8 Marzo 2008 ATTI DEL CONVEGNO IL CAMMINO DEGLI STERPI è l’itinerario di devozione per pellegrini, turisti e sportivi che, attraverso l’abitato della Scola e l’Oratorio degli Sterpi, conduce da Riola di Vergato a Montovolo. La partenza è presso Riola, al bivio dell’Angelo, figura emblematica che invita al cammino; il pregevole piccolo borgo de La Scola ne rappresenta un passaggio “culturale”, mentre il cuore del percorso è costituito dall’Oratorio degli Sterpi, ove collocata la figura in terracotta di Nostra Signora che indica e protegge il Cammino, traguardata attraverso la bronzea Porta della Via, preziosa e significativa lettura della vicenda umana. Alle soglie del Santuario di S.M. della Consolazione di Montovolo e dell’Oratorio di Santa Caterina, nell’area considerata “il Monte Sinai” dai bolognesi, sarà la quarta scultura, capace di sottolineare il traguardo raggiunto, opera che verrà scelta tra diverse proposte: la nuova porta in bronzo del Santuario, gli sterpi del Roveto ardente, il gruppo dei Cavalieri Crociati che edificarono l’Oratorio all’inizio del Duecento, al ritorno dalla Terra Santa. Luigi E. Mattei L’8 Marzo 2008 si è tenuto, presso il Centro Multifunzionale della Fondazione Carisbo a Riola di Vergato, un convegno di presentazione dell’itinerario intitolato “Il Cammino degli Sterpi A.D. 2008 – un Cammino in salita nella fede, tra valenze artisitiche, ambientali e spirituali”. Il presente documento riassume gli interventi dei relatori. Il Cammino degli Sterpi si inserisce nella Rete Cammini d’Europa. 1 LE VIE DEI PELLEGRINAGGI A cura di Mons. Lino Goriup Vicario Episcopale per la cultura e la comunicazione presso l’Archidiocesi di Bologna La storia della nostra Chiesa, la storia della fede del nostro popolo è patrimonio non solamente della Chiesa. Credo che nel tempo della post secolarità, la questione del rapporto tra la fede cristiana e il contesto civico nel quale siamo chiamati a vivere con i nostri fratelli e sorelle, credenti e non, ci imponga una riflessione sul significato etico e antropologico di ciò che per noi è “speranza”, aldilà dei confini della storia e del mondo. Siamo chiamati a portare un contributo autentico alla città degli uomini. È una breve introduzione che volevo fare e mi sembrava doverosa; la scelta non è tra nuova o antica laicità ma tra vera o falsa laicità. Una laicità falsa esclude l’elemento religioso dalla autocoscienza umana; vera laicità è quella che include, non confessionalmente, il fatto religioso come elemento decisivo per la lettura dell’umano. Il tema che mi è stato affidato, «le vie dei pellegrinaggi», ci può mostrare la rilevanza del fatto religioso per una maggiore comprensione dell’uomo. Pensavo di dividere questo mio contributo in due parti, quella più specificamente antropologica e quella teologica. La prima per indicare l’esistenza di un’esperienza comune a tutti gli uomini: il fatto dell’«andare», del pellegrinare per le strade del mondo con un senso, con significato. Di seguito, proporrò la mia visione di insieme della vita cristiana all’interno della domanda dell’uomo, quindi un indicazione di carattere più chiaramente teologico. 2 Antropologicamente il pellegrinaggio è riscontrabile praticamente in tutte le culture e in tutti i tempi. Alcuni esempi non cristiani (l’universo religioso sikh, islamico, Stonehange, ecc.) possono mostrarci la presenza e la pregnanza del pellegrinare per il senso religioso naturale in ogni epoca e cultura. Nel momento in cui l’uomo si scopre «essere cosciente», si sperimenta come «essere gettato», mendicante, mutabile e finito (Heidegger). Noi tutti lo sperimentiamo fin dai primi istanti di vita: veniamo al mondo come esseri umani che non hanno casa, o se l’hanno non è «qui». Le scoperte dell’anatomia, della fisiologia umana ci hanno poi insegnato che, a livello organico, la generazione umana è segnata, fin dal concepimento, dalla dialettica fra «nomadismo» e «domiciliazione», fra casa e viaggio. Quando il bambino vive e cresce nel grembo della madre, si trova a casa, ma al termine della gestazione, il corpo della madre lo espelle, gli da la vita dandogli la morte e questo uomo di nuovo si ritrova «senza casa». Un esperienza non gradevole, quella di dover ricominciare il viaggio: gli svezzamenti sono molteplici nella vita, a ogni età, e questo perché ad ogni età c’è una vita che inizia con una morte. E’ una «simbolica relazionale» e ciò appartiene alla esperienza originaria dell’uomo. Ho presentato una sommaria fenomenologia del viaggio senza entrare nell’ambito della letteratura, della poesia; volevo semplicemente darvi un impressione, una sensazione di che cosa sia l’uscire dalla propria condizione per andare incontro ad un’altra vita: l’avventura umana come viaggio verso il Mistero, dall’istante in cui l’uomo è blastula a quello in cui è chiamato ad un ultimo svezzamento. Non si è sottratto a questo destino neppure il Figlio unigenito di Dio fatto uomo; ha benedetto questo viaggio e lo ha fatto suo. 3 Voglio fare ora alcune riflessioni a partire da un testo molto importante per il nostro tema, la Lettera del Sommo Pontefice Giovanni Paolo II sul pellegrinaggio ai luoghi legati alla storia della salvezza (29 giugno 1999). Papa Giovanni Paolo II in questo testo ci ha donato un contributo di riflessione in preparazione ai grandi pellegrinaggi a cui lui si preparava nell’anno del grande Giubileo. In questa lettera, oltre che indicare le intenzioni del suo andare in pellegrinaggio in terra santa e in tutti i luoghi che hanno segnato la storia della salvezza, Egli compie un’ analisi di tipo fenomenologico sull’esperienza dello spazio e del tempo, per noi tutti «porte della conoscenza». I sensi sono i testimoni della realtà, sono quei luoghi nei quali all’uomo è concesso di avere esperienza del mondo reale. Riguardo al tempo, il Santo Padre Papa Giovanni Paolo II non si sofferma in questa lettera del 1999, rinviando alla riflessione già compiuta in Tertio Millennio Adveniente. Scrive Giovanni Paolo II: “La mia meditazione si porta, dunque, ai « luoghi » di Dio, a quegli spazi che Egli ha scelto per mettere la sua « tenda » tra di noi (Gv 1, 14; cfr Es 40, 3435; 1 Re 8, 10-13), così da consentire all'essere umano un incontro più diretto con Lui. Completo così, in certo senso, la riflessione della Tertio millennio adveniente, in cui la prospettiva dominante, sullo sfondo della storia della salvezza, era quella della fondamentale rilevanza del « tempo ». In realtà, la dimensione dello « spazio » non è meno importante di quella del tempo nella concreta attuazione del mistero dell'Incarnazione.” Ora perché, per noi oggi, è difficile una riflessione su questo? Perchè le nostre capacità percettive sono profondamente trasformate dall’uso delle «protesi» (automobile, telefono, computer, aereo, televisione e radio, ecc.); trasformano il modo di agire ma anche la percezione del mio stesso tempo 4 esistenziale e dello spazio. Nell’esperienza moderna, l’andare è legato a tutti i suoi possibili significati: l’andare per vedere, l’andare in pellegrinaggio ma anche l’andare a divertirsi, l’andare a riposarsi, l’andare come «distrazione». Oggi la gitapellegrinaggio fa percepire il viaggio come turismo, altera la percezione del significato antropologico del pellegrinaggio. Il pellegrinaggio è come la vita: morte, fatica, selezione, conoscenza di se e di altri, intercalati a momenti di riposo e gioia condivisa; questa è la vita dell’uomo, questa è la sorte del pellegrinaggio. Esistono poi «le vie del pellegrinaggio», non «la via del pellegrinaggio», perchè si scopre viaggiando che ci sono dei bivi, ci sono delle deviazioni; non è un viaggio tranquillo... Si deve talvolta ritrovare il motivo del viaggiare e se esso valga ancora, anche solo per ritrovare le ragioni per andare avanti. La scienza moderna ci ha dato la possibilità di «portare» il nostro occhio nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo; si aprono spazi quantitativi inediti, ma questo impigrisce fino ad inibire una funzione fondamentale del nostro spirito, quella di «viaggiare» nella qualità simbolica delle cose che vediamo. Smarrita la funzione simbolica rimane semplicemente l’estensione dello spazio; ecco che scatta la «riduzione turistica». Non riusciamo più a vedere che andare da casa al lavoro e viceversa, è comunque un pellegrinaggio. Anche i “Quattro salti in padella” hanno una funzione di carattere simbolico, così come la paziente operosità della signora che prepara il ragù per le tagliatelle. Sto parlando di significati simbolici essenziali. La nascita, la morte, l’amore e il pasto sono quattro contesti simbolici sacralizzati in tutti i tempi e culture. Desacralizzare il pasto, desacralizzare il viaggio, significa desacralizzare me stesso, la nostra vita. Desimbolizzare la nascita, desimbolizzare la morte, desimbolizzare l’amore significa desimbolizzare l’intero nostro spazio e tempo. Lo spazio, come dicevo all’inizio citando papa 5 Giovanni Paolo II, è realtà straordinaria dal punto di vista simbolico. Noi ci spostiamo nello spazio per andare a trovare qualcosa che sappiamo essere eccedente a ciò che raggiungiamo con i nostri occhi ma che pure già vediamo con i nostri occhi. Nella nostra realtà c’è più di quello che vediamo, ma non qualcosa di inesistente bensì di reale, misteriosamente reale. Questa prima parte del mio contributo voleva essere semplicemente un campanello di allarme: diventa difficile parlare oggi delle vie del pellegrinaggio se non si compie qualche passo indietro sulla strada del «riduzionismo turistico». Non so esattamente come, anche se credo che l’esperienza della fatica fisica, l’abbandono anche solo momentaneo delle protesi umane (automobili, pullman, televisioni, computer, telefoni cellulari, ecc.) in quanto distraggono dalla percezione simbolica del reale, potrebbe essere un buon punto di partenza. Tutte le culture sanno che si và in pellegrinaggio in silenzio, facendo fatica, possibilmente salendo verso l’alto. La «santa montagna» ci indica la via: ognuno di noi si incammina verso un luogo, apparentemente uguale ad altri luoghi, dove poter incontrare «faccia a faccia» ciò che è presente ovunque ma che posso incontrare solo quando vedo me stesso nell’amore di un Altro. Ora questa concentrazione di verità e di amore in un luogo, nella vicenda del popolo di Israele, è l’esperienza del deserto, della salita annuale al tempio di Gerusalemme, dell’esilio e del