UN LIMPIDO R A G G I O D I I T A L I A N I T À 1 (Nov.2010) Io è da 43 anni che vivo in Canada voialtri non so. Comunque c’è un denominatore comune che convoglia le nostre vedute e condiziona la nostra mentalità. Abituati o, forse meglio, assuefatti dal quotidiano multietnico della grande Montreal, la cosmopolita metropoli canadese per eccellenza, non facciamo più caso o diamo ormai per scontato la limpida italianità che illumina l’etere canadese in generale e i cieli della nostra bella provincia in particolare. Ho sempre carezzato nella mente come luminosi raggi di luce le svariate attività con cui la nostra gente emigrante si è implicata nel contesto socio-comunitario di questo Paese che abbiamo scelto come seconda Patria. Nella visuale di questo ragionamento un riverbero di luce nostrana lo irradiano i nostri uomini di spicco che, distinguendosi in modo egregio ed esimio chi in questo e chi in quell’altro campo delle attività sociali, hanno dato e andranno ancora dando un senso di maestosità alla nostra immagine di italiani all’estero e in Patria. Un secondo sprazzo di luce lo proietta in giro un pò dovunque anche la gente comune, quella che fa parte della storia di tutti i giorni! Oscuri operai e semplici massaie che, benché dediti ad umili mansioni, hanno anch’essi una certa importanza. Grazie alla loro assiduità al lovoro, con il loro attaccamento alla terra di origine e con la forte volontà di volerne trapiantare le usanze anche in quella adottiva...vanno stagliando, della nostra italianità, un’immagine chiara e trasparente. Addirittura due risvolti di radiosa italianità che da padre a figlio e di generazione in generazione è giusto e doveroso tenere sempre accesi e far continuare a risplendere onde illuminare pure il nostro futuro cammino di gente emigrante! E di raggi di italianità ce ne sono a bizzeffe nell’aria che ci circonda; solo che, come accennavo all’inizio, non ci facciamo più caso perché divenuti di comune amministrazione. Mi è passato per la testa il ghiribizzo di spazzar via le nuvolette che li nascondono e presentarveli qui sul Sabatino: tenetevi pronti, quindi, che di tanto in tanto ve ne presenterò uno...nella speranza di farvi cosa gradita! 2 (dic. 2010) Qual’è il significato etimologico della parola «Montreal»? Ormai è dato per scontato da tutti che se questa metropoli canadese, quella che ha adottato pure noi come suoi figli, si chiama così è dovuto al fatto che si trova alle falde e su per le pendici del maestoso Mont Royal: che bello soffermarsi a guardare la città, specialmente di sera, da lassù, da quella storica montagna dove sorge pure l’Oratorio San Giuseppe...il cui fondatore, frate Andrea (al secolo Alfred Bessette), è stato da poco canonizzato da Benedetto XVI, che ha fatto registrare nella storia della Chiesa il primo santo quebecchese: un umile e fragile fraticello divenuto un baluardo di santità! Tornando al nome della città, quella appena esposta è la teoria che la storia e la tradizione danno come la piú attendibile sull’etimologia del nome. E se caso mai non fosse così? E se i fatti fossero andati, invece, come sostiene lo storico padre Domenico Menchini, uno dei parroci dell’italianissima parrocchia della Madonna della Difesa? Se cosí fosse, come mi auguro che realmente sia, ne va da sé che un luminoso raggio di italianità è già nel nome stesso della nostra sempre verde Montreal! Padre Menchini, infatti, asserisce che il nome deriva da «Monreale», una cittadina siciliana in provincia di Palermo; ma eccovi la sua argomentazione. In tutto questo c’è di mezzo lo zampino della Signoria dei Medici, che governarono Firenze per circa quattro secoli e che nel 1500 furono gli artefici del nostro Rinascimento. Tra i Medici e i reali di Francia intercorsero legami di parentela grazie ai matrimoni di Caterina e Maria dei Medici rispettivamente con Enrico II ed Enrico IV dei Borboni. Quando Jaques Cartier arrivò sulle rive del San Lorenzo in Francia regnava Francesco I, suocero di Caterina; intanto era arcivescovo della cittadina siciliana di Monreale Ippolito dei Medici, che godeva di ottima stima presso la corte reale. Ora si da il caso che al porporato mediceo passasse per la testa di chiedere al re di Francia che l’esploratore francese battezzasse col nome della città di cui lui era arcivescovo quel villaggetto, di nome Ville Marie, che sorgeva ai piedi del monte soprannominato Royal e che aveva cominciato ad ingrandire...ed il re acconsentì! E se così realmente fu...fa onore anche a noi questo fulgido raggio di italianità irradiato dal nome stesso della grande Montreal. 3 (dic. 2010) Rieccoci alle soglie delle tanto attese feste natalizie cui fanno da sfondo mille tradizioni, una miriade di usanze care, nonché innumerevoli «abusanze» commerciali. Portata in giro nei centri di acquisto sontuosamente addobbati a festa, per la ricordevole foto col babbo natale, la nostra infanzia va sempre più allontanandosi dalla suggestività della grotta di Betlemme; di conseguenza pure l’umanità va sempre più distorcendo il reale e sublime significato della Santa Natività. In ogni modo oggigiorno nelle case di mezzo mondo a farla da padrone, oltre allo sfarzo di ghirlande e luci sui balconi, alle finestre e per le strade, c’è immancabilmente il verde abete a mantenere la tradizione e la caratteristica ricostruzione del presepio a ricordare la nascita del Bambinello in una fredda grotta di Betlemme 2010 anni or sono. E quest’ultimo, senza ombra di dubbio, porta il marchio del made in Italy. Ma da quegli sprazzi di luci che si diramano dall’alberello...non c’è proprio nemmeno un raggio a ricordare la luminosità della nostra terra? Nel 1223 in una campagna di proprietà di Giovanni Velita, nei pressi di Greccio in provincia di Rieti nel Lazio, San Francesco d’Assisi realizzò per la prima volta una rappresentazione vivente della Natività per ricreare la mistica atmosfera della notte Santa a Betlemme...ed anche quella notte nacque, miracolosamente, un Bambinello che il santo d’Assisi ebbe la gioia di cullare fra le sue braccia: prendeva il via la cara usanza del presepio! Ma, guarda caso, non si narra pure che la gente del luogo, per illuminare l’oscurità delle tenebre, si recasse sul posto con torce e fiaccole accese?. Ed ora,questo scintillìo di fiammelle nello sfondo degli alberi circostanti non balza pure al vostro sguardo come un raggio di serafica italianità che manda ancora la sua significativa luce pure dagli alberelli natalizi dei nostri giorni? Da qualche ramo di quello di casa mia, a dispetto del rosso panciuto dalla barba bianca (anch’egli « raggio di italianità » perché Santa Close deriva, neanche a farlo apposta, da San Nicolaus) che distribuendo regali a manca e a dritta sembra beffarsi della «saggia» creduloneria umana, pende ogni anno anche l’arcana calza della vecchia Befana...a spazzar via ogni festa. Un altro magico raggio di italianità che l’andazzo dei tempi va progressivamente relegando nella notte dell’oblio. Infatti, una volta passati a miglior vita noialtri anzianotti, quanto tempo ancora resterà a irradiare la sua calorosa luce di dolcezza la nonnetta dei nostri giorni bambini…nonnetta che resta sempre più intrappolata in qualche clan di streghe halloweeniane? 4 (gen. 2011) A volte, o attratti dalla curiosità o spinti dalle esigenze della vita, andiamo cercando altrove quel qualcosa in più per sentirci maggiormente realizati ed appagati; e intanto questo qualcosa spesso lo abbiamo in casa nostra stessa e non ce ne rendiamo conto. Condizionati dall’ «erba del vicino -che- è sempre più verde», anche per quanto concerne la maggior parte dei nostri bisogni giornalieri ci distacchiamo dal recinto ordinario per andarne a cercare lontano la desiderata soddisfazione. E giammai prendiamo in considerazione il fatto che, esorbitando dal comune andiamo involontariamente trascurando il valore e l’importanza del quotidiano che ci circonda...che, a sua volta, è il sogno che vorrebbero realizzare quelli che ne sono lontani. Un caso analogo è capitato a me allorché ho preso la decisione di entrare qui, in «xxisecolo.ca»; pensa e ripensa agli argomenti da trattare, pure in vista di assicurare una regolare continuità a questa mia collaborazione in rete, ho gettato lo sguardo e ho portato la mia mente nei posti più disparati e nei luoghi più reconditi della multietnica Montreal alla ricerca dei miei raggi di italianità senza nemmeno realizzare che ne avevo uno limpido, luminoso e trasparente proprio a portata di mano. Ora che me ne sono avveduto ho pensato bene parteciparvelo, condividerlo con voi e regalarvelo come augurio personale di inizio d’anno. Senza rivelarvi ancora di cosa si tratta, vi dico solo che lo vado a consultare spesso anche come passatempo; senza contare che entro in esso anche per documentarmi e, perché no, farmi pure una cultura. Cominciando a svelarvi qualcosa, vengo a dirvi che si tratta di un quotidiano dove puoi venire a conoscenza di ciò che succede nel mondo senza uscire di casa e senza spendere nemmeno un soldino per acquistarlo; è una buona rivista e non devi aspettare che ti venga messa nella buca della posta a tempo determinato e la puoi sfogliare a piacimento restando comodamente seduto al tavolino del tuo studio; è un interessante sito on line in cui puoi navigare e andare in giro per i vasti mari del globo in maniera utile, dilettevole e interessante; è una fonte di informazione che ti permette di aggiornarti e di aggiornare a tua volta collaborando in qualche pagina di tua competenza o che più ti aggrada. Mettendo fine alla suspense, sono quasi certo che avete già capito, o almeno intuito, che sto parlando del «xxisecolo.ca»! E’ un chiaro raggio di italianità spuntato agli sgoccioli della prima decade del terzo millennio. In appendice a quanto detto finora, penso sia giusto e doveroso rivolgere un pensiero di complimento ai miei amici e colleghi, Carmela e Giuseppe, che hanno avuto la stupenda idea di dar vita a questo sito web simpatico e carino. Visto che questo sprazzo di luce ha illuminato i miei pensieri nel periodo delle magiche festività appena trascorse, ne approfitto per dedicarlo a voi, ai vostri collaborati ed a tutti i lettori digitali del sito da voi ideato come il più caro e sincero augurio di BUON ANNO NUOVO! (xxisecolo è stato chiuso) 5 (gen.2011) Prima che il mese di gennaio se ne vada mi permetto di porgere un ulteriore augurio di Buon Anno ad una persona che ha fatto brillare il primo raggio di italianità nella mia mente allorché ero ancora un giovane emigrante; raggio di italianità che continua ad illuminare il mio cuore di italocanadese; raggio di italianità che riverbero a mia volta nell’animo dei miei studenti, specialmente di quelli di quinta media che affidiamo alla società dopo aver consegnato loro il diploma con la raccomandazione di comportarsi sempre da buoni cittadini di origine italiana. Ma ecco come si svolsero i fatti. Nel 1976 mia moglie ed io decidemmo di prendere la cittadinanza canadese..per poter partecipare attivamente a tutti gli obblighi politico-sociali del paese che avevamo scelto come seconda Patria. ne facemmo domanda presso gli uffici competenti, ci furono consegnati degli opuscoli da studiare e ci fu dato appuntamento per la tale data e ad una determinata ora presso lo studio di un giudice di pace. E fu così che, nel giorno e all’ora stabilita, ci recammo puntuali al fatidico incontro. Venimmo ricevuti da una distinta signora che sin dal primo sguardo ci ispirò fiducia e simpatia; ci accolse con un bel sorriso di benvenuto e ci invitò a sederci dinanzi a lei. Cominciò ad esaminarci e, di tanto in tanto che si fermava per prendere appunti, noi esaminandi parlottavamo tra noi in italiano. Finito l’interrogatorio (naturalmente in lingua francese), ci fece mettere una firma sui documenti dovuti e, congratulandosi con noi, si disse soddisfatta di essere stata proprio lei a conferirci la cittadinanza canadese. A quel punto io e mia moglie ci stavamo alzando per andarcene...ma lei: «Oh no, -ci disse in lingua italiana- restate pure seduti. Adesso, che la prassi è finita, nessuno ci impedisce di scambiarci due parole nella nostra lingua madre!». E ci intrattenne per una buona mezz’oretta a parlare del più e del meno e di questo e di quest’altro. Dopo di che, accompagnandoci alla porta e salutandoci, ci soggiunse: «Anche se siete divenuti cittadini canadesi, continuate ad essere sempre fieri di essere italiani!». Suppongo che non fummo i soli italiani a passare per quel suo ufficio per ottenere la cittadinanza o per altri motivi; e immagino pure che quel significativo consiglio l’abbia seminato, quasi raggio di italianità, nella mente e nel cuore di molti di noialtri italiani all’estero. Questa insigne signora della comunità italiana di Montreal purtroppo non l’ho più rivista e, sfortunatamente, non ricordo più nemmeno il suo nome...ma mi è sempre rimasta impressa nella mente assieme a quel suo nobile consiglio. Qualora dovesse leggermi, sappia che è lei la persona a cui voglio porgere il mio ulteriore augurio di BUON ANNO...anche in ringraziamento della sua forte carica di italiana puro sangue e, magari, anche col desiderio di poterle stringere di nuovo la mano. E le «carrambate» sono sempre possibili. 6 (feb. 2011) Il mese di febbraio è il mese dell’amore, quel nobile sentimento che uno dei più preziosi granelli di saggezza vuole che sia la cosa più bella che la vita può offrirci e che, in cambio, anch’esso la ridona a sua volta tramite l’unione di un uomo con una donna; ed allora riscaldiamoci gli animi parlando della San Valentino che festeggiamo giusto al mezzo del mese più corto dell’anno. Ma, detto per inciso, è anche la festa dei gay, dei travestiti e degli invertiti? A voi l’ardua sentenza! Da parte mia mi impegno a parlarvi della festa di tutti coloro nel cui cuore arde la fiamma dell’Amore, con la A maiuscola...anche nel rispetto di ogni giusto accomodamento ragionevole (ammesso che ce ne possa essere). Venendo a bomba la San Valentino è un raggio di luce squisitamente italiana che affonda il suo primo riverbero su nel tempo, sin dai giorni dei nostri padri latini della Roma eterna. In quella notte dei tempi erano soliti festeggiare il dio Lupercus con un rito tutto speciale. Un bimbo sceglieva il nome di alcune donne e di altrettanti uomini che avrebbero vissuto in intimità di coppia per tutto l’anno onde assicurare la fertilità della popolazione. In seguito, col propagarsi del cristianesimo, si cercò di sostituire le ricorrenze lupercali con una festività religiosa ad esclusivo indirizzo degli innamorati. Naturalmente ci voleva un santo adatto allo scopo e la scelta cadde su San Valentino sia perchè la sua festa coincideva con il periodo delle lupercali, sia perchè nella sua vita si era dedicato a far nascere amore nei cuori giovanili o a rimettere in equilibrio gli amori vacillanti o in pericolo di sfasciamento. Tanto per cominciare, è dovuta proprio a lui la frase conclusiva (dal tuo caro...) di tante missive, specialmente se sono lettere d’amore...ed eccone il perché. Durante la sua prigionia si era molto affezionato alla figlia cieca del suo carceriere Asterius. Allorché venne portato alla decapitazione mandò un pensiero d’addio alla fanciulla...e detto messaggio terminava, appunto, con la formula, divenuta in seguito quella formale di ogni scritto del genere che si rispetti, «dal tuo caro Valentino». Si narra, poi, che, vedendo due fidanzati litigare, offrì loro una rosa con la raccomandazione di tenerla stretta fra le loro mani unite...ed essi si riconciliarono. Ma eccovi anche un’altra delle sue «trovate» che ha lasciato una profonda traccia nella terminologia amorosa. Per far rinascere l’amore negli animi di un’altra coppia, che si stava «scoppiando», fece volare al di sopra delle loro teste alcune coppie di colombi che svolazzando a festa si scambiavano effusioni d’affetto. E da dove può avere avuto origine l’espressione «tubare come piccioncini» o “tubare come colombe”, se non proprio da questa geniale intercessione proamore prettamente sanvalentiniana? A proposito di trovate, posso aggiungerne una che ho sentito dire un giorno da qualcuno e che mi è rimasta impressa nella mente? San Valentino, in questo benedetto mondo ormai tutto motorizzato, può essere considerato addirittura il protettore dell’automobilista prudente, di quello cioè che « va...lentino»! 