8 Marzo 2008
ATTI DEL CONVEGNO
IL CAMMINO DEGLI STERPI è l’itinerario di devozione
per pellegrini, turisti e sportivi che, attraverso l’abitato della
Scola e l’Oratorio degli Sterpi, conduce da Riola di Vergato a
Montovolo.
La partenza è presso Riola, al bivio dell’Angelo, figura
emblematica che invita al cammino; il pregevole piccolo borgo
de La Scola ne rappresenta un passaggio “culturale”, mentre il
cuore del percorso è costituito dall’Oratorio degli Sterpi, ove
collocata la figura in terracotta di Nostra Signora che indica e
protegge il Cammino, traguardata attraverso la bronzea Porta
della Via, preziosa e significativa lettura della vicenda umana.
Alle soglie del Santuario di S.M. della Consolazione di
Montovolo e dell’Oratorio di Santa Caterina, nell’area
considerata “il Monte Sinai” dai bolognesi, sarà la quarta
scultura, capace di sottolineare il traguardo raggiunto, opera
che verrà scelta tra diverse proposte: la nuova porta in bronzo
del Santuario, gli sterpi del Roveto ardente, il gruppo dei
Cavalieri Crociati che edificarono l’Oratorio all’inizio del
Duecento, al ritorno dalla Terra Santa.
Luigi E. Mattei
L’8 Marzo 2008 si è tenuto, presso il Centro Multifunzionale
della Fondazione Carisbo a Riola di Vergato, un convegno di
presentazione dell’itinerario intitolato “Il Cammino degli
Sterpi A.D. 2008 – un Cammino in salita nella fede, tra valenze
artisitiche, ambientali e spirituali”. Il presente documento
riassume gli interventi dei relatori.
Il Cammino degli Sterpi si inserisce nella Rete Cammini
d’Europa.
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LE VIE DEI PELLEGRINAGGI
A cura di Mons. Lino Goriup
Vicario Episcopale per la cultura e la comunicazione
presso l’Archidiocesi di Bologna
La storia della nostra Chiesa, la storia della fede del nostro
popolo è patrimonio non solamente della Chiesa. Credo che nel
tempo della post secolarità, la questione del rapporto tra la fede
cristiana e il contesto civico nel quale siamo chiamati a vivere
con i nostri fratelli e sorelle, credenti e non, ci imponga una
riflessione sul significato etico e antropologico di ciò che per
noi è “speranza”, aldilà dei confini della storia e del mondo.
Siamo chiamati a portare un contributo autentico alla città degli
uomini.
È una breve introduzione che volevo fare e mi sembrava
doverosa; la scelta non è tra nuova o antica laicità ma tra vera o
falsa laicità. Una laicità falsa esclude l’elemento religioso dalla
autocoscienza umana; vera laicità è quella che include, non
confessionalmente, il fatto religioso come elemento decisivo
per la lettura dell’umano. Il tema che mi è stato affidato, «le vie
dei pellegrinaggi», ci può mostrare la rilevanza del fatto
religioso per una maggiore comprensione dell’uomo.
Pensavo di dividere questo mio contributo in due parti, quella
più specificamente antropologica e quella teologica.
La prima per indicare l’esistenza di un’esperienza comune a
tutti gli uomini: il fatto dell’«andare», del pellegrinare per le
strade del mondo con un senso, con significato.
Di seguito, proporrò la mia visione di insieme della vita
cristiana all’interno della domanda dell’uomo, quindi un
indicazione di carattere più chiaramente teologico.
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Antropologicamente il pellegrinaggio è riscontrabile
praticamente in tutte le culture e in tutti i tempi. Alcuni esempi
non cristiani (l’universo religioso sikh, islamico, Stonehange,
ecc.) possono mostrarci la presenza e la pregnanza del
pellegrinare per il senso religioso naturale in ogni epoca e
cultura. Nel momento in cui l’uomo si scopre «essere
cosciente», si sperimenta come «essere gettato», mendicante,
mutabile e finito (Heidegger). Noi tutti lo sperimentiamo fin
dai primi istanti di vita: veniamo al mondo come esseri umani
che non hanno casa, o se l’hanno non è «qui». Le scoperte
dell’anatomia, della fisiologia umana ci hanno poi insegnato
che, a livello organico, la generazione umana è segnata, fin dal
concepimento, dalla dialettica fra «nomadismo» e
«domiciliazione», fra casa e viaggio. Quando il bambino vive e
cresce nel grembo della madre, si trova a casa, ma al termine
della gestazione, il corpo della madre lo espelle, gli da la vita
dandogli la morte e questo uomo di nuovo si ritrova «senza
casa». Un esperienza non gradevole, quella di dover
ricominciare il viaggio: gli svezzamenti sono molteplici nella
vita, a ogni età, e questo perché ad ogni età c’è una vita che
inizia con una morte.
E’ una «simbolica relazionale» e ciò appartiene alla esperienza
originaria dell’uomo.
Ho presentato una sommaria fenomenologia del viaggio senza
entrare nell’ambito della letteratura, della poesia; volevo
semplicemente darvi un impressione, una sensazione di che
cosa sia l’uscire dalla propria condizione per andare incontro
ad un’altra vita: l’avventura umana come viaggio verso il
Mistero, dall’istante in cui l’uomo è blastula a quello in cui è
chiamato ad un ultimo svezzamento. Non si è sottratto a questo
destino neppure il Figlio unigenito di Dio fatto uomo; ha
benedetto questo viaggio e lo ha fatto suo.
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Voglio fare ora alcune riflessioni a partire da un testo molto
importante per il nostro tema, la Lettera del Sommo Pontefice
Giovanni Paolo II sul pellegrinaggio ai luoghi legati alla
storia della salvezza (29 giugno 1999). Papa Giovanni Paolo II
in questo testo ci ha donato un contributo di riflessione in
preparazione ai grandi pellegrinaggi a cui lui si preparava
nell’anno del grande Giubileo. In questa lettera, oltre che
indicare le intenzioni del suo andare in pellegrinaggio in terra
santa e in tutti i luoghi che hanno segnato la storia della
salvezza, Egli compie un’ analisi di tipo fenomenologico
sull’esperienza dello spazio e del tempo, per noi tutti «porte
della conoscenza». I sensi sono i testimoni della realtà, sono
quei luoghi nei quali all’uomo è concesso di avere esperienza
del mondo reale. Riguardo al tempo, il Santo Padre Papa
Giovanni Paolo II non si sofferma in questa lettera del 1999,
rinviando alla riflessione già compiuta in Tertio Millennio
Adveniente.
Scrive Giovanni Paolo II: “La mia meditazione si porta,
dunque, ai « luoghi » di Dio, a quegli spazi che Egli ha scelto
per mettere la sua « tenda » tra di noi (Gv 1, 14; cfr Es 40, 3435; 1 Re 8, 10-13), così da consentire all'essere umano un
incontro più diretto con Lui. Completo così, in certo senso, la
riflessione della Tertio millennio adveniente, in cui la
prospettiva dominante, sullo sfondo della storia della salvezza,
era quella della fondamentale rilevanza del « tempo ». In
realtà, la dimensione dello « spazio » non è meno importante
di quella del tempo nella concreta attuazione del mistero
dell'Incarnazione.”
Ora perché, per noi oggi, è difficile una riflessione su questo?
Perchè le nostre capacità percettive sono profondamente
trasformate dall’uso delle «protesi» (automobile, telefono,
computer, aereo, televisione e radio, ecc.); trasformano il modo
di agire ma anche la percezione del mio stesso tempo
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esistenziale e dello spazio. Nell’esperienza moderna, l’andare
è legato a tutti i suoi possibili significati: l’andare per vedere,
l’andare in pellegrinaggio ma anche l’andare a divertirsi,
l’andare a riposarsi, l’andare come «distrazione». Oggi la gitapellegrinaggio fa percepire il viaggio come turismo, altera la
percezione del significato antropologico del pellegrinaggio. Il
pellegrinaggio è come la vita: morte, fatica, selezione,
conoscenza di se e di altri, intercalati a momenti di riposo e
gioia condivisa; questa è la vita dell’uomo, questa è la sorte del
pellegrinaggio. Esistono poi «le vie del pellegrinaggio», non
«la via del pellegrinaggio», perchè si scopre viaggiando che ci
sono dei bivi, ci sono delle deviazioni; non è un viaggio
tranquillo... Si deve talvolta ritrovare il motivo del viaggiare e
se esso valga ancora, anche solo per ritrovare le ragioni per
andare avanti. La scienza moderna ci ha dato la possibilità di
«portare» il nostro occhio nell’infinitamente grande e
nell’infinitamente piccolo; si aprono spazi quantitativi inediti,
ma questo impigrisce fino ad inibire una funzione
fondamentale del nostro spirito, quella di «viaggiare» nella
qualità simbolica delle cose che vediamo. Smarrita la funzione
simbolica rimane semplicemente l’estensione dello spazio;
ecco che scatta la «riduzione turistica». Non riusciamo più a
vedere che andare da casa al lavoro e viceversa, è comunque un
pellegrinaggio. Anche i “Quattro salti in padella” hanno una
funzione di carattere simbolico, così come la paziente operosità
della signora che prepara il ragù per le tagliatelle. Sto parlando
di significati simbolici essenziali. La nascita, la morte, l’amore
e il pasto sono quattro contesti simbolici sacralizzati in tutti i
tempi e culture. Desacralizzare il pasto, desacralizzare il
viaggio, significa desacralizzare me stesso, la nostra vita.
Desimbolizzare la nascita, desimbolizzare la morte,
desimbolizzare l’amore significa desimbolizzare l’intero nostro
spazio e tempo. Lo spazio, come dicevo all’inizio citando papa
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Giovanni Paolo II, è realtà straordinaria dal punto di vista
simbolico. Noi ci spostiamo nello spazio per andare a trovare
qualcosa che sappiamo essere eccedente a ciò che
raggiungiamo con i nostri occhi ma che pure già vediamo con i
nostri occhi. Nella nostra realtà c’è più di quello che vediamo,
ma non qualcosa di inesistente bensì di reale, misteriosamente
reale.
Questa prima parte del mio contributo voleva essere
semplicemente un campanello di allarme: diventa difficile
parlare oggi delle vie del pellegrinaggio se non si compie
qualche passo indietro sulla strada del «riduzionismo turistico».
Non so esattamente come, anche se credo che l’esperienza
della fatica fisica, l’abbandono anche solo momentaneo delle
protesi umane (automobili, pullman, televisioni, computer,
telefoni cellulari, ecc.) in quanto distraggono dalla percezione
simbolica del reale, potrebbe essere un buon punto di partenza.
Tutte le culture sanno che si và in pellegrinaggio in silenzio,
facendo fatica, possibilmente salendo verso l’alto. La «santa
montagna» ci indica la via: ognuno di noi si incammina verso
un luogo, apparentemente uguale ad altri luoghi, dove poter
incontrare «faccia a faccia» ciò che è presente ovunque ma che
posso incontrare solo quando vedo me stesso nell’amore di un
Altro. Ora questa concentrazione di verità e di amore in un
luogo, nella vicenda del popolo di Israele, è l’esperienza del
deserto, della salita annuale al tempio di Gerusalemme,
dell’esilio e del ritorno in patria. Non si và in uno spazio sacro
per continuare ad invocare ciò che non si conosce: ci si
incammina per incontrare faccia a faccia questo mistero.
