Enrico Mazza La riforma liturgica nel Vaticano II e nel post-Concilio. Perché una riforma liturgica può diventare un casus belli? 1 Premessa La riforma liturgica del Concilio Vaticano II era già iniziata nel pontificato dei Papi precedenti. Dobbiamo ricordare che il tema della partecipazione attiva ha origine con Pio X ed è andato crescendo per tutto il secolo ventesimo raggiungendo l’apice nel Concilio Vaticano II e nei successivi documenti di attuazione. Inoltre, dobbiamo ricordare la continuità tra la riforma liturgica di Pio XII e quella del Vaticano II. Pio XII produsse la riforma della veglia pasquale1 e della settimana santa. Non vanno dimenticate le molte altre riforme introdotte nella liturgia da questo papa oltre alla promulgazione della lettera enciclica «Mediator Dei et hominum» nel 19472 che è una vera e propria trattazione generale sulla liturgia. E ancora: «Basti ricordare l’attenuazione delle norme sul digiuno eucaristico (l943) e la concessione delle Messe vespertine (1946), la nuova traduzione del Salterio e il suo uso nella recita del Breviario (1945, 1946). E siamo ancora ad un anno dalla pubblicazione della Mediator Dei (20 novembre 1947). In seguito, le concessioni andranno moltiplicandosi soprattutto con i Rituali bilingui (per la Francia 28 novembre 1947) e l’uso del volgare nelle celebrazioni. Non ci sono ancora ritocchi nei riti»3. Il 28 maggio 1948 venne costituita la Commissione piana che avrebbe dovuto occuparsi della riforma generale della liturgia. Si seppe dell’esistenza di una tale commissione solo nel 1951 quando fu promulgata la riforma della Veglia pasquale. La commissione cessò i lavori con l’avvento del concilio dopo aver prodotto i suoi due ultimi documenti di riforma: il “Codex rubricarum” (1960), e l’Istruzione “De Musica sacra et sacra Liturgia” (1958) che applica le due encicliche, Mediator Dei et hominum e Musicae sacrae disciplina. Il lavori del Vaticano II furono preparati da una commissione preconciliare il cui segretario era Padre Annibale Bugnini che, prima, era stato segretario della commissione piana4 che aveva elaborato la riforma di Pio XII. Successivamente, egli sarà segretario del Consilium ad exequendam Constitutionem de sacra liturgia. Padre Bugnini ebbe un ruolo determinante nella riforma liturgica del Vaticano II; la sua appartenenza alla commissione piana, come segretario, mostra la continuità stretta tra il progetto di questa commissione di Pio XII e l’opera del Vaticano II. Inizialmente la proposta di riforma liturgica che venne presentata in concilio comprendeva solo dei progetti di intervento sulle singole celebrazioni ma, in un secondo momento, ci si rese conto che era necessario premettere un insieme di principi teologici che rendessero ragione delle riforme proposte. Venne composto, dunque, un capitolo di «Altiora principia», che presentava la 1 1951: Instauratio Vigiliae paschalis (in: Braga C. - Bugnini A. (edd.), Documenta ad instaurationem liturgicam spectantia (1903-1973), CLV - Edizioni liturgiche, Roma 2000, nn. 2314-2356). 2 In: Braga C. - Bugnini A. (edd.), Documenta ad instaurationem liturgicam…, nn. 1865-2068). 3 Braga C. (ed.), La riforma liturgica di Pio XII. Documenti, I. La “Memoria sulla riforma liturgica”, (= Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia 128), CLV - Edizioni liturgiche, Roma 2003, p. VII. Cf. anche: Idem, Per la storia della riforma liturgica: la Commissione di Pio XII e Giovanni XXIII, «Ephemerides liturgicae», 117 (2003) 385-399. 4 Gy P.-M., «Situation historique de la Constitution», in: Jossua J.-P. - Congar Y. (édd.), La liturgie après Vatican II. Bilan, études, prospective, (= Unam sanctam 66), Les Éditions du Cerf, Paris 1967, p. 114. 1 natura teologica della liturgia. Successivamente, dopo il Vaticano II, abbiamo avuto la riforma generale della liturgia attuata da Paolo VI. 2 I principi generali della riforma liturgica Perché la riforma liturgica? Certo c’è da tener presente la cultura dell’ «uomo d’oggi», ma si deve tener presente anche la natura della liturgia. La forma rituale che essa aveva alla metà del secolo ventesimo, esprimeva al meglio la natura della liturgia oppure andava migliorata? La liturgia è sempre stata legata alla cultura dei differenti popoli e delle differenti epoche, ed è questo che spinge verso il cambiamento, altrimenti saremmo ancora al rito del battesimo di Gesù nel Giordano e all’uso giudaico della cena rituale, come fu celebrata da Gesù all’ultima cena. Lo vediamo nelle liturgie dei differenti riti: non c’è solo la liturgia romana, che ha inglobato il genio della cultura di Roma, ma tanti altri: il rito bizantino è ben diverso da quello romano e così il rito etiopico. Anche la liturgia gallicana e quella ispanica hanno caratteristiche loro proprie. Ma i contenuti sono gli stessi, nelle varie liturgie, indipendentemente differenze delle varie Chiese, dalle varie epoche e dai vari contesti antropologici in cui si sono formati i riti. Quindi, per il Concilio Vaticano II, era necessario stabilire, prima di tutto, la natura della liturgia e i suoi costitutivi formali. Per spiegare la natura della liturgia, la costituzione Sacrosanctum concilium inizia presentando la volontà salvifica universale di Dio, che si è attuata nella storia attraverso i profeti e che ha attinto il suo culmine in Cristo. L’opera della redenzione umana coincide con la glorificazione di Dio: non sono due differenti fattori, ma una sola ed unica realtà. Realizzata in Cristo, continua nella Chiesa che la celebra nel sacrificio e nei suoi sacramenti. Così si esprime la costituzione liturgica ai nn. 5-6. Giustamente il concilio prosegue con l’affermazione che la liturgia è azione di Cristo e, quindi, è esercizio del suo sacerdozio. Ho tratteggiato solo un abbozzo dei «Principi generali» esposti nel capitolo primo, ma è sufficiente. Da qui partono tutte le decisioni di riforma, per giungere fino a indicazioni molto pratiche. La riforma liturgica di Pio XII aveva già messo in evidenza la questione della partecipazione attiva, una concezione che si realizza particolarmente nella messa. Il Concilio Vaticano II ha continuato nella stessa direzione e ha posto la partecipazione attiva come scopo della riforma stessa e di tutta la pastorale liturgica. I riti liturgici avrebbero dovuto essere riformati in modo da corrispondere a queste scelte ed è ciò che è puntualmente avvenuto nel pontificato di Paolo VI che ha promulgato i nuovi libri liturgici. Tutto questo è in linea con i principi teologici che derivano dalla natura stessa della liturgia. I precedenti libri liturgici non sono stati abrogati ma obrogati, ossia sostituiti dai nuovi5. Al di là della sottile distinzione tra abrogazione e obrogazione, si deve affermare che il precedente messale non è più in vigore dato che il decreto emesso dalla Sede Apostolica per la promulgazione del messale stabilisce che il nuovo libro sostituisce in tutto quello precedente. Ciò significa che questo non è più in vigore e non può più essere usato. Infatti, ci volle un Indulto di Giovanni Paolo II perché il messale precedente potesse essere ancora utilizzato. Altrettanto si dica per gli altri libri liturgici. La riforma dei libri liturgici venne fatta ricorrendo agli antichi testi della Tradizione. La cosa è particolarmente evidente per il messale6 nella cui introduzione compare il principio del ritorno 5 Su questa questione cf.: Appendice, al termine di questo saggio. La Costituzione sulla sacra liturgia decreta (decernit) brevemente una serie di riforme del messale che dovranno essere fatte per volontà del Concilio. Importante è il verbo decernit, con il quale il Concilio impone che riforme vengano fatte: 1) Riforma dell’Ordo missae per migliorarne la coesione interna, eliminare i doppioni, e ritornare ad pristinam sanctorum Patrum normam recuperando anche elementi che erano andati perduti. 