Paolo De Caro Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia di Paolo De Caro 1. La Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia conserva un prezioso esemplare delle Operette morali di Giacomo Leopardi, o, per dir meglio, delle cosiddette Prose, nell’edizione in 16.mo pubblicata a Napoli con la data 1835. Converrà chiarire che durante la seconda metà del 1836, nel tentativo di sfuggire alla censura del Regno, l’editore e libraio napoletano Saverio Starita, pur mantenendo la data dell’anno precedente, sostituì il titolo originale Operette morali /… / volume I con il titolo di comodo Prose. Ma l’accorgimento servì a ben poco: l’edizione non proseguì oltre quell’unico volume. L’esemplare di queste Prose [Operette morali, I] della “Magna Capitana” si presenta legato insieme con una copia dei Canti Starita 1835, formando un solo libro, sul cui dorso è impresso: LEOPARDI / RIME / E / PROSE, con un effetto di leggero disorientamento nel lettore odierno. Ma la preziosità del libro si deve eminentemente al fatto che sulle sue pagine sono riscontrabili numerose correzioni a penna – di mano, indubbiamente, dell’Autore – che avvicinano l’esemplare di Foggia, qui indicato con la sigla ipotetica e funzionale FGc, ad un altro esemplare, di assoluto riferimento storico-filologico: quello conservato a Napoli nelle Carte Leopardiane della Sezione manoscritti della Biblioteca nazionale “Vittorio Emanuele III”. Questa copia delle Operette staritiane, che si presenta priva di coperta e con i semplici fascicoli ricuciti a mala pena sul dorso, contiene correzioni, aggiunte e varianti autografe di Leopardi, e viene indicata nelle edizioni critiche Moroncini (1929) e Besomi (1979) con la sigla Nc. Dei Canti e delle Operette morali di Nc è stata edita una riproduzione in fac-simile dall’editore Marotta di Napoli nel 1967. Per i Canti, dopo l’edizione critica Moroncini del 1927, è ora disponibile quella curata da Emilio Peruzzi, pubblicata da Rizzoli nel 1981 e poi ripubblicata nel 1998 nella BUR, in una nuova edizione riveduta e ampliata. Le Operette morali Starita 1835, per le vicende editoriali cui andò incontro, a cominciare dalle avventurose emissioni del frontespizio, possono classificarsi fra 9 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia le rarità bibliografiche. Attualmente il Sistema Bibliotecario Nazionale registra in complesso (Operette o Prose) una ventina di testimoni, molti dei quali sono stati da noi direttamente consultati o esaminati in riproduzione. Ad eccezione di quattro, che recano il titolo Operette morali (e che qui sotto si segnalano con asterisco [*]), i restanti recano il titolo Prose. La proporzione segnala in generale, nel risultato delle contingenze esterne e della distribuzione geografica, la fortuna dell’edizione nelle due (ma effettivamente tre, come si vedrà) emissioni dell’edizione. L’elenco provvisorio è il seguente: 1) 2) 3) 4) Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino*, Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti-Volpi” di Bari, Biblioteca di Casa Carducci di Bologna, Biblioteca del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università degli studi di Bologna, 5) Biblioteca Comunale “Ruggero Borghi” di Lucera (Foggia), 6) Biblioteca Didattica di Ateneo dell’Università degli Studi di Macerata, 7) Biblioteca Pubblica Statale annessa al Monumento nazionale di Montevergine di Mercogliano (Avellino), 8) Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano*, 9) Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano, 10)Biblioteca delle Facoltà di Giurisprudenza e di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, 11)Biblioteca di Scienze dell’antichità e filologia moderna di Milano, 12)Biblioteca e Archivio del Museo del Risorgimento. Civiche Raccolte Storiche di Milano, 12)Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli*, 14)Biblioteca universitaria Alessandrina di Roma, 15)Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma, 16)Biblioteca dell’Archivio di Stato di Salerno*, 17)Biblioteca “Federico Patetta” del Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università degli Studi di Torino, 18)Biblioteca storica della Provincia di Torino. Non possiamo escludere, infatti, che altre copie del libro (tralasciando le sedi straniere: per esempio, la Biblioteca di Halle) possano rintracciarsi presso biblioteche, pubbliche e private, non menzionate nel catalogo elettronico nazionale OPAC SBN. Così anche FGc, la copia corretta di Foggia, che reca il titolo Prose, è registrata nel catalogo elettronico della “Magna Capitana”, ma non nel catalogo elettronico nazionale. Oppure, per fare un altro esempio: una copia non registrata, col titolo Operette morali, si trova a Recanati presso la Biblioteca del Centro Nazionale Studi Leopardiani. (Monaldo Leopardi, che era, com’è noto, di radicati convincimenti clericali e legittimisti, letto che ebbe le Operette nell’edizione Piatti 10 Paolo De Caro 1834, suggerì al figlio «correzioni» di contenuto [in una lettera, ora mancante, del 13 ottobre 1835: cfr. Ep.1918], – forse, vogliamo credere, più per proteggerlo dalle rivalse della Curia romana e dal pericolo d’inclusione del libro nell’Indice ecclesiastico, come poi puntualmente avvenne [nel 1850, donec emendantur: «perché improntate in più luoghi di funesto scetticismo, e fatalismo il più desolante»], che per il suo personale dissenso politico-teologico con Giacomo, ormai non più recuperabile.) Accordatosi con l’autore nel maggio, nel giugno del 1835 l’editore Starita aveva annunciato in un suo “manifesto” il piano di pubblicazione delle Opere leopardiane. Esso consisteva «in non meno che sei volumi, il 1° de’ quali avrebbe contenuto le Poesie, corrette ed accresciute meglio che di un terzo [rispetto all’edizione Piatti di Firenze del 1831]; il 2° e 3° le Operette morali, anche corrette e accresciute [rispetto all’edizione Piatti del 1834]; il 4°, il 5° e il 6° e forse un 7° di produzioni inedite, ed alcune ancora, che, quantunque stampate, non era pertanto agevole più di avere». Il 9 luglio il libraio firmava un contratto che stabiliva un compenso al Leopardi di cinque ducati per foglio di stampa (cfr. Giuliano, 237-238). Ma in seguito, come sembra di capire, l’impegno venne eluso, suscitando le ire del poeta. Dei volumi previsti, dunque, Starita, l’«infame negoziante», non riuscì a stamparne che due: – il primo, i Canti, uscì verso la fine del settembre di quell’anno (v. lettera a Karl Bunsen del 26 settembre 1835, Ep., 1914). Era arricchito del ciclo di Aspasia, delle “sepolcrali” e della Palinodia, oltre che dei frammenti, e delle imitazioni e traduzioni; conteneva cioè tutto il libro poetico che leggiamo ora, ad esclusione del Tramonto della luna e della Ginestra che, scritte nell’anno successivo (1836), furono pubblicate postume a cura di Antonio Ranieri nei Canti Le Monnier 1845; – il secondo, le Operette morali, Volume I, fu pubblicato sempre con la data 1835, ma uscì effettivamente dalle stampe verso la metà del gennaio 1836 (cfr. lettera a Louis de Sinner del 25 gennaio 1836, Ep. 1922). In esteso, sul frontespizio, si leggeva: OPERETTE MORALI DI GIACOMO LEOPARDI. TERZA EDIZIONE CORRETTA, ED ACCRESCIUTA DI OPERETTE NON PIÙ STAMPATE. VOLUME I. NAPOLI, PRESSO SAVERIO STARITA Strada Quercia n. 14, e Strada Toledo n. 50. – 1835. Si trattava in realtà del primo tomo, dei due previsti da destinare alle Operette morali, contenente le prime tredici operette, dalla Storia del genere umano fino 11 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia a Il Parini, ovvero della gloria, con un solo cambiamento sostanziale, rispetto alla precedente edizione fiorentina del 1834, dovuto all’espunzione del Dialogo di un lettore di umanità e di Sallustio. Il piano editoriale delle Opere – un evento nella carriera letteraria di Leopardi (cfr. D. De Robertis, p. 336) – era liquidato; ma la censura, bloccando la diffusione delle Operette, non poteva sapere che la mente dell’autore era già oltre quel capolavoro. Leopardi, che comunque si mostrava sensibilissimo alle osservazioni critiche che si facevano sulla sua opera, almeno dall’ultimo, tumultuoso, anno fiorentino (1832), posto termine alle invenzioni delle Operette e alle annotazioni dello Zibaldone, si era adoperato, per l’evoluzione stessa del suo pensiero filosofico, ad affidare a un contenuto socio-politico più articolato e “presente” una materia, soprattutto soggettivo-sentimentale, che rischiava di entrare nel consumo di una maniera “romantica”. Riconosceva nel 1835 a Bunsen: «Voi avete ragione che nelle mie prose la malinconia è forse eccessiva…» (16 settembre, Ep. 1914). Leopardi, tuttavia, si poteva concedere queste ammissioni perché a quel tempo, come Giordani seppe giustamente individuare, dal vecchio autore era già spuntato uno scrittore imprevisto. Era un «nuovo poeta e diverso, non però minore di stesso», nonostante le perplessità che avrebbe suscitato nei suoi lettori, e anche in chi, pur ammirandolo, ma rimanendo prigioniero d’un modello di scrittura e della gerarchia dei generi letterari, si stupiva su «comment cet homme profond avait pu terminer par la satire» (Sinner, ma cfr. Savarese, pp. 60-62). 