III Conferenza nazionale
Giovani Comunisti
Bari, 7-10 settembre 2006
Giovani Comunisti/e – Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea
RIGENERAZIONI
G*C: l’autonomia di una generazione
che diserta, disobbedisce, ama!
Firmatari (in neretto i membri del coordinamento nazionale GC):
Miche De Palma (Esecutivo nazionale), Sergio Boccadutri (Esecutivo nazionale), Federica Miralto (Esecutivo nazionale), Federico
Tomasello (Esecutivo nazionale), Cristina Tajani (coord. naz.), Domenico Ragazzino (coord. naz.), Mira de Lucia (coord. naz.), Elisabetta
Piccolotti (coord. naz.), Valentina Galuzzi (coord. naz.), Eleonora Forenza (coord. naz.), Francesca Ruocco (coord. naz.), Gianluca
Schiavon (coord. naz.), Danilo Barreca (coord. naz.), Nino De Gaetano (coord. naz.), Andrea Iori (coordinatore reg. Liguria), Luca
Ceccarelli (coordinatore reg. Umbria), Sergio Lima (coordinatore reg. Sicilia), Roberto Pietrobon (coordinatore reg. Piemonte), Kekko
Chiodelli (coordinatore reg. Lombardia), Daniele Licheri (coordinatore reg. Abruzzo), Francesca Foti (coordinatrice reg. Toscana),
Salvatore Midolo (coordinatore prov. Vercelli), Giacone Luca (coordinatore prov. Biella), Serafino Sorace (coordinatore prov. Asti), Manuel
Chiarlo (coordinatore prov. Genova), Alessandro Bresmes (coordinatore prov. Bergamo), Silvia Martorana (coordinatrice prov. Milano),
Fabio Zignani (coordinatore prov. Novara), Cristina Palmieri (coordinatrice prov. Sondrio), Giordano Piovesan (coordinatore prov. Padova),
Marco Scolese (coordinatore prov. Treviso), Lisa Gerusa (coordinatrice prov. Venezia), Claudio Pintus (coordinatore prov. Cesena),
Antonio Tomeo (coordinatore prov. Modena), Fabrizio Amici (coordinatore prov. Ravenna), Giacomo Triggiano (coordinatore prov.
Firenze), Ferdinando Romano (coordinatore prov. Arezzo), Michele Fabbianelli (coordinatore prov. Grosseto), Emanuele Baronti (coordinatore prov. Lucca), Dario Nesi (coordinatore prov. Prato), Alessandro Francesconi (coordinatore prov. Siena), Amedeo Babusci (coordinatore prov. Perugia), Valerio Rossi (coordinatore prov. Terni), Attila Trasciatti (coordinatore prov. Avezzano), Roberto Nardone (coordinatore prov. Chieti), Corrado Di sante (coordinatore prov. Pescara), Francesco Pennella (coordinatore prov. Avellino), Alessandro Liverini
(coordinatore prov. Benevento), Peppe Roseto (coordinatore prov. Caserta), Arnaldo Maurino (coordinatore prov. Napoli), Gaetano
Cataldo (coordinatore prov. Bari), Antonio Delli Fiori (coordinatore prov. Brindisi), Ivana Vita (coordinatrice prov. Potenza), Raffaele
Amato (coordinatore prov. Matera), Celeste Costantino (coordinatrice prov. Reggio Calabria), Erasmo Palazzotto (coordinatore prov.
Palermo), Montalto Pierpaolo (coordinatore prov. Catania), Denaro Sebastiano (coordinatore prov. Siracusa), Giuseppe Accardo (coordinatore prov. Trapani), Niccolò Pecorini (segretario regionale PRC Toscana), Simone Travaglino (segretario provinciale PRC Verbania),
Seracusa Carmelo (segretario provinciale PRC Udine), Bertoni Romina (segretario provinciale PRC Modena), Danti Dario (segretario
provinciale PRC Pisa), Ferretti Simone (segretario provinciale PRC Grosseto), Gennaro Imbriano (segretario provinciale PRC Avellino),
Serafini Gianluca (segretario provinciale PRC Benevento), De Vito Vinicio (segretario provinciale PRC Lecce), Assennato Marco (segretario provinciale PRC Palermo), Piras Michele (segretario provinciale PRC Nuoro), Eleonora Casula (segretaria provinciale PRC
Oristano), Gabriele Berni (Segretario federazione PRC Siena), Maurizio De Santis (Segretario Federazione PRC Firenze), Andrea Sacconi
(Presidente associazione IQBAL Firenze), Leonardo Pieri (Consigliere comunale Firenze), Giulia Dati (Presidente associazione
Fahrenheit 451 – Viareggio) , Ilaria Maffei (Consigliere comune di Montemurlo Prato), Fausto Bagattini (Assessore politiche giovanili
comune di Montemurlo Prato), Paolo Maccani (segretario cittadino PRC Trento), Elisa Panici (coordinamento prov. GC Castelli), Stefano
Piccolomini (segreteria Viareggio), Laura Jacopini (direzione regionale toscana PRC), Nicol Marioni (GC Viareggio), Carlotta Orselli (GC
Viareggio), Simone Stefan (capogruppo PRC municipalità del Lido e Pellestrina – Venezia), Michele Piras (comitato politico Federale
Cagliari), Fabio Dura (operaio dirigente CGIL Asti), Giuliano Ramazzotti (tesoriere provinciale PRC Torino), Andrea Polacchi (segretario
circolo di San Donato Torino), Luca Cassano (consigliere circoscrizionale Mirafiori Torino), Aniello Fierro (coordinatore cittadino GC
Cuneo) , Marco Albeltaro (Comitato Regionale Piemonte, ass. Pol. Sociali Comunità Montana prealpi Biellesi), Nicola Favaro (Coord.
Regionale GC Piemonte, CPF Torino), David Valderrama (Comitato Regionale Piemonte, Coord. GC Piemonte, assessore lavoro e pol.
Giovanili Savigliano Cuneo) Pastore Andrea (Segr. PRC Albanella, CPF Salerno), Trapani Giuseppe (Coordinamento Reg. GC, CPF
Salerno), Vernieri Giuseppe (Segreteria Regionale PRC Campania, Segreteria Provinciale PRC Salerno), Aliberti Fausto (Segr. PRC
Siano, CPF Salerno), Aliberti Giovanni (Coordinamento prov. GC Salerno, CPF Salerno), Paldo Valerio (Coordinatore Provinciale GC –
Salerno), Imparato Mariateresa (Coordinatrice Provinciale GC, CPR Campania, CPF Salerno), Petrone Antonio (Coordinamento prov. GC
– Salerno), Del Giorno Egidio (Coordinamento Prov. GC – Salerno), Orlando Eva (Segr. PRC Angri, CPF Salerno), Palumbo Rosa (CPN),
Balzamo Stanislao (Segr. PRC Amalfi, CPF Salerno), Menza Gregorio (Segr. PRC San Gregorio Magno), Perrotta Giovanni
(Coordinamento provinciale GC – Salerno), Cavaliero Vincenzo (segr. PRC Giffoni, CPF Salerno), Tortora Alfonso (CPF Salerno), Giovanni
Maiolo (assessore di Caulonia Reggio Calabria), Gianluca Romeo (coord. GC Reggio Calabria), Marika Cassan (capogruppo PRC consiglio municipale Marghera Venezia), Zaza Antonello (capogruppo cons. PRC Prov. di Bari), Covolo Roberto (ass. Trasparenza e
Partecipazione comune di Terlizzi), Calò Luigi (Ass. politiche giovanili, pace e accoglienza Prov. di Lecce), Belligero Anna (coord. prov.
Bari), Giovinazzo Ciccio (Collettivo Lettere e Filosofia, Bari), Carella Nicola (segreteria Prc Bari), Angelini Andrea (cons. naz. Cnsu),
Paparella Mimmo (cons. com. Terlizzi)
://PARTE I
“Non sono i popoli a dover aver paura dei propri
governi, ma i governi che devono aver paura dei propri popoli”
(V per Vendetta)
Il Governo Berlusconi è sconfitto. A batterlo è stato
il movimento dei movimenti, fatto di sindacati, associazioni, collettivi, una generazione politica che in
questi anni ha opposto all’arroganza del potere il
conflitto e la partecipazione. In cinque anni questo
binomio ha mobilitato milioni di donne e uomini. La
fine del Governo delle destre è quindi anche frutto
dell’incontro tra una domanda di cambiamento e la
nascita dell’Unione. Se Berlusconi non è più alla
guida del paese, il berlusconismo non è ancora sconfitto, anzi esso si è dimostrato ben più forte ed egemonico nella società di quanto noi stessi abbiamo
percepito. Noi, parte della moltitudine di donne e
uomini che ha invaso le strade per manifestare contro le destre, non ci siamo resi conto della potenza
pervasiva del neoliberismo, che ha saputo costruire
intorno a sé un consenso ideologico. Infatti abbiamo
ragione di ritenere che a determinare il consenso al
centro destra non siano state le uscite dell’ex
Presidente del Consiglio, ma il cambiamento della
società italiana dentro i processi di globalizzazione.
Per questo possiamo affermare che se in Italia non si
è determinata, come in Germania, una “grosse koalitione” la causa non sta nel bipolarismo perfetto. I
poteri forti, da Confindustria alle gerarchie
2 ecclesiastiche, hanno esercitato tutta la pressio-
cui pensiamo che non possa esserci per noi un
governo “amico”. E’ tuttavia indubbio che l’interruzione del governo delle destre era una condizione
affinché si aprissero spazi di democrazia sino a ieri
negati: la grande maggioranza degli italiani è contraria alla guerra in Iraq, eppure le nostre truppe sono
ancora lì. Il governo dell’Unione non ha ricevuto
una delega in bianco, ma un consenso per impedire
che le politiche neoliberiste e di guerra continuino a
falcidiare i diritti sociali e civili. Per questo pensiamo (e per questo agiremo) che il governo
dell’Unione è una condizione necessaria, ma di certo
non sufficiente, per una iniziativa che apra nella
società spazi di democrazia e giustizia sociale, il
governo come spazio tattico e non strategico. Ci
sono domande nella società che investono direttamente e immediatamente la responsabilità dell’esecutivo. Si può lavorare per un governo partecipato
che incontri i bisogni e i desideri degli “invisibili”, lo
dimostrano alcune esperienze dell’America latina:
dal Venezuela alla Bolivia, dall’Argentina alle comunità ribelli del Chiapas, ciascuna con le proprie specificità ci narra della possibilità di una alternativa
che si contrappone ai diktat del governo Usa. C’è un
desiderio comune tra le popolazioni subalterne
dell’America latina e quelle del nostro Paese: accedere a una possibilità di cambiamento.
Il cambiamento è possibile solo se si rimuovono una
dopo l’altra le leggi che ostacolano il cammino verso
una vera riforma. E’ questa la prima prova che si
porrà nell’immediato, e noi Giovani Comunist* dobbiamo accettare questa sfida rimanendo autonomi
dal governo e dal partito. Questa autonomia non
dovrà essere una rivendicazione di bandiera, ma il
nostro modo di organizzare una risposta convincente alle domande di cambiamento e partecipazione.
Per dirla in maniera semplice il nostro terreno di
azione non è il governo ma la società. Bisogna però
fare attenzione, perché la subalternità al governo
può realizzarsi sia diventando il suo ammortizzatore sociale, la sua grancassa, ma anche essendo
aprioristicamente contrari. Appiattire le nostre scelte politiche future su una di queste due modalità ci
confinerebbe nel politicismo. I nostri riferimenti, al
contrario, devono continuare ad essere il movimento, le associazioni, i sindacati e le sensibilità con cui
abbiamo camminato insieme. Conflitto e consenso
continuano ad essere le nostre direttrici. Se una scelta del governo è sbagliata non ci interessa quale sia
il segno di quel governo: le\i G.C. sono col movimento, con la società che si oppone a quella scelta.
L’autonomia della nostra organizzazione risiede
nella “connessione sentimentale” e sociale con la
nostra generazione.
ne possibile per impedire l’alternanza, passaggio
necessario, qui ed ora, per l’alternativa di società.
Essi hanno infatti lavorato dal giorno successivo le
elezioni per determinare una convergenza al centro
che è stata impedita da un vincolo sociale esercitato
dal movimento dei movimenti e dalla presenza (non
isolata né di testimonianza) nella sfera della politica
del Partito della Rifondazione Comunista. Questo
vincolo sociale è nato nelle strade di Genova nel
2001, e la contestazione del G8 ne è stato il primo
germoglio.
Guerra alle/agli uman*
Ingovernabili
“contro la guerra dei potenti ora e sempre disobbedienti!”
(manifestazioni contro la guerra 2003/06)
Vincere le elezioni, “andare al Governo” viene ritenuto comunemente l’obiettivo di un partito, la
“presa del potere” come fine. Questa convinzione,
largamente diffusa anche nel centro-sinistra, in questi anni è stata messa in discussione dal nostro partito, tanto più dopo un’analisi della attuale concentrazione del potere. Il potere nella globalizzazione
neoliberista è esercitato spesso da organismi sopranazionali e da multinazionali, che non hanno alcuna legittimazione democratica: Banca Mondiale,
WTO, G8. Questi organismi decidono molto di più
dei governi nazionali a cui viene lasciato il mero
compito di amministrare decisioni imposte. È questa
“amministrazione” che i movimenti hanno sottoposto a dura critica con pratiche di democrazia diretta
a partire dai territori. E’ uno dei motivi di fondo per
“Di fronte alla via del terrore… Viva l’amore militante!!!”
(scritta su un muro di Caracas)
Neoliberismo, guerra e terrorismo sono gli avversari
con cui fare i conti. La povertà si è diffusa nel globo
e anche nelle società Occidentali l’impoverimento
progressivo di larghe parti della popolazione ci consegna un presente incerto e un futuro carico di paura
per la stessa nostra vita. E’ infatti la stessa umanità
ad essere nel mirino delle bombe tecnologiche e
umane. La crisi del neoliberismo ha fatto detonare
ordigni da Oriente a Occidente: lo scontro di civiltà
si presenta come ragione giustificativa della guerra e
del terrorismo. La coppia amico nemico, quest’ultimo da annientare, fa tornare attuale la minaccia ato-
mica. Il confronto tra le potenze mondiali torna a
misurarsi con gli armamenti, dagli Usa all’Iran,
dall’India alla Russia, da Israele alla Cina risorse
sempre maggiori vengono impiegate per l’industria
della “sicurezza preventiva”. Ma l’attacco dell’11 settembre ha svelato una nuova potenza, la jihad globale che si propone come l’altra faccia dell’impero
Usa. Guerra e terrorismo inducono paura, le popolazioni sono costrette a cedere libertà e diritti in cambio di “sicurezza”, così vengono ridotti gli spazi di
democrazia. L’unica alternativa è il movimento pacifista globale. Il disarmo è l’unica risposta possibile
alla diffusione di una logica militare che arruola le
popolazioni nello scontro tra il Bene e il Male. Il ritiro delle truppe dall’Iraq, la fuoriuscita dalla tragedia
afgana, il rispetto delle risoluzioni dell’Onu per la
Palestina, l’intervento diplomatico internazionale
nel Caucaso come nelle guerre che insanguinano
l’Africa sono atti di civiltà. Il movimento pacifista ha
ribadito nel Forum Sociale di Atene la necessità di
battersi per la fine delle occupazioni e per il disarmo.
Nel nostro Paese l’abolizione della leva militare e il
passaggio all’esercito professionale ha di fatto imposto la leva obbligatoria per le giovani e i giovani che
vivono sulla soglia di povertà, come già è accaduto
negli Usa. Noi abbiamo deciso di disertare, disobbedire, resistere alla guerra globale attraverso azioni
dirette non violente: il boicottaggio delle merci e
delle banche armate, il “trainstopping”, l’interposizione, come abbiamo fatto in Palestina per bloccare
carri armati, la cooperazione e la diplomazia dal
basso, come ci racconta la nostra esperienza in
Chiapas. Esercitare il diritto di resistenza qui e ora
significa mettersi in gioco e non esultare per un elicottero statunitense abbattuto. Non decidiamo noi la
legittimità di un popolo a resistere all’occupazione,
questo è sacrosanto, tanto che esso è sancito nel
trattato di Ginevra, ma dobbiamo volere sempre la
salvaguardia della vita dei civili.
Nuova democrazia:
conflitto e
partecipazione.
locamento. Tutto ciò insieme alla riduzione del trasferimento di risorse dallo Stato alle regioni che
comporta il permanere in una condizione di povertà
per le aree del sud. L’unico antidoto alla crisi della
democrazia è la partecipazione, rimettere al centro
le assemblee elettive, dal livello locale sino al
Parlamento europeo, affinché si riduca la distanza
tra “il Paese reale ed il Paese istituzionale”. Il diritto di voto per le migranti e i migranti, il bilancio partecipato, le proposte di legge d’iniziativa popolare
sono alcuni strumenti di partecipazione diretta da
praticare e per cui batterci.
L’altra Europa
La nascita di questa Unione Europea mostra tutti i
difetti ed i limiti delle burocrazie, delle tecnocrazie
che sono gli attori di una nozione dirigista ed antidemocratica di società. Il processo costituente è
stato attuato contro i popoli dell’Unione Europea,
così come prova la sconfitta del Trattato nel referendum francese. Il problema principale è l’inesistente
coinvolgimento dei cittadini alla scrittura della
Costituzione europea e l’esclusiva partecipazione
dei governi alla stesura. Il mancato consenso e partecipazione delle popolazioni è giunto sino al punto
di estromettere gli stessi cittadini anche dalla consultazione sui principi generali che avrebbero dovuto
regolare questa carta costituzionale, come conferma
la genesi della cosiddetta ”carta dei diritti” di Nizza.
Dalle manifestazioni di Nizza ad oggi ci battiamo, e
continueremo a farlo, contro un’Europa a diverse
velocità, per una redistribuzione del reddito e delle
ricchezze e contro il modello della globalizzazione
capitalistica, per l’estensione di diritti e garanzie
ai/alle cittadin* ed ai/alle migranti in Europa, e contro i processi di delocalizzazione e di sfruttamento.
Tutti questi diritti non possono poi prescindere dal
bisogno ineliminabile di pace, è per questo motivo
che siamo contro l’esercito europeo.
Organizzazione,
un ritorno al futuro
“la sinistra propone di rendere uguali il figlio del
professionista e quello dell’operaio”
(S. Berlusconi, 2006)
“.. Del resto, mia cara, di che si stupisce?/ anche
l’operaio vuole il figlio dottore/ e pensi che ambiente che può venir fuori:/ non c’è più morale, contessa…”
(P. Pietrangeli, 1966)
L’apertura della fase di guerra globale permanente,
l’utilizzo della paura e del terrore come strumenti di
gestione e riproduzione del potere, il predominio dei
mercati internazionali sugli stati segnano la crisi
verticale delle democrazie moderne. In questo quadro è necessario rilanciare la centralità strategica di
una nuova democrazia fondata sulla partecipazione,
oltre la delega.
In Italia lo svuotamento delle assemblee rappresentative a favore degli esecutivi, la personalizzazione
della politica sul modello presidenzialista, la riorganizzazione dei poteri amministrativi ed esecutivi sul
modello federalista, mettono in discussione la
Costituzione nata dalla Resistenza. Il corollario a
questa riorganizzazione autoritaria dello Stato è la
cosiddetta devolution che dobbiamo bloccare col
referendum del 25/26 giugno. La devolution permette la riduzione e lo smembramento dei principali
diritti sociali: la mobilità, la sanità, l’istruzione, la
formazione professionale e i meccanismi di garanzia
interni al mondo del lavoro, come il sistema del col-
La nostra è la prima generazione politica del terzo
millennio. Siamo la generazione di Genova 2001 non
per nostalgia ma per formazione: quest’esperienza
ha costruito il senso di un’appartenenza politico-culturale anche per quell* che lì non c’erano.
Conosciamo infatti il potere dell’evento simbolico,
nella società globale: l’11 settembre 2001 e con esso
l’inizio della “guerra globale permanente”. Leggere
questi passaggi con schemi classici per tant* di noi
è semplicemente impensabile; come per noi è materialmente impossibile pensare alla vita e al lavoro in
un tempo in cui la precarietà ha cambiato la percezione del tempo e dello spazio. Prima delle giornate
di Genova eravamo la “generazione X”, indefinibili e
invisibili: solo una fascia di mercato a cui imporre
nuovi stili di consumo.
Essere Giovani Comunist* prima di Genova poteva
significare, nella ipotesi più generosa, essere figli, di
una storia senza futuro. La scelta di far parte del
movimento dei e delle disobbedienti ha riconnesso
la voglia di cambiare il mondo con l’organizzazione
politica. In questi anni abbiamo imparato che la
politica è prima di tutto ricostruzione di spazi di
socialità tra divers*, e che l’agire collettivo, plurale,
orizzontale, aperto ma allo stesso tempo capace di
azione, è la sfida necessaria per costruire una nuova
organizzazione delle/dei Giovani Comunist*. È per
questo che non c’è stata nessuna vertenza, conflitto,
movimento a cui non abbiamo partecipato, in que-
ste esperienze ci siamo contaminati con culture, storie, generazioni diverse dalle nostre. In particolare
con l’esperienza delle/dei disobbedienti si è posto
per noi il tema dell’identità, dell’appartenenza: solo
allora abbiamo compreso che la nostra si definiva
come una comunità aperta e in quel percorso abbiamo capito che l’identità è un processo, ma anche la
memoria di una sfida che ha mosso uomini e donne
in tutto il mondo. E’ per questo che non abbiamo
mai pensato di sostituire Che Guevara con Marcos,
ma che attraverso di essi possiamo guardare negli
occhi tutt* i/le subaltern* della terra e con loro condividere la parola “rivoluzione”. E’ per questo che
abbiamo sentito come nostri fratelli e nostre sorelle
quelle e quei migranti con cui abbiamo provato a
distruggere le reti dei CPT. E’ per questo che abbiamo sentito come nostri compagni e nostre compagne
le/gli autoferrotranvieri di Milano e le/gli operaie/i
di Melfi. E’ per questo che abbiamo sentito anche
nostra l’aria, la terra e il cielo degli abitanti della Val
di Susa come di Scanzano e con loro siamo diventati allo stesso tempo come gli indigeni del Chiapas,
come il popolo Palestinese. La nostra è una nuova
storia di resistenza e liberazione, non scendiamo
come i partigiani dalle montagne ma attraversiamo
le strade desolate delle nostre metropoli. In queste
strade abbiamo portato con orgoglio la libertà dei
nostri corpi, e siamo diventati tutt* gay, lesbiche,
bisessuali e transgender. Sarà pur vero che molte
cose abbiamo sbagliato, sarà pur vero che spesso ci
è mancato il coraggio di innovare fino in fondo la
nostra organizzazione ma possiamo dire che i/le
Giovani Comunist* in questi anni hanno costruito
un pezzo del loro futuro.
Rigenerazioni, il futuro
comincia adesso
Non ci basta sapere che gli iscritti e le iscritte alle/ai
Giovani Comunist* dall’ultima Con-ferenza sono
aumentati di 4000 nuovi volti, che circa il 13% dell’elettorato giovanile ha votato il Prc, che molt* giovani compagn* dirigono il Partito a diversi livelli e
che abbiamo innovato molto della cultura e delle
pratiche politiche del Prc. Abbiamo fatto della sperimentazione il riferimento delle nostre scelte: spazi
sociali occupati, rete di collettivi studenteschi, librerie, progetti di cooperazione dal basso, associazioni
che ottengono finanziamenti locali ed europei.
Sappiamo che molti sono ancora i limiti e le difficoltà che viviamo: nel nord si concentra la maggior
parte degli spazi sociali occupati, ma a questa sperimentazione straordinaria non corrisponde una crescita dell’organizzazione che soffre limiti fortissimi
nelle città. Siamo ancora un’organizzazione incapace di accogliere le migranti e i migranti, del resto
scontiamo ancora una verticalità che non riesce a
valorizzare a pieno le esperienze territoriali.
Proponiamo dunque di aprire un percorso di riflessione e sperimentazione, che avviamo con la conferenza ma che ha bisogno di una consensualità tra
tutte e tutti, anche attraverso una contaminazione
interna alla nostra organizzazione tra le diverse culture presenti al suo stesso interno, perché l’obiettivo
di rafforzarci deve essere sentito in modo deve rimanere orizzonte comune per tutte e tutti noi.
L’innovazione deve partire dall’esecutivo nazionale
con la partecipazione di compagn* che lavorano nei
territori per rompere la distanza tra la “linea politica” e le pratiche, fino al coordinatore nazionale. E
definire così le figure di due portavoce dell’organizzazione, una compagna ed un compagno, un’innovazione che intreccia la critica al leaderismo del
movimento con le politiche della differenza di genere. E allo stesso tempo dobbiamo valorizzare la
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formazione e l’autoformazione, mettendo sotto
inchiesta la società e i territori.
Anche il tesseramento è un primo metro di verifica
di questo lavoro, di certo non può essere l’unico, ma
neanche diventare un elemento accessorio. La cura
del tesseramento va intesa non in senso burocratico,
al contrario come cura delle relazioni politiche e
della partecipazione delle compagne e dei compagni
all’iniziativa politica delle/dei GC, quindi anche
come “inchiesta”.
Infine proprio nell’ottica dell’autoformazione è
importante promuovere, quanto più è possibile, l’assemblea degli iscritti, per verificare il lavoro svolto e
porre le basi per il lavoro futuro. Dobbiamo utilizzare la potenzialità delle innovazioni che abbiamo proposto all’art. 22 dello Statuto del partito, modificando l’organizzazione laddove è più utile costruire
nuove connessioni organizzative che pure straripano
i confini delle federazioni.
I nostri spazi pubblici,
liberi, occupati
Genova, Massa Carrara, Venezia, Ravenna, Rho e
molte altre sono le città in cui i/le Giovani Comunist*
hanno dato vita e partecipato ad esperienze di occupazione, liberazione, riappropriazione di spazi sociali.
Esse sono solo alcune delle esperienze più significative di innovazione e trasformazione della nostra cultura e agire politico. A partire da questi luoghi abbiamo
sviluppato una riflessione su come far sì che essi non
diventino dei ghetti, isole felici dentro una realtà
immutabile e separata: abbiamo cercato di trasformarli in laboratori, in spazi pubblici aperti all’attraversamento delle più varie esperienze culturali, politiche,
artistiche; abbiamo insomma provato ad abitare e
interpretare la seconda generazione dei centri sociali,
nuova e diversa rispetto a quella degli anni ’90.
La scelta di tenere la nostra assemblea nazionale nell’aprile 2004 al laboratorio Buridda di Genova voleva
dimostrare con forza l’importanza dell’investimento
sulla liberazione degli spazi, una sfida che non riguarda solo le occupazioni, ma anche la possibilità di rendere i nostri circoli, le federazioni (come l’esperienza
del Capannone di Grosseto) spazi pubblici, in cui far
vivere agenzie per i precari, i migranti e il diritto alla
casa. Pensiamo che questo punto riguardi più di ogni
altro il compito decisivo che interroga la nostra generazione e il suo rapporto con la politica perché abbiamo imparato che la qualità della comunità che si
costruisce non è meno importante del progetto politico, che altrimenti rischia di rimanere enunciato, formula astratta.
Vogliamo valorizzare queste esperienze, ma pensare
ad un percorso significa anche saperne leggere i limiti, e sottoporlo a critica. E’ infatti necessario riconoscere che gli spazi che liberiamo e ci riprendiamo devono
essere considerati come punti di partenza e giammai
approdi definitivi; la conquista di luoghi nei quali
costruire politica e relazioni oggi acquista infatti la sua
centralità di fronte alla privazione di spazi pubblici. E’
altrettanto vero che non siamo ancora riusciti a trovare una modalità che trasformi queste sperimentazioni
in ricchezza condivisa da tutta l’organizzazione, senza
anzi che la loro forza politica ne risulti ridimensionata. E’ accaduto che compagn* che avevano deciso di
sperimentarsi sul quel terreno, si siano a poco a poco
ridimensionati su una dimensione tutta locale, trascurando proprio una delle maggiori potenzialità che
intrinsecamente abbiamo, quella di essere un’organizzazione diffusa sul territorio, o in altri casi peggiori si
siano allontanati definitivamente dai/dalle G.C. Ma
sarebbe miope, o strumentale, guardare solo a questi
limiti per ridimensionare l’importanza della sperimentazione. Proponiamo allora la costruzione di uno o più
momenti di riflessione seminariale su questo
4 tema, che siano di tutta l’organizzazione, e non
solo degli/delle “occupanti”.
In viaggio per costruire
un altro mondo
“non siamo venuti a dirti che fare, non siamo venuti a guidarti da nessuna parte; veniamo a chiederti
umilmente, rispettosamente, che ci aiuti”
(Subcomandante Marcos)
In questi anni abbiamo partecipato a tutti i Forum
Sociali Europei e Mondiali; lì in particolare è maturata la scelta di passare dalle “relazioni diplomatiche” classiche alla solidarietà attiva con i movimenti e le organizzazioni che abbiamo incontrato nel
mondo. E’ così che in misura sempre crescente non
i dirigenti ma centinaia di giovani comunist* hanno
attraversato il mondo praticando la non-violenza
come nostra modalità di azione diretta nei conflitti
per il riscatto dei popoli oppressi.
A partire dalla partecipazione al Festival Mondiale
della Gioventù di Caracas che ci ha permesso di
comprendere meglio straordinaria esperienza della
rivoluzione Bolivariana. In Palestina, dove con le
associazioni Kufia e Tayush pratichiamo l’interposizione e la contestazione del muro di “difesa” eretto
da Israele, oltre a cooperare in un progetto di resistenza nonviolenta a Tulkarem, mentre a Betlemme
stiamo costruendo un mediacenter per i giovani dei
campi profughi. In Chiapas, dove dopo la partecipazione alla marcia della dignità indigena abbiamo
promosso patti di solidarietà tra enti locali e municipi autonomi ribelli e oggi siamo tra gli aderenti alla
“Otra Campana” che culminerà nel prossimo incontro intergalctico a cui parteciperemo. In Kurdistan
come nel deserto Algerino dove siamo stati osservatori internazionali e abbiamo manifestato per l’autodeterminazione del popolo Saharawi e Kurdo. E,
senza retorica, siamo stati nei campi di lavoro a fianco del popolo cubano, sentendoci partecipi della
loro tenace e quotidiana lotta contro l’aggressione
statunitense.
E’ un altro modo di fare internazionalismo che ci ha
cambiato e ci ha formato. E’ la nostra proposta per
una generazione che può mettersi in mezzo fra
l’umanità e la violenza, per la quale oltre l’indignazione esiste la possibilità di un intervento concreto.
Vogliamo incrementare il lavoro di cooperazione
decentrata e dal basso, a partire dal coinvolgimento
del partito e dei nostri livelli istutuzionali e di rappresentanza. Per farlo cominceremo da una mappatura degli amministratori che possono sostenere e
partecipare alle iniziative di cooperazione; ogni progetto vedrà inoltre presentazioni coordinate e itineranti per informare e sensibilizzare sull’altro mondo
che non ci raccontano, quello della speranza e del
sogno, della lotta per la felicità.
Fare associazionismo
per costruire reti
Il movimento dei movimenti si è sempre nascosto al
gioco delle identità per muoversi nomade e fluido fra
le dimensioni della nostra società complessa. Perciò
oltre ai conflitti sociali e di comunità esso si è rideclinato anche in una miriade di micropercorsi tematici, di scopo, sociali, culturali che spesso (sbagliando) abbiamo difficoltà a riconoscere come immediatamente politici.
È arrivato il momento di connetterci con queste
esperienze. Per questo vogliamo costruire una rete
stabile di associazioni, gruppi e collettivi che pone al
centro dell’iniziativa politica nuove pratiche di cittadinanza attiva. Questo percorso può rappresentare
un’occasione di crescita collettiva, di innovazione
della politica, di diverso coinvolgimento soprattutto,
ma non solo, per le giovani generazioni che troppo
spesso guardano alla politica con diffidenza.
Un percorso nazionale ed europeo che traduce in
pratica quotidiana e in luoghi reali l’esperienza di
ciò che già da tempo viviamo e facciamo in molti
territori: decine di associazioni culturali (da
Movimentazioni di Pescara a Samarcanda di Bari),
librerie di comunità con la collaborazione di
Interno4 (Roma, Viareggio, Firenze), esperienze di
radio di movimento (l’ultima è progettoRadioX di
Bergamo), bandi europei per realizzare brochure,
cineforum, corsi di formazione, riviste di approfondimento e riflessione (‘Lavori in Movimento’ a
Napoli, ‘Contest’ a Milano, ‘Caracoles’ a Pescara).
A partire da questo bagaglio di esperienze vogliamo costruire una rete per mettere in comunicazione questi percorsi, ci piacerebbe chiamarla “Pixel”
perché a partire dai singoli frammenti si arriva a
costruire l’immagine d’insieme. Una rete di reti che
ambisce ad avere un respiro europeo per lavorare
su progetti tematici e valorizzare le esperienze collettive e di società che costruiamo giorno per giorno sui territori.
Sinistra Europea
L’apertura di un nuovo spazio politico e sociale è il
cammino intrapreso nella costituzione della Sinistra
Europea. La Sinistra Europea è la condivisione con
tutte le soggettività con cui abbiamo costruito il movimento dei movimenti di uno spazio comune per rompere la separatezza tra sociale e politico, salvaguardando l’autonomia e la pluralità delle soggettività che
partecipano al percorso. Nella nostra autonomia
abbiamo deciso di essere uno dei soggetti promotori
della Sinistra Europea in Italia. La radicalità, l’orizzontalità, la consensualità sono i contributi generazionali che proveremo a condividere con tutte le soggettività che hanno deciso di prender parte al processo costituente. Infatti, nella consultazione per la formazione delle nostre liste non abbiamo chiesto una
candidatura per le\i Gc, ma la rappresentazione del
nostro percorso di questi anni. La costituzione della
Sinistra Europea deve essere partecipata e consensuale, per superare le difficoltà che la forma partito ha
imposto fino ad oggi all’agire collettivo. In un partito
il ricorso al voto per la presa di decisione è l’unica
forma di democrazia: dobbiamo trovare nuove forme.
La consensualità è la pratica di decisione che vogliamo adottare. Dobbiamo mettere a valore la nostra rete
di relazioni che abbiamo accumulato in questi anni,
attraverso un percorso di assemblee territoriali e
tematiche per la costituente della S.E.
://PARTE II
CONTRIBUTI TEMATICI
Un altro genere
di politica
Il futuro è già qui. Almeno per chi si guarda introrno con un paio di occhi giovani. Immersi in un vero
e proprio universo tecnologico lo schema classico
dei ruoli di coppia, ad esempio nel matrimonio e
nella procreazione, è per noi ormai insufficiente.
Costretti tra l’autodeterminazione e la contraddizione delle politiche conservatrici che ci vogliono precari nel lavoro e rigidi nelle relazioni familiari, i/le
giovani vogliono disporre liberamente del proprio
corpo e della propria vita. E’ così per i collettivi di
giovani donne con le quali abbiamo costruito la
campagna referendaria per la procreazione assistita,
per le tante che a Milano hanno sfilato per difendere la 194, con tutt* coloro che, insieme a noi, hanno
vissuto le mobilitazione sui Pacs.
Tutte queste riflessioni, nate dalla partecipazione ai
movimenti, hanno permesso alle Giovani Comuniste,
ma anche all’organizzazione tutta, di aprire un percorso di genere che guarda alla complessità dei problemi che investono la dimensione della sessualità e
del corpo. Molto c’è ancora da fare e da dire. Una
ricerca ha bisogno di sperimentazioni, ripensamenti,
scomesse e non soltanto di certezze.
Ci piacerebbe allora cominciare dal racconto collettivo della nostra generazione, nata dopo gli anni
dei referendum sul divorzio e sull’aborto, che non
ha ancora contribuito alla costruzione politica di
un punto di vista di genere parziale e per questo
dirompente.
Eppure oggi è rara l’esigenza di una separatezza
femminile, politica e sociale. Nelle mobilitazioni le
giovani donne attraversano spazi comuni, sempre
pieni di ambiguità, a partire da processi materiali
come la precarietà, la femminilizzazione del lavoro,
e la consumistica “corsa al glamour”. La liberazione
del corpo femminile sembra così soddisfatta dal
desiderio di essere oggetto di possesso altrui. Nulla
di più di un prodotto omologato. Un precipizio, nella
perdità di senso, che la cultura cattolica si candida a
colmare.
E’ in questo spazio che deve irrompere il conflitto
politico femminile, diventando patrimonio irrinunciabile anche delle giovani donne, troppo spesso
silenziose nel movimento così come nei partiti.
Libertà, corpo, emancipazione, desiderio: tutto torna
ad avere senso se le pratiche di genere trasformano
queste parole in problemi politici, e perciò pubblici,
di tutti e tutte. E’ per questo necessario sfuggire alla
simmetria che vede fare da contraltare alle donne,
nelle organizazzioni politiche classiche, un maschilismo incoffessabile, che riconosce lo strumento
delle quote come unica possibilità, perché data sul
piano delle forme, di propria autolimitazione.
Pensare che il centro possa essere il problema della
rappresentanza, pur necessaria, rischia infatti di
condurci in un vicolo cieco e di cristallizare il conflitto di genere in una forma neutralizzata, irrilevante sul piano dell’innovazione delle forme di partecipazione alla politica.
A partire da queste considerazioni riteniamo irrinuciabile la convocazione, in tempi brevi di un’assemblea nazionale delle Giovani Comuniste per aprire
uno spazio di riflessione, narrazione, ricerca per
affrontare questi problemi. Uno spazio in primo
luogo orizzontale, aperto, capace di intercettare
energie ed eleaborazioni, per immaginare che possiamo cambiare la politica e con essa il mondo.
Generazione
in equilibrio precario
Quando parliamo di precarietà non ci riferiamo semplicemente a diritti negati sul terreno del lavoro e
alla tipologia contrattuale, ma ad una condizione
generale della nostra generazione. Essa si traduce
nell’impossibilità di godere effettivi diritti di cittadinanza, di accedere a beni e servizi fondamentali,
materiali e immateriali. Essa attraversa la dimensione dell’abitare, la mobilità e i costi dei trasporti, la
qualità della formazione, la possibilità di accesso
alle informazioni, alle conoscenze, alla cultura, fino
ad abbracciare l’incertezza di un modello di sviluppo in crisi e la promessa di un avvenire di guerra,
di instabilità, di paura.
Precarietà insomma come l’inaccettabile condizione
di vita che soffoca oggi la nostra generazione. Una
condizione che eccede la dimensione semplicemente economica per diventare esistenziale: “precario” è
anzitutto colui che subisce il furto più terribile che
si possa fare ad un/una giovane, il furto del proprio
futuro, della stessa possibilità di immaginare, progettare e costruire la propria vita.
Il riconoscersi in questa descrizione e in questa narrazione della propria condizione soggettiva, ancor
prima che la tipologia di contratto o il piano rivendicativo, ha portato in questi anni migliaia e migliaia
di giovani precari e precarie a partecipare alle manifestazioni dell’EuroMayDay. E lo stesso immaginario
e la stessa voglia di futuro hanno portato in piazza
le giovani generazioni di student* francesi nella più
grande battaglia e la più grande vittoria contro la
precarietà, che non a caso ha avuto il proprio motore nelle nuove generazioni, che sconfiggendo una
prospettiva di precarietà reclama autonomia.
Proprio per la paura e la difficoltà di guardare al
futuro, oggi sono “precari” anche lavoratori e lavoratrici dipendenti con contratto a tempo indeterminato (ad esempio gli autoferrotranvieri o agli aeroportuali), che vivono con ansia l’attesa del domani a
causa della crisi industriale ed economica e del continuo ridimensionamento del welfare locale e nazionale. Le élites economiche e politiche nazionali
hanno infatti fino ad oggi pensato di rispondere alle
trasformazioni del sistema produttivo e alla concorrenza globale solo tagliando costo del lavoro, diritti
e spesa pubblica piuttosto che investire in ricerca,
innovazione e qualità economica, sociale e ambientale. E’ necessario invertire adesso questa tendenza.
E sarà possibile solo continuando, come abbiamo
fatto in questi anni, a costruire - insieme a movimenti sociali, pezzi del mondo sindacale, realtà politiche
- percorsi pubblici di lotta e di riflessione in grado di
elaborare proposte all’altezza del tempo presente,
capaci di imporre l’abolizione ed il superamento
tanto della legge 30 quanto del pacchetto Treu.
Questo percorso passa da una riflessione sulle trasformazioni del lavoro e del sistema produttivo per
interrogare un nuovo possibile welfare e la questione, centrale, del reddito.
E’ dunque necessario partire da un’analisi attenta
della struttura economica e dell’organizzazione del
lavoro nelle cosiddette “economie della conoscenza”
in cui la produzione di ricchezza è spesso basata sull’utilizzo di risorse immateriali (saperi, linguaggi,
comunicazione). Ciò fa sì che oggi anche lavori tradizionali necessitano di ampie capacità di iniziativa,
auto-organizzazione e flessibilità, di qui il nuovo
paradigma che qualcun* ha chiamato “lavoro autonomo di seconda generazione”. Su questo terreno è
necessaria un’azione tesa a trasformare il diritto del
lavoro e il sistema della contrattazione collettiva per
fornire uguali diritti e garanzie tanto ai lavoratori
“dipendenti classici” quanto ai precari che oggi vivono in condizione di abuso e di assenza di diritti,
essendo, di fatto, lavoratori dipendenti anche quando
hanno margini di autonomia decisionale.
Per battere la precarietà non è più sufficiente limitarsi al mercato del lavoro, bisogna ripensare la cittadinanza e i diritti sociali. Un welfare basato su un
modello economico e sociale di tipo fordista (in cui ad
es. gli ammortizzatori sociali sono costruiti solo sulla
figura del lavoratore dipendente) non può più in
alcun modo essere adeguato. E’ necessario dunque
un nuovo modello di welfare, inclusivo, in cui un
ruolo importante riveste un tema su cui in questi anni
abbiamo lavorato con impegno e determinazione: la
rivendicazione di continuità di reddito per i/le precari. E’questa a nostro avviso una battaglia fondamentale in grado di ricomporre e disegnare un percorso di
lotta per soggetti in formazione, lavoratori e lavoratrici frammentat* e invisibili a sfera dei diritti sindacali.
Pensiamo a forme di erogazione di reddito, diretto e
indiretto, sganciate dalla prestazione lavorativa e
legate alla formazione quanto alla cittadinanza (in un
senso nuovo e più ampio del termine) e che permet-
tano l’accesso a beni materiali e immateriali.
Disoccupat*, migranti, donne, student*, tutt* accumunati dall’invisibilità nell’agenda della grande
politica, sono i soggetti protagonisti delle mobilitazioni che in questi anni hanno messo al centro queste questioni, chiedendo continuità di reddito per chi
non ha rapporti di lavoro stabili, così da essere meno
ricattabili dal mercato. Particolarmente preziose
sono le esperienze che negli ultimi mesi hanno vissuto nei territori. In molte regioni, infatti, la discussione intorno a proposte di legge o disegni di legge
sul reddito sociale, come misura di contrasto alla
frammentazione del mercato del lavoro, è all’ordine
del giorno. Dopo la sperimentazione, per molti versi
assai parziale, del “reddito di cittadinanza” in
Campania, dal Friuli fino alla Calabria passando per
il Lazio (in cui si è aperto un tavolo tra assessorati e
movimenti sociali su questo tema) e la Lombardia
(che attende la discussione in Consiglio di una proposta di legge d’iniziativa popolare depositata lo
scorso luglio, v. www.redditolombardia.org) l’istituzione del reddito sociale è oggetto di confronto tra
istituzioni, soggetti politici e movimenti sociali.
Ed è proprio il carattere partecipativo di queste esperienze, cui le/i GC hanno contribuito spesso in
maniera determinante, a renderle significative poiché provano a concretizzare sul piano politico e a
praticare sul piano legislativo, quello che fino a poco
tempo fa era praticato solo su un piano rivendicativo. Ma una rivendicazione richiama ancora questioni ineludibili: ridistribuire i profitti, colpire le rendite, e anche favorire la crescita di “buon lavoro”.
E ora pagate il vostro
debito (formativo)
“Lungo i muri dell’università la curiosità cresce
come un rampicante: le menti giovani bramano
nuove questioni su cui saggiare zanne da latte”
Wittemberg 1519.
(Q, Luther Blisset)
:::Saperi:::
Uno degli elementi più rilevanti dei processi di globalizzazione è l’inedita estensione degli istituti
della proprietà privata a terreni che fino ad ora gli
erano estranei. Se l’era dell’informazione porta tale
nome si può immaginare che ciò sia dovuto anche
alla possibilità di recintare e vendere le informazioni, le conoscenze, i saperi esattamente come si è
fatto con le terre ai tempi delle enclosures. Così se i
saperi divengono immediatamente produttivi ed
appropriabili, si trasformano anche i luoghi in cui
essi vengono prodotti e trasmessi: le scuole ed università diventano apparati dalla forma e dal linguaggio sempre più aziendali e dai contenuti sempre più
tecnici.E si cerca di rendere tali saperi misurabili e
quantificabili: ecco il sistema dei crediti e debiti.
Perciò è necessario portare al centro del nostro
ragionamento la questione della libera circolazione
della conoscenza, perché riguarda una contraddizione fondamentale: il tentativo di mercificazione di
ogni sfera dell’esistente non tiene conto della natura del sapere, bene sociale, naturalmente in conflitto con la proprietà privata perchè non escludibile
all’uso (nel senso che, a differenza delle merci
materiali, l’uso di determinati saperi o informazioni
da parte di qualcuno non ne esclude l’utilizzo da
parte di chiunque altro).
Al centro della nostra azione deve esserci la rivendicazione del principio costituzionale del diritto allo
studio, inteso come possibilità di accesso per tutte e
tutti a ogni livello di istruzione.
5
In questi anni abbiamo imparato a riconoscere
quella per i beni comuni come una battaglia fondamentale, tanto per i movimenti quanto per i/le compagn* che ricoprono ruoli istituzionali; da qui gli
importanti percorsi per l’acqua, l’aria, l’ambiente
ecc. E’ tempo di affermare con forza che tra questi
beni pubblici c’è anche la conoscenza, il sapere, la
cultura.
Questa battaglia per la riappropriazione del sapere
come bene sociale, qualitativo non misurabile né
appropriabile non può che costruire la sua dimensione politica a partire dai luoghi in cui i saperi vengono prodotti, le scuole e le università.
:::Università:::
Ripensare l’idea di formazione è nodo centrale della
possibilità di immaginare una società diversa. La
libera circolazione e socializzazione delle conoscenze, il sapere e la cultura sono le fondamenta della
costruzione di una coscienza critica in grado di
osservare il mondo dalla prospettiva del cambiamento. Oggi invece le università sono permeate da una
logica gerarchica e di classe, che considera “conoscenza” l’acquisizione di informazioni e nozioni tecnicistiche che già nell’immediato domani rischiano
di essere già obsolete. Tecnicismo che è il pane dei
precari, che è privazione di futuro.
E’ impossibile negare che la trasformazione dell’università italiana è speculare a quella avvenuta nel
mondo del lavoro: cambiare lavoro spesso e in fretta, cambiare competenze altrettanto spesso e altrettanto in fretta. Ricomporre la separazione tra mondo
del lavoro e della formazione è stata la formula per
asservire il secondo al primo ed espellere tutto ciò
che nei programmi sembrava meno attinente allo
sbocco professionale immediato. Tutto ciò che era
indispensabile alla figura professionale per non essere precaria a vita ed alla figura sociale per costruire
capacità di elaborazione autonoma.
