Paolo De Caro
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835
conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
di Paolo De Caro
1.
La Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia conserva un prezioso esemplare delle Operette morali di Giacomo Leopardi, o, per dir meglio,
delle cosiddette Prose, nell’edizione in 16.mo pubblicata a Napoli con la data 1835.
Converrà chiarire che durante la seconda metà del 1836, nel tentativo di sfuggire
alla censura del Regno, l’editore e libraio napoletano Saverio Starita, pur mantenendo la data dell’anno precedente, sostituì il titolo originale Operette morali /… /
volume I con il titolo di comodo Prose. Ma l’accorgimento servì a ben poco: l’edizione non proseguì oltre quell’unico volume.
L’esemplare di queste Prose [Operette morali, I] della “Magna Capitana” si
presenta legato insieme con una copia dei Canti Starita 1835, formando un solo
libro, sul cui dorso è impresso: LEOPARDI / RIME / E / PROSE, con un effetto
di leggero disorientamento nel lettore odierno. Ma la preziosità del libro si deve
eminentemente al fatto che sulle sue pagine sono riscontrabili numerose correzioni
a penna – di mano, indubbiamente, dell’Autore – che avvicinano l’esemplare di
Foggia, qui indicato con la sigla ipotetica e funzionale FGc, ad un altro esemplare,
di assoluto riferimento storico-filologico: quello conservato a Napoli nelle Carte
Leopardiane della Sezione manoscritti della Biblioteca nazionale “Vittorio Emanuele III”. Questa copia delle Operette staritiane, che si presenta priva di coperta e
con i semplici fascicoli ricuciti a mala pena sul dorso, contiene correzioni, aggiunte
e varianti autografe di Leopardi, e viene indicata nelle edizioni critiche Moroncini
(1929) e Besomi (1979) con la sigla Nc. Dei Canti e delle Operette morali di Nc è
stata edita una riproduzione in fac-simile dall’editore Marotta di Napoli nel 1967.
Per i Canti, dopo l’edizione critica Moroncini del 1927, è ora disponibile quella curata da Emilio Peruzzi, pubblicata da Rizzoli nel 1981 e poi ripubblicata nel 1998
nella BUR, in una nuova edizione riveduta e ampliata.
Le Operette morali Starita 1835, per le vicende editoriali cui andò incontro,
a cominciare dalle avventurose emissioni del frontespizio, possono classificarsi fra
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
le rarità bibliografiche. Attualmente il Sistema Bibliotecario Nazionale registra in
complesso (Operette o Prose) una ventina di testimoni, molti dei quali sono stati da
noi direttamente consultati o esaminati in riproduzione. Ad eccezione di quattro,
che recano il titolo Operette morali (e che qui sotto si segnalano con asterisco [*]),
i restanti recano il titolo Prose. La proporzione segnala in generale, nel risultato
delle contingenze esterne e della distribuzione geografica, la fortuna dell’edizione
nelle due (ma effettivamente tre, come si vedrà) emissioni dell’edizione. L’elenco
provvisorio è il seguente:
1)
2)
3)
4)
Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino*,
Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti-Volpi” di Bari,
Biblioteca di Casa Carducci di Bologna,
Biblioteca del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università degli studi di Bologna,
5) Biblioteca Comunale “Ruggero Borghi” di Lucera (Foggia),
6) Biblioteca Didattica di Ateneo dell’Università degli Studi di Macerata,
7) Biblioteca Pubblica Statale annessa al Monumento nazionale di Montevergine di Mercogliano (Avellino),
8) Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano*,
9) Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano,
10)Biblioteca delle Facoltà di Giurisprudenza e di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano,
11)Biblioteca di Scienze dell’antichità e filologia moderna di Milano,
12)Biblioteca e Archivio del Museo del Risorgimento. Civiche Raccolte
Storiche di Milano,
12)Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli*,
14)Biblioteca universitaria Alessandrina di Roma,
15)Biblioteca di Filosofia dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma,
16)Biblioteca dell’Archivio di Stato di Salerno*,
17)Biblioteca “Federico Patetta” del Dipartimento di Scienze giuridiche
dell’Università degli Studi di Torino,
18)Biblioteca storica della Provincia di Torino.
Non possiamo escludere, infatti, che altre copie del libro (tralasciando le
sedi straniere: per esempio, la Biblioteca di Halle) possano rintracciarsi presso biblioteche, pubbliche e private, non menzionate nel catalogo elettronico nazionale
OPAC SBN. Così anche FGc, la copia corretta di Foggia, che reca il titolo Prose,
è registrata nel catalogo elettronico della “Magna Capitana”, ma non nel catalogo
elettronico nazionale. Oppure, per fare un altro esempio: una copia non registrata, col titolo Operette morali, si trova a Recanati presso la Biblioteca del Centro
Nazionale Studi Leopardiani. (Monaldo Leopardi, che era, com’è noto, di radicati
convincimenti clericali e legittimisti, letto che ebbe le Operette nell’edizione Piatti
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Paolo De Caro
1834, suggerì al figlio «correzioni» di contenuto [in una lettera, ora mancante, del 13
ottobre 1835: cfr. Ep.1918], – forse, vogliamo credere, più per proteggerlo dalle rivalse della Curia romana e dal pericolo d’inclusione del libro nell’Indice ecclesiastico,
come poi puntualmente avvenne [nel 1850, donec emendantur: «perché improntate
in più luoghi di funesto scetticismo, e fatalismo il più desolante»], che per il suo personale dissenso politico-teologico con Giacomo, ormai non più recuperabile.)
Accordatosi con l’autore nel maggio, nel giugno del 1835 l’editore Starita
aveva annunciato in un suo “manifesto” il piano di pubblicazione delle Opere leopardiane. Esso consisteva «in non meno che sei volumi, il 1° de’ quali avrebbe contenuto le Poesie, corrette ed accresciute meglio che di un terzo [rispetto all’edizione
Piatti di Firenze del 1831]; il 2° e 3° le Operette morali, anche corrette e accresciute
[rispetto all’edizione Piatti del 1834]; il 4°, il 5° e il 6° e forse un 7° di produzioni
inedite, ed alcune ancora, che, quantunque stampate, non era pertanto agevole più
di avere». Il 9 luglio il libraio firmava un contratto che stabiliva un compenso al Leopardi di cinque ducati per foglio di stampa (cfr. Giuliano, 237-238). Ma in seguito,
come sembra di capire, l’impegno venne eluso, suscitando le ire del poeta.
Dei volumi previsti, dunque, Starita, l’«infame negoziante», non riuscì a
stamparne che due:
– il primo, i Canti, uscì verso la fine del settembre di quell’anno (v. lettera a
Karl Bunsen del 26 settembre 1835, Ep., 1914). Era arricchito del ciclo di Aspasia,
delle “sepolcrali” e della Palinodia, oltre che dei frammenti, e delle imitazioni e
traduzioni; conteneva cioè tutto il libro poetico che leggiamo ora, ad esclusione del
Tramonto della luna e della Ginestra che, scritte nell’anno successivo (1836), furono pubblicate postume a cura di Antonio Ranieri nei Canti Le Monnier 1845;
– il secondo, le Operette morali, Volume I, fu pubblicato sempre con la data
1835, ma uscì effettivamente dalle stampe verso la metà del gennaio 1836 (cfr. lettera a
Louis de Sinner del 25 gennaio 1836, Ep. 1922). In esteso, sul frontespizio, si leggeva:
OPERETTE MORALI
DI
GIACOMO LEOPARDI.
TERZA EDIZIONE
CORRETTA, ED ACCRESCIUTA
DI OPERETTE NON PIÙ STAMPATE.
VOLUME I.
NAPOLI,
PRESSO SAVERIO STARITA
Strada Quercia n. 14, e Strada Toledo n. 50.
–
1835.
Si trattava in realtà del primo tomo, dei due previsti da destinare alle Operette morali, contenente le prime tredici operette, dalla Storia del genere umano fino
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a Il Parini, ovvero della gloria, con un solo cambiamento sostanziale, rispetto alla
precedente edizione fiorentina del 1834, dovuto all’espunzione del Dialogo di un
lettore di umanità e di Sallustio.
Il piano editoriale delle Opere – un evento nella carriera letteraria di Leopardi (cfr. D. De Robertis, p. 336) – era liquidato; ma la censura, bloccando la
diffusione delle Operette, non poteva sapere che la mente dell’autore era già oltre
quel capolavoro. Leopardi, che comunque si mostrava sensibilissimo alle osservazioni critiche che si facevano sulla sua opera, almeno dall’ultimo, tumultuoso,
anno fiorentino (1832), posto termine alle invenzioni delle Operette e alle annotazioni dello Zibaldone, si era adoperato, per l’evoluzione stessa del suo pensiero
filosofico, ad affidare a un contenuto socio-politico più articolato e “presente” una
materia, soprattutto soggettivo-sentimentale, che rischiava di entrare nel consumo
di una maniera “romantica”. Riconosceva nel 1835 a Bunsen: «Voi avete ragione
che nelle mie prose la malinconia è forse eccessiva…» (16 settembre, Ep. 1914).
Leopardi, tuttavia, si poteva concedere queste ammissioni perché a quel tempo,
come Giordani seppe giustamente individuare, dal vecchio autore era già spuntato uno scrittore imprevisto. Era un «nuovo poeta e diverso, non però minore di
stesso», nonostante le perplessità che avrebbe suscitato nei suoi lettori, e anche in
chi, pur ammirandolo, ma rimanendo prigioniero d’un modello di scrittura e della
gerarchia dei generi letterari, si stupiva su «comment cet homme profond avait pu
terminer par la satire» (Sinner, ma cfr. Savarese, pp. 60-62).
2.
Sull’edizione Starita delle Operette morali, volume I (ma vol. II delle Opere),
confermando un giudizio sul loro autore, che si era ormai consolidato nell’opinione sia dei legittimisti sia dei moderati cattolico-liberali italiani, si abbatté la censura
borbonica, la quale ostacolò la diffusione dei pubblicati Canti, bloccò la stampa del
secondo tomo delle Operette, impedì la vendita e sequestrò le copie del primo.
Per quanto il volume dei Canti fosse uscito indenne dall’esame del Regio
Revisore, già molti lettori avevano arguito, specialmente nelle nuove poesie, «un
non so che di ateismo e peggio ancora, quando, nel supporre una divinità, [Leopardi] la suppone malefica e che gode di tormentar gli uomini» (a scriverlo era
il letterato siciliano Tommaso Gargallo, cfr. Giuliano, p. 244). Il giudizio gravò,
a maggior ragione, sulle Operette – a partire dalla Storia del genere umano, che
le apre, fino alla loro sostanziale conclusione, antiumanistica, «suggello cosmico
materialistico» (Blasucci), del Dialogo della Natura e di un Islandese, ambedue
comprese nel Volume I – e ne precluse la prosecuzione nella stampa.
