UN LIMPIDO R A G G I O D I I T A L I A N I T À
1 (Nov.2010)
Io è da 43 anni che vivo in
Canada voialtri non so. Comunque c’è un
denominatore comune che convoglia le
nostre vedute e condiziona la nostra
mentalità. Abituati o, forse meglio, assuefatti dal quotidiano multietnico della
grande Montreal, la cosmopolita metropoli canadese per eccellenza, non facciamo
più caso o diamo ormai per scontato la limpida italianità che illumina l’etere
canadese in generale e i cieli della nostra bella provincia in particolare. Ho sempre
carezzato nella mente come luminosi raggi di luce le svariate attività con cui la
nostra gente emigrante si è implicata nel contesto socio-comunitario di questo
Paese che abbiamo scelto come seconda Patria.
Nella visuale di questo ragionamento un riverbero di luce nostrana lo
irradiano i nostri uomini di spicco che, distinguendosi in modo egregio ed esimio chi
in questo e chi in quell’altro campo delle attività sociali, hanno dato e andranno
ancora dando un senso di maestosità alla nostra immagine di italiani all’estero e in
Patria. Un secondo sprazzo di luce lo proietta in giro un pò dovunque anche la gente
comune, quella che fa parte della storia di tutti i giorni! Oscuri operai e semplici
massaie che, benché dediti ad umili mansioni, hanno anch’essi una certa
importanza. Grazie alla loro assiduità al lovoro, con il loro attaccamento alla terra di
origine e con la forte volontà di volerne trapiantare le usanze anche in quella
adottiva...vanno stagliando, della nostra italianità, un’immagine chiara e
trasparente. Addirittura due risvolti di radiosa italianità che da padre a figlio e di
generazione in generazione è giusto e doveroso tenere sempre accesi e far
continuare a risplendere onde illuminare pure il nostro futuro cammino di gente
emigrante!
E di raggi di italianità ce ne sono a bizzeffe nell’aria che ci circonda; solo che,
come accennavo all’inizio, non ci facciamo più caso perché divenuti di comune
amministrazione. Mi è passato per la testa il ghiribizzo di spazzar via le nuvolette
che li nascondono e presentarveli qui sul Sabatino: tenetevi pronti, quindi, che di
tanto in tanto ve ne presenterò uno...nella speranza di farvi cosa gradita!
2
(dic. 2010)
Qual’è il significato etimologico della parola
«Montreal»? Ormai è dato per scontato da tutti che se
questa metropoli canadese, quella che ha adottato pure
noi come suoi figli, si chiama così è dovuto al fatto che si
trova alle falde e su per le pendici del maestoso Mont
Royal: che bello soffermarsi a guardare la città, specialmente di sera, da lassù, da
quella storica montagna dove sorge pure l’Oratorio San Giuseppe...il cui fondatore,
frate Andrea (al secolo Alfred Bessette), è stato da poco canonizzato da Benedetto
XVI, che ha fatto registrare nella storia della Chiesa il primo santo quebecchese: un
umile e fragile fraticello divenuto un baluardo di santità! Tornando al nome della
città, quella appena esposta è la teoria che la storia e la tradizione danno come la
piú attendibile sull’etimologia del nome.
E se caso mai non fosse così? E se i fatti fossero andati, invece, come
sostiene lo storico padre Domenico Menchini, uno dei parroci dell’italianissima
parrocchia della Madonna della Difesa? Se cosí fosse, come mi auguro che
realmente sia, ne va da sé che un luminoso raggio di italianità è già nel nome
stesso della nostra sempre verde Montreal! Padre Menchini, infatti, asserisce che il
nome deriva da «Monreale», una cittadina siciliana in provincia di Palermo; ma
eccovi la sua argomentazione.
In tutto questo c’è di mezzo lo zampino della Signoria dei Medici, che
governarono Firenze per circa quattro secoli e che nel 1500 furono gli artefici del
nostro Rinascimento. Tra i Medici e i reali di Francia intercorsero legami di
parentela grazie ai matrimoni di Caterina e Maria dei Medici rispettivamente con
Enrico II ed Enrico IV dei Borboni. Quando Jaques Cartier arrivò sulle rive del San
Lorenzo in Francia regnava Francesco I, suocero di Caterina; intanto era arcivescovo
della cittadina siciliana di Monreale Ippolito dei Medici, che godeva di ottima stima
presso la corte reale. Ora si da il caso che al porporato mediceo passasse per la
testa di chiedere al re di Francia che l’esploratore francese battezzasse col nome
della città di cui lui era arcivescovo quel villaggetto, di nome Ville Marie, che
sorgeva ai piedi del monte soprannominato Royal e che aveva cominciato ad
ingrandire...ed il re acconsentì!
E se così realmente fu...fa onore anche a noi questo fulgido raggio di italianità
irradiato dal nome stesso della grande Montreal.
3
(dic. 2010)
Rieccoci alle soglie delle tanto attese feste
natalizie cui fanno da sfondo mille tradizioni, una
miriade di usanze care, nonché innumerevoli «abusanze»
commerciali. Portata in giro nei centri di acquisto
sontuosamente addobbati a festa, per la ricordevole foto
col babbo natale, la nostra infanzia va sempre più allontanandosi dalla suggestività
della grotta di Betlemme; di conseguenza pure l’umanità va sempre più distorcendo
il reale e sublime significato della Santa Natività. In ogni modo oggigiorno nelle
case di mezzo mondo a farla da padrone, oltre allo sfarzo di ghirlande e luci sui
balconi, alle finestre e per le strade, c’è immancabilmente il verde abete a
mantenere la tradizione e la caratteristica ricostruzione del presepio a ricordare la
nascita del Bambinello in una fredda grotta di Betlemme 2010 anni or sono. E
quest’ultimo, senza ombra di dubbio, porta il marchio del made in Italy. Ma da
quegli sprazzi di luci che si diramano dall’alberello...non c’è proprio nemmeno un
raggio a ricordare la luminosità della nostra terra?
Nel 1223 in una campagna di proprietà di Giovanni Velita, nei pressi di
Greccio in provincia di Rieti nel Lazio, San Francesco d’Assisi realizzò per la prima
volta una rappresentazione vivente della Natività per ricreare la mistica atmosfera
della notte Santa a Betlemme...ed anche quella notte nacque, miracolosamente,
un Bambinello che il santo d’Assisi ebbe la gioia di cullare fra le sue braccia:
prendeva il via la cara usanza del presepio! Ma, guarda caso, non si narra pure che
la gente del luogo, per illuminare l’oscurità delle tenebre, si recasse sul posto con
torce e fiaccole accese?. Ed ora,questo scintillìo di fiammelle nello sfondo degli
alberi circostanti non balza pure al vostro sguardo come un raggio di serafica
italianità che manda ancora la sua significativa luce pure dagli alberelli natalizi dei
nostri giorni?
Da qualche ramo di quello di casa mia, a dispetto del rosso panciuto dalla
barba bianca (anch’egli « raggio di italianità » perché Santa Close deriva, neanche a
farlo apposta, da San Nicolaus) che distribuendo regali a manca e a dritta sembra
beffarsi della «saggia» creduloneria umana, pende ogni anno anche l’arcana calza
della vecchia Befana...a spazzar via ogni festa. Un altro magico raggio di italianità
che l’andazzo dei tempi va progressivamente relegando nella notte dell’oblio.
Infatti, una volta passati a miglior vita noialtri anzianotti, quanto tempo ancora
resterà a irradiare la sua calorosa luce di dolcezza la nonnetta dei nostri giorni
bambini…nonnetta che resta sempre più intrappolata in qualche clan di streghe
halloweeniane?
4
(gen. 2011)
A volte, o attratti dalla curiosità o spinti dalle esigenze della vita,
andiamo cercando altrove quel qualcosa in più per sentirci maggiormente realizati
ed appagati; e intanto questo qualcosa spesso lo abbiamo in casa nostra stessa e
non ce ne rendiamo conto. Condizionati dall’ «erba del vicino -che- è sempre più
verde», anche per quanto concerne la maggior parte dei nostri bisogni giornalieri ci
distacchiamo dal recinto ordinario per andarne a cercare lontano la desiderata
soddisfazione. E giammai prendiamo in considerazione il fatto che, esorbitando dal
comune andiamo involontariamente trascurando il valore e l’importanza del
quotidiano che ci circonda...che, a sua volta, è il sogno che vorrebbero realizzare
quelli che ne sono lontani.
Un caso analogo è capitato a me allorché ho preso la decisione di entrare
qui, in «xxisecolo.ca»; pensa e ripensa agli argomenti da trattare, pure in vista di
assicurare una regolare continuità a questa mia collaborazione in rete, ho gettato lo
sguardo e ho portato la mia mente nei posti più disparati e nei luoghi più reconditi
della multietnica Montreal alla ricerca dei miei raggi di italianità senza nemmeno
realizzare che ne avevo uno limpido, luminoso e trasparente proprio a portata di
mano. Ora che me ne sono avveduto ho pensato bene parteciparvelo, condividerlo
con voi e regalarvelo come augurio personale di inizio d’anno. Senza rivelarvi ancora
di cosa si tratta, vi dico solo che lo vado a consultare spesso anche come
passatempo; senza contare che entro in esso anche per documentarmi e, perché
no, farmi pure una cultura. Cominciando a svelarvi qualcosa, vengo a dirvi che si
tratta di un quotidiano dove puoi venire a conoscenza di ciò che succede nel mondo
senza uscire di casa e senza spendere nemmeno un soldino per acquistarlo; è una
buona rivista e non devi aspettare che ti venga messa nella buca della posta a
tempo determinato e la puoi sfogliare a piacimento restando comodamente seduto
al tavolino del tuo studio; è un interessante sito on line in cui puoi navigare e andare
in giro per i vasti mari del globo in maniera utile, dilettevole e interessante; è una
fonte di informazione che ti permette di aggiornarti e di aggiornare a tua volta
collaborando in qualche pagina di tua competenza o che più ti aggrada.
Mettendo fine alla suspense, sono quasi certo che avete già capito, o almeno
intuito, che sto parlando del «xxisecolo.ca»! E’ un chiaro raggio di italianità spuntato
agli sgoccioli della prima decade del terzo millennio. In appendice a quanto detto
finora, penso sia giusto e doveroso rivolgere un pensiero di complimento ai miei
amici e colleghi, Carmela e Giuseppe, che hanno avuto la stupenda idea di dar vita
a questo sito web simpatico e carino. Visto che questo sprazzo di luce ha illuminato
i miei pensieri nel periodo delle magiche festività appena trascorse, ne approfitto
per dedicarlo a voi, ai vostri collaborati ed a tutti i lettori digitali del sito da voi
ideato come il più caro e sincero augurio di BUON ANNO NUOVO! (xxisecolo è stato chiuso)
5
(gen.2011)
Prima che il mese di gennaio se ne vada mi
permetto di porgere un ulteriore augurio di Buon Anno ad una
persona che ha fatto brillare il primo raggio di italianità nella mia
mente allorché ero ancora un giovane emigrante; raggio di
italianità
che
continua
ad
illuminare
il
mio
cuore
di
italocanadese; raggio di italianità che riverbero a mia volta
nell’animo dei miei studenti, specialmente di quelli di quinta media che affidiamo
alla società dopo aver consegnato loro il diploma con la raccomandazione di
comportarsi sempre da buoni cittadini di origine italiana.
Ma ecco come si svolsero i fatti. Nel 1976 mia moglie ed io decidemmo di
prendere la cittadinanza canadese..per poter partecipare attivamente a tutti gli
obblighi politico-sociali del paese che avevamo scelto come seconda Patria. ne
facemmo domanda presso gli uffici competenti, ci furono consegnati degli opuscoli
da studiare e ci fu dato appuntamento per la tale data e ad una determinata ora
presso lo studio di un giudice di pace. E fu così che, nel giorno e all’ora stabilita, ci
recammo puntuali al fatidico incontro. Venimmo ricevuti da una distinta signora che
sin dal primo sguardo ci ispirò fiducia e simpatia; ci accolse con un bel sorriso di
benvenuto e ci invitò a sederci dinanzi a lei. Cominciò ad esaminarci e, di tanto in
tanto che si fermava per prendere appunti, noi esaminandi parlottavamo tra noi in
italiano. Finito l’interrogatorio (naturalmente in lingua francese), ci fece mettere
una firma sui documenti dovuti e, congratulandosi con noi, si disse soddisfatta di
essere stata proprio lei a conferirci la cittadinanza canadese. A quel punto io e mia
moglie ci stavamo alzando per andarcene...ma lei: «Oh no, -ci disse in lingua
italiana- restate pure seduti. Adesso, che la prassi è finita, nessuno ci impedisce di
scambiarci due parole nella nostra lingua madre!». E ci intrattenne per una buona
mezz’oretta a parlare del più e del meno e di questo e di quest’altro. Dopo di che,
accompagnandoci alla porta e salutandoci, ci soggiunse: «Anche se siete divenuti
cittadini canadesi, continuate ad essere sempre fieri di essere italiani!».
Suppongo che non fummo i soli italiani a passare per quel suo ufficio per
ottenere la cittadinanza o per altri motivi; e immagino pure che quel significativo
consiglio l’abbia seminato, quasi raggio di italianità, nella mente e nel cuore di
molti di noialtri italiani all’estero. Questa insigne signora della comunità italiana di
Montreal purtroppo non l’ho più rivista e, sfortunatamente, non ricordo più
nemmeno il suo nome...ma mi è sempre rimasta impressa nella mente assieme a
quel suo nobile consiglio. Qualora dovesse leggermi, sappia che è lei la persona a
cui voglio porgere il mio ulteriore augurio di BUON ANNO...anche in ringraziamento
della sua forte carica di italiana puro sangue e, magari, anche col desiderio di
poterle stringere di nuovo la mano. E le «carrambate» sono sempre possibili.
6
(feb. 2011)
Il mese di febbraio è il mese dell’amore, quel
nobile sentimento che uno dei più preziosi granelli di
saggezza vuole che sia la cosa più bella che la vita può
offrirci e che, in cambio, anch’esso la ridona a sua volta
tramite l’unione di un uomo con una donna; ed allora
riscaldiamoci gli animi parlando della San Valentino che
festeggiamo giusto al mezzo del mese più corto dell’anno.
Ma, detto per inciso, è anche la festa dei gay, dei travestiti
e degli invertiti? A voi l’ardua sentenza! Da parte mia mi impegno a parlarvi della
festa di tutti coloro nel cui cuore arde la fiamma dell’Amore, con la A
maiuscola...anche nel rispetto di ogni giusto accomodamento ragionevole
(ammesso che ce ne possa essere).
Venendo a bomba la San Valentino è un raggio di luce squisitamente italiana
che affonda il suo primo riverbero su nel tempo, sin dai giorni dei nostri padri latini
della Roma eterna. In quella notte dei tempi erano soliti festeggiare il dio Lupercus
con un rito tutto speciale. Un bimbo sceglieva il nome di alcune donne e di
altrettanti uomini che avrebbero vissuto in intimità di coppia per tutto l’anno onde
assicurare la fertilità della popolazione. In seguito, col propagarsi del cristianesimo,
si cercò di sostituire le ricorrenze lupercali con una festività religiosa ad esclusivo
indirizzo degli innamorati. Naturalmente ci voleva un santo adatto allo scopo e la
scelta cadde su San Valentino sia perchè la sua festa coincideva con il periodo delle
lupercali, sia perchè nella sua vita si era dedicato a far nascere amore nei cuori
giovanili o a rimettere in equilibrio gli amori vacillanti o in pericolo di sfasciamento.
Tanto per cominciare, è dovuta proprio a lui la frase conclusiva (dal tuo
caro...) di tante missive, specialmente se sono lettere d’amore...ed eccone il perché.
Durante la sua prigionia si era molto affezionato alla figlia cieca del suo carceriere
Asterius. Allorché venne portato alla decapitazione mandò un pensiero d’addio alla
fanciulla...e detto messaggio terminava, appunto, con la formula, divenuta in
seguito quella formale di ogni scritto del genere che si rispetti, «dal tuo caro
Valentino». Si narra, poi, che, vedendo due fidanzati litigare, offrì loro una rosa con
la raccomandazione di tenerla stretta fra le loro mani unite...ed essi si
riconciliarono. Ma eccovi anche un’altra delle sue «trovate» che ha lasciato una
profonda traccia nella terminologia amorosa. Per far rinascere l’amore negli animi
di un’altra coppia, che si stava «scoppiando», fece volare al di sopra delle loro teste
alcune coppie di colombi che svolazzando a festa si scambiavano effusioni
d’affetto. E da dove può avere avuto origine l’espressione «tubare come piccioncini»
o “tubare come colombe”, se non proprio da questa geniale intercessione proamore prettamente sanvalentiniana? A proposito di trovate, posso aggiungerne una
che ho sentito dire un giorno da qualcuno e che mi è rimasta impressa nella
mente? San Valentino, in questo benedetto mondo ormai tutto motorizzato, può
essere considerato addirittura il protettore dell’automobilista prudente, di quello
cioè che « va...lentino»!
