmo soffrire di più con le nostre insistenti spiegazioni. Lo tenemmo lì fermo per dirgli che questi
re non sono re come gli altri, che sono dei saggi, dei maghi; più che re sono sacerdoti della sapienza e ai loro
tempi anche i sacerdoti portavano la corona. Glieli descrivemmo nel loro viaggio di andata e di ritorno;
gliene raccontammo tante che finì col non piangere più, ma al presepio non si accostò.
I re magi avevano distrutto una delle cose più meravigliose del mondo: l’incantesimo di un bambino per il
presepio che gli aveva fatto il babbo.
293
Alla fine di quel giorno parve quietato, ma l’estasi interiore che appariva intorno a lui come un alone di luce
era finito. Noi avevamo aiutato la monarchia a dissolverla.
Quando me ne andai lo chiamai come sempre per salutarlo:
- Piccolo repubblicano, dove sei? Vieni.
Stefano si presentò freddo e compassato e mi disse:
- Per favore, non mi chiamare più piccolo Repubblicano perché a me il re non piace neppure lì.
- Come ti devo dire, allora?
- Se mai dimmi “piccolo publicano”.
Non aveva ancora cinque anni e nel viso tanto dolore.
294
1950-1960
Piccolo funerale
collocazione: Pg 95;
Roma cresce, eppure se ne va. Un pezzetto alla volta, ora grosso ora minuscolo, Roma scompare. Al posto di
lei, singolare e superba, subentra una città qualunque che gareggia con innumerevoli città qualsiasi.
Roma ha cominciato ad andarsene diventando capitale. Tutto e tutti hanno lavorato per sbriciolarla, eccetto il
tempo che su Roma non ha eccessivo potere. Invece l’Italia affluita e affluente a Roma, si è affannata e si
affanna per distruggerla. Tutta Italia manda a Roma la sua gente che ne dice male e poi ci resta. Restandoci,
la slarga in malo modo, la modifica secondo i ricordi del proprio luogo di origine, ne cancella le vie, ne
distrugge il verde, ne cambia il colore, ne nasconde i monumenti e i panorami e, quando capita, ripete che i
romani sono gente impossibile!
I romani, cari affluenti, sono una minoranza che non fa neppure l’opposizione. Guarda, sorride e tace, ma
dentro soffre come soffrirebbe chiunque si fosse visto arrivare gente in casa propria e ce l’avesse lasciata
stare come ospite rispettata ma intanto la vedesse demolirgli i mobili di casa e cambiarglieli con quelli fatti a
serie. I romani assistono con apparente indifferenza a questa lenta, ma pertinace distruzione di Roma, alla
sua lacrimevole camuffazione perché in loro c’è la sicurezza che per quanti sforzi si facciano, di Roma
resterà sempre qualcosa di indistruttibile, non fosse altro che la porpora di certi suoi tramonti e l’ombra
azzurra di Monte Cavo.
Ma di queste cose immense o piccolissime che scompaiono (a volte è immenso un nome che si cancella
perché con quel nome si butta alla spazzatura leggende e storia, memorie e tradizioni) faremo in seguito
adeguati funerali o commemorazioni, come piacerà meglio.
Oggi accompagniamo alla sepoltura le tabelle degli autobus con le ultime lettere.
Addio ST, addio FL, addio NT, addio MP, addio CP, con voi muoiono tanti piccoli pezzetti di Roma.
Non potete essere dei pezzi archeologici perché voi date nome ad itinerari di motori, ma per quanto recenti,
eravate diventati pezzetti veri di Roma come lo diventa un gatto che prenda dimora al Pantheon, un pino che
cresca solo al di fuori delle esedre arboree, il getto d’acqua d’una fontanella nuova. Forse tra coloro che
avevano coronato gli autobus romani di quelle coppie di lettere, c’era qualcun o non romano. E’ possibile,
perché di tanto in tanto, tra tutta l’Italia che affluisce qui, c’è qualcuno naturaliter romano ma questi lo
diventa di diritto e non rovinerebbe mai Roma come non rovinerebbe la propria anima se avesse il dono di
vederla.
Ci tolgono quelle coppie di lettere in cima agli autobus e le sostituiscono coi numeri. Oltre alle solite ragioni
tecniche, hanno addotto persino che non tutti conoscono le lettere dell’alfabeto.
Per favore, non buttiamoci così giù. E poi è noto ad ognuno che ci furono dei vecchietti analfabeti che con
gli autobus impararono almeno quelle lettere lì.
Ma i numeri, dicono, si tengono meglio a mente.
295
Non è vero, per qualcuno, ragioniere o grande matematico che sia, può darsi che il numero acquisti una
fisionomia più familiare della lettera, ma per i più non è così. Per i più la lettera, oltre al suono, ha una
faccia, un nome un colore, un’antipatia o una simpatia, ma il numero ha solo il posto che gli è riserbato nella
serie; a meno che non volessimo guardarlo sotto la smorfia del gioco del lotto. Allora però bisogna non
superare il 90.
In tutte le maggiori città del mondo, obiettano, gli autobus sono distinti quasi sempre con i numeri, di rado
con le lettere, in questo caso con lettere isolate, non accoppiate.
Qui vi volevamo! E se dappertutto o quasi, ci sono i numeri, a noi romani, scusate, che ce ne…importa? A
noi ci importa che voi oggi ci togliete, con quelle tabelle, un pezzettino di Roma.
Voi che difendete il banale conformismo dei numeri, non avete certo dimestichezza con Roma. Oh, si, ne
conoscerete le strade una a una; conoscerete persino le porte di tutte le case,ma non ne conoscete lo
spirito,non ne conoscete il silenzioso linguaggio, non siete stati assorbiti dal vortice della sua vita profonda.
Intanto non avete mai spiegato ai forestieri, nostrani e stranieri, il significato di quelle lettere, perché allora vi
sarebbe rimasta nel cuore la lieta meraviglia di coloro a cui sillabavate le misteriose sigle e ne avreste
dedotto che anche quelle coppie di lettere erano una tessera dell’invisibile mosaico fatto di pietruzze grandi e
piccole, preziose e no, dal quale emana il misterioso fascino di Roma.
ST: Salario-Trastevere. C’è già qui uno spunto per sapere la meta dell’autobus; spunto che il numero non
suggerisce. Ci sarà un settore entro il quale giocherà la prima decina, la seconda in un altro e così via; ci si
familiarizzerà anche con queste finche numeriche, ma la fisionomia sarà distrutta, distrutto il colore che ci
davano le coppie di lettere. Salario è il quartiere intorno alla Via Salaria, la via per la quale arrivava a Roma
il sale. Trastevere è la cittadella della fierezza romana, dove troveremo S.Maria e le osterie, la più piccola
campana di Roma e le centinate casette medioevali, il vecchio cantaro della basilica caeciliana e l’antica
gente quirite.
NT: Nomentano-Trastevere. Dalla via consolare di Nomentum alla mica aurea gianicolense, dall’Aniene alla
riva destra del Tevere.
FL: Dalla consolare Flaminia alla Ostiense,a quella via che arriverà al mare di Roma, al Lido.
MP: dalla Porta Pretoria, dai Castra Praetoria che assunsero nell’epoca della controriforma il nome cinese di
Macao, ai Prati, a quella banale zona della Roma nazionale, dove prima si stendevano i Prati di Castello.
CP: dagli stessi Prati al Colosseo, dal mausoleo all’anfiteatro.
Il defunto NB ci avvertiva che dal Nomentano arrivava a Borgo, la cittadella di S.Pietro.
FR ci diceva che dal Flaminio potevamo andare a Ripa, al porto grande del Tevere, più a valle del porto
piccolo, di Ripetta. E arrivati a Ripa eravamo a due passi dal monte dei Cocci e dalla piramide di Cestio.
Gli occhi e il sorriso dei forestieri che sentivano queste storie qui accennate di sfuggita, si aprivano con
simpatia e anche in quelle targhe di autobus, imparavano a scoprire Roma.
E perché Roma non assomiglia che a se stessa, poteva ben permettersi il lusso di avere delle indicazioni
autofilotranviarie diverse da quelle di Milano, di Berlino, di Parigi.
296
Paese Sera, settembre 1970
Una nonna tutta da scoprire
Niente paura, si tratta della città di Cortona che, stando all’anagrafe leggendaria, sarebbe la Nonna di Roma.
La cosa è chiarissima: Dardano partì da Cortona, sua patria, per andarsene a fondare Troia, da Troia partì
Enea per venirsene nel Lazio a gettare i presupposti per la futura Roma. Dunque, essendo Roma figlia di
Troia e Troia figlia di Cortona, Cortona, madre di Troia è nonna di Roma.
Date queste sue mitiche origini, la sua ben visibile grandezza etrusca, la sceltissima ricchezza dei suoi musei,
vien fatto di pensarla simile a un pregevole sepolcro antico. Inoltre c’è S. Margherita che contribuì ad
ammantarla di cenere nella mente di chi non la conosce. S. Margherita, che non era neppure cortonese,
andando lassù a compiere la sua spietata penitenza, le si affiancò in modo tale che oramai Cortona e lei
sembrano una coppia di buoi sotto lo stesso giogo. Invece bisogna separarle: sono due soggetti
completamente diversi ambedue interessanti.
Cortona non è vecchia e non è polverosa, pur essendo antica. E’ simile a una bellissima donna, adorna di
impareggiabili gioielli storici, serenamente protesa verso la vita. Si eleva come un trionfo in uno dei più
suggestivi paesaggi del mondo ed è tutta da scoprire. Non è certo nei suoi ricordi etruschi, nella ricchezza
delle sue opere d’arte, ma nel fascino delle sue strade, delle sue finestre, delle sue scale, dei suoi conventi.
Cortona, città che si gusta in ogni angolo, in ogni prospettiva, che fonde in un inseparabile abbraccio arte e
natura, allontana da sé il nome di nonna; ma se proprio lo è, allora bisogna riconoscere che è la Marlene
Dietrich di città.
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Paese Sera, ottobre-novembre 1973
1970 finestre
collocazione: Pg 73-75.
Tre anni fa si celebrò il nefasto centenario di Roma capitale d’Italia. Intervennero anche i preti, non per
celebrare le esequie di una città barbaramente distrutta, ma per assolverne la rovina.
La ricorrenza bicentenaria della morte di Luigi Vanvitelli che concepì, disegnò, in parte attuò una capitale
libera da condizionamenti ambientali, edilizi e storici, esistente di per sé, non appiccicata come una maschera
sul volto di Roma che era la capitale del mondo, ravviva la pena per quello che poteva essere fatto e non fu
fatto per salvarla. Bastava fare quello che già avevano fatto i Borboni: lasciando intatta la città, costruire,
vicine ma staccate, quelle sedi rappresentative e burocratiche necessarie a una capitale.
Perché questa condanna di diventare capitale toccasse proprio a Roma è un mistero che per spiegarlo non
basta la sua millenaria grandezza e la necessità di far dispetto al Papa, dato che Roma aveva tutto il
necessario per esserne esclusa.
L’Italia è la terra delle tante splendide città, è una lunga chiesa illuminata da candelabri uno diverso
dall’altro, ogni città grande o piccola, un candelabro prezioso; le più grandi erano tutte capitali, avevano tutte
la reggia le nostre più grandi città, anche se si chiamavano palazzo Ducale o palazzo Pitti.
C’era da scegliere. Scartando la millenaria fastosa città di Palermo troppo lontana per uno stato accentratore
e pauroso, c’era Bologna che sta nell’Italia come il cuore nel petto degli uomini. C’era Milano che non sta
“come” il cervello perché lo è e lo sarebbe stato nella formazione del nuovo stato che molto non ne aveva.
C’era Torino piemontese e sabauda; restando lì la capitale avrebbe risparmiato la grande rovina di Firenze e
la distruzione di Roma.
C’era Napoli, soprattutto, lasciata in ultimo come nelle processioni solo alla fine sotto al baldacchino avanza
il mistero sacro.
Napoli era già capitale da otto secoli e per di più “regia”, quel regia che tanto inteneriva i Carignano. L’unità
d’Italia in gran parte consistette in quell’aggettivo appiccicato a edifici, a istituzioni preesistenti da secoli,
alle rivendite dei tabacchi, al lotto che era un giochetto proprio da governo papalino.
Napoli era una delle più splendide capitali d’Europa. I Savoia risparmiandosi l’umiliazione di strapparsi un
alloggio con la forza, vi avrebbero trovato non una ma diverse regge, e tra le più belle al mondo.
Ne aveva una aperta sul più bel panorama d’Italia, un’altra a Portici, più amena perché più piccola. Nel ‘700
dalla grandezza, dall’arte, dalla magnificenza, dalla ricchezza, dalla natura, era nato l’immenso stupore che è
la reggia di Caserta. Carlo III pensava che la capitale sarebbe stata più libera e sicura all’interno, riparata
dalla violenza di qualunque genere fosse, dell’acqua, dell’ambiente, della società. Ne parlò a Luigi Vanvitelli
che sull’idea del Borbone innestò il suo miracolo. Alla proposta mastodontica Vanvitelli esplose come un
fenomeno della natura. Era sangue nordico il suo nel quale il sole meridionale funzionava da esaltante
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energetico.
In suo padre, nato in Olanda, restò l’incantata ammirazione di questi nostri luoghi solari che ritraeva con
infinito amore velando però i suoi quadri di grigioperla o di tenue lilla, un ricordo di melanconia. Nel figlio
nato a Napoli non ci fu ammirazione, ci fu immedesimazione, la natura era lui, lui che conosce solo il trionfo
della luce sia che lavori come architetto, come progettista, come tecnico.
Forse dal suo maestro Juvara aveva colto la scintilla. Valendosi del terreno, dell’altezza, dell’aria, del
panorama, Juvara aveva creato Superga dove non è la morte che viene celebrata, ma la vita serena nel riposo
della bellezza, nella dolcezza del sonno anche se è senza risveglio. Una scintilla che l’allievo poteva non
cogliere e conservare rispondente com’era alla sostanza della sua personalità: sentire terra acqua bosco cielo
pietra come un mistero religioso, vederne la divina bellezza, fondere il suo genio con questa natura arcana,
lavorarla da solo come fece Dio quando la creò.
Si può dire che ebbe Roma in mano perché il papa tutto affidava a lui del consolidamento del Cupolone,
all’erezione di chiese e monumenti nelle sue legazioni. L’arco clementino di Ancona, la chiesa del Gesù, la
cappella di san Ciriaco. Dove non arrivava materialmente lui si elevavano palazzi e chiese con i suoi disegni.
La deliziosa chiesetta della Misericordia a Macerata, ne è uno, in un breve spazio creò spazio a sorpresa col
movimento delle colonne. Compì il campanile di Loreto innalzandolo. Di spazio aveva bisogno Vanvitelli,
allargare, alzare, mai restringere. Col suo amico Salvi allungò la facciata di palazzo Odescalchi e qualcosa di
lui ci sarà certo, come ispirazione, come esaltazione nella Fontana di Trevi. Il convento degli agostiniani è
suo e non si può dire che sia un conventino. Ma gli toccarono anche lavori che non erano consoni al suo
temperamento: manipolare il già fatto. La chiesa di s. Agostino non uscì migliorata dalle sue mani; quella di
s. Maria degli Angeli meno ancora. Lo spazio qui ci sarebbe stato, quello spazio romano che Michelangelo
voleva conservare, che i successori guastarono, che il Vanvitelli doveva completare. Lui avrebbe sfondato,
riaperto, rimessa in efficienza tutta la grandiosità romana ma non si doveva; chiudere si doveva, restringere,
coprire, falsare, far diventare lunghezza quel che era larghezza. Se la chiesa fu così stravolta non è certo
colpa di Luigi Vanvitelli su cui aveva messo gli occhi uno dei più illuminati sovrani d’Europa, Carlo III di
Borbone. Lo chiese al papa Lambertini che, bonario come sempre glielo concesse. Forse aveva anche intuito
che Roma non dava abbastanza spazio a quel creatore.
A Napoli innalzò subito con quello dei figli che riusciva a lavorare come il padre voleva, la chiesa dell’
Annunziata e a metà di via Toledo apre un trionfalistico emiciclo in onore di quel sovrano che gli dava ciò
che quasi nessun uomo riesce ad avere: la possibilità di lavorare a modo suo. A Portici eccolo alle prese con
gli scorci di mare, di luce, di piante, di colonne nella “residenza” che i Borboni si erano già costruita lì
attirati dall’amenità del luogo, quasi una reggia in campagna.
Napoli è città di regge; i secoli ce le hanno lasciate come le incrostazioni marine sulle colonne di Pozzuoli.
Regge fortezze come Castel dell’Ovo, normanne come Castel Capuano; castelli rivoluzionari come quello
dei Carpamazzi reali veri e propri; piccole regge muliebri come la Floridiana; regge per ospitare i capolavori
d’arte come Capodimonte.
Tante regge in mezzo ad uno dei popoli più ricchi della terra, ricco tanto che trasforma in vita anche la sua
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indicibile miseria, tanto ricco e dignitoso che in ogni basso c’è lo spirito di una reggia.
In questa città di regge Carlo III ne volle una tanto grande che tutte le comprendesse, lontana dalla città, al
riparo da turbamenti causati dalla violenza, di qualunque natura essa sia. Non s’ispirò a palazzo Carignano,
mirò a Versailles. Una Versailles in mezzo alle meraviglie della terra campana.
Più di questa reggia ai Carignano importò più punzecchiare il papa occupando una sua casa con la forza
come fanno qualche volta i baraccati, umiliando se stessi e condannando a morte Roma.
La reggia c’era ed era una delle più belle del mondo se non la più bella perché cascate come quelle che il
Vanvitelli costruì difficile trovarle. Una reggia fatta con mattoni, pietre, marmi, metalli, erba,alberi, acqua,
popolata da statue di animali, di ninfe, di eroi, di apparizioni. Altro non sono che apparizioni certi scorci,
certe lontananze, certe sorprese. Ha alleggerito mattoni, pietre e marmo creandosi ariosi labirinti di colonne,
di gallerie che non si chiudono mai, dando l’illusione di un gioco di specchi come nella gloria di certi presepi
che a forza di essere riflessa pare infinita. Introducendoci nella sua creazione ci introduce in una esplosione
di sogni. Non è solo sogno, è canto. In questa vastissima opera paesistica si passa come in un poema dalle
molteplici cantiche a tutti i toni del lirismo. Monumenti di pietra ed acqua, questo sono le fontane profuse da
chi poteva contare sul suo inesauribile genio creativo. Acqua pigra, acqua rapida, acqua a cascate, ad archi, a
zampilli, sgorga copiosa, gioca con l’erba, si nasconde sotto di essa, riappare per giocare con l’aria e
balaustre, scogli, grotte per contrapporre il gioco raccolto a quelli affidati allo spazio e alla lontananza.
La reggia di Caserta è appoggiata a un’opera della potenza di quelle romane, all’acquedotto carolino che
percorre chilometri e chilometri, attraversa colline, valica le valli con superbi viadotti. Creatore, tecnico,
artista, un uomo solo e tutto in pochi anni. E anche la città intorno alla reggia immaginò e disegnò, città che
rimane a mezzo, la capitale solo capitale. Quello che avrebbero dovuto fare i Savoia se fossero stati
all’altezza dei Borboni. La città progettata dal Vanvitelli aveva le caratteristiche che solo ora si cominciano a
proporre come necessarie alla moderna urbanistica.
I Borboni e questo popolo terrone bistrattati da una parte dell’Italia unita, pare che sapessero scegliere i loro
architetti, pare che sapessero farli i loro sogni preveggenti. Gaetano Filangeri sublimava le leggi, il Borbone
ne tentò la realizzazione e fu S. Leucio. Come nell’agro Patrimonio di s. Pietro si erano costituite le domus
cultae, quelle libere comunità autosufficienti generate dalla necessità di raccogliersi e difendersi nella
solitudine di quelle terre, Ferdinando di Borbone, con ben superiori intendimenti, volle provare. Quella
superba reggia ebbe vicina una comunità basata sull’uguaglianza e sulla libertà, autonoma e autosufficiente
con diritto all’assistenza sanitaria e all’istruzione, poteva essere la prima di tante altre che avrebbero potuto
fare della Campania la serra della libertà e del progresso. Ma i fermenti che preparavano l’unità italiana si
sovrapposero provocando reazioni che tanto fecero comodo ai piemontesi. La Napoli che ha profuso la
felicità della sua terra, il pensiero dei suoi uomini, la genialità del suo popolo e il suo saper soffrire, che
prima dell’annessione al regno italiano aveva conosciuto splendori culturali a livello europeo, oggi tra cozze
e ciminiere continua la sua via crucis. Può venire il dubbio che invece di opera unitaria si sia fatta della
vivisezione.
Ma la reggia creata da Vanvitelli resta, è un sogno realizzato come non lo fu quello di Francesco d’Assisi.
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Volandoci sopra, priva com’è delle 4 torri angolari e della cupola centrale progettate dal Vanvitelli, la reggia
pare un’immensa finestra crociata appoggiata per terra. Una finestra coricata, traforata nel suo spessore da
1970 finestre. Inutile contarle, si ricomincia sempre daccapo. Tre anni fa quando si celebrò il centenario
dell’unità raggiunta con l’annessione di Roma (che per concludere davvero ci vollero altre guerre), una unità
che volle dare tinta unica a quello che era un fiorire di varietà, nel 1970 invece di quel disgraziato ricordo di
Roma, sarebbe stato meglio celebrare le 1970 finestre di Caserta, una coincidenza che non si ripeterà mai
più.
301
Il Globo, novembre 1973
Il lenzuolo piegato
collocazione: Pg 102.
“Il sepolcro è vuoto!” avevano gridato le donne che erano andate per imbalsamare Cristo. Pietro e Giovanni
corsero; questo, più giovane, arrivò prima dell’altro, ma non entrò; però vide in terra le bende che avevano
avvolto il cadavere. Pietro arrivò dopo, ma entro; vide i lini e anche il sudario da un’altra parte, piegato.
Questo su per giù il racconto dei Vangeli.
Il lenzuolo, piegato e messo da parte non si sa da chi, potrebbe essere la Sindone di Torino, un telo lungo più
di due volte un corpo umano, tessuto a spina di pesce con filo di lino tratto da fibre grezze. Nel mezzo, la
duplice tenuissima impronta di un corpo umano visto nel di fronte e nel dorso come succede quando tra due
pagine di un libro si mette a seccare un fiore. Più visibili sono certe macchie che sarebbero il sangue delle
ferite di Cristo. Più visibili ancora certe gore lasciate dall’acqua adoperata per spegnere i due incendi nei
quali fu coinvolta. Più visibili ancora le bruciature del primo incendio, quello di Besançon. Visibilissimi i
rappezzi che le monache sovrapposero alle bruciature del secondo incendio, quello di Chambéry e su tutto il
passaggio opaco del tempo.
Pare che il secondo incendio avvenisse nella cappella del papazzo dei Savoja quando la proprietà della
Sindone era già passata a loro. Nella retorica che coperse la penisola dopo la rabberciata unità politica, ebbe
un posto di prima fila quella sulle prodezze e le tenerezze della dinastia. Si disse allora che le principesse di
casa Savoja avessero messe quelle pezze stando in ginocchio. Monache e principesse potrebbero avere
agucchiato insieme intorno al lenzuolo di Gesù che è esso stesso un double-face.
Ma il boom della Sindone scoppiò nel 1898 quando l’avvocato Pia, avuto il permesso da Umberto I di
fotografarla, nello sviluppo della lastra s’accorse di avere ottenuto il positivo dell’incerta ombra umana che,
solo allora lo capì, era il negativo di quell’immagine risultata positiva. Con alti e bassi si arrivò al 1931
quando Giuseppe Enrie, emerito studioso di fotografia, riprendendo con mezzi più perfezionati l’insieme e i
dettagli del lenzuolo, ne scandagliò tutto ciò che l’obiettivo fotografico poteva allora scandagliare. Anche per
Enrie, quando vide affiorare nello sviluppo della sua prima lastra, quel volto arcano e misterioso, l’emozione
fu un sigillo che lo segnò con impronta indistruttibile. Da vecchio, quando ne parlava, faceva ancora il gesto
di dondolare la bacinella dove l’acido stava rivelando un volto che poteva essere … quello di Cristo.
Nonostante che lui credesse all’autenticità della reliquia, ne parlava e ne scrisse con l’obiettività dello
scienziato come hanno continuato a fare gli studiosi di sindonologia italiani e stranieri, laici ed ecclesiastici;
tra questi il dotto e infaticabile monsignor Giulio Ricci.
Prima che la fotografia col suo positivo desse maggiore certezza a quell’incerta figura, la Sindone era stata
creduta un miracolo, un trucco. Ma la fotografia svelò che pittura non è;né si poteva immaginare un negativo
quando la camera oscura era ancora al di là dei secoli. Va bene; ma se sul telo ci sono macchie e colature di
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sangue,vuol dire che nel sepolcro il sangue usciva ancora dal corpo di Cristo, che il suo cuore batteva ancora,
che Egli era vivo. Se era vivo barcolla la Risurrezione su cui il cristianesimo poggia, non come dottrina, ma
come religione, perché dal sepolcro poteva non essere uscito un corpo glorioso, ma un uomo riavutosi da
profondo collasso.
Era venerdì, il tramonto vicino, bisognava fare tutto in fretta: col crepuscolo cominciava la religiosa
inattività del sabato che, per di più, quella era Parasceve. Forse si seppellì un vivo. Formidabile dubbio del
quale, si disse, tempo fa, il Vaticano ha tanta paura che cerca di distruggere la Sindone.
Era avvenuto che un insuperabile acrobata, per due volte, a rischio di rompersi il collo, per rovinose scalette,
oramai dimenticate da sagrestani e custodi, scavate nello spessore dei muri, arrivasse alla Sindone per darle
fuoco con uno straccetto imbevuto d’olio. Ignorava dunque che adesso per bruciare la Sindone non è più
sufficiente la fiamma ossidrica. Il Vaticano che lo sapeva non stava tremando per quelle macchie; il suo
prestigio poggia su basi uniche al mondo. Con le reliquie, con i miracoli, con certe espressioni superstiziose,
si comporta come gli adulti con i ragazzini: purché non piangano li lasciano divertire con i giocarelli che si
sono scelti. Riguardo alla Sindone non ha mai detto di credere o di non credere alla sua autenticità.
L’agonia dei crocifissi era spaventosa: soffocavano, per respirare facevano sforzi orribili sollevandosi sui
piedi, chiedendo aiuto alle mani. La rottura delle ossa dei ginocchi avveniva per togliere la possibilità di quei
ultimi strazianti respiri; equivaleva al colpo di grazia.
Lo sforzo che faceva Cristo nel sollevarsi per respirare era più spaventoso perché non era legato, ma
inchiodato alla croce. A lui però non spezzarono le ossa perché era già morto, ma per maggiore sicurezza gli
trafissero il cuore con la lancia.
Le sofferenze avevano certo provocato in lui abbondante sudorazione con emanazione di vapori
ammoniacali diffusi dall’urea del sangue.
Quando fu messo nel sudario il sangue era coagulato di sicuro, ma con l’umidore ancora evaporante dal
corpo appena morto e in fretta sepolto, aggiunto all’umidità del sepolcro, nuovo e scavato nella roccia, si
sciolsero i coaguli e il telo li assorbì, una specie di soluzione della fibrina sanguigna. Il lenzuolo era
imbevuto di aloe e di mirra; l’aloe in presenza di sostanze alcaline emesse dall’umidore cadaverico si altera
assumendo quella tinta bruna che ha l’impronta della Sindone. Era morto, è provato, dicono questi. Non è
affatto provato, rispondono gli altri.
Argomenti tutti che coinvolgono storia, scienza e posizioni religiose e no, senza riuscire a sciogliere il
mistero.
Anche sull’altezza di Cristo si discute. S’era sempre detto che avesse avuto la statura media dei palestinesi:
basso no, altissimo neppure. Adesso che la statura ad asparago fa tanto moderno, si vuol dedurre dalla
Sindone che era altissimo. Le fibre di un tessuto tanto lungo con i loro 2000 anni di vita si sono certo
rilassate;di un tessuto che con lo stare arrotolato intorno ad un asse, a volte per secoli, e che ne ha favorito
l’allungamento,non possono dare l’altezza di Cristo che, del resto, non ha nessuna importanza. Ben più
importante è l’espressione del volto.
Stando arrotolata con le impronte all’interno, la seta rossa che la fodera nel retro, dovendo percorrere un
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circuito più ampio, esercitava nel tessuto sottostante una pressione che, per rimettersi al passo con la fodera
doveva ogni tanto aggrinzarsi. Ecco la causa di quelle pieghe sottilissime che risultano righe bianche nel
negativo e nere nel positivo.