7 (feb. 2011) Un raggio di italianità che diffonde la sua luce ormai da tempo è quello dell’Unità d’Italia di cui stiamo festeggiando il 150.mo anniversario. Da buon italiano all’estero non vorrei che l’Anno Domini in corso finisca senza che io abbia espresso un pensiero a riguardo. Inutile dire che lo storico avvenimento di quel 17 marzo 1861 è tutto ad onore e merito (con rispetto parlando per tutti gli altri eroi e martiri del nostro Risorgimento...già fortemente aleggiante nel pensiero e negli scritti dell’Alfieri) di Giuseppe Garibaldi: l’eroe dei due mondi, un guerriero valoroso, un cittadino esemplare, un politico sempre degno di gloria e mai avido di potere. Salpando notte tempo da Quarto fa sosta a Talamone, onde far scorta delle armi a lui segretamente fornite da re Vittorio, per poi puntare su Marsala da dove inizia la sua sempre più incalzante scacciata dello straniero dalle nostre terre; e avanza vittorioso e sale trionfante su per la penisola. A Teano, però, gli va incontro Sua Maestà Reale! É sceso giù dal Piemonte per timore che il nostro eroe attacchi pure lo Sato Pontificio o semplicemente per tastare il polso della sua fedeltà al trono reale? Fatto sta che Garibaldi, da grande cavaliere qual’era... «Viva il re d’Italia!» esclama e dissipa ogni sospetto nei suoi confronti. Al che il sovrano risponde: «Saluto il mio migliore amico!». Che quadretto storico denso di grande significato patriottico questo noto incontro di Teano. Garibaldi in camicia rossa e Vittorio Emanuele sul suo cavallo bianco; manca solo il verde a completare il tricolore della nostra amata Patria. Lo vedo inalberato sul carroccio dell’odierna Padania quale vessillo di una triplice Italia! Intanto, “Grazie…mille!” dice Garibaldi ai suoi compagni d’avventura e, congedandoli, si ritira lui pure a vita privata. Da umile servitore della Patria ha modo di ricaricare il fucile qualche anno dopo per sbarazzarsi degli usurpatori che spadroneggiano in nord Italia. E a Bezzecca gli viene data l’occasione di dimostrare ancora una volta la sua incondizionata fedeltà all’ordine costituito. Anche se a malincuore, infatti, «Obbedisco!» risponde a Sua Altezza Reale che lo invita di nuovo a deporre le armi; dopo di che si ritira definitivamente nella sua Caprera a coltivare i suoi orticelli...senza nemmeno farsi passare per la testa l’idea di poter fare «carriera politica» a corte reale. É per merito suo se noi italiani possiamo essere fieri di festeggiare, quest’anno, il 150mo anniversario della nostra cara Italia unita...oggigiorno diretta, controllata e mandata avanti da una costellazione di partiti capeggiati da una miriade di illustri ed abili (almeno così dicono) personaggi politici che, a furia di sventolare il più in alto possibile i loro stendardi, non si rendono conto che vanno offuscando, inavvertitamente, lo splendore d’ «o sole mio». In considerazione di questo stupendo raggio di italianità diffuso dai palazzi romani, mi sembra veramente una cosa degna e giusta se noi, gente di quest’Italia unita, facessimo eco a Garibaldi nel gridare, a distanza di 150 anni, «Grazie...mille partiti» che ne stabilite il cammino e ne condizionate il destino! 8 (mar. 2011) É in Piazza Venezia, a Roma, che sorge il Vittoriano, il cuore storico della nostra amata penisola, un simbolo indiscusso dell’Unità d’Italia! La sua costruzione, che con aggiunte e modifiche successive si è protratta fino al 1935, fu decisa nel 1878; nel 1880 si ha un primo bando di concorso e nel 1882 se ne ha un secondo riservato a soli italiani. Su 98 progetti viene scelto quello del marchigiano Giuseppe Sacconi, secondo cui doveva essere «una sorta di rappresentazione all’aperto che aveva lo scopo di rappresentare e celebrare la storia e i protagonisti dell’epoca risorgimentale in Italia»; quasi un «foro» aperto ai cittadini in una specie di piazza sopraelevata nel cuore della Roma imperiale, simbolo di un’Italia Unita dopo la Roma dei Cesari e dei Papi! Il complesso architettonico del Vittoriano si allinea in un portico lungo il quale sfilano colonne di stile corinzio che ci riportano agli splendori del Tempio di Nike sull’Acropoli di Atene. Sui propilei ai lati del portico si librano nell’aria due altri richiami alla Vittoria: su di uno si erge la quadriga della Libertà e sull’altra quella dell’Unità. Ma questo virtuale filo conduttore ispirato alla Vittoria non deve portare fuori strada per quanto concerne il nome di questo monumento nazionale. Questo, infatti, è legato al re Vittorio Emanuele II, il Padre della Patria, in onore del quale fu ideato e costruito. E rappresenta appunto re Vittorio la statua equestre che giganteggia dinanzi all’edificio. Opera di Enrico Chiaradia e di Emilio Gallori fu inaugurata nel 1911, con tutto il complesso che gli fa da sfondo, da Vittorio Emanuele III in occasione del 50mo anniversario dell’Unità d’Italia. Il significato profondo del Vittoriano, detto anche «torta nuziale» e «macchina da scrivere» (a causa della forma), venne sottolineata a suo tempo dall’ex presidente della Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi allorché ne riproponeva il valore Patrio che deve essere al di sopra del suo valore artistico. Scrigno sacro del Vittoriano, monumento ricco di simboli di rimandi e di memorie travagliate e gloriose, è l’Altare della Patria con cui tutto il complesso è a volte identificato. Nell’Altare della Patria, parte integrante del Vittoriano, sono sepolti i resti di una salma sconosciuta selezionata tra quelle dei caduti durante la prima guerra mondiale: vi sono conservati i resti del Milite Ignoto...a cui è dedicato un monumento in ogni città e paese dell’Italia. A coronamento del sommo portico, in corrispondenza delle sedici colonne corinzie, vi sono le statue delle Regioni d’Italia, che all’epoca erano appunto 16: tutte opere di scultori provenienti dalla regione rappresentata. Invece sono tutte dello stesso autore, Eugenio Maccagnani, le statue delle 14 città sedi di governi nobiliari convergenti alla monarchia sabauda; è per questo che sono poste alla base del monumento equestre di re Vittorio. Diversi, ma sentitamente significativi, infine, i simboli vegetali ricorrenti nel nostro Patrio monumento: la Palma che simboleggia la Vittoria, la Quercia che rappresenta la Forza, l’Alloro che sottolinea la Gloria, il Mirto che sta a ricordare il Sacrificio e l’Ulivo che sta a significare la Concordia. Il Vittoriano, detto anche Altare della Patria e ideato per onorare il primo re dell’Italia Unita, è un raggio di italianità che riflette la gloria del nostro passato...sui sentieri del presente, nonché sul cammino del futuro! 9 (mar. 2011) Oltre al Vittoriano, ci sono ben altri simboli a rappresentare e identificare la nostra Patria nazionalmente e internazionalmente parlando. Due di questi, il tricolore e l’Inno di Mameli, sono i più conosciuti e incontestati; ragion per cui mi limito a darne solo qualche accenno prima di passare a parlare più dettagliatamente degli altri meno noti o perlomeno non tanto presi in considerazione. IL nostro tricolore possiamo ritenerlo gemello di quello francese perché nasce nello stesso periodo, nonché dagli stessi valori di indipendenza sociale e dai medesimi ideali di libertà; viene quasi concepito dal bisogno di scrollarsi di dosso il dominio straniero. Viene decretato ufficialmente il 7 gennaio 1797 ed entra in vigore, nella Costituzione della Repubblica italiana, il primo gennaio del 1948. Il distintivo della nostra Patria è un tricolore : il verde dei nostri territori, il sangue dei nostri martiri e il bianco dei nostri monti. L’inno nazionale, invece, fu scritto da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro...nel 50mo anniversario della nostra bandiera. E i «Fratelli d’Italia» entusiasmarono l’animo dei nostri eroi e ne accompagnarono ogni loro passo bellico durante tutto il Risorgimento, allo stesso modo che sottolinea oggigiorno ogni manifestazione di carattere nazionale. Allorché divenne pure simbolo della Repubblica fu preferito come inno nazionale al «Va pensiero» e alla «Leggenda del Piave», tutto questo nel 1946, un 12 ottobre...medesimo giorno, guarda caso, in cui Colombo scopriva l’America. Simbolo meno noto dei precedenti è l’Emblema della Repubblica che è caratterizzato da quattro elementi: una stella, una ruota dentata, da un ramo di ulivo e da uno di quercia...con, alla base, una fascia rossa con dentro, scritto in bianco, «Repubblica Italiana». Il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della nazione, nonché concordia e fratellanza; il ramo di quercia sta a sottolineare la forza e la dignità della nostra gente, mentre entrambi i ramoscelli sono l’espressione delle specie più tipiche del nostro patrimonio erboreo; la ruota dentata è in acciaio e sta a testimoniare l’attività lavorativa, così come da Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»; la stella bianca a cinque punte, detto anche «stellone d’Italia», infine, è uno degli oggetti più antichi del nostro patrimonio iconografico ed è sempre stata associata alla personificazione dell’Italia diventandone la sua tradizionale rappresentazione proprio in epoca risorgimentale. Il nostroi emblema è opera del bozzettista Paolo Paschetto che fu selezionato tra ben 500 concorrenti. Altro simbolo da ricordare è lo Stendardo che è, tutto sommato, un segno distintivo del Presidente della Repubblica, che può anche portarne delle modifiche. Quello dell’attuale Capo dello Stato ha una bordatura quadrata di colore azzurro simboleggiante le forze armate da lui comandate; dentro detta bordatura vi sono i colori della nostra bandiera nazionale intrecciati, a forma di quadrati, uno dentro l’altro; in quello centrale, il verde, figura pure l’emblema di cui ho parlato poco fa; quello attuale del Presidente Napolitano data dal 9 ottobre 2000 ad oggi. IL primo stendardo risale al 1946 e fu la stessa bandiera nazionale; fu nel 1965 che si decise di istituire uno stendardo specifico per il presidente e quello di allora, Giuseppe Saragat, ne scelse uno azzurro caricato, anch’esso, dall’emblema; Cossiga adottò un tricolore quadrato con bordo azzurro; Scalfaro ripristinò quello del 1965; quello attuale è lo stesso di quello adottato da Ciampi. Ogni volta che vediamo inquadrato, per televisione, il presidente della Repubblica nei suoi studi del Quirinale il nostro sguardo viene richiamato da una bandiera nel cui campo blu sfavillano dodici stelle dorate disposte a forma di cerchio: è quella dell’Europa Unita che ormai affiencherà per sempre il nostro tricolore tradizionale. 10 apr. 2011) «Santo celere»: bisognerebbe dirlo di San Francesco d’Assisi, visto che ben presto sarà rispettata la vox populi-vox Dei che ha invocato Giovanni Paolo II «Santo Subito». Comunque se la Congregazione per la causa dei santi avesse un libro dove catalogarne i tempi record delle loro canonizazioni, San Francesco d’Assisi avrebbe il primato in un simile gueness. Morto nell’ottobre del 1226, papa Gregorio IX lo proclamò santo, quasi in tempo reale, il 16 luglio del 1228, soltanto dopo due anni dalla sua morte: santità celere, dunque, la sua! E a proposito di primati, vorrei spezzare un’altra lancia in favore dell’umile fraticello che consacrò la propria vita, e quella dei suoi seguaci, alla povertà, all’ubbidienza e alla castità, come attestano i tre nodi del cingolo bianco che portano a mo’ di cintura sul loro saio di color marrone. Visto che ci sono pure cattolici dalla lingua «involontariamente» facile, non sembra pure a voi che il nostro sia uno dei santi meno bestemmiati? Considerando che la fede ci assicura che la vita non finisce con la morte (e, se così non fosse, che parleremmo a fare di santità?), mi permetto di passare in rassegna alcuni dei fatti salienti del suo passaggio su terra e che favorirono la sua record-evole canonizzazione. Figlio di madonna Pica e di Pier di Bernardone, deve il suo nome alla professione di venditore di stoffe del padre che svolgeva il suo fruttuoso commercio soprattutto in Francia. Dopo un periodo giovanile disordinato e mondano, un giorno in una chiesetta di campagna gli capita sottomano un libro del vangelo. Apre una pagina a caso e vi legge: «Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che hai e seguimi!». Fu quasi il fatidico colpo di fulmine: si innamorò del Cristo, lo seguì e cominciò non solo a predicare il Suo vangelo al mondo intero, ma addirittura a viverlo alla lettera. Portato dal padre, che non condivideva la sua scelta di vita, dinanzi al tribunale ecclesiastico, si spogliò completamente delle sue vesti e glie le restituì in publica piazza...al punto che il vescovo dovette coprirlo col suo mantello. «Attenti al lupo» canta Lucio Dalla; e San Francesco uno dei suoi tempi lo ammansì facendolo divenire buono e generoso nei confronti del popolo che fino ad allora aveva tenuto sottomesso ed oppresso. «Pace e bene» è il motto che ancora oggi contraddistingue il triplice ordine di frati da lui fondato. Ed ecco che nel 1219 si reca fino in oriente per predicare il Vangelo al Saladino in quei tristi giorni della quinta crociata. Nel 1223 allestisce a Greggio la rappresentazione vivente della nascita del Bambinello Gesù: ha origine la mistica tradizione del presepio. Il momento più tangibile della sua santità scocca nel 1224 allorché sul monte della Verna, il 17 settembre riceve le sacre stimmate: più nessuna differenza tra lui e il Cristo! Forse è proprio in quello stesso anno che, quasi a ringraziare Dio per le sofferenze con cui lo ha messo alla prova, “intona” il “Cantico delle creature” o “di frate sole”, che è il primo documento del passaggio dal latino al volgare: il primo raggio di italianità della nostra bella madre lingua! 3 ottobre 1226, dolce e sereno passaggio dalla terra al cielo e, naturalmente, anche motivo sine qua non verso quel brevissimo e rapido processo di canonizzazione che lo porterà agli onori dell’altare dopo solo due anni. E da quei lontani giorni del Medio Evo è diventuta, la sua, un’aureola irradiante luce di santa italianità che dalla nostra Umbria verde va ad illuminare i cieli dell’intero universo. 