la Biblioteca di via Senato mensile, anno viii Milano n. 2 – febbraio 2016 LETTERATURA Marilyn Monroe e l’Ulysses di Joyce di massimo gatta DANNUNZIANA Pagine di bronzo, pagine di carta di luca piva BIBLIOMANIA Il conte Alberti e il suo falso Torquato Tasso di antonio castronuovo INVESTIGAZIONI Poe e l’invenzione della detective story di piero meldini BIBLIOFILIA «Al rogo! Al rogo Sigismondo Arquer!» di giancarlo petrella ISSN 2036-1394 la Biblioteca di via Senato la Biblioteca di via Senato Milano mensile, anno vi mensile, anno vii n. 11 – novembre 2014 Milano n. 1 – gennaio 2015 la Biblioteca di via Senato mensile, anno vii Milano n. 2 – febbraio 2015 COLLEZIONISMO LIBRI Elena Schiavi e il sale della terra L’editoria del Collage de ’Pataphysique di luca piva di antonio castronuovo STORIE DI CARTA EDITORIA BVS: ARTE Futurmughini: verso la dispersione di massimo gatta RIFLESSIONI Grandi editori: l’altro Mondadori Quando l’Italia avrà un governo islamico ANTIQUARIA BIBLIOFILIA Fra le carte di Giuseppe Martini A tavola, per un pranzo con il mostro Torchi itineranti e stampatori erranti di giancarlo petrella di piero meldini di giancarlo petrella LIBRO DEL MESE SPECIALE MANUZIO LIBRO DEL MESE Fra gli scaffali: librerie da leggere di massimo gatta di massimo gatta BVS: ARCHIVIO MARTINI La Comedia di Dante con figure dipinte di gianfranco de turris Catalogo delle edizioni aldine della BvS. Parte II di gianluca montinaro Da Antonio Gramsci ad Achille Occhetto di giancarlo petrella GUERRA E LETTERATURA IL RISTORO Agli inizi del ’900: fra militanza e intervento di gianluca montinaro di franco andreucci EDITORIA Le ‘illuminazioni’ di Arnolfo Luciano Bellosi e Michelangelo pittore di luca pietro nicoletti di marco cimmino la Biblioteca di via Senato mensile, anno vii Milano n. 3 – marzo 2015 la Biblioteca di via Senato mensile, anno vii Milano n. 4 – aprile 2015 la Biblioteca di via Senato mensile, anno vii Milano Divertito elogio dei refusi SUL NOLANO Milano n. 7/8 – luglio/agosto 2015 SPECIALE RENATO SERRA Il tenente che sporse troppo la testa Bibliofilia dell’oscenità di antonio castronuovo di antonio castronuovo di giancarlo petrella L’arcano silenzio del misterioso Voynich Attraverso l’Italia con fra Leandro di marco cimmino Tra le prime edizioni di Renato Serra di massimo gatta di vitaldo conte BVS: FONDO MODERNO BIBLIOFILIA Ferrero: una dolce storia Il “divin marchese” de Sade a processo Pinocchio: Tallone e gli “Angeli del fango” La venuta del Re di Franza in Italia di antonio castronuovo Renato Serra e la generazione ‘sciupata’ LIBRI DEL MISTERO FONDO IMPRESA di gianluca montinaro la Biblioteca di via Senato mensile, anno vii BVS: FONDO ANTICO BIBLIOFILIA Il marchese de Sade: il censurato “da liberare” di guido del giudice n. 6 – giugno 2015 di luigi piva di giuseppe scaraffia Giordano Bruno e il vincolo di Cupido Milano Gli eroi del Notturno nell’isola dei morti Il marchese de Sade: storia e letteratura di massimo gatta la Biblioteca di via Senato mensile, anno vii BVS: FONDO SORGE DELFICO SPECIALE DE SADE EDITORIA n. 5 – maggio 2015 di massimo gatta Le edizioni dell’epistolario di giancarlo petrella di antonio castronuovo di massimo gatta Bibliofilia sadica: i volumi proibiti LIBRO DEL MESE La grotta delle meraviglie della “marchesana” di massimo gatta di giovanni sessa GUERRA E LETTERATURA Un enfer per pochi, anzi per uno solo Gli intellettuali e la I Guerra Mondiale L’arte di stampare libri per l’eternità la Biblioteca di via Senato Milano n. 9 – settembre 2015 di giano accame di luca pietro nicoletti di luca pietro nicoletti SPECIALE MARCHESE DE SADE mensile, anno vii I disertori della Grande guerra e le forze politiche dell’antinazione Ricordo di Alberto Ghinzani e Giancarlo Ossola di massimo gatta di marco cimmino di marco cimmino BVS: FONDO DE MICHELI L’assordante silenzio del torchio di massimo gatta Vittorie dimenticate, sconfitte celebrate di giorgio galli BVS: EDIZIONI DI PREGIO di piero meldini In margine allo ‘Speciale Serra’ Sull’economia sociale: il tempo non è denaro La filosofia di un altro Occidente Seduttori libertini, seduttori romantici di riccardo braglia LIBRO DEL MESE IL LIBRO DEL MESE la Biblioteca di via Senato mensile, anno vii Milano ISSN 2036-1394 ISSN 2036-1394 n. 10 – ottobre 2015 la Biblioteca di via Senato mensile, anno vii Milano n. 11 – novembre 2015 SPECIALE RENATO SERRA ISSN 2036-1394 la Biblioteca di via Senato mensile, anno vii Milano n. 12 – dicembre 2015 la Biblioteca di via Senato mensile, anno viii Milano n. 1 – gennaio 2016 SPECIALE DANTE ALIGHIERI BIBLIOTECHE EDITORIA Di libro in libro, di volume in volume Le prime volte del ‘maledetto’ Maldoror Dibattiti medici fra carne e verdura BIBLIOFILIA RICORRENZE MAGIA E RINASCIMENTO I preziosi incunaboli di casa Maggi L’opuscolo di Croce in ricordo di Laterza Della Porta: il mago dell’arcana sapienza di massimo gatta di giancarlo petrella LIBRI DI MEDICINA Il melanconico lamento di Ippocrate di guido del giudice ALTERNATIVE DI SCRITTURA La pelle come pagina e raffinato libro d’arte di vitaldo conte FEUILLETON L.E.X. Le biblioteche profonde ANTICHI VOLUMI di piero meldini di antonio castronuovo di massimo matta BVS: BIBLIOFILIA Questo libro non s’ha da leggere! di giancarlo petrella di guido del giudice Il raffinato Bartleby dell’editoria italiana di massimo gatta BIBLIOFILIA Raffinato elogio dell’arte plagiatoria Questo libro non s’ha da leggere! RICORDI Il passato che non passa. Interlandi: razzista maledetto di claudio bonvecchio di carlo gambescia SPECIALE CENTENARIO DADA (1916–2016) Dada: iconoclastia della cultura Dante Alighieri e l’utopia possibile di marco fioramanti Storia e vicende delle edizioni dantesche di vitaldo conte di gianluca montinaro di enrico malato La Commedia di Bonino Bonini (1487) EDITORIA LIBRO DEL MESE di luigi mascheroni Dante, nostro ‘moderno’ Virgilio Pitirim i’ vorrei che tu, Vilfredo e io... di giancarlo petrella Un commentatore dell’opera di Dante di antonio castronuovo La Comedìa di Dante: vertigine e totalità di marco cimmino Giordano Bruno e ‘la Furiosa Commedia’ Julius Evola e il Dada in Italia Le lettere dadaiste fra Evola e Tzara di gianfranco de turris Dada 1921: un’ottima annata di michele olzi La vita e il gesto oltre la Kultur di dario evola Eterna provocazione: le anime del Dadaismo di giancarlo petrella di guido del giudice di carmelo strano RICORRENZE Quando il ’900 mise Dante sotto torchio Il mistero della Profana commedia di giovanni sessa e romano gasparotti I primi 60 anni della casa editrice Feltrinelli di massimo gatta di massimo gatta di massimo gatta Il Dada, ovvero sull’indifferenza di antonio castronuovo Dante nelle raccolte di via Senato di giancarlo petrella di errico passaro ISSN 2036-1394 ISSN 2036-1394 ISSN 2036-1394 ISSN 2036-1394 SPECIALE 750° DANTE ALIGHIERI ISSN 2036-1394 SPECIALE CENTENARIO DADA (1916–2016) la Biblioteca di via Senato – Milano M E N S I L E D I B I B L I O F I L I A – A N N O V I I I – N . 2 / 6 9 – M I L A N O , FEBBRAIO 2 0 1 6 Sommario 4 Libri e Letteratura MARILYN MONROE E L’ULYSSES DI JOYCE di Massimo Gatta 60 Bibliomania IL CONTE ALBERTI E IL SUO FALSO TORQUATO TASSO di Antonio Castronuovo 16 Dannunziana PAGINE DI BRONZO, PAGINE DI CARTA di Luca Piva 66 In Appendice – Feuilleton L.E.X. LE BIBLIOTECHE PROFONDE di Errico Passaro 24 Bibliofilia «AL ROGO! AL ROGO SIGISMONDO ARQUER!» di Giancarlo Petrella 70 BvS: il ristoro del buon lettore QUELLA ZANZARA, DI CASA SULL’ISOLA DI PORTICINO di Gianluca Montinaro 37 IN SEDICESIMO – Le rubriche LE MOSTRE – LIBRO DEL MESE – RIFLESSIONI – LO SCAFFALE a cura di Luca Pietro Nicoletti e di Lorenzo Barbieri 72 HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO 54 Investigazioni letterarie POE E L’INVENZIONE DELLA DETECTIVE STORY di Piero Meldini Ringraziamo le Aziende che ci sostengono con la loro comunicazione Biblioteca di via Senato Via Senato 14 - 20122 Milano Tel. 02 76215318 - Fax 02 798567 [email protected] [email protected] www.bibliotecadiviasenato.it Presidente Marcello Dell’Utri Direttore responsabile Gianluca Montinaro Servizi Generali Gaudio Saracino Coordinamento pubblicità Ines Lattuada Margherita Savarese Progetto grafico Elena Buffa Fotolito e stampa Galli Thierry, Milano Immagine di copertina Copertina del volume Roma se ne va di Padre Zappata (al secolo Girolamo Amati), Roma, E. Perino Editore, 1885 Stampato in Italia © 2016 – Biblioteca di via Senato Edizioni – Tutti i diritti riservati Reg. Trib. di Milano n. 104 del 11/03/2009 Per ricevere a domicilio (con il solo rimborso delle spese di spedizione, pari a 27 euro) gli undici numeri annuali della rivista «la Biblioteca di via Senato» scrivere a: [email protected] L’Editore si dichiara disponibile a regolare eventuali diritti per immagini o testi di cui non sia stato possibile reperire la fonte Editoriale D i falsari è piena la storia. Falsari di dipinti (come il celebre Han van Meegeren), di sculture (come i tre studenti livornesi autori, nel 1984, del celebre scherzo delle false teste di Modigliani rinvenute nel Fosso Mediceo che attraversa la città toscana), di reperti antichi (come Alceo Dossena). Su questo numero de «la Biblioteca di via Senato» Antonio Castronuovo racconta (grazie al ritrovamento di alcune pagine finora ignorate) di un falsario di opere letterarie: il conte Mariano Alberti (1792-1866). Bibliomane, patito lettore di Torquato Tasso e scatenato collezionista di sue edizioni e cimeli, il nobiluomo, nella sua follia, giunse ad annunciare il ritrovamento di alcuni inediti del grande poeta sorrentino. Con minuzia stese i falsi scritti e quindi, inaugurata una pubblica sottoscrizione (alla quale aderirono anche grandi personaggi dell’epoca), promosse la stampa del volume Manoscritti inediti di Torquato Tasso (Lucca, Giusti, 1837). Scoperto, pagò questa azione con ben sette anni di carcere, durante i quali – quando gli era permesso di uscire dalle mura di Castel Sant’Angelo (le autorità pontificie gli accordarono questo privilegio in virtù della sua innocuità) – continuò a comprare e raccogliere libri in modo forsennato. I lettori (ma anche gli autori) di questa rivista non potranno non guardare con un sorriso a questo ‘strano personaggio’ e alla sua sfrenata passione bibliofila... che un po’ accomuna tutti noi. Gianluca Montinaro 4 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 5 Libri e Letteratura MARILYN MONROE E L’ULYSSES DI JOYCE Storia della prima edizione del romanzo MASSIMO GATTA T ra le migliaia di foto che l’hanno come imbalsamata nell’icona hollywoodiana ‘Bellezza-Glamour-Tacchi a Spillo e Sorrisi’, solo qualcuna è riuscita a cogliere Marilyn Monroe in dialogo con se stessa, lontana dai lustrini. Accadde, ad esempio, in una celebre foto di Eve Arnold del ’52 (Marilyn legge Ulisse), dove Norma Jeane Mortenson è intenta a leggere quel libro altrettanto celebre quanto lei. Una lettura a voce alta, com’era abitudine nel medioevo prima che il moderno imponesse quella silenziosa. Ad alta voce a causa del ‘tono’ del libro, «per capire meglio, ma che era difficile», come Marilyn disse alla fotografa (lo ricorda Stefan Bollmann nel suo bel libro sulla lettura al femminile nell’arte).1 Il suo corpo è come inscritto in un ovale di luce, nell’oscurità accogliente del sottobosco, racchiuso, come a proteggerlo, sul grosso volume rilegato (tela? cartone?) e dai tagli scuri, che tiene poggiato sulle mani curate e aperte a forma di leggio; libro, peraltro, del quale non diNella pagina accanto: Marilyn Monroe legge Ulysses, 1952, foto di Eve Arnold. Sopra: Ulysses, Paris, Shakespeare and Company, 1922, prima edizione stinguiamo il titolo e neppure l’autore. Una lettura nello splendore di questa giovane ragazza bionda, all’epoca ventiseienne, di una bellezza smarrita ma tale da far male agli occhi. Poi sapremo, da un’altra foto coeva che la ritrae quasi nella medesima posizione e con lo stesso libro, che si trattava dell’Ulysses di James Joyce, romanzo chiave, scandaloso e controverso, della modernità novecentesca, uscito dai torchi digionesi di Maurice Darantiere esattamente 30 anni prima della foto della Arnold. Ma perché Marilyn legge proprio quel libro (anche se non nella prima edizione)? Forse perché condizionata dall’appeal intellettuale di Arthur Miller, sposato nel giugno del ’56? Poco probabile anche perché la foto è degli anni del corteggiamento e del matrimonio con Joe Di Maggio, certamente non un intellettuale. Forse perché quel libro era una sfida a tutti quei luoghi comuni che da sempre le vorticavano intorno: essere una gran bellezza ma senza cervello?2 Non lo sapremo mai. Di certo, però, quella foto della Arnold è una splendida teatralizzazione: «Il Corpo di Hollywood che legge la Mente di uno scrittore irlandese esule a Trieste o a Parigi. Gli Stati Uniti che leggono l’Europa».3 6 Questa che state leggendo è la biografia di una celebre prima edizione, per la verità più citata che letta, e sicuramente poco amata da alcuni scrittori di casa nostra: «Dove hai letto che io traduco, o abbia tradotto, l’Ulisse? Se ti scrivevo che è un libro che non sono mai riuscito a finire di leggere e che incarna per me la quintessenza dell’insopportabile», scriveva infatti Cesare Pavese;4 oppure «Devo dirti fin da principio che io ho una prevenzione sia per tutte le narrazioni in cui c’entrano i pazzi sia per tutte le opere di tipo ‘monologo interiore’: tanto che non sono riuscito a finire l’Ulysses e anche Faulkner mi sta piuttosto sullo stomaco», chiosava a sua volta Italo Calvino.5 Era un sabato gelido, quel 4 febbraio del ’22, alla Gare de Lyon di Parigi, dove una donna attende da ore il treno da Dijon che Mâitre Darantiere le aveva preannunciato il 28 gennaio con questo telegramma: «Aurez premiers exemplaires Ulysses sa- la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 medi 4 fevrier. Darantiere». È alta, americana del Maryland e appassionata. Ed è una libraia raffinata e controcorrente, la libraia di Joyce, come decenni dopo qualcuno l’avrebbe definita firmando un libro su di lei e sugli anni della lost generation.6 Adrienne,7 l’amica-amante, l’attende in rue de l’Odéon,8 nella sua libreria La Maison des Amis des Livres,9 quasi di fronte a un’altra libreria, la Shakesperare and Company10 ‘da Sylvia’,11 al n. 12. Ma cosa arriva da Dijon di così importante da far trepidare entrambe le donne? Si tratta degli esemplari 1 e 2 della tiratura in mille copie del romanzo icona del Moderno, quell’Ulysses che molti lettori americani si erano rifiutati di leggere, scandalizzati, e la cui prima parte era apparsa, a partire dall’aprile del ’18, su «The Little Review», la celebre rivista d’avanguardia diretta da Margaret Anderson e Jane Heap, stampata a Chicago, per la quale le due donne vennero processate e condannate, mentre il manoscritto sarà acquistato febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano dal loro avvocato difensore, John Quinn, che oltre al codice penale amava collezionare libri.12 Nel ’19 la rivista venne confiscata e i numeri coi capitoli dei Lestrigoni e di Scilla e Cariddi, vennero burned, bruciati, con la successiva condanna nel ’21 e il divieto di pubblicarlo negli USA. Invece Mâitre Darantiere, tipografo di fiducia della Monnier, aveva accettato la sfida di stampare integralmente il romanzo, e di farlo alla sua maniera, cioè impeccabilmente; componendolo a mano usando i meravigliosi caratteri Romain Ancien della fonderia Deberny, in un formato in-quarto (cm 23x18x4,8) di ben 732 pagine per millecinquecentocinquanta grammi di peso, con una legatura cartonata in blu greco (lo stesso della bandiera e che Darantiere andrà a prendere in Germania), su preziose carte diverse. Inoltre, per amicizia, aveva chiesto di essere pagato solo al momento della riscossione delle quote della sottoscrizione, avviata da tempo e che vide tra i primi André Gide, Italo Svevo, Silvio Benco, E. Hemingway, W.B. Yeats, Lawrence d’Arabia, ma non G.B. Shaw nonostante le sollecitazioni di Ezra Pound. A Digione, nel piccolo atelier Darantiere, al 13 di rue Paul Cabet, è Roger Lautray, giovane impressore, a stampare tra la primavera del ’21 e il febbraio del ’22, quel romanzo così controverso, insieme a ben 26 compositori, impegnati su quelle bozze sempre più costellate di integrazioni, aggiunte, modifiche, cancellature. Lautray segue il maestro Darantiere, e il suo Atelier particulier, anche a ChâtenayMalabry e sarà in seguito eccelso collaboratore di Alberto Tallone e amico della sua famiglia.13 Dopo la scomparsa dello stampatore-editore, ogni estate lo stampatore sarà ad Alpignano a insegnare ai giovani Aldo ed Enrico Tallone i segreti della stampa, direttamente sulle macchine tipografiche da lui utilizzate all’epoca per l’Ulysses: una Phoenix V (costruita da Skelter e Gieseke a Lipsia nel 1905) e una Succès, costruita in Francia negli anni Venti, un’eccellente macchina piano-cilindrica, esempio di semplicità e pulizia di linee, reperto rarissimo essendo il suo costruttore, Franco Pozzoli, di origine italiana 7 Sopra da sinistra: la libreria parigina di Adrienne Monnier e quella di Sylvia Beach, in rue de l’Odéon 7 e 12. Nella pagina accanto da sinistra: bozza di una pagina della prima edizione dell’Ulysses con correzioni dell’autore; facsimile del contratto per Ulysses così come Marinoni, che nell’Ottocento a Parigi fu il più importante costruttore europeo.14 Intanto Sylvia Beach attende quelle prime copie con ansia; la n. 1 è per Joyce, come regalo nel giorno del suo 40° compleanno; la n. 2 è invece per la sua libreria Shakespeare and Company. Darantiere ne ha voluto stampare 100 copie su carta a mano vergé Hollande, numerate e firmate da Joyce (le più care, vendute a 350 franchi), poi 150 su vergé d’Arches (a 250 franchi) e infine 750 su carta a mano, più sottile di quella d’Olanda (a 150 franchi). Nei suoi ricordi forse la Beach confonde il giorno perché scrive: «Con il cuore che mi batteva come uno stan- 8 tuffo, ero sul marciapiede mentre il treno di Digione rallentava e si fermava e il capotreno balzava a terra con un pacco in mano, guardandosi intorno in cerca di qualcuno: di me. Di lì a pochi minuti suonavo il campanello alla porta di casa Joyce e porgevo allo scrittore la copia n.1 dell’Ulysses. Era il 2 febbraio 1922»;15 oppure è Darantiere ad aver sbagliato giorno, nel telegramma inviatole. Comunque sia ben 5000 refusi infestano quella prima rarissima tiratura: «Le sue 732 pagine contenevano migliaia di la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 refusi (da uno a sei ciascuna, secondo una prima stima molto approssimativa), di cui gli Errata aggiunti alla seconda edizione corressero solo una parte infinitesimale».16 Non sapremo mai se uno di quei cinquemila refusi17 si deve alla maldestra battitura di una giovane donna, improvvisatasi dattilografa, e che a suo modo diventerà famosa quale autrice del più breve romanzo nella storia letteraria. Raymonde Linossier (1897-1930) è infatti ricordata sia dalla Beach18 che da Adrienne Monnier: «Fu nell’ottobre febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano del 1917 che vidi per la prima volta Raymonde Linossier. Lei frequentava l’Ecole de Droit, io ero allieva della mia stessa scuola, la libreria. Da due anni esercitavo un mestiere di cui non sapevo ancora molto, tranne l’ebbrezza di chiacchierare con persone che amavano i libri che amavo anch’io. Raymonde Linossier era entrata un mattino in libreria, non come una passante che vuole ammazzare il tempo ma con l’aria amichevole e amabile di chi viene a farvi visita. Non credo che le avessero parlato della libreria. Potei vedere, conoscendola meglio, che si accostava a ogni cosa allo stesso modo, con la più cordiale urbanità»;19 così come la ricorderà Riley Fitch.20 Fu infatti una delle prime socie e