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Silvia Fazzo
APORIA E SISTEMA
La materia, la forma, il divino
nelle
Quaestiones
di Alessandro di Afrodisia
Edizioni ETS
Pisa
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In memoria
di Adriano e Vincenzo Fazzo
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Sommario
Introduzione: aporia e sistema
1.
2.
3.
4.
5.
Perché le Quaestiones?
Il contesto: le scuole
Alessandro, l’esegeta di Aristotele
L’aggiornamento
Il sistema
5.1. Le difficoltà del sistema
6. Il metodo dell’aporia nelle Quaestiones e nei commentari
6.1. La particella disgiuntiva ≥ nell’esordio delle soluzioni.
7. La specificità delle Quaestiones
come opuscoli di carattere aporetico
8. Fra dogmatismo e scetticismo
9. Il ruolo di Alessandro nella storia dell’aristotelismo
10. Sull’edizione di riferimento (Bruns, 1892) e sui criteri qui
adottati per la revisione del testo greco
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Conspectus siglorum
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Capitolo I:
“La materia e la forma”
43
1. Introduzione
1.1. Quaestiones sulla materia
1.2. Univocità del lessico
1.3. Omologazione delle strutture dottrinali
1.3.1 Il concetto di materia come strumento di soluzione delle aporie
1.3.2 Definizioni diverse di materia a confronto
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2. Il problema gnoseologico della materia
2.1.
2.2.
2.3.
2.4.
La via analogica
Forma e materia come concetti relazionali.
La via negativa
Materia e privazione
2.4.1. Privazione e negazione: la Quaestio II.7
2.4.2. Materia, privazione e l’ “aporia degli antichi” (Arist. Phys. I.8-9)
2.5. Materia e genere: la Quaestio II.28
2.6. Materia e accrescimento.
2.6.1. La dottrina di Aristotele (De gen. et corr. I.5)
2.6.2. Il problema dell’identità del soggetto che cresce
2.6.3. La Quaestio I.5
3. Materia e forma nei livelli progressivi della complessità naturale
3.1. Forme come contrari: le èpta‹ §nanti≈seiw
3.1.1 Le èpta‹ §nanti≈seiw in Aristotele.
3.1.2. Alessandro in Aristotele De generatione et corruptione
sulle èpta‹ §nanti≈seiw.
3.1.3. La materia come ricettacolo delle èpta‹ §nanti≈seiw
3.1.4. Privazione e contrario: la Quaestio II.11
3.2. I sunamfÒtera semplici fra materia prossima e materia prima:
la Quaestio II.24
4. La materia nei corpi animati
4.1. Materia e sostrato
4.1.1.La nozione di sostrato nelle Categorie
4.1.2.L’enumerazione dei sensi dell’”essere-in-qualcosa”
nel De anima di Alessandro
4.1.3. Le implicazioni del rapporto fra forma e materia
per la dottrina dell’anima
4.1.4. L’”essere in sé in qualche cosa” negli Analitici Posteriori
4.2. L’anima nel corpo: non come un accidente
4.2.1. kay’ Ípokeim°nou e §n Ípokeim°nƒ
4.3. Riepilogo sulla relazione tra forma e materia
5. Senza materia: gli enti matematici
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Capitolo II:
“La materia del divino”
1. Introduzione
2. La Quaestio I.10
2.1.
2.2.
2.3.
2.4.
2.5.
6
Osservazioni preliminari
La posizione del problema (20.18 - 22)
Le aporie (20.23 - 32)
Soluzione (lÊsiw, 20.32-21.5)
Soluzione dell’¶nstasiw (21.5 - 11)
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3. La Quaestio I.15
3.1.
3.2.
3.3.
3.4.
3.5.
Osservazioni preliminari
Posizione del problema: il dilemma (26.29 - 27.3)
L’aporia (27.3 - 4)
Soluzione, parte I: un differire senza differenze (27.4 - 10)
Soluzione, parte II: una differenza che non è qualità (27.10 - 29)
4. Strutture argomentative nelle Quaestiones I.10 e I.15
4.1. Uso della diairesi
4.2. Uso della definizione
5. La definizione di materia nella Quaestio I.10
e la dottrina aristotelica delle quattro cause.
6. La definizione di materia in Quaestio I.10 e la definizione
di natura in Antifonte (Aristotele Fisica I.9)
7. Il corpo celeste: materia, natura, anima
7.1. Teofrasto e Alessandro
7.2. La Quaestio II.25
7.3. La testimonianza di Simplicio.
8. La Quaestio II.18: natura e movimento del corpo divino
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Capitolo III:
“La dottrina della provvidenza e le sue fonti aristoteliche”
1. Introduzione
2. “La provvidenza arriva fino al cielo della luna”
3. La bipartizione del cosmo in relazione all’esercizio
della provvidenza (Quaestio II.19)
4. Il cielo come “dio” nella Quaestio II.6.
5. I due sensi del “provvedere” nella Quaestio I.25
6. La provvidenza come ye€a dÊnamiw
7. La provvidenza come attività esercitata dalle sfere
per il mantenimento delle specie
8. De generatione et corruptione II.10
9. Causalità per contatto: i Meteorologica e il De mundo
9.1.
9.2.
9.3.
9.4.
Causalità per contatto e per desiderio.
Continuità e causalità nei Meteorologica.
Dal lessico dei Meteorologica: sun°xeia e geitn€asiw.
Continuità (sun°xeia) fra le parti del cosmo e dÊnamiw
divina nel De mundo.
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9.5. Il lessico della causalità fra le parti del cosmo in Alessandro:
una scelta per esclusione?
9.6. Altri indizi lessicali della presenza dei Meteorologica e del De mundo
10. La composizione dei corpi animati in Aristotele
De generatione animalium
11. Tre citazioni esplicite
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Capitolo IV:
“La Quaestio II.3”
1. Introduzione
1.1. Il lessico della Quaestio II.3. Affinità significative con altri scritti
di Alessandro
1.2. Ye€a dÊnamiw e fÊsiw: la struttura generale della Quaestio
2. La posizione del problema nella Quaestio II.3
2.1. L’esordio (47.30-48.1)
2.2. La dÊnamiw divina come “altra natura” (48.1-5)
2.3. Trasmissione della dÊnamiw per gradi successivi dal fuoco
agli altri corpi semplici (48.5-18, cfr. De mundo, cap. 6)
3. L’aporia (48.18-22)
4. La prima soluzione (48.22-49.27)
4.1. Carattere parzialmente dialettico della prima soluzione
5. La ye€a dÊnamiw come causa eidopoietica
sulla materia informe (49.28-50.27)
6. Soluzioni multiple nella Quaestio II.3?
7. Il divino in tutte le cose:
la versione non stoica di una dottrina stoica
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Considerazioni conclusive
213
Index nominum
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Index locorum
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Bibliografia
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Introduzione: aporia e sistema
1
1. Premessa: perché le Quaestiones.
Per chi esamini ed indaghi il costituirsi di una tradizione filosofica, le domande e i problemi, che all’interno di quella tradizione si pongono, sono
talora più interessanti delle risposte stesse, che della tradizione sono destinate a costituire elemento integrante e progressivo.
Si tratta sovente di procedere dal più noto al meno noto: soprattutto nel caso in cui l’esito della tradizione abbia carattere sistematico, le risposte, i punti di arrivo, possono essere meglio attestati e più noti che non
gli interrogativi di partenza, i moventi dello sviluppo dottrinale; mentre
questi ultimi, così come le fasi intermedie di elaborazione, tendono a obliterarsi nel momento in cui si risolvono in un contesto assertivo.
1
Questo libro costituisce la versione riveduta e ampliata della mia tesi di dottorato La materia e il divino nelle Quaestiones di Alessandro di Afrodisia (Università degli studi di Torino,
1997) della quale è stato relatore Mario Vegetti. Ampliamenti particolarmente consistenti riguardano la relazione fra anima e corpo e sono inseriti nei §§ I.3 e I.4. Le Quaestiones sulla provvidenza (I.25, II.19, II.3 e II.21), che la tesi conteneva in appendice, sono state incluse nel volume da me curato (Alessandro di Afrodisia, La provvidenza. Questioni sulla provvidenza, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli 1999) insieme all’edizione e alla traduzione
dall’arabo del trattato “Sulla provvidenza” ad opera di Mauro Zonta. Nell’introduzione di
quel volume si trovano altresì anticipati alcuni paragrafi e parti di paragrafi di questo libro
(cfr. Intr., § 2 ss.; cap. I, §§ 1.2, 1.3; cap. III, §§ 2, 3, 5, 6, 11; cap. IV, § 7) non senza riduzioni e adattamenti in funzione del diverso contesto discorsivo. Il volume che ora presento
deve molto a chi seguì la redazione e la revisione della tesi, cioè a Mario Vegetti, Robert W.
Sharples e André Laks. Una precedente versione dei capp. I e III era stata sottoposta, nell’ambito dello stesso dottorato torinese, a Pierluigi Donini e Giuseppe Cambiano. L’ultima
fase della revisione e la nuova stesura della nota conclusiva avvengono nell’ambito di una
borsa post-dottorato presso l’Università di Padova, per la quale è responsabile scientifico
Enrico Berti. Non potrei incorporare nella tesi un’edizione critica e una traduzione integrale
dei testi più difficili (Quaestiones I.10 e I.15 nel cap. II, Quaestio II.3 nel cap. IV) se non
avessi potuto discuterli, nei precedenti anni di formazione, con André Laks (che diresse i
miei studi dottorali presso l’Université de Lille) e Heinz Wismann (direttore del D.E.A. all’Ecole des Hautes Etudes en Science Sociales di Parigi); e nella redazione finale con Carlo
Maria Mazzucchi (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano). A tutti sono enormemente debirice. Difetti e imprecisioni si addebiteranno comunque a chi scrive.
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In questa prospettiva, acquistano particolare interesse, per chi studi
l’aristotelismo in età imperiale, le cosiddette Quaestiones di Alessandro
di Afrodisia, che nella tradizione greca portano il titolo (più specifico) di
épor€ai ka‹ lÊseiw - “aporie e soluzioni”.2 Come testi di carattere specialistico, ad uso interno della scuola, e a maggior ragione come testi aporetici, questi opuscoli presentano peculiari pregi di carattere documentario, come qui intendo brevemente argomentare delineando al tempo stesso alcune caratteristiche generali della raccolta.
Ad ogni apparenza, le Quaestiones presuppongono un lettore che già
conosca le opere di Aristotele, che abbia una qualche familiarità con la tradizione aristotelica e che abbia fatto propri gli orientamenti e le finalità
della scuola. Si distinguono in questo non solo dai trattati, che hanno un
carattere più aperto e relativamente divulgativo, ma anche dai commentari, che presuppongono nel lettore una specifica preparazione tecnica, ma
non una distintiva opzione dottrinale di tipo aristotelico.3 Sono opere di
scuola nel senso più stretto, senza propriamente essere opere didattiche.
2
3
La raccolta consta di tre libri, detti Quaestiones naturales nell’editio princeps (Venezia, 1536).
A quest’edizione cinquecentesca risale dunque la denominazione corrente, instauratasi forse
sul portato di un’apparente, ma fuorviante, analogia con certe raccolte tardive di Quaestiones
et solutiones, dove gli argomenti in esame sono strutturati in forma di domande e risposte per
fini didattici (chi pone la questione, ha in realtà già in mente la soluzione). Quanto alla traduzione greca, nel codex vetustissimus Venetus Marcianus 258 gli opuscoli sono indicati, con oscillazione nell’attributo, fusika‹ sxolika‹ épor€ai ka‹ lÊseiw (“aporie e soluzioni scolastiche fisiche”, in testa al primo libro e dunque all’intera raccolta) o fusik«n sxol€vn épor€ai
ka‹ lÊseiw (“aporie e soluzioni di commenti fisici”, in testa al secondo e terzo libro). La prima delle due diciture è senz’altro più leggibile. Ma la seconda potrebbe essere più specifica,
in quanto qualunque raccolta tardo antica di questioni e soluzioni è, in linea di massima, per
uso “scolastico”, dunque questa dicitura potrebbe essere ridondante; mentre caratterizza meglio queste questioni, rispetto ad altre, il fatto di essere esegetiche, di porre cioè i problemi
non in senso assoluto, ma in riferimento stretto all’interpretazione dell’opera e del pensiero di
Aristotele. A questi tre libri, se ne aggiunge un quarto di Quaestiones morales (nell’edizione),
apparentemente il primo fra altri della stessa natura, a giudicare dal titolo, nel MS Ven. 258:
sxolik«n ±yik«n épori«n ka‹ lÊsevn a. Cfr. Bruns (1892) p. XV. In ogni caso, non è sicuro che Alessandro abbia mai chiamato épor€ai ka‹ lÊseiw codesti suoi scritti: Alessandro
parla generalmente del “porre aporie” (tÚ épore›n) non in prima ma in terza persona, riferendosi generalmente ad Aristotele, o alla figura impersonale di colui che ricerca su argomento filosofico. È la scuola a riconoscere le aporie e l’indagine aporetica non solo in Aristotele
ma anche nel suo esegeta. Quanto all’assemblaggio della nostra raccolta, questo è con ogni
probabilità largamente posteriore ad Alessandro, come pure i titoli dei singoli opuscoli, almeno nella maggior parte dei casi. Sulla costituzione delle raccolte degli opuscoli alessandristi, cfr. Sharples (1998).
In particolare, i commenti di Alessandro alle opere logiche e fisiche di Aristotele seguirono in
qualche modo la diffusione di quegli scritti e circolarono ampiamente fuori dalla scuola: dopo
Alessandro l’aristotelismo divenne, più che una scuola in senso stretto, un corpus dottrinale,
parti del quale, con i rispettivi commenti, potevano essere incorporati in una tradizione come
quella neoplatonica, diversa e divergente nella concezione dei principi primi.
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Il carattere decisamente specialistico degli opuscoli può spiegare anche l’assenza di un vincolo stilistico che forzi la trattazione all’interno di
un genere letterario predefinito, e la risultante eterogeneità anche formale della raccolta, quasi una miscellanea di frammenti e brevi trattazioni più
o meno abbozzate o compiute;4 può spiegare anzi con una certa verosimiglianza anche l’origine della raccolta stessa, formatasi presumibilmente ad
uso dei maestri e dei loro collaboratori, per assemblaggio e suddivisione
in libri di brevi testi ed appunti già da tempo circolanti nella scuola.
Da un uso collettivo, in qualche modo spersonalizzato sotto il generico riferimento all’autorità di Aristotele, deriva peraltro, quasi fatalmente, l’insicurezza dell’attribuzione: benché la tradizione manoscritta sia fondamentalmente concorde nell’attribuire gli opuscoli ad Alessandro, i dubbi che per diversi motivi sono stati sollevati in passato sull’autenticità dell’uno o dell’altro scritto sono in linea di principio legittimi. Il problema
dell’autenticità non è ancora mai stato affrontato in modo complessivo, anche perché ogni opuscolo è un caso a sé e inoltre non si dispone ancora di
una conoscenza sufficientemente sistematica dell’opera di questo autore
da poterne ricavare criteri d’attribuzione stabili e universalmente riconoscibili. Il problema può tuttavia essere variamente aggirato.
Per esempio si può premettere, come si usa correntemente, che ciò
che si dirà, qualora non dovesse riferirsi personalmente ad Alessandro,
resta valido in riferimento a chiunque all’interno della scuola abbia composto i testi in esame. In questo libro, comunque, ho scelto come oggetto di esame non tutti ma solo alcuni opuscoli della raccolta, i quali
presentano caratteristiche comuni così spiccate ed importanti - nello stile, nel metodo, nel sistema concettuale di riferimento - da incoraggiare
largamente la loro attribuzione ad un unico autore e cioè - precisamente - allo stesso autore che scrisse quelle opere che con maggior sicurezza si attribuiscono ad Alessandro.5
4
5
Tale eterogeneità si riscontra innanzitutto dal punto di vista formale: i testi che fanno parte della raccolta vanno infatti dal frammento quasi casuale al breve trattato (più o meno compiuto),
al dialogo, all’esegesi di singoli lemmi di opere aristoteliche (sovente diversi rispetto all’esegesi
dello stesso passo contenuta nel rispettivo commentario), passando per le aporie in senso stretto. Cfr. l’introduzione di Sharples (1992) p. 4 s., alla prima parte della sua recente traduzione
inglese delle Quaestiones, completata con il volume dello stesso Sharples (1994). L’opera di Sharples, con il suo apparato di note storiche, esegetiche e filologiche offre per la prima volta, oltre
che uno strumento di lettura, anche un aggancio fra i temi trattati in questi testi e la più aggiornata bibliografia su Aristotele, Alessandro e gli altri commentatori. Ad essa rinvio per tutti i testi in esame, qui una volta per tutte.
Un caso di autenticità fortemente sospetta è invece quello della Quaestio II.21: nella mia nota
in Fazzo-Zonta (1999), p. 257-9 ne ho sottolineato aspetti di difformità rispetto ai testi più sicuramente autentici di Alessandro. Intervenendo in proposito, Sharples (2000) ipotizza che la
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Quanto all’eventuale frammentarietà che certi opuscoli presentano
e a una certa loro carenza di revisione, questi non sono aspetti soltanto
negativi per gli scopi presenti, così come non lo è il loro carattere specialistico (cioè la tendenziale assenza di preoccupazione per il lettore estraneo al contesto della scuola): proprio perché conservati in tal modo, questi testi contengono tracce e indizi meno filtrati, dunque più diretti e tutto sommato più significativi delle condizioni dottrinali che ne dovettero
costituire la ragione d’esistere. Gli opuscoli aporetici della raccolta ci dicono qualcosa sulle cause del dubitare, dell’avere disponibili possibilità
diverse, e conseguentemente del sollevare aporia.
Si tratta dunque di leggere le Quaestiones innanzitutto come una testimonianza delle difficoltà che la tradizione aristotelica incontra, ancora
all’epoca di Alessandro, nel costituirsi come sistema. In quanto tali, consentono di caratterizzare il sistema dottrinale stesso del quale esprimono
le difficoltà e di impostare su un piano tecnico una questione che può
sconfinare altrimenti nell’ideologico, quella cioè del rapporto fra testo (in
specie, testo aristotelico) e commento.
Anche se infatti si ammette ormai comunemente che il commento
non sia semplicemente arida ripetizione o farraginosa amplificazione di
ciò che già i classici avevano detto, nondimeno resta relativamente poco
discussa la definizione positiva di quale rapporto fra testo ed esegesi sia
implicito nel ruolo e nell’opera del commentatore. Spesso le categorie che
si usano in questo tipo di valutazione - per esempio fedeltà, autonomia,
Quaestio II.21 sia stata scritta sì da Alessandro, ma come discussione preliminare, di carattere
dialettico, e questo giustificherebbe la divergenza da dottrine altrove sostenute dall’autore; tuttavia sarebbe stata scritta da Alessandro non prima, bensì dopo il trattato maggiore De providentia, e questo giustificherebbe il fatto che l’incipiente discussione rimandata a sede più ampia alla fine della Quaestio non si ritrovi proseguita come tale nel trattato: Alessandro dopo aver
scritto il De providentia avrebbe tentato di mettere il trattato in forma di dialogo, ma non essendoci riuscito avrebbe abbandonato poi l’impresa a metà, e questo spiegherebbe il carattere
non-finito e non definito della Quaestio II.21 e della dottrina che vi si attesta. Nella seconda
parte del suo contributo, Sharples sperimenta sul problema in esame, senza conclusioni decisive, l’uso di un metodo statistico-quantitativo. Personalmente, non vedo ragione di non ribadire i dubbi e le perplessità che ho espresse in quella mia nota (cfr. anche qui infra, n. 40 p. 33).
Ma certo l’intervento di Sharples ha ulteriormente evidenziato la difficoltà di provare in senso
stretto l’autenticità o meno dei singoli opuscoli, e dunque per converso la necessità di procedere secondo finalità e criteri più operativi e meglio verificabili. Qualora comunque si intenda
procedere con metodi statistici auspicherei che si mantenesse un’attenzione specifica alla regolarità della relazione fra significante e significato nelle singole occorrenze delle locuzioni prese
in esame (il che non è consentito da un conteggio solo meccanico delle occorrenze risultanti
dall’indagine automatica sul TLG); e che d’altra parte ci si preoccupasse di presentare i dati in
modo significativo, mostrando per esempio, prima di giudicare sui casi dubbi, che determinati valori sono costanti nei testi di sicura attribuzione, e che sono diversi invece, ancorché presumibilmente variabili, nella restante letteratura di scuola.
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imitazione (più o meno pedissequa), travisamento - rischiano di essere
troppo vaghe e generiche, perché non possiedono una definizione specifica in questo tipo di contesto e non presuppongono, né men che meno
producono, un sistema di valutazione comunemente condiviso. Il commentatore infatti può apparire riprovevole sia qualora risulti che ha introdotto nel commento qualcosa che prima non c’era nel testo originale,
sia qualora al contrario non sembri avere introdotto nulla che non fosse
già presente nel testo originale. Poiché, peraltro, in entrambi i casi la sua
opera è sottoposta a un giudizio di valore in relazione al testo originale,
questo giudizio presuppone che chi giudica sia, invece, in grado di considerare il testo di Aristotele in modo assolutamente oggettivo, al di fuori dell’aura esegetica che quasi inevitabilmente lo accompagna. Infatti la
valutazione dei diversi gradi di fedeltà, o autonomia, originalità o travisamento, sembra presupporre, in linea di principio, che sia possibile commentare un testo limitandosi a ripetere ciò che era già stato detto in un’epoca e in un contesto diversi.
Almeno su quest’ultimo punto, penso che sia fin d’ora opportuno
sollevare qualche dubbio, perché sicuramente se il contesto e l’epoca sono cambiati, anche il significato del discorso è inevitabilmente cambiato.
Così, anche nel caso estremo nel quale il maestro di scuola si esprima attraverso i testi di Aristotele ipsissima verba, il significato comunque risulta diverso e dunque il testo, per quanto simile al precedente, è diverso. Si
tratta evidentemente di un problema imponente, che sarebbe imbarazzante voler definire in senso assoluto. Di qui l’interesse di una ricerca specifica sulla funzione dell’aporia come aspetto caratterizzante e solo apparentemente marginale del magistero e dell’attività esegetica di Alessandro. Una tale ricerca consente infatti di mettere a fuoco aspetti distintivi
di quel determinato aristotelismo che è l’aristotelismo di Alessandro, caratterizzato da tensioni sistematiche molto forti e già pienamente espresse, ma non interamente risolte. È di queste tensioni non risolte che sono
infatti documento le aporie.
Nei prossimi paragrafi di questa introduzione (§§ 2 ss.) anticiperò alcuni di questi aspetti distintivi, prefigurando quanto emergerà poi dettagliatamente dall’analisi dei testi nel corso dei quattro capitoli.
Se i quattro capitoli non copriranno tutte le Quaestiones, ma solo alcuni gruppi di testi, questo non sarà dovuto solo a ragioni di spazio e di
praticabilità. È una raccolta di esplorazione relativamente recente, che
può apparire molto eterogenea, ed è sfuggita sinora a considerazioni d’insieme che rendessero ragione degli elementi di continuità fra testo e testo. Eppure i fattori di continuità sono spesso evidenti. In particolare dove l’argomento è affine anche i testi che ne trattano tendono a costituire
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gruppi relativamente omogenei. È stata pertanto una scelta precisa quella di concentrare l’attenzione su aree problematiche alquanto coerenti,
che si prestassero a linee di lettura più specifiche, dunque più efficaci, e
che al tempo stesso offrissero un quadro sufficientemente ampio e significativo da poter contribuire alla comprensione dei trattati maggiori di
Alessandro e del suo distintivo contributo alla storia dell’interpretazione
di Aristotele.
Esiste una relazione che risulta cruciale, virtualmente, quasi ogni
volta che Alessandro si trovi a dover produrre un chiarimento dottrinale; e questa relazione si trova specificamente al centro dell’attenzione in
molte Quaestiones. Questa relazione è la relazione fra forma e materia.
Generalizzando, si può dire quanto segue. Se avviene ad Alessandro, come dettagliatamente illustrano i capitoli I e II, di produrre una nozione
di materia più definita, radicale e primaria di quella reperibile nei testi
di Aristotele, questo corrisponde precisamente al fatto che, per converso, nozioni positive e filosoficamente rilevanti sulle quali Alessandro
prende posizione, quali: la natura (e con la natura, anche l’arte6, che serve a pensare analogicamente la natura), l’esser fuoco o aria o acqua o
terra dei corpi inanimati, la specie biologica e l’anima dei viventi, si risolvono nel pensiero dell’esegeta come espressioni diverse del concetto
di forma: forma, in ultima analisi, è tutto ciò che è conoscibile.7 Vedremo dunque nei diversi capitoli di questo libro in che modo la relazione
fra forma e materia costituisca la struttura centrale, in Alessandro più
costantemente che in Aristotele, del pensiero sulla natura, sulla sostanza, sulla costituzione dei corpi e sul divenire dei corpi inorganici e organici, del pensiero sull’anima e sulle sue diverse facoltà (cap. I); sui corpi celesti, sul loro movimento e sulla loro problematicità (cap. II); sui
rapporti fra mondo divino e mondo corruttibile: la natura infatti si intende come forma, e trae origine dall’attività “eidopoietica”, cioè formatrice, di una forza ovvero dÊnamiw divina che agendo come provvidenza garantisce gradi diversi di strutturazione e dunque di perfezione
formale nella realtà sensibile (capp. III e IV).
6
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Alex. De anima 3.8-9, 20 (cfr. infra, p. 55) identifica espressamente l’arte con la forma prodotta dall’artista.
Non a caso, anche nei commenti ad Aristotele, là dove passi di interpretazione difficile danno adito a diverse soluzioni interpretative, avviene ricorrentemente che l’ultima soluzione
sia giocata sulla relazione fra forma e materia, cfr. infra p. 45 n. 63. E proprio l’ultima soluzione è quella che suggeriremo essere tendenzialmente ultima anche nel tempo: non esclusiva delle altre, ma sovente rispetto ad esse riassuntiva, e più delle altre vicina all’autore che
scrive, cioè all’Esegeta medesimo, cfr. infra, pp. 199-201, 207-210; cfr anche p. 27 n. 29, p.
181 n. 409.
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Così, la relazione fra forma e materia, la cui elaborazione si trova
documentata nei testi qui in esame, risulta essere una relazione centrale in senso assoluto nell’aristotelismo dell’esegeta. La collazione dei diversi opuscoli di ogni gruppo consente almeno in parte di ricostruire un
quadro complessivo, nonostante la frammentarietà del materiale testuale. Nei primi due capitoli, dunque, vengono passate al vaglio le
Quaestiones sulla materia, dove si rielabora la definizione di materia come sostrato ultimo assolutamente privo di forma, e viene esaminato il
diverso configurarsi del concetto di materia nei successivi livelli di determinazione, dalla materia prima, alla materia prossima dei corpi naturali, fino alla materia dei corpi animati (cap. I); separatamente, si esamina il problema della materialità (e dunque anche della fisicità) di quei
corpi che Alessandro dice divini, e cioè dei corpi celesti. A questo proposito frammenti dai commentari perduti di Alessandro in Fisica e in
De caelo vengono in aiuto per delineare una discussione, che Alessandro in essi a più riprese sviluppava, sulla possibilità di concepire il corpo celeste nel suo complesso come corpo fisico e come corpo dotato di
materia, capace dunque di esercitare un’azione causale sul mondo sublunare (cap. II).
Negli altri due capitoli si contestualizza ed esamina il problema della provvidenza, e più in generale il problema del rapporto fra mondo divino, cioè celeste, e mondo sublunare, con specifico riferimento al rapporto fra la dottrina di Alessandro e i testi di Aristotele (cap. III). L’ultimo capitolo, nel quale convergono molti degli elementi elaborati nei precedenti, è dedicato all’esame dell’importante e aporeticissima Quaestio
II.3 (cap. IV).
Non mancano le connessioni fra la prima parte (capp. I e II) e la seconda (capp. III e IV): la dottrina del divino e della provvidenza, nella
sua elaborazione più problematica, fa esplicito riferimento alla dottrina
della materia (esposta nel cap. I) e vi cerca i propri presupposti (Quaestio
II.3, cfr. cap. IV); la dottrina della materia esplora le sue potenzialità più
estreme applicandosi al problema della definizione dei “corpi divini”
(cap. II); il movimento dei corpi divini agisce (ovvero, come dice Alessandro, esercita una dÊnamiw) sul corpo sublunare ed è pertanto causa efficiente dell’azione provvidenziale (capp. III e IV).
C’è dunque una sorta di circolarità, e, di più, una precisa, reciproca
funzionalità fra questi due generalissimi concetti e tematiche: da una parte, la materia, come ricettacolo e come principio di individuazione; e dall’altra il divino, la cui azione si concretizza come forma nella materia. Sono i poli estremi del sistema fisico, che ne consentono una considerazione d’insieme, mettendone in evidenza gli orientamenti fondamentali.
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Dal punto di vista del metodo, d’altronde, i primi due capitoli, prevalentemente dedicati alla “materia” e al suo rapporto con la forma, e i
secondi due, sul “divino”, risultano in qualche modo complementari. Mostrano cioè due aspetti fondamentali nel rapporto fra aporia ed esegesi,
che corrispondono a due situazioni fondamentali come causa del dubitare esegetico - e dunque del porre aporia.
Dubbio nasce, nel sistema dottrinale dell’esegeta, là dove le indicazioni aristoteliche sono numerose ma non coerenti e richiedono selezione, coordinamento, normalizzazione (così è dove si parla di materia e forma, nei testi esaminati dai nostri capitoli I e II); ma nasce anche dove invece le indicazioni di Aristotele scarseggiano, non sono esaurienti e devono essere estrapolate dai testi in modo indiretto, a rischio di forzature
(come nei testi sulla provvidenza e sulla ye€a dÊnamiw, in esame nei capitoli III e IV).
Così, nei primi due capitoli, e in particolare nel capitolo I, che verte
sulla costituzione di concetti determinati e complementari di materia e di
forma (l’argomento del capitolo II, la materia dei corpi divini, poneva per
l’esegeta un problema di metodo a sé stante, e in quanto tale sarà esaminato a suo luogo) l’esegeta lavora su indicazioni ricche e numerose, ma
discontinue. In questo caso, l’interpretazione comporta riordino, selezione, normalizzazione di indicazioni che l’esegeta cerca di coordinare e rendere quanto possibile compatibili.
Nei capitoli III e IV, invece, dove si trattano concetti assenti come tali in Aristotele, si parla cioè di provvidenza divina (ye€a prÒnoia) e di
dÊnamiw attiva esercitata dal movimento del corpo celeste sul mondo sublunare (quella che Alessandro chiama ye€a dÊnamiw), gli elementi disponibili in Aristotele sono scarsi e poco definitivi, così da rendere arduo
giustificare un’elaborazione sistematica sulla base dei testi del maestro.
L’esegeta deve allora valorizzare qualunque elemento si lasci interpretare
nel senso di una concezione provvidenziale, o più precisamente qualunque elemento sia tale che nulla impedisca di interpretarlo in tal senso, mettendo invece in sordina quei cenni e quelle indicazioni aristoteliche che
potrebbero essere più facilmente interpretati (seppure, anch’essi, indirettamente) nella direzione contraria.
Tali sono le due fondamentali procedure, di segno in qualche modo
contrario e complementare, che consentono la costituzione, il completamento e il consolidamento del sistema: selezione e omologazione dove le
indicazioni teoriche sono numerose ma non ben coordinate; reinterpretazione e ampliamento dove le indicazioni invece scarseggiano e non consentono una lettura immediata e inequivocabile, ma i materiali esistenti
lasciano una certa libertà di interpretazione e sono passibili di ricombi16
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nazione e di sviluppo. Nell’uno e nell’altro senso, il complesso dei temi
esaminati nei quattro capitoli costituisce un punto di osservazione privilegiato, una sorta di laboratorio nel quale si vede come il maestro aristotelico metta in opera in modo esemplare gli strumenti del mestiere.
D’altra parte, la pratica dell’aporia e più in generale l’intero fenomeno dell’elaborazione dottrinale alessandrista trae le sue radici e prepara i suoi esiti ultimi all’interno di quel processo nel corso del quale l’aristotelismo diventa sistema. Tale processo resta sullo sfondo di questa indagine, del quale essa intende comunque prendere in esame un momento importante e significativo.
2. Il contesto: le scuole
A quest’epoca, l’aristotelismo è una delle quattro scuole ufficiali di filosofia.
Insieme alla scuola peripatetica anche il platonismo, lo stoicismo e l’epicureismo sono stati resi ufficiali dall’istituzione di pubblici incarichi di insegnamento - celebre fra tutti quello ateniese di Marco Aurelio nel 176 d.C.
Platonici e aristotelici raccolgono l’eredità delle grandi filosofie del
periodo classico, stoici ed epicurei quella delle due maggiori scuole del
periodo ellenistico. Così, sfoltito il numero delle sette concorrenti, le quattro scuole si fronteggiano in modo diretto sui principali problemi filosofici all’ordine del giorno, in un clima di accesa rivalità e di serrata polemica. La tendenza generale prevalente è ad arroccarsi dogmaticamente
sulle opinioni del fondatore, invocandone l’autorità. Siamo d’altronde in
un’epoca nella quale l’imperante culto dei classici porta a privilegiare la
continuità storica sull’originalità del singolo autore. In altre parole, nessuna dottrina sembra avere peso teorico se non può mostrarsi già implicita e quasi racchiusa in nuce nel pensiero degli antichi,8 e in particolare
nel pensiero di una singola autorità per quelle sette che si appellino ad
una figura di maestro e fondatore: Platone per gli accademici, Aristotele
per i peripatetici, Epicuro per gli epicurei.
Così, per quanto riguarda gli aristotelici, diventa particolarmente importante conservare una linea teorica quanto possibile ortodossa. Già
questo, non è senza problemi: si tratta di ricucire una spaccatura, antica
8
Come Donini (1994) p. 5038-9 ha sottolineato, “l’esegesi era divenuta la forma tipica della riflessione”, in un’epoca nella quale la filosofia tendeva a vedere il proprio fine nello “sforzo di
riappropriarsi di un’eredità fissata ormai in modo definitivo”. Cfr. anche Cambiano (19872)
p. 118 ss. e, sul carattere antiquario del dibattito fra scuole in questo periodo, Vegetti (1989)
cap. 9, § 1, p. 301-4.
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quanto la storia dell’aristotelismo, fra tendenze sistematiche e tendenze
aporetiche, entrambe presenti in Aristotele e nel primo peripato e specificamente rappresentate, le seconde, nell’opuscolo aporetico sui principi,
la cosiddetta “Metafisica” di Teofrasto.
Ricomposte le fratture interne, l’aristotelismo di Alessandro deve essere concorrenziale, sulle tematiche emergenti, rispetto a filosofie di più largo
e immediato seguito: l’epicureismo e, soprattutto, lo stoicismo, in ragione
del carattere eminentemente sistematico che costituisce un punto di forza di
quest’ultimo indirizzo filosofico. Si deve inoltre confrontare con il platonismo, filosofia di più indiscusso prestigio e cospicua tradizione, i cui rappresentanti avevano avuto un atteggiamento critico nei confronti dell’aristotelismo, evidenziandone le carenze soprattutto sul piano sistematico, come filosofia d’insieme. Alessandro lavorerà specificamente in questa direzione.
Il quadro è ulteriormente complicato dalla presenza dello scetticismo,
che riacquista vigore proprio in questi anni e contrasta segnatamente le
tendenze che avevano animato il dibattito filosofico nel corso dell’ellenismo e dei primi secoli dell’età romana, quali sono state sinora delineate.
Tali tendenze andavano, in sintesi, nella direzione di un accentuato dogmatismo. In tal senso, lo scetticismo esprime una reazione di segno contrario da parte di quanti, estranei per scelta (come i filosofi scettici) o per
formazione (come gli scienziati) all’ambito ristretto delle scuole, irridono
ora o comunque rifuggono il coro discorde delle diatribe dottrinali.
Nei suoi esiti estremi, lo scetticismo induce a rifiutare l’assenso a qualunque tipo di affermazione categorica, cioè assolutamente affermativa.
Ma più spesso, lo scetticismo si avverte in molti autori di quest’epoca come una temperie culturale diffusa, come una sorta di diffidenza nei confronti di qualunque dottrina che si proponga come valida ad esclusione
di tutte le altre, o che arroghi pretese di sicurezza in ambiti dove la sicurezza non è attingibile.
Sono tensioni e tendenze che vedremo interagire ed esprimersi soprattutto là dove l’aristotelismo di Alessandro si confronta dialetticamente con l’esterno e prende posizione nel dibattito fra scuole: per esempio nella dottrina della provvidenza.
3. Alessandro, l’esegeta di Aristotele
Forte di uno speciale magistero in campo logico, riconosciuto ed apprezzato anche dagli esponenti di altre scuole, l’aristotelismo di quest’epoca si caratterizza per uno sforzo di continuità e di coerenza fra i suoi
diversi ambiti disciplinari.
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In virtù di una tale continuità, il metodo della filosofia naturale si
estende per assorbire interamente la psicologia, la teologia, e persino l’etica; d’altro canto, la filosofia naturale stessa, così come tutte le discipline
che ne mutuano il metodo, diventa una disciplina astratta e speculativa.9
L’ambito dei contenuti trattati inevitabilmente si allarga, per comprendere come per naturale e logica estensione anche i temi più dibattuti in età ellenistica e tardo-ellenistica.
La centralità di Alessandro si misura pertanto anche e non da ultimo
dal punto di vista dell’intervento dottrinale: Alessandro è uno dei massimi artefici di quel secolare processo che, sulla base delle opere del maestro, costruisce l’aristotelismo come sistema compiuto.10
In questa prospettiva, si può analizzare e leggere fra le righe lo scopo generale della sua opera: dare rigore sistematico alle dottrine che spiega ed espone, rendendole conformi a criteri di interna coerenza e di non
contraddizione; connettere le idee esposte nelle diverse opere di Aristotele in un sistema potenzialmente unitario; completare il quadro generale di tale sistema, servendosi di materiali aristotelici, su temi trascurati da
Aristotele o comunque estranei al suo ambito di ricerca.11
4. L’aggiornamento
Ad ogni apparenza, in effetti, l’aristotelismo che Alessandro eredita dai
predecessori necessita di aggiornamento.
9
In questo senso, l’etichetta di “naturalismo” sovente riferita all’aristotelismo alessandrista può
essere accettata solo con precise limitazioni. Si vedano già in tal senso le osservazioni di Donini (1971) p. 94-5, che sottolinea l’astrattezza e il carattere puramente concettuale del cosiddetto naturalismo alessandrista, vs. p. es. Moraux (1942) che contrappone un esprit métaphysique
di Aristotele a un esprit scientifique di Alessandro: “fisico Alessandro non fu mai”, scrive Donini, e “Aristotele fu in realtà naturalista e scienziato in misura molto maggiore”.
10 Cfr. anche qui infra, p. 35 s.
11 Sulle caratteristiche generali del commento come forma assunta dalla riflessione filosofica in età
postellenistica cfr. Donini (1994), (1995). Da Donini (1995) cfr. fra l’altro pp. 110-113, dove il
principio implicito dell’esegesi Alessandrista, spiegare i passi oscuri attraverso altri passi dello
stesso Aristotele, è così formulato per estensione dall’ ÜOmhron §j ÑOmÆrou safhn€zein, teorizzato da Porfirio Quaest. hom. p. 297,16 Schr. ma già in uso forse, a quanto si ritiene, tra i filologi alessandrini. Donini (1995) in part. p. 5042 cita Alessandro come esempio di un’interpretazione che, pur formalmente fedele al maestro, riesce tuttavia ad incorporare valori di novità e originalità, secondo modalità caratteristiche e peculiari di questo stile culturale. La bibliografia finale di Donini (1994), pp. 5094 - 5100 amplia ed aggiorna, per quanto riguarda Alessandro, quella di Sharples (1987) pp. 1226 - 1243. Quest’ultima altrimenti resta sinora la bibliografia di riferimento generale per gli studi sul nostro autore; sarà presto integrata, se non
anzi interamente sostituita, da quella curata dallo stesso Sharples in Moraux (post.) Der Aristotelismus bei den Griechen III, a c. di J. Wiesner.
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Già i commentatori dei primi due secoli d.C. dovevano avere avvertito
l’esigenza di aggiornare la dottrina del maestro, recentemente riscoperta nei
testi originali grazie all’edizione di Andronico. Molto del lavoro, tuttavia, è
ancora incompiuto all’epoca di Alessandro: questi appare impegnarsi in prima persona su temi importanti che Aristotele o non aveva trattato, come il
problema del fato, o aveva trattato in modo non del tutto chiaro, come quello dell’anima, o aveva considerato in modo incidentale e incompleto: per
esempio, la provvidenza, e più in generale, la connessione fra il cosmo e i
suoi princìpi, fra mondo sublunare e mondo celeste, e ancora fra mondo celeste e motore o motori immobili. In questi e simili casi, l’esegeta si trova a
rielaborare spunti disparati, che in Aristotele non costituiscono una vera e
propria dottrina, per ricavarne una teoria compiuta che possa reggere il raffronto con le dottrine rivali. L’esigenza di aggiornamento lo porta infatti a
prendere posizione in modo attivo e - nonostante il costante richiamo ad Aristotele - originale nel quadro del dibattito contemporaneo.
Controparte importante, in tal senso, è lo stoicismo: una filosofia che
presenta, fra i suoi punti di forza e di vantaggio, l’elaborazione di teorie
specifiche su temi taciuti o trascurati dalle filosofie dell’età classica.
5. Il sistema
Pesa su tutte le filosofie del tardo ellenismo il modello, anch’esso inaugurato dallo stoicismo, di un sistema filosofico unitario e chiuso in se
stesso. Confrontarsi fra scuole sui singoli temi diventa ora più difficile, perché la trattazione di ogni problema coinvolge anche la rappresentazione complessiva che ogni filosofia dà di sé, la risposta globale
che ogni scuola offre di fronte alle spinte emergenti e alle esigenze del
tempo presente.12
Così, sulla scorta del modello stoico, anche i medioplatonici sono indotti a rileggere la filosofia di Platone come un tutto compiuto, un sistema dove tout se tient. A sua volta, il platonismo così rivisitato riversa la
critica sull’aristotelismo. L’esempio meglio attestato è Attico, che rimprovera ad Aristotele di non aver reso ragione della coesione e disposizione ordinata del cosmo, quali solo possono derivare dalla sottomissione di esso ad un unico principio.13
12
Cfr. Natali (1996) p. 8, che ravvisa nella sezione polemica del De fato di Alessandro un “esempio da manuale” di una tale difficoltà di confronto e comunicazione fra dottrine filosofiche
diverse.
13 Attico, frgm. 8 rr 17-25 des Places. Una critica specifica di Attico agli aristotelici riguarda la
dottrina della provvidenza: cfr. infra, p. 149 n. 305.
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Nell’aristotelismo di Alessandro, la tendenza alla costituzione di un
sistema dottrinale è costante e caratterizzante. Essa comporta una riflessione approfondita su temi che erano rimasti ai margini dei vari ambiti disciplinari aristotelici, e in particolar modo sulle zone di confine fra questi ambiti, dunque sui punti di connessione fra fisica e metafisica, psicologia e biologia.
Tale pratica presuppone l’implicita continuità, di cui si è detto, fra
quelli che in Aristotele erano ambiti disciplinari diversi; e continuamente riproduce e riconferma tale continuità traducendola in una sostanziale uniformità di metodo e di linguaggio.
Alla base della ricostruzione dell’aristotelismo come sistema dottrinale sta d’altronde la sua riduzione a sistema linguistico, cioè a universo
chiuso e autonomo di significati, che si definiscono all’interno del sistema in virtù delle reciproche relazioni. Questo fa sì che nell’aristotelismo
esegetico di Alessandro il rapporto fra sistema del mondo fisico e sistema
di pensiero sul mondo fisico sia un rapporto di non problematizzata identità, tale per cui essi di fatto si risolvono uno nell’altro.
Sebbene la tendenza fosse già latente in Aristotele, là dove la costruzione teorica prevaleva sulla ricerca empirica, tuttavia quest’ultima
deteneva comunque un ruolo molto importante, ad esempio, nelle opere biologiche.
Da questo punto di vista, Alessandro anticipa e prepara una caratteristica della scolastica medievale: la natura delle cose che egli considera non è direttamente quella dell’esperienza personale o comunque
sensibile, bensì quella di cui si legge nelle opere di Aristotele. Anche nei
rari casi nei quali sembra fare riferimento alla realtà concreta, il testo di
Alessandro si lascia analizzare come un centone di echi e citazioni, di
calchi lessicali e sintattici, di modelli argomentativi opportunamente riadattati, tratti da Aristotele.14
14
Per esempio l’argomento di De prov. 126.6-134.5 (tr. 127.7-135.5) Zonta (trattato la cui edizione e traduzione, curate da Zonta, cito qui e in seguito dal nostro volume Fazzo-Zonta [1999])
sulla distanza e sul duplice movimento del sole e della luna, che garantiscono la generazione e
la sussistenza degli animali e delle piante, segue la falsariga di annotazioni già presenti in Aristotele: la forma generale dell’argomentazione è analoga a quella di De caelo 291a 25 s. (“se il
movimento {scil.: degli astri] non avvenisse in questo modo, nessuna delle cose di quaggiù potrebbe essere nel modo in cui è”); negli argomenti addotti riecheggiano implicitamente, per
quanto riguarda il ruolo e la posizione del sole, De gen. et corr. 336a 31-b 19; per quello della
luna, De gen. anim., per es. II 4. 738a 16-22, IV. 2. 767a 1-7, IV. 10. 777b 24-30. Di più, il movimento risulta in qualche modo circolare: se da una parte il pensiero di Aristotele delinea la
struttura generale nella quale viene compresa la realtà, d’altra parte l’interpretazione del pensiero di Aristotele si determina in funzione di una comprensione della realtà che è storicamente determinata.
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D’altra parte, fra Aristotele e Alessandro passano più di cinque secoli e questo divario comporta importanti differenze nello stile, nella
struttura e nei contenuti della scrittura filosofica. Per esempio gli usi lessicali diventano più costanti e determinati, così che tendenzialmente ad
ogni termine impiegato corrisponde uno e un solo significato, e analogamente anche le strutture sintattiche si cristallizzano in usi costanti, secondo i vari “modi” e “figure”, cioè secondo i vari tipi di sillogismo impiegati nell’argomentazione; in generale si riscontra, come è lecito attendersi da un esegeta, una scrittura più piana, più chiara, più coerente con
se stessa e naturalmente meno ellittica e meno oscurata da cenni e allusioni poco comprensibili.
Fatte salve queste precisazioni, il modo di fare filosofia che è proprio
di Alessandro si contestualizza naturalmente nell’arcaismo (inteso come
culto e imitazione degli antichi) che caratterizza la sua epoca dal punto di
vista intellettuale e soprattutto letterario-linguistico.15 Alessandro tende
infatti a usare quasi solo quei termini e quelle radici di significato che già
si trovavano attestati in Aristotele; i pochi che aggiunge sono generalmente derivabili dai primi per composizione o per mutamento di suffisso (sono semmai i significati a risentire dell’epoca relativamente tarda nella quale scrive il nostro esegeta16). Eventuali eccezioni hanno ragioni particolari e possono richiedere aperta giustificazione.17
15
La prosa di Alessandro rientra infatti agevolmente nel quadro delle tendenze culturali caratteristiche di quello che il Norden chiamava in senso lato atticismo, tali per cui, nota Norden
(19183), t. I, p. 401 (cfr. tr. it. t. I, p. 411), era possibile trovare arcaisti rigorosi che scrivevano
su comando in attico come Platone, o come Tucidide o come Demostene, o in ionico come Erodoto o anche come Ecateo.
16 Questa fedeltà nel lessico, infatti, non impedisce, almeno nel caso di Alessandro, che termini
già aristotelici possano essere impiegati in sensi inediti in Aristotele, mostrando così i chiari debiti di Alessandro dalla cultura dell’epoca, sulla cui terminologia filosofica grava pesante il lascito dello stoicismo; in tal senso sono tuttora valide, fra le altre, le osservazioni di Pohlenz e
Moraux ap. Sharples (1987), p. 1178 n. 11.
17 Le eccezioni confermano la regola perché sono avvertite come tali, cioé come potenziali deviazioni da una linea di condotta costante. Tale per esempio è il caso di ≤ eflmarm°nh, il “fato”,
termine assente da Aristotele: Alessandro preferirebbe usare un termine già aristotelico e non
avendone uno si adopera per argomentare che eflmarm°nh c’è anche in Aristotele, anche a costo di forzare l’interpretazione di due occorrenze aristoteliche dell’aggettivo participiale
eflmarm°now, cfr. Mantissa XXV, 186.13-23. L’autenticità dell’opuscolo mi sembra evidente sia
dal punto di vista strutturale (l’esordio, 179.26-29, affronta il significato del termine e pone la
questione se sia o no un “nome vuoto”, come De fato 165.19-23 e come De providentia 96.1011 Zonta (tr. 97.13 s.); le citazioni di autorità a sostegno della dottrina esposta nel trattato sono collocate in fondo come nel De providentia 156.20 ss. Zonta (tr. 157.23 ss.) e come peraltro
già in Aristotele Metafisica XII.10. 1076a 4), sia dal punto di vista lessicale (come si è argomentato in questa nota) e concettuale (come si vede dall’ampia concordanza con il De fato, almeno nelle parti di più chiara interpretazione di quest’ultimo testo).
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Quanto ai contenuti, l’elaborazione concettuale, ancora attiva, in certo modo, e vivace, si impegna però non tanto a spiegare i fenomeni per
quello che essi appaiono, quanto a rendere sistematiche e reciprocamente coerenti le dottrine dello Stagirita e quelle della scuola, che interpreta
i testi di Aristotele per leggere, spiegare, raccontare il mondo fisico. Come si è detto, non abbiamo tanto un sistema del mondo fisico, quanto un
sistema del pensiero sul mondo fisico, nel quale il primo di fatto si risolve. Anche questa tendenza era già in Aristotele; ed era già, volutamente
esasperata e problematica, nella Metafisica di Teofrasto18. Ma in Alessandro essa induce la tendenza, tipica della scuola e non dei suoi fondatori,
a perseguire nozioni univoche, inequivocabilmente definite.
È questo, d’altronde, un aspetto caratteristico e quasi inevitabile
della pratica stessa dell’esegesi e del commento nell’antichità.
La liceità dell’operazione, che non è necessariamente messa in questione dagli esegeti moderni, men che meno lo è dagli esegeti più antichi
in generale, e aristotelici in particolare. A questi infatti, impegnati come
sono nell’ardua impresa di trovare fondamento per una rappresentazione unitaria, coerente e potenzialmente esaustiva del reale, è regolarmente estraneo quell’interesse caratteristico dello storico della filosofia, che
va cercando le persistenze, rileva le incompiutezze, mette in risalto le differenze.19 È questo il prezzo, si potrebbe dire, della costituzione di una
tradizione dottrinale unitaria le cui prerogative rispondono fondamentalmente alle esigenze della scuola.
5.1. Le difficoltà del sistema
Ma il percorso che porta alla costituzione di un’ortodossia sistematica è
irto di ostacoli, per diverse ragioni fondamentali, in parte interne al corpus delle opere di Aristotele, in parte esterne. Queste ragioni interagiscono nel conferire all’aristotelismo di Alessandro alcune caratteristiche
ad esso peculiari.
Da una parte, le opere di Aristotele non costituiscono di per sé un tutto compatto e coerente. C’è infatti uno sviluppo nel metodo e negli inte18
Teofrasto d’altronde è anche l’autore della Historia plantarum, ed è colui che più di altri aiutò
Aristotele nelle sue indagini di scienze naturali; non è dunque senza problematicità che egli anticipa la tendenza, che sarà propria della scuola, a risolvere la nozione di natura in un sistema
in sé conchiuso di pensiero sulla natura. Cfr. a questo proposito l’introduzione di Laks in LaksMost (1993), con particolare riferimento agli aspetti che ho evidenziati nella relativa recensione (Fazzo [1995]). All’introduzione e alle note di Laks rinvio peraltro, ora una volta per tutte,
riguardo a tutti i passi della Metafisica di Teofrasto che verranno qui di seguito citati.
19 Cfr. tuttavia le perplessità espresse ancora oggi da Donini (1994) p. 5095 sulla tendenza a generalizzazioni eccessive negli studi sulle filosofie tardoantiche.
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ressi di Aristotele: questi si evolvono nel corso della sua vita, dagli anni giovanili nei quali frequentava l’Accademia platonica a quelli della tarda maturità (Alessandro, peraltro, come i suoi prosecutori, sembra ignorare una
tale evoluzione - e anche in questo il suo atteggiamento collima con la tendenza della sua epoca a dare all’autorità degli antichi un valore assoluto e
metatemporale). Ma anche a prescindere da questo, è insita nel pensiero
di Aristotele una componente costante di libera innovazione, tale per cui
il metodo e gli strumenti concettuali e lessicali impiegati si adattano versatilmente, opera dopo opera, ai problemi di volta in volta affrontati. Così, sugli stessi problemi coesistono in Aristotele teorie diverse. Conseguentemente, non solo uno stesso termine può avere, come di fatto ha anche nel linguaggio comune, significati diversi in passi diversi (per esempio
fÊsiw, o Ïlh)20 ma più in generale uno stesso concetto, trattato all’interno di problematiche diverse o da punti di vista diversi, può assumere connotazioni diverse e almeno apparentemente discordanti.21 Per giunta, non
necessariamente Aristotele si preoccupa di esprimersi con piena chiarezza: nelle opere destinate alla scuola, sulle quali Alessandro lavora, molti
passi sembrano più appunti sintetici che compiute delucidazioni.
Interni all’aristotelismo, questi e siffatti ostacoli ne intralciano il processo di ricostruzione sistematica, rendono cioè difficile la costituzione di
una dottrina complessiva dottrinale dialetticamente difendibile e didatticamente trasmissibile. Una tale dottrina dovrebbe infatti dare a ogni problema una soluzione definita e priva di ambiguità, usando i termini in senso univoco e chiaramente identificabile.22
Alessandro esplicita e discute tali difficoltà in modo specifico nelle
épor€ai ka‹ lÊseiw propriamente dette, che costituiscono il nucleo caratterizzante nell’eterogenea raccolta di opuscoli correntemente denominati Quaestiones.23
20
Cfr. Bonitz, Index, s. vv.
Per quanto riguarda la polivalenza dei singoli termini, Aristotele, rispetto ai predecessori, dimostra singolare e lucida consapevolezza del fenomeno, tanto da dedicare l’intero libro V della Metafisica all’esame delle parole e locuzioni che hanno più significati, ovvero, come dice Aristotele, che “si dicono in molti modi” (pollax«w legÒmena). In tal modo, immette nel suo metodo analitico un elemento di forza e di progresso sostanziali: prima di lui, la speculazione si
era spesso arenata su aporie dovute alla mancata distinzione fra le accezioni diverse nelle quali uno stesso termine veniva inteso. A questo riguardo, la consapevolezza di Aristotele è il presupposto storico e logico della normalizzazione del linguaggio filosofico perseguita dai suoi successori, e da Alessandro in particolare.
22 Cfr. in tal senso, cioè sulla ricerca di univocità nei termini, anche Abbamonte (1995), in part. p. 263.
23 Secondo il giudizio dell’editore Bruns (1892) p. VII s., le vere e proprie aporie sarebbero solo
un terzo della totalità degli opuscoli. Cfr. anche Sharples (1992) p. 4. Bruns, ragionevolmente,
dissente da Freudenthal (1884) p. 13, che aveva considerato interamente inadeguato il titolo
della raccolta. Cfr. supra, n. 4.
21
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Aporia (épor€a), letteralmente, è la mancanza di via d’uscita
(pÒrow): là dove il pensiero si inceppa, là dove la costruzione sistematica dell’esegeta trova ostacolo, lì c’è aporia. L’arte dell’aporia consiste
innanzitutto nel saper porre l’aporia stessa nel modo più adatto affinché essa trovi soluzione (lÊsiw). Aristotele stesso, osserva Alessandro,
aveva insegnato “che è utile a tutti quelli che si devono occupare di
qualche cosa, per trovare ciò che cercano, sollevare innanzitutto aporia su quelle cose: infatti procedere con facilità nel trovare e nel provare fondatamente ciò riguardo a cui si ricerca dipende dal reperire ciò
che ha creato aporia.”24
6. Il metodo dell’aporia nelle Quaestiones e nei commentari
Così, sull’esempio di Aristotele e più sistematicamente dello stesso
Aristotele, Alessandro si adopera costantemente per formulare, su
ogni dato problema, le aporie. All’interno dei commentari, eventuali
aporie vengono sollevate e discusse dopo la spiegazione generale del
significato dei singoli passi. A fianco e a margine dei commentari, stanno gli opuscoli aporetici conservati nelle Quaestiones, brevi testi specificamente dedicati alla pratica dottrinale dell’aporia, cui mi riferisco
ai fini della presente caratterizzazione.25 In entrambi i casi, le soluzioni
proposte possono essere più d’una, senza un’esplicita indicazione di
preferenza.26
24
Alex. in Arist. Met. 172.10-13 Hayduck.
Sul senso del termine “aporia” con particolare riferimento agli opuscoli alessandristi, cfr. anche
Fazzo in Fazzo-Zonta (1999) pp. 14-16.
26 Secondo Moraux (1942) p. 36-37 è tendenzialmente l’ultima soluzione presentata ad apparire
più semplice e in quanto tale implicitamente preferibile, così in Alessandro come già in Aristotele. Donini (1996) p. 18-19 ha però obiettato che un tale principio non si trova affatto stabilito nei commentari. Il fatto è che Moraux non produce argomenti dettagliati, e dunque in effetti
è molto giustificata la perplessità di chi non accetti in proposito petizioni di principio. Il suggerimento, credo, che emerge dalle indagini di questo libro va in qualche modo a favore di entrambe le posizioni, assumendo però un punto di vista diverso. Se è vero ciò che qui si ipotizza (cfr. in part. infra cap. IV §§ 4.1 e 6) e cioè che le diverse soluzioni non siano contemporaneamente pensate e prodotte da uno stesso esegeta, ma attestino piuttosto una stratificazione
storico-dottrinale, allora si conferma in effetti un privilegio dell’ultima soluzione. Ma il motivo
non sarà necessariamente quello che Moraux suggeriva per analogia con Aristotele. Non è che
infatti di regola Alessandro, come in qualche modo faceva Aristotele, presenti apposta le soluzioni diverse dalla propria come complicate o comunque insoddisfacenti, affinché l’ultima appaia più semplice o comunque preferibile. Questo può avvenire in casi particolari (cfr. infra §
IV.4.1 sulla Quaestio II.3, con la possibile conferma paleografica menzionata infra, p. 38 n. 51);
ma in molti altri casi non lo si riscontra, e le diverse soluzioni appaiono semplici o complicate
alla stessa stregua. Ciò che suggerirei invece di tenere presente come ipotesi generale è che l’ul25
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C’è in questo un’uniformità di metodo che accomuna le aporie sviluppate nei commentari e quelle conservate come opuscoli indipendenti
e che si traduce anche in un’evidente corrispondenza lessicale. Le locuzioni che introducono la formulazione di più ipotesi possibili sono infatti le stesse nei commentari e nelle questioni, salvo che da una parte si tratta di ipotesi interpretative, dall’altra di ipotesi dottrinali generali, che pur
inscrivendosi nell’universo concettuale aristotelico, non si configurano
però come esegesi di singoli testi.
Così per esempio nel commento alla Metafisica mÆpote (o mÆpote
oÔn) êmeinon ékoÊein (141. 14, 289.37) o mÆpote ékoËsai xrÆ (424.1415)27 introduce una soluzione possibile, ma non unica, prospettata in forma fortemente dubitativa, cui spesso ne segue un’altra. Questa sarà introdotta o da ≥ (nel caso si tratti di una vera alternativa, p. es. 390.27,
400.9) o da espressioni come dÊnata€ tiw ka‹ ékoÊein (nel caso si tratti
di un’ipotesi interpretativa più generale, cfr. 141.21-2, 171.14, 255.19 ss.,
375.9). Analogamente, troviamo nelle Quaestiones mÆpote (o mÆpot’oÔn)
xr∞ l°gein (invece di ékoÊein o ékoËsai come nei commentari), mentre a dÊnata€ tiw ka‹ ékoÊein dei commentari corrisponde dÊnata€ tiw
l°gein ka‹ ktl. della Quaestio II.3, ambedue le locuzioni introducendo
una soluzione prospettata in ultima ipotesi, che non tanto invalida ciò che
precedentemente è stato detto, ma propone che se ne estenda la portata
anche (ka€) a un ambito più generale.28
tima soluzione sia opera di chi scrive, le precedenti possano invece essere pregresse. In quel caso, chi scrive l’ultima può tenere conto anche delle precedenti, e trarne suggerimento, mentre
il contrario non è possibile. Non si tratterà allora di un criterio di valore assoluto, dal quale si
possa automaticamente desumere che le soluzioni precedenti la prima siano false mentre l’ultima è vera; ma senz’altro dal punto di vista di chi redige il testo esse devono essere considerate
perfettibili, o comunque tali che sia possibile affiancarle con altre, o integrarle in una soluzione più generale e comprensiva. Lo statuto cognitivo stesso che è proprio della letteratura esegetica non impone infatti di per sé l’univocità dell’interpretazione (a meno s’intende che non
abbiano valore ragioni particolare e diverse) ma lascia sussistere letture alternative o reciprocamente riassuntive. Questo si può dire sia in filosofia che in altri ambiti, fra i quali vale la pena di evocare quello giuridico, là dove sentenze diverse esprimono un diverso intendimento di
uno stesso principio, e le diverse sentenze che si succedono nel tempo si conservano e non si
sostituiscono reciprocamente, perché tutte insieme “fanno” giurisprudenza. Sulle interpretazioni multiple in Filone di Alessandria, cfr. Calabi (1998) p. 109-21; più in generale sulla pluralità delle interpretazioni valide nell’interpretazione biblica, mi limiterei qui a ricordare S. Agostino, Conf. XII.31.
27 Altre formule equivalenti sono per esempio mÆpote oÔn mnhmoneÊei (sc.: Aristotele, in Alex.
in Met. 390.16) e mÆpote oÔn l°gei (ibid., 400.8).
28 Capita che Alessandro stesso faccia esplicita tale valenza più generale dell’ipotesi che egli introduce nei commentari, cfr. per es. in Met. 171.14-172.1: dÊnata€ tiw ékoËsai ka‹ kayolik≈teron toË efirhm°nou ktl; Alex. ap. Simpl. in Phys. VIII.4, 255b 13-14, 1216.27-29: dÊnatai d°, fhs‹n ÉAl°jandrow (…) ka‹ kayÒlou (…) efir∞syai.
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Nell’uno e nell’altro caso, tale pluralità possibile di soluzioni - che
sovente viene descritta senza che ci si interroghi sulla sua natura e la sua
ragione d’essere29 - è un aspetto fortemente caratterizzante, peculiare alla tradizione peripatetica, che Alessandro lascerà in eredità a quanti, dalla tarda antichità fino all’età moderna, fanno uso, direttamente o indirettamente, dei suoi commenti.
Essa mostra innanzitutto che l’aristotelismo di Alessandro, sebbene si mantenga programmaticamente e statutariamente fedele al pensiero di Aristotele, non si conforma ad una nozione rigida di ortodossia. Dove una questione è difficile da dirimere, Alessandro presenta la
soluzione come semplicemente possibile, nel modo del “forse” e del “si
può dire”. Le aporie di Alessandro sono reali, non fittizie, e attestano
un travaglio in fieri in seno all’aristotelismo, tale per cui si ammette che
determinati problemi esegetici (nei commentari) e dottrinali in senso
più largo (nelle Quaestiones) non si siano stabilizzati su di una soluzione definitiva. Con il loro apparato di risposte multiple, le sezioni e
gli opuscoli aporetici di Alessandro elevano a sistema la difficoltà, se
non addirittura l’impossibilità, di pervenire, su determinati problemi,
a una tale, unica soluzione. 30
29
Nel cap. IV (§§ 4.1 e 6; p.181 n. 409) sarà approfondita in riferimento alla Questio II.3 l’ipotesi
già menzionata nella n. 26, secondo la quale l’ultima soluzione prospettata da Alessandro per un
dato problema sarebbe quella formulata più recentemente, cui chi scrive in prima persona avrebbe dato un contributo più diretto. Sembra infatti che ci sia una connessione fra il metodo delle
spiegazioni multiple e la compresenza, all’interno della scuola, di interpretazioni diverse di una
stessa dottrina, che lascerebbero traccia, una dopo l’altra, nella forma di soluzioni interpretative
relative a passi cruciali del testo di Aristotele. Tutte resterebbero accreditate, e l’ultima sarebbe
quella che il maestro proporrebbe in proprio, senza rompere con la tradizione precedente (di qui
il frequente uso di formule cautelative nell’introdurre l’ ultima soluzione). Anche Simplicio si comporta in modo analogo: propone l’esegesi o le esegesi prospettate da Alessandro (anche senza nominarlo), e infine ad esse fa seguire la propria, introdotta da mÆpote, cfr. Diels, “Praef.” in CAG
IX, p. V n. 1.
30 È questo uno dei caratteri che differenziano le vere aporie di Alessandro dal genere letterario
dei (problÆmata), fiorente soprattutto in età tardoantica, dove l’esposizione suddivisa in domanda e risposta tende a diventare un espediente meramente didattico: bene esemplificano tale tendenza i Problemi falsamente attribuiti ad Alessandro, editi da J. L. Ideler (Physici et medici graeci, Berlin 1841-’42, vol. I), di argomento prevalentemente medico. Parte dei Problemata pseudo-aristotelici editi da Bekker (Aristotelis Opera, vol. II, pp. 859-967) sembra avere carattere più genuinamente aporetico; anch’essi tuttavia, come i problemi della Meccanica (ibid.,
pp. 847-858) sono quasi tutti introdotti dalla formula diå t€, che invece non è caratteristica delle Quaestiones. Con questa cominciano infatti solo tre degli opuscoli. Di questi, due si avvicinano alquanto a quelli delle raccolte ora menzionate (mentre risultano piuttosto isolati nella tipologia delle Quaestiones): sono la Quaestio I.20 (pp. 33.24-34.29 Bruns: “Perché d’estate siamo più portati al sonno, se il sonno è per compressione verso l’interno del nostro calore naturale”) e la II.23 (pp. 72.9-74.30, “Sulla calamita, perché attragga il ferro”; cfr. infra, p. 160 n.
340). L’altra è la Quaestio II.9 (sulla cui discrepanza dottrinale dalla Quaestio I.8 riguardo al
problema della relazione fra forma e materia cfr. infra, p. 57 n. 93). Sulla Quaestio I.5, che pure contiene tale locuzione all’interno del titolo, cfr. infra, p. 68 s.
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A proposito della relazione fra commentari ed aporie, peraltro, può
essere significativo interrogarsi sulla natura della particella disgiuntiva ≥
che compare spesso nelle Quaestiones, per introdurre la soluzione.
6.1. La particella disgiuntiva ≥ nell’esordio delle soluzioni..
Quando, dopo la formulazione di un’aporia, troviamo la particella ≥ a introdurre una soluzione, siamo abituati a tradurla convenzionalmente in modo letterale, “oppure”, o “forse”. La seconda possibilità, meno letterale, è
giustificata da un tentativo di rendere in una lingua moderna quella certa
valenza dubitativa che sembra implicita in quest’uso della particella.
L’adozione di una traduzione convenzionale, e non necessariamente
letteralissima, in questo caso non è sbagliata, perché sicuramente anche
in greco questa particella viene usata in modo convenzionale: nell’ambito del genere di opuscoli di carattere aporetico dei quali ci stiamo occupando, si usa infatti che essa introduca la soluzione. L’utilità di tale convenzione è particolarmente evidente nell’ambito di un genere filosofico
come questo, destinato alla circolazione e alla trasmissione per iscritto: la
presenza della particella evidenzia anche graficamente l’inizio della soluzione, un po’ come farebbe qualche corrispondente stenografismo delle
lingue moderne, per esempio la “R” che introduce la risposta in certi opuscoli di carattere didattico che vengono redatti in italiano nella forma domanda-risposta. Questo tuttavia, se pure spiega in qualche modo la fortuna di questo uso convenzionale della particella, non ne spiega però di
per sé l’origine. Non risponde cioè alla domanda di fondo: perché la soluzione di un’aporia deve essere introdotta da una disgiunzione?
Senza pretese di sicurezza, credo che sia utile tentare almeno un’ipotesi. La presenza della disgiunzione può essere indizio dell’origine esegetica di questo tipo di trattatistica. Essa infatti suggerisce che all’inizio
questo tipo di letteratura si sia formato per excerpta, per estrazione cioè,
a partire dai commentari ad Aristotele, di brani monografici di carattere,
per l’appunto, esegetico, nei quali una determinata questione era sollevata e affrontata a partire da un determinato luogo aristotelico. Se, come per
lo più avveniva, il luogo era problematico, la scuola poteva averne formulato più di una proposta esegetica, non contemporaneamente, ma nel
corso delle varie generazioni di maestri che si erano succedute e avevano
lavorato su quel testo. Ogni volta, cautamente e senza contraddire la proposta o le proposte precedenti, l’ultimo maestro aggiungeva la propria
esegesi. Lo faceva alla stregua di una proposta alternativa, introdotta allora, a ragion veduta, da ≥. Più tardi la scuola, per meglio gestire l’imponente e prezioso travaglio dottrinale che la tradizione aveva così sparpagliato fra le esegesi dei singoli lemmi, avvertiva l’utilità di radunare gli
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aspetti salienti e più problematici di questa tradizione, dei quali riscopriva allora la peculiare validità per uso didattico. Valorizzava allora una o
più delle soluzioni disponibili, talora mantenendo il richiamo al lemma
nel titolo31, talaltra sintetizzando il problema sotto forma di proposizione interrogativa.32 Quando era l’ultima soluzione a presentare un valore
privilegiato, solo quella veniva trascritta, e la si riportava accompagnata,
anzi, introdotta, come lo era stata nel commentario, dalla disgiunzione ≥.
Di qui, sarebbe potuto derivare, anche in seguito, l’uso, ormai semanticamente depauperato, di ≥ come convenzionale segno introduttivo della
soluzione di un’aporia.33
7. La specificità delle Quaestiones come opuscoli di carattere aporetico
A questo punto, considerato che le aporie trovavano spazio anche nei
commentari, e che anzi alcune di esse venivano estratte dai commentari,
ci si potrebbe chiedere, riguardo a quelle aporie che invece nascevano già
- la loro forma lo lascia capire - come opuscoli indipendenti, quale fosse
la ragione d’essere di tali ulteriori momenti di riflessione, cioè che cosa si
esprimesse in essi, che già non potesse dirsi nei grandi commentari a Fisica, De generatione et corruptione, Metafisica, De caelo.
Una prima, generale spiegazione può risiedere, per l’appunto, nel carattere aporetico. L’aporia infatti, pur trovando spazio, talora, anche in
coda alla discussione dei singoli lemmi nei commentari, trova però in questi opuscoli un luogo deputato e specifico. Rispetto alle aporie discusse
31
Molte delle Quaestiones si presentano come esegesi di un determinato lemma: I.16, I.24, II.2,
II.22, II.24, II.25, II.26, II.27. III.2, III.3, III.6, III.7, III.9.
32 A questa possibilità si possono avvicinare anche le Quaestiones I.11, II.6, IV.18, che pongono
il problema del perché di un’affermazione che si legge in un determinato testo di Aristotele.
33 Si può notare per converso che in Problemata di altro tipo, di natura non esegetica, per esempio gli Iatrika problemata falsamente attribuiti ad Alessandro ed editi da Ideler (vol. I, 1841, cfr.
supra, n. 30) la soluzione non è introdotta da ≥, bensì da una locuzione - quale frequentemente è ˜ti - che direttamente si connette allo stilema di esordio, diå t€. Invece, e questo pone un
problema riguardo all’ipotesi qui presentata, la disgiunzione ≥ è presente nei Problemata pseudoaristotelici, che raccolgono materiale formulato almeno in parte in età ellenistica (almeno secondo Flashar [1962], il cui studio è a tutt’oggi di riferimento) e dunque necessariamente prima che si costituisse una tradizione esegetica quale ora si è descritta. Una possibile via d’uscita, rispetto all’obiezione che la presenza della disgiunzione ≥ in tali testi costituisce, è ipotizzare che di quei testi, pur risalendo a età ellenistica una parte dei materiali costitutivi, la redazione in nostro possesso sia più tarda, e abbia potuto così incamerare in un secondo tempo un uso
- quello di ≥ come stilema introduttivo della soluzione - che nel frattempo era divenuto consueto e convenzionale per quel genere di letteratura. Ringrazio Maurizio Ferraris per la discussione sull’interrogativo affrontato in questo paragrafo. Si intende che la spiegazione qui proposta è prospettata per via puramente ipotetica.
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nei commentari, d’altronde, distingue questi testi il carattere trasversale
della riflessione, che mette in relazione dottrine e testi di Aristotele diversi; oppure verifica e confronta sui testi le dottrine costituitesi, sempre
sulla base dei testi, ma indirettamente, nella tradizione della scuola.
Per questo, nella misura in cui esprimono aporie reali, le Quaestiones costituiscono un punto di osservazione privilegiato. Selezionando alcuni temi fondamentali che in esse Alessandro approfondisce in modo sistematico, è possibile caratterizzare le costanti di metodo e gli strumenti
logici e linguistici dei quali Alessandro si serve per la costituzione di un
sistema dottrinale funzionale alla scuola, e in particolare per determinare meglio i punti di raccordo di un sistema già in buona parte costituito
dal magistero dei suoi predecessori.
L’opera - Alessandro ne è consapevole - resta in parte incompiuta. È
vero che in molti casi è possibile ed anzi è agevole raccogliere da un’opera di Alessandro all’altra, da un contesto all’altro, indicazioni sparse che,
raccordate, mettono capo a una griglia di pensiero unitario. In questo senso, Alessandro, pensatore sistematico, produce un aristotelismo sistematico. Ma questa unità e questo sistema esistono più in potenza che in atto; e
gli elementi che li potrebbero costituire si trovano affermati con gradi accuratamente sfumati e fra loro distinti di assertività. Quella di Alessandro,
da questo punto di vista, è una posizione di notevole onestà intellettuale.
In questi opuscoli infatti - in virtù del loro carattere veracemente aporetico e della logica rigorosa secondo la quale sono formulati - possiamo
distinguere ancora le radici di un processo che in Alessandro giunge sì a
mettere a punto gli aspetti principali di un’interpretazione e definizione
univoca, ma partendo da una molteplicità di opzioni ancora disponibili e
dunque considerate come possibili. In questo senso, l’opera di Alessandro, rispetto a quella degli autori posteriori, lascia discernere più agevolmente gli elementi di permanenza da quelli di acquisizione recente e ancora dibattuta: in ogni singola argomentazione si distinguono nitidamente le premesse dalle conclusioni, e poi, fra le premesse stesse, quelle preacquisite e quelle assunte per ipotesi. Fra quelle preacquisite, la presenza di
tempi storici del verbo, in particolare dell’imperfetto, ne caratterizza alcune come risalenti ad una fase precedente del dibattito, autorevole ma
in qualche modo passibile di superamento34; più spesso, non meno caratteristicamente, un semplice gãr esplicativo dopo la prima o le primissime parole introduce nell’argomentazione premesse che presentano un
grado di sicurezza tale, da spiegare e giustificare di per sé le ulteriori ac34
Sull’uso dei tempi storici, cfr. Bruns (1889), Index, p. 223 s. v. tempus; Accattino-Donini (1996)
p. 119 (in De anima 9.16).
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quisizioni che se ne possono concludere.35 È in siffatte premesseesplicative che l’esegeta, facendo proprie direttive di massima già espresse dalla
scuola, sembra dare il meglio di sé quanto a chiarezza didattica e compiutezza di pensiero.
In altri casi invece le premesse hanno carattere ipotetico. Fra queste
si possono distinguere le ipotesi semplici e quelle suscettibili di ulteriori
discussioni, come indicato dalla particella limitativa ge associata alla formulazione ipotetica, cioè dalla locuzione introduttiva e‡ ge.
Che in tutto questo sia distinguibile, per giunta e in concomitanza,
una pluralità di piani storici, cioè la compresenza di fasi diverse di elaborazione, in parte dunque precedenti Alessandro, è ipotesi che non può in
questo ambito essere perseguita approfonditamente, ma che tuttavia merita in qualche modo di essere menzionata.36
8. Fra dogmatismo e scetticismo
Un importante ostacolo alla costituzione di un’ortodossia sistematica, ulteriore rispetto a quelli per così dire interni al sistema sui quali ci siamo
finora soffermati, viene in Alessandro dalla temperie culturale dell’epoca, caratterizzata dal nuovo, spiccato rilievo assunto dallo scetticismo nel
panorama della discussione scientifica e filosofica.
Non a caso, proprio nel II secolo d. C. i maggiori esponenti della cultura scientifica, Galeno e Tolomeo, mostrano una precisa consapevolezza della discussione scettica, ne tengono conto e se ne difendono, in parte rifiutandone le istanze più radicali, che avrebbero negato credito a qualunque tipo di sapere positivo,37 in parte conformandosi di fatto, se non
35
Tale è la funzione di quella sorta di “trattato-nel-trattato” quale incontriamo a proposito della
distinzione fra forma e materia nelle pagine iniziali (2.25-11.13) del trattato De anima, cfr. infra, § I.2.1. Più spesso, tali presupposti sono esposti come semplici proposizioni incidentali, che
talvolta l’editore mette fra parentesi, per alleggerire il periodo. Tale accorgimento editoriale
rinforza in qualche modo l’impressione, che comunque si può avere, che Alessandro metta fra
parentesi i presupposti già consolidati e ormai indiscussi che fungono da pietre angolari nel suo
edificio dottrinale, conservandoli al riparo dalla discussione aporetica. Anche qui, come si vede, si possono trovare tracce di stratificazione dottrinale
36 Cfr. infra, cap. IV. § 6.
37 Cfr. p. es. Galeno, per‹ toË progign≈skein prÚw ÉEpig°nhn, XIV. 627 s. K., dove Galeno,
interrotto in una dimostrazione anatomica, lamenta l’eccessivo, rude scetticismo di Alessandro di Damasco; sul progetto culturale di Galeno e sulla sua contrapposizione al progetto negativo degli scettici, cfr. Vegetti (1994). Di Tolomeo, cfr. Synt. Math. I.1 p. 6.11-17
Heiberg, Tetr. I.1.2 p. 4.1-7, I.2.15 s. p. 10.12-11.7 Hübner. Sul rapporto fra l’astrologia
tolemaica e le istanze critiche dello scetticismo, con particolare riferimento a Tetrabiblos
I.1-3, cfr. Fazzo (1991).
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espressamente, a uno scetticismo moderato: sospendono cioè l’assenso ed
evitano di esporsi in modo dogmatico sui temi più controvertibili, incerti e intrinsecamente oscuri (metafisica e teologia in primis).38
Quanto all’aristotelismo di Alessandro, non è privo di interesse metterne a confronto le prerogative e i modi di argomentazione con il programma di base dello scetticismo filosofico.
“Nulla affermare temerariamente intorno a fatti oscuri”, prescrive il criticismo scettico. Questo può essere inteso come un veto a qualunque speculazione filosofica, in particolare metafisica. Eppure esiste un senso nel quale l’aristotelismo di Alessandro tende a sottrarsi questo tipo di critica: nel
senso che nulla, virtualmente, vi si trova asserito in senso assoluto: non solo
infatti nei commentari, ma anche negli opuscoli e nei trattati, Alessandro ha
sempre come scopo riferire l’opinione di Aristotele sull’argomento discusso, estrapolandola dai testi che meglio vi si prestano e verificandola nel raffronto con altri passi del corpus aristotelico. Non è dunque direttamente sulla realtà in sé stessa che Alessandro prende posizione, ma sull’opinione di
Aristotele (e nemmeno su questa in modo interamente dogmatico, come si
vede là dove si sollevano aporie e si prospettano molteplici soluzioni interpretative). Certo, Aristotele, da parte sua, si esprime sulla realtà. Ma se vogliamo prendere Alessandro alla lettera, il suo scopo non è tanto quello di
dimostrare che Aristotele dice il vero, bensì argomentare in quali sensi l’opinione di Aristotele debba considerarsi preferibile, o come dice Alessandro “più vera”39, rispetto alle altre - in quanto per esempio più aderente ai
fenomeni, meglio conciliabile con il senso religioso comune, o più conveniente nelle sue implicazioni etico-pratiche. Tali sono i criteri invocati da
Alessandro a sostegno della dottrina della provvidenza e di quella del fato.
Sono criteri, se si vuole, non rigorosi e in qualche parte arbitrari. E probabilmente non è un caso: non appena si esce dalla rigorosa logica interna del
sistema, e ci si confronta con la realtà e con la pluralità delle dottrine, la posizione di Alessandro mantiene un certo relativismo. Ma questo per l’appunto si addice a chi si cura di evitare posizioni dogmatiche.
Peraltro, la superiorità del pensiero di Aristotele sulle altre autorità
filosofiche viene sottolineata da Alessandro non tanto nei commenti ad
38
Sullo scetticismo galenico, con specifico riferimento al De placitis Hippocratis et Platonis, cfr.
Vegetti (1986) p. 235: la filosofia speculativa viene declassata quasi al livello della retorica, in
quanto presenta come sicure opinioni non passibili di dimostrazione apodittica; cfr. inoltre con
Nutton (1987) i capp. 2-3 del trattato “Sulle proprie opinioni”, nel quale Galeno professava
agnosticismo su temi fondamentali di filosofia e teologia.
39 Cfr. De anima 2.4-5; l’espressione “più vera”, nella misura in cui evoca l’idea di una verità solo
parziale e non interamente raggiungibile, può rievocare l’esordio di Met. II, 993a 29-b 3, come
suggerito ad loc. (p. 105) dal commento di Accattino-Donini (1996) che resta qui in seguito di
riferimento anche per tutte le altre citazioni dal De anima.
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Aristotele, né nelle Quaestiones scritte in glossa e margine ai commenti,
generi di scritti destinati entrambi, se pure in modo diverso, a chi già riconosca l’autorità di Aristotele, ma piuttosto nei trattati indipendenti,40
forse in ragione di un loro carattere relativamente essoterico, della loro
destinazione a un pubblico più largo.
Nei trattati, d’altronde, l’esegeta affronta temi che Aristotele non aveva approfondito. Deve dunque argomentare con maggiore credibilità le
proprie prese di posizione. Là infatti dove viene a mancare il sostegno forte del testo aristotelico, là dunque dove la discussione esce dall’orizzonte
chiuso e autogiustificato dell’esegesi aristotelica, la dottrina di Alessandro sembra trovarsi più esposta alle critiche di ordine scettico. Quasi una
forma di difesa, nei trattati De fato, De mixtione, De providentia, Alessandro mette al primo posto sia per ordine dell’esposizione sia per peso
argomentativo l’elemento negativo, la pars destruens: accorda cioè il maggior peso a ciò che per esempio il fato non è, a ciò che la provvidenza non
è, rispetto a ciò che positivamente se ne può affermare.
