III Conferenza nazionale Giovani Comunisti Bari, 7-10 settembre 2006 Giovani Comunisti/e – Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea RIGENERAZIONI G*C: l’autonomia di una generazione che diserta, disobbedisce, ama! Firmatari (in neretto i membri del coordinamento nazionale GC): Miche De Palma (Esecutivo nazionale), Sergio Boccadutri (Esecutivo nazionale), Federica Miralto (Esecutivo nazionale), Federico Tomasello (Esecutivo nazionale), Cristina Tajani (coord. naz.), Domenico Ragazzino (coord. naz.), Mira de Lucia (coord. naz.), Elisabetta Piccolotti (coord. naz.), Valentina Galuzzi (coord. naz.), Eleonora Forenza (coord. naz.), Francesca Ruocco (coord. naz.), Gianluca Schiavon (coord. naz.), Danilo Barreca (coord. naz.), Nino De Gaetano (coord. naz.), Andrea Iori (coordinatore reg. Liguria), Luca Ceccarelli (coordinatore reg. Umbria), Sergio Lima (coordinatore reg. Sicilia), Roberto Pietrobon (coordinatore reg. Piemonte), Kekko Chiodelli (coordinatore reg. Lombardia), Daniele Licheri (coordinatore reg. Abruzzo), Francesca Foti (coordinatrice reg. Toscana), Salvatore Midolo (coordinatore prov. Vercelli), Giacone Luca (coordinatore prov. Biella), Serafino Sorace (coordinatore prov. Asti), Manuel Chiarlo (coordinatore prov. Genova), Alessandro Bresmes (coordinatore prov. Bergamo), Silvia Martorana (coordinatrice prov. Milano), Fabio Zignani (coordinatore prov. Novara), Cristina Palmieri (coordinatrice prov. Sondrio), Giordano Piovesan (coordinatore prov. Padova), Marco Scolese (coordinatore prov. Treviso), Lisa Gerusa (coordinatrice prov. Venezia), Claudio Pintus (coordinatore prov. Cesena), Antonio Tomeo (coordinatore prov. Modena), Fabrizio Amici (coordinatore prov. Ravenna), Giacomo Triggiano (coordinatore prov. Firenze), Ferdinando Romano (coordinatore prov. Arezzo), Michele Fabbianelli (coordinatore prov. Grosseto), Emanuele Baronti (coordinatore prov. Lucca), Dario Nesi (coordinatore prov. Prato), Alessandro Francesconi (coordinatore prov. Siena), Amedeo Babusci (coordinatore prov. Perugia), Valerio Rossi (coordinatore prov. Terni), Attila Trasciatti (coordinatore prov. Avezzano), Roberto Nardone (coordinatore prov. Chieti), Corrado Di sante (coordinatore prov. Pescara), Francesco Pennella (coordinatore prov. Avellino), Alessandro Liverini (coordinatore prov. Benevento), Peppe Roseto (coordinatore prov. Caserta), Arnaldo Maurino (coordinatore prov. Napoli), Gaetano Cataldo (coordinatore prov. Bari), Antonio Delli Fiori (coordinatore prov. Brindisi), Ivana Vita (coordinatrice prov. Potenza), Raffaele Amato (coordinatore prov. Matera), Celeste Costantino (coordinatrice prov. Reggio Calabria), Erasmo Palazzotto (coordinatore prov. Palermo), Montalto Pierpaolo (coordinatore prov. Catania), Denaro Sebastiano (coordinatore prov. Siracusa), Giuseppe Accardo (coordinatore prov. Trapani), Niccolò Pecorini (segretario regionale PRC Toscana), Simone Travaglino (segretario provinciale PRC Verbania), Seracusa Carmelo (segretario provinciale PRC Udine), Bertoni Romina (segretario provinciale PRC Modena), Danti Dario (segretario provinciale PRC Pisa), Ferretti Simone (segretario provinciale PRC Grosseto), Gennaro Imbriano (segretario provinciale PRC Avellino), Serafini Gianluca (segretario provinciale PRC Benevento), De Vito Vinicio (segretario provinciale PRC Lecce), Assennato Marco (segretario provinciale PRC Palermo), Piras Michele (segretario provinciale PRC Nuoro), Eleonora Casula (segretaria provinciale PRC Oristano), Gabriele Berni (Segretario federazione PRC Siena), Maurizio De Santis (Segretario Federazione PRC Firenze), Andrea Sacconi (Presidente associazione IQBAL Firenze), Leonardo Pieri (Consigliere comunale Firenze), Giulia Dati (Presidente associazione Fahrenheit 451 – Viareggio) , Ilaria Maffei (Consigliere comune di Montemurlo Prato), Fausto Bagattini (Assessore politiche giovanili comune di Montemurlo Prato), Paolo Maccani (segretario cittadino PRC Trento), Elisa Panici (coordinamento prov. GC Castelli), Stefano Piccolomini (segreteria Viareggio), Laura Jacopini (direzione regionale toscana PRC), Nicol Marioni (GC Viareggio), Carlotta Orselli (GC Viareggio), Simone Stefan (capogruppo PRC municipalità del Lido e Pellestrina – Venezia), Michele Piras (comitato politico Federale Cagliari), Fabio Dura (operaio dirigente CGIL Asti), Giuliano Ramazzotti (tesoriere provinciale PRC Torino), Andrea Polacchi (segretario circolo di San Donato Torino), Luca Cassano (consigliere circoscrizionale Mirafiori Torino), Aniello Fierro (coordinatore cittadino GC Cuneo) , Marco Albeltaro (Comitato Regionale Piemonte, ass. Pol. Sociali Comunità Montana prealpi Biellesi), Nicola Favaro (Coord. Regionale GC Piemonte, CPF Torino), David Valderrama (Comitato Regionale Piemonte, Coord. GC Piemonte, assessore lavoro e pol. Giovanili Savigliano Cuneo) Pastore Andrea (Segr. PRC Albanella, CPF Salerno), Trapani Giuseppe (Coordinamento Reg. GC, CPF Salerno), Vernieri Giuseppe (Segreteria Regionale PRC Campania, Segreteria Provinciale PRC Salerno), Aliberti Fausto (Segr. PRC Siano, CPF Salerno), Aliberti Giovanni (Coordinamento prov. GC Salerno, CPF Salerno), Paldo Valerio (Coordinatore Provinciale GC – Salerno), Imparato Mariateresa (Coordinatrice Provinciale GC, CPR Campania, CPF Salerno), Petrone Antonio (Coordinamento prov. GC – Salerno), Del Giorno Egidio (Coordinamento Prov. GC – Salerno), Orlando Eva (Segr. PRC Angri, CPF Salerno), Palumbo Rosa (CPN), Balzamo Stanislao (Segr. PRC Amalfi, CPF Salerno), Menza Gregorio (Segr. PRC San Gregorio Magno), Perrotta Giovanni (Coordinamento provinciale GC – Salerno), Cavaliero Vincenzo (segr. PRC Giffoni, CPF Salerno), Tortora Alfonso (CPF Salerno), Giovanni Maiolo (assessore di Caulonia Reggio Calabria), Gianluca Romeo (coord. GC Reggio Calabria), Marika Cassan (capogruppo PRC consiglio municipale Marghera Venezia), Zaza Antonello (capogruppo cons. PRC Prov. di Bari), Covolo Roberto (ass. Trasparenza e Partecipazione comune di Terlizzi), Calò Luigi (Ass. politiche giovanili, pace e accoglienza Prov. di Lecce), Belligero Anna (coord. prov. Bari), Giovinazzo Ciccio (Collettivo Lettere e Filosofia, Bari), Carella Nicola (segreteria Prc Bari), Angelini Andrea (cons. naz. Cnsu), Paparella Mimmo (cons. com. Terlizzi) ://PARTE I “Non sono i popoli a dover aver paura dei propri governi, ma i governi che devono aver paura dei propri popoli” (V per Vendetta) Il Governo Berlusconi è sconfitto. A batterlo è stato il movimento dei movimenti, fatto di sindacati, associazioni, collettivi, una generazione politica che in questi anni ha opposto all’arroganza del potere il conflitto e la partecipazione. In cinque anni questo binomio ha mobilitato milioni di donne e uomini. La fine del Governo delle destre è quindi anche frutto dell’incontro tra una domanda di cambiamento e la nascita dell’Unione. Se Berlusconi non è più alla guida del paese, il berlusconismo non è ancora sconfitto, anzi esso si è dimostrato ben più forte ed egemonico nella società di quanto noi stessi abbiamo percepito. Noi, parte della moltitudine di donne e uomini che ha invaso le strade per manifestare contro le destre, non ci siamo resi conto della potenza pervasiva del neoliberismo, che ha saputo costruire intorno a sé un consenso ideologico. Infatti abbiamo ragione di ritenere che a determinare il consenso al centro destra non siano state le uscite dell’ex Presidente del Consiglio, ma il cambiamento della società italiana dentro i processi di globalizzazione. Per questo possiamo affermare che se in Italia non si è determinata, come in Germania, una “grosse koalitione” la causa non sta nel bipolarismo perfetto. I poteri forti, da Confindustria alle gerarchie 2 ecclesiastiche, hanno esercitato tutta la pressio- cui pensiamo che non possa esserci per noi un governo “amico”. E’ tuttavia indubbio che l’interruzione del governo delle destre era una condizione affinché si aprissero spazi di democrazia sino a ieri negati: la grande maggioranza degli italiani è contraria alla guerra in Iraq, eppure le nostre truppe sono ancora lì. Il governo dell’Unione non ha ricevuto una delega in bianco, ma un consenso per impedire che le politiche neoliberiste e di guerra continuino a falcidiare i diritti sociali e civili. Per questo pensiamo (e per questo agiremo) che il governo dell’Unione è una condizione necessaria, ma di certo non sufficiente, per una iniziativa che apra nella società spazi di democrazia e giustizia sociale, il governo come spazio tattico e non strategico. Ci sono domande nella società che investono direttamente e immediatamente la responsabilità dell’esecutivo. Si può lavorare per un governo partecipato che incontri i bisogni e i desideri degli “invisibili”, lo dimostrano alcune esperienze dell’America latina: dal Venezuela alla Bolivia, dall’Argentina alle comunità ribelli del Chiapas, ciascuna con le proprie specificità ci narra della possibilità di una alternativa che si contrappone ai diktat del governo Usa. C’è un desiderio comune tra le popolazioni subalterne dell’America latina e quelle del nostro Paese: accedere a una possibilità di cambiamento. Il cambiamento è possibile solo se si rimuovono una dopo l’altra le leggi che ostacolano il cammino verso una vera riforma. E’ questa la prima prova che si porrà nell’immediato, e noi Giovani Comunist* dobbiamo accettare questa sfida rimanendo autonomi dal governo e dal partito. Questa autonomia non dovrà essere una rivendicazione di bandiera, ma il nostro modo di organizzare una risposta convincente alle domande di cambiamento e partecipazione. Per dirla in maniera semplice il nostro terreno di azione non è il governo ma la società. Bisogna però fare attenzione, perché la subalternità al governo può realizzarsi sia diventando il suo ammortizzatore sociale, la sua grancassa, ma anche essendo aprioristicamente contrari. Appiattire le nostre scelte politiche future su una di queste due modalità ci confinerebbe nel politicismo. I nostri riferimenti, al contrario, devono continuare ad essere il movimento, le associazioni, i sindacati e le sensibilità con cui abbiamo camminato insieme. Conflitto e consenso continuano ad essere le nostre direttrici. Se una scelta del governo è sbagliata non ci interessa quale sia il segno di quel governo: le\i G.C. sono col movimento, con la società che si oppone a quella scelta. L’autonomia della nostra organizzazione risiede nella “connessione sentimentale” e sociale con la nostra generazione. ne possibile per impedire l’alternanza, passaggio necessario, qui ed ora, per l’alternativa di società. Essi hanno infatti lavorato dal giorno successivo le elezioni per determinare una convergenza al centro che è stata impedita da un vincolo sociale esercitato dal movimento dei movimenti e dalla presenza (non isolata né di testimonianza) nella sfera della politica del Partito della Rifondazione Comunista. Questo vincolo sociale è nato nelle strade di Genova nel 2001, e la contestazione del G8 ne è stato il primo germoglio. Guerra alle/agli uman* Ingovernabili “contro la guerra dei potenti ora e sempre disobbedienti!” (manifestazioni contro la guerra 2003/06) Vincere le elezioni, “andare al Governo” viene ritenuto comunemente l’obiettivo di un partito, la “presa del potere” come fine. Questa convinzione, largamente diffusa anche nel centro-sinistra, in questi anni è stata messa in discussione dal nostro partito, tanto più dopo un’analisi della attuale concentrazione del potere. Il potere nella globalizzazione neoliberista è esercitato spesso da organismi sopranazionali e da multinazionali, che non hanno alcuna legittimazione democratica: Banca Mondiale, WTO, G8. Questi organismi decidono molto di più dei governi nazionali a cui viene lasciato il mero compito di amministrare decisioni imposte. È questa “amministrazione” che i movimenti hanno sottoposto a dura critica con pratiche di democrazia diretta a partire dai territori. E’ uno dei motivi di fondo per “Di fronte alla via del terrore… Viva l’amore militante!!!” (scritta su un muro di Caracas) Neoliberismo, guerra e terrorismo sono gli avversari con cui fare i conti. La povertà si è diffusa nel globo e anche nelle società Occidentali l’impoverimento progressivo di larghe parti della popolazione ci consegna un presente incerto e un futuro carico di paura per la stessa nostra vita. E’ infatti la stessa umanità ad essere nel mirino delle bombe tecnologiche e umane. La crisi del neoliberismo ha fatto detonare ordigni da Oriente a Occidente: lo scontro di civiltà si presenta come ragione giustificativa della guerra e del terrorismo. La coppia amico nemico, quest’ultimo da annientare, fa tornare attuale la minaccia ato- mica. Il confronto tra le potenze mondiali torna a misurarsi con gli armamenti, dagli Usa all’Iran, dall’India alla Russia, da Israele alla Cina risorse sempre maggiori vengono impiegate per l’industria della “sicurezza preventiva”. Ma l’attacco dell’11 settembre ha svelato una nuova potenza, la jihad globale che si propone come l’altra faccia dell’impero Usa. Guerra e terrorismo inducono paura, le popolazioni sono costrette a cedere libertà e diritti in cambio di “sicurezza”, così vengono ridotti gli spazi di democrazia. L’unica alternativa è il movimento pacifista globale. Il disarmo è l’unica risposta possibile alla diffusione di una logica militare che arruola le popolazioni nello scontro tra il Bene e il Male. Il ritiro delle truppe dall’Iraq, la fuoriuscita dalla tragedia afgana, il rispetto delle risoluzioni dell’Onu per la Palestina, l’intervento diplomatico internazionale nel Caucaso come nelle guerre che insanguinano l’Africa sono atti di civiltà. Il movimento pacifista ha ribadito nel Forum Sociale di Atene la necessità di battersi per la fine delle occupazioni e per il disarmo. Nel nostro Paese l’abolizione della leva militare e il passaggio all’esercito professionale ha di fatto imposto la leva obbligatoria per le giovani e i giovani che vivono sulla soglia di povertà, come già è accaduto negli Usa. Noi abbiamo deciso di disertare, disobbedire, resistere alla guerra globale attraverso azioni dirette non violente: il boicottaggio delle merci e delle banche armate, il “trainstopping”, l’interposizione, come abbiamo fatto in Palestina per bloccare carri armati, la cooperazione e la diplomazia dal basso, come ci racconta la nostra esperienza in Chiapas. Esercitare il diritto di resistenza qui e ora significa mettersi in gioco e non esultare per un elicottero statunitense abbattuto. Non decidiamo noi la legittimità di un popolo a resistere all’occupazione, questo è sacrosanto, tanto che esso è sancito nel trattato di Ginevra, ma dobbiamo volere sempre la salvaguardia della vita dei civili. Nuova democrazia: conflitto e partecipazione. locamento. Tutto ciò insieme alla riduzione del trasferimento di risorse dallo Stato alle regioni che comporta il permanere in una condizione di povertà per le aree del sud. L’unico antidoto alla crisi della democrazia è la partecipazione, rimettere al centro le assemblee elettive, dal livello locale sino al Parlamento europeo, affinché si riduca la distanza tra “il Paese reale ed il Paese istituzionale”. Il diritto di voto per le migranti e i migranti, il bilancio partecipato, le proposte di legge d’iniziativa popolare sono alcuni strumenti di partecipazione diretta da praticare e per cui batterci. L’altra Europa La nascita di questa Unione Europea mostra tutti i difetti ed i limiti delle burocrazie, delle tecnocrazie che sono gli attori di una nozione dirigista ed antidemocratica di società. Il processo costituente è stato attuato contro i popoli dell’Unione Europea, così come prova la sconfitta del Trattato nel referendum francese. Il problema principale è l’inesistente coinvolgimento dei cittadini alla scrittura della Costituzione europea e l’esclusiva partecipazione dei governi alla stesura. Il mancato consenso e partecipazione delle popolazioni è giunto sino al punto di estromettere gli stessi cittadini anche dalla consultazione sui principi generali che avrebbero dovuto regolare questa carta costituzionale, come conferma la genesi della cosiddetta ”carta dei diritti” di Nizza. Dalle manifestazioni di Nizza ad oggi ci battiamo, e continueremo a farlo, contro un’Europa a diverse velocità, per una redistribuzione del reddito e delle ricchezze e contro il modello della globalizzazione capitalistica, per l’estensione di diritti e garanzie ai/alle cittadin* ed ai/alle migranti in Europa, e contro i processi di delocalizzazione e di sfruttamento. Tutti questi diritti non possono poi prescindere dal bisogno ineliminabile di pace, è per questo motivo che siamo contro l’esercito europeo. Organizzazione, un ritorno al futuro “la sinistra propone di rendere uguali il figlio del professionista e quello dell’operaio” (S. Berlusconi, 2006) “.. Del resto, mia cara, di che si stupisce?/ anche l’operaio vuole il figlio dottore/ e pensi che ambiente che può venir fuori:/ non c’è più morale, contessa…” (P. Pietrangeli, 1966) L’apertura della fase di guerra globale permanente, l’utilizzo della paura e del terrore come strumenti di gestione e riproduzione del potere, il predominio dei mercati internazionali sugli stati segnano la crisi verticale delle democrazie moderne. In questo quadro è necessario rilanciare la centralità strategica di una nuova democrazia fondata sulla partecipazione, oltre la delega. In Italia lo svuotamento delle assemblee rappresentative a favore degli esecutivi, la personalizzazione della politica sul modello presidenzialista, la riorganizzazione dei poteri amministrativi ed esecutivi sul modello federalista, mettono in discussione la Costituzione nata dalla Resistenza. Il corollario a questa riorganizzazione autoritaria dello Stato è la cosiddetta devolution che dobbiamo bloccare col referendum del 25/26 giugno. La devolution permette la riduzione e lo smembramento dei principali diritti sociali: la mobilità, la sanità, l’istruzione, la formazione professionale e i meccanismi di garanzia interni al mondo del lavoro, come il sistema del col- La nostra è la prima generazione politica del terzo millennio. Siamo la generazione di Genova 2001 non per nostalgia ma per formazione: quest’esperienza ha costruito il senso di un’appartenenza politico-culturale anche per quell* che lì non c’erano. Conosciamo infatti il potere dell’evento simbolico, nella società globale: l’11 settembre 2001 e con esso l’inizio della “guerra globale permanente”. Leggere questi passaggi con schemi classici per tant* di noi è semplicemente impensabile; come per noi è materialmente impossibile pensare alla vita e al lavoro in un tempo in cui la precarietà ha cambiato la percezione del tempo e dello spazio. Prima delle giornate di Genova eravamo la “generazione X”, indefinibili e invisibili: solo una fascia di mercato a cui imporre nuovi stili di consumo. Essere Giovani Comunist* prima di Genova poteva significare, nella ipotesi più generosa, essere figli, di una storia senza futuro. La scelta di far parte del movimento dei e delle disobbedienti ha riconnesso la voglia di cambiare il mondo con l’organizzazione politica. In questi anni abbiamo imparato che la politica è prima di tutto ricostruzione di spazi di socialità tra divers*, e che l’agire collettivo, plurale, orizzontale, aperto ma allo stesso tempo capace di azione, è la sfida necessaria per costruire una nuova organizzazione delle/dei Giovani Comunist*. È per questo che non c’è stata nessuna vertenza, conflitto, movimento a cui non abbiamo partecipato, in que- ste esperienze ci siamo contaminati con culture, storie, generazioni diverse dalle nostre. In particolare con l’esperienza delle/dei disobbedienti si è posto per noi il tema dell’identità, dell’appartenenza: solo allora abbiamo compreso che la nostra si definiva come una comunità aperta e in quel percorso abbiamo capito che l’identità è un processo, ma anche la memoria di una sfida che ha mosso uomini e donne in tutto il mondo. E’ per questo che non abbiamo mai pensato di sostituire Che Guevara con Marcos, ma che attraverso di essi possiamo guardare negli occhi tutt* i/le subaltern* della terra e con loro condividere la parola “rivoluzione”. E’ per questo che abbiamo sentito come nostri fratelli e nostre sorelle quelle e quei migranti con cui abbiamo provato a distruggere le reti dei CPT. E’ per questo che abbiamo sentito come nostri compagni e nostre compagne le/gli autoferrotranvieri di Milano e le/gli operaie/i di Melfi. E’ per questo che abbiamo sentito anche nostra l’aria, la terra e il cielo degli abitanti della Val di Susa come di Scanzano e con loro siamo diventati allo stesso tempo come gli indigeni del Chiapas, come il popolo Palestinese. La nostra è una nuova storia di resistenza e liberazione, non scendiamo come i partigiani dalle montagne ma attraversiamo le strade desolate delle nostre metropoli. In queste strade abbiamo portato con orgoglio la libertà dei nostri corpi, e siamo diventati tutt* gay, lesbiche, bisessuali e transgender. Sarà pur vero che molte cose abbiamo sbagliato, sarà pur vero che spesso ci è mancato il coraggio di innovare fino in fondo la nostra organizzazione ma possiamo dire che i/le Giovani Comunist* in questi anni hanno costruito un pezzo del loro futuro. Rigenerazioni, il futuro comincia adesso Non ci basta sapere che gli iscritti e le iscritte alle/ai Giovani Comunist* dall’ultima Con-ferenza sono aumentati di 4000 nuovi volti, che circa il 13% dell’elettorato giovanile ha votato il Prc, che molt* giovani compagn* dirigono il Partito a diversi livelli e che abbiamo innovato molto della cultura e delle pratiche politiche del Prc. Abbiamo fatto della sperimentazione il riferimento delle nostre scelte: spazi sociali occupati, rete di collettivi studenteschi, librerie, progetti di cooperazione dal basso, associazioni che ottengono finanziamenti locali ed europei. Sappiamo che molti sono ancora i limiti e le difficoltà che viviamo: nel nord si concentra la maggior parte degli spazi sociali occupati, ma a questa sperimentazione straordinaria non corrisponde una crescita dell’organizzazione che soffre limiti fortissimi nelle città. Siamo ancora un’organizzazione incapace di accogliere le migranti e i migranti, del resto scontiamo ancora una verticalità che non riesce a valorizzare a pieno le esperienze territoriali. Proponiamo dunque di aprire un percorso di riflessione e sperimentazione, che avviamo con la conferenza ma che ha bisogno di una consensualità tra tutte e tutti, anche attraverso una contaminazione interna alla nostra organizzazione tra le diverse culture presenti al suo stesso interno, perché l’obiettivo di rafforzarci deve essere sentito in modo deve rimanere orizzonte comune per tutte e tutti noi. L’innovazione deve partire dall’esecutivo nazionale con la partecipazione di compagn* che lavorano nei territori per rompere la distanza tra la “linea politica” e le pratiche, fino al coordinatore nazionale. E definire così le figure di due portavoce dell’organizzazione, una compagna ed un compagno, un’innovazione che intreccia la critica al leaderismo del movimento con le politiche della differenza di genere. E allo stesso tempo dobbiamo valorizzare la 3 formazione e l’autoformazione, mettendo sotto inchiesta la società e i territori. Anche il tesseramento è un primo metro di verifica di questo lavoro, di certo non può essere l’unico, ma neanche diventare un elemento accessorio. La cura del tesseramento va intesa non in senso burocratico, al contrario come cura delle relazioni politiche e della partecipazione delle compagne e dei compagni all’iniziativa politica delle/dei GC, quindi anche come “inchiesta”. Infine proprio nell’ottica dell’autoformazione è importante promuovere, quanto più è possibile, l’assemblea degli iscritti, per verificare il lavoro svolto e porre le basi per il lavoro futuro. Dobbiamo utilizzare la potenzialità delle innovazioni che abbiamo proposto all’art. 22 dello Statuto del partito, modificando l’organizzazione laddove è più utile costruire nuove connessioni organizzative che pure straripano i confini delle federazioni. I nostri spazi pubblici, liberi, occupati Genova, Massa Carrara, Venezia, Ravenna, Rho e molte altre sono le città in cui i/le Giovani Comunist* hanno dato vita e partecipato ad esperienze di occupazione, liberazione, riappropriazione di spazi sociali. Esse sono solo alcune delle esperienze più significative di innovazione e trasformazione della nostra cultura e agire politico. A partire da questi luoghi abbiamo sviluppato una riflessione su come far sì che essi non diventino dei ghetti, isole felici dentro una realtà immutabile e separata: abbiamo cercato di trasformarli in laboratori, in spazi pubblici aperti all’attraversamento delle più varie esperienze culturali, politiche, artistiche; abbiamo insomma provato ad abitare e interpretare la seconda generazione dei centri sociali, nuova e diversa rispetto a quella degli anni ’90. La scelta di tenere la nostra assemblea nazionale nell’aprile 2004 al laboratorio Buridda di Genova voleva dimostrare con forza l’importanza dell’investimento sulla liberazione degli spazi, una sfida che non riguarda solo le occupazioni, ma anche la possibilità di rendere i nostri circoli, le federazioni (come l’esperienza del Capannone di Grosseto) spazi pubblici, in cui far vivere agenzie per i precari, i migranti e il diritto alla casa. Pensiamo che questo punto riguardi più di ogni altro il compito decisivo che interroga la nostra generazione e il suo rapporto con la politica perché abbiamo imparato che la qualità della comunità che si costruisce non è meno importante del progetto politico, che altrimenti rischia di rimanere enunciato, formula astratta. Vogliamo valorizzare queste esperienze, ma pensare ad un percorso significa anche saperne leggere i limiti, e sottoporlo a critica. E’ infatti necessario riconoscere che gli spazi che liberiamo e ci riprendiamo devono essere considerati come punti di partenza e giammai approdi definitivi; la conquista di luoghi nei quali costruire politica e relazioni oggi acquista infatti la sua centralità di fronte alla privazione di spazi pubblici. E’ altrettanto vero che non siamo ancora riusciti a trovare una modalità che trasformi queste sperimentazioni in ricchezza condivisa da tutta l’organizzazione, senza anzi che la loro forza politica ne risulti ridimensionata. E’ accaduto che compagn* che avevano deciso di sperimentarsi sul quel terreno, si siano a poco a poco ridimensionati su una dimensione tutta locale, trascurando proprio una delle maggiori potenzialità che intrinsecamente abbiamo, quella di essere un’organizzazione diffusa sul territorio, o in altri casi peggiori si siano allontanati definitivamente dai/dalle G.C. Ma sarebbe miope, o strumentale, guardare solo a questi limiti per ridimensionare l’importanza della sperimentazione. Proponiamo allora la costruzione di uno o più momenti di riflessione seminariale su questo 4 tema, che siano di tutta l’organizzazione, e non solo degli/delle “occupanti”. In viaggio per costruire un altro mondo “non siamo venuti a dirti che fare, non siamo venuti a guidarti da nessuna parte; veniamo a chiederti umilmente, rispettosamente, che ci aiuti” (Subcomandante Marcos) In questi anni abbiamo partecipato a tutti i Forum Sociali Europei e Mondiali; lì in particolare è maturata la scelta di passare dalle “relazioni diplomatiche” classiche alla solidarietà attiva con i movimenti e le organizzazioni che abbiamo incontrato nel mondo. E’ così che in misura sempre crescente non i dirigenti ma centinaia di giovani comunist* hanno attraversato il mondo praticando la non-violenza come nostra modalità di azione diretta nei conflitti per il riscatto dei popoli oppressi. A partire dalla partecipazione al Festival Mondiale della Gioventù di Caracas che ci ha permesso di comprendere meglio straordinaria esperienza della rivoluzione Bolivariana. In Palestina, dove con le associazioni Kufia e Tayush pratichiamo l’interposizione e la contestazione del muro di “difesa” eretto da Israele, oltre a cooperare in un progetto di resistenza nonviolenta a Tulkarem, mentre a Betlemme stiamo costruendo un mediacenter per i giovani dei campi profughi. In Chiapas, dove dopo la partecipazione alla marcia della dignità indigena abbiamo promosso patti di solidarietà tra enti locali e municipi autonomi ribelli e oggi siamo tra gli aderenti alla “Otra Campana” che culminerà nel prossimo incontro intergalctico a cui parteciperemo. In Kurdistan come nel deserto Algerino dove siamo stati osservatori internazionali e abbiamo manifestato per l’autodeterminazione del popolo Saharawi e Kurdo. E, senza retorica, siamo stati nei campi di lavoro a fianco del popolo cubano, sentendoci partecipi della loro tenace e quotidiana lotta contro l’aggressione statunitense. E’ un altro modo di fare internazionalismo che ci ha cambiato e ci ha formato. E’ la nostra proposta per una generazione che può mettersi in mezzo fra l’umanità e la violenza, per la quale oltre l’indignazione esiste la possibilità di un intervento concreto. Vogliamo incrementare il lavoro di cooperazione decentrata e dal basso, a partire dal coinvolgimento del partito e dei nostri livelli istutuzionali e di rappresentanza. Per farlo cominceremo da una mappatura degli amministratori che possono sostenere e partecipare alle iniziative di cooperazione; ogni progetto vedrà inoltre presentazioni coordinate e itineranti per informare e sensibilizzare sull’altro mondo che non ci raccontano, quello della speranza e del sogno, della lotta per la felicità. Fare associazionismo per costruire reti Il movimento dei movimenti si è sempre nascosto al gioco delle identità per muoversi nomade e fluido fra le dimensioni della nostra società complessa. Perciò oltre ai conflitti sociali e di comunità esso si è rideclinato anche in una miriade di micropercorsi tematici, di scopo, sociali, culturali che spesso (sbagliando) abbiamo difficoltà a riconoscere come immediatamente politici. È arrivato il momento di connetterci con queste esperienze. Per questo vogliamo costruire una rete stabile di associazioni, gruppi e collettivi che pone al centro dell’iniziativa politica nuove pratiche di cittadinanza attiva. Questo percorso può rappresentare un’occasione di crescita collettiva, di innovazione della politica, di diverso coinvolgimento soprattutto, ma non solo, per le giovani generazioni che troppo spesso guardano alla politica con diffidenza. Un percorso nazionale ed europeo che traduce in pratica quotidiana e in luoghi reali l’esperienza di ciò che già da tempo viviamo e facciamo in molti territori: decine di associazioni culturali (da Movimentazioni di Pescara a Samarcanda di Bari), librerie di comunità con la collaborazione di Interno4 (Roma, Viareggio, Firenze), esperienze di radio di movimento (l’ultima è progettoRadioX di Bergamo), bandi europei per realizzare brochure, cineforum, corsi di formazione, riviste di approfondimento e riflessione (‘Lavori in Movimento’ a Napoli, ‘Contest’ a Milano, ‘Caracoles’ a Pescara). A partire da questo bagaglio di esperienze vogliamo costruire una rete per mettere in comunicazione questi percorsi, ci piacerebbe chiamarla “Pixel” perché a partire dai singoli frammenti si arriva a costruire l’immagine d’insieme. Una rete di reti che ambisce ad avere un respiro europeo per lavorare su progetti tematici e valorizzare le esperienze collettive e di società che costruiamo giorno per giorno sui territori. Sinistra Europea L’apertura di un nuovo spazio politico e sociale è il cammino intrapreso nella costituzione della Sinistra Europea. La Sinistra Europea è la condivisione con tutte le soggettività con cui abbiamo costruito il movimento dei movimenti di uno spazio comune per rompere la separatezza tra sociale e politico, salvaguardando l’autonomia e la pluralità delle soggettività che partecipano al percorso. Nella nostra autonomia abbiamo deciso di essere uno dei soggetti promotori della Sinistra Europea in Italia. La radicalità, l’orizzontalità, la consensualità sono i contributi generazionali che proveremo a condividere con tutte le soggettività che hanno deciso di prender parte al processo costituente. Infatti, nella consultazione per la formazione delle nostre liste non abbiamo chiesto una candidatura per le\i Gc, ma la rappresentazione del nostro percorso di questi anni. La costituzione della Sinistra Europea deve essere partecipata e consensuale, per superare le difficoltà che la forma partito ha imposto fino ad oggi all’agire collettivo. In un partito il ricorso al voto per la presa di decisione è l’unica forma di democrazia: dobbiamo trovare nuove forme. La consensualità è la pratica di decisione che vogliamo adottare. Dobbiamo mettere a valore la nostra rete di relazioni che abbiamo accumulato in questi anni, attraverso un percorso di assemblee territoriali e tematiche per la costituente della S.E. ://PARTE II CONTRIBUTI TEMATICI Un altro genere di politica Il futuro è già qui. Almeno per chi si guarda introrno con un paio di occhi giovani. Immersi in un vero e proprio universo tecnologico lo schema classico dei ruoli di coppia, ad esempio nel matrimonio e nella procreazione, è per noi ormai insufficiente. Costretti tra l’autodeterminazione e la contraddizione delle politiche conservatrici che ci vogliono precari nel lavoro e rigidi nelle relazioni familiari, i/le giovani vogliono disporre liberamente del proprio corpo e della propria vita. E’ così per i collettivi di giovani donne con le quali abbiamo costruito la campagna referendaria per la procreazione assistita, per le tante che a Milano hanno sfilato per difendere la 194, con tutt* coloro che, insieme a noi, hanno vissuto le mobilitazione sui Pacs. Tutte queste riflessioni, nate dalla partecipazione ai movimenti, hanno permesso alle Giovani Comuniste, ma anche all’organizzazione tutta, di aprire un percorso di genere che guarda alla complessità dei problemi che investono la dimensione della sessualità e del corpo. Molto c’è ancora da fare e da dire. Una ricerca ha bisogno di sperimentazioni, ripensamenti, scomesse e non soltanto di certezze. Ci piacerebbe allora cominciare dal racconto collettivo della nostra generazione, nata dopo gli anni dei referendum sul divorzio e sull’aborto, che non ha ancora contribuito alla costruzione politica di un punto di vista di genere parziale e per questo dirompente. Eppure oggi è rara l’esigenza di una separatezza femminile, politica e sociale. Nelle mobilitazioni le giovani donne attraversano spazi comuni, sempre pieni di ambiguità, a partire da processi materiali come la precarietà, la femminilizzazione del lavoro, e la consumistica “corsa al glamour”. La liberazione del corpo femminile sembra così soddisfatta dal desiderio di essere oggetto di possesso altrui. Nulla di più di un prodotto omologato. Un precipizio, nella perdità di senso, che la cultura cattolica si candida a colmare. E’ in questo spazio che deve irrompere il conflitto politico femminile, diventando patrimonio irrinunciabile anche delle giovani donne, troppo spesso silenziose nel movimento così come nei partiti. Libertà, corpo, emancipazione, desiderio: tutto torna ad avere senso se le pratiche di genere trasformano queste parole in problemi politici, e perciò pubblici, di tutti e tutte. E’ per questo necessario sfuggire alla simmetria che vede fare da contraltare alle donne, nelle organizazzioni politiche classiche, un maschilismo incoffessabile, che riconosce lo strumento delle quote come unica possibilità, perché data sul piano delle forme, di propria autolimitazione. Pensare che il centro possa essere il problema della rappresentanza, pur necessaria, rischia infatti di condurci in un vicolo cieco e di cristallizare il conflitto di genere in una forma neutralizzata, irrilevante sul piano dell’innovazione delle forme di partecipazione alla politica. A partire da queste considerazioni riteniamo irrinuciabile la convocazione, in tempi brevi di un’assemblea nazionale delle Giovani Comuniste per aprire uno spazio di riflessione, narrazione, ricerca per affrontare questi problemi. Uno spazio in primo luogo orizzontale, aperto, capace di intercettare energie ed eleaborazioni, per immaginare che possiamo cambiare la politica e con essa il mondo. Generazione in equilibrio precario Quando parliamo di precarietà non ci riferiamo semplicemente a diritti negati sul terreno del lavoro e alla tipologia contrattuale, ma ad una condizione generale della nostra generazione. Essa si traduce nell’impossibilità di godere effettivi diritti di cittadinanza, di accedere a beni e servizi fondamentali, materiali e immateriali. Essa attraversa la dimensione dell’abitare, la mobilità e i costi dei trasporti, la qualità della formazione, la possibilità di accesso alle informazioni, alle conoscenze, alla cultura, fino ad abbracciare l’incertezza di un modello di sviluppo in crisi e la promessa di un avvenire di guerra, di instabilità, di paura. Precarietà insomma come l’inaccettabile condizione di vita che soffoca oggi la nostra generazione. Una condizione che eccede la dimensione semplicemente economica per diventare esistenziale: “precario” è anzitutto colui che subisce il furto più terribile che si possa fare ad un/una giovane, il furto del proprio futuro, della stessa possibilità di immaginare, progettare e costruire la propria vita. Il riconoscersi in questa descrizione e in questa narrazione della propria condizione soggettiva, ancor prima che la tipologia di contratto o il piano rivendicativo, ha portato in questi anni migliaia e migliaia di giovani precari e precarie a partecipare alle manifestazioni dell’EuroMayDay. E lo stesso immaginario e la stessa voglia di futuro hanno portato in piazza le giovani generazioni di student* francesi nella più grande battaglia e la più grande vittoria contro la precarietà, che non a caso ha avuto il proprio motore nelle nuove generazioni, che sconfiggendo una prospettiva di precarietà reclama autonomia. Proprio per la paura e la difficoltà di guardare al futuro, oggi sono “precari” anche lavoratori e lavoratrici dipendenti con contratto a tempo indeterminato (ad esempio gli autoferrotranvieri o agli aeroportuali), che vivono con ansia l’attesa del domani a causa della crisi industriale ed economica e del continuo ridimensionamento del welfare locale e nazionale. Le élites economiche e politiche nazionali hanno infatti fino ad oggi pensato di rispondere alle trasformazioni del sistema produttivo e alla concorrenza globale solo tagliando costo del lavoro, diritti e spesa pubblica piuttosto che investire in ricerca, innovazione e qualità economica, sociale e ambientale. E’ necessario invertire adesso questa tendenza. E sarà possibile solo continuando, come abbiamo fatto in questi anni, a costruire - insieme a movimenti sociali, pezzi del mondo sindacale, realtà politiche - percorsi pubblici di lotta e di riflessione in grado di elaborare proposte all’altezza del tempo presente, capaci di imporre l’abolizione ed il superamento tanto della legge 30 quanto del pacchetto Treu. Questo percorso passa da una riflessione sulle trasformazioni del lavoro e del sistema produttivo per interrogare un nuovo possibile welfare e la questione, centrale, del reddito. E’ dunque necessario partire da un’analisi attenta della struttura economica e dell’organizzazione del lavoro nelle cosiddette “economie della conoscenza” in cui la produzione di ricchezza è spesso basata sull’utilizzo di risorse immateriali (saperi, linguaggi, comunicazione). Ciò fa sì che oggi anche lavori tradizionali necessitano di ampie capacità di iniziativa, auto-organizzazione e flessibilità, di qui il nuovo paradigma che qualcun* ha chiamato “lavoro autonomo di seconda generazione”. Su questo terreno è necessaria un’azione tesa a trasformare il diritto del lavoro e il sistema della contrattazione collettiva per fornire uguali diritti e garanzie tanto ai lavoratori “dipendenti classici” quanto ai precari che oggi vivono in condizione di abuso e di assenza di diritti, essendo, di fatto, lavoratori dipendenti anche quando hanno margini di autonomia decisionale. Per battere la precarietà non è più sufficiente limitarsi al mercato del lavoro, bisogna ripensare la cittadinanza e i diritti sociali. Un welfare basato su un modello economico e sociale di tipo fordista (in cui ad es. gli ammortizzatori sociali sono costruiti solo sulla figura del lavoratore dipendente) non può più in alcun modo essere adeguato. E’ necessario dunque un nuovo modello di welfare, inclusivo, in cui un ruolo importante riveste un tema su cui in questi anni abbiamo lavorato con impegno e determinazione: la rivendicazione di continuità di reddito per i/le precari. E’questa a nostro avviso una battaglia fondamentale in grado di ricomporre e disegnare un percorso di lotta per soggetti in formazione, lavoratori e lavoratrici frammentat* e invisibili a sfera dei diritti sindacali. Pensiamo a forme di erogazione di reddito, diretto e indiretto, sganciate dalla prestazione lavorativa e legate alla formazione quanto alla cittadinanza (in un senso nuovo e più ampio del termine) e che permet- tano l’accesso a beni materiali e immateriali. Disoccupat*, migranti, donne, student*, tutt* accumunati dall’invisibilità nell’agenda della grande politica, sono i soggetti protagonisti delle mobilitazioni che in questi anni hanno messo al centro queste questioni, chiedendo continuità di reddito per chi non ha rapporti di lavoro stabili, così da essere meno ricattabili dal mercato. Particolarmente preziose sono le esperienze che negli ultimi mesi hanno vissuto nei territori. In molte regioni, infatti, la discussione intorno a proposte di legge o disegni di legge sul reddito sociale, come misura di contrasto alla frammentazione del mercato del lavoro, è all’ordine del giorno. Dopo la sperimentazione, per molti versi assai parziale, del “reddito di cittadinanza” in Campania, dal Friuli fino alla Calabria passando per il Lazio (in cui si è aperto un tavolo tra assessorati e movimenti sociali su questo tema) e la Lombardia (che attende la discussione in Consiglio di una proposta di legge d’iniziativa popolare depositata lo scorso luglio, v. www.redditolombardia.org) l’istituzione del reddito sociale è oggetto di confronto tra istituzioni, soggetti politici e movimenti sociali. Ed è proprio il carattere partecipativo di queste esperienze, cui le/i GC hanno contribuito spesso in maniera determinante, a renderle significative poiché provano a concretizzare sul piano politico e a praticare sul piano legislativo, quello che fino a poco tempo fa era praticato solo su un piano rivendicativo. Ma una rivendicazione richiama ancora questioni ineludibili: ridistribuire i profitti, colpire le rendite, e anche favorire la crescita di “buon lavoro”. E ora pagate il vostro debito (formativo) “Lungo i muri dell’università la curiosità cresce come un rampicante: le menti giovani bramano nuove questioni su cui saggiare zanne da latte” Wittemberg 1519. (Q, Luther Blisset) :::Saperi::: Uno degli elementi più rilevanti dei processi di globalizzazione è l’inedita estensione degli istituti della proprietà privata a terreni che fino ad ora gli erano estranei. Se l’era dell’informazione porta tale nome si può immaginare che ciò sia dovuto anche alla possibilità di recintare e vendere le informazioni, le conoscenze, i saperi esattamente come si è fatto con le terre ai tempi delle enclosures. Così se i saperi divengono immediatamente produttivi ed appropriabili, si trasformano anche i luoghi in cui essi vengono prodotti e trasmessi: le scuole ed università diventano apparati dalla forma e dal linguaggio sempre più aziendali e dai contenuti sempre più tecnici.E si cerca di rendere tali saperi misurabili e quantificabili: ecco il sistema dei crediti e debiti. Perciò è necessario portare al centro del nostro ragionamento la questione della libera circolazione della conoscenza, perché riguarda una contraddizione fondamentale: il tentativo di mercificazione di ogni sfera dell’esistente non tiene conto della natura del sapere, bene sociale, naturalmente in conflitto con la proprietà privata perchè non escludibile all’uso (nel senso che, a differenza delle merci materiali, l’uso di determinati saperi o informazioni da parte di qualcuno non ne esclude l’utilizzo da parte di chiunque altro). Al centro della nostra azione deve esserci la rivendicazione del principio costituzionale del diritto allo studio, inteso come possibilità di accesso per tutte e tutti a ogni livello di istruzione. 