Progresso scientifico e progresso morale Testo presentato da Norberto Bobbio in occasione del conferimento del Premio Internazionale Senatore Giovanni Agnelli per la dimensione etica nelle società avanzate quarta edizione Torino Lingotto 7 aprile 1995 Progresso scientifico e progresso morale I Nella prefazione alle Lettere aperte, recentemente tradotte in italiano, Jean Guitton scrive: «Ci troviamo nell'epoca in cui l'uomo (...) si pone la domanda più insolubile, più eccitante per un essere sottoposto al tempo: sono alla fine o al principio del mondo? Un'età si conclude. L'accelerazione della storia si accentua. Tutto precipita verso un istante terminale, fatale, sempre più vicino. La storia sta per finire e ricominciare? Sono l'ultimo? Sono il primo uomo? Domande che si pone anche il cristiano. Ho udito Mauriac dire con voce spezzata: “Dopo tutto potremmo essere noi i primi cristiani”»1. L'avvicinarsi della fine del secolo, nonostante la convenzionalità di questa cesura del corso storico, ha sempre suscitato domande intorno al principio e alla fine dei tempi. A maggior ragione, quando ci troviamo di fronte alla fine non di un secolo ma di un millennio, e l'ultimo secolo, quello che sta per finire - con due guerre mondiali, Auschwitz, i campi staliniani, lo scoppio delle prime bombe atomiche, i lunghi anni dell'equilibrio del terrore e,come se non bastasse, nonostante la caduta del Muro di Berlino che aveva acceso tante speranze, lo scoppio di guerre cruente e senza fine in piccoli spazi, come la Cambogia, la Cecenia, la Somalia, il Ruanda e, a due passi da casa nostra, la ex-Jugoslavia - è stato un secolo di sciagure e di orrori, forse, senza precedenti. Un serio giornale cattolico, 1'«Avvenire», ha proposto ai suoi lettori di raccontare, alle soglie del Terzo Millennio, ciascuno la propria Apocalisse, ovvero la propria immagine della fine del mondo. Le prime risposte, per chi abbia interesse a leggerle, sono apparse il 21 febbraio scorso. Si preannunzia che il tema dell'Apocalisse sarà il tema di discussione su cui ruoterà il prossimo Salone del Libro nella nostra città. Non abbiamo che da aprire i giornali per accorgerci che la parola «apocalisse», anche se svilita e addomesticata, è diventata di uso quotidiano. In occasione della recente fuga micidiale di gas nervino, che ha ucciso tanti innocenti in una città del Giappone, si è letto su un giornale questo titolo: «Un arsenale per l'Apocalisse». Qualcuno di voi ricorderà che un nostro noto scrittore e letterato, tre anni or sono, in seguito alla Guerra del Golfo, aveva pubblicato un libretto sferzante, cui aveva dato per sottotitolo: Ragionamento sull'Apocalisse2. Il sentimento della fine appartiene a chi interpreta il proprio tempo come un'età di decadenza in cui «tutto precipita - per riprendere le parole di Guitton - in un istante terminale sempre più vicino» e, quel che è più, «fatale», cioè inevitabile. La fine dell'Europa. La fine della civiltà occidentale. La fine dell'età moderna e l'inizio dell'età post-moderna, dove quel «post» sta a significare unicamente che viene dopo ma non lascia capire quali ne siano le caratteristiche. Si è parlato, persino, di fine della Storia. Nel suo ultimo libro Mysterium iniquitatis Sergio Quinzio prefigura la fine della Chiesa cattolica con il prossimo avvento dell'ultimo Papa, che prenderà il nome di Pietro II3. Ma non aveva già in un famoso passo della Gaia scienza, Nietzsche, il profeta 1 J. Guitton, Lettere aperte, Milano, Mondadori, 1995, p. 4. A. Asor Rosa, Fuori dall’Occidente, ovvero Ragionamento sull’Apocalisse, Torino, Einaudi, 1992. Il tema della distruttività e della disumanizzazione di cui sarebbe il principale responsabile il progresso tecnico ha dato origine a una letteratura sterminata, che può essere ben rappresentata dall'ultimo libro di Serge Latouche, La magamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, dedicato a Jacques Ellul, dalla cui ben nota opera La technique ou l'enjeu du siècle, 1954 (trad. it. La tecnica, rischio del secolo, Milano, Giuffrè, 1969), il Latouche dichiara di aver tratto la principale ispirazione per i suo scritti. Oltre quello citato, dello stesso Latouche segnalo altri due libri, L'occidentalizzazione del mondo e Il pianeta dei naufraghi, entrambi pubblicati a Torino, presso Bollati Boringhieri, rispettivamente nel 1992 e nel 1993. 3 S. Quinzio, Mysterium iniquitatis. Le Encicliche dell’ultimo papa, Milano, Adelphi, 1995. 2 del nichilismo, introdotto la figura del folle che, accesa una lanterna nella chiara luce del mattino, corre al mercato e annunzia che Dio è morto, e siamo stati noi a ucciderlo?4 Ogni medaglia ha il suo rovescio. Proviamo a guardare il nostro tempo non più dal punto di vista del moralista, del filosofo, del teologo, del profeta di sventure, ma da quello dello scienziato o del tecnico, di coloro che tengono nelle mani le chiavi che aprono le porte della conoscenza scientifica, delle applicazioni tecniche e della produzione di merci sempre nuove, che dalla combinazione di scoperte scientifiche e di innovazioni tecniche derivano. Le nostre orecchie percepiranno tutt’altra musica: il lamento funebre si converte in un inno di vittoria. Nel dicembre 1993 si svolse a Milano il primo convegno Dieci Nobel per il futuro. La maggior parte degli interventi, così come sono stati pubblicati, ha in comune un infastidito disdegno per gli apocalittici. Leggo: «Un processo della scienza si risolve in un processo all'homo sapiens, alle estrinsecazioni del pensiero, la sola attività che lo differenzia dalle altre specie animali»5. Questo atteggiamento difensivo viene per così dire