ritorno in patria. Non si và in uno spazio sacro per continuare ad invocare ciò che non si conosce: ci si incammina per incontrare faccia a faccia questo mistero. L’amico di Dio nella Sacra Scrittura è proprio colui che si intrattiene faccia a faccia con il suo Signore. Nel cristianesimo succede qualcosa di ulteriore, di imparagonabile. Per il dono dello Spirito Santo, anima della Chiesa, creatore della concentrazione cristologica nella persona del credente, ogni 6 cristiano si sperimenta come Chiesa e si muove verso i tempi e i luoghi, verso i fratelli e verso il Regno con una consapevolezza nuova. «Distruggete questo tempio e io lo ricostruirò in tre giorni»; così l’unico Maestro. È lui il tempio. Non dovete più andare a Gerusalemme, non dovete più salire sul monte Garizim, ma dovete adorare il Padre nello Spirito e nella Verità. Nella relazione della carità, nella comunità ecclesiale si ritrova la Rivelazione, il Volto personale e definitivo di ciò che tutti gli uomini religiosamente vanno cercando. Questo porta ad una conclusione particolare ed interessante: non occorre più andare a «fare pellegrinaggi» per compiere un’ esperienza religiosa; se ciascun credente in Cristo non vive più una sua vita ma, per la fede e lo Spirito, vive l’esperienza di essere divenuto Tempio del Dio vivente (cfr. Gal.2,20), egli è chiamato in ogni situazione concreta (e quindi anche quella di un “viaggio santo”), a rientrare in se stesso e nella carità ecclesiale, a compiere il pellegrinaggio verso il Dio vivente che ha posto in lui e nei fratelli e sorelle la propria dimora. Il santuario sei tu, il Cielo della Santa Trinità sei tu (cfr. Elisabetta della Trinità), il pellegrinaggio è la strada che porta la Chiesa a te e te alla Chiesa, Cristo a te e te a Cristo. È un esperienza forse misteriosamente vissuta anche al di fuori dei confini visibili della Chiesa di Cristo, dal grande mistico islamico Al-Hallaġ; dopo il pellegrinaggio alla Mecca e dieci anni di meditazione presso il centro della religione mussulmana, egli scopre ciò che, una volta testimoniato anche con l’insegnamento, gli costerà la vita : il pellegrinaggio alla Mecca, uno dei “cinque pilastri” dell’Islam, non è un movimento fisico ma spirituale, perché la Mecca è là dove Dio ama. Dio è amore ed è totalmente presente nell’amato, in me. Io, ogni uomo è la Mecca, per l’esperienza di Al-Hallaġ. Allora il pellegrinaggio, se non vogliamo mantenerlo nella sua funzione puramente religiosa ma desideriamo scoprirlo come 7 via cristiana di santità, dobbiamo contemplarlo (e praticarlo) per quello che è: una via che conduce a me stesso come tempio del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, alla fraternità ecclesiale (ciò che è accaduto a me, è accaduto ai miei fratelli e sorelle con cui sono un solo popolo) e allo spazio-tempo rinnovato dalla Risurrezione del Cristo vivente. Grazie. 8 TURISMO E PELLEGRINAGGIO A cura di Mons. Salvatore Baviera Presidente della Commissione Turismo e Pellegrinaggi della Diocesi di Bologna Che senso può avere il pellegrinaggio in un’epoca come la nostra, che ha perso ogni riferimento, e quindi la percezione di una meta da raggiungere? Una risposta si può e si deve dare. Ma intanto facciamo una breve analisi della temperie culturale del nostro tempo. Nietzsche dice che, dopo aver ucciso Dio, gli uomini non hanno più né sopra né sotto, né avanti né indietro, ma solo l’impressione di sprofondare in un nulla infinito. E’ evidente che in questo contesto non può nascere l’idea del pellegrinaggio. Aggiungiamo l’intuizione di Eliot che ne I Cori della Rocca scrive: “In questa strada non c’è né principio né movimento né pace né fine ma rumore senza discorso cibo senza gusto”. Ci sono altre affermazioni che, a proposito, confermano una perdita gravissima nella concezione della vita. La prima è questa. La nostra è un’età che avanza all’indietro “progressivamente” avanziamo all’indietro. La seconda è la seguente: I progressi della civiltà materiale si traducono in un regresso degli individui: sembra incredibile ma è quasi sempre così. 9 L’ultima propone un rimedio e suona così: “Occorre andare all’indietro, guardando il futuro”. E’ un pensiero caro alla grande romanziera norvegese Sigrid Undset: “Per camminare verso il futuro occorre ritornare alle nostre radici”. A commento di tutto ricordiamo l’affermazione di Tocqueville: “Se il passato non illumina più l’avvenire, il presente è vuoto e statico”. Mancando una meta, legata al senso della vita, il cammino dell’esistente diventa un vagabondaggio, oppure una frenetica agitazione, che non conduce in nessun luogo. L’uomo moderno o contemporaneo somiglia a un bambino che si agita sul cavallo a dondolo: alla fine è sempre in quel posto. Il carpe diem, cioè il desiderio di strappare al presente il massimo di utile e di piacere, non ha sbocchi verso una pienezza umana. Ma vediamo come sono andate le cose nel passato. E’ all’umanità circum-mediterranea che appartiene il primato del grande viaggio, come si esprime P. Chaunu. In antico i grandi viaggi furono determinati da ragioni religiose e commerciali, ragioni che in molti casi, specie nel Duecento in poi, si sono fuse in un unico intento. A partire dal Trecento si aggiungono motivazioni culturali e più avanti ancora, le forme del turismo di massa. Possiamo individuare in base alle diverse finalità un turismo religioso, cioè il pellegrinaggio, un turismo culturale-religioso quando la visita è motivata contemporaneamente sia da ragioni culturali sia dal desiderio di entrare nella dimensione del sacro, un turismo specificatamente culturale e di interesse naturalistico e un turismo di evasione. Il turismo religioso in senso stretto sta alle altre forme come, ad esempio, una festa religiosa sta ad una festa civile. Anche Durkheim notò che presso i popoli antichi la festa religiosa contiene un misterioso “di più”, quel di più che si può avvertire anche in un pellegrinaggio e che consiste 10 essenzialmente nel contatto con il mistero, congiunto con quel senso del fascinosum et tremendum, scritto nella nostra natura, che non viene soppresso ma nobilitato dalla fede cristiana. Anche Platone invitò a fare dei giochi sacri, tra cui i cortei e i pellegrinaggi pagani, il vero contenuto della vita. Il pellegrinaggio cristiano inizia nel IV secolo ed ha come meta le tombe degli apostoli a Roma oppure la Terrasanta. Anche S. Elena, madre di Costantino, fu una pellegrina quando già ottantenne si recò a Gerusalemme per dirigere gli scavi nella zona del Calvario dove Adriano aveva fatto costruire un tempio pagano, avendo poi la gioia di trovare le tre croci e i chiodi. Nel Medioevo i grandi viaggi furono rivolti alla immensa Asia ed è significativo che prima dei mercanti partissero i francescani (basti ricordare Giovanni da Pian del Carpine) sospinti da un intento religioso, che non poteva essere in quella situazione l’esperienza del pellegrinaggio, ma quello di portare la fede a popoli sconosciuti. L’immagine della strada ci rimanda ad una Europa medievale attraversata da vie internazionali, che collegavano i principali santuari europei, strade scandite dalla presenza di ospizi, di ospedali e monasteri con le loro foresterie. Il papa Sisto V nel 1585 iniziò a dare un volto nuovo a Roma con la ben nota sistemazione urbanistica rinascimentale. Le basiliche romane furono collegate da grandi srade per facilitare il cammino dei pellegrini e il tracciato delle strade stesse appare ancor oggi scandito da immagini architettoniche finalizzate a muovere l’attenzione del pellegrino verso l’alto: facciate, chiese, cupole, campanili, obelischi. Roma diventò un catechismo architettonico e la sua rete stradale apparve come la riduzione alla dimensione dell’Urbe della immensa mappa delle strade europee colleganti i maggiori santuari. La spiritualità del pellegrinaggio diede una forma nuova alla città più bella del mondo, accentuando il suo carattere di centro. Tutte le strade 11 conducono a Roma e a Roma tutte le vie, idealmente, conducono alle tombe degli apostoli. L’immagine di Roma, così descritta, richiama l’idea fondamentale che l’uomo si muove in due direzioni: quella orizzontale in avanti e quella verticale verso l’alto. In pratica ci muoviamo o ci dovremmo muovere in avanti verso l’alto, donde la concezione della Chiesa come comunità pellegrina verso la città futura. E’ soprattutto quest’ultima immagine a porre il fondamento del pellegrinaggio: se la Chiesa infatti è pellegrina verso una meta trascendente, questo suo pellegrinare è tenuto vivo dal contatto con luoghi particolare che racchiudono nella loro storia un più chiaro rimando alla condizione futura ed eterna: i santuari appunto. I pellegrinaggi per quanto possibile erano percorsi a piedi. Già sulle pareti e sulle stele dei monumenti e dei templi dell’Egitto faraonico, si vedono intagliati dei piedi, richiami significativi al senso sacro del cammino di pellegrinaggio. (Ries, L’uomo e il sacro, p. 518). L’incontro con il mistero, con l’invisibile e il divino è il termine di ogni pellegrinaggio. Anche le grotte più antiche come quelle di Lascaux e di Rouffignac erano delle mete, in quanto cattedrali della preistoria. In esse, ex. Lascaux, ci sono tracce di passi di adolescenti, che probabilmente andavano in quei luoghi sacri per riti di iniziazione. Nell’orizzonte del sacro un’importanza fondamentale hanno la volta celeste con il suo centro che è la stella polare, la montagna sacra e l’albero cosmico. Mi fermo sul simbolo della montagna. La montagna sacra, con una proiezione mitico simbolica, veniva identificata con il centro della terra e collegata con il centro del cielo con un filo invisibile, che è l’axis mundi. 