LO BALZINO
di Rcgeri de Pacientia
POEMA INEDITO DEL SECOLO XV
(continuazione dal n. 2)
Nelle varie composizioni di tale genere influsse sia il Boccaccio che
Ovidio, sebbene la Corti (43), più iche di influsso boccaccesco parli di mediazione boccaccesca tra il modello ovidiano delle Eroidi e le nuove composizioni.
Non staremo qui ad esaminare la produzione poetica del Chariteo giacchè un tale esame esula dal fine propostoci, che è quello di determinare i
caratteri della cultura aragonese. Diremo solo che tra i lirici volgari dell'età
aragonese, occupa il primo posto, se non per il valore della sua Musa, certo
per la ricchezza della sua vena poetica. A cavallo tra il XV e il XVI secolo
sta l'opera di Jacopo Sannazzaro membro dell'Accademia pontaniana e assai
fedele alla dinastia aragonese. La sua importanza letteraria non è certo legata
alle sue farse né ai gliommeri. Le prime, ossia le farse, si ricollegano ad una
produzione fiorita negli ultimi tempi del governo aragonese e sono composizioni di carattere popolare, sotto forma di endecasillabi; questo genere
sarà poi continuato dalle farse cavaiole, la cui produzione fu assai ricca nel
secolo XVI. Come dicevamo, il Sannazzaro non deve la sua fama né alle farse
né ai gliommeri bensì all'Arcadia : « opera che, ponendosi sulla tradizione della
letteratura bucolica, realizza quell'ideale della prosa umanistica applicata ad
un contenuto di arte pura e di dilettazione » (44).
Noi non stabiliremo i pregi e le limitazioni dell'opera del Sannazzaro,
ciò che ci interessa notare è che egli assomma in sé i caratteri della nuova
letteratura, di una nuova letteratura che, abbattute faticosamente le barriere
regionali si appresta a diventare nazionale.
Stabiliti i caratteri della cultura aragonese vediamo ora in quali rapporti
stia detta cultura con l'ambiente culturale di Terra d'Otranto, patria di Rogeri de Pacientia.
Terra d'Otranto non poteva mantenersi estranea al grande movimento
umanistico, anche per le sue tradizioni. L'eco di Ennio, di Pacuvio, di Livio,
nati qui non si era ancora spento e il lungo dominio dei greci non era stato
solo un episodio; di quest'ultimo dominio, rimanevano quali testimonianze
le celebri scuole di Nardò che, osserva il Gothein (45) « erano non solo il
centro di cultura di questo angolo d'Italia, ma servivano di modello anche
ai greci ».
(43)
MARIA CORTI, op. cit., p. 39.
SAPEGNO, Storia della Lett. ital.,
GOTHEIN, op. cit., p. 123.
(44) N.
(45)
vol. I, p. 372.
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Anche oggi esiste nel Salento una piccola isola etnica e linguistica che
Va sotto il nome di Grecia di. Terra d'Otranto che, col passare dei secoli, va
sempre più limitandosi ma che nel secolo XV era molto più vasta.
Da una relazione spedita dal vescovo di Nardò a Giovanni XXIII risulta
che nel 1410-1415 c'erano in quella diocesi 14 paesi con colonie greche, dove
veniva osservato il rito greco (46).
Le scuole di Nardò fiorirono nella cittadina dalla quale presero nome;
esse per un certo periodo costituirono l'Ateneo della regione e dettero nome
alla città di piccola Atene. Primi insegnanti di queste scuole furono i Basiliani che dall'VIII all'XI secolo portarono, oltre al culto, lo studio delle lettere e delle lingue greche e orientali. Vennero poi i Benedettini i quali si
occupavano in modo particolare di filosofia e di matematica, di teologia, di
storia, ,di musica, di lingue classiche. Le scuole salentine erano quindi adatte
a costruire il sostrato spirituale necessario alla formazione del perfetto umanista. Ci troviamo così di fronte ad un'ambiente culturale non stagnante, ma
che, al contrario, ha in sé i germi di un più largo e più fecondo sviluppo. E
se il Galateo, temendo per la sua sorte, a causa della sua fedeltà alla casa
aragonese, venuti i francesi e portatosi da Napoli a Lecce, qui fondò l'Accademia Lupiensis, sul modello di quella pontaniana, è segno che non pochi
erano gli uomini di cultura con i quali poteva agitare questioni culturali.
