Fondato il 15 dicembre 1969
Settimanale
Nuova serie - Anno XXXVII - N. 43 - 5 dicembre 2013
5 giorni di sciopero a Genova. La popolazione solidarizza con i lavoratori
Rivolta dei lavoratori contro
la Privatizzazione
dei trasporti
Duramente contestato il sindaco Doria. Cadono
le illusioni sui sindaci arancioni. L’accordo non
convince tutti i lavoratori, specie i più giovani
La scintilla di un incendio che
si propagherà in tutto il Paese
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Genova, una delle combattive manifestazioni dei giorni scorsi contro le privatizzazioni
A causa di un ciclone e della sciagurata politica del territorio degli enti locali e della latitanza del governo
Tragedia in Sardegna
17 morti, 2.700 sfollati
Mancato allarme
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Su ordine di Napolitano
Le “forze dell’ordine” caricano e manganellano
I No Tav si battono a Roma
contro lo scempio della Valsusa
Ma Letta e Hollande tirano diritto sulla Torino-Lione. Attaccato il PD favorevole all’alta velocità
Il PD grazia
Cancellieri Raddoppiati i poveri
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Lo certifica l’Istat
La ministra della giustizia è una
raccomandata del magnate Ligresti
i giovani pd
contestano la
cancellieri
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Dal 2007 a oggi
sono passati
da 2,4 a 4,8 milioni
La metà
sono
al Sud
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Per decisione del CC del partito revisionista e fascista cinese
La Cina capitalista di Xi Jinping sposta
ancora più a destra la politica economica
sulla linea del rinnegato Deng
lo “stadio primario del socialismo” è un inganno
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Assemblea indetta dal “Comitato viva la costituzione” di Catania
Schembri denuncia le illusioni
costituzionali e invita al fronte unito
contro il presidenzialismo
La via maestra è il socialismo
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2 il bolscevico / rivolta di genova
N. 43 - 5 dicembre 2013
5 giorni di sciopero a Genova. La popolazione solidarizza con i lavoratori
Rivolta dei lavoratori contro
la privatizzazione dei trasporti
Duramente contestato il sindaco Doria. Cadono le illusioni sui sindaci arancioni.
L’accordo non convince tutti i lavoratori, specie i più giovani
La scintilla di un incendio che si propagherà in tutto il Paese
Dopo 5 giorni di durissima lotta che hanno paralizzato Genova,
il 23 novembre è stato sospeso lo
sciopero ad oltranza dei lavoratori dei trasporti pubblici, ma solo
attraverso un accordo a dir poco
ambiguo e riduttivo tra Comune,
Regione, Prefetto e dirigenti sindacali, che non ha convinto molti degli scioperanti, specialmente i
più giovani, e che per di più è stato imposto con metodi autoritari e
truffaldini all’assemblea dei lavoratori.
Gli autoferrotranvieri genovesi erano scesi spontaneamente in
sciopero il 19 novembre, alla notizia che la giunta comunale stava
per approvare una delibera che per
risanare il debito dell’Amt, l’azienda dei trasporti locale controllata al
100% dal Comune, apriva le porte
agli investitori privati, gettando le
basi per una sua parziale privatizzazione. Secondo il sindaco Marco Doria e la giunta formata da Pd,
Sel, Psi, Idv e Fds da lui capeggiata, la sola alternativa offerta ai lavoratori per reperire gli 8,3 milioni
di euro necessari a coprire il bilancio per il 2014 ed evitare il fallimento dell’azienda sarebbe stata
quella di frugarsi in tasca e accettare di nuovo pesanti sacrifici in
termini di riduzioni degli stipendi
e aumento dei carichi di lavoro. Di
nuovo, perché con un controverso
accordo firmato il 7 maggio scorso coi sindacati, i 2.500 lavoratori dell’Amt avevano già dovuto accettare dure condizioni per coprire
il bilancio 2013 per altri 8 milioni
di euro, con la rinuncia ai contratti
integrativi (mentre quello nazionale di settore è fermo da 6 anni) e ai
premi di produttività, più i contratti
di solidarietà per circa 600 lavoratori degli appalti.
Per questo la delibera comunale
che riproponeva pari pari gli stessi sacrifici e apriva ai privati era
suonata come un tradimento e una
beffa alle orecchie dei lavoratori, i
quali ben ricordavano le promesse del sindaco arancione, vicino
al partito di Vendola ed eletto nel
maggio 2012 come candidato indipendente del “centro-sinistra”, che
in campagna elettorale aveva spergiurato sulla difesa dei beni pubblici dall’assalto delle privatizzazioni.
Ad esasperare i lavoratori, per questo tentativo di reintrodurre di sottobanco la privatizzazione del trasporto pubblico dietro il ricatto del
dissesto economico dell’azienda,
era anche l’amara esperienza fatta con la precedente, fallimentare
privatizzazione dell’Amt, già tentata dalle giunte precedenti a partire dal 2005, quando l’azienda era
stata svenduta per il 41% alla francese Transdev, che successivamente l’aveva rivenduta alla Ratp. Per
essere poi ricomprata dal Comune a caro prezzo, dopo che i privati l’avevano spolpata ben bene e si
erano ritirati.
Inoltre i lavoratori avevano ben
chiaro l’esempio del modello liberista già imposto da Renzi a Firenze con la privatizzazione dell’Ataf,
svenduta a una società delle Ferrovie: privatizzazione che appena
realizzata ha subito prodotto quasi 300 esuberi reclamati dall’acquirente BusItalia, la stessa società
Un aspetto della contestazione contro la firma dell’accordo
Genova, 15 novembre 2013. Lo spezzone dei lavoratori dei trasporti durante lo sciopero generale
privata, per l’appunto, a cui guardava anche la delibera della giunta Doria per la vendita parziale di
Amt.
Contestato
il neopodestà
“arancione”
È per tutti questi e altri cento
motivi, compresi il rinvio continuo
del piano regionale dei trasporti e
del rinnovo del parco macchine ormai in sfacelo, i turni massacranti, il ricorso massiccio agli straordinari, i riposi saltati, gli stipendi
bloccati da anni, che il 19 novembre, appena appresa la notizia che
il Consiglio comunale si stava apprestando ad approvare la delibera
senza aver neanche chiesto il loro
parere, la rabbia degli autoferrotranvieri genovesi è esplosa spontanea e incontenibile. Subito i depositi sono stati bloccati, e non un
solo autobus è uscito dalle rimesse.
Centinaia di lavoratori si sono diretti verso palazzo Tursi, sede del
Comune, invadendo l’Aula rossa
del Consiglio comunale, dove il
neopodestà Doria, che ha cercato di
cavarsela menando il can per l’aia
con discorsi opportunistici sulla
necessità di far quadrare bilanci e
servizi ai cittadini, è stato contestato al grido di “buffone, buffone” e
“dimissioni, dimissioni”.
Alla fine il neopodestà è dovuto uscire dall’aula scortato dalla polizia comunale, denunciando
alla stampa il solito “attentato alla
democrazia”, come fanno regolarmente tutti i politicanti della destra
e della “sinistra” borghese quando
vengono contestati dalle masse. La
sua vergognosa parabola è la stessa di tutti i neopodestà e governatori, arancioni compresi, come Pisapia, De Magistris, Vendola e lui
stesso, che hanno fatto man bassa
di voti presentandosi come “diversi” e “indipendenti” dalle consorterie politiche. Ma in poco tempo si
sono rivelati invece fatti della stessa, identica pasta, mentre le illusioni che hanno seminato tra le masse stanno ormai cadendo ad una
ad una. A parole dicono di essere
contrari alle privatizzazioni, lamentandosi che sono tra l’incudine
e il martello, tra il governo che ta-
glia sempre di più i finanziamenti e l’esigenza di assicurare i servizi pubblici alla cittadinanza; ma
di fatto si fanno controparte dei lavoratori e delle masse popolari ed
esecutori della politica liberista e
di massacro sociale portata avanti dal governo sotto la supervisione della Ue.
E infatti, dopo la contestazione
in Comune, è scattata subito la ritorsione contro i lavoratori, col sindaco che annunciava il rifiuto di
discutere con loro finché non avessero cessato lo stato di agitazione; nonché del prefetto di Genova,
Giovanni Balsamo, che promulgava la precettazione dei dipendenti Amt e minacciava sanzioni con
multe da 500 a 1.000 euro per violazione della legge antisciopero.
Mentre a sua volta la procura di
Genova apriva un fascicolo contro
“ignoti” per il reato di interruzione
di pubblico servizio.
l’Atac di Roma, per coprire le multe comminate in base alla legge antisciopero.
È stata insomma una lotta corale che, nonostante il terrorismo
mediatico scatenato dalla grancassa dell’“informazione” di regime
contro lo “sciopero selvaggio” e i
“disagi intollerabili” per i cittadini di Genova, ha mobilitato per 5
giorni tutta la città, fortemente prostrata in questi anni dalla crisi industriale e dalla falcidie di aziende
e di posti di lavoro, e perciò insorta
a fianco dei tranvieri in un sussulto
di ribellione antiliberista, una lotta
per la sopravvivenza che qualcuno
ha paragonato non impropriamente alle eroiche 4 giornate del luglio
1960 contro il governo fascista
Tambroni: “Genova è la scintilla
di un incendio che si propagherà a
tutto il Paese”, era la parola d’ordine assurta infatti a simbolo di questa lotta corale.
L’intera città al fianco
degli scioperanti
Un accordo pieno
di punti oscuri
Ciononostante i lavoratori non
si sono fatti intimidire, e lo sciopero è proseguito e si è anzi intensificato anche nei giorni successivi, con cortei che hanno percorso
più volte la città, bloccando i caselli autostradali, la sopraelevata
e tutti i principali snodi viari della città. Uno sciopero ad oltranza
sostenuto con simpatia e pazienza
dalla popolazione di Genova, consapevole che la battaglia degli autoferrotranvieri era una battaglia in
difesa dei servizi pubblici e quindi di tutti i cittadini. Ai lavoratori
Amt in sciopero si sono anzi uniti anche i dipendenti di Aster e di
Amiu, altre due aziende municipalizzate, rispettivamente delle manutenzioni stradali e della raccolta
rifiuti, anch’essi a rischio privatizzazione. Perfino i tassisti sono scesi in piazza al fianco dei tranvieri.
Solidarietà agli scioperanti è stata
espressa anche dai lavoratori portuali e da delegazioni della Fiom e
delle cooperative. Anche su Internet si sono spontaneamente aperti
e moltiplicati i siti e i blog di solidarietà con gli scioperanti, ed è
iniziata anche una raccolta di fondi
pubblica, promossa anche in altre
aziende di trasporto pubblico come
II 23 novembre, al 5° giorno
di sciopero, i sindacati annunciavano di aver raggiunto un accordo in prefettura con Amt, Comune
e Regione, che a loro dire avrebbe
consentito all’azienda di rimanere pubblica senza toccare le retribuzioni, l’orario di lavoro e i riposi dei dipendenti. In particolare
i sindacati mettevano l’accento su
un’agenzia regionale “che sarà pienamente operativa nella primavera del 2014”, l’“investimento nel
parco mezzi” garantito dalla Regione con fondi europei e “nazionali” ( questi se pubblici o privati non è chiaro) per l’acquisto di
15 nuovi mezzi subito e altri 200
nel quadriennio 2014-17, e l’impegno del Comune a ricapitalizzare
l’azienda per 4,3 milioni di euro. I
restanti 4 milioni per coprire il deficit di bilancio – e qui viene la parte più oscura dell’accordo - sarebbero stati recuperati attraverso non
meglio definite “riorganizzazioni aziendali”, che per 2 milioni si
prevede di coprire con “l’esternalizzazione di quote di attività che
verranno affidate in appalto” (affidamento in appalto della manutenzione e di alcune linee periferiche come le collinari, sembra di
capire), da concordare tra le parti
con una trattativa aziendale dopo la
ratifica dell’accordo. E per altri 2
milioni attraverso “riorganizzazioni interne”, da individuare entro il
prossimo 31 dicembre.
È con questo accordo senza alcuna garanzia per il mantenimento
del carattere pubblico del sistema
di trasporto genovese, e poco chiaro anche riguardo al mantenimento
delle attuali condizioni stipendiali,
carichi di lavoro e livelli occupazionali del personale, che i dirigenti sindacali si sono presentati all’assemblea dei lavoratori convocata
alla Sala chiamata del porto per ottenere, in mezzo a proteste, contestazioni e anche scontri fisici, una
sbrigativa approvazione formale e
dichiarare la fine dello sciopero.
Perché questo era lo scopo vero di
tanta fretta, altrimenti non avrebbero proceduto con questo metodo
autoritario e antidemocratico, senza informare adeguatamente i lavoratori sul contenuto dell’accordo
e senza passare dalle assemblee di
deposito, come i lavoratori chiedevano. A dare man forte ai dirigenti sindacali capitolazionisti, a Doria
e Burlando e al prefetto di Genova
per spegnere l’incendio dello sciopero è arrivata anche l’immancabile provocazione “terroristica”, con
la notizia in piena assemblea di una
busta contenente frasi minacciose
e un proiettile indirizzata al presidente di Amt, Livio Ravera.
Continuare la lotta
in difesa dei servizi
pubblici
“Questo voto non può essere valido – ha commentato un lavoratore uscendo sconvolto dalla
Sala chiamate dopo il blitz dei dirigenti sindacali – ed è una presa in
giro. All’interno della sala c’erano
persone non di Amt. Inoltre, molti
di quelli che dovevano votare erano fuori oppure a fumare. Tutto si
è svolto velocemente, senza capirci granché. La votazione è avvenuta spostando all’interno della sala i
favorevoli da una parte e i contrari
dall’altra. Probabilmente i sì avrebbero vinto lo stesso ma con questo
voto si sono spaccati i lavoratori
dell’Amt”. Nel pomeriggio gli autobus ricominciavano ad uscire dai
depositi, non senza vincere le resistenze e le proteste di molti lavoratori che volevano continuare lo
sciopero; specie i più giovani, che
sono anche i più preoccupati per il
futuro dell’azienda.
Anche la dichiarazione di Doria
che “questo accordo si poteva raggiungere senza un giorno di sciopero” la dice lunga sulla svendita degli obiettivi dello sciopero stesso.
Se poi aggiungiamo la beffa delle
multe pazzesche che stanno arrivando agli scioperanti, nonostante che l’accordo avrebbe dovuto
escluderle, e come se non bastasse le ben tre inchieste aperte dalla
procura, tra cui quella a carico di
un centinaio di autisti che hanno
partecipato alla contestazione del
sindaco, per il reato di “minaccia e
oltraggio al corpo amministrativo e
politico”, reato punibile con la reclusione da uno a sette anni, ce n’è
più che abbastanza per respingerlo
come un accordo truffa e riprendere la lotta sugli obiettivi per cui è
cominciata e per far revocare immediatamente le multe e qualsiasi
provvedimento giudiziario a carico
dei lavoratori che scioperano. Ora
si può toccare con mano l’immenso danno che è stato fatto ai lavoratori quando i vertici sindacali collaborazionisti hanno accettato e fatto
passare l’infame legge antisciopero
sui “servizi pubblici essenziali”!
I lavoratori dell’Amt di Genova non vanno lasciati soli. Intanto
va appoggiata la richiesta di tenere un regolare referendum interno
sull’accordo, senza il quale non può
avere nessuna validità effettiva. La
loro lotta è la lotta di tutti i tranvieri e di tutti i lavoratori e le masse
popolari italiane contro la privatizzazione dei beni e servizi pubblici,
che proprio in questi giorni, con la
legge di stabilità del governo Letta
approvata dalla Ue, sta per varare
una raffica impressionante di svendite e di privatizzazioni di beni e
imprese pubbliche ai pescecani capitalisti. “Stiamo lottando anche
per voi”, c’era scritto su uno striscione appeso davanti a un deposito dell’Amt. Lo sciopero nazionale
di 4 ore nel Tpl (Trasporto pubblico
locale) proclamato per il prossimo
6 dicembre dall’Unione sindacale
di base (Usb) è da appoggiare, ma
occorre che entrino subito in campo tutte le organizzazioni sindacali
del trasporto locale, e se necessario
anche le segreterie nazionali, fino
a proclamare lo sciopero generale
di tutte le categorie, per salvaguardare i servizi pubblici e bloccare la
criminale ondata di dismissioni e
privatizzazioni che si vuol far passare nel Paese.
interni / il bolscevico 3
N. 43 - 5 dicembre 2013
A causa di un ciclone e della sciagurata politica del territorio degli enti locali e della latitanza del governo
Tragedia in Sardegna
Il ciclone che ha colpito la Sardegna nella giornata dello scorso
18 novembre ha provocato una
vera e propria strage - 16 morti
e un disperso (tra cui 4 bambini)
dei quali la maggior parte a Olbia,
2700 sfollati e danni ingentissimi (10.000 edifici senza corrente,
più di 500 km di strade provinciali colpite) - e successivamente la
perturbazione si è spostata provocando danni sulla Calabria Jonica
e sul Salento, dove c’è mancato
davvero poco di dover contare ulteriori vittime.
In Sardegna, oltre alla Gallura,
le zone più colpite sono l’Ogliastra, l’Oristanese e il Medio Campidano, con danni ingenti anche
alle aziende agricole, strade di
campagna spazzate via dai torrenti in piena e strage di bestiame con
centinaia di animali morti. Si sono
registrate vittime a Uras (Oristano) e a Torpè (Nuoro), a Dorgali - nel Nuorese - dove è crollato
un ponte, ed altre vittime si sono
avute a Olbia e sulla Provinciale
38 Olbia-Tempio in località Monte Pino. Oltre alla Gallura, le zone
più colpite sono l’Ogliastra, l’Oristanese e il Medio Campidano,
con danni ingenti anche alle aziende agricole, strade di campagna
spazzate via dai torrenti in piena e
strage di bestiame con centinaia di
animali morti.
Eppure nonostante il pesante
conto di vite umane, l’evento meteorologico è stato certamente eccezionale, ma per quantità di acqua in proporzione al territorio
colpito non maggiore di altri che
si sono verificati negli ultimi anni
in Sardegna ed altre zone d’Italia,
con punte di pioggia di oltre 400
mm, di poco maggiori rispetto a
quella registrata sempre in Sardegna, a Capoterra, il 22 ottobre
2008 quando caddero ben 372 mm
in sole 3 ore.
Quindi il nubifragio da solo
non può spiegare né l’elevato numero di morti né il disastro che
ha colpito il territorio della Sardegna, come il vescovo di Olbia
monsignor Sanguineti che durante la messa celebrata per i morti
dell’alluvione ha detto chiaramente “la mano dell’uomo non è estra-
nea a questa catastrofe”. E noi ci
sentiamo di aggiungere che quella
mano appartiene non all’uomo in
generale ma alla borghesia rapace e devastatrice (e ai suoi partiti
nelle istituzioni) che a nulla guarda se non al proprio tornaconto,
al profitto realizzato devastando e
cementificando il territorio e infischiandosene degli interessi e del
benessere delle masse popolari.
Infatti subito sono arrivate
chiare parole di esperti e di tecnici a sostegno di questa accusa è
mancato innanzitutto un tempestivo allarme della Protezione Civile, secondo Antonio Sanò - direttore del sito Ilmeteo.it - che punta
il dito contro la mancata attenzione da parte dell’organizzazione
di pubblico soccorso, alle previsioni meteo che il suo sito aveva
ampiamente anticipato con parecchi giorni di anticipo e che aveva
previsto che in Sardegna sarebbe
accaduto un nubifragio di quella
portata, ed anche i sindaci delle
zone colpite lamentano di essere
stati avvisati attraverso fax inviati solo 12 ore prima dell’inizio del
nubifragio agli uffici comunali che
domenica peraltro erano chiusi. In
uno squallido clima di scaricabarile il capo della Protezione Civile Franco Gabrielli si scaglia a sua
volta contro i sindaci dei Comuni,
accusandoli di incompetenza e di
incapacità di pianificazione.
Sotto pesante accusa finisce
anche il presidente della Regione
Sardegna, il berlusconiano Ugo
Cappellacci, accusato senza mezze parole da Legambiente di portare avanti una politica ambientale
responsabile dello sfascio idrogeologico del territorio dell’isola, e che tale politica lo espone
maggiormente ai rischi di alluvione. L’associazione ambientalista è dura con il governatore sardo e sostiene che il ciclone che ha
sconvolto la Sardegna potrebbe ripetersi in futuro in forme ancora
peggiori se non verrà fermato il disegno di revisione del piano paesaggistico regionale portato avanti dalla giunta regionale di destra.
Infatti pochi giorni prima del disastro la giunta Cappellacci ha
proceduto all’approvazione prov-
17 morti, 2.700 sfollati
Mancato allarme
Sardegna, 18-19 novembre 2013. Dall’alto si può vedere l’estensione e la gravità
dei danni del diluvio che si è abbattuto sulla zona di Olbia e provincia
visoria e preliminare dell’Aggiornamento e revisione del Piano paesaggistico regionale del 2006,
un’iniziativa politica che di fatto
apre la strada a nuove e massicce
cementificazioni che, come al solito, sono graditi regali ad amici ed
amichetti costruttori che muovono
voti o magari anche altre utilità, a
discapito ovviamente di un territorio che, lo dimostrano i recenti
avvenimenti catastrofici, di tutto
ha bisogno tranne che di cementificazioni.
