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Mi dicono di parlare di
me
Dante Raiteri
[2009]
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Mi dicono di parlare di me. Vorrei ma, appena apri bocca, subito c’è
qualcuno che ti smonta. Per esempio io avevo l’idea di iniziare così:
“Rifacendomi al buon Quevedo, ho incominciato a morire il sei febbraio
del millenovecentoventitre…” Mi sembrava spiritoso e originale. Citavo
il Quevedo per riconoscergli il diritto di autore.
A cena con un vecchio amico venuto in visita si parla di questo. Ha con se
la figlia, plurilaureata, che subito mi blocca e, con il garbo dovuto a chi ti
ospita, dice: “ Diritto di autore al Quevedo? E tutti coloro che lo hanno
affermato prima di lui? Anche gli antichi greci convenivano che si
incomincia a morire dal momento della nascita. D’altronde è lapalissiano”
Il vocabolo “lapalissiano” mi aprì una finestra. Lapalissiano: proprio come
fu definito quanto cantarono – nella famosa battaglia di Pavia contro gli
spagnoli – i soldati francesi alla morte, eroica, del loro comandante in capo,
il quale: “un quarto d’ora prima di morire era ancora vivo”. Chi può
mettere in dubbio l’ovvietà di tale affermazione?
Giustamente
lapalissiano come: “appena si nasce si comincia a morire”. Però chi si
sarebbe reso conto di questa lapalissianeria se i colti non ce lo avessero
enunciato? I colti, i quali, non sazi di formulare filosofici enunciati che ci
conducono dalla culla alla tomba e oltre, ne conoscono la perfetta
cronologia.
Sia come sia Quevedo non mi ha deluso: se non è famoso per quell’ovvio
dell’incominciare a morire appena nati lo è per la sua vita; mentre Jacques
pur avendo vissuto una vita di tutto rispetto è famoso solo per
l’involontario contributo dato, post mortem, a definire l’ovvio
“lapalissiano”.
Il buon Jacques de Chabannes signore di La Palice, striminzito a poche
righe di enciclopedia per la sua eroica condotta e per la sua appartenenza a
famiglia di coraggiosi militari.Tuttavia famoso anche tra noi incolti solo
per quella cantatina stonata dalla soldataglia. Immagino ciascun
componente del gruppo cantante seduto sul proprio zaino che, forse, già
allora, in favore della grandeur, conteneva il bastone di maresciallo.
Dimenticavo: Jacques de Chabannes signore di La Palice aveva da poco
assunto il comando delle truppe francesi di Francesco I combattenti contro
Carlo V.
Tronco l’inopportuno dilungarmi sulle vicende dei transalpini in terra
subalpina nella grande piana del nostro grande fiume.
Dovrei scrivere di me … Non è facile farlo. Devo dire del fisico o dello
spirito? Questo è il problema: dilungarmi, con uno Stradivari alla spalla, sul
mio fisico o, sfuggendo al corporale, gettarmi avido sulle conquiste
intellettuali?
Pensando al teschio scarnito parliamo del corpo tornito.
Il fisico, essendo di febbraio, è acquatico. A parte lo zodiaco, la Lomellina
è su uno strato di acqua. Figuratevi Frascarolo, lambito pericolosamente
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dalle piene del Po. Tanta acqua tutto diluisce: anche il calcio. Immaginate i
denti di uno che non ha usufruito nell’infanzia di calcio! Beh,visto che lo
avete immaginato, inutile che ve ne parli.
Le gambe? Grazie a mia madre e a mio padre, dritte come un fuso;
l’altezza: da non essere scartato alla visita di leva. Se fossi nato di
quell’altura nella Spagna del millenovecentoventitré sarei stato un gigante.
Al giorno d’oggi sono verso il nano, essendo tutti i giovani delle pertiche.
Almeno quelli che hanno potuto nutrirsi bene. Quasi tutti, direi.
Che altro posso dire del fisico?
I piedi? Da nuotatore, come diceva, sulle sponde del Tanaro, un vicino di
casa più adulto quando cercava di adularmi per suoi fini sessuali.
All’epoca avevo abbandonato il Po di Frascarolo per il Tanaro di
Alessandria. Ci sarebbe anche il Bormida che si getta nel Tanaro che si
getta nel Po, in pochi kilometri, ma non gli ho mai dato importanza se non
per andare a farci il bagno.
Alla barba del Barbarossa, il poeta valorizza entrambi i fiumi e, tra di loro,
fa agitare, sotto la luna, perché si veda, e mugghiare, perché si senta, un
fosco bosco di alabarde di uomini e di cavalli su uno dei quali ci doveva
essere un mio antenato.
Per l’ubicazione dei fiumi, il Barbarossa non ce la fece a conquistare la
città detta, illo tempore, della paglia e, forse, consistente nel solo borgo di
San Baudolino.
Prego prendere con le molle la mia ultima affermazione: è probabile che sia
senza fondamento. D’altronde è noto che su Baudolino solo Eco docet!
Affermo invece, con sicurezza, che, nella alessandrina paglia, oltre alle
nespole maturaron e maturan pittori, poeti, saggisti, romanzieri, politici
registi, etc..
Colà son maturato anch’ io.
Presunzione elencarmi tra tanta colta gente? Abbonda talmente in giro, la
presunzione, che non me la sono fatta mancare. Lo si vedrà meglio nello
sviluppo interpretativo del cognome.
Su uno dei cavalli del muggente bosco illuminato dalla luna ci stava il m io
antenato. Stando a cavallo era un Ritter, uomo a cavallo. Evidentemente
aveva deciso di non fuggire dai mal tentati valli, tanto più che a Tortona,
già allora, c’erano i fuochi della Lega.
Si è imboscato ? Non lo so. Ha sentito il canto di vittoria ergersi nella pia
notte? Non mi risulta.
In pratica aveva disertato. Magari qualche fanciulla compiacente gli ha dato
ospitalità, convincendolo con qualche bottiglia di barbera, prima, e con
l’imbottigliamento poi, che è sempre un metter dentro.
O era gravemente ferito, e i baudolinensi anziché mangiarselo, per la fame
subito per l’assedio, l’hanno curato. O è intervenuto papa Alessandro a
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concederli la grazia. Sia come sia è rimasto, il mio tedesco avo,
nell’alessandrino.
Dicono che le lingue le modifichino gli ignoranti a forza di strafalcioni e,
gli acculturati sono costretti ad annotare, nei dizionari, le volgari accezioni
dei vocaboli che, a quel punto, rimangono codificate per tutti.
Va così anche con i nomi stranieri.
Eravamo a Ritter siamo poi passati a Reiter e, da Reiter, che si pronunciava
Raiter a scriverlo Raiter.
Il Fato, che già aveva preso radice, pensò bene di aggiungere una i finale
altrimenti l’editrice sarebbe rimasta ER.
Ecco come è uscito fuori RAITERI. Il mio avo cavaliere, disertore, o ferito
grave, o innamorato, mi aveva assicurato l’avvenire: alla Rai,
Radiotelevisione Italiana che, opportunamente e tempestivamente, si era
aggiornata da ERI a EIAR a RAI, altrimenti il mio avo avrebbe fallito lo
scopo.
Spezzettiamo il cognome come si fa in qualsiasi buona analisi : RAI per il
lavoro di regista; T per una possibilità che ho sempre ignorato non avendo
l’istinto di imporre le cose come fanno in Tv : oltretutto la mia T manca di
un pezzo importante come la v, anche se si scrive minuscola.
Meglio rimanere alla fantasiosa e libera Radio; ERI: fino a che c’è vita c’è
speranza. Può darsi che alla fine l’Edizioni Radio Italiana. qualcosa mi
pubblicherà.
Dunque: nomen omen. RAI t ERI: nel nome il destino.
E per tutti gli altri Raiteri in circolazione? Affari loro.