2. Sull’edizione Starita delle Operette morali, volume I (ma vol. II delle Opere), confermando un giudizio sul loro autore, che si era ormai consolidato nell’opinione sia dei legittimisti sia dei moderati cattolico-liberali italiani, si abbatté la censura borbonica, la quale ostacolò la diffusione dei pubblicati Canti, bloccò la stampa del secondo tomo delle Operette, impedì la vendita e sequestrò le copie del primo. Per quanto il volume dei Canti fosse uscito indenne dall’esame del Regio Revisore, già molti lettori avevano arguito, specialmente nelle nuove poesie, «un non so che di ateismo e peggio ancora, quando, nel supporre una divinità, [Leopardi] la suppone malefica e che gode di tormentar gli uomini» (a scriverlo era il letterato siciliano Tommaso Gargallo, cfr. Giuliano, p. 244). Il giudizio gravò, a maggior ragione, sulle Operette – a partire dalla Storia del genere umano, che le apre, fino alla loro sostanziale conclusione, antiumanistica, «suggello cosmico materialistico» (Blasucci), del Dialogo della Natura e di un Islandese, ambedue comprese nel Volume I – e ne precluse la prosecuzione nella stampa. Questo duro condizionamento, messo in atto dalla polizia del regno ferdinandeo, ma promosso e sostenuto dalla nunziatura pontificia di piazza Carità 12 Paolo De Caro (che Giacomo ben conosceva), doveva (e deve ancor oggi nella riflessione storica) misurarsi sia nei suoi aspetti politici che in quelli filosofico-religiosi e artistici con la gracilità degli ideali politici, la pavidità morale e, in generale, il conformismo culturale unito a un pigro ritardo estetico della società letteraria partenopea del tempo. In una tale situazione la censura si ergeva preventivamente a sanzione critica e indicazione ideologica, senza che la gran parte degli intellettuali della capitale borbonica se ne sentisse davvero coinvolta. Leopardi, non camminava col secolo (cfr. Giordani, p. 204, e v. Palinodia, vv. 235-239), anzi ad esso, disprezzandolo, «increbbe» (come dice il poeta nella Ginestra); cosicché pochi furono disposti a condividere o almeno a comprendere le motivazioni profonde della sua riflessione, ivi incluso quel che pensava della storia e della politica. In un famoso giudizio del Gesuita moderno (1847), Gioberti osservò che in quel «libro terribile» che sono i Paralipomeni della Batracomiomachia, Leopardi derideva «i desideri, i sogni, i tentativi politici degl’Italiani con un’ironia amara, che squarcia il cuore, ma che è giustissima». Ad impedire il consenso dei circoli culturali di Napoli concorrevano altri pregiudizi di contorno. La fama narrava di un Leopardi amico dell’anticlericale e bonapartista Pietro Giordani; oppure del repubblicano prima, murattiano poi, e infine costituzionalista Pietro Colletta; e in ultimo, dall’ottobre del ’33, di un Leopardi sodale con un giovane liberale del giro di Carlo Troya, quell’Antonio Ranieri che, mandato all’estero per i suoi trascorsi antiborbonici, ne era tornato dando ospitalità al poeta. Ranieri apparteneva «allo sparuto manipolo degli storici cosiddetti neoghibellini» (Sansone, p. 357), era autore di una Storia del Regno di Napoli in via di stesura e, negli anni fra il 1835 e il 1837, era scrittore di un romanzo a tinte forti, Ginevra o l’orfana della Nunziata (1836-1839); un romanzo di tendenze realistico-romantiche, da cui gli storici della letteratura fanno derivare l’ipotesi che le sue descrizioni sociologiche (del basso clero, o della plebe napoletana, per dire) abbiano avuto un qualche influsso sull’estrema produzione leopardiana. La rosea raffigurazione degli anni Trenta dell’Ottocento partenopeo, che traspare dagli Aneddoti crociani o dalla Napoli romantica di Cione, dà per scontato che colui che si esponeva in quegli anni al giudizio della pubblica opinione sottostava pur sempre alla regola de deo parum, de principe nihil vigente nei regimi assoluti. Leopardi doveva dunque fare i conti con una Napoli che, nonostante la sua apparente vivacità culturale, il pullulare di riviste gazzette e fogli, i teatri sia colti che popolari, i caffè letterari, i circoli e i salotti culturali, il continuo sciamare di artisti, scrittori e visitatori stranieri, viveva, oltre che nell’impercettibile rimodellamento della sua profonda realtà antropologica (alla cui osservazione il poeta era per giovanile formazione particolarmente attratto), una stagione di disincanto politico e di dispersione ideologica. Era per Leopardi un inquietante elemento di riflessione, adombrato in quegli anni nel XXXV dei suoi Pensieri, dove Napoli è considerata come esempio significativo dei «luoghi tra civili e barbari». 13 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Secondo Damiani, Leopardi aveva ancora in mente la Corinne. Anche lui era arrivato «au milieu de cette immense population qui est si animée et si oisive tout à la fois», dove si scopriva l’«état sauvage… mêlé avec la civilisation», dove «milliers de Lazzaroni… passent leur vie [dans] une grotte sous terre», dove «paresse» e «ignorance», «ferocité» e «passions excitées» si combinavano «avec l’air vulcanique qu’on respire». E tuttavia niente impediva di immaginare che anche qui potesse sorgere un «gouvernement très indipéndent et très actif… si – aggiungeva però la scrittrice – ses institutions politiques et religieuses étaient bonnes» (XI, II). Nei riguardi di quest’ultima ipotesi, il riecheggiante fascino di Madame de Staël, come il perdurante confronto classicistico fra antichi e moderni, natura e ragione ecc., temo si stessero spegnendo per gli effetti dello scenario umano, sociale, politico e storico che, a conferma di un’implacabile visione del mondo, si apriva davanti agli occhi del poeta. La sua poetica si era evoluta, andando ancor oltre le Operette, oltre la metafisica negativa della natura come male, in prosecuzione di un «diagramma ideologico» ormai delineato (Blasucci, p. 222), e s’inverava in un’insopprimibile esigenza al racconto mitico-storico che, in nuce nelle Operette, ora prendeva a distendersi in un canto più maturo e prosastico. Leopardi sta raggiungendo nuovi equilibri narrativi. In uscita dalle argomentazioni del “vero”, forza e protrae la durata dell’ècfrasi; oppure porta alla massima esposizione possibile la prodigiosa memoria orale dell’arcatura sintattica: Leopardi detta! Oppure, negli exempla, realistici o fantastici che siano, ritrae il vano movimento della vita e gli effimeri eventi della storia, messi a confronto con l’imperscrutabile inutilità dell’esistenza, con il trionfo della morte e l’eternità della materia. Tali ci appaiono la Ginestra e il Vesuvio, il Volo di Leccafondi e la Città dei topi estinti. «Non una parodia, ma un’allegoria», come chiosava Giordani (1839, p. 296). Quale distanza con i letterati napoletani! Nella famosa lettera a Fanny Targioni Tozzetti del 5 dicembre 1831 (v. Ep. 1686: «…Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici…»), la dichiarazione antipolitica sostanzia di un asserto filosofico-esperienziale il “passaggio grigio” fra una delusione storica (la sconfitta del movimenti insurrezionali e settari) e una nuova fase di elaborazione politica (sia liberale che democratica), di cui, dopo la repressione dei moti del ’31 (quando, non si dimentichi, Leopardi era stato perfino nominato deputato all’Assemblea delle Province Unite dal Governo provvisorio di Macerata), non s’intravedeva lo sbocco, com’è forse rilevabile dalla reticente chiusa dei Paralipomeni. Tanto più si dica della borghesia rivoluzionaria napoletana, prima giacobina, poi murattiana, infine costituzionalista e carbonara, che si era come ripiegata su sé stessa dopo le sconfitte del ’99, del ’14 e del ‘20, acconciandosi ad un placido 14 Paolo De Caro ottimismo post-Restaurazione, che avrebbe potuto richiamarsi meglio ad un roi des Français che a un Re delle due Sicilie. Quest’ottimismo derivava, oltre che da alcuni atteggiamenti liberaleggianti, dal tentativo di politica economica che il re Ferdinando II aveva promosso, nei primi anni del suo regno, per innescare un processo di innovazione e modernizzazione protoindustriale, pur se limitato sostanzialmente all’area della capitale. Agiva anche, in quest’apertura al futuro, la circolazione degli ideali del nazionalismo italiano e dello storicismo romantico e spiritualista, influenzati dai ripresi studi vichiani, dal kantismo del Galluppi e dal nascente hegelismo. Troppo spesso nell’auspicare l’ineluttabile avanzamento della storia, i gruppi intellettuali o praticavano il silenzio sulle questioni politiche e sugli spietati provvedimenti repressivi o si limitavano, chi più chi meno, ad auspicare un’autoriforma, nelle idee come nelle istituzioni, del Trono e dell’Altare. Perciò la descrizione icastica e bonaria che, della «lieta vita napoletana», come del clima prerisorgimentale liberale e neoguelfo sotto il regno di Ferdinando II, diede il Croce nel suo commento ai Nuovi Credenti (1930), non può che risultare fuorviante. Confinata nella categoria ultronea e nonpoetica dello “sfogo”, la satira viene assimilata al pittoresco folklore dei quadretti di genere (gli asini da soma spinti «a volo» per l’erte vie di San Martino; le tavolate di triglie, alici e ostriche nelle sere di Santa Lucia…), per allontanarla dal travaglio del pensiero leopardiano verso un’etica laica, non immemore per altro della tradizione testamentaria, come verso la serietà dell’agire politico, conforme a un approdo apertamente e radicalmente materialistico. Ed è vero anche, come notò già Allodoli (p. XII), che l’immaginario di Leopardi resuscita nell’umanità napoletana raffigurata il luogo comune europeo del type italien, perdigiorno, passionale e brigantesco. Ma è significativo che, in prosecuzione delle aperture ottocentesche del Gesuita moderno e del Primato di Gioberti, o, in ripresa dal Dialogo dei Saggi critici e dalle Lezioni sulle due “scuole” di De Sanctis, la lunga e varia tradizione leopardiana italiana abbia, nel secondo Novecento, passata la bufera del fascismo e della seconda guerra mondiale, ricollocato il poeta, dopo la parentesi rondista e crociana, nell’intreccio fra letteratura e ideologia. Leopardi è elevato a paradigma etico-politico di un confronto che non investe solo lo studio a latere della specificità letteraria (da Luporini, a Timpanaro, a Carpi, a Biral), ma che, ripartendo da queste premesse, illumina la critica e l’interpretazione del testo letterario (da Russo, a Binni, a Savarese, a Blasucci, a Damiani), sempre spingendosi verso la peculiare innovazione del periodo napoletano. Opportunamente, anche l’esame critico più recente rileva l’urgenza dei motivi e la novità delle forme che agitano l’ultima fase della poetica leopardiana. Sottesa al crescente e sempre più dissonante registro polemico-satirico, agisce la severità di una volontaria riduzione del comico (Panizza) e perfino una ricerca del silenzio che sostituisca la parola (Dolfi: il silenzio, il silenzio mortale, «come figura di un’ultima protesta», p. 31). Un modo di concepire il “mondo” (quel mondosocietà che Leopardi sottopone a critica, dalla Palinodia, ai Pensieri, alla Ginestra, 15 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia ai Paralipomeni), elaborato come