SALTERNUM
SEMESTRALE DI INFORMAZIONE STORICA, CULTURALE E ARCHEOLOGICA
A CURA DEL GRUPPO ARCHEOLOGICO SALERNITANO
REG. TRIB. DI SALERNO
N. 998 DEL 31/10/1997
ANNO XVI - NUMERO 28-29
GENNAIO/DICEMBRE 2012
FELICE PASTORE
Introduzione
L
tenacia di alcuni Sindaci del Centro-Nord se si è concretizzato questo sogno che ha tema e titolo ‘Italia
Langobardorum. Centri di culto e di potere (568-774)’,
approvato e ratificato poi dall’UNESCO come sito
seriale, senza non poche difficoltà.
Un’iniziativa di grande impatto mediatico e politico,
ma assai carente sotto l’aspetto culturale. La dimenticanza di importanti centri di età longobarda - voluta o
frutto di ignoranza storica - è stata molto grave: sono
stati scelti solo sette siti. Il fatto più eclatante, tuttavia, è
stato trascurare l’unico esempio rimasto in Europa di
palatium longobardo, vale a dire il Complesso monumentale di San Pietro a Corte a Salerno, che fu sede del
potere di duchi e principi. Questa straordinaria testimonianza di architettura longobarda, sopravvissuta all’incuria degli uomini, presenta meravigliosi resti in elevato
che inglobano monofore e bifore; ad essi si affiancano
i frammenti, oggi musealizzati, di un titulus dettato per
Arechi II da Paolo Diacono, i resti in opus sectile di un
litostrato pavimentale e di un mosaico parietale a tessere d’oro, risalenti all’VIII secolo.
Le motivazioni dell’esclusione, quelle circolate in
ambienti politici e istituzionali, sono state a dir poco
clamorose: «questo sito è stato escluso perché non
rientra nel periodo cronologico del progetto».
Motivazione molto riduttiva, inaccettabile e che non fa
onore agli studiosi e ai cultori della materia. Ecco perché si è scelto di pubblicare l’articolo dello storico P.
Natella in questa sede e di presentarlo alla XV edizione della Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico.
Anche quest’anno il Gruppo Archeologico Salernitano sarà
protagonista dell’evento pestano con il Convegno
Nazionale Il Santuario Longobardo di Monte Sant’Angelo e
il Culto Micaelico in Italia (sabato 17 novembre), al quale
interverranno i maggiori rappresentanti del progetto
Italia Langobardorum e alcuni tra i massimi studiosi del
Culto Micaelico.
a volontà di pubblicare su questo numero di
‘Salternum’ (anno XVI, nn. 28-29) il saggio Italia
e Longobardi di Pasquale Natella, in evidenza
prima dell’Editoriale, ha un preciso significato politico,
che trova ragione nelle attività svolte negli anni dal
Gruppo Archeologico Salernitano per la valorizzazione e il
riconoscimento culturale del Complesso Monumentale
di San Pietro a Corte. Un monumento eccezionale nel
panorama storico-artistico della Storia europea.
In un primo momento si era pensato di pubblicarlo
su altre Riviste specializzate, probabilmente più conosciute, poi si è ritenuto opportuno presentarlo sul
nostro periodico, notiziario più radicato nel territorio,
proprio perché questo saggio nasce dall’esigenza di far
chiarezza (si spera in maniera definitiva!) sul ruolo strategico assunto dalla città di Salerno nella seconda metà
dell’VIII secolo.
Un secolo, da molti studiosi definito inquieto, che
vide la disfatta dei Longobardi nell’anno 774, quando a dire di molti eruditi - Carlo Magno, il re dei Franchi
chiamato in Italia dal Papato, avrebbe cancellato con un
semplice gesto - quello di alzare in alto le corone longobarde e franche - l’identità del popolo sconfitto.
La vittoria di Carlo ebbe il potere di indirizzare il
corso della Storia in una maniera sicuramente diversa da
quella che le avrebbero impresso i Longobardi se avessero conseguito la vittoria alle Chiuse di Pavia, ma non
ebbe la forza di cancellare l’identità di quel popolo.
A distanza di molti secoli da quell’evento, due
Comuni, Cividale del Friuli e Brescia, con la stessa unità
d’intenti, decisero di dar vita a un progetto, che in un
certo senso vide coinvolto anche il Gruppo
Archeologico Salernitano, insieme alla Società Friulana
di Archeologia. La storia sarebbe troppo lunga da raccontare. In breve, il progetto doveva rendere lustro ad
un’etnia, la cui storia durò non due, come alcuni continuano a sostenere, ma ben cinque secoli. Si deve alla
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PASQUALE NATELLA
Longobardi e Italia
Recuperi e rinnovi
sprovvisto di autenticità socio-politica. Nelle fonti
longobarde o comunque occidentali non c’è traccia
del sostantivo, che compare ad “Oriente”, e il suo
divenire ha resuscitato uno dei maggiori longobardisti
italiani, Nicola Cilento (Le origini della signorìa Capuana
nella Longobardia minore, Istituto Storico Italiano p. il
Medioevo, 1966, pp. 47-49) quando rammenta che
Teofane scrisse dell’invìo in Longobardìa: Θεοδότου
τοῦ ποτε ῥηγὸς τῆς μεγάλης Λογγιβαρδίας, “di
Teodoto già re della grande Longobardìa”.
L’asserzione prospetta un dato fondamentale: i
Longobardi sono dal VI alla seconda metà dell’XI
secolo una nazione, un’etnìa localizzata, una patria
riconosciuta a livello mondiale, massime a Bisanzio
ove, come tutti gli altri potenti si continuava a ritenere l’Italia res nullius, e se ne dichiaravano padroni e
donni ora Bisanzio stessa come lascito dell’Impero
Romano post teodosiano, ora i Papi per il trattato del
754 di Quierzy, ora i Franchi ultimi conquistatori.
Frammezzo a questi intrighi i non esigui Longobardi
andati via dalle Chiuse, da Pavia, da Brescia, da Verona
guardavano a zone ove loro fratelli s’erano sviluppati,
e nell’866 Adelchi di Benevento riconobbe come il
principe Arechi II di Benevento-Salerno avesse retto
fra il 762 e il 787 le reliquie del suo popolo nobiliter et
honorifice, due avverbi non scritti pro forma ma che
dimostravano al contempo appartenenze a sistemi
giuridici in uso da Alboino in poi, duchi, conti, marepahis, gastaldi longobardi, e continuazione sostanziale
della predetta patria tramite l’aiuto divino che “Italiae
regnum genti nostrae langobardorum subdidit /consegnò il
regno d’Italia alla nostra gente di Longobardi”.
Solo una, appunto, leguleistica cronologia riterrebbe non fondati tali uomini e principii in base alla circostanza che tutto viene a mancare quando si forma
un altro governo che, badiamo bene, perché non risorga il precedente deve, esplicitamente, nei fatti annientar-
Premessa
N
el Dicembre del 2011 è trascorsa la commemorazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Ci
siamo di nuovo riconosciuti nazione comune, come del resto proprio per i Longobardi aveva
intuito il Manzoni quando in essi aveva intravisto un
concetto portato a termine, nascita cioè d’un popolo,
l’italiano, che per cinque e non due secoli era stato formato dal progredire delle sue regioni.
Nel preparare l’Adelchi Manzoni li aveva studiati
con i mezzi della più recente storiografia del tempo,
muratoriana e straniera, e le pagine della tragedia manzoniana sono un documento delle origini dell’Italia,
o meglio di quella che sarebbe dovuta diventare
l’Italia. Da qualche tempo l’inquadramento generale
dei Longobardi risente di fratture, forse anche ingenerate da equivoci politici, contro cui la critica storica
non ha affilato le armi di risposta. C’è bisogno di un
aggiustamento che porti ad una revisione di giudizi
storici. Vedo, infatti, una sorta di leguleismo storiografico che possiamo velocemente indicare come normalizzazione formalistica del popolo longobardo, ritenuto finito dopo la sconfitta di Desiderio e vagamente
sopravvissuto in qualche frangia esterna d’Italia.
Il longobardo non è un popolo che sopravviva
sparso, vicatim, alla vittoria di Carlo Magno ma riorganizza proprio in quelle frange un governo autonomo, e
ad esso si riferivano le intenzioni manzoniane nella
figura di Adelchi che ai suoi prospetta un futuro etnico - politico da preparare altrove, com’egli nei fatti
tenta nel richiedere all’imperatore di Bisanzio una tuitio,
divenuta subito operativa.
E’ con l’accettazione da parte di Bisanzio di
Teodòto, ovverosia del nome nuovo che i greci danno
ad Adelchi, che parte la stessa nozione di
Longobardìa, ed essa viene sù proprio quand’egli
passa per Salerno, nel Sud, territorio che si riterrebbe
Per espressa volontà dell’Autore, il testo non è stato sottoposto ad alcuna revisione da parte del Comitato Scientifico di ‘Salternum’.
L’ A. è altresì responsabile delle scelte redazionali non conformi a quelle adottate dalla Rivista.
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SALTERNUM
monio nel 762, a destreggiarsi avvedutamente
costruendo castelli e cinte murate, pronto a far vedere
all’intero mondo ciò di cui era capace, se non proprio
un re di certo un suo alter ego.
lo, o fisicamente secondo tecniche note oppure mai
più esplicitamente ricordarlo, rielaborarlo, studiarlo, perdonarlo. Perché Carlo Magno non lo fece?, Perché era
cattolico convinto?, E le sue varie stragi e vendette
belliche?, E perché del popolo vinto scelse di
autonominarsi rex Langobardorum?. Una risposta politica è subito pronta: non aveva tempo, e quello che gli
rimaneva doveva spenderlo contro Avari, bizantini e
“orientali”. Dichiararsi re bastava. Troppo semplice.
L’Italia non era una steppa, un’arida provincia di
bestie da soma. Carlo dové accorgersi di aver agito in
un contesto che si sarebbe diversificato solo con formidabili ricambi, ma non era sicuro né di poterlo fare
di persona pur in presenza del suo lungo governo né
che avrebbero saputo farlo i suoi figli. Duecento anni
erano bastati per costruire un’etnìa consolidata, di cui
ad ogni piè sospinto si vedevano le tracce. E nessuno
avrebbe rinunciato al proprio sangue.
Questo era longobardo speciale. A Salerno era
stata portata dal marito, principe Arechi II, la di costui moglie - figlia di re Desiderio, Adelperga; qui stette
per circa sei mesi l’altro figlio di Desiderio, Adelchi; a
Salerno visse Paolo diacono i cui versi ivi trovati furono incisi sul palazzo principesco; Benevento condivideva con Salerno le sorti; ad Acerenza fu gastaldo
Sicone di stirpe regia di Cividale; nel 787 – anno della
morte di Arechi II – Carlo Magno dové emanare una
legge che impediva ai Longobardi del Nord di attraversare Spoleto e rinserrarsi a Benevento e nel
Meridione; ancora nell’848 ci si riferiva con chiarezza
“De Waregnangis nobilibus, mediocribus et rusticis hominibus
qui usque nunc in terram vestram fugiti sunt / agli stranieri
nobili, medi e gente comune che sono fuggiti nella
vostra terra”. Più significativo l’accenno nell’816-818,
ai tempi di Ludovico il Pio, al caso di quel Godoaldo
che dall’avamposto franco (poi spostato a Capua) di
Spoleto “instinctu diaboli postposita fidelitate sua ad
Beneventanos qui tunc temporibus domno et genitori nostro
Karolo imperatori ribelles erant se contulisset / istigato dal
diavolo se n’era andato, rinunciando ai suoi doveri di
fedeltà, presso i Beneventani che s’erano ribellati al
genitore signor nostro imperatore Carlo”, ove il cenno
della guerra al 773-774 fa capire che la risoluzione e le
mosse di Adelchi erano partite subito. Il cognato si
rassegnava a Carlo e al papa, lo sappiamo, nel 787 con
la restituzione di Terracina quando questi chiamò per
l’ultima volta Carlo in Italia. Da quel momento, Arechi
II, proprio da Salerno, iniziò, poco dopo il suo matri-
Salerno e i monumenti longobardi
E il fatto singolare è che proprio a costui, Arechi
II, vanno addebitate alcune delle maggiori, sopravvissute realtà artistiche e culturali dell’intera storia dei
Longobardi, così clamorosamente ignorate
dall’UNESCO quando ha approvato come “longobardi” solo sette siti nostrani (v. sito seriale www.italialangobardorum.it). In verità, pare che l’esclusione di
Salerno sia dovuta a macra ignoranza della storia
medievale e per risarcire il mal compiuto anche per
altre zone (non solo Pavia [la capitale dei Longobardi
!], che da sola, pur con oggetti e arredi minori, si
sarebbe dovuta scegliere, come diceva un attore, a prescindere) occorrerà rivedere e aggiornare la sessione
parigina del Giugno 2011. A tal proposito la prof.
Donatella Scortecci dell’Università degli Studi di
Perugia con una lunga e precisa relazione al 3°
Convegno Nazionale Le presenze longobarde nelle regioni
d’Italia tenutosi nell’ottobre del 2011 a Nocera Umbra,
ha rilevato come in presenza di dubbi in merito alla
scelta dei siti pur dopo l’aggiornamento del 1977 e del
2008 i paesi partecipanti avranno la facoltà di rivedere
le decisioni prese, con un occhio specifico proprio alle
realtà monumentali longobarde continuate a sussistere, e ad essere integrate e aumentate, lungo tutto il non
lungo percorso dei Franchi occupanti.
Il palatium
Arechi II, il duca di Benevento, e dal 774 autonominatosi princeps gentis langobardorum, sposò nel 762 la figlia
di Desiderio, Adelperga, colei che dà nobile protezione. Ella
ebbe come maestro Paolo diacono e pervenuta a
Salerno lo richiamò perché del marito scrivesse una
lunga epigrafe da apporre nel palatium. Una concomitanza di avvenimenti rese possibile il progetto, un dieci anni
necessari perché a Paolo risultasse acclarato e confermato il valore politico, istituzionale, nazionale di Arechi II
quale garante sommo della Longobardìa tutta visto che,
ormai, Desiderio solo su due harimann, uomini dell’esercito,
poteva confidare dal punto di vista della risposta a Carlo,
il figlio dalla mazza ferrata sempreinmano e il genero. Il
nostro Arichis, germoglio [frutto] dell’esercito, era di Cividale
e apparteneva stirpe ducum regumque, ad una stirpe di
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PASQUALE NATELLA
del decumano maggiore di epoca romana - si trova
inglobato nel bel mezzo del centro antico e storico
della città che, come ogni altro in Italia, è asservito
completamente al privato, richiestissimo per la vicinanza ai complessi aggregativi pubblici.
Ciononostante ne sono evidenti i setti con le
strutture originarie ad archi, colonne e capitelli su via
Arechi. Questo lato si pone alla fine della serie di terrazzamenti rocciosi in declivio dal castello onde oggi
si ha la doppia prospettiva di poter entrare sull’attuale
piano di campagna in ambienti direttamente conducibili alla prima metà dell’VIII secolo - ancorché come
detto – in mano privata, e salendo di poco, scendere
invece di parecchio nelle fondamenta.
A Nord sta l’ampia cappella palatii, dedicata a San
Pietro, quadrata e con abside fondale della medesima
geometria, i cui muri ad opus beneventanum hanno confermato all’esterno e all’interno la tecnica edilizia altomedievale databile alla metà del secolo VIII, ivi compreso il litostrato dai bei colori. Su due lati correvano
bifore su archi per apportare luce all’interno. La
ragione della sua sopravvivenza integrale si deve a singolari tratti d’uso. Il palazzo, dopo i figli di Arechi e
per tutto il tempo fino alla conquista normanna del
1076-1077, che pose fine al sub-Ducato e al
Principato longobardi durati per cinquecent’anni, divise con un’altra costruzione normanno-sveva le funzioni amministrative cittadine, e cominciò ad avere
specifica autonomia pre e postfeudale dal X alla fine
del XV secolo. Poiché dalla seconda metà del XIII
secolo in poi la Universitas civium, ovverosia la Città
con i suoi apparati amministrativi ne rivendicava l’intero usufrutto, dato che mai era venuta meno l’appartenenza ad una struttura già governativa, al principio del XVI secolo il re pensò di eliminare ogni lite
dando San Pietro a Corte in Commenda. I rettori,
chiamati abbati per comodità sacra e per puro omaggio titolare al capo d’un’aula vasta e compatta, cominciarono a svendere il tutto sui vari fronti, tranne
nella continuazione settentrionale dell’attuale Largo
San Pietro a Corte, che fu destinata a sede Municipale
ed Archivio, mentre nella cappella medesima fu consentita, quando occorresse, l’escussione pubblica delle
lauree a dottori concesse dalla Scuola Medica
Salernitana. Interrotte tali funzioni (il Municipio e
l’Archivio trasmigrarono nel palazzo S. Antuono di
fronte, e la Scuola Medica non oltrepassò il 1811)
anche questa parte fu venduta a privati.
duchi e di re, per i primi in quanto che fra i suoi capostipiti si trovava il duca friulano Gisulfo II ucciso nel 610
dagli Avari e dei secondi Grimoaldo, figlio di Gisulfo II
(assunto come figlio da Arechi I duca di Benevento), poi
re dei Longobardi nel 662.
Si vede bene perché, con tali precedenti, Arechi II
pensasse a costruir di sé un’immagine degna e decorosa di dux e di princeps, anzitutto misurandosi prima,
nel 762, con atti di governo del suo enorme territorio
che andava dagli alti monti della Laga ai confini col
Piceno, ad Amantea sotto Cosenza e a Metaponto ad
Ovest di Taranto, e poi al decennio predetto con la
costruzione in Salerno del suo palazzo, noto come San
Pietro a Corte.
Ora, se si tien mente ai sette siti prescelti
dall’UNESCO come testimoni dell’Italia Langobardorum,
sei sono sacri e uno soltanto civile, il castrum di Castel
Seprio. Nulla da eccepire, ovviamente, sulle chiese, ma
avendo i Longobardi movimentato l’Italia con elezioni
regali, cambi di potere, guerre intestine ed esterne,
nascite e riprese di città e centri, la mancanza di edifici
pubblici spiegabile con il loro destino, appunto, di pubblico, soggetto a manomissioni e distruzioni ab imis,
marca ancor più platealmente il non aver preso in considerazione questa città campana fidandosi d’una
cronologia, che è del tutto errata e rispondente solo al
predetto giudizio formalistico.
Scomparsi i palazzi regi e ducali di Pavia, Cividale,
Benevento, Capua, Spoleto, rimane solo Salerno.
Dopo Verona Adelchi vi fu tra Novembre e primi di
Dicembre del 773, ospitato dal cognato per ben sei
mesi fin quando cioè il Regno non finisse completamente nel Giugno 774, sicché non solo per quei mesi
Salerno con Benevento, non ancora presa Pavia, fu la
capitale della Longobardia ma la dimora di Arechi II
si trovò ad essere l’unico segno istituzionale d’un
popolo non ancora estinto.
Accade pure, tra l’altro, che Salerno sia fra le poche
testimonianze d’un periodo fondamentale per la storia
d’Europa visto che del palatium se ne salva più o meno
quanto è rimasto delle altre sedi del potere civile altomedievale (quella di Aachen trasformata in Rathaus
nel 1300; dei Goti sopravvive solo l’immagine nel
mosaico di Ravenna; della Magnaura di Bisanzio fra
l’Ippodromo e il mare si conoscono plessi posteriori e
giardini ma null’altro). Esteso per un’intera insula e
poggiante all’angolo Nord sulla primitiva murazione
bizantina il palatium arechiano - posto anche a cavallo
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SALTERNUM
Dal 640 in poi tre gruppi di case s’erano insediati
parallelamente alla fortificazione (ove oggi si trovano
gli edifici lungo le vie Municipio Vecchio, Dogana
Vecchia, Giovanni da Procida, Fasanella) e rappresentavano, con le insulae longobarde addensate intorno
alla poco distante chiesa primigenia di S. Maria dei
Barbuti, il nerbo a fare del popolo longobardo salernitano (Fig. 1).
Paolo diacono e il titulus arechiano
Nel 1976 per consolidare gli ambienti superiori della
cappella palatii furono eseguiti degli sterri sommari di tutto
ciò che dal Quattro - Cinquecento attraverso dei buchi nel
pavimento era stato buttato da lì nelle capaci fondamenta (altezza consolidata: più di 6 metri del solo scavo, escluso l’attacco alle volte giunto a 8/9 metri) ove fu trovata
una terma romana, riusata nel Tardo Antico come
necropoli e nel Medioevo come chiesa affrescata con un
ambone. Dopo pochi anni il prof. Paolo Peduto, ordinario di archeologia medievale dell’Università degli Studi
di Salerno, bloccò la presa per la discarica e salvò dai rifiuti già ad essa destinati i frammenti. Egli dové affrontare
un’immane cernita quotidiana, e con la certosina pazienza dei chirurghi, riuscì a comporre le evidenze monumentali di quanto la tradizione letteraria aveva conservato.
Negli archivi europei, infatti, erano disperse le poesie che
Paolo diacono, a Benevento e a Salerno dal 762-763 al
774, aveva composto per il palazzo, e nel secolo XVII
uno degli esametri per eccellenza era già conosciuto da
due eruditi, uno dei quali, il marchese Giulio Ruggi
d’Aragona, lo trascrisse direttamente dal palatium.
Nel procedere al rilevamento, il prof. Peduto rintracciò l’esigua parte di quest’ultimo, apposta lungo le
pareti interne della cappella in una lunga epigrafe di lettere incise su marmo orientale bianco, lettere alte 35
cm. e di spessore da 3 a 4,2 cm. Poste in un ductus quadro entro solchi corniciali tali lettere furono forate (e
i fori sono, naturalmente, visibili) e ricoperte da lamine
di bronzo (od ottone), poi dorate.
Disperse le lamine negli sterri predetti s’è salvata solo
una piccola parte delle lastre marmoree, e precisamente
le lettere capitali ... GE / DUC / CLEME / ST, utili
alla ricomposizione dell’esametro del poeta che nell’invocazione a Cristo Lo sollecitava circa i destini del duca,
DUC AGE DUC CLEMENS [Arichis pia suscipe vota],
“Guida, accetta e indirizza benigno [e sostieni i pii voti
di Arechi]”. Le lettere ST erano la quinta e la sesta dell’inizio dell’invocazione [Chri] ST [e], oppure la quarta e
la quinta del perfetto [Con] ST [ruxit] della quinta linea
ove era ricordata la cappella, costruzione degna della
Gerusalemme ebraica.
Fig. 1 - Salerno. Area del tratto pre e post palaziale longobardo sul decumanus maximus
romano (vie Dogana Vecchia-via dei Mercanti). A sinistra le fare citate, tutte convergenti
su via Canali (in forte declivio) alla cui destra nell’incontro con vicolo Adelberga sta il
palatium arechiano. Tra il Vicolo Guaimaro IV e il vicolo dei Barbuti si trova la prima
chiesa pubblica longobarda di Salerno, Santa Maria dei Barbuti.
Sulla murazione fu innalzato il complesso, la cui
ampiezza dal 762 al 773 -774 veniva ad essere determinata dal necessario scavalco sul decumano (via
Giovanni da Procida) e l’altra via (Dogana Vecchia)
nata dalle esigenze di movimento degli abitati.
All’ampiezza corrispose una profondità derivata
poiché la zona era in forte declivio. Il piano di campagna tardoantico e altomedievale fino al 762 circa era
stato colmato nei detti terma e chiesa, ragion per cui
nell’usare le altimetrie esistenti Arechi II dové costruire nell’ipogeo per 13 metri d’altezza i pilastri delle basi
degli ambienti e della cappella.
Da quel punto ebbe inizio il palatium e si arrivò, in
tal modo, ad una costruzione che svettava di molto
sulle case vicine, e approssimativamente – misurata sul
prospetto della cappella che dà sul largo San Pietro a
Corte – ebbe un’altezza di circa 15 metri fuori terra
attuale (nel Cinquecento per l’intera protezione degli
ampliamenti e restauri venne su un tetto a spioventi
che aumentò ancora l’elevato). La meraviglia per un
così ardito impianto non passava inosservata, e in quegli anni Paolo diacono lo scrisse:
L’area palaziale
All’incrocio settentrionale del decumanus maximus di
Salerno (via Tasso) col torrente, che dal castello scendeva al mare (oggi via Canali), fu innestata una
murazione urbica bizantina.
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PASQUALE NATELLA
“Arichis... omne quod hic spatiis effertur in ardua vastis...
suppetias dedit esse suis portumque quietis,
“Arechi…
volle che per i suoi fossero rifugio e porto di pace
questa complessa struttura che si erge in alto per un
lunghissimo tratto”
Si notino il sostantivo e gli aggettivi, ardua è scelta
tacitiana (ardua urbis moenia), un innalzare, un sollevare
che contemporaneamente dia segnali di suppetias, aiuto,
soccorso in caso di guerre, e controllo qual Imperatore
da un alto podio che veda la città, mentre attorno s’allargano, fabbriche realizzate per un lunghissimo tratto.
Dal composto vastis spatiis si ha certezza areale, morfologica, una simultaneità di accordi spaziali che compongono una massa compatta di ambienti, scavalchi, supportici, rialzi, come si osserva a volo d’uccello (Fig. 2).
Ancor meglio, sempre da Nord (ove si trova l’accesso da Napoli, Capua, Roma) fornisce dati dell’assieme il prospetto (Fig. 3) lungo via Canali (in
primo piano).
Come si vede, all’estrema sinistra il piccolissimo
pianoro su largo San Pietro a Corte, includente il campanile anzidetto, posiziona gli sfalsamenti altimetrici
sui quali i costruttori di VIII secolo agirono con il
livellare e il distribuire valichi, scale e anditi, parte dei
quali è documentata nel XIII secolo. Dopo lo scalone
e il muro Nord compare via Dogana Vecchia (con
portico sulle vie Mercanti - Arechi). Qui, in un modesto largo ipotizzai l’ingresso principale, già su colonne,
Fig. 2 - Salerno. Planimetria da Nord dell’insula dell’area palaziale longobarda (da
Gambardella). I neri basali sono, a sinistra, largo S. Pietro a Corte e vicolo Adelberga (vi si
scorge la piccola cupola del campanile del XII-XIV secolo), al centro il decumanus
maximus romano di via Dogana Vecchia che dopo gli scavalchi continua con l’inizio di via
Mercanti ove a sinistra sta la grande cupola di S. Salvatore de fondaco (sec. XVI), a destra
via Giovanni da Procida che sbocca su via Arechi con l’innesto verso un vicino supportico.
che in alto attraverso una scala monumentale (v. oltre)
menava ai successivi plessi edilizi affaccianti sulla successiva via Giovanni da Procida, il cui portico dà in
pieno sulla via Arechi. Un altro supportico, all’estrema
destra, completa l’allungamento del palatium verso
mare che, tuttavia, si fermava proprio su quest’ultimo
edificio giacché all’intorno vicoli e vie ne determinavano la fine.
Fig. 3 - Salerno. Prospetto da Nord dell’insula palaziale di Arechi II (da Gambardella).
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SALTERNUM
L’apprestamento areale imponente rende ragione
almeno di due motivi d’interesse, il primo derivato dalla
circostanza che, in effetti, Arechi II volle che la sua
dimora fosse in una qualche maniera adiacente ai primitivi fabbricati a fare longobarde indicati, e il secondo che
s’era data l’occasione di dividere la zona pubblica (sulle
vie Dogana Vecchia, Largo S. Pietro a Corte, vicolo
Adelberga) da una privata, che denominai ‘burgensatica’,
ovvero pertinente alla famiglia. Convengo che scavi
ulteriori e messa a giorno delle pareti originarie su via
Arechi potranno risolvere al meglio l’ipotesi ma è
certo che proprio su tale strada la continuità morfologica-spaziale riceve spinta al ragguaglio.
Eccone una visione parziale (Fig. 4).
Una successiva chiarifica ancor meglio (Fig. 5 ).
Nell’andar oltre, dopo l’arco la via Arechi termina,
e inizia un altro scavalco (Fig. 6) che rappresenta la
conclusione del palatium di Arechi II verso il mare.
In tal modo venne sù una più rattenuta estensione
sulla zona Est, lì dove si fece ricorso ad edifici conglo-
banti le diverse funzioni pubbliche di cui si parlò circa
il salvataggio epocale dell’insieme.
Il prospetto della cortina (Fig. 7) rende noti i vari
interventi, qui rilevati (il libro del Gambardella è del
1983) prima che si procedesse ai radicali restauri attuali
che consentono la visione primigenia del palazzo: a sinistra, lungo vicolo Adelberga vediamo il campanile e la
vasta parete settentrionale della cappella palatii; seguono
il protiro e lo scalone, eretti nel 1567; e, in prosecuzione, nell’innesto di Largo San Pietro a Corte con
via Canali, l’area del palazzo S. Antuono, vecchia sede
otto-novecentesca del Comune di Salerno. In tale zona,
sull’allora piano di campagna, si stese un tavolato ligneo semplice (non v’è traccia di agganci d’un ponte) per
oltrepassare il torrente in discesa dal castello.
Fig. 4 - Salerno. Via Arechi. Parete meridionale del palatium longobardo. In fondo, a
sinistra colonna (cerchiata) con capitello corinzio all’angolo dell’uscita dal portico sul
decumanus via Dogana Vecchia –inizio via dei Mercanti, al lato della chiesa di S.
Salvatore de fondaco (cfr. Fig. 2). Al centro colonna ed arco; al primo piano, tra due
balconi, archi incidenti sul porticato.
Fig. 5 - Salerno. Via Arechi. Particolare della parete palaziale longobarda di VIII secolo su
porticato retto da colonna con capitello corinzio. A sinistra, l’uscita dal portico su via
Giovanni da Procida.
Arechi II e la sua Corte, 773 - 774
Oltre che Paolo diacono tutti i cronisti e grammatici longobardi furono colpiti, in età coeva o di non
molto posteriore, dalla personalità di Arechi II (fig. 8).
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PASQUALE NATELLA
Radoalt, fino a poco tempo fa ignoto autore del
Chronicon Salernitanum, ne diede particolari veridici
perché essendo della città di cui trattava poté attingere,
nel periodo in cui scrisse (954-964), dalla viva voce di
anziani, e da uomini di cultura del suo tempo che si
rifacevano forse a fonti scritte poi perdute (... “a maioribus nostris..., a veteranis illorum, nostri maggiori e uomini molto vecchi”, specificherà in un suo passo).
Abbate di san Benedetto (986-990), Radoalt discendeva dal trisavolo omonimo vissuto un vent’anni
dopo la scomparsa dei figli di Arechi (Grimoalt
806/Alais fratello 806-807) e le notizie, dopo una sessantina d’anni, non dovevano essere in famiglia né
scomparse né alterate da aggiunte o sottrazioni di particolari. Arrivato al punto della sua istoria in cui si
narrò la fase ultima delle risorse per la ricostituzione a
Benevento e a Salerno del Regno – guerre condotte
con Adelchi, presa - ripresa di territori beneventani in
contestazione col papa - Radoalt stese una relazione
diplomatica dei rapporti Carlo Magno – Arechi II. Già
Fig. 7 - Salerno. Cortina del lato Est del palatium arechiano (da Gambardella).
orientato a risolvere pacificamente le questioni con
questo principe italico Carlo, che era sceso a Capua
per incutergli timore fra il Gennaio e il Febbraio del
787, inviò suoi ambasciatori a Salerno, e la descrizione
radoaltiana è un capolavoro storico-politico:
[Karolus]… unum eminentissimus (vir) e suis
proceribus Salernum (misit)… Qui dum properasset Salernum cum suis non paucis
fidelibus… [Arichis] non paucis e suis proceribus in eorum misit occursum…, et in scale
ipsius palacii adolescentes hinc inde astare fecit,
qui gerebant in manibus sparvarios cum ceteri
huiusmodi avibus… deinde iuvenes astare
fecit… quidam enim ex his ad tabulam ludebant. Idipsum hinc inde, ut diximus,canos spargens astare fecit, deinde senex undique circumstans cum baculis in manibus, inter quos ipse
Princeps in trono aureo in eorum residens medium…
Dum [legati] sunt urbem ingress…statim
palaccio adierunt; cunque ad scalas iam dicti
palaccii pervenissent… responsum est: “ In
antea perambulate! “. Dum paulisper alium in
locum devenirent, … responsum est: “ In antea
pergite!... “ Ite in antea! “ Dum properassent in
aulam in qua ipse Princeps erat, cernerunt…
ipsum Arichis in throno aureo…
Ipse Princeps Arichis, ad vesperum, diversos
cibos, vina quoque precipua variaque poccionum
genera transmisit, atque in regia aula eum cum
suis, fidelibus morari iussit…
Et [legati]videns autem omnem sapienciam
Arichis, et palacium quod hedificaverat, et cibos
mense eius, et habitacula servorum, et ordines
ministrancium, vestesque eorum et pincernas,
miratus est valde.
Fig. 6 - Salerno. Sbocco dal portico di via Arechi sulla via Pietra del Pesce.
- 11 -
SALTERNUM
[Carlo] mandò uno dei più eminenti tra i
suoi cortigiani a Salerno…Mentre il
legato con non pochi suoi fedeli si avvicinava a Salerno [Arechi] mandò non
pochi maggiorenti incontro all’ambasciatore e al suo seguito…[In città, frattanto], all’uno e all’altro lato della scalinata
del palazzo [di S. Pietro a Corte Arechi]
fece disporre alcuni giovani che reggevano con le mani sparvieri e altri simili
uccelli; distribuì, poi, paggi adolescenti,…e altri giovani giocavano tra loro
presso un tavolo. Qua e là fece sistemare
sparpagliate persone anziane e, infine,
fece disporre in circolo alcuni vecchi con
in mano un bastone e, circondato da
essi, in un trono di oro, sedeva il principe. [I legati] si avviarono verso il palazzo:
giunti alla scalinata del suddetto palazzo…fu loro risposto – Andate Avanti.
Quando di lì a poco entrarono nella
sala…la risposta fu: Proseguite!..., Andate avanti. Entrati finalmente nella
sala dove era il principe videro…lo stesso Arechi seduto in un trono di oro…In
serata il principe Arechi fece preparare
per loro cibi diversi, vini pregiati e svariati con molte altre bevande e dette ordine
che l’ambasciatore col suo seguito abitasse nel palazzo reale…E [il legato]
osservando la grande sapienza di Arechi,
il palazzo che aveva edificato, i cibi della
sua mensa, le abitazioni del personale, le
schiere dei ministranti, le loro vesti, i
coppieri, era rimasto molto ammirato” (Radoalt - Chronicon Salernitanum, X sec.,
(11-20)
Il passo restituisce appieno il
senso d’un palatium di respiro
europeo. Non dimentichiamo che
Arechi II è al governo del suo
Principato, e una volta firmati i
patti con Carlo viene lasciato al
suo posto. Non si conosce, così,
nessun governatore Franco del
Principato, ancorché tutte le cronache Franche e non ribadissero
che conquistata Pavia Carlo
inviasse ovunque suoi uomini a
detenervi potere.
Ancora per otto mesi Arechi
Fig. 8 - Biblioteca Apostolica Vaticana.
Particolare della miniatura ad inchiostro
visse fra quelle mura, e poté predidi vari colori rappresentante il Duca di
Longobardi meridionali, Arechi II, in
sporre un bilanciamento di fatti e
piedi e rivestito dei paramenti solenni da
opinioni che mentre da una parte
cerimonia (anno 762) - Cod. Vat. Lat.
4939, f. 81 r.
favorisse e facesse continuare il
suo governo, dall’altra sintomatizzasse il corso delle concessioni di Carlo Magno, che
apparivano, ed erano, non dettate da supremazia ma
da volontaria scelta di fermare un corso inevitabilmente bellico. I figli di Arechi, forti di tale appoggio,
capiscono che i tempi impongono scelte drastiche, e
se Romualdo null’altro poté a causa della sua morte il
21 Luglio del medesimo anno, il Grimoalt per il salvataggio dei suoi territori porta alle estreme conseguenze il disegno politico di sopravvivenza e lotta contro il
medesimo Adelchi.
Una svolta drammatica di Longobardi contro
Longobardi inimmaginabile fino a qualche mese
prima.
Sintomo, realtà, immagine, concretezza areale stanno alla base dello sviluppo di questo palatium salernitano, degna sede di re, principi e duchi che mai verrà
meno nella coscienza collettiva degli italiani, e che ora
stiamo ribadendo.
- 12 -
PASQUALE NATELLA
Commentario bibliografico
Per superare formalistiche o addirittura ancora scolastiche posizioni che rallentano le ricerche sulle effettive realtà politiche e insediative dei Longobardi, studi
recenti stanno chiarendo fasi nascoste o poco studiate,
e ne rimando a qualcuno ove, fra l’altro, è ripresa parte
degli argomenti storici qui esposti, ad es. F. BORRI,
L’Adriatico tra Bizantini, Longobardi e Franchi. Dalla conquista di Ravenna alla pace di Aquisgrana, in “Bullettino
dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo”, 112,
2010, pp. 14-16, 22-25, 29-30 e sgg., e G. MARONI, La
memoria di Desiderio e Adelchi nella tradizione medioevale, in
“Aevum”, LXXXV (2011), n. 2, pp. 567-616.
Sulle fonti manzoniane I. WOOD, ‘Adelchi’ and
‘Attila’: the barbarians and the Risorgimento, in “Papers of
the British School at Rome“, LXXVI (2008), pp.
233-255.
Su Adelperga e Arechi II cfr. N. ACOCELLA, Le origini della Salerno medievale negli scritti di Paolo Diacono, in
“Rivista di Studi Salernitani”, 1968, n. 1, pp. 23-68.
La relazione della prof. Donatella Scortecci
dell’Università degli Studi di Perugia è in corso di stampa nei citati Atti del III. Convegno Nazionale Le Presenze
Longobarde in Italia, a cura della Federarcheo – Gruppi
Archeologici d’Italia – Società Friulana di Archeologia.
Ritratto di Arechi II da re e pur da miles con lo scramasax avaro-bulgaro in spalla, su fattura di XII sec. in
P. BERTOLINI, Actum Beneventi. Documentazione e
notariato nell’Italia meridionale langobarda (secoli VIII-IX),
Milano, Consiglio Nazionale del Notariato, 2002.
I rilievi plano-assonometrici del centro longobardo in C. GAMBARDELLA, Salerno disegnata. Disegno ed
enigma, Napoli, Società Editr. Napolet., 1983.
Affrontai in analisi storico-filologica Arechi II,
Palaccium et ecclesiam instituit. Storia del complesso longobardo di
San Pietro a Corte di Salerno, in ‘San Pietro a Corte.
Recupero di una memoria nella città di Salerno’ a cura
del Gruppo Archeologico Salernitano, Altrastampa
edizioni, Napoli, 2000, pp. 87-143; ID., L’occupazione
longobarda di Salerno, in Archeologia w teorii i w praktyce,
Varsavia, Accademia Polacca delle Scienze, 2000, pp.
397-417 [Miscellanea di studi in onore di Stanisław
Tabaczyński] (= rielabor. con aggiunte in Atti del
Convegno Il popolo dei Longobardi meridionali (570-1076)...,
Salerno, Gruppo Archeologico Salernitano, 2009, pp.
11-23).
Per Radoalt e il Chronicon Salernitanum v. H.
TAVIANI-CARROzzI, La Principauté lombarde de Salerne
(IX.e-XI.e siècle)..., Roma, École Française de Rome,
1991, I, pp. 81-95.
- 13 -
SALTERNUM
SEMESTRALE DI INFORMAZIONE STORICA, CULTURALE E ARCHEOLOGICA
A CURA DEL GRUPPO ARCHEOLOGICO SALERNITANO
GABRIELLA D’ HENRY
Editoriale
D
a un po’ di tempo – in tempo di spread, ma
anche precedentemente – non si parla più di
‘Cultura’, tant’è che ho avuto il sospetto che
si tratti di uno di quei termini andato in disuso. Non
parliamo poi di ‘Beni Culturali’, di cui è stato detto, da
un ex ministro, che con questi «non si mangia».
Esiste ancora un Ministero che se ne dovrebbe
occupare, ma il precedente Ministro, offesosi per qualche suo motivo, non se ne è interessato, preferendo
commissariare gli Enti preposti alla tutela e valorizzazione; e l’attuale Ministro – offeso anch’egli? – non
mostra di interessarsene troppo.
Qualche notizia buona, però, è trapelata. Per esempio, dall’Aquila arriva la novità che è stato progettato
il restauro dell’ex Mattatoio, restauro affidato all’architetto Bulian, uno dei più attenti funzionari dei Beni
Culturali: esso sarà la nuova sede del Museo Nazionale
d’Abruzzo, e vi verrà esposta parte della quadreria che
era conservata nel Forte Spagnolo; e che anche il
Forte sarà soggetto ad un parziale recupero. Questo fa
supporre che l’èra caratterizzata dal predominio della
Protezione Civile - che ha avuto il coraggio di rifiutare l’assistenza gratuita di Giuseppe Basile, valido funzionario dell’Istituto Centrale per il Restauro ora in
pensione - sta declinando.
Quello che ora preoccupa di più è la situazione
dell’Emilia-Romagna dopo il terremoto. L’impressione,
a chi ne sta fuori, è che stia avvenendo un gioco al massacro: quanti campanili sono stati rasi al suolo, quante
chiese e monumenti? Si comprende la pericolosità dei
ruderi in condizione precaria; ma anche in questo caso
sembra che il Governo dei ‘tecnici’ si sia affidato alla
Protezione Civile, emarginando e mortificando, in pratica, le Soprintendenze. E sì che l’esperienza positiva friulana o marchigiana avrebbe potuto insegnare qualcosa.
Pare che Pompei, con i suoi crolli, sarà beneficata
da una quantità di progetti e finanziamenti per la sua
messa in sicurezza: aspettiamo a vedere se in questo
caso si seguirà la strada maestra o dovremo assistere
una volta di più ad uno sperpero di denaro pubblico.
- 17 -
ADRIANO CAFFARO
- GIUSEPPE FALANGA
Giovan Battista Passeri e l’antichità classica
tra ‘etruscheria’ e archeologia1
afferma: «Dispiace a noi che siamo etruschi
La scoperta appassionata dell’antico
e massimamente dispiace a me nato a
’età dell’Illuminismo è definita da
Farnese tra i Volsini e i Tarquini (…)»3. Il
Giambattista Vico il periodo nel
padre Domenico, che godeva di ampia fama,
quale gli uomini ‘finalmente riflettodopo aver esercitato la professione in diverse
no con mente pura’2. E’ l’età in cui la filosofia razionalista condiziona, di generazione in
località dell’Italia centrale, tra Orvieto e Todi,
generazione, le dinamiche economiche e l’aTerni e Norcia, Acquasparta e a Farnese, nel
zione politica, la vita culturale e l’attività
1718 si trasferì a Pesaro per stabilirvisi come
amministrativa dello Stato moderno, mossa Fig. 1 - Ritratto di Giovan medico primario all’Ospedale cittadino4.
Battista Passeri (1775). Olio
Le continue trasferte nelle campagne
da una finalità generale di modernizzazione. su tela (cm 60 x 50). Pesaro,
Oliveriana, Sala
orvietane
diedero occasione al figlio Giovan
In Italia, il rinnovamento giuridico-funzio- Biblioteca
Passeri.
Battista, ancora fanciullo, di osservare con
nale delle strutture operative degli Stati
precoce ingegno molti oggetti e fenomeni
regionali si accompagna allo sviluppo demonaturali, come i fossili del Monte Peglia, che furono
grafico e all’affermazione di una nuova classe sociale
meticolosamente raccolti e classificati. Se all’età di sei
di origine piccolo-nobiliare e neo-borghese. E’ a queanni era ad Orvieto, a tredici era già a Roma, per seguisto ceto progressista, animato da idee illuministiche,
re con diligenza gli studi grammaticali, di disegno ed
che appartiene Giovan Battista Passeri, che può essearchitettura. A Roma, nel novembre 1711, fu avviato
re annoverato tra i più prolifici ed eclettici scrittori
da Gian Vincenzo Gravina5 e dal gesuita Giulio
marchigiani del Settecento.
Vitelleschi6 agli studi di giurisprudenza. Un apprendiLa vicenda biografica e intellettuale di Giovan
stato d’incidenza capitale, quello col Gravina, il quale
Battista Passeri assume valore testimoniale nella disamilo introdusse negli ambienti accademici dell’Arcadia.
na particolare del processo con cui si realizza l’evoluzio‘Feralbo’ sarebbe stato il nome pastorale assunto dal
ne culturale dal collezionismo alla museologia, dall’etrugiovane studioso che, tra le elucubrazioni storico-filoscheria all’archeologia. Snodandosi nel Settecento dei
sofiche e le giovanili finzioni poetiche, guadagnò preLumi e delle Belle Lettere, del Razionalismo e del
sto un vasto credito nell’ambito culturale romano7. A
Rococò, quella vicenda predilige circuiti geografici di
Roma il Passeri ebbe occasione di approfondire i prochiara ascendenza storica, estesi per lo più nell’Italia
centrale, mostrandosi in grado di connettere, in via
pri interessi artistici grazie alla frequentazione dei più
ideale, le due sponde italiche – la tirrenica e l’adriatica –
esperti architetti del tempo, come Filippo Juvarra8 e,
fino a quasi a delimitare un’unica area geo-culturale.
forse, Luigi Vanvitelli9. Nel 1715 rientrò a Todi, per
Giovan Battista Passeri nasce a Farnese, presso
volere del padre. Vi rimase due anni. Lì, intanto, nelViterbo, il 10 novembre 1694, da Domenico, medico
l’aprile 1716 conseguì la laurea che lo abilitò all’attivicondotto originario di Gubbio, e da Anna Maria
tà forense. A Pesaro il Passeri giunge intorno al 1720.
Evangelisti, di nobile famiglia laziale. E’ il Passeri stesQui si cimentò nell’attività forense; ma sono le disciso a sfatare il mito della sua nascita in terra marchigiapline umanistiche – in modo speciale la filologia e l’arna, quando nel De tribus vasculis etruscis encaustice pictis,
cheologia – a calamitare i suoi interessi. E per di più
edito nel 1772 dalla Stamperia Mouckiana di Firenze,
ravvivati da una profonda e quasi atavica passione per
L
- 19 -
SALTERNUM
porte dell’eternità. Lungo le sponde del Mar
la civiltà etrusca. Fin dagli inizi della sua forAdriatico, lo studioso trovò stimoli ed occamazione culturale seppe esprimere in nuce la
sioni diverse per realizzare le proprie mire
futura attrazione per l’antica arte italica. Ed
culturali. La vastità degli interessi coltivati
è tale passione, alimentata da una sostanziadall’illustre ‘pesarese’ – testimoniata da una
le continuità di attività e di interessi, a far sì
bibliografia copiosissima che annovera più
che il Passeri possa oggi a pieno titolo essedi 600 opere tra le stampate e le manoscritre ricordato tra i maggiori rappresentanti
Fig. 2 - Giovan Battista
dell’etruscheria, insieme con Anton Passeri. Stampa (cm 28,5 x te, insieme ad un migliaio di epistole – com(Da ‘L’Album. Giornale
plica alquanto gli sforzi per una definizione
Francesco Gori10 e Mario Guarnacci11. Egli 21,5).
Letterario e di Belle Arti’,
avrebbe più tardi collaborato al Museum Roma, Tipografia delle Belle univoca del profilo intellettuale del Passeri.
Arti, 1853-59, p. 340).
Etruscum del Gori, pubblicato in tre volumi
Ciò perché nella sua figura come nella sua
per la prima volta a Firenze tra il 1737 e il
vicenda s’addensano – com’è tipico degli
1743, traendo dalle pitture vascolari, da statuette, vasi,
eruditi enciclopedisti – tratti ed aspetti che rifuggono
cippi ed urne, gemme e lampade fittili la fonte diretta
la fisionomia del semplice letterato antichista ed
di tanti altri opuscoli che avrebbe dedicato alle antichiarcheologo. Per poi ricomporsi piuttosto in un ritratto
tà italiche. E più tardi ancora, nel 1750, insieme con
eccentrico che non ignora la varietà dei saperi da lui
l’amico filologo avrebbe di fatto dato alle stampe,
approfonditi e sviluppati, dalla filologia alla musica,
sempre a Firenze, il Thesaurus gemmarum antiquarum
dalla ceramica all’architettura, dagli studi naturalistici
astriferarum.
ai più noti e forse banalizzati interessi archeologici di
La presenza del Passeri ad Urbino (1755-57) non
‘etruscheria’. Le Lettere Roncagliesi, stampate a Venezia
12
mancò di lasciare tracce . Nel centro urbinate l’artra il 1738 ed il 1739, raccolgono la memoria di questa
cheologo fondò il nucleo originario del Museo
pratica archeologica ‘smodata’. Allo stesso 1739 risale
Lapidario e, su incarico del Cardinal Giovan
l’opera-catalogo Lucernae fictiles Museij Passerij, una
Francesco Stoppani, diede impulso notevole all’immasistematica inventariazione del patrimonio archeologine opera di sistemazione del patrimonio artistico,
co pesarese ristretto alle sole testimonianze fittili. Nel
archeologico ed epigrafico. S’infittirono intanto le
1755 il Passeri pubblica la Lettera a Monsù Cartoccio,
relazioni di confronto e scambio culturale con altri
approccio eccentrico ed efficace alla tradizione antiautorevoli rappresentanti della cultura del tempo, non
quaria e spia originale delle istanze più avanzate di
estranei tra l’altro al mondo ecclesiale. Nel volgere di
riformulazione del dibattito culturale in corso sull’auqualche decennio, la cultura archeologica del Passeri si
torità degli antichi e sull’invenzione dei moderni. Nel
dilata grazie ad un’indefessa ricerca, di continuo
1759 l’editore Guglielmo zerletti manda in stampa le
aggiornata su fonti e documenti ed alimentata dalla
Osservazioni del signor abate Giambattista Passeri da Pesaro,
partecipazione a diverse accademie italiane – l’Arcadia
uno degli uditori e consiglieri della legazione di Urbino, sopra
e la Quirina di Roma, l’Etrusca di Cortona e la Crusca
l’avorio fossile e sopra alcuni monumenti greci e latini conservae la Colombaria di Firenze, quella di Palermo o
ti in Venezia nel museo dell’eccellentissima patrizia famiglia
l’Istituto di Bologna – ed europee come Olimütz in
Nani. L’opera è integrata nello stesso anno da una
Moravia e la Reale di Londra.
‘sezzione seconda’, la Continuazione delle osservazioni
La nomina di archeologo dei possedimenti del
sopra alcuni monumenti greci, e latini del museo Nani.
Granduca di Toscana è sintomatica del prestigio matuA Lucca il Passeri pubblica, nel 1767, per i tipi del
rato per merito dell’erudizione. La carriera ecclesiastiprestigioso editore e librario Leonardo Venturini il In
ca, intrapresa dal Passeri dopo la morte della moglie,
Thomae Dempsteri libros de Etruria regali paralipomena, quisembrò poi agevolargli la strada, tanto che fu eletto
bus tabulae eidem Operi additae illustrantur. Accedunt disserVicario Generale dal Vescovo di Pesaro. Un incidente
tationes de re nummaria Etruscorum, de nominibus
lo strappa da questa vita: il Passeri precipita nel burroEtruscorum, et notae in tabulas Eugubinas, audace supplene che fiancheggia la sua villa di Roncaglia, presso
mento al pioneristico De Etruria regali del Dempster.
Pesaro, e muore il 4 febbraio 1780.
La tipografia romana di Johannis zempel congeda
La città di Pesaro che fu la patria d’adozione del
tra il 1767 ed il 1775 le Picturae Etruscorum in vasculis
Passeri lo accolse nell’abbraccio che gli dischiuse le
nunc primum in unum collectae explicationibus con tanto di
- 20 -
ADRIANO CAFFARO
– GIUSEPPE FALANGA
dall’empiria dilettantistica per intraprendere la via della scientificità, che la
porterà ad essere ribattezzata ‘etruscologia’ e a definirsi, quindi, come studio
sistematico della civiltà etrusca ed in
particolare delle sue espressioni artistiche e linguistiche. La formazione enciclopedica del Passeri lo abilitò all’approccio a qualsiasi materia, in forza
della competenza metodologica acquisita. Di fatto conferma che «fu originale
nel sistemare l’Etrusca antichità; siccome fu eccellente nella storia naturale e
nella
cognizione delle belle arti».
Fig. 3 - Giovan Battista Passeri. Incisione di
Johann Jacob Haid (1704-1767): «Ioannes
L’attività e l’opera del Passeri si collocaBaptista Passerius, Protonotarius Apostol.
no
nella prospettiva della storia civile
Episcopi Pisaurensis Vicar general Societ.
regiae Londin aliarumque Italicarum
europea i cui riferimenti culturali pogmembrum - nat. d. 10 Novembr.
MDCXCIV». New York, Stephen A.
giano su di una rinnovata attenzione per
Schwarzman Building, Print Collection.
le antiche civiltà.
Gli interessi per l’antico popolo
etrusco s’intensificarono in special modo dopo la pubblicazione del De Etruria regali, opera di Thomas
Tra ‘etruscheria’ e archeologia
Dempster, edita tra il 1723 ed il 1724. E’ un periodo
La poliedricità degli interessi coltivati dal Passeri, la
in cui furono tra l’altro fondate l’Accademia etrusca ed
partecipazione alla vita culturale di molte accademie in
il Museo a Cortona (1726), insieme con la Società
Italia ed in Europa, nonché il lungo soggiorno a Roma
Colombaria a Firenze (1735). Lo scavo delle necropodal 1707 al 1715 e, dunque, il discepolato con
li di Volterra e, più tardi, di quella a Tarquinia incoragVincenzo Gravina, vissuto con impegno e fervore,
giò gli studi sull’antica Etruria, inducendo studiosi più
non potevano non sortire effetti incisivi sul suo peno meno eclettici della disciplina ad esplorare un’area
siero. Di fatto, ancorandolo alla lezione degli antichi e
geo-culturale fino ad allora ignota a molti e che non
inducendolo, in particolare, all’attenta considerazione
smise di esercitare il suo fascino.
degli esperimenti architettonici più recenti.
Il Passeri non fu immune dalla curiosità inconteniVa detto che la fama di archeologo esperto di etrubile che muoveva intuito e acribia nella direzione del
scheria ha contribuito in passato a ridurre alquanto il
glorioso passato italico; da una smania prorompente
volume esorbitante dell’identità culturale del Passeri,
per tutto quanto avesse in qualche modo meritato –
limitando anche i percorsi critici volti ad un più ampio
nella considerazione delle tracce materiali e del signifirecupero di una testimonianza tra le più singolari delcato culturale ad esse connesso – un posto di riguardo
l’erudizione settecentesca europea. Avranno forse
all’ombra di un’epoca più remota del decantato retagpesato su questo ritardo anche il carattere audacemengio romano. La febbre dell’etruscheria colpì anche lui
te pioneristico del pesarese o quel suo volersi presened il germe virale agì dal di dentro, sintetizzando tanto
tare in veste di eterno Pisaurensis. Mai dimentico non
il materiale mnemonico che s’era sedimentato nel suo
tanto della patria effettiva – giacché i suoi natali per
immaginario sin dall’infanzia trascorsa in terra toscodavvero non erano marchigiani, ma laziali – quanto di
umbra quanto le sollecitazioni culturali offertegli da
quella Pesaro che lo accolse ventiquattrenne e gli diede
l’atteso incentivo a far fruttare le conoscenze umaniadulto in ambito accademico. Dalla corrispondenza
stiche e, finalmente, a proiettarle su scala europea. E
epistolare emerge la voracità di un autodidatta che col
va pure detto che – con limiti condizionanti e tra moltempo, a furia di masticare tracce inattendibili e notiteplici contraddizioni – col Passeri l’etruscheria comzie false confezionate a partire da reperti comunque
pie i primi passi lungo il processo di affrancamento
frammentari, ha imparato a non fidarsi delle ricostru-
dissertazioni illustrate. Nel 1772 è pubblicato, nel tomo XXII della ‘Nuova
Raccolta di Opuscoli Scientifici e
Filologici’ il discorso Della ragione dell’architettura. E’ l’opera forse più nota del
Passeri e responsabile del credito ampio
guadagnato nell’ambito della critica
d’arte con la capacità, per certi aspetti
innovativa dell’Autore di argomentare
temi e questioni centrali della storia
architettonica.