5 In questi anni abbiamo imparato a riconoscere quella per i beni comuni come una battaglia fondamentale, tanto per i movimenti quanto per i/le compagn* che ricoprono ruoli istituzionali; da qui gli importanti percorsi per l’acqua, l’aria, l’ambiente ecc. E’ tempo di affermare con forza che tra questi beni pubblici c’è anche la conoscenza, il sapere, la cultura. Questa battaglia per la riappropriazione del sapere come bene sociale, qualitativo non misurabile né appropriabile non può che costruire la sua dimensione politica a partire dai luoghi in cui i saperi vengono prodotti, le scuole e le università. :::Università::: Ripensare l’idea di formazione è nodo centrale della possibilità di immaginare una società diversa. La libera circolazione e socializzazione delle conoscenze, il sapere e la cultura sono le fondamenta della costruzione di una coscienza critica in grado di osservare il mondo dalla prospettiva del cambiamento. Oggi invece le università sono permeate da una logica gerarchica e di classe, che considera “conoscenza” l’acquisizione di informazioni e nozioni tecnicistiche che già nell’immediato domani rischiano di essere già obsolete. Tecnicismo che è il pane dei precari, che è privazione di futuro. E’ impossibile negare che la trasformazione dell’università italiana è speculare a quella avvenuta nel mondo del lavoro: cambiare lavoro spesso e in fretta, cambiare competenze altrettanto spesso e altrettanto in fretta. Ricomporre la separazione tra mondo del lavoro e della formazione è stata la formula per asservire il secondo al primo ed espellere tutto ciò che nei programmi sembrava meno attinente allo sbocco professionale immediato. Tutto ciò che era indispensabile alla figura professionale per non essere precaria a vita ed alla figura sociale per costruire capacità di elaborazione autonoma. L’influenza del mercato e dei privati nella scelta dei programmi attraverso l’erogazione di finanziamenti è un limite forte alla libertà di insegnamento e al carattere critico del sapere. La precarizzazione dei ricercatori e la derubricazione del ruolo dei docenti, insieme alla diminuzione degli investimenti pubblici nella ricerca e nell’innovazione hanno sterilizzato la funzione dell’università pubblica. Nel frattempo le logiche d’esclusione e le barriere d’accesso -come i numeri programmati o le tasse proibitive- sono diventati elementi strutturali del sistema universitario stesso. Le riforme dei percorsi formativi, dal 3+2 alla Y, hanno fortemente abbassato la qualità della didattica e moltiplicato insensatamente le tipologie di corso di laurea sempre più specifiche e tecniciste, con la conseguente diminuzione di spendibilità dei titoli rilasciati dagli atenei pubblici. Fondamentale è quindi l’individuazione dei grandi nodi in cui si intrecciano le battaglie dei ricercatori, degli studenti e delle varie figure della docenza: una critica radicale alla struttura della riforma Moratti e a quella precedente del ministro Zecchino, alla didattica frontale e nozionistica, all’assenza di partecipazione democratica nella gestione delle risorse e nella determinazione dei percorsi formativi e di ricerca, rifiutando i parametri delle leggi di mercato ed assumendo invece, come criterio fondamentale, la funzione pubblica, cooperante e sociale del sapere. Dal 2002 insieme a tanti e tante, da noi differenti, abbiamo costruito una rete nazionale di collettivi, laboratori, esperienze di lotta universitarie. Grazie anche alle sue elaborazioni sono nati negli atenei laboratori autogestiti di saperi, che hanno arricchito la vita culturale e politica delle facoltà, con la collaborazione orizzontale di studenti, ricercatori e docenti, sperimentando esperienze di autoformazione, a volte riconosciute in crediti, che hanno aperto così nuovi spazi pubblici di partecipazione. Poi 6 è venuta la lotta dei ricercatori precari (organiz- zat* nella Rete Nazionale Ricercatori Precari) contro il ddl Moratti sulle carriere universitarie, con i blocchi della didattica, le assemblee, le lezioni in piazza, le azioni comunicative. Il movimento è cresciuto, fino alla incredibile manifestazione studentesca del 25 ottobre scorso (la più grande dai tempi della Pantera) che ha assediato Roma e il parlamento per un giorno intero. Siamo stati partecipi e protagonisti di tutti questi momenti, consapevoli che solo dai movimenti potrà nascere un’università migliore. E per questa non aspetteremo una nuova riforma, né un imprecisato futuro ma abbiamo già iniziato a costruirla, qui e ora. Per approfondimenti vedi le nostre pubblicazioni: > Don’t touch my brain. Ovvero la distruzione dell’università ai tempi della Moratti (ott. 2005) www.gclombardia.it/html/filemiei/vedeuniversita.pdf > Bloccare le fabbriche del sapere (mar. 2003) :::scuola::: Molte ed importanti sono le battaglie che abbiamo combattuto contro le politiche formative del governo Berlusconi. Oggi siamo chiamat* alla costruzione di un percorso nuovo che superi e spazzi via non solo la riforma Moratti ma un quindicennio di trasformazioni in senso aziendale e privatistico della scuola per costruire, a partire dai luoghi della formazione, un modello sociale alternativo. Da molti anni abbiamo scelto di agire nelle scuole a partire dalle esperienze di autorganizzazione, costruendo collettivi in grado di intercettare il più largo numeri di student* e operare a partire dalla materialità dei loro bisogni. Dal 2003 abbiamo lavorato ad una rete nazionale di tutte queste esperienze, l’abbiamo chiamata “Rete Sempre Ribelli” e, come G.C., ci siamo trovati protagonisti di un percorso nazionale che partiva dalle singole scuole. Sempre Ribelli è stata in prima fila in tutte le mobilitazioni contro la Moratti, ha costruito azioni e cortei nelle città, si è fatta promotrice di momenti nazionali di discussione, confronto e riflessione ed ha prodotto due importanti pubblicazioni. A ciò si è aggiunta la significativa esperienza di Farfalle Rosse, nata a Siena ed arrivata alla ribalta della cronaca grazie alla contestazione al cardinal Ruini. Un’esperienza di contaminazione che abbiamo costruito insieme a realtà differenti (fra cui l’UdS), e che ha coinvolto studenti medi e universitari ma anche percorsi di rivendicazione di diritti civili. Oggi abbiamo bisogno di un ulteriore salto di elaborazione, di iniziativa, di radicamento. Sarà infatti nostro compito la battaglia per l’abrogazione integrale della riforma Moratti, ma le politiche del governo Berlusconi non si sono limitate alla legge 53. Non dimentichiamo i milioni di euro che ogni anno stato e regioni stanziano per le scuole private, nè la legge vergognosa per cui gli insegnanti di religione sono assunti dallo Stato ma scelti dalla chiesa. Questo quadro delinea un grave attacco alla laicità della scuola, e questo sarà probabilmente il un altro terreno di iniziativa. Dobbiamo ricordare anche che i problemi della scuola italiana non si risolvono solo cancellando la Moratti. E’necessario imporre al governo un’idea nuova e diversa di scuola, nella convinzione che anche la migliore delle “Grandi Riforme” non sarà all’altezza di rispondere alle esigenze, ai bisogni ed ai sogni del corpo sociale che quotidianamente vive la scuola. Si tratta di immaginare una pratica in grado di entrare nella materialità delle aule scolastiche per avviare una ‘demorattizzazione’ della scuola che venga dal basso e non più dai diktat di Confindustria e Vaticano. Insomma una sorta di consultazione popolare per una nuova legge sulla formazione. Vogliamo allora costruire forme nuove, come le agenzie studentesche autogestite, per cominciare a declinare la scuola che desideriamo, anzitutto più partecipata e simile a com’è nei giorni di occupazione o autogestione: aperta, orizzontale, dischiusa alla libera circolazione dei saperi, di tutti i saperi e non solo di quelli, spesso stantii, dei programmi ministeriali. Per approfondimenti vedi le nostre pubblicazioni: > Liberi di sapere (nov. 2004) www.gclombardia.it/html/filemiei/liberidisapere.pdf > Sempre Ribelli. Reti scuole collettivi (nov. 2003) www.gclombardia.it/html/filemiei/derive-stud.pdf Migranti: i colori dell’invisibilità Nel mondo globalizzato il traffico di merci materiali e immateriali non conosce nessuna frontiera, per le donne e gli uomini invece quelle stesse frontiere sono ancora muri invalicabili. L’idea dello stato-nazione come entità discriminante per la libera circolazione delle persone, è il terreno di coltura di nuovi nazionalismi e razzismi e della costruzione dell’Europa fortezza, “aperta” per i cittadini degli stati membri, “recintata” dalla Direttiva Schengen per tutti gli altri e le altre. Intanto nel nostro paese i/le migranti vivono una condizione doppiamente precaria: privati del diritto di circolazione e costretti a mera forza lavoro priva di ogni diritto. La Legge Bossi-Fini è l’altra faccia della legge 30: la precarietà del lavoro si traduce in una cittadinanza a tempo determinato, che viene meno con l’interruzione del contratto di lavoro. Soltanto l’ultimo decreto flussi ha disposto per 340.000 la prospettiva della clandestinità e il rischio del rimpatrio. Abrogare la Bossi-Fini non basta. Perché non si può tornare alla Turco-Napolitano, ma soprattutto perché è necessario affermare il diritto di fuga da guerre, miseria, morte attraverso percorsi di sensibilizzazione e partecipazione. Significa rafforzare quanto le/i Giovani Comuniste/i hanno prodotto in questi anni nel movimento per i diritti delle/dei migranti. Abbiamo con altr* promosso il boicottaggio attivo della Bossi-Fini e sollecitato le amministrazioni locali a non applicarla, partecipato ai “no border Camp”, tentato di impedire i rimpatri e denunciato, invadendoli, smontandoli, violandoli, disvelando l’inesistenza della “gestione umanitaria” dei CPT. Intanto abbiamo prodotto percorsi importanti per il diritto d’asilo, organizzato scuole di italiano per migranti, prodotto vademecum e opuscoli informativi. Lo stato d’eccezione, è ormai la regola che giustifica le Guantanamo occidentali, le leggi emergenziali sull’immigrazione, e la restrizione di ogni spazio di libertà: “Nessun confine per le/i cittadine/i del mondo!”. Ambiente, il bene comune I modelli di sviluppo dominanti hanno creato delle vere e proprie fratture tra Nord e Sud del mondo e l’erosione della qualità della vita. Essi ci pongono con inedita chiarezza di fronte alla loro insostenibilità sociale ed ambientale. Il tema dei beni comuni è strategico per immaginare l’alternativa di società: è a partire da qui infatti che si può ripensare un modello economico e sociale alternativo ed autonomo. Un nuovo senso comune chiede che l’ambiente e la salute non vengano più monetizzati, privatizzati ed esprime una nuova fiducia nel pubblico. Lo hanno testimoniato, con una nuova radicalità e consapevolezza, le innumerevoli lotte ambientali (Scanzano Jonico come il ponte sullo stretto, il Mose come Acerra e la Val Susa) che sui territori hanno svelato, in termini politici, la contraddizione di fondo tra la produzione quantitativa e la qualità della vita e dell’ambiente, delle relazioni umane e sociali. Questo elemento nuovo è il risultato e alla stesso tempo il presupposto del rideclinarsi del movimento dei movimenti a livello territoriale: è l’uscita dalla crisi di una sinistra che si era impantanata nell’opzione dello sviluppo sostenibile. Ora la necessità è quella di intercettare queste istanze, delle quali noi stessi siamo stat* protagonist*, e trasformarle in un programma che ponga la centralità strategica dei beni comuni, riconoscendo i beni ambientali, naturali e culturali come patrimonio inalienabile dell’umanità, come garanzia sul futuro. Considerare come beni comuni l’acqua, l’aria, lo spazio, l’energia, la biodiversità, il territorio e il paesaggio, la risorse agroalimentari, i beni artistici e culturali, la conoscenza, le scoperte scientifiche, determinerebbe grandi cambiamenti nelle attività economiche e sociali. In tempi in cui il copyright recinta il sapere, l’acqua viene privatizzata e il controllo delle risorse naturali motiva la guerra preventiva, dobbiamo affermare con forza che i beni comuni non possono essere mercificati, brevettati, sottoposti a sfruttamento intensivo e puntare sulle fonti energetiche alternative, con la consapevolezza della limitatezza delle risorse naturali. Ciò è parte del nostro ragionamento sulla nuova cittadinanza, che necessità di nuove politiche pubbliche, di democrazia partecipata per la gestione dei servizi connessi ai beni comuni, a discapito delle forme privatistiche di mercato, che stanno determinando un progressivo smantellamento del welfare, come dimostra la direttiva Bolkenstein. Infine eventi come la mucca pazza, l’influenza aviaria dei polli, ci segnalano come nel ragionamento sulla difesa di beni comuni dell’ambiente sia necessaria e non rimandabile una riflessione ancora tutta da fare sugli allevamenti e sui diritti degli animali. Nord: modernizzazione senza modernità La crisi economica del nord Italia ha colpito grande, media e piccola impresa. I distretti, punto di forza e qualificato del sistema produttivo nazionale, con i processi di automazione vengono delocalizzati nei paesi in cui il costo del lavoro è più basso. Migliaia di ore di cassintegrazione, precarietà sempre più diffusa, laboratori di iperflessibilità mettono in luce un mondo a cui la sinistra tradizionale non sa dare risposte. Tav, centri fieristici, Mose sono la modernizzazione senza modernità, opere che devastano l’ambiente e distruggono città e comunità. L’insicurezza sociale, la precarietà vengono tradotte dalle destre in controllo e repressione. Nel corso delle Olimpiadi il centro della città è stato “pulito” da qualsiasi dissenso e diversità. A Torino come a Genova e a Milano i migranti sono obiettivo di una caccia all’uomo con esiti sempre più tragici. Un nord in crisi e alla ricerca di una nuova identità è lo spazio dentro cui le e i Gc devono ripensarsi. Dobbiamo promuovere con altre\i percorsi di inchiesta per la conoscenza e la costruzione di coscienza. Indagare con le reti contro la precarietà la condizione di una generazione: conoscenza e coscienza per uscire dalla invisibilità. SUD RIBELLE Sul sud si è scritto, si è ragionato come della perife- ria di un impero, come di un nord mancato, di un qualcosa che avrebbe dovuto essere e non è stato. Troppo a lungo lo si è analizzato sulla base di categorie culturali dominanti, guardato con le lenti dello sviluppo atlantico, “industrialista”, quello della velocità e dell’ossessione produttiva. Da qui l’esigenza per il sud di rompere la convinzione che la direzione della storia sia solo nord ovest, di pensarsi in autonomia, riconsiderando le proprie risorse culturali e territoriali. Il Mezzogiorno lo pensiamo centro dell’Europa mediterranea. In questa prospettiva il Mediterraneo diventa braccio di mare che collega le differenze, mare-ponte, antidoto a un regionalismo soffocante. Mare di frontiera, che appartiene a tutt*, incrocio di culture e storie. Intersezione di deserti e modernità, Luogo di passaggio, di transito. Non rinunciamo al sogno che da quel mare possa sparire la cattiva coscienza di diritti negati e che i suoi fondali, testimoni di morte, non debbano più dividere il privilegio dalla necessità. Conosciamo anche il sud sospettoso e arroccato, un sud che si uccide, dopo aver disonorato la sua bellezza. Il sud che non rispetta i beni comuni. Il sud di sofferenza, delle migrazioni forzate per un lavoro che non c’è, del sud che nutre il braccio armato del neocolonialismo di guerra. Sono nostri compagni di scuola i militari morti in Iraq, quelli per cui le missioni sono a volte l’unica possibilità per immaginarsi un futuro. Il sud è anche quello dei quartieri di Bari, Napoli, Reggio Calabria e Palermo senza comunità e senza servizi, senza identità e senza pietà, dove la sofferenza si alimenta di assuefazione alla violenza che la precarietà ha acuito ed esasperato. Ma a sud una giovane generazione ha deciso di incominciare un viaggio, quello di una scommessa di trasformazione, di rinnovamento radicale. E il mezzogiorno è stato scenario di conflitti contro rigassificatori, inceneritori, discariche, contro l’abusivismo. Da Scanzano, a Melfi, a Acerra, a Punta Perotti di Bari, al Parco Corvaglia di Lecce è emersa una cittadinanza attiva e plurale: le donne e gli uomini che volevano cambiare la propria terra sono diventat* tessuto di democrazia e partecipazione, hanno liberato energie intellettuali e passioni civili. Su un muro del Salento, durante le scorse elezioni regionali, c’era scritto: “Mai nessuna epoca ha meglio propagato, pur annebbiandosi con inevitabili confusioni, la sensazione che tutto si giochi adesso” (R. Vaneigem). Era nell’aria: con quelle elezioni, in Puglia, poteva incominciare un pezzo di storia nuova. Si era già esternato un bisogno di decidere oltre la delega affidata ai partiti, una voglia di colmare l’abissale distanza tra palazzi e bisogni diffusi. Vendola era la denominazione corrente di una straordinaria avventura collettiva irriducibile ad una persona singola, che potrebbe rivivere in Sicilia con la vittoria di Rita Borsellino. :::Antimafia sociale::: “la mafia è una montagna di merda” (P. Impastato) Una nuova vita del sud non può nascere che dalla fine delle mafie. La criminalità organizzata è stata derubricata dall’agenda politica e, dopo la stagione della primavera palermitana, la società civile è tornata nel silenzio. Negli ultimi anni la criminalità organizzata, in tutte le sue ramificazioni territoriali, ha di fatto modificato la sua costituzione; un’operazione necessaria per continuare a mantenere un controllo diretto sul territorio assecondando i mutamenti della struttura produttiva. Il passaggio che ha fatto compiere il salto qualitativo in questa direzione è la deterritorializzazione dei suoi interessi criminali e delle sue ricchezze economiche. Vere e proprie holding del crimine in Sicilia come in Calabria hanno saputo collocarsi nella finanziarizzazione dell’economia. Ancora una volta le istituzioni preposte alla lotta alle mafie non sono state in grado di rispondere alla loro intraprendenza. Oggi la speranza è riposta in quei ragazzi e ragazze che ai tempi delle stragi erano bambini ma che oggi trovano il coraggio di rialzare la testa e scendere in piazza a Locri all’indomani dell’omicidio di Fortugno. Così come i ragazzi del comitato ‘Addio Pizzo’ hanno tappezzato Palermo con manifesti listati a lutto con su scritto: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità” invitando a sostenere i commercianti che denunciano gli estorsori. I Forum Sociali Antimafia a Cinisi, le carovane, riuniscono migliaia di giovani che discutono del rilancio della lotta alle mafie. Queste esperienze ci raccontano di ragazze e ragazzi che frappongono il proprio corpo al potere mafioso. L’antimafia sociale ricolloca il fenomeno mafioso nella sua dimensione e lì agisce. Colpendo l’abusivismo edilizio, la privatizzazione dei servizi, la difesa di un’informazione libera, solo per citarne alcuni. L’antimafia non è solo l’attività delle procure e l’indagine di polizia, ma una presa di coscienza collettiva. E’ dovere politico delle e dei giovani comunist* impegnarsi con le associazioni, prima fra tutte Libera, nella lotta per la confisca e la riutilizzo a fini sociali dei patrimoni mafiosi. Per questo crediamo che la riscossa possa cominciare da quei giovani costretti ad emigrare, molti sperano un giorno di poter tornare in città e paesi senza più mafia. Controllo e repressione “La conoscenza è soltanto conoscenza. Ma il controllo della conoscenza, questa è la politica.” (B. Sterling) Il cosiddetto crollo delle ideologie, la globalizzazione, il primato del mercato su stato e politica hanno progressivamente eroso i poteri degli stati nazionali, per i quali l’esercizio del monopolio della forza fisica appare oggi come principale funzione residua insieme all’amministrazione della giustizia, o meglio della somministrazione della sanzione. E’ per questo che oggi il loro potere è indissolubilmente legato alla proliferazione di paure urbane a cui rispondere con sicurezza/repressione. Il termine ‘sicurezza’ non è più associato, nel senso comune, a dispositivi atti a garantire il benessere sociale, ma ad una sicurezza militare (la difesa nazionale da terrorismo e minacce esterne) ed una sicurezza poliziesca (la difesa individuale da criminalità e da tutte quelle che la ‘chirurgia sociale’ recinta come sacche di rischio). La criminalizzazione della miseria e la costruzione del nemico pubblico sono oggi strumenti indispensabili al potere per la sua riproduzione. Per questo il neoliberismo è indissolubilmente legato al controllo e all’esclusione sociale. Esso costruisce paura intorno agli ultimi, ai poveri, ai tossicodipendenti, agli emarginati e ai migranti e si occupa di relegarli in luoghi sicuri, le carceri nelle sue varie specificazioni (CPT, istituzioni coatte ecc.). In Italia il governo Berlusconi ha contribuito notevolmente ad alimentare ansie e paure sociali cui rispondere con provvedimenti fortemente repressivi. La legge Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi, la legge sulla legittima difesa, sono solo alcuni di questi. Ad essi si aggiunge un’ondata repressiva volta a mettere sotto accusa una generazione intera. Tantissimi sono stati i procedimenti giudiziari a carico di attivist* del movimento. Tanti gli episodi sconcertanti, dall’omicidio di Dax a quello di Federico Aldovrandi, così come le morti che quasi quotidianamente si susseguono all’interno delle carceri. :::antiproibizionismo::: Giusto o sbagliato non può essere reato! 7 In questi anni siamo stati protagonisti di un nuovo movimento antiproibizionista, come GC abbiamo partecipato ad esperienze collettive come Confinizero, MDMA, Million Marijuana March. Crediamo che una nuova normativa in materia di droghe debba assolutamente passare attraverso la non punibilità dell’uso delle sostanze. Occorre distinguere nettamente consumatori e narcomafie. Casi come quello di Giuseppe Ales a Pantelleria, suicidatosi per la vergogna di essere stato arrestato per due germogli di marijuana, non devono più accadere. Deve essere rilanciata la centralità dell’intervento pubblico, bisogna avviare campagne informative con percorsi partecipati nelle scuole, nei posti di lavoro e in tutti i luoghi di aggregazione giovanile. Occorre abrogare immediatamente la legge FiniGiovanardi, ma superare anche l’impostazione proibizionistica della Jervolino-Vassalli, con la legalizzazione delle droghe leggere e l’autocoltivazione della marijuana, con particolare attenzione all’uso terapeutico. Riteniamo necessario che il nuovo Governo convochi immediatamente l’assemblea nazionale sulle droghe, senza aspettare i quattro anni, e che avvii un vero percorso partecipato con gli operatori, gli esperti, i movimenti per riscrivere dal basso una nuova normativa in materia di droghe. Nuove destre “Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, dal fondo brutalmente egoista di una società”. (P. P. Pasolini) Le nuove destre con l’avvento della globalizzazione neoliberista sono diventate un fenomeno in continua trasformazione e crescita. Il pensiero unico ha messo in serio pericolo comunità, culture e tradizioni, il timore di una perdita dei diritti sociali è diventata perdita dell’identità. È questo il motivo per cui il protezionismo economico ha sedotto anche 8 parte della piccola impresa e per altro verso la concorrenza della manodopera immigrata induce larghi strati di proletariato urbano e contadino verso un razzismo più o meno velato. In Europa come in Italia è in atto una ricomposizione tra filoni di pensiero nazionalisti, conservatori, cattolici e populisti è congeniale alla formazioni di destra che da tempo sono al Governo. In Europa come in Italia, formazioni politiche di ultra destra come l’FPOE in Austria, il Partito del popolo in Danimarca, il Partito del progresso in Norvegia stringono alleanze di governo con la destra moderata. Nelle recenti elezioni politiche poi Berlusconi ha costruito un’alleanza con il MS Fiamma Tricolore, Forza Nuova, Alternativa sociale, Fronte Nazionale ha di fatto sdoganato formazioni in contrasto palese con la Costituzione. Nei governi locali queste formazioni costruiscono il consenso attraverso campagne sull’ordine e la sicurezza. Immigrazione, prostituzione, nomadismo e omosessualità, catalizzano le paure delle giovani generazioni che vivono in condizioni di precarietà. Le periferie, gli stadi, i movimenti dei disoccupati, ma anche le scuole, sono i luoghi prescelti per il reclutamento attraverso parole d’ordine semplici ma efficaci: identità, tradizione, fede, patria. Il numero degli aderenti è in crescita e la composizione nelle grandi città è una mescolanza di criminalità e gruppi ultras. Interi circuiti di centri sociali, bar, negozi d’abbigliamento, assicurano ingenti fonti di finanziamento. Negli ultimi anni c’è stata una forte ripresa delle azioni squadriste contro immigrati, ma anche imboscate contro compagne e compagni dei Gc e dei centri sociali. L’omicidio di Dax a Milano è la tragica conseguenza della commistione tra violenza criminale e intolleranza. Bisogna resistere alle aggressioni costruendo nuovi spazi di socialità e riconquistando quelli persi questo è il nostro antifascismo. Contro queste pericolose tendenze eversive dobbiamo riscoprire e diffondere i valori della Resistenza, tanto più oggi che per ragioni anagrafiche le/i partigian* , testimoni diretti di questo straordinario movimento, non possono rappresentarlo con la stessa forza di ieri. Molto preoccupante è la comparsa di un nuovo antisemitismo che va diffondendosi in Europa. Negazionismo d’antan e antisionismo acritico privo di senso storico ne sono i segnali che si aggiungono ad un generale atteggiamento ostile contro tutto ciò che ebraico. Aggressioni a singoli e atti vandalici contro sinagoghe e cimiteri ebraici sono ulteriori segni di un rigurgito violento. L’antifascismo ci ha segnato che la shoah è una memoria collettiva. Condanniamo fermamente questi atti che putroppo, a volte rinvengono anche a sinistra. Cultura, comunicazione, creatività e libero accesso ai saperi Lo sviluppo nella società dell’informazione e della comunicazione del lavoratore cognitivo, d’intelletto, ha assunto, specie per le nuove generazione, un carattere pressoché di massa. Questo lavoratore, precario, flessibile e creativo è da tempo il campo di sperimentazione delle nuove forme di sfruttamento della conoscenza. Da Seattle ad oggi molte sono state le forme di autorganizzazione che questi cognitari hanno messo in campo: gli intermittenti dello spettacolo, i ricercatori precari, gli studenti, i mediattivisti e i promotori del copyleft e dei creative commons. Queste esperienze svelano la debolezza del modello competitivo dominante fino ad invalidare i principi basilari della globalizzazione economica, come la proprietà privata. Si pensi alla campagna sui creative commons, a quella sull’open source e, più semplicemente alle migliaia di giovani che scaricano ogni giorno film, musica, software, con la naturalità di chi pensa che la cultura, l’arte e la conoscenza siano di pubblico dominio. Pensiamo che lo sviluppo e la promozione di spazi di autorganizzazione sociale e cretiva (case editrici underground, mediattivismo, spazi pubblici autogestiti, radio comunitarie, librerie associative, esperienze di cooperazione internazionale dal basso, videomaker) parla di noi, della nostra condizione e della nostra vita. Per questo creare e costruire dibattito e proposte sull’accesso (inteso come produzione e fruizione insieme) a saperi, conoscenze, arti e linguaggi, è il metodo che oggi individuiamo come strategico per il nostro agire politico futuro. TRASFORMIAMO IL PRESENTE, CONQUISTIAMO IL FUTURO Firmatari (in neretto i membri del coordinamento nazionale GC): Maringiò Francesco (coordinamento nazionale GC),, Bonaccorsi Manuele (coordinamento nazionale GC),, Goretz Yassir (coordinamento nazionale GC),, Lindi Letizia (coordinamento nazionale GC),, Lobina Enrico (coordinamento nazionale GC),, Sciotto Luigi (coordinamento nazionale GC)), Pusceddu Emanuele (coordinatore regionale GC Sardegna), Bregola Irene (coordinatrice provinciale GC Ferrara), Giordano Agostino (coordinatore provinciale GC Bologna), La Sala Diego (coordinatore provinciale GC Pistoia), Luca Francesco (coordinatore provinciale GC Vicenza), Marasà Giorgio (coordinatore provinciale GC Enna), Sanfilippo Dario (coordinatore provinciale GC Caltanissetta), Albanese Carmelo (coordinamento reg. GC Sicilia), Albertini Veronica (GC Roma), Allevi Juan Josè (coordinamento provinciale GC Pavia), Anselmo Simone (CPR Liguria), Barbarino Marco (coordinamento provinciale Catania), Barnaba Federico (GC Roma), Belmonte Alessandro (segretario circolo Ottobre Rosso), Benazzi Alessandro, (segretario circolo Funo-Argelato), Benedetti Alberto (capogruppo PRC comune Colle Salvetti), Bertani Virginia (GC Massa Carrara), Bertoldi Elisa (GC Schio), Bilancieri Fulvia (segreteria provinciale Livorno), Billè Tamara (GC Schio), Bonsignore Romeo (consigliere comune San Cataldo – Caltanissetta), Brini Valerio, (GC Nettuno), Carlesi Stefano (GC Massa Carrara), Carlomagno Giuseppe (GC Lauria), Cavallari Ilaria (GC Comacchio), Cherchi Emanuele (segretario circolo Acqui Terme), Chiesa Jonathan, (Coordinamento GC Milano), Cinti Paolo (GC Fermo), Conti Ivano (GC Ravenna), De Bianchi Silvia (CPF) Roma, Desantis Piergiorgio (coordinamento provinciale GC Siena), Di Gennaro Valentina (coordinamento regionale GC Lazio), Di Nanno Luca (CPF Varese), Diciolla Rossana (GC Conversano – Bari), Donati Ivan (GC Milano), D’onghia Mimmo (direttivo circolo Conversano – Bari), Doronzo Sara (CPF Torino), Ezzelini Storti Giuliano (segretario circolo Recoaro Terme), Farinelli Carmelo (GC Milano), Fontanili Gianfranco (GC Reggio Emilia), Forassiepi Simone (GC Versilia), Fortinguerra Francesco (direttivo circolo Torremaggiore – Foggia), Genua Fabrizio, (segretario circolo PRC Busseto – Parma), Gigantino Rosita (CPR Campania), Giorgetti Claudia (GC Perugia), Grillo Egidio, (GC Nemoli – Potenza), Guarini Carlo (CPR Puglia), Lanzi Paola (consigliera regionale Sardegna), Liscia Alberto (coordinamento provinciale GC Cagliari), Lisi Daria (CPF Bologna), Lofano Francesco (direttivo circolo Conversano – Bari), Lorefice Bartolo (assessore comune Scilli – Ragusa), Losito Leonardo (GC Lecce), Losurdo Federico (GC Urbino), Maffei Andrea (GC Versilia), Maffione Barbara (GC Napoli), Maffione Daniele (coordinatore GC circolo Lenin – Napoli), Marras Mattia (esecutivo provinciale GC Cagliari), Martini Andrea (coodinamento provinciale GC Ancona), Metella Alyosha (segreteria provinciale Trento), Miglioranza Marco (coordinamento provinciale GC Vicenza), Montefusco Giovanni (segretario circolo PRC Vomero – Napoli), Morleo Gabriele (CPF Bari), Nocchi Gianni (GC Rosignano – Livorno), Oggionni Simone (CPR Emilia Romagna), Pangallo Filippo (CPF Bologna), Pappalardo Marco (GC Bologna), Parziale Fiorenzo (GC Benevento), Pasquinelli Fabio (coodinamento provinciale GC Ancona), Pellegrini Enrico (segreteria provinciale Pistoia), Peretto Alain (segreteria provinciale Varese), Perigè Giampaolo (GC Macerata), Persano Alessandro (coordinatore GC Lecce), Piga Agostino (GC Gallura), Piroddi Marcello (sindaco comune Jerzu – Ogliastra), Pisa Gianmarco (esecutivo regionale GC Campania), Porcu Silvio (GC Nuoro), Quaranta Giuseppe (segreteria provinciale Bologna), Razzino Romina (GC Brescia), Regoli Alice (consigliera comune Colle Salvetti – Livorno), Rossi Cristian (GC Versilia), Rossi Giacomo, (segretario circolo Osimo – Ancona), Rossini Andrea (GC Milano), Salbego Giacomo (CPF Verona), Santececca Sandro (GC Roma), Sorrentino Tommaso (GC Napoli, Filcem-CGIL), Spadaro Pierangelo (GC Catania), Tedesco Antonio (coordinatore GC Urbino), Testoni Gianluigi (segretario circolo Usini – Sassari), Tocco Walter (segreteria provinciale Medio Campidano), Tomassoni Franco (coordinamento GC Ancona), Tremesberger Daniel (GC Pordenone), Trentin Massimiliano (GC Schio – Vicenza), Tundo Alessandra (coordinamento GC Bologna), Turcato Gianni (GC Schio), Ussi Arianna (GC Massa Carrara), Vatteroni Elena (coordinamento regionale GC Toscana), Vecchi Andrea (GC Reggio Emilia), Violante Elisa (CPR Emilia Romagna), Volpi Nicola (GC Versilia), Zanetti Chini Emilio (GC Roma) La nostra Conferenza La III Conferenza Nazionale delle/i Giovani Comuniste/i (d’ora in avanti: GC) si apre in un momento molto delicato per il Paese e per la nostra organizzazione. Viviamo una nuova fase politica, ricca di contraddizioni e rischi, ma anche di importanti opportunità che non dobbiamo farci sfuggire. Per questo riteniamo necessario fare un bilancio della linea politica assunta nella scorsa Conferenza e del lavoro svolto negli ultimi quattro anni ed avanzare una proposta politica capace di favorire il rilancio della nostra organizzazione. Negli ultimi quattro anni i GC hanno cambiato continuamente la propria linea politica: sono passati dalla disobbedienza alla non violenza, dalla critica radicale del quadro politico all’accordo incondizionato con l’Unione, dalla lotta al fianco dei movimenti all’ingresso nel governo. Di queste svolte repentine i GC hanno molto sofferto, soprattutto sul piano della capacità di costruire iniziativa politica e lotte, nei movimenti e nei territori. Il nostro partito è oggi all’interno di una compagine governativa politicamente debole: uscita vincitrice per pochi voti dallo scontro con le destre, è divisa su molti temi fondamentali, dal lavoro alla guerra, dall’immigrazione all’istruzione. Nei mesi che ci hanno avvicinato alla scadenza elettorale abbiamo più volte criticato la linea del partito, denunciando la debolezza di un programma inadeguato che non riusciva a superare quelle contraddizioni che parte del centrosinistra porta con sé dall’inizio degli anni ’90, quando ha avuto corso la distruzione dei diritti sociali e del lavoro e la crisi della nostra democrazia. Quale deve essere il ruolo dei GC in questa fase? Temiamo che la nostra organizzazione subisca un appiattimento istituzionale e non vogliamo che ciò accada. Non vogliamo interloquire con un “governo amico” ma costruire un’organizzazione giovanile comunista che si ponga l’ambizioso obiettivo di radicarsi e rafforzarsi nelle lotte, che costringa con le proprie battaglie il prossimo governo ad una radicale alternativa, che inverta il ciclo che rende le nuove generazioni più povere, deboli e impotenti delle precedenti. Il percorso che ci ha condotti a questa Conferenza, purtroppo, non è di buono auspicio e non ci aiuta ad affrontare con serenità e spirito unitario questo difficile passaggio. La maggioranza del gruppo dirigente si è persino rifiutata di presentare una proposta di documento che fosse da stimolo per la discussione di tutti gli iscritti e definisse il terreno di confronto su cui misurare convergenze e divergenze. Consideriamo tutto ciò molto grave: si è scelto di perpetuare le differenze che ci avevano diviso in passato, con una prospettiva di totale chiusura al dialogo. Fatto – questo - ancora più grave se si pensa che la Conferenza è stata più volte rimandata, proprio per avere il tempo di organizzarla. In questo ultimo anno si sarebbe quindi potuta avviare una discussione in tutta l’organizzazione e potuti mettere a fuoco i temi sui quali concentrare il dibattito. Ciò non è stato fatto ed ora ci troveremo a fare centinaia di assemblee in appena quattro o cinque fine settimana. Ci troviamo – dicevamo - nella paradossale situazione di presentare una proposta alternativa, ma alternativa non sappiamo a cosa. Rispetto a molti temi, probabilmente, le diverse sensibilità presenti nella nostra organizzazione avrebbero potuto trovare delle convergenze. Ma in assenza di una volontà di dialogo, non possiamo far altro che avanzare una proposta politica complessiva, certamente un po’ lunga. Ce ne scusiamo rimandandovi alla sintesi del documento, scaricabile dal sito www.lernesto.it. Questa III Conferenza Nazionale costituisce un tas- sello fondamentale nel progetto di costruzione, in Italia, di una moderna organizzazione giovanile comunista e sarà per tutti noi un momento irrinunciabile di confronto: ci permetterà di crescere, di conoscerci meglio, di capire, di dare nuova linfa alle nostre speranze e alle nostre lotte. Questa è la sfida che abbiamo davanti. ://PARTE I La condizione giovanile in Italia Il paradigma della precarietà e gli impegni dei Giovani Comunisti Esiste nel nostro Paese una complessa “questione giovanile”: la nostra è, dal dopoguerra, la prima generazione a conoscere condizioni di vita peggiori di quelle dei propri genitori. Viviamo in una società dominata dal grande paradigma della precarietà. Nel 2004 il 70% dei nuovi ingressi nel mercato del lavoro è avvenuto con contratti a termine; di questi il 95,1% non si è trasformato in un contratto a tempo indeterminato: la condizione di precarietà, dunque, non è solo un momento di passaggio, ma una realtà duratura e totalizzante. La disoccupazione giovanile si attesta intorno al 28%, con punte che nel Mezzogiorno sfiorano il 59%. Intere generazioni sono escluse dal lavoro e contemporaneamente dai processi di istruzione e di formazione. In questo quadro la Legge 30 prosegue nel solco della flessibilizzazione aperto dal “Pacchetto Treu” e diventa lo strumento attraverso cui viene imposta una condizione insopportabile di precarietà. La formazione dovrebbe rappresentare la via d’uscita principale da questa realtà ma il mondo dell’istruzione disegnato dalla Moratti si configura, all’opposto, come una palestra di addestramento alla precarietà permanente: ritorna, come nel dopoguerra, la selezione di classe che colpisce fasce sempre crescenti di giovani. Viviamo infatti in un contesto culturale regressivo: oggi paghiamo i frutti avvelenati di un’epoca di riflusso che, a partire dagli anni ’80, ha contrapposto alla solidarietà sociale un modello di società basato sull’arrivismo, sull’individualismo e sulla prevaricazione. In questa condizione, figlia delle sconfitte del movimento operaio e dell’avanzata speculare del liberismo più aggressivo, si innesta il virus del “berlusconismo”. Una cultura che si è diffusa e radicata giocando sugli impulsi più viscerali e torbidi del paese, interpretando una tendenza di fondo della nostra storia nazionale: una miscela di egoismo sociale, indifferenza e qualunquismo. Il “Manifesto per l’Occidente”, scritto da Marcello Pera in nome di una presunta salvaguardia dei valori e della cultura occidentali, costituisce l’impalcatura ideologica di questa ondata di destra che, nell’ottica neo-coloniale della “lotta al terrorismo”, attua nel nostro Paese uno stato d’eccezione permanente. Contemporaneamente assistiamo ad una crociata integralista, culturale e politica, condotta da settori rilevanti delle gerarchie vaticane sul terreno dei diritti civili, delle donne e della morale sessuale. Siamo in presenza di un nuovo integralismo che punta al consenso stuzzicando il ventre molle di una società insicura economicamente e fragilissima dal punto di vista dei valori e degli ideali. Come GC dobbiamo essere in grado di raccogliere ed interpretare il disagio ed il senso di profondo 9 disorientamento che vivono i giovani nel nostro trovano lavoro, un terzo si trasferisce al Nord. Eppure nel Mezzogiorno la nostra organizzazione ha molte delle sue forze migliori: lo dimostra non solo l’elevato numero degli iscritti, ma anche la capacità di essere parte di lotte importanti (Melfi, Scanzano, Acerra). In molti comuni i nostri circoli sono l’unico antidoto ad un tessuto sociale di emarginazione, disoccupazione, criminalità: centri di aggregazione, di formazione e di produzione di lotte indispensabili, realtà ricche di iniziative, esperienze, proposte. Al Mezzogiorno, dunque, la nostra organizzazione deve dare una nuova centralità, mettendo in rete realtà importanti che spesso trovano difficoltà a comunicare tra loro. In questo senso proponiamo di dar vita, dopo la Conferenza, ad un Attivo Nazionale dei GC del Mezzogiorno, con l’obiettivo di realizzare entro l’autunno prossimo una nuova “marcia per il Mezzogiorno”, che metta al centro il tema del diritto al lavoro, le battaglie in difesa dell’ambiente e la lotta alla criminalità organizzata. È una priorità non più prorogabile. Un lavoro politico che si proponga lo sviluppo e l’emancipazione del Mezzogiorno deve necessariamente individuare nel tema della lotta alla criminalità e alle mafie un proprio carattere distintivo. tica, economia e finanza. Per fare ciò occorre organizzare da subito una Conferenza Nazionale sulle Mafie incentrata sul confronto tra le forze sociali, politiche e giudiziarie; b) sostenere tutte le iniziative che si muovono sul terreno dell’antimafia sociale come le straordinarie manifestazioni dei “ragazzi di Locri”, che hanno visto un impressionante partecipazione giovanile; c) organizzare localmente comitati di controinformazione, redazioni aperte all’esterno, ai movimenti, alle forze sociali facendo vivere quotidianamente la pratica dell’antimafia sociale, così come ci ha insegnato Peppino Impastato; d) costruire una cultura dell’antimafia attraverso un lavoro di promozione culturale per chiarire la relazione esistente tra le privazioni sociali, l’aumento della povertà, la mancanza di sviluppo e di occupazione da un lato, e il proliferare del fenomeno mafioso dall’altro. La partita decisiva si gioca sul terreno sociale dando sostegno attivo alle forze politiche e sociali che combattono la mafia. È inoltre necessario che i GC si adoperino per stimolare forme di conflitto ed aprire, per questa via, l’orizzonte della liberazione dal potere mafioso. Mafia e antimafia sociale Lavoro/i Non pensiamo che il fenomeno mafioso sia un appannaggio esclusivo delle regioni meridionali: esso investe ormai tutto il Paese. Tuttavia il Mezzogiorno è stato storicamente contraddistinto da una costante dialettica tra classi dirigenti e poteri mafiosi che opprimono e ricattano la popolazione. Si tratta di una strategia che mira all’acquisizione di sempre più alti profitti o attraverso l’utilizzo della forza militare in contrapposizione allo Stato o attraverso il controllo delle principali arterie economiche. E’ accaduto così che numero incredibilmente alto di cittadini, lavoratori, dirigenti comunisti e socialisti, giornalisti e sindacalisti, è stato ucciso perché colpevole di rappresentare un altro Meridione: quello di chi non si rassegna alla povertà e alla subordinazione e lotta, in nome di una dignità individuale e collettiva, per il riscatto delle popolazioni meridionali e per lo sviluppo della propria terra. La fase attuale della lotta alla mafia è molto complessa. La cattura del boss Bernardo Provenzano, ha certamente inflitto un colpo duro alla mafia, tuttavia non si può non tenere nel conto la storica capacità auto-riproduttiva dell’organizzazione. Dopo le stragi del 1992 (in cui furono ferocemente uccisi i giudici Falcone e Borsellino e gli uomini delle scorte) che hanno segnato la fine della strategia “corleonese”, la mafia è diventata “silenziosa”. Ha ridotto al minimo gli scontri a fuoco ma ha aumentato esponenzialmente i propri profitti divenendo essa stessa lo Stato. Nel Mezzogiorno oggi la mafia ha assunto il controllo assoluto di intere zone e si rafforza con la crescente contiguità tra mafia e politica.Di fronte a questa realtà occorre che i GC facciano un salto di qualità. Per troppo tempo si è commesso l’errore di non affrontare adeguatamente il tema delle mafie e, soprattutto, di lasciare ai soli compagni del Sud l’iniziativa su questo terreno. Ciò è stato ancora più grave poiché l’investimento complessivo su questa tematica non è solo contingente ma anche strategico. Infatti le politiche neoliberiste non ci consegnano solo il dato drammatico della crescita dell’incertezza e della precarietà ma, soprattutto, ci dicono che tutto ciò è andato a totale vantaggio dei diversi poteri forti, mafia inclusa. Sulla base di queste considerazioni, occorre articolare l’iniziativa dei Giovani Comunisti intorno a quattro assi fondamentali: a) analizzare le connessioni esistenti tra mafia, poli- Precarietà: il nuovo alfabeto di una generazione senza diritti Dopo le conquiste sociali ottenute tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 il capitale è passato alla controffensiva riducendo gradualmente i diritti dei lavoratori. Questo processo è stato portato alle estreme conseguenze con la legge delega di riforma del mercato del lavoro voluta dal governo Berlusconi. La Legge 30 si basa sulla riduzione del costo del lavoro, sulla flessibilizzazione estrema e sulla mercificazione della forza lavoro, perseguendo un modello di sviluppo iniquo in cui l’unica competizione possibile è quella al ribasso dei costi, in cui è svilita e smantellata la formazione professionale, la sicurezza del e sul lavoro, nonché l’importanza del lavoro nella costruzione dell’identità di ciascuna persona. Il lavoro è infatti il principale mezzo di sostentamento, di progresso sociale e di crescita economica per milioni di cittadini, componente essenziale ma non unica per la realizzazione di se stessi e la soddisfazione dei propri bisogni. Dando vita ad una condizione permanente di precarietà si tiene invece ogni singolo lavoratore sotto il ricatto continuo dell’impresa e dei suoi interessi. Il risultato è la totale cessione, dal lavoratore all’impresa, del proprio tempo di vita. Mentre le forme contrattuali si moltiplicano, la precarietà lavorativa, anche a causa della distruzione del sistema di tutele del Welfare, si traduce in precarietà sociale e investe tutta la vita. La classe lavoratrice è divisa, spezzettata, segmentata in mille figure contrattuali diverse, privata di contratti nazionali di riferimento: dunque strutturalmente incapace di trovare linguaggi universali e luoghi di sintesi politica ed organizzativa. La lotta al lavoro precario deve diventare uno degli elementi fondamentali dell’attività politica dei GC. Per questo proponiamo la costruzione di sportelli anti-precarietà in tutte le grandi città e di impegnarci nell’organizzazione di una Campagna Nazionale contro la Precarietà, con la realizzazione di un portale internet (strumento per mettere “in rete” l’atomizzato mondo dei precari) e la pubblicazione di materiale informativo per orientarsi nella babele dei contratti voluti dalla Legge 30. Ovviamente è importante il lavoro nei sindacati, dalle RdB-Cub alla Cgil. La precarietà non è avulsa dal contesto generale del conflitto capitale-lavoro: per questo rileviamo che la nascita del Nidil (che pure vede un forte impegno dei GC in tante realtà), ossia di una categoria specifica per i lavoratori precari, continua a percorrere, suo malgrado, la strada della frammentazione. Al contrario, per rafforzare le lotte dei lavoratori precari, è necessario porsi l’obiettivo di una ricomposizione delle forze sociali. Nella ricerca di unità nel mondo del lavoro, dunque, va individuato il terreno centrale di lotta e mobilitazione per le nuove generazioni. La sola richiesta di un’estensione dei diritti di cittadinanza, al contrario, sposterebbe l’attenzione sul versante distributivo, senza mettere in discussione il potere, ormai quasi assoluto, di cui godono i padroni sui luoghi di lavoro. Dunque bisogna difendere e rilanciare con forza la contrattazione collettiva e il diritto al lavoro tutelato in opposizione ai “sacrifici” imposti dai parametri economici dell’Europa e dalla direttiva Bolkestein. Sul piano politico, le nostre proposte per combattere la precarietà sono: ::: la riunificazione, nei vari siti lavorativi, di tutti i contratti, che devono essere inseriti in uno stesso contratto unico, collettivo e nazionale. Più si è uniti, più si è forti. Bisogna arrivare ad un contratto unico dell’industria in Italia ed ai contratti unici di categoria in Europa; ::: la cancellazione della Legge 30 ed il rifiuto categorico di tornare al Pacchetto Treu; è indispensabile approvare al più presto un’efficace legge sulle rappresentanze. Occorre riqualificare i centri per l’impiego, proponendosi il controllo delle tante agenzie del moderno caporalato ed affermando il collocamento pubblico quantomeno per le aziende pubbliche; ::: il sostegno concreto dei GC alla campagna nazionale per l’istituzione di una nuova scala mobile che adegui i salari all’inflazione reale; ::: la lotta alla precarietà deve essere intesa in senso ampio, come lotta per la difesa dei diritti dei lavoratori: lotta per la casa, lotta per un buon sevizio sanitario nazionale, per i trasporti, per la cultura, per il diritto allo studio. Ma soprattutto si rende oggi necessaria una proposta di legge che introduca il lavoro minimo garantito. Per sconfiggere la precarietà rimane centrale la lotta nei luoghi di lavoro. Una proposta di legge (così come proposto dai movimenti in Francia) che preveda un’attività minima e garantita, di ricerca, produzione o distribuzione tale da comportare un reddito certo, diventa così il modo più sicuro per garantire (nel lavoro e nel reddito) chi non lo è. Contemporaneamente sia la proposta del “reddito di cittadinanza” sia quella del “salario sociale”, così come quella del “sussidio di disoccupazione”, possono essere utili tamponi rispetto allo stato di precarietà ed incertezza che vive la grande maggioranza dei giovani del nostro paese. Va pensato insomma ad un sistema integrato di formazione lavoro (così come proposto in Francia) che preveda un inserimento a tempo indeterminato per tutti e, in alternativa ad esso, un processo di inserimento in un sistema che forma e riqualifica e che contemporaneamente fornisce strumenti di sussistenza. Conoscenza, scuola, università e ricerca L’intero sistema dell’istruzione pubblica italiana è, da almeno vent’anni, sotto attacco ed ha subito negli ultimi cinque una coerente operazione di smantellamento del proprio carattere pubblico. È un’offensiva organica: taglio degli investimenti per la scuola pubblica a favore dell’offerta privata, precarizzazione della 11 ricerca, abbassamento della qualità della didatti- paese, consapevoli che a questo stato di cose non si è ancora contrapposta una forte e diffusa consapevolezza della necessità del riscatto e dell’alternativa e quindi del rifiuto della società capitalistica. Questo anche perché la società è permeata da un pensiero forte: quello fondato sulla religione del mercato. Il pensiero unico capitalistico ed il nuovo integralismo religioso sono due facce della stessa medaglia. L’iniziativa politica e sociale dei GC deve ripartire dal rifiuto di questa società, delle guerre e delle ineguaglianze che produce, sviluppando una forte iniziativa anticapitalista. Ciò è possibile se rifuggiamo tanto da atteggiamenti settari e minoritari quanto dalle forme di sterile ribellismo che hanno caratterizzato la gestione iper-maggioritaria dei GC negli ultimi anni. I movimenti In questi ultimi anni tuttavia si è assistito al riemergere di forme di conflitto e partecipazione giovanile. I GC hanno partecipato a queste mobilitazioni condividendone le aspirazioni di radicale superamento del neoliberismo, della guerra, dello sfruttamento. Il movimento globale ha investito tutti i continenti ed è diventato, pur tra mille difficoltà, un punto di riferimento irrinunciabile tanto per le lotte antimperialiste del terzo mondo quanto per il movimento dei lavoratori e per quello pacifista. In Italia, soprattutto in seguito alle straordinarie giornate di Genova del 2001, la stagione dei movimenti ha investito in pieno la politica, ha favorito la crescita e il radicamento di lotte importanti, ha dato a tanti giovani uno spazio comune nel quale condividere e rafforzare il bisogno, personale e collettivo, di “un altro mondo possibile”: dalle grandi mobilitazioni contro l’abolizione dell’articolo 18 all’opposizione alla guerra in Iraq, fino alle vertenze dei metalmeccanici, degli autoferrotranvieri, dei precari e dei movimenti antirazzisti e ambientalisti. Per molti giovani che negli anni Novanta avevano vissuto la crisi dei partiti e della rappresentanza queste battaglie sono state un importante terreno nel quale riscoprire il valore della partecipazione e della lotta. Genova, Scanzano, Melfi, Rapolla, Val di Susa sono solo alcune delle tappe di quel ricco percorso che ancora oggi rappresenta un terreno fertile per la pratica del conflitto e che è un ambito indispensabile per le esigenze di radicamento della nostra organizzazione. Un movimento che deve avere una proiezione europea ed internazionale: lo dimostrano il no alla Costituzione Europea, la lotta contro la direttiva Bolkestein, la mobilitazione contro il sistema di guerra e le basi Usa e infine le straordinarie mobilitazioni sviluppatesi in Francia contro il Contratto di Primo Impiego. Questa mobilitazione, che ha unito lavoratori, studenti, sindacati ed i principali partiti della sinistra, è la testimonianza di come i movimenti di lotta possano vincere e della centralità che assumono le nuove generazioni nella lotta contro la precarietà. Nei movimenti la nostra organizzazione deve quindi vivere e crescere, trovare stimoli e forza. Eppure non è possibile oggi parlare di movimento senza interrogarsi sulle sue difficoltà e contraddizioni: il movimento che ha costruito l’opposizione sociale al governo Berlusconi è oggi debole e diviso, incapace di garantire un’effettiva continuità e unità ai percorsi di lotta. Un arretramento che si è, purtroppo, approfondito all’avvicinarsi della scadenza elettorale, in linea con un complessivo spostamento a destra della società e con l’offensiva delle forze moderate del centrosinistra. Tutto questo non è di buono auspicio per i prossimi anni di governo 10 dell’Unione, durante i quali sarà necessario il riemergere del conflitto sociale -e dell’iniziativa dei movimenti- per invertire radicalmente il senso di rotta. Il nostro compito non si esaurisce con la candidatura di esponenti dei movimenti nelle nostre liste. Proprio perché contrastiamo l’idea di un’organizzazione che lavora interagendo con un “governo amico”, diventa prioritaria la creazione di esperienze di conflitto e movimento. La nuova fase politica consegna ai movimenti e ai GC un’eredità difficile: quella di saper influire sulle scelte del prossimo governo, ignorando le deleterie sirene di un nuovo patto sociale. Si tratta di rispondere alle pulsioni moderate presenti nel centrosinistra costruendo ovunque esperienze di conflitto e movimento. Saremo capaci di creare comitati permanenti (insieme ad altri soggetti di movimento) per l’abrogazione della legge Moratti in tutte le facoltà? Ancora: il nostro partito ha sottoscritto il programma dell’Unione. Noi non abbiamo condiviso quella scelta, ritenendola assolutamente inadeguata. Quel programma chiede l’abrogazione non già della Legge 30 ma solo di specifiche forme contrattuali come il lavoro a chiamata e lo staff leasing. Riusciremo a creare mobilitazioni che spingano il governo a realizzare questi propositi nei primi 100 giorni per poi passare al contrattacco ed ottenere l’abrogazione totale della legge Biagi? L’esperienza francese dimostra che la lotta paga. E che gli spazi di lotta e conflitto (lievito indispensabile per il radicamento e la crescita di una moderna organizzazione giovanile comunista) ci sono! Questa è la sfida che oggi i GC hanno davanti: essere protagonisti di una nuova stagione dei movimenti, che sappia fare tesoro degli errori e delle difficoltà del passato, che sappia risolvere la contraddizione tra il suo essere composito e sfaccettato e il bisogno di unità, radicalità, radicamento. La condizione giovanile, come è evidente, non è slegata dal contesto sociale complessivo. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad una crescita esponenziale delle ineguaglianze, la cui portata è semplicemente intollerabile. Nonostante ciò la metà degli elettori ha votato per il centro-destra che conserva la propria egemonia in tutti i propri insediamenti storici, nel Nord come nel Mezzogiorno. Il Settentrione d’Italia Anche per questo è urgente analizzare e comprendere il tessuto sociale e produttivo delle tante province settentrionali, dai grandi distretti industriali nei quali la classe lavoratrice è sempre più debole e parcellizzata alla miriade di piccole imprese costruite sul modello Nord-Est. Per anni si è creduto che questo modello potesse essere una soluzione alla crisi delle grandi industrie e dunque potesse essere esteso al resto d’Italia. Ma la parabola della crescita e della prosperità è precipitata in una crisi profonda che ha prodotto la corsa alla delocalizzazione industriale e quindi una forte crisi occupazionale. Ad oggi l’aggravarsi esponenziale della crisi non ha però prodotto una significativa protesta proprio in ragione dell’estrema parcellizzazione del sistema economico-lavorativo che ha permeato così in profondità il tessuto sociale da mettere i lavoratori nelle condizioni di anteporre il proprio utile individuale (la salvaguardia del proprio posto di lavoro) alla ricerca dell’unità e della lotta comune. In questa estrema frammentazione sociale si sono fortemente affermati il culto dell’individualismo e della competizione privatista, che hanno generato una sensazione di solitudine e di inadeguatezza colmata o dall’impegno nell’associazionismo cattolico o dai luoghi della mercificazione del divertimento che, uniti all’abuso di alcool e sostanze stupefacen- ti, forniscono l’illusione di possedere una capacità di interazione sociale nei fatti erosa. E’ pertanto necessario, al fine di consentire alla nostra organizzazione di ampliarsi (ricordiamo infatti che in queste regioni i GC sono scarsamente radicati) e raccogliere il più ampio consenso, contestare alla radice il modello sociale qui prodotto e proporre alternative di socialità non omologata. Da questo punto di vista la battaglia per la centralità del lavoro a tempo indeterminato e l’opposizione alle leggi razziste del governo Berlusconi che esasperano il modello sociale qui prodotto diventano tappe importanti di questo percorso, così come pure diventare interlocutori e nuclei organizzativi determinanti nella realizzazione di momenti e luoghi di una più ampia socialità su tematiche forti ci consentirebbe di entrare in piena sintonia con il sentire di ragazze e ragazzi socialmente attivi. Per una nuova questione meridionale Contemporaneamente va rimessa al centro del nostro lavoro politico la questione meridionale intesa, oggi più che mai, come questione nazionale: il mancato sviluppo di questi territori implica la compromissione dell’avanzamento complessivo dell’intero sistema-paese. Il Mezzogiorno d’Italia ha un Pil pari al 59,8 di quello del centro nord: basta questo dato per capire come si tratti di un’economia debole, carente di infrastrutture ed incapace di produrre posti di lavoro e benessere. Il Sud diventa oggi, per il ricco Nord, “pattumiera”: luogo in cui sistemare discariche, produzioni inquinanti e basi militari, o dove far nascere aziende private ma finanziate lautamente dallo Stato, rese competitive da una politica di differenziazione salariale tra le due metà del Paese. Manca un vero sostegno dello Stato, un intervento pubblico che si ponga l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile e moderno, che crei infrastrutture utili e non opere faraoniche di nessuna utilità, come il Ponte sullo Stretto. Così come manca una politica estera che metta il Mezzogiorno al centro di una nuova politica di sviluppo basata sul dialogo con i popoli del Mediterraneo. Questione economica, dunque, ma anche questione politica, sociale, morale. L’assenza di una politica industriale fa il paio con una gestione privatista dei fondi pubblici che permette lo sviluppo di grandi reti clientelari in una sempre più stretta collusione tra politica, imprenditoria e criminalità organizzata. La questione meridionale ha varie sfaccettature. I GC devono riconoscere l’autonomia e la specificità della Sardegna. La questione sarda è contemporaneamente distinta e in relazione con la questione meridionale. I rapporti tra il “potere reale” (economico-militare) e la Sardegna sono di tipo coloniale e imperialista. Coloniale perché l’imprenditoria del nord e quella locale sfruttano il territorio e l’ambiente. Imperialista perché il blocco Usa-Nato individua nella Sardegna la piattaforma, al centro del Mediterraneo, sulla quale testare nuove armi nucleari e di distruzione di massa. La condizione del Mezzogiorno è stata aggravata dalle politiche del governo Berlusconi e dall’ipotesi di federalismo fiscale, che favorirebbe un’ancora più ampia distanza tra le due parti del paese. E’ in questo contesto che si sviluppa una nuova emigrazione, che porta ogni anno circa 70 mila giovani meridionali nel nord del paese, in fuga da un tasso di disoccupazione giovanile del 46% (contro il 13% del Nord). Si tratta spesso di laureati: basti pensare che su 50 mila giovani che raggiungono la laurea, dopo tre anni 20 mila sono disoccupati. E che tra coloro che ca, inserimento di meccanismi di selezione di classe già nella scuola dell’obbligo, aziendalizzazione progressiva degli istituti superiori e degli atenei. Oltre allo scempio portato avanti dalle destre (nel solco delle riforme varate da governi di centro-sinistra) e al pressing costante dei poteri forti, avanzano, nel campo de L’Unione, tendenze irricevibili. Esiste, cioè, una sintonia imbarazzante tra le proposte avanzate da Confindustria e le linee guida in materia di riforma dell’istruzione di settori decisivi del centro-sinistra. Per ciò che concerne l’università, Confindustria ha messo a punto due testi di proposte e richieste. Immediatamente sono seguite le prese di posizione dei Ds, che si muovono sulla stessa lunghezza d’onda: privatizzazione, competitività e totale autonomia delle singole facoltà addirittura rispetto alla possibilità di decidere se mantenere il proprio carattere pubblico o trasformarsi in associazioni o fondazioni private. Il senso di queste proposte è limpido: impedire l’offerta di una formazione universitaria accessibile a tutti e libera e ribaltare la logica del sapere come “bene pubblico e comune”. E’ uno scenario inquietante, che prevede senza alcuna reticenza il progressivo azzeramento del sistema universitario pubblico inteso come luogo della formazione di un sapere e critico. È tempo che i Giovani Comunisti inizino a misurarsi con questi scenari: esiste il rischio concreto che i prossimi mesi vedano il coronarsi di quella deriva privatistica che ha prodotto negli ultimi anni una involuzione drammatica del sistema universitario italiano. Su questo terreno il Governo sarà in grosse difficoltà: dobbiamo evitare che lo sia pure la nostra organizzazione. Il quadro è il medesimo anche per ciò che concerne il diritto allo studio: l’istruzione non è più un diritto che lo Stato garantisce a tutti ma una merce venduta in vista di un profitto. Questo ha prodotto, negli ultimi anni, l’esclusione dai cicli di formazione di molti studenti, a causa dell’aumento delle tasse, dei numeri chiusi, degli obblighi di frequenza. Contemporaneamente nelle scuole superiori i ragazzi sono obbligati già a 13 anni a “scegliere” tra istruzione di tipo liceale ed istruzione di tipo professionale e cioè tra la via alta alla formazione (riservata ai figli delle classi colte ed agiate) e la via bassa dell’avviamento professionale (per le famiglie operaie e monoreddito). È una concezione classista dell’istruzione, che mira a conservare la natura borghese delle élites dirigenti. In contemporanea con i passaggi parlamentari del DdL Moratti, la gran parte degli atenei italiani e un buon numero di istituti superiori ha conosciuto un considerevole sviluppo di mobilitazioni ed iniziative di lotta che, in molti casi, hanno portato ad autogestioni ed occupazioni. In molte occasioni i GC erano presenti e hanno giocato un ruolo importante nei movimenti, nei collettivi, nelle assemblee, nei confronti politici. È emerso però, in tutte queste occasioni, un limite di organizzazione, radicamento e piattaforma politica che tutti insieme dobbiamo cercare di superare. Il nostro obiettivo è complesso ma decisivo: costruire una mobilitazione di massa contro le politiche neoliberiste di privatizzazione e destrutturazione del diritto allo studio all’interno di una critica complessiva ed organica del sistema capitalistico. Organizzare le vertenze e ricondurle al quadro generale, compiendo il salto necessario –che fino ad oggi non c’è stato- dalla protesta difensiva alla proposta: lavorare per uno stato di mobilitazione permanente degli studenti e dei lavoratori della scuola e dell’università. La definizione di una nostra piattaforma di rivendicazione e di lotta è necessaria per contribuire allo sviluppo dei movimenti e per tentare di arginare le fasi di riflusso che fisiologicamente seguono quelle di più forte mobilitazione. Compito dei GC è unire la lotta in difesa della formazione libera e pubblica a quella in difesa dei diritti del lavoro, ciò è possibile soltanto nella misura in cui si riesce a costruire una piattaforma di proposta politica complessiva ed organica, tanto nelle università quanto negli istituti superiori e che preveda: 12 ::: l’abrogazione immediata della Riforma Moratti e di tutti i suoi decreti attuativi come precondizione necessaria per una nuova proposta legislativa in completa discontinuità anche con le sciagurate riforme Berlinguer e De Mauro; ::: un aumento degli investimenti per la scuola, l’Università e la ricerca, in maniera tale da adeguarli alla media degli altri paesi europei, invertendo la tendenza che negli ultimi anni ha visto progressivamente ridursi i finanziamenti per la pubblica istruzione a vantaggio di quelli per le scuole private (di cui chiediamo il totale annullamento); ::: la difesa e il recupero del carattere pubblico della scuola e dell’università italiana, ostacolando qualsiasi progetto di privatizzazione e di aziendalizzazione; ::: un innalzamento dell’obbligo scolastico fino a 18 anni con presalario dai 16; ::: un potenziamento del diritto di studio attraverso l’attivazione di forme di sostegno economico per le famiglie con reddito basso. La totale gratuità delle iscrizioni, delle tasse, dei libri di testo, delle mense, dei trasporti e degli alloggi destinati ai fuorisede; ::: una valorizzazione ed una riqualificazione della didattica e della ricerca; ::: l’eliminazione totale del precariato lavorativo scolastico ed universitario, per quanto riguarda sia il personale docente sia quello non docente; ::: forme permanenti di unità di azione tra studenti e lavoratori della conoscenza, che conduca tutti i soggetti coinvolti al di fuori dell’autoreferenzialità e del corporativismo professionale. Una società complessa: nuovi fenomeni e nuove priorità Questa società è fonte di pulsioni, di violenza e di mercificazione delle relazioni umane, di un impoverimento etico, sentimentale e culturale della personalità umana (dall’affettività al rapporto con la natura). Si tratta dunque di acquisire una visione non meramente economicistica della lotta per una società alternativa al capitalismo e di cogliere le istanze di liberazione che sono insite in nuove problematiche e nuovi movimenti. Ci riferiamo innanzitutto all’ambientalismo, ai femminismi, all’anti-proibizionismo. Su questo terreno è possibile un incontro fecondo tra movimento operaio e nuovi movimenti ed un comune riconoscersi negli ideali di emancipazione e liberazione umana propri del socialismo e del comunismo. Nella comune prospettiva, cioè, del superamento di una società fondata sull’alienazione, sulla riduzione dell’essere umano a valore di scambio e sul dominio delle merci. Migranti L’Italia è terra di frontiera, luogo dove la violenza usata per controllare e disciplinare i fenomeni migratori assume il suo volto più aspro e brutale. L’Europa di Schengen non cancella i confini ma si limita a spostarli e a renderli ancora più militarizzati. L’Unione Europea si pone l’obiettivo di controllare e limitare la sempre più forte pressione migratoria. Lo fa con l’uso della forza, con la detenzione, con la limitazione del diritto di asilo, con gli “accordi di riammissione” con i paesi di passaggio, lo fa spostando all’esterno (in Libia come in Polonia e in Marocco) le proprie prigioni per i migranti. Gli immigrati diventano, di fatto e di diritto, cittadini di serie B, privati di ogni diritto sociale (sanità, contratto di lavoro, istruzione); uomini e donne senza status, clandestini. Ma dietro alla negazione del diritto di cittadinanza si nasconde un chiaro obiettivo economico: meno diritti hanno i lavoratori immigrati, più possono essere sfruttati. La legge Bossi-Fini ne è un chiaro esempio: la repressione non si pone il semplice obiettivo di chiudere le frontiere, ma quello di permettere l’ingresso a pochi lavoratori selezionati e a molti clandestini. I quali, nelle campagne meridionali, nelle aziende del Nord-Est, nei cantieri e nelle case delle nostre città, coprono i settori più bassi e meno qualificati del mondo del lavoro, permettendo alle imprese di risparmiare sul costo del lavoro. Lavoratori “diversi” da quelli “italiani”, dove la differenza di status e di cultura è un chiaro limite alla costruzione dell’unità di classe e alla sindacalizzazione. Lavoratori “precari” per eccellenza. Eppure uomini e donne potenzialmente “rivoluzionari” nella misura in cui portano le contraddizioni del loro mondo nella nostra società, mettendo in crisi certezze consolidate, aiutandoci a rinnovare le forme soggettive dell’organizzazione politica e facendoci scoprire storie e culture diverse. I GC devono essere in prima linea nella difesa dei diritti dei migranti, stimolando la loro presenza nella nostra organizzazione, appoggiando tutte le campagne che puntano ad estendere i loro diritti (dal voto a quelli di cittadinanza) e, soprattutto, contrariamente alla montante campagna delle destre e dei mezzi di informazione, facendosi promotori di un incontro con tutte le comunità (giovanili e non) immigrate presenti in Italia. Carcere, droghe e repressione La tollerabilità di un sistema carcerario è la vera cartina di tornasole delle democrazie moderne: in Italia, la democrazia è profondamente malata. Oggi in 15 istituti carcerari italiani il sovraffollamento è superiore al 200%, con una media nazionale del 134%. Inoltre, solo il 12% dei detenuti è in carcere per fatti di sangue o di criminalità: la gran parte della popolazione carceraria è composta da tossicomani, immigrati ed emarginati sociali. Il sistema repressivo si accanisce dunque contro i soggetti deboli spingendoli ancora di più ai margini della società in un circolo vizioso che perpetua una dinamica profondamente classista. La legge Fini sulle droghe tenta di spingere in questa spirale strati ancora più larghi di popolazione giovanile. Un provvedimento ultra-proibizionista persecutorio nei confronti dei consumatori di sostanze leggere; un insieme di norme che potrebbe riempire nei prossimi mesi le aule di giustizia di migliaia di ragazzi che rischieranno dai 6 ai 20 anni di carcere. Una legge da abrogare e da sostituire con un impianto legislativo fondato sul potenziamento del settore pubblico e sulla depenalizzazione completa del consumo di sostanze leggere. A monte, bisogna intervenire a livello politico e sociale sul terreno del disagio ed impostare una legislazione, in primo luogo sui temi delle droghe e dell’immigrazione, di depenalizzazione dei reati minori, riproponendo con forza l’ampliamento delle misure alternative al carcere. In misura contingente riteniamo urgente un provvedimento di amnistia e indulto che riporti a capienza lo stato dell’affollamento del circuito penitenziario. Dentro questo contesto, chiediamo la depenalizzazione e, subito, l’amnistia e l’indulto per i reati connessi alle lotte sociali. Questione di genere e sessualità Tutto questo è l’emblema di una società fondata sulla criminalizzazione dell’altro da se e che colpisce soprattutto i soggetti più deboli. Come le lesbiche, i gay, i transessuali, e più in generale tutti colori i quali esibiscono il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere. Va innestata nel Paese una forte reazione laica ad un bigottismo asfissiante, ad un clima di insopportabile ipocrisia moralista, che si concretizza nell’eterosessismo e nell’omofobia. Va aperta una offensiva forte sul terreno dei diritti civili e della morale sessuale, impedendo ogni ingerenza confessionale nella sfera dei rapporti tra i sessi e della costruzione delle relazioni interpersonali. Riteniamo sia compito della sinistra tentare un avanzamento su questo terreno, anche scontrandosi con convincimenti estremamente radicati e diffusi che tuttavia sono inconciliabili con una cultura laica, progressista, civile e democratica. E questo anche attraverso interventi legislativi, come il riconoscimento delle unioni omosessuali sul piano affettivo e materiale, in termini di diritti e di doveri che non possono essere privilegio degli eterosessuali. Così come l’introduzione di ore di educazione sessuale nei programmi didattici o la distribuzione gratuita di anti-concezionali nelle scuole, di concerto con le strutture sanitarie. Bisogna lavorare per una effettiva liberazione sessuale dove in primo luogo le donne non siano più subordinate ad un sistema di regole sociali e morali, capitalistiche quanto religiose, ancora maschilista e patriarcale, e siano riconosciute come soggetti che si autodeterminano, ai quali non può essere sottratto il dominio sul corpo e su come gestirne le trasformazione. Per questo sarà necessaria la massima vigilanza sulla 194 e sulla sua applicazione ancora insoddisfacente per rapporto consultori abitanti (il diritto ad abortire non può essere affermato formalmente e sostanzialmente negato) oltre che un lavoro dettagliato per concepire un legge avanzata sulla procreazione assistita, che includa tutti i soggetti ora esclusi e che tuteli veramente la salute delle donne riconoscendole il diritto ad una piena autodeterminazione. In questo quadro si colloca la valorizzazione delle esperienze delle compagne, delle diverse culture del femminismo, che realmente ci impegniamo a porre a fondamento del nostro agire politico. Crediamo fortemente nella ricerca di un’eguaglianza che si realizzi attraverso il confronto tra le differenze. Senza una reale emancipazione femminile non ci può essere alcuna trasformazione radicale del sistema economico e sociale capitalistico. Contemporaneamente non può esserci alcuna reale emancipazione all’interno di questo modo di produzione: anche per questo siamo comunisti e lottiamo per una società diversa e migliore. Cultura e socialità E’ fondamentale, in questo ragionamento, il ruolo che svolge la cultura, in primo luogo la cultura dominante, la cultura egemone. Al crollo che si è determinato all’inizio degli anni ‘90 nel sistema dei partiti tradizionali e alla successiva corsa allo svuotamento identitario intrapresa da quasi tutti i partiti della sinistra (a cui non ha fatto eccezione il Prc) ha fatto seguito in tutta l’Europa il sorgere di risposte populiste e di nuove formazioni di destra apertamente nazionaliste e xenofobe. In questo contesto collochiamo la pesante recrude- scenza di una cultura autoritaria, fascista e xenofoba che credevamo ormai sopita. Contemporaneamente milioni di giovani, in condizione di subalternità al capitale a causa delle proprie condizioni lavorative e sociali, subiscono meccanismi di alienazione sia dentro il processo produttivo sia attraverso modalità di svago e socializzazione (consumistiche e mercificate) erroneamente percepite dai più come strumenti di evasione dall’alienazione. Dinanzi a questo scenario dobbiamo dunque recuperare una profonda battaglia, nella società, per l’egemonia culturale. Va riattivato un circolo virtuoso tra le organizzazioni della sinistra, i sindacati, la società civile progressista, i movimenti, l’associazionismo, il mondo della intellettualità laica e democratica. Da ciò deve nascere un confronto continuo che produca non solo ricerca ed analisi ma anche un’iniziativa culturale di massa, capace di riattivare le strutture ricreative legate al movimento dei lavoratori e costruirne di nuove, moltiplicando le energie affinché i giovani possano trovare alternative ai centri di mercificazione della cultura e del divertimento. Dobbiamo costruire luoghi di aggregazione sottratti a questo processo perverso che produce impoverimento culturale ed adeguamento ai canoni della società capitalistica. È evidente che questi luoghi o acquisiscono una forma pubblica, anche nella proprietà e nella gestione, o rischiano di perdere il loro senso: il carattere non privato della socialità, il valore della cultura, la necessità di una sua diffusione. Nuove destre e antifascismo I processi di revisionismo storico non solo subiti ma spesso promossi dalle stesse forze della sinistra hanno aperto un varco attraverso il quale hanno potuto fare ritorno forze di destra segnate dal marchio infame dell’intolleranza e dell’odio verso le istituzioni democratiche. Ciò che preoccupa maggiormente è il rinvigorirsi di un brodo di cultura fascista e squadrista che attraversa le piazze, gli stadi, i luoghi di aggregazione: giovani omosessuali pestati a sangue, atti di vandalismo siglati con la croce celtica e la svastica, aggressioni mirate a militanti comunisti e della sinistra radicale, anche iscritti alla nostra organizzazione. In un contesto in cui la Resistenza è sotto accusa (e si punta allo stravolgimento della Costituzione), è riprendere in mano l’iniziativa dell’antifascismo. Il primo impegno di tutte/i i GC sarà per la vittoria nel Referendum del 25-26 giugno in difesa della Costituzione. Anche la celebrazione del 25 Aprile deve assumere un significato decisivo che vada ben oltre la memoria. Per questo consideriamo insufficiente l’iniziativa dei GC su questo terreno e consideriamo grave il fatto che, pur in presenza di un odg votato dal Coordinamento Nazionale in cui si impegnava l’organizzazione ad una grande iniziativa in occasione del 60º Anniversario della Liberazione, i GC non abbiano fatto assolutamente niente. Così come pure è assolutamente insufficiente l’impegno rispetto ad importanti appuntamenti antifascisti. Per esempio, ogni anno la prima domenica di luglio si svolge a Schio (VI) una parata di reduci delle SS che diventa, nei fatti, un appuntamento europeo per tutte le organizzazioni fasciste. Troppo spesso abbiamo lasciato alla sola iniziativa dei GC di Schio il compito di organizzare una contro-manifestazione: ciò non deve più avvenire. I GC devono farsi carico non solo di aderire ed organizzare la presenza al corteo antifascista, ma adoperarsi per coinvolgere altre organizzazioni europee, in un grande happening antifascista. ://PARTE II Per un nuovo internazionalismo Prima di tutto, sconfiggere l’imperialismo e la “guerra preventiva”, per aprire nuove frontiere di liberazione al futuro dell’umanità A quasi quindici anni dalla disgregazione dell’Urss assistiamo al tentativo di costituzione di un governo unipolare del mondo, con il dispiegarsi del più grande progetto di egemonia globale mai partorito dalla Storia. Tale progetto, imperniato sul comando unico degli Usa, è segnato dalla trasformazione della Nato e dell’intero sistema di alleanze militari euro-atlantiche in chiave offensiva e interventista. Un nuovo fascismo aleggia sul mondo: il nucleo dirigente del Governo Bush è convinto della propria predestinazione (addirittura divina) a dominare il mondo ed ha elaborato una strategia di dominio di lungo raggio, la “guerra preventiva”, con cui cerca di giustificare l’intervento militare e ogni forma di ingerenza contro legittime resistenze popolari e movimenti di liberazione e contro popoli e Paesi che si oppongono all’imperialismo. Questa politica genera una pericolosa corsa agli armamenti, guerra e miseria per i popoli colpiti, torture di massa in Iraq, nuovi lager alla Guantanamo, minacce di nuove guerre a Stati sovrani (Iran, Siria, Corea …), oltre che drastiche limitazioni dei diritti costituzionali dello stesso popolo statunitense. All’interno di questo quadro inquietante si manifestano però segnali importanti di controtendenza ed emergono contraddizioni e potenzialità che consentono di mantenere aperta la prospettiva strategica del superamento di un ordine mondiale dominato dalle grandi potenze capitalistiche e dall’imperialismo. Sulla scena economica e politica mondiale emergono alcuni grandi paesi in via di sviluppo, destinati a modificare in profondità le relazioni internazionali ed i rapporti di forza. Di fronte alla crisi o alla stagnazione dei paesi tradizionalmente motori dell’economia mondiale, si assiste alla crescita di paesi come Cina, India, Brasile, Sudafrica, ai quali si affianca anche la Russia di Putin. E’ in questo quadro di emersione di un mondo multipolare che maturano i piani neo-cons di dominio del mondo e di penetrazione diretta nelle aree chiave per il controllo delle risorse idriche ed energetiche del pianeta. Imponente è stato il movimento che si è opposto a questa politica di guerra, riuscendo a mobilitare, alla vigilia dell’aggressione all’Iraq, milioni di persone in tutto il mondo. Ma il protrarsi dell’occupazione militare, insieme ad alcune debolezze soggettive e di orientamento (come l’incomprensione del ruolo strategico della resistenza irakena) ha finito per limitarne l’ampiezza. Importante è stata comunque la partecipazione alle manifestazioni del 18 marzo scorso in varie capitali del mondo, segno di una capacità e volontà di mobilitazione non esaurite. Anche il movimento contro la globalizzazione capitalistica, che al Forum Sociale Mondiale di Mumbai aveva visto un importante avanzamento in termini di consapevolezza antimperialista, ha ritrovato nuova linfa, dinamicità e radicalità nel recente appuntamento di Caracas, grazie anche alla spinta rivoluzionaria venuta dall’emblematica esperienza venezuelana. E così è stato anche per l’esperienza straordinaria del XVI Festival Mondiale della Gioventù, tenutosi sempre in Venezuela l’estate scorsa. Entrambi questi meeting sono stati 13 segnati da una grande partecipazione giovanile e dalla radicalità delle posizioni emerse; hanno saputo porsi come anello di congiunzione tra diverse esperienze di lotta nel mondo; sono stati segnati dalla forte partecipazione di partiti ed organizzazioni giovanili comuniste ed hanno riproposto con vitalità la questione del socialismo nel 21° secolo. A tutto ciò, come GC, dovremmo riservare maggiore attenzione, cogliendo quanto di nuovo e vitale si muove tra i movimenti comunisti e rivoluzionari giovanili, a tutte le latitudini. A noi spetta un lavoro paziente e tenace di ricucitura di rapporti e relazioni, di elaborazioni politiche e di costruzione di iniziative sul terreno strategico della battaglia contro la guerra e l’imperialismo, avendo la capacità di saperla sempre intrecciare con la questione sociale per cui pace, lavoro e giustizia sociale siano sempre percepite come questioni inseparabili. Ciò è particolarmente difficile nei paesi a capitalismo avanzato, come l’Italia, dove la risposta alle attuali difficoltà è tante volte imbrigliata nell’egemonia moderata. Sappiamo invece, come dimostra la ripresa di grandi movimenti antagonisti nella vicina Francia (dal rifiuto di massa della Costituzione Europea alle ultime grandi lotte contro la precarietà, alla rivolta delle periferie urbane) che esistono grandi potenzialità di lotta nelle nuove generazioni. Dobbiamo contribuire a sollecitarle, anche nel nostro Paese, consapevoli che la strada è lunga e tortuosa, ma che non esistono scorciatoie possibili. Dobbiamo sempre ricordare che non siamo soli in questa lotta, che essa si intreccia con le aspirazioni di popoli e Paesi che in ogni parte del mondo combattono contro l’imperialismo e aspirano ad un mondo nuovo. E che, nel loro insieme, rappresentano una grande forza che può dare sostegno ai nostri sogni e alle nostre aspirazioni, dando valore concreto ad un nuovo internazionalismo. Resistenza irachena e palestinese A tre anni dall’aggressione all’Iraq, gli occupanti non sono più in grado di controllare parti sempre più consistenti di territorio. La resistenza del popolo iracheno costituisce uno dei maggiori elementi di novità dell’attuale quadro internazionale. Se oggi altri paesi non sono sotto le “bombe democratiche a stelle e strisce” e, negli Stati Uniti, si espande il movimento che chiede il ritiro dei militari dall’Iraq, è grazie alla resistenza del popolo iracheno. Essa si intreccia con l’ormai storica resistenza del popolo palestinese, cui va il nostro sostegno incondizionato, nel pieno rispetto delle istituzioni rappresentative che ha deciso legittimamente di darsi in libere elezioni. Respingiamo pertanto ogni discriminazione nei confronti del governo di Hamas, come quella recentemente espressa dall’Unione Europea, che si è in proposito allineata alle posizioni oltranziste degli USA e di Israele. Così come respingiamo ogni minaccia alla sovranità di Paesi come la Siria e l’Iran, che rappresentano –insieme alle resistenze irachena e palestinese– i principali ostacoli alla pretesa dell’asse USA-Israele di esercitare -anche col terrorismo di Stato- la propria egemonia neo-coloniale su tutto il Medio Oriente. grandi lotte popolari, ad esperienze meno radicali come quella del Brasile di Lula- ma comunque in controtendenza, tutto un continente è in subbuglio e in lotta per la propria autonomia dall’egemonia statunitense. Resta essenziale l’esperienza e il ruolo di Cuba socialista: nonostante l’embargo ed i continui tentativi di destabilizzazione e delegittimazione internazionale è riuscita tra mille difficoltà a resistere, con un forte consenso popolare ed una importante partecipazione delle giovani generazioni che sono in prima fila nella gestione del processo in corso. Sostenere la rivoluzione cubana significa anche valorizzare un’esperienza sociale progressiva che, nel contesto dei Paesi in via di sviluppo, rappresenta un’alternativa emblematica alla barbarie ed alle devastazioni del capitalismo. Così come pure è significativa l’esperienza delle FARC colombiane, capaci di sostenere una guerriglia di lunga durata e di conquistare ed amministrare in nome dei principi del socialismo e dell’autodeterminazione del popolo una vasta porzione del territorio nazionale della Colombia. La “rivoluzione bolivariana”, guidata da Hugo Chávez, rappresenta una speranza per l’intero continente ed è stata capace di reggere la lotta contemporaneamente contro l’imperialismo ed il capitalismo. Infatti il Venezuela si è innanzitutto sottratto all’egemonia degli Usa nella regione e lavora per una comunità delle nazioni latinoamericane (con formazione di poli pubblici regionali per la gestione delle risorse energetiche, economiche e delle telecomunicazioni), contro l’Alca e per l’Alba e per un nuovo protagonismo del continente latinoamericano, con relazioni di cooperazione forte e privilegiata con tutti quei Paesi che operano sulla scena internazionale in modo non subalterno all’imperialismo americano. Inoltre ha avviato un piano di riforme economiche (lotta alla fame e alle disparità, controllo pubblico dell’industria del petrolio…) sperimentando in alcuni casi una diretta partecipazione dei lavoratori nella gestione delle aziende e determinando nuove forme di proprietà. Un’esperienza originale, aperta a diversi sbocchi possibili, che ha il merito, tra l’altro, di avere riproposto internazionalmente e con forza il tema del socialismo nel 21º secolo. La lotta in questa parte del mondo: contro la Nato e contro il nuovo capitalismo dell’Unione Europea Sappiamo che il nostro compito nella lotta contro l’imperialismo è quello di contrastarne politiche, strumenti e basi logistiche presenti nel nostro Paese. Negli ultimi dieci anni la Nato ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di penetrazione verso l’est (europeo ed asiatico). La guerra all’ex Jugoslavia ha messo in luce l’intreccio tra gli interessi Usa e quelli delle maggiori potenze imperialistiche europee. Oggi, nei Balcani occupati dalla Nato, dilaga la malavita (con traffici che vanno dalle sigarette alle armi, passando per la prostituzione, la tratta di esseri umani ed il commercio clandestino di organi), in un intreccio perverso tra affari e politica. Al fianco di tutti i popoli in lotta Contro le basi straniere, USA e NATO, sul territorio italiano e nel mondo Siamo solidali con la lotta e l’iniziativa di tutti quei popoli e Paesi non allineati dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina, che in vario modo operano per la costruzione di un nuovo ordine mondiale multipolare, progressista, di pace e che operano per consolidare spazi economici e geo-politici autonomi dall’imperialismo. La cooperazione politica e militare tra Cina e Russia -aperta alla collaborazione delle forze progressiste e non allineate di ogni continentepuò rappresentare nel mondo di oggi un importante contrappeso all’unipolarismo euro-atlantico. In America Latina, grazie alla spinta rivoluzio14 naria imperniata sull’asse Cuba-Venezuela, a Anche il nostro paese è coinvolto. Sul territorio italiano esistono basi militari statunitensi e della Nato fin dal secondo dopoguerra, nate con protocolli segreti ancora oggi vigenti. Basi che hanno segnato in profondità la storia recente della Repubblica: la presenza dell’esercito statunitense nel nostro territorio è stata funzionale anche ad impedire con ogni mezzo che vi fosse un qualsiasi spostamento a sinistra dell’asse politico italiano. Nelle basi americane ha trovato linfa la trama tra servizi segreti, governo americano, neofascisti ed establishment democristiano che giunse fino alla costruzione di un apparato paramilitare segreto, Gladio. La guerra nord-americana, dunque, passa anche sopra le nostre teste, vicino alle nostre case e sottrae alla sovranità del nostro Paese ampie fette di territorio, inquina l’ambiente, spreca risorse pubbliche, lega il destino di migliaia di persone all’industria e al trasporto delle armi. Si può ben dire, dunque, che l’Italia è un “paese a sovranità limitata”, “un paese in guerra”, poiché senza il sostegno logistico delle basi nessuna delle guerre americane del mondo post-bipolare sarebbe stata possibile, dal Kosovo all’Iraq passando per l’Afghanistan. L’ampliamento della base di Sigonella, del porto militare di Taranto, della base di Camp Derby dimostrano l’accresciuta importanza di questi territori per l’Usa Army. Numerosi analisti sostengono, inoltre, che all’interno di queste basi si nascondano ordigni nucleari. Tutto ciò nella più completa segretezza. La forte mobilitazione contro la guerra e la presenza di movimenti contro le basi hanno prodotto una forte coscienza popolare, al punto che quattro Presidenti di Regione (Sardegna, Toscana, EmiliaRomagna e Puglia) si sono già pronunciati contro la presenza di queste strutture nei territori regionali. In Sardegna questa battaglia è riuscita a raggiungere una prima importante vittoria: gli Stati Uniti hanno dichiarato alla fine dello scorso anno, infatti, che sono pronti a dimettere la base della Maddalena, contro cui si erano mobilitati migliaia di cittadini sardi. Su questo versante occorre produrre un efficace lavoro di inchiesta e di denuncia, sulle contraddizioni concrete che la presenza delle basi porta con sé (danni ambientali, relazione tra militari stranieri ed abitanti, limitazione della sovranità territoriale e dello spazio di sorvolo). I GC devono essere in prima fila in questa battaglia, a partire dalla promozione di una campagna nazionale che chieda di rendere pubblici i patti segreti che hanno istituito le basi. L’obiettivo della chiusura di tutte le basi militari statunitensi nel nostro territorio si inserisce nella prospettiva della uscita dalla Nato e da tutti i teatri di guerra, nel rispetto pieno dell’art. 11 della nostra Costituzione. La “Conferenza Internazionale contro le basi militari straniere e della Nato nel Mondo”, organizzata a Cuba lo scorso novembre, indica il quadro internazionale entro cui muoverci per cominciare questa mobilitazione. Non siamo solo contro tutti, dunque. Il tema è stato più volte richiamato nelle del FSM. Il Forum di Giakarta lotta per la chiusura delle basi straniere e Nato in tutta l’area, così come i comunisti giapponesi sono da anni impegnati in una dura battaglia contro la base statunitense ad Okinawa ed i GC greci e cubani si sono mobilitati più volte, insieme ad altre associazioni pacifiste e di massa, contro le basi USA di Salonicco e Guantanamo. Non confondiamo l’Europa con l’Unione Europea La vittoria dei “No” in Francia ed Olanda nei referendum sull’ipotesi di trattato costituzionale europeo ha messo in evidenza la natura neo-capitalistica, liberista e atlantista dell’Unione Europea, anche di quelle sue componenti più legate al polo francotedesco. La mobilitazione per votare No al referendum ha visto protagonisti i comunisti, forze della sinistra politica e sindacale e settori consistenti del movimento operaio di quei paesi, che hanno sonoramente bocciato quel progetto. Oggi è in crisi l’impianto di una Unione Europea segnata dai Trattati di Maastricht e Lisbona. Rispetto a questa UE, le forze di sinistra critica hanno diversi approcci. Alcuni, pur contestandone l’impianto, la considerano un contrappeso utile all’egemonia Usa; altri contestano questa Europa, chiedendone la rinegoziazione nell’ambito di un impianto UE che non viene comunque rimesso in discussione. E’ il caso del Partito riguardino la politica degli enti regionali. A livello provinciale gli ultimi anni ci hanno dimostrato come possa essere difficile mantenere in vita i coordinamenti in province spesso molto grandi e complesse: lo dimostra il fatto che molti coordinamenti non sono più in grado di riunirsi né di produrre lavoro politico. Nelle province più grandi così come nelle grandi aree metropolitane sarà necessario rendere la struttura più flessibile, individuando coordinatori e responsabili di zona. Sarà inoltre necessario che i coordinamenti locali si dotino di commissioni realmente funzionanti e che si risolva il problema del loro finanziamento. Grande importanza, inoltre, dovrà essere data alla formazione. Non è una questione scolastica o di puro nozionismo. In un contesto dominato dalla pervasività dei modelli culturali della società capitalistica, in cui la storia, la cultura, l’informazione e la scienza vengono manipolate in funzione degli inte- 16 ressi delle classi dominanti, la costruzione di una nuova soggettività rivoluzionaria passa inevitabilmente attraverso un’opera di contro-formazione che ci sottragga ai modelli culturali e di relazione sociale imposti dall’attuale modo di produzione. La formazione permetterebbe all’organizzazione di attivare il suo corpo militante, non solo attraverso le iniziative di propaganda e sul terreno concreto del lavoro politico ma su una pratica dell’auto-educazione, che renda ogni militante un dirigente nel suo luogo di lavoro, di studio e nel partito. Del resto se vogliamo porci l’obiettivo di diventare un’organizzazione giovanile di massa dobbiamo innanzitutto lavorare affinché venga meno il rapporto dualistico tra dirigenti e diretti e si affermi invece il principio della dirigenza diffusa come strumento per la costruzione dell’intellettuale collettivo, in cui ogni militante sia esso stesso un dirigente: è il miglior antidoto ad ogni forma di “leaderismo” e gestione burocratica. Altrettanto importante è il lavoro dei GC rispetto ad importanti luoghi di aggregazione sociale come le Tifoserie che rappresentano un terreno importante di lavoro con settori giovanili popolari che ci permettono di far veicolare valori come l’antirazzismo e la solidarietà. Sono diverse le curve di sinistra e che hanno nelle loro effigi simboli che si richiamano direttamente alla nostra storia di comunisti: sarebbe