L’amico di Dio nella Sacra Scrittura è proprio colui che si
intrattiene faccia a faccia con il suo Signore. Nel cristianesimo
succede qualcosa di ulteriore, di imparagonabile. Per il dono
dello Spirito Santo, anima della Chiesa, creatore della
concentrazione cristologica nella persona del credente, ogni
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cristiano si sperimenta come Chiesa e si muove verso i tempi e
i luoghi, verso i fratelli e verso il Regno con una
consapevolezza nuova. «Distruggete questo tempio e io lo
ricostruirò in tre giorni»; così l’unico Maestro. È lui il tempio.
Non dovete più andare a Gerusalemme, non dovete più salire
sul monte Garizim, ma dovete adorare il Padre nello Spirito e
nella Verità. Nella relazione della carità, nella comunità
ecclesiale si ritrova la Rivelazione, il Volto personale e
definitivo di ciò che tutti gli uomini religiosamente vanno
cercando. Questo porta ad una conclusione particolare ed
interessante: non occorre più andare a «fare pellegrinaggi» per
compiere un’ esperienza religiosa; se ciascun credente in Cristo
non vive più una sua vita ma, per la fede e lo Spirito, vive
l’esperienza di essere divenuto Tempio del Dio vivente (cfr.
Gal.2,20), egli è chiamato in ogni situazione concreta (e quindi
anche quella di un “viaggio santo”), a rientrare in se stesso e
nella carità ecclesiale, a compiere il pellegrinaggio verso il Dio
vivente che ha posto in lui e nei fratelli e sorelle la propria
dimora. Il santuario sei tu, il Cielo della Santa Trinità sei tu
(cfr. Elisabetta della Trinità), il pellegrinaggio è la strada che
porta la Chiesa a te e te alla Chiesa, Cristo a te e te a Cristo. È
un esperienza forse misteriosamente vissuta anche al di fuori
dei confini visibili della Chiesa di Cristo, dal grande mistico
islamico Al-Hallaġ; dopo il pellegrinaggio alla Mecca e dieci
anni di meditazione presso il centro della religione
mussulmana, egli scopre ciò che, una volta testimoniato anche
con l’insegnamento, gli costerà la vita : il pellegrinaggio alla
Mecca, uno dei “cinque pilastri” dell’Islam, non è un
movimento fisico ma spirituale, perché la Mecca è là dove Dio
ama. Dio è amore ed è totalmente presente nell’amato, in me.
Io, ogni uomo è la Mecca, per l’esperienza di Al-Hallaġ.
Allora il pellegrinaggio, se non vogliamo mantenerlo nella sua
funzione puramente religiosa ma desideriamo scoprirlo come
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via cristiana di santità, dobbiamo contemplarlo (e praticarlo)
per quello che è: una via che conduce a me stesso come tempio
del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, alla fraternità
ecclesiale (ciò che è accaduto a me, è accaduto ai miei fratelli e
sorelle con cui sono un solo popolo) e allo spazio-tempo
rinnovato dalla Risurrezione del Cristo vivente. Grazie.
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TURISMO E PELLEGRINAGGIO
A cura di Mons. Salvatore Baviera
Presidente della Commissione Turismo e Pellegrinaggi
della Diocesi di Bologna
Che senso può avere il pellegrinaggio in un’epoca come la
nostra, che ha perso ogni riferimento, e quindi la percezione di
una meta da raggiungere?
Una risposta si può e si deve dare.
Ma intanto facciamo una breve analisi della temperie culturale
del nostro tempo.
Nietzsche dice che, dopo aver ucciso Dio, gli uomini non
hanno più né sopra né sotto, né avanti né indietro, ma solo
l’impressione di sprofondare in un nulla infinito. E’ evidente
che in questo contesto non può nascere l’idea del
pellegrinaggio.
Aggiungiamo l’intuizione di Eliot che ne I Cori della Rocca
scrive:
“In questa strada
non c’è né principio né movimento
né pace né fine
ma rumore senza discorso
cibo senza gusto”.
Ci sono altre affermazioni che, a proposito, confermano una
perdita gravissima nella concezione della vita.
La prima è questa. La nostra è un’età che avanza all’indietro
“progressivamente” avanziamo all’indietro.
La seconda è la seguente: I progressi della civiltà materiale si
traducono in un regresso degli individui: sembra incredibile ma
è quasi sempre così.
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L’ultima propone un rimedio e suona così: “Occorre andare
all’indietro, guardando il futuro”.
E’ un pensiero caro alla grande romanziera norvegese Sigrid
Undset: “Per camminare verso il futuro occorre ritornare alle
nostre radici”.
A commento di tutto ricordiamo l’affermazione di Tocqueville:
“Se il passato non illumina più l’avvenire, il presente è vuoto e
statico”.
Mancando una meta, legata al senso della vita, il cammino
dell’esistente diventa un vagabondaggio, oppure una frenetica
agitazione, che non conduce in nessun luogo. L’uomo moderno
o contemporaneo somiglia a un bambino che si agita sul
cavallo a dondolo: alla fine è sempre in quel posto. Il carpe
diem, cioè il desiderio di strappare al presente il massimo di
utile e di piacere, non ha sbocchi verso una pienezza umana.
Ma vediamo come sono andate le cose nel passato.
E’ all’umanità circum-mediterranea che appartiene il primato
del grande viaggio, come si esprime P. Chaunu. In antico i
grandi viaggi furono determinati da ragioni religiose e
commerciali, ragioni che in molti casi, specie nel Duecento in
poi, si sono fuse in un unico intento. A partire dal Trecento si
aggiungono motivazioni culturali e più avanti ancora, le forme
del turismo di massa. Possiamo individuare in base alle diverse
finalità un turismo religioso, cioè il pellegrinaggio, un turismo
culturale-religioso
quando
la
visita
è
motivata
contemporaneamente sia da ragioni culturali sia dal desiderio
di entrare nella dimensione del sacro, un turismo
specificatamente culturale e di interesse naturalistico e un
turismo di evasione. Il turismo religioso in senso stretto sta alle
altre forme come, ad esempio, una festa religiosa sta ad una
festa civile. Anche Durkheim notò che presso i popoli antichi
la festa religiosa contiene un misterioso “di più”, quel di più
che si può avvertire anche in un pellegrinaggio e che consiste
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essenzialmente nel contatto con il mistero, congiunto con quel
senso del fascinosum et tremendum, scritto nella nostra natura,
che non viene soppresso ma nobilitato dalla fede cristiana.
Anche Platone invitò a fare dei giochi sacri, tra cui i cortei e i
pellegrinaggi pagani, il vero contenuto della vita.
Il pellegrinaggio cristiano inizia nel IV secolo ed ha come meta
le tombe degli apostoli a Roma oppure la Terrasanta. Anche S.
Elena, madre di Costantino, fu una pellegrina quando già
ottantenne si recò a Gerusalemme per dirigere gli scavi nella
zona del Calvario dove Adriano aveva fatto costruire un tempio
pagano, avendo poi la gioia di trovare le tre croci e i chiodi.
Nel Medioevo i grandi viaggi furono rivolti alla immensa Asia
ed è significativo che prima dei mercanti partissero i
francescani (basti ricordare Giovanni da Pian del Carpine)
sospinti da un intento religioso, che non poteva essere in quella
situazione l’esperienza del pellegrinaggio, ma quello di portare
la fede a popoli sconosciuti.
L’immagine della strada ci rimanda ad una Europa medievale
attraversata da vie internazionali, che collegavano i principali
santuari europei, strade scandite dalla presenza di ospizi, di
ospedali e monasteri con le loro foresterie. Il papa Sisto V nel
1585 iniziò a dare un volto nuovo a Roma con la ben nota
sistemazione urbanistica rinascimentale. Le basiliche romane
furono collegate da grandi srade per facilitare il cammino dei
pellegrini e il tracciato delle strade stesse appare ancor oggi
scandito da immagini architettoniche finalizzate a muovere
l’attenzione del pellegrino verso l’alto: facciate, chiese, cupole,
campanili, obelischi. Roma diventò un catechismo
architettonico e la sua rete stradale apparve come la riduzione
alla dimensione dell’Urbe della immensa mappa delle strade
europee colleganti i maggiori santuari. La spiritualità del
pellegrinaggio diede una forma nuova alla città più bella del
mondo, accentuando il suo carattere di centro. Tutte le strade
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conducono a Roma e a Roma tutte le vie, idealmente,
conducono alle tombe degli apostoli.
L’immagine di Roma, così descritta, richiama l’idea
fondamentale che l’uomo si muove in due direzioni: quella
orizzontale in avanti e quella verticale verso l’alto. In pratica ci
muoviamo o ci dovremmo muovere in avanti verso l’alto,
donde la concezione della Chiesa come comunità pellegrina
verso la città futura. E’ soprattutto quest’ultima immagine a
porre il fondamento del pellegrinaggio: se la Chiesa infatti è
pellegrina verso una meta trascendente, questo suo pellegrinare
è tenuto vivo dal contatto con luoghi particolare che
racchiudono nella loro storia un più chiaro rimando alla
condizione futura ed eterna: i santuari appunto.
I pellegrinaggi per quanto possibile erano percorsi a piedi.
Già sulle pareti e sulle stele dei monumenti e dei templi
dell’Egitto faraonico, si vedono intagliati dei piedi, richiami
significativi al senso sacro del cammino di pellegrinaggio.
(Ries, L’uomo e il sacro, p. 518).
L’incontro con il mistero, con l’invisibile e il divino è il
termine di ogni pellegrinaggio.
Anche le grotte più antiche come quelle di Lascaux e di
Rouffignac erano delle mete, in quanto cattedrali della
preistoria. In esse, ex. Lascaux, ci sono tracce di passi di
adolescenti, che probabilmente andavano in quei luoghi sacri
per riti di iniziazione.
Nell’orizzonte del sacro un’importanza fondamentale hanno la
volta celeste con il suo centro che è la stella polare, la
montagna sacra e l’albero cosmico.
Mi fermo sul simbolo della montagna.
La montagna sacra, con una proiezione mitico simbolica,
veniva identificata con il centro della terra e collegata con il
centro del cielo con un filo invisibile, che è l’axis mundi.
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Tra le montagne più celebri pensiamo al Meru, all’Olimpo, al
Sinai, all’Oreb, al Tabor, al Garizim, al Calvario.
Come i bolognesi vollero ricostruire la Sancta Jerusalem nella
basilica di S. Stefano con le sue sette chiese, così i templari del
medioevo reduci da una crociata vollero ricostruire su
Montovolo il Sinai, erigendo sul monte il santuario di S.
Caterina di Alessandria, come sul fianco del Sinai esiste ancora
il celebre monastero di S. Caterina.
La montagna per la sua valenza sacra è sempre stata il luogo
privilegiato dei santuari anche pagani.