Nel 1774, intanto, lo stesso zempel
dà alla luce Linguae Oscae specimen singulare quod superest Nolae in marmore musei
seminarii cum adnotationibus Joh. Baptistae
Passerii Pisaurensis e il De marmoreo sarcophago Eugubino arcana Bacchi mysteria exprimente in vestibulo monasterii splendidissimae
Congregationis Olivetanorum adservato epistola Joh. Baptistae Passerii.
- 21 -
SALTERNUM
dir poco paradossale con la crescente attenzione al
contesto europeo o, per lo meno, alle vicende contemporanee dei principali Paesi europei. Ciò valse anche
per la storiografia artistica. Nel quadro europeo del
Seicento, emergono le linee di gusto di una italianità
che non aveva ancora ben definita un’identità storica
unitaria, ma capace, tuttavia, di esprimere mediante
artisti apprezzati delle istanze estetiche eccellenti subito recepite e riconosciute, per quanto diversificate, in
altri Paesi europei. La temperie culturale cui partecipa
il Passeri archeologo ed erudito, non a caso fiero
anch’egli di rivendicare un’appartenenza locale specifica, rivisita i contesti geo-culturali delle manifestazioni
artistiche municipali e li permea di spirito patriottico,
in una prospettiva di rivalsa ideale che in qualche modo
prefigura il riscatto risorgimentale dell’identità italiana.
Quando il Passeri pone ad esempio alcuni casi d’arte
locale – vedi il rinvio alle architetture orvietane – altro
non fa che elevare del ‘materiale particolare’ a testimonianza generale di un indirizzo artistico la cui portata è
extra-provinciale, perché carica di un valore morale che
dà corpo ad aspetti concreti della plurima realtà locale
e si rivela fondante per la fisionomia di un intero popolo. L’attenzione al ‘concreto’ connota la storiografia
settecentesca. La ricerca retrospettiva delle origini –
vedi l’orizzonte raggiunto a ritroso del retaggio etrusco
in una Tuscia prodiga di memoria – è ideologicamente
motivata dall’intenzione di recuperare la forma autentica – architettonica, scultorea o letteraria che sia - perché ritenuta incorrotta. In tal modo, è respinta in una
regione primitiva al di là del divenire storico che l’avrebbe preservata dalle mode e dai rivolgimenti epocali fino a giustificarne l’elezione a modello.
Ai cultori dell’etruscheria come il Passeri è però
addebitata la smodata esaltazione, compromettente
l’attesa di scientificità di tante trattazioni. Queste si
vorrebbero ‘storiche’ ed invero sintomatiche – secondo l’impietosa sentenza di Momigliano - di «una forza
disgregatrice, una reale malattia della cultura italiana»
che colpì finanche gli ingegni più eleganti, come quello del Maffei14.
Il più accorto scetticismo sull’opera del Passeri e
sull’etruscheria in generale non deve tuttavia appiattire la dialettica critica intorno a quella figura e a quella
pratica; vale invece considerare la possibilità di tener
salva la valenza culturale di certa passione antiquaria
che, come nel caso del Passeri, torna utile a connotare
buona parte del costume settecentesco15.
zioni immaginose e a tentare invece la via impervia,
ma più cauta, di una congettura scientifica seppure
imbastita con qualche coccio di lucerna o con le
disperse tessere di un mosaico. L’iter evolutivo che
vede il Passeri maturare una responsabilità maggiore
nell’esercitare il ruolo di ricercatore è tutto racchiuso
tra i due poli estremi del ‘reperto’ e del ‘libro’, ossia
dell’indagine fortunosa condotta su campi sempre
troppo avari e dei testi letti e scritti con serenità e lucidità. La maturazione del Passeri sta nell’aver integrato
l’ansia classificatoria dei pezzi rinvenuti con l’ambizione enciclopedica ai saperi molteplici che afferiscono
alla scienza antiquaria. Il fatto che il primo volume del
Lucernae fictiles Museij Passerj appaia nel 1739, quando
l’erudito aveva già 45 anni, può essere indicativo di
questa evoluzione dalla pratica dilettantistica alla saggia meditazione.
Un interessante punto di discussione può essere
intanto definito dal ‘volume’ delle ricerche storicoartistiche passeriane, dal modo singolare in cui l’illustre Pesarese seppe inserirsi nel panorama storiografico settecentesco, per evidenziare momenti di continuità o di diffrazione rispetto alle posizioni emergenti
in un dibattito europeo di durata ultra-secolare.
Relegare l’opera del Passeri nell’alveo dell’antiquaria
erudita, limitandosi tutt’al più a valutarne la funzione
documentaria e compilativa come unico elemento
connotativo, potrebbe risultare inadeguato oltre che
improduttivo, fin tanto da sminuire la risonanza di
un’azione culturale più vasta, condotta senza che si
esentasse mai dall’assunzione esplicita di responsabilità nell’elaborazione critica delle informazioni archeologiche che, a mano a mano, lo studioso andava recuperando nei territori locali. Si tratta di capire quale sia
stato l’apporto dato dagli scritti passeriani alla dialettica che anima la storiografia tra Sei ed Ottocento e che
oppone la rivalsa entusiastica delle tradizioni regionali
alla maturazione di una coscienza storica unitaria dell’arte italiana13. Si consideri, del resto, che già gli studi
storici seicenteschi avevano confermato una sostanziale tendenza localistica, non a caso corrispondente al
mancato decollo di programmi di ricerca condivisi
intorno al tema della storia d’Italia. La prevalenza dei
modelli regionalistici, a discapito di descrizioni condotte con sguardo panoramico e di portata unitaria, si
spiegava con l’intenzione degli studiosi di volere dettagliare e circoscrivere le vicende storiche in ambiti
analitici particolari e di trovare una corrispondenza a
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ADRIANO CAFFARO
– GIUSEPPE FALANGA
denotare la percezione che l’archeologo aveva dell’attività svolta e dell’importanza ad essa riconosciuta16. In
tal senso, l’approccio all’antico conosce momenti di
cui si dà ragione entro un percorso di crescita, sicché
la conoscenza critica sembra farsi più matura e certa
nella misura – come abbiamo detto – in cui essa è
investita dalla sensibilità arcadica che tanto eleva la
materia storica con l’artificio letterario, fino a farne
una trama poetica. Il Passeri, del resto, era un membro dell’Arcadia. Egli fu testimone del’aspirazione ad
una rinnovata civiltà, perché appassionato e prolifico
rappresentante di un sistema culturale che, da un
lato, andava promuovendo l’atteggiamento pioneristico proprio di chi rischia finanche la reputazione
nelle sperimentazioni più ardite della ricerca scientifica e, dall’altra, andava ispessendo la coscienza storica dell’arte in tanti eruditi che dall’antiquaria ritennero di poter desumere qualche pretesto d’antropologia italica.
Quella del Passeri è un’avidità irrefrenabile, una
sete implacabile di cose rare e singolari che si riversa
in un’ansia d’accumulo, in una smodata tensione al
possesso. Elementi che sembrano connotare la figura
dell’archeologo – al di là dei riferimenti oggettivi della
vicenda storica e personale – con tratti psicologici tali
da meritargli quasi la degna comparsa in una commedia del Molière o del Goldoni. L’anima ambigua dell’archeologo-collezionista, ossia il duplice profilo di
erudito e antiquario, sempre sospeso tra sete di conoscenza ed ingordigia di possesso, impedisce infatti
un’assimilazione sommaria della sua figura culturale
alla moda passatista del tempo, giacché nel lumeggiare l’una si finirebbe con l’oscurare l’altra.
Se la coscienza dell’antico esercita nel Passeri una
funzione determinante di orientamento estetico e di
formazione culturale, l’attività letteraria, l’esercizio
poetico ed il costante aggiornamento sulla moda corrente agevolano quel divertito e convinto appressarsi
all’antichità classica che configura finanche uno stile di
ricerca, un modo del tutto singolare di ‘metterci del
proprio’ in quel che si fa. La Mascherata pesarese composta dal Passeri nel 1729 tradisce tale attenzione e ne
rivela soprattutto la ‘leggerezza’, ossia lo spirito ricreativo attraverso cui l’archeologo veste i panni dello sceneggiatore e prende licenza per rileggere la romanità
in chiave carnevalesca. Quella del Passeri è, di fatto,
una romanità ‘reinventata’, assunta cioè come spunto
ideativo per l’immaginazione mitologica più che come
Quella del Passeri è un’identità camaleontica dai
tratti complessi, che tuttavia è possibile decifrare se si
considera l’evoluzione dei suoi molteplici interessi culturali. Da esordiente tombarolo in terra etrusca e
romana a spasmodico collezionista antiquario di urne
e medaglie, di iscrizioni, statue e monete il Passeri
diviene erudito più attento e scrupoloso, intento nella
maturità non tanto e non più ad accumulare per sé
reperti antichi di fattura varia quanto a penetrarne il
mistero dell’origine, nonché a carpire l’essenza culturale dell’oggetto nascosta dietro le apparenze.
La pratica ‘tombarola’ appresa da fanciullo gli valse
da tirocinio diretto nell’acquisizione di quelle conoscenze archeologiche che più tardi avrebbe divulgato
in tante opere erudite. Tale confidenza con l’antico –
tolta l’alea romantica che, ammantando la memoria
delle civiltà perdute, rischierebbe di falsarla – va interpretata in chiave evolutiva, giacché essa muta nel
tempo per dilatarsi dall’esperienza giovanile di ritrovamenti occasionali alla più matura riflessione sistematica sulle arti del passato. E, forse, ciò che resta nel
mutare dei giorni e degli offici è proprio lo sguardo
ammirato con cui il Passeri investiva finanche il più
minuto reperto fittile, per ricostruirvi tutt’intorno –
complice l’immaginazione erudita – la civiltà artistica
di cui il frammento era superstite. La cultura, per l’appunto, era affare di cuore e, come tale, non poteva
tenere a freno la vivace invadenza dell’emozione. In
questo senso, il Passeri fu sì accademico, ma perché
appassionato. La stessa insistenza con cui dichiarava di
volere essere ricordato come un ‘pesarese’, sebbene i
suoi natali – com’è noto – non fossero marchigiani,
può essere accolta come indizio di una personalità
incomprimibile, che non seppe né potette rinunciare
ai propri connotati ideali, per non ritrovarsi smarrita,
fuor di patria. Se Orvieto lo fece sognare, Pesaro gli
consentì di realizzare quei sogni.
La consapevolezza, dunque, di una vita vissuta
nello slancio quasi titanico volto al recupero delle cose
remote – che, debitamente raccolte e studiate, arricchisce la memoria civile dei moderni e li orienta alla
retta comprensione del tempo presente – può essere
incontrovertibilmente considerata un dato strutturale
della figura e della vicenda passeriana, tant’è che essa
è un elemento pressoché reiterato nelle ricostruzioni
biografiche manoscritte e a stampa. Il fatto che il
Passeri stesso avvertisse il bisogno di redigere un’autobiografia, di correggerla e finanche postillarla sembra
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SALTERNUM
te di un uomo che tentò l’impossibile per dare forma
– quella ‘remota’ d’ogni recupero – al desiderio di
stringere nel palmo la memoria dell’antico.
La testimonianza del Passeri assume, in tal senso,
un significato rilevante, giacché la sua ricerca appassionata di tracce del passato italico impone, per così
dire, una ‘virata’ critica nella disamina degli orientamenti estetici settecenteschi. Essa partecipa di quelle
esperienze culturali che provano l’esistenza di un filone di studi e ricerche incentrato sulla civiltà pre-romana e tanto basta a far esigere una dilatazione – o un
ridimensionamento – del concetto generico e d’uso
massivo di ‘neoclassico’. Lo abbiamo visto: gli eruditi
non volsero lo sguardo soltanto alla civiltà omerica e,
se a quella guardarono, non mancarono poi di relazionarla – in una sintesi feconda continuata anche nel
secolo successivo – al retaggio storico ed artistico che
alimentò la tradizione e il costume italico. E’ questa
ambivalenza di sguardo e di approccio a caratterizzare
il discorso passeriano sulle ragioni dell’architettura.
fonte per la ricerca storica. Le sollecitazioni ricevute
dall’ambiente arcadico inducono il Passeri a trasfigurare l’antichità romana, i suoi costumi e le sue arti, i suoi
valori e le sue strutture, in un mito della fantasia in cui
ogni azione può essere accolta come gesto scenico. La
premura – che più tardi egli maturerà – di condividere con altri studiosi le notizie storiche di cui è venuto
in possesso giunge ad equilibrare la smania antiquaria.
Alla passione per l’etruscheria, subentra nell’età matura una cura di tipo già scientifico che dischiude percorsi pubblici di analisi e di sistemazione del materiale
raccolto. D’altro canto, il progetto di istituire quella
stessa Accademia Pesarese che avrebbe curato la stampa dei volumi passeriani, sebbene fondata nel 1730
dall’Olivieri, trova il suo ideatore reale proprio in un
Passeri attivissimo già qualche anno prima sul fronte
della ricerca scientifica e letteraria, orientante infine
tale ricerca allo scopo di dare un assetto museale ai
reperti rinvenuti. Il fatto è che per il Passeri la scienza
antiquaria andava contemplata tra le ‘Scienze Poetiche’
e queste, insieme allo studio delle ‘Lettere Sacre’ e
delle ‘Scienze Matematiche’ avrebbero costituito i tre
indirizzi culturali della Nuova Accademia marchigiana.
Dunque, un erudito eclettico, ma prudente; un letterato creativo, ma conservatore: questo è il Passeri.
La quantità incommensurabile dei reperti che il
Passeri agogna di possedere per accrescere il patrimonio del Museo pesarese non disperde l’attenzione per
il ‘pezzo’ unico, per la singolarità di un frammento che
merita comunque di essere riconosciuta e valorizzata.
Sono le Lettere scritte a Pesaro dal 1727 al 1730 indirizzate all’Olivieri, durante il soggiorno romano di
questi, a tradire l’incontenibile smania di possesso.
Così scrive il Passeri a proposito di una lucerna «Io me
la tengo sul tavolino, la vagheggio, e ne godo quanto
si può mai…»17. I riferimenti testuali ai reperti – che si
tratti di iscrizioni, statue o lucerne – sono pressoché
tutti retoricamente sciolti in forma iperbolica, perché
il linguaggio dell’esagerazione è il solo che possa
comunicare – per di più con i modi colloquiali che si
confanno ad un amico quale è l’Olivieri – l’energia
emotiva che vitalizza la relazione con le cose e a qualifica con i connotati medesimi di chi le osserva e da
esse è attratto. E’ nel confronto epistolare con
l’Olivieri che si palesa la personalità del Passeri antiquario. Nello spazio definito tra la passione antiquaria
comune ai due eruditi e l’estrazione sociale tra loro
così diversa, va plasmandosi la fisionomia febbricitan-
Il discorso ‘Della ragione dell’architettura’
Un archeologo sì, ma anche un teorico dell’arte.
L’eclettismo culturale di Giovan Battista Passeri sembra obbedire alla logica dispersiva degli studi particolari, ma l’indirizzo estetico che orienta la passione per
l’antico, seppure non retto da un impianto speculativo
sistematico ed unitario, ordina un’indefessa attività di
riflessione che risulta essere quanto meno articolata e
generale. Nell’arco storico-culturale esteso tra il
Barocco ed il Neo-classicismo, il contributo teorico e
critico offerto dal Passeri al dibattito europeo sull’architettura del Settecento s’attesta nell’area di interessi
molteplici e vari che raccoglie i pronunciamenti di
molti altri letterati dell’epoca, in particolare dediti ai
fatti dell’architettura e non impegnati in via diretta,
con mansioni operative, in quest’arte tanto complessa.
Negli scritti del Passeri vige un’ambivalenza non
soltanto formale, che investe l’ordine delle idee e dei
concetti. Essa esprime non tanto la mitezza astratta di
una scrittura teorica che ambisce a divenire critica
quanto la piena adesione al clima culturale del tempo.
Quella scrittura manifesta cioè una certa duplicità nell’approccio mediatore tra la ricchezza della tradizione
artistica italiana e le istanze di innovazione che prendono quota negli ambienti intellettuali europei. Del
resto, la cultura enciclopedica settecentesca si nutre
delle novità emergenti dalla memoria delle arti e delle
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ADRIANO CAFFARO
– GIUSEPPE FALANGA
tica certe imprudenze formali e, al massimo, prende
distanza da talune arditezze ornamentali19, senza mai
inoltrarsi nell’ambito della valutazione specifica spettante ai competenti, evitando quindi di sentenziare e
condannare con troppa facilità. Ragionando sulla
scorta della formazione letteraria e del buon gusto
maturato negli anni di studio, l’erudito ha saputo elaborare una visione originale delle questioni artistiche
contemporanee, fino a distinguersi nel panorama
generico dei facili dilettantismi per l’acume indagatore
e per la vastità delle conoscenze divulgate. Il Passeri
ragiona da ‘intendente’ più che da architetto, giacché
egli comprensibilmente è privo di pratica professionale. Egli, del resto, non è architetto. Però, non è affatto
inesperto circa i temi più dibattuti nel campo dell’architettura, per cui può trattare in modo adeguato di
piante, alzati ed ornati degli edifici. La misura di tale
adeguatezza è data, per così dire, dal riscontro critico
guadagnato già ai tempi suoi, perché il Comolli20 lo
elogiava, l’Olivieri21 lo stimava e, ancora, il Muratori22
lo esaltava.
Il Passeri sembra, di fatto, essere impegnato più a
dissotterrare il sostrato ideale delle invenzioni architettoniche che a presidiare con ipotesi e congetture un
campo d’azione che non gli è proprio. Del resto,
l’Articolo I del Sommario passeriano non dà adito ad equivoci sul metodo adottato dall’Autore: «L’Architettura
ha la sua particolare filosofia (…)». E, ancora, nella
Prefazione, lo studioso dichiara che solo l’esame delle
ragioni dell’architettura consente di adeguare ogni scelta o azione ad un principio ideale recondito, che regge
con saldezza l’arte architettonica e al quale occorre che
ci si attenga come ad una ‘legge universale e fondamentale’.
La ragione dell’architettura è, dunque, un «raffinamento della ragion naturale». Tale perfezionamento è
stato ottenuto nei secoli con «lunga esperienza e studio» e si è realizzato col concorso di tutti gli uomini
dotati di buon senso.
L’impostazione ‘funzionalista’ del discorso passeriano emerge qui con limpidezza. La teoria ha bisogno
di incontrare la realtà per trarne motivi di giustifica o
di verifica. D’altro canto, è la storia ad offrire sostanza alle speculazioni fatte. La mente dell’Autore corre
così ai fasti dell’arte romana in età imperiale per chiarire che non è la lussuosa magnificenza dello stile antico a suscitare riprovazione. Il Passeri di fatto motiva
quei fasti in base al principio che l’arte debba servire il
scienze di un’antichità che resta col suo remoto orizzonte ad orientare le singole invenzioni moderne.
Il trattato Della Ragione dell’Architettura è pubblicato
nel 1772 a Venezia nel XXII tomo del numero V della
‘Nuova Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici’. Nel
1806 il tipografo Niccolò Gavelli dà alle stampe a
Pesaro una seconda edizione del Discorso, includendolo nel tomo I delle ‘Opere del Canonico Giovanni
Andrea Lazzarini’. La doppia edizione, a distanza di
pochi decenni, attesta il credito guadagnato dalla teoria artistica del Passeri negli ambienti culturali in cui
un certo surplus di ‘attenzione’ al modello antico era
considerato un fattore indispensabile ad una ‘concentrazione’ selettiva maggiore delle potenzialità espressive del linguaggio moderno. La memoria dell’antico
diviene, in un certo qual modo, uno strumento critico.
Il testo tradisce, non a caso, la sapiente ambivalenza
della scrittura del Passeri, che è alimentata dal tentativo di conciliare, in sede storica e teorica, l’interesse
antiquario con la critica architettonica, cavalcando –
per così dire – la polemica in corso tra i nostalgici del
gusto antico ed i più audaci fautori dell’architettura di
marca borrominiana18.
Passeri auspica che la disciplina architettonica abiliti all’impiego razionale dei mezzi tecnici e delle formule linguistiche in proporzione alle attese estetiche e
alle esigenze funzionali degli edifici. Ad orchestrare
tale operazione è la Ragione, riconducibile alla ragionevolezza che sa adattare con malleabilità proficua la premessa teorica fondante il rigore dei principi costruttivi al fine ultimo degli usi pratici. Senza perciò disgiungere il piano concreto della progettazione, che cerca la
coerenza strutturale, da quello del velleitario compiacimento visivo, raccordandoli nel segno della funzionalità determinata dal criterio dell’utile.
La ragione diviene il criterio per la valutazione
estetica di un edificio, ma dal Passeri tale fattore discriminante non è invero mai adottato in senso assoluto
ed esclusivo, perché la sensibilità ‘ottica’ per gli effetti
superficiali dell’invenzione – che si tratti di chiaroscuro tra pieni e vuoti o della vivacità ornamentale di talune facciate o, ancora, della variegata disposizione planimetrica – impone che le leggi formali dettate dall’intelletto si contemperino con quelle della visione. Di
qui, il tratto ‘moderato’ della tendenza razionale palesata negli scritti del Passeri, quell’inclinazione razionale d’ascendenza vitruviana con cui l’Autore s’approccia allo stile moderno e alle sue ‘stravaganze’. Egli cri-
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SALTERNUM
logiche e le soluzioni stilistiche che connotano gli edifici antichi e moderni. Il giudizio rivela spesso uno
zelo eccessivo nello ‘smontare’ le mode eccentriche e
gli artifici retorici che erano stati applicati contra la
ragione in talune costruzioni architettoniche.
L’intento del Passeri – lo ripetiamo – è pedagogico, non scientifico; vuole emendare il gusto estetico,
non definire un procedimento tecnico per l’architettura universale. E se l’argomentazione teorica s’avvale di
materiale specialistico, indugiando talvolta sulla trattazione di temi specifici, le osservazioni vogliono perlopiù orientare gli architetti nella retta valutazione del da
farsi, secondo lo stile e la convenienza. Si pensi ai testi
di idraulica, al Trattato d’idrostatica o della direzione delle
acque (Biblioteca Oliveriana, ms. 270); alle Osservazioni
intorno alla direzione dei fiumi (Biblioteca Oliveriana, ms.
280 cc. 72r – 82, datate Pesaro 1723); alla Geometria
pratica e alla Prospettiva delle architetture (Biblioteca
Oliveriana, ms. 270, 1719-1723). E si pensi, con argomentazioni rese più evidenti dalla fattispecie della
materia urbanistica, all’opuscolo di architettura Urbs
Regia, con tavole disegnate dal Passeri stesso, un’opera
che il Passeri ricorda di aver cominciato a stendere in
gioventù e di aver ripreso dopo circa quarant’anni
(Biblioteca Oliveriana, ms. 298)23. Il discorso Della
ragione dell’architettura consta di quattro articoli.
Nell’Articolo I, il Passeri chiarisce i fondamenti
estetici della sua teoria artistica ed afferma che la
ragione è una «legge perenne»; la costanza del suo dettato è riconosciuta in primis alla Natura, sua fonte
incontrastata. Lo studio e l’esperienza dei singoli artisti, in ogni epoca e cultura, conferiscono forza di legge
alle scelte operate in Architettura, ad onta dell’improvvisazione creativa e dell’irregolarità capricciosa che
privano qualsiasi opera del suo principio razionale.
Nell’Articolo II ci si sofferma sull’invenzione della
figura in pianta; sull’alzato in prospetto; sui complementi ornamentali. Perciò l’Autore manda in rassegna
le figure poligonali per valutarne l’idoneità come schemi su cui impiantare gli edifici: premesso l’elogio del
cerchio, accettabili sono le piante ovali, meno raccomandate sono le quadrate; le piante ortogonali sono
preferibili alle esagonali, mentre le mistilinee – tanto
care al Barocco – sono comprensibilmente da aborrire.
Nell’Articolo III il carattere polemico del lungo saggio emerge tonante nella disamina degli errori commessi nell’alzato delle fabbriche. In particolare, talune
facciate di chiese e palazzi sono criticate per la moda
costume senza smarrire il senso naturale del proprio
inverarsi.
Per il Passeri, l’architettura moderna deve guardarsi dagli eccessi inventivi del decoro che, nell’accrescere la materia degli edifici, rischiano di offuscare la
ragione prima a cui aveva obbedito la costruzione
degli edifici stessi. Il confronto con l’arte classica
regge fino ad un certo punto, tant’è l’Autore mette in
guardia da facili quanto improprie comparazioni, per
osservare che, per quanto fastosi, gli edifici dell’età
antica non si sono mai discostati dall’‘idea primigenia’.
La condanna fa il consuntivo di un’intera esperienza
estetica: gli antichi si sono limitati ad abbellire la
Natura e, così facendo, hanno definito l’‘ottimo’ in
architettura; i moderni, invece, si sono ostinati ad
abbellire l’arte, così discostandosi dalla Natura al
punto da smarrire la cognizione del ‘perfetto’ in architettura.
Ma la ragione dell’architettura – dichiara il Passeri
– non è il tipo esemplare rappresentato in uno o in un
altro momento storico, giacché non c’è un modello
culturale da elevare a legge perenne, tanto più ci si
fermi su di un piano di valutazione formale. Qui la
distanza dalla concezione ‘neoclassica’ dell’arte: occorre guardare alle forme dei Greci e dei Romani senza
tuttavia intenderle come leggi dell’arte, perché quei
modelli rispondono a circostanze storiche e di costume civile oggi obliate e, pertanto, non può essere riconosciuta loro alcune funzione predittiva.
Quello del Passeri è un esame storico del concetto
architettonico che non disdegna, ed è ovvio, la lezione
degli antichi; anzi si guarda bene dal decantare l’esemplarità sovra-storica, presumibilmente insuperata,
della classicità, sebbene essa resti un fatto singolare
degno di studio ed ammirazione da parte dei moderni.
La ragione dell’architettura, insomma, non prescinde dal progresso delle arti, non esclude cioè a priori la
possibilità di trovare espressione soddisfacente nei
frangenti temporali che costellano la vicenda storica
dell’arte. La ragione architettonica ha, quindi, una sua
storicità che è giustificata dal fatto – osserva il Passeri
– che alcuni tipi architettonici in uso nel passato
potrebbero risultare non più funzionali nel presente,
come ad esempio si può constatare nella transizione
evolutiva dai templi pagani alle chiese cristiane.
La critica passeriana si mostra così animata dallo
scrupolo di vagliare con ragionamenti generali, ma circostanziati da alcuni casi esemplari, le impostazioni
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ADRIANO CAFFARO
– GIUSEPPE FALANGA
dei ‘ghiribizzi’ che esagerano contro ragione gli accessori
ornamentali a discapito dell’ordine naturale della
costruzione.
Nell’Articolo IV, l’Autore accende i riflettori sui
tanto denigrati ornati moderni, posti sovente a confronto con i belli esempi degli antichi, i quali si ritiene sapessero meglio adornare con giusta ragione e corrispondenza.
Non sorprende, pertanto, che le premesse estetiche di
matrice classicistica esposte nei primi capitoli tornino
ora a mo’ di conclusione dell’intero scritto: la ragion
dell’Architettura dee combattere contro la corruttela del gusto.
Nel Discorso il Passeri dichiara che solo le arti del
disegno, a differenza delle altre, hanno il privilegio di
alterare con la fantasia l’ordine naturale delle cose,
senza limitarsi ad imitarle. Esse possono andare oltre
la contemplazione della Natura, per giungere finanche
a ‘creare’ con l’ausilio della ‘magnanima fantasia’. E tra
le arti cosiddette ‘maggiori’, l’Architettura si distingue
per un’estensione ulteriore di diritti esercitati sulla
Natura. Quest’arte, infatti, vanta una gamma maggiore di possibilità inventive rispetto alla Pittura e alla
Scultura. Mentre la ragione impone ai pittori e agli
scultori di attenersi alla verità evidente delle cose
apparenti, agli architetti l’esercizio della ragione offre
il privilegio di varcare i confini della Natura e di ideare nuovi modi costruttivi unitamente alle formule
ornamentali. Il Passeri analizza la causa del disordine
generato dagli architetti moderni e ritiene che essa stia
nel fatto che la pretesa di suscitare meraviglia abbia
troppo concesso all’ingegno, senza che fosse assecondata la ragione. La mutevolezza dei gusti provoca
oscillazioni d’opportunità e decoro nella creazione
artistica, la quale nasce inficiata dall’effimera ricerca
della novità e della sorpresa. Al contrario, il riconoscimento della funzionalità strutturale dell’opera ed il
rispetto dei canoni formali assicura immutabilità al
giudizio che, a sua volta, conferisce fama ed autorità
alle creazioni secondo ragione.
La conformità ai principi di natura determina la
‘durata’ del piacere estetico o del buon gusto. Passeri
asserisce, a mo’ di prova conclusiva, che ogni qualvolta, in passato, sia degenerato il costume civile dei
popoli o siano obliate le arti e le scienze, al pari s’è
registrata la decadenza del buon gusto. Una speranza
forse ingenua, un’utopia in salsa già neoclassica dilata
lo sguardo critico del Passeri, che attende l’avvio di un
nuovo ciclo etico e culturale che restituisca agli uomini il gusto della ‘ben ragionata Architettura’.
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SALTERNUM
Note
Un contributo più ampio sarà pubblicato
nella collana «L’officina dell’arte» edita
dall’Arci Postiglione.
2
VICO 1744 in BATTISTINI (a cura di) 1990,
vol. I, p. 515; II, p. 1532.
3
Tra le ricostruzioni biografiche notevoli, si
ricordano: DEGLI ABATI OLIVIERIGIORDANI 1780; ONDEDEI 1780; SALUSTRI
1850. Un importante contributo alla definizione del profilo umano e culturale del
Passeri – che tiene in debito conto le fonti
biografiche sopra citate – è costituito dal
più recente saggio di LOMBARDI 1988, pp.
275-293.
4
La profonda competenza medica di
Domenico Passeri può essere provata da
una significativa attività di ricerca e divulgazione scientifica. Tra le opere principali, si
ricordano: I riflessi Consultivi (1703); Aeris
salubris specimen etc. (1712); L’osservazione
Anatomica (1731).
5
Il contributo di Gian Vincenzo Gravina
(1664-1718) alla definizione dell’estetica
classicistica moderna si qualifica per la
coniugazione della poetica arcadica secondo i principi del razionalismo cartesiano
dettati dalla ‘ragionevolezza’ più che dalla
tradizione. Cfr. VECCHIETTI 1924;
PICCOLOMINI 1984; CARENA 2001.
6
Giulio Vitelleschi (1684-1759) fu un religioso della Compagnia di Gesù, tra i predicatori più colti ed accreditati del primo
Settecento.
7
Cfr. il già citato DEGLI ABATI OLIVIERIGIORDANI 1780.
8
Filippo Juvarra (1678-1736) fu tra i massimi architetti e scenografi del barocco
moderno. Allievo di Carlo e Francesco
Fontana, fu attivo soprattutto nella Torino
dei Savoia, dei quali fu architetto di fiducia
già dal 1714. Cfr. GRITELLA 1992; TAVASSI
LA GRECA 1981, pp. 25-26; BOSCARINO
1973, pp. 133; 159. Riferimenti utili sull’estetica barocca dello Juvarra in chiave razional-funzionalista sono in BENEDETTI 1985.
1
Luigi Vanvitelli (1700-1773), figlio del
noto pittore vedutista Gaspare, fu allievo di
Antonio Valeri. Concorsero alla sua formazione, insieme agli studi della trattatistica
antica e rinascimentale, l’esemplarità delle
opere architettoniche del Bernini e del
Borromini, del Fontana e dello Juvarra.
Divenuto architetto della Fabbrica di San
Pietro a Roma nel 1726 ed impegnato in
varie opere a Roma, nelle Marche ed in
Lombardia, il Vanvitelli è soprattutto noto
per la progettazione e realizzazione della
Reggia di Caserta (1752-1845) su incarico
del re di Napoli Carlo di Borbone (cfr. DE
FUSCO et ALII 1973; DE SETA 1998;
VARALLO 2000).
10
Anton Francesco Gori (1691-1757) fu tra
i maggiori esperti di Etruscologia e gemmologia del primo Settecento fiorentino.
Nel 1717 fu ordinato sacerdote e designato
Priore di San Giovanni. Nel 1735 fondò
l’Accademia colombaria ed insegnò Storia
nello Studio Fiorentino. Raccolse a Roma
innumerevoli iscrizioni cristiane col proposito di redigere un Corpus. Scrisse l’importante Museum Etruscum in tre volumi (17361743), opera canonica dell’Etruscologia ed
il ponderoso Museum Florentinum in sei volumi (1740-1742), raccolta di antiche iscrizioni conservate a Firenze, nonché il Thesaurus
veterum diptychorum in tre volumi (1759), (cfr.
DE BENEDICTIS – MARzI 2004).
11
Mario Guarnacci (1701-1785), archeologo e poeta arcade tra i più qualificati, fu un
appassionato etruscologo. Pur soggiornando stabilmente a Roma, dove raccolse
numerosi reperti antichi, amava ritornare
sovente alla natia Volterra per approfondire
le ricerche etrusche. Il suo impegno in
ambito archeologico e letterario ruotava
intorno al tentativo costante di dimostrare il
primato etrusco nella formazione della
civiltà antica. Fu questa la tesi argomentata
nell’opera maggiore Origini italiche o siano
memorie istorico-etrusche sopra l’antichissimo regno
9
- 28 -
d’Italia e sopra i di lei primi abitatori nei secoli più
remoti, pubblicata in tre tomi a Lucca tra il
1767 e il 1772 (cfr. Mario Guarnacci 2002).
12
LUNI 1988, p. 40.
13
BOLOGNA 1982.
14
MOMIGLIANO 1960, pp. 275-271; CIPRIANI
1998, pp. 27-63.
15
Così Massimo Pallottino: «Più che per il
valore delle congetture e delle conclusioni,
sovente arbitrarie e fantastiche, e per la
natura del procedimento critico, la etruscheria settecentesca va giudicata positivamente per la passione e per la diligenza
delle ricerche e della raccolta del materiale
archeologico e dei monumenti, che talvolta,
nel caso di documenti perduti, conserva
tuttora un certo valore» (PALLOTTINO 1975,
p. 4).
16
Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Ms. 1822,
lett. v. (cfr. LOMBARDI 1988, p. 279).
17
Biblioteca Oliveriana di Pesaro, Ms 338/I,
n. 33, c. 83, gennaio 1730; cfr. anche Ms
338/I, n 40, c. 98, maggio 1730, (cfr.
LOMBARDI 1988, p. 280).
18
ASSUNTO 1979, pp. 155-156; GRAVAGNUOLO
- CAPPELLIERI 1988.
19
LOSITO 1988, pp.485-513.
20
COMOLLI 1988-1992, pp. 287-91): «(…) il
Passeri o si riguardi la sua profonda dottrina, e la vasta erudizione delle sue opere, o si
considerino le virtuose e amabili qualità de’
suoi costumi può francamente sta a fronte
di tutti que’ nobili, e valenti antiquarj, e letterari, che colle loro osservazioni, e fatiche
hanno sì gloriosamente illustrato il nostro».
21
L’amico Annibale Olivieri (DEGLI ABATI
OLIVIERI-GIORDANI 1780) afferma che il
Passeri «à più di ogni altro illustrata la
nostra Patria».
22
Il Passeri fu denominato dal Muratori
«antiquario maestro del mondo», (GRISERI
1959, IX, p. 838).
23
GAMBUTI 1787, pp. 17-62.
ADRIANO CAFFARO
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- 29 -
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MARIA ROSARIA TAGLÉ
I trovatori fanatici: ovvero la passione antiquaria
in una commedia di Giovanni E. Bideri
U
na commedia di Giovanni Emmanuele Bideri
(Palazzo Adriano 1784 - Palermo 1858) dal
titolo I trovatori fanatici rappresenta con ironia
e brio un autentico fenomeno di costume diffusosi in
Italia dalla seconda metà del Settecento alla metà del
secolo successivo. I ricchi ritrovamenti di Ercolano e
di Pompei e del territorio etrusco destarono un forte
entusiasmo per la ricerca archeologica che, nella maggior parte dei casi, si tradusse in una mania di scavi e
di interpretazioni che poco o nulla avevano del rigore
scientifico1. Tale entusiasmo contagiò anche i paesi
europei, soprattutto Inghilterra, Francia e Germania e
persino l’America. Ciò diede vita a un fiorente commercio di antichità con l’estero. Celebre è il caso del
fratello di Napoleone, Luciano, divenuto principe di
Canino, che operò grossi scavi nei suoi possedimenti,
recuperando una ricca quantità di materiali di pregio,
molti dei quali poi venduti all’estero.
Il Bideri mette in scena come vittime della mania
antiquaria alcuni discendenti dei Sanniti abitanti in
Benevento. Sono uomini e donne, ragazzi e anziani, di
diversa estrazione sociale e culturale. Lo scavo, in questo caso, è effettuato in una cantina che si crede appartenuta all’antica dimora di Ponzio Telesino Sannita.
Capo della spedizione e indiscusso conoscitore di
antichità per la sua fama di bibliotecario e antiquario è
don Prosdocimo2. Ma è il giovane Menicuccio ad aprire una breccia nel muro di confine e ad illustrare agli
altri ciò che riesce a distinguere nell’oscurità di un
locale leggermente sottostante a quello in cui si trova
il gruppo. Generale delusione suscita la mancanza di
monete d’oro e di gemme. Donna Florida esplode
dichiarando di amare solo le cose antiche che ‘hanno
corso in società’ e di essere pronta a cedere ‘tutte le
lapidi di cui è murato Benevento’3.
In realtà l’apertura realizzata nel muro immette nel
laboratorio dello speziale. Tutti gli oggetti ivi contenu-
ti sono pertanto contemporanei o solamente un po’
vecchi e polverosi. Ma don Prosdocimo è pronto a
dare una spiegazione per ognuno di essi che non contrasti, anzi addirittura assecondi la sua teoria. Così,
quando gli viene riferito che numerosi sono i vasi e di
varie dimensioni, subito proclama che lì era il sepolcro
della famiglia di Ponzio, con vasi sepolcrali, lacrimatori e cinerari4.
Un vaso affumicato viene scambiato per un bucchero pregiato5 e una pila per l’acqua turata da un
- 31 -
SALTERNUM
porre e a redarre l’atto di costituzione della Società dei
Trovatori, che tutti gli astanti devono sottoscrivere,
impegnandosi a dividere in parti uguali i proventi sperati dalla vendita del tesoro nelle più grandi città
d’Europa e d’America13.
Con questa spiritosa presa in giro degli amanti dell’archeologia, si può dire che G. E. Bideri abbia completato, in chiave comica, un ciclo di opere da lui dedicate alla storia antica. Sue tragedie, infatti, hanno per
argomento la distruzione di Sibari, l’infelice avventura
di Alessandro il Molosso in Italia, la fine di Alarico e
la dolorosa condizione dei cittadini di Poseidonia,
ormai conquistata dai Lucani14. Si tratta sempre di
avvenimenti che avevano avuto il loro corso, o almeno il loro epilogo, nel Meridione d’Italia. E i loro protagonisti erano stati sul punto d’imprimere un corso
diverso alla storia. Tale predilezione trova la sua spiegazione nella natura stessa del personaggio Bideri.
tappo di legno per un gran vaso egizio6. Neppure le
osservazioni degli astanti, che nutrono qualche più che
legittimo dubbio, smuovono il vecchio antiquario dalle
sue certezze. Egli è pronto a slanciarsi nelle più fantasiose interpretazioni. L’acqua non è acqua ma oro
potabile7, un sacco di tela bianca, che non avrebbe
potuto resistere intatto per duemila anni, per il sacco
di amianto in cui sarebbe stato cremato il cadavere di
Ponzio8. L’arrivo del Magistrato e dei soldati guidati
dal giovane della spezieria che, a causa dei rumori, ha
paventato un furto, svela l’inanità delle teorie di don
Prosdocimo e pone fine ai sogni di ricchezza dei
Trovatori fanatici.
I personaggi della commedia manifestano, pur
nella stringatezza del dialogo, i diversi atteggiamenti
del popolo nei riguardi dell’antico che andava riscoprendosi a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento.
Donna Florida è l’espressione di quanti badano
esclusivamente al valore economico e hanno in
disdegno le elucubrazioni culturali che non si traducono in denaro9. Significativa è la sua frase nella
scena dodicesima del terzo atto10: «Andiamo cercando denaro, e non pietre», con cui proclama il suo
totale disinteresse per le statue. Petronilla, proprietaria della cantina, mostra verso i defunti che si crede
riposino in quel sepolcro in via di spoliazione una
pietà che si traduce in pianto. La sua avversione al
disturbo della quiete eterna dei morti è fenomeno frequente in tutte le epoche e in tutte le culture. I giovani Menicuccio, Annetta, Giulietta e Carluccio partecipano con entusiasmo all’avventura, come è naturale
alla loro età, ciascuno speranzoso di dare una svolta al
proprio destino grazie al tesoro di Ponzio. Il personaggio più emblematico resta però don Prosdocimo. Egli
è il ritratto di tanti studiosi che poggiano le loro certezze nelle parole degli antichi, accettate, in virtù della
loro antichità, con totale acquiescenza, senza alcun
intervento critico. La sua cultura è esclusivamente
libresca e in effetti egli si vanta di aver studiato sui
«libri numismatici»11. Ha la presunzione di non ingannarsi mai «sopra le antichità»12, basandosi pedissequamente su quanto si trova scritto in un vecchio volume,
privo di frontespizio, e che pertanto nulla può indicare circa l’attendibilità dell’autore. Il fatto che il libro sia
databile al Quattrocento è già per don Prosdocimo
indiscutibile prova della veridicità del suo contenuto.
Ma nemmeno don Prosdocimo è indifferente al
risvolto economico dell’impresa. E’ lui, infatti, a pro-
Questi godette di buona notorietà nei teatri anche
stranieri in quanto autore dei testi di due opere di
Gaetano Donizetti, Gemma di Vergy e Marin Faliero, ma
sentì fortemente, e per tutta la vita, la sua appartenenza al mondo meridionale. Prova ne è il fatto che volle
specificata nel frontespizio del suo Teatro edito e inedito
la qualifica italo-greco, siculo-albanese15. Apparteneva
per nascita a una famiglia di origine greco-albanese
trasferitasi in Sicilia all’epoca della espansione turca.
Da ragazzo era stato avviato agli studi religiosi ma la
sua irrequietezza e l’amore per il teatro lo spinsero a
Napoli dove iniziò la carriera come attore, poi capocomico e drammaturgo. Ritornato a Palermo nel
1848, vi fondò una scuola di recitazione. Fu anche
giornalista e autore di un’opera, Passeggiata per Napoli e
contorni, in cui sono raccolte scene della vita popolare
e del folclore napoletano16. E’ pertanto comprensibile
che a fungere da scenario ne I trovatori fanatici sia stata
prescelta una città del Sud come Benevento invece di
una località dell’Italia centrale in cui, all’epoca, avvenivano continue e ricche scoperte.
Opportuni, oltre che inevitabili, sono nella commedia i riferimenti alle antichità beneventane. Il
monumento più insigne, l’arco onorario di Traiano, è
chiamato in causa da don Prosdocimo che intende
rimarcare la maggiore antichità rispetto ad esso della
cantina teatro dell’indagine17. Più avanti don Procopio,
che possiamo considerare l’equivalente al maschile di
donna Florida, rifiutando sdegnosamente un premio
- 32 -
MARIA ROSARIA TAGLÉ
che, per illustrare al suo uditorio il valore dei Sanniti,
il dotto antiquario citi proprio l’episodio delle Forche
Caudine24.
Nella commedia ricorre l’allusione a spiriti diabolici, streghe e magia. A beneficio del nucleo originario
dei cercatori, don Prosdocimo stigmatizza che la diffusione della notizia della presenza di un tesoro non è
colpa di nessuno di loro bensì dello spirito maligno
che è solito presiedere a tutti i grandi tesori. Tale spirito, vantando diritto di possessione sul luogo dove si
trova e temendo di esserne cacciato, cerca di dissuadere i trovatori creando disappunto e astio25. A Petronilla
vien spontaneo il paragone con le streghe alla proposta di iniziare lo scavo a mezzanotte26. E, nei casi più
straordinari, si pensa all’intervento del diavolo. A lui è
attribuita la metamorfosi della statua in sacco e dell’oro in acqua27. Le allusioni al mondo magico si inseriscono all’apparenza in modo del tutto naturale e spontaneo in una vicenda che si svolge al buio, di notte,
nella massima segretezza possibile, e che ha per fine –
non dimentichiamolo – la profanazione di un sepolcro
a scopo essenzialmente di lucro. Non è difficile dedurre che il Bideri, tanto interessato agli aspetti del folclore napoletano, sia rimasto affascinato dalle leggende di
Benevento che hanno il loro fulcro nella figura delle
streghe, antico retaggio dei riti longobardi prima della
conversione al cristianesimo di quel popolo invasore28.
Si deve all’abilità di commediografo del Bideri se i riferimenti magici si inseriscono nel dialogo senza la
pesantezza retorica dell’erudizione.
in statue, proclama che per lui sono sufficienti le statue di Port’Aurea18. Ora, Port’Aurea altro non è che il
nome dato all’Arco di Traiano fino alla metà
dell’Ottocento. Già in epoca longobarda, infatti, il
monumento era stato inglobato nella nuova cinta
muraria della città, diventandone una delle porte di
accesso, appunto la Porta Aurea19. E i frequenti richiami alle antichità egizie dimostrano quanto fosse noto
nell’Ottocento il legame fra Benevento e la cultura egizia favorita dall’imperatore Domiziano. D’altronde il
grande obelisco, oggi situato in piazza Papiniano, era
stato rinvenuto nel 162920 e certo non dovettero mancare altri ritrovamenti sporadici, sebbene la maggior
parte dei reperti di arte egittizzante riferibili al tempio
di Iside venisse recuperata solo nel 190421.
Il Bideri, inoltre, ebbe cura di scegliere per il presunto antico proprietario della cantina, Ponzio
Telesino, un gentilizio sicuramente sannita. Le fonti
antiche parlano di due membri appartenuti certo alla
stessa famiglia che portarono tale nome. Il più antico,
figlio o nipote di Ponzio Herennio, guidò vittoriosamente i Sanniti contro i consoli Postumio e Veturio,
infliggendo all’esercito romano, nel 321 a. C., l’infamia
delle Forche Caudine22. Anche il C. Ponzio Telesino
più giovane fu un valente generale che nell’82 a. C.
tenne pericolosamente in scacco l’esercito romano agli
ordini di Silla, spingendo l’assedio fin sotto le mura di
Roma presso la porta Collina23. Ma il personaggio a cui
si riferisce il Bideri, attraverso ovviamente il solito don
Prosdocimo, è il primo dei due. Lo si deduce dal fatto
- 33 -
SALTERNUM
Note
Sulla situazione degli studi di antichità fra
Settecento e Ottocento, cfr. BLOCH 1977, pp.
14-43. Per gli scavi di Luciano Bonaparte,
cfr. in part. p. 34.
2
Il termine ‘antiquario’ nell’uso comune
designava in Italia, tra il Settecento e la metà
dell’Ottocento, non tanto il mercante di antichità quanto il collezionista, spesso privo di
cognizioni approfondite sul mondo antico.
In proposito, cfr. SALMERI 1993, pp. 267298. In letteratura l’esempio più famoso di
antiquario in questa accezione del termine è
il conte Anselmo Terrazzani della commedia
goldoniana La famiglia dell’antiquario, che dilapida un patrimonio per acquisire al suo
museo personale, a prezzi assurdi, qualunque
paccottiglia gli venga presentata come antica.
3
Atto II, scena I, p. 12.
1
Atto IV, scena IV, pp. 42 ss.
Ivi, p. 45.
6
Ivi, p. 47.
7
Ivi, p. 48.
8
Ivi, p. 44.
9
Atto II, scena I, pp. 12 ss.
10
Atto III, scena XII, p. 35.
11
Atto I, scena II, p. 5.
12
Atto II, scena II, p. 14.
13
Atto III, scene X, XI e XII, pp. 32-37.
14
A ciascuna di queste tragedie la scrivente ha
dedicato uno studio: TAGLÉ 2005, pp. 245252; EAD. 2006, pp. 245-251; EAD. 2007, pp.
209-215; EAD. 2010, pp. 337-341.
15
La seconda edizione corretta e riveduta
dall’Autore fu pubblicata a Napoli nel 1854
dallo Stabilimento Tipografico di G.
Gataneo.
4
5
- 34 -
SALLUSTI 1968, pp. 361 ss.; zANETTI 1954,
col. 485 (qui il cognome è riportato nella
forma Bidera).
17
Atto I, scena II, p. 4.
18
Atto III, scena XII, p. 35.
29
DE CARO – GRECO 1981, p. 187.
20
IID., Ibidem.
21
MARUCCHI 1904, pp. 118-127.
22
Liv. IX, 1-15; App. III, 2-7.
23
Vell. 2. 27; Plut., Sulla, 29, 1-4; App. I, 431.
24
Atto IV, scena II, p. 39.
25
Atto II, scena X, p. 23.
26
Atto III, scena XII, p. 37.
27
Atto IV, scena IV, p. 48.
28
PIPERNO 1640 (1984), in part. pp. 5 ss.;
17; 31.
16
MARIA ROSARIA TAGLÉ
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- 35 -
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VINCENZO AMATO
- AMEDEO ROSSI
Paesaggi costieri e dinamiche antropiche:
appunti sulla costa di Salerno
tra preistoria ed età medievale
riormente confermare e/o smentire le preliminari
interpretazioni paleo-ambientali e geo-cronologiche.
In parallelo è stato eseguito un dettagliato studio geomorfologico della cartografia in scala 1:25.000 (STR
Regione Campania 1984, foglio n. 39) ed in scala
1:5.000 (CASMEz, 1983 e CTR del 2003), delle
fotoaeree storiche e della cartografia storica. Tale
approccio morfo-crono-stratigrafico integrato consente di valutare i cambiamenti dell’assetto litoraneo
indotti dalle trasformazioni antropiche e quelli indotti
dalla dinamica litoranea naturale, principalmente
dovuti alle oscillazioni del livello del mare ed agli
apporti sedimentari fluvio-costieri e vulcanoclastici.
Vincenzo Amato - Amedeo Rossi
Premessa e metodologie
n questo contributo si affronteranno alcuni risultati preliminari frutto di uno studio avviato da
tempo sull’evoluzione costiera del Golfo di
Salerno. In questa sede focalizzeremo il nostro interesse sulla costa dell’attuale città di Salerno, negli ultimi anni oggetto di una marcata opera di urbanizzazione e di progressiva cementificazione che ha cambiato
radicalmente l’assetto geomorfologico originario. Di
recente nuove opere urbane di alto impatto hanno
permesso di realizzare diverse indagini geologiche di
sottosuolo (sondaggi geognostici, prospezioni) finalizzate sia alla caratterizzazione geo-meccanica dei terreni che alla valutazione del record archeologico. In tale
ambito i nuovi dati archeo-stratigrafici, uniti a quelli
noti in letteratura1, hanno consentito di ipotizzare la
posizione delle linee di riva in alcuni settori della città
sia in epoca preistorica che storica e di tentare di ricostruire l’originaria conformazione geomorfologica
precedente alla grande urbanizzazione del XIX e del
XX secolo.
Le successioni stratigrafiche riscontrate in settori
chiave della costa, tra l’attuale porto a NO e la foce del
fiume Fuorni a SE, sono state interpretate utilizzando
i moderni metodi della stratigrafia a limiti inconformi
(Unconformity Boundary Stratigraphic Units, UBSU2) al
fine di valutare correttamente gli ambienti di sedimentazione che si sono succeduti nel corso della storia
geologica più recente. La presenza di livelli vulcanici
(tephra) e di livelli archeologici ha consentito di inquadrare nel tempo le principali unità UBSU. In alcuni
casi i livelli più significativi delle successioni stratigrafiche sono stati oggetto di datazioni radiometriche
(C14) e di approfondite analisi e tephro-stratigrafiche e
paleoambientali (pollini e macroresti vegetali e paleoecologiche (malaco-faune e microfossili calcarei), alcune di queste ancora in corso di studio, al fine di ulte-
I
Cenni di geologia
Il territorio comunale di Salerno è in parte ubicato
nel settore più esterno della catena appenninica,
nell’Unità dei Monti Picentini ed in parte nel settore
nord-occidentale della depressione strutturale Piana
Sele-Golfo di Salerno. Nelle aree più interne e nella
porzione nord-occidentale del territorio comunale
(fig. 1) vi affiorano i terreni dei membri triassici della
successione carbonatica di piattaforma, ascrivibili
all’Unità Monti-Picentini-Taburno e rispettivamente
costituiti in prevalenza da una successione di età triassica costituita dal basso verso l’alto da dolomie biancastre e grigio chiare, da calcari e calcari marnosi e da
dolomie grigie stratificate.
Questi litotipi affiorano diffusamente nel settore
occidentale della città ed alla base del Monte Stella,
dove sono in contatto tettonico con i calcari cretacicomiocenici della successione carbonatica (fig. 1).
Le successioni terrigene sono altresì rappresentate
dall’Unità di Villamaina (Tortoniano superioreMessiniano) e dalle Argille Varicolori (CretacicoOligocene). Queste ultime sono generalmente interca-
- 37 -
SALTERNUM
modeste pendenze affiorano diffusamente spesse
coperture piroclastiche delle eruzioni tardo-quaternarie dei vulcani napoletani (Vesuvio e Campi Flegrei)
(fig .1). Tali depositi sono per lo più sciolti o debolmente addensati, frequentemente rimaneggiati con
spessori variabili da pochi metri fino a circa 30 metri.
Ad Est di Fratte affiora il Tufo Grigio Campano litoide, a fessurazione colonnare e di colore giallastro nella
porzione terminale, tagliato dalla profonda valle del
fiume Irno.
Le fasce pedemontane di raccordo alla pianura
costiera (fig. 1), sono costituite, invece, da potenti successioni di aggradazione costituite prevalentemente da
materiali vulcanoclastici rimaneggiati alternati a livelli
limosi ed argillosi derivanti dalla disgregazione fisica
dei versanti e dall’alterazione in situ. Inoltre le principali aste torrentizie che solcano i versanti hanno accresciuto le fasce pedemontane con ripetuti alluvionamenti costruendo corpi deposizionali ventagliformi
(conoidi alluvionali). Tali fenomeni alluvionali sono
stati recentemente attivi interessando particolarmente il
settore occidentale della città
ed in particolare la zona del
centro storico di Salerno.
Infatti sono noti i danni provocati dalle alluvioni del 1954
e le varie fasi ricostruttive di
età storica del centro antico5.