frequentatrici della libreria di Adrienne Monnier, tra le cosiddette “Potasson”21 del cerchio degli ascoltatori di Léon-Paul Fargue. A lei si deve il microromanzo brevissimo Bibi-la-Bibiste, «uno dei grandi avvenimenti letterari del 1918»,22 stampato a mano nel ’18 in rue Tardieu 4 a Montmartre, da Paul Birault23 (stampatore anche della rivista «Sic», diretta da Birot) in soli 50 esemplari numerati su carta simil-riso (pagati dalla sorella Alice Linossier-Ardoin). Questo librino (oggi riemerso dalle nebbie dell’ingiusto oblio grazie alle cure di Antonio Castronuovo) venne dedicato dall’autrice al compositore e amico Francis Poulenc, omosessuale dichiarato, per il quale «Raymonde era la sola persona con la quale avrebbe voluto vivere, essendo anche arrivato al punto che l’idea di rinunciare a lei gli era insopportabile».24 Come ricordava la Beach «Joyce aveva tentato innumerevoli volte di far battere a macchina l’episodio [quello assai scandaloso di Circe, N.d.A.]: nove dattilografe erano fallite nell’impresa. L’ottava, mi disse Joyce, per la disperazione aveva minacciato di buttarsi dalla finestra. […] Il posto di Cyprian venne preso dalla mia amica Raymonde Linossier: quel lavoro, disse, l’avrebbe aiutata a passare il tempo quando faceva il turno di notte al capezzale di suo padre ammalato. Si mise all’opera e, tenuto conto del fatto che l’inglese non era la sua lingua madre, proseguiva molto rapidamente, quando 9 anche lei dovette smettere. Trovò però subito una sostituta in una sua amica inglese, moglie, a quanto Raymonde mi disse, di un tale che lavorava all’Ambasciata inglese».25 Joyce fu grato alla Linossier per l’apporto dato alla stesura dattiloscritta dell’arduo manoscritto e le invierà copia autografata, inserendola anche nell’episodio di Circe, già ricordato.26 Inoltre, come scrisse Pascal Riou «partecipò alla traduzione dell’Ulisse e io so che qualche lettera scambiata con Joyce giace nella biblioteca di una università americana».27 Quella stessa gratitudine che Vladimir Majakovskij forse provava per Marija Nella pagina accanto dall’alto in senso orario: Sylvia Beach, Shakespeare and Company, Milano, Rizzoli, 1962; Noel Riley Fitch, La libraia di Joyce, Milano, Il Saggiatore, 2004; Raymonde Linossier e il colophon dell’Ulysses, 1922 10 Tatarijskaja, ventinove anni «[…] dattilografa […] ha battuto a macchina quasi tutte le sue opere, incluse le ultime, le commedie».28 La seconda edizione dell’Ulysses verrà stampata nell’ottobre dello stesso ’22, sempre a Digione, in 2000 copie numerate (quasi identico il formato e la copertina blu, con solo la modifica dell’indicazione in «Edited by John Rodker for the Egoist Press» di Londra): di queste una parte venne distrutta direttamente a Dover, e 500 copie a New York, bruciate dalla New York Post Office Authorities. A gennaio del ’23 altra ristampa, in 500 copie numerate, stampate dalla Egoist Press, 499 delle quali ancora confiscate dalle autorità doganali inglesi a Folkestone. A gennaio dell’anno dopo verrà stampata a Parigi, sempre dalla Shakespeare and Company, una edizione a più larga tiratura. Alcune ristampe successive usciranno in «giacca bianca, come camerieri», come scrisse la Beach nelle memorie, perché a Digione avevano terminato tutte le copertine blu; altre copie verranno stampate in economia su una «specie di carta assorbente» (è ancora la Beach). Intanto negli USA viene approntata, da un certo Samuel Roth, un’edizione pirata scorrettissima, con tagli e alterazione a cui seguirà, il 2 febbraio del ’27, un pubblico manifesto di protesta. Curioso che tra i firmatari italiani compaiano anche due insospetta- la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 bili come Benedetto Croce e Giovanni Gentile. La traduzione in francese, promossa dalla Monnier, è di Auguste Morel e Stuart Gilbert, con la supervisione di Valéry Larbaud, e uscirà solo nel ’29, mentre in Italia i lettori dovranno attendere il 1960 per la celebre versione integrale di Giulio de Angelis, con la consulenza di Glauco Cambon, Carlo Izzo e Giorgio Melchiori, n. 441 della mondadoriana Medusa. All’edizione venne allegata una preziosa plaquette di poche pagine, fuori commercio, firmata da Claudio Gorlier, con la medesima copertina del romanzo, che ne ricostruiva le travagliate vicende editoriali.29 Ma quella mattina di fine primavera del ’56, alla libreria Quantum, Jack Kerouac e Neal Cassady alla splendida commessa Marilyn Monroe non chiedono certo copia dell’Ulysses, bensì un più misero atlante stellare. Lei ha letto quel romanzo quattro anni prima, ed ora è finita in quella strana libreria che ha eliminato i libri «per non far sentire i clienti dei meri consumatori», dopo due impieghi finiti male: come hostess in una fiera dedicata all’alluminio e indossatrice per una linea di completini sportivi femminili. In entrambi i casi è stata mandata via perché troppo appariscente, troppo sex-appeal, e la gente guardava lei invece che i prodotti. Proprio quel sex-appeal che la Arnold era riuscita e tenere alla 12 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 larga dal suo obiettivo, nella foto del ’52. Chissà se allora Marilyn immaginava che sarebbe finita alla Libreria Quantum a vendere libri a Kerouac e Cassidy, imbambolati come tutti di fronte alla sua prorompente bellezza.30 Sylvia Beach e Adrienne Monnier erano riuscite a scrivere, attraverso le rispettive librerie parigine, un capitolo centrale della vita culturale di quegli anni. Due libraie appassionate, che oggi sarebbero state spazzate via senza tanti complimenti dalle grandi catene, ma che all’epoca furono un faro per una moltitudine di intellettuali e di celeberrimi exilés.31 E l’Ulysses fu come il testimone oculare del loro infaticabile lavoro letterario in favore del Moderno. Intorno a quell’edizione parigina si intrecciarono i fili di altri destini, altre esistenze, altre passioni;32 un libro che Svevo aveva acquistato a Parigi, due anni dopo l’uscita, per una conferenza milanese che avrebbe tenuto nel ’27, senza attendere l’omaggio da parte di Joyce, che infatti non ci fu.33 Ecco perché è così suggestivo riannodare oggi quei fili approdando, come il vascello di Baudelaire, nella silenziosa radura di Alpignano, dove hanno trovato rifugio e NOTE 1 Stefan Bollmann, Elke Heidenreich, Le donne che leggono sono pericolose, prefazione di Daria Bignardi, Milano, Rizzoli, 2007, p. 147. 2 Cfr. Massimo Gatta, Marilyn libraia e lettrice dell’Ulysses. Storia portatile di una edizione, «Charta», n. 115, maggio-giugno 2011, pp. 34-39. 3 Così descrive quella celebre foto della Arnold Jorge Carriòn in Librerie. Una storia di commercio & passioni, Milano, Garzanti, 2015, p. 143. 4 Cesare Pavese a Carlo Muscetta, lettera del 24 febbraio 1941. 5 Italo Calvino a Fortunato Seminara, lettera del 20 gennaio 1955. 6 ospitalità proprio le due macchine tipografiche che Darantiere utilizzò per far circolare Joyce tra le mani dei lettori oltre a qualche cassa del rarissimo carattere Romain ancien, lo stesso utilizzato da Darantiere per comporre l’Ulysses. Ad Alpignano, vicino Torino, ha sede la stamperia-editrice che Alberto Tallone impianta alla fine degli anni Cinquanta, realizzando il suo sogno di vivere e lavorare in uno stesso luogo (casa-editrice, appunto); è appena ritornato in Italia, dopo circa trent’anni trascorsi a Parigi, stampando libri di straordinario pregio letterario. Ha iniziato come libraio antiquario e poi apprendista entusiasta proprio del maestro di Digione, quel Darantiere di cui stiamo parlando. E in una lettera alla madre, Eleonora Tango, scritta da ChâtenayMalabry il 9 settembre del ’32, dove Darantiere possedeva la stamperia in una località denominata Vallée aux Loups, spiega come il maestro gli abbia affidato la sua prima composizione manuale: «Cara mamma, il Signor Darantiere è molto buono, le ore passano nella sua stamperia velocissimamente. I compagni di lavoro sono dei pazienti maestri. Darantiere mi farà comporre un volumetto che sarà ti- Noel Riley Fitch, Sylvia Beach and the Lost Generation. A History of Literary Paris in the Twenties and Thirties, New York, W.W. Norton & Co., 1983, si cita dall’edizione inglese, London, Penguin Books, 1985; trad. it., La libraia di Joyce. Sylvia Beach e la generazione perduta, prefazione di Liliana Rampello, Milano, Il Saggiatore, 2004. 7 Cfr. Antonio Castronuovo, Adrienne Monnier, «Belfagor», fasc. IV, n. 394, 31 luglio 2011, pp. [427]-443 [Ritratti critici di contemporanei], si cita dall’Estratto. 8 Vedine il suggestivo ricordo in Adrienne Monnier, Rue de l’Odéon. La libreria che ha fatto il Novecento, postfazione di Edda Melon, Palermo, Duepunti edizioni, 2009; l’edizione originale del libro, Rue de l’Odéon, uscì a Parigi nel 1960 da Albin Michel, con scritti di Saint-John Perse, Jacques Prévert, Michel Cournot e La Petite Ida. Cfr. sul tema anche Laure Murat, Passage de l’Odéon. Sylvia Beach, Adrienne Monnier et la vie littéraire à Paris l’entre-deux-guerres, Paris, Fayard, 2003; Eternelle libraire. Adrienne Monnier, Paris, Association Verbes, 2010, edizione f.c., e infine Maurice Imbert, Raphaël Sorin, Adrienne Monnier & La Maison des Amis des Livres 1915-1951, IMEC, 1991. 9 Cfr. la rara plaquette della Monnier, La Maison des Amis des Livres, s.n.t., con l’indicazione a stampa: “Cette plaquette a été tiré a soixante-dix exemplaires hors febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 13 Stamperia Tallone, Alpignano; sullo sfondo la macchina di Darantiere utilizzata per la stampa dell’Ulysses rato a soli sei esemplari; nell’achevé d’imprimer sarà scritto: “M. Tallone a composé le texte”. Questa lettera è stata da me composta con caratteri Caslon corpo 20. Scrivi spesso al più felice degli operai: il tuo figlio Madino».34 Da allora centinaia di pregiate edizioni fanno bella mostra di sé sugli scaffali dei bibliofili di mezzo mondo; edizioni puntigliosamente elencate nella pregevole bibliografia che Anna Mavilla ha dedicato a Tallone, che Franco Maria Ricci ha elegantemente pubblicato,35 aggiornando così quella ormai classica, ma datata, firmata da Piero Pellizzari. A distanza di tanti anni le due macchine da stampa, utilizzate da Darantiere per l’Ulysses, sono ancora lì. Fanno ancora bella mostra di sé nella stamperia Tallone: la Phoenix V è quotidianamente in uso, mentre la piano-cilindrica Succès è in fase di restauro. E se le macchine avessero memoria chissà cosa potrebbero raccontarci di quegli anni febbrili, dove sembrava che i libri potessero davvero cambia- commerce”; si cita dall’esemplare per Winzer, con la dedica autografa: “Qui a fait un très beau portrait d’Adrienne Monnier, et que nous aimons bien”. 10 Sylvia Beach, Shakespeare & Company, Milano, Rizzoli, 1962, ristampato con introduzione di Masolino D’Amico, Milano, Sylvestre Bonnard, 2004 [Il piacere di leggere]. 11 Bello il ritratto che ne fece lo scrittore Frederic Prokosch in Da Sylvia, in Idem, Voci, Milano, Adelphi, 1985, pp. 36-40. 12 Cfr. Hans Tuzzi, Ulysses, in Idem, Il mondo visto dai libri, Milano, Skira, 2014, pp. 125-129. 13 Cfr. Maurizio Pallante, I Tallone, prefazione di Gianfranco Contini, Milano, Li- bri Scheiwiller, 1989; vedi anche Giovanni Tesio, “Che bellezza comporre la Città del Sole”. Intervista a Enrico Tallone, «La Stampa-Tuttolibri», sabato 4 marzo 2011, p. XI e il recente intervento di Enrico Tallone, Perseguire un ideale, in Talismani dell’editoria. I Tallone e gli scrittori del ‘900, a cura di Andrea De Pasquale e Eleonora Cardinale, Roma, Biblioteca Nazionale Centrale, 2015, pp. 11-14 [catalogo della mostra, Biblioteca Nazionale centrale, Roma, 17 giugno – 30 settembre 2015]. 14 Ringrazio Enrico Tallone per queste preziose informazioni. 15 Sylvia Beach, Shakespeare & Company, cit. 16 Masolino d’Amico, Introduzione, in Sylvia Beach, Shakespeare and Company, cit., p. 7. 17 Un bibliofilo raffinato e colto come Leonardo Sciascia non poteva non ricordare la prima edizione dell’Ulysses coi suoi molteplici refusi, lo fece in 1912+1 (Milano, Adelphi, 1986), particolare per il quale rimando ad Andrea Kerbaker, Sciascia tra bibliofilia ed eros, «Todomodo», IV, 2014, pp. 97-100. 18 Sylvia Beach, Raymonde, in Eadem, Shakespeare & Company, cit., pp. 208[212]. 19 Adrienne Monnier, Raymonde Linossier (1930), in Eadem, Les gazettes 1923-1945, Paris, Gallimard, 1996, pp. 7078, ristampato in forma ridotta in Eadem, 14 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 A sinistra: Adrienne Monnier, Rue de l'Odéon, Paris, Albin Michel, 1960. A destra: James Joyce, Lettere a Sylvia Beach 1921-1940, Milano, Archinto, 1989 re (in meglio) il mondo. E a Londra, di recente, una libreria antiquaria proponeva nel proprio catalogo tutte e tre le tirature originali del febbraio del ’22, e poter sfogliare quelle pagine, ancora fruscianti dopo oltre 80 anni, avrebbe comportato l’esborso rispettivamente di 235.000, 30.000 e 95.000 sterline36, mentre ci voleva un milione di dollari tondo per acquistare la copia messa in vendita il 23 ottobre 2013 dai librai Pregliasco e Philobiblon presso la loro nuova libreria PrPh Gallery di New York.37 Ma la storia non è finita qui. L’episodio della Marilyn libraria fa capolino anche in paradossale romanzo di Tommaso Pincio, Lo spazio sfinito, ristampato da una casa editrice nata da un fax minimo (la prima edizione Fanucci è ormai rara). Così ricorda Marco Cassini, il fondatore insieme a Daniele di Gennaro della Minimum fax: «Decisi di fare l’editore una sera di dicembre del 1994, anche se, senza saperlo, forse già lo ero. Quella sera c’era l’open office delle edizioni e/o, la tradizionale festa natalizia della casa editrice romana, che stavolta celebrava anche il suo quindicesimo anno di attività. A quei tempi Mi- Rue de l’Odéon, cit., pp. [65]-74; nella traduzione italiana il ricordo è alle pp. 35-40, la citazione a p. [35]; ristampato ora in Raymonde Linossier, Bibi-la-Bibiste. Breve romanzo dadaista, a cura e con un saggio di Antonio Castronuovo, Roma, Stampa Alternativa, 2015 [Fiabesca, 113], pp. 8897. Vedi la rec. di Davide Brullo, In poco, c’è tutto. Il micro-romanzo della Linossier, «Il Giornale», 21 febbraio 2015, p. 27. 20 Noel Riley Fitch, La libraia di Joyce. Sylvia Beach e la generazione perduta, cit., p. 63, 103, 190, 363. 21 Cfr. Antonio Castronuovo, I potas- son, in Raymonde Linossier, Bibi-la-Bibiste, cit., pp. 62-67. 22 Sylvia Beach, Shakespeare & Company, cit., p. 209. 23 In verità fu la moglie di Birault a stamparlo, il marito era all’epoca sotto le armi, cfr. Adrienne Monnier, Raymonde Linossier, cit., p. 36. Questa stampatrice, nel ricordo della Monnier, “Nessuna audacia letteraria o tipografica la intimoriva, e se ricordo bene fu addirittura la sola a riuscire a stampare certi ideogrammi di Apollinaire e dei suoi seguaci”, ibid, p. 36. 24 Raymonde Linossier, Bibi-la-Bibiste, cit. In particolare per il nostro discorso il capitolo Libraie e amici, pp. 31-37. 25 Sylvia Beach, Shakespeare & Company, cit., pp. 92-93. 26 «Una delle mie più interessanti amiche francesi fu Raymonde Linossier, la ragazza che – come ho già raccontato – mi venne in aiuto al tempo dell’episodio di Circe, durante la composizione di Ulysses. Di lì a pochi giorni Joyce mi disse: “Ho messo Raymonde nell’Ulysses”», Sylvia Beach, Shakespeare & Company, cit., p. 208. 27 Pascal Riou, Ritratto di Raymonde febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 15 nimum fax già esisteva, ma non credo si potesse definire propriamente una casa editrice». Una bella e semplice storia editoriale come ce l’ha raccontata Gianfranco Tortorelli nel suo saggio.38 Parole che anche la Beach, la Monnier, Darantiere, Tallone, Linossier e la Marilyn lettrice avrebbero sottoscritto se non altro perché, come ha scritto di recente l’incisore-tipografo Lucio Passerini: «Il tempo che si può passare intorno ai libri, a progettare, ragionare, comporre, stampare, illustrare, allestire, leggere è il lusso necessario che mi piace chiamare Buon Tempo».39 E chissà cosa avrebbe pensato Sylvia Beach delle odierne librerie indipendenti, dopo avere creato la più importante di tutte; è quello che si chiede anche Margaret Victoria, ripensando a Sylvia e alla sua storia, mentre riflette nei locali della libreria Dragonfly dove lavora, nel simpatico romanzo di Shelley King: «Hugo aveva appeso dietro il bancone della Dragonfly una fotografia incorniciata della signorina Sylvia, in piedi sulla soglia della sua libreria insieme a James Joyce. A volte mi chiedevo cosa avrebbe pensato lei della Dragonfly. Me la vedevo seduta vicino a Hugo in vetrina, divertita dal mio continuo scorrazzare in giro nel tentativo di rendere il negozio appetibile per la generazione di Google».40 Linossier e di suo padre Georges, «Les cahiers de Francis Poulenc», n. 3, Paris, Éditions Michel de Maule, 2011, pp. 111-113. 28 Testimonianza riportata da Serena Vitale nel suo Il defunto odiava i pettegolezzi, Milano, Adelphi, 2015, pp. 24-25. 29 Claudio Gorlier, Ulisse di James Joyce, Verona, Mondadori, luglio 1961, plaquette f.c. 30 È quanto avviene nel bel romanzo di Tommaso Pincio, Lo spazio sfinito, Roma, minimum fax, 2010. 31 Cfr. Mattia Di Taranto, Sylvia Beach, Joyce e altri exilés, «Wuz», n. 2, aprile 2007, pp. 3-7. 32 Cfr. Glenn Storhaug, ‘Seems to See with His Fingers’: the Printing of Joyce’s Ulysses, «Matrix», 2003, pp. 50-56. 33 Cfr. Giampiero Mughini, In una città atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il “caso Svevo”, Milano, Bompiani, 2011, pp. 9197. 34 Maurizio Pallante, I Tallone, cit. 35 Bibliografia talloniana 1931-2010, a cura di Anna Mavilla, premessa di Maurizio Nocera, Fontanellato, Ricci Editore, 2011. 36 Twentieth-Century English Litera- ture, catalogue 72, London, Peter Harrington Rare Books, 2010, pp. 8-9, nn. 6-7-8. 37 Cfr. Hans Tuzzi, Ulysses, cit., p. 129. 38 Cfr. Gianfranco Tortorelli, Contromano. La storia della Minimum fax dal 1994 al 2008, Bologna, Pendragon, 2010. 39 Il Buon Tempo. Le edizioni del torchio privato di Lucio Passerini, qui per la prima volta raccolte in volume e illustrate, Crocetta del Montello, Grafiche Antiga, 2010. 40 Shelley King, Tutta colpa di un libro, Milano, Garzanti, 2015, p. 160. 