legittimato sia dalla ripetuta contestazione dello stato d'animo di perenne entusiasmo e di nobile esaltazione con cui il ricercatore conduce la propria analisi disinteressata, da nessun'altra motivazione guidata se non dalla curiosità, e da nessun altro fine ispirato se non dalla conoscenza fine a se stessa, sia dalla confortante visione dei benefici che l'umanità ne ha tratto e continua a trarne, non solo materiali, ma anche morali: «Il perseguimento della verità impone il principio della fratellanza degli uomini e rifiuta le ideologie dei sistemi totalitari che fomentano gli odi razziali (...). Qualora dovesse, per nostra disgrazia, prevalere il movimento oscurantista che punta il dito accusatore sulla scienza come causa prima dei nostri mali, questi studi, oggi in pieno sviluppo, sarebbero scoraggiati o addirittura soppressi in favore di un irrazionalismo che vede in poteri occulti extraterrestri il primum movens delle azioni umane»6. Se l'umanità non progredisce nella stessa misura in tutte le parti del mondo - si legge ancora - la responsabilità non è della scienza, ma dell'ignoranza dei benefici che se ne possono trarre, e delle cattive scelte politiche. Ragion per cui: «C'è motivo di essere ottimisti sulla possibilità che il terzo mondo si affranchi dall'indigenza nel prossimo decennio. I Paesi in via di sviluppo sono in buona misura padroni del loro avvenire. Se resteranno poveri e sottosviluppati o si uniranno alle file dei Paesi di recente industrializzazione, dipende essenzialmente dalle scelte che sapranno adottare»7. Reagendo alla nota accusa lanciata dal presidente Havel contro la civiltà tecnologica globale e planetaria, che ha raggiunto i limiti del suo potenziale oltre il quale ha inizio l'abisso, c'è chi, pur ammettendo che le verità rivelate dalla rivoluzione scientifica negli ultimi quattrocento anni hanno reso il mondo migliore ma insieme più pericoloso, afferma risolutamente che, se dalle scoperte scientifiche non si traggono i vantaggi che esse potrebbero dare per rendere «migliore» l'umanità, la responsabilità non è della scienza ma della mancanza di volontà politica8. 4 Opere di Friederich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. V, tomo II, Milano, Adelphi, 1965, pp. 129-30. R. Levi Montalcini, «Il valore intrinseco della scienza: controllare, non proibire» in Dieci Nobel per il futuro. Scienza, economia, etica per il prossimo secolo, Venezia, Marsilio, 1994, p. 22. 6 Ibid., p. 24. 7 G. S. Becker, «Il progresso economico nei paesi in via di sviluppo» in Dieci Nobel per il futuro cit., p. 79. 8 B. Richter, «Dalla ricerca alle nuove tecnologie» in Dieci Nobel per il futuro cit. p. 127. Dopo la lettura della mia conferenza è uscito un analogo volumetto che ha raccolto le relazioni presentate al secondo convegno internazionale Dieci Nobel per il futuro, svoltosi a Milano il 7-8 dicembre 1994, intitolato Scienza e società, introduzione di R. Levi Montalcini, Venezia, Marsilio, 1995. L'atteggiamento fiducioso nelle «magnifiche sorti e progressive» non è molto diverso da quello delle relazioni comprese nel volume precedente, da cui ho tratto sinora le citazioni. Noto però un maggior numero di espressioni di preoccupazione per i possibili esiti «nocivi» della corsa verso il progresso, non più facilmente controllabile. Non viene meno la fiducia, però, che questi effetti nocivi possano essere corretti, e possano essere corretti soltanto da «più scienza e più tecnica» (p. 11). Crescono anche i riferimenti al tema dei valori, su cui gli scienziati «debbono pretendere d'intervenire» (p 14). Accanto a giudizi perentoriamente ottimistici, come «l'umanità finirà inevitabilmente di controllare la propria evoluzione», giacché «l'uomo che modifica l'uomo fa parte dell'uomo stesso» (p. 26), donde la necessità, su cui insistono quasi tutti gli interventi, di una più estesa e intensa educazione scientifica, troppo trascurata anche nei paesi culturalmente più progrediti, sono ricorrenti gli appelli al senso di 5 Con una certa approssimazione si può anche dire che in questa contrapposizione, tra apocalittici e non, si ritrova e si rinnova la ben nota contrapposizione fra le «due culture». Il recente libro di Eric J. Hobsbawm inizia con dodici brevi giudizi su questo secolo di eminenti personalità: catastrofici sono i giudizi di uno studioso di storia del pensiero politico come Isaiah Berlin, di uno storico della letteratura come William Golding, di uno scrittore come Primo Levi, di un musicista come Yeudi Menuhin; iperottimista quello del premio Nobel per la fisica Severo Ochoa, che prende in considerazione soltanto il progresso scientifico «veramente straordinario»9. II Ho qualche ragione di ritenere che di fronte alla scienza e alle sue conquiste il contrasto fra i due atteggiamenti, del resto non nuovi, anzi vecchissimi e ricorrenti, che potremmo chiamare l'uno prevalentemente morale o moralistico, l'altro prevalentemente pragmatico, dipenda dall'opposto giudizio che ognuna delle due parti, dal diverso osservatorio in cui si viene a trovare, è indotta a dare dell'idea di «progresso». Mi spiego. Dalla fine del secolo XVIII lungo tutto il secolo XIX la storia umana è stata interpretata, almeno dall'età del «disincanto» che coincide con l'avanzamento strepitoso del sapere scientifico e con l'inizio del processo di secolarizzazione, come destinata a progredire incessantemente verso uno stato di sempre maggiore libertà, giustizia, pace, benessere. Alla fine del secolo XVIII Kant aveva dato una risposta affermativa alla domanda: «Se il genere umano sia in continuo progresso verso il meglio»10, ritenendo che con l'illuminismo