Nella fascia costiera affiorano potenti successioni stratigrafiche in cui si alternano
livelli fluvio-palustri e transizionali con livelli sabbiosi eolico-marini (fig. 1). La genesi di
tali successioni è legata prevalentemente alle oscillazioni
glacio-eustatiche tardo-quaternarie ed in secondo luogo alle
attività tettoniche tardo-quaternarie. In particolare i depositi litoranei sono costituiti
prevalentemente da sabbie
medie e grossolane, dell’attuale complesso spiaggia-duna e
da
sabbie ghiaiose, specialFig. 1 - Carta geologica del territorio comunale di Salerno. 1. Area urbanizzata; 2. Depositi piroclastici tardo-quaternari; 3. Detriti
di falda tardo-quaternari; 4. Alluvioni recenti ed attuali (a) ed antiche (b); 5. Conglomerati di Eboli e di Salerno; 6. Unità di
mente in prossimità delle foci
Villamaina: membro sabbioso-arenaceo e membro argilloso; 7. Complesso carbonatico mesozoico terziario: prevalentemente
dei principali corsi d’acqua.
dolomitico e calcareo; 8. Principali lineamenti tettonici.
late alle Argille dell’Unità di Villamaina e sono presenti occasionalmente in affioramento, mentre si rinvengono in vari sondaggi geognostici al di sotto della
copertura detritico-piroclastica di età quaternaria.
L’Unità di Villamaina3 affiora diffusamente nel settore
centrale dell’area comunale (fig. 1), dove dal membro
argilloso inferiore passa verso l’alto a sabbie ed arenarie debolmente cementate, a granulometria uniforme,
con taluni livelli di puddinghe poligeniche.
Lungo la fascia di cresta della dorsale Masso della
Signora-Colle Pignolillo, l’Unità di Villamaina risulta
tagliata in discordanza dalla Formazione dei
Conglomerati di Salerno (Pliocene inferiore? Pleistocene inferiore)4. Tale successione è costituita da
conglomerati ad elementi ghiaiosi prevalentemente
carbonatici debolmente cementati e riferibili a depositi di antiche conoidi alluvionali e da conglomerati con
abbondante matrice sabbiosa giallo-ocra di ambienti
fluviali. Lungo la valle dell’Irno, nella fascia pedemontana del Monte Stella ed in altre zone caratterizzate da
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VINCENZO AMATO
- AMEDEO ROSSI
I fondovalle fluviali invece sono occupati da
potenti successioni stratigrafiche di depositi alluvionali costituite da ghiaie; sabbie, sabbie ghiaiose e/o limose e limi. A luoghi i depositi appaiono disposti in
modesti, limitati e discontinui terrazzamenti in alveo.
Inoltre nel sottosuolo dell’area urbana occidentale
e nella fascia costiera del lungomare fino alla foce del
fiume Irno, sono presenti depositi detritico-alluvionali e marini, frammisti a piroclastiti e soprattutto a terreni di riporto.
mascherati dalle urbanizzazioni dell’ultimo secolo, che
si raccordano ai rilievi ed alle fasce pedemontane
mediante delle ripide scarpate di abrasione marina
(paleofalesie).
In particolare il settore di costa alta è presente nella
zona nord-occidentale della città, dove una falesia attiva è tagliata direttamente nelle dolomie e nei calcari
dolomitici mesozoici.
Il settore su cui insiste il centro storico (fig. 2) presenta un’ampia fascia costiera sabbiosa che si raccorda
al settore pedemontano mediante una ripida scarpata
(paleofalesia), oggi antropizzata, tagliata nei depositi
della fascia pedemontana, accresciutasi durante le fasi
glaciali del Quaternario recente ed in particolar modo
durante l’Ultima Glaciazione per il continuo apporto
di materiali detritico-colluviali derivanti dalla disgregazione fisica dei rilievi retrostanti. Tale scarpata fu
generata dall’azione trasgressiva del mare durante la
rapida risalita del livello marino che avvenne nei primi
millenni dell’Olocene e che ebbe il suo apice a circa
L’evoluzione geomorfologica del tratto costiero
L’area comunale di Salerno presenta forme del
paesaggio tipiche di una zona costiera tirrenica, caratterizzata da tratti con costa alta, da tratti con ampi litorali sabbiosi, che si raccordano mediante più o meno
ripide fasce pedemontane ai rilievi calcareo-dolomitici, e da tratti di litorali sabbiosi (dune costiere), le quali
recavano verso l’interno ampi settori depressi (lagune,
paludi, stagni costieri), oggi poco visibili in quanto
Fig. 2 - Carta delle paleolinee di riva con alcune ipotesi sulla localizzazione delle aree portuali antiche del settore di costa salernitana compreso tra il limite occidentale della Città ed il
Torrione. In evidenza la linea di riva della massima trasgressione avvenuta in epoca preistorica (circa 6000 anni fa), la linea di riva di Età romana (III sec. a. C. - V sec. d. C.), e la linea di riva
precedente alle urbanizzazioni degli ultimi secoli, mappate su carta 1:5.000 con curve di livello (equidistanza ad 1 metro) per la sola fascia costiera e pedemontana.
- 39 -
SALTERNUM
Il settore terminale del fiume Irno, tenuto oggi da
imponenti sponde antropiche, risulta incassato di alcuni metri nei depositi alluvionali di età alto-pleistocenica, posti a valle del terrazzo di Tufo Grigio Campano,
formatosi circa 39.000 anni fa, su cui sorge il sito
archeologico di Fratte. Risulta chiaro che la trasgressione olocenica favorì una ingressione marina all’interno della vallata alluvionale generandovi una sorta di
rias stretta e profonda. Solo il rallentamento dei ritmi
di risalita del livello del mare e l’aumento del carico
solido del fiume avvento a partire da 6000 anni fa e
particolarmente accentuato negli ultimi 2500 anni fa
ha permesso il riempimento del tratto terminale del
fiume e favorito la progradazione costiera. Su come è
avvenuta la seconda fase non è possibile recuperare
informazioni precise in quanto l’urbanizzazione ha
mascherato completamente eventuali forme fluviali
legate alle divagazioni del fiume. Nella carta ottocentesca del Rizzi zannoni il corso del fiume Irno è rappresentato mediante due tracciati distinti, quasi rettilinei e paralleli, con il più occidentale, punteggiato da
mulini, passante per l’attuale zona della ferrovia, e sfociante nei pressi dell’attuale Piazza Mazzini. Tale
aspetto paesaggistico disegnato dal Rizzi zannoni
potrebbe essere messo in relazione ad un corso del
fiume Irno a più aste (di tipo braided), anche se risulta
complicato immaginare una delle due aste pensile sull’altra, visto che quella più occidentale doveva sormontare l’attuale ripiano della ferrovia. Pertanto il
Rizzi zannoni potrebbe avere rappresentato un canale di corrivazione antropico ad utilizzo dei mulini che
correva pensile sul fondovalle e che prendeva le acque
dell’Irno poche centinaia di metri più a monte. Tale
tecnica di gestione controllata delle acque fluviali ad
uso dei mulini mediante un canale pensile sull’alveo
caratterizzava molti contesti fluviali dell’Italia meridionale fino agli inizi del secolo scorso8.
La fascia costiera immediatamente ad Oriente ed
ad Occidente la foce del fiume Irno presenta ancora
oggi, nonostante le urbanizzazioni che vi insistono,
caratteri di un litorale sabbioso che fino al secolo scorso conservava il tipico aspetto di spiaggia-duna. Tali
lineamento costiero che si estende fino al settore
orientale di Salerno potrebbe essersi aggiunto nel
corso dell’Olocene recente (ultimi 2500 anni) e legarsi
alle note fasi progradazionali indotte dai cambiamenti
climatici e dalle antropizzazioni che hanno interessato
i settori terminali dei fiumi e le aree costiere mediter-
6.000 anni fa. A valle della paleofalesia, invece è presente un’ampia fascia costiera sabbiosa, formatasi
durante gli ultimi 6000 anni, quando i ritmi di risalita del livello del mare rallentarono fortemente, e
quando le deiezioni alluvionali dei numerosi torrenti
cittadini presero il sopravvento sulle dinamiche francamente marine. Tale trend evolutivo progradazionale fu alimentato fortemente anche dagli arrivi dei
prodotti distali delle eruzioni oloceniche dei vulcani
napoletani, in particolar modo dell’eruzione di
Agnano M. Spina (avvenuta 4.100 anni fa) e soprattutto dell’eruzione di Pompei (79 d. C.). Infatti dai
dati a disposizione, la linea di costa del centro antico
di Salerno sembra essere avanzata più velocemente
proprio negli ultimi 2000 anni. Tale rapidissima progradazione fu più spinta proprio in corrispondenza
delle antiche foci fluviali dei torrenti che solcavano il
centro antico fino al secolo scorso. Infatti, a tale proposito, sono ben noti gli eventi alluvionali che interessano il centro antico e l’area costiera ed in particolare l’area dell’attuale bacino portuale6. Non è da
escludere che qualcuna delle foci fluviali sia stata
sede di bacini portuali e di carenaggio in epoca romana e medievale, così come sembra emergere da alcune cartografie storiche e da dati archeologici (fig. 2).
L’ultima fase evolutiva dell’area costiera del centro
antico di Salerno è quella che vede una continua
avanzata della linea di costa per colmamenti e riporti antropici, legati a varie fasi di ristrutturazione ed
urbanizzazione del litorale avvenute prevalentemente
durante l’ultimo secolo.
Il settore costiero prossimo alla foce del fiume
Irno, è dominato dalle urbanizzazioni e dalle opere
marittime che sono state costruite negli ultimi decenni. Infatti dal confronto di varie carte topografiche
storiche, dalla lettura delle foto aeree del 1943 e dai
dati stratigrafici emersi da alcuni sondaggi geognostici, risulta che il tratto costiero che va dal Molo
Masuccio Salernitano, Piazza della Concordia, Piazza
Mazzini, fino alla Lungomare C. Colombo si è aggiunto per riporti antropici solamente dopo il 1943. In
questo settore, inoltre, i dati stratigrafici permettono
di ipotizzare una linea di riva di epoca romana decisamente più interna rispetto all’attuale, collocabile intorno alla curva di livello dei 5 m s.l.m., quasi a ridosso
dell’attuale corso Vittorio Emanuele. Tale dato
potrebbe essere esteso anche al settore del centro antico, così come dimostrato di recente7.
- 40 -
VINCENZO AMATO
- AMEDEO ROSSI
riparata fino a diventare stagni e paludi costiere e passaranee9. Tale progradazione ha isolato dal mare il masso
re ad ambienti fluvio-palustri durante gli ultimi 2500
roccioso-conglomeratico del Torrione che in epoca
anni. Alcune di queste depressioni fluvio-palustri più
preistorica e protostorica era proteso verso mare
vicine alle foci dei torrenti che solcano la fascia pedecostituendo un promontorio (fig. 2). Su quando il
montana-costiera, come quelle vicine alla foce del torTorrione si trovò in posizione più interna rispetto alla
rente Fuorni, resistettero fino al secolo scorso quando
linea di costa, i dati a disposizione non permettono un
furono bonificate. Un importante dato cronologico sulvincolo cronologico ben preciso, anche se molto prol’assetto paleogeografico della costa orientale di Salerno
babilmente già in epoca romana poteva esistere un
è fornito dalla presenza del livello vulcanico dell’eruziocordone sabbioso dunale e/o di spiaggia che lo sepane di Agnano M. Spina (4100 anni fa) all’interno di
rava dal mare.
depositi limosi ed argillosi di ambienti lagunari protetti
Il settore compreso tra il Torrione e la foce del
nella zona compresa tra Pastena e San Leonardo, sugfiume Fuorni, anche se fortemente urbanizzato, è stato
gerendo che le popolazioni preistoriche, attestate a
interessato da una evoluzione paleogeografica olocenimonte del salto di quota (paleofalesia)12 dovettero per
ca molto simile a quella dell’intera pianura del fiume
forza di cose confrontarsi con tale conformazione della
Sele, di cui rappresenta la parte più nord-occidentale10.
Infatti al di sotto delle abitazioni dei quartieri di
costa. Tali autori segnalano la presenza di depositi
Pastena, Mercatello, Mariconda e S. Leonardo sono
riconducibili ad un evento di tsunami che ha interessato
presenti sedimenti tipici di un sistema di barriera-laguna che è dapprima avanzato verso terra e
successivamente verso mare (fig. 3). Infatti al di
sotto dei terreni di riporto antropico delle
recenti urbanizzazioni sono presenti, nella fascia
più esterna, le sabbie eolico marine del cordone
dunare e di spiaggia, che fino a poco tempo fa
caratterizzavano la fascia litoranea salernitana, al
di sopra dei depositi limoso-argillosi a luoghi
torbosi di ambienti retrodunari, mentre nella
fascia più interna la successione dei depositi è
inversa alla precedente. Tale assetto stratigrafico,
unito alla presenza di un salto di quota di diversi metri nella zona più interna, quasi a ridosso
dell’attuale tangenziale, permette di ipotizzare
che il settore orientale di Salerno fu interessato,
nei primi millenni dell’Olocene e fino a circa
6.000 anni fa, da un’estesa trasgressione marina,
che portò la linea di costa a lambire la fascia
pedemontana dei rilievi siltoso-arenacei ed argilloso-siltosi, generando il salto di quota (paleofalesia). La trasgressione marina fu causata dagli
elevati ritmi di risalita del livello del mare
(cm/anno)11. Appena i ritmi di risalita del livello
del mare rallentarono vistosamente (mm/anno),
a partire da circa 6000 anni fa, la linea di costa
cominciò a progradare mediante la giustapposizione di cordoni dunari e depressioni retroduna- Fig. 3 - Carta delle paleolinee di riva con alcune ipotesi sulla localizzazione delle aree portuali antiche del
settore di costa salernitana compreso tra il Torrione ed il limite sud-orientale della città. In evidenza la
ri via via più avanzati fino a raggiungere la posi- linea di riva della massima trasgressione avvenuta in epoca preistorica (circa 6000 anni fa), la linea di riva
di Età romana (III sec. a. C. - V sec. d. C.) e la linea di riva precedente alle urbanizzazioni degli ultimi
zione attuale. Le depressioni retrodunari ospita- secoli,
mappate su carta 1:5.000 a sole curve di livello con equidistanza ad 1 metro per la sola fascia
rono ambienti dapprima di laguna aperta, poi costiera e pedemontana.
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SALTERNUM
sia alcuni siti archeologici posti sui ripiani che stanno a
monte della paleofalesia (a quote prossime ai 25 metri
s.l.m.) che i depositi di alcuni sondaggi geognostici collocati in vari settori della pianura costiera orientale di
Salerno. Tale evento va giustificato e chiarito anche alla
luce dell’assetto paleogeografico che vede la presenza di
sistemi di barriera-laguna nel periodo preistorico e protostorico e la presenza della paleofalesia che, a San
Leonardo, superava i 10 metri di altezza. Le lagune
costiere passarono ad ambienti fluvio-palustri in un
periodo precedente l’arrivo dei prodotti distali dell’eruzione di Pompei, in quanto questi ultimi sono intervallati a depositi limosi ed argillosi di ambienti palustri, a
paleosuoli ed a livelli sabbioso-ghiaiosi alluvionali. Le
cause di tale cambiamento furono dovute sia alla chiusura del sistema barriera-laguna, con un cordone litoraneo continuo su tutta la falcata marittima salernitana,
che al concomitante aumento degli apporti solidi dei
numerosi torrenti che solcano i rilievi della zona orientale di Salerno, favoriti anche dall’arrivo dei prodotti
dell’eruzione di Pompei, anche se non è da escludere
probabili opere di bonifiche eseguite in epoca romana.
Non è da escludere che le aree lagunari e palustri
poste alle spalle dei cordoni dunari e nelle vicinanze
delle foci fluviali sia stata sede di bacini portuali e di
carenaggio in epoca romana e medievale.
Vincenzo Amato
Gli approdi sulla fascia costiera di Salerno.
Il contributo dei dati archeologici e della cartografia storica
La recente edizione della mostra dedicata alla storia di Salerno antica13 offre nuove e stimolanti prospettive per analizzare e ricostruire le dinamiche antropiche di un comprensorio territoriale nodale.
La parte antica della città di Salerno14 è situata sulla
fascia di raccordo morfologico che dalle pendici del
monte Bonadies degrada verso la piana costiera e verso il
mare; l’area è caratterizzata dalle morfologie aspre dei
rilievi carbonatici che bordano il centro urbano a Ovest
e a Nord. Numerosi corsi d’acqua, oggi in parte incanalati e cementati, solcano i rilievi scorrendo in valli strette e notevolmente incise. I torrenti Fusandola, S.
Eremita e Rafastia hanno vincolato l’articolazione
urbanistica della città in tutte le sue fasi e sono state
causa di alcuni eventi di eccezionale gravità: solo come
esempio, basti ricordare che tra la fine del IV sec. d. C.
e l’inizio del V sec. d. C. Salerno fu invasa da una alluvione ricordata anche nelle fonti epigrafiche15.
Dal punto di vista geomorfologico la fascia costiera salernitana presenta alcuni tratti favorevoli agli
approdi. Oltre al noto approdo di Età romano-imperiale della Punta del Fuenti16 (fig. 4.1), ad Ovest della
marina di Vietri sul Mare, la documentazione archeologica fornisce alcuni elementi sulla presenza nel centro storico di Salerno di un bacino portuale naturale.
Fig. 4 - Carta archeologica con gli approdi e la linea di riva di Età romana.
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VINCENZO AMATO
- AMEDEO ROSSI
saranno state alla base della nascita della colonia come
sembra sottolineare la stessa fonte (Liv. 32, 7, 3) quando afferma che furono messi in affitto i dazi di entrata e di uscita delle dogane di Capua, Pozzuoli e di
Castro24. Allo stato attuale delle ricerche il sito di
Fratte, pur presentando poche tracce di occupazione
databili alla seconda metà del III sec. a. C., resta topograficamente un luogo adatto in cui collocare un insediamento fortificato25. I dati archeologici, tuttavia,
restituiscono un territorio ricco di testimonianze che
vanno inserite in una prospettiva topografica più articolata, di cui anche il diffuso sistema infrastrutturale
costituito dall’asse viario lungo la riva sinistra del
fiume Irno e dal tracciato costiero che si segue fino a
Pontecagnano sono testimonianza (fig. 4)26.
Il sito prescelto per la fondazione coloniale coincide, invece, con l’attuale centro storico, racchiuso tra
il versante meridionale del colle Bonadies, i torrenti
Fusandola ad Ovest e Rafastia ad Est e la fascia costiera (fig. 4). La necropoli urbana della colonia si dispone lungo l’asse stradale in uscita dalla città, corrispondente all’attuale Corso Vittorio Emanuele: le sepolture si distribuiscono tra il II sec. a. C. e il V sec. d. C. 27.
Recentissime indagini svolte in occasione della ripavimentazione di Corso Vittorio Emanuele e di Via
Vicinanza hanno permesso di individuare altri nuclei
di necropoli risalenti ad epoca tardo-antica28. Il dato
interessante, oltre alla presenza delle sepolture, è il rinvenimento lungo Via Vicinanza di un grosso scarico
di anfore da trasporto che ha fatto ipotizzare la presenza di un scalo, probabilmente più tardo, al confine
tra Via Vicinanza e Corso Garibaldi e quella che doveva essere in epoca romana la linea di costa, quindi in
un’area molto prossima a Piazza Mazzini (fig. 4.4).
Altre possibili aree di approdo, soprattutto di età
imperiale, sono da segnalare lungo la costa litoranea a
Sud-Est della colonia presso il forte la Carnale (fig. 4.5),
tra le foci del Mercatello e del Mariconda (fig. 4.6), dove
è da localizzare un vicus, e, più a Sud, alla foce del fiume
Picentino, nei pressi di Torre Picentina29.
In considerazione del quadro archeologico pluristratificato emerso dai dati esaminati è stato avviato uno
studio comparato sulla cartografia storica. Sia pure nella
piena consapevolezza dei limiti che questo tipo di studi
incontra in un contesto ambientale come quello indagato, le immagini cartografiche documentano un paesaggio costiero che conserva ancora elementi significativi
ed utili alle ricostruzioni topografiche.
Ad Occidente del torrente Fusandola, infatti, sembra
collocarsi un’insenatura naturale che forniva un
ormeggio sicuro (fig. 4.3) e che la presenza di evidenze archeologiche databili tra Età tardo-arcaica e classica potrebbe segnalare in uso già da questa fase rientrando nel sistema di approdi facenti capo al centro
etrusco-campano di Marcina (fig. 4.7)17. Questa vocazione portuale dell’insenatura del Fusandola sembra
rafforzarsi nel corso dell’età ellenistica momento al
quale risale l’impianto dell’area sacra di via Monti, che
attesta attraverso la documentazione numismatica una
intensa relazione commerciale con Ebusus nelle
Baleari18, e, successivamente, con l’impianto della
colonia quando, pur in assenza di chiare testimonianze archeologiche, l’area diventa il porto della città,
lungo il confine occidentale19.
Secondo la tradizione tràdita da Livio (Liv. 32, 29,
3-4), la colonia è fondata nel 194 a. C. «ad castrum
Salerni», facendo riferimento ad un insediamento
posto a controllo del territorio già attivo alla fine del
III sec. a. C. Una recente rilettura topografica ribadisce la preesistenza del Castrum nei pressi o nello stesso luogo della colonia identificando due possibili siti:
il settore urbano a Nord-Est del Duomo, protetto ad
Ovest dal torrente S. Eremita e ad Est dal torrente
Rafastia, oppure l’altura di Via Indipendenza, gravitante sull’insenatura ad Ovest del Fusandola20.
Diversamente, E. De Magistris, riprendendo un’interpretazione avanzata da A. R. Amarotta, propone di
collocare il Castrum Salerni a Fratte di Salerno, nel
luogo dell’insediamento sannitico messo in luce sulla
collina di Scigliato e identificato, secondo la sua lettura del passo di Strabone (V, 4, 13), con il poleonimo di
Sàlernon21. Se la netta scansione temporale tra il
Castrum e la colonia è vera, bisogna anche ammettere
che Castrum Salerni potrebbe riflettere una dipendenza
del Castrum da una realtà insediativa maggiormente
articolata22; a tal proposito potrebbe anche essere valida l’ipotesi avanzata ancora di recente23 di collocare il
Castrum sul mare come parte di un più ampio sistema
di controllo imperniato su un insediamento pre-coloniale. La presenza dell’area sacra di via Monti e di altre
evidenze di IV e III sec. a. C. nel luogo stesso dell’insediamento della colonia non è un argomento dirimente per l’una o per l’altra ipotesi. Resta, tuttavia, la
problematicità strategico-insediativa del controllo di
un bacino portuale, quale quello del Fusandola, e, nel
contempo, della bassa valle dell’Irno: due priorità che
- 43 -
SALTERNUM
e presso l’Archivio di Stato di Napoli31. In questa documentazione cartografica, Salerno, rappresentata nella
parte più alta della penisola Sorrentina, ha un impianto
urbano riprodotto simbolicamente con edifici, torri e
mura disegnati in rosso: sono ben visibili sia il castello
sul colle Bonadies sia le mura protese verso il mare. Sulla
costa, nella parte in basso, oltre i confini murati della
città, in una zona denominata Santa Teresa, si riconosce
un lungo molo unito alla terraferma, che delimita una
insenatura marginata in basso da una chiesa (Sant’Anna
in Porto Salvo?). Nella parte alta della rappresentazione
cartografica, oltre i limiti della città, si scorge una doppia foce del fiume Irno, oltre la quale, su una lieve altura, è collocata la torre del forte La Carnale (fig. 5).
La rappresentazione ‘aragonese’ offre la prima
immagine di un bacino portuale composto da una insenatura e da un lungo molo. Successivamente una rappresentazione anonima del XVI secolo (fig. 6) mostra
alcuni elementi del paesaggio costiero salernitano diversi da quelli già riscontrati sulla cartografia ‘aragonese’:
l’insenatura scomparsa è ora occupata dalla foce del
Fusandola, mentre il molo è ridotto in ruderi e presso
di esso ormeggiano alcune le imbarcazioni32.
L’affresco del 1606-1609 della Cripta del Duomo
di Salerno che rappresenta l’Assedio di Ariadeno
Barbarossa del 1544 mostra di nuovo l’insenatura, parzialmente in uso (si nota una piccola imbarcazione),
delimitata ad Occidente da S. Anna in Porto Salvo e ad
Est dai bastioni della fortificazione cinquecentesca.
Sulla stessa rappresentazione emergono dal mare alcuni ruderi di arcate pertinenti probabilmente ad un
molo e prospicienti la Chiesa di S. Anna, ad Ovest dei
L’individuazione delle principali tappe attraverso le
quali si è storicamente costruito il paesaggio contemporaneo, è stata condotta secondo i criteri dell’indagine stratigrafica, procedendo dall’immagine più recente alle rappresentazioni cartografiche più antiche.
Questo procedimento ha permesso di riconoscere
tratti che possono configurarsi come forme significative di permanenza e sopravvivenza dei paesaggi del
passato. Il paesaggio odierno, infatti, è un mosaico di
sistemi di sfruttamento dello spazio, antichi e moderni, che si sono sovrapposti e integrati fino a costituire
un unico tessuto funzionale ancora oggi sottoposto a
trasformazioni.
Oltre alla documentazione cartografica ampiamente
nota in letteratura30, un contributo importante alla ricostruzione del paesaggio costiero della città di Salerno
medievale e moderna viene dalla recente riedizione di
alcune copie settecentesche di carte geografiche aragonesi conservate presso la Biblioteca Nazionale Francese
Fig. 5 - Salerno nella Cartografia ‘Argonese’ (da LA GRECA-VALERIO 2008).
Fig. 6 - Salerno nella Cartografia ‘Argonese’ (da LA GRECA-VALERIO 2008).
Fig. 7 - Particolare dell’affresco del XVII (Cripta del Duomo di Salerno).
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VINCENZO AMATO
- AMEDEO ROSSI
ruderi, vi è una insenatura portuale con alcune imbarcazioni ormeggiate (fig. 7).
Quest’ultima immagine, molto realistica, è in
parte mantenuta nei secoli successivi e diverrà la base
per le più recenti viste della città dal mare, ad eccezione di una rappresentazione del 1653, con l’episodio dell’assalto dei Francesi (fig. 8): su questa l’insenatura tra l’attuale teatro Verdi e la chiesa
dell’Annunziata non è più attiva, rimanendo la
memoria topografica affidata alla denominazione
‘Porto Salvo’ che si nota sull’incisione, mentre i ruderi del molo sono anch’essi scomparsi.
La costa e la città di Salerno sono rappresentate in
una stampa di un Anonimo degli inizi del XVIII secolo e in una incisione del Salmon nello stesso secolo
(figg. 9-10).
Nelle due rappresentazioni è privilegiata una vista
da mare che sembra riprendere in parte la raffigurazione ‘aragonese’ e, soprattutto, quella dell’affresco della
Cripta del Duomo: si notano bene in evidenza l’insenatura di Sant’Anna in Porto Salvo e i ruderi del molo
che emergono dal mare.
Sebbene sulle rappresentazioni dal XVI al XVIII
appaiano differenti restituzioni della linea di costa ad
Occidente della città, tutte le fonti iconografiche sembrano conservare la vocazione portuale dello specchio
d’acqua antistante l’attuale chiesa di Sant’Anna precedente al Cinquecento. Per avere un rilievo cartografico più affidabile bisogna attendere la realizzazione
dell’Atlante del Regno di Napoli a cura del Rizzi
Fig. 8 - Particolare della rappresentazione del Perrey (1653) (da PERONE 2007).
Fig. 9 - Stampa di un anonimo del 1702 (da PERONE 2007).
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SALTERNUM
Fig. 10 - Stampa dal Salmon (incisione di F. Sesione del 1763, da PERONE 2007).
l’area portuale che cresce e ingloba il vecchio molo
degli inizi del XIX secolo.
Dall’ampio excursus cronologico condotto sulla cartografia e sulle raffigurazioni dei vedutisti si impongono alcune riflessioni storico-topografiche, che andranno approfondite con ulteriori ricerche di archivio, geomorfologiche e archeologiche. Come noto, alcuni dati
archeologici e morfologici fanno ipotizzare che almeno
in epoca romana la linea di costa seguisse l’attuale isoipsa di 5 m s.l.m.33. In particolare, il profilo della costa
antica, così come ricostruito in base alle rappresentazioni e ad alcune considerazioni morfologiche, restituisce
una insenatura portuale ad Ovest del Fusandola. La sua
conformazione, molto evidente nelle raffigurazioni tra
XVI e XVIII secolo, documenta come l’area portuale di
età contemporanea insista in parte sull’accesso a questo
bacino attivo e utilizzato sin dall’età tardo-arcaica e che,
a buon diritto, può risalire già alla colonia romana34.
Nelle rappresentazioni si segnala, oltre all’insenatura, la
presenza di un molo ormai in ruderi che sembra aver
caratterizzato, per un lungo periodo, il paesaggio di
questo tratto di costa: al molo sono infatti riconducibili almeno due arcate impostate su imponenti pilae, delle
quali emergono i ruderi affioranti dal mare.
La disposizione del molo informa su un possibile
ampliamento del bacino portuale, reso necessario per
Fig. 11 - Atlante Geografico del RIZZI ZANNONI (1808), Tavola n.14 (particolare).
zannoni agli inizi del XIX secolo: in esso appare un
tratto de ‘Il Molo’ in mezzo al mare dinanzi alla chiesa di Sant’Anna (fig. 11).
Quanto rappresentato sulla tavola dell’Atlante del
Rizzi zannoni è confermato da alcune vedute dei
primi trent’anni del XIX secolo in cui sono rappresentati il Molo e la piccola baia portuale, ora dinnanzi alla
Chiesa di Sant’Anna al Porto prima del progressivo
allargamento attestato dalle raffigurazioni successive.
Tra queste ricordiamo in particolar modo la pianta del
Comune di Salerno del 1868 e le efficaci rappresentazioni del TCI del 1928 e del 1963 che documentano la
definiva urbanizzazione dell’area e l’avanzamento del-
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VINCENZO AMATO
- AMEDEO ROSSI
l’insabbiamento dovuto al costante apporto detritico
del torrente Fusandola e delle correnti marine35.
Amarotta ritiene i ruderi raffigurati sulle stampe le
strutture portuali del periodo svevo-angioino collegandole al momento in cui, nel 1260, avvenne la
costruzione di un nuovo porto ad opera di Manfredi
di Svevia36. Valorizzando questa prospettiva interpretativa non è impossibile immaginare che il molo
svevo-angioino abbia inglobato una precedente opera
portuale di età romana37. Infatti la struttura del molo,
visibile allo stato di rudere sulle rappresentazioni grafiche, sembra trovare un suggestivo confronto tipologico con il molo di Puteoli, costruito su pilae in calcestruzzo e databile alla prima età imperiale (fig. 12)38.
Come riportato dalle fonti documentarie già agli
inizi del XIV sec. le strutture portuali svevo-angioine
sembrano degradate dalle avverse condizioni meteo
marine, fino a diventare nel Cinquecento totalmente
Fig. 12 - Il molo di Pozzuoli in una stampa del 1768 (da BENINI 2004).
inattive; da questo momento gli unici approdi funzionanti sembrano essere la marina dinanzi all’Annunziata
e quella di Porta Nova39.
Amedeo Rossi
- 47 -
SALTERNUM
Note
BUDETTA et ALII 1998; per le recenti indagini archeologiche su Salerno cfr. CAMPANELLI
2011.
2
Le ‘unità stratigrafiche a limiti in conformi’ sono unità litologiche delimitate al tetto
ed a letto da chiare superfici di discontinuità stratigrafiche, quali superfici di erosione,
paleosuoli, tephra, ecc. , così come definito
da SALVADOR 1994. Le unità litologiche e le
interpretazioni paleoambientali dei numerosi sondaggi geognostici eseguiti sono
state descritte seguendo le indicazioni di
TUCkER 2011.
3
Recentemente, PAPPONE et ALII 2008
ascrivono tali terreni del Monte Giovi alla
Formazione delle Arenarie e Sabbie di
Montecorvino di età Messiniano-Pliocene
inferiore.
4
Recentemente tali Conglomerati di
Salerno sono stati ascritti (PAPPONE et ALII
2008) al SuperSintema Eboli ed in particolare al Membro sabbioso-ghiaioso dei
Conglomerati di Eboli, di età Pleistocene
inferiore e di ambienti fluviali e di conoide
alluvionale.
5
AMATO 2006.
6
DI MAIO et ALII 2003; AMATO 2006.
7
DI MAIO et ALII 2003.
8
La presenza di mulini è già attestata da
documenti del X e XI sec. d. C. (IANNELLI
2011, pp. 254-255).
9
AMATO 2006.
10
BARRA et ALII 1996; AMATO et ALII 2012.
11
LAMBECk et ALII 2011.
12
DI MAIO - SCALA 2011.
13
CAMPANELLI 2011.
1
Da ultimo, su Salerno antica, cfr.
IANNELLI 2011.
15
ROMITO 1996, pp. 121-124; LAMBERT
2010, pp. 296-298.
16
NAPOLI 1972, pp. 392-393. Sugli approdi
minori in Campania cfr. BENINI 2006.
17
Su questa ipotesi cfr. GALLO - IANNELLI
2001, p. 211; sulla identificazione di
Marcina con Fratte cfr. da ultimo il dibattito ripreso in DE MAGISTRIS 2012, pp. 11-22,
in particolare su Marcina e Salerno alle pp.
11-16 e nota 1. Quanto restituito dai dati
archeologici rende più articolato il panorama dell’occupazione del territorio in età
pre-romana: gli insediamenti tardo-arcaici e
classici sembrano diffusi tra Vietri sul Mare,
Salerno e Fratte, con una evidente preminenza gerarchica di quest’ultimo, secondo il
modello proposto nel 1984 da E. Greco; in
questa prospettiva resta dubbia la lettura di
recente riproposta di identificare Marcina con
Vietri sul Mare soprattutto sulla base della
misurazione precisa delle distanze riportate
da Strabone sull’istmo tra Pompei e Marcina
(DE MAGISTRIS 2012): di diverso avviso è L.
Vecchio (VECCHIO 1990, pp. 19-20) , il quale
afferma che nella lettura straboniana non vi
sono ostacoli di natura ‘cartografica’ a collocare Marcina a Fratte; tale metodo di ricostruzione topografica, inoltre, non valuta appieno
la possibilità che l’Amasiota, per quanto
riprenda sicuramente fonti più antiche e
riproduca misurazioni corrette, è fonte tarda
(I sec. a. C. - I sec. d. C.) rispetto ai luoghi che
descrive e che non vede e di cui resta probabilmente solo una percezione.
14
- 48 -
Sull’area sacra di via Monti, cfr. GALLO IANNELLI 2001, pp. 207; 209-210 e da ultimo IANNELLI 2011, p. 256.
19
AVAGLIANO 1982, pp. 49-50.
20
IANNELLI 2011, pp. 248-249.
21
DE MAGISTRIS 2012, pp. 16-22. E. De
Magistris, citando gli scavi Sestieri e Iannelli
(DE MAGISTRIS 2012, pp. 20-21), corrobora
questa identificazione per la presenza di
sbarramenti sulle strade di accesso realizzati durante l’assedio annibalico al castro, fondandosi su una lettura estremamente evenemenziale del dato archeologico. Sui recenti
scavi a Fratte si vedano i volumi sugli scavi
editi dall’Università di Salerno e il contributo edito nel volume curato da A.
Campanelli (CAMPANELLI 2011).
22
E. De Magistris (DE MAGISTRIS 2012,
nota 18) afferma che le funzioni militari di
Sàlernon e Salernum erano nettamente distinte, sebbene i due poleonimi siano la traduzione letterale l’uno dell’altro (App., BC,
1,42). Ad un attento esame, invece, la scansione temporale e topografica tra il Castrum
e la colonia risulta netta, come già precisato
sia in ROSSI 1999a, p.17 sia in ID. 1999b, p.
270, nota 31 (non citato da De Magistris)
dove si afferma che la colonia è situata ad
castrum Salerni «…sorto a controllo del territorio durante gli avvenimenti degli ultimi
decenni del III sec. a. C. Lo stesso Strabone
menziona Salerno a proposito di un intervento romano volto a fortificare, dopo la
seconda guerra Punica, l’insediamento
posto poco distante dal mare. Anche un
passo di Silio Italico indurrebbe a pensare
18
VINCENZO AMATO
ad un insediamento di nome Salernum precedente alla deduzione coloniale. Silio
(Punica, VIII, 582) pone, infatti, Salernum
nell’elenco delle città che inviarono un loro
contingente militare in forza ai Romani in
Apulia durante la guerra annibalica (fine del
III sec. a. C.)». E’ proprio questa fonte
(Silio) - non ricordata in DE MAGISTRIS
2012 - che rafforza la presenza di un insediamento precedente alla fondazione coloniale di cui il Castrum è parte integrante (già
VARONE 1982, p. 5-6).
23
IANNELLI 2011, p. 248-249.
24
La fonte, già menzionata da AVAGLIANO
1982, se riferita a Salerno, avvalorerebbe la
presenza nel luogo dove verrà fondata la
colonia di un’area doganale (da mettere in
relazione con la presenza del porto?) appartenente ad un insediamento strutturato.
Dubbi sulla lettura della fonte liviana sono
in VARONE 1982, pp. 6-7.
25
Su Fratte cfr. PONTRANDOLFO SANTORIELLO - TOMAy 2011; per la fase
dopo la metà del III sec. a. C., A.
Pontrandolfo suggerisce una vocazione rurale degli edifici individuati (PONTRANDOLFO SANTORIELLO 2011, pp. 175-176). Sulle fasi
tra fine IV sec. a. C. e prima metà del III sec.
a. C. restano non risolte alcune aporíe: ad
esempio il rapporto tra le strutture abitative e il gruppo di tombe di fine IV-inizi III
sec. a. C. poste sulla collina di Scigliato. In
ROSSI 1999b, p.273-274 identificavo dagli
inizi del III sec. a. C. un ulteriore salto di
qualità nell’insediamento di Fratte quando
sembrano evidenti le tracce di un abitato
basato su una organizzazione ‘urbana’
- AMEDEO ROSSI
regolare che poi viene abbandonato alla
metà del III sec. a. C.
26
I percorsi in cui si inseriscono le strade
sembrano essere già attivi nel corso del III
sec. a. C. Per la viabilità lungo il basso corso
del fiume Irno si veda il recente rinvenimento di via Irno (PIERNO 2011), mentre
per la viabilità costiera, già ipotizzata e ricostruita in base alla fotolettura da ROSSI
1999a e ID. 1999b, cfr. IANNELLI 2011.
27
ROMITO 1996.
28
ALTOBELLO 2010; MIRABELLA 2010.
29
Per gli approdi di Forte la Carnale e del
vicus di Mercatello, cfr. GALLO - IANNELLI
2011 e IANNELLI 2011, mentre sul porto alla
foce del Picentino cfr. da ultimo BONIFACIO
2004-2005, con bibliografia. Presso Torre
Picentina recenti indagini archeologiche
hanno messo in luce una complessa struttura con area termale e residenziale.
30
Uno dei più recenti cataloghi sulle rappresentazioni cartografiche della città di
Salerno è stato curato da PERONE 2007.
31
Sulla edizione della cartografia aragonese
cfr. LA GRECA - VALERIO 2008.
32
Non è escluso che i ruderi siano quelli del
Molo di età sveva (cfr. AMAROTTA 1989, pp.
138-139).
33
DI MAIO - IANNELLI 1995; da ultimo
IANNELLI 2011, pp. 249; 263.
34
Secondo Amarotta, nel XIII sec. d. C. la
linea di costa era da collocare grosso modo
all’altezza dei palazzi che si dispongono
lungo la parte nord di piazza Luciani
(AMAROTTA 1982, p. 116). Una possibile
ubicazione del porto romano in questa
- 49 -
insenatura venne fatta già in AVAGLIANO
1982, pp. 49-50. Con le dovute cautele è
suggestivo notare come la conformazione
dell’insenatura del Fusandola e la sua disposizione topografica si avvicini a quella che
accoglie il porto romano di Napoli e rinvenuta in Piazza Municipio, tra Castel Nuovo
e la chiesa di S. Maria in Porto Salvo.
L’indagine archeologica è stata condotta in
occasione della costruzione della Linea 1
della Metropolitana di Napoli (CARSANA et
ALII 2009, fig. 1).
35
All’altezza di Salerno, attualmente, le correnti meteo marine sono prevalenti da
Ovest e da Sud-Ovest. Lo stesso Piri Reis
(XV-XVI sec. d. C.) afferma che il porto di
Salerno è poco utilizzabile, perché soggetto
ad insabbiamento (BONI 1994). Sulle alluvioni del Fusandola e, più in generale, sugli
eventi alluvionali avvenuti a Salerno in età
storica cfr. ESPOSITO - PORFIDO VIOLANTE 2004.
36
AMAROTTA 1989, pp. 138-139.
37
In LA GRECA, VALERIO 2008, pp. 41-42,
partendo dalla raffigurazione aragonese si
avanza l’ipotesi che il molo possa essere la
traccia del porto longobardo o di quello
romano.
38
BENINI 2004, p. 37-38, fig. 3. Un altro
esempio di molo su pilae è stato riconosciuto a Sapri (TOCCACELI 2003).
39
FINELLA 2005, pp. 103-106. Recenti indagini presso Porta Nova, in piazza Flavio
Gioia, confermano la presenza di un approdo, attestato dal XIII-XIV sec. d. C.
(GALLO - IANNELLI 2001, p. 214).
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- 51 -
PIETRO CRIVELLI
La religiosità dei Romani
U
Il divario culturale e di
no studio corret‘habitat’ delle genti si
to sulla religiosità
riflette su tutti gli aspetti
di un popolo
della loro vita, da quelli
richiede di esaminare preprimari, alimentari e abiventivamente le strutture e
tativi, al linguaggio, alle
le caratteristiche sociali di
leggi che regolano la loro
quel gruppo umano, capivita, alla religione che prare a fondo il suo modo
ticano. Sarebbe vano cerd’essere e di pensare, i sencare una divinità della
timenti ed i valori che più
neve e dei ghiacci nella
di altri sono apprezzati o
‘Triade Capitolina’ (Giove, Giunone e Minerva), gruppo scultoreo da una villa di
religione di popoli che
s’impongono in quella Guidonia
(160-180 d.C.). Palestrina, Museo Archeologico Nazionale.
risiedono in regioni tropisocietà, come essa è articali.
colata e come i suoi eleParlando di religiosità non è tanto importante, in
menti guardano se stessi e gli altri. Il pensiero religioquesto studio, conoscere i numeri e le caratteristiche
so è in gran parte la conseguenza logica di questi fatdelle diverse divinità delle genti che osserviamo, ma
tori.
piuttosto l’atteggiamento che quelle persone hanno
Ogni popolazione è portata ad immaginare le pronei confronti del divino, come avvertono la presenza
prie divinità in ragione delle abitudini di vita che le
della divinità, se la guardano con timore o con fiducia
sono proprie e a caricarle dei valori che in quella sociee soprattutto se credono realmente e quanto. La relità sono prevalenti. A nessuno sfugge che le divinità
giosità è un modo di essere dell’animo umano nepdei popoli nomadi della steppa non possono essere le
pure necessariamente legato ad un culto particolare.
stesse che sono venerate da un popolo sedentario di
Va anzi osservato che molto spesso proprio quelle
agricoltori. E ancora più differenti saranno i riti reliconvinzioni definite eretiche dal credo ufficiale di
giosi propri delle due etnie. Difficilmente dei nomadi
una certa religione raccolgono un seguito di partecipotrebbero avere dei luoghi di culto fissi e, meno che
panti forse esiguo, ma particolarmente convinto ed
mai, dei templi, così come li intendiamo noi, per le
entusiasta.
loro cerimonie religiose e, per conseguenza, i riti, pure
Così è ora e così è stato in Antico.
se presenti, non potranno che essere diversi da quelli
Nella storia del pensiero religioso s’incontrano
delle popolazioni che vivono stabilmente su un terridivinità che tutto sanno e tutto vedono, che sono
torio. Nel momento in cui quei popoli dovessero camcapaci di conoscere ogni più intimo pensiero degli
biare le loro abitudini, passando dalla vita di nomadi a
uomini, ma che talvolta possono anche essere ‘gabbaquella delle popolazioni sedentarie, allora cominceranno a porsi il problema della casa del dio o degli dèi a
te’ con estrema facilità. Il mito di Prometeo ne è una
somiglianza di quelle degli uomini. E in quell’abitazioprova evidente1. Questo mito, ma non solo questo, ci
ne del dio o degli dèi, fuori o dentro non importa,
rivela che, presso i Greci, accanto all’aspetto ossequiocelebreranno i riti religiosi.
so, di venerazione e di adorazione nei confronti della
- 53 -
SALTERNUM
colti o le epizoozie che falcidiano il bestiame. Se i razziatori possono essere respinti con le armi, non si può
fare la stessa cosa contro nemici invisibili che hanno il
potere di distruggere le messi o di uccidere gli animali domestici senza una ragione apparente ed allora
l’uomo non può fare altro che rivolgersi al soprannaturale, nel tentativo di esercitare un qualche controllo
su delle forze ignote altrimenti incontrollabili.
L’uomo agricoltore, a differenza di quello dedito
alla sola raccolta del cibo o alla caccia, deve più degli
altri esercitare il proprio senso d’osservazione e guardare ad un futuro molto più lontano di quanto sia
richiesto ad altri gruppi umani. Di volta in volta gli
occorre vedere e sentire il lavoro del momento come
un fattore indispensabile per un raccolto che sarà possibile solo dopo diversi mesi, che potrebbe anche non
esserci o essere inferiore alle attese. Nel caso meno
fausto, bisogna che sappia distinguere ciò che è addebitabile ai propri errori nell’esecuzione del lavoro, o
nella valutazione delle qualità del suolo messo a coltura, da quanto invece si sottrae ad ogni indagine razionale perché si trova al di fuori del bagaglio di conoscenze di cui l’agricoltore dispone. Tutto questo, unitamente ad una ingenuità di fondo che è propria di
coloro che interpretano ancora tanti fenomeni che si
presentano poco frequentemente, siano naturali o illusori, come espressione di forze soprannaturali, riservava uno spazio notevole nella percezione del trascendente ai ‘prodigia’, che venivano percepiti come espressione della volontà degli dèi o come una chiara manifestazione della loro collera. Tito Livio fa spesso riferimento a questi eventi che generavano turbamento e
scompiglio nella comunità anche se, per quanto lo
riguarda, mostra di non credervi granché (cfr., ad es.
Ab Urbe condita, XXI, 62.1).
Dall’insieme di questi fattori – osservazione della
natura e percezione dell’esistenza di un quid imponderabile ed incomprensibile che però ha effetto sulle
cose umane - è scaturito da una parte un avanzamento culturale, che potremmo definire rivoluzionario,
dovuto ad un più attento e profondo studio ed analisi
della natura e dall’esigenza di inventarsi e costruirsi
attrezzi idonei alla coltivazione dei campi ed a tutto
ciò che ad essa si connette, dall’altra lo sviluppo di un
pensiero religioso complesso, con caratteristiche proprie, con ogni evidenza del tutto diverso da quello dei
cacciatori-raccoglitori, derivato forse da una concezione spiritualistica della realtà in cui quell’uomo si trova
divinità, ne esistevano altri scherzosi, umoristici, quando non addirittura ridanciani2. Un atteggiamento,
questo dei Greci, che sarebbe inutile cercare nella
religiosità romana, caratterizzata da una severa austerità, che si attenuerà molto lentamente solo a cominciare dal tardo periodo repubblicano, quando la
penetrazione di religioni di provenienza orientale e la
diffusione di una mentalità più giocosa, caratteristica
della cultura greca, porteranno ad un diverso rapporto con il divino.
In questo periodo cominciano ad apparire opere
che si discostano dalla comune religiosità come quella
di T. Lucrezio Caro, De Rerum Natura, ma anche qualche graffito sui muri delle città che si rivolge alle divinità in modo spiritoso e confidenziale quale in precedenza nessuno avrebbe mai immaginato3.
La prima caratteristica che appare più delle altre
evidente nell’uomo romano è l’appartenenza a un
popolo di agricoltori e di pastori, assuefatto alla concretezza rude ed assidua del lavoro dei campi, alla
necessità di curare gli animali d’allevamento, soprattutto a mettere in relazione diretta il quotidiano impegno lavorativo di colui che con fatica lavora la terra
con lo sperato successivo benessere, che tuttavia non
potrà mai essere del tutto sicuro. Persone che sono
abituate ad un lavoro duro, costante, ma soprattutto
fatto di riflessione su ogni atto che compiono, aduse
ad una concretezza che si manifesta nel linguaggio
prima e nelle leggi successivamente. Una razza di
gente che porta con sé costantemente il ricordo delle
antiche origini contadine: nomi come Ovidio, Asinio,
Catulo, Porcio, Cornelio, Agricola, di remota derivazione, ma che s’incontrano ancora nella tarda età
imperiale, ci rivelano quanto profondo fosse il legame
dei Romani con il mondo rurale.
Osserveremo, di passaggio, che, in quella società,
fino alla tarda Repubblica ed al periodo imperiale, ai
patrizi era fatto divieto di svolgere commerci: erano
attività disdicevoli per i nobili, ai quali era concesso
solo di vivere dei proventi delle proprietà terriere4.
Naturalmente, con il passare del tempo, il divieto fu
aggirato in vari modi, tuttavia rimase sempre formalmente in vigore.
Pastori ed agricoltori sanno anche quanto le loro
risorse possano essere in pericolo a causa delle razzie
da parte di altre popolazioni, ma anche in conseguenza di eventi strani ed incomprensibili come le avverse
condizioni climatiche che rovinano e annullano i rac-
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PIETRO CRIVELLI
Come si vede le divinità olimpiche greche, etrusche
e romane sono notevolmente simili, appartenenti ad
un unico ceppo di probabile derivazione pre-ellenica6,
ma anche, almeno in parte, di provenienza orientale,
penetrato poi nel contesto etrusco e quindi romano.
a vivere. Sicuramente sarà accaduto che eventi favorevoli o contrari si siano verificati dopo gesti o atti che,
da un punto di vista razionale, non avevano nulla a che
vedere con quegli eventi, ma che, nel modo di ragionare di uomini piuttosto ingenui, venivano percepiti
non come una mera e casuale successione di fatti, ma
piuttosto come una relazione di causa ed effetto. La
ragione dice di no, ma quanti sono coloro che ancora
oggi, dovendo affrontare un evento di una certa
importanza, mettono in tasca un portafortuna o
indossano qualche capo di vestiario o accessorio che
‘aveva portato bene’ in un altro momento analogo!
In questo modo comincia a delinearsi un codice di
pratiche magico-religiose. Ma colui che è capace di
simili collegamenti, pure arbitrari, è anche un attento
osservatore dell’ambiente che lo circonda e probabilmente è nella mente dell’uomo agricoltore che prende
maggiormente consistenza l’idea di una vita vegetale: le
piante nascono vivono e muoiono, ma, per quanto lo
riguarda, non debbono assolutamente morire anzitempo e solo un dio ha il potere di allontanare quel pericolo.
Sembra che nel pensiero religioso dei Romani si
possano distinguere due aspetti principali. Il primo, il
più antico, è quello che può collegarsi alle origini
remote di una società contadina preoccupata soprattutto dai problemi legati alla sopravvivenza della famiglia ed alla cura e alla difesa della terra e del bestiame
che la garantisce. L’altro, più recente, nasce e si sviluppa in un momento successivo, quando Roma, formatasi gradatamente come città e non dal solo punto di
vista urbanistico, ma come civitas, vale a dire come
insieme di cittadini, è assorbita nell’orbita politica e
culturale etrusca. Vediamo invero che, accanto a divinità d’origine chiaramente agropastorale, se ne venerano altre – soprattutto Giove, Giunone e Minerva –
appartenenti ad un sentimento religioso più ‘cittadino’, nel senso che è legato maggiormente alla polis e
meno al mondo agricolo.
In realtà la citata ‘Triade Capitolina’ rappresenta il
trasferimento in ambito romano dell’equivalente triade etrusca costituita da Tinia, da sua moglie Uni e da
Menerva. Tre divinità maggiori assimilabili alle greche
Zeus, Hera e Athena, conosciute a Roma appunto come
Giove, Giunone e Minerva5.
In modo analogo entrarono a Roma altre divinità
d’origine ellenica: i Diòscuri, Castore e Polluce, e poi
Apollo/Helios, Venere/Afrodìte, Priàpo, ecc.
Gli dèi della famiglia e della casa
A Roma esistevano molte divinità esclusive di quel
popolo, non facilmente assimilabili ad altre appartenenti a gruppi umani diversi da quello in esame.
Erano, innanzi tutto, quelle proprie alla prima fase di
sviluppo della religiosità romana, divinità ancestrali
che, col passare del tempo, furono considerate minori
dagli esponenti dell’aristocrazia, ma non per questo
meno importanti nel modo di sentire del popolo.
Forse, per la loro presenza avvertita come continua ed
immediata nella vita quotidiana di chi vive essenzialmente di un’economia contadina, quelle divinità erano
percepite come più vicine alle necessità primarie
molto più di quanto non lo fossero quelle olimpiche.
Si prova una certa emozione all’immaginare quel contadino che compie tutti gli atti quotidiani, legati al
lavoro dei campi, come un continuo rito religioso. Di
volta in volta invoca o, quanto meno, pensa a
Sterculinius perché lo assista nella concimazione; Segetia,
perché favorisca la semina; Nodutus che deve proteggere la crescita degli steli del farro o dell’orzo o anche
del frumento curandone la formazione dei nodi;
Tutilina, la dea che proteggeva la buona conservazione
delle messi, dopo la mietitura, quando erano state
riposte nel granaio. Ma questi sono soltanto pochi
esempi di tutte quelle divinità, note col nome di
Indigitamenta7. Erano circa centocinquanta e sicuramente in origine appartenevano al culto privato, nondimeno rientravano nella competenza dei Pontifices,
che ne avevano compilato un elenco e ne regolavano
le cerimonie. M. Terenzio Varrone (116-27 a. C.) aveva
trattato l’argomento in una sua importante opera,
Antiquitates humanarum et divinarum, in 41 libri.
Purtroppo è andata perduta ed è una delle tante che
avrebbero permesso allo storico una migliore conoscenza della cultura e della civiltà romana.
Fortunosamente qualche notizia si è salvata attraverso
le citazioni che ne hanno fatto alcuni autori cristiani,
fra tutti Agostino8, Tertulliano e Arnobio.
Dimostrazione questa dell’importanza che gli stessi
attribuivano all’antico credo religioso dei Romani,
ovviamente pur senza condividerlo, anzi avversandolo
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SALTERNUM
I Romani avevano fatto di quella divinità un punto
di riferimento della totalità del loro popolo. La divinità romana, a differenza della greca Hestia, assume
anche delle funzioni di garanzia pubblica: alle Vestali,
sue sacerdotesse, vengono affidati, per essere custoditi, gli atti pubblici, ma anche quelli privati, come i
testamenti. Erano sei, ma nel IV secolo d. C. ne fu
aggiunta una settima. Dimostrazione questa che, in
quel periodo in cui il Cristianesimo era in espansione,
anche se ancora minoritario, quella divinità era ancora
percepita dal popolo di Roma come di un’importanza
fondamentale. Il sacro fuoco di Vesta resterà acceso
per secoli fino a quando, nel 391 sarà spento per ordine di Teodosio I. Il valore ideale assunto dalla dea è
dimostrato fra l’altro dal fatto che mai nel suo tempio
fu eretta una statua che la rappresentasse9: la divinità
era già ben simboleggiata dalla fiamma che ardeva
perennemente. Le sacerdotesse di Vesta erano scelte
dal Pontifex Maximus, da colui cioè che era il costruttore del ponte ideale che univa il popolo di Roma agli dèi
e solo alla sua autorità erano soggette. Obbligate alla
verginità, conducevano una vita austera, che procurava loro il rispetto più profondo di tutto il popolo. Di
qui le funzioni ‘notarili’ di cui erano investite. E’
importante notare che erano donne, perché a Roma
era la donna (domina) che reggeva e regolava la vita
della casa (domus).