(fine prima puntata)
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Dovrei fare il riassunto della prima puntata. Penso sia meglio evitare. C’è
una seconda e ci saranno terza, quarta, quinta e chissà quante altre. Ho
un’esperienza…divertente a proposito di “riassunto delle puntate
precedenti”. Un attore amico mio, in quel caso adattatore per la radio di
“La luna e i falò” del grande Cesare Pavese, nel riassumere le puntate
precedenti all’ultima scrisse ben due cartelle e mezza per una lettura di
cinque minuti per una puntata di quindici. Non vorrei ripetere l’errore: e
poi, andando a ruota libera riassumere è un po’ difficile.
Quindi niente riassunti dinnanzi ai miei occhi. Dei quali occhi ancora non
ho parlato, posponendoli ai piedi. Non è per mancanza di riguardo. È che i
miei occhi non li ho mai visti. Li conosco solo per quanto mi hanno detto le
mie varie metà, senza per altro essere concordi. Chi me li dava verdi, chi
me li dava marroni. La discordanza mi incuriosì e un giorno cercai di
guardarli allo specchio: forse per il bagliore o forse per la presunzione
rimasi accecato. E così non seppi. Mi consola che nessun’altra mia metà
abbia scantonato dai due colori: un trino sarebbe stato drammatico anche se
perfetto.
Che altro sul fisico? I capelli? Ormai bianchi tendenti al grigio ma
folti.Quando non mi rapo. In giovane età per volontà paterna poi per
decisione mia. In questo non so quanta influenza abbia avuto la lettura dei
fascicoli della Nerbini sulla storia dei Savoia specie di Emanuele Filiberto
detto Testa di Ferro. C’erano anche tutti gli altri capitani di ventura, nei
fascicoli, ma sembra andassero sempre con l’elmo in testa.
Anch’io ebbi un elmo, una volta. Consisteva in una immensa e invadente
capigliatura. Uno dei tanti capelloni del periodo, breve. Zazzeruto mi capitò
di andare a Palazzo Chigi, governando Andreotti, con uno dei suoi
collaboratori che intendeva farmi leggere suoi copioni. Entrando
nell’androne, alle guardie che mi scrutavano l’amico disse: “ Ha i capelli
lunghi ma è con me !” “Va bene “ Risposero in coro le due guardie, e
passai.
Non corsi dal parrucchiere per entrare a Palazzo, tuttavia mantenere e
curare una folta chioma è una gran fatica, per cui taglio a zero.
Per la barba, o pizzo o quel che vi pare, che porto dal
millenovecentoquantanove è diverso. Io andavo regolarmente dal figaro per
curarmela, la barba, ma, a Parigi, un barbiere che non mi poteva avere
come cliente, forbici alla mano, mi disse: ” Ma lei si aggiusta la barba da
solo o no? “ “ No.”
“ Nooo?! È così facile… guardi nello specchio” E mi mostrò l’arte.
Dicevo che per la barba è diverso. Lo è perché mentre per i capelli nessun
barbiere parigino può insegnarti a tagliarteli da solo, con la barba puoi fare
da te e variarla come ti pare, a mesi, a settimana. Anche a giorni. È un gran
divertimento, specie guardare la faccia di coloro che ti vedono con diverse
architetture barbatiche.
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Non ho mai giocato a carte, dadi, roulette o altro; ho sempre giocato con
barba basette capelli e vestiti.
Quando registrai la storia, da me scritta, di un ammirato combattente
messicano avevo baffoni e basette che più messicano di così non si poteva
essere.
Per le venticinque trasmissioni su Federico Garcia Lorca mi erano rimasti i
soli basettoni, e irritazione per l’acrimonia con cui un attore aveva espresso
opinioni negative sul poeta andaluso. Con me, l’irritazione, poiché non
capivo le ragioni di quella svalutazione totale dell’opera di Federico. Mia
beata eterna ingenuità: quell’attore frequentava gli stessi romansalotti di
altro andaluso, uso ad andare per smarrite alberete in quel di Cadice.
Lui sì grande poeta, lui sì meritevole di morte per la sua attività politica.
Non già Federico che di politica non si era mai interessato.
Tali parole risuonarono in Granada, Alhambra, Patio de los Arrayanes.
Da indignarsi. Ma gli amici spagnoli, molto comprensivi, mi dissero che
data l’età, del poeta politico, si poteva sorvolare qualunque cosa dicesse.
Gli teneva bordone Ian Gibson, biografo di Lorca.
Gibson nel suo primo libro sul poeta, che doveva essere una tesi di laurea,
aveva affermato – chi sa da chi informato - la stessa cosa; per poi
lentamente correggerla fino a dimenticarla nelle innumeri riedizioni dei
suoi sempre più voluminosi volumi su Federico. Finché, inaridita la fonte,
spadroneggiò sulle storie di altri partecipi alla guerra civile.
Alt! Me lo impongo. Sto parlando di altri. Sfioro il pettegolezzo. Potrebbe
essere invidia: qualche radichetta c’è sempre. Anche se cerco di non
dimostrarlo: “la procesión va por dentro”, direbbero in questo caso gli
spagnoli. Hanno uno infinità di citazioni realistiche, proverbi a caterve.
Uno per tutti: noi diciamo “mal comune mezzo gaudio” e loro “ mal comun
consuelo de tontos”. La cosa curiosa è sapere come mai, dopo avere
spadroneggiato per quattro secoli da noi, ci abbiano portato via il proverbio
furbo per lasciarci quello…nostro.
Si chiacchierava di invidia. Cattiva consigliera madama invidia.
Non so che cosa c’entri in questo caso l’invidia, forse la presunzione.
Una volta, gentil fanciulla mi accusò di invidia verso altra fanciulla,
arrivando a dire che la invidiavo in quanto la concupivo mentr’ella mi
respingeva. Non ho riso per educazione. Il verde dei miei occhi lo aveva
scoperto la concupita ma respingente fanciulla, al sole, dopo un meritato
riposo. Dopo.
Queste contaminazioni tra lavoro e piacere non rientrano nelle mie
abitudini. Il caso citato era nato fuori dall’ambiente di lavoro radiofonico,
tempo prima, in una breve lucrosa avventura come regista di fotoromanzi.
Mi tremavan le mani quando firmai l’assegno di oltre un milione di lire,
allora! Altro valore il denaro; altra produzione la Lancia.
Ma il tempo passa.
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Le cose evolvono: in su o in giù, ma sempre evoluzione è.
Già, invecchiando si rimpiangono i tempi andati come migliori e nessuno sa
se sia vero perché i ricordi si alterano e si trasformano: secondo ciascuno.
Due persone che abbiano vissuto la stessa esperienza la ricordano in modo
diverso. E reincontrandosi con il passare degli anni, si discute se era rosso o
se era nero, alto o basso, piacevole o sgradevole. E si passa il tempo. E col
tempo uno dei due se ne va e il ricordo della cosa insieme vissuta se ne va
con l’amico perduto non avendo alcuno con cui dividerlo.
Sto per terminare la seconda puntata e, dato che le manie non si perdono,
anche qui ho il pallino di comporre ogni puntata con lo stesso numero di
pagine e di righe, così come ogni mio programma radiofonico con più di
una puntata aveva la stessa identica durata. In principio i tecnici mi
prendevano per i fondelli, ma poi si divertivano ad applicare questa forma
di disciplina. L’avevo imparato dagli americani scesi a sacrificarsi per
accogliere la nostra ingratitudine. Tagliavano inesorabilmente il
programma se oltrepassava il tempo stabilito. Lo sfumavano.
Io non mi sfumo perché ho finito la seconda puntata.
( alla terza)
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Sabato 25 aprile. Le sette e tredici. Fra due minuti la sigla di Radio tre per
la lettura e commento delle prime pagine dei giornali. Questa settimana c’è
SANSONETTI. Però alle sette e trenta, su Radio Radicale, c’è
TARADASH. Che si fa? Entrambi – e quasi mai è così – sono bravi.