2) Maggior numero di letture bibliche. 3) Ripristino dell’omelia. 4) Ripristino della “Oratio communis”. 5) Ammissione della lingua viva, ma i fedeli debbono conoscere alcune parti dell’Ordinario della messa in lingua latina. 6) Comunione 6 2 «Ad pristinam sanctorum Patrum normam»; un principio contenuto nella Costituzione sulla sacra liturgia (n. 50), e che proviene dalla riforma liturgica del Concilio di Trento7. Ed effettivamente la riforma dei libri liturgici di Paolo VI venne fatta ricorrendo alle fonti delle più antiche liturgie della Chiesa, non solo romana. Gli studiosi di liturgia, dalla fine del secolo XIX in poi, si sono dedicati con grande impegno alla preparazione dell’edizione critica dei diversi antichi libri liturgici cui sono seguiti accurati studi storici e filologici. È di questo grande patrimonio che hanno potuto profittare le varie commissioni che, dopo il Vaticano II, hanno preparato i nuovi libri liturgici. Era molto inferiore, invece, la base documentaria di cui poté godere il messale moderno, ossia il messale del 1570, detto anche ‘Messale di Pio V’ oppure, erroneamente, ‘antico’. Quella del Vaticano II è stata una riforma con la pretesa di attingere abbondantemente all’antichità, perché miglior testimone della Tradizione. Ne segue che si doveva ricorrere a rigorosi studi storici; questi, tuttavia, non erano sufficienti, dato che nella storia ci sono le testimonianze le più svariate ed è necessario elaborare dei precisi criteri per poter fare le scelte adatte. È per questo che vennero preparati gli altiora principia di cui abbiamo già parlato. Dobbiamo ricordare che, oltre ai contenuti teologici e al rapporto con la Tradizione, c’è un altro elemento che caratterizza la liturgia: il rapporto con la comunità che la celebra, che si evolve lungo la storia, in base ai cambiamenti che avvengono nella comunità stessa. È per questo che la liturgia diventa uno dei segni dell’identità di un popolo. 3 La liturgia e l’identità di un popolo Lo storico Orosio, agli inizi del V secolo, nella prefazione al libro V, parlando dell’Africa scriveva: «Ubique patria, ubique lex et religio mea est: nunc me Africa […]. sedes mei iuris et nominis sunt, quia ad Christianos et Romanos Romanus et Christianus accedo»8. La religio è un elemento che caratterizza l’identità e la religio si esprime nei suoi riti, al punto che, invece di religio potremmo ben scrivere liturgia. L’unità dei cristiani si esprime nell’unità della loro liturgia. dei fedeli con l’eucaristia del medesimo sacrificio. 7) Comunione sotto le due specie. 8) Concelebrazione, secondo il rito apposito che dovrà essere approntato (Sacrosanctum concilium, nn. 50-58). 7 È la stessa parola d’ordine della riforma tridentina, tenendo conto che non si può opporre il Concilio di Trento alla riforma post-tridentina dei vari papi. Prendiamo gli Atti del Concilio di Trento: «Missalia secundum usum et veterem consuetudinem S. R. E. reformentur, omnibus iis, quae clanculum irrepserunt, repurgatis» (Abusus qui circa venerandum missae sacrificium evenire solent, in: Concilium Tridentinum. Diariorum, actorum, epistularum, tractatuum nova collectio, Edidit Societas Goerresiana, Herder, Friburgi Brisgoviae 1901-2001, Vol. VIII, pp. 916-921). La frase non entra nel Decreto tridentino di riforma, ma serve da ispirazione alla commissione posttridentina che si rispecchia nella bolla Quo primum tempore, con la quale Pio V promulga il messale nel 1570. La bolla dice che si deve tornare «ad pristinam sanctorum patrum normam». Il concetto, con una frase leggermente diversa, si trova anche nella bolla Quod a nobis, che riforma il breviario: «ad pristinum morem et institutum». Insomma, il criterio di riforma è il ritorno all’antico. Ne faccia fede l’invio del sacramentario gregoriano dalla Biblioteca Apostolica a Trento. Vaticano II (Sacrosanctum concilium, n. 50) e la Institutio generalis Missalis Romani di Paolo VI (Proemium n. 6) riprenderanno la frase «ad pristinam sanctorum patrum normam», come criterio di riforma del messale. Quindi, i criteri di riforma del messale di Pio V e quello di Paolo VI sono identici. Diversa è la competenza storica delle due epoche e la maggior ricchezza di documentazione oggi esistente. Entrambe le riforme, comunque, furono fatte con gli stessi criteri, compreso il caso dell’eliminazione di feste di santi da parte di Pio V. 8 Arnaud-Lindet M.-P. (ed.), Pauli Orosii. Historiarum aduersum paganos libri VII, (= Corpus christianorum. Series latina ??), Brepols, Turnholti 1990-1991, Vol. II, 5,2-3, linea 1ss. 3 La storia della liturgia cristiana ci insegna che la liturgia è “una” anche nella diversità dei riti9, ma bisogna imparare a distinguere il “rito” dalle modalità concrete di cui consta il rito, ossia dai gesti, dalle parole, dagli atteggiamenti, dagli oggetti che fanno parte della sua celebrazione. Gesti e parole: la messa bizantina è diversa dalla messa della Chiesa romana, ma il rito è il medesimo, il rito è uno solo, quello trasmesso da Gesù nell’ultima cena. Questo comporta che si sappia tenere connessa la celebrazione liturgica con il suo referente e che si sappia vedere che questo referente non solo l’origine storica e l’origine teologica della celebrazione liturgica, ma anche il suo “contenuto obiettivo”. Di solito, però, per un cristiano medio, non si tratta di “gesti e parole” che rinviano al referente, ma di quei “gesti e parole” che organizzano la celebrazione e che, di solito, appartengono alla storia culturale della celebrazione liturgica. Sono questi, quei “gesti e parole” che vengono sentiti come espressione dell’identità di un popolo, proprio perché sono “gesti e parole” di origine culturale. È questo l’elemento che rende difficile ogni riforma liturgica perché incide sull’identità culturale del popolo. Per dare un’idea di tutto questo, vediamo un esempio significativo. 