Volantino distribuito nel 1972 assieme alla Guida al processo di Soccorso Rosso
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Valpreda è innocente
La strage è di Stato
Giustizia proletaria contro la strage dei padroni
Guida al processo a cura del Soccorso Rosso 1972
Il 23 febbraio è fissato al Tribunale di Roma l’inizio del «Processo Valpreda». Finalmente la classe
dominante è costretta a riportare in «pubblico» – attraverso la sua magistratura – tutta la questione
delle bombe di Milano e Roma del 12 dicembre 1969. Diventati ad un tempo «capro espiatorio»
giudiziario e pretesto politico per la strage di Stato, Valpreda e gli altri compagni anarchici si
trovano da più di 2 anni in carcere senza alcuna prova attendibile a loro carico, mentre ormai sono
schiaccianti le prove della responsabilità materiale dei fascisti e del loro diretto collegamento
politico e finanziario non solo con certi settori del padronato italiano e degli organi dello Stato, ma
anche, a livello internazionale, con le centrali di spionaggio e di provocazione dei colonnelli greci
(KYP) e dell’imperialismo (USA).
Le lotte…
Nelle lotte del 1969 – prima con l’esplosione spontanea del maggio-giugno alla FIAT e alla Pirelli e
poi con la generalizzazione dell’autunno caldo – l’autonomia operaia aveva attaccato direttamente i
padroni nei momenti fondamentali della struttura di potere, mettendo in crisi la produttività e
l’intensificazione dello sfruttamento, ponendo in questione le radici stesse del modo di produzione
capitalistico.
In questa situazione – con un’escalation che dagli attentati «greci» del 25 aprile (alla Fiera di
Milano e alla Stazione), attraverso la scissione «americana» del P.S.U. nel luglio e gli attentati
dell’agosto ai treni, arrivò alle bombe di Milano e Roma del 12 dicembre, precedute da una catena
di circa 200 attentati terroristici – si sviluppò quella strategia della tensione che ebbe come
momento culminante proprio la strage di Stato.
L’uso politico…
Le bombe del 12 dicembre le fecero mettere i padroni, ma non tutti i padroni. Tutti i padroni però le
utilizzarono e ne gestirono le conseguenze politiche e sociali.
Tutto uno schieramento della classe dominante – borghesia della piccola e media industria e della
rendita fondiaria, alti gradi delle burocrazie statali, amplissimi settori della destra politica –
considerava la «strage» come il punto di partenza di un disegno strategico che – partendo dai
rancori della cosiddetta opinione pubblica contro il movimento operaio – determinasse un preciso
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spostamento a destra, con progetti che andavano dalla «Repubblica presidenziale» dei
socialdemocratici e dei democristiani fino al golpe fascista di Junio Valerio Borghese.
D’altra parte, tutto l’altro schieramento della classe dominante – il capitale monopolisticofinanziario, i grandi padroni «tradizionali» (Agnelli e Pirelli) e i managers dell’industria di Stato, le
forze «democratiche» dell’area governativa, i settori «moderati» dell’apparato statale – utilizzò
immediatamente le bombe, anche se non le aveva ordinate, come strumento di ricatto anti-operaio e
come occasione di un violento attacco repressivo contro le avanguardie di lotta.
Proprio sui morti di Piazza Fontana, la borghesia italiana ritrovò la convergenza dei propri interessi
e avviò il tentativo di ricomporre la sua unità di classe: fece chiudere i contratti e ricostituì il
governo di centro-sinistra, scatenando la più dura e violenta repressione.
Per parte loro, i partiti della sinistra istituzionale non solo permisero quest’offensiva, ma
attaccarono essi stessi in modo diretto le lotte operaie nelle fabbriche, rilasciando la parola d’ordine
della produttività (cioè dell’intensificazione dello sfruttamento) e delle riforme (cioè della
razionalizzazione dello sviluppo capitalistico).
La strage…
Se i rapporti di forza, sul piano politico generale saranno completamente favorevoli alla classe
dominante essa cercherà di arrivare direttamente alla condanna di Valpreda per «ragion di Stato».
Ciò equivarrebbe a un tentativo apertamente reazionario di radicalizzare l’attacco repressivo già in
atto contro il proletariato e le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, nei confronti delle quali
oggi viene fatto sempre più pesantemente ricorso alla minaccia e all’intimidazione della legge
borghese e dei suoi tribunali – vedi il processo a Potere Operaio e a Proletari in Divisa – Ciò
equivarrebbe a una sorta di «reinnesco politico» delle bombe di Milano e Roma.
Non è da escludere, tuttavia, la possibilità che, durante il processo, prevalga quella tendenza della
classe dominante che, per evitare i pericoli di una radicalizzazione dello scontro politico sulla strage
di Stato, già da molti mesi sta cercando di spoliticizzare tutta la vicenda trasformando il processo in
una specie di grosso caso giudiziario su cui si dovrebbero confrontare «colpevolisti» e
«innocentisti».
Da questa seconda ipotesi la borghesia potrebbe ricavare un recupero del prestigio democratico
delle sue istituzioni, soprattutto della sua Magistratura.
Da parte loro le organizzazioni del movimento operaio ufficiale, che si presentano al processo con
la parola d’ordine «sia fatta luce», giocheranno un ruolo completamente subalterno alla classe
dominante, perché chiedere agli organi dello Stato di far luce sulla strage di Stato, vuol dire cercare
di ridare una patina di democraticità proprio a quella magistratura che è stata uno dei principali
strumenti di copertura della strage stessa.
D’altra parte essi arriveranno al massimo ad ottenere una assoluzione di Valpreda per insufficienza
di prove chiudendo tutto con il compromesso più squallido e mistificante.
Far ricadere…
Al Processo Valpreda il vero imputato dovrà essere lo Stato borghese. Ciò sarà possibile solo nella
misura in cui al diritto della borghesia – che si «celebra» nei tribunali, ma si fonda realmente sulla
violenza strutturale e sistematica dello sfruttamento capitalistico – si contrapporrà radicalmente il
diritto del proletariato, che non si esprime nell’accettazione delle «regole del gioco» imposte dalla
classe dominante nelle sue istituzioni, ma si realizza invece col rovesciamento dei rapporti di forza
nello scontro politico e di classe.
Sarà dunque lo sviluppo della lotta di massa a tutti i livelli (dentro e fuori Ie aule del tribunale) che
potrà effettivamente imporre la giustizia proletaria contro la strage dei padroni.
Quest’opuscolo vuol essere un semplice strumento di documentazione su persone e fatti connessi
alla «strage di Stato», un contributo per la campagna che dovrà svilupparsi in tutto il paese non solo
per imporre la verità rivoluzionaria sugli avvenimenti del 12 dicembre ’69, ma soprattutto per far
comprendere a settori sempre più vasti della classe operaia e degli altri strati sociali sfruttati, come
la «strage di Stato» (e così pure l’assassinio di Pinelli, l’eliminazione degli altri testimoni, ecc.) sia
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stata soltanto il risvolto più appariscente della violenza quotidiana che la logica borghese del
profitto e dello sfruttamento esercita su milioni di proletari e come anche le bombe di Milano e
Roma abbiano costituito un’anticipazione degli strumenti che sempre più sistematicamente la
criminalità capitalistica porrà in atto quanto più si radicalizzerà lo scontro di classe.
Valpreda
Come la polizia e la magistratura italiana hanno costruito un dinamitardo
La polizia italiana sceglie Valpreda come l’imputato n. 1 della strage di Stato che si sta preparando
già dagli attentati ai treni dell’agosto ’69, dopo che si è rifiutato di collaborare (nel loro linguaggio
si dice così fare l’infiltrato e la spia), ed ha rifiutato anche la 500 nuova fiammante che la polizia
vuole regalargli a tutti i costi. É da allora infatti che incomincia la persecuzione. Ardau e Di Cola,
due compagni anarchici, testimoniano che Valpreda è continuamente pedinato dalla polizia e che
riceve intimidazioni continue ed assurde. A ottobre gli ritirano il passaporto. A novembre viene
provocata a bella posta una rissa a Trastevere, dove Valpreda viene picchiato da un gruppo di
giovinastri, e dove la polizia inventa che Valpreda avrebbe difeso una bomba scoppiata in Spagna –
nessuna bomba è scoppiata in quel periodo – e di qui la reazione e le botte dei presenti.
Si comincia a costruire il dinamitardo.
Da questo momento in poi Valpreda diventa l’anarchico più fotografato del mondo: gli schedari di
polizia si riempiono di sue foto, qualcuna addirittura a colori, già bella e pronta per essere stampata
(v. la foto pubblicata su Epoca, subito dopo gli attentati, presa durante una manifestazione.