È l’argomento per diafvn€a: una rilettura scettica della pratica, già
aristotelica, della rassegna critica delle opinioni dei predecessori, nelle
quali si va cercando però non la verità (come in qualche modo faceva Aristotele) ma l’errore e la contraddizione; e l’elemento che in esse viene maggiormente evidenziato è ciò che consente di presentare ogni tesi come confutazione della tesi opposta.41
La diafvn€a consiste infatti nel mettere in scena il contrasto fra opinioni divergenti e reciprocamente contraddittorie. Nel farne uso, gli scettici prendono indistintamente di mira tutte le posizioni dogmatiche. Alessandro invece intende mostrare l’inadeguatezza delle posizioni estreme,
e l’opportunità di una via media, quale precisamente si dimostra essere la
dottrina aristotelica.42
40
Sembra fare eccezione la Quaestio II.21, la cui autenticità può essere per altre ragioni essere
messa in discussione, cfr. supra, n. 5 p. 11 s.. Se i dubbi che ho espressi in proposito sono fondati, l’eccezione conferma la regola.
41 Un uso diverso della molteplicità delle dottrine, considerate come tutte possibili, è quello di
Epicuro. Questi infatti, quando si pronuncia per esempio sui fenomeni meteorologici e astronomici, ne prospetta diverse spiegazioni, come tutte utili a liberare l’animo dalla paura, ma tutte impossibili da verificare: sceglierne una sulle altre sarebbe arbitrario e metodologicamente
non corretto; cfr. Epistola a Pitocle, 87 s.: Isnardi Parente (1974) p. 29 s.
42 L’origine scettica di questo tipo di argomentazione è stata sottolineata da Mansfeld (1988), che ha
evidenziato al riguardo importanti analogie di struttura fra le sezioni introduttive di due trattati
di Alessandro conservati in greco, quali il De fato e il De mixtione, e quella del De providentia conservato in arabo pp. 96.6-124.25 Zonta (tr. 97.8-125.26). Alessandro d’altronde sembra, più in generale, tenere presenti le critiche scettiche alle dottrine filosofiche sulla provvidenza, come mostra il parallelo fra gli argomenti del De providentia di Alessandro e quelli di Sesto Empirico, Li-
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Così, indirettamente, conferisce a quest’ultima una configurazione
generale più resistente agli attacchi del criticismo scettico. Il prezzo di tale difesa è l’incameramento di zone costituzionalmente più deboli dal
punto di vista assertivo all’interno dell’edificio dottrinale aristotelico alessandrista, dunque la compresenza, di cui sopra si è detto, di gradi diversi di assertività.
Ed è significativo appunto che questo avvenga in una temperie culturale nella quale ha assunto peso rilevante lo scetticismo, la corrente
di pensiero che mette sotto accusa la “temerarietà” del dogmatismo filosofico tradizionale, e che ha trovato essa stessa, nei decenni che precedono l’attività di Alessandro, una formulazione in qualche modo canonizzata e sistematica. Sono due orientamenti culturali molto diversi,
ma non del tutto irrelati, come si vede dall’uso di strutture argomentative comuni.
Tale loro relazione può essere esaminata, fra l’altro, proprio in riferimento all’aporia, quella struttura cognitiva apparentemente debole ma in realtà molto versatile che caratterizza tanto l’opera maggiore
di Alessandro, cioè i commentari, quanto la parte più sicuramente autentica di quegli opuscoli che la tradizione ha raccolto e conservato sotto il titolo complessivo di épor€ai ka‹ lÊseiw, più correntemente denominati Quaestiones.
Abbiamo infatti accennato che Alessandro non è restio a presentare le sue soluzioni nel modo del “forse” e del “si può dire”. Questo
mostra che Alessandro, nonostante le tendenze sistematiche che ne animano l’opera, come pensatore indipendente non è dogmatico.
Anzi, in questa capacità dell’aristotelismo alessandrista di tollerare, non episodicamente ma sistematicamente, una pluralità di soluzioni possibili è insito un ulteriore elemento di resistenza alle critiche scettiche, che vengono in qualche modo e misura riassorbite all’interno del
sistema.
D’altronde, fare filosofia, per Alessandro, è essenzialmente questione di zhte›n e di §pizhte›n43 - due verbi che ricorrono frequentissimamente nel corso dei commentari, avendo per soggetto talora Aristotele, il
filosofo per eccellenza, talora il commentatore, la figura impersonale di
neamenti del pirronismo, come ho evidenziato in Fazzo-Zonta (1999), p. 35 s., n. 49: Alessandro
- a quanto appare dal parallelo - tiene presente la lezione dello scetticismo, ma se ne serve in positivo, per rafforzare la posizione aristotelica. Sulle differenze, peraltro, fra la diafvn€a scettica
e il procedimento confutatorio di Alessandro nel De fato, e sulle affinità di quest’ultimo con quello dei libri finali della Metafisica di Aristotele, in particolare Met. XIV, cfr. Natali (1996) p. 44 s.
43 Cfr. per es. la coppia sinonimica di Alessandro in Met. 16.3 tÚ zhte›n te ka‹ filosofe›n.
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colui che fa filosofia sulla base dei testi di Aristotele, e nel fare questo è
portato continuamente a interrogarsi sul loro significato. In particolare,
dove la ricerca incontra difficoltà, è compito fondamentale dell’esegeta
quello di porre aporie (épore›n o épor∞sai).
Tutto questo, beninteso, si trova in Alessandro sulla scorta di Aristotele, anche se più marcatamente che in Aristotele. Ma è segnatamente
all’epoca di Alessandro che tale terminologia poteva o forse anzi doveva
inevitabilmente evocare una relazione con la scuola scettica, se è vero che
nell’antichità gli scettici erano noti, con meno che come skeptiko€, come éporhtiko€ e come zhthtiko€.44
Naturalmente la comunione di strumenti e non è necessariamente comunione di intenti ed è interessante anche viceversa notare come in tutto il commento alla Metafisica, dove questi termini compaiono in innumerevoli occorrenze, non compaia invece nemmeno una volta la radice
skep- o skec-.45 Riconfermando come strumento privilegiato dell’indagine filosofica la pratica della ricerca e dell’aporia, Alessandro sembra
contrapporsi implicitamente a un suo esproprio di parte scettica; rivendica cioè all’aristotelismo un uso specificamente non scettico della ricerca e dell’aporia.
9. Il ruolo di Alessandro nella storia dell’aristotelismo
Il processo che, sulla base delle opere del maestro, costruisce l’aristotelismo come sistema compiuto aveva già richiesto, prima di Alessandro, secoli di elaborazione. In esso, Alessandro costituisce una sorta di
spartiacque: è il primo esegeta la cui opera ci sia pervenuta in modo così consistente; riassume il magistero dei predecessori, la cui opera è quasi totalmente perduta,46 e ne sintetizza l’eredità; al tempo stesso, è uno
degli ultimi commentatori aristotelici di Aristotele: diversamente dai
suoi successori, egli è veramente ortodosso e fedele in tutto ad Aristotele, e lo riconosce come unica autorità; mentre dopo di lui i commentatori di Aristotele aderiranno per lo più, nonostante questa loro atti44
Diog. Laert. IX. 69-70; Sext. Emp. Pyrr. Hyp. I.7, dove Sesto contrappone il modo aporetico
del fare filosofia a quello dogmatico (cfr. anche Adv. Math. VII.30). Alessandro invece, pur maestro dell’aporia, guarda positivamente la dogmãtvn kataskeuÆ, cfr. per es. De fato 165.1.
45 Compare invece, programmaticamente e non a caso, nell’esordio di Mantissa XXV (per‹ t∞w
eflmarm°nhw êjion §pisk°casyai, t€ t° §sti ka‹ §n t€ni t«n ˆntvn ktl, CAG, Suppl. Ar.
II.1. 179.25 s. Bruns): sul fato si deve indagare criticamente, per vedere che cosa sia, non per
negare che esista ma per circoscriverne il peso ed il raggio d’azione.
46 Questo rende più ardua la questione dell’autenticità degli scritti attribuiti ad Alessandro, cui si
è accennato supra, p. 11.
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vità, ad altre sette e scuole.47 Anche in questo senso, Alessandro fu considerato “l’Esegeta” di Aristotele per eccellenza.
Dopo Alessandro, sovrapponendo ai fondamenti logici e fisici dell’aristotelismo alessandrista gli sviluppi estremi di una metafisica e teologia caratteristicamente platoniche, il platonismo diviene neoplatonismo,
filosofia forte ed egemone nei secoli della tarda antichità.
A testimonianza di tale fusione, dopo Alessandro potranno essere
neoplatonici anche i commentatori di Aristotele, per esempio Simplicio. Proprio perché non aristotelico, Simplicio potrà avere anche un atteggiamento critico nei confronti di Aristotele, specie dove questi si distacca da Platone.
E ancor più critico è l’atteggiamento di Filopono, un commentatore cristiano di spiccata indipendenza intellettuale.
Costoro, tuttavia, commentarono le opere logiche e fisiche dello
Stagirita, che nei campi rispettivi detenevano un primato indiscusso; e
nel far questo consultarono contemporaneamente, ogni volta che fu loro possibile, i commenti di Alessandro.
Questo non significa che talora non dissentissero da Alessandro,
ancor più sovente che da Aristotele. Ma nella maggior parte dei casi
l’interpretazione di Alessandro fu determinante, perché stabilì le linee
portanti per la comprensione letterale del testo aristotelico, e perché
restò un punto di partenza e di riferimento, per lo più in positivo, altrimenti in chiave polemica, per l’esegesi successiva.48
Si può dire pertanto che i commenti di Alessandro furono una porta d’accesso obbligata, direttamente o indirettamente, per la lettura e
comprensione di Aristotele nei secoli che seguirono; e che al tempo
stesso Alessandro raccoglie l’eredità del passato: egli è, nell’antichità,
l’ultimo grande protagonista di un processo che, operando sull’interpretazione di testi di Aristotele, lavora alla costituzione dell’aristotelismo come corpo dottrinale autonomo e unitario, nel quale l’opinione
di Aristotele su ogni questione vuole essere codificata in modo quanto
possibile definitivo.
47
Temistio (IV sec. d. C.) appare il solo caso di commentatore posteriore ad Alessandro che faccia professione di fedeltà al testo di Aristotele, contro le speculazioni dei neoplatonici e la loro
tendenza a interpretare Aristotele alla luce di Platone, cfr. Blumenthal (1990). Temistio tuttavia è anche grande ammiratore di Platone, e usa elementi lessicali tipicamente neoplatonici; inoltre si distacca da Aristotele in più occasioni, talora apertamente, cfr. Blumenthal ibid., p. 122123. In ogni caso, Alessandro sembra erigersi alla fine di una tradizione specificamente peripatetica, come nota Sharples (1990), p. 84, n. 8.
48 Cfr. per esempio il raffronto fra i commenti di Filopono e Averroé in De gen. et corr. II.2 e le
tracce del perduto commento di Alessandro in Fazzo (2002).
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10. Sull’edizione di riferimento (Bruns, 1892) e sui criteri qui adottati
per la revisione del testo greco
Nei capitoli II, III, IV di questo libro si troverà tradotto e riportato integralmente il testo greco delle Quaestiones I.10, I.15, II.6, II.19 e II.3. Poiché il testo dell’edizione di riferimento è stato verificato, e dove necessario riveduto (i luoghi problematici addensandosi nel cap. II sulla Quaestio I.15 e nel cap. IV sulla Quaestio II.3), i criteri e gli strumenti di tale
revisione meritano di essere fatti brevemente espliciti.
Fra coloro che si sono occupati specificatamente delle Quaestiones
non v’è alcuno - si può dire - che non abbia avvertito la necessità di rivedere l’edizione corrente, curata da Ivo Bruns (1892) per l’Accademia di
Berlino nell’ambito dell’edizione delle opere minori di Alessandro (Commentaria in Aristotelem Graeca, Supplementum Aristotelicum II.2, pp. 1163). Fondamento di questa edizione è un manoscritto della fine del IX
secolo, il Marcianus Graecus Zanetti 258 (Biblioteca Marciana di Venezia,
“V” negli apparati), nel quale Bruns (“Praefatio”, pp. XV-XXVII) ravvisò la fonte, non solo primaria, ma unica dell’intera tradizione manoscritta a lui conosciuta.49 Pertanto le lezioni di V sono registrate nell’apparato di Bruns con uno scrupolo particolare (ne orthographicis quidem neglectis, com’egli stesso dice) anche quando non vengono seguite. In questo, l’edizione di Bruns presenta un enorme progresso rispetto all’illeggibile editio princeps veneziana del 1536 e a quella monacense di Spengel
del 1842. Tuttavia il testo dato alle stampe da Bruns è non di rado oscuro, talora addirittura intraducibile, soprattutto a causa dello stato lacunoso e deteriorato della tradizione manoscritta.50
Questa, come già aveva notato Bruns, sembra effettivamente derivare fondamentalmente dal MS Marc. gr. 258 (IX sec., “V” negli appa49
Il MS Veneto Marc. 258 (coll. 668), appartenente alla cosiddetta “collezione filosofica”, sembra derivare esso stesso da un esemplare in onciale gravemente danneggiato, cfr. Bruns (1889),
p. V-X, in part. VII, (1892) p. XVI-XVIII, in part. XVIII. Sulla datazione del MS Ven. Marc.
258 nella parte finale del IX secolo, piuttosto che nel X secondo la stima di Bruns, cfr. Thillet
(1976); sull’archetipo e sul prearchetipo, Thillet (1982). Nel catalogo Mioni (1981) la descrizione si trova a p. 373 s.
50 Poco chiari ai copisti, i testi sono stati probabilmente inficiati da fraintendimenti e da lacune in
fase di trasmissione. Intorno ai passaggi più ostici e meno lineari, incompresi dai copisti, si addensano infatti le più gravi corruttele, che a loro volta offuscano ulteriormente la comprensione del testo. Per rimediare a siffatte oscurità, aveva lavorato già il primo revisore del MS Ven.
Marc. 258 (il vetus corrector di cui Bruns [1892] p. VII, identico o coevo al copista medesimo);
e lavorò più tardi Bessarione, cui appartiene la seconda mano (V2 nell’apparato di Bruns) come riconosciuto da Mioni (1976) e Thillet (1982), mentre Bruns (1889) p. VIII e (1892) p. XVIII
ipotizzava che si trattasse di un dotto bizantino del XII secolo.
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rati), la cui centralità non risulta veramente smentita dagli esiti dalle ricerche più recenti.
Personalmente, nelle ricerche sinora compiute sulla tradizione manoscritta ho potuto trovare un solo manoscritto delle Quaestiones indipendente da V: il Veneto 194. Contiene solo le Quaestiones I.1, I.25, I.10,
I.15, II.23 e parte della Quaestio II.3.51
Un’altra importante fonte di varianti sono i marginalia apposti da eruditi del XVI secolo a margine di alcuni esemplari dell’editio princeps delle
Quaestiones (Venezia 1536, per i tipi di Bartolomeo Zanetti). Uno di questi
esemplari, appartenuto a uno dei più noti filologi del XVI secolo, il fiorentino Pietro Vettori, si trova ora nel fondo “vettoriano” di Monaco (Bayerische Staatsbibliothek, Res. A. gr. 27). Esso era noto anche all’editore Bruns
(1892), che ne fa ampio uso nel proprio apparato, così come Sharples (1992),
(1994). Per uniformità con l’uso corrente, ho conservato la sigla “Vict.” per
indicare tale serie monacense di annotazioni, benché per la maggior parte
esse non siano né di mano né di congettura del Vettori. La mano infatti (tranne un’esigua minoranza di interventi, precedenti nel tempo, dove effettivamente si distingue la grafia di Vettori) è quella di un collaboratore di Vettori. Questi d’altronde non sembra produrre egli stesso le note, ma le estrae
presumibilmente da una fonte manoscritta, forse da un’analoga serie di annotazioni.52 Esiste d’altronde almeno un’altra serie di annotazioni, più ric51
Anche il MS Ven. Marc. 194 (qui in seguito: T) appartenne, a quanto sembra, a Bessarione.
Questo il contenuto della sezione dedicata alle Quaestiones di Alessandro (ff. 426r 5-428v 7):
I.1 (f. 426r 6-426v 25); I.25 (ff. 426v 25-427r 18); I.10 (ff. 427r 19-427v 8); I.15 (ff.427v 8-428r
4); I.5 (f. 428r 5-28); II.23 (f. 428r 28-428v 15); II.3 (f. 428v 16-37). Il testo della Quaestio II.3
è incompleto: include solo 47.30-48.25, 48.27-29, 50.24-27 (una tale descrizione del MS Ven.
194 si trova, salvo poche rettifiche di dettaglio, nel catalogo Mioni [1981], p. 305 s.). In questo
libro presento l’ipotesi che le diverse soluzioni di uno stesso problema attestate in un unico testo possano rappresentare stratificazioni storiche, cioè momenti successivi di riflessione, cfr. supra, § 6, nn. 7, 26, 29 e infra, IV.4.1 e IV.6. Se l’ipotesi è plausibile, esiste forse la possibilità che
la redazione brevius in codice (come dice il catalogo Mioni) della Quaestio II.3 non derivi dal
testo integrale, quale noi lo conosciamo, sforbiciato più o meno casualmente per ragioni di spazio (come peraltro la disposizione del testo nella pagina potrebbe lasciar sospettare); sembra infatti che il MS Ven. Marc. 194 raccolga una redazione precedente della Quaestio stessa, prima
che ne fosse formulata la soluzione ultima. Il confronto fra il testo del MS Ven. Marc. 194 e
quello del MS Ven. Marc. 258 stampato da Bruns può mostrare che il redattore dell’ultima soluzione non si limita ad aggiungere una nuova sezione, ma lavora anche sulla redazione precedente e sulla “soluzione” ivi attestata, che modifica nei dettagli per produrre un testo più coeso e una successione logica più efficace.
52 Lo suggerisce il confronto con le annotazioni, molto simili, ma non derivate da quelle vettoriane, apposte dal bibliofilo genovese Giovanni Vincenzo Pinelli (1538-1601) sui margini di un altro esemplare della stessa edizione del 1536 (Milano, Biblioteca Ambrosiana, S. R. 454) (per l’identificazione della mano di Pinelli, cfr. Bibl. Ambr. Inc. 374 1-12 con Fazzo [1999.2], p. 74).
Il carattere derivativo di buona parte delle note dette vettoriane sembra d’altronde confermato dal confronto con le note braidensi, cfr. n. seg.
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ca, ma in parte simile, apposta sull’esemplare dell’editio princeps di Milano,
Biblioteca Nazionale Braidense, B. XVI. 6.078. Nell’apparato cito queste note come “Braid.”; la mano è quella di Ottaviano Ferrari.53
Ho dunque riveduto direttamente i testi delle Quaestiones I.10, I.15,
II.3 sui principali manoscritti veneti (V, B, S)54; dei restanti manoscritti
già esaminati da Bruns, ho tenuto conto indirettamente, tramite l’appa53
Sulle note braidensi alle Quaestiones e sulla loro relazione con quelle vettoriane, cfr. Fazzo
(1999.2), in part. per l’identificazione della mano di Ottaviano Ferrari cfr. l’Addendum di p. 74
s. (cui fa riferimento l’errata corrige alle didascalie delle tavole 3.2a-b-c). Ottaviano Ferrari
(1508-1586) fu docente presso lo Studio di Pavia fra il 1545 e il 1548 in logica e fra il 1548 e il
1557 in filosofia, a quanto risulta dai ruoli dello Studio di Pavia (1531-1562), facoltà di arti e
medicina, pubblicati in Fazzo (1999.3). Per l’identificazione della mano di Ferrari sull’esemplare braidense delle Quaestiones, cfr. per es. la lettera firmata legata dopo il f. 209 nel volume
Bibl. Ambr. inc. 373/e. Ad un esame dettagliato, le note di Ottaviano Ferrari (variae lectiones e
loci paralleli soprattutto) risultano prodotte in varie riprese, e sembrano pertanto attestare una
riflessione sul testo protratta e reiterata nel tempo; ad esse si affiancano, stupefacentemente simili, le note, anch’esse poste a più riprese, da una grafia diversa (per ora anonima), su di un altro esemplare dell’editio princeps: Milano, Biblioteca Ambrosiana S. R. 456/2, come segnalato
in Fazzo (1999.2), p. 74.
54 Il codice B = Ven. Marc. 261 (coll. 725, XV sec., cfr. Mioni [1981], p. 376 s.) esce dallo scriptorium del Bessarione, che ne scrive egli stesso molte pagine (non però quelle contenenti le Quaestiones). Sembra derivare dal pure bessarioneo Ven. 258 in modo diretto, nonostante le perplessità di Bruns (1892) p. XIX. Queste riguardano un passo della Quaestio II.10, 55.14 s., che
in V è chiaramente corrotto, e viene corretto da V2, e poi ulteriormente da B. Bruns infatti ritiene che la relazione fra V e B in quel passo escluda la derivazione diretta e presupponga un
intermediario. Se tuttavia si tiene presente ciò che Bruns non sapeva, cioè che la seconda serie
di correzioni su V - negli apparati, V2 - è di Bessarione, la relazione fra V e B su 55.14 s. si può
spiegare forse altrettanto bene con la volontà del copista di B (che lavorava al servizio del Bessarione) di seguire nell’intendimento e di perfezionare l’intervento sul testo di V2, che è la mano del Bessarione. Questo peraltro non esclude la contaminazione con altri codici, suggerita talora dalla concordanza con il MS Ven. 194, pure posseduto da Bessarione (cfr. per es. infra, §
II.3.5, in part. in Quaestio I.15. 27.14, e n. 268). Poiché non sono mancati studi sulla presenza
della mano del Bessarione nei manoscritti della Biblioteca Marciana (cfr. in part. Mioni [1976]
con l’intero volume nel quale tale contributo si trova incluso) merita di essere segnalato, come
apparentemente non rilevato sinora, che le note marginali su B (Ven. 261), che Thillet (1982)
riconosce come parzialmente derivative dalle note marginali su V, sono anch’esse della grafia
del Bessarione. Per quanto riguarda S = MS Ven. Marc. app. IV, 10 (coll. 833), cfr. Mioni (1972)
p. 204: datato da Mioni all’inizio del XVI secolo, da Thillet (1982) p. 49 al XV secolo, S sembra derivato da V per via differente da quella di B, e in modo non diretto, come suggerisce la
parentela con altri descripti (G, F, L nell’edizione di Bruns). Calligrafico ma molto scorretto, S
condivide molti degli errori dell’editio princeps (1536). Nelle sue correzioni (S2) questo manoscritto tiene conto delle correzioni bessarionee su V (V2), che trascura invece, come nota Bruns,
nel corpo del testo. Se questo è vero, può essere indizio che la derivazione di S da V sia avvenuta, se pure indirettamente, prima dell’intervento di Bessarione su V (oppure bisogna ipotizzare che la prima mano di S abbia deliberatamente ignorato V2). A differenza da V e B, d’altronde, S non fa parte del fondo originario della Biblioteca Marciana, costituito dal lascito bessarioneo, ma vi fu acquisito nel 1789 con la soppressione della biblioteca domenicana di SS.
Giovanni e Paolo in Venezia. Le indagini parziali sin qui svolte non smentiscano per ora la valutazione di Bruns, almeno per quanto riguarda i codici noti che contengono l’intero corpus delle Quaestiones: nonostante qualche dubbio su B (cfr. n. seg. per il De fato, e la concordanza sal-
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rato di quest’ultimo55; ho fatto uso del codice Veneto Marciano 194, sfuggito all’attenzione dei precedenti editori; delle edizioni a stampa (Trincavelli 153656, Spengel 1842); delle due principali serie di annotazioni manoscritte cinquecentesche, conservate in margine all’esemplare monacense (“Vict.”) e all’esemplare milanese braidense (“Braid.”) dell’editio
princeps del 1536, che come accennato potrebbero conservare traccia, oltre che di un’attenta revisione congetturale, di una tradizione manoscritta comune, forse indipendente da V
Sono stati utili inoltre gli studi specifici di Bruns e di quanti dopo Bruns
si sono occupati dei singoli testi. In particolare, già pochi anni dopo la comparsa dell’edizione di Bruns, dobbiamo a Otto Apelt (1894) una serie di
proposte di emendamento, asciutta nella presentazione (è proprio una semplice lista), ma utile e talora geniale nel talento filologico. Compaiono in
Apelt per la prima volta, per questi testi, ipotesi esplicative della genesi dell’errore: alcuni errori importanti deriverebbero, come Apelt mostra convincentemente, dalla copiatura in carattere minuscolo di testi precedentemente scritti in onciale maiuscolo (anteriori dunque al IX secolo), cioè in
caratteri maiuscoli scritti senza spiriti né accenti né divisione delle parole.
I suggerimenti di Apelt si trovano ripresi, insieme a proposte ulteriori, in
un articolo di Moraux (1967) sulla sola Quaestio II.3. Per l’intera raccolta,
tuaria con T per le Quaestiones), nulla ancora smentisce sostanzialmente la tesi che essi derivino in qualche modo tutti interamente da V. Per quanto invece riguarda i pochi testi del Ven.
Marc. 194, e per quanto riguarda le diverse serie di marginalia, le quali potrebbero avere una
fonte comune, non è detto che si debbano escludere ipotesi diverse.
55 I manoscritti diversi da quelli veneti V, B, S e T consultati da Bruns sono stati qui citati solo
molto sporadicamente in quanto poveri di interesse autonomo, e in modo derivativo, cioè tramite l’apparato del volume di Bruns (1892). Più in generale, l’edizione e la “Praefatio” di Bruns
de codicibus Quaestionum resta tuttora di riferimento nonostante le diverse ragioni che ne richiederebbero la revisione. Il succinto apparato di note con indice alfabetico qui infra presentato in calce ai testi greci si limita comunque a segnalare, dove necessario (cap. II § 3, cap. IV),
gli interventi da noi operati rispetto all’edizione di Bruns e pochi altri casi specialmente dubbi
o controversi. Poiché molti dei codici che contengono le Quaestiones sono anche gli stessi che
contengono il De fato, è utile Thillet (1982). Fra i manoscritti greci, Thillet (che presta particolare credito anche alla versione latina del De fato di Guglielmo di Moerbeke, come derivata da
un diverso archetipo in onciale) sembra riconoscere come realmente utili solo V e B (p. 56).
Non prende tuttavia partito in modo definitivo sul carattere derivativo di B da V (p. 29 ss.): pur
riconoscendo il carattere congetturale di molte varianti di B, vi reperisce anche tratti di parentela con la versione di Guglielmo di Moerbeke. Sulla tradizione del De mixtione di Alessandro,
che pure presenta elementi di affinità con la tradizione delle Quaestiones, cfr. Montanari (1971).
56 L’editio princeps del 1536 (cfr. qui infra, “Conspectus siglorum”) è particolarmente vicina al codice S, le cui correzioni di seconda mano (S2) sembrano integrarvisi con quelle di B (B2). Bruns
comunque tende a escludere una derivazione diretta dell’editio princeps da S. In ogni caso, Trincavelli sembra essersi servito di codices descripti piuttosto che direttamente di V. Il testo così costituito, sovente insostenibile, come evidenziato dai marginalia dei suoi primi fruitori (cfr. supra, p. 38 s.) è di poca o nessuna utilità ai fini dell’edizione critica.
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il contributo più recente si trova in Sharples (1992), (1994), in appendice
alla traduzione inglese. Tali “Notes on the Texts” di Sharples sono utili anche per conoscere la tradizione precedente, che in esse si trova riassunta. A
tutti questi farò riferimento nelle note di apparato. Quanto alle osservazioni sul testo greco che ho già proposte nei miei precedenti lavori (in particolare [1988], Fazzo-Zonta [1999]) non trovo utile citarle espressamente,
anche se restano valide, perché in qualche modo rifluiscono nelle indagini
più approfondite che qui verranno sviluppate.
Nelle note dell’apparato al testo greco (indicate con lettere dell’alfabeto minuscole) mi limito comunque a segnalare le variazioni che ho introdotto rispetto all’edizione di Bruns e pochi altri casi dubbi o controversi. Eventuali note giustificative delle scelte testuali sono apposte in calce alla traduzione, con rimandi alle corrispondenti note al testo. Eccetto
casi particolarmente significativi, non è stata segnalata la revisione della
punteggiatura. La scansione in paragrafi del testo greco, assente nell’edizione di Bruns, asseconda quella della traduzione contestualmente proposta, in modo che le corrispondenze siano più visibili.
Per uniformità con il resto della letteratura secondaria, il testo a fronte qui presentato si riferisce costantemente alla numerazione delle pagine e delle righe nell’edizione di Bruns, e mantiene le stesse sigle per indicare i manoscritti già noti a Bruns, e la prima edizione a stampa (convenzionalmente, “a”).
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Conspectus siglorum
Fonti manoscritte
V
Venetus Marcianus 258
B
Venetus Marcianus 261
F
Neapolitanus III D 12
G
Mutinensis Estensis III G 6
H
Hauniensis Fabricianus 88
S
Venetus Marcianus append. A. IV
T
Venetus Marcianus 194
Braid. note manoscritte di Ottaviano Ferrari (Milano, 1508-1586) in margine all’esemplare dell’editio princeps di Milano, Biblioteca Nazionale Braidense, B XVI 6.078
Vict.
note manoscritte (sec. XVI) in margine all’esemplare dell’editio princeps di Munich,
Bayerische Staatsbibliothek , Res. A. gr. 27
Edizioni a stampa
a
(editio princeps) Quaestiones Alexandri Aphrodisiensis naturales, de anima, morales (…)
[Venetiis in aedibus Bartholomaei Zanetti Casterzagensis, aere vero et diligentia I. F. Trincaveli mense Aprili] 1536
Spengel (ed.), München 1842
Bruns (ed.), Berlin 1892
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Capitolo I: “La materia e la forma”
1. Introduzione
1.1. Quaestiones sulla materia
Benché non sia mai al centro dell’attenzione né nei trattati di Alessandro,
né in quelli di Aristotele, il concetto di materia è discusso frequentemente
e da vari punti di vista nella raccolta di opuscoli che chiamiamo Quaestiones. Vi si dedicano almeno dieci opuscoli conservati nel primo e nel
secondo libro:
I.5 (p. 13.9-32 Bruns): “Perché l’accrescimento è solo secondo la forma,
non secondo la materia”;
I.8 (pp. 17.7 - 19.15 Bruns): “La forma non è nella materia come in un
sostrato”;
I.10 (pp. 20.16 - 21.11 Bruns): “Come se le cause sono quattro, non sarà
materia anche il sostrato dei (corpi) divini”;
I.15 (pp. 26.28 - 27.29 Bruns): “Se nei corpi divini ci fosse la stessa materia, anch’essi sarebbero corruttibili”;
I.17 (pp. 29.30 - 30.22 Bruns): “La forma non è nella materia come in un
sostrato”;
I.24 (pp. 37.14 - 39.7 Bruns): “Esegesi del passo alla fine del primo libro
della Fisica, nel quale (Aristotele) dice che una volta trovata la materia, si risolvono anche le aporie degli antichi”;
I.26 (pp. 41.20 - 43.17 Bruns): “In che modo stia la forma nella materia,
se in sé o per accidente”;
II.7 (pp. 52.20 - 53.30 Bruns): “Che cosa sarà la materia, se per effetto
della privazione è priva di qualità e configurazione, mentre per effetto della forma è lavorata e configurata”;
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II.12 (p. 57.7-30 Bruns): “Il fatto che i corpi possano contrarsi in se stessi non dimostra che i corpi possano compenetrarsi”;57
II.28 (pp. 77.31-79.18 Bruns): “La materia non è un genere”.
Inoltre la Quaestio II.3 (“Quale potere s’ingenera dal movimento del
corpo divino nel corpo mortale e soggetto a generazione ad esso adiacente?”) contiene indicazioni importanti sulla materia e sul rapporto fra
materia ed anima, che saranno citate all’occorrenza già in questo capitolo, soprattutto nel § 3 (mentre la Quaestio II.3 nel suo complesso sarà analizzata più oltre nel cap. IV). Notevole è dunque l’incidenza di questo tema nella raccolta: il novero delle Quaestiones sulla materia è secondo solo a quello delle Quaestiones sull’anima.
D’altra parte sei Quaestiones sull’anima del secondo libro discutono
il rapporto fra anima e corpo:
II.8 (p. 54.1-18 Bruns): “In che senso la definizione dell’anima ‘entelechia di
un corpo naturale organico che ha la vita in potenza’ non è tautologica”;
II.9 (p. 54.19-31 Bruns): “In che senso l’anima non è un relativo, se è entelechia di un corpo siffatto”;
II.24 (pp. 74.31 - 76.10 Bruns): “Esegesi di un passo del II° libro del De
anima di Aristotele, poco dopo l’inizio: ‘Diciamo che la sostanza è
un genere degli altri enti, e che della sostanza fanno parte sia la materia, che di per sé non è nulla di determinato; sia la forma, che è già
qualche cosa di determinato; e come terzo ciò che è costituito di materia e forma’ ”;58
II.25 (p. 76.11-23 Bruns): “Esegesi di un passo del II° libro del De anima di Aristotele: ‘Non di un corpo siffatto è quiddità e forma l’anima, ma di un corpo naturale che ha in sé principio di movimento e
quiete’ ”.59
II.26 (p. 76.24-33 Bruns): “Altro passo dallo stesso libro: ‘Ma il seme e il
frutto sono in potenza il corpo siffatto’ ”.60
II.27 (p. 77.1-30 Bruns): “Altro passo dallo stesso libro: ‘Diciamo dun57
L’opuscolo ha come argomento centrale il fatto che la materia di per sé non si può contrarre,
cfr. 57.15 ss.
58 Arist. De anima, II.1. 412a 6-9.
59 ibid. II.1. 412b 15-17.
60 ibid. II.1. 412b 26 s. Esordisce il breve testo: “Da questo passo si può mostrare ottimamente che l’anima non è in un sostrato”. È evidente l’affinità di tema e di posizione con i testi discussi infra, § 4.
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que, cominciando l’indagine del trattato, che l’animato differisce dall’inanimato per l’avere vita’ ”.61
Anche queste si configurano pertanto come casi particolari della discussione sul rapporto fra forma e materia: il De anima di Aristotele, cui
Alessandro fa costante riferimento, dice infatti che l’anima è forma del
corpo. Una di queste, la Quaestio II.24 (esegesi di Aristotele, De anima
II.1. 412a 6) parla anzi più di materia che di anima: si apre infatti con una
distinzione fra materia prossima e materia prima (cfr. qui infra, § 3.2).
Così, il problema della materia, che non è oggetto specifico di alcuna altra opera nota di Alessandro (nonostante qualche digressione nei
commentari, di cui più oltre si dirà) appare importante e in qualche modo centrale nelle Quaestiones, dove l’esegeta, senza curare l’immagine
pubblica della scuola,62 si rivolge al pubblico ristretto dei maestri e degli
addetti ai lavori.63 Ma a che cosa si deve questa differenza? Perché ciò che
è in secondo piano sulla scena assume un ruolo prioritario dietro le quinte? La risposta non è semplicissima, ma le pagine che seguono cercheranno di dare indicazioni quanto possibile nitide a questo riguardo.
A questo scopo bisogna innanzitutto esaminare quali problemi di
fondo attraversino questi testi, al di là dei singoli interrogativi che cia-
ibid. II.2. 413a 20. L’opuscolo tratta dell’anima come sunamfÒteron di forma e materia, conformemente alla dottrina tenuta da Alessandro a questo riguardo negli altri testi esaminati infra, §§
3.2 ss.
62 Sul peso della concorrenza fra scuole e della rivalità fra correnti filosofiche nei trattati di Alessandro, cenni supra, “Introduzione”, § 2 e in Fazzo-Zonta (1999), pp. 7 s., 18, 21 s., 25 s.
63 Il tema della relazione fra forma e materia percorre in senso trasversale l’opera di Alessandro.
Fra le numerose digressioni ad esso dedicate, la maggiore è quella introduttiva al De anima (2.2511.13, cfr. infra, § 2.1) che prepara e introduce il tema dell’anima come forma del corpo. Lo
stesso tema compare sovente anche nelle soluzioni finali delle aporie sia nelle Quaestiones (per
esempio, fra quelle qui esaminate, la Quaestio I.24 e nella Quaestio II.3) sia all’interno dei commentari, per es. Alex. in Met. 159.9-26, 165.4-16, cfr. anche 31.1-5, (sovente, più in generale,
Alessandro introduce l’opposizione fra e‰dow e Ïlh là dove essa non compare in questi termini in Aristotele, cfr. per es. in Met. 42.20-43.9, 43.11-45.9, 157.23-7, 211.20-213.23, 214.23-29,
215.32-216.11, 308.1-10). Anche nel commento al libro Lambda, cap. 7 della Metafisica, commentando il passaggio dove Aristotele dimostra le prerogative del motore immobile con un criptico argomento per sustoix€a (1072a 30-b 3), Alessandro, come attesta Averroé (in Met., p.
1601-2 Bouyges, frammento 29 Freudenthal), dopo aver riportato tre interpretazioni, per quarta ed ultima propone che la serie (sustoix€a) positiva di cui parla Aristotele sia quella della
forma, intellegibile in sé, contrapposta alla sustoix€a della materia, conoscibile soltanto in relazione alla prima. Peraltro, se la nostra ipotesi sul metodo delle soluzioni multiple è corretta,
sembra che in questo caso la soluzione proposta da Alessandro fosse già preparata all’interno
della scuola, come si vede in particolare dalla terza e penultima interpretazione, secondo la quale la serie o sustoix€a positiva sarebbe quella della forma, intesa come ciò cui non è mescolata la privazione, contrapposta alla serie della privazione.
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scuno di essi affronta. Esiste infatti una specificità delle Quaestiones concernenti la materia: percorre questi testi, ove più, ove meno distintamente, una sorta di continuità e di convergenza nelle tendenze generali, che
riguarda i problemi, gli strumenti logici e linguistici, le soluzioni prospettate e gli esiti che ne risultano.
1.2. Univocità del lessico
Una prima osservazione è di carattere lessicale: in tutti gli opuscoli di Alessandro sulla materia, costantemente, si trova usato proprio il termine “materia” (Ïlh). Questo è notevole soprattutto se confrontato con gli usi di
Aristotele. Chiamare la materia “Ïlh” - com’è noto - è sostanzialmente
un’innovazione aristotelica;64 ma non costituisce ancora nelle opere di
Aristotele un’abitudine stabile: vi compaiono anche locuzioni alternative,
che sarà poi la scuola a trascrivere come Ïlh. Fra le più ricorrenti: tÚ
Ípoke€menon (il “sostrato” fisico del divenire), tÚ kay’ o65 (il sostrato
del quale si predicano le determinazioni) e soprattutto tÚ §j o (letteralmente: “ciò a partire da cui” le altre cose sono fatte), locuzione peculiare e ricorrente nell’analisi del processo causale, soprattutto se condotta
per analogia con la produzione degli oggetti artigianali.66
D’altra parte, il termine stesso Ïlh, quando pure viene impiegato,
non è usato, definito, parafrasato da Aristotele sempre allo stesso modo:
Ïlh è ciò-che-è-in-potenza (tÚ dunãmei), è il ricettacolo (tÚ dektikÒn)
dei contrari, è il ricettacolo della forma e della privazione, è il sostrato passivo; ed è il sostrato della divisione anche in senso logico: il g°now infatti
è materia delle definizioni.67
L’elaborazione di una dottrina sistematica, cui Alessandro si adopera,
presume invece e richiede l’unità e l’univocità dei termini e dei concetti. Il
caso del termine Ïlh esemplifica bene questa esigenza: c’è una tendenza all’uniformità lessicale, già fortemente attestata nella scuola prima di Alessandro, che porta a trascrivere uniformemente come Ïlh le diverse locuzioni
aristoteliche che afferiscono all’ambito di ciò che tuttora noi chiameremmo
materia. Questo non elimina l’originaria varietà di funzioni che tali diverse
espressioni erano chiamate a ricoprire: almeno in alcuni contesti, l’esegeta
Cfr. già Engel ap. Bonitz, s. v. Ïlh; Happ (1971) p. 276 s., Solmsen (1961).
Cfr. per esempio Met. VII.3. 1028b 36 s.
66 Cfr. e. g. Phys. I.3. 186a 19 ac saepe. Sul carattere funzionale dei concetti (incluso quello di materia) che esprimono i principi della fisica aristotelica, e sul peso dell’analisi linguistica nella loro formazione, cfr. Wieland (19702). Fra i modi per indicare la materia in Aristotele, si può annoverare anche tÚ dunãmei s«ma afisyhtÚn in De gen. corr. II.1.329a 34.
67 Cfr. infra, § 2.5.
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dovrà fare il cammino a ritroso, scomporre cioè una tale convergenza lessicale distinguendo nei pollax«w legÒmena, come faceva Aristotele, i diversi sensi e modi nei quali si intende un unico termine (per esempio Ïlh come
sostrato della forma e della privazione o come sostrato dei contrari, come causa materiale o come ricettacolo).68 L’unità tuttavia si mantiene o comunque
si recupera prescegliendo e distinguendo fra tutti un significato principale e
prioritario, definito, di per sé, in modo univoco e non equivoco.
I problemi e gli ostacoli che una tale selezione comporta non sono
ancora risolti all’altezza cronologica di Alessandro, bensì si trovano discussi e affrontati, per l’appunto, nelle Quaestiones. Già questo di per sé
potrebbe motivare che si trovino dedicati al problema della materia molti di questi opuscoli di scuola. Le Quaestiones attestano infatti nei dettagli quale travaglio abbia comportato l’intento di trovare in Aristotele, letto attraverso il secolare magistero esegetico dei peripatetici precedenti
Alessandro, una definizione precisa e un uso sistematico sia per il concetto di materia sia per quelli ad esso più direttamente correlati.
1.3. Omologazione delle strutture dottrinali
L’univocità e l’uniformità perseguite dalla scuola sono d’altronde strumento di una tendenza ancora più generale e ancora più problematica: la
tendenza alla omologazione, a equiparare cioè i diversi schemi, includenti una nozione di materia o sostrato, che erano stati prospettati da Aristotele nell’ambito di temi e contesti diversi, a spiegazione del divenire in
natura e della costituzione dei corpi naturali.
1.3.1. Il concetto di materia come strumento di soluzione delle aporie
È proprio qui che nascono alcune sostanziali aporie, attestate in Alessandro come ancora almeno in parte da risolvere.
Quale è infatti il rapporto fra i due diversi schemi triadici attestati in
Aristotele, quello cioè che comprende materia (tÚ Ípoke€menon), forma
e privazione, e quello secondo il quale la trasformazione è passaggio da
un contrario all’altro da parte della materia, terzo elemento oltre a questi
contrari? Tale è l’aporia affrontata dalla Quaestio II.11.69
68
69
Cfr. supra, p. 24 n. 21.
Cfr. in part. l’esordio: “Perché ciò che si genera mutando dalla privazione muta al tempo stesso dal proprio contrario, se davvero la privazione e il contrario non sono la stessa cosa? (…)
Forse causa di questo è la materia…” (Quaestio II.11, 55.21-23, 55.24-25 Bruns). Cfr. infra, §
3.1.4. Il primo schema aristotelico qui sopra menzionato è attestato per esempio in Fisica I.7 e
in Metafisica XII.4. 1070b 11-21; per il secondo, cfr. De gen. et corr. II.1 329a 24-26. Entrambi
si trovano in Phys. I.7. 190b 27- 191a 7.
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E che relazione c’è fra lo schema - frequente in Aristotele - che presenta la generazione come un passaggio dall’atto alla potenza (passaggio
il cui soggetto ovvero sostrato, implicitamente o esplicitamente, deve intendersi come materia); e lo schema, pure aristotelico e sovente preferito
da Alessandro, che gioca sulla distinzione fra privazione (che in sé è “nonente”) e materia (“ente” in sé, cui però inerisce il “non-ente”, per l’appunto la privazione)? Aristotele accenna al problema in Fisica I.8; ma è
Alessandro ad affrontarlo in modo approfondito, sia nel suo commentario alla Fisica ora perduto, del quale ci porta testimonianza Simplicio, sia
nella Quaestio I.24 (cfr. infra, § 2.4.2).
Altrove, nella Quaestio I.10 (cfr. infra, cap. II), l’esegeta cerca in che
modo si possa applicare, non solo sul mondo sublunare ma anche sui corpi celesti, quello schema delle quattro cause del divenire, che la scuola aveva estratto in forma ormai irrigidita da Aristotele, Fisica II.2 - schema nel
quale Ïlh compare ormai stabilmente in luogo della causa nel senso di tÚ
§j o. Resta invece in secondo piano quest’ultima espressione, e non a caso. Essa infatti, pur largamente attestata in Aristotele, indica però a rigore
il materiale della produzione artistica, o comunque qualche cosa che esista
prima del processo generativo: presuppone infatti, anche sintatticamente,
la determinatezza dell’antecedente cui si riferisce il pronome relativo o.
Similmente, anche il sostrato, tÚ Ípoke€menon, in quanto è sub-stratum (Ípo-ke€menon), in quanto cioè soggiace, sembra esigere una sua, per
quanto inqualificata, corporeità: altrimenti, come potrebbe produrvisi la
forma?70 Solo così si comprende l’insistenza di Alessandro nel negare che
la materia sia un sostrato cui inerisce la forma (Quaestiones I.8, I.17): ciò
che si trova in un sostrato non contribuisce infatti all’essenza del sostrato,
mentre la forma contribuisce all’esistere della materia (Quaestio I.26).71
A più riprese e in vari modi, ove si tratta di mettere in relazione tali diverse strutture concettuali, Alessandro attribuisce un ruolo decisivo alla re-
70
Già in Teofrasto, i cenni allusivi di Metafisica, 8a 8-20, che pure sembrano esprimere uno stadio relativamente incoativo di questa riflessione, attestano comunque una coscienza già precisa del carattere problematico del concetto filosofico di materia e soprattutto l’esigenza di conciliare l’ Ípãrxein kat’ aÈtÆn della materia con l’assenza in essa di qualsiasi determinazione
formale, qualitativa e quantitativa. Anche in questo, Alessandro mostra di muoversi su di un
filone evolutivo che ha in Teofrasto un punto di riferimento importante. È questa stessa, verosimilmente, la difficoltà che porta gli aristotelici posteriori a introdurre la nozione di deÊteron Ípoke€menon, cioè un sostrato per così dire penultimo; il quale, rispetto a quella nozione, totalmente negativa e indeterminata, di materia prima, trae una sua forma di consistenza e tangibilità dall’estendersi nelle tre dimensioni: tale deÊteron Ípoke€menon è detto anche
êpoion s«ma, cfr. Proclo, in Tim. I.387.5-17, Simpl. in De caelo 134.9 s. con De Haas (1995),
p. 108 s. e n. 151.
71 Su “Materia e sostrato” cfr. infra, § 4.1.
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lazione fra forma e materia, e in particolare all’approfondimento e alla precisazione del concetto di materia: direttamente, la Quaestio II.11 pone la causa dell’aporia nella materia (“forse causa di questo è la materia…”, 55.24 s.);
nella Quaestio II.7, l’aporia porta direttamente sulla definizione di materia,
così che l’opuscolo esordisce “Che cosa sarà materia…?” (52.23-25); il titolo della Quaestio I.24, che ne sintetizza l’orientamento generale, dice che l’aporia in esame si risolve “una volta trovata la materia” (37.15-6).
1.3.2. Definizioni diverse di materia a confronto
Talora sono messe a confronto due possibili definizioni o concezioni della
materia: in uno dei testi già menzionati, nella Quaestio I.10, la soluzione consiste nel passaggio da una definizione di materia più precisa ad un’altra più
comprensiva (20.32-21.5); e nella Quaestio I.24 l’esegesi che Alessandro propone del passo aristotelico (Fisica I.8, 191a 23 ss.) consiste nel mettere a fuoco e distinguere due concezioni della materia usate da Aristotele per risolvere, in due modi, l’ “aporia degli antichi”. Nella Quaestio II.28 il concetto
di materia è invece messo a confronto con quello di “genere”: sono sottolineate da una parte le similarità, dall’altra le differenze fra materia e genere,
onde evitare che si attribuisca anche alla materia una natura meramente logica, e non fisica, come è proprio del genere: la materia invece, benché non
sussista mai separata, esiste e non è solo una costruzione del pensiero.72
Evidentemente, tali discussioni sono importanti per definire anche
altri concetti attigui e in qualche modo complementari a quello di materia: è nella reciproca relazione infatti che questo e quelli trovano definizione. Così, i concetti di materia, forma, privazione, contrari, “non essere” ed “essere”, in sé e per accidente vengono distinti fra loro e al tempo
stesso connessi in un’unica prospettiva sistematica.
A monte, prima ancora degli schemi concettuali ereditati da Aristotele, è importante, come lo era già stato per Aristotele, il modello platonico,
consegnato alla pagine centrali del Timeo (49a - 52d): un testo che sia Alessandro che Aristotele citano come punto di riferimento, perfettibile ma fondamentale, per la teoria della materia. Il presupposto di un tale richiamo dottrinale al Timeo platonico è la sostanziale identità fra la materia aristotelica
e ciò che Platone chiama “ricettacolo” (ÍpodoxÆ, pandex°w): un qualche
cosa che non si percepisce con i sensi né direttamente si conosce, ma piuttosto viene indirettamente evocato come luogo (x≈ra)73 dell’esistenza sen72
Cfr. infra, § 2.5.
73
Cfr. Pys. IV.2. 209b 6-13; infra, § 3.1.1, p. 80. Sulla relazione fra il Timeo e il concetto di materia in Aristotele, cfr. Happ (1971), pp. 121-130.
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sibile. Nelle Quaestiones, in particolare, il Timeo viene citato quando, per
mostrare la natura eminentemente intellegibile della forma, Alessandro sottolinea per converso la difficoltà fondamentale di conoscere o anche solo di
pensare la materia, dal punto di vista della teoria aristotelica della conoscenza.
2. Il problema gnoseologico della materia
I lineamenti generali di tale teoria si trovano riassunti nella prima parte
della Quaestio I.25 (39.13-31): la conoscenza è un processo di assimilazione, nel quale l’intelletto conoscente si identifica con la forma dell’oggetto conosciuto; pertanto solo la forma senza materia è intellegibile e conoscibile. La forma è intellegibile in sé, e lo è primariamente se è forma
immateriata, secondariamente se è forma materiata: il tal caso infatti la
forma è intellegibile solo in quanto, per astrazione dalla materia, può essere considerata immateriata. Così riassume Alessandro:
Ciò che è intellegibile al massimo grado è la forma senza materia. Una tale
sostanza è infatti intellegibile per sua stessa natura, mentre le forme materiate sono sì intellegibili, ma non per natura loro e non in sé, bensì perché l’intelletto che
le pensa le rende intellegibili, separandole con il pensiero dalla materia e assumendole come se fossero a sé stanti. Infatti la forma separata da ogni materia e
da ogni potenza è intellegibile propriamente e per sua natura.74
Per converso, e per definizione, materia è allora ciò che, negli esseri
naturali, non è adatto ad essere conosciuto: è il residuo che resta, dopo
che per astrazione se ne sia separato ciò che è conoscibile - e questo, per
definizione, è la forma. Forma, evidentemente, si intende in un senso molto comprensivo: ponendo la forma, per opposizione alla materia, come
intellegibile in senso proprio (kur€vw), si attribuiscono alla forma tutte
quelle determinazioni che sono passibili di essere conosciute in senso proprio e che sono analizzate secondo la tradizione aristotelica nei termini
delle Categorie: oÈs€a, qualità, quantità e così via. Tutto questo - non solo dunque la configurazione esteriore (sx∞ma), ma tutto ciò che può essere conosciuto - è forma, non materia. Come dunque conoscere la materia, o anche semplicemente parlare di essa?
74
Quaestio I.25, 39.14-19; in part. 39.18-19: tÚ går pãshw Ïlhw ka‹ pãshw dunãmevw e‰dow kexvrism°non tª aÍtoË fÊsei nohtÒn §sti kur€vw, cfr. più diffusamente De anima 86.14-88.16, De
princ. §§ 101-104 Genequand; l’accordo reciproco dei passi di Alessandro che parlano della conoscenza mostra che in proposito l’esegeta dispone di una dottrina stabile, fondata su Arist. De anima III.4 (in part. 429a 10-29, 429b 23-430a 9) ma largamente precisata nei dettagli e nelle implicazioni. L’elaborazione attestata in Alessandro, qui una volta di più, comporta un’accentuata centralità dell’opposizione fra forma e materia prima (cfr. supra, n. 63), ad ampio sviluppo della distinzione di Aristotele 430a 3-9 fra enti sensibili ed enti senza materia.
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2.1. La via analogica
Della difficoltà di conoscere la materia, per contrasto con la naturale conoscibilità della forma, parla un passo della Quaestio I.1. Siamo in uno di
quegli excursus esplicativi - molto breve, in questo caso - cui sembra quasi incidentalmente consegnato ciò che Alessandro considera patrimonio
dottrinale della scuola, acquisito e indiscusso, valido dunque come solida premessa per ulteriori ricerche e argomentazioni.
Intellegibile in senso proprio è la forma (kur€vw nohtÚn tÚ e‰dow.,
4.9): infatti la materia, poiché non è in atto nessuno degli esseri, è intellegibile per analogia, e come dice Platone, “per ragionamento ibrido”,75
mentre la forma è intellegibile poiché è qualcosa in atto.76
In termini molto vicini a questi ma più ampiamente, si esprime, ancora in un inciso di analogo carattere, un passo del commento di Alessandro in Metafisica II.2. 994b 25 s.
L’occasione viene da un’osservazione di Aristotele, “la materia si può
conoscere solo in ciò che si muove”:77 non dunque di per sé, ma solo nell’insieme con ciò che ha materia e movimento. Scrive allora Alessandro:
Infatti [la materia] può essere oggetto di opinione e non di scienza (dojastØ gãr §sti ka‹ oÈk §pisthtÆ). Come dice Platone, è conoscibile per un ra-
“Ibrido”: nÒyow, più letteralmente: “bastardo, adulterino”: non a caso, in Platone, il termine è
violentemente spregiativo; cfr. Tim. 52b 3, e per l’argomento più in generale 49a 2 ss. La metafora della famiglia e del figlio adulterino è preparata in 50a 1-3: il ricettacolo, la forma e ciò
che si genera da entrambi si possono paragonare a madre, padre e figlio. Per questo il ragionamento sul ricettacolo, che è madre senza padre, sarebbe un ragionamento in qualche modo “bastardo”. Va tenuto presente tuttavia che Platone non chiama il recettacolo “materia”, Ïlh, bensì ÍpodoxÆ - il termine Ïlh prende infatti questo significato soprattutto con Aristotele (cfr. supra, § I.1.2); nondimeno il passo del Timeo 52b viene citato, in riferimento alla materia e al suo
non essere conoscibile in sé, in Alessandro (nei passi qui tradotti da Quaestio I.1 e dal commento in Met. II.1) e già prima di Alessandro, per esempio in Alcinoo, Did. VIII, 162.32. La
stessa citazione dal Timeo con lo stesso significato si trova anche più tardi in Temistio, Paraphr.
in De anima, l. VI, p. 111.24-26 (in Arist. De anima III.6): “questa sarebbe la dottrina platonica riguardo alla materia: la (materia) si può afferrare per ragionamento ibrido (nÒyƒ logism“);
precisamente, è un atto ibrido dell’intelletto e della sensazione, quello che avviene non per attribuzione ma per sottrazione di forma”; e in Filopono in An. Post. (CAG XIII.3) p. 332.13-15.
Sia il commento di Filopono, d’altronde, che la parafrasi di Temistio hanno in Alessandro una
fonte primaria (come si vede dagli indici dei nomi di entrambi i volumi del CAG). Non è pertanto inverosimile che in entrambi derivi da Alessandro la citazione del Timeo, con l’idea di una
conoscenza della materia per nÒyow logismÒw.
76 Quaestio I.1, 4. 9-11.
77 In realtà il passo di Aristotele è controverso e poco chiaro (cfr. ad loc. le perplessità di Bonitz,
Ross e Jaeger). Anche Alessandro testimonia in proposito più di una lezione e interpretazione,
e quella dei manoscritti stampata da Bekker, per l’appunto, éllå ka‹ tØn Ïlhn §n kinoum°nƒ
noe›n énãgkh, è da lui menzionata solo come un’alternativa possibile.
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gionamento ibrido. Come dice Aristotele, può essere oggetto di conoscenza per
analogia e di opinione (énalog€& gnvstØ ka‹ dojastÆ), come ha detto fra l’altro nella Fisica.78
In senso tecnico, il termine énalog€a è proprio delle matematiche.
Indica infatti in greco anche ciò che noi chiamiamo proporzione, cioè l’uguaglianza fra due rapporti (“rapporto” infatti è uno dei sensi di lÒgow):
A sta a B come C sta a D. Notiamo sin d’ora che lo “stare a qualche cosa” si dice in greco prÒw ti ¶xein. La locuzione prÒw ti, d’altronde è quella che designa i termini “relativi” (come “doppio”, “metà”) nelle Categorie, cap. 7: e diverrà importante in Alessandro, per parlare della relazione fra forma e materia, come vedremo nel prossimo paragrafo.
Parlando di analogia, si è visto che Alessandro in Metafisica II.2
(164.20-22) cita esplicitamente la Fisica di Aristotele, e si riferisce proprio
a quest’ultimo passo: ≤ d¢ Ípokeim°nh fÊsiw §pisthtØ kat’ énalog€an
(Fisica I.7.191a 7-8).
A questo proposito, però, è interessante notare una silenziosa correzione apportata da Alessandro nella sua citazione: Aristotele dice che
la materia può essere oggetto di scienza (è §pisthtÆ) per analogia. Alessandro invece, parafrasando il passo di Aristotele, gli fa dire che la materia può essere oggetto di conoscenza per analogia (énalog€& gnvstÆ)
e di opinione (dojastÆ), omettendo accuratamente il termine §pisthtÆ. Forse per tenere conto della posizione già stabilita in proposito
in ambito platonico e medioplatonico79, Alessandro nega infatti espressamente che la materia possa essere oggetto di scienza: la materia è solo dojastÆ. Questo è in sintonia peraltro con l’uso che anche altrove
fa Alessandro dell’aggettivo dojastÒw, con qualche originalità rispetto
ad Aristotele.80
78
Alex. in Met. 164.20-22, in Arist. Met. 994b 25; il riferimento è a Fisica I.7.191a 7 s.. Secondo Simplicio in Phys. 227.18-22 entrambe le connotazioni che qui Alessandro attribuisce al
sapere sulla materia sulla scorta di Platone (“ragionamento ibrido”) e di Aristotele (“analogia”) sarebbero di origine pitagorica: Platone le attribuisce infatti al pitagorico Timeo nell’omonimo dialogo.
79 Cfr. per es. il passo di Alcinoo citato supra, n. 75.
80 Aristotele chiama dojastikÒn la parte dell’anima preposta alla formazione di opinioni (cfr.
Bonitz, Index, s. v.); ma non usa dojastÒw in riferimento all’oggetto di opinione. Anche i lessici generali ignorano tale uso, che però è intuitivamente comprensibile, sul modello per esempio di §pisthtÒw, “oggetto di scienza”. DojastÆ è, per Alessandro, la materia (sia qui, in
164.20, che supra sempre nel commento in Metafisica 148.12, in Arist. II.1. 993b 24) perché
l’opinione è l’unica forma di sapere che si possa avere del non-essere, e la materia è in qualche
modo non-essere: le inerisce infatti la privazione, che di per sé è non-essere (cfr. infra, § 2.4.2,
in Phys. I.8-9). Un uso così peculiare di dojastÒw mostra peraltro la cura di Alessandro nel
distinguere i diversi gradi e modi di conoscenza dei quali i diversi oggetti sono passibili.
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Il sapere doxastico, fondato cioè sull’opinione, ha uno strumento primario, per l’appunto, nell’analogia: una procedura di valore cognitivo inferiore (almeno se applicata in ambito diverso da quello matematico) come già sottolineava Teofrasto proprio a questo proposito.81
Usando l’aggettivo dojastÒw in riferimento alla materia, e associandovi inoltre l’espressione “ragionamento ibrido” (nÒyow logismÒw,
3.11)82 tratta da Timeo 52b, Alessandro insiste dunque, anche più di Aristotele, sull’inferiorità e sulla debolezza del sapere che la concerne, fondato su procedure di carattere analogico.
In che senso e in che modo l’analogia costituisca un modo adatto per
parlare della materia si vede con particolare chiarezza nella più ampia ed
asseverativa discussione sulla materia che ci sia pervenuta fra i testi di
Alessandro. Questa è posta, quasi un excursus, ma con evidente ed esplicita funzione introduttiva, all’inizio del De anima (De anima 2.25 - 11.13).
La trattazione della materia di questa prima parte del De anima è di grande interesse nonostante il suo carattere in qualche modo incidentale ed
anzi in parte proprio per questo suo carattere: come i passi sopra citati
dalla Quaestio I.1 e dal commento alla Metafisica, si tratta di una serie parentetica di considerazioni, nelle quali, secondo gli scopi generali del trattato, si pongono i fondamenti per meglio illustrare ed argomentare ciò
che Aristotele ha detto sull’anima.83
Siffatte digressioni giustificative non sono infrequenti in Alessandro.
Questa introduttiva del De anima è però eccezionalmente lunga, tanto da
costituire quasi un breve trattato nel trattato, di grande chiarezza concettuale ed espositiva. Considerato nel suo insieme, proprio in virtù di
questo suo carattere di excursus esplicativo, il brano si distingue dunque
dalla difficoltà tecnica delle Quaestiones concernenti la materia, che ci
mostrano l’impegno maggiore e più faticoso di Alessandro a questo riguardo e che in qualche modo logicamente presuppongono la dottrina
81
Cfr. Teofr. Met. 6. 8a 19-20 (a conclusione cioè della discussione di Met. 8a 8-20, sulla quale
cfr. supra, n. 70): in generale, la materia andrà conosciuta katÉ énalog€an §p‹ tåw t°xnaw ka‹
e‡ tiw ımoiÒthw êllh; sulla debolezza cognitiva dell’analogia, cfr. 9a 7: “ciò che è identico per
analogia si trova alla massima distanza” (diå ple€stou d¢ tÚ katÉ énalog€an) e può dunque
essere conosciuto con minor precisione.
82 Non solo nÒyow (cfr. supra, n. 75) è un termine spregiativo, ma anche il sostantivo derivato logismÒw sembra comportare in questo caso una sfumatura di debolezza, peggiorativa rispetto al
sostantivo primitivo lÒgow.
83 Per l’analisi dell’esordio e degli scopi generali del De anima ivi annunciati, cfr. Donini (1971),
Accattino (1995), Accattino-Donini (1996) p. 103 s. Poiché d’altronde in tale esordio Alessandro sembra esprimere la propria posizione in termini alquanto generali, varrebbe la pena di verificarne la validità o l’applicabilità anche riguardo al complesso dei suoi scritti indipendenti.
Sull’interesse storico degli excursus, cfr. supra, “Intr.” p. 31 n. 35.
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del De anima. Di qui l’opportunità di esaminare in primo luogo queste
pagine dedicate alla materia nell’esordio del De anima: in esse Alessandro, con tutta evidenza, non intende elaborare un’esegesi originale del
concetto aristotelico di materia, ma solo ricordarne al lettore le prerogative principali, in funzione soprattutto dell’esame della relazione fra anima e corpo. Poiché infatti l’anima, secondo Aristotele, è forma del corpo, il rapporto fra materia e forma costituisce un quadro di riferimento
all’interno del quale affrontare la speculazione, di per sé ardua, sul rapporto fra corpo e anima: questo si presenta come un’estensione, quasi
un’applicazione particolare della distinzione fra forma e materia.
D’altra parte, la chiave di lettura per interpretare e comprendere la
relazione fra forma e materia (e conseguentemente quella fra anima e corpo) è costituita in Alessandro, sempre sulla scorta di Aristotele, dall’analogia fra arte e natura. Questa infatti aveva avuto un ruolo originario e
fondativo per la teoria della materia nel pensiero classico e in particolare
nella teoria aristotelica delle quattro cause.84
La presenza di un tale excursus su forma e materia svolto per analogia con le arti all’inizio del De anima di Alessandro è dunque tutt’altro che casuale: Alessandro introduce con queste pagine una movenza
argomentativa che va dalla relazione fra forma e materia a quella fra anima e corpo, passando per l’analogia con la natura. Il modello, anche in
questo, è Aristotele, che però aveva posto una siffatta premessa non all’inizio, ma in un passaggio cruciale del celebre capitolo III.5 del suo De
anima e aveva così preparato la celebre distinzione fra intelletto agente
e intelletto passivo:
Come nella natura tutta c’è qualche cosa che ha funzione di materia per ogni
genere di cose (e questo è ciò che è in potenza tutte quelle cose) e qualche cos’altro che è causa attiva, perché le produce tutte, come l’arte nei confronti della materia, così è necessario che ci siano queste differenze anche nell’anima.85
Così, senza argomentazione dimostrativa, Aristotele aveva affermato che tutto, in natura, ha materia e forma; e aveva addotto, come argomento, un paragone: il caso dell’arte. Tale premessa, evidentemente, vale non solo per il capitolo sull’intelletto ma per la teoria dell’anima come
forma del corpo che percorre l’intero trattato De anima; Aristotele rende
esplicito ora tale presupposto per prepararne lo sviluppo più ardito, quale per l’appunto è la teoria dell’intelletto di De anima III.5.
84
Solmsen (1961).
85
Aristotele, De anima III.5, 430a 10-14.
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Ragionevolmente dunque Alessandro, nel suo proprio De anima, anticipa tale premessa nelle prime pagine del trattato: dovendo parlare dell’anima, comincia col dire che tutti i corpi, innanzitutto quelli naturali,
hanno una forma e una materia e l’una non può sussistere senza l’altra:
A coloro che si adoperano per conoscere questo genere di cose in modo
distinto sembra cosa più di tutte vera ed evidente che ogni sostanza corporea
e sensibile sia composta da un sostrato, che chiamiamo materia, e da una natura che dà forma a questa materia e la delimita, che chiamiamo forma. Che la
cosa stia così, si può imparare con chiarezza guardando i prodotti delle arti. A
qualunque di essi infatti si rivolga l’attenzione, si troverà che in esso c’è da una
parte la materia e sostrato, dall’altra la forma. Sostrato è il bronzo o la pietra
o il legno o la cera o qualunque cosa prenda figura secondo l’arte, forma invece è ciò che in esso immette l’artista. Materia della statua infatti è la pietra,
o il bronzo, se la statua è fatta di una di queste cose; forma è quella certa configurazione, quel determinato aspetto, che è il prodotto dell’arte ed è l’arte.
Arte infatti è tutto ciò che colui che ha l’arte produce secondo le regole dell’arte nella materia sostrato, mentre materia dell’arte è il corpo che per natura è atto a riceverla senza avere in sé, nella propria definizione il prodotto dell’arte. E come ciascuno dei corpi che esistono e sono costituiti dall’arte ha questa duplicità, così avviene e anzi molto prima per i corpi naturali e costituiti
per natura.86
In questo modo Alessandro, più di Aristotele stesso, circostanzia e
giustifica ciò che Aristotele aveva affermato, l’esistenza cioè di un’analogia fra arte e natura. Conferisce così un valore più determinato - seppur
non strettamente dimostrativo - alle trasposizioni e alle inferenze che da
tale analogia derivano. Di seguito, Alessandro tiene a precisare su quale
presupposto si fondi l’analogia. Soggiunge infatti: “l’arte imita la natura,
e non la natura l’arte”.87
Tratta da un contesto aristotelico alquanto diverso,88 quest’ultima
precisazione vale qui ad argomentare che in natura la distinzione fra for86
Alex. De anima 2.25 - 3.15. Alessandro, come già Aristotele (Met. VII.9, 1034a 24; cfr. anche XII.3, 1070a 14 s.) identifica qui l’arte con la forma prodotta dall’artista, preparando così, in forza dell’analogia fra arte e natura, l’identificazione della natura stessa con la forma dei
corpi naturali. Tale identità sarà infatti affermata poco più oltre: “Come la forma che si produce in un sostrato è arte, così in ciò che si genera per natura la forma che così si genera è la
natura” (De anima 3.20-21).
87 Alex. De anima 3.15-16.
88 Cfr. Arist. Phys. II.2. 194a 21: Aristotele critica a questo riguardo la dottrina platonica del Timeo, dove il creatore del mondo è un demiurgo, un artigiano, che prende le idee come un modello. Questo tipo di implicazione critica è presente in qualche modo anche in Alessandro, nei
passi dove l’Esegeta mette a confronto arte e natura (per esempio il De anima qui citato, e più
palesemente in Met. 104.3-10). In questo senso, la precisazione “l’arte imita la natura e non la
natura l’arte” non solo ribadisce ma anche delimita in qualche modo e circoscrive l’analogia fra
generazione naturale e produzione artistica.
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ma e materia esiste a fortiori, più ancora che nell’arte. Altrimenti come
potrebbe, l’arte, imitare in questo la natura? Invece nel passo citato del
De anima di Aristotele (430a 12 - 13) non veniva espresso con precisione
il fondamento dell’analogia fra arte e natura, che avrebbe anche potuto
intendersi alla stregua di un semplice paragone.
Se dunque c’è analogia fra arte e natura, la natura sta (¶xei prÒw +
acc.) agli esseri che si generano per natura come l’arte sta ai suo prodotti; pertanto in natura la materia sta alla forma come in arte il materiale impiegato sta alla forma prodotta dall’artista.
Considerata in questa prospettiva, la materia appare allora come un
prÒw ti, come un concetto relativo: è materia - si potrebbe dire - ciò che
fa da materia, ciò che ha funzione di materia, ciò che costituisce cioè il sostrato di qualcosa che viene ad essere.
D’altra parte la definizione della forma, quando è completa, include
la nozione di materia.89
Questo è particolarmente evidente nella definizione dell’anima, “forma (o entelechia) del corpo organico che ha vita in potenza”: carattere distintivo dell’anima, considerata come forma, è di essere forma di quel tipo di corpo.
Ma lo si può riscontrare anche in altri contesti e altri tipi di forme:
come aveva detto Aristotele in chiusura del secondo libro della Fisica
(200a 12), se la sega è davvero sega, i suoi denti devono essere di ferro.90
2.2. Forma e materia come concetti relazionali.
Dal metodo analogico nell’indagine sulla materia deriva dunque - ad
opera di Alessandro e della scuola - una concezione reciprocamente relazionale: non solo la materia si intende in relazione alla forma, ma la
forma si definisce in riferimento alla materia: Alessandro definisce la
forma anche come ciò che, producendosi nella materia, le toglie il suo
essere priva di forma.91
Forma e materia si possono pertanto inquadrare nella tipologia di
quei concetti che si dicono o predicano “uno in relazione all’altro” (prÚw
êllhla).
89
Cfr. infra, pp. 98-100.
Pertanto la definizione quando è completa deve comprendere non solo la forma ma anche la
materia: lo sottolinea Simplicio nel suo commentario (in Phys. 392.20-23) forse sulla scorta del
commento di Alessandro.
91 De anima p. 4.2-3: si chiama forma “ciò che, generandosi nella materia, fa cessare in essa la predetta privazione” (i. e. : l’essere priva di forma).
90
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Troviamo questo nella menzionata dissertazione del De anima e
anche in alcune Quaestiones: la forma e la materia si intendono prÚw
êllhla, “l’una in relazione all’altra”; l’essere prÚw êllhla, a sua volta, si intende secondo la nozione di reciproca relazione definita da Aristotele nelle Categorie: coppie di concetti come maggiore e minore,
doppio e metà, che si dicono essere ciò che sono l’uno rispetto all’altro e dunque non sussistono l’uno senza l’altro.92
A tale nozione Alessandro fa implicito riferimento nel seguente
passo della Quaestio I.8:
È impossibile che forma e materia siano l’una senza l’altra, poiché esse si
definiscono una in relazione all’altra (prÚw êllhla, 19.1); e le cose che si definiscono l’una in relazione all’altra, per natura, esistono contemporaneamente se
davvero relativo a qualcosa è ciò la cui essenza non è altro che l’essere in una certa relazione con quella cosa.93
In tal modo, intendendosi forma e materia “l’una in relazione all’ali diversi livelli di analisi e determinazione dell’una o dell’altra giocano sulla relazione di complementarietà e sulla differenza di segno: mano a mano che la materia si spoglia di ogni determinazione positiva, specularmente e proprio in virtù di questo il concetto di “forma” (e‰dow) si
tra”94,
92
Arist. Cat. 7. 6a 36-6b 4, 7b 15-16.
Quaestio I.8. 18.35-19.2. Diversa però la posizione espressa nella Quaestio II.9: la forma non è
prÒw ti, perché non è un relativo, e nella fattispecie l’anima non è un prÒw ti.
94 Intese in senso reciprocamente relazionale, forma e materia dimostrano peraltro una certa versatilità anche come categorie concettuali applicabili in contesti diversi e particolari. Un esempio è quello, nel De anima stesso di Alessandro, della ripartizione dell’intelletto e dell’identificazione di una parte di esso come intelletto materiale (noËw ÍlikÒw). Cfr. Alex. De anima
81.22-26 “L’intelletto in potenza, che abbiamo dalla nascita (…), si chiama ed è ‘intelletto materiale’. Infatti tutto ciò che è recettivo di qualche cosa è materia di quella cosa. Invece, forma
e entelechia di tale intelletto è l’intelletto che si ingenera in esso in virtù dell’insegnamento e
della consuetudine”. È qui rilevabile, rispetto ad Aristotele De anima III.5, una diversa caratterizzazione del concetto di materia: in Aristotele è centrale, per definire tale concetto, la nozione di potenzialità, qui lo è piuttosto la nozione di recettività. In questo senso, non sono identiche la spiegazione che qui si dà di come una parte dell’intelletto possa dirsi “materiale”, e
quella, più vicina ad Aristotele, nell’incipit di Alex. (?) Mant. II, per‹ noË = De intellectu, p.
106.19-23, dove “materiale”, in riferimento all’intelletto, è sinonimo di “in potenza”: “L’intelletto, secondo Aristotele, si dice ed è in tre sensi. Uno è l’intelletto materiale. E dico materiale non perché sia un sostrato come la materia - chiamo infatti materia un sostrato che, per
la presenza di una forma, possa divenire qualche cosa di determinato - bensì, poiché l’essenza
della materia è nella potenzialità verso tutte le cose, ciò in cui vi è la potenzialità, e l’ ‘in-potenza’ stesso in quanto tale, sono materiali”. Più oltre in questo capitolo sarà esaminata la Quaestio I.24, dove Alessandro, a esegesi di un passo difficile di Aristotele Fisica I.8, mette in relazione e a confronto potenzialità e recettività come modi possibili di concepire il ruolo della
materia nel processo di generazione naturale (§ 2.4.2).
93
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definisce nel modo più generale e comprensivo: forma è “l’essere e il dirsi di ogni cosa”, “ciò in virtù di cui ogni cosa è ciò che è”.95 Quanto più
è informe e indeterminata la materia, tanto maggiore è il peso della forma nella costituzione della sostanza (tÚ sunamfÒteron) che è insieme
forma e materia.
Così, da una concezione analogica e reciprocamente relazionale si
apre la strada anche per assolutizzare all’occorrenza i due concetti. Sia
dell’uno che dell’altro infatti la definizione più assoluta si trova all’estremo delle possibilità di contrapposizione, in un’antitesi che diviene regolare e per così dire statutaria per la definizione di entrambi.
2.3. La via negativa
Di qui la tendenza di Alessandro a parlare della materia in negativo, mettendo cioè in primo piano ciò che la materia non è, rispetto alla forma, e
dunque innanzitutto il suo essere “senza-forma”, éne€deow.96
In quanto è priva di forma, la materia è anche priva di tutte le determinazioni che caratterizzano e definiscono la forma (definizione, qualità,
configurazione…); è dunque êmorfow,97 êpoiow e ésxhmãtistow.98
Nemmeno come sostrato la materia si lascia definire in positivo: essa, preciserà ripetutamente Alessandro, non è un sostrato nel senso del tÒde ti
aristotelico, del qualcosa di determinato; ad una considerazione ancor più
generale e addirittura cosmica, essa risulta anzi assolutamente érrÊymistow.99 Come si vede, alla materia in sé considerata si trovano riferiti una
serie di attributi costruiti con un prefisso di alfa privativo. È importante
però sottolineare a questo proposito che si tratta non di privazione, ma
di negazione.
Nella Quaestio II.7 Alessandro discute tale sottile ma importante
distinzione: può davvero una sostanza (quale Aristotele riconosceva essere la materia) definirsi per privazione? e come potrebbe allora la materia restare se stessa, cioè materia éne€deow, quando accoglie in sé, come sempre necessariamente accoglie, le determinazioni positive, di tipo
formale e qualitativo?
95
Per es. Alex. De anima 6.28 s.; 7.4 s.
Ibid., p. 4.1, De mixt. 226.15. Cfr. in Aristotele, éeid¢w ka‹ êmorfon, De caelo III.8, 306b 17.
97 Alex De anima 4.1.
98 Per la materia come priva di qualità e figura, cfr. Quaestio II.3. 49.30 s.; ma anche, criticamente, Quaestio II.7. 52.23 s., 53.29; sulla materia êpoiow in Quaestio I.15. 27.4 cfr. infra, p.
127.
99 Quaestio I.10. 21.2 e infra, p. 124.
96
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2.4. Materia e privazione
2.4.1. Privazione e negazione: la Quaestio II.7
Esordisce la Questio:
Materia, se dalla privazione ha l’essere priva di qualità e di configurazione,
e dalla forma ha l’esser determinata qualitativamente e configurata, per sua definizione che cosa sarà?100
Ciò che è infatti nella definizione è carattere essenziale, permanente.
Di qui la prima soluzione, secondo la quale né l’esser priva né l’esser dotata di qualità sono essenziali, per la materia:
Essa infatti, come sua definizione (lÒgow), non è né priva di qualità, né determinata qualitativamente, così come l’uomo, come sua definizione, non é né incolto, né colto. Se infatti avesse nella sua definizione l’uno dei due contrari, non
sarebbe in condizione di potersi trovare nell’altro. Così dunque anche per la materia, il suo essere materia non consisterebbe nell’essere qualitativamente determinata, ma nell’avere un’attitudine e una potenzialità in virtù della quale è recettiva di qualità; l’esser priva di qualità è per essa invece un accidente, che non
viene a complemento della sua essenza, come per tutto ciò che è recettivo di qualcosa [non è un complemento dell’essenza] il non essere ciò di cui è recettivo.101
Né l’esser priva, dunque, né l’esser dotata di qualità sarebbero connaturati alla materia. Una seconda possibilità e soluzione è che invece le
sia connaturato l’esser priva di qualità:
Oppure se esiste una negazione, riguardo alla materia, il fatto cioè di non
essere qualitativamente determinata per sua natura, e ciò che non è qualitativamente determinato è privo-di-qualità, allora la materia dovrebbe essere per sua
natura priva-di-qualità.102
Una terza, ultima possibilità che la Quaestio propone è quella che
concilia le prerogative negative della materia mediante una distinzione di
tipo logico:
Oppure non è la stessa cosa dire di essa che ‘non è qualitativamente determinata per sua natura’ e che ‘è qualitativamente indeterminata per sua natura’.
Infatti ‘è qualitativamente indeterminata per sua natura’, è un’affermazione per
metatesi,103 che equivale a una privazione; invece ‘non è qualitativamente determinata per sua natura’ è una negazione e non equivale più a una privazione, ed è
vera detta della materia.104
100
101
102
103
104
Quaestio II.7. 52.23-25.
ibid. 52.25-53.2.
ibid. 53.7-9.
katãfasiw §k metay°sevw, 53.11 s. Sul senso dell’espressione, cfr. Alex in An. Pr. 401.22-25.
ibid. 53.9-14.
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L’assenza di qualità e di forma non si può dunque attribuire alla materia affermando una privazione, quale sarebbe “la materia per natura è
priva di qualità” (¶stin oÈ poiå tª aÍt∞w fÊsei, 53.10 - 11) - in tal caso infatti la materia si distruggerebbe nel ricevere la forma; bensì va inteso come negazione di qualunque attribuzione e predicazione: “la materia
non ha una qualità che sia sua per natura” (oÈk ¶sti tª aÍt∞w fÊsei
poiã, 53.12 - 13).
Tale negazione è ciò che si può e si deve predicare della materia. Proprio perché non ha né una forma che le appartenga né una privazione che
le sia connaturata in quanto materia, la materia non si corrompe né quando si corrompe in essa quella determinazione formale, che di volta in volta
vi si trovi, né quando viene meno in essa l’esser priva di quella determinata forma. In forza di questo la materia può postularsi come eterna e incorruttibile (êfyartow)105 e si può dire che resta materia e non si corrompe
nel mutevole avvicendarsi delle forme che di volta in volta la determinano.
Tuttavia ogni generazione si lascia descrivere - si è ricordato - come
un passaggio della materia dalla privazione alla forma stessa.
Anche su questo punto, cioè sul ruolo della materia e della privazione nel processo di generazione, la definizione di una teoria precisa e priva
di incongruenze non è per Alessandro impresa priva di ostacoli ed aporie.
Nemmeno, d’altronde, lo era stato in età classica: né per gli “antichi”, i
prearistotelici, né per Aristotele stesso. Gli “antichi”, dice Aristotele, pensando a Parmenide e agli Eleati, avevano anzi affatto trascurato nelle loro
riflessioni sull’essere e il divenire “la natura del sostrato”. Il solo Platone
ne aveva parlato, ma senza purtroppo distinguere fra materia e privazione: quasi il sostrato fosse “uno solo”.106 Aristotele è dunque ben consapevole di essere il primo a distinguere fra materia e privazione; lascia tuttavia in buona parte ai successori, in particolare ad Alessandro, l’onere di
mettere chiaramente a fuoco tale distinzione, così da poter costituire i due
concetti come pietre angolari di un solido edificio sistematico.
Quanto ad Alessandro, sappiamo per certo che l’esegeta insisteva nel
ricercare una chiara definizione reciproca di privazione e materia in relazione al processo di generazione. Lo attestano, conservati da Simplicio, i
105
106
60
Quaestio II.27. 78.20, De mixt. 223.2-3; cfr. anche, ma con il verbo essere all’ottativo, quindi
con valore assertorio indebolito, Quaestio II.7. 53.10.
“Giunsero infatti - dice Aristotele - fino a questo punto: che bisogna che esista in natura un
sostrato; e però sostengono che esso è uno solo. Se anche qualcuno infatti ne fa una diade,
dicendo che è il grande e il piccolo, tuttavia ne fa un’unica cosa: non ha tenuto infatti conto
dell’altra (natura): infatti il sostrato per natura [i.e. la materia] è concausa insieme alla morfÆ,
come la madre: mentre l’altra parte dell’opposizione [i.e. la privazione] spesso è rappresentata, da chi guarda solo la componente cattiva di essa, come se non esistesse affatto” (Fisica
I.9, 192a 9-16).
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frammenti del perduto commento di Alessandro ai capp. I.8-9 della Fisica e la Quaestio I.24, che pure costituisce una specifica esegesi degli stessi capitoli aristotelici.107
In quest’ultima, di più, si affronta direttamente il problema della relazione fra due modi possibili e disponibili per leggere lo schema esplicativo
del processo di generazione “materia-forma-privazione”: l’uno, pensando
la generazione come passaggio dalla potenza all’atto, l’altro, facendo avvenire la generazione dall’ente sì, ma considerato in quanto non-ente.108
2.4.2. Materia, privazione e l’ “aporia degli antichi” (Arist. Phys. I.8-9)
Nel cap. I.8, Aristotele, dopo aver posto come principi distinti la triade
di sostrato, forma (qui: lÒgow) e privazione (cap. I.7), introduce l’ “aporia degli antichi”109: i quali, dice, sviati dall’ épeir€a110, si trovarono a ritenere che la generazione, non potendo avvenire né dall’ente, né dal non
ente, non potesse avvenire affatto.111
La chiave di soluzione dell’aporia starebbe, secondo Aristotele, in
una più attenta osservazione della “natura”, e in particolare della natura
del sostrato.112 Più precisamente, come meglio sottolineerà I.9, si tratta
di distinguere nel sostrato due aspetti: materia e privazione.