7
(feb. 2011)
Un raggio di italianità che diffonde la sua luce
ormai da tempo è quello dell’Unità d’Italia di cui stiamo
festeggiando il 150.mo anniversario. Da buon italiano all’estero
non vorrei che l’Anno Domini in corso finisca senza che io abbia
espresso un pensiero a riguardo. Inutile dire che lo storico
avvenimento di quel 17 marzo 1861 è tutto ad onore e merito (con rispetto
parlando per tutti gli altri eroi e martiri del nostro Risorgimento...già fortemente
aleggiante nel pensiero e negli scritti dell’Alfieri) di Giuseppe Garibaldi: l’eroe dei
due mondi, un guerriero valoroso, un cittadino esemplare, un politico sempre degno
di gloria e mai avido di potere. Salpando notte tempo da Quarto fa sosta a
Talamone, onde far scorta delle armi a lui segretamente fornite da re Vittorio, per
poi puntare su Marsala da dove inizia la sua sempre più incalzante scacciata dello
straniero dalle nostre terre; e avanza vittorioso e sale trionfante su per la penisola.
A Teano, però, gli va incontro Sua Maestà Reale! É sceso giù dal Piemonte per
timore che il nostro eroe attacchi pure lo Sato Pontificio o semplicemente per
tastare il polso della sua fedeltà al trono reale? Fatto sta che Garibaldi, da grande
cavaliere qual’era... «Viva il re d’Italia!» esclama e dissipa ogni sospetto nei suoi
confronti. Al che il sovrano risponde: «Saluto il mio migliore amico!».
Che quadretto storico denso di grande significato patriottico questo noto
incontro di Teano. Garibaldi in camicia rossa e Vittorio Emanuele sul suo cavallo
bianco; manca solo il verde a completare il tricolore della nostra amata Patria. Lo
vedo inalberato sul carroccio dell’odierna Padania quale vessillo di una triplice
Italia! Intanto, “Grazie…mille!” dice Garibaldi ai suoi compagni d’avventura e,
congedandoli, si ritira lui pure a vita privata. Da umile servitore della Patria ha
modo di ricaricare il fucile qualche anno dopo per sbarazzarsi degli usurpatori che
spadroneggiano in nord Italia. E a Bezzecca gli viene data l’occasione di dimostrare
ancora una volta la sua incondizionata fedeltà all’ordine costituito. Anche se a
malincuore, infatti, «Obbedisco!» risponde a Sua Altezza Reale che lo invita di nuovo
a deporre le armi; dopo di che si ritira definitivamente nella sua Caprera a coltivare i
suoi orticelli...senza nemmeno farsi passare per la testa l’idea di poter fare «carriera
politica» a corte reale.
É per merito suo se noi italiani possiamo essere fieri di festeggiare,
quest’anno, il 150mo anniversario della nostra cara Italia unita...oggigiorno diretta,
controllata e mandata avanti da una costellazione di partiti capeggiati da una
miriade di illustri ed abili (almeno così dicono) personaggi politici che, a furia di
sventolare il più in alto possibile i loro stendardi, non si rendono conto che vanno
offuscando, inavvertitamente, lo splendore d’ «o sole mio». In considerazione di
questo stupendo raggio di italianità diffuso dai palazzi romani, mi sembra
veramente una cosa degna e giusta se noi, gente di quest’Italia unita, facessimo
eco a Garibaldi nel gridare, a distanza di 150 anni, «Grazie...mille partiti» che ne
stabilite il cammino e ne condizionate il destino!
8
(mar. 2011)
É in Piazza Venezia, a Roma, che
sorge il Vittoriano, il cuore storico della nostra
amata penisola, un simbolo indiscusso dell’Unità
d’Italia! La sua costruzione, che con aggiunte e
modifiche successive si è protratta fino al 1935,
fu decisa nel 1878; nel 1880 si ha un primo bando di concorso e nel 1882 se ne ha
un secondo riservato a soli italiani. Su 98 progetti viene scelto quello del
marchigiano Giuseppe Sacconi, secondo cui doveva essere «una sorta di
rappresentazione all’aperto che aveva lo scopo di rappresentare e celebrare la
storia e i protagonisti dell’epoca risorgimentale in Italia»; quasi un «foro» aperto ai
cittadini in una specie di piazza sopraelevata nel cuore della Roma imperiale,
simbolo di un’Italia Unita dopo la Roma dei Cesari e dei Papi!
Il complesso architettonico del Vittoriano si allinea in un portico lungo il
quale sfilano colonne di stile corinzio che ci riportano agli splendori del Tempio di
Nike sull’Acropoli di Atene. Sui propilei ai lati del portico si librano nell’aria due altri
richiami alla Vittoria: su di uno si erge la quadriga della Libertà e sull’altra quella
dell’Unità. Ma questo virtuale filo conduttore ispirato alla Vittoria non deve portare
fuori strada per quanto concerne il nome di questo monumento nazionale. Questo,
infatti, è legato al re Vittorio Emanuele II, il Padre della Patria, in onore del quale fu
ideato e costruito. E rappresenta appunto re Vittorio la statua equestre che
giganteggia dinanzi all’edificio. Opera di Enrico Chiaradia e di Emilio Gallori fu
inaugurata nel 1911, con tutto il complesso che gli fa da sfondo, da Vittorio
Emanuele III in occasione del 50mo anniversario dell’Unità d’Italia. Il significato
profondo del Vittoriano, detto anche «torta nuziale» e «macchina da scrivere» (a
causa della forma), venne sottolineata a suo tempo dall’ex presidente della
Repubblica italiana Carlo Azeglio Ciampi allorché ne riproponeva il valore Patrio che
deve essere al di sopra del suo valore artistico.
Scrigno sacro del Vittoriano, monumento ricco di simboli di rimandi e di
memorie travagliate e gloriose, è l’Altare della Patria con cui tutto il complesso è a
volte identificato. Nell’Altare della Patria, parte integrante del Vittoriano, sono
sepolti i resti di una salma sconosciuta selezionata tra quelle dei caduti durante la
prima guerra mondiale: vi sono conservati i resti del Milite Ignoto...a cui è dedicato
un monumento in ogni città e paese dell’Italia. A coronamento del sommo portico,
in corrispondenza delle sedici colonne corinzie, vi sono le statue delle Regioni
d’Italia, che all’epoca erano appunto 16: tutte opere di scultori provenienti dalla
regione rappresentata. Invece sono tutte dello stesso autore, Eugenio Maccagnani,
le statue delle 14 città sedi di governi nobiliari convergenti alla monarchia sabauda;
è per questo che sono poste alla base del monumento equestre di re Vittorio.
Diversi, ma sentitamente significativi, infine, i simboli vegetali ricorrenti nel nostro
Patrio monumento: la Palma che simboleggia la Vittoria, la Quercia che
rappresenta la Forza, l’Alloro che sottolinea la Gloria, il Mirto che sta a ricordare il
Sacrificio e l’Ulivo che sta a significare la Concordia.
Il Vittoriano, detto anche Altare della Patria e ideato per onorare il primo re
dell’Italia Unita, è un raggio di italianità che riflette la gloria del nostro passato...sui
sentieri del presente, nonché sul cammino del futuro!
9
(mar. 2011)
Oltre al Vittoriano, ci sono ben altri simboli a
rappresentare e identificare la nostra Patria nazionalmente e
internazionalmente parlando. Due di questi, il tricolore e l’Inno di
Mameli, sono i più conosciuti e incontestati; ragion per cui mi limito a
darne solo qualche accenno prima di passare a parlare più dettagliatamente degli
altri meno noti o perlomeno non tanto presi in considerazione.
IL nostro tricolore possiamo ritenerlo gemello di quello francese perché
nasce nello stesso periodo, nonché dagli stessi valori di indipendenza sociale e dai
medesimi ideali di libertà; viene quasi concepito dal bisogno di scrollarsi di dosso il
dominio straniero. Viene decretato ufficialmente il 7 gennaio 1797 ed entra in
vigore, nella Costituzione della Repubblica italiana, il primo gennaio del 1948. Il
distintivo della nostra Patria è un tricolore : il verde dei nostri territori, il sangue dei
nostri martiri e il bianco dei nostri monti. L’inno nazionale, invece, fu scritto da
Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro...nel 50mo anniversario della
nostra bandiera. E i «Fratelli d’Italia» entusiasmarono l’animo dei nostri eroi e ne
accompagnarono ogni loro passo bellico durante tutto il Risorgimento, allo stesso
modo che sottolinea oggigiorno ogni manifestazione di carattere nazionale. Allorché
divenne pure simbolo della Repubblica fu preferito come inno nazionale al «Va
pensiero»
e alla «Leggenda del Piave», tutto questo nel 1946, un 12
ottobre...medesimo giorno, guarda caso, in cui Colombo scopriva l’America.
Simbolo meno noto dei precedenti è l’Emblema della Repubblica che è
caratterizzato da quattro elementi: una stella, una ruota dentata, da un ramo di
ulivo e da uno di quercia...con, alla base, una fascia rossa con dentro, scritto in
bianco, «Repubblica Italiana». Il ramo di ulivo simboleggia la volontà di pace della
nazione, nonché concordia e fratellanza; il ramo di quercia sta a sottolineare la
forza e la dignità della nostra gente, mentre entrambi i ramoscelli sono
l’espressione delle specie più tipiche del nostro patrimonio erboreo; la ruota
dentata è in acciaio e sta a testimoniare l’attività lavorativa, così come da
Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro»; la stella
bianca a cinque punte, detto anche «stellone d’Italia», infine, è uno degli oggetti più
antichi del nostro patrimonio iconografico ed è sempre stata associata alla
personificazione dell’Italia diventandone la sua tradizionale rappresentazione
proprio in epoca risorgimentale. Il nostroi emblema è opera del bozzettista Paolo
Paschetto che fu selezionato tra ben 500 concorrenti.
Altro simbolo da ricordare è lo Stendardo che è, tutto sommato, un segno
distintivo del Presidente della Repubblica, che può anche portarne delle modifiche.
Quello dell’attuale Capo dello Stato ha una bordatura quadrata di colore azzurro
simboleggiante le forze armate da lui comandate; dentro detta bordatura vi sono i
colori della nostra bandiera nazionale intrecciati, a forma di quadrati, uno dentro
l’altro; in quello centrale, il verde, figura pure l’emblema di cui ho parlato poco fa;
quello attuale del Presidente Napolitano data dal 9 ottobre 2000 ad oggi. IL primo
stendardo risale al 1946 e fu la stessa bandiera nazionale; fu nel 1965 che si
decise di istituire uno stendardo specifico per il presidente e quello di allora,
Giuseppe Saragat, ne scelse uno azzurro caricato, anch’esso, dall’emblema;
Cossiga adottò un tricolore quadrato con bordo azzurro; Scalfaro ripristinò quello
del 1965; quello attuale è lo stesso di quello adottato da Ciampi.
Ogni volta che vediamo inquadrato, per televisione, il presidente della
Repubblica nei suoi studi del Quirinale il nostro sguardo viene richiamato da una
bandiera nel cui campo blu sfavillano dodici stelle dorate disposte a forma di
cerchio: è quella dell’Europa Unita che ormai affiencherà per sempre il nostro
tricolore tradizionale.
10
apr. 2011)
«Santo celere»: bisognerebbe dirlo di San
Francesco d’Assisi, visto che ben presto sarà rispettata la vox
populi-vox Dei che ha invocato Giovanni Paolo II «Santo
Subito». Comunque se la Congregazione per la causa dei santi
avesse un libro dove catalogarne i tempi record delle loro
canonizazioni, San Francesco d’Assisi avrebbe il primato in un
simile gueness. Morto nell’ottobre del 1226, papa Gregorio IX lo proclamò santo,
quasi in tempo reale, il 16 luglio del 1228, soltanto dopo due anni dalla sua morte:
santità celere, dunque, la sua! E a proposito di primati, vorrei spezzare un’altra
lancia in favore dell’umile fraticello che consacrò la propria vita, e quella dei suoi
seguaci, alla povertà, all’ubbidienza e alla castità, come attestano i tre nodi del
cingolo bianco che portano a mo’ di cintura sul loro saio di color marrone. Visto che
ci sono pure cattolici dalla lingua «involontariamente» facile, non sembra pure a voi
che il nostro sia uno dei santi meno bestemmiati?
Considerando che la fede ci assicura che la vita non finisce con la morte (e,
se così non fosse, che parleremmo a fare di santità?), mi permetto di passare in
rassegna alcuni dei fatti salienti del suo passaggio su terra e che favorirono la sua
record-evole canonizzazione. Figlio di madonna Pica e di Pier di Bernardone, deve il
suo nome alla professione di venditore di stoffe del padre che svolgeva il suo
fruttuoso commercio soprattutto in Francia. Dopo un periodo giovanile disordinato e
mondano, un giorno in una chiesetta di campagna gli capita sottomano un libro del
vangelo. Apre una pagina a caso e vi legge: «Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello
che hai e seguimi!». Fu quasi il fatidico colpo di fulmine: si innamorò del Cristo, lo
seguì e cominciò non solo a predicare il Suo vangelo al mondo intero, ma
addirittura a viverlo alla lettera. Portato dal padre, che non condivideva la sua scelta
di vita, dinanzi al tribunale ecclesiastico, si spogliò completamente delle sue vesti e
glie le restituì in publica piazza...al punto che il vescovo dovette coprirlo col suo
mantello.
«Attenti al lupo» canta Lucio Dalla; e San Francesco uno dei suoi tempi lo
ammansì facendolo divenire buono e generoso nei confronti del popolo che fino ad
allora aveva tenuto sottomesso ed oppresso. «Pace e bene» è il motto che ancora
oggi contraddistingue il triplice ordine di frati da lui fondato. Ed ecco che nel 1219
si reca fino in oriente per predicare il Vangelo al Saladino in quei tristi giorni della
quinta crociata. Nel 1223 allestisce a Greggio la rappresentazione vivente della
nascita del Bambinello Gesù: ha origine la mistica tradizione del presepio. Il
momento più tangibile della sua santità scocca nel 1224 allorché sul monte della
Verna, il 17 settembre riceve le sacre stimmate: più nessuna differenza tra lui e il
Cristo! Forse è proprio in quello stesso anno che, quasi a ringraziare Dio per le
sofferenze con cui lo ha messo alla prova, “intona” il “Cantico delle creature” o “di
frate sole”, che è il primo documento del passaggio dal latino al volgare: il primo
raggio di italianità della nostra bella madre lingua! 3 ottobre 1226, dolce e sereno
passaggio dalla terra al cielo e, naturalmente, anche motivo sine qua non verso
quel brevissimo e rapido processo di canonizzazione che lo porterà agli onori
dell’altare dopo solo due anni. E da quei lontani giorni del Medio Evo è diventuta, la
sua, un’aureola irradiante luce di santa italianità che dalla nostra Umbria verde va
ad illuminare i cieli dell’intero universo.
11
(apr. 2011)
«Santo subito»...ed in effetti Benedetto XVI, oltre
ad essere il primo papa a proclamare santo il suo diretto
predecessore, lo farà anche in tempo da record, nel sommo
rispetto della volontà popolare che stimava Vojtyla santo prima ancora della sua
morte avvenuta il 2 aprile del 2005. Ed ecco che tale volontà popolare è stata
pienamente soddisfatta con la beatificazione del papa polacco questo primo
maggio: festa del lavoro e festa della Divina Misericordia; due ricorrenze
particolarmente significative e care al compianto sommo pontefice. Karol Vojtyla,
infatti, vero uomo nelle vicissitudini della vita, fu un minatore in diretto contatto con
quella gente operaia e con quegli onesti lavoratori la cui festa ricorre appunto il
primo maggio. Fu grazie a suor Faustina Kowalska che venne istituita la festa della
Divina Misericordia che proprio Giovanni Paolo II fissò ugualmente al primo di
maggio: ecco perché il papa lavoratore è stato beatificato esattamente in tale data.