sciocco non lavorarci assiduamente, magari organizzando eventi sportivi connotati da messaggi sociali e politici alternativi o partecipare ad eventi quali i Mondiali Antirazzisti, che hanno il pregio di legare i valori dello sport a quelli sociali e di impegno antirazzista ed antifascista. Questa Conferenza serve a darci una solida base organizzativa e politica. La sfida, per l’oggi e per il domani, è la costruzione di una moderna organizzazione giovanile comunista che si ponga l’obiettivo di trasformare il presente e conquistare il futuro! della Sinistra Europea, su cui continuiamo ad esprimere un parere negativo perché ha diviso le forze comuniste e di sinistra alternativa e si muove all’interno di una logica tutta interna all’UE, sulla base di una piattaforma assai simile a quella della sinistra socialdemocratica. Noi pensiamo invece che le forze che si richiamano al socialismo e ad una alternativa anti-liberista, che vogliono un’Europa unita ed autonoma dagli Usa e dalla Nato, fondata sulla cooperazione tra Stati sovrani e non sul potere di istituzioni sovranazionali subalterne alle maggiori potenze imperialistiche del continente, amica dei popoli del Sud del mondo e non ostile alle loro lotte di liberazione, non possano perseguire questo progetto dentro il quadro di compatibilità dell’UE, ma debbano avanzare un progetto alternativo, che comprenda tutto il continente, dal Portogallo alla Russia. Occorre dotarsi di una strategia di superamento dell’UE e su questo coinvolgere, anche a livello giovanile, tutte le organizzazioni comuniste e progressiste del continente, senza settarismi e preclusioni o nuovi steccati tra Est e Ovest. Per questo riteniamo indispensabile che si avvii la fase costituente di un processo per la formazione di un forum europeo che coinvolga tutte le organizzazioni giovanili comuniste, le forze rivoluzionare e di solidarietà con i popoli del mondo e gli studenti. Un forum in grado di promuovere iniziative internazionali contro la guerra ed il neoliberismo, di diventare protagonista del prossimo Forum Sociale Europeo e di impegnarsi nella diffusione di valori quali la solidarietà sociale, l’antirazzismo e l’antifascismo. ://PARTE III La sfida che ci attende: la riorganizzazione dei GC Sono passati quattro anni dall’ultima Conferenza dei GC, durante i quali la nostra organizzazione ha attraversato fasi difficili, complesse, variegate. La scorsa Conferenza si chiuse nella fase alta dei movimenti che, dopo Genova, hanno attraversato e rinnovato la politica nel nostro Paese. Proprio del rapporto con i movimenti i GC fecero la principale guida della loro azione politica. Si disse, allora, che la forma partito era qualcosa di ormai superato, l’organizzazione un residuo del passato e che solo i movimenti e mai i partiti sarebbero stati capaci di guidare il cambiamento. Sulla base di queste posizioni si decise di investire tutta l’organizzazione nella costruzione dei laboratori della disobbedienza, scambiando la complessità del movimento con una sua componente. Il risultato fu, purtroppo, assai magro. La retorica del superamento dei partiti portò molti compagni ad uscire dai GC per legarsi ai disobbedienti. Ma quella importante fase stava ormai per giungere alla conclusione: i social forum esaurirono presto la propria spinta propulsiva, si consumò la rottura coi disobbedienti e i GC rimasero orfani di una linea politica, deboli nell’organizzazione, incapaci di radicarsi nelle lotte e nei territori. Dopo quattro anni, oggi, si giunge ad una nuova Conferenza con una struttura ormai pressoché inesistente: molti coordinamenti provinciali e regionali sono da tempo scomparsi; dove sono ancora in funzione, invece, sovente non riescono a coordinare province spesso troppo grandi. Il Coordinamento Nazionale e l’Esecutivo da esso espresso non sono stati in grado di dare unità e compattezza alla struttura, di proporre e realizzare su tutto il territorio nazionale campagne e lotte, di stimolare il dibattito e la discussione teorica. A poco a poco si è assistito all’affievolirsi di un’idea di appartenenza alla nostra struttura e sono venute meno forme partecipative di discussione in grado di dar un senso alla nostra militanza. Il tesseramento 2005 si è chiuso con 15.000 iscritti, un risultato abbastanza positivo. Ma questo dato non è territorialmente omogeneo. La presenza dei GC è ancora a macchia di leopardo con un grosso numero di iscritti in una sola federazione per regione e le restanti territorialmente contigue che vedono, in alcuni casi, solo poche decine di tesserati. E’ necessario pensare al tesseramento come momento fondamentale per la crescita ed il radicamento, individuando un responsabile nazionale e responsabili nei coordinamenti provinciali. È necessario produrre materiale per il tesseramento ed organizzare una campagna annuale. L’attività annuale dei GC deve iniziare con una grande campagna per il tesseramento e chiudersi con la festa nazionale. Per questi motivi è importante curare l’organizzazione. Rappresenta la nostra capacità di intervenire nella realtà, di comprenderne le contraddizioni per tradurle in proposta politica, di mobilitare forze ed energie per riunire mille battaglie in un’unica battaglia: quella per il superamento del capitalismo, per il socialismo. Per questo vogliamo continuare a distinguerci. Dicendo che nessun partito comunista potrebbe mai vivere senza movimento, poiché nel movimento esso trae l’energia per la sua azione politica. Ma che i movimenti senza un partito, senza organizzazione, radicamento, unità non potranno mai raggiungere l’obiettivo di cambiare il mondo. Da questa Conferenza, dunque, la nostra struttura deve rinascere, più forte e organizzata: è necessario un radicale cambiamento di rotta a partire dal ruolo del Coordinamento Nazionale che deve diventare il vero luogo di discussione e decisione della linea politica e perdere quella funzione di mera ratifica di decisioni già prese in Esecutivo e spesso rese già esecutive. Il Coordinamento Nazionale dovrà riunirsi con regolarità e frequenza (non ogni quattro o cinque mesi!) individuando temi e campagne su cui investire le proprie energie, dotandosi di commissioni e gruppi di lavoro permanenti, individuando anche un momento periodico dove confrontarsi direttamente con i coordinatori provinciali e regionali, al fine di socializzare esperienze in cui possano emergere le difficoltà presenti nei vari territori. L’unità nasce dalla collegialità e dalla condivisione del lavoro: le differenze devono assumere il ruolo di ricchezza e non di ostacolo al lavoro comune. Per rendere realmente efficace e regolare l’attività è necessario dare vita a commissioni tematiche su singoli settori di intervento: manca ancora una forte campagna nazionale sulla precarietà, sulla chiusura di tutte le basi militari presenti sul territorio, sull’immigrazione, sul diritto allo studio. Sarà necessario investire molte energie nella costruzione di una rete nazionale dei collettivi, intesi sia come spazio necessario per la produzione di conflitti sia come irrinunciabile risorsa per la crescita della nostra organizzazione. Dal Coordinamento Nazionale, inoltre, dovrà partire lo stimolo per la costruzione di nuovi circoli universitari: riteniamo impensabile che un’organizzazione con 15mila iscritti abbia solo 8 circoli universitari. Si tratta, dunque, di costruirne di nuovi in tutti i grandi poli universitari e di renderli luoghi di stimolo alla nascita e al radicamento dei collettivi. Contemporaneamente va rilanciato il lavoro nelle scuole medie superiori sia promovendo collettivi d’istituto e creando circoli di GC degli studenti medi sia lavorando assiduamente in ogni mobilitazione. La divisione in gruppi di lavoro permette di rendere collegiale il lavoro del Coordinamento, così come pure permetterà di rendere più snella (e quindi più facilmente convocabile) la struttura. Non vogliamo con questo ribaltare o non tener conto della maggioranza politica del Coordinamento ma superare quel- la dialettica stantia ed inefficace che vede l’Esecutivo “proporre la linea” ed il Coordinamento riprodurre in sedicesimi il dibattito del Prc. Non abbiamo bisogno di questo, bensì di un’assunzione di responsabilità collettiva. Così come sarà necessario mandare tutti e 40 i membri del Coordinamento in giro per le federazioni, soprattutto dove c’è bisogno di ripartire nel lavoro di costruzione dei GC. Questo darà a ciascuno la possibilità di conoscere tutta l’organizzazione e non solo le federazioni a lui politicamente omogenee. Solo così si supera realmente il lavoro “per correnti” favorendo circolazioni di idee, un dibattito trasparente e l’investimento di ben 40 compagne/i su tutto il territorio nazionale. L’Esecutivo deve essere il raccordo ed il fulcro politico del lavoro del Coordinamento. Non è necessario che sia composto interamente da funzionari pagati (anzi, bisognerebbe snellire l’apparato centrale e trasferire risorse sul territorio), ma è fondamentale che contenga al suo interno la pluralità del dibattito presente in tutta l’organizzazione. Deve curare prioritariamente il rapporto con i territori e lavorare per costruire relazioni con altre organizzazioni sociali, politiche, giovanili e di movimento. Così come pure deve essere da stimolo al lavoro delle commissioni e del Coordinamento tutto e gestire l’aspetto finanziario del lavoro politico svolto, redigendo annualmente un bilancio: si è resa necessaria maggiore trasparenza e collegialità nella gestione delle risorse economiche a disposizione dei GC. Particolare importanza dovrà essere data alla comunicazione. Bisogna pensare ad un inserto da pubblicare mensilmente su Liberazione attraverso cui affrontare temi dedicati alla condizione giovanile. Un lavoro che può essere svolto direttamente dalle varie commissioni che avrebbero così uno spazio per poter lanciare campagne, fare i bilanci di quelle svolte e far conoscere a tutte/i i lavori messi in cantiere. Contemporaneamente bisognerebbe pensare a pubblicare su Liberazione il dibattito svolto durante le riunioni di Coordinamento Nazionale (come avviene per il Cpn) così da renderlo fruibile a tutti. Il sito internet risulta inadeguato, sia per la comunicazione interna sia per quella esterna. Deve diventare uno strumento attrattivo per i non iscritti e funzionale per i GC. Deve essere diviso in sezioni tematiche e diventare nei fatti la “cassetta degli attrezzi” per il lavoro dei vari territori. Vanno quindi sfruttate risorse e capacità anche al di fuori del Coordinamento Nazionale. Contemporaneamente andranno trovate nuove forme di comunicazione: dalla pubblicazione di giornali (meglio ancora riviste) nazionali, alla possibilità di dar vita (così come hanno già fatto diverse organizzazioni europee) a radio via internet. È evidente che per rendere attive, ricche e partecipate queste esperienze, la loro gestione non deve essere esclusivamente di parte. Anche qui si rende evidente uno dei problemi principali: quello di uscire da una logica proprietaria e privatistica dell’organizzazione. A tal proposito, la Festa Nazionale dei GC deve diventare il momento massimo di partecipazione e condivisione politica e materiale di tutti i GC. Collegialità nella preparazione e nella gestione: è la nostra festa oltre che uno strumento fondamentale per radicarsi in territori dove siamo poco presenti, per lanciare campagne, ma anche per rendere realmente condiviso il senso di appartenenza alla stessa organizzazione. I coordinamenti regionali rivestono un ruolo sempre più importante: lo spostamento di funzioni dallo Stato alle Regioni su questioni centrali (sanità, istruzione, ambiente, lavoro) rende la costruzione e il rafforzamento del livello regionale della nostra organizzazione un compito irrinunciabile. In questo senso i coordinamenti regionali non dovranno limitarsi a mettere in comunicazione i vari coordinamenti provinciali, ma dovranno darsi il compito di pro15 durre lavoro politico e momenti di lotta che GIOVANI COMUNISTI: DI LOTTA O DI GOVERNO Per una sinistra anticapitalista globale Firmatari (in neretto i membri del coordinamento nazionale GC): Danilo Corradi (esecutivo nazionale GC), Chiara Siani (coordinamento naz. GC), Emiliano Viti (coordinamento naz. GC), Giulio Calella (coordinamento naz. GC), Tatiana Montella (coordinamento naz. GC), Alberto Ghidini (consigliere Com.Coccaglio GC Brescia), Alessandra Fragiotta (GC Latina), Alessandro Cauli (GC Oristano), Alessandro Cirillo (GC Gorizia), Alessandro Corrieri (consigliere com. Sesto fiorentino-GC Firenze), Alessandro Saullo (GC Gorizia), Alessia Grimaldi (GC castelli), Alessio Aringoli (coord. Reg. GC Lazio), Alex Burlacu (GC Torino), Alex Gaudilliere (GC Roma), Alexander Schnabel (GC Firenze), Alioscja stramazzo (GC Torino), Andrea Affini- GC Mantova, Andrea giampieri ( Gc Ancona), Andrea Lapini(GC Roma), Andrea Mastrototaro (GC Bari), Angela Ranauda (GC Roma), Angelita Castellani (GC Roma), Angelo Cardone (coordinatore regionale GC Puglia), Angelo Loreti (GC Grosseto), Antonella Moretti (CPR - GC Bari), Antonello Zecca (GC Napoli), Antonio Ardolino (GC Roma), Antonio Arena ( GC Cosenza), Antonio Montefusco (GC Roma), Antonio Sanguinetti (GC Cosenza), Arianna Mazzieri (Gc Ancona), Ariela Spalla (GC Firenze), Armando Morgia (GC Roma), Assia Petricelli (GC Napoli), Aurora Donato (GC Roma), Barbara De Vivo(GC Roma), Boris Sollazzo (GC Roma), Brune Seban (GC Roma), Chiara Carrat (GC Napoli), Cinzia arruzza (GCRoma), Claudia Lo Presti (GC Roma), Claudio Galeota (GC Latina), Corrado Patuzzi (coordinatore GC Mantova), Cristian dal Grande (CPN – GC Venezia), Cristina Giardullo (GC Roma), Cristina LoRusso (GC Bari), Daniele D’ambra (GC Roma), Daniele Di Stefano (GC Bari) , Daniele Ippolito (Coordinatore GC Pisa), Danny La Salvia (GC Salerno), Dario Antonaz (CPF Gorizia), Dario Dinepi (GC Roma), Debora Pandini (GC Ravenna), Domenico Marazzia (GC Salerno), Elisa Coccia (GC Roma), Emanuela Stagnozzi ( CPF - GC Ancona), Emanuele Rossi ( Segretario circolo Fabriano – AN), Emanuele Verrienti (gc Trieste), Emiliano Raponi (GC Roma), Enrico Bertelli (coordinatore GC Verona), Enrico Calossi (GC Grosseto- cons. com. Follonica), Enrico Lancerotto - GC Mantova, Enrico Sist (gc Trieste), Enrico Strina (GC Roma) , Ercole Rossi (GC Latina), Evrin galesso (GC Venezia), Fabio Ruggiero (GC Napoli), Federico Cuscito (segr. Circ. L.Maitan CPF- Bari), Ferdinando Nappi (GC Bari), Filippo Renzi (GC Rimini), Francesca Deprosperis, Francesco Ardolino (CPF -GC Salerno), Francesco Locantore (GC Napoli), francesco scandinaro ( Gc Ancona), Frederic Yernia (GC Torino), Giampaola Tebano (GC Taranto), Giancarlo Posi (GC Lecce), Gianluca Cavotti (GC Napoli), Gianni De Giglio (GC Bari), Giorgio Cordiano(GC Torino), Giorgio Stamboulis (coord.GC Ravenna), Giovanni Tomasin (GC Gorizia), Giulia Borroni - GC Mantova, Giulia Heredia (GC Castelli litoranea), Giulia Norcini ( GC Grosseto), Giuliano Minervini (GC Bari) , Giulio Tamburini - GC Mantova, Giuseppe Maniglia (coordinatore GC Taranto), Giuseppe Matese (GC castelli-litoranea), Giuseppe Mazzotta (GC Bari), Giuseppe Teti(GC Roma), Gorini Federico (GC Roma), Guido Ricci (GC Roma), Ilaria Nardone ( GC Venezia), Jacopo Menechelli (GC Perugia), Jacopo Vivarelli (GC Livorno), Lavinia Minozzi (gccpf Trieste), Leonardo Masone ( segr. Circolo Pietralcina – Benevento), Lia De Lellis (GC Napoli), Loredana Marino (CPF- GC Salerno), Lorenzo Allegrini (resp. GC Fabriano - AN), Luca Gori (GC Roma), Luca Grigoli, GC Torino (GC Torino), Luca Patruno (CPF-GC Bari), Luca Sebastiani (Coordinatore GC Ancona), Luciano Ricci (GC Napoli), Manuele Bellintani - GC Mantova, Mara Favale (GC Taranto), Marco Antonutti (CDA “La Sapienza” - GC Roma), Marco Bragaglia(GC Roma), Marco Bufalini ( Gc Ancona), Marco Dotti (GC Brescia), Marco Filippetti (GC castelli), Marco Manzo (GC Roma), Marco Montanari (GC Rimini), Marco Nicolai GC Gorizia - consigliere comunale Gorizia, Marco Pettenella (GC Verona), Maria Gioia Caleffi (GC Modena), Marilena Maragliulo (GC Lecce), Matteo Baronchelli (CPF - GC Brescia), Maurizio Ribechini (GC Pisa), Mauro Sellaroli (GC Verona), Melissa Zavatta (GC Rimini), Michela Puritani ( coord. Prov GC Roma), Michele Azzerri (segr. Circolo di Aprilia - Gc Latina), Michele Martinelli (GC Foggia), Michele Palmieri (coordinatore GC Gorizia), Michele Ravenna ( GC Massa e Carrara), Michele Spaventa (GC Napoli), Mimmo Fiorani (GC Grosseto - Cons Com Follonica), Mimmo Impiombato (GC Mantova), Mirko Lui - consigliere comunale Suzzara- GC Mantova, Monica Borgani - GC Mantova, Nadia Longo (GC Bari) , Nando D’anna (GC Napoli), Nice Canari (GC Latina), Nicola Vigliotti (Cpf – Direttivo GC Bari), Nicole Merli - GC mantova , Orlando De gregori, GC Torino (GC Torino), Paola Baronchelli (GC Brescia), Paola Denigris (GC Roma), Piero DeMarchi (GC Trieste), Pierpaolo Coccia (GC Roma), Pina Mandato (GC Napoli), Raffaella Petricca (GC Roma), Roberto Santi (GC Bologna), Roberto Vallepiano (GC Imperia), Rosa Matucci (GC Firenze), Sara Farris (GC Roma), Sara Moncelsi (GC Nuoro), Sara Trusciglio, GC Torino (GC Torino), Scilla Albertini (GC Mantova), Simone Ortori ( Coordinatore GC Massa e Carrara), Sonia Doronzo (GC Torino), Stefano Belli (GC Firenze), Tommaso Casati (GC Torino), Tommaso Iori (consigliere comunale Trento), Vittoria Derisi (GC Taranto), Simone Ortori ( Coordinatore GC Massa e Carrara), Sonia Doronzo (GC Torino), Stefano Belli (GC Firenze), Stefano Gioffrè (GC Roma), Tommaso Casati (GC Torino), Tommaso Iori (consigliere comunale Trento), Vittoria Derisi (GC Taranto) [1] A sei anni dalla nascita del movimento globale il mondo è diviso in due. Da una parte la straordinaria vittoria del movimento francese, il successo del Forum sociale di Atene, il processo rivoluzionario del Venezuela, la nazionalizzazione del gas nella Bolivia dei movimenti. Dall’altra il neoimperialismo Usa, la guerra e le politiche neoliberiste, lo scontro tra barbarie e la precarietà come nuovo paradigma sociale. In mezzo il fallimento del progetto del centrosinistra globale di Blair, Schroder e Lula, ovvero dell’idea di un compromesso sociale tra liberismo e movimenti. [2] È in questo contesto che si apre la terza Conferenza Nazionale dei/delle Giovani Comunisti/e. Senza dubbio, la più importante. La fase politica italiana si presenta particolarmente complicata: Berlusconi è stato sconfitto, ma la risicatissima vittoria elettorale dell’Unione dimostra quanto ancora sia forte ciò che abbiamo definito “berlusconismo” – la miscela di liberismo sfrenato e autoritarismo securitario, razzista e clericale. E quanto sia debole l’idea di alternanza rappresentata da una coalizione di Centrosinistra più attenta ad ascoltare il Fmi, la Commissione europea o Confindustria che le lotte sociali. [3] Questo documento nasce da questa consapevolezza e dalla percezione di una difficoltà profonda dei/delle Gc cresciuta negli ultimi due anni: una difficoltà di progetto, di radicamento, di prospettiva. Molti di noi si riconobbero nella scorsa conferenza nel primo documento, soprattutto per la priorità assoluta data all’impegno dei/delle Giovani comunisti/e alla costruzione del movimento antiliberista a partire dalla rottura del Prc con il primo governo Prodi. Avevamo ancora fresche negli occhi le immagini entusiasmanti e drammatiche di Genova, eravamo nel pieno delle prime mobilitazioni contro la guerra permanente avviata dall’amministrazione Bush, e della ripresa del conflitto sociale con le lotte in difesa dell’articolo 18. Una straordinaria stagione di movimenti in cui la nostra organizzazione – pur con limiti e contraddizioni – ha avuto un ruolo centrale. Ma in coincidenza con la scelta del nostro Partito di entrare mani e piedi nella gabbia dell’Unione, questo percorso ha subito una brusca interruzione. [4] I movimenti – viceversa – non si sono per nulla fermati, anche nei mesi precedenti le elezioni politiche. Il movimento studentesco di ottobre è stato il più importante per intensità e partecipazione dai tempi del movimento della Pantera; le mobilitazioni delle donne e del movimento Lgbtq sul tema della laicità, delle unioni civili per la difesa e il miglioramento della 194 sono state impressionanti; e ancora le lotte contro la Tav, la campagna contro la Bolkestein e e sui beni comuni, le lotte metalmeccaniche hanno visto ovunque una grande partecipazione giovanile. Rinunciare ad intervenire in queste potenzialità con un nostro progetto di trasformazione rischia di farci allontanare dalla prospettiva di un’alternativa di società – proprio mentre in altre parti del mondo si torna a parlare di socialismo. [5] L’internità all’Unione, al di la dei proclami, pesa complessivamente come un macigno sui Gc, e rende strettissimo lo spazio dell’autonomia e dell’iniziativa. Quest’affermazione non è astratta, ma vive nella concretezza delle scelte di questi ultimi mesi. Dal movimento contro la guerra, alla mobilitazione contro la Bolkestein, al movimento studentesco, i Giovani Comunisti in quanto tali, al di là dell’impegno di singoli compagni o di Federazioni locali, non sono stati in grado di promuovere la costruzione, la messa in relazione e la radicalizzazione dei movimenti. Non ci sono state campagne adeguate, materiali utili, riunioni per coordinare i/le tanti/e Gc che hanno dimostrato un generoso attivismo in queste lotte. Un’organizzazione nazionalmente ferma, a meno che non si tratti di riprodurre in sedicesimi l’iniziativa del Partito sulle primarie o sul sempre più astratto percorso della Sinistra europea. [6] Non crediamo che il problema sia risolvibile con astratti “proclami” di internità a un generico movimento, o nella frase di un documento che ricordi l’esperienza di Genova. Il problema è di natura tutta politica, e riguarda le scelte dell’oggi. L’internità all’Unione di centrosinistra, la relazione tra questa scelta e la rottura degli spazi unitari di movimento e delle lotte sociali, la sfida dellla costruzione di una sinistra alternativa e anticapitalista, ne rappresentano per noi il cuore. Il grande movimento francese contro il Cpe, sostenuto da una sinistra anticapitalista del tutto autonoma da quella moderata ma capace di sfidarla sui contenuti, costringendola in percorsi di lotta comuni capaci di battere il Governo, è forse il miglior esempio dell’alternativa di collocazione e di strategia che proponiamo. [7] La necessità di oggi per i Gc è dunque rilanciare la costruzione di un’organizzazione vera – riprendendo il percorso dell’autoriforma. Un soggetto politico in grado di avere un proprio profilo autonomo e anticapitalista, e dunque necessariamente critico e schierato per la costruzione dell’opposizione sociale alle politiche neoliberiste e di guerra – da qualunque governo vengano. 1. Per una sinistra anticapitalista globale La Comune è la riappropriazione del potere statale da parte della società, di cui diviene la forza viva, invece di essere la forza che la domina e soggioga. (Karl Marx) 1.1 Crisi capitalistica e guerra globale permanente La guerra globale e permanente è un fattore strutturale del nostro tempo. Scatenata in nome della “lotta al terrorismo”, la guerra si presenta come la risposta obbligata alla crisi dell’accumulazione capitalistica. La fase aperta dall’amministrazione Bush, già prima dell’11 settembre, rappresenta una svolta della politica mondiale. Il fatto che questa strategia muova dall’interno di uno Stato nazionale, e utilizzi i suoi tradizionali dispositivi, non fa che dimostrare la fretta e la superficialità con cui se n’era dichiarata la crisi e la nascita di un’impero indistinguibile e omogeneo al suo interno. Negli ultimi due decenni l’egemonia imperiale Usa si è esercitata tramite il predominio finanziario, quello scientifico e tecnico, e la supremazia militare, anche come risposta all’emergere di altri imperialismi concorrenti. Questa dinamica, oltre a produrre uno stato di eccezionalità democratica (Guantanamo, sviluppo abnorme degli apparati di spionaggio e controllo), spinge anche altri Stati, o gruppi di Stati come l’Unione europea, ad adeguarsi all’offensiva. La lotta per le risorse energetiche del pianeta, per acca17 parrarsi mercati di sbocco, le politiche di riarmo e di costruzione dell’esercito europeo, si coniugano alla guerra interna sociale che si chiama precarietà, politiche securitarie, riduzione degli spazi di agibilità democratica. Vent’anni di “globalizzazione” e di guerra si riassumono in un dato che ne determina il segno di classe: il 20% delle ricchezze mondiali si è trasferito dal lavoro salariato ai profitti, concentrandosi sempre più nel 5% più ricco della popolazione mondiale. Nella sua faccia esterna e interna la guerra si dimostra per quello che è: la risposta più aggressiva e radicale alla crisi di accumulazione capitalistica. La guerra unilaterale è dunque un risvolto di questa lotta concorrenziale tra diversi imperialismi, il G8 è il luogo della concertazione di questa conflittualità, l’Onu la facciata “presentabile” utilizzabile a piacimento. I fronti di questa guerra si chiamano Iraq, Iran, Afghanistan, Palestina, America Latina e allo stesso tempo Bolkestein, Patrioct act, processo di Bologna, Mastricht... In questo contesto i terrorismi di matrice islamica propongono una loro specifica opzione politica per conquistare la direzione degli Stati arabi. Il terrorismo non solo non può rappresentare in alcun modo un alleato nella lotta contro l’imperialismo, ma rappresenta un ostacolo da battere perchè inibisce le possibilità di liberazione dei popoli oppressi. Se è vero che il terrorismo si nutre e cresce anche grazie alla disperazione prodotta dalla guerra, non è vero il contrario, ovvero che la guerra sia la risposta al terrorismo. Non esiste dunque nessuna “spirale”. Noi siamo contro il terrore, a partire da quello prodotto dagli eserciti “occidentali” che sparano sui civili a Nassirya, che annientano Falluja con il fosforo bianco, che torturano nelle carceri. Siamo con le resistenze, quella del sindacato iracheno che lotta contro l’occupazione e la privatizzazione dei pozzi petroliferi, quella per l’autodeterminazione palistenese, quella del Chiapas e di tutti popoli latinoamericani, quella dei movimenti globali. Non rinunciamo alla critica della violenza, ma rifiutiamo due idee implicite dell’ideologia della non violenza: l’idea che la non vilenza possa essere una scelta unilaterale – non siamo noi soltanto a decidere quali forme assumerà un conflitto – e l’idea che violenza e non violenza siano un’opposizione, cioè che la non violenza sia il contrario della violenza. Nella realtà l’una e l’altra possono manifestarsi come una sola cosa, quando l’impossibilità di organizzare una difesa non pone alcun limite alla violenza. La nuova offensiva della destra globale si trova però di fronte ad una imponente crisi di consenso. Il fenomeno più evidente di questa crisi di consenso è la nascita del cosiddetto movimento globale che ha rimesso all’ordine del giorno l’ipotesi di un’alternativa. Oggi dopo sei anni, dopo la fase dell’affermazione di se, quei movimenti sono entrati in una nuova fase, quella del conflitto sociale e della discussione concreta e strategica di come conquistare l’altro mondo possibile. 1.2 Il realismo del sogno rivoluzionario Rifondazione Comunista aveva affermato, pochi anni fa, che la profonda crisi economica globale in atto da due decenni ha annullato i margini di riformismo, di mediazione sociale. Che non solo, dunque, la relazione coi movimenti e la costruzione dei conflitti sociali era centrale – ma che, sul piano politico, era necessario recuperare fino in fondo la categoria e la prospettiva della Rivoluzione. Siamo convinti che questo sia ancora il terreno su cui impegnarci fino in fondo, l’unico per cui valga la pena di dedicare alla politica una parte del nostro tempo di vita, dominato dalla precarietà. Di questo ci parla il grandioso processo politico in corso in America Latina. Si parla di socialismo, in Venezuela, dove siamo di fronte ad un vero pro18 cesso rivoluzionario, ma anche in Bolivia, ed in forme più o meno contraddittorie in tutto il continente. Autogestione delle aziende da parte dei lavoratori, nazionalizzazione di interi settori produttivi, socializzazione delle terre, esperimenti di democrazia diretta nei quartieri. Sei anni fa sembrava impossibile, oggi è un processo contraddittorio certo, ma reale. Avanza un’alternativa radicale al liberismo che si confonde sempre più con un’alternativa di massa al capitalismo mentre, non a caso, il neoriformismo di Lula entra in crisi. Per la nostra generazione politica, la tensione rivoluzionaria è maturata a cavallo di Nizza, Praga, Genova, Porto Alegre, di Firenze, Parigi, Londra, Atene. Crediamo che la costruzione dell’alternativa anticapitalista non consista nell’applicare un manuale pronto all’uso, ma nel costruire strumenti politici, sociali, teorici nuovi, all’altezza dello scontro e delle possibilità reali, capaci di confrontarsi criticamente con l’esperienza del ‘900 senza rimozioni. Nella società, contro la loro società. Con la politica, contro la loro politica. Questo abbiamo pensato e praticato da Seattle a oggi. Non vogliamo smettere. L’alternativa non è tra i “duri e puri” e i “realisti”. Non crediamo ci sia nulla di realistico nell’illudersi che si possa cambiare la realtà attraverso un governo con Prodi, Treu, Rutelli e Mastella. Non crediamo ci sia nulla di realistico nel pensare che si possano costruire movimenti e conflitti se si manovra dentro o nei pressi “della stanza dei bottoni”, contro cui quei movimenti si rivolgono – che sia il Consiglio dei Ministri, o il prossimo G8. Lo dicevamo tutti nel 2002, noi lo affermiamo ancora: non c’è una terza via tra la globalizzazione liberista e l’alternativa anticapitalista. 1.3 Il potere di cambiare il mondo Il movimento dei movimenti è riuscito a rompere la gabbia del pensiero unico liberista ed è tornata d’attualità l’idea che un’altro mondo è possibile, l’idea di una società alternativa al capitalismo, in cui le donne e gli uomini si riapproprino del proprio mondo. L’idea di un socialismo per il XXI secolo. Siamo consapevoli che la costruzione di un altro mondo avverrà solo attraverso il crescere dei movimenti e delle strutture di contropotere. “L’emenacipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi”. Ma questo non averrà spontaneamente, l’Argentina può esserne un esempio. I processi rivoluzionari sono sempre stati frutto del rapporto dialettico tra un’organizzazione politica rivoluzionaria e l’autorganizzazione dei soggetti della trasformazione. Ma non si costruisce una nuova soggettività critica senza un’idea di programma, un’idea-froza che prefiguri la società che vogliamo. È necessario dunque stare nei movimenti e provare a sostenerli, proponendo, democraticamente e collettivamente, una nostra visione complessiva della società. Non serve un’organizzazione che preservi staticamente una qualche presunta ortodossia, nè serve semplicemente rincorrere i movimenti. È la combinazione tra la costruzione dei movimenti sociali, la crescita di una sinistra anticpitalista, e l’accumulazione di forze e fiducia sociale nella possibilità di cambiare il mondo che può affermarsi l’idea di un’alternativa, capace di porre la rottura con il sistema capitalistico e il suo potere, ponendo la questione della proprietà dei mezzi di produzione, e costruendo un’altra società e quindi un’altra politica. Dentro la possibilità della rottura si riassume un modo diverso di intendere il potere, capace di coinvolgere tutti i soggetti e di rappresentare un antidoto alle storture burocratiche e centralistiche e al potere di pochi: il poter fare. Ci ostiniamo a non essere rinunciatari: vogliamo avere il potere di cambiare il mondo. Per questo non ci serve rimuovere il passato, nè imbalsamarlo. Il ‘900 è stato un tempo fatto di gran- di vittorie, di grandi occasioni mancate, di grandi sconfitte. Ma è stato anche la prima epoca della storia in cui i soggetti sociali oppressi sono stati protagonisti, e si sono posti sul terreno politico della rottura rivoluzionaria. Abbiamo bisogno della cassetta degli attrezzi che ci consegnano le vittorie così come i vinti del ‘900, per rifondare, in termini concreti e attuali, l’urgente prospettiva del comunismo. 1.4 Italia: l’alternanza liberista o l’alternativa dei movimenti I/le Giovani Comunisti/e, nella nuova fase politica aperta dalla sconfitta del governo Berlusconi, sono di fronte ad un bivio, ad un punto di svolta decisivo. Non si tratta di riprendere il dibattito del Congresso del Partito. Ma di prendere decisioni che saranno determinanti per il futuro della nostra organizzazione. Nonostante la crisi economica, la crescita enorme della precarizzazione, l’erosione del potere d’acquisto di salari e pensioni, il fallimento in Iraq ed in Afghanistan, i grandi movimenti sociali di questi cinque anni – nonostante tutto ciò, la Cdl ha preso gli stessi voti dell’Unione. Ed ha sfiorato la vittoria. L’Unione e il suo “programma”, a cui il Partito ha scelto di partecipare organicamente, ha dimostrato di non essere in grado di mettere in crisi il blocco sociale del Centrodestra. I settori popolari che lo avevano sostenuto negli anni Novanta, ed in particolare durante l’opposizione al primo Centrosinistra, sono tornati a votare per Berlusconi. Si poteva sconfiggere ben più nettamente il berlusconismo? Senza dubbio, soprattutto si doveva. In Francia il movimento contro il Cpe, oltre a vincere socialmente, è arrivato vicino a far cadere un governo: Berlusconi non sarebbe potuto cadere così, se non si fosse privilegiata l’infinita attesa del voto? Questi cinque anni sono stati la più grande fase di mobilitazione sociale della storia italiana dagli anni Settanta ed hanno messo in crisi il Governo delle destre. Si poteva provare a far cadere il Governo Berlusconi dalle piazze, nel momento della sua maggior debolezza, ma dopo le elezioni europee e regionali è cominciata la frustrante attesa del voto. La strategia e i contenuti della sinistra moderata hanno così prevalso sui nostri e su quelli espressi dai movimenti in questi anni. Berlusconi ha avuto il tempo di riorganizzarsi e di recuperare il consenso perduto. Non c’era – come sempre in politica – “una sola scelta possibile”. Il buon risultato della sinistra dell’Unione, ed in particolare di Rifondazione Comunista, dimostra che nella società c’è voglia di alternativa. Il moderatismo nei toni, ed il social-liberismo nella sostanza della proposta politica, hanno impedito all’Unione di raccogliere questa domanda. Il recupero finale di Berlusconi, costruito sulla proposta di abolizione dell’Ici (che Rifondazione proponeva da 5 anni) sulla prima casa mentre l’Unione si affannava a spiegare che “Non si può fare” – è l’esempio emblematico di quanto detto. Nella autonomia della politica istituzionale si possono ignorare questi elementi, guardando solo i movimenti dei ceti dirigenti, le ipotesi neo-centriste, le tentazioni di Grande Coalizione. Rischi reali, che devono essere contrastati, ma che hanno radici sociali ben più profonde del balletto istituzionale di questi mesi. L’alternanza tra due poli liberisti, seppur con due distinti liberismi, non ha smesso di essere il nemico politico principale di un’alternativa anticapitalista. Il fatto che né il social-liberismo né il liberal-populismo riescano, non solo in Italia, a costruirsi un chiaro consenso popolare, è la ragione sociale di fondo dell’ipotesi neo-centrista. Due politiche simili, se nessuna delle due riesce a prevalere, sono naturalmente portate ad incontrarsi – e nessuna alchimia parlamentare o istituzionale può alla lunga impedirlo. Siamo fra quelli che sostenevano da tempo che quel- lo dell’Unione sarebbe stato un Governo di alternanza e non di alternativa, constatiamo che questa realtà è ammessa oggi dallo stesso Bertinotti – seppur per sostenere che preservare l’alternanza sia oggi il miglior viatico verso l’alternativa. La stessa composizione dei ministri del Governo Prodi ci segnala in realtà che la “grande coalizione” si annida già dentro l’Unione. Del resto l’incompatibilità programmatica tra l’Unione di Prodi e i contenuti espressi dal movimento di questi anni è evidente, e la nostra internità ad un Governo di alternanza non può non influenzare le nostre scelte. Come si fa a stare in un Governo che appoggia le guerre approvate dall’Onu (come la missione in Afghanistan) e nello stesso tempo costruire il movimento contro la guerra? È realistico pensare di stare in un Governo che appoggia la Costituzione liberista Europea e la direttiva Bolkestein e nello stesso tempo costruire il movimento per l’Europa sociale? Come si fa a stare in un Governo in cui il maggior partito (i Ds) propone di trasformare gli Atenei in fondazioni private e nello stesso tempo costruire i collettivi universitari? E gli stessi esempi si potrebbero fare sulla mancata volontà dell’Unione di cancellare la Legge 30 e il pacchetto Treu, sull’indisponibilità a parlare di Pacs, e sui Cpt e la Tav ritenuti una necessità. E infine, come faremo ad assediare il prossimo G8 con i ministri del nostro partito dentro? Il liberismo si batte nella società. E nella società si batte l’alternanza (o le intese) tra social-liberismo e liberismo autoritario, costruendo un’alternativa politica radicale, di società. Del resto, ce lo potrebbe ricordare la storia – i diritti, in Italia, sono stati tutti conquistati dal movimento operaio, dal movimento femminista, dal movimento studentesco, col contributo decisivo di forze politiche che, dentro o fuori il Parlamento, erano all’opposizione. Ci fu, poi, il “compromesso storico” – e noi giovani abbiamo studiato che in quegli anni ci fu la sconfitta del ’77, la fine del “decennio rosso”, le leggi speciali antiterrorismo, e poi la sconfitta alla Fiat e l’inizio della mutazione del Pci, e dell’egemonia neoliberista. I casi Cofferati e Chiamparino hanno già espresso tutti i sintomi di queste contraddizioni ormai assunte da noi: il Prc e i Gc si trovano di traverso tra i movimenti e la controparte. È per questo che il partito di lotta e di governo non può esistere per sua stessa definizione. Non c’è bisogno di dilungarsi sulla storia. Basta guardare il presente: o prevale il partito di lotta o prevale il partito di governo. 1.5 Per una sinistra anticapitalista europea Una conferma indiretta di quello che diciamo la abbiamo dall’esperienza, opposta, di altri paesi europei. Quasi ovunque in Europa la tendenza è a costruire una sinistra alternativa politicamente autonoma dalla sinistra moderata, ed in forte relazione coi movimenti sociali. In Francia, in primis, la sinistra anticapitalista è del tutto autonoma dalla sinistra moderata, e la sinistra moderata è costretta dalla concorrenza alla sua sinistra ad assumere contenuti più avanzati. Ma, soprattutto, l’egemonia liberista entra in crisi nella società. Non a caso, del resto, in Francia non prendono corpo ipotesi neo-centriste, e nessuno vagheggia Grandi Coalizioni. Gli esempi della storica vittoria nel referendum contro il Trattato Costituzionale o del movimento contro il Cpe, entro cui la sinistra alternativa è stata decisiva, come lo fu Rifondazione a Genova, dimostrano che un’altra strada è possibile. Certo, in Italia il movimento (inteso come concreta alleanza politico-sociale, non come soggetto metafisico) che insieme ad altri/e abbiamo costruito da Genova in poi, attraversa una fase di stasi o addirittura di crisi, ma i movimenti sociali (studenti-donne- migranti-No-tav...) dimostrano tutte le potenzialità che abbiamo di fronte. E a livello europeo quello spazio, politico e sociale, irriducibile alle politiche liberiste e di guerra, si dimostra vivo, in crescita, ed in grado di ottenere finalmente dei risultati. In Germania c’è lo straordinario risultato del Linke, in Inghilterra la nuova formazione politica Respect, in Portogallo il grande successo del Bloco de Esquerda, e in Danimarca l’affermazione dell’Alleanza rossoverde. E infine la Francia. In tutta Europa, a prescindere dalle tattiche elettorali adottate per battere le destre, dove la sinistra radicale si mantiene ben distinta dalla cosiddetta sinistra moderata, cresce in influenza sociale, ed anche elettorale – e, soprattutto, parallelamente crescono lotte e movimenti in un rapporto dialettico. Sono queste le esperienze politiche europee che ci interessano, e con cui provare a costruire concrete campagne politiche e percorsi di movimento, a cominciare dall’opposizione all’Europa di Mastricht. Ben più astratto ci pare invece finora il percorso intrapreso dal partito nella costruzione della Sinistra europea, di cui non si capisce l’utilità e le campagne politiche, e che è stata tra l’altro ben poco presente nella stessa costruzione del Forum sociale europeo di Atene. Una vera sinistra anticapitalista europea si costruisce su concreti percorsi di movimento, non con semplici sommatorie di gruppi dirigenti. 