Quali sono gli strumenti concettuali di tale distinzione?
Per metterli meglio a fuoco, Alessandro apporta tacitamente delle modifiche sul testo di Aristotele che cita all’interno del suo commentario. Così, là dove Aristotele stigmatizza l’”ignoranza” (êgnoia)
degli antichi - quell’ignoranza riproduttiva di se stessa, a causa della
quale coloro che già ignoravano ignorarono ancora di più (prosh107
108
109
110
111
112
Quaestio I.24. 37.14- 39.7 Bruns. I manoscritti la intitolano: Esegesi del passo del primo libro
della Fisica di Aristotele, verso la fine, nel quale dice che, una volta trovata la materia, si risolvono anche le aporie degli antichi. I frammenti sono conservati da Simplicio in Phys. 236.15238.22, che deriva espressamente da Alessandro, cfr. 238. 6-8.
In entrambi i casi, il problema della generazione dell’ente dal non-ente si pone in termini molto diversi nel vero Alessandro rispetto all’ “Alessandro Arabo”, in particolare all’opuscolo creazionista n. 16 nella lista di Dietrich (1964) conservato in arabo sotto il nome di Alessandro ma
derivato in realtà dai cap. IX 8 e 11 del De aeternitate mundi di Filopono. Cfr. Fazzo (1997)
(atti del convegno della SIHSPAI, Parigi 1993) per la prima menzione di un “Alessandro Arabo”, per un confronto fra l’opuscolo D[ietrich] 16 e il vero Alessandro, per la conseguente atetesi dell’opuscolo e inoltre per la sua identificazione con una parte dell’opuscolo D[ietrich]
27; Hasnawi (1994) pp. 76-92 per la derivazione da Filopono.
Gli Eleati e Parmenide.
L’épeir€a degli antichi (191a 26-27) consisterebbe nell’aver trascurato l’evidenza dei fatti a
favore del principio (che Aristotele stesso intende rispettare) che “tutto o è o non è”, cfr. 191b
26 s., con Berti (1989), pp. 60-69, in part. 63.
Aristotele, Fisica I.8. 191a 24-31.
“Questa natura, se l’avessero osservata, avrebbe dissolto la loro ignoranza” (191b 33-34).
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gnÒhsan, 191b 11)113, Alessandro aggiunge e fa esplicito, a mo’ di glos-
sa, quale sia l’oggetto dell’ignoranza: “ignoranza dell’ “in sé” e del “per
accidente”:
… a causa dell’ignoranza dell’ “in sé” e del “per accidente”, furono portati a
ignorare anche altre cose, al punto di ritenere che nessuna delle altre cose esista
o si generi.114
La distinzione fra “in sé” e “per accidente” è dunque posta come
strumento per distinguere materia da privazione. In questo senso, Alessandro segue Aristotele, che nel cap. I.9 sottolineava che
la privazione e la materia sono due cose diverse, e di queste l’una, la materia,
per accidente non è, mentre l’altra, la privazione, in sé non è; l’una, la materia, in
qualche modo è quasi una oÈs€a, l’altra, per nulla. (192a 3-6)
In che modo questo aiuta a risolvere l’”aporia degli antichi”?
Si tratta di sviluppare la fondamentale intuizione aristotelica, secondo la quale, per spiegare in che senso la generazione possa venire
dall’ente (tÚ ˆn), e in che senso dal non-ente (tÚ mØ ˆn), bisogna che almeno uno dei due venga considerato in quanto altro da sé: non per ciò
che è in sé, ma per ciò che è per accidente. Non ci può essere generazione né dal non-ente, la privazione, perché sostrato “in sé” della generazione può essere solo ciò che persiste e resta anche a generazione avvenuta - e tale non è la privazione, bensì la materia115; ma nemmeno ci
può essere generazione dalla materia in quanto ente, perché non è possibile che l’ente si generi dall’ente in quanto tale: infatti esisterebbe di
già.116 Allora la generazione, dice in sintesi Aristotele, avviene non dall’ente in sé, né dal non-ente, ma dall’ente in quanto non-ente. Aristotele introduce così nell’ente una componente di accidentale e relativo nonente. Il che equivale a dire che la materia ha come suo accidente la privazione, e che pertanto, pur essendo un ente, può essere considerata “in
quanto non-ente”.
Così, l’aporia degli antichi può dirsi risolta. All’altra possibile soluzione - in base cioè alla coppia atto-potenza - cui Aristotele accenna
113
114
115
116
62
Aristotele, Fisica I.8. 191b 10-12.
Alex. ap. Simpl. in Phys. 237.32-34.
Come dice Alessandro, “in sé la generazione dalla privazione potrebbe avvenire solo se essa
potesse restare come sostrato e al tempo stesso mutare nel suo contrario; e questo é impossibile.” (Quaestio I.24. 38.25 s.; cfr. anche Simpl. in Phys. 236.24-27).
Cfr. anche Alessandro: “la generazione non avviene (…) nemmeno dalla materia e dall’ente in
sé, se davvero (e‡ ge) è in quanto essa è privazione che avviene il suo mutamento nella forma”
(Quaestio I.24. 39.4-7).
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solo fugacemente, Alessandro dedica un’attenzione maggiore, determinandone, rispetto all’altra, il diverso punto di vista.
Queste [soluzioni], potrebbero differire tra loro per il fatto che la prima è
stata formulata a partire da ciò che è sostrato alla generazione e che preesiste alla
natura: tale, per sua stessa natura, è la materia, dalla quale, a causa della sua stessa natura, si genera qualche cosa che è; ma essa stessa è non essere, a causa della
privazione che è in essa come un accidente. La seconda, è stata formulata a partire dalla relazione della materia con ciò che si genera. Da essa, infatti, si genera ciò
che si genera proprio per il fatto che essa ha la potenzialità di diventare ciò in cui
si muta ma non è ancora (mutata) in esso.117
Ma non è tutto. Un elemento centrale dello sviluppo della soluzione
alessandrista, che si basa sull’essere in sé o per accidente dell’ente e del
non-ente, è l’inclusione nella discussione della tematica, così importante
per l’esegeta, della definizione dei due concetti complementari di materia e privazione: definizione e concetti che pure traggono origine dal testo aristotelico, ma che in Alessandro risultano molto più solidamente stabiliti e ancorati nella teoria generale dei processi di generazione.
È proprio infatti la considerazione dei rispettivi attributi di privazione e materia riguardo al processo di generazione a consentire, nella forma di un approfondimento esegetico di Aristotele 192a 9 ss., la distinzione praticata così limpidamente da Alessandro nella Quaestio I.24:
la privazione in sé è non-ente, ma per accidente è ente, poiché è accidente
di qualcosa che è, cioè della materia; la materia invece in sé è, ma per accidente
non è, perché ha per accidente la privazione, che è non-ente.118
Così, se da una parte sia materia che privazione sono indispensabili
- come indica la lÊsiw aristotelica - a spiegare il processo di generazione,
dall’altra è proprio nella reciproca complementarietà riguardo a tale processo che “materia” e “privazione” si configurano come concetti distinti
e funzionali l’uno all’altro (la privazione è il non-essere della materia, la
materia è l’essere della privazione). In questa loro distinzione, sia materia
che privazione si definiscono con più chiarezza.
2.5. Materia e genere: la Quaestio II.28
Un altro termine di confronto utile, per definire le prerogative della materia, è il concetto di genere (tÚ g°now). C’è in particolare una prerogati117
Quaestio I.24. 38.3-8, corsivi miei.
118
Quaestio I.24. 38.16-19.
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va che sembra attribuirsi (soprattutto se si parla in greco) sia alla materia
che al genere: tÚ koinÚn e‰nai, e precisamente l’ “essere comune” a una
pluralità di e‡dh. In effetti, la materia - noi diremmo - è comune alle forme, il genere è comune alle specie.
Ora, forma e specie non solo si indicano, in greco, con lo stesso
termine (tÚ e‰dow) ma nella filosofia aristotelica si considerano identici e coincidono. Di fatto, già Aristotele aveva avvicinato i due concetti affermando a più riprese che anche il genere in certo modo è materia - cioè è materia delle definizioni - intendendo naturalmente le definizioni delle singole specie.119 È forse questo che induce Alessandro a
porre, nella Quaestio II.28 (77.31 - 79.18 Bruns), il problema della relazione tra materia e genere.
Genere e materia, evidenzia la Quaestio, hanno delle prerogative comuni: il fatto per l’appunto di essere entrambi, sia genere che materia, primi e “comuni” (koinã) rispetto ad una molteplicità di specie o forme (tå
e‡dh) (78.1-5).
Eppure, prosegue la Quaestio, cosa ben diversa sono genere e materia.
Sono sì entrambi qualcosa di koinÒn, ma non allo stesso modo: il genere
come predicato (kathgoroÊmenon), la materia come sostrato (Ípoke€menon). Inoltre la materia è “comune” sia presa tutta intera, sia in ogni sua
parte: ogni sua parte è infatti, come il tutto, recettiva dei contrari; invece,
le parti del genere (quali sono le singole specie) sono determinate e, diversamente dal genere nel suo insieme, non sono un koinÒn.
Ancora, la materia è una realtà (prçgma) che contribuisce alla sussistenza del sunamfÒteron. Il genere invece è solo un nome, una nozione.120 Il concetto è ampliato più oltre: la materia è causa dell’essere e sussistere (Ífestãnai) di tutti gli esseri soggetti a generazione e corruzione.
119
120
64
Cfr. Bonitz, Index Aristotelicus, s. v. g°now 152a 8-11, s. v. Ïlh 787a 19-22. In Aristotele il rapporto fra genere e forme è in termini di definizione, mentre Alessandro è anche in termini di
esistenza. Si può confrontare ciò che essi dicono a questo proposito nella rassegna dei possibili sensi dell’ “essere-in-qualcosa”. Se ne tratta rispettivamente in Aristotele Fisica IV.3. 210a
17-20 e Alessandro De anima 13.12-15. In un certo senso - secondo quanto scrive Aristotele il genere è nella specie, perché il genere è presente nella definizione di specie (per esempio la
definizione di uomo comprende la nozione di animale); per Alessandro, che pure prende chiaramente a modello quel passo di Aristotele (cfr. infra, pp. 95, 97), il genere è nella specie perché ha nella specie la sua esistenza. Non che ci sia in Alessandro, rispetto ad Aristotele, un
maggior interesse per la concretezza e un minor interesse per le definizioni; nell’esegeta, al contrario, il livello delle definizioni costituisce (e sostituisce) già in partenza il livello dell’esistenza all’interno del discorso filosofico. Interpreterei così anche il fatto che mentre Aristotele sovente discuteva in che senso ogni cosa “si dica”, cioè si intenda (l°getai), Alessandro discute in che senso ogni cosa “si dice ed è” (l°geta€ te ka‹ ¶stin), anche qui sovrapponendo il
piano del discorso e quello della realtà.
Sull’opposizione fra prçgma come realtà concreta e puro nome, cfr. Plat. Cratilo, 391b, 436a.
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Invece il genere è qualche cosa che si aggiunge a ciò che esiste in virtù di
un’operazione intellettuale.121
Di più, la materia è “incorruttibile per numero”. Il genere invece è
eterno solo nel perpetuarsi della generazione secondo la specie, e non per
numero, perché il suo kay’ ßkaston, l’individuo cioè nel quale il genere
trova esistenza, è corruttibile.122 Il genere pertanto potrebbe corrompersi, quando andassero distrutti tutti gli individui che lo rappresentano. Esso infatti non ha esistenza separata. La materia, invece, è immortale, perché è separata dalla forma per definizione (pur essendo inseparabile dalla forma nella sussistenza), dunque “si salva” (s≈zetai) al momento della corruzione del sunamfÒteron forma-materia del quale è parte.
La materia infatti - come altrove dice Alessandro123- “si salva” nel
processo di generazione. Cosicché si può dire che la materia è sostrato
della generazione e della corruzione, intendendo propriamente come sostrato ciò che preesiste e sussiste nel corso di tali processi.
2.6. Materia e accrescimento.
Si vede così una volta di più che in Alessandro ciò che caratterizza la materia nel processo di generazione e corruzione è il permanere e sussistere
nella totalità di tale processo e in ogni sua fase.
Ma nel divenire dei processi organici il discorso è forse diverso. Nell’accrescimento dei corpi viventi, la materia - intesa come materia prossima delle singole parti, per esempio nei viventi carne, ossa, sangue,
quelli che Aristotele nelle opere biologiche chiama “omoiomeri” (tå
ımoiomer∞, sott.: m°rh)124 - non permane. Alessandro stesso, sulla scor121
122
123
124
Quaestio II.28. 79. 14-18. La posizione nominalista tradizionalmente attribuita ad Alessandro
sugli universali trova così, riguardo al g°now, la sua giustificazione e formulazione più esplicita. Cfr., anche per la bibliografia, “Forms and Universals” in Sharples (1987), pp. 1199-1202.
“Mentre la materia è incorruttibile secondo il numero, il genere ha incorruttibilità attraverso la specie e attraverso la successione ininterrotta degli individui che si generano”
(Quaestio II.28. 78. 20-21). Come si vede, Alessandro attribuisce anche al genere la stessa
proprietà di perpetuarsi tramite l’infinita successione degli individui che attribuisce correntemente alla specie. Cfr. Arist. De anima II.4. 415a 26-b 7.
Cfr. Quaestio I.24. 38.32-39.1.
Che Alessandro parli qui degli omeomeri aristotelici in quanto distinti dagli “anomoiomeri”
(tå énomoiomer∞, sott.: m°rh) secondo la dottrina espressa da Aristotele nelle opere biologiche (passim, per es. Hist. anim. I.1. 486a 14 ss., cfr. Bonitz Index s. v. ımoiomerÆw, 510b) è confermato e reso esplicito da un passo parallelo in Alex. De mixt. 234.34 ss., in part. 235.4 s.:
ımoiomer∞ d¢ sãrj te ka‹ Ùstç, mËw te ka‹ a‰ma ka‹ fl°c, ka‹ ˜lvw œn tå mor€a to›w
˜loiw §st‹ sun≈numa. Anche la definizione qui riportata, secondo la quale sono omeomeri
quelli le cui parti si chiamano allo stesso modo dell’intero, viene da Aristotele, cfr. per es. De
part. anim. II.9. 655b 6.
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ta di Aristotele, parla di un “fluire” della materia125 nel corso del processo di accrescimento, anche se di volta in volta esiste sempre una parte di essa che permane. Se non ci fosse di volta in volta una parte di materia che permane e resta la stessa, non si potrebbe dire che la forma è
“una di numero” ed è forma dello stesso essere vivente dall’inizio alla
fine del processo; né dunque si potrebbe dire che il vivente resta il medesimo nel corso dell’accrescimento.
2.6.1. La dottrina di Aristotele (De gen. et corr. I.5)
Aristotele parla come processo naturale in De gen. et corr. I.5. Soggetto dell’accrescimento, dice, ciò che per l’appunto si accresce, sono gli
“omeomeri”, cioè i tessuti omogenei - per esempio carne e sangue; la
crescita di questi fa crescere gli “anomeomeri” - cioè le varie parti del
corpo formate da diversi omeomeri - e fa pertanto crescere il vivente
nel suo complesso.
Caratteristica dell’accrescimento rispetto alla generazione e alla corruzione è - dice Aristotele (321a 14-29) - il fatto che ciò che si accresce
persiste e si conserva nel corso del processo. Procedendo poi nell’analisi
(321a 29-b 34) Aristotele distingue nell’omeomero che cresce la materia
e la forma:126 fra le due, ciò che si conserva nel processo di accrescimento è la forma. Si conservano infatti sia la forma o specie degli omeomeri
che quella delle parti del corpo che dagli omeomeri sono formate, e tramite queste la forma del vivente nel suo complesso.
Invece la materia “è di volta in volta sempre diversa”: “una parte
scorre via, un’altra sopravviene” (321b 27). Per questo, ad accrescersi
non è la materia (come infatti potrebbe crescere ciò che non persiste e
scorre via?) ma la forma, che resta identica fin dall’inizio (321b 22-24,
33-34).
2.6.2. Il problema dell’identità del soggetto che cresce
Sappiamo da Plutarco che già Crisippo aveva menzionato un problema
riguardo all’accrescimento. Crisippo, che criticava gli accademici ma ve-
125
126
66
Cfr. ≤ t∞w Ïlhw =Êsiw, Quaestio I.5.13.22, 26, 28.
L’omeomero infatti è esso stesso un sunamfÒteron, consta cioè di forma e materia (322a 21).
Si noti che tÚ sunamfÒteron, il termine già platonico che usa Aristotele specificamente solo
in questo contesto, diventa per Alessandro voce lessicale stabile per indicare ciò che è costituito da forma e materia, mentre sÊnyeton in Alessandro ha in uso più generico, perché indica anche e più propriamente il corpo composto, quello cioè formato da più elementi. Cfr.
infra, § 3.2 e n. 179.
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rosimilmente conosceva anche la dottrina aristotelica, aveva evidenziato
la seguente aporia: come si possa dire che l’animale che cresce resta un
soggetto unico, se la sua materia cambia.
La testimonianza di Plutarco mostra che l’interesse di Alessandro
per questo tipo di fenomeno non è isolato ma aveva dei precedenti anche al di fuori della scuola.127
Non più tardi di Alessandro, la scuola aristotelica affronta e risolve
il problema, con specifico riferimento all’esegesi di Aristotele De gen. et
corr. I.5.
Tanto il problema che la soluzione si trovavano attestati nel perduto
commento di Alessandro al De generatione et corruptione, del quale Filopono fece largo uso (per lo più senza riconoscerlo apertamente) nel suo
commento allo stesso trattato.
Filopono riporta il problema ora menzionato nella forma caratteristicamente alessandrista di aporia-e-soluzione:
Si potrebbe sollevare l’aporia seguente: forse non è solo la materia delle cose che si accrescono a non essere sempre la stessa, perché sopraggiunge e scorre
via, ma anche la forma stessa. Se infatti la forma ha il suo essere nella materia che
le è sostrato, ed è impossibile che se si corrompe il sostrato ciò che ha il suo essere in esso si conservi (in tal caso infatti sarebbe separabile e non inseparabile
dalla materia), necessariamente allora nemmeno la forma di ciò che si accresce si
conserva la stessa.
Sciogliendo l’aporia diciamo che se tutta quanta la materia si distruggesse
contemporaneamente, il suddetto ragionamento sarebbe corretto. Invece di volta in volta scorre via, ma subito ne sopraggiunge altra e questo consente alla forma di restare la stessa di numero. Si chiarisca il nostro ragionamento mediante
un esempio. Poniamo di considerare in un corso d’acqua l’ombra prodotta da un
corpo: l’ombra, pur essendo nell’acqua come sostrato, è una ed unica di numero, mentre l’acqua non resta la stessa, ma di volta in volta una parte ne scorre via,
un’altra sopraggiunge. Così si deve pensare anche della forma, poiché la materia
di volta in volta cambia, ma la forma resta sempre la stessa di numero.128
Questa è dunque in sintesi la soluzione attestata da Filopono: la forma resta la stessa perché il suo sostrato non muta mai tutto in una volta,
bensì ora una parte, ora un’altra. Si ammette però che se al contrario tutta la materia mutasse contemporaneamente, la forma non sarebbe più forma della stessa cosa.
Né l’aporia né la soluzione sono attribuiti espressamente da Filopono a Alessandro; possiamo tuttavia affermare con una certa sicurezza che
127
128
Plut. De comm. not. 44, 1083a = SVF II.762 p. 214; cfr. anche Sesto Empirico, Adv. Math. X.332 s.
Philop. In De gen. et corr., CAG XIV.2, p. 106.3-17 Vitelli. Sul debito di Filipono da Alessandro cfr. Fazzo (2002).
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la soluzione non è opera di Filopono bensì risale almeno ad Alessandro e
alla sua esegesi di quella parte del De generatione et corruptione, se non
addirittura a quella degli esegeti precedenti, dei quali a sua volta Alessandro avrebbe tenuto conto.
Lo si desume dall’esame della Quaestio I.5 di Alessandro. Questa infatti, attestando un ulteriore approfondimento del problema dell’accrescimento, presuppone quella soluzione e vi fa riferimento.
2.6.3. La Quaestio I.5129
Perché, chiede Alessandro nella Quaestio I.5, si dice che l’accrescimento
è nella forma, se l’accrescimento è in ciò che permane? Chiaramente, la
Quaestio allude qui a De generatione et corruptione I.5, in particolare a
321a 21 s., dove Aristotele dice che l’accrescimento si dice di ciò che persiste. Ma la Quaestio fa riferimento anche all’indicazione già presente nella scuola e qui sopra attestata da Filopono: la materia non muta mai tutta quanta, dunque persiste in parte anche nell’accrescimento. Senza questa dottrina della scuola, non si capirebbe l’aporia sollevata da Alessandro: perché non si può dire che la materia si accresca? La soluzione (13.17
ss.) è in qualche modo una limitazione della soluzione precedente: la materia, benché non muti per intero contemporaneamente, è però tutta in
continuo rinnovamento. Non c’è alcuna sua parte della quale si possa dire che resta sempre la stessa, una di numero, senza cambiare.
Fondamentalmente compromissoria, la soluzione della Quaestio I.5
comporta un certo riavvicinamento alla teoria aristotelica dell’accrescimento, dove la materia è considerata continuamente mutevole, senza alcuna menzione di una sua parziale persistenza; d’altra parte questa teoria risulta meno adatta della soluzione precedente a rispondere alla prima aporia, che tutto sommato rimane ancora aperta: come si può dire
che l’animale che cresce sia sempre lo stesso? C’è insomma una reale
difficoltà nell’accordare l’osservazione fisiologica della materia vivente,
che come notava Aristotele continuamente si rinnova, con la concezione scolastica, astratta e analogica, della materia come sostrato virtualmente immutabile del processo di generazione pensato per analogia con
il materiale della produzione artigianale. Un’analogia, evidentemente,
che non si presta affatto ad esemplificare il processo di accrescimento.
129
68
Della Quaestio I.5 è stata identificata una versione araba molto libera, cfr. Ruland (1981), Sharples (1992) p. 36 s. nn. 85 s., 88. Per un prospetto della relazione fra le Quaestiones e le traduzioni arabe delle liste di Dietrich e van Ess, cfr. Sharples (1987) pp. 1190 s., 1193, (1992);
fra gli aggiornamenti, Fazzo (1997), Hasnawi (1994), Zimmermann (1994); inoltre GouletAouad (1989).
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La debolezza stessa di questo anello di congiunzione fra teorie diverse
è però significativa. Mette infatti in risalto il carattere logico, se non addirittura logico-sintattico della concezione della materia come soggetto del divenire naturale, come principio di individuazione nel quale si giustifica teoricamente la relazione fra ciò che esisteva e ciò che si è generato: una concezione che non si estende agevolmente in qualunque ambito ma nasce nel
quadro della teoria della generazione e si applica soltanto in presenza di condizioni particolari; perché il modello funzioni, bisogna che la trasformazione possa essere considerata un passaggio da un contrario all’altro e che quindi la forma e la privazione si possano identificare rispettivamente, l’una con
l’uno, l’altra con l’altro contrario. Ora, i contrari di per sé sono semplici.130
Dunque la forma dovrà essere forma semplice di una materia semplice.
3. Materia e forma nei livelli progressivi della complessità naturale
Per questo nel sistema di Alessandro diventa importante la possibilità di
ridurre idealmente le forme complesse a una combinazione di forme semplici, le cosiddette “contrarietà tangibili”, caldo e freddo, secco e umido.
A sua volta, poi, ciò che è costituito dalla prima e semplice materia e dalle contrarietà tangibili può essere materia per un successivo principio di
determinazione. La complessità dell’essere si lascia così analizzare in strati o livelli, ciascuno dei quali fa da materia ai successivi. Evidentemente,
ponendo le condizioni per un’analisi graduale della relazione fra materia
e forma, Alessandro prepara l’analisi del caso più complesso, quello dell’anima umana: questo presuppone in effetti il rapporto fra forma e materia in tutti gli altri corpi naturali, che vengono considerati secondo una
gerarchia di crescente complessità.
È una teoria alquanto coerente e ben coordinata, che Alessandro sviluppa a partire da indicazioni fondamentali del De anima aristotelico; non
però in una sola opera di seguito e sistematicamente. Nel De anima ne
espone i fondamenti, ma aggiunge precisazioni e chiarimenti anche altrove, in particolare nella Quaestio II.3.131 Esaminando tale teoria, avremo modo di vedere in che modo la crescente complessità dei corpi naturali renda complessa la nozione stessa di materia, progressivamente capovolgendo in un certo senso la situazione di partenza fin qui esaminata,
tale per cui in linea di principio ogni tipo di definizione e determinazione appartiene alla forma ed è invece assente nella materia.
130
Cfr. infra, p. 78.
131
Sulla Quaestio II.3, oltre ai riferimenti in questo § I.3, cfr. infra, l’intero cap. IV.
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Alessandro distingue il discorso sull’e‰dow in diversi momenti o livelli, ordinati secondo un’ideale e progressiva cronologia logica. Possiamo parlare di momenti, perché anche a livello linguistico tali scansioni si
trovano ordinate in ideale progressione per mezzo di particelle di natura
logico-temporale. Fra queste spicca per la sua frequenza ≥dh il cui significato fondamentalmente temporale di “già”, “ormai” si trova regolarmente rivisitato da Alessandro in senso astratto. Denota infatti, come talora anche in Aristotele,132 il rapporto di diretta successione fra due gradi o elementi di una serie ordinata di progressiva complessità concettuale, livelli che esaminati invece nel senso inverso, decrescente, si descrivono con l’avverbio di senso opposto ¶ti (“ancora”) soprattutto nelle sue
forme negative oÈk°ti e mhk°ti (“non più”).133
Si tratta della teoria, espressa da Aristotele e precisata nei dettagli da
Alessandro, della progressiva inclusione delle facoltà inferiori dei viventi
in quelle superiori: questo tema, centrale nel De anima aristotelico, è accuratamente rivisitato e approfondito da Alessandro nel suo De anima e
negli opuscoli.
È proprio a questo riguardo che in Alessandro ha un ruolo caratterizzante la particella ≥dh.134
132
133
134
70
Cfr. per esempio Aristotele, De anima 417a 10-12 (dove si contrappongono ciò che è in potenza e ciò che “ormai” è in atto) e così anche 417a 28, 417b 18, 418a 4; ibid. 420b 16 (la natura si serve degli animali che “ormai” respirano); e ancora 428b 25 (si distingue ciò che è sicuro da ciò che lo è meno e da ciò su cui “ormai si può sbagliare”) e così 430a 28; ibid. 434a 8
(si contrappongono l’opera del desiderio irrazionale e l’opera della ragione).
Cfr. per es. i contesti dove, dopo aver parlato dei corpi semplici, Alessandro passa ai composti, dicendo che “ormai (≥dh) si formano come corpi composti” (Quaestio II.3.50.18 s.):
ad essi “non soggiace più (mhk°ti), come prossima, la materia prima e propriamente detta”
(Quaestio II.24. 75.7 s.); similmente cfr. Alex., De anima 37.5 (ci sono cose che si possono
dire delle piante ma non più degli animali), 53.15-18 (notevole per l’uso interconnesso di
mhd°pv, oÈk°ti, ≥dh, sempre in senso astratto) etc. Analogamente, cfr. anche ≥dh in Quaestio II.24. 76.5.
Oltre a questo e più spesso ancora, peraltro, l’uso astratto di ≥dh introduce l’apodosi di un
particolare tipo di periodo ipotetico di senso negativo, che è frequente e caratteristico in Alessandro, il periodo ipotetico cioè nel quale si nega che una certa protasi, introdotta da oÈk efi
o da locuzioni equipollenti, comporti necessariamente (≥dh) una certa apodosi: per esempio,
non perché un animale ha facoltà sensitiva, per questo ha (necessariamente) anche la facoltà
di muoversi nello spazio (cfr. Alex. De anima 29.22): in alcuni casi sì, in altri no. Non sono d’altronde irrelati questi due usi così idiomatici e caratterizzanti, nelle scansioni cioè di una serie
dove ogni successivo elemento presuppone tutti gli elementi precedenti ma non è ancora presente in alcuno di essi, e nell’apodosi di un periodo ipotetico la cui validità sia complessivamente negata. In effetti, entrambi rientrano nel quadro di una funzione eminentemente logica della temporalità: nella progressiva complessità dei livelli dell’essere, ciò che è più semplice e che in tal senso viene prima è condizione necessaria di ciò che è più complesso e che in
tal senso viene dopo; e d’altra parte Alessandro negando in determinati contesti tale connessione (nella struttura oÈk e‡... ≥dh ka€...) nega la presenza di una concatenazione causale necessaria, sufficiente e determinante, nega cioè che una certa condizione (quella preceduta da
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Aristotele aveva dato l’avvio e il modello per l’uso di ≥dh nelle scansioni di una serie ordinata, ma non per le facoltà dell’anima: aveva usato
≥dh per annoverare i diversi sensi di oÈs€a in ordine di progressiva determinazione. Così nel De anima Aristotele distingue e scandisce con ≥dh
i diversi sensi di oÈs€a:
la materia, che di per sé non è nulla di determinato; la figura e forma, che
si dice già (≥dh) come qualche cosa di determinato; e come terzo ciò che è costituito di materia e forma. (De anima, II.1. 412a 7-9)
Il passo ora citato è particolarmente presente ad Alessandro, ma non è
isolato in Aristotele. Si legge infatti anche nel De generatione et corruptione:
principio è in primo luogo il corpo sensibile in potenza; in secondo luogo
le contrarietà, cioè per esempio caldo e freddo; in terzo luogo ormai (≥dh) fuoco, acqua e gli altri corpi siffatti.135
Alessandro riprende e prosegue la sequenza connotandola specificamente come progressione di determinazioni e di facoltà che di volta in
volta includono e presuppongono quelle dei livelli precedenti.
I riferimenti a una tale sequenza, che viene così a includere tutti i
livelli dell’essere dallo stadio di minima a quello di massima determinazione, non si trovano in un luogo continuativo del De anima ma si
possono rintracciare in varie parti del trattato, esplorando come segnale le occorrenze di ≥dh: fra i sensi di oÈs€a, a materia e forma si affianca in terzo luogo ciò che ormai (≥dh) è corpo, ed è cioè uno dei corpi semplici (Alex. De anima 5.9)136; ai corpi semplici succedono poi
quei corpi che “ormai” (≥dh) sono composti, il cui sostrato è “non più”
(oÈk°ti) la semplice materia ma è esso stesso corpo (ibid, 7.14); e sopra questi si pongono i corpi organici, che “ormai” (≥dh) hanno la vita (29.4), la cui potenza ormai (≥dh) è anima (9.11); all’anima nutritiva delle piante si affianca “ormai” (≥dh) quella riproduttiva, più perfetta ma congiunta alla precedente (35.21-22); a queste facoltà negli
animali si aggiunge “ormai” (≥dh) quella sensitiva (38.19); fra gli esse-
135
136
≥dh) sia indispensabile a un’altra o ne derivi necessariamente o vi sia immediatamente connessa. Il problema meriterebbe di essere approfondito nel quadro di un’indagine sugli usi del
periodo ipotetico in Alessandro.
De gen. et corr. II.1. 329a 34-36: pr«ton m¢n tÚ dunãmei s«ma afisyhtÚn érxÆ, deÊteron d’
afl §nanti≈seiw, l°gv d’ oÂon yermÒthw ka‹ cuxrÒthw, tr€ton d’ ≥dh pËr ka‹ Ïdvr ka‹
tå toiaËta; in direzione inversa (procedendo cioè verso il sostrato) Met. VIII.3. 1028b 36 37: tÚ d’ Ípoke€menÒn §sti kay’ o tå êlla l°getai, §ke›no d¢ aÈtÚ mhk°ti kat’ êllou.
Si nota lo stretto parallelo con il passo ora citato del De anima di Aristotele II.1. 412a 7-9.
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ri dotati di facoltà sensitiva si distinguono quelli che hanno solo i due
sensi più necessari alla vita (gusto e tatto) da quelli che “ormai” (≥dh)
li hanno tutti e cinque (93.21); e si distinguono quelli inferiori, come
vermi e molluschi, da quelli “ormai” (≥dh) capaci di animosità (74.6);
sopra di tutti si pone l’uomo, l’essere razionale che “ormai” (≥dh) è dotato dell’anima perfetta e di tutte le facoltà che questa comporta (16.14)
in specie dell’intelletto, cui appartiene la capacità di mettere insieme le
sensazioni e di trarne “ormai” l’universale (83.13); e ancora si distingue l’intelletto materiale (noËw ÍlikÒw) da quello che essendo “ormai”
(≥dh) in abito (§n ßjei, 85.25) è “ormai” (≥dh) in grado di conoscere
se stesso (86.17).
A conclusione della serie, come si vede, si trovano messi in relazione
intelletto materiale e intelletto in abito, così che il primo è il presupposto
del secondo, ne è recettivo e in quanto tale ne è materia: per questo appunto si chiama materiale.
L’intelletto in potenza, che abbiamo dalla nascita (…), si chiama ed è
‘intelletto materiale’ (ÍlikÚw noËw kale›ta€ te ka‹ ¶sti, 81.24): infatti tutto ciò che è recettivo di qualche cosa è materia di quella cosa. (Alex., De anima 81.22-26).
Il noËw ÍlikÒw è dunque l’ultimo elemento della sequenza così esaminata ad avere funzione di materia rispetto ad altro. È anche l’ultimo
elemento ad essere propriamente naturale, ad appartenere cioè a tutti gli
individui di sana costituzione del livello cui pertiene - cioè a tutti gli uomini. L’”intelletto in abito” sopravviene all’intelletto materiale solo a seguito dell’insegnamento e dell’ abitudine e non contribuisce all’essere ma
solo al ben-essere dell’individuo.137
Quanto all’ “intelletto agente” o “intelletto-da-fuori”, forma pura e
non materiata, fondamentalmente identico alla causa prima e al primo
motore, è importante notare che questo resta del tutto fuori da tale sequenza: non ha infatti in alcun modo funzione di materia, né ha, esso stesso, bisogno di materia.
L’inclusione per così dire gerarchica dei progressivi livelli dell’essere l’uno all’interno dell’altro (che ha il suo modello e il suo nucleo originario nella dottrina aristotelica delle tre facoltà dell’anima) comporta che
ogni livello trovi nella configurazione e nelle facoltà del livello inferiore
le proprie condizioni di possibilità: ogni livello si instaura su quello inferiore, che in tal senso ne è materia, ed è a sua volta recettivo (dektikÒn)
del superiore, divenendone in tal senso materia.
137
72
mØ prÚw tÚ e‰nai... éllå prÚw tÚ eÔ e‰nai, Alex. De anima, 81.15-16.
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Forse qui si trova un’indicazione per comprendere, almeno da un determinato punto di vista, ciò che in passato è stato stigmatizzato, il disinteresse cioè di Alessandro nei confronti dei composti inanimati come livello
intermedio di composizione. Ogni qualvolta infatti percorra nell’ordine i
gradi significativi della sequenza, Alessandro passa direttamente dai corpi
semplici a quelli composti e animati, per poi distinguere ulteriormente i vegetali, gli animali e gli esseri dotati di intelletto. Fra i corpi semplici e quelli animati non sembrano esistere corpi composti intermedi. Nella Quaestio
II.3, che a questo riguardo è una degli opuscoli più ricchi di indicazioni sistematiche, dove i livelli di composizione sono passati in sommaria rassegna, si trovano menzionati, fra i corpi semplici e i corpi animati, solo quelli che sembrano essere corpi composti ma non lo sono propriamente, perché ciascuno degli elementi resta in essi ciò che era prima della composizione: si tratta dunque di mera giustapposizione (parãyesiw) di parti distinte, che restano distinte138 senza dare luogo ad alcuna nuova forma.
Purtroppo i testi qui in esame non precisano espressamente ciò che
a questo proposito si desidererebbe sapere, se ciò che in essi non viene
espressamente enumerato non esista affatto o si tratti di semplice omissione. Forse che davvero per l’esegeta non c’è corpo composto che non
sia animato e reciprocamente non c’è alcun corpo inanimato che sia veramente composto, tale per cui tutti gli elementi che lo compongono siano combinati in una krçsiw reciproca? E come è possibile, in tal caso,
giustificare una limitazione così drastica?
In effetti alcuni testi hanno infatti dato adito a critiche molto gravi:
l’esegeta sembrerebbe esprimervisi come se dal mescolarsi e contemperarsi o meno degli elementi dipendesse o addirittura derivasse la presenza dell’anima.
In realtà anche a questo riguardo, come è sua consuetudine, Alessandro lavora non tanto sulla teoria scientifica di per sé, quanto sulla costruzione filosofica e sui suoi elementi costitutivi – innanzitutto il lessico – nel
costante intento di chiarificarla e di caratterizzarla in modo distintivo e privilegiante rispetto alle dottrine delle scuole filosofiche concorrenti.
Per quanto riguarda il lessico, è da notare che quella scansione dei
differenti corpi in livelli di crescente perfezione agisce in modo decisivo
sulla nozione stessa di corpo, che subisce fra Aristotele e Alessandro un
restringimento determinante e significativo.
Aristotele chiamava infatti corpo anche le parti del corpo vivente e, più
occasionalmente, i prodotti dell’arte, per esempio la scure in De anima 412b
12. Alessandro invece chiama corpo solo i corpi semplici e i corpi animati.
138
Quaestio II.3, 49.22-27.
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Negli altri casi fa largo uso dei plurali neutri sostantivati, spesso in locuzioni
composte semplicemente con l’articolo, come quando indica i prodotti delle arti (tå t°xn˙) e li contrappone a quelli naturali (tå fÊsei).
In questo senso non sono corpi composti né i composti artificiali, per
esempio i farmaci, né i composti naturali inorganici, quali minerali composti e metalli. Non che Alessandro ne misconosca l’esistenza; al contrario, fa riferimento egli stesso al fatto che in essi c’è, a differenza che in altri, una vera combinazione o temperamento di componenti diverse (quello dei farmaci è per lui un esempio importante di come la combinazione
di elementi diversi possa dare luogo a proprietà assenti in ciascuno di essi singolarmente). Ma a quanto pare non li considera corpi.
La prerogativa caratterizzante del corpo è infatti l’avere una sua forma, e cioè una sua natura - “natura” definita all’inizio della Quaestio II.3
come “principio del movimento e della quiete nel corpo cui appartiene
in sé e non per accidente”. Ciò che dunque caratterizza il corpo, secondo la selettiva accezione alessandrista, è l’avere un suo principio di movimento, che nei corpi composti è diverso, più compiuto e complesso rispetto a quello degli elementi che li compongono.
Se le cose stanno così, gli unici corpi propriamente detti risultano essere i corpi semplici e i corpi animati. In questo senso potremmo ammettere che per Alessandro non esistono corpi composti che non siano
animati, senza per questo supporre che l’esegeta consideri semplici giustapposizioni tutte le combinazioni chimiche fra elementi.
Una tale spiegazione, se pure rende più sostenibile una posizione che
altrimenti potrebbe sembrare del tutto paradossale, non ne dice però le
ragioni di fondo. Perché una scansione così distanziata? Perché Alessandro passa direttamente dai corpi semplici a quelli animati? Lo fa - peraltro - senza dire nulla di preciso a questo proposito, né nella Quaestio II.3
né altrove. Forse non è un silenzio casuale. Forse davvero non aveva nulla di preciso da dire - o meglio, forse sapeva di non poter rendere adeguatamente ragione delle trasformazioni degli elementi e del loro complesso, reciproco interagire (fenomeni complessi e certo in parte misteriosi, cui tuttavia Alessandro sembra alludere in De anima 24.23 s., dove
fa ricorso all’esempio dei farmaci) attraverso la sola, nitida ma rudimentale dottrina delle due coppie di “contrarietà tangibili” del De generatione et corruptione.
Sembra d’altronde, almeno nei testi qui esaminati, che i corpi semplici si caratterizzino rispetto a quelli composti sia perché sono semplici
e non mescolati, sia al tempo stesso perché sono “semplicemente corpi”,
cioè sono privi di anima. Non a caso, Alessandro li chiama non solo tå
èplç s≈mata, ma anche, all’occorrenza, tå èpl«w s≈mata, un’espres74
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sione che ricorre frequente nella Quaestio II.3 e che non sempre è stata
interamente compresa.139
A rigore comunque il testo della Quaestio II.3 non dice né lascia intendere con chiarezza se gli ambiti di significati delle due espressioni (tå
èplç s≈mata, tå èpl«w s≈mata) si ricoprano interamente oppure no
(né dunque se di mezzo esistano almeno virtualmente altri tipi di corpi
oppure no); ma mostra perlomeno che in determinati contesti esse sono
intercambiabili. Il problema, se pure così lo si può chiamare – visto che
Alessandro non lo affronta come tale - resta in sospeso.
In qualche modo, è un’assenza, una sospensione del giudizio significativa. In effetti, l’uso stesso dell’espressione tå èpl«w s≈mata, non
esclude di per sé la possibilità di annoverare, fra siffatti costituenti, corpi
che senza essere animati non siano però corpi semplici. In ogni caso, l’esegeta descrive i corpi animati come corpi formati da corpi “semplicemente corpi” (tå èpl«w s≈mata) e formula la sua dottrina senza prendere a quel proposito alcuna posizione definita.
Sappiamo d’altronde che Alessandro nel ristrutturare ed ampliare il
bagaglio dottrinale della scuola lavora in un clima di stretta concorrenza
con le altre scuole. Quello che egli scrive è difficilmente comprensibile al
di fuori di quel contesto.
È un contesto complesso, nel quale alcune voci sembrano avere un
peso maggiore e più percepibile di altre su singoli problemi o su temi generali. Lo si vede nel caso del De anima: l’esordio risponde in modo alquanto diretto a posizioni platoniche e medioplatoniche.140 Questo però
non impedisce la presenza di fondo di riferimenti precisi, ancorché impliciti, alle posizioni assunte da altre scuole sia sull’anima stessa sia sulle
teorie fisiche che sono alla base della teoria dell’anima. Di qui la frequente
configurazione negativa di molti aspetti della dottrina di Alessandro: in
primo piano è l’errore degli avversari, da refutare; o una precedente dottrina della scuola, da rivedere per far fronte alle critiche degli avversari.
Di qui l’insistenza di Alessandro sul rapporto fra anima e corpo e sulla costituzione del corpo stesso che ha l’anima, dunque sul mescolamento, sul temperamento e sull’accrescimento del corpo organico.
Ne tratta in modo specifico il trattato di Alessandro per‹ krãsevw
ka‹ aÈj°sevw, detto De mixtione, nei cui argomenti ha un ruolo costitutivo, per l’appunto, il raffronto negativo con le tesi avversarie. La dottrina stoica della mistione totale vi è infatti espressamente controbattuta
139
140
Donde l’emendamento di èpl«w in èpl«n introdotto da Bruns (1892) in 48.3, cfr. qui infra, 183 n. 413.
Cfr. il commento di Accattino-Donini (1996) p. 103-5; Accattino (1995).
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anche nelle sue implicazioni per la dottrina dell’anima; viene inoltre confutata la dottrina di Democrito, secondo la quale, come riferisce lo stesso Alessandro, non esisterebbe alcun tipo di vero temperamento, ma tutti i mescolamenti sarebbero in realtà giustapposizione, così che le componenti resterebbero distinte e conserverebbero ciascuna la propria natura. Tale dottrina si trova rievocata indirettamente (e negativamente) da
Alessandro tutte le volte che distingue fra giustapposizione e temperamento asserendo esattamente il contrario.141
Rivedendo d’altronde l’esordio del De anima di Alessandro, dove più
forte si vede l’intento di controbattere le posizioni medioplatoniche 142 - si
può ora constatare come tutta la dottrina sin qui esposta sia funzionale agli
scopi generali del trattato: le facoltà e le attività dell’anima possono sembrare
più divine e superiori rispetto a qualunque facoltà corporea; ma quando si
sia guardata la struttura (kataskeuÆ) del corpo che ha anima non sembrerà
più così incredibile che l’anima, appartenendo a un corpo così mirabilmente costituito, abbia in sé tanti principi di movimento (De anima, 2.17 - 25).
Le facoltà dell’anima in effetti trovano almeno in parte spiegazione nella mirabile costituzione di ciò che all’anima fa da sostrato: il corpo che, considerato in questa prospettiva, non è semplicemente, poniamo, per l’anima razionale, il corpo inanimato, bensì un corpo già determinato secondo il livello di complessità e perfezione corrispondente
all’anima nutritiva e sensitiva; mentre per l’anima sensitiva fa da sostrato il corpo la cui complessità già presuppone la presenza dell’anima nutritiva; analogamente, all’intelletto “in abito” si è visto fare da materia
l’intelletto naturale, che è presente nella costituzione fisica dell’uomo e
che proprio per questa sua funzione viene detto “materiale” (noËw
ÍlikÒw). In base a questa lettura, che potremmo chiamare relazionale,
del rapporto fra forma e materia, è chiaro che la funzione di materia viene svolta di volta in volta da corpi che, per poter offrire sostrato a una
determinata facoltà (o come dice Alessandro: per poterne essere recettivi) devono disporre essi stessi di una certa determinazione formale,
che nel caso delle facoltà superiori è già molto complessa; e in quella determinazione formale è già presente una specifica compiutezza (per
esempio quella che corrisponde all’anima vegetativa), compiutezza che
141
142
76
Con lo stesso argomento, Alessandro controbatte all’occorrenza la dottrina stoica del mescolamento dell’anima nel corpo: in tale m›jiw, secondo gli stoici, l’anima manterrebbe tuttavia la
propria natura, cfr. De mixt. 217.33-35. e il commento di Accattino-Donini (1996) p. 123 s. in
Alex. De anima, 12.4.
Cfr. in Accattino (1995), p. 183, il parallelo con Attico (frgm. 7.57-63 des Places), là dove questi asserisce, contro Aristotele, che le facoltà dell’anima sono diverse dal corpo e non gli appartengono.
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Alessandro chiama “perfezione” (teleiÒthw è infatti il termine che l’esegeta sostituisce nella maggior parte dei casi all’aristotelica
§ntel°xeia). Sono dunque corpi in qualche modo già formati e compiuti quelli che fanno da materia all’anima.
Per questo Alessandro chiama l’anima compimento e “perfezione”.
Essa infatti si aggiunge (prosg€netai, §pig€netai) alla forma o perfezione di quei corpi e li rende ancora più formati, più compiuti e più perfetti: è “forma di forme e perfezione di perfezioni”. L’anima dunque trova materia non nel corpo in quanto corpo, ma nel corpo in quanto le sue
componenti hanno già una determinata forma. Ed è forma di forme, perché trova materia nelle forme dei corpi semplici dalle quali è composta
e dalle quali (§k + genitivo) ogni altra forma si genera.
Alle forme dei corpi semplici, non a caso, Alessandro dedica un’attenzione particolare, rivedendo e chiarificando anche a questo proposito
la dottrina di Aristotele.
3.1. Forme come contrari: le èpta‹ §nanti≈seiw
Le forme che per prime compaiono nella materia sono forme semplici,
abbinate a due a due in suzug€ai o sumploka€.
Dei primi corpi che si generano dalla materia, le forme sono due (…), e da
queste sono caratterizzati i corpi semplici.143
È il momento - per così dire - originario, nel quale tanto la forma che
la materia per la prima volta divengono un tÒde ti (secondo la dicitura, per
esempio, di Quaestio II.24, p. 75.7-10): un qualcosa di determinato, dotato
di esistenza separata e sussistenza autonoma (Ïparjiw, ÍpÒstasiw).144
143
144
Quaestio II. 11. 56. 27 s., 30. Questi due punti sono chiari; ma il passaggio intermedio, 56.28
s., è quasi sicuramente corrotto, lì dove fa riferimento, in apposizione alle “forme” (e‡dh)
dei corpi semplici, alle prime contrarietà: t«n goËn pr≈tvn §j aÈt∞w (i. e.: §k t∞w Ïlhw)
ginom°nvn svmãtvn e‡dh dÊo, afl pr«tai t«n afit€vn §nanti≈sevn, yermÒthtow ka‹
cuxrÒthtow, ka‹ jhrÒthtow ka‹ ÍgrÒthtow, ka‹ toÊtoiw ır€zetai tå èplç s≈mata. In
particolare lascia perplessi afl pr«tai t«n afit€vn §nanti≈sevn (“the expression is odd”,
nota anche Sharples [1992] ad loc.). Una soluzione molto probabile è suggerita dalla traduzione araba di questo passo, tradotta da Zimmermann (1994) p. 18, che porta in quel
luogo la dicitura “contrarietà tangibili”. Ora, non è affatto improbabile che l’aggettivo
APTVN, poco consueto per i copisti e in quanto tale facilmente oggetto di corruttela, sia
stato travisato, in scrittura onciale maiuscola in AITIVN, che è ciò che si legge nel testo greco della Quaestio II.11. 56.28; cfr. anche infra, cap. IV, nn. (w) e 468 sul caso, parzialmente analogo, di Quaestio II.3. 50.13. Ma il senso generale è chiaro, tanto più che è confortato da altri passi paralleli negli opuscoli stessi di Alessandro, per es. Mantissa 127.3-7, Quaestio II.3. 49.33-50.17.
I due termini Ïparjiw e ÍpÒstasiw si trovano usati quasi sinonimi in Quaestio I.17. 30.5-6;
Quaestio III.12. 106.6; Alex. De anima 90.4.
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Si costituiscono così le “nature” degli elementi o corpi semplici (stoixe›a),
secondo i dettami aristotelici del De generatione et corruptione.145
Significativamente, Alessandro, esprimendosi a questo proposito,
parla di fÊsiw del fuoco e di ciascuno degli altri elementi; nello stesso
contesto, chiama invece “forme semplici” (èplç e‡dh) il caldo, il secco,
il freddo, l’umido:146 quelle che noi spesso chiamiamo qualità, ma che nel
suo sistema sono ben più che qualità. Sono anche più di quello che noi
chiamiamo “forma”, nella misura in cui quest’ultimo termine evoca per
noi innanzitutto figura e conformazione esteriore.147 Oltre che e‡dh, Alessandro li chiama anche “contrari” o “differenze”.148 Differenze, perché
specificano e differenziano la materia.149 Contrari, perché agiscono come
termini contrapposti configurandosi e definendosi a due a due all’interno di contrarietà (§nanti≈seiw) ovvero coppie di contrari.
Il contrario infatti, di per sé, si considera come semplice, e costituisce esso stesso la forma nel suo aspetto più semplice.
In questo modo, Alessandro pone il contrario all’inizio dell’organizzazione formale progressiva. Le prime forme costitutive dei corpi semplici sono pensate come abbinamento di contrari, e quelle più complesse, come generate per composizione a partire da tali forme semplici e prime.
Il vantaggio di prendere come forme semplici e prime i singoli contrari è che questo consente un’analisi in qualche modo esaustiva anche
dei primi gradi dell’organizzazione formale, tale da spiegare non solo la
costituzione dei corpi ma anche il loro trasformarsi gli uni negli altri e
dunque il loro generarsi gli uni dagli altri: trasformazione e generazione
partono infatti dal reciproco trasformarsi l’uno nell’altro dei contrari, secondo le indicazioni del secondo libro De generatione et corruptione.
In particolare, la prima parte di quel libro (capp. II.1-7) è dedicata a
dimostrare che caldo, freddo, secco, umido sono “le prime fra le contrarietà tangibili” (afl pr«tai t«n èpt«n §nanti≈sevn),150 e che da queste
in qualche modo derivano tutte le altre.
145
146
147
148
149
150
78
De gen. et corr. II.3. 330a 33-b 5.
Quaestio II.3. 50. 10-16.
Mantissa I. 101. 22-8 dice infatti che oro, argento, fuoco hanno la stessa materia e differiscono per e‰dow; e dice questo considerandoli in sé, a prescindere dunque dall’aspetto esteriore
degli oggetti che da quei metalli può ricavare l’artigiano.
In Mantissa, 127.5, più precisamente, si parla di “differenze semplici tangibili” (èptika‹ èplçi
diafora€). Sull’importanza della tangibilità, cfr. qui di seguito infra.
In questo esiste un’analogia, seppur parziale, fra come i contrari specificano la materia e come
le forme, intese allora come specie, differenziano e specificano il genere. Un parallelo in tal
senso è svolto nella Quaestio II.28, sulla quale cfr. supra, § I.2.5, pp. 63-5.
Tale è l’espressione precisa che usa anche Alessandro, se sono corrette le ricostruzioni di cui
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Quando si parla di “contrarietà tangibile”, l’aggettivo “tangibile”,
èptÒw, esprime il modo nel quale tali contrarietà possono essere rilevate:
attraverso il senso del tatto. Per Aristotele, infatti, “è chiaro che non tutte le contrarietà producono forme e principi di corpo, ma solo quelle secondo il tatto”.151
Non sappiamo in che misura Alessandro, leggendo e interpretando
le pagine di Aristotele sulle “contrarietà tangibili” (De gen. et corr. II.1-4)
raccolga un’eredità esegetica già consolidata da parte dei precedenti commentatori di Aristotele. Quello che però possiamo dire con sicurezza è
che Alessandro consegna alla tradizione successiva una teoria definitiva e
sistematica della costituzione di corpi esistenti e percepibili a partire dalla materia e dalla forma prime ed assolute. Tale teoria si fonda, per l’appunto, sulla dottrina delle “contrarietà tangibili”.
L’importanza di questa teoria si può verificare anche nel fatto che
mentre in Aristotele l’espressione ora menzionata, “contrarietà tangibili”
(èpta‹ §nanti≈seiw) compare, a quanto mi risulta, solo nei primi capitoli del secondo libro del De generatione et corruptione, Alessandro la usa
invece più spesso, cioè virtualmente ovunque si tratti della costituzione
dei corpi semplici e delle loro reciproche differenze.
3.1.1
Le èpta‹ §nanti≈seiw in Aristotele.
Anche nel De generatione et corruptione, dove cerca i principi fisici dei
corpi naturali, Aristotele segue il suo metodo abituale: esaminate le dottrine dei predecessori, prende come punto di partenza ciò che in esse ha
trovato valido, e di lì la sua elaborazione personale prende forma di critica, a miglioramento a quegli aspetti di tali dottrine che invece risultano
perfettibili. Nel De generatione et corruptione approva dunque coloro che
prima di lui avevano postulato “una materia unica dietro a tutti gli elementi”; e al tempo stesso li critica, perché “avevano immaginato questa
materia [sc.: una materia non specificata da alcuna contrarietà] come corporea e dotata di esistenza separata”.152 Aristotele infatti ritiene impossisupra, n. 143. Che le quattro forme semplici costituiscano due §nanti≈seiw - e che dunque ≤
§nant€vsiw per Alessandro non sia sinonimo di tÚ §nant€on, ma consti a sua volta di due
§nant€a, si vede chiaramente in Quaestio II.3. 50.13-14, su cui cfr. infra p. 204 nn. 466, 468.
È vero che l’uso aristotelico del termine §nant€vsiw è sufficientemente indefinito da non lasciare sempre stabilire se esso comprenda in sé uno solo o entrambi i contrari. Ma non mancano passi che depongono espressamente, già in Aristotele, per la soluzione adottata da Alessandro, indicando con §nant€vsiw la coppia di opposti, per es. De anima 411a 3-4.
151 De gen. et corr. II.2. 329b 8-10.
152 De gen. et corr. II.1. 329a 9-10. Nessun sensibile è tale in assenza di contrari, dice Aristotele
anche in De sensu, 442b 17-18.
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bile che la materia sia qualche cosa di corporeo senza essere specificata
da alcuna contrarietà.153 Con l’occasione, Aristotele critica anche la teoria del pandex°w (“ricettacolo di tutto”) consegnata nel Timeo di Platone, perché “non specifica in modo sicuro (saf«w) se il pandex°w sia separabile o meno dagli elementi”.154 In realtà, come si vede, Aristotele
identifica il pandex°w di Platone con il proprio concetto di materia; e volendo però affermare risolutamente, a differenza dei suoi predecessori,
che la materia non esiste separatamente, rimprovera a Platone di non aver
fatto altrettanto: Platone avrebbe dovuto dire esplicitamente ciò che il Timeo lascia presumere solo indirettamente, e cioè che il pandex°w in questione non è separabile dagli elementi;155 solo così - dice Aristotele - ciò
che dice il Timeo sarebbe stato - per l’appunto - saf°w.
Una volta però rivisitato in questo senso e con questa riserva, si può
vedere il pandex°w platonico all’origine della nozione di materia come tÚ
dektikÒn, che in Alessandro diverrà ricorrente e consueta.
Naturalmente il riferimento intermedio fra Platone e Alessandro, è,
anche qui, Aristotele, che nel secondo libro De generatione et corruptione aveva specificato il concetto di recettività in modo preciso. Ricordiamone brevemente le movenze argomentative.
Aristotele inizia la propria trattazione positiva dicendo che la materia è ricettacolo perché è recettiva dei contrari.
Noi affermiamo che esiste una materia dei corpi sensibili; e che però questa non può sussistere separata, bensì è sempre unita con una contrarietà. Da essa si generano i cosiddetti elementi.156
153
Testo greco e interpretazione di De gen. et corr. II.1. 329a 10-11, al cui senso generale faccio
qui riferimento, sono peraltro controversi, cfr. ad loc. Joachim, p. 194.
154 De gen. et corr. II.1. 329a 14-15.
155 De gen. et. corr. II.1. 329a 8-15. In effetti il Timeo stesso suggerisce, seppure implicitamente,
che il pandex°w, il “Ricettacolo”, non possa esistere separatamente. Se anche infatti si interpreta quel mito letteralmente, cioè nel senso di una creazione del cosmo nel tempo, tuttavia
non vi è menzionato alcun processo precedente, nel quale gli elementi si siano venuti a formare prima della costituzione del cosmo, e questo sembra implicare che essi siano stati sempre presenti, dunque che la materia non sia preesistita ad essi. Questo vale poi a fortiori nel caso di una lettura allegorica e non-creazionista, secondo la quale tutto ciò che il demiurgo crea
sarebbe stato, in realtà, sempre presente. In ogni caso, tracce degli elementi sarebbero state
presenti nel pandex°w anche senza azione divina, cfr. 52d-53b (ringrazio R. W. Sharples per la
discussione relativa a questa nota).
156 De gen. et corr. II.1. 329a 24-6. In questo modo, si può dire, Aristotele corregge il pandex°w
platonico in funzione della propria dottrina, secondo la quale la materia ultima non esiste separata da contrarietà ed elementi. Più tardi, si assisterà ad un processo inverso: commentatori
neoplatonici, per esempio Simplicio, estrapoleranno forzatamente da Aristotele una dottrina
della prima materia, perché leggeranno Aristotele alla luce della teoria platonica del pandex°w,
quasi equiparando le due dottrine. Cfr. in proposito le osservazioni di King (1956), p. 388 s.;
Happ (1971) p. 122 s.
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Asserito ciò, Aristotele pone il problema di in che modo, da tale
materia, si generino i corpi semplici. Il presupposto è che il numero degli elementi materiali primi, cioè irriducibili ad altri, possa essere stabilito con ragione di causa. In questo Aristotele intende distinguersi
dai predecessori, fra i quali non manca chi (come Empedocle) aveva
già posto quegli stessi quattro elementi che poi Aristotele stesso avrebbe adottato, ma senza spiegare perché dovessero essere proprio quelli, e in quel numero.157
Principi dei corpi sono dunque le contrarietà, in particolare - argomenta Aristotele - quelle che cadono sotto la sensazione.158 Fra queste,
poi, quelle tangibili sono le più comprensive: comprendono infatti tutta
la realtà corporea. Di qui la necessità di isolare le “contrarietà tangibili”
(afl èpta‹ §nanti≈seiw) prime ed elementari, irriducibili ad altre. Per
questa via, Aristotele risolve il problema dei principi dei corpi naturali
nell’analisi delle “contrarietà tangibili”:
Bisogna dire quali e quanti siano i principi, intesi come principi del corpo:
gli altri infatti usano e pongono dei principi, senza però dire perché siano quelli
e in quel numero.
Poiché dunque cerchiamo i principi del corpo sensibile, ed esso è tangibile, e tangibile è ciò che è percepibile tramite il tatto, è chiaro che non tutte le contrarietà costituiscono forme e principi corporei, ma solo le contrarietà secondo il
tatto; infatti i principi differiscono per contrarietà, e cioè per contrarietà tangibile. Perciò né bianco né nero né dolce né amaro né alcun altra contrarietà sensibile producono alcun elemento. (…) Innanzitutto, dunque, bisogna stabilire,
fra le differenze e contrarietà tangibili, quali siano le prime.159
3.1.2. Alessandro in Aristotele De generatione et corruptione sulle èpta‹
§nanti≈seiw.
Pur ristrette a quelle “tangibili”, le “contrarietà che l’esperienza può
annoverare in natura sono numerose: liscio e ruvido, pesante e leggero, denso e rado e così via. Si tratta dunque di identificare quelle irriducibili e prime. Aristotele le riconduce tutte progressivamente a un
numero sempre più ristretto, cioè in prima analisi a sei coppie: secco e
umido, pesante e leggero, duro e molle, vischioso e friabile, ruvido e liscio, spesso e rado. A loro volta, poi, queste sei coppie vengono ridotte a due sole, nelle quali si oppongono le quattro qualità freddo e caldo, secco e umido. Afferma Aristotele:
157
De gen. et corr., II. 329b 3-6.
Cfr. §nant€vsiw afisyhtÆ, De gen. et corr. II.1. 329a 10 s. Joachim (cfr. supra, n. 153).
159 Arist. De gen. et corr. II.1-2, 329b 3-13, 16-18.
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È dunque evidente che tutte le altre differenze160 possono essere ricondotte alle prime quattro, e che queste ultime, invece, non si possono ridurre ad un
numero minore. Infatti il caldo non è lo stesso che l’umido o il secco, né l’umido
lo stesso che il caldo o il freddo, né il freddo e il secco sono subordinati fra loro,
né al caldo e all’umido.161
Il commento originale di Alessandro al De generatione et corruptione, allo stato attuale delle conoscenze, è perduto. Ma Filopono, che
lo usa ampiamente nel proprio commentario, ci testimonia con quale
interesse ed attenzione Alessandro discutesse queste pagine di Aristotele: citando infatti a più riprese il commento di Alessandro, lascia intravedere, da parte del suo predecessore, una discussione estesa e dettagliata, della quale peraltro sembra servirsi molto più spesso di quanto non riconosca espressamente. Ne risulta che Alessandro motivò con
cura e rigore logico i capisaldi dell’argomentazione aristotelica, che si
trovavano nel testo originale più abbozzati che non compiutamente
giustificati.162
Alessandro discusse, in particolare, cosa che non aveva fatto Aristotele, perché ulteriori coppie di opposti tangibili diverse da quelle prime
sei non fossero state incluse nel novero delle prime (Filopono cita, in particolare, la discussione di Alessandro sulla coppia manÒthw e puknÒthw,
rado e fitto, che viene ricondotta a quella di pesante e leggero163); ed esaminò nel dettaglio, più di Aristotele stesso, in che modo le sei coppie si
potessero ricondurre alle due coppie finali (Filopono cita la discussione
di Alessandro sul rugoso e il liscio, riportati al secco e all’umido164).
3.1.3. La materia come ricettacolo delle èpta‹ §nanti≈seiw
La necessità di un vaglio così attento degli argomenti che portano Aristotele a ridurre le coppie a due sole si comprende bene, se si consideSi noti l’uso di diaforã nel senso di e‰dow semplice o §nant€on, più tardi adottato da Alessandro. L’uso aristotelico, anche in questo caso, prevede una gamma più sfumata di possibilità, cfr. Bonitz s. v.
161 Arist. De gen. et corr. II.2. 330a 24-29.
162 Come fonte della dottrina alessandrista qui in esame, cfr. in part. il commento di Filopono ai
capp. De gen. et corr. II.2-4 con Fazzo (2001). La testimonianza di Filopono su Alessandro è
corroborata e in alcuni punti ampliata da quella di Averroé, Commento medio al De generatione et corruptione, tr. e nn. Kurland (1958) ad loc. Sugli ampi frammenti in arabo da Alex. in
De gen. et corr. II.2-5 presso Ja–bir nell’inedito MS arabo parigino 5699 cfr. Gannagé (1998),
Fazzo (1999.1); id. (2001).
163 Alex. ap. Philop. in De gen. et corr. 214.22-30.
164 Alex. ap. Philop. ibid. 223.9-13, in Arist. II.2. 330a 24-29.
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ra quale centralità abbiano le “contrarietà tangibili” nel sistema alessandrista.
Sovente Alessandro ricorda, sia nel De anima sia nelle Quaestiones,
che a fare della materia qualche cosa di determinato sono le prime contrarietà tangibili. Infatti quelle quattro fondamentali forme (e‡dh) o differenze (diafora€), freddo, caldo, secco, umido, in tutte le loro possibilità combinatorie costituiscono i quattro corpi primi e semplici, i quali
proprio per questo sono quattro: caldo e secco costituiscono la natura del
fuoco, caldo e umido dell’aria, freddo e umido dell’acqua, freddo e secco della terra.165 In questo, evidentemente, Alessandro ripete più distintamente quello che si legge nel seguito del secondo libro De generatione
et corruptione, dove Aristotele argomenta proprio in questo modo che gli
elementi primi devono essere quattro, e proprio quei quattro.166
In virtù di una tale riduzione ai minimi termini delle determinazioni
formali, il mutamento e la trasformazione reciproca degli elementi si risolvono in un ciclico e vicendevole passaggio da un contrario all’altro,
secondo la virtualità insita nella Ïlh come ricettacolo dei contrari. Alcune trasformazioni sono più facili, perché comportano il mutamento
di un solo contrario: data per esempio l’acqua, mutando il freddo in caldo si ha l’aria; altre più difficili, perché richiedono il mutamento di entrambi i contrari: ancora dall’acqua, mutando sia il freddo in caldo che
l’umido in secco si ha il fuoco; altre più facili di queste ultime, ma più
difficili delle prime, comportando non in uno ma in due corpi il mutamento di un contrario ciascuno, con la conseguente formazione di un
unico elemento, differente da entrambi i precedenti: dal fuoco e dall’acqua, si forma l’aria se il fuoco perde il secco e l’acqua perde il freddo. Sono i tre “modi di trasformazione” che Alessandro, commentando
il testo di Aristotele (De gen. et corr. II.4), numerò in ordine di comparizione nel testo - Aristotele invece né li numera né li elenca così distintamente. Ancora nel nostro tempo, i commentatori (in particolare Joachim; ma già nell’antichità Filopono, e nel medioevo Averroé) li analizzano e numerano in quel modo senza esitazioni e senza riferirsi ad una
Alessandro chiama caldo, freddo, secco e umido talora “differenze” (diafora€) in quanto distinguono ciascuna un corpo semplice da un altro; talora anche e‡dh, impiegando qui il termine nel senso di fattore formalmente qualificante. Talora inoltre egli condensa i due concetti nell’espressione, pure caratteristica del lessico di scuola, efidopoioËsai diafora€, sulla quale cfr. anche infra, cap. II, §§ 2.5, 3.3, 3.5.
166 Essendo due le coppie di “forme” contrarie fondamentali (afl pr«tai §nanti≈seiw), ed essendo due le “forme” in ogni elemento, sono possibili quattro combinazioni, dunque quattro
elementi: quattro “perché le combinazioni di caldo, freddo, secco e umido sono quattro”, come ci ricorda anche Mantissa VIII. 127.13. Lo schema è condotto sulla traccia aristotelica, cfr.
in particolare Arist., De gen. et corr. II.3. 330a 33-b 5.
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particolare autorità, sulla scorta di una tradizione ormai anonima, che
in realtà risale al perduto commento di Alessandro in De generatione et
corruptione.167
Quel che qui giova osservare in funzione di un’indagine sul concetto di materia è che questo schema spiega la generazione come trasformazione; inoltre spiega la trasformazione da una forma all’altra come passaggio da una forma al suo contrario; e identifica il contrario, che così
compare, con la privazione della forma contraria (per esempio il freddo
come privazione del caldo) della quale pure quella stessa materia è recettiva, cosicché la presenza di una forma coincide con la privazione, per
quella stessa materia, della forma contraria.
Si conciliano così due schemi dottrinali differenti, entrambi attestati in Aristotele come modi per spiegare il processo di generazione:
“materia-forma-privazione” e “materia-contrario-contrario”.168 Questi divengono traducibili l’uno nell’altro, per il tramite della dottrina
delle contrarietà tangibili. Solo infatti dove la forma è semplice si può
dire propriamente che la forma abbia un contrario (è infatti essa stessa un contrario: caldo o freddo, secco o umido) e che la presenza di
questo suo contrario comporti dunque l’assenza e la privazione della
forma medesima.
Di più, la teoria aristotelica del passaggio dalla potenza all’atto si risolve così in quella della recettività (e si dissolve dunque a favore di quest’ultima, che viene stabilmente privilegiata nelle formulazioni dell’esegeta169): il concetto di potenza si precisa infatti come potenzialità per il
contrario e dunque come recettività del sostrato nei confronti sia di una
determinata forma sia della forma contraria (di “forma” si tratta, già si è
visto, in Alessandro, piuttosto che di qualità170). Il presupposto, s’intende, è sempre quello della derivazione di tutte le forme dalle forme semplici ovvero dalle contrarietà semplici.
Questo consente, come si è visto, di analizzare i livelli complessi di
composizione per gradi successivi, fino ai corpi animati e ai corpi animati di anima razionale. È un’analisi - si può notare - che nonostante una certa tendenza alla schematizzazione risulta in realtà più versatile, più esau167
Fazzo (2002).
Come si è osservato supra, § 1.3, gli scritti di Alessandro, come opere di scuola, presuppongono un problema di omologazione fra i diversi schemi che spiegano in Aristotele il processo di
generazione naturale.
169 È anche questo, fra l’altro, un modo per tradurre le formulazioni aristoteliche che parlano di
atto e potenza, attivo e passivo, in termini di forma e materia (cioè sostrato recettivo della forma), secondo la tendenza generale delineata supra, “Introduzione”, § 1.3 p. 47; n. 63 p. 45.
170 Vale anche a questo riguardo l’osservazione della nota precedente.
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stiva e meno riduttiva di quella che gli avversari, soprattutto di parte platonica, solevano attribuire alla dottrina aristotelica dell’anima.171
3.1.4. Privazione e contrario: la Quaestio II.11
Anche la Quaestio II.11, che tratta della relazione e differenza fra privazione e contrario, è un esempio significativo di come l’omologazione fra
schemi dottrinali diversi possa dare luogo ad aporie e di quale ruolo centrale possa avere nella loro risoluzione il concetto di materia.
Data infatti la seguente aporia
Perché ciò che si genera mutando dalla privazione muta al tempo stesso dal
contrario, se davvero la privazione e il contrario non sono la stessa cosa?
la Quaestio II.11 pone espressamente al centro, come nodo della soluzione, la materia:
Forse dunque causa di questo la materia, la quale, essendo sostrato comune di tutti gli esseri soggetti a generazione e corruzione, è in potenza tutti, perché può mutare in ciascuno di essi (e per questo si dice infatti che è in potenza
tutte le cose) senza avere nella sua definizione e nella sua sostanza (oÈs€a) nessuno degli esseri che da essa si generano e nei quali essa muta…172
Nella materia infatti coesistono una privazione e un contrario. La differenza è che “il contrario è una forma” mentre la privazione che con esso coesiste “è assenza di qualcosa di cui il sostrato è recettivo per sua natura”, cioè, in altre parole, è l’assenza della forma contraria a quella che
vi è presente in atto173 (è solo infatti in queste condizioni che si può parlare di “privazione”: qualora cioè sia assente qualche cosa che potenzialmente è presente174).
Della generazione (intesa come generazione di corpi semplici) si può
dire dunque alla stessa stregua sia che avviene per passaggio da un contrario all’altro, sia che avviene per passaggio dalla privazione alla forma: sostrato in entrambi i casi è la materia. Esplicitamente, Alessandro mette in
relazione le due possibilità. La generazione, spiega la Quaestio II.11, avviene da un contrario all’altro e dalla privazione alla forma, in quanto la presenza di una forma nella materia comporta la privazione, per la materia stessa, del contrario di quella forma. Il mutamento della materia da una forma
171
Cfr. in proposito Accattino (1995) e la connessa bibliografia; qui infra, § 4.
Quaestio II.11. 55.24-56.1.
173 Quaestio II.11. 55.23-4.
174 Cfr. Alex. in Met. 327.14-22.
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al suo contrario è dunque possibile in virtù della privazione che regolarmente accompagna nella materia sublunare la presenza di qualsiasi forma:175
In quanto, infatti, (la materia) è nel contrario del caldo, è in privazione di esso, e finché è in quello, resta anche in privazione. Per il fatto dunque che alla presenza di un contrario è congiunta la privazione dell’altro, è anche necessario che,
quando il sostrato passa dall’esserne privo all’averlo, per questo si trovi privo di
quella (forma contraria) che era la sua causa di esistenza quando era presente.176
Così, la presenza di un contrario e la privazione dell’altro si alternano nella materia alla presenza del secondo e alla privazione del primo. Siamo al livello zero - per così dire - dell’organizzazione formale progressiva. Il rapporto fra forma e materia, basilare e fondamentale per il sistema
del mondo fisico, non potrebbe essere formulato in termini più astratti.
A questo livello zero, Alessandro fa spesso ricorso, come a un orizzonte
teorico privilegiato. Su questo orizzonte si colloca, quale suo luogo naturale, la differenza fra materia prossima e materia “propriamente detta”.
3.2. I sunamfÒtera semplici fra materia prossima e materia prima: la
Quaestio II.24
Non trascura infatti Alessandro, pur nella sua posizione assolutamente
radicale, il fatto che in molti casi la materia può essere una materia determinata, relativa a uno specifico oggetto e a una determinata forma. È
in tal senso che già Aristotele aveva detto che la materia è un concetto
relazionale, un prÒw ti: ad una diversa forma corrisponde una certa materia.177 Così avviene infatti in tutti i casi nei quali una materia si presenti
all’esperienza sensibile, come sostrato che, sussistendo in sé, sia soggetto a un processo di determinazione formale. Per preesistere in atto, infatti, deve già essere determinato in qualche modo. Alessandro chiama
tale sostrato “materia prossima” (Ïlh prosexÆw) a causa del suo “soggiacere da vicino” (prosex«w Ípoke›syai) - contrapposto al “soggiacere ultimo” che è proprio dell’¶sxaton Ípoke€menon, ovvero della materia prima e “propriamente detta” (Ïlh kur€vw, sott. legom°nh). Anche
quest’ultima può “soggiacere da vicino”, ma solo ai corpi assolutamente semplici, i primi cui danno forma le èpta‹ §nanti≈seiw: acqua, aria,
175
Diverso è il caso della materia celeste, che, differente da quella sublunare (cfr. Quaestio I.15),
non è recettiva dei contrari, né, dunque, della privazione (cfr. Quaestio I.10, e su entrambi i
testi infra, cap. II). Nel passo ora citato, una volta di più, sembra intendersi e‰dow come forma
semplice, cioè come contrario.
176 Quaestio II.11. 57.1-6. “Il sostrato” sembra detto qui come sinonimo di materia.
177 t«n prÒw ti ≤ Ïlh: êllƒ går e‡dei êllh Ïlh (Arist., Phys. II.2. 194b 9).
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terra e fuoco. A tutti i corpi diversi dai corpi semplici, invece, “soggiace
da vicino” qualcosa che è già a sua volta un sunamfÒteron, ovvero una
sunamfÒterow oÈs€a di forma e materia.
Alessandro infatti, secondo l’uso corrente, considera corpi semplici
il fuoco e gli altri cosiddetti elementi. Eppure, in essi si possono distinguere, almeno concettualmente, forma e materia come componenti diverse.178 Dove è importante evitare equivoci, Alessandro non dice pertanto che essi siano sÊnyeta, “composti”, bensì che sono sunamfÒtera: partecipano infatti di forma e di materia.179
Le due distinzioni, quella tra materia prima e materia prossima e
quella tra corpi semplici e corpi composti, si intersecano l’una con l’altra,
in conformità ad un implicito criterio di economia concettuale e di reciproca funzionalità.
Lo vediamo meglio che altrove nella Quaestio II.24. L’opuscolo, già
qui sopra citato, si presenta come un’esegesi del lemma del De anima aristotelico che tratta della oÈs€a nel senso della materia: “in uno dei suoi
178
Sul carattere intellettuale della distinzione, cfr Alex. De anima 2.25 - 3.2.
179 L’aggettivo sunamfÒterow è meno aristotelico (nonostante De gen. et corr. I.6.322a 21) che pla-
tonico: fra le varie occorrenze platoniche, Alessandro potrebbe aver tenuto presente quella di
Plat. Alc. I, 130a, che si riferisce all’insieme di anima e corpo (cfr. anche Conv. 209b; e Alcinoo,
Did. c. 33, 187.31). In quel caso si avrebbe un’ulteriore ragione di ritenere che chiamando in
quel modo l’insieme di forma e materia, Alessandro pensi questo insieme in funzione della relazione di anima e corpo. Di fatto, il termine è corrente in Alessandro, talora, al neutro sostantivato, tÚ sunamfÒteron (De anima 13.25, 78.3, 25); più spesso, come aggettivo sunamfÒterow oÈs€a (ibid. 13.8, 17.34, 42.12, 13, 75.27, 30, 34, 76.5, 7, 77.4, 5). Un possibile
sinonimo è tÚ sugke€menon, cfr. Alex. in Met. 422.6 s., dove l’espressione tÚ sugke€menon §j
e‡douw te ka‹ Ïlhw ricorre a poche righe di distanza da tÚ sunamfÒteron §j e‡douw ka‹
Ïlhw (422.13) e con lo stesso significato. Entrambe sostituiscono tÚ sÊnyeton §k t∞w Ïlhw
ka‹ t∞w morf∞w nel testo di Aristotele 1023a 31 s. Come esempio dei problemi che possono
essere connessi all’uso del termine “composto” per i corpi semplici e che la cautela di Alessandro consente invece di evitare, si vedano le critiche mosse da King (1956), p. 373 e 377, nei
confronti di Joachim, che nelle sue note in Arist. De gen. et corr. chiama i quattro elementi “sostanze composte”. In effetti, distinguendo più da vicino, bisognerebbe dire che sono in gioco
due sensi differenti della parola “composto”. È verosimilmente per questo che, consapevole
dell’ambiguità, Alessandro tiene ben separati, nei suoi usi lessicali costanti, il sunamfÒteron
(o più precisamente la sunamfÒterow oÈs€a) cioè l’insieme di forma e materia, e il sÊnyeton,
il composto di più corpi semplici. Per una chiara distinzione, cfr. Quaestio II.24, 76.3-5 (la distinzione non è invece presente in Mantissa I. 101. 17-22, che chiama ripetutamente sÊnyeton
l’unione di forma e materia). Qui e più oltre, traduco sÊnyeton con “composto”, mentre per
sunamfÒteron mantengo il termine greco. Potremmo anche tradurre sunamfÒteron con “sinolo”, sulla scorta della traduzione scolastica, ma questo rischierebbe di aumentare la confusione. Infatti sÊnolon in Aristotele non è solo il sunamfÒteron, bensì ricopre altri sensi (il
tutto rispetto alle parti, la miscela rispetto ai componenti: sensi che, come meglio vedremo nel
§ 4.1.2 qui infra, Alessandro nega si possano riferire all’insieme di forma e materia). Alessandro stesso mostra di ritenere sÊnolon un termine ambiguo, cfr. in Met. 178. 24-32, a commento di Arist. Met. 995b 34 s.
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sensi - aveva detto Aristotele - la sostanza si intende come materia”.180 È
a questo proposito che trova luogo una distinzione particolarmente nitida fra la materia dei corpi semplici e la materia dei corpi composti.
Dei corpi semplici e primi, la materia non è qualche cosa di determinato
nemmeno se la si considera completamente di per sé, perché ad essi soggiace come prossima la materia prima e propriamente detta. Riguardo invece ai corpi
composti, poiché ad essi non è più sostrato prossimo la materia prima e propriamente detta ma la materia è costituita da corpi che fanno da sostrato a questi, se
davvero la materia di questi è costituita dai cosiddetti elementi, la loro materia
sarà qualche cosa di determinato.181
Per questo, come già sopra si è visto, la materia del corpo composto,
diversamente da quella del corpo semplice, ha una sua forma, che non
sarà però responsabile, come precisa subito Alessandro, della forma del
composto stesso.182 È ora utile osservare come la “materia prima e propriamente detta” (≤ pr≈th ka‹ kur€vw Ïlh) venga in qualche modo postulata come sostrato al di là dei corpi semplici: reciprocamente, infatti,
si definiscono come semplici quei corpi cui non soggiace altro che la materia prima, e che devono esistere, altrimenti i corpi composti non sarebbero composti.183 Scrive infatti Alessandro nel De anima:
Poiché i corpi naturali si distinguono in semplici e composti, la materia che
è sostrato ai corpi composti è anch’essa un corpo naturale, fatto di forma e materia - tutti i corpi infatti sono composti da queste due; invece i corpi semplici non
hanno più un sostrato composto, altrimenti anch’essi come corpi sarebbero composti; e se il loro sostrato non è composto, non è nemmeno un corpo, se davvero
tutti i corpi sono composti di forma e materia. La materia che è sostrato ai corpi
semplici sarà allora una natura semplice e senza forma, priva per sua definizione
di figura, forma e configurazione, a causa della quale, poiché è e si dice essere priva di forma, si chiama forma ciò che, producendosi in essa vi fa cessare la suddetta
privazione. Una tale natura si può chiamare materia in senso principale.184
180
Arist., De anima II.1. 412a 6. Chiaramente, tuttavia materia è in Aristotele un’accezione non
primaria del concetto di oÈs€a (cfr. p er es. Met. VII.3. 1028b 33-36, dove è il quarto fra quattro sensi diversi).
181 Quaestio II.24. 75.5-10.
182 Quaestio II.24. 75.10-26. Come qui si vede, è mediante tale uso relazionale e analogico della
coppia forma-materia, che Alessandro, sulla scorta di Aristotele, trova il modo di sviluppare la
dottrina dell’anima come e‰dow del corpo. Tale implicazione, cui era direttamente funzionale
la parte qui esaminata della Quaestio II.24, si fa esplicita nelle righe che seguono, 75.29 ss.
183 Il carattere funzionale di tali definizioni è particolarmente evidente se si considera che in realtà
per Aristotele i corpi che stanno al centro del cosmo sono tutti misti, composti cioè di tutti e
quattro gli elementi. Cfr. De gen. et corr. II.8. 334b 31-335a 23. C’è dunque uno scarto fra realtà
concrete ed elementi: questi ultimi sono come dei postulati teorici, nel senso che non si danno mai concretamente nell’esperienza sensibile.
184 Alex. De anima 3.21 - 4.4. Come Accattino-Donini (1996), traduco 3.26 secondo la congettura dell’editore Bruns ad loc.