L’influenza del mercato e dei privati nella scelta dei
programmi attraverso l’erogazione di finanziamenti
è un limite forte alla libertà di insegnamento e al
carattere critico del sapere. La precarizzazione dei
ricercatori e la derubricazione del ruolo dei docenti,
insieme alla diminuzione degli investimenti pubblici
nella ricerca e nell’innovazione hanno sterilizzato la
funzione dell’università pubblica. Nel frattempo le
logiche d’esclusione e le barriere d’accesso -come i
numeri programmati o le tasse proibitive- sono
diventati elementi strutturali del sistema universitario stesso. Le riforme dei percorsi formativi, dal 3+2
alla Y, hanno fortemente abbassato la qualità della
didattica e moltiplicato insensatamente le tipologie
di corso di laurea sempre più specifiche e tecniciste,
con la conseguente diminuzione di spendibilità dei
titoli rilasciati dagli atenei pubblici.
Fondamentale è quindi l’individuazione dei grandi
nodi in cui si intrecciano le battaglie dei ricercatori,
degli studenti e delle varie figure della docenza: una
critica radicale alla struttura della riforma Moratti e
a quella precedente del ministro Zecchino, alla
didattica frontale e nozionistica, all’assenza di partecipazione democratica nella gestione delle risorse e
nella determinazione dei percorsi formativi e di
ricerca, rifiutando i parametri delle leggi di mercato
ed assumendo invece, come criterio fondamentale,
la funzione pubblica, cooperante e sociale del sapere.
Dal 2002 insieme a tanti e tante, da noi differenti,
abbiamo costruito una rete nazionale di collettivi,
laboratori, esperienze di lotta universitarie. Grazie
anche alle sue elaborazioni sono nati negli atenei
laboratori autogestiti di saperi, che hanno arricchito
la vita culturale e politica delle facoltà, con la collaborazione orizzontale di studenti, ricercatori e
docenti, sperimentando esperienze di autoformazione, a volte riconosciute in crediti, che hanno aperto
così nuovi spazi pubblici di partecipazione. Poi
6 è venuta la lotta dei ricercatori precari (organiz-
zat* nella Rete Nazionale Ricercatori Precari) contro
il ddl Moratti sulle carriere universitarie, con i blocchi della didattica, le assemblee, le lezioni in piazza,
le azioni comunicative. Il movimento è cresciuto,
fino alla incredibile manifestazione studentesca del
25 ottobre scorso (la più grande dai tempi della
Pantera) che ha assediato Roma e il parlamento per
un giorno intero. Siamo stati partecipi e protagonisti
di tutti questi momenti, consapevoli che solo dai
movimenti potrà nascere un’università migliore. E
per questa non aspetteremo una nuova riforma, né
un imprecisato futuro ma abbiamo già iniziato a
costruirla, qui e ora.
Per approfondimenti vedi le nostre pubblicazioni:
> Don’t touch my brain. Ovvero la distruzione dell’università ai tempi della Moratti (ott. 2005)
www.gclombardia.it/html/filemiei/vedeuniversita.pdf
> Bloccare le fabbriche del sapere (mar. 2003)
:::scuola:::
Molte ed importanti sono le battaglie che abbiamo
combattuto contro le politiche formative del governo
Berlusconi. Oggi siamo chiamat* alla costruzione di
un percorso nuovo che superi e spazzi via non solo
la riforma Moratti ma un quindicennio di trasformazioni in senso aziendale e privatistico della scuola
per costruire, a partire dai luoghi della formazione,
un modello sociale alternativo.
Da molti anni abbiamo scelto di agire nelle scuole a
partire dalle esperienze di autorganizzazione,
costruendo collettivi in grado di intercettare il più
largo numeri di student* e operare a partire dalla
materialità dei loro bisogni. Dal 2003 abbiamo lavorato ad una rete nazionale di tutte queste esperienze, l’abbiamo chiamata “Rete Sempre Ribelli” e,
come G.C., ci siamo trovati protagonisti di un percorso nazionale che partiva dalle singole scuole.
Sempre Ribelli è stata in prima fila in tutte le mobilitazioni contro la Moratti, ha costruito azioni e cortei nelle città, si è fatta promotrice di momenti
nazionali di discussione, confronto e riflessione ed
ha prodotto due importanti pubblicazioni. A ciò si è
aggiunta la significativa esperienza di Farfalle Rosse,
nata a Siena ed arrivata alla ribalta della cronaca
grazie alla contestazione al cardinal Ruini.
Un’esperienza di contaminazione che abbiamo
costruito insieme a realtà differenti (fra cui l’UdS), e
che ha coinvolto studenti medi e universitari ma
anche percorsi di rivendicazione di diritti civili.
Oggi abbiamo bisogno di un ulteriore salto di elaborazione, di iniziativa, di radicamento. Sarà infatti
nostro compito la battaglia per l’abrogazione integrale della riforma Moratti, ma le politiche del
governo Berlusconi non si sono limitate alla legge
53. Non dimentichiamo i milioni di euro che ogni
anno stato e regioni stanziano per le scuole private,
nè la legge vergognosa per cui gli insegnanti di religione sono assunti dallo Stato ma scelti dalla chiesa.
Questo quadro delinea un grave attacco alla laicità
della scuola, e questo sarà probabilmente il un altro
terreno di iniziativa.
Dobbiamo ricordare anche che i problemi della
scuola italiana non si risolvono solo cancellando la
Moratti. E’necessario imporre al governo un’idea
nuova e diversa di scuola, nella convinzione che
anche la migliore delle “Grandi Riforme” non sarà
all’altezza di rispondere alle esigenze, ai bisogni ed
ai sogni del corpo sociale che quotidianamente vive
la scuola. Si tratta di immaginare una pratica in
grado di entrare nella materialità delle aule scolastiche per avviare una ‘demorattizzazione’ della scuola che venga dal basso e non più dai diktat di
Confindustria e Vaticano. Insomma una sorta di consultazione popolare per una nuova legge sulla formazione. Vogliamo allora costruire forme nuove,
come le agenzie studentesche autogestite, per
cominciare a declinare la scuola che desideriamo,
anzitutto più partecipata e simile a com’è nei giorni
di occupazione o autogestione: aperta, orizzontale,
dischiusa alla libera circolazione dei saperi, di tutti i
saperi e non solo di quelli, spesso stantii, dei programmi ministeriali.
Per approfondimenti vedi le nostre pubblicazioni:
> Liberi di sapere (nov. 2004)
www.gclombardia.it/html/filemiei/liberidisapere.pdf
> Sempre Ribelli. Reti scuole collettivi (nov. 2003)
www.gclombardia.it/html/filemiei/derive-stud.pdf
Migranti: i colori
dell’invisibilità
Nel mondo globalizzato il traffico di merci materiali
e immateriali non conosce nessuna frontiera, per le
donne e gli uomini invece quelle stesse frontiere
sono ancora muri invalicabili.
L’idea dello stato-nazione come entità discriminante
per la libera circolazione delle persone, è il terreno
di coltura di nuovi nazionalismi e razzismi e della
costruzione dell’Europa fortezza, “aperta” per i cittadini degli stati membri, “recintata” dalla Direttiva
Schengen per tutti gli altri e le altre.
Intanto nel nostro paese i/le migranti vivono una
condizione doppiamente precaria: privati del diritto
di circolazione e costretti a mera forza lavoro priva
di ogni diritto. La Legge Bossi-Fini è l’altra faccia
della legge 30: la precarietà del lavoro si traduce in
una cittadinanza a tempo determinato, che viene
meno con l’interruzione del contratto di lavoro.
Soltanto l’ultimo decreto flussi ha disposto per
340.000 la prospettiva della clandestinità e il rischio
del rimpatrio.
Abrogare la Bossi-Fini non basta. Perché non si può
tornare alla Turco-Napolitano, ma soprattutto perché
è necessario affermare il diritto di fuga da guerre,
miseria, morte attraverso percorsi di sensibilizzazione e partecipazione. Significa rafforzare quanto le/i
Giovani Comuniste/i hanno prodotto in questi anni
nel movimento per i diritti delle/dei migranti.
Abbiamo con altr* promosso il boicottaggio attivo
della Bossi-Fini e sollecitato le amministrazioni locali a non applicarla, partecipato ai “no border Camp”,
tentato di impedire i rimpatri e denunciato, invadendoli, smontandoli, violandoli, disvelando l’inesistenza della “gestione umanitaria” dei CPT. Intanto
abbiamo prodotto percorsi importanti per il diritto
d’asilo, organizzato scuole di italiano per migranti,
prodotto vademecum e opuscoli informativi.
Lo stato d’eccezione, è ormai la regola che giustifica
le Guantanamo occidentali, le leggi emergenziali sull’immigrazione, e la restrizione di ogni spazio di
libertà: “Nessun confine per le/i cittadine/i del
mondo!”.
Ambiente,
il bene comune
I modelli di sviluppo dominanti hanno creato delle
vere e proprie fratture tra Nord e Sud del mondo e
l’erosione della qualità della vita. Essi ci pongono
con inedita chiarezza di fronte alla loro insostenibilità sociale ed ambientale.
Il tema dei beni comuni è strategico per immaginare
l’alternativa di società: è a partire da qui infatti che
si può ripensare un modello economico e sociale
alternativo ed autonomo.
Un nuovo senso comune chiede che l’ambiente e la
salute non vengano più monetizzati, privatizzati ed
esprime una nuova fiducia nel pubblico. Lo hanno
testimoniato, con una nuova radicalità e consapevolezza, le innumerevoli lotte ambientali (Scanzano
Jonico come il ponte sullo stretto, il Mose come
Acerra e la Val Susa) che sui territori hanno svelato,
in termini politici, la contraddizione di fondo tra la
produzione quantitativa e la qualità della vita e dell’ambiente, delle relazioni umane e sociali.
Questo elemento nuovo è il risultato e alla stesso
tempo il presupposto del rideclinarsi del movimento
dei movimenti a livello territoriale: è l’uscita dalla
crisi di una sinistra che si era impantanata nell’opzione dello sviluppo sostenibile.
Ora la necessità è quella di intercettare queste istanze, delle quali noi stessi siamo stat* protagonist*, e
trasformarle in un programma che ponga la centralità strategica dei beni comuni, riconoscendo i beni
ambientali, naturali e culturali come patrimonio inalienabile dell’umanità, come garanzia sul futuro.
Considerare come beni comuni l’acqua, l’aria, lo
spazio, l’energia, la biodiversità, il territorio e il paesaggio, la risorse agroalimentari, i beni artistici e culturali, la conoscenza, le scoperte scientifiche, determinerebbe grandi cambiamenti nelle attività economiche e sociali.
In tempi in cui il copyright recinta il sapere, l’acqua
viene privatizzata e il controllo delle risorse naturali motiva la guerra preventiva, dobbiamo affermare
con forza che i beni comuni non possono essere
mercificati, brevettati, sottoposti a sfruttamento
intensivo e puntare sulle fonti energetiche alternative, con la consapevolezza della limitatezza delle
risorse naturali. Ciò è parte del nostro ragionamento
sulla nuova cittadinanza, che necessità di nuove
politiche pubbliche, di democrazia partecipata per la
gestione dei servizi connessi ai beni comuni, a discapito delle forme privatistiche di mercato, che stanno
determinando un progressivo smantellamento del
welfare, come dimostra la direttiva Bolkenstein.
Infine eventi come la mucca pazza, l’influenza aviaria dei polli, ci segnalano come nel ragionamento
sulla difesa di beni comuni dell’ambiente sia necessaria e non rimandabile una riflessione ancora tutta
da fare sugli allevamenti e sui diritti degli animali.
Nord: modernizzazione
senza modernità
La crisi economica del nord Italia ha colpito grande,
media e piccola impresa. I distretti, punto di forza e
qualificato del sistema produttivo nazionale, con i
processi di automazione vengono delocalizzati nei
paesi in cui il costo del lavoro è più basso. Migliaia
di ore di cassintegrazione, precarietà sempre più diffusa, laboratori di iperflessibilità mettono in luce un
mondo a cui la sinistra tradizionale non sa dare
risposte. Tav, centri fieristici, Mose sono la modernizzazione senza modernità, opere che devastano
l’ambiente e distruggono città e comunità.
L’insicurezza sociale, la precarietà vengono tradotte
dalle destre in controllo e repressione. Nel corso
delle Olimpiadi il centro della città è stato “pulito”
da qualsiasi dissenso e diversità. A Torino come a
Genova e a Milano i migranti sono obiettivo di una
caccia all’uomo con esiti sempre più tragici. Un nord
in crisi e alla ricerca di una nuova identità è lo spazio dentro cui le e i Gc devono ripensarsi. Dobbiamo
promuovere con altre\i percorsi di inchiesta per la
conoscenza e la costruzione di coscienza. Indagare
con le reti contro la precarietà la condizione di una
generazione: conoscenza e coscienza per uscire
dalla invisibilità.
SUD RIBELLE
Sul sud si è scritto, si è ragionato come della perife-
ria di un impero, come di un nord mancato, di un
qualcosa che avrebbe dovuto essere e non è stato.
Troppo a lungo lo si è analizzato sulla base di categorie culturali dominanti, guardato con le lenti dello
sviluppo atlantico, “industrialista”, quello della
velocità e dell’ossessione produttiva.
Da qui l’esigenza per il sud di rompere la convinzione che la direzione della storia sia solo nord ovest,
di pensarsi in autonomia, riconsiderando le proprie
risorse culturali e territoriali. Il Mezzogiorno lo pensiamo centro dell’Europa mediterranea. In questa
prospettiva il Mediterraneo diventa braccio di mare
che collega le differenze, mare-ponte, antidoto a un
regionalismo soffocante. Mare di frontiera, che
appartiene a tutt*, incrocio di culture e storie.
Intersezione di deserti e modernità, Luogo di passaggio, di transito.
Non rinunciamo al sogno che da quel mare possa
sparire la cattiva coscienza di diritti negati e che i
suoi fondali, testimoni di morte, non debbano più
dividere il privilegio dalla necessità.
Conosciamo anche il sud sospettoso e arroccato, un
sud che si uccide, dopo aver disonorato la sua bellezza. Il sud che non rispetta i beni comuni. Il sud
di sofferenza, delle migrazioni forzate per un lavoro
che non c’è, del sud che nutre il braccio armato del
neocolonialismo di guerra. Sono nostri compagni di
scuola i militari morti in Iraq, quelli per cui le missioni sono a volte l’unica possibilità per immaginarsi un futuro.
Il sud è anche quello dei quartieri di Bari, Napoli,
Reggio Calabria e Palermo senza comunità e senza
servizi, senza identità e senza pietà, dove la sofferenza si alimenta di assuefazione alla violenza che
la precarietà ha acuito ed esasperato.
Ma a sud una giovane generazione ha deciso di incominciare un viaggio, quello di una scommessa di trasformazione, di rinnovamento radicale. E il mezzogiorno è stato scenario di conflitti contro rigassificatori, inceneritori, discariche, contro l’abusivismo. Da
Scanzano, a Melfi, a Acerra, a Punta Perotti di Bari,
al Parco Corvaglia di Lecce è emersa una cittadinanza attiva e plurale: le donne e gli uomini che volevano cambiare la propria terra sono diventat* tessuto
di democrazia e partecipazione, hanno liberato energie intellettuali e passioni civili. Su un muro del
Salento, durante le scorse elezioni regionali, c’era
scritto: “Mai nessuna epoca ha meglio propagato,
pur annebbiandosi con inevitabili confusioni, la sensazione che tutto si giochi adesso” (R. Vaneigem).
Era nell’aria: con quelle elezioni, in Puglia, poteva
incominciare un pezzo di storia nuova. Si era già
esternato un bisogno di decidere oltre la delega affidata ai partiti, una voglia di colmare l’abissale
distanza tra palazzi e bisogni diffusi. Vendola era la
denominazione corrente di una straordinaria avventura collettiva irriducibile ad una persona singola,
che potrebbe rivivere in Sicilia con la vittoria di Rita
Borsellino.
:::Antimafia sociale:::
“la mafia è una montagna di merda”
(P. Impastato)
Una nuova vita del sud non può nascere che dalla
fine delle mafie. La criminalità organizzata è stata
derubricata dall’agenda politica e, dopo la stagione
della primavera palermitana, la società civile è tornata nel silenzio. Negli ultimi anni la criminalità
organizzata, in tutte le sue ramificazioni territoriali,
ha di fatto modificato la sua costituzione; un’operazione necessaria per continuare a mantenere un controllo diretto sul territorio assecondando i mutamenti della struttura produttiva. Il passaggio che ha fatto
compiere il salto qualitativo in questa direzione è la
deterritorializzazione dei suoi interessi criminali e
delle sue ricchezze economiche. Vere e proprie holding del crimine in Sicilia come in Calabria hanno
saputo collocarsi nella finanziarizzazione dell’economia.
Ancora una volta le istituzioni preposte alla lotta alle
mafie non sono state in grado di rispondere alla loro
intraprendenza. Oggi la speranza è riposta in quei
ragazzi e ragazze che ai tempi delle stragi erano
bambini ma che oggi trovano il coraggio di rialzare
la testa e scendere in piazza a Locri all’indomani
dell’omicidio di Fortugno. Così come i ragazzi del
comitato ‘Addio Pizzo’ hanno tappezzato Palermo
con manifesti listati a lutto con su scritto: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità” invitando a sostenere i commercianti che denunciano gli estorsori. I Forum Sociali Antimafia a
Cinisi, le carovane, riuniscono migliaia di giovani
che discutono del rilancio della lotta alle mafie.
Queste esperienze ci raccontano di ragazze e ragazzi che frappongono il proprio corpo al potere mafioso. L’antimafia sociale ricolloca il fenomeno mafioso
nella sua dimensione e lì agisce. Colpendo l’abusivismo edilizio, la privatizzazione dei servizi, la difesa
di un’informazione libera, solo per citarne alcuni.
L’antimafia non è solo l’attività delle procure e l’indagine di polizia, ma una presa di coscienza collettiva. E’ dovere politico delle e dei giovani comunist*
impegnarsi con le associazioni, prima fra tutte
Libera, nella lotta per la confisca e la riutilizzo a fini
sociali dei patrimoni mafiosi. Per questo crediamo
che la riscossa possa cominciare da quei giovani
costretti ad emigrare, molti sperano un giorno di
poter tornare in città e paesi senza più mafia.
Controllo e repressione
“La conoscenza è soltanto conoscenza. Ma il controllo della conoscenza, questa è la politica.”
(B. Sterling)
Il cosiddetto crollo delle ideologie, la globalizzazione, il primato del mercato su stato e politica hanno
progressivamente eroso i poteri degli stati nazionali,
per i quali l’esercizio del monopolio della forza fisica appare oggi come principale funzione residua
insieme all’amministrazione della giustizia, o meglio
della somministrazione della sanzione. E’ per questo
che oggi il loro potere è indissolubilmente legato alla
proliferazione di paure urbane a cui rispondere con
sicurezza/repressione. Il termine ‘sicurezza’ non è
più associato, nel senso comune, a dispositivi atti a
garantire il benessere sociale, ma ad una sicurezza
militare (la difesa nazionale da terrorismo e minacce esterne) ed una sicurezza poliziesca (la difesa
individuale da criminalità e da tutte quelle che la
‘chirurgia sociale’ recinta come sacche di rischio).
La criminalizzazione della miseria e la costruzione
del nemico pubblico sono oggi strumenti indispensabili al potere per la sua riproduzione. Per questo il
neoliberismo è indissolubilmente legato al controllo
e all’esclusione sociale. Esso costruisce paura intorno agli ultimi, ai poveri, ai tossicodipendenti, agli
emarginati e ai migranti e si occupa di relegarli in
luoghi sicuri, le carceri nelle sue varie specificazioni
(CPT, istituzioni coatte ecc.).
In Italia il governo Berlusconi ha contribuito notevolmente ad alimentare ansie e paure sociali cui
rispondere con provvedimenti fortemente repressivi.
La legge Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi, la legge sulla
legittima difesa, sono solo alcuni di questi. Ad essi si
aggiunge un’ondata repressiva volta a mettere sotto
accusa una generazione intera. Tantissimi sono stati
i procedimenti giudiziari a carico di attivist* del
movimento. Tanti gli episodi sconcertanti, dall’omicidio di Dax a quello di Federico Aldovrandi, così
come le morti che quasi quotidianamente si susseguono all’interno delle carceri.
:::antiproibizionismo:::
Giusto o sbagliato non può essere reato!
7
In questi anni siamo stati protagonisti di un nuovo
movimento antiproibizionista, come GC abbiamo
partecipato ad esperienze collettive come
Confinizero, MDMA, Million Marijuana March.
Crediamo che una nuova normativa in materia di
droghe debba assolutamente passare attraverso la
non punibilità dell’uso delle sostanze. Occorre
distinguere nettamente consumatori e narcomafie.
Casi come quello di Giuseppe Ales a Pantelleria, suicidatosi per la vergogna di essere stato arrestato per
due germogli di marijuana, non devono più accadere. Deve essere rilanciata la centralità dell’intervento
pubblico, bisogna avviare campagne informative
con percorsi partecipati nelle scuole, nei posti di
lavoro e in tutti i luoghi di aggregazione giovanile.
Occorre abrogare immediatamente la legge FiniGiovanardi, ma superare anche l’impostazione proibizionistica della Jervolino-Vassalli, con la legalizzazione delle droghe leggere e l’autocoltivazione della
marijuana, con particolare attenzione all’uso terapeutico. Riteniamo necessario che il nuovo Governo
convochi immediatamente l’assemblea nazionale
sulle droghe, senza aspettare i quattro anni, e che
avvii un vero percorso partecipato con gli operatori,
gli esperti, i movimenti per riscrivere dal basso una
nuova normativa in materia di droghe.
Nuove destre
“Non occorre essere forti per affrontare il fascismo
nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere
fortissimi per affrontare il fascismo come normalità,
come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, dal fondo brutalmente egoista di una
società”.
(P. P. Pasolini)
Le nuove destre con l’avvento della globalizzazione
neoliberista sono diventate un fenomeno in continua trasformazione e crescita. Il pensiero unico ha
messo in serio pericolo comunità, culture e tradizioni, il timore di una perdita dei diritti sociali è diventata perdita dell’identità. È questo il motivo per cui
il protezionismo economico ha sedotto anche
8 parte della piccola impresa e per altro verso la
concorrenza della manodopera immigrata induce
larghi strati di proletariato urbano e contadino verso
un razzismo più o meno velato.
In Europa come in Italia è in atto una ricomposizione
tra filoni di pensiero nazionalisti, conservatori, cattolici e populisti è congeniale alla formazioni di destra che
da tempo sono al Governo. In Europa come in Italia,
formazioni politiche di ultra destra come l’FPOE in
Austria, il Partito del popolo in Danimarca, il Partito
del progresso in Norvegia stringono alleanze di governo con la destra moderata. Nelle recenti elezioni politiche poi Berlusconi ha costruito un’alleanza con il MS
Fiamma Tricolore, Forza Nuova, Alternativa sociale,
Fronte Nazionale ha di fatto sdoganato formazioni in
contrasto palese con la Costituzione. Nei governi locali queste formazioni costruiscono il consenso attraverso campagne sull’ordine e la sicurezza. Immigrazione,
prostituzione, nomadismo e omosessualità, catalizzano le paure delle giovani generazioni che vivono in
condizioni di precarietà.
Le periferie, gli stadi, i movimenti dei disoccupati, ma
anche le scuole, sono i luoghi prescelti per il reclutamento attraverso parole d’ordine semplici ma efficaci:
identità, tradizione, fede, patria. Il numero degli aderenti è in crescita e la composizione nelle grandi città
è una mescolanza di criminalità e gruppi ultras. Interi
circuiti di centri sociali, bar, negozi d’abbigliamento,
assicurano ingenti fonti di finanziamento. Negli ultimi anni c’è stata una forte ripresa delle azioni squadriste contro immigrati, ma anche imboscate contro
compagne e compagni dei Gc e dei centri sociali.
L’omicidio di Dax a Milano è la tragica conseguenza
della commistione tra violenza criminale e intolleranza. Bisogna resistere alle aggressioni costruendo
nuovi spazi di socialità e riconquistando quelli persi
questo è il nostro antifascismo.
Contro queste pericolose tendenze eversive dobbiamo riscoprire e diffondere i valori della Resistenza,
tanto più oggi che per ragioni anagrafiche le/i partigian* , testimoni diretti di questo straordinario
movimento, non possono rappresentarlo con la stessa forza di ieri. Molto preoccupante è la comparsa di
un nuovo antisemitismo che va diffondendosi in
Europa. Negazionismo d’antan e antisionismo acritico privo di senso storico ne sono i segnali che si
aggiungono ad un generale atteggiamento ostile contro tutto ciò che ebraico. Aggressioni a singoli e atti
vandalici contro sinagoghe e cimiteri ebraici sono
ulteriori segni di un rigurgito violento.
L’antifascismo ci ha segnato che la shoah è una
memoria collettiva. Condanniamo fermamente questi atti che putroppo, a volte rinvengono anche a
sinistra.
Cultura, comunicazione,
creatività e libero
accesso ai saperi
Lo sviluppo nella società dell’informazione e della
comunicazione del lavoratore cognitivo, d’intelletto,
ha assunto, specie per le nuove generazione, un
carattere pressoché di massa. Questo lavoratore, precario, flessibile e creativo è da tempo il campo di
sperimentazione delle nuove forme di sfruttamento
della conoscenza.
Da Seattle ad oggi molte sono state le forme di autorganizzazione che questi cognitari hanno messo in
campo: gli intermittenti dello spettacolo, i ricercatori precari, gli studenti, i mediattivisti e i promotori
del copyleft e dei creative commons.
Queste esperienze svelano la debolezza del modello
competitivo dominante fino ad invalidare i principi
basilari della globalizzazione economica, come la
proprietà privata. Si pensi alla campagna sui creative commons, a quella sull’open source e, più semplicemente alle migliaia di giovani che scaricano
ogni giorno film, musica, software, con la naturalità
di chi pensa che la cultura, l’arte e la conoscenza
siano di pubblico dominio.
Pensiamo che lo sviluppo e la promozione di spazi
di autorganizzazione sociale e cretiva (case editrici
underground, mediattivismo, spazi pubblici autogestiti, radio comunitarie, librerie associative, esperienze di cooperazione internazionale dal basso,
videomaker) parla di noi, della nostra condizione e
della nostra vita.
Per questo creare e costruire dibattito e proposte sull’accesso (inteso come produzione e fruizione insieme) a saperi, conoscenze, arti e linguaggi, è il metodo che oggi individuiamo come strategico per il
nostro agire politico futuro.
TRASFORMIAMO IL PRESENTE,
CONQUISTIAMO IL FUTURO
Firmatari (in neretto i membri del coordinamento nazionale GC):
Maringiò Francesco (coordinamento nazionale GC),, Bonaccorsi Manuele (coordinamento nazionale GC),, Goretz Yassir (coordinamento
nazionale GC),, Lindi Letizia (coordinamento nazionale GC),, Lobina Enrico (coordinamento nazionale GC),, Sciotto Luigi (coordinamento
nazionale GC)), Pusceddu Emanuele (coordinatore regionale GC Sardegna), Bregola Irene (coordinatrice provinciale GC Ferrara),
Giordano Agostino (coordinatore provinciale GC Bologna), La Sala Diego (coordinatore provinciale GC Pistoia), Luca Francesco (coordinatore provinciale GC Vicenza), Marasà Giorgio (coordinatore provinciale GC Enna), Sanfilippo Dario (coordinatore provinciale GC
Caltanissetta), Albanese Carmelo (coordinamento reg. GC Sicilia), Albertini Veronica (GC Roma), Allevi Juan Josè (coordinamento
provinciale GC Pavia), Anselmo Simone (CPR Liguria), Barbarino Marco (coordinamento provinciale Catania), Barnaba Federico (GC
Roma), Belmonte Alessandro (segretario circolo Ottobre Rosso), Benazzi Alessandro, (segretario circolo Funo-Argelato), Benedetti
Alberto (capogruppo PRC comune Colle Salvetti), Bertani Virginia (GC Massa Carrara), Bertoldi Elisa (GC Schio), Bilancieri Fulvia (segreteria provinciale Livorno), Billè Tamara (GC Schio), Bonsignore Romeo (consigliere comune San Cataldo – Caltanissetta), Brini Valerio,
(GC Nettuno), Carlesi Stefano (GC Massa Carrara), Carlomagno Giuseppe (GC Lauria), Cavallari Ilaria (GC Comacchio), Cherchi
Emanuele (segretario circolo Acqui Terme), Chiesa Jonathan, (Coordinamento GC Milano), Cinti Paolo (GC Fermo), Conti Ivano
(GC Ravenna), De Bianchi Silvia (CPF) Roma, Desantis Piergiorgio (coordinamento provinciale GC Siena), Di Gennaro Valentina (coordinamento regionale GC Lazio), Di Nanno Luca (CPF Varese), Diciolla Rossana (GC Conversano – Bari), Donati Ivan (GC Milano), D’onghia
Mimmo (direttivo circolo Conversano – Bari), Doronzo Sara (CPF Torino), Ezzelini Storti Giuliano (segretario circolo Recoaro Terme),
Farinelli Carmelo (GC Milano), Fontanili Gianfranco (GC Reggio Emilia), Forassiepi Simone (GC Versilia), Fortinguerra Francesco (direttivo circolo Torremaggiore – Foggia), Genua Fabrizio, (segretario circolo PRC Busseto – Parma), Gigantino Rosita (CPR Campania),
Giorgetti Claudia (GC Perugia), Grillo Egidio, (GC Nemoli – Potenza), Guarini Carlo (CPR Puglia), Lanzi Paola (consigliera regionale
Sardegna), Liscia Alberto (coordinamento provinciale GC Cagliari), Lisi Daria (CPF Bologna), Lofano Francesco (direttivo circolo
Conversano – Bari), Lorefice Bartolo (assessore comune Scilli – Ragusa), Losito Leonardo (GC Lecce), Losurdo Federico (GC Urbino),
Maffei Andrea (GC Versilia), Maffione Barbara (GC Napoli), Maffione Daniele (coordinatore GC circolo Lenin – Napoli), Marras Mattia
(esecutivo provinciale GC Cagliari), Martini Andrea (coodinamento provinciale GC Ancona), Metella Alyosha (segreteria provinciale
Trento), Miglioranza Marco (coordinamento provinciale GC Vicenza), Montefusco Giovanni (segretario circolo PRC Vomero – Napoli),
Morleo Gabriele (CPF Bari), Nocchi Gianni (GC Rosignano – Livorno), Oggionni Simone (CPR Emilia Romagna), Pangallo Filippo (CPF
Bologna), Pappalardo Marco (GC Bologna), Parziale Fiorenzo (GC Benevento), Pasquinelli Fabio (coodinamento provinciale GC Ancona),
Pellegrini Enrico (segreteria provinciale Pistoia), Peretto Alain (segreteria provinciale Varese), Perigè Giampaolo (GC Macerata),
Persano Alessandro (coordinatore GC Lecce), Piga Agostino (GC Gallura), Piroddi Marcello (sindaco comune Jerzu – Ogliastra), Pisa
Gianmarco (esecutivo regionale GC Campania), Porcu Silvio (GC Nuoro), Quaranta Giuseppe (segreteria provinciale Bologna), Razzino
Romina (GC Brescia), Regoli Alice (consigliera comune Colle Salvetti – Livorno), Rossi Cristian (GC Versilia), Rossi Giacomo, (segretario
circolo Osimo – Ancona), Rossini Andrea (GC Milano), Salbego Giacomo (CPF Verona), Santececca Sandro (GC Roma), Sorrentino
Tommaso (GC Napoli, Filcem-CGIL), Spadaro Pierangelo (GC Catania), Tedesco Antonio (coordinatore GC Urbino), Testoni Gianluigi (segretario circolo Usini – Sassari), Tocco Walter (segreteria provinciale Medio Campidano), Tomassoni Franco (coordinamento GC Ancona),
Tremesberger Daniel (GC Pordenone), Trentin Massimiliano (GC Schio – Vicenza), Tundo Alessandra (coordinamento GC Bologna),
Turcato Gianni (GC Schio), Ussi Arianna (GC Massa Carrara), Vatteroni Elena (coordinamento regionale GC Toscana), Vecchi Andrea (GC
Reggio Emilia), Violante Elisa (CPR Emilia Romagna), Volpi Nicola (GC Versilia), Zanetti Chini Emilio (GC Roma)
La nostra Conferenza
La III Conferenza Nazionale delle/i Giovani
Comuniste/i (d’ora in avanti: GC) si apre in un
momento molto delicato per il Paese e per la nostra
organizzazione. Viviamo una nuova fase politica,
ricca di contraddizioni e rischi, ma anche di importanti opportunità che non dobbiamo farci sfuggire.
Per questo riteniamo necessario fare un bilancio
della linea politica assunta nella scorsa Conferenza e
del lavoro svolto negli ultimi quattro anni ed avanzare una proposta politica capace di favorire il rilancio della nostra organizzazione.
Negli ultimi quattro anni i GC hanno cambiato continuamente la propria linea politica: sono passati
dalla disobbedienza alla non violenza, dalla critica
radicale del quadro politico all’accordo incondizionato con l’Unione, dalla lotta al fianco dei movimenti all’ingresso nel governo. Di queste svolte repentine i GC hanno molto sofferto, soprattutto sul piano
della capacità di costruire iniziativa politica e lotte,
nei movimenti e nei territori.
Il nostro partito è oggi all’interno di una compagine
governativa politicamente debole: uscita vincitrice
per pochi voti dallo scontro con le destre, è divisa su
molti temi fondamentali, dal lavoro alla guerra, dall’immigrazione all’istruzione. Nei mesi che ci hanno
avvicinato alla scadenza elettorale abbiamo più
volte criticato la linea del partito, denunciando la
debolezza di un programma inadeguato che non riusciva a superare quelle contraddizioni che parte del
centrosinistra porta con sé dall’inizio degli anni ’90,
quando ha avuto corso la distruzione dei diritti
sociali e del lavoro e la crisi della nostra democrazia.
Quale deve essere il ruolo dei GC in questa fase?
Temiamo che la nostra organizzazione subisca un
appiattimento istituzionale e non vogliamo che ciò
accada. Non vogliamo interloquire con un “governo
amico” ma costruire un’organizzazione giovanile
comunista che si ponga l’ambizioso obiettivo di
radicarsi e rafforzarsi nelle lotte, che costringa con le
proprie battaglie il prossimo governo ad una radicale alternativa, che inverta il ciclo che rende le nuove
generazioni più povere, deboli e impotenti delle precedenti.
Il percorso che ci ha condotti a questa Conferenza,
purtroppo, non è di buono auspicio e non ci aiuta ad
affrontare con serenità e spirito unitario questo difficile passaggio. La maggioranza del gruppo dirigente
si è persino rifiutata di presentare una proposta di
documento che fosse da stimolo per la discussione
di tutti gli iscritti e definisse il terreno di confronto
su cui misurare convergenze e divergenze.
Consideriamo tutto ciò molto grave: si è scelto di
perpetuare le differenze che ci avevano diviso in
passato, con una prospettiva di totale chiusura al
dialogo.
Fatto – questo - ancora più grave se si pensa che la
Conferenza è stata più volte rimandata, proprio per
avere il tempo di organizzarla. In questo ultimo
anno si sarebbe quindi potuta avviare una discussione in tutta l’organizzazione e potuti mettere a fuoco
i temi sui quali concentrare il dibattito. Ciò non è
stato fatto ed ora ci troveremo a fare centinaia di
assemblee in appena quattro o cinque fine settimana.
Ci troviamo – dicevamo - nella paradossale situazione di presentare una proposta alternativa, ma alternativa non sappiamo a cosa.
Rispetto a molti temi, probabilmente, le diverse sensibilità presenti nella nostra organizzazione avrebbero potuto trovare delle convergenze. Ma in assenza
di una volontà di dialogo, non possiamo far altro che
avanzare una proposta politica complessiva, certamente un po’ lunga. Ce ne scusiamo rimandandovi
alla sintesi del documento, scaricabile dal sito
www.lernesto.it.
Questa III Conferenza Nazionale costituisce un tas-
sello fondamentale nel progetto di costruzione, in
Italia, di una moderna organizzazione giovanile
comunista e sarà per tutti noi un momento irrinunciabile di confronto: ci permetterà di crescere, di
conoscerci meglio, di capire, di dare nuova linfa alle
nostre speranze e alle nostre lotte. Questa è la sfida
che abbiamo davanti.
://PARTE I
La condizione
giovanile in Italia
Il paradigma della precarietà e gli
impegni dei Giovani Comunisti
Esiste nel nostro Paese una complessa “questione
giovanile”: la nostra è, dal dopoguerra, la prima
generazione a conoscere condizioni di vita peggiori
di quelle dei propri genitori.
Viviamo in una società dominata dal grande paradigma della precarietà. Nel 2004 il 70% dei nuovi
ingressi nel mercato del lavoro è avvenuto con contratti a termine; di questi il 95,1% non si è trasformato in un contratto a tempo indeterminato: la condizione di precarietà, dunque, non è solo un
momento di passaggio, ma una realtà duratura e
totalizzante. La disoccupazione giovanile si attesta
intorno al 28%, con punte che nel Mezzogiorno sfiorano il 59%. Intere generazioni sono escluse dal
lavoro e contemporaneamente dai processi di istruzione e di formazione.
In questo quadro la Legge 30 prosegue nel solco
della flessibilizzazione aperto dal “Pacchetto Treu” e
diventa lo strumento attraverso cui viene imposta
una condizione insopportabile di precarietà.
La formazione dovrebbe rappresentare la via d’uscita principale da questa realtà ma il mondo dell’istruzione disegnato dalla Moratti si configura, all’opposto, come una palestra di addestramento alla precarietà permanente: ritorna, come nel dopoguerra, la
selezione di classe che colpisce fasce sempre crescenti di giovani.
Viviamo infatti in un contesto culturale regressivo:
oggi paghiamo i frutti avvelenati di un’epoca di
riflusso che, a partire dagli anni ’80, ha contrapposto alla solidarietà sociale un modello di società
basato sull’arrivismo, sull’individualismo e sulla
prevaricazione. In questa condizione, figlia delle
sconfitte del movimento operaio e dell’avanzata speculare del liberismo più aggressivo, si innesta il
virus del “berlusconismo”. Una cultura che si è diffusa e radicata giocando sugli impulsi più viscerali e
torbidi del paese, interpretando una tendenza di
fondo della nostra storia nazionale: una miscela di
egoismo sociale, indifferenza e qualunquismo.
Il “Manifesto per l’Occidente”, scritto da Marcello
Pera in nome di una presunta salvaguardia dei valori e della cultura occidentali, costituisce l’impalcatura ideologica di questa ondata di destra che, nell’ottica neo-coloniale della “lotta al terrorismo”, attua
nel nostro Paese uno stato d’eccezione permanente.
Contemporaneamente assistiamo ad una crociata
integralista, culturale e politica, condotta da settori
rilevanti delle gerarchie vaticane sul terreno dei diritti civili, delle donne e della morale sessuale. Siamo
in presenza di un nuovo integralismo che punta al
consenso stuzzicando il ventre molle di una società
insicura economicamente e fragilissima dal punto di
vista dei valori e degli ideali.
Come GC dobbiamo essere in grado di raccogliere ed
interpretare il disagio ed il senso di profondo
9
disorientamento che vivono i giovani nel nostro
trovano lavoro, un terzo si trasferisce al Nord.
Eppure nel Mezzogiorno la nostra organizzazione ha
molte delle sue forze migliori: lo dimostra non solo
l’elevato numero degli iscritti, ma anche la capacità
di essere parte di lotte importanti (Melfi, Scanzano,
Acerra). In molti comuni i nostri circoli sono l’unico
antidoto ad un tessuto sociale di emarginazione,
disoccupazione, criminalità: centri di aggregazione,
di formazione e di produzione di lotte indispensabili, realtà ricche di iniziative, esperienze, proposte. Al
Mezzogiorno, dunque, la nostra organizzazione
deve dare una nuova centralità, mettendo in rete
realtà importanti che spesso trovano difficoltà a
comunicare tra loro. In questo senso proponiamo di
dar vita, dopo la Conferenza, ad un Attivo Nazionale
dei GC del Mezzogiorno, con l’obiettivo di realizzare entro l’autunno prossimo una nuova “marcia per
il Mezzogiorno”, che metta al centro il tema del
diritto al lavoro, le battaglie in difesa dell’ambiente
e la lotta alla criminalità organizzata. È una priorità
non più prorogabile.
Un lavoro politico che si proponga lo sviluppo e
l’emancipazione del Mezzogiorno deve necessariamente individuare nel tema della lotta alla criminalità e alle mafie un proprio carattere distintivo.
tica, economia e finanza. Per fare ciò occorre organizzare da subito una Conferenza Nazionale sulle
Mafie incentrata sul confronto tra le forze sociali,
politiche e giudiziarie;
b) sostenere tutte le iniziative che si muovono sul
terreno dell’antimafia sociale come le straordinarie
manifestazioni dei “ragazzi di Locri”, che hanno
visto un impressionante partecipazione giovanile;
c) organizzare localmente comitati di controinformazione, redazioni aperte all’esterno, ai movimenti,
alle forze sociali facendo vivere quotidianamente la
pratica dell’antimafia sociale, così come ci ha insegnato Peppino Impastato;
d) costruire una cultura dell’antimafia attraverso un
lavoro di promozione culturale per chiarire la relazione esistente tra le privazioni sociali, l’aumento
della povertà, la mancanza di sviluppo e di occupazione da un lato, e il proliferare del fenomeno mafioso dall’altro. La partita decisiva si gioca sul terreno
sociale dando sostegno attivo alle forze politiche e
sociali che combattono la mafia. È inoltre necessario
che i GC si adoperino per stimolare forme di conflitto ed aprire, per questa via, l’orizzonte della liberazione dal potere mafioso.
Mafia e antimafia sociale
Lavoro/i
Non pensiamo che il fenomeno mafioso sia un
appannaggio esclusivo delle regioni meridionali:
esso investe ormai tutto il Paese. Tuttavia il
Mezzogiorno è stato storicamente contraddistinto da
una costante dialettica tra classi dirigenti e poteri
mafiosi che opprimono e ricattano la popolazione. Si
tratta di una strategia che mira all’acquisizione di
sempre più alti profitti o attraverso l’utilizzo della
forza militare in contrapposizione allo Stato o attraverso il controllo delle principali arterie economiche.
E’ accaduto così che numero incredibilmente alto di
cittadini, lavoratori, dirigenti comunisti e socialisti,
giornalisti e sindacalisti, è stato ucciso perché colpevole di rappresentare un altro Meridione: quello di
chi non si rassegna alla povertà e alla subordinazione e lotta, in nome di una dignità individuale e collettiva, per il riscatto delle popolazioni meridionali e
per lo sviluppo della propria terra.
La fase attuale della lotta alla mafia è molto complessa. La cattura del boss Bernardo Provenzano, ha
certamente inflitto un colpo duro alla mafia, tuttavia
non si può non tenere nel conto la storica capacità
auto-riproduttiva dell’organizzazione. Dopo le stragi
del 1992 (in cui furono ferocemente uccisi i giudici
Falcone e Borsellino e gli uomini delle scorte) che
hanno segnato la fine della strategia “corleonese”, la
mafia è diventata “silenziosa”. Ha ridotto al minimo
gli scontri a fuoco ma ha aumentato esponenzialmente i propri profitti divenendo essa stessa lo
Stato. Nel Mezzogiorno oggi la mafia ha assunto il
controllo assoluto di intere zone e si rafforza con la
crescente contiguità tra mafia e politica.Di fronte a
questa realtà occorre che i GC facciano un salto di
qualità. Per troppo tempo si è commesso l’errore di
non affrontare adeguatamente il tema delle mafie e,
soprattutto, di lasciare ai soli compagni del Sud l’iniziativa su questo terreno. Ciò è stato ancora più
grave poiché l’investimento complessivo su questa
tematica non è solo contingente ma anche strategico. Infatti le politiche neoliberiste non ci consegnano solo il dato drammatico della crescita dell’incertezza e della precarietà ma, soprattutto, ci dicono
che tutto ciò è andato a totale vantaggio dei diversi
poteri forti, mafia inclusa. Sulla base di queste considerazioni, occorre articolare l’iniziativa dei
Giovani Comunisti intorno a quattro assi fondamentali:
a) analizzare le connessioni esistenti tra mafia, poli-
Precarietà: il nuovo alfabeto di una
generazione senza diritti
Dopo le conquiste sociali ottenute tra la fine degli anni
’60 e i primi anni ’70 il capitale è passato alla controffensiva riducendo gradualmente i diritti dei lavoratori.
Questo processo è stato portato alle estreme conseguenze con la legge delega di riforma del mercato del
lavoro voluta dal governo Berlusconi. La Legge 30 si
basa sulla riduzione del costo del lavoro, sulla flessibilizzazione estrema e sulla mercificazione della forza
lavoro, perseguendo un modello di sviluppo iniquo in
cui l’unica competizione possibile è quella al ribasso
dei costi, in cui è svilita e smantellata la formazione
professionale, la sicurezza del e sul lavoro, nonché
l’importanza del lavoro nella costruzione dell’identità
di ciascuna persona. Il lavoro è infatti il principale
mezzo di sostentamento, di progresso sociale e di crescita economica per milioni di cittadini, componente
essenziale ma non unica per la realizzazione di se stessi e la soddisfazione dei propri bisogni. Dando vita ad
una condizione permanente di precarietà si tiene invece ogni singolo lavoratore sotto il ricatto continuo dell’impresa e dei suoi interessi. Il risultato è la totale cessione, dal lavoratore all’impresa, del proprio tempo di
vita.
Mentre le forme contrattuali si moltiplicano, la precarietà lavorativa, anche a causa della distruzione del
sistema di tutele del Welfare, si traduce in precarietà
sociale e investe tutta la vita. La classe lavoratrice è
divisa, spezzettata, segmentata in mille figure contrattuali diverse, privata di contratti nazionali di riferimento: dunque strutturalmente incapace di trovare linguaggi universali e luoghi di sintesi politica ed organizzativa.
La lotta al lavoro precario deve diventare uno degli elementi fondamentali dell’attività politica dei GC. Per
questo proponiamo la costruzione di sportelli anti-precarietà in tutte le grandi città e di impegnarci nell’organizzazione di una Campagna Nazionale contro la
Precarietà, con la realizzazione di un portale internet
(strumento per mettere “in rete” l’atomizzato mondo
dei precari) e la pubblicazione di materiale informativo
per orientarsi nella babele dei contratti voluti dalla
Legge 30. Ovviamente è importante il lavoro nei sindacati, dalle RdB-Cub alla Cgil. La precarietà non è avulsa dal contesto generale del conflitto capitale-lavoro:
per questo rileviamo che la nascita del Nidil (che pure
vede un forte impegno dei GC in tante realtà), ossia di
una categoria specifica per i lavoratori precari, continua a percorrere, suo malgrado, la strada della frammentazione. Al contrario, per rafforzare le lotte dei
lavoratori precari, è necessario porsi l’obiettivo di una
ricomposizione delle forze sociali. Nella ricerca di unità
nel mondo del lavoro, dunque, va individuato il terreno centrale di lotta e mobilitazione per le nuove generazioni. La sola richiesta di un’estensione dei diritti di
cittadinanza, al contrario, sposterebbe l’attenzione sul
versante distributivo, senza mettere in discussione il
potere, ormai quasi assoluto, di cui godono i padroni
sui luoghi di lavoro. Dunque bisogna difendere e rilanciare con forza la contrattazione collettiva e il diritto al
lavoro tutelato in opposizione ai “sacrifici” imposti dai
parametri economici dell’Europa e dalla direttiva
Bolkestein. Sul piano politico, le nostre proposte per
combattere la precarietà sono:
::: la riunificazione, nei vari siti lavorativi, di tutti i contratti, che devono essere inseriti in uno stesso contratto unico, collettivo e nazionale. Più si è uniti, più si è
forti. Bisogna arrivare ad un contratto unico dell’industria in Italia ed ai contratti unici di categoria in
Europa;
::: la cancellazione della Legge 30 ed il rifiuto categorico di tornare al Pacchetto Treu; è indispensabile approvare al più presto un’efficace legge sulle rappresentanze. Occorre riqualificare i centri per l’impiego, proponendosi il controllo delle tante agenzie del moderno
caporalato ed affermando il collocamento pubblico
quantomeno per le aziende pubbliche;
::: il sostegno concreto dei GC alla campagna nazionale per l’istituzione di una nuova scala mobile che adegui i salari all’inflazione reale;
::: la lotta alla precarietà deve essere intesa in senso
ampio, come lotta per la difesa dei diritti dei lavoratori: lotta per la casa, lotta per un buon sevizio sanitario
nazionale, per i trasporti, per la cultura, per il diritto
allo studio.