11 (apr. 2011) «Santo subito»...ed in effetti Benedetto XVI, oltre ad essere il primo papa a proclamare santo il suo diretto predecessore, lo farà anche in tempo da record, nel sommo rispetto della volontà popolare che stimava Vojtyla santo prima ancora della sua morte avvenuta il 2 aprile del 2005. Ed ecco che tale volontà popolare è stata pienamente soddisfatta con la beatificazione del papa polacco questo primo maggio: festa del lavoro e festa della Divina Misericordia; due ricorrenze particolarmente significative e care al compianto sommo pontefice. Karol Vojtyla, infatti, vero uomo nelle vicissitudini della vita, fu un minatore in diretto contatto con quella gente operaia e con quegli onesti lavoratori la cui festa ricorre appunto il primo maggio. Fu grazie a suor Faustina Kowalska che venne istituita la festa della Divina Misericordia che proprio Giovanni Paolo II fissò ugualmente al primo di maggio: ecco perché il papa lavoratore è stato beatificato esattamente in tale data. Si dice che fu chiesto al cardinale Ratzinger, immediatamente dopo la morte di Giovanni Paolo II il Grande, se realmente sarebbe stato fatto «subito» santo; e il porporato rispose: «Lasciamo che sia il prossimo papa a deciderlo!», senza immaginare nemmeno che quel «prossimo papa» sarebbe stato lui personalmente. Ed ecco che appena salito sulla cattedra di Pietro ha fatto sì che il prefetto delle cause dei santi, Angelo Amato, desse il via al processo di canonizzazione del suo predecessore: processo che per normale routine non può cominciare prima di cinque anni dalla morte; la motivazione della pronta apertura di detto processo si deve appunto alla fama di santo che aleggiava intorno alla figura del pontefice polacco già da quando era ancora in vita. Due anni dopo la sua morte viene riconosciuta la sua eroicità e gli viene conferito il titolo di servo di Dio...e ci si mette in attesa del miracolo che lo porterà ad essere beato; ed ecco che entra in scena una suora francese, suor Marie Simon Pierre Normand: viene guarita, dalla sera alla mattina, dalla malattia di Parkinson...la stessa che, guarda caso, iniziata nel 1991 condurrà lo stesso futuro santo alla casa del Padre. Ma cosa aveva di così speciale Karol Vojtyla da essere globalmente tanto ben voluto? Prima fra tutte fu la sua semplicità nell’essere uomo: uomo tra gli uomini, malato tra i malati, operaio tra gli operai, grande fra i grandi, nonché santo con i piedi ancora in terra. Colui che, modestia a parte, mi piace definire «il papa anche dei NON cattolici» fu il papa, quindi, di tutte le genti...così come san Paolo (di cui porta anche il nome) fu l’apostolo delle genti. Intanto fu pure il leader che fece paura al comunismo...con cui seppe allacciare rapporti di amicizia, grazie anche all’altro grande della politica sovietica Mikail Gorbacev. E che dire del muro di Berlino? Non fu forse lui a dargli la spallata che ne determinò il crollo? Il futuro della società, senza ombra di dubbio, sono i giovani. Ebbene, i momenti più cari al papa del «se sbaglio mi corriggirete» furono gli incontri con loro e proprio per essi indisse la giornata mondiale dei giovani che di anno in anno ha luogo in una diversa città del globo; nel 2000 li definì «le sentinelle del mattino all’alba del nuovo millennio». Altro punto importante del suo pontificato fu l’apertura a un dialogo costruttivo con le altre ideologie religiose: basti pensare all’imponente presenza, in occasione delle sue esequie a Roma, di gente di ogni ceto sociale, di personalità di ogni profesione religiosa, di ogni credo politico e di ogni appartenenza etnica. Dal primo maggio prossimo comincerà «ufficialmente» a fare miracoli; ma nessuno mi toglie dalla testa che la mano della Madonna di Fatima abbia miracolato anche lui. Alì Agca, il suo attentatore in Piazza San Pietro, si disse sorpreso di aver sbagliato il colpo, soggiungendo di avere avuto la sensazione che una mano invisibile avesse deviato la pallottola da lui sparata! 12 (mag. 2011) Se mi permettete, vorrei proporvi un raggio di italianità che, partendo da Roma –la caput mundi-, si proietta in lungo e in largo per far brillare la sua luminosità un po’ dovunque nel mondo. Sto parlando di «Gran Sportello Italia» magistralmente condotto dalla solare Francesca Alderisi: l’emigrante in Patria! Già in precedenza ha condotto, per sette anni ininterrotti, quello che al tempo era “Sportello Italia”; attraverso detta chicca televisiva, fatta ad arte e mestiere per noialtri emigranti, si è andata conquistando, settimana dopo settimana e di anno in anno, l’universale simpatia dei tanti italiani all’estero sparsi nei quattro angoli della terra. Dopo qualche anno di riposo è ritornata alla grande in tutti i sensi. Laddove prima la durata era solo di mezz’ora, adesso abbiamo un’ora intera per tenere lo sguardo fisso sul televisore a goderci la “nostra puntata” settimanale del sabato pomeriggio; lo stesso frontespizio si è ingrandito ad hoc…diventando, infatti, “GRAN SPORTELLO ITALIA”; e poiché non c’è due senza tre, si è arricchito pure di una “nota” in più: l’ultima parte di questa singolare finestra sul mondo è allietata dalla calda voce di Agostino Penna, ormai entrato anche lui nel cuore di tutti per la sua forte carica di simpatia. Il tema principale di questo interessante programma televisivo è basato sulle pensioni e analoghe problematiche concernenti gli italiani all’estero. Tutte le domande a riguardo, che giungono negli studi di Saxa Rubra a Roma, ricevono dettagliate ed esaurienti risposte dagli ospiti competenti che la Alderisi invita di volta in volta nella sua trasmissione. Momenti di nostalgia e attimi di toccante emozione vengono dati dal «Com’era…com’è » o da «Paese mio»: servizi accuratamente girati in caretteristici paesini dell’Italia…segnalati a Francesca, idea stupenda, da chiunque di noi ne faccia richiesta. Siamo nell’anno dei festeggiamenti del 150mo dell’Unità d’Italia e il tricolore la fa da padrone dovunque ci sia nel mondo anche il minimo raggio di italianità. E la «padrona» di Gran Sportello Italia al nostro caro simbolo ci ha sempre tenuto; ne dà prova, infatti, il suo mitico telefono «tricolore» con cui contatta tanti italiani all’estero per dare spazio a chiunque di noi abbia qualcosa di suggestivamente italiano da partecipare al mondo intero; e abitualmente contatta qualcuno di quei tanti sconosciuti che hanno sogni nascosti nei loro cassetti…e una sua «carrambata» riesce a realizzarli; attraverso questo suo epico telefono vecchio stampo si propone di dar voce a persone comuni, a gente da «storie di tutti i giorni»…laddove stampa e giornalismo generalmete puntano i loro riflettori sulla gente di spicco. Non tutti i mali vengono per nuocere, anzi a volte diventano il trampolino di lancio per dare maggiore impulso e un più vasto raggio di azione ai nostri progetti. Ed è così che la volitiva paladina degli italiani nel mondo, approfittando della pausa televisiva, si è recata ad abbracciare personalmente i suoi beniamini ovunque essi si trovassero. Prende la decisione di «girare il mondo non come turista, ma come emigrante» e le tappe di queste sue visite, quella di Montreal compresa, le conosciamo tutte. Intanto attraverso questi suoi contatti e strette di mano la «più amata dagli italiani all’estero» ha potuto far sì che la ripresa del suo programma in tv divenisse l’attuale Gran Sportello Italia: «un’ora di televisione costruita «a somiglianza del pubblico»; «un racconto di storie di chi è partito e di chi è tornato»; «un portare l’Italia nelle case del mondo»; un modo virtuale per noi emigranti di restare uniti alla nostra terra lasciata…grazie al dinamico staff di Gran Sportello Italia, brillantemente condotto dalla tutta nostra Francesca Alderisi…insignita di recente del titolo di Cavaliere della Repubblica! E non è tutto perché, se in passato è stata lei a voler andare a stringere la mano agli italiani all’estero, adesso sono questi a reclamarla in mezzo a loro in determinati momenti di sentita italianità. Dal 2 al 5 giugno, infatti, è stata invitata dalla comunità italiana di Filadelfia a fare da madrina ai festeggiamenti della Repubblica, organizzati dai nostril connazionali lì residenti, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. E l’esempio di questa sua “toccata e fuga” avrà di certo la sua giusta ripercussione in lungo e in largo per il mondo: è stata, forse, aperta una nuova pagina nella storia della beneamata italiana nel mondo? 13 (mag. 2011) Eccomi a voi con un raggio di italianaità che mi piace definire «secolare», benché sia di carattere prettamente religioso. Siamo, infatti, nell’anno in cui si festeggiano ufficialmente i 100 anni della parrocchia che ha sede in quella chiesa divenuta ormai il simbolo della nostra stessa identità di italiani in Canada. E, a dire il vero, la «Madonna della Difesa», la nota «chiesa a Dante», lo meritava per davvero di essere iscritta nel registro dei Luoghi Storici del Canada, nell’albo dei Patrimoni religiosi del Quebec, nonché di venire consacrata, il 15 maggio 2011, da Mons. Jean Claude Turcot…onde fregiarsi dei dovuti gonfaloni sia sociali che religiosi. La chiesa a Dante: che accostamento simpatico e toccante al tempo stesso! Se una chiesa è simbolo di fede, Dante è il padre della nostra bella lingua; fede e lingua non sono forse due di quei profondi valori che accompagnano l’uomo dalla nascita alla morte? E fede e lingua sono state pure quelle cose preziose che nessun emigrante ha pôtuto fare a meno di portare con sé, gelosamente nascoste in un angolino della tanto decantata valigia di cartone. La chiesa a Dante: un’espressione che mi dà un sussulto al cuore ogni volta che mi giunge all’orecchio, e forse non soltanto a me! Come parrocchia italiana è la seconda, dopo quella della Madonna del Carmine, ad essere stata istituita in terra canadese; ma come edificio è il primo in assoluta ad essere stato eretto dai padri dell’emigrazione nella Piccola Italia di Montreal. Ma perché le venne dato questo nome? Il Molise è una delle regioni più piccole dello stivale, ma la comunità molisana è fra le più numerose a testimoniare la dinamica presenza italiana oltre oceano. I molisani di Casacalenda, in particolare, dovevano avere abbastanza «voce in capitolo» a quei tempi perché il nome della nostra centenaria parrocchia è legato appunto a questa suggestiva cittadina in provincia di Campobasso. In effetti è in una contrada di Casacalenda che sorge un antico santuario dedicato alla Madonna della Difesa, dove nel 1890 si verificarono delle apparizioni della Vergine Maria; e fu così che, sia per fede che per nostalgia, vollero «trasportare» la sentita e cara memoria di questo loro santuario qui a Montreal. La piccola cappella degli inizi, però, comincerà a divenire la maestosa chiesa attuale soltanto dal 1918 in poi. A progettare (con l’aiuto dell’architetto Roch Montbriand) e a rendere imponente questo nostro Monumento Storico ci pensò l’allora 29nne maestro vetraio Guido Nincheri che, oltre agli affreschi e alle vetrate, impreziosì le pareti interne con sculture su marmo di Carrara e travertino. Chi, per la prima volta, posa lo sguardo sull’iconografia, realizzata in colori vivaci su in alto nella volta dell’abside, a primo acchito resta sorpreso e quasi sconcertato nel vedere lì dipinti personaggi storici del tempo, tra cui Benito Mussolini. Mi si consenta di terminare con una osservazione del tutto personale a riguardo…anche perché si vede bene in vista pure sulla Casa d’Italia un fascio littorio, nonché considerando che fu proprio in quei primi decenni del xx secolo che si cercò di dare vita a tanti Enti ed Istituzioni sociocomunitarie che oggigiorno custodiamo nel cuore come le impronte dei primi passi mossi dalla nostra gente in terre forestiere. Immagino che per realizzare questi…sogni emigranti un supporto economico e un sostegno morale dovette essere stato dato pure dai governi di allora, sia della Patria nativa che di quella adottiva. Detta considerazione mi porta a concludere che sia un puro atto di deferenza il «ricordo» dato dal pennello del Nincheri a quegli illustri che, su nel tempo, vennero incontro alle esigenze di quanti andavano a guadagnarsi un pezzo di pane in terre lontane…accompagnati lungo il cammino anche dallo sguardo benedicente della Madonna della Difesa. 14 (giu. 2011) Una delle istituzioni umanitarie universalmente riconosciute affonda le sue radici nel nostro Risorgimento ed è, quindi, un raggio di italianità di singolare importanza che vengo a mettere come squisita ciliegina sulla torta del 150mo dell’Unità d’Italia. Prima di svelarvi il nome di detta istituzione permettetemi di pensare al Risorgimento come a un concentrato di guerra e pace, di sconfitte e di vittorie, di disastri e di ricostruzioni, di morte e di rinascimento, di dissidi e di unità. Uno dei combattimenti più sanguinosi di questo glorioso momento della storia italiana fu quello del 1859 allorché, sulle alture di San Martino e Solferino, i franco-piemontesi sconfiggevano gli austriaci e convogliavano le armi verso la pace di Villafranca. Intanto di quella cruenta battaglia ci fu chi ce ne lasciò un accorato ricordo…divenuto quasi il seme da cui nacque la frondosa pianta che va sotto il nome di Croce Rossa! «Reporter» del fatidico evento fu il filantropo Henry Dunant, nato a Ginevra l’8 maggio del 1828 e figlio d’arte, in tal senso, visto che il padre Jean Jacques si interessava ai bimbi orfani e la mamma Antoinette Colledon si prendeva cura di poveri e ammalati. Il Dunant era sceso in Italia per « affari»; doveva consegnare una petizione a Napoleone III ed intanto alla vista di tanti morti e dei tanti soldati feriti, si «anticipò crocerossino» nel coordinamento dei servizi di soccorso di campo che aveva notato non essere all’altezza della situazione. Ritornato in Patria si sentì in dovere di lasciare all’umanità «Un souvenir de Solferino»; «Un ricordo di Solferino» lo possiamo dividere in due parti: in una prima si ha il racconto della guerra lì combattuta; in una seconda si sottolinea la trascuratezza nel soccorrere i feriti che necessitavano di cure. «Un ricordo di Solferino» è un libro che, pubblicato nel 1862, fa ben presto il giro del mondo riscuotendo gli applausi pure di Victor Hugo e di Charles Dickens; è il diario di un evento bellico vissuto per caso e che scrive per sensibilizzare la coscienza dell’uomo sulle immediate esigenze causate dalle guerre; con questo libro Henry Dunant affida alla «terra», come già detto, il seme da cui germoglierà la sacrosanta Croce Rossa…in una significativa bandiera a campo bianco! Se mi permettete una parentesi vengo a dirvi che il nobel per la pace fu istituito nel 1901 e fu assegnato per la prima volta proprio al Dunant; inoltre nel 1917 be nel 1944, subito dopo le due guerre mondiali, quindi, veniva assegnato alla «sua» Croce Rossa Internazionale. Accennavo in precedenza che, in quanto a filantropia, Il Dunant può considerarsi un figlio d’arte; ed infatti uno dei libri che mamma Antoinette consigliava al figlio era «La capanna dello zio Tom» di Herriot Beecher Stowe: una lettura amena per giovani che difende a spada tratta l’abolizione della schiavitù. In «Un ricordo di Solferino» Dunant a un certo punto immagina che gli venga posta questa domanda: «Perché raccontare scene di dolore e di desolazione?»; al che risponde con un’altra domanda che è anche l’ispiratrice dei principi che sono alla base della sua fondazione: «Non ci sarebbe un modo di costituire delle società umanitarie il cui scopo sia quello di portare aiuto ai feriti in tempo di guerra attraverso volontari generosi e ben qualificati?». Appoggiato da altre eminenti personalità del suo tempo: Moynier, Dufour, Appia e Mounoir dà il via alla stesura delle cosiddette «convenzioni» che il comitato dei cinque redige e firma, Le convenzioni sono una serie di trattati sotoscritti a Ginevra; costituiscono un corpo giuridico di diritto internazionale; sono motivate dagli orrori delle guerre; sono dirette a tutti i sovrani d’Europa per proteggere le associazioni umanitarie che operano in soccorso dei feriti sul territorio di guerra. E termino questo raggio di italianità con due date storiche a riguardo. Nel 1863 nasce il Comitato Internazionale per il soccorso ai feriti di Guerra e nel 1864 viene adottata la prima convenzione dai rappresentanti di dodici paesi tra cui gli Stati Uniti. 