12 Tra le montagne più celebri pensiamo al Meru, all’Olimpo, al Sinai, all’Oreb, al Tabor, al Garizim, al Calvario. Come i bolognesi vollero ricostruire la Sancta Jerusalem nella basilica di S. Stefano con le sue sette chiese, così i templari del medioevo reduci da una crociata vollero ricostruire su Montovolo il Sinai, erigendo sul monte il santuario di S. Caterina di Alessandria, come sul fianco del Sinai esiste ancora il celebre monastero di S. Caterina. La montagna per la sua valenza sacra è sempre stata il luogo privilegiato dei santuari anche pagani. Quasi tutti i santuari italiani, e sono migliaia, sono costruiti sui monti, laddove la cima è inondata di luce perché più vicina alla volta celeste. Importanti sono i sentimenti e le finalità del pellegrino. Tutti possono viaggiare per affari o per evasione ecc. Il pellegrino affronta un viaggio per raggiungere una meta in cui si rivela in qualche modo il sacro, l’invisibile, il divino. Dante nel 1300 andò a Roma al giubileo per fede e per compiere le sue devozioni sulle tombe degli apostoli. E basta. Non aveva altro scopo. Il Petrarca nel 1350 andò a Roma per il Giubileo mosso più dalla curiositas che dalla studiositas, cioè dal desiderio intenso di incontrare Dio e, come confessa in una delle sue lettere familiari, era molto preso dalla poetica curiosità di vedere le strade e i monumenti dell’urbe. Il pellegrino tira dritto verso la meta, il turista si ferma lungo la strada a curiosare: la meta gli interessa meno. I podisti che sono qui presenti possono oggi fare un pellegrinaggio o una camminata: dipende da loro. Concludo con questa constatazione. All’inizio abbiamo visto che nella cultura atea e materialistica di oggi, il pellegrinaggio non è neppure pensabile. Ma quasi per reazione a questa cultura molto diffusa ma fatta di “vuoto 13 niente e fame di vento” (Ceronetti), i pellegrinaggi si sono moltiplicati in tutto il mondo cristiano, tanto che costituiscono anche un bussiness di prim’ordine. Nel fondo delle coscienze ci sono delle esigenze insopprimibili, riconducibili al bisogno di incontrare Dio, che possono temporaneamente essere soffocate o rimosse, ma che poi riprendono la loro forza e il loro cammino verso la trascendenza. 14 CONTESTO STORICO AMBIENTALE DEL SANTUARIO DI MONTOVOLO FRA LE VALLI DEL SETTA E DEL RENO A cura di Dott. ssa Paola Foschi Il massiccio del Montovolo: una emergenza geologica, pedologica, ambientale fra le valli del Setta e del Reno A chi percorra oggi qualunque strada o stradello o sentiero nelle due valli contigue del Reno e del Setta ad un certo punto si impone la vista di un massiccio montuoso imponente, formato dalle due cime del Montovolo e del Monte Vigese. Due cime molto diverse fra loro: la prima formata da un altopiano con una punta più alta, la seconda costituita da un cucuzzolo appuntito completamente coperto di boschi. Quando si sale in queste due vallate lo sguardo corre per forza al massiccio: è qualcosa che ci permette di orientarci, di misurare quanto manca alla meta del nostro cammino, è qualcosa che determina in maniera forte il paesaggio, pur nel suo continuo variare di prospettiva in rapporto con la nostra posizione. Si tratta di una struttura pedologica che caratterizza le medie vallate di questi fiumi e che non influenza solo le comunicazioni lungo le valli, ma anche l’insediamento, l’occupazione del territorio, il suo sfruttamento. Infatti questo massiccio non reca su larga parte delle sue pendici, su quelle più ripide e impervie, quasi traccia di abitazioni umane: è ora ed è sempre stato, per quanto ne sappiamo, un luogo particolare rispetto alle pendici vicine, un massiccio montuoso a sé, un inciampo nel cammino, un “deserto”, un luogo “altro” rispetto alla nostra esperienza montana. Sulle sue pendici più dolci sorgono invece insediamenti che hanno conservato nei secoli le caratteristiche costruttive tipiche del XV-XVI secolo, come la Scola, 15 Vimignano, Ca’ Dorè, Predolo, Ca’ di Roda, e ci riportano a tempi lontani e così diversi da oggi. Anche le vie di comunicazione hanno dovuto tenerne conto, sia quelle più importanti che percorrevano le vallate e mettevano in comunicazione i due versanti dell’Appennino, sia quelle di portata locale che permettevano il passaggio da una valle all’altra. La frequentazione antica del massiccio Il nome di Montovolo per il massiccio e per una sua cima è relativamente recente: nel Medioevo lo vediamo chiamarsi in diverse maniere. In un unico documento medievale è chiamato mons Iovis, monte di Giove, un toponimo che farebbe pensare alla presenza sulla montagna del culto di Giove. Del resto un coccio preromano ritrovato nella contigua valle del Setta reca un’iscrizione con il nome di Iuppiter Appenninus. I caratteri sono latini, mentre la lingua è etrusca ed è stata interpretata come un’invocazione al principe degli dei di tenere lontano il fuoco. Si sa del resto che il culto di Giove Appennino era localizzato anche nel resto d’Italia in santuari posti sulle cime più alte dei monti, a simboleggiare la vicinanza con il cielo, da sempre ritenuto sede degli dei; del resto la posizione dei santuari a Giove sulle montagne ben simboleggia la preminenza nella mitologia latina del principe degli altri dei. Il nome del Montovolo, poi, più spesso nei documenti medievali è Monte Palense, con un richiamo alla dea Pale, dea delle messi e dell’abbondanza dei raccolti. Sembra dunque che attorno al monte si coagulassero in epoca precristiana vari culti, non sappiamo se concretizzati in santuari o in più semplici cippi votivi. Fu allora una priorità, per i primi cristiani che frequentarono la zona, esaugurare la montagna, sostituire alle divinità antiche uno dei culti più universali e universalmente amati, quello alla Madonna, la protettrice dei cristiani, il rifugio 16 dei peccatori e degli uomini e donne in difficoltà e in pericolo di vita. Sopra questa montagna impervia sembrò opportuno cancellare le tracce dei falsi dei e radicare il culto della Madre di Dio. Vie di comunicazione che sfioravano il Montovolo nel Medioevo La via maestra di Saragozza o Francesca della Sambuca La via che da Bologna conduceva a Pistoia nelle fonti medievali bolognesi era detta strada maestra di Saragozza, mentre in quelle pistoiesi strada Francesca della Sambuca: in realtà si tratta della stessa strada, ma osservata da due diversi punti di vista. I Bolognesi mettevano in rilievo che si trattava della continuazione nel territorio della strada urbana detta di Saragozza, mentre i Pistoiesi rilevavano la sua destinazione ultima, le regioni transalpine occidentali, l’odierna Francia. La troviamo così chiamata, ad esempio, nella Bolla che il papa Innocenzo III, stando in Lione, concesse il 23 dicembre 1203 all’ospedale di S. Bartolomeo del Pratum Episcopi, l’odierno Spedaletto: in essa il pontefice concedeva 40 giorni di indulgenza a chi facesse elemosine o comunque si adoperasse per aiutare l’ospedale stesso, posto nella sommità delle Alpi (così erano chiamati anche gli Appennini) e sulla via pubblica chiamata via Francesca. Il suo percorso seguiva il fiume principale del Bolognese, il Reno, restando sull’ampio terrazzo fluviale della riva sinistra, non molto lontano dalla strada attuale; due rami secondari percorrevano i due crinali del torrente Limentra di Treppio o Limentra orientale, completando la viabilità di servizio ad una delle zone più popolate del territorio montano bolognese. La presenza lungo il suo percorso della città etrusca di Marzabotto attesta a sufficienza l’importanza di questa direttrice viaria e vari indizi attestano anche che in età romana restò uno degli 17 assi portanti della viabilità transappenninica: ad esempio la presenza del taglio di roccia della rupe del Sasso, un tipico manufatto dell’ingegneria romana, o quei due toponimi miliari, Quinto e Plano de Septimo, che ritroviamo negli estimi del 1315 nei pressi di Pontecchio. Anche numerosi ritrovamenti di ville rustiche, alcune di pregio e dotate di terme private, e di edifici pubblici di età romana a valle del Sasso ci parlano di una ricchezza e prosperità della valle che dopo la scomparsa della civiltà romana non fu forse mai più raggiunta. La strada, dunque, toccava Casalecchio con il suo ponte, punto cruciale dell’attraversamento del Reno, poi seguiva sempre il fiume toccando Pontecchio e giungeva al Sasso, che nel Medioevo era chiamato Saxum Glòssine, con un grecismo che si potrebbe tradurre come “sasso a forma di lingua”, punto strategico fondamentale al tempo della guerra fra Bizantini e Longobardi, perché domina la media valle del Reno e l’imbocco della val di Setta. Nel punto più pericoloso del passaggio a mezzacosta scavato artificialmente nella viva roccia, sicuramente dal 1283 esisteva una cappella dedicata alla Madonna e custodita da un devoto, fra Giovanni da Panico, che doveva aiutare i viandanti in difficoltà e cercare di mantenere in buono stato la strada. Il compito era arduo, poiché abbiamo notizia che nel 1305 una frana danneggiò la cappelletta e uccise il povero guardiano. Fu ben più grave di tutte le precedenti la frana che il 24 giugno 1892 uccise 14 persone che vivevano in povere caverne scavate nella roccia, ma il santuario della Madonna era già stato spostato fin dal 1787 nel centro del paese di Sasso e non corse rischi. Al Sasso si poteva tenere mercato, come disponevano gli statuti del Comune di Bologna del 1288, la seconda domenica di ogni mese, quindi con una cadenza molto ravvicinata, mensile, che attesta l’importanza di questo nodo viario che raccoglieva anche il traffico verso Bologna della val di Setta. Oltre la rupe, 18 la strada si manteneva a mezzacosta, sempre sul terrazzo fluviale, che almeno fino a Marzabotto rimane ampio e sollevato rispetto al fiume. Più oltre la strada medievale superava un altro monte sul quale dovette essere fatto qualche intervento artificiale, perché si chiamava Sasso Pertuso (tagliato, forato, come la Pietra Pertusa, il traforo del Furlo), sopra Salvaro, poi toccava la pieve di S. Apollinare di Calvenzano e di lì si dirigeva a Vergato. Più a monte il percorso è ancora ben riconoscibile e segnato dall’ospedale per pellegrini di S. Biagio di Casaiola, alla Carbona, ma oltre Riola il riconoscimento del tracciato si fa più problematico: qui infatti la valle si restringe e nei pressi di Marano l’orografia stessa costringe i viaggiatori a salire sul crinale o a scendere vicino al fiume. Tuttavia pare che nel Medioevo nella località Casale sorgesse l’ospitale per pellegrini di S. Michele Arcangelo, quindi ciò ci informa che la strada proseguiva tenendosi a distanza di sicurezza dal Reno fino ad incontrare la confluenza con il torrente Silla, dove sorgeva l’altro ospedale per viaggiatori di S. Giacomo di Corvella, che permetteva ai viandanti di riposarsi e rifocillarsi prima di affrontare il tratto più alpestre fino al valico della Collina. A questo punto infatti la strada, non potendo superare la strettoia della Madonna del Ponte, a sud di Porretta, saliva in cresta e toccava la pieve di S. Giovanni Battista di Sùccida, oggi Borgo Capanne. La valle del Reno, all’altezza del ponte della Venturina, ha subìto inoltre un’anomalia geologica: il