Ma soprattutto si rende oggi necessaria una proposta di
legge che introduca il lavoro minimo garantito. Per
sconfiggere la precarietà rimane centrale la lotta nei
luoghi di lavoro. Una proposta di legge (così come proposto dai movimenti in Francia) che preveda un’attività minima e garantita, di ricerca, produzione o distribuzione tale da comportare un reddito certo, diventa
così il modo più sicuro per garantire (nel lavoro e nel
reddito) chi non lo è. Contemporaneamente sia la proposta del “reddito di cittadinanza” sia quella del “salario sociale”, così come quella del “sussidio di disoccupazione”, possono essere utili tamponi rispetto allo
stato di precarietà ed incertezza che vive la grande
maggioranza dei giovani del nostro paese. Va pensato
insomma ad un sistema integrato di formazione lavoro
(così come proposto in Francia) che preveda un inserimento a tempo indeterminato per tutti e, in alternativa
ad esso, un processo di inserimento in un sistema che
forma e riqualifica e che contemporaneamente fornisce
strumenti di sussistenza.
Conoscenza, scuola,
università e ricerca
L’intero sistema dell’istruzione pubblica italiana è, da
almeno vent’anni, sotto attacco ed ha subito negli ultimi cinque una coerente operazione di smantellamento del proprio carattere pubblico. È un’offensiva organica: taglio degli investimenti per la scuola pubblica a
favore dell’offerta privata, precarizzazione della
11
ricerca, abbassamento della qualità della didatti-
paese, consapevoli che a questo stato di cose non si è
ancora contrapposta una forte e diffusa consapevolezza della necessità del riscatto e dell’alternativa e
quindi del rifiuto della società capitalistica. Questo
anche perché la società è permeata da un pensiero
forte: quello fondato sulla religione del mercato. Il
pensiero unico capitalistico ed il nuovo integralismo
religioso sono due facce della stessa medaglia.
L’iniziativa politica e sociale dei GC deve ripartire
dal rifiuto di questa società, delle guerre e delle ineguaglianze che produce, sviluppando una forte iniziativa anticapitalista. Ciò è possibile se rifuggiamo
tanto da atteggiamenti settari e minoritari quanto
dalle forme di sterile ribellismo che hanno caratterizzato la gestione iper-maggioritaria dei GC negli
ultimi anni.
I movimenti
In questi ultimi anni tuttavia si è assistito al riemergere di forme di conflitto e partecipazione giovanile.
I GC hanno partecipato a queste mobilitazioni condividendone le aspirazioni di radicale superamento
del neoliberismo, della guerra, dello sfruttamento. Il
movimento globale ha investito tutti i continenti ed
è diventato, pur tra mille difficoltà, un punto di riferimento irrinunciabile tanto per le lotte antimperialiste del terzo mondo quanto per il movimento dei
lavoratori e per quello pacifista. In Italia, soprattutto
in seguito alle straordinarie giornate di Genova del
2001, la stagione dei movimenti ha investito in pieno
la politica, ha favorito la crescita e il radicamento di
lotte importanti, ha dato a tanti giovani uno spazio
comune nel quale condividere e rafforzare il bisogno, personale e collettivo, di “un altro mondo possibile”: dalle grandi mobilitazioni contro l’abolizione
dell’articolo 18 all’opposizione alla guerra in Iraq,
fino alle vertenze dei metalmeccanici, degli autoferrotranvieri, dei precari e dei movimenti antirazzisti e
ambientalisti.
Per molti giovani che negli anni Novanta avevano
vissuto la crisi dei partiti e della rappresentanza queste battaglie sono state un importante terreno nel
quale riscoprire il valore della partecipazione e della
lotta.
Genova, Scanzano, Melfi, Rapolla, Val di Susa sono
solo alcune delle tappe di quel ricco percorso che
ancora oggi rappresenta un terreno fertile per la pratica del conflitto e che è un ambito indispensabile
per le esigenze di radicamento della nostra organizzazione. Un movimento che deve avere una proiezione europea ed internazionale: lo dimostrano il no
alla Costituzione Europea, la lotta contro la direttiva
Bolkestein, la mobilitazione contro il sistema di
guerra e le basi Usa e infine le straordinarie mobilitazioni sviluppatesi in Francia contro il Contratto di
Primo Impiego. Questa mobilitazione, che ha unito
lavoratori, studenti, sindacati ed i principali partiti
della sinistra, è la testimonianza di come i movimenti di lotta possano vincere e della centralità che assumono le nuove generazioni nella lotta contro la precarietà.
Nei movimenti la nostra organizzazione deve quindi
vivere e crescere, trovare stimoli e forza. Eppure non
è possibile oggi parlare di movimento senza interrogarsi sulle sue difficoltà e contraddizioni: il movimento che ha costruito l’opposizione sociale al
governo Berlusconi è oggi debole e diviso, incapace
di garantire un’effettiva continuità e unità ai percorsi di lotta. Un arretramento che si è, purtroppo,
approfondito all’avvicinarsi della scadenza elettorale, in linea con un complessivo spostamento a destra
della società e con l’offensiva delle forze moderate
del centrosinistra. Tutto questo non è di buono
auspicio per i prossimi anni di governo
10 dell’Unione, durante i quali sarà necessario il
riemergere del conflitto sociale -e dell’iniziativa dei
movimenti- per invertire radicalmente il senso di
rotta.
Il nostro compito non si esaurisce con la candidatura
di esponenti dei movimenti nelle nostre liste. Proprio
perché contrastiamo l’idea di un’organizzazione che
lavora interagendo con un “governo amico”, diventa
prioritaria la creazione di esperienze di conflitto e
movimento. La nuova fase politica consegna ai movimenti e ai GC un’eredità difficile: quella di saper
influire sulle scelte del prossimo governo, ignorando
le deleterie sirene di un nuovo patto sociale. Si tratta
di rispondere alle pulsioni moderate presenti nel centrosinistra costruendo ovunque esperienze di conflitto e movimento. Saremo capaci di creare comitati permanenti (insieme ad altri soggetti di movimento) per
l’abrogazione della legge Moratti in tutte le facoltà?
Ancora: il nostro partito ha sottoscritto il programma
dell’Unione. Noi non abbiamo condiviso quella scelta, ritenendola assolutamente inadeguata. Quel programma chiede l’abrogazione non già della Legge 30
ma solo di specifiche forme contrattuali come il lavoro a chiamata e lo staff leasing. Riusciremo a creare
mobilitazioni che spingano il governo a realizzare
questi propositi nei primi 100 giorni per poi passare al
contrattacco ed ottenere l’abrogazione totale della
legge Biagi? L’esperienza francese dimostra che la
lotta paga. E che gli spazi di lotta e conflitto (lievito
indispensabile per il radicamento e la crescita di una
moderna organizzazione giovanile comunista) ci
sono! Questa è la sfida che oggi i GC hanno davanti:
essere protagonisti di una nuova stagione dei movimenti, che sappia fare tesoro degli errori e delle difficoltà del passato, che sappia risolvere la contraddizione tra il suo essere composito e sfaccettato e il bisogno di unità, radicalità, radicamento.
La condizione giovanile, come è evidente, non è slegata dal contesto sociale complessivo. Negli ultimi
anni abbiamo assistito ad una crescita esponenziale
delle ineguaglianze, la cui portata è semplicemente
intollerabile. Nonostante ciò la metà degli elettori ha
votato per il centro-destra che conserva la propria
egemonia in tutti i propri insediamenti storici, nel
Nord come nel Mezzogiorno.
Il Settentrione d’Italia
Anche per questo è urgente analizzare e comprendere il tessuto sociale e produttivo delle tante province
settentrionali, dai grandi distretti industriali nei
quali la classe lavoratrice è sempre più debole e parcellizzata alla miriade di piccole imprese costruite
sul modello Nord-Est. Per anni si è creduto che questo modello potesse essere una soluzione alla crisi
delle grandi industrie e dunque potesse essere esteso al resto d’Italia.
Ma la parabola della crescita e della prosperità è precipitata in una crisi profonda che ha prodotto la
corsa alla delocalizzazione industriale e quindi una
forte crisi occupazionale. Ad oggi l’aggravarsi esponenziale della crisi non ha però prodotto una significativa protesta proprio in ragione dell’estrema parcellizzazione del sistema economico-lavorativo che
ha permeato così in profondità il tessuto sociale da
mettere i lavoratori nelle condizioni di anteporre il
proprio utile individuale (la salvaguardia del proprio
posto di lavoro) alla ricerca dell’unità e della lotta
comune.
In questa estrema frammentazione sociale si sono
fortemente affermati il culto dell’individualismo e
della competizione privatista, che hanno generato
una sensazione di solitudine e di inadeguatezza colmata o dall’impegno nell’associazionismo cattolico
o dai luoghi della mercificazione del divertimento
che, uniti all’abuso di alcool e sostanze stupefacen-
ti, forniscono l’illusione di possedere una capacità di
interazione sociale nei fatti erosa. E’ pertanto necessario, al fine di consentire alla nostra organizzazione di ampliarsi (ricordiamo infatti che in queste
regioni i GC sono scarsamente radicati) e raccogliere il più ampio consenso, contestare alla radice il
modello sociale qui prodotto e proporre alternative
di socialità non omologata. Da questo punto di vista
la battaglia per la centralità del lavoro a tempo indeterminato e l’opposizione alle leggi razziste del
governo Berlusconi che esasperano il modello sociale qui prodotto diventano tappe importanti di questo
percorso, così come pure diventare interlocutori e
nuclei organizzativi determinanti nella realizzazione
di momenti e luoghi di una più ampia socialità su
tematiche forti ci consentirebbe di entrare in piena
sintonia con il sentire di ragazze e ragazzi socialmente attivi.
Per una nuova questione
meridionale
Contemporaneamente va rimessa al centro del
nostro lavoro politico la questione meridionale intesa, oggi più che mai, come questione nazionale: il
mancato sviluppo di questi territori implica la compromissione dell’avanzamento complessivo dell’intero sistema-paese.
Il Mezzogiorno d’Italia ha un Pil pari al 59,8 di quello del centro nord: basta questo dato per capire
come si tratti di un’economia debole, carente di
infrastrutture ed incapace di produrre posti di lavoro e benessere.
Il Sud diventa oggi, per il ricco Nord, “pattumiera”:
luogo in cui sistemare discariche, produzioni inquinanti e basi militari, o dove far nascere aziende private ma finanziate lautamente dallo Stato, rese competitive da una politica di differenziazione salariale
tra le due metà del Paese. Manca un vero sostegno
dello Stato, un intervento pubblico che si ponga
l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile e moderno,
che crei infrastrutture utili e non opere faraoniche di
nessuna utilità, come il Ponte sullo Stretto. Così
come manca una politica estera che metta il
Mezzogiorno al centro di una nuova politica di sviluppo basata sul dialogo con i popoli del
Mediterraneo.
Questione economica, dunque, ma anche questione
politica, sociale, morale. L’assenza di una politica
industriale fa il paio con una gestione privatista dei
fondi pubblici che permette lo sviluppo di grandi reti
clientelari in una sempre più stretta collusione tra
politica, imprenditoria e criminalità organizzata.
La questione meridionale ha varie sfaccettature. I GC
devono riconoscere l’autonomia e la specificità della
Sardegna. La questione sarda è contemporaneamente distinta e in relazione con la questione meridionale. I rapporti tra il “potere reale” (economico-militare) e la Sardegna sono di tipo coloniale e imperialista. Coloniale perché l’imprenditoria del nord e quella locale sfruttano il territorio e l’ambiente.
Imperialista perché il blocco Usa-Nato individua
nella Sardegna la piattaforma, al centro del
Mediterraneo, sulla quale testare nuove armi nucleari e di distruzione di massa.
La condizione del Mezzogiorno è stata aggravata
dalle politiche del governo Berlusconi e dall’ipotesi
di federalismo fiscale, che favorirebbe un’ancora più
ampia distanza tra le due parti del paese. E’ in questo contesto che si sviluppa una nuova emigrazione,
che porta ogni anno circa 70 mila giovani meridionali nel nord del paese, in fuga da un tasso di disoccupazione giovanile del 46% (contro il 13% del Nord).
Si tratta spesso di laureati: basti pensare che su 50
mila giovani che raggiungono la laurea, dopo tre
anni 20 mila sono disoccupati. E che tra coloro che
ca, inserimento di meccanismi di selezione di classe
già nella scuola dell’obbligo, aziendalizzazione progressiva degli istituti superiori e degli atenei. Oltre allo
scempio portato avanti dalle destre (nel solco delle
riforme varate da governi di centro-sinistra) e al pressing costante dei poteri forti, avanzano, nel campo de
L’Unione, tendenze irricevibili. Esiste, cioè, una sintonia imbarazzante tra le proposte avanzate da
Confindustria e le linee guida in materia di riforma
dell’istruzione di settori decisivi del centro-sinistra.
Per ciò che concerne l’università, Confindustria ha
messo a punto due testi di proposte e richieste.
Immediatamente sono seguite le prese di posizione dei
Ds, che si muovono sulla stessa lunghezza d’onda:
privatizzazione, competitività e totale autonomia delle
singole facoltà addirittura rispetto alla possibilità di
decidere se mantenere il proprio carattere pubblico o
trasformarsi in associazioni o fondazioni private. Il
senso di queste proposte è limpido: impedire l’offerta
di una formazione universitaria accessibile a tutti e
libera e ribaltare la logica del sapere come “bene pubblico e comune”. E’ uno scenario inquietante, che prevede senza alcuna reticenza il progressivo azzeramento del sistema universitario pubblico inteso come
luogo della formazione di un sapere e critico. È tempo
che i Giovani Comunisti inizino a misurarsi con questi
scenari: esiste il rischio concreto che i prossimi mesi
vedano il coronarsi di quella deriva privatistica che ha
prodotto negli ultimi anni una involuzione drammatica del sistema universitario italiano. Su questo terreno
il Governo sarà in grosse difficoltà: dobbiamo evitare
che lo sia pure la nostra organizzazione.
Il quadro è il medesimo anche per ciò che concerne il
diritto allo studio: l’istruzione non è più un diritto che
lo Stato garantisce a tutti ma una merce venduta in
vista di un profitto. Questo ha prodotto, negli ultimi
anni, l’esclusione dai cicli di formazione di molti studenti, a causa dell’aumento delle tasse, dei numeri
chiusi,
degli
obblighi
di
frequenza.
Contemporaneamente nelle scuole superiori i ragazzi
sono obbligati già a 13 anni a “scegliere” tra istruzione di tipo liceale ed istruzione di tipo professionale e
cioè tra la via alta alla formazione (riservata ai figli
delle classi colte ed agiate) e la via bassa dell’avviamento professionale (per le famiglie operaie e monoreddito). È una concezione classista dell’istruzione,
che mira a conservare la natura borghese delle élites
dirigenti.
In contemporanea con i passaggi parlamentari del DdL
Moratti, la gran parte degli atenei italiani e un buon
numero di istituti superiori ha conosciuto un considerevole sviluppo di mobilitazioni ed iniziative di lotta
che, in molti casi, hanno portato ad autogestioni ed
occupazioni. In molte occasioni i GC erano presenti e
hanno giocato un ruolo importante nei movimenti, nei
collettivi, nelle assemblee, nei confronti politici. È
emerso però, in tutte queste occasioni, un limite di
organizzazione, radicamento e piattaforma politica
che tutti insieme dobbiamo cercare di superare.
Il nostro obiettivo è complesso ma decisivo: costruire
una mobilitazione di massa contro le politiche neoliberiste di privatizzazione e destrutturazione del diritto
allo studio all’interno di una critica complessiva ed
organica del sistema capitalistico. Organizzare le vertenze e ricondurle al quadro generale, compiendo il
salto necessario –che fino ad oggi non c’è stato- dalla
protesta difensiva alla proposta: lavorare per uno stato
di mobilitazione permanente degli studenti e dei lavoratori della scuola e dell’università. La definizione di
una nostra piattaforma di rivendicazione e di lotta è
necessaria per contribuire allo sviluppo dei movimenti
e per tentare di arginare le fasi di riflusso che fisiologicamente seguono quelle di più forte mobilitazione.
Compito dei GC è unire la lotta in difesa della formazione libera e pubblica a quella in difesa dei diritti del
lavoro, ciò è possibile soltanto nella misura in cui si riesce a costruire una piattaforma di proposta politica
complessiva ed organica, tanto nelle università quanto
negli istituti superiori e che preveda:
12
::: l’abrogazione immediata della Riforma Moratti e
di tutti i suoi decreti attuativi come precondizione
necessaria per una nuova proposta legislativa in completa discontinuità anche con le sciagurate riforme
Berlinguer e De Mauro;
::: un aumento degli investimenti per la scuola,
l’Università e la ricerca, in maniera tale da adeguarli
alla media degli altri paesi europei, invertendo la tendenza che negli ultimi anni ha visto progressivamente
ridursi i finanziamenti per la pubblica istruzione a
vantaggio di quelli per le scuole private (di cui chiediamo il totale annullamento);
::: la difesa e il recupero del carattere pubblico della
scuola e dell’università italiana, ostacolando qualsiasi progetto di privatizzazione e di aziendalizzazione;
::: un innalzamento dell’obbligo scolastico fino a 18
anni con presalario dai 16;
::: un potenziamento del diritto di studio attraverso
l’attivazione di forme di sostegno economico per le
famiglie con reddito basso. La totale gratuità delle
iscrizioni, delle tasse, dei libri di testo, delle mense, dei
trasporti e degli alloggi destinati ai fuorisede;
::: una valorizzazione ed una riqualificazione della
didattica e della ricerca;
::: l’eliminazione totale del precariato lavorativo scolastico ed universitario, per quanto riguarda sia il personale docente sia quello non docente;
::: forme permanenti di unità di azione tra studenti
e lavoratori della conoscenza, che conduca tutti i
soggetti coinvolti al di fuori dell’autoreferenzialità e
del corporativismo professionale.
Una società complessa:
nuovi fenomeni e nuove
priorità
Questa società è fonte di pulsioni, di violenza e di
mercificazione delle relazioni umane, di un impoverimento etico, sentimentale e culturale della personalità umana (dall’affettività al rapporto con la natura). Si tratta dunque di acquisire una visione non
meramente economicistica della lotta per una società alternativa al capitalismo e di cogliere le istanze
di liberazione che sono insite in nuove problematiche e nuovi movimenti. Ci riferiamo innanzitutto
all’ambientalismo, ai femminismi, all’anti-proibizionismo. Su questo terreno è possibile un incontro
fecondo tra movimento operaio e nuovi movimenti
ed un comune riconoscersi negli ideali di emancipazione e liberazione umana propri del socialismo e
del comunismo. Nella comune prospettiva, cioè, del
superamento di una società fondata sull’alienazione,
sulla riduzione dell’essere umano a valore di scambio e sul dominio delle merci.
Migranti
L’Italia è terra di frontiera, luogo dove la violenza
usata per controllare e disciplinare i fenomeni migratori assume il suo volto più aspro e brutale. L’Europa
di Schengen non cancella i confini ma si limita a
spostarli e a renderli ancora più militarizzati.
L’Unione Europea si pone l’obiettivo di controllare e
limitare la sempre più forte pressione migratoria. Lo
fa con l’uso della forza, con la detenzione, con la
limitazione del diritto di asilo, con gli “accordi di
riammissione” con i paesi di passaggio, lo fa spostando all’esterno (in Libia come in Polonia e in
Marocco) le proprie prigioni per i migranti. Gli immigrati diventano, di fatto e di diritto, cittadini di serie
B, privati di ogni diritto sociale (sanità, contratto di
lavoro, istruzione); uomini e donne senza status,
clandestini.
Ma dietro alla negazione del diritto di cittadinanza si
nasconde un chiaro obiettivo economico: meno
diritti hanno i lavoratori immigrati, più possono
essere sfruttati. La legge Bossi-Fini ne è un chiaro
esempio: la repressione non si pone il semplice
obiettivo di chiudere le frontiere, ma quello di permettere l’ingresso a pochi lavoratori selezionati e a
molti clandestini. I quali, nelle campagne meridionali, nelle aziende del Nord-Est, nei cantieri e nelle
case delle nostre città, coprono i settori più bassi e
meno qualificati del mondo del lavoro, permettendo
alle imprese di risparmiare sul costo del lavoro.
Lavoratori “diversi” da quelli “italiani”, dove la differenza di status e di cultura è un chiaro limite alla
costruzione dell’unità di classe e alla sindacalizzazione. Lavoratori “precari” per eccellenza. Eppure
uomini e donne potenzialmente “rivoluzionari”
nella misura in cui portano le contraddizioni del loro
mondo nella nostra società, mettendo in crisi certezze consolidate, aiutandoci a rinnovare le forme soggettive dell’organizzazione politica e facendoci scoprire storie e culture diverse. I GC devono essere in
prima linea nella difesa dei diritti dei migranti, stimolando la loro presenza nella nostra organizzazione, appoggiando tutte le campagne che puntano ad
estendere i loro diritti (dal voto a quelli di cittadinanza) e, soprattutto, contrariamente alla montante
campagna delle destre e dei mezzi di informazione,
facendosi promotori di un incontro con tutte le comunità (giovanili e non) immigrate presenti in Italia.
Carcere, droghe
e repressione
La tollerabilità di un sistema carcerario è la vera
cartina di tornasole delle democrazie moderne: in
Italia, la democrazia è profondamente malata. Oggi
in 15 istituti carcerari italiani il sovraffollamento è
superiore al 200%, con una media nazionale del
134%. Inoltre, solo il 12% dei detenuti è in carcere
per fatti di sangue o di criminalità: la gran parte
della popolazione carceraria è composta da tossicomani, immigrati ed emarginati sociali. Il sistema
repressivo si accanisce dunque contro i soggetti
deboli spingendoli ancora di più ai margini della
società in un circolo vizioso che perpetua una dinamica profondamente classista. La legge Fini sulle
droghe tenta di spingere in questa spirale strati
ancora più larghi di popolazione giovanile. Un
provvedimento ultra-proibizionista persecutorio nei
confronti dei consumatori di sostanze leggere; un
insieme di norme che potrebbe riempire nei prossimi mesi le aule di giustizia di migliaia di ragazzi
che rischieranno dai 6 ai 20 anni di carcere. Una
legge da abrogare e da sostituire con un impianto
legislativo fondato sul potenziamento del settore
pubblico e sulla depenalizzazione completa del
consumo di sostanze leggere. A monte, bisogna
intervenire a livello politico e sociale sul terreno del
disagio ed impostare una legislazione, in primo
luogo sui temi delle droghe e dell’immigrazione, di
depenalizzazione dei reati minori, riproponendo
con forza l’ampliamento delle misure alternative al
carcere. In misura contingente riteniamo urgente
un provvedimento di amnistia e indulto che riporti
a capienza lo stato dell’affollamento del circuito
penitenziario. Dentro questo contesto, chiediamo
la depenalizzazione e, subito, l’amnistia e l’indulto
per i reati connessi alle lotte sociali.
Questione di genere
e sessualità
Tutto questo è l’emblema di una società fondata
sulla criminalizzazione dell’altro da se e che colpisce soprattutto i soggetti più deboli. Come le lesbiche, i gay, i transessuali, e più in generale tutti colori i quali esibiscono il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere. Va innestata nel
Paese una forte reazione laica ad un bigottismo
asfissiante, ad un clima di insopportabile ipocrisia
moralista, che si concretizza nell’eterosessismo e
nell’omofobia. Va aperta una offensiva forte sul terreno dei diritti civili e della morale sessuale, impedendo ogni ingerenza confessionale nella sfera dei
rapporti tra i sessi e della costruzione delle relazioni
interpersonali.
Riteniamo sia compito della sinistra tentare un avanzamento su questo terreno, anche scontrandosi con
convincimenti estremamente radicati e diffusi che
tuttavia sono inconciliabili con una cultura laica,
progressista, civile e democratica. E questo anche
attraverso interventi legislativi, come il riconoscimento delle unioni omosessuali sul piano affettivo e
materiale, in termini di diritti e di doveri che non
possono essere privilegio degli eterosessuali. Così
come l’introduzione di ore di educazione sessuale
nei programmi didattici o la distribuzione gratuita di
anti-concezionali nelle scuole, di concerto con le
strutture sanitarie. Bisogna lavorare per una effettiva
liberazione sessuale dove in primo luogo le donne
non siano più subordinate ad un sistema di regole
sociali e morali, capitalistiche quanto religiose,
ancora maschilista e patriarcale, e siano riconosciute come soggetti che si autodeterminano, ai quali
non può essere sottratto il dominio sul corpo e su
come gestirne le trasformazione. Per questo sarà
necessaria la massima vigilanza sulla 194 e sulla sua
applicazione ancora insoddisfacente per rapporto
consultori abitanti (il diritto ad abortire non può
essere affermato formalmente e sostanzialmente
negato) oltre che un lavoro dettagliato per concepire
un legge avanzata sulla procreazione assistita, che
includa tutti i soggetti ora esclusi e che tuteli veramente la salute delle donne riconoscendole il diritto
ad una piena autodeterminazione. In questo quadro
si colloca la valorizzazione delle esperienze delle
compagne, delle diverse culture del femminismo, che
realmente ci impegniamo a porre a fondamento del
nostro agire politico. Crediamo fortemente nella ricerca di un’eguaglianza che si realizzi attraverso il confronto tra le differenze. Senza una reale emancipazione femminile non ci può essere alcuna trasformazione radicale del sistema economico e sociale capitalistico.
Contemporaneamente non può esserci alcuna reale
emancipazione all’interno di questo modo di produzione: anche per questo siamo comunisti e lottiamo
per una società diversa e migliore.
Cultura e socialità
E’ fondamentale, in questo ragionamento, il ruolo
che svolge la cultura, in primo luogo la cultura
dominante, la cultura egemone. Al crollo che si è
determinato all’inizio degli anni ‘90 nel sistema
dei partiti tradizionali e alla successiva corsa allo
svuotamento identitario intrapresa da quasi tutti i
partiti della sinistra (a cui non ha fatto eccezione
il Prc) ha fatto seguito in tutta l’Europa il sorgere
di risposte populiste e di nuove formazioni di
destra apertamente nazionaliste e xenofobe. In
questo contesto collochiamo la pesante recrude-
scenza di una cultura autoritaria, fascista e xenofoba
che
credevamo
ormai
sopita.
Contemporaneamente milioni di giovani, in condizione di subalternità al capitale a causa delle proprie condizioni lavorative e sociali, subiscono
meccanismi di alienazione sia dentro il processo
produttivo sia attraverso modalità di svago e
socializzazione (consumistiche e mercificate)
erroneamente percepite dai più come strumenti di
evasione dall’alienazione.
Dinanzi a questo scenario dobbiamo dunque
recuperare una profonda battaglia, nella società,
per l’egemonia culturale. Va riattivato un circolo
virtuoso tra le organizzazioni della sinistra, i sindacati, la società civile progressista, i movimenti,
l’associazionismo, il mondo della intellettualità
laica e democratica. Da ciò deve nascere un confronto continuo che produca non solo ricerca ed
analisi ma anche un’iniziativa culturale di massa,
capace di riattivare le strutture ricreative legate al
movimento dei lavoratori e costruirne di nuove,
moltiplicando le energie affinché i giovani possano trovare alternative ai centri di mercificazione
della cultura e del divertimento. Dobbiamo
costruire luoghi di aggregazione sottratti a questo
processo perverso che produce impoverimento culturale ed adeguamento ai canoni della società
capitalistica. È evidente che questi luoghi o acquisiscono una forma pubblica, anche nella proprietà
e nella gestione, o rischiano di perdere il loro
senso: il carattere non privato della socialità, il
valore della cultura, la necessità di una sua diffusione.
Nuove destre
e antifascismo
I processi di revisionismo storico non solo subiti
ma spesso promossi dalle stesse forze della sinistra hanno aperto un varco attraverso il quale
hanno potuto fare ritorno forze di destra segnate
dal marchio infame dell’intolleranza e dell’odio
verso le istituzioni democratiche. Ciò che preoccupa maggiormente è il rinvigorirsi di un brodo di
cultura fascista e squadrista che attraversa le piazze, gli stadi, i luoghi di aggregazione: giovani
omosessuali pestati a sangue, atti di vandalismo
siglati con la croce celtica e la svastica, aggressioni mirate a militanti comunisti e della sinistra
radicale, anche iscritti alla nostra organizzazione.
In un contesto in cui la Resistenza è sotto accusa
(e
si
punta
allo
stravolgimento
della
Costituzione), è riprendere in mano l’iniziativa
dell’antifascismo. Il primo impegno di tutte/i i GC
sarà per la vittoria nel Referendum del 25-26 giugno in difesa della Costituzione. Anche la celebrazione del 25 Aprile deve assumere un significato decisivo che vada ben oltre la memoria. Per
questo consideriamo insufficiente l’iniziativa dei
GC su questo terreno e consideriamo grave il fatto
che, pur in presenza di un odg votato dal
Coordinamento Nazionale in cui si impegnava
l’organizzazione ad una grande iniziativa in occasione del 60º Anniversario della Liberazione, i GC
non abbiano fatto assolutamente niente. Così
come pure è assolutamente insufficiente l’impegno rispetto ad importanti appuntamenti antifascisti. Per esempio, ogni anno la prima domenica di
luglio si svolge a Schio (VI) una parata di reduci
delle SS che diventa, nei fatti, un appuntamento
europeo per tutte le organizzazioni fasciste.
Troppo spesso abbiamo lasciato alla sola iniziativa dei GC di Schio il compito di organizzare una
contro-manifestazione: ciò non deve più avvenire.
I GC devono farsi carico non solo di aderire ed
organizzare la presenza al corteo antifascista, ma
adoperarsi per coinvolgere altre organizzazioni
europee, in un grande happening antifascista.
://PARTE II
Per un nuovo
internazionalismo
Prima di tutto, sconfiggere l’imperialismo e la
“guerra preventiva”, per aprire nuove frontiere di
liberazione al futuro dell’umanità
A quasi quindici anni dalla disgregazione dell’Urss
assistiamo al tentativo di costituzione di un governo
unipolare del mondo, con il dispiegarsi del più grande progetto di egemonia globale mai partorito dalla
Storia. Tale progetto, imperniato sul comando unico
degli Usa, è segnato dalla trasformazione della Nato
e dell’intero sistema di alleanze militari euro-atlantiche in chiave offensiva e interventista. Un nuovo
fascismo aleggia sul mondo: il nucleo dirigente del
Governo Bush è convinto della propria predestinazione (addirittura divina) a dominare il mondo ed ha
elaborato una strategia di dominio di lungo raggio,
la “guerra preventiva”, con cui cerca di giustificare
l’intervento militare e ogni forma di ingerenza contro legittime resistenze popolari e movimenti di liberazione e contro popoli e Paesi che si oppongono
all’imperialismo. Questa politica genera una pericolosa corsa agli armamenti, guerra e miseria per i
popoli colpiti, torture di massa in Iraq, nuovi lager
alla Guantanamo, minacce di nuove guerre a Stati
sovrani (Iran, Siria, Corea …), oltre che drastiche
limitazioni dei diritti costituzionali dello stesso
popolo statunitense.
All’interno di questo quadro inquietante si manifestano però segnali importanti di controtendenza ed
emergono contraddizioni e potenzialità che consentono di mantenere aperta la prospettiva strategica
del superamento di un ordine mondiale dominato
dalle grandi potenze capitalistiche e dall’imperialismo. Sulla scena economica e politica mondiale
emergono alcuni grandi paesi in via di sviluppo,
destinati a modificare in profondità le relazioni internazionali ed i rapporti di forza. Di fronte alla crisi o
alla stagnazione dei paesi tradizionalmente motori
dell’economia mondiale, si assiste alla crescita di
paesi come Cina, India, Brasile, Sudafrica, ai quali si
affianca anche la Russia di Putin. E’ in questo quadro di emersione di un mondo multipolare che
maturano i piani neo-cons di dominio del mondo e
di penetrazione diretta nelle aree chiave per il controllo delle risorse idriche ed energetiche del pianeta.
Imponente è stato il movimento che si è opposto a
questa politica di guerra, riuscendo a mobilitare, alla
vigilia dell’aggressione all’Iraq, milioni di persone in
tutto il mondo. Ma il protrarsi dell’occupazione militare, insieme ad alcune debolezze soggettive e di
orientamento (come l’incomprensione del ruolo
strategico della resistenza irakena) ha finito per limitarne l’ampiezza. Importante è stata comunque la
partecipazione alle manifestazioni del 18 marzo
scorso in varie capitali del mondo, segno di una
capacità e volontà di mobilitazione non esaurite.
Anche il movimento contro la globalizzazione capitalistica, che al Forum Sociale Mondiale di Mumbai
aveva visto un importante avanzamento in termini
di consapevolezza antimperialista, ha ritrovato
nuova linfa, dinamicità e radicalità nel recente
appuntamento di Caracas, grazie anche alla spinta
rivoluzionaria venuta dall’emblematica esperienza
venezuelana. E così è stato anche per l’esperienza
straordinaria del XVI Festival Mondiale della
Gioventù, tenutosi sempre in Venezuela l’estate
scorsa. Entrambi questi meeting sono stati
13
segnati da una grande partecipazione giovanile
e dalla radicalità delle posizioni emerse; hanno
saputo porsi come anello di congiunzione tra diverse esperienze di lotta nel mondo; sono stati segnati
dalla forte partecipazione di partiti ed organizzazioni giovanili comuniste ed hanno riproposto con vitalità la questione del socialismo nel 21° secolo.
A tutto ciò, come GC, dovremmo riservare maggiore
attenzione, cogliendo quanto di nuovo e vitale si
muove tra i movimenti comunisti e rivoluzionari giovanili, a tutte le latitudini. A noi spetta un lavoro
paziente e tenace di ricucitura di rapporti e relazioni,
di elaborazioni politiche e di costruzione di iniziative
sul terreno strategico della battaglia contro la guerra
e l’imperialismo, avendo la capacità di saperla sempre intrecciare con la questione sociale per cui pace,
lavoro e giustizia sociale siano sempre percepite come
questioni inseparabili. Ciò è particolarmente difficile
nei paesi a capitalismo avanzato, come l’Italia, dove
la risposta alle attuali difficoltà è tante volte imbrigliata nell’egemonia moderata. Sappiamo invece,
come dimostra la ripresa di grandi movimenti antagonisti nella vicina Francia (dal rifiuto di massa
della Costituzione Europea alle ultime grandi lotte
contro la precarietà, alla rivolta delle periferie urbane) che esistono grandi potenzialità di lotta nelle
nuove generazioni. Dobbiamo contribuire a sollecitarle, anche nel nostro Paese, consapevoli che la strada è lunga e tortuosa, ma che non esistono scorciatoie possibili. Dobbiamo sempre ricordare che non
siamo soli in questa lotta, che essa si intreccia con le
aspirazioni di popoli e Paesi che in ogni parte del
mondo combattono contro l’imperialismo e aspirano
ad un mondo nuovo. E che, nel loro insieme, rappresentano una grande forza che può dare sostegno ai
nostri sogni e alle nostre aspirazioni, dando valore
concreto ad un nuovo internazionalismo.
Resistenza irachena
e palestinese
A tre anni dall’aggressione all’Iraq, gli occupanti
non sono più in grado di controllare parti sempre più
consistenti di territorio. La resistenza del popolo iracheno costituisce uno dei maggiori elementi di novità dell’attuale quadro internazionale. Se oggi altri
paesi non sono sotto le “bombe democratiche a stelle e strisce” e, negli Stati Uniti, si espande il movimento che chiede il ritiro dei militari dall’Iraq, è grazie alla resistenza del popolo iracheno.
Essa si intreccia con l’ormai storica resistenza del
popolo palestinese, cui va il nostro sostegno incondizionato, nel pieno rispetto delle istituzioni rappresentative che ha deciso legittimamente di darsi in
libere elezioni. Respingiamo pertanto ogni discriminazione nei confronti del governo di Hamas, come
quella recentemente espressa dall’Unione Europea,
che si è in proposito allineata alle posizioni oltranziste degli USA e di Israele. Così come respingiamo
ogni minaccia alla sovranità di Paesi come la Siria e
l’Iran, che rappresentano –insieme alle resistenze
irachena e palestinese– i principali ostacoli alla pretesa dell’asse USA-Israele di esercitare -anche col terrorismo di Stato- la propria egemonia neo-coloniale
su tutto il Medio Oriente.
grandi lotte popolari, ad esperienze meno radicali come quella del Brasile di Lula- ma comunque in
controtendenza, tutto un continente è in subbuglio e
in lotta per la propria autonomia dall’egemonia statunitense. Resta essenziale l’esperienza e il ruolo di
Cuba socialista: nonostante l’embargo ed i continui
tentativi di destabilizzazione e delegittimazione
internazionale è riuscita tra mille difficoltà a resistere, con un forte consenso popolare ed una importante partecipazione delle giovani generazioni che sono
in prima fila nella gestione del processo in corso.
Sostenere la rivoluzione cubana significa anche
valorizzare un’esperienza sociale progressiva che,
nel contesto dei Paesi in via di sviluppo, rappresenta un’alternativa emblematica alla barbarie ed alle
devastazioni del capitalismo. Così come pure è significativa l’esperienza delle FARC colombiane, capaci
di sostenere una guerriglia di lunga durata e di conquistare ed amministrare in nome dei principi del
socialismo e dell’autodeterminazione del popolo
una vasta porzione del territorio nazionale della
Colombia.
La “rivoluzione bolivariana”, guidata da Hugo
Chávez, rappresenta una speranza per l’intero continente ed è stata capace di reggere la lotta contemporaneamente contro l’imperialismo ed il capitalismo.
Infatti il Venezuela si è innanzitutto sottratto all’egemonia degli Usa nella regione e lavora per una
comunità delle nazioni latinoamericane (con formazione di poli pubblici regionali per la gestione delle
risorse energetiche, economiche e delle telecomunicazioni), contro l’Alca e per l’Alba e per un nuovo
protagonismo del continente latinoamericano, con
relazioni di cooperazione forte e privilegiata con
tutti quei Paesi che operano sulla scena internazionale in modo non subalterno all’imperialismo americano. Inoltre ha avviato un piano di riforme economiche (lotta alla fame e alle disparità, controllo pubblico dell’industria del petrolio…) sperimentando in
alcuni casi una diretta partecipazione dei lavoratori
nella gestione delle aziende e determinando nuove
forme di proprietà. Un’esperienza originale, aperta a
diversi sbocchi possibili, che ha il merito, tra l’altro,
di avere riproposto internazionalmente e con forza il
tema del socialismo nel 21º secolo.
La lotta in questa parte del mondo:
contro la Nato e contro il nuovo
capitalismo dell’Unione Europea
Sappiamo che il nostro compito nella lotta contro
l’imperialismo è quello di contrastarne politiche,
strumenti e basi logistiche presenti nel nostro Paese.
Negli ultimi dieci anni la Nato ha svolto un ruolo
fondamentale nel processo di penetrazione verso
l’est (europeo ed asiatico). La guerra all’ex
Jugoslavia ha messo in luce l’intreccio tra gli interessi Usa e quelli delle maggiori potenze imperialistiche
europee. Oggi, nei Balcani occupati dalla Nato, dilaga la malavita (con traffici che vanno dalle sigarette
alle armi, passando per la prostituzione, la tratta di
esseri umani ed il commercio clandestino di organi),
in un intreccio perverso tra affari e politica.
Al fianco di tutti i popoli in lotta
Contro le basi straniere, USA e NATO,
sul territorio italiano e nel mondo
Siamo solidali con la lotta e l’iniziativa di tutti quei
popoli e Paesi non allineati dell’Asia, dell’Africa,
dell’America Latina, che in vario modo operano per
la costruzione di un nuovo ordine mondiale multipolare, progressista, di pace e che operano per consolidare spazi economici e geo-politici autonomi dall’imperialismo. La cooperazione politica e militare
tra Cina e Russia -aperta alla collaborazione delle
forze progressiste e non allineate di ogni continentepuò rappresentare nel mondo di oggi un importante
contrappeso all’unipolarismo euro-atlantico.
In America Latina, grazie alla spinta rivoluzio14 naria imperniata sull’asse Cuba-Venezuela, a
Anche il nostro paese è coinvolto. Sul territorio italiano esistono basi militari statunitensi e della Nato
fin dal secondo dopoguerra, nate con protocolli
segreti ancora oggi vigenti. Basi che hanno segnato
in profondità la storia recente della Repubblica: la
presenza dell’esercito statunitense nel nostro territorio è stata funzionale anche ad impedire con ogni
mezzo che vi fosse un qualsiasi spostamento a sinistra dell’asse politico italiano. Nelle basi americane
ha trovato linfa la trama tra servizi segreti, governo
americano, neofascisti ed establishment democristiano che giunse fino alla costruzione di un apparato paramilitare segreto, Gladio.
La guerra nord-americana, dunque, passa anche
sopra le nostre teste, vicino alle nostre case e sottrae
alla sovranità del nostro Paese ampie fette di territorio, inquina l’ambiente, spreca risorse pubbliche,
lega il destino di migliaia di persone all’industria e
al trasporto delle armi. Si può ben dire, dunque, che
l’Italia è un “paese a sovranità limitata”, “un paese
in guerra”, poiché senza il sostegno logistico delle
basi nessuna delle guerre americane del mondo
post-bipolare sarebbe stata possibile, dal Kosovo
all’Iraq passando per l’Afghanistan. L’ampliamento
della base di Sigonella, del porto militare di Taranto,
della base di Camp Derby dimostrano l’accresciuta
importanza di questi territori per l’Usa Army.
Numerosi analisti sostengono, inoltre, che all’interno di queste basi si nascondano ordigni nucleari.
Tutto ciò nella più completa segretezza.
La forte mobilitazione contro la guerra e la presenza
di movimenti contro le basi hanno prodotto una
forte coscienza popolare, al punto che quattro
Presidenti di Regione (Sardegna, Toscana, EmiliaRomagna e Puglia) si sono già pronunciati contro la
presenza di queste strutture nei territori regionali. In
Sardegna questa battaglia è riuscita a raggiungere
una prima importante vittoria: gli Stati Uniti hanno
dichiarato alla fine dello scorso anno, infatti, che
sono pronti a dimettere la base della Maddalena,
contro cui si erano mobilitati migliaia di cittadini
sardi.
Su questo versante occorre produrre un efficace
lavoro di inchiesta e di denuncia, sulle contraddizioni concrete che la presenza delle basi porta con sé
(danni ambientali, relazione tra militari stranieri ed
abitanti, limitazione della sovranità territoriale e
dello spazio di sorvolo). I GC devono essere in prima
fila in questa battaglia, a partire dalla promozione di
una campagna nazionale che chieda di rendere pubblici i patti segreti che hanno istituito le basi.
L’obiettivo della chiusura di tutte le basi militari statunitensi nel nostro territorio si inserisce nella prospettiva della uscita dalla Nato e da tutti i teatri di
guerra, nel rispetto pieno dell’art. 11 della nostra
Costituzione.
La “Conferenza Internazionale contro le basi militari straniere e della Nato nel Mondo”, organizzata a
Cuba lo scorso novembre, indica il quadro internazionale entro cui muoverci per cominciare questa
mobilitazione. Non siamo solo contro tutti, dunque.
Il tema è stato più volte richiamato nelle del FSM. Il
Forum di Giakarta lotta per la chiusura delle basi
straniere e Nato in tutta l’area, così come i comunisti giapponesi sono da anni impegnati in una dura
battaglia contro la base statunitense ad Okinawa ed
i GC greci e cubani si sono mobilitati più volte, insieme ad altre associazioni pacifiste e di massa, contro
le basi USA di Salonicco e Guantanamo.
Non confondiamo l’Europa
con l’Unione Europea
La vittoria dei “No” in Francia ed Olanda nei referendum sull’ipotesi di trattato costituzionale europeo ha messo in evidenza la natura neo-capitalistica, liberista e atlantista dell’Unione Europea, anche
di quelle sue componenti più legate al polo francotedesco.
La mobilitazione per votare No al referendum ha
visto protagonisti i comunisti, forze della sinistra
politica e sindacale e settori consistenti del movimento operaio di quei paesi, che hanno sonoramente bocciato quel progetto. Oggi è in crisi l’impianto
di una Unione Europea segnata dai Trattati di
Maastricht e Lisbona. Rispetto a questa UE, le forze
di sinistra critica hanno diversi approcci. Alcuni, pur
contestandone l’impianto, la considerano un contrappeso utile all’egemonia Usa; altri contestano
questa Europa, chiedendone la rinegoziazione nell’ambito di un impianto UE che non viene comunque rimesso in discussione. E’ il caso del Partito
riguardino la politica degli enti regionali.
A livello provinciale gli ultimi anni ci hanno dimostrato come possa essere difficile mantenere in vita i
coordinamenti in province spesso molto grandi e
complesse: lo dimostra il fatto che molti coordinamenti non sono più in grado di riunirsi né di produrre lavoro politico.
Nelle province più grandi così come nelle grandi
aree metropolitane sarà necessario rendere la struttura più flessibile, individuando coordinatori e
responsabili di zona. Sarà inoltre necessario che i
coordinamenti locali si dotino di commissioni realmente funzionanti e che si risolva il problema del
loro finanziamento.
Grande importanza, inoltre, dovrà essere data alla
formazione. Non è una questione scolastica o di
puro nozionismo. In un contesto dominato dalla pervasività dei modelli culturali della società capitalistica, in cui la storia, la cultura, l’informazione e la
scienza vengono manipolate in funzione degli inte-
16
ressi delle classi dominanti, la costruzione di una
nuova soggettività rivoluzionaria passa inevitabilmente attraverso un’opera di contro-formazione che
ci sottragga ai modelli culturali e di relazione sociale imposti dall’attuale modo di produzione. La formazione permetterebbe all’organizzazione di attivare il suo corpo militante, non solo attraverso le iniziative di propaganda e sul terreno concreto del
lavoro politico ma su una pratica dell’auto-educazione, che renda ogni militante un dirigente nel suo
luogo di lavoro, di studio e nel partito. Del resto se
vogliamo porci l’obiettivo di diventare un’organizzazione giovanile di massa dobbiamo innanzitutto
lavorare affinché venga meno il rapporto dualistico
tra dirigenti e diretti e si affermi invece il principio
della dirigenza diffusa come strumento per la
costruzione dell’intellettuale collettivo, in cui ogni
militante sia esso stesso un dirigente: è il miglior
antidoto ad ogni forma di “leaderismo” e gestione
burocratica.