1.6 Giovani Comunisti Siamo sostenitori determinati dell’importanza che i Giovani Comunisti/e esistano e, soprattutto, che siano una realtà autonoma e vitale. Non perché ci interessi costruire una copia in sedicesimi del Partito, magari con tutti i difetti di burocratizzazione che stanno rendendo Rifondazione un Partito sempre meno “diverso” dagli altri. Crediamo nell’importanza dei Giovani Comunisti/e proprio per l’opposto. Perché pensiamo che i Giovani debbano autoformarsi politicamente, confrontandosi, certo, con il passato, ma iniziando subito a prendere in mano in prima persona la loro attività politica. E ne siamo ancor più convinti in un tempo come il nostro, in cui la contraddizione generazionale è resa ancor più insopportabile dell’estendersi del paradigma della precarietà, dalla negazione del futuro. Gestire con autonomia la propria vita politica è proprio fare l’esatto opposto di quello che ci insegna ogni giorno la precarietà in cui viviamo. La politica, almeno, vogliamo riprendercela. Dal controvertice di Genova nel Luglio 2001 alla straordinaria esperienza del Trainstopping, passando per i tanti Forum sociali, i/le Gc sono riusciti a tenere insieme in uno spazio politico unitario di movimento forze tanto diverse per provenienza politica e per pratiche di lotta, avviando un percorso comune ad altri soggetti nella pratica di esperienze di disobbedienza civile e sociale contro guerra e liberismo. Crediamo che questo percorso sia stato fecondo: dal laboratorio dello stadio Carlini di Genova fino alle azioni contro i treni della morte. Dall’investimento nella costruzione dei movimenti i Gc hanno tratto vantaggi anche per se stessi, con una fase di crescita significativa di militanti e iniziativa politica in molte nostre realtà territoriali. Ma si sono evidenziati anche limiti, che hanno contribuito a determinare la difficoltà attuale della nostra organizzazione. Spesso le azioni di disobbedienza hanno badato più alla loro spettacolarizzazione che al tentativo di allargare il conflitto ad altri soggetti sociali. Ma soprattutto nel procedere delle nostre relazioni di movimento abbiamo teso a privilegiare la costruzione dei Disobbedienti, con la D maiuscola, come soggetto politico definito, in cui – tra l’altro – il programma era proposto da una specifica area politica, quella che fa riferimento a Toni Negri e alle teorie moltitudinarie – di fatto assunte dalla maggioranza del nostro gruppo dirigente. Dinamica che ci ha portato a trascurare l’intervento nei luoghi di studio e di lavoro, tralasciando un progetto e un profilo autonomo dei/delle Gc, impedendoci di cogliere pienamente le lotte che da questi luoghi sono partite negli ultimi anni. Oggi l’alleanza politico-sociale tra soggetti diversi che aveva rappresentato il motore delle iniziative del movimento dopo Genova, in Italia è entrata in crisi. Una crisi tutta da indagare, ma su cui Rifondazione e i/le Gc non sono intervenuti positivamente, aumentando divisioni su dibattiti lontani dalle discussioni del movimento – come quello su violenza e non violenza – e prefigurando la prospettiva del Governo. Crediamo che si debba imprimere al più presto una decisiva svolta con tre priorità: a) la costruzione di un progetto di radicamento sociale dove ricollocare le relazioni di movimento, evitando di ripetere la relazione tutta politica e nazionale costruita nei Disobbedienti, ma partendo da concreti percorsi sociali – un po’ come è successo, ad esempio, nel movimento studentesco romano di quest’autunno; non rinunciando mai al nostro specifico profilo politico e alla costruzione della nostra organizzazione; b) la ricostruzione, sul piano locale e nazionale, di un fronte unico di movimento che vada oltre la forma degli intergruppi. Un’alleanza politico-sociale costruita sugli appuntamenti del movimento globale, a partire dai Social Forum Europei, e che abbia al centro della propria agenda l’opposizione alla precarietà ed alla guerra; c) campagne politiche che propongano un nostro autonomo profilo complessivo, attrezzandoci per una battaglia di idee dentro i movimenti per avanzare la nostra proposta di trasformazione sociale. Il profilo politico delineato in queste pagine è dunque la premessa per un rilancio dei/delle Gc. Quelle che seguono sono le proposte che abbiamo provato ad articolare per rilanciare una strategia di radicamento sociale 2. Giovani Comunisti/e per l’opposizione al neoliberismo (un progetto generale di radicamento sociale) Siamo realisti, esigiamo l’impossibile (Ernesto Che Guevara) 2.1 Il movimento studentesco: collettivi dappertutto, verso una rete nazionale L’iniziativa studentesca è la priorità per costruire tra i giovani un reale radicamento sociale. E lo è tanto più oggi che, come insegna la Francia, gli studenti possono essere il motore di un largo fronte anti-precarietà in alleanza con il mondo del lavoro. Eppure i/le Gc a livello nazionale hanno pressoché abbandonato in questi anni l’intervento studentesco. Costruire collettivi in ogni facoltà e scuola, promuovere una rete nazionale, dando seguito alla mobilitazione di quest’autunno. Il tutto a partire da alcune rivendicazioni decisive: il rilancio del diritto allo studio, contro la precarietà, per l’abrogazione di tutte le riforme Moratti, ma anche della riforma universitaria Zecchino, voluta dal Centrosinistra. Per 19 un’istruzione pubblica, laica di massa. Milioni di studenti universitari e medi vivono una condizione materiale di vita fatta di privazione del diritto allo studio, e dominata dalla prospettiva della futura precarietà cui li destina il sistema formativo costruito da decenni di riforme neoliberiste attuate – nel contesto europeo del “processo di Bologna” – attraverso la riforma Zecchino varata dal governo D’Alema, la riforma Berlinguer del primo governo Prodi, e le riforme della Moratti. In seguito all’introduzione dell’autonomia prima, il 3+2 ed il sistema dei crediti, e della canalizzazione precoce e l’alternanza scuola-lavoro poi, le scuole e le università somigliano sempre di più a canali di addestramento al lavoro, al servizio delle imprese. Un sistema che porta alla costruzione di diplomi e lauree di serie A e B, indebolendo di fatto lo stesso valore legale del titolo di studio. Il progetto sostenuto fortemente dai Ds di trasformare gli Atenei in fondazioni private rischia di accelerare ulteriormente questo processo, all’interno di un programma dell’Unione in cui non c’è neppure l’abrogazione di tutte le riforme Moratti. Il diritto allo studio, nel frattempo, è stato sistematicamente demolito (a partire dall’aumento delle tasse, del costo dei libri di testo e dallo smantellamento dei sevizi – mense, studentati), e si è aggiunta alla tradizionale selezione di classe la subordinazione ai ritmi imposti dal nuovo sistema formativo. Gli studenti universitari devono sopportare ritmi di studio simili ad orari di lavoro – lo devono fare mantenendosi da soli, tramite lavori neri o precari, o grazie al sostentamento famigliare. Gli studenti medi devono lavorare gratis per le imprese, come poi saranno ancora costretti a fare con gli stage all’università. Il tutto per trovarsi alla fine con un diploma o una laurea di primo livello che è solo la certificazione di un futuro di precarietà. Il disagio è dunque ai livelli più alti mai raggiunti nella condizione di vita degli studenti. Ma nessun movimento nasce solo perchè c’è un disagio. La tesi che l’università e la scuola non fossero più un luogo di conflittto e una priorità di intervento, o addirittura che gli studenti, in quanto soggetto, non esistessero più – benché evidentemente prive di qualunque senso – hanno trovato largo seguito anche nel gruppo dirigente dei/delle Gc. In questi anni i Gc, come organizzazione nazionale, si sono ritirati gradualmente dall’università e dalla scuola sia sul piano organizzativo che politico. Il risultato è stato quello di aumentare la difficoltà, se oggi molte realtà di collettivi medi e universitari non esistono o sono in forte crisi è anche perchè si è rinunciato a dare a questo terreno la priorità necessaria. È ancora presto per un bilancio, anche solo iniziale, del “tempo che è cominciato adesso”, con le grandi mobilitazioni studentesche dell’autunno del 2005. Ma è sufficiente uno sguardo veloce per notare la corrispondenza, quasi meccanica, tra le punte di conflittualità di quest’autunno ed il permanere di strutture di organizzazione sociale degli studenti – i collettivi, ancor più dove sopravvivono reti o coordinamenti d’ateneo e/o cittadini tra le scuole. Nel momento critico, l’esistenza di strutture per l’autorganizzazione si è rivelata decisiva. Un movimento studentesco potrà darsi, in primo luogo, se saremo in grado di diffondere e radicare collettivi dappertutto. Fare collettivo, praticare vertenze quotidiane facoltà per facoltà, ateneo per ateneo, scuola per scuola, città per città, con strutture aperte, sociali, è il primo terreno su cui negare e contrastare radicalmente la catena di montaggio della fabbrica di precari della Riforme Moratti e Zecchino, e tornare a rivendicare il diritto ad una reale istruzione per tutti. Tutto ciò si situa sul terreno della possibilità, un nuovo campo, aperto in Italia dall’autunno di movimento del 2005, e rilanciato, oltre che dalla 20 Francia, dall’esplosione nelle università in Danimarca nel dicembre, ed in Grecia nel marzo di quest’anno – in tutta Europa l’opposizione alla trasformazione dell’università in fabbrica di precari sta diventando terreno decisivo di conflitto. Può iniziare un nuovo grande ciclo di lotte studentesche. E, senza dubbio, il ritorno stabile del movimento studentesco avrebbe effetti dirompenti. Soprattutto, potrebbe costituire il cuore sociale della lotta contro tutte le forme di precarietà, per l’abrogazione immediata della riforme Berlinguer-Zecchino-Moratti, ma anche della legge 30 e del pacchetto Treu. Oltre alla costruzione, o ri-costruzione dei collettivi di facoltà per il diritto allo studio e per il sabotaggio della Zecchino, sulla traccia del Manifesto per l’Autoriforma dell’Università varato dall’assemblea nazionale studentesca del 6 novembre scorso, i/le Gc devono impegnarsi alla costruzione di una rete nazionale degli studenti, che sia un reale strumento di costruzione del movimento e prefiguri una vera e propria organizzazione studentesca nazionale. Senza una dimensione nazionale, che sia controforza della frammentazione promossa dall’Autonomia degli atenei, nessun movimento può sviluppare le sue potenzialità. L’esistenza in Francia di organizzazioni studentesche nazionali radicate in ogni facoltà, ha favorito in modo decisivo l’estensione della partecipazione, la cui radicalità ha poi prodotto vere e proprie forme di autorganizzazione, con assemblee nazionali settimanali del movimento impossibili da controllare da parte delle direzioni moderate. Oggi si tratta di provare ad organizzarsi anche a livello europeo, cominciando dalla costruzione della mobilitazione europea contro il processo di Bologna rilanciata dal Social forum di Atene per il prossimo 17 novembre. Tra gli studenti medi, c’è stato il tentativo da parte dei Giovani comunisti di costruire un’embrione di rete nazionale, con l’esperienza dei “Sempre ribelli”. Ma le difficoltà incontrate da questa esperienza sono legate al suo essere un percorso poco inclusivo. Una struttura studentesca nazionale, per essere efficace, non deve riunire solo i/le Gc – ma tutte le esperienze socialmente attive nelle scuole. Anche per questo gli studenti medi, dopo la straordinbaria esperienza degli Stati Generali, hanno faticato a trasformare l’opposizione diffusa alle riforme Moratti in un movimento nazionale, radicato, aperto, sociale. mobile, per l’abolizione della Bossi-fini e della Turco-Napolitano per i migranti, il coordinamento tra settori differenziati e dispersi dall’attacco padronale: per unire ciò che il capitale frantuma. Il lavoro dipendente si trova in una condizione latente di frammentazione che discende dalla fase attuale dell’accumulazione capitalistica, dalla sua proiezione globale, dal ruolo perverso del processo di delocalizzazione. La precarietà in Italia deriva da un processo di sfruttamento e compressione dei diritti dei lavoratori che cresce costantemente da vent’anni, grazie anche alla concertazione sindacale. Il quadro oggi è drammatico: secondo un’indagine dell’Ires-Cgil soltanto il 10% dei lavoratori sotto i 30 anni è iscritto a un sindacato; secondo l’Ipsoe-sole 24ore il 25% dei contratti lavorativi oggi è atipico e le stime fatte parlano di un ulteriore aumento per i prossimi anni. La crescita di un soggetto precarizzato che entra ed esce dalla produzione costituisce una sorta di zona grigia senza diritti e con salari da fame, senza prospettive, senza futuro. Un esercito industriale di riserva in termini moderni che riconferma un’intuizione centrale del pensiero marxiano e che spiega gran parte della debolezza attuale del movimento operaio. La precarietà contro cui oggi si battono gli studenti francesi da noi è realtà quotidiana da molto tempo ed è stata introdotta in maniera significativa proprio dal primo governo Prodi, con il famigerato pacchetto Treu, votato, in nome di una mediazione parlamentare, anche da Rifondazione Comunista. Lo scontro in atto intorno alla legge 30, rischia di riprodurre esattamente lo stesso errore. La grande battaglia di fabbrica contro i turni massacranti di Melfi, la mobilitazioni degli autoferrotranvieri, lo sciopero ad oltranza dei portuali in Francia contro la privatizzazione delle linee navali, la mobilitazione dei ricercatori precari, i primi scioperi dei call-center e le recentissime mobilitazioni francesi degli intermittenti, degli stagisti e quella esplosiva contro il Cpe sono eventi che suggeriscono la possibilità di un vero e proprio ciclo di lotte contro la precarietà. È dunque necessario sviluppare una battaglia al tempo stesso politica e sociale: BATTAGLIA E CAMPAGNA POLITICA, L’abrogazione, totale e immediata, di tutte le riforme neoliberiste di questi anni, a partire da quella, immediata di tutte le riforme Moratti, deve essere la rivendicazione centrale verso il nuovo governo – su cui costruire un terreno unificante tra i diversi movimenti sociali dell’istruzione, per riprendere con decisione il percorso per una nuova rete nazionale studentesca. Per contribuire alla possibile esplosione, anche in Italia, di un grande movimento studentesco contro la precarietà e per il diritto allo studio. 2.2 Contro la precarietà per un nuovo movimento operaio La precarietà è oggi il fronte principale dove battere le politiche liberiste. La precarizzazione delle condizioni di lavoro e del salario si estende a paradigma sociale investendo in maniera specifica gli studenti, le donne, i migranti. La precarietà va battuta nei luoghi di lavoro con un intervento specifico di radicamento sindacale, ma anche attraverso una possibile ricomposizione e alleanza sociale che chiamiamo nuovo movimento operaio. Il movimento francese è un’esempio di questa possibilità. La costruzione di questo fronte tiene dentro la riforma universitaria e scolastica, i rinnovi contrattuali, la lotta contro la legge 30 e il pacchetto Treu, la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro, per un vero e dignitoso salario sociale, per una nuova scala perché non si esce dalla precarietà senza rimettere in discussione l’impianto stesso delle politiche liberiste, rivendicando la necessità di nuove “rigidità” nel mercato del lavoro, uscendo dall’ambiguità (che va per la maggiore proprio nel Centrosinistra) di una flessibilità buona contro una precarietà cattiva; BATTAGLIA SOCIALE, perché unire ciò che il capitalismo frantuma non significa limitarsi a enunciare questa bella frase in una conferenza o in qualche convegno, ma spendersi materialmente per fornire strumenti tecnici e analitici ai circoli e alle federazioni, interconnettere lotte e confrontare tra loro vertenze e campagne differenti, formare e autoformare compagni che possano sperimentare nuove esperienze sindacali. I/le Gc devono impegnarsi in questa direzione a partire da una campagna che tenga insieme la rivendicazione dell’abrogazione della legge 30 ad un salario sociale per precari e disoccupati capace di spezzare il ricatto della precarietà. Un salario sociale ben diverso da un semplice sussidio di povertà (Legge campana) e da un irrealistico reddito di cittadinanza universale slegato da qualsiasi condizione di classe e incapace di sostenere i conflitti sul lavoro; una campagna da radicare nei luoghi sociali costruendo anche dentro i nostri circoli o negli spazi sociali esperimenti di sportelli anti-precarietà che fungano non solo da consulenza legale ma che favoriscano la nascita di vertenze nei luoghi di lavoro e rafforzino il nostro intervento sindacale e la costruzione di una nuova sinistra sindacale. 2.3 Il nostro internazionalismo contro ogni guerra La lotta alla guerra non è terreno di mediazioni, o di compromessi. Senza se, e senza ma, con o senza l’Onu, siamo contro tutte le missioni militari. Bisogna radicare socialmente la lotta alla guerra, promuovere le campagne contro le basi militari e la solidarietà internazionalista, impegnarsi a fondo nella costruzione degli appuntamenti del movimento globale. Il ritiro immediato di tutte le forze militari italiane da tutte le occupazioni (Iraq, Afghanistan, Kosovo, in primis), l’autodeterminazione dei popoli, la liberazione della Palestina, sono le parole d’ordine più urgenti – che tutto il movimento contro la guerra sente proprie, perché le ha gridate e praticate per anni, nei cortei, nei Social Forum Europei. Su questi temi, nessun compromesso può essere accettabile. Questo potrebbe essere il primo banco di prova della capacità dei Giovani Comunisti/e di praticare una reale autonomia dal Partito, qualora quest’ultimo accettasse immotivabili mediazioni. Ma anche una campagna contro le spese militari, contro le basi, contro gli eserciti di professione, per la riconversione della produzione bellica, contro l’utilizzo a fini bellici dell’università, rappresentano obiettivi su cui costruire un movimento permanente da far vivere dentro scuole e università, dentro i luoghi di lavoro, nei singoli territori. Solo unificando la lotta alla guerra a quella anticapitalista potremmo vincere davvero: anche per questo il movimento contro la guerra, ferma restando l’inderogabile necessità dello sviluppo di forme di solidarietà internazionale, si manifesta nella costruzione quotidiana dell’opposizione sociale alla guerra permanente. Lungi dal porsi sullo stesso piano degli occupanti e di paventare soluzioni semplicemente “militari” alle aggressioni, dobbiamo in primo luogo “essere” – come afferma Arundhaty Roy – la resistenza alla barbarie neoimperialista, disarticolando le molteplici connessioni tra guerra guerreggiata e guerra sociale. Insomma, l’internazionalismo del XXI secolo è sempre più lavoro comune attorno agli stessi obiettivi. È per questo che il movimento contro la guerra si deve costruire attraverso gli appuntamenti del movimento globale, a partire dai Social Forum Europei e mondiali, che rappresentano tutt’oggi il più importante strumento di costruzione di una dimensione continentale, internazionale e globale del movimento. A tutto questo vanno affiancate campagne specifiche di solidarietà, dal Venezuela alla Bolivia, dai sindacati irakeni alla fabbriche autogestite in Argentina, dalla Palestina al Chiapas. Campagne di solidarietà volte anche ad indicare quale terreno di alternativa proponiamo. 2.4 Il femminismo del XXI secolo, un movimento per l’autodeterminazione e la laicità L’offensiva reazionaria, oscurantista e clericale è uno dei tratti di questo tempo, una delle strade del liberismo per cercare consenso. L’obiettivo centrale dell’offensiva sono le donne. I/le Gc, a partire da una seria riflessione autocritica su stessi, devono impegnarsi fino in fondo nel rilancio di un grande movimento femminista, motore di un più largo movimento per la laicità, contro ogni clericalismo. La soggettività politica che desideriamo costruire deve essere di donne e di uomini. Le donne sono tantissime nei movimenti, sono spesso alla testa delle iniziative di protesta, sono accorse per prime nei luoghi di guerra, affollano ogni tipo di volontariato possibile. Ma sovente fuggono le strutture in cui la politica si riduce a lotta di potere. Per ogni organizzazione politica è aperta da tempo una “questione” femminista. Si tratta di ascoltare le voci diverse di un’altra storia con cui il movimento operaio del Novecento non è mai riuscito a fare i conti fino in fondo. È assai grave per il nostro futuro che il social-liberismo dinanzi all’offensiva integralista semplicemente arretri, cercando mediazioni incredibili sui temi della laicità e dell’autodeterminazione delle donne. L’opposizione agli integralismi passa nel nostro paese prima di tutto attraverso l’affermazione dei diritti riproduttivi e non , e delle libertà sessuali e affettive di tutti i soggetti. La rimessa in?discussione della legge sull’aborto, l’ostruzionismo sui Pacs, il fallimento del referendum sulla procreazione medicalmente assistita, la mancata sperimentazione nel nostro paese della pillola abortiva RU486 e la centralità del “valore” famiglia sono il segno di una politica condizionata, sia a destra che a sinistra, dall’ideologia cattolica che nega la libertà di scelta, in particolare alle donne, sulla propria vita e sui propri corpi. È quindi necessario che le/i Giovani comuniste/i facciano della questione delle libertà di scelta uno dei temi centrali del proprio agire politico. Crediamo che favorire e incentivare la costruzione di collettivi femministi e Lgbtq autorganizzati nei territori come nei luoghi di studio e di lavoro, sia un reale strumento di lotta e di messa in discussione dei ruoli prestabiliti e della morale comune. La necessità di autorganizzarsi dei soggetti Lgbtq e delle donne non è meno importante che per gli altri soggetti sociali. I luoghi di incontro politico non misto, da non confondere con la pratica separatista, rappresentano infatti l’unica possibilità per le donne di riflettere sulla propria condizione e di produrre elaborazione politica. Una modalità che non le sottrae dal confronto con gli uomini, necessario ed efficace solo se le stesse hanno avuto prima la possibilità di riconoscere i propri bisogni e i propri desideri. Il riconoscimento dell’autodeterminazione non giustifica gli uomini a sottrarsi da una battaglia, che necessariamente parte dalle donne, ma bisogna combattere insieme. Su tutti questi temi si deve e si può costruire un movimento fatto di donne, gay, lesbiche, trans, bisessuali, queer che sia capace di mettere nell’agenda politica le questioni riguardanti l’autodeterminazione e la libertà di scelta di tutti i soggetti. Le mobilitazioni di gennaio e febbraio dimostrano che i tempi sono maturi. I/le Gc possono essere laboratorio di una rinascita/rifondazione radicale del femminismo. 2.5 Un movimento migrante La lotta al razzismo, alla xenofobia e allo sfruttamento dei migranti devono essere al centro dell’agire concreto dei/delle Gc. I Cpt devono essere chiusi, ma non ci basta. Vogliamo l’abrogazione della Bossi-Fini non per tornare alla Turco-Napolitano, ma per rifiutare l’idea del migrante-merce a disposizione di Confindustria. Per questo i/le Gc debbono mobilitarsi direttamente, ma soprattutto sostenere l’autorganizzazione dei migranti. Il governo Berlusconi sull’immigrazione ha mostrato tutta la sua natura xenofoba e repressiva, di cui è figlia la bestiale legge Bossi-Fini che “regolarizza” i flussi migratori semplicemente espellendo chi non è in possesso di contratto lavorativo. Le destre sono riuscite nel tentativo di ridurre gli extracomunitari al ruolo di semplice merce. È però doveroso approfondire il tema spinoso dei Cpt. I Centri di Permanenza Temporanea fanno capolino nel marzo del 1998; fanno parte della legge Turco-Napolitano, votata all’unanimità dalla maggioranza di allora, il primo governo Prodi (con il favore anche del Prc). Il migrante viene accusato del crimine di “clandestinità” (o meglio, di “diversità”) viene concepito come un soggetto pericoloso da rinchiudere in un vero e proprio lager. La sconfitta del centrodestra non rappresenta dunque la fine del problema. È frastornante la totale assenza di Ds e Margherita nella lotta per i diritti dei migranti. Anzi, troviamo gran parte dell’Unione a difendere la Turco-Napolitano (che, oltre ai Cpt, introdusse altre aberranti novità, come la catalogazione delle impronte digitali), chiosando che si trattava di una legge “sicuramente più umana” della Bossi-Fini: del resto, si parla semplicemente di “superamento dei Cpt”, senza specificare altro. Nel frattempo nel caso del Cpt di Gradisca d’Isonzo Prodi in persona ha dichiarato “I Cpt non chiuderanno”, e recentemente il segretario regionale dei Ds Maran ha parlato di umanizzazione, da opporre alla chiusura. Mentre Cooperative aderenti alle LegaCoop partecipano in mezza Italia alle gare per la gestione della struttura. Del resto la questione migranti è – purtroppo – una di quelle che mostrano più chiaramente quanto sia pericoloso ridurre il nostro partito a fare “la sentinella dell’alternanza”: basta guardare al voto bipartisan sul pacchetto Pisanu sulla sicurezza – il nostro patriot act – o al caso Cofferati a Bologna Ma un punto critico riguarda anche la proposta Cgil di istituire il “permesso di soggiorno per la ricerca del lavoro” che evidentemente è un palliativo che non rompe il circolo perverso del rapporto di lavororicattabilità-clandestinità-espulsione di cui sono vittime i migranti. A questa proposta dobbiamo essere fermamente contrari e dobbiamo dire con chiarezza che il diritto a rimanere ed a emigrare deve essere universale e senza condizioni. Niente più frontiere, niente più padroni? Decisivo è il tema dell’autorganizzazione dei migranti e la promozione dell’unità con le altre lotte sociali. È necessario che le/i Gc si muovano per favorirla. Significativi sono stati gli scioperi dei migranti in alcune realtà del Veneto e della Lombardia, così come è in continua crescita la sindacalizzazione in quelle realtà dove i migranti rappresentano ormai una parte consistente – se non predominante – della forza lavoro. 2.6 Antifascismo e antiproibizionismo L’assenza o l’insufficienza di una sinistra anticapitalista lascia spazio al ritorno nei nostri quartieri, negli stadi, o nei luoghi sociali, dell’iniziativa politica e squadrista dell’estrema destra. L’antifascismo deve essere legato al rilancio del nostro radicamento sociale La nostra opposizione radicale al neo-liberismo e allo scontro tra barbarie, vede la necessità di declinare un nuovo antifascismo. Un antifascismo non rituale, ma radicato socialmente, ed in grado di opporsi in termini di massa verso le formazioni della destra radicale – che inserendosi nelle contraddizioni di sistema, attraverso campagne dalla forte connotazione sociale (vedi mutuo sociale, partecipazione sociale al bilancio, le acque sociali, solo per citarne alcune) cercano di innescare quella lotta tra poveri, quella divisione della classe tra “italiani” e migranti che assieme ai valori reazionari del patriarcato e della “tradizione”, rappresentano il collante 21 politico-culturale posto come argine per i nostri percorsi contro la legge 30, contro i Cpt e contro la legge sulla fecondazione assistita. Non a caso alcune parole d’ordine vengono assunte anche dai settori moderati più reazionari, basti pensare al manifesto “per l’Occidente” di Pera. La deriva di stampo securitario che attraversa il nostro paese, quella della “Tolleranza zero” per chi agisce all’interno dei conflitti sociali, è la riprova di come oggi per noi l’antifascismo sia una priorità ineludibile, un terreno troppo a lungo sottovalutato da gran parte della sinistra alternativa, che se recuperato potrà permetterci di riaffermare realmente il principio per cui non c’è democrazia senza conflitti. Troppe le aggressioni di questi mesi per rimuovere il problema. È necessaria una campagna politica che faccia emergere la natura e il progetto dell’arcipelago di gruppi che va da Alternativa sociale a Fiamma tricolore, ponendosi anche il problema dell’autodifesa delle nostre sedi e delle nostre iniziative. Su tutto questo pensiamo sia utile che si apra una specifica commissione di lavoro. La stessa lotta contro il proibizionismo della legge Fini sulle droghe deve esser vissuta come una lotta complessiva contro le nuove culture di destra – securitarie e repressive – che uniscono razzismo, xenofobia, sessismo, proibizionismo e nuovo fascismo tentando di relegare questioni sociali, a problemi di ordine pubblico. Il proibizionismo è infatti la leva con cui la destra prova ad avere uno strumento di repressione arbitrario quanto pericoloso. Noi siamo per un antiproibizionismo consapevole, contro tutte le mafie, ma contro qualsiasi repressione dei comportamenti sociali. 2.7 Difendere i beni comuni, riprendersi il territorio Le lotte di Scanzano contro i rifiuti nucleari e di Acerra contro l’inceneritore, le mille lotte contro la privatizzazione dell’acqua in Italia e nel mondo, la grande mobilitazione contro la costruzione della Tav in Val di Susa, hanno mostrano come la contraddizione ambientale e la difesa dei cosiddetti beni comuni sia una componente decisiva della lotta al neoliberismo, e della costruzione dell’alternativa anticapitalista. Dalle liberalizzazioni in campo energetico (che non ha favorito il ricorso alle fonti rinnovabili ma aumentato le centrali turbogas), all’imposizione di grandi e inutili opere infrastrutturali, dalle ecomafie fino alla speculazione edilizia, la tendenza al saccheggio del capitalismo sembra proprio non porsi limiti. La trasformazione in merce e lo sfruttamento ai fini del profitto privato dei beni comuni è un processo che sta conoscendo una preoccupante accelerazione. L’acqua, l’aria, l’ambiente in generale, così come il sapere e il lavoro umano vengono saccheggiati attribuendo un prezzo a ciò che dovrebbe garantire diritti fondamentali come quello alla vita stessa. Oggi le privatizzazioni e le devastazioni ambientali sembrano non essere prerogativa di uno solo degli schieramenti politici. Il Centrosinistra rincorre il Centrodestra sul terreno della difesa degli interessi delle multinazionali e dei profitti privati. Anche il programma dell’Unione sostiene le “liberalizzazioni generalizzate” dei servizi pubblici e rimane ambiguo sull’acqua, dicendo che il servizio idrico “deve rimanere pubblico”, quando ormai è stata privatizzato già in diverse regioni,?amministrate dallo stesso centrosinistra. Quello che ci vorrebbe è una vera ripubblicizzazione generalizzata. 22 La privatizzazione dei beni comuni è nell’agenda politica dell’Unione europea, che con la direttiva Bolkestein lancia un’offensiva su tutti i servizi pubblici e sulla dignità del lavoro in?questo settore; inoltre i beni comuni sono oggetto di negoziazione nell’ambito del trattato sul commercio dei servizi (Gats) che impone a tutto il mondo la liberalizzazione degli investimenti esteri nei servizi pubblici, e quindi il loro smantellamento. È necessaria una iniziativa?autonoma, unitaria e dal basso dei movimenti per l’acqua in Italia e nel mondo, per sconfiggere gli interessi delle multinazionali. Vincere si può, come è stato ormai dimostrato da tante e tante lotte locali, da Cochabamba a Napoli. Con questi movimenti i/le Gc devono saper realmente interagire, costruire proposte e alleanze sociali. Lavorare per favorire l’autorganizzazione dei territori con l’obiettivo di unificare le vertenze è, secondo noi, l’unico approccio possibile per valorizzare queste energie e mettere in discussione il modello di sviluppo. I/le Gc dovranno impegnarsi nel rafforzamento delle reti nazionali già esistenti su queste questioni, come il Forum dei movimenti in difesa dell’acqua, il comitato italiano Stop Bolkestein, la rete nazionale Rifiuti zero. 2.8 La nuova questione meridionale La crisi economica del meridione d’Italia ci viene confermata da qualsiasi dato macroeconomico, che sia il Pil o il dato dell’occupazione. Il distacco dal centro nord aumenta in termini relativi e assoluti, la precarietà si confonde con la vera e propria esclusione sociale. Le migrazioni riprendono a crescere verso livelli paragonabili alla metà del secolo scorso. Il potere mafioso si combina ai più classici meccanismi dell’accumulazione capitalistica. È in questo quadro che parliamo di una moderna e nuova questione meridionale. Le lotte tornano con forza, da Termini Imerese a Melfi, da Scanzano alle mobilitazioni seguite all’omicidio di Fortugno. Contraddizioni specifiche si combinano dunque ad un grande protagonismo sociale e operaio, di cui i giovani rappresentano il cuore. È fondamentale rilanciare la nostra iniziativa contro il sistema di potere mafioso nelle sue varie articolazioni (traffici di droga, di armi, di organi, controllo delle attività economiche, eco-mafie…), che va considerato come un fattore fondamentale della globalizzazione neoliberista e dei suoi crimini. Il sistema mondiale capitalistico in tutti i suoi settori di arricchimento e di imposizione dei propri mezzi di produzione nelle economie sottosviluppate, si configura come sistema mafioso e mafiogeno. Per contrastare l’attuale mercato nero dei traffici di droga come principale fonte di accumulazione dell’economia mafiosa vanno promosse politiche di legalizzazione delle droghe leggere e di distribuzione controllata dell’eroina. I movimenti sociali come le associazioni antimafia, devono richiedere l’utilizzazione e la pubblicizzazione delle immense risorse confiscate e non alla mafia, sulla base di precisi progetti che creino occupazione utile. Dobbiamo rilanciare l’iniziativa per il controllo pubblico delle discariche, per la lotta all’abusivismo e alla devastazione del territorio da parte delle eco-mafie. Occorre che i Gc assumano come centrali questi temi e a tal fine dobbiamo promuovere al più presto un’assemblea meridionale di tutti gli attivisti dell’organizzazione. 3. Rilanciare l’organizzazione partecipata, democratica, antiburocratica Preferisco gli errori del movimento reale alle giuste risoluzioni del comitato centrale. (Rosa Luxemburg) 3.1 Gli strumenti per un’organizzazione partecipata Abbiamo esposto le ragioni politiche di una difficoltà complessiva dell’organizzazione. Ma se guardiamo alla stato di salute delle nostre strutture il nostro sguardo diviene ancora più critico. Serve a poco dire che il tesseramento è aumentato se contemporaneamente i coordinamenti provinciali dei Gc non si riuniscono, non si produce una vita regolare dell’organizzazione in cui possa evolvere la nostra progettualità. La cura organizzativa dei Gc è stata negli ultimi anni totalmente assente. Per rilanciare strumenti adeguati agli obiettivi che ci poniamo avanziamo alcune semplici proposte: a) costruire commissioni nazionali permanenti che possano coordinare il lavoro di settore, in particolare per quanto riguarda gli studenti, precarietà e lavoro, il conflitto di genere e le campagne politiche dell’organizzazione. Non è di certo sufficiente, come spesso accade, l’invio di un fax o di una mail per attivare sui livelli territoriali iniziative di cui nessuno ha discusso; b) avviare l’esperienza di un foglio nazionale dei/delle Gc, utile alle nostre battaglie politiche, alla circolazione delle nostre idee, soprattutto dentro le scuole. Un foglio che permetta anche di rilanciare il nostro sito nazionale, per lunghi mesi inesistente ed attualmente del tutto insufficiente; c) produrre materiali su scuola, università, precarietà ecc., che siano utili a dare indicazioni e strumenti ai collettivi di Giovani comunisti/e su come intervenire nel territorio, valorizzando le esperienze positive che pure esistono ma che faticano a diventare patrimonio di tutta l’organizzazione; d) rilanciare l’idea di un’organizzazione partecipata, costruendo appuntamenti di dibattito e approfondimento a livello nazionale, senza delegare ogni decisione al Coordinamento nazionale ma confrontandosi con i territori per ogni decisione dirimente; e) divenire come Gc anche strumento, spazio, laboratorio di costruzione di saperi e culture critiche, di percorsi partecipati di autoformazione, che siano momenti di elaborazione teorica ma che forniscano anche strumenti concreti per la costruzione del nostro radicamento sociale. Costruire un’attività di autoformazione è dunque terreno decisivo sui cui le nostre mancanze sono fin troppo visibili; f) valorizzare i nostri circoli, rendendoli luoghi non solo di riunione, ma anche di attività sociale. Dal progetto delle librerie alle case del popolo, dalle scuole italiane per migranti alle esperienze di costruzione di spazi sociali, è l’ora di generalizzare queste esperienze; g) specifica attenzione va posta sulla costruzione degli spazi sociali. Non possiamo nasconderci infatti le difficoltà avute dall’organizzazione laddove l’occupazione di uno spazio sociale si è trasformata in una soggettività politica sostitutiva dei/delle Gc. L’uscita dall’organizzazione dei/delle compagni/e che hanno dato cita all’esperienza del Cantiere di Milano e del Crocevia di Alessandria deve per noi essere elemento di riflessione approfondita. Gli spazi sociali sono un’importante sperimentazione se concepiti come strumento di aggregazione sociale plurale e di intervento territoriale utile a far crescere l’iniziativa, l’incontro tra soggetti sociali, ma anche l’idea di una socialità diversa e non mercificata. Le esperienze della Comune di Massa, di Ravenna come di Venezia vanno in questa direzione; h) l’autonomia politica e organizzativa dei/delle Gc passa anche dalla nostra capacità di autofinanziamento, per cui vanno rilanciati e incentivati i nostri campeggi nazionali e le feste nazionali dei/delle Gc, anche come momenti di visibilità in cui far vivere le nostre proposte e campagne politiche. 3.2 L’autoriforma mancata: un’altra organizzazione è possibile Il dibattito sull’autoriforma della nostra organizzazione avviato nella scorsa conferenza nel documento di maggioranza, partiva dalla consapevolezza diffusa che le strutture politiche del nostro partito fossero inadeguate. Inadeguate a cosa? Inadeguate a intercettare una nuova generazione politica che si fa avanti dentro il processo di radicalizzazione dei movimenti. Inadeguate a invertire, come diceva all’epoca la maggioranza del partito, l’ordine di priorità tra presenza istituzionale e iniziativa nei/con i movimenti, ovvero a mettere la seconda al centro e la presenza istituzionale al seguito. Ci pare che questo dibattito abbia prodotto alcuni cambiamenti linguistici, qualche generosa e importante sperimentazione locale, ma nessuna elaborazione organica. Non abbiamo la pretesa di farla noi, soprattutto perché siamo convinti che questo sia un terreno centrale su cui aprire una discussione partecipata da tutti/e i/le Gc. Ma notiamo che ad oggi non esistono delle significative differenze di gestione dell’organizzazione giovanile rispetto a quella del Partito: non si sono inventati luoghi e pratiche per gestire in modo plurale l’organizzazione, né per gestirla in modo efficace e democratico. invertire il rapporto di priorità istituzioni/movimento? Per questo proponiamo alcuni elementi che, crediamo, siano vissuti da tutti/e con profondo disagio. E anche su questo piano è necessario misurare fino in fondo la capacità dei/delle Gc di essere autonomi non a parole, ma coi fatti. E il terreno di ragionamento che scegliamo è scivoloso e difficile, ma vale la pena tentare: quale rapporto tra funzionari e partito? Tra istituzionali e attivisti? Sono i/le Giovani comunisti/e costantemente in difficoltà di fronte a un’organizzazione del partito che tende spesso alla burocratizzazione? Intorno a questo tema che, “materialisticamente” parlando, dovrebbe essere centrale per evitare dinamiche burocratiche nel Partito, non si è aperto nessun dibattito collettivo. Siamo forse immuni dalla burocratizzazione per qualche motivo spirituale che non ci è del tutto chiaro? Alcuni dati materiali: secondo una recente indagine edita dal Mulino, a fronte di circa 10.000 militanti, Rifondazione ha almeno 2.000 compagni/e che “vivono” interamente di politica, e altri 2.000 inseriti almeno in piccole istituzioni – calcolo precedente all’ingresso al governo e alle elezioni di molte giunte regionali, che hanno aumentato sicuramente questi numeri. Queste sono solo alcune proposte: Come è evidente, dunque, stiamo parlando di una realtà per nulla marginale di costituzione materiale del Prc, e che riguarda in prima persona anche tanti/e Giovani comunisti/e. Cosa vuol dire per un’organizzazione politica avere una percentuale così alta di funzionari/istituzionali? Quanto condiziona l’agenda politica del partito “l’istituzione”? I rapporti interni alle istituzioni condizionano larga parte del dibattito dei circoli, sottraendo spazio e forze a dibattiti intorno al radicamento e ai movimenti sociali? Cosa vuol dire, anche per il/la miglior compagno/a, avere la propria vita materiale legata all’esistenza del Partito? Ma non solo. La differenza stipendi tra “massimi dirigenti” e funzionari tecnici, dentro il Partito supera anche quel “per 10” che indicavamo come differenziale massimo nella campagna sui salari della pubblica amministrazione. Ha senso parlare d’innovazione rimuovendo questo tema? Quanti circoli vivono solo dell’attività, del consigliere e dell’assessore del paese? Questa situazione può essere attraente (inclusiva) per una nuova generazione? È veramente possibile, in questo quadro, Possono i/le Gc aprire senza moralismi verso tutto il Partito una campagna che rivendichi alcuni semplici mutamenti, che costituiscono però la base materiale per qualsiasi autoriforma? [1] equiparare tutti gli stipendi al contratto nazionale metalmeccanico, con un differenziale che possa raggiungere al massimo il doppio di tale riferimento. Per tutti/e: assessori, parlamentari, funzionari; [2] una rotazione degli eletti rigida, due mandati dopo i quali non ci si può ricandidare, in nessuna altra elezione, almeno per 5 anni; [3] è possibile immaginare il funzionariato non a vita? Ovvero possiamo spezzare il meccanismo per cui se un compagno diventa funzionario dopo 10 anni non saprebbe che lavoro trovare e quindi in qualche modo il Partito deve assicurargli una continuità retributiva? È il tema più complesso, ma dovremmo mettere in discussione il funzionariato full time, considerandolo un’eccezione, non la regola. Si può infatti con il ricorso al part time, o al distacco sindacale pagato dal Partito, avere funzionari che non si distaccano dal lavoro, che rimangono dentro la realtà, e che finito il loro mandato possono tornare al proprio lavoro; Non crediamo che l’autoriforma si esaurisca in queste proposte ma intanto sarebbe utile che i/le Gc provassero a praticarle. Iniziamo da qui, dal rapporto tra politica di professione e militanza, per arrivare all’autoriforma, di cui abbiamo bisogno perché abbiamo bisogno dei/delle Giovani Comunisti/e. Ne abbiamo bisogno perché vogliamo riprenderci la politica. 23 RIVOLUZIONARI DEL XXI SECOLO rinnovi contrattuali, silicone alle porte delle agenzie interinali invece di un intervento nelle lotte e nei processi di sindacalizzazione dei precari che si sono sviluppati in aziende come la Tim, l’Atesia o l’Abacus. Tutta la Disobbedienza era intrisa da uno spirito di “sostituzione” dell’azione di massa con quella di sparuti gruppi di militanti, nel nome della visibilità mass-mediatica. Firmatari (in neretto i membri del coordinamento nazionale GC): Jacopo Renda (coordinamento nazionale GC Napoli), Elisabetta Rossi (coordinamento nazionale GC - Udine)), Dario Salvetti (coordinamento nazionale GC Firenze), Mauro Vanetti (coordinatore GC Pavia)), Enrico Duranti (coordinatore GC Crema), Patrick dal Negro (coordinatore GC Udine)), Pietro Privitera (coordinatore GC Parma)), Antonino Rapisarda (coordinatore GC PesaroUrbino), Manlio Fiore), (coordinatore GC Agrigento), ), Paolo Brini), Comitato centrale Fiom), Simona Bolelli), Comitato casa via san Pietro Sassuolo (MO)), Lucia Erpice), Comitato Giù le mani dal Venezuela - Caserta), Samira Giulitti), direttivo nazionale Fisac Cgil - (coord. GC Lombardia), Davide Lissoni), delegato sindacale ST - Brianza), Laura Bassanetti), delegata ACI Global), Sara Cimarelli), delegata Direct Line), Davide Vallauri), delegato Abacus), Ilaria Pietrafesa. delegata (coop La Rupe), Andrea Davolo (direttivo Nidil Cgil Parma), Matteo Molinaro), (coordinatore nazionale Comitati in difesa della scuola pubblica (CSP)), Piero di Nardo), (coordinamento Studenti Universitari (CSU) - Napoli), Emanuele Cullorà), Collettivo universitario Pantera Milano), Cosimo Nicolini), CSP Milano), Alessandro Savoldi), CSP Pavia), Carola Giannino), CSP Crema), Irene Cecotti), CSP Udine), Federico Toscani), Collettivo CSU Parma), Alessandra Lo Fiego), CSP Reggio Emilia), Luca D’Angelo), CSP Modena), Antonio Buongiorno), CSP Bologna), Alessia Piras), CSP Cesena), Gabriele D’Angeli), CSP Roma), Gianluca Limatola), CSPCaserta), Livio Barbagallo), Collettivo CSU Napoli), ), Andrea Tavano), Cpf Prc Torino), Alessandro Riatti), GC Genova), Marta Becco), GC Genova,), Benny Abarbanel), GC Genova), Sara Parlavecchia), (coordinamento GC Milano), Francesco Bavila), (coordinamento GC Milano), Mara Ghidorzi), (coordinamento GC Milano), Ivan Piacentini), (coordinamento GC Milano), Sergio Schneider), GC Milano), Mauro De Michele), GC Brianza), Elisa De Tollis), GC Brianza), Davide Ronzoni), GC Lecco), Alessio Pandiani), GC Lecco), Luisa Belli), GC Varese), Irina Bezzi), (coordinamento GC Pavia), Pietro Pace), (coordinamento GC Pavia), Valerio Interlandi), GC Lodi), Ambra Romio), GC Lodi), Francesco Gastoldi), GC Bergamo), Laura Ponte), GC Padova), Emanuele Bottazzi), GC Trento), Gabriele Donato), Cpr Prc Friuli Venezia Giulia), Stefano Pol), GC Udine), Marco Vicario), GC Trieste), Filippo Agazzi), (coordinamento GC Parma), Stefania Ferri), (coordinamento GC Parma), Davide Tognoni), (coordinamento GC Reggio Emilia), Marco Paterlini), (coordinamento GC Reggio Emilia), Francesco Giliani), (coordinamento GC Modena), Felicita Ratti), (coordinamento GC Modena), Simone Raffaelli), (coordinamento GC Bologna), Serena Capodicasa), (coordinamento GC Bologna), Paolo Crispini (coordinamento GC Bologna), Nima Zarb Haddadi Azari (GC Imola), Giorgio Chiaranda (GC Ferrara), Ares Pedretti (GC Ferrara), Gemma Giusti (Cpf Prc Fermo), Roberta Corvaro (GC Fermo), Graziano Mazzocchini (GC Ancona), Tatiana Chignola (GC Firenze), Gabriele Vannucchi (GC Pistoia), Domenico Marino (GC Pisa), Lorenzo Ciabatti (GC Arezzo), Stefano Meacci (GC Perugia), Giulio Capponi (GC Teramo), Ion Udroiu (coordinamento GC Roma), Silvia Ruggieri (GC Roma), Paolo Cipressi (GC Ciampino), Vittorio Saldutti (coordinamento GC Campania), Giovanni Savino (coordinamento GC Caserta), Antonio Erpice (coordinamento GC Caserta), Grazia Bellamente (GC Napoli), Eleonora Tedesco (GC Salerno), Michele Satriano (coordinatore GC Policoro – Matera), Giuseppe Palestra (coordinamento provinciale GC Taranto), Lidia Luzzaro (GC Cosenza), Luca Magnelli (GC Cosenza), Francesco Luci (GC Reggio Calabria,), Massimiliano Mezzatesta (segretario del circolo Prc Molochio – Reggio Calabria), Giannantonio Currò (coordinamento provinciale GC Messina), Vincenzo Marchello (GC Messina), Luca Russo (segretario circolo Prc “Resistencia” Licata – Agrigento), Gianluca Mantia (coordinatore GC Licata – Agrigento), Marco Cucinelli (GC Palermo), Mauro Piredda (coordinamento GC Sassari), Eleonora Cherchi (GC Sassari) Gli avvenimenti in Francia ci danno una nuova dimostrazione del carattere dell’epoca che stiamo attraversando, un periodo di accumulo di contraddizioni e di crescente tensione tra le classi. A livello internazionale la crisi del capitalismo si riflette nelle difficoltà della principale potenza imperialista, gli Usa. Il continuo aumento delle spese militari e le continue minacce di intervento armato che rivolgono in giro per il mondo sono tutto fuorchè segnali di forza. In Iraq sono impantanati in una guerra che non possono vincere e proprio per questo stanno lavorando attivamente per dividere quel paese in una guerra civile su basi religiose ed etniche. E proprio nel cortile di casa degli Usa, l’America Latina, torna ad affacciarsi la possibilità di un cambiamento in senso socialista della società. In tutto il continente assistiamo all’ascesa della lotta di classe, basti pensare all’insurrezione boliviana della scorsa estate o al processo rivoluzionario in Venezuela dove irrompe il dibattito sul socialismo del XXI secolo. L’Italia non è rimasta certo estranea a un simile contesto, e a maggior ragione non lo sarà nei prossimi anni. Ciò che è successo in Francia può ripetersi su scala persino maggiore nel nostro paese. Le lotte a cui abbiamo assistito fino ad oggi (Melfi, autoferrotranvieri, no-Tav ecc.) si riproporranno in futuro su grande scala. La domanda non è se ci siano o meno le potenzialità per lo scoppio di movimenti di massa nei prossimi anni, ma semmai se i comunisti saranno attrezzati per intervenirvi. O meglio ancora: con quale strategia, con quali tattiche e con quali programmi simili movimenti 24 potranno giungere ad una vittoria? In quest’ottica giova poco alla nostra discussione e allo sviluppo stesso dei movimenti, la continua retorica di cui si ammanta il nostro gruppo dirigente. Da anni il vanto dei compagni della maggioranza è quello di “essere interni al movimento”. Si può essere interni ad un movimento con le posizioni più sbagliate, si può addirittura fracassare la propria organizzazione con una tattica errata. O ancora si può scambiare un movimento con il “ceto politico” che pretende di rappresentarlo, esattamente come è successo alla nostra organizzazione con i Disobbedienti. Ciò che rimane della Disobbedienza, la proposta chiave dell’attuale gruppo dirigente alla scorsa conferenza nazionale, è sotto gli occhi di tutti: il Laboratorio dei Disobbedienti è imploso su se stesso e il movimento disobbediente si è diviso in un arcipelago di fazioni rivali. Proprio per questo non torneremo sulla questione approfonditamente. Sia sufficiente prendere atto dei danni provocati da quella linea. Invece di orientare la nostra organizzazione nei movimenti reali che pure si sono sviluppati in questi anni, la Disobbedienza ci ha portati sul terreno sterile dei gesti simbolici, d’immagine mediatica. Se un simbolo può essere importante, sono le masse a conferirgli forza. E la lotta di massa è stata in fondo alle nostre preoccupazioni. È ridicolo sentire la critica del nostro gruppo dirigente al concetto di “avanguardia rivoluzionaria”, quando proprio la Disobbedienza univa gesti “avanguardisti” nella forma ad un contenuto spesso moderato nella sostanza politica: “espropri” simbolici nei supermercati uniti ad un silenzio vergognoso sulle misere richieste salariali avanzate dai vertici sindacali nei Non è casuale quindi che la nostra organizzazione esca dal ciclo di mobilitazioni avvenute sotto il governo Berlusconi indebolita piuttosto che rafforzata. In diverse federazioni la struttura sembra quella di un’organizzazione che inizia oggi la propria attività, invece che una che esiste formalmente da dieci anni. I coordinamenti provinciali eletti nel 2002 spesso si sono riuniti raramente, se non addirittura sono stati “rifondati” dopo aver cessato d’esistere. In realtà significative come Milano o Alessandria abbiamo subito l’uscita dal partito del gruppo di maggioranza dei Gc a favore della Disobbedienza. Al normale ricambio anagrafico di un’organizzazione giovanile, la nostra struttura somma il ricambio politico, causato dagli errori della direzione. La teoria, sbandierata dal gruppo dirigente all’ultima conferenza, del “saper fare” ha in realtà indebolito la capacità dei nostri militanti di “saper discutere, analizzare e fare”, inaridendo il dibattito politico interno e ostacolando la formazione di militanti rivoluzionari politicamente formati. La realtà, al di là del mero dato del tesseramento, è che i Gc sono entrati nel proprio decimo anno di vita al punto minimo del proprio radicamento nelle scuole, aziende ed università. Questo stato di cose deve essere ribaltato. Discutere come è il compito centrale di questa conferenza. 