Altra prova dell'esistenza di un clima culturale suscettibile di sempre più
alte conquiste, è l'esistenza nel secolo XV di una ricchissima biblioteca posseduta da Angilberto del Balzo, duca di Nardò e conte di Ugento, incorporata nel 1464 nella biblioteca reale dei Re d'Aragona a Napoli e ai tempi di
Carlo VIII in quella nazionale .di. Parigi; ricca tra l'altro di molti codici in
volgare, tra cui i Trionfi del Petrarca, due esemplari della Teseide del Boccaccio, i volgarizzamenti del De Consolatione philosophiae, della Civitas di
S. Agostino, dei libri dei Profeti e del trattato sui Peccati. Ma a più esplicita
dimostrazione di quanto sopra affermato, sta il fatto che uomini come il
Galateo e come Fra Roberto Caracciolo — per ricordare solo i maggiori - che comunemente vengono inseriti nel numero dei facenti parte dell'umanesimo napoletano, qui abbiano avuto i loro natali e, quel che più conta,
presso le scuole salentine abbiano ricevuta la loro prima educazione.
Se è vero dunque che, perchè si sviluppassero e dessero i loro frutti
quelli che ancora erano solo elementi della loro formazione spirituale, ebbero
bisogno di uscire dalle piccole città, in massima parte feudali del Salento, ed
andare a Napoli, centro della cultura aragonese, è pur vero che a battesimo
li tenne non l'Accademia Pontaniana, bensì la scuola greca di Nardò.
La lingua del Poema
L'affermazione dell'italiano letterario, fuori della Toscana, avvenne con
una certa lentezza, preceduta da ibridismo linguistico che, presente in ogni
parte d'Italia, comparve alla fine del 400.
Nel. secolo XIV, come nelle altre regioni d'Italia, fiorì a Napoli una letteratura municipale che si era servita di un dialetto, reso aulico, da elementi
latini e da qualche influsso toscano (47).
Si intravede quindi, in Napoli, già dal 300, la premessa di una lingua
letteraria, sebbene si possa parlare della sua penetrazione solo con l'avvento
DE GIORGI, Bozzetti di viaggio, Lecce 1877.
(47) G. FOLENA, La crisi linguistica del 400 e l'Arcadia di I. Sannazzaro, Olscki, Firenze 1952, p. 6.
(46) C.
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al trono della dinastia aragonese. Qui come altrove, col prevalere del volgare,
per i bisogni di comunicazione determinati da ragioni amministrative, si
forma una Koinè meridionale nella quale la nobilitazione del dialetto è operata dal latino. Non apparirà strano ciò quando si pensi che, al di fuori della
cultura umanistica « l'abitudine al latino cancelleresco e chiesastico era viva e
radicata » (48). Forme dialettali e forme latineggianti dunque costituiscono
l'elemento caratteristico di questa Koinè meridionale.
Nel 400 in genere, e quindi anche in quello Napoletano, abbiamo una
ricca fioritura di opere in latino che l'umanesimo aveva esaltato di contro
al volgare. Ciò però non esclude l'uso del volgare che tanta parte aveva avuto
nella poesia popolare, per gran parte anonima e nella quale il dialetto si
presentava privo di 'pretese e di imitazioni toscane, mentre, più elevato appare il dialetto dei volgarizzamenti (49).
La lingua letteraria penetra in Napoli con l'influenza che, come in altro
capitolo accennammo a proposito del De Jennaro, la triade dei trecentisti toscani esercitò sui poeti maggiori del tempo. Di questi, quello che più
influenzò, oltre che il contenuto anche la lingua, fu il Petrarca, per cui il
Folena parla di « lingua petrarchesca », il cui influsso, - anche se in misura
assai minore, appare anche nella prosa. Si va maturando quindi un distacco
sia pure assai lento dalla Koinè regionale.
A comprova del più lento cammino della lingua letteraria nella prosa,
rispetto alla poesia, osserva il Folena che: « Scrittori per alcuni lati pregevoli come il Carafa, il Del Tuppo scrivono stentatamente un italiano che ha
come fondo non il dialetto vero e proprio ma un impasto di dialetto e di
latino con vernice e struttura boccaccesca (50) ».
Siamo così sulla strada che porta alla formazione della lingua letteraria
« ché tendenza fondamentale delle lingue letterarie è appunto quella di obliterare i tratti locali, per . sentirsi il meno possibile contingenti e legate a
situazioni particolari » (51).
Vanno quindi determinandosi e maturandosi quelle premesse, linguistiche oltre che culturali, che non è qui il caso di considerare: tali premesse
troveranno la loro più completa soluzione nell'Arcadia del Sannazzaro nella
quale assoluta è la vittoria sulla tradizione locale contro l'affermazione della
tradizione letteraria che muove dalla Toscana.