15 (giu. 2011) Quello di cui mi accingo a parlarvi è un raggio di italianità che, ispirandomi al «fuoco nel fuoco» di Ramazzotti, potrei quasi definire un raggio nel raggio…della Croce Rossa illustrato la volta scorsa. Se la storia di questa istituzione andiamo a paragonarla alla durata di una giornata, posso quasi asserire che il 1859 sta all’aurora, come il 1848 sta all’alba. Nei frangenti di quell’anno, infatti, l’umanità intera veniva a scoprire il volto di un altro mostro sacro della filantropia che risponde al nome di Ferdinando Palasciano…un raggio di italianità tutto nostrano questa volta! Ferdinando Palasciano, giovane ufficiale dell’esercito borbonico nonché bravo medico chirurgo, si trovava a Messina durante i moti insurrezionali del Risorgimento in quel 1848 per assistere i feriti di guerra. Animo magnanimo oltre ogni dire, avvertì il dovere di soccorrere e prestare cure pure ai feriti nemici…siciliani in quel caso; tutto questo nonostante il divieto perentorio del generale Filangieri che, in seguito ai ripetuti atti di insubordinazione del medico di campo, lo condannò spietatamente a morte. «I feriti, a qualsiasi esercito appartengano, sono per me sacri e non possono essere considerati come nemici. E, se la vita dei feriti è sacra, la mia missione di medico è molto più sacra del mio dovere di soldato!»…fu con queste stupende parole che cercò di difendere la sua causa; ma la condanna a morte gli venne commutata in un anno di carcere per intercessione di Ferdinando II dei Borboni in persona che aveva in grande stima e considerazione il nostro dottore che, benché di animo grande, era piccolo di statura; infatti, perdonandolo, il sovrano ebbe a dire: «Che male po’ ffa’? É accussì piccerillo!». E il nostro, preso dalla sua vocazione filantropica, continuò a curare i suoi feriti pure dietro le sbarre. Ma è solo alla caduta dei Borboni, in seguito alla Spedizione dei Mille, che può dare libero sfogo al suo pensiero, esprimere liberamente le sue vedute e proporre le sue giuste teorie in materia di soccorsi ai feriti di guerra sia della «riva bianca» che della «riva nera». «Bisognerebbe che tutte le potenze belligeranti, nella Dichiarazione di guerra, riconoscesero il principio di neutralità dei combattenti feriti per tutto il tempo della loro cura». Queste nobili parole le propose apertamente al Congresso Internazionale dell’Accademia Pontaniana a Napoli nel 1861; e queste nobili parole fecero il giro del globo in un batter d’occhio; e queste nobili parole giunsero pure all’orecchio di Henry Dunant che, udite udite, le pose fra le basi fondamentali della Convenzione di Ginevra del 1864…e, quindi, a fondamento della stessa Croce Rossa: 1859-1848, fuoco nel fuoco\raggio nel raggio! «Garibaldi fu ferito, fu ferito ad Aspromonte»…e venne curato proprio nel napoletano da rinomati medici del tempo; ma caso volle che si dovette ricorrere al consulto del luminare Palasciano. E il nostro medico senza frontiere altro non ebbe a fare che consigliare l’estrazione della pallottola che si trovava «ancora» nel malleolo destro dell’eroe dei due mondi; intanto lì per lì nessuno volle dargli ascolto, ma ognuno dovette rendersi conto dell’abbaglio preso solo in appresso. Alla luce di questa lampante mancanza di fiducia nei suoi confronti cadono a proposito le parole del pronipote Marco Palasciano quando dice: «Il mio prozio lottò tutta la vita contro l’altrui ottusaggine». E per terminare eccovi qualche altra breve nota sulla sua vita. Nato a Capua il 13 giugno 1815, muore a Napoli il 28 novembre 1891; sposò la russa Olga de Wavilov e conseguì ben tre lauree: Belle arti e filosofia, Veterinaria, Medicina e chirurgia. Ma cosa resta oggi di lui? Oltre alle sue grandi opere e al suo sommo impegno verso il genere umano è ricordato, tra l’altro, dall’Associazione Ferdinando Palasciano che «è stata costituita da medici e professionisti operanti in Capua. Reca il nome dell’illustre medico capuano che ha lasciato, nella storia della nostra città, la sua esemplare attività di rinomato chirurgo e docente di chirurgia nell’Ateneo Napoletano». 16 (lug. 2011) Quando il tempo era meno tiranno o, forse, quando la gente si accontentava del necessario riposo, all’umana società non passava nemmeno per l’anticamera del cervello la parola «stress»…che, se fortunatamente non è neanche un termine italiano, sfortunatamente è entrato anch’esso nel nostro vocabolario, nonché pure sulla bocca di noialtri italiani in Patria e all’estero. Una volta di un tempo non tanto lontano a dire il vero, per esempio, si era tutti convinti che le vacanze andavano prese una volta all’anno; nessuno si lamentava e ognuno si preparava di conseguenza e programmava il tutto con serenità e spensieratezza di coscienza e di mente. Intanto col denaro che, grazie alle carte di credito, è sempre meno visibile ma sempre più alla portata di mano; grazie anche all’industria ristoratrice e alle agenzie di viaggio che ti appianano la strada verso incantevoli località turistiche…il pensierino di prendere le vacanze un po’ quando si può ognuno lo fà e, quasi come contrappeso o come scusante, il lavoro diventa sempre più stressante e le vacanze sempre più necessarie. Comunque le vacanze «classiche», quelle che come la buona musica fanno sempre epoca, sono quelle «della costruzione» per noi italocanadesi e quelle del «ferragosto» per gli italoitaliani, se mi permettete questo termine. Poiché quelle di qui sono belle e passate alla storia pure quest’anno, andiamo ad approfondire quelle che si stanno ancora godendo i nostri «fratelli laggiù». Queste itale vacanze affondano le radici nell’antica Roma dell’epoca augustea. In quel periodo, come dice la storia, e appunto in tal mese dedicato all’imperatore Augusto erano soliti celebrare quel momento dell’anno che sottolineava la fine dei duri lavori nei campi e si rendevano riti propiziatori e cerimonie di ringraziamento a questa o quell’altra divinità pagana, e per tutta la durata del mese si davano feste in onore degli dei. Una delle divinità particolarmente onorata era Diana, la cui festa ricorreva il 13 agosto e coincideva con l’apice della «pioggia di Perseide», fenomeno astronomico che aveva il vantaggio di essere meglio osservato nelle ore immediatamente prima dell’alba. Detto evento celeste altro non è che quello che ancora oggi si ripete nelle calde notti di agosto e particolarmente in quella di San Lorenzo. Tradotto in termini più semplici il fenomeno ad altro non corrisponde che alle «lacrime di San Lorenzo» o alle «stelle cadenti» del 10 agosto. Le feste in onore di Diana avevano lo scopo di propiziarsi la dea per la fertilità dei campi, per la maturazione delle messi, nonché per la maternità delle gestanti. I suoi riti erano ufficiati sull’Aventino e il suo compito era quello di prendere sotto la sua protezione i boschi (non per niente Diana è la dea della caccia), le fasi lunari e la maternità. Detto festival augusteo, intanto, andava sotto il nome di «feriae Augusti»; al pari di ognuna cosa su terra, la parlata di un popolo compresa, che cambia e si trasforma impercettibilmente, così pure le feriae Augusti, lentamente nel tempo, si sono andate trasformando fino a divenire le odierne e bene accette «ferragosto»! Con l’avvento del cristianesimo le antiche celebrazioni pagane vengono man mano «convertite» in parallele festività religiose; da constatare che sono molteplici le feste odierne in cui un intreccio di sacro e profano, un misto di folclore, tradizioni e fede si perde nella notte dei tempi. Già nel IV secolo si ha una prima indicazione della festività religiosa che sostituirà le sopraddette feste dell’antica Roma e che tuttora è una delle ricorrenze ecclesiastiche tra le più sentite ed onorate: la festa della Madonna Assunta in cielo fissata al 15 agosto! É solo il primo novembre del 1950, però, che l’Assunta diventa dogma e viene proclamato tale da papa Pio XII che la eleva pure a festa di precetto. Come ogni altra ricorrenza nazionalmente riconosciuta, anche questa dell’Assunta viene festeggiata di città in città e da paese a paese in maniera caratteristica e singolare. Ad Avellino, per esempio, si danno rappresentazioni teatrali; a Messina si snoda la processione della «vara», nome del carro che porta la statua della Santa Vergine lungo le strade cittadine; a Siena, che ci crediate o no, l’annuale palio del 16 agosto fa da sfondo proprio ai festeggiamenti dell’Assunzione…e altro paese che vai, altra usanza che trovi! Visto e considerato che, se il lavoro fosse una cosa buona, lo ordinerebbe anche il dottore…per non stressarvi non ve lo consiglio nemmeno io; al contrario, poiché ci troviamo proprio nel periodo ad hoc, sapete che vi dico? Rilassatevi (lavorando, almeno che non viviate di rendita, il minimo indispensabile onde guadagnarvi il necessario per le vostre «feriae»), buone vacanze e buon ferragosto a ciascuno ed ognuno! 17 (set. 2011) É ormai da 30 anni che la Sant’Anna di Ielsi irradia il suo messaggio di pace sull’isola di Montreal: la multietnica metropoli canadese per eccellenza. Qui oltre oceano è da solo un trentennio, ma laggiù in Patria, in quella suggestiva cittadina del Molise in provincia di Campobasso, è da secoli che protegge la gente, le sue case e le terre e le campagne con sguardo misericordioso e benedicente. Ho accennato a terre e campagne perché è appunto alla vita agreste e campagnola di un tempo che fanno nostalgico riferimento le caratteristiche e singolari «traglie» che, dopo la Santa Messa, sfilano in processione dinanzi alla Mamma della Vergine Maria: Santa Messa e processione i cui fatti salienti vengono diramati sulle onde della 1280, la stazione radio in lingua italiana di Montreal. Ed è proprio il grano a farla da padrone assoluto in questa manifestazione comunitariopaesana conosciuta, più significativamente, pure come «la sagra del grano». Le citate traglie sono carri allegorici lavorati esclusivamente con spighe di grano dalla a alla zeta. Sono le famiglie intere, unite e compatte, ad allestire il proprio carro con cura e trasporto, nonché con amore e devozione…anche nell’ancestrale intento di tramandare le sagge, e in questo caso care, tradizioni ai posteri. La statua stessa di Sant’Anna è il risultato di un intreccio stupendo di spighe di grano; inoltre, a titolo di cronaca, l’allestimento e la parata dei carri assume un significato tutto particolare e una speciale motivazione per il fatto che i «capolavori» vengono esaminati, giudicati e valutati da una giuria competente che ne determina pure una graduatoria…il punteggio meritato viene affisso al carro in questione. Passata la festa, le traglie vengono portate alla Casa d’Italia dove restano per un periodo di tempo esposte al pubblico, anche per dar modo a chi non avesse potuto partecipare alla festa di poterli ammirare. I festeggiamenti hanno la durata di due giorni, il sabato e la domenica dell’ultimo fine settimana di agosto. Sono tanti i gruppi comunitari montrealesi che festeggiano il loro santo patrono, ma penso che quello di Ielsi sia tra i pochi a rispecchiare in tutta realtà i festeggiamenti di un giorno al paesello nativo. Non manca nemmeno uno di quei gioiosi ingredienti che rendevano gustose e calorose le feste patronali di quei nostri giorni bambini: la banda, l’orchestra, i cantanti, le giostre, l’albero della cuccagna, la partita di pallone, divertimenti vari e, dulcis in fundo, i fuochi di artificio. (Quest’anno purtroppo, trentesimo anniversario dell’evento, il tempo non è stato troppo clemente nei cieli di Montreal lo scorso 28 agosto; anche se il sereno sarebbe stato più bene accetto, le gocce di pioggia scese dal cielo sono state anch’esse benvenute…quasi come celeste benedizione. A parte questo casuale dato di fatto). Nel parco San Simone in detti due giorni spira aria da «dì di festa» e tutto il quartiere diventa il caro «villaggio» dove ci si ritrova con spensierata gioia e contentezza. La festa di Sant’Anna ha pure un’altra peculiarità che mi piace mettere in rilievo perché lo merita ed è doveroso sottolinearlo. A mio modesto avviso è l’unica festa, dopo la St. Patrick degli irlandesi, a far registrare la maggiore partecipazione di gente…anche di altri gruppi etnici; ed al pari di quella è una delle poche ad estendere il suo richiamo in lungo e in largo su tutta la metropoli. Intanto anche la 30ma edizione della Sant’Anna di Ielsi è passata alla storia; ma il desiderio di festeggiare pure quella del prossimo anno già prende gli animi di devoti e compaesani ed entusiasma il cuore di organizzatori, facitori di traglie e partecipanti attivi. Nel frattempo la Santa Madre di Maria continuerà a benedire la sua gente e le nostre case attraverso il ricordo di quel manipolo di spighe che, preso con devozione assieme alla Sua immaginetta, riponiamo con religioso rispetto nell’angolo di una credenza o di una cristalliera in sala da pranzo oppure in cucina. 18 (ott. 2011) A volte anche viaggiando si possono riscontrare raggi di italianità, magari addirittura nei posti più impensati e laddove meno ti aspetti di poterli trovare. Quanti di noi un tempo eravamo soliti trascorrere le nostre «vacanze classiche» a Wildwood? Ebbene, adesso che ci penso, in una delle prime volte che ci andai, un bel mattino, passeggiando calmo e tranquillo lungo il mitico bordwalk, il mio sguardo fu attratto da una piccola dimora affianco ad un campetto di bocce con sopra scritto «Ordine Figli d’Italia». Niente di strabiliante perché si sa che negli Stati Uniti l’italianità è radicata in lungo e in largo così come qui da noi in Canada. Quest’estate, comunque, «tutta la famiglia riunita» siamo stati per qualche settimana a Cuba…adeguandoci all’esigenza dei tempi che richiedono luoghi vacanzieri di una certa novità e di un certo aggiornamento! Già mettendo piede nell’atrio dell’albergo da noi prenotato, il mio occhio cadde sull’insegna di un’agenzia turistica dove figurava pure un grosso sottotitolo in lingua italiana. Si trattava di un piccolo chiosco in un angolino della lussuosa entrata dove alcuni giovani sulla ventina stavano confabulando spassosamente tra loro. Intanto ci dirigiamo all’ufficio accettazioni, ci vengono assegnate le stanze e, per accedere ad esse guarda caso, dobbiamo passare proprio dinanzi al chiosco in questione. Quei giovanotti che poco prima avevano attirato la mia attenzione erano italiani! E nei giorni successivi li vidi fare pure qualche capatina al mare, sulla spiaggia dove venivano a salutare puntualmente alcuni villeggianti loro amici provenienti dall’Italia. Ed era cosa lieta e interessante sentirli parlare perché avevano un accento così squisito e dolce che più li ascoltavi e più ti veniva voglia di farlo. E il loro linguaggio, cosa che vorrei sottolineare maggiormente, era di una sonorità piacevole e di una purezza ineccepibile…lontanissima (non per niente ci trovavamo laggiù al sud) da quell’italiano impreziosito di inglesismi sempre più in uso sulla bocca di politici, cronisti sportivi e pure presentatori RAI di casa nostra oltreoceano! E non è tutto in quanto a raggi di italianità balneare perché ne ho visto balenare anche un altro, proprio in quel di Varadero, un giorno in cui ci recammo lì sia per visita che per acquisti di circostanza. Camminando camminando, «a passi tardi e lenti» e con sombrero in testa…estremamente raccomandabile in simili frangenti, scorgo in lontananza un tricolore «nostro»! «Pà, c’è una bandiera italiana!» esclama mia figlia…e diviene quasi d’obbligo andare a vedere di che si tratta. Mentre avanziamo lentamente, alla nostra visuale si va delineando pure una cartina geografica del nostro stivale, proprio lì sotto al vessillo bianco, rosso e verde. Vi giungiamo e diamo una sbirciata attraverso