Altrettanto importante è il lavoro dei GC rispetto ad
importanti luoghi di aggregazione sociale come le
Tifoserie che rappresentano un terreno importante
di lavoro con settori giovanili popolari che ci permettono di far veicolare valori come l’antirazzismo e la
solidarietà. Sono diverse le curve di sinistra e che
hanno nelle loro effigi simboli che si richiamano
direttamente alla nostra storia di comunisti: sarebbe
sciocco non lavorarci assiduamente, magari organizzando eventi sportivi connotati da messaggi sociali e
politici alternativi o partecipare ad eventi quali i
Mondiali Antirazzisti, che hanno il pregio di legare i
valori dello sport a quelli sociali e di impegno antirazzista ed antifascista.
Questa Conferenza serve a darci una solida base
organizzativa e politica. La sfida, per l’oggi e per
il domani, è la costruzione di una moderna organizzazione giovanile comunista che si ponga
l’obiettivo di trasformare il presente e conquistare
il futuro!
della Sinistra Europea, su cui continuiamo ad esprimere un parere negativo perché ha diviso le forze
comuniste e di sinistra alternativa e si muove all’interno di una logica tutta interna all’UE, sulla base di
una piattaforma assai simile a quella della sinistra
socialdemocratica. Noi pensiamo invece che le forze
che si richiamano al socialismo e ad una alternativa
anti-liberista, che vogliono un’Europa unita ed autonoma dagli Usa e dalla Nato, fondata sulla cooperazione tra Stati sovrani e non sul potere di istituzioni
sovranazionali subalterne alle maggiori potenze
imperialistiche del continente, amica dei popoli del
Sud del mondo e non ostile alle loro lotte di liberazione, non possano perseguire questo progetto dentro il quadro di compatibilità dell’UE, ma debbano
avanzare un progetto alternativo, che comprenda
tutto il continente, dal Portogallo alla Russia.
Occorre dotarsi di una strategia di superamento
dell’UE e su questo coinvolgere, anche a livello giovanile, tutte le organizzazioni comuniste e progressiste del continente, senza settarismi e preclusioni o
nuovi steccati tra Est e Ovest. Per questo riteniamo
indispensabile che si avvii la fase costituente di un
processo per la formazione di un forum europeo che
coinvolga tutte le organizzazioni giovanili comuniste, le forze rivoluzionare e di solidarietà con i popoli del mondo e gli studenti. Un forum in grado di
promuovere iniziative internazionali contro la guerra ed il neoliberismo, di diventare protagonista del
prossimo Forum Sociale Europeo e di impegnarsi
nella diffusione di valori quali la solidarietà sociale,
l’antirazzismo e l’antifascismo.
://PARTE III
La sfida che ci attende:
la riorganizzazione
dei GC
Sono passati quattro anni dall’ultima Conferenza dei
GC, durante i quali la nostra organizzazione ha
attraversato fasi difficili, complesse, variegate.
La scorsa Conferenza si chiuse nella fase alta dei
movimenti che, dopo Genova, hanno attraversato e
rinnovato la politica nel nostro Paese. Proprio del
rapporto con i movimenti i GC fecero la principale
guida della loro azione politica. Si disse, allora, che
la forma partito era qualcosa di ormai superato, l’organizzazione un residuo del passato e che solo i
movimenti e mai i partiti sarebbero stati capaci di
guidare il cambiamento. Sulla base di queste posizioni si decise di investire tutta l’organizzazione
nella costruzione dei laboratori della disobbedienza,
scambiando la complessità del movimento con una
sua componente. Il risultato fu, purtroppo, assai
magro. La retorica del superamento dei partiti portò
molti compagni ad uscire dai GC per legarsi ai disobbedienti. Ma quella importante fase stava ormai per
giungere alla conclusione: i social forum esaurirono
presto la propria spinta propulsiva, si consumò la
rottura coi disobbedienti e i GC rimasero orfani di
una linea politica, deboli nell’organizzazione, incapaci di radicarsi nelle lotte e nei territori.
Dopo quattro anni, oggi, si giunge ad una nuova
Conferenza con una struttura ormai pressoché inesistente: molti coordinamenti provinciali e regionali
sono da tempo scomparsi; dove sono ancora in funzione, invece, sovente non riescono a coordinare
province spesso troppo grandi. Il Coordinamento
Nazionale e l’Esecutivo da esso espresso non sono
stati in grado di dare unità e compattezza alla struttura, di proporre e realizzare su tutto il territorio
nazionale campagne e lotte, di stimolare il dibattito
e la discussione teorica. A poco a poco si è assistito all’affievolirsi di un’idea di appartenenza alla
nostra struttura e sono venute meno forme partecipative di discussione in grado di dar un senso alla
nostra militanza.
Il tesseramento 2005 si è chiuso con 15.000 iscritti,
un risultato abbastanza positivo. Ma questo dato
non è territorialmente omogeneo. La presenza dei
GC è ancora a macchia di leopardo con un grosso
numero di iscritti in una sola federazione per regione e le restanti territorialmente contigue che vedono,
in alcuni casi, solo poche decine di tesserati. E’
necessario pensare al tesseramento come momento
fondamentale per la crescita ed il radicamento, individuando un responsabile nazionale e responsabili
nei coordinamenti provinciali. È necessario produrre
materiale per il tesseramento ed organizzare una
campagna annuale. L’attività annuale dei GC deve
iniziare con una grande campagna per il tesseramento e chiudersi con la festa nazionale.
Per questi motivi è importante curare l’organizzazione. Rappresenta la nostra capacità di intervenire
nella realtà, di comprenderne le contraddizioni per
tradurle in proposta politica, di mobilitare forze ed
energie per riunire mille battaglie in un’unica battaglia: quella per il superamento del capitalismo, per il
socialismo. Per questo vogliamo continuare a distinguerci. Dicendo che nessun partito comunista
potrebbe mai vivere senza movimento, poiché nel
movimento esso trae l’energia per la sua azione politica. Ma che i movimenti senza un partito, senza
organizzazione, radicamento, unità non potranno
mai raggiungere l’obiettivo di cambiare il mondo.
Da questa Conferenza, dunque, la nostra struttura
deve rinascere, più forte e organizzata: è necessario
un radicale cambiamento di rotta a partire dal ruolo
del Coordinamento Nazionale che deve diventare il
vero luogo di discussione e decisione della linea
politica e perdere quella funzione di mera ratifica di
decisioni già prese in Esecutivo e spesso rese già esecutive. Il Coordinamento Nazionale dovrà riunirsi
con regolarità e frequenza (non ogni quattro o cinque mesi!) individuando temi e campagne su cui
investire le proprie energie, dotandosi di commissioni e gruppi di lavoro permanenti, individuando
anche un momento periodico dove confrontarsi
direttamente con i coordinatori provinciali e regionali, al fine di socializzare esperienze in cui possano
emergere le difficoltà presenti nei vari territori.
L’unità nasce dalla collegialità e dalla condivisione
del lavoro: le differenze devono assumere il ruolo di
ricchezza e non di ostacolo al lavoro comune. Per
rendere realmente efficace e regolare l’attività è
necessario dare vita a commissioni tematiche su singoli settori di intervento: manca ancora una forte
campagna nazionale sulla precarietà, sulla chiusura
di tutte le basi militari presenti sul territorio, sull’immigrazione, sul diritto allo studio. Sarà necessario
investire molte energie nella costruzione di una rete
nazionale dei collettivi, intesi sia come spazio necessario per la produzione di conflitti sia come irrinunciabile risorsa per la crescita della nostra organizzazione. Dal Coordinamento Nazionale, inoltre, dovrà
partire lo stimolo per la costruzione di nuovi circoli
universitari: riteniamo impensabile che un’organizzazione con 15mila iscritti abbia solo 8 circoli universitari. Si tratta, dunque, di costruirne di nuovi in
tutti i grandi poli universitari e di renderli luoghi di
stimolo alla nascita e al radicamento dei collettivi.
Contemporaneamente va rilanciato il lavoro nelle
scuole medie superiori sia promovendo collettivi
d’istituto e creando circoli di GC degli
studenti medi sia lavorando assiduamente in ogni
mobilitazione.
La divisione in gruppi di lavoro permette di rendere
collegiale il lavoro del Coordinamento, così come
pure permetterà di rendere più snella (e quindi più
facilmente convocabile) la struttura. Non vogliamo
con questo ribaltare o non tener conto della maggioranza politica del Coordinamento ma superare quel-
la dialettica stantia ed inefficace che vede
l’Esecutivo “proporre la linea” ed il Coordinamento
riprodurre in sedicesimi il dibattito del Prc. Non
abbiamo bisogno di questo, bensì di un’assunzione
di responsabilità collettiva. Così come sarà necessario mandare tutti e 40 i membri del Coordinamento
in giro per le federazioni, soprattutto dove c’è bisogno di ripartire nel lavoro di costruzione dei GC.
Questo darà a ciascuno la possibilità di conoscere
tutta l’organizzazione e non solo le federazioni a lui
politicamente omogenee. Solo così si supera realmente il lavoro “per correnti” favorendo circolazioni
di idee, un dibattito trasparente e l’investimento di
ben 40 compagne/i su tutto il territorio nazionale.
L’Esecutivo deve essere il raccordo ed il fulcro politico del lavoro del Coordinamento. Non è necessario
che sia composto interamente da funzionari pagati
(anzi, bisognerebbe snellire l’apparato centrale e trasferire risorse sul territorio), ma è fondamentale che
contenga al suo interno la pluralità del dibattito presente in tutta l’organizzazione. Deve curare prioritariamente il rapporto con i territori e lavorare per
costruire relazioni con altre organizzazioni sociali,
politiche, giovanili e di movimento. Così come pure
deve essere da stimolo al lavoro delle commissioni e
del Coordinamento tutto e gestire l’aspetto finanziario del lavoro politico svolto, redigendo annualmente un bilancio: si è resa necessaria maggiore trasparenza e collegialità nella gestione delle risorse economiche a disposizione dei GC.
Particolare importanza dovrà essere data alla comunicazione. Bisogna pensare ad un inserto da pubblicare mensilmente su Liberazione attraverso cui
affrontare temi dedicati alla condizione giovanile.
Un lavoro che può essere svolto direttamente dalle
varie commissioni che avrebbero così uno spazio
per poter lanciare campagne, fare i bilanci di quelle
svolte e far conoscere a tutte/i i lavori messi in cantiere. Contemporaneamente bisognerebbe pensare a
pubblicare su Liberazione il dibattito svolto durante
le riunioni di Coordinamento Nazionale (come
avviene per il Cpn) così da renderlo fruibile a tutti.
Il sito internet risulta inadeguato, sia per la comunicazione interna sia per quella esterna. Deve diventare uno strumento attrattivo per i non iscritti e funzionale per i GC. Deve essere diviso in sezioni tematiche e diventare nei fatti la “cassetta degli attrezzi”
per il lavoro dei vari territori. Vanno quindi sfruttate
risorse e capacità anche al di fuori del
Coordinamento Nazionale.
Contemporaneamente andranno trovate nuove
forme di comunicazione: dalla pubblicazione di
giornali (meglio ancora riviste) nazionali, alla possibilità di dar vita (così come hanno già fatto diverse
organizzazioni europee) a radio via internet.
È evidente che per rendere attive, ricche e partecipate queste esperienze, la loro gestione non deve essere esclusivamente di parte. Anche qui si rende evidente uno dei problemi principali: quello di uscire
da una logica proprietaria e privatistica dell’organizzazione.
A tal proposito, la Festa Nazionale dei GC deve
diventare il momento massimo di partecipazione e
condivisione politica e materiale di tutti i GC.
Collegialità nella preparazione e nella gestione: è la
nostra festa oltre che uno strumento fondamentale
per radicarsi in territori dove siamo poco presenti,
per lanciare campagne, ma anche per rendere realmente condiviso il senso di appartenenza alla stessa
organizzazione.
I coordinamenti regionali rivestono un ruolo sempre più importante: lo spostamento di funzioni dallo
Stato alle Regioni su questioni centrali (sanità, istruzione, ambiente, lavoro) rende la costruzione e il rafforzamento del livello regionale della nostra organizzazione un compito irrinunciabile. In questo senso i
coordinamenti regionali non dovranno limitarsi a
mettere in comunicazione i vari coordinamenti provinciali, ma dovranno darsi il compito di pro15
durre lavoro politico e momenti di lotta che
GIOVANI COMUNISTI:
DI LOTTA O DI GOVERNO
Per una sinistra anticapitalista globale
Firmatari (in neretto i membri del coordinamento nazionale GC):
Danilo Corradi (esecutivo nazionale GC), Chiara Siani (coordinamento naz. GC), Emiliano Viti (coordinamento naz. GC), Giulio Calella
(coordinamento naz. GC), Tatiana Montella (coordinamento naz. GC), Alberto Ghidini (consigliere Com.Coccaglio GC Brescia),
Alessandra Fragiotta (GC Latina), Alessandro Cauli (GC Oristano), Alessandro Cirillo (GC Gorizia), Alessandro Corrieri (consigliere com.
Sesto fiorentino-GC Firenze), Alessandro Saullo (GC Gorizia), Alessia Grimaldi (GC castelli), Alessio Aringoli (coord. Reg. GC Lazio), Alex
Burlacu (GC Torino), Alex Gaudilliere (GC Roma), Alexander Schnabel (GC Firenze), Alioscja stramazzo (GC Torino), Andrea Affini- GC
Mantova, Andrea giampieri ( Gc Ancona), Andrea Lapini(GC Roma), Andrea Mastrototaro (GC Bari), Angela Ranauda (GC Roma), Angelita
Castellani (GC Roma), Angelo Cardone (coordinatore regionale GC Puglia), Angelo Loreti (GC Grosseto), Antonella Moretti (CPR - GC
Bari), Antonello Zecca (GC Napoli), Antonio Ardolino (GC Roma), Antonio Arena ( GC Cosenza), Antonio Montefusco (GC Roma), Antonio
Sanguinetti (GC Cosenza), Arianna Mazzieri (Gc Ancona), Ariela Spalla (GC Firenze), Armando Morgia (GC Roma), Assia Petricelli (GC
Napoli), Aurora Donato (GC Roma), Barbara De Vivo(GC Roma), Boris Sollazzo (GC Roma), Brune Seban (GC Roma), Chiara Carrat (GC
Napoli), Cinzia arruzza (GCRoma), Claudia Lo Presti (GC Roma), Claudio Galeota (GC Latina), Corrado Patuzzi (coordinatore GC
Mantova), Cristian dal Grande (CPN – GC Venezia), Cristina Giardullo (GC Roma), Cristina LoRusso (GC Bari), Daniele D’ambra (GC
Roma), Daniele Di Stefano (GC Bari) , Daniele Ippolito (Coordinatore GC Pisa), Danny La Salvia (GC Salerno), Dario Antonaz (CPF Gorizia),
Dario Dinepi (GC Roma), Debora Pandini (GC Ravenna), Domenico Marazzia (GC Salerno), Elisa Coccia (GC Roma), Emanuela Stagnozzi
( CPF - GC Ancona), Emanuele Rossi ( Segretario circolo Fabriano – AN), Emanuele Verrienti (gc Trieste), Emiliano Raponi (GC Roma),
Enrico Bertelli (coordinatore GC Verona), Enrico Calossi (GC Grosseto- cons. com. Follonica), Enrico Lancerotto - GC Mantova, Enrico
Sist (gc Trieste), Enrico Strina (GC Roma) , Ercole Rossi (GC Latina), Evrin galesso (GC Venezia), Fabio Ruggiero (GC Napoli), Federico
Cuscito (segr. Circ. L.Maitan CPF- Bari), Ferdinando Nappi (GC Bari), Filippo Renzi (GC Rimini), Francesca Deprosperis, Francesco
Ardolino (CPF -GC Salerno), Francesco Locantore (GC Napoli), francesco scandinaro ( Gc Ancona), Frederic Yernia (GC Torino),
Giampaola Tebano (GC Taranto), Giancarlo Posi (GC Lecce), Gianluca Cavotti (GC Napoli), Gianni De Giglio (GC Bari), Giorgio Cordiano(GC
Torino), Giorgio Stamboulis (coord.GC Ravenna), Giovanni Tomasin (GC Gorizia), Giulia Borroni - GC Mantova, Giulia Heredia (GC Castelli
litoranea), Giulia Norcini ( GC Grosseto), Giuliano Minervini (GC Bari) , Giulio Tamburini - GC Mantova, Giuseppe Maniglia (coordinatore
GC Taranto), Giuseppe Matese (GC castelli-litoranea), Giuseppe Mazzotta (GC Bari), Giuseppe Teti(GC Roma), Gorini Federico (GC Roma),
Guido Ricci (GC Roma), Ilaria Nardone ( GC Venezia), Jacopo Menechelli (GC Perugia), Jacopo Vivarelli (GC Livorno), Lavinia Minozzi (gccpf Trieste), Leonardo Masone ( segr. Circolo Pietralcina – Benevento), Lia De Lellis (GC Napoli), Loredana Marino (CPF- GC Salerno),
Lorenzo Allegrini (resp. GC Fabriano - AN), Luca Gori (GC Roma), Luca Grigoli, GC Torino (GC Torino), Luca Patruno (CPF-GC Bari), Luca
Sebastiani (Coordinatore GC Ancona), Luciano Ricci (GC Napoli), Manuele Bellintani - GC Mantova, Mara Favale (GC Taranto), Marco
Antonutti (CDA “La Sapienza” - GC Roma), Marco Bragaglia(GC Roma), Marco Bufalini ( Gc Ancona), Marco Dotti (GC Brescia), Marco
Filippetti (GC castelli), Marco Manzo (GC Roma), Marco Montanari (GC Rimini), Marco Nicolai GC Gorizia - consigliere comunale Gorizia,
Marco Pettenella (GC Verona), Maria Gioia Caleffi (GC Modena), Marilena Maragliulo (GC Lecce), Matteo Baronchelli (CPF - GC Brescia),
Maurizio Ribechini (GC Pisa), Mauro Sellaroli (GC Verona), Melissa Zavatta (GC Rimini), Michela Puritani ( coord. Prov GC Roma), Michele
Azzerri (segr. Circolo di Aprilia - Gc Latina), Michele Martinelli (GC Foggia), Michele Palmieri (coordinatore GC Gorizia), Michele Ravenna
( GC Massa e Carrara), Michele Spaventa (GC Napoli), Mimmo Fiorani (GC Grosseto - Cons Com Follonica), Mimmo Impiombato (GC
Mantova), Mirko Lui - consigliere comunale Suzzara- GC Mantova, Monica Borgani - GC Mantova, Nadia Longo (GC Bari) , Nando D’anna
(GC Napoli), Nice Canari (GC Latina), Nicola Vigliotti (Cpf – Direttivo GC Bari), Nicole Merli - GC mantova , Orlando De gregori, GC Torino
(GC Torino), Paola Baronchelli (GC Brescia), Paola Denigris (GC Roma), Piero DeMarchi (GC Trieste), Pierpaolo Coccia (GC Roma), Pina
Mandato (GC Napoli), Raffaella Petricca (GC Roma), Roberto Santi (GC Bologna), Roberto Vallepiano (GC Imperia), Rosa Matucci (GC
Firenze), Sara Farris (GC Roma), Sara Moncelsi (GC Nuoro), Sara Trusciglio, GC Torino (GC Torino), Scilla Albertini (GC Mantova), Simone
Ortori ( Coordinatore GC Massa e Carrara), Sonia Doronzo (GC Torino), Stefano Belli (GC Firenze), Tommaso Casati (GC Torino),
Tommaso Iori (consigliere comunale Trento), Vittoria Derisi (GC Taranto), Simone Ortori ( Coordinatore GC Massa e Carrara), Sonia
Doronzo (GC Torino), Stefano Belli (GC Firenze), Stefano Gioffrè (GC Roma), Tommaso Casati (GC Torino), Tommaso Iori (consigliere
comunale Trento), Vittoria Derisi (GC Taranto)
[1]
A sei anni dalla nascita del movimento globale il mondo è diviso in due. Da una parte la straordinaria vittoria del movimento francese, il successo del Forum sociale di Atene, il processo rivoluzionario del Venezuela, la nazionalizzazione del gas
nella Bolivia dei movimenti. Dall’altra il neoimperialismo Usa, la guerra e le politiche neoliberiste, lo
scontro tra barbarie e la precarietà come nuovo paradigma sociale. In mezzo il fallimento del progetto
del centrosinistra globale di Blair, Schroder e Lula,
ovvero dell’idea di un compromesso sociale tra liberismo e movimenti.
[2]
È in questo contesto che si apre la terza
Conferenza
Nazionale
dei/delle
Giovani
Comunisti/e. Senza dubbio, la più importante. La
fase politica italiana si presenta particolarmente
complicata: Berlusconi è stato sconfitto, ma la risicatissima vittoria elettorale dell’Unione dimostra quanto ancora sia forte ciò che abbiamo definito “berlusconismo” – la miscela di liberismo sfrenato e autoritarismo securitario, razzista e clericale. E quanto
sia debole l’idea di alternanza rappresentata da una
coalizione di Centrosinistra più attenta ad ascoltare
il Fmi, la Commissione europea o Confindustria che
le lotte sociali.
[3]
Questo documento nasce da questa consapevolezza e dalla percezione di una difficoltà profonda dei/delle Gc cresciuta negli ultimi due anni:
una difficoltà di progetto, di radicamento, di prospettiva. Molti di noi si riconobbero nella scorsa
conferenza nel primo documento, soprattutto per la
priorità assoluta data all’impegno dei/delle Giovani
comunisti/e alla costruzione del movimento antiliberista a partire dalla rottura del Prc con il primo
governo Prodi. Avevamo ancora fresche negli occhi
le immagini entusiasmanti e drammatiche di
Genova, eravamo nel pieno delle prime mobilitazioni contro la guerra permanente avviata dall’amministrazione Bush, e della ripresa del conflitto sociale
con le lotte in difesa dell’articolo 18. Una straordinaria stagione di movimenti in cui la nostra organizzazione – pur con limiti e contraddizioni – ha avuto un
ruolo centrale. Ma in coincidenza con la scelta del
nostro Partito di entrare mani e piedi nella gabbia
dell’Unione, questo percorso ha subito una brusca
interruzione.
[4]
I movimenti – viceversa – non si sono per
nulla fermati, anche nei mesi precedenti le elezioni
politiche. Il movimento studentesco di ottobre è
stato il più importante per intensità e partecipazione
dai tempi del movimento della Pantera; le mobilitazioni delle donne e del movimento Lgbtq sul tema
della laicità, delle unioni civili per la difesa e il
miglioramento della 194 sono state impressionanti; e
ancora le lotte contro la Tav, la campagna contro la
Bolkestein e e sui beni comuni, le lotte metalmeccaniche hanno visto ovunque una grande partecipazione giovanile. Rinunciare ad intervenire in queste
potenzialità con un nostro progetto di trasformazione rischia di farci allontanare dalla prospettiva di
un’alternativa di società – proprio mentre in altre
parti del mondo si torna a parlare di socialismo.
[5]
L’internità all’Unione, al di la dei proclami,
pesa complessivamente come un macigno sui Gc, e
rende strettissimo lo spazio dell’autonomia e dell’iniziativa. Quest’affermazione non è astratta, ma
vive nella concretezza delle scelte di questi ultimi
mesi. Dal movimento contro la guerra, alla mobilitazione contro la Bolkestein, al movimento studentesco, i Giovani Comunisti in quanto tali, al di là dell’impegno di singoli compagni o di Federazioni locali, non sono stati in grado di promuovere la costruzione, la messa in relazione e la radicalizzazione dei
movimenti. Non ci sono state campagne adeguate,
materiali utili, riunioni per coordinare i/le tanti/e Gc
che hanno dimostrato un generoso attivismo in queste lotte. Un’organizzazione nazionalmente ferma, a
meno che non si tratti di riprodurre in sedicesimi
l’iniziativa del Partito sulle primarie o sul sempre
più astratto percorso della Sinistra europea.
[6]
Non crediamo che il problema sia risolvibile con astratti “proclami” di internità a un generico
movimento, o nella frase di un documento che ricordi l’esperienza di Genova. Il problema è di natura
tutta politica, e riguarda le scelte dell’oggi.
L’internità all’Unione di centrosinistra, la relazione
tra questa scelta e la rottura degli spazi unitari di
movimento e delle lotte sociali, la sfida dellla costruzione di una sinistra alternativa e anticapitalista, ne
rappresentano per noi il cuore. Il grande movimento
francese contro il Cpe, sostenuto da una sinistra anticapitalista del tutto autonoma da quella moderata
ma capace di sfidarla sui contenuti, costringendola
in percorsi di lotta comuni capaci di battere il
Governo, è forse il miglior esempio dell’alternativa di
collocazione e di strategia che proponiamo.
[7]
La necessità di oggi per i Gc è dunque rilanciare la costruzione di un’organizzazione vera –
riprendendo il percorso dell’autoriforma. Un soggetto politico in grado di avere un proprio profilo autonomo e anticapitalista, e dunque necessariamente
critico e schierato per la costruzione dell’opposizione
sociale alle politiche neoliberiste e di guerra – da qualunque governo vengano.
1. Per una sinistra
anticapitalista globale
La Comune è la riappropriazione del potere statale
da parte della società, di cui diviene la forza viva,
invece di essere la forza che la domina e soggioga.
(Karl Marx)
1.1 Crisi capitalistica
e guerra globale permanente
La guerra globale e permanente è un fattore strutturale del nostro tempo. Scatenata in nome della “lotta
al terrorismo”, la guerra si presenta come la risposta
obbligata alla crisi dell’accumulazione capitalistica.
La fase aperta dall’amministrazione Bush, già prima
dell’11 settembre, rappresenta una svolta della politica mondiale. Il fatto che questa strategia muova
dall’interno di uno Stato nazionale, e utilizzi i suoi
tradizionali dispositivi, non fa che dimostrare la fretta e la superficialità con cui se n’era dichiarata la
crisi e la nascita di un’impero indistinguibile e omogeneo al suo interno.
Negli ultimi due decenni l’egemonia imperiale Usa si
è esercitata tramite il predominio finanziario, quello
scientifico e tecnico, e la supremazia militare, anche
come risposta all’emergere di altri imperialismi concorrenti. Questa dinamica, oltre a produrre uno stato
di eccezionalità democratica (Guantanamo, sviluppo
abnorme degli apparati di spionaggio e controllo),
spinge anche altri Stati, o gruppi di Stati come
l’Unione europea, ad adeguarsi all’offensiva. La lotta
per le risorse energetiche del pianeta, per acca17
parrarsi mercati di sbocco, le politiche di riarmo
e di costruzione dell’esercito europeo, si coniugano
alla guerra interna sociale che si chiama precarietà,
politiche securitarie, riduzione degli spazi di agibilità democratica. Vent’anni di “globalizzazione” e di
guerra si riassumono in un dato che ne determina il
segno di classe: il 20% delle ricchezze mondiali si è
trasferito dal lavoro salariato ai profitti, concentrandosi sempre più nel 5% più ricco della popolazione
mondiale. Nella sua faccia esterna e interna la guerra si dimostra per quello che è: la risposta più
aggressiva e radicale alla crisi di accumulazione
capitalistica.
La guerra unilaterale è dunque un risvolto di questa
lotta concorrenziale tra diversi imperialismi, il G8 è
il luogo della concertazione di questa conflittualità,
l’Onu la facciata “presentabile” utilizzabile a piacimento. I fronti di questa guerra si chiamano Iraq,
Iran, Afghanistan, Palestina, America Latina e allo
stesso tempo Bolkestein, Patrioct act, processo di
Bologna, Mastricht... In questo contesto i terrorismi
di matrice islamica propongono una loro specifica
opzione politica per conquistare la direzione degli
Stati arabi. Il terrorismo non solo non può rappresentare in alcun modo un alleato nella lotta contro
l’imperialismo, ma rappresenta un ostacolo da battere perchè inibisce le possibilità di liberazione dei
popoli oppressi. Se è vero che il terrorismo si nutre
e cresce anche grazie alla disperazione prodotta
dalla guerra, non è vero il contrario, ovvero che la
guerra sia la risposta al terrorismo. Non esiste dunque nessuna “spirale”.
Noi siamo contro il terrore, a partire da quello prodotto dagli eserciti “occidentali” che sparano sui
civili a Nassirya, che annientano Falluja con il fosforo bianco, che torturano nelle carceri. Siamo con le
resistenze, quella del sindacato iracheno che lotta
contro l’occupazione e la privatizzazione dei pozzi
petroliferi, quella per l’autodeterminazione palistenese, quella del Chiapas e di tutti popoli latinoamericani, quella dei movimenti globali. Non rinunciamo alla critica della violenza, ma rifiutiamo due idee
implicite dell’ideologia della non violenza: l’idea che
la non vilenza possa essere una scelta unilaterale –
non siamo noi soltanto a decidere quali forme assumerà un conflitto – e l’idea che violenza e non violenza siano un’opposizione, cioè che la non violenza sia il contrario della violenza. Nella realtà l’una e
l’altra possono manifestarsi come una sola cosa,
quando l’impossibilità di organizzare una difesa non
pone alcun limite alla violenza.
La nuova offensiva della destra globale si trova però
di fronte ad una imponente crisi di consenso. Il fenomeno più evidente di questa crisi di consenso è la
nascita del cosiddetto movimento globale che ha
rimesso all’ordine del giorno l’ipotesi di un’alternativa. Oggi dopo sei anni, dopo la fase dell’affermazione di se, quei movimenti sono entrati in una
nuova fase, quella del conflitto sociale e della discussione concreta e strategica di come conquistare l’altro mondo possibile.
1.2 Il realismo del sogno rivoluzionario
Rifondazione Comunista aveva affermato, pochi
anni fa, che la profonda crisi economica globale in
atto da due decenni ha annullato i margini di riformismo, di mediazione sociale. Che non solo, dunque, la relazione coi movimenti e la costruzione dei
conflitti sociali era centrale – ma che, sul piano politico, era necessario recuperare fino in fondo la categoria e la prospettiva della Rivoluzione. Siamo convinti che questo sia ancora il terreno su cui impegnarci fino in fondo, l’unico per cui valga la pena di
dedicare alla politica una parte del nostro tempo di
vita, dominato dalla precarietà.
Di questo ci parla il grandioso processo politico in
corso in America Latina. Si parla di socialismo, in
Venezuela, dove siamo di fronte ad un vero pro18 cesso rivoluzionario, ma anche in Bolivia, ed in
forme più o meno contraddittorie in tutto il continente. Autogestione delle aziende da parte dei lavoratori, nazionalizzazione di interi settori produttivi,
socializzazione delle terre, esperimenti di democrazia diretta nei quartieri. Sei anni fa sembrava impossibile, oggi è un processo contraddittorio certo, ma
reale. Avanza un’alternativa radicale al liberismo
che si confonde sempre più con un’alternativa di
massa al capitalismo mentre, non a caso, il neoriformismo di Lula entra in crisi.
Per la nostra generazione politica, la tensione rivoluzionaria è maturata a cavallo di Nizza, Praga,
Genova, Porto Alegre, di Firenze, Parigi, Londra,
Atene.
Crediamo che la costruzione dell’alternativa anticapitalista non consista nell’applicare un manuale
pronto all’uso, ma nel costruire strumenti politici,
sociali, teorici nuovi, all’altezza dello scontro e delle
possibilità reali, capaci di confrontarsi criticamente
con l’esperienza del ‘900 senza rimozioni. Nella
società, contro la loro società. Con la politica, contro
la loro politica. Questo abbiamo pensato e praticato
da Seattle a oggi. Non vogliamo smettere.
L’alternativa non è tra i “duri e puri” e i “realisti”.
Non crediamo ci sia nulla di realistico nell’illudersi
che si possa cambiare la realtà attraverso un governo con Prodi, Treu, Rutelli e Mastella.
Non crediamo ci sia nulla di realistico nel pensare
che si possano costruire movimenti e conflitti se si
manovra dentro o nei pressi “della stanza dei bottoni”, contro cui quei movimenti si rivolgono – che sia
il Consiglio dei Ministri, o il prossimo G8.
Lo dicevamo tutti nel 2002, noi lo affermiamo ancora: non c’è una terza via tra la globalizzazione liberista e l’alternativa anticapitalista.
1.3 Il potere di cambiare il mondo
Il movimento dei movimenti è riuscito a rompere la
gabbia del pensiero unico liberista ed è tornata d’attualità l’idea che un’altro mondo è possibile, l’idea
di una società alternativa al capitalismo, in cui le
donne e gli uomini si riapproprino del proprio
mondo. L’idea di un socialismo per il XXI secolo.
Siamo consapevoli che la costruzione di un altro
mondo avverrà solo attraverso il crescere dei movimenti e delle strutture di contropotere.
“L’emenacipazione dei lavoratori sarà opera dei
lavoratori stessi”. Ma questo non averrà spontaneamente, l’Argentina può esserne un esempio. I processi rivoluzionari sono sempre stati frutto del rapporto dialettico tra un’organizzazione politica rivoluzionaria e l’autorganizzazione dei soggetti della
trasformazione. Ma non si costruisce una nuova soggettività critica senza un’idea di programma,
un’idea-froza che prefiguri la società che vogliamo.
È necessario dunque stare nei movimenti e provare
a sostenerli, proponendo, democraticamente e collettivamente, una nostra visione complessiva della
società. Non serve un’organizzazione che preservi
staticamente una qualche presunta ortodossia, nè
serve semplicemente rincorrere i movimenti. È la
combinazione tra la costruzione dei movimenti
sociali, la crescita di una sinistra anticpitalista, e
l’accumulazione di forze e fiducia sociale nella possibilità di cambiare il mondo che può affermarsi
l’idea di un’alternativa, capace di porre la rottura
con il sistema capitalistico e il suo potere, ponendo
la questione della proprietà dei mezzi di produzione,
e costruendo un’altra società e quindi un’altra politica. Dentro la possibilità della rottura si riassume un
modo diverso di intendere il potere, capace di coinvolgere tutti i soggetti e di rappresentare un antidoto alle storture burocratiche e centralistiche e al
potere di pochi: il poter fare.
Ci ostiniamo a non essere rinunciatari: vogliamo
avere il potere di cambiare il mondo.
Per questo non ci serve rimuovere il passato, nè
imbalsamarlo. Il ‘900 è stato un tempo fatto di gran-
di vittorie, di grandi occasioni mancate, di grandi
sconfitte. Ma è stato anche la prima epoca della storia in cui i soggetti sociali oppressi sono stati protagonisti, e si sono posti sul terreno politico della rottura rivoluzionaria. Abbiamo bisogno della cassetta
degli attrezzi che ci consegnano le vittorie così come
i vinti del ‘900, per rifondare, in termini concreti e
attuali, l’urgente prospettiva del comunismo.
1.4 Italia: l’alternanza liberista
o l’alternativa dei movimenti
I/le Giovani Comunisti/e, nella nuova fase politica
aperta dalla sconfitta del governo Berlusconi, sono
di fronte ad un bivio, ad un punto di svolta decisivo.
Non si tratta di riprendere il dibattito del Congresso
del Partito. Ma di prendere decisioni che saranno
determinanti per il futuro della nostra organizzazione.
Nonostante la crisi economica, la crescita enorme
della precarizzazione, l’erosione del potere d’acquisto di salari e pensioni, il fallimento in Iraq ed in
Afghanistan, i grandi movimenti sociali di questi
cinque anni – nonostante tutto ciò, la Cdl ha preso
gli stessi voti dell’Unione. Ed ha sfiorato la vittoria.
L’Unione e il suo “programma”, a cui il Partito ha
scelto di partecipare organicamente, ha dimostrato
di non essere in grado di mettere in crisi il blocco
sociale del Centrodestra. I settori popolari che lo
avevano sostenuto negli anni Novanta, ed in particolare durante l’opposizione al primo Centrosinistra,
sono tornati a votare per Berlusconi.
Si poteva sconfiggere ben più nettamente il berlusconismo? Senza dubbio, soprattutto si doveva. In
Francia il movimento contro il Cpe, oltre a vincere
socialmente, è arrivato vicino a far cadere un governo: Berlusconi non sarebbe potuto cadere così, se
non si fosse privilegiata l’infinita attesa del voto?
Questi cinque anni sono stati la più grande fase di
mobilitazione sociale della storia italiana dagli anni
Settanta ed hanno messo in crisi il Governo delle
destre. Si poteva provare a far cadere il Governo
Berlusconi dalle piazze, nel momento della sua maggior debolezza, ma dopo le elezioni europee e regionali è cominciata la frustrante attesa del voto. La
strategia e i contenuti della sinistra moderata hanno
così prevalso sui nostri e su quelli espressi dai movimenti in questi anni. Berlusconi ha avuto il tempo di
riorganizzarsi e di recuperare il consenso perduto.
Non c’era – come sempre in politica – “una sola
scelta possibile”. Il buon risultato della sinistra
dell’Unione, ed in particolare di Rifondazione
Comunista, dimostra che nella società c’è voglia di
alternativa. Il moderatismo nei toni, ed il social-liberismo nella sostanza della proposta politica, hanno
impedito all’Unione di raccogliere questa domanda.
Il recupero finale di Berlusconi, costruito sulla proposta di abolizione dell’Ici (che Rifondazione proponeva da 5 anni) sulla prima casa mentre l’Unione si
affannava a spiegare che “Non si può fare” – è
l’esempio emblematico di quanto detto.
Nella autonomia della politica istituzionale si possono ignorare questi elementi, guardando solo i movimenti dei ceti dirigenti, le ipotesi neo-centriste, le
tentazioni di Grande Coalizione.
Rischi reali, che devono essere contrastati, ma che
hanno radici sociali ben più profonde del balletto
istituzionale di questi mesi. L’alternanza tra due poli
liberisti, seppur con due distinti liberismi, non ha
smesso di essere il nemico politico principale di
un’alternativa anticapitalista.
Il fatto che né il social-liberismo né il liberal-populismo riescano, non solo in Italia, a costruirsi un chiaro consenso popolare, è la ragione sociale di fondo
dell’ipotesi neo-centrista. Due politiche simili, se nessuna delle due riesce a prevalere, sono naturalmente
portate ad incontrarsi – e nessuna alchimia parlamentare o istituzionale può alla lunga impedirlo.
Siamo fra quelli che sostenevano da tempo che quel-
lo dell’Unione sarebbe stato un Governo di alternanza e non di alternativa, constatiamo che questa realtà è ammessa oggi dallo stesso Bertinotti – seppur
per sostenere che preservare l’alternanza sia oggi il
miglior viatico verso l’alternativa. La stessa composizione dei ministri del Governo Prodi ci segnala in
realtà che la “grande coalizione” si annida già dentro l’Unione.
Del resto l’incompatibilità programmatica tra
l’Unione di Prodi e i contenuti espressi dal movimento di questi anni è evidente, e la nostra internità ad un Governo di alternanza non può non influenzare le nostre scelte.
Come si fa a stare in un Governo che appoggia le
guerre approvate dall’Onu (come la missione in
Afghanistan) e nello stesso tempo costruire il movimento contro la guerra? È realistico pensare di stare
in un Governo che appoggia la Costituzione liberista
Europea e la direttiva Bolkestein e nello stesso
tempo costruire il movimento per l’Europa sociale?
Come si fa a stare in un Governo in cui il maggior
partito (i Ds) propone di trasformare gli Atenei in
fondazioni private e nello stesso tempo costruire i
collettivi universitari? E gli stessi esempi si potrebbero fare sulla mancata volontà dell’Unione di cancellare la Legge 30 e il pacchetto Treu, sull’indisponibilità a parlare di Pacs, e sui Cpt e la Tav ritenuti una
necessità. E infine, come faremo ad assediare il prossimo G8 con i ministri del nostro partito dentro?
Il liberismo si batte nella società. E nella società si
batte l’alternanza (o le intese) tra social-liberismo e
liberismo autoritario, costruendo un’alternativa politica radicale, di società.
Del resto, ce lo potrebbe ricordare la storia – i diritti, in Italia, sono stati tutti conquistati dal movimento operaio, dal movimento femminista, dal movimento studentesco, col contributo decisivo di forze
politiche che, dentro o fuori il Parlamento, erano
all’opposizione. Ci fu, poi, il “compromesso storico”
– e noi giovani abbiamo studiato che in quegli anni
ci fu la sconfitta del ’77, la fine del “decennio rosso”,
le leggi speciali antiterrorismo, e poi la sconfitta alla
Fiat e l’inizio della mutazione del Pci, e dell’egemonia neoliberista.
I casi Cofferati e Chiamparino hanno già espresso
tutti i sintomi di queste contraddizioni ormai assunte da noi: il Prc e i Gc si trovano di traverso tra i
movimenti e la controparte. È per questo che il partito di lotta e di governo non può esistere per sua stessa definizione. Non c’è bisogno di dilungarsi sulla
storia. Basta guardare il presente: o prevale il partito
di lotta o prevale il partito di governo.
1.5 Per una sinistra
anticapitalista europea
Una conferma indiretta di quello che diciamo la
abbiamo dall’esperienza, opposta, di altri paesi europei. Quasi ovunque in Europa la tendenza è a
costruire una sinistra alternativa politicamente autonoma dalla sinistra moderata, ed in forte relazione
coi movimenti sociali.
In Francia, in primis, la sinistra anticapitalista è del
tutto autonoma dalla sinistra moderata, e la sinistra
moderata è costretta dalla concorrenza alla sua sinistra ad assumere contenuti più avanzati. Ma, soprattutto, l’egemonia liberista entra in crisi nella società.
Non a caso, del resto, in Francia non prendono corpo
ipotesi neo-centriste, e nessuno vagheggia Grandi
Coalizioni. Gli esempi della storica vittoria nel referendum contro il Trattato Costituzionale o del movimento contro il Cpe, entro cui la sinistra alternativa
è stata decisiva, come lo fu Rifondazione a Genova,
dimostrano che un’altra strada è possibile.
Certo, in Italia il movimento (inteso come concreta
alleanza politico-sociale, non come soggetto metafisico) che insieme ad altri/e abbiamo costruito da
Genova in poi, attraversa una fase di stasi o addirittura di crisi, ma i movimenti sociali (studenti-donne-
migranti-No-tav...) dimostrano tutte le potenzialità
che abbiamo di fronte. E a livello europeo quello spazio, politico e sociale, irriducibile alle politiche liberiste e di guerra, si dimostra vivo, in crescita, ed in
grado di ottenere finalmente dei risultati. In
Germania c’è lo straordinario risultato del Linke, in
Inghilterra la nuova formazione politica Respect, in
Portogallo il grande successo del Bloco de Esquerda,
e in Danimarca l’affermazione dell’Alleanza rossoverde. E infine la Francia.
In tutta Europa, a prescindere dalle tattiche elettorali
adottate per battere le destre, dove la sinistra radicale si mantiene ben distinta dalla cosiddetta sinistra
moderata, cresce in influenza sociale, ed anche elettorale – e, soprattutto, parallelamente crescono lotte e
movimenti in un rapporto dialettico.
Sono queste le esperienze politiche europee che ci
interessano, e con cui provare a costruire concrete
campagne politiche e percorsi di movimento, a
cominciare dall’opposizione all’Europa di Mastricht.
Ben più astratto ci pare invece finora il percorso
intrapreso dal partito nella costruzione della Sinistra
europea, di cui non si capisce l’utilità e le campagne
politiche, e che è stata tra l’altro ben poco presente
nella stessa costruzione del Forum sociale europeo
di Atene. Una vera sinistra anticapitalista europea si
costruisce su concreti percorsi di movimento, non
con semplici sommatorie di gruppi dirigenti.
1.6 Giovani Comunisti
Siamo sostenitori determinati dell’importanza che i
Giovani Comunisti/e esistano e, soprattutto, che
siano una realtà autonoma e vitale. Non perché ci
interessi costruire una copia in sedicesimi del
Partito, magari con tutti i difetti di burocratizzazione che stanno rendendo Rifondazione un Partito
sempre meno “diverso” dagli altri.
Crediamo nell’importanza dei Giovani Comunisti/e
proprio per l’opposto.
Perché pensiamo che i Giovani debbano autoformarsi politicamente, confrontandosi, certo, con il passato, ma iniziando subito a prendere in mano in prima
persona la loro attività politica. E ne siamo ancor più
convinti in un tempo come il nostro, in cui la contraddizione generazionale è resa ancor più insopportabile dell’estendersi del paradigma della precarietà,
dalla negazione del futuro.
Gestire con autonomia la propria vita politica è proprio fare l’esatto opposto di quello che ci insegna
ogni giorno la precarietà in cui viviamo. La politica,
almeno, vogliamo riprendercela.
Dal controvertice di Genova nel Luglio 2001 alla straordinaria esperienza del Trainstopping, passando
per i tanti Forum sociali, i/le Gc sono riusciti a tenere insieme in uno spazio politico unitario di movimento forze tanto diverse per provenienza politica e
per pratiche di lotta, avviando un percorso comune
ad altri soggetti nella pratica di esperienze di disobbedienza civile e sociale contro guerra e liberismo.
Crediamo che questo percorso sia stato fecondo: dal
laboratorio dello stadio Carlini di Genova fino alle
azioni contro i treni della morte. Dall’investimento
nella costruzione dei movimenti i Gc hanno tratto
vantaggi anche per se stessi, con una fase di crescita significativa di militanti e iniziativa politica in
molte nostre realtà territoriali.
Ma si sono evidenziati anche limiti, che hanno contribuito a determinare la difficoltà attuale della
nostra organizzazione. Spesso le azioni di disobbedienza hanno badato più alla loro spettacolarizzazione che al tentativo di allargare il conflitto ad altri
soggetti sociali.
Ma soprattutto nel procedere delle nostre relazioni di
movimento abbiamo teso a privilegiare la costruzione dei Disobbedienti, con la D maiuscola, come soggetto politico definito, in cui – tra l’altro – il programma era proposto da una specifica area politica,
quella che fa riferimento a Toni Negri e alle teorie
moltitudinarie – di fatto assunte dalla maggioranza
del nostro gruppo dirigente. Dinamica che ci ha portato a trascurare l’intervento nei luoghi di studio e di
lavoro, tralasciando un progetto e un profilo autonomo dei/delle Gc, impedendoci di cogliere pienamente le lotte che da questi luoghi sono partite negli ultimi anni.
Oggi l’alleanza politico-sociale tra soggetti diversi
che aveva rappresentato il motore delle iniziative del
movimento dopo Genova, in Italia è entrata in crisi.
Una crisi tutta da indagare, ma su cui Rifondazione
e i/le Gc non sono intervenuti positivamente,
aumentando divisioni su dibattiti lontani dalle
discussioni del movimento – come quello su violenza e non violenza – e prefigurando la prospettiva del
Governo.
Crediamo che si debba imprimere al più presto una
decisiva svolta con tre priorità:
a) la costruzione di un progetto di radicamento
sociale dove ricollocare le relazioni di movimento,
evitando di ripetere la relazione tutta politica e
nazionale costruita nei Disobbedienti, ma partendo
da concreti percorsi sociali – un po’ come è successo,
ad esempio, nel movimento studentesco romano di
quest’autunno; non rinunciando mai al nostro specifico profilo politico e alla costruzione della nostra
organizzazione;
b) la ricostruzione, sul piano locale e nazionale, di
un fronte unico di movimento che vada oltre la forma
degli intergruppi.
Un’alleanza politico-sociale costruita sugli appuntamenti del movimento globale, a partire dai Social
Forum Europei, e che abbia al centro della propria
agenda l’opposizione alla precarietà ed alla guerra;
c) campagne politiche che propongano un nostro
autonomo profilo complessivo, attrezzandoci per una
battaglia di idee dentro i movimenti per avanzare la
nostra proposta di trasformazione sociale.
Il profilo politico delineato in queste pagine è dunque la premessa per un rilancio dei/delle Gc. Quelle
che seguono sono le proposte che abbiamo provato
ad articolare per rilanciare una strategia di radicamento sociale
2. Giovani Comunisti/e
per l’opposizione
al neoliberismo
(un progetto generale
di radicamento sociale)
Siamo realisti, esigiamo l’impossibile
(Ernesto Che Guevara)
2.1 Il movimento studentesco:
collettivi dappertutto,
verso una rete nazionale
L’iniziativa studentesca è la priorità per costruire tra
i giovani un reale radicamento sociale. E lo è tanto
più oggi che, come insegna la Francia, gli studenti
possono essere il motore di un largo fronte anti-precarietà in alleanza con il mondo del lavoro. Eppure
i/le Gc a livello nazionale hanno pressoché abbandonato in questi anni l’intervento studentesco.