Questo duro condizionamento, messo in atto dalla polizia del regno ferdinandeo, ma promosso e sostenuto dalla nunziatura pontificia di piazza Carità
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Paolo De Caro
(che Giacomo ben conosceva), doveva (e deve ancor oggi nella riflessione storica)
misurarsi sia nei suoi aspetti politici che in quelli filosofico-religiosi e artistici con
la gracilità degli ideali politici, la pavidità morale e, in generale, il conformismo
culturale unito a un pigro ritardo estetico della società letteraria partenopea del
tempo. In una tale situazione la censura si ergeva preventivamente a sanzione critica e indicazione ideologica, senza che la gran parte degli intellettuali della capitale
borbonica se ne sentisse davvero coinvolta. Leopardi, non camminava col secolo
(cfr. Giordani, p. 204, e v. Palinodia, vv. 235-239), anzi ad esso, disprezzandolo,
«increbbe» (come dice il poeta nella Ginestra); cosicché pochi furono disposti a
condividere o almeno a comprendere le motivazioni profonde della sua riflessione,
ivi incluso quel che pensava della storia e della politica. In un famoso giudizio del
Gesuita moderno (1847), Gioberti osservò che in quel «libro terribile» che sono
i Paralipomeni della Batracomiomachia, Leopardi derideva «i desideri, i sogni, i
tentativi politici degl’Italiani con un’ironia amara, che squarcia il cuore, ma che è
giustissima».
Ad impedire il consenso dei circoli culturali di Napoli concorrevano altri
pregiudizi di contorno. La fama narrava di un Leopardi amico dell’anticlericale e
bonapartista Pietro Giordani; oppure del repubblicano prima, murattiano poi, e
infine costituzionalista Pietro Colletta; e in ultimo, dall’ottobre del ’33, di un Leopardi sodale con un giovane liberale del giro di Carlo Troya, quell’Antonio Ranieri
che, mandato all’estero per i suoi trascorsi antiborbonici, ne era tornato dando
ospitalità al poeta. Ranieri apparteneva «allo sparuto manipolo degli storici cosiddetti neoghibellini» (Sansone, p. 357), era autore di una Storia del Regno di Napoli
in via di stesura e, negli anni fra il 1835 e il 1837, era scrittore di un romanzo a tinte forti, Ginevra o l’orfana della Nunziata (1836-1839); un romanzo di tendenze
realistico-romantiche, da cui gli storici della letteratura fanno derivare l’ipotesi che
le sue descrizioni sociologiche (del basso clero, o della plebe napoletana, per dire)
abbiano avuto un qualche influsso sull’estrema produzione leopardiana.
La rosea raffigurazione degli anni Trenta dell’Ottocento partenopeo, che
traspare dagli Aneddoti crociani o dalla Napoli romantica di Cione, dà per scontato che colui che si esponeva in quegli anni al giudizio della pubblica opinione
sottostava pur sempre alla regola de deo parum, de principe nihil vigente nei regimi
assoluti. Leopardi doveva dunque fare i conti con una Napoli che, nonostante la
sua apparente vivacità culturale, il pullulare di riviste gazzette e fogli, i teatri sia
colti che popolari, i caffè letterari, i circoli e i salotti culturali, il continuo sciamare
di artisti, scrittori e visitatori stranieri, viveva, oltre che nell’impercettibile rimodellamento della sua profonda realtà antropologica (alla cui osservazione il poeta
era per giovanile formazione particolarmente attratto), una stagione di disincanto
politico e di dispersione ideologica. Era per Leopardi un inquietante elemento di
riflessione, adombrato in quegli anni nel XXXV dei suoi Pensieri, dove Napoli è
considerata come esempio significativo dei «luoghi tra civili e barbari».
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Secondo Damiani, Leopardi aveva ancora in mente la Corinne. Anche lui
era arrivato «au milieu de cette immense population qui est si animée et si oisive
tout à la fois», dove si scopriva l’«état sauvage… mêlé avec la civilisation», dove
«milliers de Lazzaroni… passent leur vie [dans] une grotte sous terre», dove «paresse» e «ignorance», «ferocité» e «passions excitées» si combinavano «avec l’air
vulcanique qu’on respire». E tuttavia niente impediva di immaginare che anche qui
potesse sorgere un «gouvernement très indipéndent et très actif… si – aggiungeva
però la scrittrice – ses institutions politiques et religieuses étaient bonnes» (XI, II).
Nei riguardi di quest’ultima ipotesi, il riecheggiante fascino di Madame de Staël,
come il perdurante confronto classicistico fra antichi e moderni, natura e ragione ecc., temo si stessero spegnendo per gli effetti dello scenario umano, sociale,
politico e storico che, a conferma di un’implacabile visione del mondo, si apriva
davanti agli occhi del poeta. La sua poetica si era evoluta, andando ancor oltre
le Operette, oltre la metafisica negativa della natura come male, in prosecuzione
di un «diagramma ideologico» ormai delineato (Blasucci, p. 222), e s’inverava in
un’insopprimibile esigenza al racconto mitico-storico che, in nuce nelle Operette, ora prendeva a distendersi in un canto più maturo e prosastico. Leopardi sta
raggiungendo nuovi equilibri narrativi. In uscita dalle argomentazioni del “vero”,
forza e protrae la durata dell’ècfrasi; oppure porta alla massima esposizione possibile la prodigiosa memoria orale dell’arcatura sintattica: Leopardi detta! Oppure,
negli exempla, realistici o fantastici che siano, ritrae il vano movimento della vita
e gli effimeri eventi della storia, messi a confronto con l’imperscrutabile inutilità
dell’esistenza, con il trionfo della morte e l’eternità della materia. Tali ci appaiono
la Ginestra e il Vesuvio, il Volo di Leccafondi e la Città dei topi estinti. «Non una
parodia, ma un’allegoria», come chiosava Giordani (1839, p. 296). Quale distanza
con i letterati napoletani!
Nella famosa lettera a Fanny Targioni Tozzetti del 5 dicembre 1831 (v. Ep.
1686: «…Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gli individui sono infelici sotto ogni forma di governo, colpa della natura che ha fatti gli
uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello
non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici…»), la dichiarazione antipolitica sostanzia di un asserto filosofico-esperienziale il “passaggio
grigio” fra una delusione storica (la sconfitta del movimenti insurrezionali e settari) e una nuova fase di elaborazione politica (sia liberale che democratica), di
cui, dopo la repressione dei moti del ’31 (quando, non si dimentichi, Leopardi era
stato perfino nominato deputato all’Assemblea delle Province Unite dal Governo
provvisorio di Macerata), non s’intravedeva lo sbocco, com’è forse rilevabile dalla
reticente chiusa dei Paralipomeni.
Tanto più si dica della borghesia rivoluzionaria napoletana, prima giacobina,
poi murattiana, infine costituzionalista e carbonara, che si era come ripiegata su
sé stessa dopo le sconfitte del ’99, del ’14 e del ‘20, acconciandosi ad un placido
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ottimismo post-Restaurazione, che avrebbe potuto richiamarsi meglio ad un roi
des Français che a un Re delle due Sicilie. Quest’ottimismo derivava, oltre che da
alcuni atteggiamenti liberaleggianti, dal tentativo di politica economica che il re
Ferdinando II aveva promosso, nei primi anni del suo regno, per innescare un
processo di innovazione e modernizzazione protoindustriale, pur se limitato sostanzialmente all’area della capitale. Agiva anche, in quest’apertura al futuro, la
circolazione degli ideali del nazionalismo italiano e dello storicismo romantico e
spiritualista, influenzati dai ripresi studi vichiani, dal kantismo del Galluppi e dal
nascente hegelismo. Troppo spesso nell’auspicare l’ineluttabile avanzamento della
storia, i gruppi intellettuali o praticavano il silenzio sulle questioni politiche e sugli
spietati provvedimenti repressivi o si limitavano, chi più chi meno, ad auspicare
un’autoriforma, nelle idee come nelle istituzioni, del Trono e dell’Altare. Perciò la
descrizione icastica e bonaria che, della «lieta vita napoletana», come del clima prerisorgimentale liberale e neoguelfo sotto il regno di Ferdinando II, diede il Croce
nel suo commento ai Nuovi Credenti (1930), non può che risultare fuorviante.
Confinata nella categoria ultronea e nonpoetica dello “sfogo”, la satira viene
assimilata al pittoresco folklore dei quadretti di genere (gli asini da soma spinti «a
volo» per l’erte vie di San Martino; le tavolate di triglie, alici e ostriche nelle sere
di Santa Lucia…), per allontanarla dal travaglio del pensiero leopardiano verso
un’etica laica, non immemore per altro della tradizione testamentaria, come verso
la serietà dell’agire politico, conforme a un approdo apertamente e radicalmente
materialistico. Ed è vero anche, come notò già Allodoli (p. XII), che l’immaginario
di Leopardi resuscita nell’umanità napoletana raffigurata il luogo comune europeo
del type italien, perdigiorno, passionale e brigantesco. Ma è significativo che, in
prosecuzione delle aperture ottocentesche del Gesuita moderno e del Primato di
Gioberti, o, in ripresa dal Dialogo dei Saggi critici e dalle Lezioni sulle due “scuole” di De Sanctis, la lunga e varia tradizione leopardiana italiana abbia, nel secondo
Novecento, passata la bufera del fascismo e della seconda guerra mondiale, ricollocato il poeta, dopo la parentesi rondista e crociana, nell’intreccio fra letteratura e
ideologia. Leopardi è elevato a paradigma etico-politico di un confronto che non
investe solo lo studio a latere della specificità letteraria (da Luporini, a Timpanaro, a Carpi, a Biral), ma che, ripartendo da queste premesse, illumina la critica
e l’interpretazione del testo letterario (da Russo, a Binni, a Savarese, a Blasucci,
a Damiani), sempre spingendosi verso la peculiare innovazione del periodo napoletano. Opportunamente, anche l’esame critico più recente rileva l’urgenza dei
motivi e la novità delle forme che agitano l’ultima fase della poetica leopardiana.
Sottesa al crescente e sempre più dissonante registro polemico-satirico, agisce la
severità di una volontaria riduzione del comico (Panizza) e perfino una ricerca del
silenzio che sostituisca la parola (Dolfi: il silenzio, il silenzio mortale, «come figura
di un’ultima protesta», p. 31). Un modo di concepire il “mondo” (quel mondosocietà che Leopardi sottopone a critica, dalla Palinodia, ai Pensieri, alla Ginestra,
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
ai Paralipomeni), elaborato come risposta alla concezione sociale della letteratura,
reclamata dai romantici italiani e napoletani. Una risposta che però contrastava di
primo acchito con la chiacchiera e la flânerie degli “insorgenti”, e con l’ottimismo
liberale degli ambienti intellettuali partenopei.