Mettersi sulla strada dei pro e dei contro è interessante anche per i dubbi che camminano affiancati a loro.
Sul dorso ci sono i segni della flagellazione. Possono i lividi lasciare la loro forma su una stoffa, o anche lì
entra un processo di reazione chimica? Certo che intelligente e colto dovette essere il falsario se ci fu, perché
quei lividi li fece col segno delle due pallottole terminali come era veramente il “flagellum” romano.
Gli ebrei calavano sul volto del morto, prima del lenzuolo, un panno di lino. Se questo fu messo, come
riuscirono i vapori del corpo a impressionare il lenzuolo? Dimenticato per la fretta.
Se il lenzuolo fu tirato dalla nuca sul volto, l’impressione della testa doveva essere continuativa. Fu lasciata
una piega del tessuto dietro? Ma i capelli che sembrano soffici e gonfi, potevano imprimere la tela come se
fossero stati un rilievo solido?Si ipotizza che fossero stati sollevati da bende per incorniciare il volto. Ma se
ci fu l’acconciatura da parrucchiere, dove va a finire la fretta per il Parasceve? Che indovinino quelli che per
dissacrare dicono che nel lenzuolo fu posto un manichino preparato in modo da lasciare le sue impronte sulla
tela? Ma un viso di quella potenza, poteva averlo un manichino? Perché avrebbero faticato a dargliela dato
che non potevano supporre la scoperta della fotografia che lo avrebbe rivelato?
Siamo abituati a vedere Cristo in croce disegnato, dipinto, scolpito, sempre con una fascia intorno ai fianchi,
ma l’aveva veramente? Difficile supporre un riguardo per il pudore del condannato in gente che alla richiesta
di acqua rispose comprimendogli sulla bocca una spugna imbevuta d’aceto. Se l’avesse avuta, data la fretta
con cui bisognava seppellirlo, non avrebbero perso tempo a levargliela. L’impronta del Sudario è di un corpo
perfettamente nudo; se è di Cristo egli stette sulla croce nudo com’era giusto che fosse per il nuovo Adamo.
Pare confermato che il tessuto è di quell’epoca dal polline di certi fiori. Pare che gli scienziati ci diranno se
le impronte della Sindone sono effetto delle radiazioni del corpo di Cristo. Si studierà, si analizzerà e la
Sindone resterà chiusa nella bellezza del suo mistero.
In tante ipotesi passate, presenti e future, il fatto meno ipotetico, anzi l’unico certo e che smentisce tutta
l’iconografia cristiana, è il segno delle stimmate. Si chiamano così le ferite fatte dai chiodi nelle mani e nei
piedi di Cristo e quella della lancia sul suo petto.
In antecedenza lo stigma era un marchio, un segno, impresso nella carne viva con punture di ferro o di fuoco,
a significare schiavitù, irreggimentazione, condanna, affiliazione a sette comunitarie o religiose. San Paolo
adoperò per primo quella parola, ma in un senso che non ha niente a che vedere col senso che prese in
seguito. Gli apostoli non erano cristiani così come noi l’intendiamo, erano ebrei che credevano nel Maestro
scomparso, restando fedeli alla legge ebraica. Naturalmente anche i nuovi seguaci della dottrina predicata dai
discepoli di Cristo,restavano ebrei osservanti di tutte le loro leggi cominciando dalla circoncisione, il segno
sacro che li distingueva; si sarebbero sentiti ribelli a Dio senza quel segno che, assoggettandoli, a Lui li
legava.
Certo a loro apparve un poco blasfemo Paolo, quell’infatuato convertito, nell’insieme più gentile che ebreo,
che sosteneva si dovesse tralasciare d’imporre quel segno perché superato. Fu proprio in una epistola su
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questo argomento che apparve per la prima volta la parola stigmate, “io porto nel mio corpo le stigmate di
Gesù”. San Paolo non dava alla parola il senso che le diamo noi; non ebbe mai nel corpo quei segni; non
pensava neppure alle ferite di Cristo che in questo caso avrebbe detto “fixurae”; egli diceva di avere nello
spirito il segno che gli altri avevano nel corpo. Fu dopo, molto dopo, che la parola significò le cicatrici della
passione di Cristo e stimmate furono la riproduzione di quelle fixurae sul corpo dell’uomo.
San Francesco fu stigmatizzato. Gli si presentò un serafino in croce, sei ali infocate, gli dardeggiò sul corpo i
segni della passione di Cristo: le mani furono trafitte nel mezzo della palma.
Dopo san Francesco ogni tanto è apparso qualcuno con le stimmate; di uomini in realtà pochi; di donne tante,
ce ne furono, ce ne sono.
Padre Pio le ebbe, ma fu tutto un grosso mistero italiano. Quel suo confessionale dove tra attese notturne,
lagrime, improperi, seggiolate e urli del frate, si affollavano i più strani tipi del mondo; quel suo ambiente tra
miracoli e affari, tra rozza semplicità e azioni inestricabili, sono tanti misteri uno dentro l’altro sino al
sassolino ermetico delle stimmate. Prima le teneva scoperte, erano tra il medio e l’anulare, vicine alle dita,
poi le nascose sotto i famosi mezzi guanti.
Salvo che per san Francesco, la Chiesa non mostra simpatia per quei fenomeni; si direbbe che la disturbano
se appaiono; il giudizio lo rimanda alle calende greche e se proprio deve pronunciarsi, lo fa con ambigua
cautela.
Ebbe più sopportazione per le statue semoventi delle vecchie campagne elettorali; forse perché il ciarlatano
fa ridere, il patologico ripugna.
Di qualunque natura esse siano, false lo sono sempre, lo dice la Sindone con l’impronta che ci lasciò un
uomo sicuramente crocifisso con chiodi.
Un corpo umano non può sostenersi appeso a due chiodi infilati nel metacarpo,vale a dire, tra le dita non
ancora divise; la carne si straccerebbe, non ne reggerebbe il peso.
Ebbene, in quel sudario la ferita della mano non è nel palmo, ma molto più vicino al polso, è tra le ossa del
carpo. In quel punto sì, due chiodi potevano reggere quasi interamente il peso di un corpo abbandonato.
Nella Sindone quel segno è al posto giusto secondo la fisica e secondo l’anatomia. Se è falsa, essa fu
compilata tanti secoli fa da un mistificatore guidato dalla ragione, non dalla immaginazione.
Perché invece gli stigmatizzati hanno tutti queste ferite della mani fuori posto?
Il Crocifisso è stato sempre riprodotto da artisti e artigiani, col chiodo nel mezzo della mano. Gli innamorati
del suo sangue fissano quelle immagini, meditano su quelle ferite, ci si chiudono, “intra vulnera tua asconde
me”, su quei segni convergono tutte le loro forze affettive, mentali e nervose; se hanno una speciale natura
adatta al fenomeno, essa fa il resto; la loro carne riproduce quel che, fissandolo, li esalta.
Così si pensa noi profani; però piacerebbero assai le spiegazioni che possono darne studiosi competenti.
Sapere perché anche il Serafino di San Francesco si sbagliò imprimendogli quelle fixurae dove Cristo non le
ebbe.
Che se in questi fenomeni ci fosse qualcosa che trascende la patologia umana, bisogna dire che con i nostri
errori Iddio ci si diverte.
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Paese Sera, fine 1974
Un po’ dei tanti centenari (addio al 1974)
collocazione: Pg 79.
Il 1974 si chiude su un numero straordinario di crisi, malefatte, tram e centenari: salutiamoci su quest’ultimo
argomento.
Venti volte cent’anni fa moriva Terenzio Varrone che tutto studiò, terrestre e trascendente, di tutto scrisse e
col presente e il passato guardò il futuro rivelando molto all’umanità di se stesso. Degno perciò di rimanere
seduto tra noi come sta nella sua Rieti, guardandoci in faccia e maneggiando carte.
Dodicesimo centenario della calata di Carlo Magno in Italia. Sempre nefaste le calate per noi. S’erano
strizzato l’occhio, papa e imperatore; questo calò e ne nacque il Sacro Romano Impero, un corpo fatto di due
cose distinte.
Settimo centenario della morte di san Tommaso d’Aquino a cui Cristo disse, parlandogli attraverso un
crocifisso: “Bene scripsisti de me Thoma”, stroncata la contraddizione.
Settimo centenario della morte di san Bonaventura da Bagnoregio; coetaneo di san Tommaso, morì pochi
mesi dopo di lui. Dottore Angelico è chiamato Tommaso, inflessibile difensore della castità, Dottor Serafico
Bonaventura abbandonato al trionfo del mistico amore. Genio della speculazione il primo, genio del mistero
il secondo.
Settimo centenario del Concilio ecumenico di Lione che in un certo senso uccise Tommaso e Bonaventura.
Erano stati invitati tutti e due. Da Napoli Tommaso si mise in viaggio, uno di quei viaggi di allora fatti di
lento procedere e di molto vedere; in una sosta all’Abbazia di Fossanova, lo raggiunse la morte e lo fermò lì.
Bonaventura arrivò a Lione, ma due mesi dopo l’apertura del Concilio morì. Il Concilio fu come un corpo
che invitandoli testimoniava di volere il trapianto in sé del diverso sapere dei due e nello stesso tempo
fisicamente li rigettava. Parve che il domenicano Tommaso e il francescano Bonaventura, pari grandezza,
assoluta diversità, sorgessero in un’epoca travagliata della chiesa perché essa facesse la sua scelta.
Difatti prima assai del Concilio il Papa li aveva un giorno tutti e due davanti a sé, dovevano leggergli una
composizione che separatamente aveva ordinato. Invitato a leggere per primo fu Tommaso, poi Bonaventura,
ma questo non poteva più leggere: mentre ascoltava Tommaso aveva stracciato la sua composizione. Se il
Papa avesse invitato prima Bonaventura, Tommaso avrebbe stracciato la sua?
Sesto centenario della morte di Petrarca, l’incoronato poeta viaggiante che non libero ancora dei tormenti
medievali sente in anticipo quelli nostri esistenziali. Il fuoco che a 23 anni lo accese d’amore per Laura duro
tra esaltazione e repulsa, benedizioni e rimorsi, per tutta la sua vita, lo spense con un soffio la morte.
Sesto centenario della nascita del pittore marchigiano Lorenzo Salimbeni unito nella vita e nell’arte a suo
fratello Jacopo da non poter distinguere nelle tavole, firmate da tutti e due, quale la sua mano quale quella
del fratello: fratelli siamesi nello spirito, erano indistinguibili.
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Sesto centenario della nascita di Jacopo della Quercia, il prestigiatore che dette il respiro al petto della
marmorea Ilaria del Carretto e il calore vitale del cane ai suoi piedi.
Quinto centenario della nascita di Ludovico Ariosto, pratico, accorto, equilibrista, spaziò nella fantasia come
folletto mai stanco di creare. Pensò anche di mandare qualcuno sulla luna, magazzino di tutto ciò che
quaggiù si perde, per recuperare un po’ di senno necessario agli uomini. Operazione esattamente inversa
deve essere avvenuta con l’andata reale dell’uomo sulla luna: invece di recuperare il senno umano ce lo
hanno depositato, da allora ad oggi la pazzia nel mondo è in crescita.
Quinto centenario della morte del musico integrale Guillaume Dufay che ogni parte della musica ebbe in suo
potere, baccalaureato in utroque, cappellano, canonico e cantore.
Quarto centenario della morte di Giorgio Vasari, ammirato e discusso come pittore e architetto, come
biografo d’artisti interessante, piacevole, pettegolo.
Quarto centenario della morte di Bartolomeo Eustachio, umanista, greco, arabo, ebraico, medicina,
matematica, innovatore e scopritore nel campo anatomico, il suo nome tutti noi ce lo portiamo nell’orecchio;
uno dei tanti geni che le Marche hanno regalato al mondo con la semplicità del contadino che offre un frutto
della sua terra.
Terzo centenario della morte di Giacomo Carissimi, celebre compositore di musica sacra, semplice e
drammatico, un suo mottetto può ancora riempire di pathos la scettica folla moderna riunita dentro san
Pietro.
Terzo centenario della nascita del musicista Tommaso Albinoni; se non ci fosse stato lui le più sublimanti
fughe di Bach non ci sarebbero.
Secondo centenario della morte dell’irrequieto e illustre letterato inglese Oliver Goldsmith.
Secondo centenario della Madonnina milanese, quel madonnone che è diventato simbolo e amore della città.
Secondo centenario della nascita di Gaspare Spontini, il neoclassico musicista; uscito da un minuscolo centro
marchigiano, genio e circostanza lo portarono in volo da una corte all’altra per tutta Europa finché tornò alla
cuccia alla sua Majolati.
Secondo centenario della benemerita Guardia di Finanza.
I primi centenari non si contano, li ammucchio:
primo centenario della morte del Rovani che tentò con un romanzo di darci cento anni di storia della vita
lombarda – quella della prima mostra degli Impressionisti – della Costituzione – degli Ordini Forensi italiani
– della Legione de Carabinieri di Roma – cento anni compie la Messa da requiem di Verdi – la Casa Editrice
Sansoni testimonia se stessa per il suo centenario.
Cent’anni fa moriva Niccolò Tommaseo; austero, liberale, credente, patriota, studioso, prolifico di scritti e di
azioni, repubblicano convinto, inquieto e battagliero non si riposò neppure quando la completa cecità cercò
di seppellirlo.
Se fossero vivi avrebbero cent’anni:
Guglielmo Marconi, genio della scienza, da tutti conosciuto nel mondo intero anche da chi non sa che cosa
precisamente abbia scoperto; meno noto come altissimo esponente della gente bene che passando per la
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Sacra Rota si rinnova.
Luigi Barzini, scrittore e maestro di giornalismo. Churchill, condottiero, politico, statista, scrittore, pittore,
tenerissimo amante di sua moglie. Luigi Einaudi da cui l’Italia avrebbe potuto imparare a condursi in modo
da non dovere dire ora: Dio! Come sono caduta in basso! Il pittore e xilografo Adolfo De Carolis destinato a
salire e scendere come le onde marine, ma la cui musicalità resterà sempre nell’aria. Antonio Graziadei. Dire
il nome è rivedere una piccola immensa figura: guerra appena finita, ad un secondo piano di Piazza
Fontanella borghese, lui tornava per farci comprendere il suo Marx; uno dei momenti più estatici dopo la
distruzione, prima del disincanto. C’è Gaetano Salvemini. Paer, Farman, Meyerhold, Fiaccone, Arnold
Shomberg, Somerset Maughan, e tanti altri, si dice sempre così per svignarsela.
Ma per i romani c’è anche il centenario della loro bottega di carta, oggetti di cancelleria e piccola stamperia.
Dietro i bersaglieri di Porta Pia scesero i piemontesi: “assumevano” tutto quello che toglievano; tra gli
assunti anche le cartiere tanto più che erano “meridionali” quindi bisognose di luce nordica. Assunsero e si
“stabilirono” con un vasto “negozio” in via Frattina.
Ma cosa provinciale non può assorbire cosa universale; il senso dell’universale a Roma era anche nei
robivecchi. Appena tre anni e il vasto negozio in mano ai Zampini fu romano. Lo scoppio del consumismo li
sloggiò da Via Frattina, entrarono più a dentro, nel cuore della vecchia Roma.
In quella cartoleria, la cui romanità nobilita anche le banali sacchette di plastica, si riflette quella che fu la
sorte della città e del papato dopo l’annessione: sceso il Piemonte per distruggere e assorbire, fu assorbito e
niente distrusse, neppure il potere temporale.
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Divagando per Trastevere
collocazione: Pg 94.
“Ora incomincio il tuo inno di lode, o Trastevere!” Per lo spazio di un secondo, tanto da stendere la mano per
prendere la penna, ho creduto che avrei scritto così. Una di quelle tante pulviscolari convinzioni, brevi più di
un respiro, che si avvertono come vere e nell’immediato finire sono già false.
Sciogliere un inno di lode a Trastevere! E’ semplicemente ridicolo. Trastevere si dice. Nel dirlo qual è, è il
suo massimo elogio, e nel riconoscere l’impossibilità di farlo compiutamente è la confessione della sua
grandezza.
Trastevere tutto fatto di terra color d’oro. Di terra color d’oro il monte, di terra color d’oro la pianura che si
abbassa sotto l’acqua a reggere il passaggio del fiume che porta sciolto quel colore.
Il S.Pietro trasteverino sta su un monte d’oro, “in montorio”. I santi Cosma e Damiano di Trastevere, riuniti
per amore di brevità popolana in san Cosimato, sono detti “in mica aurea” e così altre chiese e anche un
piccolo cimitero dove i morti dormono in mica aurea.
Trastevere, estremo ramo di gente etrusca che si fermò sulla sponda destra del fiume a guardare la grandezza
nascente della gente latina all’opposta sponda. Roma crescente lo fissava sospesa e non volle col Trastevere
risoluto ponti duraturi; ne bastava uno solo e purché fosse di legno, materia soggetta all’ascia e al fuoco.
Trastevere che è poi stato sempre un poco una piccola Etruria, che è tuttora una piccola Roma nella grossa
Roma come il giallo di un fiore è il cuore del fiore.
Trastevere che di fronte alla Roma dei sette colli, fu e restò la Roma di un solo colle, ma del più alto,
Trastevere è stato sempre temuto; è troppo dignitoso e fiero.
Trastevere, terra dove forse la leggenda è vera tanto essa è umana, e dove la verità è leggendaria tanto essa è
bella. Bella come l’aspetto statuario della sua gente, di quella poca che ci resta veramente trasteverina.
Trastevere, dove ha le fondamenta e i muri la casa di Cecilio e dove aleggia la musica della sua storia. Storia
che forse è confusa con la leggenda, ma dove c’è un dato così reale che si può toccare: l’atteggiamento
squisitamente penoso della martire.
Così come potrebbe non essere leggendaria la pietra su cui si inginocchiarono gli angeli avanti a S.Pietro
morente, proprio perché è una pietra senza orme miracolose; l’orma sarebbe un falso perché gli angioli non
ne lasciano.
Trastevere, terra da cui scaturì la fonte pacifica dell’olio, “fons olei” c’è scritto nel punto dove sgorgò
quando il Re della pace stava per apparire sulla terra. Quel punto sta dentro S.Maria, una delle più belle
chiese del mondo, proprio dalla parte del campanile che ostenta l’unica campana ribelle di tutta Roma, la
sola che sia uscita fuori della sua cella. E’ una campana trasteverina, all’occasione sarebbe una specie di
Giuditta Tavani Arquati.
Trastevere che, come solleva oggi una campana al di sopra di un campanile, sollevò, tempo addietro, sulla
sommità di una torre la grotta del Presepio. Era mezzo rovinata allora la torre degli Anguillara, non era
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pareggiata e lustrata come lo è oggi, ma proprio per questo poteva con più verità portare una grotta verso il
cielo. E il cielo, i colli laziali, tutto il movimentato e largo panorama romano, facevano da ambiente vero alla
grotta finta.
Trastevere si fa amare anche per i nomi delle sue strade e per i miracoli che, sparsi per il rione, vi lasciarono
nomi e monumenti. Per questo tra Merangoli, Polveraccio, Fienaroli, Botticella, Moro, Fico, troviamo Luce,
Scala, Orto.
Una casupola s’accese di luce come un sole per la impaurita preghiera di un cieco, ecco la Luce. Una
ostinata e muta Madonna di un sottoscala, dovette rispondere alla trasteverina che la rimproverava seccata di
aver chiesto invano: “Eppure se tu chiedessi a me un favore, io te lo farei subito!” e la Madonna per non
essere da meno, le raddrizzò il figlio, cosa che era la sostanza del favore richiesto, e venne la Scala. In via di
Monte Fiore, è il ricordo dei tanti giardini fioriti sulle rovine della caserma romana e forse solo ora non si
narrerà più della Frola (Flora) che stava in mezzo a quei giardini. Qualunque ne sia la ragione, è bello che
Trastevere abbia una strada chiamata Roma Libera.
Tutto il mondo è pieno di sepolcri e dappertutto ci sono tombe con un angelo o un genio nell’atto di spegnere
la face, simbolo della vita, capovolgendola contro terra, ma solo a Trastevere in una tomba così, fu scolpito:
“Buona notte, mastro Jacopo”. Io sostengo che bisogna amare Trastevere anche per quel “buona notte”.
Bisogna amare Trastevere per la sua festa. Anche oggi, nonostante gli orribili tubi fluorescenti e l’eccessivo
sfarzo luminoso che abbaglia e nasconde gran parte del fascino locale, conserva lo spirito e il carattere di
quando ornava strade e vicoli con cascate di catene e festoni di lanternini, gli uni e le altre di carta colorata.
Bisogna amare Trastevere per lo zelo con cui la sua farmacia, la seconda di tutta Roma, si occupò di
diffondere farmaci per sedare gli isterismi femminili.
Bisogna amare Trastevere che fu sempre in prevalenza terra di lavoratori, tanto che S.Benedetto di lì portò
via il suo “prega e lavora”. Bisogna amare Trastevere perché S. Francesco lo scelse per sua dimora e per
quella del suo primo convento romano; tutti sappiamo quali erano i suoi criteri di scelta. Dobbiamo amarlo
perché il Petrarca fu incoronato poeta da un trasteverino; perché sul Gianicolo trovò l’estremo rifugio il
Tasso; perché qui Raffaello incontrò la gioia viva della sua vita.
Capita di divagare così col pensiero, vagando per Trastevere; capita di pensare a queste e a tante altre cose
perché la ricchezza del rione è inesauribile tanto che si possono anche incontrare frammenti di vita simili a
pensieri.
Può capitare, per esempio, di fermarsi in piazza S. Apollonia, dove s’ alza la facciata di S. Margherita e di
pensare che è giusto che la piazza si chiami così, perché S. Margherita c’è e ognuno la vede, ma S. Apollonia
non c’è più e vive solo nel ricordo di quel nome; non c’è più nemmeno il convento annesso alla chiesa dove
si rifugiò la Fornarina dopo la sua avventura semidivina. E può capitare che riaffiori d’aver sentito dire che
da quelle parti doveva esserci murata una lapide a ricordo di un abbraccio. Sì, l’abbraccio di Garibaldi con
quella gente che aveva votato per lui allora che era vivo, come pare che continui a fare ora che è morto.
Capita di guardare tutto intorno i muri della case per ritrovare la lapide e nel vedere solo una scrostatura
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regolare sul rivestimento di un muro, di cadere subito nella colpa del giudizio temerario “l’hanno tolta!”.
Capita di rivolgersi a un uomo che sta dritto sotto l’arco di una porta e di chiedergli: “Stava lì, è vero, la
lapide dell’abbraccio di Garibaldi Garibaldi?” E di sentirsi rispondere che la lapide non sta fuori, ma dentro
casa, che non ci è stata portata, che è stata sempre dentro, perché il comizio dove avvenne l’incontro tra
Garibaldi e il suo Trastevere, fu in un teatrino che ora è un magazzino, che la lapide c’è tuttora, ma non si
vede più perché tutte le pareti sono state scialbate. Capita di entrare col cortese informatore in un grande
magazzino pieno di casse e di mastelletti di marmellata, di disturbare un gruppo di uomini che stanno
evidentemente discutendo di affari, per farsi dire dove è la lapide, di guardare fisso nel punto indicato e di
non vedere nulla, altro che del muro come tutto il resto; di salire allora su di una seggiola e di ritrovare con i
polpastrelli delle dita, come nella lettura della scrittura Braille, le lettere dell’iscrizione. Capita che gli
uomini attirati dal nome di Garibaldi interrompano il loro lavoro, si avvicinino e leggano correntemente in
criptografia, come se vedessero le parole, rendendo quasi inutile la proposta avanzata e caldeggiata di
togliere lo scialbo e di ridare l’inchiostro alle lettere incise, perché è vero che la lapide è nascosta
dall’intonaco, ma è vero anche che quegli uomini la sapevano tutti a memoria.
Inutile dire, inutile fare, lo spirito di Trastevere fu e resta naturaliter popularis, naturalmente repubblicano.
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11 febbraio 1626
collocazione: Pg 111.
Gli Etiopi che insieme con gli Ebrei furono i due soli popoli monoteisti dell’antichità, accettarono il
Cristianesimo sin dai suoi primordi, ma la nuova fede non poteva rimanere pura e inalterata in una razza per
la quale la superstizione fa parte della sua natura. Difatti Dioscoro, seguace di Eutiche, vi diffuse l’eresia
monofisita che, mescolata a riti pagani propri del luogo. Costituì da allora a oggi la religione abissina,salvo
una breve luminosa parentesi nel secolo XVII in cui il Negus Seltàn Sagàd volle riunirsi alla chiesa di Rum
(Roma) “senza della quale non v’è luce”.
Pochi anni avanti quando l’Etiopia era stata invasa dai Mussulmani, il Negus Claudios aveva chiesto aiuto ai
Portoghesi giurando in compenso che tutto il paese, con lui a capo, sarebbe tornato alla fede cattolica. I
Portoghesi risposero all’appello solo per riconquistare a Roma quel popolo imbevuto di errori.
Ma dopo che il capitano Stefano da Gams coi suoi soldati lo ebbe liberato dall’invasione mussulmana, non
volle più sapere del giuramento fatto e annunziò al Papa che non avrebbe ricevuto il Patriarca che Egli si
preparava a inviare come suo legato. Iddio per castigo, dicevano allora i pochi fautori del cattolicesimo,
aveva scatenato contro l’Abissinia i Galla.
Il Negus Malàc Sagàd fu anch’egli fedifrago, mentre il figlio che gli succedette, il Negus Jacob, che si
proponeva di mantenere fede al giuramento, fu esiliato, e per questo fu ucciso anche il suo successore.
L’Impero era ridotto un caos di rovina quando la corona fu offerta a Seltàn Sagàd che si era ritirato in un
convento dello Scioa.
- Per voi, disse il Principe, è una necessità rompere i giuramenti fatti e uccidere i re, perciò lasciatemi in pace
dove io sono.
I messi giurarono chiamando su di loro, sui figli, sul popolo tutto le più orribili maledizioni se questa volta
avessero mancato d’ubbidienza al sovrano che s’erano scelto. Seltàn Sagàd rispose:
- Voi mi date un regno contro mia voglia, io l’accetto, ma sappiate che voi farete la mia volontà.
E dopo aver ristabilito la pace interna si diede a studiare l’Haimanot-Abbau (il libro “della fede dei padri”)
dal quale dedusse che solo riunendosi a Roma, l’Etiopia avrebbe ripreso il cammino della civiltà.
Il Papa Urbano VIII rispose con paterna sollecitudine alla richiesta del Negus e inviò il Padre Mendez,
gesuita, rivestito della dignità di Patriarca della chiesa Abissina perché ricevesse l’abiura degli errori, il
giuramento di fedeltà e stipulasse con l’Imperatore un patto di amicizia. Lungo il disagevole viaggio il
Legato con gli altri religiosi furono fatti segno a dimostrazioni fanatiche da parte della popolazione, ma gli
onori culminarono nel ricevimento al palazzo del Negus. Il palazzo non era che tre grandi capanne circolari
col tetto di paglia, internamente coperte di tappeti, prive quasi completamente di altre suppellettili.
Il Negus aspettava il Patriarca nella zufan-biet o camera del trono o del letto che è la stessa cosa. Quando
questi entrò rivestito dei sacri paramenti, l’Imperatore gli fece omaggio parlandogli “in due persone” vale a
dire in plurale, com’era uso per persona di grande autorità. Il Negus per primo abiurò l’eresia e giurò fedeltà
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alla chiesa di Roma, poi a uno a uno tutti i notabili che erano intervenuti in vestiti di gran gala, ripeterono il
giuramento con la mano sul Vangelo che il Patriarca, seduto, teneva aperto sulle ginocchia.
La ratifica di questo “concordato” fu quella che solamente poteva impressionare il popolo abissino: la
minaccia di scomuniche, di anatemi contro chiunque avesse tentato di mancar fede al patto stabilito. Ma
siccome laggiù pare più grave una maledizione detta insieme da diverse persone piuttosto che da una sola, il
Mendez, in piedi, all’unisono con tutti gli altri preti del suo seguito proclamò la lunga serie delle maledizioni
che avrebbe colpito i dissidenti.
Però anche pronunziate in coro quelle minacce non fecero paura, perché morto Seltàn Sagàd, suo figlio
stesso, uccisi i sacerdoti cattolici, ricondusse l’Abissinia agli antichi errori nei quali dura tuttora.