fosse iniziata l'epoca in cui l'umanità era finalmente uscita dalla minore età e poteva trionfalmente procedere verso la propria emancipazione con le sole forze della ragione. Lungo tutto il secolo XIX i fautori del progresso hanno ritenuto che progresso scientifico, progresso sociale e progresso morale procedessero di pari passo o, più precisamente, che il progresso scientifico fosse destinato a trascinare dietro di sé tanto il progresso sociale quanto quello morale. Però, quando in questo secolo, di fronte allo scoppio imprevisto della prima guerra mondiale e all’ecatombe senza precedenti che ne è seguita, la stessa idea del progresso è stata messa in questione e ne sono derivate la deprecazione, la derisione e la dissacrazione di quello che ora viene chiamato spregiativamente il «mito del progresso»11, si è caduti, come sempre accade nella reazione a idee ricevute, nell'eccesso opposto. Dalla constatazione che la belluinità dell'uomo, cui, se mai, proprio il progresso scientifico e tecnico aveva fornito mezzi sempre più terribili di distruzione e di morte, non solo non era diminuita ma da questi stessi mezzi era stata potenziata, si era venuta formando la comune opinione che l'idea del progresso verso il meglio, per riprendere l'espressione di Kant, fosse stata una stupida e pericolosa illusione. Ma in questo modo si erano chiusi gli occhi di fronte al fatto che il progresso scientifico e tecnico, il progresso nel senso originario della parola, era continuato ininterrottamente con enorme e crescente successo. Effettivamente ciò che è avvenuto in questo secolo non è la fine, né tanto meno l'interruzione, del progresso, ma la fine della fiduciosa convinzione, illuministica prima e positivistica poi, che progresso tecnico-scientifico e progresso morale e civile procedessero di pari passo, anzi in un certo senso fossero collegati fra loro, e, soprattutto, che la luce del sapere avrebbe non solo dissolto le tenebre dell'ignoranza, ma anche migliorato i costumi, elevato l'uomo a una più consapevole e durevole moralità. Perché il progresso tecnico-scientifico, contrariamente alle previsione delle «grandi narrazioni», come sono state chiamate le filosofie della storia ottocentesche, non abbia contribuito responsabilità dello scienziato che deve «applicare la scienza con saggezza umanistica» (p. 43) e «non richiudersi nella comunità dei fisici, non essere indifferente al mondo e alle sue convulsioni, mantenere un piede nella polis» (p. 109). 9 E. J. Hobsbawm, Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991, trad. it. Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995. 10 I. Kant, Scritti politici e di filosofia del diritto e della storia, Torino, Utet, III ediz. 1995. 11 G. Sasso, Tramonto di un mito. L’idea di «progresso» fra Ottocento e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1984. al perfezionamento morale dell'uomo ma, solo per una parte dell'umanità, al suo miglioramento materiale, anzi gli abbia fornito strumenti per esercitare con maggiore efficacia la sua volontà di potenza, è problema su cui la discussione è continua, perché la soluzione è tutt'altro che facile, è addirittura impervia. Le opinioni sono irriducibilmente, almeno sino ad ora, discordi. C'è, anzi, chi vede una ragione essenziale di questa dissociazione fra progresso della conoscenza e progresso morale proprio nel processo di secolarizzazione, donde è nata la scienza moderna: il sapere scientifico non solo non avrebbe migliorato moralmente l'uomo, ma, inducendolo sempre più ad abbandonare le credenze tradizionali, a non sentirsi più soggetto al timor di Dio, a credersi unico signore e costruttore del proprio destino, lo avrebbe maggiormente corrotto. Il problema è aperto e non sono certo io capace di chiuderlo. Con sicurezza però, si può affermare, trattandosi di una pura constatazione di fatto, che progresso scientifico e tecnico, da un lato, e progresso morale, dall'altro, corrono l’uno accanto all'altro e, nello stesso tempo, l’uno indipendentemente dall'altro. O meglio, il primo corre, l'altro sembra stia fermo e talora regredisce, sì che per interpretarne il senso si sarebbe indotti a ricorrere a quella concezione della storia che Kant aveva chiamato «terroristica»12. Proprio questo divario sta alla base della disparità di giudizio sull'idea di progresso da parte di chi lo considera dal punto di vista dello sviluppo della conoscenza e di chi, al contrario, lo considera dal punto di vista del perfezionamento dei costumi. Dal suo punto di vista, il primo ha perfettamente ragione di dire che l'idea di progresso, limitatamente al suo osservatorio, non solo non è smentita ma è stata confermata oltre misura, e proprio in questo secolo, in cui la violazione del primo e fondamentale imperativo morale - «Non uccidere» - ha assunto proporzioni tali da fare intravedere prossimo, se non già attuale, l'avvento dell'età del nichilismo preannunciata da Nietzsche. Quando mai erano stati sterminati in un solo colpo più di centomila uomini? Il progresso scientifico e il progresso tecnico sono in rapporto reciproco fra loro: come è stato più volte affermato, la scienza favorisce nuove tecnologie che a loro volta favoriscono nuove ricerche scientifiche, e queste nuove ricerche scientifiche creano nuove tecnologie. Così il progresso tecnico-scientifico diventa sempre più vertiginosamente accelerato, irresistibile e irreversibile. Sempre più accelerato: già alla fine del Cinquecento, all'inizio dell'età moderna, Tommaso Campanella scriveva ne La Città del Sole, esaltando le meravigliose invenzioni e scoperte del suo tempo, che «questo secolo ha più istoria