Ma a questo punto, sorge spontanea una domanda: quale la situazione
linguistica in terra d'Otranto nel quattrocento?
Non altrimenti che altrove la produzione letteraria in latino predomina incontrastata, ed una tale predominanza della lingua di Roma, non si
determina solo nel campo letterario, bensì anche nella vita civile e feudale.
Ma le prime tracce di volgare appaiono a Lecce nelle formule giudiziali,
come ad esempio nelle decisioni del « Concistorium Principis » che era stato
istituito da Ramondello Orsini nel 1402. Siamo all'inizio del secolo e di una
prevalenza del volgare, sia nei documenti che nelle composizioni letterarie,
non si può parlare; è solo nella seconda metà del quattrocento che se ne
potrà parlare. quando le mutate condizioni di vita, politiche e culturali,
avranno portato al crollo del corrotto linguaggio che aveva informato, fino
ad allora, tutti i documenti.
(48) G. FOLENA, op. cit., p. 6.
(49) A. ALTAMURA. Testi Napoletani del 400, Collezione Novantiqua, Napoli 1953, intr.
FOI.ENA, op. cit., p. 9.
(50)
(51) Micuroamn e FOLENA, Testi non toscani del 400, Istituto di fu. rom., Modena 1953,
pag. 16.
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Le prime manifestazioni del volgare, in Terra d'Otranto, — quelle conosciute„ almeno sono le lettere di Maria d'Enghien, alle quali debbono aggiungersi ordinanze e statuti dalla stessa emanati.
Ella apprese quel volgare presso la corte di Ladislao, re di Napoli, dove
rimase fino al 1449 e dove il volgare era già in uso. Si spiega così come ella
adoperasse, venuta a Lecce, nei suoi statuti, nei quali, come nota il prof.
Mario D'Ella, studioso di problemi linguistici di Terra d'Otranto, « tradizione toscana, tradizione latina e dialetto salentino sono i principali filoni
che confluiscono » (52).
Anche nel Salento quindi ci troviamo di fronte ad un ibridismo linguistico. Le sorti della lingua napoletana non dovevano rimanere estranee a
Terra d'Otranto, ché, una considerazione di carattere storico, mostrerà come
anche qui si diffondesse l'uso di quella lingua che trovava il suo centro diramatore nella corte aragonese, con quei caratteri che più sopra abbiamo indicato.
Quando nel 1463 Giovanni Antonio del Balzo morì, re Ferrante venne
in Terra d'Otranto ad impossessarsi del feudo ereditato e, abolito il « Concistorium Principis », ad esso subentrarono la Regia Udienza e il Sacro Regio
Consiglio Otrantino, di cui furono vicari e luogotenenti generali i figli di
Ferrante, Alfonso, Cesare e Federico. Ora, è logico che questi Principi usassero nei loro scritti quel volgare che ormai era divenuto familiare presso la
corte. Da una parte, quindi, l'esigenza ormai maturata e presente anche negli
spiriti più colti di una nuova lingua, quale le nuove condizioni richiedevano, e dall'altra, l'esempio di una corte, su un mondo provinciale né retrivo
né chiuso alle nuove aspirazioni culturali, come avemmo modo di notare
in un precedente capitolo. Si giustifica così, nel Salento, nella seconda metà
del 400, l'esistenza di una lingua comune a tutto il regno napoletano e quale
appare dalle lettere del Pontano, dal « Novellino » del Guardati, dal « De
Majestate » del Majo. Fu una lingua ricca di meridionalismi, di latinismi e
neologismi, di voci e di modi dovuti alla influenza spagnola, di un forte colorito locale e che pure indulgeva ad influssi toscani.
Si è parlato di influsso toscano, ma fino a che punto esso arrivi è difficile
stabilire, giacchè mancano studi che illustrino la penetrazione della lingua
letteraria nel Salento. Possiamo solo notare che uomini come il Galateo e il
Caracciolo vissero nella stessa Napoli di un De Jennaro che già abbiamo
avuto modo di notare in quale misura abbia sentito l'influenza del Petrarca
e qui, — si badi bene —, intendiamo sottolineare l'influenza linguistica. Ma
accanto a questa, diremo, opera di mediazione esercitata dai nostri accademici, sta l'azione diretta che la diffusione di opere in volgare (Trionfi del
Petrarca nella biblioteca di Angilberto del Balzo) e dei numerosi volgarizzamenti (abbiamo notizia di un Guidone da Nardò e di Fra Nicola, amanuense
in volgare il primo e volgarizzatore il secondo) dovette esercitare nella lingua del tempo. Non minore importanza, in tale senso, hanno le colonie mercantili, in special modo di fiorentini, che qui si erano stabilite.