Si dice che fu chiesto al cardinale Ratzinger, immediatamente dopo la morte
di Giovanni Paolo II il Grande, se realmente sarebbe stato fatto «subito» santo; e il
porporato rispose: «Lasciamo che sia il prossimo papa a deciderlo!», senza
immaginare nemmeno che quel «prossimo papa» sarebbe stato lui personalmente.
Ed ecco che appena salito sulla cattedra di Pietro ha fatto sì che il prefetto delle
cause dei santi, Angelo Amato, desse il via al processo di canonizzazione del suo
predecessore: processo che per normale routine non può cominciare prima di
cinque anni dalla morte; la motivazione della pronta apertura di detto processo si
deve appunto alla fama di santo che aleggiava intorno alla figura del pontefice
polacco già da quando era ancora in vita. Due anni dopo la sua morte viene
riconosciuta la sua eroicità e gli viene conferito il titolo di servo di Dio...e ci si mette
in attesa del miracolo che lo porterà ad essere beato; ed ecco che entra in scena
una suora francese, suor Marie Simon Pierre Normand: viene guarita, dalla sera alla
mattina, dalla malattia di Parkinson...la stessa che, guarda caso, iniziata nel 1991
condurrà lo stesso futuro santo alla casa del Padre.
Ma cosa aveva di così speciale Karol Vojtyla da essere globalmente tanto
ben voluto? Prima fra tutte fu la sua semplicità nell’essere uomo: uomo tra gli
uomini, malato tra i malati, operaio tra gli operai, grande fra i grandi, nonché santo
con i piedi ancora in terra. Colui che, modestia a parte, mi piace definire «il papa
anche dei NON cattolici» fu il papa, quindi, di tutte le genti...così come san Paolo (di
cui porta anche il nome) fu l’apostolo delle genti. Intanto fu pure il leader che fece
paura al comunismo...con cui seppe allacciare rapporti di amicizia, grazie anche
all’altro grande della politica sovietica Mikail Gorbacev. E che dire del muro di
Berlino? Non fu forse lui a dargli la spallata che ne determinò il crollo? Il futuro della
società, senza ombra di dubbio, sono i giovani. Ebbene, i momenti più cari al papa
del «se sbaglio mi corriggirete» furono gli incontri con loro e proprio per essi indisse
la giornata mondiale dei giovani che di anno in anno ha luogo in una diversa città
del globo; nel 2000 li definì «le sentinelle del mattino all’alba del nuovo millennio».
Altro punto importante del suo pontificato fu l’apertura a un dialogo costruttivo con
le altre ideologie religiose: basti pensare all’imponente presenza, in occasione delle
sue esequie a Roma, di gente di ogni ceto sociale, di personalità di ogni profesione
religiosa, di ogni credo politico e di ogni appartenenza etnica.
Dal primo maggio prossimo comincerà «ufficialmente» a fare miracoli; ma
nessuno mi toglie dalla testa che la mano della Madonna di Fatima abbia
miracolato anche lui. Alì Agca, il suo attentatore in Piazza San Pietro, si disse
sorpreso di aver sbagliato il colpo, soggiungendo di avere avuto la sensazione che
una mano invisibile avesse deviato la pallottola da lui sparata!
12
(mag. 2011)
Se
mi
permettete,
vorrei
proporvi un raggio di italianità che, partendo da
Roma –la caput mundi-, si proietta in lungo e in
largo per far brillare la sua luminosità un po’ dovunque nel mondo. Sto parlando di
«Gran Sportello Italia» magistralmente condotto dalla solare Francesca Alderisi:
l’emigrante in Patria! Già in precedenza ha condotto, per sette anni ininterrotti,
quello che al tempo era “Sportello Italia”; attraverso detta chicca televisiva, fatta
ad arte e mestiere per noialtri emigranti, si è andata conquistando, settimana dopo
settimana e di anno in anno, l’universale simpatia dei tanti italiani all’estero sparsi
nei quattro angoli della terra.
Dopo qualche anno di riposo è ritornata alla grande in tutti i sensi. Laddove
prima la durata era solo di mezz’ora, adesso abbiamo un’ora intera per tenere lo
sguardo fisso sul televisore a goderci la “nostra puntata” settimanale del sabato
pomeriggio; lo stesso frontespizio si è ingrandito ad hoc…diventando, infatti, “GRAN
SPORTELLO ITALIA”; e poiché non c’è due senza tre, si è arricchito pure di una
“nota” in più: l’ultima parte di questa singolare finestra sul mondo è allietata dalla
calda voce di Agostino Penna, ormai entrato anche lui nel cuore di tutti per la sua
forte carica di simpatia. Il tema principale di questo interessante programma
televisivo è basato sulle pensioni e analoghe problematiche concernenti gli italiani
all’estero. Tutte le domande a riguardo, che giungono negli studi di Saxa Rubra a
Roma, ricevono dettagliate ed esaurienti risposte dagli ospiti competenti che la
Alderisi invita di volta in volta nella sua trasmissione.
Momenti di nostalgia e attimi di toccante emozione vengono dati dal
«Com’era…com’è » o da «Paese mio»: servizi accuratamente girati in caretteristici
paesini dell’Italia…segnalati a Francesca, idea stupenda, da chiunque di noi ne
faccia richiesta. Siamo nell’anno dei festeggiamenti del 150mo dell’Unità d’Italia e
il tricolore la fa da padrone dovunque ci sia nel mondo anche il minimo raggio di
italianità. E la «padrona» di Gran Sportello Italia al nostro caro simbolo ci ha sempre
tenuto; ne dà prova, infatti, il suo mitico telefono «tricolore» con cui contatta tanti
italiani all’estero per dare spazio a chiunque di noi abbia qualcosa di
suggestivamente italiano da partecipare al mondo intero; e abitualmente contatta
qualcuno di quei tanti sconosciuti che hanno sogni nascosti nei loro cassetti…e una
sua «carrambata» riesce a realizzarli; attraverso questo suo epico telefono vecchio
stampo si propone di dar voce a persone comuni, a gente da «storie di tutti i
giorni»…laddove stampa e giornalismo generalmete puntano i loro riflettori sulla
gente di spicco.
Non tutti i mali vengono per nuocere, anzi a volte diventano il trampolino di
lancio per dare maggiore impulso e un più vasto raggio di azione ai nostri progetti.
Ed è così che la volitiva paladina degli italiani nel mondo, approfittando della pausa
televisiva, si è recata ad abbracciare personalmente i suoi beniamini ovunque essi
si trovassero. Prende la decisione di «girare il mondo non come turista, ma come
emigrante» e le tappe di queste sue visite, quella di Montreal compresa, le
conosciamo tutte. Intanto attraverso questi suoi contatti e strette di mano la «più
amata dagli italiani all’estero» ha potuto far sì che la ripresa del suo programma in
tv divenisse l’attuale Gran Sportello Italia: «un’ora di televisione costruita «a
somiglianza del pubblico»; «un racconto di storie di chi è partito e di chi è tornato»;
«un portare l’Italia nelle case del mondo»; un modo virtuale per noi emigranti di
restare uniti alla nostra terra lasciata…grazie al dinamico staff di Gran Sportello
Italia, brillantemente condotto dalla tutta nostra Francesca Alderisi…insignita di
recente del titolo di Cavaliere della Repubblica! E non è tutto perché, se in passato è
stata lei a voler andare a stringere la mano agli italiani all’estero, adesso sono
questi a reclamarla in mezzo a loro in determinati momenti di sentita italianità. Dal
2 al 5 giugno, infatti, è stata invitata dalla comunità italiana di Filadelfia a fare da
madrina ai festeggiamenti della Repubblica, organizzati dai nostril connazionali lì
residenti, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. E l’esempio di questa sua
“toccata e fuga” avrà di certo la sua giusta ripercussione in lungo e in largo per il
mondo: è stata, forse, aperta una nuova pagina nella storia della beneamata
italiana nel mondo?
13
(mag. 2011)
Eccomi a voi con un raggio di italianaità
che mi piace definire «secolare», benché sia di carattere
prettamente religioso. Siamo, infatti, nell’anno in cui si
festeggiano ufficialmente i 100 anni della parrocchia che ha
sede in quella chiesa divenuta ormai il simbolo della nostra stessa identità di
italiani in Canada. E, a dire il vero, la «Madonna della Difesa», la nota «chiesa a
Dante», lo meritava per davvero di essere iscritta nel registro dei Luoghi Storici del
Canada, nell’albo dei Patrimoni religiosi del Quebec, nonché di venire consacrata, il
15 maggio 2011, da Mons. Jean Claude Turcot…onde fregiarsi dei dovuti gonfaloni
sia sociali che religiosi. La chiesa a Dante: che accostamento simpatico e toccante
al tempo stesso! Se una chiesa è simbolo di fede, Dante è il padre della nostra bella
lingua; fede e lingua non sono forse due di quei profondi valori che accompagnano
l’uomo dalla nascita alla morte? E fede e lingua sono state pure quelle cose
preziose che nessun emigrante ha pôtuto fare a meno di portare con sé,
gelosamente nascoste in un angolino della tanto decantata valigia di cartone. La
chiesa a Dante: un’espressione che mi dà un sussulto al cuore ogni volta che mi
giunge all’orecchio, e forse non soltanto a me!
Come parrocchia italiana è la seconda, dopo quella della Madonna del
Carmine, ad essere stata istituita in terra canadese; ma come edificio è il primo in
assoluta ad essere stato eretto dai padri dell’emigrazione nella Piccola Italia di
Montreal. Ma perché le venne dato questo nome? Il Molise è una delle regioni più
piccole dello stivale, ma la comunità molisana è fra le più numerose a testimoniare
la dinamica presenza italiana oltre oceano. I molisani di Casacalenda, in
particolare, dovevano avere abbastanza «voce in capitolo» a quei tempi perché il
nome della nostra centenaria parrocchia è legato appunto a questa suggestiva
cittadina in provincia di Campobasso. In effetti è in una contrada di Casacalenda
che sorge un antico santuario dedicato alla Madonna della Difesa, dove nel 1890 si
verificarono delle apparizioni della Vergine Maria; e fu così che, sia per fede che per
nostalgia, vollero «trasportare» la sentita e cara memoria di questo loro santuario
qui a Montreal. La piccola cappella degli inizi, però, comincerà a divenire la
maestosa chiesa attuale soltanto dal 1918 in poi. A progettare (con l’aiuto
dell’architetto Roch Montbriand) e a rendere imponente questo nostro Monumento
Storico ci pensò l’allora 29nne maestro vetraio Guido Nincheri che, oltre agli
affreschi e alle vetrate, impreziosì le pareti interne con sculture su marmo di
Carrara e travertino. Chi, per la prima volta, posa lo sguardo sull’iconografia,
realizzata in colori vivaci su in alto nella volta dell’abside, a primo acchito resta
sorpreso e quasi sconcertato nel vedere lì dipinti personaggi storici del tempo, tra
cui Benito Mussolini.
Mi si consenta di terminare con una osservazione del tutto personale a
riguardo…anche perché si vede bene in vista pure sulla Casa d’Italia un fascio
littorio, nonché considerando che fu proprio in quei primi decenni del xx secolo che
si cercò di dare vita a tanti Enti ed Istituzioni sociocomunitarie che oggigiorno
custodiamo nel cuore come le impronte dei primi passi mossi dalla nostra gente in
terre forestiere. Immagino che per realizzare questi…sogni emigranti un supporto
economico e un sostegno morale dovette essere stato dato pure dai governi di
allora, sia della Patria nativa che di quella adottiva. Detta considerazione mi porta a
concludere che sia un puro atto di deferenza il «ricordo» dato dal pennello del
Nincheri a quegli illustri che, su nel tempo, vennero incontro alle esigenze di quanti
andavano a guadagnarsi un pezzo di pane in terre lontane…accompagnati lungo il
cammino anche dallo sguardo benedicente della Madonna della Difesa.
14
(giu. 2011)
Una delle istituzioni umanitarie universalmente
riconosciute affonda le sue radici nel nostro Risorgimento ed è,
quindi, un raggio di italianità di singolare importanza che vengo
a mettere come squisita ciliegina sulla torta del 150mo
dell’Unità d’Italia. Prima di svelarvi il nome di detta istituzione
permettetemi di pensare al Risorgimento come a un concentrato di guerra e pace,
di sconfitte e di vittorie, di disastri e di ricostruzioni, di morte e di rinascimento, di
dissidi e di unità. Uno dei combattimenti più sanguinosi di questo glorioso momento
della storia italiana fu quello del 1859 allorché, sulle alture di San Martino e
Solferino, i franco-piemontesi sconfiggevano gli austriaci e convogliavano le armi
verso la pace di Villafranca. Intanto di quella cruenta battaglia ci fu chi ce ne lasciò
un accorato ricordo…divenuto quasi il seme da cui nacque la frondosa pianta che va
sotto il nome di Croce Rossa!
«Reporter» del fatidico evento fu il filantropo Henry Dunant, nato a Ginevra l’8
maggio del 1828 e figlio d’arte, in tal senso, visto che il padre Jean Jacques si
interessava ai bimbi orfani e la mamma Antoinette Colledon si prendeva cura di
poveri e ammalati. Il Dunant era sceso in Italia per « affari»; doveva consegnare una
petizione a Napoleone III ed intanto alla vista di tanti morti e dei tanti soldati feriti,
si «anticipò crocerossino» nel coordinamento dei servizi di soccorso di campo che
aveva notato non essere all’altezza della situazione. Ritornato in Patria si sentì in
dovere di lasciare all’umanità «Un souvenir de Solferino»; «Un ricordo di Solferino» lo
possiamo dividere in due parti: in una prima si ha il racconto della guerra lì
combattuta; in una seconda si sottolinea la trascuratezza nel soccorrere i feriti che
necessitavano di cure. «Un ricordo di Solferino» è un libro che, pubblicato nel 1862,
fa ben presto il giro del mondo riscuotendo gli applausi pure di Victor Hugo e di
Charles Dickens; è il diario di un evento bellico vissuto per caso e che scrive per
sensibilizzare la coscienza dell’uomo sulle immediate esigenze causate dalle
guerre; con questo libro Henry Dunant affida alla «terra», come già detto, il seme da
cui germoglierà la sacrosanta Croce Rossa…in una significativa bandiera a campo
bianco! Se mi permettete una parentesi vengo a dirvi che il nobel per la pace fu
istituito nel 1901 e fu assegnato per la prima volta proprio al Dunant; inoltre nel
1917 be nel 1944, subito dopo le due guerre mondiali, quindi, veniva assegnato
alla «sua» Croce Rossa Internazionale.
Accennavo in precedenza che, in quanto a filantropia, Il Dunant può
considerarsi un figlio d’arte; ed infatti uno dei libri che mamma Antoinette
consigliava al figlio era «La capanna dello zio Tom» di Herriot Beecher Stowe: una
lettura amena per giovani che difende a spada tratta l’abolizione della schiavitù. In
«Un ricordo di Solferino» Dunant a un certo punto immagina che gli venga posta
questa domanda: «Perché raccontare scene di dolore e di desolazione?»; al che
risponde con un’altra domanda che è anche l’ispiratrice dei principi che sono alla
base della sua fondazione: «Non ci sarebbe un modo di costituire delle società
umanitarie il cui scopo sia quello di portare aiuto ai feriti in tempo di guerra
attraverso volontari generosi e ben qualificati?». Appoggiato da altre eminenti
personalità del suo tempo: Moynier, Dufour, Appia e Mounoir dà il via alla stesura
delle cosiddette «convenzioni» che il comitato dei cinque redige e firma, Le
convenzioni sono una serie di trattati sotoscritti a Ginevra; costituiscono un corpo
giuridico di diritto internazionale; sono motivate dagli orrori delle guerre; sono
dirette a tutti i sovrani d’Europa per proteggere le associazioni umanitarie che
operano in soccorso dei feriti sul territorio di guerra. E termino questo raggio di
italianità con due date storiche a riguardo. Nel 1863 nasce il Comitato
Internazionale per il soccorso ai feriti di Guerra e nel 1864 viene adottata la prima
convenzione dai rappresentanti di dodici paesi tra cui gli Stati Uniti.
15
(giu. 2011)
Quello di cui mi accingo a parlarvi è un raggio
di italianità che, ispirandomi al «fuoco nel fuoco» di
Ramazzotti, potrei quasi definire un raggio nel raggio…della
Croce Rossa illustrato la volta scorsa. Se la storia di questa
istituzione andiamo a paragonarla alla durata di una
giornata, posso quasi asserire che il 1859 sta all’aurora,
come il 1848 sta all’alba. Nei frangenti di quell’anno, infatti,
l’umanità intera veniva a scoprire il volto di un altro mostro
sacro della filantropia che risponde al nome di Ferdinando Palasciano…un raggio di
italianità tutto nostrano questa volta!