Anche il Fondo Ambiente Italiano e Wwf Italia si uniscono nel
durissimo attacco alla forsennata politica di Cappellacci denunciando in un comunicato congiunto che “la recente revisione del
piano paesaggistico regionale,
adottata dalla Giunta Cappellacci, smantellando il complesso sistema di tutele del territorio, soprattutto dell’area costiera e dei
corsi d’acqua già ampiamente interessati dall’alluvione, aumenterà la fragilità dell’isola” lamentando anche l’inerzia del governo
centrale e soprattutto del ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo che non convoca l’Osservatorio nazionale per la
Qualità del Paesaggio dal 2008,
lasciando quindi con la sua negligenza mano libera a spudorati governatori regionali come Cappellacci.
A Olbia in modo particolare
sono sotto pesante accusa i ventuno condoni deliberati dal Comune in meno di 40 anni per motivi
essenzialmente elettorali e soprattutto per non disturbare il giro di
affari che sta dietro alla sistematica cementificazione della Costa
Smeralda: il risultato è che sono
state condonate e regolarizzate
abitazioni costruite a 15 metri dai
canali, sopra i letti dei fiumi, in
punti dove sono secoli che tracimano i torrenti.
A tal proposito anche la magistratura vuole chiarire parecchie
cose, con due inchieste giudiziarie
già avviate, una della procura di
Tempio Pausania per disastro colposo: i magistrati vogliono vederci chiaro sui piani di risanamento
che si sono susseguiti negli anni e
sulla mancata attuazione di misure
concrete connesse all’allerta meteo, vogliono capire se siano state eseguite tutte le opere relative
al sistema fognario, a quello delle
acque reflue e a quello della ma-
Due immagini che rendono parzialmente l’entità dei danni subiti dalla popolazione nelle zone alluvionate
nutenzione dei canali.
Le indagini di Nuoro invece
sono relative all’ipotesi di omicidio colposo per i morti di Tempio
Pausania, di Arzachena, di Olbia,
del ponte Oloè crollato provocando un morto, e di Torpè.
Il governo Letta, corresponsabile insieme alle amministrazioni regionale e locali del disastro
che ha funestato la Sardegna, non
deve lasciare soli gli alluvionati
ma deve immediatamente stanziare un piano straordinario di aiuti
economici che facciano fronte alle
emergenze provocate dall’alluvione e mettano in grado le popolazioni vittime di tornare rapidamente a condizioni soddisfacenti
di vita e di lavoro.
Lo certifica l’Istat
Raddoppiati i poveri
Dal 2007 a oggi sono passati da 2,4 a 4,8 milioni
La metà sono al Sud
L’Istat ha diffuso attraverso
il suo presidente Antonio Golini dati drammatici sull’aumento
della povertà provocato dalla crisi
economica capitalista che ha fatto
sì che dal 2007 al 2012 il numero di individui in povertà assoluta raddoppiasse in Italia da 2,4 a
4,8 milioni.
Golini è stato ascoltato in audizione al Senato sulla legge di stabilità ed ha spiegato come, specie
nell’ultimo anno, l’aumento si sia
esteso anche a strati sociali della
piccola borghesia che tradizionalmente presentano una diffusione del fenomeno molto contenuta grazie al tipo di lavoro svolto
e anche spesso grazie al secondo
reddito del coniuge.
Ciò che è costantemente peggiorato negli ultimi anni, secondo Golini, è l’indicatore di grave
deprivazione materiale che aveva mostrato un deterioramento
già nel 2011 e che è raddoppiato
nell’arco di due anni: quasi la metà
dei poveri assoluti (2.347.000) risiede nel Mezzogiorno (erano
1.828.000 nel 2011), di questi oltre un milione (1.058.000) sono
minori (erano 723.000 nel 2011)
con un’incidenza salita in un anno
dal 7 al 10,3 per cento.
L’Istat delinea un quadro
drammatico anche per l’occupazione, in modo particolare nelle
grandi imprese con almeno 500
dipendenti, che segna ancora una
discesa su base annua, con l’aumento ad agosto dell’1,5% del
tasso di disoccupazione sia al
lordo sia al netto dei dipendenti
in cassa integrazione. Rispetto a
luglio l’indice destagionalizzato
dell’occupazione nelle grandi imprese diminuisce rispettivamente
dello 0,1% al lordo dei dipendenti in cassa integrazione guadagni
e dello 0,4% al netto di quelli in
cassa integrazione. Sempre ad
agosto, fa sapere l’Istat per bocca del suo presidente, il numero
di ore lavorate per dipendente (al
netto di quelli in cassa integrazione) diminuisce, rispetto ad agosto
2012, dell’1,3%. L’incidenza delle ore di cassa integrazione guadagni utilizzate è pari a 44,6 ore
ogni mille ore lavorate, in aumento di 0,7 ore ogni mille rispetto ad
agosto 2012. Rispetto ad agosto
2012 il cosiddetto “costo del lavoro” per dipendente (al netto di
quelli in cassa integrazione) registra un aumento dello 0,8%.
La crescita dell’incidenza della povertà assoluta - spiega il presidente dell’istituto di statistica
- va dagli oltre 8 punti percentuali, quando il capofamiglia è in
cerca di lavoro (dal 15,5 al 23,6
per cento), ai 5,8 punti tra le coppie con tre o più figli (dal 10,4 al
16,2 per cento, con un incremento di oltre 6 punti se i figli sono
minori), ai quasi 5 punti percentuali (dal 12,3 al 17,2 per cento)
per le famiglie con cinque o più
Sono sempre di più le persone che sono costrette a recuperare gli scarti alimentari dei mercati e dei supermercati
componenti. L’incremento scende
a 3 punti percentuali per le famiglie con quattro componenti (dal
5,2 all’8,3 per cento ed a quasi 2
punti (dal 4,7 al 6,6 per cento) per
quelle con tre componenti.
Altro dato drammatico dato
dall’Istat è quello relativo al calo
dei consumi: nel primo semestre
2013 il 17% delle famiglie (1,6
punti percentuali in più rispetto
allo stesso periodo del 2012 e 4,9
punti percentuali in più dei primi
sei mesi del 2011) ha diminuito la
quantità di generi alimentari acquistati e, contemporaneamente,
ha scelto prodotti di qualità inferiore.
4 il bolscevico / interni
N. 43 - 5 dicembre 2013
Le “forze dell’ordine” caricano e manganellano
I No TAV si battono a Roma contro
lo scempio della Valsusa
Ma Letta e Hollande tirano diritto sulla Torino-Lione. Attaccato il PD favorevole all’alta velocità
Hanno sostenuto una battaglia
politica lunga un’intera giornata proprio nella Capitale occupata abusivamente dai rappresentanti delle lobby governative italiane
e francesi; hanno vinto contro la
repressione poliziesca che voleva
impedire il corteo; hanno raggiunto l’obbiettivo: assedio del vertice
Letta – Hollande.
Viva i No TAV, i movimenti per
la casa e i movimenti dei migranti che hanno dato l’ennesima dura
lezione al governo Letta-Alfano!
La giornata di lotta
Sono oltre 5mila, sono determinati a conquistare lo spazio per
la protesta nel centro storico di
Roma. Il concentramento a Campo De Fiori, nei pressi dell’ambasciata francese, sin dalle sue prime
battute, è particolarmente combattivo.
La giornata di lotta era iniziata in mattinata con l’incontro degli
studenti No Tav al liceo Mamiani
in occupazione. Nel pomeriggio,
un corteo non autorizzato, scandendo la parola d’ordine “se ci
bloccano il futuro, noi blocchiamo
la città”, ha aggirato l’imponente e
soffocante schieramento di “forze
dell’ordine”, schierato intorno al
parlamento ed ha vittoriosamente
raggiunto il concentramento. Altri manifestanti intanto avevano
improvvisato un presidio sotto il
CIPE (Comitato Interministeriale
per la Programmazione Economica), organo governativo che stanzia concretamente i fondi per le
grandi opere. Altri manifestanti intanto avevano raggiunto e circondato la sede nazionale del PD per
denunciare la posizione pro TAV
del partito di Epifani. Sul sito dei
No TAV, Paolo Di Vetta, attivista
dei Blocchi Precari Metropolitani
di Roma, così spiegherà la scelta
della manifestazione di attaccare
il PD: “Al primo posto nelle attenzioni di questo partito non ci sono
i senza casa, gli sfrattati, i pignorati, i precari, gli studenti, i migranti, gli abitanti aquilani alle prese
con una difficile ricostruzione della propria città e della propria dignità. Sono le lobby del mattone,
gli imprenditori come Ligresti, la
Lega delle cooperative, i profitti
legati alla rendita e al consumo di
suolo, invece, i fari di riferimento sui quali puntare e sui quali investire. Una vergogna da difendere anche con l’inasprimento degli
apparati di controllo sia a livello
locale che nazionale. Ecco perché
il PD è stato un obiettivo praticato dalla mobilitazione promossa in
occasione del vertice Italia-Francia...”
Le “forze dell’ordine” con una
gestione della piazza estremamente pericolosa e repressiva hanno
tentato di impedire ai manifestanti
che urlavano “Corteo! Corteo!” di
defluire dalla piazza. In via Giubbonari l’imponente schieramento
si è fronteggiato col corteo bloccato. Partono le prime proditorie e
violente cariche. È a questo punto
che la rabbia compressa dei manifestanti si è scagliata anche contro
la sede del PD di via Giubbonari,
che ha subito l’imbrattamento della targhetta e della porta e la contestazione “fascisti”!
Il corteo e il cordone di “forze
dell’ordine” si fronteggiano fino a
sera, quando i manifestanti hanno
la meglio, l’assedio militare vie-
Roma, 20 novembre 2013. Le masse in lotta denunciano gli astronomici costi
della TAV: “1 km di Tav = 1.000 case popolari”. Con mezzo chilometro di Tav lo
Stato potrebbe costruire un ospedale da 1.200 posti o 226 ambulatori o 38 sale
operatorie
ne tolto. Inizia la marcia “scortata” da un imponente schieramento militare. La manifestazione si
conclude al Circo Massimo. Nonostante le cariche e la repressione arrivano a concludere il corteo
diverse migliaia di manifestanti.
Le masse devono
controllare e dire
l’ultima parola
sui finanziamenti
pubblici!
Obbedendo al direttore dell’orchestra antipopolare, il nuovo Vittorio Emanuele III, Napolitano,
che esprime “la più netta condanna di questi atti di violenza”, le veline governative ancora una volta
si sono scatenate contro i No TAV
e i movimenti, bollando la mani-
Arrestati 9 dirigenti per peculato, corruzione,
abuso d’ufficio, falsità e turbativa d’asta
Appalti truccati nell’Azienda
comunale di Verona
Un sistema di corruzione ben collaudato nel feudo
leghista. Secondo l’accusatore “Tosi sapeva”
La mattina del 24 ottobre
la guardia di finanza ha arrestato
nove tra dirigenti e dipendenti della società municipalizzata veronese Agec che gestisce nel comune
scaligero guidato dal leghista Flavio Tosi gli alloggi pubblici, i servizi cimiteriali, le mense scolastiche e le farmacie comunali. Le
accuse formulate dal sostituto procuratore della Repubblica di Verona Gennaro Ottaviano sono pesantissime: peculato, corruzione,
abuso d’ufficio, falsità in atti e turbata libertà in procedure d’appalto, e proprio gli appalti sono finiti
sotto la lente d’ingrandimento dei
magistrati, soprattutto quelli relativi all’erogazione di servizi per
le mense scolastiche delle mense
dal 2010 al 2013 e quelli relativi
alla realizzazione degli alloggi residenziali pubblici realizzati nella
zona di Fondo Frugose.
In carcere sono finiti il diret-
tore generale Sandro Tartaglia, il
direttore per i servizi istituzionali Stefano Campedelli, la dirigente
Francesca Tagliaferro e l’imprenditore altoatesino Martin Klapfer mentre per le dirigenti Alessia
Confente e Luisa Fasoli e per i dipendenti Giovanni Bianchi, Davide Dusi, Giorgia Cona sono stati
disposti gli arresti domiciliari.
Le indagini della guardia di finanza sono partite da una denuncia presentata il 25 ottobre 2012
dall’ex presidente della società
municipalizzata Michele Croce,
che era stato rimosso dall’incarico
da Tosi in persona quando aveva
iniziato a mettere in discussione la
regolarità contabile della municipalizzata
Croce è chiarissimo: “Tosi sapeva”, del resto non si può spiegare in modo diverso dalla più becera
malafede la reazione del neopodestà leghista che, anziché ascolta-
re le legittime denunce dell’allora presidente e prendere opportuni
provvedimenti, lo caccia via.
E che il cerchio si stringa attorno al caporione leghista lo dimostra quanto accaduto quattro giorni dopo, il 28 ottobre, quando la
polizia ha effettuato - nell’ambito
della stessa inchiesta - una serie di
perquisizioni e di sequestri di documentazione nell’ufficio del vicesindaco Vito Giacino oltre che
nella sua abitazione ed anche nel
suo studio legale alla ricerca di
carte relative alla sua competenza di assessore alla pianificazione urbanistica, edilizia privata ed
edilizia economica popolare. Vito
Giacino, amico personale e fedelissimo di Tosi, è stato eletto in
una lista civica che ha appoggiato in modo determinante il sindaco alle ultime elezioni comunali
veronesi.
festazione come un semplice susseguirsi di violenze. Nessuno si
pone il problema che l’aver rinchiuso il corteo e l’averlo manganellato è una violentissima azione repressiva a fronte della quale
è ben poca cosa un assedio e una
targhetta imbrattata.
La questione inoltre è politica.
Il PD è stato attaccato perché si
è schierato a favore del TAV. Ma
vanno dette anche altre cose per
chiarezza. La violenza maggiore è
stata quella di Letta che nel summit con Hollande ha chiacchierato di miliardi da destinare alle
lobby del cemento per devastare
il territorio. Parlavano di devastare la Val di Susa proprio mentre in
Sardegna, nell’ennesima tragedia
annunciata e provocata, si muore
sotto il fango e le alluvioni. Questa è violenza reazionaria! Si parla di regalare miliardi mentre in
tutta Italia gli operai e i lavoratori
vengono licenziati a decine di migliaia, i giovani non hanno futuro,
le famiglie sono costrette a vivere
Roma, 20 novembre 2013. L’imponente schieramento di polizia ha bloccato per
diverse ore il corteo dei manifestanti
per strada, si tagliano servizi e si
aumentano le tasse. Questa è violenza reazionaria! Ecco, per quanto la propaganda antipopolare si
possa scatenare, la protesta contro
il TAV, il PD e il governo Letta è
destinata a crescere, poiché tra le
masse si sta diffondendo una coscienza sempre più chiara delle dimensioni del disastro economico e
sociale orchestrato da Napolitano
e Letta-Alfano.
In piazza c’era lo striscione “1
km di TAV = 1000 case popolari”.
E su dei cartelli era scritto: “500
metri di Tav = 1 ospedale da 1200
posti letto = 226 ambulatori = 38
sale operatorie”.
Cosa si potrebbe fare con quei
27 miliardi di euro destinati al
TAV? Cosa si potrebbe fare con
quelle decine di milioni di euro
all’anno che il governo spende per
mantenere il calcagno di ferro della militarizzazione sulle popolazioni della Val di Susa in rivolta?
Dare lavoro ai giovani, costruire
decine di scuole, ospedali, finanziare la cassa integrazione, risanare il territorio che frana addosso
agli italiani.
Non farlo è un atto di profondissima arroganza e violenza nei
confronti delle masse. Ma non c’è
verso che il rinnegato Napolitano
e il suo protetto Letta che, insieme
al suo compare Hollande, retrocedano da un progetto ancora una
volta definito “prioritario”. Evviva, allora, la coscienza che sta
tornando a prendere piede tra le
masse che non esiste nulla di ineluttabile, che esse devono e possono mettere in campo una dura
lotta per imporre il proprio volere su ogni euro di spesa pubblica
da stanziare. Noi chiediamo a questi combattenti, in primo luogo le
operaie e gli operai, le studentesse
e gli studenti, di confrontarsi anche con la questione principale: la
loro lotta è inseparabile dalla lotta
contro il capitalismo e per la conquista del socialismo. Solo il socialismo fermerà definitivamente lo scempio, destinerà i fondi
nell’interesse delle masse e potrà imporre una politica di rispetto e cura delle risorse naturali, del
territorio, della salute delle masse
popolari italiane.
Regione Abruzzo
Arrestato per tangenti
l’assessore De Fanis (Pdl)
Lo scorso 12 novembre sono
stati posti agli arresti domiciliari
l’assessore alla cultura della Regione Abruzzo Luigi De Fanis
insieme alla sua segretaria Lucia
Zingariello, mentre nei confronti della responsabile dell’Agenzia
per la Promozione Culturale della Regione Abruzzo Rosa Giammanco e del rappresentante legale
dell’associazione ‘Abruzzo Antico’ Ermanno Falone è stato disposto l’obbligo di dimora nell’ambito dell’operazione di polizia
denominata ‘Il Vate’.
Lo ha disposto il GIP del Tribunale di Pescara Mariacarla Sacco per i reati di concussione, truffa
aggravata e peculato che il procuratore capo della Procura della
Repubblica di Pescara, Federico
De Siervo ed il sostituto procuratore Giuseppe Bellelli contestano
ai quattro per gravissime irregolarità riscontrate sulle modalità di
erogazione dei contributi regionali in base alla legge abruzzese n.
43/1973 che disciplina l’organizzazione, l’adesione, e la partecipazione a convegni ed altre manifestazioni culturali.
Le indagini hanno preso il via
da una denuncia di un imprenditore che si è rivolto al corpo forestale dello Stato perché veniva sistematicamente e spudoratamente
fatto oggetto di richieste di denaro da parte di De Fanis in cambio della erogazione di fondi per
l’organizzazione di manifestazioni culturali.
In particolare le indagini hanno evidenziato uno squallido giro
di soldi percepiti dal quartetto che
approfittava dell’erogazione di
fondi regionali utilizzati quest’an-
no per l’organizzazione degli
eventi celebrativi del 150° anniversario della nascita del poeta
abruzzese Gabriele D’Annunzio,
ma sono emerse anche a carico soprattutto di De Fanis gravissime
ipotesi di peculato d’uso di beni e
risorse della Regione Abruzzo per
interessi privati: dalle intercettazioni delle telefonate intercorse tra
De Fanis e la sua segretaria emerge uno squallido giro di spudorato
favoritismo nei confronti dei loro
amici personali ai quali assegnare
consulenze o anche lavori precari
nell’ambito di varie manifestazioni, ma anche un disinibito uso del
denaro pubblico per l’acquisto di
beni strettamente personali tra cui
soggiorni in alberghi, bottiglie di
costosissimo champagne ed altre
spese che sono attualmente al vaglio degli inquirenti.
interni / il bolscevico 5
N. 43 - 5 dicembre 2013
Su ordine di Napolitano
IL PD GRAZIA CANCELLIERI
Con soli 154 voti a favore, 405
contrari, e tre astenuti, il 20 novembre la Camera ha respinto la
mozione di sfiducia individuale
presentata dal M5S nei confronti
del ministro della Giustizia Anna
Maria Cancellieri al centro di uno
scandalo che si fa ogni giorno più
grave: quello di essersi messa a
disposizione, in una telefonata intercettata dai magistrati inquirenti, della famiglia del magnate Salvatore Ligresti, colpita nel luglio
scorso da provvedimenti di custodia cautelare per gravi reati finanziari, e di essere intervenuta poi in
prima persona per far concedere
gli arresti domiciliari a una delle
figlie incarcerate, Giulia Ligresti.
A favore della mozione hanno votato il M55, Lega, Sel e Fdi.
Contrari PD, FI, Ncd, Scelta civica e Cd. Deputati assenti 67. Tra i
favorevoli alla sfiducia anche l’ex
Scelta civica Edorardo Nesi e gli
ex pentastellati Adriano Zaccagnini e Vincenza Labriola, tutti e tre
approdati nel gruppo Misto.
Ma a salvare la Cancellieri è
stato soprattutto il PD che, nonostante lo sdegno della base e i mal
di pancia interni dei renziani che
avevano preparato anche un ordine del giorno a firma Paolo Gentiloni per chiedere al partito di votare la sfiducia a Cancellieri, alla
fine si è letteralmente calato le
brache e “per disciplina di partito” e “responsabilità politica” renziani e cuperliani si sono tutti allineati e nascosti dietro il diktat di
Napolitano recapitato da Letta alla
riunione del gruppo dei deputati
PD ossia: trasformare il voto sulla Cancellieri in una questione di
fiducia al governo, salvare le “larghe intese” e rabbonire Berlusconi
assicurando il “prosieguo dell’azione di governo avviata dal ministro Cancellieri” con alla testa il
provvedimento di amnistia per il
La ministra della giustizia è una raccomandata del magnate Ligresti
i giovani pd contestano la cancellieri
neoduce già da tempo sulla scrivania del Guardasigilli.
“So che la pensiamo diversamente, ma vi chiedo responsabilità: l’unità del PD è l’unico punto di tenuta del sistema italiano.