1. L’Unione non ferma la destra La risicata vittoria elettorale dell’Unione apre un capitolo nuovo nella lotta di classe. L’Unione ha fondato la propria esistenza sull’esigenza di fermare la destra. Cos’altro poteva giustificare una coalizione che andava da un partito come il nostro, organizzatore di un referendum per l’estensione dell’articolo 18, ad uno come quello della Bonino, organizzatore del referendum per la sua totale abrogazione? Alla prova decisiva il centrosinistra si è dimostrato assolutamente inadeguato anche a simile obiettivo: se a stento ha sconfitto la destra elettoralmente, a maggior ragione non la potrà fermare a livello sociale. La necessità di battere Berlusconi ha finora rappresentato un’arma a doppio taglio. È stata la molla che ha spinto milioni di persone alle urne e contemporaneamente lo scudo con cui i dirigenti dell’Unione hanno potuto giustificare il proprio moderatismo. In realtà questo moderatismo si è rivelato la causa principale della rimonta berlusconiana. Per cinque anni questi stessi dirigenti si sono guardati bene dall’avanzare la proposta della caduta del governo nel corso delle profonde mobilitazioni che si sono sviluppate. Temendo più lo sviluppo di una lotta di massa che il permanere della destra, hanno permesso più volte al governo Berlusconi di passare la nottata rimandando la sua caduta alle elezioni. Ma proprio su questo terreno Berlusconi ha impostato una campagna elettorale aggressiva, tesa a mobilitare i settori più arretrati della società con elementi di demagogia e populismo, mentre Prodi con la propria moderazione buonista si preoccupava di non spaventare i poteri forti di questo paese. È una grande ironia della sorte che il nostro partito abbia messo da parte durante la campagna elettorale la propria proposta di abolizione dell’Ici sulla prima casa per non spaventare i moderati, mentre Berlusconi vi si aggrappava demagogicamente all’ultima ora per recuperare consensi. È così che la rabbia accumulata nella società ha potuto ritrovare in parte un’espressione a destra. La condizione della classe operaia e dei settori oppressi di questo paese è letteralmente crollata nel corso degli ultimi 20 anni, con un’accelerazione particolare nell’ultimo decennio. La grossa parte dei peggioramenti si concentra sulle spalle dei giovani. Se nel 1982 il 52% della ricchezza prodotta nel paese andava al reddito dipendente, oggi questa quota è ridotta ad un misero 40%. Al 54% più povero della popolazione va appena il 12% del reddito mentre il 2% più ricco ne assorbe il 26%. Una situazione che trova espressione in una crescente polarizzazione politica. Ma mentre le oscillazioni verso destra vengono sistematicamente coltivate e stimolate, quelle verso sinistra vengono al contrario inibite e prevenute dai dirigenti stessi delle organizzazioni del movimento operaio. I limiti dell’Unione non nascono da qualche errore di marketing, ma dalla natura di classe di questa coalizione, composta da una parte da partiti che si appoggiano sul movimento operaio organizzato e dall’altra da forze politiche legate direttamente a settori confindustriali. Se per milioni di persone le politiche di Berlusconi hanno impersonificato il peggioramento verticale delle proprie condizioni di vita, è anche vero che simili politiche non nascono semplicemente dalla sua testa malata ma dall’esigenza complessiva della borghesia di questo paese di difendere i propri margini di profitto. L’Unione è irrimediabilmente attraversata dalla contraddizione tra questa esigenza e le aspettative di cambiamento che hanno spinto milioni di persone a votarla. Nato debole, il governo dell’Unione userà ancora di più questa debolezza come alibi: la necessità di non perdere l’appoggio dei parlamentari più moderati o addirittura di cercare la sponda dei settori centristi della casa della Libertà verrà utilizzata sistematicamente come freno alle aspirazioni delle masse di questo paese. Ma sarà impossibile trattenere all’infinito la richiesta di un reale cambiamento. Tanto più verrà utilizzato questo freno, tanto più i lavoratori inizieranno a considerare l’alleanza col centro liberale una zavorra intollerabile. È facendo leva su simile contraddizione che i comunisti potranno porsi l’obiettivo di rompere la gabbia dell’Unione. Tanto più tarderemo a preparare una rottura da sinistra dell’Unione, tanto più alto sarà il rischio di renderci complici di un pericoloso ritorno della destra: uscito moralmente galvanizzato dalle elezioni Berlusconi potrà dispiegare a pieno la propria demagogia contro il governo dell’Unione. Solo preparando la rottura con Prodi si può sconfiggere quella che è stata definita la “legge del pendolo”. Le ragioni dei movimenti, dei lavoratori, dei giovani, degli immigrati non possono trovare spazio, se non per misure cosmetiche e marginali, nell’azione di un governo nel quale l’egemonia del centro borghese si farà sentire ad ogni passo. La debolezza dell’Unione e l’obiettiva contraddizione rappresentata dalla presenza del Prc e delle altre forze della sinistra all’interno del governo rende inevitabile l’esplodere di nuove contraddizioni. Già nelle prossime settimane si discueterà in parlamento di questioni brucianti quali il rifinanziamento delle missioni militari, il Documento di programmazione economica e finanziaria, temi sui quali esistono obiettivamente forti divergenze nell’Unione e soprattutto fra il governo e le posizioni che per anni abbiamo difeso nelle lotte. Alla lunga, è forte il rischio che i poteri forti del paese puntino a risolvere la contraddizione emarginando il Prc e le altre forze della sinistra (nonché la Cgil, già oggi nel mirino in quanto, a loro dire, troppo “conservatrice”) attraverso forme di accordo con le forze centriste del Polo. Come Giovani comunisti dobbiamo non solo difendere la completa autonomia d’intervento e programmatica della nostra organizzazione, ma anche proporci di stimolare un dibattito indispensabile in tutto il Prc, ponendo il problema della rottura col centro borghese, della riconquista dell’indipendenza politica del Prc oggi gravemente compromessa dall’abbraccio con Prodi. Dobbiamo porre la prospettiva di una rottura col centro borghese e di una reale alternativa a sinistra. Non farlo significherà semplicemente che tale rottura potrebbe arrivare su iniziativa dell’avversario, con l’aggravante che il nostro partito avrà dilapidato la propria autorità politica tentando di abbellire la politica del governo Prodi. 2. Sconfiggere fascismo e xenofobia Come dimostrano le prese di posizione di Confindustria o del Corriere della Sera, buona parte del padronato concentra ora tutte le proprie pressioni sul centrosinistra. Dopo aver tentato per cinque anni la carta dell’attacco frontale alle condizioni dei lavoratori, si vedono costretti ad appoggiarsi sulle direzioni del movimento operaio per continuare la propria politica. Dietro a questo cambio di cavallo, tuttavia, non si nasconde alcuna “scelta strategica”. Mentre con una mano spremono le organizzazioni dei lavoratori e i partiti di sinistra, dall’altra preparano l’alternativa a destra attraverso una campagna reazionaria all’interno della società fatta di xenofobia, razzismo, integralismo cattolico e familismo. Tanto più le organizzazioni di sinistra accetteranno di gestire la crisi, tanto più lasceranno spazio a simile demagogia. Ciò che oggi a stento è stata “un’Unione” per fermare la destra sul terreno elettorale, si trasformerà in una delle principali cause di un suo ritorno in grande stile. Nella continua campagna oscurantista ben rappresentata dal manifesto “In difesa dell’occidente” di Pera, i gruppi dell’estrema destra si comportano per ora come semplici truppe ausiliarie. Al momento non hanno la forza per vivere di luce propria e devono limitarsi al ruolo di provocatori . Questo non li rende meno pericolosi, come dimostra l’aumento delle aggressioni a danni di immigrati, centri sociali e compagni dei Gc e del partito (ultima in ordine cronologico quella al coordinatore dei Giovani Comunisti di Pavia). La manifestazione iper-minoritaria vista a Milano l’11 marzo da parte di vari gruppi autonomi non può essere la risposta, ma neppure lo può essere un richiamo alla “legalità costituzionale” o alla difesa delle “istituzioni democratiche”. Agli occhi di migliaia di giovani quest’ultime non sono altro che sinonimo di povertà, repressione, abbandono delle periferie, mancanza di prospettive di lavoro o di studio. È proprio con la loro demagogia di ribelli anti-istituzionali che l’estrema destra punta a farsi strada tra il disagio giovanile. Da sempre i fascisti arretrano di fronte allo sviluppo di una mobilitazione di massa. La risposta alle loro provocazioni deve essere fatta coinvolgendo la massa dei giovani e dei lavoratori, collegando il ruolo dei fascisti agli attacchi più generali alle condizioni di vita delle classi oppresse. Solo con una campagna che chieda a collettivi studenteschi, sindacati e partiti di sinistra di dar vita ad una mobilitazione di massa in risposta ad ogni aggressione fascista possiamo ricacciare queste carogne nel luogo che gli spetta. Se quindi organizzare lo scontro fisico con i gruppi di fascisti non può essere una risposta alla loro esistenza, nemmeno può essere eluso il problema dell’autodifesa. Anche su questo terreno difendiamo l’esistenza di “servizi d’ordine” legati alle strutture di massa del movimento studentesco e dei lavoratori, eletti nelle assemblee o comunque collegati a collettivi studenteschi e sindacati, che garantiscano l’agibilità politica per le forze della sinistra. 3. Sviluppare l’intervento fra gli immigrati La nauseante campagna razzista che trova nella Lega la propria punta di lancia, ma che è ripresa da qualsiasi mezzo di comunicazione borghese, deve farci porre la lotta al razzismo al centro della nostra attenzione. E mai come oggi questa lotta può e deve basarsi sul coinvolgimento degli immigrati stessi nella militanza politica e sindacale organizzata. Gli immigrati ormai da tempo rappresentano una parte fondamentale del proletariato di questo paese. Mentre il veleno del razzismo sparso a larghe mani dalla borghesia cerca di isolarli, la fabbrica e il cantiere li uniscono inscindibilmente al resto della classe. La doppia oppressione a cui sono sottoposti, come immigrati e lavoratori salariati, li rende contemporaneamente più difficili da mobilitare e allo stesso tempo estremamente combattivi una volta che si mettono in moto. Dobbiamo sviluppare ampie campagne antirazziste all’interno di luoghi di studio e di lavoro e dei quartieri, collegando il razzismo all’oppressione più generale a cui sono sottoposti i giovani italiani. Una campagna sviluppata con materiale in più lingue e che non può limitarsi alla richiesta di abolizione della Bossi-Fini e della Turco-Napolitano, ma deve richiedere la liberalizzazione degli ingressi nel nostro paese, il diritto alla cittadinanza ed al voto dopo un anno di residenza. Uno dei terreni decisivi per questo impegno è rappresentato dalla lotta contro i Centri di Permanenza Temporanea: da pochi mesi è stato aperto un altro di questi veri e propri lager a Gradisca d’Isonzo, nonostante la mobilitazione animata da quanti si sono opposti a tale apertura. Tale mobilitazione non è riuscita ad essere efficace per varie ragioni, ma ad essa, nonostante la generosità di quanti vi hanno partecipato, è mancato soprattutto il contributo decisivo degli immigrati che lavorano e risiedono in Friuli-Venezia Giulia, i quali sono rimasti ai margini di una lotta tutta imperniata attorno all’esigenza di conquistare l’attenzione mediatica. Rifondazione Comunista, in questo contesto, non ha saputo far altro che accodarsi ai tentativi di escogitare modalità “rumorose” di disobbedienza simbolica all’apertura del centro: non un solo tentativo significativo è stato fatto per coinvolgere il movimento sindacale nella lotta e per costringerne i dirigenti a convocare uno sciopero contro l’internamento degli immigrati. L’esigenza, poi, di conservare i difficili equilibri della Giunta regionale presieduta dall’industriale Illy, ha impedito al partito di formulare con chiarezza la propria totale contrarietà alla logica che sta alla base dei CPT e delle leggi restrittive sull’immigrazione, tanto che persino sul terreno della contestazione delle irregolarità procedurali i principali rappresentanti di Rifondazione sono stati esitanti. Differente dev’essere il nostro approccio alle lotte in difesa degli immigrati e dei loro diritti, come un gruppo di Giovani Comunisti ha recentemente dimostrato a Sassuolo, un piccolo centro del modenese diventato noto alle cronache nazionali per il pestaggio da parte dei carabinieri di un giovane marocchino. Questa piccola cittadina si è trovata non casualmente ad essere simbolo dello scontro tra razzismo e movimento operaio. Giusto qualche mese prima, a seguito dello sgombero indiscriminato di 60 famiglie di lavoratori immigrati dal palazzo in cui alloggiavano, nella zona si era sviluppato un movimento unitario tra lavoratori italiani e immigrati. Un movimento promosso e reso possibile da un gruppo di Giovani Comunisti sulla base di alcune condizioni politiche: l’assoluta autonomia dalla linea sciagurata di accordi col centrosinistra del partito (a Sassuolo la giunta che sgomberava gli immigrati era di 25 sinistra e l’assessore alla casa, poi dimessosi, addirittura un compagno di Rifondazione) e il radicamento degli stessi Gc nei luoghi di lavoro come attivisti sindacali che ha permesso di intercettare la richiesta di mobilitazione dei lavoratori immigrati coinvolti nello sgombero. 4. Crisi industriale e intervento nei luoghi di lavoro Il declino del capitalismo italiano è fotografato dalla perdita di quote di mercato e dall’aumento del debito pubblico. Non si tratta di prendere atto di questa situazione per invitare la “patria” ad una reazione, sul modello degli appelli fatti da Prodi. Si tratta di analizzarla per capire il contesto in cui si svilupperà la mobilitazione sociale nel nostro paese. L’ideologia che sta alla base dell’Unione, penetrata fin dentro il nostro partito, sottintende che proprio il declino dell’economia italiana crei una disponibilità tra i settori “sani” della borghesia (quali siano questi settori rimane un mistero) ad una via di sviluppo basata su innovazione tecnologica, di prodotto e diritti dei lavoratori. Nei luoghi di lavoro la rabbia viene accumulandosi sospinta da straordinari, aumento dei ritmi di lavoro, infortuni, precarietà e paghe da fame. Quanto possa essere profonda questa rabbia è stato dimostrato da episodi come la lotta degli autoferrotranvieri, Melfi o la recente mobilitazione del contratto dei metalmeccanici. Ma questa situazione cozza con il nostro livello d’intervento nei luoghi di lavoro, dove la presenza organizzata dei Gc rimane pressochè nulla. Tendiamo a rapportarci al movimento operaio attraverso il dialogo con le sue direzioni, ci compiacciamo dell’adesione della direzione Fiom alle iniziative “del movimento” quando il nostro obiettivo dovrebbe essere collegarci alla classe prima di tutto con la presenza dentro e fuori dalle aziende e con l’organizzazione di un’opposizione all’interno del sindacato. Solo dal 2002 al 2005 gli occupati nella grande industria sono diminuiti dell’8%. Emerge da questo dato l’inarrestabile movimento dei capitali verso settori più redditizi, verso il settore finanziario, la speculazione edilizia o la mano d’opera a basso costo. L’Unione si ripromette di invertire questo processo “invogliando” i capitali a percorrere altre strade attraverso politiche mirate di sgravi fiscali e formazione della mano d’opera. Si tratta di puro fumo negli occhi. Gli industriali accetteranno volentieri simili regali: intascheranno i soldi e continueranno a fare ciò che vogliono. Quale vantaggio fiscale potrebbe convincere un padrone a rimanere in un settore dove i margini di profitto sono negativi mentre mentre ad esempio il costo dei terreni è aumentato anche del 400% in alcune zone? Anche per quanto riguarda i “corsi di formazione” già oggi non solo altro che regali alle imprese. Nel 2003 dei 3,2 miliardi di euro speso per le attività formative l’80% è stata elargita direttamente ai datori di lavoro mentre il restante 20% è andato a privati che promuovono formazione (altre imprese, in pratica). La battaglia contro la crisi industriale richiede innanzitutto forme di lotta adeguate. Non a caso emergono forme di occupazione, sotto il nome di “assemblee permanenti”, come si è visto alla Delphi di Livorno o alla Star di Parma. Di fronte alle chiusure sono queste le uniche forme di lotta che possno garantire la difesa dallo smantellamento delle aziende o dei reparti. Al tempo stesso, anche la lotta più dura richiede un programma adeguato. Di fronte alle chiusure dobbiamo ispirarci all’esempio che viene dal movimento operaio latinoamericano, dove 26 le lotte e il dibattito avanzano attorno ai seguenti assi: occupazione degli stabilimenti, produzione senza padroni, controllo operaio, nazionalizzazioni. È questa una delle lezioni più preziose che ci viene dall’esperienza argentina, brasiliana, venezuelana, boliviana. Solo una prospettiva anticapitalista può dare uno sbocco alla lotta contro la desertificazione industriale e il declino sociale che ne consegue. 5. Quale battaglia contro la precarietà? Il nostro scarso livello d’intervento nei luoghi di lavoro è anche il risultato del proliferare di teorie, fuori e dentro la nostra organizzazione, sulla scomparsa della classe, la fine della centralità del conflitto tra capitale e lavoro, le moltitudini e chi più ne ha più ne metta. Teorie sbagliate prima di tutto dal punto di vista politico dato che la centralità del conflitto tra capitale e lavoro per i marxisti non si soppesa algebricamente in base a quanti sono i lavoratori. Sbagliate anche da un punto di vista statistico dato che l’ultimo rapporto di Banca Italia ci informa che gli operai in Italia sono ad una delle punte massime. Se si prende in considerazione solo il settore metalmeccanico, tutt’oggi produce il 50% del valore aggiunto di tutte le esportazioni italiane. Non solo negli ultimi anni non sono scomparse le industrie, ma semmai si sono massificati e proletarizzati settori che fino a vent’anni fa erano predominio della piccola proprietà. Grosse catene di ristorazione, call-center, ipermercati: si tratta di luoghi di lavoro che possono iniziare a sindacalizzarsi in maniera esplosiva, dove la presenza di scarse tradizioni sindacali rende più difficile iniziare un intervento politico ma può permettere di poterlo iniziare direttamente su basi avanzate. I nuovi “voli” teorici dei nostri massimi dirigenti si concentrano ora sulle frontiere della “precarietà intellettuale”. Se questo termine può significare qualcosa, significa semplicemente che anche settori lavorativi un tempo al riparo da attacchi sono oggi eguagliati a qualsiasi altro lavoro. Ma questo lungi dal creare un nuovo “tipo” di contraddizione, comporta al contrario un livellamento di tutti i settori lavorativi: dalla cassiera di un supermercato arrivando al ricercatore universitario, passando dall’impiegato di banca fino all’operaio metalmeccanico. La precarietà riguarda la metà dei neoassunti sotto i 29 anni: nel 2004 sono stati il 46,4% e nel 2005 il 50%. Sul terreno della lotta alla precarietà l’Unione cerca di riportare l’orologio della lotta di classe indietro di dieci anni, al 1996, quando l’introduzione del Pacchetto Treu venne indorata con l’idea della “flessibilità regolamentata”. Già oggi i dirigenti dell’Unione iniziano a distinguere tra “flessibilità” e “precarietà”, creando una divisione fittizia tra un presunto precariato giusto e regolare e quello selvaggio introdotto dalla legge 30. Ma si tratta di meri giochi linguistici. La flessibilità è per sua stessa natura non regolamentabile: sotto la scure del ricatto del rinnovo contrattuale un lavoratore precario non è in condizione di pretendere il rispetto di alcun diritto, mentre la presenza anche di una piccola percentuale di precari ricattabili indebolisce la capacità di mobilitazione di tutta la classe. Su questo terreno l’unica proposta che possiamo avanzare è l’immediata trasformazione per legge di tutti i contratti precari in contratti a tempo indeterminato, con il ritiro della Legge 30, del Pacchetto Treu e la conversione attraverso la loro nazionalizzazione di tutte le agenzie interinali in uffici di collocamento pubblici. Sulla base di un queste rivendicazioni possiamo creare o stimolare la crescita di comitati e coordinamenti di lavoratori precari che si propongano di organizzare le vertenze unendo la capacità di organizzare i precari all’indispensabile costruzione di un solido legame con l’insieme dei lavoratori, contro ogni idea “separatista” che sarebbe deleteria. Va inoltre superata la concezione che ha dominato la nostra organizzazione fino ad oggi che affida la lotta al precariato a grosse scadenze annuali, come la May Day Parade, o alla creazione di reti di precari tutte tese a svolgere iniziative d’immagine. Se fino a qualche anno fa l’idea delle grandi “parate” o delle iniziative d’immagine poteva essere giustificata con la necessità di far uscire il precariato dall’invisibilità, questo problema ci pare completamente superato. Non si tratta di affermare l’esistenza della piaga della precarietà. Si tratta di eliminarla. Anche su questo terreno l’unica via è quella di un paziente e sistematico intervento fuori e dentro i luoghi di lavoro. 6. Questione meridionale: una vecchia contraddizione su nuove basi L’economia meridionale arretra su ogni terreno: nel 2004 il Pil del sud del paese è cresciuto dello 0,8% contro l’1,4 del nord. Sono naturalmente i giovani a pagare il prezzo maggiore: solo nel 2004 sono in 78.000 coloro sotto i 29 anni ad aver perso il posto di lavoro. Se la quota di disoccupati è nel contempo diminuita rispetto alla popolazione complessiva passando dal 16% al 15% è solo per la ripresa in grande stile dell’emigrazione: 107.000 persone hanno dovuto emigrare nel 2004. Sono cifre che si avvicinano a quelle registrate negli anni ‘50 e ‘60. Se allora la tragedia di dover emigrare era alleviata dalla possibilità di poter mandare soldi a casa, oggi non si verifica nulla di tutto questo. Anche al nord i salari da fame uniti agli affitti vertiginosi permettono appena di arrivare alla fine del mese. Indebolito dai flussi migratori ma privo delle rimesse di denaro che ne derivano, il reddito meridionale crolla con rapidità maggiore che nel resto del paese. Torna così a porsi la questione meridionale. Torna tuttavia in condizioni nuove e potenzialmente ancora più esplosive. La creazione di poli industriali, come Melfi o Gioia Tauro, non ha alleviato l’arretratezza meridionale ma ha creato in compenso un giovane e combattivo proletariato che può diventare rapidamente un punto di riferimento per tutti i settori oppressi della società. Le lotte di Melfi, Acerra, Scanzano, si sono poste all’avangurdia nelle mobilitazioni di questi anni. Lo stato dell’economia meridionale costituisce anche una completa sconfessione degli incentivi agli investimenti. Le imprese hanno ricevuto in regalo accordi territoriali, sgravi, finanziamenti, condoni, senza che questo scalfisse minimamente la situazione occupazionale. Tutt’oggi la disoccupazione riguarda il 33% dei giovani e il lavoro sommerso un lavoratore su quattro. La richiesta di un salario garantito per i disoccupati, equivalente indicativamente al 70% del salario di un terzo livello metalmeccanico, è centrale per sottrarre migliaia di giovani al ricatto di lavori sottopagati, in nero o alla stessa influenza della criminalità organizzata. Questa rivendicazione non è in contrapposizione con la lotta per un aumento dell’occupazione attraverso la riduzione d’orario a parità di salario. Al contrario ne è il completamento. Solo dei disoccupati sottratti alla lotta per la sopravvivenza e un movimento operaio sottratto alla concorrenza salariale al ribasso con i disoccupati sono in grado di intraprendere una lotta per un’occupazione piena e di qualità. Le recenti mobilitazioni seguite all’assassinio Fortugno in Calabria dimostrano quali siano le possibilità di sviluppo di una lotta di massa contro la mafia. È necessario intervenire in questo processo con un nostro punto di vista indipendente. Mafia, ‘ndrangheta e camorra non sono mai state e a maggior ragione non sono oggi degli elementi esterni al capitalismo o slegati dall’apparato statale. Il capitale di origine mafiosa è assolutamente indistinguibile dal resto dell’economia. Difendiamo la necessità di confiscare tutti i capitali e le aziende legate alla criminalità organizzata. Ma applicata coerentemente simile rivendicazione non significa altro che la confisca, la nazionalizzazione per porli sotto il controllo operaio, dei principali settori dell’economia. 7. Per una struttura studentesca nazionale Il movimento studentesco era l’unico terreno dove i Gc avevano raggiunto nel proprio passato uncerto livello di radicamento. E proprio per questo si tratta anche del terreno dove la Disobbedienza ha fatto più danni, smantellando completamente la rete di collettivi studenteschi che, seppur con metodi criticabili, avevamo costruito in diverse zone d’Italia. Nello scorso autunno abbiamo assistito ad un accenno di mobilitazioni in scuole ed università. Un accenno tuttavia significativo delle potenzialità e dei limiti del movimento studentesco in Italia. Non sono state mobilitazioni determinate solo ed esclusivamente dagli ultimi affondi della riforma Moratti, ma dallo stato di sfascio in cui si trova l’istruzione pubblica. Non esiste un solo capitolo dell’istruzione che non sia stato peggiorato come risultato di quasi 20 anni di continui attacchi alla scuola pubblica: condizione salariale e contrattuale dei docenti, tempo pieno, ritmi di studio, costi ecc. La selezione di classe che colpisce i settori più svantaggiati della società continua ad operare, avvalendosi di strumenti nuovi. Oltre all’abbandono scolastico, i percorsi professionalizzanti spingono i figli dei ceti meno abbienti a ritagliarsi un percorso di studi che sempre di più si rivela un semplice avviamento al lavoro. All’università aumenta il numero dei laureati, ma solo perché il vero sbarramento viene spostato alla laurea specialistica. Se si riduce il tempo con cui si consegue la laurea triennale, aumenta il periodo necessario per trovare un’occupazione a causa della necessità di continuare con laurea specialistica e vari master. In compenso il numero degli studenti-lavoratori è in costante aumento: tra il 1998 al 2004 aumentano dal 47 al 68% gli studenti costretti a lavorare per mantenersi agli studi. L’Autonomia Scolastica e Universitaria hanno poi aperto completamente la strada alla differenziazione tra scuole e atenei di serie A e di serie B, con l’entrata in grande stile dei privati all’interno dei percorsi formativi. Nei progetti elaborati dall’Unione, questo processo è destinato ad essere intensificato: il programma sottoscritto, infatti, afferma l’esigenza di “sostenere l’innovazione istituzionale del sistema, orientando con chiare regole di governo l’autonomia responsabile degli atenei e degli enti di ricerca” e di “stimolare l’interazione pubblico/privato attraverso strutture di ricerca legate alle imprese (...) approntando incentivi fiscali e laboratori comuni tra università e imprese”. Fra le intenzioni delle principali forze della coalizione c’è il progetto di procedere nella direzione della trasformazione degli atenei in fondazioni: la battaglia contro l’ulteriore trasformazione in senso privatistico del sistema formativo in Italia dovrà rappresentare per i Giovani Comunisti un impegno prioritario nella prossima fase, da sviluppare senza alcun cedimento alle illusioni concertative che segnarono il rapporto della nostra organizzazione giovanile col ministro Berlinguer fra il 1996 e il 1998. Depurata dai suoi elementi accessori, d’altra parte, il nucleo della riforma Moratti è difficilmente distinguibile dalle precedenti leggi del centrosinistra. Se l’Unione ha timidamente promesso di rivedere le leggi vergogna del Governo Berlusconi, per quanto riguarda l’università la legge vergogna non è né più né meno che quella lasciata dal centrosinistra nel 2001: la riforma Zecchino. Di fronte a simile scenario dobbiamo lottare contro l’idea che l’Autonomia Scolastica sia un meccanismo riformabile o utilizzabile per i fini del movimento studentesco attraverso un processo di “autoriforma”. Dobbiamo lottare per il ritiro di tutte le controriforme scolastiche approvate dagli anni ’90 in poi, per un raddoppio dei finanziamenti all’istruzione pubblica e per l’abolizione di qualsiasi forma di finanziamento alle scuole private. Oltre a questi punti generali, è necessario articolare la nostra parola d’ordine di una “scuola pubblica democratica, gratuita, di massa e di qualità!” con una serie di rivendicazioni che entrino nello specifico delle problematiche concrete causate dalla controriforma alle condizioni degli studenti. Un programma che parta dalle condizioni materiali degli studenti stessi e che contenga ad esempio richieste come a) il tetto di 20 alunni per classe contro il sovraffollamento; b) la concessione a tutti gli studenti di libri gratuiti in usufrutto; c) la gratuità dell’iscrizione a scuole e università, dei mezzi di trasporto per gli studenti un piano di edilizia scolastica per l’ammodernamento di tutti gli istituti e per la costruzione di alloggi universitari; d) l’erogazione di borse di studio per tutte le famiglie sotto il reddito medio che ne facessero richiesta; e) l’apertura pomeridiana degli istituti per ripetizioni gratuite e gestite da docenti pubblici; f) la retribuzione di qualsiasi stage e tirocinio secondo le norme contrattuali; g) la lotta all’autoritarismo con l’introduzione dell’eleggibilità e revocabilità della figura del preside ecc.ecc. Il limite principale del movimento studentesco italiano, però, continua ad essere l’assenza di una struttura studentesca nazionale in grado di unificare su scala nazionale e sulla base di un coerente programma di difesa dell’istruzione pubblica le potenziali mobilitazioni studentesche. Fino a che permane quest’assenza il rischio è che le singole mobilitazioni scoppino isolatamente o peggio che rimangano chiuse nel proprio particolarismo. Inoltre, questo vuoto crea spazi per organizzazioni come l’Uds o l’Udu che, pur utilizzando in alcuni casi una fraseologia radicale, nella realtà hanno un approccio estremamente moderato, proponendo, in ultima analisi, la via concertativa come mezzo risolutivo. Non si lavora così per generalizzare e rendere efficaci le mobilitazioni, ma le si relega ad elementi di semplice pressione, con la conseguenza di limitarne pesantemente le possibilità di sviluppo. Questa tendenza sarà ancor più enfatizzata con la presenza del centro-sinistra al governo. Come in natura, anche nella lotta politica, il vuoto non esiste; in mancanza di un’alternativa credibi- le queste organizzazioni possono attrarre elementi sinceramente combattivi che, in realtà, poco hanno da spartire con le posizioni di chi dirige quelle organizzazioni. E’ compito dei comunisti far emergere queste contraddizioni attraverso un approccio chiaro ma non settario, in particolare su una questione: nessun governo “amico” risolverà i problemi degli studenti, l’unica strada per fare ciò è quella della mobilitazione di massa. L’alternativa che mettiamo in campo non può essere semplicemente la costruzione di collettivi studenteschi (cosa che peraltro sarebbe un passo in avanti rispetto all’attuale nostro livello di intervento), ma si tratta di formarli e collegarli sulla base di un programma dettagliato e radicale (accennato in precedenza) le cui bussole siano il rifiuto di qualsiasi forma di privatizzazione dell’istruzione e la lotta intransigente contro la selezione di classe. Spesso elogiamo le capacità di mobilitazione del movimento studentesco in altri paesi europei, ma poche volte ne studiamo le dinamiche. In Spagna le attuali conquiste nel campo dell’istruzione sono il risultato delle mobilitazioni promosse dal Sindicato de Estudiantes nel corso degli anni ’80 e ’90. Il Sindicato è stato anche il principale punto di riferimento nelle mobilitazioni di massa che si sono sviluppate contro la Lou, la legge di controriforma dell’istruzione del precedente Governo Aznar. È una struttura nazionale con congressi annuali e che grazie alla presenza e al radicamento negli istituti di grossa parte della Spagna è in grado di porre in discussione democraticamente tra la maggioranza degli studenti spagnoli ogni rivendicazione, ogni passo necessario per intraprendere o proseguire una lotta. La costruzione di un’organizzazione studentesca non è in contrapposizione ma anzi è complementare alla lotta per la nascita di strutture democratiche di movimento in grado di rappresentare la volontà della massa di studenti coinvolti in una lotta, a patto che simili strutture siano di massa e democratiche di nome e di fatto. Anche in Italia dobbiamo lottare per l’affermazione della tradizione del coordinamento democratico sul modello francese, cioè di una democrazia basata sulle assemblee e sui delegati eletti, in grado di rappresentare la volontà degli studenti in lotta. Durante l’occupazione delle università e delle scuole francesi tutto veniva deciso in assemblea, ogni decisione era sottoposta ad un breve dibattito e votata democraticamente tra la massa degli studenti. Ogni assemblea eleggeva poi delegati in grado di rappresentarne la volontà ad un livello provinciale e nazionale. In questo modo tutte le organizzazioni coinvolte nella lotta erano costrette ad avanzare le proprie proposte in assemblea e solo questo meccanismo ne verificava la reale rappresentatività. Basta paragonare tutto questo con la frenesia con cui i compagni del gruppo dirigente dei Gc hanno difeso in autunno, all’interno delle poche occupazioni di ateneo italiane, l’idea che non fosse necessario votare nulla in assemblea perché “votare è antidemocratico” (vorremmo sapere allora che cos’è democratico!). Solo metodi democratici di coordinamento e organizzazione possono coinvolgere nelle decisioni e nella lotta l’intera massa degli studenti, senza che esse siano solamente in mano al “ceto politico”. Questa è una delle differenze fondamentali che ha permesso che in Francia una mobilitazione partita da qualche centinaio di studenti diventasse di massa, si generalizzasse e proseguisse fino alla vittoria, mentre in Italia, dopo una prima breve fiammata, le mobilitazioni, non riuscendo a coinvolgere la massa degli studenti, sono rientrate senza riuscire ad incidere. E’ necessario trarre le corrette lezioni da quest’esperienza, ricominciando a 27 lavorare per far fare un salto di qualità alle prossime mobilitazioni. 8. Contro l’oscurantismo e il proibizionismo! Gli attacchi alle condizioni di vita delle giovani generazioni trovano la propria cornice naturale in una ritrovata aggressività della destra e della Chiesa sul terreno delle libertà democratiche e dei diritti civili. Il familismo è l’ideologia naturale di una società che, non riuscendo a garantire un pieno sviluppo dell’individuo sul terreno economico, deve negarne la necessità anche sul terreno ideologico. Così come irregimentare la donna, ad esempio, è funzionale a scaricare sul lavoro domestico ciò che viene tolto allo stato sociale, negare la possibilità di una vita al di fuori dei “sacri vincoli familiari” fornisce una giustificazione agli ostacoli materiali che già oggi impediscono ad un giovane la vita al di fuori della famiglia. Anche la questione della casa è in questo momento un probema gravissimo per i giovani proletari. L’impossibilità di un precario ad accedere ad un mutuo scava sempre di più un solco tra ricchi e poveri. La definitiva liberalizzazione degli affitti, risultato di una legge approvata dal precedente Governo di centrosinistra, ne ha fatto lievitare i costi a limiti impensabili. Non solo per uno studente ma anche per un giovane lavoratore, in mancanza degli aiuti familiari, l’affitto di una stanza diventa una via pressochè obbligata. Nel contempo la speculazione mette le mani su un numero crescente di appartamenti sfitti con cui mantenere alto il costo delle case o garantirsi una larga entrata dagli affitti in nero. Siamo per la requisizione, salvo comprovata necessità, di tutti gli appartamenti sfitti, per l’imposizione di affitti calmierati e per la ripresa di piani di edilizia popolare per la concessione a vita di appartamenti con affitti che non superino il 10% delle entrate. In questo quadro è anche la questione dell’oppressione femminile a ripresentarsi nella forma più odiosa, come ha dimostrato l’offensiva reazionaria recente scatenata per difendere la legge sulla Procreazione Medicalmente Assistita: nel contesto della battaglia referendaria, tuttavia, abbiamo potuto renderci conto di come la subalternità (culturale, non solo politica) delle sinistre al centro moderato impedisca persino di mettere in campo un impegno serio contro l’aggressività reazionaria dello schieramento clericale, confermata anche nel corso del dibattito attuale sui patti di convivenza e sulle unioni civili. Da questo punto di vista, i problemi rischiano di moltiplicarsi: l’approvazione della legge 40, sostenuta pure da forze importanti dell’Unione, non prelude a possibili attacchi futuri alla normativa che legalizza l’aborto: la legge 194 è stata permanentemente in discussione, infatti, fin dalla sua promulgazione, ed oggi essa è ulteriormente compromessa dall’amalgama tra il progressivo disimpegno pubblico in ordine all’assistenza sanitaria e un’antica e ben radicata connivenza tra istituzioni ospedaliere e organizzazioni cattoliche. La situazione risulta ora aggravata dalla impossibile convivenza giuridica tra la legge 40 e la 194, minata già da tempo dai sistematici tentativi di cancellare, dal contesto delle relazioni sociali, ogni traccia di autodeterminazione femminile. Per evitare che l’Unione si riveli un dispositivo efficace ad ingabbiare le disponibilità alla mobilitazione pure sul terreno della lotta democratica per i diritti civili, ci batteremo affinché i Giovani Comunisti s’impegnino ad intrecciare la difesa e il rilancio dei diritti delle donne non tanto con la presunta sensibilità dei settori dell’opinione pubblica borghese più o meno illuminata, quanto con le lotte di massa che il proletariato ha ripreso ad opporre al dominio 28 delle classi dominanti, nella convinzione che lotta per la cancellazione (non per la correzione) delle leggi reazionarie contro le donne (così come contro tutte le minoranze oppresse dai meccanismi di funzionamento di questa società) non potrà prescindere dal protagonismo di massa delle giovani, delle lavoratrici e dell’intero movimento operaio. In un contesto di crisi sociale, l’aumento della repressione da parte dello Stato non si riversa solo sulle libertà politiche ma su ogni aspetto generale della vita. Così la recente campagna della destra contro le droghe raggiunge il picco massimo di ipocrisia in una società che ha nel consumo di massa delle droghe legali, come ad esempio gli psicofarmaci, uno dei suoi principali strumenti di controllo. Dobbiamo batterci per la decriminalizzazione del consumo. Allo stesso tempo non accettiamo l’uso strumentale che il gruppo dirigente ha fatto fino ad oggi di questa battaglia. La questione della droga va inserita all’interno dell’attività complessiva di un’organizzazione giovanile rivoluzionaria. Non può diventare la leva con cui trasformare invece la nostra organizzazione in un gruppo giovanilistico. 9. Democrazia e strutturazione dei Gc Il dissesto organizzativo dei Giovani Comunisti è inscindibilmente legato alla linea politica applicata in questi anni. Non crediamo che esista una ricetta che possa risolvere le falle della nostra organizzazione senza un contemporaneo cambiamento della linea politica. Per noi un’organizzazione comunista è composta prima di tutto da idee, metodi e programmi e solo in secondo luogo da un apparato organizzativo. Come formare e controllare simile apparato non è però argomento di secondaria importanza. Esiste nei Giovani comunisti un obiettivo problema di trasparenza e democrazia. Non esiste alcuna discussione su questioni quali autofinanziamento, apparato, ecc. Tutti questi argomenti devono essere posti in un dibattito democratico a partire dal Coordinamento nazionale. Va rotta una prassi negativa che ha visto sistematici rinvii delle conferenze nazionali dei Gc. La vecchia norma statutaria imponeva una conferenza ogni due anni, poi passati a tre con le modifiche allo statuto approvate al congresso di Venezia; siamo, nei fatti, a quattro anni di distanza dalla scorsa conferenza nazionale (luglio 2002)… Proponiamo di tornare alla scadenza biennale, e in ogni caso a una effettivo rispetto delle norme. Lo stesso valga per il coordinamento nazionale, che dovrebbe riunirsi ogni due mesi, a scadenze certe, abbandonando una gestione discrezionale da parte della maggioranza delle scadenze del dibattito. Ad ogni coordinamento nazionale dovrebbero seguire attivi provinciali o di circolo dei Gc che riportino il dibattito, le decisioni, le informazioni. Anche se il partito sostiene finanziariamente i Gc, essendo questi interni allo stesso Prc, questo non significa che non dobbiamo sviluppare serie forme di autofinanziamento, sia centrali che locali, unico mezzo per garantire la nostra reale autonomia politica, tanto più in una situazione nella quale il peso della presenza istituzionale è schiacciante nel garantire le entrate del partito, con tutte le conseguenze negative che vediamo moltiplicarsi sia al centro che in periferie: corsa alle candidature agli incarichi, logiche di “cordata”, ecc. Le strutture dei Gc devono sviluppare una effettiva vita democratica e una partecipazione militante. I coordinamenti provinciali devono porsi l’obiettivo di riunirsi regolarmente per discutere sia del proprio intervento che di argomenti politici, internazionali, per fare formazione politica. Al tempo stesso ritenia- mo utile riproporre l’ipotesi di strutturare i Gc anche a livello di circolo, laddove questo sia praticabile ed efficace, con l’obiettivo di allargare la partecipazione a tutti gli iscritti. Proponiamo di avviare un confronto con Liberazione al fine di aprire maggiori spazi per le riflessioni e gli interventi provenienti dai Gc, non solo quelli, peraltro sporadici, dell’Esecutivo nazionale, e di valutare ulteriori possibilità, come ad esempio la pubblicazione, a scadenze regolari, di un inserto legato alle tematiche giovanili che possa anche essere diffuso in maniera militante. 10. Pace, guerra, nonviolenza: i Gc e la prospettiva rivoluzionaria Il movimento contro la guerra, dopo le grandi manifestazioni del 2002-2003, è entrato obiettivamente in una fase di ripiegamento, testimoniato non solo dai numeri delle mobilitazioni, assai minori, ma soprattutto da una crisi di orientamento politico. L’opzione del pacifismo assoluto, che in molti casi confina con la pura testimonianza individuale, rende impossibile una lettura coerente e un’azione efficace di fronte ai conflitti in corso (Iraq, Palestina, Aghanistan…) e a quelli che si preparano (Iran, Siria, Libano…). L’aver oscurato e delegittimato i concetti di imperialismo, resistenza, lotta di classe, l’aver ridotto l’intera analisi dei processi internazionali nel “binomio” (del tutto artificiale) guerra-terrorismo ha contribuito grandemente a questa crisi politica. Questo è tanto più vero a fronte di una martellante campagna mediatica trasversale, tesa a presentare, purtroppo con un certo successo, un vero e proprio “mondo alla rovescia”. Così, ad esempio, Israele, che rifiuta da decenni ogni forma di “legalità internazionale”, che costruisce il muro dell’Apartheid, che alla faccia a qualsiasi trattato di “non proliferazione” possiede centinaia di testate atomiche senza accettare di sottoporsi ad alcun controllo, diventa la vittima minacciata di annientamento e non uno Stato armato fino ai denti che nega anche diritti più elementari a un popolo oppresso. In tempi di “esportazione della democrazia” questo esempio si potrebbe moltiplicare milioni di volte. La realtà è che a dispetto di tutte le belle parole, degli appelli alla pace, al dialogo e alla comprensione, il mondo viene sprofondato in una spirale di conflitti senza soluzione, ognuno dei quali porta in sé i germi della guerra successiva. Di fronte a questa situazione, non si può negare il diritto di un popolo oppresso a lottare contro il proprio oppressore anche con l’uso della forza. Né ci si può limitare a “riconoscere” tale diritto in astratto, salvo poi bollare come “terrorismo” ogni manifestazione di resistenza. Questo non significa appoggiare qualsiasi mezzo di lotta, né tantomeno mettere sullo stesso piano forze reazionarie quali Al Qaeda o altre forze fondamentaliste (che peraltro in Iraq costituscono solo una minima parte delle forze che si oppongono all’occupazione) con movimenti di liberazione di ben altra natura. Nella nostra epoca la lotta per la liberazione nazionale assume una prospettiva credibile se si lega a un programma di emancipazione sociale, di lotta contro l’imperialismo, contro il capitalismo e contro quelle classi dominanti locali corrotte e marce che in particolare nel mondo arabo da mezzo secolo strumentalizzano la causa palestinese mentre dietro le quinte si accordano con le potenze imperialiste per mantenere i propri privilegi. La rivendicazione del ritiro delle truppe italiane che partecipano alle missioni di occupazione rimane per noi pienamente valida non solo per l’Iraq, ma anche per quelle missioni targate Onu (Afghanistan e Balcani) che l’Ulivo ha invece a suo tempo sostenuto e che tutt’ora sostiene. L’esperienza di oltre un secolo dimostra che la vera violenza viene innanzitutto dalla classe dominante, che non esita a gettare la maschera democratica e a usare l’oppressione più spietata se questo è necessario per difendere il proprio potere. Ancora recentemente, il tentativo di colpo di Stato in Venezuela (aprile 2002) o il tentativo, fallito, di annegare nel sangue l’insurrezione del popolo boliviano, hanno confermato questa lezione. In entrambi i casi, la reazione è stata sconfitta non dagli appelli alla pace e al dialogo, ma dalla determinazione delle masse, dei lavoratori, dei contadini, dei minatori, che non hanno esitato a usare anche la forza per mettere la reazione in condizioni di non nuocere. La nostra risposta alla violenza della guerra e alla “silenziosa” violenza quotidiana di questo sistema sociale, si ispira a quegli esempi: una lotta coraggiosa, intransigente per l’affermazione della prospettiva socialista e rivoluzionaria, l’unica che può davvero sradicare dal mondo l’oppressione e con essa la violenza e la guerra. Nonostante la più che decennale campagna ideologica contro il comunismo, i proclami sulla “fine della storia”, il “pensiero unico” e le abiure di tanta parte della sinistra, il nuovo secolo vede riaprirsi la speranza rivoluzionaria. Di fronte a un sistema che sprofonda in contraddizioni sempre più stridenti sul piano sociale, economico, ambientale, abbiamo il risveglio di grandi movimenti di massa e la ricerca di alternative a questa società. La rivoluzione non torna solo di prepotente attualità, ma diventa sempre di più una necessità. Non a caso la parola d’ordine della trasformazione socialista della società torna a far capolino non solo da questo o quel- lo scritto ma nella vita concreta delle masse in America Latina, con l’apertura di un dibattito di massa in Venezuela sulla costruzione del socialismo del secolo XXI. Proprio la situazione in America Latina deve essere posta costantemente al centro delle nostre discussioni e della nostra azione, con continue campagne internazionaliste sul modello di quello fatto dalla campagna internazionale “Giù le mani dal Venezuela”. La nostra generazione è la prima dopo mezzo secolo a veder peggiorare le proprie condizioni di vita rispetto alle generazioni precedenti. La necessità di una rottura rivoluzionaria tornerà ad affacciarsi nella testa di migliaia di persone. Un’organizzazione giovanile comunista può avere un futuro solo se si colloca all’interno di questo processo, condividendo l’evoluzione di migliaia di giovani nel nostro paese e proponendo la prospettiva comunista e rivoluzionaria. 