Costruire collettivi in ogni facoltà e scuola, promuovere una rete nazionale, dando seguito alla mobilitazione di quest’autunno. Il tutto a partire da alcune
rivendicazioni decisive: il rilancio del diritto allo studio, contro la precarietà, per l’abrogazione di tutte le
riforme Moratti, ma anche della riforma universitaria Zecchino, voluta dal Centrosinistra. Per
19
un’istruzione pubblica, laica di massa.
Milioni di studenti universitari e medi vivono una
condizione materiale di vita fatta di privazione del
diritto allo studio, e dominata dalla prospettiva della
futura precarietà cui li destina il sistema formativo
costruito da decenni di riforme neoliberiste attuate –
nel contesto europeo del “processo di Bologna” –
attraverso la riforma Zecchino varata dal governo
D’Alema, la riforma Berlinguer del primo governo
Prodi, e le riforme della Moratti.
In seguito all’introduzione dell’autonomia prima, il
3+2 ed il sistema dei crediti, e della canalizzazione
precoce e l’alternanza scuola-lavoro poi, le scuole e
le università somigliano sempre di più a canali di
addestramento al lavoro, al servizio delle imprese.
Un sistema che porta alla costruzione di diplomi e
lauree di serie A e B, indebolendo di fatto lo stesso
valore legale del titolo di studio. Il progetto sostenuto fortemente dai Ds di trasformare gli Atenei in fondazioni private rischia di accelerare ulteriormente
questo processo, all’interno di un programma
dell’Unione in cui non c’è neppure l’abrogazione di
tutte le riforme Moratti.
Il diritto allo studio, nel frattempo, è stato sistematicamente demolito (a partire dall’aumento delle
tasse, del costo dei libri di testo e dallo smantellamento dei sevizi – mense, studentati), e si è aggiunta alla tradizionale selezione di classe la subordinazione ai ritmi imposti dal nuovo sistema formativo.
Gli studenti universitari devono sopportare ritmi di
studio simili ad orari di lavoro – lo devono fare mantenendosi da soli, tramite lavori neri o precari, o grazie al sostentamento famigliare. Gli studenti medi
devono lavorare gratis per le imprese, come poi
saranno ancora costretti a fare con gli stage all’università. Il tutto per trovarsi alla fine con un diploma
o una laurea di primo livello che è solo la certificazione di un futuro di precarietà.
Il disagio è dunque ai livelli più alti mai raggiunti
nella condizione di vita degli studenti. Ma nessun
movimento nasce solo perchè c’è un disagio. La tesi
che l’università e la scuola non fossero più un luogo
di conflittto e una priorità di intervento, o addirittura che gli studenti, in quanto soggetto, non esistessero più – benché evidentemente prive di qualunque
senso – hanno trovato largo seguito anche nel gruppo dirigente dei/delle Gc. In questi anni i Gc, come
organizzazione nazionale, si sono ritirati gradualmente dall’università e dalla scuola sia sul piano
organizzativo che politico. Il risultato è stato quello
di aumentare la difficoltà, se oggi molte realtà di collettivi medi e universitari non esistono o sono in
forte crisi è anche perchè si è rinunciato a dare a
questo terreno la priorità necessaria.
È ancora presto per un bilancio, anche solo iniziale,
del “tempo che è cominciato adesso”, con le grandi
mobilitazioni studentesche dell’autunno del 2005.
Ma è sufficiente uno sguardo veloce per notare la corrispondenza, quasi meccanica, tra le punte di conflittualità di quest’autunno ed il permanere di strutture
di organizzazione sociale degli studenti – i collettivi,
ancor più dove sopravvivono reti o coordinamenti
d’ateneo e/o cittadini tra le scuole.
Nel momento critico, l’esistenza di strutture per l’autorganizzazione si è rivelata decisiva. Un movimento studentesco potrà darsi, in primo luogo, se saremo in grado di diffondere e radicare collettivi dappertutto. Fare collettivo, praticare vertenze quotidiane facoltà per facoltà, ateneo per ateneo, scuola per
scuola, città per città, con strutture aperte, sociali, è
il primo terreno su cui negare e contrastare radicalmente la catena di montaggio della fabbrica di precari della Riforme Moratti e Zecchino, e tornare a
rivendicare il diritto ad una reale istruzione per tutti.
Tutto ciò si situa sul terreno della possibilità, un
nuovo campo, aperto in Italia dall’autunno di movimento del 2005, e rilanciato, oltre che dalla
20 Francia, dall’esplosione nelle università in
Danimarca nel dicembre, ed in Grecia nel marzo di
quest’anno – in tutta Europa l’opposizione alla trasformazione dell’università in fabbrica di precari sta
diventando terreno decisivo di conflitto.
Può iniziare un nuovo grande ciclo di lotte studentesche. E, senza dubbio, il ritorno stabile del movimento studentesco avrebbe effetti dirompenti. Soprattutto,
potrebbe costituire il cuore sociale della lotta contro
tutte le forme di precarietà, per l’abrogazione immediata della riforme Berlinguer-Zecchino-Moratti, ma
anche della legge 30 e del pacchetto Treu.
Oltre alla costruzione, o ri-costruzione dei collettivi
di facoltà per il diritto allo studio e per il sabotaggio
della Zecchino, sulla traccia del Manifesto per
l’Autoriforma dell’Università varato dall’assemblea
nazionale studentesca del 6 novembre scorso, i/le
Gc devono impegnarsi alla costruzione di una rete
nazionale degli studenti, che sia un reale strumento
di costruzione del movimento e prefiguri una vera e
propria organizzazione studentesca nazionale.
Senza una dimensione nazionale, che sia controforza della frammentazione promossa dall’Autonomia degli atenei, nessun movimento può sviluppare le sue potenzialità. L’esistenza in Francia di
organizzazioni studentesche nazionali radicate in
ogni facoltà, ha favorito in modo decisivo l’estensione della partecipazione, la cui radicalità ha poi prodotto vere e proprie forme di autorganizzazione, con
assemblee nazionali settimanali del movimento
impossibili da controllare da parte delle direzioni
moderate. Oggi si tratta di provare ad organizzarsi
anche a livello europeo, cominciando dalla costruzione della mobilitazione europea contro il processo
di Bologna rilanciata dal Social forum di Atene per il
prossimo 17 novembre.
Tra gli studenti medi, c’è stato il tentativo da parte
dei Giovani comunisti di costruire un’embrione di
rete nazionale, con l’esperienza dei “Sempre ribelli”.
Ma le difficoltà incontrate da questa esperienza sono
legate al suo essere un percorso poco inclusivo. Una
struttura studentesca nazionale, per essere efficace,
non deve riunire solo i/le Gc – ma tutte le esperienze
socialmente attive nelle scuole. Anche per questo gli
studenti medi, dopo la straordinbaria esperienza
degli Stati Generali, hanno faticato a trasformare
l’opposizione diffusa alle riforme Moratti in un
movimento nazionale, radicato, aperto, sociale.
mobile, per l’abolizione della Bossi-fini e della
Turco-Napolitano per i migranti, il coordinamento
tra settori differenziati e dispersi dall’attacco padronale: per unire ciò che il capitale frantuma.
Il lavoro dipendente si trova in una condizione latente di frammentazione che discende dalla fase attuale dell’accumulazione capitalistica, dalla sua proiezione globale, dal ruolo perverso del processo di
delocalizzazione. La precarietà in Italia deriva da un
processo di sfruttamento e compressione dei diritti
dei lavoratori che cresce costantemente da vent’anni, grazie anche alla concertazione sindacale. Il quadro oggi è drammatico: secondo un’indagine
dell’Ires-Cgil soltanto il 10% dei lavoratori sotto i 30
anni è iscritto a un sindacato; secondo l’Ipsoe-sole
24ore il 25% dei contratti lavorativi oggi è atipico e
le stime fatte parlano di un ulteriore aumento per i
prossimi anni.
La crescita di un soggetto precarizzato che entra ed
esce dalla produzione costituisce una sorta di zona
grigia senza diritti e con salari da fame, senza prospettive, senza futuro. Un esercito industriale di
riserva in termini moderni che riconferma un’intuizione centrale del pensiero marxiano e che spiega
gran parte della debolezza attuale del movimento
operaio. La precarietà contro cui oggi si battono gli
studenti francesi da noi è realtà quotidiana da molto
tempo ed è stata introdotta in maniera significativa
proprio dal primo governo Prodi, con il famigerato
pacchetto Treu, votato, in nome di una mediazione
parlamentare, anche da Rifondazione Comunista. Lo
scontro in atto intorno alla legge 30, rischia di riprodurre esattamente lo stesso errore.
La grande battaglia di fabbrica contro i turni massacranti di Melfi, la mobilitazioni degli autoferrotranvieri, lo sciopero ad oltranza dei portuali in Francia
contro la privatizzazione delle linee navali, la mobilitazione dei ricercatori precari, i primi scioperi dei
call-center e le recentissime mobilitazioni francesi
degli intermittenti, degli stagisti e quella esplosiva
contro il Cpe sono eventi che suggeriscono la possibilità di un vero e proprio ciclo di lotte contro la
precarietà.
È dunque necessario sviluppare una battaglia al
tempo stesso politica e sociale:
BATTAGLIA E CAMPAGNA POLITICA,
L’abrogazione, totale e immediata, di tutte le riforme
neoliberiste di questi anni, a partire da quella, immediata di tutte le riforme Moratti, deve essere la rivendicazione centrale verso il nuovo governo – su cui
costruire un terreno unificante tra i diversi movimenti sociali dell’istruzione, per riprendere con decisione il percorso per una nuova rete nazionale studentesca. Per contribuire alla possibile esplosione,
anche in Italia, di un grande movimento studentesco
contro la precarietà e per il diritto allo studio.
2.2 Contro la precarietà per un nuovo
movimento operaio
La precarietà è oggi il fronte principale dove battere
le politiche liberiste. La precarizzazione delle condizioni di lavoro e del salario si estende a paradigma
sociale investendo in maniera specifica gli studenti,
le donne, i migranti. La precarietà va battuta nei luoghi di lavoro con un intervento specifico di radicamento sindacale, ma anche attraverso una possibile
ricomposizione e alleanza sociale che chiamiamo
nuovo movimento operaio. Il movimento francese è
un’esempio di questa possibilità.
La costruzione di questo fronte tiene dentro la riforma universitaria e scolastica, i rinnovi contrattuali,
la lotta contro la legge 30 e il pacchetto Treu, la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro, per un
vero e dignitoso salario sociale, per una nuova scala
perché non si esce
dalla precarietà senza rimettere in discussione l’impianto stesso delle politiche liberiste, rivendicando
la necessità di nuove “rigidità” nel mercato del lavoro, uscendo dall’ambiguità (che va per la maggiore
proprio nel Centrosinistra) di una flessibilità buona
contro una precarietà cattiva;
BATTAGLIA SOCIALE,
perché unire ciò che il capitalismo
frantuma non significa limitarsi a enunciare questa
bella frase in una conferenza o in qualche convegno,
ma spendersi materialmente per fornire strumenti tecnici e analitici ai circoli e alle federazioni, interconnettere lotte e confrontare tra loro vertenze e campagne
differenti, formare e autoformare compagni che possano sperimentare nuove esperienze sindacali.
I/le Gc devono impegnarsi in questa direzione a partire da una campagna che tenga insieme la rivendicazione dell’abrogazione della legge 30 ad un salario sociale per precari e disoccupati capace di spezzare il ricatto
della precarietà. Un salario sociale ben diverso da un
semplice sussidio di povertà (Legge campana) e da un
irrealistico reddito di cittadinanza universale slegato
da qualsiasi condizione di classe e incapace di sostenere i conflitti sul lavoro; una campagna da radicare nei
luoghi sociali costruendo anche dentro i nostri circoli o
negli spazi sociali esperimenti di sportelli anti-precarietà che fungano non solo da consulenza legale ma che
favoriscano la nascita di vertenze nei luoghi di lavoro
e rafforzino il nostro intervento sindacale e la costruzione di una nuova sinistra sindacale.
2.3 Il nostro internazionalismo
contro ogni guerra
La lotta alla guerra non è terreno di mediazioni, o
di compromessi. Senza se, e senza ma, con o senza
l’Onu, siamo contro tutte le missioni militari.
Bisogna radicare socialmente la lotta alla guerra,
promuovere le campagne contro le basi militari e la
solidarietà internazionalista, impegnarsi a fondo
nella costruzione degli appuntamenti del movimento globale.
Il ritiro immediato di tutte le forze militari italiane
da tutte le occupazioni (Iraq, Afghanistan, Kosovo,
in primis), l’autodeterminazione dei popoli, la liberazione della Palestina, sono le parole d’ordine più
urgenti – che tutto il movimento contro la guerra
sente proprie, perché le ha gridate e praticate per
anni, nei cortei, nei Social Forum Europei. Su questi temi, nessun compromesso può essere accettabile.
Questo potrebbe essere il primo banco di prova della
capacità dei Giovani Comunisti/e di praticare una
reale autonomia dal Partito, qualora quest’ultimo
accettasse immotivabili mediazioni.
Ma anche una campagna contro le spese militari,
contro le basi, contro gli eserciti di professione, per
la riconversione della produzione bellica, contro
l’utilizzo a fini bellici dell’università, rappresentano obiettivi su cui costruire un movimento permanente da far vivere dentro scuole e università, dentro i luoghi di lavoro, nei singoli territori. Solo unificando la lotta alla guerra a quella anticapitalista
potremmo vincere davvero: anche per questo il
movimento contro la guerra, ferma restando l’inderogabile necessità dello sviluppo di forme di solidarietà internazionale, si manifesta nella costruzione
quotidiana dell’opposizione sociale alla guerra permanente. Lungi dal porsi sullo stesso piano degli
occupanti e di paventare soluzioni semplicemente
“militari” alle aggressioni, dobbiamo in primo
luogo “essere” – come afferma Arundhaty Roy – la
resistenza alla barbarie neoimperialista, disarticolando le molteplici connessioni tra guerra guerreggiata e guerra sociale. Insomma, l’internazionalismo del XXI secolo è sempre più lavoro comune
attorno agli stessi obiettivi. È per questo che il
movimento contro la guerra si deve costruire attraverso gli appuntamenti del movimento globale, a
partire dai Social Forum Europei e mondiali, che
rappresentano tutt’oggi il più importante strumento di costruzione di una dimensione continentale,
internazionale e globale del movimento. A tutto
questo vanno affiancate campagne specifiche di
solidarietà, dal Venezuela alla Bolivia, dai sindacati irakeni alla fabbriche autogestite in Argentina,
dalla Palestina al Chiapas. Campagne di solidarietà
volte anche ad indicare quale terreno di alternativa
proponiamo.
2.4 Il femminismo del XXI secolo,
un movimento per l’autodeterminazione
e la laicità
L’offensiva reazionaria, oscurantista e clericale è
uno dei tratti di questo tempo, una delle strade
del liberismo per cercare consenso. L’obiettivo
centrale dell’offensiva sono le donne. I/le Gc, a
partire da una seria riflessione autocritica su
stessi, devono impegnarsi fino in fondo nel rilancio di un grande movimento femminista, motore
di un più largo movimento per la laicità, contro
ogni clericalismo.
La soggettività politica che desideriamo costruire
deve essere di donne e di uomini. Le donne sono
tantissime nei movimenti, sono spesso alla testa
delle iniziative di protesta, sono accorse per prime
nei luoghi di guerra, affollano ogni tipo di volontariato possibile. Ma sovente fuggono le strutture in
cui la politica si riduce a lotta di potere.
Per ogni organizzazione politica è aperta da tempo
una “questione” femminista. Si tratta di ascoltare le
voci diverse di un’altra storia con cui il movimento
operaio del Novecento non è mai riuscito a fare i
conti fino in fondo. È assai grave per il nostro futuro che il social-liberismo dinanzi all’offensiva integralista semplicemente arretri, cercando mediazioni
incredibili sui temi della laicità e dell’autodeterminazione delle donne.
L’opposizione agli integralismi passa nel nostro
paese prima di tutto attraverso l’affermazione dei
diritti riproduttivi e non , e delle libertà sessuali e
affettive di tutti i soggetti. La rimessa in?discussione
della legge sull’aborto, l’ostruzionismo sui Pacs, il
fallimento del referendum sulla procreazione medicalmente assistita, la mancata sperimentazione nel
nostro paese della pillola abortiva RU486 e la centralità del “valore” famiglia sono il segno di una politica condizionata, sia a destra che a sinistra, dall’ideologia cattolica che nega la libertà di scelta, in particolare alle donne, sulla propria vita e sui propri
corpi. È quindi necessario che le/i Giovani comuniste/i facciano della questione delle libertà di scelta
uno dei temi centrali del proprio agire politico.
Crediamo che favorire e incentivare la costruzione
di collettivi femministi e Lgbtq autorganizzati nei
territori come nei luoghi di studio e di lavoro, sia un
reale strumento di lotta e di messa in discussione dei
ruoli prestabiliti e della morale comune. La necessità di autorganizzarsi dei soggetti Lgbtq e delle donne
non è meno importante che per gli altri soggetti
sociali.
I luoghi di incontro politico non misto, da non confondere con la pratica separatista, rappresentano
infatti l’unica possibilità per le donne di riflettere
sulla propria condizione e di produrre elaborazione
politica. Una modalità che non le sottrae dal confronto con gli uomini, necessario ed efficace solo se
le stesse hanno avuto prima la possibilità di riconoscere i propri bisogni e i propri desideri. Il riconoscimento dell’autodeterminazione non giustifica gli
uomini a sottrarsi da una battaglia, che necessariamente parte dalle donne, ma bisogna combattere
insieme.
Su tutti questi temi si deve e si può costruire un
movimento fatto di donne, gay, lesbiche, trans,
bisessuali, queer che sia capace di mettere nell’agenda politica le questioni riguardanti l’autodeterminazione e la libertà di scelta di tutti i soggetti. Le mobilitazioni di gennaio e febbraio dimostrano che i
tempi sono maturi. I/le Gc possono essere laboratorio di una rinascita/rifondazione radicale del femminismo.
2.5 Un movimento migrante
La lotta al razzismo, alla xenofobia e allo sfruttamento dei migranti devono essere al centro dell’agire concreto dei/delle Gc. I Cpt devono essere chiusi,
ma non ci basta. Vogliamo l’abrogazione della
Bossi-Fini non per tornare alla Turco-Napolitano,
ma per rifiutare l’idea del migrante-merce a disposizione di Confindustria. Per questo i/le Gc debbono mobilitarsi direttamente, ma soprattutto sostenere l’autorganizzazione dei migranti.
Il governo Berlusconi sull’immigrazione ha mostrato
tutta la sua natura xenofoba e repressiva, di cui è figlia
la bestiale legge Bossi-Fini che “regolarizza” i flussi
migratori semplicemente espellendo chi non è in possesso di contratto lavorativo. Le destre sono riuscite
nel tentativo di ridurre gli extracomunitari al ruolo di
semplice merce.
È però doveroso approfondire il tema spinoso dei
Cpt. I Centri di Permanenza Temporanea fanno
capolino nel marzo del 1998; fanno parte della legge
Turco-Napolitano, votata all’unanimità dalla maggioranza di allora, il primo governo Prodi (con il
favore anche del Prc). Il migrante viene accusato del
crimine di “clandestinità” (o meglio, di “diversità”)
viene concepito come un soggetto pericoloso da rinchiudere in un vero e proprio lager.
La sconfitta del centrodestra non rappresenta dunque la fine del problema. È frastornante la totale
assenza di Ds e Margherita nella lotta per i diritti dei
migranti. Anzi, troviamo gran parte dell’Unione a
difendere la Turco-Napolitano (che, oltre ai Cpt,
introdusse altre aberranti novità, come la catalogazione delle impronte digitali), chiosando che si trattava di una legge “sicuramente più umana” della
Bossi-Fini: del resto, si parla semplicemente di
“superamento dei Cpt”, senza specificare altro. Nel
frattempo nel caso del Cpt di Gradisca d’Isonzo
Prodi in persona ha dichiarato “I Cpt non chiuderanno”, e recentemente il segretario regionale dei Ds
Maran ha parlato di umanizzazione, da opporre alla
chiusura. Mentre Cooperative aderenti alle
LegaCoop partecipano in mezza Italia alle gare per
la gestione della struttura.
Del resto la questione migranti è – purtroppo – una
di quelle che mostrano più chiaramente quanto sia
pericoloso ridurre il nostro partito a fare “la sentinella dell’alternanza”: basta guardare al voto bipartisan
sul pacchetto Pisanu sulla sicurezza – il nostro
patriot act – o al caso Cofferati a Bologna
Ma un punto critico riguarda anche la proposta Cgil
di istituire il “permesso di soggiorno per la ricerca
del lavoro” che evidentemente è un palliativo che
non rompe il circolo perverso del rapporto di lavororicattabilità-clandestinità-espulsione di cui sono vittime i migranti. A questa proposta dobbiamo essere
fermamente contrari e dobbiamo dire con chiarezza
che il diritto a rimanere ed a emigrare deve essere
universale e senza condizioni. Niente più frontiere,
niente più padroni? Decisivo è il tema dell’autorganizzazione dei migranti e la promozione dell’unità
con le altre lotte sociali. È necessario che le/i Gc si
muovano per favorirla. Significativi sono stati gli
scioperi dei migranti in alcune realtà del Veneto e
della Lombardia, così come è in continua crescita la
sindacalizzazione in quelle realtà dove i migranti
rappresentano ormai una parte consistente – se non
predominante – della forza lavoro.
2.6 Antifascismo e antiproibizionismo
L’assenza o l’insufficienza di una sinistra anticapitalista lascia spazio al ritorno nei nostri
quartieri, negli stadi, o nei luoghi sociali, dell’iniziativa politica e squadrista dell’estrema
destra. L’antifascismo deve essere legato al
rilancio del nostro radicamento sociale
La nostra opposizione radicale al neo-liberismo e
allo scontro tra barbarie, vede la necessità di
declinare un nuovo antifascismo.
Un antifascismo non rituale, ma radicato socialmente, ed in grado di opporsi in termini di massa
verso le formazioni della destra radicale – che
inserendosi nelle contraddizioni di sistema, attraverso campagne dalla forte connotazione sociale
(vedi mutuo sociale, partecipazione sociale al
bilancio, le acque sociali, solo per citarne alcune)
cercano di innescare quella lotta tra poveri, quella divisione della classe tra “italiani” e migranti
che assieme ai valori reazionari del patriarcato e
della “tradizione”, rappresentano il collante
21
politico-culturale posto come argine per i
nostri percorsi contro la legge 30, contro i Cpt e
contro la legge sulla fecondazione assistita. Non
a caso alcune parole d’ordine vengono assunte
anche dai settori moderati più reazionari, basti
pensare al manifesto “per l’Occidente” di Pera. La
deriva di stampo securitario che attraversa il
nostro paese, quella della “Tolleranza zero” per
chi agisce all’interno dei conflitti sociali, è la
riprova di come oggi per noi l’antifascismo sia
una priorità ineludibile, un terreno troppo a
lungo sottovalutato da gran parte della sinistra
alternativa, che se recuperato potrà permetterci di
riaffermare realmente il principio per cui non c’è
democrazia senza conflitti. Troppe le aggressioni
di questi mesi per rimuovere il problema. È
necessaria una campagna politica che faccia
emergere la natura e il progetto dell’arcipelago di
gruppi che va da Alternativa sociale a Fiamma tricolore, ponendosi anche il problema dell’autodifesa delle nostre sedi e delle nostre iniziative. Su
tutto questo pensiamo sia utile che si apra una
specifica commissione di lavoro.
La stessa lotta contro il proibizionismo della
legge Fini sulle droghe deve esser vissuta come
una lotta complessiva contro le nuove culture di
destra – securitarie e repressive – che uniscono
razzismo, xenofobia, sessismo, proibizionismo e
nuovo fascismo tentando di relegare questioni
sociali, a problemi di ordine pubblico. Il proibizionismo è infatti la leva con cui la destra prova
ad avere uno strumento di repressione arbitrario
quanto pericoloso. Noi siamo per un antiproibizionismo consapevole, contro tutte le mafie, ma
contro qualsiasi repressione dei comportamenti
sociali.
2.7 Difendere i beni comuni,
riprendersi il territorio
Le lotte di Scanzano contro i rifiuti nucleari e
di Acerra contro l’inceneritore, le mille lotte
contro la privatizzazione dell’acqua in Italia e
nel mondo, la grande mobilitazione contro la
costruzione della Tav in Val di Susa, hanno
mostrano come la contraddizione ambientale e
la difesa dei cosiddetti beni comuni sia una
componente decisiva della lotta al neoliberismo, e della costruzione dell’alternativa anticapitalista.
Dalle liberalizzazioni in campo energetico (che
non ha favorito il ricorso alle fonti rinnovabili ma
aumentato le centrali turbogas), all’imposizione
di grandi e inutili opere infrastrutturali, dalle ecomafie fino alla speculazione edilizia, la tendenza
al saccheggio del capitalismo sembra proprio non
porsi limiti. La trasformazione in merce e lo sfruttamento ai fini del profitto privato dei beni comuni è un processo che sta conoscendo una preoccupante accelerazione. L’acqua, l’aria, l’ambiente in
generale, così come il sapere e il lavoro umano
vengono saccheggiati attribuendo un prezzo a ciò
che dovrebbe garantire diritti fondamentali come
quello alla vita stessa.
Oggi le privatizzazioni e le devastazioni ambientali sembrano non essere prerogativa di uno solo
degli schieramenti politici. Il Centrosinistra rincorre il Centrodestra sul terreno della difesa degli
interessi delle multinazionali e dei profitti privati. Anche il programma dell’Unione sostiene le
“liberalizzazioni generalizzate” dei servizi pubblici e rimane ambiguo sull’acqua, dicendo che il
servizio idrico “deve rimanere pubblico”, quando
ormai è stata privatizzato già in diverse
regioni,?amministrate dallo stesso centrosinistra.
Quello che ci vorrebbe è una vera ripubblicizzazione generalizzata.
22
La privatizzazione dei beni comuni è nell’agenda
politica dell’Unione europea, che con la direttiva
Bolkestein lancia un’offensiva su tutti i servizi
pubblici e sulla dignità del lavoro in?questo settore; inoltre i beni comuni sono oggetto di negoziazione nell’ambito del trattato sul commercio dei
servizi (Gats) che impone a tutto il mondo la liberalizzazione degli investimenti esteri nei servizi
pubblici, e quindi il loro smantellamento. È
necessaria una iniziativa?autonoma, unitaria e
dal basso dei movimenti per l’acqua in Italia e nel
mondo, per sconfiggere gli interessi delle multinazionali. Vincere si può, come è stato ormai
dimostrato da tante e tante lotte locali, da
Cochabamba a Napoli.
Con questi movimenti i/le Gc devono saper realmente interagire, costruire proposte e alleanze
sociali. Lavorare per favorire l’autorganizzazione
dei territori con l’obiettivo di unificare le vertenze è, secondo noi, l’unico approccio possibile per
valorizzare queste energie e mettere in discussione il modello di sviluppo. I/le Gc dovranno impegnarsi nel rafforzamento delle reti nazionali già
esistenti su queste questioni, come il Forum dei
movimenti in difesa dell’acqua, il comitato italiano Stop Bolkestein, la rete nazionale Rifiuti zero.
2.8 La nuova questione meridionale
La crisi economica del meridione d’Italia ci viene
confermata da qualsiasi dato macroeconomico,
che sia il Pil o il dato dell’occupazione. Il distacco dal centro nord aumenta in termini relativi e
assoluti, la precarietà si confonde con la vera e
propria esclusione sociale. Le migrazioni riprendono a crescere verso livelli paragonabili alla
metà del secolo scorso. Il potere mafioso si combina ai più classici meccanismi dell’accumulazione capitalistica. È in questo quadro che parliamo
di una moderna e nuova questione meridionale.
Le lotte tornano con forza, da Termini Imerese a
Melfi, da Scanzano alle mobilitazioni seguite
all’omicidio di Fortugno. Contraddizioni specifiche si combinano dunque ad un grande protagonismo sociale e operaio, di cui i giovani rappresentano il cuore. È fondamentale rilanciare la
nostra iniziativa contro il sistema di potere mafioso nelle sue varie articolazioni (traffici di droga,
di armi, di organi, controllo delle attività economiche, eco-mafie…), che va considerato come un
fattore fondamentale della globalizzazione neoliberista e dei suoi crimini. Il sistema mondiale
capitalistico in tutti i suoi settori di arricchimento e di imposizione dei propri mezzi di produzione nelle economie sottosviluppate, si configura
come sistema mafioso e mafiogeno. Per contrastare l’attuale mercato nero dei traffici di droga
come principale fonte di accumulazione dell’economia mafiosa vanno promosse politiche di legalizzazione delle droghe leggere e di distribuzione
controllata dell’eroina. I movimenti sociali come
le associazioni antimafia, devono richiedere l’utilizzazione e la pubblicizzazione delle immense
risorse confiscate e non alla mafia, sulla base di
precisi progetti che creino occupazione utile.
Dobbiamo rilanciare l’iniziativa per il controllo
pubblico delle discariche, per la lotta all’abusivismo e alla devastazione del territorio da parte
delle eco-mafie. Occorre che i Gc assumano come
centrali questi temi e a tal fine dobbiamo promuovere al più presto un’assemblea meridionale
di tutti gli attivisti dell’organizzazione.
3. Rilanciare
l’organizzazione
partecipata, democratica,
antiburocratica
Preferisco gli errori del movimento reale alle giuste
risoluzioni del comitato centrale.
(Rosa Luxemburg)
3.1 Gli strumenti per
un’organizzazione partecipata
Abbiamo esposto le ragioni politiche di una difficoltà complessiva dell’organizzazione. Ma se guardiamo alla stato di salute delle nostre strutture il nostro
sguardo diviene ancora più critico. Serve a poco dire
che il tesseramento è aumentato se contemporaneamente i coordinamenti provinciali dei Gc non si riuniscono, non si produce una vita regolare dell’organizzazione in cui possa evolvere la nostra progettualità. La cura organizzativa dei Gc è stata negli ultimi
anni totalmente assente. Per rilanciare strumenti
adeguati agli obiettivi che ci poniamo avanziamo
alcune semplici proposte:
a) costruire commissioni nazionali permanenti che
possano coordinare il lavoro di settore, in particolare per quanto riguarda gli studenti, precarietà e lavoro, il conflitto di genere e le campagne politiche dell’organizzazione. Non è di certo sufficiente, come
spesso accade, l’invio di un fax o di una mail per
attivare sui livelli territoriali iniziative di cui nessuno ha discusso;
b) avviare l’esperienza di un foglio nazionale
dei/delle Gc, utile alle nostre battaglie politiche, alla
circolazione delle nostre idee, soprattutto dentro le
scuole. Un foglio che permetta anche di rilanciare il
nostro sito nazionale, per lunghi mesi inesistente ed
attualmente del tutto insufficiente;
c) produrre materiali su scuola, università, precarietà ecc., che siano utili a dare indicazioni e strumenti ai collettivi di Giovani comunisti/e su come intervenire nel territorio, valorizzando le esperienze positive che pure esistono ma che faticano a diventare
patrimonio di tutta l’organizzazione;
d) rilanciare l’idea di un’organizzazione partecipata,
costruendo appuntamenti di dibattito e approfondimento a livello nazionale, senza delegare ogni decisione al Coordinamento nazionale ma confrontandosi con i territori per ogni decisione dirimente;
e) divenire come Gc anche strumento, spazio, laboratorio di costruzione di saperi e culture critiche, di
percorsi partecipati di autoformazione, che siano
momenti di elaborazione teorica ma che forniscano
anche strumenti concreti per la costruzione del
nostro radicamento sociale. Costruire un’attività di
autoformazione è dunque terreno decisivo sui cui le
nostre mancanze sono fin troppo visibili;
f) valorizzare i nostri circoli, rendendoli luoghi non
solo di riunione, ma anche di attività sociale. Dal
progetto delle librerie alle case del popolo, dalle
scuole italiane per migranti alle esperienze di costruzione di spazi sociali, è l’ora di generalizzare queste
esperienze;
g) specifica attenzione va posta sulla costruzione
degli spazi sociali. Non possiamo nasconderci infatti le difficoltà avute dall’organizzazione laddove
l’occupazione di uno spazio sociale si è trasformata
in una soggettività politica sostitutiva dei/delle Gc.
L’uscita dall’organizzazione dei/delle compagni/e
che hanno dato cita all’esperienza del Cantiere di
Milano e del Crocevia di Alessandria deve per noi
essere elemento di riflessione approfondita. Gli spazi
sociali sono un’importante sperimentazione se concepiti come strumento di aggregazione sociale plurale e di intervento territoriale utile a far crescere l’iniziativa, l’incontro tra soggetti sociali, ma anche
l’idea di una socialità diversa e non mercificata. Le
esperienze della Comune di Massa, di Ravenna
come di Venezia vanno in questa direzione;
h) l’autonomia politica e organizzativa dei/delle Gc
passa anche dalla nostra capacità di autofinanziamento, per cui vanno rilanciati e incentivati i nostri
campeggi nazionali e le feste nazionali dei/delle Gc,
anche come momenti di visibilità in cui far vivere le
nostre proposte e campagne politiche.
3.2 L’autoriforma mancata:
un’altra organizzazione è possibile
Il dibattito sull’autoriforma della nostra organizzazione avviato nella scorsa conferenza nel documento di maggioranza, partiva dalla consapevolezza diffusa che le strutture politiche del nostro partito fossero inadeguate.
Inadeguate a cosa?
Inadeguate a intercettare una nuova generazione
politica che si fa avanti dentro il processo di radicalizzazione dei movimenti. Inadeguate a invertire,
come diceva all’epoca la maggioranza del partito,
l’ordine di priorità tra presenza istituzionale e iniziativa nei/con i movimenti, ovvero a mettere la seconda al centro e la presenza istituzionale al seguito.
Ci pare che questo dibattito abbia prodotto alcuni
cambiamenti linguistici, qualche generosa e importante sperimentazione locale, ma nessuna elaborazione organica. Non abbiamo la pretesa di farla noi,
soprattutto perché siamo convinti che questo sia un
terreno centrale su cui aprire una discussione partecipata da tutti/e i/le Gc. Ma notiamo che ad oggi
non esistono delle significative differenze di gestione dell’organizzazione giovanile rispetto a quella del
Partito: non si sono inventati luoghi e pratiche per
gestire in modo plurale l’organizzazione, né per
gestirla in modo efficace e democratico.
invertire il rapporto di priorità istituzioni/movimento?
Per questo proponiamo alcuni elementi che, crediamo, siano vissuti da tutti/e con profondo disagio. E
anche su questo piano è necessario misurare fino in
fondo la capacità dei/delle Gc di essere autonomi
non a parole, ma coi fatti. E il terreno di ragionamento che scegliamo è scivoloso e difficile, ma vale
la pena tentare: quale rapporto tra funzionari e partito? Tra istituzionali e attivisti? Sono i/le Giovani
comunisti/e costantemente in difficoltà di fronte a
un’organizzazione del partito che tende spesso alla
burocratizzazione?
Intorno a questo tema che, “materialisticamente”
parlando, dovrebbe essere centrale per evitare dinamiche burocratiche nel Partito, non si è aperto nessun dibattito collettivo. Siamo forse immuni dalla
burocratizzazione per qualche motivo spirituale che
non ci è del tutto chiaro?
Alcuni dati materiali: secondo una recente indagine
edita dal Mulino, a fronte di circa 10.000 militanti,
Rifondazione ha almeno 2.000 compagni/e che “vivono” interamente di politica, e altri 2.000 inseriti almeno in piccole istituzioni – calcolo precedente all’ingresso al governo e alle elezioni di molte giunte regionali,
che hanno aumentato sicuramente questi numeri.
Queste sono solo alcune proposte:
Come è evidente, dunque, stiamo parlando di una
realtà per nulla marginale di costituzione materiale
del Prc, e che riguarda in prima persona anche
tanti/e Giovani comunisti/e.
Cosa vuol dire per un’organizzazione politica avere
una percentuale così alta di funzionari/istituzionali?
Quanto condiziona l’agenda politica del partito
“l’istituzione”? I rapporti interni alle istituzioni condizionano larga parte del dibattito dei circoli, sottraendo spazio e forze a dibattiti intorno al radicamento e ai movimenti sociali? Cosa vuol dire, anche per
il/la miglior compagno/a, avere la propria vita materiale legata all’esistenza del Partito?
Ma non solo. La differenza stipendi tra “massimi
dirigenti” e funzionari tecnici, dentro il Partito supera anche quel “per 10” che indicavamo come differenziale massimo nella campagna sui salari della
pubblica amministrazione.
Ha senso parlare d’innovazione rimuovendo questo
tema? Quanti circoli vivono solo dell’attività, del consigliere e dell’assessore del paese? Questa situazione
può essere attraente (inclusiva) per una nuova generazione? È veramente possibile, in questo quadro,
Possono i/le Gc aprire senza moralismi verso tutto il
Partito una campagna che rivendichi alcuni semplici
mutamenti, che costituiscono però la base materiale
per qualsiasi autoriforma?
[1] equiparare tutti gli stipendi al contratto nazionale metalmeccanico, con un differenziale che possa
raggiungere al massimo il doppio di tale riferimento.
Per tutti/e: assessori, parlamentari, funzionari;
[2] una rotazione degli eletti rigida, due mandati
dopo i quali non ci si può ricandidare, in nessuna
altra elezione, almeno per 5 anni;
[3] è possibile immaginare il funzionariato non a
vita? Ovvero possiamo spezzare il meccanismo per
cui se un compagno diventa funzionario dopo 10
anni non saprebbe che lavoro trovare e quindi in
qualche modo il Partito deve assicurargli una continuità retributiva? È il tema più complesso, ma
dovremmo mettere in discussione il funzionariato
full time, considerandolo un’eccezione, non la regola. Si può infatti con il ricorso al part time, o al
distacco sindacale pagato dal Partito, avere funzionari che non si distaccano dal lavoro, che rimangono dentro la realtà, e che finito il loro mandato possono tornare al proprio lavoro;
Non crediamo che l’autoriforma si esaurisca in queste proposte ma intanto sarebbe utile che i/le Gc
provassero a praticarle. Iniziamo da qui, dal rapporto tra politica di professione e militanza, per arrivare all’autoriforma, di cui abbiamo bisogno perché
abbiamo bisogno dei/delle Giovani Comunisti/e.
Ne abbiamo bisogno perché vogliamo riprenderci
la politica.
23
RIVOLUZIONARI
DEL XXI SECOLO
rinnovi contrattuali, silicone alle porte delle agenzie
interinali invece di un intervento nelle lotte e nei
processi di sindacalizzazione dei precari che si sono
sviluppati in aziende come la Tim, l’Atesia o
l’Abacus. Tutta la Disobbedienza era intrisa da uno
spirito di “sostituzione” dell’azione di massa con
quella di sparuti gruppi di militanti, nel nome della
visibilità mass-mediatica.
Firmatari (in neretto i membri del coordinamento nazionale GC):
Jacopo Renda (coordinamento nazionale GC Napoli), Elisabetta Rossi (coordinamento nazionale GC - Udine)), Dario Salvetti
(coordinamento nazionale GC Firenze), Mauro Vanetti (coordinatore GC Pavia)), Enrico Duranti (coordinatore GC Crema), Patrick
dal Negro (coordinatore GC Udine)), Pietro Privitera (coordinatore GC Parma)), Antonino Rapisarda (coordinatore GC PesaroUrbino), Manlio Fiore), (coordinatore GC Agrigento), ), Paolo Brini), Comitato centrale Fiom), Simona Bolelli), Comitato casa via
san Pietro Sassuolo (MO)), Lucia Erpice), Comitato Giù le mani dal Venezuela - Caserta), Samira Giulitti), direttivo nazionale
Fisac Cgil - (coord. GC Lombardia), Davide Lissoni), delegato sindacale ST - Brianza), Laura Bassanetti), delegata ACI Global),
Sara Cimarelli), delegata Direct Line), Davide Vallauri), delegato Abacus), Ilaria Pietrafesa. delegata (coop La Rupe), Andrea
Davolo (direttivo Nidil Cgil Parma), Matteo Molinaro), (coordinatore nazionale Comitati in difesa della scuola pubblica (CSP)),
Piero di Nardo), (coordinamento Studenti Universitari (CSU) - Napoli), Emanuele Cullorà), Collettivo universitario Pantera Milano), Cosimo Nicolini), CSP Milano), Alessandro Savoldi), CSP Pavia), Carola Giannino), CSP Crema), Irene Cecotti), CSP
Udine), Federico Toscani), Collettivo CSU Parma), Alessandra Lo Fiego), CSP Reggio Emilia), Luca D’Angelo), CSP Modena),
Antonio Buongiorno), CSP Bologna), Alessia Piras), CSP Cesena), Gabriele D’Angeli), CSP Roma), Gianluca Limatola), CSPCaserta), Livio Barbagallo), Collettivo CSU Napoli), ), Andrea Tavano), Cpf Prc Torino), Alessandro Riatti), GC Genova), Marta
Becco), GC Genova,), Benny Abarbanel), GC Genova), Sara Parlavecchia), (coordinamento GC Milano), Francesco Bavila), (coordinamento GC Milano), Mara Ghidorzi), (coordinamento GC Milano), Ivan Piacentini), (coordinamento GC Milano), Sergio
Schneider), GC Milano), Mauro De Michele), GC Brianza), Elisa De Tollis), GC Brianza), Davide Ronzoni), GC Lecco), Alessio
Pandiani), GC Lecco), Luisa Belli), GC Varese), Irina Bezzi), (coordinamento GC Pavia), Pietro Pace), (coordinamento GC Pavia),
Valerio Interlandi), GC Lodi), Ambra Romio), GC Lodi), Francesco Gastoldi), GC Bergamo), Laura Ponte), GC Padova), Emanuele
Bottazzi), GC Trento), Gabriele Donato), Cpr Prc Friuli Venezia Giulia), Stefano Pol), GC Udine), Marco Vicario), GC Trieste), Filippo
Agazzi), (coordinamento GC Parma), Stefania Ferri), (coordinamento GC Parma), Davide Tognoni), (coordinamento GC Reggio
Emilia), Marco Paterlini), (coordinamento GC Reggio Emilia), Francesco Giliani), (coordinamento GC Modena), Felicita Ratti),
(coordinamento GC Modena), Simone Raffaelli), (coordinamento GC Bologna), Serena Capodicasa), (coordinamento GC Bologna),
Paolo Crispini (coordinamento GC Bologna), Nima Zarb Haddadi Azari (GC Imola), Giorgio Chiaranda (GC Ferrara), Ares Pedretti
(GC Ferrara), Gemma Giusti (Cpf Prc Fermo), Roberta Corvaro (GC Fermo), Graziano Mazzocchini (GC Ancona), Tatiana Chignola
(GC Firenze), Gabriele Vannucchi (GC Pistoia), Domenico Marino (GC Pisa), Lorenzo Ciabatti (GC Arezzo), Stefano Meacci (GC
Perugia), Giulio Capponi (GC Teramo), Ion Udroiu (coordinamento GC Roma), Silvia Ruggieri (GC Roma), Paolo Cipressi (GC
Ciampino), Vittorio Saldutti (coordinamento GC Campania), Giovanni Savino (coordinamento GC Caserta), Antonio Erpice (coordinamento GC Caserta), Grazia Bellamente (GC Napoli), Eleonora Tedesco (GC Salerno), Michele Satriano (coordinatore GC
Policoro – Matera), Giuseppe Palestra (coordinamento provinciale GC Taranto), Lidia Luzzaro (GC Cosenza), Luca Magnelli (GC
Cosenza), Francesco Luci (GC Reggio Calabria,), Massimiliano Mezzatesta (segretario del circolo Prc Molochio – Reggio
Calabria), Giannantonio Currò (coordinamento provinciale GC Messina), Vincenzo Marchello (GC Messina), Luca Russo (segretario circolo Prc “Resistencia” Licata – Agrigento), Gianluca Mantia (coordinatore GC Licata – Agrigento), Marco Cucinelli (GC
Palermo), Mauro Piredda (coordinamento GC Sassari), Eleonora Cherchi (GC Sassari)
Gli avvenimenti in Francia ci danno una nuova
dimostrazione del carattere dell’epoca che stiamo
attraversando, un periodo di accumulo di contraddizioni e di crescente tensione tra le classi. A livello internazionale la crisi del capitalismo si riflette
nelle difficoltà della principale potenza imperialista, gli Usa. Il continuo aumento delle spese militari e le continue minacce di intervento armato che
rivolgono in giro per il mondo sono tutto fuorchè
segnali di forza. In Iraq sono impantanati in una
guerra che non possono vincere e proprio per questo stanno lavorando attivamente per dividere quel
paese in una guerra civile su basi religiose ed etniche. E proprio nel cortile di casa degli Usa,
l’America Latina, torna ad affacciarsi la possibilità
di un cambiamento in senso socialista della società. In tutto il continente assistiamo all’ascesa della
lotta di classe, basti pensare all’insurrezione boliviana della scorsa estate o al processo rivoluzionario in Venezuela dove irrompe il dibattito sul socialismo del XXI secolo.
L’Italia non è rimasta certo estranea a un simile
contesto, e a maggior ragione non lo sarà nei prossimi anni. Ciò che è successo in Francia può ripetersi su scala persino maggiore nel nostro paese. Le
lotte a cui abbiamo assistito fino ad oggi (Melfi,
autoferrotranvieri, no-Tav ecc.) si riproporranno in
futuro su grande scala. La domanda non è se ci
siano o meno le potenzialità per lo scoppio di
movimenti di massa nei prossimi anni, ma semmai
se i comunisti saranno attrezzati per intervenirvi. O
meglio ancora: con quale strategia, con quali tattiche e con quali programmi simili movimenti
24 potranno giungere ad una vittoria?
In quest’ottica giova poco alla nostra discussione e
allo sviluppo stesso dei movimenti, la continua
retorica di cui si ammanta il nostro gruppo dirigente. Da anni il vanto dei compagni della maggioranza è quello di “essere interni al movimento”. Si
può essere interni ad un movimento con le posizioni più sbagliate, si può addirittura fracassare la
propria organizzazione con una tattica errata. O
ancora si può scambiare un movimento con il
“ceto politico” che pretende di rappresentarlo,
esattamente come è successo alla nostra organizzazione con i Disobbedienti.
Ciò che rimane della Disobbedienza, la proposta
chiave dell’attuale gruppo dirigente alla scorsa conferenza nazionale, è sotto gli occhi di tutti: il
Laboratorio dei Disobbedienti è imploso su se stesso
e il movimento disobbediente si è diviso in un arcipelago di fazioni rivali. Proprio per questo non torneremo sulla questione approfonditamente. Sia sufficiente prendere atto dei danni provocati da quella
linea. Invece di orientare la nostra organizzazione
nei movimenti reali che pure si sono sviluppati in
questi anni, la Disobbedienza ci ha portati sul terreno sterile dei gesti simbolici, d’immagine mediatica.