risposta alla concezione sociale della letteratura, reclamata dai romantici italiani e napoletani. Una risposta che però contrastava di primo acchito con la chiacchiera e la flânerie degli “insorgenti”, e con l’ottimismo liberale degli ambienti intellettuali partenopei. «Con Manzoni in chiesa – dicevano gl’Italiani, ed aggiungevano – Con Leopardi alla guerra» (Carducci). Alla metà dell’Ottocento, l’intenzione militante trasformò gli scrittori della nostra letteratura in vessilliferi di un’ideologia. Ma sin dal principio del dibattito critico sul poeta, all’abate Gioberti, la credenza religiosa e l’appartenenza politica al neoguelfismo non impedirono di riconoscere in Leopardi un’assoluta grandezza di scrittura, di pensiero e di umanità, né di recriminare quella condizione di esule in patria, in cui il suo amico recanatese fu costretto a vivere. Ed è indubbio che a Napoli, esclusi gli stentati riconoscimenti formali e le poche amicizie, il poeta abbia subito un vero e proprio ostracismo culturale e sociale; così che lui – soggiunge Marti –, in quella città, «rimase sempre un estraneo diffidente, un ospite precario» (I tempi…, p. 104). Come si autodenunciava al padre: un «infelice forestiero». Ciò che ancor oggi sorprende, non è tanto la risposta repressiva delle gerarchie della Chiesa (l’ossessione del Nunzio De Pietro e del cardinal Lambruschini sull’“empietà” di Leopardi) o della polizia borbonica, o di quella imperiale (l’ossessione di Del Carretto e, a Vienna, di Metternich sullo «sciagurato» Leopardi, fautore delle “repubbliche”), quanto la ripulsa dei circoli liberali, più o meno sedicenti cattolici e, più in generale, spiritualisti e idealisti. Alla maggior parte dei letterati napoletani, liberali o “settari” (mazziniani) che fossero, risultava incomprensibile «quel suo umor misantropico che rendealo pressoché inaccessibile», incomprensibili la sua «filosofia desolante», il «miserabile scetticismo che regna nelle sue prose» (i giudizi sono, si fa fatica a crederlo, del letterato e patriota mazziniano Giuseppe Ricciardi, cfr. Giuliano, p. 231). Certo, spesso trascinati da un cieco patriottismo o dal sentimentalismo di moda, non mancavano coloro che fossero romanticamente affascinati dall’autore dei Canti: Michele Baldacchini, la poetessa Giuseppina Guacci, lo stesso Tommaso Gargallo, Antonio Ranieri, naturalmente; ma forse ciò aumentava l’astio di cui era bersaglio nei salotti e sulle riviste il poeta («…accesa/ D’un concorde voler tutta in mio danno/ S’arma Napoli a gara alla difesa/ De’ maccheroni suoi…»). Uno dei pochi amici sinceri di Giacomo, il giovane patriota Alessandro Poerio, sbagliando evidentemente interlocutore, così confidava a Niccolò Tommaseo: Qui [a Napoli], caro Tommaseo, sono alcuni i quali non dicono il vero o quel che lor sembra vero, con altezza di animo, spassionatamente, senza odio né timore, come fate voi; gli [a Leopardi] dànno addosso ferocemente, vilmente, senza nominarlo, mostrandolo a dito, mordendolo sotto manto di religione, accagionandolo di voler capovolgere la Società, toglier via la distinzione fra il vizio e la virtù, empire la terra di sangue. (Sono citazioni di un libretto [c.n.] 16 Paolo De Caro poco fa pubblicato). E voi sapete quanto sieno candidi e mansueti i costumi del Leopardi, com’egli non si curi di far proseliti, quanto aborra dalle risse letterarie, quanto bene sopporti le opinioni altrui, e come sia lontano da ogni ipocrisia… (lettera del 13 luglio 1836, cfr. Ciampini, p. 267) Poerio conosceva minutamente l’ambiente letterario napoletano, era stato amico di gioventù di Antonio Ranieri e frequentava Leopardi; ma a Parigi, nella colonia dei rifugiati italiani formatasi dopo i moti del ’31, era anche divenuto amico di Tommaseo, che invece nutriva per il poeta recanatese una malcelata invidia letteraria congiunta a un’incoercibile avversione ideologica, se non addirittura fisica. Leopardi era «l’uomo che ha il genio del Tasso in fondo alla gobba, come il Tasso l’aveva in fondo al bicchiere» (Giuliano, p. 226, e Panizza, p. 10). «Inducetelo – esortava nella risposta a Poerio – a non più vantare la bestemmia fredda e la sventura noiosa» (Giuliano, p. 236, e cfr. Ciampini, p. 261, e Bellucci, pp. 147-148 e 164). Nei suoi frequenti rapporti con gli ambienti cattolici liberali, con Lambruschini (Raffaello, l’agronomo e pedagogista) e con Capponi, come con Lamennais e con Montalembert, in Italia come in Francia, Tommaseo faceva spesso di Leopardi, in forme d’inconsueta virulenza, un modello da contestare ed abbattere. A Napoli, subiva l’influenza dello scrittore dalmata il cenacolo che si raccoglieva intorno all’ambiziosa rivista fondata da Ricciardi, «Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti». Proprio con una lettera-prefazione di Francesco Puoti tratta dal «Progresso» (VI, fasc. XI, a. II, p. 147-sg) si era pubblicata nel 1835 la seconda edizione «napoletana» degli Inni sacri di Terenzio Mamiani, altro “faro” del liberalismo cattolico e del fuoruscitismo parigino, che si rifaceva al Manzoni tragediografo, poeta, moralista e romanziere e al Génie du Christianisme di Chateaubriand: […] la vita civile incomincia dalla religione; con lei crescono, durano e si fanno venerande le glorie nazionali, i riti, le leggi, i costumi tutti di un popolo: radunansi in lei e partecipano del lume suo le memorie precipue de’ tempi e le auguste speranze dell’avvenire. Sentirono di questo modo e procederono così in ogni cosa quegli Italiani, che nel decimosecondo e decimoterzo secolo rinnovarono le maraviglie del valore latino; beati davvero e gloriosi senza fine nella ricordanza dei posteri, se mai dalla mente non cancellavano essere tutti figliuoli d’una grande patria, e che la prima legge evangelica prescriveva loro di sempre amarsi l’un l’altro come uguali e fratelli, chiamati a condurre ad effetto con savia reciprocanza di virtù e di fatiche le sorti magnifiche e progressive dell’umanità! [c.n.] Con tale intendimento furono dettati questi inni sacri, almeno per quanto concederono i tempi e il luogo gravemente pericolosi. Così mi sforzava di trarre alla comune utilità il ministero della poesia, la quale è in capo a tutte l’arti sociali che intendono per maniera gradevole e tuttavia efficace alla 17 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia formazione dell’anima. Ho pertanto richiamato le muse al più antico loro ufficio di cantare la religione civile; che perciò appunto elle furono stimate deità e gli alunni loro, portentosi e più che uomini. (Inni sacri, p. 4) Insistendo sul rapporto fra letteratura e società, liberali e democratici, manzoniani e mazziniani (per utilizzare lo schema desanctisiano, fallace e ideologico quanto si voglia, ma di immediata praticabilità), non riuscivano a comprendere l’eccezionale novità di Leopardi. Così, sempre sul «Progresso» (II, 1836. Cfr. Giuliano, p. 229), Raffaele Liberatore, un esule del ’20, il compilatore del famoso, all’epoca, Vocabolario Universale Tramater, metteva a confronto i due inni ai Patriarchi, di Leopardi e di Mamiani, e dichiarava Mamiani «più poetico» rispetto al «più filosofico» Leopardi, secondo un giudizio frequente, che feriva la coscienza artistica del poeta. Leopardi trasse le sue vendette, com’è noto, nel canto della Ginestra, prefigurando un “nuovo corso”, azzardando una specie di “salto quantico”, un vero e proprio reinizio della storia. Non riecheggiò solo, in tono sarcastico, le «magnifiche sorti e progressive» del cugino Mamiani, ma soprattutto spostò su un piano eroico-antropologico il concetto di fratellanza umana: una fraternité da intendere come tutta insieme alleata contro la natura «nemica», e sottratta a ogni provvidenzialismo, storico o spiritualista che fosse. Uno dei letterati di punta della rivista era il pugliese-napoletano Saverio Baldacchini (1800-1879) che cercava ecletticamente, al modo di Mamiani, di coniugare classicismo e romanticismo, religione e progresso, conservatorismo e sensibilità sociale («…la religion nostra è il simbolo di una civiltà comune, e l’aiutatrice di futuri progressi dei popoli nelle larghe vie del morale perfezionamento», Del fine immediato…, p. 28). Durante gli anni napoletani di Leopardi (ottobre 1833-giugno 1837), Saverio Baldacchini alluse spesso e negativamente, con aperto risentimento ideologico, al poeta dei Canti. Nel 1835 aveva pubblicato sul «Progresso» il saggio Del fine immediato d’ogni poesia, diffuso in estratto dalla Tipografia Flautina nel 1836. L’autore, descrivendo le figure contemporanee di maggior rilievo, Manzoni ovviamente in testa, così si riferiva, senza citarlo, a Leopardi (forse pensando al Canto notturno, di cui risuonano le domande senza risposta sulla «solitudine immensa» del cielo e sull’«innumerabile famiglia» della terra, due temi ripresi da Leopardi, quasi in confronto polemico con Baldacchini, nella Ginestra [vv. 145-157]): Sociabil cosa è la poesia; imperocché per essa, dopo di esserci levati fino a ricevere in noi la sacra impressione del bello, questo siam mossi ad esprimere e manifestare; né mi sembra che alcuna manifestazione ed espressione possa aver luogo, lo qual non sia come una negazione aperta dello stato di solitudine. Onde grandemente errano coloro, i quali nei loro canti al tutto come abitatori di solitudini ci appaiono, quasiché avessero spezzato quel vincolo di benevolenza e di universal carità, che stringe insieme l’umana famiglia [c.n.]. 