16 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 17 Dannunziana PAGINE DI BRONZO, PAGINE DI CARTA D’Annunzio, Cellini e il Perseo LUCA PIVA «D’ Annunzio ha due modi di intendere la scultura: gioia delle forme, gioia della materia, e questa seconda supera forse la prima e si lega a un piacere degli stessi mezzi tecnici e dei procedimenti del mestiere i quali sembrano interessarlo nello scultore più che in qualsiasi altro artista». Queste avvedute considerazioni aprono il capitolo dedicato alla scultura nella monografia su Le arti figurative nell’arte di Gabriele d’Annunzio, composta con acume e dottrina da Bianca Tamassia Mazzarotto e pubblicato dall’editore milanese Bocca nel 1949, scorta preziosa per chi voglia inoltrarsi in una esplorazione puntuale e approfondita della materia. Numerose pagine dannunziane conservano indizi di un atteggiamento di attenzione e confidenza nei confronti degli strumenti e dei materiaNella pagina accanto: Vita di Benvenuto Cellini, frontespizio della prima edizione a stampa (Colonia, Pietro Martello, 1728). Sopra: copertina del saggio Le arti figurative nell’arte di Gabriele d’Annunzio di Bianca Tamassia Mazzarotto (Milano, Bocca, 1949) li utilizzati dagli scultori: dalla umile creta, nella quale primamente trova corpo la figura che abita la fantasia dello statuario, al gesso, intristito da un opaco pallore ma disponibile a spettacolari metamorfosi, al marmo lucente dei monti Apuani, nei quali sta in attesa «un chiuso popolo di statue addormentate». E poi il bronzo, misteriosamente ombroso o verdeggiante come acqua al sole, che ispirò a d’Annunzio una duratura passione e in diverse occasioni ha donato sanguigno nutrimento al suo punto di vista poetico sulla realtà. Da un lato si possono annoverare numerosi episodi nei quali il metallo che diede voce a campane e cannoni è chiamato a dare sostanza letteraria a un ricco assortimento di similitudini: così, davanti al lido pisano, il mare etrusco può apparire «pallido verdicante come il dissepolto bronzo degli ipogei» (Meriggio), e «come bronzo» rimbomba il galoppo del centauro che corre a bere il nero vino nell’otre obeso (Il Tessalo), ed è «eternato nel bronzo di Corinto» dal sortilegio del verso il sanguinoso combattimento fra il centauro e il cervo (La morte del cervo), né può essere d’altro che bron- 18 zo la voce di Capaneo, l’eroe che sfida il dio davanti alle mura di Tebe (Fedra). Dall’altro, si può provare a compilare una sommaria rassegna dei casi in cui il proteiforme amalgama di rame e stagno offre allo scrittore materia per argomentazioni più estese del punto d’appoggio retorico che basta a sostenere una metafora. Un destino generoso ha voluto che l’iniziazione del poeta all’amore per il bronzo giungesse assieme con l’iniziazione all’amore carnale. La Favilla del Maglio intitolata La Chimera e l’altra bocca, pubblicata nel 1924 ne Il secondo amante di Lucrezia Buti, ci accompagna attraverso le sale del Museo Archeologico di Firenze, quali apparivano nell’anno 1877, dove incontriamo il quattordicenne Gabriele a braccetto con ‘Malinconia’, la prima di tutte le sue innamorate; i due vi si erano recati con il proposito di contemplare l’Idolino di Pesaro, l’ammaliante efebo ellenistico che ha il colore d’alga marina, ma fu l’incontro con la Chimera d’Arezzo, «spasimo metallico lustrante in una pelle indicibilmente verdebruna», a inebriare la coppia di ginnasiali trascinandoli in un turbine di emozioni: l’ardimentoso adolescente non sa trattenersi dall’introdurre «con furia» una mano nelle fauci spalancate dell’infernale creatura, ritraendola dolente, e l’avventurosa circostanza infiamma a tal punto i due studenti da condurli a coronare la memorabile giornata con un epilogo gradevolissimo, ma tutt’altro che innocente. Uno dei rari episodi luminosi che si distinguono nella tenebrosa intonazione delle pagine del Notturno rievoca una visita alla piazza dei Miracoli, a Pisa, in compagnia di Eleonora Duse. Sorpresi da un temporale primaverile, i due amanti cercano riparo addossandosi alla por- la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 ta centrale del Duomo, realizzata alla fine del Cinquecento da un gruppo di artisti della cerchia del Giambologna: sul modello della ghibertiana Porta del Paradiso del Battistero fiorentino, le due ante monumentali associano otto grandi quadri narrativi, dedicati alla vita di Maria, a una lussureggiante profusione di decorazioni vegetali e zoomorfe. Lo scorrere dell’acqua piovana dona all’intreccio di fronde metalliche la medesima fresca vitalità dell’erba del prato: «Premuti contro il bronzo dei battenti, incominciammo a possederlo, a mescolarci con esso. L’umidità pareva accrescere il pregio della materia. Attoniti, tra il fogliame andavamo scoprendo le lucertole le lumache le rane gli uccelli i frutti, senza numero. Avevamo nelle dita il piacere dell’artista che aveva modellate le forme, la sua sapienza e il suo capriccio. Quanto più miravamo il bronzo, tanto più la sua patina diventava ricca, possente, profonda. S’arricchiva dei nostri occhi affettuosi, e ci rendeva amore per amore». Con puntiglioso magistero lessicale, un altro passo della stessa opera paragona all’operare del fonditore l’ispirata oratoria che consentì al Vate di plasmare il sentimento della folla nelle ‘giornate radiose’ che nel 1915 prelusero all’entrata in guerra dell’Italia: «Le ultime parole sono come quei colpi che il fonditore dà col mandriano nella spina arditamente perché coli nella forma il metallo liquefatto. La folla è come una colata incandescente. Tutte le bocche della forma sono aperte. Una statua gigantesca si fonde». In un ultimo episodio dal Notturno la presenza del bronzo rimane sullo sfondo come un’oscura eco; è quello, indimenticabile, dell’incontro con Vincenzo Gemito, esiliato nel suo romitorio alpestre, circondato da «branchi demoniaci di febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 19 Nella pagina accanto: Forse che si forse che no, copertina della pima edizione (Milano, Treves, 1910). Sopra: la Chimera d’Arezzo (V sec. a.C.), Firenze, Museo archeologico nazionale capre», chiomato e barbuto come «un profeta impazzito al vento del deserto». La follia ha tolto allo scultore napoletano ogni capacità di operare ma, con sinistro accanimento, la sua mano destra replica all’infinito un gesto disperato: nascosta nella tasca, stringe un pezzo di cera rossa e ripete instancabilmente il movimento del ceroplasta che la ammorbidisce fra le dita per renderla modellabile: «percosso nella fonte, destituito della potenza di creare, egli non aveva conservato se non quell’atto istintivo, quella consuetudine tecnica di artiere celliniano, di fonditore a cera persa». Un popolare capolavoro ci si fa incontro da una pagina del Libro Segreto, richiamando un ri- cordo successivo di qualche anno: nella Venezia assediata del 1917 il poeta-soldato assiste alla rimozione del monumento equestre al condottiero Bartolomeo Colleoni dal suo piedistallo in campo San Zanipolo, al fine di metterlo al riparo dai bombardamenti austriaci. La statua del feroce uomo d’armi modellata da Andrea del Verrocchio e gettata in bronzo dal veneziano Francesco Leopardi è una delle sue predilette e, in questa circostanza, perfettamente intonata al suo stato d’animo bellicoso, eppure in lui «subito si eccita il demone del mestiere», che lo induce a soffermarsi lungamente sugli aspetti più materiali dell’opera: i falli della fusione, il terriccio residuo, «la sprezza- 20 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Sopra: cerchia del Giambologna, Rinoceronte (seconda metà del XVI sec.), dettaglio dal portale del Duomo di Pisa. Nella pagina accanto: Benvenuto Cellini (1500-1571), Perseo con la testa di Medusa (1545-1554), Firenze, Loggia dei Lanzi tura potente, la negligenza ne’ particolari degli ornati fatti a stampa senza collegamenti esatti contro le sbavature e le rigonfiature del getto». Qui come altrove, il sapore educato della forma si perde nel gusto selvatico della materia. La pregiata lega metallica che occupa un ruolo da comprimario nelle opere sopra citate diventa protagonista in un piccolo gruppo di Faville uscite sul Corriere della Sera fra il 1906 e il 1911. La prima, Il fiore del bronzo, rievoca un gradevole dopopranzo in cui, all’ombra della pergola di una trattoria veneziana, una dotta tavolata di amici passa in rassegna con compiaciuta competenza i diversi accorgimenti adottati dai grandi bronzisti greci per impreziosire la superficie delle loro statue. «Vi sono patine inimitabili che si esprimono dalla composizione della materia e ne sembrano la vera fioritura o, meglio, la vera pelle»: il dialogo elude ogni altra questione e si concentra solo su questa pelle, sfoggiando un’estrema finezza di gusto per le qualità tangibili che fanno da veste sensuale alle perfette costruzioni dl genio ellenico. Sarebbe però errato ridurre questo esercizio all’atteggiamento passivamente ricettivo che distingue il più estenuato estetismo decadente: l’attrazione dannunziana per i segreti del mestiere e dei materiali non fu rivolta semplicemente a nutrire una curiosità onnivora e insaziabile, ma introduce a una concezione della esecuzione artistica che riconosce nell’adempimento scrupoloso e sagace delle pratiche artigianali il cerimoniale arcano capace di coagulare nella sostanza plastica il dettato della Musa. Scrive la Tamassia Mazzarotto che «la fusione di una statua ha sempre per il poeta la solennità di un febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano rito; rito di trasmutazione che risale nei millenni ai favolosi gittatori dei primi bronzi greci. Il fonditore è una specie di sacerdote misterioso e mistico, tenace e onnipotente, che comanda al fuoco e al metallo, che impone la misura dell’arte alla potenza divina». La favilla La resurrezione del centauro ci conduce a Bellosguardo, nella cavernosa officina del fonditore pistoiese Gusmano di Betto Vignali, dove lo scrittore si reca ad assistere alla fusione di un grande e complesso gruppo scultoreo creato da Clemente Origo, che rappresenta il combattimento fra il centauro e il cervo, ispirato alla poesia alcionia La morte del cervo. «L’aria ripalpita di un’ansietà religiosa come nell’attesa del miracolo. A poco a poco il vigore del fuoco sembra attrarre il respiro degli uomini e costringerli a vivere secondo la sua vicenda. Noi viviamo fuori dal tempo con un’anima attonita e trepida che vibra secondo quella lingua di fiamma indicatrice della corrente aerea mossa tra il camino e il fornello. Da quante ore il fuoco fatica? Perché tanto è lento a struggere il metallo? Il maestro guarda il cielo e fiuta il vento come un veleggiatore alla panna». Nella bottega novecentesca l’esperienza accumulata nei secoli fa sì che la complicatissima impresa proceda con lineare sicurezza, senza assumere il carattere di tempestosa avventura che ebbe, «in una bottega fiorentina, in una notte remota», la fusione del Perseo narrata nella Vita di Benvenuto Cellini; ciò non di meno, lo spirito dell’animoso toscano aleggia su tutto l’episodio e assurge a nume tutelare di tutto il viaggio del poeta su questa «fiumana di metalli sacri». Lo scrittore che esaltava «l’istinto agonale come solo creatore di bellezza e di signoria nel mondo» e che di lì a poco si sarebbe fatto soldato e condottiero di soldati, non poteva non ritrovarsi nel creatore ardito e fecondo, signore e padrone della sua arte, ingordo di gloria, che si vantava di non conoscere «di che colore la paura si fusse» e, indifferente al «furore della fortuna e di perverse stelle», proclamava che, di suoi pari, 21 «n’andava forse un per mondo». Contro l’uso del suo tempo d’Annunzio non si attardò a passare al vaglio le presunte millanterie che, a torto, erano addebitate alla autobiografia celliniana, perché gli si confaceva perfettamente l’immagine che lo scultore volle lasciare di sé: semmai a lui invidiò sempre l’opportunità che gli offriva la sua arte di misurarsi in un concreto corpo a corpo con la realtà, inseguito dal poeta in tutte le sue attività extraletterarie: dall’allevamento dei cavalli e dei cani, al laborioso allestimento delle sue dimore, all’esercizio delle armi. Nelle molte pagine della Vita dedicate al Perseo, Cellini si sofferma sulla cronaca appassionata delle drammatiche traversie superate nel portare a compimento l’impresa della fusione, che era stata unanimemente giudicata impossibile, mentre nessun spazio vi trova la trattazione di questioni di natura strettamente estetica, quasi che la divina bellezza che aveva saputo donare al suo eroe, come a 22 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 prodigio sgorgata dalle sue mani, gli venisse a minor motivo di merito: tanto saldamente egli reggeva le chiavi d’accesso al suo dominio poetico, così che altre cure non si poneva che di dar l’assalto alla materia bruta per piegarla al suo volere. Per questa via, prima ancora che per l’eccellenza delle sue opere, Benvenuto grandeggia anche nell’Encomio del bronzo, favilla composta in quartine di endecasillabi rimati sull’onda dell’emozione per l’esperienza di Bellosguardo, che celebra accoratamente la scultura conflatile e i maestri greci dell’età aurea, approdando al fiorentino «eroe cui l’arte è guerra», campione di un tipo umano industre e temerario, disposto a qualsiasi rischio e a qualsiasi fatica pur di dar corpo ai suoi disegni: O Benvenuto, Benvenuto, veggomi in cuore il tuo volto riarso, il tuo capo strinato di faville che senza elmetto sta nella battaglia, e la man tua tremenda che attanaglia i manovali o all’opra si fa mille, e pino e quercia veggoti a pien braccio raccòrre e darli a quel terribil fuoco; e il rappreso metallo a poco a poco rilampeggiare, e fondersi il migliaccio, e gli uomini sbiancarsi al tuo ruggito, e la gran febbre che ti fa di bragia, e l’odor della cera e della ragia, e crepitare il tetto incarbonito e la pioggia crosciar di verso gli orti, e tu gridar: “Porta qua, leva là”: e tu razzare di felicità, tu: Dio che resuscitasti dai morti! Tu lodar Dio col sangue nella strozza, e ognuno far per tre e tu per cento milia, e il furore vincer lo spavento... La fusione decritta nella «Resurrezione del Centauro» fornì il modello per un episodio inserito nell’ultimo romanzo di d’Annunzio, Forse che sì forse che no, pubblicato da Treves nel 1910; qui il protagonista, eroico pioniere dell’aviazione, per celebrare le proprie imprese e commemorare un fraterno compagno caduto durante una gara di volo sportivo fa realizzare una coppia di statue gemelle dal soggetto emblematico: un nudo possente dalle ali distese. «Era Dedalo? Era Icaro? Era il folle demone del volo umano? Pareva che uno degli Schiavi michelangioleschi, un di quei quattro che il Titano lasciò sbozzati, […] col nerbo delle braccia franche avesse imbracciato due ali per le guigge al modo di due grandi clipei e con tutto lo scatto delle congiunte gambe pontando i piedi spiccasse il volo». Nel 1901, all’uscita de Il Fuoco, il romanzo precedente, d’Annunzio si trovava al centro esatto della vita letteraria nazionale; dieci anni dopo questo primato aveva cominciato a divenire incerto, mano a mano che le sue scelte tematiche e linguistiche andavano rivelandosi eccentriche rispetto all’orientamento delle tendenze culturali più aggiornate, destinate a prevalere nel volgere di poche stagioni. Significativo a questo proposito è proprio l’atteggiamento che d’Annunzio mantenne nei confronti delle arti figurative: mentre egli perseverava a celebrare Policleto, Lisippo e Cellini, pittura e scultura avevano già intrapreso il percorso che, a tappe forzate, le avrebbero condotte a disconoscere l’autorità dei canoni formali fissati in Grecia e lungamente coltivati in Italia, e a sperimentare, in prototipi di dimensioni ridotte, quello stravolgimento dell’indole e della fisonomia d’Europa cui due guerre mondiali avrebbero presto provveduto a dare attuazione concreta nel corpo vivo del continente. In particolare, d’Annunzio si mantenne perfettamente estraneo all’atteggiamento di pensiero incline a considerare le incombenze materiali che accompagnano l’esecuzione di ogni opera d’arte, e i repertori di procedure ido- febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano nee ad assolverle, come vincoli contrapposti alla genuina espressione dell’impulso creativo: al contrario, egli continuò sempre a riconoscere nell’edificio di regole e consuetudini perfezionate di secolo in secolo che compongono la sostanza di ciascun idioma espressivo la base di collaudata sapienza capace di elevare la statura creativa d’un artefice, sommando alla forza della sua mano la forza accumulata nel succedersi delle generazioni, solidificata nei precetti del mestiere. I protagonisti del Forse che si forse che no, come quelli contemporanei de La Nave e di Fedra, sono stati giudicati inverosimili dal punto di vista psicologico, alla stregua di caricature deformate da una esagerata violenza di sentimenti e di sensi. L’immagine dell’aviatore che si specchia nel suo simulacro di bronzo può offrirci la chiave di lettura per riconoscerne la vera natura poetica, che non fu ispirata alla imitazione della realtà ma a una sua trasfigurazione epica: «Non era la colata del metallo strutto che soffiava e stridiva nei rami di gitto a riempire il cavo della statua bella, ma era la bellezza e l’immortalità d’una seconda vita». Come il Discobolo, il Diadumeno e l’Apoxyomenos, come il Perseo, come le grandi parti del dramma musicale e quelle del suo fiammeggiante teatro di poesia, personaggi come questo non cedono all’inverosimile ma aspirano piuttosto a una dimensione maggiore del vero, proponendo alla letteratura novecentesca una strada alternativa tanto alla mimesi naturalistica quanto allo sperimentalismo intellettualistico, alla quale sarebbe toccato maggior seguito nelle espressioni d’arte popolare che in quelle di rango più elevato. La statuaria monumentale sembra dettare al romanziere e drammaturgo la scala di dimensione sulla quale misurare i suoi personaggi, e ci suggerisce una fonte familiare e sedimentata, propedeutica alla fascinazione nietzschiana, alla quale ricondurre il superomismo dannunziano. Nel Fuoco, romanzo traboccante di propositi e programmi per il secolo appena nato, d’Annunzio si prefigge 23 Antiporta della prima edizione di Fedra, tragedia di Gabriele d’Annunzio (Milano, Treves, 1909) «il gesto del Perseo» quale modello per la «grande tragedia» alla quale avrebbe dedicato tanto del suo lavoro del successivo decennio. Tre secoli e mezzo innanzi, su uno dei cartigli di lode che nella primavera del 1554 i fiorentini affissero alla base del Perseo appena scoperto, un cittadino aveva scritto in latino: «La natura era il modello dell’arte; ma dopo che Cellini ha fuso il Perseo l’arte sarà modello alla natura». Molto meglio che come un ingegnoso artificio retorico, questa sentenza andrebbe letta come il motto di una famiglia di artisti, lungamente vissuti sotto il nostro cielo, che non si accontentarono di inchinarsi alla realtà o di fuggirla, ma vollero domarla, offrendo al proprio popolo un modello al quale attenersi per diventare maggiore di sé stesso. 