suo corso devia bruscamente verso ovest e la sua valle si fa stretta e dirupata, mal percorribile, mentre il suo affluente Limentra occidentale o di Sambuca permette di giungere con facilità al passo della Collina. La strada quindi seguiva quest’ultima valle: nei pressi del castello di Sambuca Pistoiese e in più punti del percorso verso il valico sono stati ritrovati numerosi tratti di selciato 19 medievale di questa mulattiera. Essa era del resto veramente una via Francìgena: infatti il rettore dell’ospedale di S. Bartolomeo del Pratum Episcopi nel 1250 la chiamava Strata Francigena publica constituta que celerius Romam et Sanctum Jacobum ducit, cioè la strada pubblica detta Francigena che conduce più velocemente da un lato a Roma e dall’altro alla tomba di s. Giacomo, cioè a Santiago di Compostela. La via di Castiglione dei Pepoli Una strada che collegava Bologna con il castello di Prato e poi con Firenze, lungo la valle del Setta e del suo affluente Brasimone e poi del Bisenzio, esistette certamente, almeno a partire dall’XI secolo, ma per le caratteristiche geografiche di questa valle non si può dire che avesse un particolare rilievo. Intanto, la strada non partiva direttamente dalla città, ma si diramava dalla strada del Reno oltre il Sasso; inoltre il crinale che essa sfruttava è interrotto da un importante affluente, il Brasimone, che deve essere superato o con un ponte, come oggi, presso Lagaro, o con un ben più pericoloso guado. Inoltre a monte di Montacuto Ragazza il crinale utile per condurre a Castiglione non è più ben riconoscibile: da un lato, dirigendosi verso la val Limentra, si raggiunge agevolmente Montovolo, ma da lì in poi raggiungere Castiglione attraverso la zona impervia delle Mogne non è né facile né breve né sicuro; dall’altro per seguire la strada più breve occorre però attraversare il Brasimone per seguire il suo crinale che porta facilmente al valico appenninico attraverso Creda e Traserra. Tuttavia la presenza di diversi luoghi di mercato lungo la valle del Setta e del Brasimone, a Rioveggio, a Piandisetta e a Traserra, ci rende certi che le comunicazioni in questa zona erano buone e permettevano agli abitanti in un vasto raggio di raggiungere i luoghi di mercato. 20 Questo è il caso di Piandisetta, cui si giungeva da Grizzana, dove passava la strada, scendendo lungo la valletta del rio Farnèdola; anche Rioveggio sorge nel fondovalle, in un luogo aperto dove si incontrano le valli del Setta e del suo importante affluente Sambro ed è facilmente raggiungibile dalla strada transappenninica, che tocca la vicina Veggio. Proprio in relazione a questi vivaci punti di scambio commerciale sono individuabili diverse diramazioni della strada principale di crinale, che scavalcavano il fiume e collegavano i due versanti, stendendo una rete capillare di vie, tutte importanti e funzionali ai numerosi insediamenti e agli spostamenti nella valle e verso le valli vicine. Anche dalla via che percorreva la valle del Setta si poteva agevolmente raggiungere il santuario di Montovolo da Montacuto Ragazza, mentre a partire dal XV secolo si aggiunse lungo questa strada un’altra importante meta devozionale, quella di Bocca di Rio. Non dimentichiamo poi che Prato, la meta transappenninica di questa strada, era un castello e poi una città universalmente nota per la presenza di una santissima reliquia, il Sacro Cingolo, la cintura della Madonna, che richiamava innumerevoli pellegrini. La cintura della Madonna veniva immaginata dagli uomini del Medioevo come una cintura protettiva che si stendeva simbolicamente su tutti cristiani in pericolo, e veniva venerata per questo soprattutto nei castelli, sempre esposti ad attacchi nemici. Proprio per la presenza di questi importanti luoghi di culto sul suo percorso si può star quindi certi che numerosi pellegrini, che volessero dal nord recarsi a Roma o dal sud a Santiago, abbiano percorso anche questa strada, pur secondaria nel panorama viario montano. La via del Setta iniziava dunque oltre la rupe del Sasso, a Panico, dove il ponte di Paganino, un bel ponte romanico, attraversa il Reno a monte della sua confluenza con il Setta, 21 quando le sue acque sono più scarse. Panico era un nodo viario importante, dunque, con il ponte, la pieve di S. Lorenzo e l’ospedale per viaggiatori di S. Antonio, oggi scomparso: questa zona a cavaliere delle valli del Reno e del Setta era dominata dal castello dei conti di Panico. La strada saliva poi sul crinale sinistro del Setta finché a Vado se ne diramava un tratto diretto verso il versante opposto: del resto il nome stesso di Vado, che significa guado, ed è nominato già nel IX secolo, segnala una posizione particolarmente favorevole per il passaggio del Setta. Un altro ramo deviava dal tracciato principale a Veggio, diretto verso il mercato di Rioveggio e la valle del Sambro. Torniamo al tracciato principale della via per Castiglione: a Veggio e nella vicina Grizzana diversi luoghi risultano confinanti con la strada transappenninica; da qui il percorso giungeva a Tavernola e di lì, con un tratto in parte selciato, a Montacuto Ragazza. Qui si aprivano due possibilità per il pellegrino diretto in Toscana: salire al santuario di S. Maria di Montovolo, e di lì poi portarsi in val Limentra e dirigersi verso Pistoia per il valico della Badia di Spedaletto; oppure proseguire sul percorso già scelto, ma per far ciò il pellegrino doveva discendere dal Montovolo e portarsi a Confienti, di fronte a Lagaro, sull’altro versante del torrente Brasimone. Infatti, se si volesse proseguire verso sud da Montovolo, si sarebbe costretti a compiere un giro vizioso verso ovest e giungere nelle zone impervie delle Mogne, al cosiddetto Cinghio, una formazione geologica molto impervia e difficilmente percorribile. La scelta migliore era allora quella di scendere a Confienti, il cui nome di Confluentes ricorda l’unione in quel punto dei due torrenti Setta e Brasimone, e risalire a Lagaro. Superate Creda e Traserra, si giungeva facilmente a Castiglione. La tappa successiva è il valico appenninico che divide le acque del torrente Brasimone verso nord e del Bisenzio verso sud, nel 22 Medioevo chiamato di Capodisetta e oggi chiamato di Montepiano. S. Maria di Montepiano era infatti la famosa abbazia vallombrosana, la cui chiesa è ancora ben conservata nelle forme romaniche originali e ricca di affreschi medievali di particolare interesse. Il massiccio nella storia fra devozione e commercio Episodi di guerra, episodi di fede A causa della sua forma e della sua imponenza, presumibilmente dopo le crociate il monte assunse una funzione simbolica, venendo a significare per i Bolognesi il monte Sinai: la simbologia sinaitica fu istituita costruendo sulla sua cima la bellissima chiesetta di S. Caterina d’Alessandria, la martire a cui è dedicato il monastero che si trova ancor oggi poco sotto la cima del monte di Mosè. Bisogna dire che già da secoli a Bologna esisteva un complesso religioso che era stato costruito e poi ampliato appositamente per richiamare i luoghi santi di Gerusalemme, la Santa Gerusalemme di S. Stefano. Il complesso di chiese fra loro collegate da chiostri porticati oggi è un suggestivo insieme di luoghi di culto che richiamano le varie fasi della Passione; le chiese, nate dalla forte spiritualità di un vescovo della statura di s. Petronio intorno alla metà del V secolo, dovevano permettere un pellegrinaggio devoto ai luoghi santi anche senza muoversi dalla città. L’epoca in cui visse s. Petronio si trovava alle soglie del periodo forse più buio e difficile per la Cristianità, quel secolo VI che maggiormente impoverì e decimò le popolazioni italiane, afflitte da invasioni di barbari (prima gli Ostrogoti, poi i Longobardi), crisi economica, decadenza culturale. La Palestina poi fu occupata proprio nel VI secolo dai Parti, che osteggiavano ferocemente i pellegrini cristiani e bloccarono per secoli i pellegrinaggi dall’Occidente alla Terrasanta. 23 Così divenne sempre più popolare il complesso di S. Stefano e accanto alla Santa Gerusalemme sorse la chiesetta rotonda di S. Giovanni in Monte (detto con il nome completo Monte degli Ulivi), che rappresentava la basilica dell’Anàstasis, dell’Ascensione, e che ebbe nel corso del Medioevo intensi rapporti di culto con S. Stefano: le due chiese erano dipendenti entrambe dal vescovo di Bologna. E poi, lungo la valle più importante per le comunicazioni bolognesi, quella del Reno, che conduceva a Pistoia e di lì o al mare Tirreno o a Roma, fu istituito il richiamo al monte Sinai, che non si può certo escludere che facesse parte di quel progetto iniziale petroniano, che poteva collegare la città con il suo territorio montano con un filo di devozione e di ricordo dei luoghi santi di Palestina. Nella chiesa più grande ed antica (nel suo aspetto attuale) del Montovolo trovarono posto due diversi culti, quello della Madonna della Consolazione, di cui è conservata una statua seicentesca della Madonna con Bambino, e quello della S. Croce, di cui si conserva una reliquia. La tradizione popolare vuole che la statua della Madonna sia la trasformazione di un idolo pagano, mostrando il tentativo delle popolazioni di spiegare il toponimo medievale di monte Palense, ma nulla permette di avvalorare questa superstizione popolare. Vero è invece che il culto della Madonna era il più adatto a sostituire quello ad una dea femminile che propiziava ai contadini i raccolti e ai pastori la fertilità delle pecore, quindi la sostituzione di Pale con Maria deve avere ispirato il racconto popolare della trasformazione dell’idolo antico in statua. Episodi di guerra interessarono quasi certamente il Montovolo al momento dell’arrivo degli invasori longobardi alla fine del VI secolo, provenienti dalla Toscana: ne ebbe l’intuizione Arturo Palmieri già all’inizio del XX secolo, quando le leggende che qui si raccontavano dei “paladini”, giganteschi 24 guerrieri biondi che si combattevano con lance mostruosamente lunghe e giavellotti che percorrevano in volo intere valli, gli suggerirono l’ipotesi che vi fossero stati degli scontri particolarmente epici fra Longobardi e Franchi. Ma anche in precedenza, appunto all’arrivo dei Longobardi nelle alte valli bolognesi, si era modificato l’assetto cultuale della zona con l’introduzione di santi amati dai Longobardi ed erano nati toponimi derivati dal greco o dal germanico, che gli fecero supporre che il confine fra truppe bizantine e