Non a caso ho parlato di popolo di Roma perché,
a mano a mano che la Repubblica prima e l’Impero
poi estendevano i loro confini, le divinità di cui ci stiamo occupando rimanevano ancora comprese nella
città. Si diffondeva e s’imponeva il culto della Triade
Capitolina, quello del Genius dell’imperatore, ma quelli più profondamente ed autenticamente romani restavano, salvo rare eccezioni, racchiusi entro il Pomerium,
l’ambito sacro dell’Urbs10.
Da quanto sopra accennato appare evidente che la
religione dei Romani ebbe, nella sua fase iniziale, un
contenuto essenzialmente magico. Un popolo di agricoltori e di pastori sentiva la necessità di difendere la
propria fonte di sostentamento contro le avversità che
si presentavano, spesso senza preavviso di sorta e, in
assenza di altre cognizioni di carattere più scientifico,
si rifugiava in pratiche magiche. Molte di queste, sviluppatesi in tempi remoti, continuarono a sopravvivere fino a tempi molto più recenti. Magici sono i luoghi
di culto: se le altre divinità possono essere adorate e
venerate ovunque si trovi un loro tempio, quelle roma-
decisamente. A questo proposito, per una precisa
valutazione della loro testimonianza, si deve mettere
bene in evidenza che lo scopo di quegli scrittori era
quello di esaltare il Cristianesimo e, di conseguenza,
porre nella luce più negativa possibile il paganesimo,
per cui hanno certamente riferito gli aspetti che più
convenivano per sostenere adeguatamente la loro tesi,
tacendone altri. Il loro intendimento non era certamente quello di fornire un contributo alla conoscenza
della storia.
Alle divinità agropastorali ne vanno aggiunte altre
in apparenza meno direttamente collegabili al mondo
rurale e che rivestono un valore particolare nella cultura religiosa del popolo romano. Una di queste è
Vesta, assimilabile in parte alla greca Hestia, che assume in ambito romano un rilievo del tutto peculiare.
Mentre Hestia fra le divinità greche rappresenta poco
più di un semplice nome, la dea romana è la custode
del fuoco, sacro sia per la domus, sia per tutto l’insieme
della comunità dei cittadini. Deve essere intesa come
colei che protegge l’insieme dei focolari domestici
della civitas e come tale raccoglie tutti attorno a sé. Il
suo tempio, piuttosto piccolo e di forma circolare,
ricorda la più antica capanna del contadino illuminata
e riscaldata dal focolare centrale intorno al quale si
svolge la vita familiare. Quel fuoco domestico è sacro:
serve a riscaldare durante il freddo invernale, a cuocere il cibo, a illuminare la notte e a dare sollievo agli
ammalati. Riflettendo su quanto potesse essere difficile, con i mezzi allora disponibili, d’inverno ed in una
giornata piovosa, all’interno di una capanna, riaccendere un fuoco che si è spento, magari avendo sotto
mano solo della legna umida, si può comprendere
quale valore avesse per quelle persone la custodia
amorevole di quella fonte di energia che poteva significare la sopravvivenza.
Il culto del focolare domestico è un qualche cosa
che tutti i popoli hanno profondamente sentito:
Omero descrive il supplice che entrava nel mègaron di
colui al quale chiedeva protezione e aiuto ed andava
a sedersi presso il focolare. In epoche a noi molto
più vicine i regesti indicavano le famiglie esistenti su
un dato territorio come ‘fuochi’. I più anziani di noi
ricordano ancora nei paesi le massaie che bussavano
alla porta delle vicine per chiedere una ‘palettata’ di
brace. Uno scambio di favori tra vicini che rinsaldava la coesione sociale e contribuiva a facilitare la
vita.
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PIETRO CRIVELLI
ma non esclude l’intimo sentimento di pietas. E’ un pensiero che è vivo anche presso i Greci, che immaginano
un ‘daimon’ (δαίμων) distributore agli uomini del loro
destino. Allora è superstizione o che cosa? Come considerare l’augure che, dopo avere diviso simbolicamente il cielo con il bastone ricurvo, il lituus, osserva
attentamente il volo degli uccelli traendone ‘auspici’, o
l’aruspice che, per un motivo analogo, scruta le viscere degli animali sacrificati o ancora il pullarius che
custodiva i polli sacri ed interpretava la sorte ed il
volere divino osservando come quelli beccavano o
rifiutavano il becchime? In fondo non c’è tanta differenza con chi oggi afferma di predire il futuro ‘leggendo’ le foglioline di the o i fondi del caffè rimasti nella
tazzina, ma l’augure e gli altri svolgevano la loro funzione ufficialmente, al servizio della Res Publica.
Com’è noto la magia la si immagina con due aspetti ben distinti: l’uno, quello che è comunemente denominato ‘magia bianca’, tende a controllare le forze
malefiche cercando di allontanarle e d’impedire che
possano arrecare danni; l’altro, la ‘magia nera’, pervasa di cattiveria e malignità, si sforza di scaricare addosso agli altri le forze del male. I Romani dovevano avere
ben presenti questi due aspetti della magia, perché fin
dalle leggi delle XII tavole (451/450 a. C.) infatti
malum carmen incantare, cioè fare opera d’incantesimo
per provocare la morte di qualcuno o per danneggiare
le messi o il raccolto altrui (fruges excantare), è considerato un delitto fra i più gravi, passibile di pena di
morte14 e ciò significa che era convinzione comune
che simili operazioni potevano avere qualche effetto
reale. Tuttavia le pratiche magiche, cacciate dalla
porta, finivano per rientrare dalla finestra perché, per
esempio, la medicina dell’epoca non disponeva di
molti medicamenti e per conseguenza accompagnava
o addirittura sostituiva la terapia con invocazioni e riti
magici. Ancora si debbono ricordare le ben note tabellae
defixionum, lamine di metallo, soprattutto di piombo,
sulle quali si incidevano formule d’invocazione per se
stessi oppure di maleficio ai danni di persone odiate.
Erano per lo più opera di gente d’umili condizioni e di
livello culturale inferiore alla media, visto che la lingua
usata era quella caratteristica degli strati più bassi della
popolazione15. Queste tabellae furono diffuse anche in
Grecia, anzi per la maggior parte sono scritte in
greco16.
Naturalmente non possiamo sapere quanto i
Romani credessero nell’efficacia di simili azioni. Se
ne sono legate al territorio, ad alcuni punti di esso e
non ad altri, per cui non sono esportabili. Osservando
con attenzione ci si rende conto che, in pratica, quasi
tutti i luoghi della città avevano un certo contatto col
magico e col divino, molto spesso in senso ostile per
gli uomini. Alcuni di questi erano rivestiti di ‘negatività’ per motivi in cui s’intrecciava l’aspetto umano, politico con quello superstizioso della damnatio memoriae. A
chiarire il concetto valga per tutti quanto ci riferisce T.
Livio a proposito dell’Isola Tiberina11: cacciato l’ultimo
Tarquinio, il Senato decise che i beni del monarca spodestato non fossero né restituiti e neppure confiscati,
ma abbandonati al saccheggio della plebe, in modo
che questa non potesse più neppure immaginare di
riconciliarsi con il re deposto. Poiché nelle terre presso il Tevere che erano state di proprietà dei Tarquini il
farro era già maturo e non era lecito usarlo per scopi
alimentari – quia religiosum erat consumere12 - venne
comunque falciato e gettato nel fiume. In quel periodo dell’anno la portata d’acqua era scarsa e la massa
vegetale si arenò, trattenendo anche fango e pietre;
altri sassi furono aggiunti e fu così che si formò un’isola. Da notare che da allora l’Isola Tiberina ha sempre conservato nei tempi una connotazione in certo
modo negativa; nel Medio Evo ospitò un lazzaretto e
vi è tuttora un ospedale, luogo di sofferenza.
Nel santuario di Cerere esisteva una specie di
pozzo consacrato agli dèi Mani, il mundus (detto anche
mundus Cereris); s’immaginava che questo fosse come
una via di comunicazione fra l’universo dei vivi e quello dei morti13. Rimaneva chiuso tutto l’anno salvo tre
giorni: 24 agosto, 5 ottobre e 8 novembre. In quei
giorni si diceva che mundus patet ovvero che il mundus
era aperto ed era vietato ogni atto pubblico. Questa
commistione fra una divinità preposta all’attività agricola ed alla fertilità (Cerere) e quelle dei morti non
deve sembrare strana se si pensa che in Grecia
Prosèrpina, la figlia di Demetra (la Cerere greca), era
divenuta la sposa di Ade, il dio degli Inferi. I due concetti di fertilità e quindi di vita e quello della morte
sono spesso contigui, pur essendo contrari.
Bisogna anche tenere presente che i confini fra
magia, superstizione e religione sono spesso molto labili ed indefinibili. Lo stesso concetto di divinità frequentemente resta vago, l’espressione numen (numina al plurale) è generica ed incerta, si riferisce a delle divinità non
chiaramente connotate e questa indeterminatezza è di
per sé un impedimento ad ogni forma di culto liturgico,
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SALTERNUM
Si esorcizzava il pericolo della siccità con il rito dell’aquaelicium nel corso del quale si portava in processione il lapis manalis18, una pietra che si riteneva che avesse la capacità di richiamare la pioggia. Era una pietra
che normalmente non doveva essere spostata:
«Manalem lapidem putabant esse ostium Orci, per quod animae inferorum ad superos manarent, qui dicunt manes»19.
Qualche cosa di molto simile al già ricordato mundus.
Come si vede, la suggestione dell’Aldilà e del contatto
col mondo dei morti era sempre presente alla mente
dei Romani. Si credeva nell’esistenza dei lemures, fantasmi dei trapassati insepolti o morti per violenza che
vagavano senza pace. Per esorcizzare la loro presenza
c’era la festa dei Lemuria che si riteneva fosse stata istituita da Romolo per placare l’anima di Remo da lui
ucciso. Durante la cerimonia il pater familias si metteva
in bocca delle fave nere che poi sputava alle proprie
spalle ripetendo l’atto per nove volte.
Sembra che il rito degli Argei, celebrato alle idi di
maggio, nel corso del quale le vergini vestali gettavano
nel Tevere dal ponte Sublicium20 ventisette fantocci
umani fatti di vimini e di paglia, fosse anch’esso dedicato ad invocare la pioggia. In questo caso si direbbe
che ci si trovi di fronte alla sopravvivenza simbolica di
un ancestrale sacrificio umano spiegabile con la vitale
importanza di propiziare la pioggia apportatrice di
vita. E sembra esserci una certa relazione fra il lapis
manalis che chiudeva le porte dell’Aldilà ed il sacrificio
umano rappresentato dalla liturgia degli Argei: la
morte per la vita, ancora una volta si accostano i due
concetti opposti in un dualismo che precede la speculazione filosofica.
Quest’atto sacrificale era diffuso nella storia dell’uomo antico molto di più di quanto noi comunemente si possa pensare. In tempi storici Tito Livio ci
ricorda una cerimonia del genere avvenuta dopo la
sconfitta di Canne (216 a. C.) secondo i modi prescritti dai Libri Sibillini. Lo storico si affretta a dire che l’evento era insolito per la tradizione romana, ma dice
anche che il luogo nel Foro Boario era «… iam ante
hostiis humanis… imbutum» insolito dunque ma non per
questo del tutto sconosciuto21.
Anche da questi avvenimenti si può notare come la
sacralità dei luoghi abbia un’importanza assoluta: non
sarebbe stato mai possibile trasferire altrove i riti
appena citati.
Le divinità prima ricordate degli Indigitamenta fanno
parte di quel periodo arcaico in cui le pratiche magi-
ascoltiamo Virgilio dobbiamo supporre che tutto
sommato la credenza in un potere soprannaturale,
evocabile con parole e canti, capace di sovvertire le
leggi della fisica e della natura fosse abbastanza radicata, ma un poeta non necessariamente deve sentirsi
legato alla verità e neppure al plausibile.
«Carmina vel caelo possunt deducere Lunam;
carminibus Circe socios mutavit Ulixi;
frigidus in pratis cantando rumpitur anguis»17.
Una delle preoccupazioni più grandi per gli agricoltori è sempre stata - lo è anche attualmente - quella della siccità: un periodo troppo prolungato di assenza di precipitazioni mette a rischio il lavoro di un
anno, da quello può derivare una carestia e, per conseguenza, un momento caratterizzato da furti, rapine,
tensioni sociali, instabilità politica, razzie da parte di
popoli confinanti. Anche il pericolo dell’insorgenza di
epidemie a causa della denutrizione, che attenua la
capacità di resistenza alle infezioni, e dell’esigenza di
nutrirsi con qualsiasi cosa paia appena commestibile.
In ultima analisi, l’equilibrio economico – nel
senso etimologico del termine – di una società di agricoltori è molto più delicato di quanto normalmente si
possa immaginare e può essere facilmente compromesso da eventi su cui non è possibile esercitare alcun
controllo. Piogge troppo scarse o troppo abbondanti,
improvvise gelate fuori stagione, invasione d’insetti
come le cavallette, tutto questo ed altro ancora può
colpire mortalmente una società che non è ancora
riuscita a dotarsi di adeguate protezioni contro gli
eventi sfavorevoli, tenendo anche conto che in quei
tempi arcaici la produzione agricola non era ancora
così avanzata da assicurare dei raccolti d’abbondanza
sufficiente per accantonare delle riserve per fare fronte a periodi difficili. In questo contesto a quegli uomini il ricorso alle cerimonie magiche sembrava essere
l’unica soluzione disponibile. Queste, presumibilmente, all’inizio furono di carattere privato, familiare, ma
ben presto, riguardando interessi comuni a tutta la
società, divennero di interesse generale e perciò praticate da gruppi sempre più estesi, fino ad essere celebrate pubblicamente ed in forma solenne. Per scongiurare tutti i pericoli a cui era esposta una società ancora
estremamente fragile nella sua struttura fu necessario
elaborare una serie di riti che, nelle speranze di tutti,
avessero il potere di allontanare quelle sciagure.
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PIETRO CRIVELLI
i confini tra le varie proprietà agricole. Nel corso della
festa dei Terminalia (23 febbraio) i proprietari dei due
terreni confinanti celebravano insieme, congiuntamente, i riti che consistevano sostanzialmente nella
esortazione, più che nella preghiera, rivolta al dio di
restare sempre nella più assoluta immobilità.
L’economia pastorale esigeva, a sua volta, che ci
fossero altre divinità per proteggere e favorire la crescita delle greggi: fra queste, una delle più antiche se
non la più antica in senso assoluto, era il dio Fauno, in
onore del quale il 15 febbraio si celebravano i
Lupercali (Lupercalia), una festa particolarmente sentita dal popolo romano, al punto da sopravvivere fino
alla fine del V secolo d. C. (a. 492) quando papa
Gelasio I riuscì a farla sopprimere. Non sembra esagerato pensare che sia stata celebrata per oltre un millennio. Plutarco24 ne dà una descrizione e spiega che in
origine doveva trattarsi di una festa purificatoria. In
ogni modo se ne forniscono due spiegazioni: l’una
ritiene che sia stata una cerimonia intesa a proteggere
le greggi dai lupi, l’altra che volesse rievocare il mito di
Romolo e del gemello Remo allattati da una lupa che
aveva il suo covo in una grotta sul Palatino, il lupercale appunto. Forse le due ipotesi coesistevano fino dalle
origini. O forse no, perché Romolo potrebbe essere
concettualmente nato come mitico fondatore di Roma
in un periodo successivo a quello dei primi insediamenti abitativi che poi formeranno la città. Sappiamo
anche che le fustigazioni a cui i sacerdoti sottoponevano coloro che incontravano durante la corsa che concludeva la cerimonia erano particolarmente gradite,
specialmente dalle donne, in quanto ritenute apportatrici di fertilità.
La fertilità, umana, animale, della terra era un’altra
preoccupazione dei nostri progenitori, non ultimi i
Romani. Essa rappresentava una crescita delle risorse,
quelle del bestiame e della terra, per garantire la
sopravvivenza degli uomini, quella umana per assicurare la continuità delle famiglie. Non dobbiamo trascurare il fatto che la vita media era notevolmente più
breve di quella odierna e che la mortalità infantile, per
malattia o per disgrazia, era, in confronto con quella
attuale, addirittura enorme. Spesso in una famiglia in
cui erano nati dieci figli ne arrivavano all’età adulta
non più di due o tre. Il numero dei decessi delle partorienti appare, ai nostri occhi, semplicemente spaventoso; d’altra parte era ancora elevatissimo nel XIX
secolo della nostra era. Gli antichi avevano piena
che stanno per assumere la dignità di riti religiosi e
sono rivelatrici della primitiva visione panteistica del
mondo, quando si riteneva che tutto quanto cadeva
sotto i sensi umani avesse una sua carica spirituale,
anche la terra, le piante, gli animali, le rocce, il vento,
le montagne, l’acqua dei fiumi, dei laghi, la pioggia.
Mettono in evidenza il rapporto continuo e costante
dell’uomo romano con il divino: ogni atto che si compie nella coltivazione del campo, ogni evento nella vita
familiare, comporta un’invocazione ad una divinità
che a quell’atto o evento sovrintende, dall’invocazione
a Cunina, che protegge il neonato in culla, fino a
Libitina, divinità dei funerali; da quando si sparge il
letame invocando Sterculinius perché la concimazione
sia proficua, al momento in cui si sparge la semente
pregando Segetia, al tempo successivo in cui si supplica Nodutus perché i nodi dello stelo inizino a formarsi
correttamente o la dea Matuta nel momento della mietitura e ancora alle preghiere durante il rito delle
Robigalia per allontanare il pericolo della ruggine del
grano e così via, è un continuo atto religioso, di una
religiosità profondamente sentita e praticata di cui,
questo è importante, il Pater familias è il sacerdote. La
sua competenza sacerdotale comprendeva anche il
culto dei Penates, divinità che originariamente sovrintendevano alle necessità primarie, quelle della dispensa, delle vettovaglie (penus)22, dei Lares23, divinità protettrici della familia, e di tutto ciò che ad essa appartiene,
nonché quello dei Manes numi tutelari dei familiari
defunti.
L’ambiente contadino è esclusivo, nel senso che
non ama intromissioni nella sfera del proprio privato:
ogni familia, cellula elementare del consorzio umano,
mantiene i rapporti esterni solo per il tramite del pater
familias, e sono questi, nel loro insieme, che stabiliscono le norme a cui debbono tutti uniformarsi, delegando alcuni di loro alla celebrazione dei riti religiosi.
Come l’insieme dei patres darà vita al Senato, così l’insieme dei sacerdoti familiari sarà all’origine dell’ordine
sacerdotale pubblico.
Una società di agricoltori doveva necessariamente
salvaguardare la proprietà della terra posseduta, i cui
confini dovevano essere ritenuti sacri. Di qui l’esigenza di porli sotto la tutela del dio Terminus, che, in origine vigilava sui limiti delle proprietà private, ma che,
in seguito, seguendo la linea evolutiva su accennata,
estese le sue funzioni ai confini della Res Publica. Una
divinità statica, immobile, così come dovevano essere
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SALTERNUM
vano comunque, per il culto e per i riti, racchiuse
all’interno della cinta muraria dell’Urbe, entro il
Pomerium, lo spazio sacro in cui non era lecito entrare
in armi né introdurre divinità d’origine non romana,
salvo rare eccezioni27. Ma di conquista in conquista i
territori soggetti a Roma s’ingrandivano, comprendendo progressivamente sempre altre terre e altre
città. Questi nuovi spazi dovevano essere dominati e
controllati non solo con la forza delle armi, ma anche
con il prestigio derivante dal sostegno che gli dèi
romani avevano fornito alle legioni. Per questo motivo in tutte le città principali dell’impero venne eretto,
nel foro, il tempio dedicato al culto della Triade
Capitolina28. Questo simboleggiava la gloria e la potenza di Roma; non a caso, quando si celebrava un trionfo, il corteo, formatosi nel Campo Marzio, entrava in
città attraverso la Porta Triumphalis, percorreva la strada lungo il Circo Massimo, poi la Via Sacra e, attraversato il Foro, saliva al Campidoglio al tempio di Giove
Ottimo Massimo.
Culto di Stato, solenne, celebrato con grande
pompa, quello della Triade Capitolina sembra che sia
stato vissuto dal popolo romano più come una festa
civile che come un rituale religioso. Rispetto al tipo di
cerimonia la partecipazione delle masse popolari poteva essere anche entusiastica, ma tuttavia mancante di
quel senso di intima religiosità che cerca quel contatto
col divino che era invece presente negli atti liturgici
per altre divinità. L’osservanza scrupolosa, si può dire
ossessiva, del rispetto del rito liturgico era un’altra
delle caratteristiche della religiosità del popolo romano. La cerimonia della dichiarazione di guerra ad un
altro popolo, mantenuta e rispettata scrupolosamente
anche se con una modifica resasi necessaria allorché la
distanza da Roma del nemico di turno rendeva impossibile il lancio del pilum nel suo territorio da parte del
pater patratus, il sacerdote capo dei fetiales (si aggirò la
difficoltà costringendo un prigioniero di guerra all’acquisto di un terreno che di volta in volta fu indicato
come territorio del nemico del momento) è tuttavia
rivelatrice dell’origine magica di quel gesto chiaramente aggressivo, simboleggiante un’anticipazione di quella che, nei desideri di chi li compiva, doveva essere la
conquista effettiva del territorio nemico.
I templi della religiosità che possiamo definire ufficiale servivano anche a scopi non religiosi, profani.
Spesso venivano usati per tenervi sedute del Senato e
ciò, tenuto conto del rispetto, almeno dichiarato, per
coscienza di quanto poco bastasse per passare dalla
vita alla morte e pertanto cercavano aiuto, rifugio e
protezione nei riti magici e religiosi. In questo modo
la magia dei tempi arcaici si trasformava progressivamente in religio a mano a mano che le cerimonie, dapprima confuse e regolate dal ‘fai da te’, si uniformavano e regolarizzavano con procedure liturgiche uniformi per ciascuna divinità.
Le divinità della Res publica
Con queste divinità si entra in una nuova fase del
pensiero religioso dei Romani.
Alcune sono semplicemente la conseguenza del
passaggio di una pratica religiosa dall’ambito strettamente familiare a quello più vasto e solenne del culto
di Stato. Così è stato in parte per i Lupercalia, così
soprattutto per Vesta e per Giano. Quest’ultimo fu
forse fra le più antiche divinità del Pàntheon romano,
collocato inizialmente in una posizione preminente fra
gli dèi degli idigitamenta quale primo fra gli dèi, custode e protettore della familia, della casa simboleggiata
dalla porta domestica, divenne ben presto il dio
responsabile della protezione delle porte urbiche e
perciò della città. Era chiamato Ianus Pater, ma anche
con molti altri epiteti, tra cui Divum Deus o Divum Pater,
cioè Dio degli Dèi o Padre degli Dèi. Unico fra gli dèi
più importanti dell’Urbe non aveva un suo flamen particolare: forse proprio per sottolinearne l’importanza i
riti in suo onore erano celebrati personalmente dal re
durante il periodo monarchico e, successivamente
all’istituzione della Repubblica, dal Rex Sacrorum che
aveva ereditato le funzioni religiose e liturgiche che
prima erano state di stretta competenza regale. Le
notizie circa l’ubicazione del suo tempio restano incerte, sappiamo però che esisteva ed era ancora pressoché intatto quando nel corso della Guerra Gotica,
durante l’assedio di Roma (536-537 d. C.) alcune persone tentarono di aprirlo25. Il Cristianesimo si era oramai affermato ovunque, tuttavia vi erano ancora alcune persone che tentavano di rievocare gli antichi culti:
infatti, nella Roma pagana quel tempio doveva rimanere chiuso in tempo di pace per essere invece aperto
quando era in corso qualche guerra.
Talvolta Giano veniva associato a Quirino, altra
divinità esclusiva di Roma, nella quale si vedeva
Romolo, il mitico re fondatore della città, deificato26.
Tutte queste divinità citate, ma anche altre, pure se
appartenenti alla devozione pubblica della città, resta-
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PIETRO CRIVELLI
ambasciatori, moltissimi come schiavi, retori, filosofi,
architetti, medici. Tutti portavano con sé qualche cosa
di nuovo e di esotico. Inoltre era consuetudine che giovani romani si recassero all’estero per completare il loro
ciclo di studi, soprattutto in Grecia. Non pochi erano
coloro che si recavano nelle varie province dell’Impero
al seguito dei magistrati incaricati di governarle. A questi si aggiungano i militari che rimanevano per anni
nelle località ove erano acquartierati. In questo modo si
aprirono molti spiragli attraverso i quali culti esotici si
fecero strada nell’ambiente religioso romano.
A dire il vero se il fenomeno della diffusione delle
religioni estranee alla tradizione romana si sviluppò
maggiormente nel periodo a partire dal I secolo a. C.
era tuttavia incominciato molto prima: addirittura le
prime avvisaglie si ebbero quando il re Tarquinio
dispose l’acquisto da Cuma dei Libri Sybillini che si
voleva fossero stati dettati dalla Sibilla Cumana. Per la
consultazione e l’interpretazione dei responsi in essi
contenuti fu necessario creare un apposito collegio
sacerdotale denominato Decemviri sacris faciundis. Si aprì
così un varco attraverso il quale diverse divinità del
Pàntheon greco penetrarono a Roma32. I templi che
furono ad esse eretti furono sempre collocati al di
fuori del Pomerium a significare che erano tollerate e
rispettate, ma restavano comunque non romane.
Nel corso del III secolo a. C. insieme con altre
divinità greche si era diffuso anche il culto di Bacco,
l’equivalente romano del greco Diòniso, dio del vino e
dell’ebbrezza. I festeggiamenti in suo onore, naturalmente, portavano ad eccessi di ogni genere, per cui il
Senato, allarmato, nel 186 a. C. emise il famoso Senatus
consultum ultimum de Bacchanalibus con il quale venivano
proibiti dappertutto quei riti orgiastici. Vietati i
Bacchanalia, riprese vigore l’antico culto italico di
Libero, dio analogo a Bacco, ma con feste e cerimonie
molto più sobrie33.
Un altro episodio di riprovazione ufficiale verso
talune di queste forme parareligiose si ebbe alcuni
anni dopo, nel 139, quando furono espulsi da tutto il
territorio della Res Publica gli astrologi Caldei.
Il Senato dunque s’impegnò fortemente per tentare di limitare la penetrazione dei culti esotici34, soprattutto di quelli giudicati incompatibili con la cultura
romana, ma i risultati non ebbero un esito apprezzabile. Su quel grande monumento della romanità che fu
la rete viaria dell’impero viaggiavano e si spostavano
non solo le merci e gli uomini, ma anche e soprattut-
quel consesso e per le sue deliberazioni, poteva rientrare nella sacralità di quella istituzione. Abbiamo visto
che nel tempio di Vesta taluno – per esempio Cesare
– depositava il proprio testamento. Il tesoro della res
publica era custodito nel tempio di Saturno29.
Giovenale in una sua satira (14, 261-262) parla di
un’intrusione nel tempio di Marte Ultore in conseguenza della quale i ricchi di Roma rinunciarono a
depositarvi le loro ricchezze.
Sarà bene tuttavia rammentare che la parola templum per i Romani aveva un significato diverso da quello che gli attribuiamo noi. Templum poteva essere un
edificio, aedes, ma anche uno spazio aperto sacro.
Ambedue, spazi ed edifici, per essere considerati templa dovevano essere dichiarati tali dagli Augures, i
sacerdoti che, dopo avere osservato il volo degli uccelli, stabilivano che quel luogo era gradito agli dèi.
Erano perciò tali sia il tempio di Saturno sia i Rostra
nel foro ed anche il Lupercus.
Da questi e da altri esempi si deve arguire che luoghi ed edifici sacri svolgevano una funzione di garanzia pubblica. Il legame col divino doveva assicurare
che ogni atto che ivi si compiva era assolutamente corretto e legale. Naturalmente la pietas raramente coincideva con la realtà.
Bisogna anche avere presente che sia presso i
Romani, sia presso i Greci e sia presso altri popoli la
religione, la sacralità, il divino servivano anche a creare una protezione là dove il potere politico non riusciva a giungere; per esempio ad evitare la falsificazione
delle monete30.
I culti ‘peregrini’
Nella tarda Repubblica e poi durante l’Impero
molti culti stranieri cominciarono ad apparire a Roma
ed in Italia. Ciò avveniva perché i mercanti dalle origini più disparate giungevano nelle città della penisola e
soprattutto nella capitale portando, oltre alle mercanzie, gli usi ed i costumi anche religiosi, delle loro terre
di provenienza31. L’Urbe era diventata in quel periodo
la città più grande e potente del mondo allora conosciuto – si è calcolato che ai tempi di Augusto avesse
raggiunto e forse superato il milione di abitanti, mentre, in quegli stessi tempi, l’intera popolazione mondiale non superava i 130 milioni d’individui - rappresentava un polo di attrazione per tutti coloro che ne
avessero sentito parlare. Molti vi giungevano come
ostaggi, per esempio lo storico Polibio, altri come
- 61 -
SALTERNUM
braio 54 a. C. al fratello Quinto, che si trovava in
Gallia con Cesare, dice testualmente: «Lucreti poemata
ut dicis ita sunt, multis luminibus ingenii, multae tamen artis»
[«(proprio) come dici tu il poema di Lucrezio è frutto
di un ingegno luminoso e di grande arte»].
Il respingimento della religione da parte di Lucrezio
diventa più comprensibile se si pone attenzione agli
avvenimenti storici occorsi nello spazio della sua breve
vita: dapprima la Guerra Sociale, poi la lotta feroce fra
Mario e Silla, indi la dittatura di Silla, subito dopo la
guerra servile di Spartaco con la crocifissione di seimila schiavi lungo la via Appia e ancora la congiura di
Catilina. Si direbbe che ce ne fosse abbastanza per
nutrire seri dubbi sull’esistenza degli dèi o sulla volontà degli stessi di regolare le cose umane.
Nella Roma repubblicana non esisteva una letteratura religiosa paragonabile alla Bibbia ebraica, ai Vangeli o
ai Veda della religione indù. Non esisteva neppure qualche cosa di assimilabile ai Comandamenti, idonei a
regolare i rapporti umani con l’autorità incombente del
divino, per cui i reati contro la persona o la proprietà
erano perseguiti duramente con la forza della legge, ma
dal punto di vista strettamente religioso avevano una
rilevanza del tutto marginale. Nella Grecia arcaica il colpevole dei delitti di sangue, i più gravi socialmente, si
riteneva che fosse perseguito dalle Erinni e doveva sottoporsi ad una cerimonia di purificazione, una specie di
assoluzione religiosa, ma a Roma era diverso. In fondo,
secondo la tradizione, la fondazione della città era avvenuta contestualmente ad un fratricidio.
Si poteva credere di più o di meno alle divinità, ciascuno poteva sentirle o immaginarle a suo modo, ma
non esisteva assolutamente nulla che potesse essere
avvicinato ad un pensiero religioso valido per tutti i
credenti, un’ortodossia e, per conseguenza logica,
neppure un’eresia. L’unica cosa importante, da tutti
avvertita, era che i servizi religiosi, almeno per quanto
concerneva quelli pubblici, fossero celebrati nel modo
corretto. Esisteva una correttezza formale, ma non di
pensiero.
Questo modo incerto e scarsamente partecipativo
del popolo di Roma alla religione di Stato favorì da un
lato la sopravvivenza delle divinità di più antica origine e quindi più vicine al comune modo di sentire della
plebe e dall’altro la penetrazione di culti esotici, prevalentemente di origine orientale.
Si è già parlato del culto dionisiaco dei Bacchanalia
che evolse in modo eccessivamente trasgressivo, al
to le idee, le consuetudini, i sentimenti ed i pensieri
degli stessi ed, ovviamente, anche il pensiero religioso.
E la sensibilità religiosa romana, nel mentre aborriva
l’ateismo, era estremamente rispettosa e tollerante
verso le altre confessioni. Ricordiamo che l’accusa
rivolta ai Cristiani e che servì a giustificare le persecuzioni a cui vennero sottoposti era proprio quella di
ateismo.
Per questi motivi anche i culti esotici ebbero libero
ingresso a Roma. L’unica limitazione che si pose fu
quella di rispettare la sacralità romana del Pomerium.
A questo punto preme un’altra osservazione molto
importante. La religiosità romana prevedeva dei riti, in
gran parte consuetudinari, dei culti, ma non una speculazione filosofica applicata alla religione, uno studio
del divino assimilabile alla teologia. Solo Cicerone (De
Natura Deorum) si rivolge la domanda di che cosa sia la
divinità e di come gli dèi si pongano nei confronti dell’umanità. Il grande oratore s’immagina una conversazione fra tre personaggi di rilievo: uno stoico, Q.
Lucilio Balbo, un epicureo, C. Velleio e Aurelio Cotta,
pontefice massimo, ma aderente all’accademismo platonico. L’opera si articola in tre libri, nei quali ciascuno dei i tre espone il proprio punto di vista. «E’ opera
d’incalcolabile valore per le notizie che ci fornisce
sulla filosofia della religione nell’antichità e, specie
sulla teologia epicurea; ed è anche opera affascinante
per la sua tormentosa problematicità»35. Cicerone sembra propendere per la posizione di Balbo, lo stoico,
che vede gli dèi come «provvidenziali reggitori del
cosmo»36 in contrasto con quella dell’epicureo che
ritiene che essi esistano, ma che non s’interessino
minimamente delle questioni umane, e, in parte, con
quella di Cotta che, sebbene rivesta la più alta carica
religiosa della Res Publica, mostra di ritenere la religione nulla di più di un mezzo idoneo ad esercitare un
controllo sulle masse popolari. Per questo motivo,
secondo Cicerone, i sacerdozi debbono rimanere nelle
mani dell’aristocrazia: «la costante dipendenza del
popolo dai consigli e dall’autorità dell’aristocrazia
terrà insieme lo Stato»37.
Più o meno contemporaneamente all’oratore,
anche se in modo totalmente diverso, il problema era
stato affrontato da Tito Lucrezio Caro (ca. 98 – 54 a.
C.) strenue sostenitore dell’Epicureismo (fondato
sull’Atomismo di Democrito) con la sua opera De
Rerum Natura. Cicerone sembrava apprezzare notevolmente l’arte di Lucrezio, perché in una lettera del feb-
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PIETRO CRIVELLI
portate a sei da Anco Marzio – il collegio dei Fetiales,
degli Auguri e quello dei Salii, nonché la costruzione
del tempio di Giano.
Secondo la leggenda, dunque, i maggiori sacerdozi
romani sarebbero apparsi in un momento di poco successivo (circa 50 anni) alla fondazione della città e poiché erano costituiti in collegia, comprendevano un
numero cospicuo di cittadini in una comunità ancora
piuttosto esigua, per cui, tenendo conto anche dei culti
rimasti nell’ambito domestico e officiati dal pater familias, si deve concludere che nella Roma arcaica erano
ben pochi coloro che non erano investiti di una funzione religiosa.
Ricordiamo sinteticamente i sacerdozi di maggior
rilievo: Flamines, 3 maggiori e 12 minori, erano addetti
ciascuno al culto di una singola divinità, il più importante era il Flamen Dialis, addetto al culto di Giove.
Pontifices: 16, sorvegliavano e governavano i culti, con
a capo il Pontifex Maximus, che col tempo diverrà la
massima autorità religiosa dello Sstato. Augures: 16,
interpretavano gli auspici ed il volere divino. Vestales:
se ne è già trattato. Duoviri sacris faciundis: divenuti
Decemviri sotto Anco Marzio e poi Quimdecemviri al
tempo di Silla, erano addetti all’interpretazione dei
Libri Sibillini. Epulones: addetti ai banchetti sacri.
A questi vanno aggiunti: Fratres Arvales: 12, addetti
al culto di Dia – divinità arcaica poi identificata con
Cerere –, nel mese di maggio compivano una cerimonia (Arvalia) di purificazione dei campi. Luperci: 24,
compivano le cerimonie cui si è già fatto cenno (15
febbraio). Salii: 24 Sacerdoti-guerrieri di Marte, custodi dei 12 scudi (ancilia), il primo dei quali fu donato a
Numa da Marte e gli altri furono fabbricati uguali al
primo per evitarne il furto. Fetiales: 20, erano incaricati del rito corretto per le dichiarazioni di guerra.
punto da essere vietato; ma in seguito, attraverso la
stessa porta, fecero il loro ingresso Iside, Cibele,
Mitra, le religioni misteriche, soprattutto quella dionisiaca, l’Ebraismo ed il Cristianesimo, oltre ad altre religioni di minore importanza. Per contro uscirono dalla
città per diffondersi in vari luoghi, al seguito dei veterani che si stabilivano nelle colonie, altre divinità
molto sentite a Roma, ma non legate ad un luogo particolare della città, come la Mater Matuta38, la Fortuna
Virilis oppure Pomona, grandemente venerate nel
periodo repubblicano ma trascurate successivamente,
che si ricollegavano agli ancestrali culti della fertilità
con aspetti diversi e non facilmente distinguibili.
In ultima analisi sembra che si possa affermare che
i culti più antichi presenti a Roma, attualmente meno
noti al grande pubblico, siano stati quelli maggiormente e più intimamente sentiti dall’uomo romano che li
praticava con regolarità e, presumibilmente, con fede
sincera. Erano anche le pratiche religiose alle quali,
come si è visto, si ricorreva ufficialmente nei momenti di massima difficoltà, quando la stessa sopravvivenza della Res Publica era messa in pericolo.
I culti di Stato sarebbero apparsi ai nostri occhi
molto più vicini a festività civili o nazionali che a vere e
proprie cerimonie religiose, mentre le nuove religioni
indicate in precedenza si diffusero rapidamente fra i
vari strati della popolazione - il Mitraismo soprattutto
nell’ambiente militare - per il loro contenuto soteriologico mirante al riscatto dell’uomo mediante la fede.
I culti di Stato rimasero in vita fino alla fine del IV
secolo, come estremo tentativo su base ideologica di
difendere l’Impero nella sua fase declinante.
I sacerdozi romani
Abbiamo detto - e su questo non sembra che vi possano essere dubbi - che il sacerdote su cui si fonda la
religiosità del popolo romano è il pater familias e che, con
la trasformazione della comunità in ‘civica’, un certo
numero di riti da privati divenne collettivo e pertanto le
funzioni religiose vennero officiate da un numero più
ristretto di personaggi, con a capo il re, massimo reggente politico e religioso della nuova società.
Tito Livio (I, 20) fa risalire l’istituzione dei sacerdozi al re Numa Pompilio, uomo saggio e mite che
s’impegnò per dare alla Roma bellicosa di Romolo
un’impronta più moderata. A lui, secondo Plutarco
(Vita di Numa), si deve l’istituzione dei collegi dei
Flamines, dei Pontifices, delle Vestali – quattro in origine,
***
Mi sembra giusto concludere con una considerazione. Graecia capta ferum victorem cepit et artis intulit agresti
Latio. Così il Orazio39 compendia in poche parole il
rapporto culturale fra la Grecia e Roma.
In realtà la dipendenza culturale era molto più antica della conquista militare della Grecia. Sorvoliamo
sulla sospetta indicazione dell’anno 510 per la cacciata
dei Tarquini in modo da farla coincidere con quella
dell’espulsione dei Pisistratidi da Atene; non consideriamo neppure l’adozione del culto dei Diòscuri dopo
la battaglia del lago Regillo (circa 496 a. C.) e neanche
- 63 -
SALTERNUM
fuori di dubbio che Tarquinio Prisco fosse figlio di
Demarato, il greco di Corinto, appartenente alla famiglia dei Bacchidi, giunto esule in Etruria per sottrarsi
alla tirannide di Cipselo.
Rimanendo più aderenti all’argomento trattato,
ricorderemo che coloro che guidavano i coloni greci
nelle imprese coloniali, gli ‘ecisti’, dopo la morte erano
fatti oggetto di un culto semidivino, il culto eroico.
Una sorte molto simile sembra che sia stata quella
riservata a colui che in qualche modo fu l’ecista di
Roma, Romolo, figlio di Marte, accolto nel consesso
divino col nome di Quirino così come era avvenuto ad
Eracles, l’eroe per eccellenza, figlio di zeus.
l’invio di una commissione senatoriale ad Atene per
studiarne il sistema legislativo (a. 454) in previsione
della promulgazione di quelle leggi ricordate come
delle ‘dodici Tavole’40. Ancora, secondo la mitologia
romana, Saturno, il greco Crònos, quando fu detronizzato e cacciato dal figlio Giove (zeus), venne nel
Lazio ove fu accolto benevolmente da Giano e qui
insegnò agli uomini l’agricoltura.
La commistione fra le due culture fu sempre notevole fino dai tempi più antichi, favorita evidentemente dai rapporti con l’Etruria del periodo orientalizzante, nonché dalla vicinanza con le città greche dell’Italia
meridionale e della Sicilia. D’altra parte sembra ormai
- 64 -
PIETRO CRIVELLI
Note
Prometeo, nel corso di un rito di eccezionale solennità che aveva visto il sacrificio di un
toro, divise la vittima in due parti: pose da un
lato la carne sotto la pelle, dall’altro le ossa
scarnificate coperte del grasso dell’animale;
quindi invitò zeus a scegliere. Il dio scelse la
parte del grasso pregustando la golosità di
quanto immaginava di trovare sotto, e s’infuriò di brutto quando s’accorse d’essere stato
buggerato dallo scaltro Prometeo.
2
Si pensi alla situazione ‘boccaccesca’ in cui
si trovarono Afrodite ed il suo amante Ares
quando furono intrappolati ‘sul fatto’ con
una rete da Efesto, il marito tradito che aveva
convocato gli altri dèi per assistere alla scena.
3
Valga per tutti il seguente, rinvenuto dal
Maiuri a Pompei, nella Basilica: «Venga
chiunque ama. A Venere voglio spezzare le
costole a bastonate, e fiaccarle i lombi, alla
dea. Se lei può trapassarmi il tenero petto,
perché io non potrei spaccarle la testa con un
bastone? ».
4
Lex Claudia, 218 a. C. Ma la norma doveva
essere molto più antica.
5
Originariamente la Triade era costituita da
Giove, Marte e Quirino. In seguito gli ultimi
due furono sostituiti da Giunone e Minerva.
E’ incerto quando sia avvenuto il mutamento. In ogni modo i tre Flamines maggiori –
complessivamente erano quindici - continuarono sempre ad essere quelli della Triade più
antica.
6
BLOCH 1959, p. 140.
7
Da «in digito», invocare le divinità.
8
AURELIO AGOSTINO, De Civitate Dei, IV, 8.
9
SCULLARD 1992, vol. I, p. 467.
10
Da osservare che il Flamen Dialis, sacerdote del culto esclusivo di Giove, era soggetto
ad una serie enorme - ed oppressiva - di limitazioni, tra le quali vi era quella di non potersi allontanare al di fuori del Pomerium per più
di una notte. Divennero eccezionalmente tre
al tempo di Augusto.
11
T. Livio II – 5,1, ss.
12
Ibidem. La parola religiosus ha il significato di
un divieto sacrale, divino, ma anche imposto
dai doveri verso altri uomini.
13
Tra i significati della parola mundus è com1
preso quello di ‘ordine cosmico’.
14
ARANGIO-RUIz 1989, p. 74.
15
MARINUCCI 1989, p. 38
16
CALABI LIMENTANI 1985, p. 311.
17
Ecl. VIII vv. 69-71: «gl’incantesimi possono perfino staccare la luna dal cielo / con
incantesimi Circe trasformò i compagni di
Ulisse / con l’incantamento nei prati si fa
crepare il freddo serpente».
18
Manes erano le divinità dei defunti.
19
Così Paolo Diacono nell’epitome a Festo,
p. 115 L. Quella pietra che si trovava fuori
della porta Capena, nei pressi del tempio di
Marte, dunque costituiva l’elemento di chiusura fra due mondi che dovevano restare
separati, il mondo (universo) dei vivi e quello dei defunti. Per non arrecare turbamento
allo stato delle cose la si poteva spostare
solamente in casi di assoluta necessità: l’esigenza di salvare il raccolto, fonte di vita, era
uno di questi, ma il tutto doveva svolgersi
secondo precise norme sacrali.
20
Da ricordare che quel ponte, per un vincolo magico-religioso era costruito di legno e
senza metalli.
21
TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, XXII, 57.
22
In una fase storica successiva i Penates
assunsero la caratteristica di divinità genericamente protettrici della casa, legate in qualche modo agli antenati, ed erano venerati,
assieme ai Lares, nell’atrio della casa, presso
il focolare, ove era posto un tabernacolo con
un altarino. E’ questo il significato che si
ritrova in Virgilio (Aen. I, 68). In una ulteriore estensione cittadina vennero venerati
anche i Penates della città, fino a quando il
loro culto fu proibito da Teodosio (392 d.
C.).
23
I Lares in origine rientravano fra le divinità
che proteggevano il podere e la familia; successivamente la loro competenza venne estesa ad un ambito più vasto e diverso: il quartiere cittadino rappresentato dall’incrocio di
due strade il compitum (Lares Compitales). Tale
nuova funzione comportava dei riti a cui
provvedevano sacerdoti minori organizzati
in Collegia Compitalicia ai quali erano ammessi
anche gli schiavi.
- 65 -
PLUTARCO, Vita di Romolo, 21.
PROCOPIO DI CESAREA, Storia delle guerre
(όι υπέρ τών πολέμων λόγοι) I, 125.
26
PLUTARCO, Vita di Romolo, 28-29.
27
Una di queste riguardò l’introduzione del
culto dei Dioscuri.
28
La denominazione di ‘Triade Capitolina’ si
deve agli storici del XIX secolo.
29
BEARD 2000, p. 49.
30
La zecca di Roma fu posta in un luogo
adiacente al tempio di Giunone Moneta
(moneo), sul Campidoglio ove ora sorge la
chiesa di S. Maria in Aracoeli. E facile capire
l’etimo della parola ‘moneta’.
31
Nell’ormai lontano 1939, in una casa pompeiana, appartenuta ad un mercante, che
affaccia su via dell’Abbondanza si rinvenne
una statuetta eburnea, alta 25 cm, di una divinità indiana: Laksmi. Dea della bellezza era la
sposa di Visnù, analoga all’Afrodite greca.
32
I Tarquini erano etruschi e Cuma era uno
dei punti di contatto tra il mondo etrusco e
quello greco.
33
E’ interessante osservare che in Grecia
Dioniso, corrispondente al Bacco romano,
aveva l’appellativo di Lieo, dal verbo lyo
(λύω) = sciogliere, allentare. A Roma, analogamente, il nome di Libero evocava il senso
di libertà, anche eccessiva e sfrenata, che è
spesso la conseguenza del consumo del vino.
34
TACITO, Annales, II, 85.
35
PARATORE 1993, p. 226
36
ID., Ibidem.
37
CICERONE: De Legibus, II, 12. Con molta
arguzia Edward Gibbon, nella sua monumentale opera Declino e caduta dell’Impero
Romano, riferendosi alle molte religioni presenti a Roma, afferma che esse erano tutte
vere per la plebe, tutte false per i filosofi e
tutte utili per lo Stato (GIBBON 1998).
38
Era rappresentata seduta in trono con uno
o più (fino a dodici) neonati in grembo.
39
ORAzIO, Epistolarum Lib. II, 1, 156/7: «La
Grecia conquistata conquistò a sua volta il
selvaggio vincitore e introdusse le arti nell’agreste Lazio».
40
TITO LIVIO, Ab Urbe Condita, III, 31.
24
25
SALTERNUM
Bibliografia
ARANGIO-RUIz V. 1989, Storia del Diritto
Romano, Napoli.
CALABI LIMENTANI I. 1985, Epigrafia Latina,
Milano.
PARATORE E. 1993, Letteratura latina dell’età
repubblicana e augustea, Milano.
BEARD M. 2000, Gli spazi degli dei, le feste, in
Roma Antica, a cura di A. GIARDINA, Roma,
pp. 35-56.
GIBBON E. 1998 (ed.), Declino e caduta
dell’Impero Romano, Milano.
SCULLARD H. H. 1992, Storia del Mondo
Romano, Milano.
BLOCH R. 1959, Gli Etruschi, Milano.
MARINUCCI G. 1989, Introduzione all’Epigrafia
Latina, Roma.
- 66 -
FRANCESCO MONTONE
Il barbaro che Roma non sconfisse:
il vandalo Genserico in una similitudine del poeta
tardoantico Sidonio Apollinare
N
Al re vandalo fu imposto di non interferire con gli affari italiani e di lasciare Italia e Sicilia. Genserico si preparò alla guerra. L’imponente spedizione militare di
Antemio si rivelò fallimentare, garantendo a Genserico
e al regno vandalico una prospera sopravvivenza. Nel
476 il re barbaro fece pace con l’imperatore zenone, e
morì l’anno successivo, il 25 gennaio.
Questi rapidi cenni biografici e storici sono utili
per comprendere il ruolo che Genserico giocò nei
decenni finali dell’impero romano d’Occidente. Non è
un caso, quindi, che il re barbaro diventi figura centrale nei tre panegirici che l’intellettuale gallo-romano
Sidonio Apollinare4 recitò per alcuni degli ultimi imperatori di Roma: Avito (455-456), Maioriano (458-461),
Antemio (467-472). Nei panegirici sidoniani, costruiti
con uno stile prezioso e lussureggiante5, la campagna
militare per sconfiggere Genserico è importante motivo ideologico, in quanto punto di partenza per una
possibile rinascita della potenza dell’impero
d’Occidente: il re barbaro diviene personaggio letterario, in quanto i suoi vizi e la sua ferocia devono far
risaltare le virtù dell’imperatore che di volta in volta
Sidonio va ad elogiare.
el V secolo il regno vandalico conobbe un
importante periodo di crescita e sviluppo,
grazie alla debolezza dell’impero romano
d’Occidente, ormai vicino alla caduta finale, e grazie
soprattutto alla personalità del suo sovrano
Genserico1. Figlio illegittimo di Godigisel, fratellastro
del re dei Vandali Gunderico, Genserico salì al trono
nel 428, divenendo re dei Vandali e degli Alani.
Giordane2 lo descrive così: «statura mediocris et equi casu
claudicans, animo profundus, sermone rarus, luxoriae contemptor, ira turbidus, habendi cupidus, ad sollicitandas gentes providentissimus, semina contentionum iacere, odia miscere paratus».
Fu proprio Genserico a guidare il suo popolo dalla
Spagna all’Africa nel 429. Dopo anni di scontri strinse
un’alleanza con Roma nel 435, in cambio della quale
ricevette delle terre in Africa. Nel 439, però, attaccò
l’Africa proconsolare, conquistando Cartagine il 19
ottobre. Nel 442, grazie, probabilmente, al genio strategico di Ezio3, pervenne ad un foedus con Valentiniano
III, che rispettò fino alla morte del grande generale
romano e all’ascesa al trono di Petronio Massimo (a.
455). I Vandali ottennero il riconoscimento della sovranità sull’Africa Proconsolare, sulla Byzacena, sulla parte
orientale della Numidia, mentre lasciarono ai Romani la
Mauretania, la parte occidentale della Numidia e la
Tripolitania. Nel 455 Genserico sbarcò in Italia e, dopo
Alarico nel 410, saccheggiò Roma, portando con sé in
Africa la moglie e le figlie di Valentiniano. Nel 460
Roma tentò la riscossa con l’imperatore Maioriano, che
allestì una potente flotta contro Genserico. La sorte,
tuttavia, era dalla parte del Vandalo, che con l’aiuto di
alcuni traditori riuscì a catturare tutta la flotta ed a
costringere l’imperatore di Roma a rinunciare alla spedizione e a chiedere la pace. Nel 467 Roma tentò ancora una volta di soggiogare il regno vandalico. In quell’anno, infatti, Leone I, imperatore romano d’Oriente,
impose sul trono d’Occidente un suo uomo, Antemio.
Fig. 1 - K. Brjullov (1799-1852), Genserico saccheggia Roma (Mosca, Tretyakov
Museum).
- 67 -
SALTERNUM
L’esortazione, rivolta ai tre sovrani, ad organizzare
spedizioni militari contro Genserico non rientra solo
nella costruzione, tipica della letteratura d’elogio, di una
contrapposizione tra l’imperatore e un barbarus hostis6 da
sconfiggere; consente, infatti, di comprendere la lungimiranza politica dello scrittore tardoantico, che si rendeva conto che da una vittoria sui Vandali passava la
possibilità di un riscatto dell’Urbs. Come sottolinea
Álvarez Jiménez7, il regno vandalico era la vera minaccia per l’impero d’Occidente, dal momento che, fatto
senza precedenti, aveva significato la creazione del
primo stato barbaro su suolo romano8.
Nella costruzione ideologica messa in atto da
Sidonio per supportare i tre imperatori, lo scontro con
Genserico rappresenta la IV guerra tra Roma e
Cartagine. Questo Leit-motiv, che compare anche nei
panegirici per Avito e per Antemio9, ha un’importanza centrale nel discorso di elogio per Maioriano10 (recitato a Lione il 28 dicembre del 458); in esso la figura
di Genserico è ossessivamente presente, in virtù della
spedizione militare che l’imperatore era in procinto di
intraprendere contro il re vandalo.
Fig. 2 - Ms Fabr. 91 4°, che contiene anche opere di Sidonio Apollinare (Copenhagen,
Kongelige Bibliotek).
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Sidonio immagina che una Roma bellatrix dia udienza a tutte le province dell’Impero (vv. 13-39), raffigurate con fattezze femminili, secondo l’iconografia tradizionale. Esse si presentano a rendere omaggio con
atto di sottomissione; ultima è la dea Africa, lacerata a
causa dei soprusi del re dei Vandali, Genserico, che di
essa si era impadronito nel 439. Ella rivolge alla dea
Roma una lunga allocuzione (vv. 56-349), in cui supplice chiede che Maioriano venga a liberarla.
Nella sezione proemiale del suo discorso (vv. 56106) l’Africa deplora il giogo vandalico e ricorda tutti
i pericolosi nemici che l’Urbs nella sua gloriosa storia è
riuscita a sopraffare: Porsenna, Brenno e soprattutto
Annibale, che è arrivato a vedere le mura di Roma (vv.
85-87)11. Il Leit-motiv si presenta ai vv. 99-10412: la guerra contro Cartagine sarà la quarta guerra punica e
Maioriano potrà, terzo dopo i due Scipioni, fregiarsi
dell’appellativo di Africanus, dopo aver sconfitto il
nuovo Annibale, Genserico. Particolarmente interessante è la sezione finale dell’allocuzione della dea (vv.
327-349); l’Africa, infatti, fornisce un ritratto infamante di Genserico: egli ha perso ormai l’originario valore
in quanto schiavo dei vizi ed è temuto non tanto per
le proprie forze, quanto per quelle dei popoli barbari
che sono al suo servizio. Egli è divenuto un crapulone
infiacchito; termine di confronto è ancora una volta
Annibale, che era venuto meno alla sua proverbiale
frugalità durante gli ozi capuani, quando un nemico
più forte di lui era riuscito a sopraffarlo: la Campania
felix13. Il Vandalo, quindi, eguaglia in ferocia il tremendo Cartaginese, ma non è paragonabile al predecessore né per imprese né soprattutto per doti fisiche ed
austerità (si ricordi il famoso ritratto del generale punico fornito da Liv. 21, 4). La peroratio finale (vv. 347349) riprende il Leit-motiv già evidenziato: la campagna
bellica contro Genserico sarà la quarta guerra tra
Roma e Cartagine. Sidonio si appropria di celeberrimi
lemmi virgiliani; la dea Africa, infatti, invoca, come
Didone14, un ultor che possa vendicarne l’onta subíta
(vv. 348-349: «ultorem mihi redde, precor, ne dimicet ultra /
Carthago Italiam contra»).