Ferdinando Palasciano, giovane ufficiale dell’esercito borbonico nonché
bravo medico chirurgo, si trovava a Messina durante i moti insurrezionali del
Risorgimento in quel 1848 per assistere i feriti di guerra. Animo magnanimo oltre
ogni dire, avvertì il dovere di soccorrere e prestare cure pure ai feriti nemici…siciliani
in quel caso; tutto questo nonostante il divieto perentorio del generale Filangieri
che, in seguito ai ripetuti atti di insubordinazione del medico di campo, lo condannò
spietatamente a morte. «I feriti, a qualsiasi esercito appartengano, sono per me
sacri e non possono essere considerati come nemici. E, se la vita dei feriti è sacra,
la mia missione di medico è molto più sacra del mio dovere di soldato!»…fu con
queste stupende parole che cercò di difendere la sua causa; ma la condanna a
morte gli venne commutata in un anno di carcere per intercessione di Ferdinando II
dei Borboni in persona che aveva in grande stima e considerazione il nostro dottore
che, benché di animo grande, era piccolo di statura; infatti, perdonandolo, il sovrano
ebbe a dire: «Che male po’ ffa’? É accussì piccerillo!». E il nostro, preso dalla sua
vocazione filantropica, continuò a curare i suoi feriti pure dietro le sbarre.
Ma è solo alla caduta dei Borboni, in seguito alla Spedizione dei Mille, che
può dare libero sfogo al suo pensiero, esprimere liberamente le sue vedute e
proporre le sue giuste teorie in materia di soccorsi ai feriti di guerra sia della «riva
bianca» che della «riva nera». «Bisognerebbe che tutte le potenze belligeranti, nella
Dichiarazione di guerra, riconoscesero il principio di neutralità dei combattenti feriti
per tutto il tempo della loro cura». Queste nobili parole le propose apertamente al
Congresso Internazionale dell’Accademia Pontaniana a Napoli nel 1861; e queste
nobili parole fecero il giro del globo in un batter d’occhio; e queste nobili parole
giunsero pure all’orecchio di Henry Dunant che, udite udite, le pose fra le basi
fondamentali della Convenzione di Ginevra del 1864…e, quindi, a fondamento della
stessa Croce Rossa: 1859-1848, fuoco nel fuoco\raggio nel raggio! «Garibaldi fu
ferito, fu ferito ad Aspromonte»…e venne curato proprio nel napoletano da rinomati
medici del tempo; ma caso volle che si dovette ricorrere al consulto del luminare
Palasciano. E il nostro medico senza frontiere altro non ebbe a fare che consigliare
l’estrazione della pallottola che si trovava «ancora» nel malleolo destro dell’eroe dei
due mondi; intanto lì per lì nessuno volle dargli ascolto, ma ognuno dovette rendersi
conto dell’abbaglio preso solo in appresso. Alla luce di questa lampante mancanza
di fiducia nei suoi confronti cadono a proposito le parole del pronipote Marco
Palasciano quando dice: «Il mio prozio lottò tutta la vita contro l’altrui ottusaggine».
E per terminare eccovi qualche altra breve nota sulla sua vita. Nato a Capua
il 13 giugno 1815, muore a Napoli il 28 novembre 1891; sposò la russa Olga de
Wavilov e conseguì ben tre lauree: Belle arti e filosofia, Veterinaria, Medicina e
chirurgia. Ma cosa resta oggi di lui? Oltre alle sue grandi opere e al suo sommo
impegno verso il genere umano è ricordato, tra l’altro, dall’Associazione Ferdinando
Palasciano che «è stata costituita da medici e professionisti operanti in Capua. Reca
il nome dell’illustre medico capuano che ha lasciato, nella storia della nostra città,
la sua esemplare attività di rinomato chirurgo e docente di chirurgia nell’Ateneo
Napoletano».
16
(lug. 2011)
Quando il tempo era meno tiranno o, forse, quando
la gente si accontentava del necessario riposo, all’umana società
non passava nemmeno per l’anticamera del cervello la parola
«stress»…che, se fortunatamente non è neanche un termine
italiano, sfortunatamente è entrato anch’esso nel nostro
vocabolario, nonché pure sulla bocca di noialtri italiani in Patria e
all’estero. Una volta di un tempo non tanto lontano a dire il vero, per esempio, si era
tutti convinti che le vacanze andavano prese una volta all’anno; nessuno si
lamentava e ognuno si preparava di conseguenza e programmava il tutto con
serenità e spensieratezza di coscienza e di mente. Intanto col denaro che, grazie
alle carte di credito, è sempre meno visibile ma sempre più alla portata di mano;
grazie anche all’industria ristoratrice e alle agenzie di viaggio che ti appianano la
strada verso incantevoli località turistiche…il pensierino di prendere le vacanze un
po’ quando si può ognuno lo fà e, quasi come contrappeso o come scusante, il
lavoro diventa sempre più stressante e le vacanze sempre più necessarie.
Comunque le vacanze «classiche», quelle che come la buona musica fanno
sempre epoca, sono quelle «della costruzione» per noi italocanadesi e quelle del
«ferragosto» per gli italoitaliani, se mi permettete questo termine. Poiché quelle di
qui sono belle e passate alla storia pure quest’anno, andiamo ad approfondire
quelle che si stanno ancora godendo i nostri «fratelli laggiù». Queste itale vacanze
affondano le radici nell’antica Roma dell’epoca augustea. In quel periodo, come
dice la storia, e appunto in tal mese dedicato all’imperatore Augusto erano soliti
celebrare quel momento dell’anno che sottolineava la fine dei duri lavori nei campi
e si rendevano riti propiziatori e cerimonie di ringraziamento a questa o quell’altra
divinità pagana, e per tutta la durata del mese si davano feste in onore degli dei.
Una delle divinità particolarmente onorata era Diana, la cui festa ricorreva il 13
agosto e coincideva con l’apice della «pioggia di Perseide», fenomeno astronomico
che aveva il vantaggio di essere meglio osservato nelle ore immediatamente prima
dell’alba. Detto evento celeste altro non è che quello che ancora oggi si ripete nelle
calde notti di agosto e particolarmente in quella di San Lorenzo. Tradotto in termini
più semplici il fenomeno ad altro non corrisponde che alle «lacrime di San Lorenzo»
o alle «stelle cadenti» del 10 agosto. Le feste in onore di Diana avevano lo scopo di
propiziarsi la dea per la fertilità dei campi, per la maturazione delle messi,
nonché per la maternità delle gestanti. I suoi riti erano ufficiati sull’Aventino e il suo
compito era quello di prendere sotto la sua protezione i boschi (non per niente
Diana è la dea della caccia), le fasi lunari e la maternità. Detto festival augusteo,
intanto, andava sotto il nome di «feriae Augusti»; al pari di ognuna cosa su terra, la
parlata di un popolo compresa, che cambia e si trasforma impercettibilmente, così
pure le feriae Augusti, lentamente nel tempo, si sono andate trasformando fino a
divenire le odierne e bene accette «ferragosto»!
Con l’avvento del cristianesimo le antiche celebrazioni pagane vengono man
mano «convertite» in parallele festività religiose; da constatare che sono molteplici
le feste odierne in cui un intreccio di sacro e profano, un misto di folclore, tradizioni
e fede si perde nella notte dei tempi. Già nel IV secolo si ha una prima indicazione
della festività religiosa che sostituirà le sopraddette feste dell’antica Roma e che
tuttora è una delle ricorrenze ecclesiastiche tra le più sentite ed onorate: la festa
della Madonna Assunta in cielo fissata al 15 agosto! É solo il primo novembre del
1950, però, che l’Assunta diventa dogma e viene proclamato tale da papa Pio XII
che la eleva pure a festa di precetto. Come ogni altra ricorrenza nazionalmente
riconosciuta, anche questa dell’Assunta viene festeggiata di città in città e da paese
a paese in maniera caratteristica e singolare. Ad Avellino, per esempio, si danno
rappresentazioni teatrali; a Messina si snoda la processione della «vara», nome del
carro che porta la statua della Santa Vergine lungo le strade cittadine; a Siena, che
ci crediate o no, l’annuale palio del 16 agosto fa da sfondo proprio ai
festeggiamenti dell’Assunzione…e altro paese che vai, altra usanza che trovi! Visto
e considerato che, se il lavoro fosse una cosa buona, lo ordinerebbe anche il
dottore…per non stressarvi non ve lo consiglio nemmeno io; al contrario, poiché ci
troviamo proprio nel periodo ad hoc, sapete che vi dico? Rilassatevi (lavorando,
almeno che non viviate di rendita, il minimo indispensabile onde guadagnarvi il
necessario per le vostre «feriae»), buone vacanze e buon ferragosto a ciascuno ed
ognuno!
17
(set. 2011)
É ormai da 30 anni che la Sant’Anna di
Ielsi irradia il suo messaggio di pace sull’isola di
Montreal: la multietnica metropoli canadese per
eccellenza. Qui oltre oceano è da solo un trentennio,
ma laggiù in Patria, in quella suggestiva cittadina del
Molise in provincia di Campobasso, è da secoli che
protegge la gente, le sue case e le terre e le campagne con sguardo misericordioso
e benedicente. Ho accennato a terre e campagne perché è appunto alla vita agreste
e campagnola di un tempo che fanno nostalgico riferimento le caratteristiche e
singolari «traglie» che, dopo la Santa Messa, sfilano in processione dinanzi alla
Mamma della Vergine Maria: Santa Messa e processione i cui fatti salienti vengono
diramati sulle onde della 1280, la stazione radio in lingua italiana di Montreal. Ed è
proprio il grano a farla da padrone assoluto in questa manifestazione comunitariopaesana conosciuta, più significativamente, pure come «la sagra del grano». Le
citate traglie sono carri allegorici lavorati esclusivamente con spighe di grano dalla
a alla zeta. Sono le famiglie intere, unite e compatte, ad allestire il proprio carro con
cura e trasporto, nonché con amore e devozione…anche nell’ancestrale intento di
tramandare le sagge, e in questo caso care, tradizioni ai posteri. La statua stessa di
Sant’Anna è il risultato di un intreccio stupendo di spighe di grano; inoltre, a titolo di
cronaca, l’allestimento e la parata dei carri assume un significato tutto particolare e
una speciale motivazione per il fatto che i «capolavori» vengono esaminati, giudicati
e valutati da una giuria competente che ne determina pure una graduatoria…il
punteggio meritato viene affisso al carro in questione. Passata la festa, le traglie
vengono portate alla Casa d’Italia dove restano per un periodo di tempo esposte al
pubblico, anche per dar modo a chi non avesse potuto partecipare alla festa di
poterli ammirare.
I festeggiamenti hanno la durata di due giorni, il sabato e la domenica
dell’ultimo fine settimana di agosto. Sono tanti i gruppi comunitari montrealesi che
festeggiano il loro santo patrono, ma penso che quello di Ielsi sia tra i pochi a
rispecchiare in tutta realtà i festeggiamenti di un giorno al paesello nativo. Non
manca nemmeno uno di quei gioiosi ingredienti che rendevano gustose e calorose
le feste patronali di quei nostri giorni bambini: la banda, l’orchestra, i cantanti, le
giostre, l’albero della cuccagna, la partita di pallone, divertimenti vari e, dulcis in
fundo, i fuochi di artificio. (Quest’anno purtroppo, trentesimo anniversario
dell’evento, il tempo non è stato troppo clemente nei cieli di Montreal lo scorso 28
agosto; anche se il sereno sarebbe stato più bene accetto, le gocce di pioggia scese
dal cielo sono state anch’esse benvenute…quasi come celeste benedizione. A parte
questo casuale dato di fatto). Nel parco San Simone in detti due giorni spira aria da
«dì di festa» e tutto il quartiere diventa il caro «villaggio» dove ci si ritrova con
spensierata gioia e contentezza. La festa di Sant’Anna ha pure un’altra peculiarità
che mi piace mettere in rilievo perché lo merita ed è doveroso sottolinearlo. A mio
modesto avviso è l’unica festa, dopo la St. Patrick degli irlandesi, a far registrare la
maggiore partecipazione di gente…anche di altri gruppi etnici; ed al pari di quella è
una delle poche ad estendere il suo richiamo in lungo e in largo su tutta la
metropoli. Intanto anche la 30ma edizione della Sant’Anna di Ielsi è passata alla
storia; ma il desiderio di festeggiare pure quella del prossimo anno già prende gli
animi di devoti e compaesani ed entusiasma il cuore di organizzatori, facitori di
traglie e partecipanti attivi. Nel frattempo la Santa Madre di Maria continuerà a
benedire la sua gente e le nostre case attraverso il ricordo di quel manipolo di
spighe che, preso con devozione assieme alla Sua immaginetta, riponiamo con
religioso rispetto nell’angolo di una credenza o di una cristalliera in sala da pranzo
oppure in cucina.
18
(ott. 2011)
A volte anche viaggiando si possono
riscontrare raggi di italianità, magari addirittura nei posti
più impensati e laddove meno ti aspetti di poterli trovare.
Quanti di noi un tempo eravamo soliti trascorrere le
nostre «vacanze classiche» a Wildwood? Ebbene, adesso che ci penso, in una delle
prime volte che ci andai, un bel mattino, passeggiando calmo e tranquillo lungo il
mitico bordwalk, il mio sguardo fu attratto da una piccola dimora affianco ad un
campetto di bocce con sopra scritto «Ordine Figli d’Italia». Niente di strabiliante
perché si sa che negli Stati Uniti l’italianità è radicata in lungo e in largo così come
qui da noi in Canada.
Quest’estate, comunque, «tutta la famiglia riunita» siamo stati per qualche
settimana a Cuba…adeguandoci all’esigenza dei tempi che richiedono luoghi
vacanzieri di una certa novità e di un certo aggiornamento! Già mettendo piede
nell’atrio dell’albergo da noi prenotato, il mio occhio cadde sull’insegna di
un’agenzia turistica dove figurava pure un grosso sottotitolo in lingua italiana. Si
trattava di un piccolo chiosco in un angolino della lussuosa entrata dove alcuni
giovani sulla ventina stavano confabulando spassosamente tra loro. Intanto ci
dirigiamo all’ufficio accettazioni, ci vengono assegnate le stanze e, per accedere ad
esse guarda caso, dobbiamo passare proprio dinanzi al chiosco in questione. Quei
giovanotti che poco prima avevano attirato la mia attenzione erano italiani! E nei
giorni successivi li vidi fare pure qualche capatina al mare, sulla spiaggia dove
venivano a salutare puntualmente alcuni villeggianti loro amici provenienti
dall’Italia. Ed era cosa lieta e interessante sentirli parlare perché avevano un
accento così squisito e dolce che più li ascoltavi e più ti veniva voglia di farlo. E il
loro linguaggio, cosa che vorrei sottolineare maggiormente, era di una sonorità
piacevole e di una purezza ineccepibile…lontanissima (non per niente ci trovavamo
laggiù al sud) da quell’italiano impreziosito di inglesismi sempre più in uso sulla
bocca di politici, cronisti sportivi e pure presentatori RAI di casa nostra oltreoceano!
E non è tutto in quanto a raggi di italianità balneare perché ne ho visto
balenare anche un altro, proprio in quel di Varadero, un giorno in cui ci recammo lì
sia per visita che per acquisti di circostanza. Camminando camminando, «a passi
tardi e lenti» e con sombrero in testa…estremamente raccomandabile in simili
frangenti, scorgo in lontananza un tricolore «nostro»! «Pà, c’è una bandiera italiana!»
esclama mia figlia…e diviene quasi d’obbligo andare a vedere di che si tratta.
Mentre avanziamo lentamente, alla nostra visuale si va delineando pure una cartina
geografica del nostro stivale, proprio lì sotto al vessillo bianco, rosso e verde. Vi
giungiamo e diamo una sbirciata attraverso un cancello che dà su di un vasto parco
pieno di palme e vegetazione locale; sparsi qua e là e ben riparati dal sole
scorgiamo tanti tavolini e tavolinetti muniti di relativi coperti da pranzo; vari tavoli
sono pure già occupati da clienti che pranzano saporitamente in tutta calma e
spensieratezza. Con un tantino di stupore, ma anche con tantissimo orgoglio patrio,
ci rendiamo conto che quell’angoletto da Eden dinanzi a noi altro non è che un
ameno ristorante che porta il nome di, udite udite, «Ristorante Dante»…un soffio di
purezza linguistica sulla spiaggia, la «presenza» del padre della nostra lingua in
piena Varadero!