truppe longobarde si fosse fermato per lungo tempo trasversalmente al vasto massiccio montuoso. In realtà l’ipotesi è apparsa fondata agli storici novecenteschi, come Amedeo Benati, che l’hanno poi verificata anche in altre zone della nostra regione. Un massiccio montuoso così imponente non poteva però non ospitare, almeno per una parte della sua storia, un castello: qui sorgeva, ma gli storici sono ancora divisi sul luogo preciso, la rocca di Cantaglia, in possesso dei conti di Panico. Il toponimo ancora esistente di Cantagliola, nel comune di Vergato, presso Castelnuovo di Vergato, farebbe sospettare che qui sorgesse la rocca che fu teatro della resistenza dei conti di Panico al Comune di Bologna; ma altri la collocano sulle pendici settentrionali del Montovolo. Narrano le cronache che nel 1306, il 26 aprile, i conti di Panico, Tordino, Paganino, Doffo, Mostarda e Pellegrino, cacciati dal castello avito di Panico, si diedero al saccheggio di Castelnuovo di Labante, poi si arroccarono sul monte Cantagle, uno degli sproni rocciosi del Montovolo, vi si fortificarono con una rocca e resistettero all’assedio delle truppe bolognesi; vedendo però la situazione difficile, fuggirono di nascosto. Tuttavia non resistettero a lungo alla lotta senza quartiere scatenata dal Comune di Bologna, perché il 29 gennaio 1308 il conte Mostarda di Maghinardo da Panico venne catturato e subì il supplizio come ribelle a Bologna. Il Montovolo, 25 dovunque si trovi questa scomparsa rocca di Cantaglia, assistette dunque all’estrema resistenza di una famiglia che aveva avuto nei secoli precedenti una posizione di grande rilevanza non solo nel Bolognese, ma soprattutto in Toscana (a Pistoia come vassalli del vescovo, a Firenze, dove avevano casa, in Casentino, dove avevano posseduto diritti a Romena) e anche in Romagna, come vassalli degli arcivescovi di Ravenna. Ma a Bologna il Comune non poteva sopportare una signoria indipendente nel suo territorio e i conti che si sottomisero poterono venire a vivere in città, mentre quelli che si ribellarono vennero trattati come traditori dello stato e giustiziati. Signorie e dominazioni nelle valli contigue Se le strade seguivano l’andamento dei fiumi e soprattutto i loro crinali, le signorie che nel Medioevo frantumarono il potere e la giurisdizione della montagna bolognese non si distribuivano lungo le valli, ma anzi trasversalmente rispetto a queste: nella fascia montana più alta, verso la Toscana, si estendevano i domini dei conti Alberti; nelle medie vallate fra Savena e Lavino si disponevano i territori sotto la giurisdizione dei conti di Panico. Il ramo principale degli Alberti dominava il castello di Prato e larga parte della valle toscana del Bisenzio. La loro forte presenza è del resto segnalata anche nella stessa valle di Setta, dal diploma di conferma di beni e diritti concesso loro dall’imperatore Federico I nel 1164: le terre che essi rivendicavano e si facevano riconfermare dall’autorità sovrana erano Castiglione dei Gatti (dal longobardo gahagi, che vuole dire bosco riservato), Lagaro, Montacuto Ragazza, Montacuto Vallese e la vicina Serra, Baragazza e Creda, nonché Piano, Sparvo, Bruscoli in val di Sambro. Tuttavia il Comune di Bologna in questo periodo stava già avanzando 26 inarrestabilmente nella sua conquista del contado, con le maniere forti, ma soprattutto per mezzo di trattati di alleanza, o piuttosto di sottomissione, con i signori e i comuni rurali del Bolognese. Nel 1192 il Comune di Bologna stipulò allora con il conte Alberto di Prato un accordo perché questi mantenesse libero e sicuro il transito della strada, ma bisognò concludere un nuovo trattato nel 1307 con il ramo dei conti di Mangona e con il Comune di Firenze per avere nuove assicurazioni in favore dei pellegrini e dei commercianti che percorrevano la val di Setta per recarsi in Toscana. Il comitato di Panico comprendeva invece le terre di Panico, Sirano, Malfolle, Ignano, Brigadello, Caprara, Sasso Pertuso, Venola, Carviano, Salvaro, Greglio, Capriglia, Bedolete, Montacuto Ragazza, Veggio, Campiano, Confienti, Montefredente, Cedrecchia. Sostanzialmente un non vasto territorio che, fra la valle del Reno e quella del Setta, da Panico, poco a sud della rupe del Sasso, giungeva fino a Montacuto Ragazza, mentre verso est si diramava nelle prime propaggini della valle del torrente Sambro, affluente del Setta. Nel 1221 dunque i conti avevano ricevuto dall’imperatore la conferma della loro giurisdizione, ma con ciò stesso avevano dovuto riconoscere che la loro sfera d’azione si era notevolmente ristretta: non compare infatti nel loro comitato il castello di Pianoro, che pure nel 1176 era dipendente dal conte Ranieri. Non si tratta quindi di un insieme di terre particolarmente consistente e non sono neppure compresi nel comitato confermato ai conti di Panico i documentati possessi di alta pianura e collina presso il Lavino, che pure risulteranno utili alla famiglia quando l’avanzata del Comune di Bologna respingerà, nel XIII secolo, i conti soprattutto nella valle del Lavino, a Montasico, Ronca, Amola. 27 A livello inferiore, sia quanto a poteri sia quanto ad ampiezza di dominio, si collocavano numerose famiglie, fra cui ricorderemo quelle inquadrate fra la feudalità del vescovo di Pistoia, come i nobili di Valle e gli stessi conti di Panico; dipendenti solo e direttamente dall’imperatore i nobili di Vigo e Monte Vigese, detti Lambardi; vassalli dei conti Cadolingi di Pistoia i signori delle Mogne, i Gisolfi. Vi erano poi i signori di Stagno, di antica stirpe longobarda, che fra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo giurarono più volte fedeltà al Comune di Pistoia pur di evitare la sottomissione al Comune di Bologna. Le fiere annuali fra devozione, richiami sociali, motivi economici I due culti, legati alla Madonna e alla Passione di Cristo, che quassù si celebrarono sempre nel mese di settembre, fecero sì che dall’8 di quel mese, festa della Natività della Vergine, al 14, festa dell’esaltazione della S. Croce, si svolgessero solenni celebrazioni religiose, collegate ad una fiera importantissima per le valli contermini del Reno e del Setta, sia durante il Medioevo sia nella successiva età Moderna. Come spesso succede, infatti, a motivi di interesse religioso si collegavano motivi di interesse economico e sociale. Ad un pellegrinaggio poteva infatti ben unirsi una festa religiosa che permetteva gli incontri sociali fra le popolazioni circostanti, anche in un ampio raggio; alla festa ben si addiceva la vendita di oggetti devozionali, ma anche di oggetti di uso comune, sempre in una prospettiva di occasione di ritrovo di migliaia di persone, non altrimenti raggiungibili mediante semplici mercati periodici. Qui si ritrovavano quindi pellegrini-compratori e pellegrinivenditori, nonché semplici commercianti; qui si rafforzavano i legami affettivi fra famiglie e amici; qui si combinavano matrimoni in un ambito più vasto di quello conosciuto 28 normalmente e quindi superando beneficamente i rischi di consanguineità. La funzione della fiera era quindi molteplice: dalle radici devozionali si diramavano poi motivi sociali ed economici, sentiti come complementari e non contrastanti con l’occasione religiosa. Giunti fra le preghiere sulla cima del Montovolo, i pellegrini potevano visitare il santuario di S. Maria, gestito da conversi, persone che avevano dedicato la loro vita e i loro beni al servizio della chiesa, e l’oratorio di S. Caterina d’Alessandria: le due chiese, ancora oggi molto ben conservate, presentano strutture che risalgono ai secoli XII-XIII. La prima è a pianta rettangolare con presbiterio rialzato e conserva bellissimi capitelli nell’abside; molto particolare la lunetta della porta maggiore, che reca una croce intarsiata fiancheggiata da due colombe (che sono un simbolo cristologico), sovrastate dalla data 1211 e dalla scritta ROIP che è stata interpretata come regnante Othone imperatore, in relazione al fatto che a quella data regnava l’imperatore Ottone IV. Sotto l’altar maggiore si trova una delle costruzioni più antiche e affascinanti di tutta la montagna bolognese, quella che erroneamente viene definita cripta, a causa della sua collocazione più bassa della chiesa attuale, ma che è in realtà ciò che resta della chiesa più antica proto-romanica, databile ai secoli X-XI, e distrutta in un incendio. Essa è dotata di tre absidi semicircolari costruite con perfetta tecnica con le bozze della pietra arenaria locale dal colore dorato; i capitelli ricchi di figure simboliche sono espressioni tipiche del periodo protoromanico. Il campanile della chiesa invece è di fattura ottocentesca e vi si trova una meridiana con la scritta: Alor che il sol mi si farà palese, darò l'ora germanica o francese con la data 1835 e le iniziali dei costruttori. L’abside della chiesa superiore è invece rettangolare ed ha ancora le belle finestre monofore originali. 