«Con Manzoni in chiesa – dicevano gl’Italiani, ed aggiungevano – Con Leopardi alla guerra» (Carducci). Alla metà dell’Ottocento, l’intenzione militante
trasformò gli scrittori della nostra letteratura in vessilliferi di un’ideologia. Ma sin
dal principio del dibattito critico sul poeta, all’abate Gioberti, la credenza religiosa
e l’appartenenza politica al neoguelfismo non impedirono di riconoscere in Leopardi un’assoluta grandezza di scrittura, di pensiero e di umanità, né di recriminare
quella condizione di esule in patria, in cui il suo amico recanatese fu costretto a
vivere. Ed è indubbio che a Napoli, esclusi gli stentati riconoscimenti formali e
le poche amicizie, il poeta abbia subito un vero e proprio ostracismo culturale e
sociale; così che lui – soggiunge Marti –, in quella città, «rimase sempre un estraneo diffidente, un ospite precario» (I tempi…, p. 104). Come si autodenunciava al
padre: un «infelice forestiero».
Ciò che ancor oggi sorprende, non è tanto la risposta repressiva delle gerarchie della Chiesa (l’ossessione del Nunzio De Pietro e del cardinal Lambruschini
sull’“empietà” di Leopardi) o della polizia borbonica, o di quella imperiale (l’ossessione di Del Carretto e, a Vienna, di Metternich sullo «sciagurato» Leopardi,
fautore delle “repubbliche”), quanto la ripulsa dei circoli liberali, più o meno sedicenti cattolici e, più in generale, spiritualisti e idealisti. Alla maggior parte dei
letterati napoletani, liberali o “settari” (mazziniani) che fossero, risultava incomprensibile «quel suo umor misantropico che rendealo pressoché inaccessibile», incomprensibili la sua «filosofia desolante», il «miserabile scetticismo che regna nelle
sue prose» (i giudizi sono, si fa fatica a crederlo, del letterato e patriota mazziniano Giuseppe Ricciardi, cfr. Giuliano, p. 231). Certo, spesso trascinati da un cieco
patriottismo o dal sentimentalismo di moda, non mancavano coloro che fossero
romanticamente affascinati dall’autore dei Canti: Michele Baldacchini, la poetessa
Giuseppina Guacci, lo stesso Tommaso Gargallo, Antonio Ranieri, naturalmente;
ma forse ciò aumentava l’astio di cui era bersaglio nei salotti e sulle riviste il poeta
(«…accesa/ D’un concorde voler tutta in mio danno/ S’arma Napoli a gara alla
difesa/ De’ maccheroni suoi…»).
Uno dei pochi amici sinceri di Giacomo, il giovane patriota Alessandro Poerio, sbagliando evidentemente interlocutore, così confidava a Niccolò Tommaseo:
Qui [a Napoli], caro Tommaseo, sono alcuni i quali non dicono il vero o quel
che lor sembra vero, con altezza di animo, spassionatamente, senza odio né
timore, come fate voi; gli [a Leopardi] dànno addosso ferocemente, vilmente,
senza nominarlo, mostrandolo a dito, mordendolo sotto manto di religione,
accagionandolo di voler capovolgere la Società, toglier via la distinzione fra il
vizio e la virtù, empire la terra di sangue. (Sono citazioni di un libretto [c.n.]
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poco fa pubblicato). E voi sapete quanto sieno candidi e mansueti i costumi
del Leopardi, com’egli non si curi di far proseliti, quanto aborra dalle risse
letterarie, quanto bene sopporti le opinioni altrui, e come sia lontano da ogni
ipocrisia…
(lettera del 13 luglio 1836, cfr. Ciampini, p. 267)
Poerio conosceva minutamente l’ambiente letterario napoletano, era stato
amico di gioventù di Antonio Ranieri e frequentava Leopardi; ma a Parigi, nella
colonia dei rifugiati italiani formatasi dopo i moti del ’31, era anche divenuto amico
di Tommaseo, che invece nutriva per il poeta recanatese una malcelata invidia letteraria congiunta a un’incoercibile avversione ideologica, se non addirittura fisica.
Leopardi era «l’uomo che ha il genio del Tasso in fondo alla gobba, come il Tasso
l’aveva in fondo al bicchiere» (Giuliano, p. 226, e Panizza, p. 10). «Inducetelo –
esortava nella risposta a Poerio – a non più vantare la bestemmia fredda e la sventura noiosa» (Giuliano, p. 236, e cfr. Ciampini, p. 261, e Bellucci, pp. 147-148 e 164).
Nei suoi frequenti rapporti con gli ambienti cattolici liberali, con Lambruschini
(Raffaello, l’agronomo e pedagogista) e con Capponi, come con Lamennais e con
Montalembert, in Italia come in Francia, Tommaseo faceva spesso di Leopardi, in
forme d’inconsueta virulenza, un modello da contestare ed abbattere.
A Napoli, subiva l’influenza dello scrittore dalmata il cenacolo che si raccoglieva intorno all’ambiziosa rivista fondata da Ricciardi, «Il Progresso delle scienze, delle lettere e delle arti». Proprio con una lettera-prefazione di Francesco Puoti
tratta dal «Progresso» (VI, fasc. XI, a. II, p. 147-sg) si era pubblicata nel 1835 la
seconda edizione «napoletana» degli Inni sacri di Terenzio Mamiani, altro “faro”
del liberalismo cattolico e del fuoruscitismo parigino, che si rifaceva al Manzoni
tragediografo, poeta, moralista e romanziere e al Génie du Christianisme di Chateaubriand:
[…] la vita civile incomincia dalla religione; con lei crescono, durano e si fanno venerande le glorie nazionali, i riti, le leggi, i costumi tutti di un popolo:
radunansi in lei e partecipano del lume suo le memorie precipue de’ tempi e
le auguste speranze dell’avvenire. Sentirono di questo modo e procederono
così in ogni cosa quegli Italiani, che nel decimosecondo e decimoterzo secolo
rinnovarono le maraviglie del valore latino; beati davvero e gloriosi senza
fine nella ricordanza dei posteri, se mai dalla mente non cancellavano essere
tutti figliuoli d’una grande patria, e che la prima legge evangelica prescriveva
loro di sempre amarsi l’un l’altro come uguali e fratelli, chiamati a condurre
ad effetto con savia reciprocanza di virtù e di fatiche le sorti magnifiche e
progressive dell’umanità! [c.n.]
Con tale intendimento furono dettati questi inni sacri, almeno per quanto
concederono i tempi e il luogo gravemente pericolosi. Così mi sforzava di
trarre alla comune utilità il ministero della poesia, la quale è in capo a tutte l’arti sociali che intendono per maniera gradevole e tuttavia efficace alla
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
formazione dell’anima. Ho pertanto richiamato le muse al più antico loro
ufficio di cantare la religione civile; che perciò appunto elle furono stimate
deità e gli alunni loro, portentosi e più che uomini.
(Inni sacri, p. 4)
Insistendo sul rapporto fra letteratura e società, liberali e democratici, manzoniani e mazziniani (per utilizzare lo schema desanctisiano, fallace e ideologico
quanto si voglia, ma di immediata praticabilità), non riuscivano a comprendere
l’eccezionale novità di Leopardi. Così, sempre sul «Progresso» (II, 1836. Cfr.
Giuliano, p. 229), Raffaele Liberatore, un esule del ’20, il compilatore del famoso,
all’epoca, Vocabolario Universale Tramater, metteva a confronto i due inni ai Patriarchi, di Leopardi e di Mamiani, e dichiarava Mamiani «più poetico» rispetto al
«più filosofico» Leopardi, secondo un giudizio frequente, che feriva la coscienza
artistica del poeta. Leopardi trasse le sue vendette, com’è noto, nel canto della
Ginestra, prefigurando un “nuovo corso”, azzardando una specie di “salto quantico”, un vero e proprio reinizio della storia. Non riecheggiò solo, in tono sarcastico,
le «magnifiche sorti e progressive» del cugino Mamiani, ma soprattutto spostò su
un piano eroico-antropologico il concetto di fratellanza umana: una fraternité da
intendere come tutta insieme alleata contro la natura «nemica», e sottratta a ogni
provvidenzialismo, storico o spiritualista che fosse.
Uno dei letterati di punta della rivista era il pugliese-napoletano Saverio Baldacchini (1800-1879) che cercava ecletticamente, al modo di Mamiani, di coniugare
classicismo e romanticismo, religione e progresso, conservatorismo e sensibilità
sociale («…la religion nostra è il simbolo di una civiltà comune, e l’aiutatrice di
futuri progressi dei popoli nelle larghe vie del morale perfezionamento», Del fine
immediato…, p. 28). Durante gli anni napoletani di Leopardi (ottobre 1833-giugno
1837), Saverio Baldacchini alluse spesso e negativamente, con aperto risentimento
ideologico, al poeta dei Canti. Nel 1835 aveva pubblicato sul «Progresso» il saggio
Del fine immediato d’ogni poesia, diffuso in estratto dalla Tipografia Flautina nel
1836. L’autore, descrivendo le figure contemporanee di maggior rilievo, Manzoni
ovviamente in testa, così si riferiva, senza citarlo, a Leopardi (forse pensando al
Canto notturno, di cui risuonano le domande senza risposta sulla «solitudine immensa» del cielo e sull’«innumerabile famiglia» della terra, due temi ripresi da Leopardi, quasi in confronto polemico con Baldacchini, nella Ginestra [vv. 145-157]):
Sociabil cosa è la poesia; imperocché per essa, dopo di esserci levati fino a
ricevere in noi la sacra impressione del bello, questo siam mossi ad esprimere
e manifestare; né mi sembra che alcuna manifestazione ed espressione possa
aver luogo, lo qual non sia come una negazione aperta dello stato di solitudine. Onde grandemente errano coloro, i quali nei loro canti al tutto come
abitatori di solitudini ci appaiono, quasiché avessero spezzato quel vincolo di
benevolenza e di universal carità, che stringe insieme l’umana famiglia [c.n.].
18
Paolo De Caro
Inferme sono le loro menti, onde troppo strani e astrusi concetti rampollano,
i quali non so perché eglino si sforzino di rivestire delle forme dell’arte. Certamente se l’uomo avesse potuto vivere in solitudine, a che i linguaggi? a che
i vari trovati delle gentili arti? Fatica adunque gittata è la loro, né so che poeti
possano giustamente chiamarsi, stanteché, ad ottenere quel rapimento che è
fine della poesia, a comprendere l’idea della bellezza, solo valido mezzo a me
sembra poter esser l’amore…[c. n.]
(Del fine immediato…, p. 36)
Quanto al «libretto», richiamato nella lettera di Poerio, esso è quasi certamente riferito all’opuscolo intitolato Claudio Vannini o l’Artista. Canto. Si tratta
di una novella in versi divisa in 37 brevi capitoli, scritta in stile pseudobyroniano
(ma di fatto esemplata sui moduli del classicismo preromantico italiano, da Monti, a Foscolo soprattutto, allo stesso Leopardi, con qualche intrusione degl’Inni
manzoniani), e «ordinata a combattere il romanticismo, … quel romanticismo
male inteso, che si studia di falsare, non d’imitare la natura, e di prendere da quella
non il bello e meraviglioso, ma il brutto e il deforme» (Cappelli [v. in seguito], p.