24 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 25 Bibliofilia «AL ROGO! AL ROGO SIGISMONDO ARQUER!» Vicende della Sardiniae brevis historia GIANCARLO PETRELLA Come preannunciato nel numero di ottobre di questa rivista si offre qui un altro episodio di ordinaria censura. Storie concrete di uomini e libri, o piuttosto di uomini armati di penna e forbici e libri mutilati, deturpati, espurgati in nome dell’ignoranza e dell’ipocrisia, affinché gli occhi non vedessero e gli animi non venissero corrotti. E di uomini incarcerati o uccisi, come in questo caso, per misere vendette di parte per avere osato muovere critiche all’ordine costituito. La puntata precedente aveva come protagonista il più noto libro di geografia rinascimentale, promosso a Basilea dall’erudito protestante Sebastian Münster. La vicenda che qui si ricostruisce con rapidi tratti ne fu la diretta conseguenza. I l 4 giugno 1571, nella pubblica plaza de Zocodover a Toledo, al termine di un solenne autodafé, fu condotto sul rogo il giureconsulto cagliaritano Sigismondo Arquer (1530-1571), avvocato fiscale di Filippo II coinvolto nelle vicende politico-amministrative di riforma dell’isola,1 nonché autore della prima descrizione storico-geografica della natia Sardegna. Fra i capi di Nella pagina accanto: Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, (esemplare della Biblioteca Queriniana di Brescia, 3a R. I. 8), frontespizio con nome dell’autore cassato («damnato») imputazione che gli erano stati rivolti durante un estenuante processo, oltre alla frequentazione di sospetti luterani, figuravano anche taluni malaccorti giudizi disseminati proprio nella sciagurata Sardiniae brevis historia et descriptio. Tutto era iniziato più di vent’anni prima, allorché il giovane Sigismondo, fresco di laurea in utroque iure e teologia a Pisa e Siena, tornato in Sardegna, aveva trovato la propria famiglia vittima delle macchinazioni ordite dal partito avverso al viceré. Il padre Giovanni Antonio, accusato di frode e stregoneria, aveva trovato rifugio in Spagna e Sigismondo, allo scopo di evitare il sequestro dei beni paterni, nel settembre del 1548 si era deciso a partire alla volta della Germania per intercedere presso Carlo V. Durante una sosta di tre mesi in Svizzera entrò in contatto con alcuni illustri ebraisti e teologi protestanti la cui frequentazione si sarebbe rivelata in futuro determinante ai fini della sua condanna. Il filologo e teologo Konrad Pellikan lo presentò il 21 aprile 1549 al celebre Bonifacio Amerbach a Basilea, dove si trattenne fino ai primi di giugno presso l’eterodosso torinese Celio Secondo Curione. Tale permanenza a Basilea fu infine occasione per l’incontro fatale.2 Tramite il circolo degli eterodossi basileesi l’Arquer fu avvicinato dal teologo e cosmografo protestante Sebastian Münster, all’epoca dei fatti ancora impegnato nella revisione del suo mirabile pro- 26 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, p. 242, incipit della Sardiniae brevis historia et descriptio (a sinistra) e p. 243, carta della Sardegna (a destra) getto della Cosmographia universalis, un ampio trattato storico-geografico che intendeva illustrare tutte le terre allora conosciute. Non è azzardato ipotizzare che il Münster, venuto a conoscenza dell’origine isolana del giovane e colto ospite, non si sia fatto scappare l’occasione per commissionargli un contributo su una terra che doveva ai tempi apparire quantomeno ‘esotica’ al pubblico dei dotti. In quelle sei settimane trascorse dall’Arquer a Basilea, e cioè prima della partenza avvenuta il 5 giugno 1549, prese così corpo il «compendio de le historie di la tenebrosa Sardegna» (come ebbe a definirlo l’autore stesso), ossia la Sardiniae brevis historia et descriptio. Ironia della sorte, sarebbe rimasta l’unica opera a stampa di questo giureconsulto che probabilmente non aveva alcuna velleità letteraria, e che soltanto scrisse, durante i lunghi anni di carcere, una serie di versi, intitolati Coplas al imagen del Crucifixo.3 Il giovane Sigismondo, sebbene fisicamente lontano dalla sua terra, vi alterna ricordi e osservazioni possibili solo a un profondo conoscitore dei luoghi descritti, come a esempio le critiche all’imperizia dei contadini, a erudite citazioni tratte da fonti greco-latine, molto probabilmente messegli a disposizione dai suoi dotti ospiti. Il testo (una decina circa di pagine) si articola in brevi capitoli, ai quali l’autore affida un’acuta e spregiudicata descrizione dell’isola, non soltanto dal punto di vista storico-geografico, ma anche culturale, linguistico e soprattutto sociale. A una descrizione di natura prettamente geografica, che ha il merito di indagare per la prima volta quanto riportato dalle fonti classiche (De Sardiniae situ et magnitudine, De Sardiniae antiquis vocabulis), seguono tre capitoli rispettivamente dedicati alle città dell’isola, in particolare Cagliari (De Sardiniae civitatibus, De Calari metropoli Sardiniae), alla lingua dei Sardi, con un’interessante traduzione del Pater noster in sardo, e infine alle condizioni di vita e ai costumi della popolazione (De magistratibus Sardiniae, incolarum natura, moribus, legibus et religione). Il testo è accompagnato, oltre che da piccole silografie già impiegate anche altrove nella Cosmographia e quindi indipendenti dal contributo dell’Arquer, da due ottime carte geografiche realizzate probabilmente dall’équipe di collaboratori di Münster su indicazioni e materiale fornito dall’Arquer stesso. La prima è una mappa a piena pagina della Sardegna, piuttosto dettagliata (Roberto Almagià la definì «la migliore tra tutte le carte relative all’Italia contenute nell’opera munsteriana»), con le principali città e piccoli borghi (a dire il vero molti di più rispetto a quelli citati dall’Arquer nel febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 27 testo), indicati con i rispettivi nomi volgari o latini. Una didascalia rimanda inoltre il lettore curioso al testo e alla tavola di Tolomeo «si voluerit nomina antiqua etiam scire». Con questo sottile espediente il Münster invitava cioè a comprare o a procurarsi copia di una delle preziose edizioni di Tolomeo, corredate di tavole cartografiche da lui curate, pubblicate a più riprese a partire dal 1540. La seconda carta, ancora a piena pagina, è invece una pianta schematica della città di Cagliari, sulla quale rintracciare, attraverso lettere di rimando, gli edifici elencati nel testo. All’interno della Cosmographia Cagliari veniva così a guadagnarsi un posto di rango, anche se certo la mappa non poteva rivaleggiare con le mirabili vedute prospettiche delle più illustri città di area tedesca, le cui descrizioni erano corredate da silografie addirittura a più pagine ripiegate e rilegate nel volume.4 Al momento di partire da Basilea, l’Arquer non doveva però essere pienamente soddisfatto del contributo se infatti, in conclusione del quarto capitolo, prometteva di riprendere l’argomento e comporre «si Dominus requiem et otium dederit, prolixiorem de rebus Sardorum historiam». Il Münster invece dal canto suo, con o senza il consenso dell’autore, si era invece affrettato a pubblicare la Sardiniae brevis historia già nella prima edizione in latino della Cosmographia universalis, stampata a Basilea nel 1550 presso quell’Heinrich Petri, che, nel corso degli anni, godrà di un monopolio pressoché assoluto sulla stampa dell’opera.5 Con questa nuova edizione il Münster sceglieva di ampliare il mercato cui si era finora rivolto, indirizzandosi finalmente, a distanza di sei anni dalla princeps in tedesco della Cosmographia, al pubblico dei dotti dell’intera Europa, fino a quel momento penalizzato dalle stampe in lingua tedesca e caratteri gotici. A quest’altezza la Cosmographia, o meglio la Cosmographey oder Beschreibung aller Länder, circolava infatti già in ben cinque edizioni, tutte però in lingua tedesca, stampate sempre dalla stessa tipografia di Basilea tra il 1544 e il 1550.6 Con la pubblicazione della Sardiniae brevis historia in seno alla Cosmographia la vicenda del cagliaritano veniva però a saldarsi in modo indissolubile – tale infatti risulta dalle accuse mossegli dai giudici nel corso del processo inquisitoriale – con quella di Sebastian Münster, autentico coprotagonista della storia, sebbene scomparso anzitempo a soli tre anni dal fatidico incontro del 1550. Su di lui, e di conseguenza anche sulla Cosmographia, si era infatti posato lo sguardo severo dei censori: l’opera omnia del Münster fu condannata già negli Indici dei libri proibiti di Venezia e Milano del 1554, sebbene in realtà mai applicati, e poi in quello romano e in quello spagnolo entrambi del 1559. A distanza di quasi un decennio dalla pubblicazio- 28 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, pp. 244-245 ne della Sardiniae brevis historia, il nome del Münster figurava nella lista dei più pericolosi eresiarchi, quelli di prima classe, in compagnia dei pestiferi Erasmo e Lutero, e perciò ne fu proibita l’intera produzione. È a questo punto che la fazione avversa agli Arquer, fallito un tentativo di avvelenamento e conclusosi con un nulla di fatto un primo generico processo per eresia, trovò nella più subdola accusa di luteranesimo l’arma per eliminare l’avversario. Si può dire che a fornirglierla fosse stato Sigismondo in persona. Non solo con la pubblicazione della Sardiniae brevis historia nell’opera di uno scrittore dal 1559 apertamente condannato perdipiù stampata a Basilea, la sentina di tutte le eresie, ma soprattutto con alcuni imprudenti giudizi sulla Chiesa sarda e il Tribunale dell’Inquisizione in Sardegna che potevano apparire sospetti in materia di fede, se non addirittura aperte prese di posizione contro l’autorità ecclesiastica. Non è forse un caso che proprio in questi anni gli avversari dell’Arquer, intravedendo in alcuni brani della Sardiniae brevis historia argomentazioni sospette, si interessassero a divulgare il breve contributo dell’Arquer indipendentemente dalla voluminosa Cosmographia, facendone stampare a Valladolid, a febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 29 Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, pp. 246-247 mo’ di estratto, un’apposita edizioncina, di cui non sembra però sopravvivere alcun esemplare.7 L’obiettivo era dare il maggiore risalto possibile ad alcuni incaute affermazioni disseminate dall’Arquer nel suo contributo geografico. La prima inchiesta, condotta dall’arcivescovo di Cagliari Antonio Parragues, appena giunto in sede con fama di severo inquisitore, si concluse nel 1560 con il pieno proscioglimento dell’imputato.8 Fu solo nel corso del nuovo processo avviato nel 1563 dall’inquisitore Diego Calvo,9 e destinato a concludersi con il solenne auto da fé del 1571, che l’Arquer fu chiamato a rispondere, oltre che dei passi incrimi- nati, di ben più gravi frequentazioni sospette a Basilea, in Sardegna e in Spagna, fra cui quella con Jerónimo Conqués e soprattutto don Gaspar Centelles, luterano impenitente bruciato sul rogo nell’autunno del 1564, col quale aveva intrattenuto un compromettente scambio epistolare.10 Le macchinazioni dei suoi avversari potevano basarsi, oltre che su testimonianze false o distorte, su alcuni incauti giudizi dati dall’Arquer. Si tratta di tre prese di posizione nei confronti della vita ecclesiastica sarda a metà Cinquecento. La prima, inserita nel capitolo De magistratibus Sardiniae, riguarda il presunto abuso di potere dell’Inquisizio- 30 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, pp. 248-249 (mappa di Cagliari) e incipit del paragrafo De magistratibus Sardiniae ne in Sardegna, probabile riflesso dell’incarceramento del padre nel 1543, e la libertà spregiudicata di cui godevano gli inquisitori: Evvi parimente il generale inquisitor contra gli heretici contra gli apostati e contra malefici secondo costumi e secondo le constitutioni della Spagna oltra quelle cose che son concesse comunemente agl’inquisitori dagli imperadori e da pontefici. Costui ha privilegi senza misura e non riconosce alcun superiore nella Sardigna fuor ch’el supremo inquisitor della Spagna di cui è delegato. Ordina egli parimente sotto sé degli altri inquisitori e ministri di tutti i quali egli è giudice. I quali contra que’ che d’errori son sospetti con tanta severità procedono che con poche parole sprimer non si potrebbe. [Infatti in carcere trattengono, interrogano e torturano i miseri uomini per molti anni prima di condannarli o assolverli]. (dalla versione in italiano pubblicata nei Sei libri della Cosmographia Universale, Basel, H. Petri, 1558 nella quale fu però omessa, rispetto all’originale latino, l’ultima frase qui tra parentesi quadre). Nel corso del processo Sigismondo Arquer ribatterà all’accusa di chi vedeva in questo passo un 32 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Sebastian Münster, Cosmografia universale, Basilea, Heinrich Petri, 1550, p. 250: interventi censori coevi (sull’esemplare della Biblioteca Queriniana di Brescia) a cassare i passi incriminati ritenuti lesivi dell’autorità ecclesiastica chiaro rifiuto dell’autorità della Chiesa sostenendo invece che tutto il brano ribadiva come l’inquisizione agisse secondo il diritto, in base alle leggi imperiali ed ecclesiastiche e, pur procedendo forse con eccessiva severità, operasse sempre contro sospetti di eresia, non contro buoni cristiani. Si noti però che molto sottilmente l’Arquer aveva usato i termini suspectos e addirittura, più avanti, con un cenno di pietà, miseros homines, senza invece parlare apertamente di eretici confessi. Sempre nel medesimo capitolo, l’ultimo della Sardiniae brevis historia, l’Arquer aveva trattato della desolante condizione religiosa delle campagne sarde, affrontando nello stesso tempo il tema dei rozzi costumi della popolazione e le gravi colpe del clero. In particolare le sfere ecclesiastiche potevano rimanere turbate dal passo sui balli e canti profani che si celebravano nelle chiese di campagna durante le feste dei santi e dal conseguente richiamo alla mancata sollecitudine pastorale del clero, causa di quegli eccessi superstiziosi: Vivono bene secondo le legge della natura e ottimamente viverebbono se avessin sinceri predicatori del verbo di Dio. Quando i contadini celebrano il giorno della festa di verun santo, udita la messa nel tempio di quel santo, tutto quanto il rimanente del giorno con la notte ballano nel tempio, febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano cantano canzone da uomini profani, fanno balli tondi gli uomini con le femmine, ammazzan porci e armenti e mangiansi quelle carni con gran letizia in onor di quel santo. Sonvi molti altresì i quali ingrassano qualche bestia in onor propiamente di qualche santo per mangiarsela nel tempio di lui massimamente fabricato in qualche selva e nel giorno della festa. Il brano preannuncia poi, in un pericoloso crescendo di sprezzanti battute, la terribile condizione del clero sardo, di cui l’Arquer stigmatizza la scarsa cultura e la propensione a disinibiti costumi sessuali: «Sacerdotes indoctissimi sunt, ut rarus inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur qui latinam intelligat linguam. Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris». («Sonvi i sacerdoti ignorantissimi tal che tra lor radi, come anche tra suoi monachi, si truovan che intendin la lingua latina. Hanno le lor concubine e maggior studio mettono a far di figliuoli che a legger de’ libri»). Incautamente l’Arquer aveva scelto di collocare questo passo non certo in posizione defilata, ma addirittura sotto gli occhi di tutti, ossia a conclusione dell’opera. La prima descrizione storico-geografica dell’isola di Sardegna, convogliata nella monumentale Cosmographia munsteriana, si chiudeva perciò con una punta di feroce ironia sulla degenerazione del clero sardo: «Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris» (si veda in proposito l’esemplare della Cosmographia qui riprodotto con interventi censori coevi volti a cassare i passi incriminati). Nel corso del processo, chiamato dall’Inquisizione spagnola a giustificare tali sprezzanti affermazioni, l’Arquer avrebbe ribattuto che in nessun caso quelle critiche potevano essere lette come un rifiuto dell’autorità ecclesiastica, ma piuttosto fossero motivate proprio dal rispetto e dall’amore per la Chiesa di Roma. D’altronde giudizi ben poco lusinghieri sulla condizione del clero in Sardegna 33 aveva espresso, senza per questo essere chiamato a renderne conto, persino l’arcivescovo di Cagliari Parragues nel 1560 in una lettera a Filippo II: «le chiese non sono guidate da propri pastori, ma da mercenari ingaggiati a prezzo e licenziabili a volontà. La maggior parte di questi ultimi sanno appena leggere, non hanno alcuna conoscenza della legge di Dio e della Chiesa». A distanza di oltre dieci anni veniva infine mossa all’Arquer l’accusa più subdola, ossia la frequentazione di quel Sebastian Münster, che, a rigor di logica, nel 1550, prima cioè degli Indici del 1559, non era però né un autore condannato né tantomeno potevano essere proibiti i suoi libri. A meno che non si evocasse un’applicazione retroattiva della legge. Non a caso questa sarà anche la linea difensiva adottata dall’Arquer durante l’intero lungo processo svoltosi a Toledo: «las obras de Munstero en general sólo fueron prohibidas después en Italia por los SS inquisidores generales de Roma y en Espanna […] en el anno de mil y quinientos y cinquenta y nueve». A chi lo accusava di aver familiarizzato con il cosmografo luterano, rispondeva che i rapporti risalivano a pochi mesi tra il 1549 e il 1550, e che a quella data non solo il Münster «non estava tenido por luterano en el mundo antes», ma «sus obras públicamente se vendían» e la Cosmographia «ni era prohibida ni sospechosa». Anzi, a garanzia dell’ortodossia dell’uomo e dell’opera, additava i capitoli su Colonia, Treviri e Magonza, composti addirittura da tre arcivescovi e principi cristiani, senza poi dimenticare che la Cosmographia era addirittura dedicata al cattolicissimo Carlo V: «El mesmo libro parese que todo en generál fue dedicado al emperador don Carlos nuestro rey y señor y cierta parte del libro al emperador Fernando, su hermano, príncipes cathólicos. Y en el mesmo libro consta lo que otras vezes tengo dicho de muchos perlados y príncipes christianos cathólicos de la Iglesia de Dios, que dieron las descriptiones e historias de su tierra […] por de lo que me accusan malamente, pueden mucho más accu- 34 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 sar a emperadores, reies, príncipes, obispos y arçobispos cathólicos». Inutilmente l’Arquer aveva tentato di difendersi dall’accusa di simpatie luterane sostenendo che se davvero avesse voluto misconoscere l’autorità ecclesiastica avrebbe potuto esprimere giudizi ben più gravi, tantopiù che l’opera si pubblicava in terra riformata. L’essersi invece limitato, in un testo stampato a Basilea, a rivolgere solo alcune accuse di malcostume al clero sardo, senza però mai sottrarsi all’autorità della Chiesa di Roma e dei suoi ministri, doveva apparire la conferma della sua sostanziale ortodossia. Dalle carte processuali risulta inoltre il reiterato invito dell’imputato a leggere e collazionare il NOTE 1 Su Sigismondo Arquer (1530-1571), oltre alla voce di A. STELLA, in Dizionario Biografico degli Italiani, IV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1962, pp. 302-4, si vedano M.M. COCCO, Sigismondo Arquer dagli studi giovanili all’autodafé, Cagliari, Ed. Castello, 1987; M. FIRPO, Alcune considerazioni sull’esperienza religiosa di Sigismondo Arquer, «Rivista storica italiana», CV, 1993, pp. 411-475; A. RUNDINE, Inquisizione spagnola e censura dei libri proibiti in Sardegna nel ‘500 e ‘600, Sassari, Università di Sassari, 1996, pp. 16-17; R. TURTAS, Antonio Parragues de Castillejo e Sigismondo Arquer a confronto, «Archivio Storico Sardo», XXXIX, 1998, pp. 203-226; ID., Storia della Chiesa in Sardegna, Roma, Città Nuova, 1999, pp. 363-67; S. LOI, Sigismondo Arquer. Un innocente sul rogo dell’Inquisizione. Cattolicesimo e protestantesimo in Sardegna e Spagna nel ‘500, Cagliari, AM&D Edizioni, 2003; G. PETRELLA, testo della Sardiniae brevis historia nelle diverse traduzioni, perché, a suo dire, potevano riscontrarsi alcune differenze: «varía la traductión del latín», avverte l’Arquer nella deposizione del 16 ottobre 1564.11 Risulta infatti che all’incartamento processuale fossero state allegate anche due versioni della Sardiniae brevis historia, una in latino e l’altra in francese.12 Doveva poi circolare la misteriosa edizione fatta appositamente stampare dai suoi nemici a Valladolid: l’apparente scomparsa di tutte le copie non consente però di verificare in che modo questa si differenziasse dall’originale latino. Ma è soprattutto in una delle numerose petizioni del settembre 1567 che l’Arquer avanza il sospetto che le sue parole siano state mal interpretate e richiede perciò un supplemento di indagini. Invita a rin- L’eretico travestito: un capitolo poco conosciuto della fortuna della ‘Descriptio Sardiniae’ di Sigismondo Arquer, in Itinera Sarda. Percorsi fra i libri del Quattro e Cinquecento in Sardegna, a cura di G. Petrella, Cagliari, Cuec, 2004, pp. 175-215; G. PETRELLA, La Sardiniae brevis historia di Sigismondo Arquer e la tradizione a stampa della Cosmographia di Sebastian Münster, «Italia Medioevale e Umanistica», XLVII, 2006, pp. 255-285. 