Ma è forse vicino il giorno in cui si ridarà fede all’antico patto, l’Italia ne è garante. E una curiosa
coincidenza pare confermarlo: quel giorno lontano del 1626, era l’11 febbraio!
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Per favore!
collocazione: Pg 114.
Dopo i fatti di Roma e di Bologna, il più bravo gangster non potrà non riconoscere negli italiani i migliori
allievi del mondo e ripeterà che, dopo tutto, il popolo italiano è veramente intelligente.
Sì, signore, il popolo italiano è veramente intelligente: “America insegna”, si sente ripetere qua e là, tra la
gente che commenta quel fatto inaudito. Perché se è vero che il più bravo gangster e seguaci, non sono tutta
l’America, è ugualmente vero che quegli assassini di Roma e di Bologna, hanno nascita italiana e nome
italiano, ma non sono allievi nostri.
Non si vuol mica dire che da noi non ci siano assassini. Per carità! Di assassini ne abbiamo sempre avuti e
tanti, ma erano assassini “made in Italy”. In genere qui si ammazzava per passione esasperata, per amore
tradito, per vendetta familiare, per gelosia irragionevole, per follia irosa, per miseria inguaribile, qualche
volta anche per rubare. Ma i nostri assassini occasionali, erano impulsivi; quelli premeditativi, con una scorta
di sangue freddo presto esauribile.
I delinquenti che hanno legato Roma e Bologna con due complicati nodi di assassini, sono nuovo per noi,
nella realtà.
Però quelle irruzioni in pieno giorno in locali aperti al pubblico, pistola in pugno e sciarpa tirata sul naso
come nei giorni di tramontana; quelle colluttazioni selvagge; quelle fughe a piedi o in macchina; quello
sfuggire agli agenti accoppandone almeno un paio; quel saltare su macchine di passaggio, da una all’altra;
quell’abbattere il passante come chi per fretta gli darebbe una spinta; quella calma cinica davanti al cadavere
di una vittima ed al pianto della madre di un’altra; tutti questi orrori, composti di fughe, di sparatorie, di
rapidità, di gente falciata dal fuoco, di chiazze di sangue, di donne eleganti, bionde o brune, che appaiono e
scompaiono tranquille ed equivoche, sono storie che noi vediamo sugli schermi da anni. Gli schermi sono
nostri, ma le pellicole no. Ci vengono di fuori, forse ci sono anche imposte da una trafila di interessi e di
pressioni il cui punto di avvio è lontano e ci sfugge. Ce ne sono venute tante di pellicole raccontanti questa
storia che oramai ne siamo nauseati e ci basta vedere sui manifesti un campione di sparatoria, per girare al
largo. E non da questi soli, ma anche da quelli di molte pellicole passionali nelle quali un lato del triangolo
tradizionale è costituito dalla rivoltella: lui, lei, essa! La rivoltella è la diva che appare più spesso in quei
manifesti, domina incontrastata in quelli di pellicole di avventure; tutti tipi di pellicole che ci vengono di
fuori, ma che si proiettano sui nostri schermi. E anche tra il nostro popolo c’è una parte, che non ci fa certo
onore, ma che si diletta di simili spettacoli. Che meraviglia se qualcuno, sviluppando il proprio
temperamento ad una scuola, per lui anche divertente, riesca poi a rifare davvero ciò che gli attori hanno
finto di fare davvero? L’italiano è un popolo intelligente, lo dicono tutti!
E ora si vorrebbe fare una preghiera a quei paesi che ci mandano quelle pellicole: “Per favore, non
mandatecele più”; “i nostri films e quelli di altri popoli sono più sani anche se più veri”. Vorremmo dire così,
ma non lo diciamo perché tanto sarebbe inutile. Come sarebbe inutile se dicessimo: “Per favore, togliete
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dalle porte delle nostre botteghe quei bolli rossi che richiamano la tristezza delle porte sigillate per sequestro;
toglieteci quei paraventi colorati che ostruiscono tanti scorci delle nostre belle strade, toglieteci tutta quella
esuberanza di sdolcinati manifesti che vorrebbero farci credere come un intruglio colorato sia capace di tutto,
anche di vincere le corse”. Sarebbe inutile che le dicessimo, ormai la rete è così ampia che ritirarla sarebbe
difficile.
Però un favore vogliamo tentare di chiederlo: “Per cortesia, risparmiateci la diffusione che ci state
promettendo, della vostra gloriosa storia, in fascicoli settimanali, sia pure sotto costo”.
In democrazia anche i paesi coloniali hanno diritto di esprimere un loro desiderio, tanto più quelli che lo
sono appena.
E poi se l’esportare storia nel nostro paese è manifestazione di ignorante sicurezza di una parte, lo è pure di
assurda acquiescenza da parte nostra. Perché se importare si deve, importiamo qualcosa che ci serva. Proprio
di storia non sappiamo che farcene.
Ce ne abbiamo tanta che, se fossimo anche noi bravi esportatori, potremmo riempire i mercati del mondo.
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Il nome segreto
collocazione: Pg 116.
Chi è Roma, come si chiama, noi non lo sappiamo, né mai lo sapremo così come ignoreremo chi sia una
persona che si tenesse ostinatamente la maschera sul volto.
“Roma” è un nome-maschera, quello sovrapposto al vero, messo per essere visto, per essere detto e
soprattutto per nascondere l’altro.
Chi evocasse Roma lascerebbe in pace l’anima della Città perché il suo nome non è quello.
Il nome, che per noi conserva solo un valore giuridico e burocratico, aveva un’importanza essenziale
nell’epoca in cui nacque e fiorì la nostra città, la conserva ancora in alcuni luoghi della vecchissima civiltà
orientale, è viva tuttora in certi settori dell’umanità con una civiltà ancora primitiva e naturale. Il nome era
per noi allora, è per questi adesso un segno sacro, qualche cosa di così connesso con l’individuo che lo porta
da esserne una sua parte integrante, una specie di altro se stesso, o addirittura la sua anima. Per questo tanto
in Oriente come in America, presso alcune genti, si danno due nomi, uno segreto, l’altro palese, e gli sposi,
se vogliono, dopo le nozze si rivelano a vicenda il loro vero nome.
L’imposizione del nome era una delle più solenni tra le sacre cerimonie; il battesimo abbinando alla
redenzione dell’anima l’imposizione del nome tramanda qualche cosa di quella cerimonia.
Il nome è importante come la vita e se la vita cambia spesso cambia il nome. Così Saulo diventò Paolo,così
chi entra in religione abbandona il vecchio nome accettandone uno nuovo,così in qualche antico sacerdozio
l’individuo passava ad esso affogando nel mare il proprio nome.
La potenza del verbo, quindi del nome, è al principio di tutte le cose divine ed umane. “La mia parola uscita
dalla mia bocca non tornerà a me senza frutto” dice il Signore il cui verbo ha una potenza incontenibile. E
l’uomo, sua pallidissima immagine, quando era, o si mantiene più vicino alle origini, avvertiva, o avverte la
potenza del suo verbo. Una potenza ridotta, limitata, bisognosa di riti e di formule per sostenersi e difendersi;
per lui il nome non ha solo un valore sacro, ma è l’anima delle cose, delle città, delle persone. Conoscere il
nome di questa parte vitale, data la potenza che ha il verbo, è avere la possibilità di dominarla. Potente è il
verbo, potente la voce, il verbo acquista la sua potenza convenientemente cantato.
Chi conosce il nome segreto di un dio, di una città, di una persona e sappia declamarlo, evoca il
corrispondente spirito, ne è quasi padrone. Di qui la necessità di tenere nascosto il vero nome affinché gli
uomini o spiriti cattivi non ne approfittino; di qui la necessità di un nome falso che serva per la comune
designazione.
Come adesso imponendo il nome di un santo a un bambino intende metterlo sotto la sua protezione, così
allora portare il nome di una divinità era stare sotto la sua tutela, quindi frequenti, specialmente per le città, il
nome di un dio o di una dea.
Il nome di una divinità è anche esso partecipe dell’essere stesso di Dio, sicché essi vengono invocati e portati
scritti indosso come protezione contro nemici e disgrazie.
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Anche per Roma fu dunque necessario tenere segreto il suo nome perché se i nemici fossero arrivati a
conoscerlo ne avrebbero evocato la divinità protettrice conducendola in altro luogo; la città, priva di quella
protezione, cadeva in arbitrio del nemico. Gli dei non erano né fedeli, né potentissimi, si lasciavano allettare
e non potevano resistere alle evocazioni perfette nella forma e nel cerimoniale. Camillo vinse Vejo perché
conobbe il nome segreto del nume tutelare, le promise un tempio più grande di quello che le aveva dedicato
Vejo e la scongiurò di seguirlo a Roma. Quella volta non fu solo sensibile l’effetto dell’invocazione con
l’indebolimento della resistenza e la caduta della città, ma ci fu anche la risposta esplicita della dea che
affermò di volere migrare a Roma. Priva della sua anima Vejo s’afflosciò come un corpo morto.
Il guaio era quando ignorando il nome bisognava per forza, per ragioni militari o politiche espugnare una
città evocandone il nume di cui si ignorava anche il sesso.
I pontefici custodivano le leggi che sancivano il rito col quale evocavano la divinità del luogo da espugnare e
la segretezza del nome di Roma affinché nessun nemico potesse fare con essa ciò che essa faceva con gli
altri. Essi soli e i capi dello stato conoscevano il nome di Roma che non è mai stato saputo dal popolo.
Trasmettendosi il potere i capi dello stato se ne trasmettevano il segreto. Il pontefice solo ne pronunziava il
nome sottovoce dinanzi all’altare del sacrificio in una cerimonia misteriosa a cui nessuno poteva assistere.
In tutta la storia romana c’è un solo caso d’infrazione del segreto che poi non si sa neppure se fu tentato o
compiuto: un tribuno della plebe, Valerio Sorano, pare che lo palesasse, ma la scontò duramente e certo è
che se infrazione ci fu questa restò circoscritta, non superò i limiti dello spazio e del tempo. Naturalmente
intorno al mistero fiorirono congetture e opinioni che nella loro varietà contribuirono a rendere più
impenetrabile il segreto. Invano l’ara palatina al genio tutelare di Roma che sta là solitaria tra le rovine e le
piante, porta scolpita ancora la sua invocazione “sia tu dio o dea”; e anche sullo scudo sacro era scritto “al
genio della città di Roma sia maschio o femmina” il popolo doveva ignorare anche il sesso del suo nome.
Difatti ci fu chi opinò per Giove e chi per la Luna, chi per Saturno e chi per Pale. Qualcuno credette che il
nostro arcano fosse Bona per il mistero con cui si svolgeva il sacrificio di quella divinità. Lo accompagnava
tutto un cerimoniale complicato svolto nella Regia della vestale massima che sacrificava accompagnata da
donne immuni da recenti contatti che portavano in offerta fiori, primizie, piante e semi. Questo nome arcano,
a cui sacrificava il sacerdote massimo e le invocazioni non erano fatte in piedi, ma piegati in modo da
toccare il suolo di Roma.
Qualcuno credette che Angerona, dea del silenzio, i cui simulacri avevano il dito sulla bocca e una fascia
sulle labbra, fosse l’arcano nume tutelare; altri dissero che il suo era un culto espiatorio dopo la colpa di
Valerio Sorano e una riaffermata volontà del segreto.
Per il simbolo del risveglio primaverile, della fioritura feconda, si credette che Flora fosse il nome sacro di
Roma. Per lo stesso simbolo della virtù creatrice anche Venere fu supposta nome e nume di Roma. Nello
strano tempio binato che Adriano innalzò a Venere e a Roma, due templi le cui absidi opposte sono attaccate
per la schiena come due fratelli siamesi, ma legati intorno da un porticato che ne faceva una cosa sola e dove
gli incensi si bruciavano contemporaneamente sulle due are, si potrebbe vedere una manifestazione
architettonica del nome segreto di Roma. Del resto Venere, prima di avere questo nome era invocata con
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quello di Angerona, di Ope e nel culto segreto,con quello di Amor. E Amor potrebbe essere questo nome
sacro e segreto. Dato che i preromani leggevano all’inverso, il nome volgare potrebbe derivare dalla stessa
parola: Amor letto al rovescio dà Roma. A Pompei fu trovato questo grafito.
Come la tomba di Romolo era nascosta e impenetrabile perché meglio se ne conservasse il carattere sacro,
così nell’ombra di riti misteriosi veniva pronunciato il vero nome di Roma che noi non sapremo mai, che
resterà sempre un mistero insolubile come quello del fascino di questa città.
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Il rione di cui si parla oppure Trastevere misterioso
Collocazione: Pg 120.
Il Bambino e la Madonna tutti e due arrivarono a Roma per mare. Il Bambino più tardi e fu per naufragio;
venne a Roma e salì il Campidoglio; ci sta tuttora prediletto dalla città su tutti gli altri bambini. La Madonna
era arrivata un secolo e mezzo prima e più misteriosamente; galleggiando sul mare approdò a Ostia. Di
dove? Nessuno lo seppe. Cosa certa era l’arrivo, cosa certa era che essa voleva arrivare a Roma e c’era
arrivata. I marinai che la raccolsero, risalirono il fiume e la consegnarono al popolo di Trastevere che la
predilige su tutte le altre Madonne.
Madre e Figlio stanno quasi di fronte, una di qua uno di là dal fiume.
La Madonna misteriosa nel rione più misterioso di Roma, il piccolo Re che domina i flutti, sul Campidoglio.
Siano fatti veri o siano leggende, non importa; interessante è che questi due simulacri datici,
metaforicamente o realmente, dal mare, uniscono con un ponte ideale le due opposte sponde.
La Madonna marinara restò tra i trasteverini forse perché essi vivono su una strana terra di dune color d’oro
e lei ci trovava un ricordo del suo mare. Ogni anno il popolo se la porta in processione per le sue strade, le fa
e si fa festa per diversi giorni, e poi la riporta a casa, spegne pian piano le luminarie e ritorna quello che è:un
popolo singolare vivente nel più suggestivo rione di Roma.
Capire perché esso sia singolare e inconfondibile, è difficile, forse impossibile. Si pensa agli Etruschi che nel
Trastevere furono forti, che di lì alzarono orgogliosi la fronte contro l’altra sponda.
Qualcosa del loro carattere e dei loro lineamenti certo sussiste nel popolo trasteverino, ma su quei lineamenti
si ritrova anche tutta l’antica statuaria romana, benché non sia raro di incontrare un volto dalle linee classiche
complicate col sorriso dell’Apollo di Veio.
Certo che il popolo trasteverino fu sempre una comunità distinta; distinta anche nel suo carattere romano che
in lui ebbe il risalto della scultura.
Roma antica aveva due limiti cittadini: le Mura e il Pomerio. Quelle, costituite da massicciate e torrioni,
erano una barriera strategica; questo, segnato solo da cippi tanto distanziati da conservarne il suo carattere
simbolico,era un limite religioso, solo per dare un carattere sacro alle case degli uomini; al di qua del
Pomerio i templi, i tribunali, le case, la gente, al di là gli accampamenti militari e i sepolcri. I trasteverini agli
inizi furono gente raccolta al di là e in mezzo a loro potevano sorgere i sepolcri. Quel monumento funebre
ricostruito dentro le Terme di Diocleziano, era qui, accanto al fiume, perché il Pomerio non aveva incluso nel
limite sacro quella terra di plebei e di Ebrei che esercitavano insieme i mestieri meno graditi.
Lì c’erano i conciatori, i vasai, i pescivendoli, i barcaioli, gli scaricatori di porto, i lanaioli, i molinari, gli
intercettatori di roba usata e di stracci, gli antichi capostipiti dei “robivecchi”. Ebrei e lavoratori erano un
popolo vivente in povertà dentro a casupole speso di legno, prive di quel conforto igienico che il popolo al di
qua del Tevere cominciava ad avere. E privo continuò ad esserlo anche quando alcune famiglie patrizie
presero a frequentare i loro “prata” trasteverini; anche quando Cesare vi creò i suoi famosi giardini,
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attenuandosi solo un poco quando ville patrizie ed imperiali si distesero lungo i fianchi delle alture
trasteverine; però, per il dilagare delle ville, la povera gente si ammassò sempre di più in confini sempre più
limitati. E’ vero che Cesare iniziò quel vezzo dei dittatori di regalare al popolo una parte di quella terra di cui
prima si sono appropriati e “donò” (non usano mai il verbo restituire) al popolo romano i suoi giardini. I
trasteverini però restarono agglomerati nel loro poco spazio; tanto poco che non ce ne era per dedicare templi
alle diverse famiglie degli dei; può darsi però che neppure nell’anima degli abitanti ci fosse posto per quella
roba.
In Trastevere sorsero solo due templi: quello della Forte Fortuna e la Sinagoga. Questa, ripetendo il disegno
del Tempio di Gerusalemme, parve, in seguito, il fantasma di un assassinato alle porte del suo uccisore. Per
gli Ebrei dalla difficile vita, quel tempio era una necessità come per i trasteverini romani lo era quello della
Forte Fortuna, l’unica divinità romana che avesse passato ponte per ché un re plebeo gliene eresse il tempio,
giacché sapeva che i poveri si affidano spesso al caso e lo pregano o lo scongiurano a seconda del genere
delle loro fedi. Per la ricorrenza annuale della Fors Fortuna che cadeva il 24 giugno, si faceva quella gazzarra
notturna fatta di libagioni e di fracasso, ingentilita dai garofani e dalle erbe odorose, che poi si trasferì a S.
Giovanni, essendo divenuto lui il titolare della vecchia festa. Però in difetto di templi quasi tutti gli antichi
vicoli avevano il nome di altrettante edicole dedicate a divinità che non erano tuttavia quelle classiche
dell’altra sponda e, più che divinità, erano idee religiose adatte per la vita dura.
Nella Repubblica il Transtiberim, sorto come quartiere popolare, era escluso dalla pianta ufficiale della città
come ora ne sono esclusi i mucchi di baracche. Con Augusto fu ufficialmente adottato quale parte della città.
Ma oramai i diversi “prata” delle famiglie patrizie erano diventati ville e stringevano in spazi sempre più
angusti le case dei poveri che col numero eccessivo di insule e di vici denunziava la loro strettezza. Ed è
curioso che dall’antichità ad oggi lo spazio dei ricchi e quello dei poveri non si sia confuso; in genere dove
ora sono le ville principesche, erano quelle patrizie, dove sono le case dei lavoratori, erano le insule dei
lavoratori. La Farnesina sta sopra alla villa della bellissima Clodia, l’amante certa dell’acqua, fluviale o
marina che fosse, la quasi sicura amante di Catullo. Villa grandiosa come le terme, ricca come i musei. Una
parte delle sue pitture e dei suoi stucchi sono al museo delle Terme, ognuno può ammirarne la bellezza. La
distribuzione edilizia è presso a poco quello che era; là giardini e ville freschi e riposanti, qui, povere case,
officine, agglomerato di gente che suda.
Nelle incursioni barbariche il Trastevere fu di nuovo abbandonato a se stesso, ma la povera gente che ci
viveva continuò a viverci. Le ville invece rovinarono, i giardini diventarono orti e nel corso dei secoli
colonne, capitelli, fregi, statue ritornarono alla luce come avveniva e avviene in ogni pezzo di terra dove
sorse la Roma degli antichi.
Le statue emigrarono un po’ dappertutto e una Venere che per il suo ardimento meriterebbe di’essere
chiamata “trasteverina”, arrivò in Russia dove sta tuttora aspettando qualche cosa. Forse la continuazione di
quella unità di cui essa conobbe appena il principio? Chissà? Quel che è certo è che le statue romane sono
abituate all’attesa paziente e alla resurrezione.
Mentre il Medio Evo si svolgeva nei suoi secoli e nelle sue lotte, il popolo trasteverino si tramandava
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imperturbabile quei suoi caratteri che lo rendono augusto senza l’ausilio di paludamenti. Eppure siccome era
operaio e operaio di mestieri bassi, fu escluso dalle alte cariche.
Nessun trasteverino poté mai essere Senatore. E proprio il Medio Evo trovò in quei popolani tenuti in
disparte i difensori di tutte le giustizie e di tutte le libertà. Tali restarono nei secoli a costo di essere quasi
sempre la spina dei governi, perché nelle loro strade si tumultuava, nelle loro case si congiurava e si moriva.
Sì, c’è del mistero nel carattere di questo popolo che passava ponte solo per necessità, che era orgoglioso se
poteva dire di non averlo passato mai, che amava il suo rione con attaccamento feroce separandosi quasi dal
resto del mondo, così come ora, nonostante l’indebolimento di quei caratteri, ne resta ancora singolarmente
distinto.
C’è del mistero in questa terra color d’oro, anche in tutte le sue leggende che non sono mai assurde. Una
polla d’olio sarebbe scaturita dove poi sorgerà la prima chiesa dedicata a Maria, segno dell’avvento
vicinissimo di Colui che avrebbe salutato gli uomini dando loro la pace.
Corse il rivolo d’olio fino al Tevere, con lui arrivò al mare, col mare toccò tutte le terre. Forse non fu un olio
dolce e vellutato come quello spremuto dall’olivo, ma un olio minerale perché diverse volte in diversi tempi,
si constatò dalle parti di Trastevere la presenza del petrolio, ma questo no ha importanza, anzi proprio per
questo la leggenda ha più sapore di verità; l’importante è che essa sia basata su una realtà e la realtà sia
rivestita di significati spirituale.
Il Trastevere non ha bisogno dell’assurdo per donare la sua fede. Se accoglierà una delle tante pietre
venerabili, quella dove si erano inginocchiati gli angioli durante la morte di San Pietro, sarà una pietra senza
alcuna impronta speciale, giacché è logico che gli angioli, anche se vi si piegarono lo fecero con più
leggerezza dell’aria.
A Trastevere balugina il mistero anche in certe sue indeterminate promesse spesso chiuse in un nome come
in quello della luce, come in quello del luogo più tetro del rione, le carceri.
Nell’antichità questa terra, invasa spesso dalle acque del fiume, era piuttosto malsana, perciò fu scelta per
raccoglierci i prigionieri di guerra; ma fu un periodo relativamente breve. Poi per un millennio e mezzo,
Trastevere non ospitò più gente coartata, ma gente libera nella sua povertà. I moderni riportarono i carcerati
a Trastevere. Ma il reclusorio sorse sul posto di uno strano convento le cui suore ogni quattro ore sonavano a
festa per annunziare che scendevano in chiesa a cantare l’antifona della letizia: “Regiona coeli laetare,
alleluia” invece di richiamare ogni tanto il pensiero al peccato o alla morte, esse lo richiamavano alla letizia.
Gli abitanti del rione avevano la giornata punteggiata da quell’allelujare e luogo, chiesa, convento, suore, era
tutto chiamato “Regina coeli”. Scomparsi convento, chiesa, suore, resta un nome promettente o ricordante
letizia.
S. Benedetto dovette sentire l’attrattiva di questo rione, perché venne a trovare qui, in Piscinula, in una
vecchia casa della sua gente il raccoglimento necessario per prepararsi alla sua grande vocazione e dalla terra
dei lavoratori portò via una metà del suo programma: ora et labora.
Come non è senza significato che S. Francesco, quando dovette chiedere un posto dove fermarsi a Roma,
scelse Trastevere. Poteva chiederlo vicino a S. Pietro, cittadella di conventi, o vicino al Laterano, la chiesa
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madre che proprio a lui Dio aveva rivelata cadente perché la restaurasse col suo amore, ma egli scelse
Trastevere.
Il mondo ha sempre guardato con simpatia o con timore a questo forte e leale rione che nell’evolversi della
storia ha costantemente preceduto, mai seguito, come se il suo spirito avvertisse la realtà avanti al suo essere,
come fece la polla d’olio che scaturì prima della nascita di Gesù. Per annunziarla perché era sicura, come
fece la Madonna che precedette il Bambino, come fecero le monache di “Regina Coeli” che cantarono
all’infinito quel “laetare” che tutto il mondo brama di poter presto ripetere in un necessario avvento di
giustizia e di pace, perché proprio non ne può più!
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Roma, non altro
collocazione: Pg 122.
Politica o religione, quella che ci rimette sempre è Roma, non quale entità amministrativa e presidenziale
della Nazione, ma ROMA come entità a sé stante: le sue case, i suoi monumenti, le sue strade, i suoi alberi,
la sua luce, la sua anima.
Se non fosse per lei non si oserebbe neppure accennare all’Anno Santo. L’anno Santo è un “globo” tutto
sfaccettato, può essere guardato da ogni punto di vista universale e nelle sue infinite facce presenta di tutto:
religione e commercio, devozione e truffa, celeste e terrestre, angelico e demoniaco. L’Anno Santo di
decisamente smorto ha questo nome che non era il suo. Il suo nome era Giubileo.
Sette volte sette anni fanno 49, il cinquantesimo è il Giubileo, la remissione. Questo era nella legge ebraica.
Giubileo è giubilo, nel giubilo è pace e allegria. Anche questa remissione, cambiandone la sostanza, il
cristianesimo prese dagli ebrei. C’era un’espressione nella liturgia romana, tutt’altro che caritatevole verso di
loro, fu cancellata adesso, da papa Giovanni. Perché dagli ebrei la chiesa prese, trasformando, svuotando o
riempiendo a seconda del suo disegno, tutto quello che è religioso, da Cristo allo zucchetto, ma tenendoli
lontani. Se per un caso assurdo dovesse scomparire dal mondo ogni monumento che testimoni il sorgere
della Chiesa, basterebbe che restasse S. Sabina. Tutto cancellò dell’antico splendore musivo la
controriforma, ma una parete è rimasta, la più breve, quella sopra la porta d’ingresso: è una fascia azzurra
illuminata dalla luce selenitica
delle impannate, dove corrono Tra le tante sfaccettature dei romano la
forma delle sue chiese, l’espansionismo, la forma governativa, la pompa. Nel Giubileo questa doppia origine
è più mescolata e più distinta nello stesso tempo.
Proprio per questa sua origine, niente che non sia rispetto e simpatia per la Chiesa, in particolare per una
cosa tanto suggestiva come lo è un Giubileo.
La storia è punteggiata da giubilei, ma anche da giubilei rientrati, o indetti senza chiasso, sottovoce, se le
circostanze lo richiedevano. Proprio un secolo fa Pio IX, data la recente annessione di Roma all’Italia e il
turbamento che n’era derivato, concesse l’indulgenza senza manifestazioni esteriori, neppure l’apertura della
Porta Santa; in certe condizioni pare opportuno fare così. Tanto più ora che con i mezzi moderni di trasporto
è rovesciata la posizione del questuante l’indulgenza. Era la lunga, lunga fatica della strada che portava alla
remissione dei peccati: Quella fatica per arrivare ora è cambiata in divertimento, un bel volo con le inerenti
leccornie, comodi sonnellini, belle visuali, tante caramelle offerte da eleganti ostesse e siamo arrivati
pellegrini a Roma. I “vaga mundi” di allora sono i volatori celesti di oggi.
Tra le tante sfaccettature dei Giubilei ci fu anche quella che l’indulgenza non costasse fatica penitenziale, ma
denaro. Però non fu solo l’appalto delle indulgenze che irritò Lutero, ci fu anche un subcosciente antiroma;
era il barbaro vinto che prendeva la rivincita perché Roma proseguiva, spiritualizzandolo l’impero.
La sfaccettatura nera che vide il tedesco è sopraffatta da miriadi di sfaccettature luminose. Però oggi, dato
che il pellegrino non c’è più, anche la forma poteva adeguarsi alla sua assenza.
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Bella subito, profetica poi, apparve l’innovazione di Paolo VI: ogni paese del mondo può lucrare
l’indulgenza giubilare nell’anno precedente a quello santo, nella propria terra, senza venire a scombussolare
questa povera città già tanto scombussolata. Scoppiò il petrolio. Quale occasione migliore per aggiungere
“Amici, l’Anno Santo l’avete avuto in casa in anticipo ed abbondante anche, per voi basta così, risparmiamo
il petrolio; il giubilare 1975 lasciamolo lucrare agli italiani che molta devozione non hanno e soldi anche
meno. Di tempo per smacchiarvi l’anima con poca fatica e poca spesa ne avete avuto e chi non l’avesse fatto,
può farlo ancora”.
Invece arriveranno a Roma, alla città più che santa, avvilita. Tutto per l’Anno Santo, niente per lei.
Pulluleranno centri d’informazione per i venienti. A noi per un certificato di morte ci mandano da un ufficio
all’altro.
Le Poste si organizzano per i turisti – pellegrini che non dovranno neppure faticare a cercare un ufficio
postale, gireranno autobussetti per raccogliere lettere e cartoline. Le nostre vanno al macero e da anni la vita
economica e affettiva è disturbata da questo disservizio.