266). La novella s’ispira alla figura immaginaria di un pittore senese del Seicento,
un artista “traviato” e senza fede, che, dopo lo stordimento d’un’esperienza «oltremonti», ritornato in patria e mortagli la madre, si pente della sua vita dissoluta.
La tradizione critica ha intravisto nel personaggio di Vannini la maschera di un
Leopardi romanticizzato e maudit. Nel proemio riassuntivo dell’opera si legge
tra l’altro:
…Non ancora uscito di puerizia, prese troppo altamente a sentire di sé, mostrandosi poco curante degli ammaestramenti e de’ consigli, di che è tanto
bisognosa l’età prima dell’uomo. Giunse ad infastidirsi della famiglia, e della
città e dell’Italia, sicché, come prima potette, passò oltremonti… In Francia
alcune rappresentazioni troppo fedeli di cose laide e lascive gli acquistarono
fama, e in talune brigate dicono ch’ei fosse favorevolmente accolto: le quali
soleva egli intrattenere con la recita di certi suoi versi, in cui si studiava di
porre in derisione le credenze e le usanze più essenziali al vivere civile… Di
lui si mostrano ancora alcune tavole, nelle quali di leggieri si ravvisa l’orma di
un potentissimo ingegno, capace di grandi cose, se non fosse uscito di via...
(Claudio Vannini, pp. 3-7)
È stato notato (Bellucci, p. 151) come, per dare una credibilità romanzesca
al personaggio, l’autore della novella ricorra in molti punti alla banalizzazione di
una filosofia negativa, riecheggiante, in forme distorte e camuffate, famosi luoghi
leopardiani. In realtà, si potrebbe dire che l’autore tributi un inconsapevole omaggio alla fortuna dei Canti, dal Bruto minore ad Aspasia, e addirittura presti nuovi
motivi di ispirazione al poeta della Ginestra. Ecco un breve florilegio della novella
(i corsivi sono nostri):
19
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
[…]
Sacre memorie della patria! obblio
Di voi me circondava: e fastidia
D’uno spontaneo immaginare i lieti
Dorati sogni, e le armonie d’Amore
Del semplice e del vero imitatrici.
Povero, inetto io ‘l fin dicea di quelle
Arti gentili che fermar le sedi
Su le rive del Tevere e dell’Arno.
A che nelle ammirate opre de’ nostri
Quella pace diffusa e quel riposo;
Mentre una fiera legge, a chi ben dentro
Mira, travaglia col dolor le cose
Arcanamente? Ov’è una vera gioia,
Ove una intensa voluttà, che, quando
Duri più d’un fuggevole momento,
Non s’estingua nel tedio e nella morte?
Dunque correrà l’uom, seguendo eterni
Inganni, e mai non avrà cuor che basti
A sollevar dell’universo il velo?
(IV, 24-42)
…a me parea che sempre
La virtù, cui più il mondo applaude, è frutto
D’una impura semenza, e da men rea
Radice surge il vizio abominato;
Sicché a strappar dal crin de’ glorïosi
Le immeritate civiche corone
Fora giustizia, e in quella vece il capo
Fregiarne di colui, che sotto il taglio
S’incurva già di scellerata scure.
(V, chiusa)
…erasi in me spenta qualunque
Favilla estrema de la fede antica,
L’erma rupe lasciai, desideroso
Di veder le cittadi un’altra volta,
E di svelare all’uom con la parola
Del vero e dell’error ministra a un tempo,
La tenebrosa mia scïenza…
[…] poi che una strana
Voglia mi travagliava (orrido a dirsi!
D’uccider l’alma, la cui pura essenza
Sol di virtù […] si nutre.
(VII, 2-8 e 12-16)
…Ah, pera
Chi le dottrine generose e il culto
20
Paolo De Caro
D’Amor, che solo di prodigi è fonte,
Sovvertir cerca, e a disïar ne invita
Sopra i piaceri de lo spirto gli agi,
Le morbidezze sibarite!…
(XXIII, 26-31)
… Onde l’alma, di Dio nobil fattura,
Niega l’origin sua, sé stessa niega,
Niega la legge del dover, la legge
Dell’eterna bellezza, e alla ruina
D’ogni armonia dell’universo esulta.
Indi un’arte si crea varia, scomposta,
Tutta audacia e ad un tempo effeminata,
D’un ben, ch’esser non puote, invereconda
Promettitrice, ma di mali invece
Fecondissima madre…
( XXIV, 7-16)
Autore della novella era ancora quel Saverio Baldacchini, che, congedata
l’opera nell’agosto 1835, l’aveva fatta pubblicare, sempre a Napoli, dagli editori De Stefano e soci nei primi mesi del ’36: quindi quasi contemporaneamente
all’uscita del primo tomo delle Operette Starita. Il giudizio sull’arte di Leopardi,
travestito nei panni del pittore Vannini, diventa inappellabile. È un’arte che non
educa, non costruisce, non canta i «bisogni del secolo» (cfr. Palinodia), ma che
anzi, al di là delle apparenze, è tutta deversata alla corruzione sociale: «varia»,
«scomposta», «audace», e insieme «effeminata», destinata a non produrre che
«mali».
Del medesimo «libretto» parla – con velenosi riferimenti a Leopardi – l’abruzzese-napoletano Emidio Cappelli nella recensione al Claudio Vannini, scritta per il
«Progresso» (vol. XIII, a. V, q. XXVI, marzo e aprile 1836, pp. 248-268):
… E non vogliamo tacere esserci questo libretto [c.n.] venuto ad un bel bisogno. Quando alcuni scrittori d’ingegno e sapere più che mezzano, non sappiam per qual maligno risguardo de’ cieli tra noi surti, si son fatti, e tuttodì si
van facendo non men vili che orgogliosi propagatori di certi principi di disperazione, di dubbio, di odio e disprezzo per la vita e per gli uomini, e niente
altro c’insegnano a noi rimanere, che il cacciarci un coltello in gola [c. n.]. E
forse ancora per alto levando i loro stolti e inverecondi clamori, e mandando
ad un fascio la virtù ed il vizio, minacciano di rendere il mondo un’arena di
gladiatori ed un vasto campo di ferocie e di orrori. A tanta rovina si oppone
questo libretto [c.n.]…
(«Il Progresso» cit., p. 256; cit. anche in Bellucci, p. 252)
Dopo aver citato un largo brano della novella (cfr. qui sopra i vv. IV, 24-42),
il Cappelli così continuava:
21
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
E qui, senza che noi gliel diciamo, avrà il lettore per se stesso ravvisato, come
quest’opera non della moral filosofia solamente, ma delle arti eziandio è intesa a tutelar la causa. Ché se con dolore gravissimo dell’animo nostro noi veggiamo da alcuni scrittori impudentemente manomesse le scuole della morale
sapienza, e vilipesi e profanati gli aditi della virtù, non men grave ci torna
il vedere come non pochi addetti al culto delle Muse per sì strana e torta via
intendono al loro ministero, che di siffatti sacerdoti non sappiamo se quelle
vergini santissime abbiano più a pregiarsi o a vergognarsi. Né creda alcuno
che di quei meschini, che pur tanti sono, sia nostro intendimento di ragionare,
i quali poveri di mente e di cuore, ed affatto privi di poetici spiriti, ci vengono
tuttodì intorno strimpellando sui loro rauchi e scordati colascioni di loro insipide e schifose cantilene [c. n.]. Di costoro non mette il pregio di favella. Solo
diciamo che assai bene provvederebbe alla dignità delle Muse quella repubblica, la quale a questi increscevoli trombettieri di Pindo, a questi incomodi
del secolo, per decreto interdicesse l’uso di poetare…
(«Il Progresso» cit., p. 258)
«…Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,/ A cui grava il morir; noi femminette
[c.n.],/ Cui la morte è un desio, la vita amara.// Voi saggi, voi felici…» (I nuovi
credenti, vv. 100-103). L’amarezza di Leopardi per gli attacchi più o meno allusivi
di cui era fatto oggetto dai circoli culturali di Napoli (non solo reazionari, dunque,
ma anche e soprattutto liberali), acuì il suo isolamento e appesantì le già miserevoli
condizioni della sua esistenza fisica; ma provocò anche, dal momento che era disconosciuto di essere poeta e riconosciuto soltanto come filosofo della negazione,
l’impellenza di affermare la sua orgogliosa inattualità e di definire nettamente una
distanza di pensiero dai suoi detrattori e critici, diretti e indiretti, a partire da quelli
a lui più vicini, a Napoli. I segni di questa tensione intellettuale e morale affiorano
nella sempre più rada corrispondenza degli ultimi suoi anni, per non dir mesi, di
vita. Siamo nel periodo in cui, tra il ’35 e la prima metà del ’37, il poeta, prima di
“procombere”, completa i Pensieri e compone (dettando buona parte dei testi a
Ranieri), forse, Aspasia e almeno una “sepolcrale” (Sopra il ritratto di una bella
donna…), e certo la Palinodia e i Nuovi credenti, il Tramonto della luna e la Ginestra, e sette almeno degli otto canti dei Paralipomeni della Batracomiomachia.
Siamo nei pressi di una poesia completamente innovativa nei quadri narrativi e
nei registri linguistici, una poesia di esuberante e indocile creatività, di fantasia
liberata, dov’è bruciato l’equivoco del “malinconico” romantico e si enfatizza la
distanza ironica con gli “altri” («Ho letto il vostro libro. Malinconico al vostro
solito… Malinconico, sconsolato, disperato…»), proprio mentre si ribadisce l’insondabile acronicità dell’essere. Quest’aspra fantasia è disciolta nella complessità
del pensiero intorno al rapporto, sempre ritornante, fra gioventù e vecchiaia, fra
ciò che è vita e ciò che è morte, fra natura e uomo, fra antropologia e storia, fra
non-tempo (infinito) e tempo (finito), e nelle acuzie della disposizione satirica:
22
Paolo De Caro
pensiero e stile complessi (come merita la meditazione sulla complessità del vero),
a giri lunghi, tutt’altro che «slogati», come pensava Carducci a proposito delle ottave dei Paralipomeni. Sarebbe arduo spiccare gli “esterni”, per gran parte “aerei”,
di rappresentazione lirico-descrittiva di queste opere dai duri motivi di contrasto
con il legittimismo tramontante e con l’imperante “scuola manzoniana” del liberalismo italiano (e napoletano, in particolare), per un verso; e per l’altro, dal dissidio
nato da una grande e solitaria avventura intellettuale scivolata nel sortilegio di una
città che ha capovolto il suo sogno russoviano: dallo specchio incantato di Mergellina a un’indecifrabile e insopportabile città morta, una Napoli-Topaia all’aria
aperta (ben peggiore della Nubiana-Recanati di Ottonieri-Leopardi), brulicante
di popolo minuto, irriducibilmente reattiva agli istinti ed estranea a quel progresso tanto esaltato (cfr. Zib., 1027 ecc.); una città-simbolo, “meridionale” e antica,
«immensa»; «un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli», «veramente
barbaro», cresciuto dentro un incredibile paesaggio naturale e, in significativo opposto, accanto ai resti, superi e inferi, di Pompei ed Ercolano: nella natura che sta,
due manifestazioni della finitudine della storia e della vita mortale dell’uomo: due
paesi-fantasma di ombra-e-luce, di morte-e-vita che ritroviamo in un inaspettato
immaginario metamorfosati nella Ginestra e nei Paralipomeni.