29 La chiesetta di S. Caterina, che si trova più in alto rispetto a quella di S. Maria, sulla cima più alta del monte, dovette essere costruita all’inizio del XIII secolo, dopo il ritorno dei crociati da Damietta, nel 1217-1219. Fu allora infatti che i combattenti crociati conobbero e visitarono il Monte Sinai e vennero a conoscenza della storia della giovinetta che disputava di filosofia e teologia con i più grandi dotti e fu martirizzata con la ruota. La piccola chiesa è un semplice ma perfetto esempio di romanico montano. La facciata è traforata da un portale del tutto simile a quello di S. Maria, privo però di scritte, mentre l’interno ha una pianta rettangolare ed il vano è diviso in due parti sormontate da volte a crociera. Alle pareti si trovano affreschi quattrocenteschi che rappresentano il Martirio con la ruota di S. Caterina insieme all’Inferno e al Paradiso e, nella parete di fondo, la Crocefissione; parte di questi affreschi sono stati staccati ed oggi sono conservati a Riola. Anche questa chiesa è dotata di un’abside rettangolare con tre monofore romaniche. Di fianco all’altare si trova il piccolo sarcofago di s. Acazio, un santo di cui sono nati due racconti della vita e del martirio: uno diffuso a Bologna, in gran parte leggendario, uno diffuso in Calabria, con caratteristiche differenti. Il santo gode infatti di grande culto in Calabria, soprattutto a Squillace, dove è venerato ancora oggi in Cattedrale. Diciamone due parole per spiegare questo culto allòctono, di cui ben pochi conoscono la storia. Secondo la leggenda bolognese, il centurione Acazio visse ai tempi dell’imperatore Adriano e Antonino a lui associato (117138); convertitosi alla fede, attribuì a Cristo le sue vittorie militari e per questo indispettì gli imperatori che, riunitisi ad altri re pagani, convennero sul Montovolo per la battaglia contro il soldato cristiano e i seguaci che egli aveva nel frattempo convertito. Acazio e i suoi 10.000 compagni furono 30 crocifissi agli alberi sulle falde del monte e alla sua morte avvennero gli stessi prodigi verificatisi al momento della morte di Cristo. Questa leggenda, da Arturo Palmieri attribuita alla voce popolare, per Alfeo Giacomelli era invece un’invenzione del canonico e arcidiacono Ottaviano Ubaldini in funzione di propaganda anti-imperiale, più precisamente contro Federico II, nella Bologna guelfa duecentesca. Secondo il racconto diffuso in Calabria, Agazio, originario della Cappadocia, era un centurione romano, appartenente alla legione Marzia, che era di stanza in Tracia. Secondo la narrazione più antica, trascritta in greco nel X secolo da un testo dell’età di Costantino (IV secolo), durante la persecuzione di Diocleziano e Massimiano, fra il 297 e il 310, fu accusato di essere cristiano e subì ferocissimi tormenti. Mentre veniva tradotto a Bisanzio, gli angeli lo risanarono e incoraggiarono, finché a Bisanzio fu decapitato il 7 maggio 303 o 304: ancora oggi a Squillace la sua festa principale cade in questo giorno. A Bisanzio, poi divenuta Costantinopoli, esistevano due chiese dedicate al santo, una delle quali sarebbe stata costruita dallo stesso Costantino il Grande; entrambe si contendevano l’onore di essere state ricostruite dagli imperatori Costantino, Arcadio e Giustiniano; in una di esse fu collocato il corpo stesso di Costantino. Lo narra Cassiodoro, che si informò del santo Agazio durante il suo esilio a Costantinopoli nel 550 circa; il vigore del suo culto fece sì che diventasse patrono della città (e ne resta anche un prezioso dittico d’avorio, di fattura bizantina, oggi conservato a Cremona), finché l’eresia iconoclasta non costrinse i suoi devoti a trasferirne le reliquie a Squillace. Penso infatti che fossero dei devoti del santo a trasferire segretamente le sue reliquie per salvarle, mentre la leggenda afferma che furono gli iconoclasti all’inizio dell’VIII secolo a spingere in mare in una cassetta di piombo il corpo del martire perché vi affondasse, ma prodigiosamente la cassetta percorse 31 tutto il Mar Ionio e si fermò sul lido dell’attuale Copanello, dove ancora esiste una grotta a lui intitolata. Da qui la cassa, deposta su un carro trainato da buoi, raggiunse senza guida di alcuno la zona collinare detta Cale, presso Squillace, dove i buoi si inginocchiarono e non vollero in alcun modo proseguire. Le reliquie furono allora poste in Cattedrale, dove tuttora si trovano, in un prezioso reliquiario. L’avvenimento prodigioso della traslazione delle reliquie avvenne il 16 gennaio e ancora oggi un’altra festa di grande richiamo avviene in questo giorno. Che l’arrivo di queste reliquie sia realmente da ascriversi al tentativo di salvarle dalla distruzione da parte degli iconoclasti, o più tardi, nell’XI secolo e per opera di crociati, come avvenne alle reliquie di s. Nicola giunte a Bari, di s. Marco a Venezia, di s. Andrea ad Amalfi, di s. Matteo a Salerno, per ora non possiamo appurarlo, ma ci sorprende che una parte di queste reliquie sia giunta, anche se oggi è dispersa e resta solo il sarcofago, fin sul Montovolo. Solo come proposta di studio avanzo l’ipotesi che siano stati dei crociati, all’inizio del XII secolo, a riportare in patria, a Bologna, sia il ricordo del culto di questo combattente per la fede così venerato a Costantinopoli e in Calabria (regione che si trova peraltro sulla via del ritorno dall’Oriente), sia racconti dei luoghi sacri di Gerusalemme, che permisero di ricostruire i vecchi e costruire nuovi edifici nella Gerusalemme stefaniana secondo quanto si vedeva allora nella Città Santa di Palestina. Da un lato la Madonna e la santa Croce, dall’altro Caterina e Agazio sul Montovolo; in città, o meglio, subito fuori dalla città racchiusa dalle mura di selenite le chiese del Santo Sepolcro e del Calvario o Golgota e il cortile di Pilato del complesso stefaniano, la chiesa di S. Giovanni sul vicino Monte Oliveto. Pare infatti che gli edifici più antichi di S. Stefano risalgano all’aspetto che avevano i luoghi santi di Gerusalemme al tempo dell’imperatore Costantino Monòmaco, 32 fra il 1042 e il 1048, e comunque precedenti la ricostruzione operata dai crociati nel 1140-1149. Da Gerusalemme a Bologna attraverso il Montovolo: un lungo viaggio di devozioni, reliquie, idee, racconti, uomini; dalla Passione di Cristo a noi e anche questo è un lungo viaggio di secoli di storia da studiare e cercare di ricostruire per capire meglio la nostra vita e la nostra cultura. Bibliografia Arturo Palmieri, La montagna bolognese del Medio Evo, Bologna, Zanichelli, 1929 (ristampa anastatica Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese-Bo, 1981) La montagna sacra. Tutela conservazione e restauro del patrimonio culturale nel Comune di Grizzana, a cura di Rosalba D’Amico, Bologna, Edizioni Alfa, 1983, soprattutto Alfeo Giacomelli, Il santuario di Montovolo: verso il restauro storiografico, pp. 93-137 Oriano Tassinari Clò, Terra e gente di Vimignano, Bologna, Parrocchia di Vimignano, 1987 Michelangelo Abatantuono, I conti di Panico, in Comune di Monzuno, Monzuno. Storia territorio arte tradizione, Bologna, Società Editrice Timeo, 1999, pp. 50-53 Paola Foschi, La viabilità medievale tra Bologna e Firenze, in La viabilità tra Bologna e Firenze nel tempo (Atti del Convegno di Firenzuola-S. Benedetto val di Sambro 28/91/10/1989), Bologna, Studio Costa Editore, 1992, pp. 131-148 Le vie francigene e romee fra Bologna e Roma, a cura di Paola Foschi, Bologna, Calderini, 1999 Aniceto Antilopi-Bill Homes-Renzo Zagnoni, Il Romanico appenninico bolognese, pistoiese e pratese. Valli del Reno, Limentre e Setta, Porretta Terme (Bo), Gruppo di Studi Alta valle del Reno, 2000 (“I libri di Nuèter”, 25) 33 Il pellegrinaggio nelle valli dal Savena al Setta, a cura di Adriano Simoncini, Bologna, Comune di Pianoro-Centro Storico Documentale “La Loggia della Fornace”, 2001 Renzo Zagnoni, Montovolo, montagna sacra. Guida alle chiese di Santa Maria e Santa Caterina, pubblicazione promossa dal Santuario di Montovolo, Gruppo di studi alta valle del Reno Nuèter, Associazione Amici di Montovolo, "Quaderni di Montovolo", 1, s.l. (ma Vergato, Tip. Ferri) 2003 Renzo Zagnoni, Il Medioevo nella montagna tosco-bolognese. Uomini e strutture in una terra di confine, Porretta Terme, Gruppo di Studi Alta valle del Reno, 2004 soprattutto Il comitatus dei conti Alberti fra Setta, Limentre e Bisenzio: i rapporti coi Comuni di Bologna e Pistoia e con le comunità locali (secoli XI-XIV), pp. 344-406. Paola Foschi, I conti di Panico e i loro consorti nella montagna occidentale, in corso di stampa Opuscolo intitolato Sant’Agazio centurione e martire patrono di Squillace e diocesi, a cura del Capitolo [di Squillace], delle Parrocchie e dell’Istituto di Studi su Cassiodoro e sul Medioevo in Calabria. 34 ALVAR AALTO E LA CHIESA PARROCCHIALE DI RIOLA A cura di Professor Pier Paolo Diotallevi Preside della facoltà di ingegneria dell’Università di Bologna Parlando in sommi capi di questa costruzione, vorrei riportare per sommi capi il criterio e il perché di questa costruzione e quali sono i suoi caratteri essenziali. Questa chiesa ha tanta importanza sia nella storia bolognese ma anche della storia dell’architettura. Per poter introdurre un po’ l’argomento credo che sia necessario fare qualche riferimento di carattere storico, perché è necessario inserire questa costruzione nel contesto dei tempi all’interno della quale è nata. Proprio per capire quali sono le esigenze fondamentali e quindi, quali sono state le motivazioni che hanno mosso il progettista e coloro che hanno voluto questa costruzione e per capire quali sono le persone che hanno mosso Aalto per fare questo, facciamo un salto nel passato. In particolare, negli anni del dopoguerra quando ancora si stava ricostruendo il territorio, una delle persone che a mio avviso, maggiormente è intervenuta in questa opera di ricostruzione, per quel che riguarda la Chiesa bolognese è stato il Cardinale Lercaro. Qui ho riportato un documento scritto nel 1956, a conclusione del Congresso Nazionale di Architettura Sacra che lui volle organizzare a livello nazionale per individuare un pochino quali erano quelle costruzioni e le caratteristiche di questa rinascita che doveva avere, e direi che in questa frase scritta da Lercaro si possono trovare a mio avviso tanti aspetti importanti. Cioè le ragioni per le quali è opportuno andare in una certa direzione e le considerazioni che poi hanno condotto alla costruzioni di certi tipi di strutture, di certi tipi di chiese, ma anche le ragioni che hanno indotto ad 35 operare secondo certi criteri. Io credo che sia opportuno leggere questo brevissimo testo: “Non basta dare agli uomini una casa, occorre accanto a quello degli uomini costruire la casa del Signore, che sia casa della famiglia di Dio, la quale si raduni intorno al padre. Ma non sarà casa del Signore se non ispirerà in tutte le sue linee un vivido senso religioso e non sarà casa accogliente per la famiglia di Dio se non festeggerà le esigenze liturgiche non rispetterà gli schemi, le istanze della religiosità e della mitologia uno schema dell’evolversi dei tempi e delle tecniche via via interpretate con mode nuove. Ed ogni secolo, ha dunque una sua colpa, la sua stravaganza e la sua strofa nell’inno perenne che l’arte sacra inaugura alla lode della bellezza e dell’amore eterno”. Per quel che riguarda in po’il criterio relativo alle costruzioni delle chiese, mi pare che in questi casi ed in particolare nel vivido senso religioso per soddisfare le esigenze liturgiche, sia un po’ questo il criterio generale che si dispone come criterio di valutazione e come criterio di guida per la progettazione delle chiese che si stanno costruendo. Tra il 1945 e il 1955, in questi dieci anni di costruzione vengono realizzate nel territorio bolognese numerose opere che sono a mi avviso un po’ opere precursori di quello che succederà in seguito, proprio sotto la guida e lo spirito di Lercaro. Qui