Ci saranno per loro mostre d’arte, gastronomiche e enologiche, spettacoli vari, opere musicali; la musica può
disporre alla preghiera, ma quelli non musicali dove sgattaiolare è facile; un giubileo facile e divertente.
Previdenze sanitarie che noi invochiamo da anni, in parte saranno attuate per l’Anno Santo. Si suggerisce di
cominciare a ispezionare i nostri servizi igienici. Chi ispezionerà la gente in arrivo che può portarci infezioni
più seriamente delle cozze di Napoli?
Roma, lo vediamo, tiene sparsi per le strade gran parte dei suoi rifiuti, che sarà quando si aggiungeranno
quelli di altri milioni di gente? A meno che, per acquistare l’indulgenza, gli uffici preposti alla “nettezza”
urbana non decidano di funzionare e di far funzionare. Ai turisti – pellegrini consegneranno un opuscolo con
le istruzioni per difendersi dalle malattie più comuni in Italia. Ne daranno uno a noi per difenderci dalle loro
o ci indicheranno le cozze di Bari? Verranno anche i malati, come a Lourdes, consoliamoci.
I giardini liberamente abbandonati e liberamente devastati, dovrebbero essere riassettati. Riguardo a Roma
quella splendida fusione di arte arborea ed edilizia, può essere distrutta, ma, per carità, che non lo vedano i
turisti – pellegrini. Il Turismo è sempre pacchiano perché servile, ed ecco che ci dicono anche “Mettetevi il
vestito della festa, non quello di tutti i giorni, vengono i penitenti”.
Spariscono prati, chiamiamoli praticelli (per chi non ha la lira il soldo è bono), per stenderci il tappeto
d’asfalto necessario per le ruote gommate. Si costruisce dove era proibito, in forma provvisoria, dicono, per
l’Anno Santo: che cosa è il provvisorio e quanto sia benedetto, ognuno lo sa. Si sventra, si sopraeleva, atei e
religiosi allargano, modificano, sempre in vista dell’Anno Santo e Roma, un pezzetto alla volta sta finendo di
andarsene. Cominciò a finire quando non fu più Roma, ma Capitale; da 105 anni la stanno distruggendo e
l’Anno Santo le darà la sua scoppola; solo per questo duole.
Il linguaggio vaticano è un velluto sempre soffice, anche le cose dure le dice con tono armonioso; a me
piace, tempera la durezza della nostra società: Ma “le perplessità”, le “inquietudini” che esprime per
l’occasione, tratte fuori dall’armonia, sono pretese logistiche belle e buone.
Per difendere Roma dovrebbe ripetersi la Resistenza, una resistenza alle pretese dell’Anno Santo e
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all’interessata collaborazione dei veri lucratori.
Proprio un anno fa, c’era stato lo scoppio del petrolio. L’8 dicembre il Papa si recò, come sua consuetudine,
a Piazza di Spagna per rendere omaggio alla Madonna. Per quello scoppio bisognava ridurre il consumo del
petrolio; poco male per il settore automobilistico, tanta purificazione per l’aria e tanta salute per le gambe
che sono le colonne della nostra vita. Anche il Papa entrò nel giro, lasciò in Vaticano la sua automobile e se
ne andò con una carrozzella pubblica: leggermente teatrale poteva apparire la cosa, ma invece era un
discorso ed ognuno l’intese come se lui l’avesse fatto a parole: “Il vostro vescovo è unito a voi, dividerà con
voi rinunzie e sacrifici, come vi adattate voi, si adatterà lui”.
L’applauso fu scrosciante.
Ma ora come si fa a cacciare via il pensiero che poteva andare a Piazza di Spagna in automobile e
risparmiare alla sua diocesi l’inquinamento di migliaia di autobus e quello di un improvviso aumento di
viventi che espurgano peggio dei motori? L’inquinamento che ne deriverà velerà anche quella carrozzella di
un anno fa e il dono, supremamente paterno che essa ci gettò.
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Dal presepio al mondo
collocazione: Pg 124.
Quando Roma era solo dei romani che vi abitavano e del mondo intero che vi passava, voglio dire prima che,
per sua disgrazia, accoppiasse al connaturale significato universale, quello stremato, nazionale, chi, in questi
giorni, girava per le sue strade e per i suoi vicoli, ogni tanto vedeva una porta su cui era stata appesa una
grossa corona di mortella.
A Roma tutto è continuità, e i costumi, le usanze, le procedure rituali, conservano un segno, una formula, un
gesto, che riallaccia, per similitudine e per trasposizione, il mondo cristiano e quello pagano.
Appendere alla porta una ghirlanda di mirto,era l’uso antico nelle feste floreali, quando tutto doveva essere
fiorito e inghirlandato: teste, vestiti, pozzi, archi, templi, case e porte di case, perché la festa di Flora
coincideva col risveglio della natura.
Ma la corona di mortella di cui noi si dice, pur essendo atavico ricordo di festa pagana, pur restando
espressione di risveglio,anzi di risveglio assoluto quale è la Nascita, stava però a significare una cosa che
non aveva nessun addentellato col paganesimo. La corona aveva assunto un linguaggio simbolico nuovo;
diceva un invito nuovo: “Venite, adoremus!” E il passante poteva spingere la porta su cui era appesa la
ghirlanda di mirto, entrare e dirigersi liberamente dove quel simbolo esposto sulla strada, chiamava. E lì
trovava il presepio.
La ghirlanda pagana serviva a un mistero nuovo,perché il presepio, nella celebrazione della povertà,non
ricorda che Cristo.
Il presepio è la festa di Natale, e questa festa è romana come è romano chi ci nasce, anche se poi gira per
tutta la terra. Più esattamente ancora, essa è monticiana, perché nacque sull’Esquilino; il presepio sorse lassù,
perché lassù era arrivata la mangiatoia ceduta dalle bestie al loro Creatore. Di lassù partì il presepio per il
mondo e rifiorì, quasi nascendo, in diversi punti. Poi, a un tratto, come pellegrino che torna a casa, ritornò a
Roma il presepio che s’era fermato qua e là per le borgate della terra, e tutta la città fu piena di presepi.
In tutte le case ce n’era uno, o piccolo come il piano del comodino su cui trovava posto e trono, o grande
come la tavola più larga della casa, su cui si stendeva da padrone nel tempo che correva dalla fine
dell’Avvento alla Manifestazione. Presepi di famiglia intorno ai quali si radunavano a sera,quelli di casa e i
parenti e gli amici che vi si trovavano in visita.
Erano passati oltre mille anni che sulle porte delle case di Roma non si appendevano più corone di mortella,
quando queste riapparvero qua e là.
Dove c’era la ghirlanda verde, c’era un presepio che aveva delle ambizioni, che sapeva d’essere degno di
essere visitato. Dove c’era la ghirlanda verde, c’era una famiglia che ripeteva il gesto dei primi cristiani,
aprendo le loro case, trasformate in oratori, a tutti i fratelli. “Entrate”, diceva la corona i mortella, “qui c’è un
presepio”. E il presepio che s’annunziava a quel modo, era sempre veramente eccezionale. Poteva avere le
figure modellate da grandi artisti, e scoprire visuali inaspettate. Perché il presepio, a Roma, dove tutto si
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allarga o si innalza,fu visto anche dall’alto di un tempio pagano diruto che serviva da podio, come se
dall’alto di Gerusalemme si avesse sottocchio, in miniatura fedele, tutta la Palestina; il presepio fu visto sulle
terrazze dei palazzi, dove la luce naturale e il cielo vero, erano complementi necessari della sacra
rappresentazione.
Roma sollevò la grotta verso il cielo e molte delle sue torri la mostrarono come fiaccola sul candelabro.
Le case che permettevano a tutti la visita del proprio presepio, usavano anche impegnare in quei giorni, i
pifferari che dal principio dell’Avvento cominciavano a scendere a Roma per costellarla di ninne – nanne e
di pastorali. Intono al presepio i pifferari, pastori veri, modulavano le loro nenie, fondendo in un senso di
dolcezza che ci è stato rubato, l’odore amarognolo del vellutello, la voce acerba dei bimbi che recitavano il
sermone,la gloria luminosa degli angioli che stendevano il loro messaggio di pace. Cominciò, alla fine del
187°, la nuova regia polizia, a proibire ai pifferari di suonare per le strade, appena due mesi dopo il suo
insediamento nella nostra città, proseguirono poi tante e svariate vicende che, lentamente, contribuirono a
uccidere le nostre belle usanze. Ora, anche se qualche famiglia continua la dolce tradizione del presepio, le
case però sono invase dagli alberi di Natale.
L’albero non è romano, è germanico ed è nato come simbolo del Natale quando il presepio nostro aveva già
diversi secoli di vita. L’albero che lassù si riallaccia ad antichi riti campestri, a Roma, non può ricordare altro
che il legno con cui si farà la croce. Mentre il presepio, che ha al centro il mistero della nascita e intorno tutta
la nostra povera, semplice, gaia e dolorosa vita, mescolata alla vita di tutte le creature, a quella dei polli,
delle pecore, dei maiali, dei gatti, degli uccelli, dell’acqua, della vegetazione, degli angeli, degli astri, il
presepio nostro, è lieto ed universale. In esso è raccolto tutto ciò che è vita e che alla vita serve; esso è vita
all’aperto riscaldata dall’azione e dalla comunione, convergente nell’unità del Mistero.
L’albero, con i ghiaccioli e il vento tra i rami, è freddo. Nell’albero c’è la solitudine della notte ghiacciata,
non c’è la vita. L’albero è espressione singola del fantastico, il presepio è espressione collettiva di vita.
All’albero si possono anche appendere come doni ai piccini, rivoltelle e sciabole, soldatini e cannoncini, a un
presepio ciò non sarebbe mai possibile. L’albero è qualcosa che non si pronunzia, né per la pace, né per la
guerra, il presepio è il più antico partigiano della Pace.
In Trastevere, quello che era in cima della torre del palazzotto degli Anguillara, che aveva per suo cielo
quello creato da Dio, per suo orizzonte, il cerchio dell’orizzonte naturale, quel presepio trasteverino, libero a
tutti, anche ai ribelli di allora, che poi nella storia si chiamarono patrioti, quel presepio trasteverino, faceva
vera e propria professione di pace. Con una lapide parlava al popolo invitandolo a salire lassù e gli diceva
che quella torre, già fortezza di guerra e carcere di schiavitù, che impauriva di lontano il pellegrino, quella
torre ora chiamava la gente di ogni paese perché entrasse lieta, dato che essa era diventata una culla del
nascente Dio della Pace.
Così diceva quel presepio che stava alto sulla torre, come alto, al disopra della torre campanaria è il simbolo
di Trastevere dove oramai s’è raccolta Roma. Non è il suo stemma rionale, è un a campana ribelle che non ha
sofferto il carcere della torre, e ne è scappata fuori, mostrandosi tutta qual è a tutte le luci del giorno e della
notte; che sta lassù per guardare Roma e il mondo. La campana ribelle s’alza sul luogo dove scaturì la fonte
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dell’alio il giorno della nascita di Cristo per confermare, col segno della pace, il suo messaggio di pace.
Se si chiamerà a raccolta per la pace, qui a Roma, certo sarà prima a farlo quella campana di Trastevere. Ma
sarebbe ancora più bello che si tornasse a rivedere le corone di mortella appese sulle porte delle case che
nella pace si riaprono.
Bisogna intrecciare una ghirlanda di mirto che abbracci il mondo e lo leghi con un nastro parlante come
quello che tengono sospeso gli angeli nel mezzo dei presepi: “Pax in coelo – Pax in terra - Pax in omni
populo!”.
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Il mondo sottoterra
collocazione: Pg 125.
Il quartiere dei Parioli, uno dei più moderni, che passa per aristocratico per la gente ricca che l’abita, è uno
dei più antipatici di tutta Roma. Un quartiere che potrebbe appartenere a qualsiasi città privo com’è di ogni
carattere romano. Non ha neppure un rudero, neppure una colonna antica, neppure una facciata barocca,
neppure il colore di Roma perché quassù le case sono di tutte le tinte esclusa quella tipica della città.
Per ritrovare Roma in questo quartiere bisogna sforzarsi a pensare che una di queste strade banali, segue il
tracciato della Salaria Vetus, ma è troppo poco; i vecchi poligoni di basalto, se ancora esistono, sono giù,
sotto all’asfalto e da una cosa tanto profondamente sepolta, il ricordo non affiora a commuovere.
Eppure è un’idea sbagliata che qui possa esserci un quartiere dove la Roma del passato sia assente.
Pochi giorni fa passando per una di quelle strade dove le ville son più grandi e più folto il verde, dove i
massicci cancelli stanno sempre chiusi, vidi gente silenziosa che infilava uno di quei cancelli semiaperto, si
inoltrava per un viale, prendeva a sinistra un sentiero bordato di limoni che scendeva lentamente, voltava,
scompariva. Non poteva certo andare tutta dai signori della villa anche perché quella gente era popolo.
Voglio dire che c’erano giovani e vecchi, poveri e ricchi, operai e preti, gente che veniva da tutte le classi, da
tutte le condizioni, da tutte le età. Sfilava silenziosa, rapida, sicura, entrava, procedeva, voltava, scompariva.
Passai anch’io il cancello, percorsi il viale di mimose, scesi per il sentiero di limoni, voltai e mi ritrovai in un
piazzale con una fontana nel mezzo, prospiciente la villa che dal di fuori non si immaginava così grande.
Intorno a un tavolo di ferro c’erano delle seggiole a sdraio che erano state piegate e raccolte, vigilate tuttavia
da un domestico.
Ma quella gente non guardava intorno, andava dritta verso una porticina quasi nascosta nel fianco della villa,
la varcava, ne era inghiottita.
“Catacombe”, dissi tra me. Ed era curioso che la gente di oggi, avviata alle catacombe, avesse quell’andatura
furtiva, rapida, silenziosa, come quella che attribuiamo ai primi cristiani quando nascostamente si riunivano
laggiù dove seppellivano i loro martiri.
Varcai la soglia della piccola porta ed ecco subito l’umido e il buio catacombale. Una scala a chiocciola
s’inabissava sotto terra, i gradini corrosi mostravano grafiti e lettere; sui muri, rischiarati da candele, epigrafi
tronche, pezzi di marmo coi noti segni cemeteriali. E la scala scendeva quanto non avrei supposto, pareva di
dover arrivare al centro della terra. Un lontano canto corale cominciò a sentirsi, si avvicinò, il chiarore di
candele non viste rischiarò le tenebre, un Kyrie poderoso esplose al termine della scaletta, ed io mi trovai in
una ampia altissima basilica sotterranea.
Un vescovo, dei celebranti, dei sacerdoti addetti al servizio, un gruppo di chierici cantori. Tutti indossavano i
paramenti all’antica, morbidi, fluttuanti, cadenti, raccolti in ampie pieghe. Il calice, la pisside, il turibolo
uguali a quelli che si usavano nei primi secoli. Il sacerdote che dirigeva il coro voltava le spalle, ma le mani
che si alzavano e abbassavano, spiccavano brune dal bianco della cotta. Nel gruppo dei cantori erano
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rappresentate tutte le razze. Un piccolissimo cinese dalla voce così limpida che quando si elevava sola dava
più sensazione di luce che di suono. Un giovanissimo negro dal ciuffo crespo sulla fronte sprigionava una
voce così cupa che pareva fosse il riflesso sonoro del suo colore. Due giapponesi con gli immancabili
occhiali, un indiano alto e potente, un rhodesiano, due o tre sudanesi, tutta l’Africa, tutta l’Asia erano
rappresentate in quel complesso corale, nonché l’Europa e l’America. Il celebrante era australiano, il diacono
malese. Quando, leggendo il vangelo disse le parole: “Amen, amen, dico vobis” sentii quanto era bello
questo ritorno di verità. La chiesa di Roma è andata per il mondo annunziando a tutti “In verità, in verità vi
dico”, ed ecco che dalle più lontane regioni del mondo delle creature che hanno appresa da noi la buona
novella, vengono e ce la ripetono, così come fanno i fratelli quando sono buoni, che fra di loro si ripetono i
racconti che hanno imparato dai grandi.
Un sacerdote nero come l’ebano fasciato da un ampio drappo di seta bianca, reggeva la mitria del vescovo.
Coreografia, se volete, ma oltre a questa c’è un simbolo, oltre a questo c’è una sostanza, il mondo intero
affratellato in un’idea che è partita da Roma, il mondo intero che nel rivolgersi a Dio prega e canta nella
lingua di Roma. Quella folla che avevo visto sfilare silenziosa stava lì, ammassata, in piedi, raccolta, tuffata
in una penombra satura di incenso.
Un sacerdote italiano parlava Balilla, la dama romana che aveva ceduto il terreno ai compagni di fede per
seppellirvi i loro morti, di Proto e di Giacinto di cui non si sa altro che erano giovani e morirono per la loro
fede.
Alla fine della funzione per gli stretti e bassi ambulacri partenti dall’altra basilica sotterranea sul terreno
umido cosparse di foglie di lauro, mi avviai alla tomba dei due martiri. Di qua e di là gallerie non ancora
esplorate. In una piccola cripta, sotto un rustico arcsolio, in mezzo a foglie di palma, la tomba con due parole
sole: “Yacinthus Martyr”.
Un sacerdote etiope in un italiano stentato ma comprensibile, raccontava il ritrovamento della tomba giusto
cento anni fa.
La gente si faceva sempre più rara, quella che s’attardava era interessata alle epigrafi e agli scavi. Un gruppo
di preti neri come la loro veste stava lì e rispondeva alle domande. Mi parve proprio che parlassero italiano.
Sì. Una donna chiese: - Proto e Giacinto erano fratelli?
Un sacerdote nero, quello dal gran ciuffo sulla fronte, sorrise e rispose: - Fratelli?...Nel martirio, sì!
330
La Via
Il mondo sottoterra
collocazione: Pg 143.
Capita solo a Roma d’incontrare sotto terra una rappresentanza del mondo universo.
Me ne andavo per i “Parioli”, il più insignificante dei quartieri che passa per aristocratico perché lo abita
molta gente ricca. Privo d’ogni carattere romano, potrebbe appartenere a qualsiasi città. Non si vede un
rudero, una colonna antica, una facciata barocca, neppure il colore di Roma perché lassù le case sono di tutte
le tinte esclusa quella romana.
Per sentire Roma in questo quartiere bisogna pensare che forse una di queste vie comuni,segue il tracciato
della Salaria Vetus, ma è troppo poco. I poligoni di basalto, se ancora esistono, sono giù, sotto l’asfalto e da
una cosa tanto profondamente sepolta, il ricordo non affiora a commuovere.
Pensavo così mentre andavo per una di quelle strade che hanno ville più grandi immerse tra alberi più folti,
protette da cancelli più alti sempre chiusi.
Ma uno, in fondo alla via, era socchiuso; me ne accorsi per la gente che vi spariva; una fila interrotta ogni
tanto e subito ripresa. Quella gente non poteva andare tutta dai signori della villa perché era popolo, voglio
dire che c’era di tutto: poveri e ricchi, operai e preti, giovani e vecchi, gente che veniva da tutte le classi, da
tutte le condizioni, da tutte le età.
Sfilava silenziosa, sicura, entrava, procedeva, voltava, scompariva. Aveva un’andatura furtiva, rapida come
quella che dovette avere la cristianità delle persecuzioni quando nascostamente si riuniva dove seppellire i
suoi martiri.
Passai anche io il cancello,percorsi un viale di mimose, scesi per un sentiero di limoni, voltai e mi trovai in
un piazzale con una fontana nel mezzo sul davanti della villa che dal di fuori non si immaginava così grande.
Intorno a un tavolo di ferro erano state piegate e raccolte delle seggiole a sdraio. Un domestico vigilava
girando largo.
Ma quella gente non guardava intorno, andava diritta verso una porticina nascosta nella sporgenza di un
fianco della villa, la varcava, ne era inghiottita. La seguii senza chiedere nulla.
Ed ecco, subito dopo la porticina, l’umido e il buio catacombale. Una scala a chiocciola s’inabissava sotto
terra, i gradini di pietra rotta e corrosa, mostravano grafiti e lettere; sui muri, rischiarati da candele, parte tinti
nel colore caldo di Roma, parte in tufo scoperto, epigrafi tronche, pezzi di marmo coi noti segni cemeteriali.
La scala scendeva quanto non avrei supposto, pareva di dover arrivare al centro della terra. E intanto un
canto corale veniva di lontano e si avvicinava; il chiarore delle candele si fece più vivo, un Kyrie poderoso
esplose quando,al termine della scaletta, mi trovai in un’ampia, altissima basilica sotterranea.
Un Vescovo, i celebranti, sacerdoti addetti al servizio, un gruppo di chierici cantori. Tutti indossavano i
paramenti all’antica, morbidi, fluttuanti, cadenti, raccolti in ampie pieghe. Di antica forma erano il calice, la
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pisside,il turibolo.
Il sacerdote che dirigeva il coro voltava le spalle, ma le mani che si alzavano e si abbassavano, uscivano nere
sul bianco della cotta. Un piccolissimo cinese aveva una voce così limpida che quando si elevava sola dava
più la sensazione di luce che di suono. Un giovane negro dal ciuffo crespo sulla fronte,sprigionava una voce
così cupa che pareva il riflesso sonoro del suo colore. Due giapponesi con gli immancabili occhiali,un
indiano alto e potente, un rhodesiano, due sudanesi,Africa, Asia,,Europa, America erano rappresentate in
quel complesso corale.
Il celebrante era australiano, malese il diacono. Quando, leggendo il Vangelo disse: “Amen, amen dico
vobis”, parve un ritorno di verità attraverso le età e gli spazi del mondo. La chiesa di Roma l’ha percorso
annunziando “amen, amen dico vobis”, ed ecco che dalle più lontane regioni vengono delle creature e ci
ripetono la buona novella come fanno i fratelli quando sono buoni, che fra di loro si narrano i racconti che
hanno imparato dai vecchi.
Un sacerdote nero, fasciato da un ampio drappo di seta bianca, reggeva la mitria del Vescovo con
l’immobilità di un idolo.
Coreografia, certo, ma esprimente un simbolo che vela una sostanza, sostanza che diverrà vitale “i popoli
uniranno la loro opera a quella di Dio”.
Intanto quegli uomini che rappresentavano tutti i punti del mondo, pregavano e cantavano nella vecchia
lingua di Roma.
Intanto la folla che avevo vista sfilare silenziosa, stava lì, in piedi, unita, raccolta, tuffata nella stessa
penombra satura d’incenso.
Intanto io ero capitata vicino ad un operaio in tuta e a Sua Altezza Eminentissima il gran maestro del sovrano
militare ordine di Malta. Me ne accorsi mentre un sacerdote italiano parlava di Basilla, la dama romana che
aveva dato il terreno ai compagni di fede per seppellirvi i loro morti, di Proto e di Giacinto di cui non si dà
altro che erano giovani e morirono per la fede comune.
Con un inno in latino la cerimonia si spense mentre celebranti e folla si disperdevano lentamente.
Sul terreno umido cosparso di foglie di lauro, per gli stretti e bassi ambulacri arrivai alla tomba dei due
martiri. Di dove partono gallerie non ancora esplorate come la fraternità che dovremo ritrovare. Nella
piccola cripta, sotto un rustico arcosolio inghirlandato da rami di palma, due parole sole su una pietra,
“Yacinthus Martyr”.
Passò un sacerdote etiope, che in italiano raccontava del loro ritrovamento. Poco dopo arrivò un gruppo di
chierici tutti d’un colore, facce e vestiti, perché s’erano tolti i paramenti.
Una donna chiese: - Proto e Giacinto erano fratelli?
Il negro dal gran ciuffo sulla fronte, prima sorrise poi disse:
- Fratelli? No Fratelli nella fede e nella morte, si!
Lo disse così, nella lingua moderna di Roma.
C) INEDITI
332
Come era Roma
Collocazione Pg.117
Un sessantenne di oggi domandava spesso a suo nonno che gli raccontasse della breccia di porta Pia e del
governo Subalpino dato che egli sapeva tante cose che i libri di scuola ignoravano. Prima di andare a scuola
era la nonna a raccontare e cominciava sempre con “c’era una volta”; adesso era il nonno e incominciava
sempre: “Quando gli italiani entrorno a Roma…” e un giorno non poté farne a meno, lo interruppe :
- Scusa, sai, ma voialtri che eravate?
Si drizzò il vecchio, parve raccogliersi in dignità e rispose come se incidesse una pietra:
- Noantri erimo romani!
Questi i romani, ma Roma che cosa era prima che dal nord le venisse appioppata la funzione di capitale
d’Italia?
Politicamente era il capoluogo della Comarca, ma questo nessuno lo sapeva. Essa per se stessa era una
piccola città addormentata in un verde secolare con uno strano carattere di immensità. Piccola e immensa.
Piccola nel raccolto del suo abitato: Piccola nel nucleo, diffusa nella continuità spaziosa delle sue ville, dei
suoi orti, dei suoi giardini, delle sue vigne, delle sue rovine distese al sole tra alberi erba e cespugli in larghi
spazi piani o scoscesi parlanti di immensità.
I broccoli, l’insalata, i cavoli, i pomodori, il rosmarino insieme con le rose, i giaggioli e il glicine, crescevano
fianco a fianco di rovine e monumenti noti in tutto il mondo.
Roma era inimmaginabile per chi non l’aveva vista, superiore all’aspettativa per chi l’aveva sentita
raccontare. Sfuggiva a qualunque schema, era Roma.
Qualcuno dice che era un grosso paesotto fatto di basiliche, di chiese, di antichi monumenti, di palazzi, di
conventi, di ville di rovine di giardini, di fontane, che nella sua campagna aveva chiese come san giovanni,
santa Balbina, i santi Quattro san Pancrazio, nelle cui piazze periferiche, come la Barberini, potevano anche
flettersi e riposare i buoi scesi dall’olmata dei Cappuccini, dove nelle casupole le porte delle botteghie si
spalancavano all’esterno come persiane, una piazza rurale che aveva nel mezzo la fontana del Tritone, a un
lato la fontanella delle api sulla conchiglia e dall’alto guardava in giù un palazzo superbo. Un grosso
paesotto, ma fatto di sorprese uniche nel mondo a cominciare dalla gente. C’era già la stazione, lassù a
Termini tra campi ville e solenni rovine; dentro le rovine una delle più belle chiese del mondo; di fronte
all’esedra che faceva da facciata a questa chiesa, monsignor De Merode stava tracciando quella strada che
sarà detta poi via Nazionale; una serie di sorprese e di meraviglie, di umili e umane armonie librate in quella
sua inconfondibile immensità.
Da che cosa era data quella sua immensità nella quale solo l’universale aveva diritto di cittadinanza?Dalla
forma del suo spazio, certo, dalla sua luce, dal suo cielo, certissimo, ma ci doveva essere qualche altra cosa.
Potrebbe essere forse la coincidenza di un particolare punto astrologico con uno magnetico ugualmente
333
particolare a fare di questa città che vi è germinata una città unica destinata ad essere sola come è solo chi sta
sul trono o sulla croce.
Una cosa misteriosa fu necessaria per formare una città misteriosa come Roma. Neppure il suo nome
sappiamo. Come si chiama Roma non lo sappiamo, né lo sapremo mai. “Roma”, un nome–maschera
sovrapposto al vero, messo per essere visto, per essere detto e soprattutto per nascondere l’altro.
Il nome non aveva allora, come per noi ora, un valore solo familiare, giuridico e burocratico, ma anche un
valore sacro; il nome era l’anima delle cose, era parte integrante dell’individuo che lo portava, dunque era
necessario nasconderlo perché nessuno potesse pronunziandolo evocarne lo spirito per strapparglielo.
La potenza del verbo era al principio di tutte le cose. Conoscere il nome di una città era conoscerne il nume
e poterglielo rubare; tolto il nome è tolta la forza. Di qui la necessità di tenere nascosto il nome vero della
città. I pontefici che lo pronunziavano solo nel segreto del sacrificio propiziatorio, se lo tramandavano l’un
l’altro, ma non essendoci stato tradimento a un certo punto la catena fu spezzata e il nome perduto.
Attraverso i secoli si è diffusa l’idea che Roma non sia altro che la parola Amor letta al rovescio, che il nome
vero sarebbe quindi Amor. Ma il gioco delle due parole è troppo facile, perciò forse nulla di più di una
fortunata coincidenza.