in cento anni che non ebbe il mondo in quattromila; e più libri si fecero in questi cento anni che in cinquemila»13. Che cosa dovremmo dire oggi? Queste testimonianze si potrebbero addurre alla rapidità del mutamento e alla differenza che ne deriva fra il mondo di oggi e il mondo di ieri! Volendo restare in casa nostra, fra la Torino di oggi e quella del principio del secolo quanta differenza per una persona come me, i cui primi ricordi risalgono agli anni della prima guerra mondiale, quando sentivo lodare gli ampi corsi della nostra città, grandiosamente e signorilmente costruiti per rarissime automobili, poche carrozze, pochi carri a cavallo e molti carretti a mano! Irresistibile: mi domando se non vi sia un accordo unanime fra gli scienziati nel ritenere che alla ricerca scientifica, ispirata e sospinta sempre avanti da quella meravigliosa virtù umana che è la «curiosità», nel senso alto della parola, intesa come desiderio incessante di allargare l'area delle nostre conoscenze, nessun potere divino o umano possa segnare limiti invalicabili. Mi riferisco a limiti di carattere metafisico o morale, giacché limiti di natura economica possano venire di fatto imposti14. 12 Per Kant concezione terroristica della storia è quella secondo cui «il genere umano è in continuo regresso verso il peggio» («Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio» in Scritti politici e di filosofia del diritto e della storia cit., p. 214) 13 T. Campanella, La Città del Sole, a cura di N. Bobbio, Torino, Einaudi, 1941, p. 10. Nel già citato Scienza e Società, il premio Nobel Bernard Lown segnala, come una curiosità, un analogo dato di fatto: «La totalità del sapere pubblicato raddoppia ogni otto anni e la quantità d'informazione prodotta negli ultimi trent’anni è superiore a quella prodotta nei cinquemila anni precedenti» (p. 113). Rispetto alla previsione di Campanella i cento anni sono diventati trenta. 14 Il problema del condizionamento economico delle ricerche esiste, e non è certo il caso di affrontarlo qui. Le ricerche sono sempre più costose. Non tutte possono essere finanziate. Qualsiasi stato non può non proporsi una politica della Per lo scienziato di oggi non vi sono arcana naturae né arcana Dei di fronte ai quali ci si debba per imperscrutabile divieto arrestare. L'Ulisse di oggi che varca le colonne d'Ercole non è destinato a essere inghiottito dalle onde del mare in tempesta. Scrive Renato Dulbecco: «Una delle regole fondamentali della scienza è che non si può e non si deve porre un freno al progresso delle conoscenze. Ogni tentativo in questa direzione porterebbe alla rottura dell'antica alleanza fra società e ricerca, un evento certamente non desiderabile»15. Irreversibile: intendo nel senso kantiano del «continuo progresso verso il meglio», dove il «meglio» deve essere interpretato non in senso morale, ma in senso puramente cognitivo, ovvero di una migliore conoscenza del mondo e del nostro essere nel mondo, oppure come creazione di strumenti sempre più efficaci per raggiungere gli scopi desiderati e prefissati: maggior velocità nei trasporti, maggiore ampiezza e maggiore diffusione nelle comunicazioni, maggiore sicurezza ed efficacia nella cura della salute, o, al contrario, maggior capacità distruttiva nella sfera dell'agire politico alla cui base sta il rapporto amico-nemico, e quindi la necessità di offendere e di difendersi. In genere lo strumento nuovo caccia quello vecchio, e quello vecchio in poco tempo diventa un oggetto museo, e, come tale, non più da impiegare16. Il nostro bel museo torinese dell'automobile si arricchisce sempre più di nuovi pezzi via via che la produzione crea modelli che offrono nuove prestazioni. Nel campo dei computer si può parlare a ragion veduta di rivoluzione permanente, intesa la rivoluzione proprio nel senso di trasformazione tanto radicale delle cose da non lasciare spazio alcuno al ritorno dello stato di cose precedente. Di rivoluzione permanente, invece, non si può parlare con altrettanta sicurezza nella sfera dei costumi, dei rapporti sociali, delle regole di condotta, dove alle rivoluzioni possono succedere, e succedono quasi sempre, età di restaurazione: intesa la «restaurazione» come il riemergere del vecchio stato di cose in seguito all’affievolimento o all'esaurimento dello spirito innovatore. Alla storia di società umana sembra convenire di più la concezione dialettica dello sviluppo che procede per affermazioni e negazioni, che quella, comunemente accettata nella comunità scientifica, del passaggio rivoluzionario da un paradigma all'altro. Di fronte al cambiamento politico vi possono essere partiti che si alternano, i progressisti e i conservatori. Anche rispetto al progresso tecnico si possono dare atteggiamenti contrari, specie tra vecchi e giovani, ma sono destinati a vincere, sempre, alla fine i secondi. Per fare un esempio familiare, ricordo sessant’anni fa l'accesa discussione quando si trattò di passare dal film muto al film sonoro. Vinse il sonoro e, dopo la vittoria, il film muto scomparve rapidamente, salvo ritornare, sì, ma sonorizzato. Lo stesso è accaduto più recentemente con il passaggio dalla televisione in bianco e nero alla televisione a colori. Il carattere dell'irreversibilità è inoltre quello che caratterizza meglio degli altri due l'idea di progresso: è, infatti, il carattere, se non sufficiente, certo necessario perché si possa correttamente parlare di «progresso». Si può parlare di un progresso lento e quindi non accelerato né rapido, o sempre più rapido; si può parlare di un progresso resistibile per ostacoli sociali, politici, economici, sopraggiunti. Sarebbe