Fuori il tempo è bello.
Non voglio fare torto ad alcuno dei due. Una soluzione sarebbe ascoltare
l’ex direttore del Manifesto e, dopo le nove , la replica della letturacommento di Taradash. Solo che, a Radio Radicale , la replica non è mai
sicura e quasi sempre non è mai completa. La interrompono quando gli
gira, magari per farci risentire per l’ennesima volta una dichiarazione del
salvatore, in pectore, di Saddam: l’intramontabile Marco Pannella.
E allora? Allora, anzi ora, prima che il tempo si sciupi, risolvo il dubbio
con una bella passeggiata. Nel profumo dei pini, vittorioso su quello di
aranci e limoni ma soccombente, con il salir del sole, a quello delle
nespole. Qui maturano sugli alberi. Grandi estensioni. A volte sotto la
protezione di biancastre superfici. Al momento a macchia, tra il verde della
vegetazione. A sud, in Almeria, il mare di plastica scende ininterrotto dalle
pendici della Sierra de Gádor al Mediterraneo. In quelle sterminate serre
si coltiva il coltivabile, contro il limite naturale della stagione. A prodotto
medio maturo, braccia di importazione stagionale, lo colgono;lo caricano
su autotreni gambuti come bruchi e via per il nord Europa. Questi bruchi,
lunghi come processionarie in fila,vengono, a volte, gustosamente
schiacciati dai francesi che si vedono rubare il mercato. Ritorno delle
antiche liti contadine e dazio per passare in territorio altrui.
Tra un pensiero e l’altro giungo al bordo dell’autostrada che fende il verde,
ai piedi del Puig - Campana.
Mi volgo alla montagna: uno spettacolo. A sinistra Sierra Cortina, in
semicerchio centrale Puig-Campana e Ponoch, a destra Sierra de Bernia.
Un tempo, padroni assoluti di loro stessi, i monti, avevano concesso, a
mezza costa, sufficiente terreno per La Nucía, Polop de la Marina, Callosa
d’en Sarrià.
Immutato il paesaggio, per secoli, da quando, i così detti nobili,
compravano o vendevano borghi e città. Gli abitanti, schiavi del luogo,
erano inclusi nel commercio. Finita – almeno ufficialmente - questa forma
di asservimento che impediva di abbandonare il luogo di nascita, rimasero,
con la storia del passato,il paesaggio e il sole. Già se n’era scritto nei secoli
scorsi da illustri viandanti, per gente che non leggeva. Finché il sole di
Spagna è stato riscoperto. Non certo dai soldati italiani destinati a
combattere per Franco. Venivano dalla guerra di Abissinia - per un posto
al sole, - e con le divise d’Affrica, comandati a Teruel a morire di freddo.
La dittatura non portò beneficio economico. Il popolo viveva in povertà.
Un caffè che da noi costava dieci, qui costava due…
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Sì, la Spagna, praticamente esentasse, era molto economica e gli avvoltoi
del risparmio la preferirono, Franco imperante, quale terra solatia di
vacanze.
Pensando alle corride, gli ispanisti hanno stabilito che, nel suo perimetro,
la Spagna assomiglia alla pelle di toro. Non hanno considerato che solo
morto e spellato il toro ha detta somiglianza. Noi italiani, con lo stivale,
almeno qualcosa di utile, magari sul didietro di qualcuno, lo possiamo
sempre fare. Scherzi della natura. A chi madre, a chi matrigna.
Il notevole vantaggio economico attirò; i pini caddero; due milioni di
pesete di multa per ogni pino abusivamente abbattuto, non fermò lo
sterminio. Lo sterco del diavolo, il denaro, sfondò le saccocce dei
costruttori. I quali, senza ritegno, violentarono le falde delle montagne,
stuprando i declivi e impregnandoli con il mattone.
Perché scrivo lo su scritto? È una specie di mea culpa per aver contribuito,
sia pure indirettamente, in quanto di seconda mano, alla situazione.
D’altronde non sfuggo alle mode. Si è domandato scusa per le crociate; per
lo sterminio degli aborigeni sudamericani effettuata dagli spagnoli
diventata “leggenda nera” nella letteratura anglosassone; per le guerre di
religione europee: tenute in piedi dall’oro e dall’argento depredato agli
aborigeni: benedetti e spediti in cielo; per lo sterminio degli aborigeni
chiamati Indiani da Colombo, compiuto dagli invasori europei; per tutti
coloro fatti fuori o incarcerati per un diverso pensare, magari circa sole e
terra. Sicché mi accodo: perché non domandare scusa,(retorica), per avere
acquistato, di seconda mano, una villetta nel declivio, un dì pinoso, del
Puig-Campana al mare?
Non è che l’acquisto sia granché. Infatti,nella stagione del polline tende al
giallo. Colore attribuito dai colorologhi all’invidia. Mi auto invidio ?
Ho lasciato il cuore a Firenze e, quando dal grande terrazzo il mar rimiro,
il muscolo si intenerisce e palpita nella visione: oltre la distesa verde
azzurro grigia del mare c’è la parte più importante della mia vita.
Non proprio in linea retta; piuttosto obliqua, direi. Qui siamo all’altezza
della Sicilia. Roma è molto più in su, all’altezza di Barcellona .
Sì. Migrante fui dal Potanarobormida al Tevere. Ci arrivai alle nove di
mattina dopo una faticosa notte su un treno lumaca. Diretto a Via del
Babuino, chi ti incontro? Il quizologo ante Mike. Si diceva inventore di
“una domanda facile facile”. In verità il giochetto era uscito, in Firenze,
dallo zaino di Funaro, sergente americano, responsabile per la radio.
Comunque bravissimo nel raccontare le proprie verità, il quizologo nostro
avrà una strada a sua nome in Saxa Rubra. Feudo RAI-TV.
Si, lo incontro e mi sommerge in un fitto blablabla elogiativo del lavoro
svolto a Radio Firenze, quando ci ero arrivato con gli alleati, e per
RADIODRAMMA, la mia rivista di arte radiofonica.
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Guarda caso, le stesse ragioni per cui era stato concordato un colloquio con
Sergio Pugliese per una mia eventuale assunzione.
Candido come un giglio, con l’ulteriore viatico avuto in quel fortuito
mattutino incontro, mi avvio e, superati i controlli, entro nella direzione
generale della Rai. Rintoccano le dieci.
Ai piani superiori mi ovattano in un salottino. Le ore passano. Lente. Alle
tredici la porta si apre. Compare una signora. In mano una lettera. Me la
tende. Attende, la signora Della Seta, che la legga. Convenevoli d’uso e
poche righe: “Al momento i nostri quadri sono completi.”
Sconvolto per il viaggio notturno; per l’inutile attesa; per la delusione
cocente? Dir non so. Però la richiesta di essere ricevuto almeno un
momento fa breccia. La signora torna dal capo e, da brava segretaria, lo
convince a vedermi. Sono ormai le tredici e trenta. Saluti piemontesi e
colloquio brevissimo. Dissi : “Ormai sono qui, perché non mi manda per
una settimana a via Asiago a realizzare qualche programma ? Se funziono,
bene, altrimenti a casa.” Il buon Pugliese baffeggia qualcosa. Alza il
telefono per dare disposizioni in merito. Si incavola perché nessuno
risponde dall’altra parte del filo, né Dudú La Capria né Franco De Lucchi.
La Della Sete, pacificatrice, gli fa presente che data l’ora sono alla mensa.
Allora il Capo chiama via Asiago. Vittorio Vecchi, stacanovista, è alla
sua scrivania. Pugliese gli dice di me. Forse c’è qualche obbiezione, per
una polemica avuta con lui, su Radiodramma. Insensibile, il capo gli dice
di mettermi alla prova: da domani per una settimana. Così fu. E la
settimana si trasformò in trentacinque anni. Periodo minimo per una
ragionevole pensione.