La macchinazione continua
Sempre in funzione di Valpreda viene creato il circolo 22 marzo, composto da un po’ di anarchici,
dal fascista Merlino, che per l’occasione fa I’anarchico, e da un poliziotto travestito anche lui da
anarchico, Salvatore Ippolito, di cui parleremo più avanti.
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Il 12 dicembre, due ore dopo lo scoppio della bomba di Piazza Fontana, senza. avere avuto ancora
nessuna informazione da Roma, il futuro assassino di Pinelli, il commissario Calabresi, cerca a
Milano il pazzo e dinamitardo Valpreda.
Poi quello che tutti sanno: Valpreda viene incarcerato e imputato, insieme ad altri, della strage.
Tutti gli alibi che servono a dimostrare la sua innocenza vengono sistematicamente rifiutati. La zia
dice che quel giorno era a letto ammalato; e la zia sarà imputata di falsa testimonianza. E’ chiaro
che per la magistratura italiana non tutte le zie sono uguali. Per esempio, c’è la zia di un fascista, un
certo Pecoriello, che il 12 dicembre era a Roma, e che i compagni della controinchiesta ritengono
che sappia parecchie cose sulle bombe – il giudice Cudillo è costretto a interrogarlo. Che cosa
faceva a Roma il 12 dicembre? Era a letto ammalato: lo testimonia la zia. Questa zia alla
magistratura italiana sta bene, e Pecoriello può restare tranquillo.
La costruzione del mostro
E la magistratura italiana, nelle persone di Cudillo e Occorsio, con la piena complicità di partiti
politici e organi di stampa – tutti, nessuno escluso – può continuare indisturbata la costruzione del
mostro. Dopo averlo definito “ballerino non classico” (in quel “non” c’è quasi un rimprovero)
Cudillo dice di lui che il suo motto è «Lucifero, Satana, Belzebù» e Occorsio scrive: «Pietro
Valpreda appaga la sua esistenza solo nelle “bombe”, la “dinamite”, il “sangue”». Dichiarazioni
cretine, ma che si inseriscono perfettamente in tutta la gestione teatrale con cui lo Stato borghese ha
condotto la messa in scena della strage. Il principale imputato deve apparire come la «belva
umana», l’uomo per cui nessuno può provare pietà, un anarchico che deve appagare la sua sete di
sangue. E si è scelto l’uomo giusto: non solo infatti Valpreda è anarchico ma è anche un ballerino
non classico, e, quel che è peggio per lui, è anche un «ballerino zoppo», cioè il fallimento completo.
E proprio su questa invenzione assurda si basa la testimonianza definitiva: quella di Rolandi, che
dice di averlo portato in taxi alla banca, con borsa, e di averlo poi ripreso senza borsa – e tutto
questo per un percorso complessivo di 300 metri. E se ci si chiede perché per un percorso così breve
il nostro avrebbe preso il taxi, con tutti i rischi che questo comportava, l’istruttoria ha già pronta la
risposta: perché è malato, zoppica, ha il morbo di Burger, non può camminare.
Lo zoppo avrebbe dovuto ballare tre giorni dopo a Canzonissima, ma non importa.
Gli altri imputati
Ma Valpreda solo non bastava; belva sì, ma senza il dono dell’ubiquità. Ci volevano i complici: e i
complici erano già belli e pronti in quel circolo 22 marzo creato apposta. Gli altri imputati sono 8,
tutti messi dentro con accuse ancora più inconsistenti di quelle di Valpreda; basta a farli ritenere
colpevoli l’amicizia con il ballerino e la frequenza al 22 marzo. Le imputazioni si reggono sul nulla,
per lo più dichiarazioni del fascista Merlino e del poliziotto spia 007.
Per GARGAMELLI, imputato di aver messo la bomba alla Banca del Lavoro e quindi di
corresponsabilità nella strage, basta a farlo incriminare il fatto che suo padre lavorasse proprio in
quella banca e, perciò, si dice, la conosceva bene. La testimonianza che lo incrimina è quella di
Ippolito, che interviene sempre a richiesta, per tappare i tanti buchi dell’istruttoria «la polizia non
penserà mai che Robertino abbia messo una bomba dove poteva morire suo padre»; l’ha detto
Borghese, un altro imputato, giura l’Ippolito.
E BORGHESE che avrebbe fatto? Sempre, secondo Ippolito, avrebbe detto, dopo le bombe «Così i
capitalisti impareranno a non depositare i soldi in banca». Per Cudillo basta e avanza!
Poi c’è MANDER: avrebbe messo le bombe all’altare della patria perché «fanatico». Ma l’accusa
non regge proprio; chi ha messo le bombe all’altare è il fascista Cartocci, e c’è anche chi l’ha visto e
Cudillo lo sa. Mander è un imputato troppo scomodo. Allora lo si scarcera, e siccome non si può
dichiararlo innocente, lo si dichiara «immaturo» (poco importa se l’immaturo ha preso la maturità
in carcere) e quindi non responsabile.
«I frequentatori del 22 marzo sono individui privi di una comune fede politica, disadattati, asociali,
esaltati, che si ritrovano uniti nell’odio per il sistema». «I più giovani hanno interrotto ogni
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colloquio con i propri familiari (Gargamelli, Borghese, Mander) e rinnegano anche i vincoli di
sangue».
Sono parole di Occorsio che sottolinea anche «Gli obiettivi prescelti indicano manifestamente che il
gruppo operante ha voluto colpire alcune espressioni e simboli della società tradizionale: le banche,
gli uomini d’affari, i possidenti agricoli, il simbolo della patria» (Almeno Occorsio parla chiaro: la
patria è la patria dei padroni!).
Poi ci sono tutti gli altri, e per tutti lo stesso castello di montature e di menzogne.
Pinelli assassinato dalla polizia
Il «complice» che non si trova
Allora, ricapitolando, le bombe sarebbero state messe così: Valpreda alla banca dell’agricoltura,
Mander all’altare della patria, Gargamelli alla banca del lavoro. Ma c’è una banca rimasta scoperta:
la Banca Commerciale di Milano, in cui la bomba è stata messa, ma non è esplosa; di conseguenza
ci deve essere ancora un complice di Valpreda da trovare. Nella sua requisitoria Occorsio accenna
più volte a questo complice con cui Valpreda si sarebbe incontrato a Milano prima della strage,
senza però mai nominarlo. Poi confessa l’incapacità di scoprirlo, e aggiunge che comunque… non
sarebbe incriminato per strage, dato che la bomba non è scoppiata. Il complice non si trova perché
non si è riusciti a incriminare Pinelli. Pinelli è portato in questura il 12 dicembre, appena scoppiano
le bombe; bisogna a tutti i costi farlo rientrare nella versione già bella e pronta che magistratura e
polizia intendono dare degli attentati, risalendo fino a quelli del 25 aprile e dell’8 agosto ai treni;
Pinelli avrebbe preso parte a tutti, sarebbe lui l’elemento coordinatore. Si tratta solo di farlo
«confessare». Pinelli rimane in questura 4 giorni, e solo al terzo c’è un verbale di fermo, perché
«esistono gravi indizi a suo carico». Infatti, secondo la polizia, dato che era l’unico ferroviere
anarchico della stazione di Milano, è l’unico che può aver messo le bombe. Ma non trovano proprio
il modo di incriminarlo, Pinelli si rifiuta di firmare qualsiasi verbale e cosi lo buttano dalla finestra.
Gli assassini sono: il commissario Calabresi, il tenente Lo Grano, i brigadieri Mucilli, Panessa e
Caracuta. Immediatamente sono fissate le prove «evidenti» della colpevolezza: Pinelli si è
«suicidato» e, secondo il questore Guida, «il suicidio è un evidente atto di autoaccusa»; infatti «era
fortemente indiziato di concorso in strage. Il suo alibi era caduto… Si è visto perduto». In un
rapporto del 22/1/70 il capo della polizia Allegra dichiara che Pinelli era implicato in tutte le bombe
dall’aprile al 12 dicembre 1969.
Ma la verità comincia a farsi strada e la sinistra rivoluzionaria conduce sui suoi giornali una
campagna per spiegare il significato delle bombe e denuncia l’assassinio di Pinelli, e ne porta le
prove. Magistratura e polizia si attestano allora su una linea difensiva. Pinelli non solo viene
dichiarato innocente, ma addirittura Calabresi, dirà senza nessun pudore che Pinelli è stato fermato
solo per dei chiarimenti, ma che era al di sopra di ogni sospetto. Ma i suoi assassini restano
indisturbati, protetti da tutto l’apparato dello Stato, e Occorsio liquida così tutta la faccenda nella
sua requisitoria sulle bombe: «Il nominato (Pinelli) mentre era in stato di fermo nei locali della
questura, in un momento di sconforto, raggiungeva una finestra e si lanciava nel vuoto
sfracellandosi al suolo… Non sono stati raccolti né elementi di prova, né indizi che lo leghino
all’attività di Valpreda il 12 dicembre».