Si è parlato del Caracciolo e del Galateo e non sarà qui fuori luogo,
notare come ambedue questi scrittori vagheggiassero, come gli altri accademici napoletani, un ideale di lingua letteraria che, se pure non riuscirono a
raggiungere, pure il loro esempio unitamente a quello degli altri accademici,
sarà di aiuto alla soluzione che al problema darà il Sannazzaro.
(52) M. D'ELIA, Osservazioni sul volgare negli statuti di M. D'Enghien, dagli « Atti del
Il Congresso Storico Pugliese e del Convegno Internaz. di Studi Salentini, 25-31 ott. 1952.
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Da uno studio locale, diretto alla conoscenza dello sviluppo del volgare
in Terra d'Otranto di Rodolfo Francioso (53), si ricava che il primo ,documento della lingua volgare, adoperata dallo scrittore con intendimenti letterari, risalga al 1448. Si tratta di un manoscritto conservato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi (54).
Ci proponiamo ora di stabilire i caratteri linguistici del poema in questione, che testimonia, a fine secolo, a quale livello il volgare, usato con
intendimenti letterari, fosse giunto in Terra d'Otranto. Una rapida scorsa ci
consente di individuare nel suo stile composito, quegli stessi orientamenti e
quelle stesse correnti linguistico-culturali che caratterizzano le scritture meridionali del 400, di carattere letterario. Accanto a voci e forme, comuni ai
testi letterari meridionali, e che si possono ricollegare ad una Koinè letteraria napoletana e meridionale, basata su forme dialettali meridionali, si
rilevano forme aderenti al toscaneggiamento e al latineggiamento.
Indichiamo qui alcuni particolari caratteri fonetici e lessicali del nostro
documento, nonchè alcune sue particolari costruzioni, in aggiunta ai latinismi frequenti ed ai caratteri nati da riflessi particolari, di natura storica,
religiosa, retorica etc.... Sono tutti motivi, diremo comuni all'epoca, che riaffiorano in altri documenti meridionali dei secoli XIV e XV, non solo di
contenuto letterario, ma anche di tipo amministrativo (55).
Receputa, ricevuta, c. lr.
cfr. Maria Corti, De Jennaro, Gloss. s. v. Receputo id.
Altamura, Testi napoletani XIII-XIV sec., Gloss. s. v. Recepere, ricevere.
Applicato (in sua laude applicato), rivolto a sua lode, c. ir.
cfr. Migliorini-Folena, Testi Quattrocento, 26, 20 ( a Palermo) Applicari a...
assegnare.
Monopoli ( L. R.) Capitula Catapanorum, p. 59 « ...incidat in penam tareni
aurei unius applicandam utilitatibus universitatis predicte modo... ».
RODOLFO FRANCIOSO, op. cit.
(54) Trovasi nei man. Italiani, 455 Membranaceo di pag. 66: « Incomenza et librecto de
pestilencia composto per messer Nicolò de Ingegno cavaliere et medico al suo glorioso
signore Johanne Antonio de Baucio di Ursini principe di Taranto et cetera suo singolare
.signore nelli anni del Signore 1448 del mese di marzo ».
(55) Le abbreviature che usiamo per indicare i suddetti documenti, sono le seguenti:
A. Altamura, Testi napoletani XIII-XIV sec. = ALTAMURA, Testi napoletani dei secoli XIII
XVI, Napoli, editrice Viti, 1949.
M. Catalano, Beata Eustochia da Messina = CATALANO MICHELE, La leggenda della Beata
Eustochia da Messina, II ediz., Biblioteca di cultura contemporanea XXXIII, edit. D'Anna, Messina-Firenze 1950.
CORTI MARIA, PIETRO JACOPO DE JENNARO, Rime e lettere a Cura
M. Corti, J. De Jennaro
di M. C., collezione di opere inedite e rare pubblicate per cura della Comm.ne per i
Testi di Lingua, vol. 120, Bologna 1956.
Folena, Angilu di Capua = FOLENA GIANFRANCO, La historia di Eneas vulgarizzata per
Angilu di Capua, a cura di G. F., collezione di testi siciliani dei secoli XIV e XV
diretta da E. Li Gotti, Palermo 1956.
F. Gaeta, I. Majo GAETA FRANCO, Juniano Maio, De Maiestate, inedito del sec. XV, a cura
di F. G., scelta di curiosità letterarie inedite e rare dal sec. XIII al XIX, Dispensa
CCL, commissione per i Testi di Lingua, Bologna 1956.