(aspettatevi la quarta puntata)
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Bando alle chiacchiere. Ora vado al grano, come dicono qui. Spiattello pari
pari l’elenco dei lavori che ho scritto per la radio. Con una precisazione:
quelli trasmessi con prestanome sono più numerosi di quelli andati in
onda con il mio nome. I miei ventiquattro lettori alzeranno isolatamente un
sopracciglio: “sta a vedere, gli hanno fatto il favore di prestargli il nome, e
ora li mette in piazza !” No, l’ingratitudine non è il mio forte. No, non
spiazzo alcuno. Ho rispetto delle persone che si cuccarono la metà dei
dinderi sacrificando il proprio nome. Mi infiamma la generosità altrui. Ho
scritto “persone” in quanto si tratta di ambo i sessi, per la par condicio. E
qui sgorga non tanto il problema del “Che fare ?”, bensì del come fare.
Una sbirciatina al Devoto-Oli mi ha risolto il problema, ponendomene un
altro: circonlocuzioni o perifrasi? Avendo solo intenzioni protettive ho
scelto perifrasi. Quindi i titoli prestanomati saranno accennati solo in
forma perifrastica. Ai miei trentasei lettori ( c’è l’inflazione ) dirò la
ragione che mi ha spinto a ricorrere a prestanome: il 220. Il duecentoventi è
un ordine di servizio che, nel secolo scorso, fu emesso in RAI. I dipendenti
non potevano scrivere testi per la trasmissione, salvo autorizzazione. Il lato
curioso è che la pensata del 220 era degli stessi che da tempo sbolognavano
testi con prestanome. Ed ora all’elenco perifrasticizzato:
Milena Rizza, giornalista, scrisse un lungo articolo su “Le hanno rubato la
terra ed è diventata scrittrice”. Maestra della titolazione, alludeva ad una
serie di puntate su un viaggio in Spagna, negli anni cinquanta. Firmato
dalla mia seconda metà legale, Ofelia Bistuer y Rivera, di El Grado,
Huesca, España, e mia prima prestanome. Avevo scritto di perifrasi, ma
ai defunti non si può far danno. Si salta poi a quel famoso prete romagnolo
che portò in salvo Garibaldi in fuga dagli eserciti nemici. Il paese è
Modigliana. Chi lo firmò? Giuro che non lo ricordo. Ho fatto poi un
viaggio in Messico per vedere la gente, i luoghi e le rovine della casa del
più famoso guerrigliero dello Stato di Morelos. Sono stato ad Anenecuilco.
( Che fatica farlo pronunciare correttamente agli attori. È semplicissimo.
Basta non tentare di dire subito il nome tutto di seguito. Va diviso: Anene/
cuilco. Pronunciato prima separatamente diventa poi semplice dirlo unito.)
Questo guerrigliero, mulattiere di professione, mi portò all’altro
rivoluzionario, interpretato anche da Wallace Beery. Vidi quel film nella
mia giovinezza e rimasi meravigliato di quanto tracannasse quel tipo.
Quando mi sono documentato, per scrivere il mio lavoro, ho scoperto che
l’uomo era assolutamente astemio. Forse gli sceneggiatori del film visto in
gioventù appartenevano alla inventiva corporazione dei giornalisti.
Dai rivoluzionari per i diritti umani ai rivoluzionari nel loro campo.
Per anni ho meditato sull’autore della “Sinfonia Fantastica”. Ne parlavo
con gli amici, uno dei quali, Renato Cominetti , per stimolarmi , mi
provocava, sostenendo che quel compositore non fosse granché.
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Il tempo del pensare mi fu ben ripagato: oltre alle sacre antenne RAI , il
lavoro, naturalmente con altro titolo, passò per le paradisiache antenne
RSI, e qui con il mio nome. Sì, con altro titolo. Il brevetto del sistema
appartiene ai più famosi collaboratori rivistaioli del tempo. La domenica,
a Roma, mandavo in onda, dal vivo, un programma locale contenente
anche scenette comiche. Gli autori, ormai non li danneggio più anche se
lo rivelo, avevano l’abitudine di riciclare, con altro titolo, le stesse scenette,
al programma di rivista che andava in onda su rete nazionale nel
pomeriggio della stessa domenica.
Dopo il compositore, lo scrittore, il poeta. Figura leggendaria della
letteratura europea. Espulso dalla sua patria visse in Italia e in Svizzera
per poi morire di peste a Missolungi, dove era corso per combattere, con i
greci, contro l’invasore turco. Interpretò il personaggio Warner Bentivegna.
Bravissimo a recitare talmente vicino al microfono che un minimo
movimento della testa avrebbe fatto battere i suoi occhiali sul microfono:
punto focale della trasmissione. Detto meglio: l’orecchio dell’ascoltatore.
Mariano Rigillo, consigliatomi da Pinotto Fava, era stato interprete del
compositore. Non fu soddisfatto l’attore, non lo fu il Raiteri. A quel tempo
Mariano aveva marcata cadenza napoletana, e sfuriava al microfono.
Riuscii a portarlo verso una recitazione più consona alla mia concezione;
disse poi che, costretto a parlare sottovoce, non aveva potuto esprimersi .
A chi mi domandava il perché della scelta di un attore con cadenza
partenopea, rispondevo che il compositore francese era del sud.
Sempre molto accomodante sono stato ! Ho constatato questi meccanismi
nell’attore: se ha fiducia nel regista collabora; se non ha fiducia, dice di
sì a tutto ma, quando registra, fa di testa sua. Tranne se sa di dover
ripetere fino a raggiungere l’interpretazione suggerita. Se si va dal vivo,
cioè in diretta, l’attore è padrone.
Formato un gruppo mio, lavoravo felicemente. Un solo cenno per capirci.
Torniamo ai testi: Il cavaliere della Mancha. In tutti i posti dove siamo stati
( con la mia terza metà legale ) abbiamo trovato piena collaborazione.
Il nostro modo di realizzare i programmi era basato su interviste integranti
il testo scritto. Cioè: le domande erano per un completamento
drammaturgico; gli intervistati: come attori. Dei siti cito solo Alcázar de
San Juan. Tuttora incavolatissimi per il luogo di nascita del gabelliere. Per
i colti sarebbe nato ad Alcalá de Henares, dove gli hanno attribuito una
stupenda casa sempre meta di curiosi. (Non mi spiego come un tizio, con
una casa così, girasse la Spagna per raccogliere le gabelle.) La controversia
nasce dal fatto che avendogli domandato, in punto di morte, dove fosse
nato, si dice abbia risposto : “Ad Alca…’’andandosene, senza terminare,
preda ai vermi. Per i castigliani il troncamento suonò Alcalà de Henares,
per i mancheghi Alcázar de San Juan.
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Quante dispute per l’eroico soldato di Lepanto… Comunque astuto,
risoluto, coraggioso e con una gran dose di fortuna. Maleficio, invece, per
Lorca. Venticinque puntate; stupendo interprete Omero Antonutti. Brevi
interviste di testimoni del 1936 , compresa la sorella del poeta, in testa ad
ogni trasmissione. Per questo lavoro ebbi la deroga al 220: “purché i
diritti di autore andassero alla RAI”. Precedentemente c’era stato
“Carreteras verso Lorca ed altro” costruito in sito con la collaborazione del
paese, e basato sulla prima celebrazione di Federico permessa dalle
autorità. E la Guardia Civil stava sui tetti, e armata, a vigilare sulla
grande piazza. Tutto questo a Fuente Vaqueros.
Già in pensione ho saccheggiato i libri su Colombo. Non i settemila e più,
solo un duecento: tutte congetture, tranne per la Falcetti che in un
programma di Biscardi dichiarò che sul navigatore sapeva tutto. Forse gli
avrà anche dato le istruzioni per l’uso.