Particolarmente illuminante, inoltre, è il racconto
(vv. 510 ss.) della traversata delle Alpi compiuta da
Maioriano, che dimostra doti di generale infaticabile al
punto da stupire persino un soldato unno che combatte per Roma: è Maioriano, non Genserico, colui che è
stato in grado di imitare Annibale, Cesare, Traiano in
una grande impresa quale era la traversata delle Alpi!15
FRANCESCO MONTONE
Sidonio esorcizza così il terrore che Genserico
incuteva a Roma. L’introduzione dell’exemplum storico di uno dei più grandi nemici
di Roma, il terribile Annibale, è funzionale, quindi, alla deminutio di Genserico
ed all’esaltazione del Princeps.
Un analogo procedimento si può
ravvisare nella similitudine dei vv. 8898, oggetto specifico della nostra analisi;
in essa Genserico è assimilato ad un feroce
cinghiale:
«Quid merui? Fatis cogor tibi bella movere,
cum uolo, cum nolo. Trepidus te territat hostis,
sed tutus claudente freto, velut hispidus alta
sus prope tesqua iacet claususque cacuminat albis
os nigrum telis gravidum; circumlatrat ingens
turba canum, si forte velit concurrere campo;
ille per obiectos vepres tumet atque superbit,
vi tenuis fortisque loco, dum proximus heia
venator de colle sonat: vox nota magistri
lassatam reparat rabiem; tum vulnera caecus
fastidit sentire furor. Quid proelia differs?».
«Che male ho fatto? Sono spinta dal destino a
muoverti guerra, quando voglio, quando non voglio.
Ti terrorizza un nemico impaurito, ma al sicuro perché circondato dal mare, come un irsuto cinghiale si
trova presso alte lande desolate, e circondato aguzza la
nera bocca gravida di bianche armi; un’ingente torma
di cani gli latra intorno, se per caso vuole dar battaglia
in campo aperto; quello tra rovi frapposti tronfio insuperbisce; scarsa la potenza: a dargli forza è la postazione, finché il cacciatore vicinissimo grida “eccolo” dal
colle: la voce conosciuta del padrone rianima la furia
rilassata; allora il cieco furore lo rende insensibile alle
ferite. Perché differisci la lotta?».
Fig. 3 - Moneta dell’epoca di Maioriano (Roma, Palazzo Massimo).
te l’interna agitazione di chi si trova in
una situazione eccezionale, l’eccitazione frenetica che precede un’azione
decisiva, o la tempesta interiore di chi
subisce un colpo e non trova lì per lì la
forza di reagire’17. E’ parola tipica del
vocabolario epico relativo alla paura ed è
frequente, in particolare, negli epici di età flavia18.
L’Africa, quindi, è terrorizzata da un barbaro che ha
perso le sue sicurezze19.
L’impunità di cui gode Genserico è dovuta solo
alla posizione geografica (si noti l’allitterante omoteleuto tutus…trepidus), dal momento che il mare si frappone tra Roma e l’Africa (si osservi che al tutus claudente freto corrispondono, nella similitudine, il per obiectos
vepres ed il fortisque loco). Si osservi, inoltre, la pregnanza del poliptoto claudente…claususque, che contribuisce
a rafforzare l’accostamento proposto tra Genserico e
il cinghiale, entrambi accerchiati, l’uno dal mare, l’altro
dai cani. Si noti, inoltre, che Sidonio sembra riecheggiare Sen. Ag. 892 ss.: «At ille, ut altis hispidus20 silvis aper
/ cum casse vinctus temptat egressus tamen / artatque motu
vincla et in cassum furit»
Lo scrittore gallo-romano, tuttavia, preferisce ad
aper un termine più prosaico come sus (nel mondo
antico il maiale è simbolo di voracità e stupidità21).
Tesquum, termine della sfera religiosa con valore assimilabile a templum22, è utilizzato in senso non tecnico
per indicare lande desolate e selvagge: cfr. Hor. epist. 1,
14, 19, «…nam quae deserta et inhospita tesqua»; Lucan. 6,
41, «…nemorosaque tesqua». Il verbo cacumino, utilizzato
più volte da Sidonio23, è attestato solo in Ov. Met. 3,
195 («…summasque cacuminat aures»), nell’episodio della
metamorfosi di Atteone in cervo, e in Plin. Nat. 10,
145, a proposito delle uova degli animali acquatici. E’
evidente, quindi, il ‘prelievo’ ovidiano, quasi ci trovassimo, anche nel testo sidoniano, di fronte ad una metamorfosi di un uomo in un animale: Genserico ‘si
bestializza’, ‘si trasforma’ in un feroce cinghiale.
Sidonio è solito infarcire i suoi complessi tessuti
linguistici di furtivae lectiones24, di spie linguistiche la cui
potenza allusiva non va assolutamente sottovalutata.
Una turba canum25, va ricordato, assale anche Atteone
(Met. 3, 225 - «ea turba» -, in riferimento a tutti i cani
che il poeta Sulmonese ha elencato nei versi preceden-
L’Africa ribadisce in primo luogo che è costretta
dal destino allo scontro con Roma; è chiara l’allusione
al giuramento di Didone, che aveva sancito l’inimicizia
secolare tra i due popoli16.
Roma, comunque, ha terrore di un nemico che in
realtà è in preda alla paura. Si noti a v. 89 la triplice
allitterazione della ‘t’ (trepidus te territat), che rende la
sensazione di terrore che nasce al solo pensiero di
Genserico, cui contribuisce l’intensivo territat. Trepidus
è messo in rilievo dall’iperbato e dalla collocazione tra
cesure; il vocabolo assume a partire da Virgilio un’accezione interiore-psicologica ed indica preferibilmen-
- 69 -
SALTERNUM
rum (per le attestazioni cfr. ThlL VIII 84, 69-83); cfr.
ad esempio Ov. Trist. 4, 6, 7-8, «quaeque sui monitis
obtemperat Inda magistri / belva; magister»; il termine, inoltre, può essere sinonimo di pastor, pecudum custos (per le
attestazioni cfr. ThlL VIII 80, 45 ss.). Caecus… furor si
trova in Sen. Oed. 590 (in clausola); cfr., però, anche
Verg. Aen. 2, 244, …caecique furore e Hor. epod. 7, 13,
furorne caecus (altri luoghi sono segnalati in ThlL III 44,
40-42). Per le attestazioni del verbo fastidio con infinito
cfr. ThlL VI1 311, 52-69. Il v. 98 si chiude con una reminiscenza di Claudiano: quid proelia differs rimanda infatti
a Claud. carm. 8, 385, sed proelia differs ed a carm. 18, 500,
quid vincere differs; cfr. tuttavia Ov. Met. 6, 52, nec iam certamina differt e la clausola proelia differ di Sil. 7, 330.
Un altro importante ipotesto, tuttavia, è nella
mente di Sidonio: la famosa similitudine virgiliana in
cui Mezenzio circondato dai Troiani è assimilato ad un
cinghiale assalito dai cacciatori con i loro cani (Aen.
10, 707-718):
«ac velut ille canum morsu de montibus altis
actus aper, multos Vesulus quem pinifer annos
defendit multosque palus Laurentia, silua
pastus harundinea, postquam inter retia ventumst,
substitit infremuitque ferox et inhorruit armos,
nec cuiquam irasci propiusve accedere virtus,
sed iaculis tutisque procul clamoribus instant:
haut aliter, iustae quibus est Mezentius irae,
non ulli est animus stricto concurrere ferro,
missilibus longe et vasto clamore lacessunt:
ille autem inpavidus partis cunctatur in omnis,
dentibus infrendens et tergo decutit hastas» 30.
«E come quel cinghiale cacciato dagli alti monti dal
morso dei cani, che per molti anni il Vesulo folto di pini
e per molti la palude laurentina difesero, nutrito tra le
selve di canne, incappato tra le reti, si ferma e freme
feroce e arruffa le spalle, né alcuno ha il coraggio di aizzarlo e avvicinarsi ulteriormente, ma lo incalzano con
giavellotti e urli sicuri da lontano: non diversamente, di
coloro che hanno giusta ira verso Mezenzio, nessuno ha
l’ardire di assalirlo con la spada snudata; lo attaccano da
lontano con dardi e con vasto clamore ma quello impavido si volge contro tutte le parti, digrignando i denti, e
scuote con lo scudo le aste».
ti): non è affatto casuale, quindi, il recupero di quel
«cacuminat» (Met. 3, 195) dell’ipotesto ovidiano, che il
lettore colto è chiamato ad individuare dalla furtiva lectio inserita da Sidonio nel suo mosaico testuale26. Tipici
della poesia tardoantica sono, inoltre, i contrasti coloristici27: si notino il chiasmo albis / os nigrum telis, il rejet
inverso e la particolare accezione semantica dell’aggettivo gravidus. «Os…gravidum telis» ricalca Sil. 7, 445, «gravidam telis…pharetram»28; Sidonio, però, utilizza l’aggettivo, che propriamente ha il significato di praegnans, in
senso lato; è così enfatizzato il contrasto tra la nera
bocca e le bianche zanne della belva, vere e proprie
armi letali. Anche telum, d’altronde, è utilizzato in
senso lato29.
Il verbo circumlatro, utilizzato de canibus, si ritrova
prima di Sidonio nella Consolatio ad Marciam (22, 5) di
Seneca (che lo usa in senso figurato) e in Ammiano
Marcellino (22, 16, 16). In senso figurato Sidonio lo
utilizza in epist. 4, 24, 5. Che egli abbia ancora in mente
Ovidio lo confermano le consonanze con Met. 4, 422423, «…modo more ferocis / versat apri, quem turba canum
circumsona terret» (la similitudine ovidiana viene, però,
molto ampliata: terret è stato sostituito e ampliato dall’allitterante trepidus te territat, circumsona da circumlatrat).
Non è casuale, comunque, che l’Autore tardoantico
riecheggi lemmi delle Metamorfosi: Genserico perde del
tutto le sue connotazioni umane, in quanto la sua animalesca ferocia lo assimila ad un cinghiale. Nel «per
obiectos vepres» vi è forse un’eco di un altro luogo del
Sulmonese (Met. 5, 628-629): «aut lepori, qui vepre latens
hostilia cernit / ora canum».
Il furore animalesco del cinghiale cui Genserico è
assimilabile è enfatizzato dalla giustapposizione di
tanti termini che attengono alla sfera del furore (tumet,
superbit, rabiem, caecus…furor) o che connotano il carattere selvaggio dello scenario in cui si svolge la concitata caccia (tesqua, obiectos vepres); si noti, inoltre, l’enfasi conferita agli alternanti stati d’animo della preda (il
superbo incrudelire, l’infuriare della rabbia attenuatasi,
il furore cieco che s’inasprisce a mano a mano che la
belva avverte l’acutizzarsi del dolore delle ferite).
Un altro prezioso gioco linguistico è realizzato dal
chiasmo «vi tenuis fortisque loco», in cui si realizza un’antitesi quasi ossimorica tra tenuis, da una parte, vi e fortis
dall’altra. Per quanto riguarda l’insolita definizione del
cacciatore come magister, Sidonio si è forse ispirato ad
una particolare accezione semantica del sostantivo,
che è talvolta utilizzato de doctore, domitore, rectore bestia-
Sul ‘bestiale’ Genserico viene proiettata, sia pure
con il ricorso ad una criptica allusività, anche l’ombra
sinistra del tirannico e superbo Mezenzio dell’Eneide,
personaggio antitetico al pius Enea. Sebbene Sidonio
- 70 -
FRANCESCO MONTONE
quello di aizzare la fiera da vicino: il cinghiale sidoniano, infatti, «lassatam reparat rabiem», ed il suo furor diviene caecus. Sidonio ha, cioè, messo in scena gli effetti di
quel comportamento che i cacciatori virgiliani avevano
accuratamente evitato: è evidente, quindi, come l’autore tardoantico, pur avvalendosi di lemmi di altri auctores,
entri in competizione con il testo virgiliano, da cui parte
per dipanare il suo filo narrativo.
L’ipotesto dell’Eneide è, perciò, imprescindibile, in
quanto punto di partenza per l’elaborazione di nuove
immagini, costruite con lemmi tratti da altre testualità.
Diverse, inoltre, sono le modalità con cui i due autori
rappresentano la rabbia del cinghiale; se Sidonio,
come detto, disseminava il suo testo di termini afferenti alla sfera semantica della rabbia e del furore,
Virgilio, magistralmente, in un solo esametro (v. 711:
«substitit infremuitque ferox et inhorruit armos»), con l’allitterazione della labiale e l’eftemimera, riesce a esprimere lo stato di frenetica rabbia che pervade il cinghiale.
L’irasci del v. 712 viene richiamato poco dopo dall’irae
di v. 714, contribuendo ad accostare strettamente cinghiale e Mezenzio, cui il sostantivo è riferito; la ‘bestializzazione’ del crudele tiranno è resa anche dal fatto
che Virgilio ha rappresentato con un’identità di immagini l’azione dei cacciatori e quella dei Troiani: si noti-
abbia preferito testualità e sintagmi di altri auctores, l’ipotesto virgiliano agisce in maniera permanente da
‘sottofondo’; è la traccia sottesa che aiuta a comprendere le modalità di composizione del poeta tardoantico che, come assemblando un complesso ‘puzzle’,
intreccia le tessere che gli forniscono gli auctores prescelti in un nuovo sapiente ordito. Il poeta gallo-romano tenta, così, di celare il più possibile gli ipotesti dai
quali preleva i suoi lemmi, in modo tale che solo il lettore arguto possa cogliere la sostanza della sua polifonica operazione linguistica.
Lo scrittore tardoantico, quindi, sostituisce all’aper
l’hispidus sus; preferisce l’immagine ovidiana della turba
canum che circonda latrando la belva a quella virgiliana
del «canum morsu…/ actus aper» (cambia anche il participio riferito al cinghiale; alla belva virgiliana è accostato
actus, a quella sidoniana clausus). Sidonio rifiuta di dare
una precisa contestualizzazione geografica alla sua
scena di caccia; si noti, però, come sostituisca al de montibus altis virgiliano il de colle; il Vesulus…pinifer e la
Laurentia palus hanno difeso il cinghiale virgiliano;
Genserico è sicuro claudente freto (si noti che l’aggettivo
tutus, riferito da Sidonio al vandalo, è utilizzato dal
Mantovano a proposito dei dardi e dei clamori dei cacciatori che attaccano la belva a prudente distanza, per
non rischiare nulla). Il cinghiale virgiliano è stato nutrito tra le selve di canne (silva…harundinea); l’hispidus sus
sidoniano si trova alta prope tesqua e, scoperto, trova nell’ambiente circostante una protezione naturale (obiectos
vepres). Se Virgilio focalizza la sua attenzione sugli iacula
gettati dai cacciatori, il poeta gallo-romano assume il
punto di vista della belva, che impazzisce di dolore a
causa delle ferite (vulnera), effetto del lancio di dardi; nel
testo sidoniano compaiono dei tela, ma si tratta in realtà di un utilizzo traslato del termine, riferito, come
detto, alle zanne del cinghiale. Un’altra oppositio coinvolge il comportamento umano nelle due similitudini: nel
testo virgiliano i cacciatori incalzano la preda a distanza
e da lontano (procul) emettono clamores, badando a non
aizzarlo; in Sidonio, invece, compare un solo venator,
chiamato magister, quasi stesse addomesticando la belva,
ed è ormai proximus.
Va notato che anche nel panegirico compaiono
notazioni acustiche (heia…vox nota magistri), di segno
opposto, però, rispetto a quelle dell’Eneide: alle lontane
voci virgiliane si contrappone l’urlo dell’unico cacciatore, ben distinto (vox nota) dalla belva, che ottiene proprio
l’effetto che i cacciatori virgiliani volevano scongiurare,
Fig. 4 - N. Dell’Abate (1510-1571), Turno con Mezenzio e Camilla (Modena, Galleria
Estense).
- 71 -
SALTERNUM
modificate, stravolte, variate e intessute con segmenti
linguistici di altri auctores, per raggiungere diverse finalità poetiche.
La similitudine offre, in conclusione, un ulteriore
esempio del modo di procedere di Sidonio: Genserico
non è assimilabile ai nemici di Roma, se non per crudele
ferocia, in quanto non ne possiede le capacità: la sua dissolutezza non è paragonabile nemmeno a quella
dell’Annibale degli ‘ozi capuani’, unico momento in cui il
generale punico venne meno alla sua encomiabile austerità; la sua ferocia è assimilabile a quella di uno degli acerrimi nemici del pater Aeneas, Mezenzio; del mitico re,
però, il trepidus Genserico non possiede affatto quelle
doti militari che lo rendono inpavidus. In tal modo
Sidonio rassicurava il suo uditorio, terrorizzato da
Genserico, che doveva davvero sembrare un nuovo
‘Annibale’; egli, infatti, era riuscito nell’unica impresa non
realizzata dal generale punico: il saccheggio di Roma.
Gli exempla mitici e storici di cui sono disseminati i
panegirici e l’allusione fitta e preziosa alle parole dei
grandi auctores della tradizione letteraria latina non
hanno, in definitiva, solo una finalità estetica, ma
anche uno scopo politico-propagandistico. Lo scrittore gallo-romano continuava a credere nella possibilità
di far rivivere il mito di Roma; richiamando continuamente gli exempla del glorioso passato e facendo rivivere in nuovi tessuti linguistici le parole dei ‘classici’
riaffermava la sua fede nell’Urbs31.
Le speranze del poeta tardoantico erano destinate,
purtroppo, ad un clamoroso fallimento: Genserico,
infatti, riuscì a superare indenne le campagne militari
mosse contro di lui da Maioriano e da Antemio. La
parabola esistenziale del re vandalo diviene, anzi,
emblema della debolezza di un impero ormai vicino
alla caduta finale: se lo stesso Sidonio dava una centralità epocale allo scontro di Roma con i Vandali, come
momento di un possibile ritorno ai fasti del passato e
di una renovatio del potere imperiale, gli insuccessi contro Genserico furono il manifesto più potente dell’irreversibilità della crisi dell’Impero d’Occidente.
I panegirici sidoniani assurgono così ad ‘ultimo
canto del cigno’. Al poeta gallo-romano, divenuto in
seguito vescovo di Clermont-Ferrand, toccò l’amara
sorte di morire in un’Alvernia occupata del re dei
Visigoti Eurico, dopo aver sostenuto, insieme al
cognato Ecdicio, la resistenza contro i barbari e dopo
aver subìto, per qualche tempo, anche l’onta dell’esilio.
La stella di Roma, oramai, declinava.
no il poliptoto clamoribus – clamore e la variatio
iaculis…missilibus: i cacciatori scagliano giavellotti procul
e urlano; i soldati di Enea scagliano dardi e longe emettono clamores. L’animalesco furore del re è reso, in particolare, dal dentibus infrendens. All’immagine di
Mezenzio, che sembra quasi digrignare i denti come il
cinghiale, si oppone quella della belva sidoniana che
aguzza nella nera bocca le zanne letali.
Sidonio, tuttavia, ha lasciato nel suo testo una spia
lessicale che rinvia chiaramente al testo virgiliano: concurrere. Il verbo, però, viene inserito in un diverso tessuto semantico: se i soldati di Enea evitano di stricto
concurrere ferro Mezenzio, di giungere, cioè, ad uno
scontro frontale, preferendo scagliare dardi a distanza,
i cani sidoniani tentano di circondare la belva, per
impedirle di correre in campo aperto.
Il distacco di Sidonio dal testo virgiliano è in realtà dettato dalla volontà di pervenire ad un’allusiva
deminutio di Genserico: se Mezenzio è inpavidus e viene
attaccato da molti uomini a distanza, il re vandalo che
terrorizza l’Africa è un trepidus hostis, la cui sicurezza è
dovuta soltanto al mare che si frappone tra l’Africa e
Roma. Il cinghiale sidoniano, cui è assimilato
Genserico, a differenza di quello virgiliano, è attaccato da un solo cacciatore (con la sua torma di cani), che
non ha affatto timore di avvicinarsi sempre più alla
belva e di intimorirla con urla ben distinte (la vox nota
pare proprio in voluta oppositio rispetto ai tutis…clamoribus virgiliani). Genserico, quindi, non è paragonabile
a Mezenzio, se non per furore bestiale.
Virgilio prende le distanze da Mezenzio (e dal
modello di eroe omerico), così lontano dal protagonista
del suo épos, che accosta al suo statuto di eroe quello di
uomo in grado di essere simpatetico anche con coloro
che sono condannati dal fato; Sidonio, invece, tenta ostinatamente di pervenire ad una deminutio di Genserico,
personaggio bestiale, che non per sua abilità è riuscito
fino ad adesso a sottrarsi alla vendetta di Roma. Egli ha
in comune con Mezenzio solo la ferocia animalesca, non
certo il valore: questo spiega il diverso muoversi nello
spazio di chi bracca i due cinghiali (alla circospezione dei
cacciatori virgiliani si oppone lo spavaldo avvicinarsi del
cacciatore sidoniano) e la mancanza, nell’autore tardoantico, di termini che attestano il coraggio dei cacciatori (cfr. nel testo virgiliano virtus e animus).
Il panegirista, quindi, si è avvalso di molteplici echi
testuali, senza perdere di vista, però, il celeberrimo
modello virgiliano, le cui immagini sono state riprese,
- 72 -
FRANCESCO MONTONE
Glossario
Allitterazione: ripetizione di una lettera o sillaba in parole successive.
Cesura: il termine ‘cesura’, nella metrica latina, definisce una pausa (da caedo = ‘taglio’)
predisposta attraverso la costruzione del
verso e funzionale alla sua lettura, che cade
nel mezzo di un piede e al termine di una
parola (dunque in maniera tale da spezzare
un piede, mai una parola). Le cesure principali dell’esametro latino sono la pentemimera (cade dopo il quinto mezzo piede),
l’eftemimera (cade dopo il settimo mezzo
piede), la cesura del terzo trocheo (cade
dopo la prima breve del terzo piede), la tritemimera (cade dopo il terzo mezzo piede).
Chiasmo: consiste nella disposizione incrociata degli elementi costitutivi di una frase,
in modo da cambiarne l’ordine logico. Es.:
Cesare fui e son Iustiniano (Dante Alighieri,
Paradiso, VI 10).
Eftemimera: cfr. Cesura.
Iperbato: l’alterazione dell’ordine di due parole nell’ambito di un verso o di una frase, con
l’inserimento di altre parole.
Ipotesto: con ipotesto si intende il modello,
imitato con intento emulativo, che l’autore
allusivamente richiama al lettore dotto.
Lemma: in linguistica, e in particolare in morfologia, costituisce una forma canonica di
una parola.
Omoteleuto: in una frase o in un verso è l’utilizzo di termini successivi che hanno lo stesso fonema finale. Es.: Mesto orto (Carducci).
- 73 -
Oppositio: consiste nell’accostamento di
due parole o frasi di significato opposto.
Ossimoro: antitesi di parole differenti fra loro
che vengono accostate per dare un senso
paradossale. Es.: Dotta ignoranza.
Poliptoto: consiste nel ricorrere di un vocabolo con funzioni sintattiche diverse. Es.:
Starsene ‘con le mani in mano’.
Sintagma: combinazione di due o più elementi linguistici linearmente ordinati nella
catena fonica.
Variatio: procedimento che consiste nel
modificare a livello fonetico, grammaticale,
sintattico-morfologico o semantico i meccanismi della ripetizione.
SALTERNUM
Note
Il presente lavoro elabora alcune considerazioni di un più ampio e articolato contributo sulla figura di Genserico in Sidonio
Apollinare, contenuto nella Tesi di
Dottorato di Ricerca di chi scrive, in fase di
stesura, sotto la guida del Chiar.mo Prof. C.
Formicola (Università degli Studi di Napoli
“Federico II”).
1
Cfr. in particolare PLRE II, pp. 496-499.
2
Getica 168.
3
Seguo la convincente ricostruzione di
zECCHINI 1983, pp. 169-183.
4
Sidonio Apollinare (430 ca. - 486), ultimo
letterato dell’Impero romano d’Occidente,
fu autore di un corpus di 24 carmina (tra cui
tre panegirici) e di 9 libri di epistulae.
Membro dei principali circoli intellettuali
dell’aristocrazia gallo-romana, sposò
Papianilla, figlia di Eparchio Avito (che
divenne imperatore nel 455); nel 468 fu
nominato praefectus urbi dall’imperatore
Antemio. Nel 470 ca. divenne vescovo della
cittadina francese di Clermont-Ferrand.
Sulla vita di Sidonio cfr. almeno HARRIES
1994. Le principali edizioni dei panegirici
sidoniani sono: ANDERSON 1936; LOyEN
1960; BELLèS 1989. Rimando, inoltre,
soprattutto ai seguenti studi: LOyEN 1942;
MATHISEN 1979, 1985 e 1991; REyDELLET
1981; BONJOUR 1982; WATSON 1998;
CONSOLINO 2000 (cfr. in particolare le pp.
190-195); CONDORELLI 2001 e 2008, pp.
20-25; STOEHR-MONJOU 2009; CONSOLINO
2011. Mi permetto di citare anche un mio
contributo (MONTONE 2011). Una chiara ed
efficace sintesi delle principali problematiche dei carmi I-VIII di Sidonio si trova in
DEVILLERS-STOEHR-MONJOU 2009. Altri
studi che concernono, in particolare, il
panegirico a Maioriano saranno indicati
infra. Si ricordi che nella raccolta dei carmina,
organizzata dallo stesso Sidonio, il
Panegirico ad Avito, del 456, è il carmen 7, il
Panegirico a Maioriano, del 458, è il carmen
5, il Panegirico ad Antemio, del 468, è il carmen 2.
5
Sul preziosismo come cifra stilistica di
Sidonio si veda LOyEN 1943 (cfr. in particolare le pp. 152-53: lo stile prezioso si com-
pone di un aspect alexandrin, che comporta la
scelta di motivi futili, di soggetti frivoli e
ispira sottigliezza e artificiosità di stile, di un
aspect asianiste, che implica la grandiloquence et
la coquetterie, di un aspect scolaire, che comporta lo sfoggio di una certa pedantesca erudizione). Cfr. anche STOEHR-MONJOU 2009;
la studiosa sviluppa a proposito del panegirici sidoniani il concetto di poétique de l’éclat.
Sulla letteratura come lusus nell’aristocrazia
gallo-romana cfr. LA PENNA 1995.
6
Cfr. LASSANDRO 2000, p. 60: ‘la figura del
barbaro è vista dai panegiristi in contrapposizione a quella del romano, come se le due
realtà rappresentassero l’antitesi tra bene e
male…ai barbari, hostes per antonomasia,
andava attribuita ogni qualità negativa, la
violenza, la ferocia, l’aggressività, ecc.’. Cfr.,
in particolare, per l’opposizione tra il princeps e i barbari nei Panegyrici Latini, le pp. 5970. Cfr. anche DE TRIzIO 2009, pp. 18-23.
7
ÁLVAREz JIMÉNEz 2011, p. 170.
8
«The whole conflict represented a new
opportunity to rebuild the Empire, strangled as it was in such a very hard juncture»
(ÁLVAREz JIMÉNEz 2011, p. 171). Si noti
anche quanto scrive REyDELLET 1981, pp.
53; 57-58; 63: lo studioso osserva che in
Sidonio dietro l’uso costante di exempla storici c’è l’idea di un revival del potere imperiale. I modelli proposti per i principi elogiati
sono Traiano, Marco Aurelio, uomini d’azione, con una polemica evidente nei confronti dei Teodosidi.
9
Cfr. carm. 7, 444-446: «heu facinus! In bella
iterum quartosque labores / perfida Elisseae crudescunt classica Byrsae. / Nutristis quod, fata,
malum…»; ibid. v. 588: «Hic tibi restituet Libyen
per vincula quarta»; vv. 550-556 (in cui è
rievocata la seconda guerra punica):
«…dubio sub tempore regnum / non regit ignavus.
Postponitur ambitus omnis / ultima cum claros
quaerunt: post damna Ticini / ac Trebiae trepidans raptim respublica venit / ad Fabium; Cannas
celebres Varrone fugato / Scipiadumque etiam turgentem funere Poenum / Livius electus fregit…»;
carm. 2, 348-351: «…hinc Vandalus hostis /
urget et in nostrum numerosa classe quotannis /
militat excidium, conversoque ordine fati / torrida
- 74 -
Caucaseos infert mihi Byrsa furores»; vv. 530-535
(in cui si ricorda la guerra annibalica): «… si
ruperit Alpes / Poenus, ad adflictos condemnatosque recurre; / improbus ut rubeat Barcina clade
Metaurus, / multarus tibi consul agat, qui milia
fundens / Hasdrubalis, rutilum sibi cum fabracaverit ensem, / concretum gerat ipse caput…».
10
Sulle origini, ascesa e regno di Maioriano
cfr. RE XIV 3 (1928), s. v. Maiorianus (E.
Enßlin); MAX 1975; PLRE II, pp. 702 s.;
MATHISEN 1998. Sui vari aspetti del principato di Maioriano e sul panegirico sidoniano cfr., oltre a LOyEN 1942, pp. 59-84,
anche OOST 1964; MAX 1979; MATHISEN
1979a; ROUSSEAU 2000; MENNELLA 2000;
GIOVANNINI 2001; BROLLI 2003/2004;
OPPEDISANO 2009 e 2011; ÁLVAREz
JIMÉNEz 2011.
11
«me quoque (da veniam quod bellum gessimus
olim) / post Trebiam Cannasque domas,
Romanaque tecta / Hannibal ante meus quam
nostra Scipio vidit».
12
«quid mare formidas, pro cuius saepe triumphis
/ et caelum pugnare solet? quid quod tibi princeps
/ est nunc praeterea eximius, quem saecula clamant / venturum excidio Libyae, qui tertius ex me
/ accipiet nomen? Debent hoc fata labori, /
Maioriane, tuo…».
13
Cfr. in particolare i vv. 339-349: «ipsi autem
color exsanguis, quem crapula vexat, / et pallens
pinguedo tenet, ganeaque perenni / pressus acescentem stomachus non explicat auram. / Par est vita
suis. Non sic Barcaeus opimam / Hannibal ad
Capuam periit, cum fortia bello / inter delicias
mollirent corpora Baiae / et se Lucrinas qua vergit Gaurus in undas / bracchia Massylus iactaret
nigra natator. / Atque ideo nunc dominum saltem
post saecula tanta / ultorem mihi redde, precor, ne
dimicet ultra / Carthago Italiam contra...». Sui
toponimi campani in Sidonio Apollinare mi
permetto di citare un mio contributo:
MONTONE 2011a.
14
Cfr. Aen. 4, 622-629: «tum uos, o Tyrii, stirpem et genus omne futurum / exercete odiis, cinerique haec mittite nostro / munera. Nullus amor
populis nec foedera sunto. / Exoriare aliquis
nostris ex ossibus ultor / qui face Dardanios ferroque sequare colonos, / nunc, olim, quocumque
dabunt se tempore vires. / Litora litoribus contra-
FRANCESCO MONTONE
ria, fluctibus undas / imprecor, arma armis:
pugnent ipsique nepotesque». Sulla presenza di
Annibale nell’Eneide cfr. CASSOLA 1984.
15
La traversata delle Alpi, infatti, non era
solo prerogativa di Annibale. Era, infatti, un
noto tópos della tradizione panegiristica, in
quanto permetteva di esaltare le qualità dell’imperatore, in cui si incarnava il perfetto
vir militaris. Essa compare nel panegirico a
Traiano di Plinio (12, 2-3), nei Panegyrici
Latini (III [XI] 9; IX [XII] 3, 3 e XII [II] 45,
4); in Claudiano (carm. 7, 89 ss. e 26, 340
ss.), oltre che nella tradizione epica: in uno
degli inserti poetici del Satyricon, il Bellum
Civile, Petronio aveva cantato l’analoga
impresa di Cesare (122, 144-82 e 123, 183208), che lo stesso Lucano aveva riassunto
in un solo verso (1, 183, «Iam gelidas Caesar
cursu superaverat Alpes»). Come sottolinea
DEWAR 1994, anche il poeta egiziano
Claudiano nel De Bello Getico assimila il barbarus hostis, in questo caso Alarico, ad
Annibale, evocando la traversata delle Alpi
compiuta dal re visigoto (vv. 197-200); l’exemplum del Cartaginese, come avverrà in
Sidonio, è introdotto per esaltare Stilicone e
per denigrare Alarico; Stilicone, infatti,
supera Alarico nella capacità di sopportazione di freddo e neve dimostrata da
Annibale e vendica le Alpi violate dal barbaro (vv. 194-195; 400-401).
16
Aen. 4, 622-629.
17
CREVATIN 1990, p. 264.
18
MACkAy 1961, p. 310.
19
Trepidus, tuttavia, potrebbe anche essere
connesso ad un episodio del 456: la rovinosa sconfitta dei Vandali in Corsica ad opera
di Ricimero, ricordata anche nel Panegirico
ad Antemio (v. 367).
20
Per l’utilizzo di hispidus con sus o aper cfr.
ThlL VI3 2833, 9-11.
Cfr. BETTINI - FRANCO 2010, pp. 172 ss.
Cfr. Varro lL 7, 11, 1: «nam curia Hostilia
templum est et sanctum non est; sed hoc ut putarent
aedem sacram esse templum * esse factum quod in
urbe Roma pleraeque aedes sacrae sunt templa,
eadem sancta, et quod loca quaedam agrestia, quod
alicuius dei sunt, dicuntur tesca»; cfr. Forcellini, s.
v., IVb e OLD, s. v..
23
Cfr. carm. 7, 412; 23, 294; epist. 2, 2, 5; 7,
12, 2.
24
Cfr. GUALANDRI 1979.
25
Per i luoghi in cui si descrive un aper a canibus in retia actus cfr. ThlL II 208, 70 ss. Cfr.
in particolare Ov. fast. 2, 231, sicut aper longe
silvis latratibus actus.
26
Sulle tecniche di imitatio sidoniana si vedano in primo luogo due studi fondamentali:
CONSOLINO 1974 e GUALANDRI 1979.
Interessanti osservazioni offrono anche
alcuni contributi che indagano sul riutilizzo
sidoniano di luoghi degli autori ‘classici’: si
vedano ad esempio VEREMANS 1991 (sul
rapporto tra Virgilio e Sidonio);
MONTUSCHI 2001 e ROSATI 2004 (sul rapporto tra Ovidio e Sidonio); BROCCA
2003/2004 (sul rapporto tra Rutilio e
Sidonio nel Panegirico ad Avito); MAzzOLI
2005/2006 (sul rapporto tra Orazio e
Sidonio); FORMICOLA 2009 (sul rapporto tra
Properzio e Sidonio). Non del tutto soddisfacente COLTON 2000, che affronta il rapporto di Sidonio con Virgilio, Orazio,
Ovidio, Rutilio, ma limitandosi a evidenzia21
22
- 75 -
re i loci similes. Sull’autocoscienza poetica sidoniana rimando senz’altro a CONDORELLI
2008. La studiosa compie una brillante analisi dei luoghi in cui emerge la voce dell’autore, contribuendo ad evidenziare gli elementi di novitas introdotti dal poeta galloromano, non sterile e pedissequo imitatore
e fruitore della tradizione classica, ma autore nelle cui opere è possibile rinvenire una
tensione fra tradizione e innovazione (p.
243).
27
Sui giochi di colore e sulle connessioni tra
arte e letteratura nel periodo tardoantico
cfr. ROBERTS 1989, passim.
28
Silio riprende Hor. carm. 1, 22, 3-4, nec venenatis gravida sagittis, / Fusce, pharetra, su cui
cfr. il commento di Porfirione: gravida…pro
gravi ac per hoc plena μεταφορικῶς.
29
Telum è infatti riferito «to the natural weapon
of an animal, insect…» (OLD, s. v., 4).
30
Cfr. su questi versi il commento di
HARRISON 1991, pp. 240-243 e PARATORE
2001, pp. 292-293. Sulla figura di Mezenzio
nell’Eneide cfr. almeno il magistrale LA
PENNA 1980. Sull’imitatio virgiliana di
Sidonio, oltre ai già citati CONSOLINO 1974,
GUALANDRI 1979, passim, VEREMANS 1991,
cfr. GEISLER 1887, ubicumque; COURCELLE
1976 e 1984; NAzzARO 1988; CONDORELLI
2008, passim.
31
Con il culto per la letteratura latina l’aristocrazia gallo-romana cerca di difendere la
propria identità e la propria Romanitas nel
momento in cui si trova a dover convivere
con i barbari invasori: cfr. a proposito il bellissimo MATHISEN 1993, pp. 105-118.
SALTERNUM
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L’affresco dei ‘due Santi’
della Chiesa di Santa Maria de Lama di Salerno:
San Nicola e Santo martire
I
l brano di pittura, indicato come ‘coppia di Santi’1,
proveniente dalla cripta della Chiesa di Santa
Maria de Lama2 e conservato al Museo Diocesano
di Salerno, risalente con tutta probabilità alla fine del
XII o ai primi decenni del XIII secolo, ha dimensioni
di circa 1,00 m x 1,40 m ed è, purtroppo, piuttosto
degradato e lacunoso per tutta l’estensione del perimetro (fig. 1).
L’affresco è stato staccato tra gli anni 1983 e 1988
dal pilastro H della parete meridionale3 della cripta e
conserva ancora oggi la curvatura superiore. Esso fa
parte del secondo ciclo pittorico della cripta; due
sono, infatti, i cicli4, ambedue con caratteristiche simili ovvero con Santi ieraticamente raffigurati frontalmente che testimoniano lo schematico ed elementare
repertorio bizantino che nel meridione d’Italia trova
larga diffusione e persistenza per alcuni secoli.
Il ciclo pittorico più antico risale probabilmente
all’epoca della fondazione di Santa Maria de Lama
(X/XI sec.) quando la chiesa aveva pianta quadrata
ed un’unica abside orientata sull’asse N-S. Essa doveva certamente essere tutta affrescata considerando la
posizione dei lacerti dei brani tutt’ora visibili. Le
figure dipinte, infatti, decorano ancora quello che
rimane della parete est della chiesa originaria, dove,
successivamente, furono realizzate le due absidiole
attualmente visibili con la inevitabile perdita delle
altre figure che componevano una teoria di Santi. Di
questo ciclo di affreschi ricordiamo, sulla parete est,
un Santo non identificato a causa della perdita di
circa la metà di destra della figura, un altro Santo non
ancora identificato, sant’Andrea e, forse, la Vergine
stante con ai piedi, inginocchiato, il committente.
Sulla parete nord sono visibili san Bartolomeo, sulla
parete ovest manca ogni traccia di decorazione, ma,
con tutta probabilità, anch’essa ospitava degli affreschi analogamente a quella est.
Il secondo ciclo (fine XII-inizi XIII sec.) presenta
una serie di Santi rappresentati iconicamente entro
semplici cornici rettangolari di colore rosso o rosso e
ocra. Sulla parete est sono visibili san Lorenzo e Santo
Stefano, mentre sulla parete nord in una piccola abside la Madonna in trono con Bambino affiancata da
due Angeli, con a sinistra un Santo acefalo non identificato e a destra altri due figure di Santi non identificati in quanto in gran parte mutile. Sulla parete meridionale, dove trovava posto su un pilastro l’affresco
oggetto del presente studio, è visibile, sull’ultimo pilastro a destra, san Leonardo (in passato identificato
come Santa Radegonda5).
Fig. 1 - San Nicola e Santo martire, XII -XIII sec. Salerno, cripta della chiesa di Santa
Maria ‘de Lama’ (ora al Museo Diocesano).
- 79 -
SALTERNUM
Lo schema compositivo dell’affresco in esame è
molto semplice: alla sinistra dell’affresco un Santo in
paramenti vescovili e accanto un Santo dall’aspetto
giovanile, ambedue ritratti a figura intera con inquadratura frontale.
Lo sfondo è di colore blu e su tre lati è parzialmente visibile una cornice di colore rosso; non si notano
elementi di divisione tra le due figure.
Il Santo di sinistra è rappresentato con fronte spaziosa, capelli bianchi e poco folti, barba corta nonché
incorniciato dall’aureola. Indossa le insegne vescovili,
lo sticharion bianco (tunica), visibile parzialmente in
basso, un phelonion (mantello di forma conica) parzialmente sbiadito, ma, all’origine, certamente di colore
rosso, l’omophorion bianco (stola lunga decorata con
grandi croci, che gira intorno al collo e scende sul
davanti, corrispondente al pallio, più corto, dei paramenti vescovili occidentali) ripiegato sul braccio sinistro. La mano sinistra, che regge il libro del Vangelo,
non è visibile in quanto risulta nascosta dal phelonion,
mentre la mano destra è benedicente alla greca. Tutto
ciò fa supporre che il Santo vescovo raffigurato sia san
Nicola da Myra6 ed, infatti, da una attenta analisi
autoptica della parte sinistra dell’affresco si nota che
tra la testa e la cornice, circa all’altezza della bocca del
Santo vescovo, sono ancora visibili due lettere, una N
ed una I, che certamente erano la parte inizialiale del
nome NICOLAUS (fig. 2).
Fig. 2 - San Nicola e Santo martire - particolare, XII -XIII sec. Salerno, cripta della chiesa di
Santa Maria de Lama (ora al Museo Diocesano).
- 80 -
E’ interessante ricordare come anche nell’‘ipogeo
D’ della Chiesa di San Pietro a Corte a Salerno sia presente un affresco che ritrae san Nicola con accanto
forse san Giorgio a cavallo nell’atto di uccidere il
drago (fig. 3)7.
Accertato che il Santo Vescovo ritratto nell’affresco è san Nicola, rimane ora da analizzare il Santo alla
sua sinistra con la testa parzialmente mutila nella parte
destra. E’ ritratto come un giovane dai lineamenti delicati, i capelli scuri ed, apparentemente, ricci o comunque mossi e con l’aureola che gli incornicia il capo.
Indossa una tunica bianca in parte coperta da un mantello di colore rosso, fermato al lato destro del collo
probabilmente da una fibula. La mano destra impugna,
stringendola al petto, una sottile e semplice croce
bianca, mentre la sinistra è aperta con il palmo rivolto
verso l’osservatore in segno di pace. Degni di attenzione sono i polsi di ambedue le mani in quanto non
appaiono nudi, ma ricoperti da strisce molto simili a
dei polsini o a dei bracciali, in cuoio o in metallo, di un
abbigliamento militare o, altrettanto probabile, può
essere ciò che è visibile di un abito indossato al di
sotto della tunica. E’ un martire rappresentato non in
un contesto terreno, ma nel suo stato di beatitudine, in
trionfo dopo la morte: la croce non indica la sua
morte terrena, ma testimonia la sua sofferenza e
diventa l’emblema della sua vittoria sulla morte, come
la croce di Cristo8.
Per una sua identificazione è bene partire da alcuni elementi disponibili, ovvero la giovane età, gli abiti
indossati, la posizione delle mani, la croce e, di non
minore importanza, l’accostamento a san Nicola.
Partendo proprio da quest’ultimo elemento, è
utile ricordare come nei secoli XI-XIII, nella decorazione delle chiese, soprattutto in area meridionale, si
seguisse un programma iconografico in cui venivano
ritratti temi tipicamente bizantini, Déesis, Madonne in
trono con Bambino, Arcangeli, Santi Apostoli, Santi
martiri, Santi guerrieri e Santi taumaturghi (spesso
accostati tra loro), Asceti caratterizzati da abiti poveri, simbolo di scelta di povertà, e Sante vergini come
Margherita, Marina, Teodosia, vestite con tunica,
mantello e velo (maphòrion). I Santi taumaturghi come
Nicola, Cosma e Damiano, Biagio, Giacomo e
Andrea venivano raffigurati con gli abiti inerenti alla
funzione da loro svolta all’interno della chiesa: san
Nicola, ad esempio, è sempre vestito da vescovo nell’atto di benedire.
MARIO MOLES
Accanto a san Nicola trovano spesso posto alcuni
Santi guerrieri, come san Giorgio, san Demetrio, san
Teodoro non solo armati di corazze, lance, scudi e
stendardi e spesso a cavallo, ma anche vestiti con tunica, mantello e impugnanti la croce del martirio.
Fig. 3 - San Nicola e san Giorgio
(?), XIII sec. Salerno, chiesa di
San Pietro a Corte.
Fig. 4 - San Giorgio e San Nicola, XI sec. Cripta di
Santa Maria degli Angeli, Museo del Poggiardo
(LE).
Tra questi affreschi sono di notevole importanza,
al fine dell’identificazione del Santo ritratto accanto a
san Nicola, oltre al già citato affresco di San Pietro a
Corte, le testimonianze iconografiche della cripta di
Santa Maria degli Angeli, risalenti all’XI sec., e conservate nel Museo del Poggiardo (LE) con san Nicola e
san Giorgio a cavallo (fig. 4) e con san Nicola e san
Fig. 5 - San Giorgio e San Nicola, secondo quarto XIII sec. Chiesa della S.ma Annunziata,
Minuta di Scala (SA).
- 81 -
Demetrio in abito alla bizantina con la croce del martirio9; della Chiesa di San Biagio a San Vito dei
Normanni (BR), databili alla fine del XII sec., con sulla
parete laterale destra dell’ingresso raffigurati tre Santi,
san Nicola, san Demetrio e san Giorgio, ambedue su
cavallo bianco; della Chiesa rupestre di San Nicola a
Mottola (TA), risalenti all’XI-XIII sec., con più raffigurazioni di san Nicola e con due rappresentazioni di san
Giorgio a cavallo10; della Chiesa della S.ma Annunziata di
Minuta di Scala (SA) con san Giorgio armato di scudo e
lancia e san Nicola (XIII sec.) al di sotto della
Visitazione (fig. 5)11.
Interessanti sono anche gli
affreschi della Chiesa di Santa
Maria della Croce a Casaranello
(LE)12, risalenti ai secoli XI-XIV,
tra cui l’affresco, posto a decorazione della parete sinistra dell’abside, con san Nicola accanto
ad un Santo martire (fig. 6).
Di notevole rilievo sono, Fig. 6 - San Nicola e Santo
inoltre, i portali di bronzo di martire, XIII sec. Chiesa di
Santa Maria della Croce,
Barisano da Trani per il Casaranello (LE).
Duomo di Ravello (1179), di
Trani (ca. 1185) e di Monreale (ca. 1190) con effigiati,
nelle formelle, concepite come vere e proprie icone
bizantine, Cristo, la Madonna, il Battista, Profeti,
Apostoli e Santi: nel portale del Duomo di Ravello
sono raffigurati specularmente nella parte centrale
delle due ante la Vergine col Bambino tra san Nicola
in trono e san Giorgio a cavallo mentre uccide il
drago. Oltre a san Giorgio è presente anche, come
Santo guerriero, sant’Eustachio13. Analogamente nel
portale di Monreale compaiono san Nicola e san
Giorgio; in quello di Trani14, invece, san Nicola pellegrino, patrono di Trani, e san Giorgio; in ambedue i
casi, però, i due Santi non sono accostati.
Di analoga importanza sono, altresì, i mosaici del
Duomo di Cefalù, della Chiesa della Martorana, della
Cappella Palatina a Palermo e del Duomo di Monreale15,
dove le figure sono disposte in ordine gerarchico secondo la tradizionale iconografia bizantina.
Nel ciclo musivo di Cefalù del XII secolo16, iniziato nel 1131 per volere di Ruggero II, sono raffigurati
sulla parete a destra dell’abside nella fascia inferiore i
Santi Teodoro, Giorgio, Demetrio e Nestore e le figure dei Santi Nicola, Basilio, Giovanni Crisostomo e
Gregorio (fig. 7).
SALTERNUM
Nella Chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio a
Palermo17, nota con il nome della ‘Martorana’, fondata
nel 1143 e completata nel 1151, per volere di Giorgio
d’Antiochia ammiraglio siriaco di Ruggero II, sono allineati nei sottarchi, entro medaglioni, Santi guerrieri
(sant’Artemio, san Nestore, san Demetrio, san Giorgio,
san Teodoro, san Mercurio, san Procopio, tutti con la
croce del martirio) e Santi vescovi (san Gregorio di
Nissa, san Basilio, san Giovanni Crisostomo, san
Nicola e san Gregorio Teologo, fig. 8).
Nella Cappella Palatina18, fatta erigere attorno alla
metà del XII secolo da Ruggero II di Sicilia all’interno
del Palazzo dei Normanni di Palermo, esempio unico
di fusione di tradizioni artistiche differenti, sono raffigurati, sulla parete antistante a quella con gli Episodi
della vita di Gesù Cristo, i Dottori e i Santi della
Chiesa greca e, nei medaglioni degli intradossi delle
arcate longitudinali, i Santi guerrieri, mentre in quelli
dell’intradosso dell’arcata trionfale i Santi taumaturghi.
Verso la tribuna reale sono, infatti, orientate le immagini di Santi guerrieri (Teodoro, Demetrio, Nestore e
Mercurio) e di san Nicola, poste tutte sul lato esterno
dell’arco nord per dare maggiore risalto al re e ai suoi
familiari che si trovavano nella tribuna19.
Nel Duomo di Monreale20, o Chiesa di Santa Maria
la Nuova, eretta per volere del sovrano normanno
Guglielmo II e ultimata intorno al 1186, sono rappresentati nel timpano del secondo arco trionfale i Santi
militari Giovanni, Mercurio, Giorgio, Teodoro,
Demetrio e Paolo (fig. 9), mentre sulle colonne del
quarto arco, che immette nel fulcro dell’abside centrale, dominano gli Evangelisti Matteo e Giovanni il
Fig. 7 - Santi guerrieri e Santi vescovi, XII sec. Duomo di Cefalù (PA).
Fig. 9 - Santi Giovanni, Mercurio, Giorgio, Teodoro, Demetrio e Paolo, XII sec. Duomo
di Monreale (PA), timpano del secondo arco trionfale.
Fig. 8 - Santi Teodoro, Mercurio, Procopio e Santi vescovi tra cui Gregorio di Nissa,
Basilio, Giovanni Crisostomo e San Nicola, XII sec. Palermo, chiesa della Martorana.
- 82 -
Teologo e nel registro sottostante due Santi particolarmente significativi per la Chiesa orientale, Nicola, e
per la Chiesa occidentale, Martino.
La forte presenza dell’arte bizantina in Italia è
riscontrabile anche negli splendidi mosaici del Duomo
di san Marco a Venezia. Nella cappella di sant’Isidoro
di Chio (1343-1355) figurano sulla lunetta occidentale
san Nicola accanto alla Vergine e tra le due finestre
della sala san Giorgio martire in abito alla bizantina
azzurro e mantello rosso con la croce del martirio
nella mano destra e con la sinistra alzata21.
Oltre agli affreschi e ai mosaici, potrebbe risultare
interessante considerare, con la dovuta cautela, diverse e svariate tipologie figurative che, pur non essendo
affini al nostro brano di pittura, hanno lo scopo di
rendere testimonianza di come la ricorrenza di raffigurazioni secondo la tradizionale iconografia bizantina,
ampiamente diffusa in area occidentale, sia indipendente dalla destinazione di tali immagini (private e
MARIO MOLES
bizantina, come il celebre reliquario della Vera Croce
pubbliche, teologiche e devozionali) e indipendente
custodito presso il Tesoro della Cattedrale di Limburg
anche dal secolo di appartenenza. Possono cambiare il
an der-Lahn della metà del X secolo e giunto in
Santo o i Santi scelti dai committenti, ma si segue, con
Occidente in seguito al saccheggio di Costantinopoli
varianti, il classico programma iconografico bizantino.
del 1204 e appartenente al Tesoro del Grande Palazzo
Le varie tipologie figurative, infatti, pur nella loro
con probabile committenza dei sovrani o dono a loro
diversità, sono simili nel contenuto, che a volte è oridestinato26.
ginale in quanto portatore di idee artistiche nuove, a
Sul coperchio risaltano otto placchette e unità quavolte, invece, riproduce pedissequamente un tipo icodrate con figure di Santi vescovi e di Santi guerrieri,
nografico ben stabilito e spesso ripetuto e riprodotto
posti a guardia dei protagonisti centrali27. Partendo
nei secoli.
dall’angolo superiore sinistro, si riconoscono i Santi
Per quanto detto, potrebbe essere utile, dunque,
Giovanni Crisostomo, Teodoro, Eustachio, Demetrio,
rilevare come sia ricorrente l’accostamento iconograGiorgio, Nicola, Gregorio Nazianzieno, Basilio, distrifico tra san Nicola e Santi guerrieri martiri sia nelle
buiti secondo un assetto precisamente cadenzato e
antiche raffigurazioni orientali su tavola sia in alcune
significativamente ordinato28.
testimonianze dell’oreficeria medio-bizantina e della
Un’altra grandiosa opera di oreficeria è la Pala
scultura in avorio. Ad esempio, nell’icona di san Nicola
d’oro, prodotta per la basilica di San Marco a Venezia
con Santi sui margini del Monastero di Santa Caterina
nel X secolo ed arricchita fino al XIV secolo29. Gli
del Monte Sinai22 della fine del X secolo, che è la più
antica immagine a mezza figura di san Nicola secondo
smalti seguono, soprattutto nella parte inferiore, un
una tipologia con larga diffusione sia nell’arte bizantiprogramma ben definito che corrisponde a quello
23
na sia in quella dell’antica Russia , prodotta forse proclassico della Chiesa bizantina. Tra i Santi, d’interesse
prio nel monastero del Sinai, sono rappresentati, sui
per il presente lavoro, figurano san Giorgio, raffiguramargini laterali, quattro Santi guerrieri, a sinistra
to più volte e in varie vesti, con lancia e spada, con
Demetrio e Teodoro, a destra Giorgio e Procopio e
croce doppia o con croce semplice, san Demetrio con
sul margine inferiore Santi taumaturghi, san
croce, san Teodoro sia con croce sia con lancia, san
Pantaleone al centro e ai lati Cosma e Damiano24.
Procopio con lancia, sant’Oreste guerriero,
In un’altra icona di san Nicola con Déesis e Santi del
sant’Eustachio, Santi vescovi (san Giovanni
Monastero di Santa Caterina del Monte
Crisostomo, san Basilio …) e Santi tauSinai dell’XI secolo (steatite) con cormaturghi (san Gregorio, san Cosma,
nice degli inizi del XIV secolo (la
san Damiano …).
steatite forse fu incorniciata per
Altri esempi, in cui emerge
essere utilizzata nel monastero
l’accostamento di san Nicola ai
del Sinai), san Nicola è raffiguSanti martiri guerrieri, utili al
rato tra i pilastri della Chiesa,
presente lavoro, sono forniti
Pietro e Paolo, con al di sopra
dalla scultura in avorio30. Il
‘trittico Harbaville’ (fig. 11) è
Cristo tra la Vergine e san
Giovanni Battista, mentre al
uno dei più notevoli avori
margine inferiore san Giorgio,
usciti dalle botteghe imperiali
il monaco del deserto Onofrio
di Costantinopoli al tempo
e il vescovo Biagio di
della rinascenza macedone,
Amòrion (fig. 10)25.
datato alla metà del X secolo e
Un ulteriore aiuto all’ipoconservato al Museo del
tesi di lettura, orientata semLouvre. Il trittico è scolpito su
pre a mettere in luce l’accostaentrambe le facce. All’interno,
mento iconografico tra san
nella parte superiore sono rafNicola e i Santi martiri guerfigurati i personaggi della
rieri, viene da alcune testimoDéesis e gli Arcangeli, nel regiFig. 10 - San Nicola con Déesis e Santi (steatite), XI sec; cornice inizi
nianze dell’oreficeria medio- XIV sec. Monastero di Santa Caterina, Monte Sinai.
stro inferiore cinque Apostoli.
- 83 -
SALTERNUM
Le valve ospitano simmetricamenstra con il palmo aperto verso chi
te, nella parte superiore, coppie di
osserva (fig. 13).