Lecce (S.M.d'E.) = Statuti di Maria d'Enghien (Lecce, anno 1473; manoscritto pergamenaceo
nella Sezione di Archivio di Stato di Lecce; pubblicato da FRANCESCO CASOTTI in
« Opuscoli di Archeologia, Storia e Arti Patrie », Firenze 1874, pp. LXXII-CXXI.
Migliorini-Folena, Testi quattrocento = MIGLIORINI BRUNO - FOLENA GIANFRANCO, Testi non
toscani del 400 a cura di M.B. e G.F., Istituto di Fil. Rom., Testi e, manuali n. 39,
Modena 1953.
Monopoli (L. R.) = Libro Rosso della città di Monopoli (XVI sec.) pubblicato a cura di
FRANCESCO MUCIACCIA, commissione provinciale di Archeologia e Storia Patria, documenti e monografie, vol. IV, Bari 1906.
(53)
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Lecce (S. M. d'E.), XCIV « ... alla pena de unce quattro applicando alla corte
del capitanio », da assegnarsi.
Fatiga e. lv., lavoro, impegno dell'amanuense.
cfr. Folena, Angilu di Capua, Gloss. s. v. fatiga, dolore, prova.
Catalano, Beata Eustochia da Messina, Gloss. s. v. fatiga, fatica.
Forno, furono, c. 2r.
cfr. Catalano, Beata Eustachia ,da Messina, Gloss. s. v. forno. id.
Maria Corti, J. De Jennaro, Introd., p. CLIX, forno, id.
Satisfacto, soddisfatto, c. lr.
cfr. Maria Corti, J. De Jennaro, Gloss. s. v. satisfare; satisfatto, id.
Lecce (S. M. d'E.) XCV « et satisf ore allo patruno de lo danno... » id.
Compie, Campi Salentina, c. 3r.
cfr. Lecce (S. M. d'E.) C. Casale Campie.
Como, come, c. 3v.
cfr. Altamura, Testi napoletani XIII-XIV sec. Gloss. s. v. como id.
Maria Corti, J. De Jennaro, Gloss. s. v. como id.
Gaeta, I. Majo, Gloss, s. v. como, id.
Posserse, potersi, c. 3r.
cfr. Maria Corti, J. De Jennaro, Gloss. s. v. posser, potere.
Et sia licito ad
Monopoli, (L. R.) XXI, Capituli del Scannagio, p. 67 «
quello che farà dieta carne possere vendere li mussi pedi et quello de intro... ».
Lassando, lasciando, c. 3v.
cfr. Maria Corti, J. De Jennaro, Gloss. s. v. lassare (più infinito semplice),
cessare di
Folena, Angilu di Capua, Gloss. s. v. lassari, lasciare.
Maria Corti, J. De Jennaro LXXXIII.
Sonno (sonno state ad visitarla), sono, c. 3v.
cfr. Catalano, Beata Eustochia da Messina, Gloss. s. v. sonno, id.
A cio che, acciochè, c. 34v.
cfr. Monopoli (L. R.) XXI Capituli J:lel Scannagio, p. 71 « Et a cio eche li sopradicti non possa sorgire dubio o... » id.
Biasmo, biasimo, c. 42r.
cfr. Maria Corti, J. De Jennaro, biasmar (XXXIV, 12) biasimare.
Tra le voci del nostro testo che trovano una corrispondenza nel lessico
di dialetti salentini odierni e che possono essere presi in considerazione, per
individuare il filone dialettale del nostro testo, possono essere prese in considerazione poche voci:
masculi - maschi; fiate - volte ; canata - cognata ; size - mammelle ;
menna - mammella ; macina - mattina.
Va da sé che la larga diffusione delle voci sopradette in documenti a
carattere letterario o amministrativo meridionale del 400, ci induce a pensare che, nella coscienza linguistica dell'autore, le stesse voci non rappresentavano tratti crudamente dialettali, ma voci già nobilitate dal precedente uso
di carattere letterario e amministrativo.
Tra i soliti tipi di grafie latineggianti notiamo i seguenti: affectionata,
astrecto, satisfacto, tutta, honesta, laudare, dixe, exequir, exarso, substene,.
orphani, subsidio, septe, seu, gotta, triunphale, exquisiti, hora.
Non mancano nel poema francesismi e spagnolismi. Sono spagnolismi:
verdatero, donairo, juro a Dio, posata, creato.
Non considereremo qui quei caratteri comuni alle scritture del tempo
quali : la riduzione di ti + vocale . in ci + vocale, la scempia al posto della
doppia nell'italiano odierno, il plurale rappresentato oltre che da i, anche
da j.