Rifiutate una mozione di sfiducia che è frutto di una campagna
aggressiva molto forte e slegata
dal merito. Vi chiedo di considerarla per quello che è: un attacco
politico al governo. E la risposta
deve essere un atto politico: un rifiuto”, ha minacciato Letta, subito spalleggiato da Gianni Cuperlo che ha aggiunto: “Il ministro
ha dichiarato di non aver violato
alcuna norma. Ma la mia opinione è che per motivi di opportunità dovrebbe dimettersi prima del
voto. Ma se il premier ci chiede
un atto di responsabilità politica,
dobbiamo essere tutti responsabili”. Mentre la richiesta irrevocabile di dimissioni agitata da Renzi e
Civati si è letteralmente squagliata come neve al sole con Gentiloni che laconicamente ha annunciato il ritiro dell’ordine del giorno
pro dimissioni, perché, ha chiarito: “Prendiamo atto con rammarico ma rimane l’obiettivo di ottenere, dopo avere respinto l’attacco
politico, un gesto di responsabilità
del ministro”.
Alla fine anche Civati si è allineato rimangiandosi tutti gli attacchi alla Cancellieri degli ultimi giorni: “Non mi ritrovo nelle
riflessioni che si fanno qui ma ne
prendo atto con la responsabilità
che ci viene chiesta. La mozione
M5S non si può ovviamente votare e prendo atto dell’opinione della maggioranza”.
Insomma tutti d’accordo perché tutti sapevano, come ha con-
Letta solidarizza affabilmente con la ministra Cancellieri assicurandole il sostegno e la protezione del governo
fessato lo stesso capogruppo di
Montecitorio Roberto Speranza
ad alcuni parlamentari, che: “Se
il gruppo PD si pronuncia a maggioranza per le dimissioni, non si
arriva neanche al voto di sfiducia
dell’Aula, visto che più di mezzo
Parlamento è nostro”.
Per questo Letta e il segretario
del PD Epifani non si sono limitati
a “mettere la faccia” come chiedeva strumentalmente Renzi per difendere la Guardasigilli, ma hanno
praticamente costretto tutto il partito a obbedire compatto al diktat
di Napolitano pur di salvare ministro e governo.
Le motivazioni poste alla base
del salvataggio della ministra non
hanno convinto del tutto la base
del partito; il 23 novembre infatti la Cancellieri è stata sonoramente contesta dai giovani PD durante
un convegno sulla situazione carceraria italiana promosso dalla Sesta Opera San Fedele a Milano.
Travestiti da omini del Monopo-
li i giovani PD hanno scandito un
elenco delle persone morte in carcere e esposto cartelli con la scritta “Imprevisti: esci gratis di prigione”.
“Le probabilità, per un detenuto italiano di ricevere il medesimo trattamento della Ligresti sono
1 su 65mila - ha spiegato il segretario cittadino dei giovani PD
- Contestiamo la Cancellieri per
aver piegato ai suoi personali interessi l’apparato giudiziario e carcerario. Denunciamo lo scandalo di questa raccomandazione e ci
chiediamo se il ministro si sia speso nello stesso modo per ognuna
delle 26 persone morte suicide in
carcere durante il suo mandato...
Un ministro responsabile avrebbe
rassegnato immediatamente le dimissioni”.
Ciononostante e malgrado la
sua posizione si sia fatta ormai insostenibile, Napolitano, Letta e il
PD continuano a blindare la Cancellieri che, come testimoniano gli
ultimi risvolti giudiziari, da servitore dello Stato appare sempre più
al servizio della famiglia di Paternò dedita alla delinquenza finanziaria e alla corruzione.
Altro che “Caso chiuso” e “governo più forte” come sostiene
Letta!
Pochi minuti dopo il vergognoso voto assolutorio della Camera,
proprio mentre la ministra in Parlamento scandisce per l’ennesima
volta: “Non ho contratto debiti di
riconoscenza verso nessuno”, dalla Procura di Milano arrivano altri verbali a dir poco imbarazzanti sul conto della Cancellieri. Fra
tutti spicca il resoconto degli interrogatori di Salvatore Ligresti che il 15 dicembre del 2012,
parlando con i magistrati titolari
dell’inchiesta milanese su Fonsai,
dichiara testualmente: “Mi feci latore, presso Silvio Berlusconi, del
desiderio dell’allora Prefetto Cancellieri che era in scadenza a Parma e preferiva rimanere in quella
sede anziché cambiare destinazione... L’attuale ministro Cancellieri - si legge ancora nel verbale - è
persona che conosco da moltissimi anni e ciò spiega che mi si sia
rivolta e io abbia trasmesso la sua
esigenza al presidente Berlusconi.
In quel caso la segnalazione ebbe
successo perché la Cancellieri rimase a Parma”.
Parole che confermano in pieno l’intreccio di rapporti di amicizia tra Cancellieri e i Ligresti, entrambi i fratelli e non solo Nino
come ribadito in più occasioni dal
ministro e finanche nel suo intervento alla Camera.
Insomma è chiaro che la ministra della Giustizia è una raccomandata del magnate Ligresti e il
quadro d’insieme che emerge dalle indagini è a dir poco inquietante.
Non si capisce ad esempio
come mai la procura di Torino
(che ha aperto un fascicolo contro ignoti sulla fuga di notizie inerenti i tabulati telefonici tra il ministro della giustizia e Antonino
Ligresti) proprio alla vigilia del
voto sulla sfiducia, diffonde un
comunicato a firma del procuratore Giancarlo Caselli e del sostituto
Maddalena, per annunciare che “il
ministro Cancellieri non è indagato”. Ma, al tempo stesso invia gli
atti alla Procura di Roma, competente per territorio a indagare sui
reati afferenti a un ministro della
Repubblica, affinché vengano effettuati “i necessari, ulteriori approfondimenti”. Delle due l’una:
se non ci sono profili penali da
chiarire, nella posizione del Guardasigilli, l’inchiesta va archiviata. Se invece ci sono, allora non
si spiega come mai la Cancellieri non è ancora finita nel registro
degli indagati. I magistrati torinesi, sorprendentemente, non hanno
fatto né l’una né l’altra scelta.
Una circostanza che ripropone
interrogativi inquietanti sui torbidi
rapporti e lo scambio di favori tra
la famiglia Cancellieri e i Ligresti.
In questa losca vicenda tutto, a
cominciare dalla vicenda del figlio
del Guardasigilli: Piergiorgio Peluso, assunto e poi fuggito da Fonsai (con la liquidazione d’oro per
un solo anno di 3,6 milioni) per
dopo averne scoperchiato il buco
da 1 miliardo, conferma l’esistenza di una qualche “obbligazione”
che lega le due famiglie, e che il
ministro si sente in dovere di “saldare”. Altro che “persona libera”,
che non ha “contratto debiti di riconoscenza verso nessuno” come
continua a sostenere spudoratamente la Cancellieri.
VeDrò finanziata dai magnati capitalisti come Enel, Eni, Google e Bombardier
Letta costretto a chiudere la sua fondazione
per “conflitto di interessi”
7 membri del governo su 23 sono affiliati a Vedrò
Che Enrico Letta sia intrallazzato con ampi settori del mondo capitalista è cosa nota ma ora
esce confermato dalle recenti indagini giudiziarie che hanno dato
un colpo durissimo alla credibilità del progetto Mose di Venezia e
nell’ambito delle quali i magistrati hanno inviato la Guardia di finanza a perquisire la sede di VeDrò, ossia la fondazione politica
fondata da Letta e Alfano nel 2005
e frequentata da manager, imprenditori, politici, artisti, magistrati,
sportivi e molto altro ancora.
Questa risulta finanziata da
enti pubblici, semipubblici e privati ed i contributi annui che vanno alla fondazione ammontano a
circa 800.000 euro annui da parte
di Enel, Eni, Autostrade per l’Italia, Lottomatica, Sisal, Hbg, Vodafone, Sky, Telecom Italia, Nestlè,
Google e Bombardier, e si fanno
solo i nomi più importanti. Si tratta in alcuni casi di aziende privatizzate che derivano da
monopoli pubblici come Enel,
Eni, Autostrade per l’Italia, Lottomatica e Telecom Italia che hanno
un rapporto ancora stretto con la
politica e che finanziano con cifre
ridotte sia la destra che la sinistra
borghese per ragioni di evidente tornaconto politico, ovvero per
condizionare le scelte di governo
agli interessi privati, e non è certo
una novità nel sistema capitalista:
d’altra parte questi gruppi economici, dopo avere fatto ottimi affari negli anni ’90 quando lo Stato
letteralmente svendette la maggior
parte degli enti pubblici economici, sono ancora interessati ad ulteriori privatizzazioni, ed in questo
trovano terreno fertile in Enrico
Letta il quale ha ripetutamente dichiarato anche prima di salire al
governo che è indispensabile ampliare ulteriormente le privatizzazioni con altri pezzi di Eni, Enel
e Finmeccanica, ossia riducendo
ulteriormente la presenza di azionariato pubblico in tali aziende.
Anche altre grosse imprese capitalistiche poi come Vodafone,
Alfano e Letta, già fondatori dell’Associazione VeDrò, continuano il loro sodalizio sui banchi del governo
Sky, Nestlè, Google e Bombardier non disdegnano certo i favori
che il governo Letta potrà assicurare loro finanziando la sua fondazione.
Certo più imbarazzante per
Letta è il finanziamento che a VeDrò hanno concesso a piene mani
a partire dal 2010 multinazionali del gioco d’azzardo come Lot-
tomatica e Sisal oltre che grandi
aziende come Hbg che stanno diffondendo sempre di più la cultura del gioco tra le sempre più disperate masse popolari italiane,
tanto che la ludopatia e la dipendenza dai giochi è ormai ampliamente riconosciuta dagli psicologi come una vera e propria forma
di intossicazione psicologica fa-
vorita dalle più recenti normative
che hanno dato campo libero anche alle aziende private concessionarie: è certo il finanziamento
di 15.000 euro a VeDrò da parte
di Hbg come è certo il versamento di 20.000 euro da parte di Sisal,
a conferma del fatto che la persona ed il governo di Enrico Letta,
come tutti i politicanti borghesi
ed i relativi governi, è interamente
nelle mani dei più potenti e spregiudicati gruppi capitalistici compresi quelli che con tutta evidenza
- come quelli legati al gioco d’azzardo - fanno fortuna approfittando della disperazione che la crisi
economica getta nel proletariato
italiano e non solo.
Di fronte alla scandalosa notizia inerente la sede della fondazione che a luglio è stata perquisita dalla Guardia di Finanza per
verificare la correttezza di alcuni finanziamenti ricevuti, Letta e
Alfano hanno subito annunciato
la chiusura della fondazione “per
evitare situazioni di conflitto di in-
teressi”.
In realtà la fondazione, che
rappresenta una vera e propria
lobby politica, si può dire che ormai ha raggiunto i suoi massimi
obiettivi dal momento che oltre a
Letta e Alfano ben altri 5 membri di VeDrò, in tutto 7 membri
su 23, fanno parte dell’Esecutivo
con alla testa i ministri Nunzia De
Girolamo, Beatrice Lorenzin, Andrea Orlando, Josefa Idem e Filippo Patroni Griffi. Ma anche Monica Nardi, responsabile media di
VeDrò e oggi responsabile comunicazione del premier e Matteo
Renzi che fino a poco tempo era
assiduo frequentatore di VeDrò.
Altro che “rete di scambio
di conoscenza formata da più di
4.000 persone: professori universitari, imprenditori, scienziati, liberi professionisti, politici, artisti,
giornalisti, scrittori, registi, esponenti dell’associazionismo” come
si legge nel sito web!
Questo è lobbismo politico della peggior specie.
6 il bolscevico / PMLI
N. 43 - 5 dicembre 2013
Articoli de “Il Bolscevico”
sulla linea giovanile e studentesca del PMLI
(dal gennaio 2010 all’ottobre 2013)
✔ Scuderi, Conquistiamo al Partito le studentesse e gli studenti
più avanzati e combattività - “Il
Bolscevico” n. 46/2012
✔ Commissione giovani del CC
del PMLI, “Giovani, date le ali
al vostro futuro” - “Il Bolscevico” n. 36/2013
✔ Il ruolo dei giovani marxistileninisti - “Il Bolscevico” n.
47/2012
✔ I tre elementi per il successo del
lavoro giovanile e studentesco
del PMLI
✔ I marxisti-leninisti e l’uso dei
social network - estratti dal
Documento del CC del PMLI
del 3/4/2011
✔ Branzanti, Ispiriamoci a Lenin
per conquistare i giovani alla
causa dell’Italia unita, rossa e
socialista e per liberarci dal go-
verno Monti - “Il Bolscevico”
n. 2/2012
✔ Picerni, Radichiamoci nelle
scuole e nelle università - “Il
Bolscevico” 9/11/2011
✔ Picerni, Battiamoci per l’assemblea generale delle studentesse e degli studenti - “Il Bolscevico” 30/11/2011
✔ Picerni, Studentesse e studenti
marxisti-leninisti, lavorate per
✔
✔
✔
✔
✔
Intervistate i lavoratori e gli studenti in lotta
Per conoscere direttamente dai lavoratori e dagli studenti quali sono i loro
problemi, le loro rivendicazioni, il loro parere sulla situazione politica, il loro stato
d’animo, non c’è modo migliore di intervistarli durante le manifestazioni e le
occupazioni.
Naturalmente bisogna prepararsi bene prima dell’intervista avendo in mente le
domande da porre in linea di massima e avendo con sé un registratore (o almeno
un taccuino) e una macchina fotografica. Abbiamo già due modelli cui ispirarsi.
Le interviste fatte dalla compagna Giovanna Vitrano e dal compagno Federico
Picerni pubblicate rispettivamente su “Il Bolscevico n. 38/13 e n. 21/13.
Si possono fare delle interviste anche durante i banchini.
Le interviste sono utili pure per attirare l’attenzione sul PMLI e il suo organo .
Coraggio, intervistate i lavoratori e gli studenti in lotta! Chi saranno i prossimi
compagni a farle?
Milano, 4 ottobre 2013. Un nostro compagno si intrattiene con dei manifestanti
discutendo in merito alle tematiche del testo dell’Appello del PMLI ai giovani
come: la crisi del capitalismo, il governo Letta, il neoduce Berlusconi, il ruolo
dei falsi comunisti per mantenere basso il livello di coscienza politica dei giovani, la cultura del proletariato e la via maestra del socialismo (foto Il Bolscevico)
diventare leader del movimento
studentesco - “Il Bolscevico”
n. 45/2012
✔ Picerni, Per diventare leader
studenteschi, le studentesse e
gli studenti marxisti-leninisti
devono studiare e applicare le
sette indicazioni di Scuderi per
il lavoro studentesco - “Il Bolscevico” n. 2/2013
✔ Applichiamo gli insegnamenti
di Marx, Lenin e Mao e la linea
del PMLI sull’istruzione - “Il
Bolscevico” n. 4/2013
✔ Commissione giovani del CC
del PMLI, Applichiamo le indicazioni di Pasca sulla propaganda e il lavoro giornalistico
al settore giovanile - “Il Bolscevico” n. 40/2013
✔ Circolare del Responsabile
Giovani del CC del PMLI, “Mi-
✔
✔
✔
✔
✔
gliorare, approfondire e sviluppare il lavoro studentesco dei
marxisti-leninisti”, 9 settembre
2012
Circolare 1/2013 della Commissioni giovani del CC del
PMLI
Giovani, prendete in mano il
vostro futuro: astenetevi e lottate contro il capitalismo, per il
socialismo - “Il Bolscevico” n.
4/2013
Astieniti per delegittimare gli
attuali organi di governi dell’università. Lotta per l’università
governata dalle studentesse e
dagli studenti - “Il Bolscevico”
30/3/2011
Affossiamo il CNSU con l’astensionismo - “Il Bolscevico”
n. 19/2013
Necco, Manifestazione storica che mette in luce i caratteri
positivi e i limiti del movimento degli “indignados” - “Il Bolscevico” ottobre 2011
I marxisti-leninisti e l’altrariforma dell’università - “Il Bolscevico” n. 1/2011
No all’abolizione del valore legale della laurea - “Il Bolscevico” 1/2/2012
Si possono “liberare i saperi”
senza rompere la gabbia del
capitalismo? - “Il Bolscevico”
14/11/2012
Cambiare il mondo come Steve
Jobs? - “Il Bolscevico” ottobre 2012
Se hai vent’anni lotta per cambiare davvero l’Italia - “Il Bolscevico” n. 18/2013
Migliaia di lavoratori aderiscono all’appello contro la legge di stabilità e le politiche del governo Letta
SCIOPERO GENERALE DI QUATTRO ORE A CATANIA
INDETTO DA CGIL E UIL
Distribuite decine di copie de”Il Bolscevico” e centinaia di copie del
volantino “Nel Sud si emigra come nel dopo guerra”. Comizi volanti tra
i manifestanti. Autoprodotto un cartello manifesto
 Dal corrispondente della
Cellula “Stalin” della
provincia di Catania
Nel capoluogo etneo sono
stati circa cinquemila i lavoratori, studenti, giovani, disoccupati,
pensionati, che hanno risposto
all’appello dei sindacati, riunendosi in mattinata davanti Villa
Bellini. Percorrendo le strade del
centro città, dalla centralissima
via Etnea, il corteo ha attraversato via di San Giuliano, per poi
concludersi in Piazza Manganelli,
dove gli organizzatori ed i rappresentanti di categoria hanno preso
la parola.
Si è trattato di un corteo com-
battivo e pieno di rabbia nei confronti del governo, in risposta
alla profonda crisi che colpisce il
mondo del lavoro catanese.
A sfilare sono i lavoratori della Fillea CGIL di Catania, città in
cui il settore edile subisce ogni
giorno di più gli effetti di una crisi
senza precedenti; innalzando a
livelli elevatissimi il record di disoccupati; i dipendenti dell’ente
di formazione ANFE Catania, presenti all’iniziativa con striscioni
quali: “formazione, gli stipendi lavorati vanno pagati” e “formazione riforma sì, licenziamenti no”.
Questi ultimi fanno riferimento
all’ente di formazione ANFE Ca-
Sciopero generale Cgil, Cisl e Uil del 15 novembre
IL PMLI PRESENTE ALLA
MANIFESTAZIONE DI RIMINI
 Dal corrispondente
della Cellula “Stalin” di
Rimini del PMLI
La Cellula “Stalin” di Rimini
del PMLI ha partecipato alla manifestazione indetta dai tre sindacati confederali per lo sciopero generale di quattro ore il 15 novembre.
La giornata è stata molto piovosa limitando la partecipazione dei
lavoratori, vi erano però le rappresentanze delle fabbriche locali.
Durante i comizi dei tre rappresentanti sindacali Cgil, Cisl e Uil
i militanti del PMLI hanno tenuto ben alta la bandiera del Partito
nonostante la pioggia torrenziale
che ha peraltro costretto a concludere prima del previsto la manifestazione.
tania, finito qualche settimana fa
sotto la lente della magistratura
con l’accusa di aver distratto i
fondi europei destinati alla formazione per destinarli, tra gli altri, a
parenti dell’ex-governatore siciliano, Raffaele Lombardo, MPA. I
lavoratori del settore formazione
hanno ribadito come la pulizia dei
settori “marci”, non può avvenire
a danno dei lavoratori che ormai
da venti mesi attendono lo stipendio pregresso. La figlia di un
lavoratore senza stipendio, che
aveva tentato il suicidio ma era
stato fermato dai colleghi di lavoro, ha lanciato un appello chiedendo di intervenire al più presto
data la drammatica situazione
economica.
Hanno sfilato al corteo anche
i lavoratori dei Beni Culturali, tra
i quali i lavoratori del Teatro Massimo Bellini, a causa dei continui
ritardi nell’erogazione degli stipendi. Presenti molti rappresentanti di diverse categorie produttive, quali i metalmeccanici che
stanno subendo pesantemente
gli effetti della crisi economica
e finanziaria capitalistica. Questo è il caso della “Mantello” di
Granmichele, l’unica impresa
artigiana nel territorio siciliano
che si occupa di progettazione
e costruzione di macchinari per il
taglio e la lavorazione del marmo
e che rischia di chiudere a causa
del blocco totale delle commesse; nel settore non esistono ammortizzatori sociali adeguati e la
CIGS in deroga viene messa in
discussione, lasciando i lavoratori senza alcuna prospettiva dopo
il mese di dicembre.
Per quanto riguarda gli studenti della scuola media superiore, essi hanno dato vita ad una
manifestazione parallela. Senza dubbio un’occasione persa
nell’ottica della creazione di un
corteo unitario, che avrebbe dato
forza al movimento di massa
contro il governo Letta.
Durante il comizio finale, i
sindacati hanno rivendicato, per
bocca dei segretari generali di
CGIL e UIL di Catania, Angelo
Villari e Angelo Mattone, una forte
modifica della legge di stabilità,
in quanto essa non basterebbe
a fare uscire il paese dal declino.
È stato sottolineato che nessun
provvedimento è stato preso né
per l’agricoltura né per l’industria, mentre nulla è stato fatto
per diminuire le tasse a lavoratori e pensionati o per rivalutare le
pensioni. Per quanto concerne la
pubblica amministrazione, i rappresentanti dei sindacati hanno
sottolineato che i provvedimenti
presi dal governo Letta sono in
continuità con quelli effettuati
dai governi Berlusconi e Monti,
penalizzando pesantemente gli
impiegati pubblici. I sindacalisti
hanno affermato che “se non riparte Catania non riparte l’intera
Sicilia orientale”, e lanciato la
promessa di non fermarsi a questa iniziativa. Mah, vedremo. Lo
sciopero aprirebbe, infatti, una
nuova stagione di lotta per i sa-
Catania, 15 novembre 2013. La combattiva partecipazione dei marxisti-leninisti
della provincia etnea al corteo per lo sciopero generale (foto Il Bolscevico)
lari, il lavoro, la detassazione e
per lo sviluppo. A conclusione del
comizio è stato ribadito che per
i sindacati, in qualità di “sensori
del territorio” c’è in gioco la loro
stessa rappresentatività.
La Cellula “Stalin” della provincia di Catania ha partecipato
attivamente al corteo con militanti, simpatizzanti e amici, distribuendo centinaia di copie del volantino “Nel Sud si emigra come
nel dopo guerra”, che è stato ben
accolto dai partecipanti alla manifestazione. Sono state, inoltre,
distribuite una decina di copie de
“Il Bolscevico” (N. 40/41).
Le compagne e i compagni
presenti all’iniziativa, hanno lanciato slogan con il megafono
contro il governo Letta ed il patto
di stabilità. Mentre un compagno
ha effettuato comizi volanti, tratti
dal comunicato stampa del PMLI
“la colpa della disoccupazione
è del capitalismo e dei suoi governi” e dal volantino “nel sud si
emigra come nel dopo guerra”,
raccogliendo consensi tra i manifestanti. Il compagno che lanciava slogan al megafono è stato
ripreso da una TV locale.
I compagni hanno prodotto per l’occasione un manifesto
50x70, dal titolo “lottare contro
il capitalismo e i suoi governi è
lottare per il socialismo. Questa
è l’unica alternativa in grado di
dare le ali ad un futuro libero da
povertà, disoccupazione e sfruttamento”. Nella seconda facciata
è stata esposta la copertina de “Il
Bolscevico” (n.41) “contro la barbarie del capitalismo, la via maestra è il socialismo e il potere del
proletariato”.
Si è trattato di un’altra giornata di lotta e di visibilità per il Partito fra le masse popolari catanesi
che guardano quest’ultimo con
rispetto e ammirazione, grazie
alla presenza storica maturata
dal PMLI alle manifestazioni e nel
vivo del dibattito politico.
N. 43 - 5 dicembre 2013
PMLI / il bolscevico 7
8 il bolscevico / tesi universitaria di Federico Picerni
N. 43 - 5 dicembre 2013
SULLE CENERI DELLA TRADIZIONE
Critica letteraria, filosofica e storica durante il Pi Lin Pi Kong
(campagna di critica a Lin Biao e Confucio) - 2ª parte
Mao diede la propria approvazione affinché il documento fosse diffuso su scala nazionale. Ciò
avvenne tramite una circolare del
Comitato centrale del PCC diramata il 18 gennaio, preceduta da
una introduzione: «[Lin Biao] appartiene alla stessa categoria dei
reazionari sull’orlo dell’estinzione. È uno di quelli che venerano
Confucio e combattono il legismo,
attacca Qin Shi Huang, fa degli insegnamenti di Confucio e Mencio l’arma ideologica reazionaria
alla base del suo vano complotto
per usurpare il potere nel Partito e
restaurare il capitalismo. Questo
materiale raccolto dall’Università
di Pechino e dall’Università Qinghua sarà di grande aiuto per continuare e approfondire la critica a
Lin, criticare l’essenza ultradestra
della linea di Lin Biao, continuare a sviluppare la critica dell’idea
di venerare Confucio e combattere il legismo, rafforzare l’educazione ideologica e sul piano della
linea politica»8. L’accostamento
di Lin Biao a Confucio fu favorito dal rinvenimento di notevoli
quantità di libri, opere di calligrafia, citazioni riguardanti Confucio
e Mencio nell’abitazione dell’ex
maresciallo a Pechino, prove materiali della venerazione di Lin per
il confucianesimo che andavano
ad aggiungersi alle già abbondanti
prove teoriche individuate dai teorici cinesi.
Il 2 febbraio, l’editoriale del
Renmin Ribao, significativamente intitolato Portiamo fino in fondo la lotta per criticare Lin Biao e
Confucio, diede inizio alla campagna Pi Lin Pi Kong.
Nel corso della campagna, che
investì tutta la Cina, si assistette ad una enorme diffusione dello studio della storia, della filosofia e della cultura a livello di
massa. Venne promosso lo studio
dei classici del marxismo-leninismo e degli scritti di Mao; significativamente, nel 1972 era stata
pubblicata l’edizione cinese delle
Opere scelte di Marx ed Engels.
Un elenco sterminato di contributi originali, approfonditi e documentati, riguardanti una miriade
di questioni e campi di indagine,
venne prodotto da gruppi teorici,
gruppi di critica, gruppi di scrittura organizzati all’interno delle fabbriche, delle comuni, delle
scuole, delle università, degli uffici, dei comitati del Partito e delle
compagnie dell’Esercito popolare di Liberazione. I giornali traboccavano di articoli che incoraggiavano la campagna a proseguire
la lotta contro il revisionismo e la
“rivoluzione nella sovrastruttura”,
rifiutando radicalmente concetti e
costumi entrati nella mentalità e
nella quotidianità del popolo cinese. Il mondo letterario e artistico
fu investito in pieno e sollecitato
a produrre opere che respingessero i valori tradizionali e promuovessero quelli rivoluzionari. Sul
piano della ricerca storica, ebbe
grande risalto e diffusione lo studio della lotta fra la scuola confuciana e quella legista, le due scuole di pensiero più antitetiche della
storia cinese, ribaltando verdetti
storici dati per certi, come quello su Qin Shi Huang. Grande popolarizzazione ebbero le opere di
Lu Xun, considerato il precursore
della Rivoluzione culturale.
È particolarmente interessante
notare che, se nel corso dei secoli
i valori confuciani vennero assorbiti passivamente dalla stragrande
maggioranza illetterata della popolazione cinese, soprattutto attraverso quella «forza dell’abitudine» denunciata da Lenin, durante
il Pi Lin Pi Kong quegli stessi valori vennero ripudiati attivamente
dalle masse popolari, molto spesso criticando direttamente i testi
antichi e il loro significato contemporaneo.
Alla critica verso l’arroganza
degli intellettuali e le tendenze burocratiche fecero seguito rinnovati appelli rivolti ai quadri affinché
prestassero ascolto alle masse popolari. Vennero attaccati i «confuciani dei giorni nostri», anche nelle persone di dirigenti del PCC e
dei Comitati rivoluzionari (i nuovi
organi di governo sorti durante la
Rivoluzione culturale). All’inizio
del 1974 si sviluppò con particolare vigore un movimento contro
chi aveva sfruttato la propria posizione altolocata per far ammettere
i figli all’università o evitare che
fossero inviati a rieducarsi nelle
campagne.
«Caratteristica
significativa
del movimento», nota Han Suyin,
«è stata la partecipazione rilevante delle donne. […] Già nel corso
della rivoluzione culturale le masse femminili si erano risvegliate, partecipando in prima persona
all’attività politica; questa campagna le ha ulteriormente mobilitate, concentrandosi sulle pressioni
culturali e psicologiche, sulla secolare oppressione a cui sono state sottoposte le donne». Numerosi
articoli sull’emancipazione femminile apparvero sui giornali, casi
di donne comuniste modello che
osavano «andare controcorrente»
vennero pubblicizzati su scala nazionale e venne ripreso il controllo
delle nascite.
È importante notare che la
campagna cominciò con una forte
spinta dal basso ed ebbe una larga partecipazione di massa, sempre comunque sotto la direzione
politica del Partito9. La sua straordinarietà sta nel fatto che temi
considerati accademici ed elitari
vennero discussi e criticati dalle
vaste masse popolari, ribaltando
completamente le gerarchie sociali di stampo confuciano. A riguardo è molto interessante quanto ha
scritto Han Dongping nell’ambito della sua indagine sullo svolgimento della Rivoluzione culturale
in un villaggio cinese: «Per molti appartenenti all’élite istruita, la
campagna anti-Lin Biao e antiConfucio sembrava vaga e astratta. Ma aveva un significato specifico per la gente ordinaria. Il tema
principale della campagna era criticare la mentalità elitaria presente
nella cultura cinese. […] Agli occhi dell’élite cinese, il lavoro agricolo era un’occupazione di basso
rango. Il movimento incoraggiò
la gente delle campagne a rialzare la testa e l’aiutò a riconoscere il
proprio valore. In questo senso, la
campagna aiutò i comuni abitanti dei villaggi cinesi a scoprire la
propria dignità».
Non è facile identificare una
data di conclusione del Pi Lin Pi
Kong, anche perché in effetti non
venne mai emanato alcun editto ufficiale dichiarandone la fine.
Nel rapporto sulla revisione della
Costituzione della Repubblica po-
“Condurre con cura la lotta popolare di critica a Lin Biao e Confucio” (1975)
polare presentato alla IV Assemblea popolare nazionale nel gennaio 1975, Zhang Chunqiao disse:
«Dobbiamo allargare, approfondire e continuare il movimento in
corso per criticare Lin e Confucio
e occupare tutti i fronti con il marxismo». Nei mesi successivi l’enfasi si spostò sulle successive e più
urgenti campagne, ma i temi sollevati dal Pi Lin Pi Kong avrebbero
continuato a occupare l’ambiente
politico e culturale cinese fino alla
morte di Mao.
4.1. La scintilla: la
questione del genio
Nella prima fase della Rivoluzione culturale, l’apparato propagandistico nelle mani di Tao Zhu
prima e di Chen Boda dopo esaltò Mao al massimo livello, presentandolo come un condottiero
infallibile e un teorico impareggiabile il cui pensiero aveva superato addirittura il marxismo-leninismo. Mao non era entusiasta
del culto costruito attorno alla sua
figura e in più occasioni intervenne in via diretta per attenuarlo. In
realtà, questi espedienti propagandistici erano probabilmente rivolti più a consolidare l’immagine
dello «stretto compagno d’armi»
Lin Biao all’ombra del «maestro» Mao, nonché a rappresentare
quest’ultimo come un nuovo imperatore lontano e inaccessibile
dal popolo, contrariamente alla
sua abitudine di scendere fra le
masse e stare a contatto con loro.
Questa idea sembra supportata da
Han Suyin, la quale scrive: «Per
assicurarsi la successione, Lin
Biao aveva utilizzato una tradizione molto più antica del marxismo,
quella del capo confuciano, superuomo, genio, rappresentante della volontà del cielo, fedele ai “riti”
e alla tradizione».
La questione esplose nel 1970,
nell’ambito del dibattito sulla nuova Costituzione, quando Lin e il
suo gruppo cercarono di aggiudicarsi la presidenza della Repubblica popolare. Naturalmente, ciò
non poteva essere fatto per via diretta: era necessario che fosse Mao
ad accettare la carica, e Lin ne sarebbe stato il naturale vice. L’esplicito rifiuto di Mao a ricoprire nuovamente il ruolo di capo di
Stato, già svolto dal 1954 al 1959,
e la sua espressa contrarietà a reinserire la carica di presidente nella
nuova Costituzione non bastarono a calmare le acque nella commissione incaricata della revisione
costituzionale, dove gli uomini di
Lin e Chen si scontrarono ripetutamente con Kang Sheng e Zhang
Chunqiao.
La II Sessione plenaria del IX
Comitato centrale del PCC si tenne fra l’agosto e il settembre dello
stesso anno proprio per approvare il progetto di Costituzione. Inaspettatamente, Chen Boda presentò un documento per dimostrare
che Mao era un «genio» e che tale
formulazione non era in contraddizione con il marxismo; anzi, affermare il contrario avrebbe significato opporsi a Mao. L’obiettivo
celato era però rafforzare ulteriormente l’autorità di Lin, il quale, in
quanto successore di Mao, sarebbe
stato a sua volta presentato come il
capo geniale rivestito di un’aura di
sacralità. «Ignorando l’ordine del
giorno prestabilito e il lavoro dei
gruppi di lavoro del Comitato centrale nei quattro mesi precedenti
durante i quali Mao Zedong aveva ottenuto la maggioranza sulla questione di non ricostituire la
presidenza, Lin Biao, nascondendosi dietro le lodi a Mao, parlò
abbondantemente della questione
del genio, affermando: “Sarà vantaggioso confermare in via legale
la posizione del grande dirigente
il presidente Mao come capo della
nazione e comandante supremo”».
Mao replicò con un contro-documento nel quale definì «chiacchiere e sofisterie» le parole di
Chen, «che si spaccia per conoscitore del marxismo ma all’atto pratico fondamentalmente
non ne sa nulla», e ribadì: «Quello che ho inteso dire principalmente è che è grazie alla pratica
sociale degli uomini, e non grazie al genio degli uomini, che il
mondo fa progressi»10.
La successiva campagna contro l’idealismo e l’apriorismo
ideologico venne diretta contro
Chen, ma Mao era consapevole
che il vero beneficiario della questione del genio sarebbe stato Lin,
come palesò successivamente: «Io
e il compagno Lin Biao abbiamo parlato», dichiarò durante un
viaggio di ispezione, «ma alcune
cose che ha detto non sono molto appropriate. Ad esempio ha detto che una volta ogni centinaia di
anni nel mondo e ogni migliaia di
anni in Cina compare un genio. Vi
pare che questo corrisponda ai fatti? Marx ed Engels erano contemporanei e fra loro e Lenin e Stalin
non sono passati neanche cento anni, quindi come si può dire
che un genio compare una volta ogni centinaia di anni? In Cina
abbiamo avuto Chen Sheng e Wu
Guang, poi Hong Xiuquan e Sun
Yat-sen, quindi come si può dire
che un genio compare una volta
ogni migliaia di anni? E poi c’è
tutto il vociare sui “picchi” raggiunti e sul fatto che “una frase
ne vale diecimila”. Non vi pare un
po’ esagerato? Una frase resta pur
sempre una frase, quando mai potrebbe valere quanto diecimila altre frasi?».
Nemmeno quella del genio era
un’idea originale di Lin Biao, ma
affondava le sue radici nel pensiero confuciano. La sua critica, ripartendo dalla campagna anti-idealista del 1970-1971, trovò largo
spazio nel Pi Lin Pi Kong, dal momento che il concetto di “genio” è
in netto contrasto con il principio
maoista secondo cui «il popolo e
solo il popolo è la forza motrice
che crea la storia del mondo»11.
Se è vero che Confucio diede
sempre grande importanza all’educazione per migliorare le proprie qualità morali, è altrettanto
vero che credeva nell’esistenza
del genio innato, come dimostrato da un brano fondamentale dei
Dialoghi, che così recita: «Coloro che sin dalla nascita sono dotati
di sapienza sono uomini superiori;
seguono quelli che acquistano la
sapienza con lo studio, poi quelli
che pur versando nelle difficoltà si
sono applicati allo studio e infine,
ultimi tra gli uomini, coloro che,
versando nelle difficoltà, non sono
riusciti ad applicarvisi».
Secondo un’interessante edizione critica dei Dialoghi pubblicata nel 1974 dall’Università di
Pechino, il passaggio finale andrebbe reso in questo modo: «Imbattendosi nelle difficoltà e non
potendo studiare, la gente comune appartiene a questa categoria
di uomini inferiori». Questo, secondo gli autori, rende ancora più
esplicito quanto è già implicito
nella versione classica: le prime
due categorie sono individuabili
negli elementi della classe schiavistica dominante sotto la dinastia Zhou e soppiantata dal feudalesimo in epoca Qin, mentre le
ultime due categorie corrispondono agli schiavi ed ai lavoratori, in una «svergognata adulazione di Confucio verso i proprietari
di schiavi». Secondo questo schema, applicabile a tutte le classi
sfruttatrici succedutesi, la plebe e
i lavoratori vengono considerati
di rango inferiore, «perciò il loro
sfruttamento e la loro oppressione sono giustificati, ma la ribellione del popolo lavoratore e la
rivoluzione sono sbagliate. Anche l’arrivista borghese Lin Biao,
nel tentativo di giustificare il suo
complotto controrivoluzionario
per restaurare il capitalismo, si è
appoggiato a questa assurdità reazionaria». Pare inoltre che Lin
abbia affermato in una occasione
che le capacità intellettuali e materiali degli individui dipendono
per metà da caratteristiche innate
e per metà dall’istruzione, rispecchiando il pensiero di Confucio.
Un altro articolo del Renmin
Ribao conteneva un esplicito ribaltamento dell’idea di genio.
Esaltando i successi del socialismo cinese, esso affermava: «Abbiamo ottenuto tutto questo grazie al duro lavoro dei nostri operai
e sulla saggezza collettiva. Colui che Confucio definisce “saggio” in realtà non è che un parassita ignorante distaccato dal lavoro
manuale, distaccato dalle masse e
distaccato dalla pratica concreta,
che non muove mai un dito e non
sa distinguere i cinque cereali».
Quindi, se il genio non è l’individuo dotato di capacità innate
fuori dal comune, ma la saggezza
collettiva della classe rivoluzionaria e del popolo stesso, la cui «pratica sociale» consente al mondo di
progredire, è evidente come questa idea sia da una parte profondamente anti-elitaria, e dall’altra
combaci con l’obiettivo di Mao di
creare «milioni di successori alla
causa rivoluzionaria del proletariato».
4.2. «Autocontrollo
e ritorno ai riti»:
un piano di
restaurazione
Come si è già visto nei capitoli
precedenti, Confucio era considerato dalla storiografia comunista il
rappresentante ideologico per eccellenza della classe dominante
schiavista in declino che rimpiangeva i fasti del passato, di fronte
all’ascesa della classe che si sarebbe definitivamente imposta con
l’unificazione della Cina ad opera
di Qin Shi Huang. Questa lettura
è validata dall’esplicita ammirazione del grande pensatore cinese
per la passata epoca Zhou, durante
la quale la scrupolosa osservanza
delle norme rituali avrebbe garantito l’esistenza della società ideale.
Rifarsi alla formula «Autocontrollo e ritorno ai riti» avrebbe garantito, secondo Confucio, di poter
agire secondo ren (senso dell’umanità, benevolenza).
Il Pi Lin Pi Kong capovolse il
significato del ritorno ai riti: non
più una positiva riscoperta della
rettitudine in un tempo di sconvolgimenti, bensì restaurazione
dell’ordine sociale preesistente.
Questa interpretazione è chiara
SEGUE IN 9ª E 10ª

tesi universitaria di Federico Picerni / il bolscevico 9
N. 43 - 5 dicembre 2013
nella già citata edizione critica dei
Dialoghi, dove il suddetto brano
viene così commentato: «È chiaro
che per “ritorno ai riti” si intende
restaurazione, e che “autocontrollo e ritorno ai riti” rappresenta il
piano reazionario di Confucio per
proteggere e restaurare la società
schiavista. Successivamente, tutte le classi dominanti reazionarie
della storia avrebbero fatto ricorso alla parola d’ordine reazionaria
di “autocontrollo e ritorno ai riti”
per soffocare sul piano ideologico le aspirazioni rivoluzionarie
delle masse popolari». Negli stessi termini si era espresso, già nel
1973, anche Yang Rongguo, professore dell’Università Zhongshan
di Guangzhou, in un articolo che
è corretto definire «pionieristico»
ai fini del Pi Lin Pi Kong: Confucio, un pensatore che sostenne testardamente il sistema schiavistico (Renmin Ribao, 7 luglio 1973).
Allo stesso principio confuciano si sarebbe rifatto lo stesso Lin
Biao, il quale, fra la fine del 1969
e l’inizio del 1970, tratteggiò più
volte la medesima opera calligrafica: «In ogni tempo, di tutte le
cose, l’unica veramente importante è esercitare autocontrollo e tornare ai riti». Non occorre precisare
il palese collegamento fra queste parole, che vennero ritenute la
quintessenza della linea reazionaria di Lin Biao, e l’insegnamento
dell’antico Maestro, a sua volta
fulcro del confucianesimo.
L’editoriale del Renmin Ribao
del 20 febbraio 1974 inquadrò il
precetto confuciano di restaurazione dei riti come arma ideologica dell’intera cospirazione di
Lin Biao: «Il piano politico di Lin
Biao per “restaurare i riti” consisteva nella ricostituzione della
carica di presidente della Repubblica. […] Il piano teorico di Lin
Biao per “restaurare i riti” consisteva nella “teoria del genio”. […]
Il contenuto di classe della “restaurazione dei riti” di Lin Biao è
riportare alla ribalta la borghesia
feudale e istituire la dinastia fascista Lin».
Da quel momento, la critica
contro questo fondamentale principio confuciano abbondò sui
giornali e sulle riviste di critica,
sviluppandosi principalmente su
due fronti: da una parte, proseguirono gli articoli volti a dimostrare
la natura reazionaria del concetto
di «ritorno ai riti», che in ultima
analisi significava tornare ai valori
tradizionali contro i quali la Rivoluzione culturale si stava scagliando con tanta veemenza. Dall’altra,
fu approfondita la critica del «piano reazionario» di Lin Biao basato
su tale concetto.
Il Wen Hui Bao di Shanghai,
ad esempio, sottolineò come la restaurazione dei riti fosse un espediente ideologico a disposizione di
tutte le classi dominanti in declino
o delle classi rovesciate per mantenere o restaurare il proprio potere a discapito della nuova classe sociale in ascesa: «Le epiche
lotte condotte per migliaia di anni
dal popolo cinese contro le classi
sfruttatrici reazionarie sono state tutte rivolte a rompere le catene dei “riti” e rovesciare il potere
dei reazionari. Al contrario, le lotte all’ultimo sangue condotte dalla classe dei proprietari di schiavi,
dalla classe feudale e dalla borghesia sono state tutte rivolte a
salvaguardare questi “riti”. Persino dopo il loro rovesciamento
sperano di poter restaurare questi
“riti”». Particolarmente interessante l’uso dell’espressione «catene dei “riti”» poiché, in effetti,
Confucio individuava nell’osservanza delle norme rituali il metodo per fissare l’ordinamento
gerarchico della società. Tutto il
discorso inoltre si inserisce perfettamente nel contesto della Rivoluzione culturale e nel suo dichiara-
to obiettivo di impedire il ritorno
al potere della borghesia attraverso una restaurazione del capitalismo per subdole vie pacifiche e
culturali.
Una ulteriore analogia quasi
testuale a supporto dell’immagine di Lin come devoto discepolo
di Confucio in materia di restaurazione fu possibile interpretando
uno degli ultimi brani dei Dialoghi, nel quale viene lodato il governo benevolo della dinastia
Zhou: «Restaurò i regni distrutti,
assicurò discendenza alle stirpi interrotte, promosse i talenti perduti». È chiaro che, nell’interpretazione del Pi Lin Pi Kong, questo
brano di chiara lode per un governo rispettoso delle norme del
passato, ribadisce l’intenzione di
Confucio di riportare in auge il sistema schiavistico con un esplicito
appello alla restaurazione dell’aristocrazia schiavistica. Impossibile
non scorgere una certa affinità con
quanto Lin Biao e i suoi congiurati
enunciavano in uno dei punti nello
Schema di Progetto 571 (si ricordi che B-52 era il nome in codice
per indicare Mao): «Concessione
dell’emancipazione politica a tutti
coloro che sono stati perseguitati
da B-52 in passato in base ad accuse infondate».
La critica del Pi Lin Pi Kong
investì anche un altro fondamentale precetto confuciano strettamente legato ai riti: quello della
rettifica dei nomi. Secondo Confucio, è necessario chiamare ogni
figura istituzionale o familiare
con il proprio nome affinché possa espletare appieno il suo ruolo e
posizionarsi correttamente nella
gerarchia sociale in base ai principi di pietà filiale e lealtà al sovrano. Anche la rettifica dei nomi
venne messa in discussione, vista
non come principio di riordino,
bensì come gerarchizzazione della
società per giustificare il dominio
della classe dominante sfruttatrice. Su questa base i polemisti del
Pi Lin Pi Kong si scagliarono contro i richiami di Lin Biao all’ordine e alla disciplina, e nel concreto
contro il suo tentativo di ricostituire la carica di presidente della Repubblica: «[Lin] parlò della
necessità di avere un “capo” dello Stato e, basandosi sulla “rettifica dei nomi” utilizzata da Confucio per “restaurare i riti”, farfugliò
che, senza un “capo” dello Stato,
“i nomi non sarebbero rettificati
e le parole non avrebbero peso”».
Insomma, nonostante le epoche storiche differenti separate da
un abisso di duemila anni, il ruolo del «ritorno ai riti» significa invariabilmente invertire la storia e
bloccare lo sviluppo della lotta di
classe, che nella dottrina marxista
rappresenta il vero motore del progresso storico. «Il “ritorno ai riti”
di Lin Biao e il “ritorno ai riti” di
Confucio, malgrado siano diverse le epoche e il sistema di sfruttamento che intendono restaurare,
in sostanza sono la stessa cosa. La
loro linea politica consiste nella
restaurazione della vecchia società sfruttatrice marcia e decaduta,
nell’opporsi al progresso ed alla
rivoluzione e nel vano tentativo di
invertire le ruote della storia».
4.3. Umanità
e mansuetudine:
miùlùn reazionarie
Come si era già accennato nel
capitolo “3. Confucio. Padre della
tradizione”, nel vocabolario confuciano esiste un termine importantissimo, che Anne Cheng definisce
«una parola in grado di guidare la
condotta di tutta una vita»: shu, la
mansuetudine. È solo attraverso
l’esercizio della mansuetudine che
è possibile attivare ren, il senso
dell’umanità, la benevolenza che
è al centro di tutta la dottrina confuciana. Così infatti raccomanda il
Maestro ai suoi discepoli: «Mansuetudine non è forse la parola
chiave? Ciò che non vuoi sia fatto
a te, non farlo agli altri».
In un altro passaggio, i discepoli riprendono la parola e riflettono sugli insegnamenti a loro impartiti (non va infatti dimenticato
che i Dialoghi non sono un lavoro diretto di Confucio, bensì un’opera posteriore considerata la raccolta delle sue citazioni ad opera
dei discepoli), giungendo a questa
conclusione: «La Via del Maestro
consiste nell’agire secondo mansuetudine e lealtà». È interessante menzionare che Anne Cheng,
ripresa in italiano da Lamparelli (1989), rende zhōng con «lealtà
verso se stessi»; al contrario, Lippiello (2006) si limita ad una traduzione più letterale: «massima
lealtà».
Si tratterebbe insomma di un’idea di benevola reciprocità e di
fratellanza estesa a tutte le persone («Fra i quattro mari tutti gli uomini sono fratelli», recita l’adagio confuciano). Del tutto diversa
è l’interpretazione degli attivisti
del Pi Lin Pi Kong. In premessa
occorre precisare che questi ultimi, nella loro lotta per «innalzare la bandiera rossa su tutti i regni
della sovrastruttura», si rifacevano
ad un importante insegnamento di
Mao secondo cui: «Nella società
divisa in classi, ogni individuo
vive come membro di una determinata classe»12. L’utopia della
fratellanza universale si scontra
così con l’esistenza di classi sociali in lotta fra di loro che dividono
la società (e la stessa umanità) in
campi antagonisti: «Quanto al cosiddetto “amore per l’umanità”,
da quando l’umanità è divisa in
classi non è mai esistito un amore come questo, un amore che
abbraccia tutto e tutti. Alle varie classi dominanti del passato
piaceva predicare un tale amore, e molti saggi hanno fatto altrettanto, ma nessuno l’ha messo realmente in pratica, perché
nella società divisa in classi questo amore è impossibile»13. In
queste parole di Mao, sarebbe difficile non scorgere il ren nel «cosiddetto “amore per l’umanità”» e
Confucio stesso fra i «molti saggi» che l’hanno teorizzato.
Il Pi Lin Pi Kong respinse
quindi la «lealtà» interpretandola
come fedeltà «ai potenti» da par-
Le guardie rosse spazzano via il vecchio mondo in una immagine diffusa durante la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria
te dei sudditi, «al sovrano» da parte dei funzionari e «all’imperatore Zhou» da parte dei vassalli,
allo scopo di non turbare l’ordine
schiavistico. In altre parole, quella predicata da Confucio sarebbe
una «lealtà» che lega i sottomessi
ai propri superiori, ma soprattutto
gli sfruttati ai loro sfruttatori.
Al fine di comprendere il senso
attribuito dai contingenti di critica
del Pi Lin Pi Kong al fondamentale concetto di mansuetudine confuciana, è molto interessante citare
integralmente il commento realizzato dalla succitata edizione critica dei Dialoghi apparsa nel 1974:
«La cosiddetta “mansuetudine” di
Confucio consiste nel principio
da lui diffuso a destra e a manca:
“Ciò che non vuoi sia fatto a te,
non farlo agli altri”. In altre parole, all’interno della classe dei proprietari di schiavi tutti devono agire secondo le norme dei riti Zhou
e conformarsi alla propria posizione, applicando reciprocamente il
principio di “trattare gli altri come
tratteresti te stesso”, allo scopo di
salvaguardare l’unità controrivoluzionaria dell’aristocrazia schiavistica e soffocare la lotta rivoluzionaria fra i proprietari di schiavi
e le nuove forze feudali in ascesa;
al contrario, nei confronti degli
schiavi e dei fautori del progresso, la via della “mansuetudine” di
Confucio si trasforma in una crudele repressione: “Ciò che non
vuoi sia fatto a te, fallo agli altri”».
Un’analisi molto simile doveva
investire un altro elemento fondamentale del percorso confuciano
verso la condizione virtuosa ideale: zhōng yōng, la dottrina del
mezzo, resa anche come giusto
mezzo o come «Mezzo giusto e
costante» (Anne Cheng), definita da Confucio l’«esigenza
suprema» di ciascuno, un’operazione spirituale interna per soddisfare una «esigenza di equilibrio,
d’equità e di misura» che conduce alla mansuetudine e, attraverso
quest’ultima, come si è già visto,
al ren, alla propria realizzazione
come «uomo di valore».
I contingenti critici cinesi individuarono immediatamente il contrasto fra la dottrina del mezzo e
la teoria della violenza rivoluzionaria come «levatrice di ogni vecchia società, gravida di una nuova società» (Marx). Secondo la
loro lettura, la dottrina del mezzo
dice che «non bisogna esagerare,
non bisogna oltrepassare il limite, in ogni cosa bisogna tenere un
atteggiamento neutrale e al di sopra delle parti. Pertanto, tutto ciò
che si poteva fare verso la classe
schiavistica marcia e decadente,
era proteggerla, non distruggerla». Non è secondario che praticamente tutti gli articoli dedicati
alla critica della dottrina del mezzo mettessero il mezzo confuciano in relazione alle critiche rivolte
da Liu Shaoqi e Lin Biao a quelli che ritenevano essere gli eccessi del socialismo cinese, come il
Grande balzo in avanti, che i maoisti consideravano invece grandi
successi. Fu scritto, in particolare,
che Lin giudicava la dottrina del
mezzo «una delle grandi virtù della nostra nazione».
Secondo questa impostazione critica, tutto il concetto di ren
perde completamente di significato a livello teorico, mentre diventa un’arma ideologica e culturale
di oppressione e regresso a livello
pratico. In definitiva quindi il ren
non sarebbe altro che una miùlùn,
termine molto usato durante la Rivoluzione culturale che sta ad indicare un argomento assurdo, o
ancora una falsità, una vera e propria fallacia.
4.4. La storia rivista:
ribaltare i verdetti
confuciani
Uno dei filoni di maggior successo e importanza del Pi Lin Pi
Kong, estremamente interessante per chiunque si occupi di storia
e cultura cinesi, è costituito dalla
critica storica che si sviluppò durante la campagna. Una gigantesca mole di articoli e saggi venne
10 il bolscevico / tesi universitaria di Federico Picerni
prodotta nel periodo per rivalutare
la millenaria storia cinese dal punto di vista del marxismo, con particolare riferimento, naturalmente,
alle epoche degli Stati Combattenti e delle Primavere e Autunni,
quando visse Confucio. Un primo
tentativo di analisi di questo tipo
era già stato compiuto dopo la fondazione della Repubblica popolare da storici cinesi, fra cui Guo
Moruo, ma in ambito strettamente
accademico e con un taglio meno
netto rispetto a quello dei critici
formatisi nella Rivoluzione culturale.
Particolarmente esemplificativo e sintetico dell’enorme produzione del Pi Lin Pi Kong in merito, è il seguente scritto del già
menzionato Yang Rongguo, una
delle principali menti teoriche della campagna: «Confucio e successivamente i seguaci della scuola
confuciana come Zi Si e Mencio
erano i rappresentanti dell’ideologia della classe dei proprietari di
schiavi in declino di allora, mentre i rappresentanti dell’ideologia
della nuova classe feudale in ascesa erano personaggi come Shang
Yang e Han Fei della scuola legista. […] Dalla lotta ideologica
fra i confuciani e i legisti possiamo vedere i cambiamenti epocali
della società di allora. Promuovere lo sviluppo del nuovo sistema
o cercare di preservare quello vecchio; rispondere ai bisogni della
classe in ascesa in base allo sviluppo storico, o cercare di invertire la storia seguendo l’esempio
degli antichi “re saggi”; promuovere la “legge” appropriata per lo
sviluppo della nuova epoca, o cercare ostinatamente di mantenere i
cosiddetti “riti” del vecchio sistema; risolvere i problemi contemporanei tenendo ben presente la
lotta contemporanea concreta, o
usare concetti soggettivi per definire la realtà oggettiva in evoluzione: tutto questo doveva trovare
espressione nella lotta fra la classe
progressista e la classe reazionaria
dell’epoca».
Il carattere progressista del legismo, insomma, stava nella sua
enfasi sulla superiorità e l’efficacia dell’azione della legge, qui
interpretata come veicolo per l’ascesa della classe feudale a classe
dominante, diametralmente opposta al richiamo confuciano ai riti
tradizionali, alla consuetudine e al
passato. La dinastia Qin e la successiva dinastia Han, cioè la classe
feudale eretta a dominio, si sarebbero servite del legismo per consolidare il proprio potere, per poi
adottare il confucianesimo al fine
di mantenerlo.
In effetti il legismo, propugnando la superiorità della legge
rispetto all’appartenenza ad una
classe sociale o ad un ceto politico, con l’unica eccezione dell’imperatore, si adattava ad una fase
di avvicendamento del potere politico e favoriva la delegittimazione del vecchio regime, mentre l’osservanza confuciana delle
tradizioni, della consuetudine e
dell’ordine prestabilito incarnata
dai riti favoriva la reazione.
Se i legisti erano i rappresentanti ideologici della classe feudale, il primo imperatore e unificatore della Cina, Qin Shi Huang,
ne «era il principale rappresentante». Questo punto è degno di nota
principalmente per due motivi. In
primo luogo, Lin Biao nello Schema di Progetto 571 aveva definito
Mao «il Qin Shi Huang di oggi»;
una formulazione che non dispiaceva affatto al diretto interessato,
il quale aveva espresso la sua ammirazione verso il Primo Imperatore in più occasioni. In secondo
luogo, benché generalmente popolare fra i cinesi in quanto artefice
dell’unificazione della Cina, Qin
Shi Huang è considerato un tiranno sanguinario, accusato di ave-
N. 43 - 5 dicembre 2013
pubblicò circa duecento articoli
fino all’ottobre del 1976. Fervente fu l’attività in siti operai come
i cantieri navali Bandiera rossa di
Dalian. Intere fabbriche, comuni,
scuole e università divennero insomma delle piccole case editrici.
Molti di questi articoli venivano raccolti in volumetti, spesso tematici, talvolta addirittura su argomenti inaspettati, come Raccolta
di articoli di critica a Lin e Confucio. La lotta fra confucianesimo e
legismo e lo sviluppo della scienza
e della tecnica mediche in Cina,
tanto era penetrante ed estesa la
critica del Pi Lin Pi Kong. Vennero stampate perfino lianhuanhua,
storie illustrate, su episodi della
Cina antica riguardanti prevalentemente la storia del legismo.
5. Considerazioni
conclusive
Un gruppo di operai compila dei dazebao (giornali murali a grandi caratteri) di critica contro coloro che si oppongono alla
linea rivoluzionaria della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria
re sepolto vivi i saggi confuciani
e bruciato i loro testi. Durante il
Pi Lin Pi Kong questa immagine
fu completamente capovolta e lo
stesso rogo dei libri fu inquadrato storicamente nel contesto della
lotta anticonfuciana e antireazionaria.
Vediamo quindi una fedele applicazione del principio marxista
per cui «Tutta la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classe»: il progresso storico
è determinato dall’avvicendamento delle classi al potere, che si verifica quando la nuova classe in
ascesa, rappresentata dalle forze produttive avanzate, adegua le
relazioni di produzione arretrate
sostituendosi per via rivoluzionaria alla classe dominante. Al contempo, la lotta storica fra legismo
e confucianesimo dimostrava l’esistenza di due linee contrapposte
nel corso di tutta la storia cinese:
una progressista, l’altra reazionaria. Secondo Mao, la lotta fra le
due linee è il riflesso ideologico
della lotta di classe: ciascuna linea rappresenta l’ideologia della classe dominante o della classe
in lotta. Era perciò necessario che
i comunisti restassero sulla linea
proletaria e rivoluzionaria, mentre
Liu Shaoqi e Lin Biao erano stati accusati di seguire la linea borghese e controrivoluzionaria pur
facendo parte del Partito comunista. Lo studio del legismo e del
suo scontro con il confucianesimo era perciò funzionale alla lotta contro il revisionismo, nella misura in cui dimostrava l’effettiva
esistenza della lotta fra le due linee. In quest’ottica vennero pubblicate edizioni critiche e annotate
di scritti di contemporanei di Confucio o autori della Cina antica e
pre-imperiale ritenuti progressisti.
Più in generale, la Rivoluzione culturale in tutto il suo corso
prestò grande importanza allo studio della storia. Non va tralasciato
che la stessa causa scatenante della Rivoluzione culturale fu proprio
una questione storica: l’opera teatrale La destituzione di Hai Rui di
Wu Han, che allegoricamente, attraverso la storia dell’onesto ministro Hai Rui che osa contestare
l’avido imperatore a costo della sua carriera, voleva attaccare
Mao sul caso Peng Dehuai. Centrale durante tutta la Rivoluzione
culturale fu proprio la lotta fra la
concezione materialista e idealista
della storia: due concezioni opposte fondate, la prima, sulle leggi
oggettive della lotta di classe, e, la
seconda, sull’esaltazione del ruolo
degli eroi e dei grandi personaggi.
«I piccoli personaggi possono fare
grandi cose», si sarebbe detto durante il Pi Lin Pi Kong.
Non è esatta l’affermazione di
Anne Cheng secondo cui l’analisi storica della Rivoluzione culturale, e quindi del Pi Lin Pi Kong,
ridusse «il dibattito fra tutte le correnti di pensiero degli Stati Combattenti alla “lotta fra la linea confuciana e legista”»: in effetti, pur
focalizzandosi sul suddetto aspetto, non certo marginale, la campagna non mancò di interessarsi
anche ad altre correnti ed epoche
della storia cinese.
È interessante notare che, mentre in riferimento al confucianesimo la critica era netta e decisa
e i vari articoli si occupavano di
approfondirla in relazione a vari
aspetti, nella trattazione di questi
ultimi casi trovarono spazio opinioni anche molto diverse, o comunque in evoluzione. Una rivista
nata nel 1973 a Shanghai, Xuexi
yu pipan (Studio e critica), ospitò sulle sue pagine molti di questi
saggi, accostandosi al già esistente
Lishi yanju (Ricerca storica), un
periodico specializzato voluto da
Mao già nel 1954.
Il taoismo, ad esempio, venne considerato da più autori come
una copertura del legismo, usata
dalla dinastia Han per nascondere
la sostanziale continuità con i metodi dei Qin attraverso dettami docili e accettabili, dove per esempio
il «non agire» taoista è un invito a
non mettere in discussione le leggi. Yan Feng sostenne che il fondamentale testo legista Han Feizi
era in ultima analisi lo sviluppo in
senso materialista del Laozi.
Un ulteriore esempio interessante è la valutazione di un altro
personaggio storico poco avvezzo all’insegnamento confuciano
e al quale la tradizione successiva imputò crudeli nefandezze:
Cao Cao. Questi, protagonista della fase iniziale del periodo dei Tre
Regni (220-280), nei libri di testo
di Beida del 1973 era visto in una
luce assai negativa per il suo ruolo nel reprimere le rivolte contadine dell’epoca, ma i medesimi testi nell’edizione del 1975 rividero
il giudizio, identificando in lui un
rappresentante dei piccoli proprietari terrieri progressisti. Nel 1974
Lishi yanju riportava contemporaneamente entrambe le posizioni.
4.5. I protagonisti
e le forme: le masse
popolari e i gruppi
di critica
Leggendo gli articoli e i saggi pubblicati durante il Pi Lin Pi
Kong, un aspetto molto interessante da rilevare è l’assenza di singoli autori preminenti. Certamente
vi furono articoli firmati individualmente e figure maggiormente
rappresentative, come Yang Rongguo, ma anche in questi casi si trattava spesso di quadri di basso livello, come segretari di cellula del
PCC, o addirittura singoli operai.
Si assistette invece alla costituzione e diffusione di un gran numero
di gruppi teorici, gruppi di discussione e gruppi di critica a livello di
base, i quali si accollarono il compito di proseguire e approfondire
la critica del Pi Lin Pi Kong. Molti
di questi gruppi vennero costituiti
nelle fabbriche e negli altri luoghi
di lavoro, esprimendo la necessità di legare lo studio della teoria
e della storia al lavoro produttivo,
e sarebbero stati molti attivi anche
nelle successive campagne teoriche lanciate da Mao dopo il 1974.
L’esperienza di queste forme autoorganizzate, che si estinsero rapidamente dopo il 1976, assume ancora maggiore importanza se si
pensa che l’elaborazione ideologica e culturale nella Cina odierna è
saldamente tenuta dal PCC e dagli
organi accademici, ad esso legati.
L’edizione critica dei Dialoghi
che si è citata più volte nelle pagine precedenti, ad esempio, era
pubblicata dagli «studenti operai,
contadini e soldati della Facoltà di
Filosofia dell’Università di Pechino». Possono inoltre essere citati a
titolo esemplificativo, senza alcuna pretesa di esaustività, il gruppo operaio di discussione della
fabbrica di pneumatici di Tianjin,
il gruppo operaio di studio teorico dell’officina n. 2 dell’acciaieria n. 5 di Shanghai, il gruppo di
critica di massa dell’Università
di Pechino e dell’Università Qinghua; quest’ultimo in particolare
A seguito della morte di Mao
e della conseguente chiusura della Rivoluzione culturale, mentre
il gruppo diretto da Deng Xiaoping consolidava (e, in certi casi,
recuperava) il proprio controllo
sul Partito comunista, il Pi Lin Pi
Kong fu uno dei primi aspetti ad
essere presi di mira in anticipazione della negazione totale della Rivoluzione culturale, che si sarebbe
avuta nel 1981, in ciò preceduto
soltanto dalla riforma dell’istruzione, sconfessata già nel settembre 1977. Il Renmin Ribao del 18
luglio 1978, ad esempio, si scagliava contro la «assurdità antistorica di rompere nettamente con
ogni retaggio storico e ripudiare
completamente Confucio». Man
mano che l’economia cinese passava dalla pianificazione al mercato, durante la politica di Gaige
Kaifang (riforma e apertura), il
confucianesimo riacquistò sempre più popolarità. Nel 1989 Jiang
Zemin, appena nominato segretario generale del PCC, partecipò
alle celebrazioni per il 2540° anniversario della nascita di Confucio e ne promosse ufficialmente il
recupero, che prosegue tuttora non
senza contraddizioni, come il caso
della statua di Confucio in piazza
Tian’anmen richiamato nell’introduzione.
Le motivazioni di questo recupero sono probabilmente molteplici. Da un lato, la dirigenza cinese
avverte l’utilità dei principi gerarchici del confucianesimo e del
recupero delle tradizioni nazionali per la realizzazione dell’armonia sociale e del «sogno cinese». Dall’altro, contestualmente
alla riscoperta del taoismo e del
buddhismo, costituisce un rifugio
spirituale dai nuovi problemi morali generati dall’avanzata dirompente dell’economia di mercato e
dallo smantellamento delle strutture collettive di epoca socialista.
Con l’evidente abbandono della critica sviluppatasi durante il Pi
Lin Pi Kong, gli studi occidentali contemporanei sul periodo sembrano tendere a sottovalutare questa esperienza, a differenza di
diverse analisi compiute mentre la
campagna era ancora nel pieno del
suo corso, complice il fascino che
la Cina di Mao esercitava su molti
intellettuali di sinistra, diversi dei
quali avrebbero successivamente
cambiato opinione. Ciò può essere dovuto ad una ripresa pressoché
acritica del giudizio cinese attuaNOTE
(8)
Circolare su Lin Biao e i precetti di
Confucio e Mencio (prima raccolta), documento del Comitato centrale n. 1/1974.
Mia traduzione.
(9) La Circolare del CC del PCC su alcune
questioni riguardanti il movimento Pi Lin
Pi Kong (20 febbraio 1974) specificava
che «il movimento Pi Lin Pi Kong si svolge sotto la direzione unificata dei comitati
del Partito».
(10)
Mao Zedong, Il mio punto di vista, 31
le, rigido e inossidabile al punto
da essere ripetuto quasi parola per
parola in varie pubblicazioni sul
tema, e del tutto concentrato sui
giochi di potere della banda dei
quattro. Secondo questo giudizio,
Mao, incapace di negare sul piano
ideologico la Rivoluzione culturale che lui stesso aveva ideato, volle evitare che la campagna contro
Lin Biao andasse proprio in questa
direzione. Per questo la accostò
alla campagna anticonfuciana, favorendo inconsapevolmente Jiang
Qing (sua moglie, dalla quale però
viveva separato) e la cosiddetta
banda dei quattro nei suoi presunti
attacchi contro Zhou Enlai in vista
del post-Mao.
Certamente la banda dei quattro in quel periodo aveva un ruolo di primo piano: oltre a Chiang
Qing, che peraltro si occupava di
un settore, quello letterario e artistico, fondamentale durante il Pi
Lin Pi Kong, Wang Hongwen era
vicepresidente del Comitato centrale e incaricato, insieme a Zhou
Enlai, del lavoro esecutivo; Zhang
Chunqiao era membro del Comitato permanente dell’Ufficio politico e segretario municipale di
Shanghai; Yao Wenyuan infine
era responsabile della propaganda. È altrettanto vero che in questo periodo Mao criticò Zhou Enlai per questioni di politica estera.
Tuttavia è nel medesimo periodo
che Mao rivolse dure critiche alla
stessa Jiang Qing. La nomina di
Hua Guofeng a primo ministro e
primo vicepresidente del Comitato centrale, nell’aprile del 1976, su
iniziativa di Mao, precluse le due
posizioni rispettivamente a Zhang
e Wang.
Tuttavia, sarebbe estremamente riduttivo e non corretto restringere l’intera esperienza del Pi Lin
Pi Kong alle vicende al vertice del
Partito comunista. Una tale visione, infatti, risulta restrittiva o
addirittura superficiale alla luce
dell’importanza storica, dell’estensione e della profondità del
movimento. Occorre anche notare
che la critica dell’epoca ebbe effettivamente una notevole vivacità, in quanto realizzata attraverso
discussioni e contributi dalla base
stessa, a volte, come è stato detto, addirittura producendo giudizi contrastanti. Uno stile che può
apparire a prima vista stereotipato, ad esempio per via dell’utilizzo
delle stesse citazioni di Confucio e
Lin Biao e di formule praticamente analoghe negli articoli in cui si
criticava l’«autocontrollo e ritorno
ai riti», andrebbe visto in relazione
alla necessità di insistere sui concetti per scardinare in pochi anni
una mentalità radicatasi da millenni. Gli stessi richiami critici al
“duca Zhou”, considerati attacchi
allegorici contro Zhou Enlai, risultano piuttosto secondari. Bisogna comunque tenere presente che
l’allora primo ministro cinese condivideva il cognome, Zhou, con il
nome della dinastia decantata dai
confuciani, forse suo malgrado.
Tale interpretazione cinese
contemporanea, quindi, non può
essere condivisa dalla lettura proposta da questa tesi, soprattutto
perché, indipendentemente dalla
loro fonte ideologica, ignora gli
elementi di fortissima originalità
offerti dalla critica del periodo.
[2 - Fine]
agosto 1970.
(11) Mao Zedong, Sul governo di coalizione, 25 aprile 1945, in Opere scelte, Edizioni in lingue estere, Pechino 1971, vol. III,
p. 213.
(12)
Mao Zedong, Sulla pratica, luglio
1937, in Opere scelte, Casa editrice in
lingue estere, Pechino 1969, vol. I, p.
314.
(13) Mao Zedong, Discorsi alla conferenza di Yan’an sulla letteratura e l’arte, 23 maggio 1942, in op. cit., 1973, vol.
III, p. 90.
N. 43 - 5 dicembre 2013
PMLI / il bolscevico 11
Il 7 Novembre abbiamo traslocato nella nuova Sede centrale del PMLI
e de “Il Bolscevico”, più
grande e più moderna rispetto alla precedente.
Si tratta di un grosso
impegno finanziario che
non possono sostenere da soli i militanti del
PMLI.
Pertanto lanciamo un
appello urgente a tutte
le simpatizzanti e i simpatizzanti, a tutte le amiche e gli amici del Partito
per aiutarci a sostenere
le spese iniziali e l’affitto
mensile, entrambi piuttosto rilevanti.
Le donazioni possono essere consegnate
di persona oppure attraverso il conto corrente
postale numero 85842383 intestato a PMLI – via Gioberti
101 – 50121 Firenze. Presto cambieremo l’indirizzo.
Nella causale scrivere: Donazione per la nuova Sede
centrale.
Grazie di cuore per tutto quello che potete fare. Anche
un euro ci è utile.
Che la nuova Sede centrale del PMLI e de “Il Bolscevico” porti idealmente impresso il nome di tantissimi donatori.
12 il bolscevico / cronache locali
I compagni
romagnoli stampano
“Il Bolscevico”
ad uso interno
‡‡Dal nostro corrispondente
dell’Emilia-Romagna
Sono passati 2 mesi da quando, con un decisione dolorosissima, l’Ufficio Politico del
PMLI ha decretato la sospensione della pubblicazione cartacea
de “Il Bolscevico”, un provvedimento dettato dalla povertà economica del Partito e che
costituisce il principale ostacolo allo sviluppo del PMLI e che
ci ha privato di portare il nostro
glorioso organo di stampa nelle piazze, nelle fabbriche, nelle
scuole e nelle università.
Per sopperire alla mancanza
de “Il Bolscevico” cartaceo almeno per i militanti e per i simpatizzanti, soprattutto per coloro che non posseggono o che
non hanno dimestichezza con
internet, ma anche per coloro
che vogliono leggerlo in carta, i
compagni di Forlì, Rimini e Ravenna hanno trovato dei “punti
d’appoggio” dove poter stampare “Il Bolscevico” nel suo classico formato A3, in questo modo
i compagni romagnoli hanno a
disposizione il giornale del Partito esattamente come prima, da
poter far circolare tra i militanti e i simpatizzanti, anzi, facendo un passo in avanti in quanto
“Il Bolscevico” viene stampato
il giorno dopo la pubblicazione sul sito del Partito, evitando
quindi le lunghe attese determinate dai pesanti ritardi postali.
I compagni poi si aiutano tra
loro provvedendo alla stampa
anche per altri compagni e poi
incontrandosi per la consegna
del giornale a chi non ha possibilità di farselo stampare vicino
a casa. Naturalmente la distribuzione è gratuita perché il PMLI
non è abilitato al commercio.
Certo, non è tutto come prima, ma in attesa di poter diffondere nuovamente “Il Bolscevico” tra le masse, è comunque un
modo per non farlo mancare a
chi non usa internet e non può
fare a meno di averlo in carta.
Una iniziativa analoga è stata presa dalla Cellula “Stalin”
della provincia di Catania.
N. 43 - 5 dicembre 2013
Assemblea indetta dal “Comitato viva la costituzione” di Catania
Schembri denuncia le illusioni
costituzionali e invita al fronte
unito contro il presidenzialismo
La via maestra è il socialismo
‡‡Dal
corrispondente
della Cellula “Stalin”
della provincia di Catania
Nel pomeriggio dell’8 novembre ha avuto luogo l’assemblea indetta dal “Comitato Viva la Costituzione” di Catania. I compagni
della Cellula “Stalin” sono stati
invitati per l’occasione dal presidente dell’ANPI di Catania, Santina Sconza.
All’iniziativa hanno partecipato una trentina di rappresentanti di
partiti (PRC, PDCI, Catania bene
comune), associazioni e gruppi
(movimento studentesco catanese) e sindacati (CGIL).
Gli interventi effettuati dai presenti hanno fatto riferimento alla
difesa dell’articolo 138, mentre è
risultata ambivalente la posizione
sul presidenzialismo. Infatti, contro quest’ultimo sono state avanzate critiche ma anche tesi in suo
supporto.
In generale, l’assemblea è stata
caratterizzata da interventi che di-
fendevano apertamente e a spada
tratta la costituzione, idealizzandola. Vi è stato qualche intervento
parzialmente critico nei confronti della Costituzione. Sono state,
inoltre, mosse critiche al sindacato per non aver indetto lo sciopero di otto ore, spingendolo a muoversi in autonomia e a non essere
un mero appendice dei partiti.
Una rappresentante della CGIL
ha preso la parola, invitando i presenti alla mobilitazione per lo
sciopero del 15 novembre.
In seguito, il Segretario della
Cellula “Stalin” della provincia di
Catania, Sesto Schembri, ha preso la parola. Durante l’intervento, nato dalla riflessione e sintesi effettuata dal compagno sulla
base dell’editoriale “cinquantamila in difesa della Costituzione, ma
la via maestra è il socialismo e il
potere del proletariato”, i presenti sono rimasti silenziosi ad ascoltare e non hanno mosso critiche o
commenti.
Il compagno ha sottolinea-
Bufera nel comune di Adro (Brescia)
ARRESTATO PER TURBATIVA D’ASTA
IL NEOPODESTA’ LANcINI (Lega)
Anni fa tolse la mensa ai bambini immigrati e fece tappezzare la scuola con simboli leghisti
‡‡Dal nostro corrispondente
della Lombardia
Il neopodestà nazi-leghista e
razzista di Adro (Brescia), Oscar
Danilo Lancini, lo stesso che tre
anni fa con un infame e ignobile
provvedimento escluse dalla mensa scolastica i figli di genitori immigrati che non erano in grado di
pagare puntualmente la retta e che
inaugurò in pompa magna un polo
scolastico intitolandolo all’ideologo della Lega Nord Gianfranco
Miglio (morto nel 2001) tappezzandolo di simboli leghisti, è stato
arrestato con l’accusa di “turbata
libertà di scelta del contraente, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”.
Assieme a Lancini, che si è rifiutato di rispondere alle domande
del giudice per le indagini preliminari Cesare Bonamartini il quale lo
accusa di una gestione della cosa
pubblica caratterizzata dal “totale
disprezzo di garanzia di imparzialità imposte dalla legge”, sono finiti ai domiciliari, su richiesta del
pm Silvia Bonardi, l’assessore ai
lavori pubblici, Giovanna Frusca,
il segretario reggente del Comune,
Carmelo Bagalà, il responsabile
dell’area tecnica, Leonardo Rossi
e due imprenditori edili, Alessandro Cadei e Emanuele Casale.
Il neopodestà, che tra l’altro
acquisì anche la fama di “sceriffo” per avere messo una taglia di
500 euro su ogni “clandestino” arrestato dai vigili urbani, avrebbe
favorito aziende a lui vicine, evitando loro la gara d’appalto, per
la realizzazione di opere pubbliche come l’area feste di via Indipendenza, costata oltre un milione
di euro. Lancini avrebbe dichiarato falsamente la gratuità ed urgenza della realizzazione dell’opera
e, dopo la richiesta di esibizione
delle delibere del cantiere da par-
Ha ragione Scuderi:
il proletariato deve divenire
una classe per sé
Ho letto con molto interesse
l’opuscolo del compagno Scuderi
“Applichiamo gli insegnamenti di
Mao sulle classi e il Fronte Unito”. La descrizione delle classi in
Italia è molto precisa e rispecchia
perfettamente la società. Oggi per
me le classi esistono ancora e ci
dobbiamo battere per sotterrare la
classe borghese regnante al momento sulla nostra società con tutte le forze e, appunto, con il Fronte Unito.
Mao ha detto una cosa fondamentale “Il proletariato deve divenire una classe per sé” ed è
grazie agli insegnamenti marxistileninisti che il proletariato ha conoscenza dello sfruttamento della società capitalista. Per questo,
come si legge nell’opuscolo, nel
costruire il Fronte Unito dobbiamo entrare in tutto quello che ci
permette di essere a contatto con
le masse quindi sindacati, scuole,
università, ecc., e non rinchiuderci
in noi stessi, dobbiamo farlo anche
nei nostri luoghi di lavoro, di studio e di vita.
Sono convinto che gli insegnamenti dei cinque Grandi Maestri
siano l’unica alternativa per co-
struire un mondo migliore e che
le loro idee siano ancora molto
attuali; chi ci chiama retrogradi e
antichi sbaglia tantissimo perché
l’unica soluzione è la rivoluzione
proletaria sotto gli insegnamenti
del marxismo-leninismo-pensiero
di Mao.
Saluto e ringrazio tutti i
compagni/e, andiamo avanti con
la lotta e facciamo risorgere il Sole
Rosso!
Viva il Proletariato!
Con i Maestri e con il PMLI
vinceremo!
Antonio - Modena
te dei carabinieri, le avrebbe “fabbricate” in fretta e furia lo stesso
giorno.
Si è dichiarato “sorpreso” il governatore della Lombardia, il caporione leghista Roberto Maroni,
che lo ha vergognosamente difeso definendolo “un bravo sindaco,
una persona onesta”, esprimendogli la sua “solidarietà”.
Il neopodestà Lancini, che è anche imprenditore, ha una “carriera” di padrone costellata di molti
punti oscuri, a cominciare dall’inquinamento di Adro dove la sua
ditta di smaltimento di rifiuti tossici, la Elg, fallita nel 2007, è stata coinvolta in tre processi per inquinamento e traffico di rifiuti, ma
ne è uscita indenne grazie alla prescrizione. L’impianto fu ceduto nel
2009 ad una società il cui responsabile tecnico è il fratello Luca, la
ValleSabbiaServizi, che lo ha riaperto nel 2012 ed è stata subito
oggetto di denunce per miasmi e
intossicazioni nocive per la salute.
Da alcune indagini sembrerebbe
che non si riescano a trovare né la
concessione edilizia del capannone di proprietà dei Lancini risalente al 1991 (su cui si basa anche la
nuova autorizzazione della ValleSabbiaServizi), né il certificato di
agibilità dei locali e di prevenzione incendi rilasciato da Vigili del
Fuoco per il capannone dove viene svolta l’attività di smaltimento
di rifiuti tossici. Ciò significherebbe che da oltre vent’anni vengono trattati micidiali rifiuti liquidi
e fanghi industriali in locali senza
agibilità e senza che, nonostante
le denunce, vi sia mai stato alcun
intervento da parte delle autorità
preposte per fermarli.
to come il PMLI abbia aderito
all’iniziativa nello spirito di fronte unito contro il presidenzialismo
e la controriforma costituzionale, sebbene il Partito non condivida i contenuti ideologici e politici dell’appello, né le posizioni sul
valore ed il ruolo attuale e storico
della Costituzione borghese esaltati, invece, da Rodotà, Landini,
Ciotti, Zagrebelsky. Il compagno
ha poi chiesto ai presenti qualora sia possibile affermare, dopo
le controriforme neofasciste ed il
presidenzialismo di Napolitano,
che la Carta entrata in vigore nel
’48 esista ancora. Aggiungendo
che, anche se il “Manifesto” revisionista contribuisca ad incrementare il falso ideologico che si tratterebbe di una Costituzione “sana
e robusta”, è pericoloso farlo credere gli antifascisti. Il compagno
ha poi continuato affermando che,
piuttosto, sarebbe necessario ed
urgente appellarsi all’innalzamento della combattività della piazza
contro il presidenzialismo e il pateracchio democristiano del governo Letta-Alfano. Il compagno
ha affermato che, stando alla storia e all’attualità politica italiana,
la Costituzione è la “via maestra”
che hanno percorso Craxi e Berlusconi, per scalare i vertici delle
istituzioni, quella che percorrono
i padroni per tagliare i diritti agli
operai ed imporre lo sfruttamento selvaggio nelle fabbriche, con
turni massacranti. La “via mae-
stra” degli omicidi bianchi, del
pareggio di bilancio, che impone
il taglio dei servizi sociali; delle
guerre di aggressione imperialiste, dell’acquisto degli F35, delle
servitù militari (vedi il MUOS e
Sigonella), della Bossi-Fini e del
massacro dei migranti nel Mediterraneo.
Il compagno ha continuato ribadendo che, qualora la Costituzione fosse spostata a “sinistra”,
si rimarrebbe comunque nell’ambito del dominio di classe della
borghesia, di cui la costituzione è
la principale espressione.
La via maestra è il socialismo
ed il potere del proletariato ed i
marxisti-leninisti continueranno
ad unirsi con tutte le forze politiche, sindacali, sociali, culturali, religiose, contrarie alla “riforma” da destra della Costituzione.
Al contempo, essi non verranno
mai meno al dovere rivoluzionario e marxista-leninista di denunciare ogni tentativo di spingere le
masse anticapitaliste, antifasciste
e antipiduiste nel pantano della
costituzione borghese, capitalista
e anticomunista e di propagandare che, per la classe operaia, per
tutti gli sfruttati e gli oppressi, per
i giovani, la via maestra è il socialismo e il potere politico del proletariato. L’intervento del compagno Sesto si è concluso con
la frase di sintesi: “Uniti contro
il presidenzialismo, divisi sulla
strategia”.
Renzi a Firenze
vuole privatizzare
la Mukki latte
quotandola
in borsa
‡‡Redazione
di Firenze
Il neopodestà fiorentino
Matteo Renzi (PD) vuole quotare in borsa la Mukki latte, la
centrale del latte nata a Firenze
negli anni Sessanta per assicurare il latte fresco alla popolazione e in particolare ai bambini indigenti; attualmente è
una società partecipata, di cui il
Comune di Firenze possiede il
42,858%.
“L’idea della quotazione nasce dalla volontà di dismettere la partecipazione pubblica
dando vita a un’operazione puramente industriale”, secondo
quanto ha dichiarato alla stampa il presidente di Mukki, Lorenzo Marchionni, un avvocato
di diritto agrario renziano della prima ora, arrivato come presidente a Mukki latte da aprile
2010.
Quella che Renzi e Marchionni vogliono cedere ai privati è un’azienda florida che
si avvia a chiudere il 2013 con
un utile di circa mezzo milione
di euro su ricavi totali per circa
95 milioni. Attualmente la Mukki conta 177 dipendenti, una filiera di 80 aziende agricole che
impiegano oltre 500 persone e
conferiscono per intero la sua
produzione (pari a circa 35 milioni di latte l’anno); tanti piccoli
produttori che contano sulla centrale del latte per mantenere in
vita la propria attività.
Invece di mantenere questa
attività al servizio dell’ambito
locale, il duo Renzi Marchionni
punta addirittura a sviluppare
un rapporto commerciale con
la Cina per arrivare a un fatturato di circa 2 milioni l’anno e
rendere così appetibile la Mukki per i privati.
cronache locali / il bolscevico 13
N. 43 - 5 dicembre 2013
Dopo i fatti del 30 ottobre 2009
a catania
Parte il processo
contro 8 attivisti
che tentarono
di difendere
il cpo Experia
Solidarietà del PMLI
‡‡Dal corrispondente
della Cellula “Stalin”
della provincia di
Catania
Esattamente 4 anni dopo
lo sgombero del Centro Popolare Occupato (CPO)
Experia di Catania, lo scorso 30 ottobre ha avuto luogo la prima udienza contro
8 militanti e simpatizzanti del centro sociale che
all’alba di quel 30 ottobre
2009, insieme a tanti altri,
provarono a difendere un
importante punto di riferimento per il quartiere Antico Corso e per tutta la città.
Gli imputati sono accusati
di resistenza e oltraggio a
pubblico ufficiale, istigazione a delinquere, travisamento. Accuse infamanti nate appositamente per
coprire la violenza inaudita che usarono le “forze
dell’ordine” quella mattina nei confronti della gran
parte dei giovani, ma anche
contro semplici abitanti del
quartiere che in 17 anni di
vita del CPO Experia, avevano imparato ad apprezzare l’impegno degli attivisti
nella la lotta contro la mafia, per la riqualificazione
dei beni pubblici, contro la
speculazione edilizia e servizi come la palestra popolare, il doposcuola, il calcetto, i concerti serali e le
iniziative culturali.
È chiaro a tutti che lo
sgombero era mirato a
spezzare quanto di positivo il CPO Experia stava facendo per le masse popolari catanesi e non, come
ufficialmente dichiararono
i mandanti, per “recuperare
la struttura per la città”. Basta vedere in che stato verte ora.
La prossima udienza si
terrà il prossimo gennaio. La Cellula “Stalin” della provincia di Catania del
PMLI è vicina e solidale
con i militanti e i simpatizzanti del CPO (ora collettivo politico) Experia.
“Diciamo
NO
MUOS
anche
per
te”
Apertura della nuova sede del comitato No MUOS a Ragusa
Lunedì 18 novembre si è tenuto a Ragusa l’evento “DICIAMO
NO MUOS ANCHE PER TE”, una
serata No Muos allo scopo di divulgare e di mostrare alla gente
il lavoro fatto da tutti gli attivisti
durante questo anno di lotta intensificato dalla presenza fondamentale del presidio permanente
in contrada Ulmo a Niscemi. È
stato proiettato il documentario
“Come il fuoco sotto la brace” di
Giuseppe Firrincieli, attivista ragusano. Nel documentario sono
inseriti i principali momenti della
lotta contro il MUOS-TRO, ossia
le manifestazioni più importanti e
i blocchi in contrada Ulmo di camion e gru scortati dalla polizia e
le testimonianze di alcuni attivisti
e degli avvocati che si occupano
della questione MUOS.
Ad introdurre la serata è stato
Pippo Gurrieri, che nel suo discorso ha ribadito l’importanza
della lotta contro il MUOS in tutte
le sue sfaccettature, ha ricordato
che la nostra è una lotta contro
la militarizzazione nel Mediterraneo ed in Sicilia. “Questa lotta
sarà dura ed anche le prossime
generazioni saranno coinvolte:
la militarizzazione è per la Sicilia
un enorme muro da abbattere,
da sempre la Sicilia per la sua
posizione “strategica” è lo scopo
di ogni potenza di ogni epoca”.
Ha ricordato tutto ciò che è stato
fatto quest’anno, tutto l’impegno
degli attivisti che arrampicandosi
sulle antenne hanno sacrificato la
propria libertà essendo soggetti
a continue denunce ed accuse:
una vera e propria persecuzione
da parte dello Stato.
Dopo Pippo Gurrieri, la parola
è passata ad Elvira Cusa, attivista
niscemese. Ha continuato il discorso iniziato da Pippo raccontando la sua esperienza. Lei lotta
contro il MUOS già da 5 anni e
all’inizio credeva che questa lotta fosse destinata a durare poco,
Niscemi (Caltanissetta), 9 agosto 2013. Manifestazione nazionale contro il
MUOS. Le bandiere del PMLI sventolano sotto le antenne radio installate nella
base Usa occupata dai manifestanti (foto Il Bolscevico)
Un momento dell’ampia diffusione del volantino del PMLI contro il MUOS.
Nella foto la compagna Giovanna Vitrano, Responsabile del PMLI per la Sicilia,
che ha diretto la delegazione del partito (foto Il Bolscvico)
che non arrivava mai. Non sono
invece non è stato così. “Fino a
le manifestazioni a risolvere tutto,
qualche anno fa nessuno sapebisogna cambiare il sistema che
va cosa ci fosse all’interno della
ci ha portati a questo. Abbiamo
base e a cosa servisse. Oggi lo
invaso la base perché il poposappiamo, dato che tutto è parlo deve capire che quel terreno
tito da semplice controinformaè il nostro e possiamo farne ciò
zione e dobbiamo fare sì che il
che vogliamo. Ormai noi attivisti
popolo venga spinto a riapprosiamo abituati alla repressione
priarsi di quel territorio che gli è
da parte delle forze dell’ordine,
stato sottratto. La lotta contro il
io sono stata denunciata per ‘inMUOS ha risvegliato il popolo di
terruzione di pubblico servizio’,
Niscemi, che non si era mai ribelcome se una base militare fosse
lato prima, nemmeno per l’acqua
pubblica!”
Dopo Elvira hanno preso la parola Paola Ottaviano ed Alfonso
Di Stefano, che stanno seguendo
dal punto di vista giudiziario la
questione MUOS. “Conosciamo
la posizione del nostro governo
rispetto al MUOS, ci dicono che
è utile all’Italia perché è una base
della NATO e passerà in possesso
all’Italia. Niente di più falso, quella di contrada Ulmo è una base
esclusivamente statunitense. Dicembre 2013 è il periodo di fine
della costruzione e questa è una
fase importante perché i lavori
andranno avanti velocemente e
legalmente (non siamo nemmeno
coperti dalla revoca che rendeva
la costruzione fuorilegge). La costruzione del MUOS è anticostituzionale perché con esso l’Italia
è coinvolta in qualsiasi conflitto
e ciò va contro l’articolo 11 della
costituzione”. Queste le parole di
Paola Ottaviano.
Di Stefano, invece ha ricordato
la presenza della base di Sigonella, diventata capitale dei droni, ha
ammesso che dopo la manifestazione del 9 agosto c’è stata una
pausa nella lotta, ma che questa
deve riprendere aumentando la
sua forza anche per dire NO alla
militarizzazione e alle operazioni
di pattugliamento nel Mediterraneo per rimandare a casa gli emigranti o per aumentare il numero
di naufragi nei nostri mari.
Durante tutta la serata c’è stata la possibilità di partecipare ad
una mostra di quadri (attinenti alla
lotta) di una mamma niscemese e di fotografie che ritraevano
i momenti principali della lotta e
delle manifestazioni. Ricordiamo
l’apertura della sede del comitato NO MUOS a Niscemi per cui
si sta ancora lavorando e il compleanno del presidio permanente
che verrà festeggiato il 23 e il 24
Novembre.
Aurora – Caltagirone (Catania)
Mare “Mostrum”, la guerra non dichiarata
ai migranti nel Mediterraneo
di Antonio Mazzeo
Nel Mediterraneo l’Italia fa la
guerra ai migranti. Non dichiarata,
certo, ma di guerra indubbiamente
si tratta. Perché le strategie, gli attori, gli strumenti, le alleanze e le
modalità d’intervento sono quelli
di tutte le guerre. E causano morti,
tanti morti.
Qualcuno ha storto il muso per
il nome, Operazione Mare Nostrum. Si è detto che c’era una caduta di stile, un voler scimmiottare i fausti dell’impero romano. In
verità esso risponde perfettamente
al senso e agli obiettivi della messinscena ipermuscolare delle forze armate italiane. Il Mediterraneo, per la Fortezza Europa, non è
né deve essere un mare di mezzo.
Non è il luogo dei contatti, delle
contaminazioni, delle solidarietà,
delle trasformazioni. Né un ponte di intercultura e pace. È invece il lago-frontiera, noi qua, loro
là, un muro d’acqua invalicabile,
dove vige la regola del più forte e
del più armato. Un’area marittima
di conflitti, stragi, naufragi causati, respingimenti, riconsegne e
deportazioni manu militari. A chi
scampa ai marosi e ai mitragliamenti delle unità navali nordafricane (pagate con i soldi italiani)
spetta l’umiliazione delle schedature, delle foto segnalazioni e degli interrogatori a bordo di frega-
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chiuso il 27/11/2013
ISSN: 0392-3886
ore 16,00
Associato all’USPI
Unione Stampa
te lanciamissili e navi anfibie e da
sbarco. Poi i trasbordi, le soste interminabili su una banchina di un
porto siciliano, il tragitto su bus e
pulmini super scortati da poliziotti
e carabinieri sino alla detenzione
illimitata in un centrodiprimaccoglienza-CIE-CARA, un non luogo
per non persone, dove annientare
identità, memoria, speranze.
L’Operazione Mare Nostrum
fu annunciata dal ministro Mario
Mauro dopo la strage del 3 ottobre,
quando a poche miglia da Lampedusa annegarono 364 tra donne,
uomini e bambini provenienti dal
continente africano e dal Medio
oriente. Anche stavolta però l’incidente fu un mero casus belli. La
nuova crociata contro chi fugge
dalle ingiustizie, lo sfruttamento,
gli ecocidi, era stata preparata infatti da mesi in tutti i suoi dettagli.
Governo e Stato maggiore hanno
rispolverato ad hoc l’armamentario linguistico delle ultime decadi:
operazione militare e umanitaria,
l’hanno ipocritamente definita,
perché le guerre non devono mai
essere chiamate con il loro nome
per non turbare l’opinione pubblica e la Costituzione. “Si prevede il
rafforzamento del dispositivo italiano di sorveglianza e soccorso in
alto mare già presente, finalizza-
to ad incrementare il livello di sicurezza della vita umana e il controllo dei flussi migratori”, recita
il comunicato ufficiale di Letta &
ministri bipartisan. Un contorto
giro di parole per mescolare intenti solidaristici a logiche sicuritarie
e repressive, dove volutamente restano vaghi i compiti e le istruzioni date ai militari. Niente regole
d’ingaggio, perché si possa di volta in volta sperimentare in mare
se e come intervenire, se e come
soccorrere, se e come allontanare,
respingere o scortare a quei “porti
sicuri” che il ministro Alfano ritiene esistano pure nella Libia dilaniata dalla guerra civile.
Mare “Mostrum” è la migliore vetrina del complesso militareindustriale-finanziario di casa nostra: aerei, elicotteri, missili, unità
navali, sommergibili, cannoni che
aspiriamo a vendere ai paesi Nato e
ai regimi partner della sponda sud
mediterranea. Sistemi d’arma che
nulla hanno a che fare con quello
che in linguaggio militare si chiama “SAR – Search and Rescue”,
ricerca e soccorso in mare, ma che
invece delineano un modello di
proiezione avanzata, aggressiva,
di vera e propria penetrazione sino
a dentro i confini degli stati nordafricani. Se si vogliono “arrestare i
flussi migratori”, come spiegano
generali, ammiragli, politici di governo e opinion maker embedded,
bisogna impedire infatti a profughi e migranti di raggiungere le
coste e le città portuali. Bloccarli
nel deserto, detenerli nei lager del
deserto e far fare il gioco sporco
alle nuove polizie di frontiera che
i Carabinieri armano e addestrano
in Libia e nelle caserme in Veneto, Lazio, Toscana. Per intercettare
e inseguire i rifugiati e i migranti
in transito nel Sahara abbiamo attivato i famigerati “Predator”, aerei senza pilota in grado di volare
per decine di ore in qualsiasi condizione meteorologica.
Come tutte le guerre, quella
ai migranti dilapida ingenti risorse finanziarie. Fonti di stampa filogovernative hanno previsto per
l’Operazione Mare Nostrum-Mostrum un onere finanziario di circa 4 milioni di euro al mese ma,
conti alla mano, la spesa potrebbe
essere più che doppia. Il Sole 24
Ore ha preso a riferimento le “tabelle di onerosità” sul costo orario
delle missioni delle unità navali,
degli aerei e degli elicotteri impegnati nel Canale di Sicilia. Aggiungendo le indennità d’imbarco
dei circa 800 marinai delle unità
navali coinvolte (il personale mi-
litare destinato al “contenimento”
delle migrazioni è però di 1.500
uomini), il quotidiano di Confindustria ha calcolato una spesa media giornaliera di 300 mila euro,
cioè 9 milioni al mese a cui vanno aggiunti 1,5 milioni di euro per
le unità costiere già in azione da
tempo: totale 10,5 milioni. La rivista specializzata Analisi Difesa ritiene invece che la spesa complessiva sfiorerà i 12 milioni al mese.
Dato che il governo non ha previsto stanziamenti aggiuntivi sul capitolo “difesa”, è presumibile che
il denaro per alimentare la macchina militare anti-migranti sarà prelevato dal fondo straordinario di
190 milioni di euro messo a disposizione per far fronte alla nuova
emergenza immigrazione. Come
dire che da qui alla fine dell’anno
bruceremo in gasolio e pattugliamenti aeronavali il 20% di quanto
è stato destinato per “sostenere”,
“soccorrere” e “accogliere”.
In perfetto stile shock economy,
dopo le armi e le guerre arriva la
ricostruzione: lager e tendopoli
dove stipare corpi a cui abbiamo
rubato l’anima, la cui malagestione è affidata alla misericordia di
cooperative, Onlus e associazioni
del privato sociale. A loro va l’altra metà del business migranti: un
affaire di milioni e milioni di euro
dove la dignità dell’uomo vale
meno di nulla.
14 il bolscevico / rinnegati del comunismo
N. 43 - 5 dicembre 2013
Per decisione del CC del partito revisionista e fascista cinese
La Cina capitalista di Xi Jinping
sposta ancora più a destra la politica
economica sulla linea del rinnegato Deng
Lo Stato esce quasi interamente dalla finanza e dall’economia dando più spazio ai capitalisti privati. Urbanizzazione
spinta e vendita della terra. Creato un comitato per la sicurezza interna per rafforzare la dittatura fascista borghese
lo “stadio primario del socialismo” è un inganno
Dal 9 al 12 novembre si è svolta a Pechino la terza sessione plenaria del Comitato centrale eletto un anno fa dal 18° Congresso
del Partito comunista cinese, in
realtà oggi un partito revisionista e fascista. Salutata con toni
trionfalistici dalla stampa cinese
(ma anche estera), basti pensare
che il Quotidiano del popolo l’ha
definita “nuovo punto di partenza
storico” per la riforma economica, si è significativamente tenuta alla vigilia del 35° anniversario dell’avvio della restaurazione
del capitalismo in Cina ad opera
del rinnegato Deng Xiaoping nel
dicembre del 1978. E infatti non
si è minimamente discostato dalla politica economica di Deng,
salvo per spostarla ancora più a
destra.
Il mercato proclamato
“forza decisiva”
del capitalismo cinese
Le decisioni prese al plenum,
in particolare la “risoluzione
sull’approfondimento complessivo delle riforme”, costituiscono
un nuovo tassello della restaurazione totale del capitalismo, ormai anche a parole oltre che nei
fatti: al mercato (e quindi al settore privato) sarò riconosciuto
d’ora in avanti il ruolo trainante nell’allocazione delle risorse,
mentre lo Stato dovrà limitarsi
a garantire servizi. Non solo: il
governo si impegna anche a rinunciare a ingenti percentuali di
azioni nelle imprese statali per
favorire l’ingresso di investitori privati esteri. Verrà addirittura
liberalizzato il sistema bancario
consentendo la nascita di banche
private “piccole e medie” (per
ora).
L’obiettivo ufficiale è lo smantellamento dei monopoli statali,
ma in realtà verrà cancellato ogni
residuo di pianificazione economica attraverso la privatizzazione piena dell’economia e della
finanza, persino in settori nevralgici considerati di esclusiva proprietà dello Stato come l’energia,
le telecomunicazioni e il già citato sistema bancario. E di certo
liquidare i magnati monopolisti
capitalistici di Stato non restituirà al popolo quanto gli è stato rubato, ma andrà a vantaggio della
rapace “mano invisibile” del “libero mercato”.
Ciò arriva peraltro a pochi
mesi dalla creazione della “zona
a libero scambio” di Shanghai,
un’area sperimentale con varie
ghiotterie per i capitalisti privati,
fra cui la possibilità di stabilire i
tassi d’interesse, che sarà presto
estesa anche alla città costiera di
Tianjin, ma che sembra proprio
essere il trampolino di ulteriori
riforme capitalistiche.
Non è tutto: ai contadini sarà
concesso di vendere privatamente le terre, che fino ad oggi sono
state di proprietà dello Stato (e
gestite dai burocrati di villaggio
dopo lo smantellamento delle comuni popolari), mentre ora saranno i contadini ricchi ed i nuovi
proprietari terrieri ad arricchirsi a scapito dei contadini poveri,
mentre la campagna cinese già da
tempo vive inquietanti ritorni a
pratiche feudali.
È stato anche annunciato un
piano che ha tutte le sembianze
di una nuova spinta all’urbanizzazione selvaggia, che si stima
dovrà arrivare al 70%.
Insomma l’obiettivo della
cricca revisionista e fascista di
Pechino capeggiata da Xi Jinping è eliminare ogni minimo rimasuglio di economia socialista
o finanche pubblica per favorire
e allargare i profitti della grande borghesia cinese, far venire
l’acquolina in bocca ai capitalisti stranieri e rilanciare la superpotenza imperialista cinese alla
conquista dei mercati internazionali. Nel comunicato della sessione si dice addirittura che: “È
necessario accelerare la nascita di
un sistema moderno di mercato
che favorisca l’imprenditoria indipendente, la concorrenza leale,
l’indipendenza dei consumatori,
il consumo libero, la libera circolazione dei beni e degli elementi
primari e lo scambio equo” e “lavorare alacremente per eliminare
ogni barriera che ostacoli il mercato” (sic!). Una foga liberista di
cui Reagan e la Thatcher andrebbero fieri.
Infatti il Centro di ricerca
sulle riforme ha accolto rapidamente il via libera del plenum
elaborando uno schema di provvedimenti che recepisce il piano
“Cina 2030”, redatto insieme alla
Banca mondiale, “un ammasso di
menzogne e inganni” il cui scopo “è la distruzione totale delle
imprese statali cinesi e la conseguente disgregazione, smembramento e distruzione della Cina”,
come denunciato dai “1644 compagni marxisti-leninisti-maoisti”
cinesi in una lettera aperta del luglio 2012 pubblicata in parte da
“Il Bolscevico”.
Sul piano sociale, sono emerse solo parole tutte da verificare sulla riforma del certificato di
residenza (hukou) introdotto dal
governo popolare di Mao per garantire alle masse servizi sociali
(istruzione, sanità...) gratuiti e di
qualità erogati dalle unità di lavoro urbane e dalle comuni agricole. Con la liquidazione di queste
strutture socialiste, l’hukou è diventato strumento di oppressione per i migranti interni che si
spostano dalle campagne alle città dove, senza residenza e quindi
privi dei diritti, vengono trattati
alla stregua di schiavi. Sono quei
lavoratori che formano la colonna portante, ad esempio, della famigerata Foxconn (produttrice
degli iPhone della Apple), giunta alle cronache per i suicidi e le
condizioni miserevoli in cui gli
operai sono costretti a vivere.
Rafforzato il ruolo
di Xi a capo della cricca
di Pechino
Il plenum ha infine annunciato
la costituzione di una commissione per l’indirizzo delle riforme,
ma soprattutto di un Comitato per
la sicurezza dello Stato allo scopo di concentrare il potere in Xi
Jinping, prepararsi a reprimere le
rivolte e i sommovimenti sociali che presumibilmente saranno
esacerbati da questa nuova ondata di riforme capitalistiche e, presumibilmente, per serrare la stretta su Internet: si pensi che nel
2012 sono stati oscurati parecchi
siti della sinistra cinese.
Tutto questo sfata peraltro
certi abbagli dei media imperialisti e occidentali che hanno visto
in Xi addirittura il “nuovo Mao”
per via delle campagne contro la
corruzione e gli sprechi dei funzionari che solo vagamente e
all’apparenza ricordano quelle
condotte da Mao (che tra l’altro
non erano intrighi di palazzo ma
movimenti di massa), e furbescamente cercano di accattivarsi le
simpatie del popolo, ma che sono
servite in realtà a regolare i conti
fra le fazioni del mandarinato revisionista di Pechino.
Lo “stadio primario
del socialismo”
non è socialismo
Il plenum ha ribadito che la
Cina si trova “nello stadio primario del socialismo e vi rimarrà
a lungo”. Durante questa prima
fase al “socialismo” è consentito
accumulare risorse anche attraverso il mercato, ma non è dato
sapere né come né quando potrà
passare alla fase successiva. Ciò
non ha niente a che vedere con
il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e con l’autentico sviluppo della società socialista ben
illustrato da Marx: “Tra la società capitalistica e la società
comunista vi è il periodo della
trasformazione rivoluzionaria
dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato
non può essere altro che la dit-
tatura rivoluzionaria del proletariato”. Come aggiunge Lenin, nel
socialismo “non sarà più possibile lo sfruttamento dell’uomo
da parte dell’uomo, poiché non
sarà più possibile impadronirsi, a titolo di proprietà privata,
dei mezzi di produzione, fabbriche, macchine, terreni, ecc.”.
Sembra parlare ai revisionisti cinesi di oggi, Mao quando afferma: “Il nostro programma futuro, o programma massimo,
ha come scopo di portare la
Cina ad uno stadio superiore,
allo stadio del socialismo e del
comunismo”. L’esatto contrario
di Deng Xiaoping, Jiang Zemin,
Hu Jintao e Xi Jinping che hanno invertito le ruote della storia e
dimostrato che “la salita del revisionismo al potere è la salita
della borghesia al potere”.
La realtà quindi è che il cosiddetto “socialismo con caratteristiche cinesi” non è che l’inganno
ideologico dietro cui i revisionisti
cinesi mascherano il capitalismo
sfrenato agli occhi delle masse
popolari. E che il “sogno cinese”
sbandierato da Xi per soffocare la
lotta di classe e favorire l’“armonia sociale” è un sogno solo per
la borghesia, ma è un incubo per
la classe operaia e le masse lavo-
ratrici cinesi supersfruttate per
saziare la sete di profitto del capitale cinese e straniero.
Mao nel 1956 indica chiaramente la strada da seguire in
Cina con queste parole: “Lo scopo della rivoluzione socialista è
liberare le forze produttive. La
trasformazione della proprietà
individuale in proprietà collettiva socialista nel campo dell’agricoltura e dell’artigianato e della
proprietà capitalista in proprietà socialista nell’industria e nel
commercio privati porterà necessariamente a una materiale liberazione delle forze produttive. Saranno così create le
condizioni sociali per un enorme sviluppo della produzione
industriale e agricola”. Nell’anno successivo ha sottolineato che
il sistema sociale socialista deve
essere consolidato e che “per raggiungere il suo consolidamento
definitivo, è necessario non solo
realizzare l’industrializzazione
socialista del paese e perseverare nella rivoluzione socialista
sul fronte economico, ma è anche necessario sui fronti politico
e ideologico condurre costanti e
ardue lotte rivoluzionarie socialiste e perseverare nell’educazione socialista”.
Maduro come Chàvez, un borghese
riformista gramsciano
di Eugen Galasso
In occasione della visita in
Itallia di Nicolàs Maduro, attuale presidente della Repubblica
“bolivariana” del Venezuela, nel
giugno scorso, “Il Bolscevico”
aveva ricordato un intervento
ben precedente (novembre 2008,
5° Congresso del PMLI) quanto
illuminante del Segretario generale del PMLI, Giovanni Scuderi,
quando aveva messo in guardia
eventuali “fans” ricordando che
“Spuntano nuovi riformisti, che
con le loro teorie del ‘nuovo socialismo’, ‘socialismo dei cittadini’ (formula che, mi sia permesso
di ricordarlo, ricorda pericolosamente quanto significativamente
il “Citizen Party”, infelice tentativo politico dell’ecologista ipercapitalista Barry Commomer
negli USA, verso la fine degli
anni Settanta del 1900, oltre a
qualche formula di qualche filosofo post-revisionista italiano
nda), ‘socialismo del 21° secolo’,
ingannano e illudono le masse
fautrici del cambiamento sociale... Il socialismo del XXI° secolo, il cui maggiore esponente è
il socialdemocratico dichiarato
Chàvez, è un impasto di gramscismo, riformismo, guevarismo,
trotzkismo,
movimentismo...”.
Peccato non poter continuare
nella citazione di questo testo,
illuminante quanto tutto quel che
scrive Scuderi.
Nella piena continuità, Maduro erede di Chàvez (slogan elettorale: “Con Chàvez y Maduro
ahora es el futuro”) parla di “socialismo democratico, humanista
y cristiano”, non certo di “socialismo scientifico”, come invece
nella teoria di Marx ed Engels,
continuata, sviluppata, ampliata
e adeguata ai nuovi contesti storici da Lenin, Stalin, Mao e oggi,
nella linea tracciata dai Maestri,
dal PMLI.
Ancora, Maduro, i cui maestri
oltre a Chàvez e Cristo, sono Simòn Bolìvar, “libertador”, certo
dal potere regio spagnolo ma non
dalle borghesie ormai latinoamericane né del tutto immune da
un certo razzismo nei confronti
degli ex-schiavi di origini africane, Gramsci - fatto significativo,
rileva giustamente l’articolo de “Il
Bolscevico” di quasi mezzo anno
fa, Fidel Castro e “Che” Guevara
(come noto “Che” è un nomignolo appioppato al dottor Ernesto
Guevara, medico, motociclista
e “ribelle” più che rivoluzionario,
dai Cubani, per burlarsi amichevolmente del suo accento argentino, nda)”.
A Marx pochi accenni, di Lenin quasi nulla (a parte citazioni
sporadiche; personalmente, in
un numero rilevante di discorsi
ascoltati e letti, ne ho riscontrata una sola) e comunque sempre
“ad usum delphini”, cioè meramente strumentale.
Idem in Chavez, peraltro. Stalin e Mao? Neppure per idea. Ma
che cos’altro aspettarsi da chi
parla sempre solo di “paz y convivencia”, mai di “lotta di classe”
e di “dittatura del proletariato”?
Non a caso “El Che es una lecciòn vivente”, insomma una sorta
di “via, verità e vita”, per citare i
Vangeli nella loro espressione più
marcata, dove Cristo dichiara la
sua divinità... Tanto per riprendere la leggenda di Guevara “nuovo
Cristo”, così suggestiva in Latinoamerica...
Poi, certo, le grandi campagne contro gli aumenti ingiustificati dei prezzi in Venezuela,
contro la “burgesia parasitaria y
depredadora”: ma ci voleva proprio la coppia Chàvez-Maduro
per dircelo? Bastava il ricordo
(ancora di matrice argentina, Che
docet) di tale Juan Domingo Peròn... Il tutto sa di demagogia,
con un sapiente uso di revisionismo di destra (sempre) e di “sinistra” (meno frequente, ma non
assente).
Se poi si pensa alle corrotte
oligarchie (neppure borghesi, di
scadente aristocrazia latifondista, dominanti in Colombia dove
si sono riciclate senza problemi
in politica e nella gestione del
narcotraffico, fino a poco tempo
fa anche in Venezuela) di tutta
l’America Latina, la tentazione di
individuare un “miglioramento” in
Chàvez-Maduro è (sembra essere, anzi) forte, ma da respingere
con altrettanta forza, in quanto
illusione riformista revisionista.
Con Lenin potremmo parlare
di un “rinnegato Maduro” (meglio Chàvez, che è per l’attuale
presidente “maestro e autore”,
per dirla dantescamente), anche
se francamente un raffronto tra
Kautsky e Maduro non sarebbe possibile, per motivi storici ma
anche culturali... Oltre a tutto,
anche le emittenti TV filo-governative venezuelane, con un curioso personaggio come Walter
Martinez, propongono un rituale
di tipo personalistico, con punte
anche magico-esoteriche, che
catturano sensibilità mai sopite
in Latinoamerica, dove una borghesia “illuminata” non c’è mai
stata, men che meno un illuminismo demistificante le religioni
storiche (ora vi proliferano culti
salvifici, nuovi “oppio del popolo”, a tutto spiano) e nella quale
brujeria (stregoneria) e magia non
sono mai state sradicate.
esteri / il bolscevico 15
N. 43 - 5 dicembre 2013
Oltre meta’ dell’elettorato
cileno diserta le urne
La “sinistra” borghese batte la destra. I leader studenteschi, tra cui la eletta revisionista Vallejo,
afflitti dal cretinismo parlamentare portano acqua al mulino della socialdemocratica Bachelet
La socialdemocratica Michelle
Bachelet, la candidata della coalizione di centrosinistra, ha vinto il primo turno delle elezioni presidenziali
che si sono svolte il 17 novembre col
46,67% dei voti. La coalizione Nueva Mayoria, capitanata dalla Bachelet, è composta da 8 formazioni che
vanno dal Partito comunista a quello
socialista, dalla Sinistra cittadina alla
Democrazia cristiana.
Non ha comunque superato il
50% più uno e per l’elezione sarà
necessario il passaggio al secondo turno in programma il prossimo 15 dicembre dove l’attende
la sfida con la seconda classificata, la rappresentante della destra,
Evelyn Matthei, l’ex ministra del
lavoro nel governo in scadenza di
Sebastian Piñera, che ha raggiunto
il 25% dei voti.
La Bachelet ha già incamerato l’appoggio del terzo candidato
del primo turno, il leader del Partito progressista, Marco EnriquezOminami che ha sfiorato l’11%
dei voti. Un appoggio che dovrebbe consentire alla “sinistra” borghese di battere la destra, vincere
il ballottaggio e mettere la Bachelet sulla stessa poltrona presidenziale che ha già occupato nel suo
primo mandato tra il 2006 e il
2010.
Il vincitore delle elezioni, che
hanno interessato anche il rinnovo dei due rami del parlamento e
alcune amministrazioni locali, è
stata comunque la diserzione del
voto che ha superato oltre la metà
dei 13,5 milioni degli elettori, avvicinandosi alle percentuali record
del 60% registrate nelle ultime
elezioni comunali.
Il popolo cileno ha già sperimentato gli effetti del governo
della “sinistra” borghese durante
il primo mandato della Bachelet
e non ha abboccato alle sue promesse di cambiamento. I precedenti governi di centrosinistra tra
l’altro si erano ben guardati dallo
smantellare il mostro istituzionale
e economico neoliberista messo in
piedi sotto la dittatura di Pinochet
e messo al centro della discussione solo a partire dal 2011 quan-
do centinaia di migliaia di giovani studenti invasero le piazze per
rivendicare il diritto allo studio e
dell’Università pubblica.
Non a caso la Bachelet, tornata in Cile dopo quattro anni trascorsi all’agenzia dell’Onu per le
donne, ha messo in piedi la coalizione Nueva Mayoria con un programma di “sinistra” appoggiato da diversi leader delle passate
lotte studentesche. E che ha come
temi principali la riforma costituzionale, che dovrebbe cancellare l’ancora vigente costituzione
di Pinochet, la riforma tributaria
per alzare le tasse alle imprese dal
20% al 25% e la riforma dell’istruzione in senso pubblico.
Fra i parlamentari eletti il 17 novembre ci sono diversi dei leader
studenteschi che avevano guidato la
protesta degli ultimi due anni nelle
università, da Camila Vallejo e Karol Cariola, militanti del Partito comunista, agli indipendenti Giorgio
Jackson e Gabriel Boric. Afflitti dal
cretinismo parlamentare hanno portato acqua al mulino della socialdemocratica Bachelet.
Appena eletta, Camila Vallejo, ha dichiarato che “faremo approvare nuove leggi sui temi per
i quali abbiamo lottato: il diritto
all’istruzione pubblica, gratuita e
di qualità. Una nuova costituzione
per il Cile che si lasci definitivamente alle spalle la disastrosa eredità politica, culturale, economica
e sociale di Augusto Pinochet. Una
nuova legge del lavoro che assicuri i diritti dei lavoratori. Una sanità decente che non sia basata sulla
speculazione e il lucro. Un sistema
pensionistico giusto e ugualitario.
Un insieme di trasformazioni che
la società cilena sta domandando
da molti anni”. Punti importanti
del programma della Bachelet che
la Vallejo accredita alla “presenza
dei comunisti nell’alleanza Nueva Mayoria” che lo avrebbe “spostato molto più verso i diritti del
popolo, verso l’approfondimento della democrazia”. Tornata coi
piedi per terra dal volo pindarico
dei buoni propositi affermava che
“ora si tratterà di far in modo che
questi cambiamenti non rimangano sulla carta”. Appunto.
Da parte sua la Bachelet, attraverso i suoi portavoce, ha assicu-
rato che non è attirata dalle posizioni che girano in una parte del
continente latinoamericano e si
ispirano al cosiddetto socialismo
del XXI secolo di Maduro e Morales ma guarderà soprattutto al
modello brasiliano. Che quanto a
promesse di cambiamento in favo-
re del popolo non mantenute non
è certo secondo a nessuno. E fra
i primi complimenti ha ricevuto
quelli dell’ex presidente brasilia-
Cambogia. Le fabbriche producono per le multinazionali imperialiste
La polizia spara sugli operai
in sciopero per il salario
La Cambogia è uno nel gruppo
dei paesi asiatici che continuano a
avere una crescita economica sostenuta che secondo l’Asian Development Bank nel 2012 è stata del
7,2% grazie in particolare all’aumento del 75% degli investimenti
concentrati nella produzione tessile e in quella agricola. Capitali attratti per la vicinanza della Cambogia a mercati importanti come
quello cinese e da un basso “costo del lavoro”. Dai dati elaborati
dalla Banca mondiale risulta che il
reddito pro capite nel 2012 è stato
di 946 dollari; il basso “costo del
lavoro” in altre parole vuol dire
bassi salari e supersfrutamento dei
lavoratori. Che come in altri paesi, dalla Cina al Bangladesh, scioperano e rivendicano aumenti salariali, si ribellano nonostante la
repressione del regime di Phnom
Penh che lo scorso 13 novembre
ha inviato la polizia a sparare sui
lavoratori in lotta della SL Garment Processing Ltd, una fabbrica tessile con proprietari di Singapore, che si trova nella capitale e
produce per marchi stranieri.
La denuncia della repressione poliziesca era contenuta in un
video messo in rete da una organizzazione non governativa cambogiana che denunciava l’aggressione e il pestaggio degli agenti
contro i lavoratori in sciopero per
aumenti salariali. Negli scontri è
morta una donna che con il suo
banchetto vendeva riso per strada
vicino alla fabbrica.
La protesta dei lavoratori della
fabbrica durava dallo scorso agosto e il 13 novembre decidevano
di marciare verso la casa del primo
ministro Hun Sen e affrontavano
la polizia che tentava di bloccare
il corteo col lancio di lacrimogeni e sparando proiettili di gomma.
I manifestanti, fra i quali anche
passanti e monaci, rispondevano
lanciando pietre ma erano costretti a disperdersi e a cercare rifugio
in una vicina pagoda. Gli agenti li
inseguivano e sparavano proiettili
veri con mitra e pistole. Il bilancio
degli scontri è stato di centinaia di
feriti e trentasette arresti, oltre alla
donna uccisa.
Per nulla intimoriti dalla repressione scatenata dal regime di
Hun Sen altri lavoratori di fabbriche nella capitale sono scesi in lotta; fra le altre in una dove lavorano oltre 300 addetti, tutti giovani
e molte donne, bloccavano la produzione e occupavano le strade.
L’industria tessile in Cambogia
rappresenta ben l’85% dell’export
nazionale ed è la terza fonte di entrata del paese, dopo il turismo e
l’agricoltura. Il valore della merce
spedita nei mercati americani ed
europei dalle fabbriche cambogiane ha un valore di oltre 4 miliardi
di dollari all’anno. Una ricchezza
che finisce in mano alle multinazionali straniere, proprietarie del-
le aziende, che sono soprattutto ci-
lavorano per marche straniere tra
nesi, taiwanesi e di Hong Kong. E
le quali H&M, Zara e Gap Inc.
Cambogia. Un momento della combattiva protesta degli operai in lotta per il
salario
Un lavoratore ferito durante la protesta viene ulteriormente inseguito e picchiato
dalla polizia
Oltre il 75% dell’elettorato di New York diserta le urne
Il neosindaco De Blasio (democratico)
eletto solo dal 16% dell’elettorato
Secondo i dati ufficiali il candidato del Partito democratico
Bill De Blasio ha vinto le elezioni del 5 novembre per la carica di
sindaco di New York con 752.604
preferenze, pari al 73,3% dei voti
validi, distanziando di ben oltre le
previsioni il candidato del Partito
repubblicano Joseph Lhota che ha
ottenuto 249.121 preferenze, pari
al 24,3% dei voti validi. Tutti gli
altri candidati assieme hanno avuto poco meno di 25 mila voti, corrispondenti al 2,4% dei voti validi.
La vittoria del neosindaco De
Blasio ha messo fine all’era dei
sindaci repubblicani, iniziata con
Rudolph Giuliani nel 1994 e fino
al 2001, seguito negli ultimi dodici anni dal collega di partito Michael Bloomberg. “È una delle
vittorie più schiaccianti in un’elezione a sindaco e consegna a De
Blasio un inequivocabile mandato
a mettere in pratica la sua agenda progressista”, è stato il commento entusiasta degli esponenti
del partito democratico americani. Ma se misuriamo il consenso
ottenuto da De Blasio rispetto al
corpo elettorale, come è corretto fare, constatiamo che ha raccolto favore di poco più del 16%
dei 4,3 milioni di elettori registrati. Non è dato sapere quanti siano
le persone che non si sono neanche registrate negli elenchi elettorali, quindi il peso effettivo della “vittoria” democratica è ancora
inferiore al già misero 16%. Più
che una “vittoria schiacciante” è
una delegittimazione inequivocabile segnata quantomeno dai 3,3
milioni di elettori, pari a oltre il
75%, che pur iscritti alle liste hanno disertato il voto.
Nelle stime del Partito democratico, gli elettori attesi alle urne
erano sperabilmente tra il 25 e il
30% grazie alla imponente macchina elettorale messa in moto
dai due maggiori partiti che hanno chiuso la campagna elettorale con i porta a porta e centinaia
di appuntamenti pubblici mirati a
convincere le persone a partecipare al voto.
De Blasio non lesinava promesse di ridurre le disugua-
glianze sociali in una città tra
le più ricche del mondo ma con
un 45% della popolazione ancora sotto la soglia della povertà.
In campagna elettorale strizzava strumentalmente l’occhio al
movimento Occupy Wall Street affermando che sarebbe stato il sindaco del 99% per cento
della popolazione e non solo di
quell’uno per cento rappresentato dai ricchissimi e dai privilegiati. Ma due angoli di strada
dopo si copriva a destra affrettandosi a precisare che “Wall
Street è la principale industria
della nostra città”.
Prometteva di sconfiggere disuguaglianze e divisioni come
quelle segnate dalle frontiere invisibili che vedono i benestanti bianchi concentrati nell’Upper East Side, gli afroamericani
nei ghetti di Harlem e i latinos in
quelli di di Washington Heights.
Ma non è stato ritenuto credibile
dalla stragrande maggioranza degli elettori, quelli attivi registrati
nelle liste e quelli che neanche si
iscrivono.
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Comprovato in tutte le situazioni nei cinque continenti e verificato in mille e più battaglie, il marxismo-leninismo-pensiero di Mao è una potente arma, ma se non lo si studia e non
lo si applica è un’arma scarica, da museo. Tutti i rivoluzionari italiani, specie i marxisti-leninisti, hanno perciò il dovere di studiarlo e applicarlo. Più a fondo andranno in questo studio, più contributi apporteranno alla nobile causa del
socialismo. Non bisogna mai stancarsi di studiarlo e ritenere di conoscerlo a sufficienza. C’è sempre qualcosa di nuovo
da scoprire e poi c’è bisogno di tenerlo fresco nella memoria.
Non potremo mai avere una concezione proletaria del mondo
se non studiamo e applichiamo il marxismo-leninismo-pensiero di Mao. Anche se fossimo dei bravi organizzatori, oratori,
trascinatori, scrittori ma non studiamo e applichiamo il marxismo-leninismo-pensiero di Mao non faremo nemmeno il solletico alla borghesia e ai falsi amici del proletariato e delle masse.
Gli operai coscienti, avanzati e combattivi, in primo luogo,
devono studiarlo perché essi devono essere la testa e la colonna vertebrale del Partito, coloro che devono dirigere anche la lotta ideologica all’interno e all’esterno del Partito.
Studiare costa tempo, fatica e rinunce, specie agli operai e ai lavoratori che concludono la giornata spremuti come limoni dai capitalisti. Eppure bisogna studiare, costi quel che costi per essere sempre in prima linea nella lotta
di classe e con posizione d’avanguardia marxiste-leniniste.
Le opere dei nostri maestri riempiono decine e decine di volumi,
44 soltanto per Lenin, è quindi molto difficile riuscire a leggerle
tutte. Il nostro Partito ne ha selezionate cinque, ritenendole fondamentali per trasformare il mondo e se stessi. Esse sono: Marx
ed Engels “Il manifesto del Partito comunista”, Lenin “Stato e
rivoluzione”, Stalin “Principi del leninismo” e “Questioni del
leninismo”, Mao “Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in
seno al popolo”. Queste opere sono state ristampate dal PMLI.
Tutti i rivoluzionari, cominciando dai massimi dirigenti del
PMLI, dovrebbero tenere bene a mente questa esortazione di
Mao: “Dobbiamo scuoterci e studiare facendo duri sforzi.
Prendete nota di queste tre parole: ‘fare’, ‘duri’, ‘sforzi’.
Bisogna assolutamente scuoterci e fare duri sforzi. Adesso
alcuni compagni non ne fanno e alcuni impiegano le energie che restano loro dopo il lavoro soprattutto per giocare
a carte o a mahiong e per ballare: questa, secondo me, non
è una buona cosa. Le energie che restano dopo il lavoro dovrebbero essere impiegate soprattutto nello studio, facendo in modo che diventi un’abitudine. Che cosa studiare?
Il marxismo e il leninismo, la tecnologia, le scienze naturali. Poi c’è la letteratura, soprattutto le teorie artistico-letterarie: i quadri dirigenti devono intendersene un po’. C’è il
giornalismo, la pedagogia, discipline, anche queste, di cui
bisogna intendersi un po’. Per farla breve, le discipline sono
molte e bisogna almeno farsene un’idea in generale. Dobbiamo dirigere queste faccende, no!? Gente come noi in che
cosa è specialista? In politica. Come possono andare bene le
cose se non capiamo niente di queste faccende e non ci mettiamo a dirigerle? (Mao, Essere elementi di stimolo per la rivoluzione, [9 ottobre 1957], in Rivoluzione e costruzione, Giulio Einaudi Editore, p. 680).
Giovanni Scuderi, “Mao e le due culture” discorso pronunciato il 16 settembre 2001 a Firenze per il XXV Anniversario della morte del grande maestro del proletariato internazionale, in Giovanni Scuderi Opuscolo n. 9, pagg. 67-69,
www.pmli.it/scuderimaoeledueculture.htm
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