2 Sul soggiorno svizzero dell’Arquer e sui personaggi qui evocati si vedano E. SILBERSTEIN, Conrad Pellicanus: ein Beitrag zur Geschichte des Studiums der hebraischen Sprache in der ersten Halfte des 16. Jahrhunderts, Berlin, Rosenthal, 1900; Die Amerbachkorrespondenz, hrgs. von B.R. JENNY, Basel, Verlag der Universitätsbibliothek, 1973, VII, pp. 214-15; VIII, pp. XXXV-VI; B.R. JENNY, Sancta Pax Basiliensis. Neue Quellen und Hindweise zu Sebastian Münster und seiner Kosmographie, insbeson- dere zu den Beiträgen Hans David und Sigismund Arquer, «Basler Zeitschrift für Geschichte und Altertumskunde», LXXIII, 1973, pp. 37-70, in particolare pp. 57-70; FIRPO, Alcune considerazioni sull’esperienza religiosa, pp. 424-25; M. KUTTER, Celio Secondo Curione. Sein Leben und sein Werk (1503-1569), Basel, Helbing & Lichtenhahn, 1955; A. BIONDI, Curione Celio Secondo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXI, pp. 443-449; P. SIMONCELLI, Curione Celio Secondo, in The Oxford Encyclopedia of the Reformation, ed. by H.J. HILLERBRAND, New York-Oxford, Oxford University Press, 1996, I, pp. 460-461; C. ZÜRCHER, Pellikan Konrad, in The Oxford Encyclopedia, III, pp. 241-242. Su Sebastian Münster (1480-1553): K.H. BURMEISTER, Sebastian Münster: Versuich eines biographisches Gesamtbildes, Basel– Stuttgart, Helbing-Lichtenhahn, 1963; ID., Sebastian Münster. Eine Bibliographie mit 22 Abbildungen, Wiesbaden, G. Pressler, febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano tracciare una copia dell’edizione in tedesco della Cosmographia, dalla quale risulterà anche come Münster fosse cronista di Carlo V cui aveva dedicato l’opera, e a confrontarla col testo latino e francese. Sarà allora evidente a tutti che la versione originale è stata alterata in alcuni passi e non corrisponde alla stesura primitiva: «Manden trasladar en romance la dicha historia de Serdeña que está en alemán en la dicha Cosmographia alemana, por que así conste de la variedád que hai con la que en latín, francés y alemán, por que así paresca como a los dichos libros no se ha de dar fe contra mí, por la diversidád que hai en ellos por la primera scriptura […] y ansí […] por combinatión de las dichas tre escripturas por los lugares que sennalaré en latin, francés y translatión de alemán, se conocerá come 1964; ID., Briefe Sebastian Münsters, Frankfurt a. M., Insel Verlag, 1964; J. FRIEDMAN, in The Oxford Encyclopedia, III, pp. 9899. 3 COCCO, Sigismondo Arquer, pp. 401414, 511-555. 4 Sulle due carte che accompagnano l’opuscolo: R. ALMAGIÀ, L’Italia di Giovanni Antonio Magini e la cartografia dell’Italia nei secoli XVI e XVII, Napoli, Perrella, 1922, p. 82; ID., Monumenta Italiae cartographica, Firenze, Istituto geografico militare, 1929, coll. 15a, 18b, 22ab, 24ab; O. BALDACCI, Appunti sulla carta della Sardegna di Sigismondo Arquer, «Bollettino della Società Geografica Italiana», LXXXV, 1951, pp. 358-362; L. PILONI, Le carte geografiche della Sardegna, Cagliari, s.i.t., 1974, tav. XXII; M. DONATTINI, Descrizione e rappresentazione della Sardegna negli Isolari del Cinquecento, in XIV Congresso di Storia della Corona d’Aragona. Sassari-Alghero 19-24 maggio 1990. La Corona d’Aragona 35 se han adulterado algunos lugares y palabras del dicho Compendio».13 L’impressione è che il tribunale non abbia mai preso in considerazione il suggerimento dell’imputato o almeno, dalle carte processuali, non risulta che la prospettata comparazione dei reperti allegati sia stata effettivamente compiuta. Gli sforzi profusi durante le fasi processuali non valsero a nulla se non forse a illudersi di intravedere al di là dei roghi un’insperata crepa nel castello accusatorio. L’accusa di eresia e frequentazione di empi luterani fu applicata in maniera sostanzialmente retroattiva. La sentenza fu pertanto decretata e la condanna eseguita. in Italia (secc. XIII-XVIII). 4. Incontro delle culture nel dominio catalano-aragonese in Italia, V, a cura di M. G. MELONI – O. SCHENA, Cagliari, 1997, pp. 157-182: 166-169. 5 Cosmographiae universalis libri VI, Basel, H. Petri, 1550 (H.M. ADAMS, Catalogue of books printed on the continent of Europe 1501-1600 in Cambridge Libraries, Cambridge, University Press, 1967, M1908; VD16, M6714). 6 Cosmographey, Basel, H. Petri, 1544; 1545; 1546; 1548; 1550 (VD16, M668993). 7 FIRPO, Alcune considerazioni sull’esperienza religiosa, pp. 414-415. 8 Nel 1557 Azore Zapata aveva fatto pervenire all’Inquisizione una denuncia ai danni dell’Arquer per quanto scritto nella Sardiniae brevis historia (RUNDINE, Inquisizione spagnola, p. 16 nota 46). A conclusione del primo processo, il Parragues non ritenne opportuno inviare in Spagna le carte processuali, che definì addirittura «cosa de poco momento». Pochi mesi dopo però, per motivi che ancora sfuggono, cambiò idea a proposito dell’Arquer, accusandolo apertamente di non aver consegnato all’Inquisitore generale il fascicolo processuale che gli aveva affidato (sulla delicata e controversa questione TURTAS, Antonio Parragues de Castillejo e Sigismondo Arquer, pp. 212-226; ID., La Chiesa sarda attorno alla metà del Cinquecento: il momento della decisione, «Biblioteca Francescana Sarda», VIII, 1999, pp. 205216; ID., Storia della Chiesa, p. 364). 9 RUNDINE, Inquisizione spagnola, p. 16 nota 46. 10 Le lettere sono state esaminate e pubblicate da COCCO, Sigismondo Arquer, pp. 417-64. 11 COCCO, Sigismondo Arquer, p. 257. 12 LOI, Sigismondo Arquer, p. 26. 13 COCCO, Sigismondo Arquer, p. 297. Media Italia S.p.a. Agenzia media a servizio completo Torino, Via Luisa del Carretto, 58 Tel. 011/8109311 [email protected] Milano, Via Washington, 17 Tel. 02/480821 Roma, Via Abruzzi 25, Tel. 06/58334027 Bologna, Via della Zecca, 1 Tel. 051/273080 febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 37 inSEDICESIMO LE MOSTRE – LIBRO DEL MESE – RIFLESSIONI – LO SCAFFALE LA MOSTRA/1 LE BATTAGLIE E LA MAREMMA Fattori a Palazzo Zabarella a cura di luca pietro nicoletti er entrare nel mondo di Giovanni Fattori (1825-1908), il viatico migliore sono ancora le parole usate da Luciano Bianciardi, nel 1970, per introdurre il volume dei “Classici dell’arte” Rizzoli dedicato al maestro livornese. Per lo scrittore, Fattori «entra nella battaglia con umiltà, come un uomo di retrovia: Luchino Visconti quando fece Senso aveva ben capito la lezione, e volle anche lui arrivare a Custoza passando prima fra i cariaggi e fra le monachine delle P infermerie da campo. Il fatto eroico pare che proprio non gli interessi, gli basta raccontare la fatica, l’ansia, il sudore, la paura, tutto ciò che si coglie se al fronte si arriva da dietro. I suoi soldati non sono più dei prodi, no, sono faticatori, contadini, artigiani, analfabeti, gente che ci lascia la pelle e già sconta il sacrificio della vita con una vita stentata e agra. […] Quei soldatini visti di spalle che muoiono a Villafranca, alla Madonna della Scoperta, a Pastrengo, noi poi li ritroviamo, smessi i panni militari, nei Sopra: La boscaiola. Costume toscano, 1861, olio su tela, collezione privata. Sotto: Carica di cavalleria (La battaglia della Sforzesca), 1877 ca., olio su tela, collezione Sacerdoti-Ferrario 38 quadri sulla Maremma, toscana e romana. Sono gli stessi uomini che abbandonata la fatica e il rischio della battaglia, adesso affrontano la fatica e il rischio della vita quotidiana che è fatta di lavoro e di stenti». Che ci fosse un nesso fra il film di Visconti e le scene militari del pittore è ormai un dato assodato, tanti e tali sono i riferimenti visivi presenti nella sua cinematografia: si potrebbe anzi dire, senza sbagliare molto, che è proprio il cinema, in questo caso, a far capire meglio la pittura. Lo fa capire anche Fernando Mazzocca, fra i curatori, insieme a Francesca Dini e Giuliano Matteucci, della mostra a Palazzo Zabarella, a cui si deve, insieme a Carlo Sisi, una rilettura fondamentale della pittura dei Macchiaioli. Era stata proprio Padova, in passato, il luogo da cui questa nuova lettura era partita, con una mostra dedicata, la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Sopra: Piantoni. Il muro bianco (In vedetta), 1874 ca., olio su tela, Fondazione Progetto Marzotto. A sinistra: Autoritratto, 1854, olio su tela, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti. Nella pagina accanto: La rotonda di Palmieri a Livorno, 1866, olio su tavola, Firenze, Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti programmaticamente, ai Macchiaioli “prima dell’Impressionismo”, sfatando in questo modo quel luogo comune che voleva negli artisti del Caffè Michelangiolo una controparte italiana della pittura francese. Subito dopo, in un’altra importante mostra, questa volta a Genova, era stato messo a fuoco quel nesso di continuità fra Romantici e Macchiaioli nel segno dei comuni ideali risorgimentali e delle idee, in fatto di pittura, espresse da Mazzini Non era mancata infatti, in passato, un’interpretazione che vedeva la pittura di Fattori e degli altri con gli occhi della pittura francese: era l’dea forte di Ardengo Soffici, a cui si doveva la conoscenza di Cézanne in Italia, che voleva i Macchiaioli come Impressionisti italiani. Era del resto l’idea portante della prima impegnativa monografia dedicatagli cinque anni dopo la morte, febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano nel 1913, dal pittore Oscar Ghiglia. Ne risentiva anche Emilio Cecchi scrivendo, nel 1920, uno dei saggi più importanti per la riscoperta moderna di Fattori: «Ma per l’acutezza e l’implacabilità con la quale seppe vedere quei corpi di soldati stanchi, mascherati dal polverone delle marce, deformati da una montura a casaccio e da un casco enorme, aggobbiti sulla sella, ridotti all’aspetto di cose brutte invece che di uomini, e quegli animali anchilosati e azzoppati dall’arnese e dalle fatiche, non credo azzardoso dire che il Fattori ha poco da invidiare al Degas, grande illustratore delle alterazioni del corpo umano sotto i cilizi della moda, e della convulsa esaltazione del corpo animale nello sforzo sportivo». Era una risposta all’entusiasmo nazionalista di Ugo Ojetti, che ne aveva elogiato l’impegno narrativo di Fattori nel genere storico facendone una gloria italiana da cui i giovani avrebbero dovuto trarre esempio senza bisogno di andare a conoscere le novità di Parigi. Fattori era visto infatti come un maestro che rinnovava la gloriosa tradizione di purezza formale toscana, erede di Paolo Uccello e Piero della Francesca. Questa era congeniale per altro anche a De Chirico, per il quale, altrimenti, si rischiava di ridurlo ingiustamente a «un impressionista di terz’ordine». In un caso come nell’altro, comunque, Fattori era stato eretto a maestro in una posizione di isolata, solitaria grandezza, prima del resto del gruppo. La partita, in quel caso, si giocava sulla predilezione per il pittore delle grandi tele dedicate alle battaglie risorgimentali o quello delle piccole e piccolissime tavolette e telette dipinte direttamente dal vero con “macchia” veloce e luminosa. Il che significava misurarsi con il pittore di storia o con il pittore di paesaggio, fra la piacevolezza della presa diretta e il dipinto che manteneva un effetto di presa diretta sebbene meditato a studio dopo lunga elaborazione. Indubbiamente, come si evince in mostra, Fattori è pittore da FATTORI PADOVA, PALAZZO ZABARELLA A cura di Fernando Mazzocca, Francesca Dini e Giuliano Matteucci 24 ottobre 2015 28 marzo 2016 39 grandi quadri o da piccolissime tavole: le prime sono affollatissime e restituiscono la percezione di confusione di una guerra raccontata senza retorica, le seconde la dimessa bellezza di un paesaggio di sintesi. È pur vero, però, che anche la presa diretta ha i suoi canoni, ha il suo modo di guardare, ha il suo modo di dipingere quello che già sappiamo esserci e che dipingiamo per come sappiamo che va rappresentato secondo convenzioni di taglio e di composizione: diventa evidente nei quadri di taglio medio, in cui Fattori sembra sentirsi più a disagio, quando ricorre talvolta a evidenti espedienti della grammatica visiva a introduzione o impaginazione della scena. Sono le opere in cui sa maggiormente essere antiretorico, a cui fa riferimento Bianciardi, quelle che ne restituiscono la statura di grande e isolato pittore, capace della quieta grandezza del riposo, come nella tela oggi a Brera, capace di restituire il senso della calura e del meriggio con sapiente controluce, come della cruda brutalità dello staffato, disperatamente aggrappato alla vita, ma destinato a una fine rapida ma dolorosa, nella polvere striata di sangue. 40 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 LA MOSTRA/2 GILLO DORFLES OLTRE IL ‘900 Mostra antologica al MACRO uando nel 2001 il PAC di Milano dedicò a Gillo Dorfles una grande mostra antologica a cura di Martina Corgnati, fu deciso di intitolarla Il pittore clandestino. Non che fosse un segreto vero e proprio il fatto che Dorfles avesse coltivato per tutta la vita la pratica della pittura, ma fino ad allora il profilo del critico d’arte e dello studioso di estetica avevano oscurato del tutto questo aspetto rimasto più privato. Eppure non erano mancate, in oltre cinquant’anni, le mostre e partecipazioni a mostre, sia all’interno del Movimento Arte Concreta (MAC), di Q cui fu fra i fondatori, sia nei decenni successivi. Prima di allora, però, non si aveva in effetti una cognizione chiara dell’ampiezza e dell’articolazione del suo percorso di pittore, di cui diede poi organicamente conto la mostra con cui Palazzo Reale, nel 2010, festeggiò i suoi cento anni: allora, per merito degli sforzi di cui si era prodigato Luigi Sansone, veniva allo scoperto una ricerca che aveva costeggiato le temperie del Novecento mantenendo una propria marca specifica e inconfondibile. «La sua dirompente distanza dai compagni di strada», sottolinea Arturo Carlo Quintavalle, riconoscendo i meriti di Sansone, «non è mai stata valutata appieno, salvo in tempi recentissimi». Da allora le mostre pubbliche si sarebbero moltiplicate, mostrando non solo le opere storicizzate ma anche quelle dipinte successivamente alla mostra di Palazzo Reale e quindi escluse dal voluminoso catalogo “raisonné” uscito in quell’occasione. Il canone stabilito allora si ripropone nell’antologica curata da Achille Bonito Oliva presso il MACRO, ma arricchito da un nutrito apparato documentario di libri e lettere dall’archivio del critico esposto per la prima in maniera così febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano ampia: implicitamente sembra un’indicazione dei prossimi campi su cui bisognerà cimentarsi per dare un ritratto a tuttotondo di Dorfles e dell’oltre mezzo secolo di arte e cultura italiana che ha vissuto. Dopo l’importante raccolta degli scritti radunati sempre da Sansone nel poderoso Gli artisti che ho incontrato (Skira, 2015) non sarebbe fuori luogo auspicare per un futuro non troppo lontano un’edizione, altrettanto complessa e forse voluminosa, del carteggio intrattenuto dallo studioso con artisti e intellettuali italiani e stranieri: ne emergerebbe un quadro del Novecento e delle sue dinamiche fattive viste dal punto di vista di chi le cose non solo le ha viste ma le ha fatte intervenendo in prima persona nel dibattito e nell’editoria, portando in Italia autori ancora poco letti. Sarà da indagare in tal senso, per esempio, il lungo e precoce rapporto con Rudolf Arnheim, di cui la mostra dà conto soltanto con poche e densissime lettere che fanno immaginare un ben più fitto e importante carteggio fra i due. Tutto questo, però, accompagna e fa da contrappunto alla storia del Dorfles pittore, a partire dagli esiti recenti per tornare agli inizi a metà degli anni Trenta. La sua partenza giovanile è pienamente nel solco di una pittura onirica. Visti col senno di poi, i lavori di allora mostrano la costanza di taluni tratti e, soprattutto, di precisi modi operativi, come il campire le forme con lunghe e sinuose pennellate che seguono il contorno dando una scossa vitale alle forme: sono modi desunti dalla pittura espressionista nordica, come in dialogo con quelle 41 Nella pagina accanto, sopra: Gillo Dorfles, Milano,1966. Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas Tutti i diritti riservati. Sotto: Gillo Dorfles, Senza titolo, 1930, china su carta. In questa pagina, in alto: Gillo Dorfles, Letargo, 2013, acrilico su tela, Collezione privata, Milano esperienze ignorate in Italia e che presto, in quegli anni, verranno tacciate di “degenerazione”. L’immaginario è quello del sogno, fatto di forme fluttuanti in uno spazio incerto come deve essere l’atmosfera del sogno. Quasi subito, già negli anni Quaranta, oltre ai Ritratti di matti eseguiti durante la specializzazione in psichiatria a Pavia nella clinica neurologica di Giuseppe Carl Riquier, si datano anche le prime terrecotte, fondate su una chiara integrazione tra forma e colore, e si afferma l’uso da parte sua della tempera grassa, che rispetto all’olio consente modulazioni dal guazzo fino a grafie più nette, riflettendo sul Kandinsky di Parigi alla ricerca di un modo di strutturare lo spazio. Dalla tempera viene anche il modo di campire e disegnare, di tracciare in punta di pennello sia tocchi di scuro sia lumeggiature a tratteggio, dando vita a forme organiche fluttuanti, come viste a un immaginario microscopio e restituite in maniera grafica e decorativa, pronte al balzo verso la traduzione con altri medium (ne è esemplificativo, in mostra, un arazzo desunto da una piccolissima tempera di quel periodo). Ciò che è chiaro fin da ora, però, è che Dorfles, con il suo “occhio ciclopico” (Bonito Oliva) non sarà mai un pittore propriamente geometrico, nemmeno negli anni di adesione al MAC: un qualcosa di irruento, di volutamene irregolare, anzi, sarà sempre uno sprazzo di licenza rispetto a eccessi di rigore e di esattezza ortogonale, attingendo da più fonti. Non si può fare a meno, ad esempio, di pensare a una memoria latamente futurista di fronte a Intersezioni I del 1956, mentre deve 42 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Da sinistra: Senza titolo, 1952, monotipo e tecnica mista su carta; Composizione con cresta, 1949, olio su tavola, CSAC, Università di Parma, Sezione Arte essere un ragionamento intorno a Paul Klee, di cui Dorfles è uno dei primi e più acuti interpreti, in un quadro cruciale come Composizione IX del 1953: segni liberi e disseminati, richiamati da segni bianchi come lumeggiature e alleggeriti da pennellate più tonali di fondo, ma assimilabili ad una pittura-scrittura. Eppure già alla fine degli anni Quaranta, Dorfles era giunto ad una aggregazione centrale dei segni, gerarchizzando figura e sfondo, animando questa dentro contorni frastagliati e mistilinei. Ma una libertà irrefrenabile doveva portarlo fuori da steccati troppo netti, lasciando la pittura libera di non essere diligente e di sperimentare (se non mescolare) diversi registri linguistici. Basta vedere la Composizione con segno arancione del 1957, scelta come immagine guida della mostra e del catalogo: un fondo verde con una sagoma nera e una improvvisa linea arancione che conduce fuori del quadro: una linea spessa e materica di particolare luminosità, che fa capire cosa intendesse l’artista, nell’intervista rilasciata in occasione di questa mostra, dichiarando la propria predilezione per il «ghirigoro astratto». È negli anni Sessanta che il colore diventa “sporco”, come a volersi contaminare rinunciando a una precedente vocazione alla campitura piatta. Da qui in avanti il suo lavoro diventa via via più visionario, fatto di forme organiche inscindibilmente legate allo sfondo: la forma è infatti un contorno chiuso che circoscrive una GILLO DORFLES. ESSERE NEL TEMPO A cura di Achille Bonito Oliva ROMA, MACRO 27 novembre 2015 30 marzo 2016 sagoma campita di colore, a cui spetta il ruolo di stabilire i rapporti tra figura e sfondo, in cui si ritrovano i medesimi andamenti di linee. In prima battuta Dorfles traccia le forme, poi il colore si avvolge ad esse seguendo l’andamento dei profili. Sono gli occhi, come dei bottoni, che organizzano la composizione, animando le figure e instaurando un dialogo con l’esterno. Dietro le sue figure, diceva Dorfles stesso nell’intervista summenzionata, ci sarebbero soltanto «realtà del colore e della forma». Non mancano, però, presenze che abbiano una strutturata anatomia fantastica, come il Cybernauta del 2001, vera e propria mescolanza