Ne sono usciti due lavori: uno per Radio Tre, dieci puntate di mezz’ora;
uno per Audiobox, programma multicodice di Pinotto Fava. Al quale
Pinotto debbo molto per tutti i programmi che ha accettato.
Mentre per il Terzo si tratta di una scrittura piuttosto seria , per Audiobox
mi sono un po’ abbandonato al divertimento, alla presa di bavero. Giocai
sulle chiacchiere messe in giro, come certezze, su come e perché e quando
Colombo avesse inciampato l’America. Spinto dalla mia terza e ultima
metà, intervistai i più quotati studiosi spagnoli di Colón. Ci voleva
Francesca per vincere la mia timidezza e la nessuna voglia che avevo di
importunare i colti. Furono tutti cortesissimi.
(sono costretto alla quinta)
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Se mofaban de mi…pardon, mi sfottevano quando, registrate, tutte le
puntate avevano la stessa durata. Naturalmente se misurate sulla stessa
macchina.Cambiando macchina poteva esserci uno scarto di una trentina di
secondi…a macchine tarate. Questa della taratura è una storia che mi
costò una pessima figura e il rifacimento di un programma.
Dalla radio svizzera (RSI) erano venute sei bobine della durata di trenta
minuti primi ciascuna. Il titolo che l’autore, Magris, aveva dato era
“ Passerai per il camino”. I meno giovani capiranno. Le bobine giunte a
Giulio Cattaneo, colonna del Terzo programma, furono passate a Rolando
Renzoni che mi affidò il compito di trarre un’ora di trasmissione da quelle
tre ore. Nelle sedi principali non c’erano spazi liberi e, per realizzare il
lavoro, mi mandò alla sede RAI di Ancona. Felici di produrre per una
rete nazionale collaborarono con entusiasmo. Non erano previsti attori. Si
trattava solo di scegliere brani dalle sei bobine della RSI e costruire un
nostro programma. Tutto bene. Tutto rapido. Scartai gli stacchi musicali,
Tra dichiarazione e dichiarazione dei sopravvissuti ai campi di sterminio,
unico stacco tre secondi di silenzio. Nessuna musica, nessun compositore
avrebbe potuto sottolineare la tragedia inclusa nelle parole. Niente è più
drammatico del silenzio. Il silenzio della morte.
Terminato il lavoro portai a Roma le due bobine, di trenta minuti ciascuna,
e che aveva sentito in fase di lavorazione, per ascoltarle con i responsabili
di Radiotre. Sorpresa: sotto le voci che dicevano dei campi di sterminio,
delle camere a gas, degli aguzzini nazisti s’udivano schizzi di musica,
farfugliare di parole.
Alla sede di Ancona era successo che, nella macchina usata per registrare,
la testina di cancellazione, posta prima di quella di registrazione e non ben
tarata, aveva lasciato, sul nastro riutilizzato, strascichi del programma
precedentemente inciso.
“E non te ne sei accorto?” domanderete. “Nossignori. Quello di cui non mi
sono accorto è che il tecnico, anziché mettermi l’ascolto sulla macchina
che registrava ( e allora entrambi ce ne saremmo accorti ) me lo aveva
dato da quella che mandava la bobina originale della RSI, esente da
difetti, e dalla quale sceglievamo i brani da utilizzare, riversandoli sul
nastro contenente il famigerato sottofondo.”
In una delle sedi principali nessun tecnico si sarebbe sognato di utilizzare
un nastro già usato, ma nelle piccole sedi era tutta un’altra faccenda. Se a
Roma, il nastro che in montaggio si toglieva dalla bobina, veniva buttato
nel cestino, nelle piccole sedi veniva recuperato. Appiccicato pezzo a
pezzo, con immensa perdita di tempo, veniva a formare la bobina recuperi.
Sulla quale bobina il programma che fosse stato registrato, specie se
musicale, risentiva, con percettibili sbalzi di livello, o cambio di colore, sia
delle troppe giunte sia della diversa qualità del nastro giuntato.
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Insomma era una operazione economicamente ed artisticamente
controproducente.
Sia chiaro che parlo della mia esperienza e del mio tempo. E questa
precisazione non vorrei più ripeterla. Così come quella che vado a memoria
e non consultando vecchie annotazioni.
A proposito di memoria ( sempre che non mi tradisca, essendo femminile):
mi pare che questa bischerata del recupero avvenisse anche a Torino,
certamente sede a nessuna minore.
Ma qui è questione di mentalità. I piemontesi sono tirchi e super
risparmiatori. Hanno anche risparmiato le proteste quando Roma, con
garbo e delicatezza, gli ha soffiato tutte le cose nate lì: cinema, radio,
televisione e rispettiva direzione generale. Ma, come si dice, chi se la
cerca se la trova e poi se la tiene. Hanno mandato La Marmora a fare
breccia nelle mura vaticane, per annettersi Roma.
Non contenti di essersi messi in casa una lupa l’hanno piedistallata
facendola capitale. Risultato: hanno sminuito se stessi, i fiorentini e tutti
quelli della Gallia Cisalpina, al nord del Rubicone: già storico rivoletto
romagnolo. Da quel momento il grido non è più stato “alea iacta est”
ma “ Roma Ladrona !”
I padani, della padanía ( attenzione a non sbagliare l’accento se non volete
sentire gli strilli di Sgarbi) i padani, scrivevo, non sazi con il novello grido,
indifferenti alle fatiche passate per l’unione, misero in moto il
pensamento, specie nei giorni delle nebbie. Tra un grappino e l’altro,
hanno studiato come tamponare quello che considerano il ladrocinio
degli schei locali
e mettere così in difficoltà la capitale papalina.
Dai che ti dai hanno ottenuto, pare per un prossimo futuro, di farla rubare
di meno con un marchingegno fiscale. Piú o meno: separare, per il
momento, solamente gli incassi. In seguito si vedrà.
Forse mi sono depistato. Perdendomi per astrusi sentieri sconosciuti alla
audiodrammaturgia, unica cosa in cui sono in grado di parlare. Salvo
contestazioni da qualcuno che ne sia più forte . O più forte gridi.
A volte, nei miei anni fiorentini, andavo sotto i portici, accanto alla Posta.
Colà fiorivano le gridate discussioni politiche. Mi affascinava studiare la
loro tecnica di discussione. Non si davano sulla voce, parlavano
alternandosi, visibilmente ignorando, il tacente, quanto diceva il parlante.
Ore e ore così. Su una cosa sola concordavano, andare a pranzo alla su’ ora.
Ahi me! Guarderò fuor di finestra per snebbiarmi di politica. Anzi, meglio:
vado in terrazza.
Splendida giornata di maggio; terzo giorno dal primo. Famoso primo con
tanti discorsi… Non li ho sentiti, come il 25 aprile quando, per il forte
richiamo della silente aria aperta, oltre i discorsi, persi anche i commenti di
Sansonetti e Taradash.
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L’aria profuma. La terra più calda attira brezza dal mare.Una distesa
immensa che, da un verdolino cinabro , lentamente, tra varie tonalità di
azzurro, si tramuta in un grigio all’orizzonte. Respiro profondo; rientro.
Allora erano altri tempi in RAI: tuttavia l’episodio anconetano non ebbe
per me alcuna conseguenza, se non quella di rifare il programma, a Roma,
esattamente come era, escluso il micidiale sottofondo.