3.
Sin dalla fine del ‘35, prima ancora che le Operette fossero licenziate dallo
stampatore (era Vincenzo Puzziello dell’Aquila), Leopardi paventava gli intralci
in cui il libro si sarebbe impigliato. Rispondendo al padre ed evitando di toccare
argomenti sensibili (la Curia, i Borboni, i liberali), trovava un facile e forse comune
capro espiatorio nella denuncia dei costumi napoletani, di cui era esempio vivente
il libraio:
[…] Ella [il padre Monaldo] viva sicuro che le correzioni necessarie alle Operette morali, da Lei amorevolmente suggeritemi, si faranno, se però questa
edizione andrà innanzi, cosa della quale dubito molto, perché sono risolutissimo di non dar nulla al libraio non solamente gratis, ma neppure con
pagamento anticipato; così consigliandomi tutti gli amici, che bisogni fare in
questo paese di ladri; ma d’altra parte questi librai mezzo falliti restano tutti
senza parola al solo udire il nome di anticipazione…
(lettera del 4 dicembre 1835, Ep. 1918)
Il 6 di aprile 1836, a tre mesi dall’uscita del primo tomo delle Operette, in una
lettera al Sinner (Ep. 1934), riconfermava il suo dubbio di veder completato il piano
editoriale previsto, scaricando mezza responsabilità sulla scaltrezza di Starita:
[…] perché credo – scriveva – che l’ediz. non andrà innanzi, parte per bontà
23
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
di quelli che hanno allarmata [c.n.t.] la censura sopra tale pubblicazione,
parte perché io sono disgustatissimo del pidocchioso libraio, il quale avendo
raccolto col suo manifesto un numero di associati maggiore che non credeva,
sicuro dello spaccio, ha dato la più infame edizione che ha potuto, di carta,
di caratteri e di ogni cosa.
Finché, alla fine dell’anno, il 22 dicembre 1836 (Ep. 1951), scrivendo «Di
campagna» [dal casino dei Ferrigni, alle falde del Vesuvio, fra Torre del Greco e
Torre dell’Annunziata, ora Villa delle Ginestre] al suo amico svizzero a Parigi, era
costretto a dichiarare:
L’edizione delle mie Opere è sospesa, e più probabilmente abolita, dal secondo volume in qua, il quale ancora non si è potuto vendere a Napoli pubblicamente, non avendo ottenuto il publicetur. La mia filosofia è dispiaciuta
ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro,
possono ancora e potranno eternamente tutto.
E continuava (lo noto perché utile all’argomento di questo scritto):
Se volete ch’io vi spedisca per la posta un altro esemplare del 2.do vol. per
completare il numero 5 [i cinque interessati a ricevere a Parigi le Operette,
oltre che i Canti, e cioè, lo stesso Louis de Sinner, Vincenzo Gioberti, Friederich Heinrich Bothe, estimatore e traduttore dal tedesco di Leopardi, Louis
Pasquier, figlio di Étienne-Denis, presidente della Camera dei Pari, e Charles
Lebreton, allievo di Sinner], non avete che a scrivermelo. (ivi)
A questo punto, fra autore e editore, nonostante tutti i disguidi del possibile,
si è già arrivati a una specie di asimmetrica convergenza di interessi, e per un po’ il
dramma si mischia all’avventura e, se così può dirsi, alla farsa.
Leopardi, nel pericolo del colera avanzante, mantenendosi per lunghi periodi lontano dalla città, alle falde del Vesuvio, viene preso come da una febbre di
attivismo e di fuga. Scrive (al padre) di voler «fuggire da questo paese di Lazzaroni
e Pulcinelli nobili e plebei, tutti ladri e b.f. [= baron fottuti] degnissimi di Spagnuoli e di forche » (3 febbraio 1835, v. Ep. 1889). Nel ’34 aveva rinunciato all’ipotesi
di trasferirsi a Parigi. Ora cerca inutilmente di trovarsi un lavoro, pensando a un
corso semestrale di letteratura italiana, e pensa di trasferirsi almeno per quei mesi
a Palermo. E mentre la sua mente viene sollecitata a un molteplice sforzo creativo, dalla meditazione filosofica alla lirica alla satira all’epica, che manifesti il più
variamente e nettamente possibile la sua risposta laica in difesa del vero; mentre
ribatte colpo su colpo, in privato e in pubblico, agli spiritualisti italiani e napoletani (da Vieusseux a Capponi – il più ingenuo ed onesto: il più «candido», in senso
volterriano –; da Tommaseo, a Mamiani, a Baldacchini, a Cappelli, a Liberatore, a
24
Paolo De Caro
Ricciardi per citare i piu noti); ecco che, preso atto dell’impossibilità di proseguire
nell’edizione delle sue Opere, si fornisce da Starita di un numero di copie (24, dice)
da spedire ad amici ed estimatori che gliene avessero fatto richiesta e, afferrato dal
demone dello stile, rivede il testo dei due volumi stampati e, grazie ai buoni uffici
di Louis de Sinner, pensa di farsi stampare all’estero, dal Baudry o altro editore a
Parigi, i lavori che la censura gli vietava di diffondere:
Credete che mandando costì [a Parigi] un esemplare delle mie o poesie o
prose, con molte correzioni e aggiunte inedite [c. n.], ovvero un libro del
tutto inedito [i Pensieri], si troverebbe un libraio (come Baudry o altri) che
senza alcun mio compenso pecuniario [c.n.t.] ne desse un’edizione a suo conto? (ivi)
Si osservi Leopardi. Fino all’anno prima, secondo Chiarini (p. 424), si era
addirittura indebitato per favorire l’uscita delle sue Opere da Starita, in vista di un
successo nelle vendite. Ora, fra delusione e ira, si dilegua in lui ogni bisogno di affermare una più che legittima (e vitale!) aspettativa di ritorno finanziario. Forse incalzato dal sentimento di una fine imminente, forse animato da quella vecchia ansia
di “gloria” letteraria che non gli aveva dato mai tregua, ora è proteso a difendere la
piena legalità della sua visione del mondo, alternativa alla dottrina spiritualista; e
perciò è spinto a chiudere testimonialmente le sue opere più rappresentative in un
quadro coerente di compiutezza. Troviamo una necessità, un’urgenza incomparabili nella determinazione autoriale degli ultimi due anni leopardiani. Alla fine del
1836, a sei mesi dalla morte, prima di tutto egli:
– vuole ri-pubblicare i Canti e/o le Operette «mandando [a Parigi] un
esemplare [Starita] delle sue o poesie o prose» fornito di «correzioni e
aggiunte inedite». Insomma, scritta la Ginestra,
– deve completare il Tramonto della luna, per dare piena configurazione ai
suoi Canti riveduti;
– deve veder pubblicate le Operette complete, che la censura napoletana
ha interrotto, aumentate dei tre pezzi annunciati dalla Notizia del tomo
primo 1835 (forse quelli maggiormente responsabili dell’intervento della
polizia: D. De Robertis, p. 335), e cioè del Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, scritto nel ’25, del Copernico e del Dialogo di Plotino e
di Porfirio, scritti nel ’27, forzatamente esclusi a Firenze [Piatti 1834];
– deve veder pubblicati i completati (o da completare) Pensieri;
– deve veder pubblicati i Paralipomeni, ancora in via di composizione e di
dettatura a Ranieri. La chiusa del poemetto, come ora la leggiamo, fu compiuta, secondo quanto affermò il suo sodale, a pochi giorni dalla morte.
Così improvvisa e compressa, non si spiega che con l’urgenza di immette-
25
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
re un’opera nuova nell’elenco di un piano editoriale in via di definizione,
o comunque di un ideale piano di opere für ewig, prima di cedere.
Tre mesi ancora dopo quella comunicazione di dicembre, il 2 marzo del
1837, Leopardi, tornato a Napoli dopo un protratto e disagiato soggiorno a villa
Ferrigni, scrive una lettera (autografa) a Sinner (Ep. 1956). Per il testo dell’edizione
francese propone di prendere a riferimento l’edizione Starita (Canti e Operette
morali, volume I), con le correzioni che vi ha apportato a mano, e, per il volume II,
l’edizione Piatti delle Operette:
Io manderei i due primi volumi in un esemplare correttissimo e chiarissimo
[c.n.], ma il terzo, cioè il secondo delle operette morali non posso mandarlo
altrimenti, per la parte edita, che nell’edizione di Firenze, tal qual è: perché mi è impossibile di fare i cangiamenti e le correzioni necessarie sopra
quell’edizione, che è senza interlinea e senza margini.
Nel poscritto (di mano del Ranieri), steso in francese per facilitare la consultazione dell’editore, Leopardi annuncia alcune novità (i due «brani inediti» e i
«numerosi miglioramenti» dei Canti, il «volume inedito» dei Pensieri) e indica il
piano di una possibile edizione parigina [si ripristina nel testo l’accentazione francese che l’amanuense ha trascurato]:
Je ferai à mes Operette morali les additions que je promets dans l’édition de
Naples. Elles consistent en trois Opuscules d’une étendue assez considérable. On peut voir leurs titres dans la Notice que j’ai citée.
J’ajouterai aussi à mes poésies des morceaux inédits.
En Italie j’aurais donné quelque traduction inédite: par exemple, une traduction du Manuel d’Epictète, une traduction de quatre Discours moraux
d’Isocrate, etc. tout cela n’est bon à rien en France.
Je veux publier un volume inédit de Pensées sur les caractères des hommes et
sur leur conduite dans la société; mais je ne veux pas m’obliger de le donner
au même libraire qui publiera le reste, si auparavant je n’ai pas vu du moins le
premier volume imprimé, afin de pouvoir juger de l’exécution.
Au reste je ne tiens en aucune manière à ce que l’édition soit faite sous le titre
général d’Œuvres. On peut, et même on devrait publier un volume sous le
titre indépendent de Canti, et deux autres sous celui de Operette morali. Je
ferai des amélirations nombreuses à tous ces trois volumes.
«Io manderei i due primi volumi in un esemplare correttissimo e chiarissimo».
«Je ferai des améliorations nombreuses à tous ces volumes». Leopardi, dunque,
pone mano a due copie di scarto dell’edizione Starita, e le corregge per Parigi. Sono
le copie Nc della Nazionale di Napoli. Ma chi esamina la grafia delle correzioni, si
avvede che esse sono scritte currenti calamo, come per copie preparatorie, che non
26
Paolo De Caro
possono essere quelle da mandare a Parigi. Soltanto dopo questa specie di minuta,
approntata dunque fino al marzo ’37, l’autore, sia per i Canti che per le Operette,
penserà a trasferire le correzioni in un «esemplare correttissimo e chiarissimo».