Quel che è certo è che da questo punto della terra misteriosamente chiamato Roma, due civiltà si sono
irradiate nel mondo intero, quella romana e quella cristiana, una continuità dell’altra, anche se per certi
aspetti è superamento per altri retrocessione.
Roma era stata fatta dal destino e dalla storia qualcosa di così grande che neanche il papa avrebbe potuto da
altro luogo creare e mantenere il suo primato.
Potrebbe esserci, in questo punto, una confluenza di influssi astrologici e di forze magnetiche in virtù della
quale nacque una città che ebbe nei secoli un potere magico.
Roma, motivo di contrasto, è essa stessa un contrasto dalle più grandi alle più piccole espressioni come
quelle del clima. In qualche invernata può accadere di vedere arrivare la neve del nord, così come nelle estati
capita d’essere avvolti dalla sabbia del deserto, o di vederla cadere con la pioggia in gocce grosse e rosse
come se vi avessero stemperato la polvere di mattone.
Roma è tutto un contrasto capriccioso. Meta dei nordici per il suo tepore, scatena una tramontana che penetra
i corpi come i raggi X. Inutile coprirsi.
Roma era tutta colorata, dai costumi delle donne a quelli degli uomini con le loro sgargianti fusciacche; dalle
cerimonie religiose dove erano riuniti la porpora e l’oro dei secoli, dove la liturgia parlava anche con i colori,
ai suoi mattoni e travertini patinati dal sole, al variare di toni del suo verde nel quale era affogata, ai fiori dei
tanti giardini che la amalgamavano. Tutto l’anno le madonnelle erano fiorite, in maggio ne erano riboccanti.
All’epoca dei cocomeri tutta Roma si ricopriva di castellucci e di carretti carichi di fette rosse. Capitava che
la prima falce della luna quando stava per toccare Montemario che allora quasi dappertutto si vedeva, e
scomparire, si arrossasse come una fetta di cocomero celeste.
Le forme e i colori di Roma hanno ispirato gli artisti di tutti i secoli. Guardando quei quadri del sei, del
334
sette, del primo Ottocento, cadi in balia di una struggente meraviglia. Ma se davvero c’erano quelle cose,
Roma era troppo bella.
E allora si vorrebbe conoscere di più quell’altro genere di bellezza, quello dei secoli di mezzo, che la
celebrarono miracolosa anche per la sua bellezza. Roma fu per quell’epoca la città miracolosa in cui
avvengono i fenomeni più strani; città i cui edifici hanno migliaia di porte; città la cui folla è fatta di statue;
città tutta di marmo e d’oro. Fantasie che provengono non da un popolo solo, ma da razze diverse, che perciò
nascono dalla stupefatta meraviglia di chi la vide e la racconta. Queste fantasie provano la magnificenza di
questa città e il culto che di lei restò anche nei secoli cosiddetti bui.
Roma è stata sempre una città del mondo fuori del mondo.
Questa sua strana unicità la fece un punto, un centro di attrazione.
Nella prima metà dell’ottocento c’era in Roma una società cosmopolita meravigliosa: Dame che sanno di
greco e di latino, di arte e di storia, di pittura e di musica, che cantano e suonano in scelti concerti e in gite
campagnole con la chitarra. Spiritose e interessanti nella conversazione. Perché era il fior fiore
dell’intelligenza internazionale che si riversava a Roma.
Storici, archeologi, pittori, musicisti, filosofi, scultori ogni parte del mondo risiedevano a Roma e
attendevano alle loro opere come nel proprio paese.
A leggere le cronache di oggi e quelle di ieri, pare che allora i trasporti fossero supersonici e che adesso ci si
muova con la posta a cavalli.
Quell’andirivieni di re, regine, imperatori, imperatrici, regnanti o in esilio, quel correre qui di principi
dinastici di ogni parte del mondo, e quella fiumana di duchi, di marchesi, di conti, che affluiva e defluiva, par
gente che voli; mentre le rare visite di oggi sono concertate un ano prima, e il programma ci è noto sei mesi
prima, e se ne viene uno quest’anno, passeranno forse altri anni prima che ne ritorni un altro.
Per il clima, per lo spazio, per il temperamento della gente, per il fascino delle sue rovine, per quel governo
unico al mondo in cui l’edito si mescolava al canto gregoriano e all’odor d’incenso, per quella melanconia
dei funerali notturni e quegli scoppi trionfali della polifonia, Roma era soprattutto una città voluttuosa.
Il “carpe diem” se non fosse nato qui forse non sarebbe nato altrove, perché Roma ti dà la bellezza delle sue
luci e delle sue notti diffusa nel senso eterno del suo non essere.
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Divagazioni tiberine
collocazione: Pg 118.
Se l’Egitto è dono del Nilo, il Lazio non lo è del Tevere, neppure Roma. Roma se mai è un suo involontario
prodotto. Involontario perché nel Tevere non c’è generosità. Le sue inondazioni non erano feconde come
quelle del Nilo, ma distruttive come un moto tellurico.
Il Tevere era bellezza e comodità, due cose che a lui non costavano nulla, due cose di cui come un
indifferente Iddio lasciava che la terra e gli uomini ne usufruissero. Un dio espresso dalla natura.
Ma i romani se lo fabbricarono un dio fluviale con un paio di leggende diverse. La più diffusa che Tiberinus,
re degli albani, morisse affogato nelle sue acque comunicandogli per osmosi nome e regalità che dopo morte
divenne divinità.
Tiberis, e Tibris, è il 2° fiume d’Italia, ma molto distanziato dal primo, come uno che in un concorso sia al 2°
posto, ma solo perché tra lui e il primo in graduatoria ne mancano almeno altri quattro.
La letteratura antica e moderna gli ha appiccicato l’aggettivo di flavus, il biondo Tevere che a volte lo era
veramente biondo prima che fosse ridotto a fogna cittadina. Biondo per la rena delle sue dune. San Pietro in
Montorio, Monte d’oro, deve il nome a quella rena che in città si spargeva per le strade dove doveva
svolgersi un pomposo corteo o un solenne funerale. Le ruote delle carrozze giravano silenziose sopra quel
tappeto dorato, raffinata distinzione che Roma offriva mutuandola dal fiume.
Gli appiccicò anche i due gemellini soli e con la lupa che vive oramai nelle statue simboliche del
fiume,fanno gruppo con lui e ne dicono il nome come la sfinge dice quello del Nilo. Del resto i gemelli li
salvò lui prima di altri, invece di convogliare a mare la cesta con i ragazzini, la depositò su una secca perché
Roma potesse essere. Così racconta il mito.
Ma Roma fu solo per ragioni commerciali. Nonostante che nell’alta antichità la navigazione del Tevere fosse
piuttosto difficile, esso era sempre la più diretta strada per merci e vettovaglie che dall’Etruria scendevano
quaggiù. Dove la linea dei trasporti fluviali incrociava quella dei trasporti terrestri che risaliva per i colli
Albani in quel punto d’incontro delle due strade non poteva non svilupparsi un mercato, l’isola Tiberina
pareva messa lì apposta e lì nel posto più atto a sfruttare economicamente le due strade sorse Roma.
In questa attività commerciale sempre in aumento fu necessaria Ostia, porta del fiume, porta di Roma, porta
delle terre fin dove poteva arrivare per via fluviale tutto quello che veniva dal mare. Ma il fiume era
appiccicoso, non dava sempre affidamento, come per i ragazzi turbolenti ci voleva una divagazione per
questo si scavò il canale di Fiumicino, con due foci il turbolento fiume dette sfogo a se stesso e incremento
agli scambi che col porto costruito da Claudio il commercio marittimo entrò direttamente nella sua splendida
fase.
Il fiume difese Roma, la nutrì, la provvide, l’uomo si sa deifica la provvidenza. Per noi che non deifichiamo
più le forze della natura, la provvidenza è sinonimo di Dio. Nacque dunque la sacralità del fiume e del suo
primo ponte, il Publicio. Lì il sacerdote accompagnava la vestale massima discinta in segno di lutto e
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penitenza per buttare in acqua certi fantocci che avrebbero dovuto trascinare il male con loro liberandone la
città. Il sacerdote addetto ai sacrifici sul ponte era il massimo e si chiamava Pontefice. Di mano in mano il
nome è passato al capo della comunità cristiana occidentale, il nostro papa, Pontefice Massimo.
Da Ostia e da Porto, all’altro capo del Tevere, tutto quello che poteva arrivare direttamente a Roma per
acqua, arrivava all’Emporium, o Ripa. Arrivava grano, olio, legumi, legno, lana, avorio, piombo, datteri,
stagno, rame, argento, oro, marmi, papiri, vetri, stoffe, incenso, spezie, perle, coralli, ed era l’Egitto, l’oriente
l’Arabia, la Spagna, l’Africa, la Gallia, la Grecia a mandare tutta questa roba.
Con la caduta dell’impero romano molte cose decaddero, anche il meraviglioso commercio mondiale di
questo piccolo fiume subì un arresto ma non cessò mai del tutto anche se la sua attività pareva quella di uno
che non ce la fa più.
Ma siccome morto non era e di pontefici illuminati ce n’erano, ogni tanto riprendeva vita finché alla fine del
‘600 si ritornò allo splendore imperiale.
Al porto di Ripa grande arrivavano bastimenti provenienti dal mare mentre a quello di Ripetta arrivavano
barche, barconi, navicelli che scendevano dall’Umbria, dalla Sabina, uno scalo per le merci che scendevano
dal nord, come quello di ripa grande lo era per quelle che venivano dal mare.
Ripa grande era adesso la succursale di Civitavecchia, del porto vero aveva i caratteristici magazzini e le
osterie. Santa Maria della Torre del Buon Viaggio raccoglieva gli umili voti dei naviganti che sono i migliori
fornitori di ex voto.
Già intorno al mille gli Arabi fantasticavano su questo fiume commerciante, dicevano che non è un fiume ma
una striscia di mare che si insinua tra la città meravigliosa per servirla. Difatti le porta le navi cariche e gliele
riporta via vuote.
Prova questa che dopo lo sconvolgimento della caduta dell’impero, la vita commerciale del fiume non fu mai
interrotta.
Siamo abituati noi posteri a pensare solo ai due porti di Ripa grande e Ripetta perché i nomi sono rimasti, ma
ce n’erano altri, quello della Traspontina, per esempio, in questo porticciolo sbarcò tutto il travertino che
diventerà il colonnato di S. Pietro. Era una strada d’acqua il Tevere, serviva molto bene e i papi
aumentavano sempre questi porticcioli, l’ultimo nel 1827, il porto Leonino, di fronte all’abside di S.
Giovanni dei Fiorentini, aveva la sua piazzola, la sua fontana, le sue due rampe di scale fino all’approdo
delle barche, era anche bello.
Per secoli su questo fiume ora morto arrivavano, si fermavano, manovravano, ripartivano come dice la
leggenda di una stampa del ‘600: “navi di mercanzie, barche, tartane, e altri vascelli et legni di mercanzie e
robbe commestibili navigate per mare, per Tevere, condotte a Roma da tutte le parti”. Tor di Nona,
corruzione d’Annona stava lì sulla riva del Tevere perché sin dall’antichità romana le vettovaglie lì si
accumulavano.
Sin dalla più remota antichità il fiume era stato pieno di ruote e pale che manovravano le mole di
triturazione, sfarinatura, le macchine per muovere le seghe per il legno, le pietre, i metalli, la forza per
sollevare i magli e gli aristi per battere rame e ferro, le mole, la maggior parte per macinare il grano ma
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anche colori, maioliche ed altro, alcune erano fissate alle rive con catene, avanti a piccolissimi moli, la
maggior parte con anelli e catene di ferro ai piloni dei ponti. Moltissimo all’isola e a S. Giovanni dei
Fiorentini dove è rimasto il nome.
Nella prima metà dell’800 vennero portate per fiume le colonne della ricostruendo basilica di S. Paolo e
dall’Egitto i tronchi di alabastro. Il nostro fiume, oramai solcato da bastimenti a vapore aveva la capacità di
legarsi col Nilo.
Quando arrivò il regio esercito per liberare Roma i piroscafi riempivano il porto di Ripa grande. Ma il
governo che arrivò con lui, imprigionò, asfissiò, svirilizzò questo fiume che Plinio chiamava: “placidissimo
mercante di tutte le cose che nascono al mondo”.
Lasciando da parte Ercole che si riposa sulle sue rive dopo la disfatta di Caco, Carmeta scarmigliata,
Evandro e Tiberino, Turno che ci si lava le ferite, la Sibilla Tiburtina e Clelia che lo passa a nuoto, lasciando
da parte cerimonie e illustrazioni che cosa non ha visto questo fiume? Saccheggi, imperi, rovine, papi, re,
imperatori, fughe di questi e di quelli, feste sontuose, poeti, artisti, assassini e santi.
Che cosa non fu buttato in questo fiume? Oro, argento, armi, viveri, documenti, persone, ed effigi di persone
per una simbolica condanna, effigi di cortigiane sopra tutto, le condannavano così perché poi era così bello
lasciarle vivere.
Dopo le orge bacchiche gli iniziati correvano al Tevere agitando le fiaccole che spegnevano nell’acqua.
Secondo la leggenda anche il candelabro a sette braccia del tempio di Gerusalemme, sarebbe finito in fondo
al fiume.
Massenzio, sconfitto, annegò nel Tevere.
Anche un Borgia accolse questo fiume. Ci fu gettato a Ripetta, di fronte alla chiesa degli Schiavoni. Pare che
in quell’epoca gettare di lì gente uccisa fosse un’abitudine.
Le ceneri di Arnaldo da Brescia che risuscitava il ricordo dell’antica repubblica romana furono buttate al
fiume. Disperse ma per una via solenne come un trionfo.
Da Ponte Sisto furono giustiziati i cappelli cardinalizi: tolti dalle botteghe di via Cappellari e buttati al fiume.
Invece da sé si giustiziò e per finirla con le sue angosce il padre dell’arditello Valodier argentiere, il papa gli
commise una campana per S. Pietro. I fonditori ingelositi lo portarono a credere di avere fallito l’opera,
disperato si buttò al fiume. Pioveva. Poco dopo da S. Pietro la sua campana spandeva un suono come se
invece che col bronzo l’avesse fusa con l’argento a cui era abituato.
E quante bestie ha visto il Tevere faticare lungo le sue rive quando traevano le barche, buttate a fiume per
liberazione, e per godere del loro tormento. Quanti gemiti di cani per l’affogamento dei loro padroni. I
mulinetti hanno risucchiato uomini in quantità e le ruote delle mole stritolati.
Nell’antichità romana vide giochi e feste che culminavano con fiere di mercanzie nell’isola.
Vide gli spettacoli storici molto cari ai papi “Orazio al ponte” era di prammatica, più spesso a Ripagrande
perché il Sacro Sublicio era là. Vide giochi e spettacoli fluviali che si protraevano fino a notte quando
l’allegria poteva inasprirsi ai gridi di “viva li Monti-Viva Trastevere”. Corse di barchette, feste di cocomeri,
regate e girandole in acqua e poteva capitare che si costruisse una macchina rappresentante la nave degli
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Argonauti alla conquista del vello d’oro.
La letizia di Roma,si spense lentamente con l’annessione.
Usava anche banchettare a mollo su tavole galleggianti che si dovevano seguire perché proprio ferme non ci
stavano mai.
I vaporetti facevano gite di piacere a ponte Mollo, all’Acqua Acetosa e i passeggeri sempre numerosi
stornellavano.
C’era un comodo battello per fare escursioni lungo il fiume e dall’acqua vedere la città. Questo allora era
possibile. Ce n’era uno per traghettare la gente da Ripetta sui Prati di Castello pieni di osterie e di giochi di
bocce.
Traghetti o barchette di trapasso ce n’erano diversi perché la città scendeva al fiume e dall’altra parte
ricominciava e con se stessa come a Trastevere, e con ville e con la campagna.
Alle corse di Tor di Quinto ci andavano in vaporetto.
Questo fiume che ha convogliato la storia è adorno di poche, ma durature leggende. Ancora nel 700 si poteva
scrivere che le sue acque erano gialle per il grande oro che si trovava nel suo fondo: statue, monete, diademi,
monili, tutte le ricchezze che i romani gettavano nel Tevere all’avvicinarsi dei barbari, galee naufragate
cariche d’oro a cui si erano aggiunti le chiavi di S. Pietro buttate a fiume da Giulio II e il vasellame d’oro che
i Chigi gettavano in acqua dopo i banchetti.
Piatti e anfore d’oro non ne ha restituiti, forse erano riportati su dalle reti del banchiere.
Però il Tevere, da secoli e secoli, basta stuzzicarlo un poco e qualche cosa restituisce. Da lui si possono
estrarre pietre e rena come da tutti i fiumi, ma anche una testa di Afrodite bella come quella che sta alle
Terme. Dalle sue sponde non venivano solo marmi, ma colonne e fregi.
Venne fuori anche una enorme statua della dea Roma vestita di scuro con i capelli corvini e la faccia così
pallida che le fecero una poltrona di legno dove tuttora riposa. Al principio del secolo dovendosi fare alcuni
lavori di scavo nell’isola, ne vennero fuori tante colonne e tante statue quante non si sarebbe immaginato che
potesse ospitarne.
Poco prima dell’annessione, vicino a Ripagrande si scoperse una autentica cava di marmi tanti ve n’erano
accumulati. Non per nulla sin dall’antichità il luogo si chiamava Marmorata perché lì si scaricavano.
Vennero alla luce alabastri africani gialli antichi, serpentari, brecce, diaspri, neri, verdi, rossi antichi.
Continuavano quei marmi a riapparire, ma arrivarono i muraglioni a inaridire quella fonte favolosa.
A fine dell’800 quando sconvolsero tutto per costruirli si scopersero le due rampe terminali del ponte Elio,
strade col noto selciato romano consumato dai pedoni e dai carri, fiancheggiate da due marciapiedi a doppio
gradino.
Tutto si guastava e si ricopriva. I lavori andavano a rilento, pareva che le draghe si divertissero a portare a
superficie stucchi, bassorilievi, pitture, bronzi, elmi, monete, statue, colonne. Sulla Lungara, davanti alla
Farnesina si scoprì una casa romana augustea con pareti dipinte e soffitti stuccati.
Gli ebrei proposero ai papi di fare a loro spese certi lavori per facilitare il commercio fluviale, chiesero solo
che passasse in loro proprietà le statue e i marmi che avrebbero trovato in fondo al fiume all’atto dello scavo.
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I nuovi venuti che sconvolgevano la città scoprivano anche le ricchezze su cui essa siede come una favorita
orientale sui suoi tappeti.
Il Tevere è stato sempre capriccioso girò qua e là coprendo o scoprendo. Il cambio delle sue valute è segnato
da secoli, da millenni.
Presso ponte Cavour coprì un pezzo di Roma, più sotto c’è strade e case.
Nel 1575 il fiume perse addirittura la testa, cambiò percorso e si mangiò quel pezzo di Ostia che si era stesa
nell’ansa che quella piena apocalittica cancellava. Per colpa di questo tremendo piccolo fiume una parte di
Ostia antica non potrà mai più essere scoperta,a meno che non gli venga il capriccio di ritornare nel vecchio
letto.
Il Tevere vuole qualche scadenza astrologica, qualche grossa occasione per straripare.
Appena finiti i nove mesi di saccheggio di Carlo V, quando già Roma era tutta una rovina, straripò
distruggendo centinaia di case già rovinate e, dicono, migliaia di persone.
Cambiare corso e direzione gli è congeniale come uscire di senno con alluvioni disastrose, a capriccio, a
volte pochi anni tra l’una e l’altra, a volte dei secoli.
La prima dell’era cristiana fu una furia scatenata, ma Tiberio che era più saggio che pazzo ne riparò i guai
con quella sollecitudine che noi desideriamo invano per i nostri guai.
Rovinavano i ponti queste alluvioni, allagavano mezza Roma e oltre al solito deprimente deposito di ogni
inondazione, lasciavano anche fame e peste.
Improvvisa e veemente fu quella sul finire del secolo XV, così inaspettata e impetuosa che riempì di paura i
cardinali che proprio in quel momento stavano uscendo dal conclave. Nella seguente una statua in legno di S.
Maria Maddalena galleggiò in piedi sulle acque vorticose e andò da sola a piazzarsi sull’altare maggiore.
Ora, sempre in piedi, sta in una cappella della chiesa della Maddalena.
Quella di fine dicembre del 1870 parve una protesta per quello che a Roma stava avvenendo, una specie di
presa in giro per quel re che non ce la faceva a venire per prendere possesso della città che gli avevano
conquistata con la breccia di porta Pia. L’alluvione ce lo trascinò. Venne, non vide e ripartì.
Un rimedio per queste alluvioni era necessario, ma si poteva rimediare in altra maniera, senza privare Roma
di quella sua splendida parte fiumarola. Il rimedio dei muraglioni è brutto senza discussione, orribile è stato
che per fare questa bruttura si sia distrutto, come i vandali mai fecero, case, alberi, palazzi, teatri, punti di
vista sorprendenti, si è mutilata la città di quel suo dolce scivolare verso la sua acqua alla quale era unita da
sempre. Vennero i nuovi padroni e lo divisero.
Case e fiume erano parte viva della città come la gente che vi scendeva,il fiume era a livello della vita. I
romani antiretorici e antiampollosi, che riducono tutto a nulla, indicarono sempre il Tevere col comunissimo
er fiume, ma intimamente erano orgogliosi della loro storia, usavano la loro città quella canzonatura che
usavano nell’amore.
Dopo che glielo ebbero messo nella bara scoperta dei muraglioni, er fiume diventò er fosso.
Case si specchiavano sull’acqua, terrazze e giardini sempre verdi e chiese e teatri e palazzi, immobili a volte,
a volte con un tremore come se sull’acqua fosse distesa una seta dipinta così. Quel riflesso che durava da
340
millenni fu sepolto in una fogna scoperta.
Tra siepi di rose, arbusti d’aranci, spalliere di mortella e pergolati, s’affacciavano sul fiume osterie che
magari si autoproclamavano “Orti Aureliani”.
Quella parte di Roma che s’affacciava sul fiume nasceva dall’acqua col miracolo fascinoso di Venezia, in
qualche punto più incantevole di quello veneziano per il gran verde, per lo spazio enorme, per le svolte
capricciose, ma sempre di gran respiro.
San Giovanni dei Fiorentini sorgeva dalle onde del fiume, alle sue spalle, oltre l’acqua, altri campanili, altre
case, di fronte la fuga della lunga valle Giulia a cui non era stata tolta la luce dell’acqua, che veniva a tuffarsi
nel Tevere.
Quell’abside sorgente dal fiume che nel sei, sette, ottocento fu l’ammirazione dei pittori di tutto il mondo,
col terrapieno che ne seppellì mezza, danneggiarono irrimediabilmente la chiesa e le cose ammirevoli che vi
erano raccolte. Il danno ognuno lo può immaginare solo passando sul lungotevere. Quella parte di abside che
emerge è per metà bagnata d’umidità come un biscotto inzuppato nell’acqua.
La campagna allora scorreva dentro la città insieme col fiume. Si mescolava ai giardini, alle rovine, cedeva il
posto alle case, sosteneva le terrazze, piegava i suoi alberi nell’acqua come se volesse sciacquarceli. I
muraglioni la seppellirono sotto uno strato di terra, di pietre, di mattoni. Dove la città diradava s’infittivano
gli alberi sulle prode erbose e scoscese.
Erano strette le une alle altre le case che sorgevano sul muro della cinta aureliana che dal Popolo piegava sul
fiume. Dopo quel tratto sorgevano sempre dall’acqua, ma più accosto e più lontane dalla riva, erano
intramezzate da piccolissime spiaggiole. Senza argini la vita scivolava sino all’acqua; piccoli mercati di
pesce intorno a una cesta; passerelle ad archi digradanti che portavano dentro al fiume; piccole arene con
gente stesa al sole. Barche, colonne spezzate, ma ancora dritte sul limite acqua-terra.
Di dietro e dove è ora il ministero della giustizia una dolce stradina scendeva al Tevere fiancheggiata da
alberi di melangoli, quegli alberi carichi di frutta color d’oro che non cadono mai.
La città scendeva dolce verso l’acqua, nelle strade che vi sboccavano si avvertiva il chiarore dell’acqua
assolata.
Una bellezza irripetibile il Tevere alle falde dell’Aventino. L’Aventino s’immergeva nel Tevere e dal Tevere
emergevano gli alberi. Case rare alte su rocce, rocce che scivolando si adagiavano nel fiume sino a
scomparire sott’acqua, negli anfratti alberi, arbusti fiori, lontano il Tempio di Vesta.
Tante spiaggette, s’è già detto, ma dopo Ponte Sisto c’era quella, la più grande lungo il corso del fiume è
rimasto il nome a una viuzza.
La Renella era una confluenza di luce e di vita perché il popolo viveva col suo fiume e lì aveva anche il
teatrino dell’Impero Celeste, marionette meccaniche, maschere specialmente, delizia dei ragazzini, riposo dei
grandi. Tutto distrutto.
Via Giulia, la più bella strada di Roma accompagnava il corso d’acqua come un parallelo viale di palazzi. A
uno di questi era fissata la fune per la barca che traghettava il fiume, in una casetta di fronte, sulla Lungara,
era fissato l’altro capo. Ora via Giulia è una strada mezzo accecata, le hanno tolto la luce, le fronde, il
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riflesso acquatico che le veniva dal fiume. L’hanno sepolta con un argine che le arriva a mezza vita.
La passeggiata di Ripetta la chiamano anche passeggiata del Tevere perché gli alberi ombreggiavano sì, ma
il fiume sciacquettava e luccicava lì accanto.
Di fronte a san Giovanni dei Fiorentini sorgente dalle acque, sull’altra sponda, s’alzava il palazzo Salviati,
poi cominciavano le case della Lungara, perché la Lungara era lungo il fiume, non era un seminterrato com’è
ora. E quel cassone lungo e desolato che ora tenta di guardare il fiume da un fosso, l’apostolico Ospizio di
San Michele, cittadella della libertà nel lavoro, era vivo e lieto con gli alberi davanti e poco più in là i velieri
e i barconi che stavano al porto.
Duemila anni e più erano corsi via con l’acqua lasciando sulle rive due cornici incomparabili che
accompagnavano il fiume, Palazzi, case, ruderi, archi, scale, alberi e balconi e terrazze fiorite. Tutto giù. E i
due porti più grandi quello di Ripetta e di Ripagrande dove la gente si affacciava a guardare le navi, ormai a
vapore che scendevano da Nord o risalivano da Sud? Uno spettacolo caratteristicamente portuale che il
Tevere non vedrà mai più.
Due strade a livello, via di Ripetta e Tevere, la prima di selci, la seconda d’acqua e all’altra sponda le
accompagnava un greto boscoso. La via di Ripetta, distesa lungo il suo fiume, aveva respiro e armonia in
quell’aria luminosa. Sulla distruzione dello splendido porto di Ripetta piangeva persino la stampa
governativa. Con scalini ondosi come il suono che scendeva all’attracco,viste dall’alto del parapetto quelle
scale avevano la dolcezza sinuosa delle strigliature che vediamo su certi sarcofagi. Corde, barche, alberi,
vaporetti e a notte la luce del faro.
Due chiese stavano a guardia del porto di Ripetta. Una corsa di pochi passi e dall’acqua si stava in chiesa.
Il palazzo Borghese guardava dalla sua altezza il discendente porto spingendosi verso il fiume con la tastiera
del cembalo.
Anche questa con davanti la gibbosità artificiale del lungotevere ha perduto la grandiosità che le dava il
discendere del terreno e la luce e il respiro fluviale. Spremendo malignità di Roma tutto si sarebbe potuto
dire, eccetto che era una città sepolta. Incassando il Tevere ci sono riusciti a seppellirla in parte. Lungo le
sponde del fiume tutta la città è più bassa degli argini.
Qualcosa che scaricasse il Tevere a monte quando ci fossero le piene, questo ci voleva. Il bel fiume
continuerebbe a scorrere tra le sorprese delle sue sponde che erano inesauribili.
La costruzione dei muraglioni, dicevano, avrebbe messo Roma nella condizione di tutte le città attraversate
dai fiumi. Non lo è, ma se anche lo fosse, Roma non è una città come le altre. Essa anche se unica nella sua
monumentalità, non era grande nello spazio, era grande nel tempo tanto che pareva averlo superato entrando
nell’eternità. Roma eterna oggi fa ridere.
I muraglioni dovevano superare l’altezza di quella piena che l’aveva battezzata capitale d’Italia. In un certo
senso ciò voleva dire rendere stabile quella piena nel tratto cittadino. Nella piena, sformandosi, il fiume
s’annulla, in fondo ai muraglioni si nasconde.