Sentite come erano diversi i tempi: domenica mattina, programma
“Mattinata in casa”. A volte dopo di noi entrava la sede di Napoli e in
questo caso bisognava terminare il programma trenta secondi prima per dar
tempo all’uccellino della radio di cinguettare quindici secondi per la
stazione emittente che lasciava e quindici secondi per la stazione che
subentrava. Si trasmetteva in diretta.Verso la fine del programma domando
a Baldo Perugini, allora aiuto regista: “Entra Napoli ?” Lui guarda lo
stampone ( il foglio schematico di tutte le trasmissioni della giornata) e mi
dice che no. Invece era che sì. Morale, passai la linea con ventinove, dico
29 secondi di ritardo. Per questo “disservizio” ebbi una ramanzina dal
maestro Grassi e una lettera di richiamo. Altra volta andammo alle
quattordici a piazza Venezia per una intervista in strada. C’era silenzio,
lontanissimo passò una Vespa. Al ritorno in sede ci fu un consulto con il
responsabile della parte tecnica, ingegner Campagna, per decidere se la
registrazione, per via della motoretta, potesse o no andare in onda.
E non vi dico quando si trattava di tagliare le frasi di un intervistato. Non
si poteva tagliarlo lasciandolo gambe all’aria. Nel nostro gergo “tagliarlo
a gambe per aria” voleva dire troncare la frase senza che fosse conclusa
sia di senso sia di tono. “Così si lavorava, allora, signori miei, oggi
abituati solo a tagli gambe all’ aria”.
(il seguito alla prossima sesta)
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Eccoci alla siesta.
Pardon, alla sesta.
Questa sesta è solo appuntata e non sviluppata e scritta, dopo una lunga
interruzione, almeno 79 giorni avbolodoalf. ( AVanti BOcciatura LODO
ALFano).
Che fiducia puoi dare a chi ti dà notizie ingannandoti nel farti credere che
legge su un foglio mentre in realtà legge sul gobbo? A parte il ridicolo di
occhiare ogni tanto il foglio per una frazione di secondo.
Uno dei due Saviane, per l’età mia il nome mi sfugge, illo tempore, portò
scompiglio in tv definendo, su un diffusissimo settimanale, mezzi busti i
notiziaristi. Da allora le scrivanie, le seggiole o lo stare in piedi o posare le
natiche sul tavolo si sono sprecati finché due dirigenti, al bar, hanno risolto
il problema avendolo sotto il culo: la seggiola alta ( devo vedere come si
chiama in commercio). Il fatto è che non si trattava di mezzi busti in quanto
a mezzo busto ripresi, ma di mentalità. I quaquaraquà della informazione ,
sempre vivi e vegeti anche se ora sono inquadrati dall’inguine in su.
Stamani, 21 luglio ’09, ne ho sentita una bellissima dal riccioluto direttore
siculo, che non avendo rivoluzionato in gioventù come avrebbe voluto, è
approdato in rai ritrovando con il tempo anche la voce; sta in Rainews24, lo
chiamano direttore. Stamani presentava, al solito, un libro. Presente
l’autore con il quale interloquiva. Ad un certo punto lo scrittore dice
“…non passa lo straniero…” Irrompe il direttore : “È una nota frase della
resistenza…”
Al nostro colto compagno direttore gli è sorgato dal cuore
l’unico “no pasaran” possibile. Quello della “passionaria Ibarruri. Lo
scrittore precisa: “È nella canzone del Piave.” Il direttore, così si rivolgono
al Corradino, rosso come un gambero cotto: “Hai ragione, hai ragione…”
Molti credono di dare valore alle stronzate che dicono se le dicono
muovendosi. Questo in tv. In radio con la lettura a più voci di un testo
insignificante si pensava ( e si pensa) di valorizzarlo.
Tutto l’anno a lesinare sul costo dei programmi, poi giù a spendere in
novembre e dicembre. Il fatto è che se la rete risparmiava sul
finanziamento annuale, l’anno successivo decurtavano il finanziamento di
quanto non avevi speso. Anziché premiarti per il risparmio, ti punivano.
Corradino di Svevia , o il Corradino notaio di Padova : entrambi persi nel
passato hanno, come erede, il rivoluzionario Corradino Rai News 24.
Legge i giornali come si usava nei conventi:
mentre i convittori
manducavano un frate leggeva. Leggeva il lettore, taceva il convittore. A
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tale stato sono gli spettatori di Rai News 24. Il nostro svevo legge le sue
scelte e ci dà i suoi commenti. Sembra di grande obbiettività. Tanto grande
da essere attaccato dai suoi concolorati. Tuttavia quando, per esempio
parla del lodo Alfano non dice mai che scade con lo scadere della carica.
.Ri-memento: ho usufruito di una lunga siesta prima di riscrivere.
Usufruitore finale della siesta è chi se la dorme.
Mi è capitato di leggere in internet alcune pagine sulla storia del
radiodramma di una autrice della quale non ho annotato il nome.
Sembra che il radiodramma sia tale solo quando è supportato da musica
originale; si apprende come Aurelio Rozzi fosse consulente musicale a
Firenze: con il maestro Colonna era uno dei miei consulenti musicali
quando lavoravo alla sede RAI di Roma. Quando mi sono trasferito a
Firenze, Rozzi non l’ho mai visto; che “ La guerra dei mondi “ è opera di
Orson Welles e tante altre amenità. Inoltre questa documentata autrice
della “storia” del radiodramma, non contenta delle proprie travi, rivede le
pagliuzze altrui.
A Rainews 24 ( e daje ) hanno inventato una nuovo modo tv: dal buco
della serratura.
Le notizie, anziché dirle allo spettatore, se le raccontano tra di loro.
Arrivano anche a dare le spalle.
La tv buco della serratura è solo la seconda novità. La prima è la tv
movimento: i ciarlanti si fanno riprendere mentre camminano; a volte
allungano la mano, che diventa manona, sul muso dello spettatore. Magica
invenzione di un filosofo notturno e della sua spalla. Risultato? In quattro
e quattrone vi è stata del parlar deambulando gran diffusione.
A parte la manona sul muso, che ne dite del dito nell’occhio anche se chi
ve lo infila è una bonona che si alza da un invitante divano?
Non ho mai capito come sia possibile che ogni giorno le notizie siano in
quantità tale da permettere ai giornali di uscire sempre con lo stesso
numero di pagine.
Dopo diciassette anni, (uno sette ), che ci danno di prima mattina istruzioni
per l’uso sempre “velocemente perché ho pochi secondi”, mi permetto di
darne una a mia volta: usare il cervello prima di muovere la lingua.
L’ultimo dei Moicani (gli aborigeni buoni) potrebbe essere Vespa. Gli altri
si sono persi nel tempo, uno nella commissione di vigilanza. Questi
aborigeni buoni, questi nostri moicani erano (ed è) rispettosi della lingua in
tutti i suoi aspetti. Per esempio non avrebbero mai sostituito asperrimo con
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“asprissimo” come fece in trasmissione una giornalista. La quale, pervenuta
anche alla direzione di una rivista femminile, in ricordo di Asprissimo, la
titolò “A“.
Spariti i Moicani oggi, in campo, ci sono solo stranieri solo invasori solo
guastatori. Stranieri invasori guastatori della lingua, naturalmente. E tutto è
nella norma in quanto non vi è limite al possibile. Nessuno rileva
alcunché. Al più rilevano qualcuno soffiandogli il posto mentre è in ferie.
Forse capitava pure fra i Moicani anche se James Fenimore Cooper non ce
lo ha lasciato scritto.
Gli italiani, (noi italiani) sono gli unici al mondo che leggono i nomi o le
parole straniere con la pronuncia (quando ci riescono) della lingua cui
appartengono. Probabilmente è una derivazione atavica. Abituati alle
invasioni si sono sempre sforzati di accattivarsi l’invasore adeguandosi a
lingua e costumi.
L’albergo Palestina a Bagdad, tra le cui mura se ne stavano trincerati i
giornalisti trasmettendoci di guerra e magari litigandosi gli operatori, lo
pronunciavano Palestain. Proprio l’albergo contro il quale un carro armato
americano sparò colpendo a morte Couzo, ( controllare il nome) giornalista
spagnolo.
