Paolo Betta - Fausto Cantarelli
DAL MITO ALLA STORIA
Il Pecorino Siciliano
Presentazione
Le finalità statutarie del CORERAS, nel quadro degli indirizzi
determinati dall’Assessore regionale per l’agricoltura e per le foreste, si sostanziano nello sviluppo e nell’ammodernamento strutturale ed organizzativo dei sistemi agroalimentare, agroindustriale ed agroambientale della Sicilia.
Le attività di ricerca, di sperimentazione, di studio e di servizio svolte ed in via di svolgimento dal Consorzio sono dirette alla
realizzazione di tali finalità e specificatamente per l’agroalimentare mirano alla valorizzazione del sistema attraverso miglioramenti negli aspetti di processo, di prodotto e di organizzazione con
specifici obiettivi di esaltazione delle caratteristiche produttive,
qualitative, salutistiche, storiche, culturali, naturali, ambientali, nel
rispetto della spiccata biodiversità e dei molteplici microambienti esistenti nell’isola, al fine di soddisfare le più sofisticate esigenze gastronomiche e culturali del consumatore moderno.
Il Comitato Direttivo del Consorzio nell’analizzare la richiesta
del Prof. Fausto Cantarelli di ristampa del volume: Dal mito alla
storia: Il pecorino siciliano, ha ritenuto che lo studio, già esaurito nella sua prima edizione, sia ben meritevole di ulteriore diffusione in quanto trova accoglimento nelle finalità del CORERAS ed
è complementare alle sue attività scientifiche mirate alla valorizzazione ed allo sviluppo delle produzioni e del territorio dell’isola, sia negli aspetti economico-sociali che in quelli culturali, storici monumentali e paesaggistici.
Sono pertanto lieto di provvedere alla ristampa dello studio
del collega economista agrario Prof. Cantarelli, impegnato nella
ricerca di nuove opportunità di marketing del Pecorino Siciliano
e promotore di una teoria di valorizzazione dei prodotti tipici
attraverso l’impiego della storia italiana.
Prof. Antonino Bacarella
Presidente del CORERAS
In copertina:
bassorilievo in arenaria con sfinge alata accosciata da Mozia.
Paolo Betta - Fausto Cantarelli
DAL MITO ALLA STORIA
Il Pecorino Siciliano
CORERAS
Consorzio Regionale
per la Ricerca Applicata e la Sperimentazione
Palermo
Ristampa
Progetto POM A03: “Valorizzazione dei prodotti lattiero-caseari del Mezzogiorno
attraverso lo studio dei fattori che ne determinano la specificità”.
INDICE
Prefazione .......................................................................... pag.
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CAPITOLO PRIMO
Sicilia, Mediterraneo e Medio Oriente
1. Lo scenario .............................................................................
2. Le radici dell’agricoltura ........................................................
3. Obiettivi e strumenti ..............................................................
4. Pecorino Siciliano e Medio Oriente......................................
5. Il mito .....................................................................................
6. Il Neolitico in Medio Oriente................................................
7. I mezzi di trasporto ...............................................................
8. Alcune conclusioni ................................................................
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CAPITOLO SECONDO
L’origine geografica, culturale e storica della produzione
dei formaggi pecorino e caprino della Sicilia
1. L’uomo e la Terra: La “rivoluzione neolitica” ......................
2. Il diffondersi del Neolitico nell’area mediterranea ..............
3. Il Neolitico in Sicilia ..............................................................
4. Micenei, Fenici e Greci in Sicilia ..........................................
Bibliografia..................................................................................
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CAPITOLO TERZO
Azioni e prospettive
1. Dalla Sicilia alla Gallia...........................................................
2. Il contesto...............................................................................
3. Il marketing............................................................................
Bibliografia..................................................................................
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89
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Prefazione
Il titolo dell’opuscolo fa riferimento alle radici mitiche e storiche dell’arte casearia in Sicilia in un’epoca molto lontana, quando l’uomo ha scelto di ricorrere a spiegazioni fantastiche non
essendo riuscito a razionalizzare integralmente il vissuto; la mitologia altro non è che un’ammissione di incompetenza.
Così, l’esame della condizione attuale dei formaggi tipici del
sud Italia, che abbiamo condotto all’interno del progetto POM
A03, ha permesso il recupero di una sorta di primogenitura storica della Sicilia non solo casearia, quale è emersa dalla volontà di
fare qualche cosa per quei formaggi che l’incuria dell’uomo ha
lasciato emarginare.
Ben sapendo che le vicende più suggestive di ogni processo
umano si celano nei tempi iniziali, ove regnano creatività e innovazione, abbiamo tentato di recuperare le radici dell’allevamento
e dell’arte casearia in Sicilia, in Italia e in Europa, senza trascurare le successive fasi di riflessione, sempre con lo scopo di migliorare ciò che è stato e in attesa di innestare altre misure, ove fosse
necessario sbloccare i precedenti percorsi.
Nel caso del Pecorino Siciliano, la fase creativa è avvenuta nel
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Medio Oriente 10 mila anni avanti Cristo e subito dopo nell’isola,
quasi in sincrono con la domesticazione delle pecore, che prima
ci erano sconosciute. L’innovazione nell’isola si è rivolta a ricercare nuove modalità di trasformazione casearia, che saranno trasferite in Europa attraverso le legioni romane.
Questo è stato, in sintesi, il risultato di un percorso logico alla
ricerca di un’idea portante, che permetta di rivalutare i prodotti
tipici in genere, e i formaggi in particolare, ripercorrendo i
momenti storici che li hanno fatti arrivare indenni fino a noi.
Quando l’andare a ritroso si è arenato nel labirinto delle ipotesi, con il rischio di rimanerne prigionieri, sono venuti buoni
anche i miti, nati a suo tempo ad opera degli stessi protagonisti
degli avvenimenti più lontani; sono state le osservazioni degli
uomini del Mediterraneo, infatti, ad avere dato corpo ad immagini fantastiche per fare presa sulla gente che amava idealizzare i
veicoli della storia; essersi avvalsi dei miti ha significato aggiungere qualcosa in più alla documentazione dei processi storici.
La venuta degli ovini addomesticati in Sicilia risale, secondo
Christos G. Doumas (1996), “All’epoca in cui la società egea era
ancora impegnata nell’era della caccia e della raccolta, nel IX°
millennio a.C.”, lo stesso millennio nel quale sono stati domesticati; nello stesso periodo e secondo lo stesso autore, “Alcuni
audaci pescatori si affidarono alle correnti con le zattere, dopo
avere lasciata la grotta di Franchthi, in Argolide, dove vivevano,
spingendosi in mare aperto in cerca di tonni e di terre ospitali”.
Nel Mediterraneo di allora gli abitanti delle aree interne delle
isole tendevano a spostarsi sulle coste, contribuendo con ciò a
moltiplicare i viaggi per mare. È per questi motivi che non può
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non avere giocato un ruolo determinante la posizione centrale
della Sicilia nel Mediterraneo, che ha trovato puntuale riscontro
nell’Odissea, il più antico dei poemi, dove si racconta di un viaggio fantastico che tocca l’antro di Polifemo, in zona etnea, dove
Omero situa un caseificio ante litteram e dove l’antesignano dei
pastori e dei cascinai dell’isola, un gigante rozzo e bestiale, produce il Pecorino Siciliano, il primo tra i formaggi d’Europa.
Il nostro approccio ha permesso di ricostruire l’itinerario fino
alla Sicilia, che divenne da allora il primo laboratorio alimentare
del Vecchio Continente, fautore di successive elaborazioni. Dopo
di allora, con la congiunzione dei flussi mediterranei con quelli
balcanico-danubiani e africano (Marocco-Spagna) ha preso il via
l’arte casearia europea. Credo che il percorso spieghi anche la
grande varietà dei formaggi italiani di pregio rispetto a quella
inferiore di altri paesi mediterranei.
La storia si presenta oggi come la leva che potrà sottrarre i
formaggi tipici italiani allo stato di torpore in cui l’incuria degli
uomini li aveva sospinti negli anni bui della sussistenza.
Poiché questa azione rivolta a rivalutare il Pecorino Siciliano,
il primo capitolo fa riferimento all’isola e alla sua storia casearia,
il secondo ripercorre gli itinerari della preistoria e il terzo propone alcuni cambiamenti utili.
Ragusa, 24 maggio 2000
Fausto Cantarelli
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CAPITOLO PRIMO
Fausto Cantarelli *
Sicilia, Mediterraneo e Medio Oriente
1. Lo scenario
Sempre e ovunque le produzioni primarie e le successive elaborazioni in cucina o altrove hanno influenzato la vita dell’uomo
contribuendo a definire gli assetti socio-economici dei territori; i
bisogni alimentari sono sempre gli stessi come i comportamenti
umani, mentre è la cultura nascente ad avere diversificato gli uni
e gli altri per territorio.
Come tutti gli esseri viventi, l’uomo ha provveduto per prima
cosa al suo sostentamento; da tre milioni di anni, quanti sono trascorsi dalla sua origine, la domanda è rimasta la stessa: “Come
nutrirsi? La risposta ovunque e sempre è stata: con il sistema agroalimentare, cioè con l’insieme delle attività coordinate che gli
hanno permesso di cogliere la necessaria energia nutritiva.
Così è avvenuto anche in Sicilia, dove oggi constatiamo la
presenza di abitudini alimentari consolidate; il Pecorino Siciliano
* Titolare della cattedra di Economia agro-alimentare e docente di marketing alimentare nell’Università degli Studi di Parma.
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non è diverso da quello prodotto millenni fa, all’origine, perché
le ragioni, che l’hanno fatto nascere, non sono cambiate e, spesso, anche i processi sono rimasti gli stessi (produzione da parte
dell’allevatore sul pascolo). Così le abitudini alimentari hanno
continuato a reggere, ma senza dare garanzie in tempi lunghi,
come dimostrano le tre rivoluzioni vissute dall’umanità: la prima
nel neolitico, quando sono arrivate in Europa dal Medio Oriente
le specie vegetali e animali addomesticate; quella a metà del
secondo millennio dopo Cristo, quando, a seguito della scoperta
delle Americhe, sono arrivati in Europa nuovi alimenti (mais,
patate, pomodoro ecc.); infine, quella di oggi, provocata dall’accelerazione del progresso scientifico e tecnologico e dalla globalizzazione dei mercati.
Nello scenario attuale incombe il rischio che il ricco, vario
e prestigioso patrimonio alimentare dell’isola, come quello di
altre aree mediterranee, possa essere travolto dalla pressante
arroganza degli alimenti standardizzati delle multinazionali,
inventate dall’Europa, diffuse in Usa e in via di diffusione nel
Sol Levante.
Nei tempi antichi, anche la scoperta del fuoco e la cottura
sono state importanti perché hanno introdotto la possibilità di
combinare gli ingredienti, legandoli con il fondo di cucina ecc; in
questa operazione si è sbizzarrita la creatività dell’uomo, che ha
arricchito e differenziato i patrimoni locali; i cibi, combinando
sapori, odori e colori, hanno dato origine ai gusti e alle abitudini. La cucina è diventata così l’espressione più nobile e prestigiosa della cultura dei popoli (in Europa l’analisi statistica mostra
analogia agricola e diversità alimentare); l’alimentazione, nelle
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Figura 1 - Porta Nuova dell’antica città fenicia di Mozia.
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aree mediterranee, ha mantenuto maggiori contenuti tradizionali
che in altri luoghi e una più ampia varietà di espressioni.
2. Le radici dell’agricoltura
La Sicilia è stata investita molto presto da vicende analoghe a
quelle vissute dalla Mesopotamia all’origine dell’agricoltura, diecimila anni avanti Cristo.
Il carattere storico che ha distinto la Sicilia si ritrova nella precocità dello sviluppo agro-alimentare rispetto ad altre aree a
causa dell’anticipato sbarco dell’agricoltura e dei suoi prodotti
sulle sue coste (cereali, legumi e animali); ancora oggi la Sicilia è
la più vasta regione del belpaese e la più grande isola del
Mediterraneo con uno dei più ricchi patrimoni alimentari, avendo rivestito il ruolo di grande spartitraffico dei flussi mediterranei
di genti e prodotti, con funzioni aggiuntive di primo laboratorio
di elaborazione alimentare d’Europa; oggi, con un’alta densità di
popolazione e con un alto grado di ruralità, l’isola, continua a
custodire gelosamente le tradizioni più antiche, quelle che, partendo dal Medio Oriente e dal nord Africa, sono passate attraverso l’isola molto tempo fa per andare ad arricchire l’intera società
occidentale; tutto ciò è stato possibile per la sua collocazione
geografica, per le favorevoli correnti marine e per la presenza
degli autoctoni, che risiedevano per lo più lungo le coste, dove
erano ubicati i principali centri abitati, mentre, nelle aree interne,
la densità degli abitanti si attenuava, gli insediamenti diventavano sparsi e l’agricoltura estensiva.
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Se la produzione tipica del Paese costituisce ancora oggi
un ricco patrimonio, la Sicilia non è da meno, avendo accumulato nei secoli di storia alimenti straordinari e gastronomie
d’autore, tra le quali prevalgono i vegetali, l’olio d’oliva come
condimento (pane, focacce ripiene di formaggi, di ricotta salata, di acciughe, di salumi, op pure con capperi e olive o con
uva passita) e le paste asciutte quasi sempre condite con
sarde, ricotta, sepp ie o verdure. La carne, invece, quando entra
nella cucina dell’isola, lo fa in punta di piedi, più per arricchire pietanze complesse, che come piatto unico, mentre, in sua
vece, abbonda il pesce, specie tonno e pescespada. O rtaggi e
frutta, dai sapori inconfondibili, completano le risorse alimentari dell’isola, a cui non è neppure estranea una ricca e varia
produzione di dolci (ben noti sono cassata e cannoli).
Numerosi anche i vini; oltre al celebre Marsala, noto nel
mondo intero, ve ne sono molti altri e si distinguono per l’alta gradazione alcolica; a questi si associa un’ampia gamma di
liquori ricavati dalla frutta locale.
Questa, in breve, la dovizia e la varietà degli alimenti e dei
cibi siciliani, che non esaurisce il caleidoscopio di gusti, di
aromi e di colori, che l’isola può vantare e meriterebbe ben più
attenzione e, perché no, una vetrina all’altezza di ciò che possiede; non meraviglia, pertanto, che l’apprezzamento del Nuovo
Mondo abbia inventato una formula impropria, ma significativa:
“La dieta mediterranea”, con la quale vengono indicate le utilità
principali, tra cui eccellono pregio e sanità.
Gli alimenti tipici, che in Sicilia sono più numerosi che altrove, rimangono l’espressione peculiare delle aree mediterranee
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d’Europa, come, per altro verso, i prodotti della grande industria,
standardizzati e appiattiti nei sapori lo sono per le aree continentali del Vecchio Continente e per il Nuovo Mondo. Questa
doppia realtà nel mondo avrebbe potuto costare molto ai prodotti
meno attrezzati, specie per il mercato globale, che non è congeniale con gli alimenti a basso volume di offerta. In realtà, sono
passati diversi anni e tutto è rimasto come prima, dimostrando
che le abitudini alimentari in queste aree sono tanto radicate da
essere inamovibili (non è la qualità ad averli salvati, perché ha
valore se e in quanto la cultura ha un peso consistente che, al
momento, non si avverte né in Sicilia né nel Paese). Il pericolo
semmai potrebbe riguardare, nel tempo, i produttori, che potrebbero desistere dal produrre a causa dei sacrifici richiesti rispetto
ai benefici ottenuti.
Oggi sta tornando al territorio il compito di produrre ricchezza e posti di lavoro, che le grandi imprese non riescono più
a garantire; anche per questi motivi le produzioni tradizionali
vanno mantenute e difese ad oltranza, dando luogo a quell’organizzazione delle fasi produttive e di quelle mercantili che è mancata in passato e approfittando dell’occasione offerta dall’annunciata espansione del turismo.
Nella contrapposizione dei modelli di consumo, all’interno
del Vecchio Continente, il più a rischio è e rimane sempre quello mediterraneo, perché è presente con alta qualità, con prezzi
sottovalutati, ma ugualmente alti rispetto a quelli dei prodotti
della grande industria internazionale e con strutture organizzative deboli (artigiani, piccole industrie e cooperative agricole); il
modello più efficiente rimane quello continentale e del Nuovo
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Mondo, perché può avvalersi di alimenti progettati e realizzati
secondo gli standard del consumo e della grande distribuzione,
con i prezzi più contenuti, con servizi aggiunti e incorporati e con
l’organizzazione complessiva più efficace.
Quest’ultimo modello, a cui danno man forte le importazioni
dagli Usa, preme sulle aree mediterranee per sbarazzarsi di concorrenti scomodi, i prodotti tipici e quelli tradizionali, e collocare
in Italia, grazie a modernità ed efficienza, le eccedenze delle aree
umide, facendo leva sulla grande distribuzione e su quella organizzata, non congeniali ai piccoli volumi di offerta e mettendo in
atto efficaci strategie commerciali. La comodità d’uso si contrappone così alla qualità. I siciliani hanno altri traguardi: mantenere
il proprio patrimonio alimentare provocandone la riscoperta e la
rivalutazione anche in vista dell’espansione del turismo. L’esito
della competizione sarà la conseguenza di confronti continui e
duri; il campo di battaglia è il mercato, dove si troveranno sempre più contrapposti alimenti e gastronomie diversi in concorrenza tra loro.
I prezzi dei prodotti tipici sono bassi rispetto al loro valore
reale, mentre i costi di produzione sono superiori a quelli presenti nelle aree umide del Centro e del Nord Europa a causa del
clima caldo arido; questo handicap colpisce l’intera produzione
agro-zootecnica, che solo con la trasformazione riesce a recuperare competitività; quindi, le materie prime devono necessariamente tramutarsi in prodotti tipici per rimanere in concorrenza
con gli altri alimenti. Si raggiungerebbe l’obiettivo se e quando
l’offerta, che è diventata eccedente rispetto alla domanda in
seguito all’allargamento dei mercati, si attivasse per garantire le
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vendite e per riequilibrare i prezzi; il supporto mancante è l’organizzazione dei produttori, che non è mutuabile e che va
costruito, per raggiungere una massa di prodotto che permetta di
svolgere le necessarie azioni promozionali a costi accessibili, ben
sapendo che nei mercati dinamici non esistono prodotti tanto
buoni da vendersi da soli.
Dove le imprese dell’isola hanno accumulato ritardi – la cosa
è avvenuta anche nel resto del Paese – è nell’adeguare i processi produttivi e i prodotti ai cambiamenti che si sono verificati nel
passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo del Paese; anche la
Sicilia ha bisogno di recuperare i tempi perduti per inserirsi nel
cammino dello sviluppo con le strategie adeguate, coinvolgendo
tutte le risorse disponibili sul territorio.