un cancello che dà su di un vasto parco pieno di palme e vegetazione locale; sparsi qua e là e ben riparati dal sole scorgiamo tanti tavolini e tavolinetti muniti di relativi coperti da pranzo; vari tavoli sono pure già occupati da clienti che pranzano saporitamente in tutta calma e spensieratezza. Con un tantino di stupore, ma anche con tantissimo orgoglio patrio, ci rendiamo conto che quell’angoletto da Eden dinanzi a noi altro non è che un ameno ristorante che porta il nome di, udite udite, «Ristorante Dante»…un soffio di purezza linguistica sulla spiaggia, la «presenza» del padre della nostra lingua in piena Varadero! Mai dire mai neanche ai riflessi di impensati raggi di italianità che vengono ad emozionarti all’improvviso e che ti danno modo di riflettere un pochettino anche sulla portata universale della nostra secolare cultura. Personalmente non avrei mai immaginato di fare una sì simpatica esperienza nel favoloso Mar dei Caraibi; di conseguenza il mio soggiorno estivo oltre confini di quest’anno resterà impresso molto più a lungo nella mia memoria e il ricordo di una simile vacanza nelle Antille rimarrà uno di quelli che non si dimenticano mai. 19 (nov. 2011) Il cammino emigrante è stato sempre accompagnato e illuminato da raggi di fede che ben spesso e volentieri si impregnano di italianità. Molteplici, infatti, sono i santi italiani che hanno lasciato l’impronta del loro passaggio su terra anche nell’esistenza degli italiani un po’ dovunque nel mondo. San Leonardo da Porto Maurizio, ad esempio, il 17 marzo 1923 fu proclamato “Patrono dei missionari nei paesi cattolici”…senza mai essere uscito fuori dall’Italia. A dire il vero era sua intenzione andare in Cina; ma il cardinale Colloredo ebbe a dirgli «la tua Cina sarà l’Italia» che in quei tempi viveva in abbastanza miseria per essere considerata una terra di missione. Si narra che una volta due giovani compagni lo invitarono ad andare ad ascoltare una predica; intanto dopo alcuni passi si imbatterono in un impiccato… «ecco la predica» esclamarono i giovani a quel punto. Alcuni giorni dopo seguì due frati verso il convento di San Bonaventura sul Palatino; fu lì che in appresso vestì l’abito dei francescani detti «della riformella» oppure «scalzati». Intanto quell’impiccato visto all’improvviso lasciò qualche segno nella sua mente e spesso gli ricordava il Golgota: fu appunto il «ricordo ricorrente» di quel povero disgraziato che fece nascere nel suo animo il desiderio della predicazione. E per ascoltare le sue prediche brucianti (metteva le mani sulla fiammella di una candela…in segno di penitenza), giungevano da ogni parte dell’Italia e tutti si sentivano toccati dalle sue roventi parole. In Corsica alcuni briganti, ascoltando una sua predica, gettarono gli archibugi e si misero a gridare: «Viva San Leonardo! Viva la pace!». Alla sua morte papa Albertini, Benedetto XIV, dichiarò che «perdiamo un amico in terra, ma guadagniamo un protettore in cielo». E Sant’Alfonso Maria dei Liguori lo definì «il più grande missionario del nostro secolo». A San Leonardo si devono due istituzioni religiose. Quella del Terz’ordine francescano e quella della Via Crucis: due istituzioni universalmente riconosciute e particolarmente sentite. Ogni anno lo stesso Sommo Pontefice ufficia in mondovisione la pia pratica della Via Crucis dal Colosseo. Sapete perché proprio da lì? Perché fu appunto San Leonardo, in occasione del Giubileo del 1750, a piantare le stazioni della passione del Cristo nell’anfiteatro Flavio dichiarandolo “luogo sacro dei martiri”. Porto Maurizio altro non è che l’antico borgo corrispondente all’attuale Imperia, nella splendida ma pur disastrata Liguria. Maledetto tu, uomo, (e invettive del generebforse pure San Leonardo ne avrà pronunziate in qualche suo fervente sermone), se simmili disastri “naturali” dovessero dipendere pure dalla tua negligenza o menefreghismo! É qui che nacque San Leonardo, al secolo Paolo Girolamo Casanova, nel 1676; il nostro santo predicatore morì a Roma nel 1751. In apprresso, venendo canonizzato nel 1867 dal grande Pio IX, diveniva quell San Leonardo che si festeggia il 26 novembre , giorno del suo sereno passaggio dalla terra al cielo. Il suo culto ha grande riscontro pure in Canada e particolarmente qui da noi a Montreal in un cui quartiere cittadino nel 1886, una ventina di anni dopo la sua canonizzazione, viene istituita la parrocchia di San Leonardo da Porto Maurizio che, nel marzo del 1915, diverrà la ben conosciuta Ville de Saint Leonard de Porte Maurice; la piccola cittadina venuta, pian pianino, a popolarsi sempre più lungo gli anni. É partire da quelli ’50 che comincia a prendere consistenza il suo sviluppo demografico; in quelli ’60 e ’70 poi, e grazie al nostro gruppo etnico, viene completamente italianizzata; diviene quasi la seconda Piccola Italia visto e considerato il numero di connazionali che si avvicenda a costruire la sua «casetta in Canada» proprio in questi paraggi. Viene trasferita qui addirittura la prima parrocchia italiana di Montreal, quella della Madonna del Carmine, che in centro città non ha ancora una chiesa tutta sua. É qui che viene costruito il Centro Comunitario Leonardo da Vinci, la prima pietra miliare del terzo millennio sull’italo cammino in terra emigrante. Sempre grazie al nostro impegno e al nostro contributo il piano urbanistico si estende a macchia d’olio perché lo spirito della gente qui residente è quello di fare, di agire, di mettere su cose costruttive e concrete. Questo modus vivendi dei cittadini sanleonardiani è significativamente messo a fuoco sullo stemma comunale deve, oltre ad un «operoso» castoro, c’è una scritta che recita «res non verba» = «fatti non parole»! San Leonardo da Porto Maurizio, questo odierno arrondissement della grande Montreal, sorto come parrocchia nel 1886, festeggia quest’anno 125 di ben portti anni di vita! Avendoci abitato per circa un quarto di secolo, ho sentito il dovere di unirmi anch’io alla festiva gioia di anniversario con l’augurio di Buon Compleanno a te, itala cittadina che hai dato i “natali” pure al Maestro Cuore. 20 (nov. 2011) La prima messa a cui ho assistito, una volta giunto in Canada, è stato nella chiesa Madonna di Pompei; e il tutto avvenne, adesso che ci penso, in un contesto strettamente legato al simpatico trinomio Patria-Lingua-Fede. Era nell’ottobre del 1967, mi trovavo a Montreal da pochi mesi ed ero appena entrato nell’ambito dell’insegnamento in lingua italiana del sabato mattina gestito, a quei tempi, dalle Parrocchie italiane. Fondate nel 1958 da Mons. Andrea Maria Cimichella le scuole della lingua Patria furono sotto la direzione della Fede fino all’avvento del PICAI da cui sono tutt’ora dirette. Era usanza, in quei giorni, che tutti gli insegnanti di lingua italiana si recassero, una delle prime domeniche dell’apertura delle scuole, nella chiesa di Pompei per ascoltare coralmente la santa messa celebrata appunto per loro…ergo dunque, ecco spiegato il perché dell’antifona iniziale di questo mio discorsetto. Peccato, però, che tante belle tradizioni vengano spesso inghiottite dalla confusione degli andazzi umani! E nell’incontro che seguì nel sottosuolo della chiesa venni a sapere che questa era nuova di zecca perché era stata costruita e consacrata da poco lì, in quell’italianissimo settore di Montreal nord. I sacerdoti scalabriniani era già da sei anni, comunque, che ufficiavano in quel rione cittadino per venire incontro e soddisfare le esigenze degli emigranti italiani, secondo i dettami del loro fondatore, il beato Gian Battista Scalabrini. Infatti, fondata appunto nel 1961, la Parrocchia Madonna di Pompei è già da cinquantanni che accompagna ed illumina il cammino della nostra gente emigrata in terra nordamericana. A soffiare sulla sua candelina del mezzo secolo, intanto, è stata tutta la comunità italiana della grande Montreal a farlo nell’appena passato mese di novembre. Mons. Gian Battista Scalabrini nacque l’8 luglio del 1839 a Fino Mornasco in provincia di Como e morì a Piacenza, dove era stato nominato vescovo nel 1876, il primo giugno del 1905…lo stesso anno in cui, mentre lui se ne andava in cielo, in Canada nasceva la prima parrocchia italiana: la Madonna del Carmine. In virtù della sua tempestiva e lungimerante opera a beneficio degli italiani, che partivano in massa oltreoceano, seppe vedere l’importanza sociale, politica e religiosa di quel fenomeno che allora tutti ritenevano passeggero. Prese a cuore la sorte di tante persone che non avevano altra scelta se non di emigrare; ne difese i diritti dai soprusi dei «sensali di carne umana»; affrontò coraggiosamente la corruzione penetrata nel sistema di reclutamento dei lavoratori emigranti da parte di gente senza scrupoli . Cercò di sensibilizzare Stato e Chiesa nella difesa dei diritti di questa gente che espatriava in cerca di un pezzo di pane; si preoccupò di salvare la loro fede e incoraggiare i rapporti tra Chiesa e società locali. Questo XXI secolo è già stato definito il «secolo dello straniero». Gente costretta ad abbandonare le proprie terre a causa di persecuzioni e pulizie etniche; gente che lascia le proprie case per fame, miseria, o mancanza del necessario per vivere e che sbarcano nelle città dell’opulenza occidentale. Il secolo dello straniero: è tempo di pensare al rapporto con lui, lo straniero, cogliendone non la dimensione di minaccia, quanto quella di sacralità. Lo straniero non è un volto da espellere, bensì una parola da accogliere. Valide ancora oggi, quindi, le tracce che il beato Scalabrini vedeva nelle migrazioni; quelle di un popolo divino… «il mondo tribolato dalle migrazioni è quello verso cui si dirige l’amore del Padre; il mondo in cui il Padre continua a costruire relazioni di solidarietà, di giustizia e di pace». Il suo obiettivo era quello di «formare di tutti i popoli un sol popolo, di tutte le famiglie una sola famiglia». Era questo il suo sogno, e l’invito a «cogliere nelle migrazioni un’occasione privilegiata per manifestare maggiormente la cattolicità» può essere considerato come il suo testamento spirituale. Testamento spirituale lasciato in eredità non solo ai sacerdoti dell’ «Ordine degli scalabriniani» da lui fondato, ma anche a beneficio di noialtri emigranti in quanto siamo tutti suoi figli perché…è lui il santo proclamato «Il padre degli emigranti». Un pensiero augurale alla parrocchia Madonna di Pompei per il suo 50mo anno di apostolato in terra di missione. 21 (gen. 2012) Si è spento un raggio di italianità di portata mondiale: un lutto ben sentito da tutti noi emigranti! Istituzione della Giornata Nazionale del Lavoro Italiano nel Mondo, Iscrizione nei registri dell’Aire, Diritto di voto per gli italiani all’estero e conseguente Elezione di alcuni loro rappresentanti presso il Parlamento Italiano. Questi sono solo quattro dei tanti motivi che hanno fatto sì che il ministro Mirko Tremaglia entrasse e restasse per sempre nei nostri cuori. Sono i quattro sacrosanti ideali per cui si è sempre battuto nell’intento di valorizzare la nostra dignità di italiani all’estero. Intervistato da un’altra beneamata «italiana nel mondo», Francesca Alderisi, ecco cosa ebbe a dire a riguardo di noialtri emigranti: “Me ne sono per sempre innamorato ed essere innamorato per sempre vuol dire sicuramente fare una battaglia fino all’ultimo giorno della propria vita”. La sua vita e, di conseguenza, la sua battaglia in nostro favore hanno avuto termine, purtroppo, tra Natale 2011 e Capo d’Anno 2012. Infatti è proprio in quest’atmosfera di aria festiva che abbiamo appreso la scomparsa di colui che l’Alderisi, nel suo blog, ha significativamente definito il «Papà degli italiani nel mondo». Ecco pure una testimonianza che l’insigne conduttrice del purtroppo «ex» Gran Sportello Italia lasciò di lui in una trasmissione di Italia chiama Italia a cui era stata invitata: «Lo trovo una persona umanamente incredibile, pieno di energia e che mette una straordinaria passione ed amore in tutto quello che fa e soprattutto è profondamente sincero, dote rara nella politica, il che lo rende veramente unico». Un giorno Mirko Tremagila promise: «Ho chiesto e chiederò la costituzione di un Ministero per gli Italiani nel Mondo»…e fu così che di questo Ministero ne fu il primo rappresentante, quasi dietro acclamazione popolare dei suoi «figli» fuori Patria. Ricordo che anche qui da Montreal, a suo tempo, fu fatta rischiesta in tal senso a Silvio Berlusconi mediante lettere e missive inviategli da vari rappresentanti della comunità italomontrealese. La notizia del decesso di Mirko Tremaglia ci è giunta, improvvisa mazzata in testa o subitanea doccia fredda, allorché stavamo incredulamente chiedendoci del perché dell’imminente chiusura di Rai Internazionale! Il suo trapasso ha quasi il sapore di una perdita della «spes ultima dea» in quanto lui, infatti, fu un valido paladino della messa in onda di detta programmazione «per noi e con noi»…che voleva addirittura potenziare e che sorella morte non gli ha concesso di fare. Anzi mi chiedo che effetto abbia avuto sul suo stato d’animo questo schiaffo morale dato ai suoi «figli» ovunque nel mondo; questa «voce» tolta al popolo emigrante, a cui lui aveva strenuamente voluto dare una «necessaria parola», che conforto ha potuto dare ai suoi ultimi giorni di vita? Intanto sembra essersene andato all’aldilà con la constatazione di un contrasto verificatosi, in Patria e fuori Patria, proprio alla fine dell’anno in cui è stata ricordata l’Unità d’Italia. I vertici della Rai, strappando dai teleschermi dei nostri focolari i radiosi sorrisi di una Maria Cristina Rinaldi, di una Benedetta Rinaldi e di una Francesca Alderisi, ha creato quasi come un muro di silenzio che è venuto a dividere i fratelli in Patria da quelli all’estero. A dire il vero, nemmeno questi ultimi, a proposito di quest’increscioso frangente, sono tutti degni di poter scagliare la prima pietra. Non tutti infatti sono profondamente rammaricati del torto ricevuto da mamma-rai. Ecco come alcuni di noi giustificano la loro supina rassegnazione a ricevere «quel che passa il convento» laddove potremmo e dovremmo essere noi stessi protagonisti. «Sì, ma il calcio lo faranno sempre vedere!»; «E va bene, ma i film e le miniserie non li toglieranno!»; «E che fa, gli spettacoli come Ti lascio una canzone, Sanremo, Ballando con le stelle,ecc. potremo sempre vederli!»; «Beh, anche se tolgono quei programmi ne metteranno altri di sicuro!»…è con questa magra consolazione che pure noi emigranti, proprio nello sventolare il tricolore per dire addio all’anno dell’Unità d’Italia, ci siamo spaccati in due; e neppure a metà perché, malauguratamente, qui pure sono più quelli che la pensano come loro al di là anziché come noi al di qua! Ma se i nostri diritti di parola non li facciamo valere noi «coralmente» chi volete che lo faccia in nostra vece? Chi cura i nostri interessi per proprio tornaconto?! 