FGc, con correzioni incomplete, è una di queste copie che la morte dell’autore (14
giugno 1837) ha impedito di completare? o è una copia non riuscita e messa da parte, che Leopardi non ha ritenuto degna di essere mandata al suo editore parigino?
o, forse meno probabilmente, è una copia preparatoria a Nc, poi scartata?
Se non il corpus delle Opere, almeno singolarmente le maggiori, che non si
sono potute pubblicare in quel di Napoli, si pubblicheranno a Parigi, con un testo
rinnovato e compiuto. Sarebbe stata come una voce che giungesse dalla città di quei
Lumi rinnegati vigliaccamente dalla sua età. Nel poco che gli rimaneva da vivere,
Leopardi non avrebbe visto esauditi i suoi auspici. Ma il destino s’incaricherà di una
vendetta postuma: sarà proprio il Baudry a pubblicare sei anni dopo (1842), per l’interessamento di Ranieri e Sinner, l’ «empio manoscritto» dei Paralipomeni che era
stato vanamente inseguito dal cardinal Lambruschini e dal principe di Metternich.
Dal canto suo, l’infido Starita, bloccato dalla censura, messo sull’avviso dalla
polizia, timoroso di perdere la fiducia degli scrittori e dei lettori napoletani, la sua
clientela prima, e nel contempo interessato a non perdere il denaro investito (compreso quello anticipato dall’autore) e a non mandare in fumo le attese di guadagno
calcolate, cerca di disorientare polizia, preti e nuovi credenti, e di evadere diversamente (illegalmente, clandestinamente, si dovrebbe dir meglio) le copie stampate
ma invendibili; e questo con una trovata molto semplice: sostituendo il frontespizio delle Operette. Capisco che un tale escamotage, che si praticava di frequente
nell’editoria non autorizzata, in questo caso, per la plateale ingenuità del sotterfugio, possa saper troppo della leggendaria creatività popolare partenopea; ma è ciò
che nei fatti avvenne, forse con assenso di Leopardi, forse anche per concessione
della polizia; e in buona parte funzionò, come si può dedurre dalla proporzione
delle copie, originali e modificate, che sono sopravvissute fino a noi.
L’edizione delle Operette morali, volume I, ricevette due altre emissioni modificate nel frontespizio:
– la prima, con frontespizio
PROSE
DI
GIACOMO LEOPARDI.
EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA
E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE.
NAPOLI.
PRESSO SAVERIO STARITA
Strada Quercia n. 14.
–
1835.
27
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
ma che si può credibilmente datare dalla seconda metà del 1836 ai primi mesi del
1837. È questa l’emissione utilizzata per le correzioni leopardiane di FGc. L’identificazione dell’opera si restringe e, oltre al titolo cambiato, da OPERETTE MORALI a PROSE, qualcos’altro si sta perdendo. L’indicazione della TERZA EDIZIONE viene soppressa. Viene modificata l’area informativa dell’opera: l’edizione non è più CORRETTA, ED ACCRESCIUTA / DI OPERETTE NON PIÙ
STAMPATE, ma, con la messa in oblio della fondamentale indicazione OPERETTE, diventa EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA, / E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE. C’è l’autore con l’editore e il luogo, ma è scomparsa
la centralissima, quasi insostituibile via Toledo (un segno che Starita sta lì lì per
fallire?), lasciando per indirizzo soltanto la più laterale e oscura strada (ora vicolo)
Quercia;
– la seconda (di cui si trovano testimoni alla Biblioteca Didattica dell’Università di Macerata, alla Sormani di Milano e all’Alessandrina di Roma), che probabilmente fu stampata in un momento ancora successivo (forse posteriormente al
giugno ’37, dopo la morte del poeta), e che reca sul frontespizio:
PROSE
DI
GIACOMO LEOPARDI.
EDIZIONE CORRETTA, ACCRESCIUTA,
E SOLA APPROVATA DALL’AUTORE.
ITALIA
–
1835.
dove è scomparso il Volume I, è scomparsa la Terza edizione e, soprattutto, in
un’indistinta Italia disurbanizzata, è scomparsa Napoli.
Come allora si faceva, l’editore vendeva i fascicoli, l’acquirente curava la legatura. Così è accaduto che un sol volume compatti i Canti con le Prose [Operette
morali, volume I], decidendo l’aspetto paratestuale che contraddistingue la doppia
“soglia” di FGc. È una soluzione spesso cercata dai lettori leopardiani dell’Ottocento, per aver molto in poco, e senza dare nell’occhio. Un’uguale soluzione
ritroviamo nell’elegante esemplare in marocchino blu a rilievo con taglio in oro sui
tre lati, che si ammira alla Sormani di Milano. Nell’esemplare della “Magna Capitana”, invece, il piatto di cartone è rivestito da un modesto foglio marmorato; sul
dorso, di vile pellame bruno, caratteri e false nervature sono stampigliati in stento
color oro, con il cognome dell’autore LEOPARDI e il titolo RIME /E /PROSE; i
risguardi sono in carta pesante bianca; il taglio agisce sui tre lati delle pagine, senza
aggiunta di tinte o altri ornamenti. Legatura e cucitura, se non possono dirsi raffinate, in compenso esprimono un’idea di timida solidità.
28
Paolo De Caro
La ricerca sulla provenienza di FGc è disseminata d’inciampi. Sono perduti,
forse mancano da sempre, gli elenchi storici degli introiti. L’interrogativo su come
sia capitato qua un volume del «malinconico» (o «sciagurato») Leopardi – in una
biblioteca cresciuta ai suoi inizi soprattutto grazie alle acquisizioni da conventi
soppressi – è destinato a rimanere insoddisfatto; a meno che, a qualche studioso
locale, non venga curiosità di ispezionare nel vecchio patrimonio. Si dovrebbe risalire nella storia delle donazioni private, messe in lista da un vecchio articolo di
Oreste De Biase, e cominciare a esplorare, se ne rimane ricordo, nei fondi che vi
sono citati (i Varo, i Celentano, gli Staffa, i Parisi, i Tugini…: questi ultimi possedevano, per fornire un indizio, le opere di Giordani). Il catalogo a fogli mobili
Staderini (un reperto primonovecentesco della vecchia Biblioteca [cfr. De Biase, p.
280], che andrebbe salvaguardato e restaurato), conserva ancora la scheda dell’opera, perfettamente descritta nella sua natura binaria (Canti + Operette). Ma la consistenza lascia trapelare anche un inatteso mannello leopardiano d’epoca, indizio
del vecchio legame che unì in età moderna e fino al primo Novecento Napoli al
Tavoliere. Tralasciando il fondo del leopardista Zingarelli, che non è poca cosa, fra i
testimoni leopardiani della Biblioteca foggiana si scopre che c’è un esemplare delle
Operette morali Piatti 1834, o, ancora, un esemplare dei Paralipomeni nell’editio
princeps parigina di Baudry 1842. Quasi certamente, anche i Canti e le Operette
Starita facevano parte del patrimonio librario di una famiglia borghese. Tutto sembra riportarci intorno alla metà dell’Ottocento, forse ancor prima dell’edizione
delle Opere Le Monnier curate da Antonio Ranieri (1845, qui nella ristampa 1865),
da Prospero Viani (1846) e da Pietro Pellegrini e Pietro Giordani (1853): dono alla
Comunale di Lorenzo Scillitani (1827-1880), l’illuminato sindaco del capoluogo
daunio.
Sul frontespizio dei Canti, la storia novecentesca della Biblioteca è ricordata
nel triplice marchio che violenta la pagina. Il primo timbro, circolare, della Biblioteca Comunale di Foggia (1833-1924), include due stemmi accostati, del fascio littorio e delle tre fiammelle, denunciando così l’epoca d’immissione nel patrimonio
librario della Biblioteca, cioè a cavallo fra gli anni Venti e gli anni Trenta, quando
la Comunale era allocata nella ex-chiesa di San Gaetano. Il secondo, più piccolo
e semplice timbro circolare sbarrato segnala il passaggio del libro dalla Comunale alla promossa Biblioteca Provinciale di Foggia (1937): quindi l’esemplare non
può essere stato inventariato se non dal 1937, quando la vecchia Biblioteca Comunale traslocò al Palazzo della Dogana, sede dell’amministrazione Provinciale.
Il terzo timbro, con l’ex libris del cielo stellato e delle messi agitate dal vento della
pianura, segnala il passaggio alla rinnovata Provinciale come “Magna Capitana”
dell’anno 2000. A metà del libro, la pagina col titolo PROSE reca un solo timbro,
quello dell’ex libris della “Magna Capitana”: un segno di avvertenza sulla natura
composita del volume. In chiusura, la p. 196 reca il timbro circolare della vecchia
Provinciale con un numero d’inventario sbarrato. L’ultima pagina (p. 198), in calce,
29
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
riporta di nuovo i timbri circolari della Comunale e della Provinciale, un timbro
lineare della Comunale, oltre a quattro numeri di inventariamento, due a mano e
due a timbro.
Lasceremo agli specialisti della descrizione bibliografica ulteriori e più pertinenti specificazioni dell’esemplare e dei suoi scioglimenti semiotici. A noi preme
avanzare alcune domande elementari: le correzioni sono dell’Autore? a quando si
possono datare? perché non proseguirono oltre il richiamo all’Errata?
La mano del Leopardi è subito evidente, sia che l’autore corregga in tondo
similtipografico che in corsivo, soluzione scrittoria più frequente. La E maiuscola
come un 3 girato, la L maiuscola con il taglio inferiore arcuato, la r e la v minuscole
tipografiche, la d minuscola con doppio anello a sinistra, la t minuscola col taglio
alto deciso e spesso con anellatura a cruna d’ago, le famose “crocette” (segni diacritici per indicare le giunte: cfr. Moroncini, pp. XXVIII-XXIX), la grafia minuta
per utilizzare margini e interlinee: tutto ci riporta alla mano del grande scrittore.
Le correzioni a penna, con uso di inchiostro scuro, sono vergate da una punta
sottile, con cura e a caratteri rimpiccioliti e chiari, e seguono (non completamente:
noi ne abbiamo contate 89) le indicazioni delle cento (giusto 100) Correzioni degli
errori di stampa raggruppate in coda al volume delle Operette, alle pagine 197-198.
A volte l’elenco è richiamato da Leopardi con l’abbreviazione in parentesi tonda
«(v. l’errata)» o «(v. Errata)». Il correttore ristabilisce soltanto le lezioni corrette
per non far continuo ricorso alle pagine finali, ma non si concede altre aggiunte, o
modificazioni, o varianti, come invece avviene in Nc: segno che siamo di fronte o
a una copia di preparazione, poi negletta, oppure di trascrizione finale, ma presto
interrotta. Il periodo non dovrebbe uscire dall’arco temporale febbraio-maggio,
addirittura primi di giugno, 1837; dunque i mesi fra l’ultimo ritorno a Napoli da
villa Ferrigni e il suo tentato nuovo trasferimento verso le ginestre del Vesuvio.