Anche per un mattatoio, i papi chiamavano il nome di un architetto, per le dogane, per le prigioni, per le case
di correzione, per gli ospizi sempre il valente architetto. Almeno questo potevano fare.
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A una mente geniale quelle due sponde abbattute offrivano una quantità di spunti per dare a questi argini
movimento e varietà. Invece si fecero con la più ottusa e brutale uniformità. Tanta varietà di bellezza da
sostituita da un monotono nulla.
Gli ingegneri che li progettavano riconoscevano che non c’era fiume più navigabile del Tevere e intanto
studiavano i mezzi per renderlo utile solo a convogliare le fogne.
I tempi erano maturi, come avevano portati i treni sui loro territori e la navigazione a vapore sul fiume, anche
i papi avrebbero studiato il modo di evitarne gli straripamenti, ma così come volevano dagli architetti
progetti artisticamente validi per magazzini e prigioni, avrebbero saputo far tutto con più eleganza e minori
distruzioni.
Intanto tra Stato e Comune la tensione e le inevitabili discussioni per chi doveva pagare la distruzione di
Roma. Lo Stato pretendeva che il comune pagasse quasi tutta da sé l’opera di sventramento, come se chi
viene sventrato avesse l’obbligo di pagarsi da sé i funerali. A Napoli perché si sventri su 100 milioni gliene
dettero 50, ma a Roma solo una dozzina per rimangiarseli con la quota Tevere.
Il governo, diceva, può imporre a Roma le tasse che vuole. Ogni tanto esigeva, ogni tanto esonerava. Il fatto
è che quell’imprigionamento del fiume non andava a genio quasi a nessuno. La legge alla Camera fu votata
con 150 palle bianche e 108 nere e al Parlamento i romani erano ben pochi.
L’appalto per l’inalveamento del fiume veniva ogni tanto ripetuto, bastava un’offerta che diminuisse la
percentuale di pochi centesimi. Ognuno traeva al suo profitto di modo che i muraglioni alle prime piene
cadevano. La caduta di un tratto del muraglione suggeriva i rimedi per tutti, provando e riprovando costarono
tanto che i governativi spiegavano ai romani che erano degni di Roma antica. Un’antichità si paga.
Centocinque milioni di allora costò imprigionare quel fiume sovrano che ora si muove tra i muri come i
carcerati che prendono l’aria.
E ringraziamo il regio governo che non ci tolse l’isola Tiberina, il progetto di “toglierla di mezzo” c’era. La
proposta fu bocciata perché essendo l’isola tanto collegata con la storia di Roma antica, avrebbe urtato “le
opinioni volgari e quelle di tutti gli archeologi”. Il regio governo non era archeologo e non aveva niente a
che fare con quelle “opinioni volgari” poteva benissimo spianare l’isola. Avrebbe forse ritrovato nel fondo il
grano dei Tarquini che nella miseria in cui aveva buttato la città, avrebbe fatto comodo.
Accenno di distruzioni, non elenco, per carità!
Distrutta la chiesa di San Giustino e Giovita, ospizio o ospedale annessi; distrutto l’arco dei Bresciani.
Palazzo Gaetani, poi dei Celestini,demolito.
Demolito Palazzo Castellani il cui portico era uno dei più belli di Roma, demolita la torre degli Stefaneschi e
quella degli Albertazzi. Demolito l’ospedale dei Pazzerelli sopra all’Acqua Lancisiana. Naturalmente questa
finì di essere fontana di sorgente viva e si ridusse a un rubinetto uscente da un muro. Demolito il vecchio
ospedale di S.Spirito.
Ponte Sisto pareva tenuto su da due braccia di Roma che si protendevano nell’acqua, isolato tutto demolito
intorno anche se erano costruzioni del ‘300, giù l’orologio, giù il fontanone, immagazzinati i pezzi, ricercati
poi per ricostruirlo dall’altra parte,non tutti ritrovati. Trasformato il ponte con l’aggiunta di due marciapiedi
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protetti da un’orribile balaustra in ghisa.
Rovinati ponte e Castello Sant’Angelo. Due bastioni e lo splendido camminamento in pietra, “empiamenti
distrutti” diceva la stampa contemporanea, affreschi,pietre diamantate, sculture, al magazzino. Demolite le
due testate di ponte Sant’Angelo che avevano resistito 17 secoli, gli archi centrali lasciati soli in mezzo alla
corrente stavano per crollare.
La passeggiata di Ripetta che ora è un fosso di scorrimento per le automobili che vi si precipitano
dall’argine, era un’assolata passeggiata ombreggiata dalle piante, sfiorata al tramonto dall’ombra delle vele
che passavano sul fiume. Si chiama ancora “passeggiata”, ma ci si sguscia solo e a fatica, chi l’attraversa lo
fa a suo rischio e pericolo.
Pio IX aveva costruito quel ponte di ferro sospeso, arioso e bello chiamato dei Fiorentini che, non avendo
arcate non ostacolava il flusso del fiume. Era stato un lavoro di tale perfezione che il mondo lo considerò una
gloria del suo pontificato. Egli ne aveva seguito i lavori, approvate le modifiche, accettati i miglioramenti
come un competente e un innamorato. Sopravvisse ai muraglioni funzionando a meraviglia, fu abbattuto lo
stesso.
Demolito il teatro Apollo, il primo costruito in Roma dopo gli antichi, il Politeama e l’Alhambra.
Altra irreparabile distruzione fu quella del palazzo Altoviti di fronte a Castello. Era una costruzione
cinquecentesca, la loggia a colonne sul fiume, dipinta dal vasari, un quadro indimenticabile per chi una volta
sola l’aveva vista. Roma, quella consenziente all’annessione e quella contraria, unite nella stessa pena,
supplicava il ministero della Pubblica Istruzione di non fare atterrare il palazzo, di salvare le sue parti più
interessanti per lo meno, per lo meno il portico a specchio del Tevere. Niente da fare. Atterrare, tutto! Il
popolo e Pasquino parlavano di Re Piccone.
Giù tutti gli ospizi che i papi avevano costruito lungo il Tevere, anche se erano del Fontana, anche se il
Regio governo non ne aveva costruiti altri per alloggiarci i ricoverati.
Cancellato un affascinante elemento di varietà distruggendo il porto di Ripagrande. Ma quella folla di
barconi e di piccoli piroscafi non era solo elemento di pittorica varietà, avvicinava il mare richiamandolo.
Ponte rotto, ponte fratto, dicevano i romani, era stato costruito sotto Scipione l’Africano, le prime due arcate
a destra erano le sue, mai crollate, 21 secoli avrebbero oggi se non le avessero barbaramente distrutte. E si
che funzionavano, perché la metà crollata era stata sostituita da un ponte gettato in acciaio, senza piloni
evitando così i facili crolli di quel punto. Un ponte che univa stranamente l’antichità più fonda e la modernità
più avanzata, una curiosità perfettamente funzionante. Distrutto senza motivo.
Distrutto senza ragione il faro di Ripagrande. I resti del ponte sacro di Roma, il Sublicio che da secoli
affioravano nel mezzo del Tevere, che nessun fastidio davano al corso dell’acqua né alla navigazione,
proprio ora che l’avevano annientata, fecero saltare con la dinamite quei resti, erano vecchi di 3.000 anni.
Peggio ancora quando alla distruzione seguì la falsa ricostruzione un esempio per tutti.
Il ponte Cestio con quella sua enorme iscrizione rimessa a posto, pare che sia l’antico. Neppure per sogno,
demolito, rifatto diversamente, incastonate le colossali lettere epigrafiche: mancarono anche alla promessa di
riutilizzare i massi di travertino che lo costruivano. Distrutta storia e memorie solo cancellando i nomi di
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viuzze, piazzole, scalette scendenti nel fiume.
Distrutti pittoreschi e sani costumi. I romani nuotavano nel fiume completamente nudi, un resto di
paganesimo mai soffocato dalle foglie di fico. Il regio governo volle subito i braghettoni come per i nudi
della Sistina. Dopo remate e nuotate i nostri fiumaroli che si stendevano sulla riva, parevano statue di
bronzo. La riva non c’era più, dovettero fare i galleggianti per stendersi al sole.
Roma non ha più la sua parte fiumarola, è una città divisa da un canale che potrebbe anche chiamarsi fogna
scoperta, chiavicone a cielo aperto, a scelta. I muraglioni sono una specie di separazione legale tra il fiume e
la sua città. Per essa cessano i bisticci, ma cessa anche l’unione che è comunione.
E che dire delle costruzioni dopo le distruzioni che servono ad avvilire quel povero fiume “incatenato”? Un
esempio solo anche per questo argomento. Ponte Mazzini, quello che sbocca, non davanti a una strada come
tutti i ponti, ma davanti a un muro, e quel muro sono le carceri dal dolcissimo nome “Regina Coeli”. Lo
costruirono per unire la via Giulia con la Lungara; due strade che seguivano la riva del fiume di qua e di là.
Ma chi le vede quelle due fosse? Lì c’è solo un ponte che sbatte il muso contro un muro.
I romani bofonchiando si domandavano: se i muraglioni ci salveranno dalle inondazioni, chi ci salverà dal
diluvio delle tasse?
Gli allagamenti cessarono davvero dopo i muraglioni? Nella Roma bassa sì, ci fu un miglioramento, lì ogni
piccola piena allagava, ma se il Tevere cresce davvero una parte di Roma si allaga.
Quando le piene sono state piuttosto grosse è capitato che un pezzo di muraglione sia caduto trascinando
alberi e fanali. Nel 1915 per andare a san Pietro ci volle la barca. La piena del 1870, quella che battezzò
l’annessione e portò il re, raggiunse i metri 17,22. Quella del 1938 che la superò di 33 centimetri, non fu
molto disastrosa per il centro, per l’isola moltissimo, ma allagò tutto il nord di Roma facendone un lago. Al
foro Mussolini galleggiavano migliaia di effigi del duce rubate dall’acqua agli uffici di propaganda.
Fotografare non si poteva.
Siccome l’ultima inondazione che superò i 17 metri prima di quella del 70, risale a 210 anni prima, se
qualcuno dubita del collaudo dei muraglioni, ha la sua attenuante.
Allo scempio fatto dagli uomini hanno un poco riparato le innocenti creature alberi, si sono piegati su quei
muraglioni, cambiano colore con le stagioni, danno in ogni ora un senso di pace.
La città si è estesa dove il muraglione cessa, ma si prolunga, declinando, gli argini, il terrapieno non è come
il muro, pian piano diventa verde, passeggiandoci su il Tevere poteva vedersi ancora, in basso sì, ma ancora
luminoso. Un destino assurdo lo proibisce.
Società, circoli, tennis, ministeriali o sociali, hanno bloccato per loro soli quel pendio al fiume che avrebbe
dovuto essere di tutti, ci tirano su costruzioni che coprono la vista dell’acqua, ma anche queste se lunghe a
un certo punto finiscono e si ritroverebbe quel paesaggio per il quale si va a spasso, invece no, proseguono a
occludercene la vista con muri di siepi e cipressetti fitti servono bene lo scopo che è quello di riservarsi non
solo un pezzo di fiume, ma di proibirne la vista a chi non è socio.
Eppure il rispetto al paesaggio dovrebbe essere un paragrafo del codice del rispetto del cittadino. Il cittadino
ha diritto a godere di quel paesaggio, si può invocare la Costituzione per difendere un particolare
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panoramico. Chi si ribella? Forse qualche povero pensionato che cammina e cammina senza riuscire a vedere
di là, l’altra sponda del fiume.
Ci avevano tolto il fiume con i muraglioni, ce ne avevano resa difficile la vita arginando il lungotevere non
con balaustre, ma con muri, anche i ponti non li protessero con balaustre, ma con muri, e spesso quando ci si
arriva nel mezzo, di dove si ama guardare giù perché lì pare d’essere sospeso sull’acqua, ti trovi davanti una
parete massiccia. Muri, muri, muri sempre.
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Distruzioni autorizzate
collocazione: Pg 127.
Ieri dalle pendici dei monti Parioli, a picco sul viale Tiziano, c’è stata una frana di tufo, sassi e arbusti che si
è abbattuta sull’estremità di un distributore della Shell.
Un giornale del mattino dice che si sta indagando per accertare le cause che hanno provocato lo
smottamento.
C’è poco da indagare, la causa è il lavoro di sterro fatto dalla Shell per allargare la sua piazza. Il fatto è
doloso. Gli imputati sono due: la società Shell, in questo caso veramente scellerata, e chi l’autorizzò a crearsi
una vasta insenatura in quella parte tufacea che era già stata ridotta a una parete verticale.
La società Schell è nota; essa fa il suo interesse a spese del pubblico, suolo e uomini. Ma un permesso deve
pure averlo avuto per scavare a livello stradale quella profonda e lunga insenatura alla base del monte. Chi
ha dato quel permesso è il vero colpevole. Lo cercheranno? Lo troveranno? Ce lo indicheranno?
E’ un piccolo guasto, si dirà. Non tanto perché quella chiazza gialla, dove prima c’era solo verde, verrà
allargata per togliere le parti pericolanti, per essere in qualche modo puntellata e altri alberi, altri arbusti
verranno sacrificati.
Quella parte dei Monti Parioli, che ha valore storico ed artistico, ripidamente si, ma scendeva obliquamente
al livello stradale, è stata manomessa da che il fuori porta non fece più paura ai romani non di Roma. Il
fascismo non fece in tempo a coprirla con le sue muraglie come già fece a valle Giulia. Però siccome la
strada risultava poco più della larghezza di un vicolo, Mussolini, in quattro e quattro otto la volle allargata e
grande viale perché ci doveva passare Hitler.
L’allora via dell’Impero risultò appestata da fiaccole accese su padelle di grassi fumiganti, tanto che
Pasquino riesumò una sua vecchia battuta “Eccellenza, troppo olio per un cavolo” e il viale Tiziano, l’altra
strada che doveva far colpo, un obbrobrio. Il monte era stato segato in modo che il suolo stradale risultasse
di ampiezza strabiliante. Distrutto perciò tutto il verde che copriva la pendice, ne risultò una parte di tufo
giallo senza senso. Il monte rapato a zero come un carcerato.
Con quel taglio si scopersero a mezza altezza caverne che prima erano completamente interne o si
affacciavano con brevi fessure, affiorarono, tronchi dalla mutilazione cunicoli terminali delle catacombe che
serpeggiano All’interno del monte, uniche catacombe sopra al livello stradale. La guerra riempì di spostati
quelle grotte. Per potersi arrampicare sin lassù si scavarono scale e scalette nel tufo. Neppure l’erba riusciva
a macchiare di verde quella pendice che nel suo meridionale angolo roccioso era stato copiato d Raffaello
per la sua Trasfigurazione.
Il dopoguerra a fatica sgombrò quelle grotte dai loro inquilini, le aperture che la manomissione mussoliniana
aveva allargate come fauci smisurate, furono chiuse. Quelle bocche murate sono rimaste chiazze aride nel
verde che a fatica, con tanti anni, ha ricoperto il taglio fascista.
La Shell aveva un suo distributore nello stesso posto, aveva appena sbancato un poco, sul terminale dello
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sbancamento c’era murato il suo simbolo, un’enorme conchiglia; brutto come sono tutti brutti i distributori lo
era, sempre adorno di gran pavesi di carta colorata come nelle fiere, ma il danno che aveva fatto era minimo,
il peccato si riduceva a un peccato contro l’estetica. Volle allargarsi, qualcuno glielo permise, tolse la terra
sotto i piedi del monte.
Come faceva il monte a non franare? Questo lo doveva prevedere che dette il permesso alla Shell. La
responsabilità è lì, altro che “indagare”.
E ora? Ora bisognerebbe dare un po’ di pace a questo punto della città tra i più suggestivi, perché una parte
collinosa coperta di verde a due passi dal centro, nessuna città ce l’ha.
La riparazione intera sarebbe cacciare di lì la Shell, con lavoro di riporto sistemare la frana e rinverdirla
senza aspettare che la terra fatichi da sé a farlo. Ma chi può toccare una società che certo ha pagato per fare
quel disastro? Magari sarà lei a farsi pagare i danni.
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Santi, beati e parenti di oggi, 25 giugno - inedito
collocazione: Pg 76-78.
- sant’Amando, eremita che per riuscire a vivere solo dovette sempre fuggire.
- sant’Antido, con le tante leggende strabilianti che gli cucirono addosso,lo fecero parere più mago che santo.
- san Biuha, che per rispetto all’Ostia consacrata mangiò un serpentello che ne aveva ingoiato un frammento,
fu una sua comunione.
- sant’Emiliano, costruito tardi su un mucchio di tombe misteriose che sarebbero pietre cadute dal cielo per
seppellire un manipolo di cristiani morti combattendo contro i saraceni da lui guidati; nel 1872 un
archeologo ritrovò la sua spada, un esemplare del XVII sec. Esattamente di un millennio più giovane, ma
non fa nulla.
- santa Eurosia, enigmatica martire uccisa da un moro in una caverna dove si era nascosta, un pastore
avvertito da un angelo fece suonare tutte le campane. Gli spagnoli ne portarono il culto in Lombardia e qui
rimase invocata contro le tempeste e i tuoni; la sua immagine è in atteggiamento di comandare al cielo
l’allontanamento delle folgori.
- santa Febronia, arrivò di Grecia a Patti, zona che sentì a lungo l’influsso della grecità, ma è un intruglio nel
nome, nella leggenda, nelle ossa che intanto stanno in una cassa tutta d’argento cesellato.
- san Gallicano, prediletto generale di Costantino che gli riserbava la figlia come sposa, ma dopo una
strepitosa vittoria che lo portò al trionfo e al consolato, rinunziò alla carica e insieme a diventare genero
dell’imperatore dedicandosi al servizio dei malati. Vive a Roma nell’ospedale per le malattie della pelle, il
san Gallicano.
- san Guglielmo da Vercelli, dimenticando che le bestie sono immuni dal peccato originale, la sua leggenda
mette in risalto che quando egli dimorò solo su un’alta montagna, orsi e lupi non gli fecero alcun male.
- san Guido, protegge dalla dissenteria perché ne morì, però si occupa anche delle stalle, delle scuderie,
soprattutto delle bestie che tiravano l’aratro.
- san Massimo, vescovo di Torino dove era usanza di emettere altissimi gridi in tempo di eclissi per aiutare la
luna ad uscire dalla sua crisi. “Non ho potuto trattenere il riso - disse il mattino - ma fate bene a dare qualche
aiuto alla divinità perché possa reggere il cielo”.
- santi Pietro e Febronia, principi russi, coniugi finché entrarono in vecchiaia in due monasteri separati, ma la
morte li riunì di nuovo nella tomba.
- san Prospero d’Aquitania, battagliero difensore e interprete di sant’Agostino, ma arrivato a Roma, ambiente
sedativo per eccellenza, da polemico si ridusse a divulgatore.
- san Salomone, illuminato e crudele re di Bretagna dedito a guerre, invasioni e protezione delle arti; da
vecchio si ritirò in un convento dal quale uscì per darsi in mano a coloro che aveva conculcato, perseguitato
dai rimorsi per gli assassini che aveva compiuto, volle essere assassinato.
--santa Tigre, pur dedicandosi ai pellegrini era attaccatissima a un suo pallino, voleva una reliquia di san
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Giovanni Batista, andò ad Alessandria e dopo 3 anni importunò il santo nella sua tomba, finché qualcosa
venne fuori, una tradizione dice che era un pollice (pollice verso), un’altra che erano tre dita (segno
benedicente?)
- due beati del secolo scorso tutti e due resi tali dai cinesi, Chien per la sua eroica difesa dell’immagine del
Crocifisso, Henares, dopo mezzo secolo di missione finì chiuso in una gabbia.
- beata Dorotea, mistica prussiana, stimmate visibili e ferite invisibili, estasi e penitenze raccapriccianti,
amore languente e rinnovamento del cuore. Analfabeta scriveva ciò che Cristo le dettava, aveva imparato
tutto da viaggiatori, predicatori e confessori, figli, in maturità stipulò un patto di continenza col marito, da
vecchia si fece murare come reclusa nella cattedrale dove si macerava davanti alla gente che affluiva per
guardare.
- beata Isabella, sorella di Luigi IX, deluse il papa che la voleva nuora di Federico II, preferì pensare alle
reliquie e ali crociati; da un monastero da lei fondato per giovani nobili come lei escluse la povertà.
- da Corinto san Paolo scrive ai romani “vi salutano Lucio, Giasone e Sisipatro, miei parenti”. La festa di
questo Sisipatro, parente di san Paolo, è oggi 25 giugno.
350
Una giornata di Dolores Prato – inedito
21 settembre 1978, San Matteo
collocazione: Pg 80.
Come sempre finalmente scendo dal letto e vado allo studio per levare il gancio della serranda, la prima cosa
che faccio per paura di scordarmi, che se me ne scordo la fatica per riparare il guaio è mia.
Sulla porta un sobbalzo, ho urtato col piede il bicchiere che ieri sera avevo capovolto sul pavimento. Ho
tanta paura degli insetti e lì sul pavimento ce ne era uno, forse una scolopendra. Terrore. Ma stava ferma,
dunque forse non lo era. Prendo il faro con quella luce, non vedo niente lo stesso, l’insetto è sempre lì. Allora
col piede batto il pavimento, la scolopendra avanza, come un piccolo volo e si ferma subito. Batto col piede
ancora una volta, l’insetto si sposta e si ferma. Allora decido lo copro con un bicchiere molto alto in modo
che la mia mano sia lontana e rimando a domani: nel pomeriggio viene Angela, lei toglierà la bestia. Meglio
se sotto il bicchiere non ci fosse stato nulla, ma vado a letto lo stesso. E adesso ho rovesciato il bicchiere la
bestia è lì dentro, non esce; allora tiro su la serranda, entra il sole illumina il bicchiere, c’è dentro la piumetta
di un uccello.
Ma oggi avevo stabilito: volevo andare alla mostra fotografica della Galleria di Piazza Rondanini; una
mostra che vorrebbe essere indicativa dell’anima e della sensibilità dei popoli meridionali; difatti accoglie
tutte le regioni tagliando di traverso l’Italia sotto la Toscana e all’Emilia. E’ tanto che ci volevo andare, ma
la mattina non ce la faccio, la sera col buio non posso più girare da sola e allora stabilito, fra due giorni si
chiude, devo andare.
Ma come avviene sempre il telefono che mai squilla questa mattina chiama a ripetizione. Son già le undici,
non risponderò più e quando scendo sono le undici e mezza. Non guardo neppure la posta per far presto, ma
la portiera grida “eccola eccola” davanti alla guardiola c’è lo stagnaro che ha fatto il lavoro in casa in questi
ultimi giorni, c’è l’amministratore che mi assale. “Signora, bisogna dare novantamila lire, qui per quel
lavoro”.
- Ma come le chiede a me le deve dare Gaggero.
- Sì, ma dovrei anticiparle io.
- Altre volte lei non mi ha fatto questa questione.
- Quest’uomo le esige, io dovrei anticiparle, le anticipi lei.
E io che avverto la vigliaccheria della proposta che si avvale solo della mia decadenza fisica dico con una
forza inaspettata anche da lui: “Metta una ipoteca sul fabbricato, a me non riguarda”. Solo lo stagnaro, alto,
grosso col suo enorme nasone, mi guarda con simpatia e sorride.
Me ne vado traballando esausta sconfortata cerco un taxì, non lo trovo, può tardare tanto da farmi arrivare
all’ora di chiusura, salgo sul 95, sto scomoda ma intanto vado. Scendo a palazzo Chigi e prendo la strada:
Montecitorio, piazza Capranica, piazza della Maddalena, e ci siamo. Ma quella strada col sole che mi acceca,
con i sassi sporgenti che mi squilibrano, con le persone che mi affollano, strade senza marciapiedi, le
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macchine fitte e strombazzanti, ci vuole proprio il mio desiderio di vedere le fotografie che riguarderanno le
Marche per una conferma, forse per un suggerimento per questo lavoro che sto facendo da oltre due anni. E
poi lo sapete dov’è la galleria? A Palazzo Rondanini, quel palazzo dove io ero a pensione da studentessa;
quel palazzo che non è squadrato come un palazzo Farnese, ma è fatto di tanti edifici attaccati che si snodano
per la piazzetta e per due altre strade con una punta sulla piazza del Pantheon su quella punta c’era un
balconcino, quel balconcino apparteneva alla mia camera. Dove sarà la galleria? Attraversare piazza
Rondanini è un inferno, un parcheggio disordinato dove si stanno lavando le macchine e l’acqua scivola giù,
botti di qua clacson di là ma ecco finalmente il rilievo di piazza Pitti. Perché palazzo Rondanini ha avanti al
portone una rotonda gonfia salitella come immensa è quella di Palazzo Pitti. Entro più che camminare
guardo seguo le indicazioni per la galleria, salgo le scale, quelle che salivo, sono arrivata e la porta? E’
quella. Ma quella era la mia porta, la galleria è dove io ero. Arrivo presto al grande salone “affrescato dagli
Zuccari” dicevamo noi allora, della scuola degli Zuccari, dicono adesso. Quel salone immenso tutto
affrescato pareti e soffitto dove fu tenuto un conclave e sugli stipiti i segni del conclave di là una grande
figura con le chiavi in mano. In quel salone tre gruppi di divani e poltrone lo lasciavano vuoto. Adesso è
tutto coperto da tendaggi di velluto e tutto pieno di supporti pieni di fotografie tra i quali si gira come in un
labirinto. E ancora per le altre stanze continuano supporti e fotografie. Devo cominciare la lotta estenuante
del cambio degli occhiali per potervi leggere il nome di ognuno. Un giovane che gira lì mi guarda, io gli
domando:
- Lei è di qui?
- Sì.
- Allora mi può spiegare: le fotografie sono raccolte per argomenti, o per regioni?
- In genere per argomenti, ma non si può neppur dire, girando e guardandole, si capisce.
- Ma io ci vedo poco, m’interessano solo quelle marchigiane.
- Allora venga qua, questo riquadro è solo marchigiano.
L’uomo stava sorridendo come se fosse contento della mia richiesta. Fotografie bellissime: un grosso
pagliaio avanti il quale passa una sposa vestita come la regina di Saba di Pier della Francesca, e poco più in
là due rozzi contadini che l’aspettano, in primo piano giocano alle bocce. Fotografie interessanti, ma non mi
servono.
Questo reparto marchigiano sta in un vastissimo salone pieno anche questo di tanti supporti. Dico sotto voce
come tra me: forse mangiavamo qui. E sento la necessità di spiegarmi con quest’uomo che è lì in attesa
sorridente e dico:
- Perché io da studentessa sono stata in pensione proprio in questo appartamento, avevo la camera che ha un
balconcino su piazza del Pantheon e una finestra su via della Rosetta, dal ristorante di sotto venivano su tanti
buoni odori.
- La vorrebbe vedere la sua camera? Noi adesso ci teniamo una specie di ripostigli di carte, di cataloghi delle
nostre mostre.
352
- Sarei felice di rivederla.
Lui mi precede io lo seguo. Le porte hanno tutte quei bellissimi architravi in pietra; ecco quella di Lucia,
povera Lucia quando ebbe il suo primo sbocco di sangue. S’apre una porta, la luce del balconcino entra fino
a me, mi affaccio subito alla ringhiera e di lassù vedo quel che vedevo tanti anni fa. Luisa Ribechi che
studiava tanto e veniva lì per lanciare al cielo i suoi trilli, quella Luisa che facendosi accompagnare dal
fidanzato fino al portone del palazzo, dietro un battente si nascondevano per dirsi con le labbra ravvicinate
“tu, tu, tu, tu” erano i loro baci.
Negli anniversari della morte di Vittorio Emanuele II, di Umberto I solenni funerali al Pantheon, arrivavano i
reali con i corazzieri nelle loro splendide berline, la piazza si riempiva di autorità, le finestre addobbate con
drappi e coperte erano gremite di teste. Io sempre antimonarchica in segno di lutto, mio non loro, chiudevo le
persiane del balcone e della finestra, quelle persiane chiuse, le uniche, doveva far pensare che lì c’era
qualcuno che non voleva vedere. Io me ne andavo per paura che le compagne venissero dentro e aprissero
per vedere, mi portavo via la chiave.
- Ed ecco la cappella, dice il giovane.
Non me la ricordavo, ma la riconosco, però c’era l’altare allora.
E non ho detto che per la misura di quell’altare cominciò la lotta sorda della nuova longilinea superiora suor
Guglielmina contro di me e di padre Goretto accomunati. Intanto l’uomo mi riaccompagna verso l’uscita e
intanto mi domanda se sono marchigiana.