18 Paolo De Caro Inferme sono le loro menti, onde troppo strani e astrusi concetti rampollano, i quali non so perché eglino si sforzino di rivestire delle forme dell’arte. Certamente se l’uomo avesse potuto vivere in solitudine, a che i linguaggi? a che i vari trovati delle gentili arti? Fatica adunque gittata è la loro, né so che poeti possano giustamente chiamarsi, stanteché, ad ottenere quel rapimento che è fine della poesia, a comprendere l’idea della bellezza, solo valido mezzo a me sembra poter esser l’amore…[c. n.] (Del fine immediato…, p. 36) Quanto al «libretto», richiamato nella lettera di Poerio, esso è quasi certamente riferito all’opuscolo intitolato Claudio Vannini o l’Artista. Canto. Si tratta di una novella in versi divisa in 37 brevi capitoli, scritta in stile pseudobyroniano (ma di fatto esemplata sui moduli del classicismo preromantico italiano, da Monti, a Foscolo soprattutto, allo stesso Leopardi, con qualche intrusione degl’Inni manzoniani), e «ordinata a combattere il romanticismo, … quel romanticismo male inteso, che si studia di falsare, non d’imitare la natura, e di prendere da quella non il bello e meraviglioso, ma il brutto e il deforme» (Cappelli [v. in seguito], p. 266). La novella s’ispira alla figura immaginaria di un pittore senese del Seicento, un artista “traviato” e senza fede, che, dopo lo stordimento d’un’esperienza «oltremonti», ritornato in patria e mortagli la madre, si pente della sua vita dissoluta. La tradizione critica ha intravisto nel personaggio di Vannini la maschera di un Leopardi romanticizzato e maudit. Nel proemio riassuntivo dell’opera si legge tra l’altro: …Non ancora uscito di puerizia, prese troppo altamente a sentire di sé, mostrandosi poco curante degli ammaestramenti e de’ consigli, di che è tanto bisognosa l’età prima dell’uomo. Giunse ad infastidirsi della famiglia, e della città e dell’Italia, sicché, come prima potette, passò oltremonti… In Francia alcune rappresentazioni troppo fedeli di cose laide e lascive gli acquistarono fama, e in talune brigate dicono ch’ei fosse favorevolmente accolto: le quali soleva egli intrattenere con la recita di certi suoi versi, in cui si studiava di porre in derisione le credenze e le usanze più essenziali al vivere civile… Di lui si mostrano ancora alcune tavole, nelle quali di leggieri si ravvisa l’orma di un potentissimo ingegno, capace di grandi cose, se non fosse uscito di via... (Claudio Vannini, pp. 3-7) È stato notato (Bellucci, p. 151) come, per dare una credibilità romanzesca al personaggio, l’autore della novella ricorra in molti punti alla banalizzazione di una filosofia negativa, riecheggiante, in forme distorte e camuffate, famosi luoghi leopardiani. In realtà, si potrebbe dire che l’autore tributi un inconsapevole omaggio alla fortuna dei Canti, dal Bruto minore ad Aspasia, e addirittura presti nuovi motivi di ispirazione al poeta della Ginestra. Ecco un breve florilegio della novella (i corsivi sono nostri): 19 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia […] Sacre memorie della patria! obblio Di voi me circondava: e fastidia D’uno spontaneo immaginare i lieti Dorati sogni, e le armonie d’Amore Del semplice e del vero imitatrici. Povero, inetto io ‘l fin dicea di quelle Arti gentili che fermar le sedi Su le rive del Tevere e dell’Arno. A che nelle ammirate opre de’ nostri Quella pace diffusa e quel riposo; Mentre una fiera legge, a chi ben dentro Mira, travaglia col dolor le cose Arcanamente? Ov’è una vera gioia, Ove una intensa voluttà, che, quando Duri più d’un fuggevole momento, Non s’estingua nel tedio e nella morte? Dunque correrà l’uom, seguendo eterni Inganni, e mai non avrà cuor che basti A sollevar dell’universo il velo? (IV, 24-42) …a me parea che sempre La virtù, cui più il mondo applaude, è frutto D’una impura semenza, e da men rea Radice surge il vizio abominato; Sicché a strappar dal crin de’ glorïosi Le immeritate civiche corone Fora giustizia, e in quella vece il capo Fregiarne di colui, che sotto il taglio S’incurva già di scellerata scure. (V, chiusa) …erasi in me spenta qualunque Favilla estrema de la fede antica, L’erma rupe lasciai, desideroso Di veder le cittadi un’altra volta, E di svelare all’uom con la parola Del vero e dell’error ministra a un tempo, La tenebrosa mia scïenza… […] poi che una strana Voglia mi travagliava (orrido a dirsi! D’uccider l’alma, la cui pura essenza Sol di virtù […] si nutre. (VII, 2-8 e 12-16) …Ah, pera Chi le dottrine generose e il culto 20 Paolo De Caro D’Amor, che solo di prodigi è fonte, Sovvertir cerca, e a disïar ne invita Sopra i piaceri de lo spirto gli agi, Le morbidezze sibarite!… (XXIII, 26-31) … Onde l’alma, di Dio nobil fattura, Niega l’origin sua, sé stessa niega, Niega la legge del dover, la legge Dell’eterna bellezza, e alla ruina D’ogni armonia dell’universo esulta. Indi un’arte si crea varia, scomposta, Tutta audacia e ad un tempo effeminata, D’un ben, ch’esser non puote, invereconda Promettitrice, ma di mali invece Fecondissima madre… ( XXIV, 7-16) Autore della novella era ancora quel Saverio Baldacchini, che, congedata l’opera nell’agosto 1835, l’aveva fatta pubblicare, sempre a Napoli, dagli editori De Stefano e soci nei primi mesi del ’36: quindi quasi contemporaneamente all’uscita del primo tomo delle Operette Starita. Il giudizio sull’arte di Leopardi, travestito nei panni del pittore Vannini, diventa inappellabile. È un’arte che non educa, non costruisce, non canta i «bisogni del secolo» (cfr. Palinodia), ma che anzi, al di là delle apparenze, è tutta deversata alla corruzione sociale: «varia», «scomposta», «audace», e insieme «effeminata», destinata a non produrre che «mali». Del medesimo «libretto» parla – con velenosi riferimenti a Leopardi – l’abruzzese-napoletano Emidio Cappelli nella recensione al Claudio Vannini, scritta per il «Progresso» (vol. XIII, a. V, q. XXVI, marzo e aprile 1836, pp. 248-268): … E non vogliamo tacere esserci questo libretto [c.n.] venuto ad un bel bisogno. Quando alcuni scrittori d’ingegno e sapere più che mezzano, non sappiam per qual maligno risguardo de’ cieli tra noi surti, si son fatti, e tuttodì si van facendo non men vili che orgogliosi propagatori di certi principi di disperazione, di dubbio, di odio e disprezzo per la vita e per gli uomini, e niente altro c’insegnano a noi rimanere, che il cacciarci un coltello in gola [c. n.]. E forse ancora per alto levando i loro stolti e inverecondi clamori, e mandando ad un fascio la virtù ed il vizio, minacciano di rendere il mondo un’arena di gladiatori ed un vasto campo di ferocie e di orrori. A tanta rovina si oppone questo libretto [c.n.]… («Il Progresso» cit., p. 256; cit. anche in Bellucci, p. 252) Dopo aver citato un largo brano della novella (cfr. qui sopra i vv. IV, 24-42), il Cappelli così continuava: 21 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia E qui, senza che noi gliel diciamo, avrà il lettore per se stesso ravvisato, come quest’opera non della moral filosofia solamente, ma delle arti eziandio è intesa a tutelar la causa. Ché se con dolore gravissimo dell’animo nostro noi veggiamo da alcuni scrittori impudentemente manomesse le scuole della morale sapienza, e vilipesi e profanati gli aditi della virtù, non men grave ci torna il vedere come non pochi addetti al culto delle Muse per sì strana e torta via intendono al loro ministero, che di siffatti sacerdoti non sappiamo se quelle vergini santissime abbiano più a pregiarsi o a vergognarsi. Né creda alcuno che di quei meschini, che pur tanti sono, sia nostro intendimento di ragionare, i quali poveri di mente e di cuore, ed affatto privi di poetici spiriti, ci vengono tuttodì intorno strimpellando sui loro rauchi e scordati colascioni di loro insipide e schifose cantilene [c. n.]. Di costoro non mette il pregio di favella. Solo diciamo che assai bene provvederebbe alla dignità delle Muse quella repubblica, la quale a questi increscevoli trombettieri di Pindo, a questi incomodi del secolo, per decreto interdicesse l’uso di poetare… («Il Progresso» cit., p. 258) «…Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,/ A cui grava il morir; noi femminette [c.n.],/ Cui la morte è un desio, la vita amara.// Voi saggi, voi felici…» (I nuovi credenti, vv. 100-103). L’amarezza di Leopardi per gli attacchi più o meno allusivi di cui era fatto oggetto dai circoli culturali di Napoli (non solo reazionari, dunque, ma anche e soprattutto liberali), acuì il suo isolamento e appesantì le già miserevoli condizioni della sua esistenza fisica; ma provocò anche, dal momento che era disconosciuto di essere poeta e riconosciuto soltanto come filosofo della negazione, l’impellenza di affermare la sua orgogliosa inattualità e di definire nettamente una distanza di pensiero dai suoi detrattori e critici, diretti e indiretti, a partire da quelli a lui più vicini, a Napoli. I segni di questa tensione intellettuale e morale affiorano nella sempre più rada corrispondenza degli ultimi suoi anni, per non dir mesi, di vita. Siamo nel periodo in cui, tra il ’35 e la prima metà del ’37, il poeta, prima di “procombere”, completa i Pensieri e compone (dettando buona parte dei testi a Ranieri), forse, Aspasia e almeno una “sepolcrale” (Sopra il ritratto di una bella donna…), e certo la Palinodia e i Nuovi credenti, il Tramonto della luna e la Ginestra, e sette almeno degli otto canti dei Paralipomeni della Batracomiomachia. Siamo nei pressi di una poesia completamente innovativa nei quadri narrativi e nei registri linguistici, una poesia di esuberante e indocile creatività, di fantasia liberata, dov’è bruciato l’equivoco del “malinconico” romantico e si enfatizza la distanza ironica con gli “altri” («Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro solito… Malinconico, sconsolato, disperato…»), proprio mentre si ribadisce l’insondabile acronicità dell’essere. Quest’aspra fantasia è disciolta nella complessità del pensiero intorno al rapporto, sempre ritornante, fra gioventù e vecchiaia, fra ciò che è vita e ciò che è morte, fra natura e uomo, fra antropologia e storia, fra non-tempo (infinito) e tempo (finito), e nelle acuzie della disposizione satirica: 22 Paolo De Caro pensiero e stile complessi (come merita la meditazione sulla complessità del vero), a giri lunghi, tutt’altro che «slogati», come pensava Carducci a proposito delle ottave dei Paralipomeni. Sarebbe arduo spiccare gli “esterni”, per gran parte “aerei”, di rappresentazione lirico-descrittiva di queste opere dai duri motivi di contrasto con il legittimismo tramontante e con l’imperante “scuola manzoniana” del liberalismo italiano (e napoletano, in particolare), per un verso; e per l’altro, dal dissidio nato da una grande e solitaria avventura intellettuale scivolata nel sortilegio di una città che ha capovolto il suo sogno russoviano: dallo specchio incantato di Mergellina a un’indecifrabile e insopportabile città morta, una Napoli-Topaia all’aria aperta (ben peggiore della Nubiana-Recanati di Ottonieri-Leopardi), brulicante di popolo minuto, irriducibilmente reattiva agli istinti ed estranea a quel progresso tanto esaltato (cfr. Zib., 1027 ecc.); una città-simbolo, “meridionale” e antica, «immensa»; «un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli», «veramente barbaro», cresciuto dentro un incredibile paesaggio naturale e, in significativo opposto, accanto ai resti, superi e inferi, di Pompei ed Ercolano: nella natura che sta, due manifestazioni della finitudine della storia e della vita mortale dell’uomo: due paesi-fantasma di ombra-e-luce, di morte-e-vita che ritroviamo in un inaspettato immaginario metamorfosati nella Ginestra e nei Paralipomeni. 