Poco prima che la morte, all’improvviso, sorprendesse il poeta a vico Pero.
Escludendo gl’interventi minimi, non palesemente attribuibili alla mano
dell’autore, e riguardanti le semplici interpunzioni, i segni di elisione, i segni verticali di stacco, le sbarrature di lettere o parole, le sottolinature per indicare la
scrittura in corsivo (come in «Eureka, eureka.» in attacco al Dialogo di un fisico e
di un metafisico) e, quasi sempre, le sovrapposizioni di singole lettere, presentiamo
all’attenzione dei lettori, a titolo di esemplificazione identificativa e senza nessuna
pretesa filologica, le seguenti correzioni, delle quali elenchiamo una serie numerata
da 1 a 18, il numero della pagina p. del testo Starita, il numero della pagina p. e del
rigo r. dell’ed. crit. Besomi, il brano interessato] con la correzione] in grassetto:
1 –p. 36, p. 48 r. 96, Dialogo di Ercole e di Atlante: «come quando la Sicilia
si schiantò dall’Italia e l’Africa] Affrica] dalla Spagna»;
2 –p. 44, p. 59 r. 120, Dialogo della Moda e della Morte: «questo negozio
degli immortali ti] scottava»):
30
Paolo De Caro
3 – p. 50, p. 68 r. 94, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi:
«poiché altro mezzo non pare che vi] si trovi»;
4 – p. 51, p. 69 r. 103, Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Silligrafi:
«quo ferrea primum esinet] desinet] ac toto surget»;
5 –p. 74, p. 107 r. 37, Dialogo della Terra e della Luna: «Delalande] De la
Lande]»;
6 –p. 78, p. 111 rr. 114-115, Dialogo della Terra e della Luna: «come crede un fisico moderno? x [crocetta di L.] che sei fatta come affermano alcuni
inglesi, di cacio fresco? (v. l’errata) [parentesi di L.] ] che Maometto un giorno…»;
7 –p. 111, p. 153 r. 46, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare:
«non facendosi meraviglia che gli uomini x [crocetta di L.] sieno uomini (v.
Errata) [parentesi di L.]]; cioè a dir creature»;
8 –p. 113, p. 156 r 102, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare:
«un concetto e non un] sentimento»;
9 – p. 115, p.158 rr. 140-141, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare: «ma dunque perchè x [crocetta di L.] viviamo noi, voglio dire, perchè
(v. Errata) [parentesi di L.]] consentiamo di vivere?»);
10 –p. 117, p. 160 r. 195, Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare:
«Poche] Più] settimane, come tu sai.»;
11 – p. 125, p. 171 r. 91, Dialogo della Natura e di un Islandese: « ma solo a
essi medesimi, quanto] quando] eglino avessero disprezzati»);
12 – p. 127, p. 174 r. 137, Dialogo della Natura e di un Islandese: «come se]
la vita umana non fosse bastevolmente misera»;
13 – p. 132, p. 179 r. 228, Dialogo della Natura e di un Islandese: «Mentre
stava] stavano] in questi e simili ragionamenti»;
14 –p. 135, p. 186 r. 52, Il Parini, ovvero della gloria, I: «in Argo la statua di
Telesilla, poetessa, guerriera, e] e salvatrice della patria»;
15 – p. 147, p. 197 r. 60, Il Parini, ovvero della gloria, III: «dal quale non è
facile che egli si muova] si rimuova]»;
16 – p. 150, p. 200 rr. 33-34, Il Parini, ovvero della gloria, IV: «giudici delle
opere indirizzate a destar gli affetti e le immagini] a destar affetti ed
immagini]»;
17 – p. 158, p. 208 rr. 91-92, Il Parini, ovvero della gloria, V: «o dalle ricchezze, o dagli onori x [crocetta di L.] che le sono renduti, [anche la correzione è scritta
in corsivo]
] o dalla stima»;
18 –p. 170, p. 220 r. 87, Il Parini, ovvero della gloria, VIII: «e forse gli sono
superiori anche di] al] presente».
Sulla indecidibilità cronologica delle correzioni, se preparatorie o successive
a Nc, suppongo alla fine che Leopardi, a causa della morte improvvisa, non poté
31
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
completare le correzioni sull’esemplare delle Prose [Operette morali], che i fascicoli sciolti di FGc rimasero da canto e che, per trascuraggine e senza esaminare l’interno, furono venduti in seguito come libro da Ranieri, o dai suoi eredi, o da altri.
Quando ricompare la sua traccia nel libro ricomposto e rilegato delle Rime
e Prose, ci troviamo già alla Biblioteca Comunale (Sala 6°, Scaffale I, Palchetto
5°, Numero 13), nella recuperata sede di San Gaetano, dove, rinnovati, gli scaffali
arrivarono a nove palchetti, le sale arrivarono a undici, e il patrimonio librario
raggiunse i quarantamila volumi. Dovremmo attestarci, consideratati anche i caratteri tardo-liberty dell’etichetta sul risguardo, in pieni anni Venti. Il passaggio
alla nuova struttura, la Biblioteca Provinciale “G. Postiglione”, intorno al 1937, è
documentato dalla scheda Staderini e dalla nuova etichetta della collocazione sul
risguardo (XIII C 2415). Il resto è facilmente riscontrabile.
Tavole fotografiche
Tutte le riproduzioni sono state autorizzate alla pubblicazione dalle direzioni delle
Biblioteche di appartenenza.
Le tavole I-IV mostrano i frontespizi nell’evoluzione tipografica delle emissioni Starita: dalle Operette morali, vol. I (Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino), alle Prose, Napoli 1835 (nella da noi cosiddetta FGc della Biblioteca Provinciale “La
Magna Capitana” di Foggia), alle Prose, Italia 1835 (Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo
Sormani di Milano), fino alle Operette morali corrette da Leopardi (nella Nc della Biblioteca
Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
La tavv. V-VI mostrano, nel dorso e nel piatto anteriore, l’esemplare rilegato di Leopardi, Rime e Prose (Canti + Prose [Operette morali, vol I], Napoli, Starita, 1835), conservato
nella Biblioteca Provinciale di Foggia (FGc), di cui le tavv. VII-XIV mostrano le pp. 74 (5), 78
(6), 111 (7), 115 (9), 135 (14), 158 (17) con le correzioni di Leopardi e le pp. 197-198 le Correzioni degli errori di stampa, che l’autore ha consultato per i suoi interventi manoscritti.
Le tavv. XV-XVIII derivano dalla collazione delle pagine 74, 78, 135 e 158 in riproduzione da Nc, mentre, ai fini di un confronto con un più esteso autografo coevo alle correzioni di FGc, le tavv. XIX-XXII riproducono le quattro pagine della lettera del 9 marzo
1837 scritta da Giacomo al padre Monaldo (cfr. Ep. 1957, pp. 2094-2096), ora conservata nella
Sezione Manoscritti (Carte Leopardi) della Biblioteca Nazionale di Napoli. Se ne trascrive
qui il testo:
Napoli, 9 marzo 1837
Mio caro Papà
Non ho mai ricevuto riscontro a una lunga mia di Decembre passato, nè so con
chi dolermi di questo, perchè la nostra posta è ancora in tale stato, che potrebbe benissimo trovarvisi da qualche mese una sua lettera per me, e non essermi
stata mai data. Io, grazie a Dio, sono salvo dal cholèra, ma a gran costo. Dopo
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Paolo De Caro
avere passato in campagna più mesi tra incredibili agonie, correndo ciascun
giorno sei pericoli di vita ben contati, imminenti, e realizzabili d’ora in ora, e
dopo aver sofferto un freddo tale, che mai nessun altro inverno, se non quello
di Bologna, io aveva provato il simile; la mia povera macchina, con dieci anni di
più che a Bologna, non potè resistere, e fino dal principio di Decembre, quando la peste cominciava a declinare, il ginocchio colla gamba diritta, mi diventò
grosso il doppio dell’altro, facendosi d’un colore spaventevole. Nè si potevano
consultar medici, perché una visita di medico in quella campagna lontana non
poteva costar meno di 15 ducati. Così mi portai questo male fino alla metà di
Febbraio, nel qual tempo, per l’eccessivo rigore della stagione, benché [II] non
uscissi punto di casa, ammalai di un attacco di petto con febbre, pure senza
potere consultare nessuno. Passata la febbre da se, tornai in città, dove subito
mi riposi in letto, come convalescente, quale sono, si può dire, ancora, non
avendo da quel giorno, a causa dell’orrenda stagione, potuto mai uscire di casa
per ricuperare le forze con l’aria e col moto. Nondimeno la bontà e il tepore
dell’abitazione mi fanno sempre più riavere, e il ginocchio e la gamba sì per la
stessa ragione, sì per il letto, e sì per lo sfogo che l’umore ha avuto da altra parte,
sono disenfiate in modo, che me ne trovo quasi guarito.
Intanto le comunicazioni col nostro Stato non sono riaperte, e fino a questi
ultimi giorni, ho saputo dalla Nunziatura che nessuna possibilità v’era che
si riaprissero per ora. Ed è cosa naturale, perchè il cholèra oltre che è attualmente in vigore in più altre parti del regno, non è mai cessato neppure a
Napoli, essendovi ogni giorno, o quasi ogni giorno, de’ casi che il governo
cerca di nascondere. Anzi in questi ultimi giorni tali casi paiono moltiplicati,
e più e più medici predicono il ritorno del contagio in primavera o in estate,
ritorno che anche a me pare assai naturale, perché la malattia non ha avuto lo
sfogo ordinario, forse a causa della stagione fredda. Questo incomodissimo
impedimento paralizza qualunque mia risoluzione, e di [III] più mi mette
nella dura ma necessarissima necessità di fermar la casa qui per un anno: necessità della quale chi non è stato a Napoli non si persuaderà facilmente. Qui
quartieri ammobiliati a mese non si trovano, come da per tutto, perché non
sono d’uso, salvo a prezzi enormi, e in famiglie per lo più di ladri. Io il primo
mese dopo arrivati pagai 15 ducati, e il 2.do 22, e a causa della mia cassetta
fui assalito di notte nella mia stanza da persone, che certamente non erano
quei di casa. Quartieri smobiliati non si trovano a prendere in affitto se non
ad anno. L’anno comincia sempre e finisce nel 4 di maggio, ma la disdetta si
dà ai 4 di gennaio; e nei 4 mesi che corrono tra queste due epoche, si cercano
le case e si fanno i contratti. Ma le case sono qui una merce così estremamente ricercata, che, per lo più, passato gennaio, non si trova un solo quartiere
abitabile che sia sfittato. Ne segue che un infelice forestiero deve a gennaio
sapere e decidersi fermamente di quello che farà a maggio: e se avendo disdetto il quartiere, ed essendo risoluto di partire, lascia avanzar la stagione
senza provvedersi; sopraggiungendo poi o un impedimento estrinseco, come
questo delle comunicazioni interrotte, o una malattia impreveduta, cosa tanto
possibile a chi abbia una salute come la mia, o qualunque altro ostacolo ad
andarsene, può star sicuro di dovere il 4 di maggio o accamparsi col suo letto
33
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
e [IV] co’ suoi mobili in mezzo alla strada, o andare alla locanda, dove la più
fetida stanza, senza luce e senz’aria, costa al meno possibile dodici ducati al
mese, senza il servizio, che è prestato dalla più infame canaglia del mondo.