Il complice non si è trovato, e la strage ha fatto una vittima in più.
Un imputato non previsto: Merlino
Il gioco è stato più grosso di lui
Ma tra gli imputati ce ne è uno che non era previsto, il fascista Merlino. Chi è Merlino? Per anni, si
è infiltrato tra i compagni, facendo l’informatore di professione per conto del fascista Delle Chiaie,
che poi passava le informazioni al Sid ex Sifar. Nel 22 marzo il suo ruolo è stato quello di agente
provocatore, e durante l’istruttoria le sue dichiarazioni sono servite a Cudillo per aggravare la
posizione dei compagni, un vero e proprio teste a carico, più che un imputato.
E’ Merlino che dichiara: «Il 28 novembre Roberto Mander mi chiese di procurargli dell’esplosivo…
Il 10 dicembre Mander mi confermò l’esistenza di un deposito di armi e di munizioni sulla via
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Casilina (mai trovato, naturalmente!). Ed è sempre lui che informa che il motto di Valpreda era:
Bombe, sangue, anarchia! (Quanti motti ha questo povero Valpreda!). E così via con i suggerimenti
e le supposizioni più varie, naturalmente sempre bene accolti.
Sono dichiarazioni che il vigliacco in parte fa per scagionarsi: infatti il gioco è stato più grosso di
lui; Merlino faceva il provocatore, ma era una pedina a sua volta, e non era certo a conoscenza del
programma completo della strage. Infatti non si procura un alibi inconfutabile per quel giorno, e la
magistratura è costretta a incriminarlo; in quanto tra i più in vista del 22 marzo.
Ma per Occorsio tutti i fascisti sono brave persone, ed è inconcepibile per lui l’idea di un fascista
che possa fare l’infiltrato e la spia. Ma qui c’è la scappatoia già bella e pronta: Occorsio è un sottile
psicologo (tutta l’istruttoria è piena di sue annotazioni psicologiche pseudoscientifiche sulla
personalità dei vari imputati – la borghesia preferisce sempre parlare di «caratteri» anziché di
politica -) e cosi il fascista spia e infiltrato diventa una specie di esteta, per cui «la sperimentazione
di ogni forma di ribellione dall’estremismo di destra a quello di sinistra, costituisce in realtà la
ricerca di emozioni sempre più violente»; (bravo: in così poche righe è riuscito anche a farci entrare
il discorso degli opposti estremismi).
Le testimonianze inventate
007
Questi dunque gli imputati e le imputazioni. Ma la macchinazione per avere almeno una parvenza di
credibilità, deve basarsi anche su delle «testimonianze». E, come si sono trovati degli imputati,
adesso si trovano anche dei testimoni. Uno è già lì, bello e pronto. E’ Salvatore Ippolito, detto anche
Andrea 007, messo apposta nel circolo 22 marzo, travestito da anarchico, per poterlo poi usare
come testimone a carico.
Le motivazioni ufficiali della Questura sono altre che la magistratura naturalmente avvalla: «Sin
dall’estate del 1969 l’ufficio politico della questura di Roma aveva ritenuto opportuno disporre che
la guardia di PS. Salvatore Ippolito, prendesse contatto, sottacendo la propria qualità e fingendo
interesse per le idee anarchiche, …con Valpreda, Merlino e i loro compagni».
«L’Ippolito, che nel suo lavoro di informatore si faceva chiamare Andrea, comincia quindi a riferire
e riferisce al Commissario Capo, dott. Spinella, quanto apprende nell’ambiente da lui controllato.
Grazie alle informazioni fornite da “Andrea” vengono prevenute ed impedite alcune azioni
terroristiche del gruppo 22 marzo» (dalla requisitoria di Occorsio).
A questo punto ci si chiede perché, a parte le rivelazioni sulle inesistenti azioni terroristiche cui si
riferisce Spinella, l’informatore non avesse detto niente al suo ufficio politico sulla strage che si
stava preparando, visto che il suo mestiere era appunto quello. Qui vengono fuori le contraddizioni
più grosse, e anche se polizia e magistratura fanno e gara per farne un testimone credibile, la
montatura è troppo grossolana per reggere.
Fa addirittura ridere.
La dichiarazione di Provenza, vicequestore di Roma: «L’Ippolito non si poteva scoprire»; (per
questo non avrebbe potuto muovere un dito per le bombe). Ed è in aperta contraddizione con quanto
afferma invece la requisitoria, che sostiene più volte, anche se con date diverse, che l’Ippolito
all’interno del 22 marzo si era già scoperto da un pezzo, e perciò non sarebbe stato più messo a
parte dei piani dinamitardi che si stavano preparando, e costretto quindi all’impossibilità di agire.
Su questo punto la stessa magistratura si contraddice per parecchie volte: la fiducia degli anarchici
il nostro 007 l’avrebbe persa già da novembre; poi inspiegabilmente, siccome c’è bisogno di tappare
un buco dell’istruttoria, di colpo la fiducia gli è restituita tutta intera, e proprio il 14 dicembre,
subito dopo la strage, Borghese non solo si sarebbe mostrato molto preoccupato per le sorti della
poliziotto spia, che per due giorni non aveva più visto, ma arriverebbe al punto di confidargli: «La
polizia non penserà mai che Robertino abbia messo una bomba dove poteva morire suo padre».
Allora, qui non ci sono altre alternative: o l’Ippolito era coperto agli occhi degli anarchici, e, allora,
anche se non troppo intelligente, avrebbe dovuto sapere tutto e di conseguenza riferire; o era
scoperto, come si afferma ripetute volte nell’istruttoria, e allora Borghese, ammesso che fosse
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colpevole, non gli avrebbe certo dichiarato certe cose. Conclusione: o la polizia è complice delle
bombe perché pur sapendo non le ha impedite, o la magistratura è connivente con i mandanti della
strage, perché accetta per buone tutte le panzane di Ippolito, pur sapendo che sono invenzioni,
perché non si capisce come se prima era sospetto non lo fosse anche dopo le bombe, quando la sua
pericolosità si è ancora accresciuta.
In realtà nell’istruttoria il poliziotto Ippolito ha un ruolo ben preciso e prezioso, analogo a quello del
fascista Merlino: confutare gli alibi degli accusati, e su questo punto polizia e magistratura si
trovano perfettamente d’accordo.
Il supertestimone
La triste fine di « una persona onesta »
Ma la regia della strage è stata molto più accurata; oltre al testimone che confuta gli alibi degli
accusati (Ippolito), ci vuole anche un supertestimone, qualcuno che appaia del tutto insospettabile,
persona onesta, completamente al di fuori degli avvenimenti, di cui è appunto «testimone»
disinteressato e casuale, qualcuno che la provvidenza stessa ha messo sul cammino della giustizia,
CORNELIO ROLANDI, milanese, di professione tassista e attendibile.
Tanto onesto in realtà il Rolandi non è; dicono di lui i giornali che si sono occupati del caso che è
un probabile confidente della polizia, semialcolizzato, particolarmente attaccato al denaro. L’Avanti
poi ha scritto, mai smentito, che ha subito una condanna per violenza carnale.
Per farlo apparire più credibile e insospettabile, hanno cercato di farlo passare come un iscritto al
PCI. Peccato che di tessere Rolandi ne avesse due, quella del PCI e quella del MSI.
Ce n’è abbastanza per una «persona onesta!».
Cominciamo a vedere la casualità della sua testimonianza: tanto casuale non sembra: infatti la sera
del 12 il nostro Rolandi, dopo le bombe, si è messo in contatto con la polizia milanese, attraverso un
agente. Tutto questo naturalmente non compare agli atti; ma c’è un compagno che intercetta sulla
sua radio-ricevente l’ordine della polizia di portare Rolandi in questura, nello stesso pomeriggio del
12 dicembre. Due fonti «insospettabili» confermano questa circostanza (anche i giornali dei padroni
talvolta sono un po’ distratti): Il Corriere della Sera e la Domenica del Corriere. Invece agli atti
risulta tutt’altro; una crisi di coscienza avrebbe preso il nostro taxista quando si è reso conto di
essere stato proprio lui a trasportare la «belva umana» alla banca, con borsa e relativa bomba.
Qualche giorno di macerazione interiore era necessario, e andava meglio nella regia complessiva
della strage.