3. Sin dalla fine del ‘35, prima ancora che le Operette fossero licenziate dallo stampatore (era Vincenzo Puzziello dell’Aquila), Leopardi paventava gli intralci in cui il libro si sarebbe impigliato. Rispondendo al padre ed evitando di toccare argomenti sensibili (la Curia, i Borboni, i liberali), trovava un facile e forse comune capro espiatorio nella denuncia dei costumi napoletani, di cui era esempio vivente il libraio: […] Ella [il padre Monaldo] viva sicuro che le correzioni necessarie alle Operette morali, da Lei amorevolmente suggeritemi, si faranno, se però questa edizione andrà innanzi, cosa della quale dubito molto, perché sono risolutissimo di non dar nulla al libraio non solamente gratis, ma neppure con pagamento anticipato; così consigliandomi tutti gli amici, che bisogni fare in questo paese di ladri; ma d’altra parte questi librai mezzo falliti restano tutti senza parola al solo udire il nome di anticipazione… (lettera del 4 dicembre 1835, Ep. 1918) Il 6 di aprile 1836, a tre mesi dall’uscita del primo tomo delle Operette, in una lettera al Sinner (Ep. 1934), riconfermava il suo dubbio di veder completato il piano editoriale previsto, scaricando mezza responsabilità sulla scaltrezza di Starita: […] perché credo – scriveva – che l’ediz. non andrà innanzi, parte per bontà 23 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia di quelli che hanno allarmata [c.n.t.] la censura sopra tale pubblicazione, parte perché io sono disgustatissimo del pidocchioso libraio, il quale avendo raccolto col suo manifesto un numero di associati maggiore che non credeva, sicuro dello spaccio, ha dato la più infame edizione che ha potuto, di carta, di caratteri e di ogni cosa. Finché, alla fine dell’anno, il 22 dicembre 1836 (Ep. 1951), scrivendo «Di campagna» [dal casino dei Ferrigni, alle falde del Vesuvio, fra Torre del Greco e Torre dell’Annunziata, ora Villa delle Ginestre] al suo amico svizzero a Parigi, era costretto a dichiarare: L’edizione delle mie Opere è sospesa, e più probabilmente abolita, dal secondo volume in qua, il quale ancora non si è potuto vendere a Napoli pubblicamente, non avendo ottenuto il publicetur. La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto. E continuava (lo noto perché utile all’argomento di questo scritto): Se volete ch’io vi spedisca per la posta un altro esemplare del 2.do vol. per completare il numero 5 [i cinque interessati a ricevere a Parigi le Operette, oltre che i Canti, e cioè, lo stesso Louis de Sinner, Vincenzo Gioberti, Friederich Heinrich Bothe, estimatore e traduttore dal tedesco di Leopardi, Louis Pasquier, figlio di Étienne-Denis, presidente della Camera dei Pari, e Charles Lebreton, allievo di Sinner], non avete che a scrivermelo. (ivi) A questo punto, fra autore e editore, nonostante tutti i disguidi del possibile, si è già arrivati a una specie di asimmetrica convergenza di interessi, e per un po’ il dramma si mischia all’avventura e, se così può dirsi, alla farsa. Leopardi, nel pericolo del colera avanzante, mantenendosi per lunghi periodi lontano dalla città, alle falde del Vesuvio, viene preso come da una febbre di attivismo e di fuga. Scrive (al padre) di voler «fuggire da questo paese di Lazzaroni e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e b.f. [= baron fottuti] degnissimi di Spagnuoli e di forche » (3 febbraio 1835, v. Ep. 1889). Nel ’34 aveva rinunciato all’ipotesi di trasferirsi a Parigi. Ora cerca inutilmente di trovarsi un lavoro, pensando a un corso semestrale di letteratura italiana, e pensa di trasferirsi almeno per quei mesi a Palermo. E mentre la sua mente viene sollecitata a un molteplice sforzo creativo, dalla meditazione filosofica alla lirica alla satira all’epica, che manifesti il più variamente e nettamente possibile la sua risposta laica in difesa del vero; mentre ribatte colpo su colpo, in privato e in pubblico, agli spiritualisti italiani e napoletani (da Vieusseux a Capponi – il più ingenuo ed onesto: il più «candido», in senso volterriano –; da Tommaseo, a Mamiani, a Baldacchini, a Cappelli, a Liberatore, a 24 Paolo De Caro Ricciardi per citare i piu noti); ecco che, preso atto dell’impossibilità di proseguire nell’edizione delle sue Opere, si fornisce da Starita di un numero di copie (24, dice) da spedire ad amici ed estimatori che gliene avessero fatto richiesta e, afferrato dal demone dello stile, rivede il testo dei due volumi stampati e, grazie ai buoni uffici di Louis de Sinner, pensa di farsi stampare all’estero, dal Baudry o altro editore a Parigi, i lavori che la censura gli vietava di diffondere: Credete che mandando costì [a Parigi] un esemplare delle mie o poesie o prose, con molte correzioni e aggiunte inedite [c. n.], ovvero un libro del tutto inedito [i Pensieri], si troverebbe un libraio (come Baudry o altri) che senza alcun mio compenso pecuniario [c.n.t.] ne desse un’edizione a suo conto? (ivi) Si osservi Leopardi. Fino all’anno prima, secondo Chiarini (p. 424), si era addirittura indebitato per favorire l’uscita delle sue Opere da Starita, in vista di un successo nelle vendite. Ora, fra delusione e ira, si dilegua in lui ogni bisogno di affermare una più che legittima (e vitale!) aspettativa di ritorno finanziario. Forse incalzato dal sentimento di una fine imminente, forse animato da quella vecchia ansia di “gloria” letteraria che non gli aveva dato mai tregua, ora è proteso a difendere la piena legalità della sua visione del mondo, alternativa alla dottrina spiritualista; e perciò è spinto a chiudere testimonialmente le sue opere più rappresentative in un quadro coerente di compiutezza. Troviamo una necessità, un’urgenza incomparabili nella determinazione autoriale degli ultimi due anni leopardiani. Alla fine del 1836, a sei mesi dalla morte, prima di tutto egli: – vuole ri-pubblicare i Canti e/o le Operette «mandando [a Parigi] un esemplare [Starita] delle sue o poesie o prose» fornito di «correzioni e aggiunte inedite». Insomma, scritta la Ginestra, – deve completare il Tramonto della luna, per dare piena configurazione ai suoi Canti riveduti; – deve veder pubblicate le Operette complete, che la censura napoletana ha interrotto, aumentate dei tre pezzi annunciati dalla Notizia del tomo primo 1835 (forse quelli maggiormente responsabili dell’intervento della polizia: D. De Robertis, p. 335), e cioè del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, scritto nel ’25, del Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio, scritti nel ’27, forzatamente esclusi a Firenze [Piatti 1834]; – deve veder pubblicati i completati (o da completare) Pensieri; – deve veder pubblicati i Paralipomeni, ancora in via di composizione e di dettatura a Ranieri. La chiusa del poemetto, come ora la leggiamo, fu compiuta, secondo quanto affermò il suo sodale, a pochi giorni dalla morte. Così improvvisa e compressa, non si spiega che con l’urgenza di immette- 25 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia re un’opera nuova nell’elenco di un piano editoriale in via di definizione, o comunque di un ideale piano di opere für ewig, prima di cedere. Tre mesi ancora dopo quella comunicazione di dicembre, il 2 marzo del 1837, Leopardi, tornato a Napoli dopo un protratto e disagiato soggiorno a villa Ferrigni, scrive una lettera (autografa) a Sinner (Ep. 1956). Per il testo dell’edizione francese propone di prendere a riferimento l’edizione Starita (Canti e Operette morali, volume I), con le correzioni che vi ha apportato a mano, e, per il volume II, l’edizione Piatti delle Operette: Io manderei i due primi volumi in un esemplare correttissimo e chiarissimo [c.n.], ma il terzo, cioè il secondo delle operette morali non posso mandarlo altrimenti, per la parte edita, che nell’edizione di Firenze, tal qual è: perché mi è impossibile di fare i cangiamenti e le correzioni necessarie sopra quell’edizione, che è senza interlinea e senza margini. Nel poscritto (di mano del Ranieri), steso in francese per facilitare la consultazione dell’editore, Leopardi annuncia alcune novità (i due «brani inediti» e i «numerosi miglioramenti» dei Canti, il «volume inedito» dei Pensieri) e indica il piano di una possibile edizione parigina [si ripristina nel testo l’accentazione francese che l’amanuense ha trascurato]: Je ferai à mes Operette morali les additions que je promets dans l’édition de Naples. Elles consistent en trois Opuscules d’une étendue assez considérable. On peut voir leurs titres dans la Notice que j’ai citée. J’ajouterai aussi à mes poésies des morceaux inédits. En Italie j’aurais donné quelque traduction inédite: par exemple, une traduction du Manuel d’Epictète, une traduction de quatre Discours moraux d’Isocrate, etc. tout cela n’est bon à rien en France. Je veux publier un volume inédit de Pensées sur les caractères des hommes et sur leur conduite dans la société; mais je ne veux pas m’obliger de le donner au même libraire qui publiera le reste, si auparavant je n’ai pas vu du moins le premier volume imprimé, afin de pouvoir juger de l’exécution. Au reste je ne tiens en aucune manière à ce que l’édition soit faite sous le titre général d’Œuvres. On peut, et même on devrait publier un volume sous le titre indépendent de Canti, et deux autres sous celui de Operette morali. Je ferai des amélirations nombreuses à tous ces trois volumes. «Io manderei i due primi volumi in un esemplare correttissimo e chiarissimo». «Je ferai des améliorations nombreuses à tous ces volumes». Leopardi, dunque, pone mano a due copie di scarto dell’edizione Starita, e