Quasi tutti i santuari italiani, e sono migliaia, sono costruiti sui
monti, laddove la cima è inondata di luce perché più vicina alla
volta celeste.
Importanti sono i sentimenti e le finalità del pellegrino. Tutti
possono viaggiare per affari o per evasione ecc.
Il pellegrino affronta un viaggio per raggiungere una meta in
cui si rivela in qualche modo il sacro, l’invisibile, il divino.
Dante nel 1300 andò a Roma al giubileo per fede e per
compiere le sue devozioni sulle tombe degli apostoli. E basta.
Non aveva altro scopo.
Il Petrarca nel 1350 andò a Roma per il Giubileo mosso più
dalla curiositas che dalla studiositas, cioè dal desiderio intenso
di incontrare Dio e, come confessa in una delle sue lettere
familiari, era molto preso dalla poetica curiosità di vedere le
strade e i monumenti dell’urbe.
Il pellegrino tira dritto verso la meta, il turista si ferma lungo la
strada a curiosare: la meta gli interessa meno. I podisti che
sono qui presenti possono oggi fare un pellegrinaggio o una
camminata: dipende da loro.
Concludo con questa constatazione.
All’inizio abbiamo visto che nella cultura atea e materialistica
di oggi, il pellegrinaggio non è neppure pensabile. Ma quasi
per reazione a questa cultura molto diffusa ma fatta di “vuoto
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niente e fame di vento” (Ceronetti), i pellegrinaggi si sono
moltiplicati in tutto il mondo cristiano, tanto che costituiscono
anche un bussiness di prim’ordine. Nel fondo delle coscienze ci
sono delle esigenze insopprimibili, riconducibili al bisogno di
incontrare Dio, che possono temporaneamente essere soffocate
o rimosse, ma che poi riprendono la loro forza e il loro
cammino verso la trascendenza.
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CONTESTO STORICO AMBIENTALE DEL
SANTUARIO DI MONTOVOLO FRA LE VALLI DEL
SETTA E DEL RENO
A cura di Dott. ssa Paola Foschi
Il massiccio del Montovolo: una emergenza geologica,
pedologica, ambientale fra le valli del Setta e del Reno
A chi percorra oggi qualunque strada o stradello o sentiero
nelle due valli contigue del Reno e del Setta ad un certo punto
si impone la vista di un massiccio montuoso imponente,
formato dalle due cime del Montovolo e del Monte Vigese.
Due cime molto diverse fra loro: la prima formata da un
altopiano con una punta più alta, la seconda costituita da un
cucuzzolo appuntito completamente coperto di boschi. Quando
si sale in queste due vallate lo sguardo corre per forza al
massiccio: è qualcosa che ci permette di orientarci, di misurare
quanto manca alla meta del nostro cammino, è qualcosa che
determina in maniera forte il paesaggio, pur nel suo continuo
variare di prospettiva in rapporto con la nostra posizione. Si
tratta di una struttura pedologica che caratterizza le medie
vallate di questi fiumi e che non influenza solo le
comunicazioni lungo le valli, ma anche l’insediamento,
l’occupazione del territorio, il suo sfruttamento.
Infatti questo massiccio non reca su larga parte delle sue
pendici, su quelle più ripide e impervie, quasi traccia di
abitazioni umane: è ora ed è sempre stato, per quanto ne
sappiamo, un luogo particolare rispetto alle pendici vicine, un
massiccio montuoso a sé, un inciampo nel cammino, un
“deserto”, un luogo “altro” rispetto alla nostra esperienza
montana. Sulle sue pendici più dolci sorgono invece
insediamenti che hanno conservato nei secoli le caratteristiche
costruttive tipiche del XV-XVI secolo, come la Scola,
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Vimignano, Ca’ Dorè, Predolo, Ca’ di Roda, e ci riportano a
tempi lontani e così diversi da oggi.
Anche le vie di comunicazione hanno dovuto tenerne conto, sia
quelle più importanti che percorrevano le vallate e mettevano
in comunicazione i due versanti dell’Appennino, sia quelle di
portata locale che permettevano il passaggio da una valle
all’altra.
La frequentazione antica del massiccio
Il nome di Montovolo per il massiccio e per una sua cima è
relativamente recente: nel Medioevo lo vediamo chiamarsi in
diverse maniere. In un unico documento medievale è chiamato
mons Iovis, monte di Giove, un toponimo che farebbe pensare
alla presenza sulla montagna del culto di Giove. Del resto un
coccio preromano ritrovato nella contigua valle del Setta reca
un’iscrizione con il nome di Iuppiter Appenninus. I caratteri
sono latini, mentre la lingua è etrusca ed è stata interpretata
come un’invocazione al principe degli dei di tenere lontano il
fuoco. Si sa del resto che il culto di Giove Appennino era
localizzato anche nel resto d’Italia in santuari posti sulle cime
più alte dei monti, a simboleggiare la vicinanza con il cielo, da
sempre ritenuto sede degli dei; del resto la posizione dei
santuari a Giove sulle montagne ben simboleggia la
preminenza nella mitologia latina del principe degli altri dei.
Il nome del Montovolo, poi, più spesso nei documenti
medievali è Monte Palense, con un richiamo alla dea Pale, dea
delle messi e dell’abbondanza dei raccolti. Sembra dunque che
attorno al monte si coagulassero in epoca precristiana vari culti,
non sappiamo se concretizzati in santuari o in più semplici
cippi votivi. Fu allora una priorità, per i primi cristiani che
frequentarono la zona, esaugurare la montagna, sostituire alle
divinità antiche uno dei culti più universali e universalmente
amati, quello alla Madonna, la protettrice dei cristiani, il rifugio
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dei peccatori e degli uomini e donne in difficoltà e in pericolo
di vita. Sopra questa montagna impervia sembrò opportuno
cancellare le tracce dei falsi dei e radicare il culto della Madre
di Dio.
Vie di comunicazione che sfioravano il Montovolo nel
Medioevo
La via maestra di Saragozza o Francesca della Sambuca
La via che da Bologna conduceva a Pistoia nelle fonti
medievali bolognesi era detta strada maestra di Saragozza,
mentre in quelle pistoiesi strada Francesca della Sambuca: in
realtà si tratta della stessa strada, ma osservata da due diversi
punti di vista. I Bolognesi mettevano in rilievo che si trattava
della continuazione nel territorio della strada urbana detta di
Saragozza, mentre i Pistoiesi rilevavano la sua destinazione
ultima, le regioni transalpine occidentali, l’odierna Francia. La
troviamo così chiamata, ad esempio, nella Bolla che il papa
Innocenzo III, stando in Lione, concesse il 23 dicembre 1203
all’ospedale di S. Bartolomeo del Pratum Episcopi, l’odierno
Spedaletto: in essa il pontefice concedeva 40 giorni di
indulgenza a chi facesse elemosine o comunque si adoperasse
per aiutare l’ospedale stesso, posto nella sommità delle Alpi
(così erano chiamati anche gli Appennini) e sulla via pubblica
chiamata via Francesca.
Il suo percorso seguiva il fiume principale del Bolognese, il
Reno, restando sull’ampio terrazzo fluviale della riva sinistra,
non molto lontano dalla strada attuale; due rami secondari
percorrevano i due crinali del torrente Limentra di Treppio o
Limentra orientale, completando la viabilità di servizio ad una
delle zone più popolate del territorio montano bolognese. La
presenza lungo il suo percorso della città etrusca di Marzabotto
attesta a sufficienza l’importanza di questa direttrice viaria e
vari indizi attestano anche che in età romana restò uno degli
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assi portanti della viabilità transappenninica: ad esempio la
presenza del taglio di roccia della rupe del Sasso, un tipico
manufatto dell’ingegneria romana, o quei due toponimi miliari,
Quinto e Plano de Septimo, che ritroviamo negli estimi del
1315 nei pressi di Pontecchio. Anche numerosi ritrovamenti di
ville rustiche, alcune di pregio e dotate di terme private, e di
edifici pubblici di età romana a valle del Sasso ci parlano di
una ricchezza e prosperità della valle che dopo la scomparsa
della civiltà romana non fu forse mai più raggiunta.
La strada, dunque, toccava Casalecchio con il suo ponte, punto
cruciale dell’attraversamento del Reno, poi seguiva sempre il
fiume toccando Pontecchio e giungeva al Sasso, che nel
Medioevo era chiamato Saxum Glòssine, con un grecismo che
si potrebbe tradurre come “sasso a forma di lingua”, punto
strategico fondamentale al tempo della guerra fra Bizantini e
Longobardi, perché domina la media valle del Reno e
l’imbocco della val di Setta. Nel punto più pericoloso del
passaggio a mezzacosta scavato artificialmente nella viva
roccia, sicuramente dal 1283 esisteva una cappella dedicata alla
Madonna e custodita da un devoto, fra Giovanni da Panico, che
doveva aiutare i viandanti in difficoltà e cercare di mantenere
in buono stato la strada. Il compito era arduo, poiché abbiamo
notizia che nel 1305 una frana danneggiò la cappelletta e uccise
il povero guardiano. Fu ben più grave di tutte le precedenti la
frana che il 24 giugno 1892 uccise 14 persone che vivevano in
povere caverne scavate nella roccia, ma il santuario della
Madonna era già stato spostato fin dal 1787 nel centro del
paese di Sasso e non corse rischi.
Al Sasso si poteva tenere mercato, come disponevano gli statuti
del Comune di Bologna del 1288, la seconda domenica di ogni
mese, quindi con una cadenza molto ravvicinata, mensile, che
attesta l’importanza di questo nodo viario che raccoglieva
anche il traffico verso Bologna della val di Setta. Oltre la rupe,
18
la strada si manteneva a mezzacosta, sempre sul terrazzo
fluviale, che almeno fino a Marzabotto rimane ampio e
sollevato rispetto al fiume. Più oltre la strada medievale
superava un altro monte sul quale dovette essere fatto qualche
intervento artificiale, perché si chiamava Sasso Pertuso
(tagliato, forato, come la Pietra Pertusa, il traforo del Furlo),
sopra Salvaro, poi toccava la pieve di S. Apollinare di
Calvenzano e di lì si dirigeva a Vergato.
Più a monte il percorso è ancora ben riconoscibile e segnato
dall’ospedale per pellegrini di S. Biagio di Casaiola, alla
Carbona, ma oltre Riola il riconoscimento del tracciato si fa più
problematico: qui infatti la valle si restringe e nei pressi di
Marano l’orografia stessa costringe i viaggiatori a salire sul
crinale o a scendere vicino al fiume. Tuttavia pare che nel
Medioevo nella località Casale sorgesse l’ospitale per
pellegrini di S. Michele Arcangelo, quindi ciò ci informa che la
strada proseguiva tenendosi a distanza di sicurezza dal Reno
fino ad incontrare la confluenza con il torrente Silla, dove
sorgeva l’altro ospedale per viaggiatori di S. Giacomo di
Corvella, che permetteva ai viandanti di riposarsi e rifocillarsi
prima di affrontare il tratto più alpestre fino al valico della
Collina. A questo punto infatti la strada, non potendo superare
la strettoia della Madonna del Ponte, a sud di Porretta, saliva in
cresta e toccava la pieve di S. Giovanni Battista di Sùccida,
oggi Borgo Capanne.