Mai dire mai neanche ai riflessi di impensati raggi di italianità che vengono
ad emozionarti all’improvviso e che ti danno modo di riflettere un pochettino anche
sulla portata universale della nostra secolare cultura. Personalmente non avrei mai
immaginato di fare una sì simpatica esperienza nel favoloso Mar dei Caraibi; di
conseguenza il mio soggiorno estivo oltre confini di quest’anno resterà impresso
molto più a lungo nella mia memoria e il ricordo di una simile vacanza nelle Antille
rimarrà uno di quelli che non si dimenticano mai.
19
(nov. 2011)
Il
cammino
emigrante
è
stato
sempre
accompagnato e illuminato da raggi di fede che ben spesso e
volentieri si impregnano di italianità. Molteplici, infatti, sono i
santi italiani che hanno lasciato l’impronta del loro passaggio su
terra anche nell’esistenza degli italiani un po’ dovunque nel
mondo. San Leonardo da Porto Maurizio, ad esempio, il 17
marzo 1923 fu proclamato “Patrono dei missionari nei paesi
cattolici”…senza mai essere uscito fuori dall’Italia. A dire il vero era sua intenzione
andare in Cina; ma il cardinale Colloredo ebbe a dirgli «la tua Cina sarà l’Italia» che
in quei tempi viveva in abbastanza miseria per essere considerata una terra di
missione.
Si narra che una volta due giovani compagni lo invitarono ad andare ad
ascoltare una predica; intanto dopo alcuni passi si imbatterono in un
impiccato… «ecco la predica» esclamarono i giovani a quel punto. Alcuni giorni dopo
seguì due frati verso il convento di San Bonaventura sul Palatino; fu lì che in
appresso vestì l’abito dei francescani detti «della riformella» oppure «scalzati».
Intanto quell’impiccato visto all’improvviso lasciò qualche segno nella sua mente e
spesso gli ricordava il Golgota: fu appunto il «ricordo ricorrente» di quel povero
disgraziato che fece nascere nel suo animo il desiderio della predicazione. E per
ascoltare le sue prediche brucianti (metteva le mani sulla fiammella di una
candela…in segno di penitenza), giungevano da ogni parte dell’Italia e tutti si
sentivano toccati dalle sue roventi parole. In Corsica alcuni briganti, ascoltando una
sua predica, gettarono gli archibugi e si misero a gridare: «Viva San Leonardo! Viva
la pace!». Alla sua morte papa Albertini, Benedetto XIV, dichiarò che «perdiamo un
amico in terra, ma guadagniamo un protettore in cielo». E Sant’Alfonso Maria dei
Liguori lo definì «il più grande missionario del nostro secolo».
A San Leonardo si devono due istituzioni religiose. Quella del Terz’ordine
francescano e quella della Via Crucis: due istituzioni universalmente riconosciute e
particolarmente sentite. Ogni anno lo stesso Sommo Pontefice ufficia in
mondovisione la pia pratica della Via Crucis dal Colosseo. Sapete perché proprio da
lì? Perché fu appunto San Leonardo, in occasione del Giubileo del 1750, a piantare
le stazioni della passione del Cristo nell’anfiteatro Flavio dichiarandolo “luogo sacro
dei martiri”. Porto Maurizio altro non è che l’antico borgo corrispondente all’attuale
Imperia, nella splendida ma pur disastrata Liguria. Maledetto tu, uomo, (e invettive
del generebforse pure San Leonardo ne avrà pronunziate in qualche suo fervente
sermone), se simmili disastri “naturali” dovessero dipendere pure dalla tua
negligenza o menefreghismo! É qui che nacque San Leonardo, al secolo Paolo
Girolamo Casanova, nel 1676; il nostro santo predicatore morì a Roma nel 1751. In
apprresso, venendo canonizzato nel 1867 dal grande Pio IX, diveniva quell San
Leonardo che si festeggia il 26 novembre , giorno del suo sereno passaggio dalla
terra al cielo.
Il suo culto ha grande riscontro pure in Canada e particolarmente qui da noi
a Montreal in un cui quartiere cittadino nel 1886, una ventina di anni dopo la sua
canonizzazione, viene istituita la parrocchia di San Leonardo da Porto Maurizio che,
nel marzo del 1915, diverrà la ben conosciuta Ville de Saint Leonard de Porte
Maurice; la piccola cittadina venuta, pian pianino, a popolarsi sempre più lungo gli
anni. É partire da quelli ’50 che comincia a prendere consistenza il suo sviluppo
demografico; in quelli ’60 e ’70 poi, e grazie al nostro gruppo etnico, viene
completamente italianizzata; diviene quasi la seconda Piccola Italia visto e
considerato il numero di connazionali che si avvicenda a costruire la sua «casetta in
Canada» proprio in questi paraggi. Viene trasferita qui addirittura la prima
parrocchia italiana di Montreal, quella della Madonna del Carmine, che in centro
città non ha ancora una chiesa tutta sua. É qui che viene costruito il Centro
Comunitario Leonardo da Vinci, la prima pietra miliare del terzo millennio sull’italo
cammino in terra emigrante. Sempre grazie al nostro impegno e al nostro
contributo il piano urbanistico si estende a macchia d’olio perché lo spirito della
gente qui residente è quello di fare, di agire, di mettere su cose costruttive e
concrete. Questo modus vivendi dei cittadini sanleonardiani è significativamente
messo a fuoco sullo stemma comunale deve, oltre ad un «operoso» castoro, c’è una
scritta che recita «res non verba» = «fatti non parole»! San Leonardo da Porto
Maurizio, questo odierno arrondissement della grande Montreal, sorto come
parrocchia nel 1886, festeggia quest’anno 125 di ben portti anni di vita! Avendoci
abitato per circa un quarto di secolo, ho sentito il dovere di unirmi anch’io alla
festiva gioia di anniversario con l’augurio di Buon Compleanno a te, itala cittadina
che hai dato i “natali” pure al Maestro Cuore.
20
(nov. 2011)
La prima messa a cui ho assistito, una volta giunto in
Canada, è stato nella chiesa Madonna di Pompei; e il tutto
avvenne, adesso che ci penso, in un contesto strettamente legato
al simpatico trinomio Patria-Lingua-Fede. Era nell’ottobre del
1967, mi trovavo a Montreal da pochi mesi ed ero appena entrato
nell’ambito dell’insegnamento in lingua italiana del sabato mattina gestito, a quei
tempi, dalle Parrocchie italiane. Fondate nel 1958 da Mons. Andrea Maria
Cimichella le scuole della lingua Patria furono sotto la direzione della Fede fino
all’avvento del PICAI da cui sono tutt’ora dirette. Era usanza, in quei giorni, che tutti
gli insegnanti di lingua italiana si recassero, una delle prime domeniche
dell’apertura delle scuole, nella chiesa di Pompei per ascoltare coralmente la santa
messa celebrata appunto per loro…ergo dunque, ecco spiegato il perché
dell’antifona iniziale di questo mio discorsetto. Peccato, però, che tante belle
tradizioni vengano spesso inghiottite dalla confusione degli andazzi umani!
E
nell’incontro che seguì nel sottosuolo della chiesa venni a sapere che questa era
nuova di zecca perché era stata costruita e consacrata da poco lì, in
quell’italianissimo settore di Montreal nord. I sacerdoti scalabriniani era già da sei
anni, comunque, che ufficiavano in quel rione cittadino per venire incontro e
soddisfare le esigenze degli emigranti italiani, secondo i dettami del loro fondatore,
il beato Gian Battista Scalabrini. Infatti, fondata appunto nel 1961, la Parrocchia
Madonna di Pompei è già da cinquantanni che accompagna ed illumina il cammino
della nostra gente emigrata in terra nordamericana. A soffiare sulla sua candelina
del mezzo secolo, intanto, è stata tutta la comunità italiana della grande Montreal a
farlo nell’appena passato mese di novembre.
Mons. Gian Battista Scalabrini nacque l’8 luglio del 1839 a Fino Mornasco in
provincia di Como e morì a Piacenza, dove era stato nominato vescovo nel 1876, il
primo giugno del 1905…lo stesso anno in cui, mentre lui se ne andava in cielo, in
Canada nasceva la prima parrocchia italiana: la Madonna del Carmine. In virtù della
sua tempestiva e lungimerante opera a beneficio degli italiani, che partivano in
massa oltreoceano, seppe vedere l’importanza sociale, politica e religiosa di quel
fenomeno che allora tutti ritenevano passeggero. Prese a cuore la sorte di tante
persone che non avevano altra scelta se non di emigrare; ne difese i diritti dai
soprusi dei «sensali di carne umana»; affrontò coraggiosamente la corruzione
penetrata nel sistema di reclutamento dei lavoratori emigranti da parte di gente
senza scrupoli . Cercò di sensibilizzare Stato e Chiesa nella difesa dei diritti di
questa gente che espatriava in cerca di un pezzo di pane; si preoccupò di salvare la
loro fede e incoraggiare i rapporti tra Chiesa e società locali. Questo XXI secolo è già
stato definito il «secolo dello straniero». Gente costretta ad abbandonare le proprie
terre a causa di persecuzioni e pulizie etniche; gente che lascia le proprie case per
fame, miseria, o mancanza del necessario per vivere e che sbarcano nelle città
dell’opulenza occidentale. Il secolo dello straniero: è tempo di pensare al rapporto
con lui, lo straniero, cogliendone non la dimensione di minaccia, quanto quella di
sacralità. Lo straniero non è un volto da espellere, bensì una parola da accogliere.
Valide ancora oggi, quindi, le tracce che il beato Scalabrini vedeva nelle migrazioni;
quelle di un popolo divino… «il mondo tribolato dalle migrazioni è quello verso cui si
dirige l’amore del Padre; il mondo in cui il Padre continua a costruire relazioni di
solidarietà, di giustizia e di pace». Il suo obiettivo era quello di «formare di tutti i
popoli un sol popolo, di tutte le famiglie una sola famiglia». Era questo il suo sogno,
e l’invito a «cogliere nelle migrazioni un’occasione privilegiata per manifestare
maggiormente la cattolicità» può essere considerato come il suo testamento
spirituale. Testamento spirituale lasciato in eredità non solo ai sacerdoti
dell’ «Ordine degli scalabriniani» da lui fondato, ma anche a beneficio di noialtri
emigranti in quanto siamo tutti suoi figli perché…è lui il santo proclamato «Il padre
degli emigranti». Un pensiero augurale alla parrocchia Madonna di Pompei per il
suo 50mo anno di apostolato in terra di missione.
21
(gen. 2012)
Si è spento un raggio di italianità di
portata mondiale: un lutto ben sentito da tutti noi
emigranti! Istituzione della Giornata Nazionale del
Lavoro Italiano nel Mondo, Iscrizione nei registri
dell’Aire, Diritto di voto per gli italiani all’estero e
conseguente Elezione di alcuni loro rappresentanti
presso il Parlamento Italiano. Questi sono solo quattro dei tanti motivi che hanno
fatto sì che il ministro Mirko Tremaglia entrasse e restasse per sempre nei nostri
cuori. Sono i quattro sacrosanti ideali per cui si è sempre battuto nell’intento di
valorizzare la nostra dignità di italiani all’estero.
Intervistato da un’altra beneamata «italiana nel mondo», Francesca Alderisi,
ecco cosa ebbe a dire a riguardo di noialtri emigranti: “Me ne sono per sempre
innamorato ed essere innamorato per sempre vuol dire sicuramente fare una
battaglia fino all’ultimo giorno della propria vita”. La sua vita e, di conseguenza, la
sua battaglia in nostro favore hanno avuto termine, purtroppo, tra Natale 2011 e
Capo d’Anno 2012. Infatti è proprio in quest’atmosfera di aria festiva che abbiamo
appreso la scomparsa di colui che l’Alderisi, nel suo blog, ha significativamente
definito il «Papà degli italiani nel mondo». Ecco pure una testimonianza che l’insigne
conduttrice del purtroppo «ex» Gran Sportello Italia lasciò di lui in una trasmissione
di Italia chiama Italia a cui era stata invitata: «Lo trovo una persona umanamente
incredibile, pieno di energia e che mette una straordinaria passione ed amore in
tutto quello che fa e soprattutto è profondamente sincero, dote rara nella politica, il
che lo rende veramente unico». Un giorno Mirko Tremagila promise: «Ho chiesto e
chiederò la costituzione di un Ministero per gli Italiani nel Mondo»…e fu così che di
questo Ministero ne fu il primo rappresentante, quasi dietro acclamazione popolare
dei suoi «figli» fuori Patria. Ricordo che anche qui da Montreal, a suo tempo, fu fatta
rischiesta in tal senso a Silvio Berlusconi mediante lettere e missive inviategli da
vari rappresentanti della comunità italomontrealese.
La notizia del decesso di Mirko Tremaglia ci è giunta, improvvisa mazzata in
testa o subitanea doccia fredda, allorché stavamo incredulamente chiedendoci del
perché dell’imminente chiusura di Rai Internazionale! Il suo trapasso ha quasi il
sapore di una perdita della «spes ultima dea» in quanto lui, infatti, fu un valido
paladino della messa in onda di detta programmazione «per noi e con noi»…che
voleva addirittura potenziare e che sorella morte non gli ha concesso di fare. Anzi
mi chiedo che effetto abbia avuto sul suo stato d’animo questo schiaffo morale
dato ai suoi «figli» ovunque nel mondo; questa «voce» tolta al popolo emigrante, a
cui lui aveva strenuamente voluto dare una «necessaria parola», che conforto ha
potuto dare ai suoi ultimi giorni di vita? Intanto sembra essersene andato all’aldilà
con la constatazione di un contrasto verificatosi, in Patria e fuori Patria, proprio alla
fine dell’anno in cui è stata ricordata l’Unità d’Italia. I vertici della Rai, strappando
dai teleschermi dei nostri focolari i radiosi sorrisi di una Maria Cristina Rinaldi, di
una Benedetta Rinaldi e di una Francesca Alderisi, ha creato quasi come un muro di
silenzio che è venuto a dividere i fratelli in Patria da quelli all’estero. A dire il vero,
nemmeno questi ultimi, a proposito di quest’increscioso frangente, sono tutti degni
di poter scagliare la prima pietra. Non tutti infatti sono profondamente rammaricati
del torto ricevuto da mamma-rai. Ecco come alcuni di noi giustificano la loro supina
rassegnazione a ricevere «quel che passa il convento» laddove potremmo e
dovremmo essere noi stessi protagonisti. «Sì, ma il calcio lo faranno sempre
vedere!»; «E va bene, ma i film e le miniserie non li toglieranno!»; «E che fa, gli
spettacoli come Ti lascio una canzone, Sanremo, Ballando con le stelle,ecc.
potremo sempre vederli!»; «Beh, anche se tolgono quei programmi ne metteranno
altri di sicuro!»…è con questa magra consolazione che pure noi emigranti, proprio
nello sventolare il tricolore per dire addio all’anno dell’Unità d’Italia, ci siamo
spaccati in due; e neppure a metà perché, malauguratamente, qui pure sono più
quelli che la pensano come loro al di là anziché come noi al di qua! Ma se i nostri
diritti di parola non li facciamo valere noi «coralmente» chi volete che lo faccia in
nostra vece? Chi cura i nostri interessi per proprio tornaconto?!
22
(gen. 2012)
In appendice ai festeggiamenti del 150mo
anniversario dell’Unità d’Italia mi piace sottolineare di nuovo
che, una volta fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani. Ciò
premesso mi permetto di affermare che gli italiani, sia in
Patria che all’estero, sono stati “fatti” pure da Don Bosco e dai
suoi sacerdoti e suore salesiani. Essendo stato ordinato
sacerdote nel 1841 ed avendo dato inizio immediatamente a
dedicarsi anima e corpo alla formazione dei giovani, il futuro della società anche a
quei tempi, possiamo asserire che ha cominciato a fare gli italiani prima ancora che
l’Italia fosse stata fatta. La sua vita di apostolo e missionario ha come punto di
partenza Valdocco dove apre il primo “oratorio”: è appunto da questa sua giovane
esperienza che si manifesta in lui quello che è il vero santo : «l’uomo fedele a Dio,
ma anche il testimone privilegiato del suo tempo, capace di suscitare rispetto
concreto alle attese del futuro» educando giovani e ragazzi degradati, emarginati,
disagiati ed ex carcerati. “L’educazione intellettuale e professionale –dicevapermette di prevenire la delinquenza”; di questo sacrosanto metodo educativo,
detto preventivo, ne è a conoscenza ogni maestro come me per averlo studiato
attraverso i testi di pedagogia.