le corregge per Parigi. Sono le copie Nc della Nazionale di Napoli. Ma chi esamina la grafia delle correzioni, si avvede che esse sono scritte currenti calamo, come per copie preparatorie, che non 26 Paolo De Caro possono essere quelle da mandare a Parigi. Soltanto dopo questa specie di minuta, approntata dunque fino al marzo ’37, l’autore, sia per i Canti che per le Operette, penserà a trasferire le correzioni in un «esemplare correttissimo e chiarissimo». FGc, con correzioni incomplete, è una di queste copie che la morte dell’autore (14 giugno 1837) ha impedito di completare? o è una copia non riuscita e messa da parte, che Leopardi non ha ritenuto degna di essere mandata al suo editore parigino? o, forse meno probabilmente, è una copia preparatoria a Nc, poi scartata? Se non il corpus delle Opere, almeno singolarmente le maggiori, che non si sono potute pubblicare in quel di Napoli, si pubblicheranno a Parigi, con un testo rinnovato e compiuto. Sarebbe stata come una voce che giungesse dalla città di quei Lumi rinnegati vigliaccamente dalla sua età. Nel poco che gli rimaneva da vivere, Leopardi non avrebbe visto esauditi i suoi auspici. Ma il destino s’incaricherà di una vendetta postuma: sarà proprio il Baudry a pubblicare sei anni dopo (1842), per l’interessamento di Ranieri e Sinner, l’ «empio manoscritto» dei Paralipomeni che era stato vanamente inseguito dal cardinal Lambruschini e dal principe di Metternich. Dal canto suo, l’infido Starita, bloccato dalla censura, messo sull’avviso dalla polizia, timoroso di perdere la fiducia degli scrittori e dei lettori napoletani, la sua clientela prima, e nel contempo interessato a non perdere il denaro investito (compreso quello anticipato dall’autore) e a non mandare in fumo le attese di guadagno calcolate, cerca di disorientare polizia, preti e nuovi credenti, e di evadere diversamente (illegalmente, clandestinamente, si dovrebbe dir meglio) le copie stampate ma invendibili; e questo con una trovata molto semplice: sostituendo il frontespizio delle Operette. Capisco che un tale escamotage, che si praticava di frequente nell’editoria non autorizzata, in questo caso, per la plateale ingenuità del sotterfugio, possa saper troppo della leggendaria creatività popolare partenopea; ma è ciò che nei fatti avvenne, forse con assenso di Leopardi, forse anche per concessione della polizia; e in buona parte funzionò, come si può dedurre dalla proporzione delle copie, originali e modificate, che sono sopravvissute fino a noi. L’edizione delle Operette morali, volume I, ricevette due altre emissioni modificate nel frontespizio: – la prima, con frontespizio PROSE DI GIACOMO LEOPARDI. EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE. NAPOLI. PRESSO SAVERIO STARITA Strada Quercia n. 14. – 1835. 27 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia ma che si può credibilmente datare dalla seconda metà del 1836 ai primi mesi del 1837. È questa l’emissione utilizzata per le correzioni leopardiane di FGc. L’identificazione dell’opera si restringe e, oltre al titolo cambiato, da OPERETTE MORALI a PROSE, qualcos’altro si sta perdendo. L’indicazione della TERZA EDIZIONE viene soppressa. Viene modificata l’area informativa dell’opera: l’edizione non è più CORRETTA, ED ACCRESCIUTA / DI OPERETTE NON PIÙ STAMPATE, ma, con la messa in oblio della fondamentale indicazione OPERETTE, diventa EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA, / E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE. C’è l’autore con l’editore e il luogo, ma è scomparsa la centralissima, quasi insostituibile via Toledo (un segno che Starita sta lì lì per fallire?), lasciando per indirizzo soltanto la più laterale e oscura strada (ora vicolo) Quercia; – la seconda (di cui si trovano testimoni alla Biblioteca Didattica dell’Università di Macerata, alla Sormani di Milano e all’Alessandrina di Roma), che probabilmente fu stampata in un momento ancora successivo (forse posteriormente al giugno ’37, dopo la morte del poeta), e che reca sul frontespizio: PROSE DI GIACOMO LEOPARDI. EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA, E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE. ITALIA – 1835. dove è scomparso il Volume I, è scomparsa la Terza edizione e, soprattutto, in un’indistinta Italia disurbanizzata, è scomparsa Napoli. Come allora si faceva, l’editore vendeva i fascicoli, l’acquirente curava la legatura. Così è accaduto che un sol volume compatti i Canti con le Prose [Operette morali, volume I], decidendo l’aspetto paratestuale che contraddistingue la doppia “soglia” di FGc. È una soluzione spesso cercata dai lettori leopardiani dell’Ottocento, per aver molto in poco, e senza dare nell’occhio. Un’uguale soluzione ritroviamo nell’elegante esemplare in marocchino blu a rilievo con taglio in oro sui tre lati, che si ammira alla Sormani di Milano. Nell’esemplare della “Magna Capitana”, invece, il piatto di cartone è rivestito da un modesto foglio marmorato; sul dorso, di vile pellame bruno, caratteri e false nervature sono stampigliati in stento color oro, con il cognome dell’autore LEOPARDI e il titolo RIME /E /PROSE; i risguardi sono in carta pesante bianca; il taglio agisce sui tre lati delle pagine, senza aggiunta di tinte o altri ornamenti. Legatura e cucitura, se non possono dirsi raffinate, in compenso esprimono un’idea di timida solidità. 28 Paolo De Caro La ricerca sulla provenienza di FGc è disseminata d’inciampi. Sono perduti, forse mancano da sempre, gli elenchi storici degli introiti. L’interrogativo su come sia capitato qua un volume del «malinconico» (o «sciagurato») Leopardi – in una biblioteca cresciuta ai suoi inizi soprattutto grazie alle acquisizioni da conventi soppressi – è destinato a rimanere insoddisfatto; a meno che, a qualche studioso locale, non venga curiosità di ispezionare nel vecchio patrimonio. Si dovrebbe risalire nella storia delle donazioni private, messe in lista da un vecchio articolo di Oreste De Biase, e cominciare a esplorare, se ne rimane ricordo, nei fondi che vi sono citati (i Varo, i Celentano, gli Staffa, i Parisi, i Tugini…: questi ultimi possedevano, per fornire un indizio, le opere di Giordani). Il catalogo a fogli mobili Staderini (un reperto primonovecentesco della vecchia Biblioteca [cfr. De Biase, p. 280], che andrebbe salvaguardato e restaurato), conserva ancora la scheda dell’opera, perfettamente descritta nella sua natura binaria (Canti + Operette). Ma la consistenza lascia trapelare anche un inatteso mannello leopardiano d’epoca, indizio del vecchio legame che unì in età moderna e fino al primo Novecento Napoli al Tavoliere. Tralasciando il fondo del leopardista Zingarelli, che non è poca cosa, fra i testimoni leopardiani della Biblioteca foggiana si scopre che c’è un esemplare delle Operette morali Piatti 1834, o, ancora, un esemplare dei Paralipomeni nell’editio princeps parigina di Baudry 1842. Quasi certamente, anche i Canti e le Operette Starita facevano parte del patrimonio librario di una famiglia borghese. Tutto sembra riportarci intorno alla metà dell’Ottocento, forse ancor prima dell’edizione delle Opere Le Monnier curate da Antonio Ranieri (1845, qui nella ristampa 1865), da Prospero Viani (1846) e da Pietro Pellegrini e Pietro Giordani (1853): dono alla Comunale di Lorenzo Scillitani (1827-1880), l’illuminato sindaco del capoluogo daunio. Sul frontespizio dei Canti, la storia novecentesca della Biblioteca è ricordata nel triplice marchio che violenta la pagina. Il primo timbro, circolare, della Biblioteca Comunale di Foggia (1833-1924), include due stemmi accostati, del fascio littorio e delle tre fiammelle, denunciando così l’epoca d’immissione nel patrimonio librario della Biblioteca, cioè a cavallo fra gli anni Venti e gli anni Trenta, quando la Comunale era allocata nella ex-chiesa di San Gaetano. Il secondo, più piccolo e semplice timbro circolare sbarrato segnala il passaggio del libro dalla Comunale alla promossa Biblioteca Provinciale di Foggia (1937): quindi l’esemplare non può essere stato inventariato se non dal 1937, quando la vecchia Biblioteca Comunale traslocò al Palazzo della Dogana, sede dell’amministrazione Provinciale. Il terzo timbro, con l’ex libris del cielo stellato e delle messi agitate dal vento della pianura, segnala il passaggio alla rinnovata Provinciale come “Magna Capitana” dell’anno 2000. A metà del libro, la pagina col titolo PROSE reca un solo timbro, quello dell’ex libris della “Magna Capitana”: un segno di avvertenza sulla natura composita del volume. In chiusura, la p. 196 reca il timbro circolare della vecchia Provinciale con un numero d’inventario sbarrato. L’ultima pagina (p. 198), in calce, 29 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia riporta di nuovo i timbri circolari della Comunale e della Provinciale, un timbro lineare della Comunale, oltre a quattro numeri di inventariamento, due a mano e due a timbro. Lasceremo agli specialisti della descrizione bibliografica ulteriori e più pertinenti specificazioni dell’esemplare e dei suoi scioglimenti semiotici. A noi preme avanzare alcune domande elementari: le correzioni sono dell’Autore? a quando si possono datare? perché non proseguirono oltre il richiamo all’Errata? La mano del Leopardi è subito evidente, sia che l’autore corregga in tondo similtipografico che in corsivo, soluzione scrittoria più frequente. La E maiuscola come un 3 girato, la L maiuscola con il taglio inferiore arcuato, la r e la v minuscole tipografiche, la d minuscola con doppio anello a sinistra, la t minuscola col taglio alto deciso e spesso con anellatura a cruna d’ago, le famose “crocette” (segni diacritici per indicare le giunte: cfr. Moroncini, pp. XXVIII-XXIX), la grafia minuta per utilizzare margini e interlinee: tutto ci riporta alla mano del grande scrittore. Le correzioni a penna, con uso di inchiostro scuro, sono vergate da una punta sottile, con cura e a caratteri rimpiccioliti e chiari, e seguono (non completamente: noi ne abbiamo contate 89) le indicazioni delle cento (giusto 100) Correzioni degli errori di stampa raggruppate in coda al volume delle Operette, alle pagine 197-198. A volte l’elenco è richiamato da Leopardi con