29 GIOVANI COMUNISTI: Il cuore dell’opposizione Firmatari (in neretto i membri del coordinamento nazionale GC): Peppe D'Alesio (coordinamento nazionale GC), Filippo Benedetti (coordinamento nazionale GC), Nicola Iozzo (coordinatore provinciale GC Vibo Valentia), Igor Papaleo (coordinamento regionale GC Campania), Giacomo Albanese (GC Lauria – Potenza), Fabio Barone (segretario circolo Prc Qualiano – Napoli), Rossella Barsanti (direttivo circolo PRC San Giorgio a Cremano – Napoli), Gregorio Borrelli (GC Porto di Napoli), Antonio Callà (direttivo circolo Vibo Valentia), Jennifer Callipo (GC Roma), Carmine Cassino (direttivo circolo Prc Lauria – Potenza), Anna Cordella (GC Copertino – Lecce), Gennaro Cosentino (GC Napoli), Stefania Diliddo (GC Napoli), Adele Fenizia (GC Napoli), Vito Garito (GC Vibo Valentia), Diletta Giannoni (GC Spoleto – Perugia), Alessandro Guida (coord. prov. GC Napoli), Mario Iaccarino (GC Porto di Napoli), Giuseppe Iannaccone (RSU Fiom Avio, Pomigliano – Napoli), Sonia Izzo (GC Porto di Napoli), Vera Manco (coord. prov. GC Napoli), Raffaele Maria Manzo (segretario circolo Prc Magneti Marelli, Pomigliano – Napoli), Nadia Palumbo (GC San Antimo Napoli), Alberto Parisi (GC Bisceglie – Battipaglia), Dario Parisi (GC Bologna), Federica Pighetti (GC Napoli), Peppe Raiola (segretario circolo Prc Torre Annunziata – Napoli), Rito Rossino (GC Lauria – Potenza), Alessandra Sasso (GC Lauriaa – Potenza), Giovanni Tortora (GC Bisceglie – Battipaglia), Antonio Vitale (segretario circolo Prc Vigianello – Potenza) Premessa: chi siamo, perché questo documento. L’esecutivo nazionale dei GC si era congedato dalla scorsa conferenza di Marina di Massa dichiarando il proposito di “Rivoluzionare il presente e costruire un altro mondo possibile” sulla scia del movimento antiglobalizzazione. A distanza di quattro anni, ci ritroviamo al governo della settima potenza capitalistica mondiale, alleati di gente come Mastella, Dini, Treu, Rutelli, Bonino, Montezemolo (e la lista potrebbe continuare): in sostanza dei più fedeli rappresentanti di quel potere e di quel dominio capitalistico che un tempo si dichiarava di voler combattere. Questo documento è il frutto della riflessione di numerosi Giovani Comunisti che alla luce della loro esperienza quotidiana sui territori esprimono un profondo dissenso al nuovo corso governista e riformista del Prc. Pensiamo che la prospettiva anticapitalista, che il partito ha abbandonato e sacrificato sull’altare delle compatibilità di governo, vada raccolta e rilanciata dai GC. Al contempo non ci riconosciamo nelle mozioni di minoranza ufficiali: queste, che all’indomani del congresso promettevano fuoco e fiamme, ora si adeguano in maniera supina al nuovo corso, accontentandosi del “diritto di tribuna” loro concesso negli organismi dirigenti. Proprio nel momento in cui maggiormente si rende necessaria la presenza di un’opposizione di classe dentro il Prc e nella società, le vecchie mozioni congressuali preferiscono il ruolo più comodo di “minoranza”, pur di non disturbare il manovratore. L’epoca storica in cui viviamo ci mostra ogni giorno come il diritto al profitto sia l’unico e intoccabile principio su cui si basa il dominio capitalista. Pensiamo che chiunque aspiri al superamento di questo sistema sociale debba partire da una sola, granitica convinzione: c’è bisogno di opposizione. Se questa convinzione viene meno nel nostro partito, è allora da esso che bisogna cominciare, costruendo al suo interno una vera opposizione politica alla deriva governista. Un’opposizione coerente e non di bandiera, intransigente e non di mera facciata. O con i padroni o con le classi oppresse: a differenza di quanto affermano alcune “minoranze”, non esistono soluzioni intermedie. Questo il senso profondo della nostra netta contrarietà alle tesi dell’Esecutivo Nazionale uscente. Questa la 30 ragione della presentazione di un nostro docu- mento. Fermiamo la svolta governista In questi anni una nuova generazione è scesa in campo ai quattro angoli del pianeta per lottare contro un potere capitalista che, nel nome dei profitti e delle rendite finanziarie, sfrutta, affama, depreda risorse, aggredisce e massacra intere popolazioni. L’Italia è stata attraversata da un’ondata di mobilitazioni contro l’arroganza del governo Berlusconi, portatore dei più biechi interessi padronali. Praticamente ogni settore delle classi subalterne è sceso in piazza: dagli studenti ai ricercatori precari, dai lavoratori a tempo determinato ai metalmeccanici, fino ad arrivare alle mobilitazioni in difesa della salute e del territorio, come dimostra la straordinaria e prolungata lotta del popolo della Val di Susa contro il progetto dell’alta velocità. L’esecutivo nazionale ha fatto leva su questi eventi per sostenere che occorreva “cambiar pelle per aprirci ai movimenti”, che bisognava “riformare il partito per renderlo più permeabile alle spinte provenienti dalla società”. Oggi scopriamo che quello del movimento non era che un’alibi. Il cambio di pelle, la riforma profonda delle strutture, dei valori e della cultura della nostra organizzazione ci sono stati, eccome: ma il fine non era quello di aprirci ai movimenti, bensì di accreditare il Prc come forza di governo affidabile al fine di conquistare la fiducia dei salotti buoni della politica borghese. Non a caso, sono stati proprio gli organi di stampa padronali (ad esempio il Corriere della Sera) i primi a salutare con enfasi ed entusiasmo la serie impressionante di pubbliche “abiure” condotte dal gruppo dirigente del Prc e dei GC in questi mesi: dal pacifismo e la non-violenza gandhiana assunte come valore assoluto al rifiuto della categoria di “imperialismo”, dalla presa di distanza dai movimenti di resistenza e di liberazione nazionale in Iraq e in Palestina alla riabilitazione della religione e del cattolicesimo, dall’esaltazione della farsa delle primarie, alla messa in discussione della natura di classe del partito, fino al ripudio del leninismo e quindi del marxismo. Il VI Congresso nazionale, svoltosi lo scorso anno, ha accelerato questo processo, dando vita alla cosiddetta Sinistra Europea, ovvero ad un soggetto politico interclassista che rompe di fatto i legami con il movimento operaio e la sinistra comunista. L’ingresso al governo con l’Unione di Prodi rappresenta l’approdo definitivo di questa lenta ed inesorabile capitolazione sugli altari della governabilità. La “mutazione genetica” sembra non avere più fine. Nel corso degli ultimi 12 mesi siamo passati da un ipotesi di accordo elettorale col centrosinistra all’ingresso organico nella coalizione, dall’accettazione del metodo delle primarie in stile USA per incoronare Prodi a capo della coalizione alla condivisione in toto del programma dell’Unione e alla rinuncia a presentare un nostro programma elettorale. Il nuovo corso del Prc stà determinando confusione e disorientamento nel nostro corpo militante. Tanti giovani compagni, che con generosità e convinzione si sono resi protagonisti del ciclo di mobilitazioni di questi ultimi anni, si ritrovano ora in un partito che si appresta a diventare la controparte di quelle stesse lotte. Alla luce di cio` i GC, dimostratisi in questi anni un prezioso serbatoio di forze vive e militanti, non possono e non devono rendersi complici del nuovo corso governista. Verso una nuova stagione di lotte Le elezioni del 9-10 Aprile ci consegnano uno scenario per certi versi inaspettato: l’Unione di centrosinistra, di cui siamo parte integrante, conquista una vittoria sul filo di lana, di gran lunga al di sotto delle aspettative e delle previsioni benevole dei sondaggi; il Prc, pur nel quadro di un risultato complessivo soddisfacente, non riesce ad intercettare il voto giovanile e di movimento, come dimostra il notevole divario tra i voti del senato e quelli della camera; di converso, Silvio Berlusconi mantiene pressoché intatto il proprio bacino elettorale. Cinque anni di massacro sociale, leggi ad personam, aggressioni imperialiste, politiche di miseria, precarietà e repressione, di attacco alle istituzioni in chiave reazionaria, non sono bastate ad erodere il consenso di massa della destra. Il berlusconismo, fenomeno che ha caratterizzato l’ultimo decennio della politica italiana, è ben lungi dall’essere sconfitto, e si ripresenta, all’indomani delle elezioni, più che mai aggressivo e arrogante. La tenuta elettorale della Cdl si spiega in parte col fatto che il centrosinistra si è dimostrato poco credibile finanche sul terreno più elementare, quello dell’opposizione al governo delle destre e alle sue derive plebiscitarie e fascistoidi: ha conferito a Berlusconi e ai suoi una legittimità “democratica” che fino a qualche tempo fa sarebbe apparsa inimmaginabile (basterebbe pensare alle continue prese di posizione di DS, Margherita e dello stesso Bertinotti contro una cacciata “prematura” del governo); ne ha accettato le peggiori misure antipopolari, come dimostra il consenso “bipartizan” alle privatizzazioni, alle politiche di precarizzazione del lavoro, all’ipotesi di scippo del TFR (caldeggiato dagli stessi sindacati confederali), alla guerra imperialista in Afghanistan, all’attacco congiunto a diritti civili come la 194 o ancora l’ostracismo nei confronti dei Pacs, la criminalizzazione delle lotte sociali, ecc. Questo “eccesso di prudenza” non deve sorprendere: la condotta del Centrosinistra trova una sua spiegazione logica nel fatto che la coalizione guidata da Prodi fin dal 1996 ha rappresentato il più affidabile, tenace e credibile comitato d’affari della grande borghesia italiana ed europea. La classe lavoratrice assiste a questo scontro tra due frazioni della classe dominante priva di un proprio riferimento politico. La tesi di una presunta natura socialdemocratica dei DS, sostenuta apertamente da alcune minoranze interne ai GC, risulta, alla prova dei fatti, del tutto superata. I DS, infatti, da almeno un lustro hanno portato a compimento la svolta verso un partito organicamente liberale: l’iscrizione nelle loro fila di eminenti esponenti di Confindustria (De Benedetti su tutti) è più che sufficiente a chiarire la questione. La nascita del partito democratico rappresenta oggi la consacrazione del sodalizio di ferro tra Ds, Confindustria e grande capitale. Più che nei programmi scritti, è nei fatti che emerge in maniera quanto mai limpida il carattere di classe dell’Ulivo e dell’Unione. A detta di Prodi e dei suoi seguaci, essi confermeranno la presenza militare italiana in Afghanistan, Kosovo e Somalia; in Iraq, dietro la foglia di fico di un ancora ipotetico ritiro, l’aggressione proseguirà sotto le insegne dell’ONU o di sedicenti “truppe di ricostruzione”; le norme precarizzanti della legge 30, coerentemente con lo spirito del pacchetto Treu, non verranno minimamente intaccate; lo stesso discorso vale per la riforma Moratti, per la Bossi-Fini sull’immigrazione e per il progetto dell’alta velocità (TAV) nella Val di Susa. D’altronde, le lotte sociali di questi anni non si sono limitate ad una semplice opposizione al governo delle destre, ma sono spesso andate oltre, investendo con le loro contestazioni gli stessi apparati del centrosinistra.L’esempio bolognese è in questo senso paradigmatico: nella capitale emiliana un nuovo movimento di giovani e studenti ha rotto il clima piu che ventennale di pace sociale per opporsi alle politiche securitarie, repressive e razziste del sindacosceriffo Cofferati, il quale non a caso ha ricevuto le lodi della Lega e delle destre. Anche il già citato movimento No-Tav in Piemonte ha trovato come sua controparte non solo il governo centrale, ma anche in primo luogo la giunta ulivista piemontese di Mercedes Bresso; il movimento contro la privatizzazione dell’acqua a Napoli è nato a seguito di una delibera della giunta comunale di Rosa Russo Jervolino; il movimento contro l’inceneritore di Acerra si è opposto ad un progetto di inceneritore portato avanti da Antonio Bassolino… e gli esempi potrebbero proseguire. E’ chiaro quindi che il governo di centro-sinistra sarà anti-operaio, amico dei padroni e della precarietà, razzista e guerrafondaio. Mentre Prodi si affanna a ripetere gli appelli all’unità e alla concordia tra le classi, risulta sempre piùevidente come gli interessi dei lavoratori siano incompatibili con quelli dei padroni. I GC sono quindi chiamati ad una scelta di coerenza: collocarsi fin da subito all’opposizione del governo dell’Unione, chiedere al partito tutto l’uscita immediata dall’esecutivo di Prodi, contribuire alla nascita in Italia di un blocco autonomo di classe, alternativo al bipolarismo borghese sia sul piano nazionale che su quello locale. Un tale percorso non costiuisce il frutto di un ripiegamento settari, nè può fondarsi sulla “purezza della dottrina”, come pensano (sbagliando) alcune minoranze del Prc, ma al contrario si propone di dar vita a un’ampia aggregazione di tutte le forze comuniste, delle avanguardie sindacali e dei movimenti anticapitalisti: un fronte largo e di massa, una “casa comune” che sappia offrire una sponda reale al movimento e alle lotte sociali, che sappia dar voce (per dirne una) a quei 10 milioni di cittadini che votarono Si all’estensione dell’articolo 18, in antitesi sia alla destra che alla sinistra borghese. GC e movimento: la fine della disobbedienza La scorsa conferenza nazionale fu per intero attraversata dal dibattito e dal confronto sulla disobbedienza. L’Esecutivo Nazionale, nel corso di tutto il suo mandato, ha tentato ostinatamente di traghettare la nostra organizzazione all’interno del “laboratorio della Disobbedienza”, nel tentativo di determinare una sostanziale identificazione tra GC e disobbedienti; esso ha perseguito tale scelta con una spregiudicatezza tale da renderla prioritaria su tutto e ignorare qualsiasi terreno di intervento politico che non fosse riconducibile a tali pratiche. A distanza di quattro anni, questa esperienza viene considerata “esaurita” proprio da coloro che con maggior convinzione la sostennero: in sostanza, siamo dinanzi a un fallimento della disobbedienza su tutti i fronti. Da tempo, infatti, è in atto un processo di disintegrazione di quest’area politica in svariate fazioni perennemente in lotta tra loro. Questa diaspora non è il frutto di un confronto e di una dialettica tra diverse opzioni politiche, bensì di una frenetica concorrenza tra le varie parrocchie “disobbedienti” per salvaguardare o conquistare spazi di potere presso le istituzioni borghesi: non a caso esse sostengono quasi ovunque le amministrazioni locali di centrosinistra, assumendo al loro interno incarichi di primaria importanza. Il radicalismo di facciata delle pratiche disobbedienti (azioni simboliche, gesti esemplari, scontri mimati con la polizia, pratiche di movimento coreografiche e folkloristiche) ha sempre fatto il paio con una linea politica moderata e accondiscendente al potere costituito. Questo stato di cose non poteva non avere ricadute nefaste sul corpo militante dei GC: tantissimi compagni escono oramai stremati da anni di movimentiamo senza sbocco, concentrato in azioni effimere che si sono esaurite in breve tempo senza lasciare tracce. Nel frattempo, proprio quando il movimento ha fatto irruzione sui luoghi di lavoro, nelle scuole, nelle università e sui territori, i Disobbedienti si sono ritrovati ai margini di queste lotte, del tutto estranei ai contesti sociali in cui queste sono nate. E’ necessario compiere un bilancio franco e trasparente del percorso finora svolto: invece di rifugiarsi, come fa l’Esecutivo Nazionale, in concettuose interpretazioni sociologiche o astrusi giri di parole bisognerebbe prendere atto del fallimento della disobbedienza e invertire la rotta del nostro intervento nei movimenti. Il Ritorno in campo della classe operaia La crisi economica continua ad essere tale soltanto per i lavoratori e per le loro famiglie. Secondo Mediobanca le imprese nel 2004 hanno aumentato i loro profitti del 65% rispetto all’anno precedente; di converso l’incidenza dei salari sul PIL, che fino a dieci anni era pari al 43%, oggi risulta ridotta al 30% della ricchezza nazionale prodotta. Queste cifre trovano la loro più cruda conferma nei livelli salariali dei metalmeccanici: questi, a parità di potere d’acquisto, figurano al penultimo posto in Europa (solo gli operai greci stanno peggio!). La lotta degli operai Fiat a Termini Imerese, gli scioperi ad oltranza degli autoferrotranvieri partiti a Milano e poi estesisi in tutta Italia, la massiccia mobilitazione dei dipendenti dell’Alitalia sono solo alcune, emblematiche testimonianze della ripresa del conflitto sui luoghi di lavoro. In quest’ottica, la straordinaria mobilitazione dei lavoratori di Melfi nella primavera del 2004 ha rappresentato un vero e proprio spartiacque: oltre venti giorni di sciopero a oltranza, settimane intere di blocchi stradali, picchetti, cortei, proprio in quel sito produttivo che da sempre veniva considerato dai padroni come il tempio della precarietà e della nuova disciplina d’azienda, quindi al riparo da qualsiasi conflitto. Le recenti lotte operaie vedono in prima fila proprio quella giovane classe operaia, nata e cresciuta in un contesto di precarietà permanente, la stessa che da più parti, anche in ambienti della sinistra, veniva considerate priva di coscienza di classe e quindi renitente a qualsiasi forma di conflitto. Questo nuovo scenario pone i GC di fronte a nuovi compiti e nuove responsabilità: non basta essere presenti ai picchetti e agli scioperi, come pure abbiamo fatto: occorre un programma d’intervento che prefiguri una direzione alternativa di queste lotte e le sottragga alle strumentalizzazioni e all’opportunismo del centrosinistra e delle burocrazie sindacali. Tornare sui luoghi di lavoro Le forme aggregative dei GC attuali sono lontane dalle esigenze della giovane classe lavoratrice. Ne è prova la crisi di radicamento tra i giovani operai, tra le nuove leve del precariato, tra i giovani disoccupati del Sud, ma soprattutto la quasi totale assenza di questi settori sociali negli organismi dirigenti, sia nazionali che locali. Lo stato di crisi dei circoli di fabbrica, e il bassissimo tasso di lavoratori iscritti ai GC è lo specchio di una struttura che negli ultimi anni ha rinunciato a sviluppare un intervento sistematico e costante nei luoghi di lavoro. Bisogna invertire questa logica. I giovani proletari, sottoposti al perenne ricatto della precarietà e dei licenziamenti facili, sono coloro che pagano maggiormente il prezzo delle ristrutturazioni padronali. Ne consegue che a costoro va dedicata un’attenzione prioritaria. Una struttura giovanile comunista è tale se trova i mezzi e le forme adeguate a costruire un rapporto con la classe di riferimento. Bisogna tornare a costruire campagne di massa su tematiche politiche, economiche e sociali che coinvolgano i giovani lavoratori; tornare a organizzare volantinaggi e momenti di controinformazione nei pressi dei luoghi di lavoro; sviluppare inchieste e monitoraggi per conoscere a fondo (e quindi combattere) le dinamiche di sfruttamento sui nostri territori; utilizzare linguaggi e formule comunicative che siano facilmente comprensibili dai giovani lavoratori. Il sindacato, che per decenni era stato il principale veicolo di protagonismo e partecipazione della classe lavoratrice, negli ultimi tempi è divenuto il principale strumento di passività, delega, rassegnazione. Oggi una nuova generazione rialza la testa e riprende a lottare per difendere i diritti, e si trova a scontrarsi, prima ancora che con i padroni, proprio con le burocrazie sindacali. La vicenda del recente rinnovo contrattuale dei metalmeccanici ne è una fresca testimonianza: in molti dei principali stabilimenti gli operai hanno respinto con forza l’accordo truffa siglato da Fiom-Film e Uilm e in alcune fabbriche hanno dato vita a momenti di discussione e di lotta, e ciò malgrado il continuo boicottaggio da parte dei confederali (un’esempio su tutti quello della Fiat di Pomigliano d’Arco, dove i lavoratori dello Slai-Cobas hanno pagato col licenziamento la loro opposizione all’accordo). Questo stato di cose ci impone la necessita’ di intraprendere un lavoro di coagulo dei settori più combattivi del lavoro dipendente, quelli che costituiscono l’ossatura delle lotte e delle manifestazioni. Sia nel sindacato confederale che in quello extraconfederale esistono pezzi importanti della cultura e della pratica antagonista: un patrimonio di esperienze e di storia, di lotte e conquiste che non si può mantenere frammentato; esso va unificato attraverso un processo di riaggregazione e di coordina31 mento. Occorre lavorare fin da ora alla costitu- zione di coordinamenti dei lavoratori comunisti in tutti i luoghi di lavoro, che sappiano riunire i lavoratori e gli Rsu più combattivi, trasversalmente alle sigle sindacali e alle categorie di appartenenza, sulla base di una comune piattaforma classista e anticoncertativa. Non si tratta di una proposta idealistica o calata dall’alto: simili esperienze stanno gia’ nascendo in diverse citta’ italiane: si tratta quindi di alimentarle e rafforzarle. Lotta alla precarietà e lotta di classe sono una cosa sola La precarietà non rappresenta una nuova categoria, ne determina una nuova classe sociale: essa non è altro che la forma attuale dello sfruttamento salariato, la quale ci rimanda agli albori del capitalismo. Nessuna novità epocale, quindi, come vorrebbe far credere qualche sociologo “progressista” in vena di dissertazioni mentali. Una trafila di provvedimenti legislativi compiuta da tutti i governi europei nel corso degli anni ’90 con la connivenza delle burocrazie sindacali (in Italia Cgil- Cisl- Uil) ha fatto si che i rapporti di lavoro precari divenissero norma: in Italia tale processo è stato inaugurato con la legge 223 del 91, che ha sancito la libertà di licenziamento collettivo (nota come mobilità), è proseguito col Pacchetto Treu, viatico del lavoro interinale, e il decreto Bassanini sulla precarietà nel pubblico impiego all’epoca dei governi ulivisti, ed è culminato con la famigerata legge 30 di Maroni nel 2003 e col tentativo di attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Tutto ciò in un contesto in cui i governi continuano ad incentivare lo smembramento e la distruzione dei vecchi insediamenti industriali attraverso esternalizzazioni e cessioni di ramo d’azienda: in tal modo per i padroni è più facile imporre condizioni di lavoro schiavistiche. Ad oggi si contano più di cinquanta figure contrattuali: nello scorso anno circa il 60% delle nuove assunzioni è stato con contratti tempo determinato (a termine, interinale, part-time, job on call, co.co.pro, staff leasing, ecc.). A queste va aggiunta la galassia di lavoratori al nero, i quali non figurano in nessuna statistica ufficiale: secondo una recente indagine dell’Ires-Cgil nello scorso anno ben 6 milioni di lavoratori (in buona parte immigrati) hanno prestato la propria manodopera privi di qualsiasi contratto. La precarizzazione del lavoro, unita alla crisi, porta alla proletarizzazione di fette sempre più larghe del lavoro dipendente: la diffusione dei contratti atipici nel pubblico impiego ne è la testimonianza più diretta. La vera novità della nostra epoca non è rappresentata dall’esistenza in sè del precariato, ma dall’irrompere della lotta di classe nei luoghi della precarietà: le mobilitazioni dei lavoratori della Tim a Bologna, dei dipendenti dei call center dell’Atesia e di quelli di Auchan a Roma, dei lavoratori delle cooperative sociali a Napoli, la diffusione di vertenze tra i cosiddetti “atipici” rappresentano la smentita più clamorosa di chi, anche nella nostra organizzazione, si è lasciato ammaliare dalle tesi “suggestive” di Rifkin e Revelli sulla fine del lavoro salariato e l’estinzione della classe operaia. Nella nostra organizzazione si parla troppo di precarietà senza una reale cognizione di causa: il precario diviene spesso un feticcio nel nome del quale giustificare scelte e pratiche opportunistiche. 32 Ecco così che si contrappone il mito del preca- rio allegro, gioioso e spensierato all’operaio “novecentesco, quindi superato”; si oppone l’idea delle moltitudini in movimento alla tanto vetusta e deprecata lotta di classe, si rifiutano in maniera altezzosa gli scioperi come strumento di conflitto, preferendogli i meeting e le street parade…Questo “nuovismo” esistenzialista, oltre a fondarsi su argomentazioni del tutto fantasiose, si è dimostrato completamente inefficace sul piano degli effetti pratici: nessuna legge ingiusta è mai stata abrogata a colpi di danza, mai nessuna “moltitudine di invisibili” è stata capace di vincere una vertenza o fermare un solo licenziamento! I fatti ci dicono che le forme di organizzazione “tradizionale” della classe operaia, che i vertici dei GC sembrano ansiosi di voler superare, sono in realta’ le uniche che pagano. Dobbiamo quindi lavorare all’organizzazione dei precari partendo dalla materialità della loro condizione oggettiva. Sostenere le singole lotte e vertenze territoriali, promuovere coordinamenti nazionali di lavoratori precari, stimolare l’unità dei precari con i lavoratori a tempo indeterminato, ma soprattutto lottare a livello politico per l’abolizione di tutte le leggi precarizzanti, in primo luogo del Pacchetto Treu e della Legge 30. Il movimento francese ci indica la strada La Francia si è dimostrata ancora una volta una utile e preziosa scuola di lotta di classe, un esempio cui tutti gli sfruttati del continente devono guardare con attenzione. Nelle scorse settimane milioni di precari e studenti hanno invaso le principali piazze transalpine per esprimere la loro opposizione ai CPE (contratti di primo impiego) con cui il governo di destra di De Villepin intendeva garantire ai padroni la più completa libertà di licenziamento per i nuovi assunti. Dopo più di un mese di manifestazioni, blocchi stradali, occupazioni, scontri di piazza, quella legge è stata ritirata. In sintesi, lo straordinario movimento delle masse francesi ha vinto! L’esperienza francese è gravida di insegnamenti per i comunisti e più in generale per le classi oppresse italiane. Essa innanzitutto ci dimostra come solo con la lotta è possibile difendersi dall’attacco di governi e padronato: gli studenti e i precari francesi hanno scelto di non delegare alle aule parlamentari e alla sinistra moderata la difesa dei propri interessi. Allo stesso tempo questa lotta svela in maniera chiara come gli equilibri all’interno della società capitalistica siano il frutto non del colore dei governi in carica, bensì dalla forza e dal conflitto che ciascuna delle classi è capace di mettere in campo. Per essere più chiari, in Francia il movimento di questi mesi, grazie alla lotta, è riuscito ad ottenere da un governo di destra il ritiro di una legge che in molti paesi europei i governi di centrosinistra sono riusciti ad approvare grazie alla concertazione e al coinvolgimento dei partiti operai nei loro esecutivi (vedi Pacchetto Treu). Gli eventi francesi smentiscono in maniera clamorosa la tesi del condizionamento “da sinistra” dei governi borghesi: in sostanza, con la lotta è possibile strappare conquiste anche al peggiore dei governi; al contrario, la pace sociale e la complicità della sinistra di classe coi governi dei padroni preparano il terreno alle peggiori sconfitte. I GC e tutto il Prc, alla luce della vittoria degli studenti e dei precari in Francia farebbero bene a riconsiderare le loro scelte e la loro collocazione sulla scena politica italiana: una rivolta contro la precarietà può esplodere anche nel nostro paese, e la nostra organizzazione è chiamata fin da ora a decidere da quale parte della barricata intende schierarsi. Un nuovo movimento studentesco L’istruzione, e con essa l’intero panorama della cultura e della formazione, hanno perso in questi anni quel valore sociale e pubblico conquistato con le dure lotte del movimento studentesco lungo tutto il dopoguerra. Da una recente inchiesta dell’ISTAT, secondo cui la percentuale di “studenti-lavoratori” (a tempo pieno, part time o al nero) ha oramai superato (52%) quella degli studenti a tempo pieno, risulta chiara l’idea di come la maggioranza degli universitari si trovi in una condizione di sostanziale autosostentamento, costretta a offrire la propria manodopera (spesso sottopagata) per pagarsi gli studi a fronte di una totale mancanza di copertura statale. All’indomani di dieci anni di riforme, scuola e università si sono trasformate in vere e proprie succursali delle imprese: la diminuzione progressiva della spesa pubblica è stato il principale strumento per spingere le stesse nella braccia dei privati, i quali possono così modellare a piacimento quella massa studentesca da essi non a caso ribattezzata “manodopera cognitiva”. Contro queste politiche di precarietà e selezione di classe è tornata a levarsi forte la voce del movimento studentesco. Dopo anni di passività e rassegnazione, nello scorso autunno abbiamo assistito ad una ripresa del protagonismo nelle scuole e negli atenei: la straordinaria manifestazione dei duecentomila a Roma fuori al parlamento è il segno di un’inversione di rotta epocale. La mobilitazione in molte città è partita dalla forte opposizione alla riforma Moratti, ma non si è limitata a questo. In molti istituti e facoltà la ripresa del confronto e della partecipazione ha ben presto generato tra gli studenti la consapevolezza che l’attacco all’istruzione pubblica affonda le sue radici nelle riforme Berlinguer e Zecchino, che per prime hanno spalancato le porte all’ingresso dei privati in scuole e università, quindi alla mercificazione dei saperi. I GC sono apparsi in molti casi i grandi assenti nel movimento studentesco, e anche quando sono stati presenti alle mobilitazioni, ne hanno avallato le tendenze piu deteriori. In questi anni, infatti, l’Esecutivo Nazionale ha seminato tra gli studenti l’illusione di poter “riformare la riforma” attraverso l’organizzazione di seminari e corsi alternativi con tanto di crediti formativi in palio; ha alimentato una contrapposizione artificiosa tra diritto ai “saperi” e diritto allo studio; ha esplicitamente invitato i compagni ad abbandonare i collettivi per puntare sui “Laboratori”, cioè su ambiti di mera discussione seminariale. La ripresa delle mobilitazioni nelle facoltà ha invece mostrato quanto prezioso sia il ruolo dei collettivi studenteschi. Le lotte condotte in questi anni dai Collettivi (come ad esempio a Napoli, Roma, Pisa, Venezia e Catania) contro la guerra, in difesa del diritto allo studio e contro le riforme aziendaliste, sono l’esempio di come sia possibile promuovere e organizzare, anche all’interno della scuola e dell’università “riformate”, momenti di lotta e di resistenza all’attuale assetto classista della cultura italiana. I collettivi studenteschi devono quindi essere considerati una risorsa preziosa, non certo un fardello: compito dei GC dev’essere quello di promuoverne di nuovi là dove sono inesistenti; ridare vita ad un vero coordinamento nazionale dei collettivi studenteschi medi ed universitari, sviluppare e massimiz- zare il lavoro che numerosi compagni svolgono ogni giorno nelle Scuole e negli Atenei. Al fianco dei proletari immigrati I migranti costituiscono oggi il principale serbatoio di forza lavoro a basso costo nelle mani di una classe dominante che ne gestisce l’esistenza a proprio uso e consumo. Per questa ragione, essi fanno parte a pieno titolo del nuovo proletariato del XXI secolo. La legge “Bossi-Fini” ha costruito un impianto legislativo basato sulla repressione e sul ricatto padronale, attraverso la chiusura delle frontiere, i flussi programmati e il controllo poliziesco. Questa legge è perfettamente in linea con gli accordi di Shengen, che mirano alla costruzione di una “fortezza-Europa” in cui sono liberi di circolare solo capitali e merci. La clandestinità si erge così a norma di sistema gettando migliaia di lavoratori nel mercato del lavoro nero. Il migrante clandestino, in quanto tale, vive in uno stato di illegalità che lo espone alla repressione delle forze dell’ordine e alla propaganda xenofoba e razzista. La Bossi-Fini è una diretta emanazione della TurcoNapolitano. Questa legge, promossa e varata dall’allora governo Prodi con la nostra complicità contiene già le principali norme di regolamentazione dei flussi e le condizioni necessarie per ottenere il permesso di soggiorno, ma soprattutto è la legge che ha istituito i centri di permanenza temporanea (CPT), veri e propri lager in cui la “permanenza temporanea” è detentiva e non vi è garanzia nemmeno dei diritti inalienabili sanciti dalle convenzioni internazionali (come dimostrano le condizioni scandalose in cui versano gli immigrati nordafricani rinchiusi nel CPT di Lampedusa). La legge Bossi-Fini non fa altro che partire da queste norme per renderle ancora più repressive: entri in Italia perché servi al padrone, vieni licenziato quando non servi più e automaticamente diventi clandestino, quindi un criminale! E’, quindi, necessario che i lavoratori immigrati si autorganizzino e lottino in un fronte unitario con i lavoratori italiani per l’emancipazione delle classi sfruttate. Come GC dobbiamo individuare una piattaforma nella quale possano riconoscersi tutti i lavoratori, che superi i meccanismi padronali della guerra fra poveri e abbia il coraggio di affermare chiaramente quali sono i veri nemici di classe. Per garantire pieni diritti agli immigrati è necessaria una sanatoria generalizzata, la chiusura di tutti i campi lager, il diritto di cittadinanza, il permesso di soggiorno rilasciato dai comuni e non dalle questure. Bisogna in sintesi cancellare la Turco-Napolitano. Difendere diritti dei proletari immigrati, lavorare alla loro sindacalizzazione e battersi contro precarietà e lavoro nero e equivale a difendere i diritti di tutti i lavoratori. Per l’unità delle lotte sociali attorno a una comune piattaforma Alla luce di quanto detto, risulta evidente come la contraddizione capitale-lavoro rivesta oggi più che mai una centralità assoluta: essa infatti influenza e determina ogni altro aspetto della vita sociale e rappresenta quindi la madre di ogni altra contraddizione prodotta dal sistema capitalistico. Il nostro intervento nei movimenti, per essere efficace, ha bisogno di un programma, di una piattaforma di rivendicazioni che unisca attorno ad una prospettiva comune ciò che in questi anni le manifestazioni hanno unito nelle piazze, con l’obiettivo di aprire finalmente un varco per un’alternativa reale, quindi di classe, ai governi borghesi e alle loro politiche. Riteniamo che una piattaforma che risponda a queste esigenze non possa che fondarsi su un nucleo di obiettivi unificanti: a) estensione dello statuto dei lavoratori a tutti i lavoratori (anche alle imprese con meno di 16 dipendenti); b) oppressione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione e di tutte le leggi pregresse (es. la TurcoNapolitano del 1998); c) ipristino della “scala mobile” (indicizzazione dei salari in base all’inflazione reale); d) riduzione a 35 ore dell’orario di lavoro settimanale, senza contropartite fiscali e di flessibilità, con forti aumenti salariali, senza annualizzazioni e con l’abolizione per legge dello straordinario; e) assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori precari e abolizione della famigerata legge 30, del “Pacchetto Treu” e di tutte le leggi precarizzanti; f) salario garantito a tutti i disoccupati equiparato alla Cig; g) abrogazione delle riforme Moratti di scuola e università e di tutte le precedenti riforme aziendalistiche (es. Berlinguer, Zecchino, ecc); h) nazionalizzazione senza indennizzo e consegna nelle mani dei lavoratori di tutte quelle imprese che evadono, inquinano, corrompono, licenziano; i) ritiro dell’Italia dalla NATO, ritiro delle truppe italiane da tutte le missioni militari imperialiste, tagli drastici alle spese militari e riconversione delle stesse in capitoli di spesa sociale. Una risposta di classe alla questione meridionale Le lotte di questi anni, da Scanzano a Melfi a Locri, dalle manifestazioni contro il Ponte sullo Stretto a quelle contro l’inceneritore ad Acerra, i movimenti dei disoccupati e degli sfrattati a Napoli, sono la riprova di come il nostro paese sia ancora attraversato da un profondo dualismo fra un Nord evoluto e un Sud immerso nella miseria e nel sottosviluppo. Locri, attraversata da una sola strada e due binari, è un esempio calzante . Ma essa è solo la punta dell’iceberg. Il territorio meridionale è stato per anni depauperato dai continui flussi migratori a cui i giovani sono obbligati per trovare una più decente occupazione al nord. Oggi non è diverso. I dati dell’Istituto Svimez, specializzato sulle tematiche del Mezzogiorno, ci dicono che nel 2002 i nuovi emigranti dal Meridione sono stati 180 mila e oltre 200 mila nel 2003. Il fenomeno riguarda oggi giovani, magari diplomati e laureati, ed i nuovi disoccupati, lavoratori espulsi dal ciclo produttivo con le ristrutturazioni degli ultimi venti anni. Il meridione è in sostanza ridotto a semplice serbatoio di manovalanza ed elettorale per i ceti dirigenti. In alcune regioni la disoccupazione giovanile raggiunge cifre da capogiro (con punte del 60% in Campania e Calabria). A nulla sono serviti i vari piani di sviluppo territoriali, o i contratti d’area, in quanto i fondi stanziati o non sono mai stati utilizzati dalla classe politica locale, e quindi nel tempo sono andati persi, oppure sono divenuti preda dei poteri mafiosi. Proprio questi ultimi rappresentano una piaga del territorio meridionale: esse opprimono e violentano la cultura di interi territori, in complicità con le forze politiche, degli apparati dello Stato e talvolta della massoneria deviata. La criminalità vive all’ombra dello stato e si sostituisce ad esso offrendo “soluzioni immediate” alle emergenze che lo Stato non sa e non vuole risolvere. La disoccupazione diviene prima fonte del sostentamento mafioso e del suo radicamento sul territorio. I governi nazionali e locali, attraverso il ridimensionamento dell’apparato industriale e del peso della classe operaia hanno prodotto un’ulteriore disarticolazione del tessuto sociale e favorito i nuovi disegni del capitale affaristico. L’obiettivo evidente del padronato e delle politiche governative è l’accentuazione del doppio “regime salariale” tra Nord e Sud del Paese. A tutto ciò bisogna contrapporre l’idea di piani di sviluppo basati sul rilancio dell’industria e sul sostegno a quei cittadini e quei lavoratori che hanno il coraggio di ribellarsi al potere e alle speculazioni mafiose. E’ evidente che ovunque ci sarà clientelismo, raccomandazioni, minacce, ricatti, lavoro nero, la criminalita’ troverà terreno fertile. A chi, anche nel centrosinistra, continua a raccontare la favola secondo cui il Sud si risolleverebbe con il turismo o con le grandi opere come il Ponte sullo Stretto bisogna rispondere che le popolazioni meridionali hanno bisogno di tutt’altro; vi è bisogno di infrastrutture primarie, quali strade, autostrade e ferrovie; va rilanciato il diritto allo studio, per combattere la dispersione scolastica nell’età dell’infanzia e la fuga degli studenti universitari verso il Nord; infine, il reddito garantito per tutti i disoccupati al fine di sottrarre milioni di giovani al ricatto del lavoro nero e della precarietà. Le lotte delle popolazioni meridionali richiamano la necessità di organizzare comitati di lotta e di controllo popolare, con la partecipazione di lavoratori, disoccupati, precari, immigrati e studenti, al fine di imporre scelte occupazionali, di uso del territorio, di qualità della vita, in netta controtendenza con quelle dominanti. Come GC dobbiamo lavorare alla costruzione di una alleanza tra i proletari del nord e quelli sud: tale obiettivo ha un valore strategico, poiché è condizione essenziale per portare sul piano nazionale ogni lotta o vertenza regionale o locale e superare il localismo. La questione meridionale è oggi più che mai una questione nazionale. Dunque solo con la ripresa di un conflitto nazionale sarà possibile incidere con maggior forza sul blocco liberale borghese e padronale responsabile del sottosviluppo del Sud, e avviare il riscatto sociale del meridione. Difendiamo i diritti delle donne I governi del centro-sinistra prima e quelli del centrodestra poi hanno minato alle fondamenta le conquiste ottenute dal movimento femminista negli anni Settanta. La Legge 40/98 del Governo Prodi, la Legge Bassanini sulla sussidiarietà – purtroppo assunte e votate dal PRC – l’attacco alla 194/78, l’attuale Legge sulle procreazione medicalmente assistita (PMA) privano le donne della possibilità di disporre del proprio corpo e del proprio tempo, rilanciano il criterio della “centralità della famiglia” in sostituzione del wel33 fare, rappresentano l’ennesimo tentativo di smantellare il diritto all’interruzione di gravidanza , peraltro, imponendo ai medici trattamenti rischiosi per le donne stesse. In sostanza, la seconda repubblica assegna nelle mani del clero reazionario una vera e propria ipoteca sul corpo della donna. In questo quadro, incerta è stata la proposta politica del partito che, rinunciando a costruire una reale opposizione nelle piazze ed appiattendosi sulle iniziative parlamentari dei DS alla ricerca di un’inutile quanto vuota unità d’intenti, ha finito per delegare la stessa consultazione referendaria ai radicali e a qualche associazione femminista. I GC possono e devono avviare un serio lavoro di inchiesta e di denuncia delle condizioni di sfruttamento, sottomissione e repressione di cui quotidianamente le donne sono vittima. Questo lavoro va concepito in un’ottica di ricomposizione, fuori da qualsiasi scorciatoia elitaria, separatista o corporativa: l’emancipazione delle donne e l’emancipazione delle classi sfruttate rappresentano un binomio inscindibile. Ridurre la questione dell’integrazione delle donne ad un problema di spartizione di “quote” vincolanti negli organismi dirigenti del Partito, è sbagliato, fuorviante ed anche inutile: la logica delle quote non libera la nostra struttura dai residui di maschilismo, ma al contrario alimenta la ghettizzazione delle compagne. Bisogna invece porsi l’obiettivo della crescita delle compagne, responsabilizzandole negli organismi in base alla capacità e alla reale rappresentanza che esse hanno sul territorio e nei luoghi di lavoro. Combattiamo l’offensiva neoclericale I GC devono avviare una battaglia tutto campo contro ogni forma di ingerenza della Chiesa Vaticana sui diritti e sulle libertà degli individui. Il diritto al riconoscimento delle coppie di fatto (Pacs), oltre che essere una questione di civiltà e di lotta alle discriminazioni, rappresenta innanzitutto uno strumento di emancipazione per tutti quei giovani proletari che a causa della precarietà e del caro-vita non possono o non vogliono dar vita a sodalizi familiari tradizionalmente intesi. La battaglia per i Pacs va unita ad un più generale lavoro di massa teso a smascherare e combattere l’intollerabile invasività del Clero sui temi civili, etici e morali, in prima luogo l’offensiva del Vaticano sui temi della sessualità e il tentativo di quest’ultimo e della destra di introdurre nuove forme di discriminazione verso gay e transessuali. Tale offensiva ci pone nella necessità di essere in prima fila nelle campagne in difesa della laicità dello Stato. Queste non possono essere lasciate nelle mani dei Radicali di Pannella, come anche è stato nel corso della campagna elettorale. In quest’ottica, diviene centrale riprendere la battaglia contro il finanziamento alle scuole confessionali e per l’abolizione dell’ora di religione. Per un antifascismo militante e di classe Nel corso di questi anni, stiamo assistendo ad un progressivo riaffacciarsi sulla scena politica di movimenti e gruppi neofascisti. Ciò anche in conseguenza delle ondate neorevisionistiche portate avanti dal governo delle destre nel corso di tutto il suo mandato (dalla riabilitazione dei repubblichini di Salò alla vergognosa strumentalizzazione della vicenda delle foibe, per giungere alla teorizzazioni su una presunta superiorità della cultura occidentale e sulla difesa dell’identità cristiana). Anche su questo terreno i partiti del 34 centrosinistra hanno gravi responsabilità: nel 1996 fu il diessino Luciano Violante, allora presidente della camera, a sdoganare per la prima volta il fascismo, affermando che i partigiani e i loro aguzzini “avevano entrambi combattuto nel nome della Patria”. Negli ultimi anni sono andati moltiplicandosi aggressioni, violenze e intimidazioni ai danni di numerosi giovani compagni (in molti casi giovani comunisti), assalti e devastazioni a sedi della sinistra e ai centri sociali, episodi di intolleranza verso gay e immigrati. Questa escalation ha raggiunto l’apice con l’uccisione per mano fascista di un compagno, Davide Cesare, a Milano. Contro il fascismo occorre tenere alta la guardia: bisogna riprendere la pratica dell’antifascismo militante al fine di garantire l’incolumità fisica dei compagni e prevenire le azioni fasciste. Al contempo va tolta agibilità politica ai fascisti: ciò è possibile solo attraverso una reale presenza sui territori e un’iniziativa costante e coordinata tra quei settori sociali maggiormente esposti alle sirene demagogiche dell’estrema destra, quindi in primo luogo tra i disoccupati e nelle fila del sottoproletariato diffuso. Vanno organizzate campagne di sensibilizzazione e di memoria storica sui territori e nelle periferie; costituiti