Un esempio non alimentare, ma significativo: una delle più
suggestive risorse dell’isola è la Valle dei Templi di Agrigento; è
inconcepibile che ancora oggi, in epoca di grande rilancio del
turismo, il 70% degli italiani ritenga che questa importante risorsa si trovi in Grecia, come recita un recente sondaggio di
Legambiente, quando invece la conoscenza delle risorse dovrebbe fungere da richiamo. Questa opera monumentale, che testimonia l’esistenza di una importante colonia greca prima della
nascita di Cristo, oggi deve essere elevata al rango di fondamentale risorsa del territorio, da valorizzare a beneficio dell’intera
economia dell’isola, alimenti e gastronomie compresi. È partendo
dalle risorse più esclusive e di rango che si possono ottenere i
risultati migliori, fino ad arrivare ai consumi alimentari di pregio,
che sono essi stessi delle risorse importanti e, con questi, al territorio rurale.
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Le produzioni primarie più abbondanti dell’isola sono, in
ordine decrescente: quelle arboree (specie per agrumi e vite),
quelle erbacee (specie per patate e ortaggi), quelle di origine animale (specie per formaggi e carni) e la pesca.
Per le colture permanenti la Sicilia presenta un’alta concentrazione di viticoltura da vino e da tavola e di alberi da frutto,
mandorli e noccioli a sud-ovest e agrumi e ortaggi a sud-est.
Per quanto si riferisce alle produzioni di origine animale, gli
allevamenti bovini si presentano in modo diverso da zona a zona:
lungo la fascia costiera, in aree agrumicole e orticole intensive,
l’allevamento presenta densità consistenti in funzione integrativa
di altri indirizzi produttivi; nelle zone interne, dove l’allevamento
segue ancora modalità tradizionali, vi possono essere ugualmente maggiori concentrazioni in alcuni luoghi (altipiani di Ragusa e
Modica nel ragusano; Palazzolo, Sortino e Floridia nel siracusano;
versante tirrenico dei monti Peloritani nel messinese e nei comuni di Caccamo e Collesano nel palermitano); nel rimanente territorio il bestiame, bovino, ovino e caprino è distribuito con densità inferiore.
3. Obiettivi e strumenti
In queste condizioni, le intuizioni fondamentali, quelle che
gli economisti traducono in piani strategici, non provengono più
dai lampi di genio, bensì da studi e ricerche ad hoc, fatti da équi pe di esperti; è finito il tempo delle improvvisazioni: il marketing
applicato agli alimenti tipici ha bisogno di metodologie idonee a
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raggiungere i grandi obiettivi, accelerando i ritmi dello sviluppo.
Solo così le molte e ricche risorse del territorio potranno far fare
all’isola progressi rapidi ed efficaci senza pagare prezzi eccessivi
e, quel che più conta, senza perdite di energia.
Il primo e principale obiettivo è, per le imprese e il territorio,
quello di accelerare i tempi del progredire; lo si può raggiungere
con una buona impostazione che faccia leva, in primo luogo,
sulle risorse locali più importanti e via via sulle altre nella logica
del piano integrato mediterraneo. Le risorse più suscettive, anche
in vista della più volte richiamata espansione turistica, sono quelle storico-monumentali, paesaggistiche e agro-alimentari.
L’obiettivo è quello di fare lievitare la domanda di alimenti
e servizi grazie all’aumento delle persone temporaneamente
presenti (i turisti), da attrarre con immagini idonee e sviluppando le sinergie tra le varie risorse, culturali, ricreative, artistiche,
storiche ecc.
La sagra dei mandorli in fiore di Agrigento, la cui origine risale al 1937, è un esempio di richiamo suggestivo, ancorché non
sufficiente, che potrebbe offrire una gamma di opportunità più
ampia di quella di oggi, tra cui l’Agrigento antica, Akragas, – non
solo la Valle dei Templi –, cioè l’altopiano calcarenitico tra i fiumi
Hypsas e Akragas; lo scenario va poi completato con la cucina
locale, che è ricca di prodotti tipici e di pescato (Porto
Empedocle) e che va portata a un rango superiore di quello attuale per farla diventare essa stessa motivo di richiamo. Tutto ciò,
presupponendo l’organizzazione delle imprese, non è facile da
realizzare in un’isola ben nota per l’individualismo dei suoi abitanti; il passaggio è obbligato per due motivi:
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- la complessità del problema richiede una guida sicura, accompagnata da un’ampia serie di competenze (interdisciplina);
- le modalità di intervento presuppongono flussi coordinati di
capitali pubblici e privati, che non sempre sono alla portata dei
singoli investitori.
Pertanto sono i produttori associati a doversi fare carico del
rapporto con le Amministrazioni Pubbliche per concordare tempi,
modi ed entità degli investimenti in armonia con i programmi da
realizzare. La parte immediata di ogni programma è quella riferita alle opere monumentali del tempo passato – dalla Valle dei
Templi di Agrigento, al Duomo di Monreale, a Mozia-Erice, a
Siracusa, a Taormina, a Noto, a Modica ecc. –; la parte più complessa e meno appariscente è quella che riguarda la ruralità nell’isola e, per questa, il paesaggio interno con i fabbricati, il folklore, gli alimenti tipici, le gastronomie ecc. che vanno ricercati e
che, una volta scoperti, vanno utilizzati in sinergia con i primi
coinvolgendo diversi operatori del territorio che altrimenti sarebbero esclusi: agricoltori, allevatori, artigiani, industriali, ristoratori
ecc.; il comparto alimentare può dare consistenti soddisfazioni
economiche non solo perché oggi è spesso sottovalutato, ma
anche perché è in grado di rilanciare il territorio nel momento in
cui gli venisse attribuita un’immagine nuova, più suggestiva e più
gratificante. Non è problema solo siciliano, ma di tutte le aree
dell’Europa meridionale. Non è un caso se proprio di questi
tempi ad Arles è nato il “Conservatoire des Cuisines méditerranéennes” che raggruppa, al momento, sette paesi (Francia,
Italia, Spagna, Grecia, Tunisia, Marocco, Libano) con lo scopo di
difendere la cultura mediterranea, di studiare, di mettere in opera
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e di sviluppare azioni capaci di valorizzare i prodotti tipici e tradizionali, l’agricoltura, la cucina di qualità e, più generalmente, il
patrimonio gastronomico, turistico e culturale dei paesi che si
affacciano sul mare; anche le province siciliane dovrebbero partecipare al fervore collegiale del bacino del Mediterraneo per
ricevere nuovi stimoli e nuovi benefici a supporto dello sviluppo
territoriale.
Nell’isola sono evidenti segnali di ripresa economica da
cogliere ed enfatizzare; l’analisi delle prospettive fa ritenere che
il Terzo Millennio sarà ricordato come quello della riscossa delle
aree mediterranee, e della Sicilia in primis, purché si prenda
coscienza dei problemi e si agisca di conseguenza; la prospettiva
è solida e poggia non solo sulla nuova attenzione che l’Ue rivolge a quest’area, ma anche e specialmente sulle spinte interne e
sulla prevista espansione del turismo a matrice culturale e ricreativa, sul recupero dei valori storico-tradizionali della società, sulla
diversificazione degli alimenti e delle gastronomie, tutti fenomeni già all’attenzione dell’opinione pubblica e in controtendenza
rispetto alla spinta globalizzante del Nuovo Mondo.
Nello specifico dell’alimentare europeo, il sistema è andato
consolidandosi sulla scia dell’avanzata industriale, che ha avuto
successo al punto da provocare, nel Centro e Nord Europa, il
trionfo del consumismo di massa e del profitto ad ogni costo,
prospettive delle grandi imprese che, in questo modo, penalizzerebbero ulteriormente il territorio. Le aree periferiche a sud, invece, fin’ora sono riuscite a mantenere vive, nonostante tutto, le tradizioni alimentari grazie alle piccole imprese con utilità per il territorio; tutto questo però oggi non basta più, ma ha bisogno di
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essere rinforzato, applicando ai piccoli volumi d’offerta le stesse
tecniche mercantili delle grandi imprese, previa organizzazione
dei piccoli produttori; per il resto i maggiori prezzi sono ampliamente giustificati dalla maggiore qualità.
Le prospettive in campo alimentare sono favorevoli, ma i
compiti per portarle a compimento sono nuovi, complessi e non
facili; richiedono, pertanto, idee e azioni all’altezza degli obiettivi e, contemporaneamente, volontà definita e determinata.
4. Pecorino Siciliano e Medio Oriente
L’argomento tipicità è oggi all’attenzione dell’opinione pubblica, degli studiosi e delle politiche regionali e nazionali; le prospettive turistiche lo rendono più urgente e allettante.
Tra le tipicità della Sicilia, il Pecorino è l’unico formaggio
prodotto e consumato in tutta l’isola con una storia alle spalle tra
le più suggestive dell’intero Vecchio Continente, in linea, oltretutto, con il cammino seguito dai principali alimenti dal Medio
Oriente all’Europa, passando per la Sicilia e proseguendo, dopo
la prima guerra punica, per Roma e per i territori dell’impero.
L’avventura del Pecorino Siciliano ha inizio con l’arrivo delle
pecore nell’isola, portate dalle zattere prima ancora che dalle barche; una volta sbarcati gli animali, è nata la pastorizia nelle stesse zone dove è presente tutt’ora.
L’allevamento ovi-caprino della Sicilia è ancora oggi di tutto
rispetto. La consistenza di pecore e capre nel 1997 è stata rispettivamente di 918 mila (il 13,6% della consistenza nazionale) e di
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249 mila (il 21,8% della consistenza nazionale); gli stessi dati per
l’Italia hanno raggiunto rispettivamente i 6,761 milioni e il 1,144
milioni. La regione Sardegna è l’unica, in Italia, a precedere la
Sicilia nella consistenza delle pecore con 2,981 milioni di capi.
Nell’ultimo decennio gli ovini in Italia sono diminuiti dell’8%,
mentre le capre sono aumentate del 42%; la Sicilia, in controtendenza, ha fatto riscontrare un aumento per le une (17%) e le altre
(290%).
L’allevamento ovino ha prodotto, nel 1998, 70 mila quintali di
Pecorino Siciliano con q 385 mila di latte; questo formaggio, che
– si ripete – viene prodotto e consumato in tutta l’isola, non da
luogo ad esportazione di qualche significato; ha ottenuto anche
la denominazione d’origine (DPR 3.10.1955 n. 1269) e il Dop.
La produzione, che si realizza sui pascoli ad opera dei pastori, viene poi venduta direttamente con denominazioni che cambiano a seconda del tempo di stagionatura: toma è il formaggio
fresco non salato, venduto appena fatto, primosale è il semifresco
sottoposto alla salatura, pecorino è il formaggio sottoposto alla
salatura oltre i 20 giorni.
Il Pecorino Siciliano va considerato l’archetipo dell’isola per
la storia lunga e complessa che ha alle spalle e ne fa una testimonianza di tempi remoti, nei quali non era importante la denominazione, ma il significato che assumeva nella quotidianità locale; poiché rappresenta con i diversi adattamenti le varie realtà territoriali dell’isola, così si spiegano i tanti nomi che gli sono stati
attribuiti (canistratu o ncannistratu, maiorchino o mazzulinu,
tumu, tumazzu, caciu ecc.). Questa realtà composita potrà diventare meglio leggibile con un’immagine nuova per valorizzarla al
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meglio. È percepibile accanto a questi formaggi, anche per la
varietà delle denominazioni, un non so che di misterioso che si
perde tra mito e classicità perché è da quei lidi che proviene
come ci ricordano Polifemo, Aristeo, Cirene ecc.
Se Omero ha parlato di formaggio e lo ha collocato in zona
etnea e se, contemporaneamente, consideriamo che pecore e
capre vengono da molto lontano, ciò significa non solo che questi animali sono arrivati molto presto, con ogni probabilità prima
che altrove, ma anche che il prodotto della trasformazione del
latte non poteva tardare ad imporsi e a diffondersi.
Le tracce del latte si perdono nel neolitico in Medio Oriente.
Diecimila anni avanti Cristo, gli uomini avevano imparato ad
addomesticare gli animali, cominciando con le pecore e le capre
che sono più mansuete. Con il latte l’uomo ha raggiunto un
importante obiettivo: riuscire a fare vivere i bambini, a farli crescere e ad allungare la vita agli adulti, permettendo così l’aumento demografico che ha coinciso con la presenza delle grandi
civiltà pastorali della Mezzaluna medio-orientale.
La scoperta dei derivati del latte fu empirica: la cagliata probabilmente si formò versando il latte appena munto in un otre
ricavato dallo stomaco di un giovane mammifero; il burro in
seguito a un trasporto agitato; lo stesso per lo yogurt, il latte fermentato di cui si nutrivano i soldati di Gensis Khan.
Non possiamo dimenticare che il formaggio è l’unico dei
derivati del latte che si conserva a lungo senza particolari accorgimenti e che questa conservabilità a quei tempi era un carattere eccezionalmente utile, perché permetteva l’accumulo delle
scorte.
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Il formaggio è prodotto mediterraneo come lo è l’olio d’oliva, il vino ecc., anche perché qui il sale non manca. Altri hanno
scelto il latte fermentato, di cui parlano Erodoto e Senofonte; diffuso specie nei Balcani e in Anatolia si è spostato rapidamente
verso Oriente, dove, nel Caucaso, ha assunto anche la variante
alcolica (Kefir).
Il Pecorino Siciliano è stato il primo formaggio ad essere prodotto in Europa e oggi viene trasformato sugli stessi pascoli da
parte di allevatori che impiegano le stesse tecnologie di allora.
Così è iniziata la storia del rapporto dell’uomo con il latte e
con il formaggio, connubio felice che prosegue tutt’ora nel modo
migliore in Sicilia e in gran parte del pianeta.
5. Il mito
La ricerca delle radici culturali dell’uomo, attraverso lo studio
comparato delle civiltà, permette di trovare, nella primogenitura
del territorio della Mezzaluna (Palestina, Siria del nord e Mesopotamia), la spiegazione dell’agemonia della civiltà europea. Il
Mediterraneo, nella parte orientale, è il primo luogo dove l’uomo
ha superato le tappe decisive e irreversibili che l’hanno fatto passare a una condizione superiore di cultura e di sviluppo che chiamiamo civiltà. Faccio riferimento all’ambiente rurale, nel quale
l’alta densità della popolazione ha permesso il sorgere di una
organizzazione politica di molte persone, le quali riuscivano a
comunicare per mezzo della scrittura. Questo processo non si è
verificato che tre volte: in Mesopotamia, nella Mezzaluna, nella
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pianura della Cina del nord e ai piedi dell’Imalaia (le civiltà degli
indiani delle Americhe e degli africani non hanno mai raggiunto
la scrittura).
La più antica delle rivoluzioni neolitiche, quella mesopotamica, ha raggiunto il passaggio dalla predazione alla produzione
agricola e all’allevamento con due mila anni di anticipo su quella del Messico e quattromila su quella cinese; il grande anticipo
medio-orientale ha fornito con maggiore precisione la misura del
tempo datando la domesticazione dei cereali – frumento, riso e
mais – che ha reso possibile la sedentarizzazione e la crescita
demografica. La più antica coltivazione del frumento è apparsa
nella parte orientale del bacino del Mediterraneo attorno all’ottavo millennio a. C. La coltivazione del mais è nata in Messico sull’altipiano dell’Anahuac tre mila anni più tardi; quella del riso è
avvenuta in Cina ancora più tardi intorno al quarto millennio a.
C. L’Europa, l’erede del frumento medio-orientale, è in anticipo
rispetto agli altri di 2 mila o 3 mila anni. È il frumento a definire
la gerarchia dei tempi, cioè la gerarchia dei successi. Il frumento
in meno di quattromila anni ha raggiunto l’Irlanda, la Scandinavia
e gli Urali, mentre il cammino altrove rimaneva bloccato dai
deserti dell’Africa e dell’Asia occidentale. Sola erede del “miracolo” mediterraneo nel neolitico, l’Europa è diventata il continente
del frumento.
La teoria della “superiorità per anteriorità” della civiltà europea trova conferma nella storia della scrittura, apparsa come la
rivoluzione neolitica, in differenti luoghi: in Egitto e in Mesopotamia attorno a quattro mila anni avanti Cristo, in Cina due mila
anni più tardi, in India 1500 anni più tardi. Ma è millecento anni
28
avanti Cristo, in Fenicia, che i tempi vennero accelerati di molto
grazie all’invenzione della scrittura alfabetica, che ha dato corpo
alle vocali e alle consonanti; l’acquisizione della nuova scrittura è
stata rapida, la pronuncia della parola chiara e la comunicazione
facile. È attorno alla città greca tra il 530 e il 400 a. C., tra Ionio
e Atene, che si cela il miracolo: pare che centinaia di migliaia di
persone, in possesso della scrittura alfabetica, moltiplicatore della
comunicazione, in una terra bagnata dal mare, che, a sua volta,
ha agevolato i movimenti e i trasporti, abbiano dato luogo al
“miracolo greco”, che, innanzitutto e soprattutto, è un insieme
mai uguagliato di cervelli comunicanti tra loro; in questo modo i
nostri antenati sono riusciti a dare una spiegazione a tutto; in
fondo, il mito è la fase del pensiero umano che precede la logica fino a che l’età moderna del mondo antico, l’Ellenismo, non
affermerà il primato della ragione su fantasia e fede.
C.G. Jung sostiene che il mito è “l’espressione dell’inconscio
collettivo, capace di imporre all’inconscio individuale i suoi simboli più profondi e più carichi di forza emotiva”.
La primogenitura del formaggio di latte ovino, nella storia alimentare dell’uomo, ha moltiplicato i miti dei formaggi a partire
da quello di stampo agrario di Proserpina, la cui leggenda
approdò in Sicilia prima ancora che a Roma, tanto che il luogo
dell’avvenimento sarebbe Pergusa, presso Enna.
Mentre Proserpina raccoglieva fiori presso un lago, il dio
Plutone la incontrò, se ne invaghì e la sequestrò. La madre Cerere
si mise a cercare la figlia scomparsa fino a che la ritrovò all’inferno. Nel frattempo però Proserpina si era innamorata del dio e
si rifiutò di lasciarlo. La madre allora provocò una forte siccità a
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scopo intimidatorio, facendo morire animali e disseccare messi
tanto che dovette intervenire Giove a riconsegnare Proserpina
alla madre. Plutone però, prima di lasciarla libera, le fece mangiare dei semi di melograno che l’avrebbero tenuta legata a lui; a
questo punto Giove obbligò Proserpina a rimanere cinque mesi
negli inferi sotto terra e sette con la madre, che continuò a proteggere agricoltura e allevamento. Così nacque l’agricoltura.
La nascita del formaggio, secondo la mitologia, sarebbe opera
del pastore Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, il quale
avrebbe insegnato agli uomini l’arte di produrlo. Vi è poi la preziosa testimonianza di Omero (Odissea IX libro), che descrive
con precisione e dettaglio il primo ovile al mondo di cui si abbia
notizia: vi è anche il caseificio annesso, quello sito nell’antro del
ciclope Polifemo, che si comporta con il latte secondo le proprie
esigenze alimentari. Dell’argomento latte e sua trasformazione ne
hanno trattato anche Aristotele ed Esiodo con precisi riferimenti
alle Sicilia, a testimonianza della notorietà raggiunta dal formaggio di questa regione.