l’abbreviazione in parentesi tonda «(v. l’errata)» o «(v. Errata)». Il correttore ristabilisce soltanto le lezioni corrette per non far continuo ricorso alle pagine finali, ma non si concede altre aggiunte, o modificazioni, o varianti, come invece avviene in Nc: segno che siamo di fronte o a una copia di preparazione, poi negletta, oppure di trascrizione finale, ma presto interrotta. Il periodo non dovrebbe uscire dall’arco temporale febbraio-maggio, addirittura primi di giugno, 1837; dunque i mesi fra l’ultimo ritorno a Napoli da villa Ferrigni e il suo tentato nuovo trasferimento verso le ginestre del Vesuvio. Poco prima che la morte, all’improvviso, sorprendesse il poeta a vico Pero. Escludendo gl’interventi minimi, non palesemente attribuibili alla mano dell’autore, e riguardanti le semplici interpunzioni, i segni di elisione, i segni verticali di stacco, le sbarrature di lettere o parole, le sottolinature per indicare la scrittura in corsivo (come in «Eureka, eureka.» in attacco al Dialogo di un fisico e di un metafisico) e, quasi sempre, le sovrapposizioni di singole lettere, presentiamo all’attenzione dei lettori, a titolo di esemplificazione identificativa e senza nessuna pretesa filologica, le seguenti correzioni, delle quali elenchiamo una serie numerata da 1 a 18, il numero della pagina p. del testo Starita, il numero della pagina p. e del rigo r. dell’ed. crit. Besomi, il brano interessato] con la correzione] in grassetto: 1 –p. 36, p. 48 r. 96, Dialogo di Ercole e di Atlante: «come quando la Sicilia si schiantò dall’Italia e l’Africa] Affrica] dalla Spagna»; 2 –p. 44, p. 59 r. 120, Dialogo della Moda e della Morte: «questo negozio degli immortali ti] scottava»): 30 Paolo De Caro 3 – p. 50, p. 68 r. 94, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi: «poiché altro mezzo non pare che vi] si trovi»; 4 – p. 51, p. 69 r. 103, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Silligrafi: «quo ferrea primum esinet] desinet] ac toto surget»; 5 –p. 74, p. 107 r. 37, Dialogo della Terra e della Luna: «Delalande] De la Lande]»; 6 –p. 78, p. 111 rr. 114-115, Dialogo della Terra e della Luna: «come crede un fisico moderno? x [crocetta di L.] che sei fatta come affermano alcuni inglesi, di cacio fresco? (v. l’errata) [parentesi di L.] ] che Maometto un giorno…»; 7 –p. 111, p. 153 r. 46, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: «non facendosi meraviglia che gli uomini x [crocetta di L.] sieno uomini (v. Errata) [parentesi di L.]]; cioè a dir creature»; 8 –p. 113, p. 156 r 102, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: «un concetto e non un] sentimento»; 9 – p. 115, p.158 rr. 140-141, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: «ma dunque perchè x [crocetta di L.] viviamo noi, voglio dire, perchè (v. Errata) [parentesi di L.]] consentiamo di vivere?»); 10 –p. 117, p. 160 r. 195, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: «Poche] Più] settimane, come tu sai.»; 11 – p. 125, p. 171 r. 91, Dialogo della Natura e di un Islandese: « ma solo a essi medesimi, quanto] quando] eglino avessero disprezzati»); 12 – p. 127, p. 174 r. 137, Dialogo della Natura e di un Islandese: «come se] la vita umana non fosse bastevolmente misera»; 13 – p. 132, p. 179 r. 228, Dialogo della Natura e di un Islandese: «Mentre stava] stavano] in questi e simili ragionamenti»; 14 –p. 135, p. 186 r. 52, Il Parini, ovvero della gloria, I: «in Argo la statua di Telesilla, poetessa, guerriera, e] e salvatrice della patria»; 15 – p. 147, p. 197 r. 60, Il Parini, ovvero della gloria, III: «dal quale non è facile che egli si muova] si rimuova]»; 16 – p. 150, p. 200 rr. 33-34, Il Parini, ovvero della gloria, IV: «giudici delle opere indirizzate a destar gli affetti e le immagini] a destar affetti ed immagini]»; 17 – p. 158, p. 208 rr. 91-92, Il Parini, ovvero della gloria, V: «o dalle ricchezze, o dagli onori x [crocetta di L.] che le sono renduti, [anche la correzione è scritta in corsivo] ] o dalla stima»; 18 –p. 170, p. 220 r. 87, Il Parini, ovvero della gloria, VIII: «e forse gli sono superiori anche di] al] presente». Sulla indecidibilità cronologica delle correzioni, se preparatorie o successive a Nc, suppongo alla fine che Leopardi, a causa della morte improvvisa, non poté 31 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia completare le correzioni sull’esemplare delle Prose [Operette morali], che i fascicoli sciolti di FGc rimasero da canto e che, per trascuraggine e senza esaminare l’interno, furono venduti in seguito come libro da Ranieri, o dai suoi eredi, o da altri. Quando ricompare la sua traccia nel libro ricomposto e rilegato delle Rime e Prose, ci troviamo già alla Biblioteca Comunale (Sala 6°, Scaffale I, Palchetto 5°, Numero 13), nella recuperata sede di San Gaetano, dove, rinnovati, gli scaffali arrivarono a nove palchetti, le sale arrivarono a undici, e il patrimonio librario raggiunse i quarantamila volumi. Dovremmo attestarci, consideratati anche i caratteri tardo-liberty dell’etichetta sul risguardo, in pieni anni Venti. Il passaggio alla nuova struttura, la Biblioteca Provinciale “G. Postiglione”, intorno al 1937, è documentato dalla scheda Staderini e dalla nuova etichetta della collocazione sul risguardo (XIII C 2415). Il resto è facilmente riscontrabile. Tavole fotografiche Tutte le riproduzioni sono state autorizzate alla pubblicazione dalle direzioni delle Biblioteche di appartenenza. Le tavole I-IV mostrano i frontespizi nell’evoluzione tipografica delle emissioni Starita: dalle Operette morali, vol. I (Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino), alle Prose, Napoli 1835 (nella da noi cosiddetta FGc della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia), alle Prose, Italia 1835 (Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano), fino alle Operette morali corrette da Leopardi (nella Nc della Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli). La tavv. V-VI mostrano, nel dorso e nel piatto anteriore, l’esemplare rilegato di Leopardi, Rime e Prose (Canti + Prose [Operette morali, vol I], Napoli, Starita, 1835), conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia (FGc), di cui le tavv. VII-XIV mostrano le pp. 74 (5), 78 (6), 111 (7), 115 (9), 135 (14), 158 (17) con le correzioni di Leopardi e le pp. 197-198 le Correzioni degli errori di stampa, che l’autore ha consultato per i suoi interventi manoscritti. Le tavv. XV-XVIII derivano dalla collazione delle pagine 74, 78, 135 e 158 in riproduzione da Nc, mentre, ai fini di un confronto con un più esteso autografo coevo alle correzioni di FGc, le tavv. XIX-XXII riproducono le quattro pagine della lettera del 9 marzo 1837 scritta da Giacomo al padre Monaldo (cfr. Ep. 1957, pp. 2094-2096), ora conservata nella Sezione Manoscritti (Carte Leopardi) della Biblioteca Nazionale di Napoli. Se ne trascrive qui il testo: Napoli, 9 marzo 1837 Mio caro Papà Non ho mai ricevuto riscontro a una lunga mia di Decembre passato, nè so con chi dolermi di questo, perchè la nostra posta è ancora in tale stato, che potrebbe benissimo trovarvisi da qualche mese una sua lettera per me, e non essermi stata mai data. Io, grazie a Dio, sono salvo dal cholèra, ma a gran costo. Dopo 32 Paolo De Caro avere passato in campagna più mesi tra incredibili agonie, correndo ciascun giorno sei pericoli di vita ben contati, imminenti, e realizzabili d’ora in ora, e dopo aver sofferto un freddo tale, che mai nessun altro inverno, se non quello di Bologna, io aveva provato il simile; la mia povera macchina, con dieci anni di più che a Bologna, non potè resistere, e fino dal principio di Decembre, quando la peste cominciava a declinare, il ginocchio colla gamba diritta, mi diventò grosso il doppio dell’altro, facendosi d’un colore spaventevole. Nè si potevano consultar medici, perché una visita di medico in quella campagna lontana non poteva costar meno di 15 ducati. Così mi portai questo male fino alla metà di Febbraio, nel qual tempo, per l’eccessivo rigore della stagione, benché [II] non uscissi punto di casa, ammalai di un attacco di petto con febbre, pure senza potere consultare nessuno. Passata la febbre da se, tornai in città, dove subito mi riposi in letto, come convalescente, quale sono, si può dire, ancora, non avendo da quel giorno, a causa dell’orrenda stagione, potuto mai uscire di casa per ricuperare le forze con l’aria e col moto. Nondimeno la bontà e il tepore dell’abitazione mi fanno sempre più riavere, e il ginocchio e la gamba sì per la stessa ragione, sì per il letto, e sì per lo sfogo che l’umore ha avuto da altra parte, sono disenfiate in modo, che me ne trovo quasi guarito. Intanto le comunicazioni col nostro Stato non sono riaperte, e fino a questi ultimi giorni, ho saputo dalla Nunziatura che nessuna possibilità v’era che si riaprissero per ora. Ed è cosa naturale, perchè il cholèra oltre che è attualmente in vigore in più altre parti del regno, non è mai cessato neppure a Napoli, essendovi ogni giorno, o quasi ogni giorno, de’ casi che il governo cerca di nascondere. Anzi in questi ultimi giorni tali casi paiono moltiplicati, e più e più medici predicono il ritorno del contagio in primavera o in estate, ritorno che anche a me pare assai naturale, perché la malattia non ha avuto lo sfogo ordinario, forse a causa della stagione fredda. Questo incomodissimo impedimento paralizza qualunque mia risoluzione, e di [III] più mi mette nella dura ma necessarissima necessità di fermar la casa qui per un anno: necessità della quale chi non è stato a Napoli non si persuaderà facilmente. Qui quartieri ammobiliati a mese non si trovano, come da per tutto, perché non sono d’uso, salvo a prezzi enormi, e in famiglie per lo più di ladri. Io il primo mese dopo arrivati pagai 15 ducati, e il 2.do 22, e a causa della mia cassetta fui assalito di notte nella mia stanza da persone, che certamente non erano quei di casa. Quartieri smobiliati non si trovano a prendere in affitto se non ad anno. L’anno comincia sempre e finisce nel 4 di maggio, ma la disdetta si dà ai 4 di gennaio; e nei 4 mesi che corrono tra queste due epoche, si cercano le case e si fanno i contratti. Ma le case sono qui una merce così estremamente ricercata, che, per