La valle del Reno, all’altezza del ponte della Venturina, ha
subìto inoltre un’anomalia geologica: il suo corso devia
bruscamente verso ovest e la sua valle si fa stretta e dirupata,
mal percorribile, mentre il suo affluente Limentra occidentale o
di Sambuca permette di giungere con facilità al passo della
Collina. La strada quindi seguiva quest’ultima valle: nei pressi
del castello di Sambuca Pistoiese e in più punti del percorso
verso il valico sono stati ritrovati numerosi tratti di selciato
19
medievale di questa mulattiera. Essa era del resto veramente
una via Francìgena: infatti il rettore dell’ospedale di S.
Bartolomeo del Pratum Episcopi nel 1250 la chiamava Strata
Francigena publica constituta que celerius Romam et Sanctum
Jacobum ducit, cioè la strada pubblica detta Francigena che
conduce più velocemente da un lato a Roma e dall’altro alla
tomba di s. Giacomo, cioè a Santiago di Compostela.
La via di Castiglione dei Pepoli
Una strada che collegava Bologna con il castello di Prato e poi
con Firenze, lungo la valle del Setta e del suo affluente
Brasimone e poi del Bisenzio, esistette certamente, almeno a
partire dall’XI secolo, ma per le caratteristiche geografiche di
questa valle non si può dire che avesse un particolare rilievo.
Intanto, la strada non partiva direttamente dalla città, ma si
diramava dalla strada del Reno oltre il Sasso; inoltre il crinale
che essa sfruttava è interrotto da un importante affluente, il
Brasimone, che deve essere superato o con un ponte, come
oggi, presso Lagaro, o con un ben più pericoloso guado. Inoltre
a monte di Montacuto Ragazza il crinale utile per condurre a
Castiglione non è più ben riconoscibile: da un lato, dirigendosi
verso la val Limentra, si raggiunge agevolmente Montovolo,
ma da lì in poi raggiungere Castiglione attraverso la zona
impervia delle Mogne non è né facile né breve né sicuro;
dall’altro per seguire la strada più breve occorre però
attraversare il Brasimone per seguire il suo crinale che porta
facilmente al valico appenninico attraverso Creda e Traserra.
Tuttavia la presenza di diversi luoghi di mercato lungo la valle
del Setta e del Brasimone, a Rioveggio, a Piandisetta e a
Traserra, ci rende certi che le comunicazioni in questa zona
erano buone e permettevano agli abitanti in un vasto raggio di
raggiungere i luoghi di mercato.
20
Questo è il caso di Piandisetta, cui si giungeva da Grizzana,
dove passava la strada, scendendo lungo la valletta del rio
Farnèdola; anche Rioveggio sorge nel fondovalle, in un luogo
aperto dove si incontrano le valli del Setta e del suo importante
affluente Sambro ed è facilmente raggiungibile dalla strada
transappenninica, che tocca la vicina Veggio. Proprio in
relazione a questi vivaci punti di scambio commerciale sono
individuabili diverse diramazioni della strada principale di
crinale, che scavalcavano il fiume e collegavano i due versanti,
stendendo una rete capillare di vie, tutte importanti e funzionali
ai numerosi insediamenti e agli spostamenti nella valle e verso
le valli vicine.
Anche dalla via che percorreva la valle del Setta si poteva
agevolmente raggiungere il santuario di Montovolo da
Montacuto Ragazza, mentre a partire dal XV secolo si aggiunse
lungo questa strada un’altra importante meta devozionale,
quella di Bocca di Rio. Non dimentichiamo poi che Prato, la
meta transappenninica di questa strada, era un castello e poi
una città universalmente nota per la presenza di una santissima
reliquia, il Sacro Cingolo, la cintura della Madonna, che
richiamava innumerevoli pellegrini. La cintura della Madonna
veniva immaginata dagli uomini del Medioevo come una
cintura protettiva che si stendeva simbolicamente su tutti
cristiani in pericolo, e veniva venerata per questo soprattutto
nei castelli, sempre esposti ad attacchi nemici. Proprio per la
presenza di questi importanti luoghi di culto sul suo percorso si
può star quindi certi che numerosi pellegrini, che volessero dal
nord recarsi a Roma o dal sud a Santiago, abbiano percorso
anche questa strada, pur secondaria nel panorama viario
montano.
La via del Setta iniziava dunque oltre la rupe del Sasso, a
Panico, dove il ponte di Paganino, un bel ponte romanico,
attraversa il Reno a monte della sua confluenza con il Setta,
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quando le sue acque sono più scarse. Panico era un nodo viario
importante, dunque, con il ponte, la pieve di S. Lorenzo e
l’ospedale per viaggiatori di S. Antonio, oggi scomparso:
questa zona a cavaliere delle valli del Reno e del Setta era
dominata dal castello dei conti di Panico.
La strada saliva poi sul crinale sinistro del Setta finché a Vado
se ne diramava un tratto diretto verso il versante opposto: del
resto il nome stesso di Vado, che significa guado, ed è
nominato già nel IX secolo, segnala una posizione
particolarmente favorevole per il passaggio del Setta. Un altro
ramo deviava dal tracciato principale a Veggio, diretto verso il
mercato di Rioveggio e la valle del Sambro. Torniamo al
tracciato principale della via per Castiglione: a Veggio e nella
vicina Grizzana diversi luoghi risultano confinanti con la strada
transappenninica; da qui il percorso giungeva a Tavernola e di
lì, con un tratto in parte selciato, a Montacuto Ragazza.
Qui si aprivano due possibilità per il pellegrino diretto in
Toscana: salire al santuario di S. Maria di Montovolo, e di lì
poi portarsi in val Limentra e dirigersi verso Pistoia per il
valico della Badia di Spedaletto; oppure proseguire sul
percorso già scelto, ma per far ciò il pellegrino doveva
discendere dal Montovolo e portarsi a Confienti, di fronte a
Lagaro, sull’altro versante del torrente Brasimone. Infatti, se si
volesse proseguire verso sud da Montovolo, si sarebbe costretti
a compiere un giro vizioso verso ovest e giungere nelle zone
impervie delle Mogne, al cosiddetto Cinghio, una formazione
geologica molto impervia e difficilmente percorribile.
La scelta migliore era allora quella di scendere a Confienti, il
cui nome di Confluentes ricorda l’unione in quel punto dei due
torrenti Setta e Brasimone, e risalire a Lagaro. Superate Creda
e Traserra, si giungeva facilmente a Castiglione. La tappa
successiva è il valico appenninico che divide le acque del
torrente Brasimone verso nord e del Bisenzio verso sud, nel
22
Medioevo chiamato di Capodisetta e oggi chiamato di
Montepiano. S. Maria di Montepiano era infatti la famosa
abbazia vallombrosana, la cui chiesa è ancora ben conservata
nelle forme romaniche originali e ricca di affreschi medievali
di particolare interesse.
Il massiccio nella storia fra devozione e commercio
Episodi di guerra, episodi di fede
A causa della sua forma e della sua imponenza,
presumibilmente dopo le crociate il monte assunse una
funzione simbolica, venendo a significare per i Bolognesi il
monte Sinai: la simbologia sinaitica fu istituita costruendo
sulla sua cima la bellissima chiesetta di S. Caterina
d’Alessandria, la martire a cui è dedicato il monastero che si
trova ancor oggi poco sotto la cima del monte di Mosè.
Bisogna dire che già da secoli a Bologna esisteva un complesso
religioso che era stato costruito e poi ampliato appositamente
per richiamare i luoghi santi di Gerusalemme, la Santa
Gerusalemme di S. Stefano. Il complesso di chiese fra loro
collegate da chiostri porticati oggi è un suggestivo insieme di
luoghi di culto che richiamano le varie fasi della Passione; le
chiese, nate dalla forte spiritualità di un vescovo della statura di
s. Petronio intorno alla metà del V secolo, dovevano permettere
un pellegrinaggio devoto ai luoghi santi anche senza muoversi
dalla città. L’epoca in cui visse s. Petronio si trovava alle soglie
del periodo forse più buio e difficile per la Cristianità, quel
secolo VI che maggiormente impoverì e decimò le popolazioni
italiane, afflitte da invasioni di barbari (prima gli Ostrogoti, poi
i Longobardi), crisi economica, decadenza culturale. La
Palestina poi fu occupata proprio nel VI secolo dai Parti, che
osteggiavano ferocemente i pellegrini cristiani e bloccarono per
secoli i pellegrinaggi dall’Occidente alla Terrasanta.
23
Così divenne sempre più popolare il complesso di S. Stefano e
accanto alla Santa Gerusalemme sorse la chiesetta rotonda di S.
Giovanni in Monte (detto con il nome completo Monte degli
Ulivi), che rappresentava la basilica dell’Anàstasis,
dell’Ascensione, e che ebbe nel corso del Medioevo intensi
rapporti di culto con S. Stefano: le due chiese erano dipendenti
entrambe dal vescovo di Bologna.
E poi, lungo la valle più importante per le comunicazioni
bolognesi, quella del Reno, che conduceva a Pistoia e di lì o al
mare Tirreno o a Roma, fu istituito il richiamo al monte Sinai,
che non si può certo escludere che facesse parte di quel
progetto iniziale petroniano, che poteva collegare la città con il
suo territorio montano con un filo di devozione e di ricordo dei
luoghi santi di Palestina.
Nella chiesa più grande ed antica (nel suo aspetto attuale) del
Montovolo trovarono posto due diversi culti, quello della
Madonna della Consolazione, di cui è conservata una statua
seicentesca della Madonna con Bambino, e quello della S.
Croce, di cui si conserva una reliquia. La tradizione popolare
vuole che la statua della Madonna sia la trasformazione di un
idolo pagano, mostrando il tentativo delle popolazioni di
spiegare il toponimo medievale di monte Palense, ma nulla
permette di avvalorare questa superstizione popolare. Vero è
invece che il culto della Madonna era il più adatto a sostituire
quello ad una dea femminile che propiziava ai contadini i
raccolti e ai pastori la fertilità delle pecore, quindi la
sostituzione di Pale con Maria deve avere ispirato il racconto
popolare della trasformazione dell’idolo antico in statua.
Episodi di guerra interessarono quasi certamente il Montovolo
al momento dell’arrivo degli invasori longobardi alla fine del
VI secolo, provenienti dalla Toscana: ne ebbe l’intuizione
Arturo Palmieri già all’inizio del XX secolo, quando le
leggende che qui si raccontavano dei “paladini”, giganteschi
24
guerrieri biondi che si combattevano con lance
mostruosamente lunghe e giavellotti che percorrevano in volo
intere valli, gli suggerirono l’ipotesi che vi fossero stati degli
scontri particolarmente epici fra Longobardi e Franchi. Ma
anche in precedenza, appunto all’arrivo dei Longobardi nelle
alte valli bolognesi, si era modificato l’assetto cultuale della
zona con l’introduzione di santi amati dai Longobardi ed erano
nati toponimi derivati dal greco o dal germanico, che gli fecero
supporre che il confine fra truppe bizantine e truppe
longobarde si fosse fermato per lungo tempo trasversalmente al
vasto massiccio montuoso. In realtà l’ipotesi è apparsa fondata
agli storici novecenteschi, come Amedeo Benati, che l’hanno
poi verificata anche in altre zone della nostra regione.