di Sutherland e Baj, di nucleare e surreale, che concorrono a costruire un personaggio. Non ci sono spazi ma figure, personaggi protagonisti che si affacciano dalla tela come da un mondo incerto e lontano, tanto siderale quanto, a volte, micro cellulare. giochipreziosi.it UN MONDO DI DIVERTIMENTO! GRUPPO GRU GR UPPO GIOCHI UPPO GIOC CHI PREZIOSI 44 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 IL LIBRO DEL MESE LA MUSA E IL CENTAURO Lettere di Aldo Carpi a Fede Mylius di luca pietro nicoletti ella storia del’epistolografia novecentesca, i carteggi amorosi hanno uno statuto particolare: sono il diario di una passione più o meno dichiarata, nel quale un’anima fa chiarezza dentro di sé. Credo si debba mettere in questa cornice il rapporto intenso e completamente spirituale, quasi stilnovista, fra il pittore Aldo Carpi e la sua allieva Federica Mylius. Ne è una testimonianza il bel carteggio riportato alla luce e curato da Marta Sironi, che presenta una selezione esemplare delle oltre cinquecento missive di questa corrispondenza in un piccolo e prezioso libro per le edizioni Nutrimenti di Roma. Sono la punta di un iceberg costituito dalla fittissima corrispondenza conservata parte nel fondo Carpi-Arpesani custodito presso il Centro Apice dell’Università degli Studi di Milano, parte allo CSAC di Parma, che offre la misura del ruolo e dell’importanza che la figura di Aldo Carpi ha ricoperto per quel periodo a cavallo fra anni Trenta e anni Cinquanta, come le toccanti testimonianze di artisti e giovani allievi di Brera, che gli scrivono per avere consiglio o conforto anche una volta richiamati alle armi, di cui forse potrà rendere conto, in futuro, l’edizione di una più estesa selezione dell’epistolario. N In questa costellazione, però, il caso Mylius ha un posto speciale. Sono lettere scritte e illustrate dal solo Carpi, senza che prevedano una risposta: la presenza dell’altro serve a sviluppare il pensiero, ad avere un interlocutore che aiuti a mettere in ordine idee ed emozioni. Ed è questa, probabilmente, la ragione per cui le lettere si conservano oggi nell’archivio di Carpi e non presso gli eredi Mylius: la donna, capita l’importanza di Aldo Carpi “Il tuo nome è Eric. Lettere di Aldo Carpi a Fede Mylius“ A cura di Marta Sironi Roma, Nutrimenti, 2015 questo documento per la storia dell’artista, deve avergliele restituite affinché lui potesse trarre da questo brogliaccio epistolare qualcosa di nuovo. È lei, del resto, a seguirlo durante la stesura del suo unico testo dato ufficialmente alle stampe, le Divagazioni di Sileno a cui Carpi lavora fra il 1938 e il 1943, ma pubblicate solo nel 1949. Il carteggio comincia nel 1941, i due si conoscono già da almeno una decina di anni. Lei è una giovane allieva che prende dal maestro lezioni di pittura, ma spesso fa anche da modella per lui: Carpi preferiva evitare i modelli di professione, scegliendo invece donne con cui avesse una particolare intesa spirituale, che fossero presenze costanti nella vita dello studio, con cui si instaura, scrive l’artista il 20 luglio 1941, un «circuito vivo» impossibile con chi posa per professione. La guerra incombe: la vita di Brera diventa difficile anche prima che lo scultore Dante Morozzi denunci Carpi alle autorità per antifascismo, provocandone l’arresto e la successiva reclusione nel campo di concentramento di Gusen. È nella dimensione dello studio che l’artista, come molti suoi coetanei, trova un luogo di elevazione spirituale entro cui il cui perimetro mettere in scena la macchina della pittura e febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 45 dentro il quale coltivare il proprio mondo interiore, in cui ogni presenza assume un ruolo e un significato diverso da quello che ha al di fuori di esso. Carpi infatti attribuisce alla giovane addirittura un nuovo nome. Fede, diminutivo di Federica, diventa Eric, come se la giovane si scindesse in due creature distinte: Fede è l’allieva, mentre Eric è la creatura nata «nel campo del lavoro». Così, se Eric diventa la musa, Carpi diventa il “Centauro”, in omaggio a un affresco in stile pompeiano da lui dipinto nell’autunno 1941 per un soffitto di Villa Vigoni di Loveno di Menaggio, sul lago di Como, dove Fede passava la villeggiatura estiva. Vi si vede un centauro trattenuto da un amorino, come a voler criptare in quell’immagine il rapporto fra i due, che si trasfigura attraverso la parola: come scrive Marta Sironi nella lunga postfazione, «la parola, in generale, rimane per Carpi carica di significato spirituale e la necessità di tradurre in parola la parabola di questo rapporto ideale sembra voler trovare una via espressiva capace in qualche modo di raccontarne l’inafferrabilità». ALDO CARPI Aldo Carpi (1886-1973) è stato pittore, per un trentennio docente di pittura all’Accademia di Brera, che diresse dal 1945 al 1958. Tra le sue opere spicca il ciclo delle Maschere, una quarantina tra dipinti e disegni eseguiti tra il 1914 e il 1944, e la realizzazione delle vetrate del Duomo di Milano e di altre chiese milanesi. Durante la Seconda guerra mondiale fu deportato nel campo di Mauthausen-Gusen: da quella tragica esperienza nacque il Diario di Gusen, edito nel 1971 da Garzanti e più volte ripubblicato (l’ultima per Einaudi nel 2008). 46 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 RIFLESSIONI E INTERPRETAZIONI GIARDINI, LIBRI E BIBLIOTECHE: UN INDISSOLUBILE LEGAME In ricordo del giardino di Villa Santorini di lorenzo barbieri è un’evidente quanto inconscia correlazione tra la lettura e il giardinaggio, un viaggio straordinario, conservatosi e, anzi, rinsaldatosi nel tempo, che vede l’umana riflessione unirsi simbioticamente con un locus amoenus nel quale perfezionarla. Ognuno di noi ha il suo giardino, reale o figurato, nel quale ritirarsi in C’ lettura col proprio testo, antico e piacevolmente intrecciato piuttosto che introvabile e mirabolante: una dose di carta stampata per quella cura omeopatica che amplia il proprio orizzonte conoscitivo. Il percorso parte da lontano e possiamo risalire fino all’Eden, il giardino per antonomasia, nel voler ricostruire il legame di un percorso che «dalla foresta selvaggia - come scrive Biedermann nella sua Enciclopedia dei simboli - attraverso il boschetto sacro conduce al giardino, cioè ad una porzione di natura organizzata e curata in modo artificiale, a cui il simbolismo tradizionale assegna un ruolo positivo. Il Giardino del Paradiso rimanda al Creatore, che assegnò ai primi esseri umani un luogo ben curato e dal quale erano esenti i pericoli». Un riconoscimento, un premio, quello di beneficiare del giardino (e dei suoi frutti) che, come ci insegna l’undicesima fatica di Eracle, richiede grandi sforzi e difficoltà: infatti, l’eroe greco, per recuperare i pomi d’oro dal Giardino delle ninfe Esperidi deve approfittare del titano Atlante e, in quello stesso giardino, ogni notte, scendeva per riposare Elios. Non è certo un caso che i giardini pensili di Babilonia voluti, secondo gli scritti di Diodoro, dalla regina Semiramide, siano annoverati come una delle sette meraviglie del mondo e abbiano influenzato la cultura a tal punto da trovare spazio nelle opere di Rossini e Verdi, nei libretti rispettivamente di Rossi e Solera. Così come, ironicamente, casualità vuole che Platone adunasse i suoi discepoli oltre il Ceramico esterno (un quartiere di vasai dell’Atene antica), nel bosco sacro lungo l’omonima via che febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano conduceva a Eleusi: in quel luogo, un giardino ospitante la tomba dell’eroe greco Acadèmo, nacque la nota Accademia a riprova di questo forte legame simbiotico. Nel tempo, infittendosi il reciproco innervarsi, la scienza di Lorenzo Valla ha individuato sovrapposizioni tra giardino e paradiso, quasi a indicare un junghiano bisogno riconciliatore alla base della realizzazione di chiostri. La riflessione e lo studio dei monaci non avveniva esclusivamente nelle cellette dei monasteri: c’era bisogno di assurgere verso un luogo piacevole come quelli narrati da Omero e Virgilio, poi da Petrarca e Boccaccio, nelle varie innovazioni descrittive che l’incedere del tempo ha offerto. Le più importanti corti europee si dilettavano nei giardini, simbolo di potenza e ricchezza: dall’Italia alla Francia fino all’Inghilterra ed è proprio qui che, nel XVII secolo, cominciavano a emergere le prime differenze: il garden, riservato a pochi amici intimi, luogo di riflessione, sarebbe stato un modello di successo, artistico e letterario, per tutto il Settecento a cui si sarebbe contrapposto il jardin francese, luogo di sfarzose cerimonie e adibito a grandi feste e teatri. Lo stesso Francis Bacon ne menziona l’importanza in un passaggio intitolato proprio Of Gardens di un suo scritto (tradotto di seguito da Pindemonte): God almighty first planted a garden. And indeed it is the purest of human pleasures. It is the greatest refreshment to the spirits of man; without which, buildings and palaces are but gross handiworks; and a man 47 Sopra: la facciata di Villa Santorini-Toderini-Fini (sec. XVI), a Dolo, rasa al suolo dalla tromba d’aria abbattutasi l’otto luglio 2015. Nella pagina accanto, in alto: Eugenio Silvestri (XIX sec.), Ippolito Pindemonte (incisione); in basso: Francis Bacon (1618 ca.), ritratto di autore anonimo, Londra, National Gallery shall ever see, that when ages grow to civility and elegancy, men come to build stately sooner than to garden finely; as if gardening were the greater perfection. Le doti di pazienza, forza d’animo e osservazione non sono forse quelle richieste sia dal giardinaggio che dalla riflessione? Il dibattito, culturale e letterario, sui giardini si allargava anche in Italia, in particolare riguardo al garden inglese appassionante a tal punto che nel 1792 alla patavina Accademia di Scienze, Lettere ed Arti si sarebbe acceso il dibattito tra Ippolito Pindemonte, Melchiorre Cesatorri, Luigi Mabil e Vincenzo Malacarne, come ci ricorda Pietrogrande in un inciso sul Dibattito padovano sui giardini all’inglese tra Sette e Ottocento raccolto in Padova e il suo territorio (1995). È proprio Pindemonte a esporre all’Accademia una Dissertazione su i giardini inglese e sul merito di ciò dell’Italia riprendendo il passaggio di Bacon, proposto sopra: Un giardino, scrive Bacon de Verulania, è il più puro dei nostri piaceri, e il ristoro maggiore de’ nostri spiriti, e senza esso le fabbriche ed i palagi altro non sono, che rozze opere manuali: di fatto si vede sempre, che ove il secolo perviene al ripulimento ed all’eleganza, gli uomini si danno prima a fabbricare sontuosamente, e poi a disegnar giardini garbatamente, come se quest’arte fosse ciò che havvi di più perfetto. L’Italia, al risorgere delle lettere e delle belle arti, fu la prima a coltivare, come gli altri studj, quello ancora delle amenità villerecce: ma conviene confessare, che ora molte nazioni nell’amore ci vincono e nella cura di queste tranquille ed erudite delizie, e che l’Inghilterra è nelle medesime la maestra delle nazioni tutte. 48 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Sopra da sinistra: I giardini pensili di Babilonia, in una incisione tedesca del XVII secolo; Jacopo da Bassano (1515-1592), il Giardino dell'Eden, Roma, Galleria Doria-Pamphili Pindemonte continua, arrivando a trattare ad esplorare quel legame simbiotico di qui si parlava poc’anzi L’arte del giardiniere inglese consiste nell’abbellire così un terreno assai vasto, che sembra possa che la natura l’abbia in quella guisa abbellito ella stessa […] che cosa veramente desidera l’uomo inglese? Desidera vedersi in mezzo ad una varia, e, quanto più gli può andar fatto, deliziosa campagna: quindi di studiare di formare il terreno, regolar le acque, servirsi delle rupi e delle balze. rivendicando però l’italica paternità dello studio dei testi antichi e dell’esecuzione dei medesimi portando a supporto il passo della Gerusalemme liberata di Tasso … il bel giardin s’aperse… E quel, che il bello e il caro accresce l’opra, L’arte, che tutto fa, nulla si scopre in contrapposizione al Paradiso perduto di Milton («Ed a’ confin d’Eden s’avvicina») che sarebbe arrivato solo un secolo dopo. La svolta, grazie ad un romantico costruttore di giardini come Giuseppe Jappelli, la si ha anche nella diffusione del palladianesimo che arriva al suo massimo splendore a opera dell’architetto veneto, sviluppando un’avanguardia nella creazione di giardini che, seppur contrastata da chi non si preoccupava di traghettare gentilmente la concezione architettonico-stilistica del tempo, che affondava le sue radici nel giardino italiano, si cristallizzò in quello stile paesaggistico che univa architettura, arti e giardinaggio. Lo studio e la ricerca nelle ville venete si svilupparono a tal punto da costituire un vero e proprio percorso culturale e di formazione che, nel tempo, fu accompagnato dallo sviluppo di circuiti enogastronomici e, venendo ancora di più ai giorni nostri, turistici. Esiste quindi una identità tra la realizzazione di un giardino e l’attività, letteraria e scientifica, che ne presiede alla corretta creazione e sarebbe troppo scontato attribuire a questa progettazione umanistica i benefici di cui molti letterati parlano: da Goethe a Quasimodo, da Scott a Battaglia, passando per la «digestione spirituale» che Hesse attribuisce all’«occuparsi della terra e delle piante». Leggere, scoprire e riscoprire per non dimenticare non è forse trasportare su un piano letterarioculturale una battaglia di civiltà, botanicamente teorizzata da Gilles Clément, comune ad ognuno di noi per impedire ‘i cervelli (e le coscienze) all’ammasso’? Il pericolo di dare per scontato ciò che ci circonda, il non conoscerlo o peggio l’ignorarlo è un rischio che non si può sottovalutare perché ciò che la tromba d’aria ha raso al suolo l’8 luglio 2015 a Dolo non è semplicemente una delle molte ville venete (e mi sto riferendo a villa Santorini-Toderini-Fini) ma l’opportunità di calarci in quell’atmosfera, in quel microcosmo il cui retroterra culturale forniva gli elementi essenziali per l’esatta coagulazione gnoseologica. Dobbiamo insomma non solo «coltivare il nostro giardino» (come ci ricorda Voltaire) ma preservarlo, interiormente ed esteriormente. 50 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 LO SCAFFALE Pubblicazioni di pregio più o meno recenti, fra libri e tomi di piccoli e grandi editori “Codice Rustici. Un viaggio attraverso la Storia, l’Arte e la Chiesa della Firenze del XV secolo”, a c. di Kathleen Olive e Nerida Newbigin Firenze, Olschki, 2015, II voll., pp. 568 e pp. 320, 2200 euro Nel 1441, alla vigilia dei cinquant’anni, l’orafo fiorentino Marco di Bartolomeo Rustici decide di compiere un vero e proprio viaggio esistenziale. Destinazione: la Chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme. È questo il cuore palpitante di un cammino che si costruisce, fin dalle sue battute iniziali, su un percorso circolare - da Firenze a Gerusalemme, attraverso Porto Pisano, Genova, Cipro, Il Cairo, il Monte Sinai e dunque il ritorno a Firenze - e su un simbolismo devozionale, teologico e pedagogico. È questa la segreta bellezza della Dimostrazione dell’andata o viaggio al Santo Sepolcro e al monte Sinai, nota più semplicemente come Codice Rustici,i conservato alla Biblioteca del Seminario Arcivescovile Maggiore di Firenze dal 1812 e del quale oggi la gloriosa Olschki il facsimile corredato di edizione critica. Il Codice Rustici è un formidabile intreccio di testo e immagine. Non a caso Elena Gurrieri, la responsabile della Biblioteca del Seminario, nelle cui mani pazienti il codice è stato conservato e dalla cui mente d’ingegno è nata l’iniziativa di questa edizione, lo ha definito una «splendida miniera di notizie e immagini». Si è in presenza di uno strabiliante album di rappresentazioni visive della Firenze del ‘400, città delle meraviglie, cantiere perpetuo di lavori e opere prodigiose, segnali dell’uomo rivolti a Dio. Non solo: l’avventura che Marco di Bartolomeo compie con Maestro Leale e Antonio di Bartolomeo Ridolfi è anche un enciclopedico racconto modellato su molti itineraria mentis in Deum (vegliato dal nume tutelare di Petrarca e del suo Itinerarium Syriacum): un viaggio spirituale che parte da Firenze per farvi ritorno, dimostrazione di una fede anzitutto d’amore verso la propria città, ritratta nelle 80 carte che ne illustrano la geografia, i dettagli delle chiese, le strade, le mura. Da questo punto di vista anche le curiosità del viaggio, le preziose illustrazioni che punteggiano le pagine come estensioni della parola, raccontano di un impeto cartografico e descrittivo che tutto vuol raccontare, che tutto vuol vedere. Una febbre di visioni lampeggia negli occhi di Rustici e corrisponde al bisogno di dare un senso alla propria vita nello specchio del mondo. Marco scrive, riscrive le sue pagine, fa interferire altri testi con quello che ha in mente: gli episodi drammaturgici sono spesso espedienti per citare letture svolte altrove. La redazione di quest’opera è affascinante e travagliata e si conclude solo nel 1457, alla morte dell’autore. Il Codice Rustici,i allora, appare come un vero e proprio libro di libri, accordato alla perfetta armonia degli astri, al pari del Palazzo di Tolomeo, luminosa licenza poetica che Rustici decide di ‘erigere’ a Gerusalemme. Da Firenze a Firenze, per la via di Gerusalemme. La grandiosa circolarità del tempo si riflette nello spazio. L’itinerario è verso Dio e verso quel luogo che per Marco di Bartolomeo Rustici è una vera e propria città di Dio: Firenze. La mastodontica impresa editoriale si divide in due volumi: nel primo è riprodotto in facsimile il codice; nel secondo trovano spazio gli studi d’approfondimento (a cura di Elena Gurrieri), l’edizione critica e la trascrizione del Codice. febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano «Indice di Gradimento», anno 1, n. 2, 2015, Firenze, Biblioteca della Luna Crescente, pp. 48, 15 euro Giunge al secondo numero la rivista «Indice di Gradimento» diretta da Vincenzo Crescente. Questo fascicolo (che vede le firme, fra gli altri, di Emanuele Ricucci, Benedetta Mazzelli e Federico Fastelli) è principalmente dedicato a un’analisi dei Talk show politici (con anche un’intervista a Nicola Porro, vicedirettore de «il Giornale» e conduttore di Virus, su Raidue) e a una ricognizione (veloce e puntale) su Le grandi occasioni perse della Tv italiana. Belle le immagini che adornano il testo, tratte dal glorioso «Sette». Rosanna Marziale, “Bufala”, Milano, Italian Gourmet, 2015, pp. 270, 69 euro Tradizione, prodotti di alta qualità e sperimentazione sono le parole che rappresentano la cucina di Rosanna Marziale, chef del rinomato ristorante ‘Le Colonne’ di Caserta. La sua cucina, ispirata alle tradizioni locali, trova solide fondamenta nelle preziose materie prime del territorio, e allo stesso tempo è contraddistinta dall’instancabile e appassionata ricerca di creazioni culinarie sempre originali, innovative, raffinate. Mossa dal desiderio di far conoscere in tutto il mondo l’eccellenza dei prodotti della sua terra, e celebre per la sua predilezione per la mozzarella di bufala, Rosanna Marziale ha appena dato alle stampe Bufala. Il volume, oltre a contenere la storia gastronomica della famiglia Marziale, propone anche 100 ricette (tutte elaborate con i prodotti che si ricavano dal bufalo mediterraneo italiano: mozzarella e altri formaggi, latte, ricotta e carni) fotografate e corredate da schede sugli ingredienti, sulle preparazioni di base e su racconti di cucina. «Atrium. Rivista di studi metafisici e umanistici», anno XVII, n. 2, Lavarone, Cenacolo Pitagorico Adytum, 2015, pp. 156, 15 euro. Il Cenacolo Pitagorico Adytum (con sede a Lavarone) è un’associazione culturale