La polizia milanese, nella persona del questore Guida, aveva dichiarato infatti alla televisione che si
stavano seguendo tutte le piste possibili, a destra e a sinistra; bisognava perciò lasciar passare un po’
di tempo prima di arrivare a Valpreda, per dare l’impressione di una inchiesta accurata e condotta in
modo imparziale. La mattina del 15 improvvisamente Rolandi decide di togliersi questo peso dalla
coscienza (così risulta agli atti) e dichiara a uno stupefatto cliente (colpo maestro di regia!) che è
stato lui a trasportare l’autore della strage sul posto del delitto. Incomincia la girandola degli
interrogatori, delle dichiarazioni alla stampa: tutti gli occhi sono puntati sul supertestimone. In
perfetta sintonia, la stessa mattina del 15 Valpreda è arrestato nei corridoi del Palazzo di Giustizia,
mentre esce dall’ufficio di Amati dove era stato convocato per una testimonianza.
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A parte le contraddizioni che vi sono tra la dichiarazione che Rolandi fa al passeggero (il prof.
Paolucci) e la deposizione resa ai carabinieri, la montatura complessiva appare chiara dall’esame
del ruolino di marcia del taxista, che è obbligatorio compilare alla fine di ogni corsa: la corsa n. 8,
quella che avrebbe trasportato Valpreda alla banca di piazza Fontana, è scritta con una scrittura
diversa dalle altre, e l’indicazione del prezzo di questa corsa, lire 600, non corrisponde a nessuna
tariffa in uso.
Il supertestimone ha ecceduto anche nello zelo: la borsa del passeggero? Certo, se la ricorda
benissimo: non solo manico, cerniera, proprio come quella fotografata sul Corriere della Sera.
Invece la borsa usata per gli attentati risulterà diversa da quella pubblicata per errore dal Corriere
della Sera. Il nostro evidentemente si è fidato troppo dei giornali.
La criminale messinscena ha il suo punto culminante in quella che dovrebbe essere la fase
determinante della testimonianza di Rolandi: il riconoscimento di Valpreda. Lasciamo parlare lui
stesso:
- In un primo tempo dichiara che non gli era mai stata mostrata nessuna fotografia di Valpreda, e
aggiunge che quando si trattò di fare l’identikit, lui parlava e un carabiniere disegnava.
- Poi un’altra volta dice: «Riconobbi il passeggero nella fotografia mostratami per la prima volta in
questura. Erano presenti sia i Carabinieri che i funzionari di polizia». E ancora, durante il confronto
con Valpreda dichiara al magistrato: «Mi è stata mostrata dai carabinieri di Milano una fotografia
che mi si è detto doveva essere della persona che dovevo riconoscere».
- Durante il confronto – un Valpreda esausto, accanto a degli inconfondibili poliziotti, più vecchi di
lui, ben vestiti e pettinati – Rolandi esclama: «Sì, è lui» e poi aggiunge sottovoce: «Mah! Se non è
lui qui non c’è…».
Questa, in sostanza, più mille altre contraddizioni che abbiamo tralasciato, che la difesa
rivoluzionaria farà saltar fuori nel corso del processo, è la testimonianza su cui si regge tutta
l’accusa. Ma un testimone così poteva garantire di reggere al processo? Che credibilità poteva
avere? Rischiava di trasformarsi in una prova non della colpevolezza di Valpreda, ma della
macchinazione complessiva della strage di stato. L’infelice esito della superteste Zublena era stato
istruttivo. Ma anche a questo si è posto rimedio: il 23 giugno ’70 Rolandi viene ricoverato in
ospedale per insufficienza epatica. I medici dichiarano che le sue condizioni di salute sono buone,
ma Cudillo, si fa rilasciare ugualmente una testimonianza firmata «a futura memoria», valida in
tribunale anche in caso di morte del teste (l’avvocato difensore di Valpreda non è nemmeno
presente, come dovrebbe, alla stesura di questa testimonianza).
Ha fatto bene Cudillo ad essere tanto previdente, perché il 16 luglio 1971 il superteste, diventato
ormai una presenza scomoda, muore nella sua abitazione. Uno in più nella lunga lista dei testimoni
morti!
Le testimonianze ignorate
Fascetti
Come già si è fatto per i parenti di Valpreda, incriminati per falso, così tutte le altre testimonianze a
suo favore vengono sistematicamente annullate, con tutti i mezzi possibili, nessuno escluso.
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Il compagno Fascetti quando sa che una delle prove della colpevolezza di Valpreda consisterebbe
nel fatto che il giorno 13 se ne è venuto di corsa a Roma, per accordarsi con gli altri presunti
complici, dopo la strage, passando al ristorante Ancora, si rende conto che tutte le testimonianze
costruite sulle chiacchiere che Valpreda avrebbe fatto ai ristorante in quella data sono false, perché
si riferiscono a episodi di due settimane prima a cui Fascetti era presente.
Allora va da Cudillo per testimoniare. Per parecchie volte il giudice istruttore non lo riceve neppure;
poi lo riceve, ma per due volte di seguito non mette a verbale le sue dichiarazioni; la terza volta,
costretto da un compagno avvocato lì presente, verbalizza. Ma la legge dei padroni è fatta in modo
da non lasciarti spazio, tutte le volte che loro lo vogliono. Infatti c’è un modo molto comodo per
eliminare un testimone scomodo: trasformarlo da testimone in imputato. E così fa Cudillo con
Fascetti, incolpandolo subito di complicità nella strage. Una accusa pesante, che non può reggere,
perché basata sul nulla (gli imprevisti ci sono per tutti, e questo caso non era previsto), tanto che
Fascetti viene subito prosciolto senza che a suo carico venga neppure fatta una inchiesta. Il Cudillo
conosce bene le regole del gioco, e sa che anche le macchinazioni vanno ben costruite.
Ma resta il fatto che, per quella imputazione, la sua testimonianza ha perso ogni valore.
Il 30 ottobre 1971 il compagno Fascetti è investito da una automobile, e si sveglia all’ospedale in
stato di choc non ricordando più nulla dello incidente.
Di Cola e Ardau
L’eliminazione dei testimoni scomodi continua. Enrico Di Cola e Sergio Ardau, i due anarchici
romani in grado di testimoniare sul controllo esasperante che la polizia romana esercitava su
Valpreda prima della strage come «reo» predestinato, sono anche concordi nell’affermare che i
carabinieri romani e la polizia milanese «sapevano» già che Valpreda era colpevole circa un’ora
dopo lo scoppio delle bombe, mentre il questore Guida dichiarava alla stampa e alla TV che «si
stavano svolgendo indagini in tutte le direzioni». Il 12 dicembre, a Roma, Di Cola, dopo una
perquisizione in casa, viene portato alla sezione criminale. Qui viene picchiato e ricattato: vogliono
che firmi un falso verbale in cui dichiari che ha visto partire Valpreda da Roma con una «scatola da
scarpe» piena di esplosivo (evidentemente i cervelli della polizia hanno avuto delle difficoltà per
mettersi d’accordo sul contenitore dell’esplosivo «per andare a fare la strage». E per persuaderlo
insistono: «Insomma, lo vuoi capire che non ce l’abbiamo con te, ma ci serve qualcuno per la
strage». Quando il compagno rifiuta, si passa alle minacce di morte: «…Ricordati che ti possiamo
uccidere come e quando vogliamo, tanto poi nessuno saprà mai cosa veramente è successo…
Possiamo sempre dire che è stato un incidente… chi vuoi che non ci creda?». La polizia dei
padroni, quando può parla chiaro e giustamente non teme la legge perché sa che è sempre dalla sua
parte. «Adesso ti lasciamo, ma possiamo sempre riprenderti e dopo che avrai assaporato un po’ di
libertà sarà ancora più duro andare dentro».
Nel gennaio 1970 infatti è spiccato mandato di cattura contro Di Cola; il compagno riesce a
scappare, ma ora è costretto a vivere sotto falso nome all’estero: un altro testimone eliminato.
Contemporaneamente a Milano, sempre la sera del 12 dicembre, Ardau è portato in questura, con un
pretesto, e arrestato poi per aver trasgredito al foglio di via obbligatorio firmato da Guida. Le
bombe sono scoppiate da appena un’ora e quarantacinque minuti e già Calabresi, Zagari e Panessa,
gli assassini di Pinelli, sostengono ehe Valpreda è l’autore della strage. Sulla scrivania di Zagari ci
sono i frammenti della bomba di piazza Fontana, che veramente dovrebbero già trovarsi nella
cassaforte del magistrato, e vorrebbero che Ardau li toccasse; la polizia sta cercando ovviamente un
«complice» o un «responsabile della strage» di ricambio e gli andrebbe proprio bene se Ardau
lasciasse le sue impronte digitali sulla bomba.