Un massiccio montuoso così imponente non poteva però non
ospitare, almeno per una parte della sua storia, un castello: qui
sorgeva, ma gli storici sono ancora divisi sul luogo preciso, la
rocca di Cantaglia, in possesso dei conti di Panico. Il toponimo
ancora esistente di Cantagliola, nel comune di Vergato, presso
Castelnuovo di Vergato, farebbe sospettare che qui sorgesse la
rocca che fu teatro della resistenza dei conti di Panico al
Comune di Bologna; ma altri la collocano sulle pendici
settentrionali del Montovolo.
Narrano le cronache che nel 1306, il 26 aprile, i conti di
Panico, Tordino, Paganino, Doffo, Mostarda e Pellegrino,
cacciati dal castello avito di Panico, si diedero al saccheggio di
Castelnuovo di Labante, poi si arroccarono sul monte Cantagle,
uno degli sproni rocciosi del Montovolo, vi si fortificarono con
una rocca e resistettero all’assedio delle truppe bolognesi;
vedendo però la situazione difficile, fuggirono di nascosto.
Tuttavia non resistettero a lungo alla lotta senza quartiere
scatenata dal Comune di Bologna, perché il 29 gennaio 1308 il
conte Mostarda di Maghinardo da Panico venne catturato e
subì il supplizio come ribelle a Bologna. Il Montovolo,
25
dovunque si trovi questa scomparsa rocca di Cantaglia,
assistette dunque all’estrema resistenza di una famiglia che
aveva avuto nei secoli precedenti una posizione di grande
rilevanza non solo nel Bolognese, ma soprattutto in Toscana (a
Pistoia come vassalli del vescovo, a Firenze, dove avevano
casa, in Casentino, dove avevano posseduto diritti a Romena) e
anche in Romagna, come vassalli degli arcivescovi di Ravenna.
Ma a Bologna il Comune non poteva sopportare una signoria
indipendente nel suo territorio e i conti che si sottomisero
poterono venire a vivere in città, mentre quelli che si
ribellarono vennero trattati come traditori dello stato e
giustiziati.
Signorie e dominazioni nelle valli contigue
Se le strade seguivano l’andamento dei fiumi e soprattutto i
loro crinali, le signorie che nel Medioevo frantumarono il
potere e la giurisdizione della montagna bolognese non si
distribuivano lungo le valli, ma anzi trasversalmente rispetto a
queste: nella fascia montana più alta, verso la Toscana, si
estendevano i domini dei conti Alberti; nelle medie vallate fra
Savena e Lavino si disponevano i territori sotto la giurisdizione
dei conti di Panico.
Il ramo principale degli Alberti dominava il castello di Prato e
larga parte della valle toscana del Bisenzio. La loro forte
presenza è del resto segnalata anche nella stessa valle di Setta,
dal diploma di conferma di beni e diritti concesso loro
dall’imperatore Federico I nel 1164: le terre che essi
rivendicavano e si facevano riconfermare dall’autorità sovrana
erano Castiglione dei Gatti (dal longobardo gahagi, che vuole
dire bosco riservato), Lagaro, Montacuto Ragazza, Montacuto
Vallese e la vicina Serra, Baragazza e Creda, nonché Piano,
Sparvo, Bruscoli in val di Sambro. Tuttavia il Comune di
Bologna in questo periodo stava già avanzando
26
inarrestabilmente nella sua conquista del contado, con le
maniere forti, ma soprattutto per mezzo di trattati di alleanza, o
piuttosto di sottomissione, con i signori e i comuni rurali del
Bolognese.
Nel 1192 il Comune di Bologna stipulò allora con il conte
Alberto di Prato un accordo perché questi mantenesse libero e
sicuro il transito della strada, ma bisognò concludere un nuovo
trattato nel 1307 con il ramo dei conti di Mangona e con il
Comune di Firenze per avere nuove assicurazioni in favore dei
pellegrini e dei commercianti che percorrevano la val di Setta
per recarsi in Toscana.
Il comitato di Panico comprendeva invece le terre di Panico,
Sirano, Malfolle, Ignano, Brigadello, Caprara, Sasso Pertuso,
Venola, Carviano, Salvaro, Greglio, Capriglia, Bedolete,
Montacuto Ragazza, Veggio, Campiano, Confienti,
Montefredente, Cedrecchia. Sostanzialmente un non vasto
territorio che, fra la valle del Reno e quella del Setta, da
Panico, poco a sud della rupe del Sasso, giungeva fino a
Montacuto Ragazza, mentre verso est si diramava nelle prime
propaggini della valle del torrente Sambro, affluente del Setta.
Nel 1221 dunque i conti avevano ricevuto dall’imperatore la
conferma della loro giurisdizione, ma con ciò stesso avevano
dovuto riconoscere che la loro sfera d’azione si era
notevolmente ristretta: non compare infatti nel loro comitato il
castello di Pianoro, che pure nel 1176 era dipendente dal conte
Ranieri. Non si tratta quindi di un insieme di terre
particolarmente consistente e non sono neppure compresi nel
comitato confermato ai conti di Panico i documentati possessi
di alta pianura e collina presso il Lavino, che pure risulteranno
utili alla famiglia quando l’avanzata del Comune di Bologna
respingerà, nel XIII secolo, i conti soprattutto nella valle del
Lavino, a Montasico, Ronca, Amola.
27
A livello inferiore, sia quanto a poteri sia quanto ad ampiezza
di dominio, si collocavano numerose famiglie, fra cui
ricorderemo quelle inquadrate fra la feudalità del vescovo di
Pistoia, come i nobili di Valle e gli stessi conti di Panico;
dipendenti solo e direttamente dall’imperatore i nobili di Vigo
e Monte Vigese, detti Lambardi; vassalli dei conti Cadolingi di
Pistoia i signori delle Mogne, i Gisolfi. Vi erano poi i signori di
Stagno, di antica stirpe longobarda, che fra la fine del XII e
l’inizio del XIII secolo giurarono più volte fedeltà al Comune
di Pistoia pur di evitare la sottomissione al Comune di
Bologna.
Le fiere annuali fra devozione, richiami sociali, motivi
economici
I due culti, legati alla Madonna e alla Passione di Cristo, che
quassù si celebrarono sempre nel mese di settembre, fecero sì
che dall’8 di quel mese, festa della Natività della Vergine, al
14, festa dell’esaltazione della S. Croce, si svolgessero solenni
celebrazioni religiose, collegate ad una fiera importantissima
per le valli contermini del Reno e del Setta, sia durante il
Medioevo sia nella successiva età Moderna. Come spesso
succede, infatti, a motivi di interesse religioso si collegavano
motivi di interesse economico e sociale. Ad un pellegrinaggio
poteva infatti ben unirsi una festa religiosa che permetteva gli
incontri sociali fra le popolazioni circostanti, anche in un
ampio raggio; alla festa ben si addiceva la vendita di oggetti
devozionali, ma anche di oggetti di uso comune, sempre in una
prospettiva di occasione di ritrovo di migliaia di persone, non
altrimenti raggiungibili mediante semplici mercati periodici.
Qui si ritrovavano quindi pellegrini-compratori e pellegrinivenditori, nonché semplici commercianti; qui si rafforzavano i
legami affettivi fra famiglie e amici; qui si combinavano
matrimoni in un ambito più vasto di quello conosciuto
28
normalmente e quindi superando beneficamente i rischi di
consanguineità. La funzione della fiera era quindi molteplice:
dalle radici devozionali si diramavano poi motivi sociali ed
economici, sentiti come complementari e non contrastanti con
l’occasione religiosa.
Giunti fra le preghiere sulla cima del Montovolo, i pellegrini
potevano visitare il santuario di S. Maria, gestito da conversi,
persone che avevano dedicato la loro vita e i loro beni al
servizio della chiesa, e l’oratorio di S. Caterina d’Alessandria:
le due chiese, ancora oggi molto ben conservate, presentano
strutture che risalgono ai secoli XII-XIII. La prima è a pianta
rettangolare con presbiterio rialzato e conserva bellissimi
capitelli nell’abside; molto particolare la lunetta della porta
maggiore, che reca una croce intarsiata fiancheggiata da due
colombe (che sono un simbolo cristologico), sovrastate dalla
data 1211 e dalla scritta ROIP che è stata interpretata come
regnante Othone imperatore, in relazione al fatto che a quella
data regnava l’imperatore Ottone IV.
Sotto l’altar maggiore si trova una delle costruzioni più antiche
e affascinanti di tutta la montagna bolognese, quella che
erroneamente viene definita cripta, a causa della sua
collocazione più bassa della chiesa attuale, ma che è in realtà
ciò che resta della chiesa più antica proto-romanica, databile ai
secoli X-XI, e distrutta in un incendio. Essa è dotata di tre
absidi semicircolari costruite con perfetta tecnica con le bozze
della pietra arenaria locale dal colore dorato; i capitelli ricchi di
figure simboliche sono espressioni tipiche del periodo protoromanico. Il campanile della chiesa invece è di fattura
ottocentesca e vi si trova una meridiana con la scritta: Alor che
il sol mi si farà palese, darò l'ora germanica o francese con la
data 1835 e le iniziali dei costruttori. L’abside della chiesa
superiore è invece rettangolare ed ha ancora le belle finestre
monofore originali.
29
La chiesetta di S. Caterina, che si trova più in alto rispetto a
quella di S. Maria, sulla cima più alta del monte, dovette essere
costruita all’inizio del XIII secolo, dopo il ritorno dei crociati
da Damietta, nel 1217-1219. Fu allora infatti che i combattenti
crociati conobbero e visitarono il Monte Sinai e vennero a
conoscenza della storia della giovinetta che disputava di
filosofia e teologia con i più grandi dotti e fu martirizzata con
la ruota. La piccola chiesa è un semplice ma perfetto esempio
di romanico montano. La facciata è traforata da un portale del
tutto simile a quello di S. Maria, privo però di scritte, mentre
l’interno ha una pianta rettangolare ed il vano è diviso in due
parti sormontate da volte a crociera. Alle pareti si trovano
affreschi quattrocenteschi che rappresentano il Martirio con la
ruota di S. Caterina insieme all’Inferno e al Paradiso e, nella
parete di fondo, la Crocefissione; parte di questi affreschi sono
stati staccati ed oggi sono conservati a Riola. Anche questa
chiesa è dotata di un’abside rettangolare con tre monofore
romaniche.
Di fianco all’altare si trova il piccolo sarcofago di s. Acazio, un
santo di cui sono nati due racconti della vita e del martirio: uno
diffuso a Bologna, in gran parte leggendario, uno diffuso in
Calabria, con caratteristiche differenti. Il santo gode infatti di
grande culto in Calabria, soprattutto a Squillace, dove è
venerato ancora oggi in Cattedrale. Diciamone due parole per
spiegare questo culto allòctono, di cui ben pochi conoscono la
storia.