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Tale materia prima, postulata come materia delle diverse materie dei
corpi composti, costituisce in qualche modo il rovesciamento speculare
della definizione di anima nel De anima stesso di Alessandro: “forma delle forme”. E cioè: se l’anima, come dice Alessandro, è forma di forme, e
se dunque materia dell’anima sono forme, o perlomeno sono corpi formati, la materia di queste forme o di questi corpi formati che fungono da
materia sarà, rispetto all’anima, materia di materie. Precisamente, sarà materia dei corpi semplici, che a loro volta fanno da materia ai corpi composti. Per questo la sua è un’esistenza virtuale: la si ricava analiticamente
dalla distinzione fra corpi composti e corpi semplici. D’altronde anche
l’esistenza stessa dei corpi semplici si ricava così, analiticamente, dalla nozione stessa di corpo composto. Di fatto, né la materia prima, né i corpi
assolutamente semplici esistono mai in atto di per sé, né cadono di per sé
sotto la percezione dei sensi. Anzi, se questo vale per i corpi semplici, vale a fortiori per la materia, che li precede: la materia prima non esiste senza aver subito l’azione “eidopoietica” dei contrari, e precisamente di quei
contrari (caldo, freddo, secco, umido e i loro derivati) che sono percepibili ai sensi. Sono le contrarietà tangibili a fare di essa un corpo in atto.185
Il verbo che usa Alessandro a questo proposito, cioè per indicare
l’azione dei contrari sulla materia, è molto specifico: efidopoi°v.186 Lo
troviamo ordinariamente costruito al passivo con il dativo delle “differenze” (diafora€)187 o “contrarietà tangibili”, e delle loro suzug€ai o
sumploka€ (combinazioni cioè di due a due). Tali differenze che si
combinano in suzug€ai sono cause efficienti di determinazione formale: per questo si costruiscono al dativo con efidopoi°v al passivo, e
si caratterizzano (mediante il corrispondente aggettivo verbale) come
efidopoio€.188
Troveremo tuttavia anche, almeno in un caso, efidopoi°v con ÍpÒ e il
genitivo, per indicare, quasi si trattasse di un agente animato, la possibile
causa efficiente ultima, della quale a suo luogo andremo a parlare.189
185
Cfr. per es. Quaestio II.3. 49.32, letto come qui infra, ad loc., secondo l’emendamento di Moraux (1967.1) p. 167: §nerge€& s«mã §sti. Cioè: determinata dalle prime contrarietà, la materia è corpo in atto. Ma, si potrebbe precisare, la sua è ancora un’esistenza virtuale (come lo
è l’esistenza dei corpi semplici), e tale resta finché non diventa materia dei corpi composti (la
cronologia, come si è detto, è logica e non temporale).
186 In Aristotele non si trova il verbo efidopoi°v, ma compare, un paio di volte, l’aggettivo efidopoiÒw, riferito in particolare alla diaforã: Cfr. Top. VI.6. 143b 7 s., dove la diaforã è efidopoiÒw toË g°nouw.
187 Cfr. Quaestio I.10.21.8 ss. sulle efidopoio‹ diafora€ in virtù delle quali un unico sostrato può
differire, qualora lo si consideri come genere di più specie di sostrato.
188 Cfr. Quaestio II.3. 50.1-5; I.6. 14.24, 15.2.
189 Quaestio II.3. 49.31-2, e ad loc. infra, cap. IV.
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4. La materia nei corpi animati
I diversi procedimenti dottrinali sin qui analizzati hanno in comune, pur
nella varietà dei punti di vista, la tensione verso una nozione stabile di materia come sostrato immutabile di tutti i processi di generazione. La materia prima, quella che fa da materia a tutte le materie prossime, si conserva come soggetto e sostrato di tutte le trasformazioni, nell’incessante
generazione e corruzione di forme semplici e complesse, di corpi “semplicemente corpi” e di organismi viventi. Tale persistenza della materia è
sicuramente un vantaggio perché consente di spiegare la generazione di
una complessità di forme naturali superando definitivamente le aporie dei
presocratici e gli ostacoli di ordine logico che in origine la lingua greca
aveva posto alla formulazione di un pensiero filosofico sul divenire in natura. In questo senso, i progressi compiuti da Aristotele si sedimentano,
ad opera di Alessandro e della scuola, in una coerenza e regolarità di formulazione che non era interamente presente nell’opera dello Stagirita.
Resta vero, tuttavia, che una tale concezione è fondata in ultima analisi sull’analogia con le arti, sul modello del bronzo della statua e del ferro della sega. Alla base c’è sempre l’idea di un materiale che in qualche
modo preesiste al processo e che solo in virtù di questo preesistere e restare se stesso può essere di volta in volta determinato da forme diverse.
Abbiamo già visto tuttavia che la teoria dell’accrescimento porta a
mettere in discussione il postulato della permanenza della materia (cfr. supra, § 2.6.2 s.): si vede chiaramente, a questo proposito, che un siffatto
modello teorico può risultare eccessivamente rudimentale e concreto nel
momento in cui si tratta di spiegare i fenomeni fisiologici del corpo vivente e la delicatissima questione della presenza dell’anima. È soprattutto per la teoria dell’anima, infatti, che diventa problematico pensare la
permanenza del sostrato per analogia con il materiale della produzione
artistica (il bronzo della statua, il legno del letto, il ferro della sega).
La discussione in proposito viene aperta e ripresa da Alessandro in
più parti della sua opera, compresi i commentari. Ma è soprattutto negli
opuscoli indipendenti (Quaestiones I.8, I.17, I.26, Mantissa V) che egli riprende in esame la relazione fra forma e materia con particolare riferimento
al suo caso più eminente, cioè quello del rapporto fra anima e corpo.
4.1. Materia e sostrato
Si è letto nella Quaestio II.28 che la materia è comune alle forme come sostrato (…w Ípoke€menon). Essa, infatti, soggiace alle forme (Ípoke€tai går
to›w e‡desin, Quaestio II.28, 78.7 s.). Di per sé, l’affermazione corrisponde
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bene all’uso corrente di chiamare materia il sostrato (come sovente fa Aristotele) e sostrato la materia (come fa, tra gli altri, anche Alessandro). A giudicare in effetti da testi come questo, sembrerebbe consuetudine acquisita,
all’interno della scuola, equiparare materia e sostrato.
Tuttavia in altri testi Alessandro insiste nel sottolineare che la forma
non è nella materia come in un sostrato. Lo fa non una, ma più volte: fra le
Quaestiones, in effetti, abbiamo diversi opuscoli dedicati a questo tema. I
titoli di due di essi, le Quaestiones I.8 e I.17, annunciano la dimostrazione
“che la forma non è nella materia come in un sostrato”:190 un assunto che
non ha paralleli diretti in Aristotele e che sembrerebbe anzi in contrasto, se
non direttamente con Aristotele, almeno con l’uso diffuso nella tradizione
aristotelica, di chiamare la materia sostrato e il sostrato materia.
Una tale contradittorietà di posizioni può avere tuttavia una sua logica interna: forse Alessandro asserisce che la forma non è nella materia
come in un sostrato, proprio perché una posizione diversa era già in qualche modo attestata all’interno della scuola.
Vedremo in effetti nei prossimi paragrafi che le ragioni della scelta dottrinale sostenuta da Alessandro (quella cioè di negare che la forma si trovi nella materia “come in un sostrato”) vanno cercate innanzitutto nel confronto
con quell’implicazione di accidentalità che sembra propria della nozione di
sostrato e di “essere-in-un-sostrato” secondo le Categorie di Aristotele.
A questo riguardo c’è dunque una certa differenza fra Aristotele e
Alessandro: Aristotele non si era sempre curato di distinguere il rapporto fra forma e materia dal rapporto fra accidenti e sostanza; talora anzi
aveva accomunato quei due tipi di rapporto come modi dell’ “essere in
un sostrato” o dell’ “essere in qualcosa”. Questo per Alessandro è già di
per sé oggetto di perplessità (shmeivt°on191).
Tutto questo, peraltro, s’intende specificamente riferito, implicitamente quando non espressamente, a quel caso particolare del rapporto
fra forma e materia che è il rapporto fra anima e corpo.
Non solo infatti Alessandro, come già Aristotele, pensa il rapporto
fra anima e corpo sul modello del rapporto fra forma e materia; ma in
realtà ricostruisce il rapporto fra forma e materia in funzione di quello fra
anima e corpo, e lo fa costantemente, anche quando commenta un testo
di Aristotele cui è del tutto estraneo il problema dell’anima.
PrÚw tÚ mØ e‰nai tÚ e‰dow §n tª Ïl˙ …w §n Ípokeim°nƒ, Quaestio I.8, p. 17.7-18.15 Bruns;
ÜOti mØ tÚ e‰dow §n tª Ïl˙ …w §n Ípokeim°nƒ, Quaestio I.17, p. 29.30 - 30.22 Bruns.
191 Cfr. la dicitura shmeivt°on (Mantissa 120.33 e qui infra § 4.2.1): nel lavoro sui testi, come
segnala lo Stephanos, TGL VII.189D s., questo verbo, che è di per sé vox media, può essere usato specificamente per indicare ciò che risulta strano, inatteso o comunque fuori dall’ordinario.
190
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Vedremo inoltre che la tendenza a porre la “forma nella materia come in un sostrato” è precedente rispetto ai testi in esame, ed è verosimile che Alessandro la trovasse già diffusa nella scuola. Il distacco che questi assume rispetto a una tale tendenza, in ogni caso, parte dall’interno:
Alessandro si fonda sui testi di Aristotele per valutare ciascuna delle possibilità in esame, senza spirito critico né desiderio di rottura, ma anzi con
intenzione conciliante e, per quanto possibile, di continuità con il magistero dei predecessori e la tradizione di scuola.
4.1.1. La nozione di sostrato nelle Categorie
Nel capitolo 2 delle Categorie, Aristotele (se è lui l’autore del libro, come
vuole la tradizione e come riteneva Alessandro) definisce il valore di locuzioni idiomatiche implicanti il concetto di sostrato, quali §n Ípokeim°nƒ e
kay’ Ípokeim°nou. Torneremo più oltre sulla seconda, che va sempre pensata in riferimento a un predicato (kay’ Ípokeim°nou tinÚw l°getai, 1a 20
ss.): indica infatti ciò che si predica sia come universale (“l’uomo” rispetto
a un determinato uomo, 1a 21 s., 1b 12 s.) sia come genere (“animale” rispetto a “uomo”, 1b 13; “scienza” rispetto a “grammatica”, 1b 2 s.). La prima è quella che per ora più direttamente ci interessa.
Per §n Ípokeim°nƒ (“in-sostrato”) si intende “ciò che si trova in qualcosa non come una parte, e che non può esistere separato da ciò di cui è
parte.”192 Gli esempi, nel testo aristotelico, indicano come §n
Ípokeim°nƒ “una certa grammatica” (ovvero una determinata capacità
di leggere) ≤ t‹w grammatikÆ (1a 25 s.) e “una certa bianchezza”, tÚ t‹
leukÒn (1a 27) che sono nell’anima come loro sostrato.193 Ciò che in questo modo è §n Ípokeim°nƒ, di volta in volta “una certa bianchezza”, o
“una certa grammatica”, appare attributo non sostanziale, ma accidentale, mentre il sostrato (tÚ Ípoke€menon) appare come un’ oÈs€a, un’entità che sussiste anche separata.
Indicazioni complementari vengono, più oltre nelle Categorie, dal
cap. 5 (3a 7 ss.): nessuna sostanza può essere in un sostrato.194 Come mo192
Cat. 1a 24-5.
L’interposizione dell’indefinito tiw, ti dopo l’articolo determinato serve qui a precisare che,
pur trattandosi di un’astrazione (come indica l’articolo), non si tratta della bianchezza in generale, ma di quel certo, individuale modo di essere bianco o di saper leggere che è proprio di
quell’individuo, e che non può riferirsi, di per sé, a nessun altro, a differenza della scienza in
senso generale - ≤ §pistÆmh - che può essere sì in un sostrato, ma può anche predicarsi kay’
Ípokeim°nou - per esempio, della grammatica (ibid. 1b 1-3).
194 Cfr. ad loc. anche Alex. ap. Simpl. in Cat. p. 99.19-32 (in Arist. p.3a 7). Il passo delle Categorie 3a 7 s. è citato da Alex. ap. Simpl. In De Caelo 279.11, cfr. qui infra, p. 96.
193
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strano gli esempi stessi che Aristotele adduce, non sono infatti in un sostrato né l’universale (“l’uomo”, 1a 21 s., 3a 10 ss;) né la sostanza individuale (“un certo uomo”, 1b 3 s.); mentre gli accidenti, per Alessandro come già per Aristotele, sono “in un sostrato”.
Tali presupposti sono presenti come punti di riferimento costante, esplicito o implicito, nella discussione qui in esame. Il punto critico, infatti, negli opuscoli di Alessandro dedicati a questo tema, è che
porre forma nella materia come sostrato significherebbe fare della forma un attributo accidentale della materia. In tal caso, la forma non potrebbe concorrere all’ oÈs€a del sunamfÒteron. Il sunamfÒteron resterebbe definito dalla sola, indefinita, materia, contro la teoria generale del rapporto fra forma e materia, secondo la quale è per definizione la forma, non la materia, a sussumere in sé tutti gli aspetti di caratterizzazione essenziale.
Pertanto, sebbene Alessandro conceda alla materia, secondo l’uso
corrente, il ruolo di sostrato per la forma, evita però di dire che la materia è un sostrato “nel quale” si trova la forma. Evita cioè di contaminare
il concetto di forma con quell’implicazione di contingenza che ciò che dice Aristotele nelle Categorie rischia di far connettere alla nozione di “essere-in-un-sostrato”.
Si comprendono in questa prospettiva testi come Quaestio I.8 (PrÚw
tÚ mØ e‰nai tÚ e‰dow §n tª Ïl˙ …w §n Ípokeim°nƒ), Quaestio I.17 (ÜOti
mØ tÚ e‰dow §n tª Ïl˙ …w §n Ípokeim°nƒ), Quaestio I.26 (P«w tÚ e‰dow
§n tª Ïl˙, pÒteron kay’ aÍtÚ μ katå sumbebhkÒw). Faticosamente,
questi opuscoli cercano di rendere compatibile la definizione del rapporto
fra forma e materia con le maglie classificatorie delle Categorie aristoteliche, assunte come canone propedeutico e grammatica di base del linguaggio filosofico.
Il tema era arduo ed importante.
Arduo, perché il problema non aveva avuto modo di porsi con la stessa urgenza ed esigenza in Aristotele, in assenza di un simile approfondimento delle nozioni di materia e di forma considerate in assoluto (a prescindere cioè dall’analisi del processo causale). Importante, soprattutto perché secondo la relazione forma-materia si configura anche la relazione anima-corpo, la seconda essendo pensata come caso particolare della prima.
4.1.2. L’enumerazione dei sensi dell’ “essere-in-qualcosa” nel De anima
di Alessandro
Per dimostrare che l’anima è forma del corpo e che dunque sta al corpo
come la forma sta alla materia, abbiamo già visto Alessandro valersi nel
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De anima di un ragionamento per analogia.195 Nel De anima stesso, poco
dopo aver posto quell’analogia, egli porta come ulteriori argomenti, uno
dopo l’altro, due ragionamenti per esclusione.
Si conviene comunemente che l’animale è ovvero consta di (§k) anima e di corpo; e si conviene che l’anima è nel corpo; poiché d’altronde entrambe le espressioni “essere (fatto) di qualcosa” (¶k tinvn e‰nai) ed “essere in qualche cosa” (¶n tini e‰nai) si dicono in più sensi (pleonax«w),
Alessandro enumera i sensi possibili nei quali si può intendere che una
cosa sia fatta di altre e che qualche cosa sia in qualche cos’altro, allo scopo di scegliere quali modi e sensi si possano predicare dell’anima nei confronti del corpo.
I sensi dell’ ¶k tinvn e‰nai (11.15 ss.) sono tratti, selettivamente, dall’analisi dei sensi dell’ ¶k tinow e‰nai in Aristotele, Metafisica V.24.196
Scartata la possibilità che l’animale sia fatto di anima e corpo al modo in
cui la casa è fatta di mattoni, o al modo in cui l’idromele è fatto di acqua
e miele (i quali smettono di esistere quando si forma l’idromele), resta come unica possibilità quella che il vivente sia fatto di anima e corpo come
il corpo è fatto di forma e materia; l’anima dunque, l’argomento dimostra, è forma del corpo.
Il fatto che l’analisi del linguaggio corrente offra materia per l’argomentazione è già di per sé importante. Mostra infatti che quelle espressioni che comunemente si usano per parlare dell’anima non devono essere
mutate, ma semmai interpretate; esse infatti godono dell’autorevolezza che
deriva dal consenso dei parlanti. Piuttosto, se necessario, si tratterà di ridefinire il senso delle singole espressioni per evitare contraddizioni e antinomie. Così infatti è, come vedremo nella Quaestio I.26 e in Mantissa V.
Lo stesso esito viene raggiunto passando in rassegna, e poi vagliando uno
a uno i diversi significati dell’ “essere in qualche cosa” (¶n tini e‰nai). Que195
De anima 2.25 - 3.16, e supra pp. 53-6.
196 La presenza dell’indefinito al plurale in Alessandro consente e giustifica l’autonomia e la forte se-
lettività di Alessandro rispetto all’elenco di Aristotele Met. V.24. Trattandosi di ¶k tinvn e non
di ¶k tinow, resta esclusa già in partenza la possibilità che l’espressione in esame indichi la derivazione da qualcosa di unico, per esempio da una causa motrice (Arist. 1023a 29-31) o da un tutto al modo in cui ne derivano le parti (Arist. 1023a 31-33) nonché il senso cronologico dell’¶k
tinow e‰nai (è il modo delle feste Targelie che si celebrano “dalle Dionisiache”, cioè dopo le Dionisiache, cfr. Arist. 1023b 5-11). Commentano ad loc. Accattino-Donini (p. 123, in 11.15) che
Alessandro trae il senso in cui il vivente, secondo lui, è fatto di forma e materia dal senso in cui
secondo Aristotele dal tutto derivano le parti (Arist. 1023a 31 s.: ßna d’ [ scil.: ßna d¢ trÒpon]
§k toË suny°tou §k t∞w Ïlhw ka‹ t∞w morf∞w, Àsper §k toË ˜lou tå m°rh ktl). Forse si dovrebbe precisare che Alessandro trae quel suo senso di ¶k tinvn e‰nai non dal significato annoverato da Aristotele, bensì dal concetto di sÊnyeton che Aristotele in quel contesto introduce per descrivere quel significato e per distinguerlo dal modo in cui qualcosa può derivare dalla
sola materia (1023a 26-29). La differenza è che mentre Aristotele parla del modo in cui i mattoni derivano dalla casa, Alessandro parla del modo in cui la casa deriva dai mattoni.
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sta espressione, più ancora della precedente, è oggetto da parte di Alessandro di un interesse e di una cura particolari. “Essere in qualche cosa”
si può intendere - dice l’esegeta - al modo in cui la specie è nel genere (13.12
s.), o come il genere è nelle specie (13.13-15)197, come la parte è nell’intero (13.16), come l’intero nelle parti (13.16-18), come ciò che si trova in un
contenitore o in un luogo è in quel luogo (13.16-18)198, come l’accidente
in ciò di cui è accidente (13.20 s.), come i componenti del miscuglio nel
miscuglio (13.21-23); come la forma nella materia.
Ora, non potendosi dire - come Alessandro dettagliatamente argomenta199- che l’anima sia nel corpo in nessuno dei modo precedenti,
resterà che sia in esso come forma, se è vero che forma di ciascuna cosa è
ciò per cui la cosa è ciò che è, ed è per l’anima che l’animale è animale.200
Come hanno osservato Accattino e Donini nel loro commento a questo passo del De anima, Alessandro prende qui da Aristotele sia il metodo dell’argomentazione (che si ritrova analogo in vari contesti sia in Aristotele che in Alessandro) sia l’enumerazione dei sensi dell’essere in qualche cosa. Questa in effetti sue viene quasi per intero da Aristotele Fisica
IV.3 (210a 14-24).201
197
Sul modo nel quale Alessandro argomenta e motiva che il genere sia nella specie, diverso rispetto al modo di Aristotele, cfr. supra, p. 64 n.119.
198 Enumerando i vari significati, Alessandro accorpa il recipiente e il luogo come un’unica voce,
come si vede dalla disposizione alternata degli esempi; più oltre (14.23 s.) distinguerà il contenitore come una specie di luogo: “anche il contenitore è luogo di ciò che sta in esso ed è differente dal luogo (diãforon toË tÒpou) solo per il fatto di essere trasportabile insieme al suo
contenuto”. La definizione del contenitore come “luogo trasportabile” deriva da Aristotele,
Fisica IV.4.212a 14-18, come notano Accattino e Donini (1996) ad loc. Questi considerano luogo e recipiente due significati diversi (cfr. p. 126 in 13.19-20) ma prendono in considerazione
anche la possibilità che il recipiente sia un tipo di luogo (p. 127 in 14.20-22). A quanto posso
vedere, Alessandro in 14.24 considera il recipiente come differenziato rispetto al luogo nel modo in cui ciò che è più specifico si differenzia da ciò che è più generale e cioè per mezzo di una
differenza specifica, che per l’appunto è la trasportabilità; per questo Alessandro precisa che
anche il recipiente è un luogo (14.23): altrimenti non potrebbe essere un “luogo trasportabile” (questo tipo di subordinazione di uno o più concetti a uno più generale è consueto in Alessandro, che lo esprime altrove come un essere ÍpÒ + accusativo, o §n + dativo, oppure con il
verbo Ípãrxv + dativo).
199 Cfr. Accattino-Donini in 13.9-15.29, pp. 125-9.
200 Alex. De anima 13.9 - 15.29, in part.15.28 ss.: le€poit’ ín tÚ e‰nai aÈtØn §n aÈt“ …w e‰dow,
e‡ ge e‰dow m¢n •kãstou, kay’ ˜ §sti toËto ˜ §sti, katå tØn cuxØn tÚ z“Òn §sti toËto ˜
§sti; tr. it. Accattino-Donini (1996) p. 16.
201 Notiamo peraltro, a conferma della derivazione, che Alessandro, come Aristotele in quel contesto, omette di menzionare il senso cronologico dell’ “essere in qualcosa” (un’assenza sulla
quale si sofferma Simplicio in Phys. IV.3, CAG 9, p. 553. 1-8 in relazione a quel passo di Aristotele, mettendolo a confronto con i sensi dell’essere-in-qualcosa nelle Categorie).
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4.1.3. Le implicazioni del rapporto fra forma e materia per la dottrina dell’anima
D’altronde proprio perché è così forte il modello aristotelico, a maggior
ragione può essere utile esaminare nel dettaglio le differenze fra Aristotele e Alessandro.
C’è chiaramente una differenza di contesto: è Alessandro, non Aristotele, a passare in rassegna i diversi sensi di “essere in qualcosa” nel contesto della dottrina dell’anima e a privilegiare in funzione di questa dottrina l’“essere in qualcosa” come la forma è nella materia.
Ed è sempre Alessandro, non Aristotele, a tenere presente il problema dell’anima ovunque si debba definire la relazione fra forma e materia.
Sappiamo per esempio da Simplicio che Alessandro introduceva
una riflessione sul rapporto fra anima e corpo anche commentando un
passo su forma e materia - De caelo I.9. 278b 1 s. - dove Aristotele non
ne parla affatto, bensì annovera il cielo fra “quelle cose la cui oÈs€a è
in una materia soggiacente”. Presupponendo - qui come altrove - l’identità fra forma e oÈs€a, Alessandro intende questo passo come se Aristotele dicesse che la forma dei corpi sta nella materia che è sostrato.
Pertanto obietta:
Ma se davvero, dice [Alessandro], la forma è nella materia che è sostrato,
allo stesso modo sarà in un sostrato anche l’anima. Come mai allora nelle Categorie [Aristotele] dice che nessuna sostanza (oÈs€a) è in un sostrato?202
Secondo Simplicio, però, Alessandro discute qui il problema dell’anima mãthn, “invano”, “senza utilità”. Certo, lo sviluppo che qui si
presenta non è direttamente necessario alla comprensione del lemma
del De caelo di per sé. Questo non può che avere una ragione precisa.
Molto spesso, anche quando commenta il De caelo, Alessandro pensa
al problema della relazione fra forma e materia in funzione della relazione fra anima e corpo e dunque della definizione di anima come forma del corpo.
Non mancano d’altronde i precedenti in Aristotele. Vediamo per esempio Metafisica V 1017b 10-16: Aristotele passa in rassegna i sensi di oÈs€a;
e dopo aver detto che sono oÈs€a i corpi, dice poi che è oÈs€a “la causa
dell’essere” dei corpi. È infatti oÈs€a, dice Aristotele,
202
96
Simpl. In De caelo 279.5 ss. in, part. 9-12, in riferimento a Cat. 5. 3a 7-9, come notato supra, p.
92. Il passo è segnalato da Sharples, (1987), p. 1201 n. 63 e da Accattino-Donini (1996) p. 128.
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ciò che sia causa dell’esistere e sia insito in siffatte sostanze che non si dicono di un sostrato, e che sia dunque tale, quale è l’anima per l’animale.203
Anche qui è naturale per Alessandro ad loc. parafrasare oÈs€a con e‰dow
e far coincidere la definizione di oÈs€a con la definizione di e‰dow. Evidentemente dunque intende l’espressione “causa dell’essere” (a‡tion toË e‰nai,
1017b 15) come se Aristotele avesse detto che è oÈs€a ciò che è causa per i
corpi dell’essere ciò che sono: questa infatti è la sua più completa definizione
di forma.204 In questa prospettiva, visto che Aristotele aveva preso l’anima
come esempio di questo significato di oÈs€a, è naturale che Alessandro come esempio di forma porti subito l’anima.
Commenta infatti a questo proposito:
sembra che [Aristotele] stia parlando delle forme dei corpi costituiti per natura, cioè delle forme naturali e materiate, quale è l’anima negli animali (e‡h d’ ín
l°gvn tå t«n fÊsei sunest≈tvn e‡dh, taËta d° §sti tå fusikå ka‹ ¶nula e‡dh,
ıpo›Òn §stin §n to›w z–oiw ≤ cuxÆ).205
Quanto alla definizione di forma e di anima in Aristotele e Alessandro, possiamo tornare all’esame comparato dell’enumerazione dei molteplici sensi dell’ “essere in qualcosa” nel De anima di Alessandro e in Aristotele Fisica IV.3. Per Aristotele il caso della forma nella materia è solo
uno fra i molti, mentre per Alessandro è il più importante, è quello privilegiato, quello che indica in che modo l’anima stia nel corpo. Dunque di
per sé non stupisce che Alessandro vi si soffermi con più attenzione di
Aristotele. Vediamo però in che modo.
Aristotele qui non si esprime troppo chiaramente. Sembra mettere
sulloo stesso piano, come nota lo stesso Alessandro in un frammento conservato da Simplicio, gli accidenti nella sostanza e la forma nella materia:
in uno dei suoi sensi - scrive Aristotele - l’essere in qualcosa si intende
come la salute nelle cose calde e fredde e più in generale come la forma nella materia.206
203 Arist. Met. V.8. 1017b 15 s. “Siffatte sostanze” (tå toiaËta, 1017b 15) si riferisce ai corpi sem-
plici e a quelli composti dai corpi semplici, per esempio gli animali e gli esseri divini (tå
daimÒnia), dice, e le loro parti (1017b 11-13); precisandosi qui però che si tratta di sostanze
“che non si dicono di un sostrato”, bisognerà pensare, fra le sostanze composte, a quelle individuali, come un certo uomo, un certo cavallo, secondo le indicazioni di Categorie 2. 1b 3-5 su
ciò che non è mai kay’ Ípokeim°nou.
204 Cfr. per es. Alex. De anima 6.28 s. “In virtù della forma ciascuno dei corpi è ciò che è”.
205 Alex. in Met. 373.22-24.
206 …w ≤ Íg€eia §n yermo›w ka‹ cuxro›w ka‹ ˜lvw tÚ e‰dow §n tª Ïl˙, Arist. Phys. IV.3. 210a 20
s., cfr. Alex. ap. Simpl. in Phys. 552.18 ss.
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Invece, nel De anima di Alessandro e in qualunque altro scritto dell’esegeta i due sensi sono accuratamente distinti: un senso è quello dell’accidente nella sostanza, un altro quello della forma nel corpo. Ottiene
così innanzitutto di scartare precisamente ed esplicitamente la prima possibilità, quella che l’anima sia nel corpo come un accidente.207
D’altra parte, distinguendo più chiaramente di Aristotele il modo in
cui l’accidente è nella sostanza dal modo in cui la forma è nella materia,
l’esegeta prepara la scelta positiva per quest’ultima modalità, come unica
adatta al rapporto fra anima e corpo:
Ciò per cui una cosa che consiste di altre ha l’essere, questo <sta> nel resto
come forma nella materia (kay’ ˘ gãr ti ¶k tinvn ¯n208 aÈtÚ tÚ e‰nai ¶xei, toËt’
¶sti …w e‰dow §n Ïl˙ t“ loip“).209
Tale definizione di forma è attentamente calibrata sulla dottrina dell’anima: intendendo così il rapporto fra forma e materia, si può dire che
l’anima sta nel corpo come la forma sta nella materia.
Ogni singola parola e locuzione di tale definizione potrebbe essere
analizzata in riferimento ai passi aristotelici e ai problemi citati.
Per gli scopi presenti è più utile però evidenziare le prerogative di
questa concezione della forma. La forma, si vede, è ciò che caratterizza, anzi è la caratterizzazione stessa, è l’ “essere ciò che è” della cosa
nel suo complesso; è in qualche cosa di composito, le cui componenti
possono essere pensate separatamente; ma se la si toglie, ciò che resta
non è più ciò che era prima. In questo senso, l’anima è forma. Stando
così le cose, è del tutto ragionevole che Alessandro cominci il suo De
207
Con la stessa funzione di contrasto compare nella lista di Alessandro - unica vera aggiunta rispetto a quella di Aristotele - il senso di essere in qualcosa “come il mescolato nel mescolamento” (Alex. De anima 13.21-23). In questo caso è dalla dottrina stoica della mistione totale
che Alessandro intende prendere le distanze: cita dunque questa possibilità esplicitamente, per
poterla altrettanto esplicitamente scartare.
208 L’espressione “qualcosa che è costituito da qualcosa” (ti ¶k tinvn ˆn) vale a circoscrivere l’ambito di applicabilità di questa definizione. ti ¶k tinvn ˆn è infatti è il corpo, fatto di forma e
materia, e in particolare il corpo animato. Infatti ımologe›tai tÚ z“on §k cux∞w e‰nai ka‹
s≈matow, come scrive Alex. De anima 11.14 s. Su questo presupposto prende l’avvio la rassegna dei significati dell’espressione ¶k tinvn e‰nai, ibid. 11.15 ss. e supra, n. 182. Né l’anima
né la forma così intese sono dunque anima e forma di se stesse, ma sempre di qualche cosa che
è qualcos’altro, oltre a essere forma e anima.
È utile vedere per contrasto ciò che invece Alessandro dice di “dio” e della sua oÈs€a al fine
di distinguerlo dal “divino”, cioè dal cielo, ad esegesi e precisazione di Aristotele, De caelo II.3.
286a 8 ss., dove il cielo non è detto solo “divino” ma anche “dio”. Dice dunque Alessandro in
un frammento esegetico conservato come Quaestio II.6.52.16 s.: “…la sua oÈs€a è atto, ma
non qualche cos’altro, e poi atto”. Dio cioè non è atto e non è oÈs€a di un qualche cosa che
sia potenza prima di essere atto, cfr. infra, p. 152 s.
209 Alex. De anima 13.24-14.1. Tr. it. di Accattino-Donini (1996), p. 14.
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anima spiegando in che senso vada inteso il rapporto fra forma e materia. In effetti, notoriamente, l’esegeta fa uso costante e sistematico
della definizione aristotelica di anima come forma di corpo naturale che
ha la vita in potenza.210
Anche questa dicitura però, rispetto ad Aristotele, subisce precisazioni significative: Alessandro la integra sia con l’aggettivo “organico” (tratto dall’altra dicitura e definizione di anima, pure aristotelica,
secondo la quale l’anima è “entelechia di corpo organico naturale”211)
sia con l’addizione dell’aggettivo “materiata” - della quale fra breve mostreremo l’importanza.212 Si ottiene così la corrente e quasi formulare
definizione alessandrista di anima come “forma materiata di corpo organico naturale”.
Se dunque in natura la forma fosse davvero un accidente del corpo,
come sembrerebbe suggerire l’analogia con le arti (il legno è infatti legno
anche senza la forma del letto) allora l’anima sarebbe un accidente del
corpo. Il che è proprio ciò che Alessandro non vuole lasciare dedurre dalla definizione aristotelica dell’anima. Per questo “la forma non è nella materia come in un sostrato”.
Un tale assunto, fondamentalmente negativo, è argomentato nelle
Quaestiones I.8 e I.17. Queste pongono cioè che la materia, benché sia
sostrato della generazione - nel senso che da essa la generazione avviene ed essa permane anche dopo che la generazione è avvenuta - tuttavia non è sostrato alla forma: altrimenti dovrebbe avere sussistenza anche separatamente. Invece, forma e materia non sono separabili se non
col pensiero.
Fin qui, tutto è chiaro, compreso il riferimento - seppur negativo alla definizione “essere in un sostrato” nelle Categorie, cap. 2, dove si dice “in un sostrato” l’accidente (per esempio una certa bianchezza che si
trova in un determinato corpo); mentre la sostanza (oÈs€a), come si conferma ibid., cap. 5, non è mai in un sostrato. Questa esclusione infatti si
applica anche alla forma, perché la forma è uno dei sensi nei quali si può
intendere la sostanza.213
I problemi più intricati arrivano invece allorché la speculazione tenta di approfondirsi e precisarsi in una risposta positiva: come definire,
senza contraddizioni, in che modo la forma stia nella materia, e in che modo, analogamente, l’anima stia nel corpo?
210
Cfr. Arist. De anima, II.1. 412a 19.
ibid. II.1. 412b 5 s.
212 Cfr. infra, § 4.2 p. 101 s.
213 Arist. De anima, II.1. 412a 6-9.
211
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4.1.4. L’“essere in sé in qualche cosa” negli Analitici Posteriori
Nella Quaestio I.26 Alessandro, decisamente, colloca il nodo del problema e la sua soluzione a livello della definizione. Lo indica bene il titolo:
“Come la forma (stia) nella materia, se per sé o per accidente”.
La posizione assunta nelle Quaestiones I.8 e I.17 - la forma non può essere nella materia come un accidente nel sostrato - viene qui ribadita e si fa
più complessa: se la forma materiata è nella materia, essa, non essendovi per
accidente (katå sumbebhkÒw) dovrebbe esservi “in sé” (kay’ aÍtÒ). Eppure Alessandro può portare altri argomenti, altrettanto validi, per negare
che la forma sia in sé nella materia: essere in sé in qualche cosa si dice infatti di ciò che appartiene alla sua essenza. Ora, nessuna forma appartiene alla
definizione ed essenza della materia: la materia è infatti, per definizione, priva di tutte le forme, e solo in quanto tale è recettiva dei contrari.
Di nuovo, la definizione del rapporto fra forma e materia sembra incastrata in uno schema classificatorio inadeguato. Una volta di più, la soluzione dell’aporia è cercata a livello delle definizione: essa consiste nell’attivare un senso alternativo dell’ “essere in sé in qualche cosa”: non il
senso, più ovvio, di appartenere all’essenza di qualcosa, ma quello, in qualche modo opposto al primo, di contenere qualche cosa nella propria definizione. È il senso
del quale fanno menzione Aristotele e Teofrasto negli Analitici Posteriori 214
(…): appartiene (Ípãrxei) in sé a qualche cosa ciò nella cui definizione è compreso ciò cui appartiene. Secondo questo modo dell’“in sè”, il numero pari e il
numero dispari appartengono entrambi al numero, perché quando li definiamo
usiamo il concetto di numero nella loro definizione.215
In questo senso, propone Alessandro, si può dire che la forma materiata stia in sé, cioè per definizione, nella materia: perché comprende la
materia nella propria definizione.
Non che, per la verità, questa spiegazione risulti molto convincente.
Il rapporto fra forma e materia - per quanto possa essere difficile da definire - non sembra avere molto in comune con il rapporto fra numero dispari e numero. Il numero dispari è un tipo di numero, fa parte del genere “numeri”. Se volessimo classificare gerarchicamente i concetti, al
modo consueto di Alessandro, diremo che il numero dispari sta “sotto”
il numero in generale (ÍpÒ + accusativo), ovvero “appartiene” al numero: ed è proprio quest’ultima (con il verbo Ípãrxv + dativo) l’espressio214
215
Cfr. Arist. Anal. Post. I.4, 73a 34 ss.
Quaestio I.26, p. 42.28-32.
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ne che usa Aristotele a questo proposito. La nozione di forma materiata
ha in sé quella di materia in un altro senso: diversamente da ciò che per
natura è forma senza materia (il motore immobile), la forma materiata per
esistere come sostanza ha bisogno della materia.
Perché - ci si potrebbe chiedere - Alessandro ricorre ad un’interpretazione così forzata e poco naturale del rapporto fra forma e materia?
4.2. L’anima nel corpo: non come un accidente
Un paragone con l’anima esplicita poi la valenza dell’argomento sull’importante versante del rapporto fra anima e corpo:
anche d’altronde quando definiamo l’anima come “forma materiata”, comprendiamo nella definizione anche ciò di cui essa è anima; significa questo, infatti, (la precisazione) ‘di corpo organico naturale’ (Quaestio I.26. 43.6-8).
Si comprende così, fra l’altro, perché Alessandro, riprendendo da
Aristotele la definizione dell’anima come forma del corpo, aggiunga a
“forma” l’aggettivo “materiata”, assente nello Stagirita. In questo modo,
infatti, il problema di come l’anima stia nel corpo, e di come più in generale la forma stia nella materia, trova collocazione teorica: secondo la definizione degli Analitici Posteriori, l’anima sta in sé nel corpo, che ne è
materia, nel senso che la definizione di anima come forma materiata di
quel tipo di corpo comprende la nozione di corpo, così come sempre la
definizione di forma materiata comprende quella di materia e così come
quella di numero dispari comprende quella di numero.216
Ecco dunque un altro modo nel quale Alessandro cerca di definire
la forma e la materia di un corpo escludendo la sussistenza separata sia
dell’una che dell’altra. Dovrà essere una relazione, tutto sommato, di dipendenza reciproca, come si è visto in Quaestio I.8 all’inizio di queste
pagine: non sussistono l’una senza l’altra, perché si definiscono l’una in
relazione all’altra.
Un testo particolarmente significativo in tutti i sensi ora accennati è
Mantissa V, “Che l’anima non è in un sostrato”. È un opuscolo spiccatamente aporetico, che si avvicina molto, sia nella forma che nello stile, a
quelle Quaestiones che già Bruns aveva classificato come “aporie” in sen216
Dal punto di vista, pur ristretto, della definizione e dei suoi elementi, ritroviamo qui ravvicinati e posti in analogia materia e genere (cfr. supra, § 2.5, pp. 63-65): la materia sta nella definizione di “forma materiata” come il genere “numero” è compreso nella definizione di “numero dispari”.
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so stretto.217 Indubbiamente, questo suo carattere aporetico rispecchia
non solo l’oggettiva difficoltà dell’argomento, ma anche, a monte, una
scelta deliberata di affrontare in serie, l’uno dopo l’altro, una serie di problemi connessi alla definizione del rapporto fra anima e corpo.
Innanzitutto, l’opuscolo Mantissa V ribadisce, per vie diverse da quelle esaminate sinora, lo stesso fondamentale concetto già incontrato più volte: la forma e l’anima non possono essere “in un sostrato”, perché non sono accidenti di qualche cosa che sussista da sé (Mantissa V, 120. 5-11).
L’anima, nella fattispecie, è forma materiata del corpo organico, ma
questo corpo organico non esiste, non è organico, se non ha l’anima: il
corpo infatti
non può essere organico prima di avere l’anima, e non è più organico una
volta che l’abbia perduta. Infatti nessun corpo inanimato è organico. Pertanto non
è possibile concepire in questo modo (i.e.: per separazione) il sostrato nel quale
l’anima si trovi, bensì esso è organico quando si trova con l’anima, come il piombo è (piombo quando è) con la pesantezza.218
Seguendo una procedura che conosciamo come sua tipica,219 Alessandro cerca a questo punto un senso alternativo della locuzione “essere
in qualche cosa”, con il quale poter spiegare senza contraddizione come
la forma sia nella materia, e al tempo stesso come l’anima sia nel corpo.
Questo è il problema di fondo, rispetto al quale due passi di Aristotele costituiranno motivo di aporia.
4.2.1. kay’ Ípokeim°nou e §n Ípokeim°nƒ
Alessandro cita infatti a questo punto un passo della Fisica e uno del De
anima - quest’ultimo con la relativa esegesi - le cui indicazioni sul rapporto fra forma e materia sembrano contraddire quanto sinora argomentato:
217
Bruns (1892) p. V ss.; Sharples (1987) p. 1194, (1992) p. 4 s. A quanto pare, l’opuscolo è stato conservato in quello che i manoscritti impropriamente chiamano De anima liber alter cioè
nella raccolta degli opuscoli sull’anima (da Bruns soprannominata Mantissa e pubblicata dopo il De anima in C.A.G., Suppl. Ar. II.1, Berlin 1889) in ragione del suo argomento. Questo
criterio ha prevalso su quello formale, secondo il quale l’opuscolo avrebbe potuto annoverarsi fra le épor€ai ka‹ lÊseiw (le cosiddette Quaestiones) a miglior titolo di molti che sono conservati in quest’ultima raccolta ma non sono propriamente aporetici (come già notato da Bruns
ibid. e Sharples, ibid.).
218 Mantissa V. 120.14-17. Nel caso della pesantezza si vede particolarmente bene che il concetto
di forma per Alessandro non è necessariamente connesso a quello di configurazione, cfr. supra, p. 78; sulla pesantezza come esempio di e‰dow nel De anima, cfr. Donini (1971), Accattino (1995) p. 186-190.
219 Cfr. in part. infra, cap. II, § 4.2 p. 135 s.
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È degno di nota (shmeivt°on, 120.33220) che Aristotele dica che la natura
è forma in un sostrato, nel secondo libro della Fisica: “Infatti [ciò che ha natura]
è un sostrato, e la natura è sempre in un sostrato”.221
E dice anche all’inizio del secondo libro del De anima “il corpo non è delle cose che si dicano kay’ Ípokeim°nou”,222 intendendo dire, con kay’
Ípokeim°nou, §n Ípokeim°nƒ.
E dicendo che il corpo non è kay’ Ípokeim°nou, (intende dire che lo è) invece l’anima. Oppure si può dire ora kay’ Ípokeim°nou non ciò che è in un sostrato, ma ciò che per esistere ha bisogno di un sostrato. Tale è anche la condizione della forma che è nella materia (Mantissa V. 120.34 - 121. 7).
A prima vista, per la verità, il senso delle due citazioni non è esattamente perspicuo. Con ogni probabilità, esse presuppongono l’esame dei
rispettivi testi già in sede di commento; sono state qui rievocate per non
lasciare inesplorata e irrisolta la loro potenziale contradittorietà rispetto
alla dottrina alessandrista del rapporto fra anima e corpo.
Questa loro potenziale contradittorietà è evidenziata dalla locuzione
introduttiva, cioè dall’aggettivo verbale neutro shmeivt°on.223 Come sovente avviene nella letteratura esegetica, shmeivt°on non è una dicitura
del tutto neutrale. Porta infatti l’attenzione su qualche cosa che non solo, genericamente, è degno di nota, ma lo è perché inatteso, strano o in
altro modo fonte di perplessità, al modo per esempio delle eccezioni a una
data regola generale.
Qui l’origine della perplessità è evidente e dichiarata. Mentre l’opuscolo, come gli altri sinora esaminati, argomenta che la forma non è nella materia come in un sostrato; e mentre l’esegeta tiene come punto di riferimento la dottrina estratta da Categorie 2, secondo la quale nessuna sostanza è
mai in un sostrato, il testo di Aristotele dice che la natura (≤ fÊsiw, che Alessandro intende regolarmente come la forma di ciò che esiste per natura, come se fosse tÚ e‰dow t«n fÊsei ˆntvn) è sempre in un sostrato.
La perplessità viene espressa ma non viene risolta; Alessandro continua invece citando e commentando un altro passo che crea problema a
questo riguardo: “il corpo non è fra le cose che si dicono di un sostrato”
(Arist. De anima II.1. 412a 17 s.).
220
Cfr. supra, p. 91 e n. 191.
Cfr. Phys. II.1, 192b 34.
222 Aristotele, De anima II.1. 412a 17 s.
223 La citazione da Aristotele 192b 34 (Ípoke€menon gãr ti ka‹ §n Ípoke€menƒ ≤ fÊsiw ée€) è
ritagliata in modo fuorviante nel testo dell’opuscolo: mancando il soggetto della prima frase,
che nel testo di Aristotele è “ciò che ha natura”, sembrano riferirsi al termine “natura” entrambi i predicati. Senza il raffronto col testo originale si tradurrebbe cioè “la natura è sempre un sostrato e in un sostrato”. Nella traduzione è indispensabile integrare la comprensione del testo di Alessandro sulla base del testo di Aristotele.
221
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Il commento a questo passo del De anima che troviamo in Mantissa
V comporta apparentemente due distinte fasi di riflessione. Presuppone
infatti una prima e precedente perplessità, già in qualche modo superata
e risolta, che proverò qui a ricostruire; e poi la critica alla soluzione stessa - ciò che i commentatori chiamano ¶nstasiw, lett. “obiezione”.
Secondo il testo del De anima, il corpo non si dice di un sostrato
(kay’ Ípokeim°nou); la ragione - si apprende da Categorie 2 - è che il corpo è una sostanza individuale; come oÈs€a individuale sarà dunque esso stesso un sostrato per l’anima. Quanto all’anima, questa allora si dirà
del corpo come di un sostrato (sarà cioè kay’ Ípokeim°nou); d’altronde
- questa potrebbe essere la prima obiezione - l’anima non è un predicato universale, ma una sostanza individuale; essendo essa stessa “nel” corpo, sarà “in un sostrato”. Questa è una prima conclusione, la quale presuppone, come riporta Alessandro,224 la possibilità di sostituire kay’
Ípokeim°nou con §n Ípokeim°nƒ; più in generale, essa presuppone una
tendenza a normalizzare retroattivamente il testo aristotelico,225 a regolarizzare cioè anche a posteriori, lavorando sui testi, l’uso del vocabolario tecnico filosofico e delle espressioni lessicali idiomatiche. Una tale
tendenza doveva essere insita nella scuola già prima di Alessandro.
Era probabilmente in quel contesto che il passo problematico della
Fisica citato appena sopra nell’opuscolo, “la natura è sempre in un sostrato”, poteva valere come argomento: era infatti un precedente autorevole per chi avesse voluto dire che l’anima, come natura individuale, è nel
corpo come in un sostrato.
Rispetto invece alle intenzioni di Alessandro si deve dire il contrario:
la tesi dottrinale dell’esegeta (né la forma né l’anima sono “in-un-sostrato”) non è sostenuta bensì è contraddetta sia da quella citazione della Fisica, sia da quell’esegesi di De anima II.1. 412a 17 s.: da entrambe infatti
risulta che l’anima è nel corpo “come in un sostrato”.
Questo suggerisce che l’interpretazione fin qui descritta fosse stata
già elaborata all’interno della scuola prima di Alessandro. È su questa prima fase interpretativa (e non dunque sul testo di Aristotele direttamente)
che si innesta l’aporia, il punto cruciale della riflessione: l’anima, si obietta, non è nel corpo come §n Ípokeim°nƒ (intendendo evidentemente §n
Ípokeim°nƒ nel senso di Cat. 2).
Caratteristicamente, la soluzione (lÊsiw) è introdotta da una particella disgiuntiva (≥, “oppure”226):
224
Mantissa V, 121. 3-4.
Sulla tendenza all’inserzione retroattiva di verità o di presunte verità nella pratica esegetica del
II secolo d. C., cfr. le osservazioni concernenti Galeno di Vegetti (1986), in part. 237.
226 Su questa particella, cfr. supra, “Introduzione”, p. 28 s.
225
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Oppure può dire ora kay’ Ípokeim°nou non ciò che è in un sostrato (§n
Ípokeim°nƒ), ma ciò che per esistere ha bisogno di un sostrato. Tale è anche la
condizione della forma che è nella materia. (Mantissa V, 121.5-7)
Intendendo così il kay’ Ípokeim°nou, si trova un modo ulteriore per
dire che la forma è nella materia (e l’anima è nel corpo): il modo di ciò
che per esistere ha bisogno dell’altro come sostrato.
Come altrove osserva lo stesso Alessandro, questo modo d’intendere il rapporto fra forma e materia è abituale per Aristotele; e d’altra parte è una formulazione piuttosto generica.227 Essa si concilia infatti agevolmente sia con la definizione proposta nella Quaestio I.26 (essere “in
qualcosa” si dice di ciò che comprende quel qualcosa nella propria definizione) sia, ritornando agli esordi della presente trattazione, con la formula definitoria della Quaestio I.8, secondo la quale la forma e la materia si definiscono l’una in relazione all’altra.
Il movimento che si può rilevare nell’opuscolo è dunque in parte a
ritroso e contro corrente: la scuola aveva derivato in qualche modo da
Aristotele l’idea che la forma sia nella materia come in un sostrato; Alessandro invece, rivisitando l’intera teoria in funzione della dottrina dell’anima, ritorna ad una formulazione più vaga e generica: la forma è nella
materia solo nel senso che ha bisogno della materia. In questo modo, intende escludere la possibilità che la materia sussista anche da sé, senza
forma, e che la forma costituisca una presenza accidentale nella materia.
4.3. Riepilogo sulla relazione tra forma e materia
Per Alessandro dunque, secondo il linguaggio della scuola, la materia sta
alla forma come il corpo sta all’anima. Ma che la forma sia nella materia
e che l’anima sia nel corpo come in un sostrato non può affermarsi senza
cautela e precisazioni, perché la tradizione di scuola derivante da Cat. 2
vuole che “in sostrato” sia l’accidente rispetto alla sostanza: nessuna sostanza è infatti in un sostrato. Se si volesse dire che la forma è nella materia, o che l’anima è nel corpo, lo si dovrebbe dire precisando in che senso, cioè nel senso teorizzato da Aristotele negli Analitici Posteriori I.4: la
forma è nella materia come il numero dispari è nel numero perché la sua
definizione comprende quella di materia, e analogamente l’anima è nel
corpo perché la sua definizione comprende quella di “corpo organico naturale che ha la vita in potenza”. Oppure forma e anima si possono con227
“È da notare, dice Alessandro, che [Aristotele] intende la forma nella materia in un senso più
generale, come (qualcosa) che ha bisogno di un sostrato. Abituale è infatti (questo) uso per lui”
(Alex. ap. Simpl. in De caelo 279.6-8, in Arist. De caelo 278a 23, cfr. supra, § 4.1.3, p. 96).
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siderare riferite a un sostrato (kay’ Ípokeim°nou) nel senso che hanno bisogno del sostrato (la materia, il corpo) per esistere e sussistere.
Trattasi, evidentemente, di forme materiate: è la forma degli esseri
materiati che non può esistere senza materia, come l’anima del corpo animato non può esistere senza il corpo.
Questo non esclude in assoluto la possibilità di forme che siano invece immateriate, o in assoluto - come nel caso del motore immobile - o
per astrazione.
Queste ultime sono rilevanti per gli scopi presenti: le consideriamo
come immateriate, ma nella realtà sono materiate; si ricavano cioè quando
si siano idealmente separati e sottratti alle sostanze la materia, il movimento
e tutti gli accidenti legati alla materia. Restano così gli enti matematici: forme astratte, che esistono solo nel pensiero e proprio per questo ci dicono
qualche cosa di importante, sia pure in negativo, su quale sia il contributo della materia nella relazione composita di forma e materia.
Così, esaminare sommariamente quale sia, per Alessandro, lo statuto teorico degli enti matematici sarà utile a completare con un elemento
di contrasto la presente rassegna sul ruolo e sulle funzioni del concetto di
materia nel sistema dottrinale dell’esegeta.
5. Senza materia: gli enti matematici
Gli enti matematici costituiscono nel sistema aristotelico un elemento in
certo modo marginale.
Rari infatti sono i testi nei quali Aristotele ne parla del tutto autonomamente e in positivo per esprimere una sua personale dottrina. Più spesso, i cenni ch’egli rivolge a questo argomento costituiscono una testimonianza composita e già in qualche modo stratificata.
Su base pitagorica, le dottrine di Platone, discusse nell’Accademia,
avevano dato luogo a una pluralità di posizioni, delle quali Aristotele si fa
testimone critico menzionandole episodicamente soprattutto nella Metafisica. Peraltro, non sempre Aristotele prende le distanze esplicitamente
dall’opinione dei predecessori e dunque non è sempre chiaro quale parte di essa condivida e quale no.
Questo rende talora difficile alla scuola estrarre da Aristotele una
dottrina uniforme e costante; soprattutto, lo rende difficile ad Alessandro, che non si accontenta di lasciare ai margini le eventuali contraddizioni e di mettere in evidenza le tendenze generali e prevalenti, bensì verifica costantemente la correttezza della dottrina attribuita al maestro nell’esegesi dei singoli passi.
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Quale tipo di problemi questo comporti si può vedere prendendo
come esempio il commento a un passo del primo libro della Metafisica.
Aristotele (Metafisica I.6, 987b 7 ss.) sta riferendo la teoria platonica delle cause, nella sua connessione con le teorie pitagoriche. Si tratta in
particolare delle idee (e‡dh) che Platone pone come cause degli enti sensibili. Platone - attesta qui Aristotele - poneva gli enti matematici quali
termini intermedi fra gli enti sensibili e le idee, e differenti da entrambi.
Gli enti matematici differiscono infatti da quelli sensibili perché sono eterni e immutabili; e differiscono dalle idee
per il fatto che, essendo molti, sono simili (t“ tå m¢n pÒll’ êtta ˜moia
e‰nai); l’idea invece è una sola e individuale (tÚ d¢ e‰dow aÈtÚ ©n ßkaston
mÒnon).228
Vediamo ora il commento di Alessandro. Fra Alessandro e Aristotele, una prima differenza è che l’esegeta parafrasando da vicino le parole del maestro (52.10 - 15) chiama le idee platoniche non più e‡dh, come
Aristotele, ma fid°ai, evidentemente allo scopo di evitare equivoci con la
ben differente nozione di e‰dow, quale ormai si era stabilizzata nella scuola aristotelica.
Più di Aristotele, Alessandro prende dunque le distanze anche dal
punto di vista lessicale dal modo in cui Platone aveva considerato gli universali: Platone li aveva considerati sostanze, privilegiandoli su ogni altro
tipo di apparente sostanza; mentre per Alessandro gli universali non sono che le forme, cioè la parte pensabile degli enti, cui si perviene con il
pensiero soltanto per via di astrazione, sottraendo all’oggetto fisico la
componente materiale.
Quanto agli enti matematici, è da notare che Aristotele parlando di
prãgmata simili sembra riferirsi a corpi o a elementi costitutivi dei corpi che siano “simili” fra loro in senso geometrico. Tali sono anche le figure geometriche che nel Timeo costituiscono i corpi: per esempio tutti
i triangoli equilateri sono simili tra loro. Comunque, il termine prãgmata che Aristotele impiega evoca una certa concretezza. È da notare invece che esso non compare nel commento di Alessandro.
Quanto poi alla duplice caratterizzazione di tali enti matematici rispetto a quelli sensibili da una parte e rispetto alle idee platoniche dall’altra, Alessandro lascia intatta la prima parte (la spiegazione della differenza fra gli enti sensibili e quelli matematici è infatti da lui ripresa quasi tale quale da Aristotele) mentre interviene sulla seconda, che in effetti
necessita spiegazione, non essendo interamente chiara.
228
Arist. Met. 987b 17 s.
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Aristotele, parlando del ruolo degli enti matematici (tå mayhmatikå
prãgmata) in Platone, e dicendo che sono molti e simili, non spiega infatti di preciso né a quali tipi di enti (prãgmata) ci si riferisca, né in che
senso siano molti, né in che senso simili, né in che senso siano - com’egli
dice - molti ma simili.
A questo proposito Alessandro dice:
Le idee sono qualche cosa di unico per numero, mentre gli enti matematici mostrano la similitudine nei molti, cioè nei sensibili e negli individui, poiché
sono immanenti ad essi.229
Tale parafrasi costituisce una forma di intervento alquanto sostanziale sul testo. Il testo viene letto infatti come se invece di dire che gli enti matematici si distinguono perché sono simili e molti (t“ tå m¢n pÒll’
êtta ˜moia e‰nai, 987b 17) Aristotele dicesse che si distinguono perché
mostrano la similitudine che è nei molti (t“ [...] tØn §n to›w pollo›w [...]
dhloËn ımoiÒthn, cfr. Alex. in Met. 52.13-15).
A spiegazione, soggiunge di seguito:
Essi infatti non sussistono di per sé, ma solo nel pensiero. Quando infatti si
siano separati la materia e il movimento, in virtù dei quali e con i quali essi hanno sussistenza, restano gli enti matematici: questi mostrano la similitudine
(ımoiÒthw) esistente fra gli enti materiati, che pure sono molti e differiscono fra
loro per accidenti dovuti alla materia.230
L’esegeta sta esprimendo, in realtà, più la dottrina sua e della scuola, che non quella che Aristotele attribuisce a Platone, come egli stesso
ammette subito dopo. Di seguito infatti propone una seconda, differente interpretazione:
Forse la verità è questa, e però non è questo che Platone diceva, bensì quanto a lui considerava gli enti matematici come nature e sostanze in sé ed eterne.
Direbbe dunque che gli enti matematici sono molti e simili (pollå ˜moia) non
nel senso che ciascuno di essi sia uno di numero: dice infatti che il triangolo, il
quadrato e gli altri enti matematici sono molti nel numero come i corpi sensibili, ma conservano per definizione la similitudine reciproca; invece le idee sono
ciascuna unica di numero.231
229
Alex. in Met. 52.13-15.
Alex. in Met. 52.15-19.
231 Alex in Met. 52.19-25. In questo caso particolare, dove l’esegesi di Alessandro si applica non
a una dottrina aristotelica ma all’esposizione aristotelica di una dottrina platonica, si rovescia
in qualche modo il più consueto rapporto fra prima e seconda soluzione, o più esattamente fra
prima e seconda proposta esegetica nel commentario. In altri casi, l’ultima possibilità prospettata sembra essere quella con la quale Alessandro tenta di migliorare la precedente (che
230
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La presenza delle due interpretazioni e la loro differenza merita qualche riflessione.
La prima è una parafrasi alquanto libera: l’esegeta manipola non solo
l’interpretazione ma anche in qualche modo il dettato del testo, per metterlo d’accordo con i vari altri luoghi aristotelici che parlano degli enti matematici, sui quali evidentemente si basa la dottrina della scuola aristotelica a questo proposito.232 Poiché d’altronde a noi importano per l’appunto le vedute
e i metodi di Alessandro e della scuola, questa libertà ci risulta interessante e
degna di nota, soprattutto in casi come questo, che comportano un distacco
anche sensibile e in qualche modo oggettivo dal dettato letterale del testo.
La seconda esegesi che Alessandro produce non è meno interessante della prima: è un ottimo esempio della sua consapevolezza storica e teorica riguardo alle differenze fra Platone e Aristotele. La presa di
distanza che essa comporta nei confronti dell’esegesi precedente fa supporre che Alessandro ne sia l’autore o che perlomeno ne condivida il
valore; e mostra pertanto in Alessandro una coscienza critica e filologica che almeno in questo caso non resta obnubilata ma si fa strada nonostante le esigenze del sistema.
Il commento al lemma di Aristotele ora esaminato, con le due diverse caratterizzazioni degli enti matematici, rispetto a quelli sensibili da una
parte e rispetto alle idee dall’altra, si lascia utilmente mettere in relazione
con altre due, più incidentali menzioni degli enti matematici, l’una nel De
anima, l’altra nella Quaestio I.25.
Nel passo del De anima, Alessandro intende argomentare e giustificare ciò che Aristotele asserisce nel celebre suo capitolo De anima III.5,
in particolare la differenza fra intelletto agente, che solo è in sé separato e immortale, e intelletto passivo, che fa da materia ed è corruttibile.233 Nel fare questo, Alessandro amplia, con una certa libertà, la dottrina aristotelica, spiegando le prerogative dell’intelletto agente (da lui
identificato con la sostanza prima, dunque con il motore immobile) secondo la teoria, qui sopra già rievocata, dell’identità fra intelletto penpuò essersi già attestata in precedenza, all’interno della scuola): essa tenderà allora ad esprimere le vedute di Alessandro stesso. In questo caso invece la seconda proposta esegetica è sì
più esatta ed accurata, migliore dunque della precedente; ma, proprio perché è esegesi più esatta della posizione platonica, si allontana in qualche modo dalla posizione dottrinale di Alessandro come aristotelico. Il perfezionamento dell’esegesi comporta in questo caso non tanto
un perfezionamento della proposta dottrinale quanto una più lucida consapevolezza delle differenze fra Aristotele e Platone.
232 Cfr. Bonitz, index, s. v. mathmatikÒw. A quanto pare, di nessuno dei passi aristotelici qui citati da Bonitz ci è giunto direttamente il commento di Alessandro.
233 Alex. De anima 88.17-90.22.
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sante e forma dell’oggetto pensato; e chiamandolo anche “intelletto da
fuori” (noËw yÊrayen). A spiegazione di quest’ultima dicitura, egli fa
notare che anche tutti i noÆmata che vengono pensati dall’intelletto sono yÊrayen, vengono in quello passivo “da fuori”. Ma solo l’intelletto
agente viene “da fuori” come intelletto (…w noËw). I noÆmata invece di
per sé non sono intelletto: solo, lo divengono nell’essere pensati, mentre quando smettono di essere pensati smettono totalmente di esistere.234 A corroborare tale sua insistenza sulla corruttibilità delle forme
pensate, Alessandro le accomuna a quegli enti che si ricavano “per sottrazione” (§j éfair°sevw).235 Qui, il parallelo con il commento a Metafisica I.6 è d’aiuto perché ci dice per sottrazione di che cosa e da che
cosa vengano ricavati gli enti matematici: questi si trovano, abbiamo visto or ora, “quando (dagli enti materiati) si siano separati la materia e il
movimento”.236
Quanto al cenno, pure incidentale, agli enti matematici nella
Quaestio I.25, esso comporta, parte implicitamente, parte esplicitamente, qualche ampliamento dell’altra indicazione che abbiamo evidenziata nel commentario. Lì si era letto infatti che gli enti matematici non tanto sono essi stessi simili (˜moia) - come invece diceva Platone secondo Aristotele - bensì mostrano la similitudine che è nei corpi
sensibili. Restava però imprecisato, nel commentario, se tali enti matematici siano o non siano, di per sé, simili e se siano o non siano molti, e in che senso. Anzi, a rigore non è nemmeno chiaro di quali enti
matematici si tratti. Ora, tutto questo è invece contenuto, espressamente o no, nella Quaestio, là dove dice:
Fra gli enti materiati, quelli che partecipano della stessa forma sono identici nella forma ma non nel numero ed è la materia che li rende differenti nel numero. Quegli enti invece che, essendo identici, sono forme senza materia, sono
identici non solo nella forma ma anche nel numero. Essi tutti sono infatti uno di
numero, per esempio i punti, le linee e i piani considerati insieme.237
Di per sé dunque gli enti matematici quando sono simili non sono
molti: quanti di essi hanno la stessa forma, fanno tutt’uno di numero.
ibid. 90.20-22. Anche il noËw yÊrayen come forma pensata è presente all’interno dell’anima
umana solo transitoriamente; nell’atto di pensarlo e di identificarsi con esso l’intelletto umano attinge l’immortalità; ma solo temporaneamente, secondo il paradosso messo in evidenza
da Donini-Accattino (1994).
235 ibid. 90.9-10.
236 Alex. in Met. 52.16-17. Nel commentario si parla di separazione (compare infatti il verbo
xvr€zv), nel trattato, di astrazione (éfa€resiw).
237 Quaestio I.25. 40.3-8. Il contesto, non molto distante da quello del passo ora esaminato del De
234
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A questo proposito ci si potrebbe chiedere se esista, a parità di forma, una diversità di dimensione: per esempio, i triangoli equilateri sono
o non sono tutti uguali fra loro, di qualunque dimensione li si pensi?
Alessandro non entra nel merito. Non è strano: in realtà in entrambi i passi citati (cioè sia nel De anima sia nella Quaestio) gli enti matematici non sono al centro dell’attenzione: Alessandro se ne serve per distinguere in qualche modo l’attività di puro pensiero di se stesso, propria del
primo motore, dall’ordinaria attività del pensiero dell’intelletto umano
(“intelletto in abito”) che si esercita per astrazione a partire dagli enti materiati. Parla dunque degli enti matematici senza esercitare alcuna elaborazione specifica e originale a questo riguardo. Si attiene piuttosto, come
si vede nella Quaestio I.25, agli esempi più generici e meno controvertibili, prescegliendo entità prive di dimensione e di limiti: identici perché
simili - dice - sono tutti i punti fra loro, tutte le rette fra loro e tutti i piani fra loro. La loro identità è infatti unità.
Dagli enti senza materia si ricava così e si definisce per converso il
ruolo della materia come principio di individuazione: è la materia a rendere numericamente diverse sostanze la cui forma è uguale.
Questo è ciò che in altri contesti Alessandro espressamente asserisce, quando scrive:
Le reciproche differenze tra gli individui della stessa specie, per le quali Socrate e Platone sono diversi nella sostanza, non sono di tipo primario, bensì solo
accidenti dovuti alla materia che fa da sostrato a questi individui.238
Quanto al cenno agli enti matematici nel De anima, lì Alessandro sottolinea la debolezza ontologica degli enti matematici: come gli universali, essi non esistono di per sé, ma solo nell’atto di essere pensati.
Non sono infatti sostanze, ma solo astrazioni. Cioè, per Alessandro
enti matematici e concetti generali, “gli universali”, sono sullo stesso livello. Le forme infatti per Alessandro, a differenza delle idee per Platone, non esistono se non immanenti alla materia, in unione alla quale sono
sostanza. Fra le forme senza materia, solo l’intelletto agente, che la tradizione aristotelica identifica con il motore immobile, è sostanza di per sé
ed esiste di per sé.
anima, è quello della distinzione fra l’assoluta identità dell’intelletto con la forma dell’oggetto
pensato nel caso della prima sostanza in quanto essa è intelletto che pensa se stesso, e l’identità che si crea fra l’intelletto e l’oggetto del pensiero nell’ordinario processo di intellezione,
quello inerente cioè gli enti materiati. Con gli enti materiati non vi può essere infatti che identità nella forma, mentre l’identità nel numero si dà solo fra le forme che sono immateriate per
natura e non per astrazione.
238 De providentia p. 156.11-15, tr. 157.14-18.
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Di qui un problema importante, che però sconfina dall’ambito di
queste pagine: essendo senza materia, non si vede in che modo il motore
immobile possa essere più d’uno di numero. Si è visto infatti che è la materia il principio di individuazione che rende “molti di numero” enti che
pure hanno la stessa forma. D’altra parte Aristotele aveva detto che è ragionevole supporre che quante sono le sfere celesti, tanti siano i motori.
Poiché dunque le sfere sono molte (almeno otto, come in Alessandro
Quaestio I.25 40.25 s., se non addirittura diverse decine, come in Met.
XII.8) anche i motori dovranno essere molti. Ma come possono essere
molti se non hanno materia? Non li distingue propriamente la materia,
ma nemmeno li distinguono differenze nella forma - la forma del motore
è infatti assolutamente semplice e dunque non può essere determinata da
differenze specificanti. La diversità consisterà allora in un ordine di priorità fra i motori, che corrisponde all’ordine di priorità delle rispettive sfere239 e alla maggiore o minore velocità del loro movimento.
Questo, per quanto riguarda i motori. Le sfere celesti invece, a quanto Alessandro asserisce, hanno materia. La loro materia costituisce però
un caso particolare di materia, anzi, il caso particolare “per eccellenza”
della definizione di materia.240 Ne tratterà il prossimo capitolo, dove esamineremo due Quaestiones sulla materia dei “corpi divini” (I.10 e I.15) e
altri frammenti sopravvissuti su questo argomento, che concorrono a
identificare la “materia” di cui sono fatti i corpi celesti, con alcuni aspetti di specificità e altri di continuità con la caratterizzazione generale della materia sin qui esaminata.
239
Ne tratta il De principiis, cfr. in part. § 92; miriservo di discutere altrove l’interpretazione diversa di Geneguand (2001) ad loc.
240
Cfr. Simpl. in Phys. 219.22-221.18, in Arist. Phys. I.7.191a 3-5, che cita in proposito anche Met.
1044a 32 ss.
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Capitolo II: “La materia del divino”
1. Introduzione
Esaminare la discussione sulla materia dei corpi celesti in Alessandro significa trattare un problema che ha una sua autonomia e una sua funzione nel sistema alessandrista e non coincide né può essere messo direttamente in relazione con gli esiti e gli elementi più tardivi di un dibattito,
lungo quanto la storia stessa dell’aristotelismo, sulla cosiddetta Quinta essentia241 (già in Alessandro, saltuariamente, tÚ p°mpton s«ma242).
Si tratta infatti non dell’essenza, non dell’e‰dow dell’elemento che costituisce il corpo divino, ma della sua materia prima. Il problema che innanzitutto si pone è: esiste? Ha, il corpo celeste, una materia? E subito
dopo: se esiste, è diversa da quella dei corpi sublunari?
Ne trattano due brevi Quaestiones, la Quaestio I.10 e la Quaestio
I.15, fra loro accomunate da una certa continuità tematica e strutturale.
Esse consentono di ravvisare con una certa chiarezza, specie se integrate da altri passi delle Quaestiones e da frammenti dei commentari perduti
conservati da Simplicio, alcune direttive fondamentali nel ragionare di
Alessandro sulla materia dei corpi celesti, sulla loro anima (ne parla infatti sempre come di esseri animati) e sulla loro fÊsiw, cioè sul loro essere corpi fisici ovvero (che è lo stesso, è solo questione di traduzione)
corpi naturali.
Le Quaestiones I.10 e I.15 non sono di facile lettura, per diversi
motivi. Si tratta di testi scritti per una circolazione interna, ad uso della scuola, con le caratteristiche che ne conseguono. In particolare, presentano una forte tendenza all’ellissi, in quanto lasciano sottinteso tut-
241
242
Cfr RE, s. v. “Quinta essentia” = Moraux (1963).
Quaestio I.10, 21.1. Ma la dicitura si diffonde soprattutto in epoca più tarda. Aristotele parla
invece di “primo corpo”, o di “prima sostanza corporea” (cfr. De caelo II.4. 287a 3, 291b 32;
ibid. I.3. 270b 11; Meteor. I.3. 340 a 20) enumerando l’ordine dei corpi non a partire dalla terra, ma dal punto di vista dell’ordinamento cosmico.
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to ciò che la scuola può trovare agevole sottintendere, sia come presupposti, sia come passaggi argomentativi. Le forme stesse dell’argomentazione procedono sui binari di griglie e partizioni consuete alla
scuola, ma non sempre oggettivamente evidenti o direttamente giustificate dai testi di Aristotele.
Tali caratteristiche, sebbene in generale possano valere per la generalità degli opuscoli alessandristi, risultano particolarmente gravi e accentuate nel caso di questi due testi, in virtù del loro peculiare argomento, difficile in se stesso e scarsamente attingibile. Anche in ragione di tale difficoltà d’indagine, la struttura argomentativa è composita e lo svolgimento non è sempre lineare; né peraltro è sicuro che essi siano stati interamente progettati e scritti come opuscoli unitari e conclusi. Vedremo
inoltre che le difficoltà generali ora prospettate sembrano aver pesato negativamente sulla tradizione manoscritta.243
D’altra parte, anche le oscurità stesse e le opacità possono essere un
indizio per indagare quale sia stata la specifica modalità di elaborazione
di questi testi all’interno della scuola.
Non dunque per appiattire queste difficoltà, ma per tenerne conto,
sarà utile discutere nel dettaglio le scelte testuali e interpretative che lo
studio di questi opuscoli comporta. Di qui l’opportunità di procedere in
primo luogo ad un nuovo esame del testo greco e ad una traduzione commentata delle due Quaestiones, scanditi in sezioni secondo le unità argomentative fondamentali. Trascureremo invece i titoli, i quali, probabilmente inautentici, possono anzi essere fuorvianti, come avremo modo di
osservare nel caso della Quaestio I.10.
2. La Quaestio I.10
2.1. Osservazioni preliminari
Non a torto, la Quaestio è stata classificata da Bruns fra le aporie propriamente dette. Può essere tuttavia utile osservare come la struttura non
si presenti semplicemente bipartita, divisa cioè in “aporia-e-soluzione”.
Esiste infatti un problema di partenza relativo alla fisicità del corpo celeste, che già di per sé non è semplice (ci si domanda al tempo stesso se il
corpo celeste sia o non sia corpo naturale e se sia o non sia corpo materiale). Da una delle risposte possibili a questo problema (cioè da quella
duplicemente positiva: sì, è naturale ed è materiale) per la quale Alessandro mostra di propendere, sorgono una serie di aporie, una delle quali
243
Cfr. supra, “Intr.” p. 37 n. 50.
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viene poi affrontata in modo più specifico: se sono naturali, come va concepita la presenza in essi della materia, quale sembra essere postulata dalla teoria delle quattro cause? Sono dunque diversi il problema di partenza e l’aporia: secondo una modalità reperibile anche altrove244, le aporie
- che in questo caso sono più di una - sono sollevate in relazione a quella, fra le possibili risposte al problema, per la quale propende l’autore.
La soluzione (lÊsiw, 20.32 ss.) si riferirà direttamente non al problema, non dunque all’esordio del testo, ma all’aporia. È la parte più chiara del testo, sia per struttura discorsiva che per stato di conservazione.
In questa, a costo di recuperare una definizione di materia alquanto
marginale nel testo di Aristotele, Alessandro lavora sulla possibilità di definire la materia in termini sempre aristotelici, ma più comprensivi, adatti
anche al sostrato dei corpi non soggetti a mutamento, cioè ai corpi celesti.
La prima parte dell’opuscolo, invece, che pone interrogativi più generali sulla fisicità dei corpi celesti, menziona le possibili risposte ed evoca le conseguenti aporie, è molto meno chiara nel suo svolgimento: paiono accumularvisi e compendiarvisi appunti annotati per uso scolastico,
possibilmente in tempi successivi e in fasi di elaborazione diverse. Accomuna queste annotazioni il procedimento diairetico, che più di ogni altro denuncia una procedura e uno stile tipicamente scolastici di elaborazione. Nel suo applicarsi alla ricerca sulla regione dei principi, tuttavia,
quest’uso della diairesi non risulterà scevro di un interesse particolare.
2.2. La posizione del problema (20.18 - 22)
[20.18] Efi t«n fusik«n érxØ ka‹ stoixe›a taËta per‹ œn e‡rhken §n
tª Fusikª ékroãsei ÉAristot°lhw, ¶sti d¢ taËta ≤ te Ïlh ka‹ tÚ e‰dow ka‹
tÚ poihtikÚn ka‹ tÚ o ßneka, tÚ kukloforhtikÚn s«ma ≥toi oÈk ¶stai fusikÚn s«ma, μ ¶stai Ïlh ka‹ tÚ Ípoke€menon §n §ke€nƒ, μ oÈk ¶stai pãsaw
tåw érxåw t«n fusik«n l°gvn. t€ går tÚ Ípoke€menon §ke€nƒ;
[20.18] Se principio ed elementi dei corpi naturali sono quelli dei quali ha
parlato Aristotele nelle Lezioni di Fisica, cioè materia, forma, causa efficiente e
causa finale, il corpo dal moto circolare o non sarà un corpo naturale, o sarà materia anche il suo sostrato; oppure [Aristotele] non avrà menzionato tutti i principi dei corpi fisici: di quel corpo, infatti, qual’è il sostrato?
Il problema della fisicità o meno del corpo celeste è qui posto e affrontato in connessione con quello della materialità del corpo celeste stes244
Per il caso particolare della Quaestio II.3, dove l’aporia è sviluppata in relazione a una possibilità già privilegiata in precedenza all’interno della scuola, cfr. infra, cap. IV, in part. p. 187 ss.
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so. Conseguentemente, si prospettano tre diverse possibilità combinatorie disponibili nella risposta. Il corpo celeste:
(1) - o non è fisico (non essendo materiale): ≥toi oÈk ¶stai fusikÚn
s«ma (20.20-21);
(2) - o è materiale (e dunque è fisico): μ ¶stai Ïlh ka‹ tÚ Ípoke€menon
§n §ke€nƒ (20.21);
(3) - o è fisico anche se non è materiale.
Questa terza possibilità è evocata solo ellitticamente, tramite una sua
conseguenza: non sarebbe vero, allora, che per Aristotele le quattro cause
appena rievocate comprendono tutti i principi dei corpi fisici (oÈk ¶stai
pãsaw tåw érxåw t«n fusik«n l°gvn, 20.21-22). Cioè, per i corpi celesti esisterebbe anche un’altra causa, un sostrato diverso dalla materia in
quanto non recettivo dei contrari. Questa possibilità - è importante osservare - è positivamente sostenuta da Alessandro nel commento alla Metafisica245, dove effettivamente Alessandro scrive che quello dei corpi celesti è
un sostrato ma non è una materia, non essendo separabile dalla forma nemmeno col pensiero. Sembra allora doversi intendere che nel commento Alessandro mantiene una maggiore continuità con la tradizione della scuola,
mentre nelle Quaestiones introduce con più libertà elementi innovativi di
elaborazione.
Non è qui invece considerata in alcun modo, nemmeno indirettamente, la possibilità (virtualmente, la quarta) di un corpo materiale che
non sia naturale.
Si vede così che il problema della materialità dei corpi celesti è subordinato a quello della loro fisicità: attribuire una materia ai corpi celesti
è importante perché si vuole mantenere che siano corpi naturali, e questa
prerogativa sembra richiedere quella, come si vede dalle ipotesi (1) e (2).
Il problema è dunque come si possa mantenere la fisicità del corpo celeste, nonostante la difficoltà di concepirne la materialità. Del che
- peraltro - non fa alcuna menzione il titolo (P«w, efi t°ssara tå a‡tia,
oÈk ¶stai ka‹ §n to›w ye€oiw s≈masi tÚ Ípoke€menon Ïlh, 20.16 - 17)
che sarà con ogni probabilità inautentico e che quindi è opportuno lasciare da parte.
245 Alex. in Met. 22.2 - 3 Hayduck (in Arist. 983a 29); 169.18 - 19 (in Arist. 995a 17); 375.37 - 376.2
(in Arist. 1017b 19 ss.). Cfr. Dooley (1989) p. 44 n. 90, Sharples (1992) p. 59 n. 169. Le prime
due testimonianze alessandriste dicono che il concetto di sostrato è più largo di quello di materia, in quanto i corpi celesti hanno sostrato ma non materia. Il terzo, sembra spiegare perché
tale sia la posizione di Alessandro: la forma è separabile con il pensiero dalla materia nella misura in cui si trova solo transitoriamente nella materia, in quanto il corpo è corruttibile. Ma la
forma del corpo divino non è materiata, nel senso che non può separarsi dal suo sostrato né
nella realtà, per corruzione, né ad opera del pensiero: in questo senso, non è materiata.
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La connessione fra fisicità e materialità è presentata come un corollario della dottrina delle quattro cause. Questa, nella forma qui attestata,
non è propriamente aristotelica bensì scolastica, sia nella terminologia sia
soprattutto nel senso complessivo. Per tale, seriore dottrina - evocata in
apertura sotto forma ipotetica con la protasi all’indicativo in 20.23 ss. ogni corpo naturale ovvero fisico deve necessariamente avere tutte le quattro cause: materia e forma, causa efficiente e causa finale.
Il fatto che le quattro cause canoniche qui non siano chiamate espressamente “cause”, ma “principio ed elementi” (érxØ ka‹ stoixe›a) può
confermare questo tipo di considerazioni: l’uso di questi due termini sembra implicare che tali cause debbano essere sempre presenti, come è proprio del principio (érxÆ), e che non ce ne siano altre, come è proprio degli elementi (stoixe›a).246
Questo vale, perlomeno, se i principi sono compiutamente annoverati; bisogna dire che in 20.21-22 Alessandro menziona anche la possibilità che non lo siano (oÈk ¶stai pãsaw tåw érxåw t«n fusik«n l°gvn).
Tuttavia la questione, che conseguentemente si pone, di quale altro principio possa essere il sostrato del corpo celeste (t€ går tÚ Ípoke€menon
§ke€nƒ;) resta senza risposta ed è prospettata, si direbbe, solo per prepararne il superamento: in realtà l’esegeta non intende mettere radicalmente in discussione la dottrina delle quattro cause, tramandata e rielaborata dalla scuola. Piuttosto, è disposto a suggerirne una deroga, un emendamento. Tale, complessiva intenzione di mantenere come valida la dottrina delle quattro cause è evidente nella sezione seguente (cfr. in part.
20.30 - 31) dove la possibilità che si neghi materia a quei corpi, che pure
si confermano essere corpi fisici (20.28-30), costituirà il nodo aporetico
fondamentale, la difficoltà da superare; e motiverà la ricerca di una soluzione nella sezione ancora successiva (20.32 ss.).
In sintesi, la prima parte dell’opuscolo mostra una fase in fieri non
solo nella riflessione sulla natura e sulla materia dei corpi celesti, ma anche nel consolidamento e nella verifica della dottrina delle quattro cause
complessivamente considerata: questa - se ne desume - non è ancora at246 Il termine “cause” sarà comunque sottinteso, come conferma il parallelo (segnalatomi da Andrea
Falcon, Università di Padova) con Aristotele, Fisica I.1. 184a 11, dove dice: érxa‹ μ a‡tia μ
stoixe›a. Poiché d’altronde in quest’ultimo passo Aristotele parla di “principi” al plurale, resta
come ragione di perplessità, perché mai Alessandro invece parli qui di “principio” al singolare.
Una possibile ipotesi è che si trovi qui evocata la distinzione di Met. XII.4. 1070b 22-26 fra “elementi” (stoixe›a) intrinseci alla cosa, e “principio” (érxÆ infatti, in uno dei suoi sensi possibili, cfr. Met. V. 1013a 7, si intende come esterno a ciò di cui è principio); e in forza di tale distinzione venga isolata al singolare, fra le quattro cause, la causa efficiente, come “principio” nell’altro da sé, distinta in quanto tale dagli stoixe›a. È una distinzione che gli stoici, già con Zenone, praticarono in modo più sistematico, come ricorda Isnardi Parente (1993) p. 21 s.
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testata in modo dogmatico all’interno della scuola; tende ad imporsi, ma
deve ancora essere sottoposta al vaglio e al perfezionamento che deriva
dalla sua applicazione ai casi particolari.
2.3. Le aporie (20.23 - 32)
[20.23] éllå mØn fusikÚn s«ma kéke›no. pçn går s«ma μ fusikÚn μ
mayhmatikÒn, oÈk ¶sti d¢ mayhmatikÚn §ke›no, §pe‹ pçn tÚ §n kinÆsei tª §j
aÍtoË s«ma fusikÒn, §n kinÆsei d¢ §ke›no, e‡ ge ka‹ éeik€nhton ka‹ tØn
afit€an t∞w kinÆsevw ¶xon §n •aut“.
[20.26] μ efi ≤ fÊsiw kat’ aÈtÚn érxØ kinÆsevw ka‹ stãsevw, §n oÂw §sti
pr≈tvw ka‹ oÈ katå sumbebhkÒw, oÈk ¶xei d¢ §ke›no érxØn stãsevw §n
•aut“, oÈd’ ín fÊsin ¶xoi. efi d¢ mØ fÊsin ¶xoi, oÈd’ ín fusikÚn s«ma e‡h.