Anche ad Ardau tocca la stessa sorte di Di Cola: dopo essere stato scarcerato riceve continue
minacce di morte ed è costretto a fuggire in Svezia.
I veri esecutori della strage
Il silenzio di Stato
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La collaborazione tra magistratura e polizia non si esaurisce nella delittuosa macchinazione che
usando gli anarchici come capro espiatorio giudiziario, mira a colpire tutta la sinistra rivoluzionaria,
ma tende logicamente a coprire i veri esecutori della strage, e quindi i padroni e lo Stato dei padroni
che ne è il mandante. Infatti, con sistematicità programmata, tutte le prove a carico dei fascisti
vengono ignorate o soppresse. Lo stesso silenzio, la stessa complicità nel coprire i veri esecutori
della strage e i loro mandanti la ritroviamo anche più in alto, fino alle cariche supreme dello Stato.
Le testimonianze contro i fascisti
Ambrosini
Il 15 gennaio l970 l’onorevole Stuani, ex deputato del PCI, consegna al ministro degli Interni
Restivo una lettera dell’avvocato Vittorio Ambrosini (il ministro ne aveva già ricevuta una in data
13 dicembre). La lettera contiene delle rivelazioni gravissime sulla responsabilità dei fascisti nella
strage, rivelazioni che lo stesso Stuani ha portato contemporaneamente anche a conoscenza del PCI.
Ma il ministro degli Interni e il partito comunista hanno entrambi preferito tacere, e il contenuto
della lettera sarà reso noto al pubblico soltanto nel luglio ’70, quando i compagni avvocati
costringono Cudillo ad interrogare Stuani.
Stuani dichiara allora a Cudillo che Ambrosini ha partecipato, la sera di mercoledì 10 dicembre, ad
una riunione nella sede romana di Ordine Nuovo, dove, presente un deputato del MSI, era stata
presa la decisione di «andare a Milano a buttare per aria tutto». Alla persona che doveva recarsi a
Milano venne affidato del denaro, tre pacchi di biglietti di grosso taglio, più un assegno. Questa
persona era partita la sera stessa con il direttissimo delle 23,40. L’avvocato Ambrosini si rese conto
del significato della riunione solo due giorni dopo, quando seppe della strage.
E questo fatto lo sconvolse al punto che fu colto da choc e ricoverato in clinica. A Stuani disse
inoltre che gli organizzatori degli attentati erano le 18 persone di Ordine Nuovo, che avevano
compiuto un viaggio in Grecia. Questo, in sostanza, il contenuto delle lettere mandate a Restivo. In
seguito (22 luglio) Cudillo interrogherà Ambrosini, che smentisce confusamente. Naturalmente
Cudillo accetta la smentita, senza fare nessuna indagine, nonostante la testimonianza inequivocabile
delle due lettere.
Ma anche Ambrosini a questo punto è diventato un testimone troppo scottante, forse il più
pericoloso per i mandanti della strage di Stato, quei mandanti che bisogna coprire ad ogni costo.
Il pomeriggio di mercoledì 20 ottobre 1971, l’avvocato Ambrosini viene trovato morto nel fossato
che gira intorno al Policlinico Gemelli, dove era ricoverato da settembre. Inspiegabilmente i
giornali riportano la notizia del «suicidio» soltanto tre giorni dopo, sabato. Inoltre ci sono
contraddizioni tra l’ora in cui secondo la stampa sarebbe avvenuto il fatto (le tre del pomeriggio) e
le dichiarazioni del personale della clinica, che sostengono che Ambrosini sarebbe morto alle 12,30
circa, appena finito l’orario di visita, cioè quando delle persone estranee potevano ancora trovarsi
all’interno senza farsi notare. Ma soprattutto è inspiegabile il fatto che Ambrosini si sia suicidato
proprio quando stava per essere dimesso dalla clinica e a detta di tutti appariva contento e sereno.
Un altro «suicidio» si è aggiunto alla lista.
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Evelino Loi
Sono molte le testimonianze che confermano e rafforzano le dichiarazioni di Ambrosini e tutti i
metodi sono buoni per renderle inefficaci, come nel caso di Evelino Loi. Questo sottoproletario
sardo, costretto per vivere in una città come Roma, ad arrangiarsi giorno per giorno, arrivando
perfino a fare l’informatore della polizia in cambio di quattro soldi a notizia, non è certo una figura
di teste inattaccabile, e può prestare il fianco a molte contestazioni. Quello che qui è interessante
sottolineare è il comportamento della questura romana, e precisamente dei funzionari Provenza,
vicequestore, e Improta, a cui Evelino Loi va immediatamente a riferire, prima e dopo le bombe
notizie che ritiene molto importanti.
Le notizie non vengono prese in nessuna considerazione, e preferiscono addirittura dimenticarsene,
fin tanto che non sono costretti a intervenire per le dichiarazioni che Loi rilascia pubblicamente.
Non possono smentirlo, e incriminarlo per falso come vorrebbero e riescono a liberarsene solo
ficcandolo in galera per contravvenzione al foglio di via obbligatorio (gran risorsa delle nostre
questure quando non sanno che pesci pigliare).
Che cosa ha raccontato il Loi?
Di essere stato avvicinato, alcuni giorni prima dello sciopero generale del 19 novembre, dal
comandante Bianchini, e dal vice comandante Santino Viaggio, ex appartenenti alla X MAS,
membri dell’organizzazione fascista Fronte Nazionale e collaboratori diretti del suo capo, Valerio
Borghese (quello del colpo di Stato). Il Viaggio e il Bianchini gli proposero di partecipare, a
pagamento, ad azioni terroristiche che avrebbero dovuto svolgersi contemporaneamente a Roma e a
Milano. In un successivo contatto, dopo la manifestazione dei metalmeccanici, furono più espliciti e
dissero che «poteva scapparci anche il morto», e di conseguenza gli promisero molti soldi, se avesse
accettato. Questo il racconto che il Loi fece in questura prima delle bombe, per ben tre volte di
seguito.
Nessuna indagine fu fatta. Il Loi torna ancora in questura, questa volta dopo la strage, per rifare il
suo racconto, e il funzionario Improta lo congeda raccomandandogli di non parlarne con nessuno:
«E’ meglio per te… non passi guai». Non fu mai fatto naturalmente nessun verbale.
E solo quando Loi, dopo aver raccontato queste cose ai giornalisti mostra i lasciapassare che
testimoniano che è effettivamente andato in questura proprio nei giorni prima della strage, CudiIIo è
costretto ad interrogare il vice questore Provenza, che smentisce come può il Loi, ma è costretto ad
ammettere che effettivamente questo gli ha raccontato di essere stato avvicinato prima degli
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attentati dal fascista Viaggio «per fare qualcosa». Ma nessuno farà indagini in questa direzione.
Anzi, quando il Loi sarà interrogato da Cudillo e Occorsio sarà consigliato a scegliersi al più presto
un avvocato di fiducia perché ciò che sta dichiarando potrebbe costituire reato. Che correttezza
esemplare! In questo modo Loi non continuò più il suo racconto, e venne in seguito incarcerato per
contravvenzione al foglio di via.
Arbanasich
Un esempio di come abbia proceduto sempre il giudice Cudillo negli interrogatori dei testi a carico
dei fascisti lo troviamo nell’episodio dell’Arbanasich, che va a testimoniare che il suo fidanzato,
certo Paolo Zanetov, fascista di Ordine Nuovo sapeva già delle bombe prima della strage.
Infatti passeggiando con lei, a Roma il pomeriggio del 12 dicembre a un certo punto aveva guardato
l’orologio dicendo che ormai quello che doveva succedere era già successo (erano appena scoppiate
le bombe all’altare della patria).