Secondo la leggenda bolognese, il centurione Acazio visse ai
tempi dell’imperatore Adriano e Antonino a lui associato (117138); convertitosi alla fede, attribuì a Cristo le sue vittorie
militari e per questo indispettì gli imperatori che, riunitisi ad
altri re pagani, convennero sul Montovolo per la battaglia
contro il soldato cristiano e i seguaci che egli aveva nel
frattempo convertito. Acazio e i suoi 10.000 compagni furono
30
crocifissi agli alberi sulle falde del monte e alla sua morte
avvennero gli stessi prodigi verificatisi al momento della morte
di Cristo. Questa leggenda, da Arturo Palmieri attribuita alla
voce popolare, per Alfeo Giacomelli era invece un’invenzione
del canonico e arcidiacono Ottaviano Ubaldini in funzione di
propaganda anti-imperiale, più precisamente contro Federico
II, nella Bologna guelfa duecentesca.
Secondo il racconto diffuso in Calabria, Agazio, originario
della Cappadocia, era un centurione romano, appartenente alla
legione Marzia, che era di stanza in Tracia. Secondo la
narrazione più antica, trascritta in greco nel X secolo da un
testo dell’età di Costantino (IV secolo), durante la persecuzione
di Diocleziano e Massimiano, fra il 297 e il 310, fu accusato di
essere cristiano e subì ferocissimi tormenti. Mentre veniva
tradotto a Bisanzio, gli angeli lo risanarono e incoraggiarono,
finché a Bisanzio fu decapitato il 7 maggio 303 o 304: ancora
oggi a Squillace la sua festa principale cade in questo giorno.
A Bisanzio, poi divenuta Costantinopoli, esistevano due chiese
dedicate al santo, una delle quali sarebbe stata costruita dallo
stesso Costantino il Grande; entrambe si contendevano l’onore
di essere state ricostruite dagli imperatori Costantino, Arcadio
e Giustiniano; in una di esse fu collocato il corpo stesso di
Costantino. Lo narra Cassiodoro, che si informò del santo
Agazio durante il suo esilio a Costantinopoli nel 550 circa; il
vigore del suo culto fece sì che diventasse patrono della città (e
ne resta anche un prezioso dittico d’avorio, di fattura bizantina,
oggi conservato a Cremona), finché l’eresia iconoclasta non
costrinse i suoi devoti a trasferirne le reliquie a Squillace.
Penso infatti che fossero dei devoti del santo a trasferire
segretamente le sue reliquie per salvarle, mentre la leggenda
afferma che furono gli iconoclasti all’inizio dell’VIII secolo a
spingere in mare in una cassetta di piombo il corpo del martire
perché vi affondasse, ma prodigiosamente la cassetta percorse
31
tutto il Mar Ionio e si fermò sul lido dell’attuale Copanello,
dove ancora esiste una grotta a lui intitolata. Da qui la cassa,
deposta su un carro trainato da buoi, raggiunse senza guida di
alcuno la zona collinare detta Cale, presso Squillace, dove i
buoi si inginocchiarono e non vollero in alcun modo
proseguire. Le reliquie furono allora poste in Cattedrale, dove
tuttora si trovano, in un prezioso reliquiario. L’avvenimento
prodigioso della traslazione delle reliquie avvenne il 16
gennaio e ancora oggi un’altra festa di grande richiamo avviene
in questo giorno. Che l’arrivo di queste reliquie sia realmente
da ascriversi al tentativo di salvarle dalla distruzione da parte
degli iconoclasti, o più tardi, nell’XI secolo e per opera di
crociati, come avvenne alle reliquie di s. Nicola giunte a Bari,
di s. Marco a Venezia, di s. Andrea ad Amalfi, di s. Matteo a
Salerno, per ora non possiamo appurarlo, ma ci sorprende che
una parte di queste reliquie sia giunta, anche se oggi è dispersa
e resta solo il sarcofago, fin sul Montovolo.
Solo come proposta di studio avanzo l’ipotesi che siano stati
dei crociati, all’inizio del XII secolo, a riportare in patria, a
Bologna, sia il ricordo del culto di questo combattente per la
fede così venerato a Costantinopoli e in Calabria (regione che
si trova peraltro sulla via del ritorno dall’Oriente), sia racconti
dei luoghi sacri di Gerusalemme, che permisero di ricostruire i
vecchi e costruire nuovi edifici nella Gerusalemme stefaniana
secondo quanto si vedeva allora nella Città Santa di Palestina.
Da un lato la Madonna e la santa Croce, dall’altro Caterina e
Agazio sul Montovolo; in città, o meglio, subito fuori dalla
città racchiusa dalle mura di selenite le chiese del Santo
Sepolcro e del Calvario o Golgota e il cortile di Pilato del
complesso stefaniano, la chiesa di S. Giovanni sul vicino
Monte Oliveto. Pare infatti che gli edifici più antichi di S.
Stefano risalgano all’aspetto che avevano i luoghi santi di
Gerusalemme al tempo dell’imperatore Costantino Monòmaco,
32
fra il 1042 e il 1048, e comunque precedenti la ricostruzione
operata dai crociati nel 1140-1149.
Da Gerusalemme a Bologna attraverso il Montovolo: un lungo
viaggio di devozioni, reliquie, idee, racconti, uomini; dalla
Passione di Cristo a noi e anche questo è un lungo viaggio di
secoli di storia da studiare e cercare di ricostruire per capire
meglio la nostra vita e la nostra cultura.
Bibliografia
Arturo Palmieri, La montagna bolognese del Medio Evo,
Bologna, Zanichelli, 1929 (ristampa anastatica Arnaldo Forni
Editore, Sala Bolognese-Bo, 1981)
La montagna sacra. Tutela conservazione e restauro del
patrimonio culturale nel Comune di Grizzana, a cura di
Rosalba D’Amico, Bologna, Edizioni Alfa, 1983, soprattutto
Alfeo Giacomelli, Il santuario di Montovolo: verso il restauro
storiografico, pp. 93-137
Oriano Tassinari Clò, Terra e gente di Vimignano, Bologna,
Parrocchia di Vimignano, 1987
Michelangelo Abatantuono, I conti di Panico, in Comune di
Monzuno, Monzuno. Storia territorio arte tradizione,
Bologna, Società Editrice Timeo, 1999, pp. 50-53
Paola Foschi, La viabilità medievale tra Bologna e Firenze, in
La viabilità tra Bologna e Firenze nel tempo (Atti del
Convegno di Firenzuola-S. Benedetto val di Sambro 28/91/10/1989), Bologna, Studio Costa Editore, 1992, pp. 131-148
Le vie francigene e romee fra Bologna e Roma, a cura di Paola
Foschi, Bologna, Calderini, 1999
Aniceto Antilopi-Bill Homes-Renzo Zagnoni, Il Romanico
appenninico bolognese, pistoiese e pratese. Valli del Reno,
Limentre e Setta, Porretta Terme (Bo), Gruppo di Studi Alta
valle del Reno, 2000 (“I libri di Nuèter”, 25)
33
Il pellegrinaggio nelle valli dal Savena al Setta, a cura di
Adriano Simoncini, Bologna, Comune di Pianoro-Centro
Storico Documentale “La Loggia della Fornace”, 2001
Renzo Zagnoni, Montovolo, montagna sacra. Guida alle chiese
di Santa Maria e Santa Caterina, pubblicazione promossa dal
Santuario di Montovolo, Gruppo di studi alta valle del Reno Nuèter, Associazione Amici di Montovolo, "Quaderni di
Montovolo", 1, s.l. (ma Vergato, Tip. Ferri) 2003
Renzo Zagnoni, Il Medioevo nella montagna tosco-bolognese.
Uomini e strutture in una terra di confine, Porretta Terme,
Gruppo di Studi Alta valle del Reno, 2004 soprattutto Il
comitatus dei conti Alberti fra Setta, Limentre e Bisenzio: i
rapporti coi Comuni di Bologna e Pistoia e con le comunità
locali (secoli XI-XIV), pp. 344-406.
Paola Foschi, I conti di Panico e i loro consorti nella montagna
occidentale, in corso di stampa
Opuscolo intitolato Sant’Agazio centurione e martire patrono
di Squillace e diocesi, a cura del Capitolo [di Squillace], delle
Parrocchie e dell’Istituto di Studi su Cassiodoro e sul
Medioevo in Calabria.
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ALVAR AALTO E LA CHIESA PARROCCHIALE DI
RIOLA
A cura di Professor Pier Paolo Diotallevi
Preside della facoltà di ingegneria dell’Università di Bologna
Parlando in sommi capi di questa costruzione, vorrei riportare
per sommi capi il criterio e il perché di questa costruzione e
quali sono i suoi caratteri essenziali. Questa chiesa ha tanta
importanza sia nella storia bolognese ma anche della storia
dell’architettura. Per poter introdurre un po’ l’argomento credo
che sia necessario fare qualche riferimento di carattere storico,
perché è necessario inserire questa costruzione nel contesto dei
tempi all’interno della quale è nata. Proprio per capire quali
sono le esigenze fondamentali e quindi, quali sono state le
motivazioni che hanno mosso il progettista e coloro che hanno
voluto questa costruzione e per capire quali sono le persone che
hanno mosso Aalto per fare questo, facciamo un salto nel
passato. In particolare, negli anni del dopoguerra quando
ancora si stava ricostruendo il territorio, una delle persone che
a mio avviso, maggiormente è intervenuta in questa opera di
ricostruzione, per quel che riguarda la Chiesa bolognese è stato
il Cardinale Lercaro. Qui ho riportato un documento scritto nel
1956, a conclusione del Congresso Nazionale di Architettura
Sacra che lui volle organizzare a livello nazionale per
individuare un pochino quali erano quelle costruzioni e le
caratteristiche di questa rinascita che doveva avere, e direi che
in questa frase scritta da Lercaro si possono trovare a mio
avviso tanti aspetti importanti. Cioè le ragioni per le quali è
opportuno andare in una certa direzione e le considerazioni
che poi hanno condotto alla costruzioni di certi tipi di strutture,
di certi tipi di chiese, ma anche le ragioni che hanno indotto ad
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operare secondo certi criteri. Io credo che sia opportuno
leggere questo brevissimo testo: “Non basta dare agli uomini
una casa, occorre accanto a quello degli uomini costruire la
casa del Signore, che sia casa della famiglia di Dio, la quale si
raduni intorno al padre. Ma non sarà casa del Signore se non
ispirerà in tutte le sue linee un vivido senso religioso e non sarà
casa accogliente per la famiglia di Dio se non festeggerà le
esigenze liturgiche non rispetterà gli schemi, le istanze della
religiosità e della mitologia uno schema dell’evolversi dei
tempi e delle tecniche via via interpretate con mode nuove. Ed
ogni secolo, ha dunque una sua colpa, la sua stravaganza e la
sua strofa nell’inno perenne che l’arte sacra inaugura alla lode
della bellezza e dell’amore eterno”. Per quel che riguarda in
po’il criterio relativo alle costruzioni delle chiese, mi pare che
in questi casi ed in particolare nel vivido senso religioso per
soddisfare le esigenze liturgiche, sia un po’ questo il criterio
generale che si dispone come criterio di valutazione e come
criterio di guida per la progettazione delle chiese che si stanno
costruendo. Tra il 1945 e il 1955, in questi dieci anni di
costruzione vengono realizzate nel territorio bolognese
numerose opere che sono a mi avviso un po’ opere precursori
di quello che succederà in seguito, proprio sotto la guida e lo
spirito di Lercaro. Qui qualche esempio molto semplice, molto
rapido, la Chiesa di Monghidoro del 1946 dove si vede anche il
progettista della chiesa, la Chiesa della Sacra Famiglia sempre
a Bologna costruita nel 1951, che danno già una idea di un
modo nuovo di costruire. Abbiamo la Chiesa Santa Maria
Goretti del 1954, abbiamo la Chiesa del Cuore Immacolato
diMaria tra l’altro costruita e progettata dall’architetto Vaccaro,
lo stesso che ha realizzato la Facoltà di Ingegneria di Bologna,
e quindi sono tutte opere che hanno una grande rilevanza dal
punto di vista della trasformazione dei tempi, dal punto di vista
di quello che sta accadendo, e per poi comprendere un pochino
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meglio quello che è lo spirito con il quale il Cardinale Lercaro
intende muoversi in questo contesto, di crescita, credo che sia
opportuno leggere delle frasi che ho trovato, dette da
Monsignor Grechi: Nel caso dovessi fare il conto con il
postmoderno, l‘espansione avvenuta nel dopoguerra. Aveva il
pallino della messa perché credeva che chi non và a messa
entra in contatto con Cristo solo in maniera diretta, per questo
motivo voleva che si costruissero chiese. La chiesa diventa
quindi parte fondativa del nuovo tessuto urbano sociale
portando la cultura nel senso di coltivazione dell’uomo. La
parrocchia era il vero cuore dei quartieri.