[20.29] éll’ efi mØ fusikÒn, po›Òn ti; oÈ går dØ mayhmatikÒn, §pe‹
¶mcuxÒn §sti, pçn d¢ s«ma ¶mcuxon fusikÒn.
[20.30] ~ fusikÚna d’ ¯n s«ma oÈk ¶xei tÚ Ípoke€menon Ïlhn e‡ ge ≤ Ïlh
tÚ parå m°row t«n §nant€vn dektikÒn.
[20.23] Ma, invero, è anch’esso un corpo naturale. I corpi, infatti, sono tutti o naturali o matematici, e quello non è matematico, perché tutto ciò che si muove di movimento proprio è un corpo naturale, e quel corpo è in movimento, se è
vero che si muove eternamente e ha in sé la causa del movimento.
[20.26] Oppure: se la natura, a suo avviso, è principio di movimento e di
quiete per i corpi nei quali si trova primariamente e non per accidente, e però
quel corpo non ha in sé principio di quiete, esso non dovrebbe avere natura. E
se non avesse natura, non sarebbe un corpo naturale.
[20.29] Ma se non fosse un corpo naturale, che corpo potrebbe essere? Certo, infatti, non è un corpo matematico, visto che è animato, e tutti i corpi animati sono corpi naturali.
[20.30] D’altronde, pur essendo un corpo naturale, non ha come sostrato una materia, se davvero la materia è ciò che di volta in volta è recettivo dei
contrari.247
Rispetto al duplice interrogativo di partenza, se tÚ ye›on s«ma possa o no considerarsi fisico e materiale, l’autore rileva ora le aporie che ciascuna delle due prerogative comporta.
In questa sezione si fa sempre più evidente che l’autore intende non
solo difendere ma anche argomentare e definire la fisicità del corpo celeste.
Pensata da Aristotele come strumento per distinguere dai prodotti
artificiali i corpi naturali, la definizione di questi ultimi non si applica del
tutto agevolmente ai corpi celesti, né giova a distinguerli dagli enti matea
247
20.30 fusikÚn V: oÈ fusikÚn V1 Bruns a
Sul problema testuale del passo 20.30-32, di cui alla nota (a), cfr infra pp. 121-3.
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matici, il cui statuto è in qualche modo confinante (la “matematica” per
eccellenza, nel mondo antico in generale e all’età di Alessandro in particolare, è infatti l’astronomia matematica248).
A quest’esigenza di fondo può riconnettersi in qualche modo anche una sorta di anomalia che si rileva nella struttura argomentativa: la
Quaestio mette in opera per ben due volte (in 20.23 - 24 e in 20.29 - 30)
una partizione, quella fra corpi fisici e matematici, che non sembra poi
direttamente attivata nel corso dell’argomentazione. Questo infatti si
svolge come segue.
Innanzitutto (20.23-24) si pone come principio generale che i corpi
sono o naturali o matematici. È una presa di posizione degna di attenzione: significa che gli unici corpi che davvero esistono sono corpi naturali.
Evidentemente - si desume - per Alessandro i prodotti artificiali non sono corpi, pur avendo una loro compiutezza;249 semmai saranno imitazioni di corpi, poiché l’arte imita la natura. Né sono corpo le parti di corpo;
eppure sia gli uni che gli altri si trovano occasionalmente indicati come
corpi da Aristotele.250
D’altra parte i corpi matematici non sono che astrazioni: si ricavano per
sottrazione (§j éfair°sevw) a partire dai corpi naturali, togliendo cioè a
questi la materia e il movimento.251 Solo tenendo presente questo modo di
intendere i corpi matematici, nel quale l’esegeta aristotelico si differenzia dai
platonici e a fortiori dai pitagorici, risultano comprensibili gli argomenti qui
addotti per dimostrare che il corpo celeste è un corpo naturale:
(a) (20.24 - 25) il corpo celeste è in movimento; tutti i corpi in movimento sono naturali; dunque il corpo celeste non è un corpo matematico. Questo argomento (che peraltro verrà messo in discussione
in 20.26-28) sottintende evidentemente che il corpo matematico, rispetto a quello naturale, è privo di movimento;
(b) (20.30) il corpo celeste è animato; tutti i corpi animati sono naturali; dunque il corpo celeste non è un corpo matematico. Anche qui ci
sono due dati acquisiti che fungono costantemente da premesse sen248 Per una lucida distinzione fra fisica, matematica e teologia o filosofia prima, pochi decenni pri-
ma di Alessandro, cfr. il proemio (cap. I.1 p. 5.7-10) della MayhmatikØ sÊntajiw (il cosiddetto Almagesto) di Tolomeo (2a metà del II sec. d. C.).
249 Sulla compiutezza dei prodotti dell’arte, cfr. per es. Alex. in Met. 422.14-16 (in Arist. 1023a
34): ˜ti går ka‹ taËta (scil. e. g. ≤ ofik€a) ˜la te ka‹ t°leia, ka‹ oÈ mÒnon tå fusikã te
ka‹ sunex∞, de€knusi di’ œn prot€yhsi l°gvn t°low m¢n gãr §stin ≤ morfÆ, t°leion d¢
tÚ ¶xon t°low.
250 Per i prodotti artificiali come corpi, cfr. l’esempio della scure in Arist. De anima 412b 11-15;
per le parti di corpo, cfr. Bonitz, Index Aristotelicus, s. v. s«ma. Sulle limitazioni che la nozione di “corpo” subisce fra Aristotele e Alessandro cfr. anche supra, pp. 73-75.
251 Alex. De anima 90.9-10, in Met. 52.16-17 e supra, cap. I § 5, p. 106 ss.
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za mai essere argomentati. Uno è che gli astri siano animati.252 L’altro è che, come dice Aristotele in un passo del De anima, è dei corpi
naturali che l’anima è anima.253
In tutto questo, ciò di cui non si vede direttamente l’utilità, come si
è accennato, è l’opposizione fisico/matematico: apparentemente, gli argomenti (a) e (b) contengono ciascuno le premesse di un sillogismo in darii della prima figura254: potrebbero semplicemente concludere, invece
che “dunque non è un corpo matematico”, “dunque è un corpo naturale”, che per l’appunto è ciò che si voleva dimostrare. Che utilità c’è nel ricordare che ogni corpo o è naturale o è matematico, e che se è matematico è per definizione un’astrazione priva di movimento? Senza avere una
risposta definita a questo riguardo, suppongo che la cosa vada comunque
sottolineata: in un contesto la cui conoscenza è così frammentaria possono avere rilievo anche i residui argomentativi che restano disattivati e le
opzioni dottrinali che restano scartate. Questi infatti giovano se non altro
a ricostruire la rete di partizioni e di opposizioni che costituisce lo sfondo della discussione.
In questa rete, questo perlomeno è chiaro: che il corpo celeste stenta a trovare una collocazione. Poiché ha principio di movimento, esso sembra naturale; ma poiché non ha principio di quiete, non sembra naturale;
non essendo naturale, poi, non sarebbe nemmeno animato, visto che per
essere animato deve comunque essere naturale.
Aristotele infatti non solo aveva ristretto la definizione di anima al
corpo naturale, ma aveva proprio aggiunto “che ha in sé il principio del
movimento e della quiete”:255 una precisazione, quest’ultima, che - come
Alessandro osserva - escluderebbe i corpi celesti dal novero dei corpi naturali animati, qualora non si trovasse un modo diverso di intendere tanto la loro natura quanto la loro anima.
252
Che gli astri siano animati per Alessandro è un punto fermo, una di quelle convinzioni diffuse la cui validità è garantita dal comune consenso; essa è già attestata come tale in Platone, in
un passo delle Leggi (X 898d ss.) cui Alessandro almeno in un caso sembra fare preciso riferimento, cfr. De providentia tr. Zonta in Fazzo-Zonta (1999), p. 134. 11-16, tr. 135.11-15. La possibilità che il corpo celeste non sia animato non è presa considerazione né nella Quaestio I.10
né, che io veda, in alcun’altra opera di Alessandro.
253 II.1. 412b 15-16.
254 [P] pçn tÚ §n kinÆsei tª §j aÍtoË s«ma fusikÒn [p] §n kinÆsei d¢ §ke›no (20.24-25); [p]
¶mcuxÒn §sti, [P] pçn d¢ s«ma ¶mcuxon fusikÒn (20.24-25).
255 “Non è di un corpo di tal genere [scil. di un prodotto artigianale] che l’anima è essenza e definizione, ma del corpo naturale che ha in sé il principio del movimento e della quiete” (oÈ
går toioÊtou s≈matow tÚ t€ ∑n e‰nai ka‹ ı lÒgow ≤ cuxÆ, éllå fusikoË toioud‹ ¶xontow érxØn kinÆsevw ka‹ stãsevw §n •aut“, Arist. De anima II.1. 412b 15-17); cfr infra,
p. 140 s.
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Per questo nella Quaestio I.10 il sillogismo ¶mcuxÒn §sti (sogg. tÚ
ye›on), pçn d¢ s«ma ¶mcuxon fusikÒn (20.30) resta privo di conclusione: se il corpo celeste non rientra nella definizione di corpo naturale, ma
tuttavia ha l’anima, è possibile che si debba pensare, per il corpo celeste, a
una diversa definizione sia di natura, sia di anima - cosa che Alessandro non
manca di fare. Non lo fa in questo, però, ma in altri testi (in esame qui infra, pp. 140-145) cui questo passo potrebbe alludere o preludere.
Occorre peraltro segnalare che nel complesso l’ultimo passo esaminato (20.26-30, da efi ≤ fÊsiw a pçn d¢ s«ma ¶mcuxon fusikÒn) non ha
carattere risolutivo, come invece indurrebbe a credere la disgiunzione ≥.
Questa infatti costituisce nei testi di scuola il tipico esordio della soluzione a un’aporia. Qui però ≥ potrebbe essere un’aggiunta posteriore rispetto
al testo: nel ms. Veneto Marc. gr. 258 (V) essa non si trova nel corpo del
testo bensì apposta in margine, forse per un tentativo quasi disperato di
scandire più ordinatamente un materiale così disorganico, ad opera di uno
dei correttori del manoscritto.256
In realtà, piuttosto di risolvere il problema della fisicità del corpo celeste, la sezione 20.26-30 lo ripropone in termini diversi. Introduce infatti un tema importante, quello cioè dell’anima dei cieli, che verrà più ampiamente sviluppato in altri testi. Dopo questo cenno, la Quaestio I.10 ritorna invece al problema di partenza: in che senso si può dire che il corpo celeste ha materia?
Il periodo iniziale di questa ripresa, alle righe 20.30 - 32 dell’edizione di Bruns, oÈ fusikÚn d’ ¯n s«ma oÈk ¶xei tÚ Ípoke€menon Ïlhn e‡
ge ≤ Ïlh tÚ parå m°row t«n §nant€vn dektikÒn (cfr. supra, n. (a) p.118)
dà problemi di interpretazione.
Crea perplessità innanzitutto il reiterarsi della negazione, che nell’edizione di Bruns compare sia davanti alla subordinata participiale - oÈ fusikÚn d’ ¯n s«ma - sia davanti alla proposizione principale - oÈk ¶xei tÚ
Ípoke€menon Ïlhn. Qui la doppia negazione può intendersi infatti in almeno due modi. La costruzione più lineare sarebbe “non essendo un corpo fisico, non ha materia come sostrato”. Si direbbe cioè che il cielo non è
corpo fisico e che per questo non è nemmeno materiale: questa sarebbe
una possibile risposta al problema posto in apertura. In tal caso però non
si vedrebbe il senso della successiva e congiunta subordinata condizionale “se davvero la materia è ciò che di volta in volta è recettivo dei contrari”: che le sfere celesti non abbiano materia, si troverebbe infatti motivato
256
Non è un caso isolato. Al corpus delle Quaestiones si trova appostanel codice V, fra le righe o in
margine, tutta una serie di particelle atte a scandire l’articolazione logica dell’argomentazione,
cfr. Bruns (1889) p. VI, (1892) p. XV, con le osservazioni qui infra, p. 122.
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a prescindere da quale sia l’accezione nella quale si intende la materia. Né
si vedrebbe bene su quale principio riposi la dimostrazione. Il testo, infatti, enuncia sì, in apertura, il principio secondo il quale tutti i corpi fisici
avrebbero materia; ma mai viceversa né Alessandro né Aristotele dicono
che solo i corpi che esistono per natura hanno materia (e infatti i prodotti delle arti porterebbero facilmente un esempio contrario).
Un’altra possibilità è leggere la doppia negazione secondo la struttura, caratteristica della logica stoica, “non: A e non B”: non è possibile che, essendo un corpo fisico, non abbia materia. Si direbbe allora
che se il cielo è corpo fisico, è necessariamente materiale, il che si accorda abbastanza bene con il senso complessivo dell’opuscolo. Anche
questa lettura non è però priva di ostacoli. Poniamo di non tenere in
conto che è piuttosto inconsueto che in questa struttura argomentativa una delle due proposizioni sia non esplicita come l’altra, ma implicita, al participio. In ogni caso, la subordinata condizionale “se davvero la materia è ciò che di volta in volta è recettivo dei contrari” non è
cogente nemmeno in questo caso. Inoltre, è piuttosto inatteso trovare
qui come ipotesi di partenza quella che il cielo sia corpo fisico: appena sopra, in 20.26-30, si era mostrata la difficoltà di intendere il cielo
come corpo fisico; e ci si era interrogati su quale corpo potesse essere
allora, non essendo nemmeno matematico.
Sharples pone rimedio a tali difficoltà espungendo oÈ in 20.30257 e
attribuendo valore concessivo alla subordinata participiale, che a questo
punto prende senso positivo e non negativo: “(though) being a natural
body - traduce - it does not have matter as its substrate”.
Questa soluzione non solo va nella direzione più ragionevole, ma forse è anche paleograficamente giustificata. In effetti, se è possibile che le
parole aggiunte in margine dal vetus corrector non provengano dall’archetipo (come in generale sembra ritenere Bruns) bensì dallo zelo redazionale del vetus corrector medesimo, allora è giusto prendere francamente in esame il testo così com’è stato trascritto dal copista del ms. Veneto Marc. gr. 258, dunque senza oÈ.
Personalmente trovo tuttavia un po’ sorprendente che Alessandro
- se davvero intendeva dire “pur essendo un corpo fisico, non ha materia come sostrato” - lo dicesse semplicemente così: fusikÚn d’ ¯n
257
Cfr. Sharples, tr. cit. (1992) p. 48 con la relativa nota al testo. L’espunzione dell’avverbio negativo oÈ sembra già suggerita dall’emendator Braidensis, cioè da Ottaviano Ferrari, revisore
(cfr. supra, p. 39) cinquecentesco dell’esemplare dell’editio princeps delle Quaestiones attualmente conservata nella Biblioteca Nazionale Braidense di Milano (segnatura B 6.078, f. 6v):
sottolinea infatti la negazione, e questo è uno dei modi in cui si usava suggerire l’espunzione
di una o più parole da un passaggio che venisse ritenuto interpolato.
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s«ma oÈk ¶xei tÚ Ípoke€menon Ïlhn, rinunciando a rendere meno
equivoco il senso della frase e più esplicito un così forte valore concessivo del participio.
Inoltre anche escludendo la prima negazione oÈ (20.30) continua a
essere problematico il rapporto con l’esordio del testo e con il suo senso
generale: si era partiti dalla difficoltà di pensare un corpo naturale senza
materia; il fatto pertanto di concludere, anche solo provvisoriamente, che
il corpo celeste è naturale ma non ha materia non porterebbe alcun contributo significativo all’interrogativo di partenza.
Delle due, dunque, o l’una o entrambe: o il testo è così mal conservato che è impossibile ricostruire con sicurezza il corso dell’argomentazione; oppure l’argomentazione non segue un corso preciso, bensì l’opuscolo raccoglie materiali e interrogativi diversi su di un problema complesso, raccordandoli senza precisione.
A un tale problema, l’opuscolo offre, nella soluzione, soltanto una
prima, parziale risposta; parziale è infatti la soluzione che segue, relativa
alla materia dei corpi celesti. Quanto al loro avere - o non avere - natura
come principio del movimento e della quiete (tema prospettato in 20.2628) e quanto al modo specifico in cui essi possono avere anima (20.30), le
risposte arrivano invece altrove (cfr. infra, § 7).
Finalmente, ritorna dunque al contro dell’attenzione, come nell’esordio, il problema della materia. È interessante notare che nel commento a Metafisica I.3 la posizione di Alessandro resta nel solco della tradizione di scuola e il problema non si poneva ancora in questi termini,
bensì restavano distinti “materia” e “sostrato”. Commentando infatti il
passo di Aristotele Met. I.3. 983a 29 dove i due termini sono trattati come sinonimi, Alessandro puntualizza che “il sostrato è più comprensivo
della materia: nei corpi divini infatti c’è sostrato ma non c’è materia”.258
Perché - ci si potrebbe chiedere - una tale distinzione non è mantenuta
semplicemente come tale anche negli opuscoli? Il problema scaturisce
evidentemente dall’intento di annoverare in qualche modo anche il corpo celeste fra i corpi naturali e di attribuire ad esso le stesse prerogative
che sono proprie degli altri corpi naturali. Assistiamo pertanto una volta di più a un problema di omologazione dottrinale, ovvero di conciliazione fra schemi concettuali diversi, già costituitisi nella scuola come dottrine stabili, fondati però su spunti o indicazioni che Aristotele aveva prodotto in ambiti discorsivi diversi, senza metterli direttamente in relazione,259 né adattarli all’universalità dei casi e dei problemi.
258
259
Alex. in Met. 22.2-3.
Cfr. supra, cap. I, p. 47.
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Si prepara così la sezione successiva, che rimette in discussione, per
l’appunto, la definizione di materia.
2.4. Soluzione (lÊsiw, 20.32-21.5)
[20.32] μ efi m¢n tØn Ïlhn ¶legen e‰nai mÒnon tÚ ¶sxaton Ípoke€menon
t«n §nant€vn parå m°row dektikÒn, oÈk ín ∑n §n tª Ïl˙ perieilhmm°non tÚ
Ípoke€menon t“ p°mptƒ s≈mati, efi d’ ır€zetai tØn Ïlhn ka‹ oÏtvw, ¶sxaton Ípoke€menon érrÊymiston kay’ aÍtÒ, e‡h ín §n tª oÏtvw Ïl˙ legom°n˙
perieilhmm°non ka‹ tÚ §n t“ ye€ƒ s≈mati Ípoke€menon. koinÒterow går
otow ı lÒgow t∞w katå tÚ Ípoke€menon érx∞w ka‹ peri°xvn §n •aut“
émfÒtera tå Ípoke€mena.
[20.32] Oppure: se (Aristotele) avesse detto che la materia è solo il sostrato ultimo di volta in volta recettivo dei contrari, il sostrato del quinto corpo non rientrerebbe nella (definizione di) materia; se invece definisce la materia anche così: “sostrato ultimo disordinato in sé”, allora in questa definizione
di materia sarebbe compreso anche il sostrato del corpo divino: tale definizione del principio secondo il sostrato è infatti più generale, e comprende in sé entrambi i sostrati.
Il claudicante e forse corrotto passaggio più sopra esaminato,
20.30 - 32, sembrava prendere in qualche modo in considerazione l’ipotesi che il corpo celeste sia fisico ma non sia materiale - non almeno
nel senso della materia come sostrato recettivo dei contrari. Tale possibilità è però incompatibile con la dottrina delle quattro cause dei corpi fisici quale è attestata e ricordata nell’esordio della Quaestio (20.18
- 20): come può essere naturale senza avere materia? Questa incompatibilità non viene più evidenziata esplicitamente; ma è su questa che
verte la soluzione.
La sezione qui riportata e tradotta cerca infatti e propone una soluzione lavorando sulla definizione di “materia”. Si arriva così a un allargamento della definizione stessa: non più “sostrato ultimo di volta in volta
recettivo dei contrari”, bensì “sostrato ultimo disordinato in sé”.
D’altra parte l’uso di una siffatta definizione allargata - secondo l’espressione di Alessandro, un koinÒterow lÒgow potrebbe suggerire che le
due materie, essendo diverse - una infatti è recettiva dei contrari, l’altra non
lo è - si trovino a essere specie del più comprensivo genere “materia”. Smetterebbero dunque di essere, sia l’una che l’altra, materia prima e indifferenziata. Di qui l’ulteriore aporia, che nasce questa volta come ¶nstasiw - intendendo questo termine nel senso tecnico in cui lo usano i commentatori,
ossia come obiezione che si oppone in qualche modo alla interpretazione o
soluzione (lÊsiw) proposta. E cioè: come possono due materie non essere
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uguali senza avere differenze fra loro? Nemmeno l’¶nstasiw, peraltro, si trova qui espressa per intero. Evocata solo implicitamente, la si ricava dal tentativo di soluzione che essa di fatto riceve nella parte finale della Quaestio,
dove costituisce - ciò che per l’appunto è caratteristico dell’¶nstasiw - una
sorta di ulteriore aporia nell’aporia. Sarà fatta esplicita, non più come ¶nstasiw, ma come aporia indipendente, nella Quaestio I.15 (26.7 - 8).
2.5. Soluzione dell’ ¶nstasiw (21.5-11)
[21.5] oÈk efi ßterai d¢ éllÆlvn afl lai, ¥ te §n t“ ye€ƒ s≈mati
Ípokeim°nh ka‹ ≤ §n to›w §n gen°sei ka‹ fyorò, ≥dh ka‹ sÊnyetoi. efi m¢n går
∑n ti aÈta›w ßn ti Ípoke€menon, ¶dei aÈta›w diafor«n, kay’ ìw efidopoihye›sai ¶xousai taÈtÚn Ípoke€menon éllÆlvn diaf°rousi: efi d° efisin
ßterai, pãnt˙ oÈk énãgkh aÈtåw katã tinaw efidopoioÁw diaforåw éllÆlvn
diaf°rein: oÈd¢ går tÚ e‰dow ka‹ ≤ Ïlh, §pe‹ ßtera éllÆlvn, diå toËto ka‹
sÊnyeta.
[21.5] Se sono diverse tra loro le materie, la materia cioè che è sostrato del
corpo divino e quella dei corpi soggetti a generazione e corruzione, non per questo saranno composte. Se infatti avessero un sostrato unico, dovrebbero avere differenze, in virtù delle quali siano specificate e differiscano una dall’altra, pur avendo lo stesso sostrato. Se invece sono diverse non è affatto necessario che differiscano l’una dall’altra per mezzo di qualche differenza specifica. Infatti nemmeno la forma e la materia, per il fatto di essere diverse fra loro, sono per questo
composte.
Alessandro stabilisce ora il principio generale che due entità, nella fattispecie due lai, possano differire anche senza differenze specifiche: il
differire - sostiene - è concetto più largo che non l’avere differenza, ed inoltre il concetto di differenza è più ampio che non quello di differenza specifica. Il principio, affermato dapprima in generale, è poi corroborato da
un solo esempio: quello del differire fra forma e materia (la casistica esemplificativa verrà ampliata - come vedremo - nella Quaestio I.15). Peraltro,
i termini dei quali l’autore si serve nel presentare l’esempio sono indicativi di quali aporie il principio generale che qui viene enunciato comporti.
Alessandro non dice infatti che materia e forma differiscano senza differenze specifiche, bensì dice che esse sono “altre” (ßtera, 21.11) pur senza essere composte (sÊnyeta). La preoccupazione, evidentemente, è quella che la semplicità che caratterizza la materia prima come concetto assoluto possa venir meno per il suo divenire sÊnyetow, per il suo comporsi
cioè con una differenza, qualunque essa sia.
La Quaestio I.15 risponde a questa aporia, innanzitutto prospettando l’ipotesi di un differire senza differenze.
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3. La Quaestio I.15
3.1. Osservazioni preliminari
Si tratta ora di come due lai possano essere diverse, pur senza avere in
sé differenze specifiche. In questo senso, la Quaestio I.15 costituisce la logica continuazione della Quaestio I.10.
Anche il metodo - come vedremo - è molto simile: entrambe le Quaestiones che indagano sulla materialità dei corpi celesti cercano soluzioni
di un’aporia concernente l’universo fisico intervenendo sulla definizione
dei concetti messi in opera.
3.2. Posizione del problema: il dilemma (26.29 - 27.3)
[26.29] ÑH Ïlh ≥toi ≤ aÈtØ ¶n te to›w ye€oiw ka‹ to›w §n gen°sei ka‹
fyorò μ •t°ra. éll’ efi m¢n ≤ aÈtÆ, ¶stai kéke›na fyartã, e‡ ge oÂw tÚ dunãmei ÍpÒkeitai, taËta fyartã (…w d°deiktai Íp’ ÉAristot°louw ¶n te êlloiw
ka‹ dØ ka‹ §n t“ pr≈tƒ Per‹ oÈranoË): efi d’ êllh, d∞lon …w dio€sei ≤
Ípokeim°nh Ïlh to›w §n gen°sei ka‹ fyorò t∞w to›w ye€oiw Ípokeim°nhw.
[26.29] La materia, o è la stessa nei (corpi) divini e in quelli soggetti a generazione e corruzione, o è differente. Se però fosse la stessa, anche quelli saranno corruttibili, dato che è mortale - come ha mostrato Aristotele, altrove e
in particolare nel primo libro del De caelo - ciò cui è sostrato ciò che è in potenza. Se invece fosse un’altra, allora evidentemente la materia che è sostrato
dei corpi soggetti a generazione e corruzione differirebbe da quella dei (corpi) divini.
Fin dall’inizio, come già osservato, il testo mostra tratti in comune
con la Quaestio I.10. Come infatti la Quaestio I.10, così anche la Quaestio
I.15 esordisce con una diairesi. Come nella Quaestio I.10, la diairesi iniziale serve fondamentalmente ad argomentare uno dei due elementi tramite l’esclusione dell’altro.
Qui, per confermare l’impossibilità che gli uni e gli altri corpi abbiano la
stessa materia, Alessandro fa riferimento - senza citarlo testualmente - al primo libro del De caelo,260 la cui dottrina si trova letta e trascritta nella termino260
De caelo I.12. 283a 29 - b 5. La formula oÂw tÚ dunãmei ÍpÒkeitai, taËta fyartã, nella quale Alessandro in 26.30 - 31 sintetizza l’argomentazione aristotelica, sembra qualche cosa di già
formalizzato in precedenza ad uso della scuola (e non è l’unico caso nel quale una dottrina
riformulata, seppur su basi aristoteliche, all’interno della scuola viene introdotta dalla locuzione, in qualche modo cautelativa, e‡ ge, cfr. in part. Quaestio I.10. 20.31 - 32 e le nostre osservazioni ad loc.) cfr. anche Simplicio ad loc., p. 354.1-355.15 Diels, in part. 355.4 ss. L’ipotesi che l’analisi di Simplicio si valga qui del commento perduto di Alessandro sembra avvalorata dal ricorso di Simplicio all’analisi sillogistica, particolarmente presente nei commenti di
Alessandro (cfr. il riferimento alla seconda figura in 354.19-22).
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logia e nello stile diairetico e classificatorio caratteristici della scuola: per esempio, la locuzione tÚ dunãmei non compare affatto nel De caelo, ma è la scuola ad associarla al concetto di materia: sia ≤ Ïlh che tÚ dunãmei indicano il
sostrato di “ciò che è possibile” e di “ciò che può essere e non essere”.
La possibilità che i corpi celesti abbiano la stessa materia di quelli
corruttibili, e siano pertanto anch’essi corruttibili, qui evocata in apertura (26.20), non viene più ripresa in seguito. La sua esclusione era probabilmente così ovvia da potere essere sottintesa.261
3.3. L’aporia (27.3 - 4)
[27.3] efi d¢ toËto, ßjei tinå diaforån prÚw aÈtÆn. oÏtv d¢ oÈd’ ín
êpoiow ¶ti e‡h oÈd’ èpl∞.
[27.3] Ma se è così, avrà una qualche differenza rispetto a quella. In tal caso, non sarebbe né priva di qualità, né semplice.
L’aporia qui sollevata è duplice (oÈd’ ín êpoiow ¶ti e‡h oÈd’ èpl∞).
Duplice sarà anche la riflessione risolutiva, che si dividerà infatti in due
parti, una dedicata al problema della semplicità, una a quello dell’assenza
di qualità nelle due materie diverse. Per quanto riguarda la semplicità della materia, l’aporia coincide con quella che nella Quaestio I.10 costituiva
l’¶nstasiw, cioè l’obiezione alla lÊsiw dell’aporia: un’obiezione lì evocata, ma non espressamente menzionata, cui rispondevano le righe finali dell’opuscolo. Qui e lì, infatti, si tratta di evitare che la materia si configuri
come sÊnyetow (Quaestio I.10. 21.7, 11) ovvero, che è lo stesso, di preservarne la semplicità (Quaestio I.15. 7.3 - 4).
L’altro aspetto in discussione è quello dell’assenza di qualità: se la
materia si differenziasse in qualche modo, e la differenza fra una materia
e l’altra fosse una differenza qualitativa, la materia non sarebbe più priva
di qualità (êpoiow). Non meno del primo, anche questo è un problema
eminentemente scolastico. Nasce dall’incontro fra due definizioni - la differenza specifica è differenza di qualità, la materia è êpoiow per definizione - cui Alessandro stesso mostra peraltro anche altrove di non accordare un valore assoluto.262 A questo aspetto dell’aporia si rivolgerà la seconda parte della soluzione (27.10 ss.).
261
La possibilità che anche ciò che è divino sia corruttibile viene esclusa espressamente da Aristotele in Met. XII, 1071b 4-6, cfr. Alex. Quaestio I.1, 2.20-22.
262 Sull’inadeguatezza della definizione (stoica) di materia come êpoiow, cfr. Quaestio II.7 e supra, p. 59 s.: se fosse tale per sua essenza, la materia si distruggerebbe nel momento in cui viene qualitativamente determinata. Come qui illustrato nel cap. I, d’altronde, il concetto di ma-
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La prima parte della soluzione (27.4-10) indaga dunque come possano l’una e l’altra materia differire senza essere composte con differenze propriamente dette, vale a dire senza differenze specifiche.
3.4. Soluzione, parte I: un differire senza differenze (27.4 - 10)
[27.4] μ oÎte pçn tÚ diaf°ron tinÚw diaforò diaf°rei, e‡ g° §sti ≤
kur€vw diaforã, kay’ ∂n tÚ g°now efiw tå ofike›a e‡dh diaire›tai. tÚ goËn mØ
¯n toË ˆntow diaf°rei m°n, éll’ oÈ t“ diaforån ¶xein, éll’ oÈd’ §pe‹
diaf°rei tinÒw, ≥dh ka‹ sÊnyeton diå toËto g€netai.
[27.8] éll’ oÈd¢ tå ˆnta éllÆlvn, §pe‹ katå tåw kathgor€aw
diaf°rei, ≥dh ka‹ diafora›w dio€sei, ˜ti mhd’ ÍpÚ g°now ti koinÒn §sti tå
d°ka g°nh. d°deiktai går ˜ti mØ g°now tÚ ˆn.
[27.4] Oppure, non tutto ciò che è differente, differisce per una differenza, se davvero esiste la differenza in senso proprio, in virtù della quale il genere
si divide nelle rispettive specie: in effetti il non-ente differisce dall’ente, ma non
perché abbia differenza; ma neppure perché differisce da qualcosa, proprio per
questo è composto.263
[27.8] Ma neppure gli enti, poiché differiscono tra loro secondo le categorie, hanno per questo delle differenze a distinguerli: perché i dieci generi
non rientrano in un genere comune. Infatti, come si è mostrato, l’ente non è
un genere.
In questa parte della soluzione, la possibilità di due materie differenti
fra loro ma entrambe semplici e non composte è salvata, distinguendo il
differire (tÚ diaf°rein) dall’aver differenza (tÚ diaforån ¶xein).264 Sono citati a questo proposito il differire tra loro delle realtà più indifferenziate, tÚ ˆn e tÚ mØ ˆn, e il differire fra loro degli enti secondo le categorie (qualità, quantità, relazione…).265
teria, si trova stabilmente in opposizione funzionale con quello di forma. Sulla differenza fra
forma, e‰dow, della quale la differenza specifica (efidopoiÚw diaforã) è significativa, e
poiÒthw si pronunciano concordemente De anima 6.2-6 e Quaestio I.21. 35.5 s.: l’e‰dow è
poiÒthw nei prodotti dell’arte, ma la forma essenziale nei corpi naturali è oÈs€a. Cfr. infra,
p. 131 in Quaestio I.15, 27.16 s.
263 Con Sharples, elimino le parentesi apposte da Bruns in 27.6 - 7 (tÚ goËn ...diå toËto g€netai).
264 Una tale distinzione è aristotelica, perché ricalca quella fra diaforã e •terÒthw, sulla quale
cfr. Arist. Met. X. 1054b 23. Alessandro infatti dice che le due materie sono ßterai, cfr. Quaestio I.10 21.5 s., Quaestio I.15. 26.30.
265 Come si vede nelle Categorie, in part. cap. 1, Aristotele, a differenza di Platone, asserisce che
l’essere non è univoco, bensì c’è la prima categoria, l’oÈs€a (sostanza), che è l’essere primo, e
poi ci sono le altre nove: tutto ciò che vi rientra, in certo modo, è, anche se in modi diversi.
Però le categorie, in quanto modalità dell’essere, non sono specie di un unico genere; un tale
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Nella seconda parte della soluzione, Alessandro affronterà l’altro
aspetto dell’aporia, mostrando che esistono differenze che non comportano composizione della materia con una qualità.
3.5. Soluzione, parte II: una differenza che non è qualità (27.10 - 29)
[27.10] ¶ti pollå ˆnta t“ mØ ¶xein ti diaf°rei t«n §xÒntvn aÈtã, …w
tÚ mØ ¶xein, f°r’ efipe›n, tr€xaw μ xe›raw ≥ ti toioËto. tÚ d¢ mØ ¶xein ti ka‹
tÚ §ster∞syai oÈ poiÒthw.
[27.12] ¶ti d¢ oÈ pçsa diaforå poiÒthw: oÈ går efi a diaforã §sti kay’
∂n éntidiaire›tai éllÆloiw tå §k toË aÈtoË g°nouw, ≥dh b e‡h ín toË e‡douw
•kãstou ≤ diaforå o §sti diaforã, kay’ ˘ tÚ e‰na€ §stin aÈt“ toËto ˜ c
§sti, dhlvtikÆ.
[27.15] éllå mØn pãntvn t«n sunest≈tvn fÊsei, <oÂw> oÈx ≤ Ïlh mÒnon
oÈs€a, éllå ka‹ tÚ e‰dow, §n toÊtoiw ≤ diaforå dhlvtikØ e‡h ín oÈs€aw
tinÚw éll’ oÈ poiÒthtow, ka‹ <tå> katå tåw toiaÊtaw diaforåw éllÆlvn
diaf°ronta oÈs€&, éll’ oÈ poiÒthti diaf°roi,
[27.19] Àste, ka‹ t∞w Ïlhw oÎshw oÈs€aw §n tª oÈs€& t“ e‰nai aÈtØn
t«n §nant€vn dektikÆn, ı l°gvn katå toËto diaf°rein tÆnde tØn Ïlhn
§ke€nhw oÈ poiÒthti ín diaf°rein l°goi.
[27.21] §pe‹ ofl tiy°menoi tØn Ïlhn t«n §nant€vn e‰nai dektikØn êpoion
aÈtØn e‰nai l°gousi, d∞lon …w oÎ fasin e‰nai poiÒthta aÈt∞w t“ d t«n
§nant€vn e‰nai dektikÆn. efi d¢ mØ poiÒthw e toËto t∞w Ïlhw, oÈd’ ofl l°gontew t“ toËt’ ¶xein tØn Ïlhn tØn Ípokeim°nhn to›w §n gen°sei diaf°rein toË
to›w ye€oiw Ípokeim°nou katå poiÒthta aÈtØn §roËsin diaf°rein.
[27.26] efi går tÚ t«n §nant€vn dektikÚn poiÒthta ¶xei, kayÒ §sti
toioËton, oÈ diÒti diaf°rei ≤ toËto ¶xousa t∞w mØ §xoÊshw, §n poiÒthti
¶stai, éll’ ˜ti §n tª ofike€& fÊsei ¶xei f aÈtÆn, ∂n énãgkh fulãttein aÈtÆn,
§ãn te diaf°r˙ tinÒw, §ãn te mÆ.
genere che le riassumesse tutte dovrebbe essere l’oÈs€a; ma Aristotele ha mostrato che l’ ˆn
non è un genere, come Alessandro ricorda in 27.9 s., riferendosi per esempio - come nota Bruns
- a Metafisica III.3. 998b 22-27. È evocata implicitamente, per opposizione, anche la posizione degli stoici: per costoro tÚ ˆn e tÚ mØ ˆn appartengono infatti uno stesso genere, in quanto li sussume il genere comune del “qualche cosa” (ti).
a
b
c
d
e
f
27.13 oÈ går efi VTB1S1: efi går ≤ B2S2a Bruns
27.14 ≥dh TB: efi d¢ V1S1 efi dh S2a e‡dh V2 Vict. Braid. Bruns
27.15 toËto ˜ V1S1 Braid. : toÊtƒ o V2BT toËto o S2 Sharples toÊtƒ ˜ Bruns
27.23 t“ V B T: tÚ Sa Bruns
27.24 poiÒthw G L Braid. Sharples: poiÒthtow V Bruns
27.28 ¶xein V
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[27.10] Inoltre, molti enti per non avere qualche cosa differiscono da altri
che ce l’hanno, come il non avere capelli, per esempio, o mani, o qualcos’altro
del genere. Ma il non avere qualcosa, l’esserne privo, non è una qualità.
[27.12] D’altronde, non tutte le differenze sono qualità.266 Infatti, non perché è differenza ciò che distingue fra loro (le specie) dello stesso genere,267 la differenza dev’essere indicativa della specie di ogni cosa della quale è differenza,268
specie in virtù della quale (ogni cosa) è ciò che è.269
[27.15] D’altra parte, in tutti gli esseri che sono costituiti per natura, per i
quali non è sostanza solo la materia, ma anche la forma, la differenza dovrebbe
essere indicativa di una determinata sostanza, non di una qualità, e gli esseri che
differiscono fra loro per tali differenze dovrebbero differire per sostanza, ma non
per qualità.
[27.19] Cosicché, essendo la materia, in quanto è recettiva dei contrari, sostanza nella sostanza, chi dice che in questo una certa materia differisce da un’altra, non potrebbe dire che (ne) differisce per qualità.
[27.21] Poiché coloro che pongono che la materia sia recettiva dei contrari dicono che essa è priva di qualità, è chiaro che non le attribuiscono una qualità per il fatto che è recettiva dei contrari. E se questo non è una qualità della materia, anche coloro che dicono che la materia (che costituisce) il sostrato ai corpi
soggetti al divenire differisce per questa prerogativa dal sostrato dei (corpi) divini non diranno che essa differisce per qualità.
[27.26] Se infatti ciò che è recettivo dei contrari in quanto è tale ha una qualità, la materia che ha una qualità l’avrà non perché differisce da quella che ne è
priva, ma perché la ha nella propria natura, e la conserva necessariamente, che
differisca da qualcosa oppure no.
Questa sezione conclusiva della Quaestio (cui è dubbio peraltro che
si debba o si possa attribuire un carattere unitario, di sequenza argomen266
La distinzione fra differenza e qualità è sottolineata anche da Alex. ap. Simpl. in Cat. 99.1931, a esegesi di Arist. Categorie 5, p. 3a 7 ss. Cfr. supra, p. 92 n. 194.
267 Top. VI.6. 143a 29 ss.
268 Così stabilito - cfr. supra, nn. (a) e (b) in 27.13 e 27.14 - il testo della frase presenta una struttura di periodo ipotetico caratteristica e ricorrente in Alessandro, la correlazione cioè fra oÈ
går efi e ≥dh ín con l’ottativo (quest’ultima locuzione è qui conservata solo da T e da B). Il
senso fondamentale di queste due locuzioni correlate è qualcosa come “non per il fatto che
(oÈ går efi) … allora necessariamente (≥dh + ottativo + ín) …”: si tratta cioè di negare che
una certa proposizione sia logicamente deducibile da un’altra. Ora, per quanto riguarda l’apodosi, creano comunque difficoltà i ripetuti iperbati e l’accostamento dei due diversi genitivi toË e‡douw e •kãstou, il secondo dei quali, •kãstou, sembra doversi considerare come
pronome neutro e non come aggettivo dipendente da e‡douw. La traduzione qui presentata
presuppone una siffatta ricostruzione dell’apodosi: oÈ går ≤ diaforå e‡h ín dhlvtikÆ toË
e‡douw •kãstou o §sti diaforã, kay’ ˘ [sc.: e‰dow] tÚ e‰na€ §stin aÈt“ [sc.: •kãstƒ]
toËto ˜ §sti. Diversamente traduce Sharples ad loc., perché si basa su lezioni molto diverse.
Segue infatti l’edizione di Bruns tranne che in 27.15, cfr. supra, n. (c) ad loc.
269 27.15: toËto ˜ §sti (V) in luogo del toÊtƒ ˜ §sti stampato nell’editio princeps è reintegrato
sui margini dall’emendator braidensis nella forma elisa toËt’ ˜ §sti, sulla scorta di un parallelo in De anima 7.5.
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tativa coerente e compiuta) presenta problemi gravi e numerosi di costituzione del testo e di interpretazione anche letterale.270
Dopo aver discusso sulle differenze specifiche, si ritorna alla distinzione fra differenza e qualità, evocata già al momento della formulazione dell’aporia (27.3 - 4). In realtà sappiamo anche da altri testi che
per Alessandro la forma (e‰dow) è qualità (poiÒthw) solo nei prodotti
dell’arte, mentre in quelli naturali è oÈs€a (come si legge anche qui,
27.16-21).
Perché dunque differenza specifica e qualità si trovano ora associate? Forse perché le associava la scuola? In quel caso, si dovrebbe dire che i passi ora menzionati distinguono differenza specifica e qualità
contro una tendenza pregressa alla loro identificazione. Alessandro
piuttosto, come si è visto nel precedente capitolo, associa a e‰dow il termine diaforã e chiama alternativamente diaforã o e‰dow anche le
“contrarietà tangibili” caldo, freddo, secco, umido, che altri correntemente designano come qualità (poiÒtew).271
Nella seconda parte della soluzione, a partire da 27.10, vengono dunque citati come esempi di differenze che non costituiscono qualità.
Si comincia dal differire per privazione: è chiaro che ciò che differisce da altro perché non ha qualcosa, non ne differisce per una qualità
(27.10 - 12). Ma anche la differenza specifica propriamente detta è una
differenza di forma e non di qualità (27.13 - 15). Poiché d’altronde le forme o specie naturali sono sostanza, tali differenze sono differenze di sostanza (27.15-19). Quanto alla materia, anch’essa è una sostanza (27.15,
27.18-19).272 Dunque la differenza che si ponesse fra materia e materia
non sarebbe differenza di qualità ma differenza di sostanza (29.19-21).
In questa stessa direzione, si aggiungono due ulteriori argomenti: si
ritiene che la materia sia recettiva dei contrari e priva di qualità; ora se è
270
Le lezioni adottate da Bruns nella sezione qui in esame danno un senso poco convincente e si
discostano a più riprese dalle lezioni di V (MS Ven. Marc. 258, codex vetustissimus), di B (MS
Ven. Marc. 261) e di T (MS Ven. Marc. 194) che ho qui reintrodotte come paleograficamente
più autorevoli. Nemmeno così, invero, il testo è di facilissima interpretazione, ma risulta nel
complesso più coerente. Si riscontra peraltro una certa concordanza di B con la tradizione indipendente attestata da T, e questo potrebbe far riflettere sull’opportunità di rivalutare almeno in parte il ruolo di B. B infatti era considerato da Bruns (1892, p. XIX) un mero codex descriptus da V, così che ogni peculiarità significativa veniva interpretata come intervento congetturale del copista o del revisore sulla base di V.
271 Cfr. supra, cap. I, § 3.1 p. 77 s.
272 Questa è dottrina stabile in Alessandro, sulla scorta per es. di Aristotele De anima II.1. 412a 6
s. Il valore assertivo del passo 27.15-17 risulta evidente dal parallelismo con il passo di Alex.
De anima 6.2-3, che si trova in un contesto assolutamente non aporetico, come sottolineato supra, cap. I, § 2.1, p. 53.
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così, vuol dire che essere recettiva dei contrari non è una qualità; l’essere
dunque o il non essere recettiva dei contrari non è una differenza di qualità (27.21-26).
L’ultimo argomento, un po’ dissonante rispetto al precedente, pone
invece che la materia abbia come qualità l’essere recettiva dei contrari:
questa qualità - dice - sta in assoluto nella sua natura, e non le deriva dal
suo differire dalla materia dei corpi celesti; dunque permane sempre, che
differisca da qualcosa oppure no.
Nel complesso, si vede, la parte risolutiva della Quaestio I.15 sembra raccogliere, in entrambe le sue due sezioni, argomenti che potrebbero essere stati formulati indipendentemente e in tempi diversi in relazione più o meno diretta con l’aporia in esame. Ad accrescere la difficoltà di reperire il filo logico, c’è ora l’intersecarsi di due indagini: quella sulla distinzione fra le due materie e quella sulla distinzione fra differire, avere differenza specifica e avere qualità, il cui approfondimento
sembra in qualche modo andare oltre alle finalità specifiche dell’aporia
in esame (27.4-10, 10-19).273
È difficile procedere oltre, nell’indagare la relazione fra i materiali che si compendiano ed accumulano nell’opuscolo. Si può però almeno osservare questo: che non è aliena né ad Alessandro, né allo stile generale di comunicazione del suo tempo la tendenza al cumulo argomentativo, e che questa tendenza si riscontra soprattutto nei contesti di carattere confutatorio, come qui avviene: si sommano cioè contro una stessa tesi argomenti diversi e non necessariamente compatibili nei loro presupposti.274 Poco rifinite come unità comunicative, le due
Quaestiones, e soprattutto la I.15, esemplificano bene l’aspetto più scolastico di tale tendenza.
4. Strutture argomentative nelle Quaestiones I.10 e I.15
Avvicina e connette la Quaestio I.10 e la Quaestio I.15 una trama di notevole continuità, costituita non solo dall’argomento ma dal metodo di inLa differenza fra efidopoioËsa diaforã e poiÒthw è fondamentale per l’assunto ampiamente argomentato da Alessandro (cfr. supra, cap. I, § 4.1) secondo il quale la forma non è nella
materia come in un sostrato: la materia infatti non è un sostrato indipendente, cui si possano
attribuire delle qualità.
274 Alla pratica del cumulo argomentativo Alessandro ricorre per esempio nel De fato, dove criticare la tesi determinista, e nel De providentia, dove confuta la tesi stoica della presenza del divino in tutte le cose.
273
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dagine. Le modalità peculiari consistono essenzialmente nell’uso della
diairesi e in quello della definizione.
4.1. Uso della diairesi
Riducendo l’universo fisico entro schemi di divisione binaria, Alessandro,
secondo l’uso della scuola, mette qui in atto una serie di associazioni, le
quali consentono di leggere un problema dato come un problema di classificazione.
C’è un’evidente connessione fra questo metodo classificatorio e la
ricerca, così ardua e inattingibile, sulla materia dei corpi celesti: l’elemento in comune è il procedimento per divisione o diairesi. Il ricorso
alla diairesi consente di argomentare in senso analitico verso i principi
creando una situazione di convertibilità: non solo cioè date determinate premesse se ne possono dedurre le conseguenze, ma, poiché quelle
premesse si mostrano, oltre che sufficienti, anche necessarie, diviene
possibile, a partire dalle conseguenze, inferirne le premesse. Per attingere i principi in questo modo, si procede dunque a una dimostrazione
analitica per assurdo che applica il metodo della diairesi o divisione sul
sillogismo ipotetico della seconda figura (il modus tollens degli stoici).
Di qui la presenza ricorrente di diairesi successive, che servono ad argomentare in buona parte in negativo, per esclusione: in modo tale cioè
che, escludendo di volta in volta uno dei due elementi, l’altro ne venga
per converso dimostrato.
La tendenza a un procedimento analitico per divisione nell’indagine sulla regione dei principi e in particolare sulla sua materialità si riscontra, oltre che nella Quaestio I.10, anche in un breve ma più compiuto cenno all’inizio della Quaestio I.15 (26.29 ss.). Di nuovo, si argomenta che i corpi celesti non hanno la stessa materia di quelli sublunari; di nuovo, lo si argomenta praticando una dimostrazione per
assurdo su una diairesi di partenza, quale: o la materia dei corpi celesti è la stessa, o è diversa; e se è la stessa saranno anch’essi corruttibili.
Né qui importa che gli altri passaggi siano lasciati inespressi. La conclusione - “dunque è diversa” - è chiaramente implicita nella concatenazione delle premesse. La dimostrazione che il contrario di “è diversa” è impossibile, la dimostrazione cioè che la materia dei corpi celesti
non può essere la stessa, è espressa solo ellitticamente, in virtù della familiarità che l’argomento doveva avere per gli utenti dell’opuscolo. La
Quaestio infatti si limita a dire: “se è la stessa, saranno anch’essi corruttibili”. L’impossibilità di questa tesi deriva, benché non lo si dica,
dal fatto che in quel caso tutte le sostanze sarebbero corruttibili, con
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quel che ne consegue. Il testo di riferimento più importante in proposito, che consente di lasciare sottintesi i passaggi fondamentali che lì
erano stati sviluppati, è senz’altro Metafisica XII.6. 1071b 5 ss., dove
Aristotele aggredisce analiticamente la dottrina dei principi, esordendo “Se tutte le sostanze sono corruttibili, tutto sarà corruttibile.”.
Il richiamo a questo testo è particolarmente chiaro in un’altra Quaestio (come tale conservata, benché non sia propriamente un’aporia): è la
Quaestio I.1, quella che apre la raccolta. Essa tratta della dottrina dei principi, e in particolare del motore primo, in modo analitico sul modello di
Metafisica XII.6, ma più compiutamente. Da quel capitolo di Aristotele
frasi intere vengono ripetute o richiamate letteralmente (esordisce anch’essa “se tutte le sostanze sono corruttibili, tutto sarà corruttibile,” p.
2.20 Bruns), e integrate poi con un’argomentazione dettagliata i cui passaggi vengono espressi uno per uno: non è dunque ellittica come invece
era a più riprese l’argomentazione di Aristotele; ellittici sono d’altronde,
in modo diverso, tanti altri testi della scuola, ivi compresi quelli ora esaminati, rispetto ai quali la cosiddetta Quaestio I.1 presenta un carattere
ben diverso.275
In quest’ultimo testo, peraltro, viene fatta esplicita una dichiarazione di metodo: “la prova è per analisi: della causa prima infatti non può
esserci dimostrazione, bensì bisogna partire da ciò che è posteriore ed evidente, e stabilirne la natura servendosi dell’analisi, secondo l’accordo con
queste cose”.276
Vediamo dunque che sulla causa prima il metodo analitico riesce
a esercitarsi compiutamente, mentre si arresta in una fase incoativa
quando cerca di applicarsi alla regione celeste. Questo rispecchia in
qualche modo lo statuto intermedio di tale ricerca. È ricerca in qualche modo sui principi, perché nei corpi celesti Alessandro vede i principi del mutamento di quelli sublunari277; ma indagando sui corpi celesti in quanto corpi fisici essa ricade in realtà più agevolmente - ben275
Il testo non è conservato solo come primo opuscolo nella raccolta delle Quaestiones, ma è anche incluso nel commento trasmesso sotto il nome di Alessandro in Met. 685.28-687.22 all’esordio del cap. Met. XII.6 (1071b 3 ss.). Che tuttavia l’opuscolo sia davvero alessandrista è
confermato da paralleli importanti con il De principiis (per es. 4.4-7 Bruns con De princ. § 2
G.). Nondimeno, anche nel commento in Met. l’opuscolo potrebbe essere stato introdotto in
un secondo tempo: di fatto, esso raddoppia la sezione di commento a 1071b 3, che si trova immediatamente dopo (p. 687.25 ss.), ad opera presumibilmente dello stesso [Alessandro].
276 Quaestio I.1, 4.4-7. Per Aristotele, analitico è il metodo delle matematiche. In Alessandro, a
quanto pare, è solo nella Quaestio I.1 che il metodo dell’indagine sui principi viene espressamente chiamato analitico, con una terminologia che sarà propria degli aristotelici più tardi, per
esempio Zabarella, sul quale cfr. Berti (1983).
277 A tale relazione causale sono dedicati i capitoli III e IV di questo libro.
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ché non del tutto agevolmente, come si è visto sinora - anche sotto il
metodo della fisica.
La diairesi è dunque strumento per l’argomentazione sia in senso analitico (nell’argomentazione per assurdo) che in senso sintetico (nel sillogismo dimostrativo). La diairesi richiede classificazione e la classificazione richiede, nei suoi aspetti più problematici, un’indagine, una discussione aporetica che si dirime infine con una soluzione argomentativamente sostenuta. Fine implicito è la costituzione di un sistema dottrinale
compatto e coerente, all’interno del quale tutte le parti risultino rigorosamente compatibili.
Questo richiede che l’esegeta lavori sui testi del maestro e sulla tradizione dottrinale della scuola dal di dentro, intervenendo sulle connessioni, sulle diairesi, sulle argomentazioni e inoltre su quelle definizioni dei
singoli termini, che della diairesi, dell’argomentazione e della classificazione sono elementi costitutivi, sia quando sono assunte come stabili, sia
quando sono considerate passibili di revisione.
4.2. Uso della definizione
Si è già detto che nelle Quaestiones la definizione di ogni singolo termine diviene, rispetto ai testi di Aristotele, non più flessibile ma univoca: è
sempre tratta da Aristotele, ma può comportare una scelta implicita fra i
vari sensi di un originario pollax«w legÒmenon. Per esempio, il termine fÊsiw significa nelle Quaestiones, secondo la definizione continuamente ribadita, “principio del movimento e della quiete nei corpi cui appartiene per sé e non per accidente”.
Può avvenire però, e di fatto sovente avviene, che una certa definizione, già altrove utilizzata e solidamente affermata, risulti inadeguata o
insufficiente in relazione a un determinato problema.
Di qui, quasi da una sorta di cortocircuito, nasce l’aporia. In questi casi, la lÊsiw viene ricercata proprio a livello della definizione: consiste cioè o nel delimitare meglio o nell’allargare la definizione precedentemente in uso, sì da portarla a dar conto di uno spettro più ampio
di realtà diverse.
Si nota in effetti nelle Quaestiones un rapporto stretto fra la discussione sulle definizioni ovvero sul valore e significato di ogni singolo termine, e lo sviluppo dottrinale: anzi, si può dire che lo sviluppo dottrinale trova nell’analisi definitoria la sua forma privilegiata.
Le due Quaestiones ora in esame esemplificano bene questa tendenza.
Al discorso sul corpo celeste, chiamato da Alessandro “divino” e
kukloforhtikÒn, non si adattano infatti, come si vede nella Quaestio
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I.10, le nozioni-definizioni altrove stabilite e affermate, di natura e di
materia.
Questo spinge Alessandro a rimettere in discussione tali definizioni: a cercare di argomentare la compatibilità della definizione di fÊsiw
come principio di movimento e di quiete con la tesi della fisicità dei corpi celesti; a sostituire la definizione di materia (inadeguata alla realtà dei
corpi celesti) come sostrato ultimo “recettivo dei contrari” con quella,
più comprensiva, di materia come sostrato ultimo “disordinato in sé”,
molto più rara in Aristotele ma tuttavia presente. È eloquente in proposito la giustificazione addotta: “infatti questa definizione di materia
è più larga (koinÒterow ... otow ı lÒgow) e comprende in sé entrambi
i sostrati.”278
D’altronde l’acquisizione di entrambe le materie all’interno di un’unica definizione pone immediatamente il problema di definire la differenza fra l’una e l’altra. Se si ammettesse infatti che la materia si differenzia con una differenza, intesa nel senso di “differenza specifica”, si
distinguerebbero fra loro due materie, paradossalmente, come e‡dh di
un unico genere.
Pertanto, la definizione di “differenza” come “ciò che distingue specie diverse appartenenti a un genere comune” mostra limiti evidenti, e così pure l’idea stessa che “differire” significhi “distinguersi da altro per
mezzo di differenza”.
Di qui, l’opportunità delle precisazioni cui approda Alessandro
in I.15:
1) non tutto ciò che differisce differisce per qualche differenza;
2) non ogni differenza è differenza specifica.
Assistiamo così ad un allargamento tanto nella nozione di “differire”
che in quella di “differenza”, allargamento che fa di questi due termini
strumenti più versatili di esplicazione e di analisi.
5. La definizione di materia nella Quaestio I.10 e la dottrina aristotelica
delle quattro cause.
Quando nell’esordio della Quaestio I.10 l’autore fa riferimento alla teoria
della quattro cause nella Fisica di Aristotele, si aggancia ad un testo nel quale il termine Ïlh è usato nel senso debole e generico di “sostrato”: la causa come materia è, per Aristotele, il legno per il letto, o il bronzo per la statua. Non troviamo in nessun modo argomentata l’identità fra il principio
278
Quaestio I.10, 21.4-5.
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§j o di cui parla Aristotele, ovvero tÚ Ípoke€menon, e la materia filosofi-
camente intesa come totalmente “recettiva dei contrari” e priva di determinazioni in assoluto - la materia invece della quale parla Alessandro.
È inoltre evidente un’altra differenza fra Alessandro e Aristotele: in
Aristotele279 non è interamente chiaro se i quattro menzionati siano modi possibili in cui si possa intendere la causa di qualcosa; o se invece, come Alessandro dà per acquisito, si tratti di quattro ordini di cause, necessariamente tutti presenti e individuabili in ciascun corpo fisico. Solo
in virtù di tale seconda interpretazione, si comprende il nesso che qui
Alessandro (come forse già altri prima di lui) istituisce fra la questione
della fisicità e quella della materialità del corpo celeste e divino.
A questo proposito, va anche osservato che Alessandro chiama tale
sostrato “ultimo”, considerandolo evidentemente dal punto di vista del
soggetto che conosce o (che è lo stesso) della realtà sensibile: sostrato ultimo è ciò che è più lontano dalla sensazione, cui il soggetto conoscente
approda in ultima analisi, e al di là del quale non è possibile procedere.
Aristotele, più sovente, parla di “materia prima” - “prima” cioè in assoluto, perché prima di essa non esiste nulla - ovvero, in termini linguistici, perché tutto il resto si predica di qualcosa, ma non c’è nulla di cui essa si predichi.280 Fatte queste precisazioni, gli aggettivi “primo” e “ultimo”, riferiti al sostrato e alla materia, possono considerarsi equivalenti.
Ma lo scarto più rilevante resta il fatto che anche la pr≈th Ïlh, in Aristotele, in più d’un caso continua ad essere intesa prÒw ti, cioè come materia
di un corpo determinato. C’è dunque uno scarto fra questa materia e questo
sostrato aristotelici e il concetto, scovato da Alessandro in Aristotele, ma rivisitato con ben altro peso e ben altra centralità, di questo sostrato ultimo, indeterminato non rispetto a una particolare coppia di opposti e non rispetto
a una particolare qualità, non prÒw ti, dunque, bensì in assoluto.281
In considerazione di tali differenze, è evidente che il passaggio fra la trattazione di Alessandro e quella di Aristotele non può essere immediato né diretto. Anche in questo caso, la trattazione di Alessandro, pur lavorando sui
testi, si muove sulla scorta di una riflessione e discussione di scuola su problematiche che erano invece assenti o marginali nei testi di Aristotele.
279
Per es. Fisica II.3, 195a3-11 e II.7. 198a 14-24.
Cfr. per es. Met. IX.7. 1049a 25 s., dove materia prima è ciò che non si dice di nient’altro (se
non della materia medesima); e Met. VIII.4. 1044a 15 ss., dove “materia prima” è una sorta di
materia della materia (che pure, rispetto al sostrato ultimo di Alessandro, è ancora in qualche
modo determinata). “Materia prima”, comunque, per Aristotele può intendersi in entrambi i
due sensi, sia come più vicina alla cosa, che in assoluto, oggettivamente: dix«w, μ ≤ prÚw aÈtÚ
pr≈th, μ ≤ ˜lvw pr≈th (Met. V.4. 1015a 8).
281 Cfr. supra, cap. I, pp. 56-58.
280
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6. La definizione di materia in Quaestio I.10 e la definizione di natura
in Antifonte (Aristotele Fisica I.9)
In Fisica I.9, 193a 9-11 Aristotele cita l’opinione di Antifonte e di altri, secondo la quale la natura, intesa nel senso dell’essenza dei corpi naturali
(≤ fÊsiw ka‹ ≤ oÈs€a t«n fÊsei ˆntvn) è tÚ pr«ton §nupãrxon •kãstƒ, érrÊymiston kay’ •autÒ (per esempio: del letto, il legno, della statua, il bronzo) e questa, per Aristotele (193a 29) sarebbe identica a ≤
pr≈th •kãstƒ Ípokeim°nh Ïlh. Questo è il passo di Aristotele che si avvicina di più alla definizione di materia nella Quaestio I.10 di Alessandro
(¶sxaton Ípoke€menon érrÊymiston kay’ aÍtÒ, 21.2). Si nota però che
Aristotele, nel citare l’opinione di Antifonte, non con questo l’approva.
Vero è che nemmeno la confuta o la disapprova espressamente. Questo è
importante perché ci dice qualcosa su come Alessandro intenda la legittimità o meno di un’opinione reperibile in Aristotele. Tale è l’autorevolezza del testo di Aristotele, che è sufficiente che una dottrina vi sia menzionata senza condanna, perché possa essere annoverata, all’occorrenza,
fra le ipotesi possibili.
Nella definizione di materia come ¶sxaton Ípoke€menon érrÊymiston kay’ aÍtÒ notiamo inoltre quale versatilità il materiale concettuale
reperibile in Aristotele assuma nella rielaborazione di scuola: in Aristotele quella di érrÊymiston kay’ •autÒ è la definizione proposta da Antifonte per fÊsiw, mentre Alessandro la trasferisce alla materia.282 Per
questo Alessandro attribuisce la locuzione aristotelica érrÊymiston kay’
•autÒ al sostantivo Ípoke€menon, piuttosto che al più generico
§nupãrxon che si leggeva in Aristotele. Inoltre, come già si è avuto modo di osservare, Alessandro parla non di pr«ton, ma di ¶sxaton
Ípoke€menon, spostando così il punto di vista da quello dell’oggetto conosciuto a quello del soggetto conoscente.
7. Il corpo celeste: materia, natura, anima
Il problema della materialità del corpo celeste affrontato nelle Quaestiones I.10 e I. 15 si inserisce d’altronde nel quadro di un più generale dibattito sulla “fisicità” in quanto tale e sulle sue prerogative. Con
282 Questo presuppone evidentemente un’esegesi del passo della Fisica del tipo di quella che Ales-
sandro stesso riporta nel proprio commento a Metafisica V nell’ambito della definizione dei
sensi di fÊsiw (Alex. in Met. 357.13-19, in Arist. 1014b 26-35.): fÊsiw si intenderà anche nel
senso di Ïlh, tanto è vero che secondo Antifonte la materia è natura, come Aristotele ha detto nel primo libro della Fisica.
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questo, i termini del problema si allargano. Non solo, come si è visto,
la materia dei corpi celesti fa problema rispetto a un tentativo di definizione generale della materia, ma anche e più in generale la nozione e
definizione del corpo fisico, cui è sostrato la materia, è messa in difficoltà da un caso così particolare come quello del corpo celeste. L’approfondimento del concetto di fisicità passa così per quello, più specifico, della fisicità e del modo diverso di essere “fisiche” delle due parti del cosmo.
Il problema afferisce dunque non meno all’ordine di problemi discussi
nella Fisica e nei commenti alla Fisica che a quelli discussi nel De caelo.
Non a caso, proprio dal commento di Simplicio alla Fisica traiamo una
delle più utili testimonianze in proposito. Anzi, nel momento stesso nel
quale Alessandro mette in questione la definizione di corpo fisico, mette
anche in discussione il rapporto fra i due ambiti disciplinari, sulla scorta
di una perplessità già viva ed espressa nel primo peripato.
7.1. Teofrasto e Alessandro
Sappiamo poco sull’elaborazione di questo tema in ambito peripatetico
nei lunghi secoli che separano Aristotele e Teofrasto da Alessandro.283
Sembra però che in qualche modo già Teofrasto nell’esordio della cosiddetta Metafisica284 avesse sollevato il problema: lo studio dei cieli fa o no
parte della fisica?
Già in Teofrasto, come vedremo in Alessandro, il problema della
fisicità dipende da quello di quale sia la natura del movimento celeste
e di quale sia in esso il principio motore. In effetti, nota Teofrasto, se
si deve pensare che i cieli si muovano per desiderio, si deve intendere
che essi abbiano anima.285 Ma questo fa problema, perché se questo
desiderio è una tendenza naturale, dovrebbero muoversi per raggiungere il luogo in cui possano fermarsi;286 mentre per il desiderio di ciò
che è primo dovrebbero esercitare la migliore delle attività dell’anima,
il pensiero.287 Vediamo peraltro qui che il desiderio per il quale i cieli
si muovono è detto da Teofrasto stesso fusikØ ˆrejiw288: è un passo
in avanti verso l’inclusione della scienza dei cieli nella fisica? A quan-
283
Cfr. Moraux (1963).
Teofrasto, Metafisica, 4a 2-3: P«w éfor€sai de› ka‹ po€oiw tØn Íp¢r t«n pr≈tvn yevr€an;
285 ibid., 5a 28 - 5b 2.
286 ibid., 5a 23-5.
287 ibid., 5b 8-10.
288 ibid., 5a 24.
284
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to pare, perlomeno, Teofrasto, cercando indicazioni per la definizione
del rapporto fra il sapere sul mondo celeste e quello sul mondo sublunare, aveva fatto notare che l’uno e l’altro sono corpi fisici, naturali; ma
lo sono in modo diverso e hanno anima in modo diverso.289 Che il problema della materia dei corpi celesti si inscrivesse in quello stesso quadro problematico che portava tanto Teofrasto che Alessandro a parlare di natura e anima dei corpi celesti e, più in generale, a riflettere sul
concetto di fÊsiw e di fisicità, è confermato dal fatto che le obiezioni
che Alessandro poneva, nel commento alla Fisica, alla possibilità che
anche il corpo celeste sia un corpo naturale (difficoltà che lo portano
a identificare - come già in qualche modo ipotizzava Teofrasto, Met. 6a
10 - la natura e l’anima del corpo celeste) sono dello stesso ordine delle obiezioni che nelle Quaestiones I.10 e I.15 egli pone all’individuazione di un principio materiale nei corpi celesti stessi. Anzi, una delle
obiezioni è identica: l’assenza di un principio di stasi sembra inconciliabile con la definizione di natura come principio del movimento e della quiete - il che ulteriormente conferma la relazione fra il problema dei
corpi celesti e quello della concezione e definizione di natura. A tale
medesima obiezione, discutendo per l’appunto la definizione di natura nei corpi celesti, fanno fronte anche le Quaestiones II.25 e II.18.
7.2. La Quaestio II.25
Se il corpo celeste ha in sé solo il principio del movimento e non quello
della quiete, sarà dunque escluso dal novero dei corpi naturali? o perlomeno da quello dei corpi naturali dotati di anima? È in effetti come esegesi di un passo del De anima che la discussione prende l’avvio. Questo
è il passo di Aristotele:
Non è di un corpo di tal genere [scil. di un prodotto artigianale] che l’anima è quiddità e definizione, ma del corpo naturale che ha in sé il principio del movimento e della quiete (oÈ går toioÊtou s≈matow tÚ t€ ∑n e‰nai ka‹ ı lÒgow ≤
cuxÆ, éllå fusikoË toioud‹ ¶xontow érxØn kinÆsevw ka‹ stãsevw §n •aut“
(Arist. De anima II.1. 412b 15-17) 290
Commentando queste parole, Alessandro, nella Quaestio II.25, si sofferma proprio su ¶xontow érxØn kinÆsevw ka‹ stãsevw §n •aut“, ponendo come problema il caso del corpo celeste, che ha movimento e non
ha mai quiete:
289
290
ibid., 6a 2-12.
Citato come lemma in Quaestio II.25. 76.13-15.
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A che scopo ha aggiunto “che ha in sé il principio del movimento e della quiete”? E se il corpo naturale è così, come può essere ancora naturale il
corpo divino, che non ha in sé principio di quiete? Forse in qualche modo ha
principio di quiete, visto che nelle sue parti si muove, ma nell’insieme sta fermo: e infatti è sempre nello stesso luogo. O forse non ha parlato di qualunque
corpo naturale, ma solo di quello nel quale l’anima si genera. Oppure dice “che
ha in sé il principio del movimento e della quiete” non riguardo al corpo naturale ma riguardo al corpo che ha l’anima: in questi infatti l’anima è principio del movimento e della quiete (Alex. Quaestio II.25. 76.16-23 Bruns).
Senza purtroppo giungere ad alcuna conclusione, questo testo ha
però un suo valore documentario, perché mostra come il problema dell’anima del corpo celeste e quello della sua natura procedano in parallelo. Lo si vede anche nella testimonianza di Simplicio, che fa riferimento
ai perduti commenti di Alessandro alla Fisica e al De caelo, confortando
e integrando in modo significativo la stringata ed ellittica Quaestio I.10.
7.3. La testimonianza di Simplicio.
Siamo nel commento di Simplicio a Fisica VIII.4.255b 24-31. La prima
parte del commento di Simplicio a questo lemma testimonia la perplessità degli esegeti nel seguire il corso dell’argomentazione aristotelica (che in questa pagina non è né facile né lineare) e nel reperirvi, qualora vi sia (Simplicio però nega che vi sia) una continuità concettuale
con quanto precede.
Esula dagli scopi e dalle possibilità della trattazione presente addentrarci nel merito dell’interpretazione di questo passo di Aristotele; seguiremo dunque solo una linea di lettura definita, finalizzata al problema dell’identificazione sia della natura che della materia dei corpi celesti: due problemi connessi e interdipendenti.
Dice, nella sua parte finale, il lemma di Aristotele:
“È chiaro che nessuno di essi [sc. gli esseri che si muovono per natura] si
muove da sé, ma hanno principio di movimento, non [nel senso] del muovere
e dell’agire, ma [nel senso] dell’essere mossi e del patire” (Fisica VIII.4. 255b
29-31).
Così Aristotele si avvia a concludere la dimostrazione che tutto ciò
che si muove è mosso da qualcosa. Ciò che si muove per natura è mosso,
dice, da qualcosa. A muovere i corpi pesanti verso il basso e quelli leggeri verso l’alto è, per accidente, l’agente che toglie l’ostacolo che prima
impediva tale movimento. Ma la vera causa è la natura, che rende pesanti i corpi pesanti, leggeri quelli leggeri. Tali corpi dunque hanno princi141
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pio di movimento in senso non attivo ma passivo: non del muovere ma
dell’essere mossi.291
Da qui in poi, Simplicio si fa testimone non solo dell’esegesi alessandrista a questa pagina, ma del pensiero dell’esegeta sulla relazione e sulla
differenza fra la natura dei corpi celesti e quella dei corpi sublunari.
Scrive infatti (in Phys. 1218.20-22):
Alessandro commentando questo passo ricerca come il corpo dal moto circolare sarà ancora corpo naturale, se ciò che è naturale, come dice Aristotele, ha
un principio di passività, mentre il corpo dal moto circolare è impassibile.
Al problema così enunciato, Simplicio attesta in Alessandro due
soluzioni. La prima, e la più interessante per gli scopi presenti, consiste nell’ammettere che il corpo dal moto circolare abbia una sua passività (ibid. 1218.22-27):
Risolve (il problema) prima, dicendo che anche se il corpo dal moto circolare è sempre in movimento, tuttavia ha in sé una componente di potenzialità perché si muove in un certo momento da un punto a un altro, e in un altro momento da un altro ad un altro ancora. E, nella misura in cui partecipa della potenzialità, è in qualche modo passivo. Infatti, tutto ciò che è in potenza è, in qualche
modo, materiale. Dunque anche quel (corpo) ha in sé un principio di movimento nel senso dell’essere mosso, e per questo è naturale.
Soffermiamoci un attimo su questa soluzione dell’aporia. Qui, e solo qui nella discussione del lemma, si intravede uno spiraglio aperto sul
problema della materialità dei corpi celesti. Il presupposto è quello di una
connessione, quasi un’identità, fra principio passivo e principio materiale (“materiale”, “passivo” e “in potenza”, sono infatti trattati come termini equivalenti in Simpl. 1218.25-26). Attribuire ai corpi celesti una materia significa postulare per essi una componente di passività. Più che una
dottrina, è un uso linguistico: la “materia” è chiamata “materia” in considerazione delle affezioni che può subire, e per questo ciò che patisce si
dice materia di tali affezioni.
291 Secondo Simplicio (in Phys. 1217.11-17), questa conclusione è solo in parte coerente con quan-
to precede: Simplicio ritiene che in precedenza il principio di movimento attribuito da Aristotele ai corpi naturali (e che qui si precisa come principio dell’ “essere mosso”) fosse la perfezione della forma; solo da qui in poi, invece, Aristotele pone come causa, secondo Simplicio,
il principio generatore, il principio cioè che rende ogni essere tale quale è. Nel segnalare tale
discontinuità, Simplicio si dissocia da “gli esegeti” (1217.16) precedenti (fra i quali è lecito immaginare che sia incluso anche Alessandro, tanto più che è l’unico che proseguendo sarà menzionato per nome), secondo i quali il genitore e produttore sarebbe stato principio di movimento anche nel corso della trattazione precedente.
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Se questo è valido in generale, per ogni materia e per ogni passività,
lo è anche per quel tipo peculiarmente limitato e circoscritto di passività
che qui viene attribuito al corpo celeste: passività limitata al movimento,
che noi chiameremmo più facilmente potenzialità e che caratterizza quella materia katå tÒpon kinhtÆn che Aristotele attribuisce ai corpi celesti
in Metafisica 1044b 8.
La seconda soluzione non necessariamente invalida la prima, bensì
configura, a prescindere da come si definisca il principio materiale, un
rapporto diverso fra mosso e motore:
Forse è meglio - dice - riguardo al corpo divino intendere il movimento naturale non come per i corpi inanimati, ma come per quelli che si muovono in virtù
dell’anima: questi non sono mossi da qualcosa di esterno, ma hanno in sé il principio e la causa del movimento.292
Ma questa soluzione non esime da un’ulteriore aporia - che è la stessa presentata - come si è visto - in Quaestio I. 10, 20.26 ss.:
Ma se è così- dice - come è possibile che non abbia anche principio di quiete e di mutamento verso i contrari?293
A tale aporia, questa è la soluzione proposta:
Forse - dice - non si muoverà verso i contrari, perché non esiste un movimento contrario a quello circolare; e non sta fermo, perché non si muove verso
un punto, giunto nel quale è necessario che si fermi; e non ha bisogno di quiete:
fra i corpi che si muovono da sé, infatti, sono quelli che si fermano per natura ad
avere la potenzialità di fermarsi da sé.294
La seconda soluzione alla prima aporia (che ora si conferma essere
quella preferita da Alessandro) si chiarisce meglio - nota Simplicio - leggendo il commento al De caelo, dove Alessandro identifica espressamente la natura e l’anima del corpo celeste (e assume così una posizione che
è probabilmente originale anche rispetto alla tradizione di scuola).
Prosegue infatti Simplicio:
Che cosa significhi intendere il movimento naturale del cielo non come
quello dei corpi inanimati, ma come quello dei (corpi) che si muovono in virtù
dell’anima, lo comprenderemo più chiaramente ricordandoci dell’opinione
che egli (Alessandro) nutre sull’anima del cielo: egli ritiene infatti che, nel cielo, l’anima stessa sia anche natura. Scrive per l’appunto nel commento al secondo libro del De caelo:
292
Alex. ap. Simpl. in Phys. 1218.27 - 30.
ibid. 1218.31 - 32.
294 ibid. 1218.32 - 36.
293
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“Noi tenteremo di mostrare che nel corpo divino non sono diverse la natura e l’anima, bensì sono (entrambe) come la pesantezza
per la terra e la leggerezza per il fuoco.”
E, poco oltre:
“Quale altra è la sua natura? L’anima, infatti, è una natura più
perfetta. Ed è ragionevole che, del corpo divino, anche la natura sia
più perfetta.”
È questo che dice anche ora, quando dice che il movimento del cielo secondo natura è come quello degli esseri che si muovono in virtù dell’anima. Ed
è chiaro che dice queste cose in accordo con la sua dottrina, secondo la quale l’anima è l’entelechia dei corpi, inseparabile da essi, ritenendo che l’anima sia tale,
quale è anche la natura (ıpo€a t€w §sti ka‹ ≤ fÊsiw).295
In sintesi, per Alessandro, come risulta da tale testimonianza ed esegesi-dell’-esegesi da parte di Simplicio,
- il cielo si muove, non come i corpi inanimati, ma in virtù dell’anima;
- l’anima è una natura più perfetta;296
- l’anima, in essi, è identica alla loro natura (mentre nei viventi l’anima
costituisce un secondo principio di movimento, diverso dall’inclinazione naturale al movimento (=opÆ) dei corpi semplici che li compongono).
Stando così le cose, non stupisce che per Alessandro tale anima vada concepita in modo diverso rispetto all’anima dei viventi: “si chiama
anima per omonimia”, dice infatti menzionando l’anima dei corpi divini
nel De anima.297
8. La Quaestio II.18: natura e movimento del corpo divino
Un’ulteriore testimonianza del pensiero di Alessandro su come agisca l’anima dei corpi divini, che è natura, è descritto nella Quaestio II.18: “Sull’essere la natura principio di movimento”:
Per quanti dei corpi sono generabili, essendo naturali, la generazione avviene in luoghi (loro) estranei, ed è il movimento che li aiuta a portarsi nel luogo
loro proprio, giunti nel quale si fermano dal movimento locale, e si trovano, per
quanto è (loro) possibile, nella perfezione (avevano infatti in sé anche il princi-
295
Simpl. in Phys. 1218.36 - 1219.11.
Cfr. Quaestio II.3. 49.21: l’anima è “natura” più perfetta e “più divina”, ed è per questo che è
propria dei corpi più perfetti.
297 De anima 28.27: se la lezione è correttamente conservata, qui Alessandro chiama i corpi celesti “dèi”: ≤ går t«n ye«n cuxÆ, efi ka‹ taÊthn de› cuxØn kale›n, ımonÊmvw ín taÊt˙
cuxØ l°goito. Cfr. ad loc. Accattino (1992).
296
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pio del movimento verso di esso); per quei corpi invece che sono ingenerabili e
perfetti di loro natura e che sono nel luogo che è loro naturale, la natura, cioè il
principio del movimento che è in essi, non contribuisce al mutamento dall’imperfezione alla perfezione, né al loro portarsi nel luogo che è loro naturale (sono
infatti perfetti, e non si spostano mai dal luogo che è loro naturale) ma contribuisce al loro farsi simili, con l’attività che svolgono nel loro luogo, al migliore
degli esseri, imitando, nel movimento eterno, continuo e regolare, il dover essere sempre in atto di quello, il suo stare immobile, la sua quiete.298
Imitando il migliore degli esseri, che è immobile, non sono tuttavia
immobili. Poiché quello è eternamente in atto nello stesso modo, l’imitazione consiste nell’essere essi stessi perennemente in atto. Così,
tramite il muoversi sempre allo stesso modo, ordinatamente e continuamente, imitano la natura eterna di quello.299
Muovendosi, dunque, il corpo divino è naturale: ha in sé il principio
del movimento. Non però quello della quiete: natura, per i corpi celesti,
è muoversi eternamente. Continua dunque:
Essi perciò, muovendosi continuamente secondo la natura che è in loro,
imitano la quiete di quello tramite la permanenza nel movimento. Anche il fatto
che abbiano forma sferica dimostra che per loro è movimento naturale non solo
il muoversi, ma anche il muoversi continuamente ed eternamente: perché la migliore e più perfetta delle forme appartiene per natura al migliore dei corpi, e per
tale forma la quiete è contro natura. Per questo non ha nemmeno una base sulla
quale fermarsi.300
Così, i corpi celesti sono sì naturali; hanno infatti in sé principio del
movimento - movimento che, come si è visto, non è semplicemente passività, come l’esser mosso dei corpi inanimati, ma è come quello dei corpi dotati di anima. Tuttavia la loro inclusione fra i corpi fisici comporta
in qualche modo una revisione sia della definizione di “materia”, che della nozione di “natura”: natura è principio del movimento, ma non necessariamente principio della quiete. Nel caso del corpo celeste, infatti,
natura è solo principio non di quiete ma di movimento - di quel movimento, però, che più di ogni altro assomiglia alla quiete.
E in questo modo sì, si può dire che lo studio dei cieli fa parte della fisica.
298
299
300
Quaestio II.18. 62.18-30.
ibid. 62. 33-34. Sul concetto di imitazione, cfr. infra, p. 160 n. 341.
ibid. 63.1-7.
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Capitolo III: “La dottrina della provvidenza
e le sue fonti aristoteliche”
1. Introduzione
Abbiamo visto nelle Quaestiones I.10 e I.15 ciò che già frammenti dai
commentari perduti suggeriscono, e cioè che Alessandro aveva posto con
rinnovata energia il problema della fisicità e dunque della materialità dei
corpi celesti. Considerandosi le sfere celesti come parte divina del cosmo,
e dandosi d’altronde per stabilita tale loro fisicità e materialità, restava come problema aperto, per Alessandro e per gli aristotelici in generale, quale relazione sussistesse fra di essi e la parte del cosmo soggetta a generazione e corruzione.
L’interrelazione fra mondo celeste e mondo sublunare è un ambito
di ricerca impegnativo e complesso, che Alessandro trova ancora largamente da definire. La sua elaborazione costituisce il maggior contributo
di Alessandro all’ampliamento e alla ridefinizione del sistema fisico nell’ambito dell’aristotelismo di scuola.
Con questo tipo di speculazione Alessandro va a colmare un’insufficienza che gli osservatori critici dell’aristotelismo avevano efficacemente
messo in rilievo: l’assenza in Aristotele di una vera e propria dottrina della provvidenza; e le carenze di quella dottrina della provvidenza che, benché assente in quanto tale in Aristotele, aveva potuto essergli tardivamente
attribuita.
Di per sé infatti Aristotele, nei testi dei quali si ha notizia, non parla mai di provvidenza divina apertis verbis; e la concezione aristotelica,
dove la si può ricavare come implicita, non è mai abbastanza chiara e
puntualizzata da dare appoggio diretto e inequivocabile a una tale dottrina. Né mancano, sempre in Aristotele, indicazioni di segno opposto:
la funzione del primo motore immobile come origine del movimento e
del divenire per l’universo non comporta, di per sé, alcuna componen147
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te di volontarietà da parte del motore sul mosso. Questo vale, peraltro,
non solo se si pensa il motore come causa finale e oggetto di desiderio,
come suggerisce Metafisica XII.7, ma anche se lo si pensa come causa
efficiente. Proprio parlandone in quest’ultimo senso, anzi, Aristotele,
nel libro VIII della Fisica, ne paragona l’efficacia a quella di una concatenazione di tipo meccanico, in netta antitesi con qualunque concezione provvidenziale.301
In che modo dunque, ci si potrebbe chiedere, e in base a quali testi
di Aristotele, può Alessandro costruire ed attribuire al maestro una tale
dottrina della provvidenza?