Se un simbolo può essere importante, sono le masse
a conferirgli forza. E la lotta di massa è stata in
fondo alle nostre preoccupazioni. È ridicolo sentire
la critica del nostro gruppo dirigente al concetto di
“avanguardia rivoluzionaria”, quando proprio la
Disobbedienza univa gesti “avanguardisti” nella
forma ad un contenuto spesso moderato nella
sostanza politica: “espropri” simbolici nei supermercati uniti ad un silenzio vergognoso sulle misere
richieste salariali avanzate dai vertici sindacali nei
Non è casuale quindi che la nostra organizzazione
esca dal ciclo di mobilitazioni avvenute sotto il
governo Berlusconi indebolita piuttosto che rafforzata. In diverse federazioni la struttura sembra quella
di un’organizzazione che inizia oggi la propria attività, invece che una che esiste formalmente da dieci
anni. I coordinamenti provinciali eletti nel 2002
spesso si sono riuniti raramente, se non addirittura
sono stati “rifondati” dopo aver cessato d’esistere. In
realtà significative come Milano o Alessandria abbiamo subito l’uscita dal partito del gruppo di maggioranza dei Gc a favore della Disobbedienza. Al normale ricambio anagrafico di un’organizzazione giovanile, la nostra struttura somma il ricambio politico, causato dagli errori della direzione. La teoria,
sbandierata dal gruppo dirigente all’ultima conferenza, del “saper fare” ha in realtà indebolito la capacità dei nostri militanti di “saper discutere, analizzare
e fare”, inaridendo il dibattito politico interno e ostacolando la formazione di militanti rivoluzionari politicamente formati. La realtà, al di là del mero dato
del tesseramento, è che i Gc sono entrati nel proprio
decimo anno di vita al punto minimo del proprio
radicamento nelle scuole, aziende ed università.
Questo stato di cose deve essere ribaltato. Discutere
come è il compito centrale di questa conferenza.
1. L’Unione non ferma
la destra
La risicata vittoria elettorale dell’Unione apre un
capitolo nuovo nella lotta di classe. L’Unione ha fondato la propria esistenza sull’esigenza di fermare la
destra. Cos’altro poteva giustificare una coalizione
che andava da un partito come il nostro, organizzatore di un referendum per l’estensione dell’articolo
18, ad uno come quello della Bonino, organizzatore
del referendum per la sua totale abrogazione? Alla
prova decisiva il centrosinistra si è dimostrato assolutamente inadeguato anche a simile obiettivo: se a
stento ha sconfitto la destra elettoralmente, a maggior ragione non la potrà fermare a livello sociale.
La necessità di battere Berlusconi ha finora rappresentato un’arma a doppio taglio. È stata la molla che
ha spinto milioni di persone alle urne e contemporaneamente lo scudo con cui i dirigenti dell’Unione
hanno potuto giustificare il proprio moderatismo. In
realtà questo moderatismo si è rivelato la causa principale della rimonta berlusconiana. Per cinque anni
questi stessi dirigenti si sono guardati bene dall’avanzare la proposta della caduta del governo nel
corso delle profonde mobilitazioni che si sono sviluppate. Temendo più lo sviluppo di una lotta di
massa che il permanere della destra, hanno permesso più volte al governo Berlusconi di passare la nottata rimandando la sua caduta alle elezioni. Ma proprio su questo terreno Berlusconi ha impostato una
campagna elettorale aggressiva, tesa a mobilitare i
settori più arretrati della società con elementi di
demagogia e populismo, mentre Prodi con la propria
moderazione buonista si preoccupava di non spaventare i poteri forti di questo paese. È una grande
ironia della sorte che il nostro partito abbia messo
da parte durante la campagna elettorale la propria
proposta di abolizione dell’Ici sulla prima casa per
non spaventare i moderati, mentre Berlusconi vi si
aggrappava demagogicamente all’ultima ora per
recuperare consensi. È così che la rabbia accumulata nella società ha potuto ritrovare in parte
un’espressione a destra.
La condizione della classe operaia e dei settori
oppressi di questo paese è letteralmente crollata nel
corso degli ultimi 20 anni, con un’accelerazione particolare nell’ultimo decennio. La grossa parte dei
peggioramenti si concentra sulle spalle dei giovani.
Se nel 1982 il 52% della ricchezza prodotta nel
paese andava al reddito dipendente, oggi questa
quota è ridotta ad un misero 40%. Al 54% più povero della popolazione va appena il 12% del reddito
mentre il 2% più ricco ne assorbe il 26%. Una situazione che trova espressione in una crescente polarizzazione politica. Ma mentre le oscillazioni verso
destra vengono sistematicamente coltivate e stimolate, quelle verso sinistra vengono al contrario inibite
e prevenute dai dirigenti stessi delle organizzazioni
del movimento operaio.
I limiti dell’Unione non nascono da qualche errore di
marketing, ma dalla natura di classe di questa coalizione, composta da una parte da partiti che si
appoggiano sul movimento operaio organizzato e
dall’altra da forze politiche legate direttamente a settori confindustriali. Se per milioni di persone le politiche di Berlusconi hanno impersonificato il peggioramento verticale delle proprie condizioni di vita, è
anche vero che simili politiche non nascono semplicemente dalla sua testa malata ma dall’esigenza
complessiva della borghesia di questo paese di
difendere i propri margini di profitto. L’Unione è irrimediabilmente attraversata dalla contraddizione tra
questa esigenza e le aspettative di cambiamento che
hanno spinto milioni di persone a votarla.
Nato debole, il governo dell’Unione userà ancora di
più questa debolezza come alibi: la necessità di non
perdere l’appoggio dei parlamentari più moderati o
addirittura di cercare la sponda dei settori centristi
della casa della Libertà verrà utilizzata sistematicamente come freno alle aspirazioni delle masse di
questo paese. Ma sarà impossibile trattenere all’infinito la richiesta di un reale cambiamento. Tanto più
verrà utilizzato questo freno, tanto più i lavoratori
inizieranno a considerare l’alleanza col centro liberale una zavorra intollerabile. È facendo leva su
simile contraddizione che i comunisti potranno porsi
l’obiettivo di rompere la gabbia dell’Unione. Tanto
più tarderemo a preparare una rottura da sinistra
dell’Unione, tanto più alto sarà il rischio di renderci
complici di un pericoloso ritorno della destra: uscito
moralmente galvanizzato dalle elezioni Berlusconi
potrà dispiegare a pieno la propria demagogia contro il governo dell’Unione. Solo preparando la rottura con Prodi si può sconfiggere quella che è stata
definita la “legge del pendolo”.
Le ragioni dei movimenti, dei lavoratori, dei giovani,
degli immigrati non possono trovare spazio, se non
per misure cosmetiche e marginali, nell’azione di un
governo nel quale l’egemonia del centro borghese si
farà sentire ad ogni passo. La debolezza dell’Unione
e l’obiettiva contraddizione rappresentata dalla presenza del Prc e delle altre forze della sinistra all’interno del governo rende inevitabile l’esplodere di
nuove contraddizioni. Già nelle prossime settimane
si discueterà in parlamento di questioni brucianti
quali il rifinanziamento delle missioni militari, il
Documento di programmazione economica e finanziaria, temi sui quali esistono obiettivamente forti
divergenze nell’Unione e soprattutto fra il governo e
le posizioni che per anni abbiamo difeso nelle lotte.
Alla lunga, è forte il rischio che i poteri forti del
paese puntino a risolvere la contraddizione emarginando il Prc e le altre forze della sinistra (nonché la
Cgil, già oggi nel mirino in quanto, a loro dire, troppo “conservatrice”) attraverso forme di accordo con
le forze centriste del Polo. Come Giovani comunisti
dobbiamo non solo difendere la completa autonomia
d’intervento e programmatica della nostra organizzazione, ma anche proporci di stimolare un dibattito indispensabile in tutto il Prc, ponendo il problema
della rottura col centro borghese, della riconquista
dell’indipendenza politica del Prc oggi gravemente
compromessa dall’abbraccio con Prodi. Dobbiamo
porre la prospettiva di una rottura col centro borghese e di una reale alternativa a sinistra. Non farlo
significherà semplicemente che tale rottura potrebbe
arrivare su iniziativa dell’avversario, con l’aggravante che il nostro partito avrà dilapidato la propria
autorità politica tentando di abbellire la politica del
governo Prodi.
2. Sconfiggere fascismo
e xenofobia
Come dimostrano le prese di posizione di
Confindustria o del Corriere della Sera, buona parte
del padronato concentra ora tutte le proprie pressioni
sul centrosinistra. Dopo aver tentato per cinque anni
la carta dell’attacco frontale alle condizioni dei lavoratori, si vedono costretti ad appoggiarsi sulle direzioni del movimento operaio per continuare la propria
politica. Dietro a questo cambio di cavallo, tuttavia,
non si nasconde alcuna “scelta strategica”. Mentre
con una mano spremono le organizzazioni dei lavoratori e i partiti di sinistra, dall’altra preparano l’alternativa a destra attraverso una campagna reazionaria
all’interno della società fatta di xenofobia, razzismo,
integralismo cattolico e familismo. Tanto più le organizzazioni di sinistra accetteranno di gestire la crisi,
tanto più lasceranno spazio a simile demagogia. Ciò
che oggi a stento è stata “un’Unione” per fermare la
destra sul terreno elettorale, si trasformerà in una
delle principali cause di un suo ritorno in grande stile.
Nella continua campagna oscurantista ben rappresentata dal manifesto “In difesa dell’occidente” di Pera, i
gruppi dell’estrema destra si comportano per ora
come semplici truppe ausiliarie. Al momento non
hanno la forza per vivere di luce propria e devono
limitarsi al ruolo di provocatori . Questo non li rende
meno pericolosi, come dimostra l’aumento delle
aggressioni a danni di immigrati, centri sociali e compagni dei Gc e del partito (ultima in ordine cronologico quella al coordinatore dei Giovani Comunisti di
Pavia). La manifestazione iper-minoritaria vista a
Milano l’11 marzo da parte di vari gruppi autonomi
non può essere la risposta, ma neppure lo può essere
un richiamo alla “legalità costituzionale” o alla difesa
delle “istituzioni democratiche”. Agli occhi di migliaia di giovani quest’ultime non sono altro che sinonimo di povertà, repressione, abbandono delle periferie,
mancanza di prospettive di lavoro o di studio. È proprio con la loro demagogia di ribelli anti-istituzionali
che l’estrema destra punta a farsi strada tra il disagio
giovanile.
Da sempre i fascisti arretrano di fronte allo sviluppo
di una mobilitazione di massa. La risposta alle loro
provocazioni deve essere fatta coinvolgendo la massa
dei giovani e dei lavoratori, collegando il ruolo dei
fascisti agli attacchi più generali alle condizioni di vita
delle classi oppresse. Solo con una campagna che
chieda a collettivi studenteschi, sindacati e partiti di
sinistra di dar vita ad una mobilitazione di massa in
risposta ad ogni aggressione fascista possiamo ricacciare queste carogne nel luogo che gli spetta. Se quindi organizzare lo scontro fisico con i gruppi di fascisti
non può essere una risposta alla loro esistenza, nemmeno può essere eluso il problema dell’autodifesa.
Anche su questo terreno difendiamo l’esistenza di
“servizi d’ordine” legati alle strutture di massa del
movimento studentesco e dei lavoratori, eletti nelle
assemblee o comunque collegati a collettivi studenteschi e sindacati, che garantiscano l’agibilità politica
per le forze della sinistra.
3. Sviluppare l’intervento
fra gli immigrati
La nauseante campagna razzista che trova nella
Lega la propria punta di lancia, ma che è ripresa da
qualsiasi mezzo di comunicazione borghese, deve
farci porre la lotta al razzismo al centro della nostra
attenzione. E mai come oggi questa lotta può e deve
basarsi sul coinvolgimento degli immigrati stessi
nella militanza politica e sindacale organizzata. Gli
immigrati ormai da tempo rappresentano una parte
fondamentale del proletariato di questo paese.
Mentre il veleno del razzismo sparso a larghe mani
dalla borghesia cerca di isolarli, la fabbrica e il cantiere li uniscono inscindibilmente al resto della classe. La doppia oppressione a cui sono sottoposti,
come immigrati e lavoratori salariati, li rende contemporaneamente più difficili da mobilitare e allo
stesso tempo estremamente combattivi una volta
che si mettono in moto.
Dobbiamo sviluppare ampie campagne antirazziste
all’interno di luoghi di studio e di lavoro e dei quartieri, collegando il razzismo all’oppressione più
generale a cui sono sottoposti i giovani italiani. Una
campagna sviluppata con materiale in più lingue e
che non può limitarsi alla richiesta di abolizione
della Bossi-Fini e della Turco-Napolitano, ma deve
richiedere la liberalizzazione degli ingressi nel
nostro paese, il diritto alla cittadinanza ed al voto
dopo un anno di residenza. Uno dei terreni decisivi
per questo impegno è rappresentato dalla lotta contro i Centri di Permanenza Temporanea: da pochi
mesi è stato aperto un altro di questi veri e propri
lager a Gradisca d’Isonzo, nonostante la mobilitazione animata da quanti si sono opposti a tale apertura. Tale mobilitazione non è riuscita ad essere efficace per varie ragioni, ma ad essa, nonostante la generosità di quanti vi hanno partecipato, è mancato
soprattutto il contributo decisivo degli immigrati che
lavorano e risiedono in Friuli-Venezia Giulia, i quali
sono rimasti ai margini di una lotta tutta imperniata
attorno all’esigenza di conquistare l’attenzione
mediatica. Rifondazione Comunista, in questo contesto, non ha saputo far altro che accodarsi ai tentativi di escogitare modalità “rumorose” di disobbedienza simbolica all’apertura del centro: non un solo
tentativo significativo è stato fatto per coinvolgere il
movimento sindacale nella lotta e per costringerne i
dirigenti a convocare uno sciopero contro l’internamento degli immigrati. L’esigenza, poi, di conservare i difficili equilibri della Giunta regionale presieduta dall’industriale Illy, ha impedito al partito di
formulare con chiarezza la propria totale contrarietà
alla logica che sta alla base dei CPT e delle leggi
restrittive sull’immigrazione, tanto che persino sul
terreno della contestazione delle irregolarità procedurali i principali rappresentanti di Rifondazione
sono stati esitanti.
Differente dev’essere il nostro approccio alle lotte in
difesa degli immigrati e dei loro diritti, come un
gruppo di Giovani Comunisti ha recentemente dimostrato a Sassuolo, un piccolo centro del modenese
diventato noto alle cronache nazionali per il pestaggio da parte dei carabinieri di un giovane marocchino. Questa piccola cittadina si è trovata non casualmente ad essere simbolo dello scontro tra razzismo
e movimento operaio. Giusto qualche mese prima, a
seguito dello sgombero indiscriminato di 60 famiglie
di lavoratori immigrati dal palazzo in cui alloggiavano, nella zona si era sviluppato un movimento unitario tra lavoratori italiani e immigrati. Un movimento promosso e reso possibile da un gruppo di
Giovani Comunisti sulla base di alcune condizioni
politiche: l’assoluta autonomia dalla linea sciagurata di accordi col centrosinistra del partito (a Sassuolo
la giunta che sgomberava gli immigrati era di
25
sinistra e l’assessore alla casa, poi dimessosi,
addirittura un compagno di Rifondazione) e il radicamento degli stessi Gc nei luoghi di lavoro come
attivisti sindacali che ha permesso di intercettare la
richiesta di mobilitazione dei lavoratori immigrati
coinvolti nello sgombero.
4. Crisi industriale
e intervento nei luoghi
di lavoro
Il declino del capitalismo italiano è fotografato dalla
perdita di quote di mercato e dall’aumento del debito pubblico. Non si tratta di prendere atto di questa
situazione per invitare la “patria” ad una reazione,
sul modello degli appelli fatti da Prodi. Si tratta di
analizzarla per capire il contesto in cui si svilupperà
la mobilitazione sociale nel nostro paese. L’ideologia
che sta alla base dell’Unione, penetrata fin dentro il
nostro partito, sottintende che proprio il declino dell’economia italiana crei una disponibilità tra i settori “sani” della borghesia (quali siano questi settori
rimane un mistero) ad una via di sviluppo basata su
innovazione tecnologica, di prodotto e diritti dei
lavoratori.
Nei luoghi di lavoro la rabbia viene accumulandosi
sospinta da straordinari, aumento dei ritmi di lavoro, infortuni, precarietà e paghe da fame. Quanto
possa essere profonda questa rabbia è stato dimostrato da episodi come la lotta degli autoferrotranvieri, Melfi o la recente mobilitazione del contratto
dei metalmeccanici. Ma questa situazione cozza con
il nostro livello d’intervento nei luoghi di lavoro,
dove la presenza organizzata dei Gc rimane pressochè nulla. Tendiamo a rapportarci al movimento
operaio attraverso il dialogo con le sue direzioni, ci
compiacciamo dell’adesione della direzione Fiom
alle iniziative “del movimento” quando il nostro
obiettivo dovrebbe essere collegarci alla classe prima
di tutto con la presenza dentro e fuori dalle aziende
e con l’organizzazione di un’opposizione all’interno
del sindacato.
Solo dal 2002 al 2005 gli occupati nella grande industria sono diminuiti dell’8%. Emerge da questo dato
l’inarrestabile movimento dei capitali verso settori
più redditizi, verso il settore finanziario, la speculazione edilizia o la mano d’opera a basso costo.
L’Unione si ripromette di invertire questo processo
“invogliando” i capitali a percorrere altre strade
attraverso politiche mirate di sgravi fiscali e formazione della mano d’opera. Si tratta di puro fumo
negli occhi. Gli industriali accetteranno volentieri
simili regali: intascheranno i soldi e continueranno a
fare ciò che vogliono. Quale vantaggio fiscale
potrebbe convincere un padrone a rimanere in un
settore dove i margini di profitto sono negativi mentre mentre ad esempio il costo dei terreni è aumentato anche del 400% in alcune zone? Anche per
quanto riguarda i “corsi di formazione” già oggi non
solo altro che regali alle imprese. Nel 2003 dei 3,2
miliardi di euro speso per le attività formative l’80%
è stata elargita direttamente ai datori di lavoro mentre il restante 20% è andato a privati che promuovono formazione (altre imprese, in pratica).
La battaglia contro la crisi industriale richiede
innanzitutto forme di lotta adeguate. Non a caso
emergono forme di occupazione, sotto il nome di
“assemblee permanenti”, come si è visto alla Delphi
di Livorno o alla Star di Parma. Di fronte alle chiusure sono queste le uniche forme di lotta che possno
garantire la difesa dallo smantellamento delle aziende o dei reparti. Al tempo stesso, anche la lotta più
dura richiede un programma adeguato. Di fronte alle
chiusure dobbiamo ispirarci all’esempio che viene
dal movimento operaio latinoamericano, dove
26 le lotte e il dibattito avanzano attorno ai
seguenti assi: occupazione degli stabilimenti, produzione senza padroni, controllo operaio, nazionalizzazioni. È questa una delle lezioni più preziose che
ci viene dall’esperienza argentina, brasiliana, venezuelana, boliviana. Solo una prospettiva anticapitalista può dare uno sbocco alla lotta contro la desertificazione industriale e il declino sociale che ne consegue.
5. Quale battaglia
contro la precarietà?
Il nostro scarso livello d’intervento nei luoghi di
lavoro è anche il risultato del proliferare di teorie,
fuori e dentro la nostra organizzazione, sulla scomparsa della classe, la fine della centralità del conflitto tra capitale e lavoro, le moltitudini e chi più ne ha
più ne metta. Teorie sbagliate prima di tutto dal
punto di vista politico dato che la centralità del conflitto tra capitale e lavoro per i marxisti non si soppesa algebricamente in base a quanti sono i lavoratori. Sbagliate anche da un punto di vista statistico
dato che l’ultimo rapporto di Banca Italia ci informa
che gli operai in Italia sono ad una delle punte massime. Se si prende in considerazione solo il settore
metalmeccanico, tutt’oggi produce il 50% del valore
aggiunto di tutte le esportazioni italiane.
Non solo negli ultimi anni non sono scomparse le
industrie, ma semmai si sono massificati e proletarizzati settori che fino a vent’anni fa erano predominio della piccola proprietà. Grosse catene di ristorazione, call-center, ipermercati: si tratta di luoghi di
lavoro che possono iniziare a sindacalizzarsi in
maniera esplosiva, dove la presenza di scarse tradizioni sindacali rende più difficile iniziare un intervento politico ma può permettere di poterlo iniziare
direttamente su basi avanzate.
I nuovi “voli” teorici dei nostri massimi dirigenti si
concentrano ora sulle frontiere della “precarietà
intellettuale”. Se questo termine può significare
qualcosa, significa semplicemente che anche settori
lavorativi un tempo al riparo da attacchi sono oggi
eguagliati a qualsiasi altro lavoro. Ma questo lungi
dal creare un nuovo “tipo” di contraddizione, comporta al contrario un livellamento di tutti i settori
lavorativi: dalla cassiera di un supermercato arrivando al ricercatore universitario, passando dall’impiegato di banca fino all’operaio metalmeccanico. La
precarietà riguarda la metà dei neoassunti sotto i 29
anni: nel 2004 sono stati il 46,4% e nel 2005 il 50%.
Sul terreno della lotta alla precarietà l’Unione cerca
di riportare l’orologio della lotta di classe indietro di
dieci anni, al 1996, quando l’introduzione del
Pacchetto Treu venne indorata con l’idea della “flessibilità regolamentata”. Già oggi i dirigenti
dell’Unione iniziano a distinguere tra “flessibilità” e
“precarietà”, creando una divisione fittizia tra un
presunto precariato giusto e regolare e quello selvaggio introdotto dalla legge 30. Ma si tratta di meri giochi linguistici.
La flessibilità è per sua stessa natura non regolamentabile: sotto la scure del ricatto del rinnovo contrattuale un lavoratore precario non è in condizione di
pretendere il rispetto di alcun diritto, mentre la presenza anche di una piccola percentuale di precari
ricattabili indebolisce la capacità di mobilitazione di
tutta la classe. Su questo terreno l’unica proposta
che possiamo avanzare è l’immediata trasformazione per legge di tutti i contratti precari in contratti a
tempo indeterminato, con il ritiro della Legge 30, del
Pacchetto Treu e la conversione attraverso la loro
nazionalizzazione di tutte le agenzie interinali in
uffici di collocamento pubblici.
Sulla base di un queste rivendicazioni possiamo
creare o stimolare la crescita di comitati e coordinamenti di lavoratori precari che si propongano di
organizzare le vertenze unendo la capacità di organizzare i precari all’indispensabile costruzione di un
solido legame con l’insieme dei lavoratori, contro
ogni idea “separatista” che sarebbe deleteria.
Va inoltre superata la concezione che ha dominato la
nostra organizzazione fino ad oggi che affida la
lotta al precariato a grosse scadenze annuali, come
la May Day Parade, o alla creazione di reti di precari tutte tese a svolgere iniziative d’immagine. Se fino
a qualche anno fa l’idea delle grandi “parate” o delle
iniziative d’immagine poteva essere giustificata con
la necessità di far uscire il precariato dall’invisibilità, questo problema ci pare completamente superato. Non si tratta di affermare l’esistenza della piaga
della precarietà. Si tratta di eliminarla. Anche su
questo terreno l’unica via è quella di un paziente e
sistematico intervento fuori e dentro i luoghi di lavoro.
6. Questione meridionale:
una vecchia contraddizione
su nuove basi
L’economia meridionale arretra su ogni terreno:
nel 2004 il Pil del sud del paese è cresciuto dello
0,8% contro l’1,4 del nord. Sono naturalmente i
giovani a pagare il prezzo maggiore: solo nel 2004
sono in 78.000 coloro sotto i 29 anni ad aver perso
il posto di lavoro.
Se la quota di disoccupati è nel contempo diminuita rispetto alla popolazione complessiva passando
dal 16% al 15% è solo per la ripresa in grande stile
dell’emigrazione: 107.000 persone hanno dovuto
emigrare nel 2004. Sono cifre che si avvicinano a
quelle registrate negli anni ‘50 e ‘60. Se allora la
tragedia di dover emigrare era alleviata dalla possibilità di poter mandare soldi a casa, oggi non si
verifica nulla di tutto questo. Anche al nord i salari da fame uniti agli affitti vertiginosi permettono
appena di arrivare alla fine del mese. Indebolito
dai flussi migratori ma privo delle rimesse di denaro che ne derivano, il reddito meridionale crolla
con rapidità maggiore che nel resto del paese.
Torna così a porsi la questione meridionale. Torna
tuttavia in condizioni nuove e potenzialmente
ancora più esplosive. La creazione di poli industriali, come Melfi o Gioia Tauro, non ha alleviato
l’arretratezza meridionale ma ha creato in compenso un giovane e combattivo proletariato che
può diventare rapidamente un punto di riferimento per tutti i settori oppressi della società. Le lotte
di Melfi, Acerra, Scanzano, si sono poste all’avangurdia nelle mobilitazioni di questi anni.
Lo stato dell’economia meridionale costituisce
anche una completa sconfessione degli incentivi
agli investimenti. Le imprese hanno ricevuto in
regalo accordi territoriali, sgravi, finanziamenti,
condoni, senza che questo scalfisse minimamente
la situazione occupazionale. Tutt’oggi la disoccupazione riguarda il 33% dei giovani e il lavoro
sommerso un lavoratore su quattro. La richiesta di
un salario garantito per i disoccupati, equivalente
indicativamente al 70% del salario di un terzo
livello metalmeccanico, è centrale per sottrarre
migliaia di giovani al ricatto di lavori sottopagati,
in nero o alla stessa influenza della criminalità
organizzata. Questa rivendicazione non è in contrapposizione con la lotta per un aumento dell’occupazione attraverso la riduzione d’orario a parità
di salario. Al contrario ne è il completamento. Solo
dei disoccupati sottratti alla lotta per la sopravvivenza e un movimento operaio sottratto alla concorrenza salariale al ribasso con i disoccupati sono
in grado di intraprendere una lotta per un’occupazione piena e di qualità.
Le recenti mobilitazioni seguite all’assassinio
Fortugno in Calabria dimostrano quali siano le
possibilità di sviluppo di una lotta di massa contro
la mafia. È necessario intervenire in questo processo con un nostro punto di vista indipendente.
Mafia, ‘ndrangheta e camorra non sono mai state
e a maggior ragione non sono oggi degli elementi
esterni al capitalismo o slegati dall’apparato statale. Il capitale di origine mafiosa è assolutamente
indistinguibile
dal
resto
dell’economia.
Difendiamo la necessità di confiscare tutti i capitali e le aziende legate alla criminalità organizzata.
Ma applicata coerentemente simile rivendicazione
non significa altro che la confisca, la nazionalizzazione per porli sotto il controllo operaio, dei principali settori dell’economia.
7. Per una struttura
studentesca nazionale
Il movimento studentesco era l’unico terreno dove
i Gc avevano raggiunto nel proprio passato uncerto livello di radicamento. E proprio per questo si
tratta anche del terreno dove la Disobbedienza ha
fatto più danni, smantellando completamente la
rete di collettivi studenteschi che, seppur con
metodi criticabili, avevamo costruito in diverse
zone d’Italia.
Nello scorso autunno abbiamo assistito ad un
accenno di mobilitazioni in scuole ed università.
Un accenno tuttavia significativo delle potenzialità
e dei limiti del movimento studentesco in Italia.
Non sono state mobilitazioni determinate solo ed
esclusivamente dagli ultimi affondi della riforma
Moratti, ma dallo stato di sfascio in cui si trova
l’istruzione pubblica. Non esiste un solo capitolo
dell’istruzione che non sia stato peggiorato come
risultato di quasi 20 anni di continui attacchi alla
scuola pubblica: condizione salariale e contrattuale dei docenti, tempo pieno, ritmi di studio, costi
ecc. La selezione di classe che colpisce i settori più
svantaggiati della società continua ad operare,
avvalendosi di strumenti nuovi. Oltre all’abbandono scolastico, i percorsi professionalizzanti spingono i figli dei ceti meno abbienti a ritagliarsi un percorso di studi che sempre di più si rivela un semplice avviamento al lavoro. All’università aumenta
il numero dei laureati, ma solo perché il vero sbarramento viene spostato alla laurea specialistica. Se
si riduce il tempo con cui si consegue la laurea
triennale, aumenta il periodo necessario per trovare un’occupazione a causa della necessità di continuare con laurea specialistica e vari master.
In compenso il numero degli studenti-lavoratori è
in costante aumento: tra il 1998 al 2004 aumentano dal 47 al 68% gli studenti costretti a lavorare
per mantenersi agli studi. L’Autonomia Scolastica e
Universitaria hanno poi aperto completamente la
strada alla differenziazione tra scuole e atenei di
serie A e di serie B, con l’entrata in grande stile dei
privati all’interno dei percorsi formativi.
Nei progetti elaborati dall’Unione, questo processo
è destinato ad essere intensificato: il programma
sottoscritto, infatti, afferma l’esigenza di “sostenere l’innovazione istituzionale del sistema, orientando con chiare regole di governo l’autonomia
responsabile degli atenei e degli enti di ricerca” e
di “stimolare l’interazione pubblico/privato attraverso strutture di ricerca legate alle imprese (...)
approntando incentivi fiscali e laboratori comuni
tra università e imprese”. Fra le intenzioni delle
principali forze della coalizione c’è il progetto di
procedere nella direzione della trasformazione
degli atenei in fondazioni: la battaglia contro l’ulteriore trasformazione in senso privatistico del
sistema formativo in Italia dovrà rappresentare per
i Giovani Comunisti un impegno prioritario nella
prossima fase, da sviluppare senza alcun cedimento alle illusioni concertative che segnarono il rapporto della nostra organizzazione giovanile col
ministro Berlinguer fra il 1996 e il 1998.
Depurata dai suoi elementi accessori, d’altra parte,
il nucleo della riforma Moratti è difficilmente
distinguibile dalle precedenti leggi del centrosinistra. Se l’Unione ha timidamente promesso di rivedere le leggi vergogna del Governo Berlusconi, per
quanto riguarda l’università la legge vergogna non
è né più né meno che quella lasciata dal centrosinistra nel 2001: la riforma Zecchino.
Di fronte a simile scenario dobbiamo lottare contro
l’idea che l’Autonomia Scolastica sia un meccanismo riformabile o utilizzabile per i fini del movimento studentesco attraverso un processo di
“autoriforma”. Dobbiamo lottare per il ritiro di
tutte le controriforme scolastiche approvate dagli
anni ’90 in poi, per un raddoppio dei finanziamenti all’istruzione pubblica e per l’abolizione di qualsiasi forma di finanziamento alle scuole private.
Oltre a questi punti generali, è necessario articolare la nostra parola d’ordine di una “scuola pubblica democratica, gratuita, di massa e di qualità!”
con una serie di rivendicazioni che entrino nello
specifico delle problematiche concrete causate
dalla controriforma alle condizioni degli studenti.
Un programma che parta dalle condizioni materiali degli studenti stessi e che contenga ad esempio
richieste come
a) il tetto di 20 alunni per classe contro il sovraffollamento;
b) la concessione a tutti gli studenti di libri gratuiti in usufrutto;
c) la gratuità dell’iscrizione a scuole e università,
dei mezzi di trasporto per gli studenti un
piano di edilizia scolastica per l’ammodernamento
di tutti gli istituti e per la costruzione di alloggi
universitari;
d) l’erogazione di borse di studio per tutte le famiglie sotto il reddito medio che ne facessero richiesta;
e) l’apertura pomeridiana degli istituti per ripetizioni gratuite e gestite da docenti pubblici;
f) la retribuzione di qualsiasi stage e tirocinio
secondo le norme contrattuali;
g) la lotta all’autoritarismo con l’introduzione dell’eleggibilità e revocabilità della figura del preside
ecc.ecc.
Il limite principale del movimento studentesco italiano, però, continua ad essere l’assenza di una
struttura studentesca nazionale in grado di unificare su scala nazionale e sulla base di un coerente
programma di difesa dell’istruzione pubblica le
potenziali mobilitazioni studentesche. Fino a che
permane quest’assenza il rischio è che le singole
mobilitazioni scoppino isolatamente o peggio che
rimangano chiuse nel proprio particolarismo.
Inoltre, questo vuoto crea spazi per organizzazioni come l’Uds o l’Udu che, pur utilizzando in alcuni casi una fraseologia radicale, nella realtà hanno
un approccio estremamente moderato, proponendo, in ultima analisi, la via concertativa come
mezzo risolutivo. Non si lavora così per generalizzare e rendere efficaci le mobilitazioni, ma le si
relega ad elementi di semplice pressione, con la
conseguenza di limitarne pesantemente le possibilità di sviluppo. Questa tendenza sarà ancor più
enfatizzata con la presenza del centro-sinistra al
governo.
Come in natura, anche nella lotta politica, il vuoto
non esiste; in mancanza di un’alternativa credibi-
le queste organizzazioni possono attrarre elementi
sinceramente combattivi che, in realtà, poco
hanno da spartire con le posizioni di chi dirige
quelle organizzazioni. E’ compito dei comunisti
far emergere queste contraddizioni attraverso un
approccio chiaro ma non settario, in particolare su
una questione: nessun governo “amico” risolverà i
problemi degli studenti, l’unica strada per fare ciò
è quella della mobilitazione di massa.
L’alternativa che mettiamo in campo non può essere semplicemente la costruzione di collettivi studenteschi (cosa che peraltro sarebbe un passo in
avanti rispetto all’attuale nostro livello di intervento), ma si tratta di formarli e collegarli sulla base
di un programma dettagliato e radicale (accennato
in precedenza) le cui bussole siano il rifiuto di
qualsiasi forma di privatizzazione dell’istruzione e
la lotta intransigente contro la selezione di classe.
Spesso elogiamo le capacità di mobilitazione del
movimento studentesco in altri paesi europei, ma
poche volte ne studiamo le dinamiche. In Spagna
le attuali conquiste nel campo dell’istruzione sono
il risultato delle mobilitazioni promosse dal
Sindicato de Estudiantes nel corso degli anni ’80 e
’90. Il Sindicato è stato anche il principale punto di
riferimento nelle mobilitazioni di massa che si
sono sviluppate contro la Lou, la legge di controriforma dell’istruzione del precedente Governo
Aznar. È una struttura nazionale con congressi
annuali e che grazie alla presenza e al radicamento negli istituti di grossa parte della Spagna è in
grado di porre in discussione democraticamente
tra la maggioranza degli studenti spagnoli ogni
rivendicazione, ogni passo necessario per intraprendere o proseguire una lotta.
La costruzione di un’organizzazione studentesca
non è in contrapposizione ma anzi è complementare alla lotta per la nascita di strutture democratiche di movimento in grado di rappresentare la
volontà della massa di studenti coinvolti in una
lotta, a patto che simili strutture siano di massa e
democratiche di nome e di fatto. Anche in Italia
dobbiamo lottare per l’affermazione della tradizione del coordinamento democratico sul modello
francese, cioè di una democrazia basata sulle
assemblee e sui delegati eletti, in grado di rappresentare la volontà degli studenti in lotta. Durante
l’occupazione delle università e delle scuole francesi tutto veniva deciso in assemblea, ogni decisione era sottoposta ad un breve dibattito e votata
democraticamente tra la massa degli studenti.
Ogni assemblea eleggeva poi delegati in grado di
rappresentarne la volontà ad un livello provinciale
e nazionale. In questo modo tutte le organizzazioni coinvolte nella lotta erano costrette ad avanzare
le proprie proposte in assemblea e solo questo
meccanismo ne verificava la reale rappresentatività. Basta paragonare tutto questo con la frenesia
con cui i compagni del gruppo dirigente dei Gc
hanno difeso in autunno, all’interno delle poche
occupazioni di ateneo italiane, l’idea che non fosse
necessario votare nulla in assemblea perché “votare è antidemocratico” (vorremmo sapere allora che
cos’è democratico!).
Solo metodi democratici di coordinamento e organizzazione possono coinvolgere nelle decisioni e
nella lotta l’intera massa degli studenti, senza che
esse siano solamente in mano al “ceto politico”.
Questa è una delle differenze fondamentali che ha
permesso che in Francia una mobilitazione partita
da qualche centinaio di studenti diventasse di
massa, si generalizzasse e proseguisse fino alla vittoria, mentre in Italia, dopo una prima breve fiammata, le mobilitazioni, non riuscendo a coinvolgere la massa degli studenti, sono rientrate senza riuscire ad incidere. E’ necessario trarre le corrette
lezioni da quest’esperienza, ricominciando a
27
lavorare per far fare un salto di qualità alle
prossime mobilitazioni.
8. Contro l’oscurantismo
e il proibizionismo!
Gli attacchi alle condizioni di vita delle giovani generazioni trovano la propria cornice naturale in una
ritrovata aggressività della destra e della Chiesa sul
terreno delle libertà democratiche e dei diritti civili. Il
familismo è l’ideologia naturale di una società che,
non riuscendo a garantire un pieno sviluppo dell’individuo sul terreno economico, deve negarne la necessità anche sul terreno ideologico. Così come irregimentare la donna, ad esempio, è funzionale a scaricare sul lavoro domestico ciò che viene tolto allo stato
sociale, negare la possibilità di una vita al di fuori dei
“sacri vincoli familiari” fornisce una giustificazione
agli ostacoli materiali che già oggi impediscono ad un
giovane la vita al di fuori della famiglia.
Anche la questione della casa è in questo momento
un probema gravissimo per i giovani proletari.
L’impossibilità di un precario ad accedere ad un
mutuo scava sempre di più un solco tra ricchi e poveri. La definitiva liberalizzazione degli affitti, risultato
di una legge approvata dal precedente Governo di
centrosinistra, ne ha fatto lievitare i costi a limiti
impensabili. Non solo per uno studente ma anche
per un giovane lavoratore, in mancanza degli aiuti
familiari, l’affitto di una stanza diventa una via pressochè obbligata. Nel contempo la speculazione mette
le mani su un numero crescente di appartamenti sfitti con cui mantenere alto il costo delle case o garantirsi una larga entrata dagli affitti in nero. Siamo per
la requisizione, salvo comprovata necessità, di tutti
gli appartamenti sfitti, per l’imposizione di affitti calmierati e per la ripresa di piani di edilizia popolare
per la concessione a vita di appartamenti con affitti
che non superino il 10% delle entrate.
In questo quadro è anche la questione dell’oppressione femminile a ripresentarsi nella forma più odiosa, come ha dimostrato l’offensiva reazionaria
recente scatenata per difendere la legge sulla
Procreazione Medicalmente Assistita: nel contesto
della battaglia referendaria, tuttavia, abbiamo potuto renderci conto di come la subalternità (culturale,
non solo politica) delle sinistre al centro moderato
impedisca persino di mettere in campo un impegno
serio contro l’aggressività reazionaria dello schieramento clericale, confermata anche nel corso del
dibattito attuale sui patti di convivenza e sulle unioni civili. Da questo punto di vista, i problemi rischiano di moltiplicarsi: l’approvazione della legge 40,
sostenuta pure da forze importanti dell’Unione, non
prelude a possibili attacchi futuri alla normativa
che legalizza l’aborto: la legge 194 è stata permanentemente in discussione, infatti, fin dalla sua promulgazione, ed oggi essa è ulteriormente compromessa
dall’amalgama tra il progressivo disimpegno pubblico in ordine all’assistenza sanitaria e un’antica e ben
radicata connivenza tra istituzioni ospedaliere e
organizzazioni cattoliche. La situazione risulta ora
aggravata dalla impossibile convivenza giuridica tra
la legge 40 e la 194, minata già da tempo dai sistematici tentativi di cancellare, dal contesto delle relazioni sociali, ogni traccia di autodeterminazione
femminile.
Per evitare che l’Unione si riveli un dispositivo efficace ad ingabbiare le disponibilità alla mobilitazione
pure sul terreno della lotta democratica per i diritti
civili, ci batteremo affinché i Giovani Comunisti
s’impegnino ad intrecciare la difesa e il rilancio dei
diritti delle donne non tanto con la presunta sensibilità dei settori dell’opinione pubblica borghese più o
meno illuminata, quanto con le lotte di massa che il
proletariato ha ripreso ad opporre al dominio
28 delle classi dominanti, nella convinzione che
lotta per la cancellazione (non per la correzione)
delle leggi reazionarie contro le donne (così come
contro tutte le minoranze oppresse dai meccanismi
di funzionamento di questa società) non potrà prescindere dal protagonismo di massa delle giovani,
delle lavoratrici e dell’intero movimento operaio.
In un contesto di crisi sociale, l’aumento della
repressione da parte dello Stato non si riversa solo
sulle libertà politiche ma su ogni aspetto generale
della vita. Così la recente campagna della destra
contro le droghe raggiunge il picco massimo di ipocrisia in una società che ha nel consumo di massa
delle droghe legali, come ad esempio gli psicofarmaci, uno dei suoi principali strumenti di controllo.
Dobbiamo batterci per la decriminalizzazione del
consumo. Allo stesso tempo non accettiamo l’uso
strumentale che il gruppo dirigente ha fatto fino ad
oggi di questa battaglia. La questione della droga va
inserita all’interno dell’attività complessiva di un’organizzazione giovanile rivoluzionaria. Non può
diventare la leva con cui trasformare invece la nostra
organizzazione in un gruppo giovanilistico.
9. Democrazia
e strutturazione dei Gc
Il dissesto organizzativo dei Giovani Comunisti è
inscindibilmente legato alla linea politica applicata
in questi anni. Non crediamo che esista una ricetta
che possa risolvere le falle della nostra organizzazione senza un contemporaneo cambiamento della
linea politica. Per noi un’organizzazione comunista
è composta prima di tutto da idee, metodi e programmi e solo in secondo luogo da un apparato
organizzativo. Come formare e controllare simile
apparato non è però argomento di secondaria importanza.
Esiste nei Giovani comunisti un obiettivo problema
di trasparenza e democrazia. Non esiste alcuna
discussione su questioni quali autofinanziamento,
apparato, ecc. Tutti questi argomenti devono essere
posti in un dibattito democratico a partire dal
Coordinamento nazionale.
Va rotta una prassi negativa che ha visto sistematici
rinvii delle conferenze nazionali dei Gc. La vecchia
norma statutaria imponeva una conferenza ogni due
anni, poi passati a tre con le modifiche allo statuto
approvate al congresso di Venezia; siamo, nei fatti, a
quattro anni di distanza dalla scorsa conferenza
nazionale (luglio 2002)… Proponiamo di tornare alla
scadenza biennale, e in ogni caso a una effettivo
rispetto delle norme.
Lo stesso valga per il coordinamento nazionale, che
dovrebbe riunirsi ogni due mesi, a scadenze certe,
abbandonando una gestione discrezionale da parte
della maggioranza delle scadenze del dibattito.
Ad ogni coordinamento nazionale dovrebbero seguire attivi provinciali o di circolo dei Gc che riportino
il dibattito, le decisioni, le informazioni.
Anche se il partito sostiene finanziariamente i Gc,
essendo questi interni allo stesso Prc, questo non
significa che non dobbiamo sviluppare serie forme
di autofinanziamento, sia centrali che locali, unico
mezzo per garantire la nostra reale autonomia politica, tanto più in una situazione nella quale il peso
della presenza istituzionale è schiacciante nel garantire le entrate del partito, con tutte le conseguenze
negative che vediamo moltiplicarsi sia al centro che
in periferie: corsa alle candidature agli incarichi,
logiche di “cordata”, ecc.
Le strutture dei Gc devono sviluppare una effettiva
vita democratica e una partecipazione militante. I
coordinamenti provinciali devono porsi l’obiettivo di
riunirsi regolarmente per discutere sia del proprio
intervento che di argomenti politici, internazionali,
per fare formazione politica. Al tempo stesso ritenia-
mo utile riproporre l’ipotesi di strutturare i Gc anche
a livello di circolo, laddove questo sia praticabile ed
efficace, con l’obiettivo di allargare la partecipazione
a tutti gli iscritti.
Proponiamo di avviare un confronto con Liberazione
al fine di aprire maggiori spazi per le riflessioni e gli
interventi provenienti dai Gc, non solo quelli, peraltro sporadici, dell’Esecutivo nazionale, e di valutare
ulteriori possibilità, come ad esempio la pubblicazione, a scadenze regolari, di un inserto legato alle
tematiche giovanili che possa anche essere diffuso in
maniera militante.
10. Pace, guerra,
nonviolenza:
i Gc e la prospettiva
rivoluzionaria
Il movimento contro la guerra, dopo le grandi manifestazioni del 2002-2003, è entrato obiettivamente in
una fase di ripiegamento, testimoniato non solo dai
numeri delle mobilitazioni, assai minori, ma soprattutto da una crisi di orientamento politico.
L’opzione del pacifismo assoluto, che in molti casi
confina con la pura testimonianza individuale, rende
impossibile una lettura coerente e un’azione efficace
di fronte ai conflitti in corso (Iraq, Palestina,
Aghanistan…) e a quelli che si preparano (Iran,
Siria, Libano…). L’aver oscurato e delegittimato i
concetti di imperialismo, resistenza, lotta di classe,
l’aver ridotto l’intera analisi dei processi internazionali nel “binomio” (del tutto artificiale) guerra-terrorismo ha contribuito grandemente a questa crisi
politica. Questo è tanto più vero a fronte di una martellante campagna mediatica trasversale, tesa a presentare, purtroppo con un certo successo, un vero e
proprio “mondo alla rovescia”. Così, ad esempio,
Israele, che rifiuta da decenni ogni forma di “legalità internazionale”, che costruisce il muro
dell’Apartheid, che alla faccia a qualsiasi trattato di
“non proliferazione” possiede centinaia di testate
atomiche senza accettare di sottoporsi ad alcun controllo, diventa la vittima minacciata di annientamento e non uno Stato armato fino ai denti che nega
anche diritti più elementari a un popolo oppresso. In
tempi di “esportazione della democrazia” questo
esempio si potrebbe moltiplicare milioni di volte.
La realtà è che a dispetto di tutte le belle parole,
degli appelli alla pace, al dialogo e alla comprensione, il mondo viene sprofondato in una spirale di
conflitti senza soluzione, ognuno dei quali porta in
sé i germi della guerra successiva.
Di fronte a questa situazione, non si può negare il
diritto di un popolo oppresso a lottare contro il proprio oppressore anche con l’uso della forza. Né ci si
può limitare a “riconoscere” tale diritto in astratto,
salvo poi bollare come “terrorismo” ogni manifestazione di resistenza.
Questo non significa appoggiare qualsiasi mezzo di
lotta, né tantomeno mettere sullo stesso piano forze
reazionarie quali Al Qaeda o altre forze fondamentaliste (che peraltro in Iraq costituscono solo una minima
parte delle forze che si oppongono all’occupazione)
con movimenti di liberazione di ben altra natura.
Nella nostra epoca la lotta per la liberazione nazionale assume una prospettiva credibile se si lega a un
programma di emancipazione sociale, di lotta contro
l’imperialismo, contro il capitalismo e contro quelle
classi dominanti locali corrotte e marce che in particolare nel mondo arabo da mezzo secolo strumentalizzano la causa palestinese mentre dietro le quinte
si accordano con le potenze imperialiste per mantenere i propri privilegi. La rivendicazione del ritiro
delle truppe italiane che partecipano alle missioni di
occupazione rimane per noi pienamente valida non
solo per l’Iraq, ma anche per quelle missioni targate
Onu (Afghanistan e Balcani) che l’Ulivo ha invece a
suo tempo sostenuto e che tutt’ora sostiene.
L’esperienza di oltre un secolo dimostra che la vera violenza viene innanzitutto dalla classe dominante, che
non esita a gettare la maschera democratica e a usare
l’oppressione più spietata se questo è necessario per
difendere il proprio potere. Ancora recentemente, il tentativo di colpo di Stato in Venezuela (aprile 2002) o il
tentativo, fallito, di annegare nel sangue l’insurrezione
del popolo boliviano, hanno confermato questa lezione.
In entrambi i casi, la reazione è stata sconfitta non dagli
appelli alla pace e al dialogo, ma dalla determinazione
delle masse, dei lavoratori, dei contadini, dei minatori,
che non hanno esitato a usare anche la forza per mettere la reazione in condizioni di non nuocere.