Nella Genesi, l’agricoltura nasce come una maledizione, per
la quale i frutti della terra richiederanno fatica e sacrifici per tutto
il tempo della vita dell’uomo.
La cultura ha considerato l’attività agricola come l’invenzione
di un nuovo sistema a un certo stadio dell’emancipazione dell’uomo; la tesi economica ne fa la risposta allo stato di necessità
provocata da qualche fenomeno naturale, che ha obbligato l’uomo ad abbandonare una situazione comoda e favorevole per
un’altra più onerosa e precaria.
La storia del formaggio in Europa assegna un ruolo fonda-
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AGRIGENTO: VALLE DEI TEMPLI – Nella valle che si estende a sud dei colli
sui quali si trova la città, sono disseminati – e visibili nel fotogramma – tutti
i templi più famosi, da quello della Concordia a quello di Giove, di
Giunone, al tempio di Esculapio, costituenti nell’insieme il parco archeolo gico che a fine inverno annuncia la primavera con la fioritura precoce del
mandorlo (fotografia della Società Generale Riprese Aeree).
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mentale alla Sicilia – si può parlare addirittura di primogenitura –
per due motivi:
- l’arrivo via mare delle pecore agli albori dell’agricoltura;
- il trasferimento del formaggio a tutto il mondo allora conosciuto.
L’informazione è suggestiva e può portare grossi benefici se
bene impiegata.
6. Il Neolitico in Medio Oriente
Il rapporto dell’uomo con gli animali può essere osservato
nell’antica Mesopotamia per un lungo periodo. Nella prima rivoluzione della storia dell’uomo, la domesticazione degli animali è
stato il fatto centrale, come testimoniano i ritrovamenti zooarcheologici, che hanno permesso di osservare giacimenti di resti
scheletrici negli insediamenti umani. In questo modo sono stati
identificati e descritti gli animali e sono stati scoperti i rapporti tra
uomo, animale e pianta, che fin dalla preistoria hanno dato vita
a reti e circuiti ecologici di straordinaria importanza. L’animale è
entrato con forza nella mentalità religiosa e laica dell’uomo, come
espressione di miti e simboli.
La zooarcheologia ha chiarito l’esistenza di un ricco assortimento di animali in Mesopotamia fin dai tempi più antichi, distribuiti nelle diverse aree. La pianura alluvionale del Tigri e
dell’Eufrate, ricca di fango, era popolata di cinghiali, cervi, daini,
buoi selvatici, volpi, martore, uccelli e pesci. I terrazzi alluvionali ospitavano cinghiali e altre specie nel fondovalle. Nella steppa
e nel semideserto, che sono ad occidente e a settentrione della
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Mesopotamia, vivevano gazzelle, onagri, volpi, pantere, leoni e
probabilmente asini selvatici. Le aree più aride e spoglie erano
frequentate da leoni, iene, lepri e piccoli roditori. Sui rilievi e
sugli altopiani ricoperti da boschi a nord e ad est si trovavano
egagri e mufloni, onagri, lepri, cervi e caprioli.
Su queste popolazioni di animali l’uomo ha cominciato l’opera di domesticamento a partire dal nono millennio avanti
Cristo: capre, pecore, buoi, maiali, cani e, più tardi, asini e cavalli. Si tratta di animali predisposti per natura alla vita gregaria e alla
sottomissione gerarchica.
Mentre proseguiva la caccia, la comunità non trascurava l’allevamento degli animali addomesticati e in particolare quello di
pecore, capre, bovini e maiali (i bovini erano impiegati come animali da lavoro e i suini per la produzione di carne, i cani per la
caccia e la pastorizia).
I cambiamenti nel rapporto tra uomo e animale sono riconoscibili dalla frequenza dei resti ossei trovati nei villaggi.
Nell’età del Bronzo, le capre avevano corna diritte o corna
elicoidali, con una variabilità che presumibilmente è da collegare
con la selezione per la produzione di latte e lana. L’intervento
dell’uomo, nel tentativo di adattare gli ovi-caprini alle sue esigenze, ha provocato nel secondo millennio l’apparire di forme
stabili grandi e tozze, non molto diverse da quelle esistenti oggi
nella stessa area.
Nonostante il progresso e l’ampiezza degli orizzonti, raramente la civiltà mesopotamica ha perseguito grandiosità monumentali come quelle delle zone vicine. Tuttavia il prestigio e la
centralità culturale di questo territorio hanno aperto orizzonti
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ampi fino ai confini del mondo allora conosciuto, con una funzione creativa di primo piano.
Infatti, sempre nel neolitico, la produzione primaria ha fatto
aumentare la popolazione; dalle aziende agricole familiari si è
passati all’aggregazione di più unità e quindi alla formazione dei
villaggi. Hanno incominciato a differenziarsi anche le culture,
mentre si estendevano in Siria, giungendo fino al Mediterraneo,
punto di partenza per nuovi lidi.
Quando agricoltura, allevamento e caccia non sono più
bastati, si è sviluppato anche l’artigianato, nel quale, accanto alla
selce, sono comparsi alabastro, calcite e marmo da trasformare in
vasi e statuette. Accanto a questi veniva utilizzata l’ossidiana per
usi pratici.
I prodotti dell’artigianato, insieme alle sementi e agli animali
allevati sono stati l’oggetto dei primi flussi commerciali verso le
coste del Mediterraneo e le isole. Si tratta inizialmente di iniziative individuali da parte di pionieri, sostituite successivamente da
imprese commerciali, da empori, e, infine, da città, che hanno
esercitato il controllo sulle principali vie di penetrazione verso il
Mediterraneo e l’Anatolia.
Dopo millenni di esperienze commerciali con i paesi limitrofi e con quelli mediterranei, intorno al 2000 a. C. Mediterraneo
orientale e Anatolia erano collegati da un complesso circuito
commerciale con le foreste tropicali del subcontinente indiano:
Golfo Persico e Mare Arabico costituivano un corridoio che aveva
prolungato verso est le vie d’acqua di Tigri ed Eufrate.
Il Mediterraneo, per la sua posizione tra Africa, Asia ed
Europa, per la facilità delle comunicazioni e dei rapporti umani,
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è senza dubbio il mare che ha assistito agli eventi più numerosi
e decisivi a partire dal neolitico, l’età più creativa dell’antichità.
Se provassimo ad immaginare diecimila anni fa la Mezzaluna,
delimitata dai rilievi e dal corso dell’Eufrate, riscontreremmo un
paesaggio, che è completamente diverso da quello attuale: estese paludi, che i fiumi allagavano in primavera nel fondovalle. Ai
bordi un’ampia steppa che, sui colli, si trasformava in savana di
querce e mandorli. Al di sopra i pascoli estesi, qua e là frequentati da bovini, onagri, gazzelle, pecore e capre selvaggi, controllati da lupi, leoni e iene.
C’erano ancora i cacciatori isolati o in gruppi a contendere gli
animali selvatici ai predatori naturali. In quei tempi l’uomo stava
realizzando la più straordinaria delle rivoluzioni, quella della produzione animale: non aggredisce più il branco per annientare le
pecore, come avevano fatto gli antenati, lasciandosi poi andare a
consumi smodati prima di ritrovarsi nuovamente affamati; l’uomo
ha compreso che è più conveniente proteggere le prede dai predatori concorrenti, sacrificando i soli animali necessari alla sussistenza, alla quale erano destinati i capi più vecchi e quelli più
deboli per salvaguardare le capacità riproduttive. Pecore e capre,
docili, hanno subito la nuova protezione e si sono sottomesse in
un rapporto che verrà indicato con il termine allevamento.
Gli stessi cacciatori non si nutrono solo di carne, ma sanno
apprezzare anche i vegetali, che le colline della Mezzaluna producono in abbondanza; sono per lo più cereali che i raccoglitori
hanno imparato ad abbrustolire per poi macinarli sfregando un
piccolo sasso rotondo su di uno più grande dalla forma concava:
un mulino in potenza. Per raccogliere i cereali, che si presentano
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in appezzamenti ampi, resi fitti dalla naturale distribuzione dei
semi, basta impugnare una mascella animale a mo’ di falcetto.
Per sopravvivere occorreva conservare latte e cereali. Il problema è stato risolto subito per il latte, che è stato trasformato
in formaggio e per i cereali, per i quali sono stati costruiti dei
pozzi rivestiti di argilla e ben coperti all’interno delle capanne
nei villaggi.
Erano maturate le condizioni per fare diventare sedentario
l’uomo e per indurlo a pensare all’organizzazione, che andrà a
sostituire i villaggi con le città, definendone le relative gerarchie,
mentre i territori circostanti venivano inseriti nel nuovo ordine.
È nata così l’agricoltura mediterranea che ha tratto origine dal
Medio Oriente con l’introduzione in Sicilia di cinque specie animali (pecora, capra, cane, suino, bovino) e di sette specie vegetali (frumento, orzo, pisello, cece, lenticchia, veccia e lino).
Ma il fenomeno centrale della rivoluzione agricola è costituito dall’addomesticamento degli animali, che ha sconvolto il precedente sistema agro-alimentare; la nascita della società agricola
ha comportato dei cambiamenti consistenti del comportamento
dell’uomo, obbligandolo a sostituire gli attrezzi che servivano per
procurarsi il cibo con i mezzi tecnici per produrlo, e a fermarsi
sul territorio, dove ha costruito i centri abitati e ha imparato a plasmare i vasi fittili e la ceramica.
Altri cambiamenti sono avvenuti in modo autonomo, come la
formazione e lo sviluppo delle città, la cui influenza sull’agricoltura è sempre stata notevole; sull’agricoltura e sulla pastorizia si
sono retti i primi sistemi alimentari; l’uomo ha incominciato a coltivare la terra e ad allevare il bestiame senza che, tra le due atti-
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vità, vi fosse un nesso: gli agricoltori non coltivano la terra per
alimentare gli animali che si nutrivano con il pascolo sulle terre
povere e nelle foreste; l’allevamento non si è integrato con l’agricoltura, ma si è mosso per conto suo.
Con l’attività pastorale gli animali hanno trasformato i foraggi che l’uomo non avrebbe potuto utilizzare direttamente. È lo
stesso sistema agro-pastorale che sopravvive ancora in ampie
zone della Sicilia e del Mezzogiorno d’Italia, dove il pastore
custodisce il gregge, munge le pecore, trasforma il latte e vende
il formaggio eccedente i consumi familiari. La testimonianza di
quanto è avvenuto la si ritrova nella varietà dei formaggi ovicaprini a pasta dura esistenti in Sicilia e nel Mezzogiorno d’Italia
e nel largo uso di ingredienti (peperoncino, pepe, zafferano ecc.).
Se allargassimo il discorso, potremmo dire che il ricco, vario
e prestigioso patrimonio di prodotti tipici italiani è tale perché la
storia d’Europa ha assegnato, prima alla Sicilia e poi al Paese, il
compito di filtrare il sistema produzione-consumo del Medio
Oriente nella fase di passaggio all’Europa e perché ha dato vita
fin da allora a un operoso e straordinario laboratorio alimentare,
da cui sono nati gli alimenti e i cibi tipici e, più tardi, la gastronomia. Non è poco!
Nelle economie agro-pastorali, la popolazione è autosufficiente; si coltivano i campi e si alleva il bestiame a fini alimentari e, analogamente, ci si comporta con gli altri manufatti utili
senza che ci siano scambi. Solo quando la produzione di beni
raggiunge quantità e varietà superiori al fabbisogno familiare ha
origine il baratto e quindi si crea la precondizione essenziale per
l’organizzazione del commercio.
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Quando agricoltura e allevamento sono arrivati in Sicilia, l’umanità nell’Europa del sud si nutriva prelevando gli alimenti dagli
ecosistemi naturali di animali selvaggi o di essenze vegetali selvatiche; tutto questo è andato avanti per 3 milioni di anni circa
ed è proseguito fino a 10 mila anni fa.
Il fatto più importante tra l’avvento dell’uomo e la nascita dell’agricoltura è stato la scoperta del fuoco che ha permesso di passare dagli alimenti crudi a quelli cotti, obbligando, inoltre, l’uomo
a dotarsi di recipienti per la cottura attraverso l’acqua (la bollitura). Inoltre, la cottura ha permesso di assemblare ingredienti
diversi creando nuovi gusti.
Con la scoperta del fuoco gli alimenti si sono diversificati in
tre tipi: crudi, cotti e fermentati; i primi erano quelli naturali, i
secondi avevano un contenuto culturale che si completava nel
terzo, che comprende anche i derivati, come i formaggi.
È correndo dietro al suo nutrimento che l’uomo ha perfezionato la sua abilità e ha costruito armi ed oggetti utili dando consistenza alla cultura e alla società.
Nel periodo preagricolo, inoltre, l’uomo si è emancipato sotto
il profilo biologico, dotandosi di contenuti culturali e sociali; la
caccia ai grossi animali lo ha socializzato, come ha fatto la cucina con i consumi. Il fuoco è diventato il centro della vita dei
gruppi di uomini.
Con l’età della pietra e con la bassa densità di popolazione,
si era aperto un periodo di abbondanza alimentare, non dissimile da quella del paradiso terrestre (otto mila anni avanti Cristo gli
uomini sulla terra erano compresi tra gli 8 e i 15 milioni; intorno
all’anno zero erano già tra i 240 milioni e i 350 milioni).
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Quando è apparsa l’agricoltura, l’uomo ha selezionato le
essenze vegetali più utili e ha addomesticato gli animali più
disponibili, in primis pecore e capre, senza più attingere agli ecosistemi naturali, ma ha costruito gli ecosistemi artificiali.
L’agricoltura e l’allevamento, per concludere sull’argomento,
hanno costituito un momento di rottura sostanziale nell’emancipazione dell’uomo. Se la raccolta e la caccia permettevano la
provvista diretta, l’agricoltura implicava un approvvigionamento
differito, avendo bisogno di impiegare sementi, lavoro, controllo
dello spazio, presenza stabile. L’uomo ha accettato di rischiare ciò
che possedeva supponendo di poterne ricavare di più; era una
scommessa perché i frutti dell’agricoltura rimanevano condizionati dal clima e dagli animali selvatici.
Il passaggio dell’agricoltura ha fatto cambiare mentalità all’uomo ponendogli dei nuovi problemi e contribuendo alla sua
emancipazione e ad assicurargli nuovi vantaggi.
7. I mezzi di trasporto
Dal Medio Oriente agricoltura ed allevamento erano destinati a diffondersi rapidamente attraverso i mezzi di trasporto allora
disponibili.
È universalmente riconosciuto che i primi mezzi di trasporto
furono galleggianti, sospinti dalle gambe e dalle braccia dell’uomo o dalle correnti. Sulla terra, invece, il primo veicolo fu la slitta, formata allora da due pali incrociati e uniti tra loro, che è rimasta in uso fino alla scoperta della ruota, del modo di fissare l’as-
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se del carro e di fare girare solo le ruote per ridurre lo sforzo da
traino.
Le prime imbarcazioni furono ricavate da tronchi scavati nel
mezzo, che l’uomo ha realizzato dopo averne notato il galleggiamento ed essersi accorto dell’esistenza delle correnti marine.
Prima ancora l’uomo si era servito di un tronco per tenersi a galla
aggrappato ai rami e muovendo le gambe per farlo procedere
fino a che ha deciso di scavarne l’interno per renderlo più confortevole.
Un ulteriore progresso è stato conquistato con la zattera, ricavata legando con fibre vegetali tronchi di medie dimensioni. Fu
con questi mezzi che l’uomo fin dalle origini ha privilegiato le vie
d’acqua per passare, con rozze imbarcazioni, da una sponda
all’altra dei fiumi o per navigare sui laghi trasportando frutti o piccoli animali e, infine, misurandosi con le correnti marine.
I primi traffici marittimi furono sollecitati dalla volontà di
commerciare tutto ciò che era trasportabile e scambiabile. I primi
a costruire navi furono gli egiziani, che attinsero il legname in
Libano, senza diventare mai grandi navigatori, ma limitandosi per
lo più a spostarsi lungo il corso del Nilo.
Alcune navi che due mila anni prima di Cristo si erano spostate nel Mediterraneo, sono raffigurate sulle pareti di un antico
tempio tebano; avevano un solo albero a delta, vele di forma
quadrata, due file di rematori che stavano in piedi e un timone.
Non è escluso che questi battelli fossero in uso ai fenici pur battendo bandiera egiziana. Questi ultimi furono abili navigatori,
commercianti e artigiani, tanto da essere considerati la prima
potenza marittima dell’antichità.
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I Greci, che privilegiavano i proprietari fondiari, consideravano i mercanti una classe inferiore.
Prima di Salamina (480 a.C.), i Fenici avevano toccato tutte le
sponde del Mediterraneo e avevano varcato le colonne d’Ercole
fondando colonie a Malta, in Sicilia, in Sardegna, in Spagna
(Cadice), in Francia (Marsiglia) e sulle coste africane.
8. Alcune conclusioni
La società agricola era destinata a diffondersi rapidamente
dopo avere raggiunto un livello organizzativo superiore. Le pecore e le capre, addomesticate in Medio Oriente, sono andate ben
presto oltre i confini originari, diffondendosi verso ovest e raggiungendo l’intera Europa, dove erano sconosciute, arrivando a
sud fino agli altipiani etiopici ad est fino all’India.
Non è agevole arrivare a conoscere tempi e modi dei passaggi specie di quelli iniziali per quanto sia certo che sono avvenuti prevalentemente per mare, prima ancora che i Fenici dominassero il Mediterraneo. È bene precisare che le condizioni
ambientali delle coste siciliane e di altre isole erano favorite per
allevare gli ovicaprini e non lo erano meno per i cereali, essendo aride e pietrose.
Pertanto non vi erano ostacoli al passaggio dell’allevamento
sulle coste siciliane per via d’acqua, ancora prima che i Fenici sviluppassero la cantieristica navale.
Il mare Mediterraneo, grazie alla sua posizione tra Africa, Asia
ed Europa, alla facilità delle comunicazioni e dei rapporti umani
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ha assistito allo svolgersi degli eventi storici dell’area che fu la
culla della civiltà occidentale. Tra questi, i più importanti furono
quelli più antichi e meno noti, quelli che hanno riguardato i primi
contatti dei popoli medio-orientali con le genti centro-mediterranee, avvenuti probabilmente con zattere, che non avevano bisogno di spinte, ma solo di correnti favorevoli.
È questo il periodo nel quale sono arrivati gli ovini in Sicilia
e ha avuto inizio la produzione del Pecorino Siciliano, dei cereali e dei legumi. Quindi la Sicilia, anche per la sua dimensione territoriale può essere considerata il filtro del sistema produzioneconsumo medio-orientale nella fase di passaggio all’Europa.
Per avere un parere scientificamente corretto sugli avvenimenti preistorici e protostorici ne abbiamo chiesto conferma al
Prof. P. Betta, il quale ha curato la stesura del Capito Secondo.