costituita da alcuni studiosi che condividono gli ideali tradizionali nella ricerca metafisica, storica e metastorica, e negli studi umanistici. Ogni trimestre edita la rivista «Atrium», giunta al diciasettesimo anno di vita. Diretta da Giulio Maganzini (coadiuvato dal direttore editoriale Nuccio D’Anna), la pubblicazione non manca mai di presentare 51 brevi e interessanti saggi. Come nel caso di questo quarto numero dell’annata 2015, che presenta articoli, fra gli altri, di Antonio Rigopoulos (La concezione dell’uomo nel buddhismo antico), Nuccio D’Anna (Il simbolo dell’ascia. Funzione rituale e valore “premonetario”), ” Franco Galletti ((«Le «Le spalle inver’ Dammiata». I Fedeli d’Amore, i Francescani e l’Oriente) e Claudio Mutti (L’opera di René Guénon in Vasile Lovinescu), nonché la pubblicazione di un testo, quasi sconosciuto, del grande Pio Filippani Ronconi su Il quadruplice vuoto e la Mahamudra secondo il Sahaja yana. Costanzo Felici, «Il trattatello sui funghi (XVI secolo)», a cura di Giorgio Nonni, Fano, Metauro edizioni, 2015, pp. 120, 8 euro. Un grato effluvio di funghi mangerecci emana dalle pagine di questo Trattatello sui funghi di Costanzo Felici (1525-1585) da Piobbico, che con grande accuratezza lessicale descrive gli esemplari che nascono in primavera e in autunno nei prati, nei boschi e nei pianori dell’Appennino marchigiano, ben ventotto specie distinte secondo le loro proprietà organolettiche. Porcini, biette, prataioli, manine e spignoli che spesso le contadine del luogo vendono al mercato infilzati in giunchi - costituiscono un cibo prelibato nei sughi, alla brace o conservati in 52 salamoia. Persistono, ovviamente, le credenze sulla velenosità dei miceti, eredità di una cultura antica e medioevale ancora presente nella trattatistica cinquecentesca. Impreziosiscono questa edizione (molto accurata dal punto di vista filologico) una introduzione e una breve nota biografica sull’autore a firma del curatore del volume. Costanzo Felici, «Il trattatello sulle olive (XVI secolo)», a cura di Giorgio Nonni, Fano, Metauro edizioni, 2015, pp. 60, 6 euro. Testimonianza di una cucina povera a vocazione vegetariana, il Trattatelo sulle olive di Costanzo Felici (1525-1585) da Piobbico, viene presentato finalmente in un’edizione filologica (sapientemente curata da Giorgio Nonni) che consente ai lettori di gustare la saporosità di un dettato linguistico che affonda nelle pieghe della sapienza popolare di questo lembo appenninico delle Marche. Gustoso esempio di utilizzo gastronomico delle olive nella cucina feriale e nei periodi bui delle quaresime - quando i cicli di astinenza prevedevano un consumo di ortaggi poveri e il volgo soleva mangiarle con pane e sale - questo testo offre ricette anche per la conservazione delle olive in salamoia o con cenere e calcina. Solo così la sapienza lenta dell’agricoltore, che colmava di sudate fatiche una terra che la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 era spesso restia a contraccambiarlo, era in grado di allontanare lo spettro della fame e di preservare per tempi di magra un possibile companatico come le olive. Tiziana Colombo, «Nichel. L’intolleranza? La cuciniamo!», Cinisello Balsamo, Silvana editoriale, 2014, pp. 288, 20 euro. Quando Tiziana Colombo ha scoperto di essere intollerante al nichel ha creduto che il mondo le crollasse addosso. Ma l’autrice di questo libro non è una persona da scoraggiarsi facilmente. Dopo aver elaborato il cambiamento ha intrapreso un percorso nuovo, impegnativo, fatto di studio, confronto con specialisti e persone nella sua stessa condizione, confidenze con familiari e amici, cercando di ottenere tutte le informazioni necessarie per poter proseguire la sua vita di sempre, cui temeva di dover rinunciare. Grazie alla sua determinazione al suo entusiasmo è riuscita a ricostruirsi la propria quotidianità, arricchendola di forza e consapevolezza. Da qui l’idea di scrivere questo volume, che raccoglie il frutto di tutti i suoi sforzi, della sua tenacia, della sua passione per la cucina, espressa dalle numerose ricette su misura (precedute da un’ampia introduzione al discusso e controverso tema delle intolleranze alimentari) da lei stessa selezionate. «Menta e Rosmarino. Rivista culturale dei comuni di: Azzio, Brenta, Caravate, Cazzago Brabbia, Cittiglio, Cocquio Trevisago, Cuvio, Gavirate, Gemonio, Orino», anno XIV, n. 34, Gavirate, Associazione culturale Menta e Rosmarino, 2015, pp. 60, s.i.p. Una rivista nata per raccontare e dare voce alle tradizioni, ai valori e ai ricordi di alcuni piccoli comuni del Varesotto che affacciano sul lago. Questo è «Menta e Rosmarino» (diretta da Alberto Palazzi), pubblicazione giunta al quattordicesimo anno, e che da tempo si è ormai affermata come caposaldo di queste piccole comunità. Storia, personaggi, arte, e poi ancora letteratura, dialetto, memorialistica minore… questi gli argomenti affrontati su «Menta e Rosmarino» con la convinzione che questo patrimonio culturale sia da difendere, ora più che mai. Tanti gli articoli interessanti su questo numero, fra cui: Il mercato di Gavirate di Federica Lucchini, Tornei, sfide e duelli di Michele Presbitero e Pellegrinaggi e pellegrine di Maria Grazia De Vecchi. SCOPRI SU BELLISSIMA.COM IL NUOVO MONDO DI 54 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 55 Investigazioni letterarie Poe e l’invenzione della detective story Il primo investigatore e il metodo indiziario PIERO MELDINI I l 7 ottobre del 1849 moriva a Baltimora Edgar Allan Poe. Lo avevano trovato in fin di vita in una taverna. Trasportato in ospedale, era stato sopraffatto da un terribile attacco di delirium tremens. Si concludeva così, a soli quarant’anni, un’esistenza disordinata, travagliata e infelice. Figlio di due attori girovaghi, Poe non conobbe il padre e perse la madre, tubercolotica, all’età di tre anni. Separato dal fratello maggiore e dalla sorellina di quattordici mesi, fu adottato da un ricco commerciante scozzese, autoritario e manesco, con cui avrà continui conflitti e che alla fine lo diserederà. Probabilmente impotente, nutrì passioni brevi e turbolente Nella pagina accanto: Edgar Allan Poe, ritratto in una scatto fotografico del 1849, pochi mesi prima della morte. Sopra: Poe, in una incisione americana della seconda metà dell’Ottocento racconto del 1839 trasparentemente autobiografico, si descrisse come il peggiore degli uomini: un uomo «sfrenato, schiavo dei capricci più selvaggi e preda delle passioni più incontrollate» e denunciò il proprio progressivo abbrutimento. per donne nevrasteniche e malate, perlopiù - e certo non per caso - di tubercolosi. Nel 1836 sposò la cugina Virginia, una bambina di tredici anni tisica e mentalmente ritardata, che gli premorirà. Mentre la giovane moglie stava morendo, si invaghì di una mediocre poetessa, Frances Osgood, anch’essa tubercolotica. Fu un giocatore incallito, un alcolizzato e un oppiomane. In William Wilson, un Ma questa è solo una delle facce di Poe, quella enfatizzata e trasformata quasi in stereotipo dal suo primo traduttore, biografo e divulgatore, Charles Baudelaire. Perché Poe fu anche un poeta e uno scrittore famoso già in vita, un brillante conferenziere, un giornalista apprezzato e ben pagato, che diresse giornali e riviste di successo. Questi tratti opposti della sua personalità si riflettono anche nella sua opera, dove l’ipersensibilità e l’immaginazione allucinata, delirante e spesso sadica convivono con la lucidità intellettuale, una mente raziocinante e una singolare attitudine 56 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 A sinistra: illustrazione di Aubrey Beardsley (1872-1898), tratta da I delitti della rue Morgue (Philadelphia, Henry Coates, 1894). A destra: illustrazione da La lettera rubata (vignetta della seconda metà dell’Ottocento) all’analisi. Prendiamo Il corvo, la più celebre (ma non la migliore) delle sue poesie. A una prima, ingenua lettura, potremmo considerarla la traduzione di un sogno in versi scritti di getto; ma se si esaminano le sottili e puntigliose note tecniche che Poe dettò a commento della poesia, ci si rende conto della sua totale consapevolezza critica: quella stessa consapevolezza che gli permise di coltivare e innovare i più disparati generi letterari - dal rac- conto ‘gotico’ a quello grottesco, a quello di viaggio - e di inventare un genere nuovo di zecca: il racconto di detection. Si è discusso a lungo se il creatore della detective story sia davvero Poe, o se invece tracce più o meno evidenti e consapevoli del racconto di investigazione siano presenti nella letteratura universale fin dai suoi albori. Si sono menzionati Voltaire (Zadig) e Walpole. La questione, oltre che poco entusiasmante, è di lana caprina. Tra Poe e i suoi pretesi precursori corre un abisso incolmabile. Già il primo dei suoi tre racconti di detection, I delitti della rue Morgue (1841), contiene tutto quel che occorre per un ‘giallo’ classico: un omicidio brutale e incomprensibile; un investigatore che raccoglie gli indizi e che, collegandoli fra loro, riesce a ricostruire la dinamica del delitto e a individuare ‘l’assassino’ (chi ha letto il racconto sa perché metto la parola tra virgolette, e gli altri… beh, gli altri si vergognino e provvedano a colmare la lacuna!); c’è addirittura un enigma, apparentemente insolubile, che divente- febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano rà una specie di banco di prova, o di esame di laurea, per gli scrittori di romanzi e racconti polizieschi: parlo del cosiddetto ‘mistero della camera chiusa’, ossia del corpo della vittima rinvenuto dentro una stanza chiusa a chiave dall’interno. Protagonista dei tre racconti di detection di Poe, tutt’e tre ambientati a Parigi, è una singolare figura di investigatore dilettante: il ‘cavaliere’ August Dupin. Questo personaggio malinconico, taciturno e nottambulo sarà il primo di una lunga serie di detectives letterari, da Sherlock Holmes a Hercule Poirot, da Miss Marple a Philo Vance, da Nero Wolf a Perry Mason, fino al padre Brown di Chesterton, al Max Carrados di Ernest Bramah, all’Isidro Parodi di Borges & Bioy Casares e al Guglielmo di Baskerville di Umberto Eco: detectives sedentari che non scorrazzano per la città, non inseguono i sospetti, non fanno a cazzotti e non usano la pistola, ma arrivano al colpevole solo con l’arma del ragionamento. Dupin risolve i casi, anche i più intricati e disperanti, prima attraverso l’osservazione della scena del delitto e la raccolta degli indizi, poi grazie a un ragionamento rigorosamente consequenziale, di cui proprio le prime pagine dei Delitti della rue Morgue ci forniscono un elo- quente e anzi virtuosistico esempio. Sia in questo racconto che negli altri due della serie (Il mistero di Marie Roget, del 18421843, e La lettera rubata, del 1845) Dupin dissemina preziose indicazioni sul suo metodo di lavoro: l’investigatore deve accoppiare al rigore del matematico l’immaginazione del poeta; alcuni indizi possono sfuggire perché troppo evidenti: non bisogna essere perciò superficiali, ma neppure eccessivamente profondi; nessun dettaglio, per quanto irrilevante, va trascurato («Dio si nasconde nei particolari» affermerà lo storico dell’arte Aby Warburg, il padre della moderna iconologia). Questo modello di ragionamento, già lucidamente enun- 57 ciato da Dupin-Poe, è stato definito dallo storico Carlo Ginzburg in Spie, un brillante saggio del 1979, ‘paradigma indiziario’. Il ‘metodo indiziario’, che si afferma alla fine del XIX secolo, ha altrettanta dignità scientifica di quello sperimentale. Se il metodo galileiano si applica alle scienze matematiche e fisiche, quello indiziario ha per campi la medicina, le scienze umane, la filologia, la storia dell’arte: discipline, tutte, che si occupano di casi individuali, non riproducibili in laboratorio. Estensione del famoso ‘occhio clinico’ della medicina, il ‘metodo indiziario’ è legato strettamente alle doti personali di chi lo pratica. Un Murri, un Freud, un Wilamowitz, un Pasquali, uno Zeri pos- 58 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Edgar Allan Poe, in una fotografia ritoccata a pennello (1848 ca.) ‘paradigma indiziario’ (e fa meraviglia che Ginzburg, che cita largamente Conan Doyle, si dimentichi di Poe) e precorso metodi d’indagine poliziesca che saranno praticati effettivamente alcuni decenni dopo, e su larga scala. sono certamente suggerire strategie e fornire indicazioni metodologiche preziose, ma i risultati più o meno convincenti dipenderanno soprattutto dal talento individuale di chi è chiamato ad applicarle. Allo stesso modo, il grande investigatore, reale o letterario che sia, non può essere prodotto in serie. Occorre ricordare che negli anni ’40 dell’Ottocento la criminologia e la medicina forense erano ancora discipline di là da venire. Lo scrittore, dunque, non ha solo inventato la detective story e la figura dell’investigatore, ma ha applicato per primo il Poe - va detto - era del tutto consapevole della novità del suo metodo. In Eureka (1848), che l’autore chiamava ‘poema in prosa’ e che andrebbe piuttosto definito ‘brevi cenni sull’universo’, lo scrittore ha straordinarie intuizioni in campo cosmologico, molte delle quali confermate dalla scienza futura: la teoria del ‘big bang’, l’universo pulsante, gli universi paralleli, il superuniverso... Paul Valery vi scorge addirittura una premonizione della teoria della relatività. Bene: in questo testo, che deriva da una conferenza, Poe parla dell’intuizione e ne dà la seguente definizione: «quella convinzione che nasce da induzioni e deduzioni i cui processi sono tanto oscuri da sfidare la nostra capacità di comprensione». Il logico americano Charles Peirce, che ben conosceva Poe, userà altri termini - ‘abduzione’, ‘retroduzione’, ‘inferenza’ - ma la sostanza non cambia. La qualità delle migliori nocciole e il cacao più buono danno vita ad una consistenza e ad un bouquet di sapori inimitabile. Ferrero Rocher è quel dolce invito che ti regala un momento prezioso, perfetto da condividere 60 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 61 Bibliomania Il conte Alberti e il suo falso Torquato Tasso Un documento sconosciuto emerge sul caso ANTONIO CASTRONUOVO A differenza del bibliofilo, il bibliomane gode di un influente riconoscimento tassonomico, anche se di tenore ostile: se infatti la voce “Bibliofilia” manca nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert, è possibile invece leggervi “Bibliomania”, quel «fureur d’avoir des livres, & d’en ramasser» che, «quand il n’est pas guidé par la Philosophie & par un esprit éclairé, est une des passions les plus ridicules» (quel «furore d’aver libri e di radunarne» che, «quando non è guidato dalla Filosofia e da uno spirito illuminato, è una delle più ridicole passioni»). E dall’apparizione di quel lemma - se anche il fenomeno destava già interesse nell’antichità con un Luciano che redigeva la sarcastica invettiva Contro un bibliomane ignorante - la bibliomania è diventata motivo di studio e ha suscitato un’enorme letteratura, che tra i suoi prodotti vede anche il grande tomo The Anatomy of Bibliomania di George Holbrook Jackson, noto bibliofilo Una delle tante edizioni di Holbrook Jackson, The Anatomy of Bibliomania inglese (Londra, The Soncino Press, 1930; volume che poi ha goduto di una sontuosa biografia editoriale). Distesa analisi del fenomeno mediante fonti storiche e letterarie, The Anatomy of Bibliomania infine concorda con la visione ‘patologica’ della bibliomania come forma compulsiva che trascina all’accumulazione di libri - tanto da compromettere la vita di società del soggetto e spesso anche la sua salute - e conclude con un tentativo di ‘terapia’. Resta il fatto che la figura del bibliomane è di assoluta seduzione, tanto che ogni amante del libro ne insegue le tracce come orso il miele. Di bibliomani la storia ne produce ogni tanto e li dissemina dove capita, figure che per il loro vizio così materiale (accumulare pesanti libri) non riescono a passare inosservate, vengono scoperte e restano nella memoria. Ogni qualvolta si scopre la figura di uno di loro è festa, perché ogni vero bibliofilo è un po’ bibliomane nel fondo di se stesso, e comprende - forse anche giustifica - le furbizie e le azioni ingannevoli che il bibliomane compie pur di procurarsi la materia del proprio vizio. Di comportamenti astuti, furbeschi si narra in questo bozzetto, scoperto tra pagine dimenticate: ne emerge la figura del romano Mariano Alberti affetto dalla «infermità del cervello detta bibliomania». Il pezzo giaceva 62 seppellito in una collezione di bozzetti popolari romaneschi del 1885 di Padre Zappata, al secolo Girolamo Amati. Bibliografo e scrittore prolifico, egli visse tra 1820 e 1905 e scelse lo pseudonimo che rammenta il famoso personaggio del frate che predicava bene e razzolava male. Nel 1885 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Zappata pubblicò la collezione di memorie La Roma che se ne va presso il tipografo-editore Perino di Roma, e in questa dimenticata collezione ecco emergere alle pagine 95-100 il bozzetto Un bibliomane, che qui riportiamo in luce. Sul ricordo della singolare figura dell’Alberti possiamo fare relativo affidamento storico; e tuttavia l’intera collezione di Padre Zappata sbozza bene dei caratteri i cui colori sono sedimentati nel ricordo popolare, e hanno dunque un fondo di verità, per quanto aneddotica. La figura del bibliomane Alberti non è ignota, essendo egli l’autore di un noto falso di scritti del Tasso. Ne ha parlato Hans Tuzzi nell’articolo Il falso Tasso del conte Alberti (ne L’oggetto libro ’96, Milano, Sylvestre Bonnard, 1996, pp. 28-31), riprendendo poi il soggetto in Collezionare libri (Milano, Sylvestre Bonnard, 2005, p. 62). In pratica, l’Alberti compose e raccolse falsi autografi di Tasso, lanciò nel 1835 a Roma una sottoscrizione e li pubblicò infine in volume a Lucca, da Giusti, nel 1837 col titolo Manoscritti inediti di Torquato Tasso (per inciso, volume assai ricercato dai bibliofili: Tuzzi accenna a una copia valutata nel 1995 un milione di lire; temo che oggi valga assai di più). Vale soffermarsi su due particolari del volumetto di Padre Zappata che possono interessare il bibliofilo e lo studioso di storia del libro. In primo luogo il titolo La Roma che se ne va appare sul frontespizio dell’edizione, ma su copertina e dorso suona diversamente: Roma se ne va. Questo contrasto profila un fenomeno che a tratti appare nel mondo del libro: la diversità del titolo tra frontespizio e copertina. Fenomeno da studiare. febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 63 L’altra questione è la relativa rarità del libro di Zappata. Il catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale lo individua presso nove biblioteche: la Biblioteca nazionale Sagarriga Visconti-Volpi di Bari; la Comunale Manfrediana di Faenza; la Nazionale centrale di Firenze; l’Universitaria di Genova; la Comunale Augusta di Perugia e quattro copie infine a Roma, nella Biblioteca della Fondazione Marco Besso, in quella della Società romana di storia patria, alla Casanatense e alla Comunale Rispoli. Un’ultima curiosità: La Roma che se ne va è titolo omonimo anche di un’altra opera: la pubblicò Francesco Nobili Vitelleschi a Torino nel 1899, presso Roux Frassati & Co. UN BIBLIOMANE, DI PADRE ZAPPATA Racconta G.B. Vermiglioli non mi state a domandare qui su due piedi in quale de’ suoi scritti io l’abbia letto - che un Perugino fu tanto voglioso del possedere libri, da rimetterci non solo vigne e poderi, ma anche da lasciare in pegno ai librai orologio ed anello; e, se l’avessero accettata, perfino la parrucca. Infermità del cervello, che oggi con buon garbo, chiamiamo bibliomania. Il bibliomane, poi, di rado legge i suoi libri. Sembra abbia paura di