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Conclusione
Fino a questo momento abbiamo cercato di stabilire le caratteristiche
dell'ambiente culturale in cui si colloca, sia pure spiritualmente, la nostra
opera, e ancora, di esaminarne la lingua, seguendo — per la migliore interpretazione dei dati offerti — un metodo di semplice e serena logica, nella
quale abbiamo fatto convergere i metodi di lettura tradizionali (critica storica, filologica, estetica, e stilistica), senza concessioni particolari ad alcuna
di queste.
Ci sembra ora giunto il momento di considerare il poema nella sua
totalità, per esaminarne i caratteri. Da un esame condotto sulla fortuna e
sulla critica del poema, ci è stato dato stabilire, come lo studio fatto dal
Croce rappresenti l'unica vera critica che al poema sia stata fatta. Sarà ora
opportuno richiamare alla mente un tale studio e, diremo, subito, come ci
sembri che troppe siano le riserve e le limitazioni del critico; non già che
noi consideriamo la composizione un capolavoro, ma ci sembra che maggiore indulgenza meritasse %neri de Pacientia.
Infatti nel « Lo Balzino » gli affetti, i sentimenti e i pensieri si « scandiscono », si « versificano », trovano la loro giusta collocazione in una poesia
che non ha pretese e che, appunto per questa dichiarata e voluta semplicità,
piace. E' vero che la forma del poema è modellata sui poemi cavallereschi
dei cantastorie, ma di essi non riproduce né la forma sciatta né l'argomento
trito.
Noi abbiamo l'impressione che si tratti di un volgarizzamento storico,
dettato da una palese intenzione del poeta di narrare, ín forma piana, i casi
della sventurata Isabella.
L'opera non è appesantita da intenti moralistici, anche se non mancano
osservazioni morali, né la sua composizione è legata a precisi scopi da raggiungere, se si eccettua quello — per noi evidente — di fare opera storica
per un pubblico non iniziato a sottili ricerche, quale poteva essere quello
di dame cortigiane cui è rivolta la composizione. « Trattato » non aulico
quindi, non per altri motivi, se non per intenzione stessa dell'autore. E'
evidente che l'impegno stilistico non abbia costituito una preoccupazione
per il nostro autore. Egli stesso dichiara di voler usare uno stile « mediocre
et bascio », ma questo vale quanto dire che non sapesse fare di meglio?
Nomina tre fra i rimatori cortigiani famosi del tempo:
Non son lo Chariteo, non son lo Antonio
Né men el vostro docto Thimoteo
Lassando a li predicti la eloquencia
El terso et alto et glorioso stile. (56)
Non sarà quindi arbitrario ammettere che conoscesse la migliore produzione letteraria coeva.
« E' puerile nella forma » — nota il Croce — è vero, ma una forma aulica, giacchè non ci sembra di riscontrare una forma sciatta, non avrebbe costituito una stonatura con il carattere decisamente popolare della composizione?
(56) Lo
BALZINO, C.
146 v.
45
A questo proposito diremo come da una completa lettura, ci sembra che si
possa affermare che lo stile della prosa sia ben più elevato di quello dei versi.
Non staremo qui a stabilire se il nostro autore sia stato un letterato o
no, anche perchè, come è ovvio, la inesistenza assoluta di notizie biografiche
non ci faciliterebbe di certo il compito; non abbiamo di lui che un codice
— e nulla di più — e questo non basta, .dato il carattere stesso dell'opera,
a trarre conclusioni definitive sulla sua posizione di fronte all'ambiente culturale del tempo.
Certo che la cultura aragonese non dovette essergli del tutto estranea,
giacchè tornano nel suo poema diversi elementi che a quella lo ricollegano,
non ultimo quel carattere cronachistico che tanto spiacque al Croce (57).
Già, in altro capitolo, considerando i caratteri della cultura aragonese,
avemmo modo di sottolineare come negli scrittori popolari fosse vivo il gusto
della cronistoria mondana. Ora quale altro scrittore avrebbe potuto seguire
con più giustificati motivi un tale atteggiamento se non il Pazienza, uomo di
corte? Abbiamo detto atteggiamento, ma, certo, il termine non è esatto, ché,
se a molti si addice, non tra questi rientra il nostro autore, nel quale, la
cronistoria mondana era quasi una forma naturale quanto mai consona alle
« sue occupacioni ».
E non è questo il solo elemento che alla cultura napoletana lo riconduca, anche l'aneddoto relativo alla divisione che Beltrando del Balzo fece
del tesoro di Manfredi; quale evidenza narrativa, da quei versi, traspare!