4 Una riforma di Gregorio Magno: il momento della Frazione del pane Prima di Papa Gregorio (590-604), la Frazione del pane era collocata tra la dossologia finale del Canone Romano, dopo l’Amen, e il Padre nostro. Fu questo Papa che spostò il Pater dalla sua collocazione originaria, dopo la frazione, alla odierna collocazione subito dopo il Canon Missae e, quindi, prima della Fractio. La cosa non piacque a tutti cosicché il Papa dovette difendersi e lo fece spiegando le ragioni della la sua riforma nell’Epistula 9, 2610. Ancor oggi la Chiesa romana spezza il pane eucaristico subito dopo il Padre nostro secondo quanto stabilito da Papa Gregorio. Non così nella Chiesa ambrosiana ove la riforma di Gregorio magno non fu mai recepita. A Milano, ancor oggi, il pane viene spezzato alla fine della preghiera eucaristica, prima del Padre nostro. I fedeli di rito romano, che si recano a Milano, non trovano alcuna difficoltà in una celebrazione eucaristica che ha la frazione del pane in un momento diverso da quello del rito romano. Altrettanto vale per i fedeli di rito Ambrosiano quando partecipano ad una messa in rito romano, ad esempio a Monza. Ma se il rito Ambrosiano spostasse la Fractio panis e la collocasse dopo il Padre nostro, come nel rito romano, avremmo certamente delle resistenze. Altrettanto varrebbe per il rito romano qualora volesse spostare la Fractio panis per collocarla come nel rito Ambrosiano. Nella questione della posizione della Fractio, non c’è nulla di teologico, dato che ci sono buoni argomenti sia per l’una sia per l’altra soluzione e nessuna prevale sull’altra. Con queste considerazioni voglio dire che le riforme liturgiche debbono fare i conti non solo con il fatto liturgico in se stesso, e con le sue motivazioni, ma anche con la psicologia sia del clero sia dei fedeli, che non amano i cambiamenti a meno che le novità introdotte non rappresentino una esigenza sentita da tutti. 9 Cf.: Mazza E., «L’image de l’Église dans l’eucharistie à l’époque patristique», in: Lossky A. Sodi M. (édd.), La liturgie comme témoin de l’Église. Ce que révèlent les diverses familles liturgiques sur l’eucharistie, Conférences Saint-Serge. LVIIe Semaine d’études liturgiques. Paris 23-26 Juin 2008, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012, pp. 63-77; Idem, Lex orandi et Lex credendi. Que dire d’une Lex agendi ou Lex vivendi? Pour une théologie du culte chrétien, «La Maison-Dieu», 250 (2007) 111-133. 10 «Orationem uero dominicam idcirco mox post precem dicimus, quia mos apostolorum fuit, ut ad ipsam solummodo orationem oblationis hostiam consecrarent» (Registrum epistularum 9, 26; in: Norberg D. (ed.), S. Gregorii Magni. Registrum epistularum, Libri VIII-XIV, Appendix, (= Corpus christianorum. Series latina 140A), Brepols, Turnholti 1982, Lib. 9, epist. 26, linea 29). 4 5 La riforma a confronto con la storia Per il concilio la norma primaria della liturgia sta nella Tradizione della chiesa, all’interno della quale la testimonianza patristica gioca un ruolo decisivo e capitale. È evidente che la riforma liturgica deve confrontarsi con la storia. In questa prospettiva vengono formulati due principi: dopo aver eliminato le parti che erano state duplicate, bisogna eliminare tutto ciò che, meno opportunamente, era entrato nella liturgia e, inoltre, recuperare dalla tradizione quanto era andato perduto, sempre che ciò sia giudicato opportuno o necessario11. Nella riforma liturgica non si può fare dell’archeologismo: si deve formulare un giudizio di opportunità, o anche di necessità e, in base a questo, procedere alla riforma. Un tale giudizio trascende i limiti della storia e deve essere formulato in base a determinati criteri, o principi, che tuttavia non sono facili da formulare. Deve essere chiara una cosa: per la riforma si deve risponderne alla Tradizione. Torneremo su questo punto. La Chiesa, lungo i secoli, ha incontrato altri casi di riforme liturgiche che, più o meno, hanno subito le stesse vicissitudini della riforma del Vaticano II. Vediamo ora due casi: la riforma liturgica in Hispania, con l’abolizione della liturgia Vetus hispanica, e il caso della riforma liturgica nella Chiesa russa del XVII secolo. 6 Une riforma liturgica in Spagna: l’abolizione della liturgia Vetus Hispanica Uno dei casi più interessanti di riforma liturgica è avvenuto in Spagna alla fine del primo millennio e il risultato fu semplicemente la soppressione dell’antica liturgia spagnola nel 1080. I fatti cominciano da lontano quando, nell’ottavo secolo, la decadenza culturale dell’Europa venne sentita fortemente anche in Spagna dove nacque la cosiddetta eresia «adozionista» il cui esponente più significativo fu Elipando (+ 790), arcivescovo di Toledo. Egli combatteva un certo maldigerito arianesimo di Mignezio e, per farlo, si imbarcò in una costruzione teologica sicuramente infondata ed erronea, il cosiddetto adozionismo. La mancanza di precisione teologica si mescolava con un forte orgoglio e un senso di autosufficienza che lo portava ad una difesa a oltranza delle proprie posizioni. Tutti coloro che furono coinvolti nella polemica, utilizzarono abbondantemente i testi liturgici per sostenere la loro posizione. I testi erano quelli dell’antica liturgia spagnola detta anche visigotica o mozarabica. Questo dimostra, come dice il compianto Jordi Pinell i Pons12, fino a che punto l’antica liturgia rappresentasse per loro l’espressione della fede tradizionale; lo stesso fatto dimostra ancora che, se poteva essere citata anche contro di lui, l’antica liturgia non aveva niente a che vedere con l’adozionismo che Elipando sosteneva. Felice, vescovo di Urgell, aderì alla dottrina di Elipando. Felice apparteneva alla Marca Hispanica, una regione di cultura ispanica ma geograficamente e politicamente appartenente al regno dei Franchi. A causa di ciò, il problema di questa cosiddetta eresia diventò un pericolo più ampio che minacciava l’ortodossia della Chiesa intiera. Intervenne Carlo Magno che denunciò il fatto a Papa Adriano (772-795). Era soprattutto il vescovo Felice ad essere oggetto delle decisioni sia di re Carlo sia di Papa Adriano e dei sinodi da loro indetti. Le condanne non risolsero il problema, per cui Roma cominciò a preoccuparsi della questione, ossia della reale ortodossia del rito ispanico. Nel decimo secolo il presbitero Zanellus fu mandato dal Papa a esaminare i libri liturgici della Spagna; egli non trovò nulla che potesse sembrare una eresia, ma si rese conto che il racconto dell’ultima cena, durante la messa, non era 11 «Quamobrem ritus, probe servata eorum substantia, simpliciores fiant; ea omittantur quae temporum decursu duplicata fuerunt, vel minus utiliter addita; restituantur vero ad pristinam sanctorum Patrum normam nonnulla quae temporum iniuria deciderunt, prout opportuna vel necessaria videantur» (Concilium Vaticanum II, Constitutio de sacra liturgia, “Sacrosanctum concilium”, n. 50). 12 Per tutta questa trattazione mi rifaccio a Pinell i Pons J., «Le famiglie liturgiche», in: Aa. Vv., Anamnesis. La liturgia. Panorama storico generale, Vol. II, Marietti, Casale Monferrato 1978, pp. 62-88. 