É nel 1874 che fonda la Società di san Francesco di Sales, i suoi salesiani, i
giovani preti che si dedicheranno alla gioventù negli oratori che a macchia d’olio si
estenderanno un po’ dovunque in Italia, in Europa e nel mondo. A quei tempi
l’educazione delle ragazze e delle fanciulle era alquanto più trascurata di quella dei
maschietti. Don Bosco nel 1872, assieme a Maria Domenica Mazzarello, fonda
l’ordine delle «Figlie di Maria Ausiliatrice» che istituiscono quasi una missione nelle
missioni, rivolgendo la loro attenzione alle giovani donne ed attuando i primi passi
verso l’emancipazione femminile nel nostro Paese. Rimasto orfano di padre a solo
due anni, Giovanni Melchiorre Bosco assieme a due fratelli viene cresciuto e
cristianamente elevato dalle sole forze di mamma Margherita Occhiena che avrà un
grande ruolo di educatrice nel «rifugio» prima e nell’oratorio di Valdocco in seguito.
San Giovanni Bosco non uscì mai dall’Italia, ma una parte della sua infazia sa molto
di vita emigrante. Nella frazione di Becchi, dove nacque il 16 agosto del 1815, non
c’erano scuole. Ce n’era una a Capriglio, un paesetto vicino, nell’interno di una
parrocchia diretta da un certo don Lacqua. Fu solo dietro richiesta della «perpetua»
del parroco –zia Marianna Occhiena- che il giovane Giovanni venne ammesso a
frequentarla…pur essendo di un «altro paese». Intanto il curato si affezionò tanto a
lui fino a difenderlo dai maltrattamenti dei compagni che lo emarginavano perché
«forestiero». San Giovanni Bosco, detto per inciso, è il protettore degli editori, degli
apprendisti e dei maghi. Il piccolo Giovanni, infatti, insegnava giochi di prestigio e
acrobazie da saltimbanchi ai coetanei di Capriglio per attirarli alla messa e alle
pratiche religiose, acquistandosi pure le simpatie degli «indigeni».
Considerevole anche il lavoro svolto all’estero dai missionari salesiani che
seppero superare i confini nazionali per «formare» pure gli italiani sparsi ovunque
nel mondo. Oggi la famiglia salesiana è presente in 130 e più paesi dove con
«Ragione, Religione e Amorevolezza va scavando un cammino nella complessità dei
nuovi tempi». Ma in quegli anni dell’Unità d’Italia i missionari di Don Bosco
partivano prevalentemente per l’Argentina, considerata in quei giorni la seconda
patria degli italiani che lasciavano casa in cerca di un pezzo di pane. Nel 1875 parte
una prima spedizione missionaria che fonda una parrocchia a Buenos Aires e un
collegio per ragazzi a San Nicolas de los Arroyos. L’anno dopo un secondo gruppo
apre una scuola di arti e mestieri dove si formano falegnami, sarti ed altri artigiani.
Nel 1977 una terza missione vede implicate pure le Figlie di Maria Ausiliatrice a
prendirsi cura delle giovani figlie degli emigranti fin giù in Patagonia. «L’importanza
dei salesiani nella cultura del paese sudamericano è testimoniata indirettamente
nel Tango Calambache», opera musicale di Enrique Santos Discepolo. Avendo
conoscenze virtuali con amiche in terra argentina sono venuto a conoscenza di
come lì pure i nostri connazionali coltivano l’italianità in modo maestoso e
trasparente…custodiamolo nel cuore con orgoglio questo dato di fatto, soprattutto
adesso che ci è stata tolta la possibilità di propagandare –via tv- il nostro impegno
di italiani all’estero da «protagonisti»! E qui a Montreal? Uno dei più giovani «figli» di
Don Bosco partiti prematuramente al cielo è San Domenico Savio: è appunto a lui
che è dedicata una parrocchia nella zona est di questa metropoli canadese.
Attualmente abito in Rivière des Prairies e sono parrocchiano della Maria
Ausiliatrice dove Don Bosco, i bravi salesiani, ce lo fanno quasi toccare con mano. É
nel 1972 che iniziano il loro apostolato tra le circa 200 famiglie allora residenti in
detta zona. In mancanza di una chiesa, la Santa Messa veniva celebrata nella casa
di due parrocchiani, Renzo e Alda Viero che tanto ha dato e continua a dare al buon
nome dell’immagine italiana sull’isola di Montreal; nel 1973 mons. Cimichella,
benedicendo il «Centro Italiano di RdP» disse che era «un piccolo seme che avrebbe
dato grandi frutti». Intanto è solo il 19 marzo del 1982 che viene consacrata la
«Missione di Maria Ausiliatrice» ed è due anni dopo, il 22 dicembre 1984 che
viene eretta e benedetta anche la chiesa con vetrate in mosaico e con la
raffigurazione, al di sopra della porta di entrata, di un sogno del santo: una nave,
simbolizzante la Chiesa, ancorata alle colonne della salvezza sovrastate una
dall’Ostia consacrata e l’altra da Maria Ausiliatrice. Sono padre Giovanni Faita e
padre Romano Venturelli a far sì che, con la sua costruzione, le parole di mons.
Andrea Maria Cimichella cominciassero a divenire profezia…il piccolo seme ha dato
i suoi grandi frutti, tanto che in questo 2012 i salesiani soffiano infatti, insieme a
noi e ai nostri figli e ai nostri nipoti, sulla trentesima candelina della nostra
parrocchia!
Auguri a questi primi quarant’anni di fecondo apostolato salesiano, nonché
auguri ai trent’anni della Missione da loro istituita tra noi e per noi.
23
(feb. 2012)
Anche i passi dei santi, a volte, si intrecciano
sullo stesso cammino. In ogni modo almeno quelli di santa
Francesca Cabrini si incontrarono eccome, sui sentieri
emigranti, con quelli del beato Mons. Giovanni Battista
Scalabrini. Era il 19 marzo del 1889 allorché questi, vescovo di Piacenza da solo tre
anni, concedeva a suor Francesca la Croce di Missionaria…ma non per l’Oriente
(Cina) come era sua intenzione, bensì verso l’Occidente (America) come ben
suggerì, in ragione delle esigenze emigranti di quei tempi, papa Leone XIII. In quel
19 marzo (festa di san Giuseppe) di 122 anni fa, colui che fu denominato «padre
degli emigranti» benediva gli ideali missionari di colei che nel 1950 papa Pacelli
proclamava «Patrona universale degli emigranti» ovvero «Celeste Patrona di tutti gli
emigranti»…quindi la «nostra» beneamata protettrice è quella che qualcuno ha
definito «lodigiana di nascita, ma cittadina del mondo per vocazione». Uno dei
problemi di vitale importanza per noi emigranti è stato quello dell’integrazione;
ecco cosa pensava Francesca Cabrini in proposito. L’integrazione nella sua
ideologia significava mantenere intatta la propria cultura e la propria fede; ma
suggeriva pure di inserirsi pienamente nel nuovo contesto sociale e culturale, di
apprenderne la lingua onde divenire «buoni ed onesti cittadini» capaci di contribuire
al progresso delle società dei paesi di accoglienza.
Decima di undici figli nacque a Sant’Angelo Lodigiano il 15 luglio del 1850. Di
principi cristiani profondi e sentiti, mamma Stella e papà Agostino mantennero in
famiglia come valori prioritari quelli religiosi: preghiera e Santa Messa in primis;
principi cristiani e valori religiosi che caratterizzarono l’intera vita di Francesca
Cabrini che, al momento dell’ordinazione religiosa prese anche il nome di Saverio
perché
devota dell’altro grande missionario san Francesco Saverio. Nel 1868
conseguì il diploma di maestra elementare ed iniziò la sua missione apostolica in
una casa per orfanelle diretta da due donne di scarsa spiritualità che lei, comunque,
seppe mettere sulla giusta via. Nel 1880 fondò l’ordine delle Missionarie del Sacro
Cuore che hanno dato vita a scuole e centri sociali in Centro America, Argentina,
Brasile, Nord America ed Europa. Vi cito alcuni passi dei suoi «Viaggi» anche per
darvi un’idea del filo conduttore con cui collegava e dava vita alle sue opere
umanitarie. «La santità non consiste nel fare cose grandi e luminose, ma in far bene
ciò che Gesù vuole da noi»; «Tutto posso in Colui che dà forza»; «Anche voi siete della
famiglia degli Apostoli; voi pure, dunque, avete la missione di essere il sale della
terra, la luce del mondo». Mille e mille volte la Stazione Centrale di Milano e
altrettante volte l'aeroporto della Malpensa la videro con le valige in mano alla volta
ora di questa ed ora di quell’altra destinazione. Dovunque si verificava la necessità
di una testimonianza cristiana lì c’era Francesca Cabrini con le sue suore; non
conosceva soste né riposo: quante persone incontrava, tanta fede ed amore lei
dava. Cerchiamo di metterle a fuoco un poco meglio quelle esigenze emigranti che
le stavano tanto a cuore e che cercava di soddisfare con immenso amore. Gli
emigranti di allora un po’ qui e un po’ lì «giungevano a centinaia di migliaia all’anno,
insediati già alla partenza e all’arrivo da procacciatori che ne sfruttavano
l’ignoranza e il bisogno, privi di ogni protezione, disponibili a tutto; e diventavano
letteralmente il materiale umano su cui –come su detriti necessari, ma senza
valore- si costruiva la potenza economica americana. Vivevano in condizioni di
incredibile degrado, affollati in alveari umani, in condizioni di abbrutimento fisico e
spesso anche morale. Vivevano senza scuole, senza ospedali, senza chiese, chiusi
nelle loro «piccole Italie», quartieri che prolificavano ai margini delle grandi città».
Per risolvere queste sofferenze emigranti si rivolse alla Chiesa, agli Stati e pensò
bene di sensibilizzare pure l’animo di tanti italiani benestanti…e riuscì nel suo
intento! E poi ci lamentiamo dei nostri sacrifici pure noi emigranti degli anni 50 e
60!!!
Nel 2007 la Malpensa è stata dedicata a santa Francesca Saverio Cabrini;
tra le motivazioni ecco quella alquanto significativa pronunziata per l’occasione dal
sindaco Letizia Moratti: «Ha varcato 30 volte l’oceano per missioni umanitarie». Nel
2010 pure la Stazione Centrale di Milano è stata dedicata a lei. Su di una stele
affissa in ricordo dell’evento si legge: «Da questi binari tante volte si avventurò per
le strade del mondo Francesca Cabrini; Santa per la Fede Cattolica, Apostola di
solidarietà per tutte le genti in cammino». Il Padre la richiamò alla Sua Casa il 22
dicembre (nell’imminenza del Santo Natale) del 1917 durante la prima delle due
guerre mondiali. Aveva preso la cittadinanza americana 8 anni prima, nel 1909,
colei che è considerata la prima santa americana; infatti era più conosciuta in
America che in Italia…e per noi emigranti non è un fatto tanto paradossale! Nella
nostra Montreal, intanto, in che considerazione è tenuta la nostra singolare santa
patrona? Vi rispondo con una brutta notizia prima e poi con una bella. C’era una
volta qui da noi una scuola dedicata a lei. Qualcuno volle che tanto onore le venisse
tolto per concederlo ad un illustre uomo politico. E questo avvenne…nonostante i
consiglieri scolastici di detta scuola fossero in maggioranza assoluta di origine
italiana; evidentemente non sapevano che stavano facendo un torto alla loro
«protettrice»! Rallegriamoci comunque perché il ragionamento è ben diverso al
5655 della strada St. Zotique, quasi all’angolo di Lacordaire. Nell’ospedale Santa
Cabrini è ormai da oltre 50 anni che l’umile Francesca Saverio è lì a sollievo della
sofferenza fisica in terra emigrante, così come un giorno lo fu di quella morale ed
economica di tanta gente che lasciava la propria terra in cerca di un pezzo di pane!
24
(mar. 2012)
Nella settimana dello scorso San Valentino
la nostra attenzione è stata presa quasi esclusivamente
all’annuale festival di San Remo, 62ma edizione; seconda
consecutiva della gestione Morandi che, ciliegina sulla
torta, celebrava il 50mo della sua prima comparsa su quel
mitico palco. Commenti a botta calda archiviati, la musica
c’è stata e ci ha pensato Emma a dire che «non è
l’inferno»; mentre Arisa e Noemi hanno contribuito a tingere il podio di rosa; ed
«vero» anche che a divenire improvvisamente big è stato Alessandro Casilli della
categoria giovani. Poiché San Remo è sempre San Remo, nemmeno quest’anno
sono mancati i rituali pettegolezzi e le consuete critiche pro e contro. Quest’anno, a
onor del vero, sono stati in parecchi a darne occasione per sollevarle. Stretta la
foglia, larga la via…eccomi qui a dire la mia. Cantante sì oratore no, l’autodefinitosi
re degli ignoranti, presentando la sua tesi di laurea in Teologia, si è giocato il posto
«in prima fila Celentano» nel giorno del Giudizio Universale. Intanto tra gaffe,
parolacce, veli e farfalline pure quest’anno si è stati in molti ad augurarsi che
mutatis mutandis (=mutate le cose da mutare, a scanzo di equivoci) la carismatica
manifestazione ritorni ad essere quella di «grazie dei fiori». Ma ditemi di grazia, se
per ogni persona che si rispetti è un punto di vanto l’adaguarsi al passo dei tempi,
perché mai San Remo dovrebbe restare ancorato a quelli dei suoi primordi? Mentre,
intanto, nessuno poteva mai immaginare che sorella morte si avvicinava ad
accarezzare il capo di Lucio Dalla, per intenerire l’animo di tutta quella gente in
mezzo a cui è andato lanciando la sua «canzone» toccante ed emozionatamente
umana nell’etere dell’universo intero!
A parte questo canto del cigno, c’è stata pure una libellula della danza. Una
nota di sublime squisitezza infatti, quasi un raggio di italianità di portata universale,
è stata intonata in apertura della terza serata dalla solare Simona Atzori con un suo
«volo senz’ali»…sottolineato dall’eterno ragazzo con un commosso bacio sulla sua
fronte. Simona Atzori, la ragazza che «ha lasciato le braccia in cielo e nessuno se ne
è fatto un dramma»! Innanzi tutto non se lo è fatto la mamma; ve lo immaginate lo strazio al cuore
di una donna nello scorgere di aver messo al mondo una figlia senza braccia? Nonostante il
raccapricciante dolore prende l’inimmaginabile quanto edificante risoluzione di insegnare al su
neonato angioletto a fare tutto con i piedi e con le gambe. E nemmeno Simona se ne è mai fatto un
dramma! Anzi sente l’obbligo di ringraziare la mamma per averla fatta nascere in tal modo. Ma
eccovi una sua testimonianza. «Ogni giorno ringrazio Dio che mi ha dato una vita straordinaria,
perché mi ha creato così come io sono. A me non piace dire che a me manca qualcosa. Essere
senza braccia è la mia ricchezza. Con le braccia non sarei più io. Noi siamo creature speciali per
quello che abbiamo, ma anche per quello che non abbiamo».
Simona nasce a Milano nel 1974. A quattro anni comincia a dipingere da autodidatta e
nel 1984 entra nell’Associazione dei «pittori che dipingono con la bocca e con i piedi»; nel 1989 le
viene attribuita una borsa di studio dalla stessa Associazione. Il tocco magico del suo talento
pittorico varca pure le soglie del Vaticano: vi si reca per donare a papa Giovanni Paolo II un ritratto
di questi fatto da lei. Nel 1996 viene a Toronto per studiare «arti visuali» presso la University of
Western Ontario dove si diploma nel 2001. Numerose le partecipazioni, collettive e personali, a cui
ha preso e continua a prendere parte attraverso il mondo intero. Alla piccola Simona viene
consigliato di ricorrere a braccia fittizie, ma lei rifiuta sia perché troppo ingombranti e sia perché
preferisce «fare con i piedi ciò che gli dice la testa». E la sua testa alla tenera età di solo sei anni le
dice di darsi alla danza classica; e lei lo fa e ci riesce tanto bene da essere definita colei che «vola
senz’ali». Nel 2000, in occasione del Giubileo, porta per la prima volta la danza in chiesa
esibendosi in una coreografia di Paolo Londi intitolata «Amen». Nel 2006 danza per l’apertura dei
giochi Parolimpici di Torino; nel 2011 a Castiglioncello, in provinia di Livorno, fa da «testimonial»
al campionato mondiale di danza. In suo onore viene istituito il «Premio Atzori» che si conferisce a
coreografi e danzatori in occasione del Pescara Dance Festival (inequilibrio festival). Per averla
incoraggiata e spronata ad intraprendere questa sua singolare carriera artistica un certo qual
merito va pure a Mario Barzon che per primo ne intuisce le doti e il talento di colei che è già stata
riconosciuta come «danzatrice e pittrice del XXI secolo». (inequilibio festival)
Che ve ne pare di questo incredibile raggio di italianità? Assieme a tanti altri, come lei
similmente «dotati», è racchiuso nel libro di Candido Cannavo intitolato «E li chiamano disabili».