I modi e gli strumenti con i quali Alessandro affronta una costruzione
dottrinale così impegnativa, e il complesso rapporto che in essa l’esegeta
mantiene con i testi di Aristotele saranno oggetto di questo terzo capitolo.
2. “La provvidenza arriva fino al cielo della luna”
Dopo Aristotele, ma prima di Alessandro, sembra ci fossero stati maestri peripatetici che avevano confinato l’azione della provvidenza nelle sfere superiori: a quanto risulta, essi forse promossero, o almeno non contrastarono,
una vulgata secondo la quale, per Aristotele, “la provvidenza arriva fino al
cielo della luna”; cioè, secondo l’interpretazione più facile, la provvidenza
riguarda solo il cosmo superiore, le sfere celesti, mentre la buona disposizione del mondo sublunare ne è solo una conseguenza accidentale.302
In realtà, la frase non si legge in nessuna delle opere di Aristotele che
noi conosciamo, così come d’altronde non si trova in esse alcuna presa di
posizione diretta sul problema della provvidenza, la cui elaborazione filosofica, come sappiamo, è quasi interamente ellenistica e postaristotelica.303 Così, anche se è difficile escludere che qualche testo attribuito ad
Aristotele contenesse davvero quella frase, sembra tuttavia probabile che
301
In quel libro, peraltro, Aristotele non qualifica come “dio” il primo motore, cosa che invece fa
in Metafisica XII (1072b 25). Non a caso, nel De providentia Alessandro non sembra fare alcun riferimento diretto ai capitoli sul motore immobile di Fisica VIII, che pure tiene ben presenti nel De principiis, quando dimostra l’esistenza del motore immobile (cfr. in part. De principiis, §§ 29-44 Genequand con Fisica VIII.5, che vi funge da modello sia nei contenuti che nel
metodo dell’argomentazione).
302 Cfr. Sharples (1982), p. 198-199 e nn. 10 e 11, e le fonti ivi evidenziate: Aetius, Placita, 2.3.4;
Adrasto di Afrodisia ap. Teone di Smirne, Expos. rer. math. 149.14 s. Hiller, che attribuiscono
ad Aristotele una dottrina secondo la quale la buona disposizione del mondo sublunare è solo un effetto accidentale dell’ordine celeste.
303 L’eccezione più nota ed importante è il Timeo di Platone, dove la prÒnoia toË yeoË è rappresentata in modo figurato, ed espressamente menzionata in 30c.
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essa rifletta e sintetizzi una presa di posizione della scuola piuttosto che
una dottrina originale del maestro.
Le testimonianze di quella tesi, nella letteratura filosofica precedente
Alessandro, sono - per l’appunto - relative alla scuola; e cioè, in parte interne alla scuola,304 in parte esterne e critiche nei confronti della scuola.305
Anche nelle opere stesse di Alessandro, non mancano indizi che possono essere interpretati in questo senso, come una traccia di una teoria
peripatetica pregressa, secondo la quale la provvidenza si limiterebbe al
rapporto fra motore immobile e sfere celesti.306 È una visione molto diversa da quella che sarà sostenuta da Alessandro, cui certo dovevano essere note le critiche che una concezione così restrittiva aveva generato.
Tuttavia l’esegeta, piuttosto che contrastarla e contraddirla apertamente,
trova modo di approdare a una dottrina quasi opposta, reinterpretando
quella stessa frase.
Dice infatti nel De providentia:
Secondo Aristotele, si può parlare di provvidenza in due modi. È vero infatti che egli afferma che “la provvidenza è solo sino alla sfera della luna”. Egli
dice però che vi è una provvidenza anche per le cose che stanno nel mondo su-
304
Cfr. per esempio la testimonianza di Aspasio, in Eth. Nic., CAG XIX, 71.25-31 (prima metà
del II sec. d. C.), che chiama “provvidenza” il rapporto secondo il quale i cieli sono mossi, per
necessità e secondo natura al tempo stesso, dal primo motore, che di tale provvidenza è dunque - si desume - l’agente.
305 La dottrina aristotelica della divinità - arrivò a dire il medioplatonico Attico (seconda metà II sec.
d. C.) - è equiparabile alla totale assenza di provvidenza che gli epicurei sono accusati di professare: entrambi infatti sottraggono agli uomini quella “fede nella provvidenza che è il mezzo più
grande ed importante per conseguire la felicità” (Attico, frgm. 3r. 9 s. des Places). Anzi, la dottrina aristotelica sembra più empia di quella epicurea: almeno, nota Attico, gli dèi di Epicuro vivono in mondi separati, non vedono ciò che avviene quaggiù; mentre quelli di Aristotele, essendo parte di uno stesso cosmo, hanno gli affari umani sotto gli occhi, e tuttavia non se ne curano
(Id., frgm. 3r. 75-89 des Places). Cfr. anche Epitteto, Diss. I.12.2-6; Happ (1968) pp. 79-83.
306 Uno di questi indizi può essere la prima delle due definizioni di “provvedere”, presentata provvisoriamente in Quaestio I.25 (41.4-8). Secondo questa, sarebbe oggetto di provvidenza tutto
ciò che da altro trae movimento e mutamento, così che “ogni sostanza corporea, sia eterna, sia
soggetta a generazione e corruzione, sarebbe disposta con provvidenza dalla sostanza prima
ed eterna, immobile e incorporea”: è qui evidente che l’agente di provvidenza è il primo motore, diversamente che nella soluzione successiva e finale, dove l’agente di provvidenza sono
le sfere celesti (41.8-19 Bruns). Ancora, nel De providentia (p. 158.5-9 Zonta, tr. it. p. 159.4-9)
Alessandro, per argomentare la presenza di una teoria della provvidenza in Aristotele, cita Metafisica XII.7 (1072b 3-4), leggendo il passo secondo la lezione kinoum°nƒ in 1072b 3, e cioè
“(il motore immobile) muove come ciò che è amato, e tramite il mosso (i. e.: il cielo) muove le
altre cose” (cfr. infra, p. 172 n. 388). Come mai - ci si potrebbe chiedere - Alessandro cita questo passo, se poi esclude (sia pure implicitamente) il rapporto tra primo motore e sfere celesti
dall’ambito dell’azione provvidenziale propriamente detta? Una tale citazione sembra suggerire che il riferimento a quest’ultimo passo di Aristotele facesse già parte della tradizione di
scuola prima di Alessandro.
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blunare. Afferma infatti che “a far nascere l’uomo sono l’uomo e il sole”.307 Secondo lui, in effetti, il buon ordine delle cose di quaggiù corrisponde nel suo
complesso al buon ordine del movimento dei corpi celesti. Dire che la provvidenza è sino alla sfera della luna significa che la provvidenza si trova là. Il senso di questa affermazione è che la provvidenza si trova in quella cosa, dalla quale proviene.308
Cioè, sopra la luna la provvidenza è, e non ha bisogno di esercitarsi;
mentre sotto la luna, poiché non è, si esercita. Dice ancora Alessandro in
un altro passo del De providentia:
è necessario che ciò che esercita la provvidenza sia ben distinto da ciò cui
provvede.309
La posizione che estende l’operato della provvidenza fino al mondo
sublunare risponde evidentemente meglio della precedente, che lo confinava sopra la sfera della luna, ai requisiti di una dottrina della provvidenza. Così, anche da questo punto di vista, Alessandro sembra mettere
l’aristotelismo al riparo dalle critiche degli avversari, medioplatonici in
particolare310. Ma una tale posizione risulta preferibile anche secondo una
logica interna alla tradizione aristotelica. Consente infatti di superare il
dissidio fra la dottrina della provvidenza elaborata dalla scuola e ciò che
si legge nel De caelo di Aristotele: il cosmo è eterno per sua natura. Dunque, a rigore, il cosmo non dovrebbe avere bisogno di provvidenza, perché sussiste eternamente di per sé. Tale è l’aporia discussa nella breve
Quaestio II.19, che qui di seguito esaminiamo riportandola per intero.
3. La bipartizione del cosmo in relazione all’esercizio della provvidenza
(Quaestio II.19)311
[63.10] efi ı kÒsmow é€diow tª •autoË fÊsei, tÚ d¢ kÒsmƒ e‰na€ §sti tÚ
§n toiòde tãjei e‰na€ tini, e‡h ín ka‹ tØn tãjin parå t∞w •autoË fÊsevw
¶xvn.
307
Sulla citazione da Phys. II.2, 194b 13, cfr. infra, p. 171.
De prov., 138.14-25, tr. 139.17-29.
309 De prov. 122.3 s., tr. 123.2 s. La provvidenza è infatti una dÊnamiw attiva, cioè un principio di
mutamento che si esercita su di un ente diverso da quello che lo possiede, diverso cioè dal corpo celeste, cfr. Arist. Metafisica V. 12. 1019a 15-20 e ad loc. Alex. in Met. 389. 9-18 Hayduck.
310 Cfr. supra, n. 305.
311 Delle Quaestiones sulla provvidenza II.19 e II.3 esistono versioni, o per meglio dire, riadattamenti
in lingua araba ad opera della cerchia di al-Kindi , rispettivamente i nn. 33 e 34 nella lista di van
Ess (1966) (correntemente: vE). Tali riadattamenti sono stati esaminati in Fazzo-Wiesner (1993),
dove H. Wiesner ne ha prodotto una traduzione inglese, la prima in lingua moderna.
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[63.12] efi d¢ toËto, oÎte prÚw tÚ e‰nai oÎte prÚw tØn tãjin ∂n ¶xei d°oit’
ín toË pronoÆsantow. éllå mØn pçn tÚ pronooËn μ toË e‰nai <tÚ> pronooÊmenon pronoe› μ toË eÔ e‰nai, œn prÚw mhd°teron deÒmenow toË pronoÆsontow ı kÒsmow oÈd’ ín pronoo›to ˜lvw.
[63.10] Se il cosmo è eterno per sua natura, e l’essenza del cosmo è di essere in una certa disposizione ordinata,312 anche la disposizione ordinata dovrebbe essergli propria per natura.
[63.12] Ma se fosse così, non avrebbe bisogno dell’ente che provvede, né
per esistere, né per essere nella disposizione ordinata in cui si trova. D’altronde
tutto ciò che provvede, provvede o all’esistenza o alla buona disposizione di ciò
cui provvede; e il cosmo, non avendo bisogno dell’ente che provveda per nessuna di queste due cose, non sarebbe affatto oggetto di provvidenza.
Proprio per risolvere questa aporia, Alessandro valorizza ed enfatizza la divisione aristotelica fra mondo celeste e mondo sublunare. La rilegge infatti come una distinzione fra quella parte del mondo nella quale
la provvidenza risiede e quella parte sulla quale la prima esercita la sua
azione provvidenziale. Forse,313 risponde,
[63.15] μ pçw m¢n ı kÒsmow oÈ de›ta€ tinow pronoÆsantow, oÎte prÚw tÚ
e‰nai, oÎte prÚw tÚ eÔ e‰nai, ≤ d¢ ginom°nh prÒnoia §n t“ kÒsmƒ g€netai
m°rouw m°n tinow §n t“ kÒsmƒ pronooËntow, m°rouw d° tinow pronooum°nou.
[63.15] il cosmo nel suo insieme non ha bisogno di un ente che provveda
né alla sua esistenza, né al suo benessere, ma la provvidenza che agisce nel cosmo
si esercita in modo che una parte del cosmo provvede, un’altra invece è oggetto
di provvidenza.314
La parte celeste del cosmo, infatti, è incorruttibile, eternamente ordinata in virtù della propria anima e natura.
Dunque non ha bisogno di provvidenza. La parte corruttibile invece ne ha bisogno, per conservarsi eterna nel modo che le è possibile, cioè
secondo la specie.
[63.18] ˜son m¢n går aÈtoË s«ma ég°nhtÒn te ka‹ êfyartÒn §sti, ka‹
ée‹ katå tØn aÍtoË fÊsin te ka‹ cuxØn tetagm°non, ka‹ tØn aÍtoË k€nhsin
kinoÊmenon §f°sei mimÆsevw toË pr≈tou yeoË, toËt’ oÈd¢n de›tai toË pronoÆsontow, §n tª ofike€& fÊsei tÆn te katå tÚ e‰nai ka‹ tØn katå tÚ eÔ e‰nai
teleiÒthta ¶xon.
312
313
314
Cfr. De caelo, 296a 33-34: ≤ d° ge toË kÒsmou tãjiw é˝diow.
Sul ruolo della particella ≥ (forse”, “oppure”) nell’introdurre la soluzione delle aporie, cfr. “Introduzione”, p. 28 s.
Quaestio II.19, 63.15-18.
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[63.22] ˜son d¢ aÈtoË genhtÒn te ka‹ fyartÚn ka‹ t∞w par’ êllou
bohye€aw deÒmenon prÒw te tÚ e‰nai ka‹ prÚw tØn diå t∞w eÈtãktou metabol∞w kat’ e‰dow éidiÒthta, toËt’ §st‹ tÚ pronooÊmenon ÍpÚ t∞w toË ye€ou
m°rouw toË kÒsmou kinÆsevw eÈtãktou ka‹ poiçw sx°sevw prÚw aÈtÚ kubern≈menon: ∏w, §f’ ˜son §nd°xetai ynhtÒn ti ˆn, met°xon tãjevw, par’
§ke€nvn aÈt∞w tugxãnon fulãssei di’ aÈt∞w tØn kat’ e‰dow éfyars€an.
[63.18] Infatti quella parte del cosmo che è corpo incorruttibile e non generato e si trova sempre in una disposizione ordinata in virtù della propria natura e anima315 e si muove del proprio moto per desiderio di farsi simile al dio primo, non ha alcun bisogno dell’ente che provveda, avendo già nella sua natura la
perfezione sia quanto all’essere sia quanto alla buona disposizione.
[63.22] Invece quella parte del cosmo che è generata e corruttibile e che ha
bisogno dell’aiuto di un altro ente sia per esistere sia per conservarsi eterna secondo la specie con il mutamento ben ordinato,316 è oggetto di provvidenza in
quanto è governata317 dal movimento ben ordinato della parte divina del cosmo
e dalla qualità della disposizione [che questa assume] nei suoi confronti: [questa
parte del cosmo] si conserva incorruttibile secondo la specie, perché partecipa di
tale disposizione ordinata, ricevendola dagli enti divini, nella misura in cui questo è possibile a un ente mortale.
In questo modo, evidentemente, il primo motore resta immune dalla cura per il mondo. Infatti, pur muovendo le sfere come oggetto di desiderio,318 non compie alcuna attività che abbia un fine al di fuori di sé.
Il dio che esercita la provvidenza, se così lo si deve chiamare, non è
dunque il primo motore, ma semmai il cielo.
4. Il cielo come “dio” nella Quaestio II.6.
Pensare il cielo come dio non è sicuramente un’invenzione di Alessandro.
Già per Aristotele il cielo è divino. Anzi, in un passo del De caelo sembra
che il cielo venga proprio chiamato “dio”. Puntualmente e non a caso, questo passo attira l’attenzione di Alessandro, come si vede nella Quaestio II.6.
Il brevissimo opuscolo nasce in nota a De caelo II.3. 286a 8-12, dove
Aristotele dice:
315
316
317
318
La natura, nei corpi celesti, è lo stesso che l’anima. Cfr. le testimonianze citate da Accattino
(1992).
Arist. De gen. et corr. II.10. 336b 31-337a 1: la natura sublunare si mantiene eterna in virtù dell’azione ciclica dei corpi celesti, così che alla morte e corruzione si avvicendano sempre la nascita e generazione.
Sull’uso del verbo kubernãv, cfr. Quaestio I.25, 41.3-4 e qui infra p. 157 n. 329, p. 167.
Cfr. Met. XII.7.1072b3-4, citato in De prov. 158.7-9 Zonta.
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Ogni cosa che abbia un effetto (¶rgon) è in vista di quell’effetto. Ma l’attività di dio è l’immortalità, cioè la vita eterna; dunque è necessario che Dio abbia
vita eterna. Poiché tale è il cielo - è infatti un corpo divino - per questo ha il corpo circolare, che per natura si muove sempre circolarmente.319
Sul presupposto che “dio” si identifichi correntemente col primo
motore, Alessandro solleva in proposito la seguente aporia:
[52.11] P«w ék€nhton e‡h ín katå ÉAristot°lhn tÚ pr«ton kinoËn, e‡
ge, …w aÈtÒw fhsin, ßkastÒn §stin œn §stin ¶rgon ßneka toË ¶rgou, yeoË d¢
§n°rgeia éyanas€a, toËto d° §sti zvØ é€diow, Àste énãgkh t“ ye“ k€nhsin
é€dion Ípãrxein.
[52.15] áH oÈk ¶stin §ke›no, œn §stin ¶rgon ti, e‡ ge ¶rgon m¢n tØn
§n°rgeian l°gei tØn …w t°low, t“ d¢ oÈd¢n t°low §st€n. ≤ går oÈs€a aÈtoË
§n°rgeiã §stin, éll’ oÈk ˆn ti êllo, ¶peita §n°rgeia. d∞lon d¢ toËto di’ ˘
§pÆnegken ˜ §stin, “§pe‹ d¢ ı oÈranÚw toioËtow. s«ma êra ye›on”, §ke›no
går oÈ toioËton.
[52.11] Come può essere immobile, per Aristotele, il primo motore, se davvero, come egli dice, “tutto ciò che esercita un’operazione esiste in vista dell’operazione, e l’atto del dio è l’immortalità, cioè la vita eterna - sicché è necessario
che a dio appartenga un moto eterno”?
[52.15] Forse quello non rientra fra gli esseri che hanno un effetto, se per effetto si intende l’attività che è come un fine, mentre quello non ha un fine. Infatti
la sua essenza è atto, ma non qualche cos’altro, e poi atto. Questo è chiaro dalle parole che ha aggiunto: “e poiché il cielo è così, esso dunque è un corpo divino.” 320
Quello, infatti, non è tale.
Il linguaggio ellittico e stringato nel quale l’esegeta ora si esprime sono caratteristici di una destinazione specialistica dell’opuscolo, per l’uso
interno della scuola. Emerge comunque piuttosto nitida la differenza, sulla quale Alessandro fa leva, fra l’atto (l’§n°rgeia) del motore immobile e
l’atto di ogni altro essere: per tutti gli altri esseri - cielo incluso - l’atto porta alla perfezione qualche cosa che è diverso dall’atto. Nel motore immobile invece essenza e atto coincidono (≤ går oÈs€a aÈtoË §n°rgeiã
§stin, 52.16-17: l’esegesi del De caelo interagisce qui con un parallelo dal
libro Lambda di Aristotele321).
319
320
321
Arist. De caelo, II.3. 286a 8-12: ÜEkastÒn §stin, œn §stin ¶rgon, ßneka toË ¶rgou. YeoË d’
§n°rgeia éyanas€a: toËto d’ §st‹ zvØ é˝diow. Àst’ énãgkh t“ ye“ k€nhsin é˝dion
Ípãrxein. ÉEpe‹ d’ ı oÈranÚw toioËtow, s«ma gãr ti ye›on, diå toËto ¶xei tÚ §gkÊklion
s«ma, ˘ fÊsei kine›tai kÊklƒ ée€.
Nella citazione da Aristotele si nota, come sovente in Alessandro, una certa libertà per quanto riguarda le particelle e i connettivi sintattici: cfr.52.18-19, s«ma êra ye›on, con De caelo,
loc. cit.: s«ma gãr ti ye›on.
Arist. Met. XII.6. 1071b 19 s.: de› êra e‰nai érxØn toiaÊthn ∏w ≤ oÈs€a §n°rgeia. Cfr. supra, p. 98 n. 208.
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In questo modo Alessandro distingue il senso nel quale è “Dio” il
primo motore dal modo nel quale il cielo è divino (o “dio”, come dice
in effetti il passo del De caelo). È a quest’ultimo che dovrà riferirsi, come soggetto, ogni attività orientata ad un fine esterno da sé, in specie la
provvidenza.
Di qui l’esigenza, che si manifesta nella Quaestio I.25, di distinguere
anche fra i possibili sensi del termine provvidenza, per delimitare in quale senso si possa parlare di provvidenza da parte del primo motore; e in
quale senso invece la provvidenza presupponga un agente di natura diversa, cui si possa attribuire un’attività diretta ad un fine.
5. I due sensi del “provvedere” nella Quaestio I.25
Tale distinzione giunge nella Quaestio I.25 a conclusione di un breve compendio sulle prerogative del divino, inteso e differenziato nei due sensi:
sia come motore immobile, sia come sfere celesti.322
[41.4] Stando così le cose, se si volesse dire che è disposto con provvidenza tutto ciò che in qualche misura ha per mezzo di qualcosa o da qualcosa mutamento e movimento, allora ogni sostanza corporea, sia eterna, sia soggetta a generazione e corruzione, sarebbe disposta con provvidenza dalla sostanza prima
ed eterna, immobile e incorporea.
[41.8] Se invece si volesse dire che sono disposte con provvidenza solo quelle cose, in vista delle quali l’ente che si dice provvedere ad esse si muove in atto
di una certa attività, allora sarebbe disposto con provvidenza secondo Aristotele
solo il corpo sublunare, cioè quello materiale e soggetto alla generazione e alla
corruzione, poiché si è stabilito che è in vista della sua trasformazione ordinata e
del suo eterno permanere secondo la specie, che le sette sfere del corpo dal moto circolare successive alla prima - la cosiddetta sfera immobile - si muovono del
secondo movimento323: perché gli esseri soggetti a generazione e corruzione necessitavano di un movimento variato.
322
323
Analisi in Fazzo-Zonta p. 183. Si parte dalla prima sostanza, cioè dal primo motore, del quale
si illustrano gli attributi sulla scorta di Aristotele, Metafisica XII.6, 7 e 9: è forma immateriale
e separata, atto puro e intelletto in atto (39.9 - 40.9); si passa poi al “corpo divino”, che viene
considerato nella sua relazione con la prima sostanza dalla quale è mosso (40.9 - 23); quindi
nel suo rapporto con i motori che muovono le diverse sfere delle quali è composto (40.23 - 30);
infine nella sua relazione con il mondo sublunare, sul quale esso esercita una funzione provvidenziale (40.30 - 41.4, sezione riportata qui infra, p. 157.
“Secondo movimento” è qui (41.14) quello dei pianeti sul circolo dell’eclittica. Sopra (40.29),
“secondo movimento” era quello che le sfere planetarie compiono trascinate da quella delle
stelle fisse. La dicitura non ha dunque valore assoluto: si rapporta lì alle sfere e alla loro natura di anime desideranti, rispetto alla quale è primario il moto sull’eclittica; qui, invece, alla gerarchia dei movimenti nell’ordine cosmico, nella quale il moto del cielo delle stelle fisse è per
natura primario. Intende così anche Bodnár (1997).
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[41.15] Se infatti gli enti divini si comportassero tutti in modo identico
e non ci fosse una qualche varietà anche nel loro moto, non potrebbero essere contemporaneamente causa, per i corpi di quaggiù, di generazioni e corruzione ordinate; ed è in virtù di quelle generazioni e corruzioni, poiché si verificano in questo modo, che anche questi esseri si mantengono eterni secondo
la specie.324
In questo testo denso di indicazioni importanti, sono degne di particolare attenzione tanto l’una che l’altra definizione di “provvidenza”.
Per quanto riguarda la prima, è già di per sé notevole il fatto che sia
menzionata come possibile. Alessandro possiede già, come si vede nel seguito della Quaestio, una dottrina alquanto elaborata della provvidenza
come rapporto fra sfere celesti e mondo sublunare. Nondimeno, lascia
spazio anche alla prima possibilità, quella di chiamare provvidenza il rapporto fra sfere celesti e motore immobile.
Affiancando le due possibilità, Alessandro sembra tenere conto,
una volta di più, di quella dottrina già affermata nella scuola, che poneva il motore immobile al vertice e all’origine della provvidenza. Tuttavia, dopo averne tenuto conto, si muove in un’altra direzione. Pur
senza rinnegare a chiare lettere quella precedente dottrina, sviluppa
una teoria diversa, incentrata non sul motore immobile ma sulla parte
superiore del cosmo. In questo senso si potrebbe dire che nella Quaestio I.25 il metodo delle soluzioni multiple (in questo caso, l’affiancamento dei due sensi di prÒnoia) consente ad Alessandro di assumere
una posizione almeno in parte originale, pur conservando una certa
continuità con la tradizione della scuola.
6. La provvidenza come y e € a d Ê n a m i w
Invece l’idea centrale, sulla quale si fonda la dottrina di Alessandro, è
che esista una dÊnamiw, e precisamente una ye€a dÊnamiw, la quale dai
cieli, parte divina del cosmo, agisce sul mondo sublunare. Quest’idea,
che si può far risalire al De mundo,325 si sviluppa in Alessandro in modo così versatile, che per essa la presenza del divino nel mondo corruttibile si fa dottrina fisica, nel presupposto - comunemente accettato al tempo di Alessandro - che ciò che avviene sulla terra sia almeno
in gran parte determinato dai movimenti, dalle posizioni e dalle confi324
Per quest’ultima sezione della Quaestio I.25 (41.15-19) cfr. Metafisica XII.6. 1072a 9-18. Il passo non è di facile interpretazione, cfr. ad loc. Berti (2000) 198-200.
325
Cfr. infra, p. 164.
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gurazioni reciproche degli astri che continuamente mutano sulla volta
celeste. In una tale ye€a dÊnamiw consiste, per Alessandro, la provvidenza.
Da un punto di vista aristotelico, pensare la provvidenza come dÊnamiw attiva è importante perché serve a sottolineare e garantire il distacco fra ciò che esercita la provvidenza e ciò su cui si esercita, fra l’agente e il beneficiario della provvidenza, in evidente contrasto con l’idea stoica che il divino e la provvidenza pervadano e compenetrino tutte le parti del cosmo.
Una tale dÊnamiw infatti, intesa in senso attivo, è un principio
di mutamento che si esercita - secondo la definizione di Aristotele326 su di un ente diverso da quello che lo possiede. Diverso dal corpo celeste, argomenta d’altronde Alessandro nel De providentia,327 non c’è
che il corpo sublunare; da quello su questo, dunque, si eserciterà
la provvidenza.
È tramite la provvidenza intesa come ye€a dÊnamiw, cioè come potere attivo, capacità di agire al di fuori di sé, che il divino (cioè la parte divina del mondo, costituita dalle sfere celesti) agisce sul mondo sublunare e sulle specie viventi, garantendone l’eterna conservazione nell’eterno
ciclo di generazione e corruzione. Tale è il nucleo teorico fondamentale
del trattato di Alessandro De providentia.
7. La provvidenza come attività esercitata dalle sfere per il mantenimento delle specie
Da qui si sviluppano i diversi aspetti della dottrina alessandrista della
provvidenza, in particolare il ruolo di intermediario attribuito alle sfere celesti, cause efficienti della ye€a dÊnamiw, come tramite fra mondo
corruttibile e motore immobile.
Quest’ultimo infatti di per sé non compie alcuna attività diversificata e diretta ad un fine, ma muove le sfere in quanto è oggetto di desiderio.328 Invece il movimento complesso delle sfere planetarie, benché abbia una sua logica e necessità interna, ha funzione provvidenziale
per la sussistenza degli esseri di quaggiù, come dice la Quaestio I.25:
326
327
328
Cfr. Metafisica IX.1. 1046a 9-11; più diffusamente, Metafisica V. 12. 1019a 15-20 e ad loc. Alex.
in Met. 389. 9-18 Hayduck.
Cfr. p. 140.14 s. Zonta, tr. 141.15-17.
Cfr. Met. XII.7.1072b3-4, citato in De prov. 158.7-9.
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Causa del doppio movimento di questi corpi è la necessità che esista, oltre al corpo eterno e divino, anche un altro corpo, soggetto alla generazione e
alla corruzione, poiché anche questo corpo contribuisce al moto di eterna rivoluzione delle sfere; e d’altronde non sarebbe possibile che un tale corpo restasse eterno secondo la specie, se quelle non lo governassero329 con moti variati.330
E ribadisce più oltre, in un passo già sopra citato:
si è stabilito che è in vista della sua trasformazione ordinata e del suo eterno permanere secondo la specie, che le sette sfere del corpo dal moto circolare
successive alla prima - la cosiddetta sfera immobile - si muovono del secondo movimento.331
C’è dunque una precisa relazione fra la duplicità del movimento, il
perpetuarsi del ciclo biologico e la sussistenza delle specie.
La restrizione della provvidenza all’ambito della specie è un altro
punto caratterizzante della dottrina di Alessandro, che sfugge in questo modo alla paralizzante alternativa fra l’insostenibile dottrina stoica
di una provvidenza onnipresente in ogni infimo dettaglio delle vicende sublunari e l’empia épronohs€a degli epicurei - come veniva chiamata la loro dottrina, secondo la quale non ci sarebbe alcuna provvidenza da parte degli enti immortali su quelli mortali.332
Alessandro ne parla di più e a più chiare lettere nel De providentia: la provvidenza provvede alle specie, non direttamente agli individui; ma poiché non esiste la specie se non esistono gli individui, gli individui devono continuare a nascere e riprodursi perpetuando la specie. Esiste Socrate perché deve esistere la specie “uomo”, esiste Xanto
perché deve esistere la specie “cavallo”.333
329
330
331
332
333
Sull’uso del verbo kubernãv, cfr. infra p. 167.
Quaestio I.25, 40.30-41.4. L’autore evoca qui un tema importante e direttamente giustificato
da un passo del De caelo di Aristotele (II.3. 286a 12 - b 9): la sussistenza del mondo sublunare, che dipende dal mondo celeste e divino, comporta di ritorno per quest’ultimo una certa
utilità. In questo modo infatti il cielo dispone di un centro fermo intorno al quale ruotare.
Quaestio I.25. 41.11-14.
Né il termine prÒnoia né épronohs€a compaiono nei testi attribuibili con sicurezza ad Epicuro e alla sua cerchia immediata, ma potrebbero essere attribuiti ad Epicuro da voci critiche
a partire forse già dalla fine del III o dal II sec. a. C.; cfr. per es. Plutarco Adversus Colotem 8,
1111b (Moralia VI.2, p. 181 Pohlenz = Epic. frgm. 368, 546, 299); id., De def. orac. 19.420b
(Moralia III, p. 82 Sieveking = Epic. frgm. 394); Alessandro, De fato 203.11; Isnardi Parente
(1974), p. 333 n. 1.
De prov., in part. 154.13-156.15 Zonta (tr. 155.14-157.18). Quanto agli individui, anch’essi sono soggetti agli effetti delle configurazioni celesti, che agiscono in qualche modo sulla costituzione fisica e pertanto anche sul corso della vita. Una tale azione però non si connota più né
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8. De generatione et corruptione II.10
Il testo aristotelico di riferimento, evidentemente, è il capitolo II.10 De
generatione et corruptione, secondo il quale è “ragionevole” che generazione e corruzione non abbiano mai fine; infatti la natura tende al meglio,
e l’essere è meglio del non-essere.
Ma poiché l’essere non può trovarsi in tutte le cose,
il dio portò a perfezione l’universo nell’unico modo che restava, cioè rendendo continua la generazione. Questo è il modo migliore per tenere unito l’esistente,
perché la generazione perpetua è quanto di più vicino esista alla sostanza. La causa,
come già detto più volte, è il moto circolare, poiché è l’unico che sia continuo.334
Questo passo di Aristotele è importante perché è l’unico nel quale la
divinità direttamente e deliberatamente intervenga a curarsi della perfezione del tutto. Il modo nel quale essa interviene non poteva che essere
ben presente ad Alessandro.
Ricordiamo che per Aristotele il mondo nel suo complesso è eterno,
non creato e non corruttibile, e parimenti eterno è il divenire degli esseri, inanimati e animati, che vi sono contenuti. Nel mondo sublunare, però,
i singoli individui nascono e periscono. Come è garantito, allora il perpetuarsi delle specie? Poco sopra del passo ora citato, Aristotele aveva sottolineato che due sono i fattori che, opportunamente combinati, consentono al mondo sublunare di conservarsi identico nel suo complesso: da
un lato la continuità, dall’altro l’alternanza ciclica fra generazione e corruzione, tale che nessuno dei due fenomeni prevalga sull’altro.
334
come provvidenza né come legge naturale: è sì natura, ma in senso individuale. In questo senso diverso, come costituzione naturale di ogni individuo, la natura è identificata da Alessandro con ciò che correntemente si chiama destino o fato (≤ efimarm°nh): il fato infatti per Alessandro è fondamentalmente una predisposizione costituzionale a un certo genere di vita, la
quale deriva dal temperamento individuale e determina nella maggior parte dei casi il corso
degli eventi. Anche questa predisposizione, anche il fato dunque, deriva in qualche modo dalle sfere celesti, e cioè dalla configurazione dei cieli al momento del venire ad essere dell’individuo, cfr. Fazzo (1988). Fra gli scritti sul fato, come in quelli sulla provvidenza, un trattato
maggiore è affiancato da opuscoli di più breve respiro. Più spinoso e controverso, il problema
del fato si interseca con quello della libertà morale e sconfina per alcuni aspetti nell’etica. Il De
fato è forse l’opera più studiata in tempi recenti, con diverse traduzioni in varie lingue e numerosi articoli, dei quali cfr. la rassegna fino al 1987 in Sharples (1987) e inoltre la traduzione
italiana di Natali e Tetamo a c. di Natali (1996) e quella di C. Magris (1996). Per quanto riguarda la natura inanimata, la parte conclusiva della Quaestio II.3, 49.28 ss., prospetta l’ipotesi che dalla configurazione dei cieli tragga la propria natura la materia stessa dei corpi semplici e composti, che non solo si trasformerebbero (come in Arist. De gen. et corr. II.10. 337a
1-4) ma anche si formerebbero dalla materia per effetto delle configurazioni celesti.
De gen. et corr., 336b 31-337a 1. Moto circolare, naturalmente, è quello dei cieli.
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È necessario infatti, se ci dev’essere sempre continua generazione e corruzione, che qualche cosa si muova sempre, perché questi mutamenti non si interrompano, e che [i moti dei quali si muove] siano due, di modo che non avvenga
uno solo dei due fenomeni.335
Per spiegare tale compresenza di unità e varietà, Aristotele pone cioè
come causa della continuità la rivoluzione del primo cielo; come causa
dell’alternanza, pone invece il fatto che il sole si muova nel primo cielo su
di un circolo che lo taglia obliquamente: nella combinazione dei due moti si avvicina e si allontana da noi periodicamente, durante l’anno, secondo il ciclo delle stagioni, causando ciclicamente generazione quando si avvicina, corruzione quando si allontana:
Della continuità è causa la rivoluzione del tutto; dell’avvicinarsi e allontanarsi, è causa l’inclinazione. Talora infatti il sole si trova lontano, talora vicino.
Ed essendo disuguale la distanza, sarà anomalo il movimento, così che se avvicinandosi ed essendo vicino esso è causa di generazione, allontanandosi ed essendo lontano esso è causa di corruzione: dei contrari infatti sono causa i contrari.336
È particolarmente importante, per gli scopi presenti, notare che
da qui Alessandro ricava un punto centrale della propria teoria: l’idea,
poco più che un cenno in Aristotele, che la duplicità dei movimenti celesti sia causa e condizione dell’esistenza e conservazione del mondo di
quaggiù. Si tratta a questo punto non solo del sole, ma di tutti i sette
“astri erranti”, che si muovono su sfere proprie. Ampliato infatti per
estensione anche alla luna e agli altri pianeti, il tema viene fatto esplicito nella Quaestio I.25.337
Notiamo anche che, prendendo questa dottrina del De generatione
et corruptione come riferimento fondamentale, la teoria alessandrista
della provvidenza si colloca necessariamente a livello cosmico e non individuale.338 Una tale provvidenza può infatti giovare ai singoli individui solo indirettamente, nella misura in cui essi esprimono la specie: è
la specie, non l’individuo, ad essere sostentata e perpetuata dal ciclo della generazione e della corruzione.
335
336
337
338
De gen. et corr., 336a 34-336b 2.
De gen. et corr., 336b 2-9. Il problema ulteriore e più preciso di come possa, l’avvicinarsi o allontanarsi del sole, causare contemporaneamente generazione per alcuni esseri, corruzione per
altri, è trattato da Alessandro nella Quaestio III.4 (p. 87.1-21 Bruns), Come l’avvicinamento e
l’allontanamento del sole non possano essere causa allo stesso modo di generazione e di corruzione - la generazione di un essere, infatti, è la corruzione di un altro.
Quaestio I.25. 40.23-41.4, cfr. supra, p. 156 s.
ibid., 41.3, 12, 18, Quaestio II.19. 63.24, 28; III.5. 89.20 s.
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Oggetto di provvidenza è la parte inferiore e corruttibile del cosmo.
Idea cardine, in virtù della quale tale relazione si presenta come una espansione della fisica aristotelica, è quella di un’azione causale per contatto fra
le diverse parti dell’universo.
9. Causalità per contatto: i Meteorologica e il De mundo
9.1. Causalità per contatto e per desiderio.
Alessandro trova in Aristotele, e conseguentemente teorizza, due tipi possibili di causalità: per contatto e per desiderio. Perché sia possibile relazione causale devono darsi pertanto o un punto di contatto che sia in comune (koinÒn ti)339 fra il corpo che agisce e quello che patisce, o un’anima che, trovandosi nel corpo che patisce, lo muova per desiderio del corpo che agisce.
La causalità per desiderio esiste solo negli esseri dotati di anima,
e questi sono, naturalmente, i viventi.340 Ma è inoltre in qualche modo
implicito nelle indicazioni di Metafisica XII, almeno nel modo in cui
vengono interpretate dalla scuola, che anche le sfere celesti siano desideranti: il primo motore muove infatti in quanto oggetto di desiderio,
e da questo Alessandro e la scuola desumono che le sfere si muovono
per desiderio di divenire simili al motore, imitandone l’eterna immutabilità e perfezione.341 Di qui, l’eternità regolarità del loro movimento circolare. Se desiderano, dunque, saranno animate (come d’altronde aveva già detto anche Platone342); di un’anima però priva delle fa339
340
341
342
Cfr. Mantissa VIII. p.126.29.
Cfr. Alex. De anima 79.7 s. Di qui, l’enigma della calamita: come può esercitare una dÊnamiw sul
ferro, che pure è inanimato, senza toccarlo? Se dobbiamo considerare la teoria qui esposta come dottrina costante di Alessandro, sembrerà difficilmente autentica la soluzione proposta in
proposito dalla Quaestio II.23 (74.24-6) che attribuisce a desiderio l’attrazione fra ferro e calamita. Si potrebbe forse intendere questa affermazione come analogica, secondo la disponibilità
che Alessandro manifesta, per esempio nel De anima, a riconoscere un’analogia fra corpi inorganici e esseri viventi. Ma il testo della Quaestio non incoraggia una tale interpretazione: precisa
al contrario che quanto asserisce è conforme a un principio generale: non solo i viventi, ma anche molti dei corpi inanimati aspirano (§f€etai) a ciò che per essi è secondo natura (74.28 - 30).
Cfr. Alessandro De principiis §§ 21-23, 76-8 Genequand, Quaestiones I.1. 4.1-3, I.25.40.17-23,
II.18. 62.18-34. Il concetto di imitazione del primo motore da parte degli astri non si trova in
Aristotele, come è stato da più parti sottolineato, cfr. Berti (1999) e Genequand (2001) 8 s., 19
s. in riferimento all’interpretazione di Alessandro; in riferimento alla tradizionale interpretazione di Aristotele, per es. Broadie (1993) 379-389, Laks (2000) 221 n. 37.
Leggi X.898d ss.; 899d ss.: gli dèi esistono, e lo provano il sole e gli astri, che certo hanno anime divine. Cfr. Arist. De caelo 284b 32-4, 285a 29.
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coltà inferiori, e dunque di un tipo diverso di anima rispetto a quella
dei corpi corruttibili.343
Così ciò che in Aristotele era implicito, cioè che le sfere celesti siano
desideranti, trova nella scuola formulazione esplicita e inquadramento
teorico, per rispondere alle perplessità che l’evasiva formulazione aristotelica aveva suscitato già in Teofrasto. Alessandro attesta chiaramente a
questo proposito una dottrina matura e ormai stabile.344
La causalità secondo la quale i moti delle sfere celesti agiscono, a
loro volta, sul mondo sublunare è di tipo apparentemente più meccanico: una causalità per contatto, secondo quanto Alessandro indirettamente ma insistentemente sottolinea, altrove e in particolare nella
Quaestio II.3.
Nella Quaestio II.3, infatti, egli qualifica e identifica il corpo mortale e soggetto al divenire come “corpo adiacente”, “limitrofo” (geitni«n) al corpo divino”,345 intendendo evidentemente tale contiguità
come condizione e causa del fatto che il corpo mortale sia affetto dai
movimenti e dalle diverse configurazioni di quello celeste.
Essa presuppone a sua volta che non ci sia vuoto fra le parti dell’universo, come Alessandro afferma esplicitamente, in più di un’occasione, là dove discute la relazione di causalità fra le due parti:346 causalità che egli interpreta come provvidenziale anche nel commento ai
Meteorologica.347
9.2. Continuità e causalità nei Meteorologica.
In Aristotele, infatti, testo di riferimento in questo senso sono i Meteorologica, in particolare il passo dove, sul presupposto della continuità fra mondo celeste e mondo sublunare, Aristotele aveva potuto
343
344
345
346
347
L’anima degli astri è omonima ma diversa da quella degli altri viventi, cfr. supra, § II.7.3 p.
144 n. 297.
Teofrasto, Metafisica, 5a 14 - 6a 10. L’interrogativo che Teofrasto solleva in 5a 14 ss. (che cosa
le sfere vogliano ottenere, nel loro desiderare) non è più un problema in Alessandro, come si
vede nei testi citati qui supra, n. 341.
Le due diciture sono abbinate quasi in coppia sinonimica: t“ geitni«nti aÈt“ ynht“ te ka‹
§n gen°sei s≈mati (47.30 s., dove aÈt“ si riferisce al corpo celeste).
Alex. De prov., 146.11-22, tr. 147.11-26; in Meteor. 6.1-3. Sulla continuità fra le parti dell’universo in Aristotele, cfr. per es. Metafisica XII.10. 1075a 17-19 e indirettamente 1075b 37-1076a 1.
Alex. in Meteor. 6.3-6. Significativamente, passi dello stesso commento in Meteor. (p. 5.24, 5.27,
6.3-12, 83.5-9, l’ultimo dei quali è riportato due volte) sono stati trovati da S. Kapetanaki nel
MS Paris BN ancien gr. 1865, sotto il titolo di “De providentia” attribuito ad Alessandro. Ringrazio R. W. Sharples e S. Kapetanaki per la segnalazione.
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sostenere che i fenomeni atmosferici e terrestri sono regolati da quelli
celesti:
Di necessità, questo mondo è in qualche modo in continuità (sunexÆw) con
le rivoluzioni celesti, così che tutta la sua potenzialità (dÊnamiw) è governata (kubernçsyai) da quello.348 Ciò da cui infatti proviene il principio del movimento
per tutti gli esseri, va considerato causa prima. 349
9.3. Dal lessico dei Meteorologica: sun°xeia e geitn€asiw.
Aristotele non usa, in questo passo così importante, né il verbo geitniãv,
né i suoi derivati, per parlare di continuità. Vi troviamo invece sunexÆw,
etimologicamente più forte,350 nell’indicare un concreto contatto fra le
due parti in continuità.
Il participio geitni«n (dal verbo geitniãv che significa lett.: “essere
vicino, prossimo, limitrofo”) si trova invece all’esordio dello stesso primo
libro dei Meteorologica. È un verbo desunto dal vocabolario etno-geografico, la cui comparsa in siffatti contesti dell’opera di Alessandro sarebbe alquanto inattesa, se non la giustificasse questo precedente aristotelico di un
uso in senso cosmologico. Siamo ora nel celebre prologo dei Meteorologica, là dove Aristotele, passati in rassegna i trattati di filosofia naturale che
aveva composti sino ad allora, pone quest’opera a conclusione dell’enciclopedico programma di scienze naturali che si era proposto.351
Dice dunque:
Resta da esaminare una parte di questa disciplina, quella che tutti i predecessori chiamavano meteorologia. Questa consiste in ciò che avviene per natura
sì, ma per una natura più disordinata di quella del primo elemento, nel luogo che
è più prossimo al movimento degli astri (per‹ tÚn geitni«nta mãlista tÒpon
tª forò tª t«n êstrvn, 338b 21-2).352
Questo è il precedente più vicino, in Aristotele, dal quale Alessandro possa prendere esempio nel qualificare come geitn€asiw la relazione
fra le due parti del cosmo.353 Può essere utile esaminare più da vicino il
348
349
350
351
352
353
Così il testo greco di 339a 22-3: sunexØw otow ta›w ênv fora›w, Àste pçsan aÈtoË tØn
dÊnamin kubernçsyai §ke›yen. Cfr. infra, p. 167.
Arist. Meteor. I.2. 339a21-4.
Forse Aristotele stesso sentì di doverlo smussare con un pvw. Manoscritti che Alessandro poteva ancora leggere (cfr. in Meteor. 5.29-6.1), scrivevano infatti in 339a 22 sunexÆw pvw.
Fra le analisi del prologo dei Meteorologica, cfr. Vegetti (1998).
Arist. Meteor. I. 338a 25 - 338b 22.
Altrimenti, in greco, il senso più corrente di geitn€asiw è quello di vicinanza fra zone geografiche e gruppi umani limitrofi. Come tale è attestato anche in varie opere di Aristotele e con
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senso del termine nei due autori, rilevando se ci sia qualche differenza. In
Aristotele, la presenza del superlativo (si parla de “il luogo più geitni«n”)
mostra la possibilità di pensare gradi diversi di geitn€asiw. Non si tratta
dunque necessariamente di adiacenza, contatto in senso stretto, ma più
genericamente di prossimità.
Al tempo stesso, proprio perché Aristotele parla del luogo “più geitni«n”, il riferimento esplicito non è a tutto il mondo sublunare, ma solo
alla sua parte più alta. In Alessandro, specificamente nella Quaestio II.3,
si trova anche un uso di questo tipo, riferito alla parte alta dell’atmosfera, tale da implicare la possibilità di una pluralità di gradi nel rapporto di
geitn€asiw.354
A quest’uso però si affianca, fin dall’apertura della Quaestio, un uso
più forte e distintivo, tale per cui non solo, come si è detto, il corpo “mortale e soggetto al divenire” è qualificato nel suo complesso come “il corpo geitni«n” rispetto al corpo divino, ma anzi in tale dicitura si trova quasi racchiuso il senso generale, il problema di fondo della Quaestio II.3:
quali sono gli effetti di tale geitn€asiw?
Ecco qui un’altra peculiarità nell’uso del verbo geitniãv e dei suoi
derivati: in nessuna delle occorrenze aristoteliche l’idea di geitn€asiw fra
due corpi sembra comportare di per sé quella di una loro interazione; idea
che invece era ben presente nel passo (citato sopra, a p. 162) di Meteor. I.339a 21 ss., dove Aristotele usa sunexÆw. In linea generale, si può
dire che Aristotele usa geitn€asiw (e gli altri derivati dalla stessa radice
del verbo geitniãv) per parlare di contiguità semplice, senza implicazioni causali, o anche di semplice prossimità (infatti non in tutti i contesti
d’uso è necessario che tutto ciò che è in geitn€asiw sia in diretto contatto); usa invece sun°xeia e altri derivati dalla stessa radice (che nel linguaggio corrente indica anche la continuità in senso geometrico) quando
sottolinea l’interagire fra le due parti in contatto. A quanto sembra, dunque, geitn€asiw per Aristotele non solo non implica, ma nemmeno sufficientemente suggerisce interazione causale
354
particolare frequenza nella Politica. Non difforme da questo è l’uso di tale radice nei Meteorologica, dove in geitn€asiw sono le diverse zone dell’atmosfera e i venti ed esalazioni che se
ne producono. Il passo ora citato ha l’interesse peculiare di riferirsi specificamente al rapporto fra il corpo celeste e quello sublunare.
In Quaestio II.3. 48.1 (efi t“ geitni«nti aÈt“ g€netai s≈mati), non è chiaro se tÚ geitni«n
s«ma sia l’intero corpo sublunare o la sola sfera del fuoco, del quale in effetti Alessandro va
a trattare in prima analisi (cfr. 48.5: e‡h te ín oÏtv pr«ton épolaËon tÚ pËr ktl.); in 49.3350.1, tÚ geitni«n (sott. s«ma) è sicuramente il fuoco. Sulla sfera superiore del corpo sublunare, come la prima che riceva la dÊnamiw, cfr. anche De prov. 148.3-5 Zonta, tr. 149.4-7.
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9.4. Continuità (sun°xeia) fra le parti del cosmo e dÊnamiw divina nel
De mundo.
È sun°xeia, non geitn€asiw, che troviamo anche nel De mundo (392a
33) dove la tradizione postaristotelica sviluppa ulteriormente, ben prima
che lo faccia Alessandro, l’idea di una continuità fra le parti del cosmo, e
di una loro conseguente interrelazione.
Nel capitolo 6 del De mundo, troviamo peraltro anche il termine dÊnamiw, che vi indica il potere attivo, la capacità cioè di agire, di esercitare un effetto - senso stesso in cui stabilmente lo userà Alessandro. L’idea
è che il divino con il suo trono sia installato in cielo: il verbo è fldrËsyai
(398a 3), termine che il De mundo a sua volta riprende dal De caelo.355 Da
quella sede, si esercita la dÊnamiw della natura divina sul mondo di quaggiù:
Così anche la natura divina impartisce la sua dÊnamiw da un movimento
semplice del primo (cielo) su ciò con cui è in continuità (tå sunex∞), e da qui di
nuovo sugli esseri più distanti, fino a penetrare in tutto l’universo.356
C’è peraltro un aumento di assertività fra il De caelo e il De mundo:
Aristotele parlava di consuetudini invalse nel parlare del divino, l’autore del De mundo usa invece la costruzione diretta e il modo indicativo.
Inoltre, diversamente dal De caelo, il De mundo fa esplicita la metafora
della regalità, parlando poco oltre del trono inaccessibile di Cambise,
di Serse e di Dario.357 L’enfasi sul paragone vale a sottolineare che non
è degno del divino, come non lo è per il Gran Re, occuparsi di tutte le
singole cose: la dÊnamiw divina è causa di sostentamento e sussistenza,
senza però essere agente né custode di tutto ciò che avviene.358 Il concetto è assente in Aristotele, e anche in questo il De mundo anticipa Alessandro. Come dice infatti il De providentia, non è consono alla dignità
degli dèi preoccuparsi di tutti i dettagli e di tutti gli individui. Non così, per esempio, il re esercita il suo potere: non sorvegliando ogni sin355
356
357
358
Cfr. Arist. De caelo I. 9, 278b 14-15: efi≈yamen går tÚ ¶sxaton ka‹ tÚ ênv mãlista kale›n
oÈranÒn, §n ⁄ ka‹ tÚ ye›on pçn fldrËsya€ famen.
De mundo, 6. 398b 20-22.
Cfr. 398a 11-14: TÚ <går> KambÊsou J°rjou te ka‹ Dare€ou prÒsxhma efiw semnÒthtow
ka‹ Íperox∞w Ïcow megaloprep«w diekekÒsmhto: aÈtÚw m¢n gãr, …w lÒgow, ·druto §n
SoÊsoiw μ ÉEkbatãnoiw, pant‹ éÒratow ktl.
De mundo, 6. 398a 7-9. In questo modo, già l’autore del De mundo sembra voler correggere
l’idea, di origine stoica, secondo la quale dio è in tutte le cose: questo non è totalmente errato
- precisa l’anonimo autore - purché lo si dica non riguardo dell’essenza (oÈs€a) del divino, ma
riguardo alla sua dÊnamiw (ibid., 397b 19 s.).
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gola cosa, ma in modo universale e generale. Il suo compito è troppo alto perché si occupi di certe piccolezze.359
9.5. Il lessico della causalità fra le parti del cosmo in Alessandro:
una scelta per esclusione?
Certo, Alessandro aveva bene presente l’uso di sunexÆw e sun°xeia in
Aristotele e nel De mundo. Tuttavia in questo tipo di contesto non li usa.
Per caratterizzare la relazione fra mondo celeste e mondo sublunare, preferisce parlare di geitn€asiw; e pone tale geitn€asiw fra i due mondi come all’origine di un’interazione causale, nella forma di una dÊnamiw che,
prodotta dal movimento naturale della prima delle due parti del cosmo,
eserciti sulla seconda un’azione determinante.360
Riserva invece sunexÆw e sun°xeia ad altri tipi di contesto. Perché?
Una risposta è suggerita da un’esame dei due tipi di contesto nei quali
Alessandro confina sunexÆw e sun°xeia.
Usato nell’esposizione positiva, sunexÆw è riservato da Alessandro
alla continuità fra entità effettivamente omogenee: si parla per esempio di
continuità del tempo (dunque del tempo rispetto al tempo), o di continuità del movimento.
Altri contesti sono di segno negativo, hanno cioè carattere spiccatamente polemico, contro gli stoici. Di costoro, Alessandro critica aspramente la teoria di una sun°xeia fra tutte le diverse parti del cosmo (presupposto fisico per l’altra, più celebre dottrina, quella della sumpãyeia
universale). Questa vena polemica può rendere ragione dell’uso selettivo
che Alessandro fa di questo termine nelle sue trattazioni positive. Invero,
sunexÆw, ben più di geitn€asiw, suggerisce che le entità in sun°xeia si
“tengano insieme” formando quasi un tutt’uno. E una tale visione è decisamente troppo vicina alla dottrina stoica che Alessandro si preoccupa
così sovente di confutare.361
È dunque verosimile che sia per questo motivo, e cioè per evitare
di ricalcare nella terminologia una posizione caratteristicamente stoica, che Alessandro pone non la sun°xeia, ma la geitn€asiw come mo359
360
361
Cfr. De prov. 114.17-116.20 Zonta (tr. it. p. 115.17-117.20).
La Quaestio II.3 presuppone implicitamente tale teoria e connessione, che si trova invece esplicita nel De providentia, p. 146.11-22, tr. 147.11-26 Zonta.
Più in generale, Alessandro critica duramente la dottrina stoica che vede la divinità coinvolta
e presente in tutto ciò che avviene ed esiste sul mondo sublunare. Tale critica si struttura dal
punto di vista teorico-fisico come confutazione della tesi della compenetrabilità dei corpi: un
motivo ricorrente e centrale nella componente polemicamente anti-stoica che anima le opere
personali di Alessandro. Cfr. in part. De mixt. 226.34-227.12; più in generale, sulla polemica
di Alessandro contro la fisica stoica, Todd (1976).
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do e condizione dell’interazione causale fra le due parti del cosmo. A
sua volta, tale scelta lessicale, così mirata e selettiva, giustificherebbe
l’evoluzione semantica del termine geitn€asiw, che guadagna una prerogativa che in Aristotele caratterizzava la sun°xeia, cioè l’identità fra
i due estremi in contatto.362 Non lo stesso infatti si poteva dire per i
geitni«nta aristotelici, che erano essenzialmente vicini limitrofi, ma
separati e ben distinti.
Considerato, peraltro, che tale è la cautela di Alessandro nel riprendere un termine aristotelico come sun°xeia, che poteva nel frattempo essersi trovato troppo vicino alla terminologia e alla concezione cosmologica
degli stoici, a maggior ragione risulta comprensibile che egli eviti totalmente
il termine sumpãyeia, non attestato in Aristotele, ma di uso corrente, allora come in seguito, per chi trattasse di tali problematiche. Il concetto di
sumpãyeia è carico di implicazioni stoiche più ancora di sun°xeia, e risulta incompatibile, per il suo carattere totalizzante, con la concezione, più
mirata e precisa, della causalità nella cosmologia di Alessandro.363
Non lo stesso si può dire per dÊnamiw, cui Alessandro ricorre nei
contesti corrispondenti: la dÊnamiw infatti non è una sostanza, né dunque
un corpo, bensì, come si è ricordato, un “principio di mutamento che si
esercita in un’altra cosa, o nella stessa cosa in quanto altra”.364
In conformità a tale definizione, peraltro, l’uso del termine dÊnamiw si
stabilizza, almeno in questo contesto, secondo l’accezione attiva, prevalente
anche nel De mundo. In Aristotele invece l’accezione attiva di dÊnamiw e
quella passiva, di recettività, attitudine a subire, si affiancavano talvolta anche nello stesso testo, per esempio proprio nei Meteorologica.365 Anche a
questo termine, Alessandro conferisce, appoggiandosi sulla tradizione della
scuola, regolarità di uso e di accezione. Rispetto al De mundo, comunque, si
registra un ampliamento nell’estensione: per Alessandro la dÊnamiw non è
esercitata solo dal movimento del “primo cielo”, l’unico menzionato nel De
mundo, ma dalla complessità dei moti delle sfere globalmente considerati.366
362
363
364
365
366
Cfr. per es. Phys. VI.1. 231a 22: sunex∞ m¢n œn tå ¶sxata ßn.
Alessandro critica infatti apertamente il concetto stoico di supãyeia. Cfr. De mixt. 12. 227.8 s.
Cfr. Alex., De prov. 122.3 s., tr. 123.2 s. e qui supra, p. 150 e n. 309.
Cfr. in part. Meteor. I.339a 21-23, 31-32, dove si accostano a distanza ravvicinata due sensi polarmente opposti del termine dÊnamiw, come potenzialità passiva, in 339a23, e come potere
attivo, in 339a32.
Cfr. De mundo, 6. 398b 20-22, cit. supra, p. 164; Quaestio II.3.50.7-9. L’uso del concetto di dÊnamiw nelle opere di Alessandro conservate in greco, in particolare nella Quaestio II.3, cui è
interamente dedicato infra il cap. IV (ma anche in Mantissa XXIII, cfr. ibid. p. 190) conforta
interamente l’autenticità della dottrina della “forza spirituale” che ricorre anche nel trattato
De principiis § 128, come già osserva Sharples (1987) p. 1188.
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9.6. Altri indizi lessicali della presenza dei Meteorologica e del De mundo
Si potrebbero evidenziare altri portati lessicali dalle due opere aristoteliche. Particolarmente significativo, per esempio, l’uso del termine “governare” (kubernçsyai), tratto originariamente dal gergo marittimo
(kubernÆthw è infatti, com’è noto, il nocchiere o timoniere della nave).367 Aristotele, a quanto ci è noto, lo usa per descrivere il rapporto
fra mondo celeste e mondo sublunare in una e una sola occorrenza, cioè
nel passo qui sopra citato dai Meteorologica (339a 23): verosimilmente
da qui, dunque, lo trae Alessandro, che lo reimpiega, oltre che nel commento ad loc. (dove lo interpreta esplicitamente in senso provvidenziale)368 almeno in due casi, nella Quaestio I.25 e nella Quaestio II.19, proprio nel tipo di contesto che qui ci interessa: “non sarebbe possibile che
il mondo corruttibile restasse eterno secondo la specie, se non lo governassero con moti variati (mØ kubern≈menon) le sfere celesti” (Quaestio I.25. 41.2-4); nel cosmo, ciò che è soggetto a generazione e corruzione è oggetto di provvidenza, “essendo governato (kubern≈menon)
dal movimento bene ordinato della parte divina del cosmo e dalla qualità della disposizione [che questa assume] nei suoi confronti” (Quaestio II.19, 63.25 s.).
In modo diverso, nello stesso passo dei Meteorologica sopra citato, è
importante la frase “ciò da cui proviene il principio del movimento per
tutti gli esseri va considerato causa prima” (Meteor.339a 23-4: ˜yen går
≤ t∞w kinÆsevw érxØ pçsin, §ke€nhn afit€an nomist°on pr≈thn):369
“principio del movimento” nei corpi sublunari si riferisce lì alla dÊnamiw
prodotta dal movimento dei cieli; ma altrove in Aristotele, in particolare
nel libro II della Fisica, “principio del movimento e della quiete” è la definizione primaria del concetto stesso di “natura”. Infatti a questa definizione Alessandro fa riferimento in modo stabile e costante.370 Certo, diversamente dal “principio del movimento” dei Meteorologica, il principio
di movimento e di quiete della Fisica - che è natura, fÊsiw, nel senso che
contraddistingue i corpi fisici ovvero naturali da quelli che non sono na367
368
369
370
È diffuso in età ellenistica un uso filosofico della metafora del nocchiere (kubernÆthw), specialmente in ambito stoico, ma non solo. Per il sec. II d. C. è eloquente un esempio segnalatomi da R. W. Sharples, quello di Numenio fr. 18, che paragona a un nocchiere il Demiurgo.
Alex. in Meteor. 6.3-9.
L’espressione ˜yen går ≤ t∞w kinÆsevw érxØ è ripresa poco oltre, dove si parla di “causa nel
senso del principio del movimento”: tÚ d’ oÏtvw a‡tion ˜yen ≤ t∞w kinÆsevw érxÆ, tØn t«n
ée‹ kinoum°nvn afitiat°on dÊnamin (Meteor. I. 339a 30-2).
Fisica II.192b 12-14, pãnta d¢ taËta fa€netai diaf°ronta prÚw tå mØ fÊsei sunest«ta.
toÊtvn m¢n går ßkaston §n •aut“ érxØn ¶xei kinÆsevw ka‹ stãsevw, e passim.
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turali - è pensato come interno, come appartenente in sé al corpo del quale è principio e natura: come tale, il principio del movimento, come specificherà Fisica VIII, è principio passivo, cioè dell’essere mosso piuttosto
che del muovere esso stesso,371 e rimanda a sua volta a un principio attivo esterno. È proprio sul rapporto, nella fÊsiw di ogni essere, fra il principio immanente del movimento e della quiete, e l’effetto della dÊnamiw
dei corpi celesti, che in qualche modo ne è causa, che Alessandro riflette, in particolare nella Quaestio II.3. D’altronde, sussiste sempre, sulla
scorta di Aristotele, la possibilità di pensare la natura stessa in senso cosmico, per esempio con Metafisica XII.10.372 La complessità problematica imposta da ogni tentativo di ristrutturare tali eterogenee indicazioni in
una teoria d’insieme può già di per sé rendere ragione, almeno in parte,
della formulazione tutt’altro che lineare che l’interrogativo riceve nella
Quaestio. Lo vedremo fra breve. Inoltre, sulla necessità, o anche solo opportunità, di dare voce a un tale interrogativo, pesa una serie di stadi intermedi di elaborazione, in parte ignoti, o ipotizzabili solo per via di ricostruzione (come vedremo a proposito dell’¶keito di Quaestio II.3.48.18
ss.), in parte direttamente noti, come è il caso dello pseudoaristotelico De
mundo che or ora abbiamo citato come precedente importante della discussione alessandrista.
Quanto al De mundo, non solo, come si è visto, nozioni ivi presenti,
quali “natura divina” e “potere” attivo (dÊnamiw) che tale natura eserciterebbe sul mondo corruttibile”, entrano in Alessandro nell’uso corrente e regolare. Si riscontra almeno un altro, più preciso e caratteristico portato di questo trattato, l’uso cioè dell’insolito verbo épolãuv, che da De
mundo 397b 28 arriva in Quaestio II.3. 48.5.373 Tale ripresa è un aiuto importante per l’interpretazione, come avremo modo di mostrare esaminando la Quaestio.374
10. La composizione dei corpi animati in Aristotele
De generatione animalium
La riflessione, che informa la Quaestio II.3, su quale sia l’azione della ye€a
dÊnamiw nella formazione dei viventi trova riscontri in Aristotele in un
371
372
373
374
Cfr. Arist. Phys. VIII.255b 30-1: éllå kinÆsevw érxØn ¶xei, oÈ toË kine›n oÈd¢ toË poie›n, éllå toË pãsxein, e ad loc. Simpl. e Alex. ap. Simpl. 1218.20-1219.11; supra, pp.141-4.
Cfr. ≤ toË ˜lou fÊsiw in Arist. Metafisica XII.10. 1075a 11.
Il parallelo è stato evidenziato da Moraux (1967.1), p. 162 s.
Cfr. infra, pp. 184-6.
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ambito apparentemente molto diverso di speculazione: quello del De generatione animalium.
È qui infatti che troviamo in Aristotele suggestioni, in parte ravvicinabili a quelle della Quaestio, relative a una causa che intervenga dall’esterno nella formazione del vivente e in particolare nella costituzione dell’uomo. Aristotele accenna infatti, seppure fugacemente, ad un’affinità fra
calore pneumatico vitale e la materia astrale: già questo poteva costituire
un punto di partenza per sviluppare, come fa Alessandro, il tema della
causalità celeste nella formazione degli organismi animati.375 In questo
modo, in Alessandro, sul tema della dÊnamiw divina, causa non solo dei
fenomeni sublunari ma della costituzione stessa dei corpi naturali, si innesta la spinosa questione dell’origine dell’anima negli organismi viventi,
in particolare nell’uomo.
Tali, le potenzialità lasciate disponibili da Aristotele. Di fatto, numerosi indizi lessicali confermano che Alessandro connette l’elaborazione dei temi e dei testi fin qui considerati con la discussione sull’origine dell’anima nel
libro II del De generatione animalium.376 Particolarmente evidente a livello
lessicale, ha una sua importante fortuna nel corpus alessandrista la locuzione noËw yÊrayen, che in Aristotele compare solo una volta, in posizione
tutt’altro che enfatizzata, in De generatione animalium II (736b 28).
Lì, nel cap. 3 (736a 24 ss.), Aristotele si domanda se l’anima si immetta nel vivente dall’esterno, o preesista, per esempio, nel seme paterno. Dopo una discussione piuttosto lunga e articolata, Aristotele conclude che, mentre il resto dell’anima si produce direttamente nel corpo,
a seconda della qualità, più o meno pura e adatta, della materia, solo
l’intelletto è divino e viene “da fuori” (yÊrayen). Questa dell’ “intelletto da fuori” (noËw yÊrayen) è peraltro una delle dottrine più controverse di Aristotele. I suoi sviluppi nel corpus alessandrista, in particolare nel De anima e nell’opuscolo De intellectu,377 sono in assoluto l’a375
376
377
Aristotele, De generatione animalium 736b 35 - 737a 1.
Uno di questi indizi è la ripresa, da De generatione animalium II.3. 736b 16, 17, 20, del verbo
§gg€nomai, “ingenerarsi”, ricorrente in Quaestio II.3 (48.9, 48.14, 48.23, 49.15): Alessandro
non lo riferisce direttamente al noËw, bensì lo riferisce alla dÊnamiw divina, che è causa fra l’altro dell’anima razionale negli esseri che ne sono dotati; analoga ripresa trova proupãrxv, che
si trova contrapposto a §gg€nomai in entrambi i testi (GA II.3 736b 21, Quaestio II.3. 48.23);
senza dire che anche il termine dÊnamiw è centrale in entrambi i testi, sia pure con implicazioni molto diverse, e in Alessandro sicuramente più complesse.
Alessandro riprende, con rinnovato interesse, la locuzione yÊrayen, in riferimento alla parte
superiore dell’intelletto, nel suo De anima (90.20 s., 91.2); con qualche differenza, la dottrina
è ripresa nel De intellectu attribuito ad Alessandro (Mantissa II. 106.18-113.24 Bruns) 112.5
ss. A quanto sembra, l’opuscolo porta traccia di una preoccupazione per la dottrina del noËw
yÊrayen secondo la sua interpretazione precedente l’autore: questi infatti cita la dottrina precedente, per poi attaccarla in 113.12 ss.
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spetto dell’esegesi di Alessandro che ha suscitato, dal medioevo al rinascimento, agli studi più recenti, le discussioni più vivaci.378 Senza volere entrare nel merito, è però opportuna una semplice osservazione: Alessandro negli scritti sulla provvidenza non sembra interessato al problema specifico dell’origine dell’intelletto, come distinta da quella del resto dell’anima. Lascia tuttavia intravedere nei suoi precursori, forse nella generazione che lo aveva preceduto, un interesse particolarmente attento a questo riguardo.379 Dal De generatione animalium (cap. II.2)
Alessandro sembra invece riprendere alcuni termini della generale discussione sulla costituzione dell’anima dei viventi: quando i composti
sono veri composti, dice la Quaestio II.3, non cioè semplice giustapposizione di corpi semplici, ma esito di un temperamento (krçsiw), essi
sono migliori, dotati di una più alta perfezione (teleiÒtera) rispetto ai
corpi semplici.380 Possono essere pertanto dotati di anima:381 la materia vivente più pura, dice, è quella nella quale prevale il fuoco, l’elemento
più puro, le cui parti sono più sottili; la meno pura, è la materia dalle
parti più spesse, cioè quella della terra. Gli organismi nei quali prevale
la terra, hanno pertanto forma (e dunque anima) meno compiuta; così,
progressivamente, più prevale il fuoco, più l’organismo può essere partecipe di un’anima perfetta: non solo nutritiva, non solo sensitiva, ma
anche razionale. Così, la Quaestio riprende da De generatione animalium e precisa ulteriormente la descrizione di quale debba essere la materia vivente, per accogliere un’anima migliore.
A sua volta, la teoria degli elementi semplici, fuoco, aria, acqua,
terra è presa in considerazione nella Quaestio II.3 in connessione diretta con quella della loro costituzione a partire dalle contrarietà tangibili (èpta‹ §nanti≈seiw), e in questo il testo di riferimento è chiaramente la prima parte del libro II del De generatione et corruptione.
Se ne è già detto parlando della materia, e se ne dirà ancora a proposito della Quaestio II.3.
378
379
380
381
Cfr. Sharples (1987), p. 1204-1214.
Cfr. Quaestio II.3. 48.18-22, e l’interpretazione che qui se ne propone infra, cap. IV, § 3,
pp.188-191.
Cfr. anche Alex. De anima 8.8-12. L’espressione teleiÒtera (lett., “più compiuti”, “più perfetti”), rimanda all’idea che esistano vari livelli di perfezione, diversi a seconda degli esseri, e
impartiti da un unico principio superiore (in questo caso, la dÊnamiw divina). È un tema presente in qualche modo in Aristotele (cfr. Met. XII.10. 1075a 11-25, 1076a 3 s.) e poi nel peripato da Teofrasto in poi (che vi accenna in Metafisica, passim e in part. in 6a 1 ss., 8a 3 ss.); si
trova in De mundo 6; è precisato in Quaestio II.3. 48.23-49.14; ed è ripreso, dopo Alessandro,
da Plotino. Cfr. Sharples (1994), p. 178 e n. 43.
Sulla formazione e la natura dell’anima in Alessandro, la letteratura secondaria è relativamente cospicua. Cfr. la sintetica rassegna in Sharples (1987), p. 1202-1204.
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Ciò che qui importa avere evidenziato, è che l’attenzione con la quale Alessandro lesse ed elaborò i testi di Aristotele e della tradizione aristotelica sopra citati è testimoniata, nelle Quaestiones sulla provvidenza, non tanto da aperte citazioni, ma da implicite, ancorché precise, tracce lessicali.
11. Tre citazioni esplicite
Nel De providentia invece Alessandro cita espressamente almeno tre luoghi di Aristotele. Poiché tali riferimenti, così diretti ed espliciti nel trattato maggiore, soggiacciono evidentemente a tutta quanta la dottrina della provvidenza in Alessandro, dunque anche alle Quaestiones sulla provvidenza, può essere utile esaminare quali siano questi testi, e in che modo vengano chiamati a confermare la dottrina della provvidenza elaborata dopo Aristotele all’interno della scuola.
Nell’ordine di apparizione, la prima è: ênyrvpow går ênyrvpon
gennò ka‹ ¥liow.382 È un aforisma ricorrente in Aristotele, ênyrvpow
ênyrvpon gennò,383 che in questa forma allargata, includente “anche il
sole” (ka‹ ¥liow) si trova solo una volta, in chiusura di quel passo di Fisica II nel quale Aristotele pone le forme naturali e materiate come oggetto
di studio della fisica - luogo in cui peraltro il senso della sua collocazione
è tutt’altro che chiaro.384 In ogni caso è evidente che il contesto è del tutto diverso da quello nel quale Alessandro lo cita. Anche nel perduto commento alla Fisica, Alessandro, come sappiamo da Simplicio, ricavava come implicita in questo aforisma, nonostante l’estraneità del contesto, una
teoria della relazione fra mondo celeste e mondo sublunare.385
382
383
384
385
La citazione è in De prov. p. 138.19 Zonta (tr. 139.23).
Fisica II.2, 194b 13. Cfr. su altre occorrenze Moraux (1942), p. 38 n. 2; cfr. anche Donini (1971)
p. 80 e n.1.
Così spiega Simplicio ad loc. 306.30-307.3: “(Aristotele) mostra che le forme naturali sono materiate, dal fatto che anche le loro cause sia prossime sia lontane sono esse stesse materiate. Infatti la causa generatrice prossima dell’uomo è l’uomo, che è egli stesso materiato, e anche la
causa efficiente ultima di tutto ciò che si genera per natura, il sole visibile, è anch’esso forma
materiata”. Si noti come tale interpretazione, di per sé plausibile, non emerga affatto come ovvia dal testo di Aristotele. Procede Simplicio citando apertis verbis Alessandro: “E in generale, dice Alessandro, ciò che si genera per natura sembra generarsi o da ciò che gli è uguale o
per forma o per genere, o nel complesso da un’attività. Così dunque le cose che si generano
sono generate dal sole come da un’attività: sono infatti scaldate e raffreddate dalla sua attività.
È chiaro poi che anche ciò che è prodotto dall’arte è prodotto da un’attività, non però da un’attività naturale” (ibid. 307.3-8).
“Alessandro - annota infatti ad loc. Simplicio, ibid. 307.9-12 - interpreta anche ciò che viene detto qui come indizio che per Aristotele la generazione delle cose di quaggiù è connessa al corpo
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La seconda citazione, più lunga, è tratta dal libro I del De caelo, e si
conclude così:
da questo (scil.: dal corpo celeste) dipendono l’essere e la vita per gli altri
esseri, per alcuni in modo più preciso, per altri in modo indistinto.386
Si vede qui, osserva Alessandro, che già Aristotele connetteva ai moti celesti il movimento e il mutamento nei corpi di quaggiù.
Come per la citazione precedente, anche per questo passo del De caelo possiamo cercare in Simplicio una traccia, fosse anche solo un’eco lontana, del perduto commento di Alessandro ad loc.
Iniziando a commentare il lemma che comprende il passo citato,
Simplicio nomina Alessandro (Simplicio, in De caelo 287.19 ss., cfr. anche 290.1 ss.). Dunque è possibile, anzi probabile che Simplicio segua almeno nelle linee generali l’interpretazione di Alessandro, tanto più che in
seguito il nome di Alessandro non viene più menzionato, come invece sovente avviene, quando Simplicio vuole segnalare, almeno da un certo punto in poi, il suo dissenso dal precedente esegeta.
Si può dunque supporre, pur senza affermarlo con certezza, cbe Simplicio segua Alessandro quando trascrive il lemma apportandovi una modifica: “causa dell’esistenza degli esseri soggetti a generazione è il movimento del corpo celeste” (in De caelo 288.27-8). La differenza è leggera,
certo, ma va precisamente nella direzione della dottrina abitualmente tenuta da Alessandro: rispetto ad Aristotele, l’esegesi sposta cioè l’accento
dal corpo celeste in sé al suo movimento Per Alessandro in effetti la dÊnamiw divina, cui si deve l’azione provvidenziale, è prodotta non precisamente dal corpo celeste, bensì dal “movimento del corpo divino”.387
L’ultima citazione, da Metafisica XII, è: “la prima sostanza muove il corpo celeste in quanto è desiderata, e tramite questo [primo] mosso muove le
altre cose”.388 Nessuna fonte greca superstite, purtroppo, segue Alessandro
così da vicino da poterci conservare traccia percepibile del suo commento a
386
387
388
divino, e non ne è separata” (notiamo peraltro che “è connessa” è detto sun∞ptai, non a caso
dalla stessa radice di sunafÆ, che pure si riferisce al rapporto fra mondo sublunare e regione
dei principi in Teofrasto, Metafisica, 4a 9-10). Il preciso peso teorico che come si vede Alessandro accordava a questa frase rende ragione, con tutta probabilità, della sua presenza anche in
chiusura del commento di Averroé, largamente ed espressamente derivato da quello di Alessandro, ora perduto, in Metafisica XII 1072b 30: “il principio di ciò che è generato dal proprio
simile non è solo il suo simile, ma anche il sole, e l’eclittica. È per questo che Aristotele dice che
l’uomo è generato dall’uomo e dal sole” (Averr. in Met. XII, c. t. 40, 1625.8 s. Bouyges).
De caelo, I.9.279a 28-30. La citazione si trova in De prov. p. 158.2 s., tr. 159.1-3 Zonta.
Cfr. p. es. Quaestio II.3. 47.28, 30, 50.23-4, Quaestio II.19. 63.25, Quaestio I.25. 41.15; cfr. inoltre De intellectu = Mantissa 113.8 s.
Met. XII.7.1072b 3-4, citato da Alex., De prov., p. 158.7-9 Zonta. Come già osservato da Ruland (1976) ad loc., l’espressione “tramite questo mosso” conforta il dativo neutro kinoum°nƒ
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questo libro. Dobbiamo rivolgerci al commento grande alla Metafisica di
Averroé. Per ammissione di Averroé stesso, il suo debito da Alessandro è tale che, se già preparando il suo commento alla Metafisica Alessandro dava
di questo passo una lettura in chiave provvidenzialistica, ci sono buone speranze che di tale lettura conservi traccia il commento di Averroé. E in effetti una tale lettura sembra riecheggiarvi: dicendo che il primo motore “muove le altre cose per mezzo del mosso”, Aristotele, secondo Averroé,
Intende che questo primo motore, senza essere mosso, impartisce movimento al primo oggetto da esso mosso, così come l’amato muove il suo amante
senza che l’amato si muova; a ciò che sta sotto al primo corpo che egli muove,
impartisce movimento per mezzo del primo mosso. Per primo mosso, intende il
corpo celeste; per tutti gli altri mossi, ciò che sta sotto il primo corpo, cioè tutte
le altre sfere e ciò che è soggetto a generazione e corruzione. Infatti il primo cielo è mosso da questo motore per mezzo del desiderio che ha per esso, di farsi simile a lui secondo la sua capacità così come l’amante è mosso ad imitare389 il suo
amato. Gli altri corpi celesti sono mossi dal loro desiderio per il movimento del
primo corpo. È per questo che tutti gli astri390 hanno un doppio movimento: da
est a ovest e da ovest a est. Quanto ai corpi che stanno sotto di essi, cioè sotto le
sfere, (il motore) li muove per mezzo di questi movimenti. Produce generazione
e corruzione per mezzo dei doppi movimenti391 opposti che si trovano in essi e
continuità per mezzo del movimento unico eterno.392
Si vede qui che, commentando questo lemma Averroé espande ampiamente le implicazioni della dicitura aristotelica, sulla base della dottrina del doppio movimento dei cieli di De generatione et corruptione
II.10; dottrina la quale, si può ulteriormente notare, non è assunta con citazione letterale diretta, ma mediatamente, in conformità all’interpretazione che, come sappiamo da Filopono e da uno degli opuscoli conservati in greco, ne aveva dato Alessandro.393 Il dubbio che il senso ultimo
di un tale ampliamento sia quello di istituire una connessione del passo
389
390
391
392
393
che è la lezione meglio attestata nei manoscritti (E, A, J, T) vs. Bekker (kinoÊmenon), e vs. Ross
(seguito da Tredennick) il quale, emendandolo in kinoÊmena (e intendendo tîlla come soggetto) elimina lo specifico riferimento al corpo celeste.
Oppure, secondo un manoscritto, “è mosso verso l’amato”, cfr. Genequand (1984) ad loc., che
segue tale lezione.
La dicitura lascia perplessi. Ci si attende infatti che si dica che non tutti gli astri, ma solo i sette astri erranti hanno doppio movimento.
Cfr. diplØ k€nhsiw in Alex. Quaestio I.25. 40.30 - 31, cit. supra, p. 157.
Averr. in Met. XII, c. t. 37, 1606.8-1607.2. Il commento di Averroé al testo 37 dipende molto
strettamente da quello di Alessandro, come appare espressamente in 1601-2, 1605 Bouyges
(frammenti Freudenthal nn. 29 e 30).
Cfr. Filop. in De gen et corr. 291.19 s.; Quaestio I.25. 40.23-41.4; supra, p. 159.
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con la dottrina già alessandrista, poi averroistica della provvidenza è pienamente confermato dalla prosecuzione del commento in Averroé. Dice
infatti di seguito:
Da questo viene la provvidenza di Dio per tutti gli enti. Egli li conosce per
specie, perché non c’è in essi la possibilità di conoscerli per numero. Quanto a
coloro che ritengono che la provvidenza di Dio si estenda su ogni singolo individuo, la loro opinione in un senso è corretta, in un altro non è corretta. È corretta in quanto nessuno in effetti ha una condizione sua peculiare, che non appartenga a una classe di questa specie. E se è così, in questo senso è corretto dire che
Dio provvede agli individui; ma la provvidenza per un individuo, della quale nessun altro partecipi, è qualcosa che non pertiene alla bontà divina.394
Abbiamo qui evidentemente una lettura in chiave monoteistica della dottrina della provvidenza come governo divino sulle specie, e solo indirettamente sugli individui: dottrina di Alessandro, non di Aristotele.
Anche per quest’ultimo aspetto, pertanto, è altamente probabile che
Averroé dipenda da Alessandro, e che già questi avesse trovato occasione per un excursus sulla provvidenza nel passaggio in questione.
È da notare comunque che in queste citazioni letterali Alessandro
rafforza l’esposizione della propria teoria valendosi di frasi aristoteliche
isolate estrapolate dal loro contesto. Da tali frammenti, una teoria generale può essere ricostruita solo come implicita, e solo attivando fra luoghi
diversi del corpus aristotelico connessioni e raccordi che non necessariamente avranno fatto parte delle intenzioni originali di Aristotele. E anche
questo ci dice qualcosa sul metodo usato da Alessandro nel costruire le
proprie, aristoteliche dottrine. D’altra parte, le tracce dell’esegesi alessandrista ai relativi passaggi nei commenti perduti, e quelle del De providentia conservato solo in arabo, mostrano come tale esegesi e costruzione teorica siano state per Alessandro dottrina stabile, mantenuta o perlomeno non contraddetta dall’esegeta su tutto l’arco della sua produzione.
394
Averr. in Met. XII ibid. 1607.3-9.
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Capitolo IV: “La Quaestio II.3”
1. Introduzione395
Abbiamo visto sinora come si definisca la provvidenza per Alessandro;
quale ne sia il soggetto agente, quale l’oggetto e beneficiario. Ma come si
spiega, nel dettaglio, l’intervento dell’uno sull’altro, del corpo celeste su
quello sublunare?
Definire e descrivere questo intervento in una teoria fisica della relazione fra le due parti del cosmo costituisce il quadro problematico generale nel quale si inserisce la Quaestio II.3.
Si tratta di un testo relativamente breve, denso e travagliato, ma in sé
conchiuso. La struttura, pur complessa, ha infatti un andamento circolare: la parte finale, con l’ipotesi ardita ed inedita che vi si introduce sul rapporto fra moti celesti e formazione dei corpi elementari, è preparata sin
dall’inizio con un uso attento e sfumato delle particelle, delle antitesi e
delle disgiunzioni, delle costruzioni ipotetiche e dei modi verbali.
L’uso reiterato di figure come l’anastrofe e l’endiadi solleva il tono
stilistico e giustifica, almeno per questo opuscolo, la generale valutazione
di Bruns sulle Quaestiones: “scribuntur talia ut edantur” (Praef., p. VII): è
un testo scritto per la pubblicazione. Tuttavia la destinazione primaria
sembra interna alla scuola o comunque specialistica, perché la compren395
Sulla Quaestio II.3 cfr. anche quanto già osservato qui supra, §§ I.3 e III.9.1; Fazzo (1988) (redazione italiana del “Mémoire” di D.E.A., Paris, Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, 1988, rel. H. Wismann, cui si accompagnava una prima riedizione del testo greco), FazzoWiesner (1993), Fazzo-Zonta (1999) ad loc. Citerò in questo capitolo gli articoli monografici
di Donini (1996), Moraux (1967), Bruns (1890) e la traduzione annotata di Sharples (1992).