La nostra risposta alla violenza della guerra e alla
“silenziosa” violenza quotidiana di questo sistema
sociale, si ispira a quegli esempi: una lotta coraggiosa,
intransigente per l’affermazione della prospettiva socialista e rivoluzionaria, l’unica che può davvero sradicare
dal mondo l’oppressione e con essa la violenza e la
guerra.
Nonostante la più che decennale campagna ideologica contro il comunismo, i proclami sulla “fine della
storia”, il “pensiero unico” e le abiure di tanta parte
della sinistra, il nuovo secolo vede riaprirsi la speranza rivoluzionaria. Di fronte a un sistema che
sprofonda in contraddizioni sempre più stridenti sul
piano sociale, economico, ambientale, abbiamo il
risveglio di grandi movimenti di massa e la ricerca di
alternative a questa società.
La rivoluzione non torna solo di prepotente attualità,
ma diventa sempre di più una necessità. Non a caso
la parola d’ordine della trasformazione socialista della
società torna a far capolino non solo da questo o quel-
lo scritto ma nella vita concreta delle masse in
America Latina, con l’apertura di un dibattito di
massa in Venezuela sulla costruzione del socialismo
del secolo XXI. Proprio la situazione in America
Latina deve essere posta costantemente al centro delle
nostre discussioni e della nostra azione, con continue
campagne internazionaliste sul modello di quello
fatto dalla campagna internazionale “Giù le mani dal
Venezuela”.
La nostra generazione è la prima dopo mezzo secolo a veder peggiorare le proprie condizioni di vita
rispetto alle generazioni precedenti. La necessità di
una rottura rivoluzionaria tornerà ad affacciarsi
nella
testa
di
migliaia
di
persone.
Un’organizzazione giovanile comunista può avere
un futuro solo se si colloca all’interno di questo
processo, condividendo l’evoluzione di migliaia di
giovani nel nostro paese e proponendo la prospettiva comunista e rivoluzionaria.
29
GIOVANI COMUNISTI:
Il cuore dell’opposizione
Firmatari (in neretto i membri del coordinamento nazionale GC):
Peppe D'Alesio (coordinamento nazionale GC), Filippo Benedetti (coordinamento nazionale GC), Nicola Iozzo (coordinatore provinciale
GC Vibo Valentia), Igor Papaleo (coordinamento regionale GC Campania), Giacomo Albanese (GC Lauria – Potenza), Fabio Barone (segretario circolo Prc Qualiano – Napoli), Rossella Barsanti (direttivo circolo PRC San Giorgio a Cremano – Napoli), Gregorio Borrelli (GC
Porto di Napoli), Antonio Callà (direttivo circolo Vibo Valentia), Jennifer Callipo (GC Roma), Carmine Cassino (direttivo circolo Prc Lauria
– Potenza), Anna Cordella (GC Copertino – Lecce), Gennaro Cosentino (GC Napoli), Stefania Diliddo (GC Napoli), Adele Fenizia (GC
Napoli), Vito Garito (GC Vibo Valentia), Diletta Giannoni (GC Spoleto – Perugia), Alessandro Guida (coord. prov. GC Napoli), Mario
Iaccarino (GC Porto di Napoli), Giuseppe Iannaccone (RSU Fiom Avio, Pomigliano – Napoli), Sonia Izzo (GC Porto di Napoli), Vera Manco
(coord. prov. GC Napoli), Raffaele Maria Manzo (segretario circolo Prc Magneti Marelli, Pomigliano – Napoli), Nadia Palumbo (GC San
Antimo Napoli), Alberto Parisi (GC Bisceglie – Battipaglia), Dario Parisi (GC Bologna), Federica Pighetti (GC Napoli), Peppe Raiola
(segretario circolo Prc Torre Annunziata – Napoli), Rito Rossino (GC Lauria – Potenza), Alessandra Sasso (GC Lauriaa – Potenza),
Giovanni Tortora (GC Bisceglie – Battipaglia), Antonio Vitale (segretario circolo Prc Vigianello – Potenza)
Premessa: chi siamo,
perché questo
documento.
L’esecutivo nazionale dei GC si era congedato dalla
scorsa conferenza di Marina di Massa dichiarando
il proposito di “Rivoluzionare il presente e costruire un altro mondo possibile” sulla scia del movimento antiglobalizzazione. A distanza di quattro
anni, ci ritroviamo al governo della settima potenza capitalistica mondiale, alleati di gente come
Mastella, Dini, Treu, Rutelli, Bonino, Montezemolo
(e la lista potrebbe continuare): in sostanza dei più
fedeli rappresentanti di quel potere e di quel dominio capitalistico che un tempo si dichiarava di voler
combattere.
Questo documento è il frutto della riflessione di
numerosi Giovani Comunisti che alla luce della loro
esperienza quotidiana sui territori esprimono un
profondo dissenso al nuovo corso governista e riformista del Prc. Pensiamo che la prospettiva anticapitalista, che il partito ha abbandonato e sacrificato
sull’altare delle compatibilità di governo, vada raccolta e rilanciata dai GC.
Al contempo non ci riconosciamo nelle mozioni di
minoranza ufficiali: queste, che all’indomani del
congresso promettevano fuoco e fiamme, ora si adeguano in maniera supina al nuovo corso, accontentandosi del “diritto di tribuna” loro concesso negli
organismi dirigenti. Proprio nel momento in cui
maggiormente si rende necessaria la presenza di
un’opposizione di classe dentro il Prc e nella società, le vecchie mozioni congressuali preferiscono il
ruolo più comodo di “minoranza”, pur di non disturbare il manovratore.
L’epoca storica in cui viviamo ci mostra ogni giorno
come il diritto al profitto sia l’unico e intoccabile
principio su cui si basa il dominio capitalista.
Pensiamo che chiunque aspiri al superamento di
questo sistema sociale debba partire da una sola,
granitica convinzione: c’è bisogno di opposizione.
Se questa convinzione viene meno nel nostro partito, è allora da esso che bisogna cominciare,
costruendo al suo interno una vera opposizione politica alla deriva governista.
Un’opposizione
coerente e non di bandiera,
intransigente e non di mera facciata.
O con i padroni o con le classi oppresse: a differenza di quanto affermano alcune “minoranze”, non
esistono soluzioni intermedie. Questo il senso profondo della nostra netta contrarietà alle tesi
dell’Esecutivo Nazionale uscente. Questa la
30 ragione della presentazione di un nostro docu-
mento.
Fermiamo
la svolta governista
In questi anni una nuova generazione è scesa in
campo ai quattro angoli del pianeta per lottare contro un potere capitalista che, nel nome dei profitti e
delle rendite finanziarie, sfrutta, affama, depreda
risorse, aggredisce e massacra intere popolazioni.
L’Italia è stata attraversata da un’ondata di mobilitazioni contro l’arroganza del governo Berlusconi,
portatore dei più biechi interessi padronali.
Praticamente ogni settore delle classi subalterne è
sceso in piazza: dagli studenti ai ricercatori precari,
dai lavoratori a tempo determinato ai metalmeccanici, fino ad arrivare alle mobilitazioni in difesa della
salute e del territorio, come dimostra la straordinaria
e prolungata lotta del popolo della Val di Susa contro il progetto dell’alta velocità.
L’esecutivo nazionale ha fatto leva su questi eventi
per sostenere che occorreva “cambiar pelle per aprirci ai movimenti”, che bisognava “riformare il partito per renderlo più permeabile alle spinte provenienti dalla società”. Oggi scopriamo che quello del
movimento non era che un’alibi.
Il cambio di pelle, la riforma profonda delle strutture, dei valori e della cultura della nostra organizzazione ci sono stati, eccome: ma il fine non era quello di aprirci ai movimenti, bensì di accreditare il Prc
come forza di governo affidabile al fine di conquistare la fiducia dei salotti buoni della politica borghese.
Non a caso, sono stati proprio gli organi di stampa
padronali (ad esempio il Corriere della Sera) i primi
a salutare con enfasi ed entusiasmo la serie impressionante di pubbliche “abiure” condotte dal gruppo
dirigente del Prc e dei GC in questi mesi: dal pacifismo e la non-violenza gandhiana assunte come
valore assoluto al rifiuto della categoria di “imperialismo”, dalla presa di distanza dai movimenti di resistenza e di liberazione nazionale in Iraq e in
Palestina alla riabilitazione della religione e del cattolicesimo, dall’esaltazione della farsa delle primarie, alla messa in discussione della natura di classe
del partito, fino al ripudio del leninismo e quindi del
marxismo.
Il VI Congresso nazionale, svoltosi lo scorso anno,
ha accelerato questo processo, dando vita alla cosiddetta Sinistra Europea, ovvero ad un soggetto politico interclassista che rompe di fatto i legami con il
movimento operaio e la sinistra comunista.
L’ingresso al governo con l’Unione di Prodi rappresenta l’approdo definitivo di questa lenta ed inesorabile capitolazione sugli altari della governabilità. La
“mutazione genetica” sembra non avere più fine.
Nel corso degli ultimi 12 mesi siamo passati da un
ipotesi di accordo elettorale col centrosinistra all’ingresso organico nella coalizione, dall’accettazione
del metodo delle primarie in stile USA per incoronare Prodi a capo della coalizione alla condivisione in
toto del programma dell’Unione e alla rinuncia a
presentare un nostro programma elettorale.
Il nuovo corso del Prc stà determinando confusione
e disorientamento nel nostro corpo militante. Tanti
giovani compagni, che con generosità e convinzione si sono resi protagonisti del ciclo di mobilitazioni di questi ultimi anni, si ritrovano ora in un partito che si appresta a diventare la controparte di
quelle stesse lotte.
Alla luce di cio` i GC, dimostratisi in questi anni un
prezioso serbatoio di forze vive e militanti, non possono e non devono rendersi complici del nuovo
corso governista.
Verso una nuova
stagione di lotte
Le elezioni del 9-10 Aprile ci consegnano uno scenario per certi versi inaspettato: l’Unione di centrosinistra, di cui siamo parte integrante, conquista una vittoria sul filo di lana, di gran lunga al di sotto delle
aspettative e delle previsioni benevole dei sondaggi;
il Prc, pur nel quadro di un risultato complessivo
soddisfacente, non riesce ad intercettare il voto giovanile e di movimento, come dimostra il notevole
divario tra i voti del senato e quelli della camera; di
converso, Silvio Berlusconi mantiene pressoché
intatto il proprio bacino elettorale. Cinque anni di
massacro sociale, leggi ad personam, aggressioni
imperialiste, politiche di miseria, precarietà e repressione, di attacco alle istituzioni in chiave reazionaria, non sono bastate ad erodere il consenso di
massa della destra. Il berlusconismo, fenomeno che
ha caratterizzato l’ultimo decennio della politica italiana, è ben lungi dall’essere sconfitto, e si ripresenta, all’indomani delle elezioni, più che mai aggressivo e arrogante.
La tenuta elettorale della Cdl si spiega in parte col
fatto che il centrosinistra si è dimostrato poco credibile finanche sul terreno più elementare, quello dell’opposizione al governo delle destre e alle sue derive plebiscitarie e fascistoidi: ha conferito a
Berlusconi e ai suoi una legittimità “democratica”
che fino a qualche tempo fa sarebbe apparsa inimmaginabile (basterebbe pensare alle continue prese di
posizione di DS, Margherita e dello stesso Bertinotti
contro una cacciata “prematura” del governo); ne ha
accettato le peggiori misure antipopolari, come dimostra il consenso “bipartizan” alle privatizzazioni, alle
politiche di precarizzazione del lavoro, all’ipotesi di
scippo del TFR (caldeggiato dagli stessi sindacati
confederali), alla guerra imperialista in Afghanistan,
all’attacco congiunto a diritti civili come la 194 o
ancora l’ostracismo nei confronti dei Pacs, la criminalizzazione delle lotte sociali, ecc.
Questo “eccesso di prudenza” non deve sorprendere: la condotta del Centrosinistra trova una sua spiegazione logica nel fatto che la coalizione guidata da
Prodi fin dal 1996 ha rappresentato il più affidabile, tenace e credibile comitato d’affari della grande borghesia italiana ed europea.
La classe lavoratrice assiste a questo scontro tra due
frazioni della classe dominante priva di un proprio
riferimento politico. La tesi di una presunta natura
socialdemocratica dei DS, sostenuta apertamente da
alcune minoranze interne ai GC, risulta, alla prova
dei fatti, del tutto superata.
I DS, infatti, da almeno un lustro hanno portato a
compimento la svolta verso un partito organicamente liberale: l’iscrizione nelle loro fila di eminenti
esponenti di Confindustria (De Benedetti su tutti) è
più che sufficiente a chiarire la questione. La nascita del partito democratico rappresenta oggi la consacrazione del sodalizio di ferro tra Ds, Confindustria
e grande capitale.
Più che nei programmi scritti, è nei fatti che emerge
in maniera quanto mai limpida il carattere di classe
dell’Ulivo e dell’Unione.
A detta di Prodi e dei suoi seguaci, essi confermeranno la presenza militare italiana in Afghanistan,
Kosovo e Somalia; in Iraq, dietro la foglia di fico di
un ancora ipotetico ritiro, l’aggressione proseguirà
sotto le insegne dell’ONU o di sedicenti “truppe di
ricostruzione”; le norme precarizzanti della legge
30, coerentemente con lo spirito del pacchetto Treu,
non verranno minimamente intaccate; lo stesso
discorso vale per la riforma Moratti, per la Bossi-Fini
sull’immigrazione e per il progetto dell’alta velocità
(TAV) nella Val di Susa.
D’altronde, le lotte sociali di questi anni non si sono
limitate ad una semplice opposizione al governo
delle destre, ma sono spesso andate oltre, investendo con le loro contestazioni gli stessi apparati del
centrosinistra.L’esempio bolognese è in questo senso
paradigmatico: nella capitale emiliana un nuovo
movimento di giovani e studenti ha rotto il clima piu
che ventennale di pace sociale per opporsi alle politiche securitarie, repressive e razziste del sindacosceriffo Cofferati, il quale non a caso ha ricevuto le
lodi della Lega e delle destre. Anche il già citato
movimento No-Tav in Piemonte ha trovato come sua
controparte non solo il governo centrale, ma anche
in primo luogo la giunta ulivista piemontese di
Mercedes Bresso; il movimento contro la privatizzazione dell’acqua a Napoli è nato a seguito di una
delibera della giunta comunale di Rosa Russo
Jervolino; il movimento contro l’inceneritore di
Acerra si è opposto ad un progetto di inceneritore
portato avanti da Antonio Bassolino… e gli esempi
potrebbero proseguire.
E’ chiaro quindi che il governo di centro-sinistra
sarà anti-operaio, amico dei padroni e della precarietà, razzista e guerrafondaio.
Mentre Prodi si affanna a ripetere gli appelli all’unità e alla concordia tra le classi, risulta sempre piùevidente come gli interessi dei lavoratori siano incompatibili con quelli dei padroni.
I GC sono quindi chiamati ad una scelta di coerenza: collocarsi fin da subito all’opposizione del
governo dell’Unione, chiedere al partito tutto
l’uscita immediata dall’esecutivo di Prodi, contribuire alla nascita in Italia di un blocco autonomo
di classe, alternativo al bipolarismo borghese sia
sul piano nazionale che su quello locale.
Un tale percorso non costiuisce il frutto di un ripiegamento settari, nè può fondarsi sulla “purezza
della dottrina”, come pensano (sbagliando) alcune
minoranze del Prc, ma al contrario si propone di dar
vita a un’ampia aggregazione di tutte le forze comuniste, delle avanguardie sindacali e dei movimenti
anticapitalisti: un fronte largo e di massa, una “casa
comune” che sappia offrire una sponda reale al
movimento e alle lotte sociali, che sappia dar voce
(per dirne una) a quei 10 milioni di cittadini che
votarono Si all’estensione dell’articolo 18, in antitesi sia alla destra che alla sinistra borghese.
GC e movimento: la fine
della disobbedienza
La scorsa conferenza nazionale fu per intero attraversata dal dibattito e dal confronto sulla disobbedienza.
L’Esecutivo Nazionale, nel corso di tutto il suo mandato, ha tentato ostinatamente di traghettare la
nostra organizzazione all’interno del “laboratorio
della Disobbedienza”, nel tentativo di determinare
una sostanziale identificazione tra GC e disobbedienti; esso ha perseguito tale scelta con una spregiudicatezza tale da renderla prioritaria su tutto e
ignorare qualsiasi terreno di intervento politico che
non fosse riconducibile a tali pratiche.
A distanza di quattro anni, questa esperienza viene
considerata “esaurita” proprio da coloro che con
maggior convinzione la sostennero: in sostanza,
siamo dinanzi a un fallimento della disobbedienza
su tutti i fronti.
Da tempo, infatti, è in atto un processo di disintegrazione di quest’area politica in svariate fazioni perennemente in lotta tra loro. Questa diaspora non è il
frutto di un confronto e di una dialettica tra diverse
opzioni politiche, bensì di una frenetica concorrenza
tra le varie parrocchie “disobbedienti” per salvaguardare o conquistare spazi di potere presso le istituzioni borghesi: non a caso esse sostengono quasi
ovunque le amministrazioni locali di centrosinistra,
assumendo al loro interno incarichi di primaria
importanza.
Il radicalismo di facciata delle pratiche disobbedienti (azioni simboliche, gesti esemplari, scontri mimati con la polizia, pratiche di movimento coreografiche e folkloristiche) ha sempre fatto il paio con una
linea politica moderata e accondiscendente al potere
costituito.
Questo stato di cose non poteva non avere ricadute
nefaste sul corpo militante dei GC: tantissimi compagni escono oramai stremati da anni di movimentiamo senza sbocco, concentrato in azioni effimere
che si sono esaurite in breve tempo senza lasciare
tracce. Nel frattempo, proprio quando il movimento
ha fatto irruzione sui luoghi di lavoro, nelle scuole,
nelle università e sui territori, i Disobbedienti si
sono ritrovati ai margini di queste lotte, del tutto
estranei ai contesti sociali in cui queste sono nate.
E’ necessario compiere un bilancio franco e trasparente del percorso finora svolto: invece di rifugiarsi,
come fa l’Esecutivo Nazionale, in concettuose interpretazioni sociologiche o astrusi giri di parole bisognerebbe prendere atto del fallimento della disobbedienza e invertire la rotta del nostro intervento nei
movimenti.
Il Ritorno in campo
della classe operaia
La crisi economica continua ad essere tale soltanto
per i lavoratori e per le loro famiglie. Secondo
Mediobanca le imprese nel 2004 hanno aumentato i
loro profitti del 65% rispetto all’anno precedente; di
converso l’incidenza dei salari sul PIL, che fino a
dieci anni era pari al 43%, oggi risulta ridotta al 30%
della ricchezza nazionale prodotta. Queste cifre trovano la loro più cruda conferma nei livelli salariali
dei metalmeccanici: questi, a parità di potere d’acquisto, figurano al penultimo posto in Europa (solo
gli operai greci stanno peggio!).
La lotta degli operai Fiat a Termini Imerese, gli scioperi ad oltranza degli autoferrotranvieri partiti a
Milano e poi estesisi in tutta Italia, la massiccia
mobilitazione dei dipendenti dell’Alitalia sono solo
alcune, emblematiche testimonianze della ripresa
del conflitto sui luoghi di lavoro.
In quest’ottica, la straordinaria mobilitazione dei
lavoratori di Melfi nella primavera del 2004 ha rappresentato un vero e proprio spartiacque: oltre venti
giorni di sciopero a oltranza, settimane intere di
blocchi stradali, picchetti, cortei, proprio in quel sito
produttivo che da sempre veniva considerato dai
padroni come il tempio della precarietà e della
nuova disciplina d’azienda, quindi al riparo da qualsiasi conflitto.
Le recenti lotte operaie vedono in prima fila proprio
quella giovane classe operaia, nata e cresciuta in un
contesto di precarietà permanente, la stessa che da
più parti, anche in ambienti della sinistra, veniva
considerate priva di coscienza di classe e quindi
renitente a qualsiasi forma di conflitto.
Questo nuovo scenario pone i GC di fronte a nuovi
compiti e nuove responsabilità: non basta essere
presenti ai picchetti e agli scioperi, come pure abbiamo fatto: occorre un programma d’intervento che
prefiguri una direzione alternativa di queste lotte e
le sottragga alle strumentalizzazioni e all’opportunismo del centrosinistra e delle burocrazie sindacali.
Tornare
sui luoghi di lavoro
Le forme aggregative dei GC attuali sono lontane dalle
esigenze della giovane classe lavoratrice.
Ne è prova la crisi di radicamento tra i giovani operai,
tra le nuove leve del precariato, tra i giovani disoccupati del Sud, ma soprattutto la quasi totale assenza di
questi settori sociali negli organismi dirigenti, sia
nazionali che locali.
Lo stato di crisi dei circoli di fabbrica, e il bassissimo
tasso di lavoratori iscritti ai GC è lo specchio di una
struttura che negli ultimi anni ha rinunciato a sviluppare un intervento sistematico e costante nei luoghi di
lavoro. Bisogna invertire questa logica.
I giovani proletari, sottoposti al perenne ricatto della
precarietà e dei licenziamenti facili, sono coloro che
pagano maggiormente il prezzo delle ristrutturazioni
padronali. Ne consegue che a costoro va dedicata
un’attenzione prioritaria. Una struttura giovanile
comunista è tale se trova i mezzi e le forme adeguate
a costruire un rapporto con la classe di riferimento.
Bisogna tornare a costruire campagne di massa su
tematiche politiche, economiche e sociali che coinvolgano i giovani lavoratori; tornare a organizzare
volantinaggi e momenti di controinformazione nei
pressi dei luoghi di lavoro; sviluppare inchieste e
monitoraggi per conoscere a fondo (e quindi combattere) le dinamiche di sfruttamento sui nostri territori; utilizzare linguaggi e formule comunicative
che siano facilmente comprensibili dai giovani
lavoratori.
Il sindacato, che per decenni era stato il principale
veicolo di protagonismo e partecipazione della classe lavoratrice, negli ultimi tempi è divenuto il principale strumento di passività, delega, rassegnazione.
Oggi una nuova generazione rialza la testa e riprende a lottare per difendere i diritti, e si trova a scontrarsi, prima ancora che con i padroni, proprio con
le burocrazie sindacali. La vicenda del recente rinnovo contrattuale dei metalmeccanici ne è una fresca
testimonianza: in molti dei principali stabilimenti gli
operai hanno respinto con forza l’accordo truffa
siglato da Fiom-Film e Uilm e in alcune fabbriche
hanno dato vita a momenti di discussione e di lotta,
e ciò malgrado il continuo boicottaggio da parte dei
confederali (un’esempio su tutti quello della Fiat di
Pomigliano d’Arco, dove i lavoratori dello Slai-Cobas
hanno pagato col licenziamento la loro opposizione
all’accordo).
Questo stato di cose ci impone la necessita’ di intraprendere un lavoro di coagulo dei settori più combattivi del lavoro dipendente, quelli che costituiscono l’ossatura delle lotte e delle manifestazioni.
Sia nel sindacato confederale che in quello extraconfederale esistono pezzi importanti della cultura e
della pratica antagonista: un patrimonio di esperienze e di storia, di lotte e conquiste che non si può
mantenere frammentato; esso va unificato attraverso
un processo di riaggregazione e di coordina31
mento. Occorre lavorare fin da ora alla costitu-
zione di coordinamenti dei lavoratori comunisti in
tutti i luoghi di lavoro, che sappiano riunire i lavoratori e gli Rsu più combattivi, trasversalmente alle
sigle sindacali e alle categorie di appartenenza, sulla
base di una comune piattaforma classista e anticoncertativa. Non si tratta di una proposta idealistica o
calata dall’alto: simili esperienze stanno gia’ nascendo in diverse citta’ italiane: si tratta quindi di alimentarle e rafforzarle.
Lotta alla precarietà
e lotta di classe sono
una cosa sola
La precarietà non rappresenta una nuova categoria, ne determina una nuova classe sociale: essa
non è altro che la forma attuale dello sfruttamento
salariato, la quale ci rimanda agli albori del capitalismo. Nessuna novità epocale, quindi, come
vorrebbe far credere qualche sociologo “progressista” in vena di dissertazioni mentali.
Una trafila di provvedimenti legislativi compiuta
da tutti i governi europei nel corso degli anni ’90
con la connivenza delle burocrazie sindacali (in
Italia Cgil- Cisl- Uil) ha fatto si che i rapporti di
lavoro precari divenissero norma: in Italia tale processo è stato inaugurato con la legge 223 del 91,
che ha sancito la libertà di licenziamento collettivo (nota come mobilità), è proseguito col
Pacchetto Treu, viatico del lavoro interinale, e il
decreto Bassanini sulla precarietà nel pubblico
impiego all’epoca dei governi ulivisti, ed è culminato con la famigerata legge 30 di Maroni nel 2003
e col tentativo di attacco all’articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori. Tutto ciò in un contesto in
cui i governi continuano ad incentivare lo smembramento e la distruzione dei vecchi insediamenti
industriali attraverso esternalizzazioni e cessioni
di ramo d’azienda: in tal modo per i padroni è più
facile imporre condizioni di lavoro schiavistiche.
Ad oggi si contano più di cinquanta figure contrattuali: nello scorso anno circa il 60% delle nuove
assunzioni è stato con contratti tempo determinato (a termine, interinale, part-time, job on call,
co.co.pro, staff leasing, ecc.). A queste va aggiunta la galassia di lavoratori al nero, i quali non figurano in nessuna statistica ufficiale: secondo una
recente indagine dell’Ires-Cgil nello scorso anno
ben 6 milioni di lavoratori (in buona parte immigrati) hanno prestato la propria manodopera privi
di qualsiasi contratto.
La precarizzazione del lavoro, unita alla crisi,
porta alla proletarizzazione di fette sempre più larghe del lavoro dipendente: la diffusione dei contratti atipici nel pubblico impiego ne è la testimonianza più diretta.
La vera novità della nostra epoca non è rappresentata dall’esistenza in sè del precariato, ma dall’irrompere della lotta di classe nei luoghi della precarietà: le mobilitazioni dei lavoratori della Tim a
Bologna, dei dipendenti dei call center dell’Atesia
e di quelli di Auchan a Roma, dei lavoratori delle
cooperative sociali a Napoli, la diffusione di vertenze tra i cosiddetti “atipici” rappresentano la
smentita più clamorosa di chi, anche nella nostra
organizzazione, si è lasciato ammaliare dalle tesi
“suggestive” di Rifkin e Revelli sulla fine del lavoro salariato e l’estinzione della classe operaia.
Nella nostra organizzazione si parla troppo di precarietà senza una reale cognizione di causa: il precario diviene spesso un feticcio nel nome del quale
giustificare scelte e pratiche opportunistiche.
32 Ecco così che si contrappone il mito del preca-
rio allegro, gioioso e spensierato all’operaio “novecentesco, quindi superato”; si oppone l’idea delle
moltitudini in movimento alla tanto vetusta e
deprecata lotta di classe, si rifiutano in maniera
altezzosa gli scioperi come strumento di conflitto,
preferendogli i meeting e le street parade…Questo
“nuovismo” esistenzialista, oltre a fondarsi su
argomentazioni del tutto fantasiose, si è dimostrato completamente inefficace sul piano degli effetti
pratici: nessuna legge ingiusta è mai stata abrogata a colpi di danza, mai nessuna “moltitudine di
invisibili” è stata capace di vincere una vertenza o
fermare un solo licenziamento! I fatti ci dicono che
le forme di organizzazione “tradizionale” della
classe operaia, che i vertici dei GC sembrano
ansiosi di voler superare, sono in realta’ le uniche
che pagano.
Dobbiamo quindi lavorare all’organizzazione dei
precari partendo dalla materialità della loro condizione oggettiva. Sostenere le singole lotte e vertenze territoriali, promuovere coordinamenti nazionali di lavoratori precari, stimolare l’unità dei precari con i lavoratori a tempo indeterminato, ma
soprattutto lottare a livello politico per l’abolizione
di tutte le leggi precarizzanti, in primo luogo del
Pacchetto Treu e della Legge 30.
Il movimento francese
ci indica la strada
La Francia si è dimostrata ancora una volta una
utile e preziosa scuola di lotta di classe, un esempio cui tutti gli sfruttati del continente devono
guardare con attenzione. Nelle scorse settimane
milioni di precari e studenti hanno invaso le principali piazze transalpine per esprimere la loro
opposizione ai CPE (contratti di primo impiego)
con cui il governo di destra di De Villepin intendeva garantire ai padroni la più completa libertà di
licenziamento per i nuovi assunti.
Dopo più di un mese di manifestazioni, blocchi
stradali, occupazioni, scontri di piazza, quella
legge è stata ritirata. In sintesi, lo straordinario
movimento delle masse francesi ha vinto!
L’esperienza francese è gravida di insegnamenti
per i comunisti e più in generale per le classi
oppresse italiane. Essa innanzitutto ci dimostra
come solo con la lotta è possibile difendersi dall’attacco di governi e padronato: gli studenti e i
precari francesi hanno scelto di non delegare alle
aule parlamentari e alla sinistra moderata la difesa
dei propri interessi.
Allo stesso tempo questa lotta svela in maniera
chiara come gli equilibri all’interno della società
capitalistica siano il frutto non del colore dei
governi in carica, bensì dalla forza e dal conflitto
che ciascuna delle classi è capace di mettere in
campo. Per essere più chiari, in Francia il movimento di questi mesi, grazie alla lotta, è riuscito ad
ottenere da un governo di destra il ritiro di una
legge che in molti paesi europei i governi di centrosinistra sono riusciti ad approvare grazie alla
concertazione e al coinvolgimento dei partiti operai nei loro esecutivi (vedi Pacchetto Treu).
Gli eventi francesi smentiscono in maniera clamorosa la tesi del condizionamento “da sinistra” dei
governi borghesi: in sostanza, con la lotta è possibile strappare conquiste anche al peggiore dei
governi; al contrario, la pace sociale e la complicità della sinistra di classe coi governi dei padroni
preparano il terreno alle peggiori sconfitte.
I GC e tutto il Prc, alla luce della vittoria degli studenti e dei precari in Francia farebbero bene a
riconsiderare le loro scelte e la loro collocazione
sulla scena politica italiana: una rivolta contro la
precarietà può esplodere anche nel nostro paese, e
la nostra organizzazione è chiamata fin da ora a
decidere da quale parte della barricata intende
schierarsi.
Un nuovo movimento
studentesco
L’istruzione, e con essa l’intero panorama della cultura e della formazione, hanno perso in questi anni
quel valore sociale e pubblico conquistato con le
dure lotte del movimento studentesco lungo tutto il
dopoguerra.
Da una recente inchiesta dell’ISTAT, secondo cui la
percentuale di “studenti-lavoratori” (a tempo pieno,
part time o al nero) ha oramai superato (52%) quella degli studenti a tempo pieno, risulta chiara l’idea
di come la maggioranza degli universitari si trovi in
una condizione di sostanziale autosostentamento,
costretta a offrire la propria manodopera (spesso
sottopagata) per pagarsi gli studi a fronte di una
totale mancanza di copertura statale.
All’indomani di dieci anni di riforme, scuola e università si sono trasformate in vere e proprie succursali delle imprese: la diminuzione progressiva della
spesa pubblica è stato il principale strumento per
spingere le stesse nella braccia dei privati, i quali
possono così modellare a piacimento quella massa
studentesca da essi non a caso ribattezzata “manodopera cognitiva”.
Contro queste politiche di precarietà e selezione di
classe è tornata a levarsi forte la voce del movimento studentesco. Dopo anni di passività e rassegnazione, nello scorso autunno abbiamo assistito ad
una ripresa del protagonismo nelle scuole e negli
atenei: la straordinaria manifestazione dei duecentomila a Roma fuori al parlamento è il segno di
un’inversione di rotta epocale.
La mobilitazione in molte città è partita dalla forte
opposizione alla riforma Moratti, ma non si è limitata a questo. In molti istituti e facoltà la ripresa del
confronto e della partecipazione ha ben presto
generato tra gli studenti la consapevolezza che l’attacco all’istruzione pubblica affonda le sue radici
nelle riforme Berlinguer e Zecchino, che per prime
hanno spalancato le porte all’ingresso dei privati in
scuole e università, quindi alla mercificazione dei
saperi.
I GC sono apparsi in molti casi i grandi assenti nel
movimento studentesco, e anche quando sono stati
presenti alle mobilitazioni, ne hanno avallato le tendenze piu deteriori. In questi anni, infatti,
l’Esecutivo Nazionale ha seminato tra gli studenti
l’illusione di poter “riformare la riforma” attraverso
l’organizzazione di seminari e corsi alternativi con
tanto di crediti formativi in palio; ha alimentato una
contrapposizione artificiosa tra diritto ai “saperi” e
diritto allo studio; ha esplicitamente invitato i compagni ad abbandonare i collettivi per puntare sui
“Laboratori”, cioè su ambiti di mera discussione
seminariale.
La ripresa delle mobilitazioni nelle facoltà ha invece mostrato quanto prezioso sia il ruolo dei collettivi studenteschi. Le lotte condotte in questi anni dai
Collettivi (come ad esempio a Napoli, Roma, Pisa,
Venezia e Catania) contro la guerra, in difesa del
diritto allo studio e contro le riforme aziendaliste,
sono l’esempio di come sia possibile promuovere e
organizzare, anche all’interno della scuola e dell’università “riformate”, momenti di lotta e di resistenza all’attuale assetto classista della cultura italiana.
I collettivi studenteschi devono quindi essere considerati una risorsa preziosa, non certo un fardello:
compito dei GC dev’essere quello di promuoverne
di nuovi là dove sono inesistenti; ridare vita ad un
vero coordinamento nazionale dei collettivi studenteschi medi ed universitari, sviluppare e massimiz-
zare il lavoro che numerosi compagni svolgono ogni
giorno nelle Scuole e negli Atenei.
Al fianco dei proletari
immigrati
I migranti costituiscono oggi il principale serbatoio di
forza lavoro a basso costo nelle mani di una classe
dominante che ne gestisce l’esistenza a proprio uso e
consumo. Per questa ragione, essi fanno parte a
pieno titolo del nuovo proletariato del XXI secolo.
La legge “Bossi-Fini” ha costruito un impianto legislativo basato sulla repressione e sul ricatto padronale, attraverso la chiusura delle frontiere, i flussi
programmati e il controllo poliziesco.
Questa legge è perfettamente in linea con gli accordi di Shengen, che mirano alla costruzione di una
“fortezza-Europa” in cui sono liberi di circolare solo
capitali e merci.
La clandestinità si erge così a norma di sistema
gettando migliaia di lavoratori nel mercato del
lavoro nero. Il migrante clandestino, in quanto tale,
vive in uno stato di illegalità che lo espone alla
repressione delle forze dell’ordine e alla propaganda
xenofoba e razzista.
La Bossi-Fini è una diretta emanazione della TurcoNapolitano. Questa legge, promossa e varata dall’allora governo Prodi con la nostra complicità contiene
già le principali norme di regolamentazione dei flussi e le condizioni necessarie per ottenere il permesso di soggiorno, ma soprattutto è la legge che ha istituito i centri di permanenza temporanea (CPT), veri
e propri lager in cui la “permanenza temporanea” è
detentiva e non vi è garanzia nemmeno dei diritti
inalienabili sanciti dalle convenzioni internazionali
(come dimostrano le condizioni scandalose in cui
versano gli immigrati nordafricani rinchiusi nel CPT
di Lampedusa). La legge Bossi-Fini non fa altro che
partire da queste norme per renderle ancora più
repressive: entri in Italia perché servi al padrone,
vieni licenziato quando non servi più e automaticamente diventi clandestino, quindi un criminale!
E’, quindi, necessario che i lavoratori immigrati si
autorganizzino e lottino in un fronte unitario con i
lavoratori italiani per l’emancipazione delle classi
sfruttate.
Come GC dobbiamo individuare una piattaforma
nella quale possano riconoscersi tutti i lavoratori,
che superi i meccanismi padronali della guerra fra
poveri e abbia il coraggio di affermare chiaramente
quali sono i veri nemici di classe.
Per garantire pieni diritti agli immigrati è necessaria
una sanatoria generalizzata, la chiusura di tutti i
campi lager, il diritto di cittadinanza, il permesso di
soggiorno rilasciato dai comuni e non dalle questure. Bisogna in sintesi cancellare la Turco-Napolitano.
Difendere diritti dei proletari immigrati, lavorare alla
loro sindacalizzazione e battersi contro precarietà e
lavoro nero e equivale a difendere i diritti di tutti i
lavoratori.
Per l’unità delle lotte
sociali attorno a una
comune piattaforma
Alla luce di quanto detto, risulta evidente come la
contraddizione capitale-lavoro rivesta oggi più che
mai una centralità assoluta: essa infatti influenza e
determina ogni altro aspetto della vita sociale e rappresenta quindi la madre di ogni altra contraddizione prodotta dal sistema capitalistico.
Il nostro intervento nei movimenti, per essere efficace, ha bisogno di un programma, di una piattaforma
di rivendicazioni che unisca attorno ad una prospettiva comune ciò che in questi anni le manifestazioni
hanno unito nelle piazze, con l’obiettivo di aprire
finalmente un varco per un’alternativa reale, quindi
di classe, ai governi borghesi e alle loro politiche.
Riteniamo che una piattaforma che risponda a queste esigenze non possa che fondarsi su un nucleo di
obiettivi unificanti:
a) estensione dello statuto dei lavoratori a tutti i
lavoratori (anche alle imprese con meno di 16
dipendenti);
b) oppressione della legge Bossi-Fini sull’immigrazione e di tutte le leggi pregresse (es. la TurcoNapolitano del 1998);
c) ipristino della “scala mobile” (indicizzazione dei
salari in base all’inflazione reale);
d) riduzione a 35 ore dell’orario di lavoro settimanale, senza contropartite fiscali e di flessibilità, con
forti aumenti salariali, senza annualizzazioni e con
l’abolizione per legge dello straordinario;
e) assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori precari e abolizione della famigerata legge 30,
del “Pacchetto Treu” e di tutte le leggi precarizzanti;
f) salario garantito a tutti i disoccupati equiparato
alla Cig;
g) abrogazione delle riforme Moratti di scuola e università e di tutte le precedenti riforme aziendalistiche (es. Berlinguer, Zecchino, ecc);
h) nazionalizzazione senza indennizzo e consegna
nelle mani dei lavoratori di tutte quelle imprese che
evadono, inquinano, corrompono, licenziano;
i) ritiro dell’Italia dalla NATO, ritiro delle truppe italiane da tutte le missioni militari imperialiste, tagli
drastici alle spese militari e riconversione delle stesse in capitoli di spesa sociale.
Una risposta
di classe alla questione
meridionale
Le lotte di questi anni, da Scanzano a Melfi a Locri,
dalle manifestazioni contro il Ponte sullo Stretto a
quelle contro l’inceneritore ad Acerra, i movimenti
dei disoccupati e degli sfrattati a Napoli, sono la
riprova di come il nostro paese sia ancora attraversato da un profondo dualismo fra un Nord evoluto e
un Sud immerso nella miseria e nel sottosviluppo.
Locri, attraversata da una sola strada e due binari, è
un esempio calzante . Ma essa è solo la punta dell’iceberg.
Il territorio meridionale è stato per anni depauperato dai continui flussi migratori a cui i giovani sono
obbligati per trovare una più decente occupazione al
nord. Oggi non è diverso. I dati dell’Istituto Svimez,
specializzato sulle tematiche del Mezzogiorno, ci
dicono che nel 2002 i nuovi emigranti dal Meridione
sono stati 180 mila e oltre 200 mila nel 2003. Il fenomeno riguarda oggi giovani, magari diplomati e laureati, ed i nuovi disoccupati, lavoratori espulsi dal
ciclo produttivo con le ristrutturazioni degli ultimi
venti anni.
Il meridione è in sostanza ridotto a semplice serbatoio di manovalanza ed elettorale per i ceti dirigenti.
In alcune regioni la disoccupazione giovanile raggiunge cifre da capogiro (con punte del 60% in
Campania e Calabria). A nulla sono serviti i vari
piani di sviluppo territoriali, o i contratti d’area, in
quanto i fondi stanziati o non sono mai stati utilizzati dalla classe politica locale, e quindi nel tempo
sono andati persi, oppure sono divenuti preda dei
poteri mafiosi. Proprio questi ultimi rappresentano
una piaga del territorio meridionale: esse opprimono
e violentano la cultura di interi territori, in complicità con le forze politiche, degli apparati dello Stato e
talvolta della massoneria deviata. La criminalità vive
all’ombra dello stato e si sostituisce ad esso offrendo “soluzioni immediate” alle emergenze che lo
Stato non sa e non vuole risolvere. La disoccupazione diviene prima fonte del sostentamento mafioso e
del suo radicamento sul territorio.
I governi nazionali e locali, attraverso il ridimensionamento dell’apparato industriale e del peso della
classe operaia hanno prodotto un’ulteriore disarticolazione del tessuto sociale e favorito i nuovi disegni
del capitale affaristico. L’obiettivo evidente del
padronato e delle politiche governative è l’accentuazione del doppio “regime salariale” tra Nord e Sud
del Paese.
A tutto ciò bisogna contrapporre l’idea di piani di
sviluppo basati sul rilancio dell’industria e sul sostegno a quei cittadini e quei lavoratori che hanno il
coraggio di ribellarsi al potere e alle speculazioni
mafiose. E’ evidente che ovunque ci sarà clientelismo, raccomandazioni, minacce, ricatti, lavoro nero,
la criminalita’ troverà terreno fertile.
A chi, anche nel centrosinistra, continua a raccontare la favola secondo cui il Sud si risolleverebbe
con il turismo o con le grandi opere come il Ponte
sullo Stretto bisogna rispondere che le popolazioni meridionali hanno bisogno di tutt’altro; vi è
bisogno di infrastrutture primarie, quali strade,
autostrade e ferrovie; va rilanciato il diritto allo
studio, per combattere la dispersione scolastica
nell’età dell’infanzia e la fuga degli studenti universitari verso il Nord; infine, il reddito garantito
per tutti i disoccupati al fine di sottrarre milioni di
giovani al ricatto del lavoro nero e della precarietà.
Le lotte delle popolazioni meridionali richiamano la
necessità di organizzare comitati di lotta e di controllo popolare, con la partecipazione di lavoratori,
disoccupati, precari, immigrati e studenti, al fine di
imporre scelte occupazionali, di uso del territorio, di
qualità della vita, in netta controtendenza con quelle dominanti.
Come GC dobbiamo lavorare alla costruzione di una
alleanza tra i proletari del nord e quelli sud: tale
obiettivo ha un valore strategico, poiché è condizione essenziale per portare sul piano nazionale ogni
lotta o vertenza regionale o locale e superare il localismo. La questione meridionale è oggi più che mai
una questione nazionale. Dunque solo con la ripresa di un conflitto nazionale sarà possibile incidere
con maggior forza sul blocco liberale borghese e
padronale responsabile del sottosviluppo del Sud, e
avviare il riscatto sociale del meridione.
Difendiamo i diritti
delle donne
I governi del centro-sinistra prima e quelli del centrodestra poi hanno minato alle fondamenta le conquiste
ottenute dal movimento femminista negli anni
Settanta. La Legge 40/98 del Governo Prodi, la Legge
Bassanini sulla sussidiarietà – purtroppo assunte e
votate dal PRC – l’attacco alla 194/78, l’attuale Legge
sulle procreazione medicalmente assistita (PMA) privano le donne della possibilità di disporre del proprio
corpo e del proprio tempo, rilanciano il criterio della
“centralità della famiglia” in sostituzione del wel33
fare, rappresentano l’ennesimo tentativo di
smantellare il diritto all’interruzione di gravidanza ,
peraltro, imponendo ai medici trattamenti rischiosi
per le donne stesse. In sostanza, la seconda repubblica assegna nelle mani del clero reazionario una vera
e propria ipoteca sul corpo della donna.
In questo quadro, incerta è stata la proposta politica
del partito che, rinunciando a costruire una reale
opposizione nelle piazze ed appiattendosi sulle iniziative parlamentari dei DS alla ricerca di un’inutile
quanto vuota unità d’intenti, ha finito per delegare la
stessa consultazione referendaria ai radicali e a qualche associazione femminista.
I GC possono e devono avviare un serio lavoro di
inchiesta e di denuncia delle condizioni di sfruttamento, sottomissione e repressione di cui quotidianamente le donne sono vittima.
Questo lavoro va concepito in un’ottica di ricomposizione, fuori da qualsiasi scorciatoia elitaria, separatista o corporativa: l’emancipazione delle donne e
l’emancipazione delle classi sfruttate rappresentano
un binomio inscindibile.
Ridurre la questione dell’integrazione delle donne ad
un problema di spartizione di “quote” vincolanti negli
organismi dirigenti del Partito, è sbagliato, fuorviante
ed anche inutile: la logica delle quote non libera la
nostra struttura dai residui di maschilismo, ma al contrario alimenta la ghettizzazione delle compagne.
Bisogna invece porsi l’obiettivo della crescita delle
compagne, responsabilizzandole negli organismi in
base alla capacità e alla reale rappresentanza che esse
hanno sul territorio e nei luoghi di lavoro.
Combattiamo
l’offensiva neoclericale
I GC devono avviare una battaglia tutto campo contro
ogni forma di ingerenza della Chiesa Vaticana sui
diritti e sulle libertà degli individui.
Il diritto al riconoscimento delle coppie di fatto
(Pacs), oltre che essere una questione di civiltà e di
lotta alle discriminazioni, rappresenta innanzitutto
uno strumento di emancipazione per tutti quei giovani proletari che a causa della precarietà e del caro-vita
non possono o non vogliono dar vita a sodalizi familiari tradizionalmente intesi.
La battaglia per i Pacs va unita ad un più generale
lavoro di massa teso a smascherare e combattere l’intollerabile invasività del Clero sui temi civili, etici e
morali, in prima luogo l’offensiva del Vaticano sui
temi della sessualità e il tentativo di quest’ultimo e
della destra di introdurre nuove forme di discriminazione verso gay e transessuali.
Tale offensiva ci pone nella necessità di essere in prima
fila nelle campagne in difesa della laicità dello Stato.
Queste non possono essere lasciate nelle mani dei
Radicali di Pannella, come anche è stato nel corso della
campagna elettorale. In quest’ottica, diviene centrale
riprendere la battaglia contro il finanziamento alle scuole confessionali e per l’abolizione dell’ora di religione.
Per un antifascismo
militante e di classe
Nel corso di questi anni, stiamo assistendo ad un progressivo riaffacciarsi sulla scena politica di movimenti e gruppi neofascisti. Ciò anche in conseguenza delle
ondate neorevisionistiche portate avanti dal governo
delle destre nel corso di tutto il suo mandato (dalla
riabilitazione dei repubblichini di Salò alla vergognosa strumentalizzazione della vicenda delle foibe, per
giungere alla teorizzazioni su una presunta superiorità della cultura occidentale e sulla difesa dell’identità
cristiana). Anche su questo terreno i partiti del
34 centrosinistra hanno gravi responsabilità: nel
1996 fu il diessino Luciano Violante, allora presidente della camera, a sdoganare per la prima volta il
fascismo, affermando che i partigiani e i loro aguzzini “avevano entrambi combattuto nel nome della
Patria”.
Negli ultimi anni sono andati moltiplicandosi aggressioni, violenze e intimidazioni ai danni di numerosi giovani compagni (in molti casi giovani comunisti), assalti e
devastazioni a sedi della sinistra e ai centri sociali, episodi di intolleranza verso gay e immigrati. Questa escalation ha raggiunto l’apice con l’uccisione per mano
fascista di un compagno, Davide Cesare, a Milano.