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CAPITOLO SECONDO
Paolo Betta*
L’origine geografica, culturale e storica
della produzione dei formaggi pecorino
e caprino della Sicilia
1. L’uomo e la Terra: la “rivoluzione neolitica”
Può apparire un discorso ripetitivo di concetti ormai logorati
dalla consuetudine degli studi condotti nel tempo e, quindi, ritenuti ormai entrati nei contenuti del bagaglio culturale di ciascuno, ma è certo che l’agire logico dell’uomo – che si configura
sempre in un agire culturale – non è stato casuale ed improvviso, ma si è maturato, consolidato ed evoluto in un incerto lasso
di tempo, nel corso del quale si è realizzato, e si realizza continuamente, il progresso della cultura corrispondente al momento
più favorevole per l’emergere di un comportamento sociale progredito nei confronti d’un recente passato, che si riflette sempre
sullo spazio vissuto. Momento esplosivo, tuttavia, nel corso del
quale l’uomo giunse spontaneamente ad esprimere il concetto
nuovo di essere, maturato dalla coscienza di sé, e scaturito come
opposizione esperienziale del non essere.
* Titolare della cattedra di Storia della geografia e delle esplorazioni nell’Università
degli Studi di Parma.
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Cioè di tutto ciò che si proponeva e si propone esterno all’io
(distinguendosi da esso per natura, forma, composizione ed azione), originando, in tal modo, un principio di cultura, in quanto il
soggetto (io) divenne l’attivo agente ed interprete soggettivo di
una particolare capacità dello spirito, espressiva del libero arbi trio, il quale, in sintesi, può essere identificato in una manifestazione comportamentale dell’uomo da intendersi come autodeter minazione, prerogativa mai evidenziata nelle precedenti culture.
Inizialmente la coscienza di sé era priva ancora di radici, poiché l’origine della cultura è sempre qualcosa di talmente distinto
e diverso da ciò che costituisce il mondo di natura e le leggi che
lo governano, da proporsi come evento causativo razionale irrepetibile nella storia dell’evoluzione umana, trovando la propria
determinazione dialettica d’avvio del fenomeno evolutivo culturale, relativamente ad un particolare e ben definito momento d’apertura, riguardante le relazioni vitali dell’uomo sulla Terra, con
la Terra stessa. Infatti l’io, autodeterminatosi, interagì, fin dalle fasi
iniziali del suo complesso manifestarsi comportamentale, con le
forze evolutive biologiche, così da costituire un intreccio di correlazioni multidirezionate e complesse, le quali tesero a diramarsi e ad interessare spazi non sempre ben definiti, inducendo al
sorgere di società organizzate ed in fase di progresso. Furono per
l’appunto questi spazi che, proprio in quanto caratterizzati da non
costanti situazioni climatiche e/o pedologiche, cioè derivanti da
possibilità ambientali diversificate sullo spazio e nel tempo e
verificatesi nell’interagire di complesse situazioni geografiche e
fisiche, indotte dalla concomitanza di cause e di fenomeni d’origine naturale, diedero luogo al costituirsi di differenti habitat
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strutturati entro i cui orizzonti e nelle cui estensioni l’uomo ha
saputo diversamente inserirsi, avendo modo di esprimere i caratteri della propria personalità individuale e collettiva o sociale via
via maturata sotto l’egida dell’ambiente vissuto, quantunque
ancora in fieri, con azioni e comportamenti di disturbo sul naturale evolversi delle cose e dei fatti del mondo. In questo modo
l’uomo fu in grado di evidenziare le sue particolari doti dell’intelligenza e della comprensione, nascoste anche a se stesso per
tutta la durata dei lunghi millenni evolutivi del Paleolitico: era
ancora d’oscurantismo per la coscienza umana in formazione.
Infatti, la coscienza umana permaneva comunque nel dominio della forze che interferirono sul disordine dell’origine, ossia
del caos primordiale, denunciando in tutta la loro pienezza i
caratteri d’una natura fanciulla ancora, in fase emergente, la
quale, perciò, risultava pressoché totalmente dominata dall’azione delle sole forze creative che erano guida all’evoluzione della
Terra nelle sue componenti fisiche e biologiche, impedendole di
essere arbitra di sé, così da inserirla nel gioco infinito della
mescolanza e della separazione e differenziazione delle cose che
erano e che sono. Entro queste strutture compositive d’origine la
mente umana non era tuttavia ancora riuscita a penetrare ed
orientarsi, in modo da porre un ordine, seguendo una logica di
pensiero, poiché mancava sia delle capacità di giudizio, sia del
libero arbitrio.
Poco si può affermare con certezza, mancando di una sicura
documentazione al riguardo, su come nacquero e si manifestarono le prime espressioni culturali dell’agire sociale ed economico
umano che consentirono il superamento della semplice ed ance-
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strale cultura paleolitica e della successiva cultura epipaleolitica o
mesolitica, anch’essa fondamentalmente impostata sulla caccia,
sulla pesca e sulla semplice raccolta di frutti, erbe e radici a crescita spontanea; per quanto non mancassero manifestazioni evolutive, come l’addomesticamento del cane, ad esempio. Tutte
espressioni dell’insorgere di una fase iniziale dell’attivismo paraeconomico umano, certamente manifestativo della semplicità del
vivere allora imperante sugli spazi indistinti e, quindi, a struttura
e organizzazione naturale, ma abitati dalla prima umanità. Spazi
nei quali, tuttavia già erano presenti gli iniziali segni di perseveranti sforzi evolutivi dell’uomo, teso a superare il carattere dell’animalità ancora dominante. Di come, cioè, l’uomo lentamente
maturò, in sé, spontaneamente, quelle forze e quelle capacità,
latenti della sua personalità in formazione, che lo portarono ad
acquisire il senso d’un conoscere mai prima di allora rivelato né
immaginato. Anche perché lo spazio terrestre si prospettava essenzialmente, in quei lontanissimi tempi della preistoria, come
spazio assolutamente anonimo, sebbene si rivelasse alla percezione come composito, anisotropo e discontinuo, ma esistente in
sé, antecedentemente e al di fuori dell’uomo, ed obbediente ad
una seriazione di forze scaturite dal mondo-ambiente. Forze, quest’ultime, che formavano un insieme ordinativo di espressioni e di
grandezze fisiche e biologiche soggette ad interscambi continui1.
L’uscire e il destarsi della mente dell’uomo dalle nebbie
fumose del sonno della prima infanzia ed il suo aprirsi all’analisi
P. B ETTA, Le basi geografiche di formazione della civiltà europea, Parma, Ed. Zara,
1986, pp. 93-98.
1
48
intellettiva e razionale di un mondo-ambiente che, quasi d’improvviso, si propose alla mente come non io o alterità, apportatrice di confronto conoscitivo per l’io soggettivo il quale conteneva in sé ed esprimeva la personalità maturata d’ogni singolo
uomo, diede inizio al grandioso periodo culturale – successivamente denominato Epipaleolitico o Neolitico – nel corso del quale
l’uomo, sempre più conscio di sé, si propose con la forza di sog getto agente e seppe organizzare le esperienze del passato e,
sotto la loro spinta, riuscì a liberarsi, seppure gradualmente, dalle
pastoie dell’ignoranza a cui si collegava l’insorgere delle paure al
manifestarsi degli eventi e dei fenomeni naturali caratterizzanti il
mondo-ambiente. Eventi e fenomeni di cui la mente umana non
sapeva offrire spiegazioni razionali sulle cause del loro manifestarsi. Fu così che l’uomo giunse gradualmente alla formulazione
di primitivi modelli spaziali, rappresentativi di alcune risposte attive e responsabili indirizzate ad un’organizzazione pensata del
mondo-ambiente2. Si ebbero, allora, le prime alterazioni e trasformazioni degli spazi naturali vissuti in territori agiti dall’uomo,
divenuto operatore, e via via sottratti alle forze d’azione geofisiche e biologiche, d’origine interna ed esterna alla Terra.
Il vivere dell’uomo non fu più, da allora, l’espressione della
supina sottomissione alle forze del mondo-ambiente (sebbene
l’origine e la fenomenologia degli eventi rimanesse sostanzialmente inspiegabile alla mente umana), ma si indirizzò alla ricer-
“...la reazione di un organismo ad un dato stimolo dipende assai spesso dalla storia di questo organismo…” [esperienza acquisita] (B. RUSSELL, Analisi della mente,
Firenze, Giunti-Barbèra, 1967, p. 66).
2
49
ca dei possibili legami causativi (se esistenti) che potessero essere ascritti all’analisi condotta dalla nascente logica dettata dall’emergere e dal consolidarsi di un pensiero etno-antropologico e
naturalista, in grado di pervenire a spiegazioni razionali dei fenomeni percepiti nei continui rapporti di vita con il mondo-ambiente, le cui diverse componenti formative si proponevano, alla percezione sensoriale, nella loro concretezza. Era la diretta conseguenza, in qualche modo giustificativa, secondo il rapporto di
causa/effetto, delle risposte comportamentali dell’uomo al manifestarsi dei fenomeni naturali, percepiti in forma di eventi.
Le cause di codesta evoluzione comportamentale dell’uomo,
decisamente rivelatosi più sensibile alla vita, furono individuate,
in un primo tempo, seppure in modo ancora fumoso, nell’insorgere, entro la coscienza umana, di un sentimento e di una ideologia di partecipazione diretta al vivere, manifestata, nel concreto, mediante un simbolismo espressivo del valore – riconosciuto
fondamentale già nel Paleolitico superiore e nel successivo
Epipaleolitico o Mesolitico – della “fecondità”, da cui derivava il
concetto stesso di nascita e di vita. Simbolismo che venne identificato nella figura della donna, la quale venne poi divinizzata e
proiettata, nel sorgente mito, come Madre universale (fig. 1),
essendo riconosciuta e definita “Madre Terra”. Espressione ripresa spontaneamente anche nell’antica simbologia religiosa andinoperuviana della Pachamama 3.
Fu, quindi, la cultura acquisita dall’uomo nell’esperienze della
Al riguardo si rimanda a: P. BETTA, La scoperta e la conquista del Perù, Pàtron,
Bologna, 1995, p. 115.
3
50
Figura 2 - Statuetta femminile simboleggiante la «fecondità».
51
quotidianità del vivere lo spazio, che portò alla formulazione concettuale e all’apprendimento soggettivo della coesistenza e coerenza di possibili legami di stretta relazione reciproca fra l’uomo
e la Terra, quali membri di un tutto inscindibile, sebbene distinguibile nelle sue parti costitutive, ed assoggettato a continui mutamenti comportamentali ed evolutivi, sia d’ordine attivo che passivo, positivi e/o negativi, sempre in atto, sullo spazio e nel tempo.
Il passaggio dalla cultura mesolitica o epipaleolitica alla successiva cultura neolitica rappresentò un momento cruciale per l’umanità in costante fase d’evoluzione culturale, principalmente
perché identificò e distinse il recente valore e il significato conoscitivo e psicologico acquisito del rapporto uomo/Terra, rivoluzionando il proprio comportamento verso lo spazio, tanto che
l’uomo mutò il suo comportamento da parassita della Terra a
organizzatore del suolo 4. In tal modo lo spazio naturale venne
trasformato in territorio ed inserito in una dimensione temporale
nuova: quella della storia.
Fu nel Neolitico, infatti, che l’uomo si affacciò alla storia,
recepita come attivismo vitale; ossia come espressione vivace e
progressista dell’intelletto e della coscienza umana; e intesa in
forma di vita nuova, volta alla ricerca d’una motivazione razionale dell’agire sulla Terra, in modo da giungere a giustificare i
diversi perché della vita, relazionando le possibili risposte alla
ricerca di come la vita umana dovesse o potesse organizzarsi in
riferimento al mondo-ambiente circostante, nella necessità d’impostare continue relazioni d’interdipendenza attive e vivaci.
4
E. H YAMS, Soil and Civilization, Londra, Thames & Hudson, 1952.
52
2. Il diffondersi del Neolitico nell’area mediterranea
Originatosi nella regione dell’Asia anteriore comprendente la
Mesopotamia5, la Siria, la Giordania e la Palestina, tutte terre nelle
quali si sono ritrovati i primi sicuri indizi di facies culturali agricole, impostate sulle coltivazioni e sull’addomesticazione e sulla
pratica dell’allevamento di alcuni animali (R. HEINE -GELDERN¸
1951), il processo evolutivo culturale che portò alla rivoluzione
agricola del Neolitico, iniziò, all’incirca, fra il XII e il X millennio
a.C. e favorì l’accendersi di sempre nuovi rapporti d’interdipendenza fra l’uomo e l’ambiente naturale, definiti dal manifestarsi e
consolidarsi quasi improvviso di particolari “concetti sociali” mai
prima d’allora evidenziati nella quotidianità della vita.
Secondo alcuni autori6 il nascere e l’affermarsi del fenomeno
agricolo trova la sua causa nell’instaurarsi d’un particolare stadio
climatico innescato dal riscaldamento graduale che interessò tutto
il Pianeta e segnò la fine del Pleistocene e l’inizio del successivo
Olocene 7. Il fenomeno ebbe la sua più evidente manifestazione
La regione mesopotamica è percorsa dai fiumi Tigri ed Eufrate, i due grandi fiumi
che assistettero al nascere, al progredire ed al consolidarsi delle prime società
umane strutturate.
6
F. Rittatore-Vonwiller... [et al.], 1969; D.R. HUGHES - D.R.BROTHWILL, 1970; C.T. SMITH,
1974; S. PIGGOTT, 1971, V. GORDON-CHILDE, 1979.
7
L’origine climatica del fenomeno non trova concorde M. PINNA (1988) il quale
sostiene quanto segue: “[...] Oggi possiamo dire tuttavia che questa tesi dell’inaridimento del clima come causa fondamentale dell’origine dell’attività agricola è assurda, per varie ragioni. Anzitutto quell’invenzione avvenne quando l’Era glaciale si era
appena conclusa (o forse non lo era ancora del tutto), onde le terre del Vicino
Oriente avevano ancora un clima più fresco e più umido di oggi, se pur meno che
alla fine di massima espansione dei ghiacci. Infatti in tutta la documentazione in
5
53
nello scioglimento e nel definitivo ritiro, verso più alte latitudini,
della fronte dei grandi ghiacciai settentrionali baltici, che si erano
formati ed avevano ricoperto gran parte dell’Europa e dell’Asia
durante la fase glaciale del Würm IV. Questo insieme di fenomeni fisico-climatici concatenati fu la causa che provocò, fra l’altro,
il costante inaridimento delle regioni dell’Asia anteriore prima
ricordate e l’evolversi ed il mutarsi in pre-deserto e in deserto,
intercalato da aree verdeggianti, le oasi, le quali divennero, nel
tempo, sempre più rade e ristrette, in analogia con il fenomeno
che interessò le regioni del Nord-Africa, poste immediatamente a
sud del Mediterraneo (regioni pre-sahariane e sahariane). A ciò
fece seguito la totale alterazione delle componenti biologiche,
faunistiche e floristiche del primitivo habitat e l’originarsi di
nuove formazioni costitutive di ecosistemi endemici, ridotti rispetto alle precedenti, sia per estensione che per composizione
delle specie vegetali ed animali partecipanti, dando luogo alla
costituzione di ecosistemi di oasi. L’immediata conseguenza, a
livello umano, fu l’insorgere ed il manifestarsi di uno squilibrio,
sempre più accentuato, fra le necessità alimentari delle popolazioni, allora in fase di crescita demografica, e l’entità delle risorse, affermando il valore del rapporto Risorse/Popolazione, la
cui entità tendeva sempre più a divenire <1. Ciò spinse la popolazione umana ad impostare strategie diverse e innovative, al fine
di soddisfare agli immediati ed impellenti bisogni alimentari.
nostro possesso riguardante le condizioni climatiche prevalenti nel periodo di passaggio tra Pleistocene e Olocene non ci sono indizi d’un inaridimento del clima del
Vicino Oriente [...]”.
54
Il luogo d’origine del fenomeno agricolo, verificatosi nel
Neolitico, coincise con quelle aree naturali del Vicino Oriente
nelle quali è stata accertata l’esistenza di alcuni capostipiti dei
principali cereali di larga coltura (frumento, orzo, segale 8) e dove
la documentazione archeologica ha evidenziato anche la presenza delle forme selvatiche di ovini e di caprini, successivamente
addomesticati e quindi allevati e selezionati dall’uomo in età coincidente alla coltivazione dei vegetali o in tempi immediatamente
successivi.
Esula dal discorso in atto indagare ulteriormente sul modo di
manifestazione del fenomeno che portò alla rivoluzione neoliti ca 9; ciò che qui interessa maggiormente è, infatti, esaminare le
modalità secondo le quali la cultura neolitica della coltivazione e
dell’allevamento e addomesticamento degli animali, uscendo dalle regioni geografiche che ne videro l’iniziale affermarsi ed il successivo progredire, si espanse nell’area mediterranea, interessando fortemente le isole e in special modo la Sicilia, la cui posizione geografica la proponeva come “regione centrale del Mediterraneo”. L’isola, infatti, è situata a circa metà distanza fra la costa
orientale del Mediterraneo (Siria, antica Fenicia, Libano) e la vasta
penisola sud-occidentale iberica che chiude il mare alle correnti
dell’Oceano Atlantico, lasciando solamente aperto lo stretto cana-
A. DE C ANDOLLE, Origine des plantes cultivée, Paris, Librerie Germer Balliere, 1883;
P. B ETTA, Ecologia, classificazione, miglioramento genetico, costituzione morfologi ca e fisiologia dell’accrescimento e sviluppo di: Triticum vulgare, Oriza sativa, Zea
mais, Ordeum vulgare, Secale cereale e Avena sativa, Milano, Vita e Pensiero, 1964.
9
Riguardo al modo d’attuazione dell’agricoltura si rimanda a F. GIUSTI , La nascita
dell’agricoltura, Roma, Donzelli Editore, 1996; G. F ORNI, Gli albori dell’agricoltura,
Roma, Reda, 1990.
8
55
le marittimo naturale di separazione fra Europa, a nord, e Africa,
a sud, (Stretto di Gibilterra).
Certamente, dopo il Cane 10, i primi animali ad essere addomesticati ed allevati dall’uomo furono gli Ovini ed i Caprini,
anche perché animali di indole più mansueta di altri e fortemente inclini a instaurare facili rapporti di dipendenza con l’uomo.
Il fenomeno agricolo del Neolitico si espanse, quasi sospinto da forze naturali, dalle regioni d’origine dell’Asia anteriore,
all’Africa ed all’Europa, seguendo alcune particolari vie e sostenuto da diverse tecniche. Le direzioni delle vie seguite e la natura delle tecniche adottate sono state dedotte dall’esame analitico delle testimonianze che l’archeologia ha saputo trarre dagli
oggetti materiali sopravvissuti in gran numero nelle aree interessate da tale fenomeno, ordinandoli in base all’età presunta,
calcolata con metodo scientifico (radio carboni o C14). È stato
così possibile giungere ad individuare e definire, per quanto
riguarda la diffusione in Europa della cultura neolitica, tre principali direttrici d’espansione. La prima di queste, certamente la
maggiore, risulta aver raggiunto la regione del medio Danubio
provenendo dall’Anatolia, dopo aver interessato il mare Egeo e
le sue isole e risalito il corridoio naturale Morava-Vadar (circa
8.000-7.000 a.C.). È infatti da questa via che prese origine, in
tempi successivi (circa 5.000 anni a.C.) la cultura danubiana
(5.000-4.000 circa a.C.) che penetrò e si espanse interessando in
tempi successivi l’Europa centro-settentrionale e occidentale.