5 identico a quello della liturgia romana perché dipendeva direttamente alla prima lettera di Paolo ai Corinzi. Tuttavia la visita si concluse positivamente dato che l’inviato papale lodò la liturgia ispanica limitandosi a chiedere un cambiamento del racconto dell’ultima cena per uniformarlo al rito romano. Ma la romanizzazione del rito ispanico era cominciata da lunga data, già prima della lettera di Papa Vigilio al vescovo Profuturo di Braga (538) ed era continuata, qua e là, in varie forme. Una tappa significativa si ha con il Concilio di Coyanza (1050) che permise l’introduzione del Canone Romano. Nel 1068 il problema venne di nuovo posto sul tappeto durante il pontificato di Papa Alessandro II (1061-1073). L’inviato del Papa era il cardinale Ugo il Candido che aveva lo scopo preciso di arrivare alla soppressione del rito spagnolo, ma i vescovi si opposero fortemente rifacendosi alla approvazione di Zanellus. Davanti all’insistenza sia di Ugo sia di altri cardinali, i vescovi decisero di mandare una delegazione a Roma per discutere la questione direttamente con il Papa facendogli esaminare direttamente i testi della loro liturgia. Papa Alessandro esaminò detti libri e concluse che non c’era nulla di eretico confermando, quindi, che l’antico rito ispanico era ortodosso e poteva continuare a esistere. Il caso diventa completamente diverso con il successore, il Papa Gregorio VII (1073-1085), che aveva un preciso programma di riforma della Chiesa; un programma difficile da realizzare perché incontrava opposizione anche nell’episcopato. La sua esperienza maturata nella querelle con la Chiesa d’Oriente fu determinante. Egli, infatti, si era reso conto che la differenza dei riti liturgici trascinava con sé una differente disciplina della Chiesa. La diversità dei riti aveva aperto un abisso tra la Chiesa di Roma e le chiese d’Oriente. Una liturgia propria in Spagna limitava il raggio d’influenza del suo programma di riforma. Il Papa quindi decise per l’abrogazione del rito ispanico, ma questa volta non si rivolse ai vescovi bensì al re. La questione del rito ispanico era diventata una questione politica. Tramite i legati papali era stato possibile sostituire l’antico rito ispanico con il rito romano in alcuni monasteri ma non nell’intera Spagna. Nell’anno 1079 Gregorio VII mandò come legato l’abate Riccardo di Marsiglia che fece in modo che Alfonso VI, re di Castiglia e di León, convocasse il Concilio di Burgos (1080) che abrogò l’antico rito ispanico e impose di sostituirlo con il rito romano in tutto il regno. La cosa, tuttavia, non fu indolore dato che sia il popolo sia il clero era molto legato all’antico rito. Ne è segno il fatto che, alla presa di Toledo, come riconoscimento dei loro meriti, il re concesse ai Mozarabi che nelle sei parrocchie di questa città venisse ripristinato l’antico rito, malgrado l’abolizione che era stata decretata dal Concilio di Burgos. Le comunità mozarabiche difesero con grande decisione questo loro diritto anche quando l’arcivescovo di Toledo, Bernardo di Sahagún (1085-1124) cercò di sopprimere tale privilegio. Nel 1495 il cardinale Francisco Ximénez de Cisneros, rendendosi conto dell’importanza del rito antico della Spagna, istituì nella cattedrale di Toledo la cappella mozarabica affinché ogni giorno vi si celebrasse la messa e l’ufficiatura secondo l’antico rito. Inoltre il cardinal Ximénez incaricò il canonico Alfonso Ortiz dell’edizione a stampa del messale e del breviario, che furono pubblicati a Toledo nel 1500 e nel 1502; il messale fu ripubblicato a Roma nel 1755 con un ampio corredo di note veramente utili, a cura del gesuita Alessandro Lesley. Una nuova edizione fu pubblicata a Roma a cura del cardinale Lorenzana nel 1804. Ma il rito Vetus Hispanicus non è solo questione del passato; quando il Concilio Vaticano II iniziò la riforma liturgica, la Chiesa spagnola che si ricordava del suo antico rito, cercò di farlo risorgere13. Nel 1982 il cardinale Marcelo González Martín nominò una commissione di esperti per la revisione del messale di rito ispanico a norma del Vaticano II. La nuova edizione del Missale Hispano-Mozarabicum, in quattro volumi, fu approvata nel 1988, corredata di Praenotanda e norme14, da utilizzare per celebrazioni occasionali o per celebrazioni legate a determinati periodi. 13 Pinell i Pons J., «Storia delle liturgie occidentali non romane», in: Chupungco A. J. (ed.), Scientia liturgica. Manuale di liturgia, Vol. 1, Ed. Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 1998, p. 213. 14 Ward A. - Johnson C., «Présentation, Appendices», in: Férotin M., (éd.), Le Liber Mozarabicus Sacramentorum et les manuscrits mozarabes, (= Monumenta ecclesiae liturgica 6), Librairie de 6 Ciò non significa che in Spagna sia tornato in vigore l’antico rito al posto del rito romano. Il rito Hispano-Mozarabicus resta una possibilità per situazioni particolari o occasionali. Normalmente in Spagna si celebra la liturgia romana secondo il messale di Paolo VI debitamente tradotto. In conclusione, trovo particolarmente interessante la situazione spagnola ove, dopo un millennio, c’è ancora il desiderio dell’antico rito Vetus Hispanico. Inoltre va osservato che qui è come se fossero in vigore due riti: un rito ordinario costituito dal messale di Paolo VI, e un rito straordinario costituito dal Missale Hispano-Mozarabicum erede della grande tradizione di questa antica liturgia. 7 Una riforma liturgica nella Chiesa russa: il caso del patriarca Nikon Di umili origini, dopo un matrimonio poco felice, Nikon (1605-1681) si fece monaco distinguendosi per la sua generosità verso i poveri15. Dopo essere stato Metropolita di Novgorod fu eletto Patriarca di Mosca nel 1652. I rapporti del Patriarca con lo Zar erano molto stretti, dato che Mosca, in quanto Terza Roma, aveva ereditato la concezione bizantina della ‘sinfonia’ ossia della identità di vedute e di azione tra Patriarca e Zar, cosa che si rifletteva soprattutto nella politica estera. Lo zar Alessio (1645-1676) aveva un suo progetto politico di espansione dell’impero, di creare un impero ortodosso riunendo tutti gli ortodossi del mondo sotto di lui, Zar di Mosca, Terza Roma16. Per Alessio la riforma liturgica era il primo passo del suo programma: l’unità liturgica era essenziale, perché se le chiese fossero state divise tra loro con differenti liturgie non avrebbero potuto diventare un solo impero. Il nucleo di questa prospettiva stava nel carattere di Mosca, erede dell’Impero di Costantinopoli che, per definizione, era universale. Ivan IV aveva assunto per primo il titolo di Zar, che nel 1561 fu approvato dal decreto del Patriarca costantinopolitano: nacque cosi la teoria che voleva “Mosca Terza Roma”, corroborata dal fatto che il nonno di Ivan il Terribile, Ivan III il Grande, aveva sposato Zoe (Sofia) Paleologa ultima discendente della famiglia imperiale dei Paleologi, cui si aggiunse la leggenda che le insegne imperiali fossero state portate a Mosca e ivi custodite. Già prima del 1652 era iniziata la riforma di Alessio che, con l’aiuto del suo confessore, Stefano Vonifatiev, aveva abolito la pratica della monogoglasia17 contro la volontà del patriarca Giuseppe. Lo Zar aveva iniziato i preparativi della riforma liturgica nel 1649 stimolato dalla visita del Patriarca Paisios di Gerusalemme; voleva fare una riforma a immagine di quella di Petro Moghila (1596-1646, Metropolita di Kiev dal 1632) che aveva ravvicinato gli usi ruteni a quelli greci. Per Alessio era chiaro che i Greci avessero conservato intatti gli usi antichi: non c’era alcun dubbio in merito e questo divenne un postulato. Per fare la riforma della liturgia ci voleva un modello e, ovviamente, in quanto erede di Costantinopoli, il modello della riforma era la liturgia greca. Vedendo le differenze tra la liturgia greca e quella russa, lo Zar volle ‘correggere’ gli usi Firmin-Didot et C.ie, Paris 1912, Réimpression de l’édition de 1912 et bibliographie générale de la liturgie hispanique, préparées et présentées par Anthony Ward et Cuthbert Johnson, (= Bibliotheca “Ephemerides Liturgicae”. Subsidia. Instrumenta liturgica Quarrerisiana 4), CLV-Edizioni liturgiche, Roma 1995, pp. 31-40. L’edizione completa delle norme si trova in: Notitiae, 24 (1988) 673-680. 15 Cioffari G., «Nikon», in: Farrugia E. G. (ed.), Dizionario enciclopedico dell’Oriente cristiano, Pontificio Istituto Orientale, Roma 2000, p. 530. 16 Meyendorff P., Russia. Ritual and Reform, The Liturgical Reforms of Nikon in the 17th Century, St. Vladimir’s Orthodox Theological Seminary Press, Crestwood (NY) 1991, p. 96. 17 Con questo termine si indica l’esecuzione simultanea di più parti dell’ufficiatura, con lo scopo di guadagnare tempo, senza essere costretti a sopprimere l’uno o l’altro elemento dell’ufficiatura stessa. Cf. Pott Th., La réforme liturgique byzantine, Étude du phénomène de l’évolution nonspontanée de la liturgie byzantine, (= Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia 104), CLV Edizioni liturgiche, Roma 2000, p. 214, nota 95. 7 russi sulla base dei codici greci, supposti antichi. La liturgia greca fu considerata la più antica e, quindi, originale, mentre gli usi russi vennero spiegati come errori introdotti a causa di cattive trascrizioni dei codici antichi. Il vero genio della riforma, tuttavia, non era il patriarca Nikon, bensì lo zar Alessio per il quale il patriarca non fu altro che uno strumento di esecuzione18. Il Patriarca Nikon si mise nella linea di Alessio e, nel 1652, iniziò la riforma dei libri liturgici russi. Con l’avvento di Nikon la riforma subì un’accelerazione grazie al suo carattere energico e proseguirà anche dopo la sua rinuncia al trono patriarcale (1658). Nel 1551 il Concilio dei cento capitoli aveva cercato di mettere ordine nella pratica liturgica e aveva dichiarato come normativi i libri liturgici russi proponendo come modello il manoscritto del služebnik19. Attento più agli aspetti esteriori della liturgia che al valore teologico dei testi, Nikon mirava più al prestigio personale, alla solennità del liturgia del Patriarca, che al contenuto dei testi che venivano riformati. Le riforme che egli intraprese, furono caratterizzate da due tendenze che le resero odiose alla maggioranza dei credenti: esse furono introdotte in modo brusco e autoritario e presentarono gli usi liturgici greci come i soli da seguire, ferendo in tal modo il patriottismo religioso dei Russi. Per essere certo che l’insieme dei cambiamenti corrispondesse agli usi greci, Nikon inviò al patriarca di Costantinopoli 28 quesiti sulla liturgia. Nel 1654 Alessio aveva convocato un Concilio per chiedere ai vescovi di approvare la correzione degli usi russi, considerati come corruzione degli usi greci. Ma la base per le correzioni non furono gli antichi codici greci, ma l’Eucologio greco edito a Venezia nel 1602. Era la trasposizione in russo delle rubriche della contemporanea pratica greca, mentre i mutamenti nei testi non avevano reale portata teologica. Ma forse non c’erano solo elementi rituali; infatti, secondo Nicolay Ouspensky (emerito dell’Accademia Teologica di Leningrado), c’era anche una componente teologica dietro queste riforme e si trattava della teologia eucaristica che si sarebbe infiltrata nel nuovo messale riformato che era stato presentato nel 1655 al Concilio che, poi, lo aveva approvato. La riforma avrebbe dovuto essere tributaria di antichi testi greci e slavi, ma questo messale fu composto in un mese soltanto, un tempo insufficiente per consultare i codici «slavi e greci antichi», come si afferma nell’introduzione20. Inoltre «il prof. A. A. Dimitrievsky ha stabilito che il messale datato 31 agosto 1655 si basava sul messale Striatinsky del vescovo di Lwow, Gedeone Balaban, pubblicato nel 1604, ma con importanti correzioni secondo l’Eucologio di Venezia del 1602»21. Si basava anche su dei messali di Kiev, quello dell’archimandrita Eliseo Yelisey Pletenetsky (ed. 1620) e quello di Petro Moghila (ed. 1629) che, in un certo modo, risentivano della dottrina occidentale sull’eucaristia. Non so se queste infiltrazioni di dottrine occidentali abbiano influito veramente sullo scisma in questione, ma prendo atto di questa prospettiva stabilita dal prof. Ouspensky. Nel 1655, nel giorno del trionfo dell’ortodossia, il patriarca Nikon procedette alla revisione solenne delle icone e fece distruggere e bruciare quelle che egli considerava come non corrispondenti alla regola, fossero esse ‘occidentalizzate’, oppure ‘russificate’. Nel maggio 1655 giunse a Mosca la risposta del patriarca di Costantinopoli, piena di moderazione, che sottolineava che le differenze dei riti potevano continuare a esistere e che l’unità intangibile non riguardava che la fede. Nel 1655 fu pubblicato un opuscolo che conteneva gli emendamenti proposti per l’anno successivo e furono chiamati eretici tutti coloro che attenendosi alla ‘vecchia maniera’ si rifiutarono 18 Pott Th., La réforme liturgique byzantine, Op. cit., p. 214. Pott Th., La réforme liturgique byzantine, Op. cit., p. 215. 20 Ouspensky N., «Le schisme dans l’Église russe au XVIIe siècle comme suite d’une collision de deux théologies», in: Triacca A. M. - Pistois A., (édd.), La liturgie expression de la foi, Conférences Saint-Serge, XXVe Semaine d’Études Liturgiques (Paris 27-30 Juin 1978), (= Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia 16), CLV - Edizioni liturgiche, Roma 1979, p. 232. 21 Ibidem, p. 235. 19 8 di accettare i cambiamenti. Questi oppositori si chiamarono “Vecchio-Credenti” e, in epoche posteriori, si divisero in due gruppi o sette. Il giorno del trionfo dell’ortodossia del 1656 fu scelto per la riforma del segno della croce; poi Nikon procedette alla sostituzione dei libri liturgici russi con delle nuove edizioni corrette in base ai testi greci, stampate paradossalmente a Venezia, il che provocò ulteriore diffidenza. I vecchi libri liturgici furono portati a Mosca e bruciati pubblicamente. I Russi, attaccati ai loro testi e ai loro canti, non si riconobbero più nei nuovi libri liturgici e la lotta si concentrò soprattutto sui testi dell’ufficiatura e sull’uso del segno di croce con due dita (uso russo) o con tre (uso greco). Questi divennero i due segni distintivi dell’opposizione alle riforme del patriarca Nikon. Le differenze riguardavano anche la preparazione dei santi doni e il numero dei pani liturgici. Gli abiti dei sacerdoti e dei monaci subirono ugualmente dei cambiamenti radicali22. Oltre al segno della croce con tre dita, ebbero un certo peso anche le prostrazioni della grande quaresima di Efrem Siro (4 grandi e 12 piccole prostrazioni, invece di 16 grandi). Pubblicati nel Salterio del 1653, questi cambiamenti fecero nascere un grande dissenso tra i correttori che vedevano disatteso il Concilio dei 100 capitoli del 1551. Quando nel 1658 Nikon lasciò il trono patriarcale, la rottura era un fatto già consumato; il movimento di opposizione, che si era raggruppato attorno al presbitero Petrov Avvakum, divenne un fatto di grande portata. Nel 1653 il Protopop Avvakum si era messo a capo della resistenza dei tradizionalisti contro la riforma liturgica che fu considerata un’alterazione del patrimonio dell’autentica fede ortodossa russa. Fu esiliato per dieci anni in Siberia (1653-1664). Dopo le dimissioni del Patriarca, lo Zar per favorire la pace nella Chiesa autorizzò la tolleranza dei vecchi libri liturgici russi, a condizione di non contestare l’ortodossia dei nuovi libri liturgici. Poiché l’opposizione non demordeva e poiché era impossibile raggiungere la pace della Chiesa, iniziò la persecuzione dei Vecchio-Credenti. Successivamente, il Grande Concilio del 1666 confermò la riforma del patriarca Nikon pur criticandone il metodo; i nuovi libri liturgici furono resi obbligatori e chi non si piegava alla riforma di Nikon, dichiarata ortodossa, veniva anatematizzato e imprigionato in monasteri. Ci fu, poi, un nuovo Concilio nel settembre 1666 con la deposizione di Nikon e nel febbraio 1667 i vecchi libri liturgici vennero dichiarati eretici. I Vecchio-Credenti furono abbandonati all’autorità civile per essere puniti. Avvakum fu scomunicato nel 1666 al grande Concilio di Mosca. Nel 1667 fu imprigionato e vi restò fino al 1682 quando fu condannato a morire sul rogo23. Il governo imperiale russo continuò a perseguitare i Vecchio-Credenti e molti di loro, nel diciottesimo secolo, fuggirono in Asia. Altri furono costretti ad abbandonare la Russia europea. Numerose comunità vissero nell’isolamento pressoché completo. Nel 1847 l’ex vescovo ortodosso Ambrogio di Sarajevo si unì a questo gruppo e consacrò due vescovi, dando inizio a una gerarchia all’interno del folto gruppo. Era nata una Chiesa parallela. Nel 1905 lo zar emanò l’Editto di Tolleranza che garantiva a questi scismatici un riconoscimento legale e, successivamente, ci furono vari tentativi per superare lo scisma. Nel 1929 il metropolita Sergio e il Santo Sinodo hanno tentato inutilmente di sanare la separazione; dopo la seconda guerra mondiale, gli incontri tra la Chiesa russa ufficiale e i Vecchio-Credenti culminarono nel 1971 con la solenne revoca dei reciproci anatemi. Finora, comunque, la piena comunione tra i Vecchio-Credenti e la Chiesa ortodossa russa non è stata ristabilita24. 22 Kovalevsky P., «Trois réformes liturgiques en Russie: 1551, 1620, 1652», in: Triacca A. M. Pistoia A., (édd.), Liturgie de l’Église particulière et liturgie de l’Église universelle, Conférences Saint-Serge (Paris, 30 juin - 3 juillet 1975), (= Bibliotheca Ephemerides liturgicae. Subsidia 7), Ed. Liturgiche, Roma 1976, pp. 202-203. 23 Čemus R., «Avvakum», in: Farrugia E. G., (ed.), Dizionario enciclopedico dell’Oriente cristiano, Pontificio Istituto Orientale, Roma 2000, pp. 94-95. 24 Roberson R., The Eastern Christian Churches. A Brief Survey, Edizioni ‘Orientalia Christiana’, Roma 1999 (6 ed.), p. 122. 9 È difficile valutare la consistenza di questi Vecchio-Credenti oggi. Con una valutazione prudenziale si può stimare che siano 2.500.000, mentre ci sono altre valutazioni che parlano di 4.000.000. 7.1 Altri elementi della riforma La percezione che alcune modifiche fossero frutto più di arbitrarietà che di solide e fondate motivazioni, ebbe come effetto quello di disorientare i fedeli e di mal predisporli nei confronti delle autorità religiose. Oltre ai cambiamenti già visti, citiamo altri interventi di riforma. Nel nuovo rito le processioni sono controsole invece che nella direzione del sole. Nel nuovo rito ci sono cinque prosfore invece di sette. L’Alleluia si dirà tre volte nel nuovo rito, mentre prima si diceva solo due volte. Le numerose modifiche nei messali e nei libri liturgici occupano all’incirca 400 pagine, ma sono tutti cambiamenti di questo genere. Ben più importante, invece, è l’atteggiamento dei Vecchio-Credenti che si oppongono per principio a ogni forma di ecumenismo, restando così fedeli a una scelta che appartiene alle origini stesse del movimento, contrario al progetto politico dello Zar Alessio. Non entriamo nelle particolarità dei vari gruppi nati dallo scisma dei Vecchio-Credenti, tra i quali c’è anche un movimento che rifiuta totalmente la gerarchia ecclesiastica. 7.2 Per una valutazione di questo scisma Inizialmente le divergenze tra i libri liturgici, e altre osservanze, dei Greci e dei Russi, vennero imputate a errori della tradizione russa. Ossia, nel tempo, la tradizione russa si sarebbe corrotta. La riforma quindi era tutta a favore dei libri liturgici greci. Solo alla fine del diciannovesimo secolo, iniziarono gli studi critici sulle antiche tradizioni russe. La conclusione è presto detta: gli usi della liturgia russa erano vicini all’originale mondo bizantino più di quanto lo fossero gli usi liturgici greci. E vediamo il perché. Il sistema liturgico bizantino25 è erede dei fasti imperiali di Costantinopoli prima dell’ottavo secolo ed è, di fatto, un ibrido dei riti di Costantinopoli e di Palestina gradualmente elaborati tra il nono e il quattordicesimo secolo nei monasteri del mondo ortodosso a partire dal tempo della lotta contro l’iconoclastia. In questo ha avuto un grande peso Teodoro Studita (759-826). A partire di qua lo sviluppo è stato continuo. Gli antichi usi russi, invece, fanno riferimento alla cosiddetta «fase imperiale», che appartiene al tardoantico, specialmente con il regno di Giustiniano (527-565), e che ha creato il sistema della liturgia cattedrale che, poi, è sopravvissuto per un certo tempo anche dopo la conquista latina (1204-1261). È stata molto importante sia l’era studita (800-1204) sia l’era della sintesi finale, neo-sabaita, dopo la conquista latina (1204-1261). L’era della sintesi finale, neosabaita, modificò gradualmente e, alla fine, soppiantò dappertutto il rito studita che, in definitiva, è anch’esso un rito “sabaita” ma di una generazione precedente. Il rito di Gerusalemme influenzò fortemente il rito di Costantinopoli. L’influsso avvenne attraverso i monasteri, anzitutto quelli di Palestina e di Costantinopoli. In una parola, gli usi liturgici russi erano rimasti fermi, mentre la liturgia bizantina ‘dei Greci’ aveva continuato a svilupparsi. Era evidente, quindi, che c’erano delle discrepanze tra la liturgia russa e la liturgia greca perché i Russi avevano conservato gli usi più antichi. La riforma liturgica del patriarca Nikon, dunque, fu basata sull’errore di ritenere che i testi russi fossero frutto di una corruzione dei più antichi testi greci. La pretesa di “tornare all’antico” finì, invece, per recepire i più moderni sviluppi della liturgia dei Greci. In altre parole, avvenne tutto il contrario di quanto lo zar Alessio e il patriarca Nikon si erano proposti. Né i Vecchio-Credenti né i riformatori avevano una conoscenza storica sufficiente per valutare quanto ci fosse di più antico nella liturgia 25 In tutto questo mi baso su Taft R. F., The Byzantine Rite: A Short History, Liturgical Press, Collegeville (MN) 1992. 10 russa e nella liturgia dei Greci. Dobbiamo dire che, al di là di questo, ci fu mancanza di prudenza in chi fece la riforma; ma gli avvertimenti non erano mancati: infatti, la lettera del patriarca Paisios, del 1655, sulla quale si basarono i vari concili, si limitava a raccomandare l’unità nella fede e nelle cose essenziali. 