sciuparli; salvo pe- rò alcune eccezioni che posso citare, e sono: l’avvocato Carpi, di Modena, il quale per ogni autore che possedé faceva indagini storiche bibliografiche, lasciandone traccia nei volumi rispettivi; Don Raffaellino Pagliari, che la massima parte del suo tempo spende attorno agli esemplari dei classici nostri e dei poemi di cavalleria, da esso copiosamente radunati nelle stanzuccie del palazzo Gabrielli, e li studia, li netta, li forbisce, li ringiovanisce coll’amore di una balia; e Mariano Alberti, che pur esso con assiduità studiava i suoi, come appare dalle note di sua mano scritte nel risguardo di ciascun 64 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 Il foglio del 1835 con cui fu lanciata la sottoscrizione dei presunti inediti di Tasso posseduti dall’Alberti volume e dalle tante aggiunte che fece alla bibliografia delle città e paesi dello Stato pontificio. La bibliomania, poi, dell’Alberti era complicata, come direbbe un fisiologo, dalla idolatria. Aveva preso a santo protettore Torquato Tasso e, naturalmente, a comprotettori tutta quella brava e non brava gente che visse ed ebbe a fare con essolui. L’Alberti era divenuto contemporaneo di Torquato Tasso, anzi addirittura il suo erede. Ne possedeva i ritratti autentici, le cose più intime regalategli da Eleonora, i carteggi, i li- bri da esso postillati, masserizie, stoviglie. Figuratevi com’era invidiato l’Alberti! – In quale maniera si sarà procacciata tanta bella roba? – Quando nell’inverno del 1832 l’archivio Aldobrandini fu mandato ai pizzicagnoli – rispondevano. Un giorno alfine, nel 1837, si risolvette di comunicare al pubblico le tante sue ricchezze col mezzo delle stampe. Il Giusti di Lucca annunziò che per cura ed a spese di Romualdo Gentilucci - il fondatore, in seguito, della sala Dante, così detta per avervi messa una esposizione permanente di quadri tolti dalla Divina Commedia - avrebbe dato in luce i manoscritti di Torquato Tasso ed altri pregevoli documenti per servire alla biografia del medesimo, posseduti ed illustrati dal conte Mariano Alberti, con incisioni e fac-simili, ecc. ecc. Ne accettò la dedica niente di meno che Sua Maestà Maria Isabella di Spagna, madre di Ferdinando II, re delle Due Sicilie. Perfino lo stile e l’ortografia della dedica si risentono dell’epoca cortigianesca di Torquato. Mariano Alberti dice alla regina madre essere predicato in tutto il mondo «l’animo eccelso della Maestà Vostra ornato di ogni altro pregio singolarissimo, ed io medesimo ebbi la gloria di ravvisarli in tutto il loro splendore, allorché presso le salutifere Aque febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano Lucensi Vi degnaste ammettermi alla Vostra Reale presenza, per osservare gli Scritti meravigliosi di quell’altissimo Poeta, che nella sua Divina Gerusalemme, se non superò, certamente emulò la gloria del Cantore d’Achille e del profugo Troiano». Gli autografi poi posseduti dall’Alberti erano stati già esaminati e gabellati per sacrosanti da Gabriello Laureani della Vaticana, Niccolini dell’Accademia di belle arti in Firenze, Sebastiano Ciampi, Rezzi della Corsiniana, Follini della Magliabechiana, Gelli della medesima e della Crusca e altri non meno sicuri conoscitori. Piovvero giù a bocca di barile i sottoscrittori per l’acquisto del volume, e che sottoscrittori! il re ed il principe Enrico di Prussia, il re e la regina di Napoli, Isabella infante di Spagna, il re di Sardegna, il principe e la principessa reale di Prussia, il granduca di Toscana, Bunsen, Bucheron, Alfredo di Reumont, Kestner incaricato dell’Hannover, Liedeckerker, Beaufort ministro dei Paesi Bassi, Ludolf diplomatico di Napoli, Lützow d’Austria, Pandolfini console di Toscana, Promis conservatore del medagliere di Torino, Cesare Saluzzo governatore dei reali principi di Savoia, Federico Sclopis, parecchi cardinali col Gamberini segretario di Stato, moltissimi prelati ed anche Domenico Antonio Nardini notaro dell’alta polizia di Roma, ed il colonnello Nardoni, successore dell’antico barigello di Roma. Vi erano adunque rappresentate tutte le condizioni sociali, si direbbe oggi. Il volume in foglio elegante, maestoso, era già venuto in luce quando un Mazzarini di Ancona salta in mezzo con un opuscoletto brioso, nel quale mette in burletta tanti personaggi per essersi lasciati ingannare dal conte di Culagna. Fu giocoforza che se ne occupassero i tribunali. Allora i periti fiscali si accorsero che gli autografi del Tasso erano stati scritti con bistro e seppia, che il famoso quadro allegorico ricamato in seta da Donna Lucrezia d’Este era merce da rigattieri, che le composizioni peccavano del romanesco, e che i famosi bibliotecari erano un monte d’asini. II processo durò a lungo malgrado tutto ciò, ed Alberti vi rimase condannato per sette anni di carcere in Castel Sant’Angelo. Proprio quanti il grande Torquato, consolavasi l’Alberti. In sostanza, però, questi fu più fortunato dell’altro. Il governo pontificio gli usò molte larghezze. Durante la sua condanna, l’Alberti aveva una decente stanza nel cortile dell’Oglio in castello, al numero 14, diciasette baiocchi al giorno, un veterano per domestico, e la libertà di andarsene per Roma dalle sette del mattino al cadere del giorno. Ne approfittò l’Alberti per 65 soddisfare alla sua passione favorita. Tutto il santo giorno lo passava da un libraio all’altro; era presente ad ogni asta pubblica e rincarava anch’esso i libri rari che poi, quando gli rimanevano, non aveva danari per portarseli via. Poco importava. Alberti era soddisfatto ed il libraio rimetteva il libro, comprato in fantasia dall’Alberti, all’asta del giorno seguente. I sette anni passarono e l’Alberti convenne lasciasse Castel Sant’Angelo, i diciassette baiocchi quotidiani ed il veterano domestico. L’accolsero allora i padri celestini di Santo Stefano del Cacco, entro alcune celle ove Alberti muovevasi a stento di mezzo ai mucchi dei suoi volumi. Qui visse parecchio tempo tra lo studio ed il mestiere di rattoppare libri e di rilegarli, al quale uso aveva adattato una seggiola ed un deschetto da ciabattino. Mi pare vedervelo proprio adesso; piuttosto basso di statura, con grande naso sempre tabaccoso, un solideo (zucchetto) in testa che gli cuopriva le orecchie, ed i baffi tagliati a misura del regolamento fatto dal generale Resta per i soldati di fanteria. Perché, me n’era scordato, l’Alberti oltre essere conte e patrizio di Orte era stato anche capitano nell’esercito pontificio. Qui, contento fra i suoi libri, aveva dimenticato tutto e perfino i sette anni della carcere che lo rendevano qualche poco simile al suo Torquato Tasso. 66 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 67 In Appendice - Feuilleton L.E.X. Le biblioteche profonde V capitolo ERRICO PASSARO RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI “Lupo” è il guardiano di una biblioteca clandestina nel Deep Web. Contatta Victor Stasi, agente di LEX, la branca dei servizi segreti italiani di cui è informatore, ma finisce ugualmente nelle mani del misterioso Abel Kane, uomo dell’organizzazione antagonista di LEX, la Loggia. Bonera, il capo di LEX, affida a Stasi il compito di trovare “Lupo” e Kane, a qualsiasi costo. U na mano picchiettava il bordo della scrivania in un tic di impazienza. Una sigaretta lasciava salire un filo di fumo fra le dita affusolate dell’altra mano. - Allora? - disse Abel Kane, A sinistra Abel Kane e in alto Victor Stasi (illustrazioni di Anna Emilia Falcone, espressamente realizzate per «la Biblioteca di via Senato») spazientito. Era al terzo giorno di interrogatorio duro. Indossava quello che sarebbe apparso un regolamentare completo da uomo di affari, se non fosse stato per gli schizzi di sangue sulle maniche e sui reverse. - Ho detto tutto-to quel che sapevo... - piagnucolò “Lupo”, sputando rosso. Un sorriso maligno andava e veniva dalla bocca dell’aguzzino. - Non fare quella faccia. È vero, mi hai accompagnato nella “stanza” di una biblioteca clandestina, dove erano conservati libri accusati di incitazione al terrorismo. Se in strada fossi stato perquisito e ti avessero trovato addosso libri come quelli, i miei mandanti ti avrebbero arrestato seduta stante... - Ora potete liberarmi... farfugliò il prigioniero tra i denti rotti. - Vi ho dato quel che vovolevate... c’era un patto! Disgraziatamente, non ci poteva essere un patto tra un uomo legato a una sedia e un uomo con un bastone elettrificato a portata di mano. Lo sapevano tutti e due. - L’idea era quella. Ma non basta - s’innervosì Kane. Spense la sigaretta sul braccio della sua vittima, cavandone un urlo stridulo. I picchiatori al soldo di Kane erano rocce immobili agli angoli della stanza semibuia. Sembravano far parte delle pareti in- 68 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 A lato: Lupo (illustrazione di Anna Emilia Falcone, espressamente realizzata per «la Biblioteca di via Senato») sonorizzate. - Sono scontento di te, “Lupo” senza zanne. Volevamo i nomi degli altri componenti del club di lettura, e non li abbiamo. - Ci so-no i com-menti in chat... - si assolse il disgraziato. Le tracce dello... scarico dei libri... - Download molto ben pro- tetti, a quanto pare. Siamo riusciti a risalire alle postazioni fisiche da cui avvenivano le operazioni, ma erano tutte protette da sistemi di sicurezza stand alone. I tuoi amici hanno avuto cura di cancellare hard-disk e registrazioni video. Non prima di aver succhiato i dati dal disco fisso e averli scaricati in qualche flash-drive. - Vi ho dato le password - si difese l’altro. - Confermate, ne convengo. Ma qualcuno ha clonato il club di lettura, compromettendolo. Siamo al punto di inizio. - Ho fatto quel che-che potevo... Il torturatore se ne uscì fuori con una risata catarrosa. - Oh, sì. Non so che farci. Immagino che, in un ambiente come il vostro, un informatore screditato sia un uomo morto. Se non ti ammazzo io, ci penseranno i tuoi amici... pardon, ex-amici. Mi risulta che, nel vostro giro, ci sia un servizio d’ordine molto... efficiente. Gente capace di prendersi gioco degli infiltrati della polizia postale. Criminali che usavano il paravento delle biblioteche clandestine per smerciare armi e droga. Latitanti della realtà virtuale. Fabbricatori di menzogne. E assassini comuni, capaci di uccidere per un pugno di bitcoin. - N-non è giusto... - furono le parole smozzicate che pronunciò “Lupo”, fra lacrime di dolore e frustrazione. Kane ritrovò il suo tono ironico. - Lasciamelo dire, vecchio febbraio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano mio: il mondo è un luogo pericoloso, ma è l’unico che abbiamo. Di norma, non avresti superato la notte; ma noi abbiamo ancora bisogno di te. Come esca. Mise una mano sulla spalla lussata di “Lupo”, strappandogli un gemito di dolore. I bisonti che facevano da guardie del corpo a Kane ridacchiarono. - Qualcosa si sta muovendo. Mi risulta che un tuo amico sta venendo a salvarti. Muoio dalla voglia di scoprire come ha fatto a sapere di me... Stasi aveva dragato la Rete alla ricerca di “Lupo”, senza successo. - Io non c’entro. - Ci sei dentro fino al collo, caro il mio “Lupo” - lo canzonò Kane. - Comunque, sappi che noi aspettiamo il tuo amico a braccia aperte. Ma tu non sarai qui a salutarlo. - Fottiti, Kane! - si rianimò il prigioniero. Un filo di saliva insanguinata colava da un angolo della sua bocca. - Con lui te la vedrai brut-ta! - Signore e signori, Victor Stasi - fece Kane, con voce sopratono. Indicò la foto, scattata con un teleobiettivo, che aveva fatto comparire sullo schermo del computer con un colpo di ta- 69 sto. - L’eroe solitario. Il cavaliere senza macchia e senza paura. È in gamba, ma non abbastanza. - Ti farà a pezzi - improvvisò “Lupo” con le ultime energie in corpo. I suoi occhi erano occupati da una luce di rabbia impotente. LEX non fa prigionieri. Un sorriso obliquo s’intagliò sul viso di Abel Kane. - È qui che ti sbagli. Molti nemici mi hanno ucciso. A parole. Ma io sono ancora in circolazione. Prese il bastone elettrificato e lo infilò nella bocca di “Lupo”. L’infame non avrebbe più parlato. 70 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 BvS: il ristoro del buon lettore Quella zanzara, di casa sull’isola di Porticino L’Elevazione di Baudelaire: in volo verso la grande cucina «I n alto, sugli stagni, sulle valli» di questa terra piatta attraversata dall’acqua volteggia la zanzara. Abita una casa su un’isola, nella valle di Porticino, nel delta del Po. Ci arriva - certo - in volo: lei che può volare «sopra i boschi, oltre i monti, sulle nubi e sui mari, oltre il sole e oltre l’etere». Gli altri, coloro che non possono librarsi nell’aria, per giungere alla Zanzara devono invece attraversare un minuscolo ponticello di legno che lega, come un ormeggio, la piccola isola alla terraferma. Lì, una dimora sempre attende, da quasi duecento anni. Un po’ rifugio di caccia. Un po’ casone di pesca. E da tempo oramai raffinato ristorante dei fratelli Bison. Ma del passato di questa Zanzara tanto ancora rimane: le scure e pesanti travi in legno, il vetusto camino sempre acceso e ingombro di cenere e tizzoni ardenti, le piccole finestre che affacciano sull’acqua. Qui, alla Zanzara, «mio spirito», potrai finalmente godere. Qui «mio spirito» - tu che puoi volare certo raggiungerai, come nell’Elevazione di Charles Baudelaire (componimento poetico contenu- GIANLUCA MONTINARO Ristorante La Zanzara Oasi di Porticino Via per Volano, 52 Volano di Codigoro (Fe) Tel. 0533/355236 to nella raccolta Les fleurs du mal, libro che la Biblioteca di via Senato conserva nella prima, rarissima, edizione - con tanto di dedica -, stampata a Parigi, presso PouletMalassis et De Broise, nel 1857) «l’indicibile piacere». Sarà Sauro, padrone di casa e maestro di cucina, a raccontare, con sorriso gentile e tono pacato, le tradizioni di queste terre. I suoi piatti ne sono epitome e celebrazione. L’insalata di pesce con verdure, crostacei e molluschi al vapore è un inno al sabbioso mondo sottomarino. La frittura di pescato del giorno un leggero ricamo di Fiandra, aereo e solenne. La pasta fresca all’uovo con le canocchie uno svolazzo di gusto. «Fuggi lontano» e «vola» sin qui «a purificarti, o mio spirito»! Così, mentre Samuele, fratello di Sauro, farà giungere in tavola un vino dall’ampia carta, la mente «lascia andare i suoi pensieri». Come «con ala vigorosa» si perderà a fantasticare ancora di acqua, terra e isole… Intanto la bottiglia sarà a fianco al desco. Un Franciacorta o uno Champagne? Comunque una grande bolla d’annata, «un liquido divino e puro» chiamato ad accompagnare altri due eccelsi piatti di laguna: prima la composizione di granchio al vapore con maionese all’aceto di Lambrusco e quindi la magistrale, soave e succulenta anguilla cotta sulle braci di legna. Fuori, il vento muove i cannicci fra l’acqua, come «segreta lingua di cose mute». La zanzara che abita questa casa «intende» le arcane parole, da sempre e per sempre. Spirito fortunato colui che può indovinare questo indicibile segreto. «Fortunato colui che può abbandonare i vasti affanni e i dolori». Fortunato «colui che sulla vita plana» e che può far sosta, lieto e leggero come una zanzara, su quest’isolotto della valle di Porticino. 72 la Biblioteca di via Senato Milano – febbraio 2016 LORENZO BARBIERI Lorenzo Barbieri (1992) si interessa particolarmente di Storia moderna e contemporanea e di Storia della società e dei rapporti sociali. Ha pubblicato interventi nei volumi: La grande guerra futurista (2014) e Il coraggio dell'indicibile 2.0 (2015). MASSIMO GATTA Massimo Gatta (1959) ricopre l’incarico, dal 2001, di bibliotecario presso la Biblioteca d’Ateneo dell’Università degli Studi del Molise dove ha organizzato diverse mostre bibliografiche dedicate a editori, editoria aziendale e aspetti paratestuali del libro (ex libris). Collabora alla pagina domenicale de «Il Sole 24 Ore» e al periodico «Charta». È direttore editoriale della casa editrice Biblohaus di Macerata specializzata in bibliografia, bibliofilia e “libri sui libri” (books about books), e fa parte del comitato direttivo del periodico «Cantieri». Numerose sono le sue pubblicazioni e i suoi articoli. PIERO MELDINI Piero Meldini è nato e vive a Rimini. Già direttore della biblioteca riminese intitolata ad Alessandro Gambalunga e autore di numerosi saggi di storia contemporanea e storia dell’alimentazione e della cucina, ha scritto cinque romanzi, i primi tre pubblicati da Adelphi e gli altri da Mondadori: L’avvocata delle vertigini (1994), L’antidoto della malinconia (1996), Lune (1999), La falce dell’ultimo quarto (2004) e Italia. Una storia d’amore (2012). I romanzi sono stati tradotti in francese, spagnolo, tedesco, polacco, greco e turco. LUCA PIETRO NICOLETTI Luca Pietro Nicoletti, storico dell’arte, si interessa di arte e critica del Secondo Novecento in Italia e in Francia. Ha pubblicato: Gualtieri di San Lazzaro. Scritti e incontri di un editore italiano a Parigi (Macerata 2013). ERRICO PASSARO Errico Passaro (1966) è ufficiale dell’Aeronautica Militare esperto in materie giuridiche. Giornalista e scrittore, ha pubblicato oltre millesettecento articoli, dieci romanzi, centoventi racconti, fra cui il “triplete” per le collane da edicola Mondadori: la bianca (Zodiac, Urania n. 1557; La Guerra delle Maschere, Millemondi Urania n. 58), la gialla (Necropolis, Supergiallo n. 39), la nera (L.E.X. - Law Enforcement X, Segretissimo, n. 1591; L.E.X. - Operazione Spider, Segretissimo n. 1610; L.E.X. - Inverno arabo, Segretissimo n. 1611). GIANCARLO PETRELLA Giancarlo Petrella (1974) è docente a contratto di discipline del libro presso l’Università Cattolica di Milano-Brescia. Nel 2013 ha conseguito l’abilitazione per la I fascia di insegnamento di Scienze del libro e del documento. È autore di numerose monografie fra cui: L’officina del geografo; Uomini, torchi e libri nel Rinascimento; La Pronosticatio di Johannes Lichtenberger; Gli incunaboli della biblioteca del Seminario Patriarcale di Venezia (2010); L’oro di Dongo ovvero per una storia del patrimonio librario del convento dei Frati Minori di Santa Maria del Fiume (2012). Collabora con «Il Giornale di Brescia» e la «Domenica del Sole24ore». LUCA PIVA Luca Piva (Piove di Sacco, 1960), saggista e illustratore, si interessa a temi e spunti della tradizione figurativa e letteraria italiana, in particolare nelle sue espressioni di ambito veneto, per lo più di periodo tardo. Nella sua bibliografia figurano due saggi pubblicati in «Padova e il suo Territorio» (Invito allo studio del Cristo di Arzerello, 2010; Una triste visita di Giovanni Comisso a Piove di Sacco, 2011). Sta lavorando ora a una raccolta di storie narrate da architetture. È in procinto di pubblicare un saggio su alcuni aspetti poco divulgati del rapporto fra D'Annunzio, Venezia, e il culto della Serenissima. GIANLUCA MONTINARO Gianluca Montinaro (Milano, 1979) è docente a contratto presso l’università IULM di Milano. Storico delle idee, si interessa ai rapporti fra pensiero politico e utopia legati alla nascita del mondo moderno. Collabora alle pagine culturali del quotidiano «il Giornale». Fra le sue monografie si ricordano: Lettere di Guidobaldo II della Rovere (2000); Il carteggio di Guidobaldo II della Rovere e Fabio Barignani (2006); L’epistolario di Ludovico Agostini (2006); Fra Urbino e Firenze: politica e diplomazia nel tramonto dei della Rovere (2009); Ludovico Agostini, lettere inedite (2012); Martin Lutero (2013); L’utopia di Polifilo (2015). HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO WE OPTIMISE CONTENT AND CONNECTIONS TO FUEL BUSINESS SUCCESS. V.le del Mulino, 4 – Ed. U15 – 20090 Milanofiori – Assago (MI) – Tel. 02 33644.1 Via Cristoforo Colombo 173 - 00147 Roma – Tel. 06 488888.1 E-mail: [email protected] – web: www.mediacom.com