Altre due vie di penetrazione in Europa del Neolitico d’origine
10
Il Cane fu addomesticato già nel Paleolitico superiore.
56
medio-orientale hanno invece interessato il Mediterraneo. Una
di queste induce a ritenere che la diffusione dell’agricoltura sia
avvenuta prendendo origine dalla regione orientale della Siria
settentrionale, e, dopo aver raggiunto l’Anatolia meridionale,
abbia seguito la via di mare congiungente le grandi isole del
Mediterraneo occidentale: Cipro, Creta e la Sicilia, per approdare nella regione calabro-pugliese della penisola Italiana. Quanto
alla seconda via mediterranea di diffusione neolitica, questa,
dopo aver raggiunto ed essersi estesa ad interessare tutta la
valle del Nilo (7.000-6.000 a.C.), avrebbe seguito l’itinerario africano, percorrendo le regioni dell’Africa settentrionale in piena
fase di desertificazione, ma ancora parzialmente verdeggianti, e,
dopo aver attraversato lo stretto canale marino che separa la
costa dell’Africa dell’attuale Marocco, dall’Europa sud-occidentale (Gibilterra), sarebbe penetrata nella regione iberica, interessandola al fenomeno, per poi superare i Pirenei con un ramo
occidentale diretto alle Isole britanniche dove formò la cultura
di Windmill Hill (4.000-3000 circa a.C.), mentre un secondo
ramo meridionale si diresse alla regione alpina e a quella appenninica dando origine alla cultura di Almeria (5.000-4.000
circa a.C.).
L’agricoltura, così giunta e diffusa in Europa, differenziava
negli aspetti tecnologici e nell’espressione produttiva. Infatti,
mentre il Neolitico orientale aveva una impostazione basata prevalentemente sulla pratica delle coltivazioni (cerealicoltura domi nante), con scarsa attenzione all’allevamento animale, il quale,
tuttavia, era specificamente rivolto ai bovini, nella corrente neolitica meridionale (mediterranea) prevaleva la pastorizia, rivolta
57
all’allevamento di ovini e di caprini 11. Accettando i valori proposti da un recente studio (A. AMMERMANN - C.L. CAVALLI S FORZA, 1988)
la diffusione dell’agricoltura nelle diverse regioni dell’Europa
avvenne con una velocità media calcolata in 25 km per generazione e con una duplice modalità: quella demica e quella cultu rale 12.
La pratica dell’addomesticazione e dell’allevamento, per
quanto non tutti gli autori concordino, si sviluppò in epoca pressoché contemporanea a quella della coltivazione, se non addirittura la precedette (F. GIUSTI, p. 40). Comunque, alcuni ritrovamenti in siti archeologici hanno avvalorata l’ipotesi che l’addomesticamento e il successivo allevamento di alcuni animali, principalmente ovini e caprini, e la coltivazione dei principali cereali
siano state attività economico-produttive certamente contemporanee o quasi, anche per il fatto che la pratica agricola, unitamente all’allevamento animale, garantivano, alle prime comunità neolitiche, una buona riserva di carne e di granaglie da utilizzare nei
periodi di scarsa raccolta e di scarsa cacciagione, evitando così la
carestia e la fame. Inoltre, l’allevamento consentiva l’utilizzo di
sottoprodotti di grande impiego, come pelli, lana e, posteriormente, del latte e dei suoi derivati: formaggi e latticello.
Secondo S. PIGGOTT (p. 44), l’allevamento ovino e caprino rappresentò il primo
passo di superamento di una economia primitiva impostata sulla caccia e sulla raccolta.
12
L.C. C AVALLI SFORZA, Geni, popoli e lingue, Milano, Adelphi, 1996, p,157.
11
58
3. Il Neolitico in Sicilia
Non è dato di conoscere con certezza quale sia stata la via
di propagazione seguita dalla cultura neolitica medio-orientale
per raggiungere la Sicilia e diffondersi nell’isola e consolidarsi.
Tuttavia, in considerazione della particolare natura geografica
della Sicilia, definita da un chiaro e deciso carattere d’isolamento, che, specialmente all’inizio dell’epoca neolitica, poneva l’isola ai margini estremi occidentale dell’orizzonte mediterraneo, è
possibile avanzare l’ipotesi del formarsi d’una o più comunità
neolitiche di provenienza dalla Siria settentrionale e dalla vicina
regione della Cilicia, nell’Anatolia meridionale, situata a sud dei
monti Tauri, a cui attribuire la diffusione, via mare, del Neolitico
e la formazione di insediamenti non autoctoni. Ciò è testimoniato anche dai caratteri e dalla distribuzione di reperti d’antichi
insediamenti di grotta o di tracce di insediamenti in villaggi di
capanne, rinvenuti in prevalenza lungo la costa di sud-est della
Sicilia. Questi reperti costituirebbero, infatti, i relitti dei più antichi siti archeologici indicativi della presenza di una facies cultu rale neolitica, propria dell’isola, ma ancora delineata dai caratteri che ne testimoniano l’evidente primordiale origine asiatica.
Le genti neolitiche medio-orientali, indotte sia dall’insorgere
interno d’una crescente necessità di soddisfare agli aumentati
bisogni alimentari, che non potevano più essere adeguatamente
appagati a causa del fatto che le risorse alimentari naturali offerte dalle regioni d’origine erano ormai divenute insufficienti,
quindi non più atte a bilanciare le richieste della popolazione,
sia a motivo della continua crescita demografica, sia, infine, in
59
conseguenza dei mutamenti climatici sopravvenuti, ai quali era
dovuto l’inaridimento progressivo di vaste aree prima a fertile
pascolo naturale, entrarono in una intensa fase migratoria, finalizzata al conseguimento di un adeguato bilancio di corresponsione fra i bisogni e la limitatezza dei beni atti alla sopravvivenza13 . Ciò le sospinse a muoversi, in gruppi familiari anche numerosi, alla ricerca di nuovi spazi abitabili, dai caratteri climatici più
favorevoli all’espletamento della pastorizia, perché più ricchi di
acque e con maggiori risorse naturali che li proponevano più
adatti all’allevamento di ovini e di caprini, in quanto dotati di freschi pascoli spontanei, più numerosi, vasti e fecondi di quelli
ormai residuali dei luoghi d’origine, abbandonati perché in fase
di progressiva desertificazione. I gruppi di neolitici migranti
avrebbero raggiunto, navigando su rozze zattere sulle quali era
trasportato anche il loro bestiame ovino e caprino, le isole del
Mediterraneo orientale, Cipro, Creta e le Eolie, formanti, nel loro
insieme, come un ponte naturale di contatto e di comunicazione fra l’Oriente asiatico e l’Occidente mediterraneo europeo.
Quindi, dopo aver raggiunto il Peloponneso, trascinati dalle correnti litoranee del Mediterraneo, che, scorrendo con movimento
antiorario, lambiscono le coste settentrionali dell’Africa, della
Siria e dell’Anatolia asiatica, e sospinti dalla brezze e dai venti di
sud-est, con pecore e capre al seguito approdarono sulle coste
ioniche della Sicilia, che si proponevano disabitate, ma ospitali e
si consolidarono, maturando nel tempo espressioni culturali tipi-
F.G. P ERROUX , “L’Univers économique et sociale, in Encyclopedie française,
tome IX.
13
60
che del sistema di vita nomadica o semisedentaria proprie dei
pastori-allevatori.
Questa via migratoria, secondo alcuni autori (sebbene il fenomeno non sia ancora del tutto confermato nel suo manifestarsi),
non è considerata l’unica. Infatti, alcuni nuclei neolitici, provenendo dalla valle del Nilo, dove ebbero modo di affermarsi e di
consolidarsi, avrebbe percorso, via terra, la regione costiera subsahariana, nella quale, a causa del mutamento climatico in atto,
si affermava sempre più il deserto, anche a seguito del costante
e progressivo prosciugamento delle uadi, gli antichi fiumi che, in
tempi precedenti solcavano le pianure verdeggianti, ma ora desertiche, del Sahara, e, dopo aver attraversato il non ampio braccio di mare libico prospiciente la Sicilia, sospinti anche dalle controcorrenti che si originano entro l’area del golfo della Sirte, le
quali si spostano anch’esse con moto antiorario, raggiunsero le
isole di Malta e di Gozo, da dove avrebbero continuata la navigazione fina ad approdare sulle coste sud-orientali della Sicilia.
Qui giunti, i gruppi neolitici in migrazione colonizzarono con la
loro presenza e i loro animali (pecore e capre) le aree apparentemente più favorevoli all’insediamento stabile, formando gruppi
familiari di pastori-allevatori.
Indagini archeologiche condotte nella regione nord-occidentale della Sicilia hanno portato alla luce relitti di siti neolitici, di
età certamente più recente dei siti sud-orientali, la cui formazione, anche sulla base dei caratteri culturali distintivi da essi evidenziati, è stato possibile attribuire ad una cultura neolitica pastorale, qui certamente presente ed affermata. Si tratta certamente di
siti costruiti durante una fase di colonizzazione indiretta subita
61
dalla regione di nord-ovest. Infatti, questi relitti di siti abitati, per
quanto sempre di decisa antica origine orientale, si propongono
con evidenti caratteri che ne attestano la loro successiva derivazione continentale europea, databile ad un’età posteriore di circa
un millennio rispetto agli insediamenti dell’area orientale della
Sicilia, precedentemente citati.
I coloni neolitici che abitarono la regione nord-occidentale
della Sicilia sarebbero giunti nell’isola sospinti dal manifestarsi di
un fenomeno di riflusso migratorio, derivando dal distacco, avvenuto verso il III millennio a.C., di alcuni gruppi di popolazioni
neolitiche iberiche che avevano saputo maturare, in modo spontaneo ed indipendente, la cultura di Almeria – successivamente
estesasi, come accennato, anche alla regione europea delle Alpi
e dell’Appennino – prevalentemente pastorale. Questa cultura si
era spontaneamente originata, seguendo una propria evoluzione
interna, attuatasi, circa 4000-3000 anni a.C., nell’Iberia orientale,
e costituiva un ramo secondario dell’originario flusso migratorio
di genti di stirpe mediterranea provenienti dal Vicino Oriente 14,
pervenuto in Europa dopo aver percorso l’intera costa settentrionale dell’Africa e aver superato il ristretto istmo di mare che si
frappone fra l’Atlantico ed il Mediterraneo (Stretto di Gibilterra).
Giunti sul continente, dopo essersi affermati e stabilizzati lungo
la sezione costiera orientale della Penisola iberica, per cause
ancora oscure, forse dipendenti da una forte crescita demografica, uno o più gruppi di questi neolitici, divenuti Iberi, si distaccò
dalla comunità che frattanto si era formata e, abbandonati i terri-
14
C. T. S MITH, Geografia storica d’Europa, Bari, Laterza, 1974, p. 28.
62
tori di nuovo insediamento, avrebbe intrapresa una seconda fase
migratoria, sempre condotta per via di mare, ma, questa volta,
con direzione a levante, cioè a ritroso, e, dopo aver navigato fortunosamente, in balia delle onde, dei venti e delle tempeste, il
bacino occidentale del Mediterraneo, e aver raggiunto, in un
primo tempo, la Sardegna15, che servì come ponte “[...] a quelle
popolazioni che dall’Oriente si erano stabilite nella penisola iberica [...]”16, si stabilirono nell’isola, affermandosi con insediamenti
a villaggio, scegliendo con preferenza le regioni interne, perché
qui trovarono vallate più fresche e ricche di pascoli e riparate dai
venti salsi del mare. E, mentre alcuni gruppi familiari avrebbero
dato origine a formazioni autoctone di pastori-allevatori, altri
gruppi, proseguendo la migrazione, sempre via mare, approdarono, infine, sulle coste nord-occidentali della Sicilia, occupandole e diffondendosi lungo le regioni costiere, fertili ed accoglienti,
fino a raggiungere la piana dell’attuale Conca d’Oro. Sono questi
i Sikani, di cui parla T UCIDIDE (St.,VI, 2), e li dice giunti dalla
regione del fiume Sikanòs dell’Iberia, e a cui fa cenno anche
ERODOTO (St.,VII, 170) (fig. 3).
Tutte le genti portatrici della cultura neolitica in Sicilia sono
state riconosciute in popolazioni nomadi o seminomadi, ma mai
sedentarie, perché formate da pastori-allevatori, appartenenti ad
una antica stirpe di etnia pre-indoeuropea, detta mediteranea 17,
giunte dalla Siria, come prima regione di dispersione. Esse si dif-
F. PULLÈ, Italia genti e favelle, vol. I, Torino, F.lli Bocca, 1927
A. M. RADMILLI, Guida alla preistoria italiana, Firenze, Sansoni, 1978, p. XXIII.
17
V. Gordon Childe, Preistoria della società europea, Firenze, Sansoni, 1962, p. 62; P.
MESSERI, Paleontologia umana, Fir enze, Ed Scuola Universitaria, 1978, pp. 256-257.
15
16
63
fusero successivamente e s’insediarono, già in età tardo paleolitica e mesolitica, anche in Africa, stabilendosi lungo la fertile valle
del Nilo e nelle ridenti e vicine oasi predesertiche. Già da lungo
tempo in possesso di alcune tecniche agricole, pur non trascurando di rivolgersi alla coltivazione di cereali, essi tendevano in
particolar modo all’attività della pratica pastorale, cioè alla pratica dell’addomesticazione e dell’allevamento di ovini e di caprini.
Si deve, infatti, a queste genti, appartenenti all’ancestrale ceppo
neolitico proveniente, in origine, dalle regioni dei monti Zagros e
dell’Armenia, che erano pure le regioni d’origine degli ovini e dei
caprini, se la pecora e la capra, già in piena fase evolutiva indirizzata alla costituzione delle razze ovine e caprine attuali, giunsero e si affermarono in Sicilia e nelle altre isole del Mediterraneo,
acclimandosi, tanto da interessarle in modo pressoché totale; specialmente là dove erano le condizioni climatiche e pedologiche
più confacenti all’attività pastorale, non più solamente indirizzata
alla fornitura di carne, ma, già in quei lontani tempi (5.000 anni
a.C. circa) ormai già volta, principalmente, alla produzione del
latte e suoi derivati, specialmente dei formaggi, e della lana18.
Questi antichi pionieri neolitici invasero e si impadronirono
della Sicilia, sovrapponendosi ai precedenti abitatori, genti paleolitiche e mesolitiche residuali disperse sull’isola, ed erano identificati, secondo la tradizione, a quanto riferiscono E RODOTO e
TUCIDIDE, nei mitici Lestrigoni, forse d’origine pelasgica (cioè provenienti, via mare, dalle isole e dalle terre bagnate dal mar Egeo),
È noto che il vello della peccora è un’acquisizione dovuta a selezione indotta dal l’uomo.
18
64
Figura 3 - Le probabili vie di migra zione seguite dai pastori-allevatori
neolitici provenienti dal Vicino Medio Oriente.
65
che s’insediarono stabilmente lungo l’ampia e fertile regione
costiera del sud-est, estesa dalle falde meridionali dell’Etna al mar
Ionio. La regione si presentava ricca di acque, per la presenza dei
fiumi Simeto, il quale bagna le falde vulcaniche meridionali per
poi scaricare le sue correnti nel mare, Alcantara e Anapo, i cui
alvei solcano la regione meridionale della pianura.
I pastori-allevatori neolitici erano formati da un popolo certamente barbaro e violento e dedito alla rapina, che abitava, inizialmente, le caverne dell’isola abbandonate o sottratte ai precedenti abitatori, divenendo autoctoni della Sicilia. Essi furono noti
ai popoli delle isole e delle terre bagnate dal Mediterraneo orientale, con i quali vennero certamente a contatto durante gli scambi economici e culturali avvenuti nel corso dei millenni iniziali
della storia dell’area mediterranea orientale, sotto l’etimo di
Sikani, popolo che la tradizione riteneva autoctono dell’isola. I
Sikani si distinguevano principalmente per l’isolamento geografico della loro terra sul quale fondavano i caratteri della loro economia, prevalentemente pastorale, perché mancante di segni di
formazione e di coltivazione dei campi, nonostante la fertilità
della terra abitata.
Nulla si conosce con certezza del popolo dei Sikani; solo
vaghe notizie sono giunte al riguardo, quindi rimane un’etnia
ancora avvolta nel mistero delle loro origini e pertanto entrano
a far parte della geografia mitica (come intesa da L. DARDEL
1998), il cui discorso si rifà agli iniziali tempi “eroici” della formazione storica e culturale delle società umane. Ecco, allora,
che dei Sikani s’impadronisce la letteratura, con OMERO, lasciandoli però nel mito della loro origine. Solo così, infatti, il poeta
66
poté evidenziare razionalmente, seppure in modo ancora certamente controverso, i rapporti iterativi di fondo e di stretta connessione fra l’immaginario geografico, che non era certamente
proposto come semplice fantasia di menti impreparate al conoscere, ma esprimeva la possibilità, offerta all’intelletto, di pervenire all’idea del reale nella totalità delle possibili apparenze che
ne distinguono i caratteri, derivanti dall’intuizione soggettiva
delle cose e dei fatti concreti. Questi, tuttavia, trovano una loro
giustificazione non nella razionalità d’una logica esplicativa,
bensì nel narrato mitologico. Infatti, è proprio nel narrato mitologico che i fatti inerenti l’uomo ed il suo mondo trovano sempre una giustificazione apprezzabile. Ulisse ed i suoi sventurati
compagni, come narra Omero, giungono in Sicilia dove incontrano i mitici Ciclopi:
Di là navigammo avanti, sconvolti nel cuore
e dei Ciclopi alla terra, ingiusti e violenti,
venimmo, i quali fidando nei numi immortali,
non piantano piante di loro mano, non arano,
ma inseminati e inarati là tutto nasce,
grano, orzo, viti, che portano
il vino nei grappoli, e a loro li gonfia la pioggia di Zeus
[Odissea, IX, 105 – 111]
Il racconto omerico dell’incontro di Ulisse con i mitici Ciclopi,
al di là di una lettura superficiale, conferma il fatto che la Sicilia,
antecedentemente alla colonizzazione fenicia e greca, era abitata
da una popolazione di pastori allevatori di pecore e di capre, i
quali già erano in possesso delle tecniche di utilizzazione del latte
nella preparazione di “caci” o “formaggi pecorini”.
67
Entrati nell’antro, osservammo ogni cosa;
dal peso dei caci i graticci piegavano ...
... tutti i boccali traboccavano di siero,
e i secchi e i vasi nei quali mungeva ...
...Seduto, quindi, mungeva le pecore e le capre belanti,
ognuna per ordine, e cacciò sotto a tutte i lattonzoli.