contraddittorio parlare di un progresso reversibile. La reversibilità contraddice l'idea stessa di progresso. Nel momento in cui diventa reversibile, l'idea del progresso deve fare i conti con l'idea opposta di regresso. La più comune metafora del progresso è quella della grande fiumana in cui nessuno può bagnarsi nella stessa acqua, perché il flusso è continuo, non importa se più rapido o più lento, potendo essere talora più rapido e talora più lento, ma non tanto lento che l'acqua ristagni o s'impaludi. Non importa se sia più resistibile o meno, perché, pur ricerca, il cui compito è la scelta delle ricerche da incoraggiare mediante pubblici finanziamenti. Si legge nella relazione del premio Nobel James D. Watson che l'opposizione della comunità scientifica al Progetto Genoma derivava dalla preoccupazione che «l'afflusso dei fondi verso tale progetto lasciasse senza ossigeno altri obiettivi più immediati della ricerca» («Le implicazioni etiche del Progetto Genoma umano» in Dieci Nobel per il futuro cit., p. 151). 15 R. Dulbecco, «Libertà della ricerca e timori della società» in Dieci Nobel per il futuro cit., p. 53. 16 N. Negroponte, autore della fortunata opera Essere digitali, scrive: «Non so che cosa ne pensate voi, ma io non esiterei a buttar via il mio videoregistratore se ci fosse un sistema migliore…» (trad. it. Milano, Sperling e Kupfer, 1995, p. 180). potendo trovare maggiori o minori ostacoli sulla propria strada, deve, ad ogni costo, per giungere alla fine, superarli. III Nessuno di questi attributi, né l'accelerazione né la irresistibilità né la irreversibilità, valgono nella sfera morale. Trovandosi a vivere in un mondo ostile, sia rispetto alla natura, cui deve strappare generalmente con fatica e con rischio i mezzi di sussistenza, sia rispetto ai suoi simili, secondo l'ipotesi hobbesiana dell’homo homini lupus che, pur contraddetta dalle più recenti ricerche sulle società primitive, è ad ogni modo valida per gran parte del mondo storico a noi noto, l'uomo ha cercato di renderlo più abitabile inventando, da un lato, le arti produttrici di strumenti, destinate a trasformare il mondo materiale per rendere possibile la sopravvivenza, dall'altro, le regole di condotta rivolte alla disciplina dei comportamenti individuali e collettivi per rendere possibile la convivenza. Strumenti e regole di condotta costituiscono il mondo cosiddetto della cultura contrapposto a quello della natura, il mondo, cioè, contrassegnato per l'appunto dall'invenzione delle tecniche della sopravvivenza e della convivenza. Osservo, senza neppure tentare di darne una spiegazione, che il mondo dell'invenzione degli strumenti per il controllo e il dominio della natura è progredito molto più rapidamente e con effetti ben più sconvolgenti di quello dell’istituzione di regole per il controllo e il dominio del mondo umano. Non si possono paragonare le trasformazioni avvenute all'interno del primo rispetto a quelle avvenute all'interno del secondo. Paragoniamo, da un lato, un villaggio tribale con una metropoli di oggi, coi suoi grattacieli, le sue vie che corrono parallele o si incrociano, con le migliaia di automobili che le percorrono, coi loro complicatissimi sistemi di reti di illuminazione e di comunicazione. Paragoniamo, dall'altro, il codice morale di quella stessa tribù che regola nascite, matrimoni e morti, i principali atti della vita del gruppo, nonché i rapporti dei singoli fra di loro per la formazione, la conservazione, la distribuzione del potere, coi nostri codici e le nostre costituzioni, i premi e le pene, tra le quali vige ancora la pena di morte, gli incentivi a ben fare e i disincentivi a mal fare. Il raffronto offre, mi pare, una riprova storica del diverso grado di sviluppo dei due sistemi, non solo più rapido il primo e più lento il secondo, ma anche irresistibile l'uno, tanto da continuare a rompere gli argini che l'impero delle regole ha tentato di imporre più volte ai novatori; ben più resistente, il secondo, al mutamento, per una maggiore docilità della natura nel sottomettersi al dominio dell'uomo rispetto a quella dell'uomo nel sottomettersi al dominio dell'altro uomo. Ben diverso è il rapporto che l'uomo ha rispetto alla sfera dell'altro da sé, entro la quale si possono comprendere, oltre gli oggetti naturali, anche i prodotti del fare umano, altrettanto manipolabili, rispetto a quella sfera del sé, ben più difficilmente plasmabile, maneggiabile, correggibile, perché è l'uomo stesso l'attore del cambiamento dell'altro da sé, ma ha nei riguardi dei suoi simili limiti di comportamento presenti in ogni aggregato umano, che ne impediscono la sua totale riduzione a oggetto. Ancora sino a non molto tempo fa lo sfruttamento della natura era considerato opera da lodare e incoraggiare, mentre lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo è percepito tuttora, nonostante la crisi del marxismo, che ne aveva fatto il principale oggetto di critica della società capitalistica, un'azione malvagia. Anche quando l'individuo umano viene preso in considerazione unicamente come essere naturale da parte delle scienze biologiche, la sua manipolabilità suscita problemi di limiti morali e giuridici, diventati tema costante di discussione da parte della bioetica. Nonostante l'accresciuta sensibilità per le sofferenze degli animali, la stragrande parte dell'umanità se ne nutre non solo uccidendoli ma facendoli soffrire oltre lo stretto necessario senza darsene alcun pensiero, mentre proviamo pietà per le vittime di una guerra o di un'azione criminale. Quando alla irreversibilità, non c'è storico - e mi riferisco in particolare agli storici