Io non le racconto queste cose, se non perché Ella mi compatisca un poco
dell’essere capitato in un paese pieno di difficoltà e di veri e continui pericoli,
perché veramente barbaro, assai più che non si può mai credere da chi non vi
è stato, o da chi vi ha passato 15 giorni o un mese vedendo le rarità.
[spazio indirizzo] Al Nobil Uomo | Sig. Conte Monaldo Leopardi | Roma per
| Recanati
Se questa le giunge, non mi privi, la prego, delle nuove sue, e di quelle della
Mamma e dei fratelli, che abbraccio con tutta l’anima, augurando loro ogni
maggior consolazione nella prossima Pasqua. Ranieri (una sorella del quale ha
avuto il cholèra) la riverisce distintamente. Mi benedica e mi creda infelice ma
sempre affettuosissimo suo figlio
Giacomo.
34
Paolo De Caro
Tav. I. Operette morali, vol. I, Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avellino).
35
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. II. Prose [ = Operette morali, vol. I], Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
36
Paolo De Caro
Tav. III. Prose [ = Operette morali, vol. I], Italia, 1835 (Biblioteca Comunale Centrale di Palazzo Sormani di Milano).
37
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. IV. Operette morali, vol I [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita, 1835, frontespizio (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
38
Paolo De Caro
Tav. V. Rime e Prose (ma titolo della legatura = Canti + Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli,
Starita, 1835, dorso (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
39
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. VI. Rime e Prose (ma titolo della legatura = Canti + Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli,
Starita, 1835, piatto anteriore (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
40
Paolo De Caro
Tav. VII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 74, con particolare. (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
41
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. VIII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 78, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
42
Paolo De Caro
Tav. IX. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 111, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
43
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. X. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 115, con particolare (Biblioteca
Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
44
Paolo De Caro
Tav. XI. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli Starita, 1835, p. 135, con particolare (Biblioteca
Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
45
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. XII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p. 158, con particolare (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
46
Paolo De Caro
Tav. XIII. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p.197 (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
Tav. XIV. Prose [= Operette morali, vol. I]), Napoli, Starita, 1835, p.198 (Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia).
47
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. XV. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita,
1835, p. 74 (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
48
Paolo De Caro
Tav. XVI. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita,
1835, p. 78 (Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
49
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. XVII. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita,
1835, p. 135 (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
50
Paolo De Caro
Tav. XVIII. Operette morali [con correzioni autografe di Giacomo Leopardi], Napoli, Starita,
1835, p. 158 (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
51
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. XIX. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, I (Biblioteca Nazionale.
“Vittorio Emanuele III” di Napoli).
52
Paolo De Caro
Tav. XX. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, II (Biblioteca Nazionale.
“Vittorio Emanuele III” di Napoli).
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Tav. XXI. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, III (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
54
Paolo De Caro
Tav. XXII. Lettera di Giacomo a Monaldo Leopardi del 9 marzo 1837, IV (Biblioteca Nazionale. “Vittorio Emanuele III” di Napoli).
55
Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella Biblioteca Provinciale di Foggia
Riferimenti bibliografici
Per le opere di Giacomo Leopardi:
Poesie e prose, volume primo, Poesie, a cura di Mario Andrea Rigoni, con un saggio di
Cesare Galimberti, Milano, Mondadori, 2005;
Poesie e prose, volume secondo, Prose, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori, 2003;
Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di Rolando Damiani, tomi 3, Milano, Mondadori, 1997.
Per le lettere e il carteggio:
Epistolario, a cura di Franco Brioschi e Patrizia Landi, voll. 2, Torino, Bollati Boringhieri, 1998.
Per le edizioni critiche e in riproduzione:
Operette morali, Edizione critica ad opera di Francesco Moroncini, Discorso, corredo
critico di materia in gran parte inedita, con riproduzioni d’autografi, voll. 2, Bologna,
Licinio Cappelli, 1929;
Operette morali, Edizione critica a cura di Ottavio Besomi, Milano, Fondazione e
Alberto Mondadori, 1979.
Canti e Operette morali, Riproduzione in fac-simile dell’edizione Starita 1835 con
correzioni e aggiunte autografe dell’Autore, Napoli, Alberto Marotta Editore, 1967;
Canti, volume primo, Edizione critica di Emilio Peruzzi, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli e Recanati, Centro Nazionale Studi Leopardiani, seconda edizione riveduta e ampliata, 1998;
Canti, volume secondo, Edizione fotografica degli autografi, a cura di Emilio Peruzzi,
Milano, Biblioteca Universale Rizzoli e Recanati, Centro Nazionale Studi Leopardiani, seconda edizione riveduta e ampliata, 1998.
Per la biografia, l’ambiente napoletano e l’iconografia:
Giacomo Leopardi: la vita i luoghi le opere. Catalogo della mostra, Napoli, Macchiaroli, 1990;
Album Leopardi, con un saggio biografico e il commento alle immagini di Rolando Damiani. Ricerca iconografica di Eileen Romano, Milano, Meridani Mondadori,
1993;
Ministero dei Beni Culturali, Ufficio Centrale per i Beni Librari, le Istituzioni Culturali e l’Editoria, e Biblioteca Nazionale di Napoli [a c. di], Giacomo Leopardi da
Recanati a Napoli, Catalogo della Mostra, 16 gennaio - 15 marzo 1999, Napoli, Macchiaroli, 1998;
Chiarini, Giuseppe, La vita di Giacomo Leopardi, Firenze, Barbera, 1921 (ed. stereotipa: Manziana, Vecchiarelli, 1988);
Damiani, Rolando, All’apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi, Milano, Mondadori, 1998
Damiani, Rolando, Leopardi e Napoli, 1833-1837. Sodalizio con una città. Tra nuovi
credenti e maccheroni. Documenti e testimonianze, Napoli, Generoso Procaccini, 1998.
56
Paolo De Caro
Levi, Giulio Augusto, Giacomo Leopardi, Messina, Principato, 1931;
Marti, Mario, Leopardi e Napoli, in Le città di Giacomo Leopardi, Atti del VII Convegno internazionale di studi leopardiani (Recanati, 16-19 novembre 1987), Firenze,
Olschki, 1991, pp. 159-196;
Marti, Mario, I tempi dell’ultimo Leopardi (con una “Giunta” su Leopardi e Virgilio),
Galatina, Congedo Editore, 1988;
Ranieri, Antonio, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Napoli, Berisio,
1965;
Zumbini, Buonaventura, Il Leopardi a Napoli. Discorso commemorativo letto il giorno XXVII giugno MDCCCXCVIII nella Società Reale di Napoli, Napoli, Stabilimento tipografico della Regia Università, 1898.
Altri riferimenti nel testo:
Allodoli, Ettore, Introduzione, in Giacomo Leopardi, Paralipomeni della Batracomiomachia e altre poesie ironiche e satiriche, Torino, Unione Tipografico-Editrice
Torinese, 1927
Baldacchini, Saverio, Del fine immediato d’ogni poesia (1835), in Purismo e Romanticismo, a cura di Edmondo Cione, Bari, Laterza, 1936, pp. 1-57;
Baldacchini, Saverio, Claudio Vannini o l’artista. Canto, Napoli, da R. De Stefano
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Staël [Madame de], Corinne ou l’Italie, Édition présentée, établie et annotée par Simone Balayé, Paris, Gallimard, 1985;
Timpanaro, Sebastiano, Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi, in Classicismo
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Per la storia della Biblioteca Provinciale di Foggia:
De Biase, Oreste, La Biblioteca Comunale di Foggia, in «Accademie e Biblioteche
d’Italia», Roma, Libreria del Littorio, anno V (1931), pp. 279-282;
Urbano, Maria Rachele, Un fondo di Settecentine della Biblioteca Provinciale di
Foggia. Catalogo e cenni storici della Biblioteca. Tesi di laurea in Biblioteconomia e
Bibliografia. Relatore Prof.ssa Maria Gioia Tavoni. Università degli Studi di Bologna,
Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea in Lettere moderne, Anno Accademico
1995-1996, Sessione estiva.
Ringraziamenti e dedica
Desidero ringraziare per la loro cortese disponibilità e gentilezza la Dott.ssa Marisa
Anzalone, Direttrice della Biblioteca Provinciale “Scipione e Giulio Capone” di Avel58
Paolo De Caro
lino, la dottssa Marina Boni della Biblioteca Didattica d’Ateneo dell’Università degli
Studi di Macerata, la dott.ssa Chiara Fagiolo della Biblioteca Comunale Centrale di
Palazzo Sormani di Milano, le dott.sse Maria Rosaria Grizzuti, Emilia Ambra, Gabriella Mansi e il dott. Vincenzo Boni della Sezione Manoscitti (Carte Leopardi) della
Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” di Napoli. Un ringraziamento speciale
va al Direttore, dott. Franco Mercurio, e al personale, molto rinnovato in questi ultimi anni, della Biblioteca Provinciale “La Magna Capitana” di Foggia, e in particolare
alle dott.sse Gabriella Berardi e Maria Musci, alla sig.na Doriana Scaramuzzi e al sig.
Alessandro Ursitti.
Dedico questo lavoro alla memoria del dottor Mario Giorgio, già direttore di questa
Biblioteca. Era un uomo onesto e un burbero benefico, amantissimo della famiglia
e della natia “poetica” Rocchetta. L’avevo conosciuto ai tempi degli oscuri ipogei di
Palazzo Dogana. Ma ci frequentammo soprattutto dai primi anni Novanta, quand’ero
sulle tracce di Irma Brandeis, l’ispiratrice americana di Montale. Eccezionalmente, un
sabato mattina, decidemmo, lui, Walter Celentano ed io, di andare a mangiare al “Cafone” di Melfi. Era una bella giornata di autunno: ci presero per tre allegri pensionati
in vacanza. Se gli chiedevi un consiglio bibliografico, cominciava a ruminare fra sé
e si chiudeva in un imbarazzante silenzio. Poi d’un botto s’alzava e ti diceva di seguirlo. Rosso di capelli com’era, scompariva tra gli scaffali con la circospezione e la
misteriosità di un riccio nella forra. E ti scovava il libro. Penso che gli avrebbe fatto
piacere sapere di questa mia notizia leopardiana, venuta fuori dai vecchi libri della sua
Provinciale.
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Intorno a un esemplare delle Operette morali 1835 conservato nella