25
(apr. 2012)
Il 14 aprile di cento anni fa il
decorso storico faceva registrare il catastrofico
naufragio del Titanic. Una grave sciagura a cui
sono
legati
profondamente
due
aneddoti
pensare.
che
lasciano
Sul
tragico
affondamento del transatlantico da crociera
qualcuno ha messo in giro una storiella che ha tutta l’aria di una sconvolgente
profezia. Si tratta della statua di una divinità o di una personalità egizia; di essa si
diceva che avrebbe causato guai e avversità a chiunque l’avesse fissata negli occhi.
Incurante di quanto si diceva a suo riguardo, un ricco inglese la comprò, quasi in
segno di sfida, e se la portò a casa…e non so a quanti e quali malanni andò
incontro; fino al punto da decidere di disfarsene e rinviarla al museo di New York
dove l’aveva acquistata. Ma guarda caso, la malfamata scultura non stava facendo
il suo viaggio di ritorno gomito a gomito con i 2350 e rotti turisti che stavano
inaugurando il Titanic?! Intanto, eccovi pure un’altra sorprendente coincidenza. Il
capitano Smith aveva voluto come suo secondo Henry Wild di cui aveva una grande
stima; questi, comunque, pur accettando la proposta non lo fece con sommo
piacere per uno strano presentimento che confidò alla sorella scrivendole queste
testuali parole alcune ore prima del disastro: «Questa nave continua a non piacermi,
mi dà una strana sensazione». Un fatto certo, che ha intanto pure tutto il sapore di
un raggio di italianità, è che il grande Marconi si trovava a New York il giorno
dell’incidente. Particolarmente scosso dall’avvenimento, velle essere presente al
momento dello sbarco dei circa 705 superstiti della nave da crociera; eco cosa
disse per l’occasione: «Vale la pena di aver vissuto per aver dato a questa gente la
possibilità di essersi salvata!». E quella gente sapete come ringraziò il nostro
inventore? Attraversando in colonna le strade cittadine per andare a regalargli una
targa d’oro! Il nostro genio, da parte sua, ebbe pure un pensiero tutto speciale per il
marconista del Titanic, Harold Bride; gli conferì un premio per essere rimasto al suo
posto a lanciare messaggi di soccorso prima di pensare a mettersi in salvo.
Cabala, intanto, o triste ricorso storico la sorte della Costa Concordia la notte
tra il 13 e il 14 gennaio scorso presso l’isola del Giglio? Venerdì 13, per giunta e
soltanto qualche mese prima del centenario affondamento del Titanic…che va ad
urtare contro un iceberg nel 1912, in una notte, guarda caso, tra il 14 e il 15 aprile!
Cabala o ironia della sorte se vi dico che pure questa catastrofe ha un suo
sottofondo peannunziante sventura? Nella cerimonia di inaugurazione della nave la
bottiglia di spumante lanciata, come da rito, per augurarle «buona fortuna»…non si
era rotta. Cabala o puro caso se, proprio al momento dell’impatto, la stazione radio
del ristorante mandava in onda Celine Dionne con la canzone «My heart will go on»
di triste rimembranza «titanica»? Cabala o sconcertante ricorso storico se i capitani
delle sfortunate imbarcazioni, chi di un modo e chi di un altro, in seguito all’urto dei
navigli sono usciti entrambi «fuori senno»? A proposito di storia, dicono che essa è
maestra di vita. Ma cosa insegna se, in fin dei conti, per questo e per tanti altri
disastri «naturali» l’indice, purtroppo, dobbiamo puntarlo contro l’uomo? E l’uomo
come si comparta in simili frangenti? Strabilianti in questo caso specifico le
discordanze e le visioni del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto! Naturalmente
non si poteva non puntare il dito a tutto spiano contro il povero capitano Francesco
Schettino; ma perché non tenere nella stessa considerazione pure l’eroicità di un
Marrico Giampetrone che
pensa prima a salvare gli altri e poi a sé stesso.
Innumerevoli le voci di protesta verso l’inesperienza dei membri dell’equipaggio;
intanto
il cappellano di bordo, don Raffaele Malena,
afferma che i poveretti
vengono presi a schiaffi e calci. Sì, ci sono addirittura dei normali passeggeri,
samaritani del mare, angeli pro vita –come diligentemente additati anche da
mamma tv- che si prodigano in opere di soccorso; ma è mai possibile che in quel
vedere in faccia la morte non ci siano stati urti e spintoni per assicurarsi la scalata
al diritto alla vita, calpestando quello degli altri? Urla di panico se ne sono sentiti in
ogni video messo in onda via internet, infatti! E si è parlato pure di clandestini a
bordo che fortunatamente si sono subito dileguati; e non è mancato nemmeno il
giallo amoroso!
La Costa Concordia, anche se ci è stato qualche raggio di luce ad illuminare
il buio di quella tragica notte lì nell’azzurro del Tirreno, è stata condannata da un
errore umano! Anche l’assenteismo è un errore! Anche il non saper prevenire i
disastri per tempo è uno sbaglio da correggere! Un porporato della Santa Chiesa c’è
stato a benedire le vittime e a dare conforto ai sopravvissuti…grazie a Dio in grande
maggioranza rispetto ai poveri malcapitati. I governanti, pertanto, dovevano essere
ben impegnati nelle loro manovre salva e cresci Italia per non aver sensibilizzato
nemmeno il governo ombra al caso della Costa. Qualora fossero stati i mass-media,
indaffarati com’erano a scavare pettegolezzi o a scovare il vero capro espiatorio, a
non aver avuto il tempo di segnalarci regolari presenze in loco…chiedo scusa per
l’abbaglio preso! La capitaneria di porto la sua giusta ramanzina, come da dovere,
l’ha fatta al capitano in fuga; comunque la Concordia -divenuta discordia in questo
suo canto del «giglio»- era ormai abituata a prodigare “inchini” di rito all’isola…ma
come fai a calcolare simili rischi e a prendere le giuste precauzioni in precedenza?
La Costa Concordia è stata condannata da un errore umano, come pure la Costa
Allegra qualche mese dopo. Ma l’uomo lo sa che di questi cosiddetti errori umani ne
è lui stesso il responsabile? Allora invitiamolo -chi ne dirige le sorti in primis- a
mettersi una mano sulla coscienza e a far sì che la «cabala» non riservi all’umanità
una simile mazzata in testa fra altri cento anni
26
(mag. 2012)
Eccomi a voi con un raggio di italianità tutto
speciale e ben differente da quelli presentati finora. Se quelli
sono tutti già belli e splendenti, questo dal canto suo è uno
nascente e che, quindi, è di splendore futuro. Conoscete Davide Franchini e Saverio
Lariccia? Nemmeno io li conoscevo, almeno come gruppo canoro, fino ad alcune
settimane fa, allorché li ho “visti” calcare il “Red carpet” di CFMB curato da
Alessandro Mercurio. Ho detto come gruppo canoro perché come persona, almeno
il secondo, lo conosco sin dalla nascita in quanto, guarda caso, l’ho tenuto a
battesimo…non in chiave musicale bensì secondo il rito religioso di Santa Romana
Chiesa. A proposito di battesimo, il duo Franchini-Lariccia ha deciso di chiamarsi “I
VU”, nota sigla di stampo cibernetico che permette ai due di sintetizzare il loro
genere musicale che spazia dal tradizionale al moderno. Avendo conosciuto sin da
piccolo uno dei componenti il duo, eccomi a darvi qualche anteprima sulla lontana
gestazione di questo prossimo parto artistico.
Comincio da un aneddoto riguardante Saverio e poi continuo con la “gavetta”
iniziale del duo al completo. Come avete potuto ben capire, io e i Lariccia siamo
compari; ne va da sé che lungo gli anni, da buoni italiani, visite e pranzetti insieme
ne abbiamo fatti parecchi. In uno di questi amichevoli incontri a casa loro ricordo
con piacere quello in cui Saverio ci fece sentire, con soddisfatto enstusiasmo, una
strimbellata con la sua prima chitarra nuova…non ricordo se già fosse elettrica o
meno, ma lui euforico ed elettrizzato lo era davvero. Ricordo pure il commento
bonario e apprensivo del padre: «Cumpà, cusse vòì nnanze ca museke; aspétta tu!».
Intanto molti complessi e cantanti, oggi universalmente affermati, hanno iniziato
anch’essi in tal modo: col piacere di suonare e la voglia di sfondare, seguendo solo
le ragioni del cuore anche tra ostacoli e difficoltà! E su per giù lo stesso dicasi pure
di Davide, un amico di scuola incontrato 26 anni fa in quel di St-Michel e con cui
continua a far musica insieme! Compagni di banco, uniti dalla stessa passione, il
tempo libero lo passano a «giocare la musica»…come si dice oggi nell’italiano qui di
Montreal. Ma «giocare la musica» costa pure e comporta spese! Eh sì, serve questo
e bisogna comprare quello e via dicendo. Mica i soldi cadono dal cielo; mica i soldi
si possono chiedere sempre a mamma e papà. Ecco allora che Davide e Saverio
cominciano a fare i loro piccoli sacrifici per soddisfare i loro grandi ideali! Si
adattano a qualsiasi lavoro in un ristorante: sguatteri in cucina, lava-piatti presso i
lavandini, camerieri ai tavoli, ecc. Trattandosi, tra l’altro, di un ristorante italiano
uniscono l’utile al dilettevole perché hanno modo di praticare pure quel poco di
italiano che vanno apprendendo in casa. A proposito, la prossima volta che avrete
modo di rivederli sfilare sul Red carpet di CFMB ascoltateli bene pure
linguisticamente: parlano un italiano impeccabile!
Detto questo eccovi, ora, qualcosa riguardante l’iniziale «carriera nascosta»
del duo «I VU». Si conoscono, come già detto, sui banchi di scuola, iniziano a
strimbellare insieme, ad un certo punto si separano, poi si rimettono insieme e
danno inizio alle loro prime composizioni in lingua inglese prima ed ora -e perché
no?- pure in italiano…per continuare (come hanno detto per radio) la loro cultura di
origine. Bravi!, aggiungo io. Detto per inciso, Saverio parla bene anche il polacco
perché sua mamma proviene dalla stessa terra di Giovanni Paolo II il grande. Ne
hanno fatti, dunque, di sacrifici questi bene intenzionati giovanotti italiani di cui
possiamo essere fieri e orgogliosi anche noi tutti come gruppo comunitario. Intanto
ecco che comincia ad arrivare pure qualche meritata soddisfazione; in radio, infatti,
hanno annunciato la pubblicazione del loro primo CD che avverrà nel prossimo
giugno-luglio…e già cominciano a intravedere il supporto di qualche produttore
(incrociamo le dita per loro!). Sarò tutto occhi e tutto orecchi per seguirne gli
svipuppi e tenervi informati. Anzi, approfitterò dell’occasione per approfondire il loro
genere di musica a cui ho appena accennato all’inizio di questa chiacchierata, delle
loro tendenze artistiche e dei loro progetti perché penso ne valga proprio la
pena…anche per incoraggiare due giovani alquanto motivati e orgogliosi della loro
identità di italo-canadesi.
27
(giu. 2012)
In un precedente raggio di italianità
portavo alla vostra attenzione il motto della
municipalità di San Leonardo che recita «Res non
verba = Fatti non parole». Uno stile di vita che
continua a contraddistinguere noialtri italocanadesi
in maniera esemplare ed encomiabile.
La mitica Piccola Italia dei primordi, negli anni 70-80, cominciò a rivelarsi
davvero un po’ piccola per l’itala gente che andava sempre più crescendo e
moltiplicandosi. Il boom economico di quegli anni arricchì gli animi di nuovi ideali
ed aprì le menti a nuovi orizzonti. Di conseguenza si cercò una dimora e una
comodità più consone ai tempi in zone cittadine più adatte e aggiornate alle
esigenze sociali. Fu appunto il quartiere di San Leonardo uno dei fari di richiamo e
uno dei porti dove approdare. I figli erano cresciuti, le famiglie erano aumentate e la
necessità di un confortevole focolare, se da una parte realizzava sogni individuali,
ingrandiva e dava una marcia in più pure alla struttura cittadina e allo sviluppo
demografico del paese. I nuovi bisogni delle singole famiglie, comunque, sfociano
automaticamente in nuove vedute e prospettive comunitarie. Nel ’36, all’inizio del
primo millennio, veniva costruita la Casa d’Italia, l’eterna memoria storica della
nostra emigrazione. All’inizio del secondo millennio, intanto, nel 2002 10 anni fa,
veniva inaugurato il Centro Comunitario Leonardo da Vinci nei pressi del
caratteristico municipio di San Leonardo, sulla strada Lacordaire tra Robert e
Nicolet. Centro Comunitario Leonardo da Vinci: seconda pietra miliare lungo il
nostro cammino emigrante in terra canadese! Oltre alla perfezione dell’uomo di
Vitruvio, dinanzi al complesso architettonico salta subito all’occhio il tuffo di un
uomo da un trampolino raffigurante una cazzuola. È nel campo edile, di cui questa
è simbolo, che gli italiani hanno maggiormente contribuito allo sviluppo del paese.
Mentre il tuffatore rappresenta tutti quegli italiani che si sono lanciati con successo
nei mari delle attività sociali.
Per sottolineare degnamente il secondo lustro della sua nascita eccovi,
pertanto, una significativa poesia che mi venne spontaneo scrivere 10 anni fa
vedendo costruire il nuovo…
CENTRO COMUNITARIO LEONARDO DA VINCI
É stato eretto in San Leonardo il “Centro
comunità, resterà a “parlare
Comunitario Leonardo da Vinci”.
Italiano” per anni e poi per secoli
Nel darne la palata inaugurale
e per millenni ancora.
si son stretta la mano
Prima pietra miliare del duemila,
ben quattro generazioni. Rispetto
omaggio a uno dei nostri sommi geni
del passato, fiducia nel futuro:
e vanto anche del semplice emigrante,
dagli antenati ai posteri un retaggio
sarà il segno perenne
in continuo cammino.
di una immagine italiana maestosa
Nuovo fiore all’occhiello della nostra
e trasparente a un tempo!
28
(lug. 2012)
Eccoci giunti pure quest’anno alle sospirate
vacanze; quelle ufficiali, quelle ben meritate soprattutto dalla
massa dei comuni mortali che, per sbarcare il lunario, deve
lavorare durante tutto l’arco dell’anno; e forse anche più se si
tengono presenti tutti gli straordinari a cui si sobbarca ben
volentieri o a cui è quasi obbligata a chinare il capo per esigenze
familiari o aziendali. Non tutti, come ben si sa, viviamo di rendita e ben pochi sono i
baciati in fronte dalla fortuna (la dea che, guarda caso, va sempre ad arrotondare le
cifre già tonde: in effetti, avendo la benda agli occhi e non i tappi al naso, l’odore
dei soldi lo sente e quindi va automaticamente a sbattere là dove già ce se
sono…quella è cieca mica scema!) che le vacanze se le possono permettere come e
quando vogliono.