che guardano agli eventi del passato dal punto di vista delle istituzioni, ovvero dei sistemi di regole - che non abbia rappresentato la storia come un seguito di epoche di avanzamento e di decadenza, di incivilimento e di imbarbarimento, di mutamento e di stagnazione, di rivoluzione e di restaurazione, di corsi e ricorsi. La rivoluzione industriale con tutte le tappe successive che ci inducono a parlare di prima, di seconda, di terza rivoluzione industriale, l'una incastrata nell'altra, si può paragonare a un flusso continuo. Il mutamento istituzionale è invece intermittente. Mentre il progresso tecnicoscientifico non cessa di suscitare la nostra meraviglia e il nostro entusiasmo, se pure frammisti a un senso di angoscia per gli effetti perversi che ne possono derivare, continuiamo sul tema del progresso morale a interrogarci, esattamente come mille e duemila anni fa, ripetendo all'infinito gli stessi argomenti, ponendoci sempre le stesse domande senza risposta, o con risposte che non ci acquietano del tutto, come se fossimo sempre immersi in quello che i credenti chiamano il mistero, i non credenti il problema del Male, nei suoi due aspetti di male attivo (la malvagità) e di male passivo (la sofferenza). Non già che il tema del rapporto tra progresso scientifico e progresso morale sfugga agli uomini di scienza. Proprio da loro, al contrario, dalle loro associazioni, dai loro congressi nasce la domanda sul modo di accordare l'uno con l'altro. Dallo stesso libro dei Nobel traggo ancora qualche citazione pertinente. C'è chi sostiene che molti disastri in atto debbano essere ricercati nella dissociazione tra l'evoluzione delle nostre capacità cognitive e l'evoluzione di quelle emotive: «Le prime hanno investito l'uomo di un potere quasi sovrumano di controllo del globo terrestre, mentre le seconde sono rimaste al livello di quelle dell'uomo preistorico, e determinano il suo operato in un'orbita d'azione sempre più vasta, e con un potere distruttivo in continuo crescendo». E prosegue: «Non il progresso scientifico ma la mal diretta carica emotiva e l'assenza di un sistema di valori che regoli il comportamento dell'uomo, sono responsabili dello stato di confusione che è alla base dell'attuale crisi»17. Sono parole gravi e purtroppo nello stesso tempo vaghe: «Carica emotiva mal diretta»? Da chi? Se non riusciamo a sapere chi ci dirige cosi male, come potremo riuscire a superare la sconfortante conclusione? La colpa sarebbe dell'«assenza di valori condivisi». Ma quali sono questi valori? Ci sono valori condivisi? Non può venire il sospetto che sia così difficile trovarli perché non ci sono? Viviamo in società sempre più multiculturali, il cui unico valore condiviso dovrebbe essere quello della tolleranza reciproca, ma, ahimè, è ben lungi dall'essere condiviso, anzi deve essere ogni giorno riconquistato. Non meno vaghe le affermazioni di chi, respingendo la responsabilità degli scienziati e affermando che «non ha senso proporre una limitazione del sapere», sostiene che l'unico dovere degli scienziati è di attirare la nostra attenzione sui problemi ancora da risolvere e di prospettarne le possibili soluzioni. E aggiunge: «La responsabilità ultima spetta alla società nel suo insieme; soltanto la volontà e la determinazione dei governi e della società su scala globale possono rispondere ai pericoli globali che la minacciano»18. Ma che cosa si intende per «società nel suo insieme»? E chi fa parte della società nel suo insieme, alla quale appartengono gli stessi scienziati? Tutte le società, tanto più quelle evolute, sono variamente istituzionalizzate. Quali sono le istituzioni che debbono assumersi la responsabilità di prendere le decisioni relative ai valori? Basta volgere la mente alla secolare disputa tra le due summae potestates, che detengono il potere di stabilire regole obbligatorie, la Chiesa o le chiese, e lo Stato, e alle divergenze, ogni giorno constatabili, proprio rispetto al riconoscimento e alla conseguente imposizione di alcuni valori fondamentali, per rendersi conto di quanto sia sibillina un'espressione come «la società nel suo insieme». Tutt’al più si possono aggiungere, alle regole che provengono dai poteri costituiti, quelle che nascono nella società civile, come accade quando - e ne abbiamo un esempio proprio in questi giorni - una categoria professionale, quella dei medici, decide di autoregolarsi in una materia delicata, qual è quella della fecondazione artificiale. A questo punto bisogna aggiungere che, altro è porre il problema del rapporto, che non esito a dire drammatico, tra lo sviluppo della scienza e i grandi interrogativi etici che questo sviluppo provoca, tra la nostra sapienza di indagatori del cosmo e il nostro analfabetismo morale, altro è 17 18 R. Levi Montalcini, «Introduzione» in Dieci Nobel per il futuro cit., p. 25. J. Steinberger, «La responsabilità dello scienziato su un pianeta finito» in Dieci Nobel per il futuro cit., p. 65. trovare una soluzione. La scienza del bene e del male non è ancora stata inventata. Non c'è problema morale e giuridico, non c'è problema di regole di comportamento, che non sollevi diverse, opposte, soluzioni: basti pensare, per fare i primi esempi che vengono in mente, alla liceità o meno dell'aborto, della pena di morte, dei trapianti di organi, dei matrimoni surrogatori. A proposito di questi ultimi, in un recente libro di bioetica scritto da un autore che si pone da un punto di vista liberale, una posizione che uno scrittore religioso definirebbe permissivistica, si elencano dieci diversi modi di formazione di una famiglia, di cui l'unico ritenuto lecito per secoli è quello