Il racconto di come si è svolto il confronto tra lei e lo Zanetov alla presenza di Cudillo ce lo fa la
stessa Arbanasich in una dichiarazione scritta di suo pugno che Cudillo è stato costretto ad allegare
agli atti del processo: «Appena entrata il giudice mi ha detto – Allora signorina il ragazzo qui ha
smentito tutto. Gli racconti come si sono svolti i fatti -. Io ho detto che eravamo usciti e stavamo
camminando per il centro quando ad una certa ora lui mi ha detto che quello che doveva succedere a
quell’ora era già successo. A questo punto Paolo è intervenuto dicendo che era tutto falso e il
giudice rivolgendosi a me ha detto – Guardi signorina che lei rischia l’arresto per falsa
testimonianza – … Il giudice poi rivolgendosi a me ha chiesto quanti anni avevo. Gli ho risposto 21
e Paolo ha aggiunto – E’ pure maggiorenne -, mentre il giudice mi faceva capire che alla mia età
non è il caso di andare in giro a raccontare panzane… Il giudice mi ha chiesto se ero sicura che
Paolo fosse appartenuto all’Ordine Nuovo; alla mia risposta affermativa, Paolo disse che non era
vero e che in quel periodo era militante nel MSI come segretario giovanile della sezione Balduina…
Poi ha chiesto a Paolo perché avessi detto quelle cose, Paolo disse che la riteneva tutta una
macchinazione in quanto io lavoro alla CGIL, sono «comunista»…
Il giudice gli ha chiesto se poteva cercare di ricordarsi cosa avesse fatto il giorno degli attentati, e se
eventualmente poteva portare dei testimoni che potessero provare che stava con loro, e quindi
rivolgendosi a me ha detto che se Paolo effettivamente avesse portato questi testimoni rischiavo di
essere accusata di falsa testimonianza».
L’Arbanasich ritratterà tutte. le sue dichiarazioni sullo Zanetov in un interrogatorio successivo,
dopo aver subito parecchie intimidazioni e minacce anonime, oltre al rischio di essere incriminata
per falsa testimonianza. L’istruttoria chiude la vicenda escludendo che lo Zanetov sia in qualche
modo legato agli attentati del 12.
Lorenzon
Il 18 dicembre 1969, sei giorni dopo la strage di Stato, il prof. Guido Lorenzon, di Treviso, dichiara
al sostituto procuratore locale di avere ricevuto gravi confidenze dall’amico Ventura, noto fascista
veneto, collegato ad Ordine Nuovo, di professione libraio.
Il Ventura gli ha raccontato di aver finanziato direttamente tutti gli attentati ai treni dell’agosto 1969
(quelli che la questura milanese ha attribuito agli anarchici e di cui voleva incolpare Pinelli) e di
aver partecipato a delle riunioni fasciste in cui fu organizzata la strage di dicembre. E il Ventura è
anche in grado di descrivergli perfettamente il sottopassaggio della banca nazionale del lavoro di
Roma, dove poi avvenne uno degli attentati, quello attribuito all’anarchico Gargamelli.
A questo punto Cudillo è costretto a convocare Lorenzon e Ventura a Roma per interrogarli.
La conclusione, prevedibile, di Cudillo è che «le accuse di Lorenzon sono destituite da qualsiasi
fondamento».
Occorsio fa ancora di più, e dichiara ai giornalisti «Ventura è una persona onesta, un galantuomo».
Le accuse di Lorenzon tanto destituite da qualsiasi fondamento non erano, se altri magistrati sono
stati costretti a riprendere in mano la vicenda di Ventura, e ad incriminarlo per attività sovversiva
fascista.
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Sembra che finalmente la giustizia trionfi: ma in realtà questo provvedimento rimette tutto a posto:
infatti in questo modo Cudillo e Occorsio sono stati liberati dallo scomodo caso Ventura, e le accuse
contro Ventura saranno molto difficilmente provate. Se ci fosse bisogno di una altra dimostrazione
che tra cani non si mordono, basta ricordare la dichiarazione del magistrato che ha incriminato
Ventura, il quale per giustificare Cudillo che non ha preso in nessuna considerazione le
dichiarazioni di Lorenzon, arriva al punto di dire che il giudice romano non conoscendo il veneto
«non ha potuto valutare le sfumature dialettali» e per questo non ha proceduto contro il Ventura.
Ugo Lemke
Un nuovo modo per far fuori un testimone scomodo
Oltre alle dichiarazioni generali dei testimoni che indicano nei fascisti i veri esecutori della strage,
c’è anche chi i fascisti li ha visti proprio all’opera. Il 13 dicembre 1969, a Roma, poche ore dopo lo
scoppio delle bombe un giovane studente tedesco in viaggio per I’Europa, Ugo Lemke, si presenta
spontaneamente alla caserma dei carabinieri di Píazza in Lucina, e qui racconta che poco tempo
prima, a Palermo, aveva incontrato in un bar tre giovani: Salvatore, Nino Manchino e Stefano
Galatà, che lo avevano portato a Catania su una Fiat 124 bianca da una persona che gli aveva
proposto un «lavoretto»: depositare una borsa contenente esplosivo in un luogo affollato, che gli
sarebbe stato comunicato all’ultimo momento. Il giovane aveva rifiutato ed era partito per Roma,
dove aveva trovato da dormire nelle catacombe vicine all’altare della patria, un posto dove si
rifugiano sovente i giovani stranieri in viaggio con pochi soldi. Qui il 12 dicembre sente
l’esplosione delle bombe; si precipita fuori e vede allontanarsi «senza ombra di dubbio» verso una
124 bianca Stefano Galatà e altri. In caserma gli fanno vedere allora dei fermati e tra questi
riconosce un altro degli attentatori. E’ il fascista Giancarlo Cartocci. (Questo riconoscimento è
messo a verbale in modo completamente falsato, per cui perde ogni valore di prova).
Lemke, che il capitano dei carabinieri definisce un esaltato, viene dichiarato teste a disposizione,
tanto a disposizione che lo tengono dieci giorni in carcere.
Qualche mese dopo scatta la trappola: nella stanza in cui dorme, dove ha ospitato uno sconosciuto,
la polizia «scopre» dieci chili di hascish. Il trucco è vecchio, ma funziona sempre. Lemke è
arrestato e internato nel manicomio criminale di Perugia. Il pubblico ministero che lo fa condannare
a 3 anni è Occorsio
Ma i fascisti non si toccano
Cartocci
E’ un fascista romano, legato a Ordine Nuovo, uomo di fiducia di Mario Tedeschi, direttore del
Borghese. Fermato la notte del 12 dicembre dai carabinieri e identificato appunto da Ugo Lemke
come uno di quelli che subito dopo lo scoppio si allontanarono dall’altare della patria, Cartocci
viene rilasciato, senza che gli venga chiesto nulla. Un giornalista romano nel marzo ’70 fa il nome
di Cartocci, insieme,. a quello di Pino Tosca, fascista torinese di Europa e Civiltà: i due avrebbero
partecipato ad una riunione «riservatissima» per preparare tutta una serie di attentati. (Gli attentati
ci furono a Torino, Pavia, Nervi, Valtellina e a Roma). Intanto uno dei fermati della notte del 12
dicembre racconta nella sua deposizione l’episodio del riconoscimento. Cartocci allora viene
interrogato.Ecco quanto riferisce Occorsio: «Nulla è stato in grado di riferire sugli attentati del 12
dicembre. Successivamente lo stesso Cartocci ha dapprima dichiarato ad elementi di P.S. di essere
informato di cose relative agli attentati ed in un secondo tempo che nulla sapeva su quei fatti.
Convocato dall’autorità giudiziaria è risultato irreperibile per alcuni mesi. Allo stato è acclarato
soltanto che il Cartocci è uno studente militante in formazioni di estrema destra e che si è posto in
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luce come partecipante a varie manifestazioni, mentre non esistono prove o indizi di sorta che
possano farlo ritenere complice negli attentati del 12/12/69».
Galatà
Il caso di Cartocci è forse esemplare per chiarire la complicità tra magistratura e fascisti, ma ce ne
sono molti altri e tutti altrettanto gravi. Quando Cudillo deve fare indagini su Galatà, dopo la
deposizione del Lemke, non chiama neppure Galatà a deporre, ma si accontenta di interrogare
Riccio, della questura di Catania. Questo dice che Galatà è «una brava persona». Per Cudillo basta.
Chi è questa brava persona? Stefano Galatà ha 25 anni, è responsabile del MSI di Catania e
provincia, organizzatore di azioni squadristiche; nel 1968 ha accoltellato uno studente di sinistra.
Ha ricevuto 50.000 lire dal Soccorso Tricolore.
Zanetov
Anche per lui tutto bene: «Le contrastanti dichiarazioni dell’Arbanasich …escludono che in realtà
Zanetov sia in qualche modo legato agli attentati del 12 dicembre 1969» (dalla requisitoria di
Occorsio).
Ventura
«Le accuse di Lorenzon sono destituite da qualsiasi fondamento» (sempre dalla requisitoria di
Occorsio).
Sottosanti
Detto anche Nino il Fascista, assomiglia moltissimo a Valpreda: davanti a una sua foto, Rolandi
dice: «E’ un Valpreda ritoccato». Ex legionario, esperto di esplosivi, gira per tutti i gruppi fascisti.