Smontato el re al castello capuano
li fo appresentato un gran thesoro
de Re Maníredo: et quel signor soprano
chiamo Beltran de Balzo in mezo al coro
et dixeli e bilanze piglia in mano
et pesa et sparti tutto questo tal oro
Beltran respose che faro de bilanze
ad spartir tanta moneta et tante zanze
Et dicto questo salio sopra poi
et con li piedi in tre parte el destina
la una dixe sia del nostro Roj
et l'altra de nostra damma la Rejna
et l'altra se deuida fra gente soi
cioe fra caualer che seco mina
et si fo facto et quel se obseruao
et ciascun la sua parte se pigliao (58)
La scena è davanti ai nostri occhi nella sua realtà formale, oltre che
sostanziale, con un cromatismo e con una compiutezza che colpisce, quasi più
della stessa realtà.
Abbiamo citato quest'esempio, ma. ancora, tanti se ne potrebbero citare,
e forse più efficaci, nell'efficacia realistica della narrativa in esame.
A parte l'efficacia particolare che il nostro autore raggiunge quando si
indugia nel presentare una persona : è come la caratterizzasse con un felice
pennello al quale riuscisse. come per miracolo creativo, in un tutt'uno: corpo
(57) B. CROCE, Storie e leggende napoletane, p. 187.
(58) Lo BALZINO, C. 8 v.
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ed anima. Un esempio di tale felice caratterizzazione presenta la seguente
descrizione della « bajla over nutriza » di Isabella « de bona ganga (ganga
mola e non ganascia come traduce il Croce) (59) et tristo pede »
una che de orane vitegno
lo celebro tenea sempre inacquato
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et molte uolte sopra de la nata
congreue son spisso se adormea (60)
La nota sull'efficacia narrativa del poema, ci ha portati molto lontani
dalle considerazioni che stavamo facendo, volte a stabilire in quali rapporti
il poema in questione sia legato a manifestazioni culturali, comuni, del tempo.
Come sopra dicevamo, un esame del poema non rivela intenti morali
così pressanti come nell'opera di un Guardati o di un Del Tuppo, nei quali
tali intenti si è da più parti d'accordo di considerarli nèi anzichè elementi
positivi. Il raffronto, anche sotto quest'ultimo profilo. ci è utile per dimostrare che al componimento del quale ci occupiamo spetta un posto, non
preminente, ma neppure di ultimo piano, come espressione di un'epoca.
Altra considerazione da fare in relazione a quanto sopra affermato è
l'adesione del poeta all'ambiente storico in cui visse. La scelta dell'argomento
costituisce senza dubbio un'altra documentazione a quanto affermiamo, giacchè, come la cronistoria mondana, risponde ad una naturale disposizione
dell'uomo di corte, incline sempre a proiettare nelle sue opere la vita che
egli vive.
Una considerazione particolare, piuttosto, merita l'opera, tenendo conto
che gli avvenimenti in essa narrati furono vissuti dal nostro autore, e in
maniera molto diretta, per essere egli uomo di corte.
La nuova indagine ci porta ad un primo risultato : quello di scoprire
innanzitutto la perfetta fedeltà dell'autore alla casa aragonese e quindi la
sua quasi familiare partecipazione alle venture e alle sventure della casa. La
profonda devozione che egli ebbe per Casa d'Aragona e i maggiori avvenimenti ad essa legati sono evidenti nel poema, e, a parte ora considerazioni
di carattere puramente estetico e letterario, diremo come la dovizia di notizie e la fedeltà assoluta con cui sono riportate, ci autorizzano ad affermare
che, indipendentemente da ogni valore artistico, l'opera costituisce un documento storico di non disprezzabile valore. L'importanza storica del testo ed
alcune notizie relative al costume del tempo, sono state sottolineate dal
Croce, tanto da meritare una completa esposizione dell'opera : ma tale preminente importanza è forse stata anche il motivo che ha indotto il Croce a
non interessarsi del lato letterario del componimento, se non marginalmente
ed in maniera superficiale e poco indulgente.
Certo che, se diverso fosse stato il « tono » del poeta, noi avremmo avuto
un'opera storica di non scarso valore e degna di essere collocata tra le opere
dei migliori storici del tempo. Valore storico. dunque, e non solo per l'aiuto
che l'autore dà alla ricostruzione della storia, ma per i molteplici e diversi
riflessi che alla storia sono legati e che interessano vita, costume e ambiente
di una intera epoca.