E subito cagliò una metà del candido latte
e , rappreso, lo mise nei canestri intrecciati
metà nei boccali lo tenne, per averne da prendere
e bere, che gli facesse da cena...
[Odissea, IX, 212-213; 228-229; 245-249]
I barbari ed inospitali Ciclopi 19, “...mortali, forniti di parola...”
20
, come li dice ESIODO, se emendati dal mito, possono essere rap-
presentativi degli antichi Sikani abitatori della Sicilia neolitica,
ancora oscurata nel buio conoscitivo della protostoria, quando la
favola facilmente nascondeva la realtà delle cose, o parte di essa,
lasciando vagare la mente dell’uomo negli infiniti spazi della fantasia creativa; quegli spazi di un non mondo che appartengono al
dominio dell’immaginato, cioè alla sfera del virtuale21.
La mancanza di una approfondita ricerca archeologica, estesa all’intero territorio siculo, rende arduo affrontare il discorso
riguardante l’evoluzione culturale e sociale della popolazione
della Sicilia preistorica, e, pertanto, non consente neppure di sfumare le ombre che ne avvolgono e ne oscurano gli avvenimenti.
19
20
21
A. FERRARI , Dizionario di mitologia latina, Torino, UTET, 1999.
ESIODO, Catalogo, fr. 34.
P. BETTA, Il paesaggio fra reale ed immaginativo, Parma, Maccari, 1997.
68
Non rimane, quindi, che riferirsi al mito, nelle cui incerte ombre
è possibile inserire la presenza dei Ciclopi, di Polifemo e dei suoi
compagni, come lui pastori di pecore e di capre, e riconoscere in
essi i primissimi, lontani abitatori neolitici della Sicilia. Il mito,
infatti, è tendenzialmente considerato una storia vera, dato che
cerca di svelare, mediante un discorso originale, fondato nel
dominio del fantastico, come si sia formulato, nella mente umana,
un possibile concetto giustificativo del reale delle cose che appartengono al mondo.
Pertanto, il mito è creazione di un modello giustificativo del l’attività dell’uomo, legato al sentimento di appartenenza ad una
etnia partecipe di un territorio vissuto, e si propone come dimen sione nascosta esperienziale d’unione psichica dell’uomo con il
mondo del suo vissuto, che la memoria ha saputo tramandare,
pur deformando il vero della realtà delle cose che sono state e
che sono nella loro consistenza antropologica, seguendo un’interpretazione decisamente funzionalistica, legata, cioè, al ricordo,
seppur vago, di accadimenti ormai superati, ma ancora vivi nella
coscienza. Ossia, il mito è il ricordo collettivo appartenente al vissuto di un popolo, della presa di coscienza di una umanità in
fieri, avvenuta in un ambiente nuovo, del quale tutto è sconosciuto all’io collettivo. E l’io si trova, quindi, a dover ricostruire la
passata esperienza del vivere, ossia, l’apparente concretezza, valida anche nell’oggi, di un passato, quale motivo causativo di
mutamento e di progresso culturale.
Non dovrebbe recare scandalo, allora, al lettore, l’identificazione raffigurativa dei mitici Ciclopi, barbari e crudeli, allevatori di pecore e di capre, p erciò in possesso della cultura neoliti-
69
ca, con i colonizzatori mediterranei, giunti dal mare, che si trovarono d’improvviso soli in una terra sconosciuta, dove persino
la realtà dei luoghi era celata nel rimbombo dei moti vulcanici
che salivano dall’imo della montagna, elevata al cielo, dalla cui
cima uscivano getti di fiamme, sassi infuocati e fumo ardente.
Pastori-allevatori furono, quindi, i neolitici giunti in Sicilia, già in
possesso delle tecniche per la lavorazione del latte e la produzione di “caci”.
I coloni neolitici, in millenni di vita pressoché isolata, divennero gli abitatori autoctoni della Sicilia e seppero conseguire un
certo grado culturale che consentì loro di organizzarsi in comuni tà complesse, economicamente indirizzate all’allevamento ovino e
caprino, e, nel contempo, adattarsi ad alcune pratiche di coltivazione, insediandosi in villaggi fortificati.
Gli abitatori della Sicilia, come ricorda anche DIODORO SICULO,
furono conosciuti nell’area mediterranea con la denominazione di
“Sikani”, onde il nome di Sikanìa con il quale OMERO (Odissea,
XXIV, 307) e lo storico ERODOTO (Storie, VII, 170) indicano l’isola.
I Sikani, quindi, rappresentarono a lungo un popolo di pastori di
greggi e di allevatori di ovini e di caprini, isolati, nel loro ristretto contesto ambientale, dalle vicende che motivarono il nascere e
il progredire dei vicini popoli mediterranei: Minoici, Micenei,
Fenici e Greci, i quali, in successivi millenni, si susseguirono l’un
l’altro nel dominio economico e politico del Mediterraneo (talas socrazia), coinvolgendo nel loro contesto politico, sociale ed
economico anche la Sicilia, la cui posizione geografica la poneva
al centro degli interessi del commercio mediterraneo, favorendone la successiva uscita dal suo iniziale isolamento. Infatti, verso la
70
Figura 4 - Gli insediamenti e la composizione etnica della Sicilia proto storica.
71
metà del II millennio a.C. (1600?), come testimonia ERODOTO (Sto rie, VII, 170), la Sicilia certamente aveva già aperto relazioni con
Creta22 e con la cultura minoica, portatrice delle tecnologie di
lavorazione del rame. Infatti, dice ERODOTO che Minosse23 , il
potente re cretese, figlio di Zeus, giunse nell’isola alla ricerca di
Dedalo, e qui vi trovò la morte nella città di Càmico per mano del
re dei Sikani Kokalo, che lo aveva ospitato.
Attorno al 1200 a.C. la Sicilia subì l’invasione di un popolo
proveniente dalla penisola italica, i Siculi. Un popolo dotato di
tecnologie più avanzate dei Sikani, che contemplavano l’uso del
rame e l’impiego del cavallo. I Siculi, guidati, secondo la tradizione storica, da Siculo, figlio del re italico Italo, migrarono nella
Sicilia orientale (mutando il nome dell’isola in quello di Sikelìa)
sostituendosi agli antichi Sikani che avevano abbandonate quelle
terre, a causa delle violente eruzioni dell’Etna, e, sospinti con le
armi dai Siculi, erano andati ad occupare le regioni centrali dell’isola, aride e quasi spopolate, fermandosi ai confini delle terre abitate dagli Elimi. Questi ultimi costituivano un popolo formatosi,
secondo la leggenda, da un gruppo di Troiani che, sotto la guida
di Elimo, figlio naturale del re di Troia Anchise, fuggendo per
mare dalla loro città distrutta dagli Achei, raggiunse la Sicilia occi-
22
C’è un’isola, Creta, in mezzo al livido mare,
bella e ricca, cinta dall’onde, e là uomini
innumerevoli, senza fine, e novanta città …
[OMERO, Odissea, XIX, 172-174.]
Minosse, che era il più regale di tutti i sovrani mortali e regnava su moltissimi
uomini dei paesi vicini, avendo lo scettro di Zeus …
[ESIODO , Catalogo delle donne, 68]
23
72
dentale e si sostituì alle popolazioni indigene. A seguito di questi
fatti l’isola, alla fine del secondo millennio, risultò suddivisa fra tre
etnie: i Siculi che abitavano la regione orientale, più fertile e ricca;
i Sikani, stabilitisi al centro; gli Elimi insediati nella regione occidentale della Sicilia (fig. 4). È all’influenza reciproca di queste tre
etnie conviventi sull’isola, che può attribuirsi il superamento del
primo neolitico siculo e la fondazione di città fortificate.
4. Micenei, Fenici e Greci in Sicilia
L’isola Sikanìe, per la sua posizione geografica sulla via marittima di passaggio fra il bacino orientale e quello occidentale del
Mediterraneo, proprio in posizione mediana tra la penisola italica e l’Africa settentrionale, ha quindi conosciuto genti provenienti da tutte le terre bagnate dall’antico mare Mediterraneo, evidenziando così l’importanza della sua posizione geografica di centralità mediterranea e di attrazione. Infatti, viaggiatori, mercanti cretesi, micenei, fenici, punici e greci e popoli migranti, alla ricerca
di nuove terre da colonizzare, hanno contribuito all’evoluzione
culturale e sociale dell’isola, preparandola alla storia, con la sua
umanità divenuta sempre più ricca e vivace.
Che la Sicilia abbia subito, in età protostorica, una certa
influenza minoica e soprattutto micenea è dimostrato, principalmente, dal centro di Pantaleo, sul fiume Anapo. In questa località, le rovine di un grande edificio, le cui forme architettoniche
richiamano quelle dei palazzi dell’antica Micene, testimoniano il
concretizzarsi di rapporti stabili fra la Sicilia e l’oriente egeo
73
dominato dalla presenza delle forze achee. Di quel popolo guerriero, di stirpe indoeuropea, proveniente dal nord dei Balcani,
che seppe distruggere la potenza troiana e cretese, per imporre
la propria lingua, la proprio raffinata cultura e il proprio spirito
critico. Gli Achei, infatti, ebbero la forza e la capacità di sostituirsi a Creta, dopo averla distrutta (1400 circa a.C.), nel dominio del
Mediterraneo orientale e centrale, spingendosi, con i loro commerci, sulle coste della Fenicia, dell’Egitto e raggiungendo, verso
occidente, la Sicilia, all’epoca considerata ancora l’estremo lembo
occidentale del mondo conosciuto.
Tuttavia, la presenza micenea in Sicilia non portò a grandi turbamenti negli equilibri dei rapporti fra i pastori-allevatori autoctoni, in fase di superamento della loro primitiva cultura, e l’ambiente; specialmente nei riguardi dell’economia dell’isola, se non,
forse, per aver dato un maggiore impulso iniziale alla pratica delle
coltivazioni cerealicole, nonostante la pastorizia abbia sempre
conservata la preminenza sui territori occupati. La civiltà micenea,
quindi, alla pari della civiltà minoica che la precedette, non si
rivelò di particolare influenza sul progresso della Sicilia, se non
fosse per il fatto di averla inserita in un contesto geografico in fase
espansionistica economica, politica, culturale e conoscitiva, sostenuta da quell’insieme di vicende storiche che potarono, in tempi
successivi, prima al declino mercantile e politico fenicio, precedente a quello ellenico, sul Mediterraneo, soprattutto sul bacino
orientale e sulle terre gravitanti attorno a questo antico mare.
I Fenici, conosciuti nell’area mediterranea, prima dell’avvento
dei Greci, con la denominazione da loro stessi attribuitasi, come
popolo unitario, di Cannanei (S. MOSCATI, 1999), poi di Sidoni o
74
Tiri, entrarono in contatto con i Sikani nel corso dell’espansionismo commerciale mediterraneo che ne contraddistinse, fin dal loro
apparire sulla scena del mondo, il loro sistema di vita, in certo
modo ad essi imposto dalla natura geografica della loro terra, prevalentemente montuosa e boscosa, di navigatori e di mercanti
esploratori di regioni ancora ignote agli uomini, perché ancora
poste al di là dell’orizzonte conosciuto e si erano creata la fama di...
... navigatori famosi,
furfanti, cianfrusaglie infinite nella nave nera portando
[O MERO, Odissea, XIV, 415-416]
...giungendo in ogni paese e creandosi ovunque fama ed
acquistando potenza, tanto da suggerire alle genti il senso della
loro forza:
Tiro tu dicevi: io sono una nave di perfetta bellezza.
In mezzo al mare è il tuo dominio ...
[EZECHIELE, 27, 3-5]
Fra le terre raggiunte era la Sicilia che subì la colonizzazione
fenicia, dapprima solamente mercantile con la fondazione di fondachi o empori commerciali, ma, successivamente, anche agricola ed industriale, sia per le necessità sempre sentite dai Fenici di
utilizzare i prodotti agricoli dell’isola, tanto scarsi e ricercati nella
loro terra d’origine, sia per riempire le cambuse delle loro navi e
prepararle ai lunghi viaggi per mari anche parzialmente ignoti,
alla ricerca di nuovi mercati.
Specialmente nei momenti iniziali che segnarono i primi
approcci con la Sicilia, gli insediamenti fenici si proposero come
75
luoghi costieri e isolati e generalmente situati su promontori prospicienti il mare e ricchi di acque sorgive, per poi trasferirsi in
modo pacifico, all’arrivo dei Greci, nell’estrema regione nordoccidentale dell’isola. Gli insediamenti fenici in Sicilia, richiamavano, nella loro strutturazione, quelli della terra d’origine, la
Fenicia, come evidenzia specialmente l’insediamento di Mozia
(fig. 1), all’epoca situato su una piccola penisola protesa nel mare
ed oggi separata dalla costa da un brevissimo e basso fondale.
I contatti fra Fenici e Sicilioti furono essenzialmente di natura commerciale, come ricorda TUCIDIDE (Storie, VI, 2) e come è
anche comprovato da alcuni reperti archeologici di diverse epoche, ma di provenienza insulare, benché nulla sia riferito dalle
fonti storiche scritte per quel che riguarda la natura e i tipi di prodotti agricoli siculi oggetto di scambio. Tuttavia, è possibile affermare la sicura esistenza di un intenso traffico di prodotti caseari,
tipici della Sicilia, come il formaggio pecorino, che rappresentava la base della produzione caratteristica dovuta all’allevamento
ovino e caprino, fortemente esteso nella Sikanie. L’attività casearia, infatti, costituiva una delle produzioni peculiari utilizzate per
il rifornimento delle navi fenicie dirette verso le più lontane colonie, come quelle fondate sulle coste atlantiche dell’Iberia, oltre i
Pilastri di Melkar (Stretto di Gibilterra), dove erano numerosi
empori, fra i quali primeggiava Cadice, nella regione sud-orientale della penisola iberica.
Lo scambio commerciale di caci o formaggi pecorini siculi,
doveva essere piuttosto ingente se ARCHESTRATO DI GELA (330 a.C.),
nel suo poema didascalico Hedypàtheia, nel quale narra di un
viaggio gastronomico, cantò un elogio dei caci siciliani, definen-
76
Figura 5 - Un gregge di pecore al pa scolo libero.
77
doli famosi e rinomati formaggi, tipici della regione sud-orientale
della Sicilia, bagnata dal mar Ionio, e, soprattutto, più famosi dei
formaggi di Creta, l’isola dove, ai tempi delle origini, la capra
Amaltea allattò Zeus neonato e dove il centauro Chirone fece
cagliare il latte per alimentare il futuro re dell’Olimpo.
Fra il nono e l’ottavo secolo a.C. le popolazioni indigene
della Sicilia (Siculi, Sikani, Elimi) furono sopraffatte da due distinte ondate di immigrati provenienti dalla Ionia. Erano coloni Greci
che, agli inizi della fase espansionistica coloniale degli antichi
Elleni, avvenuta durante il periodo definito medioevo ellenico,
affrontarono gli sconosciuti mari dell’ovest e del nord dell’Egeo,
narrati solo dal mito, per fondare delle colonie. I Greci, giunti in
vista delle coste ioniche della Sicilia, approdarono sulle regioni
sud-orientali dell’isola, ed entrarono in contatto con i nativi, ancora strettamente legati alla loro cultura pastorale d’origine che abitavano, per lo più, in piccoli villaggi con popolazione non superiore a un migliaio di persone. Lo scontro culturale che contrappose i nuovi venuti con gli autoctoni fu certamente violento, dato
anche il dislivello tecnologico che li distingueva e li separava e
certamente non si risolse in una coabitazione pacifica; anzi, le
etnie siciliote furono sottomesse con la forza dagli invasori e
ridotte allo stato servile e costrette a coltivare le terre ormai occupate dai nuovi venuti. Solamente una piccola frazione di autoctoni, ritiratisi nell’interno della Sicilia e nelle regioni più aspre dell’isola, conservò la propria antica cultura di pastori-allevatori,
rimanendo sostanzialmente passivi di fronte alla realtà storica del
momento vissuto.
I primi coloni greci giunti in Sicilia avevano superato, già da
78
lungo tempo, la fase economica della semplice pastorizia, anche
da essi vissuta nei lontani tempi protostorici, ed erano divenuti
esperti agricoltori. Essi occuparono, innanzitutto, le terre rivierasche più fertili e le pianure interne irrigue dell’isola, e vi fondarono delle città, ad imitazione delle poleis della madrepatria.
Queste poleis gravitavano generalmente sulle grandi vie marittime
già percorse dai commerci minoici e, principalmente, fenici e ne
ereditarono le funzioni commerciali, scambiando i prodotti dell’agricoltura siciliana e dell’industria casearia locale – basata quasi
esclusivamente sulla lavorazione del latte di pecore e di capre,
che acquistò grande fama nell’area del mare Egeo, superando la
notorietà conseguita degli stessi formaggi pecorini greci – con
prodotti diversi, provenienti sia dalla Grecia e dalle isole, che dai
mercati orientali e mediterranei dei Fenici, come la porpora di
Tiro e l’argento, l’oro e le sete di Sidone, che da quelli di provenienza dall’Africa settentrionale dell’area punica o cartaginese,
costituiti da avorio e lane e tappeti dell’Iberia e ambra da Cadice,
sia, infine, del ferro che le navi dei mercanti etruschi trasportavano direttamente dalle miniere dell’isola d’Elba.
In seguito a questi fatti, la Sicilia, sotto la dominazione colonialista degli Elleni, venne inserita nel discorso storico, culturale
ed economico che investì l’intera area mediterranea, senza però
perdere totalmente i propri caratteri etnici e culturali, e la tradizione del proprio artigianato agricolo, il quale, sebbene ancora
tradizionalmente basato sulla pratica pastorale, volto alla produzione di carne e lana, ma soprattutto di formaggi pecorini e caprini, aveva saputo emergere e proporsi all’attenzione e conquistare i mercati dell’intera area mediterranea.
79
... e Roma
Poi venne Roma, il cui discorso occupazionale delle terre di
Sicilia s’aprì riproponendo le metodologie delle precedenti occupazioni coloniali fenicia e greca. I nuovi “padroni” si divisero le
terre sicule e le introdussero nel discorso economico europeo e
mondiale di Roma, la quale necessitava, soprattutto, di grandi
quantità di grano e di altri prodotti agricoli, principalmente di
carni fresche di agnello e di capretto, assai richieste, oltre che di
ulteriori prodotti primari dell’attività dell’allevamento ovino e
caprino, provenienti in particolare dalla piana alluvionale e vulcanica di Catana (Catania), la più fertile area agricola di tutta la
Sicilia, dove, in un’ampia e fresca valle, ricoperta di grasse erbe
e di fiori 24, sorgeva il centro agricolo e culturale di Hybla.
Fra i prodotti di esportazione siculi erano soprattutto quelli
caseari: i caci siciliani, la cui domanda sul mercato di Roma era
grandissima; infatti, i formaggi pecorini provenienti dalla Sicilia
erano preferiti persino a quelli ricavati dal latte di produzione dell’allevamento locale.