8 Conclusione A proposito della riforma della liturgia russa, dobbiamo dire che ci fu l’errore di considerare la liturgia non secondo la sua natura, la natura sua propria, quella che emerge dal rapporto con l’opera di salvezza operata da Cristo, bensì secondo la sua funzione sociologica. Infatti, la liturgia con i suoi riti, con i suoi gesti, con le sue preghiere, venne considerata come un segno dell’identità di un popolo e non in base alla sua natura e alla sua funzione. È vero che nell’analisi sociologica, la liturgia esprime fortemente l’identità di un popolo, e ne diventa quasi garante a causa della sua forte e innegabile componente culturale che è legata alla tradizione. Da qui la lotta e la polemica tra chi vuole conservare l’identità liturgica di un popolo e chi la vuole riformare; ma bisogna vedere per quali motivi la si vuole riformare e se le riforme sono vere riforme secondo la natura specifica della liturgia. Questa identità è fondata non tanto sulla Tradizione, quanto piuttosto – per la sua componente culturale – sulla forma che la tradizione della precedente generazione ha trasmesso alla generazione successiva. Nondimeno, va sempre ricordato che la liturgia nasce dall’opera redentrice di Cristo, e che è questo il criterio di valutazione primo e fondamentale. Non la sua funzione sociologica o psicologica. Credo di poter affermare che la liturgia entra necessariamente in una situazione di profonda crisi, quando è considerata non secondo la sua finalità, la finalità sua propria, ma secondo la sua funzione sociologica e psicologica di confermare gli individui nell’identità che essi ricercano. La riforma liturgica del Patriarca Nikon ne è un’evidente dimostrazione. Ma anche la riforma liturgica avvenuta in Hispania per volontà di Gregorio VII va giudicata alla stessa maniera, dato che obbediva a un criterio di politica ecclesiastica. Ma questo non esclude che essa abbia avuto effetti positivi, come effettivamente ha avuto. Passiamo ai giorni nostri. La riforma liturgica deliberata dal Concilio Vaticano II e successivamente posta in esecuzione dalla Sede Apostolica, è stata fatta per motivi pastorali, ossia per portare i fedeli alla partecipazione attiva, pia e fruttuosa. Quando Gesù conferì all’apostolo Pietro il primato, glielo conferì dicendo: «Pasci i miei agnelli» (Gv 21,15). Il verbo pascere viene ripetuto tre volte, secondo il consueto modo ebraico di stabilire il valore normativo della cosa. Ne segue che il pascere è un atto apostolico, un atto della gerarchia ecclesiastica che esercita il suo ‘primato’. Nell’attuazione della riforma liturgica, la gerarchia della Chiesa esercita il compito che le ha conferito Cristo, il potere più alto che le è stato conferito, quello di pascere, che noi chiamiamo pastorale. In tal caso, dunque, la promozione della partecipazione attiva – che fa parte del pascere – chiama in causa e si rifà al potere apostolico conferito da Cristo. Per la riforma liturgica, già a partire da Pio V, non fu difficile affermare che bisognava riportare la liturgia «ad pristinam sanctorum Patrum normam». Quello che è difficile, invece, è saper discernere, nella tradizione liturgica, quali sono le componenti propriamente culturali e quali sono le componenti cristologiche dato che, nella tradizione della Chiesa, le due componenti risultano sempre mescolate tra loro. Tuttavia è possibile dare un criterio indiretto, che abbiamo ricavato dalle due riforme liturgiche esaminate, quella hispanica e quella russa. Ossia possiamo dire che ciò che appartiene alla funzione sociologica o psicologica della liturgia è sicuramente di tipo culturale. Invece, non è necessariamente di origine culturale ciò che appartiene alla funzione sociale o alla spiritualità anche devozionale della liturgia. Liturgia e devozione polare sono più vicine di quanto si pensi. C’è inoltre, come abbiamo visto, la questione della ricerca storica che serve per accertare quale sia la Tradizione della Chiesa; proprio perché è uno strumento indispensabile, non è un 11 compito facile dato che la ricerca storica è sempre ulteriormente perfettibile. Non solo, infatti, compaiono nuovi dati ma, soprattutto, bisogna riconoscere che i metodi di indagine divengono sempre più raffinati. Per questo motivo si deve affermare che la riforma liturgica del Vaticano II non possa essere considerata come un fatto definitivo, semel et pro semper, ormai concluso dalla pubblicazione dei nuovi libri liturgici. Proprio perché la riforma liturgica è un atto pastorale – nel senso detto supra – noi dobbiamo ritenere che la liturgia dovrà continuamente adattarsi ai bisogni della comunità che la deve celebrare. Grosso modo, è quanto si proponeva il Consilium ad exequendam Constitutionem de sacra liturgia quando pensò che, dopo la preparazione dei nuovi libri liturgici, dovesse iniziare la terza fase della riforma26 consistente nell’adattamento alle varie culture. 26 Cf.: Braga C., Un problema fondamentale di pastorale liturgica: adattamento e incarnazione nelle varie culture, «Ephemerides liturgicae», 89 (1975) 5-39. 12 Appendice Il Messale Romano del 1962 è mai stato abrogato? Nelle sue memorie il Card. Ratzinger lamenta che, quando è entrato in vigore il messale di Paolo VI, è stato vietato l’uso del precedente messale, promulgato nel 1962 da Giovanni XXIII; egli, quindi, ha riconosciuto esplicitamente che, dopo la promulgazione del messale di Paolo VI, il messale del 1962 non era più in vigore27. Una commissione di nove cardinali, istituita da Giovanni Paolo II nell’estate 1986, avrebbe affermato che il messale precedente «non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso»28. In liea con questo tipo di interpretazione, il Motu proprio di Benedetto XVI, promulgato il 7 luglio 2007, Summorum pontificum, sostiene che il messale promulgato nel 1962 da Giovanni XXII non fu mai abrogato (numquam abrogatam). A rigore, è vero: in base alla canonistica dell’epoca, infatti, non fu mai abrogato ma fu obrogato. Per meglio chiarire questo tema, è bene confrontare alcuni testi. Ecco come si esprime il Codex iuris canonici, promulgato da Benedetto XV nel 1917 (in vigore fino al 1983), a proposito dell’obrogazione: «Lex posterior, a competenti auctoritate lata, obrogat priori, si id expresse edicat, aut sit illi directe contraria, aut totam de integro ordinet legis prioris materiam; sed firmo praeseripto can. 6, n. 1, lex generalis nullatenus derogat locorum specialium et personarum singularium statutis, nisi aliud in ipsa expresse caveatur» (Can. 22). In base a questo testo, la obrogazione è una forma di abrogazione, ottenuta mettendo una nuova norma (lex) al posto della norma precedente; in tal caso, non c’è bisogno di un apposito atto che esplicitamente abroghi la norma precedente. E così è avvenuto per la promulgazione del messale di Paolo VI (1070); vediamo come, tenendo ben presente che la obrogazione e la abrogazione riguardano le leggi, non altre realtà. Sul rapporto tra il Messale romano del 1970 e quello del 1962, allora vigente, ecco il testo del decreto della Congregazione dei Riti (6 aprile 1969) col quale si promulga il nuovo Ordo missae: «Haec Sacra Rituum Congregatio de speciali mandato eiusdem Summi Pontificis praedictum Ordinem Missae promulgat, statuens […]. Una vero cum Ordine Missae, evulgatur etiam Institutio generalis Missalis Romani quae deinceps locum tenebit tractatuum: Rubricae generales, Ritus servandus in celebratione et in concelebratione Missae, et De defectibus in celebratione Missae occurrentibus, qui initio Missalis Romani nunc extant»29. Dunque sono state sostituite tutte le rubriche e tutte le indicazioni rituali; inoltre, nella sua Constitutio, Paolo VI indica quali sono le parti del messale che vengono riformate o innovate30. 