Quante polemiche su quella morte! Il noto giudice Garzón si attivò per
mettere in galera i carristi, senza riuscirci.
A giustificare lo sparo americano contro il Palestina e a chiudere le
polemiche sarebbe bastato che la giornalista italiana si fosse ricordata di
quando, in diretta, gridò, “sparano anche dal nostro albergo”: il Palestina,
appunto. Se ne dimenticò e perciò non lo disse. Ora, felice inviata RAI in
USA, ci opiniona sui fatti americani con la lente del Terzo. La botte ridà il
vino che ha.
( La SETTIMA fra poco sarà qua )
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La settima è un vecchio documento; che sia ospitato alla puntata numero
sette non implica che gli siano attribuibili alcuna delle infinite meraviglie
che, in ogni parte del pianeta nostro ( su altri non so, i libri in proposito
dicono: hic sunt leones), sono significate da questo numero. Il superstizioso
mondo antico e il super superstizioso mondo moderno in ginocchio davanti
al sette lo hanno dichiarato portentoso, sacro, totale, incommensurabile e,
soprattutto, completo. Nei libri di Miti e Simboli valori e significati del
sette occupano pagine e pagine.
Come già scritto - il documento - con il sette non c’entra. È qui per caso.
E poi, tutto sommato non è neanche un documento. Sono appunti che il
Raiteri prese in un particolare momento. Forse anche un po’ risibili essendo
scritti in terza persona. Come quando uno invece di “voglio dire” sbuffa
sotto i baffetti:“diciamo”.
Si perdoni dunque l’entrata spudorata nella sacra sfera settale.
Ecco l’antico scritto:
Partecipazione al XXXII Premio Italia, ( 1980 )
Sostiene il Raiteri che la rigidità burocratica delle norme ( SIAE ) allontani
gli scrittori dalla audiodrammaturgia. Dice che se si riesce a creare una
costruzione sonora utilizzando "il popolo", la catalogazione del prodotto
avviene nella sezione 'cronache sceneggiate': il genere più deprezzato nella
scala dei compensi per il diritto di autore. E cita PALIO LIBIDO.
2 luglio, a Roma per decidere sulla realizzazione di un programma, un
amico gli fa i complimenti per essere stato scelto da Radio Uno, direttore
Giovanni Baldari, per partecipare al Premio Italia con il "Palio di Siena".
La notizia è sul CORRIERE DELLA SERA.
Inconveniente marginale, racconta il Raiteri, è che lui non lo sapeva, e che
non aveva mai realizzato il programma in questione.
Un salto in Direzione Generale serve a chiarire tutto. La proposta per un
programma sul Palio di Siena era venuta da Paolo Lombardi, senese, della
contrada del Liocorno. Quale regista aveva suggerito il nome del Raiteri.
Baldari aveva accettato. Però, a causa del solito disguido, il Raiteri non era
stato avvisato. Ora lo sapeva. Tutto rimediato.
Si passa subito all’azione.
Molte chiacchiere con l'incaricata della rete per le modalità di esecuzione.
Date perentorie per la registrazione del programma: dal 12 al 16 agosto.
Abbastanza logico: Il 15 c’era il Palio di agosto. Fuori da quelle date
sarebbe stato un po’ difficile realizzare un programma su: ante durante
e post Palio.
3 Luglio, il Raiteri gonfio e tronfio torna in sede a Firenze sicuro che - alla
notizia che la Sede avrebbe realizzato un Prix Italia - avrebbero dato fiato
alle chiarine.
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4 Luglio, il capotecnico della sede Rai di Firenze è assai rammaricato di
non poter disporre del personale da mandare a Siena per la registrazione. Il
regista ha chiesto tre tecnici. Cosa assurda, visto che Silvio Gigli ha sempre
fatto tutto quasi da solo. E poi, a chi può interessare un programma sul
Palio dopo tutti quelli fatti proprio da un senese?
Questa è stata la Botta ma al Raiteri è mancata la Risposta. La domandina
non era facile facile. Bisognava saper inventare, come il Senese, che si era
fatto considerare autore del programma quiz, in realtà uscito dallo zaino
dell’italo-americano Funaro, componente del PWB, settore della guerra
psicologica e primo reggitore di Radio Firenze non appena liberata la città.
Forse il personale per registrare al Palio c´era, ma, probabilmente, c’erano
anche fossi tra il regista e il capotecnico.
5 Luglio, il regista, rammentando un breve periodo di lavoro svolto nella
sede Rai di Perugia per una serie sui teatri lirici, pensa di sentire se sono
disponibili all'impresa. Risposta positiva.
6 Luglio, siccome per andare a lavorare in trasferta a Perugia il Raiteri
deve essere autorizzato dal direttore di sede, all’epoca Piergiorgio Branzi,
il regista lo informa di tutto.
Il capo ascolta come una statua apollinea. Ringrazia e dice: “Vedremo”.
7 Luglio, Firenze farà la registrazione. Il capotecnico, vedendo meglio la
situazione, trova che due tecnici me li può dare subito. Per il terzo tecnico
si vedrà. “Gigli però non ha mai creato tanti problemi!”
8 luglio. Nell'ufficio di Ada Maria Terziani, in Roma, avviene finalmente
l'incontro con Paolo Lombardi. Il regista gli domanda subito se, come
ipotesi di lavoro, c'è qualcosa di più oltre l'elenco degli avvenimenti del
Palio ripreso dall'opuscolo dell'ufficio senese del turismo. In effetti la
proposta del Lombardi è interamente ed esclusivamente basata su
quell’opuscolo propagandistico. In più il Lombardi ha solo il titolo e tutto
di sua creazione: Palio Libido. La Terziani lo respinge. Appello al
direttore di rete Baldari: lo accetta. In effetti, PALIO LIBIDO, pensa il
Raiteri, è un titolo stimolante.
O forse no.
Più avanti si scopre che anche il capo dei vigili di Siena, su consiglio del
sindaco, condiziona la concessione dei permessi di libera circolazione
nell'ambito del tracciato in Piazza del Campo, al cambio del titolo.
Senza continuare con l'elencazione cronologica sia degli avvenimenti sia
degli ostacoli superati per essere in condizione di svolgere un lavoro
professionale, si giunge al momento della registrazione.
Preso alloggio in una casa del centro, il tecnico e l'aiuto avevano da ridire,
perché, ogni giorno, bisognava portare su e giù per le scale tutto il
materiale: cavi, microfoni, cavalletti e quant'altro. Non erano assolutamente
interessati al lavoro. Erano abituati ad aspettare che il programma passasse
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dall'aria aperta al chiuso del nastro tramite il microfono piazzato sul
cavalletto o, al massimo e non per molto tempo, tenuto in mano. Per cui
registrare qua e là, ma già in una sequenza preordinata, non li convinceva
assolutamente. C'era il rifiuto istintivo, più che ragionato, di trasformarsi da
inerti montatori di apparecchi per registrare, ad esecutori di un piano
artistico, con ampia possibilità di decisione, pur seguendo uno schema
prestabilito.
Per rendere meglio l'idea: come nella commedia dell'arte in cui si lavora su
canovaccio, libero l'attore di arricchirlo, pur avendo punti fissi da rispettare.
Naturalmente si registrava sia di giorno sia di notte.
Per il giorno non vi erano difficoltà burocratiche, osservando l'orario di
lavoro. Per la notte ce ne furono molte, perché il tecnico, per contratto,
deve osservare da un giorno all'altro di lavoro tot ore di pausa. Per cui se
nella notte avvengono cose importanti per Palio Libido ma in quelle ore di
pausa...beh, non si possono registrare...
Un episodio della notte in ore giuste, capitò con uno dei tecnici, molto
religioso e amico personale del sindaco di Firenze La Pira.