Quello di Donini non solo è il saggio più recente sulla Quaestio, ma è l’unico sinora che abbia
posto in modo approfondito e globale il problema dell’interpretazione della Quaestio e delle
sue articolazioni (non solo dunque della sua comprensione letterale, cui prevalentemente erano dedicati gli studi di Bruns [1890] e Moraux [1967.1]). L’interpretazione fondamentalmente diversa che qui si propone del testo e delle sue successive soluzioni, in particolare dell’ultima, è comunque in qualche parte debitrice delle perplessità che da Donini in quell’ambito sono state sollevate.
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sione presuppone una certa familiarità con le dottrine circolanti nella
scuola stessa e con la discussione problematica che esse suscitavano.
1.1. Il lessico della Quaestio II.3. Affinità significative con altri scritti di
Alessandro.
La peculiare terminologia adottata merita qualche considerazione.
Nella Quaestio Alessandro chiama “divino” (tÚ ye›on s«ma) il
corpo celeste, cioè l’insieme delle sfere celesti,396 mentre altrove e più
spesso lo chiama “corpo dal moto circolare” (tÚ kukloforhtikÚn
s«ma). Questo non è casuale. Alessandro indaga sugli effetti del corpo celeste in quanto esso è “divino” e in quanto la sua stessa dÊnamiw
è “divina”: la causalità che ne deriva sul mondo sublunare si connota
come provvidenziale, identificandosi con l’operato della ye€a
prÒnoia (48.22).
Il corpo sublunare, per contrasto, è detto “corpo soggetto a generazione e corruzione”, e insieme è detto tÚ geitni«n aÈt“ s«ma, letteralmente:
corpo “adiacente ad esso”, “limitrofo ad esso”, cioè al corpo divino. Ci si riferisce innanzitutto alla parte alta dell’atmosfera - la sfera del fuoco dei Meteorologica di Aristotele - che più direttamente viene condizionata dai fenomeni celesti; ma per estensione si riferisce all’intero corpo sublunare, seppur in gradi diversi secondo la prossimità (katå tØn geitn€asin, 49.1). Il
termine geitni«n, che Alessandro riprende per l’appunto dall’esordio dei
Meteorologica, implica un riferimento al presupposto di fondo di quel trattato: le due parti del cosmo, essendo limitrofe e confinanti, possano agire
una sull’altra.397 Dunque la nozione di geitn€asiw è importante perché fisicamente consente alla dÊnamiw della parte inalterabile del cosmo di esercitarsi sulla parte inferiore e alterabile del cosmo.
Centrale pertanto è il ruolo della dÊnamiw, la cui azione tiene unite
e fa sussistere le due parti.398 Espresso o sottinteso, il termine dÊnamiw è
soggetto logico, e spesso anche grammaticale, di buona parte della Quaestio. In tutte queste sue occorrenze, va inteso in senso attivo, come pote396
397
398
Anche le sfere individualmente intese (otto, secondo Quaestio I.25.40.23-26) sono “corpi divini” (tå ye›a s≈mata); di qui la possibilità di trovare l’espressione sia al singolare che al plurale (tÚ ye›on s«ma, tå ye›a s≈mata). In entrambi i casi il sostantivo può essere sottinteso
(tÚ ye›on, tå ye›a). Sul carattere divino del corpo celeste, cfr. per es. Aristotele, De caelo, I.3.
270b 5-9, Met. XII.8. 1074b 8-10.
Cfr. in part. Meteor. 338b 21 e qui supra, p. 162 s. Cfr. anche De prov. 146.16-19 Zonta (tr.
147.17-20): “il corpo materiale soggetto al divenire (…) si altera e muta, perché è in qualche
modo contiguo per natura al corpo celeste: infatti non vi è spazio vuoto tra di essi.”
Cfr. supra, p. 155 s. e n. 330 p. 157.
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re che viene dall’esterno e che si esercita sull’altro da sé.399 In quanto tale, si trova contrapposto stabilmente, nella Quaestio, al concetto di fÊsiw. “Natura” propria di ogni essere è infatti il modo di essere e il principio di mutamento connaturato, insito nei corpi (“principio del movimento e della quiete nel corpo cui appartiene primariamente, in sé e non
per accidente”400). Per questo Alessandro insiste nel corso di tutta la
Quaestio, ma soprattutto nell’esordio, sull’aggettivo “propria” riferito alla natura di ogni corpo (ofike€a •kãstou t«n fusik«n svmãtvn, 47.32)
e sul fatto che la natura appartiene al corpo “in sé” (kay’ aÍtÒ, 47.33),
“per primo” (pr≈tƒ, 47.33) e “non per accidente” (mØ katå sumbebhkÒw, 47.33-48.1) cioè appartiene a quel corpo, del quale è natura,
prima che ad ogni altra cosa, e non viene ad esso accidentalmente, da fuori: proprio al contrario della ye€a dÊnamiw, che in quanto ye€a, divina,
viene dalla parte divina del cosmo, quella superiore.401
Siffatta terminologia sembra peraltro accomunare l’opuscolo alla
parte più costruttiva e meno dialettica del trattato maggiore di Alessandro De providentia (a quanto si può giudicare dalla tradizione araba): anche lì sono numerosi i rimandi alle sfere celesti come “divine” e al loro
potere attivo, divino e provvidenziale nei confronti del mondo sublunare, mentre quest’ultimo si caratterizza come “contiguo” al corpo celeste,
399
400
401
Cfr. supra, nn. 289, 346.
Alessandro adotta stabilmente questa definizione della fÊsiw propria di ogni essere, che Aristotele Phys. II.1.192b 20-23 ricava dall’analisi della differenza fra i corpi naturali e quelli prodotti dall’arte. In Aristotele tuttavia questo è solo uno - per quanto privilegiato - fra i numerosi significati possibili di fÊsiw: cfr. la rassegna di Met. V.4. 1014b 16-1015a 19, e Bonitz Index Aristotelicus s. v.
Al tempo stesso, l’insistita determinazione “propria di ogni essere” serve a tenere conto della
duplicità, in Alessandro, dei sensi di “natura” (in Aristotele ce ne sono di più, cfr. la n. prec.):
natura si intende sia in senso individuale e dunque come forma, sia in senso generale, come
forza cosmica. Alessandro distingue i due sensi accostando il termine fÊsiw ad altri: qui nell’esordio della Quaestio II.3 (47.31-48.1) la natura individuale compare accompagnata da una
precisa definizione; essa per Alessandro è identica all’ e‰dow ovvero all’ oÈs€a del corpo, a ciò
in virtù di cui ogni cosa “è ciò che è in atto” (48.4-5) e dunque alla “perfezione” di ogni singolo corpo (teleiÒthw in 48.12, cfr. l’aristotelico §ntel°xeia). Il secondo senso di “natura”
ora delineato è espresso nella Quaestio II.3 con l’endiadi (difficile da rendere, peraltro, in italiano, cfr. infra n. 420) dÊnam€w te ka‹ fÊsiw: è il senso di natura cui si riferisce in modo figurato il passo del commento alla Metafisica, p. 104.3-10, in Arist. I.9. 991a23 ss., dove la natura è un’ “arte divina”, ye€a t°xnh). Questo sembra in parte contrastare la tendenza, che abbiamo attribuito ad Alessandro nell’introduzione, ad attribuire ai termini un significato univoco; ma forse l’eccezione conferma la regola - o meglio, in questo caso, la tendenza generale:
nella Quaestio l’opposizione fra dÊnamiw e fÊsiw diventa opposizione fra una prima e una “seconda natura” (49.15) e per questo si può dire che Alessandro, quando si chiede se la ye€a dÊnamiw (che è natura in senso universale) generandosi “dentro” ai corpi divenga o no essa stessa la loro natura individuale, si interroga sulla possibilità di far convergere, se non addirittura
unificare, questi due sensi di “natura”.
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“in contatto” con esso.402 Né certamente è casuale il ripetuto afferire dei
due testi a una stessa e così singolare area semantica, quella cioè dei rapporto fra il divino e ciò che con il divino fisicamente è “in contatto”. Infatti la finalità di fondo è comune ai due scritti, seppure a livelli diversi
(qui più specialistico, lì più divulgativo e polemico): riallacciare alla dottrina fisica della relazione fra cielo e terra il più recente nucleo dottrinale che la scuola sta elaborando sulla provvidenza.
Altre peculiarità lessicali della Quaestio richiedono per essere osservate il contatto diretto con il testo greco, ed è allora più difficile fare il
confronto con il trattato conservato in arabo.
In particolare, la differenza fra dÊnamiw e fÊsiw è efficacemente sottolineata da locuzioni e da forme verbali che parlando della dÊnamiw insistono sul suo “prodursi dentro” (§gg€nomai, 48.9-10, 48.14, 48.23,
49.15), sul suo “prodursi in più” ed aggiungersi (prosg€nomai) “da fuori” (¶jvyen), in contrapposizione al preesistere (pro#pãrxein) dei corpi che esistono “semplicemente” (tå èpl«w) e che sono “semplicemente corpi” (tå èpl«w s≈mata), privi in sé della ye€a dÊnamiw, ma già dotati di una natura propria.
È interessante notare che simili verbi composti di g€gnomai compaiono sovente anche nel De anima, riferiti all’anima e alle sue facoltà.
Queste infatti in qualche modo sopraggiungono e si generano dentro al
corpo vivente, che diventa più perfetto “per aggiunta” (anche katå prosyÆkhn è locuzione ricorrente) di facoltà successive. Per quanto riguarda il successivo cumularsi e perfezionarsi delle facoltà, il verbo più ricorrente è soprattutto prÒsginomai; per quanto invece riguarda il rapporto
fra anima e costituzione fisica, il verbo più ricorrente e caratteristico nel
De anima è §pig€nomai, che traduce in forma sintetica, ma con lo stesso
significato, il più raro ma pure ricorrente gennãomai §p€ + dativo. Quest’ultimo, come in genere il verbo gennãv, attiene specificamente l’ambito della riproduzione naturale.
Non a caso Alessandro ha particolarmente presente e cita volentieri
l’aforisma aristotelico ênyrvpow går ênyrvpon gennò ka‹ ¥liow.403
La causa della riproduzione, come dice l’aforisma, è duplice, viene cioè
sia dal genitore che dal cielo. Il verbo gennãv usato al passivo (gennçsyai), senza complemento di agente o di causa efficiente espresso, può
dunque sottendere il riferimento all’uno o all’altro tipo di causalità. Nel
402
De prov. 146.11-150.3, tr. 147.11-151.3; anche il rapporto fra le facoltà dell’anima, e fra queste e
la costituzione fisica del corpo è descritto in modo molto simile fra Quaestio II.3. 48.15-18, 49.4
ss. e De prov. 154.2-15, tr. 155.4-17.
403
Cfr. De prov., 138.19; supra, p. 171; infra p. 193 n. 432.
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De anima Alessandro non approfondisce la questione e si concentra invece quasi per intero sulla causa materiale, sull’ §k t€now: qual’è la costituzione del corpo che ha l’anima? Vuole infatti mostrare, contro i platonici, che fra anima e corpo c’è una relazione, e che dunque non è vero che
le proprietà del corpo “sono più divine e maggiori di qualsiasi facoltà corporea”.404 Lavorando sulla causa materiale, deve considerare insieme anche quella formale (la materia infatti non si può esaminare senza la forma); mentre la causa finale e quella efficiente restano estranee all’orizzonte generale di questo trattato.
Questo non significa che Alessandro dia peso a un solo tipo di causa.
Al contrario, la dottrina aristotelica delle quattro cause è uno dei pilastri
dell’aristotelismo alessandrista. È a questa dottrina che l’esegeta fa correntemente ricorso per analizzare definizioni, relazioni e responsabilità,
come si vede anche nel cap. 3 del De fato405: lì Alessandro, per capire che
cosa sia il destino, passa in rassegna tutti i tipi di causa e ne conclude per
esclusione che il destino deve essere una causa efficiente, anzi la causa efficiente di tutto ciò che avviene secondo natura - così che diventano uguali natura e destino. Tutto questo presuppone un ruolo centrale e una configurazione piuttosto rigida della dottrina delle quattro cause.406
Eppure il concentrarsi di Alessandro sulla causa materiale ha generato quello che considererei semplicemente un malinteso, l’idea cioè
che l’anima, secondo il De anima di Alessandro, non abbia altra causa
che la costituzione corporea e ne derivi semplicemente, quasi meccanicamente.407 In realtà, come vedremo fra breve, la Quaestio II.3 attesta non solo una presa di posizione precisa sulla provenienza del principio psichico, ma anche una riflessione pregressa e già piuttosto avanzata, su di un problema che aveva preoccupato la scuola e doveva ancora essere arduo per il maestro stesso: è il problema della causa, e precisamente della causa efficiente del venire ad essere dell’anima. Certo
Alessandro trovava un terreno più battuto esplorando l’altra direzione, per l’appunto quello della causa materiale: la fisiologia medica poteva ormai dare indicazioni molto precise su quali prerogative siano
proprie dei diversi ordini di viventi, e su come esse consentano, nel concreto, le attività sensoriali ed intellettive.
D’altronde già Aristotele era stato molto vago sull’origine dell’anima, in particolare quando aveva parlato dell’intelletto che viene “da
404
405
406
407
Alex. De anima 2.17 s.
De fato, 167.2-16.
Cfr. anche supra, cap. II, § 5.
Cfr. Moraux (1942) pp. 30-34, e contra Accattino (1995).
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fuori” (De generatione animalium II.3 436b 19, 28). Il concetto di noËw
yÊrayen infatti, proprio per la sua concretezza (letteralmente: “da fuori della porta”), è evidentemente metaforico e dunque elusivo (tanto è
vero che Alessandro in questi contesti usa ¶jv o ¶jvyen, sia nel De anima che nella Quaestio II.3). Non è dunque strano che nel De anima
Alessandro non approfondisca in che modo l’anima e le sue facoltà si
“generino dentro” e si aggiungano, né dica di dove vengano, anche se
non solo noËw yÊrayen ma tutte quante le espressioni menzionate
(prosg€nomai, §pig€nomai, gennãv §p€...) evocano una provenienza
da fuori. Un collegamento troppo diretto fra il trattato e la parte centrale della Quaestio potrebbe essere arbitrario. Ma la vicinanza lessicale fra i due scritti, l’uso simile che essi fanno dei composti di g€gnomai
per descrivere il sopraggiungere, l’uno della dÊnamiw celeste, l’altro
dell’anima, non può essere casuale, tanto più che come vedremo l’unico vero desideratum di scuola che vincola Alessandro nello svolgimento della Quaestio è l’esigenza di far provenire l’anima e in particolare
l’intelletto dall’azione, in qualche modo esterna o proveniente dall’esterno, della ye€a dÊnamiw.
È altresì da notare che invece nella sezione finale, dove si prospetta
la possibilità di identificare dÊnamiw e fÊsiw, il verbo che ha per soggetto la dÊnamiw non è più un verbo composto, bensì il semplice verbo g€gnomai nel senso predicativo di “divenire”: la dÊnamiw diviene infatti la natura stessa e la forma dei corpi, perché è causa del loro generarsi e dell’essere ciò che sono.
Stando così le cose, diventa particolarmente importante non semplificare la traduzione dei verbi composti, né alterarla senza far caso ai prefissi, né a fortiori, intervenire sul testo greco senza necessità, manomettendo nel dettato o anche solo nel senso dettagli che l’autore sembra avere così attentamente calibrato.
1.2. Ye€a dÊnamiw e fÊsiw: la struttura generale della Quaestio
Il problema di fondo della Quaestio, enunciato e delucidato in apertura, poi ripreso e riesaminato in chiusura, è quello del rapporto fra dÊnamiw e fÊsiw. Sono concetti in qualche modo antitetici; eppure l’autore fin dall’inizio contempla la possibilità di farli convergere: sono o
non sono identici? 408
408
Cfr. supra, n. 401.
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Quasi a preparare ed agevolare questa possibilità, Alessandro, dopo
aver definito in modo specifico la natura propria di ogni corpo, parla anche della dÊnamiw come di una “natura” e la chiama anzi, con reiterata
endiadi, dÊnam€w te ka‹ fÊsiw (48.4, 49.24).
Invece, l’ipotesi presentata per prima è la più lontana da una tale
identificazione di dÊnamiw e natura: ogni corpo avrebbe la propria fÊsiw
già prima di ricevere la ye€a dÊnamiw, che poi trasmetterebbe agli altri
corpi per contatto.
Si tratta di un’ipotesi chiaramente insoddisfacente, come Alessandro sottolinea, soprattutto in vista del desideratum di cui sopra, di far
provenire in qualche modo l’anima dalla provvidenza e dunque dalla
ye€a dÊnamiw. Per questo una tale spiegazione - peraltro un po’ meccanica - viene messa in discussione, nel modo che è caratteristico di questi opuscoli di Alessandro, e cioè come aporia. L’aporia si pone sotto forma di obiezione; che contributo darebbe in tal caso la dÊnamiw alla presenza dell’anima nei viventi?
Di qui la prima fase di elaborazione del problema: sul presupposto
che la dÊnamiw sia sì natura, ma non quella natura che è propria e primaria in ogni corpo, si dovrebbe ammettere l’esistenza di una prima e di
una seconda natura (deut°ra fÊsiw, 49.15); e si dovrà spiegare nel dettaglio quale relazione esista fra la prima e la seconda.
Tale è l’ipotesi centrale, sviluppata in 48.22-49.27. Essa è così ampiamente articolata, da far ritenere che nel complesso, nonostante le evidenti difficoltà, una tale dottrina sia considerata accettabile da chi scrive,
o sia già in qualche modo conosciuta e accettata all’interno della scuola,
pur forse sotto forma diversa.
Questa ipotesi dottrinale comunque vale principalmente qualora dÊnamiw e fÊsiw non siano la stessa cosa. Ma già dove parla di una “seconda natura”, almeno a partire da 49.15 ss., è possibile che Alessandro ricostruisca le conseguenze dell’ipotesi in esame, per quanto riguarda la formazione dei corpi semplici e di quelli composti, in funzione dialettica,
cioè per evidenziare le perplessità che ne derivano e preparare più efficacemente la soluzione finale:409 dÊnamiw e fÊsiw verranno allora a identificarsi come causa prima e primaria della formazione stessa, del venire
ad essere di tutto ciò che esiste per natura.
Che cosa consente all’esegeta di proporre una tale identificazione?
Che cosa ve lo induce? Sono questioni che si devono porre nel contesto
409
Potrebbe non essere casuale, se è così, che nella redazione breve della Quaestio II.3, attestata
nel MS Ven. 194, dove non compare la soluzione finale, manchi anche la fine della soluzione
precedente, a partire da 48.29, cfr. supra, “Introduzione”, p. 38 n. 51.
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dottrinale della Quaestio e del suo travagliato convogliarsi in fasi successive di elaborazione, come ora vedremo.
2. La posizione del problema nella Quaestio II.3
2.1. L’esordio (47.30-48.1)
Il problema di partenza è posto in due riprese. La prima volta, in termini di dÊnamiw: T€w ≤ (...) dÊnamiw; Quale è la dÊnamiw che il movimento
del corpo celeste esercita su quello sublunare?
[47.30] T€w ≤ épÚ t∞w kinÆsevw toË ye€ou s≈matow ginom°nh dÊnamiw
t“ geitni«nti aÈt“ ynht“ te ka‹ §n gen°sei s≈mati;
[47.30] Quale potere si genera dal movimento del corpo divino nel corpo
mortale e soggetto a generazione ad esso adiacente?
Di seguito, lo stesso interrogativo è ribadito in termini di fÊsiw, in
forma dubitativa, introdotta da îrã ge: questa fÊsiw (ovvero la dÊnamiw
esercitata dal corpo celeste) è o non è diversa da quella che in senso proprio è la fÊsiw di ogni cosa?
L’interrogativo è forte, e richiede innanzitutto che si chiarisca, come
di fatto subito si chiarisce, a quale dei possibili sensi di fÊsiw ci si riferisce: qui come altrove, Alessandro privilegia come senso proprio di “natura” la definizione del secondo libro della Fisica, come “principio del
movimento e della quiete nel corpo cui appartiene primariamente, in sé
e non per accidente”. Ci si chiede dunque se la natura così intesa si identifichi o no con la dÊnamiw che dal cielo si produce quaggiù.
Per comprendere l’orientamento generale del brano, è indizio utile
in 47.31, la locuzione îrã ge. Questa infatti compare anche altrove nelle
Quaestiones di Alessandro e introduce un’interrogativa retorica che aspetta una risposta tendenzialmente negativa: tale è il peso sottile ma sensibile del ge.410
La sua presenza suggerisce dunque propensione per una risposta negativa: no, questa dÊnamiw non sarà un’altra natura, ma si identificherà
con la natura stessa dei corpi naturali.
[47.31] îrã ge êllh t€w §stin aÏth fÊsiw parå tØn ofike€an •kãstou
t«n fusik«n svmãtvn, ∂n érxØn kinÆse≈w te ka‹ ±rem€aw fam°n, ⁄ Ípãrxei
pr≈tƒ kay’ aÍtÚ ka‹ mØ katå sumbebhkÒw;
410
Cfr. più chiaramente Quaestio III.2. 82.4; I.22. 36.1.
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[47.31] Ma è davvero (îrã ge) questa (sc.: la ye€a dÊnamiw) un’altra natura, diversa dalla natura che è propria a ciascuno dei corpi fisici, che definiamo
“principio del movimento e della quiete per il corpo cui appartiene primariamente, di per sé e non per accidente”?
Non si tratta tuttavia di una questione meramente terminologica.
Si tratta invece di stabilire quale sia il reale e concreto apporto della
dÊnamiw alla formazione dei corpi: esistono, questi ultimi già come corpi, quando ricevono l’influsso dei moti celesti? O diventano ciò che sono
per effetto della dÊnamiw?
La prima possibilità, che come si è detto è destinata al superamento,
viene ora prospettata in forma ipotetica, per mostrare le difficoltà che
comporta.
2.2. La dÊnamiw divina come “altra natura” (48.1-5)
[48.1] ka‹ går efi t“ geitni«nti aÈt“ g€netai s≈mati, ≥dh ín e‡h toËto ¶xon ofike€an fÊsin ˆn te §nerge€& s«ma: pçn går s«ma §nerge€& ¯n μ
t«n a èpl«w b t€ §stin μ §k toÊtvn sÊnyetÒn te ka‹ miktÒn, toÊtvn d¢ ßkaston ofike€an ¶xei tinå fÊsin μ ka‹ di’ §ke€nhn §st‹n §nerge€& toioËton.c
[48.1] E infatti se411 [il potere divino] si produce nel corpo adiacente ad esso, tale corpo si troverebbe ad avere già una propria natura e di essere corpo in
atto. Infatti ogni corpo esistente in atto412 o è uno dei corpi semplici413 o è composto e misto di essi e ciascuno di questi possiede una propria natura, oppure an-
a
b
c
411
412
413
48.3 ¯n μ t«n Apelt: ynhtÚn V Bruns
48.3 èpl«w V: èpl«n coni. Bruns
48.4-5 fÊsin μ ka‹ - toioËton V μ secl. Moraux μ - toioËton secl. Bruns
Il periodo ipotetico misto con ka‹ går efi e indicativo nella protasi e ín e ottativo nell’apodosi ricorre anche in Quaestio I.25, 39.20 e in Quaestio III.14, 113.21 s.: siamo in tutti e tre i casi nel campo di speculazioni accentuatamente congetturali, espresse all’ottativo (apodosi), per
le quali si cerca appoggio in una premessa relativamente sicura, espressa all’indicativo (protasi). Infatti la congettura dell’apodosi, che i corpi abbiano già una loro natura a prescindere dal
potere esercitato dal corpo divino, si intende come prima, provvisoria risposta all’interrogativo iniziale posto in 47.31 - 48.1.
48.3 La congettura di Apelt (1893), cfr. n. (a) ad. loc., presuppone un errore di caratteri maiuscoli e di pronuncia nella tradizione manoscritta prima della trascrizione in minuscola.
48.3. Letteralmente, “ogni corpo o è uno di quelli che sono semplicemente corpi, o è composto di essi”. L’interpretazione più facile è in effetti che tali corpi “semplicemente corpi” siano
i corpi semplici. Tuttavia, non sembra opportuno l’emendamento di èpl«w in èpl«n introdotto nel testo da Bruns, di cui alla n. (b) ad. loc. (cfr. Bruns [1890] p. 139, e Sharples [1992]
p. 123-4; esitante Moraux [1967.1] p. 162): anche più oltre, ripetutamente, l’autore parla di
corpi “semplicemente corpi”, si serve cioè non dell’aggettivo, ma dell’avverbio (cfr. 48.22, 27,
30, 49.17), probabilmente non a caso. Il fenomeno mostra infatti che l’interesse di Alessandro
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che grazie a quella [natura e dÊnamiw celeste] è tale in atto.414
Si valuta dunque inizialmente la possibilità che la dÊnamiw sia qualcosa di diverso dalla natura stessa dei corpi, intendendo quest’ultima - si
è detto - come principio intrinseco del movimento e della quiete.
2.3. Trasmissione della dÊnamiw per gradi successivi dal fuoco agli altri
corpi semplici (48.5-18, cfr. De mundo, cap. 6)
Di qui, sarà tratta fra breve la prima, provvisoria conclusione: la provvidenza divina interverrebbe sui corpi unicamente a posteriori, quando sono già formati.
Alessandro fa riferimento innanzitutto ai corpi semplici, e non a caso:
una dottrina importante, dopo Aristotele, era stata formulata proprio a questo riguardo, e con riferimento specifico ai corpi semplici, nel cap. 6 del De
mundo. Tenendo ben presente quel capitolo, continua dunque Alessandro:
[48.5] e‡h d¢ d ín oÏtv pr«ton épolaËon tÚ pËr t∞w toiaÊthw §k toË
verte in questo contesto sui corpi semplici non tanto come tali e cioè non mescolati fra loro, ma
piuttosto come semplicemente corpi, privi cioè di una perfezione superiore, quale è l’anima dei
corpi organici, la quale deriva dalla ye€a dÊnamiw. Quando invece parla più precisamente dei
quattro corpi semplici - fuoco, aria, acqua e terra - in quanto tali e in quanto non mescolati fra
loro, Alessandro si serve della comune espressione tå èplç s≈mata (cfr. 48.15, 49.5, 49.28,
50.16, dove trattasi chiaramente dei quattro corpi semplici). In considerazione di questa sottile ma sensibile differenza fra le due locuzioni, che non sono precisamente equivalenti, sembra
più prudente evitare la correzione di Bruns, che sostituisce una all’altra nel testo tradito. In ogni
caso, si vede in questo che Alessandro tende a trascurare, se si escludono i veloci cenni di 48.16
e 49.3, i corpi composti e inanimati, focalizzando invece l’attenzione sulla differenza fra corpi
semplici e corpi composti organici. È la formazione di questi ultimi, già in Aristotele, a essere
problematica, risultando carente la teoria di Empedocle, cfr. Arist., De gen. et corr. II.7 334a 18b2, b23-26, dove gli unici composti menzionati sono carne, midollo, ossa, e in generale le sostanze cui è connessa la facoltà nutritiva (cfr. II.8. 335a 9-10): l’opposizione è cioè fra corpi composti organici e corpi semplici, e non vengono presi in considerazione quei corpi, composti da
più corpi semplici, ma inorganici, per es. rocce e metalli, dei quali Aristotele parla nei Meteorologica, cfr. III.6. 378a 21-28, IV.7. 384b 14, IV.10. 388a 13 s. Nota Donini (1996) p. 14 che
anche nel De anima Alessandro manifesta la stessa tendenza ora rilevata nella Quaestio II.3 “a
confrontare direttamente i corpi elementari e semplici con i corpi animati, saltando per così dire lo stadio intermedio dei composti inorganici”. Ma il severo giudizio di Donini (1996) su tale negligenza (passim e in part. p. 17) può essere attenuato, se si ammette che Alessandro non
negasse l’esistenza dei composti inorganici, bensì limitasse deliberatamente la sua trattazione ad
“alcuni” dei composti (secondo l’interpretazione qui proposta di tina in 49.3, cfr. infra la nota ad loc.), interessandosi specificamente a quelli dotati di anima
414 48.4-5, cfr. n. (c) ad. loc.: Il testo tradito ha lasciato perplesso l’editore Bruns (1890),(1892),
che espungerebbe l’intero passaggio μ ka‹ di’ §ke€nhn §st‹n §nerge€& toioËton come
glossa posteriore, riferita a 49.28 ss. Interverrebbe sul testo anche Moraux (1967.1), anche
se per espungere il solo μ, considerandolo raddoppiamento del ka€, e riferendo di’ §ke€nhn
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ye€ou dunãmevw, ¶peita to›w met’ aÈtÚ diadidÚn aÈtÆn, …w pãnta tå s≈mata tª toiaÊt˙ diadÒsei metalambãnein aÈt∞w, tå m¢n ple›on tå d¢ ¶latton.
[48.5] Il fuoco sarebbe così il primo a trarre vantaggio da tale potere proveniente dal divino, e lo trasmetterebbe poi ai corpi dopo di lui, in modo che
per tale trasmissione tutti i corpi partecipino di questo potere, quali più, quali meno.
Il passo più vicino a questo nel De mundo è nel cap. 6, dove l’autore
parla della dÊnamiw divina e della distribuzione degli elementi sublunari
- fuoco, aria, acqua, terra - in strati successivi intorno al centro dell’universo: il fuoco, avendo il suo luogo naturale direttamente adiacente al corpo celeste, parteciperebbe massimamente del potere divino. Gli altri corpi semplici, l’uno contiguo all’altro, parteciperebbero dello stesso potere
in misura decrescente:
della sua (divina) dÊnamiw trae vantaggio più di tutti il corpo che è più vicino a Dio, e poi quello ad esso successivo, e così di seguito fino alle nostre regioni (mãlista d° pvw aÈtoË t∞w dunãmevw épolaÊei tÚ plhs€on aÈtoË
s«ma, ka‹ ¶peita tÚ met’ §ke›no, ka‹ §fej∞w oÏtvw êxri t«n kay’ ≤mçw
tÒpvn, De mundo, cap. 6, 397b 27-30).415
La relazione della Quaestio con il De mundo è resa particolarmente
evidente dalla ripresa del verbo épolaÊv, “trar vantaggio, godere”.416
D’altra parte una differenza importante fra le due formulazioni è il
modo verbale. La dottrina che Alessandro trae dal De mundo non è infatti esposta all’indicativo come nell’originale (épolaÊei in De mundo
a ofike€an ... tinå fÊsin. Ma possibile, ed anzi, mi sembra, preferibile lasciare il testo così com’è: §ke€nhn si riferisce allora a aÏth fÊsiw (47.32) che a sua volta si riferisce alla dÊnamiw del corpo divino (47.30). Poiché il riferimento va recuperato all’indietro nel testo,
proprio per questo c’è §ke€nhn e non per esempio taÊthn, come ci si attenderebbe se il
dimostrativo si riferisse a ofike€an ... tinå fÊsin come vuole Moraux (1967.1): cfr. la traduzione qui proposta a p. 184. La sezione finale (49.28 ss.) spiega bene la motivazione di
questa insistenza sull’essere corpo “in atto”: tutta la materia è corpo in potenza, ma diventa corpo in atto in modo differenziato e ci si chiede (qui è il punto della Quaestio) se quella (§ke€nh) dÊnamiw e natura proveniente dagli astri abbia un ruolo o no nel fare del corpo ciò che è in atto, e se sì, quale sia questo ruolo.
d
415
416
48.5 d¢ Moraux: te V
Il parallelo con il De mundo è abbastanza stretto da far supporre una relazione diretta fra i due
testi. È difficile tuttavia escludere la possibilità di un intermediario, o di una fonte comune che
soggiaccia ad entrambi.
Moraux (1967.1), p. 162-3. Lo stesso termine si ritrova più tardi in Simplicio, in De caelo 65.1516, 20, dove potrebbe derivare dal commento di Alessandro ad loc.
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397b 28), ma all’ottativo (e‡h d¢ ên oÏtv pr«ton épolaËon tÚ pËr,
Quaestio II.3. 48.5), come apodosi di un periodo ipotetico misto la cui
protasi è all’indicativo (48.1, ka‹ går efi t“ geitni«nti aÈt“ g€netai
s≈mati, soggetto sottinteso: ≤ ye€a dÊnamiw) perché riprende senza
modificarlo l’enunciato di partenza (47.30 s.: T€w ≤ ... ginom°nh dÊnamiw t“ geitni«nti ... s≈mati;). Così Alessandro fa capire subito che se
anche si ammette l’idea di una trasmissione della dÊnamiw per contatto
dal corpo celeste su quello corruttibile (questa dottrina è accettata e per
questo resta sempre all’indicativo), non per questo tutta la dottrina del
De mundo con le sue conseguenze ha un valore assoluto (quale invece
hanno per l’esegeta le dottrine che egli trova nei testi autentici di Aristotele).417
Nel suo complesso, la parte della Quaestio che riprende la dottrina
del De mundo consta di tre periodi ipotetici concatenati: 48.1-8, 48.8-9,
48.12-19, intercalati da due incisi di carattere esplicativo introdotti da
gãr, 48.2-4 e 48.9-11. È tutta all’ottativo, tranne le parti di validità presupposta e indiscussa, cioè quella prima protasi (48.1 ka‹ går efi t“ geitni«nti aÈt“ g€netai s≈mati)418 e tranne gli incisi di carattere esplicativo, che secondo l’uso consueto di Alessandro sono all’indicativo anche in
contesti di natura ipotetica.
Altra caratteristica ricorrente nelle Quaestiones è la presenza di proposizioni interrogative nelle apodosi di periodo ipotetico, come qui in
48.8-9, dove l’interrogativa diretta introdotta da §pizhtÆsai tiw ín
(48.8) introduce dialetticamente le conseguenze dell’ipotesi che si è prospettata (éll’ efi toËto, ibid.), quella cioè di una trasmissione successiva della dÊnamiw per contatto da un corpo all’altro secondo la vicinanza: almeno i corpi semplici (quelli cioè cui il De mundo più sicuramente
si riferisce) preesisterebbero come tali a prescindere dall’intervento della dÊnamiw divina.419
Ora, una tale dottrina, se estesa per similitudine (ımo€vw, 48.12) a
tutti i corpi naturali, comporterebbe che nessuno di essi - nemmeno i viventi, nemmeno l’uomo - debba a quella dÊnamiw divina il fatto di essere ciò che è: nei corpi composti come in quelli semplici, la dÊnamiw si ag417
418
419
Dal fatto che nel seguito della Quaestio la teoria derivata dal De mundo viene abbandonata (49.28
ss., cfr. infra, §§ 4.1, 5) si nota che il De mundo è trattato da Alessandro come un’opera della scuola aristotelica, la cui dottrina è sì degna di considerazione, ma, diversamente da quella attestata
nelle opere di Aristotele, non è vincolante.
Su questo periodo ipotetico misto cfr. supra, n. 411.
Tale implicazione è confermata poco oltre dall’autore del De mundo, dove dice (cap. 6. 398b24399a1) che anche se tutti i corpi traggono impulso al movimento dalla dÊnamiw, “tuttavia ciascuno si muoverà secondo la propria forma.”
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giungerebbe a corpi che hanno già la loro natura primaria.
[48.8] éll’ efi toËto, §pizhtÆsai tiw ín t€ suntele› t«n svmãtvn •kã-
stƒ ≤ toiaÊth dÊnam€w te ka‹ fÊsiw.
[48.9] katå går tØn pr≈thn fÊsin tØn §gginom°nhn aÈtØn e •kãstƒ,
kay’ ∂n tÚ m°n §sti pËr, tÚ d¢ éÆr, tÚ d¢ Ïdvr, tÚ d¢ g∞, ≤ §p‹ toÁw ofike€ouw
aÈto›w tÒpouw k€nhsiw g€netai, kay’ ∂n ßkaston aÈt«n t∞w fid€aw tugxãnei
teleiÒthtow.
[48.12] ımo€vw d¢ efi ka‹ §n to›w suny°toiw g€noito s≈masin, ka‹ §n
§ke€noiw oÈ prÚw tÚ e‰nai ênyrvpon μ z“on μ futÚn ßkaston aÈt«n suntelo›
ên ti: ≥dh går oÔsin aÈto›w §gg€noit’ ín …w t“ pur‹ ka‹ t«n èpl«n •kãstƒ:
[48.15] oÏtv d’ ín oÈk°y’ ≤ dÊnamiw §ke€nh afit€a g€noito toË tå m¢n
¶mcuxa e‰nai, tå d¢ êcuxa t«n svmãtvn, ka‹ t«n §mcÊxvn tå m¢n tØn yreptikØn cuxØn mÒnhn ¶xonta, tå d¢ ka‹ tØn afisyhtikØn, tå d¢ prÚw toÊtoiw
ka‹ tØn logikÆn.
[48.8] Ma se è così, ci si potrebbe domandare in che cosa contribuisca un
tale potere e natura,420 a ciascuno dei corpi.
[48.9] Infatti secondo la natura prima - quella che si ingenera in ognuno,
secondo la quale un corpo è fuoco, l’altro aria, l’altro acqua, l’altro terra - si verifica il movimento verso i luoghi ad essi appropriati, movimento nel quale ciascuno di essi trova la propria perfezione.
[48.12] Se similmente avvenisse anche nei corpi composti, nemmeno in
quelli potrebbe dare alcun contributo a che ciascuno di essi sia uomo, animale,
o vegetale: vi si ingenererebbe infatti quando già esistono, come nel fuoco e in
ciascuno dei corpi semplici.
[48.15] Così quel potere non potrebbe più421 divenire causa del fatto che
alcuni corpi siano animati, altri inanimati; e che, fra quelli animati, alcuni abbiano solo l’anima nutritiva, altri anche quella sensitiva, altri, oltre a queste, anche
l’anima razionale.
3. L’aporia (48.18-22)
A questo punto, Alessandro esplicita l’aporia: come si concilia una tale
concezione della ye€a dÊnamiw con l’idea che l’intelletto e la ragione nell’uomo abbiano un’origine divina?
e
420
421
48.10 aÈtØn : aÈt«n Mazzucchi dubitanter
48.8. Letteralmente, “potere e natura”. Qui e in seguito nei casi analoghi crea un problema di
traduzione coppia sinonimica dÊnamiw te ka‹ fÊsiw, mal sopportando l’italiano la concordanza dei due soggetti al singolare, che conferisce invece all’espressione greca un valore particolare. Una e una sola cosa ne risultano infatti essere dÊnamiw te ka‹ fÊsiw (48.8), e così,
più oltre, fÊsevw ka‹ érx∞w (49.21-22), dÊname≈w te ka‹ fÊsevw (49.24): la dÊnamiw infatti è érxÆ ed è fusiw. Lo stesso problema sintattico si verifica anche in 49.4 (fÊsiw te ka‹
cuxÆ) e in 50.19 (≤ telei≈thw te ka‹ tÚ e‰dow).
48.15. L’espressione “non più” (oÈk°ti) potrebbe intendersi in relazione a una teoria già formulata in precedenza, la quale risulterebbe contraddetta se si confermasse la tesi in discussio-
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[48.18] aÏth d’ ¶keito t∞w kat’ aÈtåw diaforçw ¶xein tØn afit€an:
diå går taÊthw t∞w dunãmevw prÒnoia ¶keito logikÚn z“on tÚn ênyrvpon poioËsa, ka‹ diå toËto §l°geto pãnta, ˜sa diå tÚn lÒgon te ka‹ tÚn
noËn oÂã te Ípãrxein t“ ényr≈pƒ, taËt’ aÈtÚn ¶xein f parå t∞w ye€aw
prono€aw.
[48.18] Invece, si era posto che questa (dÊnamiw) abbia la causa delle differenze delle anime: si era posto infatti che per mezzo di questa dÊnamiw la provvidenza faccia dell’uomo un animale razionale. E per questo si diceva che tutte
le cose che possono appartenere all’uomo mediante la ragione e l’intelletto, egli
le ha dalla provvidenza divina.
Tale, propriamente, è l’”aporia”, che come si vede è diversa dal
problema di partenza - quello del rapporto fra ye€a dÊnamiw e natura.
D’altra parte l’aporia si inscrive all’interno del problema, in particolare nella prima possibile risposta esaminata, secondo la quale la dÊnamiw sarebbe diversa (êllh, 47.31) dalla natura propria di ogni essere.
“Si teneva per stabilito” (48.18): ¶keito è l’espressione che usa qui
Alessandro. Che cosa implica? Il verbo ke›mai si trova di frequente in
Alessandro per introdurre ciò che si pone e stabilisce, specificamente ciò
che sarà valido come presupposto per ulteriori argomentazioni. Esso tuttavia compare per lo più nei modi del presente anche quando si riferisce
a premesse stabilite in precedenza, in particolare da Aristotele: il presente indica che tale premessa è ancora valida e costituisce il fondamento
(ke›tai) per l’argomentazione in corso. Solitamente, in effetti, qualunque verbo usi, Alessandro parla di Aristotele al presente:422 ciò che Aristotele dice (non: ciò che diceva) ha un valore assoluto, metatemporale. Diverso potrebbe essere allora il caso dell’¶keito. Perché l’uso di un
tempo storico, e in particolare dell’imperfetto?423
Si è accennato in precedenza alla possibilità che taluni testi lasciano
intravedere di distinguere in ciò che dice Alessandro fra elementi innone. I punti salienti della teoria sono ricordati nelle righe seguenti (48.18 - 22), introdotte dalle voci verbali al passato “si era stabilito” (¶keito) e “si diceva” (§l°geto). Cfr. qui infra la discussione in 48.18.
f
422
423
48.21-22 taËt’ aÈtÚn ¶xein Bruns (1890): taÈtÚn ¶xei V taËta ¶xein Braid. Vict.
Cito solo pochi esempi - molti altri se ne potrebbero portare - tratti dagli Opera minora: De
anima 16.13, 50.12, Mantissa 103.4, 108.31, 112.20, 152.17, 168.22, Quaestiones I.7. 16.31, De
fato 167.21; con verbi non di dire Mantissa 113.27, 141.30, Quaestiones IV.8. 128.20, De fato
164.13; esempi contrari: Quaest. II.21. 71.1, IV.22. 142.29, Mixt. 228.8, 233.2 (non con verbo
di dire), De fato 166.23 (non con verbo di dire). Soprattutto, parlare di Aristotele al presente
è prassi costante nei commentari e nei contesti di tipo esegetico.
Cfr. anche supra, “Introduzione”, p. 30 e n. 34.
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vativi, presentati con gradi sfumati di assertività, ed elementi pregressi,
possibilmente già affermati nella scuola prima di Alessandro. Questi ultimi compaiono sovente - si è osservato - in funzione di excursus o incisi
esplicativi, o comunque esprimono una premessa valida per argomentazioni ulteriori, che di per sé non ha bisogno di essere dimostrata o argomentata. Sovente, in questi casi Alessandro usa per l’appunto le forme impersonali del verbo ke›mai.
Ora, analogamente ma ipotizzando in più due fasi distinte e successive di elaborazione, è forse possibile cercare una spiegazione non solo
per la voce verbale ¶keito, ma per tutta la difficile sezione di testo che
l’¶keito introduce.
Sembra infatti doversi intendere che il principio qui enunciato aveva validità in una fase precedente della discussione. Questo naturalmente non esclude che abbia ancora validità. Ma di per sé l’imperfetto indica che è nel passato che la teoria si teneva come presupposto stabilito; anzi, forse è proprio questo il problema che Alessandro ora si
pone: garantire una continuità di tradizione anche rispetto a una dottrina che è propria più della scuola che non di Aristotele (se fosse di
Aristotele, come ricordato, sarebbe probabilmente espressa al presente). In questo senso, era con buone ragioni che Moraux aveva sospettato il riferimento a un maestro di Alessandro, del quale quest’ultimo
sarebbe stato discepolo diretto.424 D’altra parte, mi è capitato già in altre sedi di suggerire un parallelo fra questo passo e il De providentia di
Alessandro conservato in arabo, nel quale una tale dottrina è diffusamente attestata.425 A questo riguardo devo però precisare che tale parallelo non risolve il problema storico: è possibilissimo che tanto in un
testo che nell’altro Alessandro faccia riferimento, sviluppandola variamente in relazione al contesto, a una stessa dottrina, che forse non era
precisamente aristotelica né sua personale, ma era attestata nella scuola in una fase della quale sappiamo troppo poco per poterne parlare
positivamente. In questo senso concorderei con Donini, che ha prefe424
425
Non condividerei tuttavia l’ottimismo di Moraux (1967.2) quanto alla possibilità di identificare il maestro cui Alessandro farebbe qui riferimento. L’intera questione dell’identificazione
in Alessandro di tracce della dottrina di Aristotele di Mitilene merita a mio avviso di essere ripresa radicalmente in considerazione. Mi limito per ora a obiettare che la testimonianza di Cirillo d’Alessandria, Contra Julianum (Patrologia Graeca, vol. 76, p. 596a, dove Alessandro è
detto “allievo di Aristotele”: ÉAl°jandrow ı ÉAristot°louw mayhtÆw) non può valere come
prova di un discepolato diretto fra Alessandro e un maestro di nome Aristotele. Non deriva
infatti da una conoscenza storica precisa ma da una vulgata generica, associata a un uso delle
fonti classiche prevalentemente indiretto e di repertorio: cfr. in proposito Fazzo (2000), in part.
p. 415 n. 41.
Cfr. Fazzo (1988) 646 n. 23, Fazzo-Wiesner (1993) 125.
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rito troncare la discussione dicendo che “è inutile speculare in proposito”.426 Non è cioè possibile dire, oggi come oggi, chi, quando, come
e perché avesse dato forma a tale dottrina.
Vedrei invece una qualche utilità nel mettere in relazione questo passo con almeno altri due passi di Alessandro, con i quali si ravvisa una certa fondamentale continuità.
Penso innanzitutto all’esordio dell’opuscolo Mantissa XXIII,
172.16-175.32:
Fra gli esseri generati e costituiti dalla dÊnamiw divina che si ingenera a partire dalla contiguità con il corpo divino nel corpo soggetto a generazione - dÊnamiw divina, che chiamiamo anche “natura” - l’uomo è il più nobile.427
La posizione di tale premessa, rispetto al resto dell’opuscolo, è chiaramente di elevato valore assertivo. È d’altronde evidente l’affinità con
il passo ora in esame della Quaestio II.3. 48.19-22. I due testi concordano infatti sul punto essenziale che vi si afferma: il ruolo della dÊnamiw divina nella costituzione dei viventi e soprattutto nella costituzione
dell’uomo come essere razionale.428 In entrambi i casi la dottrina non è
argomentata ma sembra già affermata e in qualche modo pregressa. Presumibilmente, pertanto, l’idea era già patrimonio acquisito della scuola nel momento in cui venivano scritti sia l’uno che l’altro testo.
D’altra parte, la stessa ye€a dÊnamiw è identificata con la ye€a
prÒnoia nella Quaestio II.3 e con la natura, o precisamente con “ciò che
chiamiamo natura” in Mantissa XXIII. Queste due identificazioni meritano qualche considerazione.
L’identità fra ye€a prÒnoia e ye€a dÊnamiw (Quaestio II.3) è uno dei
capisaldi della dottrina alessandrista della provvidenza, già evidenziato
426
427
428
Donini (1996) p. 14.
Mantissa XXIII (T«n parå ÉAristot°louw per‹ toË §f’ ≤m›n), p. 172.17-19 Bruns: T«n
gignom°nvn te ka‹ sunistam°nvn ÍpÚ t∞w ye€aw dunãmevw t∞w §n t“ genht“ s≈mati
§ggignom°nhw épÚ t∞w prÚw tÚ ye›on geitniãsevw, ∂n ka‹ fÊsin kaloËmen, timi≈taton ênyrvpÒw §sti. Dopo questo esordio l’opuscolo, dedicato al tema della responsabilità individuale, non accenna né al problema della provvidenza né a quello dell’origine dell’anima; non accenna dunque nemmeno a una relazione fra l’una e l’altra, come osserva Donini (1996), n. 25 p. 28. Quanto alla raccolta che chiamiamo ora “Mantissa”, è stato l’editore Bruns (CAG, Suppl. Ar. II.1, 1889) a ribattezzare con questo termine etrusco “mantissa” la collezione di opuscoli che circolava sino ad allora con il titolo improprio come De
anima liber alter. Il trattato De anima di Alessandro contiene infatti di per sé un libro soltanto. Cfr. Sharples (1998).
Questo in qualche modo vale anche al di là delle riserve che in linea di principio è sempre opportuno tenere presenti sull’autenticità degli opuscoli, dunque anche di Mantissa XXIII. Essi, se anche l’autore non fosse Alessandro, possono fare riferimento a un’unica tradizione, purché derivino da uno stesso ambito di scuola.
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qui sopra nel cap. III (p.155 s.).
D’altra parte, anche l’idea che la ye€a dÊnamiw sia in qualche modo natura è uno dei presupposti della Quaestio II.3, come si vede nell’esordio stesso, con l’interrogativo iniziale (47.31 ss.): “Ma è davvero
questa (sc.: la ye€a dÊnamiw) un’altra natura…?” Si può dire anzi che
l’intera Quaestio II.3 nasce come indagine sulla ye€a dÊnamiw come
fÊsiw.
Questa stessa identità di ye€a dÊnamiw e natura compare nell’esordio di Mantissa XXIII in modo incidentale, come un punto che può meritare di essere ricordato ma non richiede dimostrazione. Immaginiamo
di applicare anche qui l’ipotesi secondo la quale gli excursus esegetici e gli
incisi convoglierebbero nel testo delle discussioni aporetiche di Alessandro elementi già in qualche modo accettati all’interno della scuola. Si dovrebbe allora supporre che, come l’identità fra provvidenza e ye€a dÊnamiw, così anche l’identità fra dÊnamiw e fÊsiw fosse già affermata nella scuola prima di Alessandro.
Ciò spiegherebbe, se non altro, il fatto che nell’opuscolo della Mantissa questo punto venga introdotto in modo cursorio e accidentale, senza dimostrazione.
Se tutto ciò è corretto, si dovrebbe desumere che scrivendo la Quaestio II.3 Alessandro può dare per stabilita non solo la dottrina della provvidenza come ye€a dÊnamiw, ma anche l’idea che la ye€a dÊnamiw sia natura; ed evidentemente si intenderà qui “natura” nel senso più generale e
attivo, cioè come causa di ciò che avviene per natura.
Conseguentemente, anche l’interrogativo di partenza può essere configurato come un dilemma sulla relazione fra i due sensi di “natura”: convergono o sono separati?
4. La prima soluzione (48.22-49.27)
La soluzione che in prima analisi la Quaestio presenta consiste allora nel
differenziare i corpi semplici da quelli composti e animati, rielaborando
e precisando il quadro iniziale, che era sostanzialmente quello del De mundo: i corpi semplici esistono già a prescindere dalla dÊnamiw.
L’esposizione dettagliata di questa ipotesi - i corpi semplici preesistono tali quali mentre i corpi composti e animati prendono forma e anima in virtù della dÊnamiw - è introdotta (se la lezione scelta dall’editore
Bruns è corretta) con una formula cautelativa, mÆpot’ oÔn xrØ l°gein,
“Non bisogna forse dire che…?”, caratteristica delle soluzioni che Alessandro propone come accettabili ma in qualche modo superabili.429
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[48.22] mÆpot’ g oÔn xrØ l°gein to›w m¢n èpl«w s≈masi pro#pãrxou-
si tÆnde tØn dÊnamin §gg€nesya€ te ka‹ prosg€nesyai; di’ ∂n afit€an aÈtå
m¢n oÈd°n ti ye›on §n aÍto›w h ¶xei pvw: toioËto går ≤ cuxÆ,<∏w> §stini
êmoira pantãpasin, ˜ti mØ j ¶stin aÈt«n §n tª oÈs€& ≤ toiãde dÊnamiw,
¶jvyen aÈto›w ka‹ pro#pãrxousi prosginom°nh, éll ’ ¶stin èpl«w
s≈mata:
[48.22] Forse dunque bisogna dire che nei corpi che preesistono semplici questa dÊnamiw si ingenera ed aggiunge in più? Per la qual causa in un certo senso430 essi non hanno in sé nulla di divino (tale infatti sarebbe l’anima, della quale essi sono completamente privi,431 perché tale dÊnamiw, aggiungendosi ad essi dall’esterno e quando già esistono, non è nella loro sostanza) bensì sono corpi semplici.
Come si vede, la presenza della dÊnamiw va immediatamente congiunta con quella dell’anima.
Resta infatti come punto fermo già stabilito che almeno gli esseri
animati siano ciò che sono solo in quanto la dÊnamiw divina conferisce
loro l’anima: senza di questa l’uomo non sarebbe uomo né l’animale
animale.432
Si dirà allora, secondo questa soluzione, che i corpi composti e animati
diventano tali in virtù della dÊnamiw che si aggiunge dall’esterno sui corpi
La lezione mÆpot’ (per mÆt’ di V, cfr n. (g) ad loc.) riposa su un suggerimento di Vict. e
Braid., accettato anche da Bruns. Su mÆpote cfr. supra, p. 26.
429 48.22.
g
h
i
j
430
431
432
48.22 mÆpot’ Vict. Braid: mÆt’ V Bruns
48.24 <§n> aÍto›w Spengel: aÈtoÁw V
48.25 <∏w> §stin Bruns (1890)
48.25 mÆ suspectum
48.24. L’avverbio pvw (qui: “in un certo senso”) ha subito tentativi di emendamento da parte
sia di Bruns 1890 (che suggerisce l’interrogativo ka‹ p«w;) sia di Moraux (1967.1) (che suggerisce pãntvw). Ma la frase ha senso compiuto anche senza emendamento: nella proposta dottrinale che qui Alessandro si accinge a formulare, i corpi semplici in un certo senso non hanno
in sé nulla di divino, ma in un certo altro senso, sì. La dÊnamiw agisce infatti sui corpi semplici
ed è presente in essi; ma assume la funzione di impartire la forma specifica solo in uno stadio
successivo, al momento cioè della formazione dei corpi composti. Il pvw ha dunque piena ragione d’essere. Si noti il peso significativo di pvw anche infra, 49.20 (cfr. n. ad loc.), e in Quaestio I.25. 39.27 (dove Alessandro stesso si sofferma sul senso dell’avverbio).
48.25, cfr. n. (i) ad. loc.: l’emendamento proposto da Bruns (1890) sulla base di una nota di
Vict. si trova confermato, notiamo, in un parallelo con De mixt. 217.36, dove “ privo di anima” si dice cux∞w êmoiron.
La questione dell’origine dell’anima secondo Alessandro è controversa. Gli studi di Donini
(1971), (1996) e Accattino (1988), (1995) hanno mostrato l’insostenibilità della tesi del giovane Moraux (1942): la tesi cioè che, da una lettura non del tutto approfondita di alcuni passi
tratti soprattutto dal De anima e dalla Quaestio II.3, arrivava ad attribuire ad Alessandro l’insostenibile dottrina che la materia si dia da sé la propria organizzazione e perfezione e con que-
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semplici e si trova presente al momento della formazione dei composti.
L’esposizione di questa teoria è occasione per esplicitare una dottrina sistematica della relazione fra la materia che costituisce il corpo vivente
e le sue facoltà psichiche: la differenza fra gli esseri viventi e fra le facoltà
delle quali dispongono deriverebbe in ultima analisi dalla disposizione cosmica degli elementi a partire dal corpo celeste e dalla loro conseguente
maggiore o minore capacità di partecipare della dÊnamiw divina.433
[48.27] ˜sa d’ §k t∞w toÊtvn fusik∞w m€je≈w te ka‹ krãsevw g€netai, toÊtvn d’ §n tª gen°sei kataspeirom°nhn ka‹ tØn ye€an dÊnamin ka‹
fÊsin éme€nv ka‹ teleiÒtera taËta poie›n tå s≈mata, suneisferÒntvn
ka‹ t«n èpl«w svmãtvn efiw tØn g°nesin t«n §j aÈt«n ginom°nvn
svmãtvn ka‹ tØn ye€an dÊnamin, ∏w metalambãnousin katå tØn
geitn€asin.
[49.1] di’ ∂n dÊnamin oÈk°ti taËta mÒnhw t∞w katå tØn =opØn kinÆsevw érxØn §n aÍto›w ¶xei, éllã tina ka‹ cuxikØn prose€lhfe tØn érxØn
ka‹ tØn g°nesin ¶xousan épÚ t∞w ye€aw dunãmevw.
[49.4] ¥tiw fÊsiw te ka‹ cuxØ katå tØn posÒthta t«n èpl«n
svmãtvn, §j œn §sti tÚ ¶xon aÈtØn s«ma (œn tÚ m¢n §p‹ pl°on [¯n] k
koinvne› t∞w ye€aw dunãmevw t“ §ggut°rv te e‰nai t“ ye€ƒ s≈mati ka‹
e‰nai leptomer°w te ka‹ kayar≈teron, tÚ d’ §p’ ¶latton diã te tÚ épÒsth-
433
ste anche l’anima; ne conseguiva, da parte di Moraux, l’accusa rivolta ad Alessandro di materialismo e di tradimento dell’aristotelismo. Ma anche confutata la linea interpretativa dell’Erstlingsarbeit di Moraux (come Moraux stesso chiamava nel [1967] il libro del [1942], quasi a
giustificarvi la presenza di giudizi passibili di revisione), la dottrina di fondo accreditata (più
che argomentativamente sostenuta) nella Quaestio II.3, espressa più ampiamente nel De providentia (148.9-24, tr. 149.11-28 e passim), continua a suscitare perplessità. Questi testi connettono infatti la presenza dell’anima nei viventi e nell’uomo alla provvidenza, identificata con
la ye€a dÊnamiw; mentre, come sottolinea fra l’altro Donini (1996), il De anima di Alessandro
non accenna affatto a una tale derivazione. D’altronde, è difficile fare valere e silentio questo
argomento contro l’attribuzione di tale dottrina ad Alessandro. Il De anima di Alessandro, come hanno mostrato Accattino e Donini (1996) è strutturato sulla falsariga del De anima aristotelico, e quest’ultimo non tratta affatto dell’origine dell’anima (anche se evoca a più riprese la possibilità di una componente divina nella sua facoltà superiore dell’anima, l’intelletto).
Nulla di strano dunque se il De anima di Alessandro non contiene alcuna dottrina specifica
sulla generazione dell’anima (cosa che emerge anche, vuoi espressamente, vuoi fra le righe, dall’argomentazione con la quale Accattino [1995] contrasta la lettura di Moraux). Si può immaginare dunque, sulla scorta delle osservazioni di Accattino (1995) e Accattino-Donini (1996)
che Alessandro abbia deliberatamente lasciato fuori dal De anima, in ragione del carattere relativamente divulgativo del trattato, quegli aspetti e problemi sui quali la scuola non era ancora pervenuta ad una dottrina definita. D’altronde sia Alessandro che Aristotele oscillavano
nell’evidenziare o meno una componente celeste nell’origine dell’anima. Basti confrontare la
forma breve e più ricorrente dell’aforisma, ênyrvpow ênyrvpon gennò, che Alessandro cita
come tale nel commento ai Meteorologica (226.23), con la sua forma allargata, che Aristotele
attesta solo in Fisica II.2.194b 13 (ênyrvpow går ênyrvpon gennò ka‹ ¥liow) che Alessandro cita nel De providentia, e citava forse anche nel perduto commento a Metafisica XII, cfr.
supra, cap. III, § 11, p. 171 e nn. 384 s.
Cfr. supra, cap. I, § 3 pp. 69-72.
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ma tÚ ple›on ka‹ diå tØn t∞w sustãsevw paxÊthta), diãforon ka‹ aÈtØ
g€netai. ˜sa m¢n går t«n suny°tvn svmãtvn tÚ ple›ston g∞w ¶xei, taËt’
Ùl€ghwl tinÚw koinvne› cuxik∞w dunãmevw t“ ka‹ tÚ tØn ple€sthn mo›ran
t∞w oÈs€aw aÈt«n s«ma ¶latton t∞w ye€aw metalambãneinm dunãmevw:
˜sa d¢ ple›on §n aÍto›w ¶xei t∞w pur≈douw te ka‹ yerm∞w oÈs€aw, taËta
cux∞w teleiot°raw metalambãnein t“ tÚ pleonãzon s«ma §n aÈto›w §p‹
pl°on t∞w ye€aw metalambãnein dunãmevw.
[48.27] Quanto invece ai corpi che si formano da quelli semplici per mistione e temperamento naturale,434 questi è la dÊnamiw divina, che è natura, a
renderli migliori e più perfetti,435 essendo disseminata nella loro formazione, e
anche i corpi semplici stessi portano come contributo alla generazione dei corpi
che di essi si compongono anche la dÊnamiw divina, della quale essi partecipano
secondo la vicinanza.436
[49.1] In virtù di tale potere, questi [composti] non hanno più437 in sé
principio del solo movimento secondo la tendenza naturale, ma438 hanno preso in aggiunta anche un principio psichico, che ha principio e origine dal po-
49.6 pl°on ¯n V ¯n del. Spengel
49.10 taËt’ Ùl€ghw Apelt (1894): taÈtÚn g∞w V
m 49.11 - 12 metalambãnein H: metalambãnei V
n 49.13 taËta cux∞w teleiot°raw metalambãnei Moraux: taÊthw t∞w cux∞w teleiot°raw
metalambãnein V taËt’ ¶stai cux∞w teleiot°raw metalambãnonta Bruns
k
l
Mentre la nozione di mistione o mescolamento (m›jiw) è alquanto generica, comprendendo
anche la giustapposizione, cioè la composizione solo apparente (cfr. infra, 49.22-25), la nozione di temperamento (krçsiw) è ristretta e precisa: in tale processo, la materia dei due corpi,
che devono essere diversi tra loro e tali da poter agire e patire reciprocamente, si unifica, e si
produce una nuova forma, diversa da entrambe le forme originarie. Cfr. Alex. De mixtione, in
part. cap. 13. 228.5 ss. Su tutto il De mixtione cfr. Todd (1976).
435 Letteralmente, “li renderebbe migliori e più perfetti” (48.29): ogni corpo, compresi quelli semplici, ha la propria perfezione, la quale è diversa per ogni specie a seconda della forma propria
di ciascuna specie (cfr. infra, 50.19-20). Ne esistono diversi gradi: la perfezione è maggiore negli organismi composti e più complessi, soprattutto in quelli animati (49.29, 50.19). Cfr. De
gen. anim. II.1. 733b 1, e inoltre 733a 2, IV.1. 763b 21, dove anche Aristotele distingue nelle
specie viventi diversi gradi di perfezione.
436 48.27-49.1. Il passo è stilisticamente faticoso e di ostica interpretazione. La triplice reiterazione del ka€ avverbiale (“anche”, in 48.27, 48.30, 49.1), che appesantisce il periodo, riflette una
grave difficoltà dell’elaborazione concettuale, che si confronta qui con l’arduo problema della generazione dell’anima nei corpi composti organici. Alessandro cerca una soluzione articolando su diversi piani l’attività della dÊnamiw a questo riguardo: la dÊnamiw divina, dalla quale proviene la superiore perfezione dei corpi animati, è presente sia “disseminata” e attiva nel
processo stesso della generazione, sia per una sorta di trasporto passivo, in quanto ne partecipano i corpi inanimati dai quali si formano i corpi composti. suneisferÒntvn in 48.29 avrà
così valore addizionale rispetto a kataspeirom°nhn in 48.28, come suggerisce la presenza del
ka€ in 48.30 e come d’altronde sembra intenderlo anche Moraux (1967.1) p. 164, e non esplicativo, come mostra invece di intenderlo Bruns (1890). Cfr. anche 49.14-18: è la dÊnamiw divina a produrre il composto animato; invece nei composti solo apparenti, formati per mera
giustapposizione (49.25-28), la dÊnamiw è presente solo nel secondo modo, per trasporto passivo, senza agire ulteriormente al momento della generazione.
434
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tere divino.
[49.4] Tale natura, che è anima, diviene anch’essa un che di diverso, a seconda
della quantità dei corpi semplici dei quali è composto il corpo che la possiede439 corpi semplici dei quali l’uno partecipa maggiormente del potere divino perché è
più vicino al corpo divino, sottile nelle sue parti e più puro, mentre un altro ne par49.2. Qui come infra, in 49.23, oÈk°ti, letteralmente: “non più”, ha valore logico, non propriamente temporale: i diversi corpi che si formano a partire da quelli semplici sono infatti
considerati, in senso figurato, secondo un ordine solo idealmente cronologico. Sull’uso di particelle di natura temporale in senso logico, cfr. supra, pp. 70-72.
438 49.3. Sembra trovarsi qui accennata la distinzione fra l’insieme dei corpi composti e alcuni
di essi, s’intende quelli organici, che sono dotati di anima; cfr. supra, p. 183 s. n. 413. Il passo è stato però diversamente interpretato e tradotto da Sharples (1992) e Donini (1996), che
intendono l’indefinito non come un nominativo neutro plurale riferito ai corpi (taËta, sc.:
tå s≈mata in 49.2), ma come un aggettivo indefinito accusativo femminile singolare riferito a un sostantivo sottinteso, lo stesso cui si riferirebbero sia cuxikØn (di qui l’assunzione
che si tratti di un femminile) sia, più oltre, il participio ¶xousan, dal quale a sua volta dipenderebbero tØn érxØn ka‹ tØn g°nesin. Benché sull’identificazione del sostantivo Sharples e Donini dissentano (Donini sottintende érxÆn nonostante la ripetizione - durissima,
come nota Donini stesso - che giungerebbe subito con tØn érxÆn, che sarebbe complemento
oggetto del participio avente come soggetto érxÆn; Sharples invece opta per k€nhsin) queste due interpretazioni comportano entrambe un intendimento della frase, secondo il quale
comunque non ci sarebbe spazio, nella teoria di Alessandro, per composti inanimati, in quanto la differenza fra viventi e non viventi sarebbe che solo in quelli e non in questi c’è un vero e proprio “temperamento”. Sui problemi teorici che questo comporterebbe cfr. Donini
(1996). Come che si intenda il testo, d’altronde, si nota il disinteresse di Alessandro per i
composti inanimati: l’esegeta sembra persino evitare di chiamarli “corpi”, riservando questa dicitura, oltre che ai corpi semplici, a quei composti che presentano un grado superiore
di perfezione e complessità formale (quale per l’appunto si riscontra nel passaggio dai nonviventi ai viventi), come osservato supra, pp. 73-75. Tornando ora alla traduzione: secondo
l’interpretazione del passo qui proposta non ci sono sostantivi sottintesi (peraltro, il fatto
stesso che ci sia dissenso nell’identificare il sostantivo mostra a mio avviso che la situazione
non è quella in cui un esegeta come Alessandro possa agevolmente sottintendere un sostantivo), e c’è invece deliberata anastrofe, e precisamente anticipazione dell’aggettivo cuxikÆn
in posizione fortemente rilevata, rispetto al sostantivo tØn érxÆn. Dunque cuxikÆn si riferirebbe sì al sostantivo érxÆn ma senza bisogno di sottintenderlo, bensì avendolo presente
ed espresso nella frase, determinato dall’articolo. Certo, costruito così, il periodo presenta
un mutamento di soggetto fra la prima e la seconda proposizione: il soggetto cambia da taËta (“questi”, cioè i corpi composti in generale) a tina (alcuni di corpi composti), come d’altronde cambia anche il predicato, da ¶xei a prose€lhfe. Più oltre, in chiusura di frase, Alessandro, quasi accorgendosi che il periodo, così suddiviso, lascia nell’ombra la connessione,
centrale e in qualche modo imprescindibile, fra l’érxØ cuxikÆ e la dÊnamiw divina, aggiunge
ka‹ tØn g°nesin ¶xousan épÚ t∞w ye€aw dunãmevw: quell’érxÆ è psichica e ha la (sua) origine dalla provvidenza divina. Con questa aggiunta, il senso della disquisizione nel quadro
nell’opuscolo si fa più chiaro, anche a costo di aggiungere un elemento di asimmetria nel
corpo del periodo - i due attributi di érxÆ congiunti dal ka€ non si costruiscono infatti in
parallelo, bensì uno, cuxikÆn, è un semplice aggettivo, anticipato dall’anastrofe in posizione di forte rilievo, l’altro, tØn g°nesin ¶xousan épÚ t∞w ye€aw dunãmevw, un intero costrutto participiale. Quanto considerato sinora vale, naturalmente, solo nel caso che il testo
non soffra, qui come già riscontrato altrove, di lacune o guasti di conservazione - ipotesi che
non solo è impossibile da scartare, ma, tutto sommato, non è nemmeno del tutto improbabile. Se tuttavia il testo è correttamente conservato, gli scarti sinora rilevati, e in particolare
quella sorta di anacoluto fra le due parti del periodo, non costituiscono a mio avviso un osta437
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tecipa meno perché la sua distanza è maggiore e la sua costituzione è densa. Quanti infatti fra i corpi composti hanno una prevalenza di terra partecipano di una facoltà psichica limitata,440 poiché anche il corpo che costituisce la massima parte della loro sostanza partecipa meno del potere divino; quanti invece hanno una componente maggiore di sostanza focosa e calda partecipano dell’anima più compiuta,
perché il corpo in essi prevalente partecipa maggiormente del potere divino.
Così la ye€a dÊnamiw, senza contribuire alla formazione dei corpi semplici, ma aggiungendosi loro dall’esterno, quando sono già formati, agirebbe al momento della formazione dei composti, al modo dell’artigiano. Invero, il termine t°xnh, forse non a caso, non compare (si può vedere anche
nel commento alla Metafisica, 104.3-10, che per Alessandro il paragone fra
arte e natura va trattato con precauzione) ma il tipo di rappresentazione che
qui Alessandro propone è vistosamente derivato dall’analogia con le arti,
come si vede dall’uso del concetto di materia in 49.15-18. Ivi infatti si legge che la ye€a dÊnamiw “si servirebbe dei semplici corpi naturali come di
una materia per generare corpi più compiuti”.441
Di questi ultimi corpi pertanto la ye€a dÊnamiw costituirebbe la natura, agendo come natura “seconda”, ulteriore rispetto a quella primaria
ed elementare:
439
440
441
colo grave per l’interpretazione qui proposta. Simili scarti sono infatti tutt’altro che rari e
inaspettati in Alessandro. In questo caso, d’altronde, per il passaggio da una costruzione all’altra si potrebbe anche immaginare una ragione d’esistere. Una volta di più, Alessandro sta
evitando di affrontare da vicino il problema dell’origine dell’anima. Non ne parla negli altri
suoi scritti; la ascrive qui (probabilmente sulla scorta, come ho inteso argomentare, della
scuola) alla dÊnamiw divina. Ma non fa interamente proprio tale terreno di speculazione, ed
elude la questione, che qui si potrebbe sollevare, di perché alcuni dei corpi composti siano
animati, e di perché lo siano solo alcuni. Persino l’innalzamento del registro stilistico, quale deriva dal ricorso all’anastrofe, potrebbe essere un mezzo, più o meno consapevole, per
sviare l’attenzione da questo problema (e questo potrebbe suggerire, almeno indirettamente, che non è senza imbarazzo che Alessandro attesta e difende la dottrina, costituitasi nella
tradizione che l’aveva preceduto, di una connessione diretta fra l’intelletto umano e quella
dÊnamiw).
49.4-9. La costruzione del passo è faticosa, trovandosi soggetto (“tale natura, che è anima”) e
predicato (“diviene anch’essa un che di diverso”) separati da un lungo inciso, che l’editore
Bruns mette fra parentesi, evidentemente per agevolare la lettura.
49.10. Nella tradizione manoscritta e nell’edizione di Bruns, il passo è corrotto. Dobbiamo un
emendamento brillante e risolutivo, cfr. cfr. n. (l) ad. loc., ad Apelt (1894), p. 70. Da un punto
di vista paleografico, la genesi dell’errore si spiega facilmente, secondo quanto nota Apelt, come svista di lettura da TAUTOLIGHS a TAUTON GHS. Stranamente, Moraux (1967.1) p. 165
propone lo stesso emendamento e la stessa spiegazione della genesi dell’errore, senza però segnalare che già Apelt lo aveva fatto prima di lui.
Si intende che “il ricevere una qualche forma fungendo da materia equivale a divenire direttamente materia dell’affezione”, come dice lo stesso Alessandro in De anima 83.23-84.1, tr. Accattino-Donini (1996). Sul paragone fra arte e natura secondo Alessandro in Metafisica p.
104.3-10, cfr. supra, p. 177 n. 401.
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[49.14] oÏtv d’ ín e‡h deut°ra fÊsiw, ∂n efirÆkamen ye€an dÊnamin e‰nai
§gginom°nhn to›w ÍpÚ selÆnhn s≈masi diå tØn prÚw §ke€nhn geitn€asin, …w Ïl˙
xrvm°nh to›w èpl«w fusiko›w s≈masi prÚw tØn t«n teleiot°rvn te ka‹
§mcÊxvn g°nesin svmãtvn.
[49.18] tå m¢n oÔn katå krçsin t«n èpl«n svmãtvn ka‹ kat’ él- lo€vsin
ginÒmena sÊnyeta s≈mata t“ ¶xein ka‹ tØn toiaÊthn dÊnamin §n tª t«n
§xÒntvn aÈtØn svmãtvn m€jei sugkrinom°nhn pvw ka‹ mignum°nhn kat’
aÈtØn teleiÒtera g€netai s≈mata ka‹ yeiot°raw fÊsevw ka‹ érx∞w
kekoinvnhkÒta.
[49.22] ˜sa d¢ suny°sei te ka‹ paray°sei t«n èpl«n svmãtvn g€nesyai doke› s≈mata sÊnyeta, taËta oÈk°ti t∞w toiaÊthw koinvne›n dunãme≈w te ka‹ fÊsevw oÂã te: œn ßkaston t«n èpl«n svmãtvn §nerge€&
s≈zei tØn aÍtoË fÊsin §n tª toiaÊt˙ m€jei ka‹ suny°sei. oÈ går efiw
tØn t«n oÏtvw suny°tvn svmãtvn oÈs€an ≤ ye€a dÊnamiw suntele›,
m°nousa §n •kãstƒ aÈt«n ıpo€a ka‹ prÚ t∞w suny°sevw aÈt«n ∑n o t∞w
prÚw êllhla.p
[49.14] Così esisterebbe una seconda natura, la quale abbiamo detto essere un potere divino che si ingenera nei corpi sublunari a causa della loro vicinanza, che si servirebbe dei semplici corpi naturali come di una materia per la generazione di corpi più compiuti e dotati di anima.442
[49.18] Dunque i corpi composti che si formano per temperamento dei corpi semplici e per alterazione, per il fatto di avere anche tale dÊnamiw contemperata in qualche modo443 e mescolata nella mescolanza dei corpi [semplici] che la
possiedono diventano per essa (dÊnamiw) corpi più compiuti e partecipi di una
natura e principio più divini.444
[49.22] Invece i corpi composti che sembrano formarsi dalla composizione
e giustapposizione dei corpi semplici non sono più445 in grado di partecipare di
questa dÊnamiw e natura:446 in tale mescolanza e composizione ognuno dei corpi
semplici mantiene in atto la propria natura. Infatti alla sostanza dei corpi così como
p
442
443
444
49.28 ∑n Braid. Vict.: ∑w V μ G F Bruns
49.28-29 post prÚw êllhla interpunxi, post aÈt«n Bruns, qui pergit novam sectionem
2. áH t∞w prÚw êllhla dÊnata€ tiw l°gein [ka‹ t∞s] t«n èpl«n svmãtvn gen°sevw
tØn épÚ t«n ye€vn dÊnamin afit€an e‰nai : áH t∞w prÚw êllhla <diaforçw> dÊnata€
tiw l°gein t«n èpl«n svmãtvn gen°sevw tØn épÚ t«n ye€vn dÊnamin afit€an e‰nai
Moraux.
Su che cosa significhi che le forme dei corpi semplici fungono da materia per la formazione del composto, e su come questo consenta ad Alessandro di chiamare l’anima, che è forma del corpo organico, forma di forme e perfezione di perfezioni, cfr. supra, cap. I, § 3, in
part. p. 76 s.
49.20: il pvw, “in qualche modo”, attutisce la troppo forte espressione sugkrinom°nh: il potere divino non forma, con i corpi, un vero aggregato, perché propriamente è solo con altri
corpi che i corpi si combinano.
49.21-22: yeiot°ra fÊsiw ka‹ érxÆ potrebbe essere “il principio dell’anima, che ha origine
dal potere divino”, cfr. supra, 49.3-4; ma lo sarà effettivamente solo per “alcuni” dei composti
(49.3, cfr. n. 438 p. 195 ad loc.), quelli cioè organici e animati. A quanto pare, il testo dice qui
che i composti inorganici hanno comunque, anche solo in quanto composti, un che di divino
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posti il potere divino non contribuisce, restando in ciascuno di essi quale era prima della loro reciproca composizione.447
Agendo nella formazione dei corpi composti e animati come “seconda natura”, dice Alessandro, la dÊnamiw “si servirebbe dei semplici
corpi naturali come di una materia per la generazione di corpi più compiuti e dotati di anima”. E poiché ciò che fa da materia in questo caso sono dei corpi, e questi sono già ciò che sono in virtù della forma, rispetto
alla loro forma la nuova forma è “forma di forme” (cfr. De anima 8.12);
in più, rispetto ai corpi semplici. A questi ultimi, una qualche partecipazione intrinseca al divino è comunque attribuita nella sezione finale, 49.28 ss., mentre secondo l’ipotesi di 48.22-27
essi riceverebbero la dÊnamiw divina solo in modo esteriore.
445 49.23. “Non sono più”: per l’uso di oÈk°ti in senso logico e non propriamente temporale, cfr.
supra, 49.2 e n. ad loc.
446 L’argomentazione che segue (49.22-25) si sviluppa in implicito riferimento da una parte alla differenza fra composti reali (prodotti per krçsiw, temperamento dei componenti) e
composti apparenti (prodotti per mera giustapposizione, parãyesiw), dall’altra, polemicamente, alla teoria stoica della mistione totale. Alessandro infatti descrive qui la mistione
apparente, che si produce per semplice giustapposizione, in termini molto simili a quelli
nei quali altrove riferisce ciò che Crisippo aveva sostenuto riguardo al vero e proprio temperamento, cfr. Alex. De mixt. 213.2 s., 5 s. (dove anche la struttura del periodare è fortemente parallela a queste righe della Quaestio II.3): come a dire che Crisippo non aveva distinto debitamente temperamento e giustapposizione. Inoltre, Alessandro propone qui che
i due tipi di composti, reali e apparenti, si differenzino per il fatto che solo nel vero e proprio temperamento la dÊnamiw divina interverrebbe e contribuirebbe alla composizione.
In particolare, tale intervento spiegherebbe la presenza in alcuni corpi di una facoltà superiore, quale l’anima dei corpi organici.
447 49.28-29, cfr. nn. (o) e (p) ad. loc.: la cesura forte fra 49.27 e 49.28, che nel testo stampato da
Bruns divide il testo della Quaestio II.3 in due sezioni, è voluta dall’editore (cfr. anche id. in
Bruns (1890), p. 143), sulla scorta di due codices descripti, G e F. Il testo che risulta da tale divisione non è sostenibile, nemmeno dopo l’intervento proposto dallo stesso Bruns, che espunge ka‹ t∞w in 49.28, e connette così t∞w prÚw êllhla (49.28) a gen°sevw (49.29). Per questo
Moraux (1967.1) p. 166 s., respingendo l’emendamento di Bruns e mantenendo tuttavia la cesura, propone invece un’inserzione di diaforçw dopo prÚw êllhla. Ma nessuna congettura
è necessaria, se si prescinde dalla artificiosa cesura di Bruns. In 49.28, dove Bruns legge la disgiunzione μ, l’archetipo V porta ∑w, con un punto sotto w, aggiunto dal revisore. Sovente infatti il più antico revisore (quello che Bruns chiama “v. c.”, vetus corrector) ha apposto punti sopra o sotto singole lettere o sillabe, non solo per suggerire espunzione ma anche per segnalare
dubbi e perplessità (cfr. Bruns [1892] p. XVI). A ragione, gli emendatori cinquecenteschi (Braid.
e Vict.) suggeriscono di leggere ∑n (“era”), il che si accorda peraltro con l’accento di V, del quale Bruns comprensibilmente si stupiva. Così il testo è leggibilissimo purché, rispetto all’edizione di Bruns, si sposti il punto fermo, e con esso la fine del periodo precedente, a dopo prÚw êllhla. La frase iniziata in 49.25 dirà che, secondo la prima lÊsiw proposta, il potere divino presente nella generazione dei corpi composti non contribuisce alla loro oÈs€a, ma “resta ciò che
era prima della loro composizione gli uni con gli altri”. Quanto alla frase successiva, questa si
legge senza problemi (nonostante l’asindeto, che G, F e Bruns intendevano presumibilmente
evitare, ma che per Alessandro è regolarissimo in siffatto contesto: lo si trova in tutti i luoghi
paralleli citati per questo passo a p. 26), purché non si tenga conto dell’emendamento di Bruns
in 49.28 (né, evidentemente, di quello di Moraux [1967.1] ad loc.).
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inoltre, poiché la forma è perfezione, la forma del composto, forma di forme, è “perfezione di perfezioni” (ibid. 8.12-13).
A giustificazione di tale dottrina generale e in funzione di essa, Alessandro spiega, sia nel De anima che nella Quaestio, la differenza fra corpi
semplici e corpi composti. Nella Quaestio precisa anche che i composti devono essere, perché la teoria sia valida, veri composti, e non semplici aggregati per giustapposizione. Distingue i corpi composti il fatto che le forme dei corpi che hanno fatto da materia nel modo suddetto danno un contributo alla forma del composto, ma non restano più quali erano prima della giustapposizione. suntele›n ti è l’espressione che Alessandro usa (De
anima 7.24, 8.11), dove l’indefinito ti pur lasciando indeterminata la modalità precisa dell’apporto, si riferisce in senso generale alle diafora€, come appare dalla contrapposizione con mhdem€an diaforån suntele›n
(ibid., 8.18). In virtù di tale multiplo suntele›n il composto (sÊnyeton)
è non solo poikil≈teron (7.23-8.10), ma, letteralmente, teleiÒteron. Secondo tale progressione e cumulo nei contributi formali e dunque nelle
perfezioni, ciò che è composto è migliore e dotato di una più alta perfezione (teleiÒteron, cfr. Quaestio II.3.48.29). C’è però comunque una relazione fra la forma dei componenti e quella del composto. Infatti i diversi livelli di maggiore o minore perfezione corrispondono al prevalere o meno dei corpi semplici migliori, vale a dire più sottili e più puri. Il componente migliore in assoluto è il fuoco, il peggiore la terra: da qui la forma e
dunque anima più o meno perfetta (teleiÒteron, étel°steron, secondo
la sezione finale di Quaestio II.3. 50.25, 27).
D’altronde anche secondo il De anima di Alessandro la presenza nei
corpi animati delle diverse facoltà (dunãmeiw) dell’anima può essere descritta come progressiva, maggiore perfezione; ed è pertanto anch’essa in
relazione con la composizione: le facoltà più semplici (èploÊsterai) sono “meno perfette” (étel°sterai) (De anima, 28.21-22), e diventano teleiÒterai per la presenza di altre facoltà superiori, nelle quali le prime sono implicate necessariamente, almeno nelle anime dei corpi mortali.