Quindi la parrocchia diventa una sorta di supplenza sociale che
interviene non in modo radicale e che aiuta. Questo è lo spirito
con il quale viene accolto Aalto, credo che questo sia un fatto
essenziale. Non a caso lo spirito del Cardinale Lercaro si reca
sui terreni nei quali verranno costruite le nuove chiese per
prenderne visione, e prenderne quasi possesso di questo
territorio e per segnalare proprio la sua presenza all’interno. In
questo contesto, in questo spirito che già è titolo innovativo,
per quanto riguarda la chiesa del punto di vista delle
costruzioni, si inserisce il Concilio Vaticano Secondo,
momento fondamentale di grandi trasformazioni. Che cosa
accade, viene eletto nel 1959 Papa Giovanni XXIII, seguono
tre anni di preparazione, dalla commissione preparatoria e
viene aperto ufficialmente il Concilio ottobre 1962 della
Basilica Vaticana, viene prima aperto da Papa Giovanni XXIII
e naturalmente dopo la sua morte passa la gestione al suo
successore Papa Paolo VI che lo chiude nel dicembre del 1965.
È un evento ricco dai tappe ricco di informazioni e ricco di
trasformazioni. Partecipano duemilaquattrocentocinquanta
persone e gli argomenti principali trattati sono pietre miliari del
mondo moderno, il comunismo e i documenti sono … quattro
costruzioni, nove decreti, tre dichiarazioni, quindi una
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montagna di lavoro. Una montagna di lavoro non solo nel
senso di grandi quantità di lavoro, ma una montagna di lavoro
intesa anche come un insieme di materiale veramente forte,
veramente resistente come è la roccia della montagna. Fra
queste, un carattere importante riguarda la Riforma Liturgica.
Riforma in cui il Rito sicuramente diventa uno degli aspetti
essenziali per le successive trasformazioni. E qui riferisco
alcune osservazioni che ritengo importanti per capire poi come
questa chiesa trovi una sua realizzazione in questo contesto.
Nasce un’esigenza liturgica di un nuovo linguaggio che è la
conteporaneità, quindi la chiesa con questa necessità del nuovo
linguaggio, con il quale comunicare, un linguaggio che sia
congruo con lo spirito dei tempi chiaramente sperimentata in
concomitanza con le lotte civili, cioè in parallelo alle lotte
civili vengono sviluppate anche le opere di carattere religioso.
La chiesa del sud come la chiesa del nord. La chiesa di
Vergato, è una delle risposte alle esigenze della riforma.
Ora in questo contesto nasce l’incontro tra il Cardinale Lercaro
e l’architetto Aalto. Il Cardinale … incontra l’architetto Aalto
in una presentazione che viene fatta a Palazzo Sforza nel 1965,
Probabilmente si verifica una sorta di immediata intesa tra due
persone di alta capacità, di alta conoscenza immediatamente
scatta una scintilla, tanto è che l’incarico del progetto della
chiesa di Vergato viene completato nell’anno successivo con
estrema rapidità, in che vuol dire che tra le due persone si
instaurato un modo di vedere le cose e un modo di ragionare
che naturalmente era concorde ed orientato per gli stessi
obbiettivi. Chi è Alvar Aalto, qualche piccolo tratto per
continuare un po’ la persona, sulle due personalità, era un
architetto finlandese nato nel 1898 morto nel 1976 prima che
la chiesa venisse finita, così come il Cardinale Lercaro morì
prima che la chiesa venisse finita, quindi nessuno dei due ha
avuto la possibilità di poter vedere da vicino questa loro
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realizzazione. L’architettura
finlandese è informazione
progettante, ma di fatto ha interpretato in maniera veramente
sublime anche la e la perseguità dei cattolici nella costruzione
delle chiese. Uno dei caratteri fondamentali dell’architetto
Aalto è quello che riesce a tradurre la sua semplicità verso gli
essere umani un elemento architettonico inserendolo
perfettamente nel contesto naturale. Quindi un rapporto diretto
tra l’oggetto progettato e la natura all’interno della quale questa
costruzione viene inserita. Con la costante presenza verso
l’utilità all’uomo, alla persona. Quindi la sua architettura si
inserisce in maniera veramente armoniosa nella natura ma
soprattutto ha un senso di umanità spirituale dell’uomo
individuo, lo spirito comunitario vi sono sentiti e tradotti in
costruzioni moderne che è difficile immaginare, quindi è
sostanzialmente un qualche cosa che richiama anche la politica.
Questo diciamo è un po’ il carattere fondamentale del Papa il
quale giunge in Italia all’inizio del 1965 dopo questa sua
presentazione delle sue opere ma dopo aver sostanzialmente
girato un po’ il mondo avrebbe costruito in tutti posti, in Italia
ha praticamente realizzato solamente questa chiesa, quindi è
l’unica costruzione in Italia di questo grande architetto. Lui
comincia a lavorare in valle e qui vi riporto alcune sue
realizzazioni perché sono in quel momento delle vere e proprie
innovazioni nelle costruzioni. Lui era un esponente del
funzionalismo e cioè di quella corrente che in un qualche modo
tende a rendere la costruzione perfettamente funzionale
all’obbiettivo per la quale essa viene realizzata. Ha periodi
diversi, con delle concezioni già assolutamente diverse, e
guardate queste costruzioni realizzate tra il 1929 e il 1933 in
un periodo in cui queste cose erano assolutamente inattese, cioè
non rispettavano diciamo quello che erano i canoni allora
adottati. E solamente nell’ambito di questo movimento trova
una sua importante collocazione. Lui era anche progettista
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come architetto non solo di costruzioni ma anche di oggetti, per
esempio questa è una famosa seggiola fatta in legno, materiale
che lui sfrutta molto, e quindi lui ha una particolare attenzione
sul materiale.
Diciamo, lui si espone e progetta cose di diverso tipo, per
esempio impianti industriali come questa medicina di cellulosa
tra il 1935 e 1939, questa invece è una biblioteca comunale,
dove si vedono già caratteri ben diversi, guardate quel coperto
ondulato ha qualcosa di assolutamente inconsueta che da certi
tipi di immagini per lui le ondulazioni delle superfici diventano
un carattere fondamentale, poi vedremo durante il percorso il
carattere della chiesa e la copertura del soffitto di legno, questo
è il padiglione finlandese del esposizione di New York del
1939.
Poi sappiamo che il bello è senz’altro soggettivo però qui credo
che si vada oltre il bello …... un’architettura che coinvolge la
persona e che in un qualche modo usufruisce di questi progetti.
Si occupa anche della realizzazione di chiese perché siamo già
nel dopoguerra 1957-1959 e qui si cominciano già a vedere i
primi tratti di un modo di ragionare. Essendo lui comunque di
natura protestante ma poi come si vede di sensibilità
certamente cattolica. Questo è l’interno della chiesa, altra
chiesa parrocchiale costruita tra il 1958 e 1966
Questa è un’altra chiesa realizzata sempre da Aalto e questo è
un’ulteriore aspetto interiore della chiesa, quindi aveva già una
sua sensibilità in questa direzione Ma veniamo a parlare un
po’ più da vicino della Chiesa di Santa Maria Assunta di Riola
di Vergato, questa progettata nel 1966,come abbiamo visto
dall’incontro con Lercaro e viene completata nel 1978 dopo la
morte di entrambi. Il campanile poi è stato costruito
successivamente nel 1994. Il contesto dove viene inserita
questa chiesa è un cotesto un po’ particolare, intanto questa è
la zona della chiesa che si trova nell’ansa di un fiume, ansa che
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in un qualche modo rallenta il corso dell’acqua e quindi è un
qualche cosa che invita forse un pochino di più alla
meditazione. Importante è la collocazione in relazione
all’ambiente circostante, in particolare con l’ansa del fiume
Livenza perché con un architettura brillante preesistente con il
fiume e i monti, entrambi hanno in significato religioso
anch’esso molto importante, quindi è la correlazione della
collocazione con il contesto della natura che la scienza ha
cercato di considerare. Qui alcune immagini che ritengo molto
belle, proprio per farvi capire qual è l’inserimento nel contesto
del territorio di questa chiesa, questo dà l’idea un po’ da vicino
nei confronti della montagna circostante, nei confronti del
fiume adiacente con spazi locali assolutamente importanti e
significativi. La parte di sistemazione del fiume ancora non è
completata così come era nel progetto originale di Aalto,
questa è la vista frontale dell’ingresso con una circostanza che
già si può segnalare. Intanto per l’uso di materiali della chiesa
per il rivestimento, lui è molto attento ai materiali, usa della
pietra per il rivestimento per ricordare sostanzialmente la
montagna nella quale questo riferimento viene inserito. Il
campanile che viene posto d’avanti all’ingresso della chiesa e
non come solitamente accade verso la parte posteriore della
chiesa, quindi come dire questo è l’elemento di richiamo da
dove comincia il percorso per entrare, laddove c’è un
inserimento di richiamo sonoro può entrare forse in un
elemento di richiamo spirituale. Le forme che ricordano i monti
e che ricordano le onde del fiume, ed anche quelli che sono
diciamo gli aspetti che hanno un loro carattere assai
importante. Ma vediamo di analizzare un pochino di più il
progetto da a una vicino. Vedete sopra una piazza, in generale e
sotto abbiamo la pianta della chiesa che nasce in questo modo
ed originalmente era previsto un contorno che poi non è stato
realizzato, e questo è il muro attuale della chiesa. Che cosa si
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può leggere in questo; si leggono due fatti fondamentali.
Intanto l’organizzazione interna risente già delle incidenze del
Concilio Vaticano II, e cioè il luogo per l’assemblea, il luogo
per la mensa, il luogo per il riferimento, la croce. Abbiamo il
luogo per l’ annuncio della parola, il luogo del tabernacolo,
cioè per l’espugnazione per la conservazione dell’eucarestia, e
poi il luogo del battistero che viene posto vicino alla parte della
mensa la dove si concentrano le attività, questo però è un
concetto un po’ diverso rispetto a quelli applicati in
precedenza, e poi abbiamo il campanile posto diciamo
all’ingresso della chiesa. Abbiamo allora
una serie di
correlazioni tra questi luoghi che li vede concentrati e orientati
tutti in questa direzione. Qui viene un dubbio, che differenza
c’è nel progettare una chiesa e nel progettare un oratorio? In fin
dei conti sembra che l’obbiettivo sia lo stesso, cioè guardare in
una certa direzione. Ecco io credo però che una risposta a
questo la si possa trovare in quelle prime parole che ho
riportato in quello scritto del Cardinale Lercaro in cui c’è una
concezione assolutamente diversa che va in tutta altra direzione
e questo va raccolto molto bene in questa chiesa. Questa è la
pianta del progetto realizzato e si possono osservare alcuni fatti
, intanto non ci sono delle parallele, ci sono solo delle linee
convergenti, vedete queste linee della struttura che convergono
sempre verso il tabernacolo, anche se guardiamo le linee
posteriori le linee non sono mai parallele, questi coperchi
convergono sempre in una posizione. Questo è il fronte e si
caratterizza per alcuni fatti, alcuni già detti, altri che vorrei
segnalare, e cioè il collegamento del fonte con il fiume,
originariamente deve essere colto in maniera diversa e poi la
provenienza della luce. La luce che entra all’interno ma che in
parte viene riflessa, quindi vedete questa copertura con queste
curve che richiamano ancora le onde del fiume e del torrente,
con la montagna sulla sinistra e la provenienza della luce.
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Questo è il risultato interno di tutti i progetti, che risulta di una
splendida esecuzione, questo non perché esalta l’architettura
ma credo che sia un luogo molto suggestivo e un luogo che
invita proprio alla riflessione.
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IMMAGINI DEL CAMMINO DEGLI STERPI
A cura di Luigi Enzo Mattei
Comincerò il mio intervento sottolineando l’intensità e l’alto
livello delle esposizioni che abbiamo sin qui ascoltato,
meritevoli quasi di un tempo di rispetto, destinandolo alla
riflessione e alla meditazione.
Tale riserva non mi esime da sviluppare però l’approccio al
tema “Immagini del Cammino degli Sterpi”.
L’immagine, specialmente nel nostro caso, non va considerata
una sorta di carta da regalo, con cui vestire quanto è stato
illustrato, ma bensì valutata quale vera e propria sostanza del
cammino condiviso; ben al di là quindi della funzione
sicuramente propagandistica – pubblicitaria, sicuramente un
ruolo sostanziale e responsabile, compito proprio della
figurazione.
La chiesa di Alvar Aalto appartiene al mondo, all’architettura,
alla funzione urbanistica; il percorso per il borgo della Scola e
gli Sterpi appartiene alla comunità, il panorama di Montovolo è
patrimonio del mondo sensibile, un universo ove lo sguardo
può stemperarsi; ma invece le immagini che andremmo a
definire apparterranno prevalentemente ad ognuno dei
pellegrini, che ne trarrà intima e gelosa esperienza: quindi
l’Angelo sarà “il mio Angelo”, Nostra Signora risulterà “la mia
Madonna”, la nostra porta “la mia porta”. La suggestione
medievale che avvertiamo a Montovolo, poi forte e pregnante,
permetterà di raggiungere l’effetto più indicativo del nostro
passato così nebuloso, così luminoso e così affascinante, il cui
recupero potrò arricchire nel futuro, e saranno forse i Crociati a
stagliarsi indicativamente all’orizzonte sotto il cielo
dell’Appennino.
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Abbiamo così allestito questa sintetica esposizione, ancora
sulla carta, con la speranza possa restituire l’idea
tridimensionale della scultura.
Esaminiamo le diverse immagini. L’Angelo che indica la via è
il nostro Angelo Custode, che ha fatto un salto in avanti e ci
indica, perentorio, la strada seguire. Andrà posto al bivio, ad
ogni bivio di queste strade che portano lontano, sino al cielo,
sino alla mitica piana che i bolognesi hanno da sempre voluto
considerare il loro “Monte Sinai”.
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Nostra Signora degli Sterpi è la Madonna che ci attende lungo
la strada, consolando la fatica del cammino sino al Santuario
della sommità, titolato appunto alla Consolazione; è una figura
sacra e domestica, questa Madonna degli Sterpi, seduta sul
muretto di pietra di Montovolo come le donne che lavorano
davanti alla porta di casa, a testimoniare la sosta come parte
integrante del cammino, e indica la strada ai viandanti
porgendo simbolicamente un lembo del mantello, elemento di
evidente protezione che riprende la tradizione iconografica di
materna sollecitudine, nell’altra mano sostiene un ramo di spini
con la tranquillità di Colei che non teme il male poiché è
destinata a sconfiggerlo; dolce e consolante figura che può
soccorrere nei momenti di difficoltà.
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La porta del Cammino degli Sterpi è la porta del percorso in
quanto tale, è il varco attraverso cui intravediamo il percorso
che questa mattina abbiamo descritto e narrato sotto molti
aspetti e diverse angolazioni, qui a fianco ne è appeso il primo
disegno che ne delinea la composizione, solitamente realizzato
per affrontare l’impresa, l’elaborato è destinato ad essere
perfezionato e approfondito nei particolari, sino a diventare
disegno esecutivo.
Nella speranza risulti comunque abbastanza indicativo: dal
basso a destra, e lungo la linea a tornanti, la schematica
Natività, nella quale la Madre si protende protettiva sul
Bambino che è sulla nuda terra, Egli nasce povero, senza casa,
ma col percorso di sacrificio e di impegno che lo attende e lo
porterà sino alla sommità della gloria; nella composizione a
spirale che diparte da questa scena, può avvertirsi la sintesi
della fuga, quella in Egitto, qui è Giuseppe che indica la strada
e la percorre con la sicurezza della fede, indicazione
quotidiana, indispensabile ad un cammino dalla sicura meta.
Infine il gruppo articolato nella terza età, con lo stupore della
visione celeste nel panorama, del quale Montovolo ne è
imitazione, terrena premessa di quello ineffabile del Paradiso.
Qui la Madonna è incoronata dal Dio-Figlio.
Ebbene, il figlio che benedice la madre ha nella mano la
corona, quella di spine che è diventata corona regale. Ella ha in
mano il modellino del Santuario e l’uovo dell’origine, così
come alle spalle della Natività è il profilo protettivo della
chiesa di Alvar Aalto.
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Naturalmente la Madonna con il titolo degli Sterpi è la stessa di
Montovolo, che vive e guida durante il cammino e attende i
figli alla meta. L’opera è in terracotta, materia tipica di queste
aree sulle quali ha insistito più di una civiltà, compresa quella
Etrusca cui vogliamo fare riferimento. Questa scultura, ancora
da collocare definitivamente, ma radice del nostro progetto, è
già stata inserita tra le opere “patrimonio per una cultura di
pace” nel programma UNESCO; statua quindi che nasce già
consacrata ai primati.
Sarà invece il bronzo a costituire il materiale della porta, per
motivi di durata e di sicurezza, sarà un frammento del cielo
utile a generare lo stupore, un piccolo e matericamente
prezioso varco di due metri quadrati, utile scorcio per
individuare il cammino di una Sacra famiglia, che corrisponde
a quello dell’umanità intera; nella composizione della porta
non appaiono le estremità inferiori, perché i piedi del cammino
sono i nostri piedi e il percorso compiuto dalle figure illustrate,
pur essendo umano, concreto, vivo e vero, rimane
fiduciosamente aperto alla partecipazione.
Percorso interiore che individua soluzioni già nelle fasi
intermedie, giunti spiritualmente alla meta anche se solo a metà
della strada. Un percorso infinito e, come affermato dalla
tradizione “non sappiamo dove andremo ma dovremo partire”
certi che la strada ci condurrà ad una meta sicura.
Il ruolo della figurazione divenuto percorso dell’anima nella
fisicità del corpo, in una forma d’arte tutta figurativa,
sicuramente contemporanea, essenzialmente sacra.
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Luigi E. Mattei è autore della Porta Santa della Papale
Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma, del Corpo
dell'Uomo della Sindone a Gerusalemme e del busto in bronzo
del Premio Nobel Ernesto T. Moneta, collocato nel Cortile
d’Onore del Quirinale.
Nato a Bologna nel 1945, nella stessa città ha frequentato gli
studi artistici, divenendo poi insegnante all'Istituto Statale
d'Arte ed al Liceo Artistico, sino a giungere alla docenza
presso le Accademie di Belle Arti. La sua attività ha spaziato
dalla comunicazione visiva alla scenografia, dalla grafica alla
scultura, con realizzazioni che hanno ottenuto egide e patrocini
ai massimi livelli istituzionali.
Nel gennaio 2008 le sue opere sono state riconosciute ed
inserite nell’elenco del programma U.N.E.S.C.O. “Patrimoines
pour une Culture de la Paix”.
Presente in più di ottanta musei e gallerie nazionali nel mondo,
è stato insignito di numerose onorificenze e ricevuto premi
prestigiosi; ricopre incarichi nell'ambito del mondo culturale
della sua città, ove è presente nelle maggiori collezioni
pubbliche e, nel centro storico, con il monumento a Salvo
D'Acquisto, nella Basilica di San Petronio con la Parete Dal
Monte e la Sacra Natività, all'Alma Mater Studiorum con
l'Imago Pietatis; è inoltre autore di molteplici opere in spazi
pubblici nell’area della Futa e dintorni, nonché della colossale
Ianua Mundi, stele in bronzo rappresentativa di temi universali,
nella Collezione Quadrelli a Zola Predosa.
Luigi Enzo Mattei, “Accademico degli Incamminati”, è
attualmente impegnato nella realizzazione degli elementi propri
del presbiterio della Cattedrale di Andria – costruzione
d’origine normanna dalle tracce federiciane – dell’iconografia
del Cammino degli Sterpi – percorso incardinato tra i Cammini
d’Europa – della statua di San Basilio il Grande per la Chiesa
dell’Africa, nella Diocesi di Djougou, nonché di un nuovo
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bronzo sindonico destinato a Guadalupe presso Città del
Messico.
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Pubblicazione - Cammini d`Europa