Amico intimo di Delle Chiaie. Nel maggio 1969 si infiltra tra gli anarchici milanesi. Il 25/4/69
lavora alla Fiera quando ci sono gli attentati. Partecipa a Rimini a una riunione di fascisti alla vigilia
degli attentati sui treni. Poi sparisce e torna in Sicilia. Il 28/11/69 è di nuovo a Milano, per deporre
dal giudice Amati, sulla faccenda degli attentati alla Fiera (ha fatto una deposizione a favore
dell’anarchico Pulsinelli – gli serve continuare a fare il buon amico degli anarchici).
Il 12/12/69 mangia a casa di Pinelli, si fa rimborsare il viaggio fatto per venire a testimoniare; alle
15 va a ritirare l’assegno; alle 16 prende un pullman per Pero; per andare a trovare i genitori di
Pulsinelli. Il giudice milanese Amati rileva che ci sono «molti gravi indizi… nei confronti di
Sottosanti in quanto questi, servendosi di un mezzo qualunque… avrebbe potuto raggiungere il
centro di Milano dopo le 15, depositare la bomba in Piazza Fontana, riportarsi in Piazza Cadorna e
partire per Pero».
L’accusa rimane lettera morta. E i magistrati non prendono in considerazione altri gravi fatti che
emergono dalla controinchiesta: 1) dopo il 12 dicembre, pur non lavorando, Sottosanti sembra
disporre di notevoli mezzi; 2) Sottosanti aveva a Milano una amica tedesca frequentatrice di uno
studio fotografico di via Cappuccio 21, dove un taxista affermò di avere caricato il 12 dicembre,
mezz’ora prima dello scoppio delle bombe, per condurla in piazza Fontana, una giovane alta e
bionda, dall’accento straniero, con una valigetta che pareva molto pesante.
Il Sottosanti viene convocato due volte a Roma da Cudillo e il giorno della sua seconda
convocazione un giornale radio del pomeriggio annuncia il suo arresto per strage. Poi più nulla.
Nella requisitoria Occorsio lo dichiara «estraneo ai fatti».
Delle Chiaie
C’è però un fascista che tra gli imputati ci finisce: con una imputazione di poco conto, però, di aver
reso una testimonianza incompleta sui suoi rapporti con Merlino (ha addirittura negato di
conoscerlo) e poi gli si è dato tutto il tempo di scappare – tutt’ora è latitante – perché arrestarlo
comportava un rischio troppo grosso: che qualcuno cominciasse a parlare e ci si avvicinasse troppo
ai mandanti della strage. Delle Chiaie infatti è l’esponente di Ordine Nuovo che dal 1968 ha
organizzato tutte le infiltrazioni fasciste nei gruppi della sinistra, in particolare tra gli anarchici del
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22 marzo, dove ha collocato Merlino, suo uomo di fiducia. E’ sempre lui che, insieme a Pino Rauti,
ha organizzato quel viaggio premio in Grecia nella primavera del ’68, dove la strategia della
tensione è stata accuratamente programmata con i colonnelli greci e la Cia. Ed è lui che passa
direttamente le informazioni al Sid. Sapeva molte cose, indubbiamente, ed era meglio non farlo
parlare.
Le loro organizzazioni
Questi fascisti, come si è visto, non hanno agito da soli. Dietro di loro ci sono grosse
organizzazioni, e grossi finanziamenti. ORDINE NUOVO, in primo luogo, che tutte le
testimonianze indicano come direttamente coinvolto nella strage. Il suo presidente è Pino Rauti,
giornalista del quotidiano fascista «Il Tempo» di Roma, legato direttamente ai colonnelli greci che
parlano di lui in un rapporto riservato, su cui dei giornalisti inglesi sono riusciti a mettere le mani.
Poi EUROPA E CIVILTA’, di ispirazione nazista, presieduta da Loris Facchinetti, molto legato a
Mario Merlino. L’organizzazione riceve finanziamenti massicci, ed è specializzata
nell’organizzazione di campeggi paramilitari in cui istruttori ex nazisti tengono corsi di
controguerriglia e corsi di paracadutismo con l’aiuto dell’Associazione nazionale paracadutisti.
Il capo dell’ufficio politico della questura della capitale li ha definiti però «pacifici escursionisti»!
Ed ancora il FRONTE NAZIONALE di Junio Valerio Borghese, il «principe nero» del fallito colpo
di Stato del dicembre ’69. I suoi luogotenenti sono quel Viaggio e quel Bianchini che avevano
proposto al Loi di partecipare ad una azione in cui poteva anche «scapparci il morto».
Chi li ha pagati. Chi li ha mandati
I mazzieri del capitale
La CIA, che ha speso mezzo miliardo di dollari per organizzare in Grecia la sua centrale europea di
spionaggio e controllo anticomunista, e i padroni, tutti i padroni.
Ci sono quelli che questi gruppi li finanziano direttamente: i tanti Pesenti, Borghi, Matacena,
Agusta, Monti, Bertone; e ci sono quelli che appaiono più «democratici» e moderni e i fascisti li
usano e li foraggiano di nascosto: Agnelli che incontra Almirante – gli fa da tramite l’industriale
dell’Asti Spumante, Gancia di Canelli – e Almirante non è altro che la facciata parlamentare dei
gruppi «eversivi» di estrema destra.
Tutti i padroni infatti si servono dei fascisti: come gli è servita la strage, gli servono i picchiatori
davanti ai cancelli e i provocatori dentro la fabbrica, per sabotare le lotte è organizzare i crumiraggi.
E tutti i padroni li pagano.
Perciò tutti i padroni sono colpevoli. Può anche darsi che la borghesia decida al processo, per
salvarsi la faccia, di sacrificare qualche suo squallido mazziere. Ma questo non deve bastare. La
giustizia proletaria saprà colpire i veri mandanti della strage.
Il bilancio della strage
Morti
- 16 assassinati alla Banca dell’agricoltura il 12/12/69.
- Pinelli assassinato dalla polizia il 15/12/69.
- Rolandi viene «sopraffatto dalla superresponsabilità».
- L’avv. Vittorio Ambrosini «esce» dalla finestra.
- I testimoni Casile e Aricò muoiono in un… «incidente stradale» (stavano indagando, in
collegamento con i compagni della controinformazione, sulle attività dei fascisti a Reggio, nel
quadro della strategia della tensione. Il Casile in particolare, aveva dichiarato che dopo il viaggio in
Grecia, i fascisti volevano organizzare a Reggio un altro circolo 22 marzo. Il padre di Aricò aveva
ricevuto il giorno prima che il figlio partisse una telefonata da un amico agente di PS che lo
consigliava di non lasciar partire il figlio). Sono investiti da un camion proprio davanti a una tenuta
di Borghese.
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- Armando Calzolari, scomparso da casa il 25/12/69 e trovato morto in un pozzo alla periferia di
Roma, il 28/1/70. Amministrava i fondi del Fronte Nazionale di Borghese, e a casa sua si riunivano
uomini come il card. Tisserand e il carrozziere Bertone. Aveva saputo troppe cose sulla strage e sui
mandanti e aveva detto che questo passava il segno!
Detenuti
- Valpreda, Gargamelli e Borghese, in carcere dal dicembre ’69.
- U. Lemke. internato in manicomio criminale.
Promossi
- Il tenente dei carabinieri Lo Grano, uno degli assassini di Pinelli, diventa capitano.
- I brigadieri dei carabinieri Mucilli e Panessa, anch’essi complici nell’assassinio di Pinelli,
diventano marescialli.
- Calabresi è promosso commissario di P.S.
- Cudillo è promosso Consigliere di Corte d’Appello.
« La magistratura ha il dovere di punire i cittadini che non si inchinano davanti al potere » –
Cudillo.
« La magistratura non solo è indipendente, non solo segue una sua logica astrusa, che non va né
spiegata, né tanto meno capita, ma è anche al di sopra di ogni sospetto ».
Ma chi sono Cudillo e Occorsio?
Perché sono stati scelti proprio questi due magistrati per condurre questa istruttoria – che infatti
doveva essere condotta a Milano, luogo della strage -, ma che è stata subito trasferita a Roma, con i
soliti cavilli giuridici.
Perché questi erano gli uomini più adatti e fornivano maggiori garanzie per le prove di fedeltà alla
legge dei padroni che avevano già dato nel passato.
Infatti Cudillo, coadiutore di Occorsio nell’istruttoria, è il magistrato che ha archiviato, sostenendo
la tesi del suicidio, il caso della morte del col. Rocca, del Sifar, che evidentemente sapeva troppo sul
tentato colpo di stato dell’estate ’64, durante la presidenza Segni, e coprendo in questo modo tutte le
responsabilità governative. Un uomo sicuro per il Sid, dunque!