Contro il fascismo occorre tenere alta la guardia: bisogna riprendere la pratica dell’antifascismo militante al
fine di garantire l’incolumità fisica dei compagni e
prevenire le azioni fasciste.
Al contempo va tolta agibilità politica ai fascisti: ciò è
possibile solo attraverso una reale presenza sui territori e un’iniziativa costante e coordinata tra quei settori sociali maggiormente esposti alle sirene demagogiche dell’estrema destra, quindi in primo luogo tra i
disoccupati e nelle fila del sottoproletariato diffuso.
Vanno organizzate campagne di sensibilizzazione e di
memoria storica sui territori e nelle periferie; costituiti coordinamenti antifascisti aperti a tutte le forze sinceramente democratiche ovunque se ne ravvisi la
necessità; vanno sostenuti apertamente quei gruppi
che anche sulle curve calcistiche, principale terreno di
reclutamento nella galassia neofascista, sviluppano
un antifascismo cosciente e conseguente.
tunitense fa da contraltare l’emergere di nuove
potenze.
La crescita straripante dell’economia cinese nell’ultimo decennio a seguito del processo di restaurazione
capitalistica ha letteralmente stravolto l’equilibrio
del capitalismo mondiale. La ripresa dell’utilizzo di
forme protezionistiche a tutela dell’economia americana contro le incursioni cinesi (come dimostra il
tentativo di acquisizione della multinazionale petrolifera statunitense Unocal da parte di China
Petroleum, negata dal Congresso Usa in base ai
supremi interessi nazionali) ci dimostra come la
Cina rappresenti oggi il più agguerrito concorrente
degli Stati Uniti.
D’altra parte, il processo di scomposizione dei blocchi avanza ovunque: i principali paesi europei, attraverso la costruzione dell’UE puntano a strutturarsi
come potenza autonoma; la stessa Russia cerca di
preservare il controllo di importanti crocevia delle
risorse utilizzando l’arma del ricatto sulle forniture
energetiche (di cui abbiamo avuto prova con la
recente chiusura delle forniture di gas all’Europa) e
servendosi degli ancora imponenti arsenali militari
per contrastare l’avanzata degli interessi USA sui territori ex-sovietici (Ucraina, Georgia, ecc.); infine
emergono nuove potenze regionali con le loro aspirazioni di autonomia: in Sud America il Brasile
punta a ritagliarsi uno spazio egemone attraverso la
creazione del mercato comune “Mercosur” in alternativa al progetto ALCA sponsorizzato dagli Usa; in
Asia si fanno largo India e Pakistan.
Crisi del capitalismo
e necessità
di un alternativa di sistema
Le organizzazioni internazionali vecchie e nuove
(ONU, WTO, FMI, BM, ecc.), di cui il capitale si
serve per tentare di “regolare” i conflitti interimperialisti, non costituiscono una sorta di autogoverno
mondiale, ma riproducono, al loro interno, la competizione tra imperialismi. Questi organismi non
possono annullare le contraddizioni ma solo ritardarne le più violente manifestazioni.
L’economia capitalistica internazionale vive l’onda
lunga di una crisi in atto ormai da più di trent’anni.
Oggi, a distanza di soli quindici anni dal crollo
dell’URSS, la tesi di un capitalismo progressivo capace di superare il ciclo economico di crisi e regressione
non poteva trovare smentita più clamorosa.
Le aree di nuova conquista capitalistica, con il loro
livello di degrado e miseria sociale si dimostrano delle
vere e proprie semicolonie. A nulla è valso l’incremento di produttività attraverso la diffusione di nuove
forme di organizzazione del lavoro (toyotismo), la
forte concentrazione di innovazione tecnologica
(informatizzazione, automazione degli impianti produttivi), la configurazione di nuovi mercati locali.
La stessa globalizzazione economica ha investito non
tanto l’economia reale quanto piuttosto quella finanziaria. L’incapacità di valorizzare il capitale reale e la
tendenza alla “finanziarizzazione” da parte dei colossi finanziari transnazionali, sono il segno stesso della
crisi. L’avidita’ di profitti, propria del capitale, si conferma ancora una volta il principale ostacolo alla
socializzazione della ricchezza prodotta.
Il capitalismo odierno si presenta quindi ai nostri
occhi nella sua forma piu brutale: guerre, miseria, barbarie e sottosviluppo. Il fallimento del sistema capitalistico in tutte le sue forme, da quelle dispotico dittatoriali fino alle sue varianti liberaldemocratiche e progressiste, rendono nuovamente attuale la necessità di
una rottura rivoluzionaria su scala internazionale.
Attualità
dell’antimperialismo
Lontano dal risolvere le contraddizioni intercapitalistiche, il crollo dell’URSS e dei Paesi a “socialismo
reale” le ha, in un qualche modo, inasprite, liberate
entro uno scenario internazionale del tutto nuovo.
Al perdurante predominio economico e militare sta-
Alla luce di ciò, la tesi sostenuta da ampi settori
della “sinistra critica” e da ampia parte del gruppo
dirigente nazionale del GC secondo cui la categoria
leniniana di imperialismo sarebbe superata in direzione di un “impero” unipolare a dominazione centralizzata nordamericana, denota un’incomprensione assoluta della realtà.
Vere e false ragioni
della guerra
L’11 Settembre e la lotta al terrorismo islamico sono
state l’alibi di cui gli Usa si sono dotati per coprire
ideologicamente le imprese militari in medioriente e
per mascherare le reali cause di queste guerre, le
quali sono viceversa da ricercarsi nella lotta per l’accaparramento delle enormi quantità di risorse energetiche (in primo luogo petrolio e gas naturale) presenti nei territori del medioriente.
Il gas ed il petrolio rappresentano delle fonti indispensabili per la sopravvivenza del capitalismo. Il
loro controllo assicura posizioni dominanti nell’economia mondiale. Tale è, in ultima istanza, il movente di tutti gli interventi militari intrapresi dagli Usa e
dai suoi alleati in questi anni. Cio trova conferma nel
National Security Strategy del 2002, laddove gli Usa
dichiarano esplicitamente di voler usare la lotta al
terrorismo “per estendere i benefici della libertà in
tutto il pianeta”, cioè, “libero mercato e libero commercio”.Le “imprese belliche”, in sostanza costituiscono la valvola di sfogo della crisi e della recessione che investe da oltre trent’anni i mercati mondiali.
Per nascondere questa cruda verità, i mass media
asserviti al potere hanno tirato fuori le argomentazioni più disparate: prima le guerre umanitarie, poi
la lotta al terrorismo, quindi la caccia alle armi di
distruzione di massa, infine la necessità di “esportare la democrazia”. Tale imponente armamentario di
propaganda bellica è crollato nel giro di poche settimane pezzo dopo pezzo, come un castello di carta.
La barbarie di Guantanamo, le torture nelle carceri
irachene, le prigioni segrete della Cia in Europa e le
bombe al fosforo bianco hanno svelato agli occhi del
mondo intero a quali valori “democratici” si ispira la
guerra imperialista permanente.
Iraq, Afghanistan,
Palestina: al fianco
della resistenza,
senza se e senza ma
Il fenomeno della resistenza armata alle truppe d’occupazione in medioriente va letto in una chiave
internazionalista e di classe, scevra quindi da giudizi morali e sociologici.
La ribellione delle masse irachene all’occupazione militare euro-americana cresce ogni giorno di più, e sta trasformando il Paese da base della riorganizzazione imperialistica a suo maggior fattore di crisi e instabilita.
Lo stesso accade in Afghanistan, dove il governo
fantoccio di Karzai viene percepito come servitore
degli interessi occidentali.
Le migliaia di militari caduti sul territorio iracheno e
afghano rievoca agli strateghi della Casa Bianca lo
spettro di un nuovo “pantano”, come fu per il
Vietnam più di trenta anni fa.
Gli esiti della guerra sono legati a doppio filo con la
questione palestinese, da sempre epicentro della
crisi mediorientale. In Palestina una giovane generazione ha ripreso fiducia nella lotta dopo aver sperimentato sulla propria pelle i frutti dei compromessi
al ribasso operati in questi anni dall’ANP e dai
governi burocratizzati e corrotti di Fatah.
Vista in quest’ottica, la vittoria di Hamas alle recenti elezioni legislative e’ il frutto di questa nuova
domanda di radicalità: la rabbia contro le violenze e
i soprusi perpetrati da Israele trova come sua prima
valvola di sfogo i partiti islamici. Ciò anche in conseguenza delle difficoltà politiche in cui versano le
organizzazioni della sinistra di classe palestinese, in
primis l’FPLP, la quale nel giro di pochi anni ha subito la decapitazione di quasi tutta la struttura per
mezzo di omicidi ed arresti (ricordiamo qualche
mese fa il barbaro sequestro del leader dell’FPLP
Saadat ad opera dell’esercito israeliano).
Al nostro interno bisogna essere chiari: la rabbia contro l’occidente, e con essa il terrorismo islamico, continuerà a crescere ed alimentarsi fin quando i paesi
occidentali continueranno ad apparire agli occhi di
milioni di uomini e donne del mondo arabo come i
principali complici e fiancheggiatori delle spedizioni
militari imperialiste di Iraq e Afghanistan, e soprattutto della più illegittima e sanguinaria occupazione che
la storia degli ultimi decenni abbia conosciuto: l’occupazione sionista del territorio palestinese.
E’ per questa ragione che i comunisti e tutti i sinceri democratici non possono e non devono esitare neanche un minuto nello schierarsi al fianco
della resistenza irachena, afgana, palestinese, e
per il fallimento, anche militare, dei piani di
aggressione occidentali e sionisti.
Ogni atteggiamento di equidistanza tra invasori ed
invasi, tra aggressori e aggrediti finirebbe per tradursi in uno sterile ed ipocrita pacifismo di facciata.
Da questo punto di vista, gli attacchi armati contro
le truppe di occupazione americane, inglesi e italiane non solo sono legittimi secondo lo stesso diritto
internazionale borghese, ma diventano giusti alla luce
degli interessi materiali delle classi subalterne e dei
popoli oppressi. D’altronde, appare quanto mai superficiale e strumentale equiparare la resistenza irachena
al fenomeno dei kamikaze. La realtà ci parla di uno
scenario ben più complesso e articolato: molte città
irachene sono attraversate da ondate di scioperi contro le condizioni di fame a cui è ridotta la classe lavoratrice di quel paese a causa dell’occupazione; più
volte le truppe angloamericane sono state utilizzate
per reprimere queste lotte e arrestare i leaders sindacali e i militanti della sinistra di classe irachena. La
resistenza, quindi, non e’ qualcosa di estraneo alla
lotta di classe, ma al contrario la contiene.
“Senza giustizia nessuna pace”: la storica parola
d’ordine del movimento antimperialista risulta essere quantomai attuale.
I Giovani Comunisti
e il movimento contro
la guerra
Dopo aver riempito le piazze di tutto il mondo nel
biennio 2002-2004, il movimento pacifista si trova
ora in una fase di stallo che è dovuta all’incapacità
di far vivere la parola d’ordine del no alla guerra e
del ritiro immediato delle truppe nel contesto più
ampio delle lotte sociali che in questi anni hanno
attraversato i luoghi di lavoro e di studio.
La scarsa territorializzazione è anche il frutto delle
scelte operate dalle direzioni del movimento pacifista: queste concentrano tutte le loro attività nell’organizzazione di grandi eventi isolati, cui fanno
seguito periodi di silenzio quasi assoluto.
Nell’ultimo periodo l’influenza esercitata sul movimento dalla sinistra moderata nei confronti è andata
sempre più aumentando: l’ambiguità delle parole
d’ordine e dei contenuti delle ultime manifestazioni
e dello stesso corteo dello scorso 18 Marzo a Roma
ne è una prova evidente. Il recuperato clima di
“unità nazionale”, creato dai mass-media intorno
alle vicende relative agli attacchi ed ai rapimenti
subiti da militari e cittadini italiani in Iraq, inizia a
sortire i suoi effetti…
Questo quadro è stato oggettivamente favorito dalla
condotta di Rifondazione e dell’esecutivo GC, i quali
hanno fatto proprie le parole d’ordine della sinistra
moderata contrapponendosi alle istanze poste dai
settori più radicali del movimento.
E’ del tutto inaccettabile che la segreteria del partito
si dichiari disponibile a negoziare il ritiro dei militari italiani sul suolo iracheno per permettere agli Usa
di proseguire l’occupazione, ed è ancor più inaccettabile che esso si dichiari disposto a rifinanziare la
missione di guerra in Afghanistan. Se tale ipotesi si
verificasse il Prc diverrebbe di fatto compartecipe
dei massacri imperialisti in medioriente e si porrebbe di fatto fuori dal movimento pacifista.
I GC sono chiamati da subito a dar vita a una pressione dal basso che costringa i nostri parlamentari a
votare contro ogni ipotesi di finanziamento delle
missioni militari.
al contempo si affacciano sul territorio latinoamericano nuovi movimenti di liberazione popolare: in
Venezuela e in Bolivia la rivolta dei contadini e dei
lavoratori contro il furto e il saccheggio delle risorse
porta al potere governi come quelli di Chavez e
Morales, le cui politiche si sono segnate da un chiaro profilo antimperialista; in Brasile e in Cile un’ondata di contestazioni operaie e studentesche si contrappone alle politiche liberali dei governi di Lula e
della Bachelet; in Argentina l’eco dell’insurrezione
di massa di tre anni fa è tutt’altro che sopita.
Tali eventi, pur animati da tendenze contradditorie,
vanno salutati con favore e guardati con interesse. I
GC, sulla base di un rinnovato impegno internazionalista ed antimperialista devono promuovere
momenti di dibattito e di controinformazione; in
secondo luogo va garantita una partecipazione
democratica e di massa ad eventi di grande rilevanza internazionale, come nel caso del Festival
Mondiale della gioventù.
L’UE non è un
interlocutore,
ma una controparte
La nascita dell’UE risponde all’obiettivo del capitale
europeo di conquistare quegli spazi lasciati vacanti
dal declino del Giappone e dall’apertura dei mercati
dell’Est Europeo e dei Balcani.
I costi sociali del processo di integrazione economicomonetaria sono stati altissimi. Fin dalla sua nascita, è
risultato chiaro a milioni di proletari dell’intero continente il vero volto dell’UE: quello di un’Europa dei
banchieri e delle multinazionali. La storia recente
dell’Unione non fa che confermare questo quadro: gli
accordi di Maastricht (‘93), Shengen (’96), Amsterdam
(‘97) e Nizza (2000), l’unificazione monetaria portata
a compimento con l’introduzione dell’Euro, la strategia
di indirizzo economico definita a Lisbona nel 2002 poggiano tutte su un unico comune denominatore: consolidare e riprodurre il dominio di classe della borghesia
nei confronti del proletariato europeo attraverso la precarizzazione e lo smantellamento dei diritti sociali. Il
progetto di Costituzione europea, firmata dai capi di
Stato e di governo a Roma nel 2004 ma non ancora
entrata in vigore a seguito della sonora bocciatura nei
referendum popolari svoltisi in Francia e in Olanda, si
muove esattamente in questa direzione.
Non è un caso che gran parte di questo lavoro sia stato
assegnato proprio a Romano Prodi: l’attuale presidente
del consiglio è infatti uno dei rappresentanti più affidabili del grande capitale finanziario e bancario europeo.
La Direttiva Bolkestein sui servizi e quella sugli
orari di lavoro sono la dimostrazione lampante di
quanto affermiamo: esse si prefiggono l’obiettivo di
deregolamentare e liberalizzare interamente i rapporti di lavoro attraverso una selvaggia competizione al ribasso dei salari e l’allungamento considerevole dell’orario di lavoro settimanale.
Sosteniamo i movimenti
antimperialisti
L’offensiva padronale tuttavia non si limita ai temi del
lavoro, ma è parte di una più ampia strategia, tesa a
uniformare l’intero settore dell’istruzione e della formazione ai diktat della flessibilità e della competizione selvaggia (il cosiddetto “Spazio europeo dell’istruzione e della formazione” definito a Lisbona
in seguito al processo di Bologna e della Sorbona).
Gli eventi sucedutisi in questi anni nell’America
Latina sono la testimonianza di come una nuova
rivolta stia incendiando quello che gli Stati Uniti
hanno sempre considerato il loro cortile di casa.
Cuba continua orgogliosamente a resistere nonostante decenni di embargo ad opera del capitalismo
occidentale; le Farc proseguono la loro lotta contro i
disegni Usa di sfruttamento e di rapina delle risorse;
Sul versante internazionale, l’UE persegue l’obiettivo dell’autonomia economica e militare USA costituendosi a sua volta come polo imperialista. Il ruolo
da essa assunto nella spartizione del bottino in exJugoslavia successivo all’aggressione Nato del ’99,
che ha visto l’Italia in prima fila, la definizione di una
politica repressiva comune attraverso la cosiddet35
ta “Black List”, le numerose attività militari rese
operative all’estero, la creazione di uno stato maggiore militare europeo e di un’agenzia europea per gli
armamenti e il sostegno all’industria militare dimostrano chiaramente la natura dell’UE quale nuova
frontiera imperialista di sfruttamento delle classi
subalterne e oppressione dei popoli dei paesi dipendenti.
La stessa partecipazione di Paesi membri dell’UE
alle imprese militari americane, come nel caso delle
aggressioni tuttora in corso ad Iraq e Afghanistan
non rappresenta, come potrebbe sembrare, un atto
di “asservimento”; al contrario, essa risponde all’esigenza degli europei di compartecipare alla spartizione del bottino, per affermare, passo dopo passo, un
peso politico-economico-militare sempre maggiore.
Risulta quindi chiaro come l’Ue non possa in alcun
modo essere vista dalle classi sfruttate come un’interlocutore, ne tantomeno come un possibile alleato.
Attribuire all’Europa il ruolo di contrappeso democratico (cosiddeta Europa Sociale) allo strapotere
Usa è del tutto illusorio.
Contro l’imperialismo
di casa nostra
I prossimi mesi devono vedere i giovani comunisti in
prima fila nella lotta contro tutte le direttive antioperaie e precarizzanti. La nostra organizzazione ha
avuto finora un ruolo del tutto marginale nelle iniziative che anche sui nostri territori si sono sviluppate
contro la direttiva Bolkestein: l’Esecutivo nazionale
ha preferito delegare il lavoro politico ad associazioni
quali Attac: queste, essendo formate quasi per intero
da elites di intellettuali e ceto politico, sono spesso
lontane anni-luce dalle lotte reali e dai bisogni materiali dei lavoratori. Bisogna viceversa investire in
prime persona alla riuscita delle scadenze che già si
preannunciano nel prossimo autunno, quando la
direttiva tornerà al vaglio della Commissione.
Allo stesso modo va rilanciata un’opposizione a tutto
campo contro il progetto di Costituzione Europea:
come giovani comunisti dobbiamo lavorare con ogni
mezzo al boicottaggio della Costituzione, se necessario pretendendo l’indizione di un referendum popolare anche in Italia. Bisogna smascherare il falso pacifismo della UE, denunciando gli interessi e i crimini
commessi dell’imperialismo europeo nel nome dei
profitti nei Balcani, nell’Est Europa e in Africa.
Infine, bisogna dar vita a forme di coordinamento
delle lotte e delle vertenze a livello europeo.
Laddove il perimetro dello scontro di classe diviene
continentale, è evidente che le mobilitazioni dei soggetti sfruttati devono adeguarsi a questa nuova
dimensione: forme di lotta e di resistenza locale e
isolate le une dalle altre non possono che portare
inevitabilmente alla sconfitta.
Un’idea diversa di
organizzazione giovanile
I GC durante l’ultimo decennio hanno assunto nel
partito uno spazio e un’importanza sempre maggiore. Questo investimento sui giovani ha sempre fatto
il paio con l’autonomia della struttura dal resto del
partito.
Tuttavia quest’autonomia è sempre stata soltanto
formale.
Sin dalla loro nascita i GC hanno mutuato nel loro
agire politico le stesse pratiche e le stesse modalità
di gestione proprie del bertinottismo, a tal punto che
negli ultimi anni la struttura giovanile e’ divenuta il
“laboratorio di sperimentazione” di quelle svol36 te politiche e organizzative da attuarsi successi-
vamente nel partito tutto.
L’autonomia organizzativa ha dunque rappresentato
un facile espediente per vincolare i giovani alla
“linea ufficiale” e sottrarli al dibattito politico vero,
cioè al confronto tra le varie opzioni politiche che si
è via via configurato nel partito “adulto” (alzi la
mano chi non ha assistito almeno una volta al
richiamo di qualche esponente nazionale o locale
dei giovani “a non riproporre nei GC il dibattito tra
mozioni di tipo congressuale…”).
Nel corso dei quattro anni che ci separano dall’ultima conferenza sì è presentata una sola occasione
per un vero confronto tra i compagni: l’assemblea
nazionale tenutasi a Genova nel 2004.
E’ stato proprio quest’appuntamento a mettere palesemente a nudo i limiti e le contraddizioni che attraversa la nostra struttura: dibattito in plenaria ridotto
ai minimi termini e senza il benché minimo potere
decisionale, spezzettamento della discussione in
gruppi tematici privi di un piano di lavoro e finalizzati unicamente ad autocelebrare i fasti dell’intervento (vero o presunto) in questo o quel movimento: il tutto accompagnato dall’operato dell’Esecutivo
Nazionale teso a relegare il dissenso ai margini del
dibattito e all’occorrenza neutralizzandolo con
metodi burocratici.
Questo il momento più alto di democrazia e di dibattito nel corso di quattro anni!
La crisi di partecipazione attiva emerge anche dall’organizzazione dei campeggi dei GC.
Il campeggio annuale, che nei primi anni aveva rappresentato un prezioso momento di confronto e
socializzazione delle esperienze di lavoro e di lotta,
si è via via tramutato in una kermesse-passerella di
personaggi e volti noti della sinistra, di fronte alla
quale i giovani compagni perdono il ruolo di protagonisti per divenire meri spettatori di dibattiti blindati e “workshop” eterodiretti dall’alto.
Alla luce di ciò, pensiamo che questa Conferenza
debba introdurre dei segnali inequivocabili di un
cambiamento di rotta nella direzione di un rilancio
del radicamento e della partecipazione dal basso: va
assunto a chiare lettere l’impegno da parte del prossimo coordinamento nazionale a costruire dei gruppi di lavoro nazionali permanenti e orizzontali,
aperti alla partecipazione di tutte le compagne e i
compagni; in secondo luogo, occorre rendere operativi gli strumenti dell’attivo locale e dell’assemblea
nazionale. Quest’ultima dev’essere convocata almeno una volta all’anno ed in tutti i casi in cui la fase
politica lo richiede, in primis quando la nostra organizzazione è impegnata in un lavoro di massa, nei
movimenti e nelle lotte.
Democrazia interna,
ruolo della militanza
e importanza
della formazione
Da sempre le organizzazioni comuniste si sono distinte all’interno del panorama della sinistra per un’attenzione particolare alla crescita e alla formazione critica
e teorica, pratica e militante, dei compagni più giovani.
Un partito è davvero tale se è capace di offrire ai compagni gli strumenti di conoscenza e le chiavi di lettura
utili a spiegare la realtà sociale che ci circonda, a comprendere le dinamiche di funzionamento del sistema
capitalistico e le sue contraddizioni, a conoscere le condizioni materiali di vita delle classi sfruttate.
Nei GC (come più in generale nel Prc) quest’attenzione è del tutto assente, e ciò rappresenta uno dei limiti
più gravi della nostra struttura.
Questa dinamica produce al nostro interno una separa-
zione profonda: da un lato il nucleo ristretto di dirigenti, funzionari, parlamentari e istituzionali a vario titolo
che fungono da “depositari” della linea “teorica” e
delle sue implicazioni politiche e programmatiche; dall’altro la massa larga di iscritti che viene spinta alla
militanza solo in base a un generico volontarismo. Il
“turn-over” galoppante, diffuso da anni nei GC, non è
che la conseguenza di questo modello organizzativo.
Troppe volte in questi anni i compagni hanno appreso
dalle colonne dei giornali borghesi dichiarazioni di
autorevoli dirigenti del partito tese a liquidare in blocco esperienze storiche e figure di primo piano del
movimento operaio e rivoluzionario: da Lenin alla
Rivoluzione d’Ottobre, passando per Cuba e per l’intera esperienza del socialismo realizzato del secolo scorso, per arrivare al superamento tout-court dell’esperienza del movimento operaio novecentesco e al ripudio di qualsiasi forma di resistenza armata ai soprusi
del potere capitalista.
Viene da chiedersi: quanto si conosce di queste esperienze all’interno dei GC? Si è forse mai avviata su
questi temi una discussione e un confronto partendo
dai circoli e coinvolgendo sul serio i giovani iscritti e
militanti? Come si può non considerare che sortite di
questo tipo, per di più a mezzo stampa, generano confusione e disorientamento nelle nostre fila, nella misura in cui presentano la storia dei comunisti e del comunismo come un’elenco di colpe da cui redimersi?
Quest’ondata revisionista, che ha fatto breccia anche
nel nostro partito, va fermata e respinta con decisione.
Riteniamo che la nostra storia di comunisti vada
innanzitutto conosciuta a fondo e resa patrimonio di
tutti i compagni, e in secondo luogo vada difesa, rivendicata e preservata dalle mistificazioni ideologiche
compiute dall’avversario di classe, poiché è e resta la
nostra storia.
Nell’ultimo periodo abbiamo assistito con frequenza a
fenomeni poco edificanti per una struttura politica che
si richiama al comunismo: troppo spesso decisioni di
enorme rilevanza politica vengono assunte nel chiuso
degli Esecutivi e calate-imposte dall’alto a tutto il resto
dei compagni; troppe volte gli organismi che dovrebbero essere sovrani, ossia gli attivi degli iscritti e i coordinamenti provinciali, sono stati ridotti al silenzio per
mesi e mesi, e sostituiti con forme blande di “assemblearismo” prive di qualsiasi potere decisionale. Si è in
sostanza diffusa in alcuni settori dei GC l’idea secondo
cui “non c’è tempo per discutere perché c’è da lavorare nella pratica”, perchè “il movimento prevale su tutto
il resto”. E’ vero l’opposto: teoria e pratica sono inscindibili, in quanto solo attraverso momenti di confronto
democratico e orizzontale è possibile costruire un’azione cosciente e consapevole nella società; solo attraverso un bilancio puntuale dei percorsi svolti è possibile
correggere gli errori ed evitare che questi vengano commessi di nuovo.
Risulta quindi indispensabile ed urgente la ripresa di un
lavoro di formazione teorica e politica ai vari livelli della
nostra struttura. Formazione significa innanzitutto
memoria storica e coscienza delle nostre radici, della
teoria marxista e del movimento comunista.
Ma la formazione va intesa anche come guida per
l’azione quotidiana, pratica, militante.
Offrire al maggior numero possibile di compagni gli
strumenti per scrivere un volantino; per intervenire in
un’assemblea; per sostenere e difendere pubblicamente
le nostre posizioni politiche; per organizzare uno sciopero, un corteo, un picchetto, un’occupazione, una trattativa politica o sindacale; per intervenire attivamente
nell’arena dello scontro politico e rendersi protagonisti
di un lavoro quotidiano teso al rovesciamento di questo
sistema e alla trasformazione della società: questo è ciò
che intendiamo per formazione militante.
Una struttura giovanile in un partito comunista ha una
ragion d’essere solo se è capace di recepire il senso di
ribellione proprio delle giovani generazioni e offrirgli
una prospettiva di classe e rivoluzionaria.
REGOLAMENTO
della Conferenza
(1) La terza Conferenza Nazionale dei Giovani Comunisti è
convocata a Bari dal 7 al 10 settembre con all’ordine del
giorno la discussione e l’approvazione dei documenti politici, del Regolamento interno (come previsto dall’art. 22
dello Statuto Prc) nonché l’elezione del Coordinamento
Nazionale GC (d’ora in poi CN)
(2) Presentazione e sottoscrizione dei documenti
per la Conferenza nazionale
La Conferenza discuterà unicamente i documenti presentati nelle modalità previste nel seguente paragrafo, così
come deciso dal CN del 25 febbraio 2006.
a) i documenti sottoposti alla discussione e votazione
della conferenza nazionale devono essere sottoscritti da
almeno 200 iscritte/i GC 2005;
b) le firme sono raccolte in almeno 3 regioni, nella stessa
regione non possono essere raccolte oltre la metà delle
firme necessarie;
Gli emendamenti giunti e/o presentati in sede di
Conferenza nazionale sono discussi in sede di
Commissione politica della conferenza.
(5) Composizione della Commissione per la
Conferenza (Nazionale - Federazione)
Il CN elegge una Commissione Nazionale per la
Conferenza decidendone il numero di componenti Le/i
componenti la Commissione per la Confereza sono elette/i con votazione a maggioranza delle/dei componenti il
CN.
La composizione della Commissione Nazionale è pari a
due compagne/i, una/o effettiva/o e l’altra/o supplente
per documento nazionale. Entrambi hanno diritto di parola nella riunione. In caso di votazione il voto dei componenti è calcolato proporzionalmente ai sottoscrittori dei
documenti nel CN.
c) le firme possono essere raccolte su bozze di documenti di non oltre 2 cartelle presentate entro il 18 marzo al
gruppo di lavoro per il regolamento. Le firme vanno raccolte entro e non oltre il 15 aprile, le firme sono verificate
entro il 27 aprile dal collegio nazionale di garanzia del
PRC;
La Commissione Federale è prevista solo per le
Federazioni con oltre 250 iscritte/i GC 2005, è composta proporzionalmente al consenso ai documenti nel
coordinamento Federale GC, ed è da esso eletta. Nel
caso in cui nel coordinamento sia assente il rappresentante di un documento, presente invece tra le/i GC
della medesima federazione, e segnalato dalla commissione nazionale prima che la commissione federale venga eletta, questa/o partecipa con diritto di parola e di voto.
d) i documenti nazionali devono essere collegati ad una
bozza di documento presentata al gruppo di lavoro per il
regolamento;
Nelle federazioni in cui il coordinamento è inesistente la
commissione è composta pariteticamente; da compagne/i
indicate/i dalla commissione nazionale.
e) la Commissione nazionale per la Conferenza GC è formata proporzionalmente alle sottoscrizioni raccolte dai
singoli documenti nel Coordinamento nazionale GC;
(6) Compiti della Commissione per la Conferenza
f) i documenti possono essere altresì sottoscritti da compagne/i del CN.
> Per stabilire l’esito delle votazioni relativo ai documenti si farà riferimento alle votazioni avvenute:
a) nelle Conferenze di Circolo o di zona (federazioni con
oltre 250 iscritte/i GC);
b) nelle Conferenze di Federazione (federazioni con meno
di 250 iscritte/i GC)
c) verbalizzate sugli appositi moduli predisposti dalla
Commis-sione nazionale per la conferenza.
(3) Documenti nazionali
La somma dei voti riportati dai rispettivi documenti ne
costituisce per ognuno la base politica di consenso.
A tutti i documenti nazionali, viene riconosciuta pari dignità: diritto ad essere stampati in un’unica pubblicazione,
diffusi tramite le federazioni e i circoli alle/agli iscritte/i;
diritto ad essere illustrati nelle Conferenze.
a) Sovrintendere e coordinare le diverse fasi dell’iter della
Conferenza;
b) Assicurare il rispetto delle norme previste dallo
Statuto PRC e dal presente Regolamento della
Conferenza;
c) Dirimere controversie e rispondere a eventuali contenziosi e reclami che possono sorgere durante la fase di
conferenza; esprimere parere vincolante sul calendario
delle conferenze locali (di circolo e/o federazione). Le
decisioni sono assunte a maggioranza semplice dei
votanti;
razione - per le federazioni con oltre 250 iscritte/i GC - è
fissato dalla commissione federale per la conferenza;
nelle federazioni, con meno di 250 iscritte/i GC, il giorno è
fissato dal coordinamento federale GC. Su queste decisioni è in ogni caso vincolante il parere della Commissione
Nazionale per la conferenza.
(9) Partecipazione alle Conferenze
Possono partecipare attivamente, con diritto di voto attivo
e passivo, alle conferenze, di circolo, zona, federale e
nazionale: le/gli iscritti con tessera 2005 GC regolarmente registrata - cartellino e quota tessera versata. Nuove/i
iscritte/i entro 7 giorni dallla data della Conferenza. Per
nuove/i iscritte/i si intendono anche coloro che avendo nel
2005 la tessera “adulti”, abbiano rinnovato nel 2006 quella GC.
Nuove/i iscritte/i nei 7 giorni precedenti o nel giorno della
Conferenza hanno diritto di parola e non di voto, e possono essere elette/i delegate/i e negli organismi dirigenti
GC.
(10) Modalità per la votazione degli organismi
dirigenti
Il voto per l’elezione del coordinamento federale, regionale e na-zionale è segreto.
> Elezione del coordinamento Federale
La Commissione elettorale Federale avanza una proposta
numerica per il coordinamento federale GC che sottopone
al voto palese dell’Assemblea (o delle/dei delegate/i),
quindi una proposta di modalità per la votazione del coordinamento: lista bloccata o aperta.
In caso di lista bloccata, la Commissione Elettorale avanza la proposta nominativa, proporzionalmente per ogni
singolo Documento Nazionale e viene votata senza preferenza.
La proposta di lista aperta deve essere sottoscritta: nelle federazioni con oltre 250 iscritte/i GC 2005 da almeno il 20% dei delegati alla conferenza federale - nelle
federazioni con meno di 250 iscritte/i GC 2005 da almeno
il 30% dei presenti alla conferenza federale - nella
Conferenza nazionale da almeno il 30% dei delegati.
In caso di lista aperta la Commissione Elettorale avanza
proposte nominative per ogni Documento Nazionale con
una maggiorazione sino al 40% delle/degli eligende/i (e
comunque con una maggiorazione di almeno una unità).
Le preferenze attribuibili devono essere pari all’60%
delle/degli eligende/i. In tal caso risultano elette/i le/i
candidate/i in ordine decrescente rispetto alle preferenze
riportate.
Il coordinamento federale è composto in proporzione ai
voti ottenuti dai documenti nell’ambito federale.
E’ possibile la presentazione di liste alternative, sottoscritte da almeno il 20% dei presenti (federazioni con
meno di 250 iscritte/i GC 2005) o delegati (federazioni con
oltre 250 iscritte/i GC 2005) per l’elezione degli organismi,
tra gli aderenti allo stesso documento. Le liste alternative vanno votate in blocco, ciascuno può votare solo per
una lista.
d) Controllare la regolarità del tesseramento GC;
e) determinare il rapporto iscritte/i / delegate/i dalla conferenza di circolo e/o zona a quella federale;
f) La Commissione di Federazione può designare, con il
parere vincolante della Commissione nazionale, le/i compagne/i, non iscritte al circolo, che partecipano e/o illustrano i documenti nazionali alle conferenze di Circolo, e
stabilisce il rapporto iscritti/delegati per la determinazione dei delegati dei circoli alla conferenza federale;
Il sito dei GC – www.giovanicomunisti.it - pubblicherà nel
loro insieme tutti i materiali della Conferenza.
g) La Commissione Nazionale designa le/i compagne/i
che partecipano e/o illustrano i documenti alle
Conferenze Federali.
(4) Emendabilità dei Documenti nazionali
(7) Conferenze di Circolo o Zona
Contributi emendativi (integrativi o sostitutivi) ai singoli
Documenti Nazionali, possono essere presentati in qualunque sede di conferenza, e non valgono per la determinazione dei delegati e dei gruppi dirigenti. Gli emendamenti passano alla conferenza superiore se approvati
dalla maggioranza tra i votanti il medesimo documento
che si è inteso emendare.
Nelle federazioni con oltre 250 iscritte/i GC si possono
svolgere un numero di conferenze di circolo e/o zona non
superiore al rapporto iscritti GC 2005 su 30.
(8) Calendario conferenze
Il calendario per le conferenze locali: di circolo e di fede-
(11) Modalità per l’elezione delle/dei delegate/i
Per la determinazione delle/dei delegate/i si utilizzerà il
meccanismo della proporzionale pura. Nel caso di parità
di voti o resto uguale per tutti i Documenti Nazionali, si dà
luogo all’elezione di una/un delegata/o per ciascun documento.
Per l’elezione delle/dei delegate/i alle conferenze Federali
ed a quello Nazionale, un genere non può superare il 60%
del totale. La designazione delle/dei delegate/i dovrà essere proporzionale ai consensi ottenuti dai singoli Documenti
Nazionali ed elette/i con la stessa metodologia applicata
per l’elezione degli organismi dirigenti, con l’applicazione
della norma per il recupero dei resti, tenendo conto delle
diverse opzioni politiche esperesse. Le/i delegati si eleggono al termine delle votazioni sui documenti politici.
Possono essere delegate/i al congresso superiore sia i
presentatori che i compagni indicati a concludere la
Conferenza, solo se il numero totale dei delagati da eleggere è superiore a quattro. Per essere delegati dalla conferenza di circolo a quella federale è necessario
essere iscritte/i nella medesima federazione.
37
lettera di convocazione. Nell’indicazione degli orari va
garantito un adeguato spazio al dibattito. L’orario di votazione non può subire variazioni, neanche quindi nel caso il
dibattito si sia già concluso o non sia ancora terminato. Il
voto si può esprimere esclusivamente a partire dall’orario
indicato, eventuali eccezioni sono prese in considerazione
a maggioranza dei presentatori di documenti.
(12) Recupero proporzionale sulle/sui delegate/i
Per garantire un rapporto di proporzionalità tra i consensi
ottenuti dai singoli Documenti Nazionali nelle Conferenze di
Circolo, ove previste, e di Federazione, l’invio delle/dei delegate/i alle istanze superiori si istituisce un meccanismo di
recupero dei resti. Per le Conferenze di Circolo e/o zona, ove
previste, vengono elette/i delegate/i in numero pari ai quozienti pieni realizzati da ogni singolo Documento Nazionale,
attribuendo l’ultima/o delegata/o (con quoziente non pieno)
al documento che ottiene il resto assoluto più alto. Per il
recupero dei resti, vengono indicate/i delle/dei delegate/i
supplenti per ogni singolo documento. Alle Conferenze di
Federazione, in quelle Federazioni sopra i 250 iscritti GC, e
in quella Nazionale verranno recuperate/i tante/i delegate/i
supplenti (scelte/i tra quelle/i con i resti più alti) quante/i ne
sono necessarie/i per ottenere una composizione della
Conferenza corrispondente in modo proporzionale ai consensi espressi, nelle conferenze di Circolo (per la conferenza di Federazione), e nelle conferenze di Federazione (per la
Conferenza Nazionale) globalmente sui documenti nazionali. Nel caso in cui non siano indicati delegati supplenti o questi siano indisponibili, i rappresentanti del documento nella
commissione nazionale possono indicare altre/i
compagne/i.
(20) I delegati alla Conferenza nazionale sono eletti in
ragione di una/un delegato ogni 50 iscritte/i (o frazione
superiore alla metà), secondo i dati inviati dalla
Commissione Nazionale per la Conferenza; è comunque
garantito una/un delegata/o per le federazioni sotto i 50
iscritte/i.
(21) Ordini del giorno e documenti locali
Alla Presidenza possono essere presentati ordini del giorno e documenti politici che non possono comunque riferirsi ai documenti nazionali. La Presidenza ne dà notizia e
li trasmette alla Commissione Politica. Eventuali Odg e/o
documenti locali sono posti in votazione solo al termine
del dibattito anche se questo è stato interrotto dalle procedure di voto dei documenti nazioali. A Chiusura della
Conferenza si riunisce il coordinamento federale GC per
l’elezione del coordinatore federale GC come indicato dall’art. 22 dello Statuto Prc.
(13) Conferenze di Circolo e/o Zona
Eventuali accorpamenti sono decisi dalla Commissione
Federale sentito il parere vincolante della Commissione
nazionale. Sono invitate/i, se non sono GC, le/i segretarie/i di circolo.
(22) Conferenza Nazionale
Alla Conferenza Nazionale partecipano le/i delegate/i
elette/i dalle Conferenze di Federazione.?Partecipano
inoltre con diritto di parola e non di voto se non elette/i
delegate/i, le/i componenti del CN uscente.
I Coordinamenti federali GC uscenti col segretario di circolo provvedono a:
a) Far pervenire alle/agli iscritte/i i documenti nazionali.
Comunicare almeno 5 giorni prima a tutte/i le/gli iscritte/i
la data, l’ora, il luogo di svolgimento dell’assemblea, è
altresì indicato nella convocazione l’orario per la votazione dei documenti politici.
b) Pubblicizzare la convocazione della Conferenza di circolo in modo che ogni cittadina/o, interessata/o possa
parteciparvi.
c) Invitare ai lavori della Conferenza di circolo i soggetti di
movimento, i rappresentanti delle istituzioni, delle organizzazioni giovanili e di tutte le associazioni, organizzazioni democratiche presenti sul territorio.
d) Rendere disponibile 5 giorni prima della conferenza
l’elenco nominativo delle/degli iscritte/i con diritto di voto.
(14) All’apertura della Conferenza di circolo si procede ad
eleggere la Presidenza del Conferenza su proposta della
Commissione Federale per la Conferenza.
La discussione è introdotta dalla/dal compagna/o designata/o dalla Commisione Federale per la Conferenza
che illustra i temi politici ed organizzativi del Congresso
(relazione di 10 minuti). Nel caso sia presentatrice/ore di
un Documento Nazionale, la relazione sarà di massimo 20
minuti. Subito dopo vengono illustrati gli altri Documenti
Nazionali (al massimo 10 minuti), nell’ordine di presentazione nazionale, da parte di sostenitrici/ori designate/i,
che qualora non fossero iscritte/i al Circolo possono farlo
solo se indicate/i con comunicazione dalla Commissione
Federazione per la Conferenza.
Dopo la relazione e la presentazione dei Documenti
Nazionali la Presidenza propone la nomina delle
Commissioni (politica ed elettorale). La composizione
delle Commissioni avviene garantendo la rappresentanza
di tutte le opzioni politiche presenti; esse vengono elette
con voto palese. Al termine del dibattito, se richiesto,
dalle/dai presentatrici/ori dei Documenti Nazionali possono effettuare una replica di 5 minuti. L’ordine delle
repliche è inverso a quello delle presentazioni.
Successivamente al voto dei documenti nazionali sono
eletti le/i delegate/i alla conferenza federale.
(15) Conferenza di Federazione
Sono invitate/i, se non elette/i delegate/i dalle conferenze
di cirolo, le/i segretarie/i della federazione, le/i consigliere/i comunali, provinciali, regionali, le/i parlamentari
comuniste/i elette/i nel territorio, nonché i componenti del
Coordinamento federale uscente.
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Il coordinamento GC uscente provvede ad invitare ai
lavori della Conferenza di Federazione i soggetti di movimento, i rappresentanti delle istituzioni, delle organizzazioni giovanili e di tutte le associazioni, organizzazioni
democratiche presenti sul territorio della federazione.
Alla Conferenza partecipa una/un compagna/o designata/o dalla Commissione Nazionale per la Conferenza. Tale
compagna/o fa parte della Presidenza del Conferenza,
può essere delegata/o al Congresso Nazionale solo se la
Federazione ha diritto ad almeno quattro delegate/i.
(16) La Presidenza della Conferenza è eletta su proposta
del Coordinamento Federale uscente, tenendo conto dei
riusalti delle conferenze di circolo e zona. Con l’elezione
della presidenza dalla Conferenza il Coordinamento
Federale GC e la Commissione Federale per la Conferenza
(ove prevista) decadono avendo esaurito i propri compiti. La
Conferenza di Federazione è introdotta da una relazione del
Coordinatore uscente, o in mancanza da un compagno precedentemente indicato dalla Commissione Federale per la
Conferenza di concerto con la Commissione Nazionale, che
illustra i temi del Conferenza ed espone un bilancio dell’attività svolta. Al termine la Presidenza propone la nomina
delle Commissioni - Verifica Poteri, Politica, Elettorale - Le
modalità della loro composizione sono analoghe a quelle
previste per le Commissioni delle conferenze di circolo.
(23) All’apertura si procede ad eleggere la Presidenza della
Conferenza su proposta dell’esecutivo nazionale uscente,
tenendo in considerazione il risultato congressuale, e gli
organismi dirigenti nazionali decadono avendo esaurito i
propri compiti. La Conferenza è introdotta da una relazione
del Coordinatore Nazionale GC che illustra i temi politici ed
organizzativi della Conferenza ed il bilancio dell’attività
svolta. Al termine, la Presidenza propone la nomina delle
Commissioni - Verifica Poteri, Politica, Elettorale,
Regolamento - determina i tempi e le modalità del dibattito, delle operazioni di voto dei documenti, dell’elezione
degli organismi dirigenti. In seguito alle conclusioni del
dibattito si procede su proposta della commissione elettorale alla votazione del numero di componenti il CN, quindi
alla sua elezione, secondo le norme indicate per l’elezione
degli organismi dirigenti
(24) Validità del Regolamento
Il presente Regolamento per la Conferenza, con le integrazioni demandante alle Federazioni, ha validità per
tutte le operazioni ed in tutte le istanze della Conferenza.
(25) Validità delle Conferenze
(17) Nelle federazioni con oltre 250 iscritte/i GC: dopo l’introduzione del coordinatore uscente si apre il dibattito, le
conclusioni del Conferenza saranno tenute dalla/dal compagna/o indicata/o dalla Commissione Nazionale per la
Conferenza.
(18) Nelle federazioni con meno di 250 iscritte/i GC: dopo
l’introduzione del coordinatore uscente che non abbia
presentato documento nazionale, interviene la/il presentatrice/ore di un Documento Nazionale (indicato dalla
Commissione Nazionale), la relazione sarà di 10 minuti,
altrimenti la relazione sarà al massimo di 20 minuti.
Subito dopo vengono illustrati gli altri Documenti
Nazionali (al massimo 10 minuti) nell’ordine nazionale di
presentazione, da parte di sostenitrici/ori designate/i, che
qualora non fossero iscritte/i alla Federazione lo possono
farlo solo se indicate/i con comunicazione scritta dalla
Commissione Nazionale per la Conferenza. Al termine del
dibattito, se richiesto, dalle/dai presentatrici/ori dei
Documenti Nazionali possono effettuare una replica di 5
minuti. L’ordine delle repliche è inverso a quello delle presentazioni. L’intervento conclusivo sarà tenuto dalla/dal
compagna/o indicata/o dalla Commissione Nazionale per
la Conferenza (5 minuti).
La validità delile Conferenze è quella certificata dalla
Commissione Verifica Poteri, sancita dal voto del
Conferenza. Il Verbale della Conferenza con allegato
l’elenco delle/degli iscritte/i, il Documento della
Commissione Verifica Poteri, i contributi emendativi ai
Documenti Nazionali, per le modifiche dello Statuto deve
essere inviato, al termine della Conferenza, ai livelli congressuali superiori.
Disposizione Transitoria
Al termine della Conferenza si riunisce il CN per l’elezione
del Coordinatore Nazionale Gc ed entro due mesi è riconvocato per l’elezione dell’esecutivo nazionale GC su proposta del coordinatore nazionale. Entro 3 mesi dallo svolgimento della Conferenza Nazionale, i delegati di ogni federazione sono riconvocati per l’elezione del Coordinamento
Regionale GC, che è eletto sulla base delle proporzioni
ottenute da ciascun documento a livello regionale, con le
modalità previste dal Regolamento nazionale GC.
per info e chiarimenti sul regolamento,
utilizzare i seguenti contatti:
(19) Voto dei documenti nazionali
[email protected]
La votazione dei documenti nazionali avviene con doppio
appello nominale consecutivo all’orario prefissato nella
06/44182243 – 06/44182356
III Conferenza nazionale
Giovani Comunisti
Bari, 7-10 settembre 2006
Giovani Comunisti/e – Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea
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