4.1. Carattere parzialmente dialettico della prima soluzione.
La proposta dottrinale di 49.14-18 è confinata prima in una proposizione
dichiarativa all’infinito, dipendente dalla formula dubitativa mÆpot’ oÔn
xrØ l°gein (48.22-24, 29); poi all’ottativo (oÏtv d’ ín e‡h deut°ra fÊsiw, 49.15); è verisimile che risalisse a una fase precedente di riflessione
all’interno della scuola, e che sia riscritta in questo modo in funzione del
suo superamento.448 Non altrettanto vale però per gli elementi costitutivi, di seguito esplicitati, sui quali tale proposta si costruisce: questi sono
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all’indicativo (48.24-25, 49.1-28), il che potrebbe già di per sé suggerire
che oggetto di dubbio non sono tali elementi dottrinali, ma la teoria nella quale questa parte del testo propone di inserirli.
Qui, Alessandro non sta semplicemente esponendo la sua opinione,
bensì, almeno da 49.14, sta mostrando a quali difficoltà la scuola andasse incontro per salvare la teoria, formulata sulla scorta del De mundo, di
una dÊnamiw che si aggiunga sui corpi già esistenti katå tØn geitn€asiw.
Al tempo stesso, da un altro punto di vista, e cioè da quello dell’economia globale dell’argomentazione e della preparazione degli sviluppi successivi, questa proposta costituisce un’ipotesi, per così dire, di minima.
La si può leggere così: si mantenga pure, per ora, che i corpi semplici, in
sé, non abbiano nulla di divino, e nulla derivino dalla dÊnamiw divina. In
tal senso, la possibilità disponibile, se si vuole rendere conto di quella
componente di divino che sembra insita negli esseri animati, e in particolare in quelli razionali, è che la ye€a dÊnamiw si aggiunga ai corpi semplici, in proporzioni variabili secondo del grado di purezza di ciascuno
(fra i quattro corpi semplici, infatti, alcuni sono più sottili e puri, in particolare il fuoco, altri più spessi, dunque meno adatti ad accogliere un
principio di perfezione superiore, come è quello dell’anima449), e interagisca con essi al momento del temperamento (krçsiw) nel quale si formano i composti. I composti sarebbero dunque dotati di una perfezione
superiore, e, almeno alcuni di essi, di anima, a causa della molteplicità di
dunãmeiw450 loro impartita dalla compresenza dei diversi corpi semplici.451
La teoria così formulata è, da un lato, virtualmente accettabile: si
accorda con altre teorie sostenute da Aristotele e dalla sua scuola; probabilmente consta di elementi che la scuola aveva già accettati; risponde all’esigenza di spiegare perché certi temperamenti possano avere un anima “più perfetta” e più completa di altri; e soprattutto connette l’origine dell’anima alla dÊnamiw celeste - nella quale consiste l’a448
449
450
451
Possono essere significative in tale senso le differenze fra questa parte della Quaestio e la corrispondente sezione della versione breve della Quaestio II.3 conservate nel MS Ven. Marc. 194,
cfr. supra, p. 38 n. 51.
Alessandro sembra qui avere in mente la dottrina di Aristotele De generatione animalium, cfr.
supra, Cap. III, § 10 p. 169 s.
Cfr. Alex. De anima, 2.16-18, 23-4.
Il passo in questione, 49.1-5, in part. 49.3, è di interpretazione difficile e controversa, cfr. supra la nota 438 ad loc. In ogni caso, è evidente che Alessandro non si sofferma qui su di una
differenza fra composti animati e composti inanimati. Distingue infatti fra composti apparenti (nei quali i componenti sono solo giustapposti) e composti reali (nei quali c’è stata una
vera crasi), e considera senz’altro questi ultimi come passibili di un qualche livello di animazione.
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zione della provvidenza. Sarebbe interessante indagare, in altra sede,
se tale teoria, benché assente in quanto tale in Aristotele452 e nel pensiero classico, non appartenga però in certo modo, traendone giustificazione, ad un bagaglio di credenze che Alessandro, e anzi più precisamente i suoi predecessori, avrebbero condiviso con altri uomini del
loro tempo, fra i quali certo potremmo allora annoverare, secondo il
parallelo recentemente evidenziato da Donini, anche il Galeno del De
usu partium.453
In ogni caso, la teoria qui formulata da Alessandro ha dei difetti.
Essa infatti non spiega compiutamente (se non con il breve cenno katå
tØn geitn€asin, 49.1), perché gli elementi stessi, o corpi semplici, siano quali sono: alcuni più, altri meno puri, sottili, adatti a ricevere l’anima. Per di più, introduce a livello sia della genesi che dell’ontologia,
una frattura alquanto artificiosa fra i quattro corpi semplici, che esisterebbero quasi materia bruta, a prescindere dall’azione provvidenziale, e corpi composti, che in quanto tali avrebbero una loro partecipazione al divino.
Secondo il giovane Moraux, questa è una soluzione laborieuse et contournée, che in quanto tale richiede superamento.454 Da parte nostra, abbiamo già osservato che l’uso stesso dei modi verbali vi lascia in qualche
modo presentire la necessità di ripartire da capo, dall’interrogativo di partenza, con una soluzione più globale e meglio formulata.
5. La y e € a d Ê n a m i w come causa eidopoietica
sulla materia informe (49.28-50.27)455
Così Alessandro, senza dire nulla di esplicito sul valore di questa teoria,456 propone però nella sezione finale, introdotta da dÊnata€ tiw
l°gein ka€ (49.28 ss.) e condotta interamente all’indicativo, un passo
più in là: estende ulteriormente la presenza della dÊnamiw nella formazione dei corpi, fino a farle dare conto della formazione dei corpi natu452
453
454
455
456
Spunti in questa direzione possono tuttavia essere i cenni aristotelici all’origine non corporea
dell’intelletto, cfr. supra, cap. III, § 10 p. 169.
Cfr. infra, p. 209 n. 484.
Moraux (1942), p. 36 s. L’osservazione, mi sembra, è corretta, purché non venga estesa come
principio generale a tutte le discussioni di Alessandro a soluzioni multiple, cfr. supra, “Introduzione”, p. 25 s., n. 26.
Sulle differenze fra il testo qui adottato in 49.28 ripristinandolo fondamentalmente dai manoscritti, rispetto sia all’edizione di Bruns sia alla proposta di emendamento di Moraux, cfr. supra, p. 198 n. 447 ad loc.
Sul rapporto fra la soluzione qui discussa dell’aporia, e la possibilità finale, cfr. infra, § 6, p. 208 s.
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rali semplici e primi.
Siamo ora nell’ambito della risposta negativa - quella che fin dall’inizio in qualche modo si attendeva - all’interrogativa dubitativa di partenza “ma è davvero, questa, un’altra natura?”
Essa infatti comporta, almeno per i corpi semplici, gli unici sui quali si esprime compiutamente, che la ye€a dÊnamiw non sia altra, diversa,
rispetto alla natura propria di ogni cosa.
Dice infatti:
[49.28] dÊnata€ tiw l°gein ka‹ t∞wq t«n èpl«n svmãtvn gen°sevw tØn
épÚ t«n ye€vn dÊnamin afit€an e‰nai aÈtØn ginom°nhn aÈt«n e‰dÒw te ka‹
fÊsin.
[49.30] ≤ går Ïlh katår tÚn •aut∞w lÒgon êpoiÒw te oÔsa ka‹ ésxhmãtistow ÍpÚ t∞w épÚ t«ns ye€vn svmãtvn dunãmevw ginom°nhw §n aÈtª §nerge€&t s«ma ¶sti te ka‹ g€netai, efidopoie›ta€ te ka‹ sxhmat€zetai: …w tÚ m¢n
prÚw t“ ye€ƒ s≈mati aÈt∞w, ka‹ geitni«n §ke€nƒ, ple€onow t∞w ye€aw metalambãnon dunãmevw, efidopoie›syai yermÒthti ka‹ jhrÒthti (taËta går tå
pr«ta t«n ép’ §ke€nvn §n to›w ynhto›w pãyh):
[50.3] tÚ d¢ ple›on éfestÚw t«n taÊthw t∞w metabol∞w te
ka‹ gen°sevw afit€vn aÈtª ye€vn svmãtvn, μ pãnt˙ to›w toÊtvn
§nant€oiw u efidopoie›syai, μ tÚ m°n ti toÊtvn, tÚ d° ti t«n toÊtvn v
§nant€vn e‰dÒw te ka‹ pãyow lambãnein katå tØn §ke€nvn êllote éllo€an prÚw tå tªde sx°sin, diå tØn §p‹ toË toioÊtou k€nhsin kÊklou
diafÒrvw efidopoioÊmenon.
[50.7] toiaÊth går ≤ toË zƒdiakoË diãyesiw, §f’ o kinoÊmena ¥liÒw
te ka‹ selÆnh ka‹ tå êlla tå plançsyai t«n ést°rvn legÒmena t“ m°n
tini t∞w Ïlhw m°rei, ⁄ mçllon μ ka‹ §ggut°rv prÒseisin •kãstƒ,
yermÒthtÒw te ka‹ jhrÒthtow a‡tia g€netai, §n oÂw tÚ e‰nai t“ pur€: t“ d¢
yermÒthtÒw te ka‹ ÍgrÒthtow, ¥tiw fÊsiw é°row: t“ d’ ÍgrÒthtÒw te ka‹
cuxrÒthtow, ¥ §stin Ïdatow fÊsiw: t“ d¢ t∞w ¶ti kataleipom°nhw §k t«n
q
r
s
t
u
v
49.28 ka‹ t∞w secl. Bruns
49.30 Ïlh katå V: Ïlh <≤> katå Bruns
49.31 épÚ t«n V: épÚ <t∞w> t«n Bruns
49.32 §n aÈtª §nerge€& Moraux: êneu t∞w §nerge€aw V
50.4 to›w toÊtvn §nant€oiw Spengel: to›w toÊtvn §nant€vn V
§nant€vw Bruns.
50.5 toÊtvn V: toÊtoiw Bruns.
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to›w e‡desi toÊtvn
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èpt«nw t«n pr≈tvn dÊo §nanti≈sevn <suzug€aw>x ¥per §st‹ cuxrÒthw
te ka‹ jhrÒthw, ì tØn t∞w g∞w sun€sthsi fÊsin. ka‹ toiaËta m¢n tå épÚ
t∞w ye€aw dunãmevw e‡dh §n tª Ïl˙ èplç te ka‹ pr«ta e‡dh genÒmena t∞w
t«n èpl«n svmãtvn oÈs€aw te ka‹ fÊsevw a‡tia.
[50.17] tå d’ §k t∞w toÊtvn ginÒmena m€je≈w te ka‹ krãsevw, ëte
pleiÒnvn koinvnoËnta dunãme≈n te ka‹ diafÒrvn svmãtvn, sÊnyetã te
≥dh g€gnetai ka‹ teleiÒtera, ka‹ ≤ teleiÒthw tey ka‹ tÚ e‰dow aÈto›w
diaf°ron g€gnetai katã te tØn §n to›w pr≈toiw efirhm°nhn t«n §n tª m€jei
t«n svmãtvn diaforãn.
[50.21] ¶sti går aÈt«n tå m¢n leptÒtera ka‹ poihtik≈tera, toiaËta gãr, ˜sa §ggut°rv ke›tai t∞w t«n ye€vn kinÆsevw: tå d¢ paxumer°stera ka‹ payhtik≈tera, ˜sa pl°on éf°sthke t∞w §ke€nvn forçw.
[50.24] ˜sa m¢n går t«n §n tª m€jei te ka‹ krãsei ple›on ¶xei t«n
leptomer«n te ka‹ kayarvt°rvn svmãtvn, toÊtvn teleiÒteron
tÚ e‰dow, ˜sa d¢ toË m¢n toioÊtou s≈matow ¶latton §n aÍto›w ¶xei,
ple›on d¢ toË payhtikoË te ka‹ paxumerest°rou, toÊtvn ka‹ tÚ e‰dow
étel°steron.
[49.28] Si può dire che la dÊnamiw che si genera dai corpi divini è causa
anche della generazione dei corpi semplici, divenendone esso stesso forma e
natura.457
[49.30] La materia, infatti, che per sua definizione è priva di qualità e di
configurazione, è e diviene corpo in atto, prende forma e figura per effetto del
potere generato in essa dai corpi divini. Cosicché quella parte di essa (che è) vicina al corpo divino e adiacente ad esso, partecipando di maggior dÊnamiw divina prende forma dal caldo e dal secco (queste infatti sono le prime affezioni che
derivano da quei corpi nei corpi mortali);458
[50.3] invece, la parte di materia più distante dai corpi divini, che per essa
sono causa459 di questa trasformazione e generazione, o prende forma in tutto
dalle affezioni contrarie a queste [prime],460 o prende forma e affezione ora da
queste, ora da quelle ad esse contrarie461 secondo il rapporto di volta in volta diw
x
y
457
458
459
460
461
50.13 èpt«n scripsi vide adn.: èpl«n V
50.14 <suzug€aw> addidi (potueris etiam e. g. suzeÊjevw) cfr. Mant. VIII. 127.13-15 (vide
adn. 466 infra)
50.19 te V: d¢ coni. Bruns
Sulla formula dÊnata€ tiw ... ka€ e il suo uso nella tipologia del metodo alessandrista delle soluzioni multiple, dove è impiegata per introdurre un’ultima soluzione che estende la portata
di ciò che è stato detto in precedenza ad un ambito più generale, cfr. supra, “Introduzione”,
§ 6, p. 26.
Si tratta della formazione del fuoco, elemento caldo e secco, direttamente adiacente al corpo
celeste.
50.4. aÈtª si riferisce presumibilmente alla materia (49.30), e afit€vn ai corpi divini, come apposizione inserita fra t«n e ye€vn svmãtvn.
Si tratta della generazione dell’acqua, caratterizzata dal freddo e dall’umido, affezioni contrarie alle due prime, caldo e secco.
Ne risultano caldo e umido (che costituiscono l’aria), o freddo e secco (terra).
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verso di quei [corpi] rispetto a quelli di quaggiù,462 modellandosi variamente a
causa del loro moto su tale circolo.463
[50.7] Tale è infatti la disposizione del circolo zodiacale: il sole, la luna e i
pianeti464, muovendosi su di esso, per ogni parte di materia cui maggiormente si
avvicinano465 divengono causa di caldo e secco, nei quali sta l’essenza del fuoco;
per un’altra, invece, divengono causa di caldo e umido, che è la natura dell’aria;
per un’altra, di umido e freddo, che è la natura dell’acqua; per un’altra ancora,
della <combinazione>466 rimanente dalle prime due contrarietà467 tangibili,468
462
463
464
465
466
467
468
50.6. L’espressione êllote éllo€an prÚw tå tªde sx°siw descrive il mutare della configurazione degli astri. Si ripete quasi formulare anche in Alex. De mixt. 223.12-13 e 225.32-33.
Per un’espressione aristotelica non dissimile, in analogo contesto, cfr. Phys. VIII.6.260a 7: diå
tÚ êllvw ka‹ êllvw ¶xein prÚw tå prãgmata; e per un analogo concetto, ma diversamente espresso, Arist. De gen. et corr. 336a 31-b19; Met. XII.6. 1072a 10-12.
Per l’uso di toioËtow (“tale”, 50.7) in riferimento a quel tipo particolare di obliquità che è propria al circolo dell’eclittica, cfr. subito dopo toiaÊth (ibid.), e anche Quaestio I.25. 40.29 t“
tØn y°sin te ka‹ tãjin toiaÊthn ¶xein. Si noterà che la tematica è già aristotelica (De gen.
et corr. 336a 31-b 19), salvo che Aristotele pone l’obliquità del circolo solo come causa dell’alternanza di generazione e corruzione nei viventi, mentre Alessandro estende lo stesso principio, articolandolo maggiormente, a causa della varietà delle forme (e‡dh) nei corpi semplici
e inorganici.
Letteralmente: “il sole, la luna e gli altri astri che sono detti vagare” (tå plançsyai t«n
ést°rvn legÒmena, 50.9). La lingua greca chiama “vaganti”, “erranti” tutti gli altri astri che
si muovono sull’eclittica, cioè il sole, la luna e i cinque pianeti fino ad allora noti (che chiamiamo ancora pianeti dalla radice del verbo planãomai, “errare, vagare”). Ma l’astronomia,
almeno da Platone in poi, muove dal presupposto che l’irregolarità del loro moto, nella quale consisterebbe il loro “vagare”, sia puramente apparente (cfr. Simpl. in De caelo 488.18 - 24).
Per questo Alessandro non chiama tali astri semplicemente “vaganti”, “erranti”, nonostante
l’uso invalso, bensì, più precisamente, “astri che sono detti vagare”.
50.9 - 11. La costruzione, se il testo greco è correttamente conservato, comporta una specie di
anacoluto: a una determinazione particolare della singola parte di materia si aggiunge una sorta di generalizzazione. Letteralmente: “per una certa parte di materia, per ognuna cui maggiormente si avvicinino, divengono causa” etc. Rispetto all’edizione di Bruns, la virgola che
precedeva •kãstƒ è stata spostata dopo tale pronome.
50.14, cfr. n. (x): il testo tradito è insoddisfacente e richiede un’integrazione: manca la parola
che indichi abbinamento, combinazione, così che la costruzione della frase resta claudicante.
Tale abbinamento è detto sÊzeujiw da Aristotele (De gen. et corr. II.3. 330a31 - 34) e suzug€a
da Alessandro in Mantissa 127.14 s. In quest’ultimo passo, l’esegeta spiega perché l’aria sia
calda, procede per esclusione, e dice che “poiché le combinazioni di caldo, freddo, secco e
umido sono quattro, e tre danno forma agli altri elementi, è ragionevole che l’abbinamento restante [≤ kataleipom°nh suzug€a, sc. umido e caldo] dia forma all’aria” (cfr. supra, p. 77 s.).
Questa espressione, ≤ kataleipom°nh suzug€a, detta a proposito delle combinazioni possibili delle contrarietà tangibili, presenta un parallelismo quasi formulare con quello qui in esame della Quaestio II.3, così da suggerire che anche in questo la dÊnamiw sia detta causa t∞w
¶ti kataleipom°nhw §k t«n èpl«n t«n pr≈tvn dÊo §nanti≈sevn <suzug€aw>, ¥per §st‹
cuxrÒthw te ka‹ jhrÒthw, ktl.
Alessandro annovera due - e non quattro - contrarietà prime, intendendo che ciascuna sia costituita a sua volta di due contrari, uno appartenente alla coppia caldo e freddo, l’altro appartenente alla coppia secco e umido Cfr. supra, p. 78 s. n. 150.
50.13, cfr. n. (w) ad. loc.: il testo tradito parla di “contrarietà semplici”, èpla› §nanti≈seiw:
un’espressione poco significativa e anzi tautologica (visto che tutte le contrarietà, di per sé, so-
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cioè di freddo e secco, che costituiscono la natura della terra. E tali sono le forme provenienti dal potere divino nella materia, forme semplici e prime che divengono causa della sostanza e della natura dei corpi semplici.
[50.17] I corpi invece che si formano dal mescolamento e temperamento di
questi [corpi semplici] in quanto partecipano di più poteri e di corpi differenti
sono ormai corpi composti e più compiuti e la loro perfezione, che è forma,469
diventa diversa a seconda della differenza della quale si è detto in precedenza fra
i corpi presenti nei composti per mescolamento.470
[50.21] Alcuni di questi composti sono infatti più sottili e attivi: tali sono
quelli che stanno più vicini al movimento dei corpi divini; altri invece sono più
densi e più passivi, quelli cioè che sono più distanti dal movimento di quei corpi.
[50.24] Quanti infatti dei composti per mescolamento e temperamento
hanno maggior quantità dei corpi più sottili e più puri, hanno una forma più
perfetta, mentre quelli che hanno in sé una quantità minore di tale corpo, e invece una prevalenza di quello passivo e più denso, hanno anche una forma meno compiuta.
Secondo una cronologia di carattere puramente ideale, Alessandro
descrive ora il momento assolutamente primo della produzione di forma nella materia.471 La ye€a dÊnamiw produce nelle parti di materia che
sono più vicine al corpo celeste le prime “forme” (e‡dh)472, cioè caldo
e secco. Questi sono i primi effetti della ye€a dÊnamiw, dice Alessandro,
negli esseri mortali. (50.2-3).473 Il fuoco infatti è caldo e secco: “queste
469
470
471
472
473
no semplici), entrata probabilmente nella tradizione manoscritta come lectio facilior rispetto
alla precisa e caratteristica espressione aristotelica e alessandrista “contrarietà tangibili” èpta‹ §nanti≈seiw (cfr. Arist. De gen. et corr. II.2 329b 11; Alex. De anima 40.24, 58.27; qui supra, pp. 79-81).
50.19. Come in quasi tutte le precedenti coppie sinonimiche incontrate in questo testo (cfr. supra, n. 420 p. 187 in 48.8), anche qui i due termini sono connessi da te ka€, nella tradizione
manoscritta. Di qui l’inopportunità dell’intervento di Bruns, cfr. n. (y) ad. loc.
Lascia perplessi nel testo greco la presenza del te in 50.20: ci si aspetterebbe il ka€ corrispondente dopo diaforãn. È possibile che tutto ciò che segue, da 50.21 alla fine, sia un inciso, da
pensare come fra parentesi? In tal caso dovremmo presumere che il testo originale non terminasse qui ma continuasse, e che ciò che è in nostro possesso ne costituisca solo una parte.
Si parla di materia prima, che in realtà non esiste mai di per sé - di qui l’assoluta idealità del fenomeno di generazione. In realtà, la formazione è sempre trasformazione: un certo corpo semplice,
sotto l’azione della dÊnamiw, si muta in un altro, abbandonando la sua forma precedente.
Vediamo così che e‰dow per Alessandro non è solo la forma compiuta dell’oÈs€a, ma è anche
il più semplice elemento di determinazione che tolga alla materia il suo essere assolutamente
indeterminata. Cfr. supra, cap. I, § 4, in part. p. 78.
Fa autorità, in questo, presumibilmente, l’affermazione dei Meteorologica, secondo la quale la
parte del mondo sublunare che è più direttamente a contatto col corpo divino, è la sfera del
fuoco. Più precisamente, anzi, Aristotele dice “una specie di fuoco” (oÂon pËr, Meteor. I.3.
340b 32) o “ciò che per abitudine chiamiamo fuoco, ma non è fuoco” (˘ diå sunÆyeian kaloËmen pËr, oÈk ¶sti d¢ pËr, ibid. 340b 22); ma nei contesti qui in esame Alessandro parla
di fuoco tout-court. Poiché d’altronde in un passo di poco precedente (339a 21-24, cfr. supra, cap. III, p. 162) Aristotele dice che la materia di quaggiù è governata dalle rivoluzioni ce-
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infatti sono le prime affezioni che derivano da quei corpi nei corpi mortali”.474 Inoltre, secondo il principio aristotelico per il quale “dei contrari sono causa i contrari”475, la stessa dÊnamiw produce, nella parte di
materia più lontana, le “forme” opposte, cioè freddo e umido. Nelle parti intermedie produce freddo e secco, o caldo e umido. I corpi semplici si formano dall’abbinamento a due a due di queste “forme” semplici
o contrarietà tangibili che la ye€a dÊnamiw provoca nella materia.
Come si vede, la formulazione di tale teoria, assente di per sé in
Aristotele, si inserisce tuttavia, per quanto possibile, nelle griglie teoriche della fisica aristotelica. Nel descrivere la formazione dei corpi
semplici, Alessandro prende infatti a fondamento, sulla scorta di Aristotele, le prime “contrarietà tangibili”, e cioè le due coppie di affezioni (pãyh) contrarie: caldo e freddo, secco e umido (cfr. De gen. et
corr. II.2-3). Innestando tale embrionale alchimia degli elementi sulla
cosmologia, dei Meteorologica, che pone la sfera del fuoco al limite superiore del mondo sublunare, direttamente in contatto con il corpo celeste, Alessandro può dire che caldo e secco, che caratterizzano il fuoco, “sono le prime affezioni che derivano ai corpi mortali” dalla dÊnamiw dei corpi celesti.476
E poiché “dei contrari sono causa i contrari”477, quella stessa dÊnamiw, nelle parti più lontane, produrrà - dice Alessandro - o le affezioni
opposte, freddo e umido, e allora darà luogo all’acqua; o caldo e umido, che costituiscono la forma e natura dell’aria; o freddo e secco, che
sono forma e natura della terra.478
474
475
476
477
478
lesti, Alessandro sembra radunare le due indicazioni, istituendo fra questo governo e la presenza del fuoco nella sfera superiore un rapporto come fra causa e effetto.
Quaestio II.3. 50.2-3.
Cfr. per esempio, proprio in questo tipo di contesto, De gen. et corr. II.10. 336b 9; inoltre Meteor. IV.6. 383b 16 s.; Phys. II.3. 195a 11-14.
Quaestio II.3. 50. 2-3.
Cfr. n. 475. Nella Quaestio II.3 il principio viene evocato implicitamente, cfr. 50.9-15.
Quaestio II.3. 50.9-12. L’argomentazione è strutturata sulla falsariga di De gen. et corr. II.10,
dove Aristotele dice, non però degli astri in generale, ma del sole in particolare, che “se, avvicinandosi ed essendo vicino, è causa di generazione, allontanandosi ed essendo lontano è causa di corruzione: dei contrari infatti sono causa i contrari”. Che tale teoria si presti a fare da
tramite fra un certo tipo di speculazioni astrologiche, che vi trovano implicito fondamento, e
la scienza degli elementi, non era sfuggito a Duhem (1914), p. 344-359. Lo conferma l’importanza che essa riveste per l’alchimia di Ja– bir, nel cui corpus la teoria alessandrista degli elementi,
quale si trovava espressa nell’ora perduto commento di Alessandro in De gen. et corr., capp.
II.2-5, ha ruolo di base teorica, cfr. Kraus (1942), p. 322-323. L’ipotesi di Kraus, che Ja–bir utilizzi Alessandro, è risultata corretta alla luce dell’esame comparato fra le testimonianze superstiti in greco, in part. ap. Filopono in De gen. et corr., e il MS Paris 5099, che conserva l’opera
–
Kita– b al-Tasrif di Ja– bir , cfr. Gannagé (1998) e Fazzo (1999.1), (2002).
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Nel complesso, quest’ultima ipotesi è più semplice e radicale della
precedente: ogni corpo, semplice o composto che sia, esiste come tale
solo in quanto ha ricevuto forma dalla dÊnamiw prodotta dal movimento dei corpi celesti. Il principio generale che la soluzione precedente applicava alla sola formazione dei composti animati (e cioè l’attribuzione
della loro formazione alla dÊnamiw) viene applicato qui alla formazione
dei corpi semplici, connettendola espressamente alla dÊnamiw esercitata
dai moti celesti. Così, la dÊnamiw divina viene identificata senz’altro con
la Natura anche nei corpi semplici, e non si deve più dire che i corpi semplici preesistono da sé, senza alcuna partecipazione al divino. È una forma di unificazione dell’universo fisico: non più una prima e una seconda fÊsiw, secondo quanto avrebbe comportato la dottrina esposta in
48.22-49.27; bensì una fÊsiw sola, divina, che forma diversamente i diversi corpi, a seconda dei gradi di prossimità (geitn€asiw) e dei modi di
composizione.479
Quest’ultima possibilità conferma e approfondisce il ruolo già precedentemente attribuito alla ye€a dÊnamiw da Alessandro e probabilmente dai suoi precursori nella scuola, a quanto appare da altri testi meno specifici, fra i quali l’esordio qui sopra citato (p. 190) dell’opuscolo
Mantissa XXIII.
Lì, e più ancora qui, si vede confermata la relazione di causalità e anzi di identità fra dÊnamiw divina e natura. Tuttavia, il modo in cui Alessandro introduce questa soluzione non chiarisce di per sé quale sia la relazione fra quest’ultima teoria e quella sostenuta nella sezione precedente.
6. Soluzioni multiple nella Quaestio II.3?
A questo proposito, va innanzitutto ricordato che in quella precedente
sezione si elaborava la possibilità di una risposta positiva all’interrogativa disgiuntiva di partenza, quella cioè che viene introdotta nell’esordio, 47.31, dalla locuzione îrã ge (“Ma è davvero questa (sc.: la ye€a
dÊnamiw) un’altra natura… ?”); e che d’altronde tale locuzione sembrerebbe di per sé preludere almeno tendenzialmente a una risposta negativa. Si era pertanto osservato (qui supra, p. 182 s.) che, proprio nella misura in cui îrã ge prepari effettivamente una risposta piuttosto negativa che non positiva, la teoria differente, e correttiva dell’ipotesi di
partenza esposta in quest’ultima parte della Quaestio (49.28 ss.) risulta
essere preparata fin dall’inizio.
479
Ibid. 49.28 ss., cfr. De prov. 148.9-24, tr. 149.11 - 28 e passim.
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Si è già notato che la dottrina precedente, presentandosi come soluzione dell’aporia, era introdotta da mÆpot’ oÔn xrØ l°gein (48.22) e che
le sue sezioni caratterizzanti erano all’ottativo, mentre qui la locuzione introduttiva è dÊnata€ tiw e lo svolgimento è all’indicativo. Inoltre dÊnata€ tiw è seguito da ka€ e anche questo è un dettaglio importante. Il ka€
infatti ha qui peso avverbiale forte480: la tesi introdotta da dÊnata€ tiw è
presentata come possibilità interpretativa ulteriore, che non nega né
esclude automaticamente le precedenti - come indica il ka€ - e però è realmente e sicuramente valida, come implica l’uso dell’indicativo che caratterizza l’intera sezione.
D’altra parte, questa sezione è ben lungi dal dare conto dell’interezza
dei fenomeni di formazione, composizione e generazione in natura. Si parla innanzitutto della formazione dei corpi semplici (49.28-50.17); poi si ricorda che, essendo alcuni di questi più puri, sottili e vicini al corpi celeste,
altri di meno (ci si riferisce di nuovo, evidentemente, alla sequela fuoco,
aria, acqua, terra), anche i composti nei quali prevalgano gli uni o gli altri
saranno dotati di una forma più o meno perfetta (da 50.17 ad finem, 50.27).
Queste righe riassumono481, o per così dire trascrivono selettivamente una
parte della sezione precedente (49.4-12), dove si diceva, secondo uno schema discorsivo analogo, che a seconda del corpo prevalente nel mescolamento i composti sono dotati di un’anima più o meno perfetta. Significativamente, tale trascrizione ha epurato ogni cenno esplicito alla psichicità dei
corpi composti: diversamente dalla precedente, questa sezione finale non
dice assolutamente nulla sull’anima e sui suoi diversi gradi di perfezione.
D’altra parte, tali indicazioni si trovavano lì espresse all’indicativo,
in un modo di per sé congruo e compatibile con la dottrina espressa in
questa sezione.
Si sarebbe dunque portati a ritenere che la dottrina finale introdotta da dÊnatai ed espressa dagli altri indicativi che a questo fanno
seguito si possa o anzi si debba integrare con quell’altra serie di proposizioni all’indicativo che facevano seguito alle formulazioni dubitative e ipotetiche nella sezione precedente.482 Secondo quanto si era infatti a suo luogo osservato (pp. 199-201), questi indicativi frammisti
agli ottativi non saranno dovuti a incuranza o distrazione, bensì inclu480
481
482
Cfr. supra, “Introduzione”, p. 26 e i luoghi ivi citati. In questi si verifica che, non ponendosi in
antitesi alla soluzione precedente, dÊnata€ tiw non è preceduto dalla disgiunzione (come invece sarebbe secondo l’edizione di Bruns in 49.28) ed è sovente seguito da ka€ avverbiale (cfr.
in Met. 141.21-2, 171.14, 375.9, in An. Pr. 392.32).
Donini (1996) p. 18.
Donini (1996), ibid.
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dono pari pari in quel quadro ipotetico elementi di per sé riconosciuti come validi dalla scuola.483
Resta però la perplessità di fondo: perché, se davvero c’è questa continuità, Alessandro non l’ha espressa chiaramente, e l’ha invece interrotta distribuendo vari pezzi di un’unica dottrina in una pluralità di soluzioni?
Un’ipotesi è che anche per questo si debba pensare alle diverse stratificazioni storico-dottrinali, delle quali la Quaestio, secondo l’analisi fin
qui condotta, presenterebbe lo spaccato.
Si direbbe allora che c’è un intento, perseguito non senza fatica, di
continuità rispetto alla tradizione; e c’è un rigore di metodo - superiore
forse in Alessandro che nei suoi predecessori - che impedisce, nelle formulazioni più originali dell’esegeta, l’immissione di elementi che risulterebbero indimostrati e indimostrabili da un punto di vista aristotelico: tale, effettivamente, sarebbe la teoria che riporta direttamente alla dÊnamiw
celeste l’origine dell’anima negli esseri superiori. D’altronde tale teoria costituisce forse non tanto un bagaglio dottrinale specifico della scuola peripatetica prealessandrista, quanto un portato, nella scuola stessa, della cultura dell’epoca: in tal senso si potrebbe interpretare il già citato parallelo,
recentemente evidenziato da Donini, con il De usu partium di Galeno.484
Quanto alla dottrina stessa esposta nella sezione finale (49.28-50.27)
di per sé considerata, è notevole come essa consti di un’unica proposizione dichiarativa (49.28-30) direttamente dipendente da dÊnata€ tiw
l°gein ka€, che esplicita il portato innovativo di questa ultima soluzione;
e poi di una serie quasi ininterrotta di incisi ed excursus esplicativi (49.3050.7, contenente come ulteriore inciso 50.1-2, 50.7-15, 50.22, 50.22-27).
Questo indica il carattere fortemente asseverativo, se non della dottrina
in sé, almeno degli elementi - in questo caso, di tutti gli elementi - dei quali e composta. È data per certa la dottrina ripresa da 49.4-12, secondo la
quale hanno forma “più perfetta” i corpi nei quali prevalgono elementi
più puri; lo è altrettanto (e prima ancora) la dottrina, dalla quale questa
in qualche modo deriva, della forma del composto come sinergia di dunãmeiw diverse, che a tale molteplicità di contributi deve la sua superiore
perfezione (questa infatti è dottrina stabile di Alessandro, visto che cor-
483
484
Questo è valido a maggior ragione per gli incisi e brevi excursus di carattere esplicativo, introdotti da gãr, presenti nella Quaestio, che sono regolarmente, secondo l’uso di Alessandro, all’indicativo (48.2-4, 48.9-11, 48.24-25, 49.9-14, 49.25-27), cfr. anche supra p. 186.
Donini (1996) pp. 25-6 e nn. 27-29 in Galeno De usu partium, II.446.12-13, 447.8, 12 Helmreich. A differenza di Alessandro nella Quaestio, Galeno parla solo dell’intelletto. Così d’altronde, almeno esplicitamente, anche Alessandro in De providentia 160.23 ss., tr. 161.26 ss.
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risponde a quanto da lui più diffusamente asserito in De anima, 7.218.17)485; ancora prima, è dato per sicuro che la vicinanza o meno del corpo celeste sia causa per la materia dell’essere calda e secca, che costituiscono la natura del fuoco, o al contrario fredda e umida, quale è la natura dell’acqua, o del suo trovarsi in condizioni intermedie, ed essere calda
e umida (aria) o fredda e secca (terra).
7. Il divino in tutte le cose: la versione non stoica di una dottrina stoica
Una conferma del carattere non semplicemente dialettico ma positivamente assertivo di quest’ultima pagina (da 49.28 ad finem)486 viene da
un parallelo con il trattato De mixtione, scritto da Alessandro a difesa
della fisica aristotelica e confutazione della fisica stoica, in particolare
p. 225.28-226.14 Bruns.
Il parallelo fra i due passi evidenzia elementi importanti tanto di similarità che di differenza. E’molto simile il contenuto: i corpi semplici
traggono il principio della loro generazione e della loro trasformazione
reciproca dalla configurazione (sx°siw), di volta in volta in volta diversa
(êllote éllo€a), dei cieli nei loro confronti.
Quanto alle espressioni adottate, alcune sono assolutamente identiche,
mostrando che Alessandro faceva riferimento a una dottrina già assestata e
costituita. In entrambi i casi, infatti, si dice qual’è la causa (afit€an, 225.31,
49.29) della generazione dei corpi semplici (t∞w gen°sevw aÈto›w ka› t∞w
efiw êllhla metabol∞w 225.33-34; t∞w t«n èpl«n svmãtvn gen°sevw,
49.28-29): e in entrambi questa causa è la configurazione di volta in volta diversa dei corpi celesti rispetto a quelli di quaggiù (tØn t«n oÈran€vn
svmãtvn êllote éllo€an prÚw aÈtå sx°sin 225.32-33; tØn §ke€nvn êllote éllo€an prÚw tå tªde sx°sin, 50.6)
Quello che fa la sostanziale differenza, è che nel De mixtione quest’azione dei cieli non è chiamata dÊnamiw, e men che meno ye€a dÊnamiw; e i cieli stessi, che nella Quaestio sono tå ye›a, nel De mixtione sono
tå oÈrãnia s≈mata (225.32).
D’altra parte, in un contesto antistoico come quello del De mixtione
non è stupefacente che Alessandro dalla sua esposizione positiva abbia
485
Così anche Moraux (1942) p. 36.
486
Tale non è l’avviso di Donini (1996) del quale va segnalata una molto diversa interpretazione
di questa sezione di testo: secondo Donini, in part. p. 17, la dottrina che vi viene esposta è completamente deviante rispetto alla fisica-chimica di Aristotele, e non va presa sul serio. Per una
discussione su alcuni motivi di una tale valutazione, cfr. supra, p. 183 s. n. 413.
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evitato ogni riferimento al divino - così onnipresente per gli stoici - e alla
sua dÊnamiw. Lo scopo, evidentemente, è di accentuare la sua distanza
dalle tesi degli avversari. Se ne vede bene la ragione, da come usa il termine dÊnamiw nell’esposizione della dottrina degli avversari:
Riguardo ai corpi che si generano per natura, dicono che è la dÊnamiw nella materia a dare loro forma e a generarli (§p‹ d¢ t«n ginom°nvn fÊsei §n tª
Ïl˙ e‰nai tØn dÊnamin tØn morfoËsãn te ka‹ genn«san aÈtã). Tuttavia vediamo che questo non si accorda con ciò che avviene.487
Naturalmente si tratta di una dÊnamiw divina agisce molto diversa, e
cioè della dÊnamiw t∞w Ïlhw, nella quale, secondo ciò che dice poco più
oltre Alessandro, gli stoici finiscono con l’identificare la divinità (≤ dÊnamiw t∞w Ïlhw §st‹ ı yeÒw. fas‹ går tØn Ïlhn poie›n tª §n aÈtª dunãmei 226.12-13).
Si capisce pertanto che nel De mixtione Alessandro preferisca non parlare di dÊnamiw né personalmente, né a nome della scuola. La situazione infatti è in qualche modo ambigua, tanto più che, come si è visto, quella dÊnamiw degli stoici è anch’essa morfoËsã te ka‹ genn«sa, e dunque si potrebbe dire che nel concreto ha un ruolo molto simile a questa dÊnamiw di
Alessandro cui pertiene una funzione lato sensu generatrice, e dalla quale
più specificamente, secondo la sezione finale della Quaestio II.3, la materia
“prende forma e figura (efidopoie›ta€ te ka‹ sxhmat€zetai, 49.33-34).
Invece, nel contesto della Quaestio II.3, e specificamente in questa sua
parte conclusiva, Alessandro sembra lasciare da parte la polemica antistoica. Non è infatti riluttante a sostenere positivamente una tale teoria, la quale comporta che il divino, pur senza controllare i singoli eventi del mondo
sublunare, sia in qualche modo presente in tutte le cose, in misura diversa
secondo la recettività di ciascuna:488 la dÊnamiw agirebbe non solo nella formazione dei composti, contemperandosi in qualche modo nella mistione
che ad essi dà luogo e dotandoli di una più alta perfezione, ma già sulla formazione dei corpi semplici, causandone i caratteri costitutivi con una sorta di attività eidopoietica originaria, quale è descritta in 49.30-50.15.489
487
488
489
De mixt. 225.26-28.
Lo osserva Alessandro stesso a più riprese, non però qui, ma in De providentia 148.1-150.18,
154.13-20, tr. 149.1-151.22, 155.14-22.
Unificando in tal modo la realtà fisica sotto un principio comune, Alessandro fa fronte peraltro a una critica di Attico (frgm. 8. 17-25 des Places) contro Aristotele, come osserva Donini
(1996) p. 19: Alessandro, nota Donini, ottiene “di unificare la realtà fisica nel senso che su tutta quanta si eserciterebbe egualmente l’azione del medesimo principio. Il che, si ricordi, è esattamente quanto Attico rimproverava ad Aristotele di non aver voluto fare”.
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In termini concettuali e lessicali aristotelici, Alessandro è giunto così ad affermare ciò che Aristotele non aveva mai affermato, e che gli stoici invece sostenevano con successo, ma in termini diversi e incompatibili rispetto alla fisica aristotelica. Alessandro critica gli stoici in quanto essi conferiscono al dio natura corporea, e sostengono che esso penetri tutto l’esistente: li critica, perché questo è incompatibile sia con la dignità
propria del divino,490 sia con il principio fisico dell’incompenetrabilità dei
corpi.491 Tuttavia, una volta raggiunta una diversa formulazione, secondo la quale - come già nel De mundo - c’è differenza fra il divino in sé, che
può essere corporeo, e la sua dÊnamiw,492 che agisce nel sublunare e non
ha carattere corporeo, allora l’idea che il divino come dÊnamiw sia presente in tutte le cose diventa accettabile anche per un aristotelico. Quasi
che il distacco di Alessandro dalle scuole rivali si giocasse più sui postulati teorici di fondo che sul contenuto descrittivo delle rispettive dottrine; e che dunque nelle tesi avversarie, non fossero sotto accusa le teorie
in sé considerate, ma la trasgressione delle coordinate logiche e concettuali che strutturano l’aristotelismo, in particolare questo aristotelismo,
come sistema.493
490
491
492
493
Cfr. anche Alex. (?) De intellectu, = Mantissa 113.12 s.
Cfr. supra, cap. III, p. 165 s. e n. 361.
Cfr. De mundo 397b 19-20, con Thillet (1979), “Intr.”, p. 43.
Sulla sostanziale prossimità di Alessandro ad alcune delle tesi stoiche, cfr. Mansfeld (1988), p.
204 n. 86, e inoltre p. 187-8, dove nota che in De fato, 2 Alessandro accomuna stoici e aristotelici nel novero di coloro che sostengono l’esistenza del fato.
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Considerazioni conclusive
L’indagine sul metodo di Alessandro qui condotta attraverso l’analisi di
alcuni gruppi di opuscoli legati a tematiche specifiche (la materia, la forma, la provvidenza e il divino) induce consuntivamente ad alcune considerazioni più generali.
Non tutti gli opuscoli conservati dalla scuola come épor€ai ka‹ lÊseiw sono propriamente aporie. Ma tutti dicono qualcosa sul rapporto,
che l’attività di chi scrive presuppone, con la tradizione esegetica e con i
testi di Aristotele.
Nel rapporto con i testi di Aristotele si possono sommariamente distinguere due aspetti, quello sistematico e quello aporetico. Il primo, il
più presente e meglio attestato, è un rapporto indiretto, mediato dalla
tradizione di scuola: questo infatti è il modo più naturale in cui viene
letto qualsiasi testo che sia fondativo di una tale tradizione, a maggior
ragione se chi lo legge è nella scuola e lavora per la scuola. Il presupposto è che l’opinione di Aristotele sia corretta e vera, e che la si debba
mostrare in ogni ambito “più vera” e non meno coerente di quelle sostenute da altre sette filosofiche. In questa prospettiva i testi di Aristotele costituiscono una sfida permanente, che porta Alessandro a rivisitarli direttamente (tale infatti è la funzione di base del commentario continuo) per sottoporre il magistero dei predecessori a una verifica critica
punto per punto, problema per problema. Così praticata, l’interpretazione dei testi non è un mezzo per affermare una dottrina già stabilita,
ma piuttosto per chiarificarla e per rinforzarla, sia evidenziandone o all’occorrenza ricostruendone la struttura logica, sia precisandone i riferimenti testuali e corroborando sistematicamente le connessioni fra indicazioni variamente dislocate nel corpus aristotelico. Tale, non a caso,
è l’eredità dei commenti di Alessandro nell’opera degli esegeti successivi: costellazioni di loci paralleli, e un patrimonio estensivo di analisi
della struttura logica del testo, elaborata sia sulle grandi sezioni e libri,
sia sui singoli passaggi argomentativi (isolati in forma di lemmi e sottolemmi). È un’analisi che evidenzia i sillogismi, le diairesi e le altre pro213
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cedure argomentative, dove sono riconoscibili, e che con la stessa naturalezza li introduce riformulando il discorso dove non sono altrettanto riconoscibili; così, nella maggior parte dei casi, questa esegesi determina anche nei fruitori più critici (pensiamo per esempio a Filopono)
l’intendimento del senso generale del testo e della connessione fra le diverse sue parti. Questa riformulazione, peraltro, non è sempre priva di
un suo impatto dottrinale. Non solo infatti, il testo di Aristotele, ripetuto con le parole dell’esegeta, si trova tradotto nel linguaggio della
scuola, e ne assume le distintive caratteristiche di uniformità e regolarità del lessico, ma le strutture stesse del pensiero vengono ricondotte a
schemi semplificati, più versatili di quelli originali in vista di quel coordinamento intertestuale fra le diverse dottrine di Aristotele, che dell’esegeta è finalità sottintesa ma costante. Ricorrente fra tutte, compare sia
in ambito fisico che psicologico e metafisico l’opposizione di fondo fra
forma e materia, nella quale, come formulazioni diverse di un’unica, fondamentale polarità, confluiscono e si riassumono opposizioni aristoteliche quali atto e potenza, attivo e passivo, predicato e oggetto di predicazione, sostanza e sostrato, anima e corpo.
Nel margine che resiste ancora irriducibile a un così imponente ripensamento del corpus, si inscrive un altro lascito distintamente alessandrista nei commenti successivi, cioè la rassegna di possibilità diverse per
intendere i passi difficili o controvertibili. È in questo contesto che ha un
ruolo caratterizzante l’uso dell’aporia intesa in senso stretto, come reale
difficoltà di trovare una soluzione e via d’uscita. Nella pratica dell’aporia
- o della soluzione multipla, che costituisce il versante aporetico dell’esegesi nei commentari - si esprime infatti la complessità del rapporto fra testo, esegesi, e tradizione, e la problematicità dell’intento, che quel rapporto presuppone, di ricomporre le sfasature, di risolvere e chiarire le opacità nelle relazioni fra le diverse parti del sistema.
È appunto così, tramite l’aporia, che l’aristotelismo greco, nella fase
terminale della sua evoluzione, elabora le incoerenze, le lacune e le fratture, presenti sia nei testi di Aristotele, fra trattati e teorie diverse, sia nell’interpretazione scolastica dei testi medesimi. È questo il luogo nel quale la ricomposizione si frena, incontra il suo limite.
Ed è partendo da qui che in questo libro ho cercato di ripercorrere
la fortuna dell’esegesi di Alessandro a ritroso, rovesciandone per così dire la logica.
Oggi infatti proprio quelle sovrapposizioni fra testo e testo, fra interpretazione e interpretazione, fra testo e interpretazione, che la scuola
tendeva ad appiattire e normalizzare, possono apparire, in un senso spe214
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cularmente opposto a quello degli esegeti tradizionali, del massimo interesse, come punti di sutura e luoghi della ricomposizione nei quali si possono ancora distinguere le diverse fasi interpretative di un certo passo, di
un certo problema. Proprio lì infatti, lavorando analiticamente a ritroso,
si può cogliere una stratificazione dottrinale nella proposta esegetica delle diverse generazioni di maestri.
Le cosiddette Quaestiones sono ambito privilegiato per questo sondaggio in profondità, che sarebbe proficuo proseguire su quelle sezioni
dei commenti nelle quali Alessandro propone, per un passo, più possibilità interpretative.
L’esame delle aporie nelle Quaestiones e quello delle soluzioni multiple nei commenti possono trarre vantaggio l’uno dall’altro. Nei commenti si vede infatti in che modo, sul terreno concreto della lettura di
scuola, nascano l’aporia, la difficoltà, la necessità di proporre ad un problema soluzioni diverse. L’indagine sulle Quaestiones, nei casi più eloquenti, insegna che le soluzioni diverse non nascono tutte contemporaneamente né alla stessa stregua, ma ciascuna aveva ragione d’essere in un
contesto e in una fase esegetica determinata, mentre l’affiancarsi di una
soluzione successiva indica l’evoluzione di quel contesto e di quella fase
esegetica e la necessità di un loro superamento.
Nell’uno e nell’altro caso, l’evoluzione può andare nella direzione di
un ampliamento del significato e delle implicazioni dei termini e delle dottrine, non da ultimo tramite la loro riduzione ai termini più generici e generali, che sono anche i più comprensivi - come sopra si è accennato riguardo all’opposizione fra forma e materia. E dove questo è più evidente, lì meglio si vede come l’interpretazione o soluzione successiva non abolisca la precedente ma vi si ponga in continuità, secondo un percorso di
sviluppo progressivo. È uno sviluppo che ha una sua coerenza, perseguita nella dialettica interna fra elementi conservativi (spesso attestati in semplice forma di excursus, come digressioni più o meno parentetiche) e elementi di innovazione (che presuppongono i primi come patrimonio da
preservare e come fondamento giustificativo).
È una fase decisamente vitale. Non a caso, ovunque nel tempo e
nello spazio lo studio di Aristotele riprenda vitalità e interesse nel riscontro con i testi originali (già dunque in età tardo-antica, con le scuole di Alessandria e di Atene, poi con i grandi commentatori del medioevo arabo e latino, e ancora in Italia fra Quattro e Cinquecento, in
Germania alla fine del XIX secolo, e di nuovo anche in questi ultimi
decenni del secolo, con la recente fioritura, soprattutto in ambito analitico, di edizioni e traduzioni e studi sui commenti greci ad Aristote215
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le) allora tornano ad essere importanti i commenti di Alessandro, come quelli nei quali l’acribia esegetica lavora al servizio della coerenza
sistematica; e trova nell’aporia lo strumento specifico per una costruzione più resistente e versatile perché costitutivamente più immune dall’intrinseca fragilità del dogmatismo.
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Index nominum
(Questo indice comprende solo gli autori moderni. Per gli autori antichi si rinvia all’Index locorum)
Abbamonte, G.m24 n. 22
Accattino, P.m30 n. 34, 32 n. 39, 53 n. 83, 75 n.
140, 76 n. 141, 76 n. 142, 85 n. 171, 88 n.
184, 94 n. 196, 95 e n 198, 96 n. 202, 98 n.
209, 102 n. 218, 110 n. 234, 144 n. 297, 152
n. 315, 179 n. 407, 192 s. n. 432, 196 s. n. 441
Aouad, M.m68 n. 129
Apelt, O.m40, 183 n. 412, 196 n. 440
Berti, E.m61 n. 110, 134 n. 276, 155 n. 324, 160
n. 341
Blumenthal, H. J.m36 n. 47
Bodnár, I. M.m154 n. 323
Bonitz, H.m24 n. 20, 46 n. 64, 51 n. 77, 52 n.
80, 64 n. 119, 65 n. 124, 82 n. 160, 109 n.
232, 119 n. 250, 177 n. 400
Broadie, S.m161 n. 341
Bruns, I.m10 n. 2, 24 n. 23, 30 n. 34, 37 e nn.
49 s., 39 n. 54, 40 n. 56, 75 n. 139, 88 n. 184,
102 s. e n. 217, 114, 121 n. 256, 122, 128 n.
263, 129 n. 265; 130 n. 268, 131 n. 270, n.
295, 175 e n. 395, 183 n. 413, 184 n. 414, 190
n. 427, 191, 192 nn. 428 s., 192 nn. 430 s.,
194 n. 436, 205 n. 469.
Calabi, F.m26 n. 26
Cambiano, G.m17 n. 8
Diels, H.m27 n. 29
Dietrich, A.m61 n. 108, 68 n. 129
Donini, P. L.m17 n. 8, 19 nn. 9 e 11, 23 n. 19,
25 n. 26, 30 n. 34, 32 n. 39, 53 n. 83, 75 n.
140, 76 n. 141, 88 n. 184, 95 e n. 198, 96 n.
102, 98 n. 209, 102 n. 218, 110 n. 234, 171
n. 383, 175 n. 395, 184 n. 413, 190 e n. 427,
192 s. n. 432, 195 n. 438, 196 s. n. 441, 201,
208 nn. 481 s., 209, 210 n. 486, 211 n. 489
Dooley, W.m116 n. 245
Duhem, P.m206 n. 478
Estienne, H.m91 n. 191
Ess, van J.m68 n. 129
Fazzo, S.m11 n. 5, 22 n. 17, 25 n. 25, 31 n. 37,
34 n. 42, 36 n. 48, 38 n. 52, 39 n. 53, 41, 45
n. 62, 61 n. 108, 68 n. 129, 82 n. 162, 64 n.
167, 150 n. 311, 154 n. 322, 158 n. 333, 175
n. 395, 189 n. 424, 189 n. 425, 206 n. 478,
Flashar, H.m29 n. 33
Freudenthal, J.m24 n. 23
Gannagé, E.m82 n. 162, 206 n. 478
Genequand, Ch.m160 n. 341, 173 n. 389, cfr.
anche “Index locorum” s. v. Alessandro, De
principiis
Goulet, R., 68 n. 129
Haas, F. A. J.m48 n. 70
Happ, H.m46 n. 64, 49 n. 73, 80 n.156, 149 n. 305
Hasnawi, A.m61 n. 108, 68 n. 129
Isnardi Parente, M.m33 n. 41, 117 n. 246, 157
n. 332
Jaeger, W.m51 n. 77
Joachim, H. J.m80 n. 153, 87 n. 179
King, H. R.m80 n. 156, 87 n. 179
Kraus, P.m206 n. 478
Laks, A.m23 n. 18, 160 n. 341
Magris, A.m158 n. 333
Mansfeld, J.m33 n. 42, 212 n. 493
Mioni, E.m37 nn. 49 s., 38 n. 51, 39 n. 54
Montanari, E.m40 n. 55
Moraux, P.m19 n. 9, 25 n. 26, 40, 89 n. 185, 113
n. 241, 139 n. 283, 168 n. 373, 171 n. 383,
175 n. 395, 179 n. 407, 181 n. 409, 183 n.
413, 184 s. n. 414, 185 n. 416, 189 e n. 424,
192 n. 430, 192 s. n. 432, 194 n. 436, 196 n.
440, 198 n. 447, 201 e nn. 454 s., 210 n. 485
Natali, C.m20 n. 12, 34 n. 42, 158 n. 333
Norden, E.m22 n. 15
Nutton, V.mn. 38
Ross, W. D.m51 n. 77
Ruland, H.-J.m68 n. 129, 172 n. 388
Sharples, R. W.m10 n. 2, 11 n. 4, 11 s. n. 5, 22
n. 16, 24 n. 23, 36 n. 47, 38, 41, 65 n. 121, 68
n. 129, 77 n. 143, 96 n. 202, 102 n. 217, 116
n. 245, 122, 128 n. 263, 130 n. 268, 148 n.
302, 158 n. 333, 166 n. 366, 167 n. 367, 170
nn. 378 e 380 s., 175 n. 395, 183 n. 413, 190
n. 427, 195 n. 438
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Solmsen, F.m46 n. 64, 54 n. 84
Stephanos: v. Estienne H.
Tetamo, E.m158 n. 333
Thillet, P.m37 n. 49, 39 n. 54, 40 n. 55, 212
n. 492
Todd, R. B.m165 n. 361, 194 n. 434
Vegetti, M.m17 n. 8, 31 n. 37, 32 n. 38, 104 n.
225, 162 n. 351
Wieland, W.m46 n. 66
Wiesner, H.m150 n. 311, 175 n. 395, 189 n. 425
Zabarella , I.m134 n. 276
Zimmermann, F. W.m68 n. 129, 77 n. 143
Zonta, M.m9 n. 1, 21 n. 13 - cfr. anche: Alessandro di Afrodisia, De providentia
218
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13:55
Pagina 219
Index locorum
(Il corsivo evidenzia le pagine dove il passo indicato si trova specificamente discusso.)
Aetius
Placita (Diels)
330.1-4
148 n. 302
Agostino,
Confessiones
XII.31 (42)
26 n. 26
Alcinoo
Didaskalikos
8
162.32
33
187.31
51 n. 75, 52 n. 79
87 n. 179
Alessandro di Afrodisia
De anima
192 s. n. 432
2.4 s.
32 n. 39
2.16-18, 23 s.
200 n. 450
2.17 s.
179
2.25-11.13
27 n. 30, 31 n. 35, 45 n. 63, 53-56, 87 n. 178
3.8 s.
14 n. 6
3.20 s.
14 n. 6, 55 n. 86
3.21-4.4
88
4.1
58 n. 97
4.3
56 n. 91
6.2-6
128 n. 262, 131 n. 272
6.28 s.
58 n. 95, 97 n. 204
7.4 s.
58 n. 95, 130 n. 269
8.8-12
170 n. 380
11.14-15.29
94-98
16.13
188 n. 422
28.27
144
29.22
70 n. 134
37.5
70 n. 133
50.12
188 n. 422
53.15-18
70 n. 133
79.7 s.
160 n. 340
81.15 s.
72
81.22-26
57 n. 94
83.23-84.1
196 n. 441
86.14-88.16
50 n. 74
88.17-90.22
109 s.
90.4
77 n. 144
90.20 s., 91.2
169 e n. 377
219
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13:55
Pagina 220
De fato
1
164.13
165.1
2
3
4
31
165.19-23
166.23
167.2-16
167.21
203.11
17 n. 22, 20 n. 12, 33 s. n. 42, 40 n. 55, 132 n. 274, 158 n. 333
188 n. 422
35 n. 44
212 n. 493
17 n. 22
188 n. 422
179
188 n. 422
157 n. 332
De mixtione
213.2 s., 5 s.
217.33-35
217.36
223.2 s.
223.12 s.
225.26-226.14
226.15
226.34-227.12
228.5 ss.
234.34-235.5
33 e n. 42, 75 s.
198 n. 446
76 n. 141
192 n. 431
60 n. 105
204 n. 462
204 n. 462, 210 s.
58 n. 96
165 n. 361, 166 n. 363
194 n. 434
65 n. 124
De providentia (Zonta, cfr. Ruland)
12 n. 5, 132 n. 274, 148 n. 301
96.6-124.25 (pp. 1-31 R)
33 e n. 42
96.10 s. (p. 1 R)
22 n. 17
114.17-116.20 (pp. 19-23 R) 165 n. 359
122.3 s. (p. 27 R.)
150, 166 n. 364
126.6-134.5 (pp. 35-49 R)
21 n. 14
134.11-16 (p. 51 R)
120 n. 252
138.14-25 (pp. 59-61 R.)
149 s., 171, 178 n. 403
146.11-22 (p. 73 R)
161 n. 346, 165 n. 360, 176 n. 397
146.11-150.3 (pp. 73-77 R)
177 s.
148.3-5 (p. 75 R)
163 n. 354
148.1-150.18 (pp. 75-79 R)
211 n. 488
148.9-24 (pp. 75-77 R)
193 n. 432, 207 n. 479
154.2-15 (pp. 85-87 R)
178 n. 402
154.13-20 (p. 87 R)
211 n. 488
154.13-156.15 (pp. 87-91 R) 157
156.11-15 (pp. 89-91 R)
111
156.20 ss. (pp. 1-3 R)
22 n. 17
158.2 s. (p. 93 R)
172
158.5-9 (p. 93 R)
149 n. 306, 152 n. 318, 172
160.23 ss. (p. 99 R)
209 n. 484
De principiis (Genequand)
2
21-23
29-44
76-8
92
101-104
128
220
134 n. 275
160 n. 341
148 n. 301
160 n. 341
112 n. 239
50 n. 74
166 n. 366
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13:55
Pagina 221
in Metaphysica I-V
16.3
in Ar. I.2. 982b 11 ss.
22.2 s.
in Ar. I.3. 983a 29 s.
31.1-5
in Ar. I.3. 984b 1 ss.
42.20-43.9
in Ar. I.5. 986b 8 ss.
43.11-45.9
in Ar. I.5. 986b 17 ss.
52.10-25
in Ar. I.6. 987b 14-18
104.3-10
in Ar. I.9. 991a 23 ss.
141.14
in Ar. II.1, 993b 6 s.
141.21-2
in Ar. II.1. 993b 4 ss.
148.12
in Ar. II.1. 993b 24
157.23-7
in Ar. II.2. 994a 30 ss.
159.9-26
in Ar. II.2. 994b 6 ss.
164.20-22
in Ar. II.2. 994b 25 ss.
165.4-16
in Ar. II.2. 994b 25 ss.
168.18 s.
in Ar. II.3. 995a 17
171.14 s.
in Ar. III.1. 995a 24 ss.
172.10-13
in Ar. III.1. 995a 24 ss.
178. 24-32
in Ar. III.1. 995b 34 s.
211.21-213.23 in Ar. III.4. 999a 32 ss.
214.23-29
in Ar. III.4. 999b 12 ss.
215.32-216.11 in Ar. III.4. 999b 20 ss.
255.19 ss.
in Ar. IV.2. 1004a 22 ss.
289.37
in Ar. IV.4. 1007a 33 s.
308.1-10
in Ar. IV.5. 1009b 12 s.
327.16-22
in Ar. IV.6. 1011b 15 ss.
357.13-19
in Ar. V.4. 1014b 26-35
373.22-24
in Ar. V.7. 1017b 15 s.
375.9
in Ar. V.8. 1017b 10 ss.
375.37-376.2
in Ar. V.8. 1017b 19 ss.
389.9-18
in Ar. V.12. 1019a 15-20
390.16
in Ar. V.12. 1019a 20-26
400.8 s.
in Ar. V.14. 1020a 33 ss.
422.6 s., 13
in Ar. V.24. 1023a 26 ss.
422.14-16
in Ar. V.24. 1023a 34 s.
424.14 s.
in Ar. V.25. 1023b 12 ss.
34 n. 43
116 n. 245, 123
45 n. 63
45 n. 63
45 n. 63
107 s., 110 n. 236, 119 n. 251
55 n. 88, 177 n. 401, 196
26
26, 208 n. 480
52 n. 80
45 n. 63
45 n. 63
51 s.
45 n. 63
116 n. 245
26 e n. 28, 208 n. 480
25 n. 24
87 n. 179
45 n. 63
45 n. 63
45 n. 63
26
26
45 n. 63
85 n. 374
138 n. 282
97
26, 208 n. 480
116 n. 245
150 n. 309, 156 n. 326
26 n. 27
26 e n. 27
87 n. 179
119 n. 249
26
in Analyticorum Priorum librum I
392.32
in Ar. I.45. 50b 32
401.22-25
in Ar. I.46. 51b 33 s.
208 n. 480
59 n. 103
in Meteorologica
5.24, 5.27, 6.3-12 in Ar. I.2. 339a 21 ss.
6.1-3
in Ar. I.2. 339a 21 ss.
6.3-6
in Ar. I.2. 339a 21 ss.
83.5-9
in Ar. II.3. 357b 1 ss.
226.23
in Ar. IV.12. 384b 22 ss.
161 n. 347
161 n. 346
161 n. 347
161 n. 347
193 n. 432
Mantissa (“De anima liber alter”)
102 n. 217
I
(pp.101.3-106.17 Bruns)
101.17-22
101.22-28
103.4
87 n. 179
78 n. 147
188 n. 422
221
FAZZO
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II
III
V
13:55
Pagina 222
(pp. 106.18-113.24 Bruns)
106.19-23
108.31
112.20
113.8 s.
113.12
169 s. n. 377
57 n. 94
188 n. 422
188 n. 422
172 n. 387
212 n. 490
(pp. 113.25-118.4 Bruns)
113.27
188 n. 422
(pp. 119.21-122.15 Bruns)
120.33
94, 101-5
91 n. 191
VIII (pp. 126.24-127.26 Bruns)
126.29
127.3-7
127.13-5
160 n. 339
77 n. 143, 78 n. 148
83 n. 166, 204 n. 466
XV (pp. 141.29-147.25 Bruns)
141.30
188 n. 422
XVII (150.19-153.27)
152.17
188 n. 422
XXI (pp. 168.21-169.32 Bruns)
168.22
188 n. 422
XXIII (pp. 172.16-175.32 Bruns)
172.17-19
166 n. 366, 190 s., 207
XXV(pp. 179.24-186.31 Bruns)
179.25 s.
186.13-23
35 n. 45
22 n. 17
Quaestiones
I.1 (pp. 2.19-4.26 Bruns)
2.20-22
4.1-3
4.4-7
4.9-11
I.5
I.6
I.7
I.8
38
127 n. 261
160 n. 341
134
51
(p. 13.9-32 Bruns)
13.22, 26, 28
43, 68
66 n. 125
(pp. 14.1-15.22 Bruns)
14.24, 15.2
89 n.188
(pp. 15.23-17.6 Bruns)
16.31
188 n. 422
(pp. 17.7-19.15 Bruns)
18.35-19.2
43, 48, 90 s., 93, 99-101, 105
57
I.10 (pp. 20.16-21.11 Bruns)
20.31 s.
222
38, 43, 48, 49, 86 n. 175, 113-125, 132-8, 140 s., 143, 147
126 n. 260
FAZZO
28 12 2007
13:55
Pagina 223
21.2
21.4 s.
21.5 s.
21.8 ss.
58 n. 99
136
128 n. 264
89 n. 187
I.15 (pp. 26.28-27.29 Bruns)
26.30
27.4
27.16 s.
38, 43, 86 n. 175, 125-36, 140, 147
128 n. 264
58 n. 98
128 n. 262
I.17 (pp. 29.30-30.22 Bruns)
30.5 s.
43, 48, 90 s., 93, 99 s.
77 n. 144
I.20 (pp. 33.24-34.29 Bruns)
27 n. 30
I.21 (pp. 34.30-35.15 Bruns)
35.5 s.
128 n. 262
I.22 (pp. 35.16-36.16 Bruns)
36.1
182 n. 410
I.24 (pp. 37.14-39.7 Bruns)
38.32-39.1
43, 49, 61-3
65 n. 123
I.25 (pp. 39.8-41.19 Bruns)
39.13-31
39.20
39.27
40.3-8
40.17-23
40.23-26
40.23-41.4
40.29
40.30 s.
41.2-4
41.3, 12, 18
41.4-8
41.4-19
41.15
38, 154 s., 156 s.
50
183 n. 411
192 n. 430
110
160 n. 341
176 n. 396
159, 173 n. 393
204 n. 463
173 n. 391
152 n. 317, 167
159 n. 338
149 n. 306
154 s.
172 n. 387
I.26 (pp. 41.20-43.17 Bruns)
43, 48, 90, 93, 94, 100, 105
II.3 (pp. 47.28-50.27 Bruns)
47.28, 30
47.30 s.
48.1, 5
48.9, 48.14
48.18-22
48.23
48.23-49.14
49.15
26, 38, 40, 45 n. 63, 69, 73-5, 150 n. 311, 161-3, 165 n. 360,
168-170, 175-212
172 n. 387
161 n. 345
163 n. 354
169 n. 376
170 n. 379
169 n. 376
170 n. 380
169 n. 376
223
FAZZO
28 12 2007
13:55
Pagina 224
49.21
49.22-27
49.28 ss.
49.30 s.
49.31 s.
49.32
49.33 s.
49.33-50.17
50.7-9
50.10-16
50.13 s.
50.18 s.
50.23 s.
144 n. 296
73 n. 138
158 n. 333
58 n. 98
89 n. 189
89 n. 185
163 n. 354
77 n. 143
166 n. 366
78 n. 146
77 n. 143, 78 s. n. 150
70 n. 133
172 n. 387
II.6 (p. 52.11-19 Bruns)
52.16 s.
152-4
98 n. 208
II.7 (pp. 52.20-53.30 Bruns)
52.23 s., 53.29
43, 49, 58-60, 127 n. 262
58 n. 98
II.8 (p. 54.1-18 Bruns)
44
II.9 (p. 54.19-31 Bruns)
27 n. 30, 44, 57 n. 93
II.11 (pp. 55.18-57.6 Bruns)
56. 27 s., 30
47 e n. 69, 49, 85 s.
77
II.12 (p. 57.7-30 Bruns)
44
II.18 (pp. 62.15-63.7 Bruns)
62.18-34
144 s.
160 n. 341
II.19 (p. 63.8-28 Bruns)
63.24, 28
63.25 s.
150-2
159 n. 338
167, 172 n. 387
II.21 (pp. 65.17-71.2 Bruns)
71.1
11 s. n. 5, 33 n. 40
188 n. 422
II.23 (pp. 72.9-74.30 Bruns)
74.24-6, 28-30
27 n. 30, 38
160 n. 340
II.24 (pp. 74.31-76.10 Bruns)
75. 7-10
76.5
44, 45, 86-8
70 n. 133, 77
70 n. 133
II.25 (p. 76.11-23 Bruns)
44, 140 s.
224
FAZZO
28 12 2007
13:55
Pagina 225
II.26 (p. 76.24-33 Bruns)
44
II.27 (p. 77.1-30 Bruns)
78.20
44
60 n. 105
II.28 (pp. 77.31-79.18 Bruns)
78.7 s.
III.2 (pp. 81.4-82.20 Bruns)
82.4
44, 49, 63-5, 78 n. 149
90
182 n. 410
III.4 (p. 87.1-21 Bruns)
159 n. 336
III.5 (pp. 87.22-89.24 Bruns)
89.20 s.
159 n. 338
III.12 (pp. 101.9-107.4 Bruns)
106.6
77 n. 144
III.14 (pp. 108.17-115.22 Bruns)
113.21 s.
183 n. 411
IV.8 (p. 128.3-21 Bruns)
128.20
188 n. 422
IV.22 (pp. 142.22-143.8 Bruns)
142.29
188 n. 422
[Alessandro di Afrodisia]
in Metaphysica VI-XIV
685.28-687.22, 25 ss. in Ar. XII.6. 1071b 3 ss. 134
Aristotele
Categoriae
2
5
7
1a 24 s.
1b 3-5
3a 7 ss.
6a 36-b 4, 7b 15 s.
128 n. 265
92
97 n. 203
92 n. 194, 96 n. 202, 130 n. 266
57
Analytica posteriora
I.4 73a 34 ss.
100
Topica
VI.6 143a 29 ss.
143b 7 s.
130 n. 267
89 n. 186
Physica
I.3 186a 19
I.7 190b 27-191a 7
191a 7 s.
I.8 191a 24-31
191b 26 s.
191b 33 s.
46 n. 66
47 n. 69
52 n. 78
61 e nn. 110 s.
61
61 e n. 112
225
FAZZO
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13:55
Pagina 226
I.8-9
I.9
II.1
192a 3-6
184a 11
192b 12-14
192b 20-23
192b 34
II.2
194a 21 s.
194b 13
II.3
195a 3-11
195a 11-14
II.7
198a 14-24
II.9
200a 12
IV.2 209b 6-3
IV.3 210a 14-24
IV.4 212a 14-18
VI.1 231a 22
VIII. 4 255b 24-31
VIII. 5
VIII. 6 260a 7
52 n. 80, 61-3
62
117 n. 246
167 n. 370
177 n. 400
103 e n. 223
55 e n. 88
150, 171, 193 n. 432
137 n. 279
206 n. 475
137 n. 279
56
49 n. 73
645 n. 119, 95, 97
95 n. 198
166 n. 362
141-4, 168 n. 371
148 n. 301
204 n. 462
De caelo
I.3
270b 5-9
I.3
270b 11
I. 9
278b 14-15
I.9
279a 28-30
I.12
283a 29-b 5
II.2
284b 32-4, 285a 29
II.3
286a 8-12
II.3
286a 8 ss.
II.3
286a 12-b 9
II.4
287a 3, 291b 32
II.12 291a 25 s.
II.14 296a 33 s.
III.8 306b 17
176 n. 396
113 n. 242
164 e n. 355
172
126 e n. 260
160 n. 342
152 s.
98 n. 208
157 n. 330
113 n. 242
21 n. 14
151 n. 312
58 n. 96
De generatione et corruptione
I.5
I.6
322a 21
II.1-2
II.1-4
II.2-3
II.1
329a 8-15
329a 9-11
329a 24-6
329a 34
329a 34-36
329b 3-6
II.2
329b 3-13, 16-18
329b 8-10
329b 11
330a 24-9
II.3
330a31-34
330a 33-b 5
II.4
II.7
334a 18-b 2, b 23-26
66
87 n. 179
79-81
77-84
206
80 e n. 155
79 s., 81 n. 158
47 n. 69, 80 e n. 156
46 n. 66
71 e n. 135
80 s.
80 s.
79
205 n. 468
81 s.
204 n. 466
78 e n. 145, 83 n. 166
83
184 n. 413
226
FAZZO
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II.8
13:55
Pagina 227
334b 31-5a 23
335a 9 s.
II.10
336a 31-b 19
336b 9
336b 31-337a 1
337a 1-4
Meteorologica
I.1
338a 25-338b 22
I.2
339a21-24
339a 30-32
I.3
340a 20
340b 22, 32
III.6 378a 21-8
IV. 6 383b 16 s.
IV.7 384b 14
IV.10 388a 13 s.
88 n. 183
184 n. 413
158-160, 173, 206 n. 478
21 n. 14, 159, 204 n. 462 s.
206 n. 475
152 n. 316, 158 n. 334
158 n. 333
162 s., 176
161-3, 166 n. 365, 167, 205 s. n. 473
166 n. 365, 167 n. 369
113 n. 242
205 n. 473
184 n. 413
206 n. 475
184 n. 413
184 n. 413
De anima
I.5
411a 3 s.
II.1
412a 6-9
412b 15-17
412a 17 s.
412a 19-21
412b 5 s.
412b 15-17
412b 11-15
412b 26 s.
II.4
415a 26-b 7
II.5
417a 10-12, 28, b 18
418a 4
II.8
420b 16
III.3 428b 25
III.4 429a 10-29
429b 23-430a 9
III.5
430a 10-14
III.6 430a 28
III.11 434a 8
50 n. 74
57 n. 94
54
70 e n. 132
70 e n. 132
De sensu et sensibili
4
442b 17 s.
79 n. 152
Historia animalium
I.1
486a 13 s.
65 n. 124
De partibus animalium
II.9
655b 6
65 n. 124
79 n. 150
44, 71, 87 s., 99, 131 n. 272
44, 120, 140 s.
103-5
99
99
120, 140
119 n. 250
44
65 n. 122
70 e n. 132
70 e n. 132
70 e n. 132
227
FAZZO
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13:55
Pagina 228
De generatione animalium
II.1
II.3
II.4
IV.1
IV.2
IV.10
733a 2, b 1
736b 16-28
736b 35-737a 1
738a 16-22
763b 21
767a 1-7
777b 24-30
Metaphysica
I.6
987b 7-18.
II.1
993a 30-b 3
III.3 998b 22-27
V
V.1
1013a 7
V.4
1014b 16-1015a 19
1015a 8
V.8
1017b 10-16
V.12 1019a 15-20
V.24 1023a 29-33, b 5-11
VII.3 1028b 33-36
1028b 36
VII.9 1034a 24
VIII.4 1044a 15-23
1044a 32 ss.
1044b 8
IX.1 1046a 9-11
IX.7 1049a 25 s.
X.3
1054b 23
XII.3 1070a 14 s.
XII.4 1070b 11-21
1070b 22-26
XII.6, 7 e 9
XII.6 1071b 4-6
1071b 19 s.
1072a 9-18
1072a 10-12
XII.7 1072a 30-b 3
1072b 3 s.
1072b 25
XII.8 1074b 8-10
XII.10 1075a 11
1075a 11-25
1075a 17-19, 5b 37-6a 1
1076a 3 s.
200 n. 449
194 n. 435
169 n. 376, 180
169 n. 375
21 n. 14
194 n. 435
21 n. 14
21 n. 14
107
32 n. 39
129 n. 265
24 n. 21
117 n. 246
177 n. 400
137 n. 280
96 s.
150 n. 309, 156 n. 326
94 n. 196
88 n. 180
46 n. 65
55 n. 86
137 n. 280
112 n. 240
143
156 e n. 326
137 n. 280
128 n. 264
55 n. 86
47 n. 69
117 n. 246
154 n. 322
127 n. 261
153 e n. 321
155 n. 324
204 n. 462
45 n 63
149 n. 306, 152 n. 318, 156 n. 328, 172 e n. 388
148 n. 301
176 n. 396
168 n. 372
170 n. 380
161 n. 346
22 n. 17, 170 n. 380
vedi anche: Alessandro di Afrodisia in Metaphysica
[Aristotele]
De mundo (Lorimer)
2
392a 33
6
397b 19 s.
228
164
164-168, 170 n. 380, 184-6, 212
164 n. 358, 212 n. 492
FAZZO
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13:55
Pagina 229
397b 27-30
398a 3
398a 7-9
398a 11-14
398b 20-22
398b 24-399a 1
185 e n. 415
164
164
164
164, 166
186
Aspasio
in Ethicam Nicomacheam
71.25-31 in Ar. III.5. 1112a 17 ss.
149 n. 304
Attico (des Places)
fr. 3 rr. 9 s., 75-89
fr. 7 rr. 57-63
fr. 8 rr. 17-25
149 n. 305
76 n. 142
20 n. 13, 211 n. 489
Averroé (Ibn Rushd)
Talkhis· al-kawn wa al-fasa–d
Commento medio al De generatione et corruptione
in Ar. II.2-4
36 n. 48, 82 n. 162
-
-
Tafsiir ma–ba‘d at-tabii‘at
Commento Grande alla Metafisica (Bouyges)
1601.1-1602.14 in 1072a 34 s.
(Alessandro in Met. XII fr. 29 Freudenthal)
1605.6-15 in 1072b 1 s.
(Alessandro in Met. XII fr. 30 Freudenthal)
1606.8-1607.2 in 1072b 3 s.
1607.3-9 in 1072b 3 s.
1625.8 s. in 1072b 30-1073a 3
45 n. 63, 173 n. 392
173 n. 392
173
174
172 n. 385
Cirillo d’Alessandria
Contra Julianum
PG 76. 596a
189 n. 424
Diogene Laerzio
Vitae
IX.69 s.
X.87 s. = Epicuro, Epistola a Pitocle
35 n. 44
33 n. 41
Epicuro
vedi: Diogene Laerzio, Plutarco
Epitteto
Dissertationes
I.12.2-6
149 n. 305
229
FAZZO
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Pagina 230
Filopono
De aeternitate mundi contra Proclum
IX.8, 11
61 n. 108
in Analytica Posteriora
332.13-15 in Ar. I.33. 89b 7 s.
51 n. 75
in De generatione et corruptione
106.3-7 in Ar. I.5. 321b 10 ss.
in Ar. II.2-4
214.22-30 in Ar. II.2. 329b 7-10
223.9-13 in Ar. II.2. 330a 24-29
291.19 s. in Ar. II.10. 336b 2-5
67 s.
82 n. 162
82 n. 163
82 n. 164
173 n. 393
Galeno
De placitis Hippocratis et Platonis
32 n. 38
De praenotione ad Posthumum (Kuhn)
5.
vol. XIV p. 627 s.
31 n. 37
De usu partium (Helmreich)
XVII.1
vol. II p. 446. 12-13, 447.8, 12
209 n. 484
Ja–bir b. Hayya–n
–
Kita–b al-Tas·ri f (MS Paris. ar. 5099)
82 n. 162, 206 n. 478
Numenio (des Places)
per‹ tégayoË, l. VI
fr. 18
167 n. 367
Platone
Timeo
30c
49a-52d
52b
52d-53b
55 n. 88
148 n. 303
49 s., 51 n. 75
51 n. 75, 52 n. 78, 53
80 n. 155
Alcibiade I
130a
87 n. 179
Convivio
209b
87 n. 179
Cratilo
391b, 436a
64 n. 120
Leggi
X
230
898d ss.
899d ss.
120 n. 252, 160 n. 342
160 n. 342
FAZZO
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Pagina 231
Plutarco
Adversus Colotem (Pohlenz)
8
1111b p. 181
(Epicuro frgm. 368. 546. 299 Usener)
157 n. 332
De communibus notitiis adversus Stoicos
44
1083a
(SVF II. 762 p. 214)
67
De defectu oraculorum (Sieveking)
19.
420b p. 82
(Epicuro frgm. 394 Usener )
157 n. 332
Porfirio
Quaestionum Homericarum ad Iliadem pertinentium reliquiae (Schrader)
297.16
19 n. 11
Proclo
in Timaeum (Diehl)
I.387.5-17
in Plat. 30a 3-6
48 n. 70
Sesto Empirico
Adversus Mathematicos
VII (= Adversus Logicos I)
30
8.24 s.
35 n. 44
X (= Adversus Physicos II)
332 s.
67 n. 127
Pyrrhoniae hypotyposes (Mutschmann)
I.7
7.17-8.3
33 s. n. 42
35 n. 44
Simplicio
in Categorias
99.19-32
in Ar. 5. 3a 7
92 n. 194, 130 n. 266
in Aristotelis Physicam
219.22-221.18
in Ar. I.7. 191a 3-5
227.18-22
in Ar. I.7.191a 7 ss.
236.15-238.22
in Ar. I.8. 191a 34-b 26
306.30-307.8
in Ar. II.2. 194b 13
307.9-12
in Ar. II.2. 194b 13
392.20-23
in Ar. II.9. 200b 4 ss.
552.18-24
in Ar. IV.3. 210a 20 s.
553.1-8
in Ar. IV.3. 210a 14 ss.
1216.27-29
in Ar. VIII.4. 255b 13-14
1217.11-17
in Ar. VIII.4. 255b 24 ss.
1218.20-1219.11 in Ar. VIII.4. 255b 29-31
112 n. 240
52 n. 78
61 s.
171 n. 384
171 s. n. 385
56 n. 90
97 n. 206
95 n. 201
26 n. 28
142 n. 291
141-4, 168 n. 371
in Aristotelis De caelo
65.15 s., 20
in Ar. I.3. 270a 3 ss.
185 n. 416
231
FAZZO
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13:55
134.9 s.
279.5-12
354.1-355.15
488.18-24
Pagina 232
in Ar. I.3. 270b 16 ss.
in Ar. I.9. 287a 23
in Ar. I.12. 283a 29 ss.
in Ar. II.12. 292b 10 ss.
Temistio
in libros Aristotelis De anima Paraphrasis
111.24-26
in Ar. De anima III.6
48 n. 70
92 n. 194, 96 n. 202, 105 n. 227
126 n. 260
204 n. 464
51 n. 75
Teofrasto
Metafisica
4a 2 s.
4a 9 s.
5a 14-6a 10
5a 23-b 10
6a 1-12
8a 3 ss.
8a 8-20
9a 7
18, 23, 139 s.
139
172 n. 385
161
139
140, 170 n. 380
170 n. 380
48 n. 70, 53 n. 81
53 n. 81
Teone di Smirne
Expositio rerum mathematicarum ad legendum Platonem utilium (Hiller)
149.14 s.
148 n. 302
Tolomeo
Apotelesmatica (Tetrabiblos syntaxis) (Hübner)
I.1.2
4.1-7
31 n. 37
I.2.15 s. 10.12-11.7
31 n. 37
Syntaxis Mathematica (Heiberg)
I.1
5.7-10
I.1
6.11-17
232
119 n. 248
31 n. 37
FAZZO
28 12 2007
13:55
Pagina 233
Bibliografia
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Capitolo IV: “La Quaestio II.3”