Santi militari (a sinistra Teodoro
A trittico chiuso figurano, nel
Tirone e Teodoro Stratilate, a
registro superiore (alle spalle dei
destra Giorgio ed Eustachio, fig.
Santi guerrieri), Santi in abiti vesco12), che indossano un mantello fervili che reggono il Vangelo e benemato sulla spalla destra e reggono
dicono (san Giovanni Crisostomo
una lancia ed una spada; nella parte
e san Clemente di Ancyra, san
inferiore, specularmente sulle ante,
Basilio di Cesarea e san Gregorio
coppie di Santi martiri, per lo più Fig. 11 - Trittico ‘Harbaville’, recto, metà X sec. Parigi, Nazianzeno), mentre nella parte
Museo del Louvre.
guerrieri, ma abbigliati con tunica e
inferiore (alle spalle dei Santi martimantello ornato dal tablion, impuri) alternatamente un’altra coppia di
gnanti una piccola croce (a sinistra Eustrazio ed Areta,
Santi, un vescovo taumaturgo ed un Santo martire
a destra Demetrio e Procopio); nei medaglioni com(san Nicola e san Severiano, san Giacomo il Persiano
paiono i Santi Mercurio e Tommaso apostolo, Filippo
e san Gregorio), l’uno in veste episcopale che regge il
apostolo e Pantaleone.
Vangelo, l’altro in tunica e mantello che impugna una
In riferimento a San Demetrio, si noti come l’icocroce; nei medaglioni esterni, invece, compaiono solo
nografia sia molto simile al Santo dell’affresco del
Santi taumaturghi, Cosma e Damiano, Foca e Biagio.
Museo Diocesano in veste da martire in tunica e manIl trittico ‘Harbaville’ è simile al trittico dei Musei
tello e con la mano destra che regge la croce e la siniVaticani risalente all’ultimo quarto o alla fine del X
Fig. 12 - San Giorgio e Sant’Eustachio, Trittico ‘Harbaville’, recto, metà X sec. Parigi,
Museo del Louvre.
- 84 -
Fig. 13 - San Demetrio e San Procopio, Trittico ‘Harbaville’, recto, metà X sec.
Parigi, Museo del Louvre.
MARIO MOLES
tito, le labbra sottili ed un’espressione più severa,
come è evidente già dall’iconografia più antica di san
Demetrio con tunica, croce e corona della Chiesa di
Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (VI sec.), (fig. 18)35.
Egli, inoltre, indossa un mantello generalmente azzurro o verde, mentre san Giorgio sempre rosso, come
secolo (figg. 14 - 15) e al trittico Casanatense del
Museo Nazionale del Palazzo di Venezia a Roma della
metà del X secolo, appartenenti, probabilmente, a
membri dell’aristocrazia o della corte imperiale. I tre
avori, infatti, pur presentando alcune differenze31,
manifestano un programma iconografico comune, nel
quale rientra anche san Nicola raffigurato con accanto
o alle spalle un Santo martire, spesso, guerriero.
Altri due trittici della metà del X secolo, simili per
iconografia, obbediscono ad un identico programma
con Santi martiri e guerrieri, Santi vescovi e taumaturghi, uno conservato al Cabinet des médailles di
Parigi, l’altro noto come ‘trittico Borradaile’ del
British Museum32. A queste due opere può essere accostata una piccola valva di trittico eburneo, conservata nel Départment des objets d’art del Louvre, anch’essa
datata alla seconda metà del X secolo, dove san
Teodoro, pur essendo un Santo guerriero, è rappresentato, come altri Santi guerrieri, con un’ampia tunica riccamente drappeggiata ricoperta da un mantello fermato sulla spalla destra33 e con una piccola
croce nella mano destra come in un’icona del monastero di Santa Caterina del Monte Sinai, risalente al
VI secolo, con i Santi Giorgio e Teodoro ai lati della
Vergine che impugnano la croce del martirio (fig. 16).
Dopo aver messo in luce quanto l’accostamento
iconografico tra san Nicola e alcuni Santi martiri guerrieri sia ricorrente nelle varie tipologie figurative e nelle
varie epoche, potrebbe risultare, infine, utile, per l’identificazione del Santo ritratto accanto a san Nicola nell’affresco conservato nel Museo Diocesano di Salerno,
analizzarne le caratteristiche fisiognomiche, in quanto i
Santi spesso si distinguono sensibilmente gli uni dagli
altri sia per tratti somatici sia per varietà di espressioni.
Il volto imberbe e ovale del Santo, i lineamenti delicati, il naso regolare che tradisce la ricerca di una realtà anatomica, gli occhi grandi e intensi con un’abbozzata vena naturalistica, i capelli ricci che, per la parte
ancora visibile, gli incorniciano il viso coprendone le
orecchie, le labbra carnose e l’espressione soave (fig.
17) ricordano la fisionomia di san Giorgio34 di tanti
affreschi, mosaici ed icone (cfr. supra).
Confrontando, inoltre, le immagini di san Giorgio
con l’iconografia degli altri Santi martiri guerrieri,
spesso accostati a san Nicola, emergono chiare le differenze. San Demetrio, infatti, ha un viso dai lineamenti più marcati e meno delicati, con capelli lisci e
corti che lasciano scoperte le orecchie, il naso appun-
Fig. 14 - Sant’Agatonico e San Nicola,
Trittico, verso, ultimo quarto - fine del X
sec. Musei Vaticani.
Fig. 15 - San Teodoro Stratilate e San
Giorgio, Trittico, recto, ultimo quarto fine del X sec. Musei Vaticani.
Fig. 16 - Vergine in trono tra i Santi Teodoro e Giorgio, VI sec. Monastero di Santa
Caterina, Monte Sinai.
- 85 -
SALTERNUM
potrebbe trovare giustificazione in quanto
risulta dall’iconografia più recente in abito
egli, Santo medico e taumaturgo, è ritratto
militare dei mosaici del Duomo di Cefalù,
nella città sede della Scuola medica salernidella Chiesa della Martorana o di alcune
tana.
icone.
Prima di ipotizzare la committenza del
Anche tra san Giorgio e gli altri Santi
secondo ciclo di affreschi cui appartiene il
guerrieri si notano alcune evidenti diffenostro affresco, è utile ricordare, come
renze: san Teodoro, san Mercurio e
affermato dal Delogu45, che la chiesa fu di
sant’Eustachio36 vengono molto più spesso
rappresentati con la barba, san Nestore e Fig. 17 – Particolare di Santo proprietà di una famiglia nobiliare longomartire accanto a San Nicola, XIIsan Procopio37 senza barba, ma con i XIII sec. Salerno, chiesa di Santa barda, la famiglia del principe Gisulfo II,
capelli ondulati e lunghi fino al collo petti- Maria de Lama.
ultimo principe longobardo di Salerno dal
nati all’indietro che lasciano scoperte le
1052 al 1078, figlio di Guaimario IV. Nel
orecchie e tutti indossano comunemente
documento più antico relativo alla chiesa,
mantelli non di colore rosso38.
risalente all’aprile del 1055, la cappella
Tra gli altri Santi martiri finora inconrisulta già divisa tra gli eredi di Mansone,
trati accanto a san Nicola si possono, infifedelissimo di Guaimario IV, a cui venne
39
ne, escludere sia san Severiano , in quanrestituito, grazie all’intervento del principe,
to rappresentato come uomo maturo e con
il Ducato di Amalfi, e Guido, fratello del
la barba, sia sant’Agatonico (fig. 14), in
principe Guaimario IV e zio del giovane
quanto, anche se fisiognomicamente raffiGisulfo. La fondazione della chiesa
gurato come giovane imberbe e riccioluto,
potrebbe essere attribuita alla volontà
è raramente presente nell’iconografia del
comune di Guido e Mansone oppure al
Santo di Myra.
solo Mansone, i cui eredi, in un secondo
Potrebbe, però, risultare suggestiva l’imomento, ne avrebbero donato parte a
18 - San Demetrio e San
dentificazione del Santo martire con san Fig.
Guido, duca di Sorrento dal 1036. La
Policarpo, VI sec. Ravenna, chiesa
40
Pantaleone , dai tratti somatici molto simi- di Sant’Apollinare Nuovo.
decorazione pittorica sarebbe, però, stata
li a san Giorgio41, incontrato nei programaffrescata qualche anno più tardi, su richiemi iconografici. San Pantaleone viene,
sta del conte Giovanni, figlio del duca
però, generalmente raffigurato con gli strumenti della
Mansone di Amalfi, IOHANNES C., nome che comsua professione di medico e/o con la palma del marpare sotto il santo non identificato al margine sinistro
tirio (figg. 19-20).
della parete est e che è citato nel documento del 1055:
La prima notizia relativa alla presenza di una relidi qui troverebbe giustificazione la presenza negli
quia di San Pantaleone risale al 1112, anno in cui fu
affreschi di sant’Andrea, raffigurato in posizione di
consacrato a Ravello (SA), in territorio amalfitano, un
primo piano al fianco destro della Vergine, il cui culto
altare in onore del Santo in platea Sancti Adiutoris, la
è strettamente legato alla cittadina di Amalfi.
principale piazza della città dove è documentata sin
In un’altra epigrafe presente ai piedi di San
dal 1138 la presenza della Chiesa di San Pantaleone,
Bartolomeo sulla parete nord si legge: + VRSVS
annessa nel 1288 al convento di Sant’Agostino. Il sanHOC PING(ERE) FECIT. La comproprietà della
gue, originariamente conservato in un’unica e grande
chiesa lascerebbe pensare che i committenti siano più
ampolla42 nella Chiesa del Santo, fu poi traslato nel
d’uno46, anche se solitamente, quando si trattava di
Duomo di Ravello43.
chiese private, il committente era uno solo, nel nostro
A tal riguardo ricordiamo che la Chiesa di Santa
caso, per il primo ciclo, il personaggio in panni laici
Maria de Lama sorge a Salerno nel ‘quartiere degli
raffigurato in ginocchio ai piedi della Vergine, per il
Amalfitani’44, i quali potrebbero, all’interno della
quale, però, non si è conservata nessuna iscrizione47.
Chiesa, aver manifestato la loro devozione non solo
Si ricordi, inoltre, che Guaimario IV di Salerno dal
nei confronti di sant’Andrea, protettore di Amalfi, ma
1036 in poi fu in stretti rapporti con la famiglia noranche nei confronti di san Pantaleone, protettore di
manna degli Altavilla che si stava affermando
Ravello. Un altro motivo di tale rappresentazione
nell’Italia meridionale, legame che trovò sigillo con il
- 86 -
MARIO MOLES
matrimonio della principessa Sichelgaita, sua figlia,
con Roberto il Guiscardo nel 1058.
Al fine di ipotizzare la committenza del secondo
ciclo di affreschi, è utile focalizzare l’attenzione sulla
presenza di san Nicola tra i santi affrescati nel secondo
ciclo, datato tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo48, che potrebbe far supporre una committenza normanna o normanno-sveva, così come per la Chiesa di
san Pietro a Corte49, in quanto i Normanni diedero, già
nel corso del secolo XI, un grande contributo all’affermazione nell’Italia meridionale del culto di San Nicola,
che diventò loro Santo protettore. I Normanni, infatti,
conquistata Bari nel 1071, avevano portato a termine,
in appoggio dei Baresi, l’impresa della traslazione delle
spoglie di san Nicola dalla Turchia a Bari nel 1087, e
divennero, così, i principali propagandisti della devozione al Santo, il cui culto era stato però, introdotto
già dai monaci di lingua e cultura bizantina50.
Altro Santo particolarmente venerato dai normanno-svevi è san Giorgio51, spesso raffigurato accanto a
san Nicola. San Giorgio, infatti, era il Santo Cavaliere,
paladino della fede, le cui miracolose apparizioni avevano aiutato i Normanni nella loro guerra agli infedeli.
Nel racconto di Goffredo Malaterra52, monaco normanno dell’XI sec., si narra che San Giorgio, risplendente di luce, avesse guidato i Cristiani alla vittoria sui
Musulmani nelle vicinanze di Cerami in Sicilia, battaglia
vinta da Ruggero d’Altavilla nel 1063. Questa battaglia
segnò la conquista della Sicilia da parte dei Normanni
che, da quel momento, venerarono San Giorgio come
loro patrono e protettore attribuendogli il titolo di
‘Vittorioso’. La grande diffusione del culto di San
Giorgio si ebbe, inoltre, in Europa, proprio in conseguenza delle Crociate in Terrasanta e, più precisamente,
ai tempi della battaglia di Antiochia nel 109853.
Alla luce di quanto è emerso dall’analisi degli accostamenti tra Santi nelle varie tipologie figurative e dall’analisi storica, l’affresco conservato nel Museo
Diocesano di Salerno rappresenta, dunque, san Nicola
accanto ad un Santo martire, forse, san Giorgio con
tunica, mantello e croce del martirio. Tale conclusione
potrebbe essere suffragata sia dall’identità accertata
del Santo vescovo e dal frequente accostamento iconografico di san Nicola con Santi martiri guerrieri
(soprattutto san Giorgio), con attestazione sin dall’epoca bizantina e diffusione sotto la dominazione normanno-sveva, sia dalle caratteristiche peculiari dei tratti somatici e dell’abbigliamento di san Giorgio che lo
Fig. 19 - San Nicola (XIII-XIV sec.), Santa Barbara e San Pantaleone (XII-XIII sec.).
Matera, chiesa di San Nicola dei Greci.
rendono maggiormente riconoscibile rispetto agli altri
Santi martiri guerrieri. Ciò non toglie, però, che qualsiasi altra ipotesi di lettura, come il Santo martire
Pantaleone (che, anche se attestato molto meno frequentemente accanto a san Nicola, troverebbe giustificazione all’interno di una chiesa di proprietà degli eredi
del duca Mansone d’Amalfi), possa essere plausibile
considerando, sia le diverse componenti culturali e il
sostrato iconico dominante nella realtà del tempo, sia
le condizioni dell’affresco che risulta lacunoso e privo
di iscrizioni leggibili accanto al Santo martire.
Fig. 20 - San Pantaleone, X-XI sec. Pattano di Vallo della Lucania (SA), Abbazia di S. Maria chiesa di San Filadelfo.
- 87 -
SALTERNUM
Note
D’ELIA 2011, p. 45.
Sulla Chiesa di Santa Maria de Lama cfr.
D’ANIELLO 1991; DE FEO 1991; MAURO
1999; BRACA 2000; VALITUTTI - VISENTIN
2007.
3
D’ANIELLO 1991, p. 49; BRACA 2000, p. 33.
4
Sull’analisi dei due cicli e sull’ipotesi di
datazione del primo ciclo al X-XI sec. e del
secondo ciclo alla fine del XII - inizi del
XIII sec. cfr. MAURO 1999 e VALITUTTI VISENTIN 2007. Sulla datazione al X-XI
sec. degli affreschi cfr. D’ANIELLO 1991 e,
infine, sulla datazione del primo ciclo al
sec. XI e del secondo ciclo ai primi decenni
del sec. XIII cfr. BRACA 2000.
5
Sull’identificazione di Santa Radegonda
cfr. D’ANIELLO 1991, p. 49.
6
Su san Nicola cfr. DEL RE 1967, CIOFFARI
1997, BACCI 2006, BACCI 2009.
7
Sull’affresco di san Nicola e san Giorgio
nella Chiesa di San Pietro a Corte cfr.
MOLES 2011.
8
Sulla croce dei martiri cfr. UNDERWOOD
1966, 1, p. 154.
9
Sono, altresì, presenti un altro san Giorgio
con Vergine col Bambino ed un altro san
Nicola sempre con Vergine col Bambino,
provenienti dalla stessa cripta. Sull’analisi
degli affreschi della Chiesa di Santa Maria
degli Angeli nel Museo del Poggiardo cfr.
LUCERI 1933.
10
Sono, inoltre, da considerare, anche se
ridotti in pessimo stato, gli affreschi della
Chiesa dei S.S. Stefani a Vaste (LE), risalenti a due cicli del X-XI sec. e del XIV sec.,
con Santi vescovi tra cui san Nicola seguito
da altri due santi di difficile interpretazione,
forse san Giorgio e san Demetrio; della
chiesa rupestre di Santa Margherita a
Mottola (TA), dove su una parete è rappresentato un episodio del ciclo della vita di
san Nicola (XI-XII sec.) e su un’altra san
Giorgio con altri Santi (affreschi purtroppo
in gran parte sbiaditi). Sulle chiese rupestri
in Puglia cfr. FONSECA 1970; GENTILE
1987;
CHIONNA
1988;
FALLA
CASTELFRANCHI 1991; DELL’AQUILA MESSINA 1998; LAVERMICOCCA 2001. Di
rilievo sono anche gli affreschi della Grotta
1
2
dei Santi di Cava d’Ispica (RA) con più di
trenta Santi (affreschi in gran parte danneggiati che non permettono di stabilire quali
appartengano al periodo premusulmano e
quali alla ripresa del culto bizantino) tra cui
san Giorgio e san Teodoro (riconoscibili
per la didascalia), san Nicola (del cui nome
sono riconoscibili alcune lettere) ed ancora
san Demetrio (di cui si leggono solo due
lettere) e san Nestore con armatura, spada e
lancia. Sulla Grotta dei Santi a Cava d’Ispica
(AGNELLO 1951; ID. 1962; DI STEFANO
1986; ID. 1997; RIzzONE - SAMMITO 2003).
11
Sulla Chiesa della S.ma Annunziata di
Minuta di Scala cfr. BRACA 2003, p. 193.
12
Sulla Chiesa di Casaranello cfr. PRANDI
1961; PISANò 1989; BUCCI MORICHI 1998.
13
Sul portale del Duomo di Ravello cfr.
BRACA 2003, pp. 179-190.
14
Sui portali di bronzo di Trani e di
Monreale cfr. CARELLA - DI MAGGIO 1973,
BELLI D’ELIA 1980, WALSH 1990.
15
Sui mosaici cfr. CILENTO 2009; sulla
Cappella Palatina cfr. anche BRENk 2010.
16
Nel catino dell’abside centrale domina il
Cristo Pantocratore, in atto benedicente con
Angeli, Arcangeli e Profeti, la Madonna
orante tra gli Arcangeli, gli Apostoli Pietro
e Paolo accompagnati dagli Evangelisti e
nella fascia sottostante altri Apostoli. Sulle
pareti del bema sono rappresentati Santi e
Profeti che, all’altezza della partitura delle
figure absidali, si dispongono su quattro
registri.
17
Nel programma iconografico viene riproposto Cristo benedicente a figura intera, al
cui cospetto figurano Angeli, Profeti e
Apostoli con il gruppo degli Evangelisti.
18
Le pareti, gli archi, gli intradossi, la cupola, il presbiterio sono ricoperti di mosaici
che mostrano la Genesi, la vita di Cristo e
degli Apostoli Pietro e Paolo, Santi, Angeli
e Profeti, in un trionfo di luce che nasce da
milioni di tessere dorate.
19
Nelle chiese di Bisanzio il rispetto del
dogma era assolutamente vincolante sia
nella scelta del programma iconografico sia
nel suo orientamento nonostante l’importanza attribuita dai Bizantini al basileus. I
- 88 -
sovrani normanni, invece, la cui tradizione
di fede era ben diversa da quella bizantina,
non ebbero timore di allontanarsi dal consueto programma iconografico bizantino
per l’esaltazione dei re della terra.
20
L’apice di tutto il ciclo coincide, ancora
una volta, con le immagini di Cristo
Pantocratore e della Madonna, circondati da
gerarchie Angeliche, Profeti, Apostoli e
Santi.
21
Nella cappella di sant’Isidoro di Chio,
dove sono narrate la Passio del Santo,
l’Inventio e la sua Translatio nella Repubblica,
figurano sulla lunetta orientale il Cristo in
trono tra san Marco e sant’Isidoro, sulla
lunetta occidentale la Vergine in trono col
Bambino tra san Giovanni Battista e san
Nicola e tra le due finestre della sala san
Giorgio. I mosaici delle due lunette e san
Giorgio sono più legati alla tradizione iconografica bizantina, mentre le narrazioni
delle storie di sant’Isidoro risentono di un
maggiore influsso occidentale. Sull’analisi
dei mosaici della Cappella di Sant’Isidoro
cfr. DE FRANCESCHI 2003; per l’immagine
di san Giorgio martire messo a confronto
con il san Giorgio di san Salvatore in Chora
a Istanbul del XIV sec. cfr. ID., Ibid., p. 13.
22
Sui tesori del Monastero di Santa Caterina
del Monte Sinai cfr. EVANS 2004.
23
Sempre solo a titolo esemplificativo illustro alcune icone russe conservate nella
Galleria Tretyakov a Mosca, nelle quali si
può riscontrare l’ampia diffusione del programma iconografico bizantino in cui san
Nicola è presente insieme a san Giorgio e
ad altri Santi martiri guerrieri. Nell’icona
Salvatore sul trono con Santi della seconda
metà del XIII-XIV secolo, di ambito novgorodiano, il Salvatore è incorniciato lateralmente dalle figure di san Giorgio e san
Demetrio di Tessalonica, san Clemente
papa e sant’Ignazio, il profeta Elia e san
Nicola. Nell’icona Nicola con Déesis e Santi
scelti della Chiesa di San Leontij a Rostov del
XV secolo, san Nicola è, ancora una volta,
attorniato ai lati da Apostoli, Santi vescovi e
Santi martiri: san Pietro, san Paolo, san
Basilio, san Gregorio il Teologo e i megalo-
MARIO MOLES
martiri san Demetrio, san Giorgio, santa
Parasceve, santa Caterina, san Giuliano,
sant’Eustachio e forse santa Barbara.
L’icona può essere considerata come un’immagine teofanica: un pántheon di intercessori nella preghiera all’inizio del Giudizio
Universale. San Nicola taumaturgo e i ranghi dei Santi martiri, con le scene della preghiera della Madre di Dio, di Giovanni il
Battista e degli Arcangeli Michele e
Gabriele alla presenza di Cristo
Pantocratore, producono un’immagine
sacra nella quale si assommano forze spirituali apotropaiche (BACCI 2006, p. 231).
Nell’icona Natività della Madre di Dio con
Santi del XIV-XV secolo di Novgorod, la
Madonna è sormontata da san Nicola e il
profeta Elia con accanto i Santi martiri, san
Demetrio e san Giorgio (NORIS UCHANOVA 2009). In un’altra icona Miracolo
di san Giorgio e il drago del XV-XVI secolo, si
trova sullo sfondo, nell’angolo in alto a sinistra, san Nicola che benedice san Giorgio
nel posto in cui generalmente si raffigura
Cristo benedicente. Nella simbologia della
teologia ortodossa il Santo di Myra in abiti
vescovili rappresenta l’incarnazione del
Figlio di Dio (cfr. BACCI 2006, p. 232). In un
altro gruppo di icone prodotte a Pskov, raffiguranti la discesa agli inferi, cioè la resurrezione di Cristo nella tradizione ortodossa,
san Nicola è rappresentato sul margine
superiore al centro della schiera di Santi tra
la Vergine e un Santo martire (forse san
Giorgio) con il probabile ruolo di intermediario nel passaggio all’aldilà (cfr. l’icona
Discesa agli inferi e san Nicola al centro di una
sequenza di santi, fine del XIV secolo, San
Pietroburgo, Museo Russo), ruolo che nella
tradizione europea occidentale apparteneva
all’apostolo Pietro. Queste immagini erano,
dunque, caratterizzate da un significato
funerario, in quanto alludevano alla futura
resurrezione dei morti. Può darsi che la
funzione di Nicola come principale intercessore per i defunti presso Dio abbia
determinato la collocazione delle sue immagini e dei suoi cicli agiografici negli ambienti annessi al lato sud degli edifici sacri (come
le cappelle laterali del bema o diakonikà), nei
quali si officiavano le cerimonie funebri
(cfr. BACCI 2006, p. 83). A tal riguardo è
interessante rilevare che anche a Santa
Maria de Lama è stato raffigurato san
Nicola ed il Santo martire sulla parete meridionale.
24
Le figure sulla cornice rappresentano l’idea del regno dei Cieli e la gerarchia di
Santità della Chiesa ideale, il cui vertice è
Cristo Pantocratore. Il Santo vescovo
Nicola rappresenta una delle massime
espressioni dell’ordine sacerdotale consacrato da Cristo attraverso gli Apostoli; è
difensore della fede e sta accanto ai Santi
soldati e, in forza dei miracoli compiuti, è
un Santo taumaturgo come altri Santi taumaturghi. In questo modo san Nicola viene
glorificato in tutte le principali manifestazioni della sua Santità. Sulle icone cfr. BACCI
2006, p. 205.
25
ID., Ibid., p. 210; p. 113 per l’affresco di
San Nicola tra i Santi Antonio Abate, Onofrio,
Giorgio (inizio XV sec.) nella Chiesa di
Santo Stefano a Soleto (LE).
26
Si tratta di una cassetta d’argento dorato
costituita da una teca porta-reliquie con un
altro reliquario di precedente realizzazione
montato in foggia di croce a doppia traversa che custodisce sette frammenti della Vera
Croce e protetto da un coperchio a scorrimento. Sulla stauroteca di Limburg an derLahn cfr. GINNASI 2009, pp. 97-108 (per le
fotografie cfr. pp. 101-103).
27
L’insieme decorativo più rilevante della
stauroteca è la Déesis la cui unità compositiva, concepita secondo regole di simmetria,
mostra Apostoli ed Evangelisti, che fanno
da corona alla scena principale, proteggendola in modo analogo al ruolo difensivo
svolto dai Santi Vescovi e dai Santi guerrieri.
28
Altro esempio è la famosa illustrazione al
foglio 3r. del Salterio di Basilio II, codice
Gr. 17, custodito presso la Biblioteca
Nazionale Marciana di Venezia e databile
attorno all’anno 1000, che mostra l’immagine del Basileus in vesti militari affiancato da
sei ritratti di Santi guerrieri collocati, tre per
- 89 -
lato a difesa della rappresentazione centrale.
Le due opere sono accomunate dalla presenza dei medesimi Santi militari: sulla pagina veneziana, tra gli altri, grazie alle iscrizioni si riconoscono Teodoro, Demetrio e
Giorgio, ossia tre figure su cinque (quella in
basso a sinistra non conserva la relativa
legenda) riconducibili anche al programma
iconografico della stauroteca. Sul salterio di
Basilio II cfr. GINNASI 2009, pp. 107-108.
29
Sulla Pala d’oro cfr. HAHNLOSER POLACCO 1994.
30
Sui trittici in avorio cfr. FLAMINE 2010,
pp. 140-147.
31
Ad es. nel trittico dei Musei Vaticani nel
verso accanto a san Nicola c’è sant’Agatonico
martire e non san Severiano (fig. 14), mentre
alle sue spalle c’è san Demetrio martire con
accanto sant’Eustrazio e non san Procopio,
nel recto, invece, i santi guerrieri sono
Teodoro Tirone e, forse, Eustachio, Teodoro
Stratilate e Giorgio (fig. 15). Per altre differenze cfr. FLAMINE 2010, pp. 144-145.
32
Nel trittico del Cabinet des médailles i Santi
raffigurati all’interno dei tondi sulle valve
sono i Profeti Elia e Giovanni Battista, gli
Apostoli Pietro e Paolo, i martiri Stefano e
Pantaleone, i Vescovi Giovanni Crisostomo
e Nicola, i Santi taumaturghi Cosma e
Damiano. Nel ‘trittico Borradaile’ nella
valva sinistra sono rappresentati i Santi
Ciro, Giorgio e Teodoro Stratilate, Mena e
Procopio; in quella di destra i Santi
Giovanni, Eustachio e Clemente di Ancyra,
Stefano e kyrion.
33
Sul Cabinet des médailles conservato nella
Bibliothèque nationale de France di Parigi, sul
‘trittico Borradaile’ del British Museum e sulla
piccola valva di sinistra di un trittico eburneo, conservata nel Départment des objets d’art
del Louvre, cfr. FLAMINE 2010, pp. 145-147
(per le fotografie cfr. pp. 138-139).
34
Su San Giorgio cfr. BALBONI - CELLETTI
1965; BALBONI 1983; kAFTAL 1986; DE’
GIOVANNI - CENTELLES 2004; GIORDANO
2005; ONETO 2009.
35
Cfr. anche san Demetrio nella Chiesa di
Santa Maria Antiqua a Roma (VII sec.) e in
San Luca in Focide (XI sec.).
SALTERNUM
Cfr., a titolo esemplificativo, l’icona de I
Santi Giorgio, Teodoro e Demetrio, XII sec.,
Ermitage, San Pietroburgo; il mosaico di san
Mercurio, XII sec., Cappella Palatina,
Palermo; l’affresco di sant’Eustachio, XIXII sec., Cripta di Sant’Eustachio, Matera.
37
Cfr. l’affresco di san Nestore, XIII sec.,
Castello normanno di Paternò (CT) e l’icona san Procopio e la Vergine, 1280 ca.,
Monastero di Santa Caterina, Monte Sinai,
con san Teodoro e san Giorgio ai margini
laterali inferiori di san Procopio e con san
Nicola al margine laterale centrale destro
della Vergine.
38
Sull’iconografia dei santi cfr. kAFTAL
1986.
39
Crf san Severiano accanto a san Nicola
nel trittico ‘Harbaville’ verso, metà X sec.,
Museo del Louvre.
40
Egli era un medico del II-III secolo d.C.,
che fin dall’antichità godette di un vasto
culto sia in Oriente sia in Occidente, al pari
dei santi Cosma e Damiano coi quali divise
nella rappresentazione agiografica il model36
lo martiriale e taumaturgico di Santi medici
“anargiri” e molti tratti leggendari stereotipi al pari di altri Santi intercessori.
41
Cfr., a titolo esemplificativo, san Pantaleone,
X-XI sec., Catacomba di Nicomedia; l’affresco di san Pantaleone, XI-XII sec., Monastero
di Veljusa, Macedonia; l’icona di san
Pantaleone con scene della sua vita, XIII sec.,
Monastero di Santa Caterina, Monte Sinai.
42
I vescovi di Ravello incominciarono a
donarne piccole quantità ad altre comunità:
così nacquero le ampolle (molto più piccole)
conservate a Costantinopoli, a Montauro
(Cz), a Martignano (LE), a Caiazzo(CE), a
Vallo della Lucania (SA), nel Monasterio de la
Encarnación di Madrid.
43
Per il culto di san Pantalone a Ravello cfr.
IMPERATO 1970; BUONOCORE 2008.
44
Sugli amalfitani deportati a Salerno nel X
e XI secolo per volere di Sicardo, principe
longobardo, cfr. VALITUTTI - VISENTIN
2007 nel paragrafo Il vicus Amalphitanorum.
45
DELOGU 1977, pp. 141-142.
46
D’ANIELLO 1991, p. 56.
- 90 -
VALITUTTI - VISENTIN 2007.
La datazione trova fondamento sia nello
stile pittorico sia in alcuni stilemi come le
decise ombreggiature che segnano i lineamenti dei volti, i pesanti panneggi e la mancanza di volumetria dei corpi.
49
Cfr. MOLES 2011.
50
CIOFFARI 1997, p. 223.
51
Per la bibliografia su san Nicola e san
Giorgio cfr. note 6 e 34.
52
MALATERRA 2002.
53
Accadde che, nell’anno 1098, durante una
delle più furiose battaglie, i cavalieri crociati e i condottieri inglesi vennero soccorsi dai
Genovesi i quali ribaltarono l’esito dello
scontro e consentirono la presa della città,
ritenuta inespugnabile. Secondo la leggenda
il martire si sarebbe mostrato ai combattenti cristiani in una miracolosa apparizione
con un gruppo di cavalieri (tra cui San
Mercurio e San Demetrio) su cavalli bianchi, sventolanti bandiere in cui campeggiavano croci rosse in campo bianco
(NAPOLITANO 2004, p. 79).
47
48
MARIO MOLES
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NIDIA YANETH GARCIA*
- CARMEN GENTILE** - MAURIZIO PALMISANO***
L’arte della tessitura dei Guane.
Trama, voglia o passione?
Abbiamo ricostruito il paesaggio culturale Guane, così
come il suo territorio, a partire dalle fonti storiche,
archeologiche ed ambientali. I Guane furono abitanti
delle montagne andine della cordigliera orientale di
Santander dell’attuale Repubblica colombiana. In questo territorio è possibile incontrare una varietà di ecosistemi e tre fiumi che lo conformano ineluttabilmente: il Suárez, il Fonce e il Chicamocha. I nostri studi possono confermare, supportati dalle fonti bibliografiche,
che i Guane erano caratterizzati da un livello sociale di
confederazione di cacicazgos (dipartimenti), governati
da un cacique principale (capo indigeno) chiamato
Guanentá che viveva nell’area della Mesa de Geriras,
attuale Mesa de Los Santos (fig. 1), nella zona settentrionale del territorio Guane dove aveva tre residenze. I
caciques minori altrettanto avevano le proprie dimore
però queste avevano una dimensione inferiore.
I Guane avevano un modello di insediamento
misto: disperso ed a nuclei. Nel primo, costruivano le
proprie dimore su terrazze artificiali a metà del pendio, in prossimità delle fonti d’acqua, sui terreni meno
scoscesi e stabili, lì dove si incontravano i terreni più
fertili e generosi per le coltivazioni; in alcuni casi
costruivano sistemi di canalizzazione delle acque onde
Introduzione
Guane furono il gruppo sociale più rappresentativo dell’attuale Dipartimento di Santander che gli
Spagnoli incontrarono al momento della conquista avvenuta nel 1540. I Guane appartenevano ‘ai pagani organizzati’, costituenti quelle società complesse
nelle quali la religione adorava il dio sole. Questa
popolazione, oggi scomparsa, abitò la regione andina
santandereana e il numero di indigeni che la componeva diminuì rapidamente mano a mano che l’impatto
della colonizzazione ed il processo di mescolamento
fra le razze aumentavano. Furono essenzialmente agricoltori, colonizzarono la regione occupandola sia orizzontalmente che verticalmente arrivando ad abitare
anche ad altezze elevate sfruttando così i diversi ‘piani’
climatici e ricavando in tal modo il massimo profitto
dalla coltivazione delle terre integrando il tutto con
una gestione oculata e corretta delle risorse idriche e
dei suoli disponibili.
Il territorio Guane fu colonizzato nella sua totalità,
nonostante la scarsità di oro e altri metalli preziosi che
caratterizzava la regione. Gli Spagnoli occuparono
lentamente il territorio iniziando così il processo di
trasformazione del paesaggio a partire dalla fondazione di piccoli villaggi, realizzazione di strade, creazione
di piccole comunità, di fattorie, introducendo piante
ed animali del vecchio mondo, la religione cattolica ed
il sistema legale e razziale tipico dei colonizzatori.
Oggi purtroppo di questo antico, operoso e nobile
popolo quasi non è rimasta traccia, se non in qualche
piccolissimo e remoto insediamento (fig. 3).
I
Brevi note sul popolo Guane
L’analisi della formazione del paesaggio culturale
nell’area Guane, inizia con l’analisi del paesaggio precedente la conquista. E’ necessario comparare i cambiamenti per stabilire le similitudini e le differenze.
Fig. 1 - La Mesa de los Santos (PALMISANO 2008).
- 93 -
SALTERNUM
Pratica diffusa nel popolo Guane era la mummificazione dei propri defunti, ciò veniva effettuato avvolgendoli in triplici strati di mantelli di pregiata manifattura, finemente lavorati e disegnati. Le mummie erano
avvolte generalmente in due coperte di cotone più
interne e poste a contatto con il cadavere e infine da
una terza posta più esternamente e realizzata in fique,
una fibra vegetale molto resistente. Il tutto formava
un efficace involucro protettivo in grado di conservare alla perfezione i defunti.
Nella Cueva de los Indios individuata nella Mesa de los
Santos, uno dei siti più grandi ed importanti dell’archeologia precolombiana Guane, sono state trovate
numerose mummie (fig. 4), molte intatte, che hanno
permesso di ricostruire alla perfezione tale pratica oltre
che collezionare numerosi e bellissimi tessuti.
La varietà topografica e climatica dell’area abitata
dai Guane generava diversi ecosistemi, questi furono
sapientemente utilizzati per ottenere risorse differenti.
In ciascuno di questi ecosistemi, i Guane usufruirono
delle risorse disponibili di fauna, flora, acqua, suoli,
minerali, ecc. sempre rispettandone l’essenza naturale,
infatti, nonostante l’intenso sfruttamento dovuto alla
numerosa popolazione residenziale, non si è verificato
un depauperamento del sistema ma il tutto è stato
‘usato’ secondo uno sfruttamento ecosostenibile.
Numerosi rilevamenti sono stati effettuati nell’area di
studio al fine di realizzare una mappatura in grado di
confrontare lo stato attuale dell’area con quella che
doveva essere al tempo dell’arrivo degli Spagnoli.
Attualmente le città di Cabrera, Barichara, Guane,
Villanueva, San Gil, Pinchote e Los Santos insistono su di
Fig. 2 - Entrata alla Cueva de los Indios (PALMISANO 2008).
evitare che la terra, a causa delle condizioni climatiche
spesso proibitive, si inaridisse eccessivamente. Nel
modello a nuclei i Guane realizzavano insediamenti circoscritti, perlopiù nelle pianure, dove vivevano i caciques:
qui le case venivano realizzate in prossimità di fonti
d’acqua dolce, dei campi coltivati e dei boschi ove raccogliere legna, frutti e cacciare selvaggina. Praticavano
altresì la tecnica della roza y quema (taglia e brucia), ossia
aprivano varchi nell’erba alta della selva, successivamente la incendiavano e con le ceneri fertilizzavano la terra.
Costruivano strade per collegare i diversi insediamenti, per favorire scambi commerciali e consentire
spostamenti di uomini e materiali. Queste strade erano
solitamente realizzate sulle creste delle montagne da
dove discendevano seguendo percorsi a ‘zigzag‘ fino
agli insediamenti. Altresì realizzavano percorsi ripidissimi per giungere alle grotte ove erano custoditi i loro
defunti (fig. 2), o per rifugiarsi e difendersi dai nemici
e successivamente dagli Spagnoli.
Fig. 3 - Villaggio Chibcha di Choachí, Dipartimento di Cundinamarca (PALMISANO 2009).
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NIDIA YANETH GARCIA
- CARMEN GENTILE - MAURIZIO PALMISANO
un territorio popolato a bosco secco tropicale che lascia
il passo, all’aumentare dell’altitudine, ad un bosco secco
premontano; subito notiamo la discordanza con quanto riportato dai cronisti spagnoli dell’epoca, i quali parlavano di una zona denominata lomerío (alta collina) ove
erano presenti numerose fonti d’acqua sotterranee e
ottima argilla per la costruzione di mattoni; questa zona
era la più popolata ed è quella che propriamente fu
chiamata guane dai colonizzatori.
Studi ambientali hanno dimostrato che la zona ha
subito profondi processi di alterazione, sicuramente
antropici, e storicamente iniziati con l’arrivo degli
Spagnoli e continuati sino ai giorni nostri. I suoli subirono un rapido impoverimento dovuto ad un’indiscriminata deforestazione, ciò portò inesorabilmente ad
una maggiore vulnerabilità del territorio a causa delle
forti piogge, del vento e delle alte temperature dominanti sull’area; ciò provocò anche una diminuzione del
quantitativo di acqua disponibile. Le mappe realizzate
dagli Spagnoli, all’epoca del loro arrivo, mostrano il
sovrappopolamento dell’area, eppure nonostante questa occupazione intensiva del territorio gli indigeni
vivevano in perfetta armonia con la madre terra; in
seguito le cose cambiarono… è emblematico il caso
della laguna di Barichara, che dopo l’arrivo degli spagnoli in breve tempo si prosciugò completamente.
In queste aree i Guane si dedicavano alle proprie
attività principali come l’agricoltura, la pesca e la caccia, tra le specie coltivate spiccava il mais, la patata, i
fagioli, la yucca, la zucca, il cotone, il cacao, il tabacco,
il peperoncino piccante ed il fique, una fibra vegetale
molto resistente. Pesce e selvaggina erano molto
abbondanti contribuendo a fornire un adeguato
sostentamento a questa numerosa popolazione.
I Guane conoscevano ed usavano un calendario
molto preciso (PALMISANO 2010) che permetteva loro
di regolare perfettamente i cicli di semina e raccolto, in
tal modo effettuavano due raccolti l’anno di mais e
cotone.
La coltivazione del cotone per la fabbricazione di
svariati manufatti è uno degli aspetti più conosciuti e
caratterizzanti del popolo Guane. I loro indumenti, le
borse, i cappelli, le coperte e soprattutto i loro mantelli erano molto elaborati, alcuni erano bianchi, altri
erano tessuti in diversi colori e motivi elaborati raffiguranti splendidi disegni. Questi mantelli erano impiegati sia per vestirsi sia come merce adoperata per
acquistare altri beni.
Fig. 4 - Mummia Guane (dal caveau del Museo del Oro di Bogotá, PALMISANO 2009).
La qualità dei filati e dei pezzi tessuti incontrati in
tutta l’area comprendente le regioni di Cundinamarca,
Boyacá e Santander, evidenzia che il cotone occupò un
posto distaccato nella società precolombiana.
Altra fibra molto importante incontrata nei tessuti
Guane e Muisca era il fique, una pianta originaria
dell’America tropicale, da sempre legata con la vita
contadina colombiana.
Al contrario del cotone, il fique non fu relazionato
all’uso personale, però fu legato, come lo è ancora
oggi, alla realizzazione di cordami, strumenti ed una
grande varietà di borse.
Infine, una terza fibra utilizzata fu il capello umano,
filato per la realizzazione di meravigliosi copricapo e
tessuti mediante l’impiego di aghi di legno.
Successivamente, con l’arrivo degli Spagnoli, arrivarono anche le pecore e con esse la lana, che risultò
di grande utilità in particolare nelle regioni alte e fredde; il cotone pertanto, fu poco a poco sostituito dalla
lana.
L’arte della tessitura per il popolo Guane raggiunse
livelli di perfezione e di elaborazione tali da diventare
quasi un simbolo, un modello da ostentare nelle cerimonie importanti, da utilizzarsi come alti tributi, addirittura come merce di scambio per acquistare oro e
smeraldi; i colonizzatori impararono presto ad apprezzarne il valore tanto da utilizzarli sempre più frequentemente.
Le tecniche della filatura, della tessitura e della
colorazione dei capi prodotti, raggiunse livelli molto
sofisticati, i Guane, è universalmente riconosciuto,
furono coloro che posero le basi dell’industria santandereana, fiore all’occhiello della moderna industria tessile colombiana.
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SALTERNUM
confina a oriente con i rilievi della Sierra Nevada del
Cocuy che separa questa regione con le pianure
Orientali, a Occidente con la regione del Carare-Opón
e della valle del Magdalena e infine a Nord con i rilievi
andini denominati páramos di Santurban; in quest’area è
compresa la nostra zona di studio.
Area di studio
L’area di studio comprende il territorio ove si insediò e abitò questa popolazione precolombiana; in pratica risulta essere ubicata tra la valle del fiume Frio, la
Mesa de los Santos e Piedecuesta. In quest’area attualmente risiedono alcune città importanti come Bucaramanga,
Piedecuesta e Floridablanca, purtroppo l’alta urbanizzazione attuale del territorio nonché l’esiguità dei fondi
disponibili ha limitato moltissimo l’estensione degli
scavi archeologici, compromettendo in tal modo la
piena caratterizzazione dell’area.
Fonti bibliografiche (HERRERA 2006) citano che,
durante l’epoca coloniale, gli spagnoli quasi sempre
rispettarono l’origine degli indigeni, in particolare
quando necessitava traslocarli in un luogo diverso da
quello di origine, rispettando in tal modo ‘la loro
nazione’, ossia la loro provenienza e il loro territorio,
configurando così l’ordine regionale del territorio
colombiano. Gli indigeni dovevano essere traslocati
rispettando le condizioni fisiche, climatiche e territoriali al fine di evitarne infermità e consentendo il loro
nuovo posizionamento in prossimità di altri gruppi
che parlavano il medesimo idioma al fine di evitare
conflitti.
I limiti occidentali del territorio Guane si estendono sino al limite occidentale del fiume Suárez, fino alle
alte cime della Serranía de los Cobardes; dal lato orientale, il limite stabilito tradizionalmente è posizionato
nella valle del fiume Chicamocha; purtroppo questi limiti geografici risultano approssimati poiché le fonti storiche sono imprecise a riguardo, infatti, la similitudine
tra i Guane ed i Muisca, popolazioni ambedue appartenenti al medesimo ceppo di etnia Chibcha, fa sì che i
limiti geografici caratterizzanti gli insediamenti dei due
gruppi, spesso si intersecano fornendo informazioni
sbagliate sulle rispettive aree topografiche.
Ciò ha fatto sì che i territori ritenuti un tempo
appartenenti ai Guane erano invece di chiara etnia
Muisca e viceversa; fortunatamente le differenze di stili
di vita tra le due popolazioni e la particolare inclinazione di un gruppo rispetto all’altro per la dedizione a
forme di artigianato diverse ha permesso di effettuare
una demarcazione più chiara delle rispettive aree tipiche d’insediamento. Quindi è stato possibile definire
con maggiore precisione il territorio dove i Guane abitarono, territorio che comprende le valli dei fiumi
Chicamocha, Suárez, Fonce e Lebrija che separano gli altipiani di Barichara, Los Santos e Bucaramanga, quest’area
Risultati e discussione
Nei tessuti realizzati dal popolo Guane, si incontrano differenze non solo nella forma, ma anche nella
funzione e nel contenuto espressivo e simbolico,
mediante i quali è possibile analizzare, grazie uno studio approfondito dei contenuti, le varianti caratterizzanti ciascuna cultura.
Per la comprensione dell’universo della tessitura, è
possibile stabilire tre differenti gruppi: il primo composto dai vestiti incluso il copricapo, le coperte, i mantelli, i pantaloni, le fasce; il secondo, per i beni utili
della casa come l’amaca, le coperte, i tappeti, i cesti e
le borse; il terzo, infine, per gli strumenti come le
bisacce, le trappole e le reti da pesca.
La bellezza di questi tessuti, come gia detto, fu
valorizzata dai conquistatori, i quali ammirandone la
qualità, inviarono ripetutamente esemplari ai Reali di
Spagna come regalo di grande stima.
I tessuti realizzati dai Guane si differenziavano
sostanzialmente in due tipi: i dipinti ed i decorati.
I primi erano caratterizzati da coperte di grandi
dimensioni, di colore bianco o crema, con settori
colorati in rosso. I colori venivano applicati mediante
l’impiego di rulli, timbri e pennelli.
Generalmente le tele Guane erano costituite da una
parte centrale più ampia e da due laterali molto simili
e di dimensioni ridotte.
Le tele del secondo tipo, denominate ‘colorate’,
erano realizzate con tecniche più complesse, grazie ad
un gioco di fili, precedentemente tinti, che producevano motivi artistici a carattere prevalentemente geometrico oltre che figure zoomorfe ed antropomorfe.
Per realizzare disegni complessi i Guane adoperavano nell’ordito del telaio fili di diverso colore, alternandoli durante la fase della tessitura. Questo era possibile grazie all’uso di orditi complementari, in altre parole, impiegavano due set suppletivi di ordito di tinta differente. In questo modo facevano sì che un colore
predominasse su un lato della tela, mentre l’altro predominava sul lato opposto. Il disegno quindi risultava
visibile su ambedue le superfici, in forma negativa e
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NIDIA YANETH GARCIA
- CARMEN GENTILE - MAURIZIO PALMISANO
positiva, ad esempio rosso su fondo crema e
crema su fondo rosso.
I colori impiegati per tingere i propri
tessuti erano tutti di origine vegetale e
minerale e, opportunamente miscelati
tra loro, davano origine ad un’ampia
gamma di colori.
Il colore più diffuso nei mantelli
era il marrone ottenuto da sangue animale ed un rosso più chiaro ottenuto dall’asfodelo, una pianta della famiglia delle
Liliaceae. Impiegavano varie tonalità di verde impiegando foglie di vite o gemme di alberi di diversa specie.
I toni azzurri erano estratti dai fiori del frutto della
passione e delle patate, oltre che dai semi di avocado;
il giallo era ottenuto dalle radici di zafferano, dai semi
dell’annatto (Bixa orellana, pianta tropicale). Infine il
rosso, meno frequente incontrato, che era estratto dal
cactus spinoso e mescolato alla cocciniglia oppure
estratto dagli ossidi delle terre rosse.
Tutti questi colori ovviamente necessitavano essere fissati ai tessuti, a tale scopo i Guane utilizzavano
alcuni mordenti come la calce spenta o l’estratto di
avocado; per ottenere una colorazione nera ponevano
le tele a fermentare nel fango.
Nel realizzare i mantelli, introducevano fili di ordito colorati, generalmente in marrone scuro, tali fili formavano stretti raggi i quali erano destinati a delimitare le aree da colorare successivamente.
I procedimenti impiegati per ottenere tessuti di alta
qualità contemplavano l’uso di telai verticali, aghi in
legno, cotone ritorto, intessuto e colorato.
Ordito e trama, i due elementi fondamentali che
costituiscono il tessuto, erano abilmente maneggiati
sostenendo le fibre in un telaio di legno formato semplicemente da quattro assi unite perpendicolarmente
fra loro.
Questo telaio rudimentale, utilizzato prevalentemente in posizione verticale appoggiato ad una parete, era talvolta impiegato anche in posizione orizzontale a livello del pavimento o, obliquamente, agganciato alla cinta. Questi telai erano completati da altri elementi fondamentali come i volani, i separatori e le
mazze, costruiti in legno duro o pietra solitamente
decorati, oltre a delle piccole asticelle, realizzate in
osso, impiegate per separare l’ordito. Questi oggetti
erano poi decorati con bellissimi motivi ornamentali,
Fig. 5 - Un volano Guane.
geometrici e non, quasi a sottolinearne l’importanza e valorizzarne l’uso,
erano i soli oggetti che, gelosamente
custoditi, venivano tramandati alle
generazioni successive.
L’insieme di tutti questi oggetti,
abilmente maneggiati, diede come risultato la gamma vastissima di tecniche di tessitura incontrate nel più antico popolo di tessitori al
mondo.
Tra le tecniche più diffuse abbiamo quella della red
sin nudos o anillado, quella dell’anudado e quella dello
sprang entrelazado o entrelazado reciproco.
La red sin nudos, era realizzata facendo compiere al
filo un giro completo ed una croce i quali, ripetendosi
orizzontalmente tante volte, consentivano di ottenere
la larghezza desiderata; ogni ciclo completo era poi
unito a quello precedente e così via.
La tecnica dell’anudado, si praticava grazie l’impiego
di un piccolo bastoncino di legno, o mediante le dita
stesse, facendo in modo che il filo venisse passato
all’interno di ciascun nodo. Si formava così una fila di
anelli nei quali andava ad inserirsi la fila successiva di
nodi. Questo assicurava che tutti gli anelli fossero della
medesima ampiezza e che la maglia si formasse senza
irregolarità.
Infine lo sprang entrelazado o entrelazado reciproco,
termine di origine scandinava, indicava la tecnica di
tessitura che consisteva nel legare l’insieme dei fili
utilizzati ad entrambe le estremità, in tal modo la tessitura da un estremo si ripeteva in maniera speculare
dall’altro.
L’uso di più fili, torcendoli nel verso opposto a
quello iniziale, consentiva di ottenere filo a due capi
molto più resistenti. La torsione poteva essere destrorsa o sinistrorsa; nei Guane i fili realizzati erano prevalentemente sinistrorsi a differenza di quelli realizzati
dai Muisca che, invece, erano destrorsi.
L’insieme di queste tecniche, tramandate di generazione in generazione e gelosamente custodite, consentiva di realizzare il tessuto. Il tessuto, unione di fibre,
incontro di fili, incontro di mondi, unione di uomini.
Il tessuto come attività umana, come esperienza integrale di vita, come pensiero che relaziona l’ambiente
con le esigenze fisiche e spirituali che l’uomo speri-
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SALTERNUM
menta, condivide e trasforma in oggetti utili ed estetici, unendo le conoscenze teoriche acquisite nel tempo
a quelle dei retaggi storici frutto delle esperienze della
comunità; è una struttura tradizionale che svolge un
ruolo chiave nelle tribù indigene della Colombia.
Le tecniche ancestrali comprendono nodi, legami,
connessioni ed intrecci di fibre naturali che interagiscono con il lavoro compiuto manualmente dando
vita all’oggetto tessuto, dove ogni artefatto diventa
espressione materiale caratteristica di ciascuna cultura.
Il tessuto, come creazione umana risponde ad un
sentimento, ad una ragione spirituale e ad una necessità fondamentale di sopravvivenza; gli oggetti tessuti
sono impiegati per procurarsi cibo, attraverso una rete
o un canestro, per vestire si tessono coperte, mantelli
e ruanas, per trasportare e conservare si utilizzano cesti
e mochilas, per riposare si realizzano amacas, per proteggersi, sognare e condividere si costruiscono le malocas.
L’oggetto tessuto è un simbolo, all’interno del contesto socio culturale nel quale esso vede e svolge la sua
funzione di segno; è un linguaggio, non verbale,
mediante il quale si compie la connessione integrale
tra la natura, il mito, l’uomo, la società e l’oggetto stesso che, come manifestazione materiale, integra la sua
struttura ed il suo contenuto per far parte della vita
quotidiana di ogni comunità.
La diversità si presenta nelle diverse espressioni
materiali che si concretizzano intorno al tessuto, dive-
Fig. 6 - Tessuto Guane (dal caveau del Museo del Oro di Bogotá, Palmisano 2009).
nendo espressione di ciascun gruppo umano secondo
le sue conoscenze ancestrali, il suo ambiente e le sue
esigenze e come unità tra le diverse tribù indigene
della Colombia che condividono l’arte della tessitura,
l’attitudine nel tessere, nell’arte di incrociare fibre, fino
ad evidenziare come l’impiego del tessuto, legato al
corpo ed al pensiero delle culture indigene, dia testimonianza della sua vita e dei suoi costumi.
In questo contesto è stato realizzato il presente
lavoro, ovvero con lo scopo di riconoscere e certificare la cultura precolombiana Guane come la progenitrice dell’arte tessile colombiana, unica al mondo per la
qualità dei tessuti e per l’unicità dei meravigliosi disegni (fig. 6).
- 98 -
NIDIA YANETH GARCIA
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GIUSEPPE LAURIELLO
A proposito di un raro reperto chirurgico:
il set per intubazione laringea O’Dwyer-Egidi
S
trumentario di interessante valore storico e
medioevo (Paolo d’Egina, VII sec.)4 e agli inizi dell’età
didattico per studenti di medicina e specializmoderna (Ambroise Paré, 1510-1590)5 con dubbi risultati e quale estrema possibilità di salvare una vita, anche
zandi ORL, oltre che per cultori della disciplina,
perché presa in considerazione all’ultimo momento e
è un raro set da intubazione laringea O’Dwyer-Egidi,
quindi ad altissimo rischio, la tracheotomia assume
conservato presso il Museo ‘Roberto Papi’ di Salerno,
dignità di vero intervento chirurgico solo dopo le granla cui datazione può essere fissata tra la fine dell’ultidi scoperte anatomiche susseguitesi da Andrea Vesalio
mo decennio del XIX secolo e i primi anni del XX,
(1514-1564)6 in poi. Per citare qualche nome, basta
considerata l’introduzione del metodo O’Dwyer nel
ricordare Bartolomeo Eustachio (1510-1574)7,
1885, la versione Egidi nell’89 e l’epoca in cui ha iniGirolamo Fabrici d’Acquapendente (1533-1616)8,
zio la diffusione della lotta immunologica contro la
1
Giulio Casseri (1552-1616)9 e le loro indagini sulla fonadifterite (primo ventennio ‘900).
La difterite, conosciuta in passato con il nome di
zione, condotte con metodo rigorosamente scientifico.