qualche esempio molto semplice, molto rapido, la Chiesa di Monghidoro del 1946 dove si vede anche il progettista della chiesa, la Chiesa della Sacra Famiglia sempre a Bologna costruita nel 1951, che danno già una idea di un modo nuovo di costruire. Abbiamo la Chiesa Santa Maria Goretti del 1954, abbiamo la Chiesa del Cuore Immacolato diMaria tra l’altro costruita e progettata dall’architetto Vaccaro, lo stesso che ha realizzato la Facoltà di Ingegneria di Bologna, e quindi sono tutte opere che hanno una grande rilevanza dal punto di vista della trasformazione dei tempi, dal punto di vista di quello che sta accadendo, e per poi comprendere un pochino 36 meglio quello che è lo spirito con il quale il Cardinale Lercaro intende muoversi in questo contesto, di crescita, credo che sia opportuno leggere delle frasi che ho trovato, dette da Monsignor Grechi: Nel caso dovessi fare il conto con il postmoderno, l‘espansione avvenuta nel dopoguerra. Aveva il pallino della messa perché credeva che chi non và a messa entra in contatto con Cristo solo in maniera diretta, per questo motivo voleva che si costruissero chiese. La chiesa diventa quindi parte fondativa del nuovo tessuto urbano sociale portando la cultura nel senso di coltivazione dell’uomo. La parrocchia era il vero cuore dei quartieri. Quindi la parrocchia diventa una sorta di supplenza sociale che interviene non in modo radicale e che aiuta. Questo è lo spirito con il quale viene accolto Aalto, credo che questo sia un fatto essenziale. Non a caso lo spirito del Cardinale Lercaro si reca sui terreni nei quali verranno costruite le nuove chiese per prenderne visione, e prenderne quasi possesso di questo territorio e per segnalare proprio la sua presenza all’interno. In questo contesto, in questo spirito che già è titolo innovativo, per quanto riguarda la chiesa del punto di vista delle costruzioni, si inserisce il Concilio Vaticano Secondo, momento fondamentale di grandi trasformazioni. Che cosa accade, viene eletto nel 1959 Papa Giovanni XXIII, seguono tre anni di preparazione, dalla commissione preparatoria e viene aperto ufficialmente il Concilio ottobre 1962 della Basilica Vaticana, viene prima aperto da Papa Giovanni XXIII e naturalmente dopo la sua morte passa la gestione al suo successore Papa Paolo VI che lo chiude nel dicembre del 1965. È un evento ricco dai tappe ricco di informazioni e ricco di trasformazioni. Partecipano duemilaquattrocentocinquanta persone e gli argomenti principali trattati sono pietre miliari del mondo moderno, il comunismo e i documenti sono … quattro costruzioni, nove decreti, tre dichiarazioni, quindi una 37 montagna di lavoro. Una montagna di lavoro non solo nel senso di grandi quantità di lavoro, ma una montagna di lavoro intesa anche come un insieme di materiale veramente forte, veramente resistente come è la roccia della montagna. Fra queste, un carattere importante riguarda la Riforma Liturgica. Riforma in cui il Rito sicuramente diventa uno degli aspetti essenziali per le successive trasformazioni. E qui riferisco alcune osservazioni che ritengo importanti per capire poi come questa chiesa trovi una sua realizzazione in questo contesto. Nasce un’esigenza liturgica di un nuovo linguaggio che è la conteporaneità, quindi la chiesa con questa necessità del nuovo linguaggio, con il quale comunicare, un linguaggio che sia congruo con lo spirito dei tempi chiaramente sperimentata in concomitanza con le lotte civili, cioè in parallelo alle lotte civili vengono sviluppate anche le opere di carattere religioso. La chiesa del sud come la chiesa del nord. La chiesa di Vergato, è una delle risposte alle esigenze della riforma. Ora in questo contesto nasce l’incontro tra il Cardinale Lercaro e l’architetto Aalto. Il Cardinale … incontra l’architetto Aalto in una presentazione che viene fatta a Palazzo Sforza nel 1965, Probabilmente si verifica una sorta di immediata intesa tra due persone di alta capacità, di alta conoscenza immediatamente scatta una scintilla, tanto è che l’incarico del progetto della chiesa di Vergato viene completato nell’anno successivo con estrema rapidità, in che vuol dire che tra le due persone si instaurato un modo di vedere le cose e un modo di ragionare che naturalmente era concorde ed orientato per gli stessi obbiettivi. Chi è Alvar Aalto, qualche piccolo tratto per continuare un po’ la persona, sulle due personalità, era un architetto finlandese nato nel 1898 morto nel 1976 prima che la chiesa venisse finita, così come il Cardinale Lercaro morì prima che la chiesa venisse finita, quindi nessuno dei due ha avuto la possibilità di poter vedere da vicino questa loro 38 realizzazione. L’architettura finlandese è informazione progettante, ma di fatto ha interpretato in maniera veramente sublime anche la e la perseguità dei cattolici nella costruzione delle chiese. Uno dei caratteri fondamentali dell’architetto Aalto è quello che riesce a tradurre la sua semplicità verso gli essere umani un elemento architettonico inserendolo perfettamente nel contesto naturale. Quindi un rapporto diretto tra l’oggetto progettato e la natura all’interno della quale questa costruzione viene inserita. Con la costante presenza verso l’utilità all’uomo, alla persona. Quindi la sua architettura si inserisce in maniera veramente armoniosa nella natura ma soprattutto ha un senso di umanità spirituale dell’uomo individuo, lo spirito comunitario vi sono sentiti e tradotti in costruzioni moderne che è difficile immaginare, quindi è sostanzialmente un qualche cosa che richiama anche la politica. Questo diciamo è un po’ il carattere fondamentale del Papa il quale giunge in Italia all’inizio del 1965 dopo questa sua presentazione delle sue opere ma dopo aver sostanzialmente girato un po’ il mondo avrebbe costruito in tutti posti, in Italia ha praticamente realizzato solamente questa chiesa, quindi è l’unica costruzione in Italia di questo grande architetto. Lui comincia a lavorare in valle e qui vi riporto alcune sue realizzazioni perché sono in quel momento delle vere e proprie innovazioni nelle costruzioni. Lui era un esponente del funzionalismo e cioè di quella corrente che in un qualche modo tende a rendere la costruzione perfettamente funzionale all’obbiettivo per la quale essa viene realizzata. Ha periodi diversi, con delle concezioni già assolutamente diverse, e guardate queste costruzioni realizzate tra il 1929 e il 1933 in un periodo in cui queste cose erano assolutamente inattese, cioè non rispettavano diciamo quello che erano i canoni allora adottati. E solamente nell’ambito di questo movimento trova una sua importante collocazione. Lui era anche progettista 39 come architetto non solo di costruzioni ma anche di oggetti, per esempio questa è una famosa seggiola fatta in legno, materiale che lui sfrutta molto, e quindi lui ha una particolare attenzione sul materiale. Diciamo, lui si espone e progetta cose di diverso tipo, per esempio impianti industriali come questa medicina di cellulosa tra il 1935 e 1939, questa invece è una biblioteca comunale, dove si vedono già caratteri ben diversi, guardate quel coperto ondulato ha qualcosa di assolutamente inconsueta che da certi tipi di immagini per lui le ondulazioni delle superfici diventano un carattere fondamentale, poi vedremo durante il percorso il carattere della chiesa e la copertura del soffitto di legno, questo è il padiglione finlandese del esposizione di New York del 1939. Poi sappiamo che il bello è senz’altro soggettivo però qui credo che si vada oltre il bello …... un’architettura che coinvolge la persona e che in un qualche modo usufruisce di questi progetti. Si occupa anche della realizzazione di chiese perché siamo già nel dopoguerra 1957-1959 e qui si cominciano già a vedere i primi tratti di un modo di ragionare. Essendo lui comunque di natura protestante ma poi come si vede di sensibilità certamente cattolica. Questo è l’interno della chiesa, altra chiesa parrocchiale costruita tra il 1958 e 1966 Questa è un’altra chiesa realizzata sempre da Aalto e questo è un’ulteriore aspetto interiore della chiesa, quindi aveva già una sua sensibilità in questa direzione Ma veniamo a parlare un po’ più da vicino della Chiesa di Santa Maria Assunta di Riola di Vergato, questa progettata nel 1966,come abbiamo visto dall’incontro con Lercaro e viene completata nel 1978 dopo la morte di entrambi. Il campanile poi è stato costruito successivamente nel 1994. Il contesto dove viene inserita questa chiesa è un cotesto un po’ particolare, intanto questa è la zona della chiesa che si trova nell’ansa di un fiume, ansa che 40 in un qualche modo rallenta il corso dell’acqua e quindi è un qualche cosa che invita forse un pochino di più alla meditazione. Importante è la collocazione in relazione all’ambiente circostante, in particolare con l’ansa del fiume Livenza perché con un architettura brillante preesistente con il fiume e i monti, entrambi hanno in significato religioso anch’esso molto importante, quindi è la correlazione della collocazione con il contesto della natura che la scienza ha cercato di considerare. Qui alcune immagini che ritengo molto belle, proprio per farvi capire qual è l’inserimento nel contesto del territorio di questa chiesa, questo dà l’idea un po’ da vicino nei confronti della montagna circostante, nei confronti del fiume adiacente con spazi locali assolutamente importanti e significativi. La parte di sistemazione del fiume ancora non è completata così come era nel progetto originale di Aalto, questa è la vista frontale dell’ingresso con una circostanza che già si può segnalare. Intanto per l’uso di materiali della chiesa per il rivestimento, lui è molto attento ai materiali, usa della pietra per il rivestimento per ricordare sostanzialmente la montagna nella quale questo riferimento viene inserito. Il campanile che viene posto d’avanti all’ingresso della chiesa e non come solitamente accade verso la parte posteriore della chiesa, quindi come dire questo è l’elemento di richiamo da dove comincia il percorso per entrare, laddove c’è un inserimento di richiamo sonoro può entrare forse in un elemento di richiamo spirituale. Le forme che ricordano i monti e che ricordano le onde del fiume, ed anche quelli che sono diciamo gli aspetti che hanno un loro carattere assai importante. Ma vediamo di analizzare un pochino di più il progetto da a una vicino. Vedete sopra una piazza, in generale e sotto abbiamo la pianta