Per tanto l’allevamento di pecore e di capre e la produzione
di caci o formaggi pecorini, connessa alla tradizione atavica della
pratica casearia, ereditata dai pastori neolitici dell’antica isola
Sikanie (pratica casearia che rappresentava uno dei principali
aspetti della pastorizia seminomade), principalmente della regione costiera di sud-est, dove emergeva per antichità, il centro di
24
“Hyblaeis apibus florem depasta salicti, …
[VIRGILIO, Egloga I, 55]
80
Siracusa, colonia di fondazione corinzia risalente al 734 a.C., eretta sui resti di siti del primo Neolitico, rimase consolidata negli usi
zootecnici familiari delle genti indigene dell’isola, quasi fosse il
segno di una tradizione culturale antica quanto antica era la stessa isola Sikanie. Ciò impedì che la produzione artigianale del formaggio pecorino siciliano, sia pure limitata a livello di famiglia
pastorale, anche, sotto il dominio coloniale di Roma, aveva saputo conquistare il pur ridotto mercato caseario urbano dell’epoca,
“...dove trovò sviluppo e storia...” 25.
Così il formaggio pecorino prodotto in Sicilia seppe conservare integre nei secoli, fino ai giorni nostri, i propri caratteri organolettici, quasi a simboleggiare, in essi, il significato economico e
il valore alimentare che il cacio siciliano, quale risultato tecnicoproduttivo d’una tipica espressione autoctona delle capacità di
lavorazione casearia e artigianale del latte ovino e caprino d’allevamento insulare, acquisita in millenni di vita pastorale dalle
genti di Sicilia, poté superare, nei vasti silenzi e nell’isolamento
di aprichi pascoli verdeggianti, i successivi e numerosi inghippi
della storia vissuta dall’isola, indotti da invasioni subite di popoli
diversi, da guerre che sconvolsero l’isola e dalle diatribe umane.
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83
CAPITOLO TERZO
Fausto Cantarelli*
Azioni e prospettive
1. Dalla Sicilia alla Gallia
I formaggi hanno rivestito nell’alimentazione dei tempi
passati un ruolo decisivo, che si è espresso nella rap ida diffusione del sistema pastorale e nella sua tenuta fino ai giorni
nostri.
La storia del Pecorino Siciliano è la storia della prima industria agraria europ ea; anche gli Etruschi e i Romani, popoli di
pastori, hanno ap prezzato subito questo formaggio riproponendolo nella penisola e consumandolo in abbondanza. Anche
nei nuovi territori la trasformazione del latte è avvenuta con
criteri analoghi a quelli della Sicilia di allora, che non sono dissimili da quelli di oggi: il latte munto alla sera veniva trasformato la mattina successiva facendolo cagliare con l’aggiunta
del latice di fico o di fiori di cardo, di cartamo tintorio, di aceto
o di caglio estratto dallo stomaco degli agnelli.
* Titolare della cattedra di Economia agro-alimentare e docente di marketing alimentare nell’Università degli Studi di Parma.
85
Presso i Romani si cominciarono a distinguere i formaggi a
lunga conservazione, da quelli da consumare freschi e da altri
ancora che erano pressati (caseus manus pressus). I formaggi
più pregiati erano: il Velabrano, un formaggio affumicato,
molto quotato all’epoca di Marziale; il formaggio Vestino, prodotto nell’Italia Centrale; il formaggio Trebulano della Sabina.
Viene poi citato quello famoso fatto a piramide di Sarsina,
località ricca di latte, allora umbra ed oggi in Romagna. Vi
erano poi le enormi forme di caseus lunensis che arrivavano a
pesare più di kg 300 e molti altri, inclusi alcuni importati da
diverse parti dell’impero.
Si può ben dire che gran parte della produzione casearia
europea affondi le radici in Sicilia, la prima provincia di Roma,
dove i Romani erano arrivati poco prima delle guerre puniche
(241 a.C.).
Dalla Sicilia l’arte casearia si è diffusa ovunque arrivassero
le legioni grazie a una cultura superiore a quella dei vinti.
I Romani hanno migliorato con il tempo le tecniche casearie, traendo profitto dalle conquiste di nuovi territori, da cui
hanno appreso usi e costumi; Cesare osserva che i Germani si
nutrivano di latte, formaggio e carne; anche Tacito cita il formaggio come loro alimento usuale.
Anche i Greci erano gran mangiatori di formaggi perché,
non disponendo di molti alimenti, si rifacevano sul latte di
pecora e di capra; anzi questi ultimi sono rimasti anche nei
secoli successivi le principali risorse della dieta di quel paese.
Fin qui la storia antica della prima industria alimentare realizzata dall’uomo; ma c’è di più: con un suo editto Carlo
86
Magno, che era un formidabile consumatore di formaggi, nel
812, ne ha regolamentato il mercato in Europa.
Ancora alla fine del primo millennio il latte era considerato un prodotto secondario dell’agricoltura destinato alla sussistenza, non diversamente da quanto avviene ancora oggi in
molti luoghi della Sicilia e del Mezzogiorno, dove è diffuso il
mercato diretto per la parte eccedentaria i consumi familiari.
Nel Medio Evo si differenziarono le zone tipiche dei formaggi a seconda che provenissero da latte bovino (al nord) e
ovi-caprino (al sud).
Infine nell’età moderna, dopo l’unificazione d’Italia, l’industria del nord ha incominciato ad appropriarsi dell’arte casearia, dando l’avvio alla costruzione delle grandi imprese lombarde. Ha iniziato Pietro Locatelli (1860) a Ballabio Inferiore,
seguito da Pietro Polenghi a Codogno (1870) ecc.
Tralasciando le complesse vicende della formazione dei
diversi assetti industriali per regione e l’evoluzione delle tecniche, i formaggi si sono moltiplicati tanto che, già nel 1885 ne
esistevano una cinquantina con produzioni limitate ai luoghi
d’origine come il grana lodigiano, il gorgonzola, il quartirolo,
la crescenza, l’uso monte, il bitto, in Lombardia; la fontina, il
bra, il castelmagno, in piemonte; l’asiago, il montasio, il verrena, il tolminotto, in Veneto; il parmigiano-reggiano in Emilia;
il pecorino grossetano e il pecorino romano in Italia Centrale;
il caciocavallo, la mozzarella e il provolone in Italia Meridionale; i pecorini e i canestrati in Sicilia; il fiore sardo, il bacellone e la fresa in Sardegna. Le produzioni erano sempre correlate alle necessità locali.
87
Nel 1880, Antonio Zazzera, staccatosi da Polenghi, ha iniziato a imitare nel nord i formaggi meridionali, incominciando
con il provolone dolce; visto il successo dell’iniziativa, si è
fatto lo stesso anche con quelli svizzeri (Andrea Ponti nel
1822). Analogamente per il Pecorino Romano, l’aumento di
domanda degli emigrati ha suggerito alla Latteria Soresinese di
imitare quella produzione e alla Sardegna di sostituire il tradizionale Fiore Sardo con il Pecorino Romano, mentre il
Pecorino Siciliano rimaneva semp re ancorato all’isola e al consumo interno.
In questo modo sono saltati molti degli equilibri storici, nei
quali ogni area consumava il proprio formaggio e ha incominciato a farsi avanti il mercato che diventerà sempre più ampio
e più dinamico, specie dopo essersi ampliato dopo l’ultimo
conflitto mondiale.
Arrivati ai tempi nostri, dobbiamo constatare che i formaggi delle aree umide del centro e del nord Europa premono sui
confini nazionali facendo una concorrenza spietata agli ottimi
formaggi tipici italiani, penalizzati dalla mancata organizzazione degli allevatori-produttori. Nei mercati dinamici, nei quali
l’offerta è costantemente superiore alla domanda e le vendite
richiedono organizzazione e sostegno, non esistono formaggi
tanto buoni che si vendano da soli e nei quali viene penalizzato nel prezzo chi si presenta al mercato senza essere opportunamente sostenuto. È per questo motivo che i prezzi più alti
nei supermercati italiani vengono riconosciuti ai formaggi francesi, e non a quelli italiani. Dei dieci formaggi a maggiore prezzo sette sono francesi e tra questi sei si trovano ai primi posti.
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Lire/hg
1 - Roquefort - Francia ................................................................................ 5.050
2 - Aperifrais - porzioni di formaggio
con aromi per aperitivi prodotto in Francia ........................ 4.330
3 - Formaggio con noci - Francia ....................................................... 3.560
4 - Caprino - Francia ..................................................................................... 2.870
5 - Cantadou - formaggio francese
con erbe aromatiche ............................................................................... 2.730
6 - Rondele - formaggio francese aromatizzato ....................... 2.680
7 - Parmigiano-Reggiano - Italia ........................................................... 2.660
8 - Caprice des Dieux - Francia ........................................................... 2.500
9 - Mozzarella di Bufala Campana - Italia..................................... 2.490
10 - Fontina Valdostana - Italia ................................................................ 2.430
2. Il contesto
Quale sarà il futuro rapporto dell’uomo con i formaggi tipici?
In una società immersa nella cultura del superfluo, analisi e previsioni diventano complesse e gli esiti incerti. Non possiamo
chiudere gli occhi tuttavia davanti al grande capitale internazionale che continua a sfornare prodotti “innovati” e “appiattiti” e a
rivolgersi alla globalizzazione con strategie puntuali e mirate,
apparse con il self-service, poi continuate con la grande distribuzione, le norme igienico-sanitarie, le certificazioni, il franchising
e, buoni ultimi, gli organismi geneticamente modificati (Ogm); né
possiamo ignorare la preminenza del capitale familiare, nelle aree
mediterranee dell’Ue, con produzioni polverizzate, bassi volumi
d’offerta e domanda locale, in armonia con cultura, tradizione e
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qualità. Nel primo caso, gli alimenti standardizzati a prezzi ridotti e ad alto contenuto di servizi aggiunti e incorporati percorrono
con disinvoltura itinerari senza confini, mentre, nel secondo, non
riescono a trovare risposte favorevoli per costi e prezzi alti (la
qualità però è migliore) per carenze organizzative e per dimensione locale.
Il modello produzione-consumo alimentare italiano, che rientra per gran parte in questo secondo contesto, oggi è accreditato
di un’immagine suggestiva, che viene apprezzata dagli slogan dei
concorrenti (“dieta mediterranea” o “stile italiano a tavola”), ma
non dai ricavi delle aziende; eppure sono questi prodotti di alta
qualità delle piccole e piccolissime imprese ad avere tenuto alto
il pregio e l’immagine degli alimenti della grande industria, dando
corpo a uno standard nazionale superiore.
Risulta evidente da questa sommaria analisi che, nonostante
il pregio indiscusso, le prospettive per l’economia agro-alimentare italiana non sono delle migliori; pur tuttavia il sistema fino ad
ora ha retto bene, nonostante che molti economisti l’avessero
dato per spacciato da anni, da quando cioè si è affacciato all’orizzonte il mercato globale (a dire il vero, in ambito alimentare il
mercato globale riguarda più le commodities degli alimenti); l’opposizione ha avuto esito fortunato perché le abitudini alimentari,
da noi più radicate che altrove, hanno tenuto bene, contrastando
l’ingresso in Italia di alimenti estranei al nostro costume. È bene
ricordare però che le abitudini alimentari offrono resistenze nei
tempi brevi, non nei tempi lunghi, come dimostrano le rivoluzioni del neolitico e gli alimenti nuovi arrivati a suo tempo dalle
Americhe.
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I prossimi anni saranno decisivi e con esisti che dipenderanno più dalle nostre azioni, carenti per il passato, che dalla
pressione altrui; l’emancipazione della piccola e media impresa,
agricola e industriale, richiede, molto coraggio e grande lungimiranza.
In proposito è importante la tempestività con cui i produttori sapranno cogliere segnali promettenti, tra cui segnaliamo la
nascita dell’”Osservatorio Internazionale per la valorizzazione dei
prodotti tipici dei paesi mediterranei dell’Ue”, per iniziativa
dell’Unione Nazionale delle Camere di Commercio (è stato nominato un Comitato promotore e stanziato un primo finanziamento); il marketing di settore con il 2001, anno dedicato ai formaggi tipici italiani, con il 2002 per i salumi ecc.; infine, la rete interuniversitaria per la formazione in marketing agro-alimentare con
l’intento di avere un’unica metodologia nazionale, che eviterebbe
le troppe fantasie ed estemporaneità oggi presenti sul territorio.
Se questa triade testimonia l’esistenza di una volontà e costituisce l’avvio di un’azione strategica a favore degli alimenti tipici
e, di riflesso, anche di altri, non dobbiamo dimenticare un’altra
prospettiva di tutto rilievo: il turismo. Infatti, l’espansione di questa attività è fatto consolidato; iniziata negli anni Sessanta, ha visto
triplicare gli arrivi internazionali in un ventennio (1960-1980),
quintuplicati (654 milioni) in 35 anni (1995) e presentare ancora
oggi un trend positivo, che ha permesso all’organizzazione mondiale del turismo (Omt) di prevedere un ulteriore raddoppio degli
arrivi nel 2010 (un miliardo di arrivi) con un aumento medio
annuo del 4,3%.
In questo modo, il peso della componente turistica, nel con-
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testo dell’economia mondiale, è destinata a crescere fino a raggiungere il primo posto tra le attività industriali e a sviluppare un
indotto ampio e complesso (trasporto, agroindustria ecc.); il fatturato, che, nel 1995, ha fatto registrare entrate nel mondo per 400
miliardi di $ Usa, aumenterà a un ritmo di quasi il 7% all’anno.
L’Italia è destinata a trarre benefici ulteriori dall’espansione
dell’attività turistica, accrescendo il suo ruolo grazie alla storia,
alle testimonianze monumentali e artistiche, alle diverse espressioni del paesaggio, al Mediterraneo, su cui si affaccia in gran
parte ecc. ... e alla peculiarità degli alimenti e delle gastronomie.
Per questi e altri motivi, il Paese, che ha ricevuto in passato una
domanda turistica tra le più alte nel mondo, continuerà ad espanderla anche se il ritmo sarà inferiore a quello di altri territori, oggi
ancora scoperti (Asia dell’Est e Oceano Pacifico).
Il richiamo a questa prospettiva è d’obbligo per l’Italia perché
può essere l’occasione per potenziare, con la difesa della parte
più debole del nostro sistema agro-alimentare, l’immagine del
modello italico, garantendogli non solo la sopravvivenza, ma
anche l’espansione; ne conseguirebbe nuovo sviluppo della
nostra economia con maggiore armonia e migliore distribuzione
sul territorio, rendendo possibile al Paese vivere nel benessere
senza rinunciare a storia, cultura e tradizione, e preservando alle
future generazioni la prima gastronomia del mondo e gli alimenti di pregio su cui si regge.
Le esperienze anche rilevanti, che l’Italia ha condotto in
ambito turistico sono state spesso frutto di improvvisazione, ma
nel momento in cui il Paese assegna a questa attività un ruolo
portante, occorre fare qualcosa di più: una strategia, e questa, a
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MOZIA – Fondata dai Fenici nell’VIII sec. a.C. nell’isola di S. Pantaleo,
divenne avamposto cartaginese nell’Isola e fu distrutta dai Siracusani nel
397 a.C. Importanti scavi hanno messo in luce interessanti tracce dell’anti ca città. Nel fotogramma l’intera isola e, in alto, la strada sommersa di col legamento alla terraferma. In alto a sinistra l’estremità dell’isola S. Maria
(fotografia della Società Generale Riprese Aeree).
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sua volta, richiede il ricorso alle innovazioni, alle interazioni alimento-turismo, alle sinergie ecc.
Però non sono tutte rose e fiori. All’orizzonte incombe un
pericolo, che minaccia in qualche misura uomo e ambiente; si
tratta degli Ogm, che si stanno diffondendo rapidamente e solo
ora incominciano a trovare qualche resistenza anche nelle zona
d’origine (Usa); sono alimenti nuovi, frutto dell’ingegneria genetica, prodotti da poche industrie della chimica internazionale, che
vorrebbero acquisire l’oligopolio dell’alimentazione mondiale
non senza qualche rischio per l’ambiente e i consumatori; oggi la
Ue ne ha vietato la produzione per il consumo ed è in attesa di
esprimere un parere sul loro futuro.
È evidente, nel contesto globale, il tentativo da parte di chi
non ha sensibilità storico-culturale, di scalzare usi e costumi dell’area mediterranea e di altri territori tradizionalisti per sostituirli con altri più appiattiti e più convenienti, approfittando della
capacità delle multinazionali del Nuovo Mondo di espandere il
benessere generale più di quanto riescano a fare le tradizionali
microeconomie locali; in linea con questa ipotesi, che punta al
profitto, potrebbero scomparire dal nostro costume alimentare
abitudini e cibi storici per mancata competitività.
Per contrastare l’ipotesi, che sarebbe di grave danno per l’economia del Paese, basterà sviluppare finalmente azioni finalizzate agli obiettivi.
È bene chiarire, in proposito, che neppure gli americani
sono ancora certi della supremazia della loro proposta alimentare, se diamo retta ai giudizi benevoli che rivolgono alla nostra
tavola, alle manifestazioni di disaccordo sempre più frequenti
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ERICE – A quota 750 m sulla vetta del monte Erice, in posizione dominan te su un vasto panorama in giro d’orizzonte, sorge l’abitato di Erice che è
sede della scuola internazionale E. Maiorana. Città antichissima degli
Elimi fu cartaginese, romana, bizantina e normanna. Ha un bellissimo e
ben conservato impianto medioevale. Nel fotogramma la forma triangolare
dell’abitato e le verdeggianti pendici circostanti (fotografia della Società
Generale Riprese Aeree).
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nei confronti della loro, all’inizio di crisi che ha colpito Coca
Cola ecc.; lo stesso prof. A. Goldberg dell’Università di Harvard,
padre dell’agribusiness e fondatore dell’”International Food and
Agribusiness Management Association” (Iama), venuto di recente in Italia, non ha rinunciato ad esprimere pareri favorevoli sul
sistema agro-alimentare italiano, condizionandone i futuri successi alla capacità dei produttori di accentuare l’immagine della
qualità e di espandere i mercati, traguardi accessibili con la concentrazione dell’offerta, con adeguati supporti mercantili e con
una più diffusa cultura alimentare. È quello che si sta cercando
di fare ed è il messaggio che gli economisti agro-alimentari più
lungimiranti hanno trasmesso da tempo.
3. Il marketing
Passando ad esaminare alcune situazioni più vicine alla operatività e, quindi, al marketing, e rimanendo aderenti alla logica
di risanare la precarietà attuale dei formaggi tipici italiani, i
sostanziali principi strategici riguardano, innanzitutto l’organizzazione dei produttori per concentrare l’offerta e per fare la promozione, senza delle quali i prezzi non potrebbero recuperare
terreno; rimangono, inoltre, da definire l’area dove recuperare i
segmenti di domanda, gli itinerari commerciali da privilegiare e
il marketing comunicazionale da applicare.