‘squinanzia’, oggi pressoché scomparsa fortunatamenAl Casseri si deve la costruzione di una prima cannula
te su gran parte del pianeta grazie alla provvidenziale
d’argento da inserire in trachea, ed ancora una cannula
profilassi immunitaria2, è stata nei secoli scorsi una
è proposta nel 1625 da Santorio Santorio (1561-1636)10,
malattia di spaventosa incidenza tra i bambini, con
tubi più volte sostituiti da vari altri modelli più o meno
ondate epidemiche, il cui triste ricordo è scritto negli
perfezionati nel corso del secolo XVIII.
annali di storia della medicina; una malattia infettiva,
Tra questi primi operatori va ricordato ancora
acuta, contagiosa, che ha colpito duramente l’infanzia,
Antonio Musa Bresavola (1490-1554)11, la cui memoria del 1546 riporta il caso di un paziente in preda a
esiziale per i danni neuro e miocardiotossici prodotti
un grave ascesso peritonsillare, da lui trattato con tradall’esotossina batterica (Corynebacterium diphteriae) e
cheotomia, in seguito al rifiuto di questi di essere opesoprattutto per la formazione di pseudomembrane
rato da un barbiere chirurgo.
biancastre, dure, tenacemente aderenti alle mucose
A praticare per primo tale intervento su una vasta
interessate, in specie quelle della gola e del laringe e
casistica va citato Marco Aurelio Severino (1580quindi sulla glottide, con difficoltà del respiro ingrave1656)12, che lo applica presso l’oscente fino alla morte per soffocamento (croup).
spedale Incurabili di Napoli nel
La tracheotomia, cioè l’apertucorso di una grave epidemia di
ra di una breccia operatoria nella
difterite scoppiata nel 1610, utitrachea a livello cricotiroideo per
lizzando l’incisione verticale sugconsentire il respiro, è stata nei
gerita da Fabrici, ma con tecnica
secoli scorsi l’unico disperato
piuttosto disinvolta e brutale, da
rimedio ad una morte sicura e
suscitare severe critiche al riguaratroce, che interveniva a concludo.
sione di un decorso orribile.
Un effettivo progresso negli
Tentata empiricamente in età
studi e nella tecnica si deve molto
romana (Antillo, II sec.)3, nel Foto 1 - Set per intubazione laringea O’Dwyer-Egidi (5 cannule più tardi a Pierre Bretonneau
in metallo, una pinza posa-cannula, 1 estrattore, 1 apribocca).
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SALTERNUM
(1778-1862)13. Questo clinico francese non solo chiarisce le diverse forme cliniche della difterite: faringea e
laringea, dando alla malattia il nome che tuttora porta
(dal greco διφθέρα: membrana coriacea), in luogo della
corrente dizione di ‘angina maligna’ e intuendo tra l’altro nella presenza di un microrganismo la causa determinante, ma applica con pieno successo la tracheotomia nel 1825. Per tale manovra utilizza un divaricatore a tre branche, strumento di sua invenzione14.
Ma il vero padre di tale atto operatorio per unanime riconoscimento è Armand Trousseau (18011867)15, allievo del Bretonneau. Il clinico francese, perfezionando la tecnica del maestro e adottando per il
paziente la posizione supina a collo iperesteso, invece
di quella seduta comunemente utilizzata, disseziona i
tessuti nel pieno rispetto dei piani muscolari e dei vasi
sanguigni, inserendo il tracheotomo tra 2° e 3° anello
tracheale. Ma soprattutto consiglia di praticare l’intervento nelle prime fasi della malattia, ritenendo a ragione che solo una decisione precoce può assicurare un
pieno successo16.
La metodica però all’epoca non è esente da rischi,
specie nei bambini, da cui un fervore di studi alla ricerca di un mezzo meno invasivo, che consenta una sufficiente ventilazione al piccolo paziente, ricerca che
porta all’introduzione dell’intubazione laringea nella
pratica clinica.
L’idea iniziale è del tedesco G.F.Dieffenbach, che
nel 1839 effettua alcuni cateterismi laringei presso
l’Ospedale della Carità di Berlino, purtroppo con risultati deludenti17.
Nel 1858, invece, il pediatra francese Eugène
Bouchut (1818-1891)18 presenta alle autorità accademiche un nuovo metodo da lui sperimentato: l’intuba-
Foto 2 - Georges Chicotot – Le tubage, 1904.
zione laringea per via orotracheale, da utilizzare in
corso di difterite nei piccoli pazienti in preda a crisi
asfittiche per ostruzione della glottide da pseudomembrane. L’apparecchiatura, sperimentata con successo
su cinque casi, consiste nell’introdurre una piccola
cannula metallica dritta tra le corde vocali, assicurandola all’esterno della glottide con un filo di seta e trattenendovela per alcuni giorni fino a una sufficiente
regressione del processo pseudomembranoso. «Vi
sono due mezzi - scrive l’ideatore della metodica - per
dar passaggio all’aria. L’uno consiste nell’aprire la
laringe o la trachea per collocarvi una cannula doppia,
la cui parte interna può essere facilmente cambiata.
L’altra si limita a collocare nella laringe un piccolo
tubo cilindrico, introdotto direttamente attraverso la
bocca con l’aiuto di una sonda, come se si volesse fare
un cateterismo laringeo, e questa è l’intubazione (tubage de la glotte)»19.
Purtroppo l’innovazione incontra l’ostinata contrarietà di Trousseau, relatore dell’Accademia, che, rilevando tra l’altro la presenza di alcune imperfezioni,
che ne rendono disagevole l’impiego, critica fortemente l’utilità pratica della nuova tecnica, pur elogiandola
sotto un profilo teorico, convincendo la Commissione
degli accademici a respingere la proposta20. In realtà il
catetere, pur opportunamente calibrato, non si adattava perfettamente all’anatomia del laringe ed era causa
di lesioni e dolore. In un primo momento il Bouchut,
si pone alla ricerca di un sistema capace di ovviare l’inconveniente: studia infatti il modo di porre in laringe
due tubi concentrici, di cui l’interno facilmente rimovibile e quindi con la possibilità di liberare la cannula
dalla ostruzione delle pseudomembrane. Presenta
infatti successivamente un set di cateteri adatti allo
scopo, ma l’amarezza dell’avversione e del dissenso
nei riguardi della sua realizzazione lo inducono a desistere da ulteriori perfezionamenti tecnici e abbandona
le ricerche21.
Maggiore fortuna invece ottiene Joseph O’Dwyer
(1841-1898)22, pediatra americano, che nel 1885, in
seguito al disperato tentativo di introdurre ‘alla cieca’
per via orotracheale dei tubi flessibili con estremità
smussa in bambini colpiti da croup durante un’epidemia, intuisce che è possibile praticare una intubazione
laringea con buona probabilità di successo e ne realizza l’applicazione. Il suo metodo, comunicato ai pediatri americani e sostenuto dal grande maestro Abraham
Jacobi (1830-1919)23, viene accolto con favore, incon-
- 102 -
GIUSEPPE LAURIELLO
trando un grande successo sia per la facilità della
manovra che per la tecnica meno invasiva e non
cruenta. In realtà lo strumentario di O’Dwyer si presenta sostanzialmente sovrapponibile a quello di
Bouchut, discostandosene solo per alcune modifiche
che lo rendono molto più tollerato. Il set è costituito da
una serie di piccole cannule in metallo dai bordi arrotondati, con alcuni fori nella estremità superiore per
consentirne l’ancoraggio. Mediante una speciale pinza
angolata, la cannula è introdotta nello spazio glottideo
e fissata al laringe. La pinza possiede sul manico una
levetta, che opportunamente premuta, consente il rilascio in situ del cateterino. L’intervento avviene a
paziente seduto di fronte l’operatore, che, mantenendogli la bocca aperta con un apposito strumento, uncina l’epiglottide con il dito indice della mano sinistra,
guidando con l’uso della pinza la cannula tra le corde
vocali e sistemandovela. Negli adulti o nei bambini più
grandicelli, dove l’organo è situato più in basso, ai fini
della manovra si serve di uno specchietto laringeo24.
Oltre all’autorevole consenso di Jacobi, l’intubazione tracheale di O’Dwyer ottiene l’approvazione
totale e incondizionata anche di quello stesso
Trousseau, che anni prima l’aveva negata allo sfortunato Bouchut.
Con tali patrocini di altissimo livello, la metodica è
accolta in tutto il mondo scientifico e correntemente
applicata laddove se ne ravvisi l’indicazione e la necessità.
La consacrazione definitiva si ha nel 1900 a
Berlino, al Congresso Internazionale di Medicina, nel
corso delle sezioni unificate di Laringologia e
Pediatria, dove avviene il felice e fatidico incontro tra
Bouchut e O’Dwyer. Ambedue presentano le loro
casistiche e i loro risultati ampiamente positivi. In questa occasione O’Dwyer con grande signorilità riconosce pubblicamente la priorità dell’invenzione a
Bouchut, confessando di non aver avuto mai notizia
delle sue pubblicazioni, mentre Bouchut si compiace
con l’americano per la vasta risonanza e diffusione del
metodo, che ha saputo imprimere nel suo paese, cosa
che in Francia non gli era stato consentito per l’ingiustificata avversione dei propri connazionali.
Negli anni immediatamente successivi sono apportate alcune piccole modifiche agli strumenti originali,
ai fini di migliorarne ulteriormente la tollerabilità, ma
senza che queste possano offuscare minimamente la
paternità dell’ideatore.
In Italia il metodo è diffuso dall’otorinolaringoiatra
romano Francesco Egidi25, già forte di una vasta esperienza di tracheotomie. Il suo primo intervento è del
1889, anno in cui la conoscenza della tecnica raggiunge l’Europa, intervento che descrive in una sua memoria consegnata in letteratura26.
Nel 1891 l’Egidi apporta una propria modifica
all’attrezzatura, cavitando lo strumento per consentire
al paziente una sufficiente ventilazione anche durante
l’atto operatorio27. Le cannule, di metallo o di ebanite,
sono di varia grandezza e lunghezza e nella parte
superiore presentano una specie di colletto e una sporgenza non completa o testa che rimane nel vestibolo e
si adagia nella regione posteriore aritenoidea. L’anno
successivo l’A. presenta al 1° Congresso della Società italiana di Laringologia i risultati comparativi delle sue
esperienze con la tracheotomia e con l’intubazione,
dimostrando la pari efficacia dei due metodi nel risolvere la stenosi, ma nello stesso tempo la loro ininfluenza sul decorso della malattia28.
Ulteriori modeste modifiche all’attrezzatura sono
apportate nel 1895 e nel 1902 dall’italiano, che in una sua
pubblicazione: Intubazione della laringe e tracheotomia, data
alle stampe a Roma nel 1906, riassume l’intera storia dell’intubazione, la sua metodologia e le indicazioni, descrivendo due nuovi strumenti di sua ideazione aggiunti al
set: l’uncino per fissare la trachea e il dilatatore bivalve.
Intanto un nuovo affascinante capitolo va aprendosi nel campo della difesa dalla difterite, destinato
alla definitiva vittoria sul male: la sieroterapia e la vaccinoprofilassi.
In seguito agli studi di Luigi Pasteur (1822-1895)29
sulla immunizzazione attiva contro le infezioni, Emil
Behring dimostra come il sangue di animali colpiti
dalla difterite e guariti riesca a guarire anche altri animali, tra cui l’uomo, attinti dalla malattia. Nasce così
nel 1891 il siero antidifterico, con il quale finalmente
i bambini condannati dal terribile male, sono strappati alla morte. Il ciclo di ricerche febbrili sul processo morboso, iniziato nel 1883 con Edwin klebs
(1834-1913)30 e la prima scoperta di un microrganismo nelle pseudomembrane difteriche, identificato
l’anno dopo da Friedrik Loeffler (1852-1915)31, proseguito con la successiva scoperta nel 1888 dell’esotossina prodotta dal batterio da parte di Emil Roux
(1853-1933)32 e Alexandre yersin (1863-1943)33 e
conclusosi con la scoperta dell’antitossina e la realizzazione del primo siero antidifterico nel 1891 da
- 103 -
SALTERNUM
parte di Emil Behring e Shibasaburo kitasato (18561931)34, va chiudendosi, ma non del tutto. Dal 1920
diviene disponibile il vaccino antidifterico, costituito
da anatossina difterica, proposta da Gaston Ramon
(1886-1963)35 e altri, cioè da tossina inattivata con
formaldeide, nel senso che ha perduto il potere patogeno, ma ha conservato quello antigene, cioè la capacità di stimolare anticorpi di difesa e quindi di protezione dalla malattia. L’incidenza della mortalità per
difterite, che con il solo siero s’è ridotta dal 60% al
20%, con l’introduzione del vaccino scende a livelli
trascurabili.
Il breve ciclo storico dell’intubazione laringea, pertanto, pur sostenuta dal prof. Giuseppe Gradenigo
(1859-1926), valente cattedratico a Napoli, che la consiglia come iniziale tentativo prima di una eventuale
tracheotomia, si esaurisce rapidamente in pochi
decenni; il suo strumentario, caduto in completo disuso, è abbandonato e disperso. Solo qualche raro esemplare è recuperato.
Dell’epoca e della metodica ci ha lasciato una suggestiva scena il pittore George Chicotot, medico artista di
primo Novecento. E’ un dipinto olio su tela del 1904,
conservato presso il Museo dell’Assistenza Pubblica di
Parigi. Ritrae una scena di intubazione eseguita dal dott.
Albert Josias (1852-1906) su un bambino con croup,
intervento che si svolge nell’ospedale Bretonneaux di
Parigi alla presenza di allievi e studenti. L’espressione
del viso di questi ultimi lascia trapelare la forte tensione
del momento. Colpisce tra l’altro il gesto deciso dell’operatore nell’atto di ritirare la pinza porta cannula e fissare con il dito indice della mano sinistra il piccolo catetere nella glottide del bambino, trattenuto sulle ginocchia dell’infermiera e con la testa bloccata tra le mani
dell’assistente. Nello stesso tempo un secondo medico
sta preparando sul tavolo il siero antidifterico.
Significativo il messaggio: a destra, l’attesa, con gli
osservatori che trattengono il respiro; al centro, l’atto
salvifico immediato sulla morte incombente; a sinistra,
il siero risanatore e la promessa di guarigione futura.
- 104 -
GIUSEPPE LAURIELLO
Note
Il siero antidifterico fu scoperto da Emil
von Behring (1854-1917) nel 1890 e iniettato con successo in un bambino in corso di
malattia nel 1891. Il vaccino, preparato per
la prima volta nel 1910, fu disponibile in
massa solo dopo il 1920.
2
Attualmente il tasso annuo nel mondo va
dal 0,5-1 x 100.000 al 27-32 x 100.000
secondo i Paesi. Una vasta epidemia è stata
segnalata nell’ex Unione Sovietica nel 1990,
in seguito all’interruzione della vaccinazione di massa.
3
Chirurgo del II sec. d. C., i suoi scritti, pervenutici in frammenti, si ritrovano in gran
parte sparsi in alcune opere di Autori bizantini come Oribasio. Riscoperti e pubblicati
nel 1799 dallo Sprengel (SPRENGHEL 1799)
valgono a presentare l’Autore come ottimo
medico
e
valente
operatore.
Particolarmente interessanti le descrizioni
del trattamento della cataratta, degli aneurismi e della chirurgia plastica del volto.
4
Medico greco del VII sec., attivo ad
Alessandria, ci ha lasciato una vasta opera:
Epitome, in 7 libri, un condensato della
medicina in auge in età altomedievale, con
descrizioni di interventi chirurgici con tecniche interessanti, punto di riferimento
degli Autori a lui successivi come il chirurgo arabo Albucasi e i chirurghi salernitani
Ruggiero e Rolando (cfr. GOODALL 1934,
pp. 167-176).
5
Restauratore e padre della chirurgia
moderna. Inizialmente barbiere chirurgo e
poi chirurgo laureato, prestò la sua opera
prima all’Hotel Dieu di Parigi e poi nelle
armate di Enrico II di Valois. Fu medico di
altri tre re dopo Enrico: Francesco II, Carlo
IX ed Enrico III. Portò molte innovazioni
nella cura delle ferite, come l’uso di unguenti lenitivi e cicatrizzanti sulle ferite al posto
dell’olio bollente e la legatura dei vasi dopo
amputazione.
6
Grande revisore critico e riformatore delle
conoscenze anatomiche, fino allora cristallizzate sul pensiero galenico. Docente giovanissimo di anatomia e chirurgia presso
l’Università di Padova, pubblica nel 1543 il
famoso De humani corporis fabrica, sui cui
1
fondamenti anatomici ha origine la medicina moderna. A lui si deve la prima dettagliata descrizione dell’intubazione tracheale su
animale condotta con successo (VESALIUS
1543).
7
Docente di anatomia presso l’Università
‘La Sapienza’ di Roma, introduce negli
ospedali romani lo studio del cadavere ai
fini di approfondirne la struttura e la più
completa conoscenza e di stimolare in tal
modo l’investigazione scientifica. Per il
forte impulso dato al progresso della medicina, il suo nome va inserito tra i fondatori
della Anatomia moderna. Le Tabulae anatomicae, incise da Eustachio nel 1552 e sfortunatamente perdute, furono ritrovate e pubblicate dal Lancisi (1655-1720) solo nel
‘700.
8
Docente di anatomia e chirurgia
nell’Ateneo padovano, successore di
Gabriele Falloppio, realizzò la costruzione
del ‘Teatro anatomico’, tuttora esistente e
visitabile. Fu maestro di William Harvey,
scopritore della circolazione del sangue. Pur
non avendola mai praticata in vivo, descrisse la tecnica della tracheotomia, da condurre con incisione verticale della trachea e l’introduzione in essa di un piccolo catetere
diritto: un intervento consigliato in caso di
estrema necessità (cfr. RAJESH - MEHER
2006, pp. 2-33).
9
Allievo di Fabrici e suo successore sulla
cattedra padovana, da servo anatomico a
Maestro d’anatomia, è stato tra i più brillanti
anatomici del suo tempo, specialmente
nello studio degli organi di senso e della
fonazione. La cannula da lui impiegata era
curva e provvista di una serie di fori.
10
Professore di medicina teorica presso
l’Università di Padova, propugnatore e realizzatore delle misurazioni fisiche e biologiche in medicina. Fondatore della scuola
cosiddetta ‘iatromeccanica’, costruì una
bilancia per lo studio del metabolismo, un
pulsilogio per la misura della frequenza cardiaca ed il primo termometro clinico.
Scrisse il De statica medica (1612), un libro
che è un classico della storia della fisiologia.
11
Medico e botanico di Ferrara, medico di
- 105 -
papa Paolo III, allievo del celebre naturalista Nicolò Leoniceno e maestro dell’anatomico Gabriele Falloppio (cfr. GOODALL
1934, pp. 167-176).
12
Nella storia della medicina il Severino
appare come una singolare figura di chirurgo. Laureatosi presso l’Almo Collegio di
Salerno, lavorò come chirurgo ordinario
nell’Ospedale degli Incurabili di Napoli e
quindi come docente di anatomia e chirurgia presso l’Università partenopea. La sua
attività professionale fu caratterizzata da
deciso interventismo. Ed infatti il suo essere eccessivamente sbrigativo e spietato al
tavolo operatorio in un’epoca di prudenza e
di attendismo, giustificata dalla assenza di
una anestesia e di un’antisepsi, gli procurò
dure condanne morali, tanto da essere addirittura allontanato per un certo periodo dall’incarico pubblico. Il suo scritto più noto è
la Zootomia democritea (1645), considerato
quale primo testo di anatomia comparata
nella storia della disciplina. In esso è riportata l’Anathomia porci del salernitano Cofone
(XII sec.).
13
Diresse l’ospedale di Tours e intuì prima
di Pasteur la natura microbica delle malattie
infettive.
14
Cfr. TROUSSEAU 1833, p. 41.
15
Primario medico presso l’Hotel Dieu di
Parigi e cattedratico di farmacologia presso
la Facoltà di Medicina, scrisse alcune celebri
memorie sulla tisi laringea e sulle malattie
della fonazione. Membro autorevole
dell’Accademia di Medicina francese ed
anche deputato all’Assemblea Costituente.
16
TROUSSEAU 1852, pp. 279-288.
17
LATRONICO 1977, p. 510
18
Laringologo, neurologo e oftalmologo,
lavorò in vari ospedali parigini, tra cui
l’Hotel Dieu. Il suo nome è legato anche
agli studi sulla nevrastenia e alla descrizione
della laringite miliarica. Di lui ci resta ancora una Storia della medicina, pubblicata nel
1886.
19
Da BOUCHUT 1858, cit. in LATRONICO
1977, p. 510.
20
TROUSSEAU 1858.
21
LATRONICO 1977, p. 510, ricorda che
SALTERNUM
durante la concitata seduta accademica solo
J. F. Malgaigne, chirurgo e storico medico
brillante, difendesse la metodica, ma purtroppo, soggiunge, «la sua parola si spense
in quel consesso di dotti e non riuscì ad
impedire che la nuova idea fosse accantonata per oltre venti anni».
22
Cfr. GOERIG - FILOS - RENz 1988, pp.
244-251.
23
Famoso pediatra americano, ebreo di origine tedesca, fondò il primo ospedale per
bambini a New york e un dipartimento
pediatrico presso il Mount Sinai Hospital. Fu
docente di pediatria nell’Università di New
york e nella Columbia University. Fondò
anche un primo giornale di Ostetricia e
Malattie delle donne e dei bambini, distinguendosi in diverse lotte per riforme sociali.
24
O’DWyER 1885, p. 145 ss.
25
L’Egidi, abile e rapido operatore, conseguì
la libera docenza nel 1902 e fu fondatore
della Società Italiana di Otorinolaringoiatria.
26
EGIDI 1889, pp. 97-106.
27
ID. 1891.
28
ID. 1882, pp. 215-218.
29
Gli studi sulla fermentazione alcolica,
condotti da questo scienziato francese, portando alla scoperta dei microrganismi specifici, gettano le basi della microbiologia,
della moderna immunologia e della preparazione dei vaccini. Realizzazione di Pasteur
è la vaccinazione antirabbica, ottenuta con
una emulsione di midollo seccato di animale morto di rabbia.
30
Docente di patologia e batteriologia in
varie Università (Berna, Praga, zurigo,
Chicago), descrisse per la prima volta nel
1883 il bacillo della difterite.
31
Batteriologo, lavorò con Robert koch dal
1879 al 1894, isolò nel 1884 il bacillo della
difterite.
32
Microbiologo francese, collaboratore di
Pasteur, compì ricerche fondamentali sul
- 106 -
colera dei polli, sul carbonchio, sulla rabbia,
realizzando vari vaccini. Insieme a kitasato,
isolò l’esotossina difterica, responsabile
degli effetti tossici della malattia. Dal 1904
fu direttore dell’Istituto Pasteur, incarico
che mantenne fino alla morte.
33
Medico svizzero, assistente e collaboratore stretto di Emile Roux, in un suo soggiorno di studi a Hong kong nel 1894 scoprì
con kitasato il bacillo della peste (Yersinia
pestis).
34
Microbiologo giapponese, collaborò con
Robert koch nel laboratorio di Berlino; nel
1889 preparò con Behring l’anatossina per
la difterite e l’antrace. A Hong kong con
yersin scoprì il bacillo della peste (cfr. supra,
nota 33).
35
Veterinario e biologo francese, contribuì
alla preparazione e allo sviluppo dei vaccini
contro la difterite e il tetano, sviluppando il
metodo di inattivazione della tossina difterica con l’uso della formaldeide.
GIUSEPPE LAURIELLO
Bibliografia
BOUCHUT E. 1858, Mémoire sur une nouvelle
méthode de traitement de l’asphyxie du croup, par
le tubage du larynx, ‘Comptes rendus de
l’Académie des sciences’, 18 settembre
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EGIDI F. 1882, Sopra 82 tracheotomie e 84 intubazioni come contributo alla statistica, in Atti 2°
Congresso Soc. It. Laring., Roma, pp. 215-218.
EGIDI F. 1889, La prima intubazione della
laringe per croup fatta in Italia con l’apparecchio
dell’O’Dwyer, in ‘Arch. It. Laring.’, 11, pp. 97106.
EGIDI F. 1891, Modificazioni agli apparecchi di
intubazione laringea, Roma.
GOERIG M. – FILOS k. – RENz D. 1988,
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TROUSSEAU A. 1858, Du tubage de la glotte et
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VESALIUS A. 1543, De humani corporis fabrica
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O’DWyER J. 1885, Intubation of the Larynx,
in ‘New Jork Medical Journal ’.
Per ulteriori approfondimenti
RAJESH O. – MEHER R. 2006, in Historical
Rewiew of Tracheostomy, in ‘Int. J.
Othorin.’, 4 (2), pp. 1178-83.
BARTHEz E. 1858, Descours sur la trachéotomie,
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BARTHEz E. 1859, Mémoire sur la diphterie,
Clinique européenne, Paris.
SPRENGHEL k. 1799, Antilli, veteris chirurgi
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BRETONNEAU P. 1826, Traité de la diphtérite,
angine maligne ou croup épidemique, Paris.
TROUSSEAU A. 1833, Mémoire sur un cas de
trachéotomie pratiquée dans le périod extrème de
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LANCRy G. 1886, De contagion de la diphtérie,
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hopitaux d’enfants de Paris, Paris.
TROUSSEAU A. 1852, Nouvelles recherches sur la
trachéotomie pratiquée dans le périod extrème du
croup, in ‘Annales de Médicine Belge et
étrangère’, pp. 279-288.
- 107 -
SPERATI G. – FELISATI D. 2007, Bouchut,
O’Dwyer and laryngeal intubation in patients with
croup, in ‘Acta Othorin. It.’, 27, pp. 320-323.
ELIANA MUGIONE
Segnalazione
ANNA FERRARI, Dizionario dei luoghi del mito. Geografia
reale e immaginaria del mondo classico, Rizzoli, Collana
BUR Dizionari, Milano 2011, 1056 pp.
I
l volume di Anna Ferrari,
Dizionario dei luoghi del mito.
Geografia reale e immaginaria del
mondo classico, ha il merito di restituire
al mito una dimensione geografica
che permette di cogliere a pieno lo
stretto legame tra la dimensione
paradigmatica della tradizione mitica
e letteraria e il suo rapporto con il
mondo reale. Come sottolinea
l’Autrice nella sua Introduzione, «non
c’è racconto mitico che non sia collocato in un luogo specifico, a volte
immediatamente riconoscibile, altre
volte destinato a rimanere per noi
moderni poco più che un nome».
L’approccio al mito appare così catapultato in una dimensione spaziale nella quale si muovono gli uomini, come gli dèi e gli eroi. Partendo dai
luoghi, dunque, l’Autrice ricostruisce, attraverso testimonianze letterarie - a volte supportate, anche se più
raramente, da quelle archeologiche - un percorso di
luoghi popolati da dèi e da eroi. Un Dizionario dei
‘luoghi del mito‘ piuttosto che dei ‘soggetti mitologici’, che tende a stabilire il legame esistente tra i
diversi miti, proprio grazie alla condivisione di uno
stesso spazio.
Da archeologa non posso fare a meno di sottolineare come una visione di questo tipo coincida con
l’evoluzione degli studi degli ultimi anni, che hanno
sottolineato lo stretto rapporto tra l’uomo e l’ambiente e che hanno visto lo sviluppo di nuovi filoni di
ricerca, come ad esempio l’archeologia dei paesaggi.
Dunque un paesaggio del mito, restituendo a questo, oltre che la sua dimensione storica, politica, sociale
e istituzionale anche lo stretto legame con lo spazio in
cui leggende e tradizioni sono calate.
Il volume comprende 1600 voci,
in ordine alfabetico, dedicate a località menzionate nelle fonti greche e
romane come teatro di eventi della
mitologia, di avventure di dèi, di eroi
e personaggi leggendari, di prodigi
soprannaturali: città, villaggi, monti,
fiumi, sorgenti, laghi e paludi, mari e
foreste, regioni, stati, isole e regni. In
ogni località i racconti del mito sono
diffusamente ricordati e riassunti,
facendo ricorso a frequenti citazioni
dalle fonti antiche, con un indice
finale utilissimo che consente il passaggio dal luogo al mito e dal mito al
luogo.
E’ chiaro che, a partire da questi
presupposti, sarebbe auspicabile giungere a ricostruire
una vera e propria ‘geografia del mito’, che, tenendo
conto di come culti e leggende si sono stratificati nel
tempo, possa restituire il milieu culturale e sociale di
ambiti territoriali diversificati.
***
Dietro autorizzazione dell’Autrice, pubblichiamo
due voci-tipo dal Dizionario dei luoghi del mito, scelte
anche in omaggio alle terre dove si svolge principalmente l’attività del Gruppo Archeologico Salernitano.
- 109 -
«PAESTUM Anticamente chiamata Posidonia
(Gellio, XIV, 6, 4), è una delle più celebri città
greche d’Occidente, ancora oggi meta di visitatori per la bellezza e l’ottimo stato di conserva-
SALTERNUM
«VELIA Per gli antichi Greci nota come Hyèla,
Hyèle ed Elèa, in latino Velia, la città sorse nel VI
secolo a.C. sulla costa della Campania affacciata sul mar Tirreno. Una tradizione raccontava
che era stata fondata dai Focesi, i quali, insediati in Asia Minore e oppressi dai Persiani, presero il mare alla ricerca di nuove terre, spingendosi verso Occidente e raggiungendo l’Italia e la
costa della Gallia (Ammiano Marcellino, XV,
9,7). La mitologia la metteva in relazione con la
storia di Palinuro, l’infelice timoniere della nave
di Enea, che nei pressi di Velia era precipitato in
mare: quando Enea, durante il suo viaggio agli
Inferi, lo incontra, si fa raccontare da lui tutta la
storia, e apprende così che, precipitato dalla
tolda della sua nave e rimasto in balia dei flutti
per tre notti, Palinuro era quasi giunto a nuoto
a salvarsi sulla costa d’Italia, quando «della
gente crudele col fil ferro» si era gettata su di
lui, «dalle umide vesti appesantito», credendolo
un buon bottino. Palinuro implora Enea di rendergli onori funebri, poiché il suo corpo giace
insepolto sulla spiaggia (Virgilio, Eneide, VI. 347
ss.). Il luogo dove viene tumulato «eterno il
nome conserverà di Palinuro» (ibid., 381): v.
PALINURO, CAPO.
Ai confini tra storia e leggenda era la vicenda
della fine di zenone, uno dei più illustri filosofi
di quella scuola di Elea che ebbe tra i suoi rappresentanti insigni Senofane di Colofone e
Parmenide. Di zenone si diceva che fosse morto
pestato in un mortaio per ordine del tiranno
della città, Nearco: zenone aveva partecipato a
una congiura contro di lui e si narrava che, per
non tradirsi durante l’interrogatorio cui era stato
sottoposto, si fosse reciso la lingua con un
morso, sputandola poi in faccia al tiranno.
Il nome «Velia» indicava anche un colle di Roma
dove, in un tempio, si conservavano i Penati, gli
dei protettori del focolare domestico, che secondo il mito Enea aveva portato con sé quando
aveva lasciato Troia in fiamme», (p. 966).
zione dei suoi magnifici resti archeologici tra i
quali spiccano gli imponenti templi dorici e la
celebre Tomba del Tuffatore. Fondata, sembra,
da Sibari, deriva il suo nome dal dio del mare,
Poseidone, che è effigiato su tutte le monete
della città. Oggetto di culto era anche la dea
Era, alla quale era dedicato un tempio situato
alla foce del vicino fiume Silaris (l’odierno Sele),
a circa cinquanta stadi a Nord della città, ricordato da Strabone all’inizio del libro VI e da
Plinio (Nat. Hist., III, 70). Questo tempio, che è
stato identificato nell’Heraion alla foce del Sele
portato alla luce da Paola zancani Montuoro e
Umberto zanotti Bianco, era di grande importanza, oltre che per la sua imponenza e per la
ricchezza delle sue metope scolpite, anche per
la sua storia leggendaria: la tradizione, attestata
dallo stesso Strabone, voleva che fosse stato
fondato da Giasone, il capo della mitica spedizione degli Argonauti, che lo dedicò a Era
Argiva (cfr. ancora Plinio, Nat. Hist., III, 70).
Nell’antichità Paestum era celebre per i suoi
roseti, «due volte fioriti ogni anno» (Virgilio,
Georgiche, IV, 119). I «roseti della mite Paestum»
ritornano nelle Metamorfosi di Ovidio (XV, 708),
dove la località è menzionata tra quelle oltrepassate da una nave romana di ritorno da
Epidauro, città in cui un’ambasceria si era recata a chiedere aiuto al dio Esculapio contro una
pestilenza che si era abbattuta sul Lazio: la nave
recava a bordo il dio stesso in forma di serpente, che, giunto a Roma, si mutò nuovamente in
dio e risanò la città (per i particolari v. ROMA ed
EPIDAURO). Nel mare antistante Paestum si trovava una piccola isola chiamata Licosa in onore
di una Ninfa omonima che si diceva vi avesse
trovato sepoltura (Plinio, Nat. Hist., III, 85; V.
LEUCOSIA)», (p. 679).
- 110 -
LUCA CERCHIAI
Recensioni
MATTEO D’ACUNTO, MARCO GIGLIO (a cura di), Le
rotte di Odisseo. Scritti di archeologia e politica di Bruno
d’Agostino, in ‘Annali di Archeologia e Storia Antica.
Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del
Mediterraneo Antico’ (AION ArchStAnt), N. S. 1718, 2010-2011, 377 pp., 183 ill. b. e n.
L
’ultimo numero della Rivista
‘Annali di Archeologia e Storia
Antica’
pubblicata
dal
Dipartimento del Mondo Classico e
del Mediterraneo Antico (oggi
Dipartimento
Asia,
Africa,
Mediterraneo)
dell’Università
‘L’Orientale’ di Napoli è stato dedicato a una raccolta degli scritti di
Bruno d’Agostino, curata in modo
esemplare dai suoi allievi Matteo
D’Acunto e Marco Giglio.
E’ superfluo ricordare a lettori esperti di cose archeologiche l’ampiezza
delle attività e delle ricerche, come
pure l’importanza rivestita da Bruno
d’Agostino nel panorama italiano e
internazionale degli studi sul mondo antico.
Basti dire che Bruno d’Agostino è uno dei protagonisti di una generazione di studiosi che hanno profondamente rinnovato l’archeologia italiana, grazie ad
una rigorosa concezione della disciplina che ha abbinato ricerca scientifica e testimonianza politica: tra essi
figurano naturalmente Ida Baldassarre e Emanuele
Greco, che hanno associato chi scrive nell’Introduzione
del volume.
La raccolta contiene solo una selezione delle pubblicazioni dell’A., enumerate analiticamente nella
bibliografia curata da Matteo D’Acunto: uno dei criteri adottati nella scelta è stato quello di riunire testi non
più in stampa o editi in sedi non facilmente accessibili, per renderli più agevolmente fruibili anche da parte
di un pubblico più vasto di quello specialistico: per
questa ragione, ad es., il lettore non ritroverà i numerosi lavori pubblicati dall’A. nella rivista ‘Annali di
Archeologia e storia Antica’ e nella serie correlata dei
Quaderni, da lui stesso fondate e a
lungo dirette.
La raccolta è suddivisa in sei
sezioni tematiche, per orientare il lettore attraverso i molteplici itinerari di
ricerca esplorati dall’A.:
1) Popoli e civiltà dell’Italia Antica;
2) I Principi e la non-città degli Etruschi;
3) I Greci e l’Occidente;
4) Ideologia funeraria;
5) L’immaginario tra Greci e Etruschi;
6) L’Archeologia come metodo e come politica.
Gli studi inclusi nel volume, per
un totale di 27 contributi realizzati
nell’arco di quasi 40 anni, hanno
tagli diversi e coprono un ampio
ventaglio di interessi integrati dalla
coerenza del metodo: tra tutti, in
questa sede appare opportuno ricordare due sintesi
di alta divulgazione, quali Gli Etruschi (Sez. 1. 1) e
Tecniche dello scavo archeologico: introduzione al volume di
Ph. Barker (Sez. 6. 24), che, grazie a una scrittura
improntata alla ricerca della chiarezza, sfrondata da
ogni indulgenza accademica, traducono efficacemente per tutti un tema storico di amplissima portata culturale come la civiltà etrusca e un argomento tecnico
e decisamente poco attraente come il metodo dello
scavo archeologico.
Questo esercizio di responsabilità nella formazione
e nella trasmissione della conoscenza consente di tornare al titolo del volume che evoca il viaggio di Odisseo.
- 111 -
SALTERNUM
L’eroe omerico incarna nella coscienza occidentale
l’avventura umana che acquista consistenza nella libertà della scelta, senza altro premio che quello della
memoria degli Altri.
Alla ricerca di Itaca, Odisseo sperimenta continuamente, e non senza errori, il limite insito nella natura
degli uomini e, al tempo stesso, la loro capacità di resistenza che consente a ognuno la possibilità di ritrovare
la soluzione del ritorno attraverso l’ausilio della propria
ragione.
Tra tutte le prove apparentemente insormontabili
che l’eroe è costretto a affrontare, la più temibile è il
miraggio dell’immortalità con cui è adescato più volte,
il rischio di un salto senza limiti in un mare infinito e a
se stante, che riesce a stornare non perdendo mai di
vista la prospettiva della terra: il suo posto tra gli uomini nella storia concreta in cui gli è toccato di vivere e
agire, al di fuori della quale è solo ‘Nessuno’.
La vera morte è la diserzione dagli Altri, la rinuncia alla storia concepita come esercizio integrato
della conoscenza e dell’azione all’interno del proprio
universo sociale.
Di qui il titolo Le rotte di Odisseo con cui si è scelto
di chiamare la raccolta: se il viaggio per Itaca rappresenta la metafora dell’avventura di ognuno, nell’esempio concreto del suo percorso Bruno d’Agostino ha
dimostrato che l’archeologia non è materia separata,
sottratta alla responsabilità dall’alto di una torre d’avorio o nella penombra di una biblioteca distante: è invece uno strumento per capire le regole del gioco, per
ricostruire e, se serve, denunciare la storia.
Per realizzare questo obiettivo l’A. ha continuamente rinnovato le proprie domande, sperimentando
vie nuove attraverso il confronto con altre scuole e
altre discipline scientifiche: al tempo stesso, la sua attività non si è mai separata dall’impegno civile, dall’idea
che l’archeologia, per essere utile, debba porsi al servizio di una comunità democratica.
In un paese come il nostro assuefatto alle disillusioni e troppo spesso refrattario come un muro di
gomma, questo impegno ha saputo produrre risultati
concreti, creando le condizioni per una progettualità
che si è poi mirabilmente attuata nel tempo: è il caso,
ad es., del progetto di archeologia urbana a Napoli
(Sez. 6. 27) che, all’indomani del terremoto, mobilitò
le coscienze delle migliori forze culturali cittadine.
Quella che allora sembrò una battaglia dal sapore
dell’utopia oggi si è realizzata nella dimensione della
pianificazione urbanistica, in risultati di straordinaria
importanza che riqualificano l’immagine della città e
sono sempre più cari ai suoi abitanti.
Basti pensare al recupero del teatro romano nel
cuore del centro storico e agli scavi della metropolitana che riscoprono la città antica mentre dotano la città
moderna di un’infrastruttura essenziale alla sua vivibilità: solo pochi giorni fa si è inaugurata la stazione di
Via Toledo e visitandola si percepisce immediatamente il cammino fatto grazie all’impegno civile, alla competenza scientifica e all’intelligenza generosa di chi ha
saputo credere nel respiro di un progetto.
- 112 -
GABRIELLA D’ HENRY
MARIA LUISA NAVA, Stele daunie da Trinitapoli, «Daunia
Archeologica», «Materiali. 3», Claudio Grenzi Ed.,
Foggia 2011, 143 pp., 156 ill. b. e n.
N
el 2011 è uscito, nella collana «Daunia Archeologica»
fondata da Marina Mazzei,
archeologa prematuramente scomparsa, e redatta a cura dell’editore
Claudio Grenzi, un bel catalogo sulle
stele daunie di Trinitapoli, la cui autrice, Maria Luisa Nava, è stata recentemente Soprintendente Archeologa a
Salerno.
La veste editoriale, molto elegante, porta in copertina alcune immagini fotografiche delle stele.
A questo catalogo hanno contribuito, con tutta la carica positiva che
anima la ‘società civile’ in Italia, i Soci
del’Archeoclub di Trinitapoli, i quali
hanno recuperato dal terreno dell’antica Salapia moltissimi frammenti scultorei, salvandoli da sicura rovina. Tanto che, come dice la nota riportata sul retro di
copertina, il complesso del materiale litico trovato nell’area di Salapia è il più numeroso nell’ambito della
Daunia, dopo la collezione di stele conservata nel
Museo di Manfredonia.
Dopo la prefazione della Nava, vi è un lungo capitolo di Francesco Rossi, giovane collaboratore della studiosa, che illustra con grande attenzione l’insediamento
preromano di Salapia. Segue un lungo excursus sulle
stele, che la Nava giustamente inquadra in un fenomeno di ‘megalitismo antropomorfo’, il quale interessa
diverse regioni del Mediterraneo dal III millennio fino
al V secolo a. C. Le stele di Salapia si addensano maggiormente nell’arco del VII e VI secolo a. C. e sono per
la maggior parte di produzione locale, anche se alcuni
pezzi sembrerebbero provenire da Siponto, le cui officine appaiono strettamente collegate a quelle di Salapia.
Le stele si configurano come parallelepipedi allungati, che dovevano
essere infissi nel terreno da uno dei
due lati corti, a rappresentare la figura
umana; sul lato corto superiore sono
indicate le spalle, che vengono rappresentate più e meno arrotondate e, in
quelle più antiche, appena sollevate
rispetto al collo, che negli esemplari
più recenti viene di molto sopravanzato. Le braccia, coperte di guanti, vengono raffigurate sia nelle ‘stele con
armi’ - così chiamate per la presenza,
oltre alla decorazione geometrica, di
una spada - che nelle ‘stele con ornamenti’, dove è evidente la preponderanza di una ricca decorazione.
A volte sulle stele sono presenti
anche dei rilievi che la studiosa chiama di ‘decorazione secondaria’, ad esempio delle cacce, o delle processioni rituali.
Altri fenomeni scultorei consistono nelle teste ‘aniconiche’ (prive di immagine), che dovrebbero essere
riferibili alle stele, anche se solo in un caso la testa è
stata rinvenuta attaccata al corpo, e nel complesso di
scudi convessi appoggiati sopra una colonnina, che la
studiosa definisce ‘scultura geometrico-astratta’.
Dopo alcune tabelle riassuntive ed una ricca bibliografia, ha inizio il Catalogo, fornito di ottime fotografie e seguito da una bibliografia specifica.
Mi è sembrata fondamentale l’osservazione della
Nava che questi monumenti non vogliono rappresentare una realtà, ma vogliono soltanto denotare un
‘tipo’ (esempio: madre, guerriero) e sono totalmente
- 113 -
SALTERNUM
ideologizzati; anzi, l’evoluzione tipologica di questi
monumenti porta ad un processo di astrazione e schematizzazione radicale.
Stilisticamente, si può notare che i pezzi più antichi
sono decorati da un’incisione superficiale, mentre i pezzi
più recenti recano una decorazione quasi ad intaglio.
Fig. 1 - (Cat. 020). Parte superiore laterale di stele con ornamenti di tipo IV, lato B
(35 x 29.5 x 7.6 cm). Fabbrica di Salapia.
A mio parere, si deve ringraziare l’amica Marilì
Nava per la complessa ed approfondita pubblicazione
di questi singolari monumenti, di cui lei aveva scritto
anche precedentemente, tanto che oggi la si può considerare la maggiore esperta; e questo volumetto stimola all’approfondimento della ricerca nel campo
della scultura litica di età preromana.
Fig. 2 - (Cat. 0121). Parte centro-inferiore di stele con armi di tipo V B, lato A
(106x 73 x 10 cm). Fabbrica di Salapia.
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GABRIELLA D’ HENRY
CARMINE PELLEGRINO - AMEDEO ROSSI (a cura di),
Pontecagnano I,1. Città e campagna nell’agro Picentino (gli
scavi dell’autostrada 2001-2006), Edizioni Luì, Chiusi
(Siena) 2011, pp. 303, 142 ill., 3 tavv. f.t.; CD-ROM.
I
l volume Pontecagnano I,1 – città
e campagna nell’agro Picentino (gli
scavi dell’autostrada 2001-2006),
redatto a cura di Carmine
Pellegrino ed Amedeo Rossi, può
considerarsi un esempio di come la
collaborazione di Enti Statali,
Istituti di Ricerca ed Imprese possa
portare ad esiti estremamente soddisfacenti. Come dice nella prefazione del libro Giuliana Tocco, allora Soprintendente ai Beni
Archeologici di Salerno, l’indagine
archeologica preliminare alla realizzazione
della
terza
corsia
sull’Autostrada A/3 Salerno –
Reggio Calabria, nel tratto coincidente con il territorio del comune di Pontecagnano, si
rese necessaria a causa delle emergenze antiche che da
decenni venivano messe in luce nella zona. E la
Soprintendenza, lodevolmente, attivò una convenzione con l’Università di Salerno e con l’Università degli
Studi di Napoli ‘L’Orientale’, che si suddivisero l’incarico dell’esplorazione: mentre l’Orientale lavorava nel
settore nord-occidentale dell’area, l’Università di
Salerno rivolgeva la sua ricerca al settore sud-orientale.
Dirò subito che, a mio parere, mentre si conosceva già molto sulla necropoli dopo decenni di scavi e di
ricerche (diversi volumi sono stati pubblicati sull’argomento), quello che si è potuto rivelare sull’abitato antico è addirittura sconvolgente.
Gli archeologi che hanno diretto lo scavo si sono
avvalsi, per alcune questioni specifiche, della collaborazione di colleghi: Paola Aurino per la preistoria,
Monica Viscione per il sistema difensivo del V e del
IV secolo a. C., Teresa Cinquantaquattro per la stanziamento romano di Picentia, Maria D’Andrea per la
ceramica a vernice nera di età repubblicana, Stefania
Siano per la ceramica di età imperiale. Per il resto, la massa del lavoro è stata suddivisa tra Carmine
Pellegrino, che ha parlato del contesto cronologico e delle varie fasi
del’abitato antico, ed Amedeo Rossi
che si è occupato prevalentemente
del paesaggio agrario, dei percorsi
stradali e dell’organizzazione dello
spazio urbano.
L’ultimo capitolo, infine, è dedicato alle metodologie ed analisi integrate, che consistono in: foto-interpretazione aerea (A. Rossi); geoarcheologia
(V. Amato); analisi polliniche (E.
Russo Ermolli, L. Di Pasquale e G. Di
Pasquale); analisi paleo-ambientali (G.
Aiello e D. Barra).
La suddivisione cronologica dell’abitato di
Pontecagnano è stata dagli autori precisata in fasi:
la fase I riguarda la preistoria;
la fase II si riferisce al IX secolo a. C., fino al terzo
quarto dell’VIII;
la fase III va dall’ultimo quarto dell’VIII secolo
a.C.: alla fine del VI-inizio V secolo;
la fase IV si occupa del V secolo a. C.;
la fase V è datata al IV-III secolo a. C.;
la fase VI si riferisce al II-I secolo a. C.;
la fase VII spazia dal I secolo al V-VI secolo d. C.
Illuminante per poter seguire lo scorrere degli
avvenimenti relativi all’abitato di Pontecagnano è il
capitolo ottavo, intitolato Pontecagnano e l’agro Picentino
– dinamiche di occupazione e di sviluppo territoriale, a cura di
C. Pellegrino.
Dopo una puntualizzazione geografica del territorio, del plateau terrazzato su cui si sviluppa la città etru-
- 115 -
SALTERNUM
sca e l’insediamento romano di Picentia, delle depressioni fluviali che bordavano il plateau, vengono descritte
puntualmente le sette fasi di frequentazione del sito, che
mi sembra interessante riprendere per sommi capi.
La fase I, della preistoria, è caratterizzata da sporadici rinvenimenti, comunque legati alle fonti idriche,
sia del Neolitico Recente (facies Serra d’Alto e DianaBellavista) che dell’Eneolitico (facies Gaudo e cultura
di Laterza): rinvenimenti, comunque, di origine funeraria, provenienti da qualche nucleo insediativo posto
in alto; il Bronzo Recente è presente con resti di
capanne, anch’essi legati a corsi d’acqua. Si può dire
che, in questo periodo, gli abitati si distribuiscono
ampiamente nella piana, privilegiando le pendici, e si
dispongono a controllo delle vie di penetrazione, interessando anche le zone costiere, con conseguente
inserimento in un sistema di traffici.
La fase II è caratterizzata dalla nascita dell’insediamento villanoviano, incentrato, con ogni probabilità,
sul plateau centrale, data la disposizione delle necropoli all’intorno di questo plateau, denotando un iniziale
progetto di pianificazione. Ma, oltre all’ipotetico stanziamento, ce ne doveva essere un secondo in località
Pagliarone, collegato ad un’ulteriore necropoli, che
probabilmente si estendeva in un luogo pianeggiante
alla confluenza di due fiumi.
La fase III, che copre un tempo dall’ultimo quarto
dell’VIII secolo alla fine del VI secolo a. C., è particolarmente importante. Essa è caratterizzata da un
abbandono dei sepolcreti dell’Età del Ferro e dallo
sviluppo di sepolcreti nuovi, più a ridosso della zona
dell’abitato, zone rese fruibili da opere di irreggimentazione e controllo delle acque. Una necropoli impiantata su una terrazza inferiore del plateau nella zona di
piazza Risorgimento ha un carattere particolare per la
presenza di un nucleo gentilizio (si vedano le ‘tombe
principesche’ nn. 926 e 928).
Alla prima metà del VII secolo risale la più antica
documentazione dell’area dell’abitato, con il rinvenimento di resti di capanne, di pozzi e di una fornace, il
tutto organizzato attorno ad uno spazio libero, che
con ogni probabilità sarà il centro politico della città.
Già si può ipotizzare la spartizione dello spazio urbano lungo due strade che forse già esistevano e che
attraversano il plateau da Nord-Ovest a Sud-Est (la’
plateia sud’) e da Nord-Est a Sud-Ovest (la ‘strada Q’).
Ciò presuppone la presenza di un’autorità politica in
grado di imporre una strategia unitaria.
Un ulteriore salto di qualità nel processo di urbanizzazione avviene tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a. C.: si può notare una ripartizione funzionale degli
spazi, con un settore che viene destinato all’artigianato.
Nel versante occidentale vengono fondati, agli inizi
del VI secolo a. C., due santuari: uno in località
Pastini, in ambiente lacustre, dedicato ad una divinità
femminile di carattere ctonio, legato anche alla fertilità ed al cambiamento di status (LUAS?), e l’altro nella
cosiddetta area pubblica, dedicato ad Apollo: le dediche a questo dio sono in carattere greco ed in dialetto
acheo di Poseidonia, cui si aggiunge, però, un’iscrizione
etrusca con il nome MANTH, che si riferisce ad una
divinità etrusca assimilata ad Apollo. Questo secondo
santuario ha certamente anche una forte valenza politica.
La fase IV si svolge in uno spazio di tempo da circa
un secolo: il V, quando i limiti dell’abitato vengono
ridefiniti a fortificati e gli spazi urbani pianificati
mediante strade ortogonali in isolati regolari.
La ricostruzione virtuale del perimetro urbano ipotizzato si realizza in una forma quadrangolare, che
tiene conto in qualche misura sia dei principi della
regolarizzazione delle città magno-greche che del
rituale legato all’origine etrusca della città. Comunque,
questa ricostruzione prevede, come per la colonie greche (per esempio, la vicina Poseidonia), la presenza di
plateiai e di stenopoi.
In questa ristrutturazione, si è comunque tenuto
conto della preesistenza dei due tracciati ortogonali
che probabilmente risalgono addirittura alla Prima Età
del Ferro, e della localizzazione dell’area pubblica. Per
quanto riguarda il muro di fortificazione, di cui resta
soltanto la trincea di fondazione, doveva essere dello
spessore di un paio di metri; all’interno di esso, un
pozzo contenente una brocca potrebbe rappresentare
l’aspetto rituale del rito di fondazione di origine etrusca, come un probabile cippo che potrebbe limitare,
all’interno delle mura, la zona abitativa. In conclusione, la ristrutturazione consisterebbe in una vera e propria rifondazione della città, orgogliosa della sua identità etrusca. Tale operazione doveva essere scaturita da
cambiamenti di equilibri sociali, cambiamenti che si
possono cogliere dall’esame delle necropoli.
Nello stesso periodo, anche il territorio suburbano
viene risistemato.
Nel corso del VI secolo, i nuclei funerari esistenti
si vanno esaurendo, e si cominciano a trovare le necro-
- 116 -
GABRIELLA D’ HENRY
poli suddivise in gruppi a carattere familiare in lotti
pianificati, con evidenti segni di ostentazione di prestigio, e con una notevole diversificazione delle sepolture. E’ evidente la ricca presenza nei corredi di ceramica figurata attica. In un nucleo particolare, sito al margine meridionale della necropoli di piazza
Risorgimento, vi è una forte presenza di iscrizioni
etrusche con formule onomastiche varie, che denotano una notevole presenza straniera.
La fase V comprende il IV ed il III secolo a. C.
Mentre nel V secolo a. C. la vita dell’abitato non era
particolarmente percepibile, a parte il particolare dell’aumento delle superfici coperte nell’ambito dei singoli edifici, le informazioni sulla nuova fase di ristrutturazione che si data dalla fine del V secolo sono più
evidenti: inizia la fase della cosiddetta ‘sannitizzazione’
dell’insediamento. All’inizio, le sepolture dei defunti
armati di lancia e cinturone, connessi certamente con
il mondo del mercenariato, si inseriscono nei contesti
sepolcrali senza modificarne l’organizzazione; ma poi
cominciano a svilupparsi nuclei funerari che non si
adeguano all’esistente. Questo per quanto riguarda le
necropoli; per quel che riguarda l’abitato, invece, le
ristrutturazioni avvengono nel rispetto del precedente
assetto urbanistico. Il muro di cinta viene ricostruito,
ma non muta la sua posizione, ed anche la ‘fascia
pomeriale’ viene rispettata. E’ rispettata la destinazione pubblica dell’area di via Bellini – via Verdi, dove
viene realizzato un nuovo grosso edificio, probabilmente una stoà; il santuario di Apollo viene rinnovato
nelle sue terrecotte architettoniche, e ricompaiono le
dediche ad Apollo in alfabeto greco-acheo di
Poseidonia, forse con un’accentuazione del carattere
greco piuttosto che quello etrusco del dio. Nel santuario di via Pastini, il culto resta dedicato ad una dea
femminile a carattere ctonio, alla quale vengono offerte statuette di dea in trono. Nell’abitato, le case del V
secolo vengono demolite e ricostruite, occupando in
qualche caso lotti più estesi.
Nell’area extraurbana, alcuni sepolcreti vengono
sistemati lungo alcuni percorsi stradali, ed in essi l’uso
dell’incinerazione, sia primaria che secondaria, è in
aumento; uno di questi sepolcreti, piuttosto distante
dall’abitato, sembrerebbe riferirsi ad un nucleo rurale:
in esso i segni di ostentazione del prestigio sono evidenti, quali l’adozione di tombe a camera o la ricchezza di corredi con la presenza di ceramica figurata di
fabbrica pestana.
Siamo così giunti alle ultime fasi dell’insediamento
etrusco-sannitico. Un nuovo intervento viene realizzato sulla fortificazione, che consiste nel rialzamento
dell’aggere e nella ricostruzione del muro di sub-aggere, allineato a quello più antico, conferma le prerogative giuridiche e religiose attribuite alla linea delle fortificazioni. Ma il rilassamento di questo vincolo è rivelato dalla presenza di vitigni nell’area ‘pomeriale’.