Un microfono piazzato tipo candid camera alla curva di San Martino
aveva captato il parere di un contradaiolo sul cavallo sorteggiato per la sua
contrada. Espressioni coloritissime, punteggiate da 'madonna boia' e
'madonna cane'. Insomma, uno specchio vero, la realtà. Il tecnico che,
come il regista, ascoltava in cuffia, non disse nulla. Solo quando si
convinse che il pezzo registrato sarebbe stato utilizzato per il programma,
fece presente al regista che forse era un po' forte, anche se interessante e
che forse era opportuno cancellarlo. Il regista disse di no. Quello era
l'interloquire vero di molti toscani... Il tecnico non disse altro.
Poco più tardi c'era da fare un'altra breve registrazione: la polemica tra due
contradaioli e questa volta sui fantini. Il tecnico la registrò. Quando il
Raiteri chiese di riascoltare le due registrazioni, si resero conto che la
registrazione sui fantini era stata effettuata sopra quella del cavallo. Un
errore è un errore. E se è irrimediabile: amen. E poi, i fantini mica vanno
pari pari con i cavalli, ci vanno sopra.
Per farla breve: su indicazione del regista, i tecnici piazzarono tre
microfoni : alla mossa ( dove partono i cavalli); alla curva di San Martino
( dove cadono i cavalli) e al Casato ( ultimo tratto per i cavalli.) Il pubblico
che seguiva la corsa commentandola, ripreso dai tre microfoni, realizzò la
parte più importante del programma. Mancò solo il microfono della
Mossa, perché il tecnico amico di La Pira lo aveva chiuso dopo che il
mossiere aveva calato il canapo dando il via ai cavalli. Si giustificò dicendo
che Gigli faceva sempre così. Il regista rimediò con diavolerie tecniche.
Durata 45 primi. Molto lungo. L’autore della scopiazzatura del depliant del
turismo volle che si inserissero anche gli sbandieratori.
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Non riuscì a capire, il Lombardi, attore, autore, doppiatore, organizzatore,
che il rumore degli sbandieratori non era eccessivamente radiofonico.
Il testo di spiegazione del programma dell’Ente Turismo che
accompagnava il programma non fu tradotto nella lingua ufficiale del
Premio Italia. Essendo agosto, traduttore mio non ti conosco. Proprio così.
La dott. Terziani disse al Lombardi e al Raiteri che non vi erano traduttori
disponibili. La Rai, Radiotelevisione Italiana, non disponeva di un
traduttore in agosto!
Breve sul serio. Il breve precedente è stato lungo.
“Palio Libido” ( il titolo rimase ) non fu sbandierato dalla giuria del PRIX.
Neppure segnalato.
Days After, motu proprio, il Raiteri, senza il Lombardi nei paraggi,
ristrutturò il programma eliminando le parti prevalentemente visive a
cominciare dagli sbandieranti.
Portato da 45’ a 29’30” QUANDO VINSE IL LIOCORNO tornò in onda.
Già, dopo anni e anni senza vincere, quell’anno della registrazione, in quel
1980, la contrada del Liocorno aveva vinto il Palio.
Sarà stato un caso.
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Dalla sette siamo alla otto. Otto: Equilibrio cosmico e rosa dei venti.
Di fronte a tanto, poche righe. Un po’ di riposo prima della lunga storia
del Bufalo Bill che c’era una volta in America. Prima degli spaghetti
western. Si mangerà varie puntate.
Le poche righe.
A Roma, nel secolo scorso. L’appartenente ad una grande dinastia di
giornalisti venne a casa per intervistare Eli Bistuer y Rivera, aragonese e
mia seconda moglie, in seguito ad una serie di programmi sulla Spagna
trasmessi dalla RAI e che figuravano da lei scritti. A quell’epoca i giornali
davano ancora spazio a quanto succedeva in radiofonia.
Terminata l’intervista e raccolti i dati per un articolo di giornale che poi
ebbe lo strabiliante titolo di “ Le hanno rubato la terra ed è diventata
scrittrice”, si fecero quattro chiacchiere in libertà al rinfresco di un buon
cuba libre. Tra l’altro si parlò di giornalismo in genere e della scelta delle
fotografie per la pubblicazione. A quel punto mi furono poste davanti agli
occhi due fotografie della stessa persona. Sembravano due foto tessera, a
mezzo busto. Forse erano state tagliate così volutamente. Probabilmente
dovevano servire a qualche dimostrazione visto che erano state tratte da
una cartella con altro materiale del genere.
La prima foto ritraeva l’individuo in atteggiamento che possiamo definire
normale; la seconda foto ritraeva lo stesso individuo con un dito alla ricerca
delle mucose secche nel naso.
La domanda:”Quale, di queste due foto sceglierebbe per la stampa ?”
La risposta: “Questa normale!”.
“Errore - mi disse Milena Rizza – un giornalista sceglie quella con il dito
nel naso.”
Lezione rapida e, “diciamo”, conclusiva e onnicomprensiva del
giornalismo.
Nelle azioni altrui, per la stampa, si cerca prevalentemente lo stonato.
Mano alla pazienza per le puntate a venire dove vedremo cose curiose circa
gli sceneggiati radiofonici e le malizie degli autori per ridersela alle spalle
di chi deve giudicare e accettare i loro copioni.
Alla nona. Ho buttato alle ortiche il dizionario dei simboli. Sul nove. E non
ci saranno preamboli.
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Per un attimo mi sono sentito un politico.
Ho promesso che non ci sarebbe stato preambolo e invece c’è.
Si tratta di risparmiarmi fatica per meglio godermi il riposo della pensione.
Dividere “Note su Buffalo Bill” in varie puntate comporterebbe un gran
lavoro. Intendo risparmiarmelo e, per automatica par condicio, risparmiare
al lettore la noia di leggere le spiegazioni del perché mai quella divisione
sarebbe un gran lavoro.
Ergo: lo piazzo in rete pari pari, come nona puntatona. Tanto più che il
nove è tre volte trino.
Come ormai è evidente ho perso pelo e vizio di scrivere tutte le puntate
della stessa durata.
“Note su Buffalo Bill”, testo trentennale (1979), battuto direttamente su
Olivetti 40; diligentemente ribattuto, all’epoca, da una volonterosa
dattilografa; passato ai giorni nostri allo scanner ; riletto da un opportuno
software in Word, è finalmente pronto per entrare in rete.
Chi lo leggerà? Probabilmente chi, accecato Polifemo, alla richiesta di
questi, dichiarò di chiamarsi con l’astuto nome che solo la brillante mente
di Ulisse poteva escogitare. Risciacquatevi nell’Odissea. !
Mi sta bene un auto colpetto sulle dita con un opportuno bastoncino. Lo
tengo a portata di mano per punire ogni mio sprazzo al politico: dire
cose non rispondenti al vero.
Non sono io che lo piazzo in rete: non lo so fare.
Esegue la mia metà, come volgarmente si dice. Per me il mio tutto.
Sono venticinque anni di matrimonio. Un record dello stare insieme se si
considera che i due precedenti sposalizi sono crollati non molto dopo il
fatale settimo anno. Venticinque anni ! E dire che buona parte della nostra
vita l’abbiamo passata girovagando per la Spagna, su un camper. Nei
pochi metri quadrati che, secondo gli psicologi etc.. dovrebbero aumentare
la litigiosità.
E dalla litigiosità alla rottura il passo è breve. Un
matrimonio, il nostro, da “fin che morte vi separi”. Profezia facile dati i
miei ottantasette anni.
Dunque, ecco a voi, con i nomi sbianchettati q.b. (quanto basta) e su un
immaginario, fantastico rullo di tanti tamburi quanti sono gli strumenti
che partecipano alla esecuzione di una sinfonia dell’incommensurabile
Berlioz………
NOTE SU BUFFALO BILL
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RAI t ERI - Dante Raiteri, ed altro