E Occorsio è stato Pubblico Ministero al processo contro Tolin, il direttore responsabile di Potere
Operaio – il primo grosso processo politico per reati di stampa contro la sinistra rivoluzionaria. Ma
soprattutto si era già mostrato disposto a collaborare con la polizia romana nella preparazione della
trappola contro Valpreda: è stato giudice istruttore in quel processo per rissa in cui si comincia a far
passare Valpreda per un «bombarolo» almeno a parole.
E quando poi per non sputtanarsi completamente è stato costretto dalla mobilitazione della sinistra
rivoluzionaria a prendere in considerazione l’attività dei fascisti nel corso degli ultimi due anni, lo
fa in modo da scagionare definitivamente i fascisti da ogni responsabilità nella strage: incrimina
Ordine Nuovo per ricostituzione del disciolto partito fascista, ma a partire dal 21/12/69, nove giorni
dopo la strage. Come dire che prima Ordine Nuovo non esisteva, e quindi non poteva certo aver
messo le bombe. Ma Ordine Nuovo è stato fondato nel 1960!
Questa sarebbe la magistratura indipendente! Occorsio, chiude la sua criminale requisitoria, dove
per apparire al di sopra delle parti evita sempre di proposito di parlare in termini politici,
trasformando tutto in questioni tecniche, in questo modo:
«Queste dunque le conclusioni che il P.M. trae al termine di una istruttoria condotta… con assoluta
imparzialità, attraverso un ambiente difficile, disposto solo ad ostacolare la ricerca della verità, mai
a collaborare con la giustizia.»
«I morti di Piazza Fontana sono stati poi occasione da più parti per gratuiti attacchi contro la
magistratura (accusata di operare su direttive politiche e non di giustizia), attacchi che hanno
largamente superato ogni diritto di critica. Il rispetto che lo scrivente pensa che debba essere
tributato a delle vittime innocenti… non consente in questa sede una adeguata risposta alle
insinuazioni mosse contro gli inquirenti. Ma una cosa va detta per tranquillità dei cittadini: La
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magistratura italiana non è serva né di altri poteri, né di idee guida ed è invece garanzia per il
popolo di obiettività di indagine e indipendenza di giudizio.»
Presiede il Falco
La Corte d’Assise che giudica gli accusati della strage è presieduta da Orlando Falco. Un altro
uomo giusto al posto giusto, perfettamente inquadrato nella strategia complessiva del processo.
L’ha reso celebre la sentenza contro Braibanti, una sentenza che ricorda i tribunali dell’Inquisizione,
in cui è stato tirato fuori un reato nuovo, «il plagio». Nove anni al professor Braibanti, per reato di
plagio, cioè per avere in sostanza avvicinato e convinto due giovani allievi alle proprie idee.
Ecco dunque un altro di quelli che sanno ben rappresentare e applicare la violenza silenziosa e
legalitaria dello Stato borghese.
Le due linee della difesa
La difesa revisionista e la difesa rivoluzionaria
La difesa degli imputati al processo si orienta su due linee di condotta completamente diverse dal
punto di vista politico.
La difesa che potremo chiamare «revisionista» portata avanti soprattutto dall’avvocato Calvi,
affiancato dagli avvocati Sotgiu e Lombardi, riporta all’interno del processo la linea dei partiti della
sinistra «ufficiale» – soprattutto il PCI – di connivenza sostanziale con lo Stato borghese e le sue
istituzioni, da correggere, appunto, ma non da abbattere.
- Chiedere infatti agli stessi organi dello Stato di «far luce» sulla strage di Stato, vuol dire cercare di
ridare prestigio e credibilità e rafforzare istituzioni ormai completamente sputtanate agli occhi delle
masse-.
Calvi, diventato per caso avvocato difensore di Valpreda, si muove nel pieno ossequio delle
istituzioni, cercando di dare il minor fastidio possibile a Cudillo ed Occorsio, anzi, in sostanza, in
piena connivenza con questi:
- Ha definito l’istruttoria di Cudillo «una istruttoria onesta», avallando così tutta la macchinazione
della strage, che nella sentenza trova il suo punto conclusivo.
- Non ha fatto opposizione al verbale di riconoscimento di Rolandi: sapeva che a Rolandi era stata
mostrata prima la foto di Valpreda e non l’ha mai detto. Allo stesso modo, non ha mai impugnato il
giuramento a «futura memoria» di Rolandi, come poteva invece fare, dato che non era presente.
- Sostiene apertamente che la difesa deve essere condotta secondo le regole del gioco dei padroni.
Non si tratta di dimostrare e provare la colpevolezza dei fascisti, ma solo l’innocenza di Valpreda.
- A questo atteggiamento passivo, e addirittura connivente – non ha mai fatto nessuna richiesta – si
accompagna la degradazione del lavoro svolto in senso contrario dai compagni della
controinchiesta. Sarebbero solo, come li definisce anche Occorsio, dei «mestatori nel torbido» che,
per prevenzione ideologica, tendono a dirottare il corso della giustizia.
La difesa rivoluzionaria, invece, composta non da «avvocati» ma da compagni che fanno anche gli
avvocati, ha saputo portare tutte le contraddizioni politiche dentro al processo, facendo mettere agli
atti anche il libro «Strage di Stato» – mentre gli avvocati revisionisti erano contrari e volevano
addirittura che il libro non fosse pubblicato, perché «pericoloso per gli imputati» (in quanto
«politicizzava troppo la vicenda delle bombe»).
La difesa rivoluzionaria considera il processo un momento di lotta politica, di scontro diretto con lo
Stato, da cui deve partire una indicazione per tutti i compagni che si organizzano e lottano nei vari
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settori. La difesa revisionista tende invece ad isolare questo processo dal contesto politico,
facendone un «caso giudiziario».
Non esiste possibilità di mediazione tra queste due linee: da una parte infatti si vuole fare solo un
processo di complicità e di connivenza, da usare come merce di scambio, dall’altra si vuole
accusare direttamente la borghesia, con tutti i suoi alleati, compresi i revisionisti, e i fascisti come
suoi mazzieri.
Gli obiettivi della campagna di massa
Assemblee popolari, agitazione e propaganda a livello di massa, controinformazione sistematica,
manifestazioni, azioni militanti, « contro-processi popolari », interventi diretti nelle scuole, nelle
fabbriche e nei quartieri, dovranno essere articolazioni di questa campagna politica unitaria di tutta
la sinistra rivoluzionaria.
I principali obiettivi della campagna politica di massa sulla «strage di Stato» dovranno dunque
essere:
a) Liberare Valpreda e gli altri compagni anarchici, che hanno rappresentato il capro espiatorio
giudiziario per l’attacco violento e diretto della borghesia italiana e dell’imperialismo americano
contro le masse proletarie e tutta la sinistra rivoluzionaria;
b) lottare contro le leggi e le istituzioni dello Stato borghese, non per un loro illusorio recupero in
senso «democratico» e «costituzionale», ma per chiarirne, di fronte alla classe operaia ed a tutti gli
strati sociali sfruttati la vera natura di classe ed il loro diretto uso anti-proletario;
c) Predisporre tutte le iniziative militanti e di massa, che possano essere richieste dalla durezza
dello scontro politico complessivo e dalla logica di provocazione che la classe dominante instaurerà
anche durante il processo;
d) ribaltare politicamente il processo rendendo protagonista la giustizia proletaria contro i veri
colpevoli della «strage» (non solo i fascisti, che le bombe le hanno materialmente messe, ma
soprattutto i padroni che ne sono stati i diretti mandanti, e gli organi repressivi dello Stato, che sono
stati i «garanti» della montatura anti-anarchica e della successiva repressione anti-proletaria;
e) demistificare il ruolo dei partiti della sinistra istituzionale, chiarendo la loro oggettiva
compromissione con il disegno di «restaurazione autoritaria» della classe dominante e denunciando
la loro linea subalterna («sia fatta luce») nei confronti dello Stato stesso, mandante politico e
copritore istituzionale della «strage», linea subalterna che si è già manifestata nella gestione tecnica
e di connivenza della loro difesa processuale;
f) chiarire l’uso padronale dei fascisti, non per una generica mobilitazione antifascista, ma per
individuarne, colpirne e stroncarne l’uso direttamente antiproletario fattone dai padroni, ed il ruolo
di copertura assegnatogli dallo Stato nella «strategia degli opposti estremismi» per attaccare le
avanguardie di classe e la sinistra rivoluzionaria.
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NUMERO UNICO
Edito dal Comitato nazionale di lotta sulla strage di Stato – Soccorso Rosso – Presso LIDU
piazza Santi Apostoli, 49 – Roma
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Strage di Piazza Fontana