della chiesa che nasce in questo modo ed originalmente era previsto un contorno che poi non è stato realizzato, e questo è il muro attuale della chiesa. Che cosa si 41 può leggere in questo; si leggono due fatti fondamentali. Intanto l’organizzazione interna risente già delle incidenze del Concilio Vaticano II, e cioè il luogo per l’assemblea, il luogo per la mensa, il luogo per il riferimento, la croce. Abbiamo il luogo per l’ annuncio della parola, il luogo del tabernacolo, cioè per l’espugnazione per la conservazione dell’eucarestia, e poi il luogo del battistero che viene posto vicino alla parte della mensa la dove si concentrano le attività, questo però è un concetto un po’ diverso rispetto a quelli applicati in precedenza, e poi abbiamo il campanile posto diciamo all’ingresso della chiesa. Abbiamo allora una serie di correlazioni tra questi luoghi che li vede concentrati e orientati tutti in questa direzione. Qui viene un dubbio, che differenza c’è nel progettare una chiesa e nel progettare un oratorio? In fin dei conti sembra che l’obbiettivo sia lo stesso, cioè guardare in una certa direzione. Ecco io credo però che una risposta a questo la si possa trovare in quelle prime parole che ho riportato in quello scritto del Cardinale Lercaro in cui c’è una concezione assolutamente diversa che va in tutta altra direzione e questo va raccolto molto bene in questa chiesa. Questa è la pianta del progetto realizzato e si possono osservare alcuni fatti , intanto non ci sono delle parallele, ci sono solo delle linee convergenti, vedete queste linee della struttura che convergono sempre verso il tabernacolo, anche se guardiamo le linee posteriori le linee non sono mai parallele, questi coperchi convergono sempre in una posizione. Questo è il fronte e si caratterizza per alcuni fatti, alcuni già detti, altri che vorrei segnalare, e cioè il collegamento del fonte con il fiume, originariamente deve essere colto in maniera diversa e poi la provenienza della luce. La luce che entra all’interno ma che in parte viene riflessa, quindi vedete questa copertura con queste curve che richiamano ancora le onde del fiume e del torrente, con la montagna sulla sinistra e la provenienza della luce. 42 Questo è il risultato interno di tutti i progetti, che risulta di una splendida esecuzione, questo non perché esalta l’architettura ma credo che sia un luogo molto suggestivo e un luogo che invita proprio alla riflessione. 43 IMMAGINI DEL CAMMINO DEGLI STERPI A cura di Luigi Enzo Mattei Comincerò il mio intervento sottolineando l’intensità e l’alto livello delle esposizioni che abbiamo sin qui ascoltato, meritevoli quasi di un tempo di rispetto, destinandolo alla riflessione e alla meditazione. Tale riserva non mi esime da sviluppare però l’approccio al tema “Immagini del Cammino degli Sterpi”. L’immagine, specialmente nel nostro caso, non va considerata una sorta di carta da regalo, con cui vestire quanto è stato illustrato, ma bensì valutata quale vera e propria sostanza del cammino condiviso; ben al di là quindi della funzione sicuramente propagandistica – pubblicitaria, sicuramente un ruolo sostanziale e responsabile, compito proprio della figurazione. La chiesa di Alvar Aalto appartiene al mondo, all’architettura, alla funzione urbanistica; il percorso per il borgo della Scola e gli Sterpi appartiene alla comunità, il panorama di Montovolo è patrimonio del mondo sensibile, un universo ove lo sguardo può stemperarsi; ma invece le immagini che andremmo a definire apparterranno prevalentemente ad ognuno dei pellegrini, che ne trarrà intima e gelosa esperienza: quindi l’Angelo sarà “il mio Angelo”, Nostra Signora risulterà “la mia Madonna”, la nostra porta “la mia porta”. La suggestione medievale che avvertiamo a Montovolo, poi forte e pregnante, permetterà di raggiungere l’effetto più indicativo del nostro passato così nebuloso, così luminoso e così affascinante, il cui recupero potrò arricchire nel futuro, e saranno forse i Crociati a stagliarsi indicativamente all’orizzonte sotto il cielo dell’Appennino. 44 Abbiamo così allestito questa sintetica esposizione, ancora sulla carta, con la speranza possa restituire l’idea tridimensionale della scultura. Esaminiamo le diverse immagini. L’Angelo che indica la via è il nostro Angelo Custode, che ha fatto un salto in avanti e ci indica, perentorio, la strada seguire. Andrà posto al bivio, ad ogni bivio di queste strade che portano lontano, sino al cielo, sino alla mitica piana che i bolognesi hanno da sempre voluto considerare il loro “Monte Sinai”. 45 Nostra Signora degli Sterpi è la Madonna che ci attende lungo la strada, consolando la fatica del cammino sino al Santuario della sommità, titolato appunto alla Consolazione; è una figura sacra e domestica, questa Madonna degli Sterpi, seduta sul muretto di pietra di Montovolo come le donne che lavorano davanti alla porta di casa, a testimoniare la sosta come parte integrante del cammino, e indica la strada ai viandanti porgendo simbolicamente un lembo del mantello, elemento di evidente protezione che riprende la tradizione iconografica di materna sollecitudine, nell’altra mano sostiene un ramo di spini con la tranquillità di Colei che non teme il male poiché è destinata a sconfiggerlo; dolce e consolante figura che può soccorrere nei momenti di difficoltà. 46 La porta del Cammino degli Sterpi è la porta del percorso in quanto tale, è il varco attraverso cui intravediamo il percorso che questa mattina abbiamo descritto e narrato sotto molti aspetti e diverse angolazioni, qui a fianco ne è appeso il primo disegno che ne delinea la composizione, solitamente realizzato per affrontare l’impresa, l’elaborato è destinato ad essere perfezionato e approfondito nei particolari, sino a diventare disegno esecutivo. Nella speranza risulti comunque abbastanza indicativo: dal basso a destra, e lungo la linea a tornanti, la schematica Natività, nella quale la Madre si protende protettiva sul Bambino che è sulla nuda terra, Egli nasce povero, senza casa, ma col percorso di sacrificio e di impegno che lo attende e lo porterà sino alla sommità della gloria; nella composizione a spirale che diparte da questa scena, può avvertirsi la sintesi della fuga, quella in Egitto, qui è Giuseppe che indica la strada e la percorre con la sicurezza della fede, indicazione quotidiana, indispensabile ad un cammino dalla sicura meta. Infine il gruppo articolato nella terza età, con lo stupore della visione celeste nel panorama, del quale Montovolo ne è imitazione, terrena premessa di quello ineffabile del Paradiso. Qui la Madonna è incoronata dal Dio-Figlio. Ebbene, il figlio che benedice la madre ha nella mano la corona, quella di spine che è diventata corona regale. Ella ha in mano il modellino del Santuario e l’uovo dell’origine, così come alle spalle della Natività è il profilo protettivo della chiesa di Alvar Aalto. 47 48 Naturalmente la Madonna con il titolo degli Sterpi è la stessa di Montovolo, che vive e guida durante il cammino e attende i figli alla meta. L’opera è in terracotta, materia tipica di queste aree sulle quali ha insistito più di una civiltà, compresa quella Etrusca cui vogliamo fare riferimento. Questa scultura, ancora da collocare definitivamente, ma radice del nostro progetto, è già stata inserita tra le opere “patrimonio per una cultura di pace” nel programma UNESCO; statua quindi che nasce già consacrata ai primati. Sarà invece il bronzo a costituire il materiale della porta, per motivi di durata e di sicurezza, sarà un frammento del cielo utile a generare lo stupore, un piccolo e matericamente prezioso varco di due metri quadrati, utile scorcio per individuare il cammino di una Sacra famiglia, che corrisponde a quello dell’umanità intera; nella composizione della porta non appaiono le estremità inferiori, perché i piedi del cammino sono i nostri piedi e il percorso compiuto dalle figure illustrate, pur essendo umano, concreto, vivo e vero, rimane fiduciosamente aperto alla partecipazione. Percorso interiore che individua soluzioni già nelle fasi intermedie, giunti spiritualmente alla meta anche se solo a metà della strada. Un percorso infinito e, come affermato dalla tradizione “non sappiamo dove andremo ma dovremo partire” certi che la strada ci condurrà ad una meta sicura. Il ruolo della figurazione divenuto percorso dell’anima nella fisicità del corpo, in una forma d’arte tutta figurativa, sicuramente contemporanea, essenzialmente sacra. 49 Luigi E. Mattei è autore della Porta Santa della Papale Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma, del Corpo dell'Uomo della Sindone a Gerusalemme e del busto in bronzo del Premio Nobel Ernesto T. Moneta, collocato nel Cortile d’Onore del Quirinale. Nato a Bologna nel 1945, nella stessa città ha frequentato gli studi artistici, divenendo poi insegnante all'Istituto Statale d'Arte ed al Liceo Artistico, sino a giungere alla docenza presso le Accademie di Belle Arti. La sua attività ha spaziato dalla comunicazione visiva alla scenografia, dalla grafica alla scultura, con realizzazioni che hanno ottenuto egide e patrocini ai massimi livelli istituzionali. Nel gennaio 2008 le sue opere sono state riconosciute ed inserite nell’elenco del programma U.N.E.S.C.O. “Patrimoines pour une Culture de la Paix”. Presente in più di ottanta musei e gallerie nazionali nel mondo, è stato insignito di numerose onorificenze e ricevuto premi prestigiosi; ricopre incarichi nell'ambito del mondo culturale della sua città, ove è presente nelle maggiori collezioni pubbliche e, nel centro storico, con il monumento a Salvo D'Acquisto, nella Basilica di San Petronio con la Parete Dal Monte e la Sacra Natività, all'Alma Mater Studiorum con l'Imago Pietatis; è inoltre autore di molteplici opere in spazi pubblici nell’area della Futa e dintorni, nonché della colossale Ianua Mundi, stele in bronzo rappresentativa di temi universali, nella Collezione Quadrelli a Zola Predosa. Luigi Enzo Mattei, “Accademico degli Incamminati”, è attualmente impegnato nella realizzazione degli elementi propri del presbiterio della Cattedrale di Andria – costruzione d’origine normanna dalle tracce federiciane – dell’iconografia del Cammino degli Sterpi – percorso incardinato tra i Cammini d’Europa – della statua di San Basilio il Grande per la Chiesa dell’Africa, nella Diocesi di Djougou, nonché di un nuovo 50 bronzo sindonico destinato a Guadalupe presso Città del Messico. 51