Ciò premesso e tornando alla comune normalità della vita, le annuali
«vacanze della costruzione» sono ufficialmente in corso e ognuno, chi di qua e chi di
là, va ad affollare le calde spiagge e ad abbronzare la sua pelle al sole. Ma fatemi
sentire una cosa, queste benefiche vacanze al sud ce le prendiamo per necessità o
semplicemente per seguire la moda o magari per invidia del vicino o per far vedere
che anche noi ne siamo all’altezza? Per ben riposarsi e tornare al quotidiano lavoro
ritemprati e freschi basterebbe, a mio avviso, spostarsi a giorni alterni da back la
yard a balcon beach…signor Maestro Cuore, aggiornati: mica siamo ancora ai tempi
di Pappacone! Scherzi a parte, adesso che la città è meno affollata, le strade sono
più deserte e intorno a noi regna più silenzio rallentiamo il passo, raccogliamoci in
meditazione e cerchiamo di tirar fuori qualche raggio di italianità custodito in
edifici, monumenti, palazzi, strutture metropolitane e intrecci di ponti che
caratterizzano la nostra metropoli. Scrutiamoli fin nel profondo e li troveremo
imperlati anche di onesto sudore di itale fronti. I cantieri edilizi adesso sono fermi,
ma nel corso dell’anno forse danno anche un po’ fastidio allo scorrimento
automobistico e alle normali abitudini cittadine; rumori e polvere che essi
comportano ci danno tregua in questi giorni di vacanza, ma ben presto torneranno
ad accompagnare le nostre giornate. É grazie all’edilizia che si costruiscono le città
e, se questa cala di ritmo, l’intera ruota commerciale perde di giri. Adesso capisco
perché, quando nel 1967 me ne venni a Montreal, l’agente viaggi che mi sbrigò le
pratiche mi disse che in Canada a quei tempi avevano grande bisogno di muratori,
sarti e artigiani in genere: bisognava ricostruire il Paese. Mi permettete
un’osservazione? Una volta se ne scappavano dall’Italia le «braccia», oggi se ne
fuggono i cervelli!
Ciò premesso ancora e tornando ai raggi di italianità che rinserra ogni pietra
della città, eccovi qualche aneddoto alquanto loquace e significativo in tal senso. Ho
già detto che sono giunto a Montreal nel ’67: l’anno dell’Esposizione Mondiale! E la
prima visita che mi portarono a fare fu proprio ai padiglioni di questa sull’isola di
Saint’Elène. Un mio caro parente, ora deceduto, mi disse: «Vedi tutte queste cose
qua? É anche grazie al mio mestriere di carpentiere che sono state fatte!». Un’altra
volta, essendo caduto il discorso sui mezzi di trasporto urbano, un mio amico mi
faceva notare: «Là sotto, nelle stazioni del metrò, mi sono guadagnata una vita!».
Alcuni anni or sono un mio alunno vinse il primo premio in un concorso per studenti
multietnici indetto dall’Università di Montreal. Volli essere presente alla
premiazione e mi accompagnò in macchina il nonno di questo mio studente; tra il
commosso e il soddisfatto mi raccontò: «Che emozione, per me, vedere premiato
mio nipote proprio in un reparto di questa scuola dove ho lavorato da giovane.
Avevo 19 anni e ne ho portati sulle spalle di secchi di calcestruzzo per costruire
queste mura. E come mi voleva bene il boss; mi veniva a prendere e mi
riaccompagnava con la sua macchina e spesso mi regalava pure qualche pacchetto
di sigarette!». E i Padiglioni Olimpici del 1976, che portarono all’apice del boom
economico di quegli anni, quanto altro orgoglio di manodopera nostrana è custodito
in quell’insieme di mattoni e cemento che resta a testimoniare nel tempo l’incontro
pacifico di genti di ogni parte del globo?
Ecco allora, in questi giorni di riposo, osserviamoli meglio questi baluardi
della costruzione, inoltriamoci nelle viscere dei tanti grattacieli e campanili svettanti
in alto, nonché delle tante residenze pubbliche e private che rendono maestosa la
città che ci ospita. Penetriamo col nostro immaginario nei segreti delle loro origini e
resteremo sorpresi dai tanti raggi di luce nostrana che emanano e che ci rendono
orgogliosi. In questa visuale si staglieranno dinanzi a noi come il simbolo
impercettibile di quell’emigrazione che, se ieri aveva bisogno di braccia per essere
costruita, oggi ha bisogno di menti e cervelli, non necessariamente in fuga, per
essere ben gestita.
29
(ago. 2012)
C’è un raggio di italianità che sulle onde della
nostra cinquantenne CFMB, ormai da quattro anni, splende
nelle nostre case durante quasi tutto l’arco dell’anno:
ufficialmente autunno, inverno e primavera ed ufficiosamente
anche in estate. Sto parlando del concorso poetico, promosso
e mandato avanti dal fantastico trio Di Flavio-DeVincenzoPassarelli, «E vorrei dire» che dà spazio a tante penne sconosciute generalmente
definite «poeti della domenica». Gente che si diletta a scrivere per semplice svago e
non per professione, non per lucro ma per pura passione. Persone comuni che, per
passatempo, rispolverano i ricordi del passato cercando, forse, di ricolmare i vuoti
della nostalgia. Uomini e donne che sono andate mettendo nero su bianco per
confortare qualche delusione, accarezzare qualche rimpianto, o sottolineare gioie e
contentezze vissute; sentimenti da sempre custoditi nel cuore, fedeli compagni di
un cammino percorso lontano dal paesello nativo; confidenze affidate ad un
quaderno, sogni racchiusi in un cassetto che ora, grazie alla radio, vanno
trasformandosi in emozioni da trasmettere e condividere assieme a quanti, in una
terra forestiera, si sono superati ostacoli, si sono fatti sacrifici, ci si è costruito un
nuovo avvenire.
Giovedì sera 5 luglio si è chiusa «a tarallucci e vino» la quarta edizione
dell’ormai popolare concorso radiofonico. L’incontro ha avuto luogo nella calorosa
«Trattoria da Gennaro», sul boul. Guin all’angolo della 57ma in RdP, gestita da Tony
Bartoli, vincitore di ben due edizioni di detto concorso. Napoletano puro sangue,
oltre che poeta bravo cantante, ha subito creato un’atmosfera amichevole e un’aria
di familiarità esibendosi in indimenticabili motivi del «paese d’o sole». Nel corso
della cenetta, comunque, pure alcuni poeti come Alvaro Lavalle, Nando Ferri, Maria
Sorella, Domenico Filippis e soprattutto Enzo Ranellucci hanno allietato la comitiva
dando prova delle loro doti canore; intanto lo stesso Michele Passarelli, non
potendo partecipare al concorso, ha preso spunto dalla festicciuola per darci un
saggio del suo estro poetico; vi ha trovato posto finanche il rimpianto di una nota
nostalgica nel ricordo di Donato Battista che, prima di lasciarci per sempre, ci ha
regalato le «Emozioni» di un «Sorriso»; né sono mancati i faceti a raccontare
barzellette: a onor del vero, però, va sottolineato che non tutte erano fresche di
bucato…nonostante la riviera fosse proprio lì di fronte. E non è tutto perché è
sembrato esserci trovati proprio, come ha sottolineato Nick, nella trattoria dei
talenti; oltre al Bartoli, anche il figlio Gennaro, servendo ai tavoli canticchiava i
motivi eseguiti dal padre; lo stesso chef, una volta spenti i fornelli, ha impugnato il
microfono e ci ha deliziato interpretando alcune canzoni di successo tra cui pure di
Claudio Villa e Jonny Dorelli; e non penso di prendere un abbaglio nell’affermare
che se il nostro bravo Pietro Carciero non li ha superati, poco ci è mancato. Dulcis in
fundo, è giunto a completare l’opera il Morandi di Montreal, l’altrettanto bravo e
simpatico Tony Cuccioli dalla voce piacevole e dal fare accattivante. Altra nota di
rilievo, un altro bravo talento che risponde al nome di Roberto Gardazzi ha pensato
ad accompagnare alla tastiera i vari brani musicali eseguiti in sala. Ma, gentilezza
per gentilezza, la «Trattoria da Gennaro» un altro complimento lo merita davvero
perché per quello che si è mangiato e per quello che si è pagato il caro Tony ci ha
servito veramente coi guanti bianchi. Quindi, se a volte non sapete cosa fare per
leccarvi i baffi, sul boul. Guin c’è una squisita trattoria dove andarvi a deliziare il
palato e ritemprarvi lo spirito.
Tornando alla poesia, musa ispiratrice del concorso e della serata, ogni
poeta ha ricevuto il suo attestato di partecipazione con relativo CD delle poesie
registrate. Ognuno di essi, inoltre, ha lasciato un commento personale e le proprie
impressioni dell’incontro in particolare e del concorso in generale. Di questo,
pertanto, ne è già stata annunciata l’apertura della quinta edizione, sia perché
richiesta vox populi e sia perché anche la Residenza Navarro ne ha confermata la
sposorizzazione.
Serate come queste non si limitano ad essere un semplice
incontro di poeti; diventano dei momenti in cui ci si conosce meglio e si familiarizza;
si superano i limiti della concorrenza e ci si anima di quello spirito di partecipazione
collettiva che onora e giustifica pure la causa in sé stessa, in questo caso la poesia
e la cultura. Ecco, a proposito di quest’ultima e tornando al concetto iniziale dei
poeti della domenica, questo encomiabile dar voce via radio ai loro sentimenti non
sembra anche a voi come la piccola firma di loro, gente comune, in fondo al grande
libro della cultura italiana all’estero? In serate come questa, oltre ad affiatarsi e
fraternizzare, si trovano nuovi spunti e maggiori incentivi per ulteriori creazioni
poetiche; simili serate non durano lo spazio di poche ore, diventano il riverbero di
un’amicizia stupenda che penetra silenziosamente nelle nostre case e ci resta per
giorni, per settimane e per mesi. Dandovi, Appuntamento, allora, alla prossima
edizione di «E vorrei dire».
30
(set. 2012)
Anche quest’anno è caduto il sipario
sulla «Settimana italiana» che, in questa sua 19ma
edizione ha avuto luogo nella Piccola Italia, la culla
storica della nostra comunità. Uno scintillìo di
italianità a 360 gradi: dall’arte alla cultura, dalla moda alla «500», dalla cucina al
folclore, dallo spettacolo al canto, dalla musica classica a quella leggera…pure
nostrana di qui, che è anche il movente che mi ha invogliato a scrivere quanto state
leggendo. In mezzo a tanti sprazzi di luce italiana che la nostra settimana ci regala
ormai già da quasi vent’anni, in questa sua ultima edizione essa si è fregiata di una
nota musicale in più!
Conoscete il duo artistico «VU»? Senza ombra di dubbio no, perché si tratta
di due giovani talenti che stanno, infatti, facendo ancora gavetta; due soliti ignoti
che sognano di emergere e che domenica 12 e sabato 18 agosto, intanto, hanno
impressionato più di qualcuno; qualora anche voi aveste mancato i loro concerti
sulla St. Laurent, vi siete veramente perso qualcosa. Saverio Lariccia e Davide
Franchini -accompagnati per l’occasione da tre provetti musicisti loro amici: Albe
alla chitarra, David alla batteria e Dominic al basso- hanno strabiliato il pubblico
facendo veramente sognare. Dire che sono stati coinvolgenti è dire poco; sono stati
addirittura travolgenti e trascinanti al punto che, a tratti, palco e spalti sono
sembrati un tutt’uno; dotati di una singolare carica di simpatia hanno saputo creare
quella giusta atmosfera di divertimento come solo i grandi artisti sanno fare; né
sono mancate le debite ovazioni accompagnate da striscioni e slogan di
apprezzamento. Per terminare in bellezza, dopo l’ultima esibizione hanno liberato
in aria un volo di palloncini, quasi a rallegrare maggiormente «sole e cielo blu»
affinché «nel mondo malinconia non c’è più»…come recita il ritornello di una loro
composizione ispirata alla vita.
Ringraziandoli e accommiatandoli dal pubblico, l’animatore dello spettacolo
Marco Luciani Castiglia sottolineava che l’attaccamento alle patrie radici e il valore
della propria identità si dimostrano pure attraverso la «buona» musica. Per tutta
risposta i VU, ringraziando di cuore tutti quelli che credono in loro e li supportano, si
impegnavano a «ritornare» e ripagare tanto affetto con della musica densa di
emozioni e giusti messaggi. Intanto nella loro terra di origine i nostri simpatici amici
avranno modo di andarci nel prossimo novembre, allorché nella città di Fiuggi –un
sabato sera di predetto mese- si concluderà il Cantagiro edizione 2012.
Favorevolmente impressionato dalle loro esibizioni Stefano Giorgilli, di passaggio a
Montreal, ha entusiasticamente invitato i VU a partecipare come concorrenti
nell’ultima tappa della suddetta kermesse italiana che vanta ormai cinquant’anni di
vita. Una inaspettata quanto emozionante sorpresa per i componenti il dinamico
duo che cominciano così a vedere premiati i loro sforzi, nonché a intravedere
orizzonti più azzurri per i loro giovani sogni. Non sarebbe un onore anche per noi se
questa 50ma edizione del Cantagiro la vincessero due elementi italomontrealesi,
due giovani figli di emigranti, due virgulti di quell’Italia che «cresce» soprattutto
all’estero? Ed allora, Saverio e Davide, in bocca al lupo (crepi!) per la vostra
esperienza a Fiuggi e tanti auguri per tutto il vostro avvenire artistico.
31
(ott. 2012)
Per noi emigrati in questi paesi settentrionali il 12
ottobre, in quanto americani in generale, e il 24 giugno, in quanto
canadesi in particolare, sono due date di storica importanza,
nonché di patria emozione. Un misto di passato e presente, di
nostalgia e di realtà che, avvalorando la nostra esistenza fuori
casa, ci responsalizzano a vivere onorevolmente la nostra duplice
identità. Orgoglioso delle loro imprese che secoli fa, «modernizzando» il corso della
storia, aprivano nuovi orizzonti all’umanità, vengo a presentarvi Colombo e Caboto
come due raggi di italianità emananti una luce tutta particolare…almeno dal punto
di vista che vado subito ad esporvi.
Navigando nei siti internet grazie alla barchetta «o-p»=ordinatore personale,
la mia visuale si inoltra nei mari della fantasia e mi addita i nostri due connazionali,
oltre che come grandi navigatori, anche come…precursori dell’ormai sempre più
indispensabile navigazione on line. Di certo sarà capitato anche a voi di aprire il
computer e trovarvi inoltrati, involontariamente, su sentieri che vi portano a visitare
luoghi sconosciuti e in cui non avevate nessuna intenzione di entrare. Poiché non
tutti i mali vengono per nuocere, questo smarrirsi in rete, tutto sommato, ha anche i
suoi vantaggi. Si acquistano nuove nozioni e ci si fa una cultura inaspettata sì, ma
pure utile e in un certo qual senso anche apprezzata…ma resta sempre il fatto che
ci siamo inavvertitamente persi nei mari dello scibile virtuale. Intanto, cosa accadde
a Cristoforo Colombo nel 1492 e a Giovanni Caboto nel 1497? Il primo doveva
andare in India e il secondo doveva recarsi in Cina per conto dei reali di Spagna e
d’Inghilterra che avevano sovvenzionato le loro spedizioni; come fecero quelli
italiani a perdere il treno, se ancora non c’era, proprio non me lo so spiegare!
Comunque in India e in Cina i nostri non ci arrivarono mai perché il vento spinse le
loro vele verso terre che nessuno aveva mai segnalato sulle carte geografiche in
quanto del tutto sconosciute. Ma anche per loro resta fermo il fatto che si persero, a
loro insaputa, nei mari del pianeta terra; quindi non ho tutti i torti a segnalarveli,
come volevasi dimostrare, quali antesignani della navigazione internet.
Anni fa quando me ne venni emigrante a Montreal, vedendo una nota strada
della città intitolata ad un certo C. Colomb e un parco comunale ad cert’altro John
Cabot, tra me e me pensai: «Ma che li hanno decapitati i miei compaesani?»;
intanto se fossi stato uno «straniero» avrei anche potuto sospettare che quei due
signori non fossero italiani. Nel frattempo ho fatto un tutt’altro ragionamento che, in
fin dei conti, risulta anche a vantaggio e onore della nostra etnia. Se li hanno
francesizzati o inglesizzati vuol dire che li ammirano, che li stimano, che li
apprezzano, che li ritengono importanti al punto tale che vorrebbero fossero loro e
non nostri compatrioti! Eh sì, su quisquilie del genere è meglio passare avanti e
vedere il bicchiere mezzo pieno. In fondo in fondo, a pensarci bene, pure questo
rovescio della medaglia segna un punto a nostro favore. Ed ora, anche per
concludere, stretta la foglia, larga la via…preparatevi a dire la vostra che vi dico la
mia. Personalmente penso che , se Colombo e Caboto sono stati «decapitati», è
perché sono così preziosi e rari che vorrebbero rubarceli, come si fa
con dei veri tesori, dando a credere che appartengono a loro;
mentre noi, e non solo noi, sappiamo molto bene che essi sono
stati, sono e saranno sempre e solo nostri. Perciò viva l’Italia con
tutta l’America da loro scoperta.
Giuseppe Circelli
Scarica

Un raggio di italianità