A questo proposito gioverà ricordare che già abbiamo rilevato, nell'opera in esame, motivi che interessano la storia del costume e che ci portarono
a constatare l'usanza della conservazione degli abiti al pari dei gioielli.
(59) B. CROCE, cc Arch. Stor. ,napol. », a. XXII, p. 654; Storie e leg. nap., p. 194.
(60) Lo
BALZINO, C. 11
r.
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4 - LA ZAGAGLIA
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Ci portò a questo primo dato di storia del costume, il dono che la regina
Giovanna inviò ad Isabella, consistente nella gonnella di panno di oro. Confermano tale dato e lo arricchiscono altri motivi: la minuta descrizione del
rito battesimale di un figlio di Giulia Paladini, cui Isabella fece da madrina
e che si conclude con un bacio tra i compari (usanza tipicamente salentina),
le descrizioni di feste e' di cerimonie che in onore di Isabella si tenevano, la
presentazione di colorite scene di caccia che si accompagnavano ai vari festeggiamenti ,di corte e che offrivano motivo di composizione a tanti scrittori.
Il carattere dell'opera, comunque, è tipicamente meridionale e traspare
— direi — sempre dalle forti tinte con le quali l'autore ama presentare e
tramandare il suo mondo. Ora è una devozione e un affetto esuberante che
fa di Isabella la sua eroina, ora un sentimento religioso che ha quasi del
fanatismo.
C'è in lui grande venerazione per tutto ciò che è santo ed è manifestazione quasi tangibile della divinità. Indulge volentieri alla tentazione di
descrivere le reliquie che da vescovi e prelati erano portate incontro ad
Isabella, quando giungeva nelle varie città, e non tralascia occasione, per
sottolineare il carattere religioso della sua « pia » eroina. Il sentimento predominante nel poema è, come abbiamo più volte notato, il suo incondizionato amore per la regina, ma, con questo amore reverenziale, è una gamma
infinita di altri sentimenti affettivi che entrano, quale elemento costitutivo
del poema, tra i quali, in primo piano, come si trattasse di luce siderea,
l'amore tra Federico e Isabella.
Quell'amore che tanta parte aveva avuto nella trattatistica quattrocentesca trova anche qui, come gli altri affetti, la sua giusta collocazione.
E per finire, continuando nell'indagine spirituale, volta a scoprire ed a
mettere in evidenza i vari temi sentimentali che sono l'anima del poema,
non può sfuggirci il tema della Fortuna che costituisce poi il motivo conduttore delle vicende narrate. Tale motivo abbiamo lasciato deliberatamente
per ultimo, perchè in esso è evidente il carattere tipicamente popolare che
definisce il poema.
Fortuna e virtù costituiscono un problema classico, al cui fascino nessuno
-degli scrittori quattrocenteschi di tutta Italia — potremo forse dire — si è
sottratto : dal Cavalcanti al Morelli, al Collenuccio, al Pontano, al Galateo;
anche se non risolto in egual modo e con gli stessi risultati, fu un problema
che tutti si posero.
Nel nostro autore la Fortuna è debellata dal « core humano » di Isabella; virtù vince quindi Fortuna. Spesso la Fortuna acquista nel poema
carattere di superstizione, ma questo non deve meravigliare, trattandosi di
una composizione a carattere popolare, e, quel che più conta, composta da
un meridionale.
Lo Balzino rientra, secondo noi, nel numero di quelle opere che oggi,
deve farci pensare a diversità di toni, intesi come caratterizzazione; non ci
troviamo di fronte ad una poesia popolare che perde il suo carattere e non
riesce nello stesso tempo a trovarne un altro, invece t naturale e facile riscontrare coerenza e fedeltà assoluta, dalla prima all'ultima parola, allo specifico
carattere popolaresco : una continuità ammirevole che non sempre si riscontra in poemi del genere.
La Balzino rientra, secondo noi, nel numero di quelle opere che oggi,
dato il loro non rilevante valore artistico, hanno perduto quell'interesse che
avevano nel tempo in cui nacquero, giacchè legate all'ambiente e alle esigenze di esso. Ciò non toglie però che lo Balzino, in particolare per quel suo
innegabile — e più volte ripetuto — valore artistico, accompagnato ad una
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non disprezzabile forma letteraria, meriterebbe giusta collocazione tra i
primi tentativi di una formazione di prosa letteraria in terra d'Otranto. Una
trascrizione completa dell'opera renderebbe più suasive queste nostre osser
vazioni e varrebbe a dare prestigio alla letteratura del Salento, che troppo,
è stata mortificata nella comune convinzione di provincialismo.
RITA MOSCARDINO
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