- No, rispondo.
Sono romana e mi dispiace molto che non si senta perché a me piace che ognuno abbia nella sua parola
l’inflessione della sua terra, la cadenza è una radice benedetta della propria terra che ognuno dovrebbe
conservare, ma io nata a Roma infanzia nelle Marche collegio Tosco-romagnolo, ho fatto una mescolanza.
Eravamo arrivati nel suo ufficio cercava qualcosa da darmi come esempio della loro galleria e intanto diceva
“perché io sono marchigiano”.
- Di dove?, chiedo io
- Della provincia maceratese.
- Tò, dico io, l’infanzia la passai a Treja e ora ci sto facendo un lavoro.
- E io sono di Penna San Giovanni, a venti Km da Treja.
Si stabilisce una piccola conversazione facilmente immaginabile. Mi domanda se può venire a parlare un po’
di questo lavoro, dei miei ricordi marchigiani. Ma certo e gli do l’indirizzo. Via Fracassini, esclama lui. Ma
io ci vengo sempre, ho lì mio fratello con un negozio di mobili. Quello vicino al fruttarolo, chiedo. Sì proprio
quello.
Ma quel negozietto che io intravedo è una cosa da poco, ma Angela nel pomeriggio mi dice: “Pare da poco
perché è stretto nel principio ma entrando si allarga è lungo”. E allora io che mi aggrappo a tutto, senza che
niente mi sostenga, ho pensato: chi lo sa che con questo mobiliere marchigiano non possa in qualche modo
eliminare, rabberciandogli quei due insopportabili mobili di Ida.
Ma tutto svanirà come sempre nel nulla.
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Un falso miracoloso – inedito del 1970
collocazione: fondo Ferri-Ferrari.
In mezzo alle trasmissioni TV sui “Misteri d’Italia”quella riferentesi ai prodigi di Padre Pio ha diritto
massimo al titolo. La persona di Padre Pio, la sua opera, quel suo confessionale dove tra attese notturne,
lagrime, improperi, esaltazioni, seggiolate e urli del frate, si affollavano i più strani tipi del mondo, quel suo
ambiente tra miracoli e affari, tra semplicità rozza e azioni inestricabili, tra aspetti ascetici e ciarlataneschi,
sono una serie interminabile di misteri. Credi di averne sciolto uno e vedi che sotto ce n’è un altro; uno
dentro l’altro come le scatole cinesi, per arrivare a un sassolino ermetico, le stigmate.
Che si chiamino così le ferite fatte dalla lancia sul petto di Cristo e dai chiodi nelle sue mani e nei suoi piedi,
anzi particolarmente queste e che si chiami così la riproduzione di quei segni in individui di particolare
esaltata religiosità o di particolarissima anormalità, è ovvio. In antecedenza lo stigma era un marchio, un
segno, impresso nella carne viva con punture di ferro o di fuoco, a significare schiavitù, irreggimentazione,
condanna, affiliazione a sette comunitarie o religiose. San Paolo adoperò per primo quella parola, me in un
senso che non ha niente a che vedere col senso che ebbe in seguito.
Bisogna premettere che gli apostoli non erano cristiani così come noi l’intendiamo, erano ebrei che
credevano nel Maestro scomparso restando fedeli alla legge ebraica. Naturalmente anche i nuovi seguaci
della dottrina predicata dai discepoli di Cristo, restavano ebrei osservanti di tutte le loro leggi cominciando
dalla circoncisione, il segno sacro che li distingueva. A questo segno tutti si votavano, si sarebbero sentiti
ribelli a Dio senza quel segno che a lui, assoggettandoli, li legava.
Un poco blasfemo certo apparve a loro Paolo, quell’infatuato convertito, nell’insieme più gentile che ebreo,
perché sosteneva che quel segno fosse superato, che si doveva tralasciare d’imporlo. E fu proprio in una
epistola su questo argomento che apparve per la prima volta la parola stigmate, “io porto nel mio corpo le
stigmate di Gesù”. San Paolo non intendeva la parola nel senso che le diamo noi, egli non ebbe mai nel corpo
le ferite di Cristo, non penava neppure alla sue ferite, in questo caso avrebbe detto fixurae; egli diceva di
avere nello spirito
Il segno che gli altri avevano nel corpo. Fu dopo, ma molto dopo, che la parola significò le cicatrici della
passione di Cristo, particolarmente le fixurae fatte dai chiodi sulle mani e sui piedi.
Le stimmate sola la riproduzione di quelle fixurae: San Francesco le ebbe, poi ogni tanto qualche altro.
Veramente di uomini pochissimi, di donne invece si, ce ne furono, ce ne sono. Padre Pio le aveva, prima le
teneva scoperte, erano in mezzo della mano, tra il medio e l’anulare, più vicine alle dita, poi le nascose sotto
i famosi mezzi guanti. A me personalmente quelle lacerazioni sanguinolente danno fastidio, se le avessi
davanti eviterei di guardarle come evito di guardare ciò che non mi fa simpatia. Neppure la Chiesa però
mostra simpatia per quei fenomeni; salvo che per San Francesco, la sua posizione è di chi guarda senza
pronunciarsi. Si direbbe che quel fenomeno la disturbi; non s’è mai rallegrata all’apparire di uno
stigmatizzato; il giudizio l’ha sempre rimandato alle calende greche e se proprio ha dovuto pronunciarsi l’ha
354
fatto con una cautela che arriva ad essere irritante. Ha avuto più sopportazione per le statue semoventi delle
vecchie campagne elettorali, forse perché il ciarlatano fa ridere, il patologico, se mai, ripugna. Che questo
elemento non si possa facilmente escludere nel fenomeno delle stimmate, la chiesa ne è certa, di qui anche,
la sua prudenza. Comunque esse siano, di natura morbosa o miracolosa, se le tiene lontane.
Non fa male, perché, anche se miracolose, false però lo sono sempre. Un corpo umano non può sostenersi
appeso a due chiodi infilati nel palmo delle mani. In quel punto le ossa, il metacarpo, non sono che la
prosecuzione delle dita, unite invece che divise; la carne si sarebbe stracciata e il corpo sfuggito all’appiglio.
Alla sacra Sindone di Torino la Chiesa presta fede, non ne fa un dogma d’infallibilità, me ne permette una
così solenne venerazione da far credere di credere alla sua autenticità. Sia o no di Cristo quell’impronta, la
Sindone è un documento estremamente interessante in ogni particolare. Ebbene, in quel lenzuolo dove il
sangue e il vapore degli aromi impressero la forma del cadavere che accolse e ricoperse, il segno della ferita
della mano non è nel palmo, ma molto più vicino al polso, è tra le ossa del carpo. In quel punto si, due chiodi
potevano reggere quasi interamente il peso di un corpo abbandonato. Se la reliquia è vera, nel senso che
abbia veramente accolto il cadavere insanguinato d’un crocifisso, come due pagine d’un libro accolgono un
fiore che li lascia l’impronta, il segno del chiodo agli arti superiori è al posto giusto secondo la fisica e
secondo l’anatomia. Se è falsa essa fu compilata tanti secoli fa da un mistificatore tale che per dare ogni
apparenza di verità alla sua falsificazione, poneva il segno del chiodo dove non l’immaginazione, ma la
ragione, doveva metterlo.
Perché invece gli stigmatizzati hanno tutti queste ferite delle mani fuori posto? Il Crocifisso è stato sempre
riprodotto dagli artisti come dagli artigiani col chiodo nel palmo della mano; gli innamorati del sangue
fissano quelle immagini, meditano su quelle ferite, ci si chiudono, “intra vulnera tua asconde me”, su quei
segni convergono tutte le loro forze affettive mentali e nervose, se hanno una speciale adatta natura, essa fa
il resto; la loro carne riproduce quel che vedono, li esalta. Così si pensa noi profani, però ci piacerebbe tanto
conoscere le spiegazioni che ne possono dare gli studiosi. Sapere perché anche padre Pio, benché difeso più
dal mondo che dalla Chiesa, perché, se mistificatore non lo era, anche lui aveva quei segni dove non li ebbe
Cristo?
E se fosse vero che questi fenomeni possono anche trascendere la patologia umana, verrebbe da pensare che
con l’errore ci si diverta anche Iddio.
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Non ci sono più ghirlande per il Natale
collocazione: Pg 107-108.
Intorno all’uomo che acquistava conoscenza di sé, il sole, l’acqua, il fulmine, tutto pareva Mistero perciò
divino. Quando egli staccò dall’albero sacro un ramoscello e se lo girò intorno al capo,con quel gesto aveva
creato la corona e il suo significato sacro e ornamentale. Crescendo la conoscenza della vita ne crescevano le
paure e le speranze e anche la corona moltiplicò i suoi significati: fu offerta agli dei per impetrazione e
ringraziamento, fu complemento di gioia e segno di lutto. (La corona unì l’uomo al cielo perché diventò
simbolo del potere regale, legato e confuso con quello celeste,perché distinse il sacerdote anche lui in
rapporto diretto con la divinità).
Dal favoloso e misterioso oriente essa che era passata nel costume dei popoli mediterranei (l’Egitto ci ha
restituito corone intrecciate oltre duemila anni prima di Cristo), trovò il suo trionfo nel mondo pagano grecoromano che della vita ebbe un concetto meno deformato di tutte le altre civiltà.
Ogni dio aveva la pianta a lui sacra dei cui rami si facevano corone per i suoi simulacri, per i sacerdoti e i
fedeli. Negli ex voto le coroncine avevano la preponderanza sugli altri, come ora i cuori l’hanno su altri
pezzi del corpo umano. Nei ludi, circensi o scenici, si offrivano corone ai vincitori come ora si offrono quei
bicchieri metallici inchiodati su un piedistallo.
Col tempo si diffuse l’uso di offrire la corona ai magistrati o altri cittadini per speciali benemerenze e si
passò a darle anche a corporazioni e città come ora si concedono medaglie.
A Roma, per il grande uso che si faceva di corone, erano sorte industrie adeguate. Fiorai e fioraie, coronarii e
rosarie, vendevano ghirlande di fiori freschi nella buona stagione,nella cattiva di fronde e di amaranto secco
che riprendeva i suoi colori bagnandolo. C’era l’industria delle corone d’oro d’argento, di rame che, lucidato,
pareva d’oro. Le corone militari, dalla graminea alla trionfale, erano esse stesse una legione, alcune più
numerose delle nostre croci di guerra.
Ma dove la corona diventò tripudio o mestizia, al di sopra del suo simbolismo sacro, politico e civile, fu
nell’accompagnarsi agli scoppi esuberanti della vita, esaltandoli, fu nel seguirne i mesti ripiegamenti verso la
morte.
I fiori, con la loro breve vita facilmente si allacciano all’idea della morte o al guizzo della giovinezza; ed
ecco le danzatrici coronate di rose, in quelle famose feste dove ognuno, incoronato, tra musiche e libagioni
tentava di gustare l’attimo fuggente della gioia.
Ai morti invece che, per non essere più vivi diventavano quasi eroi, si offrivano corone d’oro che si
chiudevano con loro nel sepolcro. In alcune feste annuali, specialmente nelle più licenziose, il popolo
inghirlandava se stesso e tutto ciò che era intorno a lui.
Ma venne il cristianesimo a soffocare quanto era possibile soffocare di quella vita pagana, ad accettare
quanto non lo era, svuotandolo però dei significati antichi per riempirlo con altri somiglianti. Le figure
effigiate nelle catacombe offrono corone al loro Dio come i pagani ai loro dei.
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Nell’alto medio evo restavano solo le corone di oro gemme e smalti dei papi e degli imperatori,quelle
metalliche che dondolavano nelle chiese attaccate a catenelle e quella diventata lampadario sospesa davanti
agli altari.
La corona apparteneva solo ai santi del cielo e ai potenti della terra.
Quando ricominciò a diffondersi era spesso confusa con l’elmo e il cappello: confusione che dovette restare
nell’araldica ecclesiastica dove tuttora vediamo gli stemmi cardinalizi sormontati da un cappello invece che
da una corona.
Ma dopo il mille,in quel felice ritorno di umana vitalità,anche la corona ritornò. Da elemento decorativo
sulla pietra e sui musaici ritornò elemento di vita: le donne ornarono i capelli di coroncine e diademi, sui
vestiti si ricamavano ghirlandette, la grazia femminile assomigliava a quella del suo serto. Poi le araldiche si
moltiplicarono soffocando le vere,quelle che pulsano con la nostra vita seguendone la caducità,caduche
anch’esse.
Ma proprio a Roma, dove le corone ufficiali erano le tre della tiara pontificia e quelle principesche create per
i vari nipoti, proprio qui era sopravvissuta a tutte le vicende la corona viva fatta con fiori e fronde. Perché
questo era il miracolo di Roma: tener vive nella vita le espressioni che erano state sue nell’antichità classica
e fare questo semplicemente come fa la natura coi miracoli suoi. Ma questo miracolo romano che aveva
resistito al tempo, ebbe il suo colpo fatale dall’annessione.
La città che era stata per secoli un meraviglioso paese universale, ridotta a capitale di uno stato particolare,
perdette pian piano ciò che dall’antichità classica era sopravvissuto per oltre due millenni. Da nord e da sud
affluì su Roma gente che l’invase, ne distrusse le piccole e grandi tradizioni che erano il suo meraviglioso
patrimonio, la sua attrattiva unica al mondo, la trasformò in città simile a tutte le altre.
E così fu distrutta anche la ghirlanda che era sopravvissuta proprio per indicare il Natale.
In quell’epoca favolosa in cui Roma era dei romani che vi abitavano e del mondo intero che vi passava, chi
in questi giorni girava per le sue strade, ogni tanto vedeva una porta su cui era stata appesa una grossa corona
di mortella. Era la trasposizione di un rito pagano: appendere alla porta una ghirlanda di mirto fu l’uso antico
delle feste floreali, quando tutto doveva essere fiorito e inghirlandato, teste, vestiti, pozzi, archi, templi, case
e porte di case, perché la festa di Flora coincideva col risveglio della natura.
La corona di mortella durata fino ai tempi moderni era restata espressione di risvegli anzi del risveglio
assoluto, quello della nascita.
Chi faceva il presepio, o perché presumesse che il suo fosse degno di essere visto, o perché animato da zelo
religioso ed ospitale, su un battente del portoncino appendeva una corona lasciando socchiuso l’altro
battente.
Quella corona voleva dire al passante che nella casa c’era un presepio, che, se voleva, poteva salire a
vederlo.
Dove c’era una corona verde c’era una famiglia che ripeteva il gesto dei primi cristiani che aprivano le loro
case, trasformate in oratori, a tutti i fedeli.
Per il presepio con i fedeli salivano i pifferari che sin dall’avvento avevano cominciato a scendere a Roma
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(non fasulli come quelli di adesso), costellandola di ninne nanne e di pastorali.
La ghirlanda sulla porta era una specie di muto “venite ad oremus” e la gente saliva, pregava, ammirava,
forse chiacchierava, avevano tutti gli stessi atavici gusti.
Quell’unica corona viva che era rimasta attraverso i secoli, è scomparsa.
Sono rimaste solo quelle politiche con le pallottole di stagnola e quelle funebri; ma queste trasformate in un
cavalletto triangolare di bastoni sostenente due agglomerati di fiori, come ancora si possono chiamare
corone?
La corona è un’altra cosa e non c’è più.
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Ringraziamento a Giovanni XXIII
collocazione: Pg 109-110.
Con papa Pacelli si è chiusa la dozzina dei papi autonominatisi Pii, e non sapremo mai se questo nome avrà
rappresentato un proposito o una affermazione o una semplice imitazione affettiva.
Pio è un nome brutto e freddo, è senza colore, senza passione, senza musicalità, è un nome monotono e
tisico. In latino con quella S finale e l’accento che si adagia su due lettere è già tutt’altra cosa. Ma in italiano
per non suonare male ha bisogno di un altro nome che lo preceda come se non fosse mai riuscito ad uscire
dalla sfera degli aggettivi per entrare in quella dei sostantivi. Pio nudo e crudo è tutto il contrario di certi altri
nomi che si potrebbero dire eroici, statuari, caldi, policromi, suonanti, per lo meno familiari.
Il primo papa con questo nome comparve nel secondo secolo dell’era cristiana, in quell’epoca beata in cui i
personaggi avevano tutti l’aureola, difatti anche Pio I è santo e la tradizione lo dice martire per quanto
storicamente non sia certo.
Da questo primo Pio al secondo passarono circa 1350 anni e per riavere un nome così religioso dobbiamo
proprio arrivare al Rinascimento dell’antichità classica. E ad assumerlo fu proprio un uomo che viveva nella
cultura pagana come un pittore vive con i suoi colori, Enea Silvio Piccolomini. Nel solo nome raccoglieva il
mitico padre Enea e uno dei suoi figli quello che avrebbe continuata la stirpe decretata dall’Olimpo per la
grandezza di Roma. Un uomo, già incoronato poeta, che non volle gli ordini sacri per non accettarne le
rinunzie, che nel dissidio tra il concilio ed il pontificato, pur favorendo l’accordo fra le due parti per la pace
che reclamavano i suoi studi, era però più propenso per il concilio, questo uomo che accettò gli ordini sacri e
le loro conseguenti restrizioni solo quando la salute cominciò a difettare, quest’uomo eletto papa che nome
poteva prendere che non lo dividesse dal suo Enea? L’aggettivo che è proprio di quell’eroe: Pius Aenea e
così, dopo quasi un millennio e mezzo questo nome ritornò vestito di classicismo.
Il 3° Pio, nipote del precedente, ebbe un pontificato brevissimo, 28 giorni, appena un mese lunare.
Da quest’epoca ogni due secoli circa appare una coppia di Pii, vale a dire due papi consecutivi con lo stesso
nome: la prima coppia è del secolo XVI, il primo dei due è Pio IV, quello che fece costruire Porta Pia, che
sistemò la continuazione della Nomentana fino al Quirinale (l’attuale via XX settembre), sul tracciato
dell’Alta semita degli antichi romani, che fece trasformare da Michelangelo il tepidarium delle terme di
Diocleziano in S. Maria degli Angeli. Il secondo di questa prima coppia è santo anche lui, il terribile Pio V
quello che fondò la congregazione dell’indice per i libri proibiti, quello che batté il record degli autodafé. Fu
un santo pieno di uno speciale zelo, assomigliava a Pella perché non potendo ottenere la conversione dei
ribelli ne desiderava la distruzione. Amò la guerra perché si chiamava crociata, morì confortato dalla
previsione che questa fosse vicina.
Passano due secoli senza Pii ed eccone una seconda coppia, Pio VI e Pio VII, il primo tormentato dall’ostilità
di quasi tutti gli stati europei, primo tra tutti il francese con la sua rivoluzione prima e col suo Napoleone
dopo. Il secondo seriamente “inguaiato” con Napoleone perché oltre a tutte le peripezie comuni al (col) suo
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predecessore gli capitò quella sventuratissima del concordato.
Dopo un altro Leone ecco un altro Pio, l’VIII. Poi un Gregorio quindi un altro Pio, il IX dal lunghissimo
pontificato, quello a cui fu soffiata Roma. Segue Leone XIII e a lui succede Pio X. Dal 1914 al 1922 c’è
Benedetto XV e dopo di lui fino al 1958 la terza coppia dei Pii, l’XI e il XII.
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D) da INES FERRI – Sant’Angelo in Vado - INEDITI
Una piantina di cicoria
Mi sentivo distaccata, rara, adamantina, sublime, perché ero una renitente all’amore abilissima a scoraggiare
chi voleva offrirmelo.
La natura, dicono, aborre il vuoto, deve essere vero; forse era proprio per questo vuoto che mi creavo intorno
che l’amore irrompeva su di me a ondate calde e veementi. Ma io, uno scoglio, lo scoglio non gira neppure la
testa.
Fare all’amore è facile, rifiutare è difficile. Io ero per le cose difficili.
Poi come fu non lo so, ma certo è che quando mi si presentò nelle vesti di un giovane poeta, non lo respinsi,
gli sorrisi e mi lasciai prendere per mano.
Andammo per prati e per boschi; salimmo sulle cime dei monti e ne discendemmo volando, braccia, capelli
riso all’aria; sedemmo sull’orlo dei ruscelli e buttammo fiori nella corrente; riposai la testa sul suo petto e lui
baciò le dita con le quali gli avevo restituito un bacio posato sui capelli; salimmo sull’alto di una torre perché
egli potesse insegnarmi il suo modo di pregare mentre il sole scompariva dietro i monti; fummo umili e
buoni. Ero discesa dal piedistallo, mi sentivo dimessa e tanto felice.
Un giorno che lui con un’immagine volle dirmi come doveva essere la sua vita di poeta, disegnò un cipresso
alto e solo su una cima, puntato verso il cielo. Io dissi:
- E se ai suoi piedi ci sarà una piantina di cicoria non gliene verrà alcun disturbo.
Fece cenno di non aver capito.
- Già, voi quassù non la conoscete; è una piantina minuscola delle nostre parti; si trova sui prati incolti e
lungo i bordi delle strade di campagna. Le donne povere ne vanno in cerca e la raccolgono con la punta di un
coltellino; stanno curve sulla terra ore e ore per portarne a casa una grembiulata.
- Allora tu saresti la mia piantina di cicoria?
Dissi di sì col capo.
La sera andammo per la campagna sotto le stelle, indovinando appena il chiarore delle strade. A un tratto lui
mi rivelò che intorno al viso avevo un alone di luce. Si fermò e mi si mise di fronte per vederne tutta la
luminosità. Disse che era luce d’anima visibile agli occhi. Prese il mio volto tra le mani, ci affondò a lungo
lo sguardo, poi tuffò il suo viso in quella luce e la bevve nella mia bocca.
Non volli più proseguire, volli tornare indietro. Mi sentivo precipitata, frantumata. Bastò che lui dicesse
“scusami” perché un fiotto improvviso di rimorso mai provato così grande, si risolvesse in parole, forse belle
in sé, certo inopportune e gelide per lo stato d’animo dell’altro. Ci salutammo con un duplice, imbarazzato “a
domani”, “a domani”.
Domani, era già stabilito, saremmo andati a piedi a vedere il portico trecentesco di una vecchia pieve
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abbandonata; c’era da star fuori tutto il pomeriggio.
La mattina chiesi a un’amica se conosceva quel portico. Non lo conosceva. “Vieni con noi?”, le dissi. Lei
venne.
La mia amica era una ragazza a cui affiorava sempre un po’ di commozione nello sguardo; aveva la voce
sommessa e leggermente velata come quella che ride dopo aver pianto; teneva il collo piegato in avanti come
un fiore a cui pesi la corolla.
Andavo; io stavo in mezzo. Il portico mi parve tanto lontano, forse era anche bello. A sera ci dividemmo; lui
disse a me sempre “a domani”, ma io non risposi.
A notte partii. Volevo ritornare quella che ero prima di scendere dal piedistallo. Quando fui lontana e sola,
dissi: “E’ fatto!
Non era fatto nulla. Non potevo fare nulla. Potevo solo disegnare cipressi, unica ombra melanconica di un
incontro tanto radioso, ci facevo un puntino ai piedi di ognuno, li stracciavo e piangevo.
Il dolore che dapprima giudicai lo scotto naturale dello strappo che avevo voluto, crebbe con i giorni, le
settimane, i mesi, finché dalla sua stessa intensità scoppiò la forza incontenibile della riconquista. Non
potevo perderlo. Ero così sicura che dovevo riunirmi a lui, come è sicuro che dopo la notte viene il giorno;
così urgente era, come è urgente la plastica su un membro scarnificato.
Scrissi a lui che volevo essere a ogni costo la piantina di cicoria ai piedi del grande cipresso, che mi
aspettasse, ritornavo.
La certezza che quell’abbandono disperato si sarebbe presto cambiato in abbandono beato, era già felicità.
Che parola scialba! La mia era resurrezione. Laetare, alleluia, laetare, alleluia, non c’era altro intorno.
Avevo appena raggiunta questa trionfante condizione, la lettera forse non gli era arrivata ancora che arrivò a
me un telegramma dall’amica lungo quanto una lettera, era implorante come l’espressione del suo viso:
chiedeva un incontro. Aveva certo adoperato la forma telegrafica per non darmi il tempo di discutere sulla
sua opportunità. Del resto quando, già per la strada un’amica ti dice che domani ti aspetta nel tale posto, e se
anche il motivo dell’incontro è taciuto, ma la sua gravità ne è proclamata in modo da far presentire una
catastrofe, che fai? Parti. Tanto più che con la ritrovata gioia io ero nella migliore disposizione per essere
buona. E poi c’era un’altra cosa.
L’amica mi dava l’appuntamento in un santuario che era legato a me come le radici all’albero. Pare che da
piccola io fossi incerta se vivere o morire; nell’angoscia di questa alternativa fui portata in quel santuario
perché la Madonna che ne era la proprietaria, mi guarisse o mi riprendesse; la Madonna mi guarì. Ecco che
dovevo andare proprio in quel santuario.
Era uno strano santuario anfibio: davanti era chiesa con piazza e portici per folle e processioni; dietro era
fortezza a picco sul mare, con torri e merli, terrapieni e camminamenti, feritoie e vedette. Una fortezza e una
cupola, questo era il santuario visto dal mare.
Ci arrivai, lei era ad attendermi col suo sguardo intenso. “Che è successo?”. Non rispose. C’era tanta gente; il
brusio pareva infastidirla. Camminavamo sotto i portici. Pensavo che dopo forse le avrei detto il segreto, che
mi aveva trovata per caso perché stavo per volare ai piedi dell’amore. “Che è successo? Me lo dici?” Non
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rispondeva. Ma eccola decisa, vuole salire sulla torre campanaria. Interminabile chiocciola buia e a un tratto
luce sole spazio mare. Si sedette sul parapetto estranea a tutte queste cose io restai con la faccia sul mare che
era tutto un luccichio. Mi sembrava di essere io stessa alta come il campanile.
- Ti devo fare una domanda – disse - ma tu prometti che mi risponderai solo se mi dirai il vero?
- Certo.
La sua voce si velò come per la celebrazione di un mistero; il volto più che piegato era proteso verso di me.
- Tu ami… hai capito chi, tu lo ami, è vero?
- Perché? - sentii che la bocca mi si storceva.
- Tu prima devi dirmi se lo ami.
- Sciocchezze.
- Rispondimi, per pietà.
- Perché? Lo ami tu?
- Tanto!
Quel “tanto” fu uno scoppio che frantumò tutto. Talmente ferita, stroncata ero che non m’accorsi subito del
dolore.
- Tanto! - riprese come raccogliendosi dopo lo scoppio - tanto che non so come potrei vivere senza di lui.
Però non voglio la mia felicità al prezzo della tua. Se tu mi avessi detto che lo amavi…
- Ma io non ti ho detto nulla.
- Dunque e vero! - gridò soffocata come se le avessi fermato il cuore. Allora per tamponarlo dirsi forte
staccando le sillabe.
- Ma no, ma no! Non lo amo.
- Davvero? E non l’hai mai amato?
- Mai.
- Allora a te non dispiace se l’amo io tanto!
- No.
Eravamo annegate tutte e due, lei come un beato, io come un dannato. Parlai per la prima:
- Ma lui? Ti ama lui?
- Credo di si.
Un silenzio grande come la stupidità. Arrancai per tirarmene fuori. Dissi:
- Hai pensato alla responsabilità che ti assumi immettendoti nella sua vita? Gli uomini come lui sono soli
anche se noi ci accovacciamo ai loro piedi per tutta la vita. Chi entra nel loro giro deve rispettare quella
solitudine, non essere più creatura viva, ma atmosfera: luce, od ombra, sorriso o riposo, secondo il loro
bisogno e silenzio, silenzio soprattutto. Devi essere pronta a piangere da sola.
- Si - disse lei e io dovetti certo cambiare voce e tono, perché dentro di me avvenne lo scatto di un
cambiamento di marcia.
- Non darmi ascolto. Si dicono stupidaggini a parlare di queste cose. L’amore è silenzio che brucia.
Andiamo.
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Imboccammo la chiocciola buia per la discesa. Non ero più alta di un coccio, non ero più consistente di un
cencio. La grossa campana cominciò a muoversi, ondeggiò sempre più largo fino a che rintronò il primo
tocco. “Tocco” dice chi lo sente di lontano. Ma lassù fu un crollo assordante, uno spavento che incalzava coi
colpi successivi e io m’affrettavo per allontanarmi più presto possibile da quella sorgente devastante, da quel
terribile suono che mi spingeva alle spalle come la voce di Dio quando cacciava dal paradiso i primi due
disubbidienti. Per lei i colpi di quella spaventosa campana erano certo colpi d’ala che la lanciavano a chi
volevo arrivare io solo cinque minuti prima.