22 (gen. 2012) In appendice ai festeggiamenti del 150mo anniversario dell’Unità d’Italia mi piace sottolineare di nuovo che, una volta fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani. Ciò premesso mi permetto di affermare che gli italiani, sia in Patria che all’estero, sono stati “fatti” pure da Don Bosco e dai suoi sacerdoti e suore salesiani. Essendo stato ordinato sacerdote nel 1841 ed avendo dato inizio immediatamente a dedicarsi anima e corpo alla formazione dei giovani, il futuro della società anche a quei tempi, possiamo asserire che ha cominciato a fare gli italiani prima ancora che l’Italia fosse stata fatta. La sua vita di apostolo e missionario ha come punto di partenza Valdocco dove apre il primo “oratorio”: è appunto da questa sua giovane esperienza che si manifesta in lui quello che è il vero santo : «l’uomo fedele a Dio, ma anche il testimone privilegiato del suo tempo, capace di suscitare rispetto concreto alle attese del futuro» educando giovani e ragazzi degradati, emarginati, disagiati ed ex carcerati. “L’educazione intellettuale e professionale –dicevapermette di prevenire la delinquenza”; di questo sacrosanto metodo educativo, detto preventivo, ne è a conoscenza ogni maestro come me per averlo studiato attraverso i testi di pedagogia. É nel 1874 che fonda la Società di san Francesco di Sales, i suoi salesiani, i giovani preti che si dedicheranno alla gioventù negli oratori che a macchia d’olio si estenderanno un po’ dovunque in Italia, in Europa e nel mondo. A quei tempi l’educazione delle ragazze e delle fanciulle era alquanto più trascurata di quella dei maschietti. Don Bosco nel 1872, assieme a Maria Domenica Mazzarello, fonda l’ordine delle «Figlie di Maria Ausiliatrice» che istituiscono quasi una missione nelle missioni, rivolgendo la loro attenzione alle giovani donne ed attuando i primi passi verso l’emancipazione femminile nel nostro Paese. Rimasto orfano di padre a solo due anni, Giovanni Melchiorre Bosco assieme a due fratelli viene cresciuto e cristianamente elevato dalle sole forze di mamma Margherita Occhiena che avrà un grande ruolo di educatrice nel «rifugio» prima e nell’oratorio di Valdocco in seguito. San Giovanni Bosco non uscì mai dall’Italia, ma una parte della sua infazia sa molto di vita emigrante. Nella frazione di Becchi, dove nacque il 16 agosto del 1815, non c’erano scuole. Ce n’era una a Capriglio, un paesetto vicino, nell’interno di una parrocchia diretta da un certo don Lacqua. Fu solo dietro richiesta della «perpetua» del parroco –zia Marianna Occhiena- che il giovane Giovanni venne ammesso a frequentarla…pur essendo di un «altro paese». Intanto il curato si affezionò tanto a lui fino a difenderlo dai maltrattamenti dei compagni che lo emarginavano perché «forestiero». San Giovanni Bosco, detto per inciso, è il protettore degli editori, degli apprendisti e dei maghi. Il piccolo Giovanni, infatti, insegnava giochi di prestigio e acrobazie da saltimbanchi ai coetanei di Capriglio per attirarli alla messa e alle pratiche religiose, acquistandosi pure le simpatie degli «indigeni». Considerevole anche il lavoro svolto all’estero dai missionari salesiani che seppero superare i confini nazionali per «formare» pure gli italiani sparsi ovunque nel mondo. Oggi la famiglia salesiana è presente in 130 e più paesi dove con «Ragione, Religione e Amorevolezza va scavando un cammino nella complessità dei nuovi tempi». Ma in quegli anni dell’Unità d’Italia i missionari di Don Bosco partivano prevalentemente per l’Argentina, considerata in quei giorni la seconda patria degli italiani che lasciavano casa in cerca di un pezzo di pane. Nel 1875 parte una prima spedizione missionaria che fonda una parrocchia a Buenos Aires e un collegio per ragazzi a San Nicolas de los Arroyos. L’anno dopo un secondo gruppo apre una scuola di arti e mestieri dove si formano falegnami, sarti ed altri artigiani. Nel 1977 una terza missione vede implicate pure le Figlie di Maria Ausiliatrice a prendirsi cura delle giovani figlie degli emigranti fin giù in Patagonia. «L’importanza dei salesiani nella cultura del paese sudamericano è testimoniata indirettamente nel Tango Calambache», opera musicale di Enrique Santos Discepolo. Avendo conoscenze virtuali con amiche in terra argentina sono venuto a conoscenza di come lì pure i nostri connazionali coltivano l’italianità in modo maestoso e trasparente…custodiamolo nel cuore con orgoglio questo dato di fatto, soprattutto adesso che ci è stata tolta la possibilità di propagandare –via tv- il nostro impegno di italiani all’estero da «protagonisti»! E qui a Montreal? Uno dei più giovani «figli» di Don Bosco partiti prematuramente al cielo è San Domenico Savio: è appunto a lui che è dedicata una parrocchia nella zona est di questa metropoli canadese. Attualmente abito in Rivière des Prairies e sono parrocchiano della Maria Ausiliatrice dove Don Bosco, i bravi salesiani, ce lo fanno quasi toccare con mano. É nel 1972 che iniziano il loro apostolato tra le circa 200 famiglie allora residenti in detta zona. In mancanza di una chiesa, la Santa Messa veniva celebrata nella casa di due parrocchiani, Renzo e Alda Viero che tanto ha dato e continua a dare al buon nome dell’immagine italiana sull’isola di Montreal; nel 1973 mons. Cimichella, benedicendo il «Centro Italiano di RdP» disse che era «un piccolo seme che avrebbe dato grandi frutti». Intanto è solo il 19 marzo del 1982 che viene consacrata la «Missione di Maria Ausiliatrice» ed è due anni dopo, il 22 dicembre 1984 che viene eretta e benedetta anche la chiesa con vetrate in mosaico e con la raffigurazione, al di sopra della porta di entrata, di un sogno del santo: una nave, simbolizzante la Chiesa, ancorata alle colonne della salvezza sovrastate una dall’Ostia consacrata e l’altra da Maria Ausiliatrice. Sono padre Giovanni Faita e padre Romano Venturelli a far sì che, con la sua costruzione, le parole di mons. Andrea Maria Cimichella cominciassero a divenire profezia…il piccolo seme ha dato i suoi grandi frutti, tanto che in questo 2012 i salesiani soffiano infatti, insieme a noi e ai nostri figli e ai nostri nipoti, sulla trentesima candelina della nostra parrocchia! Auguri a questi primi quarant’anni di fecondo apostolato salesiano, nonché auguri ai trent’anni della Missione da loro istituita tra noi e per noi. 23 (feb. 2012) Anche i passi dei santi, a volte, si intrecciano sullo stesso cammino. In ogni modo almeno quelli di santa Francesca Cabrini si incontrarono eccome, sui sentieri emigranti, con quelli del beato Mons. Giovanni Battista Scalabrini. Era il 19 marzo del 1889 allorché questi, vescovo di Piacenza da solo tre anni, concedeva a suor Francesca la Croce di Missionaria…ma non per l’Oriente (Cina) come era sua intenzione, bensì verso l’Occidente (America) come ben suggerì, in ragione delle esigenze emigranti di quei tempi, papa Leone XIII. In quel 19 marzo (festa di san Giuseppe) di 122 anni fa, colui che fu denominato «padre degli emigranti» benediva gli ideali missionari di colei che nel 1950 papa Pacelli proclamava «Patrona universale degli emigranti» ovvero «Celeste Patrona di tutti gli emigranti»…quindi la «nostra» beneamata protettrice è quella che qualcuno ha definito «lodigiana di nascita, ma cittadina del mondo per vocazione». Uno dei problemi di vitale importanza per noi emigranti è stato quello dell’integrazione; ecco cosa pensava Francesca Cabrini in proposito. L’integrazione nella sua ideologia significava mantenere intatta la propria cultura e la propria fede; ma suggeriva pure di inserirsi pienamente nel nuovo contesto sociale e culturale, di apprenderne la lingua onde divenire «buoni ed onesti cittadini» capaci di contribuire al progresso delle società dei paesi di accoglienza. Decima di undici figli nacque a Sant’Angelo Lodigiano il 15 luglio del 1850. Di principi cristiani profondi e sentiti, mamma Stella e papà Agostino mantennero in famiglia come valori prioritari quelli religiosi: preghiera e Santa Messa in primis; principi cristiani e valori religiosi che caratterizzarono l’intera vita di Francesca Cabrini che, al momento dell’ordinazione religiosa prese anche il nome di Saverio perché devota dell’altro grande missionario san Francesco Saverio. Nel 1868 conseguì il diploma di maestra elementare ed iniziò la sua missione apostolica in una casa per orfanelle diretta da due donne di scarsa spiritualità che lei, comunque, seppe mettere sulla giusta via. Nel 1880 fondò l’ordine delle Missionarie del Sacro Cuore che hanno dato vita a scuole e centri sociali in Centro America, Argentina, Brasile, Nord America ed Europa. Vi cito alcuni passi dei suoi «Viaggi» anche per darvi un’idea del filo conduttore con cui collegava e dava vita alle sue opere umanitarie. «La santità non consiste nel fare cose grandi e luminose, ma in far bene ciò che Gesù vuole da noi»; «Tutto posso in Colui che dà forza»; «Anche voi siete della famiglia degli Apostoli; voi pure, dunque, avete la missione di essere il sale della terra, la luce del mondo». Mille e mille volte la Stazione Centrale di Milano e altrettante volte l'aeroporto della Malpensa la videro con le valige in mano alla volta ora di questa ed ora di quell’altra destinazione. Dovunque si verificava la necessità di una testimonianza cristiana lì c’era Francesca Cabrini con le sue suore; non conosceva soste né riposo: quante persone incontrava, tanta fede ed amore lei dava. Cerchiamo di metterle a fuoco un poco meglio quelle esigenze emigranti che le stavano tanto a cuore e che cercava di soddisfare con immenso amore. Gli emigranti di allora un po’ qui e un po’ lì «giungevano a centinaia di migliaia all’anno, insediati già alla partenza e all’arrivo da procacciatori che ne sfruttavano l’ignoranza e il bisogno, privi di ogni protezione, disponibili a tutto; e diventavano letteralmente il materiale umano su cui –come su detriti necessari, ma senza valore- si costruiva la potenza economica americana. Vivevano in condizioni di incredibile degrado, affollati in alveari umani, in condizioni di abbrutimento fisico e spesso anche morale. Vivevano senza scuole, senza ospedali, senza chiese, chiusi nelle loro «piccole Italie», quartieri che prolificavano ai margini delle grandi città». Per risolvere queste sofferenze emigranti si rivolse alla Chiesa, agli Stati e pensò bene di sensibilizzare pure l’animo di tanti italiani benestanti…e riuscì nel suo intento! E poi ci lamentiamo dei nostri sacrifici pure noi emigranti degli anni 50 e 60!!! Nel 2007 la Malpensa è stata dedicata a santa Francesca Saverio Cabrini; tra le motivazioni ecco quella alquanto significativa pronunziata per l’occasione dal sindaco Letizia Moratti: «Ha varcato 30 volte l’oceano per missioni umanitarie». Nel 2010 pure la Stazione Centrale di Milano è stata dedicata a lei. Su di una stele affissa in ricordo dell’evento si legge: «Da questi binari tante volte si avventurò per le strade del mondo Francesca Cabrini; Santa per la Fede Cattolica, Apostola di solidarietà per tutte le genti in cammino». Il Padre la richiamò alla Sua Casa il 22 dicembre (nell’imminenza del Santo Natale) del 1917 durante la prima delle due guerre mondiali. Aveva preso la cittadinanza americana 8 anni prima, nel 1909, colei che è considerata la prima santa americana; infatti era più conosciuta in America che in Italia…e per noi emigranti non è un fatto tanto paradossale! Nella nostra Montreal, intanto, in che considerazione è tenuta la nostra singolare santa patrona? Vi rispondo con una brutta notizia prima e poi con una bella. C’era una volta qui da noi una scuola dedicata a lei. Qualcuno volle che tanto onore le venisse tolto per concederlo ad un illustre uomo politico. E questo avvenne…nonostante i consiglieri scolastici di detta scuola fossero in maggioranza assoluta di origine italiana; evidentemente non sapevano che stavano facendo un torto alla loro «protettrice»! Rallegriamoci comunque perché il ragionamento è ben diverso al 5655 della strada St. Zotique, quasi all’angolo di Lacordaire. Nell’ospedale Santa Cabrini è ormai da oltre 50 anni che l’umile Francesca Saverio è lì a sollievo della sofferenza fisica in terra emigrante, così come un giorno lo fu di quella morale ed economica di tanta gente che lasciava la propria terra in cerca di un pezzo di pane! 24 (mar. 2012) Nella settimana dello scorso San Valentino la nostra attenzione è stata presa quasi esclusivamente all’annuale festival di San Remo, 62ma edizione; seconda consecutiva della gestione Morandi che, ciliegina sulla torta, celebrava il 50mo della sua prima comparsa su quel mitico palco. Commenti a botta calda archiviati, la musica c’è stata e ci ha pensato Emma a dire che «non è l’inferno»; mentre Arisa e Noemi hanno contribuito a tingere il podio di rosa; ed «vero» anche che a divenire improvvisamente big è stato Alessandro Casilli della categoria giovani. Poiché San Remo è sempre San Remo, nemmeno quest’anno sono mancati i rituali pettegolezzi e le consuete critiche pro e contro. Quest’anno, a onor del vero, sono stati in parecchi a darne occasione per sollevarle. Stretta la foglia, larga la via…eccomi qui a dire la mia. Cantante sì oratore no, l’autodefinitosi re degli ignoranti, presentando la sua tesi di laurea in Teologia, si è giocato il posto «in prima fila Celentano» nel giorno del Giudizio Universale. Intanto tra gaffe, parolacce, veli e farfalline pure quest’anno si è stati in molti ad augurarsi che mutatis mutandis (=mutate le cose da mutare, a scanzo di equivoci) la carismatica manifestazione ritorni ad essere quella di «grazie dei fiori». Ma ditemi di grazia, se per ogni persona che si rispetti è un punto di vanto l’adaguarsi al passo dei tempi, perché mai San Remo dovrebbe restare ancorato a quelli dei suoi primordi? Mentre, intanto, nessuno poteva mai immaginare che sorella morte si avvicinava ad accarezzare il capo di Lucio Dalla, per intenerire l’animo di tutta quella gente in mezzo a cui è andato lanciando la sua «canzone» toccante ed emozionatamente umana nell’etere dell’universo intero! A parte questo canto del cigno, c’è stata pure una libellula della danza. Una nota di sublime squisitezza infatti, quasi un raggio di italianità di portata universale, è stata intonata in apertura della terza serata dalla solare Simona Atzori con un suo «volo senz’ali»…sottolineato dall’eterno ragazzo con un commosso bacio sulla sua fronte. Simona Atzori, la ragazza che «ha lasciato le braccia in cielo e nessuno se ne è fatto un dramma»! Innanzi tutto non se lo è fatto la mamma; ve lo immaginate lo strazio al cuore di una donna nello scorgere di aver messo al mondo una figlia senza braccia? Nonostante il raccapricciante dolore prende l’inimmaginabile quanto edificante risoluzione di insegnare al su neonato angioletto a fare tutto con i piedi e con le gambe. E nemmeno Simona se ne è mai fatto un dramma! Anzi sente l’obbligo di ringraziare la mamma per averla fatta nascere in tal modo. Ma eccovi una sua testimonianza. «Ogni giorno ringrazio Dio che mi ha dato una vita straordinaria, perché mi ha creato così come io sono. A me non piace dire che a me manca qualcosa. Essere senza braccia è la mia ricchezza. Con le braccia non sarei più io. Noi siamo creature speciali per quello che abbiamo, ma anche per quello che non abbiamo». Simona nasce a Milano nel 1974. A quattro anni comincia a dipingere da autodidatta e nel 1984 entra nell’Associazione dei «pittori che dipingono con la bocca e con i piedi»; nel 1989 le viene attribuita una borsa di studio dalla stessa Associazione. Il tocco magico del suo talento pittorico varca pure le soglie del Vaticano: vi si reca per donare a papa Giovanni Paolo II un ritratto di questi fatto da lei. Nel 1996 viene a Toronto per studiare «arti visuali» presso la University of Western Ontario dove si diploma nel 2001. Numerose le partecipazioni, collettive e personali, a cui ha preso e continua a prendere parte attraverso il mondo intero. Alla piccola Simona viene consigliato di ricorrere a braccia fittizie, ma lei rifiuta sia perché troppo ingombranti e sia perché preferisce «fare con i piedi ciò che gli dice la testa». E la sua testa alla tenera età di solo sei anni le dice di darsi alla danza classica; e lei lo fa e ci riesce tanto bene da essere definita colei che «vola senz’ali». Nel 2000, in occasione del Giubileo, porta per la prima volta la danza in chiesa esibendosi in una coreografia di Paolo Londi intitolata «Amen». Nel 2006 danza per l’apertura dei giochi Parolimpici di Torino; nel 2011 a Castiglioncello, in provinia di Livorno, fa da «testimonial» al campionato mondiale di danza. In suo onore viene istituito il «Premio Atzori» che si conferisce a coreografi e danzatori in occasione del Pescara Dance Festival (inequilibrio festival). Per averla incoraggiata e spronata ad intraprendere questa sua singolare carriera artistica un certo qual merito va pure a Mario Barzon che per primo ne intuisce le doti e il talento di colei che è già stata riconosciuta come «danzatrice e pittrice del XXI secolo». (inequilibio festival) Che ve ne pare di questo incredibile raggio di italianità? Assieme a tanti altri, come lei similmente «dotati», è racchiuso nel libro di Candido Cannavo intitolato «E li chiamano disabili». 