coordinamenti antifascisti aperti a tutte le forze sinceramente democratiche ovunque se ne ravvisi la necessità; vanno sostenuti apertamente quei gruppi che anche sulle curve calcistiche, principale terreno di reclutamento nella galassia neofascista, sviluppano un antifascismo cosciente e conseguente. tunitense fa da contraltare l’emergere di nuove potenze. La crescita straripante dell’economia cinese nell’ultimo decennio a seguito del processo di restaurazione capitalistica ha letteralmente stravolto l’equilibrio del capitalismo mondiale. La ripresa dell’utilizzo di forme protezionistiche a tutela dell’economia americana contro le incursioni cinesi (come dimostra il tentativo di acquisizione della multinazionale petrolifera statunitense Unocal da parte di China Petroleum, negata dal Congresso Usa in base ai supremi interessi nazionali) ci dimostra come la Cina rappresenti oggi il più agguerrito concorrente degli Stati Uniti. D’altra parte, il processo di scomposizione dei blocchi avanza ovunque: i principali paesi europei, attraverso la costruzione dell’UE puntano a strutturarsi come potenza autonoma; la stessa Russia cerca di preservare il controllo di importanti crocevia delle risorse utilizzando l’arma del ricatto sulle forniture energetiche (di cui abbiamo avuto prova con la recente chiusura delle forniture di gas all’Europa) e servendosi degli ancora imponenti arsenali militari per contrastare l’avanzata degli interessi USA sui territori ex-sovietici (Ucraina, Georgia, ecc.); infine emergono nuove potenze regionali con le loro aspirazioni di autonomia: in Sud America il Brasile punta a ritagliarsi uno spazio egemone attraverso la creazione del mercato comune “Mercosur” in alternativa al progetto ALCA sponsorizzato dagli Usa; in Asia si fanno largo India e Pakistan. Crisi del capitalismo e necessità di un alternativa di sistema Le organizzazioni internazionali vecchie e nuove (ONU, WTO, FMI, BM, ecc.), di cui il capitale si serve per tentare di “regolare” i conflitti interimperialisti, non costituiscono una sorta di autogoverno mondiale, ma riproducono, al loro interno, la competizione tra imperialismi. Questi organismi non possono annullare le contraddizioni ma solo ritardarne le più violente manifestazioni. L’economia capitalistica internazionale vive l’onda lunga di una crisi in atto ormai da più di trent’anni. Oggi, a distanza di soli quindici anni dal crollo dell’URSS, la tesi di un capitalismo progressivo capace di superare il ciclo economico di crisi e regressione non poteva trovare smentita più clamorosa. Le aree di nuova conquista capitalistica, con il loro livello di degrado e miseria sociale si dimostrano delle vere e proprie semicolonie. A nulla è valso l’incremento di produttività attraverso la diffusione di nuove forme di organizzazione del lavoro (toyotismo), la forte concentrazione di innovazione tecnologica (informatizzazione, automazione degli impianti produttivi), la configurazione di nuovi mercati locali. La stessa globalizzazione economica ha investito non tanto l’economia reale quanto piuttosto quella finanziaria. L’incapacità di valorizzare il capitale reale e la tendenza alla “finanziarizzazione” da parte dei colossi finanziari transnazionali, sono il segno stesso della crisi. L’avidita’ di profitti, propria del capitale, si conferma ancora una volta il principale ostacolo alla socializzazione della ricchezza prodotta. Il capitalismo odierno si presenta quindi ai nostri occhi nella sua forma piu brutale: guerre, miseria, barbarie e sottosviluppo. Il fallimento del sistema capitalistico in tutte le sue forme, da quelle dispotico dittatoriali fino alle sue varianti liberaldemocratiche e progressiste, rendono nuovamente attuale la necessità di una rottura rivoluzionaria su scala internazionale. Attualità dell’antimperialismo Lontano dal risolvere le contraddizioni intercapitalistiche, il crollo dell’URSS e dei Paesi a “socialismo reale” le ha, in un qualche modo, inasprite, liberate entro uno scenario internazionale del tutto nuovo. Al perdurante predominio economico e militare sta- Alla luce di ciò, la tesi sostenuta da ampi settori della “sinistra critica” e da ampia parte del gruppo dirigente nazionale del GC secondo cui la categoria leniniana di imperialismo sarebbe superata in direzione di un “impero” unipolare a dominazione centralizzata nordamericana, denota un’incomprensione assoluta della realtà. Vere e false ragioni della guerra L’11 Settembre e la lotta al terrorismo islamico sono state l’alibi di cui gli Usa si sono dotati per coprire ideologicamente le imprese militari in medioriente e per mascherare le reali cause di queste guerre, le quali sono viceversa da ricercarsi nella lotta per l’accaparramento delle enormi quantità di risorse energetiche (in primo luogo petrolio e gas naturale) presenti nei territori del medioriente. Il gas ed il petrolio rappresentano delle fonti indispensabili per la sopravvivenza del capitalismo. Il loro controllo assicura posizioni dominanti nell’economia mondiale. Tale è, in ultima istanza, il movente di tutti gli interventi militari intrapresi dagli Usa e dai suoi alleati in questi anni. Cio trova conferma nel National Security Strategy del 2002, laddove gli Usa dichiarano esplicitamente di voler usare la lotta al terrorismo “per estendere i benefici della libertà in tutto il pianeta”, cioè, “libero mercato e libero commercio”.Le “imprese belliche”, in sostanza costituiscono la valvola di sfogo della crisi e della recessione che investe da oltre trent’anni i mercati mondiali. Per nascondere questa cruda verità, i mass media asserviti al potere hanno tirato fuori le argomentazioni più disparate: prima le guerre umanitarie, poi la lotta al terrorismo, quindi la caccia alle armi di distruzione di massa, infine la necessità di “esportare la democrazia”. Tale imponente armamentario di propaganda bellica è crollato nel giro di poche settimane pezzo dopo pezzo, come un castello di carta. La barbarie di Guantanamo, le torture nelle carceri irachene, le prigioni segrete della Cia in Europa e le bombe al fosforo bianco hanno svelato agli occhi del mondo intero a quali valori “democratici” si ispira la guerra imperialista permanente. Iraq, Afghanistan, Palestina: al fianco della resistenza, senza se e senza ma Il fenomeno della resistenza armata alle truppe d’occupazione in medioriente va letto in una chiave internazionalista e di classe, scevra quindi da giudizi morali e sociologici. La ribellione delle masse irachene all’occupazione militare euro-americana cresce ogni giorno di più, e sta trasformando il Paese da base della riorganizzazione imperialistica a suo maggior fattore di crisi e instabilita. Lo stesso accade in Afghanistan, dove il governo fantoccio di Karzai viene percepito come servitore degli interessi occidentali. Le migliaia di militari caduti sul territorio iracheno e afghano rievoca agli strateghi della Casa Bianca lo spettro di un nuovo “pantano”, come fu per il Vietnam più di trenta anni fa. Gli esiti della guerra sono legati a doppio filo con la questione palestinese, da sempre epicentro della crisi mediorientale. In Palestina una giovane generazione ha ripreso fiducia nella lotta dopo aver sperimentato sulla propria pelle i frutti dei compromessi al ribasso operati in questi anni dall’ANP e dai governi burocratizzati e corrotti di Fatah. Vista in quest’ottica, la vittoria di Hamas alle recenti elezioni legislative e’ il frutto di questa nuova domanda di radicalità: la rabbia contro le violenze e i soprusi perpetrati da Israele trova come sua prima valvola di sfogo i partiti islamici. Ciò anche in conseguenza delle difficoltà politiche in cui versano le organizzazioni della sinistra di classe palestinese, in primis l’FPLP, la quale nel giro di pochi anni ha subito la decapitazione di quasi tutta la struttura per mezzo di omicidi ed arresti (ricordiamo qualche mese fa il barbaro sequestro del leader dell’FPLP Saadat ad opera dell’esercito israeliano). Al nostro interno bisogna essere chiari: la rabbia contro l’occidente, e con essa il terrorismo islamico, continuerà a crescere ed alimentarsi fin quando i paesi occidentali continueranno ad apparire agli occhi di milioni di uomini e donne del mondo arabo come i principali complici e fiancheggiatori delle spedizioni militari imperialiste di Iraq e Afghanistan, e soprattutto della più illegittima e sanguinaria occupazione che la storia degli ultimi decenni abbia conosciuto: l’occupazione sionista del territorio palestinese. E’ per questa ragione che i comunisti e tutti i sinceri democratici non possono e non devono esitare neanche un minuto nello schierarsi al fianco della resistenza irachena, afgana, palestinese, e per il fallimento, anche militare, dei piani di aggressione occidentali e sionisti. Ogni atteggiamento di equidistanza tra invasori ed invasi, tra aggressori e aggrediti finirebbe per tradursi in uno sterile ed ipocrita pacifismo di facciata. Da questo punto di vista, gli attacchi armati contro le truppe di occupazione americane, inglesi e italiane non solo sono legittimi secondo lo stesso diritto internazionale borghese, ma diventano giusti alla luce degli interessi materiali delle classi subalterne e dei popoli oppressi. D’altronde, appare quanto mai superficiale e strumentale equiparare la resistenza irachena al fenomeno dei kamikaze. La realtà ci parla di uno scenario ben più complesso e articolato: molte città irachene sono attraversate da ondate di scioperi contro le condizioni di fame a cui è ridotta la classe lavoratrice di quel paese a causa dell’occupazione; più volte le truppe angloamericane sono state utilizzate per reprimere queste lotte e arrestare i leaders sindacali e i militanti della sinistra di classe irachena. La resistenza, quindi, non e’ qualcosa di estraneo alla lotta di classe, ma al contrario la contiene. “Senza giustizia nessuna pace”: la storica parola d’ordine del movimento antimperialista risulta essere quantomai attuale. I Giovani Comunisti e il movimento contro la guerra Dopo aver riempito le piazze di tutto il mondo nel biennio 2002-2004, il movimento pacifista si trova ora in una fase di stallo che è dovuta all’incapacità di far vivere la parola d’ordine del no alla guerra e del ritiro immediato delle truppe nel contesto più ampio delle lotte sociali che in questi anni hanno attraversato i luoghi di lavoro e di studio. La scarsa territorializzazione è anche il frutto delle scelte operate dalle direzioni del movimento pacifista: queste concentrano tutte le loro attività nell’organizzazione di grandi eventi isolati, cui fanno seguito periodi di silenzio quasi assoluto. Nell’ultimo periodo l’influenza esercitata sul movimento dalla sinistra moderata nei confronti è andata sempre più aumentando: l’ambiguità delle parole d’ordine e dei contenuti delle ultime manifestazioni e dello stesso corteo dello scorso 18 Marzo a Roma ne è una prova evidente. Il recuperato clima di “unità nazionale”, creato dai mass-media intorno alle vicende relative agli attacchi ed ai rapimenti subiti da militari e cittadini italiani in Iraq, inizia a sortire i suoi effetti… Questo quadro è stato oggettivamente favorito dalla condotta di Rifondazione e dell’esecutivo GC, i quali hanno fatto proprie le parole d’ordine della sinistra moderata contrapponendosi alle istanze poste dai settori più radicali del movimento. E’ del tutto inaccettabile che la segreteria del partito si dichiari disponibile a negoziare il ritiro dei militari italiani sul suolo iracheno per permettere agli Usa di proseguire l’occupazione, ed è ancor più inaccettabile che esso si dichiari disposto a rifinanziare la missione di guerra in Afghanistan. Se tale ipotesi si verificasse il Prc diverrebbe di fatto compartecipe dei massacri imperialisti in medioriente e si porrebbe di fatto fuori dal movimento pacifista. I GC sono chiamati da subito a dar vita a una pressione dal basso che costringa i nostri parlamentari a votare contro ogni ipotesi di finanziamento delle missioni militari. al contempo si affacciano sul territorio latinoamericano nuovi movimenti di liberazione popolare: in Venezuela e in Bolivia la rivolta dei contadini e dei lavoratori contro il furto e il saccheggio delle risorse porta al potere governi come quelli di Chavez e Morales, le cui politiche si sono segnate da un chiaro profilo antimperialista; in Brasile e in Cile un’ondata di contestazioni operaie e studentesche si contrappone alle politiche liberali dei governi di Lula e della Bachelet; in Argentina l’eco dell’insurrezione di massa di tre anni fa è tutt’altro che sopita. Tali eventi, pur animati da tendenze contradditorie, vanno salutati con favore e guardati con interesse. I GC, sulla base di un rinnovato impegno internazionalista ed antimperialista devono promuovere momenti di dibattito e di controinformazione; in secondo luogo va garantita una partecipazione democratica e di massa ad eventi di grande rilevanza internazionale, come nel caso del Festival Mondiale della gioventù. L’UE non è un interlocutore, ma una controparte La nascita dell’UE risponde all’obiettivo del capitale europeo di conquistare quegli spazi lasciati vacanti dal declino del Giappone e dall’apertura dei mercati dell’Est Europeo e dei Balcani. I costi sociali del processo di integrazione economicomonetaria sono stati altissimi. Fin dalla sua nascita, è risultato chiaro a milioni di proletari dell’intero continente il vero volto dell’UE: quello di un’Europa dei banchieri e delle multinazionali. La storia recente dell’Unione non fa che confermare questo quadro: gli accordi di Maastricht (‘93), Shengen (’96), Amsterdam (‘97) e Nizza (2000), l’unificazione monetaria portata a compimento con l’introduzione dell’Euro, la strategia di indirizzo economico definita a Lisbona nel 2002 poggiano tutte su un unico comune denominatore: consolidare e riprodurre il dominio di classe della borghesia nei confronti del proletariato europeo attraverso la precarizzazione e lo smantellamento dei diritti sociali. Il progetto di Costituzione europea, firmata dai capi di Stato e di governo a Roma nel 2004 ma non ancora entrata in vigore a seguito della sonora bocciatura nei referendum popolari svoltisi in Francia e in Olanda, si muove esattamente in questa direzione. Non è un caso che gran parte di questo lavoro sia stato assegnato proprio a Romano Prodi: l’attuale presidente del consiglio è infatti uno dei rappresentanti più affidabili del grande capitale finanziario e bancario europeo. La Direttiva Bolkestein sui servizi e quella sugli orari di lavoro sono la dimostrazione lampante di quanto affermiamo: esse si prefiggono l’obiettivo di deregolamentare e liberalizzare interamente i rapporti di lavoro attraverso una selvaggia competizione al ribasso dei salari e l’allungamento considerevole dell’orario di lavoro settimanale. Sosteniamo i movimenti antimperialisti L’offensiva padronale tuttavia non si limita ai temi del lavoro, ma è parte di una più ampia strategia, tesa a uniformare l’intero settore dell’istruzione e della formazione ai diktat della flessibilità e della competizione selvaggia (il cosiddetto “Spazio europeo dell’istruzione e della formazione” definito a Lisbona in seguito al processo di Bologna e della Sorbona). Gli eventi sucedutisi in questi anni nell’America Latina sono la testimonianza di come una nuova rivolta stia incendiando quello che gli Stati Uniti hanno sempre considerato il loro cortile di casa. Cuba continua orgogliosamente a resistere nonostante decenni di embargo ad opera del capitalismo occidentale; le Farc proseguono la loro lotta contro i disegni Usa di sfruttamento e di rapina delle risorse; Sul versante internazionale, l’UE persegue l’obiettivo dell’autonomia economica e militare USA costituendosi a sua volta come polo imperialista. Il ruolo da essa assunto nella spartizione del bottino in exJugoslavia successivo all’aggressione Nato del ’99, che ha visto l’Italia in prima fila, la definizione di una politica repressiva comune attraverso la cosiddet35 ta “Black List”, le numerose attività militari rese operative all’estero, la creazione di uno stato maggiore militare europeo e di un’agenzia europea per gli armamenti e il sostegno all’industria militare dimostrano chiaramente la natura dell’UE quale nuova frontiera imperialista di sfruttamento delle classi subalterne e oppressione dei popoli dei paesi dipendenti. La stessa partecipazione di Paesi membri dell’UE alle imprese militari americane, come nel caso delle aggressioni tuttora in corso ad Iraq e Afghanistan non rappresenta, come potrebbe sembrare, un atto di “asservimento”; al contrario, essa risponde all’esigenza degli europei di compartecipare alla spartizione del bottino, per affermare, passo dopo passo, un peso politico-economico-militare sempre maggiore. Risulta quindi chiaro come l’Ue non possa in alcun modo essere vista dalle classi sfruttate come un’interlocutore, ne tantomeno come un possibile alleato. Attribuire all’Europa il ruolo di contrappeso democratico (cosiddeta Europa Sociale) allo strapotere Usa è del tutto illusorio. Contro l’imperialismo di casa nostra I prossimi mesi devono vedere i giovani comunisti in prima fila nella lotta contro tutte le direttive antioperaie e precarizzanti. La nostra organizzazione ha avuto finora un ruolo del tutto marginale nelle iniziative che anche sui nostri territori si sono sviluppate contro la direttiva Bolkestein: l’Esecutivo nazionale ha preferito delegare il lavoro politico ad associazioni quali Attac: queste, essendo formate quasi per intero da elites di intellettuali e ceto politico, sono spesso lontane anni-luce dalle lotte reali e dai bisogni materiali dei lavoratori. Bisogna viceversa investire in prime persona alla riuscita delle scadenze che già si preannunciano nel prossimo autunno, quando la direttiva tornerà al vaglio della Commissione. Allo stesso modo va rilanciata un’opposizione a tutto campo contro il progetto di Costituzione Europea: come giovani comunisti dobbiamo lavorare con ogni mezzo al boicottaggio della Costituzione, se necessario pretendendo l’indizione di un referendum popolare anche in Italia. Bisogna smascherare il falso pacifismo della UE, denunciando gli interessi e i crimini commessi dell’imperialismo europeo nel nome dei profitti nei Balcani, nell’Est Europa e in Africa. Infine, bisogna dar vita a forme di coordinamento delle lotte e delle vertenze a livello europeo. Laddove il perimetro dello scontro di classe diviene continentale, è evidente che le mobilitazioni dei soggetti sfruttati devono adeguarsi a questa nuova dimensione: forme di lotta e di resistenza locale e isolate le une dalle altre non possono che portare inevitabilmente alla sconfitta. Un’idea diversa di organizzazione giovanile I GC durante l’ultimo decennio hanno assunto nel partito uno spazio e un’importanza sempre maggiore. Questo investimento sui giovani ha sempre fatto il paio con l’autonomia della struttura dal resto del partito. Tuttavia quest’autonomia è sempre stata soltanto formale. Sin dalla loro nascita i GC hanno mutuato nel loro agire politico le stesse pratiche e le stesse modalità di gestione proprie del bertinottismo, a tal punto che negli ultimi anni la struttura giovanile e’ divenuta il “laboratorio di sperimentazione” di quelle svol36 te politiche e organizzative da attuarsi successi- vamente nel partito tutto. L’autonomia organizzativa ha dunque rappresentato un facile espediente per vincolare i giovani alla “linea ufficiale” e sottrarli al dibattito politico vero, cioè al confronto tra le varie opzioni politiche che si è via via configurato nel partito “adulto” (alzi la mano chi non ha assistito almeno una volta al richiamo di qualche esponente nazionale o locale dei giovani “a non riproporre nei GC il dibattito tra mozioni di tipo congressuale…”). Nel corso dei quattro anni che ci separano dall’ultima conferenza sì è presentata una sola occasione per un vero confronto tra i compagni: l’assemblea nazionale tenutasi a Genova nel 2004. E’ stato proprio quest’appuntamento a mettere palesemente a nudo i limiti e le contraddizioni che attraversa la nostra struttura: dibattito in plenaria ridotto ai minimi termini e senza il benché minimo potere decisionale, spezzettamento della discussione in gruppi tematici privi di un piano di lavoro e finalizzati unicamente ad autocelebrare i fasti dell’intervento (vero o presunto) in questo o quel movimento: il tutto accompagnato dall’operato dell’Esecutivo Nazionale teso a relegare il dissenso ai margini del dibattito e all’occorrenza neutralizzandolo con metodi burocratici. Questo il momento più alto di democrazia e di dibattito nel corso di quattro anni! La crisi di partecipazione attiva emerge anche dall’organizzazione dei campeggi dei GC. Il campeggio annuale, che nei primi anni aveva rappresentato un prezioso momento di confronto e socializzazione delle esperienze di lavoro e di lotta, si è via via tramutato in una kermesse-passerella di personaggi e volti noti della sinistra, di fronte alla quale i giovani compagni perdono il ruolo di protagonisti per divenire meri spettatori di dibattiti blindati e “workshop” eterodiretti dall’alto. Alla luce di ciò, pensiamo che questa Conferenza debba introdurre dei segnali inequivocabili di un cambiamento di rotta nella direzione di un rilancio del radicamento e della partecipazione dal basso: va assunto a chiare lettere l’impegno da parte del prossimo coordinamento nazionale a costruire dei gruppi di lavoro nazionali permanenti e orizzontali, aperti alla partecipazione di tutte le compagne e i compagni; in secondo luogo, occorre rendere operativi gli strumenti dell’attivo locale e dell’assemblea nazionale. Quest’ultima dev’essere convocata almeno una volta all’anno ed in tutti i casi in cui la fase politica lo richiede, in primis quando la nostra organizzazione è impegnata in un lavoro di massa, nei movimenti e nelle lotte. Democrazia interna, ruolo della militanza e importanza della formazione Da sempre le organizzazioni comuniste si sono distinte all’interno del panorama della sinistra per un’attenzione particolare alla crescita e alla formazione critica e teorica, pratica e militante, dei compagni più giovani. Un partito è davvero tale se è capace di offrire ai compagni gli strumenti di conoscenza e le chiavi di lettura utili a spiegare la realtà sociale che ci circonda, a comprendere le dinamiche di funzionamento del sistema capitalistico e le sue contraddizioni, a conoscere le condizioni materiali di vita delle classi sfruttate. Nei GC (come più in generale nel Prc) quest’attenzione è del tutto assente, e ciò rappresenta uno dei limiti più gravi della nostra struttura. Questa dinamica produce al nostro interno una separa- zione profonda: da un lato il nucleo ristretto di dirigenti, funzionari, parlamentari e istituzionali a vario titolo che fungono da “depositari” della linea “teorica” e delle sue implicazioni politiche e programmatiche; dall’altro la massa larga di iscritti che viene spinta alla militanza solo in base a un generico volontarismo. Il “turn-over” galoppante, diffuso da anni nei GC, non è che la conseguenza di questo modello organizzativo. Troppe volte in questi anni i compagni hanno appreso dalle colonne dei giornali borghesi dichiarazioni di autorevoli dirigenti del partito tese a liquidare in blocco esperienze storiche e figure di primo piano del movimento operaio e rivoluzionario: da Lenin alla Rivoluzione d’Ottobre, passando per Cuba e per l’intera esperienza del socialismo realizzato del secolo scorso, per arrivare al superamento tout-court dell’esperienza del movimento operaio novecentesco e al ripudio di qualsiasi forma di resistenza armata ai soprusi del potere capitalista. Viene da chiedersi: quanto si conosce di queste esperienze all’interno dei GC? Si è forse mai avviata su questi temi una discussione e un confronto partendo dai circoli e coinvolgendo sul serio i giovani iscritti e militanti? Come si può non considerare che sortite di questo tipo, per di più a mezzo stampa, generano confusione e disorientamento nelle nostre fila, nella misura in cui presentano la storia dei comunisti e del comunismo come un’elenco di colpe da cui redimersi? Quest’ondata revisionista, che ha fatto breccia anche nel nostro partito, va fermata e respinta con decisione. Riteniamo che la nostra storia di comunisti vada innanzitutto conosciuta a fondo e resa patrimonio di tutti i compagni, e in secondo luogo vada difesa, rivendicata e preservata dalle mistificazioni ideologiche compiute dall’avversario di classe, poiché è e resta la nostra storia. Nell’ultimo periodo abbiamo assistito con frequenza a fenomeni poco edificanti per una struttura politica che si richiama al comunismo: troppo spesso decisioni di enorme rilevanza politica vengono assunte nel chiuso degli Esecutivi e calate-imposte dall’alto a tutto il resto dei compagni; troppe volte gli organismi che dovrebbero essere sovrani, ossia gli attivi degli iscritti e i coordinamenti provinciali, sono stati ridotti al silenzio per mesi e mesi, e sostituiti con forme blande di “assemblearismo” prive di qualsiasi potere decisionale. Si è in sostanza diffusa in alcuni settori dei GC l’idea secondo cui “non c’è tempo per discutere perché c’è da lavorare nella pratica”, perchè “il movimento prevale su tutto il resto”. E’ vero l’opposto: teoria e pratica sono inscindibili, in quanto solo attraverso momenti di confronto democratico e orizzontale è possibile costruire un’azione cosciente e consapevole nella società; solo attraverso un bilancio puntuale dei percorsi svolti è possibile correggere gli errori ed evitare che questi vengano commessi di nuovo. Risulta quindi indispensabile ed urgente la ripresa di un lavoro di formazione teorica e politica ai vari livelli della nostra struttura. Formazione significa innanzitutto memoria storica e coscienza delle nostre radici, della teoria marxista e del movimento comunista. Ma la formazione va intesa anche come guida per l’azione quotidiana, pratica, militante. Offrire al maggior numero possibile di compagni gli strumenti per scrivere un volantino; per intervenire in un’assemblea; per sostenere e difendere pubblicamente le nostre posizioni politiche; per organizzare uno sciopero, un corteo, un picchetto, un’occupazione, una trattativa politica o sindacale; per intervenire attivamente nell’arena dello scontro politico e rendersi protagonisti di un lavoro quotidiano teso al rovesciamento di questo sistema e alla trasformazione della società: questo è ciò che intendiamo per formazione militante. Una struttura giovanile in un partito comunista ha una ragion d’essere solo se è capace di recepire il senso di ribellione proprio delle giovani generazioni e offrirgli una prospettiva di classe e rivoluzionaria. REGOLAMENTO della Conferenza (1) La terza Conferenza Nazionale dei Giovani Comunisti è convocata a Bari dal 7 al 10 settembre con all’ordine del giorno la discussione e l’approvazione dei documenti politici, del Regolamento interno (come previsto dall’art. 22 dello Statuto Prc) nonché l’elezione del Coordinamento Nazionale GC (d’ora in poi CN) (2) Presentazione e sottoscrizione dei documenti per la Conferenza nazionale La Conferenza discuterà unicamente i documenti presentati nelle modalità previste nel seguente paragrafo, così come deciso dal CN del 25 febbraio 2006. a) i documenti sottoposti alla discussione e votazione della conferenza nazionale devono essere sottoscritti da almeno 200 iscritte/i GC 2005; b) le firme sono raccolte in almeno 3 regioni, nella stessa regione non possono essere raccolte oltre la metà delle firme necessarie; Gli emendamenti giunti e/o presentati in sede di Conferenza nazionale sono discussi in sede di Commissione politica della conferenza. (5) Composizione della Commissione per la Conferenza (Nazionale - Federazione) Il CN elegge una Commissione Nazionale per la Conferenza decidendone il numero di componenti Le/i componenti la Commissione per la Confereza sono elette/i con votazione a maggioranza delle/dei componenti il CN. La composizione della Commissione Nazionale è pari a due compagne/i, una/o effettiva/o e l’altra/o supplente per documento nazionale. Entrambi hanno diritto di parola nella riunione. In caso di votazione il voto dei componenti è calcolato proporzionalmente ai sottoscrittori dei documenti nel CN. c) le firme possono essere raccolte su bozze di documenti di non oltre 2 cartelle presentate entro il 18 marzo al gruppo di lavoro per il regolamento. Le firme vanno raccolte entro e non oltre il 15 aprile, le firme sono verificate entro il 27 aprile dal collegio nazionale di garanzia del PRC; La Commissione Federale è prevista solo per le Federazioni con oltre 250 iscritte/i GC 2005, è composta proporzionalmente al consenso ai documenti nel coordinamento Federale GC, ed è da esso eletta. Nel caso in cui nel coordinamento sia assente il rappresentante di un documento, presente invece tra le/i GC della medesima federazione, e segnalato dalla commissione nazionale prima che la commissione federale venga eletta, questa/o partecipa con diritto di parola e di voto. d) i documenti nazionali devono essere collegati ad una bozza di documento presentata al gruppo di lavoro per il regolamento; Nelle federazioni in cui il coordinamento è inesistente la commissione è composta pariteticamente; da compagne/i indicate/i dalla commissione nazionale. e) la Commissione nazionale per la Conferenza GC è formata proporzionalmente alle sottoscrizioni raccolte dai singoli documenti nel Coordinamento nazionale GC; (6) Compiti della Commissione per la Conferenza f) i documenti possono essere altresì sottoscritti da compagne/i del CN. > Per stabilire l’esito delle votazioni relativo ai documenti si farà riferimento alle votazioni avvenute: a) nelle Conferenze di Circolo o di zona (federazioni con oltre 250 iscritte/i GC); b) nelle Conferenze di Federazione (federazioni con meno di 250 iscritte/i GC) c) verbalizzate sugli appositi moduli predisposti dalla Commis-sione nazionale per la conferenza. (3) Documenti nazionali La somma dei voti riportati dai rispettivi documenti ne costituisce per ognuno la base politica di consenso. A tutti i documenti nazionali, viene riconosciuta pari dignità: diritto ad essere stampati in un’unica pubblicazione, diffusi tramite le federazioni e i circoli alle/agli iscritte/i; diritto ad essere illustrati nelle Conferenze. a) Sovrintendere e coordinare le diverse fasi dell’iter della Conferenza; b) Assicurare il rispetto delle norme previste dallo Statuto PRC e dal presente Regolamento della Conferenza; c) Dirimere controversie e rispondere a eventuali contenziosi e reclami che possono sorgere durante la fase di conferenza; esprimere parere vincolante sul calendario delle conferenze locali (di circolo e/o federazione). Le decisioni sono assunte a maggioranza semplice dei votanti; razione - per le federazioni con oltre 250 iscritte/i GC - è fissato dalla commissione federale per la conferenza; nelle federazioni, con meno di 250 iscritte/i GC, il giorno è fissato dal coordinamento federale GC. Su queste decisioni è in ogni caso vincolante il parere della Commissione Nazionale per la conferenza. (9) Partecipazione alle Conferenze Possono partecipare attivamente, con diritto di voto attivo e passivo, alle conferenze, di circolo, zona, federale e nazionale: le/gli iscritti con tessera 2005 GC regolarmente registrata - cartellino e quota tessera versata. Nuove/i iscritte/i entro 7 giorni dallla data della Conferenza. Per nuove/i iscritte/i si intendono anche coloro che avendo nel 2005 la tessera “adulti”, abbiano rinnovato nel 2006 quella GC. Nuove/i iscritte/i nei 7 giorni precedenti o nel giorno della Conferenza hanno diritto di parola e non di voto, e possono essere elette/i delegate/i e negli organismi dirigenti GC. (10) Modalità per la votazione degli organismi dirigenti Il voto per l’elezione del coordinamento federale, regionale e na-zionale è segreto. > Elezione del coordinamento Federale La Commissione elettorale Federale avanza una proposta numerica per il coordinamento federale GC che sottopone al voto palese dell’Assemblea (o delle/dei delegate/i), quindi una proposta di modalità per la votazione del coordinamento: lista bloccata o aperta. In caso di lista bloccata, la Commissione Elettorale avanza la proposta nominativa, proporzionalmente per ogni singolo Documento Nazionale e viene votata senza preferenza. La proposta di lista aperta deve essere sottoscritta: nelle federazioni con oltre 250 iscritte/i GC 2005 da almeno il 20% dei delegati alla conferenza federale - nelle federazioni con meno di 250 iscritte/i GC 2005 da almeno il 30% dei presenti alla conferenza federale - nella Conferenza nazionale da almeno il 30% dei delegati. In caso di lista aperta la Commissione Elettorale avanza proposte nominative per ogni Documento Nazionale con una maggiorazione sino al 40% delle/degli eligende/i (e comunque con una maggiorazione di almeno una unità). Le preferenze attribuibili devono essere pari all’60% delle/degli eligende/i. In tal caso risultano elette/i le/i candidate/i in ordine decrescente rispetto alle preferenze riportate. Il coordinamento federale è composto in proporzione ai voti ottenuti dai documenti nell’ambito federale. E’ possibile la presentazione di liste alternative, sottoscritte da almeno il 20% dei presenti (federazioni con meno di 250 iscritte/i GC 2005) o delegati (federazioni con oltre 250 iscritte/i GC 2005) per l’elezione degli organismi, tra gli aderenti allo stesso documento. Le liste alternative vanno votate in blocco, ciascuno può votare solo per una lista. d) Controllare la regolarità del tesseramento GC; e) determinare il rapporto iscritte/i / delegate/i dalla conferenza di circolo e/o zona a quella federale; f) La Commissione di Federazione può designare, con il parere vincolante della Commissione nazionale, le/i compagne/i, non iscritte al circolo, che partecipano e/o illustrano i documenti nazionali alle conferenze di Circolo, e stabilisce il rapporto iscritti/delegati per la determinazione dei delegati dei circoli alla conferenza federale; Il sito dei GC – www.giovanicomunisti.it - pubblicherà nel loro insieme tutti i materiali della Conferenza. g) La Commissione Nazionale designa le/i compagne/i che partecipano e/o illustrano i documenti alle Conferenze Federali. (4) Emendabilità dei Documenti nazionali (7) Conferenze di Circolo o Zona Contributi emendativi (integrativi o sostitutivi) ai singoli Documenti Nazionali, possono essere presentati in qualunque sede di conferenza, e non valgono per la determinazione dei delegati e dei gruppi dirigenti. Gli emendamenti passano alla conferenza superiore se approvati dalla maggioranza tra i votanti il medesimo documento che si è inteso emendare. Nelle federazioni con oltre 250 iscritte/i GC si possono svolgere un numero di conferenze di circolo e/o zona non superiore al rapporto iscritti GC 2005 su 30. (8) Calendario conferenze Il calendario per le conferenze locali: di circolo e di fede- (11) Modalità per l’elezione delle/dei delegate/i Per la determinazione delle/dei delegate/i si utilizzerà il meccanismo della proporzionale pura. Nel caso di parità di voti o resto uguale per tutti i Documenti Nazionali, si dà luogo all’elezione di una/un delegata/o per ciascun documento. Per l’elezione delle/dei delegate/i alle conferenze Federali ed a quello Nazionale, un genere non può superare il 60% del totale. La designazione delle/dei delegate/i dovrà essere proporzionale ai consensi ottenuti dai singoli Documenti Nazionali ed elette/i con la stessa metodologia applicata per l’elezione degli organismi dirigenti, con l’applicazione della norma per il recupero dei resti, tenendo conto delle diverse opzioni politiche esperesse. Le/i delegati si eleggono al termine delle votazioni sui documenti politici. Possono essere delegate/i al congresso superiore sia i presentatori che i compagni indicati a concludere la Conferenza, solo se il numero totale dei delagati da eleggere è superiore a quattro. Per essere delegati dalla conferenza di circolo a quella federale è necessario essere iscritte/i nella medesima federazione. 37 lettera di convocazione. Nell’indicazione degli orari va garantito un adeguato spazio al dibattito. L’orario di votazione non può subire variazioni, neanche quindi nel caso il dibattito si sia già concluso o non sia ancora terminato. Il voto si può esprimere esclusivamente a partire dall’orario indicato, eventuali eccezioni sono prese in considerazione a maggioranza dei presentatori di documenti. (12) Recupero proporzionale sulle/sui delegate/i Per garantire un rapporto di proporzionalità tra i consensi ottenuti dai singoli Documenti Nazionali nelle Conferenze di Circolo, ove previste, e di Federazione, l’invio delle/dei delegate/i alle istanze superiori si istituisce un meccanismo di recupero dei resti. Per le Conferenze di Circolo e/o zona, ove previste, vengono elette/i delegate/i in numero pari ai quozienti pieni realizzati da ogni singolo Documento Nazionale, attribuendo l’ultima/o delegata/o (con quoziente non pieno) al documento che ottiene il resto assoluto più alto. Per il recupero dei resti, vengono indicate/i delle/dei delegate/i supplenti per ogni singolo documento. Alle Conferenze di Federazione, in quelle Federazioni sopra i 250 iscritti GC, e in quella Nazionale verranno recuperate/i tante/i delegate/i supplenti (scelte/i tra quelle/i con i resti più alti) quante/i ne sono necessarie/i per ottenere una composizione della Conferenza corrispondente in modo proporzionale ai consensi espressi, nelle conferenze di Circolo (per la conferenza di Federazione), e nelle conferenze di Federazione (per la Conferenza Nazionale) globalmente sui documenti nazionali. Nel caso in cui non siano indicati delegati supplenti o questi siano indisponibili, i rappresentanti del documento nella commissione nazionale possono indicare altre/i compagne/i. (20) I delegati alla Conferenza nazionale sono eletti in ragione di una/un delegato ogni 50 iscritte/i (o frazione superiore alla metà), secondo i dati inviati dalla Commissione Nazionale per la Conferenza; è comunque garantito una/un delegata/o per le federazioni sotto i 50 iscritte/i. (21) Ordini del giorno e documenti locali Alla Presidenza possono essere presentati ordini del giorno e documenti politici che non possono comunque riferirsi ai documenti nazionali. La Presidenza ne dà notizia e li trasmette alla Commissione Politica. Eventuali Odg e/o documenti locali sono posti in votazione solo al termine del dibattito anche se questo è stato interrotto dalle procedure di voto dei documenti nazioali. A Chiusura della Conferenza si riunisce il coordinamento federale GC per l’elezione del coordinatore federale GC come indicato dall’art. 22 dello Statuto Prc. (13) Conferenze di Circolo e/o Zona Eventuali accorpamenti sono decisi dalla Commissione Federale sentito il parere vincolante della Commissione nazionale. Sono invitate/i, se non sono GC, le/i segretarie/i di circolo. (22) Conferenza Nazionale Alla Conferenza Nazionale partecipano le/i delegate/i elette/i dalle Conferenze di Federazione.?Partecipano inoltre con diritto di parola e non di voto se non elette/i delegate/i, le/i componenti del CN uscente. I Coordinamenti federali GC uscenti col segretario di circolo provvedono a: a) Far pervenire alle/agli iscritte/i i documenti nazionali. Comunicare almeno 5 giorni prima a tutte/i le/gli iscritte/i la data, l’ora, il luogo di svolgimento dell’assemblea, è altresì indicato nella convocazione l’orario per la votazione dei documenti politici. b) Pubblicizzare la convocazione della Conferenza di circolo in modo che ogni cittadina/o, interessata/o possa parteciparvi. c) Invitare ai lavori della Conferenza di circolo i soggetti di movimento, i rappresentanti delle istituzioni, delle organizzazioni giovanili e di tutte le associazioni, organizzazioni democratiche presenti sul territorio. d) Rendere disponibile 5 giorni prima della conferenza l’elenco nominativo delle/degli iscritte/i con diritto di voto. (14) All’apertura della Conferenza di circolo si procede ad eleggere la Presidenza del Conferenza su proposta della Commissione Federale per la Conferenza. La discussione è introdotta dalla/dal compagna/o designata/o dalla Commisione Federale per la Conferenza che illustra i temi politici ed organizzativi del Congresso (relazione di 10 minuti). Nel caso sia presentatrice/ore di un Documento Nazionale, la relazione sarà di massimo 20 minuti. Subito dopo vengono illustrati gli altri Documenti Nazionali (al massimo 10 minuti), nell’ordine di presentazione nazionale, da parte di sostenitrici/ori designate/i, che qualora non fossero iscritte/i al Circolo possono farlo solo se indicate/i con comunicazione dalla Commissione Federazione per la Conferenza. Dopo la relazione e la presentazione dei Documenti Nazionali la Presidenza propone la nomina delle Commissioni (politica ed elettorale). La composizione delle Commissioni avviene garantendo la rappresentanza di tutte le opzioni politiche presenti; esse vengono elette con voto palese. Al termine del dibattito, se richiesto, dalle/dai presentatrici/ori dei Documenti Nazionali possono effettuare una replica di 5 minuti. L’ordine delle repliche è inverso a quello delle presentazioni. Successivamente al voto dei documenti nazionali sono eletti le/i delegate/i alla conferenza federale. (15) Conferenza di Federazione Sono invitate/i, se non elette/i delegate/i dalle conferenze di cirolo, le/i segretarie/i della federazione, le/i consigliere/i comunali, provinciali, regionali, le/i parlamentari comuniste/i elette/i nel territorio, nonché i componenti del Coordinamento federale uscente. 38 Il coordinamento GC uscente provvede ad invitare ai lavori della Conferenza di Federazione i soggetti di movimento, i rappresentanti delle istituzioni, delle organizzazioni giovanili e di tutte le associazioni, organizzazioni democratiche presenti sul territorio della federazione. Alla Conferenza partecipa una/un compagna/o designata/o dalla Commissione Nazionale per la Conferenza. Tale compagna/o fa parte della Presidenza del Conferenza, può essere delegata/o al Congresso Nazionale solo se la Federazione ha diritto ad almeno quattro delegate/i. (16) La Presidenza della Conferenza è eletta su proposta del Coordinamento Federale uscente, tenendo conto dei riusalti delle conferenze di circolo e zona. Con l’elezione della presidenza dalla Conferenza il Coordinamento Federale GC e la Commissione Federale per la Conferenza (ove prevista) decadono avendo esaurito i propri compiti. La Conferenza di Federazione è introdotta da una relazione del Coordinatore uscente, o in mancanza da un compagno precedentemente indicato dalla Commissione Federale per la Conferenza di concerto con la Commissione Nazionale, che illustra i temi del Conferenza ed espone un bilancio dell’attività svolta. Al termine la Presidenza propone la nomina delle Commissioni - Verifica Poteri, Politica, Elettorale - Le modalità della loro composizione sono analoghe a quelle previste per le Commissioni delle conferenze di circolo. (23) All’apertura si procede ad eleggere la Presidenza della Conferenza su proposta dell’esecutivo nazionale uscente, tenendo in considerazione il risultato congressuale, e gli organismi dirigenti nazionali decadono avendo esaurito i propri compiti. La Conferenza è introdotta da una relazione del Coordinatore Nazionale GC che illustra i temi politici ed organizzativi della Conferenza ed il bilancio dell’attività svolta. Al termine, la Presidenza propone la nomina delle Commissioni - Verifica Poteri, Politica, Elettorale, Regolamento - determina i tempi e le modalità del dibattito, delle operazioni di voto dei documenti, dell’elezione degli organismi dirigenti. In seguito alle conclusioni del dibattito si procede su proposta della commissione elettorale alla votazione del numero di componenti il CN, quindi alla sua elezione, secondo le norme indicate per l’elezione degli organismi dirigenti (24) Validità del Regolamento Il presente Regolamento per la Conferenza, con le integrazioni demandante alle Federazioni, ha validità per tutte le operazioni ed in tutte le istanze della Conferenza. (25) Validità delle Conferenze (17) Nelle federazioni con oltre 250 iscritte/i GC: dopo l’introduzione del coordinatore uscente si apre il dibattito, le conclusioni del Conferenza saranno tenute dalla/dal compagna/o indicata/o dalla Commissione Nazionale per la Conferenza. (18) Nelle federazioni con meno di 250 iscritte/i GC: dopo l’introduzione del coordinatore uscente che non abbia presentato documento nazionale, interviene la/il presentatrice/ore di un Documento Nazionale (indicato dalla Commissione Nazionale), la relazione sarà di 10 minuti, altrimenti la relazione sarà al massimo di 20 minuti. Subito dopo vengono illustrati gli altri Documenti Nazionali (al massimo 10 minuti) nell’ordine nazionale di presentazione, da parte di sostenitrici/ori designate/i, che qualora non fossero iscritte/i alla Federazione lo possono farlo solo se indicate/i con comunicazione scritta dalla Commissione Nazionale per la Conferenza. Al termine del dibattito, se richiesto, dalle/dai presentatrici/ori dei Documenti Nazionali possono effettuare una replica di 5 minuti. L’ordine delle repliche è inverso a quello delle presentazioni. L’intervento conclusivo sarà tenuto dalla/dal compagna/o indicata/o dalla Commissione Nazionale per la Conferenza (5 minuti). La validità delile Conferenze è quella certificata dalla Commissione Verifica Poteri, sancita dal voto del Conferenza. Il Verbale della Conferenza con allegato l’elenco delle/degli iscritte/i, il Documento della Commissione Verifica Poteri, i contributi emendativi ai Documenti Nazionali, per le modifiche dello Statuto deve essere inviato, al termine della Conferenza, ai livelli congressuali superiori. Disposizione Transitoria Al termine della Conferenza si riunisce il CN per l’elezione del Coordinatore Nazionale Gc ed entro due mesi è riconvocato per l’elezione dell’esecutivo nazionale GC su proposta del coordinatore nazionale. Entro 3 mesi dallo svolgimento della Conferenza Nazionale, i delegati di ogni federazione sono riconvocati per l’elezione del Coordinamento Regionale GC, che è eletto sulla base delle proporzioni ottenute da ciascun documento a livello regionale, con le modalità previste dal Regolamento nazionale GC. per info e chiarimenti sul regolamento, utilizzare i seguenti contatti: (19) Voto dei documenti nazionali [email protected] La votazione dei documenti nazionali avviene con doppio appello nominale consecutivo all’orario prefissato nella 06/44182243 – 06/44182356 III Conferenza nazionale Giovani Comunisti Bari, 7-10 settembre 2006 Giovani Comunisti/e – Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea