I sipari dei Mancinelli Giuseppe Mancinelli - Il Parnaso - Teatro San Carlo Napoli Gustavo Mancinelli - Eschilo presenta a Gerone le Etnee a Siracusa - Teatro Politeama Garibaldi Palermo Esiste un versante molto particolare della pittura dell’Ottocento italiano travolto, più di tutti gli altri, dalla cosiddetta “sfortuna dell’Accademia”, quando per moltissimi anni abbiamo guardato con sospetto le testimonianze di un’arte che, proprio perché condizionata dalle regole o ispirata ad esigenze didattiche e civili, veniva considerata estranea alla dimensione della poesia. Ancora di più dei quadri di genere storico, i sipari realizzati nel corso di quel secolo nei numerosissimi teatri presenti in tutto il territorio nazionale sono stati oggetto, dopo l’entusiamo suscitato quando furono realizzati, di un progressivo deterioramento collegato al loro uso e di una generale damnatio memoriae seguita proprio al tramonto di quella civiltà, permeata di ideali patriottici e di fedeltà ai valori della tradizione, che li aveva creati. Certo anche la loro mole, diventata sempre più ingombrante dal momento che cominciarono a non essere più utilizzati, non ne ha favorito la conversazione. I due sipari miracolosamente intatti, cui è dedicato questo calendario, sono dunque le testimonianze di una storia in gran parte rimossa che solo adesso, con il definitivo recupero dell’Ottocento, si comincia a riscrivere. Questo particolare genere pittorico, che comportava una tecnica molto specifica e un impegno che non era alla portata di tutti, nato in età barocca e profondamente trasformato negli anni della riforma neoclassica, vedendovi impegnato a Milano un artista di prima grandezza come Andrea Appiani, ha conosciuto uno straordinario sviluppo durante il Risorgimento e nel fervido clima di ricostruzione seguito all’unificazione nazionale. I teatri erano tra i luoghi deputati, dove celebrando il proprio orgoglio culturale gli italiani ancora divisi potevano ritrovare una propria identità, sentirsi una patria. Furono i grandi pittori accademici, incaricati di realizzare questi sipari, ad elaborarvi delle iconografie dove tutti potessero riconoscersi, proprio nel recupero delle tradizioni e di un passato glorioso. Giuseppe Mancinelli (Napoli 1813 – Palazzolo di Castrocelo 1875), apprezzato pittore della corte borbonica – i suoi allora celebri dipinti dedicati alla vita di Torquato Tasso si trovano a Capodimonte e nel Palazzo Reale di Napoli – è l’autore dello straordinario sipario del teatro San Carlo relativo ad uno dei temi dominanti della cultura risorgimentale il Parnaso. Gli anni trascorsi a Roma, dove fu mandato a perfezionarsi grazie ad una sovvenzione statale, gli consentirono di rendersi familiare il linguaggio di Raffaello, il cui culto altrove in declino in Italia era ancora imperante. Il suo Parnaso ha un respiro compositivo e una capacità di coinvolgimento, nella rappresentazione degli uomini illustri da Omero e Saffo a Goldoni e Alfieri che tutti riconoscibilissimi stanno in posa intorno ad Apollo, derivati dagli affreschi raffaelleschi delle Stanze Vaticane. Ma il tono sentimentale con cui questi malinconici fantasmi di un grande passato ormai lontano sono rappresentati, forse per renderli più vicini a noi o per sottolineare la continuità tra l’antica civiltà greco-romana (pagana) e quella moderna italiana (cristiana), conferisce a questo kolossal in costume d’impronta ancora classicista un nuovo strano retrogusto romantico. Il bozzetto del sipario venne esposto alla Mostra del Reale Museo Borbonico nel 1855, ma già l’anno prima era stata pubblicata la Descrizione del Sipario del Real Teatro di S. Carlo dipinto da Giuseppe Mancinelli, direttore della Scuola di Disegno nel Regio Istituto di Belle Arti. L’opuscolo è prezioso per chi voglia identificare a uno a uno i numerosi personaggi che affollano la grande tela. Quasi in un ideale passaggio di consegne ritroviamo ormai verso la fine del secolo il figlio di Giuseppe, Gustavo Mancinelli (Roma 1842 – Napoli 1933), impegnato nel sipario del Teatro Politeama di Palermo, quando questo genere volgeva al declino. Da romantico attardato egli si cimentò inizialmente, sulla scia del padre nella pittura di storia, per poi passare, in linea con i tempi e i gusti mutati, al genere orientalista e al repertorio neopompeiano che era stato portato ad un grande successo internazionale da Lawrence Alma Tadema, molto amato anche in Italia come conferma il vero entusiasmo che provò per lui persino D’Annunzio. Appare dunque naturale che nel Teatro Politeama, uno dei luoghi simbolo della Palermo modernista che dopo la grande Esposizione Nazionale del 1891-1892 si avviava a diventare una delle capitali della Belle Époque, il sipario rappresenti, con uno stile seducente e aggiornato ispirato ad Alma Tadema, un soggetto che, rifacendosi all’età dell’oro dell’isola cioè la Magna Grecia, celebrasse l’antica vocazione teatrale siciliana. Il protagonista è Eschio, padre fondatore della tragedia antica che, trasferitosi a Siracusa, dava inizio, davanti al tiranno Gerone, alla rappresentazione delle Etnee scritte appunto in onore della sua nuova patria. Ma questo evento storicamente documentato divenne solo il pretesto per la vivace e festosa rievocazione degli incanti di un mondo e di una società perduti, dove l’antichità, vista non nella sua dimensione storica ma piuttosto quotidiana, poteva apparire straordinariamente attuale. I personaggi, in particolare la variopinta corte di Gerone, radunati intorno al monumentale divano ad esedra hanno, come avverrà poi nel cinema hollywoodiano, un aspetto squisitamente contemporaneo, come se la mondanità dell’Italia umbertina che allora a Palermo celebrava i suoi fasti intendesse riflettersi, come in uno specchio che abbellendola la mitizzava, in un passato i cui veri connotati si erano ormai fatti lontani e forse non più recuperabili. Fernando Mazzocca Due sipari, un padre e un figlio, operosi in luoghi diversi, a Napoli e a Palermo, anche in tempi ravvicinati, ma che rivelano due epoche, due sensibilità lontane, l’una classica l’altra moderna. 1855 – 1891, meno di 40 anni separano il primo, concepito da Giuseppe Mancinelli, dal secondo, di Gustavo Mancinelli. Due mondi respiriamo in quegli spazi, due modi di intendere la classicità e il mito, nel richiamo ai templi greci, con spiriti tanto diversi; nell’uno ordine e compostezza nell’altro vertigine e perdita del centro. Nel primo, per il San Carlo di Napoli, dominano i pensieri di Raffaello, di Poussin, di Appiani; nel secondo, per il Politeama di Palermo, si avverte una nuova idea dello spazio, uno scorcio di architetture nella luce chiara di un mattino senza fine. Gustavo vede Moreau, Alma-Tadema, Cesare Maccari. Per lui il sipario è già cinema, nel taglio improvviso, audace. Visione che non è contenuto ma esce dallo spazio teatrale. I gruppi che nel Parnaso di Giuseppe erano distribuiti nel paesaggio ideale, in una dimensione corale, come a riprodurre la universalità del sapere, in Gustavo non ci sono più. Non ci sono Dante con Alfieri, Leonardo con Galileo, Raffaello con Michelangelo, come in una riedizione della “Scuola di Atene”; c’e soltanto Eschilo davanti a Gerone, un poeta e un tiranno, entrambi dominati dalla maestosità dell’architettura. Il teatro non incornicia e contiene la composizione , sia pure en plein air, su una collina, come immagina Giuseppe; ma si apre alla luce di un giorno senza fine, si trasferisce nella città di Siracusa, rigenerata dalle parole di Eschilo. Perché questo è il teatro: non il luogo della memoria ma il luogo della illusione. E anche questo, anche una nuova concezione dello spettacolo può essere un sipario. Compito del teatro, come di tutta l’Arte, secondo la felice indicazione del tema della Biennale di Venezia di quest’anno, è “fare mondi”. Un nuovo mondo al Politeama. Vittorio Sgarbi Gustavo Mancinelli www.dimeo.it