formato da una coppia eterosessuale, unita secondo l'istituzione del matrimonio monogamico19. Alcuni di questi modi diversi sono derivati da mutamenti del costume, ma altri derivano dall'invenzione di procedimenti di fecondazione sino a pochi anni fa sconosciuti. Ciò significa che lo sviluppo scientifico in tutti i campi dell'agire umano ci pone sempre più frequentemente di fronte a nuovi problemi di scelte tra diversi comportamenti, ai quali peraltro il nuovo sapere non è in grado di fornire alcuna risposta. E non offre nessuna risposta, perché le scoperte scientifiche e le innovazioni tecniche ci mettono a disposizione strumenti per raggiungere fini prima sconosciuti, ma non ci dicono nulla sulla bontà o malvagità intrinseca del fine, che dipende da giudizi morali spesso in contrasto fra loro secondo le circostanze storiche, lo stato sociale di chi li discute, gli interessi in gioco fra le parti e le dottrine o filosofie o ideologie cui ciascuno si ispira. IV Che le innovazioni tecniche creino sempre nuovi problemi morali, ovvero problemi di scelte fra bene e male, fra diversi beni possibili, è sotto gli occhi di tutti: l'aborto si praticava anche con mezzi rudimentali, ma il trapianto di un rene o del cuore richiede conoscenze scientifiche avanzate e tecniche raffinate. Anche una trasfusione di sangue, pratica ormai abituale, richiede ugualmente conoscenze scientifiche e capacità tecniche ignote sino a non molti anni fa. Meno evidente è che l'esistenza stessa di un corpo di conoscenze scientifiche sempre più esteso, che esige operazioni di sempre maggiore esattezza, aumenta grandemente il potere di chi ha la capacità di servirsene. Dal giorno in cui Bacone disse che la «scienza è potere» molta acqua è passata sotto i ponti del Tamigi, quando ancora la potenza cui ha sempre aspirato l'homo sapiens cercava di raggiungerla più attraverso la magia che nella Dignitas et augmenta scientiarum. La scienza è un immenso strumento di potere. Quando pronunciai per la prima volta questa frase ci fu tra gli scienziati chi ebbe a protestare. Non volevo dire che rende potenti gli scienziati, ma che crea strumenti per accrescere la potenza di chi è in condizioni di servirsene. Le lotte passate per l'affermazione, il riconoscimento e la protezione di nuovi diritti sono nate sempre per conquistare spazi di libertà contro le più alte forme di potere costituito, le Chiese, gli Stati e le grandi concentrazioni di potere economico e finanziario20. Il conflitto politico per eccellenza è il conflitto fra il potere degli uni e le libertà degli altri. Potere e libertà sono due termini correlativi: in un rapporto intersoggettivo più si estende il potere di uno dei soggetti, più si restringe la libertà dell'altro. Non a caso il primo grande documento da cui si fa cominciare la storia moderna dei diritti dell'uomo, il cui scopo è di limitare un potere costituito, si chiama Magna Charta Libertatum. Dalla prima Dichiarazione dei diritti degli stati dell'America del Nord, e da quelle della Rivoluzione francese, alle Carte dei diritti delle costituzioni contemporanee, sino alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del dicembre 1948, lo scopo principale dei primi articoli è sempre quello di riconoscere ai singoli individui il potere di appropriarsi o di riappropriarsi di nuovi spazi di libertà rispetto ai poteri costituiti. Nella storia ipotetica degli scrittori del diritto naturale (si veda il De Cive hobbesiano) prima viene la Libertas, poi viene la Potestas. Nella lunghissima vicenda storica che precede l'età moderna era avvenuto, invece, il processo contrario: in principio c'è sempre la Potestas, e poi viene, generalmente in seguito a faticose conquiste, la Libertas. Lo stesso vale per 19 20 Max Charlesworth, L’etica della vita. I dilemmi della bioetica in una società liberale, Roma, Donzelli, 1996, p. 48. Mi sono soffermato più a lungo su questo tema nella raccolta di saggi L’età dei diritti, Torino, Einaudi, II ediz. 1992. gli altri due diritti fondamentali, la Vita, che è, accanto ai diritti di libertà e prima di essi, il diritto fondamentale nel pensiero cristiano, e la Sicurezza, che è, oltre la libertà e la vita, quel complesso dei diritti il cui fine è la tutela anche economica degli individui, la cosiddetta libertà dal bisogno, promossa dai movimenti democratici e socialisti. Si parla oggi di diritti della terza, quarta generazione. Ebbene, questi nuovi diritti così caratteristici del nostro tempo nascono da situazioni nuove, inimmaginabili sino a pochi anni fa, che mettono in pericolo e sottopongono a nuove restrizioni e a nuove minacce sia le libertà tradizionali, sia la vita nel suo corso naturale dalla nascita alla morte, sia la sicurezza sociale. Situazioni nuove prodotte dall'avanzamento del sapere e delle sue applicazioni. Qualche esempio: il diritto a vivere in un ambiente non inquinato, proclamato e difeso da movimenti sorti appositamente a questo scopo e cresciuti tanto da generare veri e propri partiti politici, è nato, e non poteva non nascere, dalla contaminazione dell'atmosfera, e quindi dal pericolo alla salute pubblica proveniente da una sempre più estesa e incontrollata trasformazione della natura, che lo sviluppo delle tecniche di sfruttamento del suolo e del sottosuolo ha reso possibile. Il diritto alla privatezza diventa sempre più esigente via via che lo scatto imprevedibile di una fotografia può diffondere la tua immagine, senza che tu lo sappia, su migliaia o addirittura milioni di pagine di giornali o di schermi televisivi. Non conosciamo il volto di Dante, ma quello di un Carneade, come me, appare quasi quotidianamente