27 «Il secondo grande evento all’inizio dei miei anni di Ratisbona fu la pubblicazione del messale di Paolo VI, con il divieto quasi completo del messale precedente. [...] Il fatto che, dopo un periodo di sperimentazioni che spesso avevano profondamente sfigurato la liturgia, si tornasse ad avere un testo liturgico vincolante, era da salutare come qualcosa di sicuramente positivo. Ma rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale. [...] La promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentari dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche» (Ratzinger J., La mia vita. Ricordi (1927-1977), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, p. 113). 28 Citato da: Miccoli G., La Chiesa dell’anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma, (= Storia e Società), Laterza, Roma - Bari 2011, p. 316. 29 Cf. Kaczynski R. (ed.), Enchiridion documentorum instaurationis liturgicae (1963-1973), Vol. 1, Marietti, Torino 1976, n. 1373. 30 «Verumtamen in hac Missalis Romani instauratione, non solum tres, de quibus adhuc diximus, partes, hoc est Precatio Eucharistica, Ordo Missae et Ordo Lectionum, mutatae sunt, sed ceterae 13 Conclusione: non c’è dubbio che il nuovo messale voglia prendere il posto del messale di Giovanni XXIII. Lo dice esplicitamente il decreto della Sacra Congregazione dei riti, ora citato. Qui si verificano non solo uno, ma tutti i tre modi di obrogazione previsti dal CIC dell’epoca. Si noti che, propriamente parlando, non è il messale di Giovanni XXIII (detto anche di Pio V) che viene obrogato: si obrogano i decreti e cessano di valere le rubriche e le norme liturgiche che ne regolavano l’uso. A questi, si sostituiscono nuove rubriche e nuovi decreti. Fatto questo, ne risulta che è il messale stesso – il vecchio messale – a non essere più in uso, poiché sono state obrogate tutte le norme giuridiche che lo regolavano. D’altra parte, nel caso che non ci fosse stata obrogazione, il messale del 1970 non sarebbe mai entrato in vigore per carenza di promulgazione. Lo stesso Motu proprio di Benedetto XVI, Summorum pontificum, non solo non nega la validità della promulgazione, ma la considera tuttora in vigore al punto da definire il messale di Paolo VI come “unico rito ordinario”. Quindi esso è stato correttamente promulgato e i decreti di promulgazione sono validi: pertanto, se è valida la promulgazione del novo messale, è valida anche la obrogazione dei precedenti decreti ivi contenuta. Inoltre, la Constitutio di Paolo VI prevede esplicitamente un solo messale e infatti il messale del 1970 è presentato non come un altro messale, ma come un’ulteriore riforma del messale di Pio V, avente il medesimo scopo di ‘strumento di unità’. Posto questo meccanismo, dunque, il messale Reformatus ‘cambia’ il messale Reformandus restando nella continuità. In altre parole, lo sostituisce. Bisogna ricordare che il grande cambiamento si è avuto nel 1962 quando il messale di Giovanni XXIII acquisisce le norme sulla ‘partecipazione attiva’ promulgate da Pio XII nel 1958. Il messale di Paolo VI eredita queste norme e vi adegua le rubriche, meglio di quanto avesse potuto fare il messale del 1962. Se si mette in discussione il messale di Paolo VI, vuol dire che si mette in discussione il tema della partecipazione attiva che appartiene a tutti i papi del secolo XX, a cominciare da Pio X, per arrivare al Concilio Vaticano II stesso. Ma torniamo al nostro tema. Si può discutere sulla bontà dei cambiamenti operati nel messale di Paolo VI, ma non sulla legittimità giuridica del fatto e neanche sulla sostituzione di un messale con un altro (obrogazione). Il nuovo Codex iuris canonici, promulgato da Giovanni Paolo II nel 1983 elimina il termine “obrogatio” e lo sostituisce con “abrogatio” facendo vedere l’equivalenza delle due forme. Ecco il canone corrispondente: «Lex posterior abrogat priorem aut eidem derogat, si id expresse edicat aut illi sit directe contraria, aut totam de integro ordinet legis prioris materiam; sed lex universalis minime derogat iuri particulari aut speciali, nisi aliud in iure expresse caveatur» (Can. 20). Se mettiamo in sinossi il can. 22 del vecchio codice con il can. 20 del nuovo codice, si può vedere che essi sono identici, salvo un particolare: il verbo obrogare viene sostituito da abrogare; in tal modo si può vedere che, nella canonistica di oggi, obrogazione e abrogazione sono due isituti equivalenti. CIC (1917), can. 22 Lex posterior a competenti auctoritate lata, obrogat priori, si id expresse edicat, aut sit illi directe contraria, aut totam de integro ordinet CIC (1983), can. 20 Lex posterior abrogat priorem aut eidem derogat, si id expresse edicat aut illi sit directe contraria, aut totam de integro ordinet etiam, in quibus idem constat, recognitae et valde variatae sunt, id est: Temporale, Sanctorale, Commune sanctorum, Missae rituales et Missae votivae, quae vocant.» (Missale Romanum, cf.: Kaczynski R. (ed.), Enchiridion…, Vol. 1, n. 1369). 14 legis prioris materiam; legis prioris materiam; Ne segue che oggi si deve dire che obrogazione equivale formalmente ad abrogazione. Poiché la obrogazione è una forma di abrogazione, si deve concludere che l’odierna affermazione che il messale di Giovanni XXIII sia ancora in vigore – non essendo stato formalmente abrogato – è un’affermazione falsa dal punto di vista canonico. Infatti, dopo che sono state abrogate tutte le norme di carattere giuridico che lo regolano, ossia i decreti che contengono le Rubriche generali, il Rito da usare nella celebrazione della messa (Ritus servandus), e gli Errori durante la celebrazione della messa (De defectibus occurrentibus…), il messale non può più essere utilizzato. Ma qui bisogna introdurre un’importante distinzione. Il problema dell’abrogazione di un messale è mal posto, anzi, è un errore. Infatti l’abrogazione e l’obrogazione sono figure giuridiche: si abrogano o si obrogano le norme giuridiche, non i libri liturgici che – in quanto tali – non appartengono a questo ordine di cose. Ed effettivamente il decreto della Congregazione dei Riti che promulga il messale di Paolo VI, citato sopra, è un decreto giuridico che obroga o, con il linguaggio di oggi, abroga esplicitamente i precedenti decreti giuridici e che, inoltre, elenca quali norme obroghino le precedenti norme. Si deve, quindi, concludere che c’è stata una formale abrogazione. Conclusione: essendo stati obrogati i decreti e le rubriche che lo reggono, compreso il Ritus servandus, ne segue che il precedente messale non è più in uso, quantunque il messale, in quanto tale, non sia mai stato obrogato. 15