Negli isolati urbani continua una certa attività edilizia,
anche se è evidente una ruralizzazione del sito. Nel
santuario di Apollo, un carattere salutare del culto del
dio denota l’influenza culturale romana che ormai si
diffonde in tutti i centri dell’Italia meridionale.
Nella fase VI, già dalla metà del II secolo a. C. inizia un irreversibile processo di destrutturazione dell’insediamento, con la chiusura dei santuari, abbandono delle case, chiusura dei pozzi; siamo ormai nella
città di Picentia. Una qualche continuità rimane nell’orientamento degli isolati e delle strade.
Una effimera fase di ristrutturazione avviene nel II
secolo a. C., con l’inserimento della città nel territorio di
Salernum, nel contesto delle riforme agrarie. La via RegioCapuam del 132 a. C. recupera la viabilità esistente, ma
all’interno dell’abitato essa diventa decumanum, mentre i
cardines sono leggermente ruotati rispetto agli stenopoi; l’abitato si restringe alla fascia lungo il decumanum. In questo contesto c’è un rinnovo di popolazione nell’Agro
Picentino. Ormai tutte le iscrizioni sono romane.
Picentia fu distrutta dagli Italici durante la Guerra
Sociale, e ciò si può vedere dalle tracce di incendio e
dalla chiusura dei pozzi.
Nella fase VII sembra documentata una parziale
ripresa all’inizio dell’Impero, ma ciò che resta della
città viene danneggiato sia dal terremoto del 62 d. C.
che dall’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. Dopo questi avvenimenti, la campagna si ristruttura con allineamenti diversi da quelli antichi, l’abitato si suddivide in
due nuclei, uno lungo il decumano e l’altro alla foce
del Picentino; quindi, restano solo le fattorie.
Grazie, pertanto, all’archeologia preventiva, all’abilità amministrativa di Enti ed Istituti di Ricerca, ed alla
capacità di intuizione e di approfondimento nella
ricerca di giovani studiosi, possiamo avere sotto gli
occhi un quadro diacronico di un insediamento antico,
che ha dimostrato la sua importanza strategica e la sua
ricchezza culturale.
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MONICA VISCIONE
MATILDE ROMITO, Salerno, ‘Provincia Archeologica’. La
politica culturale dell’amministrazione Provinciale dal decennio
prebellico al dopoguerra, Edizioni Pandemos, Paestum
2011, 286 pp., ill. b. e n.
I
l nuovo libro di Matilde
Romito si pone l’obiettivo di
descrivere la politica culturale
dell’Amministrazione Provinciale di
Salerno nel lungo arco cronologico
che va dal decennio prebellico al
dopoguerra, attraverso il racconto
del lavoro svolto dal Museo di
Salerno fin dalla sua istituzione.
L’Autrice ha sapientemente esaminato l’Archivio Storico dei Musei
Provinciali del Salernitano per contestualizzare i reperti attraverso la
ricostruzione della sequenza storica
del loro ingresso nel Museo; ogni
capitolo, infatti, fa riferimento
all’Archivio, la cui analisi, con il
supporto degli archivi grafici e fotografici, ha permesso alla Romito una puntuale ricostruzione delle scoperte e dei recuperi del Museo di Salerno. Il resoconto che deriva da questo puntuale lavoro è un racconto
affascinante della nascente archeologia e delle esperienze esaltanti legate alle prime scoperte effettuate
nella provincia. Emerge così già dalle prime pagine
che il fondamento della politica culturale delle amministrazioni provinciali che si sono succedute è fare del
Museo e del suo Archivio un Luogo che in modo
esaustivo riuscisse a descrivere e a far apprezzare al
grande pubblico, e non solo agli specialisti, la cultura/le culture che hanno determinato il formarsi e lo
sviluppo della nostra provincia. Non va dimenticato
che questo atteggiamento culturale ha avuto come pro-
tagonista proprio la dottoressa Romito, che per lungo
tempo è stata alla Direzione dei Musei Provinciali: quattro Musei Archeologici - Salerno, Nocera Inferiore,
Oliveto Citra e Padula -, la Pinacoteca Provinciale di
Salerno, la Raccolta di Arti Applicate
ospitata nella Villa De Ruggiero di
Nocera Superiore, il Museo della
Ceramica in Raito di Vietri sul Mare,
il Centro Studi ‘Raffaele Guariglia’.
Il racconto, oltre che affascinante, è dettagliato, ricostruito
attraverso una attenta lettura degli
atti e dei documenti; incrociando i
dati dell’Archivio con quelli
dell’Inventario delle acquisizioni,
che nel 1931 contava già 2146
reperti, ogni indicazione topografica è stata dall’Autrice focalizzata in
relazione all’azione svolta dal
Museo e agli scavi eseguiti sull’intero territorio provinciale fino agli
anni ‘70 del secolo scorso.
Il racconto è anche appassionato quando ricostruisce le emozionanti scoperte fatte a partire dalle indagini svolte a Fratte dal 1927, i cui ritrovamenti eccezionali costituirono il primo nucleo del Museo.
Di grande interesse è la rilettura critica dei documenti conservati nell’Archivio del Museo che contestualmente allo ‘scavo dei vecchi scavi’ (come lo chiama l’Autrice) dei materiali conservati e talvolta esposti
ha permesso alla Romito di aggiungere nuovi elementi di conoscenza per molti siti.
Un esempio, tra le tante ricostruzioni presenti nel
volume è la tomba XIII/1929 di Oliveto Citra, per la
quale il restauro del corredo nel 1992 consentì un primo
riesame scientifico, che ne ha permesso una adeguata
edizione. Ancora, l’esame del prezioso taccuino di
- 119 -
SALTERNUM
Venturino Panebianco ha consentito alla Romito la
puntuale ricostruzione dei 17 contesti tombali rinvenuti a Palinuro nell’estate del 1939, consentendo di articolare e particolareggiare l’analisi e la definizione del
primo nucleo della necropoli arcaica di Palinuro.
Il riesame del fascicolo dell’Archivio pertinente a
Roscigno ha permesso la ricontestualizzazione di alcune ambre figurate pertinenti ad una sepoltura indagata
precedentemente allo scavo della più famosa ‘tomba
principesca’ nel 1938; in questo caso la rilettura del
fascicolo dell’Archivio storico e dell’inventario dei
reperti ha permesso all’Autrice di rettificare le indicazioni apposte accanto ai reperti, specificandone le circostanze e i tempi di acquisizione al Museo di Salerno.
Questa revisione contestuale dei dati di archivio ha
permesso inoltre il recupero della documentazione
relativa a scoperte e scavi di siti non noti alla lettura
archeologica: come la necropoli romana di Sicignano
degli Alburni, per la quale l’A. offre una dettagliata
descrizione ed una puntuale analisi.
Dal testo vengono anche nuovi spunti di ricerca
riguardo alla organizzazione del territorio compreso
tra Salerno e Pontecagnano dopo il III sec. d. C., grazie alla notizia del rinvenimento nel deposito del
Museo di ceramica medievale che getta nuova luce
sulle dinamiche insediative dopo l’abbandono delle
ville marittime di età imperiale lungo la costa tra
Salerno e il Picentino.
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FELICE PASTORE
GIUSEPPE COLITTI - Il tamburo del diavolo. Miti e culture
del mondo dei pastori, (Prefazione di Alessandro Portelli),
Donzelli Editore, Roma 2012, 167 pp.
I
l bel libro di Giuseppe Colitti è
scaturito dalla sua passione per
‘immagazzinare’ la storia orale
attraverso le testimonianze dei
pastori del Vallo di Diano, del
Cilento e della Basilicata che avevano vissuto il secolo scorso, con
tutte le miserie, le contraddizioni e
le trasformazioni che lo hanno contrassegnato.
Il primo capitolo - quello forse
più legato al titolo, che si riferisce al
rumore dei tuoni in aperta campagna - si apre su questo mondo in cui
la natura, nel silenzio dei pascoli o
nel buio delle notti passate accanto
a un fuoco o in una grotta, coinvolge presenze visibili (i lupi) e invisibili (gli spiriti).
Nei capitoli successivi, la voce dei protagonisti
ricostruisce le asprezze della vita pastorale e mette a
nudo le condizioni di lavoro arcaiche e medievali, nella
miseria e nella fame che attanaglia le loro vite. Una
condizione molto diversa da quella descritta nella letteratura del mondo arcadico.
La pastorizia, unica fonte di sopravvivenza in
molte aree meridionali, ancora più dura nelle zone collinari dove la transumanza era obbligata dall’asprezza
dell’inverno, rappresentava un’economia di sussistenza senza possibilità di miglioramento futuro. La mancanza di istruzione spingeva a diventare pastori fin
dalla tenera età, eliminando ogni aspettativa di mobilità sociale. L’ignoranza, poi, rendeva i pastori facile
preda di ogni abuso e ingiustizia. Un mondo che nessuno dei protagonisti rimpiange.
L’Autore, oltre alla suggestiva descrizione del
mondo pastorale, con i suoi risvolti
positivi e negativi, ci parla anche
dell’attività agricola che l’affianca.
Un’attività organizzata in modo
rudimentale, che si serve solamente
di nude braccia per arare e letame
per concimare. Dai racconti dei
vecchi pastori scaturiscono forme
di solidarietà spontanea (alla morte
di una pecora ad opera di un lupo,
le altre famiglie si offrivano di comprare parte della carne dell’animale
per condividerne la perdita). Un
mondo chiuso che inizierà a perdere i propri valori con l’emigrazione,
prima transoceanica (Americhe) e
poi europea (Svizzera e Germania).
E’ l’uscita da una condizione di
miseria per entrare in una nuova e diversa condizione,
sempre intrisa di miseria e sacrifici, ma che darà inizio
alla fase della rottura con il mondo agropastorale. Le
rimesse degli emigranti consentiranno alle loro famiglie di vivere una condizione migliore: alcuni avvieranno agli studi i loro figli, altri apriranno piccole aziende
agropastorali, altri occuperanno un posto nella
Pubblica Amministrazione locale.
Il libro di Colitti costituisce un testo prezioso per
ricostruire la storia locale attraverso il racconto dei suoi
protagonisti, fornendo non solo la base della ricomposizione di un’identità locale dispersa, ma la restituzione
e la conservazione di una memoria che altrimenti sarebbe andata perduta.
- 121 -
FELICE PASTORE
Eventi
Miti ed eroi del mondo greco.
Serata in onore di Gabriella d'Henry
Salerno, 20 Giugno 2012
A
poche settimane dall’ottantesimo compleanno
della dott.ssa Gabriella d’Henry (28 maggio),
Direttore scientifico della Rivista ‘Salternum’ Semestrale di informazione storica, culturale e archeologica a cura del Gruppo Archeologico Salernitano - il
20 giugno 2012, alle ore 18.30, nell’Aula Magna
dell’Istituto scolastico ‘G. Vicinanza’ di Salerno, ci
siamo ritrovati in molti, insieme ai figli Anna e
Antonio, a fare gli auguri alla festeggiata.
Abbiamo voluto organizzare per l’occasione una
serata culturale in suo onore, a cui hanno partecipato
come relatori i proff.ri Angela Pontrandolfo e Luca
Cerchiai dell’Università degli Studi di Salerno, amici
cari di Gabriella. Abbiamo pensato di invitare loro, in
quanto hanno condiviso con Gabriella i più bei periodi che hanno accompagnato la loro luminosa carriera
universitaria, quelli delle campagne di scavo e dei lavori editoriali che hanno condotto insieme.
Angela Pontrandolfo, che per prima ha preso la
parola, ha ricordato il senso di umanità e di amicizia che
contraddistingue Gabriella nei rapporti interpersonali e
la grande, reciproca stima che le ha sempre unite.
Un aspetto che mi ha molto colpito è stato quando la prof.ssa Pontrandolfo ha messo in correlazione
il mito di Europa con Gabriella, con il suo peregrinare
attraverso l’Italia fino ad arrivare presso i nostri lidi. Il
paragone mi è sembrato molto appropriato: come
Europa - la fanciulla rapita da Zeus, re degli dèi, che per
averla si era trasformato in toro - attraversa i continenti fino ad arrivare sotto un albero, in quella dolce terra
che è l’isola di Creta, e lì consuma il suo amore con il
rapitore, così Gabriella, rapita alla sua dolce terra
natía, il Friuli - Venezia Giulia, attraversando tutta
l’Italia, arriva fino a noi, in Campania, e qui trova il
sole, l’amore e la gioia di vivere la bellezza e le meraviglie dei luoghi magno-greci.
E, una volta andata in pensione, Gabriella, che ha
dedicato una vita allo studio del mito greco, in particolare ai vasi attici a figure rosse e nere dei maggiori
ceramografi greci, continua un impegno profondo
per far trionfare quella cultura di cui oggi il Gruppo
Archeologico Salernitano si avvale a piene mani.
Il prof. Luca Cerchiai, invece, ha parlato del suo
primo incontro con Gabriella e dell’arricchimento
umano e scientifico che ne ha avuto, ‘abbeverandosi’
sempre alla sua immensa fonte culturale. Il suo intervento non a caso si è incentrato su un vaso greco, studiato approfonditamente da Gabriella, che rappresenta il mito di Filottete, un famoso arciere originario
della penisola di Magnesia, che possedeva le frecce e
l’arco di Ercole, armi micidiali per poter vincere le battaglie più difficili.
Fig. 1
- 123 -
SALTERNUM
Fig. 2 - Miti ed eroi del mondo greco. Serata in onore di Gabriella d’Henry. La Dott.ssa
Gabriella d’Henry e Felice Pastore al termine della serata.
Fig. 3 - Miti ed eroi del mondo greco. Serata in onore di Gabriella d’Henry. Il pubblico in
sala.
Anche L. Cerchiai ha ringraziato e si è complimentato con l’Associazione per aver organizzato questa
serata in onore della dott.ssa Gabriella d’Henry.
Il Gruppo Archeologico Salernitano vuole esprimerLe la
propria riconoscenza per averne ben guidato lungo sentieri non sempre facili il cammino culturale, fino al raggiungimento di livelli sempre più alti di immagine e di
visibilità.
A conclusione della serata, l’Associazione ha annunciato l’imminente pubblicazione di un volume di scritti a
Lei dedicati - Miti e popoli del Mediterraneo antico. Scritti in
onore di Gabriella d’Henry (a cura di Chiara Lambert e
Felice Pastore) – per il quale sono stati invitati studiosi
affermati che l’hanno conosciuta negli anni giovanili e
… giovani studiosi che l’hanno conosciuta negli anni più
avanzati, per rendere omaggio, con gratitudine, alla studiosa e all’Amica.
- 124 -
MARIA LUISA NAVA
Museo del Sannio di Benevento.
Nuovo allestimento della ‘Sezione Longobarda’
I
l complesso di Santa Sofia di Benevento, che
comprende anche il chiostro nel quale, come è
ben noto, è ospitato il Museo Provinciale del
Sannio, è stato iscritto il 25 giugno del 2011 nella
World Heritage List dell’Unesco, come sito seriale de ‘I
Longobardi in Italia’.
Il riconoscimento ufficiale è stato anche l’occasione per la Provincia di Benevento per effettuare un
vero e proprio restyling dell’esposizione dedicata ai
Longobardi, disposta nelle 5 sale del lato nord-occidentale del chiostro.
La raccolta longobarda beneventana è essenzialmente composta da epigrafi che provengono dall’area
urbana di Benevento e che sono confluite nel Museo
nel corso del tempo, oltre a sculture (capitelli, pulvini
e rilievi in marmo e pietra), ed ai reperti provenienti
dai ritrovamenti delle necropoli di località Pezza Piana
e di località Epitaffio.
Si tratta di una raccolta che si è formata soprattutto nei primi decenni del ‘900, a seguito di scoperte fortuite dovute sia ai lavori che hanno interessato il tessuto urbano della città, che vide tra la seconda metà del
XIX secolo e i primi decenni del XX secolo una forte
espansione edilizia, sia ad attività agricole che nel 1927
misero casualmente in luce il sepolcreto.
Le conseguenze delle modalità di acquisizione
della collezione longobarda, pertanto, non hanno consentito di conservare precisa memoria delle provenienze dell’apparato scultoreo ed epigrafico ed hanno
altresì causato, purtroppo, la perdita delle informazioni riguardanti la composizione dei complessi funerari.
L’allestimento della sezione longobarda del Museo
del Sannio, approntata inizialmente alla metà del secolo scorso nella loggetta della Rocca dei Rettori1, quindi, si era dovuta basare esclusivamente sulla presentazione dei reperti, senza aver la possibilità di meglio
identificarne i contesti specifici di provenienza.
Sino al presente anno, poi, il Museo proponeva le
sale organizzate secondo criteri espositivi che, pur
risalendo al 1999, riflettevano ancora principi museografici di tradizione ottocentesca, ormai superati, che
vedevano le collezioni esibite sulla base della tipologia
dei reperti.
Il nuovo allestimento proposto, pur dovendosi
basare ancora su criteri tipologici, stante - come si è
sopra accennato - la totale mancanza di notizie ed
informazioni sui contesti di appartenenza dei singoli
reperti, è stato invece improntato ad una presentazione tematica dei materiali, che tenesse conto della loro
originaria funzione e significato nell’ambito della cultura e della società longobarda.
Preliminarmente al riallestimento delle sale, tuttavia, si sono resi necessari la pulizia ed il restauro dei
reperti2, molti dei quali (due epigrafi di grandi dimensioni – entrambe a nome di un Gaudiosus -, un grande
sarcofago con coperchio non pertinente, la fronte di
un sarcofago a colonne) in passato erano stati collocati negli ambienti del Museo, chiostro compreso, senza
neppure il più elementare e doveroso lavoro di pulizia
e di consolidamento.
- 125 -
SALTERNUM
libere – le iscrizioni che, diacronicamente, dal IV al VI
sec. d. C., esemplificano questo passaggio, introducendo senza soluzioni di continuità storica il visitatore al
mondo della Langobardia Minor.
In questa come nelle restanti sezioni riallestite si è
inoltre scelto di proporre, accanto alle didascalie in
due lingue, anche l’immagine del reperto, al fine di
facilitarne il riconoscimento e la lettura, non sempre
agevole per chi non abbia dimestichezza con gli oggetti antichi e con le epigrafi in particolare3.
La sezione longobarda vera e propria, poi, è contraddistinta anche da scelte cromatiche e visuali, al fine
di sottolineare la caratterizzazione specifica degli
ambienti ad essa dedicate, distinguendoli da quelli
della restante esposizione museale; la forte cromia
delle pareti (rosso intenso, alternato a grigio ferro) ha
consentito inoltre di far emergere dalle pareti, rendendoli meglio leggibili, i reperti lapidei, in marmo e in
calcare, i cui colori prevalenti (dal bianco al grigio
chiarissimo) in precedenza si mimetizzavano, confondendosi con la colorazione dell’intonaco di fondo.
La prima sala, di modeste dimensioni, si apre con
un’introduzione generale sulla presenza dei
Longobardi in Italia, illustrata in due grandi pannelli
Per ottimizzare questo lavoro di ricomposizione e
di ridistribuzione allestitivi, la Direzione Scientifica
del Museo ha voluto la collaborazione di esperti del
settore: Chiara Lambert, dell’Università di Salerno, e
Marcello Rotili, della Seconda Università di Napoli.
In particolare, il contributo della Prof.ssa
Lambert, per la sua specifica esperienza nel campo
dell’epigrafia tardoantica e medievale, è stato finalizzato soprattutto al miglior riconoscimento delle iscrizioni di età longobarda e delle sculture di questo
periodo, che nel precedente allestimento risultavano
commiste a reperti lapidei di differenti periodi storici e cronologici.
Il nuovo allestimento, dunque, occupando i medesimi spazi e le medesime sale del precedente, si apre
sulla c.d. ‘Sala dei gladiatori’ con la presentazione dei
più significativi documenti epigrafici che segnano il
passaggio dalla tarda età romana al primo evo antico,
introducendo alle sale longobarde vere e proprie in un
continuum espositivo che, avvalendosi anche di supporti didattici multimediali, sottolinea la transizione culturale dalla romanità alla cultura longobarda. Sono state
quindi collocate su due pareti – in precedenza lasciate
- 126 -
MARIA LUISA NAVA
che evidenziano la distribuzione geografica dei territori occupati, con particolare attenzione all’Italia
Meridionale e al Beneventano. Un video, della durata
di tre minuti e con sottofondo musicale4, presenta
attraverso immagini fotografiche rielaborate graficamente l’evoluzione dello stanziamento longobardo a
Benevento, dal primo insediamento, a ridosso delle
mura romane, all’edificazione di chiese e monumenti e
agli interventi nel tessuto urbano sino al X secolo.
La seconda sala, dedicata all’esposizione delle epigrafi, esibisce i documenti più significativi, sia per i contenuti che per la composizione grafica, non priva di
rimandi alla contemporanea ‘scrittura beneventana’; tra
questi, un particolare rilievo assume il frammento dell’epitaffio del principe Radelgario, superstite, insieme a
due altri frammenti parzialmente combacianti con questo e oggi conservati presso il Museo Diocesano, di una
grande lastra marmorea contenente un ben più ampio
testo in versi, andata distrutta durante i bombardamenti che colpirono Benevento nel 1943. Oltre alle didascalie, anche in questa sala un breve video fornisce notizie
più dettagliate sui reperti esposti.
La sala successiva, intitolata ‘I segni del potere’, illustra, attraverso i reperti della necropoli di Pezza Piana,
l’abbigliamento del ceto nobiliare longobardo, con le
preziose cinture per dama e cavaliere, i gioielli femminili e gli speroni maschili e le armi che costituiscono il
corredo del guerriero. Tra queste, spiccano, oltre alle
spathae (longsax, kurzsax e scramasax) e le punte di lancia, anche due rare franzische, asce da combattimento in
ferro, tipiche dell’armamentario longobardo.
L’abbigliamento della dama è poi ulteriormente illustrato da un abito, dono dell’Avv. Serena Bovio, realizzato con tessuto prodotto dai telai dell’antica tradizione di Pontelandolfo, che, nella foggia e nella decorazione, si ispira alla documentazione desunta dai frammenti di tessuto damascato rinvenuti nelle tombe
principesche del periodo.
La monetazione in oro, elettro ed argento emessa dai
duchi e dei principi che regnarono nel Beneventano è
ulteriore elemento che testimonia non solo l’importanza
della zecca beneventana, ma anche i forti legami culturali dei Longobardi del Sud con l’Impero di Bisanzio, di cui
assimilano e rielaborano, facendoli propri, gli stilemi iconografici. Questi concetti, oltre che dai materiali, sono
illustrati anche qui da un video appositamente realizzato.
Segue poi una sala dedicata alle necropoli, nella
quale sono esposti sia i vasi provenienti dalla necropo-
li di Pezza Piana che da quella di Contrada Epitaffio,
con le croci astili in ferro e le croci in lamina aurea che
contrassegnavano le sepolture dei ceti elevati.
Una vetrina è poi dedicata alle ‘arti ed ai mestieri’,
con strumenti, sempre da corredi tombali, che testimoniano le attività agricole ed artigianali (roncole,
cesoie, coltelli in ferro).
La penultima sala, intitolata ‘Immagini e parole per
l’Aldilà’, poiché monumenti e documenti iscritti sono
destinati a rendere visibile e perpetuare il ricordo di
- 127 -
SALTERNUM
personaggi altolocati, presenta ancora testimonianze
dalle necropoli: si tratta di un grande sarcofago in
marmo adorno di semicolonne a rilievo sui lati lunghi
e di una croce su uno di quelli corti, mentre sul coperchio, adattato alla cassa sottostante, sono graffite
numerose croci. Nella sala è esposta anche una fronte
di sarcofago romano del tipo ‘a colonne’, originariamente a 5 scomparti (III sec. d. C.), rilavorato in epoca
imprecisabile. Completano la sala due grandi epigrafi
- riferite in via preliminare al X sec. d. C., ma che meriteranno studi ulteriori -, con evidenti segni di reimpiego come soglia di porta.
Completano l’ultima sala elementi scultorei altomedievali provenienti da edifici di culto (chiese, battisteri) o ai loro annessi (chiostri): ad una lunetta scolpita con il soggetto paleocristiano dei due pavoni che si
abbeverano ad una fonte d’acqua, databile entro il
VII- VIII sec. d. C., sono affiancati alcuni capitelli
figurati di chiara matrice longobarda, di forma tradizionale o del tipo ‘a stampella’. Le lastre di recinzione
presbiteriale, lavorate con figure geometriche o fitomorfe intrecciate, in cui è comunque riconoscibile il
motivo della croce, si datano all’VIII-IX sec. d. C.;
esse facevano probabilmente parte dell’arredo liturgico della cattedrale altomedievale.
Allo stesso periodo vanno assegnati altri capitelli ‘a
stampella’ di raffinata fattura, caratterizzati da un linguaggio maturato in ambito bizantino e nelle province orientali dell’antico impero romano, ma rielaborato
in forme originali dagli artigiani locali.
Anche l’esposizione di queste tre ultime sale è
completata dai relativi video, che illustrano i reperti e
ne commentano la funzione ed il significato.
A complemento della nuova ‘veste’ museale si è
provveduto inoltre a stampare una brochure, distribuita
gratuitamente all’ingresso del Museo, che accompagna
il visitatore nel percorso espositivo5.
La sezione longobarda del Museo del Sannio è
stata dunque riaperta al pubblico nel mese di aprile del
corrente anno e l’inaugurazione del nuovo allestimento è stata preceduta da una promozione che si è avvalsa anche di uno spot pubblicitario, lanciato sui mezzi di
comunicazione locali e regionali, oltre che sul sito
Facebook che la Direzione Scientifica ha voluto venisse
aperto dal Museo, al fine di modernizzarne l’immagine
e consentire un rapporto più immediato e diretto con il
grande pubblico. Lo spot, della durata di 45 secondi, realizzato dalla AdhocModus e ideato da Paolo Rolli, su una
stimolante base musicale faceva scorrere il testo
«zottone, Adelperga, Gisulfo, Arechi, Chisa, Radelgario:
i Longobardi di Benevento si
mettono in mostra al Museo del
Sannio. La Provincia di
Benevento onora i Signori della
Langobardia Minor e li accoglie
nel sito riconosciuto Patrimonio
Mondiale dall’UNESCO».
Tutti i lavori sono stati realizzati dalla Provincia di
Benevento che ha usufruito di
uno specifico contributo
dell’Assessorato al Turismo
della Regione Campania ed
hanno ottenuto il plauso della
Commissione Interministeriale
che ha promosso il riconoscimento dei siti Longobardi
nella lista dell’UNESCO.
- 128 -
MARIA LUISA NAVA
Note
ROTILI M(ario) 1963, Il Museo del Sannio,
Roma, p. 44.
2
Tali operazioni sono state eseguite dalla
Ditta EU&RO di Giancarlo Napoli.
3
Le problematiche connesse al riallestimento
delle sale longobarde e del vestibolo con le
iscrizioni tardoantiche sono state anche oggetto di una specifica Tesi di Specializzazione in
Beni Archeologici da parte della Dott.ssa
1
Francesca Russo [RUSSO F. 2010/2011
(ined.), Progetto di riallestimento delle sale della
‘Langobardia minor’ del Museo Provinciale del
Sannio di Benevento, Tesi di Specializzazione
in Beni Archeologici, Univ. degli Studi di
Salerno (Relatore: prof.ssa C. Lambert;
Correlatore: Dott.ssa M. L. Nava)].
4
Le scelte cromatiche sono state studiate di
concerto con l’Arch. Paolo Rolli (AdhocModus
- 129 -
di Roma), al quale si deve anche la progettazione e la realizzazione tecnica di tutti i video
presenti in mostra, e la Prof.ssa Lambert.
5
Al pari di tutti gli apparati didattici, la brochure è stata realizzata in italiano ed in inglese,
con testi redatti da chi scrive in collaborazione con C. Lambert.
PASQUALE NATELLA
Un ricordo di Vittorio Bracco
N
on ricordo più dov’ero
a fine Maggio di quest’anno quando l’1 o il
2 Giugno appresi della scomparsa di Vittorio Bracco, avvenuta il
12 di quel mese. L’animo dell’amico si fermò per un attimo, e
vennero a mente giorni vicini e
lontani, sottesi, però, da un
tocco, una batosta in fronte, una
fermata ai bordi dell’auto quando
si scende e non si sa dove andare.
Era nato a Polla nel Marzo
del 1929 Bracco, da una antica
famiglia di Liberali risorgimentali. Entrò immediatamente in lui come càpita a molti cui s’accende
Vittorio Bracco
improvvisa una fiamma di interessi - la passione per la cultura,
il latino in particolare, e nel 1946
presentatosi da privatista al Liceo Tasso di Salerno
conseguì la Maturità Classica primo fra tutti.
Cominciò a peragrare per il Vallo di Diano e le
balze salernitane e a soli 24 anni, nel 1953, pubblicò
nelle ‘Notizie Scavi’ del Ministero della Pubblica
Istruzione il resoconto di indagini epigrafiche e di
monumenti teggianesi inediti. Pensiamo all’età, e al
luogo di edizione, due fatti incredibili che avrebbero
aperto a lui le porte dell’intera nazione ma Bracco,
come molti di noi che giudicano la cultura senza luoghi deputati, non si distolse dagli impegni, e cominciò
una carriera scientifica splendida, che lo vide, al pari di
altri nostri umanisti, allargare gli interessi intellettuali
dall’antichità classica alla medievale, dal luogo natìo
alle volte indagato con accenti volutamente microanalitici ai repertori indicizzati di opere antiche o recenti,
dalla storia dell’arte alla letteratura.
In ciò mi ricorda un altro conterraneo di simil fatta, Pietro
Ebner, il quale, dalla numismatica
magnogreca di cui fu geniale
interprete, trascorse al mondo
classico, archeologico, filologico,
al Medioevo dando del Cilento
un disegno generale, e ‘particulare’, in cinque, sei volumi di
migliaia di pagine.
Dopo
aver
frequentato
l’Università di Napoli, Vittorio
Bracco
si
specializzò
in
Archeologia classica all’Università
di Roma. Fondato sulla linea dell’avvenimento di prestigio, egli si
accorse che un dato eccezionale
dell‘intera vita repubblicana romana, in tutta Italia - cioè il passaggio
dalla pastorizia patriarcale all’agricoltura e ai trasporti per centri urbani e rurali - era rimasto senza commenti, e studiò il lapis Pollae che di esso
era testimone indelebile, elogio epigrafico che stava a
due passi da casa! L’iscrizione rendeva conto d’una via,
costruita dal console Tito Annio nel 153 a. C., e che dal
Bracco fu chiamata Annia, appellativo che tenne divisi
gli studiosi, ma che ebbe conferma in un miliario della
stessa strada in Calabria, ove il console era espressamente ricordato come il promotore.
Dopo aver molte volte affrontato il medesimo argomento, lo studioso partecipò pienamente alle attività
dell’Unione Accademica Nazionale, che è un Istituto
simile a quello mommseniano germanico del CIL
(Corpus Inscriptionum Latinarum) e che produce fascicoli
epigrafici di singole regioni italiane. E’ stato in tale
campo che il nome di Bracco ha assunto valenza internazionale, giacché con la raccolta di tutte le iscrizioni
- 131 -
SALTERNUM
romane (comprese le false) di Salerno (1981) e della
Valle del Sele e del Tànagro (1974), completate da
quelle di Volcei per la Forma Italiae (1978), abbiamo il
quadro completo di uomini e donne che vivificarono
il tempo della romanità in provincia di Salerno, romanità e latinità che, tramite Vittorio Bracco, arricchiscono il tempo universale della conoscenza.
- 132 -
FELICE PASTORE
Giornata di Studio a Polla
nel ricordo di Vittorio Bracco
I
l Gruppo Archeologico Salernitano, nell’ambito delle Giornate Nazionali
di Archeologia Ritrovata, manifestazione organizzata dai Gruppi
Archeologici d’Italia che si svolge ogni
anno nel secondo fine settimana di
Ottobre sotto l’Alto Patronato del
Presidente della Repubblica e del
Ministero dei Beni Culturali ha voluto
dedicare una delle due giornate (sabato
13 ottobre c.a.), alla memoria di
Vittorio Bracco, lo studioso scomparso
alcuni mesi fa (maggio 2012).
La manifestazione si è svolta a
Polla, luogo natio del illustre filologo.
Nella mattinata un folto pubblico Fig. 1
di appassionati e studiosi si è ritrovato
nel borgo San Pietro, davanti al monumento che conserva il Lapis Pollae, una lastra calcarea
epigrafata in cui il costruttore della strada Regio-Capuam,
il console romano Tito Annio Lusco, parlando in prima
persona, si attribuisce la paternità della via e di una serie
di opere ed interventi che ha portato a termine allorché era pretore in Sicilia. Per questo la via si chiama
anche via Annia e questo lo si deve esclusivamente alla
ricerca e allo studio di Vittorio Bracco.
Sono stati poi percorsi tutti i luoghi della memoria
della cittadina valdianese per soffermarsi infine davanti
al Mausoleo di Caio Utiano Rufo Latiniano, quattuorviro per ben due volte a Volcei ed Atina. La visita è stata
guidata da Alfonsina Medici, Felice Pastore e Pasquale
Natella.
Il Battistero di San Giovanni in Fonte tra Padula e
Sala Consilina ha concluso la visita dei siti che per anni
hanno visto impegnato il professore Vittorio Bracco in
pubblicazioni che hanno dato risultati eccezionali per la
conoscenza e lo studio di questo monumento.
Nel pomeriggio, invece, nella sala
adiacente la Chiesa del Santuario di S.
Antonio di Polla, tra i bellissimi
affreschi seicenteschi del Ragolia e
del Pechenedda, si è svolto il
Convegno La forza della memoria. Il
ruolo di Vittorio Bracco nell’evoluzione
della filologia italiana, dedicato al ricordo dello studioso. Dopo l’indirizzo di
saluti delle varie Associazioni presenti,
chi scrive ha voluto sintetizzare, in
qualità di Direttore del Gruppo
Archeologico Salernitano, come si era
consolidata la collaborazione con
Vittorio Bracco, prima durante le ricognizioni archeologiche del Gruppo
lungo la via Annia (cfr. sito www.gruppoarcheologicosalernitano.org) poi
con la pubblicazione di un suo articolo sulla Rivista
‘Salternum’; declamando a latere alcuni versi di una
famosa ode di Orazio (libro III, n. 30), ha poi voluto
sottolineare che lo scrivere saggi e poesie conferisce
Fig. 2 - Polla (SA), Borgo San Pietro, i partecipanti alla Giornata di Studio davanti al
monumento che conserva il Lapis Pollae.
- 133 -
SALTERNUM
agli uomini l’immortalità. Vittorio Bracco è stato uno
di questi e per questo sarà ricordato a lungo.
Si sono poi susseguiti gli interventi dei vari
Relatori, che hanno ricordato le collaborazioni avute
con il prof. Bracco. Un’ampia cornice di pubblico, tra
cui erano presenti i figli Giovanni e Mario, oltre ad
amici, conoscenti, insegnanti, alunni ed ex-alunni del
Liceo Classico ‘M. Tullio Cicerone’ di Sala Consilina,
dove il professore aveva insegnato per una vita, ha
suggellato questa giornata di studio all’insegna della
Storia.
Fig. 3 - Fig. 2 - Polla (SA), Giornata di Studio in ricordo di Vittorio Bracco. Un momento
del dibattito.
- 134 -
ROSALBA TRUONO IANNONE
Appunti di viaggio
Petra: biglietto da visita della Giordania
E
ra l’agosto del 1812 quando in uno dei Paesi
più antichi del mondo, la Giordania, un giovane esploratore svizzero, vestito da beduino, in
sella ad un cavallo arabo, nel mentre si aggirava per i
monti di Edom, finì con l’imboccare un tortuoso e
strettissimo canyon, le cui alte pareti di arenaria rosa
lasciavano a stento intravedere il cielo, tanto esse sembravano toccarsi in alcuni punti.
Fu alla fine di quel misterioso percorso, lungo
qualche chilometro, che al giovane si presentò uno
spettacolare scenario: un’ampia conca rocciosa, di
fronte una parete di arenaria scolpita. E in un vallone,
proprio più in là: templi, tombe, scalinate ed altre
opere, tutte scavate nella roccia.
Fu allora che Johann Ludwig Burckardt per l’emozione si sentì mancare: egli percepiva di aver scoperto
qualcosa di strabiliante e, per quanto avesse subdolamente indossato la kefhia e l’abito beduino, dovette
ben controllare il suo entusiasmo e la sua commozione per ingannare la gelosia con la quale i beduini,
padroni di quel territorio, e i sultani turchi difendevano i tesori d’Oriente.
Ma ora aveva ritrovato Petra, la mitica ‘città rosa’
scavata nella roccia dagli antichi Nabatei, oggi biglietto da visita della Giordania turistico - archeologica.
Ormai polo di attrazione fin dai racconti di
Burckardt nell’Europa romantica dell’Ottocento e fin
dalle vedute schizzate da David Robert, Petra induce
visitatori di tutto il mondo a partire per questo luogo
straordinario, oggi dichiarato Patrimonio dell’Umanità
dall’UNESCO.
Cuore antico degli Arabi, Petra è tornata a vivere
da quando re Hussein II di Giordania negli anni ’60 e
’70 fece costruire un moderno villaggio rurale, a Nord
della zona archeologica e ordinò il trasloco dei beduini, da secoli veri abitanti di quelle cavità, avviando un
serio restauro dei monumenti.
Fra tanti siti archeologici pochi possono eguagliare
la fama di Petra, di cui l’Al Khazneh è amato simbolo.
E’ qui, più che altrove che la storia giordana ha le
sue radici. E’ qui che i Nabatei vollero la loro capitale.
Essi in epoca preromana diedero vita ad un’originalissima civiltà del deserto, fondata sul nomadismo.
Erano loro a gestire i traffici carovanieri, a prendere in consegna lunghe carovane che trasportavano
dall’India e dallo Yemen: incenso, zafferano, mirra, cardamomo, pepe, zenzero, cannella, mussolina di cotone e seta. Lungo la via nel deserto, che risaliva la
Penisola Arabica fino alla favolosa città di Petra, smistavano le merci verso il Mediterraneo, la Persia e la
Mesopotamia.
Ma dell’origine dei Nabatei capaci creatori di una
grande capitale dai monumenti scavati nella roccia,
poco si sa. Certo è che quel popolo di mercanti seminomadi, che formarono un vero e proprio impero,
prospero dal IV secolo a. C. al II secolo d. C., aveva
raggiunto il suo culmine quando subentrarono i
Romani dei quali si erano guadagnati il rispetto e la
stima e che, sottomessi a Roma, non si considerarono
soggiogati fino a quando Traiano, nel 105, scoprì la
rete di canali che riforniva d’acqua Petra e la interruppe per ottenerne la resa.
I Nabatei erano riusciti ad arroccarsi intorno alla
loro capitale e a mantenere il monopolio delle merci
provenenti dal Mar Rosso fin dal 63 a. C. quando
Pompeo estese il dominio di Roma sui territori corrispondenti alle attuali Siria e Giordania, abitate in gran
parte da Nabatei. A Roma essi si arresero alla morte del
loro re: Rabele II. Consegnarono Petra al governatore
della Siria sotto Traiano, Cornelio Palma. Non si narra
di scontri violenti ma di una resa, frutto probabile di un
accordo diplomatico. In realtà i Romani non sarebbero
mai stati in grado di prendere con la forza Petra, nonostante la loro superiorità numerica e di mezzi.
- 135 -
SALTERNUM
Il Siq attraverso il quale si accede alla città è una
strettissima gola che il Wadi Musa, uno dei torrenti
della zona, ha scavato per migliaia di anni; esso ne è
l’unico ingresso e l’imbocco alla fessura è praticamente invisibile (fig. 1).
Da qui per 1200 m, si dipanano anse e curve a
gomito tra pareti di arenaria alte fino a 100 m che
costituiscono un passaggio obbligato, dunque un vero
suicidio per un esercito come quello romano.
Oggi molti edifici testimoniano l’importanza che
Roma attribuì a Petra; in realtà questa città narra la
storia drammatica di due civiltà, la nabatea e la
romana, che si sovrapposero fino a che la più forte
soffocò l’altra. L’importanza di Petra decadde quando l’Impero Romano decise di sostituire le carovane
con imbarcazioni che potessero attraversare il Mar
Rosso.
In seguito Bizantini, Arabi e Crociati si impadronirono di essa, ma nessuno volle mai stabilirvisi e l’antica città fu dimenticata fino alla riscoperta di Burckardt
del 1812.
Ma oggi che il Siq non rappresenta più un ostacolo invalicabile, è senz’altro un percorso di grande suggestione (fig. 2), fiancheggiato da canali artificiali per
la raccolta dell’acqua piovana, da cippi e da monumenti che ricordano la devozione dei Nabatei per la divinità Dushara.
Sul basolato riecheggia il rumore degli zoccoli dei
cavalli che vanno al trotto, per trainare i numerosi
calessi con i quali i Beduini conducono i visitatori,
estasiati dallo spettacolo naturale (fig. 3). E’ alla fine
che si percepisce l’effetto sorpresa: la veduta quasi
improvvisa del Khaznech, il cosiddetto Tesoro, perché
una leggenda narra che esso custodisce il tesoro di un
faraone egizio (fig. 4). Ovviamente ciò non è vero, ma
di Al Khazneh tutto è misterioso: la funzione (tempio
o mausoleo?), il fondatore, la data. Alcuni studiosi lo
attribuiscono al re Aretas III (84-56 a. C.), altri ad
Aretas IV (9- 40 D. C.) altri ancora all’imperatore
romano Adriano (117-138 d. C.)
Esso è celebre per la sua posizione, ma anche per
la sua architettura raffinata. Il monumento, interamen-
Fig. 1
Fig. 2
- 136 -
ROSALBA TRUONO IANNONE
te scolpito nell’arenaria, ha una facciata a due piani,
larga 28 m e alta 40 e la scansione architettonica è
molto elaborata. Il piano inferiore è costituito da un
portico a sei colonne con capitelli corinzi; le due coppie laterali sono appoggiate alla parete.
Fra l’una e l’altra, su di un basamento, sono scolpite delle statue rappresentanti dei cavalieri in groppa
alle loro cavalcature: uno è rivolto ad Ovest e l’altro ad
Est. Pare siano i figli adottivi di Zeus e rappresentino
la salita dell’anima del defunto al cielo. Le sei colonne
reggono un frontone con fregi. Il piano superiore è
diviso in tre parti: due quinte laterali scavate nella roccia e la parte centrale di forma rotonda, la tholos, con
tetto conico sormontato da un’urna. I due blocchi
laterali hanno le medesime decorazioni: due piccole
colonne appoggiate alla roccia, tra di esse sono rappresentate delle figure a forma di scorpione, simbolo
di divinità nabatee.
Ovunque ci sono motivi ornamentali di altissima
qualità: capitelli, fregi con ghirlande di foglie e bacche,
statue come quelle delle Amazzoni scolpite ai lati della
facciata e quella di Isis sulla parte anteriore della tholos;
tutte richiamano antichi modelli ellenistici.
Come gran parte dei monumenti di Petra, l’edificio
aveva una funzione funebre e fu probabilmente scolpito in memoria di Arete III (84-56 a. C.), il cui governo coincise con il periodo di massima prosperità dei
Nabatei.
Il nome gli venne attribuito nel VII secolo dagli
Arabi, convinti che l’urna, posta sopra la tholos, celasse
un tesoro. Ed è stata la loro furia iconoclasta a danneggiare la statua della facciata, come, in seguito, la
distruzione dell’anfora è dovuta ai Beduini in cerca del
favoleggiato tesoro.
Dal Khazneh si percorre la Via delle Facciate, costeggiata da una fila di case (tombe) con decorazioni elaborate, probabilmente di origine assira. I Nabatei ebbero
gran cura nel costruire le tombe in onore dei propri
defunti ed erano soliti abbellirle con statue preziose.
Alla fine della via delle Facciate ecco il Teatro,
costruito prima dai Nabatei, durante il regno di Aretas
IV, poi ampliato e utilizzato dai Romani: interamente
Fig. 3
Fig. 4
- 137 -
SALTERNUM
intagliato nell’arenaria, comprende 33 file e la cavea
che può ospitare fino a 3500 spettatori.
Dopo il Teatro si vedono le Tombe Reali e, prima
fra tutte, di forte impatto per la sua imponente facciata, è la Tomba dell’Urna, scavata su di un alto blocco
di roccia, così chiamata per la presenza all’interno di
una pietra con bassorilievo, rappresentante il defunto.
Qui tutto è ampio ed impressionante: colonne,
architravi, arcate a volta e una gran sala, caratteristica
non solo per i colori rosa e bianco delle pareti di roccia,
ma anche per la precisione con cui sono stati tagliati gli
angoli. Un’iscrizione in greco afferma il riutilizzo dell’ampia sala come chiesa da parte dei Bizantini nel 447
d. C. Gli abitanti di Petra chiamavano questo monumento il Tribunale: al–Mahkanah, poiché nei sotterranei
delle volte venivano rinchiusi i prigionieri.
Vero capolavoro del livello tecnico raggiunto dagli
anonimi architetti delle tombe di Petra è la Tomba
della Seta. Gli autori raggiunsero risultati straordinari
nello sfruttare le venature naturali delle pareti di roccia, ed ottenere effetti cromatici di rara bellezza che, in
questo monumento, si rilevano nelle striature della
facciata che vanno dal rosa al turchese. Come in tutta
l’area monumentale è ben visibile il magistrale lavoro
dei costruttori, nobilitato dalla composizione dell’arenaria a tinte calde e sfumate.
All’interno le tombe di Petra si presentano come
ampie stanze vuote, con grandi nicchie a parete dove
si collocavano le salme. A volte sono così spaziose e
ordinate che, per secoli, fino ad epoca recente sono
state utilizzate dai beduini come abitazioni semistabili.
Quando lo svizzero Burckhardt riscoprì la ‘città
rosa’, le cavità del Siq esterno erano ancora abitate da
pastori della tribù Liyatneh ed alcune tombe erano
usate come stalle. Indicativa perciò è l’enorme Tomba
Corinzia dalla facciata simile a quella del Khazneh e,
non da meno per le sue dimensioni, la Tomba Palazzo,
così detta per la sua somiglianza ai palazzi romani.
L’ampiezza e l’imponenza di questi edifici funerari
lasciano intendere il loro carattere collettivo: probabilmente essi erano destinati ai membri della famiglia
reale.
Fig. 5
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ROSALBA TRUONO IANNONE
A 300 metri da essi è la Tomba di Sesto Fiorentino,
governatore della Provincia d’Arabia nel 127 d. C.,
così come recita un’iscrizione latina. Su di un grande
arco centrale, una figura femminile, forse una
Gorgone di chiara influenza ellenistica.
Al centro della città sono ancora visibili le antiche
tracce di un Ninfeo, situato sotto un grande albero e
una monumentale strada pavimentata dai Nabatei, sui
cui lati troviamo i resti di alte colonne, segno del carattere commerciale dell’antico centro cittadino. La via
colonnata, risalente al I e II sec. d. C., attraversa la città
da Ovest ad Est e la sua solida struttura è tipica dell’architettura romana. E’ solo alla fine della strada che
si arriva all’Arco di Trionfo (II sec. d. C.). Costruito al
tempo delle conquiste di Traiano, esso veniva chiuso
di notte con porte di legno.
Poco più in là sorge uno dei più importanti monumenti di Petra: il tempio di Qasr al-Bint, con le sue
mura ancora in piedi fin dal I sec. a. C.; rivolto a Nord
in onore del dio Dushara, caro ai Nabatei, è alto ben 23
metri.
Una delle tante testimonianze della storia drammatica di Petra e della sovrapposizione in essa di due
grandi civiltà, la nabatea e la romana, è il tempio dei
Leoni Alati, dedicato alla dea Allat da Aretas IV, intorno al 27 d. C., poi travolto dalla ristrutturazione romana, che puntava a far spazio per i nuovi edifici intorno
al cardo massimo.
Ed ora, isolato dal resto della città, inquietante e
imponente, perfettamente adattato alla parete che lo
incornicia, su di un’altura sorge il monumento più
celebre di Petra: Ed-Deir (il Monastero). Sorge lontano
e solitario come solo un re sa, e deve essere (fig. 5). E
proprio ad un re doveva essere dedicato: qui Rabel II,
sovrano nabateo di Petra, dal 71 d. C., contava di essere sepolto. E qui nel silenzio dei monti di Edom, dove
solo il dio Dushara aveva diritto di parlare, il suo popolo lo avrebbe venerato in eterno. Perciò aveva fatto
scavare questo mausoleo senza eguali: 45 metri di
altezza, 50 di larghezza e 9 solo per la tholos.
Ma il sogno di pace e di grandezza di Rabel II non
si avverò: prima che Dushara lo volesse con sé in eterno, il sovrano del deserto fu battuto dagli invasori
romani e il suo regno divenne provincia. Era il 106 d.
C.: dell’ultimo re nabateo resta solo un tempio vuoto
che guarda il deserto.
Per salire da Petra al mausoleo di Ed-Deir occorre
quasi un’ora di cammino a piedi, lungo un tortuoso sentiero di montagna, in parte a gradini tagliati nella roccia.
Lungo la strada s’incontrano vari sepolcri nabatei scavati nella parete; il più significativo è il Triclinium dei
Leoni, chiamato così perché due leoni di pietra, simboli della divinità nabatea, fanno da guardia davanti all’ingresso. Ed-Deir, per quanto fuori città resta il più suggestivo fra i circa 800 monumenti di Petra; non è un caso
se insieme ad Al-Khazneh anni orsono fu scelto per far
da quinta ad un film della serie ’Indiana Jones’.
Visto però dalla cima dello Jebel Harem, il monte
più alto della regione, il mausoleo di Rabel II perde la
sua imponenza e diventa così un puntino tra i monti
deserti di Edom. Ed è allora che si capisce perché lo
chiamano Ed-Deir (l’eremo).
E’ al calar della notte, nel buio delle tenebre e sotto
un manto di stelle, che Petra si concede nella sua ultima e suggestiva immagine: la celebre facciata di AlKhazneh rischiarata dalla luce fioca di mille fiammelle,
mentre il monotono canto di antiche nenie beduine
interrompe il religioso silenzio degli astanti, stupefatti
da un così grande spettacolo!
E’ in questa atmosfera magica che si aggirano le
ombre degli antichi carovanieri nabatei, e al di sopra di
tutti, vittorioso e soddisfatto, è il fantasma di Johann
Ludwig Burckardt.
In groppa al suo cavallo, ancora in abito beduino,
è qui ad attendere i meritati applausi di ringraziamento di tutta l’Umanità.
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Come visitare il Complesso Monumentale di San Pietro a Corte
Il Gruppo Archeologico Salernitano, associazione culturale ONLUS per la valorizzazione e tutela
dei Beni Culturali e la Confraternita di Santo Stefano della Città di Salerno hanno in affidamento il
Monumento, la prima in convenzione con il Ministero dei BB.CC. - Soprintendenza per i B.A.P. e
B.S.A.E. di Salerno e Avellino, la seconda in comodato d’uso con la Curia Arcivescovile di Salerno.
Il loro compito istituzionale è anche quello di valorizzare il Bene Culturale, rendendolo fruibile al
pubblico con aperture settimanali, manifestazioni, mostre tematiche, progetti didattici e visite
guidate.
Orari di apertura al pubblico con visite guidate gratuite:
Gruppo Archeologico Salernitano per l’ipogeo e la Cappella di Sant’Anna
Tel/Fax 089.337331 (segreteria) cell.ri 338.1902507 - 320.8164044
www.gruppoarcheologicosalernitano.org
e-mail: [email protected]
Confraternita di Santo Stefano della Città di Salerno
per l’Aula Palatina e la chiesa di S. Pietro a Corte
Priore della Confraternita Tel. 089.233762 cell. 333.9643285
SABATO
DOMENICA
h. 10.00 – 13.00 – 18.00/21.00.
h. 10.00 - 13.00.
Durante la manifestazione ‘Luci di Artista’, che si svolge a Salerno
nel periodo novembre-gennaio anche il venerdì h. 18.00 - 21.00.
In altri giorni della settimana le visite guidate vanno rigorosamente concordate
su prenotazione ai numeri sopraindicati.
SALTERNUM
Indice
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 3
di Felice Pastore
Longobardi e Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 5
di Pasquale Natella
SALTERNUM
Editoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 17
di Gabriella d’Henry
Giovan Battista Passeri e l’antichità classica tra ‘etruscheria’ e archeologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 19
di Adriano Caffaro e Giuseppe Falanga
I trovatori fanatici: ovvero la passione antiquaria in una commedia di Giovanni E. Bideri . . . . . . . . . . . . . . p. 31
di Maria Rosaria Taglè
Paesaggi costieri e dinamiche antropiche:
appunti sulla costa di Salerno tra preistoria ed età medievale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 37
di Amedeo Rossi e Vincenzo Amato
La religiosità dei Romani . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 53
di Pietro Crivelli
Il barbaro che Roma non sconfisse:
il vandalo Genserico in una similitudine del poeta tardoantico Sidonio Apollinare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 67
di Francesco Montone
L’affresco dei ‘due Santi’ della Chiesa di Santa Maria de Lama di Salerno:
San Nicola e Santo martire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 79
di Mario Moles
L’arte della tessitura dei Guane: trama, voglia o passione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 93
di Nidia Yaneth Garcia, Carmen Gentile e Maurizio Palmisano
A proposito di un raro reperto chirurgico:
il set per intubazione laringea O’Dwyer-Egidi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 101
di Giuseppe Lauriello
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SALTERNUM
SEGNALAzIONI
ANNA FERRARI, Dizionario dei luoghi del mito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 109
di Eliana Mugione
RECENSIONI
MATTEO D’ACUNTO - MARCO GIGLIO (a cura di),
Le rotte di Odisseo. Scritti di archeologia e politica di Bruno d’Agostino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 111
di Luca Cerchiai
MARIA LUISA NAVA, Stele daunie da Trinitapoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 113
di Gabriella d’Henry
CARMINE PELLEGRINO - AMEDEO ROSSI, Pontecagnano I,1.
Città a campagna nell’agro Picentino (gli scavi dell’autostrada 2001-2006) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 115
di Gabriella d’Henry
MATILDE ROMITO, Salerno ‘Provincia archeologica’.
La politica culturale dell’amministrazione Provinciale dal decennio prebellico al dopoguerra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 119
di Monica Viscione
GIUSEPPE COLITTI, Il tamburo del diavolo. Miti e culture del mondo dei pastori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 121
di Felice Pastore
EVENTI
Miti ed eroi del mondo greco. Serata in onore di Gabriella d’Henry . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 123
di Felice Pastore
Museo del Sannio di Benevento. Nuovo allestimento della ‘Sezione Longobarda’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 125
di Maria Luisa Nava
Un ricordo di Vittorio Bracco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 131
di Pasquale Natella
Giornata di Studio a Polla nel ricordo di Vittorio Bracco . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 133
di Felice Pastore
APPUNTI DI VIAGGIO
Petra: biglietto da visita della Giordania . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. 135
di Rosalba Truono Iannone
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Associazione Provinciale di Salerno
84123 Salerno – C.so V.Emanuele,75
Tel 089.2583108 – Fax 089.2583165
E-mail: [email protected]
Internet: www.cnasalerno.it
UNA GRANDE ORGANIZZAZIONE AL SERVIZIO DELLE IMPRESE
La CNA, Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa, da oltre sessant’anni
rappresenta e tutela gli interessi delle imprese artigiane, delle PMI e di tutte le forme del lavoro autonomo.
Una realtà che oggi trae forza e peso da circa 670.000 associati in tutta Italia.
Finito di stampare da Tipografia Fusco, Salerno
nel mese di Novembre 2012
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