lo più, passato gennaio, non si trova un solo quartiere abitabile che sia sfittato. Ne segue che un infelice forestiero deve a gennaio sapere e decidersi fermamente di quello che farà a maggio: e se avendo disdetto il quartiere, ed essendo risoluto di partire, lascia avanzar la stagione senza provvedersi; sopraggiungendo poi o un impedimento estrinseco, come questo delle comunicazioni interrotte, o una malattia impreveduta, cosa tanto possibile a chi abbia una salute come la mia, o qualunque altro ostacolo ad andarsene, può star sicuro di dovere il 4 di maggio o accamparsi col suo letto 33 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia e [IV] co’ suoi mobili in mezzo alla strada, o andare alla locanda, dove la più fetida stanza, senza luce e senz’aria, costa al meno possibile dodici ducati al mese, senza il servizio, che è prestato dalla più infame canaglia del mondo. Io non le racconto queste cose, se non perché Ella mi compatisca un poco dell’essere capitato in un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli, perché veramente barbaro, assai più che non si può mai credere da chi non vi è stato, o da chi vi ha passato 15 giorni o un mese vedendo le rarità. [spazio indirizzo] Al Nobil Uomo | Sig. Conte Monaldo Leopardi | Roma per | Recanati Se questa le giunge, non mi privi, la prego, delle nuove sue, e di quelle della Mamma e dei fratelli, che abbraccio con tutta l’anima, augurando loro ogni maggior consolazione nella prossima Pasqua. Ranieri (una sorella del quale ha avuto il cholèra) la riverisce distintamente. Mi benedica e mi creda infelice ma sempre affettuosissimo suo figlio Giacomo. 34 Paolo De Caro Tav. I. Operette morali, vol. I, Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino). 35 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. II. Prose [ = Operette morali, vol. I], Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 36 Paolo De Caro Tav. III. Prose [ = Operette morali, vol. I], Italia, 1835 (Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano). 37 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. IV. Operette morali, vol I [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 38 Paolo De Caro Tav. V. Rime e Prose (ma titolo della legatura = Canti + Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, dorso (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 39 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. VI. Rime e Prose (ma titolo della legatura = Canti + Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, piatto anteriore (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 40 Paolo De Caro Tav. VII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 74, con particolare. (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 41 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. VIII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 78, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 42 Paolo De Caro Tav. IX. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 111, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 43 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. X. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 115, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 44 Paolo De Caro Tav. XI. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli Starita, 1835, p. 135, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 45 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. XII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 158, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 46 Paolo De Caro Tav. XIII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p.197 (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). Tav. XIV. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p.198 (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia). 47 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. XV. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, p. 74 (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 48 Paolo De Caro Tav. XVI. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, p. 78 (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 49 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. XVII. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, p. 135 (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 50 Paolo De Caro Tav. XVIII. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, p. 158 (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 51 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. XIX. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, I (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 52 Paolo De Caro Tav. XX. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, II (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 53 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Tav. XXI. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, III (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 54 Paolo De Caro Tav. XXII. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, IV (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli). 55 Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia Riferimenti bibliografici Per le opere di Giacomo Leopardi: Poesie e prose, volume primo, Poesie, a cura di Mario Andrea Rigoni, con un saggio di Cesare Galimberti, Milano, Mondadori, 2005; Poesie e prose, volume secondo, Prose, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori, 2003; Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di Rolando Damiani, tomi 3, Milano, Mondadori, 1997. Per le lettere e il carteggio: Epistolario, a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, voll. 2, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. 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Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale (1815-1860), Torino, UTET, 2007; Gioberti, Vincenzo, Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana e straniera raccolti da tutte le sue opere e ordinati da Filippo Ugolini, Firenze, Barbera, Bianchi e Comp., 1859; Giordani, Pietro, Di una grave ingiustizia fatta a Giacomo Leopardi morto (1839), e Id., Al Compilatore della Strenna piacentina (1842), in Scritti editi e postumi, pubblicati da Antonio Gussalli, vol. V, Milano, Saurito, 1857, pp. 199-202 e 294-298; Giuliano, Antonio, Giacomo Leopardi e la Restaurazione, Napoli, Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, 1994; Giuliano, Antonio, Giacomo Leopardi e la Restaurazione. Nuovi documenti, Napoli, Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti, 1998; Mamiani Della Rovere, Terenzio, Inni sacri. Seconda edizione napoletana più corretta, con una lettera dell’egregio Francesco Puoti, Napoli, Marotta e Formoso, Strada Toledo n. 399, sotto il Banco dello Spirito Santo, 1835; Panizza, Giorgio, Dopo Eleandro: le “Operette morali” a Firenze, «Archivi del nuovo», 2000, n.6-7, pp. 5-15; Rigoni, Mario Andrea, Introduzione, in Giacomo Leopardi, La strage delle illusioni, Milano, Adelphi, 2004 (19921); Rigoni, Mario Andrea, Il pensiero di Leopardi, Milano, Bompiani, 1997; Sansone, Mario, La letteratura a Napoli dal 18oo al 1860, in Storia di Napoli, a c. di Luigi Labruna, vol. IX, Napoli, ESI, 1978; Savarese, Gennaro, L’eremita osservatore. Saggio sui “Paralipomeni” e altri studi su Leopardi, Roma, Bulzoni,1995; Staël [Madame de], Corinne ou l’Italie, Édition présentée, établie et annotée par Simone Balayé, Paris, Gallimard, 1985; Timpanaro, Sebastiano, Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi, in Classicismo e illumnismo nell’Ottocento italiano, Seconda edizione accresciuta, Pisa, Nistri-Lischi editori, 1969, pp. 133-182. Per la storia della Biblioteca Provinciale di Foggia: De Biase, Oreste, La Biblioteca Comunale di Foggia, in «Accademie e Biblioteche d’Italia», Roma, Libreria del Littorio, anno V (1931), pp. 279-282; Urbano, Maria Rachele, Un fondo di Settecentine della Biblioteca Provinciale di Foggia. Catalogo e cenni storici della Biblioteca. Tesi di laurea in Biblioteconomia e Bibliografia. Relatore Prof.ssa Maria Gioia Tavoni. Università degli Studi di Bologna, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lettere moderne, Anno Accademico 1995-1996, Sessione estiva. Ringraziamenti e dedica Desidero ringraziare per la loro cortese disponibilità e gentilezza la Dott.ssa Marisa Anzalone, Direttrice della Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avel58 Paolo De Caro lino, la dottssa Marina Boni della Biblioteca Didattica d’Ateneo dell’Università degli Studi di Macerata, la dott.ssa Chiara Fagiolo della Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano, le dott.sse Maria Rosaria Grizzuti, Emilia Ambra, Gabriella Mansi e il dott. Vincenzo Boni della Sezione Manoscitti (Carte Leopardi) della Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli. Un ringraziamento speciale va al Direttore, dott. Franco Mercurio, e al personale, molto rinnovato in questi ultimi anni, della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia, e in particolare alle dott.sse Gabriella Berardi e Maria Musci, alla sig.na Doriana Scaramuzzi e al sig. Alessandro Ursitti. Dedico questo lavoro alla memoria del dottor Mario Giorgio, già direttore di questa Biblioteca. Era un uomo onesto e un burbero benefico, amantissimo della famiglia e della natia “poetica” Rocchetta. L’avevo conosciuto ai tempi degli oscuri ipogei di Palazzo Dogana. Ma ci frequentammo soprattutto dai primi anni Novanta, quand’ero sulle tracce di Irma Brandeis, l’ispiratrice americana di Montale. Eccezionalmente, un sabato mattina, decidemmo, lui, Walter Celentano ed io, di andare a mangiare al “Cafone” di Melfi. Era una bella giornata di autunno: ci presero per tre allegri pensionati in vacanza. Se gli chiedevi un consiglio bibliografico, cominciava a ruminare fra sé e si chiudeva in un imbarazzante silenzio. Poi d’un botto s’alzava e ti diceva di seguirlo. Rosso di capelli com’era, scompariva tra gli scaffali con la circospezione e la misteriosità di un riccio nella forra. E ti scovava il libro. Penso che gli avrebbe fatto piacere sapere di questa mia notizia leopardiana, venuta fuori dai vecchi libri della sua Provinciale. 59