Essa partì, io restai. Vagai nel santuario e mi fermai avanti a quell’altare ai piedi del quale ero stata deposta
bambina morente. Stavo lì senza dir nulla, una morta che si era depositata da sé. Dovettero insistere per
farmi capire che la chiesa si chiude.
Sulla mia distruzione rullò una notte interminabile senza speranza alcuna. Appena spuntò la luce me ne
ritornai verso il santuario, ma non entrai, voltai a destra e discesi.
Di lontano non si vedeva, ma tra il mare e i contrafforti del santuario, c’era una striscia di terra dove
crescevano le erbacce, frammezzo poteva esserci anche qualche piantina di cicoria se qualcosa fosse stato
vivo in me le avrei pestate. Niente parlava, tutto doleva. Mi sedetti e stetti muta avanti al mare come davanti
all’altare della Madonna.
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Il fiore dell’uomo
Per l’impertinenza di un bottone che sfilò la testa dal cappio dell’asola, per il complice disordine della
biancheria sottostante, mi si mostrò, da un pertugio, il fiore dell’uomo.
Sbocciò alla mia vista come un colchico occhieggiante tra l’alba. Io non sapevo che il colchico è velenoso,
tuttavia cercai di allontanare da lui gli occhi e il pensiero. Ma la sua presenza restava e nelle manovre per
non guardarlo, spesso lo vedevo.
Questa prima inconsapevole offerta, avvenne in un trenino che collegava due città lontane, dove passava il
treno vero; un trenino capriccioso, ma bonario, tutto scosse e sussulti sempre pronto a compiacenti fermate.
Io tornavo da una campagna che è il paradiso terrestre delle ciliegie. Me ne era stato regalato un cestino
colmo. Mai prima, e mai dopo ebbi il dono di un cestino di ciliegie, solo quel giorno. Lo tenevo tra me e la
mia compagna, brutta, pallida, secca.
Sopra alle ciliegie avevano messo come copertura il loro fogliame, ma in più punti esse occhieggiavano. Il
colchico era solo e impertinente, esse erano tante e curiose. A ogni poco io le sfioravo con le dita.
L’uomo che mi sedeva di fronte e io ci si conosceva; egli aveva molta simpatia per me. Era ricco, giovane,
intelligente, buono, un partito d’eccezione. “Se sapesse fare!” Mi si sussurrava intorno nel paese. Ma io non
sapevo neppure che cosa avrei dovuto saper fare e poi ero anche timida. L’uomo era solo timido.
Mi guardava quel giorno sorridendo più dolcemente di sempre. Era felice di starmi di fronte. Mi guardava
senza spingere gli occhi con lo sguardo diffuso intorno al mio volto. Se fossero state mani invece che occhi,
lo sguardo sarebbe stato una carezza dolcissima fatta più di gesto che di tocco.
Mi guardava così e intanto i suoi calzoni gli avevano giocato quel tiro feroce. Per distrazione doveva aver
infilato male un bottone nella sua asola, ma aveva anche trascurato di sovrapporre bene la biancheria intima.
Come avvenne, non lo so; so che a un tratto, io che ero concentrata sul suo volto come lui sul mio, avevo
visto occhieggiare turgido, roseo-violaceo, quel fiore.
Guardai la mia compagna che mi contraccambiò uno sguardo ironico pieno di malizia. La sua anima
sghignazzava.
La mia no, aveva solo pena. E allora anche io fissai ostinatamente il volto di lui perché quando si fosse
accorto di quel che stava facendo quel suo bricconcello, egli potesse ricordare che io avevo avuto sempre e
solo guardato in alto.
Puntavo i suoi occhi, sorridevo, ascoltavo, dicevo qualche parola e intanto avevo passato l’equatore, giacché
i miei occhio terreni avevano intravisto quella cosa immortale dell’uomo. Mi si era offerta da sé (motu
proprio) occhieggiando di tra i panni, come un croco tra l’erba.
Io con la mano sfioravo le ciliegie e con le carezze scomponevo sempre di più le foglie di copertura.
Faticavo a sostenere rigido il collo e alto lo sguardo, perché la volontà non riusciva a dominare quella
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mescolanza di curiosità e di pena che frullavano confuse come i colori di una trottola in giro.
Ma a un tratto il paesaggio fece per me quello che la mano fa per la clessidra, mi capovolse. Le case, gli
alberi, le strade, mi dissero che era vicina la stazione di arrivo. Io non vidi più quello che prima vedevo
intorno a me, non ricordo neppure come mi separai dalla mia eccitata compagna, non ricordo come salutai
colui a cui era sbocciato quel fiore, io ero, come la polvere della clessidra, tutta conversa all’altro polo.
Verso un uomo che mi aspettava alla stazione io ero tesa come una sbarra di ferro.
In quei momenti di confusione per la discesa, forse quel poveretto si era accorto dell’insubordinazione e
aveva ristabilito l’ordine nelle sue coperture. Non so. Io turbinavo sola nella confusione dell’ambiente, non
vedevo nulla, sentivo solo la presenza di chi mi aspettava. Ed ecco che gli sono accanto, che egli mi tiene
stretto sotto il braccio che reggeva il cestino di ciliegie, sollevandolo verso il suo cuore. La sua faccia,
piegata verso la mia, è sorriso e respiro.
Io prendo due ciliegie dal cestino; sono turgide e rosee, libere e unite forse leggermente calde, e gliele
avvicino alle labbra. Egli le coglie come se aspirasse un bacio, socchiude gli occhio ne mi dice:
- Come sto bene! Con queste ho cenato.
Io portai con me i due peduncoli saldati all’estremità come si porta la prova di un miracolo.
Mi coricai senza neppure ricordarmi di quella recente epifania pensavo solo alle due ciliegie, che egli aveva
succhiate dalle mie dita, a quelle poche parole espresse con quella sua voce profonda come la vita, al
sorridente silenzio estatico che ne era seguito come dopo la comunione.
Io gli avevo amministrato il sacramento dell’amore; egli ora mi stringeva dentro di sé, sul cuore.
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Un coltello
Da Trastevere dove abita in uno dei più poveri agglomerati, una donna va a curarsi i denti in un ambulatorio
a S.Giovanni. Di lì si avvia a piedi a piazza Vittorio, cammina preoccupata e assorta in se stessa. E’ povera,
ha un marito onesto, 5 figli dai 16 in giù, non fa mercato nero, rispetta la roba altrui, lavora più che può, ma
il lavoro onesto in questi tempi mantiene solo la povertà.
Pensa che a piazza Vittorio i peperoni costano qualche lira meno che a Trastevere. E chi lo sa che non ci sia
quella bancarella dove pochi giorni fa trovò del pesce a poco prezzo? La festa dei piccoli fu indescrivibile.
Cammina senza guardarsi attorno, calcola in preventivo la spesa, pensa ai bimbi soli a casa.
In una casa di piazza Vittorio intanto sono entrate due ragazze, 21 anni la grande, 17 la minore, sono amiche
della padrona che è del loro paese. Sposata qui a un uomo che la ricolma d’ogni ben di Dio, è giovane, è
bella, ha tre bimbi è felice.
Le due sorelle sono venute per convincere l’amica a vendere due volpi argentate. Partendo per Roma hanno
deciso che non torneranno a casa senza le due volpi, e, per ogni evenienza, si sono portate un bel coltello. In
casa ne hanno tanti perché sono figlie di macellai. Provengono da un campo di concentramento e lì ne hanno
sentite di tutti i colori. Sono ragazze già mature che sanno quel che vogliono. Ma l’amica non ha nessuna
intenzione di vendere le volpi, inutile insistere, di denari non ha bisogno. Ma le due sorelle hanno invece
bisogno delle volpi per le quali hanno ricevuto un acconto già speso e ora c’è la minaccia di denunzia per
truffa. Perciò aprono la valigetta, tirano fuori il coltello, immobilizzano l’amica e la sgozzano. Lì c’è il
bimbo piccino, due anni e mezzo, grida, piange, lo chiudono nel bagno mentre esse si puliscono dal sangue.
Prendono le volpi, le mettono nella valigia e stanno per uscire quando pensano che il piccino le ha viste tante
volte che può riconoscerle e poi, chiuso là dentro, urla come un ossesso. Tornano indietro, vanno nel bagno e
sgozzano il bimbo con tale furia che si feriscono anche tra di loro. E poi giù per le scale. Il portiere le vede,
le conosce, sono amiche della signora.
A via Emanuele Filiberto, su un muricciolo limitante il giardino di una villetta, lasciano il coltello
insanguinato.
Per via Emanuele Filiberto cammina la donna pensando che a piazza Vittorio i peperoni costano meno che a
Trastevere. Su un muricciolo vede un coltello. “Tò, un coltello a punta!” Da che è sposata non ha avuto mai
un coltello a punta che in cucina è così utile; ne ha degli altri, ma senza punta, non ha potuto mai
comperarselo perché le pareva superfluo, mentre per il palombo, quel pesce che costa poco, è necessario per
spellarlo. Lei fatica tanto con quegli altri. E’ vero che questo coltello ha la punta accartocciata come se ci
fosse stata aperta una scatola di latta ma essa lo drizzerà. E’ insanguinato il coltello, sicuramente è servito a
qualcuno di quei macellari clandestini che l’ha dimenticato lì. Suo marito le direbbe: “Non lo toccare, non è
tuo!” ma a lei farebbe tanto comodo! Lo prende per la punta accartocciata, lo mette nella borsa. A piazza
Vittorio compera i peperoni, spalanca la borsa, il sole luccica sul coltello, la fruttarola ci rovescia sopra i
peperoni. Il pesce a buon mercato oggi non c’è. Eppure oggi avrebbe il coltello per spellarlo.
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Prende la circolare per tornare a casa.
Pochi minuti dopo un brusio insolito parte da una casa della piazza;gente che corre, che urla, s’è scoperto il
delitto orribile. Tutto il mercato è in subbuglio, l’orrore ha colto la folla.
“Sì, saranno 10 minuti, non più!” La gente si guarda d’attorno, le assassine non debbono essere lontane, se le
acciuffano le linciano!
La donna coi peperoni arriva a casa stanca, rovescia la borsa sul tavolo, prende il coltello lo butta
nell’acquaio e lo sciacqua.
Quel sangue è fresco e va via subito, sicuramente ci hanno ammazzato dei conigli, chissà, forse degli
abbacchi, saranno già andati a riprenderlo.
Torna il marito, la donna gli chiede il favore di raddrizzare quella punta accartocciata.
“Io non raddrizzo nulla, dice l’uomo, quel coltello non è tuo, non dovevi prenderlo. Tu devi riportarlo dove
l’hai trovato. Un coltello insanguinato per la strada, ma chissà che cosa ci è stato fatto. Portalo via subito
perché mi da fastidio”.
La donna dice di sì, ma quando suo marito esce, raddrizza la punta da sé. A vederla così accartocciata aveva
dedotto che il coltello fosse di qualità scadente, invece è durissimo, è buono. Fa una fatica indiavolata a
rimetterlo a posto e che prima era accartocciato sulla punta si vede sempre. Ma come taglia bene. Oramai in
cucina non adopera che questo.
Ma nella notte suo marito sogna il coltello, è agitato, soffre.
Si sveglia e dice: “Fammi il favore, riporta quel coltello dove l’hai trovato. Chissà a che è servito; lì c’è un
mistero. Io ho sognato cose orribili; fammelo per favore toglilo di casa”.
- Ma taglia tanto bene…!
La donna vive in quel tristo agglomerato di casupole con tanta pena, e ci sta appartata, chiusa nella sua
povera casetta. Non ha fatto nessuna amicizia con quell’altra gente sfrontata, sboccata.
Ha paura che i suoi bimbi imparino le parolacce che dicono quegli altri che giocano nei cortili. Essa sta sola,
sicché a lei non arriva la notizia del delitto.
Suo marito compera un giornale a giorno a metà con un suo compagno di lavoro, uno lo legge la sera, uno la
mattina dopo, fanno a turno, ora a lui tocca dopo. C’è di mezzo la domenica egli legge del delitto due giorni
dopo.
“Lo vedi che succede? Lo vedi?” dice alla moglie, “e tu vai raccattando coltelli insanguinati”.
Due ragazze hanno ucciso, la più piccola ha l’età della loro grande. Arrestate, hanno confessato.
Da quel momento l’uomo diventa un tormento. Quell’oggetto gli ha profanato la casa; la sua donna ha
toccato una cosa immonda.
Con quell’oggetto ha portato un mistero nella sua casa, povera sì, ma limpida.
- Ma che mistero, dice la donna, quello era il coltello di un borsaro nero.
Tre giorni dopo la questura dirama un comunicato: le assassine hanno precisato di aver abbandonato il
coltello su un muricciolo di via Emanuele Filiberto; chi l’avesse trovato è pregato di consegnarlo.
Ogni quindici giorni l’uomo ha una mattina libera e allora la moglie uscendo sbriga tutte le commissioni con
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calma perché lui resta a casa coi bimbi. Quella mattina è libero. Prende il giornale già vecchio di un giorno e
legge il comunicato della questura.
Come un uomo colpito da una mazzata si piega nell’orrore diventato insopportabile. Dice solo: “Bimbi state
buoni, per amor di Dio”.
E fugge in questura. Racconta: “Mia moglie andava a piazza Vittorio per comperare i peperoni, vide su un
muricciolo…
- Sì sì, è quello dia pure.
- Ma io non l’ho portato. Io non lo tocco; se lo volete venite voialtri a prenderlo.
E con i carabinieri torna a casa, apre il cassetto del tavolo di cucina.
- E’ quello lì, prendetelo pure, io non lo tocco.
Con i carabinieri esce di casa il coltello0 maledetto. L’uomo fa un grande segno di croce.
Torna la moglie con la borsa della spesa. Quando il suo uomo è a casa ne profitta per farsi aiutare a portarla
su, lo chiama, egli scende… Quella mattina non scende, essa sale impensierita.
Lo trova seduto con le braccia intorno ai tre più piccoli raccolti tra le sue ginocchia e il capo chino sulle loro
testine.
Pia da quel giorno in quella casa tanto povera la sera si prega per “l’anima benedetta” della povera uccisa.
- E che non si parli più del delitto, dice il padre, che i nostri bimbi dimentichino che in casa nostra è entrato
quel coltello maledetto.
E la moglie pensando alle assassine guarda rabbrividendo la sua figlia più grande dagli occhi limpidi come la
sua vita.
Ho raccontato questo perché si veda che se in Italia succedono delitti tali da farci coprire di vergogna più di
quello che non abbia fatto il passato regime questo non vuol dire che il popolo italiano abbia perduto tutto
quanto la sua onestà.
La dignitosa povertà di quella famiglia dove, per caso, entrò lo strumento dello delitto, direi che è superiore
alla bassezza del delitto stesso. Questo, pur nel suo orrore, si spiega nelle sue origini con cause contingenti,
con colpe nostre ed altrui, l’elevatezza di quella povera gente non ha cause, non è un’eccezione, è l’onestà
innata di gran parte del popolo italiano.
369
Quel giorno e quella notte
(25 luglio 1945)
“Arieccolo!”dissi tra me appena sentii squillare il telefono.
Tutte le domeniche a quell’ora mi chiamava supplicandomi di andare alla messa delle undici con lui, e tutte
le domeniche gli rispondevo arrabbiata: “Lo sai che non ci vengo, non capisco perché tu insista così”.
Lo capivo benissimo:nella sua mente c’era che se cominciavo ad andare a messa la domenica, cominciava
anche la mia conversione.
Era un mio amico magistrato impastato di religione curialesca. Come poteva capire me che stavo
dolorosamente ferma avanti alla porta del mistero, una porta senza cardini, senza battenti, senza serrature,
una porta che quaggiù non si aprirà mai?
Ma quella mattina la sua voce non fu insinuante, non fu missionaria, non fu supplice, fu voce robusta, decisa,
squillante: “Devi venire assolutamente a S. Maria del popolo, messa delle undici. Ti aspetto”. E riattaccò.
Sentii che non mi invitava a messa, per ciò ci andai.
Il divino sacrificio era già a metà, ma lui, sicuro che sarei arrivata in ritardo, mi aspettava in fondo alla
chiesa, vicino alla porta. Mi sorrise appena e già tintinnava il campanello della consacrazione,
inginocchiandosi ordinò: “Inginocchiati”, m’inginocchiai. Ma lui non congiunse le mani, non chinò il capo
come era solito, continuava a sorridere a testa alta.
Approfittando del raccoglimento generale, qualcuno cautamente s’avviò verso l’uscita, la luce della piazza di
fuori batteva su quelle facce, razzo che esplose l’amico disse: “Guardali, guardali, domani neppure uno avrà
più la cimice all’occhiello”.
Dall’altare maggiore la scampanellata ultima col suo accento affrettato e allegro, rialzò tutti in piedi come
prima li aveva genuflessi con la sua riverente cadenza.
“Vedrai, vedrai, domani gli occhielli di tutte le giacche saranno ciechi”.
Dopo l’audemus dicere pater noster, cominciò il movimento di tutti quelli che volevano uscire prima di
essere imbottigliati nella calca finale. Il mio amico trionfava, venivano tutti verso di noi i distintivi P.N.F.
illuminati dalla luce che la piazza riverberava nella penombra della chiesa ed egli se li rastrellava con gli
occhi.
Quando per la gente che si ammassava nella strettoia della porta dovettero tutti procedere più lentamente,
fissava quelli che erano costretti a sostare un poco avanti a noi e ripeteva: “Domani non ce ne sarà neppure
uno”. Non diceva più che cosa era la cosa che domani sarebbe scomparsa nel nulla.
Aspettò che la chiesa fosse proprio vuota per dirmi: “Il fascismo è caduto, Mussolini è finito, la radio ne darà
notizia alle 9 e mezza di stasera. Guai a te se lo dici a qualcuno”.
La concitazione mal trattenuta di quelle parole provava che il fatto aspettato per tanto tempo e che la guerra
stava avvicinando, era arrivato. Col cervello lo sappiamo che la morte c’è per tutto e per tutti, ma quando è
tanto vicina che possiamo toccarla, allora non ci crediamo più.
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“Possibile? Possibile?”, non sapevo dire altro.
“Smettila col tuo possibile, sicuro è, sicurissimo, hai capito? Stasera alle nove e mezza tutta Italia lo saprà, il
mondo intero lo saprà, tu lo sai ora, ma…con l’indice fece croce sulle labbra.
“E tu come lo sai?” Al come non rispose, ma i fatti venuti e da venire me li disse.
Ero un blocco di stupore scendendo le scale della chiesa. L’amico mi salutò con quelle parole dette e ridette:
“Alle nove e mezza, sta lì pronta a sentire”.
Nel pomeriggio della domenica diversi amici venivano a casa mia, si autodefinivano “i proci” perché il mio
Ulisse era lontano, in viaggio, non per più conoscere, ma per più operare.
I nostri discorsi erano interrogazioni, propositi, attesa, speranza, passione, angoscia, paura, mai disperazione.
In quel pomeriggio dovetti apparire svagata ed irrequieta: era che facevo una fatica da morire a tenere dentro
di me quel che sapevo,a non buttare quella splendida bomba in mezzo a loro che discutevano come sempre
mentre il grande fatto stava accadendo, o era accaduto.
“Sentite, una volta tanto invece di parlare vogliamo andare da qualche parte facendo una bella passeggiata?”
Mi guardarono perplessi, “e dove si dovrebbe andare?”
“Per il lungotevere piano piano andiamo da Astrid”.
La cosa non dispiacque, tutti loro la conoscevano. Era una straniera bella e spiritosa, aveva un immenso
giardino tropicale pensile, insospettabile dal basso, leggeva la mano o i tarocchi, offriva un tè insuperabile, la
sua risata contagiava i più immusoniti, accanto a lei la noia non attecchiva.
Per me era la salvezza: il moto avrebbe allentato la tensione prossima a spezzarsi, lassù poi, una mordacchia
sarebbe stata la presenza della straniera, anche se amica. Così si fece.
La girandola di Astrid vorticò, gli amici si divertivano, io non aveva pace. Mi licenziai prima degli altri; due
di loro vollero accompagnarmi. Quando mi ci trovai braccio a braccio in mezzo, quante volte rallentai il
passo per dirlo in segreto il mio segreto, almeno a quei due. Del resto il tempo in cui l’avrebbero saputo non
era più molto. Quel silenzio mi cominciò a dolere come un tradimento che stessi facendo ad amici, ma non
parlai. Affrettai il passo per congedarli il più presto possibile.
Ed eccomi sola lassù nella mia grande casa alta come l’eden di Astrid, ma senza le sue piante tropicali, sola
con l’avvenimento che s’avvicinava via via che il grigiore della sera si posava sulla città oscurata. Qualcuno
bussa alla porta, sono due signore, madre e figlia, due fascistone, convinte che, ubbidendo all’ora legale, io
avessi già cenato. Non erano mai venute, ci si salutava in ascensore e basta, per la prima volta, proprio allora.
Nell’attesa di quella cosa che non lasciava posto ad altro, non avrei saputo dire se preferivo la solitudine o la
compagnia. Le feci sprofondare in due poltrone, io me ne stetti in bilico sul bracciolo di un’altra. Del resto lo
squillo del telefono mi chiamava spesso di là, era il magistrato che mi avvertiva successivi spostamenti d’ora
della comunicazione radio, erano altri amici per altro; rispondere al telefono faceva da piccola vacanza nella
fatica della visita; ma quando ritornavo ad appollaiarmi sul bracciolo, dovevo pure dialogare un po’ con loro
che stavano parlando di quello di cui tutti parlavano: guerra e bombardamenti.
La vecchia signora che aveva più volte stretto la mano alla regina togliendosi il guanto, disse: “La nostra
salvezza è Mussolini, senza di lui saremmo già bell’e fritti”.
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“Lo siamo, signora” - Mi subissò un duetto che, come in quelli dei melodrammi dove cantano in due dicendo
cose diverse, io non capivo niente. Capivo però che era un esagitato peana al fascismo, dissi quasi con
dolcezza: “Anche quello cadrà”.
Un duplice urlo, una ripresa del confuso duetto dove la parola eternità forse non ci fu, ma perifrasi sinonime
sì.
Io sorridevo e quelle osannavano al duce, quando rimanemmo tutte e tre stroncate nel nostro rispettivo
atteggiamento per un improvviso crescente baccano che veniva di fuori.
Capii subito, la radio aveva parlato, il popolo rispondeva.
Ci affacciammo: finestre spalancate e illuminate in barba all’oscuramento, gente che si protendeva da una
all’altra, che si chiamava, che batteva le mani, da plurimi duetti si distinguevano bene gli abbasso e gli
evviva.
La vecchia signora era allibita; corsi al telefono, chiamava un amico che abitava a S. Emerenziana, la
famiglia sfollata, stava preparandosi qualcosa per cena quando la radio gli disse quel che io sapevo, fece il
mio numero per dire: “Vengo subito da te”. La signora giovane più allibita della madre, mi venne incontro:
“Ma che succede, che succede?”
“Ha visto bene quel che succede, è caduto il fascismo”.
Stette qualche attimo perplessa come se dentro di sé si domandasse se era proprio vero, poi corse alla
finestra, cominciò a sbracciarsi con tutta l’altra gente che si sbracciava e a gridare: “Abbasso Mussolini,
abbasso!”
C’era già abbasso: da una finestra avevano gettato un suo grande ritratto in cornice, pareva l’ingrandimento
fotografico di un povero estinto maltrattato dai parenti diseredati.
La vecchia signora disse: “Non l’avrei mai creduto”.
Stavo per abbracciarla, ma il telefono squillava, gli amici chiamavano, alcuni annunziavano che sarebbero
presto arrivati.
Quando suonò il campanello della porta le due signore stavano di nuovo dentro le loro poltrone. Apersi, era
quello di S.Emerenziana, dieci minuti non ce li aveva messi.
“Come hai fatto così presto?”
“Non ho preso per le strade, sono venuto in linea d’aria” - In linea d’aria significava saltare fossi, muretti, fili
spinati e scavalcare la massicciata della Roma-Nord.
Lui alto e robusto, io piccola e mingherlina, mi afferrò alla vita alzandomi in aria come si fa con i pupi,
tenendomi così mi portò in giro per tutta casa canticchiando parole assurde di gioia; quando fu nella sala e,
affondate nella poltrona vide le due signore, tacque paralizzato allargando le mani, caddi anch’io col
fascismo, ma caddi in piedi.
Intanto che altri amici arrivavano, le signore dissero che ci “levavano l’incomodo” per poco non dissi
“grazie”.
L’ultimo a presentarsi fu un esegeta cattolico, l’unico atteggiato a malinconia. Io il comunicato radio non
l’avevo sentito, gli altri sì, la gioia però aveva schermato il colpo mancino che c’era dentro. Ma quando
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l’esegeta cattolico sillabò a voce bassa: “La guerra continua”, quando, aperta la radio se ne sentiva ogni tanto
la ripetizione, la pena entrò in tutti. Però poteva essere uno stratagemma; anche il silenzio sulla monarchia
avrebbe potuto esserlo perché era logico, cadendo uno doveva cadere l’altra. Fu un agone tra pena e gioia,
vinse la gioia.
Tutta casa illuminata, tutte le finestre spalancate, respiravamo aria dell’anima. Dalla protesa loggia che offre
quasi intero l’orizzonte di Roma, ci godevamo quella notte che poteva non aver più paura dei lumi. Infatti
laggiù, a piazza Venezia ce ne dovevano essere tanti perché se ne elevava un chiarore diffuso come se da un
enorme pozzo sorgesse l’alba.
“Sono fiaccole” - dissero gli amici, ma fui io a dire: “Si sposta, si muovono”.
“No, no” - dicevano loro. “Sì, sì” - dicevo io, finché lo videro anche loro che il chiarore si spostava”.
“Salgono” - dissi. Difatti il chiarore saliva a sinistra della piazza.
“Oddio, vanno al Quirinale” - gridai e le ali della vita mi si afflosciarono.
Quando il chiarore fu fermo sull’alto del nostro Monte Cavallo, mentre forse si spalancava la loggia reale, la
nostra si chiuse. Rientrammo abbacchiati.
Fu quello di S.Emerenziana a riprendere tono: “Io ho fame, non ho mica cenato, dammi qualcosa”. Tutti
ebbero fame e io avevo molto poco. “Uova ce n’hai?” “Sì” “Cipolle?” “Anche” “Andiamo, ti aiutiamo noi,
facciamo una frittata con le cipolle”.
In cucina chi piangeva tagliando le cipolle, chi cantava sbattendo le uova, chi riscaldava il pane duro per
renderlo addentabile, chi scovava il vino. Alle quattro del mattino una vera tavola rotonda con in mezzo una
frittata e intorno della brava gente affamata e un po’ delusa.
Quando se ne furono andati, uscii sulla loggia. Albeggiava, l’orizzonte era cancellato da un anello di nebbia.
Non ero stanca, non ero contenta.
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Non siamo abbastanza antimonarchici
Non siamo abbastanza antimonarchici perché anche i giornali che sono per la repubblica portarono senza
nessun commento la notizia che essendo la moglie di Umberto Carignano (Maria José) a villeggiare a Castel
Porziano, nell’incendio di parte di quel bosco, restò separata dai figli che erano a giocare sulla spiaggia
finché i pompieri non glieli ebbero ricondotti.
Una madre che soffre per i figli è sempre rispettabile, sia pur una Carignano, ma che la stampa italiana non
abbia sentito che la notizia andava taciuta o commentata, è stata una mancanza d’intuito per il dolore del
nostro popolo. Mentre i bimbi d’Italia (esclusi i figli dei ricchi e degli arricchiti che nella totalità sono
un’esigua minoranza) non conoscono più villeggiature, né al mare, né al monte, né al piano, i figli di chi
volle la guerra, togliendo così ai nostri bimbi non solo gli svaghi dei campi o dei mari, ma il pane e le vesti,
passano da una villeggiatura ad un’altra, giocano sulla spiaggia “loro”, godono indisturbati i beni dell’Italia.
Li hanno salvati, va bene, ma che non ce ne parlino per non farci sentire raddoppiato il cruccio per i nostri
poveri bimbi vittime del padre, del nonno, del “cugino” del nonno, di tutti gli antenati di quei tre o quattro
Carignano che giocano sulla spiaggia “loro”.
(m’accorgo ora di non saper con sicurezza quanti siano i figli del luogotenente e…me ne rallegro!).
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La voce limpida di Dolores Prato. Mito e antimito di Roma