Andiamo con ordine. La polverizzazione dell’offerta del Pecorino Siciliano è molto alta con la conseguenza, di fronte alla
concentrazione della domanda, di ridurre il potere contrattua-
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S. FLAVIA SOLUNTO – Centro famoso e di antica storia perché sede della
città di Solus (oggi Solunto) fondata dai Fenici nel sec. VIII a.C. Sul monte
omonimo scavi recenti hanno messo in luce l’impianto urbanistico della
vecchia città. Nel fotogramma il parco archeologico è in alto, in basso l’a bitato di S. Flavia e Porticello con il porto peschereccio (fotografia della
Società Generale Riprese Aeree).
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le dei produttori e di fare loro accettare dei prezzi mortificanti, che non coprono neppure i costi reali. Il rigetto di questa
situazione avvilente comporta la ricostruzione dei caseifici, nel
caso si voglia raggiungere la produzione associata, oppure
l’aggregazione dell’offerta degli attuali caseifici; nel primo caso
sono necessari capitali consistenti e tempi lunghi, nel secondo
si può procedere più speditamente. Si accompagna a questa
prima operazione anche la definizione dello standard della
forma del Pecorino Siciliano, che oggi si presenta con dimensioni differenti. La scelta dovrebbe orientarsi su una delle
forme presenti con maggiore frequenza per ridurre gli interventi modificatori.
In secondo luogo, una volta raggiunti questi primi obiettivi, resta da disegnare la strategia operativa, che si esprime con
tre azioni. La prima riguarda la definizione dell’area di mercato, che comprenderà quella di consumo abituale con l’aggiunta di una seconda area, contigua o distanziata, per assicurare
che l’offerta rimanga comunque costantemente inferiore alla
domanda in modo che risulti evidente il grado di rarità del formaggio.
Inoltre, poiché l’entità del prezzo è l’obiettivo principale,
occorre determinare quali saranno i segmenti della futura domanda al nuovo prezzo e scegliere gli strumenti comunicazionali più
idonei a raggiungerli, compatibilmente con i costi da sostenere.
La produzione attuale di Pecorino Siciliano è di circa q 70.000,
che portano la disponibilità media per ogni siciliano da kg 1,4
rispetto a una disponibilità media nazionale di formaggi di kg
18,52 (1995). Naturalmente in Sicilia vengono prodotti altri for-
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maggi e altri ancora vengono importati nell’isola per cui la disponibilità complessiva è molto superiore.
Le modeste disponibilità di formaggi di latte bovino e di
latte ovi-caprino in Sicilia incoraggia l’azione di trascinamento
del prezzo del Pecorino Siciliano nei confronti dei prezzi degli
altri formaggi dell’isola, quelli bovini compresi. Paiono allora
opportuni l’uso dello slogan: “Dal mito alla storia” e le azioni
conseguenti.
L’attenzione va rivolta, quindi, all’immagine del formaggio in
modo che il consumatore, avvicinandosi al prodotto, sappia che
acquista non soltanto dei contenuti energetici ed organolettici,
ma, oltre a questi, anche tutto ciò che quel prodotto rappresenta
per i consumatori abituali e straordinari. È bene sottolineare l’aspetto, non sempre noto, per il quale un bene non viene acquistato per quello che è, ma per ciò che rappresenta; se non fosse
così non si giustificherebbero i prezzi dello Champagne e di altri
prodotti di pregio che il prestigio riesce a tenere alti.
Fare immagine in Italia significa riferirsi alla storia, in armonia con i suggerimenti avanzati nel Primo Capitolo del presente
fascicolo; l’Italia è ricca di avvenimenti e di personaggi delle
diverse epoche storiche, i quali potrebbero essere di grande
aiuto per valorizzare formaggi e altri alimenti tipici, che pure
sono storici.
Va allontanata, invece, l’idea del riferimento al folklore, ad
imitazione di ciò che fanno i francesi, perché gli italiani non
hanno mostrato la stessa disinvoltura nella recitazione e nell’uso di abiti d’epoca e, quindi, non sono riusciti ad essere altrettanto efficaci. È inutile proseguire su questa via; la storia, inve-
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ce, a cominciare dalle origini, pone il Paese e i prodotti alimentari della tradizione in una luce molto favorevole, essendosi comportata l’Italia, tra l’altro, come il primo e più autorevole
laboratorio alimentare che ha filtrato il modello produzioneconsumo del Medio Oriente, che è la culla della civiltà occidentale.
In questa immagine, che per il Pecorino Siciliano abbiamo
sintetizzato nelle parole “dal mito alla storia”, ci sono preistoria,
protostoria e storia... e c’è la cultura, quella cultura alimentare, di
cui si sente tanto la mancanza, quando invece dovrebbe essere
coltivata molto di più di quanto non si sia fatto; il riferimento alla
storia ha carattere dinamico, cioè tiene conto degli avvenimenti
che hanno coinvolto direttamente o indirettamente i formaggi
mutandone immagine e caratteri.
Per costruire un’immagine, che sia valida per gli obiettivi
che si intendono raggiungere, ogni riferimento è utile purché
riguardi avvenimenti o personaggi che abbiano avuto qualche
rapporto con il prodotto. Il Pecorino di Filiano, per esempio,
potendo avvalersi di un castello federiciano in zona, quello di
Lagopesole, può benissimo collegarsi alla storia di questo grande uomo di cultura e di stato e alle vicende che l’hanno visto
protagonista in loco.
Arrivati a questo punto, interviene il marketing che è analisi,
ideazione e azione.
Escludendo per il momento l’analisi, che è in corso di attuazione, e soffermandoci all’ideazione, è stata confermata la scelta
storica, concepita in linea con quanto è stato scritto nei paragrafi precedenti, presentando il Pecorino Siciliano, formaggio pro-
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dotto e consumato in tutta l’isola, tra i prodotti entrati nel Vecchio
Continente attraverso la Sicilia “porta alimentare d’Europa”.
L’idea, che ha consistenti basi preistoriche, protostoriche e
storiche, inserisce a buon diritto la Sicilia, che è al centro del
Mediterraneo, nell’itinerario del neolitico, riguardante le radici
della stessa civiltà occidentale con un coinvolgimento di ampio
significato scientifico, tecnico-storico e suggestivo.
L’espansione socio-economico-culturale del Vecchio Continente trova i suoi presupposti nel neolitico del Medio Oriente,
la cui influenza è stata fedelmente esportata per via d’acqua e
di terra (non a caso la cucina aristocratica italiana dalle origini
al Rinascimento ha fatto largo uso di spezie medio-orientali): la
prima è quella che ha trovato sulla propria rotta la Sicilia prima
di raggiungere, attraverso il Mediterraneo occidentale, Sardegna,
Francia e Spagna; la seconda corrisponde a due corridoi più
accidentati del primo: quello balcanico-danubiano, che ha interessato l’Europa dell’Est, e quello africano-iberico nella parte
occidentale.
Vorremmo aggiungere che l’idea, che nasce dai formaggi,
risulta troppo suggestiva e utile per essere limitata alla sola promozione casearia. Al di là di questa considerazione, che non spetta a noi commentare, la stessa idea è destinata a trovare un’eccezionale cassa di risonanza nel corso del 2001, che sarà dichiarato
”anno dei formaggi tipici italiani”. Fra l’altro intendiamo allargare
questo approccio siciliano – e siamo già al lavoro – disegnando
il tracciato delle strade dei formaggi in Europa, completando cioè
le fasi delle colonizzazioni in Sicilia e quelle successive nel
Mezzogiorno d’Italia: i Fenici ad Occidente (Mozia, Solunto e
101
Panormo); i Greci ad Oriente (Naxos, Zanclea, Lentini, Catania,
Siracusa, Megara-Hyblaca, Selinunte, Gela e Agrigento) e in Italia
Meridionale.
“L’Italia rappresenta il fulcro della grecità d’Occidente, l’area
centrale di riferimento per i moti che si svolgono da un capo
all’altro del Mediterraneo” ha scritto S. Moscati.
Nel golfo di Napoli, area lontana, ma in posizione strategica
sulla via dei metalli, la colonia più antica è sorta a Ischia, seguita da Cuma, Partenope e Poestum; nel golfo di Taranto, più
accessibile del precedente ai greci, le prime colonie furono Sibari,
Crotone, Metaponto, Taranto, Locri.
I popoli prevenienti dal Mediterraneo Orientale (Fenici e
Greci) hanno costituito il fenomeno determinante dell’VIII secolo
a.C., che darà inizio alla storia. La colonizzazione viene dopo un
lungo periodo di frequentazione delle coste italiane da parte di
mercanti provenienti dalle aree orientali. La concentrazione in
Italia delle testimonianze precoloniali rientra in un periodo in cui
la circolazione via mare era sempre più assidua.
Il processo di reazione delle popolazioni italiche di fronte ai
colonizzatori si è sviluppato specialmente nel V e nel VI secolo
a.C.; Roma all’inizio, era solo una città in espansione. La Sicilia è
rimasta per lungo tempo al di fuori dell’influenza romana finché
si è verificato il primo scontro tra Roma e Cartagine (264 a.C.);
con la fine delle guerre puniche uscirà completato il dominio
delle aree mediterranee da parte di Roma. A questo punto l’area
casearia siciliana e del Mezzogiorno conquisterà l’Urbe e da qui
ripartirà per espandersi in Europa.
L’anno dei formaggi tipici italiani racconterà la storia casearia
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PALERMO – La sua fondazione risale all’VIII sec. A.C. ad opera dei Fenici
(Panormus = tutto porto) che sul litorale nord-occidentale dell’isola fonda rono altre due colonie a Solus (Solunto) ed a Mozia. Nella storia millenaria
della città e del suo governo si sono succeduti Cartaginesi, Romani, Bizan tini, Saraceni, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Borboni. Insorse per
la libertà più volte e nel 1860 venne annessa all’Italia. Nell’ultima guerra
subì gravi danneggiamenti. Dal 1947 è la capitale della Regione e conta
oggi più di 700.000 abitanti. Nel fotogramma è rappresentato il Centro
Storico ed il suo ampliamento nella città ottocentesca (fotografia della So cietà Generale Riprese Aeree).
103
nelle diverse regioni mediterranee, la Sicilia in testa, presentando
una nuova immagine dei formaggi, divenuti l’espressione più
significativa della protocultura europea, che la storia dei singoli
territori enfatizzerà con le testimonianze disponibili attraverso la
communication mix, che è la combinazione di pubblicità, direct
marketing, sales promotion, propaganda, sponsorizzazioni ecc.
Siamo di fronte alla comunicazione di settore, non d’impresa,
che è troppo debole per poterla assumere a tutela di prodotti che
hanno bisogno di raggiungere prezzi adeguati ai sacrifici che
richiedono. In queste condizioni, l’obiettivo consiste nel raggiungere questi livelli di prezzo e nel renderli stabili, puntando sugli
elementi, storico-culturali e d’immagine appunto, per migliorare
la posizione di mercato.
Nonostante il ruolo rivestito dal Pecorino Siciliano in Europa,
quale porta d’ingresso degli ovini e dei caprini, dell’arte casearia
e delle coltivazioni cerealicole e leguminose, nessun riconoscimento in tal senso è mai stato chiesto né riconosciuto.
Nel momento in cui ci preoccupiamo di valorizzare il formaggio dell’isola, la strada principale da seguire non può che
essere quella del ripristino delle verità storiche, nonostante le
oggettive difficoltà di risalire a tempi tanto lontani.
Questa tesi, qualora fosse accettata, sarebbe destinata a sconvolgere il pacifico contesto, nel quale non è mai stato riconosciuto alla Sicilia alcun merito in campo lattiero-caseario, offrendo una
nuova chiave di lettura all’intero nostro passato con l’isola nel
ruolo di terra di origine dell’intera vicenda alimentare europea.
Poiché gli allevamenti e le coltivazioni citati hanno trovato in
Europa l’habitat adatto e sono diventati tutti ingredienti di fondo
104
della cucina continentale, trovano spiegazione per questa via la
ricchezza e il prestigio del patrimonio di prodotti tipici dell’Italia
e la gastronomia, considerata la prima nel mondo.
Questi traguardi, qualora fossero raggiunti, dovrebbero essere accreditati alla Sicilia per diritto di nascita, avendo l’isola messo
in opera il citato primo laboratorio alimentare d’Europa. Non è un
caso che la prima testimonianza scritta dell’arte casearia nella storia del mondo sia quella omerica di Polifemo, che si comportava
nella Sicilia orientale, come fanno ancora oggi i pastori dell’isola.
Fu dall’origine che il territorio italiano si è diversificato:
- a nord ha prevalso il modello che ebbe origine sulle rive del
Danubio e che si è caratterizzato per l’allevamento bovino (l’area di questa civiltà, che ha interessato l’Italia Settentrionale, si
è differenziata per l’intensità colturale e degli allevamenti e, in
parte, per le grandi superfici agricole);
- a sud è rimasto operante il modello mediterraneo, caratterizzato da un’agricoltura debole, nella quale prevale spesso il sistema agro-pastorale con l’allevamento ovino.
Le strutture agrarie e i sistemi agricoli, nati nel neolitico, non
sono molto cambiati e si ritrovano spesso nell’impostazione dell’agricoltura italiana di oggi, specie in Sicilia e nel Mezzogiorno.
La strategia aziendale o di comparto nei riguardi del mercato
è il motore dell’attività economica e si esprime in modo implicito ed esplicito: il primo consiste nel complesso delle decisioni dei
diversi settori funzionali e raramente rappresenta la strategia più
efficace; il secondo si realizza tramite processi pianificati.
Nel caso dei formaggi tipici, la strategia si limita alla scelta del
modo con cui possono competere sul mercato, realizzando l’o-
105
biettivo prezzo che garantisce la continuità produttiva in posizione di stabilità e di distacco dalla concorrenza. Tutto questo si può
realizzare soltanto assicurando un vantaggio competitivo coerente con il mercato in cui si opera.
La parola d’ordine di un marketing strategico applicato ai formaggi tipici è: “dare al consumatore qualcosa di più della concorrenza a compenso del maggiore prezzo richiesto”.
La strategia è triplice: offrire prodotti analoghi a quelli della
concorrenza a prezzi minori; offrire prodotti analoghi a quelli
della concorrenza aventi in più un vantaggio significativo (qualità
e immagine per i formaggi tipici italiani); rivolgersi a un segmento di mercato, grazie ai prezzi ridotti o ai maggiori vantaggi di
prodotto.
In tutti i casi la strategia mira ad elevare il rapporto costi
benefici del consumatore.
Se la strategia è quella della qualità, letta in termini di immagine, come nel nostro caso, occorre seguire la via della segmentazione e della diversificazione del prodotto, verificando la presenza dei determinanti; questi sono: orientamento dei consumatori verso la qualità, alta capacità di spesa, presenza di elementi
di differenziazione, alte barriere all’entrata di nuovi concorrenti,
massimo livello qualitativo, massima efficienza di marketing, alto
valore d’immagine.
Nel contesto attuale della società italiana, il ricorso alla strategia di qualità è coerente con la capacità di acquisto del consumatore, che tende a spostarla verso il cibo-soddisfazione e verso
la dotazione in servizi.
A livello operativo non si presentano particolari problemi a
106
una strategia di qualità, purché si indaghi sulla propensione al
consumo per segmenti di popolazione.
La domanda del consumatore riguarda sempre il problema
che vuole risolvere: lo Champagne risolve un problema di rappresentanza in particolari momenti felici della vita dell’uomo perché per questo è stato proposto; l’imballaggio in materiale resistente al forno a microonde permette di usare questo strumento
con facilità ecc.
Il concetto di marketing mix fa riferimento a quattro elementi (prodotto, prezzo, posizione, promozione).
È compito della politica di comunicazione trasferire il grado
di qualità al consumatore potenziale. La pubblicità soddisfa l’esigenza conoscitiva, cioè fa sapere al consumatore che ciò che
desidera è presente nel bene, e l’esigenza emotiva, indicando il
modo con il quale il carattere desiderato è presente.
La pianificazione del marketing mix non può essere attuata –
nel caso dei formaggi tipici a maggiore ragione –, se non si tiene
conto della politica dei prezzi; infatti, ogni vantaggio competitivo
può essere annullato da un prezzo eccessivo rispetto a quelli
della concorrenza. È per questo motivo che il prodotto alimentare della grande industria riesce al massimo ad eguagliare il prezzo del prodotto tipico, non a superarlo. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il vantaggio competitivo comporta dei costi e che
il consumatore è condizionato dal rapporto costi/benefici. Se il
consumatore si comportasse in modo da ottimizzare i benefici,
dovrebbe sommare i valori del prodotto in senso stretto, quello
dei servizi incorporati e aggiunti e quello proveniente dall’immagine, confrontando il valore complessivo con i costi totali, che
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corrispondono alla somma di quelli finanziari, di quelli dipendenti dall’uso e psicologici secondo lo schema proposto da
Kotler-Bliemel.
La domanda è rivolta a soddisfare l’esigenza di chi la esercita e dipende dalla differenza prevedibile tra la situazione a posteriori e quella a priori; il modello considera il prodotto come il
mezzo per risolvere il problema e quindi, ritiene la decisione dell’acquisto non dipendente dal bene in senso stretto.
Dopo di che, essendo aumentati la capacità di spesa del consumatore e, in parallelo, la qualità alimentare e i prezzi, le scelte
strategiche, nel contesto attuale, sono le seguenti:
- mantenere il livello qualitativo, abbassando i prezzi rispetto alla
concorrenza;
- elevare la qualità, mantenendo i prezzi della concorrenza (strategia di differenziazione);
- rivalutare la qualità restaurando l’immagine dei beni tradizionali e recuperando i prezzi che erano stati svalutati dall’incuria del
passato.
Quest’ultima scelta strategica interessa il Pecorino Siciliano,
gli altri formaggi e gli altri prodotti tipici, ridimensionati nei prezzi negli ultimi decenni per mancato adeguamento alle esigenze
dei nuovi mercati dinamici. In questo caso la ripresa dei prezzi
dipenderà dal restauro dell’immagine che il ricorso alla storia
potrebbe rendere possibile in tempi brevi e che le strategie operative, tra cui il 2001, anno dei formaggi tipici italiani, dovrebbero enfatizzare.
Le piccole e medie aziende si distinguono dalle altre per la
produzione di alimenti con accentuate particolarità e destinati a
108
mercati ristretti. La strategia diventa per forza quella della segmentazione, essendo non facile competere sugli stessi mercati
con le grandi imprese. Nel caso in cui ci fosse, come alle volte
c’è stata, flessione nei segmenti tradizionali interni, provocata dal
distacco dai modelli di consumo tradizionali sul mercato originario, oggi verrebbero in soccorso il turismo e il commercio elettronico.
Tutto questo presuppone sempre e comunque la discesa in
campo dei produttori organizzati con corrispondente concentrazione dell’offerta, accompagnata da strategie mercantili che sappiano trarre vantaggio dalla nuova immagine dei formaggi tipici,
laddove per immagine si considera l’insieme combinato di tutte
le azioni organizzative ed operative capaci di affrontare e risolvere finalmente i gravi problemi in cui si dibattono da tempo formaggi e altre tipicità.
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