e fastidiosamente su giornali e riviste, diffuse in centinaia di migliaia di copie. Ho protestato chi sa quante volte, ma invano. Aggiungo che i pubblici poteri hanno la capacità di memorizzare, come il Grande Fratello, tutti i dati riguardanti la vita di una persona, anche i più piccoli e intimi particolari, nei riguardi dei quali i dati sui nostri passaporti, statura, età, colore degli occhi e dei capelli, sono semplicemente ridicoli. Accenno infine alla miriade di nuovi diritti sinora sconosciuti, provocati dall'avanzamento della ricerca biologica. Mi riferisco in modo particolare all'ultimo diritto, l'ultimo della serie, già ampiamente discusso nelle assise internazionali, all'integrità del proprio patrimonio genetico. Se ogni potere esorbitante conduce inevitabilmente all'affermazione di nuovi diritti oltre la libertà, la vita e la sicurezza, è facilmente immaginabile quali e quante saranno nel prossimo futuro le nuove lotte per nuovi diritti allo scopo di evitare all'umanità il paventato futuro orwelliano. Ha scritto un autorevole filosofo del diritto contemporaneo: «È indubbio che i diritti dell'uomo sono una delle più grandi invenzioni della nostra civiltà». Gli fa eco il vescovo Walter Kasper, che in un opuscolo del 1990 ha scritto: «I diritti dell'uomo costituiscono al giorno d'oggi un nuovo ethos mondiale»21. «Grande invenzione della nostra società», «Un nuovo ethos mondiale»: una volta cominciata la grande marcia verso la presa di coscienza da parte di coloro che stanno in basso dei loro diritti derivanti dall'appartenenza alla comune umanità, bisogna guardarsi dal cedere e dal tornare indietro. Tanto più che siamo incalzati da gruppi di potere sempre più grandi, che nella conquista della potenza camminano molto più in fretta di noi. Dobbiamo renderci conto ancora una volta che il nostro senso morale avanza, posto che avanzi, molto più lentamente del potere economico, di quello politico, di quello tecnologico. Tutte le nostre proclamazioni di diritti appartengono al mondo dell'ideale, al mondo di ciò che dovrebbe essere, di ciò che è bene che sia. Ma guardandoci attorno le nostre sempre più perfezionate comunicazioni di massa dagli occhi di Argo ci fanno fare ogni giorno più volte il giro del mondo - vediamo macchiate di sangue le nostre strade, mucchi di cadaveri abbandonati, intere popolazioni cacciate dalle loro case, lacere e affamate, bambini 21 S. Nino, Etica y Derechos humanos, Buenos Aires, Paidos Studio, 1984, e W. Kasper, Le fondement théologique des droits de l'homme, Cité du Vatican, 1990, p. 49. In uno scritto recente, L. Lombardi Vallauri chiama con felice espressione l'ethos mondiale dei diritti dell'uomo la «nuova religione civile», nel senso della religion civile di Rousseau, e della civil religion di certa sociologia americana, e commenta: «Questa religione civile è talvolta la sola religione che ancora esiste per coloro che pensano di non poter più credere a una religione rivelata» («La portata filosofica della religione civile nei diritti dell'uomo» in Ontologia e fenomenologia del diritto. Studi in onore di Sergio Cotta, Torino, Giappichelli, 1995, p. 194). macilenti con le occhiaie fuori dalla testa che non hanno mai sorriso, e non riescono a sorridere prima della morte precoce. È bello, forse anche incoraggiante, chiamare i diritti dell'uomo, per analogia con la creazione di strumenti sempre più perfezionati, una grande invenzione della nostra civiltà, ma rispetto alle invenzioni tecniche sono un'invenzione che rimane più annunciata che eseguita. Il nuovo ethos mondiale dei diritti dell'uomo risplende soltanto nelle solenni dichiarazioni internazionali e nei congressi mondiali che li celebrano e li commentano, ma a queste solenni celebrazioni, a questi dotti commenti, corrisponde in realtà la loro sistematica violazione in quasi tutti i paesi del mondo (forse potremmo anche dire «tutti», senza timore di sbagliare), nei rapporti tra potenti e deboli, fra ricchi e poveri, fra chi sa e chi non sa22. Se ci fosse ancora bisogno di mostrare la divaricazione fra i due universi, quello tecnicoscientifico e quello etico-politico, ne sarebbe un'ulteriore prova la rapidità o, al contrario, la lentezza del passaggio dall'ideazione all'attuazione; o dal poter essere all'essere, rispettivamente, nel primo o nel secondo. Nelle descrizioni di società ideali, che in tutti i tempi sono state proposte e riproposte con l'intenzione di precorrere i tempi, vengono di solito preannunziate e descritte, da un lato, mirabolanti invenzioni di strumenti o macchine destinate a migliorare la vita dell'uomo, dall'altro, radicali riforme sociali e nuove istituzioni che dovrebbero rendere la vita umana più libera, più giusta, più felice. Nei secoli successivi le prime, come il volo umano, la navigazione sotto il livello del mare, persino il viaggio sulla luna, sono state realizzate al di là delle più audaci aspettative. Ma le società libere, giuste e felici non sono mai state attuate, e, a giudicare da quello che avviene ogni giorno sotto i nostri occhi, la loro attuazione è più lontana che mai. 22 Il matematico ed economista Gérard Debreu, nella relazione «Innovazione e ricerca: il punto di vista di un economista sull'incertezza», si domanda chi sessant’anni fa avrebbe previsto anche uno solo di questi quattro eventi: la scoperta dell'energia nucleare, la comprensione e manipolazione dell'ereditarietà genetica, la rivoluzione informatica e l'esplorazione dello spazio (Scienza e società cit., p. 89). Per quel che riguarda il mondo umano, uno storico potrebbe aggiungere la caduta del Muro di Berlino e la rivoluzione femminile.