25 (apr. 2012) Il 14 aprile di cento anni fa il decorso storico faceva registrare il catastrofico naufragio del Titanic. Una grave sciagura a cui sono legati profondamente due aneddoti pensare. che lasciano Sul tragico affondamento del transatlantico da crociera qualcuno ha messo in giro una storiella che ha tutta l’aria di una sconvolgente profezia. Si tratta della statua di una divinità o di una personalità egizia; di essa si diceva che avrebbe causato guai e avversità a chiunque l’avesse fissata negli occhi. Incurante di quanto si diceva a suo riguardo, un ricco inglese la comprò, quasi in segno di sfida, e se la portò a casa…e non so a quanti e quali malanni andò incontro; fino al punto da decidere di disfarsene e rinviarla al museo di New York dove l’aveva acquistata. Ma guarda caso, la malfamata scultura non stava facendo il suo viaggio di ritorno gomito a gomito con i 2350 e rotti turisti che stavano inaugurando il Titanic?! Intanto, eccovi pure un’altra sorprendente coincidenza. Il capitano Smith aveva voluto come suo secondo Henry Wild di cui aveva una grande stima; questi, comunque, pur accettando la proposta non lo fece con sommo piacere per uno strano presentimento che confidò alla sorella scrivendole queste testuali parole alcune ore prima del disastro: «Questa nave continua a non piacermi, mi dà una strana sensazione». Un fatto certo, che ha intanto pure tutto il sapore di un raggio di italianità, è che il grande Marconi si trovava a New York il giorno dell’incidente. Particolarmente scosso dall’avvenimento, velle essere presente al momento dello sbarco dei circa 705 superstiti della nave da crociera; eco cosa disse per l’occasione: «Vale la pena di aver vissuto per aver dato a questa gente la possibilità di essersi salvata!». E quella gente sapete come ringraziò il nostro inventore? Attraversando in colonna le strade cittadine per andare a regalargli una targa d’oro! Il nostro genio, da parte sua, ebbe pure un pensiero tutto speciale per il marconista del Titanic, Harold Bride; gli conferì un premio per essere rimasto al suo posto a lanciare messaggi di soccorso prima di pensare a mettersi in salvo. Cabala, intanto, o triste ricorso storico la sorte della Costa Concordia la notte tra il 13 e il 14 gennaio scorso presso l’isola del Giglio? Venerdì 13, per giunta e soltanto qualche mese prima del centenario affondamento del Titanic…che va ad urtare contro un iceberg nel 1912, in una notte, guarda caso, tra il 14 e il 15 aprile! Cabala o ironia della sorte se vi dico che pure questa catastrofe ha un suo sottofondo peannunziante sventura? Nella cerimonia di inaugurazione della nave la bottiglia di spumante lanciata, come da rito, per augurarle «buona fortuna»…non si era rotta. Cabala o puro caso se, proprio al momento dell’impatto, la stazione radio del ristorante mandava in onda Celine Dionne con la canzone «My heart will go on» di triste rimembranza «titanica»? Cabala o sconcertante ricorso storico se i capitani delle sfortunate imbarcazioni, chi di un modo e chi di un altro, in seguito all’urto dei navigli sono usciti entrambi «fuori senno»? A proposito di storia, dicono che essa è maestra di vita. Ma cosa insegna se, in fin dei conti, per questo e per tanti altri disastri «naturali» l’indice, purtroppo, dobbiamo puntarlo contro l’uomo? E l’uomo come si comparta in simili frangenti? Strabilianti in questo caso specifico le discordanze e le visioni del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto! Naturalmente non si poteva non puntare il dito a tutto spiano contro il povero capitano Francesco Schettino; ma perché non tenere nella stessa considerazione pure l’eroicità di un Marrico Giampetrone che pensa prima a salvare gli altri e poi a sé stesso. Innumerevoli le voci di protesta verso l’inesperienza dei membri dell’equipaggio; intanto il cappellano di bordo, don Raffaele Malena, afferma che i poveretti vengono presi a schiaffi e calci. Sì, ci sono addirittura dei normali passeggeri, samaritani del mare, angeli pro vita –come diligentemente additati anche da mamma tv- che si prodigano in opere di soccorso; ma è mai possibile che in quel vedere in faccia la morte non ci siano stati urti e spintoni per assicurarsi la scalata al diritto alla vita, calpestando quello degli altri? Urla di panico se ne sono sentiti in ogni video messo in onda via internet, infatti! E si è parlato pure di clandestini a bordo che fortunatamente si sono subito dileguati; e non è mancato nemmeno il giallo amoroso! La Costa Concordia, anche se ci è stato qualche raggio di luce ad illuminare il buio di quella tragica notte lì nell’azzurro del Tirreno, è stata condannata da un errore umano! Anche l’assenteismo è un errore! Anche il non saper prevenire i disastri per tempo è uno sbaglio da correggere! Un porporato della Santa Chiesa c’è stato a benedire le vittime e a dare conforto ai sopravvissuti…grazie a Dio in grande maggioranza rispetto ai poveri malcapitati. I governanti, pertanto, dovevano essere ben impegnati nelle loro manovre salva e cresci Italia per non aver sensibilizzato nemmeno il governo ombra al caso della Costa. Qualora fossero stati i mass-media, indaffarati com’erano a scavare pettegolezzi o a scovare il vero capro espiatorio, a non aver avuto il tempo di segnalarci regolari presenze in loco…chiedo scusa per l’abbaglio preso! La capitaneria di porto la sua giusta ramanzina, come da dovere, l’ha fatta al capitano in fuga; comunque la Concordia -divenuta discordia in questo suo canto del «giglio»- era ormai abituata a prodigare “inchini” di rito all’isola…ma come fai a calcolare simili rischi e a prendere le giuste precauzioni in precedenza? La Costa Concordia è stata condannata da un errore umano, come pure la Costa Allegra qualche mese dopo. Ma l’uomo lo sa che di questi cosiddetti errori umani ne è lui stesso il responsabile? Allora invitiamolo -chi ne dirige le sorti in primis- a mettersi una mano sulla coscienza e a far sì che la «cabala» non riservi all’umanità una simile mazzata in testa fra altri cento anni 26 (mag. 2012) Eccomi a voi con un raggio di italianità tutto speciale e ben differente da quelli presentati finora. Se quelli sono tutti già belli e splendenti, questo dal canto suo è uno nascente e che, quindi, è di splendore futuro. Conoscete Davide Franchini e Saverio Lariccia? Nemmeno io li conoscevo, almeno come gruppo canoro, fino ad alcune settimane fa, allorché li ho “visti” calcare il “Red carpet” di CFMB curato da Alessandro Mercurio. Ho detto come gruppo canoro perché come persona, almeno il secondo, lo conosco sin dalla nascita in quanto, guarda caso, l’ho tenuto a battesimo…non in chiave musicale bensì secondo il rito religioso di Santa Romana Chiesa. A proposito di battesimo, il duo Franchini-Lariccia ha deciso di chiamarsi “I VU”, nota sigla di stampo cibernetico che permette ai due di sintetizzare il loro genere musicale che spazia dal tradizionale al moderno. Avendo conosciuto sin da piccolo uno dei componenti il duo, eccomi a darvi qualche anteprima sulla lontana gestazione di questo prossimo parto artistico. Comincio da un aneddoto riguardante Saverio e poi continuo con la “gavetta” iniziale del duo al completo. Come avete potuto ben capire, io e i Lariccia siamo compari; ne va da sé che lungo gli anni, da buoni italiani, visite e pranzetti insieme ne abbiamo fatti parecchi. In uno di questi amichevoli incontri a casa loro ricordo con piacere quello in cui Saverio ci fece sentire, con soddisfatto enstusiasmo, una strimbellata con la sua prima chitarra nuova…non ricordo se già fosse elettrica o meno, ma lui euforico ed elettrizzato lo era davvero. Ricordo pure il commento bonario e apprensivo del padre: «Cumpà, cusse vòì nnanze ca museke; aspétta tu!». Intanto molti complessi e cantanti, oggi universalmente affermati, hanno iniziato anch’essi in tal modo: col piacere di suonare e la voglia di sfondare, seguendo solo le ragioni del cuore anche tra ostacoli e difficoltà! E su per giù lo stesso dicasi pure di Davide, un amico di scuola incontrato 26 anni fa in quel di St-Michel e con cui continua a far musica insieme! Compagni di banco, uniti dalla stessa passione, il tempo libero lo passano a «giocare la musica»…come si dice oggi nell’italiano qui di Montreal. Ma «giocare la musica» costa pure e comporta spese! Eh sì, serve questo e bisogna comprare quello e via dicendo. Mica i soldi cadono dal cielo; mica i soldi si possono chiedere sempre a mamma e papà. Ecco allora che Davide e Saverio cominciano a fare i loro piccoli sacrifici per soddisfare i loro grandi ideali! Si adattano a qualsiasi lavoro in un ristorante: sguatteri in cucina, lava-piatti presso i lavandini, camerieri ai tavoli, ecc. Trattandosi, tra l’altro, di un ristorante italiano uniscono l’utile al dilettevole perché hanno modo di praticare pure quel poco di italiano che vanno apprendendo in casa. A proposito, la prossima volta che avrete modo di rivederli sfilare sul Red carpet di CFMB ascoltateli bene pure linguisticamente: parlano un italiano impeccabile! Detto questo eccovi, ora, qualcosa riguardante l’iniziale «carriera nascosta» del duo «I VU». Si conoscono, come già detto, sui banchi di scuola, iniziano a strimbellare insieme, ad un certo punto si separano, poi si rimettono insieme e danno inizio alle loro prime composizioni in lingua inglese prima ed ora -e perché no?- pure in italiano…per continuare (come hanno detto per radio) la loro cultura di origine. Bravi!, aggiungo io. Detto per inciso, Saverio parla bene anche il polacco perché sua mamma proviene dalla stessa terra di Giovanni Paolo II il grande. Ne hanno fatti, dunque, di sacrifici questi bene intenzionati giovanotti italiani di cui possiamo essere fieri e orgogliosi anche noi tutti come gruppo comunitario. Intanto ecco che comincia ad arrivare pure qualche meritata soddisfazione; in radio, infatti, hanno annunciato la pubblicazione del loro primo CD che avverrà nel prossimo giugno-luglio…e già cominciano a intravedere il supporto di qualche produttore (incrociamo le dita per loro!). Sarò tutto occhi e tutto orecchi per seguirne gli svipuppi e tenervi informati. Anzi, approfitterò dell’occasione per approfondire il loro genere di musica a cui ho appena accennato all’inizio di questa chiacchierata, delle loro tendenze artistiche e dei loro progetti perché penso ne valga proprio la pena…anche per incoraggiare due giovani alquanto motivati e orgogliosi della loro identità di italo-canadesi. 27 (giu. 2012) In un precedente raggio di italianità portavo alla vostra attenzione il motto della municipalità di San Leonardo che recita «Res non verba = Fatti non parole». Uno stile di vita che continua a contraddistinguere noialtri italocanadesi in maniera esemplare ed encomiabile. La mitica Piccola Italia dei primordi, negli anni 70-80, cominciò a rivelarsi davvero un po’ piccola per l’itala gente che andava sempre più crescendo e moltiplicandosi. Il boom economico di quegli anni arricchì gli animi di nuovi ideali ed aprì le menti a nuovi orizzonti. Di conseguenza si cercò una dimora e una comodità più consone ai tempi in zone cittadine più adatte e aggiornate alle esigenze sociali. Fu appunto il quartiere di San Leonardo uno dei fari di richiamo e uno dei porti dove approdare. I figli erano cresciuti, le famiglie erano aumentate e la necessità di un confortevole focolare, se da una parte realizzava sogni individuali, ingrandiva e dava una marcia in più pure alla struttura cittadina e allo sviluppo demografico del paese. I nuovi bisogni delle singole famiglie, comunque, sfociano automaticamente in nuove vedute e prospettive comunitarie. Nel ’36, all’inizio del primo millennio, veniva costruita la Casa d’Italia, l’eterna memoria storica della nostra emigrazione. All’inizio del secondo millennio, intanto, nel 2002 10 anni fa, veniva inaugurato il Centro Comunitario Leonardo da Vinci nei pressi del caratteristico municipio di San Leonardo, sulla strada Lacordaire tra Robert e Nicolet. Centro Comunitario Leonardo da Vinci: seconda pietra miliare lungo il nostro cammino emigrante in terra canadese! Oltre alla perfezione dell’uomo di Vitruvio, dinanzi al complesso architettonico salta subito all’occhio il tuffo di un uomo da un trampolino raffigurante una cazzuola. È nel campo edile, di cui questa è simbolo, che gli italiani hanno maggiormente contribuito allo sviluppo del paese. Mentre il tuffatore rappresenta tutti quegli italiani che si sono lanciati con successo nei mari delle attività sociali. Per sottolineare degnamente il secondo lustro della sua nascita eccovi, pertanto, una significativa poesia che mi venne spontaneo scrivere 10 anni fa vedendo costruire il nuovo… CENTRO COMUNITARIO LEONARDO DA VINCI É stato eretto in San Leonardo il “Centro comunità, resterà a “parlare Comunitario Leonardo da Vinci”. Italiano” per anni e poi per secoli Nel darne la palata inaugurale e per millenni ancora. si son stretta la mano Prima pietra miliare del duemila, ben quattro generazioni. Rispetto omaggio a uno dei nostri sommi geni del passato, fiducia nel futuro: e vanto anche del semplice emigrante, dagli antenati ai posteri un retaggio sarà il segno perenne in continuo cammino. di una immagine italiana maestosa Nuovo fiore all’occhiello della nostra e trasparente a un tempo! 28 (lug. 2012) Eccoci giunti pure quest’anno alle sospirate vacanze; quelle ufficiali, quelle ben meritate soprattutto dalla massa dei comuni mortali che, per sbarcare il lunario, deve lavorare durante tutto l’arco dell’anno; e forse anche più se si tengono presenti tutti gli straordinari a cui si sobbarca ben volentieri o a cui è quasi obbligata a chinare il capo per esigenze familiari o aziendali. Non tutti, come ben si sa, viviamo di rendita e ben pochi sono i baciati in fronte dalla fortuna (la dea che, guarda caso, va sempre ad arrotondare le cifre già tonde: in effetti, avendo la benda agli occhi e non i tappi al naso, l’odore dei soldi lo sente e quindi va automaticamente a sbattere là dove già ce se sono…quella è cieca mica scema!) che le vacanze se le possono permettere come e quando vogliono. Ciò premesso e tornando alla comune normalità della vita, le annuali «vacanze della costruzione» sono ufficialmente in corso e ognuno, chi di qua e chi di là, va ad affollare le calde spiagge e ad abbronzare la sua pelle al sole. Ma fatemi sentire una cosa, queste benefiche vacanze al sud ce le prendiamo per necessità o semplicemente per seguire la moda o magari per invidia del vicino o per far vedere che anche noi ne siamo all’altezza? Per ben riposarsi e tornare al quotidiano lavoro ritemprati e freschi basterebbe, a mio avviso, spostarsi a giorni alterni da back la yard a balcon beach…signor Maestro Cuore, aggiornati: mica siamo ancora ai tempi di Pappacone! Scherzi a parte, adesso che la città è meno affollata, le strade sono più deserte e intorno a noi regna più silenzio rallentiamo il passo, raccogliamoci in meditazione e cerchiamo di tirar fuori qualche raggio di italianità custodito in edifici, monumenti, palazzi, strutture metropolitane e intrecci di ponti che caratterizzano la nostra metropoli. Scrutiamoli fin nel profondo e li troveremo imperlati anche di onesto sudore di itale fronti. I cantieri edilizi adesso sono fermi, ma nel corso dell’anno forse danno anche un po’ fastidio allo scorrimento automobistico e alle normali abitudini cittadine; rumori e polvere che essi comportano ci danno tregua in questi giorni di vacanza, ma ben presto torneranno ad accompagnare le nostre giornate. É grazie all’edilizia che si costruiscono le città e, se questa cala di ritmo, l’intera ruota commerciale perde di giri. Adesso capisco perché, quando nel 1967 me ne venni a Montreal, l’agente viaggi che mi sbrigò le pratiche mi disse che in Canada a quei tempi avevano grande bisogno di muratori, sarti e artigiani in genere: bisognava ricostruire il Paese. Mi permettete un’osservazione? Una volta se ne scappavano dall’Italia le «braccia», oggi se ne fuggono i cervelli! Ciò premesso ancora e tornando ai raggi di italianità che rinserra ogni pietra della città, eccovi qualche aneddoto alquanto loquace e significativo in tal senso. Ho già detto che sono giunto a Montreal nel ’67: l’anno dell’Esposizione Mondiale! E la prima visita che mi portarono a fare fu proprio ai padiglioni di questa sull’isola di Saint’Elène. Un mio caro parente, ora deceduto, mi disse: «Vedi tutte queste cose qua? É anche grazie al mio mestriere di carpentiere che sono state fatte!». Un’altra volta, essendo caduto il discorso sui mezzi di trasporto urbano, un mio amico mi faceva notare: «Là sotto, nelle stazioni del metrò, mi sono guadagnata una vita!». Alcuni anni or sono un mio alunno vinse il primo premio in un concorso per studenti multietnici indetto dall’Università di Montreal. Volli essere presente alla premiazione e mi accompagnò in macchina il nonno di questo mio studente; tra il commosso e il soddisfatto mi raccontò: «Che emozione, per me, vedere premiato mio nipote proprio in un reparto di questa scuola dove ho lavorato da giovane. Avevo 19 anni e ne ho portati sulle spalle di secchi di calcestruzzo per costruire queste mura. E come mi voleva bene il boss; mi veniva a prendere e mi riaccompagnava con la sua macchina e spesso mi regalava pure qualche pacchetto di sigarette!». E i Padiglioni Olimpici del 1976, che portarono all’apice del boom economico di quegli anni, quanto altro orgoglio di manodopera nostrana è custodito in quell’insieme di mattoni e cemento che resta a testimoniare nel tempo l’incontro pacifico di genti di ogni parte del globo? Ecco allora, in questi giorni di riposo, osserviamoli meglio questi baluardi della costruzione, inoltriamoci nelle viscere dei tanti grattacieli e campanili svettanti in alto, nonché delle tante residenze pubbliche e private che rendono maestosa la città che ci ospita. Penetriamo col nostro immaginario nei segreti delle loro origini e resteremo sorpresi dai tanti raggi di luce nostrana che emanano e che ci rendono orgogliosi. In questa visuale si staglieranno dinanzi a noi come il simbolo impercettibile di quell’emigrazione che, se ieri aveva bisogno di braccia per essere costruita, oggi ha bisogno di menti e cervelli, non necessariamente in fuga, per essere ben gestita. 29 (ago. 2012) C’è un raggio di italianità che sulle onde della nostra cinquantenne CFMB, ormai da quattro anni, splende nelle nostre case durante quasi tutto l’arco dell’anno: ufficialmente autunno, inverno e primavera ed ufficiosamente anche in estate. Sto parlando del concorso poetico, promosso e mandato avanti dal fantastico trio Di Flavio-DeVincenzoPassarelli, «E vorrei dire» che dà spazio a tante penne sconosciute generalmente definite «poeti della domenica». Gente che si diletta a scrivere per semplice svago e non per professione, non per lucro ma per pura passione. Persone comuni che, per passatempo, rispolverano i ricordi del passato cercando, forse, di ricolmare i vuoti della nostalgia. Uomini e donne che sono andate mettendo nero su bianco per confortare qualche delusione, accarezzare qualche rimpianto, o sottolineare gioie e contentezze vissute; sentimenti da sempre custoditi nel cuore, fedeli compagni di un cammino percorso lontano dal paesello nativo; confidenze affidate ad un quaderno, sogni racchiusi in un cassetto che ora, grazie alla radio, vanno trasformandosi in emozioni da trasmettere e condividere assieme a quanti, in una terra forestiera, si sono superati ostacoli, si sono fatti sacrifici, ci si è costruito un nuovo avvenire. Giovedì sera 5 luglio si è chiusa «a tarallucci e vino» la quarta edizione dell’ormai popolare concorso radiofonico. L’incontro ha avuto luogo nella calorosa «Trattoria da Gennaro», sul boul. Guin all’angolo della 57ma in RdP, gestita da Tony Bartoli, vincitore di ben due edizioni di detto concorso. Napoletano puro sangue, oltre che poeta bravo cantante, ha subito creato un’atmosfera amichevole e un’aria di familiarità esibendosi in indimenticabili motivi del «paese d’o sole». Nel corso della cenetta, comunque, pure alcuni poeti come Alvaro Lavalle, Nando Ferri, Maria Sorella, Domenico Filippis e soprattutto Enzo Ranellucci hanno allietato la comitiva dando prova delle loro doti canore; intanto lo stesso Michele Passarelli, non potendo partecipare al concorso, ha preso spunto dalla festicciuola per darci un saggio del suo estro poetico; vi ha trovato posto finanche il rimpianto di una nota nostalgica nel ricordo di Donato Battista che, prima di lasciarci per sempre, ci ha regalato le «Emozioni» di un «Sorriso»; né sono mancati i faceti a raccontare barzellette: a onor del vero, però, va sottolineato che non tutte erano fresche di bucato…nonostante la riviera fosse proprio lì di fronte. E non è tutto perché è sembrato esserci trovati proprio, come ha sottolineato Nick, nella trattoria dei talenti; oltre al Bartoli, anche il figlio Gennaro, servendo ai tavoli canticchiava i motivi eseguiti dal padre; lo stesso chef, una volta spenti i fornelli, ha impugnato il microfono e ci ha deliziato interpretando alcune canzoni di successo tra cui pure di Claudio Villa e Jonny Dorelli; e non penso di prendere un abbaglio nell’affermare che se il nostro bravo Pietro Carciero non li ha superati, poco ci è mancato. Dulcis in fundo, è giunto a completare l’opera il Morandi di Montreal, l’altrettanto bravo e simpatico Tony Cuccioli dalla voce piacevole e dal fare accattivante. Altra nota di rilievo, un altro bravo talento che risponde al nome di Roberto Gardazzi ha pensato ad accompagnare alla tastiera i vari brani musicali eseguiti in sala. Ma, gentilezza per gentilezza, la «Trattoria da Gennaro» un altro complimento lo merita davvero perché per quello che si è mangiato e per quello che si è pagato il caro Tony ci ha servito veramente coi guanti bianchi. Quindi, se a volte non sapete cosa fare per leccarvi i baffi, sul boul. Guin c’è una squisita trattoria dove andarvi a deliziare il palato e ritemprarvi lo spirito. Tornando alla poesia, musa ispiratrice del concorso e della serata, ogni poeta ha ricevuto il suo attestato di partecipazione con relativo CD delle poesie registrate. Ognuno di essi, inoltre, ha lasciato un commento personale e le proprie impressioni dell’incontro in particolare e del concorso in generale. Di questo, pertanto, ne è già stata annunciata l’apertura della quinta edizione, sia perché richiesta vox populi e sia perché anche la Residenza Navarro ne ha confermata la sposorizzazione. Serate come queste non si limitano ad essere un semplice incontro di poeti; diventano dei momenti in cui ci si conosce meglio e si familiarizza; si superano i limiti della concorrenza e ci si anima di quello spirito di partecipazione collettiva che onora e giustifica pure la causa in sé stessa, in questo caso la poesia e la cultura. Ecco, a proposito di quest’ultima e tornando al concetto iniziale dei poeti della domenica, questo encomiabile dar voce via radio ai loro sentimenti non sembra anche a voi come la piccola firma di loro, gente comune, in fondo al grande libro della cultura italiana all’estero? In serate come questa, oltre ad affiatarsi e fraternizzare, si trovano nuovi spunti e maggiori incentivi per ulteriori creazioni poetiche; simili serate non durano lo spazio di poche ore, diventano il riverbero di un’amicizia stupenda che penetra silenziosamente nelle nostre case e ci resta per giorni, per settimane e per mesi. Dandovi, Appuntamento, allora, alla prossima edizione di «E vorrei dire». 30 (set. 2012) Anche quest’anno è caduto il sipario sulla «Settimana italiana» che, in questa sua 19ma edizione ha avuto luogo nella Piccola Italia, la culla storica della nostra comunità. Uno scintillìo di italianità a 360 gradi: dall’arte alla cultura, dalla moda alla «500», dalla cucina al folclore, dallo spettacolo al canto, dalla musica classica a quella leggera…pure nostrana di qui, che è anche il movente che mi ha invogliato a scrivere quanto state leggendo. In mezzo a tanti sprazzi di luce italiana che la nostra settimana ci regala ormai già da quasi vent’anni, in questa sua ultima edizione essa si è fregiata di una nota musicale in più! Conoscete il duo artistico «VU»? Senza ombra di dubbio no, perché si tratta di due giovani talenti che stanno, infatti, facendo ancora gavetta; due soliti ignoti che sognano di emergere e che domenica 12 e sabato 18 agosto, intanto, hanno impressionato più di qualcuno; qualora anche voi aveste mancato i loro concerti sulla St. Laurent, vi siete veramente perso qualcosa. Saverio Lariccia e Davide Franchini -accompagnati per l’occasione da tre provetti musicisti loro amici: Albe alla chitarra, David alla batteria e Dominic al basso- hanno strabiliato il pubblico facendo veramente sognare. Dire che sono stati coinvolgenti è dire poco; sono stati addirittura travolgenti e trascinanti al punto che, a tratti, palco e spalti sono sembrati un tutt’uno; dotati di una singolare carica di simpatia hanno saputo creare quella giusta atmosfera di divertimento come solo i grandi artisti sanno fare; né sono mancate le debite ovazioni accompagnate da striscioni e slogan di apprezzamento. Per terminare in bellezza, dopo l’ultima esibizione hanno liberato in aria un volo di palloncini, quasi a rallegrare maggiormente «sole e cielo blu» affinché «nel mondo malinconia non c’è più»…come recita il ritornello di una loro composizione ispirata alla vita. Ringraziandoli e accommiatandoli dal pubblico, l’animatore dello spettacolo Marco Luciani Castiglia sottolineava che l’attaccamento alle patrie radici e il valore della propria identità si dimostrano pure attraverso la «buona» musica. Per tutta risposta i VU, ringraziando di cuore tutti quelli che credono in loro e li supportano, si impegnavano a «ritornare» e ripagare tanto affetto con della musica densa di emozioni e giusti messaggi. Intanto nella loro terra di origine i nostri simpatici amici avranno modo di andarci nel prossimo novembre, allorché nella città di Fiuggi –un sabato sera di predetto mese- si concluderà il Cantagiro edizione 2012. Favorevolmente impressionato dalle loro esibizioni Stefano Giorgilli, di passaggio a Montreal, ha entusiasticamente invitato i VU a partecipare come concorrenti nell’ultima tappa della suddetta kermesse italiana che vanta ormai cinquant’anni di vita. Una inaspettata quanto emozionante sorpresa per i componenti il dinamico duo che cominciano così a vedere premiati i loro sforzi, nonché a intravedere orizzonti più azzurri per i loro giovani sogni. Non sarebbe un onore anche per noi se questa 50ma edizione del Cantagiro la vincessero due elementi italomontrealesi, due giovani figli di emigranti, due virgulti di quell’Italia che «cresce» soprattutto all’estero? Ed allora, Saverio e Davide, in bocca al lupo (crepi!) per la vostra esperienza a Fiuggi e tanti auguri per tutto il vostro avvenire artistico. 31 (ott. 2012) Per noi emigrati in questi paesi settentrionali il 12 ottobre, in quanto americani in generale, e il 24 giugno, in quanto canadesi in particolare, sono due date di storica importanza, nonché di patria emozione. Un misto di passato e presente, di nostalgia e di realtà che, avvalorando la nostra esistenza fuori casa, ci responsalizzano a vivere onorevolmente la nostra duplice identità. Orgoglioso delle loro imprese che secoli fa, «modernizzando» il corso della storia, aprivano nuovi orizzonti all’umanità, vengo a presentarvi Colombo e Caboto come due raggi di italianità emananti una luce tutta particolare…almeno dal punto di vista che vado subito ad esporvi. Navigando nei siti internet grazie alla barchetta «o-p»=ordinatore personale, la mia visuale si inoltra nei mari della fantasia e mi addita i nostri due connazionali, oltre che come grandi navigatori, anche come…precursori dell’ormai sempre più indispensabile navigazione on line. Di certo sarà capitato anche a voi di aprire il computer e trovarvi inoltrati, involontariamente, su sentieri che vi portano a visitare luoghi sconosciuti e in cui non avevate nessuna intenzione di entrare. Poiché non tutti i mali vengono per nuocere, questo smarrirsi in rete, tutto sommato, ha anche i suoi vantaggi. Si acquistano nuove nozioni e ci si fa una cultura inaspettata sì, ma pure utile e in un certo qual senso anche apprezzata…ma resta sempre il fatto che ci siamo inavvertitamente persi nei mari dello scibile virtuale. Intanto, cosa accadde a Cristoforo Colombo nel 1492 e a Giovanni Caboto nel 1497? Il primo doveva andare in India e il secondo doveva recarsi in Cina per conto dei reali di Spagna e d’Inghilterra che avevano sovvenzionato le loro spedizioni; come fecero quelli italiani a perdere il treno, se ancora non c’era, proprio non me lo so spiegare! Comunque in India e in Cina i nostri non ci arrivarono mai perché il vento spinse le loro vele verso terre che nessuno aveva mai segnalato sulle carte geografiche in quanto del tutto sconosciute. Ma anche per loro resta fermo il fatto che si persero, a loro insaputa, nei mari del pianeta terra; quindi non ho tutti i torti a segnalarveli, come volevasi dimostrare, quali antesignani della navigazione internet. Anni fa quando me ne venni emigrante a Montreal, vedendo una nota strada della città intitolata ad un certo C. Colomb e un parco comunale ad cert’altro John Cabot, tra me e me pensai: «Ma che li hanno decapitati i miei compaesani?»; intanto se fossi stato uno «straniero» avrei anche potuto sospettare che quei due signori non fossero italiani. Nel frattempo ho fatto un tutt’altro ragionamento che, in fin dei conti, risulta anche a vantaggio e onore della nostra etnia. Se li hanno francesizzati o inglesizzati vuol dire che li ammirano, che li stimano, che li apprezzano, che li ritengono importanti al punto tale che vorrebbero fossero loro e non nostri compatrioti! Eh sì, su quisquilie del genere è meglio passare avanti e vedere il bicchiere mezzo pieno. In fondo in fondo, a pensarci bene, pure questo rovescio della medaglia segna un punto a nostro favore. Ed ora, anche per concludere, stretta la foglia, larga la via…preparatevi a dire la vostra che vi dico la mia. Personalmente penso che , se Colombo e Caboto sono stati «decapitati», è perché sono così preziosi e rari che vorrebbero rubarceli, come si fa con dei veri tesori, dando a credere che appartengono a loro; mentre noi, e non solo noi, sappiamo molto bene che essi sono stati, sono e saranno sempre e solo nostri. Perciò viva l’Italia con tutta l’America da loro scoperta. Giuseppe Circelli